Luigi Speranza -- Grice e Consoli –
l’italiano come lingua universale – filosofia italiana – Luigi Speranza (Catania). Filosofo catanese. Filosofo siciliano. Filosofo italiano. Lingua
nazionale della terra. Linguaggio mondiale. Ling du mond. Ling nazionel de le
ter. Vox mondiel. Il latino lingua universala, Storia della letteratura latina.
Catania. Santi Consoli Sindaco di Catania Durata mandato Predecessore Salvatore
Di Stefano Giuffrida Successore Salvatore Di Stefano Giuffrida C. è stato un
filosofo, storico, letterato e politico italiano. Filosofo, storico e
letterato, C è insegnante di letteratura latina e filosofia romana a Catania. Divenne sindaco di Catania. Organizza
l'«Esposizione agricola siciliana», che
venne inaugurata da Vittorio Emanuele. Termina il suo mandato e torna ad
occuparsi dell'insegnamento. Scrive
anche alcuni saggi sulla storia della Sicilia.
Pubblica numerose opere tra cui Italiensk grammatik til brug for norske
og danske, Catania, Letteratura Norvegiana, Milano, De C. Plinii Caecilii
Secundi rhetoricis studiis, Catania), L’autore del De origine et situ
Germanorum, Roma; Brevi annotazioni critiche alle Satire di Persio, Roma, Il
neo-logismo (deutero-esperanto) in Plinio il Giovane, Palermo, Sicilia gloriosa,
Catania). Santi Correnti, La città semprerifiorente, Catania. Santo Daniele Spina, Andrea D’Amico Franz,
commediografo e politico in Catania, Agorà. Opere su MLOL, Horizons Unlimited.Predecessore
Sindaco di Catania Successore Salvatore Di Stefano Giuffrida Salvatore Di
Stefano Giuffrida. Portale Biografie: accedi alle voci di Wikipedia che
trattano di biografie Categorie: Storici italiani del XX secolo Letterati
italiani Politici italiani Sindaci di Catania [altre]. Ricerca Libri aiuta i lettori a scoprirci libri di tulio il mondo
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garbarti College li&rarg CONSTANTIUS
FUND EstiblJshed by Professor E. A.
Sofhoclbs of Harvard University for
" the parchase of Greek ud ritiri
books, (the utdenl elusici) or of Arabie
hook», or of hooks illustratine or ex.
soch Greek, Latin, or Arabie
t ' Will) Jii^. .1.^.0.1,. !> I I V IL NEOLOGISMO NEGLI SCRITTI DI PLINIO
IL GIOVANE Altre opere di C. ITALIENSK GRAMMATIK til "for-u.gr for IbTcrslce cgr Catania L
esposte , secondo il metodo scientifico , agli alunni delle scuole secondarie classiche. Catania (E ALLO Siili) IL 1. N. Torino TJI Milano liettet*atat*a Ho^eQtena Milano. De C. Plinii Gaecilii Secanti RHRTORICIS STUDIIS. Catinae, 1897. L. 3 (esaurito). e
IL NEOLOGISMO NEGLI SCRITTI DI
PLINIO IL GIOVANE CONTRIBUTO AGLI STUDI SULLA LATINITÀ ARGENTEA Libero docente
di letteratura e lingua latina nella R. Università di Catania PALERMO LIBRERIA
ALB. REBER • r &/. X? & >RD CÓQ; Ql -VL-^./UOl-/W rfcLu-ó xu^x-oL (Catania,
Via Maddem, n. 160) Tipografia
editrice BARBACALLO & 8CUDERÌ , in Catania. MARGRETHE CONSOLI
nata GLÒERSEN MIA DILETTA E
VENERATA MOGLIE NEL III ANNIVERSARIO
DELLA SUA MORTE Il ne faut point dédaigner les études qui ont pour objet d*écl«ircir méme tei ou tei petit point particulier de la
langue d' un auteur. 0. RlEMANN. È
noto che neiprimi tempi dell'impero romano, tanto per i inutamenti politici avvenuti quanto per
il progresso lento, ma costante, del '
sermo plebeius' che tendeva a prevalere
sul ' sermo urbanus ', la lingua letteraria
era divenuta, a poco a poco, una lingua artificiale che ogni scrittore, non più vincolato dall'uso
del linguaggio delle conversazioni colte, soleva per lo più plasmare da sé, secondo i suoi gusti e secondo i fini
letterari che si era proposto di
raggiungere. 1 Tale tendenza, che costituisce appunto uno dei caratteri
precipui della latinità argentea, abbiamo potuto osservare in
particol&r modo negli scritti che
ancora ci rimangono di Plinio il giovane
; e, poiché dell' arte retorica di lui ci siamo
occupati di proposito in» un nostro lavoro stampato di recente, 2 ora ci proponiamo dimettere in
rilievo i neo 1 Cfr. O. Riemann, Études
sur la langue et la grammaire de
Tite-Live, Paris, Thorin, DeC
Plinii Caecilii Secundi rhetoricis studiis, Cat'msLOy . cod. Vatic. ; F =
cod. Florentin. già della bibl.- S. Marco 284 ;
D = cod. Dresd. D 166 ; [R = cod.
Riccard. 488]; p = -o :: o- I -- :Da
quanto ci è dato argomentare , considerando i resti della letteratura romana
pervenuti sino a noi, pare che Plinio il
giovane sia ricorso per il primo ai temi
degli aggettivi ' sinister ' e ' socialis
per formare le due voci nuove ' siriisteritas ' e ' socialitas \ . l.° Il SIGNIFICATO di ' sinisteritas ' non
si può disgiungere da quello delle voci ' stultitia ' e ' rusticitas ; e
indica perciò « goffaggine , inettitudine » , l' antitesi , in somma, di ' dexteritas '. Se ne ha la
conferma nei seguenti passi di Plinio :
Quae tanta grauitas ? quae tanta
sapientia ? quae immopigritia, adrogantia, sinisteritas ac potius amentia, in
hoc totum diem inpendere, ut offendas, ut inimicum relinquas ad quem tamquam
amicissimura ueneris ? ' Epist. VI 17, 3.
' Plerique autem, dum uerentur ne gratiae potentium nimium inpertire uideantur, sinisteritatis atque
etiam raalignitatis famam consequuntur. ' Epist. IX 5, 2. 2.° L' altro sostantivo ' socialitas ' vale
lo stesso di ' comitas ' = « affabilità
, cortesia , socievolezza » : ce lo
affermano i seguenti due luoghi di Plinio: ' Non remissionibus tuis eadem
frequentia eademque illa soci a1 i t a s interest ? ' Pan. 49, 4. ' Primum est autem suo esse contentimi , deinde quos praecipue scias
indigere sustentantem fouentemque orbe
quodam socialitatis ambire. ' Epist. IX
30, 3. È nondimeno da notarsi che nelP
ed. a leggesi ' societatis ' invece di ' socialitatis \ 6) Plinio, memore forse d'un ben noto
precetto oraziano sulla ' callida iunctura ' di parole note, 1 formò per il primo , a quanto pare , mediante composizione, quattro nuovi sostantivi : ' cauaedium,
sesquihora, duumuiratus, laudiceni. Cauaedium ' risulta dalla fusione
intimadelle due voci cauum aedium ' ,
che> troviamo appunto usate in
stretta dipendenza tra loro, ma separate (cioè: ' cauum aedium ' ), da Varrone, 2 Vitruvio 3 e Plinio
il vecchio 4 ; e vale « cortile, corte »
, quello spazio nel mezzo delle case
romane, dove cadeva la. pioggia dal tettò. Si può. assomigliare il ' cauaedium ' all' '
inpluuium ' , voce usata da Cicerone e. da Livio 5 ; ma se ne differenzia
in i Horat. Epist II 3, 47-48. Cfr.
Cic. De oraL III 38, 154. Varr. De Un.
Lat V 33, 161 e 162 (Spengel). 3
Vitrvv. De arch. VI 3, 1. 4 Plin. sen. Nat hist XIX 1 (6), 24; XVII 21 (35),
166. 5 Cic. In Verr. act see. I 23, 61;
56, 147. Liv. XLIII 13, 6.
ciò che T i inpluuium ' solevasi costruire nelle case piccole, mentre il
' cauaedium ' era di maggiori dimensioni,
adatto alle case più grandi. 1 Plinio il giovane scrisse : Est contra medias (se. porticus) cauaedi u m
hilare '. Epist II 17, 5. E nello stesso
passo si ripete la voce ' cauaedium ' :
' A tergo cauaedium'. 2.° La voce i
sesqui ', irrigidita, servi , prima ancora
dell' età augustea, a foggiare alcune voci composte. 2 Anche gli
scrittori del primo secolo dell'impero usarono
nuove voci composte col numerale ' sesqui \ 3 Dovette, per ciò, Plinio il giovane sentirsi quasi
abilitato dai numerosi esempi, accolti nelP uso comune, a formare la voce ' sesquihora', che vale «un' ora e mezzo
»: ' Egeram horis tribus et dimidia, supererat sesquihora'. Epist IV 9,9. 3.° Dal numero delle persone elette a
cooperare per uno stesso ufficio, ne
venne la denominazione di alcune
magistrature romane, come p. es. ' triumuiratus, quin Vedi E. Guhl und W. Koner, Dos Leben der
Grieehen und Rómer nach antiken
Bildwerken dargestellt, 419. J.
Overbeck, Pompe ji in seinen Gebàuden,
Alterthùm. und Kunstwerken, I, 241. 2 Ne «iano d’esempio le seguenti : '
sesquialter, sesquilibra, sesquimensis,
sesquimodius, sesquioctauus, sesquiopus, sesquipedalis, sesqui pes, sesqui plex
(sescuplex), sesquitertius ', etc. : per
le quali voci vedasi il Georges, Ausfuhrliehes lateinischdeuisches
Handwòrterbuth, 7 a ediz., Leipzig, 1880, 2° voi., coli. 2363-2364. Per le seguenti voci composte con
* sesqui ' si hanno soltanto esempi negli scritti del primo secolo dell'impero
: 'sescuncia, sescuplus,
sesquicullearis, sesquicyathus, sesquidigitalis, sesquidigitus, 8esquiiugerum,
sesquiobolus, sesquiopera, sesquipedaneus, sesquiplaga ', etc. queuiratus ',
etc. 1 Dello stesso modo troviamo in Plinio
per la prima volta la voce ' duumuiratus ' :' ' Hunc Trebonius
Ruflnus... in duumuiratu tollendum abolendumque curauit. ' Epist IV 22, 1. Ma certamente il sostantivo ' duumuiratus ' dovette
essere accolto prima nell'uso comune dei
contemporanei di Plinio e, fors'anche, nell'uso dell' età anteriore. 2 È noto, in fatti, che Cicerone accenna, in
una sua orazione, all' ufficio dei '
duumuiri perduellionis ', 3 e Cesare a
quello dei ' duumuiri municipiorum \ 4 Livio,
inoltre, in più luoghi fa cenno dei ' duumuiri ', distinguendoli in a) '
duumuiri nauales o ' duumuiri nauales
classis ornandae reflciendaeque causa ' (IX 30,
4; cfr. XL 18, 7 e 8); b) ' duumuiri sacrorum ' (III 10, 7) ovvero ' duumuiri sacris faciundis ' (V
13, 6; VI 37, 12) o ' sacris faciendis'
(VI 5, 8); e) 'duumuiri ad aedem faciendam ' (VII 28, 5 ; cfr. XXII 33, 8)
o i La voce ' seruatio * riappare, più
tardi, nella Vulgata, E8dr. IV 8, 21-22;
e in Cael. Avrbl. Celer. uel acut pass. Ili
4,45. « Cic. In Pis. 34, 84. Vare. Rer. rust II 1, 16. Cfr. Vlpian.
in Big. XLVII 14, 1, §§ 2 e 4. Calustrat. in Big. Non
teniamo conto della congettura del Gièrig che
legge : ' abacta hospitum iumenta cerneres ', così lon-* tana dal testo quale è stato conservato dai
codici, tranne il e, e dalle più antiche edizioni del Paneg. E, dall'ai-? tro canto, la congettura dell' Ernesti : '
abactus hospitum exercèretur ' o ' exercerentur
', attenendosi all'uso passivo del verbo i exercere ', lascia intatto il
neologismo 1 abactus ', a cui si
riferisce la nostra osservazione. 3.°
Il nome ' praelusio ' si nota nel seguente passo di Plinio: 'Tu tamen aestima, quantum nos in
ipsa pugna certaminis maneat, cuius quasi praelusio atque praecursio has contentiones excitauit '.
Epist. VI 13, 6. Perciò * praelusio ' si
equipara alla voce ' prolusio ', l che
significa « preludio, prolusione, saggio ». 2
Alcuni vorrebbero sostituire nel passo citato dell'epistola pliniana a '
praelusio ' la voce i prolusio ', prima usata
da Cicerone, per evitare, forse, d'attribuirsi a Plinio la novità del vocabolo ; ma si farebbe cosa
inesatta, perchè alla sostituzione osta V unanime conferma della voce ' praelusio ', che vien data dai codici
più autorevoli dell' epistolario di Plinio. 8 i Cic. De orai. II 80, 325; Diuinat in
Caec. 14, 47. . 2 Nella tarda latinilà
riappare la voce l praelusio ' : per es.:
Evmen. Pro restaurandis scholis (Augustoduni) oratio, 2 : * Ibi armantur ingenia, hic proeliantur ; ibi p r a
e 1 u s i o, hic pugna committitur '
(edit De la Baune, il quale nella nota a pag. 142, col. 2 a , sospetta: * praelusio forte
prolusio'). Ambros. De exeidio urbis Hierosolymitanae III 8:
'Praelusio quaedam belli * ( Migne,
Patrolog. curs., ser. I, toni. 15 , col. 2077 ) ; etc. Per altri esempi vedii lessici Forcellini -
De Vit (tom. 4° [1868], col. 2 a ), e Georges (voi. 2° [J880J, col. 1658).
> 3 Non è, forse, infondata la
congettura che presume sostituire ' praeludit ' a * proludit ' nel passo
vergiliano : ' Arbori^ Più per un
ricordo omerico che per la simmetria
della frase, pare che Plinio siasi indotto a formare, in antitesi a ' nutus ', il nome composto '
renutus ': ' Vide in quo me fastigio
collocaris, cum mihi idem potestatis
idemque regni dederis, quod Homerus Ioui optimo maxi mo nam ego quoque
simili nutu ac renutu re spondere uoto tuo possum \ Epist I 7, 1-2. Talché '
renutus ', in opposizione a ' nutus ', vale lo stesso che ' recusatio ', cioè « far cenno di no,
accennare di no , rifiutare ». l e) Plinio si avvalse anche di temi verbali
per formare i due nuovi sostantivi : i unctorium ' e ' auocamentum '. * 1.° Nei bagni degli antichi Romani e' era ,
di solito , un luogo apposito dove i
bagnanti si ungevano il corpo, dopo
essersi lavati nelle vasche de' bagni. In tutte le opere degli scrittori latini , anteriori a
Plinio, che sono giunte integre o a
frammenti sino a noi, non c'è parola che
serva ad indicare tale luogo di unzione. Primo ad indicarlo, valendosi della voce ' unctorium
', apparisce Plinio (Épist II 17, 11 ):
e tuttavia pertanto tempo prima di lui si era fatto uso del luogo di unzione,
sì necessario a complemento del bagno. Non sarebbe quindi improbabile che il nome ' unctorium ' fosse
stato accolto nelP uso letterario in
tempi anteriori a quelli di Plinio;
tanto più che e Plauto e Cicerone avevano usato le voci obnixus trunco, uèntosque tacessi t |
Ictibus, et sparsa ad pugnato i) r o 1 u d i t* barena ' (Ribbeck); il quale
passo si nota identico in Georg. Ili
233-234 ed Aen. i Cfr, Hoic IL XVI 250.
unctor, unctio, unctura ' l , derivate, come ' unctorium ', dal tema del verbo ' ungere ' o ' unguere
\ 2.° Col suffisso -men-to- aggiunto al
tema del verbo composto , 30. Qvintu,. //mi/, orat VI 3, 61. Martial.. Epigr. XIV 20 (Schneidewin. 19),
1; XI 58, 9. Cfr. Vlpian. in Dfg. XXXII
52, § 8 ; etc. In uo luogo di Varr. Rer. rust. I 48, 1 leggevasi un tempo la voce
* theca' : 'ut grani t li e e a sit
gluma et apex arista ': nella recente edi?. del
Keil (Lips., Teubner, 1889, pag. 59) si legge: 'ut grani apex sit gluma et arista'. ellenismi, alcuni de'
quali sono rappresentati da voci
semplici, altri da voci composte.
a) Alcuni de' grecismi dedotti da voci sempiici furono da Plinio
latinizzati nella desinenza; altri conservarono la desinenza greca
originaria. ad) Si presentano con la
desinenza latinizzata : 1.° '
Baptisterium ', « bacino per bagnarsi e nuotare, bagno ». Se ne ha la conferma nei seguenti
due luoghi di Plinio : Inde apodyterium balinei laxum et talare excipit cella
frigidaria, in qua baptisterium amplum
atque opacum \ Epist V 6 , 25. ' Inde
balinei cella frigidaria spatiosa et effusa, cuius in contrariis parietibus duo
baptisteria uelut eiecta sinuantur\ Epist. Nel passo che abbiamo citato per il
secondo , la lezione del cod. D i duobus aptisteria ' differisce da quella comunemente accettata; ma si scorge evidente
che l'amanuense fu tratto in errore da ciò che, essendo scritte neir esemplare tutte di seguito le due voci '
duo baptisteria ' in modo da formare ' duobaptisteria ', egli credette dividere
il nesso in ' duob. aptisteria ', ritenendo
la prima parte un' abbreviazione di * duobus \ Quanto al passo citato sopra per il primoj se si
accoglie la lezione ' sphaeristerium ', che presentano lo stesso cod. D i Per
gli scrittori ecclesiastici la voce ' baptisterium ' passò a significare il luogo in cui si amministra
il sacramento del battesimo; ma in un
luogo dell'epistola 2* del Iib. ir Apollinare Sidonio continuò a conservarne il
significato pliniano: 4 Huic basiiicae
appendix piscina forinsecus seu, si graecari mauis, baptisterium ab oriente connectitur ' (Migne
, Pairolog. tur*., ser. I, tona. 58,
col. 475). è l'ed. p, non resta menomata per nulla la nostra osservazione sulP
ellenismo ' baptisterium ', che è conferà
mato per neologismo pliniano dal luogo della Epist. II 17, 11.
2;° Nei seguenti passi del libro delle epistole di Plinio all'imperatore
Traiano si legge per la prima volta il
grecismo i buleuta % avente il significato di « senatore greco, consigliere »: ' Claudiopolitani
ingens balineum defodiunt magis quam
aediflcant, et quidem ex ea pecunia quam b u 1 e u t a e additi beneficio tuo
aut iam obtuleruntob introitimi autnobis
exigentibus conferunt\ Epist X 39 (48),
5. ' Superest ergo ut ipse
dispicias, an in omnibus ciuitatibus
certum aliquid omnes qui deinde b u 1 e
u t a e legentur debeant prò introitu dare '. Epist. Adfirmabatur mihi in omni ciuitate plurimos .esse buleutas ex
aliis ciuitatibus '. Epist X 114 (115), 3. 1
3.° ' Eranus ' significò propriamente « gradevole compagnia »; poi si
disse ' eranus ' un' associazione privata in Grecia, avente lo scopo di
assicurare ai suoi membri un appoggio nel caso che cadessero nella indigenza,
ma a patto che il beneficato dovesse restituire
all' associazione il soccorso in danaro ricevuto, ove la sua condizione economica si fosse migliorata.
In conseguenza, valse poi a significare anche qualunque tassa o contribuzione o
colletta imposta per venire in soccorso ai bisognosi. L'uso della voce buleuta
si trova ripetuto presso Ael. Spartian. Seuer.
17, 2: * Alexandriuis ius buleutarum dedit * (Peter). Vedi i lessici
Freund-Theil (tom. I [1855], pagina 368;. e Georges (voi. l.° [1879], col.
819). * Dell' ' eranus ' de' Cristiani
trattò Flor. Tbrtvll. Apologet. Cicerone fa uso del vocabolo in esame, ma
conservandolo tale e quale, con le stesse lettere greche * . Plinio lo
latinizzò : ' Datum mihi libellum ad eranos
pertinentem his litteris subieci'. Epist X 92 (93). Il vocabolo si trova anche latinizzato nella
lettera di risposta dell'imperatore Traiano a Plinio, Epist. X 93 (94). Il Beroaldus fece bene a restituire nel
passo di Plinio, sopra citato, la grafia legittima ' eranos ', invece della grafia ' heranos ' portata dall' ed.
A. 4.° i Idyllium ' indica un genere
ben noto di poesia pastorale: * Siue
epigrammata siue i d y 1 1 i a siue eglogas siue , ut multi , poematia seu quod
aliud uocare malueris licebit uoces '.
Epist IV 14, 9. È da notarsi che la
grafia della voce ' idyllium ' non è
conservata costante nei codici e nelle più antiche edizioni di Plinio. Alla
grafia ' idyllia ', che è presentata dai codd. M, V, e accettata dal Beroaldus,
si avvicina la grafia ' edyllia ' dell' ed. p; perciocché è ben noto che nelle
parole greche latinizzate il dittongo et davanti ad una vocale si rappresentò
in latino tanto con e quanto con i : ma
1' uso prevalente dell' e è più antico, mentre nel primo secolo dell' impero il
suono vocalico i rappresentò più spesso il dittongo greco che stiamo considerando. Da ' edyllia ' a ' edullia ', grafia accolta
dall' ed. a, il passaggio era facile,
stante che il suono vocalico greco o ebbe per primo suo rappresentante in
latino Yu: aduers. gent. prò Christ,
cap. 39 (Migne, Patrolog. cura., ser. I,
tom. 1°, col. 468 e col. 470). i Cic.
Epiai, ad Att. XII 5, 1. Cpiwqli II Neologismo puntano, cfr. ' cumba * e c
cymba \ Solo per disaccortezza del
copista si trova scritta nel cod. F la forma ' dullia ' invece di ' edullia ' : non vi si vorrà certo
scorgere lina poco spiegabile aferesi.
La grafia ' hedylia ' del cod. si deve attribuire all' uso inesatto del
segno dell' aspirazione h ed alla riduzione abusiva del doppio suono liquido l,
per la considerazione, forse, che in alcune parole era rimasta oscillante la scrittura latina tra F uso d'
una sola o di due l, l Non si scorge chiaro per quale via siasi
pervenuto a rappresentare ' idyllia '
con ' dugtia ' nel cod. /?. 5.° '
Poematium ' vale « breve componimento poetico,
poemetto ». Veramente noi e' immaginiamo la forma del singolare ' poematium ', ma la parola ci
viene presentata nella forma del plurale ' poematia ' tanto nel passo precedentemente citato della Epist IV
14, 9, in proposito del grecismo ' idyllium
', quanto nel passo seguente : ' Audiui
recitantem Sentium Augurinum cum summa
mea uoluptate, immo etiam admiratione. poematia appellai'. Epist IV 27, 1. 2 i Vedi la nostra Fonologia latina^ ediz.
cit., n. 27, pp. 31-32. 2 La voce '
poematium ' si osserva, sempre nelle forme del
plurale, in due luoghi degli Opuseula di Deg. Magn. Avson. : XVII, Cento nuptialis (verso la fine) : *
Probissimo uiro Plinio in poematiis
lasciuiam, in moribus constitisse censuram '
(Peiper); IX, De bissula: 'Poematia, quae in nlumnam moara luseram rudia
et incohata ad do mestica e soiacium cantilenae ' (Peiper, pag. 114). Ma si
deve avvertine che nel luogo citato per
il primo, il cod. Laurent. 51 , 13 presenta la forma € poematis '; e in quello
citato il secondo, nel cod. Tilianus o
Leidensis Voss. lat. Q. 107 (prima Voss. lat 191) si preferisce la forma ' poema.ta \ Cosicché,
ove si accolgano 35 Neil' ammettere ohe Plinio abbia introdotto
il grecismo ' poematium ', ci siamo attenuti, tanto per il primo passo citato
dell' Epist IV 14, 9 quanto per il secondo passo, ai codd. M, V. Ma la lezione
' poemata ' è ammessa , per tutti e due
i passi pliniani sopra citati, dal cod. F
e dall' ed, a. Anche la ed. p presenta per
il passo dell' Epist IV 14, 9 la lezione ' poemata ' ; e dello stesso modo il cod. R presenta '
poemata ' per il passo cit. dell' Epist
IV 27, 1. ' La lezione ' poematica ',
presentata con notevole persistenza, in tutti e due i passi che abbiamo
riportati sopra, dal cod, />, verrebbe
a dare forma adiettiva al sostantivo
'poematia': e ci sarebbe sempre un neologismo di fonte greca, non usato da
alcuno scrittore latino i cui scritti ci siano rimasti. Ma il lessico la
ripudia, tuttoché la lezione ' poematica ' sia ammessa anche dalla ed. p nel
passo dell' Epist. IV 27, 1.
Avvertenza. Del diminutivo di
fonte greca ' sipunculus ' ci siamo occupati sopra, a pag. 27. * Vb) Plinio conservò la desinenza greca nei
seguenti tre grecismi, che egli per il
primo introdusse nelP uso letterario
latino : Buie SIGNIFICA consiglio,
senato o collegio dei decurioni nelle
città elleniche e in quelle città che
le varianti presentate dai detti codici, non si può ammettere con oerte2za che Ausonio abbia continuato
Fuso della voce » poematium \ 1 II Vallauri , che registra nel suo Lex.
Latini Italique sermoni* tutti i
neologismi pliniani, ommeite soltanto ' poematium \ 36
erano rette secondo le norme amministrative greche. Ne troviamo esempi nel libro delle epistole
di Plinio a Traiano, nelle forme
dell'accusativo e dell'ablativo del
singolare: ' Qui uirilem togam sumunt uel nuptias faciunt uel ineunt magistratum uel opus
publicum dedicane solent totam b u 1 e n atque etiam e plebe non exiguum numerum uocare '. Epist X 116 (117),
1. Vedi per altri esempi Epist. X 81 (85), 1; 110 (111), 1; 112 (113), 1. 2.° ' Lyristes ' significa « sonatore di
lira », e osservasi per la prima volta nei segg. luoghi pliniani: Epist I 15, 2; IX 17, 3; 36, 4; 40, 2. l Quanto alla grafia sono concordi i codd.,
l'ed. p e le più antiche edizioni dell' epistolario pliniano : si eccettui il
cod. M che, nel passo citato dell'
Epist. IX 17, 3 presenta al nominativo ' lyristis ', come se ai tempi di Plinio
il suono vocalico greco -q avesse avuto
il valore dell' i. * 3.° i Phantasma '
significa « fantasma , spettro , visione , larva » : i Igitur perquam uelim
scire , esse phantasmata et habere
propriam figuram numenque aliquod putes, an inania et ùana ex metu nostro imaginem accipere '. Epist VII 27 , 1. Il
Casaubonus credette sostituire a '
phantasmata ' la voce ' phasmata ', per evitare, forse, che si attribuisse a
Plinio Pin ì Della voce ' lyristes ' si
valse, di poi, Apollin. Sidon. Epist.
Vili 11 (Migne, Patrolog. curs., ser. I, tona. 58, col. 605). 2 In proposito della pronunzia dell' ij, che
Y Inama osserva essere stata oscillante
fin dai tempi di Platone, leggasi la memoria d9l D* Ovidio, ' Di un luogo di
Plato* ne addotto a prova dell'
antichità dell' itacismo ', pubblicata
negli « Atti della R. Accademia di scienze morali e politiche di Napoli o, voi. 24°, a. 1891, pagg.
217-237. 37 troduzione del neologismo ' phantasma '
nell'idioma latino, poiché la voce greca ' phasma ' era già nota come titolo di una commedia di Menandro, * e per F
indicazione di un mimo. 2 Ma contro la sostituzione proposta dal Casaubonus sta
F affermazione concorde dei codici e delle più antiche edizioni delle epistole
di Plinio. E da notarsi che Plinio,
benché avesse introdotto Fuso della voce
' phantasma ', pure nella stessa epist. 27 ,
lib. VII, invece di ripetere il nuovo grecismo , si avvalse delle voci
latine rispondenti a * phantasma ' : ' efflgies ' {Epist VII 27, 8 ; III 5, 4)
, che nella forma mediale ha il
significato di «e distribuire ». Si oppone nondimeno al legame di discendenza
tra il cit verbo greco e la voqe '
diamoerie ' il tramite attico e quello
della koiné, per cui le voci elleniche si trasfusero nella lingua latina negli
ultimi tempi della repubblica romana e nei primi secoli dell'impero; poiché
si sarebbe dovuto ottenere nella
trascrizione latina della voce greca, al
caso genitivo del singolare, la forma *
diamoerias o * diamoeras e non ' diamoeries ' o , secondo la ed. A, ' diamories
\ La grafia ' diamones ', data dall'
ed. a , non si saprebbe a quale voce greca riferirla; e perciò la si deve credere il risultamento di un' inavvertita
spostatura di lettere della voce '
dianomes Cosi T interpreta il Lagergren Vedi il lessico Porcellini - De Vit,
tom. 2, pag. 696, col. l.« L'
osservazione fu accolta dal Vallauri a pag. 207, col. 1.% del Lexicon Latini Iialique ter/noni*. s II Dizionario Georges-Calonghi, che
registra tutti gli ellenismi introdotti da Plinio, non nota ' dianome ' nò '
diamone ' mentre nelT Ausfuhrl.
Handioòrterb. del Georges ò registrata
la voce 'dianome', coL Procoeton VALE anticamera. Deinde uel cubiculum grande uel modica cenatio, quae
plurimo sole, plurimo mari lucet ; post
hanc cubiculum cum proc o e t o n e , altitudine aestiuum, munimentis hibernum
\ Epist. II 17, 10. Per altri esempi vedi Epist. II 17, 10 e 23.
Se è vero che Terenzio Varrone nel proemio del libro secondo Rerum t+usticarum usò la voce ^ i
1 Ma in non poche edizioni dei tre libri Rerum rustìcaram di Varrone la voce ' procoetona ' del proemio
del libro 2 3 resta conservata con le
lettere greche , come per es. nelt* edizione
* cum notife Iosephi Scaligeri, Adriani Turnebr, Petri Vicfcorii et Antonii Augustinl ; Amstelodami, 1623', pag.
56; nell'adizione ohe sotto la denominazione
Les agronome» latin» è compresa nella
Collection Nisard, pag» 100, col. l a ; nell'edizione di ' Ioannes Gymnicus,
Coloniae, 1536 \ pag. 96 ; eto. NelF
edizione del Keil (Lipsia, Teubnér,
1889, pag. 70) si trova accolta la forma
in lettere latine ' procoetona \ ma in nota si avverte che nei codici consultali dall' editore si legge
invece ' procoeoona considerando in primo luogo gli aggettivi di fonte
nominale, poi quelli di fonte verbale , indi gli aggettivi composti, e, in fine, gli aggettivi dedotti
dal greco. A. Riconosciamo come d' immediata
derivazione da nomi sostanti vi i
seguenti cinque aggettivi: * orarius,
bellatorius, castigatorius, praecursorius , sacerdotali^ ', quantunque, eccetto il primo, gli altri
quattro si riferiscano a sostantivi aventi il loro fondamento in temi verbali.
1.° ' Orarius * deriva da ' ora *, « costa, spiaggia del mare », e perciò vale ad indicare la qualità
di cosa appartenente alla costa, avente,
per così dire, relazione con la spiaggia
o lido; quindi ' oraria nauis ' o ' oraria
nauicula ' significa « piccolo naviglio da costeggiare ». Plinio si valse dell'aggettivo ' orarius *
nei seguenti due luoghi: l Nunc destino
partim o r a r i i s nauibus partim
uehiculis prouinciam petere \ Epist X 15 (26). * Rur sus, cum transissem in orarias nauiculas, Bithy niam intraui '. Epist. X 17A (28), 2. Il Keil,
pur conservando nel testo pliniano la lezione
comune ' orariis nauibus ' e ' orarias nauiculas * , avverte in nota ,
rispettivamente , ' fortasse onerariis '
e ' fortasse onerarias ' ; ma la congettura di lui non pare accettabile : nei due luoghi citati il
testo pliniano non presenta nei codici variante alcuna. E, del resto , la sostituzione dell' aggettivo i
oneraritts *, se vale a rimuovere da
Plinio la menda d'avere introdotto un
neologismo non necessario, non rende il testo migliore di quel che è in fatto,
conservandosi il neologismo ' orarius \
2.° Da ' bellator ', « battagliero, guerriero » , Plinio foggiò P
aggettivo i bellatorius \ che applicò in traslato a ' stilus ' per indicare lo « stile polemico
» , proprio delle dispute; ma,
riconoscendo egli stesso l'arditezza del
traslato, lo mitigò con l'aggiunzione della minorante ' quasi ' : ' Scio nunc
tibi esse praecipuum studium orandi ; sed non ideo semper pugnacem hunc et quasi bellatorium stilum suaserim'. Epist.
VII 9, 7. Se non che è da avvertire che
nel luogo citato il cod. D e V ed. p
presentano la lezione .' quasi bellorum stilum \ l 3.° Plinio dedusse 1' aggettivo * castigatorius
' dal nome i castigator ', per indicare qualità propria di chi castiga o corregge; e nell'esempio seguente
unì appunto la qualità indicata da ' castigatorius ' col nome ' solacium ', a fin di significare quel
conforto con cui ci si studia di
consolare una persona afflitta, trovando
da biasimare il dolore eccessivo che la opprime. Certo è ardito associare 1' epiteto i castigatorius '
con l' idea di conforto rappresentata da
' solacium '; e però l'autore, ad
attenuare lo stridente contrasto , premise , come al solito, la parola ' quasi'. Il passo è il
seguente : ' Proinde siquas ad eum de dolore tam iusto litteras mittes , i Ambi. Marceli*, usò anche , ma in senso
proprio , l' aggettivo ' bellatorius ' : * Ideoque hoc ni mia cauendum , quod
militem colsi nominis cum bellatoriis iumentis extinxit '. (Rer. gest. XXIII 5, 13. Gardthausen). Cfr.
XXXI 2, 22. Si deve riconoscere pure il
significato proprio di ( bellatorius ' nel seguente luogo dell'antica
traduzione latina di Irbn. Deteet et
euer*. falso cognomin. agnition. seu contro, haereses IV 34, 4: 'la tantum transmutationem fecit, ut gladios
et lanceas b ella torias in aratra fabricauerit ipse ' (Migne, Patrolog.
curi ser. Graeca et Orientai., toni. 5,
col. 985). memento adhibere solacium, non quasi castigatori u m et nimis forte,
sed molle et humanum '. Epist V 16, 10.
« Notisi che nel luogo cit. il solo
cod. M presenta la voce ' castigatorium
' : V ed. a dà la lez. ' castigatorum ', che si potrebbe intendere nel modo
stesso che si è detto sopra intorno a '
bellorum ' sostituito a 4 bellatorium \
Tuttavia , come bene avverte il Gierig, 2
il genitivo plurale ' castigatorum ' non si adatterebbe con gli aggettivi che seguono ' forte, molle,
humanum \ e nocerebbe all' efficacia
della frase. 4.° Un altro aggettivo ,
formato , come i due precedenti, da temi di ' nomina agentis ', è '
praecursorius ', da ' praecursor ', e
significa « preventivo, che precorre,
che precede » : ma V arditezza dell' immagine è attenuata , come nei due
neologismi precedenti , dalla pa^ rola
premessa ' quasi ': ' Interim ne quid festinationi meae pereat, quod sum praesens petiturus hac
quasi praecursoria epistula rogo \
Epist. IV 13, 2. Così il passo di Plinio
si legge nei codd. Jf, V e nelP ed. p.
La lezione ' praeciirsori ' data dal D deve essere considerata come
grafìa monca , poiché il dativo singolare
del nome ' praecursor ' non può coordinarsi con le altre parole del
testo. 1 Apollinare Sidonio fece uso
più acconcio dell'aggettivo ' castigatorius
', associandolo alia voce 'seueritas': Epist. IV 1 :,' Aetatulam nostrum, mobilem , teneram ,
crudam , modo castigatoria seueritate
decoqueret , modo mandato* rum
salubritate condirei ' (Migne, Patrolog. curs., ser. I, tom. 58, col. 508). * Gierig op. cit., tom. 1°, pag. 446, col.
2. a Consoli il Neologismi) puntano, 4 Altra volta Plinio,
invece di valersi del nuovo aggettivo ' praecursorius \ foggiato per esprimere
la precedenza * , usò la voce greca ' pròdromos \ che HA IL VALORE di «" precorrente,
che corre innanzi» 8 : v. Epist IV 9,
23. Nel luogo cit. dell' Epist. IV 13, 2, alla voce ' praecursoria ' trovasi sostituita '
praeceptoria ' nel cod. F e nelFed. a. E
il Gierig 3 avverte che neicodd.
Vosslail., Oxon., Arhzen. , Hamburg. ( Lindenbrogìana excerpta) , Bongars. si legge pure *
praeceptoria \ Per ispìegare quest'
altro neologismo ( che ' praeceptorius \
supposta l'ammissione di esso in sostituzione di 'praecursorius',
sarebbe sempre un aggettivo di formazione
plinlanà , sul tipo dei precedenti aggettivi derivati da ' nomina agentis * in -tor) si ricorre do
alcuni commentatori di Plinio al contenuto dell'epistola di cui Si tratta ; e poiché vi si parla di '
praeceptores ', se ne trae la
conclusione che i praeceptoria epistula '
dovrebbe avere il significato di epistola concernente i precettori : interpretazione inesatta,
perchè nel passo cit. della Epist IV
13,2 non si accenna atìcora al concetto
di i praeceptores \ che viene in seguito , do
* V agg. • praecursorius ' fii adoperato nello stesso significato da
Amm. Marcell. Rer. gest. XXXI 3, 6; XV 1, £; **» e da Avrel. Cassiod. In psalt expos, p$a\m.
XXXIX 8; Variar. Ili epist. 51 (Migne, Patrolog.
cura., ser. I, tona. 70, col. 290 ; e
totù. 09, col. 606). Vedi A. Corradi , In C. Plin. Caec. Seeundum
obÈeruationes ad orationem uerborumque construetìonem et usimi pertinente*; Bergamo, frat.
Cattaneo, 1889; pag. té. Vedi anche il
lessico Forcellini-De Vit, tom. 4 (\%m), pag.78ì, col. l a e 2*. . « V. Aeschyl. SepL adii. Thtb. w. 80, 195,
SophòA. Antig. v. 108. * Gierig op. cit., tom. 1°, pag. 339, col.
1.* 51 pò che se ne rende avvertito il lettore con
le parole : ' prius accipe causas
rogandi \ Vi si accenna, invece, alla
fretta dell'autore ed a ciò che l'autore stesso avrebbe chiesto all' amico suo
Tacito, se fosse stato in presenza di lui.
Ma se si vuole accettare per genuina la lezione ' praeceptoria \ bisogna
darle il valore lessicale di ' praecursoria ', ricorrendo al verbo ' praecipere
' ( donde ' praeceptor ' e '
praeceptorius '), il quale per Cesare,
Livio, Lucrezio, Virgilio ed altri ebbe pure il significato di «
prendere prima, anticipare, prevenire ».'
5.° Dalla voce composta ' sacerdos % il cui secondo elemento si riattacca al tema del verbo '
dare ', Plinio dedusse il nuovo
aggettivo ' sacerdotalis ', che , in rispondenza alla sua origine, significa «
spettante ai sacerdoti, sacerdotale » : * Proximis sacerdotalibus ludis productis in commissione pantomimis \
EpisL VII 24, 6. E per ' ludi
sacerdotales ' si debbono intendere
quelli che davano i sacerdoti al loro entrare in carica. 2 Qui è necessario avvertire che abbiamo
conservato tra i neologismi pliniani la
voce ' sacerdotalis ', non ostante che
l'uso di tale aggettivo si sia notato 3 nella
frase di Velleio Patercolo II 124, 4: 'Proxime a nobi i Caes. De b. e. Ili 31, 2.-Liv. IH 46, 7; XXX 8, 9;
XXXVl 19, 9. Lvcret. De rer. nat VI 803 e 1048. Vero. Bel.
Ili 98.
Val. Flac. Argon. IV 341 (ma neir ed. aldina si legge 4 praeripiunt '). Stat. Theb. Vili 328; etc. * Sveton. io Ùiu.AuQUSt. 44 parla di Mudi
pontificale*;*. * la fotti, nel
Dizionario Georges-Calonghi, [Torino, 1896],
col. 2396, si trova notato il vocabolo ( sacerdotalis ' con l'autorità
di Plinio e di Velleio Patercolo. B lo stesso osservasi nelYAmf&hrL
Handtoorterb. del Georges, voi, 2.° [J880], col. 2183. _ so
lissimis ac sacerd-otalibus uiris desti nari praetoribus contigit '
(Halm) ; perciocché tanto nell'apografo di Bonifacio Amerbach , (il solo che ci
resti della storia romana di Velleio ;
che, cohie è noto , il codice
Murbacensis , scoperto da Beato Renano verso il 1515, si è perduto) , quanto nella ' editto
princeps ' di Basilea, 1520, la lezione accertata, è ' sacerdoti bus uiris '
: poi, per una congettura dello Scheffer
si sostituì a ' sacerdotibus' Y aggettivo ' sacerdotatibus \ Dopo Plinio, si dilagò l'uso della voce '
sacerdotalis*, massimamente negli scritti
ecclesiastici : ne abbiamo eziandio una
conferma in diverse iscrizioni, in luoghi
di Ammiano Marcellino e di Macrobio, ! in alcune costituzioni imperiali
raccolte nel Codice Teodosiano, 2 etc.
B. Plinio ricorse ai temi dèi
verbi ' haesito ' e ' monstro ' per
formare i due nuovi aggettivi i haesitabundus ' e ' monstrabilis '. l.° ' Haesitabundus ' ha il significato del
participio presente ' haesitans ', che
vale « esitante, dubbioso, confuso » : ' Expalluit notabiliter, quamuis palleat
semper, et haesitabundus « interrogai^,
non ut tibi nocerem, sed ut Modesto » '. EpisL I 5, 13. 2.° L'altro aggettivo verbale fc
iiionstrabilis' è sinonimo di ' insignis, illustris % e significa « notevole,
cospicuo, illustre, insigne, chiaro » : 'Est enim probitate i Amm. Marcell. Rer. gest. XXVlII 6, 10.
Màcrob. Saturn. Ili 5,6. Vedi inoltre i
lessici Forcellitii-De Vit (toni. 5 [1871], pag. 288, col. 2 a ),
Freund-Theil (toro. 3 [ 1865 ], pp. 143-144),
Georges (voi. 2° [1880], col. 2183).
* Cod. Tkeodos. XII 1, 145; XII 5, 2; XVI 10, 20
(Haenei). morum, ingenii elegantia,
operum uarietate monstrabilis'. Epist. VI 21, 3. ' C. I
nuovi aggettivi composti, che appariscono per
la prima volta negli scritti di Plinio, hanno la maggior parte per primo
elemento componente la particella negativa ' in- : due soli sono formati con la
particella 4 per- premessa, ed uno con la particella ' prò- \ a) È stato giustamente osservato che nella
latinità argentea, per amor di vivezza
nei contrasti, si preferiva formare l'antitesi di un aggettivo col
premettere allo stesso la particella
negativa 'in-', invece di accompagnare all' aggettivo V avverbio ' non ' o di
ricorrere a eleganti circorìlocuzioni, come l'uso prescriveva neir età aurea della prosa latina. Plinio non
si allontanò dal gusto prevalente ai tempi suoi, e, oltre all'accettare P uso
di aggettivi in tal modo formati da scrittori suoi contemporanei, egli stesso
ne formò altri sette, premettendo la particella negativa, 'in-' a due aggettivi
semplici ed a cinque aggettivi composti.
aa) 1.° L'aggetti vq ,299), * ob
die sogenannten senteutiae Varronis
Varronisches enthalten ist ganz
unsìcher*. * Cic. Tusc. diap. Ili 34,
81 ; De legib.h 11, 32. Vero. Georg. IV
94; Aen. IX 548.- Stat. Theb. IX, 109.-Tac. Agr.9; Ann. XII 14; Hiat. 1.» ' Incongruens ' significa «
inconseguente, incongruente, disconvenevole *. Plinio se ne valse nel seg.
passo: ' Quibus sententi^ Caepionis placuit, sententiam Macri ut rigidam durjimque reprehendunt:
quibus Macri, illam alterarli dis^olutam atque etiam in congruente ni uocant \
Epkt. IV 9, 19. l 2.° D3II0 stesso
modo, per indicare ' qui non reueretur \ « chi ha poca stima, i' irriverente »
, il nostro autore premise la
par(,ic3lla negativa ' in- ' al partieir
pio presente del verho ' re-uereor ', e die origine al neologismo * inreuerens', che si legge nel
luogo se^ guente: ' Sum enim deprecatus
ne quis ut inreue^ r e n t e m operis
arguepet, quod recitaturus \ Epist. VIH
21, 3. 2 Non nuoce alla nostra
osservazione sul neologismo pliniano '
inreuerens ' il considerare che nel cod, M si
trova la lezione ' ut inreuerenti ', perchè la differenza del caso, importante senza dubbio per V
ordine sintattico della frase, non contrasta al valore lessicale della parola.
1 A. Gell. Noci. AH. XII 5, 5 continuò V uso dell' aggettivo * iucou^ruens ' ; e Avhkl. Avgvst. De don,
perseu. 22, 01 (M-~ gne, Patrolog.
eurs., §gr, }, tom. 45, col. 1030; 1' accolse n$Ua forma del grado superlativo. Vedi per altri
esempi presentati da Lattanzio il
Georges, Ausfùhrl. Handwòrterb., voi. 2° (1880)
coi. 133. * Aleute tracce della
continuazione dell* uso dell'agg. ' tnre-*
uerens ' troviamo in Ael. Spartian. Carae. 2, 5 (secondo il Peter); e particolarmente in Flou. Tertvll. De orai.
16; Ad nat. I 10; Aduers. Mare. II 14
(Migqe, Patrolog. cura., ser. I, tom. 1 , col.
1173,575; tom. 2, col. 302). Vedi altri esempi nei lassici ForcelUni-Da
Vit (tom. 3 [1865], pag. 623, col. 2 J ), e George* (voi. 2' [1880], col. 381). Dàlia forma participiale ' ascensus \
premessa la particella negativa ' in- ',
si è formato ' inascensus ', che vale «
non prima salito, dove nessuno è salito »,
e perciò « inaccessibile ». Plinio se ne servì per il primo nel Pan. 65,
3: 'Inascensum illum superbiae principum
locum terere\ Nel riferire il passo di Plinio
abbiamo seguito la lezione presentata dai codd. d, e; poiché la lezione
' inaccensum ' del cod. d non pare che possa adattarsi, per contrasto di
significato, alle seguenti. parole della
frase citata : ' illum superbiae principum locum \ Non contrasterebbe al
concetto di tutta la frase la congettura
del Lipsius, per la quale si viene a sostituire al neologismo ' inascensum ' la
voce ' inaccessum ', usata da Virgilio e
da altri x ; ma sarebbe grave errore posporre la lezione genuina data da codici
autorevoli, la quale non contrasta col senso dell' intera frase, ad una congettura, per quanto questa possa
apparire più gradita all' interprete e
sia proposta da un filologo
insigne. 4.° Nel seguente periodo
del Pan. 4,7:' Iam firmitas, iam proceritas corporis , iam honor capitis et
dignitas oris, ad hoc aetatis i n d e f 1 e x a matur itas nec sine quodam munere dèum festinatis senectutis
insignibus ad augendam maiestatem ornata caesaries, nonne longe lateque principem ostentant ? ' presentasi l'aggettivo nuovo ' indeflexus ',
che risulta dall'unione della particella
negativa ' in- ' con una forma participiale del 1 Vero. Aen. VII 11 : Vili 195. Senec. Herc. '[furens]
606.Sil. Ital. Pun. Ili 516. -Plin. sen. Nat. hist
VI 28 (32), 144; XII 14(30), 52. Tac.
Hist IV 50; e altrove. Poi Macrob. Saturn. V 17, 7 ; etc. Sì
verbo ' de-flecto \ E però ' indeflexus ' significa « non piegato » ; e, riferendosi ad ' aetatis
maturi tas ', assume il significato di « non indebolito » , non mai di « invariabile », come inesattamente qualcuno
interpreta.? Il Beroaldus, forse per
evitare il neologismo, ha sostituito nel testo di Plinio a ' indeflexa '. la
voce ' inflexa ', senza avvertire che V uso ha determinato un valore non
negativo alla particella ' in- '• preposta al verbo ' flectere '. E, di fatto , Ivvbkal. Sii i 1, & t Vlfiak in Din XXkVll 11, 4 Cfr. Porphyr.
Hor.epist 1 20, IO, citato dui Georges
ne\Y Amfùhrl Handworterb., voi. 2°
(18S0), col. 1212. * Vedi Cic.
De orai II 80, 325; Pro Cluent 21, 58; De legibtt* Il 7, 16; Epint ad Ali. IV
16a, 2; XVI 6, 4; etc. che consideriamo,
si spiega con la forma mediale del verbo
greco corrispondente. l 2.° Dal tema
della voce ' uber ', passato par il tramite di * ubertas ' o di * ubertus \ *
Plinio formò il verbo l ubertare ', avente il significato di « fecondare,
fer* tìlizzare, rendere fecondo o
abbondante » : * * Et caelo quidem
ftumquam benigni tas tanta, ut omnes si nini ter-* ras u b e r t e t foaeatque \ Pan. 32 , 2.
Tale è la lezione del cod. A ; ì codd. d, o, d presentano la lezione i uberet %
che sì adatta anche bene al concetto che
Fautore volle esprimere nel luogo citato del Panegi^ fico. Ma il verbo * uberare ' non può èssere considerato
come un neologismo introdotto da Plinio , poiché Puso del Verbo 'uberar^' è
stato accertato in Columella 4 ; ed è noto cbe Columbia fu contemporaneo 1 L* uso del verbo ' prooemiari ' fu
accolto poi da Ivl. Victv Are rhet 15,
(nella ed. Orelli delle opere di Cicerone [1833], voi. 5, parte 1", pag. 244); da Apollin.
Sidon. Epìst. ad Ma* meri Claudian.
(Migne, Patrolog. curs. t aer. I, tom. 53, còl 781). Vedi A. Corradi op. cit., pag. 35, nota. « L'aggettilo 'ubertus' ha per sé l'autorità
di &.Oell. Noci. Att VI (VII) 14, 7.
Non teniamo contò d*un passò di Solfilo fcl,
& ' solo pla&ò u b e r t o q u e ', presentato dal òod*
Aogetomom I, 4, 15, e dal feod.
Sangallòns. 187, ma rifiutato dal Motnttisert
òhe sì avvale deli* autorità di altri codici : il óod. Parisin» 68
te presenta invece : ' Pannonia solo
planò uberiqufe '. • Riappare molto
tardi il verbo * ubertare ' in Evmén. Ornilo*.
aetio Cbnstànlino Aug. Mauienèium nomine, 9: ' Agros diuturno ardore sitiòntes expetitus uotis imber u b e
r t a t ' • ( Mìgae» Pdtrótog. extra. , sar. I, toni. 8, col. 649). * Colvm. De re rtist. V 9, 11. Vedi atìcbe
Pallad. De re rud. X! fòatòber) 8, 3. 64 -~
di Seneca il filosofo, è scrisse i suoi libri prima di Plinio il
vecchio. * B. Di verbi nuovi, composti con preposizioni,
Plinio ne presenta soltanto quattro : ' indecere, defreraere, interscribere, pertribuere '. Li
considereremo successivamente come sono stati enunciati, secondo P ordine della lettera iniziale del verbo semplice. , -1.° Il verbo ' indecere _' significa «
sconvenire* essere disdicevole, star
male ». Non pare che Plinio sia stato il
primo ad usarlo, tuttoché negli scritti di lui si osservi per la prima volta la
forma verbale ' indecent \ In fatti,
tanto la forma participiale ' indecens ', adoperata in senso di aggettivo,
quanto la forma avverbiale 6 indecenter
' si trovano negli scritti dei contemporanei
di Plinio. - Il passo pliniano che presenta il verbo ' indecere ' è il seg. ': ' Nam iuuenes
confusa adhuc quaedam et quasi turbata
non indecent'. Epist. Ili 1, 2. * I cQdd. M e V danno nel passo citato la
lezione Mndicent', la quale non si adatta al concetto che informa 1 Thuffsl-Schwàbe, G. d. r. L. », a. 293,
pag. 713, • Per la voce ' indecens ' v.
Vitrvv. De arch. VII 5; Patron. Sai.
128, 3; Qvintil.- Imi orai. XI 3, 158; Martial. Epigr. II 11, 4; V 14, 7; XI 61, 13; Svlton. Diu.
Claud. 30. Per Taw, 4 Indecenter' v.
Qvintil. ìn$L orati 5, 64 ; Martial. Epigr. XII
22, 1 ; etc. ; e per la forma superi. * indecentiesime ': Qvintil. Imst. orai. Vili 3, 45. Cfr V Antibarb. del
Krebs , y. 'indaoere'. * Osservasi il v
rl>^ ' indecere * nel seguente luogo di A, G 4 bll. Noci. AtL VI (VII) 12, 2. ( Feininisque solis
uestem longe late-. que diffu?am in dece
re existimauervint ad ulnas cruraque
aduersus oculos protegenda ' (ed. Hertz: ma sbcondo la ' lectio Gronouiana ' é da leggerti 4 decorarti * i a
vece di ' indec^re '). 65 il periodo, e nemmeno corrisponde al verbo
della proposizione seguente ' conueniunt '. È necessità, dunque, accogliere il
neologismo ' indecent ' per non cadere in una
dissonanza sintattica e in una stortura del senso del periodo. 2.° Il seguente luogo di Plinio, letto
secondo il cod. M: ' Ego et modestius et
constantius arbitratus immanissimum reum non communi temporum inuidia, sed
proprio crimine urgere , cum iam satis primus ille impetus defremuisset et
languidior in dies ira ad iustitiam redisset, .... mitto ad Anteiam ' etc.
Epist IX 13, 4; ci ha dato argomento di notare tra i
neologismi pliniani il verbo composto '
de-fremere % che vale « cessar di fremere »*. Ma la lezione ' deferuissèt \
presentata dal cod. D e dalle edd. p f a, e P equivalente lezione '
deferbuisset ', data dalle edd. prealdine del Laetus, del Beroaldus e del
Catanaeus, non sono da trascurarsi , poiché il verbo ' deferuescere ' ( '
déferuere '), che significa « cessar di
bollire, finir di fermentare », e, in
senso traslato, « sbollire, quietarsi, calmarsi », si adatta meglio ad esprimere quello sbollimento
d' ira, quella calma succeduta allo
sdegno, che Plinio accenna in modo non dubbio con le frasi : ' primus ille
impetus', ' languidior in dies ira', ' ad iustitiam redire', 2 i Ne vediamo continuato l'uso da Apollin. Sidon. Epp.l 5; IV 12; IX 9 (Migne, Patrolog. eurs., ser. I,
tom. 58, coli. 455,518, 623
). V. i lessici Freund-Theil (tom. 1° [1855], pag. 753) e Georges (voi. 1° [1879J, col 1860). 2 Nel Dizionario Georges-Calonghi non è
notato il verbo 20. >•** Cfr. V 6, 21 e 6, 27. 2.° ' Cohors ', come termine tecnico
militare:, valse a significare la decima
parte di una legione , oonteaente tre '
manipuli ' o sei ' centuriae ' ;, si: ebbe anche il significato di « schiere
ausiliarie » : ma in tutti e dite
significati si riferì sempre ai soldati di fanteria- o pe* doni (' pedites '). Plinio riferì anche '
cohors ' alla cavalleria (' equites '), scrivendo: ' P. Accio Aquila,
centurione e o h o r t i s sextae equestris'. Epist. X 106 (107). Ma nell& risposta dell' imperatore
TrAittno st? li l Colvm. De re rust. X
362 ; XI 2, 30. renio (Epist X 107
(108): ' Libellum P. Aedi Aquilae, centurionis sextae equestris) , la voce '
cohortis ' è evitata , come ben si
osserva nella ed. A: per una congettura del
Beroaldus si legge la voce ' cohortis ' premessa alle parole ' sextae
equestris ' nel testo della cit. epistola di
Traiano. Donde s' indusse Plinio
ad associare il concetto di ' cohors '
con quello di ' equites ' ? Probabilmente non
dall'essere in quella sesta coorte commisti insieme cavalieri e pedoni ,
come suppone il Lagergren , riepilogando l'opinione del Forcellini l , (che
militarmente ciò avrebbe prodotto una
dannosa confusione), ma dalla necessità di dare un termine adatto ad una parte
dell' i equitatus ' , ricorrendo , per somiglianza di ordinamento militare, ai
nomi delle divisioni della fanteria.
Cicerone aveva, però, ben chiaramente distinto 1' i equitatus' dalle
'cohortes'. 2 3.° ' Species ' nell' uso
della latinità aurea ebbe o il
significato attivo di « vedere, guardare », o quello passivo, di «
aspetto, apparenza, figura, imagine ». Plinio
se ne valse per significare « ipotesi, caso particolare », facendone un sinonimo di ' casus ' ; e con
tale significato, trasmesso per tradizione, la voce ' species ' si conservò nel
linguaggio dei giuristi. 3 Nei seguenti passi di Plinio abbiamo la conferma del nuovo
significato del sostantivo ' species ' :
' Nam haec quoque species in 1
Lagergren, op. cit, pag. 74. Vedi il
lessico ForcelliniDe Vit, tona. 2° (1861), pag. 264, col. l. a * Cic. Pro M. Marcello 2, 7 ; EpisL ad fam. XV
2, 7. 3 Vlfiàn. in Dig. cidit in
cognitionem meam\ Epist. X 56 (64), 4.
' Mox ipso tractatu, ut fieri solet, diffundente se crimine plures s p e e i e s inciderunt \ Epist. X 96
(97), 4. Per quale tramite sia venuta
la significazione di ' species ' adottata da Plinio, non può dirsi con
certezza. Tuttavia F essersi indicato da
Cicerone e da Varrone 1 con la voce '
species ' anche le « specie di un genere »
ci dà una probabile spiegazione; poiché, essendo le specie come i casi
particolari di un genere , si rendeva
non difficile il passaggio dalla significazione di « specie » a quella
di « caso ». 4.° La locuzione
particolare ' uenia sit dicto *, usata
tra parentesi, la quale corrisponde alF espressione italiana « sia
permesso di dire, sia detto con permesso,
mi si permetta di dirlo », è dovuta a Plinio : ' Vsque adhuc certe neminem ex iis quos eduxeram
mecum (uenia sit dicto) ibi amisi. Epist
V 6, 46. Dal passo citato si presume che
Plinio abbia fatto uso della locuzione *
uenia sit dicto ', per allontanare da sé
r ira degli dei, che, secondo la credenza popolare romana, F avrebbe
colpito , se egli immodestamente si
fosse vantato. In un altro luogo per esprimere lo stesso concetto, in
proposito di una convalescente da grave
malattia, Plinio scrisse la frase ' inpune dixisse liceat' (Epist Vili 11, 2. 2 B. I
nomi sostantivi di fonte verbale, che si ebbero da Plinio un significato nuovo,
sono un ' nomen i Cic. Top. 7, 30 ;
De ìnuent. I 27, 40. Varr. Rer. rust. Ili 3,3.
s Lagergren, op. cit., pag. 75,
78 agenti» ' in rsor e quattro '
nomina actioois' in -Ho o l.° Il nome '
mensor ', dal verbo i metiri *, si ebbe
da prima da Orazio il significato di « misuratore », in generale. 1 Poi Ovidio e Columella ne fecero
un sinoniBM eli . ' deeempedator \ cioè « misuratore dei eampi, agrimensore ».* Plinio attribuì alla
voce ', ehe Quintiliano adoperò al singolare*
col significato di « annotazione^ nota »
; 4 ma Plinio, usandolo al plurale, attribuì ai vocabolo il significato di «
osservar ùonì scritte al margine di un
libro > : ' Nuno a te Mk brum urmmn
cum adnotatioaibiis tuis expecto.'
ìiptet; VK 30, & 3.° Il
sostantivo ' excursio ', considerato come temniiie 1 HoaAT. Carnkn l. 28, % Cfr Mauxuiì, Epigr. X 17> & t Ovid. Metam. I 106. Col vm. V l. Cfr. per
'deeempedator* Cic. Philip. XIII 18,37. 3 V. in proposilo l'osservazione del Gbsner,
cit, da A. Corradi, pagi 3& *
Qvintil. Imi. orai X 7, 31. tecnico
Al cose militari, valse ad indicare, fla dall' età aure^ cjell'idiopia Latino, la sortita da una
città ( f eruptio ') *, la scorreria (• discursio milHaris ') 2 e la
soarawucci$ (' prima incursio militaris 'X 3 Plinio per il pripjo attribuì al
vocabolo il significato di qualsivoglia
4 qp#r$a, gita, scappata in paese »: ' An, ut solebas, Uttaglione rei
farai liaris otoeundaei crebris excursiouibus
a^acaris ? \ Epist. I 3, 2. Del resto , noa è estraneo fi tale accezione della voce ' excprsio ' V uso
cjke in pi» Jpogttf Plinio stessa fece
del verbo * excurrere \ dwde * excur^Q.
\ per indicare de' viaggi intrapresi : ' Gnpa
juiblicufp opus m,ea pecunia inchoaturus in Tuseos e,]fcuciirrUsera.' Epist III 4,2. 'Destino eròe», si tamen offlcii ratio permiserit, excurrere
isto \ ffeist. JII 6, 6. ' Nunc uideor commodissime . po&K»
in rem praesentem excurrere.' Epist X 8
(24), 3* 4 4.° Nel periodo della
latinità aurea il nome ' ppaeeeptip ' significò « precetto , insegnamento * , e
aocihe « preconcetto, pregiudizio ». 5
Plinio attribuì a ' praeceptio ' il significato di « prelevamento o
prelevazione » di parte di un'eredità
prima degli altri coeredi: 'Saturninas autem, qui nos reltquit taeredes,
quadrantem rei publicae nostrae, deinde
prò quadrante praeceptionem quadringentorum milium dedit'. Epist V 7,1.
t Cabsl P* k a II 30, 1. « Cic.
De prou. cons. 2,4; Pro * Deiói 8, 2& Liv. XXX VII 143.
3 Usl XXX 8, 4 ; 1 1, a XXX VII 18, 4.
4 II, giureconsulto Scovala conservò il significato pliniano di 'e;xpursp/ u^Dig. XXXIII 1, L3, in fine. 5 Cip. Pari orai. Con ciò Plinio si attenne
più da vicino alla fonte della parola,
che è il verbo ' praecipere '=« prendere innanzi, prendere prima »; talché,
invece di dare un significato nuovo al nome ' praeceptio ', restituì allo
stesso il valore lessicale originario
che, a poco a poco, si era modificato
nell'uso: tanto più che Plinio stesso usò il
verbo ' praecipere ' nel significato di « ottenere prima, percepire innanzi , prelevare da un' eredità
» , come osservasi in Epist, V 7, 1 ; X
75 (79), 2. Nella lingua dei
giureconsulti romani la parola in esame
conservò sempre il significato anzidetto; e. si
diede appunto la qualità indicata dall' aggettivo ' praecipuus' a quella
parte di eredità, prelevata, che non
entrava nella divisione dell' asse ereditario; 1 mentre * praecipuum ' sostantivato aveva avuto
presso Cicerone il significato di «
preminenza, eccellenza, vantaggio ».*
5.° ' Praesumptio ' non fu voce accolta nella latinità aurea. 3 Plinio l' usò nel senso di «
godimento prema 1 Vlpian.ìii Dig.
XXXIII 4,2. Papinian. in Dig. XL 5,23, § 2;
XXXI 75 e 76. Cfr. Apollin. Sidon. Epist. VI 12 (Migne, Patrolog. cur8.
% ser. I, tona. 58, col. 560-561). Del resto, tale uso può considerarsi come una conseguenza del
significato attribuito fin dai tempi
antichi all' espressione ' pars praecipua ' o ' res praecipua'. Vedi Plavt. Rudens 188-189;
Terent. Adelph. 258. * Cic. De finibus
II 33, 110: 'Homini.... praecipui a natura nihil datum e3se diceraus ? ' 8 Leggevasi in un luogo di Cicerone, De
diuinat. II 53, 108 : 'Praesumptio
tamen.... non dabitur*. Ma in realtà i codd.
Leidens. Voss. 84, Leidens. Voss. 86, Leidens. Heins. 118, Vin 189 dobon. 2Qjr danno concordemente ' praesensio
', invece di * praesumptio \ Il Pearcius vi sostituì, per mera congettura, la
voce 81 turo, uso prematuro », facendone quasi un
sinonimo della voce ' praeceptio \ Ma,
nell' assegnare al nome ' praesumptio '
tale significato, Plinio si allontanò dall' uso che ne fecero i suoi
contemporanei. Quintiliano , in fatti, P
adoperò come termine di retorica, per indicare la figura ' prolepsis \ 1 D'
altro canto , Seneca 2 e poi Giustino ed
altri 3 attribuirono alla voce ' praesumptio ' il significato di « speranza,
fiducia , aspettazione , opinione ».
Plinio, invece, conservò alla voce il significato più vicino all' etimologia della
stessa (' prae ' e 4 sumere '), cioè «
uso o godimento anticipato » , equivalente perciò , come dicevamo sopra , a quello
del nome ' praeceptio ', ma non
facilmente assimilabile , come suppone
il Lagergren 4 , al significato della voce
' anticipatio ', che per Cicerone vale « prenozione, prenotizia, idea
anticipata ». 5 La conferma del
significato pliniano del sostantivo '
praesumptio ' è data dai seguenti luoghi : ' Rerum ' adsumptio' : lo seguirono il Christ
(nella 2. a ed. Orelliana, Turici, 1861; voi. 4, pag. 554), il Nobbo (Lips.,
1850, pag. 1162, col. 2. a ) ed altri. i Qvintil. Inai. orai. IX 2, 16 ; 2,
18. 2 Senec. Episi. mor. XIX 8 (117),
6. Cfr. A. F. Rosengren , De elocut. L.
Annaei Seneeae commentano; Upsaliae, Wahlstròm (senza data della pubblicazione,
ma è, probabilmente, del 1849-1850),
pag. 38. s Ivstin. Epit hist Phil III
4, 3. Spartian. Hadr. 2, 9. Si valsero anche della voce * praesumptio ',
in significato simile, i giureconsulti Papin. in Dig. XLI 3, 44, § 4, e Vlpian. in Dig. XXIX 2, 30, § 4; XL 5, 24, § 8; XLIII
4, 3, § 3; etc. * Lagergren, op. cit.,
pag. 57. ' s Cic. De nat deor. I 16, 43; 17, 44. Consoli II Neologismo Pliniano, 6 82
quas adsequi cupias praesumptio ìpsa iucunda est'. Epist. IV 15, 11. ' Ego beatissimum esistitilo qui bonae
mansuraeque famae praesumptioDe perfruitur certusque posteritatis curii futura
gloria uiuit '. Epist. IX 3, 1. Il significato attribuito da Plinio al nome
' praesumptio ' si deve non al dotto arbitrio dì autorevole scrittore, ma all'
efficacia che Bull* accezione di ; praesumptio ' esercitò, con molta
probabilità, V uso che lo stesso Plinio
fece del verbo ' praesumere ', accostando al significato primitivo di «
prendere prima » anche i significati di « adempiere prima, porre prima,
pregustare », che risultano dai segg.
esempi: Epist. II 10, 6; III 1, 11; VI
10, 5; Vili, 11, 1; Pan. 79, 4. C. Quanto al significato dei grecismi ' cataracta
, paedagogìum, sipo ', Plinio presenta
delle novità che ' ne presso gli
scrittori dell' età aurea, né presso i contemporanei di lui ci è dato
osservare. I.° ' Cataracta ' o '
cataractes ' servì ad indicare, per
antonomasia, le cascate o cateratte del Nilo. ■ Livio se ne valse per denotare le « saracinesche »
alle porte delle fortezze. ! Plinio,
invece, indica con ' cataracta ' o •
cataractes ' la « chiavica o cateratta » che è nei fiumi por reggere il corso dell'acqua: 'Si nihil
nobis loci i Vitrw. De arch. Vili
>. Sknkc. Nat. quaest. IV 2, A. I'lin. sBN.'jVflt hit!. V 9 (IO), 54 e 59. * Liv. XXVII 28, 10 e 11. Cfc Vboet. Epit rei mil. IV 4. Lo slesso significato notasi in Plvtar.
Anton. 76, 2 : cfr. anche dello stesso Plutarco Aratus 26, 1. 83
natura praestaret, expeditum tamen erat cataractis aquae cursum temperare. ' Epist X 61 (69), 4.
l 2.° La latinità classica non si avvalse del grecismo 4 paedagogium ' 2 : cominciò a servirsene la
latinità argentea. Svetonio con la frase ' ingenuorum paedagogia ' alluse alla sfrontata prostituzione e
seduzione dei tempi di Nerone, se pure
nel testo svetoniano non si voglia
preferire alla lezione ' paedagogia ' l'altra lezione 6 proagogia. 3
Seneca e Plinio il vecchio indicarono con ' paedagogium ' , per metonimia , i
fanciulli educati in un istituto, ossia
la scolaresca. 4 Ma Plinio il giovane restituì a ' paedagogium ' il significato
di luogo o istituto dove erano educati i fanciulli destinati ad impieghi o
uffici superiori : ' Puer in paedagogio mixtus
pluribus dormiebat. ' Epist VII 27, 13.
L' etimologia mista greco-latina della pretesa voce ' paedagium ', la quale fu accolta dalla ed.
p nel luogo cit. dell' epist. pliniana,
potrebbe solo tentarsi per ispie-, gare
una parola nuova che dai codici concordemente
si attesti essere stata usata dal nostro autore, come, per es., la voce ' cryptoporticus ' ; ma si deve
sempre rifiutare, quando con essa si voglia tentare V accettazione 1 Cfr. Rvtil. Nàmàt. Dered. suo I 481: '
Tum cataractarum claustris excluditur aequor * (Baehrens, Poetae Latin,
min. voi. 5°, pag. 21 : ma nel cod.
Vindobon. 277 (387; si accoglie la
grafia ' catharactarum '). *
Vedi per il significato della voce greca considerata: Demosth. Orai, de corona 258 (313, 10-12) ; Plvtar.
Pomp. 6, 2. 3 Sveton. Nero 28. * Senec. Dial VII {De uita beata) 17, 2 ;
Dial. IX (De tranquii animi) 1, 8; Epist mor. XX 6 (123), 7. Plin. sen. Nat hist XXXIII 12 (54), 152, 84
di una parola che non è accolta dai codici né registrata nei lessici, ma soltanto proposta come
congettura d'interprete. Molto meno si può fare buon viso alla congettura del
Lipsins ', che, movendo dal presupposto che
' paedagogium ' dovesse riferirsi soltanto alla riunione degli alunni, non mai al luogo della
riunione, voleva sostituire la
espressione ' puer e paedagogio ' alla lezione data dai codici ' puer in
paedagogio '. 3." Il grecismo '
sipo ', che vale « corpo vuoto o cavo,
sifone », penetrò nella lingua latina dopo 1' età di Cicerone -; e se ne valsero gli scrittori
dell'età argentea per indicare « sifone , canale, pompa per alzar 1' acqua », oper termine di confronto a cosa
somigliante 1 Ivsti Lipsi Ad Annales
C. Taciti liber tommentarius, Parisiis, N. Buon, 1606; pag. 236, Ad librum XV
Ann.: ' Vides ergo ubique paedagogia prò
coetu et quasi collegio puerorum. prò loco non accipiò, ne epud Plinium quidem
lib. VI] epist. « Puer io paedagogio
mistus pluribus dormiebat ». rescriboque : « Puer e paedagogio >. intellegit
enim puerum paedagogianum'. » Si è
preteso riconoscere la parola 'siphone' iu un luigodi Lucilio, cit. da Cic, De flnibusll 8, 23; ma
lalezkmu é incerisi Il cod. Palat., ora
Vatic. 1513, presenta 'hirsizon'; l'altro cod
Palat., ora Vatic. 1525, presenta 'hrysizou': gli altri codd. , come il More)., 1" Erlang. 38, il
Vratisl. IV F 180 danno ' hirsiphon". Nella 1" ed. dell' Orelli, del
18;8, si legge ' hir sìpliovo '; e quasi
consimile lez. ' fir siphoue' si osserva in quella del Medvig. L' Ernest! la trasformò a
dirittura in ' si pitone ' ; ma 11
Bailer (2* ed. Orellian», Turici, 1861, voi. 4', pag. 103} la, restimi alta Torma 'hirsizon', data dal 1°
cod. sopra cit. del secolo XI. A noi parrebbe meglio conservarsi la lez. del
cod. Vatic. 1525, ' hrysizou ' p. ' hrysiazon ', part. pres. del verb')
greco rhysiàio, Torse 'rhysizo. Ma, in
tanta incertezza, nulla si può affermare che rispanda sicuramenle al vero. r
85 al sifone K Plinio se ne
servì , attribuendo alla parola il
significato di « tromba da incendio », e venne così a determinare in un caso particolare il
significato generico di « tromba per
acqua » : i Alioqui nullus usquam in
publico sipo, nulla hama, nullum denique
instrumentum ad incendia compescenda \ Epist. X 33 (42), 2. 2 Ma è probabile (e, nell'incertezza
della conclusione, ci siamo indotti a notare la voce i sipo ' tra i neologismi
di fonte pliniana) , che Plinio non sia stato il primo a designare con ' sipo ' la tromba da
incendio ; perocché il retore Musa,
citato da Seneca il retore 3 , con la
frase 'caelo repluunt ', detta in proposito dei sifoni, accenna al significato in generale di tromba
che schizzi l'acqua in modo che questa,
ricadendo in forma di pioggia, sembri che ripiova dal cielo. 4 Sez. II.
Altre parti del discorso.
A. In due soli aggettivi ci è
stato dato di osser 1 Senec. Nat. quaest. II 16. Colvm. De re rust. Ili 10; IX 14.-Plin. sen. Nat hist II 65 (66), 166; XXXII 10 (42;, 124. Ivvenal. Sai II 6, 310. * Anche Ulpiano accenna a ' siphones ' per
gli incendi in Big. XXXIII 7, 12, §
18. 3 Senec. rhet. Controuers. X
praef., 9. 4 Nel Dizionario
Georges-Calonghi, v. * repluo ', col. 2341, e
v. ' sipho ', col. 2500, si afferma ripetutamente, ma non sappiamo
renderci convinti del motivo, che da Seneca il retore si attribuì alla voce '
sipho ' il significato di (1880), col.
2412, e riferita contemporaneamente tanto al significato eine Spritze, quanto
al significato Feuerspritze. 86
vare che il significato attribuito ai medesimi da Plinio si allontana dal significato che si ebbero
nell'uso dell' età anteriore e in quello dei contemporanei di Plinio stesso. Tali aggettivi sono : ' octogenarius
' e ' otiosus \ 1.° L' aggettivo '
octogenarius ' fu da Vitruvio e da
Frontino adoperato a significare una misura. ' Plinio se ne valse per indicare « vecchio di ottanta
anni, ottuagenario, ottogenario »: ' Femina splendide nata , nupta praetorio uiro, exheredata ab octogenario
patre \ Epist VI 33, 2. 2.° L' aggettivo ' otiosus ', che significa
propriamente « ozioso, inoperoso,
disoccupato », ed equivale a ' uacuus muneribus ', soleva essere riferito anche
a cose inanimate, p. es. a tempo, età 2
, discorso, 3 etc. A questo uso si accostò Plinio, scrivendo: 'Per hos dies
libentissime otium meum in litteris conloco, quos alii otiosissimis occupationibus perdunt. ' Epist
IX 6, 4. Ma nessuno prima di Plinio
aveva riferito V epiteto di ' otiosae ' alle somme di danaro non date ad
interesse, ' non occupatae ' : ' Pecuniae publicae, domine, prouidentia tua et ministerio nostro et iam
exactae sunt et exiguntur; quae uereor
ne otiosae iaceant. ' Epist. X 54 (62),
1. Anche il giureconsulto Scevola
applicò alla ' pecunia ' non data ad usura la qualità di ' otiosa \ 4 i Vitrw. De areh. Vili 7 ('fistulae
octogenariae';. Frontin. De aqu. urb.
Rom. 58 : ' Fistola octogenaria diametri digitos X\ * Cic. Epist ad Q. fratr. Ili 8, 3 ; De
seneci 14, 49. 3 Qvintil. Inst. orai
Vili 2, 19; I ), 35. * Scabvol. in Dig.
XXII 1, 13, § 1: « Pro pecunia otiosa
usuras praestare debeat ' (Mommsen : ma nel cod, Florent. dei Digesta è scritto ' pecunia uitiosa '). Come si è già avvertito, Plinio fu parco d'
innovazioni quanto ai verbi. Egli, in fatti, attribuì significato non noto agli
scrittori dell' età anteriore , né , a
quanto appare, accolto dai contemporanei, ai tre verbi * exseri bere, per colere, prosecare ',
conservandoli sempre in senso
proprio. l.° La latinità aurea presenta
V uso di 'ex-scribere ' nel significato
di « trascrivere, copiare », ed anche nei
significato di « notare, registrare, mettere per iscritto ». 1 Plinio, invece, assegnò al verbo ' exseribere
' due signiAcati nuovi, 1' uno proprio e 1' altro figurato , che non troviamo negli scritti dei contemporanei di
lui. Il significato proprio , di cui ora interessa intrattenerci , (che, al suo tempo, tratteremo del verbo '
exseribere ' in senso traslato) è: «
dipingere, disegnare , rappresentare » : ' Herennius Seuerus, uir doctissimus,
magni aestimat in bibliotheca sua ponere imagines municipum tuo rum petitque
exseribendas pingendasque de legem '. Epist IV 28, -1. Donde tale significato
? È noto che ' scribere ' ebbe anche il
significato di «e disegnare, dipingere
». 2 Plinio il vecchio, a determi^ nare
meglio il lavoro di copiatura di una pittura, si valse del verbo ' transcribere \ 3 Appare probabile
quindi che Plinio il giovane,
attenendosi allo stesso ordine di concetti, meglio che della preposizione '
trans ' si sia servito della preposizione ' ex ', che esprime con maggiore esattezza l'idea di « trarre fuori, dedurre
», e, pre l Cic. in Verr. aet. see. II 77, 189. Varr. Rer. rust. II 5, 18. * Cic. Tu8c. dìsp. V 39, 113. Catvll. Carm. 37, 10. 3 Plin. sen. Nat. hist XXV 2 (4), 8: * Veruna ot indura falla* est colori bus...
multumqu 3 riamente significa « usatto,
piccolo socco, calzare leggiero », che si soleva portare dalle donne e dai damerini effeminati. Ma
poiché il socco era usato dagli attori comici per la rappresentazione della
commedia, e quindi, per figura metonimia, venne a significare la commedia, così
Plinio che, adoperando il linguaggio scenico , aveva chiamato una sua villa, presso al lago Lario, col nome '
comoedia ', ne indicò il sito basso, rasente il lido del lago, col diminutivo '
socculus \ Ecco il passo pliniano : ' Huius (lacus) in litore plures uillae meae, sed duae maxime
ut delectant ita exercent. altera inposita saxis more Baiano lacum prospicit, altera aeque more Baiano
lacum tangit, itaque illam tragoediam, hanc appellare comoediam soleo ; illam, quod quasi cothurnis , hanc ,
quod quasi s o e e u 1 i s sustinetur \
Epist IX 7, 2-3. La lezione ' oculis '
che, invece di ' socculis ', è data dal
cod. D e dalle edd. p, a, non ci pare in alcun modo attendibile, prima di tutto perchè vien meno
il parallelismo che l'autore vuol mettere in evidenza tra la villa chiamata ' tragoedia ' e quella che porta il
nome di 6 comoedia ' ; in secondo luogo,
perchè bisogna forzare il senso della
frase per supporre omogeneità tra ' sustinetur cothurnis ' e ' sustinetur
oculis \ Preferiamo, dunque, la lezione ' socculis ', che è presentata dal cod.
IH e dalle edizioni prealdine. 97
10.? Dicevasi propriamente ' sportula ', diminutivo di i sporta ', quel canestrino di cibi, che si
soleva dare dai patroni ai clienti,
allorquando questi si recavano da loro
per salutarli. In senso traslato, Plinio se ne valse per indicare quelle largizioni che per lo più da
autori, di poco merito si solevano dare
ai ' laudicene, per essere applauditi di
continuo da questi durante la recitazione
dei loro lavori letterari : ' Sequuntur auditores actoribus similes,
conducti et redempti: manceps conuenitur:
in media basilica tam palam sportulae . quam in triclinio dantur. ' Epist II 14, 4. . Pare che Quintiliano si sia accostato al
concetto di Plinio con l'avvertire che è
sconveniente per gli oratori ' inter
moras laudationum ' il * respicere ad librarios
suos,. ut sportulam dictare uideantur. ' l E da avvertirsi inoltre che
il nome ' sportula ' fu anche usato, in
senso traslato, dall' imperatore Claudio per indicare i « brevi giochi dati al popolo I sostantivi
di fonte verbale, innovati nel loro
senso traslato dal nostro autore , si possono ordinare così : a) ' nomina agentis ' formati col
suffisso -tor ; b) ' nomina actionis '
col suffisso -tion ; e) sostantivi
formati da temi di verbi per il tramite del tema del participio presente; d) sostantivi verbali
aventi diverso suffisso. a) Non molto è da dirsi dei quattro ' nomina
agentis ': i Qvintil. InsL orai. XI
3, 131. « Sveton. Diu. Claud. 21. Consoli
li Neologismo puntano*
98 * * debitor, frenator, gestator, reductor,
' che nei loro significati in traslato presentano tracce d'
innovazione. 1.° Il nome ' debitor'
significò propriamente « chi deve una
somma di danaro ad un suo creditore ». l
Accolto in traslato, indicò « chi è obbligato , chi è tenuto a qualche
cosa », la quale veniva espressamente
enunciata, per es. * uitae , animae , uoti, etc. ' 2 Plinio accolse tale significato del nome ' debitor
*, considerato in traslato, ma vi
apportò la novità di adoperarlo assolutamente , cioè senza indicazione della
cosa* per cui si restava obbligato : '
Cuius generis quae prima occasio tibi,
conferas in eum rogo; habebis me, habebis ipsum
gratissimum debitorem. ' Epist. Ili 2, 6. 2.° La voce ' frenator ' appare per la prima
volta nella latinità argentea, e
riferita sempre a cose materiali, per es. il giavellotto, 3 il cavallo. 4
Plinio lo riferì,, per traslato, ad
argomenti morali : ' Contemptor ambitiónis et infìnitae potestatis domitor et
frenator animus ipsa uetustate florescit. ' Pan. 55, 9. 3.° Quanto al nome ' gestator ', che
significa « portatore per guadagno, facchino », ed è perciò sinonimo di '
baiulus ' p ' baiolus ', voce usata da Cicerone 5 , Plinio lo riferì a un delfino che portava sul
dorso i figli : * Incredibile, tam uerum
tamen quam priora, delphinum gestatorem collusoremque puerorum in i Cic. De off. II 22, 78. Senec. De bene/. VI 19, 5. Modestia in Dig. L 16, 108. 2 Ovid. Ex Pon. IV 1, 2; Triti. I 5,
10. Martin Epigr. IX 42, 8.
3 Val. Flac. Argon. VI 162. 4
Stat. Theb. I 27.. 5 Cic. De orai. II
10, 40 ; Parad. IL-, 2, 23. 99
terram quoque extrahi solitum harenisque siccatum, ubi incaluisset, in mare reuolui. ' Epist. IX
33, 8. 4.° Il nome ' reductor ',
considerato in senso proprio, significa
« riconduttore, chi riconduce » : e in tale skgniflcato T usò Livio. 1 Ma
Plinio adoperò ' reductor '• nel senso
traslato di « restauratore » : ' (Titinius Capito) colit studia, studiosos amat fouet prouehit,
multorum qui aliqua conponunt portus
sirius gremium , omnium exemplum,
ipsarum denique litterarum iam senesceiitium reductor ac reformator. ' Epist.
Vili 12, 1. 6) I. quattro ' nomina
actionis ' : ' descensio , dispensalo , egestio , nutatio ', formati da temi
verbali , presentano le seguenti innovazioni nel loro uso traslato. l.° ' Descensio ' indica propriamente «
discesa, l'azione del discendere ». 2
Plinio ne preferì V uso metonimico per
indicare i luoghi stessi nei quali si discende per mezzo di gradinir 'Frigidariae cellae
conectitur media, cui sol benignissime
praesto est; caldariae magis : pròminet enim. in hac tres descensio nes, duae
in sole, tertia a sole longius, à luce
non longius. * Epist V 6, 26. Talché,
come bene avverte il Gierig , le ' deseensiones ' erano non le scale, ma '
lacus, in quos per gradua descendebatur.
' 3 i Liv. II 33, il. « Cic. De flnibus V 24, 70: ' Quem Tiberina
descensio, festo ilio die, tanto gaudio
ad feci t, quanto L. Paullum, cum regem Perseo captum adduceret, eodem flumine
inuectio?' (Citiamo il passo di Cic. secondo il ood. Palat. (Vatic) 1525 e la ed. Cratandrina del 1528; che, invece di
'descensio', si legge ' dissensio ' nel
cod. Morelian., e ' decursio ' nella prima ediz. dell' Orelli, 1828). 8 Giehig, op. cit., tom. 1°, pag. 409, col.
l. a . 100 Che Plinio sia stato veramente il primo ad
introdurre nella lingua letteraria tale uso metonimico della voce ' descensio
', c'induce a dubitare l'avvertenza del Nàgelsbach 1 , che soventi volte ad
alcuni casi mancanti nella flessione dei
nomi verbali in -us si suppliva coi
corrispondenti casi dei nomi verbali in -io. Or , tanto in Irzio 2 quanto in Virgilio 3 , trovasi
usato 'descensus' in senso metonimico di
« via che discende » : e se, come nota opportunamente il Lagergren 4 , ai casi
non usati della flessione di * descensus
' si dovette supplire coi corrispondenti
casi della flessione di ' descensio ' ,
questo nome non poteva non avere il valore metonimico di ' descensus ' ;
e quindi è assai probabile, sebbene non
si abbia alcuna prova diretta in conferma, che il significato metonimico attribuito a
'descensio' sia anteriore all' età di Plinio.
2.° In dipendenza dal significato fondamentale proprio del verbo ' dispensare ', che vale « pesare
esattamente, dividere o distribuire
proporzionatamente », il sostantivo verbale * dispensatio ' si riferì a cose
materiali, indicandone la distribuzione economica o l'amministra-zione o il
maneggio, per es; ' dispensatio aerarii 5 , annonae '* etc. Plinio riferì la
voce ' dispensatio % in senso traslato, anche a cose morali, scrivendo
all'imperatore Traiano : * Iulius... Largus ex Ponto nondunr mihi uisus
ac ne audi.tus quidem.... dispensationem i Naegelsbach, Lateinische Stilistik 3 ,
pag. 151 eg. « Hirt. De b. Gal. Vili 40,
4. 3 Vbrg. Aen. VI 126. 4 Lagergren, op. cit., pag. 56. 5
Cic. In Vatin. 15, 36. « Liv. X 11,9. Cfr.
IV 12, 10. 10Ì quandam ' mihi erga te
pietatis suae ministeriuniqùó mandauH. '
Epist. X 75 (79), 1. È probabile .che
la via per giungere al significato
pliniano della voce 4 dispensatio ' sia stata aperta dall' uso, accolto
da Cicerone e poi da Livio , Seneca ed
altri, del verbo 4 dispensare n riferito ad argomenti immateriali.
l 3.° 4 Egestio ', sostantivo nato dal
verbo 4 egerere '=» « portare fuori,
condurre via », è voce che apparisce per
la prima volta nella latinità argentea, col significato proprio di « trasporto
», ed anche, particolarmente, di « egestione, evacuazione ».* Plinio,
riferendolo per traslato ad 4 opes
publicae', ne fece un sinonimo di 4
effusfo ' di danaro, voce già usata da Cicerone. 3 Il passo di Plinio è il
seguente : ' Hoc tunc uotum senatus ,
hoc praecipuum gaudium populi, haec liberalitatis materia gratissima, si
Pallantis facultates adiuuare publicarum opum egestione contingeret. ' Epist.
Vili 6, 7. 4.° Il verbo 'nutare' fu
gradito ai poeti dell'età augustea : a Cicerone nemmeno dispiacque farne uso
nel senso traslato di « vacillare nel
giudizio, essere incerto » 4 . Ciò non ostante, il sostantivo verbale 4 nutatio
' non pare che sia stato accolto dalla
latinità . aurea. I contemporanei di
Plinio V usarono in senso proprio di «
barcollamento, vacillamento ». 5 Plinio, invece, Tado i Cic. De orai. I 3i, 142.-Liv. XXVII 50,
10; XXXVIII 47, 3. Sbnec. Dial. VI (Ad
Mare, de eonsol) 11, 1 * Sveton. Diu. Claud.O.
s Cic. Pro Rose. Am. 46, 134. 4
Cic. De nat. deor. I 43, 120,-Cfr. Tac. Hist. II 98; III 40; IV 52.
5 Srnkg Nat quaest. VI2, 6, Qvintil.
ln*t. orai. però in senso figurato, riferendolo a ' res publica ', per indicare «decadenza, rovina dello Stato»:
'Cogi porro non poteras nisi periculo
patriae et nutatione rei pùblicae. '
Pan. 5, 6. La nostra osservazione si
poggia sulla premessa che, nel passo
citato, la lezione ' nutatione ',' presentata dal Cuspinian. e dal cod. Liuineii, sia da
preferirsi alla lezione * mutatione ', che è data concordemente dai codd. A } 6, o 9 d. • e)
I due sostantivi verbali formati per il tramite del tema del participio presente sono 'audentia'
e 'instantia'. 1.° Il nome ' audentia '
non fu accolto dalla latinità aurea.
Nella latinità d' argento se ne fece uso per si' gnificare « arditezza, coraggio
», in dipendenza dal significato del verbo ' audere ', da cui proveniva. '
Ma Plinio trasferì: il significato di
'audentia' all'uso delle parole, per
indicare « ardimento -, audàcia nel dire »" : 'Si datur Homero et mollia uoeabulà et Graeca
ad leuitatem uersus contrahere, extendere, inflectere, cur tibi similis
audentia, praesertim non delicata sed necessaria, non detur ? ' Epist. Vili 4,
4. : 2.° Il sostantivo ' iftstantia ',
conformemente al verbo ' instare ', da
cui prende origine, significò « imminenza
immediata ». 2 Plinio attribuì ài vocabolo, che adoperò in traslato, due significati : a) « veemenza
del discorso »•* ' Habet quidem oratio
et historia multa communia , sed plura
diuersa in his ipsis quae communia uiden
1 Tac. Ann. XV 53; Germ. 31 e 34. Cfr. 'audentior' nei Deal de oratoribus, 14 (Halm ; ' ardentior * per
il Bàhrens) e in Qvintil. Inst. orai. XII 10, 23. * Cig. De fato 12, 27. 103
# tur haec uel maxime ui
amaritudine instanti e, illa tractu et
suauitate atque etiam dùlcedine placet/
Epist V 8, 9-10. b) «diligenza,
studio assiduo»: ' Quid est enim quod
non aut illae occupationes inpedire aut
haec instantia non possit efflcere ? ' Epist. IH 5, 18. Per il primo dei due significati predetti
Quintiliano si era. già avvalso
dell'avverbio ' instanter V d) Resta a
parlare dei tre sostantivi verbali: ' iadtwcatus, motus, retinaculum \ l.° La voce i aduocatus ' nei tempi della
Repubblica romana designò V uomo perito
nella conoscènza del diritto, che veniva chiamato a dare i suoi coitigli in
tòtano ad una questione giuridica da trattarsi dinanzi ai magistrati, e sosteneva poi co' suoi
suggerimenti e fcftft la presenza una
delle parti litiganti dinanzi ai wi&gl 1
strati stessi. 2 Neil' età imperiale * adiiocatufc ' tìivéhitè sinonimo di ' patronus causae ', cioè «
difensore o pà* trocinatore; causidico,
che assiste e conduce il pi*oc&&ò *.
E di questo secondo significato di ' aduocatus ' Plinio^ al pari de' suoi contemporanei 3 , ci
presenta àlquahtl esempi. 4 Ma Plinio
stesso attribuì anche alla voce ' aduocatus ' un significato in traslato ,
riferendola non & 1 QtfitffriL.
tnsì. orai. IX 4, 126: ' Vbicunque acriter erit, i nstànter, pugnaciter
dicendunT (Bonnell;. « Cig. Pro Sul.
29, 81 ; Pro CluenL 40, 110; De orai il 74,
301 ; De off. I 10, 32; Epist. ad fam. VII 14, 1 ; etc. 'Aduocatus ' per « aiuto » in genere, v. Pro
Caectaa 9, 20. 3 Qvintil. Inst. orai.
XII 1, 13. Sveton. Dia. Claud. 15 e 33.
Diàl. de oratoribus, 1. * Epist.
cause ò liti o questioni giuridiche, ma alla ' abstinentia ' : ' Id uero
deerat, ut cum Pallante auctoritate publica ageretur , Pallas rogaretur ut
senatui cederet, ut illi superbissimae
abstinentiae Caesar ipse aduocatus esset. ' Epist. Vili 6, 9. Quanto abbiamo osservato sul significato
pliniano della voce ' aduocatus ', considerata in traslato , non sarebbe
accettabile, se nel luogo citato, invece di ' Caesar ipse aduocatus esset', si leggesse, come si
suòle comunemente: ' Caesar ipse
patronus aduocaretur'. Così appunto è
presentata la lezione dall' ed. a, con la
ripetizione del pronome ' ipse ' dopo ' patronus ': ' Caesar ipse
patronus ipse aduocaretur '. 2.° Dalla
radice del verbo ' mouere ' col. suffisso -tu- si formò il nome ben noto ' motus ', che in
traslato, óltre ali! indicare « il moto
dèi sensi e 1' attività o energia dello
spirito, la commozione dell'animo, la passione », servì a significare « i motivi, le cause, i
moventi » di un dato divisamente. Plinio
fu il primo ad adoperare la voce ' motus
' in tale significato: 'Audisti consilii mei
motus'. Epist. Ili 4, 9. 3.° Il
sostantivo i retinaculum ', non discostandosi dal significato proprio del verbo ' reti nere ',
da cui deriva, servì ad indicare
qualunque oggetto potesse servire a
trattenere o a tener fermo; perciò, secondo i casi particolari ,
significò « cavezza \ gomena o fune 2 , briglia
o redina 3 , vimini pieghevoli per legare le viti 4 », etc. Plinio per il primo attribuì un significato
figurato alla i Horat, Sai I 5,
18. 2 Ovid. Metam. XIV 547; XV 696. 8
Vbrg. Georg. I 513. i Vbrg. Georg. I 265. 105 voce ' retinaculum ', per indicare « i
legami o vincoli morali della vita » : '
Adfuit tamen deus uoto, cuius ille
compos , ut iam securus liberque moriturus, multa illa uitae, sed minora r e t i n a e u 1 a
abrupit.' Epist I 12, 8. Nella stessa
epistola , § 4 /egli chiamò questi ' uitae
retinacula', in modo più diretto , * preda uiuendi,' come li aveva
detto, prima di lui, Plinio il vecchio ! ; ed
al § 3, li disse * uiuendi causae '.
C. I grecismi nei quali,
considerati in senso traslato, si nota l'innovazione pliniana sono due: '
cratér * e ' xenium '. 1.° ' Crater ', « grande coppa, cratere,
vaso da mescere », è un grecismo accolto nella lingua latina e latinizzato
nella forma ' cratera*'. Passò al senso traslato per P uso particolare che ne fecero i poeti,
per significare « voragine vulcanica V vaso per Polio » 3 , e anche una costellazione 4 , ete. Ma Plinio fu il
primo, e forse il solo, ad usare il
grecismo ' crater ' nel senso traslato
di « conca o bacino d' acqua » : ' Fonticulus in hoc, in fonte crater'. Epist V 6, 23. 2.° ' Xenium ' rappresentava, secondo
l'etimo greco 5 , il dono ospitale,
fatto, cioè, agli ospiti o ai commen 1
Plin. sen. Nat hist. XXII 6 (7), 14: 'Addidere uiuendi pretia deliciae Juxusque * (Mayhofl). Tacito
indica i ' uitae retinacula ' come
'pretia nasceadi' (Germ. 31; ma in più codici si legge * noscendi '). * Lvcrbt. De ter, nau VI 701. Ovid. Metam. V
424. Cfr. Plin. sen. Nat hist. II 106 (110), 237; III 8
(14), 88. » Verg. Aen. VI 225. Cfr. Martial. Epigr. XII 32, 12. 4 Ovid. Fast li 244. Cfr. Cic. De nat deor.
II 44, 114 {Arati phaenom. 219). 5 Vedi Svidàs Lexic. Graee. et Lai, vol2°,
col. 1032 (Bernhardy). Ì06 sali. E in tale significato, oltre gli
esempi di Vitruvio, Marziale ed altri ',
abbiamo l'esempio di Plinio stesso: '
Summo die abeuntibus nobis, tam diligens in Caesare humanitas, xenia sunt missa'. Epist. VI 31,
14. Ma Plinio assegnò inoltre al
grecismo * xenia ' il significato triaslato di « dóni fatti a certe persone per
ottenere da loro qualche favore », ed in particolare i doni che si facevano agli avvocati o causidici per
patrocinare con maggiore impegno le cause: ' Quam me iuuat quod in causis agendis non modo pactione dono
munere ùerum etiam x e n i i s semper
abstinui ! ' Epist V 13 (14), 8. E, dopo
P esempio di Plinio, si ampliò àncora di
più il significato della voce ' xenium ', indicandosi con essa i doni che si offrivano dai
provinciali ai proconsoli o ad altre autorità 2 . Sbz. ii. -^ Aggettati. Li distingueremo in aggettivi derivati da
fonte nominale ed aggettivi formati con temi verbali. A. «-* 1.° L' aggettivo ' enodis ', formato
dalla preposizione.' e' e dal tema del sostantivo 'nodus'» nel significato
proprio vale « liscio , senza nodi ». In tale
accezione 1' usò appunto Virgilio , che lo riferì quale attributo alla voce ' truncus \ 8 Plinio
l'adoperò in senso traslato, riferendolo
ad alcune poesie per indicarne la
scorrevolezza e la facilità : ' Recitabat.. f erudit&m sane 1 Vitrvv. De afòh. VI 9. Martial. Epigr.
XIII 3, ì-2 e 5-6. * Vlpiàì*. iti Dig. I
16, 6, § 3. i 'V'fcRG. Georg. Il 78 : '
Rursum e n o d e s trunci resecantur '
(Ribbeck). Cfr. Plin. sen, Nat
hM, V 1, 14. ìot I
luculentamque materiam. scripta elegia* erat fluentibus et teneris et e n o d i b u s , sublimibus
etiam, ut poposcit locus. ' Epist
Hamatus ' derivato da ' hamus ', in senso proprio significò «fornito d'amo»; e Cicerone l'usò
in tale significato. l L' accezione in traslato dell' aggettivo * hamatus', per
indicare cose che , insidiose come l'amo ,
si mettono in opera per ottenere vantaggi maggiori, si deve a Plinio, che lo riferì a ' munera ' con
-P intendimento d' indicare quei doni che si fanno col fine sottinteso di
ricavarne maggiori remunerazioni : i Hos ego
uiscatis hamatisque muneribus non sua promere puto, sed aliena corripere '. Epist. IX 30,
2. Plinio dovette certamente venire all' uso traslatò di ' hamatus ', indottovi dal significato attribuito in
traslato al nome 4 hamus ' da scrittori
a lui anteriori e da scrittori contemporanei. 2 3.° ' Inamoenus ' appartiene a quella serie
di aggettivi sì graditi alla latinità argentea, formati col premettere all'
aggettivo la particella negativa i in- ' : significa P opposto di ' amoenus ',
e perciò « spiacevole, sgraziato,
disameno ». Ovidio se ne valse per indicare
PAverno. 3 Plinio ne fece, per traslata, un attributo di certi lavori letterari « senza attrattiva,
spiacevoli, inameni »: ' Oratiunculam unam alteram retractaui. quàhiquam id
genus operis inamabile, inamoenum magisque laboribus ruris quam uoluptatibus
simile '. Epist IX 10, 3. - . l Cic. Acad. priòr. II 38 121. * Huràt. Sai. II 5, 25. Martial. Epigr.
V 18, 7; VI 63, 5. Vedi anche Plin.
Pan. 43, 5. 3 Ovid. Metam. X 15. Cfr. Stat. Sii II 2, 3*3, Ì08
4.° L' aggettivo ' peracerbus ' vale lo. stesso di * acerbus ' con un
rafforzamento indicato dalla particella preposta ' per'; significa perciò, in
senso proprio, « molto aspro , molto
acerbo » , come disse appunto Cicerone
dell' uva immatura. ] Plinio adoperò in traslato V ag. gettivo '
peracerbus ' per significare un che di « doloroso , assai spiacevole » : '•
Mihi quidem illud etiam peracerbum fuit,
quod sunt alter alteri quid pararent indicati. ' Epist VI 5, 6. 5.° L'aggettivo ' saxeus ' propriamente
significa « sasseo, di pietra ». Plinio attribuì a ' saxeus ' il significato di
« insensibile », duro come di pietra, che non
sente impressione di alcuna cosa bella : ' Ego Isaeum non disertissimum tantum uerum etiarn
beatissimum iudico. quem tu nisi
cognoscere concupiscis, saxeus
ferreusque es .' Epist II 3, 7. Ma in ciò egli si avvicinò all' espressione
di Ovidio : ' Mater ad auditas stupuit ceu s a x e a voces ' 2 ; nella quale
l'epiteto ' saxea ' vale attonita per la
meraviglia dolorosa, come se fosse
divenuta di sasso. Forse, nel l'attribuire alla voce 'saxeus', in senso figurato, il significato anzidetto,
Plinio ebbe presente la frase che si
legge nel v. 258 del Prometti, uinctus
di Eschilo. B. 1° e 2.° Tra gli aggettivi di fonte verbale,
che si ebbero da Plinio un nuovo
significato in traslàto, si annoverano
'adductus' e ' circumscriptus ': entrambi
dotati della forma del comparativo.
' Adductus \ che propriamente significa « angusto , 1 Cic. De senect. 15, 53. * Ovid. Metom stretto », si ebbe in traslato
vari significati , uno dei quali
riferito in forma comparativa da Plinio air oratore, vale « più serrato, più
breve nelF espressione »• Similmente '
circumscriptus ', che in senso proprio significa « circoscritto » , in senso
traslato fu da Cicerone riferito alla frase, ali" ambitus uerborum M ,
mentre da Plinio fu riferito, anche in forma comparativa, all' oratore stesso per indicare la qualità
della concisione, che fregia il discorso di lui. Eccone la conferma: ' In contionibus idem qui in orationibus est,
pressior tamen et.circumscriptior et
adductior'. Epist I 16, 4. 3.° Il significato proprio di ' incustoditus
' è « non custodito, senza guardie ». La
latinità argentea attribuì a '
incustoditus ' due significati in traslato, uno considerato in passivo, ed è
dovuto a Tacito ; P altro considerato in attivo,' ed è stato per la prima volta
determinato da Plinio. Nel primo significato vale « inosservato », 2 o pure «
non contegnoso, non celato » 3 . Nel
traslato attivo, secondo l'accezione pliniana, * incustoditus '
significa « improvvido, incauto, imprevidente, senza precauzione » : ' Tuitus
sum Iulium Bassum ut i ncustoditum nimis et incautum ita minime malum \ 4 Epist. VI 29, 10. 4.° Dal significato proprio che
all'aggettivo ' inductus ' proveniva
dalla sua qualità originaria di participio per
1 Cic. OraL 12, 38; cfr. 61, 204.
* Tao. Ann. II 12; XV 55. 3 Tac.
Ann. XII 4. * In proposito il Gierig,
op. cit., tom. 2, pag. 91, col. 2% aggiunge il* commento: ' Puer enim, qui non
custoditur, noglegens, remissus nimis esse solet ' . no
fetta del verbo ' inducere ', Plinio, lo volse in traslato, e lo
attribuì a ' sermo ' per indicare un linguaggio
straniero : ' Inuidéo Graecis, quod illorum lingua seribere maluisti.
neque enim coniectura eget, quid sermone patrio exprimere possis, cum hoc
insiticio et i n d u ct o tam praeclara opera perfeceris \ Epist IV 3, 5, 6 Totam uillam oculis tuis subicere conamur
, si nihil inductum et quasi deuium
loquimur.' Epist V 6, 44. Cfr. Epist.
Ili 18, 10. Nulla osta ad ammettere che
Plinio si sia permesso di attribuire a '
inductus ', in senso traslato, il significato
anzidetto, per aver tenuto presente che già Cicerone si era servito ad un fine consimile del verbo
* inducereV 5.° Nel luogo testé citato
della Epist. IV 3, 5, si osserva eziandio che Plinio per il primo adoperò in
senso traslato l'aggettivo ' insiticius
' , derivato dal verbo i inserere ', a
fin di significare il linguaggio importato
dal di fuori, in antitesi alla lingua materna. La voce ' insiticius ' nel significato proprio di ,«
innestato » era già stata accolta nella
lingua letteraria, molto tempo prima di
Plinio. 2 Sez. III. Verbi.
I verbi ai quali, considerati in traslato, Plinio attribuì un
significato nuovo, sono , eccetto uno, tutti composti ; e la ragione ne è
manifesta, perchè nell'ampliare le funzioni del traslato ha molta efficacia la
particella che forma il primo elemento della composizione. i Cic. Philip. XIII 19, 43. * Ne sia d'es. Varr. Rer. rasi. II 8, 1.
Vedi in prcfposito la osservazione
del.GESNER, riportala da A. Corradi, pag. 33. r
Ili A. Esamineremo da prima i verbi composti
che provengono da un tema semplice
originariamente verbale , e poi i verbi composti nel cui tema si contiene un tema nominale. a) I vèrbi composti della prima serie
saranno trattati secondo l'ordine alfabetico della lettera iniziale del tema verbale semplice. l. Q 11 verbo ' in-arescere ', come P
incoativo 'arescere ', originariamente ' arere ', ebbe il significato
proprio di « disseccarsi, inaridire » :
e, oltre non pochi scrittori fioriti al tempo della latinità argentea, ne dà
la conferma lo stesso Plinio : ' Buxus,
qua parte defendltur tectis, abunde uiret; aperto caelo apertoque uento et quamquam longinqua aspergine maris
inarescit'. Epist. II 17, 14. Ma Plinio
attribuì anche al verbo ' inarescere ' il significato di « finire », riferito a
oose immateriali : 'Sed quod cessat ex reditu frugalitate suppletur/ex qua
uelut fonte liberalitas nostra decurrit :
quae tamen ita temperanda est, ne nimia profusione inarescat. ' Epist. II 4, 3-4. La sola ed. p presenta, invece di '
inarescat', la pa^rola * marcescat ', che pare un' emendazione fatta dall'
editore per fare rieritrareF espressione di Plinio nelP uso traslato del verbo
' marcescere ', che Livio e 0vidio riferirono alle voci ' desidia, otium V 2.° Il significato proprio del. verbo '
per-domare ', che vale « soggiogare,
domare », si riferì costantemente ad
esseri animati, come per es. ' uiri, 2 gentes,* canes, 4 l
Liv. XXVIII 35, 2. Ovid. Ex Pon. II 9, 61. * Tibvl. II 1, 72. 8 Vell.' Paterc. Hist Rom. II 95, 2. Cfr.
Liv. XL 41, 2. 4
Tibvl. I 2, 52. m «
serpentes, tauri, l età; ovvero a regioni designate invece dei popoli che le abitano, per es. il '
Latium ', 2 la ' Britannia ', 3 una regione in generale. * Plinio applicò
in traslato il verbo ' perdoniate ' al
suolo che si coltiva : ' Tantis glaebis
tenacissimum solum, cura primum pròsecatur, adsurgit , ut nono deraum sulco
perdomet u r. ' Epist V 6, 10. Gli
scrittori contemporanei avevano agevolato a Plinio la via per venire all'uso
traslato del verbo ' perdonare', poiché lo avevano riferito, in generale, a
cose inanimate. Così in Seneca si
osserva la frase ' perdomare farinam ', che significa « dimenare la farina
con l'acqua e farne una pasta » 5 ; e in
Stazio, la frase 'perdomita Ceres ' 6 . Ma a Virgilio fu più gradita
l'espressione figurata ' imperare aruis ' 7 per riferirla a chi ' exercet frequens tellurem '. 3.° Il significato proprio del verbo '
con-fodere ' fu « trapassare ,
trafiggere , ferire ». Plinio 1' adoperò in
traslato per indicare quel segno fatto con una linea trasversale sulle
parole d'uno scritto, che dovevano essere
cancellate o emendate 8 : ' Expecto ut quaedarn ex hac epistula, ut illud « gubernacula gemunt » et
« dis ma i Ovid. Heroid. 12, 163-164. « Liv. Vili 13, 8. 3 Tac. Hist. I 2. 4 Liv. XXVIII 12, 12. Martial. Epigr. IX 43, 8. 5 Senec. Episi. mor. XIV 2 (90;, 23. Stat. Theb. I 524 7 Vbrg. Georg. I 99. 8 Vedi in proposito di tale
segno le *Notae XXIquae uersibus apponi consuerunt * (cod. Paris., 7530),
ripubblicate dal Keil nella collezione
dei Grammatici Latini, voi. VII, pagg. 533-536. 113 ris proximus », isdem notis quibus ea de
quibus scribo confodias. ' Epist IX 26, 13. La differenza tra V accezione pliniana del verbo '
confodere ', considerato in senso
traslato, e il significato che allo stesso verbo attribuì, anche in traslato,
Tito Livio, sta in ciò che questi lo riferi ad argomento morale o giuridico, 1
mentre Plinio lo applicò ad indicare
l'azione materiale del segnare i luoghi da emendare d'uno scritto. 2 4.° Da una composizione multipla risultò il
verbo ' recom-ponere ', il cui significato proprio è « racconciare, mettere in ordine ». 3 Plinio indicò con '
recomponere * il concetto di « placare,
calmare, acchetare , rappattumare » : ' Quo magis quosdam e numero nostro
inprobaui, qui modo ad Celsum modo ad Nepotem, prout hic uel ille diceret, cupiditate audiendi
cursitabant, et nunc quasi stimularent
et accenderent, nunc quasi reconciliarent ac recomponerent, frequentius
singulis , ambobus interdum propitium
Caesarem.... precabantur. ' Epist VI 5,
5. È uopo avvertire che la lezione '
recomponerent % nel passo citato, è
data' in modo approssimativo dal cod. flf, e che
presenta la parola scritta in guisa incerta: ' re omponerent\ Invece il cod. D
e le edizioni p, a danno la lezione '
reconciliarent componerentque ' : la quale , se
venisse accettata, renderebbe inutile la nostra osservazione, poiché il
verbo ' componere ' nel senso traslato
di « acchetare, pacificare, riconciliare » era stato già usato, prima di Plinio , nelle frasi : '
componere bel * Liv. V il, 12. « Cfr. Cic. Epist adfam. IX 10, 1. Horat.
Epist. II ,3, 446-447. 3 Ovid. Amor. I 7, 68. Consoli Il Neologismo puntano 8 - 114
lum, 1 componere controuersias,* componere lites, 1 componere seditiones
', 4 etc. 5.° Il verbo ' ad-radere ',
nel suo significato proprio di « radere
, accorciare , mozzare » , si rapporta alla
barba, ai capelli e anche ai rami degli alberi. Plinio lo accolse in traslato per significare il
concetto di 103 »
44 » 16
» 75 »
120 > 102
una ijuaiu si nana, uei
u abactus^ Pan. 20, 4. acor 3 : VII 3, 5. actiuncula t : IX 15, 2. adductus 3 : I 16, 4. adnotatio 2 : VII 20, 2. adnotator x : Pan. 49, 6. adradere 3 : II 12, 1. adsistere aduocatus aposphragisma ,: X
74 Q6Ì. 3. baptisterium t : II 17, 11; V 6, 25.
bellatorius buie! IH defremere ,: IX 13, 4. » 99 descensio 3 : V 6, 26. » 116 destringere 3 : Pan. 37, 2 (cfr. Ili 5, 14). > 45 dianome,:X 1 16(1 17),2. » 100 dispensatio 3 : X 75 (79), I.
73 districte , : IX 21, 4. 11
duurauiratus,: IV 22, 1. ecclesiali 10
(111),1. egestio 3 : Vili 6, 7. eiecta { : II 17, 11. electa t : III 5, 17. enodis 3 : V 17,2. eranus t : X 92 (93). excursio 2 : I 3, 2. exscribere 2 : IV 28, 1. exsoribere 3 : V 16, 9. exsecare 3 : II 12, 3. exultantius t : III 18, 10. Pag. 98 frenator 3 : Pan. gestator à »
55 » 109
» 64 52 haesitabundus t :1 5, 13. 15 haesitator^V 10(11), %. J07 hamatus ? : IX 30, 2. 40
heliocammus^II 17,20. 38 hetaeria , : X
34 (43), 1; 96 (97), 7. 68 historice t : II 5, 5. idyllium ,
: IV 14, 9. inamoenus 3 : IX 10, 3. inarescere^; li 4, 4. inascensus ,: Pan. 65,3. incongruensj: IV 9, 19. incustoditus 3 :VI 29 f 10. indecere t : II J 1, 2. Pag. 56
» 25 » 109 Pag.
» » Pag.
» » 53
58 55 71
110 102 66
54 119 40
61 91 indeflexus ,: Pan. 4, 7. indignatiuncula x : VI 17, 1.
inductus 3 : III* 18, 10; IV 3,
5; V 6, 44. ingloriosi^: 1X26, 4. inperspicuus,: 1 20, 17. inreuerens,: Vili 21,3* inreuerenter^ il 14,2; VI 13, 2.
insitici us 3 : IV 3, 5. instantia
interscribere,:VII 9, 5. inturbàtus { :
Pan. 64, 2. inumbrare 3 : Pan.
19,1, iselasticum , : X 118 (119), 1; 119 (120). iselasticus,:X 118(119) 1-2; 119 (120), iuba 3 : V 8, 10. 89 Latine , : VII 4, 9. 92 latitudo 3 : I Ì0, 5. 13 laudiceni t : II 14, 5. 120 lectkare 3 :VII 17, 4. 38 lyrica , : III 1, 7 ; VII 17, 3; IX 22, 2. 36 Jvristes , : I 15, 2; IX 17, 3; 36, 4; 40, 2. 78 mensor 2 : X I7B , 5; 18 (29), 3.
41 mesochorus t : II 14, 6. 28
mettila , : V 6, 35. 41 muniambij: VI
21,452 monstrabihs,: VI 21, 3. 68
mortifere t : III 16, 3. 104 motus . :
III 4, 9. 9? muscufus % : V 8, 10. 181
Pag. 93 numeri 3 : III- 4, 5. »
101 nutatiog : Pan. octogenarius 9 :Vl 33,2.
27 offendiculuir^:IXll,l. 61
opisthographus L : III 5 17. 47 orarius , : X 15 (26) ; 17A (28), 2.
86 otiosus g: X 54 (62), 1. 83
paedagogium-, :VII 2.7, 13. 108 peracerbus 3 : VI 5, 6. 88 percolere 2 : V 6, 41. 58 pereopiosus ,: IX 31, 1. 59 perdecorus^ III 9, 28. Ili perdomare 3 : V 6, 10. 119 perseuerare 3 :VI20,19. 94 pertica , : Vili 2, 8. 66 pertribuere t : X 86B (18), 2.
36 phantasma »:VII 27, 1. 34
poematium , : IV 14 , 9; 27, 1. 79 praeceptio 2 : V 7, 1. 49 praecursorius.:IV 13,2. 21 praelusio f : VI 13, 6. 116 praesternere 3 : V8, 14; Pan. 31, 1.
80 praesumptio 2 1 IV 15, 11; IX
3, 1. 46 procoeton 4 : II 17, 10; 17, 23.
59 prominulus 4 : V 6, 15. 62
prooemiari t : II 3, 3. 88 prosecare 2 :
V 6 , 10. 42 protopraxia l : X 108 (109), 1.
121 proxirae.,: I 10, 11; IV 29
1' V 7 4. 69 puellariter,: Vili
10,1. recomponere 3 : VI 5, 5. » 99 reductor s : Vili 12, 1. 71 redundanter ,: 120, 21. 118 reformare a : Pan. 53, 1. 18 reformator 1 :VHI 12, 1. 22 renutus t : I 7, 2. 117 resultare.* : VIII 4, 3; Pan. 73, 1.
104 retinaculum^: I 12, 8.
» Pag. 51 » 122
Pag. 108 69
19 11 94
9 84 27
96 10 76
95 97 119
14 sacerdotalis ,:VII
24,6. salubriter 3 : I 24, 4; VI 30, 3.
saxeus 3 : II 3, 7. scurriliter ,: IV 25, 3. seruatio.rX 120(121),1. sesquihora t : IV 9, 9. singultus 3 : IV 30, 6. sinisteritas x : VI 17, 3; IX 5, 2.
sipo 2 : X 33 (42), 2. sipunculus
t : V 6, 23; 6, 36. socculus 3 : IX 7, 3. social itas t : IX 30, 3; Pan. 49, 4.
species o : X 56 (64), 4; 96 (97), 4.
spoliarìum 3 : Pan. 36, 1.
sportula 3 : II 14, 4. subsignare
3 : III 1, 12; X 4 (3), 4. subterraneum 4 :IV 11,9. 63 ubertare , : Pan. 32, 2. 77 ueria , : V 6, 46; Vili unctorium xenium
zotheca zothecula Epist. Epist. Epist. Epist.
Epist. ^»s& Epist. Epist. J^rtst Epist.
Panegyr. L'AUTORE DEL LIBRO DE ONRAR BISI (ERMANOKYA
RICERCHE CRITICHE Libero docente di letteratura e lingua latina nella R.
Università di Catania DERE ROMA. Ermanno
LoescHER & Co (Bretsehneider e
Regenberg) Librai di S. M. la Regina
d’Italia Catania, via Maddem MII Tipografia editrice BARBACALLO &
SCUDERI, in Catania. Pad «TI
AG -YC16 A RoBERTO DI
CARCACI MIO ALUNNO NEGLI ANNI 1889 =
1894 Nel presente libro si compendiano i risultamenti di un lavoro paziente di ricerche, durato per
più anni. Le conclusioni, alle quali
siamo pervenuti, sembreranno a taluni
molto ardite ; e, forse, non tutti coloro che degneranno il libro di una
lettura attenta, stimeranno che si
debbano fare a tali conclusioni « accoglienze oneste e liete ». Ma chiunque esamini il nostro
libro con animo alieno da preconcetti, non potrà, pur dissentendo dalle conclusioni, disconoscere che le nostre
indagini critiche sono state sempre
obiettive e senza il disegno di far
prevalere, ad ogni costo e in qualunque, modo,
una tesi prestabilita. Delle osservazioni che ci saranno fatte, terremo il debito conto, ringraziando
fin d’ ora i lettori benevoli. È opportuno, inoltre, avvertire che, quanto
al testo di Tacito, abbiamo seguito l’
ediz. curata dal Halm ; e per la nat.
Rist. di Plinio, l’ ediz. Jan-Mayhoff. Quanto
al testo della Germ., abbiamo preferito attenerci alla recente ediz. di Ioannes Mueller (Wien u.
Prag , F. Tempsky ; Leipzig, G. Freytag:
1900, ed. II maior). Citando di Tacito
un intero capitolo o più parti d uno
stesso capitolo, si è omesso di indicare il num. del rigo accanto al num. d’ ordine del capitolo.
Degli autori che sono citati nel corso del libro , abbiamo conservato i testi
tali quali si presentano nelle edd. consultate, senza variarne menomamente la
grafia, ancorchè questa apparisca,
talvolta, inesatta. TTI DT NR gi TÀ + +
GND è + CHIND è + GHIND è + HD + è qu» 00:
LL tt rit ‘rl eee e asi _ > _ «= ++ «mm è Malatano li sen a cut NA limiter sociali leva
st E rc Dell’aureo libretto de origine et situ Germanorum 1, che indicheremo, come altri han fatto prima,
con l’abbreviatura Germ., non trovasi fatta menzione nell’ antichità, sia
perchè non se n’ebbe notizia dagli scrittori
1 Il tit. de origine et situ Germanorum è indicato per la prima volta
dal Panormita, in una lettera dell’ aprile 1426 diretta al Guarini di Verona (vedi cod. Marciano XIV
221 f 95; cod. Classense 419, 8 f. 3:
cit. dal SABBADINI, notizie storico-critiche
di alcuni codici latini, in Studi italiani di filol. class. VII pp. 122-125), ed è confermato dai codd. Vatic.
1862 e Vatic. 1518. In una nota di Pier
Candido Decembrio (cod. Ambros. R 88
sup. £. 112: vedi SABBADINI, il ms. hersfeldese delle opere minori di
Tac., in Rio. di filol. e d' istruz. class. XXIX 262) leggesi il tit. de orig.
et situ Germaniae, ripetuto dal cod. Neapol.
Il cod. Leidens. dà: de origine situ moribus ac populis Germanorum : cf.
WoELFFLIN, sum Titel der Germania des Tac.,
in Rhein. Mus. N. F. XLVIII 2, 312.
CoNsoLI : L’ autore della Germania, 1
sad le cui opere sono pervenute
sino a noi; sia perchè, sebbene ne avessero avuto notizia, essi credettero di
mettere il libretto in non cale; sia anche perchè quanto potè essere scritto intorno allo stesso, non
si conservò intatto dall’ azione del
tempo. Quale di queste tre ipotesi risponda al vero o a questo più si avvicini,
nello stato presente delle nostre
cognizioni sull’ antichità classica, non
può con certezza affermarsi. Nemmeno un
cenno sull’autore della Germ. è pervenuto sino a noi; e tutto quello che ci è dato sapere in
proposito si può soltanto dedurre dal
contenuto della Germ. stessa 1. Nessun
dubbio, però, si può avere sulla romanità del1’ autore, il quale, in tutto
quanto scrive sui Germani, mostra che ha
costantemente l’attenzione volta alle condizioni morali, politiche e militari
di Roma, che talora gli son causa di
vive inquietudini. Ma degli scrittori
romani che trattarono delle relazioni, in pace e in guerra, dei Romani coi Germani, dopo quello che ne
aveva scritto il ‘ summus auctorum diuus
Iulius ?, ® ce ne sono parecchi, nel
primo secolo dell’ impero. * Tito Livio a
4 Qualcuno, spingendo all’ estremo le conseguenze del silenzio degli antichi
sul nome dell’a. della Germ., è giunto a negare l'autenticità del libro: vedi
quel che scrive in proposito A. GeFFRoy,
Rome et les barbares, étude sur la Germanie de
Tacite, Paris 1874, pp. 55-56.
2? Germ. 28, ì. 3 Vedi W.
ScHLEUSNER, quae ratio inter Taciti Germaniam
ac ceteros primi saeculi libros Latinos,in quibus Germani tangantur,
intercedere uideatur. Acc. loci quidam Amm. Marcellini. 1886. A. LUECKENBACH,
de Germaniae quae uocatur Taciteae fontibus. Marb. 1891. A. GUDEMAN, the sources of the Germania of Tacitus, in
Transactions and proceedings of the
American philological association, 1909, vol. XXXI, pp. 93-111. aa veva già trattato dei Germani nel corso
delle sue storie, scrivendo delle imprese di Giulio Cesare! e delle spedizioni di Druso. ? Dello stesso argomento
si era certamente dovuto intrattenere l’imperatore Ottaviano Augusto, tanto
nelle sue memorie, * quanto nell’elogio che
egli scrisse per il figliastro Druso 4; e, dopo Ottaviano, anche Vipsanio Agrippa nella sua autobiografia
*; Giulio Marato, liberto e biografo di
Augusto $; e forse Cremuzio Cordo ne’
suoi libri de rebus Augusti ?: chè
notevoli furono, durante l’ impero augusteo, i conflitti tra Romani e Germani. Di poi Velleio
Patercolo, menzionata la disfatta di Varo, promise intrattenersi dei Germani. * Non potevasi escludere un cenno
della poli l Vedi il principio
dell’epit. del 1. CIV : ‘ prima pars libri situm Germaniae moresque continet
’. ? Epitomae dei Il. CKXXVII,
CXXXVIII, CXXXIX e CXL. 8 Sveron. Aug.
85; Claud. 1. Cf. G. BERNHARDY, Grundriss d.
r L.5 $ 46,261. TEUFFEL-SCHWABE, G. d. r. L. 5 $ 220, 3,468. 4 Vedi l’ epit. ll CXL di Livio. Sveron.
Claud. 1. Cass. Dion. r. Rom. LV 2,
2. 5 Intorno all'autobiografia di
Agrippa vedi la menzione che ne fa Serv.
comm. in Verg. georg. II 162,235, vol. 3°, fasc.
1°, rec. Th. 6 SveToN. Aug. 79. 7 Vedi SEN. dial. VI 1, 3; 22,4; 26,1 e 5. Tac. ann. IV 34 e 35. Cass. Dion. r. Rom. LVII 24, 1-4. Sveron.
Tib. 61; Calig. 16. Neli’ ed. Bonnell di
QvinTIL. X 1,04, vol. 2°,163 non si fa
menzione di Cremuzio Cordo; e dove alcuni pretendono leggere ‘ nec immerito
Cremutii libertas '’, lo Zumpt coi migliori
codd. legge: ‘nec immerito remitti ( cod. Bamb ‘ rem uti ’ ) lib., dix. uel noc. * 8 VeLL. PaTERC. A. R. II 119 ‘“ordinem
atrocissimae calamitatis , qua nulla post Crassi in Parthis damnum in externis
gentibus grauior Romanis fuit, iustis uoluminibus ut alii, ita n 0 s conabimur exponere: nune summa deflenda est’
(Halm). di tica romana, quanto alle relazioni coi
Germani, nelle autobiografie degli
imperatori Tiberio ! e Claudio * ; e di
proposito si dovette trattare delle lotte, sì varie e persistenti , contro i Germani negli scritti
di Cornelio Lentulo Getulico, che fu a
capo delle legioni della Germania superiore 3, e nei commentarii di Cn. Domizio Corbulone , che fu anche’ a capo degli
eserciti romani in Germania e mosse
guerra contro i ‘Chauci?. ' Nè può
presumersi che le importanti vicende delle armi
romane nella Germania siano state lasciate senza alcuna menzione nelle Ristoriae di Cornelio Bocco,
Servilio Noniano, Cluvio Rufo *, Fabio Rustico e di altri istoriografi, ai
quali pare che si debbano riferire le affermazioni generiche ‘ memorant , ‘
quidam opinantur ’, ‘ adhuc extare ’, che si notano nel cap. 3° della
Germ. Storicamente è accertato che
trattarono dei Germani e delle guerre
germaniche Aufidio Basso e ©. Plinio
Secondo. Il lavoro di Aufidio Basso aveva per titolo belli germanici libri", e probabilmente
formava parte 1 Sveron. Tib. 61; Dom.
20. 2 Sen. lud. de m. Claud. 5, 4.
PLIN. n. Ah. XII 17 (39), 78 Sveron.
Claud. Al. 8 Cass. Dion. r. Rom. LIX
22, 5: cf. SveToNn. Galb. 6. Ma il Jahn
(Pers.CXLII) ammette che Lentulo Getulico non abbia scritto propriamente una storia, sibbene un
carme sulle spedizioni contro i Germani ed i Britanni. 4 Tac. ann. XI 18 e 20. 5 Il GIORDANI, studi sopra Tac., crede che
si accenni a Cluvio Rufo nel celebre
elogio di QvintIL. i. 0. X 1, 104 ‘superest adhue et exornat aetatis nostrae gloriam uir
saeculorum memoria dignus’, cet. Vedi opere di
P.G., pubblic. da A. Gussalli, vol. 12°,
pag. 215; Milano, Sanvito, 1857, 6
QUvINTIL. i. 0. X ], 103. Vea d’un altro lavoro storico più ampio, scritto
da lui stesso !. Plinio Secondo narrò in
libri trentuno @ fine Aufidii Bassi la
storia de’ suoi tempi, in continuazione di quella scritta da A. Basso ?, e
perciò vi dovette includere la trattazione delle relazioni dell’ impero coi
Germani: dovette in particolar modo trattare di tali relazioni nei due libri de
vita Pomponii Secundi, il quale fu
legato in Germania sotto Claudio, e, per
la vittoria sui ‘Chatti’ devastatori; si ebbe lo onore del trionfo. Plinio scrisse inoltre
venti libri bellorum Germaniàe! o
Germanicorum bellorum î, nei quali
trattò (ripetiamo le parole del nipote di lui, Plinio il giovane) ‘omnia quae
cum Germanis gessimus bella”.6 La storia pliniana delle guerre germaniche si
conservò in Germania sino al sec. XVII;
poi sparve e non se n° ebbe più notizia: ma non si è perduta la speranza che il prezioso ms. si
possa ritrovare, ? 1 TEUFFEL - ScHWABE, G. d. r. L.5 S 277,
2,664. CL R. NicoLa1, G. d. r. L.
Magdeb. .1881, n. 107,616,
? PLIN.n. h,, praef. 20. PLIN. epist. III 5, 6: vedi anche V_ 8,5, 3 PLIN. epist. II 5, 3. Tac. ann. XII 27 e 28, 4 PLIN. epist. III 5,4. 5 Tac. ann. I 69,6. SyYMMACH. epist. IV 18 ad Protadium, 152: ‘ enitar, si fors uotum
iuuet, etiam Plinii Secundi Germanica bella conquirere”. 6 PLIN. epist. III 5, 4. La frase di Plinio
il giovane è ripetuta da Suetònio :' ‘bella’ omnia, quae unquam cum Germanis
gesta sunt, XX uoluminibus comprehendit’: v. C. SveTon. TRANO. deperditorum
librorum reliquiae, ed. Roth, 1882, 300. i
© H. F. Massmann; Germ. des C. Corn. Tac., Quedlinburg u. Leipzig 1847,179, noja 6, riferisce un passo
dei monumenta ME Sicchè non sarebbe fuor di luogo il
supporre che quanto si contiene nel
libretto de origine et situ Germanorum avesse potuto, per intiero o in parte,
in una forma identica a quella con cui è
pervenuto sino a noi o alla stessa
somigliante, costituire, come un’introduzione geo-etnografica o in altro modo,
parte integrante dei lavori storici sulla Germania di Aufidio Basso o di Plinio Secondo; e particolarmente di
quest’ ultimo che, oltre al continuare
l’opera di Basso, trattò più ampiamente
e, con migliore e più esatta conoscenza dei
fonti e dei fatti il tema delle guerre germaniche. Se non che ad ammettere ciò pare che contrastino
alcuni luoghi notevoli del testo della
Germ., poichè in essi, secondo quel che
comunemente affermasi, si menzionano fatti posteriori alla morte di Plinio
Secondo (a. 79 d. Cr.). Infatti, nelle
parole ‘ac rursus inde pulsi ( sc.
Germani) proximis temporibus triumphati magis quam uicti sunt” (Germ. 37, 26) si vuol vedere
un’allusione al trionfo di Domiziano sui
‘Chatti?, a. 83 d. Cr.! Si pretende
riconoscere nelle parole del cap. 42, 9 della
Germ. ‘raro armis nostris, saepius pecunia iuuantur ’ (sc. Marcomani et Quadi), l’usanza invalsa
sotto Domi Paderbornensia del
FuEeRsTENBERG: ‘Plinii XX uwolumina de
bellis Germanis... quae Conr. Gesnerus Augustae Vindelicorum, alii Tremoniae in Westphalia apud Casparum
Swarzium patricium Tremoniensem exstitisse tradiderunt’. La nota del Massmann è ripetuta dal Geffroy, op. cit.,85,
n. 3. 1 Sveron. Dom. 6 ‘de Catthis
Dacisque post uaria proelia duplicem
triumphum egit’. Cf. Dom. 13, in fine. Le monete in cui si dà a Domiziano il tit. di ‘Germanicus’
sono del principio dell'a. 84. Vedi EcKkHEL VI 378; 397: e MommsEN-DE RuGGIERO,
le prov. rom. da Ces. a Dioclez., Roma, 1887; cap. IV, 139, e nota 1* nella
stessa pag. 7 ziano di dar danaro ai capi dei barbari per tenerseli: ubbidienti e dar loro i mezzi di accrescere
il numero dei partigiani dei Romani. !
Si scorge nel cap. 45 della Germ. un
accenno intorno alle notizie sulle. regioni
nordiche, pervenute a Roma dopo la spedizione di Giulio Agricola ?. Osservasi inoltre che
l’annessione dei campi decumati,
indicata nel cap. 29, 19 Germ. con le parole
‘mox limite acto promotisque praesidiis sinus imperii et pars prouinciae
habentur (sc. agri decumates)’, si compì
al tempo di Domiziano o di Traiano, 3 Si fa menzione nel cap. 33 Germ. dello
sterminio dei ‘ Bructeri/, che vuolsi
avvenuto verso l’ a. 100 d. Cr. Infine si. adduce come prova evidentissima che
la Germ.. fu scritta e pubblicata verso
la fine del secolo I d. Cr., il computo degli anni presentato nel cap. 37, 6
per, indicare la durata della lotta coi
Germani: ‘sescentesimum et quadragesimum
annum urbs nostra agebat, cum primum Cimbrorum audita sunt arma...... ex quo si
ad alterum imperatoris Traiani
consulatum computemus, ducenti ferme et
decem anni colliguntur *. Consideriamo
l’ uno dopo l’altro i ll. citati..
I. Germ. 37, 23 ‘ mox ingentes
Gai Caesaris minae in ludibrium uersae.
inde otium, donec occasione discordiae nostrae et ciuilium armorum expugnatis
legio 1 Cass. Dion. r. Rom. LXVII 7, 3-4
(Xiphil.). 2 Tac. Agr. cc. 10, 12 e 33
in fine. 3 Così affermasi nei comm.
alla Germ: di I. F. K. Dilthey
(Braunschweig 1823,187 sg.), di Th, Kiessling (Lps. 1832, 119 sg.). di
U. Zernial (Berl. 1890,60), di A. Pais (Torino
1890,49), di G. Marina (Romania e Germania ovvero il mondo germanico secondo le relazioni di Tac.,
Trieste 1892, 97), etc. RR era num hibernis etiam Gallias adfectauere; ac
rursus inde pulsi proximis temporibus
triumphati magis quam uicti sunt’. Nella
lotta, dunque, contro i Germani, il passo
cit. ci rappresenta successivamente i sgg. fatti : a) la spedizione poco seria di Caligola; d) la
sospensione di qualsiasi spedizione
militare sotto Claudio e Nerone; c)
l'insurrezione dei ‘ Bataui ” guidati da Giulio Civile, la quale si estese anche alle Gallie ; d) un
trionfo di nessuna importanza, sui
barbari. Tale trionfo non può essere
altro che soltanto quello di cui menò vanto Domiziano sui ‘ Chatti ’ ? A noi
pare, invece, che l’ autore abbia voluto riferirsi ai vantaggi, di poca
efficacia e poco duraturi, riportati
dalle armi di Vespasiano sui ‘‘Bataui’ e
sugli alleati di questi. Se, in vero, l’autore
avesse voluto riferirsi al trionfo di Domiziano, non avrebbe certamente
tralasciato di menomarne, in un modo
qualsiasi, 1’ importanza, come appunto si legge nel de uita et moribus Iulii Agricolae * e in altri
scritti che menzionano o fanno allusione
alla vantata vittoria di Domiziano. * Si
aggiunga che l’ autore, avendo mal animo contro Domiziano ; se per Caligola
disse poco prima, notando il ridicolo
delle imprese di lui contro 1 Tac.
Agr. 39, 3 scrive di Domiziano: ‘inerat conscientia derisui fuisse nuper falsum e Germania
triumphum, emptis per commercia, quorum
habituset crines in captiuorum speciem
formarentur. ’ ? PLIN. pan. 16,
3 ‘accipiet ergo aliquando Capitolium non
mimicos currus nec falsae simulacra uictoriae, sed imperatorem ueram ac
solidam gloriam reportantem ’ e. q. s. Cass. Dion. r. Rom. LXVII 4, 1. Oros. hist. adu. pag. VII
10, 3 e 4. Loda, invece, MARTIAL, ep.IX
6; e FRONTIN. sfrat. I 1, 8; 3, 10. II 3,
23; 11, 7. IV 3, 14 (ed. Gundermann) mostra di non dubitare menomamente dell’ importanza della spedizione
di Domiziano, i. Gas i Germani : ‘ ingenies Gai Caesaris minae
in ludibrium uersae ’, ! avrebbe scritto
parole più gravi contro Domiziano , ove avesse voluto DIADIESI alla iattanza
di EI imperatore. D’ altro canto, la frase ‘ proximis
temporibus triumphati magis quam wicti sunt" non può riferirsi all’ onore
trionfale concesso, nell’a. 50 «dd. Cr., a Pomponio Secondo che aveva
sottomesso i ‘ Chatti ’ e liberato, dopo
lunghi anni di cattività, alcuni dei soldati -di Varo, caduti prigionieri nella battaglia di
Teutoburg ?; poichè l’ insurrezione dei ‘ Bataui ’, dilatata nelle Gallie, alla quale si accenna con le parole ‘
expugnatis legionum hibernis etiam Gallias adfectauere ’, * è posteriore di circa venti anni alla vittoria di Pomponio
Secondo. E però le parole citate del
testo della Germ. ‘ proximis temporibus triumphati magis quam uicti sunt’, non possono che riferirsi al tempo in cui
Vespasiano riusciva a sedare l’
insurrezione batavica; e, sebbene
intorno a ciò non sia dato d’ avere dirette notizie da Tacito, perchè le historiae di lui restano
interrotte nel lib. V 26, appunto quando
lo storico insigne si accingeva a
trattare della fine dell’insurrezione di Civile,e della vittoria riportata
dalla politica di Vespasiano sulle sedizioni germaniche, pure il trionfo di
Vespasiano sui ‘ Bataui? e i loro alleati germanici è indicato chiaramente dalle parole ‘ uidimus sub diuo Vespasiano
Velaedam diu apud plerosque numinis loco
habitam ? (Germ. 8, 8). 1 Lo stesso
apprezzamento notasi in Tac. Agr. 13,11. rist. IV 15, 9. Cf. A. RIESE,der Feldzug des Caligula
an der Rhein, in Neue Heidelberger
Jahrbicher, vol. VI, fasc. 2. i 2 Tac.
ann. XII 28. 3 Vedi anche Tac. hist. IV
17 e V 26. 40 Veleda, vergine fatidica di nazione
bructera, ebbe, come è noto, una parte principalissima, insieme col suo popolo e con altri popoli germanici, nel
movimento insurrezionale sollevato da Civile. ! Essa fu, dunque, veduta a Roma,
non pregiata nè tenuta in onore da
Vespasiano, come fu poi onorata da Domiziano la vergine Ganna, che a lei
succedette nell’ arte del vaticinio ?, ma prigioniera *, probabilmente
incatenata presso al carro trionfale del vincitore. 4 Un’altra ragione c’induce ad ammettere che
nel passo considerato della Germ, si
tratti del trionfo di Vespasiano, verso l’a. 70 d. Cr, e non di quello
arrogatosi, insieme col titolo di
Germanico >, da Domiziano. I popoli
che presero parte all’ insurrezione di Civile
furono, anzi tutto , i ‘ Bataui”, ai quali si unirono i ‘ Canninefates’, i ‘ Frisii”, i ‘ Bructeri”,
i ‘ Tencteri”, etc.0 Essi prevalsero da
prima, mentre Roma era dilaniata dalle
guerre civili tra i pretendenti all’ impero, tanto che ‘expugnatis legionum. hibernis etiam
Gallias adfectauere ?. Perciò gl’insorti, di cui immediatamente dopo 1 Tac. hist. IV 61; 65. V 22; 24. 2 Cass. Dion. r. Rom. LXVII 5, 3 (Xiphil.). 3 STAT. silu. I 4, 89 sgg. ‘non uacat
Arctoas acies, Rhenumque rebellem, | captiuaeque preces Veledae, et (quae maxima nuper | gloria) depositam Dacis
pereuntibus arcem | pandere’. Vedi MommsEN-DE RucGIERO, op. cit., cap. IV, pp. 132 e 135.
4 U. Zernial, commentando la voce ‘ uidimus’ del |. c.,30, dice esplicitamente: « Wir haben gesehen, n.
zu Rom, auch Tacitus selber, der sich
des etwa im 15. Lebensjahre gesehenen
Triumphes ueber die Bataver sehr wohl erinnern konnte ». 5 Sveron. Dom. 13. 6 Tac. hist. IV 15; 16; 21. Leida
sì dice ‘ rursus inde pulsi’ e. q. s., altri non sono che gli stessi ‘ Bataui ed i loro alleati, che
erano stati capitanati da Civile, e dei quali poi, stante il sopravvento delle armi di Ceriale, menò trionfo
Vespasiano, L° imperatore Domiziano , invece, si vantò del trionfo sui ‘ Chatti’, non sui ‘ Bataui ’. È vero che, in
origine , i ‘ Batani” furono ‘ Chattorum
quondam populus et seditione domestica in eas sedes transgressus, in
quibus pars Romani imperii fierent’ (
Germ. 29, 3); ! ma, al tempo
dell’insurrezione di Civile, erano del tutto separati dai ‘ Chatti” : e questi
non si trovavano uniti coi ‘Bataui’, già
abbattuti da Vespasiano, quando Domiziano
fece irruzione, al dire di Suetonio, ‘ sponte in Catthos ” ?. Non puossi, inoltre, non mettere in evidenza
che, se l’autore della Germ. avesse
voluto riferire le sue considerazioni d’ordine politico e militare a Domiziano,
non si sarebbe valuto di un’allusione
generica, spiegabile solo per chi scrive
in tempi di oppressione e di tirannide. Si conviene comunemente che la Germ,
sia stata: scritta e pubblicata verso il
98 d. Cr., allorchè ‘rara temporum
felicitate’, come scrisse Tacito stesso, ‘ ubi
sentire quae uelis et quae sentias dicere licet’ } 1° imperatore Nerva
aveva riunito ‘res olim dissociabiles,
principatum ac libertatem’, e l’ imperatore Traiano aveva accresciuto ‘ quotidie felicitatem
temporum’; sicchè ‘ nec spem modo ac
uotum securitas publica, sed 1 Vedi
inoltre Tac. hist. IV 12, 6 ‘ Bataui, donec trans Rhenum agebant, pars
Chattorum, seditione domestica pulsî extrema
Gallicae orae uacua cultoribus..... occupauere ’, 2 Sveron. Dom. 6. 3 Tac. hist. 1 1, 19. n ia
ipsius uoti fiduciam ac robur adsumpserit’!: e per tanto, sein un lavoro che si suppone scritto
prima della Germ., cioè nel de vita et
moribus Iulii Agricolae, lo autore, non
più preoccupato delle ‘conseguenze della
sua franchezza di linguaggio, chè i tempi di Domiziano erano finiti per sempre, dichiara, con frase
forse eccessiva, falso il trionfo di questo imperatore sui (Germani *, qual
motivo poteva avere l’autore della Germ.
per indicare la stessa cosa con una timida e lontana allusione, mentre si godeva da tutti piena
libertà ? In generale, poi, è da
avvertirsi -che la frase più volte
citata ‘triumphati magis quam uicti sunt ’, se indubitabilmente è detta per i ‘
Bataui” ed i loro alleati, nel pensiero
dell’ autore si doveva eziandio estendere
dalla bravura dei ‘Bataui’ all’indomabile fierezza dei Germani. Dello stesso modo Floro, riferendosi
al breve gaudio delle vittorie di Druso
in Germania, ne concludeva in generale : ‘ quippe Germani uicti magis quam
| domiti erant ’?. II.
Quanto ai ‘ Marcomani’ ed ai ‘ Quadi’ si avverte, nel. cap. 42 della
Germ., che avevano avuto prima i loro re della nobile stirpe di Maroboduo e di
Tudro, ma che poi avevano accolto re stranieri, il cui potere fondavasi
sull’autorità di Roma : questi re, si conclude nel cap. cit., ‘ raro armis
nostris, saepius pecunia iuuantur, nec minus ualent’. Chi siano stati i ‘ reges externi’ imposti da Roma ai ‘
Marcomani ’ ed ai ‘Quadi ’, non ci è
dato saperlo, perchè i fonti fin qui noti
1 Tac. Agr. 3, 2-6; cf. 44, 15, ?
Tac. Agr. 39, 4: cf. la nota precedente.
3 FLOoR, epit. II 30 (IV 12, 30), pag. 101, ed. Halm, non soccorrono per
determinare ne’ suoi particolari il
pensiero enunciato dall’autore !; e di conseguenza non ci è noto in che modo e in qual tempo gli
imperatori romani li abbiano giovati con armi o con danaro. Ma è inesatto affermare che l’usanza di dare ai
principi dei Germani armi o danaro, per
acquistare dei partigiani e sostenere
l’autorità dell’ impero sopra i barbari, sia
cominciata sotto Domiziano *; poichè fin dal 47 d. Cr. l’imperatore Claudio aveva mandato Italico,
nipote di Arminio, a regnare sui ‘
Cherusci”, ‘auctum pecunia, additis
stipatoribus’*; e al tempo dell’ insurrezione di Civile, a. 70, si osservava: ‘Germanos....
non iuberi, non regi, sed cuncta ex
libidine agere; pecuniamque ac dona, quis solis corrumpantur (sc. Germani),
maiora apud Romanos”.* Di modo che il passo
di Cassio Dione, nel quale si dà la notizia che Domiziano mandò a
Decebalo danari e operai abili nei di !
Per i tempi posteriori a quelli in cui fu scritta la Germ. si noverano soltanto i re dei ‘Quadi’ Viduarius,
a. 358 (Amm. Marc. r. g. XVII 12, 21) e
Gabirius, a. 873 (id. XXIX 6,5. XXX, 5,3);
edi principi dei ‘Quadi’ Araharius (id. XVII 12, 12-16), Vitrodorus e
Agilimundus. A qualche commentatore della Germ. (cf. i comm alla Germ. del
Dilthey,265; del Kiessling,151; del
Pais, p: 64; etc.) è parso di scorgere
nella frase ‘iam et externos patiuntur' una probabile allusione a Vamnio, di gente queda, imposto da Druso
(a. 19) come re ai ‘Suebi’ (Tac. ann. II
63. XII 29): e ciò può ben darsi, ma
l'accenno sarebbe sempre riferito ad un fatto anteriore al tempo in cui imperò Domiziano. 2 V. i comm. alla Germ. del Dilthey,265; del
Kiessling, 151 sg.; del Pais,64; del Marina,132. 3 Tac. ann. XI 16, 6. 4 Tac hist. IV 76, 9. Lo stesso concetto
notasi in HERODIAN. de Rom. imperatorum
uita et rebus, VI 7. FI Pn versi mestieri sì in pace che in guerra,
devesi coordinare ermeneuticamente coi ll. citati sopra, e concluderne che
anche prima del 79 d. Cr. si era messa
in atto dagli imperatori romani la politica dei sussidi di armi e
danaro, verso i barbari. III. Nel cap. 45 della Germ. si leggono le
sgg. notizie: ‘ trans Sitonas aliud
mare, pigrum ac prope immotum, quo cingi
cludique terrarum orbem hinc fides, quod extremus cadentis iam solis fulgor in
ortum edurat, adeo clarus, ut sidera
hebetet; sonum insuper emergentis audiri
formasque equorum et radios capitis
adspici persuasio adicit. illuc usque, si fama uera,tantum natura’.*
Vuolsi che tali notizie siano pervenute
dal libro de vita et moribus Iulii Agricolae, al cui autore furono riferite da Agricola stesso,
reduce dalle guerre di Britannia, non
prima dell’a. 85 d. Cr., cioè sei anni
circa dopo la morte di Plinio Secondo. Infatti,
quanto al ‘ mare pigrum ac prope immotum ’, leggesi nell’ Agr. 10, 18: ‘sed mare pigrum et graue
remigantibus perhibent ne uentis quidem perinde attolli ?. Che ivi fosse il limite del mondo ‘ cludique
terrarum orbem ’, riscontrasi in una
frase del discorso di Agricola ai soldati: ‘nec inglorium fuerit in ipso
terrarum ac naturae fine cecidisse’ (Agr. 33, 26). E il fenomeno che osservasi
nelle regioni nordiche *, cioè : 1
Cass. Dion. r. Rom. LXVII 7, 3-4 (Xiphil.).
2 Secondo la recens. Halm e la recens. Io. Mueller. 3 Alcuni commentatori della Germ. (v.il
comm. di U. Zernial, 87; e l’op. cit. del Marina,138 in fine e p.. 140 in
principio, censurano l'autore di essa per aver confuso il nord della Britannia con la Scandinavia; ma la censura
non è giusta, Masini Ae ‘
extremus cadentis iam solis fulgor in ortum edurat, adeo clarus, ut sidera hebetet’, è accennato
nel cap. 12, 9 dell'Agr.: ‘ nox clara et
extrema Britanniae parte breuis, ut finem atque initium lucis exiguo
discrimine internoscas ?. La rispondenza che abbiamo riportata intera
tra le notizie riferite nella Germ. e le
notizie consimili che presenta il libro
de v. et m. I Agricolae, non porta di
conseguenza che l’autore dell’una abbia attinto alle notizie esposte nell’altro libro, ma dà
argomento ad ammettere che tanto chi
scrisse la Germ. quanto l’autore dell’Agr. attinsero le loro notizie agli
stessi fonti, che per questo ultimo
furono confermati dalla narrazione fatta da ‘Agricola, al ritorno dalla
Britannia. E di tali fonti comuni alcuni
sono pervenuti sino a noi, e rendono
agevole il riconoscere che le notizie recate in
principio del cap. 45 della Germ. erano già acquisite alla coltura generale, prima ancora della
spedizione di Agricola in Britannia. Il celebre viaggiatore Pytheas (a. 330 circa
a. Cr.) indica il mare che nella Germ. è
detto ‘pigrum ac prope immotum ’, con la
designazione ‘ pepegyia thàlassa ’.! Anch’egli dovette far menzione delle
chiare notti estive delle regioni
settentrionali, poichè osservò che nell’
estrema Thyle si alternavano nel corso dell’anno sei mesi senza notte e sei
mesi senza giorno *. perchè il
fenomeno della breve durata e della chiarezza delle notti estive osservasi ugualmente tanto
nell’un paese quanto nell’ altro. Cf. Ven. Bepa, hist gentis Anglorum I 1, col.
1jin operum tomus tertius, Colon. Agrip. 1612. 1 STRAB, geogr. I 4,
2 (C. 63), ed. Meineke, v. 1°,82. ?
Prin. n. A. II 75 (77), 187. AE Plinio, movendo dalla osservazione sulle
chiare notti estive in Britannia, cerca
dare una spiegazione del fenomeno notato da Pytheas : egli scrive ‘ aestate
lucidae noctes haut dubitare permittunt, id quod cogit ratio credi, solstiti diebus accedente sole propius
uerticem mundi angusto lucis ambitu
subiecta terrae continuos dies habere
senis mensibus, noctesque e ‘diuerso ad
brumam r emoto ’.' A Plinio si deve anche la divulgazione della rotizia,
che poi venne, probabilmente, confermata dalla relazione orale o scritta di
Agricola, sul ‘mare pigrum ac p. i.’:
egli lo dice ‘mare concretum ?, ed avverte che da alcuni era chiamato ‘ Cronium
’? e che, secondo Philemon, quella parte del
mare che precedeva il ‘ Cronium ’, sino al promontorio ‘ Rusbeae ’,3 era detto dai Cimbri
‘Morimarusa ’, cioè .‘mortuum mare ?’.*
Ma prima di Plinio si era già osservato da Seneca padre che ai confini del
mondo era l’oceano, e dopo questo il
nulla”: concetto che trovasi ripetuto in
parte nella frase della Germ.:* illuc usque,
si fama uera, tantum natura ’; alla quale risponde la frase dell’Agr.: ‘in ipso terrarum ac naturae
fine ”. Resta la difficoltà dell’inciso
‘si fama uera”’, in cui parrebbe
contenersi un accenno alle notizie sull’ alto
1 Prin. n. h. L’ osservazione è ripetuta. ? PLIn. n. A. Vsque ad promunturium
Rusbeas': così nei codd. Leidens. (A),
Riccard. (R), Paris. 6797 (d) e nelle edd. Detlefsen (Berol. 1866), L. Jan (Lips. 1870). ‘ Roudoas’ è
dovuto a correzione di seconda mano nel
cod. Leidens. Lips. 7 (F). Solino
(coll. r. m. 19, 2, rec. Mommsen) lo
trascrive ‘ad promunturium Rubeas”’ 4
PLIN. n. Ah. IV 13 (27), 95. 5 SEN. RHET. suas. I 1,2, ed. Kiessling.
= If. nord, conosciute meglio a
Roma ovvero positivamente confermate da
Agricola dopo il suo ritorno dalla Britannia. Nei codd. leggesi veramente ‘et
fama uera’, che non pochi dei moderni
edd. della Germ. hanno ripresentato. La sostituzione della cong. ‘si’ all’
‘et’ è dovuta ad una congettura del
Grozio ; cosicchè se, per tale
congettura, si può presumere che l’autore voglia presentare un suo dubbio, che
valga a mettersi in contrasto con le
voci ‘ persuasio ’ e ‘ fides ’, con le quali
si annunziano certi fenomeni naturali, quali il rumore del sorgere del sole, le forme dei cavalli e dei
raggi del capo del sole stesso, e lo splendore dei raggi solari persistente fin
dopo il tramonto e tanto da oscurare le
stelle; ogni dubbio si elimina con la lezione ‘et fama uera’, che dà per indubitato il limite del
mondo in quel ‘mare pigrum’, con cui si
cinge e si chiude lo orbe terrestre. Nè
da tale conclusione è possibile allontanarsi, ammettendo col Dòderlein lo
spostamento delle parole ‘et fama uera’
dopo ‘natura’, di modo che l’ intera
frase suoni: ‘illuc usque tantum natura,
et fama uera’. Il Ritter, invece di tentare di risolvere la questione,
la tronca, chiudendo tra parentesi quadre tutta la frase ‘illuc usque, et fama
uera, tantum natura ’.! A noi pare che
si debba, anzi tutto, tener presente l’
avvertenza del Massmann: “libri impressi
iungunt vera tantum natura’.* E, d’ altro canto, 0sservando che nel cod.
Rom. della bibl. Angelica (Augustinorum) Q 5,12 manca la voce ‘usque’ e
stanno 1 P. Cornelii Taciti opera
recensuit FRANCISCvs RITTER, Lps.
1864,651. ? MASSMANN, Op.
cit.,129, nota 23 ConsoLi : ZL’ autore
della Germania. : cy LA accanto ‘illuc ‘ut’, e osservando inoltre che
la particella ‘‘ut’ è data ‘anche,
invece di ‘ et’, dal cod. Florent. della
Laur. 73,20 e dal Vatic. 655, se ne deduce evidentemente che la frase della Germ. dovette sonare: ‘
illuc, ut fama, uera tantum natura’. ! E
con lo scrivere ciò l’ autore non si
propose affermare alcuna cosa sulla verità o me‘‘no delle notizie attinte per
fama intorno all’ argomento studiato, ma
soltanto mirò ad indicare con l’espressione ‘ut fama” un concetto di
limitazione a quanto si soleva affermare
rispetto ai termini del mondo (‘na‘tura ’ ); concetto consimile a quello
significato prima, in rapporto allo
splendore ed alle parvenze del sole, con
le voci ‘fides? e ‘persuasio’. Del
resto, ove non si vogliano accettare le varianti ‘ dei codd. sopra citati, si può sempre
pervenire alla medesima conclusione,
conservando la lez. ‘illuc usque, et
fama, uera tantum natura’; che vale « la natura
vera, ossia il mondo reale, ? si estende fin là soltanto: tale ne è anche la ‘fama ». Talchè l’inciso
‘et fama ’= ‘et fama haec est’ vale a
mostrare che era general‘ mente noto che si estendevano sino a quel punto,
non oltre, i limiti della ‘natura reale. IV.
Per garentire i confini dell’impero dalle in.cursioni dei barbari, si
cominciò a costruire, anche dalla 1 Il
Nipperdey, leggendo ‘usque et fama, ultra tant. nat. ’, conviene, in parte, nello stesso concetto,
togliere, cioè, a ‘ fa‘ma’ l’epiteto ‘‘uera’.
2 ‘“Verus’ non indica soltanto la qualità di ciò che si fonda sulla ‘verità, ma rappresenta anche la
qualità di tutto ciò che ha per base la
realtà o, per ripetere le parole del-GEoRGES,
ausfihrl. Handiob, II 3093, « in der Wirklichkeit begrindet, *wirklich », PERS (3 pe parte del Reno, un ‘limes’ o via fortificata,
per lo più munita di argini (‘aggeres ’)
e di stazioni di guardia (‘praesidia’)',
sotto l’impero di Tiberio ®: fu continuato e probabilmente portato a compimento
sotto Adriano. L’autore della Germ. dà per il primo, anzi il solo, la notizia
che gli ‘agri decumates ’, siti al
sud-ovest della Germania, tra l’ alto Reno e le
sorgenti «lel Danubio, e sui quali il fisco riscoteva, forse, un diritto
di decima dai possessori, ‘ vennero incorporati all’ impero; onde, per la
difesa del territorio annesso, il
‘limes’ insieme coi ‘ praesidia’ si portò
innanzì, oltre il Reno; e però i campi decumati ‘ sinus imperii et pars prouinciae habentur ? (Germ.
29, 19). Quande si fece tale spostamento
? Alcuni dei commen 1 TH. MommsEn, der Begriff des Limes, in
Westdeutsche Zeitschrift fiur Geschichte u. Kunst, a. XIII, fasc. 2°. Vedi inoltre MommsEN-DE
RucGiIERO, op. cit., cap. IV,115, nota l.
2 Tac. ann. I 50, 3 ‘limitemque a Tiberio coeptum”’. II 7, 11 “et cuncta inter castellum Alisonem ac Rhenum
nouis limitibus aggeribusque permunita’ (a. 16 d. Cr.). 8 Cf. SPARTIAN. Hadr. 12, 6; in scriptt. hist. Aug. I p. 14, ed. H. Peter.
Nell'op. cit. MomMseNn-DE RuGGIERO, cap. IV, p. 142, si fa menzione di nuove costruzioni aggiunte
ai ‘ limites’ sotto i regni di Adriano, Antonino Pio e Marco Aurelio.
Notasi inoltre, in un discorso del
console Velio (Vettio ?) Cornificio
Gordiano (a. 275), che alla morte di Aureliano i Germani ruppero il ‘
limes’ transrenano ed invasero alcune forti e ricche città dell'impero: v. Vopisc. Tac. 3, 4, in scriptt. hist. Aug. XXVII p. 187, ed. P. 4 GEFFROY, Op. cit., p. 318 sg. Ma il Mommsen giustamente avverte
che « nè è linguisticamente provato che ‘decumas’ possa significare obbligato alla decima, nè
simili istituzioni son note nell'impero
». Vedi MommsEN-DE RucGIERO, op. cit., cap.
IV, p. 141, nota 11, ELI tatori della Germ. si affrettano ad indicare
il tempo di Domiziano o, in generale,
verso la fine del I sec. ed il principio
del II. ! Tale indicazione porterebbe di
conseguenza che l’autore della Germ. avesse atteso a scrivere il suo lavoro sotto Domiziano o nei
primi tempi dell’ impero di Traiano, in ogni caso dopo l’a. 79. Ciò pare a noi inesatto. Infatti, Domiziano se, per ingannare l’
opinione pubblica, aveva celebrato pseudo-trionfi sui Germani, non ignorava, d’altro canto, che per un mero caso
(cioè, la piena del Reno) aveva superato
la sedizione di L. Antonio, preside della Germania superiore, ? e che ai
confini i suoi eserciti erano stati sopraffatti dai barbari; * talchè, piuttosto che estendere i confini
dell'impero di là dal Reno, per
annettere al suo dominio gli ‘ agri decumates’, avrebbe stimato gran ventura
conservare i confini di prima, senza spingere in avanti il ‘limes’ ed i ‘ praesidia ’. È supponibile che si estendano
i confini del dominio, allorquando ci
sia la possibilità che i nemici vinti
lascino agio di spostare le antiche linee di difegno SM nuove opere militari a
garentia del territorio acquistatà sl ma
quando i nemici sono vincitori e
minacciosi, com@nsi può mai deliberare e
attuare l'accrescimento del terytorio dello Stato ? Non vi ha nemmeno notizia cha setto Traiano
siano stati inclusi dentro i confini
dell'im € gli “agri decu 1 Vedi i comm.
del Dilthey, p. 188; dello ernia, p. 60; del
Pais, p. 49; del Marina, p. 97; etc. x
2 SvETON. Dom. 6 3 Oros. hist.
adu. pag. VII 10, 3 e 4. Orosio &ità in proposito la storia, che or più non abbiamo, scritta da
Cornelio Tacito sulle imprese di
Domiziano. Cf. Tac. ann. XI 1 4
REI (RT mates’. Se Tacito avesse
scritto qualcosa in proposito, narrando
la storia degli imperi di Nerva e di Traiano,
come egli aveva promesso di fare, riserbando il lavoro per gli anni senili,* certo gli storici
posteriori che si valsero delle storie
tacitiane, lo avrebbero in un modo
qualsiasi ripetuto o, almeno, accennato. Si ha, invece, un’affermazione in contrario nel seg. luogo
di Orosio: ‘mox Germaniam trans Rhenum
in pristinum statum reduxit’? Avendo,
per tanto, Traiano restituito le cose
oltre il Reno allo stato pristino, l’illazione non è dubbia, che anche
gli ‘ agri decumates’, siti di là dal Reno,
dovettero ridursi, in conseguenza dei prosperi eventi delle armi imperiali, alla condizione
anteriore, di essere, cioè, ‘sinus imperii et pars prouinciae’. Perciò non si può non inferirne che l’ annessione
dei ‘ decumates ’ all'impero dovette compiersi prima del regno di Traiano, giacchè questi si restrinse a
ridurre la ‘ Germaniam trans Rhenum in pristinum statum”. E poi, se è vero che
Traiano, per un sentimento di vanità indegno di
un prode e glorioso imperatore, avesse fatto scolpire il suo nome sui monumenti eretti per
conservare la memoria di imprese da
altri anteriormente compite, ‘non ut
ueterum instaurator sed conditor’, tanto che
ne avesse avuto il nomignolo ‘ herba parietina ’,* certo si dovrebbe
restare perplessi, ove mai nei campi
decumati o altrove si trovasse qualche memoria lapidea concernente l’annessione dei campi sopra
menzionati, 1 Tac. hist. I 1, in
fine. ? Oros. hist. adu. pag. VII 12,
2. 3 Amm. Marc. r. g. XXVII 3, 7. Cf.
ex Sexto Aur. Victore de uita et moribus
Rom. imperatorum epitome, Ven. 1586, f, 185,
SSR sì dovrebbe; dicevamo, restar
perplessi nell’ attribuire a Traiano:ciò
che prima di lui si era fatto. Se, dunque,
non si può non ammettere l’annessione
dei campi decumati all’ impero, anteriore ai regni di Domiziano .e di Traiano, non è fuor di luogo
il supporre che l’ abbiano attuata i due primi imperatori Flavi, e
probabilmente (poichè è noto che sotto Tito l’impero godè di una perfetta
tranquillità.) il solo Vespasiano, il quale, come avverte Tacito in un luogo
citato da Orosio; riaperse le porte del
tempio di Giano un anno dopo: che egli
stesso le aveva chiuse ?, avendo portato
a. compimento l’impresa contro i Giudei 8.
V. Nel cap. 33 della Germ.
narrasi che il territorio, posseduto un tempo dai ‘Bructeri ’, era stato
occupato dai. ‘ Chamaui’ e dagli ‘ Angriuarii’, posciachè i ‘ Bructeri?” erano stati ‘ penitus excisi
uicinarum consensu nationum, seu superbiae odio seu praedae dulcedine seu
fauore quodam erga nos deorum’; e si ag
1 Oros. hist. adu. pag. VII 9, 13.
2 Oros. hist. adu. pag. VII 19, 4: ‘quas (se. Iani portas) utrum post Vespasianum et Titum aliquis
clauserit, neminem scripsisse memini,
cum tamen eas ab ipso Vespasiano post
annum apertas Cornelius Tacitus prodat’ (ed. Zangemeister). 3 Oros. hist. adu. pag. VII 3, 8; 9, 9. Il
Mommsen ammette che la fondazione della
linea di confine, per la quale si comprese nell'impero la vallata del Neckar,
sia stata opera dei Flavi; ma la giunta
dubitativa « principalmente forse di Domiziano », messa li soltanto perchè, non essendosi
nominato nella Germ. l'autore della
linea di confine « è una prova che questi (l'autore) dovè. essere Domiziano »,
ci pare così priva di fondamento da non
potersi accogliere come notizia conforme al vero. Vedi MomwmsEN-DE RucciERO, op. cit., cap. IV, p.
142 e nota 2 in d.* P. 142. 93
giunge che di essi ‘super sexaginta milia non armis: telisque' Romanis, sed quod magnificentius
est, oblectationi oculisque ceciderunt’. Onde l’autore manda, come dice il Vannucci *, un « fiero e
spaventoso grido» di gioia », esprimendo
un « voto inumano »:: ‘ maneat, quaeso,
duretque gentibus, si non amor nostri,.at certe
odium sui, quando urgentibus imperii fatis nihil iam praestare fortuna maius potest quam. hostium.
discor= diam’. L’esterminio dei ‘ Bructeri’
si compì appunto, secondo l’
osservazione di qualche commentatore: della:
Germ., verso l’ a. 100.* In tal modo, annunciandosi! nella Germ. fatti avvenuti verso il 100 d.
Cr., il libro non potè essere scritto
prima dell’ a. 79. Risponde al vero tale
conclusione ? Noi sappiamo che i ‘
Bructeri’, come in’ generale tutte le
altre genti di stirpe germanica, si mostrarono costantemente avversi ai Romani
:? battuti prima dalle armi romane, ‘
cooperarono alla. distruzione:delle
legioni di Varo;* molestarono, insieme: coi ‘Tubantes’ e gli ‘ Vsipetes
’, la ritirata di Germanico che aveva tratto orrenda vendetta dei ‘Marsi’ (a.
14 d. i C. Corn. Tacito, tutte le
opere con note italiane compilate da A.
VANNUCCI, Prato 1848, vol. IV, p. 274, in nota. 2 Vedi i comm. del Kiessling, p. 127; del.
Marina, p. 105; etc. 8 Narra Suetonio
(Tib. 19) che un Bructero commise un: attentato contro la vita di Tiberio:
l'odio di nazione mutavasi in: odio
contro le persone. 4 VeLL. PaTERC. A.
R. II 105, 1. Cf. l'epit. L CXXXVIII di. T.
Livio. 5 Vedi GEFFROY, Op. cit.,
p. 230. MommsEN-De RuGGIERO, Op. cit.,
cap. I, p. 44: cf. p. 52. Cf. anche A. Wixms, das Sehlachtfeld im Teutoburger Walde, in Neue Jahrbùcher fùr
Philologie u. Paedag. CLIII p. I, fasc.
7; CLV p. I, fascec. 1, 26.3, ei) SR + gp
Cr.)!; ma furono, poco dopo (a. 15), sconfitti da L. Stertinio, che tolse loro l’aquila della 19.*
legione distrutta nella foresta di Teutoburg. ® E ancorchè, edotti dalla sventura e atterriti dalle armi
imperiali, avessero opposto un rifiuto alle insistenti sollecitazioni degli ‘
Ampsiuarii ’, che li incitavano a partecipare alla guerra contro i Romani (a 58 d. Cr.) 3, pure
non tralasciarono di unirsi con Giulio Civile, che aveva suscitato le fiamme
dell’ insurrezione nella Germania e
nella Gallia‘, e presero parte in diversi scontri contro i Romani. La vergine Veleda, che nell’
insurrezione di Civile seppe coi suoi
vaticini accrescere l’ardore patrio degli insorti, mediante il fanatismo
POMEIONA, era appunto di nazione
bructera. ‘ L’insurrezione dei ‘
Bataui’ e degli altri popoli che con
loro si erano levati in armi contro Roma, a poro a poco fu repressa, tra il 70 ed il 71 o 72
d. C. Nulla sappiamo della fine di
Civile : forse ottenne di vivere in
pace, sotto il dominio romano. Ma i compagni di
lui, Classico e Tutor duci dei ‘Treueri’, e i fratelli Alpinio Montano e D. Alpinio personaggi
autorevoli fra gli stessi ‘Treueri’,
forse si salvarono con la fuga, i
Tac. ann. I 51, 7. 2 Tac. ann. I 60,
10. Non sappiamo spiegarci perché nei loro
comm. alla Germ. lo Zernial (p. 65), il Marina (p. 104), etc. vogliano
indicare l'aquila della 212 legione, e il Dilthey (p. 198) l'aquila della 18°, quando le parole precise di Tac.
sono: ‘interque caedem et praedam
repperit (sc. L. Stertinius) undeuicensimae. legionis aquilam cum Varo
amissam'. 3 Tac. ann. XIII, 56. 4 Tac. hist. IV 21, 11. 5 Tac. hist. IV 77, 2. V 18, 4. 6 Tac. hist. IV 61 e 65. _ di forse si uccisero ciascuno di propria mano ';
Giulio Sabino, capo dei ‘Lingones ?’, fu mandato al supplizio ; ? e Veleda fu vista a Roma .dall’autore della
Germ. *, e, come sopra si è detto ',
prigioniera. Dopo il 71 o 72, i ‘
Bructeri’, vinti, dovettero sottomettersi alle condizioni imposte dai Romani
vittoriosì : non avevano più per ispiratrice e guida la fatidica Veleda
‘numinis loco habita’; e della loro prostrazione morale e civile, non ancora
rimarginate le ferite avute nell’ultima
insurrezione batavica, non potevano non profittare i popoli vicini, emuli per
armi, avidi di preda, bramosi di
possedere le loro terre, e forse anche
rivali per comune parentela. Fecero, difatti, lega a danno dei ‘Bructeri’, li
assalirono, li sopraffecero, perchè li trovarono più deboli o impreparati; e
più di sessanta mila ne trucidarono. I ‘Chamaui’ e gli ‘ Angriuarii ’, che
probabilmente si ebbero 1 Tacito fa
menzione di Giulio Classico in Aist. II 14. IV 55; 57; 59; 70; 79. V 19 sgg.;di Giulio Tutor in
Aist. IV 55 ; 57; 59; 70; 72. V 19;
21;dei fratelli Alpinii in hist. III 35. IV 31
e 32. V 19. ? Cass. Dion. r.
Rom. LXVI 16, 2 (Xiphil.). 3 Germ.
8,9. 4 Vedi la nota 3 a pag. 10. 5 Ammesso che, secondo Strabone (geogr. VII
1, 3 (C 291), p. 400 M.), vi fossero
stati dei ‘ Bructeri minores”, e perciò la distinzione tra ‘B. maiores’ e ‘B.
minores”, il Miillenhoff! conget= tura
che i ‘Bructeri maiores’ e i ‘ Chamaui' siano stati lo stesso popolo. In tale ipotesi, i ‘ Bructeri'
che si levarono in armi con Civile
contro Roma, sarebbero stati i ‘B. minores '.
Ammiano Marcellino (r. g. XVII 8, 5) narra che, molti anni dopo, nel 358, i ‘Chamaui’ furono, alla loro
volta, sterminati dall'imperatore
Giuliano, DE la parte precipua in tale guerra di
sterminio, vennero ad occupare le terre
dei vinti.! I ‘ Bructeri” superstiti
all’immane strage, costretti a mutar sedi, restarono sempre un popolo per sè, senza confondersi
con altre genti, ma si piegarono a
sommissione verso l’autorità romana,
tanto da sottomettersi, alcuni anni dopo, al
re imposto loro da Vestricio Spurinna, legato della Germania inferiore .* Tale sommessione
dovette avvenire verso l’a. 97, durante l’impero di Nerva'.3 Or, tra 1 Germ. 33, 2. Non risponde al vero
l’asserzione di alcuni commentatori (v.
per es. i comm. Pais p. 53, Marina p. 104,
etc.) che l'autore della Germ. abbia esagerato nelle notizie date sullo sterminio dei ‘Bructeri’, poichè
egli non dice soltanto ‘ Bructeris penitus excisis uicinarum consensu nationum
”, ma premette ‘ pulsis Bructeris’:
talchè il popolo dei ‘ Bructeri’ non fu completamente annientato. Potrà, forse,
dirsi esagerato il numero dei morti, ‘super sexaginta milia’; ma una statistica ufficiale dei caduti in battaglia,
massime trattandosi di pugne tra popoli
barbari, non era allora possibile. 2
PLIN. epist. Il 7, 2. 8 Così opina il
Mommsen, nell' Index nominum cum rerum
enarratione pubblicato in fine degli scritti di Plinio il giovane, recens. Keil, Lps. 1870, p. 429, 2* c. Arrogi
la considerazione che, ammesso l'ordine
cronologico nella disposizione delle epistole pliniane (cf Mommsen, aur
Lebensgeschichte des jiingern Plinius,
in Hermes III (1869) pp. 31-53), tuttochè contraddetto da Plinio stesso (episf. I 1, 1), le epistole
del 2° lib., tra le quali si annovera
quella cit. concernente Spurinna, furono scritte tra l'a. 97 e l'a. 100. Quando, però, il
Mommsen afferma (vedi MommsEn - DE RucgiERO, op. cit., cap. IV, p. 135) : «
questa catastrofe (la sottomissione dei
‘ Bataui’ e degli altri popoli insorti
con Civile) e le ostilità coi vicini popoli fiaccarono la loro potenza (cioè, la potenza dei ‘
Bructeri’); sotto Nerone essi dovettero per forza accettare dai vicini stessi,
appoggiati indirettamente dal legato romano, un re che non vo: SS, e
il 71 o 72, anno in cui i ‘ Bructeri” insieme coi ‘Bataui’ soccombettero
sotto le armi romane, ed il 97 passa circa un venticinquennio, nei primi anni del
quale si compì la strage e l’espulsione
dei ‘ Bructeri ’, colpiti dalla lega dei
popoli vicini. Indichiamo i primi anni
del venticinquenuio, perchè appare più rispondente al vero, in mancanza di qualsiasi documento in
proposito, che lo sterminio dei ‘Bructeri’ si fosse compito appunto in un tempo più vicino al 71 o 72,
quando questi erano prostrati dalla
vittoria romana sui ‘Bataui’ edi loro alleati, anzichè più tardi, quando,
ricostituitisi nelle nuove sedi, riannodarono relazioni di dipendenza con Roma, e si assoggettarono al
re imposto dal legato romano. Non vi ha, del resto, alcun documento o alcuno
accenno nelle storie antiche, che assegni l’a. 100 o altro anno anteriore o
posteriore all’anno 100, all’avvenimento della distruzione dei ‘Bructeri’ ed
all'immigrazione dei ‘ Chamaui ’ e degli ‘ Angriuarii’ nel territorio bructero
‘iuxta Tencteros?. Poche altre notizie
restano intorno ai ‘Bructeri ?. Dopo i
guai gravissimi inflitti loro dai popoli vicini, essi, come si è detto sopra, non si dispersero
nè perdettero la loro nazionalità nè il nome nella storia.! Nella prima metà del sec. IV sono menzionati
in due panegirici a Costantino ; ®? poi,
nello stesso sec. IV e levano »; egli,
se non c'inganniamo, non ha tenuto presente
che la sommessione dei ‘Bructeri’ ad un re imposto dal legato Vestricio
Spurinna avvenne sotto Nerva, non sotto Nerone. 41 Vedi LEDEBUR, das Land und Volk der Bructerer, Berl. 1827.
2 Incerti pan. Constantino Aug. dictus, 12.
NAZARI pan. Constantino Aug. dictus, 18: in BAEHRENS, XI panegyrici
Latini, VII e X, pp. 169, 227. cin B$
‘nel V si trovano stretti in lega con quelli che erano stati nel I sec. i loro feroci persecutori, i
‘Chamaui ’ e gli ‘ Angriuarii’, e
inoltre coi ‘Chatti’, gli ‘Ampsiuarii ’, i ‘ Sugambri ’, i ‘ Chasuarii ?!:
formavano la potente confederazione dei
Franchi.® Anche il ven. Beda fa menzione
dei ‘Bructeri’, dicendoli ‘ Boruchtuarii ?.?
VI. Il cap. 37 della Germ.
presenta un importante computo di anni.
Se dall’anno 640 di R., in cui per la
prima volta si udì parlare delle invasioni cimbriche, sì giunge al secondo consolato di Traiano, ‘
ducenti 1 Vedi Jos. WoRMSTALL, ueber die Chamaver, Brukterer
und Angrivarier, mit Rùcksicht auf den
Ursprung der Franken und Sachsen. Neue Studien 2: Germania des Tacitus, Gymn.Progr. Miinster, 1888. Il
Millenho£, cit. da U. Zernial, p. 65, opina che gli ‘Angriuarii’ (v. Tac. ann.
II 8, 13; 19,7; 22, 6; 24, 15; 41,.8) e
gli ‘ Ampsiuarii’ (v. Tac. ann. XHI 55, 1; 56, 4) formassero uno stesso popolo,
poichè « Angrivarii ist der rein
geographische Name der Anwohner der Weser oberhalb der Chauken oder spàteren Friesen, und Ampsivarii
nur eine speziellere, wie es scheint, gleichfalls geographische Benennung fiir eine Abteilung des Volkes ». ? Il nome ‘Franci’, adoperato per
significare in complesso più popoli,
appare per la prima volta in una frase del panegirico d’ incerto autore a
Costantino : ‘ terram Batauiam ..... a
diuersis Francorum gentibus occupatam’ (ed. cit. Baehrens VII 5, p. 163).
Ma nella Castori Romanorum cosmographi tabula quae dicitur Peutingeriana, segm.
II, n. 2, in alto, si legge ‘ Chamavi.
qui et Pranci” (1. Franci: la lett. c è corrosa
nella parte superiore): v. Die Weltkarte des Castorius, genannt die Peutingersche Tafel: einleitender Text
von Konrad Miller; Ravensburg,
1887. 3 Ven. BEDA, hist. gentis Anglorum V 10, col. 124, in operum tom. tertius, ed. cit. bh ferme et decem anni colliguntur’. È noto che
Traiano fu la prima volta console nell’
a. 91; fu nominato ad un secondo
consolato per il 98, nel quale anno, per la
morte di Nerva, venne assunto all’ impero: perciò se ne conclude che la Germ. fu scritta in un
tempo non anteriore al 98, se appunto di
questo anno è fatta espressa menzione nel testo del libro. E tale
conclusione si dovrebbe accettare, se
non ostassero alcune considerazioni che non sono da omettersi. L’autore comincia il cap. 37 col menzionare
che i Cimbri, un tempo sì potenti e di
gran fama, si erano ridotti ad una ‘
parua ciuitas ’. Il nome dei Cimbri ! gli
richiama alla mente le memorabili lotte che si erano combattute dai Romani contro i popoli
germanici, a cominciar dal consolato di
Cecilio Metello e Papirio Carbone, a.
641/113. E di qui un breve ‘ excursus ’ sulle
vicende di tali lotte, che si ferma, come sopra abbiamo dimostrato, al trionfo sui ‘ Bataui ’ e sugli
altri popoli insorti con essi, e che
altri vorrebbe estendere sino al trionfo
di Domiziano sui ‘ Chatti’ nell’ a. 83. Nessuno ? È notevole che nella Germ. non si fa
alcun cenno dei Teutoni, che furono valorosi compagni dei Cimbri. Plinio tratta
di loro nella n. A. IV 14 (28), 99. XXXV
4 (8), 25. XXXVII 2 (11), 35. Tacito li
menziona insieme coi Cimbri in hist. IV 73, 12: v. anche VeLL. PATERC. A. R. II 8, 3; 12, 2 e 4.
Pompon. MEL. chor. III 3, 32; 6, 54.
Amm. Marc. r. g. XVII 1, 14. XXXI 5, 12.
Oros. hist. adu. pag. V 16, 1. 9. 14. Ma forse l’autore della Germ. si restrinse a menzionare i soli
Cimbri, perché la guerra contro i Cimbri
ed i Teutoni si indicò pure con la sola espressione ‘ bellum Cimbricum * (v. l’
epit. Ul. LXVII, LXVIII di T. Livio; ma
in Floro epit. I 38 [III 3] ‘ bellum Cimbricum , Teutonicum ’); o forse anche-
perché i Teutoni si reputavano un popolo
celtico : cf. APPIAN. IV 1, 2,
csf accenno vi è intorno agli
avvenimenti che si succedettero sino all’ a. 98, che è il termine del
computo dei 210 anni, fatto, per
incidente, poco prima. E ciò diviene
inspiegabile, se si considera che l’autore, avendo fissato per termine del computo degli anni di
lotta coi Germani l’ a. 98, importante
perchè appunto allora Traiano succedette
al padre adottivo Nerva, non poteva passare
sotto silenzio, tra le altre cose, il fatto che la autorità delle armi romane era a quel tempo
in sì alto pregio da fare ottenere a
Vestricio Spurinna, legato di Nerva, una
vittoria incruenta sui ‘ Bructeri, ferocissima
gens’ germanica, soltanto con la minaccia della guerra e col terrore !. Nè poteva tenere in non cale
i buoni risultamenti dell’ abile direzione
politica e militare di Traiano che, per
assodare il dominio romano sul territorio dei ‘ Mattiaci ’ e per dar fine alle
agitazioni delle tribù germaniche della
regione centrale del Reno, causate dall’ imprudente scorreria di Domiziano,
stette ancora per qualche tempo al comando degli eserciti sul Reno, prima di recarsi a Roma per assumervi
il potere supremo. Pare, inoltre, che
dissoni dalle lodi concordemente date dai contemporanei ai due imperatori Nerva e Traiano, e per il loro savio governo
e per la rinnovata autorità delle armi
romane, il fatto che l’autore della Germ., il quale doveva, giusta la
premessa, estendere le sue
considerazioni ed il suo rapido ‘ excursus’ sino al secondo consolato di
Traiano, si è fermato, invece, alla desolante osservazione ‘ triumphati magis quam uicti sunt’; egli avrebbe dovuto
avere sott'occhio gli avvenimenti che si
compivano, sotto la 1 PLIN. epist. II
7, 2. BRL) pesi è stata nostra, e la Germania è vinta:
‘regno Arsacis acrior est Germanorum
libertas ’. Oltre a ciò il tono
retorico di tutta la frase fa dubitare di esservi stata un’ interpolazione.
Precede e seguc al periodo notato una
considerazione storica che in nulla è
avvantaggiata dal periodo stesso, anzi resta da questo interrotta per dar luogo all’ espressione
enfatica ‘ tam diu G. uincitur ’. Se si
espungesse il periodo considerato, il pensiero dell’autore si mostrerebbe in
gradato svolgimento, moverebbesi eguale
a sè stesso e non interrotto sino alla conclusione ultima che, per quel certo pessimismo da cui è informata, nulla ha da
fare con l’enfasi delle parole espunte. Nè vi è necessità di sostituire alla particella ‘tam ’, che nella
proposizione seg. ‘ medio tam longi aeui spatio multa in uicem damna’ pare collocata in riscontro col ‘ tam’ della
frase ‘ tam diu G. uincitur ’, la voce ‘
tamen’ che è data dal cod. Leid. (0)
nella forma tam®! e, più chiaramente, nella
forma completa tamen dal cod. Neapol. (c) ; perocchè, fatta 1’ espunzione, si regge sempre bene
tutta la frase, che in origine dovette,
secondo ogni probabilità, così esser
letta : ‘ sescentesimum et quadragesimum annum
urbs nostra agebat, cum primum Cimbrorum audita sunt arma, Caecilio Metello ac Papirio
Carbone consulibus. medio tam longi aeui spatio multa in vicem damna’ e. q.
s. A chi attribuirsi l’interpolazione,
se interpolazione ci fu? Può ben darsi
che la si debba attribuire a qualche
antico grammatico , la cui glossa erudita sulla durata 1 Ma avverte il Massmann, op. cit., p. 110,
nota 25, ‘ deleta abbreuiatura ‘,
RARE; A delle guerre germaniche
sia penetrata nel testo; può darsi anche
che sia una giunta correttiva fatta da chi
più tardi scrisse l’ apografo, sur un originale creduto mendoso !. Ma a noi pare di scorgere, nel
testo stesso della frase che crediamo interpolata,
l’ autore della possibile
interpolazione. A nessuno sfugge l’enfasi della
conclusione ‘ tam diu G. uincitur’; e la vittoria sulla Germania è intimamente connessa col secondo
termine del computo fatto, cioè l’ ‘
alter imperatoris Traiani consulatus ’: dunque lo scopo della frase altro non
poteva essere che quello di lodare
l’imperatore Traiano, il cui secondo
consolato aveva il merito altissimo di aver
dato termine, secondo che credevasi verso la fine del sec. I, alla lotta contro i Germani , durata
per più di due secoli. Chi tra gli
scrittori romani vissuti in sul
declinare del sec. I e nel principio del II largì più encomi agli
imperatori Nerva e Traiano fu Plinio il giovane; tanto che uno dei moderni
critici, che con ammirabile dottrina ha trattato della vita e
dell’elocuzione di lui, non ha esitato a
scrivere: ‘nemo quidem possit negare, Plinium in Panegyrico modum in
nuirtutibus Traiani praedicandis
transiisse (cf. pan. 30-82; 40; 57;
59-80), et tum in illa oratione tum in epistolis nonnullis (cf. epist. ud. Tr. imp. 10 (5), 2 [a. 98]; 8
(24), 1 [a. 101]; 31 (40), 1) ex
Bithynia ad Traianum missis sententias inesse plenas immodicae adulationis ac
paene 1 È nota la dichiarazione che
leggesi nel cod. Leid. Perizon. della
Germ., la quale è annoverata tra i ‘ libellos nuper adinuentos et in lucem
relatos ab Enoc Asculano quamquam satis
mendosos” ConsoLI: L’ autore della
Germania. 3 IRE seruilis erga Traianum et Neruam reuerentiae
!. Plinio, inoltre, diede in particolar
modo evidenza al titolo di Germanico
attribuito a Traiano *; fece menzione delle
vittorie di lui nei paesi renani 3; e specialmente s’ intrattenne, con
ampie lodi, del secondo consolato di Traiano ‘. L’a. 98 è per più ragioni anno notevole
per Plinio: gli è conferita da Nerva e
da Traiano l’importante carica di ‘ praefectus aerarii Saturni ’ 5; il suo
amico e protettore Traiano è assunto
all’impero, ed egli si affretta a scrivergli una breve epistola gratulatoria,
esprimendo il voto: ‘ precor ergo ut tibi et per te generi bumano prospera omnia, id est digna saeculo
tuo, contingant ’ $. Nell’a. 98, in fine, si reputarono dai Romani come finite, per l’ opera prudente di
Traiano, le lotte bisecolari contro i
Germani, con la sottomissione di
questi. Non sarebbe perciò una
congettura priva di fondamento l’ammettere che Plinio il giovane, rendendosi
interprete de’ sentimenti suoi e de’ suoi contemporanei , sentimenti di soddisfazione e di gioia per i
vantaggi apportati dagli avvenimenti
dell’ a. 98 all’ impero romano, avesse inserito in una parte dell’opera dello
zio, 4 J. P. LAGERGREN, de vita et
elocutione C. Plinii Caecilii Secundi, Vpsaliae 1872, pp. 12-13; in Uysala
universitets aarsskrift, 1871, V. ?
PLIN. pan. 9, 2. 14, ). 3 PLIN. pan.
14, 1-5. 82, 4-5. PLIN. pan. 56,
3-7. Vedi Mommsen, sur Lebensgeschichte
d. j. Plin. sopra cit.; e l'art. dello
StoBBE nel Philologus XXVII, p. 641: donde la
notizia riferita dal LAGERGREN, 0. c., p.4; e dal NicoLaI, G. d. r.
L.,n. 115, p. 640. Cf. TEUFFEL-SCHWABE, G. d. r. L, © n. 340, 1, p.849;
ete. 6 PLIN. epist. ad Tr. imp. 1, 2.
(SISI ini BB intitolata bellorum Germaniae uiginti ll. (la
quale parte sarebbe probabilmente quella
stessa pervenuta a noi col titolo de orig.
et situ Germanorum) la frase sopra notata del cap. 37, a fin di computare la
durata delle guerre germaniche sino
all’a. 98, in cui, dopo sì lungo tempo,
la Germania era stata completamente vinta.
Nè certamente sarebbe stato intendimento di Plinio violare con una postilla, che ora appare
interpolazione, il libro del dotto
scrittore, il quale era a lui zio e padre
adottivo affettuoso, ma rendere il libro delle guerre germaniche meglio rispondente ai tempi in cui
cominciò a farsene la pubblicazione , cioè verso la fine del sec. I. Quante volte non occorre a noi,
oggidi, nel pubblicare un libro di autore antico, di aggiungere delle note nelle quali si accenni, per completare o
chiarire i concetti espressi nel testo,
ad avvenimenti posteriori alla vita
dello scrittore ? Ma al tempo dei Romani non
avevasi il mezzo odierno di distinguere le postille e le note dal testo; talchè sovente queste
penetrarono nel testo stesso , dal quale
indistinte si riprodussero negli
apografi scritti in tempi seriori; e da ciò il lavoro, non facile nè sempre sicuro ne’ suoi
risultamenti, della critica moderna, di espungere dai testi classici tutto
ciò che si considera come interpolato. Un altro argomento ci conferma nella nostra
congettura. Plinio il giovane nell’epistola a Bebio Macro, nella quale espone in ordine cronologico i libri
dello zio, nota tra questi : ‘ bellorum
Germaniae uiginti, quibus omnia quae cum
Germanis gessimus bella collegit ’. ! Evidentemente, poichè l’epistola fu
scritta l’a. 101, come tutte 1 PLIN.
epist. III 5, 4. 36 le altre contenute nel lib. 3°, con la
frase ‘ omnia q. c. G. gessimus bella’,
si allude a tutte le guerre combattute contro i Germani sino a quel tempo in
cui credevasi comunemente che fossero
finite per l’opera sagace di Traiano, cioè sino all’a. 98; e nella voce ‘
gessimus ’ si travede il pensiero che la narrazione storica di Plinio Secondo era stata prolungata dal
nipote sino a comprendere tutte le
guerre germaniche ; chè, se si fosse
ristretta alle sole guerre combattute mentre era ancora in vita Plinio Secondo, ed avesse
conservato lo scopo precipuo per cui era
stata scritta, cioè salvare ‘ ab iniuria
obliuionis’ la memoria di Druso Nerone, sarebbesi detto obiettivamente ‘ gesta
sunt’: nella voce ‘ gessimus’ si scorge non difficilmente la persona di chi
ha scritto l’epistola a Bebio Macro. In
tale argomento soccorre l’autorità di Suetonio, il quale, scrivendo di
Plinio Secondo : ‘ itaque bella omnia,
quae unquam cum Germanis gesta sunt, XX
uwoluminibus comprebendit ’,' da un canto ripete l’espressione di Plinio il
giovane ‘omnia bella ?, e dall’ altro
canto con 1° uso del verbo ‘ gesta sunt”
dà evidenza al tempo sino a cui erano state
narrate le guerre germaniche. Si
aggiunga un’altra considerazione. Plinio Secondo nella pref. alla sua nat. Rist. serive : ‘
uos quidem omnes, patrem te fratremque
(sc. Vespasianum, Titum, Domitianum), diximus opere iusto, temporum
nostrorum historiam orsi a fine Aufidi
Bassi. ubi sit ea quaeres ? iam pridem peracta
sancitur, et alioquin statutum erat
heredi (cioè al figlio adottivo, Plinio il giovane) mandare, ne quid
ambitioni dedisse uita iu 1 V. pag. 5,
nota é. GI dicaretur”’'. Era quindi proposito di lui,
a fin di evitare la facile accusa di
avere alterato il vero per mire
ambiziose , affidare al figlio adottivo, che, giovinetto, molto aveva appreso
dalla molteplice e copiosa dottrina del
suo secondo padre, l’incarico di pubblicare,
dopo la sua morte, i lavori storici che gli affidava, e forse anche di limare o farvi delle opportune
giunte, per rendere la pubblicazione
meglio adatta ai tempi in cui essa aveva
luogo. Che vale, infatti, la frase ‘ peracta sancitur’ se non, come spiega Io.
Harduinus, ‘ accuratius elimatur, castigatur ° ?*? Non poteva forse il
figlio adottivo , valente letterato
anch’ egli, prender parte a tale ‘ limae
labor ’, dopo la morte dell’ autore, avendo
l’obbligo di pubblicare i libri di lui? E, dal canto suo, Plinio il giovane aveva, quanto alla storia,
una certa competenza, perchè aveva
atteso agli studi storîci secondo l’ es. paterno, come egli stesso dichiarava :
‘ me uero a«l hoc studium (sc.
historiae) impellit domesticum quoque
exemplum 5. Gli antichi non può dirsi
che siano stati molto serupolosi nel metter mano sui lavori altrui, per
emendarli, 1 PLIN. n. A. praef. 20. Ma
il Detlefsen (ed. Berl. 1866) accoglie la lez. ‘ per acta sancitum et alioqui
’. 2 Vedi C. Plin. Sec. hist. nat. Ul XXX VII quos
interpretatione et notis illustrauit
IoanNES HARDVINVS, Paris. 1741, t. I, p.
4, not. 7. Ma nelle ‘ notae et emend. ad
1. I', n. VI, p. 7, spiegandosi il perchè sia stata preferita nel testo la jez.
‘ peracta sarcitur’ invece di ‘ sancitur
’, si aggiunge: ‘ hoc est, reuocatur,
retractatur, accuratius elimatur, ad polituram sarcitur; uti de araneae tela Plinius ipse loquitur’ (n. A. XI
24 (28), 84 ‘ ad polituram sarciens
’.) 8 PLIN. epist. V 8, 1 e 4. 38
massime quando questi non erano stati ancora pnbblicati. Che non si
disse per le commedie di Terenzio, emendate e forse preparate da Scipione
l’Africano e da C. Lelio ?! Anneo
Cornuto lasciò forse intatte le satire
dell'amico e discepolo suo Persio Flacco ? ?. È superfluo addurre altri esempi: ci basti rammentare
che, se le mani di L. Vario e di Plozio
Tucca si astennero dal profanare il poema lasciato incompleto da Virgilio, ciò
avvenne per espresso ordine di Augusto, cui non era lecito disubbidire ?. VII.
A niuno, poi, sfugge l’ osservazione che nella Germ. non si fa cenno dei rapporti di tregua
e di guerra tra i Romani ed i Germani,
dopo il regno di Vespasiano. Nulla si dice della venuta in Roma, verso l’
a. 85, di* Masyos, re dei ‘ Semnones ’,
e di Ganna, vergine fatidica, che
succedette a Veleda: entrambi furono accolti onorevolmente da Domiziano.
Trascurasi di menzionare 1’ impresa di Domiziano contro i ‘ Chatti”; chè, come si è dimostrato sopra, non può indursi
un’ allusione a tale impresa dalle ultime parole del cap. 37 ‘ proximis temporibus triumphati magis quam
uicti sunt’. Omettesi di far menzione
della spedizione di Vestricio Spurinna
contro i ‘ Bructeri’, dopo la morte di Domi
4 Vedi Cic. ad Att. VII 3, 10. QvinTIL. è. 0. X 1, 99; ed un framm. del libro de poetis di Suetonio, ed.
Roth 1882, p. 293, 5-6. 2 V. la vita A.
Persii Flacci de commentario Probi Valeri
sublata: il Roth la omise nella sua ed. dei framm. di Suetonio. 8 SERV. comm. in Verg. Aen. I: ‘ Augustus
uero, ne tantum opus (sc. Aeneis)
periret, Tuccam et Varium hac lege iussit
emendare, ut superflua demerent, nihil adderent tamen’: vol. I, fasc. 1°, p. 2, ed, Th. dia
ziano: ed altre omissioni potremmo aggiungere. Invece tutto ad un tratto si passa dalle notizie
sopra avvenimenti occorsi durante il regno di Vespasiano al secondo consolato di Traiano ; e sì importante lacuna
dà .nuovo argomento a sospettare
interpolato il passo del cap. 37, del
quale si è sopra a lungo discusso.
Cosicchè, e per i molteplici argomenti che ci offre il testo della Germ., convenientemente
interpretato, e per gli argomenti
esterni sopra esposti, non puossi non riconoscere che nella Germ. non sono
menzionati avvenimenti posteriori all’a. 79 d. Cr.; e però sorge spontaneo il
dubbio che non Tacito, istoriografo fiorito alquanti anni dopo, ' ma Plinio
Secondo (se è da non tenersi conto di Aufidio Basso, scrittore anch’egli di
guerre germaniche) possa essere stato l’
autore della Germ. ; o meglio, che
questa in principio abbia formato parte,
come una digressione necessaria, dei venti libri bellorum Germaniae. Nè
quarantasei capitoli (si direbbero
meglio paragrafi) di un’introduzione o di una digressione, quanti se ne
contano appunto nella Germ., si possono ritenere troppi per un lavoro storico
che ha il ‘ suo svolgimento in venti
libri; poichè è noto che la digressione
sull’Africa è di non breve estensione nel d.
Iug. di Sallustio; e similmente la digressione di Tacito sulla
Britannia, nel libro de vita ef moribus Iulii
1 Il libro de wita et moribus Iulit Agricolae, primo, in ordine cronologico, dei lavori di Tacito, è dell'a.
98: diciamo primo, perchè pare ormai
dimostrato che il dial. de oratoribus non
sia lavoro di Tacito. Vedi L. VALMAGGI, nuovi appunti sulla critica recentissima del dialogo degli
oratori, in Rio. di filol, e d'i. cl, a.
XXX, fasc. 1°, p. 23. PRE (pn Agricolae, occupa non meno di sette capitoli;
e l’altra digressione di Tacito stesso
sulla Giudea si svolge in ben dodici
capitoli sui ventisei cc. del lib. V delle Rist., il quale non ci è pervenuto completo. diri
CAPITOLO SECONDO La Germania
nella tradizione degli scrittori sino ai
tempi del Rinascimento. Costantemente
si è indicato Tacito quale autore della
Germ., sin dal tempo in cui l’aureo libretto fu scoperto e rimesso in onore insieme con tanti altri
tesori letterari dell’ antichità. Su quale fondamento si poggia tale indicazione ? L’ indagheremo nel
presente capitolo. I. Tacito fu sempre considerato dagli scrittori posteriori, sia dell’ età antica sia del
medio evo ', come ‘scriptor historiae Augustae ’ ?, o ‘ qui post Augustum usque
ad mortem Domitiani uitas Caesarum
triginta uoluminibus exarauit ’ 8, o semplicemente ‘ annalium scriptor
’‘, o con altra indicazione analoga; 1
Vedi EMMERICH CoRrNELIvs, quomodo Tacitus historiarum scriptor in hominum memoria uersatus sit
usque ad renascentes literas saeculis XIV et XV; inaug. diss. Marpurgi
Chatt. 1888. M. MANITIUS, Beitrtige sur
Geschichte d. ròmischer Prosaiker in Mittelalter, II, in Philologus, N. F. I
(1889), pp. 565-566. 2 Vopisc. Tac. 10,3; in scriptt. hist. Aug. XXVII p.
192, ed. P. 3 HreRoNYM. comm. in Zach.
IIl 14, t. VI, coll. 913-914, ed.
Vallars., Veron. 1736. 4 IoRDAN.
de or. act. Get. 2, 29, p. 3, ed. A. Holder. È però probabile che Iordanis, citando con inesattezza ‘ Cornelius
annalium seriptor ’, mentre ripete le notizie contenute nel libro de u. et m. Iul. Agric., cc. 10, 11, 12,
riferisca osservazioni e notizie non
attinte direttamente ai libri di Tacito.
5 Omettiamo l’ epiteto ‘sane ille mendacium loquacissimus ’, dato a Tacito da TERTVLL. apologet., cap. 16,
pp. 47-48, Cantabrigiae 1686: le necessità della lotta rendevano talvolta
ingiusti i primi apologisti del Cristianesimo. ii dI
e in generale, anche quando non fu indicato, in forma di epiteto aggiunto al nome proprio, il
genere letterario da Tacito coltivato, si citarono i luoghi degli annali o delle istorie, talvolta nominandosi
Tacito autore, talvolta omettendosi il nome di lui. Il nome dell’autore non sempre è indicato
nello stesso modo. Tertulliano ',
Vopisco ?, San Girolamo *, Orosio 4,
Apollinare Sidonio *, etc. lo nominano ‘ Cornelius Tacitus ’. Lo stesso
nome ‘ Cornelius Tacitus” osservasi in
uno scolio di Giovenale © e in un luogo degli annales Fuldenses di Rudolf, monaco di Fulda, il
quale si valse della prima parte degli
ann. di Tacito per la sua compilazione storica che va dall’ 838 all’ 863 ?; si
nota an 1 TERTVLL. apologet. |. l1.: egli cita Tac Rist. V 3; 4; 9. ? Vopisc. Auretian. 2, 1. Tae. 10,3; in
seriptt. hist. Aug. XXVI, XXVII, pp. 149,192, ed. P. Sul 1° luogo di Vopisco, che nota di menzogna Livio, Sallustio, Tacito e
Trogo Pompeo, il Petrarca osserva:
‘notat ystoricos, immeriter puto, precipue
(sic) primos duos’. Vedi P. pe NoLHac, Petrarque et l’humanisme d'aprés un essai de
restitution de sa bibliothèque, Paris
1892, p. 258. 3 HiERoNYm. l. l. sopra, in nota 3, pag. 4l. 4 Oros. hist. adu. pag. I 5,1 (cf. Tac.
hist. V 7). VII 3,7 (cita un luogo delle
Aist. di Tac., forse del lib. VI o VII, non pervenuto a noi). VII 10, 4 (cita
un luogo di Tac., che si è perduto: cf. Tac. hist. III 46. Cass. Dion. r. Rom.
LXVII 6, 1; 7, 2; etc.). VII 19, 4 (la
notizia che dà nel ]. c. non è in quel che
ci resta dei libri di Tac.). VII 27, l (cf. Tac. Rist. V 3, sgg.).
5 APOLLIN. SIpon. carm. 23, 153 sg. ‘et
qui pro ingenio fluente nulli, | Corneli
Tacite, es tacendus ori’: ed. Luetjohann,
in monum. Germ. hist., Berl. 1887, t.
VIII, p. 253. 6 Schol. Iuuenal. V
14,101 ‘cuius (sc. Moysis) Cornelius etiam
Tacitus meminit’: cf. Tac. hist. V 3. 7 Ann. Fuld. a. 852 ‘super amnem quem
Cornelius Tacitus, 49-= che in un’ epistola di Pietro di Bluis! e
(tralasciando di menzionare Frekulf,
monaco di Fulda e poi vescovo di
Lisieux, Giovanni di Salisbury, Vincenzo di Beauvais, i quali, come ormai è accertato, conobbero
Tacito solo di nome ?) in un’ epistola e
altri Il. degli scritti del Boccaccio 3,
nel comentum super Dantis Aldigherij co
scriptor rerum a Romanis in ea gente gestarum, Visurgim, moderni uero Wisaraha uocant’: in PERTZ,
monum. Germ. hist. vol. I, p. 368. Vedi
per le citazioni tacitiane negli annali di
Fulda e nelle res gestae Saronicae di Widukind, monaco di Corwey, la diss. cit. del Cornelius, p.
38. 4 PETRI BLESENSIS Bathoniensis in
Anglia archidiaconi opera omnia, Paris.
1667, epist. 101 ad R. archid. Nannet, p. 158, col. 2° ‘ profuit mihi frequenter inspicere......
Corn. Tacitum, Titum Liuium' e. q. s. Ma
A. HorTis, studj sulle opere latine del Boccaccio con particolare riguardo alla
storia della erudizione nel m. evo e
alle letterature straniere, Trieste 1879, p. 425, dubita che « Pietro di Blois conoscesse più in là del
nome di Tac. ». Consente in ciò F. RamorINO, Corn. Tac. nella st;ria della
coltura, 2* ed., Milano 1898, p. 91,
nota 38. Vedi la diss. c. del Cornelius, p. 41. ? Vedi HoRTIS, op. cit., p. 425, nota 3, e
le monografie, ivi menzionate, di E.
Grunauer sui fonti della storia di Frekulf,
dello Schaarschmidt su Giov. di Salisbury, dello Schlosser su Vinc. Bellovacense. Il Petrarca non scrisse
mai il nome di Tac., che tuttavia egli
non poteva ignorare, poichè l’amico suo
Guglielmo da Pastrengo ne aveva fatto cenno nel libro de orig. rer., f. 18: v. P. pE NoLHAC, op. cit., chap. VI, p. 266. 3 Boccaccio,
epist. ad Nic. de Montefalcone : ‘ quaternum quem asportasti Corn.i Tac.i quaeso saltem mittas
': v. FR. CORAZZINI, le lettere edite e
inedite di messer G. B. trad. e comm. con
nuovi documenti, Firenze 1877. La lettera porta la data ‘ Neapoli XIII
kal. februarii’, ed è del 1371: v. Gustav KoERTING, G. d. Litterat. Italiens im Zeitalter der Renaissance ; II
(Boccaccio *s Leben u. Werke), Leipz. 1880, cap.
I, pag. 47. Il Boc i d4 moediam di Benvenuto de Rambaldis da Imola
!, nel liber Augustalis?, nello scritto
de wiris claris di Domenico Bandini aretino ®, in una lettera del 1395 di Coluccio Salutati , 4 etc. .5- Anche del solo
nome ‘ Ta caccio ripete il nome Cornelio
Tacito altre due volte nel cap. IV, p.
201 e p. 253, del comento sopra la Commedia di D. A. iv. opere di m. G. B. cittadino fiorentino,
con le annotazioni di A. M. Salvini,
vol. V, Firenze 1724); ed una sola volta nel
libro gen. deorum, INI 23, f. 28, ed. Parigi 1517. I detti luoghi del Bocce. si riferiscono ai luoghi di T'ac.
ann. XV 57 e 60-65. hist. Il 2-3. 1 Comentum Inferni, c. IV, t. I, p. 152
‘sicut patet apud Cor-° nelium
Tacitum': ed. Jac. Phil. Lacaita, Florentiae 1887. Vedi per la citaz. tacitiana concernente Cleopatra
(c. VI) le considerazioni del Ramorino, disc. c, p. 93, nota 43. ? Liber Aug.c.5 ‘de... Messalina scribit
Cornelius Tacitus ’; in FREHER-STRUVE,
rerum Germanicarum scriptores, t. II, p. 6.
Ha dato evidenza alla citaz. il MANITIUS, Beitrige zur G. d. r. Pr. im Mittelalter sopra cit., p. 566. 3 Il Bandini scrive di Tacito: ‘ Cornelius
Tacitus orator et hystoricus
eloquentissimus’. Vedi l’ epistolario di CoLuccio SaLUTATI, edito da Fr.
Novati, III p. 297, nota. 4 C.
SALUTATI, epist. IX 9, vol. III, p. 76, ed. cit. 5 Ci fermiamo con le nostre citazioni alla
fine del sec. XIV: non è necessario
perciò ripetere le citazioni tacitiane che si notano negli scritti dei più autorevoli umanisti del
sec. XV, quali Sicco Polenton, Poggio
Bracciolini, Francesco Barbaro, Giov. Tortelli,
Flavio Biondo, Lor. Valla, L. B. Alberti, card. Bessarione, etc. Vedi VoIGT-VALBUSA, il risorg. dell'antichità
elass., Firenze 1888, v. I, pp. 250-257.
R. SABBADINI, storia e critica di alcuni testi
latini, in Museo it. di ant. class. ( Comparetti ), Firenza 1890, v. III, p. 339 sgg. In. notizie
storico-critiche di alcuni codd. latini,
in Studi ital. di filol. class., Firenze 1899, v. VII, pp. 119132. In. Za
scuola e gli studi di Guarino Guarini veronese,
Catania 1896, p. 101, e il doc. 16 a pp. 193-194. 45
citus’ si valsero Vopisco ! e Apollinare Sidonio ?: quest’ ultimo 1’ unì
con ‘ Gaius ?.* Ma da altri si preferì
l’ uso del solo nome “ Cornelius ’ ‘ : talora vi si aggiunse ‘ Gaius ?.
5 Non pochi citarono dei luoghi
tacitiani senza però nominare l’ autore; così troviamo ripetuti, e talvolta
quasi alla lettera, alcuni passi delle
rist. e degli ann. di Ta 1 Vopisc. Prob.
2, 7;in scriptt hist Aug. XXVIII p. 202, ed. P.
‘non Sallustios, Liuios, Tacitos, Trogos atque omnes disertissimos
imitarer”’. 2 APOLLIN. Sipon. epist. IV 22, 2. carm. II 192: ed.
Luetjohaan, p. 73 e p. 178. 3 APOLLIN. Sipon. epist. IV 14, 1 ‘ Gaius Tacitus unus e maioribus tuis’, p. 65; ma
nel cod. Paris. 9551 (F.del Luetj.) c' è
‘tacius corneli”. C£. col |. c. di Sidonio Tac. hist. V 26.
4 Oros. hist. adu. pag. I 10, 1 (cf. VII 34, 5); 10, 3 (cf. Tac. hist. V 3); 10, 5. VII 9, 7 (cf. Tac. hist. V
13. SveToN. deperditorum librorum reliquiae, ed. Roth, IX, p. 287). APOLLIN.
SIpon. epist. IV 22, 2, ed. cit., pp.
72-73. Sehol. Iuuenal. I 2,99 (ef. Tac. hist. libb. 1, II). IORDAN., Op. c., 2, 29.
Boccaccio, com. sopra la Comm. di D. A.
pp. 202, 254, vol. e ed. cit. L. BRUNI, laudatio urbis Florentinae (cf. Tac. hist. I 1.
KrrNER, laud, urb. FI. L. B., Livorno
1889, pp. 19, 30). Omettiamo di citare il chron. Cas. di Petrus, che nel catal. dei libri della badia
di Montecassino annovera ‘ historiam Cornelii cum Omero (sîc)', perchè,
come bene avverte A. Hortis, op. c., p.
425, n. 2, la riunione del nome Cornelio con quello di Omero farebbe pensare «
piuttosto allo Pseudo-Cornelio Nipote
... ben noto per le sue attinenze con le
istorie troiane di Ditti e Darete ». 5
APOLLIN. Sipon. epist. IV 22, 2 ‘ cum Gaius Cornelius Gaio Secundo (se. C. Plin. Caecil. Sec.) paria
suasisset’; ed. c., p. 72: cf. PLIN.
epist. V 8, TRE BENE gene
cito, in Sulpicio Severo , ! Orosio, ? e nello scoli aste di Giovenale. ® Vi ha una frase di Cassiodorio,
che pare desunta dalle storie di
Tacito.‘ Anche il Boccaccio si valse,
come abbiamo veduto, di Tacito , © talvolta senza 1 SvLP. SEv. chronica quae uulgo
inscribuntur hist. sacra (in S. S. opera
studio et lab. Hier. De Prato, t. II, Veron.
1754) II 28, p. ì59 (cf. Tac. ann. XV 37 in fine); II 29, pp. 160-161 (cf.
Tac. ann. XV 40 e 44 in fine). È probabile che quanto scrive Sulp. Sev. ‘ de Hierosolymorum supremo die’
II 30, pp. 163166, sia stato preso da un luogo ora perduto del lib. V Aist.
di Tac.: v. la nota 6* a p. 164, col.
1°, ed. c. ; e inoltre BERNAYS, de
chronicis Sulpicii Seueri, p. 55 sgg. Per uno strano invertimento dell’ ordine
logico, P. Hochart nel suo libro de l’ authenticité des ann. et des hist. de
Tac., Paris 1890, pp. 200-201, scambia
l’effetto con la causa, e ammette che il presunto falsificatore di Tac. abbia
copiato da Sulpicio Severo quello che in
realtà costui copiò da Tac. ? Oros. hist. adu. pag. VII 4, 11 (cf. Tac. ann.
IV 62 e 63); 4, 17 (cf. Tac. ann. II 85
in fine). 3 Schol. Iuuenat. 1 5, 108 : cf. Tac. ann. XV 62. 4 Casson. war. XI 3i, p. 157, 2* col., in M.
A. CassioporI 0pera omnia, ed. J. Garet.,, Ven. 1729, t.I: ‘more maiorum scuto supposito "; cf. Tac. /A'st. IV
15, 10 ‘inpositusque scuto more gentis
’. 5 Il Boccaccio ebbe conoscenza di
Tac. ann. Il. XII-XVI e hist. ]l.
IIT-]II, perchè se ne avvalse, senza menzionare i fonti, negli ultimi capitoli del libro de claris
mulieribus, per narrare la vita di
Epicharis la cortigiana (c. 91: cf. Tac. ann. XV 5157), di Pompeia Paolina,
moglie di Seneca (c. 92: cf. Tac. ann.
XV 60; 63; 64), di Poppea Sabina, amante e poi sposa di Nerone (c. 93:
ct Tac arn. XIII 45 e 46. XIV 60-63. XV 23. XVI
6), di Triaria, moglie di L. Vitelliv fratello dell’ imperatore (c. 94: cf. Tac. Aist. II 63. III 77); e
aggiungiamo anchela vita di Agrippina,
madre di Nerone (c. 90: cf. Tac. ann. Il. XII-XIV), sebbene le notizie possano essere state prese
da SvETon. Claud. 26. 29. 39. 43. 44.
Ner.6. 9. 28. 34. 35. Vedi ScHUECK, Boccaccio's RESO ge
nominarlo. ? II. Quanto alla Germ. non vi è, sino al sec. IX, scrittore alcuno che ne abbia fatto
menzione.o ne abbia tratto vantaggio, ripetendo o imitando qualche luogo di
essa. Si è preteso scorgere un accenno alla Germ. c. 45 ed al nome dell’ autore della stessa
(Cornelio) in un’ epistola di
Cassiodorio *, con la quale il re Teodorico ringrazia il popolo degli ‘ Haesti
? 3 per un dono di ambra. Nell’ ep. di
Cassiodorio si legge : ‘ succina quae a
uobis ... directa sunt, grato animo fuisse suscepta: quae ad uos oceani unda descendens, hanc
leuissimam substantiam, sicut et
uestrorum relatio continebat, ex
lateinische Schriften, in Jahrbb. fiur Philol. u. Pidag. CX (1874),
p. 170 sgg. A. HoRTIS, op.c., pp. 425-426. G. KOERTING, Op. c., VII, p. 393. P_ pE NoLHAC, op. c., chap. VI, pp. 266-267: e
Boccace et Tacite, in Mélanges de l Ecole de Rome, t. XII, 1892. RAMORINO, disc.
c., p. 92, nota 4l. 1 Dal novero degli
scrittori che nell'età di mezzo si valsero
di Tac., senza menzionarlo, dobbiamo escludere l’autore ignoto della vita Heinrici IV, vissuto nel sec XII,
non ostante che il Cornelius vi trovi
delle frasi, in cui sembrano riflettersi certe
espressioni che si notano negli ann. di Tac.: v. MANITIUS, Beitr. cit. p. 566; RAMORINO, disc. c., p. 91, nota
40. E si deve altresi escludere dal
novero Guglielmo di Malmesbury che, in un luogo
dei gesta reg. Angl. c. 68, ed. Hardy, I 95, con la frase * incredibile
quantum breui adoleverit’ pare che abbia voluto riprodurre la frase tacitiana,
Gist. II 73, 1 ‘ uix credibile memoratu
est quantum ... adoleuerit’; poichè la stessa frase leggesi in SaLL. Cat. 6, 2 ‘incredibile memoratu est
quam facile coaluerint'; e ciò avvertiva sin dal 17-III-1390 il GaABOTTO, in un
art. pubbl. nella Rio. di filol. e d’i.
el. XIX (1891), pp. 397-308. 2 Cassion.
uar. V 2, ed. c., t. I, p. 73. 3 ‘
Aestii ’, secondo il testo della Germ. 45, 8. 48
portat; sed unde ueniat, incognitum wos habere dixerunt, quam ante omnes
homines patria uestra offerente
suscipitis. haec quodam Cornelio scribente legitur in interioribus insulis oceani ex
arboris succo defluens, unde et succinum
dicitur, paulatim solis ardore coalescere.
cum in maris fuerat delapsa confinio, aestu alternante purgata, uestris
littoribus tradatur exposita.’ Or, il ‘ quidam Cornelius scribens’ non è, come affermano alcuni ,' Corn. Tacito,
autore delle hist. e degli ann., ma ‘
Cornelius Bocchus ?. Il Peter nota,
infatti, il l. cit. di Cassiodorio tra i frammenti delle storie di ‘ Cornelius Bocchus ’ ; * ed
è noto che Plinio Secondosegna questo scrittore il quarto tra gli autori i cui
scritti gli servirono di fonti per compilare
il libro XXXVII della sua naturalis historia :3 e appunto nel libro
XXXVII trattasi del sucino o ambra ,'
1 Vedi MASSsMAnN, op. c., pp. 158-159. TH Finck, Germ. herausgegeben u. erlàutert, Gòttingen 1857, p. 14, nota
2. GEFFROY, Op. c., p. 97. A: Pars, comm. cit, p. XIX. MARINA, Op. c., p. 4; 2. RAMORINO, disc. c., p. 31. etc. ? Historic. Rom. fragmenta, ed. Peter, Lps.
1833, p. 298, n.° 8,* Vedi Mommsen,
introd. ai coll. r. m. di Solino, p. XVII.
3 PLIN. n. h. I ex auctoribus l. XXXVII. Si valse anche delle opere di
Bocco per compilare i Il. XVI, XXXII e XXXIV;
ma in questi u'timi due si cita solo ‘ B»echus', senza il nome * Cornelius.
4 PLIN. n. A. XXXVII 3 (11), 42 e 43. Le notizie sull'’ambra, date da Bocco e raccolie da Plinio, furono
poi ripetute da SoLIN. coll. r. m. 20, 9 sgg. Vedi il comm. c. del DiLTHEY, pp.
290296; e WoLFGANG HELBIG, osseroazioni sopra il commercio dell’ ambra, in Atti d. Accad. d. Lincei,
1877 : inoltre v. le pp. 184-189 della
dissertazione di ETTORE PAIS, intorno alle più antiche relazioni tra la Grecia
e l'Italia, in Riv. di filol. e di. cl.
XX (1892). Rea GEA e vi si esprime lo stesso concetto
annunciato da Cassiodorio, con parole quasi consimili. Nè vale il dire che nelle voci ‘ legitur, insulis, ex arboris
succo, solis ardore’ del 1. ce. di Cassiodorio si ripetono le voci del testo della Germ. c. 45 ‘legunt, legitur,
sucum arborum, insulis, solis radiis’; poichè, oltre la ripetizione del concetto, vi ha maggiore analogia di
forme tra il passo cit. di Cassiodorio
ed il corrispondente luogo di Plinio
Secondo, nel quale luogo si ripresentano, come
sì è avvertito sopra, le notizie date da Cornelio Bocco. ! Nemmeno può ammettersi che Iordanis abbia
avuto notizia della Germ.?® sol perchè
nel c. 2 del de or. act. Get. sì trovano
le due voci ‘inaccessam, aperuit?, che si osservano usate anche nel c. 1°
della Germ., ma con tutt'altro
intendimento e in due periodi
interamente separati e indipendenti l’ uno dall’ altro *. 1 Cassiod. ‘in interioribus insulis oceani’; cf. Plin. n. A. XXXVII 3 (11), 42 ‘in insulis septentrionalis
oceani’. Cassiod. ‘ex arboris succo
defluens’; cf. Plin. ibid. ‘ defluente medulla
pinei generis arboribus ’; e 43 ‘ arboris sucum esse’. Cassiod. ‘unde etsuccinum dicitur ’; cf Plin.ibid. 43
‘ ob id sucinum appellantes’ (e Solin. 20, 9 ‘sucum esse arboris de nominis
capessas qualitate ’). Cassiod. ‘ aestu alternante purgata, littoribus tradatur exposita ’; cf. Plin. ibid. 42 ‘ipse
intumescens aestus rapuit ex insulis,
certe in litora expellitur esse concreti maris purgamentum. Che Iordanis abbia avuto notizia della Germ. l' ammette il Massmann, op. c., p. 157. 3 IorpAN. de or. act. Get. 2, 5 p. 3, H. ‘quam diu siquidem armis inaccessa m (sc. Britanniam) Romanis
Iulius Caesar proeliis, ad gloriam tantum quaesitis, aperuit’. Si confronti con Germ. 1, 3 ‘cetera Oceanus ambit...... nuper co CONSOLI : L’ autore della Germania. 4 i 50 E non solamente nella Germ. occorre il v. ‘
aperire ’ nel significato di « far
conoscere, dar notizia », e perciò «
rendere accessibile », perocchè con lo stesso significato appare in Livio !,
Mela ?, Tacito 3, etc. Similmente non è
attendibile il confronto del c. 3 del lib. di Iordanis col c. 40 della Germ.,
‘nei quali cc. sono comuni le parole
‘est in Oceani insula’, non ordinate però in
modo identico in entrambi. Poi è da notarsi che Iordanis cita, come fonte della sua
designazione geografica, il secondo libro dell’opera di Tolomeo; nè, d’altro
canto, è noto quale sia precisamente 1’ isola indicata nella Germ., nella quale
era il luogo sacre alla dea ‘ Nerthus” o
‘Terra mater ’ £. Neppure il luogo del
ven. Beda, che noi, trattando dei ‘
Bructeri ’, abbiamo riferito sopra (p. 28, nota 3), dà la certezza che questo scrittore, vissuto dal
674 al 735, ab gnitis quibusdam
gentibus ac regibus, quos bellum aperuit.
Rhenus, Raeticarum Alpium inaccesso ac praecipiti uertice ortus’ e. q. s. i 1 Liv. X 24, 5. XXXVI 17, 14. XLII 52, 14.
2 Pompon. Met. chor. III 6, 49.
8 Tac. Agr. 22, 1. hist. IV 64, 19. ann.
II 70, 10. Vedi inoltre Lvcan. de b. c.
IV 352. Var. FLAC. Arg. I 169. 4 ]l
confronto è sostenuto anche dal Massmann, l. c. 5 IORDAN. 3, 4 p. 4, H. “est in Oceani
arctoi salo posita insula magna, nomine Scandza ”. Germ. 40, 8 ‘ est in insula
Oceani castum nemus ”. 6 Si discute
ancora se sia Riigen, Fehmarn, Helgoland, Laaland, Bornholni, Seeland, la
Scandinavia stessa , che gli antichi consideravano come isola. Il MicHELSEN,
vorchristliche Kultusstatten (citato da
U. Zernial, comm. p. 78, da A. Pais,
comm. p. 61, e da G. Marina, op. c., p. 127) indica come più probabile Alsen.« mit dem heiligen Walde
Hellewith und dem heiligen See Hellesò
». pe =.
bia avuto notizia diretta della Germ. Si asserisce, è vero, che i nomi di popoli ‘ Fresones, Rugini,
Boruchtuarii, Anglii’ egli non poteva ad
altro fonte attingerli che alla Germ.,
perchè appunto nei cc. 34, 44 (43), 33, 40
della Germ. si tratta di essi !, Ma ciò è inesatto, perchè troviamo
fatta menzione dei ‘ Frisii ’, che il Beda
chiama ‘ Fresones *, in Plinio Secondo, Cassio Dione, nel panegyr. Constantio Caesari, oltrechè in
Tacito. * Dei ‘ Rugii ’, detti dal Beda
‘ Rugini ?, si fa menzione nell’appendice excerpta Valesiana alle storie di
Ammiano Marcellino ; inoltre in
Iordanis, Procopio, Paolo diacono. ? Quanto ai ‘ Bructeri ’, che con lieve
mutazione .il Beda chiama ‘ Boruchtuarii
’, è opportuno aggiungere che di loro si
fa cenno non solamente da Velleio Patercolo, Plinio il giovane, Nazario e
dall’autore del panegirico a Costantino Augusto, dei quali sopra si è tenuto
discorso, ma anche da Strabone, Claudiano, Gregorio di Tours, etc. * Degli
‘Anglii’, che nel sec. V passarono nella
Britannia, leggesi un cenno in Tolomeo 5; e lo stesso Beda spiega l’ etimologia
del loro 1 Vedi MassMann, op. c., p.
159. 2 Pcin. n. A. IV 15 (29), 101:
qualcuno legge anche la voce ‘ Frisii’
premessa a ‘gens tum fida’ in XXV 3 (6), 21. Cass. Dion. r. Rom. LIV 32.
Incerti pan. Const. Caes. 9; in BAEHRENS,
XII pan. Lat., V, p. 138. Tac. Agr. 28, 14. hist. IV 15, 12; 18, 26; 56, 15; 79,8. ann. I 60, 6.IV 72, 1; 74,
1. XI 19,3. XIII 54, 2. 3 Excerpta
Vales. 10, 48 p. 292, 2° vol., ed. Gardthausen. IorDAN. de or. act. Get. 54,7
p. 64, H. PrRocoP. de db. Goth. II 14. PavL. pIac. de gest. Langobard. I 19, in rer.
Ital. scriptt. del MURATORI, t. I, -pp.
415-416. Cf PTOLEM. geogr. II 11. 4
STRAB. geogr. VII 1, 3-4 (C. 290-292), pp. 398-401, ed. M. CLAVDIAN. de IV cons. Hon. 451. GRrEGOR.
TvRENS. II 9. 5 ProLem. geoyr. II 11.
Un antico trad, di Tolomeo li disse vi
BO nome: ‘porro de Anglis, hoc est de
illa patria quae Angulus (per altri,
Anglia) dicitur.’ ! L'angolo sarebbe il
territorio che si estende da Flensburg sino all’ Eider, a sud-ovest dello Schleswig. * III.
Le prime e sicure tracce della Germ. appariscono nel sec. IX, in un
libro intitolato franslatio S.
Alexandri?, che fu cominciato da Rudolf, monaco del monastero di Fulda, nell’a. 863, e, per la
morte di costui avvenuta nell’ 865, continuato e portato a fine da un altro monaco dello stesso monastero,
Meginhard. Rudolf, trattando, nelle
prime pagine del suo lavoro, dei costumi
dei Sassoni, riproduce alla lettera diversi
luoghi dei cc. 4, 9, 10, 11 della Germ., rendendone alcune espressioni
più adatte al gusto letterario de’ suoi
tempi; ma non nomina mai l’autore del libro. Valgano i sgg. confronti,
nei quali sono trascritte in corsivo ‘
Sueui Angili, qui magis orientales sunt quam Longobardi '; Col. Agrip. 1584, p. 27, col. 1°. 1 Ven. BEDA, hist. gent. Angl. I 15, col.
11, t. III, ed. c. 2 Si noti eziandio
che il ven. Beda dovette attingere le notizie sui ‘Saxones’, dei quali fa cenno
nel l. c., non soltanto alla geogr. di
Tolomeo, ma anche ad altri fonti, p. es. AMM.
Marc. r. g. XXVI 4,5. XXVII 8, 5. XXVIII 2, 12; 5, 1e4. XXX 7, 8. PacaT. DREPAN. pan. Theodos. Aug. 5; in BAEHRENS, X//
pan. Lat. XII, p. 275. Oros. hist. adu. pag. VII 25, 3; 32, 10. IORDAN. de or. act. Get. 36, p. 43,
ed. H. 3 Pubbl. nei monum. Germ.
historica, t. II, p. 675 sgg., ed. Pertz. 4 Il RITTER, Op. c.,
praef. p. XVI, n., dimostra evidente l’errore in cui incorsero il Massmano, op.
c., p. 224 sgg. e il Haupt (comm. Germ.)
di attribuire a Meginhard quella parte della
transl. S. Alex, che era stata scritta da Rudolf, le parole e parti di parole della Germ.
identicamente ripetute nella dransl. S.
Alexandri: Rudolf: ‘nec facile ullis
aliarum gentium... conubiis infecti,
propriam et sinceram et tantum sui similem gentem facere conati sunt. unde habitus quoque...
corporum...in tanto hominum numero, idem pene omnibus’: cf. Germ. 4, Rudolf: ‘marime Mercurium venerabantur, cui
certis diebus humanis quoque hostiis
litare consueuerant. Deos suos neque
templis includere neque ullae humani oris speciei adsimilare ex magnitudine...
caelestium arbitrati sunt: lucos ae
nemora consecrantes deorumque nominibus appellantes secretum illud sola
reuerentia contemplabantur’: cf. Germ. 9.
Rudolf: ‘auspicia et sortes quam maxime obseruabani : sortium consuetudo simplex erat. uirgam frugiferae
arbori decisam in surculos amputabant eosque notis quibusdam discretos super
candidam uestem temere ac fortuito spargebant. mox, sî publica consultatio fuit, sacerdos populi,
sì priuata, ipse pater familias precatus deos coelumque suspiciens ter singulos
tulit, sublatosque secundum inpressam ante notam interpretatus est. sî prohibuerunt, nulla de eadem re ipsa
die consultatio : si permissum est,
euentuum adhue fides exigebatur. auium uoces uolatusque interrogare proprium
gentis illius erat; equorum quoque praesagia ac monitus experiri, hinnitusque
ac fremitus obseruare; nec ulli auspicio maior fides, non solum apud plebem,
sed etiam apud proceres habebatur. erat el alia
obseruatio auspiciorum, qua grauium bellorum euentus explorare solebant:
eius quippe gentis, cum qua bellandum fuit, captiuum quoquo modo interceptum
cum electo popularium suorum, patriis quemque armis, committere et uictoriam
huius uel illius pro iudicio habere ’:
cf. Germ. 10. Rudolf: ‘quomodo autem
certis diebus, cum aut inchoatur luna aut impletur, agendis rebus
auspicatissimum initium
crediderint...... praetereo ’: cf. Germ. 1l. Si osservano anche tracce della Germ.in più
luoghi di Adamo di Brema, scrittore del
sec. XI: in essi si PES gra fa menzione
della ‘Sueonia” e dei ‘ Sueones ’;! ed è
noto che in nessuno scritto, greco o latino, lasciatoci dall’antichità classica, e anteriore alla
Germ. (c. 44), si fa parola dei ‘
Suiones ’, abitatori della penisola
scandinava o della parte orientale di essa. ? Iordanis menziona la ‘ gens Suethans” e i ‘ Suethidi,
cogniti in hac gente reliquis corpore
eminentiores 7.3 Ma Adamo di Brema
dovette ricavare dalla trans. S. Alex., non
dalla Germ. direttamente, quelle poche frasi del suo lib. V, le quali sono consimili ad alcune
frasi che si leggono nei ce. 4, 9, 10,
11 della Germ. Lo stesso può dirsi del
chronicon Vraugiense del sec. XII, per quelle
espressioni che paiono imitate dalla Germ. e, invece, furono desunte dalla stessa Zransl. S. Alex.
4 Il Cornelius, nel suo pregevole
studio sulle vicende delle opere
tacitiane nel medio evo, ha creduto affermare che in un luogo della vita
Mathildis di Donizone (nel qual luogo si
nota la facilità biasimevole, con cui i
Germani ingaggiavano delle risse cruente, massime se eccitati da troppe bevande
spiritose) si ripete l’ osservazione del
c. 22 della Germ.: ‘crebrae, ut inter uinolentos, rixae raro conuiciis, saepius
caede et uulneribus transiguntur ’. Ma
il confronto appare inverisimile, perchè Donizone, piuttosto che riferirsi ad
una cattiva usanza osservata dall’
autore della Germ., in 1 Descriptio
insularum Aquilonis 21 (c. 230), in Micene, Patrolog. curs., t. CXLVI, col.
637; 27 (c. 235), col. 644; 26 (c. 234),
col. 642. ? R. KEySER, Norges historie, Kristiania 1865,
vol. I, p. 34 sg. 3 IORDAN. de or. act.
Get. 3, 40; 3, 55, p.5 H. 4 V. il confronto dimostrativo fatto dal
Massmann, op. c., Anhang tende dar notizia della facilità con cui a’ suoi
tempi si veniva a risse sanguinose per
causa dell’ubbriachezza. * Del resto, trattasi di un’ usanza, che
osserviamo tutto dì nelle classi sociali
che più difettano di coltura e si
abbandonano al vizio dell’ ubbriachezza : molto più doveva ciò avvenire tra genti barbare, e
nei tempi descritti da Donizone. *
Dalle osservazioni premesse ci è dato concludere che, sino all’età del Rinascimento, sparutissime
sono le tracce della Germ. nella
tradizione degli scrittori: non mai
Tacito venne indicato quale autore della Germ. 1 MANITIUS, Beitrige c., p. 566. RAMORINO,
disc. c, pp. 91-92, nota 40. ? Tacito avvertiva: ‘nec facilem inter
temulehtos consensum’ (Aist. I 26, 6) ‘
uinolentiam ac libidines, grata barbaris Il primo degli umanisti, che abbia
fatto menzione della scoperta di un libro intitolato de origine et situ Germanorum, fu Antonio Beccadelli,
detto il Panormita, il quale, in una
lettera diretta al Guarini veronese,
scriveva: ‘ compertus est Cor. Tacitus de origine et situ Germanorum. Item
eiusdem liber de uita lulii Agricolae
isque incipit: clarorum wirorum facta
ceteraue. Quinetiam Sex. Iulii Frontonis
liber de aquaeductibus qui in urbem Romam inducuntur; et est litteris aureis transcriptus. Item eiusdem Frontonis
liber alter, qui in hunc modum iniciatur
: cum omnis res ab imperatore delegata mentionem exrigat et cetera. Et inuentus
est quidam dialogus de oratore et est, ut coniectamus, Cor. Taciti, atque is
ita incipit: saepe ex me requirunt et
cetera. Inter quos et liber Suetonii
Tranquilli repertus de grammaticis et rbetoribus : huic initium est: grammatica Romae. Hi et
innumerabiles alii qui in manibus
uersantur, et praeterea alii fortasse qui in usu non sunt, uno in loco simul
sunt; ii uero omnes, qui ob hominum ignauiam
in desuetudinem abierant ibique sunt, cuidam mihi coniunctissimo ii dimittentur
propediem , ab illo autem ad me proxime
et de repente; tu secundo proximus eris, qui renatos sane illustrissimos habiturus sis ’.! Alla lettera si assegna la data dell’ aprile 1426. Con la stessa lettera
si può ben mettere in confronto una epistola
scritta dal 1 Studi ital. di filol.
class. VII, p. 125. E Poggio al Niccoli, in data del 3 novembre
dell’anno precedente. ! Il Poggio gli annunziava : ‘ quidam monachus amicus meus ex quodam monasterio Germaniae,
qui 0lim a nobis recessit, ad me misit litteras, quas nudius quartus accepi; per quas scribit se reperisse
aliqua uolumina de nostris, quae permutare uellet cum Nowuella Ioannis Andreae, uel tum Speculo, tum
Additionibus, et nomina librorum mittit
interclusa .. Inter ea uolumina est Iulius Frontinus et aliqua opera Corn.
Tac. nobis ignota. Videbis inuentarium,
et quaeres illa uolumina legalia, si reperiri poterunt commodo’ pretio. Libri ponentur in Nurimberga, quo et deferri debent Speculum et Additiones, et exinde magna est
facultas libros aduehendi. Vt uidebis per inuentarium, haec est
particula quaedam, nam multi alii restant ; scribit enim in hunce modum: « sicuti mihi supplicastis de
notando poetas, ut ex his eligeretis qui
uobis placerent, inueni multos e quibus
collegi aliquos, quos in cedula hac inclusa reperietis La lettera del Panormita
e quella del Poggio convergono nella notizia della stessa scoperta, che il
primo accenna con particolari minuti, mentre il secondo, tranne per le determinazioni concernenti
Frontino e Tacito, si rimette all’ inventario; e convergono anche nella notizia, che nel luogo della scoperta degli
autori mentovati abbondavano libri antichi, parte già in uso e parte ancora ignoti. ® La notizia al Poggio
provenne dal mo 1 La data del 1425 è segnata
nell’ ed. Tonelli dell’ epistol. del
Poggio, Firenze 1832. ? Panorm.:
“hi et innumerabiles alii quiin manibus uersantur, et praeterea alii fortasse
qui in usu non sunt, uno in loco simul
sunt’. Pogg. :‘ haec est particula quaedam, nam multi haco che, appresso, è
detto ‘ Hersfeldensis ° !; ma donde
provenne la notizia al Panormita? quale inventario o nota di libri gli
fudato di osservare, per indicare poi con
tanta precisione il principio dell’ Agr., dei libri di Frontino, del
dialogo de oratoribus e del libro di Suetonio
de gramm. et rhetoribus? Egli fa cenno di un suo ‘ coniunctissimus ’, al quale sarebbero stati
mandati i libri ‘ propediem ’, e da
questo a lui ‘proxime et de repente ’.
Perciò o il monaco hersfeldese, oltre all’avere iniziato delle trattative col
Poggio, trattò anche dello scambio dei
codd. del suo monastero coi libri che desiderava, con qualche umanista amico
del Panormita; ovvero il Panormita attinse la notizia, che egli comunica al Guarini, direttamente dal Poggio, tanto
più che allora egli era in sì buoni rapporti di amicizia col Poggio da mandargli, per mezzo del suo discepolo ed
amico Giovanni Lamola, l’Ermafrodito, e
ricevere da lui delle magnifiche lodi ® insieme con l’ avvertimento (non bene accolto) di scegliere argomenti più
serii per i suoi carmi. alii restant ’; cf. epist. 1. lib. III, del
14 settembre 1426 :‘ quin etiam dedi
operam, ut habeam inuentarium cuiusdam uetustissimi monasterii in Germania, ubi
est ingens librorum copia’. Queste
affermazioni dovettero provenire dalla frase ‘inueni multos’ e. q. s., che si legge in quella
parte della lettera del monaco
hersfeldese, che è ripetuta dal Poggio.
1 Poem epist. III 12 T. ‘ monachum illum ,Hersfeldensem ’. 2 Poggi epist. ll 40 T.: ‘ laudo igitur
doctrinam tuam, iucunditatem carminis, iocos et sales; tibique gratias ago pro
portiuncula mea, qui Latinas Musas, quae iamdiu nimium dormierunt, a somno
excitas.’ L’ epistola presenta la data 3 aprile 1426, perciò è contemporanea, o
forse di pochi giorni anteriore, a quella scritta dal Panormita al Guarini,
Così non si può discompagnare la scoperta della
Germ., indicata dal Panormita, dalle pratiche iniziate dal Poggio col monaco hersfeldese per aversi,
insieme con altri codd., ‘ uolumen illud
Corn. Taciti et aliorum, quibus caremus
’.! Son note, dall’ epistolario del Poggio, le vicende di tali pratiche; ® ma
si ignora quali possano essere stati i
risultamenti finali di esse. Si sa
tuttavia con quale pertinacia insistessero i cercatori di opere classiche nell’ età del Rinascimento, e
in ispecial modo il Poggio e il Niccoli;
talchè non è improbabile che alla fine
il monaco hersfeldese, dopo il vivo rimprovero che gli inflisse il Poggio e la
minaccia di non ottenere nulla, venuto
meno il favore del Poggio medesimo, quanto alla lite che a nome del suo
monastero da più anni sosteneva dinanzi
alla Curia, 3 si fosse indotto a portargli il cod. promesso. * Nè fa
meraviglia che il Poggio, avuto il cod.,
ne abbia conservato assoluto silenzio nell’ interesse suo, sia a vantaggio
dei 4 Poca epist. III 12 T. Il Voret
(trad. VALBUSA, II 4, vol. I, P. 254)
vorrebbe farla risalire alla scoperta fatta, nel 1422 in Germania, da Bartolomeo Capra, arcivescovo di
Milano; e del parere del Voigt è il
SABBADINI (v. Studi ital. di filolog. class.
VII, p. 128 sg.). Ma danno motivo a dubitare di ciò) le osservazioni
fatte dal Poggio, in riguardo a tale scoperta, nella lettera al Niccoli, del 10 giugno 1422 (epist. I
21). ? Pocair epist. III 12; 13; 14;
19; 29. 3 Pogcir epist. III 29 T. (26
febbr. 1429): ‘ monachus Hersfeldensis uenit absque libro; multumque est a me
increpatus ob eam causam: asseuerauit se
cito rediturum, nam litigat nomine monasterii, et portaturum librum. Rogauit me
multa: dixi me nil facturum, risi librum haberemus; ideo spero ot illum nos
habituros, quia eget fauore nostro”. 4
VOIGT-VALBUSA, op. c., II 4, vol. I, pp. 255-256. REN no
suoi negozi librari, sia a causa delle vie tortuose e non sempre legittime allora seguite per venire in
possesso di codd. preziosi. Egli stesso
dichiara al Niccoli, in occasione che questi gli aveva prestato l’ esemplare
allora noto di Tacito (oggi cod. Medic. II): ‘ Cornelium Tacitum, cum uenerit,
obseruabo penes me occulte. Scie enim
ommem illam cantilenam, et unde exierit, et per
quem, et quis eum sibi uindicet, sed nil dubites, non exibit a me ne uerbo quidem.’ ! Nè osta il
giudizio espresso dal Poggio, nella lettera del 17 maggio 1427, sull’ inventario portato dal monaco di
Hersfeld,® cioè che questo inventario
era ‘ plenum uerbis, re uacuum ’, e che
nella parte del medesimo inventario, mandata al
Niccoli, concernente Tacito ed altri scrittori, vi fossero ‘ res quaedam paruulae, non satis magno...
aestimandae ’ ; onde egli era caduto ‘
ex maxima spe, quam conceperat ex uerbis suis.’ Perciocchè, se in realtà fosse
stato di sì poca importanza e di sì
minimo pregio il cod. promesso, per qual
motivo avrebbe il Poggio tanto insistito per averne il possesso, come egli
attesta nelle due lettere che scrisse
poi al Niccoli, l’ una del 31 maggio
1427 e l’altra del 26 febbraio 1429? ® Anzi,
nella prima delle due lettere citate, dichiara espressa mente di aver meglio che per altri. codd.
provveduto ‘ al modo di aversi il ‘
uolumen ’ di Cornelio Tacito, ‘ quo
maxime indigemus, id quidem imprimis est, quod uolo: 1 Poee epist. III 14 T. (27 settem. 1427).
In conferma del silenzio che tenevasi sui risultamenti delle investigazioni e
delle pratiche iniziate con mercatanti
di codd. e con monasteri, v. l’epist. II 1.
2 Poca epist. III 12 T. 8 Pogeli
epist. III 13; 29, in fine, T. POR; E
quin mandaui isti monacho, ut uel ipse secum deferret, nam credit se
rediturum brevi, uel per alium monachum curaret deferendum : alios (sc. libros)
iussi portari Nurimbergam, hunc uero Romam proficisci recta uia, et ita se facturum recepit ’. Il Poggio aveva osservato, nell’ inventario
presentatogli dal monaco hersfeldese, dei libri classici che erano ormai acquisiti alla repubblica
letteraria ; e ne traeva argomento per
mostrare l’ ignoranza del frate che,
credendo nuovo per tutti quello che esso frate non sapeva, aveva infarcito l’ inventario di
libri già noti, ‘qui sunt iidem
(soggiunge il Poggio al Niccoli ') de
quibus alias cognouisti’. Probabilmente il Poggio dovette vedere anche indicato nell’inventario del
monaco hersfeldese quel tanto che già conoscevasi delle Rist. e degli ann. di Tacito, e che egli stesso aveva avuto
occasione di leggere nell’esemplare,
scritto ‘ litteris antiquis ’, che si
apparteneva a Coluccio Salutati o ad altri, e poi si ebbe 1’ agio di osservare in un altro
esemplare ( oggi cod. Medic. II ) ,
scritto ‘ litteris Longobardis ’, prestatogli dal Niccoli ? ed a questo
restituito per mezzo di Bartolomeo de’
Bardi. * Perciò egli nutrì la speranza di
venire presto in possesso anche di qualcuno dei primi libri degli annali, che forse nell’inventario
erano adombrati con qualche indicazione diversa da quella data comunemente per il codice già noto; ovvero
nella presunzione che il frate, ignorante di studi umanistici, non avesse saputo determinare con chiarezza il
cod.posseduto, 1 Poco epist. III 12
T. ? Pogau epist. III 15 T. (21 ottobre
1427). 3 V. il poscritto della lettera
del Poggio al Niccoli, in data del 5
giugno 1428 (III 17 T.) I e da ciòla possibilità che questo cod. per
avventura contenesse altre parti non note dell’opera tacitiana; ovvero per qualsivoglia altra ragione che a noi non
è dato investigare. In tal modo può avere una spiegazione plausibile l’insistenza del Poggio nel pretendere dal
frate la consegna del ‘ uolumen Taciti ’, non ostante che prima, dato uno sguardo superficiale all’ inventario ,
fosse rimasto disingannato di quanto
aveva sperato, e perciò avesse sì poco
pregiato i libri indicati e avesse notato di trattarsi di ‘ res quaedam
paruulae , non satis magno aestimandae’; chè, ‘si quid egregium fuisset ’,
serive egli al Niccoli, ‘ aut dignum Minerua nostra, non solum scripsissem, sed ipse aduolassem, ut
significarem ’.! Ed a rinnovellare le
speranze venute meno nell’animo del
Poggio avrà certamente contribuito il discorso fattogli da Niccolò da Treviri, uomo dotto ‘ et, ut
uwidetur, minime uerbosus aut fallax ’, intorno ad un libro di Plinio sulle
guerre germaniche. * In questo libro pliniano
il Poggio dovette subodorare i primi libri degli annales, perchè, come
bene avverte il Voigt, questi « non
portavano più verun nome d’ autore »;? e però, mentre da un canto
iniziava, sebbene con una certa dubbiezza, delle pratiche col Trevirese per
aversi il cod. 1 Poggi epist. III 12
T. 2 Poca epist. III 12 T. (17 maggio
1427): ‘ de historia Plinii cum multa
interrogarem Nicolaum hune Treuerensem, addidit
ad ea quae mihi d.xerat, se habere uolumen historiarum Plinii satis magnum; tunc cum dicerem, uideretne
esse /istoria naturalis, respondit se hunc quoque librum uidisse legisseque,
sed non esse illum, de quo loqueretur;
in hoc enim bella Germanica contineri '.
3 VoIGT-VALBUSA, Op. c., II 4, vol, I, p. 252. rm BI
pliniano, ! dall’altro canto, per meglio riuscire nel suo intento, onorifico e al tempo stesso lucroso,
è possibile che abbia sollecitato anche
il monaco hersfeldese per lo stesso cod.
pliniano, in cui, come si è detto, credeva
di potere rinvenire i libri perduti degli ann.; ma di questa seconda
pratica nulla scriveva in particolare al
Niccoli, a cui soltanto prometteva, protestando la sua sincerità , di dire a suo tempo quanto
potesse interessarlo ?. Le pratiche
col Trevirese nel primo periodo non dovettero approdare a nulla, poichè costui,
trattato malamente dalla Curia, se ne era allontanato sì malcontento da non
volerne sentire più di libri o di altro; 3
onde il Poggio si propose di mandare qualcuno in Germania, che curasse di portargli i libri
desiderati, 4 1 PocaIr epist. III 12 T.‘adhuc neque despero, neque confido uerbis suis (sc. Nicolai Treuerensis) litterae sunt
a quodam socio suo, cui librorum
mittendorum curam delegauit, se misisse libros Francofordiam, ut exinde
Venetias deferrentur ’. Notisi quanto
mistero in quei negoziati, forse per non suscitare i sospetti degli
amministratori dei monasteri, dai quali
venivano esportati, probabilmente per vie illecite, quei codd. preziosi. Era forse ad Augsburg o a Dortmund
il luogo in cui conservavasi il cod,
pliniano dei bella Germaniae (cf. MaAssMANN, Op. c., p. 179), ovvero nella
stessa Frankfurt a/M? Hersfeld non è molto distante da questa città. 2 Pogcit epist. III 12 T. ‘ hie monachus
eget pecunia: ingressus sum sermonem subueniendi sibi, dummodo ...... et
nonnulla alia opera quae, quamuis ea.
habeamus, tamen non sunt negligenda, dentur mihi pro his pecuniis haec tracto; nescio quid concludam: omnia tamen a me scies
postea. 3 PogaIr epist. III 13 T. (31
maggio 1427): cf. epist. III 14 (27
settembre 1427). 4 Pool epist.
III 13 T. ‘ ego solus uolui aliquem mittere in ns BA: n
Ma dopo non guari Niccolò da Treviri riapparve nel movimento del
commercio librario :! nessun vantaggio
ebbe a ricavare il Poggio dal ritorno del Trevirese, in quanto al codice pliniano delle guerre
germaniche e, fors° anche, in quanto ai
libri di Tacito non ancora noti? Certo
non viè documento, apparso fin oggi, che
ci dia in proposito notizie precise. Ma il Voigt bene avverte non essere probabile che il Poggio ed
il Niccoli vi avessero rinunziato, e «
quel silenzio non sì spiegherebbe meno, se il codice fosse venuto in Italia per
vie segrete ». ? Intorno ai risultamenti definitivi delle
pratiche a lungo continuate tra il Poggio e il monaco hersfeldese, non è improbabile la congettura del Voigt,
che e per le vive insistenze del Poggio
stesso e per l’ efficacia indubitata del
danaro mediceo, alla fine il codice (* uolumen illud Corn. Taciti et aliorum,
quibus caremus’ ) sia stato portato a
Roma o a Firenze; « diversamente,
soggiunge il Voigt, quegli amici umanisti non si sarebbero dati più
pace. Ma le vie difficili e tortuose,
con cui si giunse ad averlo, spiegano abbastanza, perchè il libro sia
stato tenuto nascosto per una intera
generazione, dissimulandone il possesso, come quello delle due parti degli annali ».* Or, si
conserva un cod. su cui si modellò la ‘
ed. princ. ’? stampata a Venezia,
probabilmente da Vindelin da Spira, verso il 1469 o il Germaniam, qui curaret libros huc afferri:
sed nolunt qui nolle possunt, et
deberent uelle”. 1 PoccI epist. III 29
(26 febbraio di e IV 4 T. (27 dicembre 1428).
2 VoIGT-VALBUSA, Op. c., Il 4, vol. I, p. 252. 3 VoIGT-VALBUSA, Op. c., II 4, vol. I, p.
256. i È 1470: esso contiene gli. ultimi libri degli
ann. uniti, mediante numerazione
successiva, coi libri che restano delle
Rist. ?, poi la Germ. e il dial. ; è il cod. Vindobonensis del sec. XV, di
scrittura bella ma non accurata, che a
Mattia Corvino, re di Ungheria, provenne, senza
dubbio, da Firenze.? Il cod. Vindobon. porta la data del 1466, perciò è posteriore alla morte del
Poggio‘: non putrebbe, per tanto, essere
stato una copia, fatta con poca
diligenza da qualcuno degli scribi del Poggio, sul cod. primitivo o sur un apografo, venuto a Roma o
a Firenze, di provenienza hersfeldese? «
Non è punto provato, avverte il
Ramorino, che tutti i Taciti diffusisi nel 400
provenissero dal secondo Mediceo ».° Sicchè, se la nostra congettura,
avvalorata dalle ricerche precedenti e
non contrastata da alcun documento, è attendibile, non è forse da ammettersi che il frate
hersfeldese, ottemperando alle pressanti richieste del Poggio, abbia aggiunto,
1 Seguo l'opinione del Massmann, op. c., p. 23, accolta dg Carlo Castellani, il quale, in una nota
segnata sulla copertina dell'esemplare
che conservasi nella bibl. V. E. di Roma, attribuisce la ‘ princeps’ a Vindelin
da Spira. Vedi’ introd. all’ ed. delle
opp. di Tac. fatta dal Jacob, 1885, vol. I, p. XXXV.. ? Ma delle hist. mancano gli ultimi tre
capp. del lib. V, cioè 24, 25, 26 e
circa metà del c. 23: si giunge sino alle parole ‘nauium magnitudine potiorem * (V 23), come
nel cod. Vatic. 1863. 3 Il Massmann, il
Michaelis ed altri edd. di Tac. fanno menzione del cod. Vindobon.: di proposito
ne tratta il HimER, in Zeitschrift fur
die bsterr. Gymn. 1878, p. 801. 4 Il
Poggio mori il 30-X del 1459: v. i fonti di questa data nell’ opusc. di G. A. CESAREO, un bibliofilo
del quattrocento, p. 5, 2.à eol., nota 2
(estratto dalla riv. Natura ed arte, a. I, 1891-92). 5 RAMORINO, disc. c., p. 96, nota 49. CONSOLI: L’ autore della Germania. 5 ASTRA
ca Bi probabilmente in copia, al
‘ uolumen Corn. Taciti * una parte,
l’introduzione forse, insomma quel che aveva potuto avere, del cod. pliniano
delle guerre germaniche, nel quale il
Poggio si aspettava di rintracciare i primi libri degli ann. tacitiani? Ne sarebbe così
derivata, o per preconcetto del Poggio o
per interessata annuenza del frate
tedesco o di altri (non escluso Niccolò da Treviri) alle esigenti aspettative del Poggio, la
intitolazione a Tacito di una parte dei
Germanica bella di Plinio Secondo. Se,
dunque, si ammette che fonte del cod. Vindobon.
sia stato il cod. o l’apografo venuto dalla Germania per i lunghi e pertinaci maneggi del Poggio, e
tenuto per qualche tempo accuratamente
nascosto in Firenze, si spiega
agevolmente il perchè fossero noti in Italia la
Germ. e il dial. prima ancora che si avesse notizia dei codd. portati, sul declinare del 1455, da
Enoch d’Ascoli.! 1 Nella bibl. di
Cesena si conserva un ms. della Germ., che,
secondo il cat. del Muccioli, appartiene forse al sec. XIV. Tale indicazione apparve inesatta al LEHNERDT
(Enoche v. Ascoli und die Germania des
T.s, in Hermes, vol. XXXIII, fasc. 3°, p.
504), perchè nel ms. è disegnato lo scudo e il nome di Malat[esta] N[ouellus],
vicario apostolico di Cesena e fondatore di
quella bibl., morto nel 1465. Veramente la data del sec. XIV è da reputarsi molto anteriore alla vera: ma
non poteva il ms. essere stato copiato
sur un cod. o un apografo anteriore alla divulgazione dei libri portati da
Enoch in Italia? non era forse Malat.
Novello in vita ed in grande autorità prima del
1455? Un altro ms, della Germ., più corretto del precedente, è incluso nel cod. segnato D IV 112, che si
conserva nella bibl. Gambalunga di
Rimini; porta la data del 1426, secondo il cat.
del prof. Attilio Tambellini (v. G. MAZZATINTI, inventari dei mss. delle biblioteche d' Italia, Forlì 1892, vol.
IL, p. 165, n.° 23), la 607 II.
Per altra via, qualche tempo dopo, gli umanisti del ‘400 ebbero di nuovo
notizia della Germ. : se ne ascrive il
merito ad Enoch di Ascoli. ! Era questi
un mediocre erudito, ? che aveva passato alcuni anni in Firenze, prima quale maestro dei figli di
Cosimo de’ Medici, e poi con l’ ufficio
di ripetitore nella famiglia de’ Bardi;
indi insegnò belle lettere in Ascoli e
in Perugia. Sia per rapporti personali che egli aveva col papa, sia per
autorevoli lettere commendatizie
concesse da Cosimo de’ Medici, a cui era stato prima raccomandato dal dotto Ambrogio Traversari,
generale dell’ ordine dei Camaldolesi$
fu prescelto da Niccolò V per fare delle
ricerche di codd., specialmente delle deche perdute di T. Livio, nelle biblioteche
delle chiese quale data il LEHNERDT
(I. c., p. 505) e R. RETZENSTEIN (zur Texrtgeschichte der Germania, in
Philologus vol. LVII (n. s. XI), fasc.
2°, p. 367 sg.) ritardano giustamente sino al 1476; tanto più che chi scrisse l’apografo, certo
Rainerius Maschius da Rimini, dichiara
di averlo scritto allorchè ‘ dicebatur oratores
imperatoris et regis Gallorum et aliorum ultramontanorum uenire ad
oranlum Sixtum IIII pontificem'; perciò dopo il 1471, anno in cui fu assunto alla tiara Sisto IV
della Rovere. 4 Per i funti delle
notizie intorno ad Enoch d'Ascoli, v. ALFREDo REUMONT, aneddoti
storico-letterari, in Archivio storico italiano, serie III, t. XX (1874), pp.
188-189. VOIGT-VALBUSA, OP. C., vol. II,
pp. 192-194. 2 Si deve riconoscere un
encomiv esagerato in quel che scrisse di
lui Gius. LENTO, clarorum Asculanorum praeclara facinora, Romae 1622, p 37: ‘ Enochus, sapienti et
altiore mente praeditus, omnem mouere lapidem, donec res (cioè, la scoperta
di codd. antichi) prospere scilicet
cesserit. quam ob rem non solum nutantes litteras Latinas confirmauit, uerum
Graecam facundiam tuendo melius propagauit latius.' 3 A. TRAVERSARII epist., p. 335, ed.
Mehus. 6R e dei chiostri dell’ Europa settentrionale.
Enoch partì per il suo viaggio di
esplorazioni letterarie nella primavera del 1451 : visitò l’ isola di Seeland,
e di là scrisse una comunicazione a Leon Battista Alberti.! Poi non diede più notizie di sè,” salvo quelle
accennate dal Poggio in una lettera, con la frase sarcastica: ‘ Enoch
Esculanus, qui adeo diligens fuit, ut nihil iam biennio inuenerit dignum etiam indocti hominis
lectione ’.8 Probabilmente, se si accoglie la testimonianza del Filelfo,* Enoch penetrò nella penisola scandinava. Non
si ha alcuna notizia intorno alla via
del ritorno: è possibile che abbia
percorso, per fare ritorno in patria, la Germania e vi abbia fatto delle indagini
per iscoprire dei codici. Si conserva
ancora nell'archivio di Kònigsberg il
breve, con cui Niccolò V raccomandava al gran maestro dell’ Ordine teutonico,
Ludwig von Erlichshausen, il ‘ dilectum
filium Enoch Esculanum qui diuersa loca
et monasteria inquirat, si quis ex ipsis deperditis apud uos libris reperiretur ’.5 Ma non è
provato da alcun 1 GrroL. MANCINI,
vila di L. B. Alberti, Firenze i882, p. 328 sg. 2 Onde il Poggio ironicamente scriveva: ‘
ille enim Enoch adeo solers et diligens fuit, ut ne uerbum quidem ad me
adhuc scripserit’; epist. X 17 T. (22
gennaio 1452 [1453]). 3 Poca epist. IX
12: la lettera non porta data; è probabile
che sia stata scritta nel 1453.
4 Nella lettera del Filelfo a Callisto III, del 19 febbr. 1456, (epist. Ven. 1502) si legge: ‘is enim Enochus in Daciam
(/. Daniam) usque profectus est, et, ut referunt aliqui, in Candauiam (. Scandinauiam) usque, quae quam longissime
ultra reliquas omnes insulas, de quibus
exstet memoria apud priscos rerum
scriptores, posita est in mari oceano e regione Germaniae ad septentrionem ’. 5 VOIGT-VALBUSA,
Op. c., V ©, vol, II, p. 193,
lm documento, che Enoch sia stato
in Hersfeld ed abbia fatto delle
ricerche in qualche monastero di quella città. E, del resto, a qual fine visitare i monasteri
di Hersfeld, per i quali egli avrebbe «
senza dubbio ricevuto istruzioni esatte
da Poggio »,' se il monaco tedesco, con cui ebbe a trattare il Poggio per il‘ uolumen illud
Corn. Taciti et aliorum ’, era, è vero,
« nativo di Hersfeld », ma « stava nel
convento di Niirnberg, e andava e tornava spesso da Roma per interessi del monastero
»,° cioè del monastero norimberghese ?
In ogni caso, non sarebbe una congettura
priva di fondamento, che Enoch, nel suo
viaggio di ritorno, avesse visitato qualcuno
dei monasteri di Nirnberg, secondo le possibili istruzioni dategli dal
Poggio. Enoch ritornò a Roma sul
declinare del 1455, 5 portando seco alcuni codici ; ma non vi trovò liete
accoglienze, come egli sperava, perchè Niccolò V, suo protettore, era morto, e
il nuovo papa Callisto III non
mostravasi benevolo verso gli umanisti e le loro ricerche letterarie. Aggiungasi che gli eruditi, tanto
a Roma quanto a Firenze, non mostravano
benevolenza per lo Ascolano, poichè
questi si era deciso a non concedere
copia alcuna de’ suoi codd., prima che fosse stato. degnamente
rimunerato delle sue fatiche. Scriveva, infatti, 1 Studi ital. di filol. class. vol. VII, p.
130. ? Studi ital. di filol. class.
vol. VII, p. 128. 8 « Forse nel
novembre », aggiunse VITTORIO Rossi nella nota: l'indole e gli studi di
Giovanni di Cosimo de’ Medici, notizie e documenti; pubblicata nei Rendiconti
della R. Accad. dei Lincei, classe di
scienze morali, storiche e filologiche : es=
tratto dal vol. II, fasc. 19, Roma 1893. A p. 34 sg., n. 4, lo dimostra
ampiamente, A] Je Carlo de’ Medici, protonotario apostolico ,
al fratello Giovanni: « sì che vedete se
volete gettare via tanti danari per
cose, che la lingua latina può molto bene
fare senza esse, che a dirvi l’oppenione di molti dotti uomini, che gli anno visti, da questi quattro
infuori che sono segnati con questo
segno x, tutto il resto non vale una
frulla ».'! Ciò non ostante Carlo de’ Medici mandò al fratello, insieme con la lettera cit.,
l’inventario dei codd. portati da Enocb.
Su questo inventario si deter-. minò
meglio l’opinione punto benevola che i dotti fiorentini si erano formata per lo
scopritore : di essa si rese interprete
Vespasiano da Bisticci che, per ispiegare
quel che tenevasi cattivo risultamento del viaggio fatto da Enoch per investigazioni letterarie ,
scriveva nella sua biografia del «
maraviglioso grammatico » : « istimo che
procedesse per non avere universale notizia di tutti gli scrittori, e quegli che erano e quegli
che non si trovavano ». # Or, come mai si può conciliare tanta noncuranza , non
diciamo dispregio , per i codd. scoperti
dall’ Ascolano, se tra questi era compreso quel codice hersfeldese, o meglio norimberghese, per il
cui possesso si era sì lungo tempo e con
tanta persistenza affaticato il Poggio, d’ accordo col Niccoli ? Non è
lecito forse da questa contraddizione
argomentare che il cod., che si vuol
dire hersfeldese, fosse probabilmente venuto
prima in possesso del Poggio? 3 Sarebbesi questi mo 1 GAxE, carteggio I, p. 163 sg. Vitt. Rossi,
opusc. c., II, p. 27. La lettera del
Medici porta la data del 13 marzo 1456, st. com.; 1455, st. fior. ? VESPASIANO, vile d'uomini illustri del
sec. XV, ed. Bartoli, p. 511. 8 Volet-VALBUSA, Op. c., V 5, vol, II, p.
194, nota 2: suppone si strato così indifferente per le scoperte di
Enoch, e avrebbe con la sua indifferenza
provocato quel giudizio sì freddo e
altezzoso della scuola umanistica fiorentina, sulla quale’ valeva molto la sua grande autorità, se non
avesse posseduto prima del ritorno di
Enoch, avendolo in un modo qualsiasi
ottenuto, un esemplare del cod. che per
lunghi anni aveva così vivamente ambito ? III.
Enoch, disingannato per la fredda accoglienza avuta e dai dotti umanisti e dai principi
mecenati , si ritirò ad Ascoli, dove
poco dopo mori. Quand’ egli si ricoverò
nella sua città nativa, dovette portare seco i
codici che, per la forte remunerazione che si aspettava di duecento o trecento fiorini, non aveva
potuto trovare occasione di cedere ad
alcuno; e che egli avesse. con sè i
detti codici prima di morire, c’ induce ad ammetterlo una lettera del
protonotario apostolico Carlo de’
Medici, del 10 dicembre 1457, nella quale questi serive al fratello Giovanni che, avuta notizia della
morte di Enoch , sì era affrettato a
scrivere a Stefano de’ Nardini, da Forlì, allora « governatore di tutta la
Marca », per pregarlo di mandargli, se
non gli originali, almeno le copie dei
codici dell’ Ascolano. ! Non si ha
alcuna notizia certa intorno alle persone
che vennero in possesso dei codici portati da Enoch. Quando questi giunse a Roma, dopo la sua
lunga peregrinazione per i paesi nordici, dovette certamente, oltre al presentare degli elenchi dei libri
scoperti, permettere anche di osservare
i libri stessi; ma non permise a nes che
nell’ elenco di Enoch non fossero stati inclusi gli scritti di Tacito e di Suetonio. 1 Vitt. Rossi, opusc. c., VIII, p. 30. naz
suno di trarne copia, prima che gli si fosse data una degna
remunerazione per la scoperta fatta.! Perciò, finchè egli fu in vita, i codici che aveva scoperti
rimasero in suo potere. Aveva tentato, è
vero, confortato forse dalle esortazioni dell’ Aurispa *, di offrirli a re
Alfonso; ma il risultamento delle nuove
pratiche non dovette essere conforme ai
desideri di Enoch. Non è però improbabile
che, dopo la morte di Enoch, i codici di lui siano passati, mediante gli
abili maneggi di Carlo de’ Medici e la
cooperazione di Stefano de’ Nardini, nella biblioteca di Giovanni di Cosimo de’ Medici , e perciò a
servizio degli umanisti fiorentini. Un’
allusione a ciò pare di 1 Carlo de’
Medici scriveva al fratello Giovanni, in data del 13 marzo 1456 (1455, st. fior.): « Lui
(Enoch) per insino a qui non ha voluto
farne copia a persona, imperò dice non vuole
avere durate fatiche per altri, e non delibera darne copia alcuna, se prima
da qualche grande maestro non è remunerato
degnamente, ed ha oppenione d’averne almanco 200 o 300 fiorini ». GAYE,
Op. c., I, p. 163. Vitt. Rossi, opuse. c., p. 27. Sino al dicembre 1457, quando già era ‘avvenuta
la morte di Enoch, nè Carlo de’ Medici
né il card. di Siena avevano potuto avere gli originali o le copie dei libri
nuovi lasciati dal1 Ascolano : v. lett. VIII del 10 dicembre 1457, in Virt.
Rossi, opusc. c., pp. 30-31. 2 V. la lettera dell’Aurispa al Panormita,
del 28 agosto 1455, in SABBADINI, biogr.
documentata di Giovanni Aurispa, Noto
1890, p. 128; e v. la chiusa di un’altra lettera dello stesso Aurispa al
Panormita, del 13 dicembre 1455, pubblicata nel cit. libro del Sabbadini, p. 133. Ma la data della
prima lettera deve essere portata un po’ più tardi, probabilmente al 1457,
come han dimostrato con validi argomenti
il CESAREO, opuse. c., I, p. 4, col. 12,
e il Rossi, opusc. c., pp. 34-35, nota 4.
A RES scorgere in una lettera
scritta da Carlo de’ Medici, il 13
gennaio 1458. ! In qual modo pervenne
ad averne notizia, e come si ebbe l’agio
di farne l’apografo Gioviano Pontano, il
quale viveva lontano dai circoli letterari di Roma e di Firenze? Nessun documento ci aiuta, per
ora, a determinare una risposta precisa e certa al quesito proposto; e nulla c’
è da spigolare nè da congetturare dalle
due note attribuite al Pontano, che si leggono
nel cod. Leidens. Perizon. Ma è possibile che nuove ricerche sulle
vicende di alcuni codici di fonte (come
credesi) pontaniana , i quali si conservano nella biblioteca di Minchen,
p. es. il cod. degli Argon. di Val.
Flacco , ? e il cod. che contiene il libro Andreae Floci Florentini de
Romanorum magistratibus ac sacerdotiis;* e nuove indagini negli archivi di Firenze e di Napoli chiariscano le relazioni
che ebbe il Pontano con gli umanisti
fiorentini, dai quali probabilmente si ebbe facoltà di prender copia dei codici d’ Enoch, che egli trovava ‘ mendosos et
imperfectos.’ Ma le congetture
concernenti le relazioni del Pontano con
la scuola umanistica fiorentina non tolgono la pos 4 Nella cit. lettera del Medici (v. Rossi,
opusc. c., IX, p. 31) si legge: « Per
una vostra sono avisato come aveste la lettera
mi scrisse m. Stephano de Nardinis supra quelli libri di Enoc; non ho poi altro, ma non dubitate che per
essere il primo che gl’abbia,non v’àanno acostare uno denaro di più ». Il Rossi
tuttavia resta in dubbio « se quei
maneggi sortissero l’effetto desiderato » (pag. 39). 2 Nel cod. Lat. 802 (cod. Victorin. 123)
leggesi appunto l' annotazione ‘emit Florentiae Iouianus ’. 3 Nel cod. Lat. 822 (cod. Victorin. 162) c'è
la nota ‘ est Iouiani Pontani. Florentiae, MCCCCLXV III ', i
sibilità, che egli sia venuto a conoscenza dei codici enochiani, per
acquisto che abbia fatto degli stessi la
corte di Napoli; sebbene, in tal caso, non ci sarebbe stato altro scopo per trarne copia, che
quello di correggerne le mende numerose. Ma nessun documento nè indizio ci aiuta per affermare o congetturare
ciò. Fatto certo è che il così detto
cod. hersfeldese, quale fu portato da
Enoch a Roma, non si conservò in nessuna biblioteca: era scritto su pagine
divise in colonne, e per la Germ. presentava (se quanto afferma il Decembrio, è
da riferirsi al cod. anzidetto !) la particolarità dell'uso della v.
‘inscientia ? nel cap. 16, 6, invece di
‘inscitia’; mentre, come è noto, nel sec. XV era invalsa generalmente l’ usanza di scrivere le
pagine dei libri per intero, senza
dividerle in colonne; e in> oltre, in
nessun cod. della Germ., finora conservato,
osservasi la v. ‘ inscientia ’ nel 1. c. ? IV.
Quanto all’ elenco dei libri portati iu Italia da Enoch d’ Ascoli, non abbiamo testimonianze
del tutto concordi nè complete.
Bartolomeo Platina ne nota due: il de re
coquinaria di Celio Apicio e il comm. ad Orazio di Porfirione.* Degli stessi
due libri fa menzione Vespasiano da
Bisticci. 4 1 Vedi SABBADINI, il ms.
hersfeldese etc., in Rio. di filol. e d’i.
cl., a. XXIX (1901), p. 262. ?
Soltanto il cod. della bibl. Angelica (‘ Augustinorum’ ) Q 5, 12 del 1466, e il cod. Kappianus (K del
Massmann) presentano “iusticia’ invece
di ‘ inscitia ”. 3 PLATYNAE de uitis
max. pont. hist. periocunda, Venet. (Ph.
Pincio Mantuano) 1511, fol. 150,
4 VESPASIANO, l. c. Par |
pes Il Panormita apprese da Teodoro
Gaza che tra le scoperte enochiane erano
Apicio e un Caesaris iter;! e l’Aurispa,
in una lettera del 13 dicembre 1455, diretta al
Panormita, enumera: a) l’Apicio, cui chiama ‘ pauperem coquinarium ’, inferiore nell’arte culinaria
alla sua cuoca; b) il Caesaris iter, che ‘ prosa oratione est, non uersu’; c) il commento di Porfirione, che a
lui sembra ‘ magis aestimandus quam quicquam aliud ab ipso allatum ?.* Il ‘ quicquam aliud ’ della frase
dell’Aurispa può tanto riferirsi ai due
libri menzionati prima, Apicio e il Caesaris iter, quanto alle altre novità
librarie recate da Enoch, le quali
l’Aurispa non credeva degne di essere
rammentate; chè non può supporsi che egli
le ignorasse, se scriveva al Panormita: ‘eum qui codices hos inuenit et
Romam perduxit ad uos mittam cum omnibus
musis suis”. Carlo de’ Medici chiedeva
a Stefano de’ Nardini che dei codici
nuovi lasciati da Enoch, morto ad Ascoli,
gli mandasse: « Appicius de re quoquinaria, Porfirione sopra Oratio, Suetonio de uiris illustribus,
Itinerarium Augusti ».* Dovevano essere
gli stessi quattro libri che avea
contrassegnati nella lettera del 13 marzo 1456
a Giovanni de’ Medici; poichè il resto dei libri portati dall’Ascolano non valeva, secondo lui, « una
frulla » ‘. 1 Nella lettera del Panormita
all'Aurispa (v. SABBADINI, dbiogr. doc.
di G. Aurispa, p. 133, n. 1) si legge: ‘ fac tecum deferas Apicium coquinarium
et Caesaris « iter », nuperrime, ut refert
Theodorus tuus nunciam meus, inuentos Romamque perductos ’. 2 La lettera dell'Aurispa è cit. a p. 72,
nota 2.* 8 Di questo incarico dato al
Nardini egli scrive al fratello Giovanni, nella lett. del 10 dicembre 1457: v.
VITT. Rossi, opusc. c., VIII, pp.
30-31. 4 Vitt, Rossi, opusc, cit., II,
p. 27. TR (; pere Talchè ai tre libri che già conosciamo per
le testimonianze sopra indicate, bisogna aggiungere, secondo quel che scriveva Carlo de’ Medici, il libro di
Suetonio de uiris illustribus (non de
grammaticis et rhetoribus). Oltre questi
quattro libri, null’ altro sappiamo degli altri libri portati da Enoch.' Nè a
riempiere la lacuna può valere la
testimonianza, testè data alla luce, di P. C.
Decembrio; poichè questi non dice, nè lascia in alcun modo intendere, che i quattro libri segnati
nella nota (Germ., Agr., dial. de oratoribus
e Suetonio) si debbano comprendere tra le recenti scoperte di Enoch. L’a. 1455 a cui, nella nota del Decembrio, si
accompagnano le parole ‘ Cornelii taciti
liber reperitur Rome uisus ”, vale a
indicare in qual tempo l’autore dello zibaldone
ebbe notizia o vide i libri che nota nell’ elenco, non la data della scoperta di Enoch; chè, se
intendimento di lui fosse stato
accennare in un modo qualsiasi tale
data, avrebbe certamente aggiunto qualche parolaanaloga a quelle che si
osservano nella nota del cod. Leid.
Perizon. ‘ nuper adinuentos et in lucem relatos ab Enoc Asculano ?.
: Nulla, per tanto, osta ad ammettere
che il Decembrio abbia potuto attingere
le notizie che trascrive nel suo
zibaldone a tutt’ altra fonte, che non a quella dei co 1 Appare inesatta l’asserzione, che nella
lista di Carlo de' Medici sia notata la
sola opera di Suetonio « certamente perchè essa nel cod. occupava il primo
posto » (v. Studi ital. di filol. class.
vol. VII, p. 130, nota 4); perocchè , argomentando da una nota di Pier Candido Decembrio (Riv.
di filol. e d'’ i. cl., a. XXIX (1901),
fasc. 2°, p. 268) l’opera di Suetonio occupava, invece, nel cod. l'ultimo
posto. dici portati da Enoch! : probabilmente le avrà attinto al codice del monaco hersfeldese, in quanto che
verso la metà del sec. XV questo cod.
doveva essere già pervenuto tra le mani del Poggio. Il Decembrio, come è noto, sin dal 1450 era al servizio della
Curia romana. Se, al contrario, si
volesse ammettere che il Decembrio fosse
stato uno dei primi, anzi risolutamente il primo ?, a vedere il così detto cod. hersfeldese delle
opere minori di Tacito, portato in Italia da Enoch, si andrebbe incontro ad un’affermazione indubitata di
Carlo de’ Medici, il quale scriveva al fratello: « a dirvi l’oppenione di molti dotti uomini, che gli Anno visti
(cioè, i libri portati dall’Ascolano),
da questi quattro infuori che sono segnati...., tutto il resto non vale una
frulla » :3 e i quattro libri, l'abbiamo
osservato sopra, erano Apicio,
Porfirione, Suetonio e l’Itinerarium. Sarebbe stato mai possibile che i quattro libri segnati nella
nota del Decembrio fossero stati
giudicati per « una frulla » da quei
dotti uomini, che costituivano, diremo così, il fiore della scuola umanistica romana nel sec. XV
? È da notarsi, inoltre, che il libro
di Suetonio, accennato da P. C. Decembrio, ha per titolo de grammati 4 Si noti la differenza tra il tit. della
Germ. segnato dal Decembrio (de origine et situ Germaniae) e quello scritto nel
cod. Leid. Perizon. (de origine situ
moribus ac populis Germanorum), attribuito al Pontano. Se il Decembrio e lo
scrittore del cod. cit. avessero attinto
la denominazione della Germ. alla stessa fonte, non avrebbero certamente
mostrato alcuna discrepanza quanto al tit. del libro. ? Così opina il Sabbadini : v. Rio. di
filol. e d’i. cl., a. XXIX (1901), p.
263. 3 Lett, cit. del 13-III 1456: v,
Vitt. RossI, opusc, c., II, P. 27. nun
E cis et rhetoribus, il quale non
corrisponde al tit. de viris illustribus,
che si legge nella lettera di Carlo de’
Medici. Egli è vero che il secondo tit. include in sè l’altro, come il genere contiene la specie; ma un
titolo preciso, tutto proprio, doveva averselo il libro di Suetonio, portato dall’Ascolano. Nel cod. Leid.
Perizon. è scritto: ‘ Caii Suetonii
Tranquilli de wiris illustribus liber incipit. » de grammaticis ’; e in fine la
nota: ‘ amplius repertum non est adhuc.
desunt rhetores XI”. Certo, l’
indicazione del Decembrio risponde meglio al contenuto di quanto rimane del
libro di Suetonio ; mentre l’
indicazione di Carlo de’ Medici si riferisce alle notizie che si avevano intorno ad un libro di
Suetonio de wiris illustribus, del quale si era giovato S. Girolamo per scrivere le vite degli uomini illustri,
dall'età degli apostoli sino a” suoi
tempi.' E non pare perciò improbabile la congettura, che Enoch, per indicare
nell’ inventario il libro di Suetonio, avesse usato il titolo de uiris illustribus, a fin di attirar meglio
sui suoi codici 1’ attenzione dei dot ti; stante che allera era divulgata la
leggenda, che Sicco Polenton (de’ Ricci), dopo
essersi servito dell’ opera di Suetonio, per compilare il suo libro de scriptoribus linguae Latinae, 1’
avesse distrutto col proposito di togliere qualsiasi prova a chi si fosse avvisato di accusarlo di plagio.? In
appoggio di tale congettura, vale molto
la nota, attribuita al Pontano, che
leggesi nel cod. Leid. Perizon: in essa, oltre l’ invettiva contro Sicco
Polenton per la pretesa distruzio i
HieroNnyM. epist. XLVII ad Desiderium, t. I, col. 209, Veron. 1734; prol. ad Dextrum praet. praef. in libr.
de uiris illustribus, t. II (1735), col. 807.
? Vitm. Rossi, opusc. ne di quella parte del libro di Suetonio, ‘ quae
est de oratoribus ac poetis’, si trae
occasione di lamentare che Bartolomeo
Fazio non avesse potuto, per l’ immatura morte (novembre 1457),' leggere lo
scritto di Suetonio, mentre componeva il libro de uiris illustribus temporis sui. Di modo che, con l’ intitolare
de wiris illustribus il libro di
Suetonio, si volle indicare il contenuto del libro molto maggiore del vero, non
tanto, forse, per trarre in inganno chi
si fosse deciso a comprare il codice, quanto per avvicinare la scoperta di
Enoch al libro compilato dal Polenton ed
alle vite degli uomini illustri del
Fazio. Non si può disconoscere che, se
Enoch aveSse portato seco degli scritti
di Tacito, così pregiati dai dotti umanisti del sec. XV, non avrebbe di certo
tralasciato di dar loro evidenza,
compilando 1’ elenco dei libri scoperti durante il suo viaggio nell’Europa
settentrionale. Nè è ammissibile che
alla diligenza d’ un cercatore di
codici, scelto appunto per tali indagini da un pontefice di mente superiore e
d’ illuminata liberalità, quale fu Niccolò V, fosse sfuggito il nome di Tacito,
ove questo nome si fosse trovato scritto
sul frontespizio di qualcuno dei codici
o dei libri contenuti in uno stesso
codice; nè l’intendimento di trarre vantaggio dal mettere in prima linea
il nome di Suetonio poteva essere d’
ostacolo , che si scrivesse il nome di Tacito accanto o anche dopo quello di Suetonio, se in realtà
il nome di Tacito si trovava in fronte a
qualcuno dei libri portati da Enoch in
Italia. L’ importanza di Tacito nei 1
ZENO, diss. Voss., Ven. 1752, p. 70 sg.
80 giudizi degli umanisti del
sec. XV non era inferiore a quella
attribuita a Suetonio. ! Molto meno
attendibile ci sembra l’ avvertenza, che
fu omessa la menzione del nome di Tacito nella lettera del Medici, 10 dicembre 1457, perchè questi
vide solo al principio del codice il
libro di Suetonio. ®? Appare, infatti,
da un’ altra lettera di Carlo de’ Medici, con la data « Roma, 13 marzo » (1456 st. com., 1455
st. fior.),3 che egli ebbe sott’ occhio
l’ inventario compilato da Enoch, non il codice, sul quale inventario
contrassegnò quattro libri, i migliori
secondo « l’oppenione di molti dotti
uomini, che gli Anno visti ». E di più nella cit. lettera del*°10-XII 1457 non si fa elenco di
codici, ma solamente di libri, e tra
questi il de wiris illustribus di Suetonio
occupa il terzo posto. Or, se Carlo de’ Medici vide 1’ inventario presentato da
Enoch e non i codici, molto meno probabile appare la congettura, che egli abbia veduto « una semplice copia,
affine al cod. Vaticano 4498, che reca
tutte quattro le opere in que 1
Arrogi una considerazione: come si potrebbe conciliare la niuna menzione della Germ. nell'inventario
delle scoperte dell’Ascolano, col fatto che per avidità di guadagno i cercatori
e mercatanti di codici dicevano talvolta
cose non vere o esageravano:quel che realmente si era scoperto? Valga d' es. il
caso di Niccolò da Treviri: questi nell'inventario dei libri nuovi mandato al Poggio scrisse di avere presso di
sè un ‘ uolumen in quo sunt XX comoediae
Plauti' (v. Poca epist. III 29 T.); e
poi, invece, ne portò sedici (v. PocaIt epist. IV 4 T.). ? Cosi appunto si legge in Studi ital. di
filol. class. vol, VII, p. 130, nota 4;
e Rio. di filol. e d'i. cl. a. XXIX (1901), fasc. 2, p. 264. E dello stesso avviso è anche il
LEHNERDT, in Hermes, vol. XXXIII (1898),
p. 501. 3 GAYE, Op. c., I, p. 163 sg.
Vitt. Rossi, opuse. c., II, p. 27. ASI
RS st’ ordine» Suetonio de
grammaticis, Tacito Agricola, dialogus,
Germania ».! Aggiungasi che nella nota dello
zibaldone del Decembrio il libro di Suetonio occupa l’ultimo posto, e la Germ. ha il primo parsa:
anteriore, perciò, all’Agr. e al dialogus.*
Altre considerazioni c’ inducono ad ammettere come probabile che, tra i libri portati da Enoch
in Italia, quelli attribuiti a Tacito
mancassero dell’ indicazione del nome
dell’ autore. Dalla lettera del Panormita al
1 Rio. di filol. e d’i. el. 1. c. Ma in realtà il cod. Vatic. 4498 contiene Suetonius de grammaticis et
rhetoribus nel terzo posto: lo precedono Frontinus de aquaeduct. e Rufus de
prouinciis. 2 Perciò appare, ora,
infondato, alla luce dei documenti testé
scoperti, il ragionamento del LEHNERDT |. c., p. 501: « dass in Carlos Briefe nur Suetonius, nicht aber die
beiden Taciteischen Schriften genannt werden, findet leicht eine Erklàrung. Wir erfuhren schon aus einem frilheren
Briefe, dass Enoche mit seinen Schàtzen
sehr zuritckhaltend war; so lag auch den
beiden Medici nicht der Codex selbst, sundern nur das Inventar Enoches vor, in
dem, wie so hàufig, nur das erste Werk
der Sammelbandschrift aufgefihrt war ».
La spiegazione, invece, sarebbe tutta al contrario, perchè, secondo la
nota dello zibaldone di Pier Candido Decembrio, la Germ. è il primo senitto del cod.; l’ultimo è
il de gramm. et rhetoribus di Suetonio.
y 3 Vitt. Rossi nell'opusc. c., p. 38,
nota 1, scrive: « se poi Enoch non trascrisse il cod. da lui scoperto, ma portò
questo stesso in Italia, può ben darsi
gli sia sfuggito il nome di Tacito, che, come nel cod. Perizoniano, dovea
leggersi in fronte al secondo opuscolo
contenutovi, alla Germania, e non al primo, il dialogo de oratoribus ». Ma il
MASsMann, op. c., p. 7, descrivendo îl
cod. Leid. Perizon. XVIII C 21, osserva che il
1° opusc. porta nel fol. I il soprascritto di colore rosso ‘ CoRCONSOLI
n L’ autore detta Germania, 6 cn
a Guarini veronese, citata in
principio del presente capitolo, apprendiamo che solo per congettura erasi
attribuito a Tacito il dialogus. Nè alla notizia precisa data dal Panormita contrasta la nota del
Decembrio, per la quale si vuole
riconoscere per vero « indi scutibilmente che il dialogo portava il nome di Tacito »;! perocchè l’ affermazione del
Decembrio devesi riferire allo stato del codice o di un apografo del codice, ventinove anni dopo che ne avea dato
l’ annunzio il Panormita. Dopo tanti anni era possibile che il Decembrio avesse veduto e descritto qualche
esemplare, proveniente forse dal cod.
annunziato dal frate hersfeldese, nel quale esemplare la congettura del
Panormita fosse stata accolta come notizia indubitata, e si fosse ascritta a Tacito la paternità del
dial. Quanto all’ Agr. manca qualsiasi
testimonianza, che il libretto formasse
parte del cod. portato da Enoch. Il
Decembrio lo nota soltanto nell’ elenco, senza indicare espressamente che
l’Agr. era incluso nello stesso cod.,
insieme con la Germ., il dial. e il Suetonio, e ne teneva il secondo posto. Nè havvi alcun
codice, in cui si presentino riunite
insieme le tre così dette opere minori
di Tacito e il de gramm. et rhetoribus di Suetonio, nell’ordine stesso
della descrizione che ne fece il Decembrio.
Alla mancanza di testimonio per l’Agr. non può supplire, come pare a
noi, il cod. Vatic. 4498; * perchè, co
NELII TACITI DIALO-/gus de oratoribus incipit’: e la stessa osservazione
ci è stata confermata, in una cortese lettera del 4-X 1901, dal prefetto della biblioteca
universitaria di Leida sig. S. G. de
Vries, alla cui gentilezza ci siamo rivolti per avere delle notiziecerte sull'argomento. 1 Rio. di filol. e d’ i. cl., 1. c., p.
264. ? V. gli Studi ital. di filol.
class. vol. VII, p. 130: si ammette me sopra si è in parte avvertito, ! in
questo cod. non si contengono raccolte
le sole quattro opere che si dicono costituire il cod. hersfeldese, portato da
Enoch in Italia, e nemmeno nell’ ordine
indicato dal Decembrio (G. A. d. S.), ma
vi si contengono anche: 1° Frontinus de aquaeduct.; 2° Rufus de prouinctis
;.... 4° [ Pseudo-] Plinius de viris
illustribus ;..... 8° M. Iunii Nypsi de
mensuris ; 9° incerti de ponderibus ; 10° Senecae apokolokyntosîs ; 11° Censorinus de die
natali. Di que= sti
scritti alcuni, come p. es. il de aquaeduct. di Frontino,? erano già noti prima
che il cod. dell’ Ascolano fosse stato
portato in Italia. V. Resta la
testimonianza che dicesi del Pontano, scritta
sul cod. Leid. Perizon., la quale avrebbe un notevole valore, se prima si
chiarissero, mediante la scoperta di nuovi documenti, le difficoltà presentate
dal Voigt * e accolte dal Teuffel,' ma
da altri respinte. * Egli è vero che
Vittorio Rossi è pervenuto a dimostrare, con documenti che si conservano nell’
archivio fiorentino (Med. avanti il
Princip.), essere conforme al vero
l’attestazione pontaniana: ‘qui (sc. Bartholomaeus Facius) ne hos Suetonii
illustres uiros uidere pos appunto che
al difetto di testimonianza per l' Agricola debba supplire il cod. Vatic. 4498, 1 V. p. 81, nota 1l?. ? Poe epist. III 37. IV2e4T, 3 VoIGT-VALBUSA, Op. c., II 4, vol. I, p.
255 sg., nota 3. 4 TEUFFEL-SCHWABE, G.
d. r. L. 5, $ 334, 4, p. 835. 5 Vedi
WuENSCH, de Tac. Germaniae codicibus Germanicis, Marburg 1893; e 4ur Texigeschichte der Germ.,
in Hermes vol. XXXII (1897), fasc, 1°,
p. 57. dn set, mors immatura effecit. Paulo enim post
eius mortem in lucem redierunt.’ Infatti, il Fazio morì nel 1457; e dalla lettera di Carlo de’ Medici, 13 genn.
1458, risulta che sino a quella data non si era potuta ottenere copia dei libri portati da Enoch. Rimangono
però senza soddisfacente risposta altre
obiezioni mosse dal Voigt. Resta sempre
nell’ attestazione attribuita al Pontano
una certa vacuità o mancanza d’ interesse, quanto alle notizie che vi si annunziano. Egli si duole
che il Fazio sia stato sorpreso da morte
immatura, sicchè non si sia trovato
presente quando veniva alla luce l’opuscolo
di Suetonio de wviris illustribus : la ragione di tale doglianza è
evidentemente quella accennata sopra, che il
Fazio se ne sarebbe potuto servire nel comporre il suo libro de viris illustribus temporis sui. Ma
il Fazio in una lettera al card. Enea
Silvio Piccolomini, scritta nei primi
mesi del 1457,! gli dà la notizia: ‘ librum quem 1 La lettera, scritta da Napoli e senza
data, fu pubblicata nella raccolta assai
confusa delle epistole di Enea Silvio Piccolomini, contenuta in opera quae
exrtant omnia di lui, Basil. 1571, p.
778, n. 233. Nella lett. si fa menzione, fra le altre cose, di alcune lettere di congratulazione, scritte
precedentemente dallo stesso Fazio, per
la promozione del Piccolomini al cardinalato ;
e vi si fa cenno anche del terremoto di Napoli. Or, secondo il breve di
Callisto III (‘ dat. Romae apud S. Petrum anno MCCCCLVI XV Kal. Ianuarii, pontificatus nostri anno II
’), riferito testualmente da Oporico RAYNALDO, in ann. ecel. el. D. Mansi,
Lucae 1753, t. X, p. 99, la promozione
del Piccolomini al cardinalato ebbe
luogo il 18 dicem. 1456, Il terremoto che rovinò Napoli ed altre città del Regno avvenne « la domenica
mattina a di 5 di dicembre (1456), a ore
dieci e mezza », e si ripeté nei giorni seguenti (v. cron. di Bologna, in
MURATORI, rer. It. scriptt. t. XVIII,
cc. 722, 723; giornali napolitani dal 1266 al 1478, ibid. t. XXI, c. 1132: l’INFESSURA, nel diurio della città
di Roma, ibid, t. III, SE de uiris illustribus scripsi, Regi dedicaui
ac tradidi*; ed aggiunge: ‘ in quo opere,
ut aliquando uidebis, si non quantum
uirtutum tuarum magnitudo postularet, at
quantum ingenii mei paruitas potuit, quantumcumque res ipsa passa est, tibi a
me tributum cognosces.’ Cosicchè, se
verso la fine del 1456 il Fazio portò a
compimento e pubblicò il suo libro sulla vita degli uomini illustri, e
ne fece un presente ad Alfonso d’ Aragona, re di Napoli, è evidente che a nulla
gli sarebbe giovata, ancorchè egli fosse
vissuto sino al principio del 1458, la
divulgazione del libro suetoniano, avvenuta in quel tempo. Nella stessa annotazione del cod. Leid.
Perizon. si accoglie con leggerezza,
come notizia indubitata, il supposto plagio di Sicco Polenton e la distruzione
di quella parte del libro di Suetonio,
che trattava de oratoribus ac poetis.
! Resta un’ altra difficoltà. Secondo
l’ annotazione del cod. Leid. Perizon.,
il libro de grammaticis et rhetoribus di Suetonio si divulgò poco dopo la morte
del Fazio, anzi, per i dati contenuti
nella lettera di Carlo de’ Medici, non
prima del gennaio 1458. Un certo tem p.
II, c. 1137, menziona il terremoto del 24 dicembre 1456). La lettera del Fazio è, per conseguenza,
posteriore al dicembre 1456. Nella
raccolta cit., p. 784, n. 251, è compresa una lett. del card, Piccolomini di risposta a quella del
Fazio, con la data ‘ex urbe Roma die XXV
Martii 1457,’ Si può, dunque, affermare che la lettera del Fazio dovette essere
scritta tra la fine del dicem. 1456 e la
metà del marzo 1457. 1 RIiTscHL, Parerga
zu Plautus und Terena, Leipz. 1845, I p.
632. RoTH, C. Sueton. Tranq. quae supersunt omnia, Lps. 1882 ; praef., p. LI sg. ana
po era, senza dubbio , necessario perchè i libri o le copie di essi, che Stefano de’ Nardini avea
promesso , giungessero a Carlo de’
Medici, e da questo si mandassero al fratello Giovanni, in Firenze, il quale
doveva essere il primo ad averli. ' Perciò la divulgazione dei libri portati da Enoch non poteva aver luogo prima
che alcuni mesi fossero scorsi dopo il
gennaio 1458. Intanto Enea Silvio
Piccolomini è il primo a far menzione, sebbene in un modo poco esatto, del contenuto della
Germ. nella grande epistola di risposta
a Martino Meyer, cancelliere dell’ arcivescovo di Magonza ?. Il Meyer, con lettera in data del 31 agosto 1457, * si era
congratulato col Piccolomini della
promozione al cardinalato e nello stesso
tempo , colta la propizia occasione, avevagli
descritto le tristi condizioni fatte dalla Curia romana alla Germania, e l’aveva avvertito che ‘ nunc
uero, quasi ex somno excitati, optimates
nostri quibus remediis huic calamitati
obuiam pergant cogitare coeperunt iugumque
prorsus excutere et se in pristinam uindicare libertatem decreuerunt ’:
sono i preludi della riforma religiosa.
Il card. Piccolomini, che aveva già scritto su tale ar 1 Le precise parole scritte da Carlo de'
Medici nella lett. cit. del 13 genn.
1458 (F IX, doc. 576) sono queste : « non dubitate che per essere il primo che gl'’abbia (i libri di
Enoch), non v'énno a costare uno denaro
di più ». ? L’epistola del card. Piccolomini
è pubblicata col titolo de ritu, situ,
moribus et conditione Germaniae descriptio, in opera quae extant omnia, ed. cit., pp.
1034-1086. 8 L' epistola del Meyer è
pubblicata a p. 1035 delle opere di E.
S. Piccolomini, ed. c.; ma, per evidente menda di stampa, porta la data erronea: ‘ex Hasthaffenburga pridie
Calend, Septembris MCCCCVII ”, invece
del MCCCCLVII, RT gomento al Meyer la lettera del dì 8 agosto
1457, ! tornò a scrivergli in proposito,
per confutare le affermazioni di lui, altre tre lettere * ; e di ciò non
contento, per dare, probabilmente, una
maggiore pubblicità alle ragioni addutte
in confutazione delle osservazioni del
Meyer, si accinse a scrivergli una lunga epistola, che prima mandò, per averne l’ autorevole parere,
ad Antonio card, di S. Crisogono, con lettera in data del 1° febbraio 1458. 3 Al Piccolomini premeva di
ribattere le accuse che provenivano
dalla Germania, per prepararsi i voti
favorevoli nel prossimo conclave, che, difatti, lo elevò, dopo la morte di Callisto III, all’
onore della tiara; ed era importante per
lui che tutti sapessero quel che egli ne
pensasse intorno alle agitazioni tedesche
contro la Curia di Roma. E però, per confutare gli ar© gomenti addotti
dal Meyer (cui avverte ‘ nec dubitamus
te perditum iri, nisi e schola erroris et officina ueneni retrahas pedem), arreca, tra le molte
ragioni, i benefici fatti dalla Chiesa di Roma alla Germania, e fa un confronto tra i costumi degli antichi Germani
, quali furono descritti da Cesare e Strabone,
e la civiltà tedesca de’ suoi tempi; indi soggiugne (p. 1051): ‘ is igi 1 Epist. n°. 369, pp. 836-839, op. c. ? Una delle tre lettere, che è segnata nella
raccolta cit. col n° 338, p. 822, porta
la data ‘Romae XII Calend. Octobris a.
MCCCCLVII ’. Un' altra, di n° 345, p. 827, ha la data ‘ex urbe, die uigesima Octobris’, senza indicazione
dell’anno, che deve essere lo stesso
1457. La rimanente, segnata col n° 288, p. 801,
non porta data, ma dal posto che occupa tra una epist. dell'11-IX 1457,
e una del 3-X dello stesso anno, è probabile che sia stata scritta nella seconda metà del
settembre 1457. 3 La lett. al card. di
S. Crisogono è pubblicata a p. 1034, e
precede immediatamente quella diretta al Meyer. =,
tur fuit Germanorum status Strabonis tempore, quem usque ad Tiberium Caesarem uixisse constat.
his ferociora de Germanis scribit Cornelius Tacitus, quem in Adriani tempore incurrisse perhibent. parum
quidem ea tempestate a feritate brutorum
maiorum tuorum uita distabat. erant enim
plerumque pastores, syluarum incolae ac nemorum nec munitae his urbes
erant, neque oppida muro cincta, non
arces altis innixae montibus, non templa sectis structa lapidibus
uisebantur. aberant hortorum ac uillarum
delitiae, nulla uiridaria, “nulla tempe,
nulla uineta colebantur: praebebant largos
flumina potus; lacus et stagna inseruiebant lauacris et, si quas natura calentes produxerat, aquae.
parum apud eos argentum, rarius aurum,
margaritarum incognitus usus. nulla
gemmarum pompa, nulla ex ostro uel serico uestimenta. nondum metallorum
inuestigatae minerae; nondum. miseros in uiscera terrae mortales -truserat auri
sitis: laudanda haec et nostris anteferenda
moribus. at in hoc uiuendi ritu nulla fuit literarum cognitio, nulla legum disciplina, nulla
bonarum artium studia. ipsa quoque
religio barbara, inepta et, ut propriis utamur uocabulis , ferina ac brutalis.
talis tua Germania fuit usque ad
Adrianum Caesarem, quamuis iam ceterae
orbis prouinciae excultae artibus ac mo‘ribus essent ’. Dovette, dunque, il Piccolomini aver
notizia, sebbene alquanto imperfetta ,
della Germ. anteriormente al 1° febbraio
1458, che è la data segnata nella missiva al
card. di S. Crisogono. E, se consideriamo attentamente il contenuto della lettera del Piccolomini al
Meyer, in data 8 agosto 1457, appare non
dubbio che egli ebbe notizia della Germ.
prima di questa ultima data; poi
ica chè nella lettera si
contengono , riassunte senza indicazione di autori, osservazioni consimili a
quelle che sui costumi dei Germani
antichi sono ampiamente svolte nella grande epistola sopra cit. Leggesi,
infatti, nella lettera: dell’ 8 agosto
1457 : ‘ namque si legamus uetusta tempora, inueniemus Germanos olim ritu
uixisse barbaro, uestibus usos laceris;
uenationi tantum et agrorum culturae dedisse operam, feroces quidem
homines et belli appetentes , sed
argenti prorsus inopes, quibus quippe
nec uini usus erat. ipsaque Germania intra mare
et Danubium rursusque intra Rhenum et Albim continebatur; nunc uero
quantum transgressa sit suos limites, non ignoramus ?. e. q. s.! Perciò il
Piccolomini dovette conoscere il
contenuto della Germ. prima del1’ 8 agosto 1457, cioè circa sei mesi prima del
tempo in cui, secondo la lettera di Carlo de’ Medici , del 13 gennaio 1458, si erano cominciati a
divulgare i libri portati da Enoch; e,
per tanto, appare non vera l’ annotazione del cod. Leid. Perizon., d’essere, cioè,
la Germ. e gli altri opuscoli ‘ nuper
adinuentos et in lucem re.latos ab Enoc Asculano ’, giacchè del contenuto della Germ. sì era avuta notizia prima che i libri
portati da Enoch, in originale o in
copia, fossero stati acquistati da Giovanni di Cosimo de’ Medici o da altri, e
prima che se ne fosse cominciata la divulgazione. Ma per quale via sia pervenuto il
Piccolomini ad avere in sue mani la Germ. non ci è dato, secondo i documenti del tempo scoperti sino ad oggi,
determinarlo con certezza. Non è improbabile che il Piccolomini sia stato
aiutato in tali indagini dal Poggio ? e
1 Epist. n.° 369, p. 838, ed cit.
2 Nella lettera del 4 gennaio 1457 il Poggio, congratula ndosi dal
Panormita,! coi quali egli aveva relazioni di buona amicizia: ed è noto quanto ebbe a stentare il
primo, nei lunghi e tediosi maneggi, per
aversi il ms. del frate hersfeldese ;
del secondo si sa che sin dal 1426 aveva
dato notizie della Germ. nella lettera, citata sopra, al Guarini veronese. Il Lehnerdt però, per la soluzione del
quesito, muove da una notizia che si
legge nella lettera del 10 dicembre 1457 di Carlo de’ Medici al fratello
Giovanni: « heri mandò per me il
cardinale di Siena e domandomi se Enoch
avesse lasanti (1. lasciati) libri alcuni nel banco nostro; dissigli che no. Lui mi domandava che
via lui potessi tenere ad avere certi
libri che lui aveva: io fe” col
Piccolomini, per la promozione di lui al cardinalato, gli scriveva: ‘accedit ad
consolationem meam et summam iocunditatem quod uir eloquentissimus (cioè il
Piccolomini) optimisque artibus eruditus, fructum eloquentiae et doctrinae sit,
quod perraro accidit, consecutus: in quo
gloriari quodam modo mihi merito uideor
posse nostri quondam ordinis uirum, hoc est eloquentiae studiis et dicendi
exercitio praestantem, eo in statu esse
collocatum, ut suae doctrinae aemulos extollere et eis praesidio atque ornamento esse possit'. Ed in
un'altra lettera del 3 novembre (manca
l'indicazione dell’anno, ma è, senza
dubbio, del 1457) lo stesso Poggio profferiva i suoi servigi al card. Piccolomini, scrivendogli: ‘me penitus
tuum esse ubique satisfaciendi cupidum, si
qua in re mea tibi cura, studio, opere,
diligentia opus esset.’ Le due lettere del Poggio sono comprese nell’ epistolario del Piccolomini, segnate
l’una col n. 216, p. 771, l’altra col n.
295, p. 806: tra le due lettere è compresa la responsiva di ringraziamento del
Piccolomini al Poggio, n. 293, p.
805. 1 Vedi la lettera del Piccolomini,
allora ‘ episcopus Senensis ', ad
Antonio Panormita, n. 407, p. 951 sg.; e la menzione del Panormita nell'epist. al Fazio, notata al n.
251, p. 784. PEN co (ROSS al giuoco del baloco. Di poi ho sentito che
lui ha scritto ad Ascoli a certi sua amici; e pertanto vorria che voi medesimo scrivessi a m. Stefano che in
singulari vostro servizio lui mi fessi
avere o i libri di che io gli ò scritto
overo la copia ».! Il Lehnerdt ne argomenta
che il Piccolomini (denn niemand anders ist der betriebsame Cardinal von
Siena) dovette attingere le notizie sulla Germania, annunziate nella lettera, a
Martino Meyer, al ms. enochiano, di cui
venne in possesso prima del Medici. ? Ma alla congettura del Lehnerdt si oppone il testo di un’altra lettera di Carlo
de’ Medici, in data del 13 gennaio 1458,
che sopra abbiamo riferito. Stefano de’ Nardini, sollecitato, oltre che da
Carlo, anche da Giovanni de’ Medici,
rispose dando promessa certa, che questi
avrebbe avuto i libri di Enoch o le
copie; e dovette aggiungere che lo stesso Giovanni de’ Medici li avrebbe avuti per il primo, poichè
il fratello Carlo nella lettera su
cennata soggiugne le sgg. parole, più volte da noi citate: « non ho poi altro,
ma non dubitate che per essere il primo
che gl’abbia non vanno a costare uno denaro di più. » 8 Or, se Giovanni de’ Medici doveva essere il primo
ad aver i libri di Enoch, giusta l’
affermazione «di Carlo confortata dalla
lettera di Stefano de’ Nardini, non è
possibile che prima di lui il card. Piccolomini ne fosse venuto in possesso. E naturale poi che un certo tempo dovette
trascorrere tra la lettera del 13
gennaio 1458 e la trasmissione dei libri
di Enoch o di copie dei medesimi, che Gio
1 Vitt. Rossi, opusc. c., VIII, p. 31.
2 LEHNERDT, l. c., pp. 502, 504.
3 VITT. Rossi, opusc. c., IX, p. 31.
vanni de’ Medici desiderava avere: così si giunge alla fine di gennaio
od al principio di febbraio. Il Piccolomini, che non risulta essere stato il
primo ad averli e leggerli, poteva averne avuto notizia, stante la difficoltà delle comunicazioni in quei tempi,
verso la ‘metà o la fine di febbraio:
dunque non era possibile che egli ne
avesse avuto conoscenza prima «li scrivere
la lunga lettera al Meyer; la quale lettera fu, senza dubbio, preparata
e scritta nel gennaio 1458, poichè in data
del 1° febbraio fu spedita per esame al card. di S. Crisogono. !
L’improbabilità che il Piccolomini avesse tratto vantaggio dai libri enochiani
si rende ancor più evidente, se si bada
alla conclusione cui siamo pervenuti poco prima, cioè, che per altra via il Piccolomini
dovette aver notizia del contenuto della Germ., prima dell’8 agosto 1457. VI.
Anche nella supposizione che la Germ. si fosse trovata unita coi libri portati da Enoch,
essa non doveva presentare, come sopra sì è avvertito, il nome dell’autore,
poichè non se ne fa cenno nell’inventario dei libri di recente scoperti. Il
nome dell’autore dovette essere aggiunto dopo, quando si cominciò la
divulgazione del libro, e si riconobbe
che era identico a quello già 1 Nella
lett. del Piccolomini al card. di S. Crisogono, p. 1034 ed. c., si legge: ‘ epistolam scribere
institui et liber exiuit; quid dixi
liber? libri exiuere. mittimus igitur ad
tuum examen, ut uideas corrigasque, uel,
si melius putes, igne consumas. tu solus
es, cuius existimationem audiendam arbitror.
ad te ergo ueluti ad fontem
doctrinae uenio et ad ipsum iubar
scientiarum, si condendum aut comburendum opus iudicaueris, obediam imperio tuo. si duxeris edendum,
exibit liber intrepidus et nullius calumnias uerebitur, quando abs te
probatus fuerit, quem omnes probant.' e.
q. s. Pei 7, ME indicato dal Panormita nella lettera dell’
aprile 1426, diretta al Guarini. E per
tal modo la Germ. fu annotata, ventinove anni dopo (1455), col nome di
Tacito nello zibaldone di Pier Candido
Decembrio. Cosicchè l’ indicazione di
Tacito come autore della Germ. si riconnette, anche per il libro portato da
Enoch, allo stesso fonte che abbiamo considerato sopra, trattando del codice del frate hersfeldese: la conclusione
ne sarebbe la stessa. Per tale
conclusione troverebbesi forse modo di
coordinare l’ attestazione notata nel cod. Leid. Perizon. con le ricerche fatte
anteriormente dal Poggio, e col fatto
che il contenuto della Germ. era noto prima
che si fossero divulgati in Italia i libri portati da Enoch; in quanto
che il Pontano, che è detto autore dell’ attestazione, non deve aver letto il
nome di Tacito in fronte alla Germ. che
egli trascrisse, correggendone le mende,
ma ve l’appose per le notizie avutene a
Roma e a Firenze in quei circoli letterari, ai quali il libro era prima noto. Il vedersi, dunque, attribuita a Tacito la
paternità della Germ. nei codici del
sec. XV, che soli ci rimangono dell’ aureo libretto , resta sempre dovuto,
come pare a noi, ad un presupposto del
Poggio ed all’ annuenza non disinteressata del frate hersfeldese; se non sì vuole direttamente ammettere che tale
attribuzione sì fondi sulla fede d’ un
amanuense del sec. XV, fede, come bene
avverte il Valmaggi in proposito del dialogo de oratoribus, che si ha da
reputare dubbia « per lo meno, sino a
tanto che altri documenti e prove sieno contro di lei ».! 1 L. VaLMaG6I, dial. degli oratori, Torino
1890; introduz., pagina XXXIX. Di Uno
studio che avesse 1’ obietto di comparare la
Germ. con gli scritti di Plinio Secondo, riuscirebbe certamente non poco
utile a dare evidenza e conferma ai
risultamenti delle indagini fatte nei precedenti capitoli. Ma un tale studio sarebbe, di necessità,
incompleto, perchè gli scritti di
Plinio, i quali si avvicinano, per
analogia di argomento, alla Germ., cioè i venti libri Germanicorum bellorum, la vita di Pomponio
Secondo e i libri di storia a fine
Aufidii Bassi, non sono pervenuti sino a noi. Solo si può istituire il
confronto tra la' Germ. e la nat. hist.,
determinando anzi tutto quali notizie,
quali considerazioni, insomma quali concetti
presentino in entrambe le opere considerate il carattere di comune
origine; sì che se ne possa indurre che
tanto l’una quanto l’altra debbano essere state manifestazioni, sebbene
per obietti diversi, dei pensieri di una
stessa mente. Seguiremo nelle
nostre indagini l’ordine dei libri della
nat. hist. * Restringiamo il confronto
soltanto ai concetti o pensieri analoghi espressi nei due libri. Quanto al
confronto lessicale, sintattico e
stilistico tra la Germ. e la n. A. di Plinio, abbiamo prepa:ato un libro, che sarà pubblicato
immediatamente dopo il presente lavoro,
di cui può considerarsi opportuno complemento. Valga la stessa avvertenza per
il capitolo sg., in cui la Germ. sarà
comparata con gli scritti genuini di Tacito, = DE I. a) Una spedizione navale, capitanata da
Druso, si mosse nel 742/12 dalle foci
del Reno verso le regioni orientali, per fare delle scoperte ed estendere
il dominio romano. Un’altra spedizione
fu tentata ventotto anni dopo, nel 16 d. Cr., dal prode Germanico. Alla prima impresa si allude nella . A. II 67
(67), 167 ‘ septentrionalis uero oceanus
maiore ex parte nauigatus est auspiciis diui Augusti Germaniam classe
circumuecta ad Cimbrorum promunturium 7. Ad entrambe le imprese si riferisce la notizia, di cui nella
Germ. 34, 6 ‘ipsum quin etiam Oceanum illa
temptauimus ”.! b) Non è da omettersi
che della strage di Crasso, menzionata
nella Germ. 37, 15, si fa cenno nella n. A.
II 56 (57), 147; e la notizia. si ripete in vari modi in V 24 (21), 86. VI 16 (18), 47: cf. XV 19
(21), 83. c) Nemmeno si deve
tralasciare l’ osservazione, che il
cenno sulla guerra cimbrica, fatto nella Germ. 37, 7, notasi anche nella n. A, II 57 (58), 148.
* II.
Nel lib. II della n. A. si osservano tre Il. di confronto.
a) Dei ‘ Boi ’ Plinio dà notizia, indicando i luoghi, in Italia, in cui le loro centododici tribù
furono distrutte, 1 Della prima
spedizione si fece, più tardi, menzione da SveTon. Claud. 1; e da Cass. Dion.
r. Rom. LIV 32,2. La seconda spedizione
del 16 d. Cr. è lodata in versi da ALBINOv. PED. (v. PLM. ed. Baehrens, vol.
VI, pp. 351-352: cf. SEN. suas. I 15, p.
10, ed. Kiessling); la narra Tac. ann.
II 8; 23; 24. ? La notizia è poi, in
diverse occasioni, ripetuta nella n. A.
VII 22 (22), 86. VIII 40 (61), 143. XVI 32 (57), 132. XVII 1 (1), 2. XXII 6 (6), 11. XXVI 4 (9), 19, XXXIII 11
(53), 150. XXXVI 1 (1), 2; 25 (61),
185. ci GG i (n. h. Ill 15 (20), 116), e denotando, quali
conseguenze delle loro scorrerie: in
Italia, la fondazione di ‘ Laus Pompeia’
(III 17 (21), 124) e la distruzione di ‘ Melpum ? (III 17 (21), 125); indica
anche i luoghi da loro abitati in Gallia
(IV 18 (32), 107). Nella Germ. (28, 7.
42, 3) si denotano i luoghi occupati e poi abbandonati dai ‘ Boi” o ‘ Boii”, in Germania. b) Quanto agli ‘ Arauisci ’, che avevano le
loro sedi nella Pannonia, sulla riva
destra del Danubio, tra la Drava e la
Sava, trovasi menzione nella Germ. 28, 10
e nella n. A. III 25 (28), 148: li nominò anche Tolomeo, indicando le
loro sedi più a settentrione di quelle
degli Scotdisci.* Vi è però una differenza nella grafia, chè nella n. A. è scritto ‘ Erauisci’, e
nella Germ. ‘ Arauisci ’. Ma del nome
usato da Tolomeo la lettera iniziale è
A. Una simile differenza notasi nel nome
‘ Bastarnae ’, usato nella Germ. 46, 4, e ‘ Basternae ”, adoperato nella n. A. IV 14 (28), 100. ? 1 ProLEM. geogr. ll 16, 3. ? Ma si deve avvertire che la grafia ‘
Basternae' non è costante nella n. 4., come asserisce il GEORGES, ausfithrl.
Handwb. I, c. 743; poichè in IV 12
(25),81 mutasi in ‘ Basternaei” e poi in
VII 26 (27), 98 diviene all’abl. ‘ Bastrenis’, che nel cod. Riccard. (R. del Mayhoff) è ‘ bastenis ’, e
nel cod. Leid. (F. del Mayh.) ‘
bostrenis’, Né i codd. della Germ. consentono tutti col Leid. Perizon. nel presentare nel |. c. ‘ Bastarnas
’: il cod. Vatic. VRB. 655 presenta ‘basternes ’, e con strana metatesi il Vindobon. ‘ bastranas’. Nemmeno la grafia
accolta dal Leid. Perizon. può mettersi
in relazione con quella che osservasi in
Tac. ann. ll 65, 14, perché in questo la forma ‘ Bastarnas® è dovuta ad una congettura di Beato Renano: nel
cod. è ‘ basternas’. Cf. cod. inscr. Lat. Il 2, p. 862. Ma in Strabone
sempre ‘ Bastàrnai . Ri odi
c) Soltanto nella Germ. 29, 17 (v. sopra, pp. 19-22) sì nominano i‘ decumates agri’. La n. A. II
4 (5), 32 fa solamente menzione di una ‘
decumanorum colonia ”. III. Il lib. IV della n. /. offre un buon numero di confronti con la Germ. a) All’ indicazione generica della Germ. 44,
20 ‘ Suionibus Sitonum gentes continuantur ’,! risponde quella più particolareggiata della 7. %. IV
11 (18), 41 ‘ circa Ponti litora
Moriseni Sitonique Orphei uatis
genitores optinent ’. Resta però la differenza dell’ordine flessivo tra ‘Sitones”
e ‘ Sitoni ?. b) I gioghi dell’Abnoba,
nella Selva nera, sono indicati, tanto nella n. %. IV 12 (24), 79 quanto nella
Germ. 1, 9, come punto d’ origine del
Danubio; anzi la retta grafia ‘ Abnoba
’, indicata dai codici della n. A. e quale
venne accolta da Tolomeo,® fu di guida a Beato Renano per determinare, nel testo della Germ. 1. c.,
la forma esatta ‘ Abnobae ’ tra le
varianti ‘ Arnobae ’ (cod. Vatic. 1862 e cod. Neapol.), ‘ Arbonae ’ (cod. Leid.
e cod. Vatic. 1518), ‘ Arnibae ’ (cod. Arundel.). Due iscrizioni scoperte nello
Schwarzwald hanno confermato la forma ‘
Abnoba. ?. c) È data dalla n. R. IV 12
(24), 79 la notizia, che 1
Omettiamo di citare per i ‘ Sitones ’ il 1. della Germ. 45, 1, perché nei codd. si Iegge ‘trans Suionas”’
(nel Leid. ‘Suiones’). Il MEISER ha
sostituito ‘Sitonas ’; e la congettura di lui è stata accolta da U. Zernial,
Io. Miiller, etc. Hanno conservato la
lezione dei codd. il Dilthey, il Kiessling, il Finek, il Kritz, il Halm, il Ramorino, etc. ? ProLEM. yeogr. Il 11. ConsoLI: L’ autore della Germania. 7 osi OB ci
il Danubio ‘ in Pontum uastis sex fluminibus euoluitur ’; ma'non è del
tutto esatta, nè conforme al cenno che prima ne avevano fatto Ovidio, Strabone
e Mela,! e dopo ripeterono Solino, Ammiano Marcellino, Isidoro. ? Nella Germ.
si conferma la notizia data dalla n. h.,
salvochè, come spiegazione dell’esclusione di una settima foce del gran fiume, si soggiugne
immediatamente ‘ septimum os paludibus hauritur?. Se nessun rapporto ci fosse stato nella composizione e
nell’ intendimento della n. A. e della Germ., in questa sarebbesi detto esplicitamente in modo consimile a
quanto scrisse Ammiano Marcellino, l. c.: ‘ amnis Danuuius s e p tem ostiis.... erumpit in mare septimum segnius et palustri specie nigrum
?. d) Nella Germ. 1, 2 i ‘Sarmatae ’ e
i ‘ Daci ’*sono indicati come confinanti
coi Germani. La n. A., oltre
all’indicare il secondo nome dato dai Romani ai ‘ Daci *. (‘ Getae ’), e dai Greci ai ‘Sarmatae’
(‘Sauromatae ’), determina i luoghi da
loro occupati (IV 12 (25), 80: cf. VI 34
(39), 219), e mostra che presso di loro era in
uso il fafuaggio aggiunge che la Germania è confinante (‘contermina ’)
con la Scizia (VIII 15 (15), 38). e) Uno dei confini dei luoghi abitati dai
‘Chatti’ e 1 OvI. trist. II 189.
STRAB. geogr. VII 3, 15 (C. 305), vol. II,
p. 419 ed. M. Pompon. Met. chor. II 1, 8. Confrontando il Danubio al
Nilo, Mela dice che quello sbocca nel mare pontico ‘ totidem quot ille (sc. Nilus) ostiis’; e il
Nilo, secondo afferma lo stesso Mela,
chor. I 9, 51, ‘ septem in ora se scindens
singulis tamen grandis euoluitur ’.
? SoLin. coll. r. m. 13, 1} p. 90, 12 ed. M. Amm, Marc. r. g. XXII 8, 44 e
45. Is. orig. XII 21, p. 1158. 3 DO dagli ‘Heluetii” è, secondo
la Germ. 30, 5. 28, 6, il ‘ sallus
Hercynius” o ‘ Hercynia silua’: la stessa selva
è segnata nella n. %. IV 12 (25), 80 come confine della gente pannonica dei “Carnunti’. Plinio denota
anche l’importanza della selva (IV 14
(28), 100), e avverte che in essa sono ‘
inuisitata genera-alitum’ (X 47 (67),
132) e una ‘roborum uastitas intacta aeuis et congenita mundo ’ (XVI 2
(2), 6). f) Nella Germ. 46, 4 si
considera la voce ‘ Bastarnae ’ come
un’altra denominazione del popolo dei ‘ Peucini ”. La n. h. determina prima i luoghi occupati
dai ‘ Basternaei’! (IV 12 (25), 81); poi annovera i ‘Basternae’ accanto ai
‘Peucini’ (IV 14 (28), 100). * 9g) Dei
mari nordici, coi quali confina a settentrione
la terra dei Germani, è data nella Germ. 1,3 una notizia indeterminata:
‘cetera Oceanus ambit, latos sinus et insularum immensa spatia complectens’.
Nella n. h. la stessa notizia è
presentata con maggiore determinazione: IV 13 (27), 96 ‘ mons Seuo ibi inmensus
nec Ripaeis iugis minor inmanem ad Cimbrorum
usque promunturium efficit sinum, qui
Codanus uocatur re 1 Per la differenza
grafica del nome del popolo considerato,
v. sopra, p. 96, nota 2°. 2 Nel
|. c. della n. A. si legge: ‘quinta pars Peucini, Basternae supra dictis
contermini Dacis’. Potrebbesi, tralasciato il
segna d’interpunzione messovi dall’edit. Jan, considerare ‘ Basternae’
come apposizione di ‘Peucini’: così ne sarebbe confermata l'osservazione della
Germ., che fa tutto un popolo dei
‘Bastarnae’ e dei ‘Peucini’. Del resto, in nessun altro l. della n. h. si tratta dei ‘Peucini’, come di un
popolo a sè, differente dai ‘ Basternae”. Cf. StRAB. geogr. VII 3, 15 (C 305);
3, 17 (C 306), p. 419 sg., ed. M. ni 100
fertus insulis quarum clarissima est Scatinauia inconpertae magnitudinis
’. h) All’ osservazione che leggesi
nella n. A. IV 14 (28), 98 ‘Germania
.... nec tota percognita est’, rispondono le considerazioni con cui l’autore
della Germ. dà termine al suo lavoro,
tralasciando ‘ cetera iam fabulosa” e quel che egli trova ‘ut incompertum ?. i) Intorno alle schiatte germaniche degli ‘
Ingaeuones’ (Germ.) o ‘ Ingyaeones ” (n. h.), degli ‘ Herminones?’ (Germ.) o ‘
Hermiones” (n. Ah.) e degli ‘ Istacuones’ (Germ.) o ‘Istyaeones ’ (n. 4.) non è
fatta menzione alcuna in iscritti anteriori o posteriori alla Germ. e alla n. X.! Sembra però che nella Germ. 2,
15 sg. la distinzione delle tre schiatte
sopra mentovate sia stata fatta in
dipendenza dai progenitori mitologici,
figli di Manno. Segue, infatti, nello stesso cap. della Germ., una distinzione di popoli germanici
fatta con criterio alieno dalla leggenda
(‘eaque uera et antiqua nomina’), ma,
come pare, per esemplificazione, cioè :
‘ Marsi °, Gambriuii, Suebi, Vandilii ”. La distinzione appare più precisa e completa
nella n. h. IV 14 (28), 99 e 100: I ‘
Vandili” 3, II ‘Ingyae A Il Georges, ausfithri.
Handwb. II, c. 216, registra Ingaevones, secondo la grafia accolta nel testo
della Germ. (ma ‘Ingaenones’ nei codd.
Vatic. VRB. 655, Laurent. LXXIII 20,
Stotgard. IV 152, Venet. misc. XIV 1); registra Hermiones (I, c. 2813), secondo la grafia della n. A.; ma
nonsi cura di notare gli ‘Istaeuones'.
2 Nella Germ. nulla si dice dei ‘Marsi’ oltre del cenno del c. 2, 17. Tacito ne fa menzione negli ann. I
50, 13; 56, 20. II 25, 4. 3 ‘Vandali’, nel cod, Paris ol ones’, III ‘Istyaeones °°, IV ‘ Peucini °.8
Tra i ‘ Vandili” si comprendono : a) i ‘ Burgodiones” ‘4; b) i ‘ Varinnae’ 5;
c) i ‘Charini’; d) i ‘Gutones’: dei quali
popoli due soltanto, cioè i ‘ Varinnae ’ e i ‘Gutones”, sono annoverati nella Germ. 40, 4. 44, l,
forse con inesattezza, tra i ‘Suebi’; i
due rimanenti, ‘Burgodiones’ e “‘Charini’, sono taciuti. Gli ‘Ingyaeones’ comprendono: a) i ‘ Cimbri’ ‘; b) i
‘Teutoni’% c)i ‘ Chauci’:3 la Germ. tace
dei ‘ Teutoni ’. Sotto il nome degli ‘Istyaeones ’ sono notati i ‘Sicambri’ (‘
Sugambri’, per Strabone), dei quali non si fa alcuna menzione nella Germ. Si ascrivono agli ‘
Hermiones”: a) i ‘Suebi’; * 6) gli ‘
Hermunduri ’ !; c) i ‘Chatti ’ !!; d) i
‘ Cherusci ”. !2 I ‘ Peucini” (Basternae) sono espli 1 ‘Inguaeones’, ed. Detlef.; ‘Ingaeuones’,
secondo la ‘1. uulg.’ e nell’ed.
Sillig. ? ‘Istiaeones’, ed. Detlef, ;
‘Istaeuones’, secondo la ‘1. uulg.’ e
nell’ed. Sillig. 3 Quanto ai ‘ Peucini’
cf. Germ. 46. 4 ‘Burgundiones’ nel cod.
Paris. 6797 e nell'ed. Sillig. 5 ‘
Varine’ nel cod. Riccard.; ‘ Varini” secondo la ‘1. uulg.' e nell’ed. Sillig. : ‘ Varini’ anche nella
Germ. 40, 4. 6 I ‘Cimbri’ non si devono
confondere coi ‘Gambriuii’. Strabone, infatti, pone in elenco separatamente i
‘Gambriuii’ e i ‘Cimbri’: geogr. VII 1,
3 (C 291), p. 399, ed. M. 7 Cf. n. h.
XXXV 4 (8), 25. XXXVII 2 (11), 35. 8
Intorno ai ‘ Chauci’ v. Germ. 35, 2. 36, 1. Cf. n. A. XVI 1 (1), 2; 1 (2), 5. 9 V. Germ. cc. 33-43; e inoltre 9, 4. Cf. n.
h. IL 67 (67), 170. IV 12 (25), 81; 14
(28), 100. 10 V. Germ. Al, 4. 42,
1. ll Dei ‘Chatti’ si ha notizia in più
Il. della Germ.: 29, 3. 30, 1, 4, 15.
31, 2 e I1. 32, l e 4, 35, 5. 36, 10 7. 38, 2.
12 V. Germ. 36, 1, 6, 8.
102 citamente annoverati tra
le nazioni germaniche, eliminandosi così il dubbio annunziato uella Germ. 46,
2: ‘Germanis an Sarmatis adscribam
dubito’. Or,. se i ‘Marsi’ edi
‘Gambriuii’, dei quali è fatta menzione nella Germ., sono da considerarsi in
dipendenza dagli ‘Ingaeuones’!; e se tra
gli ‘ Herminones” son da comprendersi .i ‘Suebi’ e, in subordinazione a questi,
i ‘Vandilii?,*? (poichè i.’ Varini” ed i
‘ Gotones’, che nella n. A. si
annoverano tra i ‘ Vandilii”, sono compresi dall’autore della Germ. tra i
‘Suebi ’), restano a rappresentare gli
‘Istaeuones’ le due nazioni dei
‘Sugambri’’ e dei ‘ Peucini’: il che, considerati principalmente i
luoghi occupati da loro, non pare possibile. Vi sono, dunque, delle incertezze
e delle notizie incomplete nella Germ., che la n. &. ha interamente chiarito o completato ; talchè, se si ammette
che autore della Germ. sia quello stesso che scrisse la n. A., è evidente che questo lavoro dovette essere
scritto dopo la Germ.: e in ciò sì avrebbe una indiretta conferma della notizia
data da Plinio il giovane, che la opera
bella Germaniae (della quale la Germ. potrebbesi, secondo quanto si è osservato
sopra, considerare come la parte
introduttiva) fu scritta prima della x. ’.
j) Il fiume ‘ Albis’ è solamente indicato nella n. /. 1 Vedi Marina, op. c., p. 33. ? Vedi Dilthey, op. c., p. 249: « es wird dadurch sehr wahrscheinlich, dass
die Vandalen selbst nur Ostliche Sueven waren ». 8 Plinio il
giovane, presentando nell’epist. quinta del lib. III, $ 2, l'elenco dei libri scritti dallo zio,
avverte : ‘ fungar indicis partibus
atque etiam quo sint ordine scripti notum
tibi faciam’. L' opera della Ge rmaniae è indicata nell’ elenco prima della n. }, 103
IV 14 (28), 100 come uno degli ‘ amnes clari’ che ‘in oceanum defluunt’. La Germ. 41, 9 presenta
l’indicazione dell’ ‘ Albis’ con una certa enfasi : ‘ flumen inclutum et notum
olim; nunc tantum auditur ’; ne denota prima l’ origine nel paese degli ‘
Hermunduri ’. k) La menzione dei
‘Frisii’ fatta, prima d’,\ogni altro scrittore, da Plinio nella n. A. IV 15
(29), 101, si osserva nella Germ. 34, 3.
35, 3, aggiunta la distinzione dei ‘Frisii’ in ‘maiores’ e ‘minores’; e all’espressione ‘ gens tum fida’, di cui si
fa cenno nella n. h. XXV 3 (6), 21, alludendosi ai ‘Frisii’?, risponde
l’osservazione di Tacito: ‘ natio Frisiorum .infensa aut male fida”. * l) Le notizie intorno ai popoli della prov.
Belgica, ‘Neruii’, ‘Tungri ’, ‘ Treueri
’, ‘ Heluetii”, sono comuni alla n. h.
ed alla Germ.; ma il semplice cenno fatto
dalla prima‘, è più particolareggiato nella seconda, per i ‘Neruii’ e i “Treueri’, per i ‘Tungri’
(2, 20) e per gli ‘Heluetii” (28,
6). 1 Sarà certamente una menda di
stampa il $ 110, invece del 101, segnato
nella p. 119,.n. 1, delle prov. rom. del :MommsEn, trad. De RuagieRo, Roma 1887. ? Vedi Lup. JAN, scripturae discrepantia nel
vol. IV dell’ ed. della n. h., p.
XVII. 3 Tac. ann. XI 19,3. De’ ‘Frisii’
tratta anche Tacito in Agr. 28, 14.
hist. IV 15, 12; 18, 26; 56, 15; 79, 8. ann. I 60, 6. IV 72, le; 73, 4; 74, 1. XI 19,3. XIII 54, 2, 9, 23.
Per altre notizie sui ‘ Frisii” v. Cass.
Dion. r. Rom. LIV 32, 2-3; PTOLEM. geogr.
II 11; e il pan. d’incerto autore a Costanzo,.$ 9; in BAEHRENS, ZII pan. Lat., V, p. 138. 4 V. n. h. IV 17 (31), 106: cf. inoltre XII
1 ;(2), :5 per gli ‘ Heluetii’ ; e XXXI
2 (8), 12 per. la fonte di acqua ferruginosa presso i ‘ Tungri Similmente le
brevi notizie che dà la n. A. IV: 17
(31), 106, concernenti i ‘ Nemetes”, i ‘ Triboci ?, i ‘ Vangiones’, gli
“ Vbii” (‘ colonia Agrippinensis ’), i Bataui’, (con qualche particolare, per i
‘ Bataui?, in IV 15 (29), 101; e per gli
‘ Vbii”, in XVII 8 (4), 47), sì osservano nella Germ. 28, 19 sgg. e 29, 1
sgg. IV. Il ‘ Pontus Euxinus” è indicato nella Germ.
1, 10 con l’espressione ‘ Ponticum mare
’. Dello stesso mo‘ do è indicato nella n. R. V 27 (27), 97 ‘ hine Ponti cum,
illinc Caspium et Hyrcanium ?. Osservasi prima
la stessa espressione in Livio e Mela !. V.
Nella descrizione generale dei popoli germanici, la Germ. 4,6 dà
evidenza ai sgg. caratteri: ‘ truces et caerulei oculi , rutilae comae, magna
corpora ’ e. q. s. Nella n. A. VI 22
(24), 88 si annunziano quasi con le
stesse parole i caratteri di alcuni popoli dell’Asia: ‘ipsos uero excedere
hominum magnitudinem, ru| tilis comis, caeruleis oculis , oris sono truci ’.
Trovasi, inoltre, nella n. A. XXVIII 12
(51), 191 l’avvertenza, in proposito
delle ‘ rutilae comae ’,sche ad arte si otteneva o si rendeva, se naturale, più evidente tale
colore «lei capelli mediante l’ uso d’
un certo sapone gallico, adoperato in Germania più dagli uomini che dalle
donne. VI. a) Cesare scriveva che la maggior parte degli
antichi Germani si nutrivano di latte, cacio e carne. ? Nella Germ. 23, 3 si dà
una notizia analoga a quella 1 Liv. XL
21, 2. Pompon. Met, chor. II 1, 5. Cf. Tac. ann. XIII 39, 2; e, per analogia, ‘os Ponticum”’ (ann.
II 54, 4). 2 Cars. d. G. VI 22, 1: cf IV
1,8. data da Cesare quanto alla carne (‘recens fera ’), ma si restringe la notizia concernente i
latticini, poichè si esclude il cacio
dall’ ordinario vitto dei Germani, e si
indica il solo ‘lac concretum ?, cioè latte rappreso o cagliato. La restrizione che notasi nella
Germ. appare confermata e più
chiaramente indicata nella n. R. XI 41
(96), 259: ‘ mirum barbaras gentes quae lacte uiuant ignorare aut spernere tot saeculis casei
dotem, densantes id alioqui in acorem
iucundum et pingue butyrum. spuma id est lacte concretior lentiorque quam
quod serum uocatur. Il pensiero laudativo per i Germani, indicato dalla frase della Germ. 23, 3 ‘ cibi simplices,
agrestia poma, recens fera aut lac
concretum: sine apparatu, sine blandimentis expellunt famem”’ ha complemento
nell'osservazione igienica notata, in generale, da Plinio: ‘ homini cibus
utilissimus simplex, aceruatio saporum pestifera et condimento perniciosior’
(n. A. XI 53 (117), 282). VII.
a) Quando si legge nella Germ. 9, 9 la parte notevole che avevano per il
culto delle genti primitive le selve sacre: ‘lucos ac nemora consecrant
deorumque nominibus appellant secretum illud, quod sola rewerentia uident’;! ricorre alla mente quel
che osserva Plinio nella n. A. XII 1 (2), 3 ‘ haec fuere numinum templa,
priscoque ritu simplicia rura etiam nunc
deo praecellentem arborem dicant’. E un concetto simile aveva prima
espresso Seneca *. 1 Cf. GERM, cc. 39,
40, 43. ? SEN. epist. IV 12 (41), Ad
indicare le regioni del sud soggette a Roma, tanto nella Germ. quanto nella n. A. è adoperata
l’espressione ‘orbis noster’: Germ. 2,6
‘ Oceanus rarisab orbe nostro nauibus aditur?. n. A. XII 12 (26), 45 ‘in nostro
.orbe proxime laudatur Syriacum (sc. nardum),
mox Gallicum ’, e. q. s. * Inoltre, l’accenno sul balsamo nella Germ. 45, 25 ‘ Orientis secretis, ubi
tura balsamaque sudantur ’, risponde alle notizie che, tra i primi, ne diede Plinio in diversi luoghi
della n. %. ? VIII. Che l’espressione
‘ frugiferarum arborum impatiens ’, usata nella Germ. 5, 4, non debbasi
intendere senza restrizione, non solo ci
avvertono l’indicazione della maniera
con cui si facevano certi sortilegi ( v. Germ.
10, 2 ‘ uirgam frugiferae arbori decisam in surculos “amputant ’) e l'avvertenza intorno ai mezzi
di nutrizione degli antichi Germani (v.
Germ. 23,3 ‘cibi simplices, agrestia
poma ’), ma anche una notizia che osservasi
nella n. &. XV 25 (30), 103, sulla presenza del ciliegio sulle rive del Reno, in tempi remoti. IX.
a) La particolarità geografica della terra germanica, che è, in
generale, ‘aut siluis horrida aut paludibus foeda ’ (Germ. 5, 2), ha una
conferma, in par 1 Osservasi prima in
VeLL. PATERC. h. R.I 2,3. Cf.
Tac, Agr. 12, 9. 2 V. n. h. XII 25 (54), 111 sgg. XVI 32 (59), 135: cf. XIII 1 (2),
11. 13. 15. Vedi anche il nostro libro sui neologismi botanici nei carmi bucolici e georgici di Virgilio,
Palermo 1901; LV, Pp. 103 sg. RES, () pg
ticolare, nella descrizione che presenta Plinio (7. h. XVI 2 (2), 6) della selva ‘ Hercynia ?. ! b) Nella Germ. 17, 7 si osserva che i
Germani ‘ detracta uelamina (sc. ferarum) spargunt maculis pellibusque
beluarum, quasi exterior Oceanus atque ignotum
mare gignit’; ma non è detto in che modo facessero i Germani per impadronirsi di tali belve
marine. Possiamo argomentarlo da quel che si dice nella n. %. XVI 40 (76, 2), 203, in proposito dei predoni
di mare: ‘singulis arboribus cauatis
nauigant, quarum quaedam et XXX homines ferunt ’. c) L’uso druidico delle adunanze ‘ sexta
luna, quae principia mensum annorumque
his facit et saeculi post tricesimum
annum” (n. A. XVI 44 (95), 250), osservasi
esteso ad una consuetudine germanica, quella, cioè, di farsi le riunioni popolari ‘ cum aut
inchoatur luna aut impletur ? (Germ. 11,
5). X.
A integrare l’ osservazione che la terra germanica è ‘pecorum fecunda”’
(Germ. 5, 5), vale quello che nota
Plinio sugli ottimi pascoli della Germania:
‘ nam quid laudatius Germaniae pabulis?’ (n. A. XVII 4 (3), 26).
XI. a) Non appare una
consuetudine particolare dei popoli
germanici, che ‘ leuioribus delictis pro modo
poena: equorum pecorumque numero conuicti multantur ? (Germ. 12, 7). La
stessa consuetudine vigeva anche, secondo attesta Plinio, presso gli antichi
Romani; 1 Cf. Pompon. Met. chor. III 3, 29 ‘ magna ex parte:siluis
ac paludibus inuia ”. 108
perciocchè ‘ multatio quoque non nisi ouium boumque inpendio dicebatur’, e ‘cautum est, ne bouem
prius quam ouem nominaret, qui indiceret
multam’ (n. &. XVII 3 (3), 11). b) Quantunque l’
avena si fosse potuta usare per la
preparazione della birra, non è da dirsi incompleta la notizia, che presso i Germani era in uso ‘
potui umor ex hordeo aut frumento, in
quandam similitudinem uini corruptus’ (Germ.
23, 1); poichè, secondo la menzione che se ne legge nella n. 4., se ne
avvalsero allora più per cibo che per la fermentazione della bevanda gradita: ‘
quippe cum Germaniae populi serant eam
(sc. auenam) neque alia pulte uivant’ (n. %. XVIII 17 (44, 1), 149).! XII.
a) Il vestiario delle donne germaniche non si distingueva da quello degli uomini, se non
che le donne ‘ saepius lineis amictibus
uelantur’ (Germ. 17, 10). La stessa
notizia appare nella n. A. XIX 1 (2, 1),
8 ‘ uela texunt (sc. e lino) iam quidem et transrhenani hostes, nec
pulchriorem aliam uestem eorum feminae nouere ’. b) La notizia data dalla n. A. XIX 1 (2, 1),
9, che in Germania facevasi il lavoro di
tessitura in sotterranei : ‘in Germania autem defossae atque sub terra id opus (sc. lina texendi) agunt’, completa
l’ indicazione dell’uso di quelle abitazioni sotterranee, che nella Germ. 16, 12 si dicono fatte per ‘suffuginm
hiemi et receptaculum frugibus ?.* 1 Vedi, quanto ai diversi nomi con cui
s' indicava la birra, n. h. XXII 25
(82), 164. 2 Pompon, MEL, chor. II 1, 10
dice lo stesso dei ‘Satarchae ’, In ciò che nella Germ. 46, 14 dicesi intorno
al modo di vivere dei ‘Fenni’, ai quali era ‘ uictui herba, uestitui pelles,
cubile humus”, pare di scorgere un caso particolare di quanto si considera, in
generale, nella n. %. XXI 15 (50), 86, che vi sono delle ‘ herbae sponte nascentes, quibus pleraeque
gentium utuntur in cibis”, ’ XIV.
Dei ‘ Mattiaci’ la Germ. 29, 9 considera il popolo, sottomesso all'impero romano; la n.
&. XXXI 2 (17), 20 ne menziona le
fonti termali (oggi Wiesbaden).
XV. La notizia data dalla Germ.
5, 18 sulla moneta antica (‘ serratos bigatosque ’), che era preferita dai Germani vicini alle province romane del
Reno e del Danubio, negli scambi
commerciali, è confermata, per quanto
concerne i ‘ denarii bigati’, dalla n. %. XXXII
3 (13), 46: ‘ notae argenti fuere bigae atque quadrigae, inde bigati quadrigatique dicti °. XVI.
L’ambra fu in origine un succo di vegetali: nella Germ. 45,22 se ne adduce la sg.
ragione: ‘ quia terrena quaedam atque
etiam uolucria animalia plerumque interlucent , quae implicata umore mox
durescente materia cluduntur ’. Alla stessa conclusione si popolo del Chersoneso Taurico: ‘ob saeua
hiemis admodum adsiduae, demersis in
humum sedibus, specus aut suffossa habitant’ (Frick). 1 Sact. /ug. 18, 1 aveva prima avvertito che
per i Getuli e i Libii ‘ cibus erat caro
ferina atque humi pabulum uti pecoribus”,
110 perviene, per altra via,
nella ». %., in cui sono addutte per
prove l’opinione degli antichi e l’etimologia della parola ‘ sucinum ’ : XXXVII 3 (11), 43 ‘
arboris sucum esse etiam prisci nostri
credidere, ob id sucinum appellantes ?. Nè vi è contraddizione se nella Germ.
45, 15 si afferma che gli ‘ Aestii ’,
sulla spiaggia orientale del mare
suebico, ‘ soli omnium sucinum.... inter uada
atque in ipso litore legunt’, e che essi ‘ pretium (sc. sucini) mirantes accipiunt ’; mentre nella n.
%. XXXVII 2 (11), 35 si ripete la
notizia annunziata da Pytheas : ‘
Gutonibus Germaniae gente adcoli aestuarium Metonomon nomine......, ab hoc diei
nauigatione abesse insulam Abalum , illo per uer fluctibus aduehi et esse concreti maris purgamentum, incolas pro
ligno ad ignem uti eo (sc. sucino)
proxumisque Teutonis uendere ?’. Gli ‘
Aestii’ avevano le loro sedi accanto a quelle dei ‘ Gutones ° o ‘ Gotones ’, sulle
spiagge orientali del mare suebico
(Baltico); era naturale, per ciò, che l’industria | dell’ambra , così bene avviata presso gli ‘
Aestii ’, si fosse estesa, come tra
popoli vicini, e forse in dipendenza l’uno dall’altro, anche presso i ‘ Gotones
’; e da ciò la notizia registrata nella
n. /%., la quale toglie quella rigidezza
di apprezzamento , che traspare dalla
frase ‘ soli omnium ’ della Germ., riferita agli‘ Aestii ?. È, inoltre, da considerare che, se i ‘
Gutones ” facevano il commercio dell’ ambra coi vicini ‘Teutoni ”, lo vendevano a loro ‘ pro ligno ad ignem ’’;
e perciò nessuna contraddizione si può notare con quanto è detto nella n. 4., se gli ‘ Aestii” facevano delle
meraviglie nel vedersi pagare un prezzo
per il sucino, di cui si erano
cominciate a fare delle ricerche presso di loro , 11
da che il lusso romano aveva dato a tale merce un valore notevole
!. 1 Un’altra relazione tra la Germ.
ei lavori di Plinio avverte U. Zernial, nel suo comm. alla Germ. 3, 15 pp. 22-23,
cioè, che la frase ‘adhuc extare’, usata
in proposito dei monumenti e tumoli con iscrizioni greche, che allora restavano
nel confine della Germania e della
Rezia, si deve riferire a notizie date
da Plinio nei venti libri ‘ bellorum Germaniae. A rendere completo il nostro
studio sulla Germ., ci pare opportuno
mettere anche in confronto il contenuto di essa con le opere genuine di Tacito.
Il confronto sarà ordinato come nel cap.
precedente, restringendo il nostro esame ai soli concetti che presentino un qualche indizio di dipendenza o di
corrispondenza tra loro. Ci atterremo, quanto alla disposizione della
materia, all’ ordine delle opere di
Tacito. I. a) Che le chiome bionde o rossicce e la
corporatura grande formassero uno dei caratteri fisici della nazionalità germanica è fatto cenno
nell’Agr. 11, 3 ‘ rutilae Caledoniam
habitantium comae, magni artus
Germanicam originem adseuerant ’: risponde alla descrizione che ne
presenta la Germ. 4, 6 ‘rutilae comae, magna corpora et tantum ad impetum
ualida ”. Seneca aveva anteriormente
fatto menzione del ‘ rufus crinis et
coactus in nodum apud, Germanos”.! Quanto
alla frase dell’Agr.1. c.* magni artus Germanicam originem adseuerant ’,
alla quale si riattacca l’osservazione
intorno ai ‘ Bataui * (‘et forma conspicui , et est plerisque procera
pueritia’ Mist. IV 14, 6: cf. V 18, 2)
ed ai ‘ Cherusci ’ (‘ procera membra” ann. I 64, 7), risponde la considerazione generale intorno
ai Germa * Per i limiti del confronto, vedi
l’ avvertenza * a pag. 94. 1 Sen. dial.
V 26, 3. 113 ni, che si legge nella Gem. 20, 1 ‘in hos
artus, in hacc corpora, quae miramur,
excrescunt ?. Cesare aveva prima
avvertito che il suo esercito era stato invaso
dal timore al sentire dai Galli e dai mercatanti la notizia ‘ ingenti
magnitudine corporum Germanos, incredibili uirtute atque exercitatione in armis
esse’ !; e Mela aveva anche osservato
che i Germani erano ‘ immanes animis
atque corporibus ?, perchè attendevano agli esercizi guerreschi ed erano
afforzati dalla ‘adsuetudine laborum
maxime frigoris ”. * b) Istituendo un
confronto tra la fioridezza dei Galli
nei tempi anteriori e la decadenza che essi mostrarono dopo, Tacito nell’ Agr. 11, 15 avverte: ‘
Gallos quoque in bellis floruisse
accepimus; mox segnitia cum otio intrauit,
amissa uirtute pariter ac libertate ’. Lo stesso concetto appare nella Germ. 28, 15, allorchè,
per dare evidenza al carattere nazionale
dei ‘ Treueri’ e dei ‘ Neruii ’, si dice
che essi ‘ circa adfectationem Germanicae originis ultro ambitiosi sunt,
tamquam per hanc gloriam sanguinis a
similitudine et inertia Gallorum separentur ’. La superiorità dei Galli di
un tempo è attestata nello stesso 1. della
Germ. 28, 1 sull’autorità di Giulio Cesare, che aveva ciò indicato nel b. G. VI 24, 1. c) La discordia tra i nemici di Roma cooperò
sempre a costituire la superiorità dei
Romani ; onde la considerazione che leggesi nell’ Agr. 12, 4 ‘ nec aliud
aduersus ualidissimas gentis pro nobis
utilius quam quod in com 1 Cars. db. G.
I 39, 1. ? Pompon. Met. chor. III 3,
26. CONSOLI : L’ autore della
Germania. 8 lla mune non consulunt ’. Un pensiero
analogosi manifesta nell’ augurio che 1°
autore della Germ. fa a’ suoi concittadini, ‘quando urgentibus imperii fatis nihil iam praestare fortuna maius potest quam hostium
discordiam’ (Germ. 33, 9). Da ciò la politica, sì lodata, di Druso nelle relazioni coi Germani: egli ‘
haud lene decus quaesiuit inliciens Germanos ad discordias’ (ann. Il 62, 2).!
d) Un apprezzamento punto benevolo per la spedizione di Caligola contro i Germani si legge tanto
nell’ Agr. 13, 9 ‘ agitasse Gaium
Caesarem de intranda Britannia satis
constat, ni uelox ingenio mobili paenitentiae, et ingentes aduersus Germaniam conatus frustra
fuissent ’; quanto nelle Rist. IV 15, 8,
in cui si narra di un Canninefate, che ‘ multa hostilia ausus Gaianarum
expeditionum ludibrium inpune spreuerat ’. Lo stesso apprezzamento era stato
manifestato prima nella Germ. 37, 23
‘*ingentes Gai Caesaris minae iu ludibrium uersae ?. e) La politica dei Romani solevasi avvalere
di un mezzo più efficace delle armi, per
vincere e tenere assoggettati i barbari, l’allettamento dei vizi. Nell’ Agr. 21, 10 sgg. sì deridono gli ignoranti che
fanno consistere la civiltà nei ‘delenimenta uitiorum’, che sono 1 Claudio Mamertino ripeté lo stesso
concetto, che le discordie intestine dei barbari erano la fortuna dell'impero:
‘ tantam esse imperii uestri felicitatem
ut undique se barbarae nationes uicissim
lacerent et excidant, alternis dimicationibus et insidiis clades suas duplicent et instaurent’ (Pan.
genethl. Maxzimiano Aug. d., 16; in
BAFHRENS, AZ/ pan. Lat. III, p. 113 sg.).
2 Severe sono anche le parole con cui Suetonio giudica l’impresa di
Caligola contro i Germani (Calig. 43 e 45-47). Persio la deride (sat. 6, 43 sgg.). CÉ. Cass. Dion.
r. Rom. invece strumenti di schiavitù. Similmente uno dei legati dei ‘Tencteri’
presso il ‘concilium Agrippinensium’ raccomandava, secondo racconta Tacito
nelle hist. IV 64, 19: ‘instituta
cultumque patrium resumite, abruptis uoluptatibus, quibus Romani plus aduersus
subiectos quam armis ualent’. Lo stesso concetto è denotato nella Germ. 23, 6
‘si indulseris ebrietati suggerendo quantum concupiscunt, hawd minus facile
uitiis quam armis uincentur ”. f) L'esperienza della vita dimostra vera la
sentenza che Tacito fa dire a Calgaco
nell’ Agr. 30, 5: ‘ proelium atque arma, quae fortibus honesta, eadem
etiam ignauis tutissima sunt’. Nella
Germ. 36, 2 la si vede applicata per
ispiegare la decadenza dei ‘ Cherusci ’, i
quali ‘ mimiam ac marcentem diu pacem inlacessiti nutrierunt”; e
l’autore, considerando che ‘id iucundius
quam tutius fuit”, assurge ad un avvertimento d’ordine generale, che in nessun tempo è da
trascurarsi dagli uomini di Stato:
‘inter inpotentes et ualidos falso
quiescas ?. g) Nell’apostrofe di
Tacito al suocero estinto, si legge: ‘ nosque domum tuam ab infirmo desiderio
et muliebribus lamentis ad contemplationem uirtutum tuarum uoces, quas neque
lugeri neque plangi fas est ’ (Agr.
46,3). La frase ‘ muliebribus lamentis’ richiama alla mente la sentenza della Germ. 27, 7 ‘
feminis lugere honestum est, uiris meminisse’. E probabilmente tutte e due le espressioni risalgono all’
ammonimento di Seneca: ‘ obliuisci
quidem suorum ac memoriam cum corporibus
efferre et effusissime flere, meminisse
parcissime, inhumani animi est. hoc prudentem uirum non decet: meminisse
perseueret, lugere desinat’.! Seneca, presso a morire, ripetè in parte lo
stesso concetto, per confortare la
consorte. La nazionalità degli ‘ Heluetii” è, secondo GIULIO (vedase) Cesare,
gallica, poichè egli scrive di loro : ‘ Heluetii quogue reliquos Gallos uirtute praecedunt,
quod. fere cotidianis Droga cum:
Germanis contendunt’. 3 Dello stesso
parere è Tacito che, considerando gli ‘ Heluetii’ quali erano divenuti a’ suoi
tempi, avverte : ‘ Heluetii, Gallica gens olim armis uirisque, mox memoria nominis clara’ (Rist. I 67, 2). La medesima
osservazione è confermata nella Germ. 28, 8, che considera tanto gli ‘ Falaotit ? quanto i ‘ Boii” come
‘ Gallica utraque gens ’ b) Era a
nazionale dei Germani andare ala pugna
coi corpi nudi a diciamo « ignudi »): lo indica Tacito nelle isf. II 22, 6
‘cohortes Germanorum, cantu truci et
more patrio nudis corporibus super umeros
scuta quatientium ’. Prima di lui, ne aveva dato notizia Cesare, sebbene
la sua osservazione non si restringesse ai soli usi guerreschi : ‘pellibus aut
paruis renonum tegimentis utuntur, magna. corporis parte nuda ?.! E l’osservaziore di Cesare fu ripetuta nella
Germ. rispetto ai combattimenti (‘ pedites et missilia spargunt.... atque in immensum uibrant, nudi aut sagulo
leues Germ. 6,7), agli esercizi militari
dei giovani (‘ nudi 1 SEN. epist. XVI 4 (99), 24. 2 Tac. ann. XV 63. 3 Cars. db. G. 1 1, 4. 4 CAESs. db. G. VI 21,5. Dice lo stesso dei ‘Suebi’ iunenes .... inter gladios se atque infestas
frameas saltu iaciunt” Germ. 24, 2), e
alla vita domestica (‘in omni domo nudi
ac sordidi’ e. q. s. Germ. 20, 1: cf. 17, 2). Intorno alla provenienza dei
‘Bataui’ ed ai luoghi da loro occupati, ci informa Tacito nelle Rist. IV 12, 6 ‘Bataui, donec trans Rhenum agebant,
pars Chattorum, :seditione domestica pulsi
extrema Gallicae orae uacua cultoribus
simulque insulam iuxta' sitam
occupauere, quam mare Oceanus a fronte, Rhenus amnis tergum ac latera
circumluit’. Della ‘insula Batauorum’ avevano già fatto menzione Cesare e
Plinio Secondo. * Nella Germ. 29, 1 si
legge: ‘ omnium harum gentium uirtute
praecipui Bataui non multum ex ripa, sed
insulam Rheni amnis colunt ’; e, quanto alla loro origine, immediatamente dopo si soggiugne : ‘
Chattorum quondam populus et seditione domestica in eas sedes transgressus, in quibus pars Romani
imperii fierent ’. d) Narra Tacito
(Rist. IV 14, 10) che Civile, in occasione di un banchetto tenuto in un bosco
sacro, espose ai convitati la necessità
d’insorgere in difesa dei loro diritti
conculcati, contro il dominio romano. L’ usanza
germanica di trattare affari, sì privati che pubblici , durante i conviti è menzionata, in generale,
nella Germ. 22, 9 ‘ de reconciliandis
inuicem inimicis et iungendis
adfinitatibus et adsciscendis principibus, de pace denique ac bello plerumque
in conuiuiis consultant : e la ragione
ne è spiegata ‘tamquam nullo magis tempore
1 Secondo la congettura del Walch: nel cod. si legge ‘ iuuata sit an”. ? Cars. db. G. IV 10, 1. Prin. n. A. aut ad
simplices cogitationes pateat animus aut ad
magnas incalescat ”. e) La
disposizione dei Germani per cunei, nelle battaglie, è menzionata nella Germ.
6, 20 ‘acies per cuneos componitur ?’. La conferma appare dal modo secondo cui furono disposti i ‘ Canninefates’,i ‘
Frisii”, i ‘ Bataui ’, etc. nei combattimenti, durante l’insurrezione di Civile (rist. IV 16. V 16), e dall’ordine del
‘ Bructerorum cuneus ” (Rist. V 18, 5).! Ma l’ ordinamento dei combattenti per cunei era stato prima
accennato da Cesare *. Tacito ne fa pure
menzione, descrivendo la battaglia di
Bedriaco 3. f) Nello stesso lib. IV
delle hisé. di Tacito, si nota che i ‘
Bataui ’ furono esenti dall'obbligo di pagare ai Romani i tributi: ‘ Batauos tributorum
expertes (list. IV 17, 11); ed è confermato
in un altro luogo : * sibi (sc. Batauis)
non tributa sed uirtutem et uiros indici ’
(hist. V 25, 9: cf. IV 12, 10). Tale esenzione è notata anche nella Germ. 29, 6 ‘ (Bataui) nec
tributis contemnuntur nec publicanus atterit ’, per la ragione che essi ‘ tantum in usum proeliorum sepositi, uelut
tela atque arma, bellis reseruantur
?. g) Civile, nel determinare l’ ordine
della battaglia, ‘matrem suam
sororesque, simul omnium coniuges par 1
Cf. Tac. hist. IV 20, 11. La disposizione dei combattenti per cunei si continuò anche dopo presso i
barbari: v. Amm. Marc. r. g. XXVII 2,
4. 2 Cars. d. G. VI 40, 2: altrove lo
indicò con la voce ‘phalanx *; db. G. I 52, 4.
3 Tac. hist. II 42, ]1 ‘comminus eminus, cateruis et cuneis concurrebant': v. la nota al l. c. nel comm,
del VALMAGGI, p. 78, Torino uosque
liberos consistere a tergo iubet, hortamenta
uictoriae uel pulsis pudorem ” (Rist. IV 18, 14): si soggiugne poco dopo
‘ uirorum cantu, feminarum ululatu
sonuit acies’. Consimile ordine nei combattimenti a cui preparavansi i Germani, è indicato nella
Germ. 7, 11 ‘in proximo pignora, unde
feminarum ululatus audiri, unde uagitus
infantium ’. Ma in tutti e due i Il. citati
la notizia pare che sia provenuta da quanto avevano scritto prima Cesare sulle donne dei Germani
nelle pugne combattute da Ariovisto !, e Strabone intorno alle donne dei Cimbri. ° h) L’ usanza dei Germani di portare nei
combattimenti effigie di animali o altri simboli rappresentanti le loro divinità protettrici o qualche
attributo delle stesse, è indicata da
Tacito, Rist. IV 22, 12: ‘ depromptae siluis lucisque ferarum imagines, ut cuique
genti inire proelium mos est ’. Nella Ger. 7, 8 si osserva la stessa
consuetudine: ‘ effigiesque et signa quaedam detracta lucis in proelium ferunt ’*. Così, ad es.,
gli ‘ Aestii ’ portavano per simboli divini immagini di cinghiali (‘ insigne
superstitionis formas aprorum gestant’ Germ.
1 Cars. db. G. I 51, 3. ? STRAB.
geogr. VII 2, 3 (C 294), p. 404, ed. M. Vedi anche PLvT. C. Mar. 19, 8, p. 497, ed. Th, Doehner.
FLor. epit. I 38, 16-17 (III 3), ed.
Halm. 3 Tra le‘ effigies” erano
notevoli il lupo e il serpente (Wadan),
l’orso e il capro (Thunar), etc. ; tra i simboli o ‘ signa ’, la lancia
(Wodan), il martello (Thunar), la spada (Tiu), etc. : v. F. G. BERGMANN, poémes islandais tirés de l' Edda
de Scemund, Paris 1838, pp. 1-185, 243-259,
303-319; e le « notes explicatives » pp. 221 - 239, 292 300, 358 - 368; v. anche dello stesso Bergmann la fascination de Gulfi (Gylfa
ginning), traité de mythologie
scandinave, Strasbourg & Paris i Cimbri preferivano il toro di bronzo !.
I Germani non rappresentavano in forma
umana le loro divinità: ‘nec cohibere
parietibus deos neque in ullam humani
oris speciem adsimulare ex magnitudine caelestium arbitrantur? (Germ. 9,
7). i) Scoppiata l’ insurrezione di
Civile, il danno maggiore fu recato dalle ostilità degli insorti contro
gli ‘ Vbii’, ‘quod gens Germanicae
originis eiurata patria Romanorum nomine
? Agrippinenses uocarentur (Rist. IV 28,
6). Dalla Germ. 28, 19 si apprende che ‘ ne Vbii quidem, quamquam Romana colonia esse
meruerint ac libentius Agrippinenses
conditoris sui nomine uocentur, origine
erubescunt’; e da un luogo degli ann.'XII 27,
1-4 si ha la notizia più precisa, che ad istanza di Agrippina, moglie
dell’imp. Claudio e madre di Nerone, si
condusse una colonia romana nell’ ‘ oppidum Vbiorum’, onde il nome di ‘ Colonia
Agrippina’ o solamente ‘ Agrippina’, ovvero ‘ Colonia’ che si ebbe dopo.* j) Quel che dice Tacito, isf. IV 61, 1,
intorno allo adempimento di un voto di
Civile, il quale ‘ post coepta aduersus
Romanos arma propexum rutilatumque crinem
1 PLvr. C. Mar. 23, 6, p. 499, ed. c.
? ‘ Romanorum nomine’ è dovuto a congettura del Weissenborn. Nel cod. è
‘nom’. La lez. ‘ Romanorum nomen’, che il
Gruter notò, è chiusa dal Halm, dal Ritter, dal Ramorino, etc. tra parentesi quadre. Altri preferiscono ‘
Romano nomine’, secondo la congettura del Lipsius. 3 Amm. Marc. r. g. XV 8, 19; 11, 7. XVI 3,
1. Ma Io, Harduinus, nel comm. alla n. A. di Plinio, vol. I, p. 225, nota 2?, crede che sia Agrippina la moglie di
Germanico, perchè, come egli dice, ‘
ueluti mater castrorum procurabat ex eo tractu annonam militibus, qui merebant
in exercitu mariti sui : quamobrem et laureato capite pingitur in achate
Tiberiano ’, è patrata demum caede legionum deposuit’,
appare nella Germ. 31, 3, riferito in
ispecial modo ai ‘Chatti’: ‘ ut primum
adoleuerint, crinem barbamque submittere, nec
nisi hoste caeso exuere uotiuum obligatumque uirtuti oris habitum”.' Anche a Roma non fu, come
pare, sconosciuta tale usanza, poichè
Cesare, per dimostrare il suo affetto ai
soldati, ‘ audita clade Tituriana barbam
capillumque summiserit nec ante dempserit quam uindicasset ’. ? kh) Da uno dei legati dei ‘ Tencteri ’ si
diceva: ‘quod contumeliosius est uiris
ad arma natis, inermes ac prope nudi sub
custode et pretio coiremus’ (Qist. IV
64, 8). Il portare le armi, e in qualunque occasione, stimavasi dai Germani un segno di valentia e
di libertà. Ciò confermasi nella Germ. 13, 1 ‘ nihil autem neque publicae neque priuatae rei nisi armati
agunt’; e si indica il modo con cui
facevasi la dichiarazione d’idoneità a
portare le armi. L’ osservazione si ripete
nella Germ. 22, 5 ‘ad negotia nec minus saepe ad conuiuia procedunt
armati’. Anche morto, il Germano aveva
seco le sue armi (Germ. 27, 4). Tale usanza, del resto, non restringevasi ai soli Germani;
Cesare la indica prevalente presso i
Galli. 5 1 La stessa usanza presso i
Sassoni, in tempi posteriori, è riferita
da PAvL. pIAC. de gest. Langobard. III 7, p. 438, c. 2?. E nella storia di Norvegia è narrato il
giuramento del re Harald Haarfager, di non tagliarsi i capelli nè di pettinarli
prima d'avere spenti tutti i piccoli
sovrani che tenevano divisa la patria
sua: e dopo lotte accanite che durarono più di dieci anni, adempi quanto aveva giurato: v. R.
KeysER, Norges historie, ed. c., vol. I, pp. 204-209. 2 SveTton. diu. Iul. 67. 3 Cas, d, G. V 56, 2: cf. VII 21, 1. 122
1) Un altro segno della piena libertà di cui godevano i Germani, e che,
come del resto è nell’ordine naturale delle cose, trascendeva talora in dannosi
eccessi, era quel che nota Tacito nelle Rist. IV 76,9: ‘ Germanos.... non
iuberi, non regi, sed cuncta ex libidine
agere’. E da ciò quella lentezza nelle deliberazioni delle assemblee, che era veramente un ‘ex
libertate uitium’; poichè i Germani ‘ non simul nec ut iussi conueniunt, sed et
alter et tertius dies cunctatione coèuntium absumitur’ (Germ. 11, 9). Presso i
Galli, nota Cesare, l’abuso era punito;
e al principio della guerra, quando
tutti i giovani armati dovevano adunarsi in
un dato luogo, chi di loro ‘nouissimus conuenit, in conspectu multitudinis omnibus cruciatibus
affectus necatur ?.! m) Nel luogo testè
cit. delle Rist. IV 76, 10 si soggiugne: ‘pecuniamque ac dona, quis solis
corrumpantur (sc. Germani), maiora apud
Romanos. Negli ann. XI ‘ 16, 7 è detto
che l’imp. Claudio si avvaleva del danaro per tenere sotto la sua dipendenza il
re dei ‘Cherusci’, Italico. Or, tanto nel primo quanto nel secondo dei ll. cc.,
scorgesi l'applicazione del mezzo che non
di rado usavano i Romani, per meglio asservire il popolo germanico: onde
la considerazione che leggesi nella
Germ. 15, 12 ‘iam et pecuniam -accipere docuimus’ ;? e, in particolar modo,
intorno ai re dei ‘ Marcomani’ e dei ‘Quadi’ si dice: raro armis nostris, 1 CaEs. db. G. V 56, 2. 2 È noto che, per danaro, la milizie
germaniche marciarono contro gli stessi
Germani: v. CAPITOLIN. M. Ant. philos. 21,7; in scriptt. hist. Aug., IV p. 66, ed. P., Mi | A
saepius pecunia iuuantur, nec minus ualent’ (Germ. 42, 9). !
n) I Germani ammettevano che le donne di condizione elevata fossero le
più sicure garentie e i migliori ostaggi, per ottenere l’ adempimento dei patti
convenuti tra popolo e popolo o tra i partiti di una stessa gente. Un caso è rammentato da Tacito, Rist.
IV 79, 1:‘orabant auxilium Agrippinenses
offerebantque uxorem ac sororem Ciuilis et filiam Classici, relicta sibi pignora societatis’; la quale ‘ societas’
sappiamo che era stata già ‘
nobilissimis obsidum firmata’ (Rist. 1V
28, 2). La consuetudine era stata prima indicata nella Germ. 8, 5: ‘ efficacius obligentur animi
ciuitatum, quibus inter obsides puellae quoque nobiles imperantur ”. Augusto aveva tentato di trarne vantaggio,
chiedendo ad alcuni capi.di nazioni
vinte, per tenerli in fede e soggezione,
delle donne per ostaggio. * o) Per
significare 1° approvazione delle proposte discusse nelle assemblee, i Galli
solevano battere le armi: ‘conclamat omnis multitudo et suo more armis concrepat, quod facere in eo consuerunt,
cuius orationem approbant ?. La stessa usanza notavasi presso i Germani : ‘ sin placuit, frameas concutiunt
: honoratissimum adsensus genus est armis laudare’ (Germ. 11, 17). Tacito l’accenna nelle Rist. V_ 17,
13 ‘ sono armorum tripudiisque, ita illis (sc. Germanis) mos, adprobata sunt
dicta ’. III. a) La considerazione sulla maniera di com1 V.
pag. 12 sg. 2 SvETON. Aug. 21. 3 Cars, db. G. VII 21, 1, Cf. Liv. battere
dei ‘Chatti’, che osserviamo negli ann. I 56,
16 ‘non auso hoste terga abeuntium lacessere, quod illi moris, quotiens astu magis quam per
formidinem cessit ’, appare come un’applicazione al caso
particolare dell’ osservazione fatta, in generale, sul carattere, dei Germani:
‘ cedere loco, dummodo rursus instes, consilii
quam formidinis arbitrantur’ Germ. 6, 20. Simile usanza presso i‘ Cherusci’ è
notata negli ann. II TIA b) Tacito narra che, dopo la disfatta di
Varo, i Germani sacrificarono presso le are i vinti ‘tribunos ac primorum ordinum centuriones’ (ann. I 61,
13); e la stessa notizia sui sacrifici
umani egli ripete, in proposito della vittoria degli ‘ Hermunduri”’ sui
‘Chatti”: ‘ uictores diuersam aciem
Marti ac Mercurio sacrauere, quo uoto
equi uiri, cuncta uiua occidioni dantur’ (ann.
XIII 57, 10). Analoga osservazione era stata fatta nella Germ. 9, 1
‘deorum maxime Mercurium colunt, cui
certis diebus humanis quoque hostiis litare fas habent ’; ma placavano Marte ‘concessis animalibus’. I‘
Semnones’ anch’essi ‘ caeso publice homine celebrant barbari ritus horrenda
primordia’ (Germ. 39, 5); e con vittime
umane si celebrava il culto della dea ‘Nerthus”
o ‘Terra mater’ (Germ. 40, 19). Strabone aveva prima fatto menzione
dell’orrendo rito dei sacrifici umani presso i Cimbri '; istituto religioso,
del resto, comune a tanti altri popoli primitivi. Iordanis afferma che anche i Goti offrivano a Marte vittime
umane; e 1 StRAB. geogr. VII 2, 3 (C 294), p, 404, ed. M. 2 IoRDAN. de or. act. Get. 5, p. 9, 23, ed. Holder: ‘ opinantes (se. Gothi) bellorum praesulem apte humani
sanguinis effusione placandum. Procopio dice che l’orrendo rito si era continuato, per le divinazioni, presso i Franchi già
convertiti al Cristianesimo. * c) All’
indicazione : ‘ certum iam alueo Rhenum ...
Vsipi ac Tencteri accolunt’ (Germ. 32, 1), risponde la frase che si nota negli ann. II 6, 13 ‘
Rhenus uno alueo continuus’. Mela dà più
chiara spiegazione, ed usa qualche
parola che poi ripetè, sull'argomento stesso, lo autore della Germ.: ‘(Rbenus) mox diu solidus
et certo alueo lapsus haud procul a mari huc et illuc dispergitur ?. ? d) Negli ann. II 12, 3 si fa menzione di una
selva consacrata ad Ercole, luogo di
convegno dei Germani. Anche di Ercole e
dei canti guerreschi, con cui si celebrava quel ‘primus omnium uwirorum
fortium’, si trova menzione nella Germ.
3, 1 sg.: cf. 9, 2. Evidentemente si allude al culto di Thor (Donar) che,
per interpretazione romana, si era
rassomigliato ad Ercole. Quanto, poi,
all’espressione ‘siluam Herculi sacram?”,
che si legge nel 1. c. degli ann., e al ‘ sacrum nemus ”, dove Civile riuniva i suoi (/Rist. IV 14,
10), si possono considerare come esempi
della consuetudine indicata, in
generale, nella Germ. 9, 9: ‘lucos ac nemora consecrant’. Dello stesso modo son
da considerarsi come casi particolari
della consuetudine, di cui è discorso
nel presente paragrafo, la ‘silua auguriis patrum et prisca formidine sacra’, dove, nel tempo
stabilito, si adunavano i ‘Semnones’
(Germ. 39, 3); il ‘castum nemus’
consacrato, in un’isola dell’ oceano, alla dea
\ 1 ProcoP. de b. Goth. II
25. ? Pompon. Met. chor. Ill Nertbus’
(Germ. 40, 9); e quello ‘antiquae religionis
lucus ’, presso i ‘ Nahanaruali” (Germ. 43, 14). ! e) Nel discorso pronunziato da Germanico ai
suoi soldati si afferma: ‘non loricam
Germano, non galeam, ne scuta quidem
ferro neruoue firmata’ (ann. II 14, 10)
: perciò scarsezza, se non totale mancanza, del ferro presso i Germani. Il
medesimo concetto è annunziato nella Germ. 6, 1 ‘ne ferrum quidem
superest, sicut ex genere telorum
colligitur’; ma l’asserzione di
Germanico, il quale nella foga oratoria negava a tutti i Germani la lorica e l’elmo, appare mitigata
dall’ osservazione che si legge nella Germ. 6, 10 ‘paucis loricae, uix uni
alteriue cassis aut galea’. Egli è vero
che i ‘ Cotini” conoscevano la metallurgia del ferro (Germ. 43, 6), ma i ‘Cotini’” non erano
stimati Germani: ‘Cotinos Gallica ... lingua coarguit non esse Germanos, et quod tributa patiuntur’ (Germ.
43, 3). Presso gli ‘ Aestii” era ‘rarus
ferri, frequens fustium usus’ (Germ. 45,
12). Nella stessa orazione di Germanico
si nota che i Germani usavano per scudi
‘uiminum textus uel tenuis et fucatas colore tabulas’ (ann. II 14, 12): lo stesso avvertesi in generale, intorno agli
scudi dipinti, nella Germ. 6, 9 ‘scuta
tantum lectissimis coloribus distinguunt
’. Soltanto gli ‘ Harii” avevano il costume
di portare gli scudi tinti in nero, per atterrire i nemici durante i
combattimenti notturni, presentando un
certo ‘nouum ac uelut infernum adspectum’ (Germ. 43, 24), ?
ì V. rag 105, per la rispondenza con la n. A. di Plinio. 2 Sull'uso degli scudi dipinti v. EvrIr.
Phoen. 142, vol. II, p. 402, ed. Nauck.
Cic. de or. II 66, 266. 127 f) Del clima della Germania si dice negli
ann. II 24, 1 ‘truculeutia caeli
praestat Germania’. E l’autore della
Germ. si domanda: ‘(quis) Germaniam peteret,
informem terris, asperam caelo, tristem cultu aspectuque, nisi si patria
sit ?° (Germ. 2, 8). Seneca fa una
osservazione consimile: ‘ perpetua illos (sc. Germanos) hiems, triste caelum premit, maligne solum
sterile sustentat” e. q. s.! g) I
soldati di Germanico, che sopraffatti dalla tempesta, sì erano dispersi,
tornati poi nei quartieri, dopo lunga
peregrinazione, narravano cose meravigliose,
‘uim turbinum et inauditas uolucres, monstra maris, ambiguas hominum et beluarum formas, uisa
siue ex metu credita’ (ann. II 24, 18).
Simili notizie favolose sono riferite
nella Germ. 46, 25 intorno agli ‘ Hellusii ’
ed agli ‘“Etiones’: “ora hominum uultusque, corpora atque artus ferarum gerere’. Ma, mentre un
che di ironico traspare dalla frase
‘siue ex metu credita’, nella Ger. si.
osserva che tali racconti si tralasciano,
perchè sfuggono ad un esame giudizioso : ‘ quod ego ut incompertum in medio relinquam’ (Germ. 46,
26). Ad una conclusione non dissimile
era venuto prima Pomponio Mela, trattando degli ‘Oeonae’, degli ‘Hippopodes’ e
dei ‘ Panuatii ”. * h) Alludendo ad
un’età aurea degli ordinamenti sociali, in tempi antichissimi, Tacito osserva :
‘ uetustissimi mortalium, nulla adhuc mala libidine, sine probro, scelere eoque sine poena aut coercitionibus agebant’ 1 Sen. dial. | 4, 14. ? Pomp. Met. chor. Ill
6, 56. Cf. Plin. n. h. IT 108 (112), 246.
IV 13 (27), 95 Sotin. coll. r. m. 19, 6-8, p. 105, ed. Mominsen. Avevstin. de civ. Dei
XVI 8, vol. II, p. 135 sg., ed, Dombart.
128 (ann. III 26, 1). Simile
concetto, ma col proposito di dare
evidenza, mediante l’antitesi, alla decadenza morale dei Romani nell’età
imperiale, è annunziato nella Germ. 19,
17 ‘plusque ibi boni mores uwalent quam
alibi bonae leges ’. Al medesimo concetto avevano alluso Sallustio! e
Orazio. * î) La pretensione vessatrice
di Olennio, che imponeva ai ‘ Frisii’ di soddisfare il tributo di pelli di
buoi con pelli di uri, offre a Tacito l’
occasione di osservare che ‘id aliis quoque nationibus arduum apud Germanos
difficilius tolerabatur, quis ingentium beluarum feraces saltus, modica domi armenta sunt’
(ann. IV 72, 7). Analoga osservazione
sui buoi della Germania, che erano più
piccoli e meno belli de’ buoi degli altri
paesi, si nota nella Germ. 5, 5 ‘ pecorum fecunda, sed plerumque improcera. ne armentis quidem suus
honor aut gloria frontis’. Cesare l’
aveva anche osservato: ‘ sed, quae (sc.
iumenta) sunt apud eos nata, parua atque deformia”.? j) Tacito narra che Nerone mandò in
Britannia uno de’ suoi liberti, di nome
‘ Polyclitus ?, con l’incarico di
rimettere la concordia tra il legato e il procuratore, e di rappacificare i barbari ribelli; ma il
liberto ‘ hostibus inrisui fuit, apud quos flagrante etiam tum libertate nondum
cognita libertinorum potentia erat;
mirabanturque quod dux et exercitus tanti belli confector seruitiis
oboedirent’ (ann. XIV 39, 7). La storia
ci rammenta altri liberti potentissimi presso
1 SALL. Cat. 9, 1 “ius bonumque apud eos non legibus magis quam natura ualebat’. ? Hor. carm. III 24, 35 sg. 8 CAES. db. G. alcuni imperatori romani. E
però, in antitesi a quella superiorità
che si riconosceva, dai Germani non sottoposti a monarchi, ai soli uomini
liberi, 1’ autore della Germ. osserva: ‘
liberti non multum supra seruos sunt,
raro aliquod momentum in domo, numquam in ciuitate, exceptis dumtaxat iis gentibus, quae
regnantur ? (Germ. 25, 8: cf. 44, in
principio). k) Argomento trito era
quello dei vantaggi di cui godeva l’ ‘
orbitas ’ di vecchi ricchi. ‘ Hereditatis spes ’, scriveva Cicerone, ‘ quid iniquitatis in
seruiendo non suscipit? quem nutum
locupletis orbi senis non obseruat ?’!. Orazio ne fa il tema della sat. quinta
del lib. II (cf. anche episf. I 1, 79);
e Seneca avverte: ‘in ciuitate nostra plus gratiae orbitas confert quam eripit
?. ? Allo stesso argomento si riferisce
Tacito , scrivendo: ‘ satis pretii esse
orbis quod multa securitate, nullis 0neribus gratiam honores cuneta prompta et
obuia haberent ? (ann. XV 19, 7); e in altri luoghi adduce per esempi Calvia Crispinilla, ‘ magistra
libidinum Neronis?, la quale fu ‘ potens pecunia et orbitate, quae bonis
malisque temporibus iuxta ualent” (Risé. I 73, 8); e un tale Pompeo Silvano, che ‘ ualuit
pecuniosa orbitate et senecta ’ (ann.
XIII 52, 7). L’antitesi sì osserva nel 1
Cic. parad. V 2, 39. 2 Sen. dial. VI
19, 2; e degli scrittori che, dopo Plinio Secondo, s'intrattennero di tale
argomento, v. PLIN. epist. IV 15, 3.
IvvenaL. sat. IV 12,99 sgg. PETRON. sat. 1)6, p. 539. MARTIAL. epigr. IV 56,
1-6. Amm. Marc. r. g. XIV 6, 22. 3 Ma
Domizio Balbo era stato ‘simul longa senecta, simul orbitate et pecunia insidiis obnoxius L’
autore della Germania le istituzioni tradizionali dei Germani, presso i
quali ‘nec ulla orbitatis pretia’ (Germ.
20, 18). IV. In tutti i luoghi che nel presente capitolo
abbiamo comparativamente esaminati, è agevole osservare che la somiglianza o identità di concetto
proviene per lo più dai fonti comuni,
donde i pensieri sono stati dedotti ; e,
ove tali fonti comuni manchino ovvero non
si riesca a determinarli, nulla vieta di ammettere che, essendo il tempo della composizione della
Gem. anteriore a quello in cui furono scritte le opere di Tacito, questi, trattando ne’ suoi lavori storici di
argomenti analoghi ad alcuni già svolti
o menzionati nella Germ., si sia avvalso
di considerazioni , uotizie, insomma di
pensieri che erano stati espressi in questo ultimo libro. Nondimeno Tacito non si attenne sempre a tali
concetti, chè talvolta di proposito se
ne allontanò , o li modificò, o chiaramente li contraddisse. Valgano di
conferma i sgg. esempi. a) Della
notizia, data da Cesare, ! sull’ antica potenza dei Galli fa menzione la Germ.
28, 1, indicandone con lode somma il
fonte: ‘ualidiores olim Gallorum res
fuisse summus auctoram diuus Iulius tradit’. La
medesima notizia appare nell’ Agr. 11, 15, ma senza indicazione del fonte autorevole: ‘Gallos
quoque in bellis floruisse accepimus’.
Anche in un altro luogo dell’ Agr., c.
10, si ripete, senza che se ne indichi il
fonte, una notizia data da Cesare.* Soltanto, quando si riferiscono le imprese militari contro la
Britannia, si fa 1 Cars, db. G. VI 24,
1. ? Cars. b. G. V 13, 1 sgg. Mo]
1Bl cenno di Cesare: ‘primus
omnium Romanorum diuus Iulius cum exercitu
Britanniam ingressus ’ (Agr. 13, 3). b)
La lingua dei Britanni non era molto differente
da quella gallica, perchè entrambe derivavano dallo stesso ceppo celtico: e su ciò è chiara l’
affermazione dell’ Agr. 11, 12. Ma con
tale affermazione non si può conciliare
quanto è detto nella Germ. 45, 9, cioè
che gli ‘Aestii’, i quali abitavano sulle spiagge ad oriente del mare suebico, ed avevano
costumanze e riti simili a quelli dei
Suebi, adoperassero una ‘lingua Britannicae propior ”. c) La voce ‘Germania’ usata al plur. notasi
nello Agr. 15, 13. 28, 1: cf. ann. I 46,
9; è evitata nella Germ., sebbene in
questa si presenti non rara l’ occasione della sineddoche mediante l’uso del
plur. invece del sing. ‘d) Del Norico, che è più volte nominato
negli scritti di Tacito (ist. I 11, 9;
70, 16. ann. II 63, 3), non si fa
menzione nel c. 1° della Germ., nel quale si descrivono i confini della
Germania: appena, per incidenza, sì nota
in un altro ]. che la terra germanica è ‘ uentosior qua Noricum ac Pannoniam aspicit’ (Germ. 5,
3); il che rende più evidente
l’omissione fatta nel c. 1°. e) Col
solo nome ‘Caesar’, Tacito indicò il dittatore
Giulio Cesare (Rist. III 66, 16): più volte premise o aggiunse il titolo ‘ dictator” (/ist. III 68,
5. ann. I 8, 27. II 41, 3. IV 34,21. VI
16, 2. XI 25,9. XIII 3, 11. XIV 9, 6);
una sola volta lo fece precedere dal prenome C. (ann. IV 43, 5). Nella frase
della Germ. 37, 20 ‘ Varum trisque cum eo
legiones etiam Caesari abstulerunt’, si
indica col solo nome ‘Caesar’ l’imperatore Augusto. ! f) Facendo menzione della vergine fatidica
Veleda, la cui autorità era divenuta
grande dopochè ella aveva predetto la
vittoria dei Germani e la distruzione delle
legioni romane, Tacito accenna ad un antico costume presso i Germani, ‘quo plerasque feminarum
fatidicas et augescente superstitione
arbitrantur deas’ (list. IV 61, 10).
Nella Germ. si spiega il fondamento di tale credenza: ‘inesse quin etiam sanctum
aliquid et prouidum putant, nec aut consilia earum aspernantur aut responsa neglegunt’ (Germ. 8, 6); ma si
avverte che le donne fatidiche erano
tenute ‘numinis loco’ e venerate ‘non adulatione nec tamquam facerent
deas’. 9g) Per il ritorno degli ‘
Agrippinenses ’ in seno alla grande
famiglia germanica, si rendono grazie ‘ communibus deis et praecipuo deorum Marti’
(Qisf. IV 64, 4). Nella Germ. 9, 1 si
assevera, invece, che per i Germani il precipuo degli dei era Mercurio : ‘
deorum maxime Mercurium colunt ’. h)
Nelle Rist. IV 73, 12 si fa menzione dei Teutoni accanto ai Cimbri; nella Germ. 37, benchè vi
si tratti delle guerre cimbriche, si
omette qualsiasi cenno intorno ai Teutoni. *
i) Per l’autore degli ann. sono ‘clientes’ i compa 1 Negli ann. Augusto é detto una volta
‘Caesar Octauianus (XII 6, 14) ed
un’altra ‘Caesar’ (I 2, 3), riferendosi però a
tempi anteriori a quello in cui egli prese il nome di Augusto (a. 727 /27: cf. WEISSENBORN, de Titi Liuii
uita et scriptis). La disfatta di Quintilio Varo avvenne nel settembre dell'a.
9 d. Cr., cioè 36 anni dopo che Ottaviano era stato insignito col titolo di
Augusto, gni dei capi barbari, p. es. i ‘clientes’ di Segeste (amm. I 57, 13), di Inguiomero (ann. II 45, 4), di
Vannio (ann. XII 30, 7); e che
significhi ‘ clientela’ per Tacito si
deduce dal l. degli ann. II 55,8. Nella Germ., invece, i compagni dei capi son detti, con voce più
nobile e decorosa, ‘comites’ (Germ.
13,10, 12, 14, 14,7); ela loro riunione
‘ comitatus” (Ger.), non ‘
clientela”. j) Secondo la Germ. 4, 6, i
Germani hanno ‘magna corpora et tantum
ad impetum ualida’. Negli ann. II 14, 14
si restringe l’obietto di tale considerazione, poichè si nota che il corpo dei
Germani è ‘uisu toruum et ad breuem
impetum ualidum ’. i k) L’ autore della
Germ. non saprebbe affermare ‘nullam
Germaniae uenam argentum aurumue gignere:
quis enim scrutatus est ?” (Germ. 5, 9). E nondimeno negli ann. XI 20, 11 è detto espressamente
che nell’a. 47 d. Cr. Curzio Rufo ‘in
agro Mattiaco recluserat specus quaerendis uenis argenti ’, tuttochè con poco
profitto e per breve tempo. Se è assodato, da quanto narra Tacito negli
ann. XIII 57, 2 sgg., che i Germani
facevano uso del sale, non può evitarsi
il contrasto con l’osservazione che leggesi nella Germ. 23, 4, cioè che i
Germani si preparavano i cibi ‘ sine apparatu, sine blandimentis ?. Ed altri esempi omettiamo, per amore di
brevità. Mende tipografiche . 28 mendacium
13 comunica 18 Seguo ll alle
leggi mendaciorum comunicava
Seguiamo alle I
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Norske og Danske. Catania , 1884. L. 3.
(in deposito presso E. Hauffs boghandel,
Kristiania in Norvegia). Istituzioni di
lingua latina esposte, secondo il metodo scientifico, agli alunni delle scuole
secondarie classiche. Catania, F. Tropea Introduzione allo studio del D.
N. Torino, F.lli Bocca Fonologia latina Milano, U. Hoepli Letteratura
norvegiana, Milano, U. Hoepli De C.
Piinii Caecllii Secundi rhetoricis studiis.
Catinae, C. Galatola Il neologismo negli scritti di Plinio il
giovane. Contributo agli studi sulla
latinità argentea. Palermo, A. Reber Neologismi
botanici nei carmi bucolici e georglci di Virgilio. Contributo agli studi sulla
latinità dell'evo augusteo. Palermo, A. Reber L' autore del libro " De
origine et situ Cermanorum " : ricerche critiche. Roma, Loescher LA GERMANIA COMPARATA COLLA
NATVRALIS HISTORIA di Plinio e cosa le opere d.i rPaclto RICERCHE LESSIGRAFIGHE
E SINTATTICHE lib. doc. di letteratura e lingua latina nella R. Università di
Catania Loescher Bretaehneider e Regenberg Librai di S. M. la Regina d' Italia
L-t l-l'iZ.i l \ (.Ji'ù i U ta.t ^ tCu>u Y^. (Catai^a^ via MaddemfD. Ttpoffrafia editrice
BARBACALLO & 8CUDERI, in Catania. Alla memòria benedetta di mia madre E DI
MIA MOGLIE . Il sagio che C. sommettealla benevola attenzione dei lettori ha il
solo obietto di dare evidenza ad alcune osservazioni lessigrafiche e
sintattiche, più degne di nota, che
risultano dal confronto della Germania con
la naturalis historia di Plinio e con le opere di Tacito. Si ommettono,
per tanto, tutte le particolarità, concernenti la lessigrafla e la sintassi,
che presentano gli scritti comparati, in quanto che tali particolarità o casi
isolati sfuggono ad un'indagine comparativa. Nelle ricerche sulla genesi e lo
svolgimento delle voci e locuzioni considerate, terremo presente l'uso che ne fecero i più autorevoli scrittori latini
anteriori a Plinio Secondo ed a Cornelio Tacito, e quelli ad essi contemporanei. Eviteremo, per ciò, salvo in
qualche caso raro, di seguire le vicende
di una data espressione o di un dato
costrutto sintattico nell'uso letterario dei
tempi seriori. Sarà ommessa altresì l' indagine di quei significati delle voci esaminate , i quali ,
non essendo stati accolti nelle opere
che sono obietto delle nostre ricerche,
non sembrano di alcun vantaggio per la comparazione istituita. Al nostro
compito è sufficiente indagare per quale tramite la voce, la frase, il
costrutto che si esaminano , sì siano
introdotti nelle opere messe in
comparazione. Qualche osservazione critica appare, talvolta, nelle note;
che, trattandosi di indagini comparative, è necessario, anzi tutto, essere
certi dei termini del confronto ed aver
notizia delle vie percorse dalla critica
per fissarli. Quanto al testo di
Tacito, ci siamo attenuti all' edizione curata dal Halm ; e, per il testo della
naturalis historia di Plinio, abbiamo
seguito l'ediz. Jan-Mayhoff*. Ci è parso
opportuno seguire, quanto al testo della
Germania, la recente ediz. curata da Io. Mueller ( ' editio maior, II
emendata, Vindobonae, Pragae, Lipsiae,
MDCCCC '). Nel citare i passi di un autore, abbiamo eoa vili
servato invariata l'ortografia del testo, quale è presentata neir ed. di
cui ci siamo serviti : e perciò occorre,
qualche volta, leggere nello stesso paragrafo o nello stesso rigo
l'identica parola scritta in più modi; p. es. ' adgnoscere ' e ' agnoscere ' ,
' adgnatus ' e ' agnatus ' , ' caespes '
e ' cespes ', ' conlatio ' e ' coUatio ', ' inlacessitus ' e ' illacessitus ',
' inpatiens ' e ' impatiens ', ' inputare ' e ' imputare ', ' inrumpere ' e '
irrumpere ', etc. I passi di Tacito sono
designati con la indicazione del rigo ,
dopo il numero che rappresenta il cap. ; e per
maggiore chiarezza, a fin di agevolare le ricerche ed i confronti, si è indicato , ogni volta che
sia apparso necessario, anche il num.
del rigo nelle citazioni dei passi di
altri scrittori. Ad evitare, però, troppo curaolo di numeri, si è ommessa, nel citare i luoghi
di Plinio, r indicazione dei numeri che
rappresentano i capitoli e le sezioni:
il luogo che si cita è indit^ato soltanto col
numero d'ordine del libro e col numero del paragrafo. Arrogi che , quante volte si è trascritto il
testo di un luogo della naturalis
historia, il numero rappresentante il libro è stato sempre espresso con segni
romani ; allorché, invece, si è citato
un luogo della detta opera per semplice confronto o richiamo, senza la
trascrizione del testo, si è indicato (da pag. 33 in poi) anche il numero d' ordine del libro con sole cifre
arabiche. Non pare superfluo, in fine,
avvertire (tuttoché, del resto , si sia
chiaramente detto e ripetuto nelle prefazioni dei nostri libri sui neologismi
pliniani e sui neologismi botanici nei carmi bucolici e georgici di Virgilio)
che la nostra affermazione sulla novità di un
vocabolo o di un costrutto sintattico nelle opere messe in confronto, o sul significato nuovo di voci
anteriormente note, il quale si osserva nelle dette opere, va sempre accolta in
senso ristretto , cioè in relazione al materiale letterario latino pervenuto
sino a noi. Certamente né Plinio né
Tacito si sarebbero serviti di voci non
note ai loro contemporanei , né a voci usate prima avrebbero assegnato
tali significati nuovi da non essere
compresi dai Tettori delle loro opere, A fin di determinare con la
maggiore chiarezza che ci sia possibile
le relazioni lessicali tra i due libri
considerati, pare opportuno trattare prima delle voci e frasi più notevoli, che appariscono usate
dagli scrittori anteriori alTetà di Plinio
Secondo, con lo stesso valore lessicale
che si nota nella Oerm. e nella nat. hist Sostantivi : 1/ * aduentus ' : Ge^^m. 2, 2 ^ aliarum
gentium aduentibus '. n. h. XVII 242 ' Xerxis aduentu ' : cf. XV 52, XXIX 13. Plinio riferì ' aduentus ', oltreché
a persone, anche ad animali: n. h. X 30
' ad hirundinum aduentum '. XXV 90 * florent aduentu hirundinum ' ; e a
cose diverse : v. n. h. II 142. XVIII 218. XXXII 59. C0N30U, La aermania comparata. 1 2 ~
etc. : egli perciò si attenne all'uso della voce ' aduenfcus ' accolto nella latinità arcaica e nella
classica. ^ 2.° ' alea ' vale « giuoco
di fortuna , di rischio 5> : Germ.
24, 6 ' aleam.. sobrii inter seria exercent '. n. h. XIV 140 ' quantum alea quaesierit tantum
bibit '. Per indicare, in senso
traslato, 4; dubbio, incertezza » , la
V. 'alea' è accolta nella 7^. ft^ praef. 7 ' M. Tullius extra omnem ingeni aleam positus '. Tanto
nell' uno quanto nell'altro significato,
la v. considerata ha degli esempi in
tutti gli stadi della latinità. ^ 3.° '
amplitudo ' : Germ. 26, 6 ' nec enim cum ubertate et amplitudine soli labore
contendunt '. n. h. VI 119 ' stadiorum
LXX amplitudine ': cf. X 52 ' in magnam amplitudinem crescit '. XIV 28 '
foliorum amplitudo atque duritia ' : v. inoltre
etc. Nello stesso significato proprio di « ampiezza, grandezza, estensione grande » era stata già
la voce ' amplitudo ' accolta nell' uso
della latinità aurea. ^ 4.*^ ' annales ' : Germ. 2, Il ' celebrant
carminibus antiquis, quod unum apud
illos memoriae et annali um genus est '
e. q. s. n. h. II 43 ' miraque humani ingeni
peste sanguinem et caedes condere annalibus iuuat '. XXXIII 145 '
erubescant annales qui bellum ciuile illud
1 Vedi p. es. Pacvv. in Non. II p. 178 , 9 ed. Mere. ; p. 121 , a ed. Gerl.-Roth. Cic. de imp. Cn, Pomp, 5. 13. in Pis, 22, 51. p. Mil 19, 49. ad Ait XII 50. Tuse. Ili 14,
29. de nat d. \ 38, 105. NtìP. XI (Iph.)
2, 5. Sall. lug. 97, 4. etc. 2 Vedi
Forcellini-De Vit, lex t. I, p. 189. Georges, ausfùhrl Handwb. I, e. 276. 3 Varr. r. r. II 4, 3. Cic in Verr. IV 49, 109. L'uso fu continuato anche da Tac. hisi. IV 22, 15. IdiaL de
oraioribua 37,23}. 3 talibus uitiìs inputauere ' K Tale
accezione di * annales ', per significare una narrazione storica in
generale, rese possibile la confusione
che Puso seriore fece di * historia ' e
* annales ', malgrado le distinzioni d' ordine diverso fatte da Gelilo e
Servio. ^ ò."" ' appellatio':
Germ. 2, 17 * pluresque gentis appellationes '. ^ n. h. VII 59 ' se patris appellatione
salutarent': v. anche II 116. XV 138. XXI 50. etc. Con lo stesso significato metonimico di « nome,
denominazione, appellativo », oltreché con altri significati, la v. appellatio
' appare prima in Cicerone. * 6."
* argumentum ' : Germ. 25, 12 ' apud ceteros impares libertini libertatis
argumentum sunt. ' n, h. Il 111 ' haut
dubio coniectatur argumento ': v. inoltre II
7; 8. III 86; 122. X 106; 107. XI 94 . XII 68. XV 12; 134. XXII 39. etc. Lo stesso significato di «
argomento, segno , prova di fatto > ,
e talvolta « indizio » ha la V. '
argumentum ', oltre ad altri significati, presso gli scrittori anteriori. '^ 1
Cf. Tac. ann. II 88, 16. « Gfll. n, A.
V 18 , 1-9. Sbrv. comm, in Verg. Aen. I
373, voi. I, fase. 1^, p. 125 sg. Th.
Cf. Isid. orig. I 43, col. 856. 3 Non
pare che sia degna di essere accolta la lezione congetturata da loh. Mueller :
^ plurisque gentes et appellationes '.
Abbiamo preferito attenerci alla lezione data dai codd., rifiutando anche il * plurisque ' dato dal Ritter ,
Kritz , Haltn * , Zernial, Ramorino, etc
: i codd. presentano * pluresque '. ^
Cic. de dom. s. 50, 129. ad AH, V 20, 4. Un altro es. leggesi in un I. di Tito Ampio, riferito da Sveton.
diu. lui. 77, 2. Vedi anche Tag. ann.
Ili 56, 5. 5 V. i numerosi ess. di
Plauto, Lucrezio, Cicerone, Livio, etc
nel lex. Forcbllini-De Vit, 1. 1, p. 383 e néiVausfiXhrl Handeob, del G^ORGKS, I, e. 528 sg. ~ 4 ~
7.** ^ armentum ' : nella Germ. vale a significare in generale « branco di animali grossi domestici
» : 21, 3 ^ luitur enim etiam homicidium
certo armentorum ac pecorum numero '.
Plinio l'adopera nella n. h. per denotare branco di cavalli (Vili 165) o di
cinocefali (VII 31) di certi buoi della
Frigia (XI 125) o di animali in generale
(Vili 44. XI 263). Per i vari significati della
V. * armentum ' si erano dati anteriormente degli ess. da Varrone, Cicerone, Virgilio, Orazio,
Ovidio, etc. ^ 8.** ' ars ' : Gemi. 24,
3 ' exercitatio artem parauit , ars
decorem '. n. h. XVIII 197 ' artis quoque cuiusdam est aequaliter spargere (semen) ' : v. XI 81.
XVIII 32. In Terenzio la v. * ars '
aveva di già assunto il significato particolare di « abilità, destrezza ». ^ 9.* ^ bigati ', antiche monete romane con l'
impronta della biga : Germ, 5, 17 '
pecuniam probant ueterem et diu notam ,
serratos bigatosque '. n. h. XXXIII 46 '
notae argenti fuere bigae atque quadrigae , inde bigati quadrigatique dicti '.
Livio l'usò anche con lo stesso
significato. ^ 10. ** ^ cassis
', t. ' cassid- ' : Germ. 6, 10 ^ uix uni al
1 Varr. r. r. II 5, 7. Cic. Phil. Ili 12, 31. ad Att VII 7, 7. de r. p, II 35, 60. Verg. bue. 2, 23. 4, 22. 6, 45 e 59. georg. I 355; 483. II 144; 195; 201; 329. III 71; 129; 150;
155; 162; 352. IV 223; 3P5. Aen, I 185.
Ili 220; 540. VII 486; 539. Vili 214; 360. XI
494. XII 688; 719. Hor. carm. I 31, 6. Ili 3, 41. ep. 1 8, 6. Ovid. mei. XV 84. fasi. II 277. « Tbr. Andr. 31 (I 1, 4). adeìph^ 742 (IV 7,
24). Cf. Tag. Agr. 36, 2. « Liv. XXIII 15, 15: ò adoperata col valore
primitivo di aggettivo in XXXllI 23, 7.
5 terìue cassis aut galea '. ^
Con lo stesso significato (« elmo di
metallo ») la v. ' cassis ' fu adoperata dagli scrittori anteriori. Nella n. h.
si presenta col significato metonimico di guerra : XIII 23 ^ ista
patrocinia quaerimus uitiis , ut per hoc
ius sub casside unguenta sumantur
'. 11.° ^ ciuitas ': l'espressione *
Hermundurorum ciuitas \ che leggasi
nella Qerm. 41, 3, si riannoda direttamente
ad un* espressione consimile di Cesare. ^ A tale accezione della V. *
ciuitas ' si ravvicina il passo della n. h,
XXXI 12 ^ Tungri ciuitas Galliae ': cf. VII 200 ' regiam ciuitatera Aegyptii, popularem Attici post
Theseum (se. inuenerunt) \ 12.** * colla tio ' ; Germ. 29, 6 ' exempti
oneribus et collationibus '. n. h.
XXXVII 10 ' Maecenatis rana per
conlationes pecuniarum in magno terrore erat '. La v. ^ collatio ' vale per ciò « contributo,
sussidio »; e con significato analogo
era stata precedentemente usata da
Livio. ^ Ma in un altro 1. della n. h. la v. considerata conserva il significato di « confronto,
paragone », con cui era stata accolta da
Cicerone e da altri: * XXXVII 126 * optimae
sunt quae in conlatione aurum albicare
quadam argenti facie cogunt '.
13.** ' color ' : appare nel significato proprio tanto nella Germ. 6, 9 * senta tantum lectissimis
coloribus 1 La differenza tra *
cassis ' e * galea ' è notata da Isid. orig.
XVIII 14, e. 1272. « Gaes. 6. e. IV 3, 3 * Vbii, quorum fuit
ciuitas ampia atque florens *. Cf. Tac. hist. I 54, 1 * ciuitas Liiigonum *.
Agr. 17, 3 ' Brigantium e. ' 3 Liv. IV 60, 6. V 25, 5. etc. 4 CiG. Tuse \y 38, 83. de natd. ni 28,70. de
diu. Il 17,38. etc. 6 distingiiiint ' ; quanto in più luoghi della
n. h. : Viti 193. XI 148; 151; 225. XXXV 81; 82. etc. La v. ' color' era stata prima accolta nello stesso senso da
Cicerone, Cesare e dai poeti dell' età
augustea. ^ 14.*^ ' conciliura ': Germ.
12, 1 ' licet apud concilium accusare '.
n. h. XXXV 59 ' Amphictyones , quod est
publicum Graeciae concilium '. Con lo stesso significato dì « adunanza , concilio » , appare presso
gli scrittori anteriori : ' riappare
negli scritti di Tacito. * 15.° '
condicio ': il significato tradizionale della voce ' condicio ' è conservato tanto nella Germ.
24, 12 ^ seruos condicionis huius per commercia tradunt ' ; quanto nella n. h. Ili 91 ' Latinae condicionis '.
IV 57 ' Aegina liberae condicionis' etc;
^ salvo che nella n. h. si estende anche a cose estranee alle condizioni civili
degli uomini : v. XVIII 187. XXIV 158.
16.'' ' conditor ': Germ. 2, 12 ' Tuistonem deum terra editum et filium Mannum originem gentis
conditoresque '. n. h. XVI 237 ' Tiburno conditore eorum ( se. 1 V. gli ess. addotti nel lex.
Forcellini-Db Vit, t. II, p. 283; e UQÌV
ausfùhrl. Handwb. dei Georges, I, e. 1199.
« Il lex. Forgellini-Dk Vit, t II, p. 347, e V ausfùhrl Handwb. del Georges , I, e. 1301 sg. notano, per
inesattezza , che Plinio abbia indicato
con la v. ' concilium ' il fiore bianco della pianta * iasine '. Nel passo della n. h. XXII 82 il
fiore della ' iasine ' è rappresentato
(secondo i codd. Leid. Voss., Paris. Lat. 6796 e Riccard. di Firenze) dalla v. * concylium ',
che V Urlichs ( Vindie. Plinian. ,
Erlangae 1866, v. II 484 ) emendò rettamente • conchylium ', quale è stata
accolta nella recente ediz. Mayhoff : *
concilium * fu presentato dalla * uulg. * sino all*ed. del Detlefóen, Beri. 1868, voi. III. 8
Tac. hi8t. IV 64, 2. 4 Cf. Tag. ann. I
16, 13. hist. II 72, 10. tiburtum) ' : v. Vili 61. XXII 5. etc. Nella n. h. si estende ancor più
il significato di ^ conditor ' , riferendosi , secondo esempi offerti da
scrittori precedenti , a città : V 86,
VI 92 ; 113 ; 177. XVI 216. età ; ^ alle
arti : praef. 26. XXXIV 89. XXXV 199. etc. ; ^ alla storia : V 9. VII 111. XXXVI 106. etc. ; '^
alle leggi t XVI 13; a scuole filosofiche:
XXVI 11. etc. * concurrunt multae
opiniones ' : cosi secondo i codd. ;
neir ed. Fleckeisen si accoglie la congettura
' concurrunt multa eam opinionem *. Cic. p. Rose. Am. 15, 45.
etc. 5 Plavt. Men. 756 ( V 2, 4
). Cic. Tasc. V 15, 45. Caes. b. e. hi 84, 3. Liv. IX 16, 13. Se ne valse anche
Tao. hist I 79, ^ •^ SS."" ^ propìnquìtas ' : Germ. 7,
10 ^ non casus nec fortuita conglobalo turmam aut cuneum facit, sed famìliae et
propinquitates ' : in traslato, per indicare « parentela », la V. *
propinquitas ' era stata prima usata da
Cicerone, Cesare, Livio, etc. » Nella n. h. conserva il significato proprio : II 64 ' idemque
motus alias maior alias minor centri
propinquitate sentitur ' : v. II 74. Il SIGNIFICATO
PROPRIO di propinquitas ' osservasi
prima in Cicerone e Cesare. ^
34.*^ * quies ' : n. h. XVI 70 ' lenis quies materiae \ ^ XVIII 231 ^ uentorum quiete ' : nello stesso
significato di « calma, tranquillità »
Cicerone e Virgilio avevano accolto la
v. ' quies '. * Ma nella Germ. ingrata
genti quies ', la v. considerata vale a indicare con 1 Cic. de fin. V 24, 69. Caes 6. G. II 4, 4. Liv. IV 4, 6.
Cf. Tao. ann. XI 1, 11. È usata al sing e con lo stesso eignificato nei sgg. 11.: Cic. p. Quinci. 6, 26. p. Piane. 11, 27. Nep. X (Dion) 1, ?. XVn (Ages.) 1, 3. « Cic. de inu. rhei. I 26, 38. Phil III 6, 15. de off. Ili 11, 46. Caes. 6. G. li 20, 4. VI 30, 3. b. e. Il 16,
3. etc. 3 Cosi leggiamo secondo i
codd., tranne il Paris. 6795 (E del
Mayh.) e TÀrundel. del museo britannico di Londra, e secondo la ' lectio
uulg. ' Neired. del Sillig. voi. Ili, Hamb. e Gotba 1853 , si afj^giunge ' est ' a ' quies '. Il
Mayhoff , ed. Lps. 1892 , innova radicalmente
la frase , e legge ' leuisque est ', che si
avvicina , nel suono della pronunzia , alla lez. * lenis qui est ', presentata dai detti codd. E e Arundel. L*
Urlichs ( Vindie. Plin.y 264; Erlang.
1866) si allontana di più dai codd.,, ammettendo la congettura * leui cuiu3
'. 4 Cic. de leg. agr. 11 2 , 5 in
Caiil. IV 1,2; 4, 7. p, Cael. 17.
31>. p. r. Deiot 13, 38. ex libris aeadem. ineeriis tv. 4. de
fin. I 14, 46. V 20, 55. Tuse. I 41, 97.
de r. p. I 4, 8. IV 1, 5. etc. Vbrg.
geory. particolarità la « quiete dopo la guerra », come osservasi in Sallustio.
^ 35.° ' receptaculum ': appare, nel
senso di « ricovero, rifugio, ricetto »,
tanto nella Germ. 46, 20 ^ hoc senum
receptaculum (se. ramorum nexus) ' ; quanto nella n. h. X 100 ^ perdices spina et frutice sic muniunt
receptaculum ut centra feram abunde uallentur \^ E ciò è conforme air uso fattone prima da Cicerone ,
Cesare , Livio '. 3 Ma nella Germ.
assume anche il significato di «
deposito, magazzino » per viveri: 16, 11 ^ subter raneos specus sufTugium hiemi
et receptaculum frugibus ': tale
significato osservasi prima in Cicerone. ^
36.** ' reuerentia ' : Germ. 29, 9 ' protulit enim magnitudo populi Romani
ultra Rhenum ultraque ueteres terminos
imperii reuerentiam '. n. h. XXXVI 66 ^ hac
admiratione operis effectum est ut , cum oppidum id expugnaret Cambyses rex uentumque esset
incendiis ad 1 Sall. Cai. 31, 1: cf.
Cic. de imp, Cn. Pomp. 14, 40. Tacito si
valse della v. 'quies* tanto ìq senso metonimico, per indicare « sogno, visione » (ann. I 65, 6: cf. Cic.
acad. pr. II 16, 51. de diu. I 21, 43;
24, 48; 25, 53; 28, 58; 29, 61; 43, 96; 55, 126. II 60, 124; 61, 126; 66, 135; 70, 145; etc). quanto
nel senso proprio di , è adope' rata
nella Gemi. 36, 7 * tracti ruina Cheruscorum et L Fosi, contermina gens '; e nella n. h.
XVII 245 ' Ne |, ronis principis ruina '. Si noti, però, la differenza :
nella I Germ. , come in 11. consimili
di Cicerone, Sallustio, Li S vio, Ovidio, etc. ^, la v. ' ruina' si riferisce
alle con p dizioni di un popolo o di uno Stato; mentre nella n. h. - concerne le condizioni di singole persone
: di che si i hanno ess. in Cicerone,
Orazio, Ovidio, etc. ^ Plinio si valse
anche della v. ' ruina ' in senso metonimico : n. h. ^ XXXIII 74 ' flumina ad lauandam hanc ruinam
iugis montium obiter duxere ' : ^ cf.
XXXIII 66 ^ in ruina ;; montium '. 40.* * saeculum ' : Germ, 19, 9 ' nec
corrumpere et corrumpi saeculum uocatur
\ Di tal valore metonimico di * saeculum
', per indicare i costumi dominanti in un
1 Cic p. SesL 2, 5. 51,
109. 57, 121. in Vatin. 8, 21. de proo,
eons. 18, 43. p. Balb. 26, 58. ep. (adfam.) V 17, 1. Sall. Cai. 31, 9. Liv. XLV 26, 6. Ovid. mei. VII! 498.
Vbll. Paterg. h. R II 91, 4. etc. li
Gborges, ausfiXhrl Handiob.^ II, e. 2165 ,
attribuisce per inesattezza a Cicerone la frase sallustiana ' iocendium meum ruina («e. rei publicae) restinguam *
(^Cat 31 , 9). La frase di Cicerone (p.
Mur. 25, 51) é: * respondisset, si quod esset in suas fortunas Incendium
excitatum, id se non aqua, sed ruina
restincturum '. « Cic. in Catti I 6,
14. eum Sen. grat. egii 8, 18. de fin. I 6, 18: cf. de prou. eons, 0, 13.
de dom. s. 36,96. Hor. earm. II 17, 9. Ovid. ex Pont I 4, 5. '^ In simil modo , riferendola a città
distrutte , usarono la v. * ruina' Liv.
IX 18, 7. XXI 14, 2. Vbll.Patbrc. h. R. II 19, 4; ed altri.
19 dato tempo ( i Tedeschi ciò
desigaano con la voce « Zeitgeist ») si
hanno ess. precedenti in Terenzio, Virgilio, Orazio, etc. ^; ma il tramite per
cui dovette passare, per aversi il significato metonimico su cennato, notasi , senza dubbio » conservato neir uso
fattone da Plinio nel sg. 1. della n. h.
XXXVII 29 ' haec fuit suprema ultio saeculum suum punientis ( se. Neronis ) '
: V. XXXVII 19. 41.** ^ sagum ': è voce di origine celtica,
usata nella Germ. ad indicare il saio o
vestito dei Germani : 17 , 1 ^ tegumen
omnibus sagum fibula aut, si desit, spina
consertum '.^ Nella n. h. fu riferita al saio dei pastori : VIII 54 *
pastoris Gaetulìae sago ' ; e ad un indumento dei Druidi: XVI 251. XXIX 52 : e
ciò per analogia dell'uso fattone da Columella, che con la v. ^ sagum ' aveva
indicato la veste dei contadini.^ Neil' uso
classico * sagum ' si restrinse a dinotare il mantello dei soldati. ^
42*'' ^ sata ' : in diretta provenienza dall' uso fattone da Virgilio, ^ in sostituzione della voce '
segetes ', os 1 Tbr. eun. 246 (Il 2, 15). Verg. georg. I 468. Aen. I 291.
Hor. carm. III 6, 17. , che osservasi in Cicerone, ^ per il
tramite dell' uso particolare fattone da
Bruto. ^ 51.** * superstitio *: Germ.
39, 10 ^ eoque omnis superstitio respicit '. n. h. XXXI 95 ' superstitioni
etiam sacrìsque ludaeis dicatum ' : v.
inoltre VII 5. XXI 182. XXII 118. XXX 7.
XXXVII 160. Si valsero prima della v. '^
superstitio ' Cicerone, Virgilio , Livio, Seneca , Columella, etc. ^ 52.** * temperantia ': Gerrn. 23, 5 '
aduersus sitira non eadem temperantia '.
n. h. XXVIII 56 * multo utilissima est temperantia in cibis \ Col medesimo
significato 1 CiG. de /Ia. I U, 37
*doIoris amo tic successlonem efficit
udluptatis '. Ma in un fr. dell' esordio del libro Hortensius^ ri* ferito da Avqvstin. de uit ò. 26, io opp, t.
I p. 308, Bened. , la V. 3. Tuse. Ili 29, 72. de nat. d. I 17, 45; 20,
55; 27, 77; 42, 117. II 24, 63; 28, 70 e
71. Ili 20, 52. de diu. I 4, 7. II 7, 19; 39, 83; 41, 85; 60, 126; 63, 129; 67, 136; 72, 148 e 149.
de legihm I 11,32. II 16, 40; 18, 45.
[Il fr. del 1. de legibus cit. da Serv. eomm. in Verg, Aen. VI 611, voi. II, p;ig. 85, in cui
notasi la frase * auget superstitionem ', ò riferito dal Thilo al 1. cit. II
16, 40. Il Nobbe, pag. 1222, lo ascrive,
invece, terzo tra i frammenti ' incertorum lib-orum de legibus']. Vedi inoltre
Vero Aen. XII 817. Liv. XXVI 19, 4. SBN.
ep. XX 5 (122), 16 (al quale I. si paragoni XV 3 (95J, 35). Colvm. de r. r. I 8
, p 326, 22. Cf. Tac. Agt. li. 11. hist.
11 4, 13. V 13, 2. ann. W dì «teiiiperahza, continenza, moderazione» la v.
Uernperantia ' era stata accolta nell' uso degli scrittori anteriori. ' transfuga ': nel significato proprio ,
secondo f: l'uso accolto prima da
Cicerone, Sallustio, Livio, etc. ^', si
osserva nella Germ. 12, 3 ' proditores et transfugas arboribus suspendunt \
Attenendosi, invece, alla tradizione
avente in prevalenza carattere poetico ^,
Plinio si valse della v. * transfuga ' nel senso traslato: n. h. XXIX 17 ' solam hanc artium Graecarum
(se. medicinam ).... Quiritium
paucissimi attigere et ipsi statim ad
Graecos transfugae '. 54.** ^ tributum
': nel significato proprio appare egualmente nella Germ. 43, 4 * Osos Pannonica
lingua coarguit non esse Germanos, et
quod tributa patiuatur '; e nella n. h. XXI 77 ' ceram ir\ tributa Romanis praestet': v. altresì VI 119. XII 112. etc.
Del resto, la v. * tributum ', indicando
cosa che ha tormentato i popoli in tutti i tempi, fu assai nota agli scrittori
anteriori. ^ 55.° ' uilitas : Plinio se
ne avvalse tanto nel senso r£ proprio di
«poco prezzo, buon mercato», secondo gli
r. 1 CiG. de or. II 60, 247. pari. or. 22, 76.
ep. (ad fam.) I 9, 22. Tuae. Ili 8, 16. V 20, 57. de off. Ili 25,96; 33. 116. etc. Cf. Tac. ann. I 14, 4. 8 CiG. de dia. I 44, 100. Sall. lug. 54, 2. Liv. XXIV 30, 6. XXVII 17, 11. etc: cf. epit Z. LI. f 3 HoR. earm. III 16, 23. Lvgan. de b. e. Vili 335. l: •* Cic. m Verr. Il 53, 131; 55, 138. Ili 42, 100. p, Flaee. 9,
20. 19, 44. 32, 80. ep. (ad fam.) HI 7,
3. XV 4, 2. de off. W 21,
74; 22, 76. etc. Cabs. b. G. VI 13, 2.
6. e. HI 32, 2. Liv. IV 60, 4. XXIU 31, 1. etc. èss.
presentati prima da Cicerone •: n. h. XVIII IS
' annonae uilitas incredibilis erat ': v. anche Vili 7. XIV 35; 50. XVIII 273. XXXIII 50. XXXV 47;
quanto nel senso traslato di « poco valore, poca importanza »: fi. h. XX i '
nominum uilitate deceptus \ XXXVI 119 *
quae uilitas animarum ista ': dello stesso modo
II 26. XI 39. XIX 59. XXVI 43. XXXIV 2. A questo secondo significato, che si osserva in Plauto
e in altri scrittori, ^ si avvicina 1' uso fattone nella Germ. 5, 11 * est uidere apud illos argentea uasa....
non in alia uilitate " quam quae
humo flnguntur '. 1 Cic. in Verr. Ili
92, 215; 93, 216; 98, 227. de imp, Cn, Ponip.
15, 44. eum pop. graL egii 8, 18. de dom, s. 6, U e 15. 7, 16 de off. Ili 12, 52. « Plavt. eapt 230 (II 1, 37). Pbtron. sat.
118 Qvintil i. o.V 7, 23. etc. Cf, '
uilitatem uerbi * in Non. 12, p. 531, 2 ed. Mere; p. 363 a ed. Gerì, e Roth. 3 * Vllìtas ', nel 1. e. della Germ , non
significa « vilipendio, spregio » ( «
Geriogschaetzung », come commenta U. Zernial,
o. e., p. 24), ma «poco valore, poco pregio»; sicché l'intera frase ' non in alia uilitate ' vale, secondo
la giusta osservazione del Grbverus, Bemerkungen zu Taeiius' Germania, 01denb'urg
1850, p. 21, lo stesso che * eodem uili pretio*. La var. * utilitate *, presentata dai codd. Vatic.
VRB. 655,- Rom. Àug. bìbl., Florent.
Laurent. 73, 20, Viodobon., e sostenuta si vivamente dal Kritz, P. C. Tae.
Germania, Beri. 1864, p. 42 sg, che
accusa di * sententìa prorsus absurda ' la lez. ' uilitate ', probabilmente si deve a quella stessa
inavvertenza dei copisti, per la quale
nel 1. della n. h. XX 1 si legge nei codd. ' utilitate \ invece di 'uilitate '
che è lez. data dal solo cod. Paris.
6795, accolta dalla ' uulgata ', e ripetuta nella recente ed. del Mayhoff, voi. Ili, pag. 302, 14. ^ 26
II. Aggettivi : 1.^ * arcanus ': Germ. 40, 20 ^ arcanus bine
terror '; n. h. XXIX 21 ' arcana praecepta
': cosi notasi usato da Cicerone,
Virgilio, Ovidio, etc. ^ Ma nella n. h. è
riferito anche, secondo V accezione di Plauto, ^ a persona : VII 178 '
petiit uti Pompeius a4 se ueniret aut
aliquem ex arcanis mitteret ' ; per lo più è usato in funzione di sostantivo : n. h. Il 65. VII
150. XXV 7. XXVIII 129. XXX 9. La frase * arcana sacra ' osservasi in
Orazio e Ovidio ^ prima che nella Germ. 18, 7 ^ hoc maximum uinculum, haec
arcana sacra, hos coniugales deos arbitrantur '. 2.^ ^ argenteus ' : nel significato comune
di « argenteo, fatto d' argento » *
notasi nella Gerrn. 5, 12 ^ est uidere apud illos argentea uasa ' ; e nella n.
h. XXXIIf 142 ' missa ab iis uasa
argentea ^ non accepis$e ' : v. in 1
Cic. de fin. II 26, 85. Vl^rg Aen. IV 422.
VI 72. Ovid mei. IX 516. etc. Cf. Tac.
ann. II 54, 13. s
Plavt. irin, 556 (li 4, 155): si può aggiungere il v. 518 (II 4. 117) in cui, secondo il commeuto del
Cocchia, Torino 1886, p. 65, la V. *
arcano ' ò agg. di cas>o dat., che concorda con ' tibi': ma nei lessici Forgbllini-De Vit.,
t. l, p. 361,é6B0ROES, I, e. 505, ò considerato come avverbio. 3 HoR. epocL 5, 52. Ovid meL X 436. Cf. '
fatorum sacra ' in Vero Aen. I 266. VII
123. * Tale significato osservasi in
Liv. Andr. Odi9.tv. 5, in PLM ed
Baehrens, voi. VI, p. 38. Varr. de l L. IX 40, 66, p. 216 Sp. Cic. in Verr, II 19, 47; 47, 115. IV 43, 93.
V 54, 142. in Catil. I 9. 24. II 6, 13:
cf. de nat d. III 12, 30; 34 84. etc. ^
Gli ' argentea uasa * sono prima menzionati da Cic. in Verr, IV 1, 1. Phil. II 29, 73. HoR. sai. II 7, 72
sg. etc. Plinio li disse anche ' uasa ex argento ' : n. h. XXXIII 139. oltre Vili 12. XXII 99. XXVIII 82; 126.
XXIX 125. XXXIII 52; 53; 56; 151 ; 152.
XXXIV 160. XXXV 4. XXXVII 105. etc.
Nella n. h. valse apcbe a significare €
ornato o ricoperto d'argento, inargentato » ' : XXXIII 53 ^ G. Àntonius ludos scaena argentea fecit
' : v. altresì XXXIII 144; 151. etc. ^ «
argentino, del colore d'argento » : MI 90 ^ flt et candidus cometes argenteo
crine ' : V. inoltre IV 31. XVI 76. XXIV 172. XXXVI 137. XXXVII 146; 147. etc. Ma nel passo della
Oenn. 5, 20 ^ numerus argenteorum
facilior usui est ' , assunse valore di
sostantivo, come prima in Livio e poi in Vopisco, 3 per indicare certe monete
d' argento , per le quali Plinio adopera
le espressioni ' argenteus denarius ' (n. h. XIX 38. XXI 185) o ^ nummus argenteus ' (n. h. XXXIII 47). 3.* * ater ' : Germ. 43, 22 * atras ad
proelia nootes legunt '. ^ n. h. II 79 * atram in obscuritatem ' . Nella n. h. osservasi inoltre r agg. ^ ater '
attribuito al colore: VI 190. XI 171 (cf. XVIII 4). XIII 98. XXX 16. XXXV 127; al sangue: Vili 49; alle nubi:
XVIII 355; alle erbe: XVII 33 S; alla
bile: XXI 176; alle ulcere: 1
Significato analogo si osserva io Cic. p. Mar. 19, 40. Liv. X 39, 13. etc. 2 Cosi in Cic. in Verr. IV 20, 42. Vbrg.
Aen. Vili 655. Ovid. mei. Ili 407.
eie. 3 Liv. XXX Vili 11, 8. Vopisc.
Prob. 4, 5. Bonosus 15, 8 : v. seripit hist Aug. XXVIII e XXIX, voi. II, ed.
Peter. 4 Cf. HoR. epod. 10, 9 ' atra
nocte '. 5 Neired. Mayhoff deUa n. A., voi. Ili, p. 283, 6, leggesi per il passo XIX )26, secondo la congettura del
Salmasio (PUnianae exereiiaiiones in
Solini polghisiora^ Traiecti ad Rheo. 1689;,
' albae (ac. lactucaQ) ' , meotre ì codd. , eccetto il Paris. 10318 (Q del Mayh.), e la ' uulgata ' danno ' atrae
'. XXtl 154; ad una qualità dì marmo:
XXXVl 49. tn accezioni consimili notasi
la v. ^ ater ' in Cicerone, 0razio, Ovidio, Seneca, etc. * 4.*" ^ caeruleus ' : Tespressione '
caerulei oculi ' si legge nella Germ. 4,
6 e nella n, h. Vili 74: in entrambe si
scorge r imitazione della frase ciceroniana * caeruleos esse Neptuni {se. oculos) '. ^ Nella n. h. V
epiteto * caeruleus ' è riferito , inoltre , a certi animali : Vili 141. IX 46. XXIX 86; a vegetali: XV 128. XXII 57.
XXVII 105; a minerali: XXXVI 128. XXXVII
134; alle acque del Boristene nella
stagione estiva: XXXI 56. I lessici
abbondano di ess. sull'uso dell' agg. 'caeruleus' nell'età anteriore a
quella pliniana. 5.** * equester ' :
riferito a cavalleria, gente a cavallo,
combattimento equestre , notasi , secondo gli ess. di scrittori precedenti, ^ nella Germ. 32 , 3 '
Tencteri.... equestris disciplinae arte
praecellunt '; e nella n. ^. Vili 162'
in libro de iaculatione equestri condito ': v. XXXIV 66. XXXV 129. XXXVII 111. etc; e per ' statua
equestris ' V. XXXIV 19; 23; 28. etc.
Notasi anche nella n. h. riferito all' ordine civile dei cavalieri, come in 11. simili di Cicerone,
Nepote, Orazio, Livio, etc: * v. n. h. V
12. VI 181. VII 88; 177. IX 1 CiG. Phii II 16, 41. Tuse. V 39, 114.
Hor. earm. II 16, 2. OviD. am. I 14, 9.
met XV 41. Sen. ep. IV 2 (31), 5 Cf. Tac.
hisL V 6, 19..
« Cic. de fiat d. I 30, 83. 3
Vedi Cic. in Verr, li 61, 150. PhiL IX 6, 13. de fin. II 34, 112.
Caes. b, G. Ili 20, 3. Liv. Vili 7, 13. XXVII 1,
11 ; 42, 2. etc. 4 Cic. p. Piane. 35,
87. ad Q. />. I 2, 2, 6. de r. p. I 6, 10. Nep. XXV (Att.) 1, 1. HoR. sai. II 7, 53. Liv. V
7, 5. etc X solo. X 71; 141. XII 13. XVII 245. XIX
110. XXXIII 32; 34; 112. etc. dub,
seì^m. XV p. 55, 2 ed. Beck. 6.** *
feralis ' : Germ. 43, 22 * ipsaque formidine atque umbra feralis exercitus terrorem inferunt '.
^ n. h. XX 113 ^ defunctorum epulis
feralibus ' : v. XVI 40. L'agg. *
feralis', in senso traslato, è adoperato, come in Ovidio, Lucano, etc. 2, anche
nella n. h. XVIII 237 ' Caesar et idus
Mart. ferales sibi notauit scorpionis occasu ' : V. X 35.
7.^ ' ferax ' : Ge^'^m. 5,4' satìs ferax ( se. terra ). ' n. h. XV 100 ' minime feraces musti (se.
acini) ' : v. XVII 105 ; 124. L' uso di
' ferax ' nel significato proprio , or con r ablativo or col genitivo ,
osservasi nei poeti deir età augustea,
^ 8.^ ' infamis ' : Germ. 12, 4 '
corpore infames caeno ac palude...
mergunt ' : v. anche 14, 3. n. h. XXXIII
48 ' nec iam Quiritiu.m aliquis sed uniuerso nomine Romano infami rex
Mithridates Aquilio duci capto aurum in
OS infudit ' : v. IX 79. In Cicerone si notano numerosi esempi. ^ 9.^ ' infernus ' : usato nel significato
generale di 1 Con significato simile
osservasi V agg. * feralis * in Verg
Aen, IV 462. VI 216. Ovid. irisL III 3, 81 ; 13, 21. etc. Cf. Tac.
hisL I 37, 10. ann. II 31, 7. 2
Ovid. met IX 213. Lycan de b. e. II 260. Cf. Tac. hisi V 25, 15. ann. IV 64, 2. 3 Con Fablat : Verg. georg. II 222. Col
genit. : Hor. epod. 5, 22. Ovid. met VII
470. Col genit. e con T ablat. : Ovid. am. U
16, 7. * Cic. p. Rose. Am. 35,
100. diu. in Caeeil 7, 24. in Verr. IV
9, 20. p. Font. Il, 34
/,. Cluent 47, 130. in Caiil. Il 4, 7. p.
Cael 22, 55. in Pis. 22, 53. />. Seaur. 2, 8. FhiL XI 3, 7. de
fin. U 4, 12. Cf. Tac, hist. II 56, 9. ann. I 73,7. VI 7, 6. XV 49, li. y
30 « inferiore, di èotto, basso
» , osservasi nella n. h. II 128 * ille
infernus (s(7. auster) ex imo mari spirat ' ; ^
e prima in Cicerone, Livio, Seneca, Lucano.^ Nella Germ. 43, 23 ^ nullo hostium sustinente nouum ac
uelut infernum adspectùm ', è adoperato nel significato particolare di «
infernale, d'averno », secondo gli ess. che
ci è dato osservare precipuamente negli scritti poetici del tempo d' Augusto. ^ 10.^ * lineus ' : Qerm. 17, 10 ^ feminae
saepius lineis amictibus uelantur \ n,
h. XII 25 ^ uestes lineas faciunt folife
\ XXIX 114 ' lineo panno ' : , 236. ara
am. I 205. ^ 7 Cic. p. SesL 20, 46. de
nat d. Il' 39, 100. Liv. I 4, 6. Cvrt. hist. A. M. IV 9 (38),
J9. * multitudine pìscium fluitante
' : v. 15, 63. 16, 168. 37,
37. Nella Gemi, 17, 3 ' locupletìssimi ueste distinguuatur non fluitante
', è adoperato in traslato, secondo ess.
consimili presentati da Catullo, Ovidio, etc. ^ 2.** ^ labans ' : 6r^r/n. 8, 1 * quasdam
acies inclinatas iam et labantes a
feminis restitutas '. n. h. XXXV 117 '
sunt in eius exemplaribus nobiles palustri accessu uillae, succoUatis sponsione mulieribus
labantes, trepidis quae feruntur '. Conformi sono gli ess. che prima ne avevano dato Cicerone, Virgilio , Orazio ,
etc. ^ Pel significato proprio dell'
agg. ' labans ', v. n. h, XXIV 119 *
labantes dentesflrmant '. XXIX 37 ^ dentibus mire prosunt, etiam labantibus '. * 3.** ^ marcens ' : Germ. 36 , 1 ^ Cherusci
nimiam ac marcentem diu pacem
inlacessiti nutrierunt '. n. h. IX 147 '
alias marcenti similis et iactari se passa fluctu algae uice ', e. q. s. Ess. anteriori si
notano in Orazio, Valerio Massimo,
Seneca. ^ 4.** * auspicatus ' : Germ. 11, 5 ' agendis
rebus hoc auspicatissimum initium
credunt '. n. h. XIII 118 ^ nec
auspicatior in Lesbo insula arbor '. XVI 75 ' comitantur et spina,
nuptiarum facibus auspicatissima '. Nello stesso significato di « prospero, di buono augurio,
iniziato sotto 1 Catvll. 64, 68. OviD. mei. XI 470. ars am. II 433 sg.
Cf. Tac. hist III 27, 12. V 18, 3.
« Cic. p. Mil 25, 68. Verg. Aen. IV 22. XII 223. Hor. carm. III 5, 45. etc. Cf. Tac. hist II 86, 8. ann.
XIV 12, 21. 8 Vero. Aen, lì 463. 4 Hor. sat II 4, 58. Val. Max. f. et d. m, II 6, 3. Sen. ep. XIV l (89), 18. Cf.
IvsTXN. epii. XXXIV 2, 7. auspici
favorevoli » , era stato prima adoperato da
Catullo , Velleio Patercolo, etc. '
Per la forma comparativa ' auspicatius ' con valore avverbiale, v. n. h. 3, 105. 7, 47. 5.'' ' contactus ': Gemi. 10, 13 ^ (equi)
publico aluntur isdem nemoribus ac lucis, candidi et nullo mortali opere
contacti '. Tale uso di ^ contactus ' in senso
t'raslato osservasi prima in Livio, Properzio, Ovidio, Seneca. ^ In più luoghi della n, h. è accolto
in senso proprio: v. 7, 17. 8, 78; 85. 9, 147; 183. 11, 193; 277. 18, 152. 28, 80. 29, 51. 34, 146. 36, 58.
etc. 6.° ' effusus ': Germ. 30, 2 ' non
ita effusis ac palustribus locis, ut ceterae ciuitates '. Dello stesso modo, per indicare
luoghi estesi, vasti, fu usato da Orazio e
Velleio Patercolo. ^ Nella n. h., oltre al conservare il significato proprio di « versato, sparso,
etc. »: v. 4, 101. 6, 71. 8, 14; 161. 9,
102. 16, 2. 20, 90. 22, 145. 29, 50.
etc, il quale significato osservasi prima in Cicerone, Virgilio, Livio ed altri ', passa in traslato
ad indicare profusione, eccesso, esagerazione: III 42 ' Grai, genus in gloriam
suam effusissimum ': v. 7, 94; eciòse J
Catvll. 45,- 26. Vell. Paterc. h. R. II 79, 2. Cf. Qvintil. i. 0, X 1, 85. Col significato più generico
di « inaugurato dopo presi gli auspici »
apparo in Cic. p. Rab. perd. 4, II. Hor.
carm. Ili 6, 10. 2 Liv. II 5, 2.
IV 15, 8. VI 28, 6. XXI 48, 3. etc. Prof. I J, 2. OviD. epist ( her, )
4 , 50. Irist III 4, 78. Sen. Phaedr. 714.
Cf dial, de oraioribus 12, 8. 3 Hor. €p, I 11, 26. Vell. Paterc. A. R. Il
43, 1. 4 Cic. de diu. I 32, 69. Vero,
georg. IV 288; 312; 337. Aen, VI 339;
686. X 893. Liv. I 4, 4. XXX 12, 1. etc.
37 condo gli ess. che ne
avevano dato Cicerone, Nepole, etc.
« 7.** ^ excìsus ': Germ. 33, 3 ^
pulsis Bructeris ac penitus excisis uicinarum consensu nationum '. Prima
la V. * excisus '.era stata riferita non
solo a popoli ed cserciti, ma anche a città, campi, regioni, etc. : ^
nella n. h. si attiene più strettamente
al significato proprio e assume, talora,
un significato pregnante: XXXIII 48 *
caput eius {se. C. Gracchi) excisum '. ^ XXXIII 139 * anaglypta asperìtatemque exciso circa
liniarum picturas quaerimus '. XXXVI 125 ' uias per montes excisas '. Ess. di tale
accezione si osservano in Cicerone,
Virgilio, Ovidio, etc. ^ 8.° '
infectus ': Germ. 4, 1 ' Germaniae populos nullis [aliis] aliarum nationum
conubiis infectos '. n. h. XXX 8 '
infecto, quacumque commeauerant, mundo '. Lo
stesso significato in traslato osservasi in Cicerone, Virgilio, Livio,
Lucano, etc. ^ Nella n. h. appare anche usato nel significato proprio: VI 70 '
tinguntur sole po 1 Cic. p. Rose. Am.
24, 68. p. Cael. 6, 13. de nat. d. I 16 . 42.
Nep. I (Milt.) 6, 2. Cf. Tac. hisL li 45, 11. ann. I 54, 8. « Cic. p. Sesi. 15, 35. in Pis. 40, 96. Cai
m. 6, 18. Hor. carm. Ili 3, 67. Vell.
Patbrc. h. R. Il 115, 2; 122, 2: aggiungiamo
II 120, 3 Jelto secondo l'ed. prìnc. del 1520, che nell' apogp. Amerb.
si legge ' occìsi exercitus ', invece di ' excisl exercitus '. Cf. Tac. hist II 38, 4. ann. XII 39, 9 3 Cosi nei codd. e nella * iiulgata', ma nel
solo cod. Bamberg. e nelle edd Sillig.,
Jan e Mayhoff si legge * abscisum *. 4
Cic in Verr. Ili 50. 119 V 27, 68. Vero. Aen II 481. VI 42. OviD ex Pont. Ili 1, 96. V. inoltre Plin. n.
h. 35, 94; 154. 5 Cic. ad A ti. I 13,
3. Vero. Aen. VI 742. Liv. XL 11,3. Lvcan.
de b. e IV 736. Cf Tac. hi8t I 74, 1. ann. II 2, 7 ; 85, 13. 38
puli, ìam quidem infecti ': i v. inoltre 8, 197. 9, 18. 11, 31; 32; 154. 15, 87. 20, 25. 21, 26. 28,
83; 110. 32, 77. 35, 41. 37, 118. etc.
Ess. precedenti di tale uso si notano in
Virgilio, Properzio, Mela, etc. ^ 9.'' ^ ligatus ': Germ. 39, 7 ^
nemo nisi u inculo ligatus ingreditur '. n. h. IX 103 * breui nodo ligatis ':
v. altresì 11, 255. 17, 115. 18, 261. Nello stesso significato proprio
osservasi ' ligatus ' in Catullo, Ovidio, Seneca, Columella, Lucano. ^ 10.^ * monstratus
': Germ. 31, 11 ' iamque canent insignes et hostibus simul suisque monstrati '.
n. h. XXII 44 ' hacherba dicitur
sanatus, monstrata Perieli somnio a
Minerua ' : v. 8, 182. Lo stesso uso di ^
monstratus ' notasi prima in Virgilio,
Ovidio, Lucano ed altri. ^ 11.^ * nauigatus ': Germ. 34, 5
^ ambìuntque immensos insuper lacus et Romanis classibus nauigatos '. n. h. XXXVI 104 '
urbe pensili subterque nauigata ': v. 6,
72. Un es. consimile si osserva in Mela: ' non nauigata maria transgressus est
'; ^ es. fondato sull'uso del verbo ^
nauigare ' nelle forme passive, ^ in conseguen
i Un concetto consimile, espresso anche col verbo * inflcere ', si nota in Sen. Oed. 122 sg. e Here. [OeQ
337. « Vero. Aen. V 413. VII 341. Prop.
TU 11 ( 18 b ), i (23) Muell. PoMP. Mel.
chor. III 6, 51 (cf. Cabs. b. G. V 14, 2). Vedi Tac. hi8t III 11, 1. 3 Catvll. 2, 13.
OviD. mei. Ili 575 (cf. Liv. V 27, 9). Sen. Med. 742. CoLVM. de r. r. XI 2, p. 591, 23. Lvcan. de b, e. Vili 61. 4 Vbrg. georg. IV 549. Aen. IV 636 : cf.
Aen, IV 483. Ovid. trést III 11, 53. Lvcan. de b. e. Vili 822.
Cf. Tac. Agr. 13, 15. hi8i. I 88, 3. Ili 73, 14. 5
Pompon. Mei*, ehor. II 2, 26. 6 Vedi
SBN. n. q. l\ 2, 22. Pun. n. h. 2, 167. 6, 175. -.89 «.
5Mi deiruso transitivo fattone prima da Cicerone, Virgilio, Ovidio, etc.
» 12.** * publicatus ': Germ. 19, 7 *
publicatae enim pudiciUae nulla uenia ': tale accezione in senso cattivo del part. * publicatus ' dipende dal
significato con cui fu adoperato da
Plauto il verbo * publicare '; - ma nella n. h. * publicatus ' assume il
significato proprio di «pubblicato, reso
pubblico »: XXXIII 17 ^ publicatis
diebus fastis ' : » v. anche 29, 26. 35, 24. 13/ Si noti, in ultimo, ^ impatiens ', che è
forma participiale con la negativa * in- ' premessa. È riferito, in traslato, a cose prive di vita tanto nella
Germ. 5, 4 ' satis ferax (se. terra),
frugiferarum arborum impatiens '- quanto nella n. h. XXXVI 199 ' est autem
caloris inpatiens (se. uitrum) ' : v. 33, 162. 37, 26. Nella n. h. è riferito pure ad animali: v. 8, 28;
167. 10, 170. 23, 67. etc.; ed a piante:
v. 14, 28. 16, 219. 18, 123. 19, 166.
21, 97. etc. Dell' estensione in
traslato del significato di ^ impatiens ' si asservatto ess. anteriori in
Ovidio, Curzio, etc.^ Quanto al
reggimento di ' impatiens ', v. il cap. Ili, C,
II, 3% *. IV. VerU :
1.° ^ absumere ' : Germ. il, 10 ^ sed et alter et tertius dies
cunctatione coéuntium absumitur '. n. h. VI
103 * quia maior pars itineris conficitur noctibus propter » Ctó. de M' '1 34, use. Vbro. Aen. I 67. Ovid. mei, XV 50. « Plavt. Baeeh. S%3 (IV 8, 22). » Cf Vkl. Patbrc. h. R. Il 114, 2. * Ovid. ara am. II 60. C^rt. hiéi. A. M. ì\ 4 kìò), U. aestuus et
statiuis dies absumuntur ' : cf. 5 , 58. 22 , 98. Nello stesso significato , riferito al
concetto di tempo, era apparso prima in
Cicerone, Livio, Ovidio, etc. ^ Nella n.
h. , secondo gli ess. presentati dagli scrittori anteriori,^ appare anche
ristretto al significato proprio : II 45 ^ quem (se. umorem) solis radii
absumant ': V. inoltre 9, 119 ; 121. 28,
267. etc. ; e quanto alla forma passiva 'absumi ', v. 2, 184. 6, 91. 9, 153.
11, 128. 14, 33. 25, 57. 36, 131. etc.
cf. 5, 56. 2.° ^ adfectare ' ; Germ.
37, 24 ' occasione discordiae nostrae et
ciuilium armorum expugnatis legionum hibernis etiam Gallias adfectauere '. n.
h. XXXIV 30 * Sp. Cassius, qui regnum
adfectauerat ' : cf. 34, 15. Con lo
stesso significato concernente l' ordine politico, appare in Sallustio, Velleio Patercolo, etc. ^ Nella
n. h. si attiene anche, come osservasi negli scrittori precedenti, * ad UN SIGNIFICATO PIU GENERALE diligentiam superuacuis adfectare ': v. 7, 8. 17, 84. 22,
69. 25, 73. etc. 1 Cic. p. Quinci.
10, 34. Liv. XXII 49, 9. Ovid. irist IV 10, 114. Cf. Tac. Agr. 21, 1. ann, II 8, 9. « Plavt. Cure. 600 (V 2, 2). most 235 (I 3, 78). Ter. haut 458 (III 1, 49. Phorm. 834 (V 5, 6). Varr. r. r. IH 17, 6. CaTVLL. 64, 242. Vero. Aen. Ili 257. Hor. earm. II
14, 25. ep. I 15, 27. Liv. XXIV 47, 16.
XXX! V 7, 4. Sen. de ben. VII 31, 5. 3
Sall. lug. 66y 1. />. hiat. I in Avgvstin. ciu. Dei III 17, p. 122, 19 ed. Dombart, v. I. Vell. Patbrg. h. R 1139,1. Cf. Tac. Agr. 7, 6. hiat I 23, 2. IV 17, 5 ; 66,
2. 4 Plavt. Baech. 377 (III 1, 10).
Cic. p. Rose. Am. 48. 140. Seript. rhet.
ad Her, IV 22, 30. Nep. XXV ( Att. ) 13, 5. Vero. georg. IV 562. Liv. I 46, 2. XXIV 22, 11.
Ovid. am. Ili 8/51 (1. sospetto per R.
Ehwald, praef., p. XII) ars am. Il 39. ex Pont IV 8, 59. Val.
Max./, et d. m. Vili 7, ext. 1. Cvrt.
hisL A.M. IV 7 (32), 31. Cf. QviNTiL. i.
o. Ili 8, 61. -. 41 3.^ * adiigare * : Oerm, 24, 10 ^ quamuis
ìiiuenìor, quamuis robustior adligari se ac uenire patitur \ n. h. XVI 239 * Argis
elea etiaranum durare dicitur, ad quam
Io in tauram mutatam Argus alligauerit' : v. altresì 12, 45. 16, 176. 17,211. 18, 241; 262; 267.
21, 166. 27, 101. 28, 93; 98. 31, 98.
32, 7; 113. etc. In tale significato era stato accolto da Catone, Cicerone,
Virgilio, Seneca, etc. ^ Nella n. h.
vale eziandio ad indicare, come osservasi in generale negli scritti di Seneca e
Lucano, ^ un effetto di azione chimica concernente i colori : IX 134 ^
(bucinura) pelagio admodum alligatur ' .
XXXII 66 ^ ita colorem alligans, ut elui postea non possit '.
i."" ^ adsignare' : Germ. 13, 7 * insignis nobilitas aut magna patrum merita principis dignationem
etiam adulescentulis adsignant '. n. /i. X 141 ^ quibus {se. auibus) rerum
natura caelum adsignauerat '. Con lo stesso significato proprio di « assegnare
» era stato usato da Cicerone , Orazio ,
Livio , Celso , Columella , etc, ^'
Anche nel senso traslato di « attribuire , ascrivere » notasi nella Oerm. 14, 5 ^ sua quoque fortia
facta gloriae eius adsignare praecipuum sacramentum est ' ; e nella n. h. VII 197 ' cui (se. Soli Oceani
filio) Gellius medicinae quoque
inuentionem ex metallis assignat '. i
Cat. de a. e. 39, 1. Cic. in Verr. IV 42, 90. V28, 71. Tuse. Il 17, 39. Verg. Aen. I 169; cf. georg. IV
480; Aen. VI 439. Sen. dial. K 13, 6. Cf. dial. de oratoribus 13,
15. « Sen. ep. VI 3 (55), 2. Lvcan. de
b. e. IX 527. 3 Cic. Phil II 17, 43. ad
AH. III 19, 3. de r,p. II 20, 36. Hor
ep. II 1, 8. Liv. V 7, 12; 22, 4. XXI 25, 3. XXXIX 19, 4. XLII 33, 6. Cbls. de med. Ili 18, p. 92. 3. Colvm.
de r. r. XII 2, p. 622, 26. Cf. Tag. hist l 30, 19.
XXV 26 ' iauentionem eius ( se. berbae ) Mercurio adsignat ' : di tale uso si hanno ess.
anteriori. * 5.** ' adsimulare ' :
Germ. 9, 7 ^ neque in uUam humani oris speciem adsimulare (se. deos) ex
magnitudine caelestium arbitrantur \ Si
notano in Cicerone, Lucrezio , Virgilio , etc. ^ ess. consimili , nei quali il
verbo ' adsimulare ' è adoperato nel
significato proprio di « assomigliare,
fare qualcosa simile ad un'altra ». Nella
n. h. appare particolarmente usato, come in molti ess. di scrittori anteriori, ^ nel senso di «
simulare, fingere, prender sembianza » :
Vili 106 ^ sermonera bumanum Inter
pastorum stabula adsimulari {se. ab hyaenis) ' : V. inoltre 3, 43. 9, 10; 34; 113. 37, 179.
etc. 6.° ^ ambiri ' : Germ. 17 , 17 '
qui non libidine , sed ob nobilitatem
pluribus nuptiis ambiuntur '. n. h. XVII
266 ^ eontra urucas ambiri arbores singulas a muliere incitati mensis ' e. q. s.: v., oltre 1' es.
cit. , 2, 80. 14, 11. 19, 60. 37, 203.
L' espressione che notasi nel 1. e. «
CiG. Bruì. 19, 74. in Verr. V 50 , 131. p. Rab. P09L 10 , 21. ad Q. fr. 14, 1. de fin. V 16, 44. de r. p.
VI 15, 15: cf. ep. (adfam.) X 18, 2.
Vbll. Patbrc. A. R. II 38, 6. Vedi pjr altri
ess. sull'uso del v. * adsignare ' : n. h. 2, 23; 104. 15,65. 18,
64. 19, 50. 25, 60. 28, 33. 29, 2. etc.
quanto alle forme dell'attivo; e per le
forme del passivo: 18, 18. 22, 44. 24, 2. 25, 34 ; 87. etc.
« Cxc. de inu. rhet I 28, 42. in Verr. II 77, 189. Lvgr. de r. n. II 914. Vbrg. Aen. XII 224. Cf. Tac. Agr. 10, 11. 3 Plavt. eiBt 96 ( I 1, 98 ). Epid. 195
(\\2, 11 ). mil. gì 792 (HI 1, 197).
Poen. 599-600 (IH 2, 22 sg.). Stick. 84 (I 2, 27 J. Ter. Andr. 168 ( I 1,
141). haut. 888 (V 1, 15). eim. 461 (III 2, 8 ). Phorm. 128 (I 2, 78) ; 210 (I 4, 32^. Trag.
ine. fr. 0. 3, io Cic. de off. Ili 26, 98. Cig. p. Cluent. 13, 36. p.
CaeL 6, 14. de r. p. I 21, 34. Vbrg. Aen. X 639. Ovid. mei. XIV 656. etc. ^ 48 «
della Germ. pigliò, probabilmente, le mosse dalla frase virgiliana ^ conubiis ambire Latinum \ ' 7.° * animaduertere ' : Germ. 7, 4 * neque
animaduer* tere neque uincire, ne
uerberare quidem nisì sacerdo* ti bus
permìssum '. n. h. Vili 145 ^ cum animaduerteretur ex causa Neronis Germanici fili in Titium
Sabinum et seruitia eius '. Lo stesso
significato di « dannare a morte »
presenta per eufemismo il verbo ^ animaduertere ' in Cicerone e Livio. ^ 8.** ' animare ' : Germ. 29, 13 ^ ipso adbuc
terrae suae solo et caelo acrius
animantur '. Uguale significato del
verbo * animare ' (=« dotare d'un temperamento, preparare l'animo»),
derivato dal tema della v. ^animus',
appare prima in Plauto e Cicerone. ^ Nella n. h, * animare ' presenta il
significato che si fonda sul tema della
V. * anima ', cioè € dar la vita , vivificare , far vivo » : ^ VII 66 * tempore ipso animatur
{se. semen) ': V. anche 10, 184 ; e per
le forme del participio : 2, 155. 5, 44. 7, 1. 11, 77. 18, 4. 23, 83. etc. 9.^ * ascendere ' : Germ. 25 , 11 Mbi enim
et super ingenuos et super nobiles
ascendunt '. Con lo stesso significato e del medesimo modo
costruito con ' super ' e Tace, il v. ^
ascendere ' era stato adoperato prima da
1 Verg. Aen. VII 333: v. Drabger, ueber
Synt a. S*. d. Tae. «, p. 128. Cf. Tac.
hi8t. IV 51, 6. 2 CiG. p. Cluent, 46,
128 : cf. p. Rose. Am. 47, 137. in Verr. I
33, 83. m Caiil. I 12, 30. p. Mil 26, 71. V. inoUre Liv. XXIV 14, 7; e et Tac. hisL I 46, 26; 68, 16; 85 ,
3. IV 49, 26. Svbtqn. Aug. 15, 1. 3 Plavt. Men. 203 (I 3, 20). Cic. de diu. II 42, 89. ^ Tale
significato si osserva ifi più 11. degli scrittori anteriori: Enn. ann. I fr. 59, ia PLM. voi. VI, p. 69,
ed. Baehrens. Pagvv. irag. 91 (citato da
Cic. de diu, I 57, 131). Cic. top. 18, 69. de Velleìo Patercolo. ^ La forma del
passivo, secondo gli ess. precedenti di
Cesare , Vitruvio, Properzio, Velleio
Patercolo,- è pneferita nella n. h, XXXVI 88 ' portìcusque ascenduntur nonagenis gradibus ' ; ^ ma non è
esclusa la forma attiva: IX 10 ^
ascendere eum nauigia nocturnis
temporibus ' ; cf. 35, 59. 10.°
^ augurari ': Germ. 3, 4 ' futuraeque pugnae
fortunam ipso cantu augurantur '. n, h. XVIII 225 ' ex occasu eius ( se. sideris ) de hieme
augurantur quibus est cura insidiandi,
negotiatores auari • : v. inoltre 6,
192. 10, 154. Accolto similmente in traslato e col significato generico
di « profetizzare, predire », osservasi
in Cicerone, Ovidio ed altri. *
11.° ' canore ' (con la penult. lunga) : Germ. 31, 11 ^ iamque canent insignes et hostibus simul
suisque monstrati \^ Con un significato più ampio, a dinotare « es nat d, I 39, 110. de r. p. VI 15, 15. Lvcr.
de r. n. V 145. Ovid. mei. IV 619. XIV
566. Colvm. de r. r. VI 36, p. 492, 17. Vili 5,
p. 527, 20 e p. 528, JO. Scribon.
Larg. conpos. 70, p. 29, 32; 95, p. 40,
26 ed. Helmreich. J Vell. Patbrc. a. R.
II 53, 3. Nei deal, de oraioribus 7, 9 é preferito ' supra ' con 1* acc. Cicerone
lascia V acc. semplice : p. Font. 1, 4.
p, Cluent. 55, 150. p, Mur. 27, 55. de diu. I 28, 58. de off, li 18 , 62 ; ovvero T accompagna con
la prep. * in ' : p. Cluent 40, HO. p.
Sulla 2, 5. de dom. 8. 28 , 75. p. Mèi 35, 97.
PhiL III 8, 20. de fin. Il 22,
74. Tusc. I 46, IH. Cai. m. 10, 34. Lael 23, 88. « Caes. b. e. I 79,
2. ViTRvv. de areh. Ili 4 (3) Pkop. V 3,
63. Vell. Paterc. h. R. il 53, 3.
8 Neil' ed. Jan 1. e, voi. V, p. 121, 15, e nell'ed. Maylnff, voi. V, p. 339, 6 si legge * descenduntur ', invece
di * ascenduntur *. Si noti la frase *
gradibus ascen Jere ' in Cic de fin. V 14, 40.
4 Cic. Tuse. I 40, 96. Ovid. mei. III 519. Cf. Tao. hisL I 50, 20. 5 Un che di simile notasi in Vero. Aen. V
416. 45 sere di color chiaro, biancheggiare »,
notasi nella n. h. XVIII 65 '
fortunalara Italiam frumento canere candido ' : ' ess. poetici di tale uso
erano stati presentati da Virgilio,
Ovidio, Silio Italico. ^ 12.*' ' cedere
' : Germ. 36, 7 ' Chattis uictoribus fortuna in sapientiam cessit'. n. h. XXIII
41 ' in prouerbium cessit sapientiam
uino obumbrari '. XVIII 110 * in bonura cedit '. XXXV 91 ' cessit in gloriam
artiflcis '. Analoghi ess. si notano in Virgilio , Livio , Curzio , etc. '^ Per altri usi del v. * cedere ',
notati nella Germ. e nella n. h.y si
osservano ess. negli scrittori precedenti. *
IS.'' ^ eludere ' : Germ. 45, 22 ' terrena quaedam atque etiam uolucria
animalia plerumque interlucent , quae
implicata umóre mox durescente materia cluduntur '. w. h. latera cluduntur tabulis
' : v. inoltre 18, 330. 33, 25. Il verbo
^ eludere ' per ' clau 1 Cosi leggiamo
secoDdo 1* ed. di Gelenio e il cod. Paris. 6795. II Detlefsen ed il Mayhoff sostitui?cono a *
canere ' il v. * serere *, poggiandosi sur un* emendazioQe di seconda mano
fatta nel cod. Vatic. 3861 ; ma in d^
cod. , come nei due codd. Pariss. 67U6, 6797 e nel Leid. si legge * carere *.
Si potrebbe anche addurre per es. il 1. 17, 34, letto secondo Ted. Jan. 2 Vero, georg. II 13; 120. llf 325. etc.
Ovid. met I \\0: fast, III 880. SiL.
1t. Pan. I 205. XIV 362. Cic. preferi la formi incoativa 'canescere*: Brut 2, 8
(òf. Qvintil. L o XI 1, 31). de legibus
I 1, 1; la quale forma incoativa fu anche gradita a Plin. n. h. 7, 23. 17, 34 (letto secondo la *
uulg.' e V ed. Mayhoff). 20, 262. 30, 134. 31, 106. 35, 186. 3 Vero. Aen. VII 636, Liv. VI 34, 2. Cvrt.
hisi. A. M. Ili 6 (16), 18. Cf. Germ,
14, 15. 4 Cosi per Germ. 6, 20 * cedere
loco *: cf. Nep. XI I (Chabr.) 1. 2.
Liv. II 47, 3. Ili 63, 1; per n. h. 33, 59 e 35, 80; cf. Cic. de nai. d. II 61, 153. Cabs. 6. e. Il 6, 3. Ovip. met
VI 207. 46 dere ' * è proprio della lingua popolare ;
osservasi anche in alcuni scrittori anteriori all' età di Plinio. ^ 14.° ' cohibere ' : 6r^rm. 9, 7 ' nec
cohibere parietibus deos ex magnitudine
caelestium arbitrantur '. Lo stesso
significato proprio presenta il v. ' cohibere ' nella ». h. 24, 6. 27, 93. 28, 61; 62. 29, 39; 49.
36, 29. etc; quale prima era stato usato
da Plauto, Cicerone, Orazio, Ovidio, Celso, Curzio, etc. ^ 15.° ' commìgrare ' : Germ. 27, 11 ^ quae
nationes e Germania in Gallias
commigrauerint '. n. h. XXXV 135 '
captoque Perseo rege Athenas commigrauit ( se.
Heraclides Macedo pictor) '. Lo stesso significato del v. ^ commigrare ' si osserva in Plauto,
Cicerone, Livio, etc. ^ 1 Nei framm.
cho ci restano degli otto libri c^uò. serm, di Plinio , si conserva costante la
forma * claudere * : II e, p. 15, 7. II
A, p. 19, 15, XV p. 55, 22 ed. Beck. 8
Varr. r. r. HI 3, 5. Scribon. Laro, eonpoa. 42 , secondo la ' ed. princ. Ruellii * (neired. Helmreìch p.
21, 8, Lps. 1887, sì legge ' ducenda ', invece di * cludeada ', conforme al
cod; Laudan. eoncordato col testo di
Marcello, edito dal Cornario). Lvcan. de
h, e. Vili 59 (ma si legge * clausit * nei codd. Vossian. XIX e Bruxell. 5330).
Sil. It. Pun. XV 652. Cf. Tac. hist. I 33,
7. [dial. de omioribus 30, 28]. In uni.
di Cic. de nat d. II 39, 100 il Baiter
legge ' cludit ' la v. * eludit ' data dai codd., che altri, p. es. Heind., Schoem., C. F. W. Mueller,
leggono * alludit '. 8 Plavt. mil gì
596 (III 1, 1). Cic. p. Casi 5, 11. de nat, d.
II 13, 35. de fai 9, 19. Qat
m. 15, 51. Script h. Afr^ 98, 2. Hor.
earm. I 28, 2. Ili 4, 80; 14, 22. IV 6, 34. 8at II 4, 14. ep. II 1, 255.
OviD. mei. XIV 224. Cels. de med. VIII 4, p. 314,7. Cvrt. hist. A. M. VI 2
(5), 11. X 3 (12), 6. 4 Plavt. eisi 177
(I 3, 29;, irin. 1084 (IV 3, 77>. Cic. ad Q.
fr. II 3, 7. Liv. I 34, 1. XLI 8, 7. Ommettiamodi citare Ter. adelph. 649
( IV 5, 15 ;, perché nel cod. Bemb. ( Vatic. 3226 ) si legge * migrarant' : negli altri codd, ' co
mmlgrarunt '* ^ 47 16."* ' continuare ' ; con significato
indicante spazio e in forma passiva
mediale, si nota nella Germ. 44, 20 '
Suiontbus Sìtonum gentes continuantur ' : così in Cicerone. * Nella n. h.
presentasi anche nella forma passiva e
riferito al tempo: VI 220 * dies conti uuaren tur... noctesque per uices '. XVII 13 ' si plures ita continuentiir anni ' : cf.
10, 94. 11, 103; ma talora presentasi nelle forme
delPattivo: XIV 145 * biduo duabusque
noeti bus perpotationem continuasset '. XVII 233 ^ si post brumam continuauere XL diebus ' : ^ ef.
3, 101. 16, 100. 18, 362. 20, 35. 30,
60. 17.* ' emergere ' : Germ. 45 , 4 '
sonum insuper emergentis (se. solis ) audiri.... persuasio adicit '. n. h. II 58 ' amplior errantium stellarum quam
lunae magnitudo colligitur, quando illae et a septenis interdum partibus emergant ' : v. 2, 100; 179. Del v.
' emergere * riferito al levar degli
astri si notano altri ess. in Cicerone e Livio. ^ Nella n. h. appare, inoltre,
nel significato proprio di « venir su, venire a galla >: XIII 109 ^- ad exorlus solis emergere extra aquam ac
florem V Cic. de nut. d. I 20, 54 II
45, 117. * CdQsitnile accezione notasi
ia Gic. Ta9e. II 17, 39. Hoa 9at. II 6,
108. OviD ex Pont I 2, 26. Cf. Tag. a/i/i. XVI 5, 10. 3 É mesatta V effefoiazione del Gboroes,
ausfuhrL Hnndwb,^ If, e. 2240, rrpeiuta
nel Z>«fio/i. Gborgbs-Calonghf, Torino 1896,
e. 924, che a Plinio e Tacito si debba Festensione del significato del V. ' emergere * • vom Aufgang der Sonne
und der Gestirne » ; poiché tale estensione si osserva prima in Cic de nat
di. Il 44, 113 "^ut sese ostendens
emorgit Scorpios alte* (ò trad. d* UQ'
passo del carme di A^ato) ; e in Liv. XLIV 37 9 , 6 ; 3 (12), 12. 3
CiG. in Verr. IV 41, 88. Ovid. mei. IH 448.
4 CiG. de leg. agr. II 32, 87. de fln, IV 15, 40. Liv. XLII 55, 10, secondo Ted. Weissenborn, Lps. 1887:
nell'ed. Weissenborn, Beri. "Weidmann 1876, si legge * speratus *, iavece di ' separalus
erat*. 5 V. per gli ess. di autori
anteriori i 11. citati nel Lex. Forcbllini-Db ViT, t. V, p. 453, e neWausfùhrl
i/anrfeo6. del Georges, II, e. 2338. Cf. Tac. Agr. 31, 21. In Tacito inoltre il
v. * se pcDere* APPARE USATO NEL SENSO DI « aljontaoare, relegare, spargere ' :
Oerm. 17, 7 * eligunt feras et detracia uelamina spargunt maculis pellibusque
beluarum ' : in senso traslato consimile era stato adoperato da Virgilio ; ^ e, riferito ad irradiazioni
luminose, si nota, oltreché in Virgilio
e Ovidio, ^ e nei contemporanei di Plinio,'^ anche nella n. h. XXXVII 181 *
solis gemma candida est , ad speciem sideris in orbem fulgentis spargens radios '. Appare eziandio
nella n. h. in senso traslato, per
significare « aspergere , inumidire », secondo gli ess. anteriori di Virgilio e
Orazio : * XIII 132 ' si semine, madidum
aut , si desint imbres, satum spargitur
' ; ma nello stesso tempo vi è accolto
col significato proprio : ^ IV 101 ' ( Rhenus ) ab occidente in amnem
Mosam se spargit.' : v. 11, 123. 12, 42.
16, 141. 24, 178. etc. ; ovvero in senso pregn.: XXI 45 ' genera enim tractamus in species multas
sese spargentia '. 49.° ' superesse ' :
Germ, 6, 1 ^ ne ferrum quidem superest
'. 26, 5 ' arua per annos mutant, et superest
ager '. n. h. XVI 224 ' pinus, piceae, alni ad aquarum ductus in tubos cauantur ;, mirum in modum
for tiores, si umor extra quoque supersit ' : cf. 25, 14. 34, 36. Terenzio e Cicerone avevano prima usato
il v. * su liandire »: hisL I 10, 5
(secondo i'emend. dell' Acidalio) ; 13, 17;
46, U] 88, 1. II 33, 9. ann. Ili 12, 8.
1 Vbrg. bue. 2, 41. Aen. VII 191.
« Verg. Aen. IV 584. XII
113. Ovid. met. XI 309. 8 SBN. Med. 74.
Petron. sai. 22, p. 74, l. Sil. It. Pan. V 56. * Vero, georg. IV 229. Hor. earm. II 6,
23. 5 Dello stesso modo in Vjprg. Aen. II 98. Hor. mì II 5, 103. LvcAj?. de b. e. Ili 64. etc. Cf. Tao. hisL peresse ' nello stesso significato di « abbondare,
ridondare ». ^ 50.** * triumpbare ' :
Germ. 37, 26 * rursus inde pulsi
proximis temporibus triumpbati magis quam uicti sunt'. ». /i. V 36 * omnia armis Romanis superata et
a Cornelio Balbo triumphata \ V uso del v. ' triumpbare ' nelle forme personali del passivo appare per
la prima volta nella poesia dell' età
augustea : ^ Cicerone aveva soltanto
adoperato come v. impersonale il passivo
dell' intrans. * triumpbare '. ^
V. Avverbi : 1.° * aliquanto ', forma ablativale in
funzione di avverbio: Germ. 5, 1 * terra etsi aliquanto * specie differt
'. 1 Ter. Phorm. 69 (I 2, 19> 162 (I
3, 10;: nel l* ed. Fleckeìsen ò accolta
la grafia ' super erat, super est *. Cic de or, II 25, 108. in Verr. a.
pr. 4, 13. ep. (ad fam.) XIII 63, 2 de dia. I 52, 118. II 15, 35. Cf. Tag. Agr, 44, 5. 45, 23.
hist I 51, 9; 83, 10. an/i. I 67, 7. XIV
54, 12. « Vbrg. georg. III 33. Aen. VI
836. Hor. earm. Ili 3, 43. Ovid. am. I
15, 26. fast. Ili 732. Cf. Tac. ann. XII 19, 10. 5 Cic. de off.
II 8, 28. Dopo Cicerone, se ne valse Liv. III 63, ll.XLV 38,2.
•* Ad * aliquanto ', dato nel 1. e della Germ. dai codd. ', tranne il
Bamberg. (B del Massmann) che presenta ' aliquando ', TErnesti sostituisce 'aliquantum '; e il
Halm, che nella 2.* ed. delle opp. di
Tac. (Lps. 1871, voi. II, p. 194) aveva accolto
senza alcuna esitazione * aliquanto ', nella 4.» (Lps. 1883, voi. II, p. 222) dubitò che si dovesse sostituire
con 'aliquantutn \ e confortò il dubbio
con la frase dell' Agr. 24, 9 ' haud m u 1turo a Britannia differunt*. Il
Ramorino (Cora. Taciti opera quae
supersunt, Milano 1893, voi. Il, p. 210) contrappone, in sostegno di 'aliquanto*, il 1. di Plin. n. h.
XXXV 80 'quanto quid a quoque distare
deberef: e Tosservazione di lui ò ripetuta da Io. Mueller, ed, e. , p. 6. n. h. XXXV 56 ^ eosque, qui
monochromatis pinxerint.... aliquanto ante fuisse '.^ Nella n. h, la v. ' alìquaato ' si accompagna anche coi comparativi : V 3 * e
uicino tractii aliquanto excelsiore '.
XXI 27 * folio aliquanto altiore ' : se
ne notano ess. precedenti in Plauto, Cicerone, Nepote, Sallustio e Livio.
* 2.° * ceterum ' : è assunto in più funzioni
: a) per riprendere il discorso
interrotto da una digressione : Germ. 3, 9 ' ceterum et Vlixen quidam opinantur
' e. q. s. n. h. V 149 ' ceterum intus in Bithynia colonia Apamena ' e. q. s. : cf. 2, 30.
^ h) per significare quasi la stessa
opposizione indicata da ' sed ', in
principio di una frase: Germ. 2, 19 * ce
1 Un altro es. da addarsi sarebbe presentato dal 1. della n. h, XXXV 134 * et aliquanto praefertur
Athenion ' ; cosi letto secondo i codd. Riccard., Paris. 6797 e Paris. 6801: il
Jan, voi. V, p. 91, 26 ed il Mayhoff,
voi. V, p. 278, 6, vi sostituiscono * aliquando '. Analoga costruzione della v. ^ aliquanto '
coi verbi osservasi in Cic. de inu. rhet
II 51, 154. p. Quinci, 12 , 40. p. Rose.
Ara. 45, 130. in Verr. Ili 17, 44. IV 39, 85; 63, 141. p. Caeein. 4, 11. in Cam. Ili 5, 11. p. Sull. 20 , 56. de
dom. s. 23 , 59. 38, 102. p. Sest. 35,
75. in Vatin. 10, 25. ep. (ad fam.) IX 26, 4 de
r. p. VI 9 (1), 9. de legibus II 26, 64. de off. I 23, 81. etc. « Plavt. aul 539 (III 6, 3). Epid. 380 (III
2, 44). Cic. p. Rose. Am. 2, 7. 9, 26. diu. in Caecil. 5, 18. 15, 48. in Verr. I 1, 2; 27, 70; 54, 140. II 1, 1. Ili 38, 87; 43, 102;
47, 113; 63, 148; 64, 150; 57, 131 ; 92,
214. IV 34, 76. de leg. agr. II 2, 3. p. Rabir. perd. 3, 8. de har. resp. 22, 47. p. Cael. 3, 7.
aead. pr. II 29, 93. de fin. IV 3, 7 V
2, 4. Tuse. II 27, 6, e poi qualsiasi
segno divinatorio o presagio in generale, passò a significare la ^ consecratio
\ come nel 1. e. della Germ. S."" ^ intumescere ' : notasi in
più 11. delle poesie di Ovidio, accolto
in senso proprio ed in traslato; ^ di
preferenza fu usato neir età postaugustea : Oerm. 3, 8 ' obiectis ad os scutis , quo plenior et
grauior uox reperoussu intumescat'. n.
Ti. II 196 'sine flatu intumescente fluetu subito': v. inoltre 2, 198; 217;
232. 6, 128. 18, 359. etc. ^ Quanto all'
uso del v. ' intumescere' in senso proprio, v. n. h. 2,233. 8,85. 11, 179. 13, 124 14, 82. 17, 145. 20, 51. 21, 151. 22,
136. 23, 163. 28, 218; 242. 30, 38. etc. 1 Cia in Fallii. 10, 24 ' indicem in
rostris , in ilio, io^uam augurato
tempio ac loco conlocaris ' ed. C. F. W. Mu^ller. « Ovio. fast l 215. II 607. VI 700. ex Pont
IV 14, 34. etc. 9 Id senso trasl.
l'usarono pure Colvm. de r. r. 14, p. 318,
29. Tac. ann. I 38,5: cf. hist. Considerianoo ora quelle espressioni
che, sebbene usate dagli scrittori anteriori, presentano nella Germ. e nella n.
h.y come in altri scritti del primo secolo d.
Cr., UN SIGNIFICATO [non SENSO – H. P. Grice] NUOVO. Sostantivi.blandimentum
' : fu adoperato al plur., secondo r
accezione classica , nelle sgg. frasi pliniane : n. h. VII 71 ^ fortunae blandimenta poUicentur '. XXVI 14 * alia quoque blandimenta excogitabat '. Significò « cura assidua » in un
1. della n. h. XVII 98 * hoc blandimento inpetratis radicibus Inter poma ipsa
et cacumina ' ; d' altro canto, valse, per estensione, ad indicare « leccornie, ghiottornie », facendosi
sinonimo di ' condimentum ' : v. Germ. 23, 4 ' sine blandimentis expellunt
famem '. Questo ultimo significato notasi in un 1. del sat. di Petronio. * 2.**
' meatus ' : Germ. 1, 10 ' donec in Ponticum mare sex meati bus erumpat '. n. h. IV 75 *
angusto meatu inrumpit in terras ' : v. 5,
3. 16, 184. etc. ; e cf. 19 , 85. 22, 117. 28, 197. Nello stesso
significato metonimico di « via, corso », la v. ' meatus ' fu accolta dagli scrittori del tempo di Plinio. ^ Ma, per
significare moto, la V. ' meatus ' fu
usata da scrittori anteriori ^ e da 1
Petron. bcU. 141, p. 665, 12 ' aliqua inueniemus blandimenta, quibus saporem
mutemiis '. « Val. Flacg. Ar^on. Ili 403. Cf. Tag. ann.
XIV 51, 4. 8 LvcR. de r. n. I 128. Verg. Aen. VI 849. Sil. It. Pan. XII
102. etc. 73 Plinio stesso: n. ft. X 1 1 1 * aues solae
uario meatu feruntur et in terra et in aere ' ; v. inoltre: 6, 83. 9, 95. 11,
264. etc. II. Verbi :
1." ' firmare ' : Germ. 39, 2 ' fides antiquitatis religione
flrmatur '. Con lo stesso significato in traslato , riferito a cose religiose, appare prima in un
carme cit. da Cicerone e nei carmi di
Virgilio. * Nella n. h.y oltre al
presentare in più 11. il significato di « fermare, rassodare, rinforzare » : v.
10, 94. 17, 206; 212. 18, 47. 20, 212.
35, 182. etc, (il quale significato osservasi prima in Cicerone, Virgilio,
Livio , Curzio , Columella ^) , si attiene , come si ha es. da Celso in poi ,
=^ ad argomenti di medicina: v. n. h.
14, 117. 21, 180. 24, 119. etc. 2." ^ imputare ' : apparve nella
latinità dell' evo augusteo, col significato in traslato di « attribuire come colpa, imputare »: * uso continuato poi da
Valerio Massimo , Seneca , Plinio Secondo , e indi da Quintiliano, 1 CiG. de dia, 1 47, 106 'sic aquilae
clarum fìrmault luppiter omen '. Verg. Aen, II 691. XII 188: cf. XI 330. « Cic. Tuse. II 15, 36. Verg. geonj. Ili 209. Aen. HI 659. Liv. XXVII
13, 13. CVRT. hisL A. M. IV 9 (38), 18. IX 10 (41), 18 CoLVM. de r. r. VI 27, p. 486, 38. Cf. Tag.
ann, IV 73, 7. 3 Cels. de med. Vili 7,
p. 320, 5.. La frase * f. aluum solutam *,
che il Georges, ausfiXhrL Handwb,^ I, e. 2572 , attribuisce a Celso, appartiene invece a Plinio: v. n h,
XIV 117 * est centra Lycia (8C. uua)
quae solutam ( se. aluum ) firmat *. La fra^^e
genuina di Cels. de med. I 3, p. 20, 3 è la sg. : * aluum firmare is,
cui fusa. * * OviD. episL {her.) 6,
102. mei. II 400. XV 470. Vedi Krebs
-Sghmalz, aniib. I, p. 640. T4Tacito e altri. MI v. ' imputare ' fu
aftche adoperato oell' età postclassica
in senso traslato , per significare «
ascrivere a merito, attribuire come merito »: Germ. 21, 15'gaudent muneribus, sed nec data
imputant nec acceptis obiigantur '. n.
h. Vili 60 ' ut facile appareret gratiam
referre et nihil inuicem iuputare '. Lo stesso
significato notasi in Seneca padre, Fedro, Seneca figlio, etc. ^ Assume anche nella n. h. il
significato semplice di « assegnare,
indicare »: XXIV 5 ' ulcerique paruo
medicina a Rubro mari inputatur '.
3."* * prouocare ' : Oerm. 35, 9 * quieti secretique nulla prouocant bella '. n. h. XXXIII 4 ' didicit
homo naturam prouocare': v. 6, 208. 19, 5. Con significato consimile si nota in
Cicerone , Livio , Velleio Patercolo ,
Lucano, etc. ^ Plinio usò pure in traslato il v. ' prouocare ' : n. h.
XVI 32 ^ omnes tamen has eiusf'sc. roboris)
dotes ilex solo prouocat cocco ' : v. 9, 66. 35, 94; e cf. 21, 4: tale uso fu continuato da Quintiliano,
Tacito, Plinio il giovane, Suetonio,
etc. ^ 4.'' ' submittere ': nel
significato di : VII 112 ' fasces litterarum ianuae submisit is cui se oriens occidensque submiserat ': v. 8,
3. 10, 132. 11, 260. etc. ; ^ quanto nel
SENSO TRASLATO neque enim pudor , sed aemuli pretia summittunt. Avverbi. 1.** ^ adhuc ': Germ. 19, 10 ' melius quidem
adhuc eae ciuitates, in quibus tantum
uirgines nubunt. ' n. h. XVIII 24 *
quandoquidem qui adhuc diligentius ea
tractauere ' e. q. s. L' avv. ' adhuc ', usato per particella
rinforzativa col comparativo, invece della v. 'etiam' preferita nel periodo aureo della lingua
latina, appare nella latinità argentea.
^ È anche postclassico l' uso di i
SBN. dial XI 17, 5. ep, XIX 5 (114), 21. Plin. episL VII 27, 14. SVBTON. din, lui. 67, 12. 2 Cosi in Liv. II 7, 7. XLV 7, 5. Ovid.
fast. Ili 372. 5 Lteato in trasl.,
appare prima in Cic. diu. in Caeeil 15, 48.
p. Piane. 10, 24. Vbrg. Aen. IV 414. XII 832. Liv. VI 6, 7. Ovid. epist (her) 4, 151. Sbn. de ben. V 3, 2. ep.
VII 4 {66) y 6. XIV 4 (92), 2. * SBN. ep. V 9 (49;, 3. Qvintil. e. o. I 5,
22. II 15, 28 e 29. X 1, 99. SvBTON.
Tib. 17, 1. Vedi Goblzer, grammatieae in Sul-pieium Seuerum obaeruaiionea. Par.
1883, pp. 92-93. L'es. apparentemente simile, ma in realtà diverso* di uà 1. di
Celio in CiG. ep. (adfam.) Vili 7, 1 '
eo magia, quo adhuc feliciua rem
gessìsti *, è ben chiarito neir antib. Krbbs-Schmalz , I, p. 87. et Hand, Turs. adhuc ', invece di ' praeterea
', nei segg. 11. Germ. 10, 9 ^ sin
permissum, auspiciorum adhuc fldes exigitur. '
n. h. XXXIII 37 ' sunt adhuc aliquae non omittendae in auro diflferentiae '. ^ Notasi inoltre '
adhuc ' nella n. h. col valore di '
hactenus ' : XXXVII 27 ' magnitudo amplissima adhuc uisa nobis erat ' e. q. s.
; ^ e nella Germ. in sostituzione delle
espressioni classiche ' tum ', ' etiam
tum ', ' tum etiam ', etc. : ^ 28 , 5 ^ occuparet permutaretque sedes
promiscuas adhuc et nulla regnorum
potentia diuisas '. * 2.*" '
clementer ' : Germ. 1^ 8 * Danuuius molli et clementer edito mentis Abnobae
iugo effusus '. Prevalse neir età
argentea della lingua latina 1' uso di riferire
' clementer ' a luoghi : ^ Plinio lo riferi ad animali, e, trattando dell' addomesticamento degli
elefanti , osservò: n. h. Vili 25 ' argumentum erat ramus homine porrigente clementer acceptus (se. ab
elephante) '. ^ 3.° ' hodieque ' :
Germ. 3, 12 ' quod (se. Asciburgium) in
ripa Rheni situm hodieque incolitur '. n. h. Ili 124 ' Nouaria ex Vertamacoris, Vocontiorum
hodieque pa 1 V. ess. consimili in Sbn.
n. q. IV 8. Qvintil. i. o. 11 21, 6. 2
Per la differenza tra ' adhuc ' e * hactenus ' v. Ha.nd, Turs. IH pp. 4-14. Krebs-Schmalz, antib. I, p. 587
sg. Cocghca, sint lai. § 85, XII, p. 199. 3 Gandino, sint lai. I, es. 71, n. 3, p 120.
II, es. 150, n. 4, p. 97. 4 Cf. Tao. Agr, 16, 24. 37, 1. hist I 10, 1 ; 47, 8. ann, I, 5 13; 48, 2; 59, 11. II 46, 8. IV 56, 8. XI 23, 9.
etc: nei quali 11. la v. ' adhuc ' ò
riferita ad un* azione passata. 5
CoLVM. de r. r. II 2, p. 332, 19. Sen. Oed, 281. SiL. It. Pun. I
274, Cf. Tac. hist III 52, 2. ann. XII 33, 8. XIII
38, 13. fi Cf. Gell. n. A. V 14, 12: vi
si menziona il racconto di Apion Plistonlces intorno al leone di Androclo. go,
(se. orla est) ' : v. inoltre 2, 150. 8, 176. 16, 10 ; 15. 18, 65. 30, 2; 13. 36, 189. etc. L'uso di '
hodieque ' nel significato delle
espressioni classiche ' hodie quoque', '
etiam hodie ', o semplicemente ' hodie ', ^ si comincia ad osservare negli scritti della età
postaugustea, alcuni dei quali anteriori alla Germ. od alla n. h. ^ D
L' uso delle voci, delle quali si tratta nella presente sezione, apparisce tanto nella Gerani, e
nella n. h,^ quanto negli scritti, a noi
pervenuti, del V sec. d. Cr. : negli
scritti anteriori non si osserva traccia alcuna di tali voci, I.
Sostantivi : 1.^ ' adfectatio '
: Germ. 28, 15 ' Treueri et Neruii circa
adfectationem Germanicae originis ultro ambitiosi sunt '. 3 n. h. XI 154 ' tanta est decoris
adfectatio ut tin 1 Vedi Krebs-Schmalz,
aniìb. I, p. 597. Gandino, sint lai. II, es. 150, D. 4, p. 97. Cocchia, sint lai. §
137, rZ, p. 305. « Vell. Paterc. h. R.
I 4, e e 3. II 8, 3; 25, 4; 27, 5. Val. Max.
f. ei d. m. Vili 15, 1. Sen. consultum Claudianum de iure honorum Gallis
dando ( tav. di Lyon ) , col. Il, 12 : vedi Dessau, insertpi. Lai., voi I, Beri. 1892, p. 53.
Sen. de clem. 1 10, 2 (ma nel cod Leid.
suppl. 459 [Lips. 49] si accoglie la lez. * hodie '). n. q. I proL, 3. ep. XIV 2 c90), 16 ; 25 ;
33. Cf. Qvintil. i. o. X 1, 94. dial. de
oraioribus 34, 37, secondo i codd. Vatic. 1518 e Farnes. : il Halm vi accolse la lez. * hodie
quoque '. 3 II FiNCK ( Tao. Germ.
erìàuleri, Gòttingeii 1857 , p. 227 ), il
Kritz (op. e, p. 43) ed altri, valendosi della lez. presentata dai codd. Vatic. 1862 , Vatic. 2964, Leid. ,
Venet. , leggono * nulla affectatione
animi' nel I. della Germ. 5, 19, dove gli altri codd. danno * offcciir De '. Quanto al I. sopra
cih "della Germ 28, 78 giiantur oculi quoque '. XXXIV 6 * circa id
multorum adfectatio furit '. Appare con
lo stesso significato in Seneca, Tacito,
Suetonio: ^ l'assumono in senso retorico
Quintiliano e Io stesso Suetonio. ^
2.** ^ boraicidium ' : Germ. 21, 3 ' luitur enira etiam homicidium certo armentorura ac pecorura
nunaero '. n. h. XVIII 12 ' suspensumque
Cereri necari iubebant grauius quam in
homicidio conuictum '. Della v. * homicidium ', invece della v. classica '
caedes ', si valsero anche Seneca padre,
Petronio, Quintiliano. ^ 3.° ' intellectus ' : Germ. 26, 10 ' hiems
et uer et aestas intellectum ac uocabula habent '. Con lo stesso valore passivo, ad
indicare « significato, senso, concetto »
di qualche cosà, appare la v. ^ intellectus ' in Quintiliano. ^ Nella n.
h, presenta il significato, in generale,
di « sentimento, percezione, senso »: XI 174 ' intellectus saporum ceteris in prima lingua, homini et in
palato '. 15, i codd. Monac, Rom. (
Aug. bib.l. ), Hummelian., Stotgard.
presentano la lez. ' affectionem * : migliore ò la lez. ' adfectationem
', data dal cod. Leid. e da altri, poichò, come nota il Dilthey {Tae, Germ. libellus vollstaendiy erlàuiert,
Braunschweig 1823, p. 176) « ' affectio
' ist jede die Seele aufregende Leidenscbaft,
* affectatio * hiogegen das oft ins Laecherliche getriebene Streben nach
einer Sacho Letzteres steht also hier (Germ, 28, 15) an seiner Stelle. » 1 Ben. ep. XIV 1 (89), 4. Tao hi8t I 80, 7.
Svkton. TU. 9, 5. 2 QVINTIL. i. O. I 6,
40. SVBTON. Tiò. 70, 3. etc. 8 Sen. rhet. conirou. IV 7, p. 270 , l.
Petron. sai. 137, p. 653, 16. QviNTiL. L o. III 10, 1.
4 QviNTiL. i. 0. I 1, 28. VII 9, 2. Vin 3, 44. eie. Il 1« es. e. dì Quintiliano é a torto attribuito a Seneca
nell'aus/ì^/ir^. Handwb,^ II, e. 291,
del Georges, e nel dizion. lat-it. GsoRaEs-CALONOiii, ed. oit,
e. XI 280 * neque enim est intellectus
ullus in odore uel sapore ' : v. 2, 149.
13, 35. 19, 171. 31, 87; 88. etc. : è riferito talvolta ad animali : X 108 '
columbis inest quidam et gloriae
intellectus ' ; per altri ess. v. 8 , 1 ;
3; 48; 156; 159. 9, 148. 10, 33; 43; 51; 137. 28, 19. 29, 106. etc.
4.** * repercussus ' : Germ, 3, 8 ^ quo plenior et grauìor uox repercussu intumescat '. n. h. XXXVI 99 '
turres septem acceptas uoces numeroso
repercussu multiplicant. ' In altri 11. della n. h. la v. ^ repercussus '
presenta significati che si diramano dal concetto comune del fenomeno di riflessione fisica : II 45 ^
in repercussu aquae '. V 35 * solis
repercussu '. V 55 ^ etesiarum eo
tempore ex aduerso flantium repercussum '. XII 86 * meridiani solis repercussus '. XVI 6 ^
occursantium inter se radicum repercussu
'. XXXVII 22 * colorum repercussus ' :
v. inoltre 10, 43. 11 , 148 ; 225. 31 , 45.
33, 128. 35, 97; 175. 37, 76; 104; 137; 165. etc. Altri scrittori del periodo postclassico si valsero
della v. ^ repercussus '. ^ II. Verbi.
1.^ * excrescere ' : Germ. 20, 1 ' in omni domo nudi ac sordidi in hos artus, in haec corpora,
quae miramur, excrescunt '. Lo stesso uso di ' excrescere ' si nota in Seneca. ^ Niella n. h. è, come nel de r.
r\ di Colu 1 Vedi Plin. epist II 17,
17. Non è cit. eoa esattezza nel Lex,
Forcellini-De ViT, t. V, p. 176 , e neWaunfuhrl. Handiob. del Georges, II, e. 2074, il passo di Flor. epit
I 38 [III 3], 15, in cui legges': * ex
splendore galearum aere repercusso quasi ardere caelom uideretur* (Halm). L* imitò Macrob. sat. I 7, 25. Vedi per
rargomento le philologisehe Ahhandlungen di M. Hertz, Beri. 1888, p. 41. 2 CiG. p. Ro^e. Am, 22, 63. de fin. Ili 19, 62. V 14, 39. 8 Cabs. b. e. II! 92, 2. 4 Cf. Tac. Agr. 20, 7. 5 Liv. XXII 12, 7. XXXII 4, 4. Cf. Cic. de
nat d. II 57, 144. 6 Pompon. Mbl. ehor, II 3, 34. Ili 1, 8 e 9 e 10 ; 8, 81. Plin. n. h IV 76. 84
etc. ,* anche nella Germ. 27, 6 ' lamenta ac lacrimas cito, dolorem et tristitiam tarde poniint '.
Plinio adoperò la V. ' lamentum ' in traslato: n. h. X 155 ' lamenta circa
piscinae stagna mergentibus se puUis natura duce '. S.** ' lasciuia ' : Germ. 24, 5 ' quamuis
audacis lasciuiae pretium est uoluptas spectantium '. Con significati vicini a quello che si nota nel 1. e. della
Germ. la v. ' lasciuia ' era stata
accolta da Pacuvio, Cicerone, Lucrezio, Seneca. ^ Plinio , oltre all'
adoperarla secondo l'uso comune (v. n.
h. 5, 7. 9, 34. 18,364. etc), la rivolse, in traslato , a denotare quelli che a
noi paiono capricci della natura : n. h.
XI 123 ^ nec alibi maior naturae
lasciuia '. XIV 15 ' est et illa naturae
lasciuia ' : V. 8, 52. 26, 2. 36,
12. 9.° ^ nodus ' : Germ. 38, 5 ^
insigne gentis obliquare crinem nodoque
substringere '. Ovidio aveva riferito ' nodus ' all'acconciatura dei capelli. ^
Similmente nella n. h. si adopera la v.
' nodus ' in senso proprio: XXVIII 63 '
uulnera nodo Herculis praeligare '; * ma vi è anche accolta in traslato, ora
riferita ad argomenti zoo 1 Cic. in
Pi8, 36, 89. p. Mil. 32, 86. Tuse. II 21,48. de legihus II 25, 64. Cai. m. 20, 73. Vero. Aen. IV
G67.,Pergli ess. di Lucrezio e di Livio , V. i' ausfuhrl. Handwb . del Georges, II, e. 483. Cf. inoltre Tac. Agr, 29, 3. hist IV 45,
5. 8 Pacvv. in CiG. de diu. I 14, 24. Cic. de fin.
II 20, 65. Lvcr. de r. n. V 1398. Sen. dial. XII 18, 5. Cf. Tac. hist. Ili 33 ,
13. ann. XI 31, 14; 36, 12. 3 OviD. ars am. Ili 139. Lo ripetè, più tardi, Martial. epigr. V 37, 8.
* Del * nodus Herculis ' o * Herculaneus * è fatta menzione da Sen. ep. XIII 2 (87), 38. Cf. Pavli exc. ex
Uh, Pomp. Fesii^ voce • cingillo ', p.
44, 24 ed. Thewr. d. P. 85 logici: V.
11, 177; 217. 28, 99; » o botanici : v. 13, 52.
16, 158; 198, secondo ess. precedenti ; ^ ora ( e , come pare, per la prima volta) a minerali: v. 34,
136. 37, 55; 150; ovvero ad indicare
tumori o indurimenti del corpo umano: v.
24, 21 ; 24. 30, 110: cf. 11, 216. 10.° ' potus ' : Gerani. 23, 1 * potui umor
ex hordeo aut frumento '. n. h. XXII 164
^ ex iisdem (se. frugibus) • fiunt et
potus '. Altri ess. della v. ^ potus ' presenta la n. /^., tanto nel significato di bevanda,
quanto in quello di « bere, tracannare
», secondo l'accezione precedente di
Cicerone, Celso, Curzio, etc. : ^ v. n. h, 8, 122 ; 162; 209. 9, 46. 10, 201. 11, 176; 283. 13, 25;
51. 14, 137; 149; 150. 16, 4. 21, 12.
23, 37. 26, 17. 28, 53; 55; 84; 197. 29,
26. 31, 33. 32, 34 ; 54 ; 57. 34 , 151. 36, 156. etc; * ma per la prima volta notasi nella n.
h, nel significato di « escremento umano » : v. 9, 138. 17, 51. 11.° ' pubertas ': n. h. VII 76 ' uidimus
eadem ferme omnia praeter pubertatem in
Alio Corneli Taciti ' e. q. s. cf. 21,
170. Con lo stesso significato metonimico , per
indicare il segno della pubertà, se ne valse Cicerone. ^ Ma la V. considerata assume il nuovo
significato metonimico di 4c forza virile, virilità, facoltà di generare » nella Germ. 20, 6 * sera iuuenum uenus ,
coque inex ^ Cosi anche in Cabs. b. G.
VI 27, 1. Vbrg. Aen. V 279. LvCAN. de h. e. VI 672. etc. * Ess. precedenti se ne osservano in Verg.
bue, V 90. georg, II 76. Aen. VII 507.
Vili 220. IX 743. XI 553. Liv. I 18, 7. Sen.
de ben. VII 9, 2. Colvm. de arb. 3, p.
670, 5. « Cic. de diu. I 29, 60. Cels.
de med. II 13, p. 56, 28. Cvrt. hi8i. A. M. VII 5 (21), 16. Cf. Tao. ann.
XIII 16, 4. 4 Vedi Krbbs-Schmalz,
antib., v. * polio und polus ', II, p. 308.
5 Cic. de naL d. II 33, 86. hausta pubertas': appare nella n. h.^ riferita, in traslato, alle piante
: v. 23, 7. * Quanto a ^ pubertas ' in
senso proprio, v. 25, 154. 12.°
* raptus': valse da prima a significare « ratto, rapimento per amore » ; - nella n. h. fu
usata anche per indicare « strappo
mediante uno strumento , piallata »: XVI 225 ' pampinato semper orbe se uoluens
ad incitatos runcinae raptus '. Nella
Germ. si assunse nel significato della
v. ^ rapina ', accolta dalla latinità classica, cioè « ladroneccio, rapina »:
35, 10 ^ nullis raptibus aut latrociniis populantur '. ^ 13.° ' sagitta ' : nel significato proprio
di « freccia , dardo, strale, saetta »,
^ osservasi nella Germ. 46, 15 ' solae
in sagittis spes '; e nella n. h. VII 201 ^arcum et sagittam Scythen louis filium , alii
sagittas Persen Persei filium inuenisse
dicunt ': v. 11, 279. 16, 161. etc. Ma
nella n. h. vale eziandio non solamente a indicare, secondo gli ess. di
scrittori precedenti, una specie di sorcolo
o magliuolo:^ v. 17, 156; e una costellazione : '^ v. 17, 131, 18, 309; 310; ma anche a designare (a
quanto pare. 1 In un altro 1. della
n. h. ò sostituita a ' pubertas ' la voce
propria : 12, 131 'in prima lanugine '.
2 CiG. in Verr. IV 48, 107.
Tuse. IV 33, 71. Ovid. fasi. IV 417.
Sen. dial IV 9, 3. Plin. n. h. 34,
69. Cf. Tac. ann. VI 1, 15. 3 Lo stesso
congiungimento di ' raptus * al plur. con * latrocinium ' o ' praeda ' si
osserva in Tac. hi9t I 46, 13. ann, II 52, 4.
4 Vedi Cic. in Verr. IV 34, 74. Phil II 44, 112. aead. pr. II 28, 89. de fin, III 6, 22. Tuse. I 42, 101.
II 7, 19. de nat d. I 36, 101. II 50, 126. etc.
5 CoLVM. de r. r. Ili 10, p. 384, 1-8 ; 17, p. 393, 9-10. 6 Cic. Arai phaen. cum Groti suppl. vers. 84
(325), pag. 369. Gbrman. Arai, phaen. v.
315, in PLM. voi. I, p. 166, ed. Baehrens. AviBN. Arat vv. 669, 689, 985, 1117, 1258 ed.
Breysig. per ia prima volta) la
pianta detta comunemente € lingua di serpente »: XXI 111 * idem (se. Mago)
oiston adici t a Graecis uocari, quàm
inter uluas sagittam appellamus '. ^
14.** ' satisfactio ' : voce usata prima da Cicerone, Cesare, Sallustio
per significare « discolpa, scusa ». ^ Nella
Germ, conserva lo stesso significato, aggiuntovi il concetto della pena:
21, 3 ^ luitur enim etiam homicidium
certo armentorum ac pecorum numero recipitque satisfactionem uniuersa
domus '. Plinio la riferì agli animali e, trattando delle colombe , scrisse :
n. h. X 104 * tunc plenum querela guttur
saeuique rostro ictus,- mox in
satisfactione exosculatio '. 15. "*
' sedes ' : in senso traslato, per indicare « soggiorno, stanza, dimora, paese,
patria », secondo l'accezione classica, ^ appare nella Germ. 2, 3 '
classibus aduehebantur qui mutare sedes
quaerebant ': v. 25 , 2. 30, 1. Plinio
ne fece uso tanto in senso traslato, analogo al precedente: v. n. h. 2, 102. 11
, 138 ; 157. 22, 14. 33, 74. 36, 102 ; ^
quanto in senso metonimico : v. 22, 61;
143. 23, 75; 83. 26, 90 32, 104 : in questa se
1 * Oiston • legge nel 1. e. della n. h. Ose. Weise ; v. Jahrbb. del Fleckeisen, 1881, p. 512. 1 codd. Paris.
6795, Riccard., Leid. Voss. e Ted.
Detlefsen (voL III, Beri. 1868) danno * pistana \ « CiG. ep. (ad fam.) VII 13, 1. Caes. 6. G.
VI 9, 8. Salì.. Cat 35, 2. etc. 3 Cic. p. Cluent 61, 171. 66, 188. p. Mar,
39, 85. p. Sulla 6, 18. p. Areh, 4, 9.
de proo, eons. 14, 34. p. Marcel. 9, 29.
Caes. b. G. IV 4, 4. Sall. Cat 6, 1. Verg.
Aen, XI 112. Ovid. mei.
Ili 539. XV 22. etc. 4 Cf. Caes.
6. G. I 31, 14 ^ aliud domicilium , alias sedes... petant '.
88 conda accezione non pare che
altri V abbia preceduto, le."* '
tristitia ' : nella Oerm. e nella n. h. è accolta nel significato proprio di « mestizia,
tristezza », secondo l'uso che se ne era fatto dagli scrittori precedenti;
' Germ. 27, 7 ^ dolorem et tristitiam
tarde ponunt '. ^ n. h, XXIV 24 '
inuenio potu modico tristitiam animi
resolui': v. pure 21, 159. 23, 38. 25, 12. 35, 73. Plinio usò, inoltre, la v. ' tristitia ' in senso
traslato, riferendola a cose inanimate : n. h, II 13 ' hic (se. sol) caeli tristitiam discutit '. XVIII 184 ' sarculatio
induratam hiberno rigore soli tristitiam
laxat temporibus uernis ': e in ciò egli
seguì gli ess. analoghi presentati da Cicerone; 3 ma, probabilmente per il
primo, appropriò la V. considerata ad
animali : n. h. IX 34 ^ delphinorum
similitudinem habent qui uocantur thursiones. distant et tristitia quadam adspectus ' : v. 11, 63
(per le api). 32, 60 (per le ostriche).
Aggettivi: 1.° ' asper ': appare, usato
in traslato, in un 1, della Germ, 2, 8 *
Germaniam peteret , informem terris , asperam caelo ' : * nella n. h. è assunto
, come in 11. di 1 CiG. de or. II 17, 72. eum sen. grai, egii 6, 13.
Lvcgbivs, in Cic. ep. {ad fam.) V 14, 2.
Sall. Cat 31, 1. Hor. carm. I 7, 18.
OviD. mei. IX 397. Val. Max. / et d. m, 1 6, 12. II 6, 14. Sen. dial IX 15, 1. « Consimile frase * tristitiam poni ' si
legge iti Ovid. ex Pont II 1, 10. 3 Cic. ad Ait. XII 40, 3. de nat d II 40, 102. de off, I 12, 37. * Vi ha analogia
con Taso fattone da Ovid. me^. XI490. Vell.
Patbrc. h. R. II 113, 3.
89 autori precedenti, » nel
significato proprio: v. 3, 53. 6, 167.
17, 43 ; ed è anche riferito al senso del gusto : *^ V. 2, 222. 12, 27. 19, 111. 20, 97. 25, 159;
e, probabilmente per la prima volta, al senso dell'odorato: XXVII 64 ^ radice longa, aequaliter crassa, odoris
asperi '. ^ 2.** ' uoluntarius ' :
adoperato in senso obiettivo, per
indicare ciò che si compie per libera volontà, appare, come in Cicerone, Livio, Valerio Massimo,
etc, ^ anche nella Qerm. 24, 9 ' uictus
uoluntariam seruitutem adit '; e nella
n. h. VI 66 ' uoluntaria semper morte uitam
accenso prius rogo flnit ': v. 37, 3; e cf. 28, 113. Ma nella n. h. si estende alla designazione di
fatti naturali: 1 Varr. r. r. II 5,
8. Cic. pari, or, 10, 36. Lvcr. de r. n. VI
1148. Vbrg. bue. X 49. georg. II 413. Liv.
XXV 36, 5: cf XXXVH 16, 5. OviD. mei VI
76. 2 Cosi in Plavt. capi. 188 (I 2, 85); 496 (III 1, 37). Ter. hauL 458 (III 1, 49). Verg. georg IV 277.
etc. 3 II Georges nel suo ausfùhrl.
Handwb, I, e. 581, in conferma del riferimento deli'agg. * asper * ai sensi del
gusto e dell' odorato, cita il 1. di Cic. de fin, II 12, 36 * quid iudicant
sensus ? dulce amarum, lene asperum ', e. q. s. ; e la citazione si ripete nel dizion, laL-iL Georges-Calonghi,
c. 250. Senza dubbio, r affermazione è esatta quanto al ' dulce amarum '
rife* rito al gusto; ma ci pare inesatto
riferire il * lene asperum ' air
odorato, perchè nei citati vocabolari, in conferma del riferimento di * asper *
al senso dell' udito, si ripete , poco dopo ,
lo stesso 1. di Cic. ' lene asperum *, con V avvertenz% che ad * asper ' si contrappone * lenis ' :
osservazione giusta questa ultima, in
quanto che nel 1. e. di Cic. le antitesi sgg. * prope longe, stare mouere, quadratum rotundum ' non
escludono che r antitesi * lene asperum
* si possa riferire al senso dell' udito.
4 CiG. ep. iadfam.) VII 3,
3. Liv. XXVI -36, 8. XXVIII 7, 9. Val.
Max. /. et d. m. I 8, 3. Cf. Tac. hisL II 45 , 3. [ deal, de
oraiorihuB 41, 17]. pinguius (se. serpyllum) uoluntarium et
caildidioribus foliis ramisque '.
III. Verbi: 1.° * adgnoscere ' : Germ. 5, 15 ' formasque
quasdam nostrae pecuniae adgnoscunt
atque eligunt '. n. h. XXIX 19 ^ alienis
oculis agnoscimus ' : v. 35, 89. Con tale
significato il V. ' adgnoscere ' era stato usato prima * ; ma nella n. h. è riferito anche ad animali: IX
23* nomen Simonis omnes (se. delphini)
miro modo agnoscunt '. 2.° ' colligere
: Germ. 37, 8 ' ex quo si ad alterum
imperatoris Traiani consulatum computemus , ducenti ferme et decem anni colliguntur '. n. h. XIII
85 * ad quos (se. consules) a regno
Numae colliguntur anni DXXXV ': 2 cf. 6,
59; e, per la forma attiva, 2j 186. ^
Nella n. h. è riferito pure, tanto nella forma passiva quanto nella attiva, a misure di lunghezza:
IV 87 ' ad OS Bospori CCLX M pass,
longitudo coUigitur ' : 1 Cic. de
fin. V 18, 49. Lael 27, 100. Caes. 6. e. H 6, 4. Vbrg. Aen. I 406. HI 82; 351. IV 23. Vili 155. X
843. XII 260. Ovu). fasi. V 590. Lycan,
de h. e. II 193. Cf. Tag Agr. 32, 18. 8
II n.o DXXXV nel 1. e. della n. h, leggesi neir ed. Mayhoff, voi. II, p. 332, 18 ; e, in proposito del d.^
aura., non è nolata alcuna variante presentata dai cod J. Tuttavia il Georges,
auifàhrl. Handùcb., J, e. 1185, e il
Valmaggi, dmi. degli oratori eommenL
Torino 1890, p. 66, T hanno mutato in DXXXXV: non sappiamo spiegarcene
la ragione. 3 Cf. deal de oraioribus
17, 16 * centuna et uiginti anni ab
interitu Ciceronis in hunc diem colliguntur*. È usato nella forma attiva in 24, 14 * cum praesertim
centum et uiginti annos ab interitu Ciceronis in hunc diem [effici] ratio
temporum collegerit ' : espunto 1' '
effici ' secondo la proposta del RoenBch,
in Rev, de Vinsir. pubi, en Belg. 1865, p. 301. 91 V. 2,
245. 36 , 178. etc. XII 23 ' sexaginta
passns pleraeque orbe colligant ' : v.
3, 132, 5, 136. 36, 77. etc.
3.° ^ eualescere ' : verbo usato da Virgilio , Orazio , Seneca, Lucano, etc. ^ fu da Plinio per la
prima volta riferito a vegetali: n. h.
XV 121 * quae (se. myrtus plebeia)
postquam eualuit flauescente patricia ' : v. 16, 125. 17, 116. Nella Oerm. è usato tanto in
senso proprio: 28, 4 * ut quaeque gens eualuerat'; quanto in traslato, per indicare la prevalenza di
determinate voci neir uso comune : 2, 22
^ ita nationis nomen, non gentis eualuisse paulatim lucrari ' : Germ. 24, 6 ^
aleam, quod mirere, sobri! inter seria exercent , tanta lucrandi
perdendiue temeritate, ut ' e. q. s. Con
lo stesso significato proprio il v. ^
lucrari ' fu adoperato da Cicerone e Orazio. ^
Nella n. h. acquista il significato particolare di « guadagnare mediante
il risparmio » e perciò « risparmiare » : XVIII 68 ' quod {se. marina aqua
subigi panem) plerique in maritimis locis faciunt occasione lucrandi salis '.
Nello stesso senso pare che si debba intendere il V. ^ lucrari ' nel 1. della
n. h. XXXIII 45 ^ ita res p. dìmidium
lucrata est ', cioè lo Stato risparmiò la metà della spesa, accrescendo il
valore di alcune monete, al tempo della
seconda guerra punica. 5.** * obtendere
' : con la forma mediale assume, per la
prima volta, nella Germ. e nella n. h. un signifl 1 Vero. Aen. VII 757. Hor ep. II 1, 201. Sen. ep. XV 2 (94) , 31. LvcAN. de b. e, I 505. IV 84. Cf.
Qvintil. L o. II 8,5. X 2, 10. « Cf.
Qvintil. l o. IX 3, 13. Tac. hist I 80, 8. ann XIV 58, 17. 3 Cic. in Verr, V 24, 61 ; 25, 62. p. Flaee.
14, 33. de off. II 24, 84. parad. 3, 1 (21). Hor. ep. II 3, 238. Quanto al senso trasl. del v. ' lucrari ', vedi Cic. in Verr. I 12,
33. Hor. earm. cato locale d' uso geografico, ed ìndica « estendersi dinanzi »
: Germ. 35, 3 ^ Chaucorura gens omnium
quas exposui gentium lateribus obtenditur , donec in Chattos usque sinuetur '. n. h. Y 77 ^ buie
(se. Libano) par interueniente ualle
mons aduersus Antilibaaus obtenditur '. * Nella n. h. presenta inoltre il
significato , che notasi in Virgilio, ^
di « stendere dinanzi , porre dinanzi »
: XI 153 ' omnibus membrana nitri modo
tralucida obtenditur ' : v. 37, 100.
e.*" ^occurrere': presentasi la prima volta con significato
geografico nella Gerrn. e nella n. h.-/^ Germ,
33, 1 ' iuxta Tencteros Bructeri olim occurrebant ' n, h. Ili 95 ' quem locum occurrens Terinaeus
stnus paninsulam efiìcit '. V 84 ' apud Elegeam occurrit ei {scEuphrati) Taurus mons': v. inoltre 6,
114; 128. etc. Presenta anche nella n. h, tanto il significato, in traslato, di «
rimediare, essere d'aiuto », secondo gli ess.
dati prima da Cicerone, Nepote, Valerio Massimo^ Persio: "* XVIII
189 ' constatque fertilitati non occurrere
homines ' : v. 18, 332. 20, 225. 30, 107. 31, 118. 32, 1; 99. etc. ; quanto il significato di «
presentarsi alla mente o alla vista,
sovvenirsi y> quaesdonem occurrere
uerisimile est omnium , qui haec noscant ,
cogitationi ' : cf. 24, 156. Questo ultimo significato os 1 Cf. Tao. Agr. 10, 7. « Vero, georg. 1 248 : cf. Aen. X 82. 3 A tale sigoiflcato dovette certamente pervenire
per il tramite deir uso fattone da Liv. XXXVI 25 , 4 * in asperis locis silex paene inpenetrabilis ferro occurrebat*.
Cf. Pompon. Mel. ehor. Ili 9, 89. Tag. Agr, 2, 9. 4 CiG. in Verr, IV 47, 105. p. CluenL 23,
63. Nep. XVI (Pel) 1, 1. Val. Max. f. et d. m. VIII 5, I. Pers. sai. 1,
62, 3, 64. 93 I servasi prima in Cicerone, Cesare,
Orazio, Seneca, Cur ' zio, Columella, etc. *
7.° ^ periclitari ' : con valore intrans, pregn. di « arrischiare,
essere intraprendente », appare la prima
volta nella Gemi. 40, 1 ^ plurimis ac ualentissimis nationibus cincti
(se. Langobardi) non per obsequium, sed
proeliis ac periclitando tuti sunt ' ; cf. n. h. 18 , 302. In Cicerone e Cesare ^ ha il significato
generico di ¥. fare esperimento, far
prova ». In alcuni li. della n. h. conserva la qualità di v. intrans., ed è
riferito , come in Celso, ^ ai pericoli
causati da certi morbi : XXX 114 '
utilissima sunt in iis ulceribus, quae uermibus periclitentur '. XXXII 54 ^
cinis eorum ( se. cancrorum fluuiatilium)
seruatus prodest pauore potus periclitantibus ex canis rabiosi morsu ': v.
altresì 17, 217. 20, 165. 26, 112.
etc. 8.** ^ praetexere ' : G^rm. 34, 4
' utraeque nationes usque ad Oceanum
Rheno praetexuntur '. n. h. VI 112 '
semper fuit Parthyaea in radicibus montium saepius dictorum qui omnes has gentes praetexunt '.
Con significato consimile era stato prima adoperato da Virgilio. ^ Nella n. h. assume altresì , in traslato , il
significato generico di « preporre,
porre avanti »: XVIII 212 ' quos J
Cic. de or. Il 24. 104. Ili 49, 191. p. Mil. 9, 25. Tuse. I 22, 51. Caes. b. G. VII 85, 2. Hor. sat. I 4, 136. Sen. deal. I 6, 4. CvRT. hisL A. M. Ili 8 t21), 21. Colvm. de r. r. Il 2, pag. 334, 34. Cf. Tac. ann. XIV 53, 22. « Cic. de off. III 18, 73. Caes. b. G. II 8,
1. 3 Cels. de med. Il 1, p. 30, 14. V 26, 24, p. 178, 37. eie. 4 Verg. bue. 7. 12. Aen. VI 5. Cf. Colvm. de
r r. X 296, p579, 37. 94 (se. auctores) praetexuimus
uolumini huic ': v. praef. 21. 16, 4.
» 9.** ' rarescere ' : eoa l'accezione
in traslato, per siguijfìcare « diminuire , divenire raro » , notasi la prima
volta nella Germ. 30, 3 ' durant siquidem col les, paulatim rarescunt'.2 Nel
significato proprio fu adoperato, dopo
Lucrezio, Virgilio, Properzio, Columella,^^ da Plinio: n. h, XI 231 ' quadripedibus senectute (pili)
crassescunt lanaeque rarescunt '. 10.° ' tolerare ' : Germ. 4, 8 ^ minimeque
sitim aestumque tolerare '. n. h. XXVI 3 ' foediore multorum , qui perpeti medicinam tolerauerant ,
cicatrice quam morbo '. Lo stesso
significato notasi in Terenzio, Cicerone, Sallustio, etc. ^ In un altro 1. la
n. h. presenta il V. ' tolerare ' per il
concetto di « mantenere , sostentare », secondo l'uso fattone da Cicerone,
Cesare, Virgilio, Columella , etc. : ^ VII 135 ' plurimi iuuentam inopem in caliga militari tolerasse '. XXXIII
136 ^ (Ptolemaeum) octona milia equitum
sua pecunia tole 1 Fu continuato tale
uso da Plin. pan. 52, 1. s Si ripete ,
poi , nella stossa accezione da Amm. Marc. r. g. XXII 15, 25. XXVI 3, 1. 3 LvcR. de r. n. VI 513. Vero. Aen. IH 411. Prof. IV 14 (15), 33. CoLVM. de r. r. Ili 16, p. 392, 38. Cf.
Sil. It. Pun. XVII 422. 4
Ter. hee. 478 (IH 5, 28). Cic. in Verr. Ili 87, 201. in Caiil. II 5, IC; 10, 23. ep. (ad fam.) VII 18, 1. ad
Q. fr. I 1, 8, 25. de fin. IV 19, 52.
Tuse. II 7, 18; 13, 30. V 26, 74; 37, 107. de din. II 1, 2. Caes. b. G. V 47, 2. Sall. Cai.
10,2. 20, 11. lug, 31, 11. Cf. Tac. hist
n 56, 12. ann. Ili 3, 9. 5 Cic. p.
Foni. 2, 13. Caes. b. G. VII 71, 4 Ccitato per inesattezza dal Georges, ausfiXhrl. Handwb. II, e. 2821,
con le indicazioni 7, 41, 7). h. e. Ili
49, 2; 58, 4. Verg. Aen. Vili 409. Colvm. de r. r. Vili 17,
p. 547, 19. Cf. Tac ann. II 24, 7. IV 40,
8. XV 45, 18 95 rauisse '. Ma vi si accoglie, per la prima
volta , tanto nel significato di : Germ. 27, 9 ' haec in commune de omnium Germanorum origine ac moribus
accepimus '. 38, 4 ' quamquam in commune
Suebi uocentur ' : cf. 40, 6; altrove
(5, 1. 6, 14) si preferisce l'espressione
avverbiale equipollente ' in uniuersum '. n. h, XVII 9 ' quae ad cuncta arborum genera pertinent in
commune de caelo terraque dicemus '.
XXIII 36 ' reliqua in commune dicentur '. Di una sola voce osserviamo essersi
fatto uso, perla prima volta, tanto
nella Germ. quanto nella n.h.: è la v. '
glaesum ', d'origine germanica, adoperata particolarmente dai soldati per
significare l'ambra: " Germ, 45, 15
* soli omnium sucinum, quod ipsi glaesum uocant, inter uada atque in ipso litore legunt '. n. h.
XXXVII 42 ' certum estgigni in
insulisseptentrionalis oceani et ab
Germanis appellari glaesum, itaque et ab nostris ob id unam insularum Glaesariam appellatam '. Ma,
come si osserva nel 1. e, la Genn.
accoglie anche la v. ' sucinum ', che trovasi nella n. h. identificata con I' '
electron ' dei Greci : III 152 ' iuxta eas Electridas uocauere in quibus
proueniret sucinum quod illi electrum
appellant': v. 4,103.8,137. 37, 31; 33; 43-45; 204. e te. ^ J Tale uso deirespressione avv. * in
commune * fu conlinuato da QviNTiL. L o.
VII 1, 49. Tag. ann, XV 12, 17. « Plin.
n. h. IV 97 * Glaesaria (se. insula) a sucino militiaa appellata, a barbaris Austerauia *. 3 Vedi il nostro libro sui Neologismi
botanici nei earmi bu" coliei e
georgiei di Virgilio, Palermo. Ad un buon numero delle relazioni lessicali si è
data, di mano in mano, evidenza, mediante opportuni confronti e richiami
indicati in fine delia maggior parte delle note che corredano le relazioni
lessicali tra la Gemi. e la n. h. di Plinio. Restringiamo, ora, il nostro
compito a dare evidenza ad alcune
relazioni lessicali tra la Germ. e gli scritti
di TACITO (vedasi), nelle quali non si scorge, salvo di rado e in modo
indiretto, l' intermedio della n. H. Sostantivi: annus: Ge7^m. nec arare terram
aut exspectare annum tam facile persuaseris \ Agr. 31, 5 ' ager atque annus in frumentum conteruntur '. Della V. ' annus ', adoperata per significare « il
raccolto o provento, la produzione dell'
annata », un primo accenno appare in Cicerone * : fu accolta da Properzio, e
poi dai poeti e prosatori dell' età
postaugustea. ^ Nella n. 1 Cic. in
Verr, a. pr. 14, 40. « Prof. V 8, 14.
Lvcan. de b. e. Ili 452. Stat. sii III 2, 22.
Plin. pan. 29, 3. Consoli, La
Germania comparala. T 98 h. la V. * annus ' conserva il significato
temporale: v. 2, 13. 9, 162. 18, 211.
28,22. etc. ; e solo si può scorgere come un tramite per giungere al
significato sopra notato nei sgg. 11. : XV 98 ^ fructus anno maturescit \ XVI
95 ' sunt tristes quaedam ( se. arbores )
quaeque non sentiant gaudia annorum \
2.** * audentia': Germ. 31, 1 ' et aliis Germanorum populis usurpatum raro et priuata cuiusque
audentia apud Chattos in consensum uertit
' e. q. s. 34, 10 ' nec defuit audentia
Druso Germanico', ann. XV 53, 9 * ut
quisque audentiae habuisset '. ' Audentia ' è voce della l^tiqità argentea : altri ess. se ne
osservano in Quintiliano e Plinio il giovane. ^ Nella n. h. si notano soltanto
le forme della flessione del participio ' audens '; V. 17, 222. 32, 53. 35, 61. etc. 3.** ^ copiae ' : consideriamo soltanto la
forma del plur. : 6r^rm. 30, 13 ^ omne
robur in pedi te, quem super arma ferramentis quoque et copiis onerant '. his£. Ili 15, 13 ' ut specie parandarum copiarum
ciuili praeda milites inbuerentur. IV
22, 5 ' parum prouisum ut copiae in castra conueberentur ': V. Agr. 22, 9.
Prima che nei 11. ce. la voce di forma
plur. ^ copiae ', col significato di € provvisioni, provvigioni, viveri,
alimenti », era apparsa in Cesare, Livio, Velleio Patercolo. ^ 4.** ' fortuna ' : Germ. 21, 9 ' prò fortuna
quisque apparatis epulis excipit '. ann. II 33, 13 ' quaeque ad usum parentur
nimium aliquid aut modicum nisi ex fortuna possidentis ': v. IV 23, 11. XIV 54,
9. La forma 1 QviNTiL. I. o. XII
prooera. , 4. Plin. episL Vili 4, 4. «
Vedi gli ess. citati dal Gboroes , ausfuhrl Handicb , I, e 1573: V. inoltre Plin. pan. sing. ' fortuna
', usata invece della forma plur. per indicare « ricchezze, beni di fortuna,
averi, sostanze », osservasi accolta da
Nepote, Orazio, Ovidio, poi da Quintiliano, ^ probabilmente per il tramite
della frase ciceroniana : ^ cuius denique fortunae studia tum laudi et gratulationi tuae se non obtulerunt ? '
" Valgano per il confronto i sgg.
11. della n. h.i 11 118 ^ non erant
malora praemia in multos dispersa fortunae magnitudine '. VII 130 * si
uerum facere iudicium uolumus ac
repudiata omni fortunae ambitione decernere , nerao mortalium est felix ' : ma è accolta la forma
regolare del plur. in XXXVII 81 ' ille
proscriptus fugiens hunc e fortunis
omnibus anulum abstulit secum ',
S."* ' pignora ' : consideriamo la sola forma del plur.:: Germ. 7, 11 * et in proximo pignora, unde
feminarum ulula tus audiri, unde uagitus
infantium ' : ann. XII 2, 3 '
baudquaquam nouercalibus odiis uisura Britannicum e^Octauiam, proxima suis pignora ': v. XV 36,
14; 57, 14. Agr. 38, 6. La forma plur. ^
pignora ' era stata accolta nella poesia
dell'età augustea, '^ per significare
figli, madri, mogli, insomma persone legate con intimi vincoli di parentela; donde la formola di '
obsecratio ' giudiziaria: ' per
carissima pignora'; della quale fa
menzione Quintiliano.* 6..'' ' suffugium ': Germ. 16, 11 ' solent et subterra 1 Nbp. XXV (Att.) 21, 1. HoR. ep, I 5, 12. Ovid. trist V 2, 57. QVINTIL. /. 0. VI 1, 50. « Cic. Phil. I le, 30. 3 Prof. V 11, 73. Ovid. meL III 134. XI 543.
episL (her.) 6, 122. 12, 192.
L'espressione * amoris pignora' di Liv. XXXIX 10, 1 ha un altro significato. * QviNTiL. I. 0. VI 1, 33. neos specus
aperire suffugiura hiemi et receptacu lum frugibus \ 46, 17 * nec aliud
infantibus ferarum imbriumque suffugium
'. ann. IV 47, 7 ' sanguine barbarorum modico ob propinqua suffugia ' : v. Ili
74, 5. La V. ' suffugium ', propria
della latinità argentea, * si osserva
prima in Seneca e Curzio. ' Tacito se ne valse
anche in genso traslato, ^ accostandosi all' es. che ne aveva presentato Quintiliano.* Aggiungiamo altri due aggettivi di forma
neutra plur., assunti col valore di
sostantivi : ^ I 7,** ^ ancipitia ' :
Gemi. 14, 10 ' facilius inter ancipitia |
clarescunt '. hisL III 40, 10 ' mox utrumque consilium aspernatus, quod inter ancipitia deterrimum
est '. ^ ann. XI 26, 12 ' scelusque
inter ancipitia probatum ueris mox
pretiis aestimaret '. Tacito adoperò anche al sing. l'agg. ' anceps ' sostantivato: ann. I 36, 9
' in ancipiti res publica '. IV 73, 16 '
ille dubia suorum re in anceps tractus '. Nella n. h. la v. ' anceps ' conserva
la ftinzione di aggettivo: IV 10 '
ancìpiti nauium ambitu '. VII 149 '
ancipites morbi '. IX 152 ' periculum anceps \
XVII 191 ' anceps culpa '. XVIII 210 ' res anceps '. J Si ha però un es. nel carme
pseudo-ovidiano * nux ', v. 1 19 * quid,
nisi suffugium nimbos uitantibus essem *.
8 SBN. dial IH 11, 3. CvRT. hUt A. M. VII! 4 (14}, 7. 3 Tac ann, IV »56, 11. XIV 58, 12. 4 QviNTiL. I. o. IX 2, 78. 5 V. la monografia di Th. Panhoff, de
neuiriui generis adieeiiuor. subsianiiuo usu ap. Tao. 1883. « F. RiTTBR, P. Corn. Tae. opp., Lps. 1864,
p. 525, 20 espunge dal testo tacitiano
le parole ' quod - est \ chiudendole tra parentesi quadre. 101 XXIII
31 ' ancipiti euentu \ XXV 16 * ratio inuentionis anceps ' : v. inoltre 10, 17.
22, 97. 23, 17 ; 20. 24, 75. 28, 21. 29,
1. etc. 8.** * missilia ' : Oerm. 6, 7
* pedites et missilia spargunt, pluraque singuli '. hist. IV 71, 24 *paulum
morae in adscensu , dum missilia hostium
praeuehuntur \ V 17, 14 ' saxis
glandibusque et ceteris missilibus proelium incipitur '. L' uso di dare il
valore di sostantivo all'agg. ' missilia ', per indicare, in generale, proiettili di guerra , come saette , pietre , etc. ,
appare prima in Virgilio e Livio ; ^ poi
si usò con lo stesso significato anche
nella forma del sing. ' missile ': - ne abbiamo un es. nel sg. 1. della n. h. XXVIII 33 ' ferunt
difflciles partus statim solui, cum quis
tectum, in quo sit grauida,^
transmiserit lapide uel missili ex iis, qui tria animalia singulis ictibus interfecerint '. Del resto ,
nella n. h. è preferito V uso di '
missilis ' come aggettivo : v. 8, 85;
125. 34, 138. etc. II. Aggettivi. Annoveriamo, per la loro funzione, tra gli aggettivi le sgg. forme participiali
: 1.** ^ inlacessitus ' : Germ. 36, 1 *
Cherusci nimiam ac marcentem diu pacem
ini acessiti nutrierunt'. Agr. 20, 1
Vero. Aen. X 716. Liv. II 65, 4. VI 12, 9. IX 35, 5. XXVI 51, 4 XXXTV 39, 2. L'espressione * missilia
fortunae ', che osservasi iu SBN. ep, IX 3 (74), 6, pare che abbia schiuso
l'adito ad un nuovo significato della v.
' missilia ' (= « doni largiti al popolo
»), che appare in Sveton. Aug. 98, 19. Ner. 11, 11. « Vedi LvcAN. de b. e. VII 485. Vbget. epit
r. m. (ed. C. Lang) I 4, p. 9, 8; 14, p.
18, 6: in III 24, p. 117, 14 leggesi ' missibilia ', ma nel cod. Perizon. F 17 si nota ' missilia
' ; e ' missilia ' osservasi anche nel cod. Palai. 909, corretto da '
missibilia nulla ante Britanniae noua pars pari/&r illacessita transìerit '. Il part. sempl. ^ lacessitus '
notasi nella n. h. Vili 23 ' nec nisi
lacessiti nocent '. 2.** ' intectus ',
con la particella premessa Mn - ' di
valore negativo: Germ. 17, 2 ^ cetera intecti totos dies iuxta focum atque ignem agunt '. hist Y 22,
12 ^ dux semisomnus ac prope intectus errore
hostiura seruatur \ ann. II 59, 5 ^
pedibus intectis ': e nel senso traslato,
per significare « aperto , schietto , fidente >, ann. IV 1, 12 * sibi uni incautum intectumque
efflceret \ ' » 3.** ' promptus ' :
Germ. 7, 2 ' duces exemplo potius quam
imperio, si prompti , si conspicui , si ante aciem agant, admìratione praesunt '. ann, IV 17, 16
* neque aliud gliscentis discordiae
remedium quam si unus alterne maxime prompti subuerterentur ': v. II 81, 7. IV 51, 16, XIV 40, 8. Con lo stesso significato
di « coraggioso, audace, valoroso », appare la v. ' promptus ', nel grado superlativo, in hist. I 51, 24. II 25,
13. Ili 69, 13. IV 14, 9. Agr. 3, 12.
Quanto all'agg. 'promptus' riferito a cose, V. n. h. 8, 129. 9, 112. 11,
24. 4.** ' reuerens ' : Germ. 34, 12 '
sanctiusque ac reuerentius uisum de actis deorum credere quam scir^ \ hist. I 17, 3. 'sermo erga patrem
imperatoramque reuerens '. Lo stesso
significato presenta la v. * reuerens '
in Properzio. ^ Cicerone conservò T usq psi^rticipiale di ' reuerens ' : * multa aduersa reuerens '. ^
Plinio vi a, anche nei sgg. 11. di Tacito: Agr. 34, 13 * transigite cum expeditionibus '. hist III 46, 14 * quod
Cremonae interim transegimus '. Il tramite, per giungere al significato sopra
notato, dovette essere il valore giuridico che
si attribuì in principio al v. * transigere \ cioè « venire a patti , definire la pendenza con un
amichevole accordo > , insomma concludere qualcosa di definitivo per dirimere le questioni. * 5.** * uocare ' : Germ. 14, 16 * nec arare
terram aut exspectare annum tam facile
persuaseris quam uocare hostem et
uulnera mereri \ hist IV 80, 10 ' ncque
ipse deerat adrogantia uocare offensas. ' ann. VI 34, 1 ' Oroden sociorum inopem auctus auxilio
Pharasmanes uocare ad pugnam \ U
equipollenza di ' uocare ' e * prouocare
' muove dalla frase virgiliana * uocare hostem. ' 2 IV.
Avverbi : 1.*" * adductius
' : Germ. 44, 1 ' Gotones regnantur ,
1 Cf., per r uso deUe forme passive di * transigere ', Cic. p. Quinci 5, 20. in Verr. a. pr. 10, 32. Tuse.
IV 25, 55; e, quanto alle forme attive:
p. Rose. Am. 39, 114. p. Cluent. 13^ 39. Phil. II 9, 21. etc. « Vbrg. georg. IV 76 * magnisquo uocant
clamoribus hostem '. Sbrv. eomm. in
Verg. georg. 1. L, voi. Ili, fase. 1*^, p. 326 Th., commenta: ' uocant hostem, prouocant '. Vedi
11 comm.del Heraeus a Tao. hist. IV 80, 10.
105 paulo iam adductius quam
ceterae Germanorum gentes \ hist III 7, 4 ' Minucius lustus.... quia
adductius quam ciuili bello imperitabat,
subtractus militum irae ad Vespasianum
missus est '. Nei due 11. citati il valore lessicale della v. ' adductius ' = «
con maggior rigore, più severamente ,
con freno più stretto », si deve fare
risalire alla frase di Cicerone ^ adducere habenas ', che è in contrapposto con
V altra ' remittere habenas. ' ^ 2.*" L' espressione ^ haud perinde ',
priva di valore comparativo, adempie una
funzione brachilogica: Germ, 5, 10 '
possessione et usu haud perinde adficiuntur '.
34,2 ' aliaeque gentes haud
perinde memoratae. ' ann, II 88, 16 '
Romanis haud perinde Celebris. ' IV 61 , 4 ' monimenta ingeni eius haud perinde
retinentur. ' Alla negativa * haud '
talvolta sono sostituite altre voci negative : ' non, ^ ne-quidem, ^ nec '. ^ Per r espressione comparativa ' haud
perinde quam ', invece della classica *
h. p. atque ', v. hist. II 27, 1. Ili 58, 14. IV 49, 26. ann. II 1,
8; 5, 9. XIV 48, 7. XV 44, 18. Osservasi
anche ^ nec perinde quam ' o ' neque p.
q. ' in hist. II 39, 12. IV 72, 16. ann.
XIII 21, 7. 3.** * longe ' può
adempiere V ufficio di rinforzare il
1 Cic. Lael. 13, 45. 2 Tac. ann.
II 63, 10. Cf. Plin. epéaé. I 8, 12. Sveton. Aug. 80, 6. Galb. 13, 1. deperdit librorum relL p.
294, 2, ed. Roth. 3 Tac. Agr. 10, 19
(secondo la congettura del Grozio: nei codd.
* proinde '). Cf Sveton. Tib. 52, 3 sg.
4 Liv. IV 37, 6. - 106
comparativo, col significato di « molto » : * Germ. S, 3 '
quam (se. captiuitatem) longe impatientius feminarum suarum nomine timent'.
ann, IV 40, 10 Monge acri US arsuras '. XII 2, 6 ' longeque rectius Lolliam
induci '. Altri ess. ne erano apparsi in Virgilio, Fedro, Velleio Patercolo. ^ B
È notevole che Tacito si valse in più luoghi de' suoi scritti di alcune espressioni o frasi che si
osservano nella Germ. : daremo evidenza
alle più importanti di esse,
disponendone i confronti secondo l'ordine cronologico delle opere di Tacito.
^ I.
Per il libro de uila et morihus lulii AgHcolae: 1.** Germ. 36, 4 ^ ubi m a n u a g i t u r '.
Agr. 9, 6 * plura manu agens'. 1 L'uso classico deU'avv. Moage' si
restringe a rinforzare il superlativo o
ad accompagnare » per renderne più efficace la
significazione, alcune voci particolari, quali * alius> aliter,
diuer* sus, dissimiiis ', etc. ; e i
verbi: ^abesse*, v. Cic. ep. (ad fatn)
II 7, 1. ad AiL VI 3, 1 ;"* antecellere *, v. id. in Yert, IV
53, 118. p. Mxir, 13, 29; * anteponere
*, v. id. de or. I 21, 98; * dissentire ', v. id. Lael. 9, 32; • praestare ',
v. id* Brut. 64, 230 ; e simili. Quanto
all'uso dell'avv. * longe ' col superlativo, v. inoltre Plin. n. A. 3, 5. 4, 66. 5, 70. 9, 131. 19,
146. 23, 92. 24, 125. etc. 2 Vero. Aen,
IX 556 * longe raelior \ Vell. Paterg. h. R» II
74, 1 * 1. tumultuosiorem *. Phaedr. /a6. Ili 7, 6 *L fortior'. Cf. Pbtron, sat 9, p. 39, 1 ' 1. malore nisu '.
98, p. 465, 5 * 1. blaiidior '. 3 Nel
confronto sarà incluso VAgr.^ tuttoché comunemente si ammetta che questo sia stato scritto prima
della Germi le ra^ gioni sono state
esposte a lungo nel nostro libro sopra citato,
V autore del l * de origine et situ Germanorum ', Roma, 1902. 107
2.** Germ. 4, 4 ' unde habitus quoque corporum.... idem omnibus. Agr. \\^ 2 ' habitus corporum
uarìi \ ' 3/ Gemi. 6, 14Mn uniuersum
aestimanti plus penes peditem roboris '.
Agr. 11,9 Mn uniuersum tamen a e stimanti Gallos uicinam insulam occupasse credibile est'. ^ 4.** Germ. 30, 13 ' orane r o b u r in p e d
i t-e ': cf. 6, 14 ' plus penes peditem
roboris '. Agr, 12, 1 M n pedite robur'.
Livio preferi la frase ' lecta robora
uirorum '. ^ 5.** Germ. 17, 6 '
ut quibus nuUus per commercia cultus '.
24, 12 ' seruos condicionis huius per commercia tradunt '. Agr. 28, 14^ per
commercia uenumdatos '. 39, 4 * emptis
per commercia'. 6.** Geì^m. 21, 12 *
notum ignotumque quantum ad ius hospitis
nemo disceruit '. Agr. 4:4^ 7 *quant u m a d gloriara, longissimum aeuum
peregit '. Vedi inoltre hist V 10, 8.
Della espressione * quantum ad ',
sostituita alla comune ^ quod attinet ad ', si osserva prin^ft un es., non incensurabile, in Ovidio:
lo agcolse, poi, Seneca. ^ Ma un termine
dì passaggio tra le due 1 L'
espressione ' habitus corporis ' fu , poi, ripetuta da Pliii. efii8t VI 16, 20 e da Svbton. deperdiL
Ubrorum reli pagt ^9^ 12, e4 Ralh. Plin. n. h, U, 224 menziona i ^siqgulos anitpi
habitus '. « Vedi il cap. Ili, C, III, 2^ 3
Liv. VII 7, 4: cf. Vili 10, 6. XXX
2. 1. 4 OviD ars am. I 744 ' quantum ad
Pirithoum \ Skn. ^^ XII 3
(«5?, 14 ' quantum ad habitum mentis *. Un altro ea^ di Seneca è cit
neWausfùhrl. Handwh. del GaoaeES, II, o. 19091. Vedi G. Leopardi , penneri di Daria filoso^ e di
belln leUenklura » Firenze, suec. Le
Mounier, 1898 ; voi. I, p. 256.
locuzioni notasi nelle frasi dì Seneca il retore: ^ quantum ad meum stuporem attinet; quantum ad ius
attinet '. ' II. Per le historiae : 1.° Germ. 25, 6 * occidere solent, non
disciplina et seueritate, sed impetu et
ira '. hist I 51 , 5 ' asper^fto
militiam tolerauerant ingenio loci caelique
et seueritate disciplinae'. La stessa frase , espressa in forma di endiadi come nella
Germ,, appare prima in Cicerone e nel
beli. Alex. ^ 2.** Germ. 3, 18 'ex
ingenio suo quisque demat uel addat
fldem '. hist. I 82 , 13 ' manipulatim
adlocutl sunt ex suo quisque ingenio mi tius aut horridius '. Vi sì
accosta la frase plìniana ; * uaria
circa hoc opinio ex ingenio cuiusque'. "^
3.° Germ. 13, 20 ' ipsa plerumque fama bella profi igant '. hist. II 4,
11 ' pr fi igauer at beli u m ludaeicum
Vespasianus '. IV 73, 6 ' profligato bello '.
La frase * proflìgare bellum ' risale a Cicerone e Livio: •* si rese
d'estensione maggiore, sostituendosi a
i Sen. rhet. eonirou. VII 1 (16-, 1, p. 298, 18. X 5 (34), 16, p. 509, 8, ed. e. Nella n. h. 25, 12 sì nota *
in quantum *. s Cic. p. Cluent 46, 129 * magister ueleris
disciplinae ac soueri tatis ' : cf. m
Catil. I 5, 12. Script b, Alex. 48, 3 *
mìlitarem disciplinam seueritatemque minuebant '. 65, 1 ' quae dissoluendae disciplinae seuor i
t a t i s q u e essent ' (Kuebler). Cf. Liv. XXXIX 6, 5. 3 Plin. n.
h. 8, 48: cf. 34, 57; e Liv. Ili 36, 1.
4 CiG. ep. dadfam.) Xll 30, 2. Liv. IX 29, 1 ; 37, 1. XXI 40, 11. XXXV 6, 3. XXXIX 38, 5. V. i commenti
Orelli-Meiser, Heraeus, Valmaggi a Tag.
hist. II 4. - 109 ' bellum ' gli aec. * aciem, classem, copias,
hostem, iaimicos, proelium ', etc. ^
4.° Germ. 3, 18 'ex ingenio suo quisque demat uel addat fidem'. hist II 50, 7 ' ita
uolgatis traditisque demere fidem non
ausim \ III 39, 3 ' a d d i d i t
facinori fidem': v. ann. IV 9, 5. Si
notano ess. delle locuzioni ' demere fidem ' e ' addere fidem ' in Livio e Ovidio : ^ in un 1. di
Cicerone i due verbi ' addere ' e '
demere ' sono disposti in antitesi ,
come nel 1. e. della Oerm. ^
5.*" Germ. 42, 8 ' sed u i s et p o t e n t i a regibus ex auctoritate Romana'. hisL III 11, 15 ' uni
Antonio uisac potestas in utrumque
exercitum fuit '. ** L' espressione *
uis ac potestas ' del 1. e. delle hist si
connette con la frase di Cicerone: ' u i m omnem deorum ac potestatem'. ^ 6.'' Germ. 36, 7 ' tracti ruina Cheruscorum
et Fosi '. hist. III 29, 5 ' quae (se,
ballista) ut ad praesens disiecit obruitque quos inciderat , ita pinnas ac
summa i Plavt. mil. gL 230 (II 2, 75
. Cic. p. Rab. FosL 15, 42. Phil XIV 14,
37. Cabs. b. e. II 32, 11. Nep. XIV vDat.) 6, 8. Liv. Vili 8, 9. X 20, 14. XXVIII 2, li. SiL. It. Pun.
XI 398. Tac. ann. XIV 36, 7.
« Liv. II 24, 6. OviD. rem. am. 290.
8 Cic. aead- pr. II 16, 49. Vedi per altri
e?s. di posizione in antitesi dei vv. *
demere ' e ' addere * 1' ausfùhrl Handwb. del
Georges, I, e. 1903. 4 u!
Zbrnial, op. e, p. 81, aggiunge al confronto un 1. del dial. de oratoribus 19, 24 ' qui u i e t p o
t e s t a t e , non iure aut legibus
cognoscunt '. 5 Cic de nat d. III 36, 88. Cf. seripL rhet ad
Her. I 5, 8
no ualli r u i n a sua t r a x:
i t ' : ma nel 1. e. della Germ. ' mina
' ha significato metaforico. * 7.°
Germ. 44, 1 1 ^ m u t a b i 1 e... hincuel illinc r e m i g i u m '. hist III 47, 18 ' pari
utriraque prora et mutabili remigio, quando
bine u e 1 illinc appellere indiscretum et innoxium est ' : v. anche ann. II 6,
7. 8.° Germ 24, 13 ' ut se quoque pudore
uictoriae exsoluant '. hist III 61, 15 *
p u d o r e proditionis cunctos exsoluerent'; arrogi ann, VI 44 , 20 ^pudore proditionis oranes e x s o 1 u i t
'. ^ In simile accezione metaforica
appare il v. ' exsoluere ' in Terenzio,
Cicerone, Virgilio, Livio, etc.'* 1
Cf. la frase * tra bere ruinam' in Verg. Aen, II 465 ?g. ; 631. Vili 192. IX 712 sg. ^a
costruito ^ proditur ' nella Germ. 8, 1 ' meraoriae pròdilur quasdam
acies inclinatas iam et labantes a Sforni nis restitutas '. ^ Consideriamo le leggi sintattiche aventi per
obtóÉto r uso dei casi. I.
Accusativo : l.*' L' acc. di
relazione, in dipendenza da un aig^tivo da un participio, osservasi nella Gemi.
17, 12 ' nudae brachia ac lacertos '; e
nella n. h, XIII 29 ' uitilem sibi arborique indutis circulum '. Ess.
consiirfli 1 Quanto alla costpuzione
del v. * narratur ' con Tace, e Titifin.,
invece di * narra ntur * col nominativo e l'infin, per significare, come scrive G. Helmrbigh, c b e s t i m ra t
e Angaba und M'itteilung, auch durch Schriftsteller, im Gegensatz zu vagem
Gorùcht »: V. la recensione del l'bro del Wormstall, uebèr aie Chamaoer, Brukterer und Angrioarier ole, nel
Jahreàbèrìcht ueber die Fortschritie der
class. Alteri humswissensehaftyXVll
(1889;, 2. Abtheilung, p. 255 (Jahresb. ueb. Tao.), « In altri 11. della n. A. ò preferita la f
rma attiva * narrkht *: V. 2, 126 ; 236.
8, 35. 32, 75 etc. 3 OviD. mei. XV 311
sg. ' admotis Aihamanas aquis actiiàhdere Jignum | narratur *. 4 Un costrutto analogo osservasi in Liv. XXV 31,9 Val. Mix. /. ei d. m. II 6, 10. Cf. Caes. b. G. V 12 1.
Tac. ann. Ili 65 , 9.
[dial. de orato ribus 32, 27].
136 si notano in Virgilio ^ ed
altri poeti delPetli augustea: ne
presenta anche la latinità argentea , i cui scrittori predilessero i costrutti poetici e di fonte
greca. ^ 2.^ L'acc. ' cetera ' è assunto
, talvolta , in funzione avverbiale:
Germ. 17, 2 ' cetera intecti totos dies iuxta
focum atque ignem agunt '. 29 , 12 ^ cetera similes Batauis '. 44, 20 ' cetera similes uno
differunt '. n. h. Vili 40 ' tradunt in
Paeonia feram quae bonasus uocetur equina iuba , cetera tauro similem '. XXII
133 ' est etiamnum aliud sesamoides ,
Anticyrae nasqens , quod ideo antiqui
Anticyricon uocant, cetera simile erigerenti herbae '. La prosa latina aveva
già accolto lo acc. ' cetera ' in
funzione avverbiale, ^ ed anche prima r
aveva accolto la poesia, che ne continuò V accezione neir età augustea. * 1 Verg. Aen, IV 558 sg. Non ó es. sicuro
quello dell' Aen, I 320 ' nuda genu ',
in cui ^ genu ' può essere accettato per ablativo. Per la stessa ragione il
Draegkr, ueber Synt u. Si, d, Tac^y §
39, p. 19, riconosce es. noi sicuro di acc. di relazione il 1. degli ann. XVI 4, 11 * flexus genu
'. 2 Vedi gli ess. in Màdvig, lai.
Sprogl.'y § 203, a, Anm., p. 154.
Cocchia, sint. lai., § 55, p. 1 17 sg. Valmaggi, comm. hist Tae. lib. 1, p. 134; lib. 11, p. 34. Cf. inoltre*
Tag. hist IV 81, 9. ann. VI 9, 13. XV
64, 15. e te. 3 Cic. orai, 25, 83
(letto secondo il cod. Viteberg., / del Friedrich). Sall. lug, 19, 7; cf. hisL IV 9 (Kritz). Liv.
I 35,6. Vell. Paterc. h. R,l\ 119, 4. Cf. Tac. Agr, 16, 10. ann, VI 15, 5; 42, 12. * Enn. ann, 1 fr. 32, in PLM. , voi. VI, p.
64, ed. Baehrens. Verg. Aen. Ili 594: IX
656: cf. Serv. eomm. in Aen. IX 653, p.
368, voi. 11, fase. 2.o Th. Hor. earm, IV 2, 60. ep, I 10, 2 e 50. Vedi Madvig, lat Sprogly § 203, a, p. 154. Cocchia,
sint lai, , § 60, b, p. 131. IL
Genitivo : ^ 1.^ Il genitivo
parti ti vo trovasi in dipendenza dal relativo neutro * quod ', posposto, che
funziona da soggetto della proposizione sg. : Germ. 15, 8 * conferre principibus uel a r m e n t o r u m uel f r u
g u m quod prò honore acceptum etiam
necessitatibus subuenit '. n. Ti. XXX
127 * feni Graeci quod III digitis capiatur '. Ess. anteriori si notano in
Cesare e Livio. ^ Vi ha, però, chi nel
1. e. della Gemi.y facendo precedere al ' quod ' una virgola, trovi un
costrutto ellittico, che nella sua interezza somigli ad un altro 1. della Germ. 18, 6 ' ipsa armo rum aliquid uiro
adfert ', 3 simile al 1. della n. h. XXVII 130 / additur piperis aliquid et
murrae '. Ma, se cosi fosse, avremmo una
costruzione ellittica isolata , priva di base , se ne togli un ravvicinamento, del resto non
improbabile, col passo degli ann. di
Tacito XV 53, 8 ' iacentem et impeditum tribuni et centuriones et ceterorum ,
ut quisque audentiae habuisset, adcurrerent trucidarentque '. ^ 2.** Per l'uso del genitivo in dipendenza da
un comparativo neutro plur., considerato come sostantivo, vi è rispondenza tra la Germ. 41, 1 'in
secretiora Ger 1 Vedi U. Zernial, sei
quaedam eap. ex genet usu Toc., Gòtt.
1864. « Caes. 6. G. Ili 16, 2. Liv. XXVIII 8, 9. Cf. Tac. hisL II 44, 20 3 U. Zernial, Germ. erkl p. 41. Cf. il comm. del Heraeus alle hisL
di Tac. II 44. 4 Vedi CoNSTANs, étude
s. L langue d. Tac, n.^ 81, p. 45. figli crede probabile che sì tratti di un
costrutto ammesso dalla lingua popolare:
non ne adduce però le ragioni.
138 maniae porrìgìtur ', ^
elsin.h. XVI 187 ' et sabuci interiora mire firma traduntur ' : cf. 6, 33. Se
ne osserva qualche es. in Cicerone ^,
a** Tra gli aggettivi che, tanto nella Germ. quanto nella n. h., hanno, talvolta, il loro complemento
in una forma nominale di caso genitivo,
si debbono annoverare i sgg. : a) '
fecundus ' : Germ. 5, 5 ' pecorum fecunda '. n. h. XXXIII 78 ^ nulla fecundior metallorum quoque
erat tellus '. '^ Ma nella n. h, è
ammessa anche la costruzione con r ablativo : XI 233 * numeroso fecunda parta
'.* b) * impatiens ' : Germ. 5, 4 '
frugiferarum arborum impatiens '. ^ n.
h.XXl 97 ' unum autem caulem rectum
habet uetustatis inpatieutem '. ^ Questa costruzione appare la prima volta nella lingua poetica
dell' età augustea; poi si estese alla lingua della prosa. ^ J Vedi Valmaggi, il geniiioo ipoiaitieo in
Tae.\ in Boll, di ^lol class., a. IV, n.» 6, pp. 130-135. 2 Cic. ad AH. IV 3, 3. Cf. Tac. hist. II 22,
3. V 16, 5: nel secondo de' due 11. ce. il cod. dà la lez. * propiora fluminis
Transrhenani tenuere ' ; il Nipperdey, il Halm, il Ritter e altri vi sostituiscono * flumìni '. 3 La costruzione col genit. notasi prima in
Hor. carm. IH 6, 17. CoLVM. de r. r, IX 4, p. 552, 5 Cf. Tac. hist.
I 11, 3. ann. VI 27, 16. XIV 13, 4 * V. ess.
anteriori in Ovid. mei. Ili 31. X 220. Cf. Tac. hist. I 51, 26. Il 92, 6. IV 50, 22. ann. XIII 57,
2. 5 L'espressione * patiens frugum ',
in antitesi a quella u^ata nella Germ.
1. e , osservasi in Tac. Agr. 12, 16. 6
V. altri ess. sopra, cap. I, A, 111, n.« 13, p. 39. 7 Vero. Aen. XI 639. Ovid. ars am. II 60. mei. VI 322. XIII 3. trist. V 2, 4. Vell. Paterc. /i. i? II 23,
1. Cvrt. hist. A. Ai. Ili 2 (5j, 17. IX
4 (15). 11. Cf. SiL. IT. Pan. Vili 4. Tao.
hist. II 40, 11; 99, 7. ann. Il 64, 13.
IV 3, 5; 72, 2. VI fó,8. XII 30, l.
139 e) * superstes ' : Germ. 6
, 24 * muHique «operdtites bellorum
infamiam laqueo flnierunt '. n. h, VII 156
' M. Perpennaet nuper L. Volusius Saturninus omnium... superstites fuere ' : v. 7, 134. Cicerone ne
aveva dato r es.* Nella Qerm. si
accoglie anche la costruzione di '
superstes ' col dativo, secondo gli ess. di scrittori precedenti : 2 14^ 3 *
infame in omnem uitam ac probrosum superstitem principi suo ex acie recessisse
'. 4.** Quanto al genitivo * moris '
col verbo * esse ' valgano i sgg. confronti: Germ. 13, 2 * arma sumere non ante cuiquam moris, quam ' e. q. s. 21,
13 ' abeunti, si quid poposcerit, concedere moris \ n. h. XIX 51 ' usque ad eum (se. Epicurum) moris non
fuerat in oppidis habitari rura ' : v.
17, 66 ; 214. La locuzione * moris esse
' col soggiuntivo retto da * ut ' o con Tinflnito, era stata adoperata da
Cicerone, Livio, Velleio Patercolo,
Valerio Massimo, Seneca, etc. ; ^ poi, per il
tramite di Tacito e di Plinio il giovane, * passò nell'uso 1 Cic. ad Q. fr. l 3, 1. Cf. Tac. Agr. 3,
13. ann. I 61, 14. Il 71, 11. Ili 4, 11. 8 Plavt. asin. 21 (I 1, 6). Ter. haut. 1030
(V 4, 7). Ovid. ara am. Ili 128. mei. XI
552. etc. Cf. Tac ann. V 8, 12. Nei sgg.
11. : Plavt. irin. 57 (I 2, 19); Cic. ep. {ad fam.) VI 2, 3; HoR. e. saee. 42, resta io dubbio se la v. '
superstes ' sia costruita col genit. o
col dat., essendo forme dell' uno e dell' altro caso ì rispettivi complementi : ' uitae tuae, rei
publicae, patriae '. 3 Cic. in Verr. I
26, 66. Liv. XXXVI 28, 4. Vell. Patbro. A.
K lì 37, 5 ; 40, 3 Val. Max. /. et d. m. II 8 , 6. Sbn. disi. X 13, 8.
4 Tac. Agr. 33, 1. 39, 2 (Ietto secondo il cod. Vatic. 342(), A del Halm). 42, 19. hist I 15, 3. ann. I 56,
17 ; 80, 2. IV 39, 3. Plin. epi%t II 19,
8. Ili 21, 3. degli scrittori
seriori, ^ invece della est ', preferita
dalla latinità classica. ^ III. Dativo : ^
1.° Il dat. di attribuzione trovasi, talvolta, sostituito al genitivo, in dipendenza da alcuni
sostantivi: Germ, 16, 11 ' solent et subterraneos
specus aperire , suf fugium hiemi ^ et receptaculum frugibus '. 44, 11 '
est apud illos et opibus honos '. n. h.
XXXVI 198 ' maximus tamen honos in candido tralucentibus {se. uitris).-^ Il dativo di attribuzione osservasi , sebbene
di rado, negli scritti anteriori al 1.''
secolo dell'impero : ^ dopo. 1 Cf. IvLiAN. ìq dig. HI 2, 1. Vlpian. in dig.
XLVIII 19, 9. 2 Vedi Georges, ausfuhrl.
Handwb. , II, e. 904. Nella n. h, si accoglie anche la locuzione classica ' mos
est*: v. 4 , 33. 11 , 184. 19, 73. 25,
77. 28, 36. 29, 4. 33 , 11; 21. 34 , 16. Si nota * in more est * in 16, 13. 3 Vedi, quanto ali* uso del dat. la
monografia di W. Knoess, de dat. fin.
qui die. usa Tac. eornm., Vpsaliae 1878; e quella di A. CzYGZKiEWiGz, de dat. usu Taeit.y BroJy
Hiemi ' ò la lez. data dai codJ. Il Reifferscheid ed il Halm congetturano * hiemis *; il Halra però
dubita: * aa hieme? * Certo è che la costruzione di * suffugium * col genitivo
osservasi in un altro 1. della Germ. 46,
18 * ferarum imbriumque suffugium * ; ed ò preferita da Qvintil. L o. IX 2, 78
* suffugia infirmitatis*; e da Tac aan. IV 66 , 11 * urguentium malopum suffugium •.
5 In Tac. Agr. 21, 9. hist. I 21, 6 * honor ' si accompagna col genitivo. Anche col genitivo sono costruiti '
rector* e * subsidia * nella n. h. 2,
12. 35, 102. 6 Caec. Stat. eom, rei. ll9(Ribbeck) * meae
morti remedium *. Cic. de or. I 60, 255 * subsidiura... senectuti * ( ma nello stesso 1. * subsid. senectulis '). in Catll. II 5,
11 * huic..bello..ducem *. Catvll. 63,
15 * mihi comites *. Vero. Aen. V 111 * pretium
uictoribus '. r uso si
estese di più. * 2.° Nella Germ. e
nella n, h. si accoglie T uso del ^
datiuus absolutus' : - Germ. 6, 14 * ìq uniuersurn a estimanti plus penes
paditein roboris \ n. h. XVI 178 '
proxirneque aestimanti hoc uideantur esse,
quod in interiore parte mundi papyrum ' : v. inoltre 15, 72. 16, 200; e cf. 36, 120. Costrutti
analoghi sì notano in Cesare, Virgilio, Livio, Ovidio. '• 3.** Degli aggettivi che, tanto nella Germ.
quanto nella » Vedi Tac. hisL 1 22,
11 ; 67 , 4 ; 88 , 5 ( ma ' minister ' col
genit. in hisL II 99, 13: cf. Verg. Aen. XI 658). II 1 , 2. Ili 6, I. IV 19, 6; 22, 17; 61, 15 ( ma • pignus *
col geoil. in hisL III 72, 4 ; 76, 4. V
8, 2. ann. I 3, 1 ; 22, 1 ; 24, 9; 56, 16. II 21, 13; 43, 27; 46, 23; 60, 18; 64, 18; 67, 12. Ili
14, 18; 40, 5 e 13. IV 60, 8; 67, 8. VI
20, 2 ; 36, 12 e 14; 37, 14. XI 8 , 4. XII 22, 10. XV 53, 5. etc. * Il Cocchia, sinL lai., § 73, IH, p. 159,
lo chiama 'd«t. iudicantis '. Vedi Draeger, ueber Syni. u. Si, d. Tao. 3, § 50,
p 24; e Valmaggi, comm hisi. Tac, lib.
II, p.' 96 II Constans, étude 8. l
lanyued Tac-y n.^ 91, p 51, nega C come lo Sghmalz, lat. Sf/ni. 426) che sia costruzione greca, e lo
crede « un datif de rinterèt atlénué »:
tuttavia, mentre egli ammette che nell'A/yr.
II, 10 « le datif n'est pas
douteux », per il 1. delUi Germ. 6, 14
dee « qu* il est trés probable »: n ^* 250, 2", p 114. 3 Caes b. e. Ili
80, 1. Verg. Aen. Vili 212. Liv.: cf. X 30, 4. Ovid. meL VI 656. VII 320. Cf. Tau Agr. 11, 10. hist II 50, 12. Ili 8, 6. IV 17, 16. V 11, 18: aggiungiamo Agr,
10, 12, conservandovi lì lez. * transgressis ', data dal cod.
Vatic. 3429 (A del Halm). B Renano,
seguito dal Halm ( e, nella ed. torinese deWAgr., 1886, p. 23, dal Decia) la
mutò in * transgressa ': il Ritter,
accogliendo la congettura del Busch, Tespunse. L'osservazione sul dat. assoluto
resta ferma, ancorché si voglia accettare l'emendazione del Doederlein, che fa
rientrare ' trans-^ gressis ' nella
proposizione seg., dopo * sed *.
142 n. /i., reggono il dativo,
ci sembrano degni di nota : aji> *
diuersus ' : Germ, 46, 11 ' quae omnia diuersa
Sarmatis sunt, in plaustro equoque uiuentibus '. n. h. XII 97 * pretia nulli diuersiora '. ^
Cicerone non evitò il costrutto col
dat., " ma si avvalse anche di quello
COR' r ablativo. ^ h).'
auspicatissimus ' : Genn. 11, 5 ' agendis rebus
hoc auspicatissimum initium credunt '. * n. h. XVI 75 * spina nuptiarum faci bus auspicatissima '.
^ 4.° Quanto ai verbi composti che sono
usati col dat., ^ notiamo i sgg. : a) ' accedere ' : Gey^m. 4, 1 ' ipse eorum
opinioni bus ^ accedo '. n. h. IX 17 '
nec me protinas huic opinioni eorum
accedere haud dissimulo ' : v. inoltre 6, 213. 7, 146. 15, 14. 32, 143. 34, 8. 37, 101. etc. Ma
ess., tuttoché non frequenti, ne avevano dato Ennio, Cicerone, Nepote, Orazio, Livio, Velleio Patercolo,
Columella, etc. ^ 1 'Dtiiemus* è
costruito col genit. in Tao. hist. IV 84,2. ann. XIV 19, 5. « Cic. de leg, agr. II
32, 87. Cf. Vbll. Paterg. h. R. II 75, 2.
3 Clc. Brut 90, 307. •* Vedi
Draeger, ueber Syntu. SL d. Tao, 3 , § 206, B, b, p. 83. CoNSTANS, étude s l langue d, Tae. , n.** 95,
3, p. 54. 5 Vedi 60pra, cap. I, A, III, 4.", pag. 35. 6 Vedi Av Lehmann, de tteròf'8 compos. apud
Sali, Caes., Tae. cum dat siruet,
Breslau 1863. 7 II Meìser e il Halm
sostituiscono * opinioni * ad *opinionibus'
che ò lez. data dai codd.: ò una sostituzione che non fa venir meno 'a nostra osservazione: v. la nota 3,
pag. 14. 8 Enn. ann. XIV fr 260, in
PLM., voi. VI, p 95, ed. Baehrens (cf.
Magrob $at VI 5, 10) Cic. ad Q. fr. I I, 1. ad Ait V 20, 3. Nbp I (Milt.) 4, 5. HoR. sai II 5, 71 sg.
Liv. XXVI 50, 12. VEJ.L Patebc. h i?. I
8, 5 C0J.VM de r r III 21, p. 398, 8. Cf.
-- 143 b) ' eximere ' : Oey*m.
29, 6 ' exerapti oneribus et collationibus '. n, h. XXX 51 ' canìnus (se. lien)
si uiuenti exinaatur et in cibo sumatiir
', e. q. s. La costruzione col dat. era
stata prima accolta da Plauto, Virgilio, Livio, Seneca, Curzio, etc. ' e) ' interuenire ': Germ. 40 , 7 '
interuenire rebus hominum '. n. h. XXI
68 * in Italia uiolis succedi t rosa,
buie interuenit liliura ' : v. 18, 342. 33, 127. È costruzione classica,
confermata dagli ess. di Cicerone. ^
5.*" Il dat. appare usato per complemento di un verbo passivo air infinito o in un tempo finito
semplice : ^ Germ. 16, 1 ' nuUas
Germanorum populis urbes habitari satis notum est'. 39, 13 * centum pagi iis
habitantur '. ^ n. h. II 247 ' quem (se.
Eratosthenen) cunctis QviNTiL. L 0. IX 4, 2. Tac. hist. I 34, 2 ; 57, 7 ; 59, 8 ;
70, 4. II 33, 1 ; 58, I. etc. 1 Plavt. mere, 127 (l 2, 17). Vero. Aen. IX 447. Liv. Vili 35,
5. Sen. de ben. VI 9, 1. Cvrt. hist A. M. VII l (l), 6. È dubbio se si
tratti di dativo o di ablativo nei ?gg. 11. : Hor. carm. II 2, 18. ep. I 5, 18. Liv. V 15, 3. VI 41,
2. XXVIII 39, 18. XLV 31. 12. CvRT. hist
A. M. VI 3 (7», 3; 11 (43., 24. Quanto alla
costiuzione col dat., cf. Qvintil. i. o. X 1, 74. Tao. ann. I 48 , 7; 64, 9. IV 35, 4. XII 56, 17. XIV 48, 9;
64. 2 (ma con Tablai. retto da * e ' in
Agr. 3, 14}: vedi ilcomm. del Nipperdey ad ann.
XiV 64. Per la condizione postclassica del v. 'eximere' col dat. nella prosa latina, v. Krebs-Schmalz, antib.
I, p. 497. 2 Cic. de or. II 3, 14. ad
Q. fr. l 2, 1,2. de fin. I 19, 63. Cf. Liv.
I 6, 4 ; 48, 1. XXIII 18, 6. Ovid. met XI 708. Tac. hist IV 85, li. 3 II dat. usato col part. perf. e coi tempi
composti di un verbo passivo è un costrutto più frequente, anche nei tempi
della latinità aurea. Vedi Cocchia, sint
lat , § 73, V, p 160. ^ Nei codd. si
legge ' pagis habitantur*: noi ci atteniamo all' enoendazione del Brolier, *
pagi iis habitaniur ' , accolta dal
Ma^sroenn, dal Riiler,d8l Halm, dal Kritz, dal Finck, etc La. 144
probari uideo * : v. 3, 9; 54. 16, 249. 36, 12. etc. Cicerone se n' era
avvalso, sebbene di rado, massime con r
intendimento di significare un'azione vantaggiosa all' autore di essa. ^ IV.
Ablativo: 1.** All'accusativo
predicativo trovasi sostituito l'ablativo ' loco ' col genitivo : Ge?^m. 8, 9 *
Velaedam diu apud plerosque numinis loco
habitam '. n. h. Vili 173 ' est in
annalibus nostris peperisse saepe (se. mulas),
uerum prodigii loco habitum '. La sostituzione è riferita anche al
nominativo : n. h. XXXIII 46 ' hic nummus {se. uictoriatus) ex lUyrico aduectus
mercis loco habebatur': cf. 11, 191.
Cicerone, Cesare e Bruto avevano dato i primi ess. di tale uso sintattico.
^' 2.° L'ablativo di luogo appare privo
della prep. ' in ' nei sgg. 11. della
Germ.: 10, 13 Msdem nemoribus.ac lucis'.
37, 3 * utraque ripa'. 40, 18 ^ secreto làcu abluitur '. etc. Lo stesso
osservasi nella n. h. II 168 ' siue ea {se. palus Maeotica) illius oceani sinus
est...., siue congettura deir
Ernest!, ^ pagis habitaot ' , fu seguita dal Dilthey, dallo Zernial, da Io. Mueller, etc. Il
Kiessiing riproduce la lez. dei codd ,*
quamquam nibil', egli soggiunge, op. e, p. 143,
' adhuc ex scriptoribus Latinis afferri potuit, quod hunc huius uerbì usum confirmaret*. 1 Cic. pari. or. 5, 15 m Verr. V 45, 118. ad
AH. 1 19, 4. Tuse. V 24, 68. de off. Ili
9, 38. Cai. m. 11, 38. Cf. Tag. Agr. 10, 7.
hi9i. I 11, 9; 27, 9; 35, 8. II 80, 21 ann I 11, 11; 17, 23. II 57, 18. XII 1, 9; 9, 8 etc. « Cic. de inu. rhei. II 49, 144. de dom. s 14, 36. ep. (ad fam.) VII 3, 6. Caes. ò. G. vi 13, 1. Brvt. in Cic.
ep. ad Brut I 17, 5. Cf Tac. hisi. II 91, 2. IV 26, 7. ann. XIII 58, 4. Vedi Cocchia, ami.
laL, § 12, V, e, p. 18. 145 angusto discreti situ restagnatio \ Vili 99
' hiberno situ membrana corporis obducta ' : y. 6, 74. 10, 62. 19, 48. 25 , 63. etc. * Nella Germ. si accoglie
anche 1' uso della prep. ' in ', quando
con 1' ablat. di luogo si accompagni il pron. * idem ', p. e. 12, 10 * in isdem
conciliis ', che sintatticamente risponde al 1. e. sopra, 10, 13 ' isdem nemoribus '. Similmente nella n.
h, 2, 205; 219 osservasi 1' espressione
' in eodena loco '. ^ Così nella Germ.
36, 1 si legge ' in latere Chaucorum ' :
costrutto accolto nella n. h. 3, 22. 9, 50. 35, 22. etc. , ma rifiutato in 2, 73; 168. 4, 40; 110. 5,
72; 74. 6, 191. 24, 160. etc. ^ 3.** Gli aggettivi ' ferax ' e ' ingens '
sono usati nella Germ. con un
complemento di relazione in ablativo :
a) Germ. 5, 4 ' satis ferax ' : al contrario n. h. XV 100 ' qui {se. acini) minime feraces musti '.
Il costrutto 1 Potremmo aggiungere n.
h. XXXVII 19 * exposìta occuparent iheatrum peculiare trans Tiberim h o r t ì s
' secoado la lez. data dai codd. e dalla
* uulgata ', accolla neir ed. Harduin, II,
p. 767, 9, ma rifiutata dal cod. Banberg. e dalle edd. Jan (vo^ V, p. 145, 38) e Mayhoff (voi. V, p. 388,
10}, che ammettono ' in hortis •. Cf.
Tao. hisL I 64, 17. II 1, 13; 43, I ; 50, 9 ; 62, 2; 66, 4. III 22, 15; 38, 3; 61, 5. V 5, 21. ann. I
61, 12; 65, 20. Ili 38, 10. IV 43, 9.
XlV 61, 3. etc. 2 Negli scritti di Tac.
si preferisce, in tal caso, respingere la
prep. * in •; valgano d'es. hisL I 55, 10. II 45, 12. Ili 13, 16; 72, 17. IV 53, 4. ann. I 31, 12. II 24, 11. XIV
44, 12. etc. Vedi la monografia di F.
Schneider, quaesL de obi. usu Tao., I, Lìgniciae 1882. 3 Tac. accolse tale costrutto in ann. III
74, 10; lo rifiutò in ann. XV 38, 17.
Per V uso classico dell* ablat. di luogo senza
la prep. * in ', v. Cocchia, sinL lai., § 78, I, p. 178 sgg. Consoli, La Germania comparata. 10 146
col complemento in ablat. è dato da Virgilio; ^ m&. il costrutto col genitivo è presentato da Orazio
, Livio , Ovidio , e seguito da Valerio
Fiacco , Tacito , etc. ^ : d' onde
quella incertezza d' uso, che si osserva in Plinio il giovane, ^ salvo che si
voglia attribuire quella che può parere
incertezza, a difTerenza di significazione, secondo che propria o in traslato,
della v. ' ferax '. b) Genn. 37, 2 * parua nunc ciuitas, sed gloria
ingeas ' : cf. n. h. 23, 75. Il costrutto di
' ingens ' con r ablat. era stato
adoperato da Virgilio : * Sallustio
preferì, invece, il costrutto col genitivo. ^ D
Le osservazioni che seguono si restringono a determinare le relazioni
sintattiche concernenti 1' uso dei modi:
quello che e' è da dire in rapporto all' uso dei tempi, sarà trattato in dipendenza dall' uso
dei modi del verbo. 1 Vero, georg. II 222 * illa ferax oleosi
' (Ribb.) , o maglio ' oleo est \
secondo la lez. preseatata dai codd. Palat. e Rom., confermata da Nonio Marcello (p. 500, 23 ed.
Mere; p. 341, 6 ed. Gerlach-Roth) e da
Arusiano (VII 473 K). « HoR. e. aaee. 19. epod. 5, 22. Liv. IX 16, 19. Ovid. mei.
VII 470: cf. am. II 16, 7. Val. Flagg.
Argon. VI 102. Tac. ann. IV 72, 9.
etc. 3 Plin. episi. IV 15, 8 * ferax...
bonis artibus *. II 17, 15 * arborum .. ferax *. Vedi Draegbr, hist Synt, §
206, 3, p. 441 sg. ueber Synt u. Si. d. Tac. 3, § 71, a, p. 33. 4 Vero. Aen. XI 124; 041. Cf. Stat. sii. I
4, 71 sg. Tac. hisL I 53, 2; 61, 1. II
81, 3. ann. XI 10, 12. XV 53, 7. 5
Sall. hisi. III 10, ed. Kritz. Cf. Tac. hist IV 66, 17. ann. I 6% 4.
147 I. Indicatwo:
1.** L' indicativo retto da * dum ' conservasi anche nelle proposizioni subordinate che si trovino
in dipendènza da altre subordinate: Oerm. 12, 5 ' diuersitas supplicii illuc respicit, tamquam scolerà
estendi oporteat , dum puniuntur, flagitia abscondi '. Lo stesso si osserva nella n. h. XXVII 42 *
uolneribus sanandis tanta praestantia est, ut carnes quoque, dum cocuntur, conglutinet addita '. ^ Cicerone ne
aveva dato qualche raro es., seguito poi da Livio e da altri scrittori. ^ 2."* Risponde all' uso sintattico più
corretto * prout ' con r indicativo :
Germ. 3, 6 ^ prout sonuit [acies '. n. h. XII 121 ' prout quaeque res fuìt \ XXXI 58 *
prout res exiget ': v. 10, 180. ^ Ma in Plinio si amplia l'uso di
' prout ', talché questo occorre anche col soggiuntivo: V. n. h. 2, 152. 5, 51.
28, 17. 29, 30. 33, 164. ^ 1 Si
accompagna anche col soggiuntivo nella n. h. XXVIII 1 70 * carnesque uesci eas et, dum coquantur,
oculos uaporari iis praecipiunt '. « Cic. p. Cluent 32, 89. de fin. V 19 , 50. Liv. XXIV 19, 3. CvRT. hi8i. A, M. VII 1 (3), 18; 8 (34), 14. etc. Cf. Tao. héat. I 33, 6. Ili 38, 22; 70, 12. V 17, 6. ann. II
81 , 9. XIII 15 , 24. XIV 58, 15. XV 45,
16; 59, 13. Idial de oraioribus 32, 34J. Vedi Draeger, ueher Synt a. SL d. Tao.
», § 168, p. 68. Cocchia, 8int lai, §
173, IH, a, p. 417. Frigell, epileg. ad T, Liuii Cosi Cic. in Verr. II 34, 83.
ad AH. XI 6, 7. Caes. 6. e. Ili 61, 3.
Liv. XXXVIII 40, 14; 50, 5. Cf. Qvintil. i. o. I 7, 2. VII 2, 57. Tac. hisL I 51, 17. Il 10, 9. ann. XII
58, 9. idial de oraiorihm 31, 20]. 4
Vedi SBN. ep. XII 3 (85), 11. Tac. hist I 48, 20; 59, 5 ; 62, 15. ann. XII 6, 15. XIII 8, 12. Vedi inoltre
Valmaggi , eomm. hist Tae. I, p.
22. 148 3.** La cong. causale ^ quaQdo ' è ordinata
con l'indicativo: Germ. 33, 8 ' duretque gentibus, si non amor nostri, at certe odium sui , quando... nihii
iam praestare fortuna maius potest quam hostium discordiam '. n. h. XVIII 126 ^quando alius usus
praestantior ab iis non est': v. 17, 13;
16. 21, 1. 34, 57. etc. Numerosi sono
gli ess, di tale costrutto presso gli scrittori anteriori. ^ Nella n. h,
trovasi anche la cong. ' quando '
ordinata col soggiuntivo : XVII 27 ' neque fluminìbus adgesta semper laudabilis, quando senescant ^
sata quaedam aqua ' : v. 10, 58. dub.
semi. XIII, p. 44, 14 sg., ed. Beck. Lo
stesso costrutto col soggiuntivo si osserva in Livio e, poi, in Tacito. ^ 4.** L'espressione ' ut qui ' con l'
indicativo si nota nella Qerm. 22, 2 *
lauantur saepius calida, ut apud quos
plurimum hiems occupat': cf. n. h, 30, 10. Nella n. h. si accoglie ' ut qui ' col soggiuntivo
: XXXI 83 ^ quercus optima, ut quae per
se ci nere sincero uim salis reddat ' : v. 18, 134. 36, 120. ^ Certo è che nel
mi 1 Plavt. cist 116 (I 1, 118). Ter.
adelph. 287 (II 4, 23;. Cic top. 5, 26. de fin. V 23, 67. Tuse, IV 15,
34. Sall. lug. 102, 9. Vero. Aen. X 366.
Hor. sai. II 5, 9; 7, 5. Liv. XXXIX 51, 9.
Cf. SiL. IT. Pun. XIII 768. Tag.
hi$i. I 87, 1 ; 90, 10. ann. I 44, 12.
Vedi Cocchia, Bini, lai., § 169, VI, avv. 2, 6, p. 407. * La lez. * senescant ' nel 1. e. della n.
/i. ò presentata dai codd. e confermata
dal Mayhoff, voi. Ili, p. 72 , 14 : nella ed.
Sillig. (v. Ili, Hamb. e Gotha, 1853) si legge 'senescunt'. 3 Liv. Ili 52, 10. Tac. hisi li 34, 4. IH 8,
13. ann. IV 64, 10. XII 6, 2. 4 Agli ess. dedotti dalla n. A. si può
aggiungere 31, 31, ove si voglia
accogliere la lez. * ut quae *, che ò presentata dai codd. Paris. 6795 e Riccard.», e accettata
dalla ' uulg. * e dalle edd. Harduin.
II, p. 551, 6; Mayhoff, voi. V, p. 12, 9: il Jan, voi IV, p. 266, 2 la rifiuta. 149 -^
giior tempo della lingua latina si diede la preferenza al soggiuntivo; ^ e qualche es. contrario che
osservavasi in Cicerone, è stato convenientemente emendato dagli editori moderni. ^ Negli scritti di
Tacito appare costantemente la
costruzione col soggiuntivo. ^ II. Soggiuntivo : 1.** Osservasi, talvolta, il presente del
soggiuntivo retto da ' donec ', per
indicare una circostanza reale o
un'azione che si suole ripetere per abito: Germ. a) 1, 10 ' donec in Ponticum mare sex meatibus
erumpat '. 35, 5 * donec in Chattos
usque sinuetur '. h) 20, 5 ' donec aetas
separet ingenuos, uirtus adgnoscat '. 31, 10 * donec se caede hostis absoluat
': v. inoltre 31, 16. 40, 16. Ai 11. ce.
della Germ. si possono confrontare i sgg.
> Cic. Phil XI 12, 30. Caes. 6. G. IV 23, 5. Livio accoglie tanto la
costruzione con 1* indicativo : V 25, 9 ; quanto quella col soggiuntivo. Vedi Riemann, op. e , § 115, n.
3, p. 291. Cocchia sint lai, § 160, III,
ò, p. 372 sg. s Cosi, p. es, in Cic. ad.
AH. IV 16, 6 leggevasi prima • ut qui
iam intellegebamus * (v. ed. Nobbe, p. 847) ; ora si legge * quod iam i. * (v. ed. Alb. Sad. Wesenberg,
par. Ili, voi. II, p. 148, 10, in cui il
1. e. ò trasportato in IV 17 (18), 3). Parimente ad Ali. Il 24, 4, nel passo ' utpote qui
nihil contemnere soleinus, (V. ed. Nobbe, p. 834), si ò sostituito 'soleamus'
nella cit. ed. Wesenberg, voi. cit., p.
85, 20. 3 Tac. hist III 25, 4. ann. II
10, 12. IV 62, 6. etc. : perciò il
Prammer sostituisce nel testo della Germ. 22, 3 ad ^ occupat ' la forma del soggiuntivo ^ occupet *. Il Halm
, al contrario, estende r accezione dell* indicativo dal 1. e. anche al 1.
della Germ, 17, 6, supplendo il v. «eat*
nella frase ellittica * ut quibus nullus per commercia cultus ' : v. Germ ed.
Halm, Lps 1883, p. 231, nota. -150 della n. h.: IX 133 * donec spei
satis fiat, uritur liquor \ XVIII 103 '
postea operiuntur in uasis, doaec acescant ':
e similmente 30, 86. 34, 122. etc. Se ne erano dati degli ess. prima da
Orazio, Livio, Curzio ed altri. ^ Ma
nella Germ. 37, 24. 45, 19 la v. ' donec ' si accompagna, secondo l'uso
sintattico comune, con V indicativo.
2.** La deviazione sintattica di ' quamquam ' col soggiuntivo appare
prevalènte nella Germ.j poiché per otto
volte che tale voce è adoperata, in due (5, 13. 17, 14) si nota al principio di una proposizione
principale, in funzione , come osserva
il Draeger, ^ di avverbio ; ^ in un 1.
(4, 5) non è seguita da un verbo di modo finito; in quattro 11. (28, 20. 29, 15. 35, 3. 38, 4)
regge il presente il perfetto del soggiuntivo : in un 1. (46, 3) si accompagna col presente indicativo. Dello
stesso modo osservasi nella n. h. la v.
' quamquam ' col verbo all' indicativo (16, 161 ; 204 ; 206. etc.) o al
soggiuntivo (18, 125 : cf. dub. serm. II
i, p. 20, 13 , ed. Beck ) : si osserva
anche ' quamquam ' coi participi: v. 15, 52. 18, 265. 19, 50. 25, 87. 26, 21. 30, 13. etc. ; e
con gli aggettivi: V. 15, 52. 29, 1. 30, 13. etc; talvolta si riferisce ad un
verbo sottinteso : v. 3, 55. 8, 120. 16, 151.
34, 62: cf. dub. serm. II e^ p. 14, 27, ed. Beck. Or, la deviazione sintattica di ' quamquam '
col soggiuntivo, la quale è notata di preferenza nell'età impe 1 HoR. ep, I 18, 63 sg. II 3, 155. Liv. XXI 10, 3. XL 8, 18. CvRT. hisL A M IV 7 (31), 22. Cf Qvintil. L a XI 3,53. Tac.
hist II 1, 8. Ili 47, 17. V 6, 21. anr^, II 6, 16. etc. Vedi RiBìfAKK, op. e, p. 297, n.
1. 2 Drabgbr, ueber Synt u. Si. d.
Tacs, § 201, p. 81. 3 C£ Tac. ann. XII
65, 12. Idial de oratoribua 2B, 9^ 33^ Ili.
riale , appunto perchè allora , per etócàcia dèi ^rlafé del volgo, sì cominciò a far confusione tra
le funzióni del modo indicativo e quelle
del soggiuntivOj mostrasi anche nell'
età aurea della prosa latina , ma solo nel
caso che il pensiero che s' intende esprimere richieda, indipendentemente dalla presenza di '
quamquam ', raso del soggiuntivo nella proposizione; come, p. es., per indicare possibilità o condizione : *
talvolta, e ciò bófte avverte il
Rieraann, 2 pare che la deviazione si debba
attribuire ad errore di copisti.
3.** Il soggiuntivo nelle proposizioni relative , tanto consecutive quanto finali, è d'uso ordinario
nel latino: Gef^m. 29, 4 ' in eas sedes
transgressus, in quibus pars Romani
imperii flerent '. 32, 2 * quique terminus esse
sufflciat '. 35, 8 ^ quique magnitudi nem suam malit iustitia tueri \ n,
h. XXXIII 84 ' remedium abluere idlatum
et spargere eos, quibus mederi uelis ': v. 34, 122; 134. etc. ^
4. Per il tramite della frase pliniana, n. h. XXXVI 113 ' cuius nescio an aedilitas maxime
prostrauerit mores \ modellata sulla
frase di Cicerone, de fin. V
3, 7 ^ quem... haud scio an recte
dixerim principénl ', dò 1 Varr. in
Gbll. n. A. XIV 8, 2. Cic. de or. II 1, 1. Ili 7,
27; 26, 101. p. Piane. 22, 53. de fin.
Ili 21, 70 (v. comm. Madvig). Tuse. I
45, 109. V 30, 85 (v. comm. Kuehner). de
legibus IH 8, 18. Nep. XXV (Att) 13, 6. Sall lug. 3, 2. 83, 1. Cf. Verg. Aen.
VI 394. Liv. XXXVI 34, 6. Tao. Agr. 3, 1. 13, 5. hist. I 9, U. II 20, 5. Idial de oraioribus 34, 14]. « RlEMANN, op. e, § 126, p. 300 sg. V.
iaoltre Cocchia, slni. lai, § 181, III,
p. 444. Georges, ausfuhrl. Handwb., II, e. 1906. 8 Per la conferma con ess. di Cic. v.
Cocchia, séni, lai, § 160, I e II, p.
366 sgg. Cf. Tag. Agr. 34, 12. hf'ai. I 15, 18. IV 8Ì^ 3. ann. I U, 9; XV 47, 6. etc. 152
vette, probabilmeQte, penetrare nella elocuzione della Germ. e di altri scritti dell' età argentea ^
V uso del perfetto soggiuntivo
potenziale nelle proposizioni subordinate: Germ. 2, 5 ' immensus ultra utque
sic d i x er i m aduersus Oceanus raris ab orbe nostro nani bus adi tur '.
Infinito : 1.° Dell' infinito
descrittivo si hanno ess. nella n. h. :
V. 14, 6. 28, 146. etc. ^ Nella Germ. V infinito descrittivo giunge a
penetrare nelle proposizioni relative improprie. 7, 11 ' et in proximo pignora,
unde feminarum ululatus a u d i r i ,
unde uagitus infantium '. ^ Sallustio aveva ammesso l' infinito descrittivo
nelle proposizioni comincianti col pronome relativo; * e l' es. di lui fu in più luoghi continuato da Tacito. ^ 1 Vedi QviNTiL. i. o. V 13, 2. Tao. Agr.
3, 13. ann, XIV 53, 13. Idial. de
oraioribus 34, 8. 40, 19J. Plin. episL II 5, 6. pan 42, 3.
2 Si notino gli ess. analoghi di Vbrg. georg. I 200 (cf. Aen, II 169). Aen. IV 422. VII 15. 3 Cf. Tag hist. IV 80, 13. ann. VI 19, 12. Alcuni annotatori e editori della Germ. non hanno accolto la
forma ' audiri ' nel 1. e, perché, come
scrive il Kritz, op. e, p. 47, * infinitiuus historicus ut iam per se h. 1.
ferri nequit, ita multo minus ex
relatiua particula aptus esse potest ' ; ed hanno mutato * audiri * in * auditur ' ( Kritz ), '
audiunt ' (Madvig), * audias ' (Woelfflin),
* audiant ' (Hirschfelder), * est audire * (Schuetz e Maehly): il Heraeus ha aggiunto * possit '
dopo * infantium *; il Ritter ha espunto
* audiri '. 4 Sall. lug. 70, 5 *
litteras mittit, in quis mollitiam socor diamque uiri accusare, testari deos '
e. q. s. 5 Tac. hist I 52, 16; 81, 4.
Ili 63, 13. IV 84, 3. Vedi P.
153 2.** Tra i verbi che nella Germ.
si accompagnano con r infinito, invece
di reggere, secondo l'uso più comune per
alcuni di essi, il soggiuntivo con * ut ' o * ne ', notiamo i sgg. : '
coarguere, consentire, obsistere, persuadere , quaerere, suflìcere '.
Ommettiamo di trattare dei vv. '
coarguere, ' obsistere, *• sufflcere ', ^ perchè non ci è dato trovarne adatto riscontro né nella n.
h. né negli scritti di Tacito : è
probabile, però, V analogia di costrutto tra ' obsistere ' con l' infinito e
^prohibere ', che Plinio usò pure con V
infinito. * Crbusny, de U8U inf. hiat
ap. Tao. ; in Méaeel philol. liòellus,
Bresiau 1863. * Il V.
'coarguere' costruito con TinfiiL appare, oltre che nella Germ, 43, 4, anche in Qvintil. L o. IV
2, 4 e in un 1. del 6. Alex, 68, 1, che
sia letto, però^ come è presentato dai
codd., cioè col v. ' coarguisset * dopo T infinito * recipere *, e
non come leggesi ora neir ed. B.
Kuebler. Lps. 1896, p. 43, 26, col V. *
coarguisset * mutato di posto. * Il V.
* obsistere * con l' infìn. si nota nella Germ. 34, 11 * obstitit Oceanus in se
simul atque in Herculem ìnquiri '. Presso
gli altri scrittori si accompagna col soggiuntivo retto da ' ne ' o * quo minus ' ; p. es. Plavt. miì. gì 333 (
II 3, 62 ). Cic. in Verr. V 2, 5. ad AH,
VII 2, 3. de nai, d, II 13, 35. Nbp. I (MilL)
3, 5. etc. •* * Suflìcere * con
V infin. è costrutto poetico , dato da Vero.
Aen. V 21 sg. , e ripetuto nella Germ, 32, 2 * quique terminus esse suflìciat *. Plinio Secondo preferi
accompagnarlo col gerundio dativo: v. n. A. 13, 79. 18, 249. 36» 57; o col
gerundio accusativo retto da 'ad *: v.
n. h, 24, 147. Plinio il giovane lo
associò con * ut* o 'ne* e il soggiuntivo: v. epist IX 21, 3; 33, 11.
4 Plin. n. h, XXII 90 * Cleemporus nigro prohibet uesci ut morbos facìente '. Cf. Tag. hist, I 62, 13.
ann,\ 69, 3. Vedi Madvio, lai, SprogU § 344 e § 350 Anm. 3, pp. 239, 244.
Cocchia, 9ini, lai, , § 168, I, avv. 6,
p. 391. -184 a) La oastruzione del v.
^ consentire ' con V infinito sì nota
nella Oerm. 34, 9 * in claritatem eius referre
consensimus \ Nella n. h. si ha tanto la costruzione con r infinito : XVII 80 ^ Graeci auctores
consentiunt non altìores quìno semipede
esse debere': v. 18, 312; quanto la
costruzione con * ut ' e il soggiuntivo : XIV
64 * Tiberius Caesar dicebat consensisse medicos ut nobilitatem
Surrentino (se. nino) darent \ La costruzione
con r infinito non fu estranea a Cicerone e Quintiliano ; ^ ma nemmeno
fu trascurata quella con * ut ' e il
soggiuntivo. 2 h) Il V. '
persuadere ' è usato con V infinito nella
Germ. 14, 16 * nec arare terram aut exspectare annum tam facile persuaseris '. La n. h. presenta *
persuadere ' tanto con l' infinito : XXIII 40 ^ at nos e diuerso fumi amaritudine uetustatem indui persuasum
habemus ' ; quanto con * ut ' e il soggiuntivo : XXXVII 88 * persuasimus deinde Indis, ut ipsì quoque
iis gauderent '. ' e) La costruzione
del v. * quaerere ' con l' infinito, nel
senso di « ad oprarsi , cercare , tendere », appare gradita ai poeti: * osservasi nella Oerm. 2,
3 * classi i Cia de leg. agr. I 5, 15.
Phil. II 7, 17. IV 3, 7. Qvintil. L e.
Ili 7, 28. IX 1, 17. etc. Cf. Tao. ann. VI 28, 7. « Vedi Liv. XXX 24, II. ' Per la dìffereuza neiriuK) classico tra '
persuadere ' eoi ^ggìuotivo cetto da * ut ' o senza, vedi Cocchia, sint tei, g
163, X, avv. 1, a ed e, p. 380. * LvcR. de r. n. I 103, Vbrg. Aen, IV 6Sl. Hor. eai^m. ì 16, 26. OviD. am. I 8, 51. episi, (her.) 12, 176. irèst V 4, 7. Phabdr. fab^. m proL 25. IV 9, 2. ete. ^ 166 bus aduebebantur qui mutare secles
qui^rebant * ^ * e nella n. h. Y 54 ^
Inter occursantis scopulos noB floere
inmenso fragore quaerit sed ruere '. Vili 214 * potia» simum e monte
aliquo in alium transilire quaerens*.
Non è certo cbe un costrutto consimile sia stato fpi^ ma adoperato da Cicerone. Participio: 1." ^ Velut ' è usato con un
participio, iaveoedi ìmm proposizione
retta da * uelut si ' : Oerm, 7, 7 * uelut
deo imperante', n. h. X 47 ' uelut ideo tela iigiiAta cruribus suis intellegentes '. In Livio tal^
uso notasi più di frequente. ^ Z."" Participio perfetto aoristico
: Germ. 40, 11 * is adesse penetrali
deam intellegit uectamque bubus feminis
multa cum ueneratione prosequitur '. n. h.
XXXVII 54 * nunc gemmarurn confessa gea^ra dicemus ab laudatissimis
orsi': v. inoltre Zy 44, 5, 54. 1 U.
Zernial, commentando il 1. e. della Germ. p. 19, %vv^.rte: « quaerebant e. inf.
bei Tao. nur hier >. t In un 1. di
Cic. de inu. rhet II 26, 77 s? legge : ^ quaerat tamen aliquam defensionem, et facti
inutilitatem aut turpitudinem cum indignatione ppoferre '. Ma i codd.
Herbipolit. {H) il Paris. 7774 A (P) e
il Sangall. (5) ommettoùo T infln. * proferre', che il Friedrich (Lps. 1893,
par. I, voi. J,p. 201, 16-17) chiude tra parentesi quadre. Ammessa, per tanto,
V Interpolazione del V. ' proferre*, si
avverte nell'an^eò. Krbbs-Sghmalz, II, p.
395, che il costrutto di cui ò discorso « ist nicht nachzuahmen » ; e il
Georges, ausjuhrl Handtob. , lì, e. 1896 , citando in proposito la hisi Synt III 301 der
Draeger, nota che in questa è da cancellarsi Tes. di Cic. de ina. rhet , 1.
e. 3 Liv. I 14, 8; 29, 4; 31, 3; 53, 5. Il 12, 13.
XXV 39, 4. etc. Cf. Tao. hi8t. IV 70, 5;
71, 7. 156 11, 22; 187; 217. 16, 163. 30, 1. 34, 63.
36, 54. etc. L'uso del participio perfetto aoristico si nota prima in Cicerone, Cesare ed altri. ^ 3.** Participio futuro attivo nelle funzioni
di una proposizione subordinata : Germ. 3,1* Herculem memorant, primumque
omnium uirorum fortium i t u r i in
proelia canunt '. n. h. XXXV 92 ' Apelles inchoauerat et aliam Venerem Coi, superaturus etiara
illam suam priorem ' : v. inoltre 7,
143. 16, 10. 17, 9; 173. 25, 22. 26,
117. 29, 19; 29. 34, 36. 36, 119. 37, 20. etc.
L' uso sintattico di cui si è fatta menzione, fu evitato nella latinità aurea, ^ e, come è noto,
cominciò a prevalere da Livio in poi. ^
1 CiG. p. Mur. 30, 63. Gaes. ò. G. II 7, 1. V 7, 3. VII 32, 1. etc. Quanto ai confronti con 11. di Tac, v.
Draeger , ueber, Synt u. St d. Tac. 3 ,
§ 209 , p. 84. Vedi anche Madvig , lai.
Sprogl, § 382, 6, p. 263. Cocchia, aint lai. , § 128, 6, IV, avv.
1.% p. 282. Ramorino, i eomm, de b. G.
ili. pp. 68, 156. 2 Vedi Madvig, lai.
Sprogl, § 377, Anm. 5, p. 260 sg. GandiNO, 8ini. laty I, es. 4, n. 3, p. 6
sg. 3 Cf. Tac Agr. 31, 2. hist. I 27,
17. II 53, 7. ann. 128, 1; 31, 4; 36, 5;
45, 8; 46, 7. II 17, 4. etc. Quanto ai numerosi ess. che presenta Tito Livio, v. Guethling, de T.
Liuii orai, diì^puiatio^ LiegQitz 1872,
cap. II, p.5 sgg. Kuehnast, die Hauptpunkte d.
lioianischen Synt, Beri. 1872, p. 267 sgg. Vedi anche la monografìa di
F. Helm, quaesL synt. de pariie. usa Tac. Veli.
Sali , Lps. 1879 ; e la monografia di S, Lichotinsky , suir uso del participio in Tac, Kiew 1891. CAPITOLO QUARTO Relazioni sintattiche tra la Qermania e le opere di Tacito. Le più notevoli relazioni sintattiche tra la
Germ, e gli scritti di Tacito sono state
rese evidenti, mediante appositi
confronti segnati nelle note, nel cap. precedente, in cui si sono trattate le
relazioni sintattiche tra la Germ. e la
n. h, di Plinio : nel presente capitolo ci restringiamo, per evitare inutili
ripetizioni , a notare quelle poche
relazioni sintattiche tra la Germ. e le
opere di Tacito, per le quali non siamo riusciti a trovare nella n. h. dei termini sicuri di
confronto. L Quanto agli usi particolari di alcune parti
del discorso, notiamo : 1.** iPpron. Mpse ', in funzione appositiva
al soggetto, trovasi unito con un part. perf. passivo costrutto assolutamente, par supplire alla mancanza del
part. perf. attivo : Germ, 37 , 15 '
quid enira aliud nobis quam caedem
Crassi , amisso et ipse Pacoro, infra
Ventidium deiectus Oriens obiecerit? '. Agr. 25, 21*diuiso et ipse in tris partes e x e r e i
t u incessit': cf ann. XIV 26, 2.
Analoghi costrutti presenta Livio nelle frasi : ' causa ipse prò se dieta, quindecim milibus aeris damnatur '. ' dimissis et ipse * adticis nauibus .... nauigare Aegyptum
pergit '. ' È 1 Liv.
IV 44, 10. XLV JO, 2: cf. XXX VIU 47, 7. Vedi Naegels3ACH, lai. Siy § 97, 2, 6,
p. 262 sg. possibile che tale uso del
pron. * ipse ' sia stato introdotto dopo l'uso analogo fatto da Sallustio del
pronome * quisque \ * 2.** La
particella comparativa ' quam ' è adoperata,
talvolta, con V ellissi dell'avverbio corrispondente * potius ' ; Germ.
6, 20 * cedere loco, dummodo rursus instes, consilii quam formidinis
arbitrantur'. hist. Ili
70, '6 * ctir enim e rostris fratris
domura quam Auen Untim et penates uxoris petisset ? ' : v. inoltre hist IV 5B, 6; 83,
20. ann. I 58, 6. IH 17, 16; 32, 9. V 6, 10.
Xin &y 16. XIV 61, 22. etc. L'ellissi di ' potius ' not»sA pure in
Plauto, Nepote, etc. ^ 3.*^ Quo modo '
è usato ad esprimere paragone, coalpe *ut*: Germ. 41,2 *quo modo paulo ante
Rhenura, aie ttunc Danuuium sequar '.
Agr. 34 , 6 ' quo modo eiiutts saltusque
penetrantibus fortissimum quodque animal centra mere, pauida et inertia ipso
agrainis sono p^Ilebantur, sic acerrimi
Britannorum ìam pridem ceciderunt '. ann. IV 70, 14 ' quo modo delubra^et
altafìa, sic carcerem recludant ' : v. ann. IV 35, 7. XVI 31, 8; 32, 14. [dial. de oratoripus 36, 35].
Quanto alla rispondenza * quo modo - ita
', \*. hist. IV 8, 19; 1 SAll. lug,
18, 3 ' multis sibi quisque itnperium petentibus \ Pel Bignificato di ' et ipse ' in casi
aualoghi, v. la monografia di J. Prammer
, ' et ipse ' bei Tae. ; iù Zisehrf. f. d, oesierr. Gymn, 1881, 500; e il comm. del Valmaggi a
Tae. hist I 42, J, p. 69 ; Il 33, 17, p.
62. * Plavt. rud. 1114 (IV 4, 70).
Afe/i. 726 (V 1, 26). Nep. XIV (|)at.)
8, 1 ' statuii congredi quam ' cet. , secondo 1* ed. Halm ; ina accolta la congettura del Fleckeisen '
statim maluit con»gnodi^V si rendei non adatta la nostra citaxióne^ Cf. Val.
Flagg. Argon. VII 428. 169
64, 18; 74, 9. ann. XIV 54, 5. XV 21,5. XVI 16, 11.» Anche in Cicerone, oltre al significare
domanda o ammirazione, osservasi V espressione ' quo modo ' adoperata in
correlazione con ' sic ', di rado * ita '. '^
4.'' La prep. ' ex ' talvolta è usata con significato modale : Germ. 7, 1 * reges ex nobilitate,
duces ex uirtute sumunt ' : v. 3, 18. Agr. 40, 10 ' siue uerum istud, giue ex ingenio principis fictum ac
compositum est '. hist. I 27, 16 *
animum ex eaentu sumpturi ' : v. inoltre hist. 1 82, 14. II 85, 18. ann. 1 58,
4. Ili 69, 7. IV 64, 5. VI 11, 16. XllI
9, 4; 46, 19. XV 72, 3. etc. Di tale uso
della prep. ^ ex ' si notano numerosi ess« presso gli scrittori precedenti.
^ 5.** La prep. * per ' ha valore
modale neir espressione ' per otiura ': Germ. 15, 1 ' non multum uenatibus, plus per otium transigunt \ ann. I 31, 12 '
isdem ae^ stiuis in finibus Vbiorum
habebantur per otium aufc leuia munia
Notevoli ess. ne avevano 1 V. il
comm. del Heraeus a Tao. hist III 77. * Cic. de leg. agr. II 1, 3. aead. pr. II 12, 38
; 47, 146. de fin. Ili 20, 67. Tùse. I 38, 91. Ili 17, 37. IV 13, 28. V 7, 18. de legibua I
12,33. de off. I 38, 136. É inesatta, per ciò, raffermazioue delio Zernial , op. e. , p. 80 , che è « *
quo modo ' =: ' ut ' im
VergleìchuDgssatze wie Agr. 34, 6; bei Cic. nur in dar Frage ».
3 Tbr. haut 203 a 2, 29;. Varr.
de l. L. VI 7, 64, p. 96, 12 Sp. CiG. de
ina. rhei. II 45, 132. p. Quinci. S, 30 e 31. dia. in, Caeeil. r», 19. ep. (ad fam.) II 7, 3 ; 13, 4. XII 4, 2. XIII 56,
3. de fin. II 11, 34. etc. Liv. I 23, 7;
40, 6. V 14,2. XLII 23, 6; 25» 11; 30,
6, Vedi Drabgèr , hist Sini, § 287 , 2 e 6, p. 592 sgg. ; u^er Synt u. St d. Tae. 3, § 96, p. 41. ^ et A. G^RBBR, nonn» de usu praepQ8.ap.
ITac, Glueckstadt 1871. 160 dato prima Cicerone e Livio.
* 6.^ La rispondenza' siue -seii ', che
si osserva nella Germ. 34, 8 ' siue
adiit Hercules, seu quidquid ubique
magnificum est, in claritatem eius referre consensimus ' ; e negli ann.
XIV 59 , 1 ' siue nullam opem prouidebat
inermis atque exul , seu taedio ambiguae
spei ' : V. XII 8, 1 ; 26, 8 ; fu prima applicata da Virgilio: ^ e dal
modo di applicazione il Woelfflin ne dedusse che € dieso Variation flndet sich
nur bei ungleich gebauten Saetzen oder Satzteilen, » ^ II.
Due osservazioni si debbono aggiungere quanto all'uso dei casi. * l.'' Il V. * inuidere ' costruito con
l'ablativo di cosa: Germ. 33, 5 * ne
spectaculo quidera proelii inuidere (se.
nobis) '. ^ ann. I 22, 9 * ne hostes
quidem sepultura 1 Cic. de inu. rhet
I 3, 4. Liv. Il 39, 11. IV 58, 12. VI 27 , 7. XXI 28, 4; 33, 10; 55, 1. XXVII 2. 9; 46, 10.
XLIV 38, 10. etc V. la monografia di F.
G. Hensell, de praepos. * per ' usu Tao,
Maìb. 1876. « Vbrg. Aen, IX 680.
Vedi Manil. asiron. I 132-135. Caes b.
G, I 23, 3 ed aJtH presentano la relazione invertita * seu siue ', che osservasi anche in Tac. ann. I 11, 9 *
seu natura siue adsuetudine '. Nella n. h. di Piiaio notasi la rispondenza '
siue uel ': XVII 223 ' siue fungum
placet dici uel patellam '. 8
Woelfflin, 1. cit. dallo Zbrnial, op. e, p. 67. 4 Vedi la monografia di R. Seelisgh, de
easuum obi ap. Val. Max. usu Liu. et Taeiiei gen. rat. hab.,
Monasterii 1872. 5 Alcuni commentatori della Germ. dichiarano che * spectaculo ' nel 1. e.
è dativo, come in Tac. ann. XIII 53, 12 ; e XV
63, 10 : V. Zbrnial, op. e, p. 66. Pais, op, e, p. 53. Ma anche nel 1. degli ann. XV 63, 10 la frase * non
inuidebo exemplo * presenta, secondo
afferma il Draeqer, ueber Synt. u. St. d,
Tae.^, § 64, p. 29, l'ablativo * exemplo \ • 161
inuìdent '. Quintiliano avverte in proposito : ^ si antiquum sermonem
nostro comparemus, paene iarn quidquid
loquimur figura est : ut « hac re inuidere » non , ut ueteres et Cicero praecipue, « hanc rem »'. ^
Il costrutto considerato ha la conferma
in alcuni 11. di Livio e di Lucano.
^ 2.° L'agg. * ferox ' con un
complemento dì relazione in ablativo:
Germ. 32, 9 ' prout ferox bello et melior *.
Agr. 27, 1 ^ cuius conscienlia ac fama ferox exercìtus '. hisL I 51, 2 ' ferox praeda gloriaque
exercitus': vedi inoltre hisL III 77,
21. IV 28, 12. V 15, 13. ann. 1 3, 20.
Conformi sono gli ess. presentati da Cicerone, Sallustio, Orazio, etc. ^ Ma in
altri 11. di Tacito V agg. ' ferox ' si
accompagna col genitivo, * come in Ovidio; ^
oppure con la prep. ' aduersus ' e l'accusativo. ^ III.
Per quanto concerne V uso dei modi e dei
tempi del verbo, si deve osservare :
I.v la costruzione del v. ' merere ' con V infinito : Germ. 28, 20 * (Vbii) quamquam Romana colonia
esse » QviNTiL. i. o. IX 3, 1. Vedi
Cic rase. Ili 9, 20. Hor. sai. 1 6, 49
sg, « Liv. Il 40, 11. LvcAN. de b. e,
VII 798. Ct Plin. n, h. 35, 92. Cicerone
accompagna ' inuìdeo * con V ablativo di cosa retto dalla prep. 'in * ; v. de or. II 56, 228. p.
Flacc. 29, 70. Vedi Madvig, lai. Sprogl;
e il coram. del Cocchia a Liv. II 40,
11; Torino 1888, p. 130 sg. 3 Cia in
Vatin. 2, 4. Sall Cai, 43, 4. Hor. earm. I 32, 6. 4 Tao. hist I 35. 6.
ann, I 32, 11. IV 12, 7. 5 OviD. mei,
VIII 613. 6 Tac. hisL III 69, 26. Notisi il costrutto col dativo in Liv. VII 40, 8.
Consoli, La Germania comparata. U .
162 mèruerint '. ann. XV 67, 7
* diim amari meruiisti ': v. *XIV 48,
14: tale costrutto fu accolto da Ovidio, Fedro,
ètc; ^ mentre Cicerone ed altri, attenendosi all'uso plautiriOj'diedero
la preferenza al costrutto con ' ut ' o ^ ne '
e il soggiuntivo. ^ 2.** il
participio perfetto neutro usato al singolare
come sostantivo, in funzione di soggetto della proposizione : Germ. 31,
1 ^ et aliis Gèrmanorum populis
usurpatum raro et priuata cuiusque audenlia àpiid Chattos in consensum uertit , ut primura
adoléuerint , ìc'rihem barbamque
submittere'. hist I 51,23 'accessit
catlide u o 1 g a t u ni , temere e r e d i t u m , decumari iegiones et promptissimum quemque centurionum
dimitti '. ann. Ili 22, 3 ' adiciebantur adulteria, ùerieiia q u a e s i t u m q u e per Chaldaeós in
doirium Caeàaris ' : à V. ann. Ili 9, 12. XV 58, 7. ** Tale sostantiva 1 OviD. in'sL V 11, 10. ex Pont IH 2, 20.
Phaedr /dò. ìli 11, 7. Val. Flacc.
Argon. I 519. V 223. Cf. Qvintil. /. o. X 1, 72 2 Plavt. Baceh. 1184 (V 2, 65). capt. 422
(II 3. 62; secondo V ed. comm. dal
Cocchia). Epfd. 712 (V 2, 47). Men. 217
(I 3, 34). Sdcfì. 24-26 il 1, 21-26;. Teii. Andr. 281 (I 5, 46). hee. 760 (V l, 34). Cic de or, I 54. 232.
ep.' (ad farà.) XÌV 6. de fin. li 22,
74. de net. d. I 24, 67. (cf. in Ver\ IV 60, 135). Ckiss.'b. G. VII 17, 5. Liv. VII 21, 6. Plin.
/i. /i. 35, 8. Vedi KuEBS-ScHMALz,
antìb., II, p. 70. 3 II CoNSTANS
ammétte da prima che nel 1. e. degli ann IH
22, 3 ci" sia Tuso del participio perf. passivo neutro comò
soggetto della proposizione {éiude s l. languì d. Tac. , n.° 246, p. 112); poi riconosce nello stesso pariìcipio
perfetto una proposizione infinitiva e non più una sostantivaz-one do!
participio (op. e, n.o 282, 12.^ p.
136): è una inesattézza dovuta a distrazione.
4 Nel citare l'es. ann. XV 58, 7 ci siamo attenuti alla * 1. ù'ulg.
': 'Taelatum erga coniuratos *. Nel cod.
Med. &i legge •latatum'»
163 isione del participio perf.
neutro, che manca di ess. in Cesare e
Sallustio, presentasi come un costrutto sporadico in Cicerone; frequente,
invece, in Livio. ' Avvertenza, Nella
Germ. non osservasi alcuno esempio del perfetto soggiuntivo di conseguenza,
dipendente ^a un tempo storico: tale
costrutto notasi, al contrario, più
volte negli scritti di Tacito. -che
per il Haase diviene * non celatus tantum *, per il Halm * clam actum *, e per il Ritter ' laeta tum
nerba '. Il Ramorino sospetta * iactatum
erga coniuratos osculum. Cic. parL or. 33, 114. Liv.. XXVIII 26, 7. (cf. XXVII
45, 4). etc. Vedi DRA.EGER, ueber Synl.
u. Si. d. Tae, 3, § 211, p. 86. RieMANN, op. e, § 22, p. 104 sgg. « Vedi Madvig, lat Sprogl, § 337, Anm. 2, p.
235. DRAEGEa, hi8t. Synt,, § 133, p. 241
sgg.; ueber Synt u. SL d, Tae, 3, § 182,
p. 74. CoNSTANs, étude s. l langue de Tac. ANNOTAZIONI CRITICHE AIiIiE
satire II MI e IV di Persio
^>4>^sK-V ROMA ERMANNO
LOESCHER & C.'> (Bretschneider e
Regenherg) Librai di 8. M. la Regina
d'Italia 1905 Prezzo L. l.
m i 'à^. SAiT'rx
coM'sorii HS^a, Btevi Annotazioni Critiche alle satire II III e IV di Persio Roma
Ermanno Loescher & C''. (Bretschneidei e
Regenberg) Librai di S. M.la Regina d' Italia 1905, S\ pp, z8. Af. BREVI ANNOTAZIONI CRITICHE HLiLi^
satire II MI e IV di Persio ROMA ERMANNO LOESCHER & C:^ (Bretschneider e R^gimherg) Librai di S. M, In Reggina d* Italift IpW.
\d3.T H»*v«?ti CdUgi Utwy Gìh ef
Mmri* H. Morgan Jan. l Idia Proprietà letteraria dell' autore (Catania^ via Maddem, lu 160) Tipogr&iia editrice Homa dei Fratelli
Per rotta, in Catania, 'imn^^'' cuy » -cg jAQO/N g» . -co^oor g» Nel cod. Moatepessulano (P) il Buecheler lesse indeciso ' patru,. ' ; più chiaramente V Owen vi lesse
* patruuin ' , che, por correzione sovra
pposta, osservasi, come sopra si è detto, nel
Monacense M 67. A ine pare che si debba restituire nel testo di Persio la lezione ' patmuni ' presentata
dal P. In fatto, tra i voti immorali che
si fanno alla divinità il poeta include quello
per primo, che si erediti preato dallo zio ; ma la crudezza di tale voto, che muoia presto il parente per
ereditare i beni di lui, si vuole
occultare con la finzione del decoro della famiglia, in modo che non si chieda ^ o si ebuUiat
patruus ', ^ espressione troppo dura e volgare^ ancorché si accompagni tosto
con. l' espressione vanagloriosa '
praeclarum funus ! ' ; nemmeno si chieda
' o si ebulliat patrui praeclarum funus ', frase meno cruda ^ senza dubbio ,
della precedente , ma che spiace perchè è
sempre il funerale dello zio, che ardentemente si desidera : si chieda, invece, alladivinitàcheun '
praeclarum funus ', quando che siaj *
ebulliat ' cioè dia evidenza ai meriti civili, alle qualità morali , alla
distinzione della nobiltà e delle ricchezze ,
magnifichì insomma il nome autorevole del parente. Cosi non si avrà V impudenza di cliiedere a Giove la
morte dello zio , ma con un certo
eufemiemo si manifesterà il desiderio che un
funerale splendido illustri, quando che sia, il nome e il casato dello zìo^ e in tal modo il desiderio della
morte del congiunto appare subordinato
o, dico meglio, con ipocrisia mascherato dal
voto, certamente lodevole, che sia splendidamente illustrato il nome della famiglia, sebbene in circostanza
luttuosa. Del resto, il V, ^ obullirc 'j
usato transitivamente, ebbe sempre, anche nella
In tal caso accanto ad ^ ebulliat * si dovrebbe sottintendere la voce ^
animam \ la quale, invece^ appare espressa nelle frasi : * animam ebulliit ' di Seneca, lud, de mori, Claudii
4, 2 e di Petronio, sat cap. 42 p, 189,
2; * animam ebulUui* dello e tesso Petronio, sat cap. 62 p. 313, 1 : per Ja prima volta Persio sarebbesi
privato, senza ragione, di apporre V uùQ, * animam ' al v. ^ tsbuHire ' ?
latinità classi cdj il sìgniricato di ^ ìactare^ ostentare^ praedicare '; od lina conferma ci è dato osservarlfty come
ebbi a scrivere nelle annotazioni
critiche al testo di Persio p. tì3^ nota 1, in un luogo delle Tuìsc. di Cic*
III 18^ 42 ' tj^ui si uirfcntes ebollire 'uolent et sapientiaa cet, ' Restituendo^ adunque, nel testo dì Persio la
voce * patrnuni ^ non solo ai farà atto
dì debito omaggio all' autorità del cod,
Jpf uìa, tra il contrasto dei codd. e delle edd.j si verrà a determinare
la lez, in modo meglio rispondente al pensiero che il poeta volle significare nei versi 10 e
segg. SaL li 52, Tutti i codd. di Perno, che finora sono
stati collazionati o soltanto consultati
, danno costantemente per il v. 52 la voce
^ incussaqne ^; lo stesso osservasi ncù codd, degli e^rcerpta^ noi quali è contenuto il y. citato* Un solo cod.
di Persio fa eccezione ed è il P che presenta ' incusasque ' ; la coiTcttura '
incusaaquo * che notasi nello stesao, è di seconda mano, T^a Ica. ^ ineussaquo ^ fu dal Jahn (ed Ma la
spiegazione data dallo scoliaste fu disapprovata anche dall' Achaintre (ed.
Par. 1812 p. 57). A me pare che si debba preferire la lez. ^
laeto ' non solo perchè ha per
fondamento V autorità del cod. P. , ^ ma eziandio perchè è nell' ordine
naturale delle cose che , al riceversi
un ricco dono,- il cuore per la grande gioia o , come dice una ^ La vecchia interpretazione dello
scoliaste fu confermata dal Beniley, m Hor, carm. II 19 , 6 con le parole *
pect. laeu . s. sinistra parte pectoris,
ubi cor salit et sudor erumpere solet ' ; e dal Koenig * cor in laetitiam pronum in sinistra pectoris parte
lacrumas tibi excutiat ipso gaudio ' : e
a' nostri giorni è stata ripetuta dal prof. Geyza Nómethy nel comm. alle satire di Pers. edito a
Budapest nel 1903 p. 143. Alla medesima
attenendosi tradussero il Monti « il cor nel lato manco >; il Wagner * aus der linken Brust » ; il
Kayser * unter der linken Brust » ; il
Weber « zur linken Brust » ; il Binder « links aus der Brust » ; il Duentzer « die Brust dir zur
Linken » ; il Hemphill « drops beneath
your left breast». Sfuggi la questione il Fuelleborn (ed. Wien 1794 p. 61) , che tradusse « wie schlaegt vor
uebergrosser Freude dir | das Herz empor
! Schweiss rollt von deiner Wange, | und Freudenthraenen stroemen dir herab » :
e la sfuggirono anche i due traduttori francesi di Persio, F. Duboys -
Lamolignière (ed. Par.: « je vois le trouble de vos sens, | et votre coeur s'
épuise en longs remercfmens » ) e Vict.
Develay (ed. Par. 1897 p. 1G2: « tu te pàmerais de joie et ton coeur bondirait d' allégresse ». 2 La postilla
marginale * uel leuo * (sic) del cod. P. è dovuta ad un correttore antichissimo il quale, negli
emendamenti apportati alle lezioni genuine del cod. P, dovette aver presente
qualche esemplare della recensione
Sabiniana. ^loBsa del cod, Ottoburano , ^ ^ prac g:amlio esliìlaratuiu '
sì sprema in gocce dentro il petto , che
non può non sentir la letìzia di cni
eanlta il cuore. Né C' 6 ripetizione di concetto dieendoBi ^ pectore laeto ' accanto a *
laetari praetrcpidum ' ^ poiché in questa ultima ea press ione è indicata
soltanto una condizione o tendenza dell' animo commosso per il dono
ricevuto, mentre con ^ pectore laeto '
si esprime quel che ne consegue in
realtà per effetto dell' offerta dei doni. All' accoglimento della lez- * laeto ' nemmeno osta la
vicinanza delle due voci * laeto ' * laetari
\ in quanto che è noto che ai Romani non
riuBci sgradita la prossimità di parole provenienti da una stessa radice, ^ Leggo^ per ciò^ col Pithou : I . 38i^ siano chiari e * V.^ Alattliias ^illober, eim^ neiw
Handschrift der nf'chs Satìrm dfx A.
Pers. FI , Augsburg 18tì^2 p, 24, col. l^
2 VJ per es. * omnibus ]aetitiis laetam. ' Cic. df fin. Il 4^ IB ; *
Ime purgati one purgatus erifc ' Cat. de
a. e. 157, Vò ' gauisurum gfiudia ' Ter.
Andr. 9Gi (V 5, B) ; * qvianfca gaudia. ... gattdeat CatuU. 61,
llìi-116; * gaudi um gauderemuis * Cnel.
ap- Cìc. fuìn. Vili 2, 1: cf. BiòL Toh, 11,
21 *cum gaudio magno gauiai sunt ' ; lùan. 3, 29 * gaudio gaudet ' ;
eoe. veridici e d'efficacia maggiore quanto alla previsione del futuro, più esplicitamente egli soggiunge : « per
somnia enim siue insomnia intellegit praemonstratas curationes ac ^^py-nalo^c;
». Ma il Plum bene avverte che all'
interpretazione del Casaubon osta « ipsa
series orationis , cura in praecedente commate non de corpore curando agitur , sed de re struenda ,
quae potius ad Mercurium quam ad
Aesculapiura pertinet ». Ne ci si parli di
sogni incatarrati o non incatarrati, da inferirne, come pensò il Turnèbe, che « pituita purgatissima » valga «
maxime carentia pituita », o, come
scrisse Eilhard Lubin, « omni pituita uacua
et carentia, id est nera, certa, non nana et temeraria »; perocché
possono bensì gli uomini essere oppressi dalla ^ pituita ' o malore catarrale, ma non i loro sogni. Lo scoliaste di Pers. 2, 57 indica chiaramente
in che consista la ' pituita * ( ^
purgatio cerebri uel morbus gallinarum ' ), ma
ne conclude che gli uomini gravati da essa ^ non bona somnia uideant '; sicché egli associa ' pituita '
con ' homines ', non con ^ somnia ' : e
sulP avviamento dello scoliaste i commentatori moderni di Persio parlano degli
uomini che ^ pituita stomachi grauantur ' (ved. Némethy op. e. p. 147 ; e cfr.
Hor. sat. II 2, 75 sg.), ma evitano di
congiungere in istretto legame ^ somnia ' con ' pituita '. Questo però non
dovette essere il pensiero di Persio che
mise in istretta relazione ' somnia '
con ' pituita ' ; e per tanto V epiteto ' purgatissima \ al quale si attengono tutte le edd. delle satire di
Persio, perchè confermato da quasi tutti i codd. , non può rappresentarci la
tradizione sincera di ciò che scrisse il poeta e si lesse dagli antichi sino al tempo della recensione di Tryfoniano
Sabino e forse anche dopo. Per buona
fortuna il cod. P, col quale concorda in
questo luogo il cod. Trevirens. del sec. IX/X, rappresenta la lezione più sicura e genuina '
purgantissima ', la quale vedesi penetrare anche nelle letture del medio evo ,
come ce ne fa fede il vestigio '
purgantis ' presentato dal cod. B àe\V opus
pì'osodiacum di Micene , verso 300 , in cui si cita appunto il veraci di
Peri, 2, 57. * Or ^ con V epiteto purgantissima tutta^ a mio parare, si rende
chiaro, tanto lo stretto legame eli '
somuìa ' con ^ pituita \ ostuIantea oracula per somnani '; ed è noto^ come
osservava Ci e* nelle Tnsv. IV lOj 23
che ^ cum aanguis corruptus est a ut pituita redmidat aut bilis^ in corpo re morbi aegrotatlnneaque nascuntur
'. Sat. II 71:5. Codici j editori e imitatori di Persio non
sono di accordo sulla forma definitiva
con cui debba essere fissata la voce * animxis ^ nel V. 73. La tradizione man user itta che
muove dalla recensione Sabiniana afterma la lez, ^ animo \ che si osserva nei
codd* A Eh sopra citati j - nei tre
codd. del sec. XI Laurentianpi. LXVIII 2% Paris, no. S049j Paria, no. ^^:?72;
nel Monacens, e. B del sec. XII e nel
fìerolineus. no. 2 del see, XII o XIII;
nel Bernens* no. 648 del scc. XIII; nei due codd. del sec. XIV Paris, no. 8050 e Rehdigeran. I; nei cinque
codd. del sec. XV Berolinenss. no. *-)H
e no. .-^9 , Monacenss. no. 260 e no. \y2ij^
Kehdigeran, II; ^ nel cod, Berolinens, no, 9 del aec. XVI e nel * V'^edi i Carmina Ct^nluìeiìsm p, ù^O^
moinun. Germ^ hùtt^ poeL Lat ii^ui
Caroìini tom. IH ex recens, Lud. Traobe, BeroU 1B96. ^ Si scoree anche ' animo ' nella lez. ^
animimo ^ presentata dnl cod. B di fonte
oabmìana ^ I due codd, della biblioteca Jiehdigerana , Turio in pergamena
del sec. XIV e l'altro cartaceo del sec.
XV, furono collazionati dallo TzRchirner
in servizio dell' ed, del KauthaJ : della collazione usufruì il Jahn per la ' ed. maior ' del 1843. 1'
Erlangens. anch' esso di data recente. La tradizione degli imitatori di Persio,
che si prolungò per tutto il medio evo, si attenne alla lez. ' animi ' , la
quale, in fatti, si legge nelle citazioni di Lattanzio (diu.instit. II 4 p. 126
1. 1 Lut. Paris. 1748), dello scoliaste
di Stazio (Theb. II 247 p. 81 Par. 1618), di Giovanni di Salisbury (poi. V 16 p. 319 Lugd. Bat. 1639) e del Petrarca (epist. de rebus fam. VI 1 p. 309 voi. I ed. Fracassetti,
Firenze 1859); e si legge nei codd. degli excerpta Paris. 7647, Paris. 17903 e Vatic. Reg. 1428
(deflorationes Persii), e nei rimanenti codd. di Persio, finora noti, eccetto
il cod. P ed il Monacens. no. 83 del
sec. XII, i quali danno ' animos '.
Nemmeno gli editori di Persio, antichi e moderni, sono concordi sulla
scelta : alcuni preferiscono la lez. ' animo ' , ^ altri la lez. ' animi ' ; ^ nessuno ha scelto la
lez. ' animos ' , la quale credo che
debba essere restituita nel testo, perchè è genuina e meglio adatta al contesto
della frase in cui è collocata. Che sia
genuina, non alterata dalla recensione Sabiniana, ce ne affida V autorità del cod. P che la
presenta ; che si adatti meglio alla
frase risulta dalle segg. considerazioni.
Il pensiero dell' autore intorno agli elementi costitutivi della santità dei costumi e della perfezione morale
è evidente: col ^ compositum ius fasque
' ha voluto significare, anzi tutto, V elemento estemo e formale, ossia
l'elemento giuridico-religioso, il più
importante per le funzioni dell' organismo sociale róma i Vi le edd. Casaub. 1647 p. 8; Schrevel. 1648 p. 573 e 1664 p. 542 Wetsten. (1684) p. 50 ; Prateus 1699 p. 335 ;
Walth. 1765 p. 28 ; Bipontina del 1785 p. 11 ; Passow 1808
p. 13 e 1809 I p. 24 ; Weber 1826 p. 11;
Hauthal 1837 p. 22; Jahn 1843 p. 28, 1851 p. 15, 1868 p. 21 ; Jahn -Buecheler 1893 p. 22; Owen (Oxford, senza
data e senza pag. nam.); Némethy 19C6 p.
27 ; ecc. « VM e edd. Monti p. 638;
Achaintre 1812 p. 61; Casaub. 1889 (Duebner) p. XXV ; Duentzer 1844 p. 32 ;
Hermann 1879 p. 7 ; Bucoiarelli 1888 p.
51; Kamorino 1905 p. 37; ecc. 11 Hermann aggiunge (praef, ed. Lps. 1879 p. XIV) che * genetiuum tuebuntur
etiam * uerba animi > luuen. I 4, 91
': cf. dello stesso Hermann lect. Pera., Marb. 1 842 III p. 12» p«^lt*
- 15 ilo, con ^ anim. sanctosque
recessus mentis ' V eleùietito psichico
o intimo ; e con 1' ' incoctura generoso pectus honesto ' V elemento
etico dipendente dalla legge morale universale. Or, ciò che è enunciato nel v. 73 si presenta
costituito di due parti, di cui la prima
è ' compositum ius fasque ', la seconda ^ anim.
sanctosque recessus mentis \ Nessun dubbio che la prima parte sia bimembre, cioè: a) ^ compositum ius '; b)
^ et fas ': perchè si conservi la
disposizione simmetrica della frase, è necessario che anche la seconda parte sia pure formata di
due elementi coordinati; e se uno di questi elementi è ' sanctosque recessus
mentis ', V altro non può non essere costituito dall' idea espressa mediante la voce ^ animus '.' La quale ,
coordinandosi , quanto alla
declinazione, nello stesso caso in cui sono espressi i ' sanctos recessus mentis ', come prima il ^ compositum
ius fasque % deve essere nella forma
dell' acc. 'animos', non del genit. 'animi' né
dell' abl. ' animo ', che se, rispetto alla sintassi, possono
tollerarsi, per quel che spetta alla
disposizione simmetrica della frase ed
all'espressione del concetto, non sono, a mio parere, sostenibili. ^ Del
resto , 1' avvicinamento di ' animus' con ' mens ', che potrebbe parere una espressione
sovrabbondante, per la prossimità di significato delle due voci considerate ,
non era per i Romani cosa insolita.
Plauto scrisse (trin. 454 [II 4, 53]): ' satin
tu's sanus mentis aut animi tui '; ^ e Cicerone (Cat. m. 11, 36): ' nec nero corpori solum subueniendum est,
sed menti atque animo multo magis'; e
Virgilio (Aen. VI 11 sg.): ' magnam cui mentem animumque | Delius inspirat
uates ' ; e Orazio (epist. I 14, 8 sg.)
: ' istuc mens animusque | fert '; e Stazio (silu. Per tal motivo gli edd. sono
stati costretti a metterà il gen. ' animi ' o V abl. ' animo ' in dipendenza da
^ fasque ', disquilibrando cosi tutta la
frase e confondendo quanto si attiene ai sentimenti deir animo con le esteriorità del formalismo religioso:
cf. Servio, camm. in Verg. georg, I 269, p. 193 , voi. Ili Th. * ad
religionem fas, ad homlnes iura
pertinent. ' 2 Neil'
ed. Ck>ccbia , Torino 1886 p. 69, 4 è scritto: * satin tu sanu's m. a. a. t. '9g,) : ' et te iara fecerat ilH
[ men^ aniinusque patroni * : altri ess,
per brevità cimmetto. Leggo, per tanto,
i w. 73-74 della sat. II di Persio ; *
composi tuta ìus fasqae, anitnos sanctosqua recessus mentiS} et in eoe tutu generoso pdctua
honesto \ Bai, II T:). Dalla recensione 8abiniana dovette prendere
le mosse la lez, * adiiioueani ' che ^W
editori di Persio, quasi tuttij ^ fissarono
nel V* 75 della sat. II : e se noi cod. B^ di tonte, conte si è dettOj Habiniana , appare ^ adinoucani \ la
quale lez, riappare circa cinque secoli
dopo^ nel cod, Rebdigeran, I, ciò si deve ,
giusta la nota avvertenza del Criisiusj - al fatto che nei coddantichi
non si distinzione chiaramente le forme del verbo ^admoucù^ da quelle del verbo ^admoneo \ La
lez. *adnìoneani' trovasi semplificata
in Mnoueani' nei codd. del sec. XI Pariss,
nobenhavn) no* 2028, Monacens.
no. Ìì80; nel cod. Ebneriano del sec* XI/XII,
collazionato dal Hermann; nel Bernens. no. 048 del sec. XIIT, nel Paris, no. 80p")0 dfd sec. XIV: e
sono variazioni dovixtc a deviazioni di
copista negligfontc u troppo dotto le forme
' uoueam ' del cod. Bernens. no. f-ì98 del sec* X, * moneas ' del cod. Paris» no.
8055 del sec. XI e *admoueas' del cod. Einsiedlens. no. i\2% del sec* XV. Anteriore alla recensione Sabiniana dovette
essere la lez. ' admoueant ', di cui ci
dà una preziosa testimonianza il cod.
' Dico n quaìi tutti > ^ perchè ho letto * advnouoant ' soltant3
nelle due edd. 1048 e 1GG4 delio Sdire
veli us e uell* e^l. preparata dal Wetstenius.
* Crusius , in Sueton. dia.
Clmtd. 39^ (ir cf, K F. C. Wunderlich j in
TiòulL IV Ij 189 Cpaneg. Mesmllat^) F^ *
confermata , molto tempo dopo ^ dal cod. BeroliOp no, 49 del sec, XVI j e, nella forma semplificata '
moucant \ dal cod, Monacens, M 67 del
sec* XV* La lez, del P si adatta meglio
alla frase esaminata, poiché, disponendone in modo diretto le parole , bì ha ^ cedo ut admoiieant (se.
homines) templi^ haec i. e. composìtum
ìua fasqne, anim. sanct. ree. ment. ^ et
incoct, gen* p ect. hon.j et farro litabo \ Sicché il pensiero dell'
autore sarebbe: lascia che gli uomini ai accostino al tempio, avendo nell'animo i nobili sentimenti dì
giustizia, di pietà, di onestà ecc., ed
allora anch' io farò un sacrificio semplice e gradito di farro. Le parole '
conipositum Ìu3 fasque cet* * sono usate
nel 1. cit. con la funzione sintattica di coniplcm* oggetto di * admoueant ', e la sintesi delle stesse
si compendia nel pron, * haec 'ì e però
non si deve distìnguere con forte interpunzione
la fine del v, 74 dal principio del v. 75, dove il prou, ' liaec ' serve , come ho detto , di riepìlogo ai due
versi precedenti : * basta la vìrgola,
leggendosi così il testo: ' e. i. f., a. s. r. | m.^ et Ìp g, p, honesto, | haec cedo ut admoueant
tempi is, et farre litabo ', II
Buecheler riconosce che il /* dà ' admoueant * , ma, quasi petf confortare con la tastimoniaaza del F la le^.
^ adnioueam \ che egli ha scelta^
soggiunge che le due lettere finali nt rassomigliano alla m; ras^ somiglianza che non osservò , e perciò non ne
prese nota , V Owen , il qnale^ dopo il
Buecheler, riesaminò e collazionò il cod. F. Perciò segnarono inopportunamente
il punto fermo dopo * honesto * il
Waltbard, il Monti, il Passo w, il Casaubon (ed. Duebner, 1839), il Jahn (edd. 1851 e 1368), il Hermann, il
Bucoìarelli, ecc. ; il punto interrogativo il Casaub. (od. 1647), lo Scbrevel.^
il Wetsten*, 1^ ed, Biponfc. , V A^
chaintre^ il Kamorino, ecc.; il punto interrogativo insieme con V
ammirativo il Hauthal; il segno dì due punti il Prateus , il Weber , il
Bue^ cheler (III ed. del 1B93), l'Owen,
il NémethVj ecc. La virgola dopo la V. '
houesto ' fa segnata dal Jahn neir ed. del 1843 e dal Duentzer nell'ed. 1644. Gongoli, BreiJÌ aimot crit alle satin II,
Iti e IV di Fersw, À Sat. Ili 23. La tradizione manoscritta, sia quella che
muove dalla recensione Sabiniana ed ha i suoi più autorevoli rappresentanti
nei codd. A B, sia quella che proviene
da una recensione anteriore alla
Sabiniana ed è rappresentata dal cod, P, dà concordemente per il V. 23 della
sat. III la lez. ^ udura et molle lutum est': presentano anche ^ est ' il cod.
reg. Londinens. e due codd. del sec. XV,
cioè il Monacens. M 67 ed il Basileens.
F. III. 6. Quante edd. di Persio ho avuto sott' occhio, sino alle tre più recenti, cioè Ted. inglese delPOwen,
Ted. ungherese del Némethy e Ped.
italiana del Ramorino, presentano costantemente, invece di *'est', la lez. ^es', la quale si
osserva in alcune imitazioni della frase di Persio fatte nel medio evo, come p,
es. in quello che scrissero Hildeberto,
vescovo Cenomanense, nella mordi, philos.
quaest. I n. 40 col. 1037 B t. CLXXI ed. Migne, e Giovanni di Salisbury nel
polìcrat, lib. VII cap. 19 p, 484 ed, Lugd.
Bat. 1639. Ma Pietro di Blois, che cita lo stesso luogo di Persio jxqW
epist, LXXIV ad G. archidiaconum p. Ili col. 1* ed. Sim. Piget, Par. 1667, ommette il verbo, scrivendo ^ udum et molle lutum nunc nunc properandus, cet. '; e da tale ommissione è facile
argomentare che egli abbia letto ' est ' nel testo di Persio , forma verbale più agevole a
sottintendersi che non ' es '. La stessa
ommissione notasi nel cod. Berolinens. no. 2
del sec. XII o XIII, che presenta ' lutum nunc es properandus ' ; sicché con ' lutum ' si chiude la prima
proposizione e, cominciando con ^ nunc ' la seconda , non si può prescindere
dallo accompagnare ^ es ' con ^
properandus ' anziché con ^ lutum '.
Credo, per tanto, che si debba restituire nel testo di Persio la lez. presentata dai codd. PAB e da altri
codd. di minore autorità, leggendosi nel
1. e. ' udum et molle lutum est ' come
una considerazione in generale , che fa il censore , introdotto nel discorso dall' autore, sul tempo più
opportuno per ottenere il maggior
profitto dall' educazione e dall' istruzione. Poi lo stesso interlocutore, volgendosi al giovane
neghittoso, lo ammonisce , come passando dalla considerazione generale al caso
particolare di lui : ' nunc nunc properandus es ' ; ed insistendo neir immagine tratta dalP arte del vasellaio
, soggiunge : ^ et acri fingendus es
sine fine rota \ Cosi si viene a dare alle
voci ' udum et molle ' una funzione predicativa di ' lutum ' {' lutum est udum et molle '), come se
dicesse: la creta è umida e morbida e
adatta ad essere maneggiata dal vasellaio. Quale necessità di rivolgersi all' adolescente per
fare una considerazione generale e impersonale, che la creta è pronta ? E
opportuno, invece, il rivolgere la parola al giovane per esortarlo a educarsi ed istruirsi , essendone in tempo.
L' imbarazzo degli edd. dovette essere,
se mal non mi appongo, quell'incontro di
^ udum et molle lutum est ' con le due forme participiali di gen. maschile ^ properandus ' e ^ fingendus
'; e però s'indussero a fare di ^ udum
et molle ' un attributo di ' lutum ' , costituendo ' tu ' soggetto sottinteso
anche della proposizione che deve
conservare un carattere objettivo di concetto generico e indipendente dalle condizioni degli interlocutori.
Ma la difficoltà si elimina agevolmente fissando da prima una forte
punteggiatura dopo ^ est ' , perchè resti nettamente determinato il concetto generale dell' età più adatta all'
educazione intellettuale e morale; e
poi, sulla traccia della lez. ' nunc es properandus ' presentata dal cod. Berolinens. no. 2 sopra
citato , scrivendo properandu's e
fingendu's. Sai. Ili 60. La lez. '
dirigis ', accolta dal maggior numero dei codd. e degli edd. di Persio, piglia le mosse dalla
recensione Sabiniana e fondasi sui due
codd. A B, Il correttore antichissimo del cod. P, il quale dovette avere a
guida pelle sue emendazioni un esemplare di fonte Sabiniana, accetta anch' egli
la lez. dirigis . Un’emendazione di seconda mano fatta sul cod. A muta dirigis
in derigis, lezione approvata e accolta dai recenti edd. di Persio, Buecheler
(Beri), Owen, Némethy. Il cod. P presenta, invece, In lez. dì modo soggiuntivo
dirìgas, la quale, sebbene trascurata da tutti gli edd.j a me pare che debba
essere restituita nel testo di Persio,
in quanto clie vale a denotare la possibilità
che ci sia qualche cosa verso cui si diriga l’arco, dello stesso modo come più sotto è detto securus quo pes
ferat Maj perchè bene si adatti il v. dirigas in dipendenza dalla frase est
aliquid, è necessario, per rispondenza simmetrica delle parti nello stesso periodo
sintattico, che il verbo precedente tendis posto anch'esso in una relativa
subordinata, si muti in tendas. Cosicché j ove si voglia fare lieta accoglienza
alla lez. presentata dal cod, Pf è necessario che il verso citato sìa lotto
: ^ est alìquìd quo tend&s et ìd
quod dirlgas arcani \ JSat, III
93. Nulla avrei da osservare sulla
legittimità della fonna chiusa di part.
futuro ^ loturo ', che loggesi in quasi tutte le edd, di Persio nel v, cit., ne della forma aperta
lauturo ^, la quale fu accolta dal
Hauthat (ed. Lps.) : ^ questa ultima è
presentata dai codd. del sec. XI Paris, no. 8049; Paris, no. 8272, Monaeens. F//, Monaceus, no. 330; da
altri due codd. Monacensi del sec. XII ,
cioè Ìl cod. e. 3 e quello contenuto nel cod. segnato Kr/89. a ; e dal cod.
Guelferbyt. Aug, 29. 12 del sec. XIII.
La forma chiusa ^ loturo ' risale ad un' emendazione di seconda mano fatta al
cod. A. , poiché tanto questo i[uantQ il
cod. B hanno ^ locu}>o ' , in cui il Buecheler credette scorgere ' locnro '; ed osservasi anche nel
cod. XXXVII 19 della bibl. Laurenzianaj
del ecc. XI, esaminato di recente dal
Kamorino. Leggesi * laturo ' nel
cod. P e noi due codd. del sec, XI
Paris, no, 8048 e Bemcns, no. 327: nel cod. mutilo Bernens. si legge ^
laturo ' con la lettera ù sopra- Egli però non ne addusse le ragioni nelle
Anmerkufìgen ^sur drUten iSatirej
scritta all' a ; e perciò la lez. si ricongiungerebbe con V emendazione antica
segnata da seconda mano nel cod. A. Ma, se le
forme ^ lauturo ' e ' loturo ' non sono da rifiutarsi , si può
dichiarare senz' altro come inaccettabile la forma ' laturo ', scritta prima, come pare probabile, ^ luturo ' nel
cod. P ? Io credo che no ; perciocché ,
se accanto al v. ^ lauere ' fu accolto
nella lingua il v. ^ lauare ' , la forma del supino preclassica e classica ^ fu sempre ^ lauatum
' , come la forma classica del part.
perfetto fu sempre ^ lautus '. Non e' è dubbio
che dal tema del supino classico ' lauatum ' sia nato il part. futuro ' lauaturus ' , che si osserva in
Ovid. fast. Ili 12 ^ sacra lauaturas
mane petebat aquas ' : e da ' lauaturus ' , per il tramite normale laaturus,
ebbe origine per contrazione la forma '
laturus ' , di cui il cod. P ed altri codd. sopra notati ci danno conferma. Non
sarebbe, dunque, contrario alle leggi fonetiche dell'idioma latino l'accogliere
nel testo di Persio la lez. ^ laturo ',
che ha per fondamento l' autorità del cod. P : e della presente annotazione vorranno tener conto, mi
auguro, i lessigrafi della lingua latina. Sat. Ili 97. Il cod. P dà ^
sepellitur istas ' per il v. 97 della sat. Ili:
nei codd. ^ JS si legge ^ sepeliit urestas', che gli edd. tutti di Persio hanno interpretato ' sepeli: tu restas
' , aggiunto o non il punto
interrogativo in fine. Per ispiegare la frase ^ tu restas ' , alcuni
commentatori di Persio ricorrono al sottinteso
' mihi sepeliendus ' ; ^ altri equiparano ^ tu restas ' a ' uiuis adhuc et uiuis , ut mihi grauia praecipias '
^ ovvero a ' tu A Vedi Terent.
hautt. ; Hor. sat 1 3, 137. * Il Némethy, ed. cit. p. 200, a conferma
delle voci da sottintendersi ^ mihi
sepeliendus ' adduce il confronto con Hor. sat l 9, 28 : ' omnes conposui. felices! nunc ego resto '. 3 Vi V ed. del Prateus, Lond. iiiìlii adlmc
tutor restaa ': altri ancora, come Tommaso Farnal)io itA.) , interpretano ' tu
cout(?m[)tnr pliiloi^opliorum r4 p. 557
t, e dal Wetsteu. p. l>5 &. ^ V*
i luoghi Gitati delle edd, SchreveL e Wetsten. J Forse per tal motivo, o non
per nuovo e più diligente esame del cod.
, il Jabn s^ indusse it scrivere nelle note critiche delU sua ed. 4 ' sepsi i
tur istas ' C, che iìqIP ei. IBJl p* 20 aveva scritto * seppelHtur istag ' C. ^ La ragione metrica rifiuta altresì Del
Inogo commentato la formu. * sepe.lil '
j morfologicamente corretta, che dmmo due codd. del sec. X, cioè il Bernens, no. 257 ed il Leìdoiis. no.
7H; due codd. del se&. XI, ossia il
Bernens. no, ^J2T ed il Paria. 8070; il Behdigerdu. II del sec. XVj e inoltre il cod. reg. Londinens , la cui
collazioaej fatta dal Bentley, fu
pubblicata nel Chtìisk. Jouni, Il cod. Beroens, del sec. XIII, che presenta ' sepeliui * , om
mette di couseguenza il ' tu ' a fin d'
evitare che un piede deir esametro dattilico sia di tre sillabe lunghe. Debbo notare che vi è incertezza
intorno alla parola in esame, citata da Nonio Marcello. L' ed. Aldina Vea, dà ' riisitatis *; T ed.dicativo di ^ risito
' la seconda pers. sing. dovrebbe essere stata,
secondo la flessione normale, *risitas, da cui, per sincope della i breve della penultima sillaba, gradita
forse nel linguaggio familiare, sarebbe nata ' ristas ' = « ridi spesso, ridi
di frequente ». E però nel v. cit. di Persio ben si adatta ' tu ristas ?' per significare il pensiero del giovane avido
di piaceri anche presso a morire, il
quale al monitore risponde : " non essermi
come un tutore ; da più tempo V ho fatto seppellire „ : e, quasi accorgendosi d' un sorriso ironico sulle
labbra dell' interlocutore che lo vede
morente per intemperanza, gli chiede : « tu ne rid i spesso ? » Talché il monitore, annoiato di
tanta persistenza nel male, gli risponde
: ^ perge, tacebo '. Concludendo, io
son d' opinione che si debba rendere anche
per il V. 97 il dovuto omaggio al cod. P, leggendo : ' iam pridem hunc sepeli. tu ristas ? * '
perge, tacebo '. Sai. Ili 107. Gli edd. di Persio leggono, tutti
concordemente, il v. su indicato : ^ tange, miser, uenas et pone in pectore
dextram ' . Non nego che si possa
leggere bene cosi il v. di Persio ; ma il cod.
P invece di ' dextram ' presenta ^ dextra ' : non si può in alcun modo far posto a tale lez. ? I concetti
espressi nel verso sono due, ben
distinti V uno dall' altro : a) tocca i polsi ; b) metti la destra sul petto : il complem. oggetto del
primo verbo ^ tange ' è ' uenas ' ; del
secondo verbo ^ pone ' è ^ dextram ' . Nulla però vieta che si possa intendere che i polsi si
tocchino con la destra ; né e' è nulla che vieti che la destra, dopo aver
tastati i luniana Antv. risitant * (e
cosi è citata nel Ipssìco Forcellini-De
Vit la 2^. ed. Merceriana Par.
risitantis '. Carrio lesse *
risitantes ', donde la congettura del Bothe ' missitantes % gradita al Georges,
ausfUhrl. Handtvb, II col : al Vossio piacque congetturare ' usitant '. polsi, si
poggi sul petto dell* ammalato. Può^ quindi^ il primo concetto mettersi in istretto legame col
secondo mediante il aervizio comune
della mano deatra j come se T autore dicesse:
^ Ungej mìser, uenas dextra ot pone («e, eam) in pectore \ E ciò può ben risultare dal verso considerato,
leggendolo : tange, miser^ uenaa (et pooe in pectore) dexfcra ^ , Cosi nulla vieta che si dia posto alla lez.
* dextra ' del cod. P\ sebbene da quello
inciso ' et pone in pectore ' derivi , uè
convengo anch' io^ un che di stenta to^ cUe^ del rcsto^ non sarebbe
alieno dallo stile di Persio e di altri poeti satirici latini. SaL IV 9.
Son d- opinione che nel cit. y, 9 si debba restituire il pron, ' il] ut % nella fonna appunto che è
presentata dal cod» P, e la restituzione
debba farai in tutti e due i luoghi^ nei quali ivi è adoperato; ^ cosicché il v, di Persio sia
da leggersi: hoo puta non ìustum est^
illat male, recti ub illut ^ . Né osta
all' accoglimento di ^ illnt ^ la singolarità della forma con la desinenza in -tj che non è rara , come
a prima vista potrebbe parere* In fatto^
come è notOj altri ess, di ^ illut ' ci
porgono i coddp Plautini ^ uetus ' o Vatìcanno (B) e ^ decurtatus ^ del
se e» XI (C) al presente di nuovo in
Heidelberg ; il cod. Tereuziano Bembin. o Vatican, del
sec. IV/A-^ (A) ; il palinsesto torinese del sec. IV/V (orazione dì Cic. prò Tuli.) ; il palinsesto Vatican.
Reg. 2077 del sec. ^ Avverto^ in
nota, che nel 2^* dei due IL indicati sostituiscono * istud ' al pron. dimostrativo che ivi è adoperato
quattro codd. del sec, XI^ cioè i
Monacenss, Ffl e no. 330 ed i Pari ss. no- 8048 e no* 8070 ; tre codd. del sec. XII, che sono il Monacens. no. 83,
il Paris. 8246, il Berolinena, no. 2; ed
altri codd, più recenti. contenente le Verrin. di Cic. ; il cod. Vatican. -
Basilio . H 25 del sec. IX, in cui si
contengono le Philipp, di Cic. ; ^ il
cod. Paris. 5764 del s. XI/XII, che contiene i comm. de 6. ciu. di Cesare; il palinsesto veronese del
sec. V delle institutiones di Gaio ; ecc.
^ Altri ess. presenta il Corpus inscr. Lat. : . ecc. Sat. Tanto il cod. P
quanto i codd. A B danno concordemente '
potis est ' per il v. 13 : la stessa lez. si ripete nel florilegio contenuto nel cod. Monacens. no. 4423 del
sec. XV. Una correzione di seconda mano fatta sul cod. A sostituisce ' potis es
' ; e questa lez. osservasi nel cod.
Laurenziano 19 del sec. XI e, sotto
cancellatura, nel cod. Paris, no. 8272 del medesimo sec. ^ Gli edd. di Persio
hanno tutti accettato V emen- dazione
del correttore del cod. A, scrivendo il v. di Persio : * et potis es nigrum uitio praefigere theta
'. Io credo che si debba ritornare alla
lez. dei codd. P A B, restituendo nel
testo di Persio V espressione ' potis est ' : e mi conferma in questa opinione, anzi tutto, il
fatto che i dotti del medio evo lessero
^ potis est ' nel verso citato , come ne fanno
fede Isidoro (sec. VI -VII) * e Giovanni di Salisbury; ^ e in secondo
luogo una ragione ermeneutica. Al gio-
A Vi Mai, class, auct t. II pp. 7 e 810. Il Neue (Formenlehre der lateinischen Sprache, III Auflage von C. Wagener, Beri.
Calvary) nelP elenco degli ess. sopra
menzionati trascura la lez. del cod. P di Persio. ^ Non si può tener conto della lez. ,
evidentemente errata , * potis e nigrum
' , che presenta il cod. Paris, no. 8048 del sec. XI. 4 Isidorus, on'g. I 23, 1 col. 837, 18 : *
et potis est nigrum uitio prae- figere
tbeta '. 5 Ioannes Saresberiensis ,
policrat VI 18 p. 371, 36, ed. Io. Maire ^
Lugd. Bat.: et potis est nigrum uitiis praefigere theta '. vnìm
aiiibizinso, ^il qua lo * inveii ìum e è rerum prudentia Meìùi I ante pìlos neiut ' , il saggio pn^cettore
dico : ^ scia etenim iu-^ ttum geuiina
suspendere [unee | ancipiti^ librac '5 e tosto 90"^*i giunge : ^ rectuui diseeniis ' ; e di taile
discernimento fa, quanta air obietto,
tre ipotesi: a) ubi inter curmi aubit ' (^c. roc*' tuiuj , cioè, couie spiega il prof. Geyza
Németh^j etiam tuTii, cum difficìlo est rectum a non recto
discern^ra * ; ò) ^ nel cuui fa Hit pedo
regula uaro ' , perehn il ^ aumnium iua ' è non
di rad^ì ^ aumina iniurjfi \ donde la necossità di mitigare U ri- gore delle leggi eoi principi dell'equità; e)
^ et potis est Jii- gi'Uin uitio
praefigere tlieta % ossia la possibilità, in generale^ di punire ì colpevoli. Questa terza ipotesi v
in istretto legame, logieo e sintattico,
con la precedente; e su il poeta ha preferito
avvalersi generalmente de IT espressione ^ uel cum fnllit \ non potevasi, tanto per V unità di concetto
quanto per la diretta di- pendenza di ^
potis ,.. ' dalla stessa espressione ' nel cum ' eli e regge il ' fallìt * precedente, non
poteviisi^ dicevo^ venire al verbo di
feconda pers. es ' , ma era da con servarsi, per V ob- biettività (mi si conceda V uso, qui
necessario, della voce nuo- va) della
considerazione generale, la stessa terza pers. che si V notata tanto in 'fallii ' quanto in * subit
\ 1 jCggo , d un q ne, coi miglio r i
co dfl . di Pc r sio e sccond o la tra -
dizione conservata dai dntti nell'etìi di mezzo; et potis est nigrum
uitio praefigere thefca, Jn tutte le
edd. di Persio si leggr; ' ingetntfc ^
hoc bene sìt ' tunicatum ciirn stile mordens
cae|)e ^ , Kémethy, op, eìt. p*
21% Ma il cod. P dà ' mordes ' invece di
^ mordens ' ; e , tutto- ché il
correttore antichissimo vi abbia apposto V emciidazioiui ' mordens ' , fondata sulla recensione
Sabiniana , io non credo che la lez.
genuina del P si possa senz' altro rifiutare. Tutti i commentatori spiegano il passo cit. che V
autore ci voglia pre- sentare un tristo
avaro , il quale , mordendo una cipolla con
sale, mormori soddisfatto ' hoc bene sit '. Secondo la lez, del cod. P appare, invece, che l'avaro non si
congratuli soltanto con sé stesso del
vilissimo cibo che mangia, ma ne faccia quasi
un'esortazione a chi conversi con lui, sulla bontà dei cibi frugali, di
poca o nessuna spesa; onde il verso dovrebbe leggersi: * ingemit « hoc bene, si tunicatum cum sale
mordes caepe » ' . E in tal modo si rende necessario mutare ^
sit ' ì\\ ^ si ' ; ma con ciò io non
credo che si venga a forzare la parchi per
coordinarla con la lez. del P ^ mordes ' , poiché a me pare di essere nel vero ammettendo che la t finale di
^ sit ' sia dovuta air efficacia della
pronunzia dejla lettera iniziale della voce
seg. ^ tunicatum ' : e non é improbabile che chi scrisse il P abbia trovato, nelP esemplare da cui traeva V
apografo, il nesso ^ situnicatum ' e V
abbia diviso, senza ben riflettere al mordes seg. , in sit tunicatum '. Laonde non credo di essere
in fallo riconoscendo per vero che
Tryfoniano Sabino, quando i^i accinse ad
emendare il testo di Persio, siasi trovato , recensendo il v., dinanzi alla
difficoltà del ' sit ' coordinato con mordes e che abbia opinato di superarla
lasciando ' sit ' e correggendo ^ mordes
' in ^ mordens ' , che poi si ripetè nei codd. che ebbero a fondamento la recensione di lui. D'altro canto, non sarebbe sintatticamente
inesatto se ai lasciasse coesistere il ^ sit ' col ^ mordes ' , leggendo :
ingemit « hon (bene sit !) tunicatum cum sale mordes caepe t;
ma spiace quell' indicazione di un fatto come realmente avve- mitoj
mediante il ^ inordos ' di modo indicativo, laddove s' intenda t* eprime re un
invito o consiglio o sollecitazione a man-
g"iare cipolle con sale. La
restituzione della lez. presentata dal P, con la sostila- aion© della voce ^ si ' al v. * sit \ ha
questo di vantaggio sulla lez. coin un
eniente segui taj che, oltre al dare maggiore evidenza alla tìgura delP avaro che predica agli altri
la bontà dei cibi tiomplici y naturali e
di poco o nessun costo ^ ha il merito di
evitare il cumolo dei due participi ' metuena ' e ^ niordens ' (o
incidens come è scritto nel cod, Paris, no. 8050 dell' a. 1321} e di conservare meglio la simmetria della
frase. Sat- IV 51. La lez. * est ' invece di ' es ' nel v. 51 è
data tanto dal cod- P quanto dai codd,
di fonte tSabiniana A B; e si osserva
ripetuta nel cod* Paris, no, 80oO scr. nel sec. XTV e nel cod. Basileens. f\ III. 6 dtjl sec, XV, Olì edd,
tutti l'hanno rifiu- tata, ma a torto ^
ed hanno ammesso la lez. * es ' che appare
la prima volta in nn^ emendazione di seconda mano notata nel cod, A e si ripete nel cod. Laurenziano
XXXVII 19 del sec. XL Dico eh a gli edd.
l'hanno rifiutata a torto ^ perche il
pensiero dell' autore non è di consigliare il rifiuto dì ciò che una perso uà non èj ma il disdegno per tutto
quello che in real- tà non t% cioè il
disdegno per lo vane apjiarenze e per le cose
che non hanno valore alcuno: insomuia, il contenuto del consi- glio che da 1' autore ha un* estensione
objettiva maggiore chn non resti
espressa col verbo in seconda persoua * es \ Io cre- do, per tanto ^ che si debba ritornare alla
lez, presentata dai codd, pili
autorevoli, leggendo il verso su indicato di Pera io: respue quod non estj tolUt sua muoera
cerdo K\in opere del Prof. Dott. Santi
CirasDli : IIuIIòitkIc sninimntlk Ul brng for Koriitke og Danske, Catania ,
1BB4. L. 3. (in Oì?itu presso E.
Ilaul'fs boghantlel, Krif>tiauìaj in Norvegia). MHit/Aoiil di Ihii^nm kitmti espoF^te,
fieeondo il mefcoLlo scientìfico , agli
al u imi dille scuole secondarie olaasicho. Ci^taaia^ F, Tropea,
18BT« L. :i, 50 (esaurito), Iiitrodii/ioue il Ilo studio del l>. K. —
Torino^ Fratelli Bocca, ItiSH. L. Ci
(esaurito). Fotioloiriu lutimu —
2'' ediz. riveduta e migliorata. — Milano, U. Hoepli. im-2. L. 1, 50. Lettera! lira no r ventatiMilano^ U. Hoepli De
Cp Ffìiiiì CiiceilH 8ceiiiidl rlietorick s^tudll^, Catiuae , C. Galatola , 18^7, L 3 (esaurito). Il neoloferismo iioflì Berltti di Plinio lì
giovane. Contributo agli studi sulla
Uitiiiit^'i ar^outeti. ^ Palermo, A. Reber^ 1900. L. 3. Neidosrìsnii 1)otiimei nei earinì biieoUei e
g^jorgricl di Yì Icilio, Contributo agli
ytudl sulla latlcitfi dell' evo augusteo»
Palermo , A* ftebor . Té* tt
Ilio re ilei libro De origine et sitn (Teruiauorum ,| ; ricercke critiche, Jtioma, E. Loeseher & a-, . L. 8. Li Germauia, comparata con la Natni'alis
lilstoria, di Plinio e eoli lo opero di Tnelto: ricerche lessigrafiche e
sìutiitticbe. E orna, E. Loe^cher &
C", 19(Xl L a ^^otc eritieiic e
liìbilogi^Uciie di lettemtura latina^ puutata. I. Catania^
Barba gai lo Lt Scuderi A« Pernii FI aeei saturartim libtr ; recensuit,
adnotatione critica instruxit, te
stimolila usque ad saeculum XV addidlt Santi Consoli. Editio maior. llomae, apud Hermannurn Loescher et
socium. Note eritlelio e bibUoj^i'atìclie di lettemtuni latina, puntata II.
Catania, Fratelli Perrotta, MM, L
1, A. Pei-sil Flacei satnrariini Hbcr ;
recensuit Santi Consoli. Editio miaor.
EomaOi apud Hermann uni Loescher et socium, 19CM. L. 1, Di prossima pubblicasiione : Le fonti delie satire di Persio. Up Bf«v!
afinm^lonE (critiche alle Set ì. Santi Consoli. S. Consoli. Consoli. Keywords:
deutero-esperanto. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Consoli.” Consoli.
Luigi Speranza -- Grice e Conte: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del sacrificio – scuola
di Pavia – filosofia lombarda -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Pavia).
Filosofo paviano. Filosofo Lombardo. Filosofo Italiano. Pavia, Lombardia. Grice: “Must say I love Conte – he
has almost the same talent for linguistic coinage that I do! In Italy ‘filosofia del diritto’ is much more respectable a discipline
that it is at Oxford! But Conte managed to keep it philosophically interesting
for the philosopher’s philosopher that I am!” “Conte proves that moral
philosophy is at the heart of philosopohy qua-uni-virtue – for the critique of
reason must include the buletic – and that’s all that Conte dedicates his
philosophy too! Into the bargain, he expands into concepts like sacrifice,
punishment, ‘fiducia’ (my principle of conversational trust), and so much
more!” “He plays with language the way only Heidegger did in German and I in
English!” Grice: “Conte is what I – and Italians – would call a ‘Griceian
conversationali pragmaticist.’” Studia a
Pavia e Padova. Si laurea a Torino sotto Bobbio con “Ius naturale.” Insegna a
Pavia. Si occupa della semiotica del performativo deontico o buletico, la
regola eidetico-costitutive, validità buletica – desirabilita -- deontica, modo
imperativo, prammatica conversazionale – alla Grice. In che cosa consiste
quell’’impero’, dal quale il modo imperativo prende il nome. Altre opere: “Interpretazione
analogica. Pavia, Tipografia del Libro, “Ius ed ordine” (Torino, Giappichelli).
Primi argomenti per una critica del normativismo. Pavia, Tipografia del Libro,
Ricerca d'un paradosso deontico” (Pavia, Tipografia del Libro); Nove studi sul
linguaggio normativo. Torino, Giappichelli); Filosofia del linguaggio
normativo. I. Studi; Torino, Giappichelli, Filosofia del linguaggio normativo.
II. Studi; Con una nota di Bobbio. Torino, Giappichelli); Imperativo ed ordine.
Studi Torino, Giappichelli); Filosofia del linguaggio normativo. III. Studi,
Torino, Giappichelli); Filosofia del diritto” (Milano, Cortina); Ricerche di
Filosofia del diritto” Torino, Giappichelli); “Res ex nomine” (Napoli,
Editoriale Scientifica); “Sociologia filosofica del diritto. Torino,
Giappichelli); “Adelaster. Il nome del vero” (Milano, LED). È inventore del
genere da lui chiamato "eido-gramma" ed autore di numerosi
eidogrammi, solo parzialmente éditi:
Nella parola. Osnago, Pulcino elefante, Kenningar. Bari, Adriatica. "Per
una critica della ragione deontica" (introduzione alla Filosofia del
linguaggio normativo). Pragmatica. Filosofia del diritto Logica deontica Ontologia Performativo
(atto verbale) Pragmatica Semiotica Semantica.To undertake to set forth with
any definiteness the ‘religious’ – or eschatological -- ideas of ''a
Roman philosopher'' – FILOSOFO ROMANO -- would be an extremely difficult
task.Those, ideas would differ with the individual and the sect, being
determined or varied by a number of considerations and influences — by
locality, education, and temperament. SILIO would not hold the
views of SEIO. We may speak of the state religion – colto officiale -- of ROMA,
as distinct from various other ‘religions’ tolerated and practised
in different parts, but it is scarcely possible to define the contents of
that ‘state religion’ – il SACERDOCIO. There are certain special
priests and priestly bodies who see to it that certain rites and
ceremonies are performed scrupulously in a prescribed manner and on
prescribed dates. But these are officers of the state – LO STATO ROMANO
-- whose knowledge and functions are confined to the ritual observances
with which they have to deal. They are not persons trained in a
system of ‘theology’, nor are they preachers of a code of doctrines or
morals. They have no "cure of souls," and belong to no church. They
have no credo and no Bible or corresponding authority to which to refer.
Though most well-informed persons will know the prominent deities
in the calendar — such as IOVE or MARTE, or QUIRINO -- perhaps scarcely any one
but an encyclopaedist or antiquarian could have named one-half of the
total. It is not merely that the deities on the list are so numerous.
There are other reasons for ignorance or vagueness. In the first place,
the line between the operations of one deity and those of another is
often too fine to draw, and deities originally more or less distinct come
to be confused or identified. Secondly, it is often hard, if not
impossible, to make up one's mind whether a so-called deity — such
as SPES — is supposed to have a real existence, or whether it is simply
the personification of an abstract quality. Thirdly, divinities fall out of
fashion, and to a large extent out of memory, while new ones come, or
were coming, into vogue. The state possesses its old-established
calendar of days sacred to a number of deities, and its code of ritual to
be performed in their honour. There are ancient prescriptions as to what
certain priests should wear, what they should do or avoid in their
priestly character, what victims — ox, sheep, or pig — they should
sacrifice, what instruments they should use for the purpose, and in what
formula of words they should pray in particular connections. There is
a standing commission, with the PONTIFICE MASSIMO at this date that
excellent religious authority, the emperor — at its head, to safeguard the
state religion, to see that its requirements are carried out, and
that no one ventures to commit an outrage towards it. But the state will
not tell you with any precision that you must believe in just so
many deities and no others. It would not tell you precisely what notions
to entertain concerning those deities whom it does officially recognise.
The state dictates no theological doctrine; neither does it dictate
any moral doctrine beyond those which you would find in the secular law.
It reserves the right to prevent the introduction of a foreign divinity
if it finds sufficient cause; but so long as the temples, the rites and
ceremonies, the cardinal moral axioms of the Roman ''religion,'' and the
basic principles of Roman society are respected, the state practises
no sort of inquisition into your beliefs or non-beliefs, and in no way
interferes with your particular selection of favourite deities. Poly-theism
in an advanced commimity is always tolerant, because it is necessarily
always indefinite. What it does not readily endure is an organised
attack upon the entire system, whether openly avowed or manifestly
implied. Even undisguised unbelief in any deity at all it is often
willing to tolerate, so long as the unbelief is rather A MATTER OF
PHILOSOPHICAL DIALECTICS than anything else, and makes no attempt at a
crusade. When a state so disposed is found to interfere with a
novel religion, it will generally be easy to perceive that the jealousy
is not on behalf of the deities nor of a creed, but on behalf of the
community in its political, economic, or social aspect. Let us endeavour
to realise as best we can the religious situation among the Roman
population. Though we are not here directly concerned with the
steps by which the Roman religion had come to be what it was, we can
scarcely hope to understand the position without some comprehension of
that development. The Romans are a CONSERVATIVE people, and many of the
peculiarities of their worship are due to the retention of old forms
which had lost such spirit as they once possessed. In the infant
days of the nation there had been no such things as gods in human shape,
or in recognisable shape at all. There were only ''powers" or
"influences'' superior to mankind, by whose aid or concurrence man must
work out his existence. The early Romans and such Italian tribes - as
they became blended with were, as they still are, EXTREMELEY
SUPERSTITIOUS. In a pre-scientific age they, like other peoples, are at a
loss to understand what produces a thunder or a lightning, rain, the
fertility or failure of crops, the changes of the seasons, the flow or
cessation of springs and streams, the intoxication or exhilaration
proceeding from wine, and a multitude of other phenomena. Fire is a
perplexing thing; so is wind. The woods are full of mysterious sounds
and movements. They could comprehend neither birth nor death, nor
the fructification of plants. The consequence is a feeling that these
things are due to some unseen agency; and the attempt is made to
bring those powers into some sort of relation with mankind, either by the
compulsion of magical operations and magical formulae, or by sacrifices and
offerings of propitiation, or by promises. A superhuman power might be
placed under a spell, or placated with food and drink, or persuaded by a
vow. Such "powers" were exceedingly numerous. Greatest of
all, and recognised equally by all, was the power working in the sky with
the thunder and the rain. Its presence was everywhere alike, and its
bperations most palpable at every season. Countless others were
concerned with particular localities or with particular functions. Every
wood, if not every tree, and also every fountain, was controlled by some
such higher 'power'; every manifestation or operation of nature
came from such an 'influence.'' There was no kind of action or
undertaking, no new stage of life or change of condition, which did not
depend for help or hin- drance upon a similar power. At first "the
''powers" bore no distinctive names, and were conceived in no
definite shapes. They were not yet gods. The human being who sought to
work upon them to favour him could only do, say, and offer such
things as he thought likely to move them. But in process of time it
became inevitable that these superhuman agencies should be referred to
under some sort of title, and the title literally expressed the
conception. Hence a multitude of names. Not only was there the
ever-prominent Jupiter or sky-father " ; there was a veritable
multitude^ of powers with provinces great and small. Among the larger
conceptions the power concerned with the sowing of seed was Saturn,
that with the growth of crops was Ceres, that with the blazing of fire
was Vesta. Among the smaller, the power which taught a babe to eat was
Edulia, that which attended the bringing home of a bride was
Domiduca. The ability to speak or to walk was supposed to be imparted by
separate agencies named accordingly. Flowers depended on Flora and
fruits on Pomona. But to assign a name is a great step
towards creating a ''power'' into a ''god,'' and such agencies
began to take shape in the mind of those who named them. This was the
second stage. Jupiter, Ceres, Satmn, and almost all the rest became
"gods." The powers in the woodlands — a Silvanus or Faunus
— became embodied, like the more modem gnomes and kobbolds. Once
imagine a shape, and the tendency is to give it visible form in an image
"like unto man,*' and to honour it with an abode — a temple or
shrine. The earliest Romans known to us erected no images or
temples, but they were not long in creating them. Particularly rapid was
the reducing of a god to human form when they came into close contact
with the Etruscans and the Greeks. For all the important deities
poetry and art combined to evolve an appropriate bodily form, which
gradually became conventional, so that the ordinary notion of a
Jupiter, a Juno, a Mercury, or a Ceres was approximately that which
had been gathered from the statue thus developed. This trouble was not
taken with all the most ancient divinities. Many of the old rural and
local deities, and many of those with quite minor provinces, were left
vague and unrealised. They were represented in no temples and by no
statues. Natiu'ally as the Roman state grew from a set of neighbouring
farms into a great city, and from a small settlement into a vast empire,
the little local gods fell into the background. The deities which
concerned the state, and to which it erected temples, were those
with the more far-reaching operations — such as the gods identified with
the sky and its thunders, with war, with fertility, with the sea, with
the hearth-fire of all Rome. The rest might well be left to
localities or to domestic worship. From the early days of
Rome there existed a calendar for festivals to certain divinities
important to the little growing town, and a code of ceremonies to
be performed in their honour, and of formulae of prayer to be offered to
them. The later Romans, in their characteristic conservatism, adhered to
those festivals, to that ritual, and to those formulae, even when
some of the deities had ceased to be of appreci- able account, and when
neither the meaning of the ritual nor the sense of the old words was any
longer imderstood by the very priests who used them. Reflect
a moment on this situation. First, we have a number of deities of the
first rank, housed in temples, embodied in statues, and recognised in
all the Roman world; next a number of minor divinities whose
operations and worship may be remotely rural or otherwise local, and
whose functions are by no means always distinguishable from those of
the greater gods; then a series of more or less un- intelligible
ceremonials carried out by ancient rule in honoiu" of divinities
often practically forgotten ; outside these a number of vague powers
presiding over small domestic and other actions; finally, a
peculiar Roman tendency — in keeping with the last — to erect into
divinities, and to symbolise in statues housed in temples, all manner of
abstract qualities and states, such as Hope, Harmony, Peace, Wealth,
Health, Fame, and Youth. Reflect agam that, when the Romans, as
they spread, came into contact with Greeks, Egyptians, or other
foreigners, they met with deities whose provinces were necessarily often
identical with or closely akin Fio. 110. — A
Sacrifice. to their own. Then remember that there is
no church and no official document to define the complete list of
Roman gods. Does it not follow, as a matter of course, on the one hand,
that the importation of new gods was an easy matter, and on the other,
that no individual Roman could draw the line as to the number of
even the old-established deities in whom he should or should not
believe? The guardians of the public reUgion were satisfied if the
due rites were paid by the state to those deities, on those. dates, and
precisely in that manner, which happened to be prescribed in the official
religious books. For the rest they left matters to the
individual. So much it has been necessary to say in order to
account for existing attitudes. We must use the plural, since the
attitude of the state officials is but one of several, and, inasmuch as
the state officials themselves were not a theological caste but
only secular servants of the community administering the
regulations for external worship as laid down in the records, it often
happened that their official attitude had nothing to do with their
individual beliefs. Often they did not know or care whether there
was a real religious efficacy in the acts which they performed ;
sometimes all that they knew was that they were doing what the state
required to be done properly by some one. Cicero quotes a
dictum of a Pontifex Maximus that there was one religion of the poet,
another of the philosopher, and another of the statesman. This is
true, but it is hardly adequate. We must at least add that of the common
people. A well-known statement of more modern birth puts the case —
rather too strongly — that at our period all religions were
regarded by the people as equally true, by the phi- losopher as equally
false and by the statesman as equally useful. We may begin with the
ordinary people of whatever station, who were not poets nor thinkers
nor magistrates. It is an error to suppose that such Romans of the first
eentiu'y were either atheistic or indifferent to religion. Their
fault was rather that they were too superstitious, ready to believe
too much rather than too Uttle, but to beUeve without relating their
beUef to conduct. They did not question the existence of the traditional
gods, nor the characters attributed to them; they were ready to
perform their dues of worship and to make their due offerings, but all
this had no bearing upon their own morality. They believed with the
terror of the superstitious in omens and portents, and in rites of
expiation and purification to avert the threatened evil. They were
alarmed by thunder and lightning, earthquakes, bad dreams, ravens seen
on the wrong side of the road, and other evil tokens. They commonly
accepted the existence of maUgn spirits, including ghosts. They were
prepared to believe that on occasion a statue had bled or turned
round on its base; that an ox had spoken in human language; or that there
had been a rain of blood. There were doubtless exceptions, and
super- stition was less dire and oppressive than once it was. More
than fifty years before our date Cicero had said that even old women no
longer shuddered at the terrors of an underworld, and fifty years
after it the satirist asserts the same of children. But both writers are
speaking somewhat hyper- bolically. Doubtless it had been wondered
how two augurs could look at each other without a smile, but there
is nothing to show that even a minority of augurs were acutely conscious
of any- thing to smile at. In the multiplicity of deities the
ordinary people were prepared to accept as many more as you chose
to offer them, especially if the worship attaching to them contained
mystic or orgiastic ceremonies. By this date the populace had become
exceedingly mixed, especially in the capital, and the cool
hard-headed Roman stock had been largely replaced or leavened by
foreign elements, especially from the East. The official worship of the
state was formal and frigid ; it offered nothing to the emotions or the
hopes. Many among the people felt an instinct for something more
sacramental, and especially attractive was any form of worship which
promised a continued existence, and probably a happier existence, after
death. Even the mere mysteriousness of a form of worship had its
allurements. Hence a tendency to Judaism, still more to the Egyptian
worship of Isis and Osiris. The latter made many proselytes, particularly
among the women, and contained ideas which are by no means ignoble
but to our modern minds far more truly ''religious'' than anything to be
found in the native Roman cults. To pass through purification, to practise
asceticism, to feel that there was a life beyond the grave apportioned to
your deserts, to go through an impressive form of worship held
every day, and to have the emotion^-thus worked upon — all this
supplied something to the moral nature which was lacking in the chill
sacrifices and prayers to Jupiter and the other national divinities. In
vain had the authorities, in their doubt as to the moral effects, tried
on several occasions to suppress this foreign worship; it always revived,
and it now held its established place both in the imperial city and
in the provinces, particularly near the sea, for it was especially a
sailors' religion. Rome, like Pompeii, had its temple of Isis and her
daily celebrations. There was, however, no necessary conflict
between this worship and the oflScial religion. It was quite
possible to accept Isis while accepting Jupiter. Nor, though this particular
cult has required mention, must it be taken as belonging to more than a
section of the Roman population. Most Romans would look upon it and
other deviations with acquiescence, some with contempt, and perhaps some
with a shake of the head, while themselves satisfied with an
indifferent conformity to the more estabUshed customs of the
state. Setting aside the devotees of the mystic, the more
ordinary point of view was that between Romans and the established gods
of Rome there is an understanding. The gods will support Rome so long as
Rome pays to them their dues of formal recognition. Their ritual must
not be neglected by the authorities; it is not necessary for an
individual member of the community to concern himself further in the
matter. The state, through its appointed ministers, will make the
necessary sacrifices and say the necessary words; the citizen need not
put in an appearance or take any part. He will not do or say anything
dis- respectful towards the deities in question, and he will enjoy
the festivals belonging to them. If remarkable portents and disasters
occur, he will agree that there is something wrong in the behavioiu* of
the state, and that there must be some public purification or other
placation of the gods. If the state orders such a proceeding, he will
perform whatever may be his share in it. So far he is loyal to the
''religion of the state.'' In his private capacity he has his
own wants, fears, and hopes. He therefore betakes himself
to whatever divinity he considers most likely to help him; he makes his
own prayers and vows an offering if his request is granted. Reduced to
plain commercial language his ordinary attitude is — no success, no
payment. A cardinal difference between the religion of the Romans and our
own is to be seen in the nature of their prayers. They always ask for some
definite advantage — prosperity, safety, health, or the like. They
never pray for a clean heart or for some moral improvement. Of more
importance than the man's moral condition will be his scrupulous
observance of the right external practices. Unlike the Greek, he
will cover his head when he prays. He will raise his hand to his lips
before the statue, or, if he is appealing to the celestial deities, he
will stretch his palms upwards above his head ; if to the infernal
powers, he will hold them downwards. These are the things that
matter. At home, if he belongs to the better type of
representative citizen, our Roman has his household shrine and his
household divinities, whom he never neglects. If he is very pious, he may
pray to them every morning, or at least before every enterprise. In
any case he will remember them with a small offering when he dines. There
are the ''gods of the stores" — his ''penates'' — certain deities
whom he has selected as guardians of his belongings, and who have
their little images by the hearth in the kitchen. There is the household
''protector," or more commonly there are two, who may be
painted under the form of Ughtly-stepping youths in a little niche
or shrine above a small altar. To these he will offer fruits, flowers, incense,
and cakes. And there is the ''Genius'' of the master of the house,
who is also painted on the wall, or who may be represented by his own
portrait bust or by the pictxu-e of a snake. That "Genius"
means the power presiding over his vitality and health and well-
being. If he is an artisan and belongs to a guild, he will pay special
worship to the patron god or goddess of that, guild — to Vesta, if he is
a baker, to Minerva, if he is a fuller. Out of doors he will find a
street shrine in the wall at a crossing, pertaining to the tutelary
god of what may be called his ''parish,'' and this he will not neglect.
Like all other orthodox Romans he will not undertake any new enterprise
— betrothal, marriage, journey, or important business — without
ascertaining that the auspices are favourable. In a general way he
has a notion that the gods are displeased at certain forms of crime, and
that they approve of justice and the carrying out of compacts. The
gods overlook the state, because the state engages them so to do, and
therefore to break the laws of the state is to anger the gods of the
state. But this is rather subtle for the common man, and there is
generally no understood immediate relation between these gods and his
moral conduct, unless he has sworn an oath by one or other of them. The
purpose of calling a god to witness is to bring upon a perjurer the
anger of the offended deity. But he entertains no such conception as the
modem one of "sin" or of "remorse for sin."
"Sin" is either a breach of the secular law or breach of a
contract with a deity, and ''remorse'' is but fear of or regret for
the consequences. His morality is determined by the laws of
the state, family discipUne, and social custom. For that reason his
vices on the positive side will mostly be those of his appetites, and on
the negative side a want of charity and compassion. He may be guiltless
of lying and stealing, murder and violence; he may be honest and
law-abiding ; but there .is nothing to make him temperate, continent, or
gentle. His avowed code is duty,' and duty is defined by law and
tradition. If this is the religious condition of the conunon-
place man or woman — a blend of superstition, formalism, and tolerance —
it is by no means that of the educated thinker. Such persons were for
the most part freethinkers. Many of them, finding no better guide
to conduct, conform to the "religion" of the state without any
real belief in its gods or attaching any importance to its ceremonies.
They do not feel called upon to propagate any other views, and they
probably think the current notions are at least as good fqr the ignorant
as any others. If they are poets, like Horace or Lucan, they will dress
up the mythology, mostly from Greek models, and write fluently
about Jupiter and Juno, Venus and Mercury, either attributing to them the
recognised characters and legends, or varying them so as to make
them more picturesque and interesting — perhaps even improving them — but
all the time believing no more in the stories they are telling^ or in the
deities them- selves,* than Tennyson need have beUeved in King
Arthur and Guinevere. The gods are good poetic material and are sure to
afford popular, or at least in- offensive, reading. The poets doubtless
do something to hiunanise and beautify the popular conception of a
deity, but they seldom deUberately set out with any such purpose. If the
educated are not poets, but pubUc men of affairs, they may beUeve just as
Uttle, and yet regard the established cult of the gods as an
excellent discipline for the vulgar and the best known means of upholding
the national principle of ''duty.'' If they are philosophers they may
not, and the Epicureans in reality do not, beUeve in the gods at
all — certainly not as they are generally conceived — and will
openly discuss in speech and in writing the ques- tion of their existence
or non-existence, and of their character and nature if they do exist.
They will endeavour to substitute for the barren formalism of rites
and ceremonies, or the inconsistent or incomplete traditional morality of
duty, another set of principles as a sounder guide to life and conduct.
Some are monotheists, some are simply in doubt. Says Nero's own
tutor, Seneca, ''Do you want to propitiate the gods? Then be good. The
true worshipper of the gods is he who acts like them."
"Better," remarks Plutarch, "not believe in a God at all
than cringe before a god who is worse than the worst of men."
In the actual worship of images none of them believe. One conspicuous
writer of the time says : "To look for a form and shape to a god, I
consider to be a mark of human feebleness of mind." Concerning the
schools of thought and in particular the tenets of those Stoics and
Epicureans whom St. Paul met at Athens, and whom he could meet in
educated circles all over the Roman Empire, we shall have to speak in a
following chapter, when sununing up the intellectual and moral condition
of the time. Meanwhile it should be under- stood that, though a profound
or anything approaching a professional study of philosophy was
discouraged among the true Romans — more than once the profes-
sional philosophers were banished from the capital — there were few
cultivated persons who did not to some extent dabble in it, and even go
so far as to profess an adherence to one school or another. None of
these men believed in the "Roman religion" as administered by
the state, although many of them were administering it themselves. The
same man could one day freely discuss the gods in con- versation or
a treatise, and the next he might be clad in priestly garb and officially
seeing that the rites of sacrifice were being religiously carried out
in terms of the books, or that the auspices were being properly
taken. It does not, however, follow at all that because poet
or public man cared nothing for the pantheon and all its mythology, he
was therefore without his superstitions. He might still tremble at signs
and portents, at comets, at dreams, and at the un- propitious
behaviom* of birds and beasts. He might believe in astrology and resort
to its professors, called the ''Chaldaeans." On the other hand he
might laugh at such things. It was all a
matter of tempera- ment. It certainly was not every man who dared
to act like one of the Roman admirals. When it was reported that
the omens were unpropitious to an inuninent battle because the sacred
chickens ''would not eat," he ordered them to be thrown into the
sea so that at least they might drink. The freethinkers were in
advance of their times. "Science" in the modern sense hardly
existed, and until phenomena are explained it is hard to avoid a
perplexity or astonishment which is equivalent to superstition.
Consider now these various states of mind — that of the
people, ready to add almost any deity to the large and vague number
aheady recognised ; that of the poet, who finds the deities such useful
literary material ; that of the magistrate or public man, who,
without enthusiasm or necessary belief, regards reUgion as a thing useful
to society; and that of the philosopher, who thinks all the current
re- Ugious conceptions unsound, if not absurd, and morally almost
useless. Manifestly a society so composed will be one of
unusual tolerance. The Romans had no disposition to force their religion
on the subject provinces of the empire. Their religion was the Roman
religion; the rehgion of the Greeks might be left Greek, the Jewish
religion Jewish, and the Egyptian religion Egyptian. Any nation had a
right to the religion of its fathers. Nay, the Jews had such peculiar
notions about a Sabbath day and other matters that a Jew
was exempted from the military service which would have compelled him
to break his national laws. All religions were permitted, so long as they
were national religions. Also all religious views were permitted to
the individual, so long as they were not considered dangerous to the
empire or imperial rule, or so long as they threatened no appreciable
harm to the social order. If a Jew came to Rome and practised
Judaism, well and good. It was, in the eyes of the Romans, a
narrow-minded and uncharitable religion, marked by many strange and
absurd practices and superstitions, but if a misguided oriental people
liked to indulge in it, well and good. Even if a Roman became a
proselyte to Judaism, well and good, so long as he did not flout the
official reUgion of his own country. If the Egyptians chose to worship
cats, ibises, and crocodiles, that was theii^ affair, so long as they
let other people alone. In Gaul, it is true, the emperor Claudius,
predecessor of Nero, had put down the Druids. Earlier still the Druids
had already been interfered with ; but that was because the Druids —
those weird old white-sheeted men with their long beards and
strange magic — are performing human sacrifices — burning men alive in
wicker frames — and such conduct was not pnly contrary to the secular law
of Rome, but even to natural law. And when Claudius finally
suppressed them, or drove the remnant out of Gaul into Britain, it was
not simply because they worshipped non-Roman gods and performed
non- Roman rites, but because they were, as they had always
notoriously been, a dangerous political influence interfering with the proper
canying out of the Roman government. And when we come to
Christianity it must be remarked that, so long as that nascent religion
was regarded as merely a variety of Judaism, it was actu- ally
protected by the Roman power, and owes no little of its original progress
to the fact. In the Acts of the Apostles it is always from the
Roman governor that St. Paul receives, not only the fairest, but
the most courteous treatment. It is the Jews who persecute him and work
up difficulties against him, because to them he is a renegade and is
weaning away their people. To the philosophers at Athens he appears
as the preacher of a new philosophy, and they think him a "smatterer"
in such subjects. To the Roman he is a man charged by a certain
com- munity with being dangerous to social order, to wit, causing
factious disturbances and profaning the temple; and since he refuses to
let the local author- ities judge his case, and has exercised his citizen
privilege by appealing to Caesar, to Caesar he is sent. And, when a
prisoner in somewhat free custody at Rome, note that he is permitted to
speak ''with all freedom,'' and that in the first instance he is
acquitted. True, but the fact remains that Nero bimit
Christians in his gardens after the great fire of Rome, and that certain
later emperors are found punishing Christians merely for avowing
themselves such. Why was Christianity thus singled out? It was not
through what can be reasonably called ''religious intolerance/' for, as
has been said, the Romans did not seek to force Roman religion on other
peoples, nor did they make any inquisition into the beUefs of
Romans themselves. The reasons for singling out Christianity for special
treatment are obvious enough. The question is not whether the reasons
were sound, whether the Romans properly understood or tried to
understand, whether they could be as wise before the event as we are
after it, but whether the motive was what we should call a religious"
one. To allow Epicureans to deny the existence of gods at all, and
to make scornful concessions to the peculiar tenets of Jews, could not be
the action of a people which was bigoted. If there was bigotry and
intolerance, it was political or social bigotry and intolerance, not
reUgious. To prevent any possible misconception let the present
writer say here that he considers the principles of Christianity, as laid
down by its Founder and as spread by St. Paul, to have been the most
humanizing and civilising influence ever brought to bear upon
society. But that is not the point. The early Christians were
treated as they were, not because they held non- Roman views, but because
they held anti-Roman views ; not because they did not believe in
Jupiter and Venus, but because they refused to let any one else
believe in them; not because they threatened to weaken Roman faith, but
because they threatened to weaken and even to wreck the whole fabric of
Roman society ; not because they were known to be heretics, but
because they were supposed to be disloyal; not because they converted
men, but because they appeared to convert them into dangerous
characters. As it has been put, the Christians were regarded as the
''Nihilists" of the period. We are apt to judge the Romans from the
standpoint of Christianity dominant and understood; it is fairer to judge
them from the standpoint of a dominant pagan empire looking on at a
strange new phenomenon altogether misunderstood and often deliberately
misrepresented. Moreover — and the point is worth more attention
than it commonly receives — we have only to read the Epistles to the
Corinthians, to perceive that the early Christian gatherings were by no
means always such meek, pure, and model assemblages as they are almost
always assumed to have been. Some of the members, for instance,
quarrelled and ''were drunken.". There were evidently many unworthy
members of the new communion, and of course there were also many
manifestations of insulting bigotry on their part. The class of society
to which the Christians belonged was closely associated in the Roman mind
with the rabble and the slave, if not with criminals. What the pagan
observer saw in the new religion was "a pestilent superstition,"
"hatred of the human race," "a malevolent
superstition." He thought its practices to be connected with magic.
The intransigeant Christian refused to take the customary oath in the law
courts, and there- fore appeared to menace a trustworthy
administration of the law. He took no interest in the affairs of
the empire, but talked of another king and his coming kingdom, and
he appeared to be an enemy to the Roman power. He held what appeared to
be secret meetings, although the empire rigidly suppressed all
secret societies. He weakened the martial spirit of the soldier. He
divided f amiUes — the basis of Roman society— against themselves. He was
a socialist leveller. He threatened with ruin all the trades
connected with either the established worship — as amongst the
silversmiths at Ephesus — or with the luxuries and amusements of Ufe.
Those amusements in circus or amphitheatre he hated, and therefore
appeared misanthropic. He not only stood aloof from the religious
observances of the state and the household, but treated them with
contempt or abhorrence. Moreover, at this date, he refused to
acknowledge the one great symbol of the imperial authority. This was
the statue of the emperor. When that statue was set up in every town it
was not understood by any intelligent man that the emperor was actually
a god, or that, when incense was burnt before the statue, it was
being burned to the emperor himself as deity. But just as every
householder had his attendant Genius'' — the power determining his vital
functions and well-being — which was often represented as a bust
with the man's own features, so the statue of the Augustus, ''His
Highness," represented the Genius of that Head of the State, and the
offering of incense was meant as an appeal to the Genius to keep
the emperor and the imperial power ''in health and wealth long to
live." The man who refused to make such an offering was necessarily
considered to be ill- disposed to the majesty and welfare of the Head of
the State, and therefore of the state itself. The Roman attitude
towards the early Christians was partly that of a modern government
towards Nihilists, and partly that of a generation or two ago to a blend
of extreme Radical with extreme atheist. We are not here concerned
with the whole story of the persecution of the Christians, but only with
the situation at and immediately after the date we have chosen. It
is at least quite cer ain that when Nero burned the Christians in the
year 64 he was treating them, not as the adherents of a religion, but as
social criminals or nuisances. How far his notions of Christianity
may have been influenced by Poppaea we do not know. At least he believed
he was pleasing the populace. Grice: “Conte quotes from Aristotle’s
Soph. El. On the ‘homonimia’ of deon’ – “sometimes for the good, but sometimes
for the bad.” Conte distinguishes between semantic ambiguity – surely ‘must’ or
the imperative mode does not have TWO senses – and ambivalenza prammatica.
Since Aristotle is refusing to use Frege’s idea of ‘Sinn’, and keep referring
to ‘semeion’ (Latin segnare) rather, we may well conclude that Aristotle is
just Greek Grice. Conte does not dwell much on the imperative mode. Modo
imperativo is qualified. Modo is qualified as being modo verbale – the mode of
the verb impero. But then the future in French has a ‘valore imperativo.’ Conte
is more interested in the ‘must.’ But surely his quoting from Philippa Foot and
his joint work with von Wright into Kant’s hypo versus cate is very Griceian! On
top, Conte has a taste for local historical analysis and has discovered some
gems in some jurisprudential philosophers of his ‘paese’!” Amedeo Giovanni Conte. Keywords: il
sacrificio, the sorry story of deontic logic, fondatore della logica deontica
al Ghislieri di Pavia, il giuridico, giudicare, giuridicare, impiego, employ
(as noun), employ-ment, empiegamento, Conte e Wright – Wright cited by Grice,
alethic --. Wright on change cited by Grice in “Actions and Events”, Mario
Casotti, Volere, Grice, Volere --. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Conte” –
The Swimming-Pool Library. Conte.
Luigi Speranza -- Grice e Contestabile:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale di BRVNO al rogo – scuola
di Teano – filosofia casertese – filosofia campanese -- filosofia italiana –
Luigi Speranza (Teano). Filosofo casertese. Filosofo campanese. Filosofo
italiano. Teano, Caserta, Campania. Grice: “I love Contestabile; I love a
philosopher with a sense of humour! At Oxford, it has
become increasingly difficult to laugh at people’s surnames! But ‘grice’ means
‘pig,’ in Norwegian! – Anyway, Contestabile contests a revisionist account of
Bruno’s life – “surely he wasn’t a coward – I know because of his links with the
Campanella whom my family supported in his fight against the furriners!” Cacciato
con una telefonata» Intervista di Dino Martirano, Corriere della sera. Con il
Psi non ho ricoperto grandi incarichi ma ho avuto l'onore di essere stato amico
di Craxi. Mi mancherà la politica ma non è una tragedia. Torno ai miei studi,
alla filosofia medioevale. Mi mancheranno certi momenti. Io, che ero stato nel
Psi fin quando la procura della Repubblica lo ha sciolto, ricordo bene i mesi
trascorsi al ministero della Giustizia: col ministro Biondi fummo i
protagonisti del tentativo fallito, però generoso, di riportare la giustizia
sui binari della normalità. Sciolto il partito [Psi], chi si è fatto
maomettano, chi ebreo, chi cattolico. Però sempre socialisti siamo rimasti. Avvocato
e politico italiano Sottosegretario di Stato del Ministero della Giustizia
Presidente Berlusconi Predecessore Sorice Successore Mirone Vicepresidente del
Senato della Repubblica Presidente Mancino Senatore della Repubblica Italiana
Legislature Gruppo parlamentare Forza Italia Circoscrizione Lombardia Collegio Cinisello
Balsamo, Vigevano Incarichi parlamentari Sottosegretario di Stato per la grazia
e giustizia Sito istituzionale Dati generali Partito politico FI Titolo di
studio Laurea in giurisprudenza Professione avvocato. Avvocato e politico
italiano. Laureato in giurisprudenza,
esercita la professione di avvocato. Entra in politica iscrivendosi al Partito
Socialista Italiano (partito a cui è appartenuto fino agli eventi che hanno
travolto tale formazione politica)[1]. In seguito aderisce a Forza Italia,
affermando che in tale movimento politico l'area socialista era ben accolta e
rappresentata. Viene eletto senatore ed è rieletto anche nelle due successive
legislature. Vicepresidente del Senato. Incarichi parlamentariModifica Ha fatto
parte delle seguenti commissioni parlamentari: Affari costituzionali e
giustizia; Difesa. Membro, inoltre, della giunta per le elezioni e immunità
parlamentari. Sottosegretario di StatoModifica È stato sottosegretario di
Stato per la Grazia e giustizia nel primo governo di Silvio Berlusconi. Tutti i
figli e i figliastri del garofano. su qn.quotidiano.net. Adnkronos - Psi: C. a
De Michelis, noi stiamo bene in FI ^ Senato - XIII legislatura Voci correlate Modifica
Governo Berlusconi I Partito Socialista Italiano C., su Senato.it - legislatura, Parlamento
italiano. C., su Senato.it - XIII legislatura, Parlamento italiano. Domenico
Contestabile, su Senato.it - legislatura, Parlamento italiano. Biografie
Portale Biografie Politica Portale Politica Socialismo Portale Socialismo. PAGINE
CORRELATE Fabrizio Cicchitto politico italiano Maceratini politico e
avvocato italiano Scamarcio politico italiano Altre saggi:
Bruno: una revisione contestata” – La storia della filosofia è continua
revisione, e non mi scandalizzo per il revisionismo bruniano. Mi sembra però
che questi non colga nel segno. La vita diBruno, dalla fuga da S. Domenico
Maggiore a Napoli fino al rogo di Campo dei Fiori a Roma, è di singolare
coerenza. È una vita “contro”. L’accusa implicita di opportunismo mi sembra
perciò singolare. E’ vero che, durante il processo, ritratta molte sue tesi, e
avrebbe avuto salva la vita se continua in questo atteggiamento. Alla fine però
si stanca, e scolge lucidamente di morire. È opportunista chi cerca solo
di salvare la pelle, e poi decide di morire perché ritiene che il suoi giudice
ha esagerato? In quanto alla tesi sul Bruno spia elisabettiana, essa non è provata,
anzi è smentita dalla comparazione tra la grafia di Bruno e quella dei
biglietti di spionaggio. Infine, la tesi a proposito della relazione tra
Campanella e Bruno non mi ha mai convinto. Campanella (la sua rivolta e finanziata
dalla nobile famiglia C., come ricorda Firpo nel suo ottimo saggio sul processo
a Campanella) vuole poi un regime “comunista”? A leggere “La città del sole”
non si direbbe. (CA ui i) e iui Mia ba, VA dai ‘agi
LS it Il EGR Ln i \ LA va Di = | Pome Rm
Te ti n. i Li I e Aa Kt Hlirpogt] lb pi n 9 ha So Rif [a E Ji
> a ILLE di pe LIS ia
Giordano Bruno DRAMMA MILANO
Tipografia Commercial n als dtt, TORIO EMANUELE,
Carnevale.{Resta sapore PERSONAGGI BRUNO (si veda) Sig. G. SALASSA
LORENZO (figlio naturale di GIORDANO BRUNO, «dot- tato:da)..
... ». > A.D'ANDRADE ROMANO DEI LOMBARDI «+. > F. MIGLIARA
LEANDRO giovine patrizio. S.ra ANGIOLETTI LAURA figlia di ROMANO.
>» A. Busi IL GRANDE INQUISITORE . Sig. SALVARANI ROCCO LILLE
DAMIANI ANDREA. Ni agN° UNGUARDIANO) che nonparlano N.
N. UN OsTE .. Ni Ni Giovani e Nobili Veneziani, Servi di
Romano, Gondolieri, Seguaci di Bruno, Soldati, In- quisitori, Si
Servi del S. Uffizio, Frati e Popolo. L'azione del 1.° e 2.°
Atto è in Veni quella del:3.° e 4.° Atto in Re ber a
pieni Sofee bi; pece SUIT ZIA PIAZZA IN VENEZIA,
Un’Osteria e alcune seggiole. In fondo un canale praticabile, che
traversa la scena. Sul canale un ponte, che mette in un viottolo,
sull'angolo del quale sorge a destra, un magnifico Palazzo illumi
minato a festa, prospiciente sul Canale. .Un in- gresso laterale,
illuminato da faci fisse ai muri, con- ducedal viottolo nel Palazzo. La
porta principale verso . il Canale è aperta; durante la scena seguente,
visi vedono approdare gondole, dalle quali scendono persone
ragguardevoli, che, ricevute dai servi, entrano nel Palazzo. Sera. i TI, GIOVANI e
NOBILI VENEZIANI, parte ‘in abiti fanta- stici con mezza maschera al
volto, e parte in abiti comuni, vengono da sinistra, traversano il
ponte, e dalla strada entrano nel Palazzo. LEANDRO, ROCCO ed altri
Giovani vanno e vengono ferman- dosi sulla Piazza, cantando e ridendo,
Poi LQ- RENZO e LAURA. Leandro (accompagnandosi colla
ghitarra) A te, Venezia bella, adorata, A te, mia sposa, la
serenata. HEVVPETIAIAMITEREZI LIA VITE RENTAL rara rr ovinantosinezineneisevazize
vecio sinioneee IVTIPRErTA:Itr rara rirevenaatos aes szereris cva:i0e
vice vi’ veve’ ’avurecovio sr 0uIvI vare ri [tti STA Hocco
(Volgendosi all’osteria) Leandro, scuotiti! Le mura
adori?... Vieni ove brillano Divini amori, Ove donzelle
Cotanto belle Potrai mirar. Coro dei nobili Al convito
n’andiam! alla festa! Leandro Prima di venir alla
gran festa Distruggere io vo’ un'idea funesta! Oste, su via
porgetemi Vino di Cipro; a questo petto ardente Occorre del più
vecchio e più potente. Vivan le belle Danzanti; volano. Gli occhi
fiammeggiano Più che le stelle; Ne’ Joro vortici Mi ruban
Vanima.... sui Crudo gioir! «__°’Più non mi muovo Suolo
dolcissimo, ir belt r__Frrrrrr n -
a-rt-rvreorosoeeriovoe nueva zeranen sonia mise
eeerarmierereriiovnieteacivoteote0ie Nido mio nuovo!
Muoio in tue braccia... Santo delir! | A te, Venezia
bella, adorata, A te, mia sposa, la serenata,
Coro AI Convito! n’andiam alla festa. (S'appressano in una gondola
LAURA e LORENZO) Eaurna Sul mare immenso più non impera Nè sulla terra che la circonda.Venezia, è fango la tua bandiera! Lutto e non
feste! Pianga e s’ asconda.
Core (con alto di cu iosità) E un amante e la sua Della Che
passeggiano alla luna; Laura sembra la sua stella, Ma egli fa poca
fortuna. Seguiam tutti i vaghi amanti, E vediam, se pur n’ è
dato, In fra i suoni, i balli e i canti Di trovar
l’innamorato. È Lorenzo di Giordano, Che fuggì dal
sacro tempio ; lì Lorenzo... il vil, l’insano Che ne porge un
triste esempio. Lorenzo (con ira) . È rivolta a me
l’offesa? L’alma freme, batte il core! - Già suonaron
l’ultim’ ore; - E voi tutti io sfiderò. Laura E
rivolta a te I’effesa; rato L’alma freme, batte il core!... Già
suonaron l'ultim’ ore Io con te li sfiderò. (LORENZO furente si
scaglia contro ROCCO, e gli toglie la spada. Gli altri NOBILI
sguainano. le proprie e si schierano în fondo) SCENA
II. Detti, ROMANO dei LOMBARDI entra frettoloso dalla casa
di destra, seguito da servi con torce accese, Bomano
Chi grida? Chi chiama? Qual chiasso villano? Non son cîttadini, ma plebe
briaca ! Lorenzo, tu?... Il ferro in mano hai snudato?....
Parla! Che avvenne! Sei pazzo ?... Ti placa! Laura (atterrita alla vista del
padre) Che mai dirà Al Genitor?... pa Voce non
ha, Non ha più cor. Lorenzo (con timore) Che mai
dirò AI Genitor?... Voce non ho, Non ho più cor.
Leandro (con circospezione) Il segno di croce facciamoci... e
andiam via! Quel vecchio è uno sgherro dell’ Inquisizione.
Partiamo, fuggiamo... La belva più ria, E un angelo a petto di questo
demòne. Romane (ai Nobili) Non chiedo ragioni di
vostra contesa, Fra tenebre nacque... in tenebre resti; E calmi la
notte col sonno gli. ardori Di giovani folli, di stolti furori....
Partite! Or è cauto lontani restar. Coro di Nobili (infimoriti da
Romano). Fuggiam dal feroce Vegliardo Romano : Col
fiato ne ammorba Il truce, l’insano; nea Qui
tutto è sospetto.... Amici, fuggìam. 1 NOBILI, it CORO, LEANDRO e
LAURA sì riti- rano pel ponte ed entrano nel Palazzo. L’OSTE ha
chiuso ed è scomparso durante la rissa, ROMANO fa un cenno ai Servi di
allontanarsi. SCENA III. ROMANO e LORENZO
Romano Vengo, tu il sai, da Roma; e il Santo Re e Pontefice
armava il braccio mio. ‘Or sotto il ferreo terribil manto Della
suprema Città di Dio L’ Inquisizione veneta sta; E a Roma solo
ubbidirà. Dell’ eresia le vampe infeste Soffocherò . tutte le
teste D’ un colpo all’ idra io troncherò. Lorenzo Fu
il Campanella scoperto e preso? Romano Libero ei 8° agita...
Ma il gran sovrano De’ rei, che Italia e il mondo ha acceso Contro
la Chiesa santa, è Giordano. Presso i suoi complici quì ascoso stà!
Lorenzo Odio quel uomo tanto... tel giuro.
Romano Non basta odiarlo: questo io non curo; Tu quì
arrestarlo ora dovrai: (Musica da ballo neil’interno del
Palazzo) In fra le maschere lo scoprirai, Ed il porrat nelle mie man. Lorenzo Si
chiede un atto di traditor?... Romano Queste ai novizi prove si
dan. Lorenzo Tradir ricuso; son uom d’onor. Romano (con
sdegno) A me tu, folle, devi? RANA RARA pinete
Lorenzo Obbedienza ! Homano Ed alia Chiesa! Trema... .
Lorenzo (soffocando il furore) Obbedienza! Romano Dunque
?... Lorenzo (con sottomissione) Giordano io scoprirò! Eomano
(ricomponendosi) Tuci giovanili e schictti Modi ti gioveran, se
manca il senno Di età maggior, Tuo sguardo onestà; ispira, K assai
tua voce ad ascoltarti attira. Per la grand’ opra non sarai solo,
D’altri miei fidi 1’ aiuto avrai; Pronto a miei cenni sempre
sarai, Uno per ‘tutti sia il mio voler. Lorenzo (con dolore)
L’iniqua trama ahi mi colpisce! La terra, il cielo pur n’
hanno orror!... Vile è colui, ch’ altri tradisce, Nè v' ha
pietade pel traditor. ERomano (imperioso) Come voglio, sia
fatto. Or d’ altro; è m'’ odi. Dal dì che ardenti e improvidi
Sguardi su Laura hai posti, Travolto dalla subita Cicca passion tu
fosti; N | Una rea febbre 1° agita Tutte le membra o
siolto, E vedo nel tuo volto Il fuoco del delir.
Bada! io ti scruto, o giovine, E leggo il tuo desire; Guai se tal
fiamma ignobile Io non vedrò svanire. Tu sogni; ma chi vigila
l'e per tuo ben consiglia; Dimentica mia figlia, O trema del tuo
ardir. (parte da sinistra mentre sì volge ancora con fiero
sguardo su LORENZO). Lorenzo (con dolore): SO Solo
alfin... solo quì sono... Piangere, impallidir, tremar t’è dato sa
Povero cor! Ma dannate in eterno ei Son mie lacrime in lor foco
d'inferno. Ci i . . 0 cielo, perchè l’aere Fa A ._ ©. Spargi
de’ tuoi profumi? CRT a O terra perchè il giubilo. SA
Delle tue stelle assumi? © nare: A me negata è l'estasi. da D’ ogni
dolcezza umana, No: ae d'ogni gioia lè vana (ale EZIO Larva,
che fugge ognor; TERIOS L’ amor che è riso d’ angioli, 0; Di
Nel povero mio cor. i Strazio divien di dèmone, WA Delirio
agitator. pr | Amar non posso... 0° AARON] eta P, ‘L'odio mi
restag» SS CE ao ag Son stretto a questa to; LR 1 sur aRatalità.
EI _: Vò di te vincere. | Con santo zelo, .. Servir vo’ il
Cielo... E questa l’ ultima. Mia volontà. (parte con fretta per il
ponte). ‘ Cala la Vela. arnie, onere ge oi SALA NEL
PALAZZO LOREDANO Una splendida sala da Ballo nel Palazzo di
Lore- dano a Venezia, con colonnato per modo che si possa figurare
l’accesso in altre sale. Illuminazione splen- didissima.
SCENA L Coro degl’Invitati ($ acc incanto
dell’ebbre sale! Che ballo immenso! Sarà immortale. Quest’ è la
reggia della letizia; Il, paradiso. d’ ogni. delizia. Deh! non
fuggire, tempo; t’ arresta; Bearsi al lungo delir giocondo Della
fatata splendida festa Tutto in. Venezia vorrebbe il mondo.
{Gl’invitati s'allontanano in varie parti) SCENA ILL BRUNO
entra con cautela e colla maschera in mano, poi gli
amici. drrezadzanzecezanconca n ionici oc. c0100 dna
enricicondiizeotentoro neo dan'ontooarcrroniòolo /Tasos signor cecanzara anee
Giordano Quì ognun danza e delira Spensierato e
demente. E niun ragiona, E senno e cuore ha niuno. x
tutto quì è in periglio, ove il Leone Alato di San Marco
Prostrato dalla Santa Inquisizione Ai piè, scordò il
ruggito Di cui tremò per secoli ogni lito (volgendosi in
fondo) Ecco gli amici: ma assai lenti e scarsi. Alcuni dei
Primi Luce! Giordano Giustizia a tutti! E Primi E
verità! Alcuni dei Secondi [venendo oltre) Luce
! Giordano Giustizia a tutti E Secondi E libertà!
Giordano Grazie diletti ! Sian pochi i detti; Molta
l’opra. A ingannar V'astuta Corio Dei biechi Inquisitori Ho scelto
queste sale Di Loredano. È pronto ognuno ? Coro
Ognuno! Giordano L’ ardir pari del vero alla
grandezza? Ed uniti? Coro Siam tuoi, Giordano
Bruno! Giordano e Coro Nel popol vero s’ incominci 1’
opra: S° illumini! Bugiarda è la parola Di Roma e il
suo Re, che Dio si noma, Sull’ alma i Papi vogliono l’ impero
Per posseder la terra; E coi libri e col braccio
tt Viva facciasi ovunque eterna guerra Allo spirito, al verbo, a
ogni menzogna, Con che farci suoi schiavi Roma agogna SCENA
III. DETTI e LAURA che entra anelante dalla sinistra colla
maschera in mano. Enura Signor, fuggite! Giordano Io?
no! non fuggo. Coro (insospettito) Fuggiamo.... È pazzo!
(fuggono da va»ie aio Giordano (con ira) Vili! Tu hai fede? (a
Laura) ERaunna (sempre ancelante) Gran Dio! In queste
sale Circondavi un estremo ‘ Periglio. Per voi tremo...
Fuggite per pietà. IIIEEZZZERETET TEZIEXIZZELUPPEE PE CETO CE TI CE CES
CECI ICI IA CIT ALIZICI AZIO LETO EI Va besasnza rea dI gra rirvarai
tion Giordano (simulando) Fuggir?... Da chi fuggire?
Laura Da tutti! I delatori, Cui fia virtù
tradire, Vi cercano là fuori... Son mille a me ben
noti, Fierissimi e devoti Al sacro Tribunal.
Giordano (sorpreso) Mi conoscete? Eguana A
Padova Vi scorsi il«dì che ardito Nel fiume vi gettaste, E un
fanciullin tornaste Vivo al materno sen. L’ Inquisizion
seguiavi Co’ mille sgherri suoi Per arrestarvi; e voi Tra il
popolo festante Poteste in un istante Securo allor fuggir.
Giordano (simulando la calma) Bruno era quegli, che allor
miraste! Io non lo sono!... Mal giudicaste, i
Laura (sorpresa) Credetti... ho divinato! © ; Voi
siete il gran filosofo. Giordano Oh certo s’ è
ingannato Il vostro giovin cor. Laura Perdonate se un
lembo alzo del velo, Che a me vasconde... (solleva: dl velo) Io v'
ho scoperto!... siete... Celarvi non potete... Giordano E chi
son io? Laura Giordano Bruno, cittadin di
Nola! Durante quest’ultimo colloquio, LORENZO entra da destra, LEANDRO
da sinistra; si fermano in - fondo, e, non veduti funno alto di
attenzione). “erimmiberarisisaorizeoeee Mi nisi bro
aravrariszazazezea ripa paio : Lorenza ngi Ho. in
mani, alfin 1, dai i ‘Ch’ ha Italia avvelenato; ‘Salvo da Ini
mille: anime! a Il mondo mi sia. EH 9 Leandro (LormNZO | con
simulata ironia) % TAL il salverài, mia “tnamo, | ) È
quegli'il gran? ; Filosofo) di Il celebre Giordanb. VESTA Dal
Tribunal del Dèmoni Ù 401 1 PR. E O ARNO E ‘J
RARE. | Baura (| ‘801 ‘presa vi ala PISAE) | dia 39 DS
IDE Lorenzo! dui GicoL.. (a o pi di te-che mai sarà?
F a iI Gietiala (con dolore) Fui tradito
!..-Oh cerudoltà So IV I Santo phrto) Tana ‘in Cactpnse
deg Di palpiti, di ladina, Tempo,non è, mio cuore; .: .Salvarlo,
fat Miracoli. DERE eo -0t devo ame l'amore. OL DI
Giordano © La luce tua mi sfolgora, Fanciulla,
nel pensiero; Se il mio profeta! Libero Trionferà il mio
vero. (poi fissando LORENZO) Quel volto! V° è 1’
immagine Impressa di Teresa... Misto è quel volto... e
annunziami La gioia ed il dolor! (Prendendo per mano
LORENZO) Giovane, dimmi: sei tu di Roma? La tua favella mel
dice... Parla! Dimmi: tua madre come sì noma? Teresa
forse? Lorenzo Teresa?... Sì! In fondo appare ROMANO
con SERVI e SOLDATI poi vengono gl’Invitati). Giordano
L’ inquisizione! Oh quale orror! (a Lorenzo) E tu con essa? Ah traditor!
o Io a te la vita diedi... e la morte - Tu, iniquo, appresti al
Genitor!... A te l’ inferno schiuda le porte... Sii maledetto, vil
delator. fekresrey=neoan0enencastec pregsoneeaossog @zorrorerovrse
ereeeericrone cer csvpirtetronertpariosonnen contiene nanenene
Lorenzo Tu... padre mio? Che mai feci io!... Padre,
perdonami _Se pur ancora ‘ Merto pietà. GU INVITATI che
riappariscono da destra e sinistra e detti. GI Envitati e
Leandro La festa è orrenda! Fuggiamo tutti; Qual
tradimenti! > > Keco distrutti --- Degl’ innocenti
Gli almi piacer. HEomano Grazie, o Ciel! Nelle mie
mani Or Giordane io vedo tratto! Roma esulti...! Il suo desìo
Finalmente è soddisfatto. Lerenzo Orrenda infamia! Tu
il. padre mio?... Ah me infelice! Che mai fec? io! Padre,
perdonami... O Ciel, pietà! ERA EeIOrtitiezast:nuvo cene cen
vinariesazyaza cc uPONPPA PESSANO MT RI Laura (a BRUNO) Delle
amarezze il calice Berrò con te, Giordano; Già in seno
il duolo squarciami Il core a brano a brano; Peno per te, pel
figlio Mio primo e solo amor. Leandro Oh
come ovunque penetra La santa Inquisizione ! Come sarà
terribile La sua imputazione ! In lui perdiamo un
figlio, Che della patria è onor. Giordano (4 LAURA) Ah
no! Laura, non piangere... Giordano ha l’alma forte ! Pel
Vero è pronto a vincere Il duolo pur di morte! Dio deh!
ritorna il figlio A Laura e al Genitor, Lorenzo
Sento nel seno piovermi D'un aspro duol le stille!... Il padre...
oh! il padre scorgere ab 0); Temon le mie
pupille! Com'è infelice un figlio Ribelle al genitor
! Romano Entro mi serpe un fremito, Che mi sconvolge il
core, Veggendo quest’ eretico Di scismi banditore,
Che, della Chiesa*figlio, Divenne traditor!
Leandro Tu piangi?... Incauto, a Lui {affida Pel suo perdono;
ma l’alma infida Nel suo rimorso gran pena avrà. Coro
(a LORENZO) Che piangi?... Ognuno vile ti grida; Se’ un
traditor; se’ un parricida! Nè Dio, nè il mondo n’avran pietà.
(I SOLDATI circondano GIORDANO e cala la tela/.
IITTTTAAEIAIII RA CORTI Affo Cerzo
IN ROMA Sala nel palazzo dell’Inquisizione. In fondo, nel mezzo della parete una
cortina nera che chiudela scena, A sinistra una finestra aperta con
ferriata. In fondo un tavolo coperto con un tappeto nero, a cui
siedono il grande INQUISITORE e DUE SCRIVANI; ai lati siedono
gl’INQUISITORI, e, di fronte, BRUNO, R0MANO e LORENZO, Porte a destra e a sinistra.
SCENA I. Romano {> iordano! Voi siete’
D’innanzi ai vostri giudici, al supremo Tribunal della terra! E qui
dovete, Smésso l’antico stile, Risponder vero, obbediente,
umile. “cà ra G. Inquisitore Vostro nome è
Giordan Bruno? Giordano Di Nola.
mrantsiorizea nano AMDI ATTI ANI ANAZANAZA NZ RATTI TIT IATA TERI ri
prenpaniananan ananarenaenzana G. Inquisitore Vi conosciamo!
Voi correste in terre D’eretici; lè in Praga, in Francoforte. ‘ E
predicaste spesso agl’ infedeli La santissima Chiesa
dileggiando Di Roma, tutti i novator germani Esaltando. D’
Iddio 1’ essenza in false Forme sponeste; come v’ inspirava
Mal talento. D’ Iddio la legge in pubblici E in segreti convegni
commentaste; Le coscienze fùr guaste. Giordano
Mentite! Solo io dissi agli uomini Il mondo ha una
visiera Di antiche, immense tenebre ; Cerchi la luce vera.
Dio vuol che l’uomo spinga L’acuta sua pupilla Fin dove in cielo
brilla L’eterno suo splendor. Coro d’Inquisitori
D’ anime felle Empia utopia! Il tuo, ribelle, Un Dio
non è. Non ha che larve - Tua fantasia; .0 et gi ver disparve ; “Se in eresia ft fo
i AI fuoco, ‘al fuoco: © Sia condannato! 1 “REP carcer. poco,
s ra ! tal OmpIO, egli de (Si apre la cortina’ dalla’ quale
‘escono pina DTA io GRANDE INQUISITORE, quindi ROMANO, poi gli
SCRIVANI, ‘gi ISQUISITORI, ed sea pIoR-SSf DANÒ accompagnato, dalle
GUARDIE. : Gala la cortina e solo LORENZO rimane în
‘scend), DÒ dt e Laura 01,3 (LAURA entra dalla'
sinisird e presi itasi) di LORENZO | in atto supplichevole). SÉ Roe
dia eor ATI v Rat Laura! moi (HI dÉ tia
Koi i È et Loréiizo i «105
si vo MREPSRI RATA GIL Lorenzo Di
ea DO Ur PA Ale 2 i sd Met: la "I Che vuoi tut
ot Raid) fai I nSetdi o SERRA 2 Senti la ToRe.e. un uomo
Rico tu soi. “ rE: Lorenzo Tinura! Da me
che brami? Sento straziarmi il cuore... Laura
Ah! tu il padre salvar déi, Se una belva ancor non sei.
Lorenzo Tact Laura! Il ver dicesti È mio padre! Io lo
sentìa Quando'.il labbro suo: terribile. Me colpevole
maledia. È mio padre! Ancor lo sento AI perenne! e fier
tormento.‘ ©’ Che m’ opprime e strazia il cor. Laura |
Pietà del misero. Tuo genitor. Lorenzo
L’accento tuo terribile E un dardo al traditor. ebic
Laura Lorenzo. it i #1) Ma shananorazi scenza sanacenencacaee
cena sane oeanconeesccnionaaceaeae@ce0cui0reò’npsQa”ncceinci’’’ ne Agp
ipmpasrssssso Lorenzo Nol posso! Laura Va da me
lungi, o perfido, Se nieghi al genitor Salvar la
vita. E sorga il dì terribile Che ognuno, o
traditor, Ti nieghi aita. Lorenzo Taci!....
e che far poss’ io? Laura Aiutarmi a salvarlo; tu lo
puoi! ‘Ei fugga da quell’ orrida Fossa in serena terra,
Ove su lui degli uomini Taccia sì cruda guerra. Ove un demén
carnefice Non trovi nell’ amico, Nel figlio, un traditor; Ove
il sovran suo spirito Onnipotente e pio Possa inalzarsi
libero Di tutti al Padre, a Dio; E riabbracciar qui un
figlio, Che traviò pentito, Stringendolo al suo cor. .
pra, im masasena nanasasesc’poossoncostor09posporooscoesaesose®
Lorenzo Quell’ardire, che in volto a te brilla, La speranza,
la fede m' ispira: E una sacra, divina favilla Della
fiamma, che tarde nel cor. Raura e Lorenzo (assieme)
Con te nutro la credula speme, Che a giustizia il trionfo sorrida;
Siamo uniti per vincere insieme Od insieme da forti morir.
(partono). Muta la scena. Carcere
di BRUNO con porte in fondo: dentro vedesi un giaciglio di pietra, una
seg- giola ed un tavolo su cuì arde una lampada. A sinistra una scala da cui si
accede agli Uftizii del- l’ Inquisizione. Giordane (seduto sul
giaciglio) «Ecco, o Roma, l’eretico In questo tetro
carcere rinchiuso ! Del sangue suo dissetinsi I tuoi
Inquisitori Ebbri di gioia in lor ciechi furori! (Gleaso
Sul rabido rogo dall’empio innalzato La fiamma divampa
sanguigna e stridente, Ma in mezzo all'incendio securà
possente Del martire invitto la voce s’ udrà. Il rogo non
strugge la libera idea; Ma, eterna
fenice risorge o sfavilla; Del
vasto creato nel verbo s'inslilla
Te dense tenebre del mondo a
fugar. In mano ai carnefici chi, miser, mi trasse, Tu fosti, mio
figlio; tu sli maledetto ' 9 Ma no
maledirti, + ma no, nol poss’io: La morte è un trionfo per me, figlio mio! SCENA IV.
LORENZO apre con furia la porta del fondo che mette nel carcere;
indi entra anche LAURA. Entrambi «$0NO Raealii in domino nero come i
servi del- V’ Inquisizione. Lorenzo (di piedi di BRUNO)
Padre mio! Tuo figlio... Giordano Non sogno!
Lorenzo Si, son io, ch’ hai maledetto ; Ma figlio tuo! Ripeti un
altra volta La tua maledizione i Coll’ accento d’ un padre, ed al
mio cuore Più cara suonerà di quel che fora Del sacerdote la
benedizione ; Ah! lasciami morir a pieid tuoi. TIrCItIVISIÀ
poorrcensersantisaazuztt=veSnII=TIERERA TATE conuaca riv ertaziori (apusa ra
rara zar sara ra bist enaneronesane ‘Giordano Felice è un tal
momento! A me t’ adusse Iddio; Ora tu sei redento! M’
abbraccia, o figlio mio. Lorenzo Padro' i] mio cuore un balsamo
Nella tua voce trova! Col tuo perdon risorgere Mi
sembra a vita nuova. Laura Redento il figlio,
accoglierlo Ben può il paterno core; Quale inattesa grazia
!.., Disparve ogni terrore. Mutti (inginocchiandosi)
Gran Dio, che fra le angoscie Apri a quest’ alma il riso,
E mesci ai loro spasimi In terra un paradiso. A
te, che i santi vincoli Riannodi di natura, Salga da queste
mura L’ inno de’ nostri cor. Giordano (STO ER Dal
fondo del cor mio 2/0 SARA Grazie a te sien, gran Dio! a
Pi E | re k » à, s ER wr: DETTI, e ROMANO, che
presentasi in cima della >° dente. Fissa collo
sguardo LORENZO, indi scende rapidamente. Lo seguono il GUARDIANO
Retles va x carceri e i SERVI del S. UHEIZIO: - da si
‘Romano < È Come tu qui?... La figlia ancor Di vedo, ea Oh mio
furore ' eco 3 F : x Laura e Lorenzo 00 o O qual terror! > ua
| » Romano È ‘ Giiordano..- Questa ou fatale a me una figlia
nn dio Spa ma a te la vita. (LEANDRO, il GUARDIANO delle carceri ei
SERVI. del S. UFFIZIO mascherati ed armati si ap- d
pressano). Lg i VEL 7 Pi AE Li
unisoseorevrespropeosovo Romano (a BRUNO) Trencar ti voglio, qual vile
stelo; Delle tue carni la terra e il Cielo Io colle fiamme
consolerò. Lorenzo Ed io fidato m’ ero a tal jena ?
Tutto l’inferno qui si scatena, E cielo e terra han di te orror.
Laura e Leandro Sublime martire! La tua gran vita
Tronca in un lampo tra l’infinita Gioia... Qual strazio sento nel
cor! Giordano Del mio carnefice sul volto scritto Sta col
livore il suo delitto; Solo dal Cielo giustizia avrò. Romano
(a° Soldati) Innanzi al Tribunal condotto sia. Coro (Servi e
Soldati) S'innalza un turbine Di guai novelli. Su de’
fratelli Tratti in error. E l’empio eretico < «N° è
lavcagionez 9:13 <L Maledizione Sul corruttor! Al rogo
ignifico ‘ Condotto Sia. © Chi l’eresia Tra noi portò. Legge
inviolabile Il turbolento A tal tormento Già condannò.
RIC FROCIO RA ATONTAITA Atto Quarto Gran sala nel
Palazzo dell’Inquisizione in Roma. Nel fondo una Galleria apertà
sostenuta da colonne, fra ile quali: si, aprono grandi fin:stre che
lasciano tra- vedere le cupole e i colli di Roma. Porta: a de- stra e a sinistra. Nelmazzo un tavolo con quattro
candelabri. Siedono al tavolo il grande
INQUI- SITORE, ROMANO e ) UE SCRIVANI.
DUE SERVI «ai. lati, quindi gl’ INQUISITORI, i SCENA
I. Coro d'Inquisitori || |) eo nembo dall’aere piove
Lupa ' Di Giordano su:l’empia cervice! "Non v'ha niun che
l’appelli infelice, Non v'ha cor che si muova a pietà. Pronto
è il rogo, la fiamma divampa... E pur essa la vittima è pronta
! AI gran Nome Cristiano quest’onta. Or. dal fuoco purgata sarà.
} SCENA II, Giordano (appressandosi). O sommo
Inquisitor! Giunta è l'estrema Ora, che me a gran prova. al rogo.
appella! G. Inquisitore (alle guardie) Fuor della porta vigilate
! (le guardie e i servi partono) O Bruno Di
Nola! Quest’ è 1’ ora che vi chiama Alla prova del fuoco.... a morte....
0 a vita Lieta d'ogni uom nel mondo! E a voi concesso Ciò e’ ha
nessuno fu giammai; la scelta Fra la vita e la morte! Scegliete. E
in, vostre man la vostra sorte! Giordano (Mi tentan!) Che si vuol da
ms? Parlate. G. Inquisitore Qui in faccia a tutti,
dichiararvi figlio Della Romana Chiesa ora e in eterno E vi doniam
la vita; rimarrete Prigion; ma al figlio libertà darete! Giordano. Dèmone
tentator! Nol vò.... nol posso! G. Inquisitore (qa RomaANO)]
Perduto! Udiste ?... La sentenza è data! (Parte coi servi, Le guardie
circondano GIORDANO e partono. Romano (in preda a soffocato
sdegno). Cieco sirumento io sono all’empie voglie Di
costoro! Ubbidir sempre... e frattanto Spezzare di mia figlia il vergin
core, Serbando la mia vita al lutto e al pianto! O Laura, tu
l’adori D’averno il rio Filosofo, Che con l'accento magico
Tuo cuor conquise già. Or ei morrà sul rogo!... Ma temo per mia
figlia. Dal duol trafitta, all’empio Vicina ella cadrà!... Senza la
figlia, il padre Più viver non potrà. To l’adoro! In lei
Tiposi Ogni speme ed ogni alta; La mia luce, la mia vita Con
la sua si spegnerà. Volgi, o Dio su me, su lei Un tuo sguardo
protettor, E la figlia, che perdei Deh! ridona al
genitor. (ROMANO parte da sinistra e nell'uscire si. moontra con
LAURA). Laura (apprdssandosi ‘a ROMANO) Ah! padre caro, mi
benedici! Quel divin spirto, che t’empie il core, Io pur lo sento!
Odio i nemici Di quel gran ùomo;-che' giùsto muore. Ma tu, che. il puoi,
deh! tu lo salva;; Se Do, «con Lui io morirò. :
(Romano La rea fiamma, che in cor ti VE Per chi scuote de’
Papi l’impero, Sulla fronte il delitto’ ti Stampa Che tu svolgi nel
cupo pensiero... “Salvo tu vuoi Giordano ? Iniqua ! Nol
sperar... tu Il chiedi > invano. i (parte) Laura (con
disperazione) Più di salvarlo non v' ha speranza! L’
ala nel tempo batte spietata! Ah! la fatale ora 8° avanza. i Con te
Giordano io morirò. ( prende il veleno) A morte infame traggono. ;
L’ apostolo del vero; Ma dal suo rogo. pallida; | La fiamma sorgerà.
Che sovra. il cieco popolo... La luce porterà; COLERE Nè più
potrassi spegnere Quel fuoco che foriero Sarà di libertà.
| Coro frecta judicate filù hominum Laura Quai
voci ascolto! Lugubre E questo il canto estremo, Ch’ ora al
supplizio adduce- L’apostolo del Ver. Coro Recta
judicate fili hominum Laura Con te Giordano! Morir
voglio! Al gaudio tuo volar desio. SCENA Ve {LORENZO e LEANDRO
col corteo funebre s’inol- trano nella scena. GIORDANO Tifo, le guardie
si fa avanti nel mezzo). Giordano. Gran Dio! la vittima. Tu
vedi pronta Il rogo a scendere \a 1 1 Per la tua,
fe; CERRI TERA ee L'ira de’ perfidi, Ovunque.
conta, Oggi terribile Piombò su di me. Coro
Etenim in corde iniquilates operamini; Injustitias manus vestrae
concinnant. Lorenzo. Si squarcino le tenebre Or dell’uman
pensiero, E torni vivo a splendere Il sol di verità, Che
strugga alla tirannide L’ atroce maestà, E’ incenerisca i
fulmini Del mistico nocchiero Nella futura età.. Giordano e
Leandro Da’ rei carnefici Il rogo ardente Pel nuovo
martire E posto là; Ma la giustizia Di Dio clemente Le
braccia schiudere A Lui vorrà. BRUNO circondato ddlle guardie parte col
corteo. Leandro, Cero (partendo) In terra injustitias manus.
vestrae concinnant. (LORENZO s’appressa a LAURA, che si troverd,
vicina. a ROMANO), i Lorenzo (con disperazione)
O Padre, addio. Per me l’estrema Ora fatale suonata è già?
Guarda tuo figlio, che più non trema Nel vendicare la verità.
A me di Laura l’amor fu tolto : Perchè un mistero buio
sognai... Ah! padre, credilo, tutto: ignorai; Solo or la luce
scorgo del Ver. ER omamno Lorenzo! Lorenzo
[trattosi dall’ abito uu pugnale, si ferisce. Laura! Laura (riavendosi
avvicinasi a LORENZO) Al gaudio Ei vola. Romane (sorreggendo
LORENZO) Serbate a quanti spasimi E il povero mio cor?
o aaravai -ercerecote e meriei ve oraconcorsoee «n -
peacee -LilsSTFri= pone rete na dor e. Lorenzo È tardi, o padre, il
piangere... . Anche Lorenzo... muor! (gli cadde ai
piedi). Romano. /Odesi “una campana a lenti rintocchi;
avvicinandosi a LAURA e sorreggendola/ Orribil pena mi
strazia il core... Un disumano fui genitore...! Non v’ha infelice
al par di me! Laura (presso LORENZO) Lieta è quest’
ora... della mia vita... Bel paradiso la via... m’ addita
Giordano.... Io volo... In ciel... con tel (Da una finestra
vedonsi le fiamme del rogo, ed un urlo di popolo annunzia la fine
dello spettacolo. Cala la tela], op de nia - oe
vr 2A SN DI LESANIA AL TR I RRIA Ji ) _ DE sa
NI Ao AME Ta0 “Si 1 iL VPI, | ati Lion "Ul
ci Li TR PSR = Hi (i dI - Un pi Hi
3 i si f VI % Y, ILA } 4 ” ; A Yy 4
Pi f f lo L É } 1} Ì ; A A Domenico Contestabile.
Keywords: BRVNO, nobilita italiana, la famiglia Contestabile financia la
rivolta di Campanella -- filosofia medioevale, Bruno, il melodramma. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Contestabile” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza -- Grice e Conti: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale VIRGILIANA – La nudità
eroica d’Enea -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo romano. Filosofo lazio. Filosofo italiano. Roma, Lazio. Grice:
“Conti is a good one – he reminds me of Bosanquet and Pater – the decadents in
Italy came AFTER them at Oxford! Conti philosophised on many aesthetic
subjects, such as man, masculinity, and maleness --!” Di una famiglia
originaria di Arpino, dove frequenta il locale liceo. Si ccupa di filosofia
estetica. D'Annunzio lo cita nel “Giovanni episcopo” e si ispira a lui per ‘Daniele
Glauro’ in “Il fuoco”. Insegna a Firenze presso la Galleria degli Uffizi ed a
Venezia presso l'Accademia di Belle Arti. Saggio: “Zorzi; o Giorgione –
l’estetica di Zorzi” -- Tornato a Firenze, “La beata riva”, raccolta di saggi
che delineavano la sua concezione critica ed estetica, ispirata dichiaratamente
a Platone, Kant e Schopenhauer. La prefazione fu curata d’Annunzio, il quale
scrive di stimare molto Conti e di ammirare il suo “ascetismo” estetico. Direttore delle Antichità di Roma. Direttore
della Reggia di Capodimonte a Napoli. Si ispirò alla poetica del filosofo
oxoniese Pater e Ruskin. Altre saggi: “Giorgione,
Firenze, F.lli Alinari, “Catalogo raggionato delle regie gallerie di Venezia,
Venezia, Tip. L. Merlo); La beata riva, Milano, F.lli Treves); Sul fiume del
tempo, Napoli, R. Ricciardi); “Dopo il canto delle Sirene, Napoli, R.
Ricciardi); Domenico Morelli, Napoli, Edizioni d'arte Renzo Ruggiero); “San
Francesco, con un saggio di Giovanni Papini, Firenze, Vallecchi); “Virgilio
dolcissimo padre, Napoli, R. Ricciardi). Praz nota che Parodi era solito
leggere La beata riva di Conti prima di addormentarsi; quando morì, la lettura
non era stata ancora terminata. Dizionario
Biografico degli Italiani, Forme del tragico nel teatro italiano. Modelli della
tradizione e riscritture originali,Romantici, vittoriani, decadenti – filosofo
decadente – decadentismo -- e museo dannunziano, in Bellezza e bizzarria – il
bello e il bizzarro., Croce, La letteratura della nuova Italia, Marcello
Carlino.C., Due conviti di Mattia Preti, Bollettino d'Arte. Io vengo dal
mare di Napoli e sono tornato qui a rivedere la primavera. Non c'è nessuna
altra città in cui, come in questa, il rifiorire degli alberi e delle siepi si
accordi con la giovinezza delle opere del genio umano, nessuna ove, come qui,
la Primavera sembri rimanere per un istante velata, per poi riapparire pili
fulgida e piìi lieta, al ritorno dei venti che spirano dalle colline e recano i
nuovi fiori. Sono anche giunto fra voi, per parlarvi della pittura di Leonardo.
Ma il mio compito, dopo la lettura deirillustre scrittore francese che m' ha
preceduto, sarebbe oggi, non dico diffìcile, ma quasi vano, se le mie idee
fossero affini alle sue ed egli fosse vicino al mio pensiero come io sono
vicino al suo aff'etto per questa nobile terra toscana, ove l'arte ha
continuato la grazia gentile e la pura bellezza della natura. Diversità di
pensare e anche d'immaginare mi rendono oggi possibile esprimere qualche cosa a
voi forse non detta, e combattere qualche affermazione troppo lontana dalla mia
sicura fede. Leonardo è il discepolo del Vermocchio. Ora, che cosa poteva egli
apprendere dal suo grande maestro? Non certamente l'arte, la quale non si
apprende e non si insegna. Quale uomo, che sappia che cosa è l'arte, potrà mai
pensare alla possibilità di creare con l'insegnamento un pittore, un musicista,
un poeta? La natura sola genera gli artisti, e l'uomo al pili può aiutarli a
trovare i mezzi d'esprimere la parola ch'essi son destinati a pronunziare nel
mondo. Il maestro, al discepolo suo, nato artista, può dire: " Il tuo
cuore è impaziente d'indugi, tu sei nato per il canto o per la espressione
plastica o per la espressione mediante il colore della tua gioia o della tua
amarezza; guarda, ecco il dizionario che contiene le parole di ogni umano
discorso, ecco la tavolozza sulla quale io appresi a mescolare i colori che
imitano la bellezza del cielo, della terra e del mare; ecco in qual modo si
modella la creta, affinchè dall'informe materia apparisca viva dinanzi a noi l'
immagine dell'uomo. Questi sono i mezzi, che io ti posso indicare; ma il
discorso, il canto, il soffio debbono essere tuoi, né io te li posso insegnare
„. Ogni opera d'arte è, rispetto alle opere precedenti, una cosa diversa e
nuova, nella quale, se pure sono entrati, alcuni elementi precedenti e preesistenti,
hanno mutato natura, si sono trasformati in parti di quel tutto inatteso e
prodigioso che si chiama la creazione artistica. Chi non sa che in Leonardo
appare un' immagine del sorriso che si mostra appena accennato sulle labbra del
giovinetto Davide del Verrocchio? Si, appare, ma è un riHesso che illumina un
altro mondo; poiché questo riso, ricomparendo dalle labbra dell'eroe
adolescente sul viso e negli occhi della Gioconda, diviene il mistero della
seduzione femminile, una grazia insidiosa e un periglio, un'armonia che nasce
dall'espressione d'iin volto, si diffonde verso il paese lontano e attira il
contemplatore. Il sorriso verrocchiesco è in Leonardo come nn brano di Plutarco
in Shakespeare. Or chi oserebbe dire che l'immortale tragico inglese derivi da
Plutarco? Leonardo e il Yerrocchio sono due artisti assolutamente distinti, che
parlano un linguaggio interamente diverso e che, se somigliano esteriormente in
qualche cosa, hanno due anime quasi opposte, chiusa l'una nella sua idea di
bellezza e di stile, l'altra aperta a tutte le manifestazioni della natura e
della vita, in una continua ansietà di fissarne l'immagine mutevole con la
semplicità del segno rivelatore. Noi viviamo pur troppo in un triste momento
della vita, poiché la maggior parte degli uomini ai quali parliamo non sanno
che cosa sia l'arte, e lo Stato crede a chi meno vede. Non è forse ancora
possibile vincere una così detta scuola di critica scientifica, fondata sull'
errore già accennato e chiusa nella rete del pregiudizio cronologico. A coloro
che ancora credono alle influenze sugli spiriti geniali e alla necessità in
arte di una classificazione come in botanica, noi possiamo trionfalmente
rispondere con Leonardo che l'artista genera le sue opere qual fanno le cose.
Egli deve creare come fa la natura, e le sue opere superare e cancelUxre i
segni del tempo che passa. Un quadro, una statua, un edifizio debbono nascere
come le selve e apparire come le albe. Or chi penserà all'epoca d'una primavera
o d'un ciclo stellato? Non c'è opera d'arte geniale che venga per noi dal
passato lontano, come non e' è indizio di vetustà nelle montagne e nella aerea
architettura delle nubi. Dinanzi all'umanità che passa, il genio si ferma e
rende eterna la sua traccia come è nel cielo il cammino delle stelle. Avete
udito il canto dcirusignolo? Lo riudirete in tutte le primavere. Il genio vi
farà sempre udire la sua voce fresca e giovanile come nella stagion nuova della
terra il canto dell'usignolo. Aprite Virgilio: ecco, è l'alba e cantano le
allodole, è una notte serena, e l'uomo si perde nella luce lunare. Aprite
Dante, e siete nell'eternità della vita. Ivi nulla dilegua, nessuna cosa
invecchia o perisce, e noi stessi, -accanto a quelle grandi anime, siamo per un
istante fuori del tempo. Questo momento di liberazione provai per la prima
volta alcuni anni or sono a Milano, trovandomi dinanzi alla Cena, nel convento
di Santa Maria delle Grazie. Vidi il capolavoro nella medesima ora indicata
dalla luce clie lo illumina dal fondo, tanto che mi fu d'un tratto facile
superare i mille e piìi anni passati e trovarmi presente alla scena Gesù era
seduto nel centro del convito e da poco avea prò nunziato le parole: qualcuno
di voi mi tradira. I convitati a destra e a manca s'erano ritratti e aggruppati
in tumulto lasciando nel mezzo Gesù solo, con la sua tristezza infinita La sala
era piena di gesti concitati e di ansiose interrogazioni. Il Maestro solo era
calmo e la sua figura, sul paese che gli s'apriva lontano alle spalle, era
immobile. Ma qual dramma in quella immobilità ! Mentre la sua mano destra,
lievemente contratta, esprimeva un istante di ribellione e come un istintivo
moto d'ira, la sinistra nel momento successivo s'abbandonava col dorso poggiato
sulla tavola e le dita allungate, esprimendo la rassegnaziona e il perdono. Gli
occhi abbassati non guardavano e non vedevano nulla di ciò che era presente, ma
contemplavano internamente il grande spettacolo del dolore e della miseria
umana, mentre la sua anima sembrava essersi già rifugiata in quel fondo di paese
luminoso e lontano, dove abitavano una grande speranza e una eterna pace.
Nessun uomo avevo veduto mai così solo come Gesù in mezzo a quel tumulto. Era
un'isola in mezzo a un mare procelloso. Le onde fragorose del tempo, che
travolgono^ uomini e cose, mi avevano forse spinto ad approdare ad una riva ove
splendono i fiori eterni della vita? Mai infatti, come quel giorno, ebbi, per
virtìi dell'arte, la visione della vita, in un oblio piti completo. Quando il
custode del Cenacolo venne ad annunziarmi Fora della chiusura, io riudii
nuovamente, dalla strada vicina, il rumore delle carrozze e il rombo
dell'esistenza; e ritornai fra gli uomini. Pochi anni or sono Annunzio scrisse
una bella pagina di poesia per rimpiangere la rovina del Cenacolo. Voi infatti
sapete, che, come della antica e celebrata pittura dei greci, fra pochi anni
della Cena vinciana non resterà se non il ricordo ^ Il doloroso avvenimento non
^ Questo studio su Leonardo lìiitore era già stato scritto, quando fu compiuta
in Milano dal pittore prof. Luigi Cavenaghi l'opera di ristauro del Cenacolo,
salutata da tutti i cultori ed amatori d'arte con gioia e gratitudine. Il
Cenacolo, compiuto da Leonardo nel 1497, cominciò ben presto a guastarsi; ì
primi provvedimenti per salvare il capolavoro risalgono al cardinale Borromeo,
poi nei secoli si susseguirono alternative di lunghi abbandoni, di fallaci
rimedi empirici, di studii incompleti e riparazioni deturpatrici, fin che il
prof. Cavenaghi fuincaricato delle ricerche scientifiche e tecniclie che, precisando
le cause e l'entità dei guasti, portassero ai rimedii più efficaci. Egli trovò
— sono sue parole riprodotte naìVIllustrazione Italiana, n. 41, dell'I 1
ottobre 1908 — che il dipinto, coperto da polvere di secoli, si screpolava e la
crosta di colore si sollepoteva non commuovere e non far riapparire la visione
tragica del fato clic incombe sui capolavori. Ma è forse una illusione. In
realtà la natura non distrugge ne i fiori o le selve della terra ne le opere
del genio: la Minerva criselefantina di Fidia è passata dall'avorio e dall'oro
nelle pagine immortali dei poeti e nella eterna memoria degli uomini. Quando un
capolavoro scompare, noi non dobbiamo pensare che il tempo lo abbia distrutto,
ma semplicemente che si sia oscurato lo specchio che ci proiettava la sua
imagine nel tempo e nello spazio. Nella profonda unità dell'anima umana, clie
rende i poeti e i filosofi simili ai figli d'una madre sola, l'ispirazione da
cui esso nacque riman pura e vivente come una forza della terra non ancor
vestita della sua forma. Se avessi la virtù del canto, vorrei lodare e far
comTava dall'intonaco, a squame di varia misura, di modo clie parecchie di
quelle i grandi, accartocciandosi, formavano altrettante sacche che si
riempivano con al- tre piccole squamette che vi cadevano dall'alto. Vuotare ad
una ad una le sac- che senza scuoterle, senza quasi toccarle, mediante una
pagliuzza resa attaccaticcia da una sostanza adatta, poi fare aderire le sacche
e le croste all'intorno, togliendone, con un certo liquido dal Cavenaghi
ideato, la polvere alla superficie, questo sostanzialmente fu il lavoro
paziente, mirabile, nel quale, per più di due mesi durò il Cavenaghi, rendendo
più tonica la fibra in isfacelo, facendole riac- quistare un po' di colorito,
così che il dipinto non debba peggiorare e possa vi- vere ancora a lungo, con
infiniti riguardi ed amorose cure. Ma — disse il Cavenaghi — sarà sempre un
organismo precario, e per le condizioni sue, pieno come è di cicatrici, e per
l'ambiente. Ad ogni modo questo del Cavenaghi è •stato pel Cenacolo Vinciano il
ristauro essenziale, decisivo, nei secoli; e grandi manifestazioni di
gratitudine ed ammirazione sono state tributate all'assoluto disinterewse, pari
all'amore grande per l'arte, spiegati dal benemerito ristauratore, al quale
Caravaggio, sua terra natia, ha consacrato una targa artistica a memoria del
fatto; ed i cultori ed amatori d'arte, auspice Luca Beltrami, gli hanno
conferita, davanti al capolavoro vinciano, una bellissima medaglia d'oro. Il
prof. Cavenaghi inoltre è stato chiamato dal Papa, in sostituzione 4el defunto
prof. Seitz, all'onorifico ufficio di direttore delle pinacoteche vaticane.
prendere la vita maravigliosa che il Cenacolo leonardesco chiude nella sua
rovina. Come la rovina d'ogni cosa grande, essa equivale ad una purificazione e
ad una apoteosi. Finche resterà un sol frammento della parete prodigiosa,
finche un sol disegno, una sola stampa, una sola fotografia, custodiranno un
riflesso lontano della sua bellezza, quella creazione del genio sarà per noi piìi
potente che se il tempo e gli uomini l'avessero rispettata in tutte le sue
parti caduche. E un errore credere che il tempo non rispetti i capolavori; e
noi molto spesso parliamo, spinti dall'abitudine, contro l'eterna verità delle
cose. Il tempo, artista maraviglioso, è il solo degno collaboratore del genio
umano. Dove sembrava che l'opera geniale sì fermasse, egli la continua,
mutilandola: dove appariva ciò che è chiuso e preciso, egli apre una via
infinita all' imaginazione; dov' era un aspetto freddo e muto della realtà,
egli fa nascere i segni del mistero. Ciò che sembra una distruzione e invece
una rivelazione e una consacrazione. E la natura che riprende l'umana opera
interrotta, che fa apparire la sua forza dove la mano dell'uomo cadde stanca, e
che, dove l'ispirazione di questo si oscurò e si confuse, fa cantare le sue
eterne aspirazioni. Ma non bisogna lodare il tempo soltanto per le sue rovine;
è necessario esaltarlo anche per tutte le opere d'arte che, in compagnia del
fato e della umana malvagità, ha impedito di compiere al genio umano. Alludo
principalmente alle cosi dette sculture non finite di Michelangelo e ad un
quadro, che è ancora considerato un abbozzo, di Leonardo. Come i capolavori in
rovina appariscono vicini a rientrare Leonardo da Vinci.Conti, Leonardo pittore
nella iiuiversalitìi della vita, i capolavori incompiuti seml)rano usciti da
poco dal seno stesso della natura. L'artista ne segnò l'imaginc non fra i
tormenti del lavoro consapevole, ma come in sogno, obbedendo ad una volonth
oscura che per qualche istante abolì la sua volontà individuale. Poche tracce
di pentimenti in quei primi segni, ma l'espressione d'una beata obbedienza,
come di chi si affidi al mare, e una ricchezza e una esuberanza di vita uguale
a quella di cento uomini felici. * Mi limito a parlarvi del quadro di Leonardo,
oggi nella Galleria degli Uffizi, e che rappresenta l'Adorazione dei Magi. La
prima cosa che ci colpisce è il movimento. Noi sentiamo subito che il pittore
ha voluto rappresentare un avvenimento straordinario, un grande fatto della
natura e della vita. Quasi tutte le figure vanno, strisciano, accorrono verso
la parte centrale della rappresentazione, ove si fermano prostrate e come
atterrate dallo stupore e dalla maraviglia. Fra i gruppi in movimento, alcune
figure stanno diritte e immobili a guardare la scena. Nel centro una calma
assoluta. La Madonna vi appare seduta in una attitudine piena di grazia
materna, e sulle sue ginocchia il bambino si china e protende una mano per
toccare il 'dono che un vecchio genuflesso gli porge. Intorno si raccoglie e si
concentra tutto ciò che nel quadro raggiunge la maggiore intensità
d'espressione e la maggior forza di vita. Questi vecchi che vengono da lontano,
guidati dal mistero, sono una Conti, LeonarJo j)ittore 91 fra le più potenti
creazioni del genio umano. Tutta la scena, piena della loro commozione e del
loro sbigottimento, sembra irradiare come un vento di tempesta che, dall'anima
dei vecchi, giunga sino ai punti piti lontani del quadro. Ed ecco che noi vediamo
gli effetti dell'onda invisibile. Dietro il gruppo centrale è un accorrere
disordinato di gente: uno ha le mani levate e grida come per un ignoto
pericolo, un cavaliere non riesce a contenere lo spavento del suo cavallo,
altri gruppi di cavalli nel fondo appariscono spinti dalla furia d'una
battaglia; qua e là, sotto archi crollati, uomini che corrono e s'interrogano
ansiosi, altri che salgono discendono a frotte e smarriti per una gradinata. Si
sente che un grande avvenimento si compie, e per tutta l'ampia scena notturna è
diffusa l'atmosfera del miracolo, come in un giorno sereno la luce del sole
sulle campagne. E questa è appunto l'idea che Leonardo ha espressa nel suo
quadro con una potenza e una eloquenza suprema. Mai infatti, sino a questi
anni, la pittura aveva rappresentato il miracolo, mai lo stupore e il terrore
di ciò che sembra turbare le leggi della natura e far presentire agli uomini un
rinnovellamento del mondo, erano stati resi visibili nell'opera d'arte.
Leonardo, con questa composizione sintetica, con questo semplice suo disegno a
chiaroscuro, nel quale non un sol particolare h compiuto, è riuscito a
rappresentare il miracolo come non sarebbe stato possibile con l'opera piìi
meditata e più coscienziosamente finita. E la ragione mi sembra questa. Vi sono
idee e sentimenti che le arti plastiche non possono rappresentare se non con
mezzi somraarii, se non giovandosi di ciò che comiincmcnte si chiama V
incomplitto. L' incompiuto è spesso un mezzo meraviglioso dì espressione per il
genio umano; è, a rovescio, il mezzo stesso che la natura adopera per
purificare e per consacrare nei secoli i capolavori degli uomini. In questi la
natura procede per eliminazione, nell'opera rimasta incompiuta il genio lavora
in uno stato di concentrazione suprema. Li^ Adorazione dei Magi non solo
rappresenta un miracolo; ma è essa stessa un'opera miracolosa. La notte che vi
si addensa è piena di luce per l'anima umana. Fra tutti i quadri della Galleria
degli Uffizi è il più vivo, il piìi drammatico e il più profondo per
significazione. Continuando per voi la enumerazione delle opere pittoriche
vinciane e per mostrarvi che, come allora mi fu possibile liberarmi dal tempo,
posso anche oggi, e mi piace, spezzare le catene della cronologia, passerò a
parlare della Gioconda. La vidi alcuni anni or sono, e feci, quasi per lei
sola, il mio pellegrinaggio da Firenze a Parigi. Quando entrai nella pinacoteca
del Louvre, la giornata era grigia e le sale quasi in una penombra. Nella sala
dei capolavori gli occhi delle figure dipinte da Tiziano, da Raffaello, da
Yelasquez mi guardavano fiso. Cercai la Gioconda, corsi verso di lei. Entro la
fioca luce indovinai il sorriso e sentii il fascino dello sguardo; vidi anche
il candore del seno. Ogni altra cosa era indistinta. In una pinacoteca non è
possibile abbandonarsi all'oblio, Angelo Coxti, Leonardo piUore 93 come in una
chiesa o in nn cenacolo. Coloro che entrano a visitare le collezioni dei
dipinti vanno per lo più a fare confronti, ad osservare particolari, a cercare
note caratteristiche, e portano con sé libri e fotografie. Io, qnando mi
dispongo ad andare o a tornare al cospetto d'nn capolavoro, m'affatico a
togliermi di dosso ogni peso, affinchè mi sia dato procedere con passo leggero
e mi trovi dinanzi all'opera geniale, con l'anima semplice e serena. Sono
abituato a contemplare un quadro, come se fosse una costellazione. Nella notte
ir cielo è pieno di silenzio e le stelle splendono armonizzando ciascuna il suo
ritmo alla musica del cielo. Guardando gli occhi di Monna Lisa del Giocondo, li
vidi palpitare in ritmo, in armonia con la musica del suo sorriso. Il quadro
m'era ancora ignoto, e pensavo a Leonardo. Mi pareva vederlo, mentre nel suo
studio fiorentino aspettava l'arrivo della sfinge ridente. Poco dopo ella
entrava e si sedeva accanto alla finestra. In fondo apparivano le colline di
Fiesole, Monte Morello, l'Appennino lontano, e l'Arno serpeggiava scintillando
nel mattino, mentre le torri della città uscivano dalla nebbia al primo sole.
Anch'egli si sedeva, e, presa la lira d'argento che s'era fabbricata con le sue
mani, cominciava a cantare. La bella donna, udendo la laude melodiosa,
sorrideva, mentre l'Arno da lungi diveniva più ricco di scintille. Poi
cominciava a dipingere, e, dopo i primi tocchi una orchestra invisibile di
liuti riprendeva la canzone interrotta. La donna sorrideva in una calma regale:
i suoi istinti di conquista, di ferocia, tutta l'eredità delia specie, la
volontà della seduzione e dell'agguato, la grazia dell'inganno, la bontà che
cela un prò- 9i An'gelo Conti, Leomrdo pittore posito crudele, tutto ciò
appariva alternativamente e scompariva dietro il velo ridente e si fondeva nel
poema del suo sorriso. Per un momento usci un raggio di sole; ed io die m'ero
allontanato dal prodigio, corsi e lo vidi intero. La donna era viva dinanzi a
me, in tutta la sua vita reale e ideale. Buona e malvagia, crudele e
compassionevole, graziosa e felina, ella rideva, e il suo riso si prolungava
nel paese lontano e nell'anima mia; sino a darle l'oblio die viene dalla presenza
delle cose immortali. Pochi istanti dopo, il sole scomparve e la penombra regnò
nuovamente nella sala. Lì presso un sol quadro ardeva come una lampada e in
esso cantava, non affievolita, la musica del colore. Era la Festa campestre:
fra due donne nude, un suonatore di liuto svegliava alcuni accordi e pareva che
la Gioconda ne sorridesse come quando VINCI (si veda) canta, per rendere piìi
intensa la sua vita e per tradurre col disegno la sua misteriosa bellezza.
Questo ritratto non esprime soltanto ciò che l'occhio vede, ma è il riflesso
d'una creatura amata da uno spirito che per oltre quattro anni si affaticò a
penetrarne a rivelarne la vita. Come dinanzi alla Gioconda, Leonardo si pone
dinanzi ad ogni cosa vivente col medesimo ardore di conoscenza, con la stessa
ansiosa curiosità e lo stesso desiderio invincibile di fissarla con segni
semplici e definitivi. Tutto questo poema della sua anima, questo dramma intimo
che si chiude in una alternativa di tentativi d' espressione e di istanti di
tregua contemplativa, di rapimenti e di lotte con la sorda materia, d' ansietà
e scoramenti e di calma trionfale, è raccontato nei suoi disegni, che sono 1'
immagine più completa della sua potenza non solo intuitiva ma creativa. Per lo
scultore il disegno è appena un segno, uno scliema, un presentimento dell'opera
futura. Lo chiamiamo disegno, perchè ijon abbiamo altre parole per significare
le notazioni figurative degli scultori; ma esso non è se non un appunta ideale,
un mezzo per ricordare un sentimento. Ricordate i disegni di BUONARROTI (si
veda) per le sue statue, ricordate gli odierni disegni di Rodin per i suoi
gruppi e per i suoi monumenti. Qm^tì disegni, benché esprimano una visione di
movimento, non sono pittura e non sono scultura perchè non illuminano una idea
che potrà essere espressa, come chiaroscuro e come colore sopra una superficie
e che sia per apparire come forma nello spazio. La scultura comincia soltanto
col bozzetto in cera, in creta o in gesso, cioè a dire quando V idea, destinata
a manifestarsi come forma nasce a somiglianza d'una cosa viva fra le altre cose
viventi e sorge nello spazio, nell' aria e nella luce, sottoposta alle leggi
del peso e chiusa nelle sue dimensioni. Per parlare con esattezza, la scultura
non ha disegno. Nella pittura il disegno è tutto, è il primo segno che nota la
visione ancora vaga sopra una superficie, ed è il chiaroscuro e il colore che
pili tardi la renderanno eloquente, che le daranno una voce che parla e che
canta, come in una musica e come in un poema. Per Leonardo, genio universale,
il disegno non è soltanto linguaggio pittorico, ma è il mezzo adeguato
d'espressione di tutto ciò che appare e che passa nel suo pensiero, nella sua
memoria, nella sua imaginazione e nella sua fantasia. Tutti gli aspetti e tutti
i momenti della multiforme ed inesaiiribilc attività del suo spirito trovano la
loro espressione negli innumerevoli disegni che egli traccia in margine e fra
le linee dei suoi manoscritti, la precedono e spesso la superano con la loro
potenza di linea intuitiva e divinatoria. Mai come in Leonardo il disegno ha
avuto la virtìi d'esprimere tante cose, dalle più athni alla pittura alle pili
lontane, dalle pili concrete alle più astratte; mai come in Leonardo e giunto
ad una cosi vasta e così intensa forza di analisi e di concentrazione. I
disegni di Leonardo non sono solamente una testimonianza del suo amore per la
natura, non sono soltanto un dialogo fra la sua anima e V anima delle cose, ma
principalmente sono un mezzo di cui egli si è servito per conoscere l'universo.
Invece di consultare i trattati scientifici ed i sistemi di filosofìa, Leonardo
disegna. I disegni sono i suoi pensieri, le sue meditazioni, le sue
osservazioni, le sue intuizioni, le sue scoperte. Ogni suo disegno contiene un
segreto svelato, è una verità conquistata, è il segno d' un nuovo trionfo della
indagine umana, è un lembo del mistero dell'universo sollevato dal genio umano.
Dinanzi a ciò che noi chiamiamo il vero e può essere ugualmente chiamato il
mistero, Leonardo ha lo sguardo limpido, sereno, nuovo, lo sguardo meravigliato
del fanciullo, ha quella innocenza del genio, senza la quale, come afferma
Bacone, non si può entrare ne nel regno della verità ne nel regno dei cieli. La
differenza fra l'uomo di genio e l'uomo comune sta p principalmente in questo:
dinanzi ai fatti e agli aspetti della natura e della vita V uomo comune si
abitua e finisce con l'abolire in se il senso della maraviglia; le sue
impressioni, invece d'avere sempre un carattere loro proprio, invece d'es-
Leonardo da Yisci Pai'ig;], Museo del Lonvie. J-'ot. X. LA GIOCONDA. sere
sempre eccitatrici di sentimenti nuovi, gradatamente si attenuano, si
affievoliscono; finche si adattano e si sottopongono al modo di sentire
individuale, finche si scolorano e muoiono davanti alla monotonia dei bisogni
quotidiani. L'uomo guidato dalle abitudini è un addormentatore di se stesso, è
uno schiavo di ciò che nel suo spirito è meno degno di comandare. Il genio
invece è sempre libero, è sempre desto, e il sonno dell'abitudine non può far
discendere un velo sui suoi grandi occhi puri. Leonardo è appunto della
famiglia di coloro che non conoscono lo stato di sonno e d'indifferenza, ma che
vivendo sempre in una ansiosa curiosità vedono il continuo apparire delle cose
e l'infinito rinnovellarsi dei fenomeni, e che sembrano veramente nascere ogni
mattina. In questo stato di attesa dell'ignoto e del nuovo, ogni osservazione è
per Leonardo una visione, ogni analisi è una scoperta. Guarda un ramo con le
sue foglie, ne cerca la vita col suo disegno, e gli appare la legge di
filotassi; canta accompagnandosi con la sua lira d' argento, e scopre la legge
di risonanza delle corde negli accordi. In ogni fenomeno egli sente e vede una
confessione fatta dalla natura al suo genio divinatore. I suoi disegni sono la
traduzione grafica di queste confessioni fatte alla sua anima dall' anima delle
cose. Ciascuno d'essi pili che studio dal vero è opera d' immaginazione, è
figurazione intuitiva, destniata ad illuminare la realtà e a fare apparire,
dietro ciò che passa, l'aspetto immutabile delle idee eterne e delle eterne
verità. Ogni loro contorno e una ricerca, ogni linea una interrogazione, ogni
luce un riflesso del vivente chiarore del mondo, ogni ombra Leoxakdo da Vixci.
lii 98 un'eco d'un vivente mistero; e tutta quella sua opera della penna, del
carbone, della matita non è se non un mezzo potente da lui adoperato per
stringere d' assedio la natura e per costringerla a rivelare il suo segreto.
Sempre mediante le imagini, i paragoni e le analogie egli trova il cammino che
deve condurlo verso la verità. Ricordate in un suo manoscritto e in un suo
disegno il movimento dell'acqua veduto simile al movimento d' una capigliatura,
ricordate in qual maniera i movimenti del nuoto lo aiutino a comprendere quelli
del volo, in quel maraviglioso trattato che ha la virtìi di metterci in segreta
comunicazione con 1' anima e con la forza delle creature volanti. In questo
modo, sempre per mezzo di imagini e di indagini grafiche, di analogie, di forma
e di movimento, osservando e studiando l'aria e l'acqua, il suono e la luce, e
paragonando le loro proprietà essenziali, egli giunge ad intuire l'unità delle
forze fisiche precorrendo Cartesio. E la sua conoscenza, alla quale appariscono
come intuizioni le principali conquiste della scienza moderna, è figlia della
sua imaginazione. Più ancora che nei suoi manoscritti è espresso nei suoi
disegni il cammino fatto dalla sua conoscenza, guidata dall'amore e resa più
profonda dalla sua infantile maraviglia. Chi non ricorda, fra gli altri
innumerevoli, i suoi disegni di foglie e di fiori? Sono questi fra tutti gli
altri, esclusi quelli solo che ritraggono la figura umana, i più precisi. Pure
in questa precisione è l'infinito della vita. A prima giunta potete pensare o
credere che quei segni corrispondano a qualche cosa di limitato e di esteriore;
poi sentiamo che ciascuno di essi ha la potenza di continuarsi in noi. La sua
precisione non è il segno rigido e freddo fatto da una mano abile, ma è la
linea sicura del genio che ha trovato la vita. Però egli non trascura mai un
solo particolare, non lascia mai nulla incompiuto e sembra dir tutto sino
all'ultima parola. Infatti egli dice tutto; ma il suo linguaggio è come il mare
e come l'infinito, e, nelF udirlo, la nostra piccola anima sembra farsi vasta
come 1' anima del mondo. In qua! modo ha potuto egli raggiungere questa potenza
d'espressione? In un modo semplice e grande: imitando la natura. L'imitazione
della natura è il principio che Leonardo proclama in tutti i suoi scritti e
mette in pratica in tutte le sue opere. Ma che cosa significa imitar la natura?
Ciò non vuol dire copiare le sue apparenze esteriori, come fanno oggi la
maggior parte dei nostri artisti, ma imitarla nelle sue leggi di vita. Imitar
la natura, per Leonardo come per tutti i geni dell'umanità, significa divenire
come la natura, acquistando la potenza di creare 1' opera d' arte nel modo
stesso nel quale la natura crea le sue vite innumerevoli: qual fanno le cose.
Voi sapete benissimo che i disegni vinciani fanno parte dei manoscritti di Milano,
di Parigi, di Londra, che sono aiizi un complemento, uno sviluppo e
un'irradiazione del testo. Poiché dunque l' uno e 1' altro sono connessi
intimamente, non m' è possibile, dopo parlato dei disegni, non dirvi due parole
dei manoscritti e significarvi in tal modo tutto il mio pensiero. Voi sapete
che nei manoscritti sono pagine di ogni scienza. Perchè? Volle forse Leonardo
coltivare r una dopo 1' altra le varie discipline scientifiche e contribuire al
loro sviluppo? A questa domanda risponde Leonardo medesimo. L'uomo non
dev'essere " solo un sacco dove si riceva il cibo e donde esso esca „, non
deve essere soltanto un " transito di cibo „ e avere della specie umana la
sola voce e la figura, e tutto il resto " essere assai manco che bestia „.
Il vero scopo della vita umana è per Leonardo il pensiero. Il pensiero, per
conoscere il passato e la nostra dimora terrena; ecco il mezzo per vivere
nobilmente liberandoci dalla illusione del piacere. Il tempo che fece piangere
Elena allorché ^ guardandosi nello specchio, vide i primi segni della
vecchiezza, il tempo non può colpire il pensiero. Il conoscere la sapienza
degli antichi e la vivente realtà delle cose presenti, ecco il decoro e l'
alimento degli spiriti umani. Ma perchè un tal desiderio di conoscere? Questo e
per me il punto capitale, il vero nodo della questione. Il sapere perchè
Leonardo ha voluto studiare tante forme ed ha cercato il segreto di tanti fatti
della vita universale, ci farà conoscere la qualità essenziale del suo genio.
Nella sua indagine instancabile d'ogni fenomeno del cielo e della terra, nel
suo ininterrotto colloquio con la natura, Leonardo non è animato da curiosità
puramente scientifica, non da vanità di dottrina, né dalla naturale tendenza
d'un intelletto analitico cui l'esercizio delia osservazione doni la gioia più
intensa. Spirito sostanzialmente intuitivo e sintetico, egli si sottopone in
tutta la sua vita al rigore e spesso al martirio dell' analisi, per acquistare
una conoscenza pili ricca, più vasta e piti profonda. Le sue innumerevoli
osservazioni, i suoi continui esperimenti sono i gradini che debbono condurlo
colà dove, entro una luce inestinguibile, appare l'eternità della vita.
Soffrire la disciplina del ragionamento e dell'esperimento per aver in fine,
come premio, la visione della vita, non h forse una divina aspirazione? Più la
sua conoscenza, nel quotidiano osservare e meditare, gli svelava nuove leggi e
nuovi segreti, più cresceva in lui l'amore per tutta la natura; ne vi fu mai al
mondo, dopo l' umile frate d'Assisi, chi l'abbia amata d'amore più puro e più
ardente. Chi più conosce 'pia ama^ sono le sue parole. In questo amore generato
dalla conoscenza è tutto il segreto dell'opera di Leonardo, dai manoscritti e disegni
alle pitture. Il suo realismo è un mezzo per giungere all'idea, è il modo
ch'egli adopera per ricomporre ciò che prima ha scomposto, in maniera che la
natura stessa sembri formarsi dinanzi a noi e farci assistere alla sua stessa
creazione. Chi conosca i manoscritti di AYindsor, nei quali i disegni hanno
un'importanza assai maggiore del testo, può convincersi agevolmente di questa
verità e può anche comprendere (cosa che in questo momento deve particolarmente
interessarci) che quando Leonardo parla di anatomia o di fisiologia, come nei
così detti trattati che si vanno ora pubblicando, egli non è mai un anatomico
vero e proprio, ne un vero fisiologo, ma è sempre prima d' ogni altra cosa e
sopra ogni altra cosa pittore. Tutta la sua opera di scienza, tutti i suoi
disegni d'anatomia, d'embriologia, di botanica, non ser- vono se non a rendere
più vasta, più profonda e più ricca la sua visione pittorica dell'uomo e della
natura. La scienza non è se non un mezzo d'espressione della sua visione del
mondo, ed egli se ne giova per dare un carattere di precisa realtà agli
ardimenti del suo sogno. Scopo del suo immenso lavoro e di giungere a creare
ima- 102 Angelo Conti, Leonardo pittore g'ini clic sembrino nate con le stesse
leggi con le quali la natura produce le sue forme: qual fanno le cose. E
doloroso che nella sua vasta opera essenzialmente pittorica, nella quale "
non fu impedito „, come egli dice, " da avarizia o da negligenza, ma solo
dal tempo „, manchi irreparabilmente una fra le pagine piti vive e più grandi:
La Battaglia d'Anghiarl. Scrivo queste parole vicino a Santa Maria Novella, a
pochi passi dal luogo nel quale egli disegnò r opera maravigliosa. Le campane
che suonano nel campanile roseo al primo sole del mattino, sembrano diffondere
sul mio ricordo una voce dì pianto. Li pochi mesi il lavoro fu compiuto, e
immediatamente cominciata la pittura a fresco per la sala del Consiglio in
Palazzo Vecchio. Leonardo vi dipinse dal 1504 al 1506. Poi l'opera fu da lui
abbandonata. Nel 1559 il cartone di Leonardo era ancora nella sala del Papa,
mentre il cartone della Guerra di Pisa disegnato da Michelangelo era nel
Palazzo dei Medici, l'uno e l'altro esposti all'ammirazione del mondo. Da queir
anno manca ogni notizia. Della pittura incominciata in Palazzo Vecchio si sa
soltanto che nel 1513 esisteva ancora, ma cadente a causa della cattiva
preparazione dell'intonaco e dei colori. Cito, contro il mio solito, dati di
fatto e date, perchè l' opera pur troppo manca. Se l'opera esistesse, il suo
linguaggio renderebbe insostenibile la voce della cronologia; ma poiché è
perduta, ci è necessario contentarci delle parole di chiunque ce ne parli. I
due tre ricordi pittorici rapidi e sommari dell' episodio centrale della
battaglia, non bastano a dare un'idea di ciò che fece Leonardo. Chi sa in qual
modo maraviglioso e straordinario egli avrà rappresentato la mischia, la furia
guerresca intorno allo stendardo, che sappiamo fosse nel centro, qnal prodigio
di scorci, quale evidenza di movimenti, nobiltà ed impeto di gesti e quale
perfezione di cavalli, dei quali egli conosceva la vita come nessuno dei suoi
tempi ! Di tutto ciò nulla e rimasto. Io imagino che nell'anno in cui ogni
traccia dell'opera scomparve, la natura, per compensare il mondo, dovè creare
una primavera favolosa, non veduta mai. Poiché nel mondo nulla si perde, e
quando una bellezza è distrutta, sia essa una selva che arda, un' isola che si
sommerga, un capolavoro che cada in rovina, la natura provvida fa nascere nuovi
germogli, suscita nuove bellezze e nuove energie, e la sua forza di creazione
rimane intatta in virtii della sua maggiore attività: il mutamento. Doctor
Mysticus. Iride, mandata da Giunone, scende sulla terra per consigliare TURNO a
idare l’assalto al campo troiano, finchè è assente ENEA. Turno, avendo
provocato invano i Troiani rinchiusi, pensa di dar fuoco alle navi, le quali si
salvano per l’intervento di Cibele che le trasforma in ninfe del mare. TURNO,
interpretato. favorevolmente quel portento, idispone l’accampamento. Durante
la notte, NISO confida ad EURIALO il’proponimento di andare in cerca d’ENEA. Ma
Eurialo lo vuole seguire. Ascanio e i capi li lodano, e prometton loro grandi
doni. Entrati nel campo dei Rùtuli, ne fanno strage. Ma quando, uskitine,
si avviano per i boschi, sono scoperti da Volscente che veniva con trecento
cavalieri di Laurento. Fuggono. NISO SI SALVA, MA EURÌALO È RAGGIUNTO ED UCCISO,
NONOSTANTE L’INTERVENTO DI NISO, TORNATO INDIETRO A SALVARE IL COMPAGNO. Le
teste recise dei due giovani, infilzate in una picca, son portate sotto il
campo troiano, fra i disperati lamenti della madre di Eurialo. Turno
assale i Troiani con grande strage. E poichè Numano insolentiva i nemici
vantando le virtù della stirpe italica, Ascanio compie il suo primo
eroismo idi guerra, e lo trafigge con una freccia.Pandaro e Bizia, fratelli,
tentano la riscossa lanciandosi sui Rùtuli; ma Bizia è ucciso da Turno,
che riesce a entrare nel campo nemico, dove fa strage; finchè, eopraffatto
dalla folla dei Troiani, si salva lanciandosi armato a nuoto nel Tevere. Atque
ea diversa penitus dum parte geruntur, Irim de caelo misit Saturnia
Iuno audacem ad Turnum. Luco tum forte parentis Pilumni Turnus
sacrata valle sedebat. Ad quem sic roseo Thaumantias ore locuta
est: « Turne, quod optanti Divum promittere nemo auderet,
volvenda dies en attulit ultro. Aeneas urbe et
sociis et classe relicta sceptra Palatini sedemque petit Evandri.
Nec satis: extremas Corythi penetravit ad urbes 10 Lydorumque manum
collectos armat agrestes. Quid dubitas? nunc tempus equos, nunc poscere
currus. Rumpe moras omnes et turbata arripe castra. Dixit, et in caelum
paribus se sustulit alis ingentemque fuga secuit sub nubibus arcum.
A&novit iuvenis duplicesque ad sidera palmas sustulit ac tali
fugientem est voce secutus: « Iri, decus caeli, quis te mihi nubibus
actam detulit in terras? unde haec tam clara repente tempestas?
medium video discedere caelum palantesque polo stellas: sequor omina
tanta, quisquis in arma vocas. » Et sic effatus ad undam processit
summoque hausit de gurgite lymphas, multa Deos orans, oneravitque aethera
votis. lamque omnis campis exercitus ibat apertis 25 dives
equum, dives pictai vestis et auri. Messapus primas
acies, postrema céoercent Tyrrhidae iuvenes, medio dux agmine
Turnus E mentre tutto questo in ben diversa parte succede, Iride
giù da cielo mandò la Saturnia Giunone a Turno audace. Allora a caso
sedeva Turno nel bosco dell’avo Pilumno * entro alla sacra valle; e a lui
con la rosea bocca la figlia di Taumante * parlò: « Turno, quel che nes
suno dei numi oserebbe promettere al tuo desiderio, ecco che il giorno che
volge te l’offre spontaneamente. Énea lasciò la città e i compagni e la flotta,
ed è salito alla reggia del Palatino ed alla sede di Evandro. Nè basta: è
penetrato nell’ultime ville di Còrito *, e raccoglie ed arma agresti
schiere di Etruschi. Che indugi? Il tempo è questo, è questo, di chiedere i
cocchi e i cavalli. Rompi ogni indugio, turba ed assali il suo campo ».
Disse, e nell’alto del cielo si alzò con le ali levate, e nel fuggire
segnò sotto le nubi un grande arco. La riconobbe il giovane, e alzò ambe
le palme alle stelle, e, mentr’ella volava, la seguiva con queste parole.
Ìri, ornamento del cielo, chi dalle nubi a me ti fece discendere sopra
la terra? E come mai, improvvisa, tanta chiarezza di cielo? A mezzo vedo
dischiudersi i cieli e in alto vagare le stelle. Chiunque tu sia, che mi
chiami alle armi, obbedisco ad un tanto presagio ». E, così detto, al
fiume si accostò, ed attinse a fiore del gorgo le acque, molto pregando
gli Dei, colmando il cielo di voti. E già l’esercito intiero andava per le
aperte pianure, ricco di cavalli, ricco di vesti intessute nell’oro
(all’avanguardia è Messapo, ultimi vengono, i figli di Tirro ‘, ed a capo
del grosso sta Turno: s’avanza brandendo ie LI [vertitur arma tenens et toto vertice supra
est]; ceu septem surgens sedatis amnibus altus per tacitum Ganges,
aut pingui flumine Nilus cum refluit campis et iam se condidit
alveo. Hic subitam nigro glomerari pulvere nubem
prospiciunt Teucri ac tenebras insurgere campis. Primus ab adversa conclamat mole Caicus: Quis globus, o cives, caligine
volvitur atra? Ferte citi ferrum, date tela, ascendite
muros, hostis adest, heia. » Ingenti clamore per omnes
condunt se Teucri portas et moenia complent. Namque ita
discedens praeceperat optimus armis 40 Aeneas, si qua interea fortuna
fuisset, neu struere auderent aciem, neu credere campo;
castra modo et tutos servarent aggere muros. Ergo etsi conferre manum pudor iraque monstrat, 6biciunt portas tamen
et praecepta facessunt armatique cavis exspectant turribus hostem.
Turnus, ut ante volans tardum praecesserat agmen viginti lectis
equitum comitatus, et urbi improvisus adest: maculis quem Thracius
albis portat equus cristaque tegit galea aurea rubra. Ecquis erit,
mecum, iuvenes, qui primus in hostem? En » ait et iaculum intorquens
emittit in auras, principium pugnae, et campo sese arduus infert. Clamorem
excipiunt socii, fremituque sequuntur horrisono; Teucrum mirantur inertia
corda: 55 non aequo dare se campo, non obvia ferre arma
viros, sed castra fovere. Huc turbidus atque huc lustrat equo muros
aditumque per avia quaerit. Ac veluti pleno lupus insidiatus
ovili cum fremit ad caulas, ventos perpessus et imbres, 60
nocte super media: tuti sub matribus agni armi, e supera gli altri
del capo); come tacito scorre il Gange profondo, ingrossato da sette
fiumi tranquil. li, o il Nilo dalla pingue corrente, quando rifluisce
dai campi e già se ne torna al suo letto. Qui addensarsi una nube
di negra polvere i Teucri scorgono all’improvviso, e i campi oscurarsi;
Caico, primo dalla torre di fronte, si mette a gridare: « Che turbine, o
cittadini, si aggira di negra caligine? Presto, alle armi, recate le
armi, salite alle mura! Ecco il nemico, olà! ». E i Teucri con grande
schiamazzo si afiollan per tutte le porte, e col. man le mura. Giacchè
così, nel partire, Enea, esperto di guerra, aveva ordinato: se intanto si
offriva una qualche sorpresa, non osassero uscire in ischiera nè accettare
battaglia; solo, tenessero il campo e 1 muri al riparo del vallo *. Or, benchè
ira e vergogna li spingano a dare battaglia, pure rinserran le porte, ed
obbediscono agli ordini, ed aspettano armati dentro le torri il nemico. Turno,
siccome volando davanti avea preceduto il tardo suo stuolo, con venti
cavalieri più scelti, ecco appare improvviso davanti alle mura: lo porta
un cavallo di Tracia pezzato di bianco, e il capo gli copre un elmo d’oro
con rosso il cimiero. « E chi sarà con me, o giovani, chi primo incontro
il nemico? Ecco! » esclama, e un dardo vibrando, lo lancia per l’aure,
segnale della battaglia, ed alto si avanza nel campo. L'acclamano a
gran voce i compagni, e con un grido lo seguono che orribile suona: e
stupiscono dei cuori inerti dei Teucri, e come non escano in campo aperto
e non cozzin le armi con loro, ma stiano accovacciati là dentro. Turno,
ora qua ora là, esplora a cavallo le mura, e cerca — ma impenetrabile è
il luogo — un accesso. E come quando un lupo che insidia l’ovile ricolmo, freme
là presso al recinto, esposto al vento e alla pioggia, nel cuor
della 2balatum exercent, ille asper et improbus ira saevit
in absentes, collecta ‘fatigat edendi ex longo rabies et siccae sanguine
fauces; haud aliter Rutulo muros et castra tuenti ignescunt irae,
duris dolor ossibus ardet, qua tentet ratione aditus et qua vi
clausos excutiat Teucros vallo atque effundat in aequor.. Classem,
quae lateri castrorum adiuncta latebat, aggeribus septam circum et
fluvialibus undis, invadit sociosque incendia poscit ovantes atque
manum pinu flagranti fervidus implet. Tum vero incumbunt (urget
praesentia Turni), atque omnis facibus pubes accingitur atris.
Diripuere focos; piceum fert fumida lumen taeda et commixtam Vulcanus ad
astra favillam. Quis Deus, o Musae, tam saeva incendia Teucris
avertit? tantos ratibus quis depulit ignes? Dicite. Prisca fides facto,
sed fama perennis. Tempore quo primum Phrygia formabat in Ida
Aeneas classem et pelagi petere alta parabat, ipsa Deum fertur genetrix
Berecyntia magnum vocibus his adfata Iovem: « Da, gnate, petenti,
quod tua cara parens domito te poscit Olympo. Pinea silva mihi, multos
dilecta per annos; lucus in arce fuit summa, quo sacra ferebant,
nigranti picea trabibusque obscurus acernis. Has ego Dardanio iuveni, cum
classis egeret, laeta dedi: nunc sollicitam timor anxius angit.Solve
metus, atque hoc precibus sine posse parentem: 90 ne cursu
quassatae ullo neu turbine venti vincantur: prosit nostris in montibus
ortas. » Filius huic contra, torquet qui sidera mundi: « O
genetrix, quo fata vocas? aut quid petis istis? notte: sotto le
madri, al sicuro, vanno belando gli agnelli, ed esso, inasprito e feroce per l’ira,
infuria contro i lontani; e lo tormenta la lunga rabbia adunata del
cibo con le fauci che han sete di sangue; — non altrimenti nel
Rùtulo, a guardare i muri ed il campo, ardono lire, il dolore nell’ossa
dure lo brucia: come tentare l’accesso, e come scacciar con la forza i
Teucri dal vallo e spargerli nella pianura. Allora investe la flotta, che stava
al riparo di fianco al campo, recinta all’intorno dagli argini e
dall'onde del fiume, e invita all'incendio i compagni esultanti, e furibondo
impugna una fiaccola ardente; ed essi si accaniscono all’opera: li sprona la
presenza di Turno, e tutta di negre faci la gioventù si fornisce. Saccheggiano
i focolari; le torce fumose una luce spandon color della pece, e Vulcano
lancia fumo e faville alle stelle. Qual Dio, o Muse, un così fiero incendio allontanò
dai Troiani? chi discacciò dalle navi sì grandi fiamme? Voi ditelo.
Antica è la fede nel fatto, ma la sua fama è perenne. Nel tempo che dapprima
fabbricava nell’Ida di Frigia Enea la sua flotta e si accingeva a
prendere il mare infinito, dicono che essa stessa, la Berecinzia * madre
dei numi, al gran Giove volgesse queste parole: « Ascolta, o figlio, il
mio prego, il primo che io, la tua cara madre, ti chiedo, da quando
domasti l'Olimpo. Ho una selva di pini, da lunghissimi anni a me cara; ed
era il sacro mio bosco sulla cima del monte, ia dove si esercitava il mio
culto, di nereggianti abeti ombroso e di alti tronchi di aceri. Ed io ben
lieta li ho dati al dàrdano eroe, allorchè aveva bisogno di navi; ma ora il
timore mi rende ansiosa e sollecita: toglimi da questo af-. fanno, e fa
che questo ottenga la preghiera di una madre: fa che non siano mai schiantate
da viaggio nes 2Mortaline manu factae immortale carinae fas
habeant? certusque incerta pericula lustret Aeneas? cui tanta Deo
permissa potestas? Immo ubi defunctae finem portusque tenebunt
Ausonios olim, quaecumque evaserit undis Dardaniumque ducem Laurentia
vexerit arva, mortalem eripiam formam magnique iubebo aequoris esse
Deas, qualis Nereia Doto et Galatea secant spumantem pectore pontum.
» Dixerat, idque ratum Stygii per flumina fratris, per pice
torrentes atraque voragine ripas adnuit, et totum nutu tremefecit
Olympum. Ergo aderat promissa dies et tempora Parcae debita
complerant, cum Turni iniuria Matrem admonuit ratibus sacris depellere
taedas. Hic primum nova lux oculis effulsit, et ingens visus ab
Aurora caelum transcurrere nimbus Idaeique chori: tum vox horrenda per
auras excidit et Troum Rutulorumque agmina complet. « Ne trepidate
meas, Teucri, defendere naves, neve armate manus: maria ante exurere
Turno, quam sacras dabitur pinus. Vos ite solutae, ite Deae pelagi;
genetrix iubet. » Et sua quaeque continuo puppes abrumpunt vincula
ripis delphinumque modo demersis aequora rostris ima petunt: hinc
virgineae (mirabile monstrum) [quot prius aeratae steterant ad litora
prorae] reddunt se totidem facies pontoque feruntur. Obstupuere
animis Rutuli, conterritus ipse turbatis Messapus equis, cunctatur et
amnis rauca sonans revocatque pedem Tiberinus ab alto. At non
audaci Turno fiducia cessit; ultro animos tollit dictis atque increpat
ultro: suno o da turbinose tempeste; e a lor giovi sui nostri monti
esser nate ». E a lei di rincontro il figliuolo, che volge le stelle del
cielo: « Madre, perchè vuoi tu cambiare il destino? e che cosa domandi per
loro? Forse che navi foggiate da mano mortale potranno avere una
sorte immortale? Ed Enea al sicuro affronterà i malsicuri perigli? E quale dei
numi ha così grande potere? Bensì, quando compiuto il lor corso si fermeranno
un giorno nei porti d’Ausonia, qualunque ne sia scampata dall’onde
ed abbia portato il duce dardànio nei campi laurenti, io le toglierò la
sua forma mortale, e vorrò ch’elle sieno dee dell’ampie marine, come Doto
e Galatea nereidi, che fendono il mare spumante col petto ». Disse; e
giuratolo per il fiume dello stigio fratello * e per le sponde bollenti
di pece dall’atra voragine, cennò, ed al cenno, tutto fece tremare
l’Olimpo. Era dunque arrivato il giorno promesso, e avevan le
Parche compiuto il debito tempo, quando l'offesa di Turno indusse la
Madre a cacciar dalle sacre navi le fiaccole. Allora da prima una luce
novella agli occhi rifulse, e immenso fu visto trascorrere dall'Oriente un
nimbo pel cielo, e con esso i cori dell’Ida: così tremenda una voce cadde
per l’aria, e le schiere riempì dei Troiani e dei Ruùtuli: « Non vi
affannate a difendere i miei navigli, o Troiani, e non afferrate le armi: prima
potrà ardere il mare, Turno, che bruciare i pini a me sacri. È voi
andatene sciolte, andatene, Dee del mare; la vostra madre lo vuole ». E
tosto ad una ad una ie poppe troncan le corde dal lido, e a guisa di delfini,
tuffati i rostri, scendon nel fondo del înare: e di qui (meraviglioso
prodigio), quante prore di bronzo eran state prima alla riva”,
ricompaiono volti alirettanti di fanciulle, e si avvian sul mare.
2« Troianos haec monstra petunt, his Iuppiter ipse auxilium solitum
eripuit; non tela nec ignes exspectant Rutulos. Ergo maria invia Teucris,
130 nec spes ulla fugae; rerum pars altera adempta est; terra autem
in nostris manibus: tot milia gentes arma ferunt Italae. Nil me
fatalia terrent, si qua Phryges prae se iactant, responsa
Deorum. Sat fatis Venerique datum, tetigere quod arva 135
fertilis Ausoniae Troes. Sunt et mea contra fata mihi, ferro
sceleratam exscindere gentem, coniuge praerepta; nec solos tangit
Atridas iste dolor solisque licet capere arma Mycenis.
Sed periisse semel satis est; peccare fuisset 140 ante satis
penitus modo non, genus omne perosos femineum? quibus haec medii fiducia
valli fossarumque morae, leti discrimina parva, dant animos.
An non viderunt moenia Troiae Neptuni fabricata manu considere in
ignes? 145 Sed vos, o lecti, ferro quis scindere vallum
adparat et mecum invadit trepidantia castra? Non armis mihi
Vulcani, non mille carinis est opus in Teucros. Addant se protinus
omnes Etrusci socios. Tenebras et inertia furta ; 150 [Palladii
caesis summae custodibus arcis] ne timeant; nec equi caeca condemur
in alvo: luce palam certum est igni circumdare muros. Haud sibi cum Danais faxo et pube Pelasga esse putent, decimum
quos distulit Hector in annum. 159 Nunc adeo, melior quoniam pars
acta diei, quod superest, laeti bene gestis corpora rebus
procurate, viri, et pugnam sperate parari. » Interea vigilum
excubiis obsidere portas cura datur Messapo et moenia cingere
flammis. Stupiron nel cuore i Rùtuli,
atterrito è lo stesso Messapo e i suoi cavalli s'impennano; il Tiberino fiume
ancor esso s’indugia, rauco ‘sonando, e ritrae il piede dal ‘ mare. Ma
non a Turno audace vien meno l’ardire, chè anzi rianima 1 cuori coi detti
e li garrisce così: « Contro i Toiani, comparvero questi portenti; a loro, il
solito scampo lo stesso Giove ha strappato: non v'è più bisogno delle
armi e dei fuochi dei Rùtuli. Così i Teucri non hanno più vie sul mare nè
alcuna speranza di fuga: son tolte loro le acque, e la terra è in nostro
potere: tante migliaia di armati mandano l'itale genti! Non mi atterriscono,
no, i fatali responsi dei numi, di cui i Frigi si vantano. Basti a Venere
e ai fati, che della fertile Ausonia toccarono i campi i Troiani. Ho i
miei destini io pure: esterminar con la spada la scellerata gente,
poichè mi ha rapita la sposa; e un tale dolore non tocca soltanto gli
Atridi‘°, nè soltanto a Micene e lecito l’armi brandire. Ma esser periti
una volta, poteva bastare; e non sarebbe bastato aver peccato una volta,
per odiar tutto il sesso femmineo? Certo, a loro dan forza il vallo interposto
e dei fossati l’ostacolo, breve ritardo alla morte. Ma non vider le mura
di Troia — e le aveva costrutte Nettuno! — ruinare in mezzo alle
fiamme? Ora di voi, o eletti, chi si prepara a rompere il vallo e ad assaltare
con me gli accampamenti tremanti? Non ho bisogno dell’armi, io, di
Vulcano, e di mille carene, per combattere contro i Troiani. E a
loro si aggiungano pure alleati tutti quanti gli Etruschi. Le tenebre e gli
assalti infingardi [del Palladio, e dei custodi della rocca la strage]!
non tornano essi, chè noi non ci chiuderemo nel ventre oscuro del
cavallo: alla luce, all’aperto, circonderemo ie mura di fiamme. Io
farò sì che non si credano in guerra coi Dànai e con Bis
septem Rutuli, muros qui milite servent, delecti: ast illos centeni
quemque sequuntur purpurei cristis iuvenes auroque corusci. Discurrunt variantque vices fusique per herbam indulgent vino et
vertunt crateras aénos. Collucent ignes: noctem custodia ducit insomnem
ludo. Haec super e vallo prospectant Troes et armis alta tenent, nec
non trepidi formidine portas explorant, pontesque et propugnacula
iungunt, tela gerunt. Instant Mnestheus acerque Serestus, quos pater
Aeneas, si quando adversa vocarent, rectores iuvenum et rerum dedit esse
magistros. Omnis per muros legio, sortita periclum, excubat, exercetque
vices, quod cuique tuendum est. 175 Nisus erat portae custos, acerrimus
armis, Hyrtacides, comitem Aeneae quam miserat Ida venatrix iaculo
celerem levibusque sagittis; et iuxta comes Eurialus, quo pulchrior
alter non fuit Aeneadum Troiana neque induit arma, 180 ‘ ora puer
prima signans intonsa iuventa. © His amor unus erat, pariterque in bella
ruebant; tum quoque communi portam statione tenebant. Nisus ait: «
Dine hunc ardorem mentibus addunt, Euryale, an sua cuique Deus fit dira
cupido? Aut pugnam aut aliquid iamdudum invadere magnum mens agitat mihi
nec placida contenta quiete est. Cernis, quae Rutulos habeat fiducia
rerum. Lumina rara micant: somno vinoque soluti procubuere; silent
late loca. Percipe porro, _ 190 quid dubitem et quae nunc animo sententia
surgat. Aeneam acciri omnes, populusque patresque, exposcunt,
mittique viros, qui certa reportent. la gente Pelasga,
che Ettore per ben dieci anni tardò. Ora dunque, poichè è scorsa la parte
migliore del giorno, quel tanto che avanza, lieti dei primi successi,
concedetelo, o prodi, a ristorarvi le membra, e aspettate che venga la
pugna ». Frattanto si affida a Messapo di guardar con le scolte le porte !* e
di cinger le mura di fuochi. Due volte sette Rùtuli son scelti a custodia dei
muri coi loro guerrieri; ed ognuno da cento armati è seguito, con cimieri
purpurei ed armi che brillano d’oro. Corron di qua e di là, si danno il
cambio, e sdraiati su l'erba tracannano il vino e lo versan dai crateri
di bronzo. Splendono i fuochi; e le guardie passano la notte insonne
giocando. Di sopra al vallo i Troiani stanno a osservare, e con
l’armi guardan le mura, e così, in fretta, per il timore, vanno studiando
le porte, congiungon coi ponti le torri, ammucchiano l’armi. Stanno su
loro Mnèsteo ed il fiero Seresto, che il padre Enea, se mai lo chiedesse
il pericolo, avea destinati a guidare l’esercito e a governare lo stato.
Tutti, lungo le mura, al rischio che la sorte ha voluto, i guerrieri vegliano,
n scambiano i turni, secondo che tocca ad ognuno. Niso era a custodia di una
porta, d’Irtaco il figlio, che, a compagno d’Enea, Ida aveva sini la
cacciatrice, ed era destro a gettare veloci saette; e accanto gli era
compagno Eurìalo, il più bello fra tutti gli Enèadi e quanti vestivano
l’armi troiane; fanciullo ancora, gli fioriva sulle gote intonse la
prima lanugine. Stretto un amore li univa, e insieme si precipitavano in
guerra; ed anche allora, compagni di scolta, guardavan la porta. Niso disse: «
M'ispirano forse gli Dèi questo mio ardor nella mente, o Eurialo? o
il suo fiero desìo diviene a ciascuno il suo Dio? Già da gran tempo
il mio cuore mi spinge alla pugna o a ten Si tibi quae posco promittunt
(nam mihi facti fama sat est) tumulo videor reperire sub illo 195
posse viam ad muros et moenia Pallantea. » Obstupuit magno laudum
percussus amore Euryalus: simul his ardentem adfatur amicum: « Mene
igitur socium summis adiungere rebus, Nise, fugis? solum te in tanta
pericula mittam? 200 non ita me genitor, bellis adsuetus Opheltes,
Argolicum terrorem inter Troiaeque labores sublatum erudiit, nec tecum
talia gessi > magnanimum Aenean et fata extrema secutus. Est hic, est animus lucis contemptor et istum 205 qui vita bene
credat emi, quo tendis; honorem. » Nisus ad haec: « Equidem de te nil
tale verebar, nec fas, non: ita me referat tibi magnus ovantem
luppiter, aut quicumque oculis haec adspicit aequis. Sed si quis (quae
multa vides discrimine tali), si quis adversum rapiat casusve Deusve, te
superesse velim: tua vita dignior aetas. Sit, qui me raptum pugna
pretiove redemptum mandet humo; solita aut si qua id fortuna
vetabit, absenti ferat inferias, decoretque sepulchro; 215 neu
matri miserae tanti sim causa doloris, quae te sola, puer, multis e
matribus ausa persequitur, magni nec moenia curat Acestae. » Ille autem:
« Causas nequidquam nectis inanes, nec mea iam mutata loco sententia
cedit. 220 Adceleremus » ait. Vigiles simul excitat.
Illi succedunt servantque vices: statione relicta, ipse comes Niso
graditur, regemque requirunt. Cetera per terras
omnes animalia somno laxabant curas et corda oblita laborum; 225
ductores Teucrum primi, delecta iuventus, a è o so
pn tare qualche gran fatto, e non sa placarsi a un tranquillo
riposo. Tu vedi quale fiducia s'è impadronita dei Rùtuli. Rari lampeggiano i
lumi; immersi nel sonno e nel vino giacquero; tutto all’intorno è
silenzio. Odimi dunque quello ch’io penso, ed il disegno che ora mi sorge
nel cuore. Tutti, il popolo e i padri, chiedon che Enea si richiami e gli
si mandino messi che gli raccontino il vero. Se mi promettono quello
ch’io chiedo per te (per mia parte, mi basta la gloria del fatto), credo,
la, sotto a quel colle, di ritrovare la via che mena del Pallantèo
alle mura ». Stupì, colpito da grande amore di gloria, Eurìalo; e con
queste parole si volge all’ardito compagno: « Niso, dunque rifuggi dal
prendermi teco all’impresa sì grande? Ti lascerò andar solo in mezzo a cotanti
perigli? Ah, non così mio padre, Ofelte assuefatto alle guerre, fra lo
spavento argolico ed i travagli di Troia mi allevò, m’istruì; e non così
mi mostrai accanto a te, nel seguire il magnanimo Enea fino
all’estreme fortune. C’è qui, c'è qui un animo che sa disprezzare
la vita, e crede che ben con la vita si acquisti questa gloria che agogni
tu pure ». E Niso di rincontro: « Non io certo dubitavo di te, nè lo
potrei, oh no: così a te mi riconduca in trionfo il grande Giove o
chiunque dall’alto ci guarda con occhio propizio. Ma se, come
spesso accade in rischi sì grandi, se un qualche caso, o un Dio, mi
tragga a morire, vorrei che tu rimanessi; ti dà più diritto alla vita la
tua giovinezza: e vi sia chi mi sottragga alla mischia o mi ricompri al
nemico per sotterrarmi, e se, come accade, lo vieterà la fortuna,
mi renda i funebri offici, anche lontano, e di un sepolcro mi
onori. Ah, ch’io non sia cagione di un sì grande dolore alla tua povera
madre, che sola, o fanciullo, fra tante madri osava seguirti, e non
ristette del grande 3 - Vircuro - Eneide consilium summis regni de
rebus habebant, quid facerent quisve Aeneae iam nuntius
esset. Stant longis adnixi hastis et
scuta tenentes castrorum et campi medio. Tum Nisus et una
‘230 Euryalus confestim alacres admittier orant: rem magnam,
pretiumque morae fore. Primus Iulus accepit trepidos ac Nisum dicere
iussit. Tunc sic Hyrtacides: « Audite o mentibus aequis,
Aeneadae, neve haec nostris spectentur ab annis, 235 quae ferimus. Rutuli
somno vinoque soluti conticuere: locum insidiis conspeximus
ipsi, qui patet in bivio portae, quae proxima ponto;
interrupti ignes, aterque ad sidera fumus erigitur; si fortuna
permittitis uti 240 quaesitum Aenean et moenia Pallantea, mox
hic cum spoliis ingenti caede peracta adfore cernetis. Nec nos via
fallet euntes: vidimus obscuris primam sub vallibus urbem
venatu adsiduo et totum cognovimus amnem. » 245 Hic annis
gravis atque animi maturus Aletes: « Di patrii, quorum semper sub
numine Troia est, non tamen omnino Teucros delere paratis,
cum tales animos iuvenum et tam certa tulistis pectora. » Sic
memorans umeros dextrasque tenebat 250 amborum et vultum lacrimis atque
ora rigabat: « Quae vobis, quae digna, viri, pro laudibus
istis, praemia posse rear solvi? pulcherrima primum Di
moresque dabunt vestri; tum cetera reddet actutum pius Aeneas atque
integer aevi 259 Ascanius, meriti tanti non immemor umquam. Immo ego vos,
cui sola salus genitore reducto, excipit Ascanius, per magnos,
Nise, Penates Assaracique Larem et canae penetralia Vestae Aceste
alle mura ». Ma
quegli: « Tu indarno intessi i tuoi vani pretesti, e il mio voler non si
muta e non cede. Presto!» soggiunge. E risveglia le scolte; queste
subentrano al cambio; lasciata la guardia, ei s’accompagna con Niso, e vanno in
cerca del re. Gli altri animali per tutte le terre placavan nel
sonno i loro affanni nei cuori dimentichi d’ogni travaglio; ma i duci
primi dei Teucri, fior dei guerrieri, tenevan consiglio sul grave momento
del regno: che fare? e chi mandar messaggero ad Enea? Stanno poggiati
alle lunghe aste, e reggon gli scudi, nel mezzo alla piazza del campo.
Quand’ecco Niso, e con lui Eurìalo, pronti, chiedono d’essere uditi, subito:
grande è la cosa, e d’interrompere vale la pena. Iulo per primo li accolse
ansiosi, e a Niso ordinò di parlare. Così allora l’Irtàcide: «
Udite con menti benigne, o Enèadi; e quel che portiamo non lo
giudicate dagli anni. I Rùtuli, immersi nel sonno e nel vino, tacciono
tutti; noi, un luogo abbiam scorto, propizio alle insidie, che si scopre
là al bivio della porta ch’è prossima al mare. Son mezzo spenti i fuochi,
e cupo il fumo si erge alle stelle; se ci lasciate tentare la sorte a
ricercare Enea e le mura del Pallanteo, presto qui con le spoglie nemiche
ed onusti di strage ci rivedrete tornare. E non smarriremo la via: sotto le
oscure valli, nelle continue cacce, vedemmo lassù la città e tutto il
fiume esplorammo ». Allora, grave d’anni, e maturo di senno rispose
Alete: «O Dei della patria, sotto il cui nume è ancor Troia, certo voi
non pensate di distruggere i Teucri del tutto, poi che c'inviaste
tali anime e petti sì fermi di giovani! ». Questo dicendo,
stringeva d’entrambi le spalle e le mani, rigando le guance di pianto: «
Oh, quale premio, o prodi, che degno premio per questa impresa vi potremo noi
dare? obtestor: quaecumque mihi fortuna fidesque est, in vestris
pono gremiis; revocate parentem, reddite conspectum; nihil illo triste
recepto. Bina dabo argento perfecta atque aspera signis pocula,
devicta genitor quae cepit Arisba, et tripodas geminos, auri duo
magna talenta, cratera antiquum, quem dat Sidonia Dido. Si
vero capere Italiam sceptrisque potiri contigerit victori et praedae
ducere sortem, vidisti quo Turnus equo, quibus ibat in armis
aureus: ipsum illum, clipeum cristasque rubentes excipiam sorti, iam nunc
tua praemia, Nise. Praeterea bis sex genitor lectissima matrum
corpora captivosque dabit, suaque omnibus arma: insuper his, campi quod rex
habet ipse Latinus, Te vero, mea quem spatiis propioribus aetas
insequitur, venerande puer, iam pectore toto accipio, et comitem casus
complector in omnes. Nulla meis sine te quaeretur gloria rebus:
seu pacem seu bella geram, tibi maxima rerum verborumque fides. »
Contra quem talia fatur Euryalus: « Me nulla dies tam fortibus
ausis dissimilem arguerit; tantum fortuna secunda haud adversa
cadat. Sed te super omnia dona unum oro: genetrix Priami de gente
vetusta est mihi, quam miseram tenuit non Ilia tellus mecum
excedentem, non moenia regis Acestae: hanc ego nunc ignaram huius,
quodcumque pericli est, inque salutatam linquo; nox et tua
testis dextera, quod nequeam lacrimas perferre parentis; at tu,
oro, solare inopem et succurre relictae. Hanc sine me spem ferre tui:
audentior ibo in casus omnes. » Percussa mente dedere
290 Il primo ve lo daranno, e il più bello, gli Dèi e le vostre
virtù; gli altri ben presto li avrete dal pio Enea e da Ascanio, il
giovinetto in fiore, che di un così grande servigio non sarà immemore mai ». «
Anzi io, soggiunse Ascanio, che altra salvezza non ho se non il ritorno del
padre, questo vi giuro, o Niso, per i grandi Penati, per il lare di
Assàraco e per l’altare della antichissima Vesta: ogni mia sorte ed ogni mia
speranza, in vostre mani io pongo; riconducetemi il padre, fate che
io lo riveda: se lo ricupero, nulla sarà più triste per me. Due coppe vi
darò, cesellate in argento e scolpite a bassorilievi, che il padre ebbe alla
presa di Arisba; e due tripodi, e due grandi talenti di oro, ed un
cratere antico, dono della sidònia Didone. Se poi vincitore potrò prender
l’Italia e tenere lo scettro e sorteggiare le prede, certo tu hai veduto quel
destriero su cui Turno veniva, e le ammi che lo vestivano d’oro:
ebbene, quel suo cavallo, e lo scudo e il cimiero vermiglio, li
sottrarrò dal sorteggio; fin d’ora è un tuo premio, o Niso. Inoltre, mio
padre darà due volte sei corpi di donne, fra le più belle, ed altrettanti
prigioni, con le sue armi ciascuno: e oltre a ciò, proprio i campi
che or sono del rege Latino. Te poi, che sei vicino a me per età, o
venerando fanciullo, con tutto il cuore ti accolgo, fin d’ora, e ti
abbraccio, compagno per ogni fortuna. Non cercherò per me gloria nessuna
senza di te; ed in pace ed in guerra, nei fatti e nelle parole, in te
fiderò sopra ognuno ». A lui di rincontro Eurìalo rispose così: «
Non verrà mai un giorno che mi palesi diverso da questo mio forte sentire: mi
basta che la fortuna di seconda non muti in avversa. Ma sopra ogni altro dono,
solo una cosa t’imploro: ho una madre, della stirpe di Priamo
vetusta, che, misera, quando partii, non si fer Dardanidae lacrimas, ante
omnes pulcher Iulus, atque animum patriae strinxit pictetie imago.
Tum sic effatur: Sponde digna tuis ingentibus omnia coeptis; |
namque erit ista mihi genetrix nomenque Creusae solum defuerit, nec
partum gratia talem parva manet. Casus factum quicumque
sequentur, per caput hoc iuro, per quod pater ante solebat: 300
quae tibi polliceor reduci rebusque secundis, haec eadem matrique
tuae generique manebunt. » Sic ait illacrimans: umero simul exuit
ensem auratum, mira quem fecerat arte Lycaon | Gnosius atque
habilem vagina aptarat eburna. 305 Dat Niso
Mnestheus pellem horrentisque leonis exuvias: galeam fidus permutat
Aletes. Protinus armati incedunt; quos omnis euntes primorum
manus ad portas iuvenumque senumque prosequitur votis. Necnon et pulcher
Iulus 310 ante annos animumque gerens curamque virilem, multa patri
mandata dabat portanda. Sed aurae omnia discerpunt et nubibus
irrita domant. Egressi superant fossas, noctisque per umbram
castra inimica petunt, multis tamen ante futuri 315 exitio. Passim somno
vinoque per herbam corpora fusa vident, arrectos litore currus,
inter lora rotasque viros, simul arma iacere, vina simul. Prior
Hyrtacides sic ore locutus: « Euryale, audendum dextra: nunc ipsa
vocat res. 320 Hac iter est. Tu, ne qua manus se attollere nobis
a tergo possit, custodi et consule longe. Haec ego vasta dabo
et lato te limite ducam. » Sic memorat vocemque premit; simul
ense superbum Rhamnetem adgreditur, qui forte tapetibus altis mò nella
terra di Ilio nè fra le mura di Aceste. Or io qui l’abbandono ignara di
questo mio rischio, qual che si sia, e insalutata: la notte e la tua
destra mi sian testimoni che io non potrei sostenere le lacrime della mia
madre. Ma tu, te ne prego, consola la misera, soccorrila, se resta sola.
Lascia ch'io porti meco questa speranza di te; poi, anderò più audace incontro
ad ogni ventura ». Commossi nel cuore i Dardànidi lagrimarono, il
bel Iulo anzi tutti, chè il cuore gli strinse il ricordo dell’amore
paterno. È così disse: « Attenditi pur tutto quanto si deve alla tua grande
impresa; chè essa sarà la mia madre, e soltanto il nome le mancherà di
Creusa: piccolo dono, a colei che generò un tal figlio. Qualunque si sia
l’evento, per questo mio capo ti giuro sul quale soleva giurare mio
padre: quello che io ti promisi se tornerai vittorioso, alla tua madre
sarà serbato ed alla tua stirpe ». Così diceva piangendo, e dalla spalla
si tolse la spada d’oro che aveva foggiata con arte stupenda Licàone di
Cnosso, scorrevole entro la guaina di avorio. Mnèsteo a Niso donava di un
irsuto leone la pelle e la apoglia, e il fido Alete scambia il suo
elmo con lui. Tosto s’avviano armati; e tutta ia schiera dei
grandi, giovani e vecchi, alle porte li accompagnan coi voti. E intanto
il bello Iulo, che ha cuore e senno virile, oltre l’età, affidava molti
messaggi al suo padre. Ma l’aura tutti li sperde inutili in mezzo alle
nuvole. Usciti, varcano i fossi, e per le ombre notturne vengbno al campo
fatale; ma prima, a molti daranno la morte. (Qua e là sparsi tra il sonno
ed il vino scorgono i corpi sull’erba, e i cocchi alzati sul lido, e, tra
le briglie e le ruote, giacere i guerrieri, e con loro le armi, ed i vini
con loro. Primo il figlio di Irtaco così disse: « Eurìalo, qui bisogna
osar con la destra: l’oecasione lo exstructus toto proflabat pectore
somnum, rex idem et regi Turno gratissimus augur; sed
non augurio potuit depellere pestem. Tres iuxta famulos temere
inter tela iacentes armigerumque Remi premit aurigamque sub ipsis nactus
equis, ferroque secat pendentia colla. Tum caput ipsi aufert
domino, truncumque relinquit sanguine singultantem; atro tepefacta
cruore terra torique madent. Necnon Lamyrumque Lamumque, et
iuvenem Sarranum, illa qui pluritha nocte luserat, insignis facie, multoque
iacebat membra Deo victus: felix, si protinus illum
aequasset nocti ludum in lucemque tulisset. Impastus ceu
plena leo per ovilia turbans, suadet enim vesana fames, manditque
trahitque 340 molle pecus mutumque metu, fremit ore cruento.
Nec minor Euryali caedes; incensus et ipse perfurit, ac
multam in medio sine nomine plebem, Fadumque Herbesumque subit Rhoetumque
Abarimque ignaros, Rhoetum vigilantem et cuncta videntem, sed magnum
metuens se post cratera tegebat; pectore in adverso totum cui
comminus ensem condidit adsurgenti et multa morte recepit.
Purpuream vomit ille animam et cum sanguine mixta vina refert
moriens: hic furto fervidus instat. 350 lamque ad Messapi socios
tendebat: ibi ignem deficere extremum et religatos rite
videbat carpere gramen equos: breviter cum talia Nisus
(sensit enim nimia caede atque cupidine ferri. Absistamus, ait, nam lux inimica propinquat. Poenarum exhaustum satis est,
via facta per hostes. » Multa virum solido
argento perfecta relinquunt armaque craterasque simul pulchrosque
tapetas. vuole. Di qua è la via. Ora tu, perchè un qualche drappello
non ci si levi alle spalle, fa guardia e sta attento all’intorno. Io qui
farò largo, e ti guiderò per un ampio cammino >». Così dice, poi
smorza la voce; ed il superbo Ramnete con la sua spada colpisce; ed egli,
sui tappeti ammucchiati giacendo, dormiva lì a pieno petto, russando. Re
egli pure, ed al re Turno il più grato degli àuguri; ma non potè con la
scienza profetica allontanare la morte. Lì presso, uccide tre servi che a caso
giacevan fra l’armi, e lo scudiero di Remo, ed il suo auriga sorpreso sott’essi
i cavalli, e col ferro taglia le gole rovescie. Poscia anche al signore
tronca il capo, ed il busto lascia singhiozzante nel sangue; intiepiditi
la terra ed i letti di negro sangue s’imbevono. E poi Làmiro, e Lamo, e
il giovin Sarrano, che fino a tardi la notte aveva giocato, bello di
volto, e giaceva vinte le membra dal vino: felice, se avesse giocato
tutta la notte ed infino all’aurora! Così un leone digiuno imperversando
tra gli ovili ricolmi — la fame rabbiosa lo istiga — sbrana e trascina la
greggia molle e per il terrore ammutita, e rugge con bocca sanguigna. Nè
minore è la strage d’EURÌALO; ardendo anch'egli infuria, e alla rinfusa
sorprende molta ignobile plebe, e Fado, ed Erbeso, e Reto, ed Abari,
inconsapevoli; Reto, era desto e tutto vedeva, ma per paura si stava
nascosto dietro un grande cratere: ma mentre si alzava, gli immerse fino
all’elsa nel petto la spada, e la ritrasse grondante di sangue. Ed
egli in un fiotto di porpora esala la vita, ed il vino, morendo, rigetta
col sangue. L’altro, più ardente, continua la strage furtiva. E già si volgeva
ai compagni di Messapo; ivi vedeva languire gli ultimi fuochi, e i
cavalli al guinzaglio, com’è uso, pascere l’erba, allorchè NISO, che
trascinato lo vide da brama soverchia di stra EURYALVS phaleras Rhamnetis et
aurea bullis cingula (Tiburti Remulo ditissimus olim quae mittit
dona hospitio, cum iungeret absens, Caedicus; ille suo moriens dat
habere nepoti, post mortem bello Rutuli pugnaque potiti), haec
rapit, atque umeris nequidquam fortibus aptat. Tum galeam Messapi habilem cristisque decorum induit. Excedunt castris, et
tuta capessunt. Interea praemissi equites ex urbe Latina, cetera dum
legio campis instructa moratur, ibant et Turno regi responsa ferebant, tercentum,
scutati omnes, Volscente magistro. 370 lamque propinquabant castris
murosque subibant, cum procul hos laevo flectentes limite
cernunt, et galea Euryalum sublustri noctis in umbra prodidit
immemorem, radiisque adversa refulsit. Haud temere est visum.
Conclamat ab agmine Vol. [scens:
« State, viri: quae causa viae? quive estis in armis?
quove tenetis iter? » Nihil illi tendere contra; sed
celerare fugam in silvas et fidere nocti. Obiciunt equites sese ad
divortia nota hinc atque hinc,omnemque aditum custode coronant.
Silva fuit, late dumis atque ilice nigra horrida, quam densi
complerant undique sentes, rara per occultos lucebat semita
calles. Euryalum tenebrae ramorum onerosaque praeda
impediunt, fallitque timor regione viarum. NISVS abit: iamque imprudens
evaserat hostes atque locos, qui post Albae de nomine dicti
Albani (tum rex stabula alta Latinus habebat). Ut stetit et
frustra absentem respexit amicum: « Euryale infelix, qua te regione
reliqui? ge, così brevemente. parlò: « Fermiamoci, chè oramai la luce
nemica si appressa. Li abbiamo puniti abbastanza, e aperta in mezzo ai
nemici è la via ». Lasciano lì molte armi di guerrieri lavorate di
argento massiccio, ed i crateri insieme ed i belli tappeti. Eurìalo si
toglie i fregi di Ramnete ed il balteo dall’auree borchie, e,
invano!, sugli omeri forti lo adatta. A Rèmolo, il tiburtino, li
aveva mandati una volta il ricchissimo Cèdico, in segno di ospitalità
ch’egli stringeva da lungi; e quegli morendo li diede al nipote, e, questo
morto, i Rùtuli se ne impadronirono in guerra. Poi l’elmo di Messapo si
cinge, agevole, e adorno di creste. Escon dal campo e s’avviano in
salvo. Frattanto i cavalieri mandati innanzi dalla città di Latino,
mentre i pedoni attendono armati nella campagna, venivano per riportare al re
Turno un responso: trecento, tutti scudati, ed era lor duce Volscente. E
già erano. presso al campo e varcavan le mura, quando da lungi li
scorgono che piegavano verso sinistra; e l’elmo, nella penombra notturna
tradì EURÌALO immemore, a un raggio di luna splendendo. È non fu vana la
vista. Grida dalla sua schiera Volscente: « Fermi, voi! perchè
siete in via? chi siete così armati? e dove andate? ». Ma quelli
non rispondono, anzi si affrettano in fuga pei boschi e fidano
nell’oscurità. 1 cavalieri si gettano di qua, di là ai bivi ben noti, e
tutte circondan di gnardie le uscite. Era una selva spaziosa e orrida di
nere querce e di pruni, densa da ogni parte di sterpi; e tra le peste occulte,
raro si apriva un sentiero. L'ombre dei rami e il carico del bottino
ritardavano Euriìalo, e il timore gli fa smarrire la via. Niso è fuggito; e di
già, senza pensare all’amico, altrepassati aveva i nemici ed i luoghi che
poi dal nome di Alba furon chiamati Albani (allora, v’era Quaque
sequar, rursus perplexum iter omne revolvens fallacis silvae? » Simul et vestigia retro observata legit dumisque silentibus
errat. Audit equos, audit strepitus et signa sequentum. Nec
longum i in medio tempus, cum clamor ad aures pervenit ac videt EURYALVM, quem
iam manus omnis fraude loci et noctis, subito turbante
tumultu, Oppressum rapit et conantem plurima frustra. Quid faciat?
qua vi iuvenem, quibus audeat armis eripere? an sese medios moriturus in
hostes inferat, et pulchram properet per vulnera mortem? Ocius adducto
torquens hastile lacerto, suspiciens altam Lunam, et sic voce
precatur: Tu, Dea, tu praesens nostro succurre labori, astrorum
decus et nemorum Latonia custos: si qua tuis umquam pro me pater Hyrtacus
aris dona tulit, si qua ipse meis venatibus auxi,
supendive tholo aut sacra ad fastigia fixi: hunc sine me
turbare globum et rege tela per auras. Dixerat, et toto conixus corpore ferrum
conicit. Hasta volans noctis diverberat umbras, et venit adversi in
tergum Sulmonis, ibique frangitur, ac fisso transit praecordia
ligno. Volvitur ille vomens calidum de pectore flumen
frigidus et longis singultibus ilia pulsat. 415 Diversi circumspiciunt.
Hoc acrior idem ecce aliud summa telum librabat ab aure. Dum
trepidant, it hasta Tago per tempus utrumque stridens, traiectoque haesit
tepefacta cerebro. Saevit atrox Volscens nec teli conspicit usquam
420 auctorem nec quo se ardens immittere possit. Tu tamen interea
calido mihi sanguine poenas persolves amborum » inquit: simul ense
recluso i no i
pascoli incolti del re Latino). Come ristette, ed invano si volse a
cercare l’amico: « O infelice EURIALO, e dove mai t'ho lasciato? dove ti
cercherò, ancor rifacendo il cammino tortuoso per la selva fallace? ». E
tosto nota e ricalca all’indietro le tracce, ed erra silenzioso tra
i pruni. Ode i cavalli, ode lo strepito e i segnali degl’inseguitori. E
ben presto agli orecchi un grido gli giunge; ed Eurìalo vede, cui già
tutta quanta la schiera, ingannato dal luogo e dal buio, turbato
dall’improvviso tumulto, circonda ed incalza; ed invano ei tenta in mille
modi la fuga. Che fare? con quali forze, con quali armi tentar di salvare
il fanciullo? O non è meglio lanciarsi in mezzo ai nemici a morire, e
bella cercare con le ferite la morte? E subito, vibrando col braccio
all’indietro un lanciotto, guarda la Luna nell’alto e così le rivolge una
prece: « Tu, dea, tu, propizia, nel nostro periglio soccorrici, o Latònia,
onore degli astri e delle selve custode, se mai ai tuoi altari doni per
me ti recò Irtaco, il padre, se mai con le mie cacce anch’io ne aggiunsi,
e li sospesi alla volta o li infissi ai sacri pinnacoli '*, lascia
che io disordini questa schiera, e guidami i dardi per l’aria ». Disse, e
con tutto il suo corpo puntando, lanciò il ferro. E l’asta volando sferza le
ombre notturne, e trapassa nel petto fino alle spalle Sulmone, ed ivi
si spezza, e attraversa, infittavi dentro, i precordi. Cade di
sella colui, vomitando un caldo fiume dal petto, gia freddo, ed i fianchi
gli scuotono lunghi singhiozzi. Guardano gli altri qua e la; e Niso ne prende
coraggio, e dall’altezza del capo, ecco, un altro dardo librava. E,
nella trepida attesa, l’asta attraversa stridendo a Tago le tempia, e
s’infigge tiepida in mezzo al cervello. Atrocemente infuria Volscente, chè non
vede l'autore del eolpo per potersi lanciare ardente contro di lui. «
Eb de ibat in EURYALVM. Tum vero exterritus, amens
conclamat Nisus, nec se celare tenebris . amplius, aut tantum potuit perferre
dolorem: « Me me, adsum qui feci, in me convertite ferrum, o Rutuli! mea
fraus omnis: nihil iste nec ausus, nec potuit: caelum hoc et conscia
sidera testor. Tantum infelicem nimium dilexit amicum. Talia dicta dabat:
sed viribus ensis adactus transabiit costas et candida pectora
rumpit. Volvitur Euryalus leto, pulchrosque per artus it cruor,
inque umeros cervix collapsa recumbit: purpureus veluti cum flos succisus
aratro 435 languescit moriens, lassove papavera collo demisere
caput, pluvia cum forte gravantur. At NISVS ruit in medios solumque per
omnes Volscentem petit, in solo Volscente moratur. Quem circum
glomerati hostes hinc comminus spe {hbinc 440 proturbant.
Instat non secius ac rotat ensem fulmineum, donec Rutuli clamantis in
ore condidit adverso et moriens animam abstulit hosti. Tum super
exanimum sese proiecit amicum confossus placidaque ibi demum morte
quievit. 445 Fortunati ambo! si quid mea carmina possunt, nulla
dies umquam memori vos eximet aevo, dum domus Aeneae Capitolii immobile
saxum accolet imperiumque pater Romanus habebit. Victores
praeda Rutuli spoliisque potiti | 450 Volscentem exanimum flentes in
castra ferebant. Nec minor in castris luctus, Rhamnete reperto
exsangui, et primis una tot caede peremptis Sarranoque Numaque. Ingens
concursus ad ipsa corpora seminecesque viros tepidaque recentem bene, tu
pagherai intanto col caldo tuo sangue per ambedue » gridò; e, sguainata la
spada, senz’altro si avventa ad Eurìalo. Ma allora, atterrito, fuor di sè,
con un grido, non potè più celarsi nelle tenebre Niso, e sopportare
un sì grande dolore: « Me, me! Son qui, sono io il colpevole; in me rivolgete
le armi, o Rùtuli! È mia ogni frode; costui non osò, non poteva; pel
cielo, lo giuro, e per le consapevoli stelle. Sola sua colpa, che
troppo amò l’infelice suo amico ». Così diceva; ma il ferro, vibrato con
forza, attraversò le coste e ruppe il candido petto. S'abbattè Eurìalo morendo,
e per le membra leggiadre il sangue si spande, ed il collo si piega abbandonato
sopra le spalle: come quando un fiore purpureo che l’aratro ha reciso,
languisce morendo: o come quando i papaveri sul collo stanco la testa
piegano, se per caso li grava la pioggia. Ma Niso si slancia
nel mezzo, e solo, fra tutti, Volscente cerca, e sol di Volscente si cura. Gli
si affollano intorno i nemici, e d’ogni parte, da presso, lo ricacciano;
e nondimeno egli incalza ruotando la spada fulminea, finchè la piantò nella
bocca del Rùtulo, che schiamazzava, e, già morente, rapì al nemico la vita.
Poi. si gettò, crivellato di colpi sopra l’esanime amico, ed ivi,
infine, trovò in placida morte riposo. Fortunati ambedue! Se qualche valore ha
il mio canto, giorno nessuno mai vi torrà alla memoria dei tempi, finchè
la stirpe di Enea terrà del Campidoglio l’incrollabile rupe, e il padre
della patria romana avrà qui l'impero !. Vincitori i Rùtuli, con la preda
e con le spoglie, piangendo portavano esanime nell’accampamento Volscente. E
non minore fu il lutto nel campo, allorchè si scoperse esangue Ramnete, ed
insieme con lui tanti duci uccisi alla strage, e Sarrano, e Numa; la
folla si accalca caede locum et plenos spumanti sanguine rivos.
Agnoscunt spolia inter se galeamque nitentem Messapi, et multo phaleras
sudore receptas. Et iam prima novo spargebat lumine terras
Tithoni croceum linquens ‘Aurora cubile; iam sole infuso, iam rebus luce
retectis, Turnus in arma viros, armis circumdatus ipse,
suscitat, aeratasque acies in proelia cogit quisque suas, variisque
acuunt rumoribus iras. Quin ipsa arrectis (visu miserabile) in
hastis praefigunt capita et multo clamore sequuntur Euryali et
Nisi. Aeneadae duri murorum in parte sinistra apposuere
aciem, nam dextera cingitur amni, ingentesque tenent fossas et turribus
altis stant maesti; simul ora virum praefixa movebant, nota nimis
miseris atroque fluentia tabo. Interea pavidam volitans pinnata per
urbem nuntia Fama ruit, matrisque adlabitur aures EURYALI. At
subitus miserae calor ossa reliquit: excussi manibus radii revolutaque
pensa. Evolat infelix, et femineo ululatu, scissa comam,
muros amens atque agmina cursu prima petit, non illa virum, non illa
pericli telorumque memor; caelum dehinc questibus implet: 480 « Hunc
ego te, EURYALE, adspicio? tunc illa senectae sera meae requies,
potuisti linquere solam, crudelis? nec te, sub tanta pericula
missum, adfari extremum miserae data copia matri? Heu, terra ignota
canibus data praeda Latinis alitibusque iaces, nec te, tua funera
mater produxi pressive oculos aut vulnere lavi, veste tegens, tibi
quam noctes festina diesque ai loro corpi, e ai guerrieri moribondi, ed al
luogo ancor caldo di strage recente, ed al sangue schiumante che
scorre in ruscelli. Riconoscon fra loro le epoglie, e di Messapo il
lucido elmo, e i fregi con grande sudore riavuti. ! E già di
nuova luce spargeva la terra la prima Aurora lasciando il giaciglio
croceo di Titone; già sorto il sole, già scoperte le cose alla luce,
Turno, già chiuso nell’armi, chiama alle armi i guerrieri; ed ordina ognuno
in battaglia le sue schiere coperte dî bronzo, e raccontando il fatto ne
acuisce gli sdegni. Anzi, o miserabile vieta!, piantan sull’aste i capi, e li
seguono forte gridando, di EURIALO e di NISO. Gli Enèadi saldi sulla
parte einistra dei muri ordinan la resistenza — chè la destra è
recinta dal fiume —, e difendono gli ampi fossati e stan mesti in cima
alle torri; e li sgomentano i volti confitti dei due guerrieri, ahi troppo noti
a loro infelici, e gocciolanti di marcia e di sangue. Intanto
messaggera la Fama volando alata per la città spaventata va scorrendo, e
agli orecchi giunge della madre di Eurìalo. Subitamente il calore lasciò
dell’infelice le ossa: le cade di mano la spola e rotolan giù i gomitoli.
Esce correndo la misera, e, come donna, urlando, stracciate le chiome, folle,
raggiunge di corsa le mura e le prime avanguardie; e non si cura, essa,
dei guerrieri e del rischio dell’armi, e il cielo riempie con i suoi
lamenti: « Così ti rivedo, o Eurialo? Ultimo ri- . poso alla mia
vecchiezza, o crudele, lasciarmi sola hai potuto? E non fu dato a tua
madre infelice parlarti l’ultima volta, quando movesti ad un rischio sì
grande? Ahi, in terra ignorata, preda ai cani latini ed agli uccelli tu
giaci; ed io, tua madre, non ho seguito i tuoi resti mortali, e non ti ho
chiusi gli occhi e lavate le tue 4 - VircILI9 - Eneide - Vol.
III urgebam et tela curas solabar aniles. Quo sequar?
aut quae nunc artus avulsaque membra et funus lacerum tellus habet? hoc mihi de
te, nate, refers? hoc sum terraque marique secuta?
Figite me, si qua est pietas, in me omnia tela conicite, o Rutuli:
me primam absumite ferro: aut tu, magne pater Divum, miserere,
tuoque 495 invisum hoc detrude caput sub Tartara telo, quando
aliter nequeo crudelem abrumpere vita. » Hoc fletu concussi ariimi,
maestusque per omnes it gemitus; torpent infractae ad proelia
vires. Illam incendentem luctus Idaeus et Actor 500 Jlionei
monitu et multum lacrimantis Iuli corripiunt interque manus sub
tecta reponunt. At tuba terribilem sonitum procul aere canoro
increpuit; sequitur clamor, caelumque remugit. Accelerant acta pariter
testudine Volsci et fossas implere parant ac vellere vallum. Quaerunt
pars aditum et scalis ascendere muros, qua rara est acies
interlucetque corona non tam spissa viris. Telorum effundere
contra omne genus Teucri ac duris detrudere contis, 510
adsueti longo muros defendere bello. Saxa quoque infesto volvebant
pondere, si qua possent tectam aciem perrumpere: cum tamen
omnes ferre iuvat subter densa testudine casus. Nec iam sufficiunt;
nam, qua globus imminet ingens, 515 immanem Teucri molem volvuntque
ruuntque, quae stravit Rutulos late armorumque resolvit
tegmina. Nec curant caeco contendere Marte amplius audaces Rutuli,
sed pellere vallo missilibus certant. 520 Parte alia
horrendus visu quassabat Etruscam ferite, avvolgendoti poi nella veste
che, giorno e notte, per te, sollecita io tesseva, consolando al telaio i
miei affanni senili. Dove cercarti? Qual terra ha ora le tue membra
troncate e la tua lacera salma? Questo, o mio figlio, mi riporti di te?
Questo, questo, per terra e per mare, ho seguito? Me trafiggete, se in
voi è alcuna pietà; su me tutte l’armi scagliate, o Rùtuli; me
prima uccidete col ferro! E se no, abbimi misericordia tu, o gran
padre dei numi, e col tuo dardo scagliami questo mio capo odioso giù nel
profondo del Tàrtaro, se in altro modo non posso troncar questa vita crudele ».
Si consumarono i cuori a quel pianto, e mesto fra tutti un
singhiozzare si spande; si fiaccano infrante le forze dei guerrieri; ma
Attore e Idèo, per ordine di Ilionèo e di lulo molto piangente, la
presero, chè suscitava troppo dolore, ed a braccia la riportarono in
casa. Ma da lontano la tromba per il suo bronzo canoro
squillò con terribile suono; e la segue il grido di guerra e ne
rimbombano L cieli. Vengono i Volsci all'assalto, sotto la testuggin ‘!*
serrati, e s'accingono a colmare le fosse e a svellere il vallo '”. Altri
cercano un varco per la scalata alle mura, là dove rada è la schiera, e
vi traluce meno spessa di eroi la corona. Dall’altra' parte i Teucri
rovesciano ogni sorta di dardi, e li ricacciano giù con le lor dure
picche; chè erano avvezzi a difendere in lunga guerra le mura. E rotolavano in
basso ad offesa pesanti macigni, per tentar di spezzare la schiera
coperta: ma questa, sotto la densa testuggine, sopporta ogni colpo. Ma ormai
non possono più; chè laddove più folta e perigliosa è la schiera, un masso
immenso i Troiani rotolano e piombano giù, che per un ampio tratto
schiacciò i Rùtuli e ruppe il riparo di scudi. Allora non pensano più, i
Rùtuli audaci, a farpinum et fumiferos infert Mezentius ignes. At
Messapus equum domitor Neptunia proles, rescindit vallum et scalas in
moenia poscit. Vos, o Calliope, precor, adspirate canenti,
525 quas ibi tunc ferro strages, quae funera Turnus ediderit, quem
quisque virum demiserit Orco, et mecum ingentes oras evolvite
belli; let meministis enim, Divae, et memorare potestis).
Turris erat vasto suspectu et pontibus altis, opportuna loco, summis quam
viribus omnes expugnare Itali summaque evertere opum vi certabant,
Troes contra defendere saxis perque cavas densi tela intorquere
fenestras. Princeps ardentem coniecit lampada Turnus 535 et
flammam adfixit lateri, quae plurima vento | corripuit tabulas et
postibus haesit adesis. Turbati trepidare intus frustraque
malorum velle fugam. Dum se glomerant, retroque residunt
in partem, quae peste caret, tum pondere turris procubuit subito, et
caelum tonat omne fragore. Semineces ad terram, immani mole eecuta,
confixique suis telis et pectora duro transfossi ligno
veniunt. Vix unus Helenor et Lycus elapsi, quorum primaevus
Helenor, Maeonio regi quem serva Licymnia furtim sustulerat
vetitisque ad Troiam miserat armis, ense levis nudo parmaque
inglorius alba. Isque, ubi se Turni media inter milia vidit,
hinc acies atque hinc acies adstare Latinas; ut fera, quae, densa
venantum saepta corona, contra tela furit seseque haud nescia
morti inicit et saltu supra venabula fertur: haud
aliter iuvenis medios moriturus in hoetes guerra così al coperto, ma
lanciano dardi al nemico per discacciarlo dal vallo. In altra parte,
orrendo a vedersi, squassava la fiaccola etrusca '* Mesenzio, e fuochi
fumanti lanciava. E intanto Messapo, il domator di cavalli, prole
nettunia, rompeva il vallo e chiedeva le scale a salir sulle mura. Voi
'’, o Calliope, ti prego, ispirate il mio canto: quali stragi ivi col
ferro, e che lutti Turno spargesse, e chi ogni guerriero laggiù nell’Orco
respinse; e meco il gran quadro della guerra svolgete. Chè tutto voi
ricordate, o Dee, e agli altri ricordarlo potete. °° V’era
una torre, altissima a guardarla dal basso, con erti ponti,
opportunamente disposta; e tutti con ogni forza lottavano gli Itali per
espugnarla, e con estrema | violenza tentavan di abbatterla: ma di
rincontro i Troiani fitti la difendevan coi sassi e scagliavano dardi pei
vani delle finestre. Primo Turno lanciò una fiaccola ardente, e nel fianco vi
confisse una fiamma, che, nutrita dal vento, invase le tavole, e alle
imposte corrose si apprese. Spaventati, quelli di dentro, si
scompigliano, e invano cercan fuggendo lo scampo. E mentre si affollano,
e s’arretrano in una parte ancora illesa dal fuoco, allora a quel peso la torre
improvvisamente si schianta, e tutto a quel fragore il cielo rintuona. A terra
semivivi, sotto l'enorme mole, cadono, dalle lor armi trafitti o
trapassato il petto dal duro legno. Due soli appena, Elènore e Lico,
scamparono; dei quali il giù giovine, Elènore, Licinnia, una schiava,
avea generato ad un re Meonio con amore furtivo: e, con armi vietate ?!,
a Troia l’aveva mandato, alla leggera, con sola la spada, oscuro, e
con un semplice scudo. Ma egli, come si vide in mezzo ai mille di Turno,
e d’ogni parte incalzarlo schiere e schiere latine: come una belva che
cinta da un denso irruit et, qua tela videt densissima tendit. 559 At pedibus longe melior Lycus inter et hostes inter
et arma fuga muros tenet altaque certat prendere tecta manu
sociumque attingere dextras. Quem Turnus, pariter cursu teloqye
secutus, increpat his victor: « Nostrasne evadere, demens, sperasti
te posse manus? » simul arripit ipsum pendentem, et magna muri cum parte
revellit: qualis ubi aut leporem ‘aut candenti corpore cycnum
sustulit alta petens pedibus Iovis armiger uncis, quaesitum aut matri
multis balatibus agnum 965 Martius a stabulis rapuit lupus. Undique
clamor tollitur; invadunt et fossas aggere complent; ardentes
taedas alii ad fastigia iactant. Ilioneus saxo atque ingenti
fragmine montis Lucetium portae subeuntem ignesque ferentem, : Emathiona
Liger, Corynaeum sternit Asylas, hic iaculo bonus, hic longe
fallente sagitta; Ortygium Caeneus, victorem Caenea Turnus,
Turnus Ityn Cloniumque, Dioxippum Promolumque et Sagarim et
summis stantem pro turribus Idam: Privernum Capys. Hunc primo levis hasta
Themillae strinxerat; ille manum proiecto tegmine demens ad
vulnus tulit; ergo alis adlapsa sagitta et laevo infixa est lateri
manus abditaque intus spiramenta animae letali vulnere rupit. Stabat in
egregiis Arcentis filius armis, pictus acu chlamydem et ferrugine
clarus Ibera, insignis facie, genitor quem miserat Arcens eductum
Matris luco Symaethia circum flumina, pinguis ubi et placabilis ara
Palici. Stridentem
fundam, positis Mezentius hastis ipse ter adducta circum caput agit
habena, cerchio di cacciatori, infuria contro le armi, e conscia si
slancia a morire, e con un balzo sopra gli spiedi si lancia, non
altrimenti il giovane morituro si getta nel mezzo ai nemici, e, dove vede
più folte le armi, là tende. Ma, più veloce alla corsa, Lico, fra i nemici e
fra l’armi fuggendo è già presso alle mura, e cerca di afferrarsi là al
sommo, e di aggrapparsi alle mani dei compagni;. ma Turno, a corsa, e con
l’armi, lo segue e lo giunge, e, vincitore, l’oltraggia: « Folle,
sperasti tu dunque dalle mie mani scampare? » e sì dicendo lo afferra penzoloni
e lo svelle con una gran parte del muro: come quando una lepre o un cigno
dal candido corpo si porta nell’alto l’armigero di Giove °° con piedi
artigliati, o come quando il marzio lupo rapisce dalla stalla un agnello, e lo
cerca con lunghi belati la madre. Si alzan da ogni parte le grida; vanno
all’assalto, e col. man di terra i fossati; altri fiaccole ardenti
lanciano verso le cime. Ilioneo con un sasso, un enorme pezzo di
monte, abbatte Lucezio, che già era sotto alla porta per appicarvi il
fuoco; Lìgero atterra Emazione: Asila, Corineo; l’uno valente nell’asta,
l’altro nel dardo che coglie da lungi. Cèneo uccide Ortigio; e Turno, il
vincitore Cèneo; Turno, Iti e Clònio e Diossippo e Pròmolo e Sàgari e
Ida, che guardava le altissime torri. Capi uccise Priverno. L’aveva
sfiorato da prima lievemente la lancia di Temilla; ed egli, gettato lo
scudo, folle portò la mano alla ferita: e allora, volando, una freccia
gli piantò nel fianco sinistro la mano, ed entrando gli ruppe con mortale
ferita i polmoni. Stava nell’armi egregie il figlio di Arcente, con ricamata la
clàmide, spleudente di porpora ibèra #, bello di aspetto, che il padre
Arcente aveva mandato; ed allevato lo aveva di Cibele nel bosco, presso
alle correnti del Simeto, là dove è et media adversi liquefacto tempora
plumbo diffidit ac multa porrectum extendit harena. Tum primum
bello celerem intendisse sagittam dicitur, ante feras solitus terrere
fugaces, Ascanius, fortemque manu’ fudisse Numanum cui Remulo
cognomen erat, Turnique minorem germanam nuper thalamo sociatus
habebat. Is primam ante aciem digna atque indigna relatu
vociferans, tumidusque novo praecordia regno ibat et ingentem sese
clamore ferebat: « Non pudet obsidione iterum valloque teneri, bis
capti Phryges, et morti praetendere muros? En qui nostra sibi bello
conubia poscunt! Quis Dens Italiam, quae vos dementia adegit? Non
hic Atridae nec fandi fictor Ulixes: durum ab stirpe genus natos ad
flumina primum deferimus saevoque gelu duramus et undis: venatu
invigilant pueri silvasque fatigant, flectere ludus equos et spicula
tendere cornu. At patiens operum parvoque
adsueta iuventus aut rastris terram domat aut quatit oppida bello.
Omne aevum ferro teritur, versaque iuvencum terga fatigamus hasta; nec
tarda senectus debilitat vires animi mutatque vigorem; canitiem
galea premimus, semperque recentes comportare iuvat praedas et vivere
rapto. Vobis picta croco et fulgenti murice vestes, desidiae cordi;
iuvat indulgere choreis, . et tunicae manicas et habent redimicula
mitrae. O vere Phrygiae, neque enim Phryges, ite per alta Dindyma,
ubi adsuetis biforem dat tibia cantum. Tympana vos buxusque vocant
Berecyntia matris Idaeae: sinite arma viris et cedite ferro. » pingue di
doni e mite l’altar di Palìco **. Posate le aste, tre volte rotando la
fune al suo capo, Mesenzio stesso lanciava la fionda stridente; e con il
piombo disciolto *. gli ruppe nel mezzo le tempie, e lo rovesciò lungo
disteso sul suolo. Dicon che allora, la prima volta scagliasse in
guerra il suo agile dardo Ascanio, già assuefatto a spaventare in
fuga le fiere, e di sua mano abbattesse il forte Numano, Rèmolo detto, che
aveva da poco sposata la sorella minore di Turno. Quegli, davanti a tutti,
vociferando a diritto e a rovescio, gonfio nel cuore della fresca real
parentela, andava avanzando borioso gridando: « E non vi vergognate, o Frigi
acchiappati due vol. te, di stare un’altra volta dentro ad un vallo
assediati, e di opporre alla morte le mura? Eccoli, quelli che chiedono
le nostre spose con l’armi! Qual Dio vi ha spinti in Italia o quale
vostra follia? Non sono qui gli Atridi, nè Ulisse spacciatore di
frottole. Dura razza fin dalla radice, i nostri figli tuffiamo appena nati nei
fiumi, e li induriamo al crudo gelo dell’onde. Fanciulli, si danno
alle cacce e stamcan le selve, ed è lor gioco domare cavalli e tender dall'arco
le frecce. Poi, pazienti al lavoro e paghi di poco, i giovani doman la
terra coi rastri, o scrollano in guerra le mura. Ogni età si consuma tra
il ferro, e con l’asta a rovescio pungiamo le terga dei buoi; nè la
vecchiaia, ancor tarda, indebolisce le forze dell’animo o ne muta il vigore;
premiamo con l’elmo i capelli canuti, e sempre ci giova portar via prede
novelle e vivere della rapina. Ma voi amate le vesti dipinte di
croco e di porpora splendida; vi piace badare alle danze, con tuniche adorne di
maniche e mitre guarnite di nastri. O veramente Frige, e non Frigi,
andate per l’alto del Dìndimo ?‘, dove solete ascoltare il canto del
flauto Talia iactantem dictis ac dira canentem non tulit Ascanius,
nervoque obversus equino intendit telum, diversaque bracchia ducens
constitit, ante lovem supplex per vota precatus: « Iuppiter omnipotens,
audacibus adnue coeptis, ipse tibi ad tua templa feram sollemnia
dona et statuam ante aras aurata fronte iuvencum, candentem,
pariterque caput cum matre ferentem, iam cornu petat et pedibus qui
spargat harenam. » Audiit et caeli genitor de parte serena intonuit
laevum, sonat una fatifer arcus. Effugit horrendum stridens adducta
sagitta perque caput Remuli venit et cava tempora ferro traicit. «
I, verbis virtutem illude superbis! bis capti Phryges haec Rutulis
responsa remittunt. Hoc tantum Ascanius. Teucri clamore sequuntur,
laetitiaque fremunt animosque ad sidera tollunt. Aetheria tum forte plaga
crinitus Apollo desuper Ausonias acies urbemque videbat, nube
sedens, atque his victorem affatur Iulum: Macte nova virtute, puer: sic itur ad
astra, Dis genite et geniture Deos. Iure omnia bella gente sub
Assaraci fato ventura resident: nec te Troia capit. » Simul haec effatus
ab alto aethere se mittit, spirantes dimovet auras, 645 Ascaniumque
petit. Forma tum vertitur oris antiquum in Buten. Hic Dardanio
Anchisae armiger ante fuit fidusque ad limina custos. Tum comitem
Ascanio pater addidit. Ibat Apollo omnia longaevo similis, vocemque
coloremque 650 et crines albos et saeva sonoribus arma; atque his
ardentem dictis adfatur Iulum: « Sit satis, Aenide, telis impune
Numanum a due canne. Vi chiamano i timpani del Berecinto e il flauto
di bosso della gran Madre idèa; lasciate agli uomini l’armi e rinunciate alla
guerra ». Le vanterie e gli insulti non tollerò Ascanio, e
mentr’egli sbraitava, di fronte a lui incoccò sul nerbo equino °° una freccia,
e con le braccia aperte stiè fermo, prima levando a Giove, supplichevole, il
voto: « O Giove onnipotente, consenti all'audace mia impresa. Ed io
solenni doni ti recherò ai tuoi templi, ed agli altari un giovenco
t'immolerò, dalle corna dorate, candido, che porti il capo alto al par
della madre, e già cozzi e coi piedi sparga all’intorno l’arena ». L’udì
il Padre, e dalla plaga serena del cielo tuonò da sinistra: ed insieme
risuonò il suo arco fatale. OCrribilmente stridendo fuggì la scagliata
saetta, e dentro il capo di Rèmolo s’infisse e trapassò col ferro le
concave tempia. « Va, schernisci il valore con le parole superbe! I
Frigi, due volte acchiappati, questa risposta ai Rùtuli inviano ». Nè altro
disse Ascanio; ma i Teucri lo applaudon gridando, e fremon di
letizia, ed alzano il cuore alle stelle. Proprio allora, dall’alto del
cielo Apollo crinito stava mirando le schiere ausonie ed il campo, seduto sopra
una nube; e a Iulo vittorioso volgeva queste parole: « Bene, o
valoroso fanciullo! Così si ascende alle stelle, o progenie di numi che
dovrai generare altri numi. Ben tutte le guerre future, per volere dei
fati, sotto la stirpe di Assàraco dovranno aver fine: troppo poco è Troia
per te. Ciò detto, dall’alto dell’etere si getta, e fende le aure
vitali, e viene ad Ascanio, mutando l’aspetto del volto in quello
di Bute, l’anziano. Questi già era stato di Anchise dardanio scudiero e fido
custode alle soglie. Poscia il padre lo diede compagno ad Ascanio; ed
Apollo veniva simile in tutto a quel vecchio, la voce, il colore, i
capelli canoppetisse tuis: primam hanc tibi magnus Apollo concedit
laudem et paribus non invidit armis:cetera parce, puer, bello. » Sic orsus
Apollo mortales medio adspectus sermone reliquit, et
procul in tenuem ex oculis evanuit auram. Agnovere Deum proceres
divinaque tela Dardanidae, pharetramque fuga sensere sonantem.Ergo
avidum pugnae dictis ac numine Phoebi Ascanium prohibent: ipsi in
certamina rursus succedunt animasque in aperta pericula
mittunt. It clamor totis per propugnacula muris:
intendunt acres arcus amentaque torquent. 665 Sternitur omne
solum telis; tum scuta cavaeque dant sonitum flictu galeae; pugna
aspera surgit; quantus ab occasu veniens pluvialibus Haedis .
verberat imber humum: quam multa grandine nimbi in vada
praecipitant, cum Iuppiter horridus Austris torquet aquosam hiemem et caelo
cava nubila rumpit. Pandarus et Bitias, Idaeo Alcanore creti,
quos Iovis eduxit luco silvestris Iaera abietibus iuvenes patriis et
montibus aequos, portam, quae ducis imperio commissa, recludunt,
freti armis, ultroque invitant moenibus hostem. Ipsi intus dextra
ac laeva pro turribus adstant, armati ferro et cristis capita alta
corusci: quales aériae liquentia flumina circum, sive
Padi ripis Athesim seu propter amoenum, consurgunt geminae quercus intonsaque
caelo attollunt capita et sublimi vertice nutant. Irrumpunt, aditus
Rutuli ut videre patentes. Continuo Quercens et pulcher Aquicolus
armis et praeceps animi Tmarus et Mavortius Haemon agminibus totis
aut versi terga dedere, didi e l’armi ferocemente sonanti: ed all’ardente
Iulo si volge con queste parole: « Ti basti, o figliuolo d’Enea, che sia
caduto Numano per il tuo colpo e senza tuo male; questa prima lode a te
il grande Apollo concede, e non t’invidia se tu lo eguagli nell’ arco; ma
d’ora in poi, o fanciullo, astieniti dal guerreggiare ». Così dicendo
Apollo, a mezzo il discorso lasciò l'aspetto mortale e lontano svanì dagli
occhi nell’aria leggera. Riconobbero il Dio gli anziani dei Dàrdani, e l’armi
divine, e sentiron sonare, mentr'egli fuggìa, la faretra. Onde ai
detti e al volere di Febo allontanavano. Ascanio, avido ancora di pugna;
ritornano essi a combattere, ed espongono nell’aperto periglio la vita.
S'alza da tutte le mura per tutte le torri un clamore: tendono gli archi
gagliardi e lanciano i giavellotti. Il suolo tutto si copre di strali; ai
colpi risuonan gli scudi e i concavi elmi; insorge dura la pugna. Così al
venir da ponente, sotto i Capretti piovosi °°, sferza la pioggia la
terra; così con la grandine precipitano i nembi sul mare, quando
orrido Giove con gli Austri turbina l’acque a diluvio, e nel cielo le
concave nubi dirompe. Pàndaro e Bizia, da Alcànore Idèo generati,
che nel bosco di Giove allevòo la silvestre Ièra *, giovani pari
agli abeti dei monti paterni, apron la porta, che il duce aveva a loro
affidata, fiduciosi nell’armi, e il nemico provocano a entrar nelle mura. Ed
essi là dentro, a destra e a sinistra, si rizzano a guisa di torri, di
ferro armati, e corruschi gli erti capi di creste; come aeree
lunghesso 1 fiumi correnti, sulle sponde del Po o presso l'Adige
ameno, sorgon due querce gemelle, e innalzano le chiome intonse nel cielo, con
le cime sublimi ondeggiando. Irrompono i Ruùtuli, poi che videro aperte
le porte; ma tosto Quercente e Aquìcolo bello nell’armi e Tmaro aut
ipso portae posuere in limine vitam. Tum magis increscunt animis discordibus irae: et iam collecti Troés
glomerantur eodem et conferre manum et procurrere longius audent. 690
Ductori Turno diversa in parte furenti turbantique viros perfertur
nuntius, hostem fervere caede nova et portas praebere patentes.
Deserit inceptum atque immani concitus ira Dardaniam ruit ad portam
fratresque superbos. Ét primum Antiphaten (is enim se primus agebat),
Thebana de matre nothum Sarpedonis alti, coniecto sternit iaculo: volat
Itala cornus aéra per tenerum, stomachoque infixa sub altum pectus
abit: reddit specus atri vulneris undam spumantem, et fixo ferrum in pulmone
tepescit. Tum Meropem atque Erymanta manu, tum sternit
[Aphidnum: ‘tum Bitiam ardentem oculis animisque
frementem, non iaculo (neque enim iaculo vitam ille dedisset). Sed
magnum stridens contorta phalarica venit,, 705 fulminis acta modo, quam
nec duo taurea terga nec duplici squama lorica fidelis et auro
sustinuit. Collapsa ruunt immania membra. Dat tellus gemitum, et clipeum
super intonat ingens. Talis in Euboico Baiarum litore quondam 710
saxea pila cadit, magnis quam molibus ante constructam ponto iaciunt; sic
illa ruinam prona trahit penitusque vadis illisa recumbit; miscent
se maria et nigrae attolluntur harenae; tum sonitu Prochyta alta tremit,
durumque cubile 715 Inarime Iovis imperiis imposta Typhoeo. Hic Mars
armipotens animum viresque Latinis addidit et stimulos acres sub pectore
vertit l’impetuoso ed il marziale Emone, con tutte le schiere, o
volser fuggendo le spalle, o sulla soglia stessa della porta lasciaron la
vita. Allora crescon vie più nei cuori discordi le ire; e già ammassati i
Troiani si stringon colà, ed osan venire alle mani e avanzarsi fuori
più lungi. Al duce Turno, che in altra parte infuriava e
sgominava i guerrieri, giunge la nuova: il nemico arde di strage novella,
e aperte si offron le porte. Lascia l’impresa e spinto dall’ira tremenda,
contro la porta dardania si scaglia e i fratelli superbi. E per il primo
Antifate (poichè avanzava pel primo) di madre tebana bastardo di Sarpèdone
alto, colpisce ed abbatte col dardo: vola il corniolo italico *' per l’aria
leggera, e piantatosi in gola scende nel fondo del petto; sgorga dalla
caverna della negra ferita un'onda spumante, e nel polmone trafitto
intiepidisce il ferro. Poi Mèrope ed FErimante abbatte, poi Afidno, poi
Bizia che Iampeggiava con gli occhi e con il cuore fremeva; ma non con un
dardo, chè quegli con un dardo non dava la vita! Ma fortemente stridendo
una falàrica venne, lanciata a guisa di
un fulmine, cui le due pelli taurine non ressero, nè la fedele corazza di
doppia squama dorata. Le membra immani stramazzano; la terra ne geme, e di
sopra lo ecudo immenso rintuona. Tale nel lido euboico di Baia . cade
talora un blocco di macigni che costruiscon prima con grandi massi e poi
gettan nel mare; così esso rovina all’ingiù, e scagliato nel più profondo
si arresta: ma ribollon le onde e negre si sollevan le arene, e a
quel fragore l’alta Pròcida trema, ed Ischia, che per comando di Giove,
fu posta, duro letto, sopra Tifèo. Qui Marte signore dell’armi coraggio e
forza ai Latini crebbe ed acuti gli sproni rivolse loro nel cuore, e immisitque
Fugam Teucris atrumque Timorem. Undique conveniunt, quoniam data copia
pugnae, bellatorque animo Deus incidit. Pandarus ut fuso
germanum corpore cernit, et quo sit fortuna loco, qui casus agat
res, portam vi magna converso cardine torquet, obnixus latis
umeris; multosque suorum moenibus exclusos duro in certamine
linquit; ast alios secum includit, recipitque ruentes, demens, qui
Rutulum in medio non agmine regem viderit irrumpentem, ultroque
incluserit urbi, immanem veluti pecora inter inertia tigrim.
Continuo nova lux oculis effulsit, et arma horrendum sonuere: tremunt in
vertice cristae sanguineae, clipeoque micantia fulmina mittit.
Agnoscunt faciem invisam atque immania membra turbati subito Aeneadae.
Tum Pandarus ingens emicat, et mortis fraternae fervidus ira
effatur: « Non haec dotalis regia Amatae, nec muris cohibet
patriis media Ardea Turnum: castra inimica vides; nulla hinc exire
potestas. » Olli subridens sedato pectore Turnus: « Incipe,
si qua animo virtus, et consere dextram: hic etiam inventum Priamo
narrabis Achillem. Dixerat. Ille rudem nodis et
cortice crudo intorquet summis adnixus viribus hastam. Excepere
aurae: vulnus Saturnia luno detorsit veniens, portaeque infigitur
hasta. At non hoc telum, mea quod vi dextera versat, effugies: neque
enim is teli nec vulneris auctor. » Sic ait, et sublatum alte consurgit
in ensem, et mediam ferro gemina inter tempora frontem
dividit impubesque immani vulnere malas. contro i Teucri
lanciò la Fuga ed il cupo Terrore. Accorrono da ogni parte quelli, poichè si
combatte da presso, ed il guerriero Iddio entrato è a loro nel
cuore. Pandaro, come vede a terra disteso il fratello, e che la
fortuna è per gli altri ed è contrario l'evento, a gran forza, puntando
l’ampie spalle, la porta spinge sui cardini e serra; e molti dei suoi lascia
fuor delle mura in aspra battaglia; ma altri riesce a chiuder con sè e
li accoglie che precipitavano dentro. Folle, che il rùtulo ‘re non
vide, che in mezzo alla schiera dentro irrompeva, ed anzi lo serrava nel
campo, come, tra un gregge imbelle, feroce una tigre; di sùbito, gli sfavillo
dagli occhi una luce novella, e le armi orribilmente suonarono: si
squassan sull’'elmo le creste sanguigne, ed agitando lo scudo vibra
bagliori di lampi. Riconoscon la faccia odiosa e le membra giganti, di subito
_sgomenti gli Enèadi. Allora gli sbalza davanti Pàndaro immenso, e
fremendo d’ira pel morto fratello, grida: « Non è questa la reggia
dotale di Amata, nè qui è Ardea, che Turno rinchiuda fra le mura paterne.
Campo nemico è questo che vedi; ed uscir non potrai ». A lui sorridendo
Turno con cuore pacato: « Orsù, se hai coraggio, combatti con me:
racconterai a Priamo che anche qui s’è trovato un Achille ». Sì disse; e
quegli, con ogni sua forza poggiando, aspro di nodi e di ruvida scorza un
giavellotto lanciò. Ma colpì l’aria, chè la saturnia Giunone deviò il
colpo mortale, e l’asta contro la porta s’infisse. « Ma non tu
questa spada, che ruota la mia destra a gran forza, sfuggirai: chè di un altro
è l’arma ed è la ferita ». Così disse, e si alzò con tutta la spada levata; e
con il ferro la fronte gli spaccò in mezzo alle tempie, e, con
orrenda ferita, ancora imberbi le guance. Fu un fragore, e la terra
fu scossa al cader del gran peso; stende egli a VirciLio - Eneide - Vol.
Fit sonus, ingenti concussa est pondere tellus: collapsos artus
atque arma cruenta cerebro sternit humi moriens, atque illi
partibus aequis. huc caput atque illuc umero ex utroque pependit.
Diffugiunt versi trepida formidine Troés; et si continuo victorem
ea cura subisset, rumpere claustra manu sociosque immittere
portis, ultimus ille dies bello gentique fuisset. Sed
furor ardentem caedisque insana cupido egit in adversos. Principio
Phalerim et succiso poplite Gygen excipit: hinc raptas fugientibus
ingerit hastas in tergum. Iuno vires animumque ministrat;
addit Halym comitem et confixa Phegea parma, 765 ignaros
deinde in muris Martemque cientes Alcandrumque Haliumque Noémonaque
Prytanimque. Lyncea tendentem contra sociosque vocantem
© vibranti gladio conixus ab aggere dexter occupat: huic uno
deiectum comminus ictu cum galea longe iacuit caput. Inde ferarum vastatorem
Amycum, quo non felicior alter ungere tela manu ferrumque armare
veneno, et Clytium Aeoliden, et amicum Crethea Musis,
Crethea Musarum comitem, cui carmina semper et citharae cordi numerosque
intendere nervis: semper equos atque arma virum pugnasque canebat.
Tandem ductores, audita caede suorum, conveniunt Teucri, Mnestheus
acerque Serestus, palantesque vident socios hostemque receptum. Et
Mnestheus: « Quo deinde fugam, quo tenditis? inquit. Quos alios
muros, quae iam ultra moenia habetis? Unus homo et vestris, o
cives, undique saeptus aggeribus, tantas strages impune per
urbem terra morendo le membra prostrate e le armi sozze di sangue e
di cèrebro; e da ambedue le spalle gli penzola un capo e di qua e di là. Fuggon
respinti da pauroso terrore i Troiani; e se il vincitore pensava, in quel
momento, a spezzare i cancelli e a far entrar per la porta i compagni,
l’ultimo giorno era quello della guerra e del popol troiano. Ma il suo furore e
un folle desiderio di strage lo scagliò impetuoso in mezzo ai nemici.
Prima egli affronta Fàlari, e a Gige recide il garretto; poi toglie loro
le aste e le lancia alle spalle ai fuggenti. Forze e coraggio gli
somministra Giunone. Hali dà lor per compagno, e, trafittogli lo scudo,
Fegeo; poi, mentre ignari sulle mura incitavano a guerra, Alcandro, ed
Alio, e Noèmone, e Prìtani. Lìnceo, che gli veniva incontro e
chiamava i compagni, egli previene, rotando la epada, dallo steccato a
destra: e d’un sol colpo da presso, il capo troncato si giacque insieme
con l’elmo lontano. Poi, Amico, il distruttore di fiere, di cui altri non
era più esperto ad unger gli strali e avvelenare le armi; poi,
Clizio l’eòlide, e amico alle Muse Creteo, Creteo alle Muse compagno, che
sempre i carmi e le cetre ebbe a cuore, e l’armonia delle corde: sempre i
corsieri e le armi e le pugne eroiche cantava. Alfine i Teucri
duci, udita la strage dei loro, accorrono, Mnèsteo ed il padre Seresto, e
vedono rotti i compagni, e, fra le mura, il nemico. E Mnèsteo: «E poi,
dove fuggite? dove andare volete? — diceva. — E che altre mura, che altra
città vi rimane? Un uomo solo, e d’ogni parte rinchiuso dai vostri
steccati, potrà, o cittadini, di stragi riempir la città, impunemente?
Tanti fra i primi guerrieri manderà giù nell’Orco? Non della misera
patria e degli antichi Iddii, e del magnanimo Enea, codardi, vi tocca
misericordia o vergogna? » Ac ediderit? iuvenum primos tot miserit Orco?
Non infelicis patriae veterumque Deorum et magni Aeneae, segnes,
miseretque pudetque? » Talibus accensi firmantur et agmine denso
consistunt. Turnus paulatim excedere pugna “et fluvium petere
ac partem, quae cingitur unda: 790 acrius hoc Teucri clamore incumbere
magno et glomerare manum, ceu saevum turba leonem cum telis
premit infensis, at territus ille asper, acerba tuens, retro redit,
et neque terga ora dare aut virtus patitur, nec tendere contra,
ille quidem, hoc cupiens, potis est per tela virosque: haud aliter retro
dubius vestigia Turnus improperata refert, et mens exaestuat
ira. Quin etiam bis tum medios invaserat hostes, bis
confusa fuga per muros agmina vertit; 800 sed manus e castris propere
coit omnis in unum: nec contra vires audet Saturnia luno
sufficere, aériam caelo nam luppiter Irim demisit, germanae
haud mollia iussa ferentem, ni Turnus cedat Teucrorum moenibus altis. Ergo nec clipeo iuvenis subsistere tantum, nec dextra valet;
iniectis sic undique telis obruitur. Strepit adsiduo cava tempora
circum tinnitu galea, et saxis solida aera fatiscunt,
discussaeque iubae capiti, nec sufficit umbo ictibus; ingeminant hastis et
Troès et ipse fulmineus Mnestheus. Tum toto corpore sudor
liquitur et piceum (nec respirare potestas) flumen agit:
fessos quatit acer ànhelitus artus. Tum demum praeceps
saltu sese omnibus armis in fluvium dedit. Ille suo cum gurgite
flavo accepit venientem ac mollibus extulit undis et laetum
sociis abluta caede remisit. cesi da tali parole, riprendono cuore, e in
ischiera serrata lo affrontano: e Turno a passo a passo si ritrae dalla
battaglia, volgendo verso il fiume e la parte che n’era ricinta; e però
più accaniti i Troiani lo incalzan con grande clamore, addensando le
schiere. E come quando un feroce leone stringon da presso con l’armi
ostili i cacciatori, e quello, fiero, e torvo lo sguardo, retrocede, ma
nè l’ira o il valore non gli lascian voltare le spalle; ma neppure
potrebbe, benchè desioso, lanciarsi in mezzo alle armi e alla turba: non
altrimenti Turno, dubbioso, lentamente si arretra, e il cuore per l’ira
gli bolle. Anzi, due volte si era gettato in mezzo ai nemici, due
volte volse in fuga per le mura le schiere sconvolte; ma tutto
rapidamente si accoglie dal campo l’esercito contro lui solo, nè altre
forze formirgli osa la Saturnia Giunone, giacchè aerea dal cielo Giove
Iride inviava, con suoi bruschi comandi alla sorella **, se Turno non
lasciasse le mura alte dei Teucri. Dunque non può il giovane con lo
scudo o con la mano resistere ancora: son troppi i dardi che d’ogni parte
gli piovono giù. Senza riposo tinnisce intorno alle concave tempie
l’elmo, ed il solido bronzo s’incrina alle pietre, e le creste si
rovescian dal capo, e ai colpi non basta lo scudo; raddoppian l’assalto i
Troiani con l’aste, e primo, fulmineo, Mnèsteo. Da tutto il corpo il
sudore allora gli gronda, e gli cola — omai il respiro gli manca — in un
fiume color della pece. E finalmente allora, a precipizio, di un salto,
con tutte le armi, nel fiume si lanciò; e quello, con la sua bionda
corrente l’accolse, e lo tenne sopra le onde tranquille, e, della strage
asterso, lieto ai compagni lo rese. Angelo Conti. Keywords: VIRGILIANA, decadente,
decadenza, divina decadenza, filosofia decadente, filosofo decadente,
decadentismo, divinely decadent – d’annunzio, museo d’annunziano, il bello e il
bizzarro, il bello bizzarro, estetica, sensatio, senso, sensum, sentior,
sentitum, perceived, perceptum – sense and sensibilia, estetico/noetico (nihil
est in intellectu qui prior non fuerit in sensu), propieta estetica, proprieta
di secondo grado, secondary quality, Grice, Sibley, Scruton, Platone, Kant,
Schopenhauer, Ruskin, Pater, Antichita, antico e moderno, il fascino dell’antico,
from the antique, from life, Uffizi, Accademia Venezia, RegieAccademiadiVenezia,
Capodemonti, Napoli, Antichita Roma, il fiume d’Eraclito, Ulisse e il canto
delle sirene, Morelli, Francesco, Virgilio, dolcissimo padre, ascetismo,
ascecis, zorzi, riva beata, Pater, Essay on Style by Pater, Da Vinci, Morelli,
la nudita eroica d’Enea – Luigi Ratini. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Conti”
– The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza -- Grice e Conti: la ragione
conversazionale e l’implicatura converseazionale del dialogo filosofico – scuola
di Padova – filosofia padovana – filosofia veneta -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Padova). Filosofo padovano. Filosofo
veneto. Filosofo italiano. Padova, Veneto. Grice: “Conti is a good one; for one
he is a ‘patrizio veneziano,’ for another he like Alexander Pope and detests
Newton! (Italian temper there!) – My favourite are his “Dialoghi filosofici,’
full of implicata as they are!” Patrizio
veneto, classicista, famoso per essere stato arbitro nella controversia tra
Leibniz e Newton, circa l'invenzione del calcolo infinitesimale (keyword:
infinito). Si lege in amicizia con Fay,
noto per gli esperimenti fisici che conduce all'Accademia delle Scienze. Di lui
esiste una statua in Prato della Valle, fatta da Chiereghin. Scrive saggi riguardanti
la struttura della tragedia, e nel “Trattato del fantasma poetico” discute la
funzione del coro: monologo, dialogo, coro (terza persona?). Tra le sue
tragedie, la più significativa fu il “Giulio Cesare”. Ne scrive altre tre,
tutte di soggetto romano: “Marco Bruto”, “Giunio Bruto”, e “Druso”. Altre
opere: “Opere” (Venezia, presso Giambatista Pasquali); “Versioni poetiche”
(Bari, Laterza). Dizionario biografico degli italiani. Della nascita del C. sono
r’ſuoi veri pu dj. Principio de’ suoi studi scritto da lui stero. Disputa col
Nigrisoli e altre particolarità de’ suoi studi sono al primo viaggio di
Francia. Primo viaggio in Francia. Primo viaggio in Inghilterra e prime
conversazioni col Newtono. Mediazione tra il Newtono e il Leibnizio Studi e
altre occupazioni di Conti a Londra. Suoi sudj di belle lettere. Viaggio
d'Ollanda e d'Allemagna. Nuova dimora in Inghilterra. Ritorno in Francia e ſuoi
pudi. Amicizie. e converſazioni in queſti anni in Francia. Querela col Newtono.
Suo ritorno in Italia. Edizione del Cesare. Studi e commerzi. Edizione delle
ſue Prose e Poesie. Sue Tragedie. Illustrazione del Parmenide di Velia di
Platone; fima e onori di C.. Traduzioni. Altri suoi fudi. Progetti di nuove
opere. Ultimi ſtudi. Edizione del Druso; ſua morte. Rifleli Jul carattere di C.,
e notizie particolari della sua vita private. Relazione de’ Manoscritti
lasciati da C. Dell' Imitazione. Del Fantasma Poetico. La Poesia Greca.
Allegoria dell'Eneide di Virgilio. Illuſtrazione dello Scudo di Enea.
Illustrazione del Poema di Catullo intitolato le Nozze di Teride e di Peleo.
Dissertazione sopra la Tebaide di Stazio. Discorso ſopra la Italiana Poesia.
Illustrazione del Dialogo di Fracastoro intitolato il Na. wagero, o fia della
Poesia. Disertazione sopra la Ragion Poetica del Gravina. Della Potenza
conoscitiva dell'Anima. Della Fantasia. Poesie Tradotte dall' Inglese. Al Sig.
Marcheſe Manfredo Repeta sopra il Poema del Riccio Rapito. Il Riccio Rapito.
Prose Franceſe Italiane a Monſieur Perel. Dialogue ſur la Nature de l' Amour.
Lettre à Madame la Preſidente Ferrant. Lettera al Sig. Cavalier Vallisnieri. Al
sig. Marcheſe Maffei. Al N. U. Sig. Benedetto Marcello. Al P. D. Bernardo
Piſenti C. R. Somaſco.A Monſignor Cerarti. L’allegoria dell’Eneide di Virgilio
propone una cosa per farne intender un'altra, che ſeco è in proporzione, se l’
“Eneide” per consenso di tutti i più abili commentatori é un panegirico *allegorico*
d'Augusto, convien necessariamente che la cosa proposta sieno l’azione d’Enea (l’explicatura),
e la cosa che deve intendersi ed è loro proporzionata, l’azione d'Augusto
(implicatura) più memorabile e più degna di lode. Per çiò con una ſuccinca
narrazione pone prima sotto gli occhi l’azione d'Enea, che e il primo termine
(l’explicatura) su cui l’allegoria o metafora o implicatura (& fonda, o
come l'originale del ritratto; indi fa il confronto dell’azione di Augusto.
Nell'istoria d'Enea, basta quloſſervare l’oggetto dell’epica, e il carattere
stoico dell'eroe. L'oggetto tutto tende alla nuova colonia di Roma o al
Principato ch'Enea (via Ascanio e Romolo e Remo) ha da fondare nel Lazio e
Italia. Questo gli predisse Creusa, Febo, i Penati; questo le Arpie, Eleno e la
Sibilla; e perchè fi compisca l’oracolo della predeterminazione e del fatalismo
stoico, Enea li salva dagl in incendi e dalla strage di Troja. Ettore lo
dichiara Pontefice. I compagni lo eleggono Re. Avvisato o protetto schiva i
tradimenti, gli scogli, i ciclopi; non è sommerso nelle tempeste, non
trattenuto dall’africana Didone più pericolosa delle stesse tempeste.
Finalmente arrivato in nel Lazio trova il re latino dispoſto a riceverlo per
genero, Evandro e i toscani pronti a dargli soccorso; sebben abbia a fronte Torno,
un nimico feroce e collegato coi vicini, lo vince e l'uccide. Gli oracoli fatalisti
predeterminati stoichi dunque, i viaggi, e le guerre d’Enea non riguardano se
non lo stabilimento d'un regno o principato. Il carattere poi d’Enea o
dell'eroe si vede in tutta l'Eneide composto della *virtù* stoica convenevoli al
capo e fondatore d'un regno. La virtu e pietà verso l’uomo e verso Diuspater,
senno nel provvedere a’pericoli e prevederli, valore da soldato e da capitano.
La pietà (o compasione) verso l’uomo e la carità – l’imperativo della carita
conversazionale, verso Diuspater religione. Della carita o benevelonza o
compasione, o compieta verso l’uomo Enea dà esempi illustri per tutto. Salva il
padre Anchise dalle fiamme portandolo sulle spalle dirige sempre il viaggio secondo
i di lui consigli, celebra il suo anniversario co'giochi conſiderati da’ pagani
come una parte della eeligione, e per ubbidirlo discende fino all’inferno!
Quanto è tenero per il figliuolo Ascanio, e sollecito e della salute e de gli
avanzamenti di lui! E quando Creusa sua moglie si smarrisce, non va egli a ricercarla
tra gl'incendi e le stragi? Che dirò della sua pietà, carita, compassione,
compieta, benevolenza, verso il suo compagno (o d’EURIALO verso NISO), verso
l’amico, e verso Torno, il nemico stesso? Nella tempesta più s’affligge della
loro perdita che della propria, gli consola e gl’incoraggisce negli affanni, li
provvede di cibo, li divertisce e premia co’giochi, fa l’esequie a Polidoro suo
parente, a Miseno suo trombettiere, a Gaeta sua nutrice; piange la morte di Palinuro
e più quella di Pallante (Patroclo), e ne manda il cadavere ad Evandro con
magnificenza e con lutto degno di un re. Avendo ferito a morte Lauro che l’assalì,
gli itende la destra, lo solleva, e lascia che a Mesenzio se ne porsi il corpo.
Vuol perdonare a Turno, e non l’uccide *che* per vendicar suo amante Pallante;
ciò ch'era un atto di carita. Verso Diuspater sempre fervida e pronta è la sua
pietà. Come stoico perfetto e negatore del libre arbitrio, nulla intraprende
senza consultare l’oracolo, e non comincia alcun’azione senza offrir un voto,
una preghiera e sacri fizj, ch’egli offre egualmente al Diuspater propizio, che
alle Diuspater nonpropizio o Giunone e Pallade. Per ubbidir Diuspater supera la
passione che la strega Didone invoca, cede rispettoso alla sua collera
nell'incendio di Troia; conosce Apollo per principal protettore; ascolta
attento i cantici d'Ercole, e invoca Berecintia che l'allista nella nuova
guerra. Alla sua pietà corrisponde il suo senno. Tosto ch'entra in un paese
vuol conoscere i liti, i luoghi, e la gente che l'azbita; così fa in Affrica, e
nel regno d'Evandro, e scoperto l'assaſlinio di Polinestore fugge il pericolo
di cadervi: fa metter in aguato i soldati per lorprender l'Arpie; egli steſſo
dirige la nave che manca di piloto; manda ambasciatori al re del Lazio; cerca
soccorso nella guerra; ricevuto lo distribuisce in due corpi per più
imbarazzare il nemico ciò ch'è una parte della virtu o prudenza militare, non
meno che assediar la città mentre il nemico è sospeso. Questo o quello segno (manifestazione
secondo Vitters) del valore poi non dà nell'attaccare i nimici, nel farne
stragi di sua mano? uccide i più forti e tra gli altri Lauso, Mesenzio, lo
stesso Turno. Più comparisce il valore d'Enea, se col P. Boſsù fi confronti con
quello di Turno, antagonista, avversario, dell’epica, ardente, milantatore,
prepotente e buono sol per la guerra che vuole giusta od ingiusta, ed in questa
è incauto e senza direzione. Enea all'opposto grave – la gravita romana --, misurato
e non peccatore o essecivo, parla poco, laconico, opera molto, sempre consigliato
e forte colla gloria del consiglio e dell'esecuzione. Di questo o quello segno
della virtu -- pietà, senno, e valore, c’e un intreccio mirabile, sicche
comparisce Enea saggio e paziente capitano come Agamennone, valoroo vincitor
del nimico come Achille, destro a maneggiar lo spirito ed a condur una
negoziazione o consenso cooperative conversazionale come Nestore e Ulise:
giugne a questa virtù una pietà sincera, una probità esatta che mai non ſi
ſmente, una compassion tenera per il suo amico e il suo suddito. Enea è buon
figlio, buon padre, buon amico, buon amante, e tutto ciò per motivi superiori
di dovere e di ragione morale kantiana alla luce del stoicismo fatalism del
predeterminismo. Sopra tutto pero domina la specie della virtù più convenevole
d’ogni altra specie al fondatore della dinastia di Romolo, perchè per essa si
merita la protezione di Deuspater, si rende l’amico o il popolo che deve
ubbidire, l’alleato, ed il vicino con cui si deve patteggiare e con-federarsi
in cooperazione conversazionale verso un fine comune. Vi sarebbero il carattere
degli altri personaggi e dei dell'epica, ma essendo scritti di mano dell’autore
sono come non scritti. Anche la seconda parte che riguarda le azione del primo
imperatore romano, Ottavio detto l’augusto è molto imperfetta; eccone qualche
confronto. Nella rovina di Troja li ravvisano la rovina della Roma repubblicana
di Cesare ed Catone. Da questa rovina, Ottavio, come Enea era stato preservato
dalla provvità, 1 videnza del fato, come dice Orazio nel Carmie Secolare. Enea
porta in ispalla suo padre Anchiee; Ottavio prende la vendetta del suo padre addotivo
Cesare. Enea e in Troja maricato a Creusa da cui ha Julo; Ottavio e maricato a
Scribonia da cui ha Giulia. Ma Creusa per ordine de’ Fati è colia ad Enea, come
Scribonia ad Ottavio; e nel dir che ad Enea si apparecchia moglie, da cui
doveano discendere tanci Re, adula cacitamente Livia. Didone che s’oppone al
disegno (de-segno – plannificazione) d’Enea magnifica e vana dell'impero ha del
carattere superbo, impecuo lo, ed astuto di questa altra Africana, Cleopatra,
che impiegò cutre l'arti femmini li per impegnar Ottavio. Ma v'è un tratto
finissimo di lode nella comparazione che poteano i romani fare d’Enea e
ďOttavio, perchè laddove Enea cesse alle lusinghe di Didone, e dopo averla
posseduta l’abbandona scorteſemente in preda alla disperazione, biasmo da cui
poco lo scusanu gli ordini degli Dei; quanto più dovea stimarli Ottavio che mai
non si lasciò vincere dalle tante arti di Cleopatra? In Evandro, che accoglie
Enea, si puo ravvisar Cicerone, che col suo credito e colla sua eloquenza reſe
tanti servigj a Ottavio. L’epica, però per non rimproverargli la disgrazia di
Cicerone, fa che non Evandro ma il figliuolo di lui resti ucciso da Turno, nel
quale *senza dubbio* vien “simboleggiato” Marc’Antonio, valoroso bensì, ma imprudente,
e che le in molte cose mostra fortezza d’animo chiaro ed eccellente, in molte
altre, come Turno, li governa malissimo, e da quello o questo segno non meno di
magnanimità che di pulsanimità. Nulla dimostra più la finezza cortigianesca di
Orazio e di Virgilio come il loro non nominar mai Cicerone. S'astennero dal
risvegliar in Ottavio un'idea che gli dava de’ rimorsi. All'incontro nominarono
Giunio Bruto e Catone, per mostrare che Ottavio non ha usurpata la libertà, ma
che anzi ne era il protettore, l’imperatore, come negli ultimi tempi lo volea
Cromuvelo (Lord Protector) in Inghilterra. Antonio stesso molto si risparmia,
esi può osservare in Orazio che mai non si parla d’Antonio senza congiungerlo a
l’africana Cleopatra per far cadere in lei l’odio e la colpa; e cosi fa
Virgilio fagacemente nella battaglia d’Azio, quando parla d’Antonio palesemente,
e quando ne parla per allegoria, supprime quell vizio che avrebbero dispiaciuto
ai suoi partigiani ch’erano molti, ed a’figliuoli elevati da Ottavio a sommi
onori. Queſta è pur la ragione prammatica, per la qual Virgilio non dipinta le
guerre che fece Ottavio con Bruto, Callio e cogli altri, che per modo di
peregrinazioni, onde non offender quei ch’erano ancora del partito di questi
ultimi difensori della pubblica libertà. Il re del Lazio, Latino, che ammonito
dall’oracolo vuol dar la figliuola più ad Enea, che a Turno, è il vero ritratto
del senato romano, che vecchio (senior, senatore) ed impotente non potendo più
regolar la repubblica, benchè per ispirazione divina egl’inchini più a
lasciarsi governare d’Ottavio che da Marc’Antonio, atterrito nondimeno dagli
apparecchi di guerra, lascia disputar la vittoria a’ due rivali, come appunto il
re Latino fuggendo lascia terminar la guerra a Turno ed Enea. In Mesenzio ed in
Lauso si veggono Cassio e Giunio Bruto, e l'empietà data a Mezenzio e la virtù
data a Lauso lo persuadono. Muore Laulo ed Enea lo compiagne, come Ottavio
compianse Bruto, al dir di Plutarco. Quando Lauro combatceva, era Mesenzio con
la persona appresso di un tronco per posarvi appoggiato, e gli stava intorno un
cerchio de’ più eletti e de’ più fidi; e quando vide Lauso ucciso, comincia a disperarsi,
e a lagnarsi, e andar incontro alla morte. Queſta deſcrizione concorda molto
con quella che fa Plutarco di Cassio, allora che ritirato sul colle stava
rimirando l’esercito di Bruto, e credendo ch’egli fosse rotto, disperato si
confiſſe nel le reni la spade. Non occorre cercare rassomiglianza perfetta tra
questo o quello accidente vero e questo o quello accidente finto. Baſta che uno
si ravvif nell'altro. I ritratti della Poesia, e particolarmente epica, sono
“simili” a quelli che i gran pittori introducono ne’ quadri istoriati; negli
Dei, negli eroi, ne’ capitani ritengono le fattezze del volto de viventi che
vogliono onorare ma variano le attitudini, o le velti per variare le imagini, e
produr nello spettatore maggior maraviglia ed affetti più vivi. Con questa
regola si pollono ritrovare molti altri confronti nelle cose dell'Eneide colla
vita d’Ottavio. Nè par probabile che tanta corriſpondenza sia effetto del caso,
attesa spezialmente la sagacità del poeta, e l'idea generale dell'opera. Parte
di questa corriſpondenza fa vedere nello scudo d' Enea la seguente
illuſtrazione, che si dà intera. Come nell'Iliade d'Omero Teti porge ad Achille
uno scudo fabbricato da Vulcano così nell'Eneide di Virgilio Venere porge ad
Enea uno scudo fabbricato dallo stesso Dio. Quì non s'intraprende d'illuſtrare
ſe non ciò che appartie. ne allo Scudo d'Enea, oſſervando prima generalmente,
qual ne foſſe la materia, la faldezza, la figura, l'intreccio e i colori, ed
indi particolarmente l' ordine e' i fiti delle coſe ſcolpite, le loro ſtorie,
cd allegorie. I'Ciclopi impiegarono nell'armatura d'Enea il rame, l'ac ciajo,
l'oro, e l'argento, ma fecero che ivi abbondante più dell'uno o dell'altro
metallo ove era biſogno di maggior die feſa, o di più raro ornamento. L'Elmo
che dovea abbagliando minacciare i nimici, riſplen dea per la terſezza
dell'acciajo, non altrimenti che ſe fiam. me ſpargeſſe. La Lorica era ſcabra
per i rilievi del rame e del bronzo, che quanto più maſſicci'ſi fingono, ed
incurva ii, tanto più le faette e le ſpade ſpuntavano. Ben è vero che per la
miſtura degli altri metalli, i colori della Lorica ſi mi ſchiavano con quei del
bronzo e dell'oro, ond'ella riſplende va come un Iride in faccia al Sole.
Nell'aſta e nelle ſchinie re abbondava particolarmente l'elettro che è un
compofto d ' oro e ' una quinta parte d'argento, ma purgato più volte
da'Ciclopi; l'oro nel foco avea ſvaporato l'argento, onde la compoſizione
riuſciva più prezioſa, più denſa, ed impene. trabile. Nello Scudov'erano tutti
e quattro i metalli tra loro op portunamente fuſi e temperati. I Ciclopi ne
aveano appiana ta la maſſa in ſette piaſtre rotonde, che a guiſa dei ſette cuoi
attorti dello Scudo d' Ajace implicarono l'une nell'altre, perchè lo Scudo
refifteffe a tutte l'armi de' Latini. Miſterioſo era il numero di ſetre
appreſſo gli Antichi per la relazione ch'egli avea al numero de Pianeti. Forſe
credea no, che gli aſpetti di cucci e ſette influendo nella fabbrica d' uno
Scudo gli deffero una tempra immortale. La figura dello Scudo d'Enea era ovale,
nè a cid forſe an cora mancava il ſuo miſtero. Gli Scudi ancili chc fi fingea.
no 177 no caduti dal Cielo a tempi di Numa, aveano la ſteſſa figura, Or lo
Scudo d' Enea non era men celeſte di loro; ed Enea, che doveva portarlo, non ſi
fuppone men pio di Numa. I Ciclopi nel fabbricar lo Scudo avendo poſta in opera
per comando di Vulcano tutta la loro arte maeſtra, collocarono, intrecciarono,
limetrizzarono, e colorirono le figure ſcolpite in maniera, che lo Scudo
emulava la reflicura di un arazzo. Nè queſta a mio credere è un'Iperbole
poetica, ma un'imi tazione di quell'idee che Virgilio, avea vedute ne'baſi
rilievi di Roma, ove ſoggiornava, ed in quelli delle Città della Gre cia, ove
per profittarlı dello ſtudio delle bell'arti avea viag giato. A Roma nelle
Biblioteche e ne' Tempj ſtavano appeli certi Scudi tutti ſtoriati, e tra gli
altri Plinio racconta, che nel Tempio di Bellona Appio Claudio confacrò uno
Scudo, ove in picciole figure era rappreſentata tutta la Genealogia dell'antica
famiglia de' Claud). Nel conveſſo dello Scudo di Minerva avea Fidia ſcolpita la
battaglia delle Amazoni, e nel concavo la guerra degli Dei e de'Giganti.
Offerva Plinio, che Fidia, volendo moſtrar l'arte nelle minimeparti, avea
elpela ſo ne' Sandali della Dea la battaglia de' Lapiti e de'Centauri, e nella
baſe della ſtatua la naſcita di Pandora con quella di trenia Dei. Ne'baſſi
rilievi delle lamine che cingevano la ſe dia della fatura di Giove Olimpico, lo
ſteſſo Fidia in oro ſcol pito avea, da una parte il sole che conduceva il
cocchio, e dall'altra Giove e Giunone; a lato di Giove v'era una delle Grazie,
indi Mercurio e Veſta., Venere pareva, uſcir dal ma re, l'Amore l'accoglieva, e
la Dea Pito la coronava. Nello ſteſſo baſſo rilievo li vedeva Apollo e Diana,
Minerva ed Er; cole, e nel piedeſtallo da un canto Anfitrite e Nettuno, e
dall'altro la Luna, che galoppaya ſopra un cavallo. Qual mol ticudine, qual
varietà ed intreccio di figure in poco ſpazio? Or è molto verifimile, che come
lo Scudo d'Achille diede a Virgilio la prima idea dello Scudo d'Enea, così į
baſli rilie vi da lui yeduti a Roma in Atene e in Olimpia gl'inſegnal ſero a
perfezionarlo. Nella deſcrizione delle figure ben fi ſcor ge che l'artifizio
dell'imitazione, non deriva dagli alerui fan tasmi, ma da
un'acurata oſſervazione del ſenſo, che regold la fantaſia del Poeta fino ·
lo ſpingo oltre la conghiettura, e pretendo che alle figu. se veduce da
Virgilio ſcolpite o nell’avorio, o nell'oro, od in altro metallo negli vi
applicalle la forza e la leggiadrią Tomo II. 2 de' 3 178 ra 1 1 de colori da
lui veduti nelle pitcure encauſtiche: Plioio ne annovera di tre fpezie, e non
ſaprei fuggerirne una miglior idea che raſſomigliandole alle picture che
vediamo, non dirò fulle porcellane di troppo fragil materia a confronto del me
tallo, ma su fmali di più dura tempra, e su vaſi e ſulle cop pe antiche, ove la
varietà del colore riſultò dal vario grado del foco, che lor fu dato nel
fondere e nel tingere il metal lo. Difficile è proporzionare il grado del foco
ad ogni colo re, ma difficiliſſimo ove i colori lieno per conſiſtenza e viva
cità differenti, e ſi debba nello ſteſſo tempo abbrugiandoli laſciarli ſecondo
il biſogno o floridi, od auſteri, ed a tutti imprimere quello fplendore che
ſecondo Plinio non è lo ſtef To che il lume, ma di'mezzo tra il lume e l'ombra,
ed è propriamente l'intenſione d'ogni colore nella ſua ſpezie. Il Sig. Abate
Fraguier, la cui memoria mi ſarà ſempre ca. offerva, che nello Scudo d'Achille
la terra fenduta in folco dall'aratro cangia in nero il color d'oro, che i
grappo li d'uva ſono neri e la vigna d'oro, che le giovenche ſono rappreſentate
al vivo col bianco e col giallo, cioè collo lta gno e con l'oro, e che
veriſſimo è il langue trangugiato da due Leoni che lacerarono il bue. Da ciò
inferiſce che l'arte encauſtica fioriva a'tempi d'Omero; ma quando anche i Cro
nologi che non convengono dell'età d'Omero glielo conce deffero, molto più
debbono elli concedere, che nel tempo d' Omero quell'arte era molto imperfetta
a paragone dell'eccel lenza a cui la portarono i Greci nel secolo d'Aleſſandro,
e ne’ſuſſeguenti. Le picture de' più celebri artefici encauſtici e rano ſtate
portate dalla Grecia a Roma da' Capitani Romani, é poſcia conſecrate ne! Tempi.
Virgilio che avea ſotto gli oc chj de'modelli così perfecti, gli ha
verifimilmente adombra ti ne ' colori del ſuo Scudo yine queſta ſpezie
d'imitazione pud negarſi ad ua Poeta sì doito, e d'on guſto così eſquiſito in
ogni genere d'arte • Per reftarne convinti bafta riflettere alla varietà ed
armonia de? colori delle figure deſcritte j ai sfuma menti, 0, come parla
Plinio, alle commiſſure de culoriftel fi, ai fecreti più mirabili della
perſpectiva introdotti negli ac» tidenti delle imagini, e finalmente
all'efpreffione degli affec ti de coſtumidegli Uomini rappreſentation La
varietà e larmonia de'colori appariſce nell'Oca d'ar gento che vola ne' portici
d'oro, ne' flutti biancheggianti per lai fpuma ini un mare cerulco Larrei ſono
i colli de'Galli, mentre le loro chiome fon d'oro, e vergate d'oro le veſti; il
langue di Mezio è vermiglio e gocciola dalle ſpine che lo no verdi. Per gli
sfumiamenti de colori, ed inſieme per l'eſpreſſione degli affetti e de' coſtumi,
diverſi nell' arni e nelle veſti fo no i colori de' Barbari condotti in trionfo;
il limitar del Tem. pio d'Apollo è bianco come la neve, ma più bianco è lo
ſteſſo Dio; Cleopatra è pallida per la morte futura; il Nilo al ſembiante ed al
geſto moſtra la doglia che lo crucia e l' impazienza di ſalvare i fuggitivi
ſuoi figli. Che dirò della forza della perſpectiva? Parrafio dipinle, al dir di
Plinio, il Demone degli Atenieſi vario, iracondo, in giuſto, incoſtante..
Virgilio rappreſenta Porſenna che nello Iteſſo tempo comanda, li ſdegna, e
minaccia. Nel Portico a. vanti la Curia di Pompeo era dipinto, ſecondo lo
ſteſſo Plinio, un Soldato che non ſi fapea ſe con lo Scudo aſcendeſſe o di
Icenderſe. Virgilio fa che i bambini attaccati alle poppe del. la Lupa fieno da
queſta alternaniente accarezzati; ciò che il Tallo imirò nelle figure delle
porte d'Armida ove Marcanto nio nel ſeguir Cleopatra che fugge, Mirava
alternamente or la crudele Pugna ch'è in dubbio, or le fuggenti vele. Ma
paſſando a coſe più particolari, io per far meglio in tender l'ordine,
l'intreccio, ed i fici delle figure, divido in quattro parii lo Scudo. La prima
contiene la diſcendenza d ' Enca fino alla Lupa incluſivamente. La copula o,
cioè an cora dimoſtra che tutto era nello ſtello baſſo rilievo. La ſeconda
parte contiene molte coſe memorabili fotto i Re e ſotto la Repubblica. La terza
la battaglia d' Azio. La quarta i tre Trionfi d'Auguſto. Queſte parti, ſi fanno
ſenſibili dividendo l'ovale in quattro altre ovali concentriche che io ſegnerò
co'numeri 1. 2. 3. 4. Nello spazio segnato i. ch' è come l'orlo dello Scudo io
pongo le figure che rappreſentano i diſcendenti d'Enea anno verati da Virgilio
nel primo libro e nel ſeſto: queſti ſono A Scanio, Silvio padre di molci Re,
Proca, Capi, Silvio, Enea, i due giovani coronati di quercia, Numitore, e la
Lupa che allatra i due bambini. De quindici Re d'Alba, di cui parla 2 2 Dio 186
Dionigi d’Alicarnaſſo e Tito Livio, Virgilio non nomina che queſti, perchè,
come egli accenna, furono fondatori di colo. nie, avendo edificato Nomento,
Gabia, Fidene, Collazia full? állo d'una montagna, ed il caſtello d'Inuo o di
Pane. Fon darono ancora Bola e Cora, e queſte ed altre nominate Cit rà eſſendo
nel Paeſe de' Sabini e de' Volſci, avranno dato oc caſione alle guerre e
battaglie nello Scudo eſpreſſe. Nel baf ſo rilievo d'Alcanio dev'egli
rappreſentarſi a guiſa d’un Ca. pirano o d'un Re che comanda di fabbricare una
Città qual era Alba lunga. Altri prendono gli ordini, ed altri gli eſegui
ſcono, ed i Soldati ſtanno riguardando l'opra. La pittura d ' Aſcanio è ſulla
cima dello Scudo; nella parte oppofta, o nel ballo v'è la Lupa che allatta i
bambini, e biſogna rappre ſentaría qual è in molte medaglie. Ne' lati dell'orlo
dello Scudo toſto ſi vede un bambino in mano d'un paſtore ch' eſce da una ſelva;
lo ſiegue in Re circondato da molti bam bini coronati, indi un Ře che guida un
eſercito, un altro che eſpugna una Città, un altro che è in mezzo a Sacerdo ti
e a Veltali, molti giovani Re cinti il capo di quercia che combattono e fondano
colonie, o su monti, o nelle pianu. se. Nè Tito Livio, nè Dionigi d'Alicarnaſſo
parlano in par ticolare di queſte battaglie, onde ſi poſſono ſcolpire a fanta
ſia, ma devono eſſer ſcolpice in medaglie appeſe a rami od alle foglie d'un
albero genealogico che ſerpeggi nell'orlo. Nello ſpazio ſegnato 2. io pongo da
una parte due baſſi ri lievi di forma ellittica, ma incaſtrati di varj fogliami
che riempiono i vuoti. Elli rappreſentano il ratto delle Sabine, e la pace cra
Romolo e Tazio. Pongo dall'altra parte altri rilievi della ſteſſa forma che
rappreſentano Mezio ſquarciato da ' cavalli, e Porſenna che afledia Roma. Nel
ſommo dell'ovale ſi vede nelle figure più rilevate il Campidoglio affalito
da’Galli, e difeſo daManlio; e nelle più lontane i Salj e le Matrone che
eſulcano; nella parte oppo. fta che è la più baſſa dello Scudo v'è il Tartaro
con Catili na affiffo allo ſcoglio, e ſopra il ſotterraneo (chiamato da Vir
gilio la bocca profonda di Dite ) verdeggiano gli Elisj, ove Catone dà la legge
all'anime pie. Le figure di queſto ſpazio ſono maggiori di quelle dell' orlo
perchè le parti più vici ne al centro dello Scudo ove fi fogliono diriger i
colpi, devo no eſſer più maſſiccie per più reliftere. Lo ſpazio è percid
maggiore Nel i 81 5 Nello ſpazio ſegnato 3. v'è la battaglia d' Azio. Apollo
ſaettante è ſul Promontorio, ove Auguſto gl’inalzò un Tem pio. Le navi
d'Auguſto ſono alla deſtra ſchierate in arco; nel deftro corno v'è Augufto
colla ftella in fronte e co' Pe. nati in mano, nel finiftro Agrippa cinto le
tempia della co rona roftrata. Dirimpetto vi fono le Navi torreggianti d'An
tonio. Secondo Plutarco, Antonio con Publicola reggeva il corno deſtro, e
Clelio il ſiniſtro. Cleopatra è nel mezzo in atto di percuotere il fiftro,
ſtromento dedicato ad Ilide che Cleopatra voleva emulare in curto. Tra i due
ſemicerchi del. le navi ve ne ſono alcune diſtaccate che tra loro combatto no.
Soggiunge Plutarco, che Ceſare non ſolamente non or dina ferir le prode dure e
ferrate d'Antonio, ma nè anco inveſtirle per fianco, perciò che gli ſproni
facilmente ſi ve nivano a romper urtando nelle cravi quadre incaſtrate infie me
col ferro: Era dunque queſta battaglia (ſegue egli) mol to ſimile a una
giornata per terra, anzi piuttoſto all'aſfalco d'una Cicà. Perciocchè tre o
quattro navi di Ceſare com battevano intorno a una nave d'Antonio con
partigiane, piche, e con fuoco. D'altra parte gli Antoniani ftando ſulle gabbie
di legno traevano dardi e pietre contro i nimici. Così ap punto Virgilio
rappreſenta le navi che combattono. Sulle navi di Cleopatra vi ſono i Dei
moſtruoſi d'Egitto, in atto di ſaettar Neituno, Venere, Minerva, che ſtanno
ſulle navi d'Auguſto, e contro alle quali egli diſſe al Senato che Antonio avea
moſſo la guerra, non meno che contro al. la Patria. Marre è in mezzo
della batcaglia, la Diſcordia, e Bellona, ed in aria ſtanno le Furie. Tutto ciò
è ſotto la fi. gura del Campidoglio o nella parte ſuperior dell'ovale, men tre
a'lari ſono le navi ſchierate. Nella parte inferiore vi fo no le navi di
Cleopatra che fuggono ſpinte dal vento Japiga, che ſoffia dal capo di Salentino;
non lungi è la figura del Nilo, che allargà la veſte, e chiama i vinci a
ricovrarli ne? ſuoi naſcondigli: egli è d' una figura giganteſca appoggiato
ſull'urna che verſa i ſette fiumi nel mediterraneo, nel reſto dello ſpazio ſi
diffonde il mare coi delfini che ſcherzano. Le figure di quello ſpazio ſono
maggiori per la ragione ſopraccen nata, ed è maggiore lo ſpazio ſteſſo. Nello
ſpazio ſegnato 4. vi ſono eſpreſli i tre trionfi d'Au guſto. Egli trionfo, dice
Svetonio, in tre giorni l'uno dietro all'alcro; la prima volta per la vistoria
Dalmacica, la ſecon da 4 182 1 da per l'Aziaca, e la terza per l'Aleſſandrina.
Dione Caffio particolareggia i trionfi. Trionfo Ceſare, dic'egli, il primo
giorno de' popoli Pannoni, Dalmatini, Japidi, ed altri loro circonvicini, e
d'alcuni popoli della Gallia e della Germania ancora, perciocchè Cajo Carina
avea già vinti e ſoggiogati i Morini e gli alıri popoli appreſſo, che nella
ribellione da lo. Fo fatta gli erano ſtati compagni, ed oltre ciò avea dato una
rolta a'Svevi, ed a quelli che aveano già paſſato il Reno; laonde ed egli e
Ceſare feco rappreſentò il Trionfo percioc chè la vittoria folevaſi attribuire
ſempre all'Imperatore, e l' Imperatore era Ceſare, è teneva in mano il governo
di tut, 10. Il ſecondo giorno Ceſare rappreſentò il Trionfo della bat taglia
fatta al promontorio d' Azio nel mare. Il terzo poi dell'Egitto ſoggiogato. Le
ſpoglie in queſte guerre acquiftare furono baſtanti ad ornar tutto l'apparato
di que' Trionfi; quel. Je però d'Egitto avvanzavano di gran lunga curti gli
aliri ap parati d'ornamenti di ricchezza e di rarità; tra l'altre coſe vi fi
vedea Cleopatra fteſa ſopra una colore in alto di morire, onde in un cerio modo
queſta Reina era condotta in trionfo cogli altri prigioni, tra'quali v'era
Aleſſandro ſuo figliuolo, e Cleopatra fua figliuola chiamati da lei col nome
del Sole e della Luna. Gl’interpreti fi vanno inutilmente affaricando a cercar
le ragioni della qualità de'prigioni, e particolarmente perchè ne' cocchi ſi
vedeſſe l'imagine dell' Eufrate e dell’A. raſſe fiumi dell'Armenia e della
Meſopotamia non conquiſtati da Auguſto. Il P. Arduino nelle ſue rifleſioni
fopra Virgilio non ritrovando queſte vittorie d'Auguſto ne trae degli argo
menti diſavantaggioſi all'Eneide. Io non perderò inutilmente il tempo a
riſpondergli in particolare. Ciò che poſſo dire a coloro che ammettono
l'autorità di Dion Callio, è far loro oſſervare, che Antonio dopo aver chiamara
Cleopatra Reina dei Re, Ceſarione Re dei Re, ed aggiunto alla loro giuriſdi.
zione l’Egico, donò la Siria a Tolomeo, e lutte le Provin cie di quà
dall'Eufrate fino all'Elleſponto; donò l'Africa fino alla Cirenaica a Cleopatra,
ed al fratello di coſtoro chiama to Aleflandro dond l'Armenia con tutto il
rimanente del pae fe al di là dell'Eufrate Gno all'Indie. Or non è verifimile
che Auguſto da cutti queſti Paeſi fcieglieſſe de' prigioni, che egli doveva
aver fatti o nella battaglia d'Azio, o nella ſcon fiila data ad Antonio in
Aleſſandria? Quanto al Reno, Agrip pa l'avea paſſato nel 717. nė fi curò del
Trionfo, ma egli è pro. 183 probabile che Auguſto voleſſe che Agrippa trionfare
ſeco co me Cajo Carina. Non v'era. ſegno d'amicizia e d'onore che non gli deſſe,
perciocchè oltre la corona roſtrata, con cui lo fregið dopo aver vinto Seſto
Pompeo in Sicilia, volea ch'egli avelle una cenda e l'altre inſegne militari
ſimili a quelle dell' Imperatore, e, come dall'Imperatore, da lui ſi prendeſſe
il ſegno della milizia, ed egli era in forſe di dargli per moglie Giulia: canto
grande, gli diſſe Mecenate, tu faceſti Agrippa, che o biſogna ucciderlo, o
ch'egli ſia tuo Genero. Dopo il Trionfo Auguſto inalzò molti Tempj; uno ad A.
pollo ſecondo Svetonio ſul monte Palarino, al quale aggiun ſe una Loggia con
una Biblioteca Greci e Latina; un altro ne edificò a Marte vendicatore per il
voto fatto nella guerra contro Bruto e Caſſio per vendicare il Padre, ed un
altro a Giove Tonante nel Campidoglio. Secondo Dione egli ancora conſecrò il
Tempio di Minerva, ornò il Tempio di Giulio ſuo Padre ſoſpendendovi molti e
molti doni della preda por tata d'Egitco, e molti ne conſecrò ed offerſe a
Giove Capi. tolino, a Giunone, a Minerva. Non è da traſcurare che po fe
l'imagine della vittoria ſecondo Dione nel Tempio di Mi nerva, e ſecondo Plinio
nel Tempio del Padre Celare, il qua le era nel Foro; aggiunge Plinio, che vi
poſe ancora i Ca ſtori che forſe ſimboleggiavano Auguſto ed Agrippa, nel pri mo
libro aſſomigliati da Virgilio a Romolo ed a Remo, come interpreta Servio. Poſe
ancora Augufto nel foro due quadri, uno della guerra, e l'altro del Trionfo; e
s’io non m'ingan doveano queſti rappreſentare coſe alluſive alla battaglia d'
Azio, ed ai trionfi dello ſteſſo Ceſare. Comunque la coſa ſia, ove è il centro
dello Scudo che è la parte più alta, io pongo la Cupola del Tempio d'Apollo,
alle cui porte Augufto affig ge le corone d'oro che erano i doni offertigli da’
Popoli dalle Provincie confederate. Tutto all'intorno vi ſono le are e
gl’incenſi colle vittime, e quindi la pompa e la lecizia del trionfo. In quel
giorno che Auguſto entrò in Roma, dice Dio ne, gli fu conceduto un Arco nella
Piazza di Roma, e in o nor di lui li celebrarono i giuochi quinquennali, e gli
anda rono incontro le Vergini Veítali, il Senaco ed il Popolo, colle mogli, e
il figliuoli: mi par ſoverchio (ſoggiunge Dio. ne ) di raccontar i voti e le
imagini ed altre coſe fatte per lui · La pompa del Trionfo conſiſte ne'
prigioni Nomadi, o Numidi, Affricani, Lelegi, Cari popoli dell'Alia minore Ge
no, e 184 Geloni ſpezie di Sciti, Morini popoli della Gallia Belgicà fi tuati
verſo l' Oceano Britannico. Tra queſti vi ſono molti cocchi colle imagini
dell'Eufrate, del Reno, e dell'Araffe col ponte che Auguſto vi fabbricò. Tali
ſono i baſli rilievi e le figure di tutto lo Scudo; elle s'ingrandiſcono a
proporzione ch'egli ſi va rilevando, e le miniature devono render ſenſi bili i
colori di cui ſono in Virgilio dipinte. I colori domi nanti ſono il giallo e il
bianco che rappreſentano l' acciajo ed il rame. Marte però deve eſſer dipinto
con un colore fer rigno, o fia di ferro, non raffinato in acciajo; diverſi ſono
i gradi de colori o floridi od auſteri che biſogna lumeggiare ed onibreggiare;
ma ſopra tutto convien dar alle figure lo ſplen dore, o ſia quel grado vigoroſo
di colore di cui s'è parlato. Spiegato in queſta maniera ciò che concerne la
parte ma teriale e ſtorica dello Scudo, egli è tempo di ragionare delle
relazioni che le figure hanno ad Auguſto, al quale tutto il Poema è diretto,
come a lungo eſpoſi nell'altra diſſertazione. Biſogna quì ricordarſi che
l'adulazione, ingegnoſiſlima nelle fue compiacenze, or impiega le lodi dirette
e manifeſte, or l'indirette ed occulte, ſecondo che l'une e l'altre per le cir
coſtanze fono più grate a colui che fi loda. Lodar Augufto per la ſua ſtirpe,
lodarlo per la vittoria che gli diede l'Imperio, e per i tre trionfi, ne' quali
fece tanto riſplender la ſua pietà, erano lodi che Auguſto fonima mente
defiderava che ſi pubblicaſſero, onde eſſo poteſſe ritrar: ne più venerazione
ed ubbidienza. Conviene a parte a parte moſtrarlo. Giulio Ceſare nel far
l'Orazione funebre in lode di Giulia ſua Zia: La firpe materna, diſſe, di
Giulia mia Zia ha origi ne dai Re, é la paterna è congiunta cogli Dei immortali,
im perciocchè da Anco Marzio derivano i Re Marxj del cui nom fu mia Madre, da
Venere i Giulj della cui gente è la noſtra Fa miglia. Trovaſ dunque nel ceppo
antico della caſa noſtra la fantità dei Re la quale appreſſo gli Uomini è di
grandiflima autorità e la Religione degli Dii nella podeſtà de' quali ſono el
Re. Sin quì Svetonio. Non potea dunque che molto pia. cere ad Augufto che
Virgilio noftraſſe e nel primo enel ſe fto e nell'ottavo che nella ſua
genealogia verano i Re, gli Dei, e gli Eroi. Virgilio dice nel primo libro: il
giovine A ſcanio che porta oggidiil cognome di Giulio e che ſi chiamava Ilo,
mentre Ilio era in piedi, governerà Lavinio per trent'anni 1 in. 185 intieri
etraſporterà la sede del Regno in Alba lunga di cui faa rà una forte Città. Nel
feſto egli dice: uſcirà dal ſangue Tro jano miſto all' Italico Silvio ſuo
figlio poſtumo che perpetuerd in Alba il ſuo nome, e ſarà egli fello Re e padre
di molti Re,. per lui la noſtra ftirpe dominerà in Alba. Virgilio ſcaltro nul
la parla delle guerre che ſecondo Dionigi d'Alicarnaſſo vi fu rono tra Giulio
figliuolo d'Aſcanio e Silvio, e molto meno che per i ſuffragj del popolo ſi
deſſe a Silvio il Regno che apparteneva a ſua madre, ea Giulio per contentarlo
la fo vranità ſulle coſe della Religione, per cui, ſoggiunge Dionigi, la
Famiglia Giulia ha goduto fin al mio tempo del ſovrano Pontificato, e s'è
chiamata Giulia a cagion d' Julo da cui u ſciva. Io non so accordar queſto
paſſo di Dionigi d'Alicarnaſ ſo con quell'altro di Plutarco e di Svetonio, ove
ſi vede che Giulio Ceſare non per dricco di ſangue, ma per i ſuffragidel popolo
in competenza di Catulo ottenne il ſommo Pontifica to. Laſciando cid, baſta quì
oſſervare, che Virgilio confonde Aſcanio con Silvio figliuolo di Lavinia e gli
altri diſcendenci da lui, poichè dice, che v'era ſcolpita tutta la ftirpe
d'Enea cominciando da Aſcanio. Io così interpreto quel Ab Aſcanio. Di tutti
queſti Re e di queſti Eroi Virgilio nefa come del le imagini trionfali, che
pone nell'orlo del ſuo Scudo, come negli atrj delle caſe de' Romani ſi poncano
le imagini degli Avi loro, ſulle quali Giuvenale e Plinio fanno sì gravi riflet
fioni intorno al biasmo ed alla lode de' diſcendenti. Ciò ba fi intorno la lode
manifeſta della ftirpe d'Auguſto. Palliamo alle lodi indirette. Nelle medaglie,
ove fi legge Reft. o reſtitui, ſi vede l'ima. gine o d'un Bruto, o d'un Coclite,
o della libertà, o d'al tre coſe alluſive alle azioni celebri de' Romani
antichi, che gl' Imperatori Romani aveano imitate o reftituite. Il P. Ar duino
vuole che queſte allegorie nelle medaglie cominciaſſero ſotto Tito, di cui ſi
contano fino 22. medaglie di queſta ſpe. zie e terminaſſero ſotto Trajano, di
cui ſe ne contano 24. ma non, perchè queſte medaglie non ci reſtino, ſi può
dedur che ſotto gli altri Imperatori e particolarmente ſottoAuguſto, che
vantavafi d'effere il difenſore della libertà del Senato e dei popolo,
l'adulazione non aveſſe inventate l'allegoric; certo è almeno, che con
queſt'ipoteſi ſi rileva il ſenſo del ratto del. le Sabine, e della pace ira
Tazio e Romolo. Prima che Planco determinaffe il Senato a dar ad Occavio Tomo
II. il 186 9 il nome d'Auguſto, molti volcano che ſi chiamafle Romolo. In fatti
Auguſto l'imicava non ſolo nella fondazione d'un nuovo Impero, ma ancora in
molte circoſtanze della ftella fon dazione. Come Romolo col ratto delle Sabine
avea provvedu to al mantenimento della Città, così Auguito con la legge di
maricar gli ordini che Orazio chiama legge Marita; due ne fece Auguſto., la
prima nell' anno 736. e ſi chiamava legge Giulia, e l'altra dell'anno 762. e li
chiamava legge Popea perchè fatta ſotto i Conſoli Sulpizio e Popeo. Con queſte
leg. gi fi rinovarono l'antiche rammemorate da Cicerone e da Aulo Gellio, e
Dion Caſſio merte in bocca d'Auguſto una lunga arringa su queſta materia al
Senato, nella quale dopo d'aver cogli eſempj delle nozze degli Dei eſaltato il
vantaggio e la giocondità de'figli, l'utile della Repubblica, e il biasmo di
viver ſenza moglie, gli fa dire: Romolo autor noftro, e da cui diſcendiamo, non
li ſdegnerà con tagione conſiderando il fuo naſcimento e i coftumi introdotti?
Orazio nel Carme ſecolare lodando per queſta legge il Se nato obliquamente loda
Auguſto; ma Virgilio nella lode obli. qua involge l'argomento del minore al
maggiore come s'egli diceffe: fe tanta obbligazione hanno i Romani a Romolo che
con una violenza provvide al mantenimento della Città, mol to maggior
obbligazione i Romani hanno ad Auguſto che ſen. za danno de' vicini vi provvide
con una legge si ſaggia. Romolo dopo le guerre con Tazio ai rapacificò
ſolennemen. te con lui, e diviſe feco il Regno; ed Auguſto dopo molte guerre
con Marcantonio conciliatoſi ſeco per l'opera de' co muni amici diviſe l'Impero,
del quale il termine ſecondo Plu tarco era il Mar Jonio. Tutta la parte,
dic'egli, verfo Levan te fu conceſſa ad Antonio, e l'alira verſo Occidente a
Ceſare. Pegno della pace fu Ottavia maritata ad Antonio, e certamente ella è
rappreſeatata nella vittima che ſi ſcanna nella ceremo nia del giuramento tra
Romolo e Tazio: ne deve far difficol tà il noine della vittima, poichè tutto
ciò che li confacrava agli Dei era fanto, e la Scrofa è ſtata ad Enea d'indizio
del paeſe che ricercava. La pittura di Mezio non è meno allegorica; egli tradi
Tul lo Oſtilio come Antonio tradì la Repubblica, e tradi Ottavio con la guerra
che all'uno ed all'altra intimo per far piacere a Cleopatra. Mezio ne fu
ſquarciato a viſta di Tullo; ed An. tonio fu coſtretto a darſi la morte quafi
agli occhi d'Augufto. An 187 Antonio mentre s'incamminava al ſepolcro ove s'era
rinchiuſa Cleopatra, andava verſando il ſangue per le Atrade come ap punto il
corpo di Mezio per la ſelva. Non ſi potevano eſpri mer da Virgilio coſe sì
delicate che in un quadro allegorico, Due volie, dice Svetonio, entrò Auguſto
in Roma vitto rioſo e ſenza trionfare, una, poichè egli ebbe vinto Bruto e
Caffio ne'campi Filippici, l'altra avendo vioto Seſto Pompeo in Sicilia; il che
moftra, qual foſſe la modeſtia politica d ' Auguſto; queſta ſteſſa egli usò con
Marcantonio del quale e gli non crionfo, ma di Cleopatra, come ſi può
raccoglier dal Trionfo deſcrito da Dion Callio. Egli ſollevò i figliuoli d'
Antonio alle prime dignità, nè col moſtrar odio e vendetta con Antonio dopo
ch'egli era morto voleva offender Octavia a cui era ſempre grata la memoria del
marito. Orazio e Vir gilio ben ſapendolo non mai parlarono di Marcantonio ſc
non mettendolo in compagnia di Cleopatra su cui fecero ca der l'odio e la colpa;
ma nel tempo ſteſſo, conoſcendo forſe che Auguſto ſi compiaceva, che negli
animi de' Romani non ſi ſmarriſſero l'idee di quanto avea fatto contra
Marcantonio per la finta difeſa della libertà, eſli procurarono di maſcherar ne
l'azioni con l'allegoria, della quale Auguſto poteva abba ſtanza intenderne il
ſenſo, e non offenderſi i partigiani d'An tonio per le varie interpretazioni
che poteano darle. Nelle mie note su l’Odi d'Orazio io ſpiego con ciò molte
coſe in intelligibili ſenza queſta ſuppoſizione, nè ſarà diſcaro che ne moſtri
l'uſo nelle ſtorie di Porſenna e di Manlio ſcolpite da Virgilio nella ſeconda
ovale dello Scudo. Porſenna voleva riſtabilire in Roma la tirannia traſportan
dovi i Tarquinj, e nonmeno Antonio voleva riſtabilirla tra ſportandovi
Cleopatra. Se Antonio, dice Dione, foſſe ſtato ſuperiore e ſignore del tutto,
era per dare a Cleopatra la Cit tà di Roma; è poco dopo ſoggiunge, che
Cleopatra era venu ta in ſperanza d'acquiſtar l'Impero Romano, e che quando al
cuno le dimandava giuſtizia, ella riſpondeva che gliela fareb be in Campidoglio:al
che pur allude Orazio nell'Ode 37. l. 1. dicendo ch'ella era ebbra di folli
ſperanze non meno che di vino mareorico. Io non so ſe troppo raffini nel
ritrovar in Clelia che ſi falva a nuoto, Ottavia che al dir di Plutarco eſce
precipitoſamente dalla caſa d'Antonio; ma certamente Coclite che rompe il ponte
è un ſimbolo d'Agrippa che con la vittoria navale interrompe l'avvanzamento
d'Antonio. AQ 2 Tito 188 Tito Manlio è difenſore della libertà del Campidoglio
con tra i Galli, come Antonio fu difenſore della preteſa libertà contra Caſſio
e Bruto e gli altri nimici di Giulio Ceſare. Non mancarono, dice Plinio, i
fregi delle coſe militari in Manlio Capitolino, ſe non gli aveſſe perduti
nell'eſito della vita; e Tito Livio ſoggiunge, che lo ſteſſo luogo nell'Uomo
ſteſſo fu un monumento e d'inſigne gloria e di ultima pena. Anto nio difeſe il
popolo Romano ne' Campi Filippici, e il popo lo Romano in Azio ed in
Aleſſandria l' inſeguì e fu cagione della ſua morte. I Salj ed i Luperci
eſultano, e le matrone ne loro cocchi agiati conducono le coſe ſacre per la
Città per dimoſtrare che non ſono ammeſſe in Roma le ſuperſtizio ni Egiziache,
abborrite eſtremamente da' Romani ne'cempi d ' Auguſto e di Tiberio. Catilina
tormentato nell' Inferno non moſtra egli le pene dovute a Marcantonio? e per la
ragion de contrarj quante lo di meritava Auguſto per la ſalvata libertà? In
grazia di que fta ſoffriva Augufto che fi lodaſſe Catone Uticenſe. Orazio
nell’Ode 12. c. 1. lo mette tra gli Eroi di Roma. Loderò di Caton la nobil
morte? Il P. Catrou pretende, che il Catone che negli Elisj dello Scudo dà
legge agli ſpiriti, non fia altrimenti Catune Uricen ſe, ch'era troppo odioſo
a'Ceſari, ma Catone il Cenſore, di cui dice Seneca, che tanto giovo co'ſuoi
coſtumi al popolo Romano, quanto Scipione colle ſue guerre. Il P. della Rue é
per il Carone Uticenſe, ma non ne aſſegna la ragione, la quale è manifefta, ſe
ſi riflette al paſſo di Taciro da me nell' alıra diſſertazione addotto e che
qui ancora ſoggiongo, perchè cgli moſtra quanto Ottavio fi vantafle, come
Cromuello fece a' noſtri tempi, di paſſar per difenſore della pubblica libertà.
Tito Livio (così fa dir Tacito a Cremuzio Cordo in Senato ) chiariffimo tra
tutti gli Scrittori e per eloquenza e per fedel tà, celebrò con tante lodiGnco
Pompeo che Auguſto lo chia mava Pompejano, nè perciò gli fu meno amico. Nelle
Opere di Aſinio Pollione (cui Virgilio dedicò l'Egloga terza ) li fa
onoratiflima memoria di Callio e Bruto: Meffala Corvino pre dicava Caffio per
ſuo Imperatore, e l'uno e l'altro viſſero lun. gamente pieni di ricchezze e
d'onori, ed Auguſto, non ſi sa le con maggior lode di manſuetudine o di
prudenza, laſciò 1 cor 189 correr le lettere d'Antonio, e l'orazioni di Bruto,
che molto lo diſonoravano; nel che forſe volle imitar Ceſare Dittatore che
tollerò i verſi di Bibaculo e di Catullo, ed al libro di Marco Cicerone nel
quale s' inalza Catone al Cielo, riſpoſe perorando come ſe foſse avanti i
Giudici. Con queſto paſſo di Tacito ſi può dar la ragione per la quale Virgilio
ed Ora zio non temerono, dedicando l'Opere loro ad Auguſto, di no. minar Giunio
Bruto, Marco Bruto, e Callio, Catone, e Pom peo. Maquale ſcaltrezza
cortigianeſca v'è in Virgilio nell' introdur Catone a dar legge agli ſpiriti?
Par, ch'egli accen ni, che Carone meritava ſolamente grado in quella Repubbli
ca ideale di Platone, la quale ſecondo Cicerone egli cercava nella feccia di
Romolo. Ed ecco ciò che dovea dirſi intorno alle lodi indirette ed allegoriche.
Le figure del quarto e del quinto ſpazio contengono lodi di rette, perchè cuite
ripiene delle coſe di cui si compiaceva Auguſto che i Romani continuamente
acclamaffero. Egli ſteſ ſo, come ſi diffe, avea nel Foro di Ceſare conſecrata
l'ima gine della battaglia, e del Trionfo, nè io dubito punto che Virgilio ne
aveſſe eſpreſli i tratti della pittura nello Scudo in quella guila, che nel
primo libro nel rappreſentar il Furore alliſo ſopra i trofei e con le mani
annodate al tergo imita la pittura ch'era nel Tempio di Giano. Tutto poi nella
deſcrizione e della battaglia, e del Trion fo, è diretto alla lode d'Auguſto.
Nella battaglia, Auguſto è coi Padri, col Popolo, coi Penati, e co'magni Dei,
ed ha in fronte la ſtella paterna; ciò ſignifica, che la guerra era in trapreſa
per la libertà del Popolo, del Senato e coll'alliſtenza di Giulio Ceſare già
Deificato. All'incontro Antonio non ha ſeco che de' Barbari, ed un'effeminata
Reina; Auguſto è di feſo da Venere genitrice, da Minerva, e da Apollo, Dei del
la prudenza e del conſiglio, e da Nettuno, che gli era ſtato favorevole nelle
guerre in Sicilia contro Seſto. All'incontro Antonio non ha ſeco che Dei
moſtruoſi ed odiati da' Romani. Quanto cgli deſcrive più feroce la pugna, tanto
maggior mente eſalta il valore d'Auguſto e d' Agrippa, ch'egli ſempre
accompagna per le ragioni di ſopra accennate. Le Furie e la Diſcordia con
Bellona liriferiſcono a Cleo patra; ma qual mai v'è ſagacità poetica
nell'accennare la fu ga e la morte di queſta Reina? Mentre ella ſuona il filtro
non vede i due ſerpi che la minacciano alle ſpalle; ella con fida iyo fida in
vano nelle forze dell'Egitto, e in vano tenta di rifu. giarſi nelle più occulte
ſpiagge delNilo. Tutto allude al.con higlio ed alle azioni di Cleopatra. Perchè
poi Virgilio non nc introducefle nel Trionfo l'effigie, e tra i prigioni non
poneſ ſe i figliuoli di lei, la cagione n'è forſe ſtata il timore d'ec citar
nell'animo altrui con queſte imagini qualche grado di ammirazione e di
compaffione, e perciò ſcemar in parte la lode d'Auguſto, e tra l'altre quella
della pietà. Ne'gran Poe. ti biſogna egualmente riflettere e a quel che dicono
e a quel che tacciono, onde molto male s'argomenta dalla Poeſia alla Storia, e
dalla Storia alla Poeſia, quando non s'attende al fi ne a cui tutto vuol
accomodare il Poeta. Il fine delle figure ſcolpite nei vari ſpazi dello Scudo
ha relazione al fine gene rale dell'Eneide. Le figuredel ſecondo ſpazio
riguardano il ſenno d'Auguſto, le figure del terzo il valore, le figure del
quarto riguardano la ſua pierà. Queſte ſono le tre virtù do. minanti
dell'Eneide. Dionigi d'Alicarnaſlo, che ſcriveva nel tempo d'Augufto, le
ſtabiliſce come neceſſarie ai fondatori d ' un Impero, e Virgilio vi fabbrica
ſovra l'Eneide. Molte altre coſe io potrei addurre intorno l'artifizio poeti.
€0, la chiarezza, e la brevità, colla quale Virgilio in sì po chi verſi eſprime
tante coſe, nè mai per oftentazione o d’in. gegno o di dottrina o d'erudizione,
maſempre relativamente al diſſegno del tutto e delle parti, ciò che deve
ſervire a' Poe. ti moderni di precetto e d'eſempio. atentat nesatentratata L A ſecca della
Filoſofia Italica fondata da Pitcagora ebbe nome e ſede nella Magna Grecia, tra
le cui Provincie fu per l'eccellenza de'Filoſofi, che vi fiorirono, celebre la
Lucania, ed in queſta la Città di Velia, o d'Elea così denomi nata dal fiume
che l'irrigava. Quivi Senofane di Colofone, Cit tà della Jonia nell'Alia minore,
ſtabilì e perfezionò la fecta, che dalla Città d'Elea fi diffe Eleacica, e
meritò d'avere tra gli al tri diſcepoli Parmenide nato di Pireto, e quel
Filoſofo grave e venerabile, che con Zenone paſsò in Atene, ove tenne la con
ferenza con Socrate eſpreſſa in queſto Dialogo. Ora avendomi propoſto io
d'illuſtrarlo nella ſua parte ſtori ca e Filoſofica, credo diſoddisfar quanto
baſta al mio impegno ſe prima tento d'accordar l'erà controverſa dei tre
Filoſofi nomi nati, indi ſe della dottrina Eleatica ſpiego l'origine e l'effetto,
o la Filoſofia Pittagorica, e la Platonica; finalmente ſe mi fer punto che
Platone in queſto Dialogo n'eſpoſe, e dichiaro l'artifizio filoſofico, e
poetico dello ſteſſo Dialogo. lo difli, che Senofane ftabili, e perfezionò la
ſecca Eleacica perchè Platone dice nel Sofiſta, la gente d ' Elea incomincia
appref ſo di noi da Senofane, anzi da più antichi, i quali non poteano eller
che Talete, o Pittagora, oi difcepoli loro; non regnando, allora alıra
Filoſofia nella Grecia, ſe non l'introdotta dai due fondatori, o profeſſata da
i loro allievi. Alcuni però fecero Se nofane poſteriore a Talete, ma più antico
di Pittagora, nè fo dove prendeſſero le loro congetture cronologiche, alle
quali oltre l'autorità di Platone, s'oppongono le ſcoperte dei due Fi loſofi, e
i viaggi loro. Taletecalcolo il primo l' eccliſli lunari, ma come poteva egli
calcolarle ſenza conoſcere la propolizione, che Euclide poi fe ce la 47 del
primo libro degli Elementi, e di cui s'aſcrive or dinariamente l'invenzione a
Pitcagora? I calcoli aſtronomici ſo mo ſul. no (4 ) no dedotti da
trigonometrici, principio de' quali è il triangolo rettangolo miſura diſe
ſteſſo, e de gli altri triangoli. Pittagora dunque, che l'invento, o fu
contemporaneo di Talete, o fiori prima di lui., Io credei, che queſta foſſe una
dimoſtrazione in cronologia, finchè in Plutarco (a ) ritrovai che gli Egizj
ſimboleggiavano co? tre lati del triangolo rettangolo miſurati da 3, 4, e s le
loro principali divinità Ilide, Oliride, ed Oro; aſſegnando ad Oſiri de la
perpendicolare, la baſe ad Ilide, e ad Oro l'ipotenuſa; L'antichità del ſimbolo
manifeſta quella della cognizione, tan to più che gli Egizi coltivarono l'
aſtronomia da poi che eb bero inventato la geometria per miſurare i terreni, e
non par veriſimile, che ſenza conoſcere il triangolo rettangolo, il pri mo e il
più facile ad immaginarſi de gli altri, poteſſero riu ſcire nella pratica di
queſte due ſcienze. V'aggiungo, che fe condo Platone (6.) noci erano, agli
Egizi gl' incomenlurabili, la prima idea de' quali naſce dall' impoſſibilità di
eſtrar la radice dal quadrato dell'ipotenuſa del triangolo; I lati del
retcangolo Pitta gorico ſono i numeri accennati, e queſta è la prova che dagli
E giz lo toglieſſe Pittagora, e nello ſteſſo tempo o poco prima l' aveſſe colto
Talete, benchè poi Talete ſi contentaffe di moſtrare all'Aſia minore l'ulo
aſtronomico della propoſizione, e Pictagora ne deſſe alla Magna Grecia la
dimoſtrazione Geometrica, ed è forſe quella regiſtrata da Euclide nel primo
libro diverſa dalla 8 del libro 6 dedotta dalle proporzioni delle linee, e che
nel progreſſo del tempo Eudoffo, che fiori nel tempo di Placone, portò dall'
Egitto col s elemento. Or fe i gradi delle cognizioni dello fpirito umano ſono
fema pre gli ftefli, dall'analogie dell' Epoche moderne ſi poſſono de durre le
antiche, e particolarmente quelle che hanno relazione agl'inventori de'
principjmatematici. Nel paſſato ſecolo ſi trova prima dal Toricelli la Cicloide,
e l' Ugenio l'applicò a regola re il moto dell'orologio a pendulo; il Newtono
fi limitò all'altrace ta Teoria della luna, e l' Hallejo l'applico a correggere
le Tavo le aſtronomiche. La ſeconda congettura della contemporaneità di
Pitragora, e di Talete, ſi prende da coſe più facili. Vuol Jamblico, che Ta
lete ſcriveſſe una lettera a Ferecide maeſtro di Pittagora, e gli legaſſe certi
fcritti morendo, e par che Plinio convenga che i due Filoſofi foſſero ſtati in
Egitto al tempo che regnava il Re Amaſi. La queſtione non cade più dunque ne ſu
tutto il ſecolo, ne (a) Trattato d'Ilide, ed Oſiride. Nella Rep. e nelle leggi.
1 4 ne ful mezzo ſecolo, ma su l'età dell'uno e dell'altro di pochi anni
diſtante; Talete par più vecchio ſe ſcriſſeuna lettera al maeſtro di Pittagora,
machi sa poi ſe Pitragora non era allora in Egitto? queſta lieve differenza non
toglie però, che ſe Talete' fu più d'un ſecoloprima di Senofane, non lo foſſe
ancora Pittagora: Io ritrovo bensì, che Senofane era contemporanco d'Epicar mo,
e diEmpedocle. Secondo Timeo lo Storico, Senofane paſsò in Sicilia al tempo di
Gerone, ſotto il cui Regno Epicarmo era illuſtre per le ſue commedie, e
Plutarco (a) ci conſervò la memo ' ia d'una riſpoſta, che diede Senofane ad
Empedocle. Non è facile il determinare, nè qui lo cerco, quanto Epicar mo, ed
Empedocle foſſero diſtanti da Pittagora, e quindidà Ar chita Tarentino il
vecchio, da Peritione, da Timeo di Locri, da Ocello Lucano, e da altri, che ſi
dimandavano Piccagorei (6 ) perchè udirono Pittagora, a differenza deglialtri,
che ſi chiamava no Pittagoriſti. Quando cominciò Senofane a ſtudiar la
Filoſofia, quella di Ta lete era già diffuſa nella Jonia, e quella di Pittagora
nella Magna Grecia,e nella Sicilia; su queſto fondamento altri fecero Seno fane
diſcepolo di Anaſimandro, ed altri di Archelao diſcepolo di Anafagora, il quale
avea il primo traſportata la Filoſofia dalla Jonia in Atene, ove paffato
Senofane ftudiò ſotto (c ) un certo Bottone Ateniere. Dalla povertà cacciato
Senofane dalla Grecia, paſsò nella Sici lia e quà s'abbandono alle doctrine
Pittagoriche, più delle Joniche conformi all'ingegno di lui acre, e profondo.
Dalla Filoſofia Jo nica, e dall' Italica traſſe un nuovo liftema, è meritò ď'
effer ca po della ſecta Eleatica primo fonte dell'Accademica, e della Pla
tonica, delle quali poi furono rami lo ſcetticismo, e lo ſtoicismo, Nulla
ancora s'è fatto, ſe non ſi dimoſtra accordarſi l'ecà di Senofane con quella di
Parmenide, e queſta con quella di Socra te. Tralaſciare dunque molte epoche inverifimili,
io m'arreſto a quella che aſſegna Timeo a Senofane, ed è che egli fiorille
nell'olimpiade 76. Parmenide, ſecondo Laerzio ſeguito dallo Stan lejo, e da
altri, fiorì nell' olimpiade 69 diſtante dalla 76 di 7 olimpiadi, che importano
28 anni, calcolando ogni olimpiade per 4 anni compiuti. La voce fiorire è molto
vaga o ſteľa nel la Cronologia, perchè non ſempre moſtra, che un Filoſofo fof
ſe nel punto più alto della ſua fama, ma che ſolo aveſſe un no
meilluſtreacquiſtato. Il Newtono, che cosi rapidamente ſi per fezionò nelle
matematiche, fioria del pari in Inghilterra quando ſcriſſe al Leibnizio la
lettera in cui gli dichiarava lo ſvi luppo, (a ) Plut. de vit.pud. (6) Patr.
diſcuſs. prop. 1. 6. (c) Laerzio vit.di Sen. (6 ) 3 8 luppo, e l'uſo del
Binomio eſaltato ad una potenza indetermi nata, e nell'anno 1716 in cui molte
coſe aggiunſe al ſuo libro de' colori, e n'illuſtrò molte altre nei principj
naturali della Fi loſofia matematica, Senofane, che lo Scaligero fa vivere 104
an ni, ed altri almeno fino a 100, potea fiorire in olimpiadi mol to diftanti,
perchè per la forza della ſua mente facilmente riu fcendo nelle fue
applicazioni, in breve acquiſtava fama di lomme Filoſofo, e la ſua fama tanto
più ſpargeali per le bocche degli Uomini, quanto egli abbelliva le ſue
meditazioni filoſofiche con la Poelia per farle ricercare, e leggere con più
d'avidità. Parmenide fece i ſuoi ftudi in Elea (a ) ſotto Amenia, e Dio cheta
Pictagorici, i quali lo riduſſero a laſciar le ricchezze, ecol tivar la vita
privata, e darſi tutto alla Filoſofia. Biſogna dun que che in eſſa molto
riuſciſſe, o la Filoſofia foſſe la paſſione, che più lo dominava, ſe nato de'
più ricchi, e de’più nobili di Elea ebbe tale coraggio; ma ciò molto applauſo
dovea avergli acquiſtato appreſſo de'ſuoi Cittadini, ſe fin d'allora
cominciarono a celebrarlo in guiſa, che al dir di Ermipo Empedocle l'emuld.
Nulla vieta il ſupporre, che Empedocle avelTe molto ſoggiornato in Elea, e poi
foſſe ritornato in Agrigento ſua Patria. In Elea era ſtato emulator di
Parmenide doctiſſimo nelPittagoriſmo, e lo fu in Sicilia di Senofane, che lo
profeſſava con qualche cangiamento', dopo gli anni 28 che è l'intervallo
frappoſto tra l'olimpiade 69 e 76. Paſso Senofane in Elea, ed ivi Parmenide
conſecrato agli ſtudi corſe ad udir Senofane, come i giovani nobili, e ben
educati ſo leano far nella Grecia, quando nelle loro Circà udiano entrar un
Filoſofo illuſtre, e che potea inſtruirli in qualche nuovo liſte ma, del che
chiari gli eſempi ne vediamo nel Protagora, nelGor gia, ed in altri Dialoghi di
Platone. Quando Parmenide udi Se nofane, queſti poteva eſfer molto vecchio; ma
qualunque età dia ſi a Senofane, mi baſta, che nel pricipio dell' olimpiade
76Parme nide imparaſſe da lui il fiſtema dell'uno immobile, e non aveſſe allora
che 36, e ancor 40 anni, la ſteſſa età che avea Zenone quando diſputò con
Socrate in Acene. Socrate nacque al fine dell'olimpiade 77, ed avea 4 anni com
piuti o 5 anni cominciati, quando nella noſtra ipoteſi Parmeni de ne avea 40.
Se zo anni dopo ſi fuppone, che Parmenide con Ze none paſlaffe da Elea in Atene,
come vuol Platone, non avea che 60 anni, e Socrate che 25, onde era egli molto
giovane relativa mente a Parmenide. Semplici, e al fommo veriſimili ſono queſte
ipoteſi degli ſtudi, 1 e dei (a ) Laerzio vita di Parmenide. 1 (7 ) e dei
viaggi dei due Filoſofi, e ſe s'accordano facilmente con le olimpiadi, perchè
oftinarſi a rigettarle, e rinunziare all'au corità di Platone, che potea molto
meglio al fuo tempo cono fcere l'epoche dell'era filoſofica, che non ſi
conobbero 6oo an ni dopo, e ben più? Le circoſtanze, con cui Platone accompagna
l'abboccamento di Socrate con Parmenide, accoppiano in guiſa alla verità del
fatto la veriſimiglianza ſtorica del Dialogo, che pare non do ver laſciarſi
alcun ſoſpetto. Io le eſtrarro dal Dialogo. Parmenide, e Zenone fuo diſcepolo
favorito o fuo figlio a dottivo abitavano fuor delle mura di Atene in caſa di
un cer to Pitidoro. Nelle ſolennità de grandi Panatenei, itofene So crate a
ritrovar Parmenide, ritrovò folo in caſa Zenone, e comia cid a diſputar feco fu
l'idee. Entrato poco dopo Parmenide in caſa con Pitidoro, ſi proſeguì la
diſputa incominciata alla pre fenza di molti, tra' quali Ariſtotele non lo
Stagirita, ma uno dei 30 Governatori, o Tiranni di Atene. Tali ſono le circo
ftanze del luogo, del tempo, e dei teſtimoni della diſputa. Socrate non avea
allora che 25 anni; or eſſendo egli mor to nell'età di 72 anni,
dall'abboccamento alla morte non vi fo no che 47 anni di diſtanza, e tanti
appunto o pochi più dall' abboccamento al Dialogo, ſe Platone lo ſcriffe dopo
la morte di Socrate: ma poniamo che l' aveſſe compoſto anche 20 anni dopo; la
memoria di un Uomo così illuſtre qual era Parmeni de non potea più ignorarli in
Atene, di quel s'ignori ora a Parigi la dimora che vi fece il Leibnizio, e
l'Ugenio, e le di fpute che ebbero nell' Accademia reale. Alle verilimiglianze
ſtoriche s'aggiungono le poetiche necef ſarie all' ornamento del Dialogo, che è
una ſpecie di Poeſia Dramatica: così lo teſse Platone.: Cefalo per bocca di
Antifone ſuo fratello uterino, e figliuo lo di Pirilampo, racconta ad A dimanto,
e Glaucone, tutto ciò che avea udito da Pitidoro fu la diſputa che ebbero
Zenone pri ma, e poi Parmenide con Socrate. ' Antifone avea converſaco
familiarmente con Pitidoro compagno di Zenone, ma poi laſcia ta la Filoſofia
coltivava l'arte equeſtre, e quando Cefalo ad in ſtigazione de' compagni andd a
ritrovarlo, egli dava certo fre no ad accomodare ad un fabro; circoſtanza che
io credo finta per dar rilievo al racconto, é fiffar la fantaſia del lettore
con qualche coſa di ſtrano. Par toſto che Antifone occupato in un volgare
eſercizio, non debba favellare ſe non di coſe volgari, nè mai s' aſpetta, che
egli ſia per ſalire nell' ultime aſtrazio ni della metafiſica; quindi il
lettore reſta ſorpreſo dalla mera viglia (8 ) 1 > e di viglia, allora che
egli racconta il principio della diſputa tra So crate e Zenone, e che poi
s'interrompe alla venuta di Parme nide, che fattoſi pregar un poco la continua
fino al fine. Quan te menzogne, ſe Socrate non parld mai con Parmenide ! All
incontro qual arte fina di veriſimiglianza poetica, per dar or namento alla
verità del fatto di cuiCefalo, Adimanto, e Glau cone vivendo poteano renderne
teſtimonianza? Come immagi narſi, che un Filoſofo il qual volea render accetta
la lettura de ſuoi Dialoghi, cominciaſſe a diſguſtar il lettore con bugie le
più sfacciate? Ariſtotele, che calunnia il ſuo Maeſtro in tante parti
dell'opere ſue fue, e che parld ſovente di Parmenide Socrate non attaccò mai
Platone ſul loro abboccamento, e pur ne poteva trar degli argomenti, per
renderne la dottrina ſoſpetta. Non ne parlano altri autori Greci più vicini a
Platone, non gli autori Latini, che più ſtudiarono i Greci, e tra gli altri
Cicerone e Plinio, che tante coſe ci conſervarono fu l' iſtoria ed Era
Filoſofica. Non v'è che il ſolo Ateneo il qual viſſe a' tempi di Marco Aurelio,
che vuol dir quaſi più di 600 anni dopo Platone. (a ) Egli dice: Appena
permette l' età che Socrate aveſe veduto, ed udito Parmenide, non dover però
noi meravigliar ſene, perchè Platone ſuppoſe che Fedro vivere al tempo di
Socrate; che Paralo, e Zantippo figliuoli di Pericle, e morti nella peſtilenza,
ragionaſſero nel Protagora, e che Gorgia diceſſe nel Dialogo del ſuo nome quel
che mai s'era fognato di dire. Molte altre accuſe contro Platone vibra Ateneo,
e s'affatica a dipingerlo tanto mordace, e maledico quanto bugiardo. Non so
perchè i Cronologi attenti a peſare ogni minuzia de'te fti non oſfervino, che
Ateneo nel dire vix ætas permittit dichiara, che poco intervallo di tempo v'era
ſtato tra la morte di Parme nide, e l'età di Socrate, maqueſto vix qual ha poi
forza cronologica poſto in bocca di Guriſconſulti, di Oratori, diPoeti, di
Filologi, non di Cronologi, che avrebbono diminuito l'allegrezza del convito
coi loro calcoli, e colle lor aſciutte illazioni? Il Calaubono il qual nel ſuo
comentario d'Ateneo in un'altro libro in foglio sfoga tanta eru dizione ſu
l’erbe, ſu ipeſci, ſui coſtumidel convito, elu mille altre coſe inutiliffime a
ſaperli nulla degna di dire ſu le accuſe colle qua li uno dei Dinnoſofiſti
morde Platone. Io per me credo, che A teneo vedendoſi incapace d' emulare
l'immenſità della dottrina Platonica, e l'arrificioſa maniera con cui l'eſpone
Platone ne'ſuoi Dialoghi, teſſe lunga ſerie d'accuſe, e lo condanna di menzogne
ro, e maledico per accreditar ſe non altro la veracità, e la mo deſtia colla
quale caratterizza i ſuoi Dinnoſofiſti. Il buon Grama cico (a ) Ateneo lib. 14.
Sympt, 9 ) tico ne goda egli pure, e ſen ' applauda; non per queſto io crede rò,
che Parmenide non poteſſe ragionare con Socrate, e ſtard immobile nelle mie
ipoteſi cronologiche, che a ben peſarle non vagliono meno di tante altre, che
in queſto ſecolo fi ſpacciano, e fi difendono come i Teoremi diGeometria:
Candidamente perd confeſſo, che io farò per ſacrificarle a colui, che
all'autorità di Ateneo ne aggiungere qualchealtra più dimoſtrativa, e meno ſo
fpecta; finalmente malgrado le congetture eſpoſte io ſon perſua ſo, che ſe
Platone tutto finſe, il Dialogo è più ammirabile per la menzogna poetica tutta
opera della ſua fantaſia, che non è per la verità del fatto, di cui poteano
farſi onore i men dotti. Platone fcriffe in Filoſofia più ditutti gli antichi
che lo precede rono, e come da Eraclito le coſe fiſiche, da Socrate le morali,
così tolle da' Pittagorici lemetafiſiche, le quali non ſi correffero che nel
fecondo ſecolo della Religione, per le varie diſpuce che, nacquero tra
iPlatonici, e tra i Criſtiani. Eſaminerò dunque prima d'ogni altra coſa la
natura della difpu ta, dopo di cui proporrò generalmente l'antica Filoſofia, ed
in di la particolareggierò in Pittagora, e ne'Pittagorici, tra'quali Se nofane
e Parmenide, e la terminerò con Platone. A queſte due coſe io riduco l'origine,
e l'effetto dell'Eleatiça Filoſofia.. Gli antichi Filoſofi, ſenza eccettuarne
nè pur uno, convennero nel principio, che di nulla fi fa nulla, e ciò gl'
impedì di poter conoſcere che Dio era un ente ſingolariſlimo, uno, onnipoten re,
buono, e libero; in ſomma di tutte quelle perfezioni dotato le quali o per
negazione, o per caſualità, o per eminenza gli at tribuirono i SS. Padri, e
cuti'i Teologi. Era Dio ſtato ſempre con la materia? Dunque altro non gli competea,
che eſſer un modo di efla od un ente, che ſolo per preciſion di ragione dalla
materia ſi diſtingueva; era egli per metà uno, per metà onnipotente, fe
dipendea da un principio, ſenza il quale operar non potea, non più che il
Pitcore dalla tela e dai colori, e lo Scultore dal marmo. La diminuzione della
potenza toglieva a Dio la bontà, perchè non poteva egli vincer in guiſa la
contumacia della materia, che non regnaſſe a ſuo malgrado il male miſto col
bene. Come dunque Mosè per opporſi al politeiſmo del ſuo tempo dalla creazione
cominciò la ſtoria del mondo; così per opporſi a tutti gli errori che
derivarono dall'eternità della mate ria fi cominciò nel ſimbolo Apoftolico da
Dio creatore, inſiſten do al dogma di S. Paolo, il quale nella Epiſtola agli
Ebrei: In tendiamo; (a ) dice egli, per la fede eſſere ſtati connelli i ſecoli
Tom. II. b dalla (a ) Epiſt. agli Ebrei cap. 11. Fide intelligimus aptata eſſe
ſecula ver bo Dei. (10 ) dalla parola di Dio. I Padri nelle loro diſpute
co'Gentili lo dichia rarono. Noi, dice Atenagora,Jepariam Diodalla materia,
lamateria crediamo un ente diverſo ---- (m ) Dio è uno, ed ingenito, ed eterno;
la materia è corruttibile; e poi celebriamo tutti un Dio ſolo crea tore di
tutte le coſe. - -.- la fua forza immenſa non poterono abbrac ciar coloro con
l'animo, che la notizia di Dio non cercarono nello ſtef fo Dio, ma dentro fe
fteſi. Taciano (6 ) pur dice: Dio non s'inſi nua nella materia e negli spiriti
materiali e nelle forme, ma egli è artefice inviſibile ed intangibile di tutte
le coſe. Teofilo d'Antiochia (c) parlando ad Autolico, dice, ſe Dio è ingenito
e la materia è pur tale, non è più Dio fabricatore e creatore di tutte le coſe.
Queſti Pa dri viſfero tutti e tre nel ſecondo ſecolo non molto diftanti l' uno
dall'altro. Gli errori de' Marcioniti, de' Valentiniani, de' Baſiliani,
chefuronopur cutti e tre che in queſto ſecolo diedero occa fione a' Padri
d'illuſtrare il lor zelo, dichiarando con la crea zione della materia il
principio fondamentale della Religione Criſtiana. Anzi Taciano dimoſtro, che i
Greci ne avevano ri cevute l'idee da'Barbari, ed i Barbari dagli Ebrei, benchè
poi le aveſſero oſcurate e corrotse. Affaccendati gli altri Padri a purgarle,
oſſervarono che Dio, autore del pari della Fede, che della ragione, non le avea
ſeparate in un modo caliginoſo ed impenetrabile, ma le avea in maniera
accordate, che dall'aurora dell'una fi potea paſſare al pieno giorno dell'altra,
cogliendo però dalla ragione quanto e Platonici e Pittagorici e Stoici, ed
Epicurei v aveano im preſſo col lor proprio carattere. Si compiacquero dunque
della ſetta Eclerica, ed il primo che l'abbracciale fu Atenagora il primo de'
Catechiſti d'Aleſſandria, poi S. Clemente ed Origene dal Veſcovo Uezio chiamato
Pocamonico (d ) anzichè Platoni ço, San Clemente ſpinſe tant'oltre la
condiſcendenza, che pro poſe come poflibile un ſiſtema filoſofico, il quale
raccoglieſſe tut te le verità ſcoperte dalla ragione umana fin dal principio
del mondo, ed agevolaſſe il metodo di far ricever i dogmi della fede, e quello
della creazione. Amonio Sacca conciliator di Ariſtotele e di Platone,
ritrovando che in Ariſtotele l' eternità del mondo ſi conciliava con l'eter
nità di Dio, ſe ben egli nulla ſcriveſſe, laſcid tuttavia a' ſuoi diſcepoli,
onde ſtabilire tal dogma. Diſtinſe egli l' eternica in due gradi o in due ſegni,
nell' uno dei quali poneva Dio, nell'altro le coſe bensì create, ma da lui
dipendenti, come il raggio dalSole, o l'ombra dal corpo. S'accorſero i Padri,
che iFi (a ) Apologia pro Chriftianis. (6) Tat. allir, cont. Græc. (c ) Teof.
Aut, lib. 2. (d ) Iftor. del Moeffenio nel finedelCuduortio. (11 ) e tras i
Filoſofi mettendo con la creazione eterna una dipendenza tra la materia é tra
Dio, coglievano a Dio la libertà, perché cacitamente fupponevano, che da Dio
neceffariamente foſſe emanato il mondo come il raggio dal Sole e l'ombra dal
corpo. Far di Dio un Agente neceſſario, è lo ſteſſo che farlo per metà Signore,
per che ſe fi confeſſa da una parte, che da Dio dipenda la coſa che egli fa, fi
nega dall' altra che da lui dipende il farla ed il non farla. La libertà è la
maggiore delle perfezioni. Perchè dun que corla a un ente infinitamenteperfetto?
Lafcio S. Ireneo, S.Cirillo, ed altri, cheſoddisfarono ampia mente a tutte l'
obbiezioni; ma quello, che più degli altri le ſcDIonvolſe ed atterrò, è ſtato
Lattanzio Firmiano, che con au reo ftile nel quarto ſecolo ſcriſe. In queſto
ſecolo ancora ſcriffe ro Eufebio nella Preparazione evangelica, e poi S.
Agoſtino nel la Città di Dio, l'uno ſegut l' ormeaccennace da Taziano, 1 alţro
con erudizione più vigorofa, e più filoſofica ſcriffe contro l'eternità,
l'animazione, la divinica del mondo, e l'immutabi lità del Fato. Apparve Proclo
(as nel príncípio del V1. fecolo fondendo nella ſua Teologia molto di quella
de' nomiDivini at tribuita a S. Dionigi Areopagita, rinovd il fiſtema di Amonio
Sacca riſtoro il Platoniſmo caduto. Nel fecolo dopo, Zac caria di Mitilene, ed
Enea di Gaza, ſcriſſero' pure contro l'eter nità del Mondo. E da' loro fcritii
ſi raccoglie, che l'idea di Dio, combinata col policeiſmo era un'idea nugatoria,
non men di quel la del bilineo rettilineo, che rappreſenta alla mente una
figura, é non è che una contraddizione. Il P. Balto, nel ſuo dotuiffimo libro
contro il Platoniſmo ſvelato, lo dimoftra; e dopo il Balto fe de fece dal
Moeſfenio quella circoſtanziata iſtoria ſul Platonis la quale è nel fine dell'
opere del Cuduortio, da lui tradotre dall' Ingleſe in Latino. lo nell’eſpor la
doctrina de Filoſofi antichi non mi feryi rò dell'autorita de' Platonici
recenti, non più, che fe non aveſ ſero mai ſcritto, ſalvo allora, che
s'accordano cogli antichi, e ci confervano qualche circoſtanza ſtorica
indifferente. Cercherò prima ne' teſti de' Filoſofi ftefli il ſenſo, che
naturalmente preſen iano, e dove ſia queſto oſcuro, ed equivoco, ricorrerà
all'in terpretazione o di Cicerone, o di Plutarco, o di Sefto Empirico, o di
Laerzio Viſle Cicerone molti anni prima del Crifianeſimo, e Plutar co viffe a
Roma ſotto Adriano, o Trajano, dopo d'aver ſtudiato in Egitto forro Amonio,
diſcepolo di Potamone, e del quale egli b 2 par (a ) Pachimero in Suida, Vedi
Fabrizio Bibliot. art, Proclo. e mo,. (12 ) parla nella vita di Temiſtocle ed
altrove. Laerzio e Seſto Empi rico, fiorirono in circa ſotto Severo, che vuol
dire molto prima di Amonio Sacca, di Plotino, di Porfirio, e di molti alori
nimici del nomeCriſtiano; non rifiuterd dall'altro lato i ſoccorſi, che i Padri
m'offrono allora particolarmente, che non hanno certa indulgenza alle opinioni
filoſofiche, ſcrivendo agl’Imperatori, o non argomentano ad hominem contro
coloro, che gl'inſultava no. La mecafiſica di Platone non è diverſa da quella
de' Pittago rici, e ſe una volta io dimoſtro, che queſti e particolarmente
Pitta gora, Senofane, e Parmenide conobbero bensì un principio intel ligente,
ma non ſeparato dalla materia, anzi con effa non facen do che un tutto, avrò
dimoſtrato, io mi perſuado, che queſto pur era il ſiſtema Platonico. Cominciero
da Cicerone che in poche ma ſoſtanzioſe parole compendio tutto il ſiſtema de'
primi Accademici o di Platone, e lo craſſe da' Pittagorici, come da Placone
purtraſsero il loro gli Stoici, e i ſecondi e verzi Acca demici, poichè quanto
a' Peripatetici (a ) eli convenendo nelle cafe non differivano, che ne' nomi.
Gl’antichi, dice egli, divideano (b )lanatura in due coſe, l'una delle quali
era efficiente, e l'altraad eſsa quafi preſtandoſi quella di cui ſi fa ceano le
coſe.. Incid che facea riponevano la forza, in ciò di cui ſi fa cea, una certa
materia, ma l'una e l'altra era nell' una e nell' altra perchè nè la materia
può aver coerenza, ſe non ſia da qualche forza ritenuta, ne v'è la forza ſenza
qualche materia, poichè nullo v'è che non fic in qualche luogo.. Se la forza e
la materia erano indiviſibilmente unite, la fola mente le ſeparava, e perciò
conſiderar l'una ſenza l'altra era un?: aſtrazione, una preciſion della menee.
Cid che riſulta (c ) dall'uno e dall'altro, o ſia dall'accoppiamento, lo
chiamavano corpo, e quafi certa qualità...--. Di queſte qualità al tre fono
principali, ed altre derivate da queſte. Delle principali ſono ognuna [CICERONE,
QUÆST. ACAD. -- Peripateticos', et Academicos nominibus differentes, et re
congruentes lib. 2. (b ) De natura autem ita dicebant, ut eam dividerent in res
duas, ut altera eſſet efficiens, altera autem quaſi huic fe præbens ea qua effi
ceretur aliquid: in eo, quod efficeret vim eff: cenſebant; in eo au tem quod
efficeretur materiam quamdam: in utroque tamen utrum, que: neque enim materiam
ipfam cohærere potuiſſe, ſi nulla vi contineretur; neque vim line aliqua
materia: nihil eft enim quod non alicubi eſſe cogatur. (c ) Sed quod ex utroque
id jam corpus, et quaſi q uandam qualitatem nominabanc Earum igitur qualitatum
ſunt aliæ Principes, aliæ ex his ortæ. Principes ſunt uniuſmodi, et ſimplices, ex iis au
tem ortæ variæ funt, et quafi multiformes: itaque aer quoque (uti niur ognuna della ſteſſa ſpecie, e ſemplici. Da queſte qualità, altre ne for no nate, e
quaſi moltiformi. L'aere, il fuoco, l'acqua, ela terra for no primi, e da
queſti nacquero le forme degli animali, e le altre coſe, che ſi generano dalla
terra. Dunque que' principi, per tradurlo dal Greco, ſi dicono elementi, de'
quali l' aria, il fuoco, banno la for za di muovere, e di fare, le altre parti
di ricevere, e quaſi di pati re, l'acqua, dico, e la terra. La parola ſemplice
quì non ſignifica indiviſibile, e Seſto (a ) Em pirico pur la prende in queſto
ſenſo. Vè un quinto genere, b )di cui ſono gli aſtri, e le menti ſingolari, ed
Ariftotele lo pone diſimile dagli altri quattro. Se le menti ſono tratte dallo
ſteſſo elemento, che gli altri, non ſon eſſe ſemplici nel ſenſo d'indiviſibile,
ciò che CICERONE dice altrove. Teniamo noi che l'animo abbia tre parti, come
piacque a Platone, o ſia ſemplice ed uno; ſe ſemplice ſia egli come il foco, il
fangue, l'anima, cioè il ſoffio. Queſte coſe conſtando di parti non ſono
ſemplici. Continua CICERONE. (c ) Ma penſano, che di tutte ſia ſoggetto una
certa materia priva di ogni specie, e d ogni qualità, e da eui Butte le coſe
ſono eſpreſſe e fatte, e che può ricever in sè tutte le coſe. Se la materia era
prima d'ogni fpecie, d'ogni qualità, non cra corpo, e perciò conſiderata dalla
mente, indipendentemen te dalla forza, ella era incorporea; Selto Empirico
chiama per. incorporei i punti, le linee, e le ſuperficie... Platone nel Timeo,
la chiama difficile ed oſcura fpecie, e il recercacolo d'ogni generazione, e
quali nutrice; aggiunge, che ella non fi diparte mai dalla propria potenza,
perciocchè tut te le coſe riceve, nè prende maiper alcun modo, alcuna forma a
queſte fimile, e prova eller convenevole, che di tutte le ſpecie ſia privo
quel. che ha in sè da ricever tisti'i generi, comequelli che hanno da fa re
unguenti odorofi, l'umida materia, che vogliono di certo odore, cori dire di
tal guiſa preparano ', che ella non abbia alcun proprio odore e colore eziandio,
vogliono in materie molli imprimere alcune pgure, los niuna mur' n. pro latino
) ignis, et aqua, et terra prima ſunt. Ex iis au tem' orræ animantium formæ
earumque rerum quæ gignantur è ter ras, ergo illa initia, ut è Greco vertam,
elementa dicuntur; è qui bus aer, et ignis movendi vim habent et efficiendi;
reliquæ par tes accipiendi et quafi patiendi, aquam dico et terram. a ) Contra
Mathematicos. (b ) Quintuin genus e quo eſſent aſtra mentesque ſingulares earum
quatuor quæ ſupra dixi diſſimiles, Ariſtoteles quoddameſſe rebatur. (6 ) Sed
Salicetam putant oinnibus fine ulla fpecie, atque carentem omni illa qualitate
o... materiam quandam ex qua omnia eſptela, atque effecta lipt qux'- tota omnia
accipere pofito (14 ) 1 njuna figura affatto laſciano primieramente apparire in
quelle, ma cer cano pria di renderle quantopoſſibil fra polite. Molte altre
coſe aggiunge Placone, che Ariſtotele in una de finizione riduce, dicendo che
la materia non è alcuna di quelle co fe, di cui l'ente fi determina, e tra
l'altre coſe annovera la qua lica, e la quantità, che par Cicerone ridurre alla
ſola qualità; ma che l'idea del corpo, e della materia foffero diverſe ſecon do
gli antichi, lo dimoſtrano le diverſe parole, con cui l'eſpri mevano, chiamando
la materia ùns, ed il corpo owllde. Chi po ne un nome, dice Platone nel Sofiſta,
dalla cofa diverſo, introdu ce veramente due coſe. La materia dunque, non
eſſendo il corpo, ella era incorporea, ed incorporea la chiama in molti luoghi
Sesto Empirico, e Plotino, la cui autorità qui è tanto più for te, quanto che
egli ſteſo col nome d'incorporeo, non ſignifi cava la ſteſſa coſa che noi
chiamšamo fpirituale. Stobeo (a ) lo conferma col dire: Si nega effer corpo
lamateria non tanto, perchè manchi degl'intervalli del corpo, o delle tre
dimenſioni, quanto perchè ſia priva d'altre coſe appartenenti al corpo, figura,
co lore, gravità, leggerezza, ed ogni altra qualità, e quantità. La materia pud
(b ) in tutti i modi mutarfi, ed in ogni parte non mai ridurſi al niente, ma
ſolo in parti che poſsono all' infinito partir li, e dividerſi, nulla eſſendo
di minimo in natura, che divider non fi pola. Le coſe poi che ſi movono tutte',
moverſi con intervalli, che all'infinito ſi poſſono dividere, e cosi' movendoſi
quella forza, cheab bian detta qualità (cioè il corpo ) e di qud, e di là
verſando per fano, che tutta affatto la materia fi muti, efi faccian le coſe,
che chix miam quali, dalle cui nature coerenti, e continue in tutte le ſue
parti è fatto il mondo, fuori di cui non v'è alcuna parte di materia, nè abas
cun corpo. Quante coſe raduna CICERONE in poche parole ! Con la divi fibilità
all'infinito della materia, eſclude gli atomi forſe ammeſ da Empedocle ne'
minutiſſimi corpicelli, che componevano gli elementi, e da Eraclito nelle
mondature piccioliflime, ed indivi fibi (a ) Stobeo. I. 1. Egl. fil. cap. 14.
16 ) Omnibusque modismutare atque ex omni parte eoque etiam interi se non in
nihilum ', ſed in ſuas partes quæ infinite lecari, atque di vidi pollint, cum
ſit nihil omnino in rerum naturam minimum quod dividi nequeat: quæ autem
moveantur omnia intervallis moveri; quzintervalla item infinite dividi poſfint,
et cum ita moveatur il la vis, quam qualitatem effe diximus, et cum fic ultro
citroque verfetur: et materiam ipfam totam penitus commutari putant, et ita
effici quæ appellant qualia, e quibus in omninatura cohærente, et confirmata
cum omnibus fuis partibus effectum elle mundunt, extra quem nulla pars materiæ
fit nullumque corpus. (15 ) Ibili. Con la coerenza delle parti della materia, CICERONE
eſclu de il vuoto negato da tutti, da Talece fino a Platone, onde dif ſe
Empedocle: Nulla di vuoto vė, nulla che abbondi. Accenna pur CICERONE le leggi
coſtanti che conſervano icore pi movendoſi, e nel dir che fi movono con certi
intervalli, i quali all' infinito ſi poffon dividere, non applica egli le leggi
del moto a' corpi minimi come a'fenfibili? Le parti (a) del mondo effer tutte
le coſe che fono in eso, e tutte occupate da una natura che ſente, e nella
quale v'è una ragione per fetta, e la ſteſsa fempiterna, nulla effendovi di più
forteche poſsa diſtruggerla, e la steſſadirfi mente, ſapienza perfetta, e
chiamarfi Dio, ed eſer.quafi certaprudenza di tutte le coſe, cheprovede alle
coſe celefti, ed a quelle che in terra appartengono agli uomini. Se queſto Dio
degli antichi Filoſofi rifultava dalle nature coerenti e continue di tutte le
parti del mondo, ſe egli era il ſenſo, la ragione perfetta, la ſapienza, la
providenza che reg gea queſte parti, era egli altro che una modificazione della
forza e della materia, giacchè non v'era forza ſenza materia, nè materia fenza
forza, e non era egli ſeparatamente dalle co ſe conſiderato che un ente di
ragione? Qual relazione ha que fto Dio al noſtro, che è un ente ſingolariſtimo
in sè, e fepa rato non per preciſion di ragione, ma realmente dalla forza e
dalla materia, della quale egli è il Creatore? Alle volte lochiamiamo (b )
neceſſità, perchè null' altro pud farſi, ſe non ciò che da lei è coſtituito
nella quafi fatale, e immutabile con tinuazione d'un ordine fempiterno; alle
volte poi lo chiamiamo fortu na, la qual fa molte coſe improvvife, nè da noi
penſate per l'oſcuri. tà, ed ignoranza delle cagioni; ed ecco Dio rappreſentato
come agente neceſſario, o ſenza libertà; ecco diſegnato l' ordine fa tale e
ſempiterno delle coſe; ecco come per la noſtra igno ranza non poſſiamo
conoſcere la conneſſione, e le conſeguenze delle (a ) Partes autem mundi effe
omnia quæ infint in eo quæ natura ſentiente teneantur, in qua ratio perfecta
inſit quæ fit eadem ſem piterna: nihil enim valentius eſſe a quo intereat, quam
vim ani mam effe dicunt mundi eandemque effe mentem fapientiamque per fectam
quem Deum appellant, omniumque rerum quæ ſunt ei fub jedtæ quafi prudentiam
quandam procurantem cæleftia maxime dein de in terris, eaque pertinent ad
homines. 16 ) Quam interdum neceſitatem appellant quia nihil aliter poſfit, at
que ab ea conftitutum fit inter qual fatalem, &immutabilem conti nuationem
ordinis fempiterni; nonnunquam quidem eandem fortu nam, quod efficiat multa
improviſa hæc nec optata nobis propter obſcuritatem ignorationemque cauſarum, (16
) delle cagioni, e degli effetti loro. In ſomma l'antica Filoſofia aveva
adotata l' eternità, l' animazione, la divinità del mondo, e l'immutabilità del
Fato, le quattro coſe che Santo Agoſtino ha egregiamente combattute nella Città
di Dio. Comparando il trattato d' Ilide, e d' Ogride di Plutarco col paſſo di CICERONE,
non è difficile di raccogliere, che la Filoſo fia Egizia ne' principi
eſſenziali non era diverſa dalla Greca, ſe non nella maniera di ſpiegarſi o ne'
ſimboli. La materia, di cui parla CICERONE, era Ilide, la quale in ogni coſa
potea tramu. tarſi, e di tutte le coſe eſer capace, della luce, delle tenebre,
del giorno, della notte, della vita, della morte, del principio, e del fi ne.
La forza è Oſiride, la cui veſte ſi facea ſenza ombra, e ſenza varietà, d'un
color ſemplice, e rilucente; perchè ella è il principio dalla noſtramente ſolo,
intefo, puro, e ſincero, tutt' iſimbolicontrarj a quelli delle proprietà
dipendenti dalle qualità de' corpi diſegnati per Oro. Riſultava queſti
dall'accoppiamento d'Ilde, e d'Oſiride, e chiamavaſi parto o creatura,
rappreſentandoſi per l'ipotenuſa del triangolo miſurata dal 5; per cui ſi
chiamava con la voce Pente, da cui deriva Panta, o l'Univerſo, che gli Egizi
penſavano eſſer la ſteſſa coſa con Dio, nel che, come egli dice, s'accordava Ma
netone Sebenita con Ecateo Abderita. Diodoro di Sicilia nel principio della ſua
Storia, ſcrive coſa pen {aſſero gli Egizj su la generazione del mondo, ſul
principio del le coſe, ſul naſcimento dell'Uomo. Par che Euſebio afcriva a Tot,
che è il Mercurio degli Egizj, quanto ſcriſſe Sanconiatone ſul caos, e ſulla
formazione della Luna, delle Stelle, degli Elementi. La Teologia miſtica dei
Fenici, che dagli Ebrei, ſecondo Euſebio ed altri Padri, ſi preſe, reftd in
guila alterata e confuſa, che nel caos poſero prima i principj delle coſe, ed
introduſſero poi l'arte fice o l'amore, per opra del quale ordinarono il caos,
é fabbrica rono il mondo. Orfeo il primo la portò nella Grecia e L'Inno criſto
canto del caos vetufto, E come agli elementi, e come al Cielo Origin deffe, ed
alla vaſta terra, E alla profondità del mar Amore Antichiſſimo, e ſaggio. Il
caos era la materia, l'amore, o la forma, ed i prodotti, i compoſti, ed i
corpi, ed in queſte tre coſe conſiſtea la fiſica generale degli antichi. La
ſcienza che n'eftraſſero o la metafi fica rappreſentandola in una maniera molto
indeterminata, la ſciava infeparata la materia da Dio, e dai compoſti, ed era
molto perciò differente dalla noſtra metafiſica, la quale nell' en te include
eſſenzialmente le creature, nè s'eſtende che per un ' 9 1 5 analogia molto
lontana al Creatore. Io lo dimoſtrerò partita mente ne' liſtemi di Pittagora,
di Senofane, e di Parmenide, e ſarà facile ad applicarne l'uſo a Platone.
Pittagora e Platone (a ) giudicano, che il mondo ſia ſtato fatto da Dio: dunque
le Platone fece da Dio generar il mon do ordinando la materia fluctuante, egli
imparò ciò da Pitta gora, che l'avea imparato dagli Egizi, da Orfeo, anzi dal
pro prio maeſtro (6 ) Ferecide Sciro. Avea egli ſoſtenuto, che in tut ta
l'eternità Giove, il tempo, e la terra erano ſtati. Facciali pur di Giove, la
cagione di tutte le coſe, e gli ſi dia ſomma pruden za, e fomma ſapienza, egli
non ſarà mai che la forza, e l'amore che eguaglieraffi al tempo, e alla terra;
vi ſi aggiunga, che poi chè Giove diede il premio alla terra ſi chiamò queſta
Tellure, (c ) non altro mai ſi concluderà, ſe non che prima la forza, e l'amo
re temperaffe, digeriſſe, ed ornaſſe quella mole indigeſta, che chiamavali
terra. Pittagora generò il mondo dal foco, e a guiſa di foco ſotti liſſimo (d )
Iparſo, e rinchiuſo nel mondo, volea Placone, che foffe Dio. L'ornamento, (e )
l'unione, l'ordine di tutte le coſe furono chiamate da Pittagora Coſmos, o il
mondo, e diffe egli, che il mondo viſibile era Dio. Stimò il primo, dice
Cicerone (f) l'animo per tutta la natura delle coſe eſer diffuſo, e per la
mente da cui gli animi noftri ſono tratti, ne vide per la detrazione di que fti
diſtaccarſi, e ſquarciarſi Dio, e farſi miſera una parte di lui, mentre queſti
ſoffrivano. Dio dunque era il mondo, e l'anime era no parti di Dio, effetto
della Metempficoſi, ſe pur non era queſta una coſa affatto poetica, come Timeo
di Locri lo dice. VIRGILIO espresse il sentimento di CICERONE nelle Georgiche.
Della mente di Dio parci efſer l' api, E forfi eterei differo, che Dio Va per
tutte le terre, e tutti i mari, E pel profondo Ciel; quindi gli armenti, E le
pecore, e gli Uomini, e ogni ftirpe Di fere, e ogni altra, che da se rimove La
tenue vita allorchè naſce. Tomo II. E nell (a ) Plut. de Ifid.& Ofir.car. 374.
Franc. Edit. Vechel. (6 ) Laert.
S. Clem. Aleſs. San Giuſtino apolog. Ermia nel fine dell'opere di S. Giuſtino. (e) Plut,plac.lib.2. (1)
De Natura Deor. I. 1. Elle apibus partem divinæ mentis, et hauſtus Æthereos
dixere: Deum namque iré per omnes Terrasque tractusque maris Columque profundum.
Hinc pecudes, armenta, viros,
genus omne ferarum Quemque fibi tenues naſcentem arceſſere vitas. 1.4. Georg..
C (18 ) E nell' Eneide, Nel principio le terre, il Cielo, e i campi Liquidi, e
della Luna lo fplendente Globo, e gli aſtri Titanj, interno fpirco Alimenta, ed
infuſa in ogni membro Tutta la mole n'agica la mente E fi framiſchia nel gran
corpo; quindi E di pecore, e d'Uomini la ftirpe, De volanti la vita, e'l mar
che i moftri Sorco la liſcia ſuperficie porta. no, Pittagora fu l'autor
dell'idee; (a ) oſervd il primo tra'Greci che la mente non potendo
rappreſentarſi ſingolari, perchè ſono in numerabili nel compararli, ne traſfe
igeneri, e le ſpecie, ne'qua li ſi ravviſano le coſe ſparſe. Così ravviſava
tutti gli individui umani nell'animal ragionevole. Nel far queſti aſtratti
conſide rò, che la materia era mutabile, alterabile, Auflibile in ogni gui fa,
ma che non vi ſono ſpecie, che s'accreſcano, o che perifca e perciò gli Uomini
oſſervandole coſtantemente in tutti i tempi, e in tutti i Paeſi le credono
eterne ed immutabili. La que ſtione era di rappreſentar queſt'idee. I numeri
convengono all'Uomo, al cavallo, alla giuſtizia, al la caſa, e a che so io;
dunque i numeri ſono univerſali, perchè atti alla rappreſentazione de' molti.
L'oſſervazione è d'Ariſtotele, (c ) e molto più la ſtende Poſſidonio, riferito
da Seſto Empirico, (d ) il qual dimoſtra per i numeri aſſimigliarſi cutte le
coſe, e ſen za queſti non poterſi intendere nè gli elementi, nè l'armonia, nè
alcuna delle tre dimenſioni del corpo, nè ciò che riſulta da corpi uniti,
coerenti, diftánti, nè tutti i calcoli delle quantità fùccef five, nè ciò che
appartiene alla vita, ed all' arti fondate su propor zioni ſolo intelligibili
per i numeri. Pitragora dunque ſi ſervì del numero, per dar un ſimbolo dei due
principj delle coſe, la forza, e la materia, di cui chiamò l'una l'uno, e
l'altra il due. L'unità, diceva egli, è Dio, (e ) ed anche il bene che è di
natura * Principio Coelum, ac terras camposque liquentes Lucentemque globum
Lunæ Titaniaque altra Spiritus intus alit: totamque infuſa per artus Mens
agitat molem, et magno ſe corpore miſcet. Inde hominum pecudumque genus
vitæque volantum, Et quæ marmoreo fert monſtra ſub æquore pontus. (a ) Plut.
plac. Phil. l. 1. (6 ) Plut. ib. l. 1. c.9. (c ) Metaf. lib. 10. (d ) Contra Logicos. (e ) Plut. plac. Phil.
lib. 2. (19 ) un ſolo, e lo ſteſso intelletto, il due infinito, e genio triſto,
d'inser torno il qual due ſi fa la quantità della materia. Chiamava uno la
forza perchè noi la concepiamo a guiſa d'un non ſo che d'indi viſibile;
chiamava due la materia, perchè ella è fempre divil bile in due, Di queſti due
principj, uno è quello del bene, e l'altro del male, già l'ha inſinuato
Plutarco. Archelao Veſcovo (a ) di Cara dice; Širiano introduce la dualità
contraria a ſe ſteffa, la quale egli preſe da Pittagora, ſiccome tutti gli
altri ſettatori di tak dogma,; quali difendono la dualità declinando dalla via
retta della ſcrittura. Tutte in ſommal'ereſie, che vi ſono nel compendio della filosofia
di CICERONE, che vuol dir l'eternità, l'animazione, la divis nità del mondo,
Piccagora le raccolfe in un ſiſtema, ed in vano fi dice, che egli nulla fcriveſſe.
Liſide diſcepolo (b ) di Pittagora in una lettera fcnca ad Ip parco, dopo la
morte del maeſtro ſignifica non voler comuni care ad alcuno i precetti, e
dimoſtra che delle coſe, le quali di ceano i ſeguaci di Pitcagora, non ve n'era
nè pur ombra. Por firio nella vita di Pittagora dice, che agli Uomini oppreſli
da tale calamitat, (cioè dalla morte di Piccagora ): manca lo ſciens di lui, la
quale arcana e recondita cuſtodida in petto, nè vi reftas fono che certe coſe
difficili da intenderſi imparate a memoria dagli udi tori dell'eſterna
Filoſofia, poichènon v'era alçun ſcritto di Pittagora; ed aggiunge,che dopo la
morte di lui „ Lilide, Archippo,ed altri furono folleciti, chei
penſieridiPiccagora non ſi pubblicaffero, onde eutti gli arcani della ſua
Filoſofia con lui perirono'. To dubito aſſai del la vericà della lettera di
Liſide, la quale con quel che dice Porfirio pud eſſere ſtata finta,perchè i
Criſtiani nontraeſfero argomenti da quanto ci reſta diPitagora, in CICERONE in
Plutarco, in Laer zio: ma ſe non v'era coſa alcuna della Filoſofia di Pittagora,.co
me poi Jamblico poeea gloriarſi di riftabilirla; e non è manifeſto che egli la
riſtabili a fuo modo per combattere i Criſtiani de'quali fu accerbo' nimico; lo
ſteſſo Porfirio, che dice nulla aver fcric to Pittagora, come poi ebbe fronte
d'afferire, che egli avea ſcrit to fu l'ente, il che Euſebio (c ) riferiſce?
Diſcepoli di Pitcagora furono Archita Tarentino il vecchio, Pe ritione, Timeo
di Locri, ed Epicarmo. Archita il vecchio (d ), che Simplicio confonde col
giovine, fcriſſe delle dieci voci corriſpondenti ai dieci concetti dell'animo,
i quali s'eſtendono a cutte le cole, potendoſi d' ognuna cercar la (a )
Zaccagna collect. monumentorum veterum Eccleſiæ Græcæ, atque Latinæ. Archelai
Epiſcopi acta. (6 ) Galeo. (c ) Propof. Evang, lalg. (d ) Patrizia diſcuſ,
Peripa,1 (20 ) la ſoſtanza, la quantità, la qualità, l'azione, e gli altri
acciden ti regiſtrati a lungo da Ariſtotele nella ſua Logica, in cui copiò il
trattato di Archita. Lo Stanlejo, che pretende di numerare tutte le donne
Pitcago riche, omette Peritione, e pur eſser ella dovea la più celebre,le da
lei trafse Ariftotele (a ) tutta l'idea della ſua metafiſica. Lo prova con
molta erudizione il Patrizio, allegando la definizio ne della fapienza di
Peritione, e comparandola con quella di Ariſtotele. La ſapienza, diceva ella,
verſa in tutt'i generi degli en ti, perchè verſa intorno tutti gli enti, come
la viſione intorno tutti i viſibili. Ariſtotele definì la metafiſica, per la
ſcienza che contem pla l'ente, in quanto ente, e le coſe che per sè gli
convengono. Peritione egregiamente ſpiegò gli accidenti dicendo: delle coſe che
accadono agli enti, alcune univerſalmente accadono a tutti, alcu ne altre a
molti di loro, e certe ad un ſolo, ma riguardar univerſal mente, e contemplar
tutti gli accidenti appartiene alla ſcienza. Que. fte ed altre cole che
ilPatrizio aggiunge, danno idea della preci fione, e nettezza di Peritione, e
nel tempo ſtefso quanto tra' Pittagorici erano familiari l'idee Pittagoriche,
ſe le donne ſtef ſe ne ſcriveano con tanta eleganza filoſofica · Non dobbiamo
tuttavia meravigliarſene, di poi cheabbiam veduto ne’noftri gior ni Madama la
Marcheſa di Chatelet, ſcrivere ſulla natura del. le monadi Leibniziane,
queſtione molto più oſcura di quella dell'ente. Timeo di Locri nel ſuo
ragionamento ſull'anima del mondo, in queſta univerlità di natura, dice egli,
v'è un certo che, il qual rimane, ed è l intelligibile eſemplare delle coſe,
che ſono in un fuſo perpetuo di mutazioni, e queſto nelle vicende delle coſe
ſingolari, co ftante, e perpetuo eſemplare ſi chiama idea, ed è dalla mente
compre fo. Nell'univerſità dunque delle coſe, che vuol dir dentro le coſe o in
cutti i compoſti v'è quel non ſo che, che mai non cangia, e può dalla mente
eſtrarli qual idolo. Le coſe ſenſibili eſser in un perpetuo fluſso lo
diſsegnarono, al dir di Platone, nell'Omero, ed Eſiodo ſotto l'imagine
dell'Oceano, e di Te ti, e di queſte non aſsegnarono fcienza i Pictagorici, ma
ſolo di quelle, che nè col ſenſo, né coll' immaginazione ſi ravviſa no, e
queſta fu la prima differenza tra la Filoſofia Jonica, e l'Italica. Epicarmo
ſommo Poeta, come Omero al dir di Platone, so all' una grandezza d'un cubito (diceva
egli ) altra tu voglia aggiun gervi o ſottrarsi, non avrai mai certo la Nera
miſura; gli Uomini pa rimen (a ) Patriz. l. 2. cap. 1. diſcuſ. Perip. (6)
Ragion, ſu l'anima del Mondo. (21 ) rimente conſidera or accrefcere, ed or
decreſcere, tutti ſoggiaciono ai cambiamenti del tempo. Jeri tu fofti un altro, io pur vi fui, E un
altro ſiamo in queſto tempo, e fieno Di nuovo gli altri, che non mai gli ſteſſi
Noi ſiamo, come la ragion lo predica. Per l'Intelligibile così parlo: A. L'arte
tibicinal è qualche coſa? B. Perchè no. A. Forſe è l' Uom queſta tal arte? B. Non mai A. Vediam, che coſa queſto ſia
Tibicine B. Egli è un Uom; non dico il vero? A. Il ver ma ftimi che non debba
diri Ciò pur del bene? Io voglio dir che il bene Una coſa pur ſia, ma s'altri
impari Ad effer buon ei già dirafli buono; Il Tibicine è quegli che la tibia A
ſuonar imparò. Quel che a ſaltare Salvatore, e ceſtor quegli che a teſſere
Impararo, e così d'ogni altro l'arte Certamente non è, ma ben l'artefice. Nel
dir Epicarmo, che il bene è una coſa come l'arte, e che nè il buono, nè l'arte
ſono gli uomini che la partecipano, egli c ' inſegna a far le aſtrazioni della
mente, la qual avendo comparato tra loro molti Uomini che fien buoni, molti
tibicini, molti falcatori e teſtori, ne ha compoſto quell'idea, che poi convie
ne a tutti. Queſt'idea reſtando ſempre la ſteſſa in tutti i tem pi, ed in tutti
i caſi, per quanto variano i temperamenti, e le figure degli Uomini, li
confidera ſempre nello Iteſſo modo, ed è principio del diſcorſo, o di ciò che
nel Teeteto ſi chiamano analogie ſcoperte, le quali nel raccogliere le coſe col
mezzo de' ſenli, le fanno comprendere la ragione. Epicarmo era contemporaneo di
Senofane, come ſi diffe, ed eccoci a ' Filolofi più vicini a Socrate, ed indi a
Platone, i qua li a poco preffo ſi trasfuſero le ſtelle idee non diverſificate,
che dalla maniera d'eſporle, e di colorirle. Senofane, dice Euſebio, e quelli (6
) che lo ſeguirono, moſfero così con (a ) Laerzio Vita di Platone. (6 ) Lib.
11. cap. 1. Prep. Evang. 1. 1
contenzioſe ragioni, che piuttoſto arrecareno a' Filoſofanti confuſio ne, che
ajuto. Pittagora volea che il mondo foffe eterno, benst come gli altri Filoſofi,
quanto alla materia, ma non quanto alla forma, poichè credea che foſſe ſtato
generato dal foco; Se nofane pofe il mondo non generato, ma eterno, 'aderendo
ad Ocello Lucano, che fcriffe fu l'eternità del mondo prima d'A. riſtotele;
ecco la prima differenza tra Senofane, e Pittagora Un'altra più forte ve n' era;
Pittagora avea pofti per principj l'uno, e il due, Senofane riduſſe tutto
all'uno, Senofane", dice CICERONE, è più antico di Anafagora; vuel che uno
fieno tutte le coſe, nè queſto uno è mutabile, ed è Dio non mai nato, e
ſempiter no, e di conglobata figura. Seſto Empirico (b ) parlando per bocca di
Timone foggiunge, che fecondo Senofane l' Univerſo era una fola coſa, che Dio
eſiſteva in tutte le coſe, e che era di figura sfe rica, e di ragione dotato.
Ad Empirico ſi conforma Laerzio (c ) dicendo, che ſecondo Senofane, Dio nella
materia tutto udiva tutto vedeva, ſebben non reſpirale, e che tutte le coſe
inſieme erano la prudenza, la mente, l'eternità. Io dimando, ſe nel far Dio
fparfo per tutte le coſe, e fen ſitivo, e prudente, e intelligente, differiva
egli dall' opinione che CICERONE eſpoſe nel compendio della Filoſofia? Non v'è
che la figura sferica che gli aſſegna Senofane, e per cui non infinito, ma
finito lo rende; ma chi fa, fe nel concepir gli antichi la figu ra sferica,
comela più ſemplice, intendeſſero ſimbolicamente d'ac tribuir a Dio tutte le
perfezioni? converrebbe faper fe Senofane fcriſſe ciò in profa, od in verſo, e
ben eſaminare tutto il conte fto della fua dottrina. Non reſtandoci che
conghietture, io m'at tengo a quella del ſimbolo per accordar CICERONE con se stesso,
il quale nella natura degli Dei combatte Senofane, che aggiunſe la mente
all'infinito. Queſt'infinità era una conſeguenza del fuo ſiſtema, perchè ſup
poſta l'eternità della materia cost argomentava: (d ) Eterno è cid che è, se è
eterno è infinito, fe infinito uno, ſe uno fimile a sèl. Di nuovo ſe l' uno è
eterno e ſimile, egli è ancora immobile, fe immobile non ſi trasfigura per
poſizioni, non ſi altera per forme, non ſi miſchia con altri. Ariſtocele
elamina i ſoffiſmi contenuti in queſto ragio namento; il principale è; da ciò
che il mondo è ecerno, infini to, uno, non ne fiegue che egli lia
effettivamente immobile, per che le coſe eſiſtono nella maniera che poſfono
eſiſtere, e la materia ſe ſteſſa il principio del moto non v'è contradizione a
cont (a ) Queſt. Acad. lib. 1. (6 ) Lib. 1. dell'ipotipoſi. (c ) Laert. lib. 9.
idí Arift. contra Xenof, Zenon. et Gorgiam. eſſendo per i 2 (23 ) a concepire,
che il moto ſia eterno come la materia. Coloro che ammettevano il caos eterno,
davano eterno il moto, ſebben ſen za regola o forma. Non ſi cerca qui però, ſe
concludeſſe l'argomento di Seno fane, ma ſolo qual foſſe la ſua ſentenza, e
coſa egli ne dedu ceſse. Come poi accordarla colla ſua fifica? Ammetteva egli
per principj (a ) delle coſe naturali la terra, il foco, l'aria, e l' acqua, e
dalle alterazioni di queſti elementi, rendea tutti i miſti a generazione, e
corruzione ſoggetti. Grand uſo fece di quefte due coſe, perchè, ſecondo lui,
conſiſteva il So le negl'ignicoli raccolti dall umida (6 ) eſalazione in una
nuvola ignita, e la Luna in una nuvola coſtipata. Manon era poſſi bile
decerminare il grado di verilimiglianza filoſofica ch'egli da va all'Ipoteli,
poichè nelle ſentenze filiche di Senofane y' è mani. feſta contradizione.
Poneva egli de' Soli innumerabili, e la Lu na abitata. I ſoli innumerabili
erano quelli de' Pitcagorici, e di Orfeo (C ); ma come abitar una nuvola? La
terra (d ) la quale per immenſa profondicà fi ftendea di ſotto, era coſa ri
pugnante alla sfera armillare che Anaſimandro forſe di lui, maeſtro avea
inventata o propagata per cutta la Grecia. Cor revano allora tali dottrine, e
Senofane, in Colofone, in Atene, in Sicilia, e in Elea le avea ſtudiate; avea
Talęce calcolate l'eccliffi del Sole, e della Luna, avea Pittagora applicare al
liſtema celeſte le conſonanze Muſicali, e nella lira a lette corde determinato
il pu mero, e le diſtanze de' Pianeti; non è poſſibile, che Senofane in un
tempo così illuminato voleſſe diſcredicare il ſuo ingegno con ipoteſi aſſurde e
ad ogni ragione contrarie; non erano dunque, che idoli fantaſtici, iperboli
poetiche, o ſimiglianze groſſolane, in cui ſi deve più badare al color, che
alla coſa. La grande difficoltà di Senofane era nel combinare il fiſico col
metafiſico, o lo ſtato ideale con l'obiettivo. Avea già ſtabilito Pictagora,
l'intelletto altro non eſſer che (e ) mente, ſcienza, opi nione, ſenſo, da cui
tutte l' arti, e le ſcienze nacquero. Egli diſse gnava la mente per l'uno, ciò
che adeſſo noi chiamiamo lemplice intelligenza; diſegnava la ſcienza pel due,
poichè s'acquiſta la ſcienza deducendo una coſa da un'altra; diſsegnava
l'opinione per il tre, poichè nel trar la conſeguenza da un principio proba
bile ſe ne riguarda nello ſteſſo tempo due, in uno de'quali v'èla ragion
ſufficiente d'affermare, nell'altro di negar la coſa. I Pit 3 ta (a ) Laert. vit. di
Xen. Plut. plac. (6) Plutar. lib....
Origenes Philoſ. (c ) Veggali Moefenio ſu l'eſiſtenza d'Orfee. Plutar. plac. de Fil.
lib.i. (d) Gregorii Aſtronomici Pref. (c ) Plutar. lib. 1. de plac. (24 ) tagorici furono tutti dogmatici, o per
dar credito alle ſentenze del ſuo maeſtro, o perchè pareſſe loro, che la
fapienza non do veſſe mai eſſer miſtad'ignoranza, come accade nell' opinione
milta dell' una, e dell' altra. Senofane fu il primo ad introdur il dubbio
nella Filoſofia, e quindi l'opinione. Chiaro l'Uomo non ſa, nè ſaprà mai Degli
Dei coſa alcuna ed altre coſe Che da me dette fur, ſiaſi perfetto Pur quanto ei
dice, tuttavia non fallo, E v'è opinion in tutte queſte coſe. Da queſti verſi
Seſto Empirico inferiſce, che Senofane non to glica la comprenſione, ma
ſolamente quella che dalla ſcienza de riva; nel dire in tutte queſte coſe d'è
opinione accenna il proba bile, e l'opinabile, onde conclude che Senofane deve
porſi tra coloro, che negano darſi criterio della verità, e non tra gli ac
cattalecici, che negavano alcuna coſa poterſi da noi compren dere. L'autorità
di Selto Empirico è d'un gran peſo, ove ſi tratta di determinare i gradi della
cognizione, ma non è da ſprezzar fi ciò che dice CICERONE: Senofane e Parmenide
quan tunque con non buoni verſi però con certi verſi accufano quaſi irati
d'ignoranza coloro, che ofano dir di ſaper qualche coſa allo ra che nulla fanno.
Chi dice nulla eſclude ogni ſcienza, ed ogni opinione. Senofane ſi diſtinſe per
la Logica, (c ) e ſecondo la Cro nologia di Euſebio, egli fu udito da Protagora,
e da Nef ſa; Metrodoro udi Nefra; Diogene Metrodoro; Anaſarco Diogene, e coſtui
Pirro d' Elea, dal qual ebbero nome i Filo ſofi Scercici fino a Gorgia, il qual
diceva: Non v'è nulla;,fe anche vi foſe qualche coſa, non ſi potrebbe
comprendere, e ſe compren dere, non mai ſpiegare con le parole. Come inoltrarſi
dopo tale raf finamento di dubbj? Tra i diſcepoli però di Senofane il più
illuſtre fu Parmeni de deſcritto da Platone nel Teeteto qual vecchio grave, e
vene rabile e di una profondità al tutto generoſa, il che vuol dire, ſe mal non
m'appoogo, che egli nella diſputa non era oſtinato, ſu perbo, rozzo ed agreſte,
come Ariſtotele (e ) dipinge Senofane è Meliſſo. Socrate in quel Dialogo, ed in
altri s'aſtiene quanto pud (a) Xenoph. ap. Seſt. Emp, adv. Matem. (6 ) QUEST. ACAD.; Eufeb.1.6.
C. 19. (d ) Id. l. 12, c. 7. (c )
Metaf. lib.... (25 ) può di ragionare contro le ſentenze di Parmenide per la
rive renza che ad eſſo portava. Euſebio caratterizza la dottrina di Parmenide,
qual via contraria a quella di Senofane. Ermia però, dice Parmenide in bei
verſi, c'inſegna che queſto Univerſo è eterno, immobile, e ſempre ſimile a ſe
ſtero. Lo ſteſſo Euſebio credeva, che ſecondo Parmeni de l'univerſo foſſe
ſempiterno, ed immobile. Stobeo riferiſce, che Senofane, Parmenide, e Meliſſo
colſero affatto la generazio ne, e la corruzione. In che dunque diſconvenia
Parmenide da Se nofane, (6 ) Ariſtotele chiaramente lo ſpiega nell' accennar la
dif ferenza che v'era tra Parmenide e Meliſſo, dicendo: volea Par menide, che
tutto foſe uno ſecondo la ragione, e Meliſo ſecondo la materia, e da queſti due
differiva Senofane, che chiaramente non dif ſe nè l'uno, nè l'altro. Eſer uno
ſecondo la materia, è il medeſimo che ritrovar nell eſſenza della materia la
ragion ſufficiente dell'unità della ſteſſa. Ed in fatti una è la materia, fe in
tutte le parti e nel tutco e nella medeſima fpecie è omogenea, qual CICERONE la
deſcrit ſe nel compendio della filoſofia, e l'ammiſero Platone, ed Ariſto tele.
CICERONE rammemora ancora la forza, utrumque in utroque, ma conſiderando forſe
Meliſſo, che gli effetti della forza, o ſieno le forme, ed i modi aggiunti
ſucceſſivamente alla materia, non mai erano continuamente cangiando, gli
eſcluſe dall'eſſenza, e in con ſeguenza dall'unità della materia; ma ſe una era
eſſenzialmente la materia, uno era il mondo o l'univerſo, che da eſſa riſultava
e ſe uno in ſe ſteſſo indiviſibile, eterno, ed immutabile. Malgrado dunque le
continue aggregazioni delle parti ne' loro tutti, e le continue diſſoluzioni
de'tutti nelle lor parti, malgrado le altera zioni, le generazioni, e le
corruzioni, contemplando Meliſo l' univerſo nella parte effenziale lo credeva
uno, e immutabile in quella guiſa che è ilmare, non oſtante le continue
agitazioni che foffre da innumerabili flutti. Se tal era la ſentenza di Meliſo,
ella non è men empia ri ſpetto a noi, che ridicola preſo i Pagani, perchè la
materia, fe condo lo ſteſſo CICERONE, non può aver coerenza, e in conſeguen
Tomo II. d za (a ) Cap. 5. l. t. Præp. Evang. (6 ) Parmenides unum fecundum
rationem attigiffe videtur, Meliſſus vero fecundum materiam, quare id et ille
quidem finitum, hic ve ro infinitum ait effe, Xenophanes autem quando prior
iſtis unum poſuerat (nam Parmenides hujus auditor fuiffe dicitur ) nihil tamen
clarum dixit, et neutrius eorum naturam attigiſſe videtur, ſed ad folum coelum
refpiciens ille unum ait effe Deum. Metaf, Arift. l. 1. cap. 5. ediz,
Parigi 1 1 1 4 > za unità, ſe non è
ritenuta da qualche forza, e la continua ſuccef fione delle forme conſiderata
affolutamente in ſe ſteſſa, non è me no eſſenziale al mondo, che alla materia.
Ragionava dunque più ſottilmente Parmenide; dalla materia, e dalla forza, dalla
ſoſtanza, e dall'accidente, avea coll'aſtra zione della mente dedotta l'idea
dell'ente e dell'uno, e preten dea che l'uno nel ſuo concetto aſtrattiflimo
preſcindeffe da tutte le forme, e le differenze dell'ente ſteſſo. Il P. Maſtrio
quali tre mille anni dopo ebbe una fimile idea, poichè egli vuole che l'en te
in quanto tale preſcinda dal finito, e dall'infinito, da Dio, e dalle creature
e la ſentenza è ſeguita da tutti gli Scotiſti. Qualunque ella fiali, certo è
che come quella di Parmenide curta opera della ragione più raffinata, e che ben
diſſe Arifto tele, che l'uno di Parmenide di VELIA era tutto ſecondo la
ragione, non che la ſentenza di Meliſſo ancor non lo foffe, ma egli nel
fondarla tutta ſulla materia croppo s'accomodava ai pregiudizi del ſenſo. Da
Parmenide, e da Meliſſo ſi diſtaccava Senofane, il quale ef ſendo il primo a
ragionare dell'immobilità dell'ente e dell'uno, s'at tenne alla concluſione
ſenza ſpiegar il metodo con cui la deduſſe. Ariſtotele (a ) che avea diviſe le
loro fentenze nella metafiſi ca, par che nella fiſica le confonda dove diffe',
che altri di lo ro tolfero la generazione', e la generazione, e la corruzione,
i quali come ben dicano in altre coſe non ſi deve perd penſare che parlino da
Fifici, poichè l'efervi alcuni enti immobili è più inſpezione di una ſcienza
ſuperiore, che della Fiſica. Non condanna dunque PARMENIDE DI VELIA, e MELISSO
DI VELIA, perchè aveſſero tratcato dell'unità, ed immo bilità dell'ente, ma
perchè ne aveano fatto un punto di Fiſica, dalla quale egli eſclule il trattato
delle coſe eterne, e immuta bili, onde credendo che il mondo, e il Cielo lo
foffero, parte ne trattò nella ſteſſa metafiſica, e parte ne' libri del Cielo;
na chi può credere che Parmenide non diſtingueffe queſte due ſcien ze, avendo
aſſegnati due principi delle generazioni, il foco, e la terra? e determinato
che un foco ſottiliſſimo, o lia l'etere cingeſſe gli altri, e che movendoſi in
vortice raffrenaffe colla ſua rotazione ſe ſteſſo, e le coſe contenute, ciò che
è il principio de' più moderni FILOSOFI (6 ) Egli componeva il mondo di molte
ghirlande tra loro teſſüste, una rara, e l'altra' denfa; fra le ghirlan de ne
poneva dell'altre meſcolate di tenebre, e di luce, e volea che la coſa la qual
a guiſa di muro le circondava forje foda, e maliccia. Queſte ghirlande, e
corone erano i vortici di Empedocle, dei qua li egli dice parlando de caſtighi de'genj.
Quelli (a ) Ariſt. Fiſic. lib. 1, (b ) Plut, lib. 2. cap. 7. (17 ) (* ) Quelli
nel mar ſollicitante forza Dell' etere rifpinge, e fola ſpucali Ne’ſotterranei
abimi, e nella lampada Dell'almo Sole dalla terra cacciali, E il Sole
infaticabile tramandali Ne' wortici dell'etere. Accoppiando il paffo di
Parmenide con quel di Empedocle, par che tutti due deſſero vortici alle Stelle,
raffigurando Parinenide nella luce le fiffe, e nelle tenebre i Pianeti; chi sa,
che queſta coſa maf ſiccia non foſſe il moto del vortice tutto luminoſo, perchè
tutto etereo, il quale impediffe con la ſua forza di rotazione lo sfaſcia mento
del mondo viſibile? il moto della Luna, dice Plutarco, (a ) ol'impero con cui
gira, l'impediſce di cadere in quella guiſa, che la fionda torta in giro
dalbraccio impediſce la caduta del faffo. Vuol Favorino, che Parmenide primo
ſcopriſſe, che la ſteſſa Stella pre cede il Sole la mattina, e lo fiegue la
fera, o che il Veſpero è lo ſteſſo che il Fosforo. PLINIO ne attribuiſce la
ſcoperta a Piccago ra, il quale veriſimilmente la portò d'Egitto, col ſiſtema
cele fte; ma forſe Parmenide, nella Teoria di queſta ftella, più che gli altri
Pittagorici ſi diſtinſe, come Filolao nel moto della ter ra. Filolao la facea
gira r in cerchio intorno alSole, ed Ecfan to volea, che movendoſinon
partiſſe dal proprio luogo, ma fer mata a guiſa di ruota, ſopra l'aſſe proprio
intorno quello giraffe da Occidente in Oriente; non (6 ) aderiva Parmenide, nè
a Filo lao, nè ad Ecfanto, ma conſiderando la terra d'ogni intorno egualmente
lontana dalCielo, la ponea in equilibrio, e voleva che ſenza eſſer fpinta da
alcuna forza a queſto, o quell'altro verſo, ella fi ſquaſfaſe bensì, ma non ſi
moveſſe. Parmenide feparò il primo le parti abitate della terra fuor de' cerchj
fol ftiziali, indizio manifeſto, che egli avea proficcato delle teorie di
Anaſimandro, di cui ſi ſuol far ignorante Senofane. Tal era: il ſiſtema
aſtronomico di Parmenide: nel fiſico egli divinizzò la guerra, la difcordia,
l'amore, e diffe: Di tutti gli altri Dei cauſa è l'amore. * Αιθέριον μεν γαρ
σφεμένος πόντον δε διώκει, Πόντος δέσχθονος έδας απέπτυσε, γαία δ' εσαύθις
Η'ελία ακαμαντος, ο δ αιθέρος εμβαλε δίνεις. Α'λος δ' εξ άλα δέχεται και
συγένεσι δε πάντες. Plut. de Ifide, et Ofiride. (a ) De facie Lunæ. 16 )
Plut,deplac. Phil. lib. 3. d 2 Cosi (28 ) 1 Così gli attribuiſce Simplizio, ed
Ariſtofane colle da Par menide l'amore che ordina, e fabbrica le coſe nella
commedia degli uccelli, gli altri Dei non erano, che gli elementi già di
vinizzati da Parmenide. (a ) Empedocle l' emulò, benchè egli quattro elementi
poneſse, e due Parmenide, il foco, e la ter ra, principali architetti delle
corruzioni, e delle generazioni, e che rarefatti, o condenſati, ſi cangiano in
aria, ed in acqua. I principj, ſecondo Ariſtotele, devono eſser tra loro
contrari, e nulla v'è di più contrario, che il caldo, e il freddo, a quali
corriſpondono il raro, ee ilil denſo denſo,, ilil moto moto,, e la quiete.
Tutto queſto ſiſtema fiſico di Parmenide eſpreſse Platone nel Sofiſta. Le mu je
Jadi, ele Siciliane, dice, a queſte poſterioriſtimaronocoſa più ſicura
d'annodare le coſe inſieme, in modo che l'ente ſia molte coſe ed uno, e ſi
tenga colla diſcordia, e colla concordia, perchè diſcordando (6 ) fem pre
s'accoſta egli come dicono le più forti muſe, ma le più molli non hanno voluto,
che ciò ſe ne ſia ſempre così, ma privatamente alcuna volta dicono che
l'Univerſo ſia uno, ed amica per Venere, altra volta molte, e con sè per ſeco
diſcordanſi con certa conteſa. S'io non m'in ganno, qui s'allude all'amicizia,
e alla diſcordia, o all’amore, e alla lite, che Parmenide poſe come principj
efficienti delle genera zioni, e corruzioni; molti Poeti ſtaccando ciò dalle
Poeſie di Par menide, e di Empedocle, non ifpiegarono con la lite, e con l'ami
cizia, ſe non alcunifenomeni particolari, come chi dalſiſtemadel Newtono, il
quale poſe per principio univerſale l’ attrazione; al tri ſolo la prendeſse per
iſpiegare i fenomeni del magnetiſmo, e poi per iſpiegare l'eletricità, la
gravità ec. fi valeſse d'altro prin cipio. Non può dirſi dunque, che Parmenide
non foſse eccellente Fi fico, ſe egli allora penſava a ciò che il Newtono pensò
tanti ſeco li dopo; ſcriſſe in verſi il trattato della Natura, come Lucre zio,
ma il Poema s'è perduto, e non ce ne reſta che il principio conſervatoci da
Seſto Empirico. (c ) Mi portano i deſtrier, e quant'io voglio Traſcorrono; che
già m'aveano tratto Nella celebre via del Genio; via Di cui m'aveano
ammaeſtrato appieno Gľ (a ) CICERONE. 6 ) Nel Gítema Newtoniano in tanto una
parte di erta fugge da un' altra parte, in quanto ella è attratta con più forza
da un altro corpo; quindi dall'attrazione ſi deduce l'a repulfione. () I verli
ſono in Seſto Empirico contra Logicos. (29 ) 1 Gl'infigni coridori, e dalla
fama. Correndo il cocchio ſquaſsano, cui Duce Le fanciulle precedono, ma l'aſſe
Splende ſtridendo nell'eſtrema parce De' raggi tra due fiſso orbi torniti.
Allorchè s'affrettaro le fanciulle Eliadi, e della notte abbandonando Le café
tenebroſe oltrepaſsarle, Nella via della luce al fine entraro; Da i ſpiragli
rimoſsero le vele Con man robuſta dove ſon le porte Delle vie della notte, e
della luce; L'une e l'altre circonda un arco immenſo, E il pavimento tutto n'è
di marmo; Agiliffime corronvi, e s'appreſsano Colà dove tenea Dice le chiavi,
L'ultrice Dea, che premj, e pene imparte. Con parole molcendola ottennero Le
fanciulle, che all'uſcio ella fmoveſse L'interna leva. L'adattata chiave
Spalancando le porte per immenſo Foro i chioſtri ſcoperfe, mentre l'affe Si
rivolgeva, e l'orbita del cocchio, Facilmente reggean l'alme fanciulle, A cui
ben pronti il cocchio, ed i cavalli Ubbidiro. La Dea liera m’accolfe, E per la
deſtra preſomi usd meco Tali parole. Dio ti ſalvi, o figlio Dilecto figlio, che
alla noſtra Řeggia Guidarono que' nobili deſtrieri Che hanno in forte di
reggere il divino Cocchio, nè rea fortuna ti conduſse In tal via. Non è trita a
paſſi umani Ma audacemente di pregare è d'uopo I Numi, onde ti laſcino le leggi
Inveſtigar della natura, in grembo Di veritade, che a ubbidire è proſta, E de'
mortali tu fuggir potrai Le opinion, di cui non vera fede, Ma tu rimovi il tuo
penſier da queſta Via di ricerca, nè ti sforzi lunga Eſperienza delle coſe gli
occhi Figgere accenti o pur aperte orecchie Ai Ai dogmi che ragion non prova.
Quello Che ti preſcrive eſperienza lunga La ſola mente dall'error corregge.
Seſto Empirico, comentando queſti verſi oſſerva, che Parmeni de chiama gli
appetiti dell'animo i cavalli, la ragione il genio, o demone, e gli occhi le
fanciulle Eliadi; tutto il reſto è fancaf ma poetico, e, comeSenofane, egli
penſava intorno alla ricer ca del vero; concludendo il giudizio appartener alla
ragione, e non ai ſenſi, ſenza eccettuare i due delladifciplina, o l'udi to, e
la viſta; dogma che fu poi quello dell'accademia, come a lungo Cicerone lo
prova. I verſi fe hanno per oggetto cofe fublimi, e leggiadramente accoppino l'
allegoria all' imitazione, e all' armonia, foddisfanno in un tempo ſtesſo, al
fenſo, alla fantaſia, e all'incellecco, ono de queſte potenze coſpirando
inſieme a ben rappreſentarci le co fe cantase, a preſtano ſcambievolmente le
loro cognizioni, affin chè troppo sfumando nelle aſtrazioni, non ſvaniſca
l'idea, e le ſenſazioni, e i fantasmi non l'offuſchino, ma ſervino alla mente
di ſpecchio per ben contemplarla. La grande arte è, che lo ſpec chio non abbia
troppo d'aſprezze, le quali non diſpergano ſover chiamente, ed affortiglino il
raggio, che turbaco non ci laſci diſcernere, dove è l'oggetto. Alla proſa
dunque, ma proſa poe tica ricorre Platone volendo appagare tutte le potenze
della anima. Ed eccoci finalmente a Platone, dopo d' aver eſaminato come
Pittagora dall'eternità, divinità, animazione del mondo racco glieſe l'idee; le
divideſfero in certe claſſi generali i Pittagorici le diſtaccaſſero dal tutto,
e ne faceſſero degli enti a parte; come Senofane, il primo ricavaſſe la
concluſione dell'ente uno ed im-. mobile, come Parmenide contemplaſse ſecondo
la ragione queſt' idea, e nelle coſe fiſiche s'uniformaffe a Senofane,
diſtinguendo ľ opinabile dal vero. Tutta queſta fabbrica era fondata ſu la
maniera di penſar di Pictagora, maniera falla, e pienamente diſtrutta da Padri,
che molto al di là del IV. fecolo non combatterono collo fteffo Pit tagora, ma
con Platone, di cui ſi debbe adeſſo rintracciare qua li influenze aveſſero nel
Dialogo la dottrina dell'idee, dell'uno immobile, e dello ſcetticismo, perchè
egli vi parla, e dell'idee, e dell'uno, e tutto proponendo per iporeli nulla
conclude. Prima però di ſviluppar queſte cofe l'ordine della doctrina ricerca,
che favelliamo dello ſtile Platonico in generale. Profonda e delicata
cognizione della lingua Greca ſi ricerca per (31 ) e per ben intendere la
bellezza, la forza, e l'armonia dello ſti le poetico di Płacone; lFraguier, che
in tutto il cor ſo della ſua vita, l'avea con un ſpirito molto colto nella POESIA
LATINA, ed in ogni altro genere di belle lettere ſtu diato, ben eſaminando il
ſuo ſtile, ritrovava che Platone avea trasfuſo ne' Dialoghi l' Epico, il Lirico,
ed il Dramatico. Com parava egli la profopopea, colla quale Dio nel Timeo ra
giona agli Dei inferiori 'all' ode più ſublime di Pindaro travedeva nelle
narrazioni dello ſteíſo Timeo, e in alcune del la Repubblica, la magnificenza
Epica dell'Iliade. Nel paſſo cita so di ' Ateneo ', Gorgia mal ſoddisfatto di
quel Dialogo intito lato col ſuo nome, ci dice, che un giovane, e Lepido
Archilo co regnava in Atene; allude egli a Platone, che irritato con tro i
Sofifti, non riſparmid le accucezze, ed i ſali contro di lo ro, ma i ſali di
Platone non erano aſpri, ed ulcerofi, come quelli di Archiloco, e di Ariſtofane,
ma eſtratti dallo ſteſſo mare, in cui nacque Venere. Così Plutarco dice di
Menandro, e con non men di ragione io poſſo dirlo di Platone, che tut to
comicamente condiſce con le grazie, e con le luſinghe della Poeſia di Omero, ed
ingentiliſce in guiſa le accuſe de Sofiſti, che non mai gli affronta con quell'
ingiurie, colle quali il Re de'Re alla preſenza dell'eſercito rinfaccia Achille.
L' ironia di Socrate a ' è la chiave, ed ella è così ben maneggiata, che da
alcuni ſi crede nel Menedemo (a) lodarſi le orazioni funebri, e pure vi ſi
condannano. L'allegoria è perpetua in tutti i Dialoghi; allegorici ſono i nu
meri armonici, di cui teſſuta è l'anima del mondo; allegoriche le Sirene degli
orbi celeſti; allegorico il carro dell'anima, l'ali e il coc chiere; allegorici
gli Androgini, la naſcita dell' amore, la gradazionedegli animali di Prometeo,
e di Epimeteo, la guerra de gli Atenieſi contro i popoli del mar Atlantico, e
quanto diſſe dell'Iſola Atlantica, e ſulle leggi, esu i coſtumidegli abitanti;
tutto vi è finto per preparar l'idea della Repubblica, il cui modello cerca
Platone nella fabbrica ſteſſa del mondo, ed ordiſce così la men zogna poetica,
che molti s'affaticarono di ſpiegare ſtoricamente l'Iſola Atlantide, come il
Ciro di Senofonte. Più s'occulta Pla tone in certe allegorie incluſe nelle
frafi poetiche, per le qua li ſimboleggia molte coſe, e politiche, e morali, e
metafiſiche, diſegnando l'ulcime con coſe colte, o dalla muſica, o dall'altro
nomia, o dalla geometria; tre ſcienze (6 ) nelle quali era fo mamente dorto al
ſuo tempo. Certo è, che ſe giuſtamente non retro s'ap (a ) CERONE, Acad. (6 ) Ab, Fleurì nella lode di Platone.
s'apprezzano le fraſi poetiche riducendole al ſenſo filoſofico, li corre
riſchio di non intender mai, nè le parti, nè il tucco di un certo Dialogo, e ne
vedremo nel Parmenide ſteſso gli eſempj. Ebbe dunque Platone comune la poeſia
con Parmenide, ma molto egli l'accrebbe col Dialogo, modo più naturale per
iftrui re, più comodo per illuminare, adoprato da Socrate, da Seno fonte, da
Stilfone, daEuclide, da Glaucone, e al dire d'Ariſto tele da un certo
Aleffamene inventato. S'imitano col Dialogo i ragionamenti degli Uomini, come
ne? drami s'imitano le azioni. Platone che voleva emular in tutto la poeſia di
Omero, ſi sforzo d'imitar le diſpute de Filoſofi, in quella guiſa che Omero
avea imitate le azionidegli Eroi. Ciò che al Drama è la favola e l'epiſodio, è
la queſtione al Dialogo, e la digreffione, e' nell'una, e nell'altra riuſcì
egregiamente Plato ne. Non v'è Tragedia antica, che meglio eſprima il principio,
la percurbazione, il ſcioglimento dell'azione, di quel che Platone proponga,
diſcuta, termini la queſtione, in cui ſebben nulla concluda, però gli bafta
d'aver conſumate le ragioni dall' una, e dall'altra parte. Nelle digreffioni
comincia per lenti gradi ad allontanarſi dalla queſtione, poi ſpazia o nella
Geometria nella muſica, od in altra ſcienza a fuo talento, e ſenza che il
lettore fe ne accorga, il riconduce alla prima propoſizione non per ſalti, ma
per gradi. Anche in cid imitd Omero, che al dir del Gravina (a ) traſcorre
tallora alſoverchio, tallora moſtra ď abbandonare, ma poi per altra ſtrada
ſoccorre. Platone non imita meno Omero nel carattere degl'interlocu tori, e
delle ſentenze; io ravviſo in Alcibiade un non so che del carattere di Paride,
l'uno e l'altro è milapcatore, fuperbo, e laſcivo; il carattere di Neftore è
trasfuſo in quella parte del carattere di Socrate, ove queſto conſiglia, ma
Neſtore auto rizza i ſuoi diſcorſi con l'eſperienze acquiſtare nell'uſo della
vita, e Socrate con l'impreſſioni del genio che il dominava. I caratteri de'
Sofiſti ſono preli da quei dei Trojani, che ſenza ordine, e ſen za diſcipliita
s'avanzano come le Gru ſchiamazzando, e poi reſta no ſconfitti da' Greci, il
cui coraggio e valore era ſoſtenuto dalla ſapienza, e dal consiglio, e fino da
Minerva. Molti. pretendono che Platone ſpieghi la ſua ſentenza nel far
ragionare Socrate, Timeo, Parmenide, l'Oſpite Arepieſe, e l' Eleatico, due
perſone anonime, e che gli faccia dire a Gorgia, a Traſimaco a Claride., a.
Protagora, et Eucidemo, ciò che non approva e vuol rifiutare, ma coſtoro non
avvertono, che nel Ragion Poetica. nel far Platone ſiſtematico lo fanno peſlimo
Dialogiſta, e talor peffi moFiloſofo, perchè egli concraddice a ſe ſteſſo in
diverſiDialoghi, o almeno le coſe vi ſono così ſconneſſe, che non ſi può
raccoglierle, non più che le membra di Penteo (a ) diſunite e sbranate. Tratto
di cutte le parti della Filoſofia, or Logica, or Fiſica, or Metafiſica,
accennomolte ſcoperte de' ſuoi tempiintorno alla mufica, all'aſtro nomia,
all'ottica, ma imitando poi la ſetta Eleatica ne'dubbj, e nell'opinioni, tutto
propoſe ſenza nulla concludere. CICERONE lo conſidera come il primo degli
Accademici, o quel che diede ad Arceſilao, ed indi a Carneade il metodo di
dubitare. Seſto Empirico ſenza altro lo pone tra' Pirronici nelle materie an
cora più gravi, come in quelle dell'anima,del mondo, di Dio; nè a ciò CICERONE è
contrario. Conveniamo dunque che Platone, co me nello ſtile poetico convenne
colla ſcola Eleacica, così vi conven ne nel metodo di opinare,che egli col
Dialogo reſe più problematico. Confideriamolo adeſſo nelle fentenze, e
principalmente in quelle che riguardano l'idee ſulla Divinità, e ſulla materia.
S'è già dimoſtrato, che i Pitcagorici riducevano tutto all'idee, ed ai numeri.
Platone ſcielſe, e perfezionò ilmetodo dell'idee, econ duffe lo ſpirito alla
cognizione del bene per l'idea del bene, della bellezza per l'idea della
bellezza, e cosìfece del valore, della tem peranza, della ſcienza, e dell'altre
virtù morali ed intellettuali, com ponendo tra loro l'idee n'eſtraffe l'idea
della Repubblica, o l'idea del giuſto conſiderato nell'amminiſtrazione d'una
Repubblicazimmagine di quella amminiſtrazione, che delle potenze dell'anima fa
la ragione. Credevå egli, che ſpiegar le coſe particolari per le univerſali,
fof ſe il metodo chela natura leguiva, allorchè procede dalle cagioniagli
effecti. Parve ad Ariftotele, che foſſe più facile, e più ſendibile nelle
inſegnar le ſcienze, ſeguir l'ordine dello ſpirito, chealla cagionevi per
l'effetto. Non ſono più oppofti queſtimetoditra loro, che la ſin teſi, e
l'analių, di cui l'una comincia dalle coſe generali, per difcen dere alle
particolari, e l'altra dalle particolari, peraſcendere alle ge nerali; l'uno e
l'altro Filoſofo nell'inveſtigar l'idee delle coſe, adoprò il metodo ſteſſo di
comparare i ſingolari,e di farnele aſtrazioni oppor. rune, e lo dimoſtrerd a
lungo pel ragionamento dell'idee Placoniche. CICERONE riduce l'idea alla terza
parte della Filoſofia, che ver ſa nel difputare. Così l'idea trattavasi dagli
antichi, che ſebbene ac cordavano ella naſcer de ſenſi, però volevano che il
giudizio nonfoſe ne fenſi, ma che la mente fore giudice delle coſe, ſtimandola
ſola atta a di ſcopriril vero, perchèfola diſcopriva cid cheera ſemplice, della
ſteſanas tura, o tal qual era, e queſto lo chiamavano idea già così nominata da
Platone, e noi poſiamo (conclude egli ) rettamente chiamarla la lpecie. Non
erano perciò l'idee Platoniche, a ben comprenderle, che le fpe cie, eigeneri
che noi facciamo, comparando ed altraendo, eche, Tom. II. (a )
Eufeb.Prop.Evang. (6 ) De Natura Deorum. (c ) Lib.1.Accad. 2 e come (34 ) 1
come ſi diffe, cappreſentavano i Pittagorici per l'unità, poichè la mente tutto
va unificando per ſua natura. Una ſpiegazione sì facile, e breve dell'idee
Platoniche, perfectamente s'accorda co' principi d'Ariſtotele. Egli tratta
nella Merafilica l'idee Platoniche da metafc re poetiche, e queſto nome gli
avrebbe pur dato Platone, se avelle dogmaticamente ſcritto come Ariſtotele', ma
nel Dialogo ſpecie di Poelia Dramatica egli eguagliò la compoſizioneallo ſtile.
Morco Platone, ed offeſo Ariſtocele di vederſi poſpoſto a Pfeufipo „ a lui
tanto inferiore in ingegno, e in dotcrina vi oppoſe un'altra ſcuola di cui ſi
fece capo, e per accreditarla cominciò a combattere le fentenze del ſuo
antagoniſta, attaccandoſi alla parte più difficile, e più equivoca o alla
quiſtionedell'idee, alle quali Preuſipo imitando.forſe il metodo di Platone
dovea dar troppo di realità. Ariſtotele ſcriſe dunque contro l'idee ſeparate,
ma Platone avendo già nel Par menide conſumato quanto potea dirli contro di
loro, Ariftotele ne copiò gli argomenti dipeſo, ed al ſuo ſolito con brevica ed
oſcurità di ſtile, fingendo di combatter Placone critico Preuſipo, ed i ſuoi di
i fcepoli. Dital congettura è mallevadore il Patrizio nelle ſue diſcuſ fioni
peripatetiche. S'elle ſon vere, non che verifimili, verifimile è pure che fin
d'allora ſi ſpargeſſero i ſemi che prima Ammonio Sacca, ed indiPlotino,
Porfirio coltivarono, e Jamblico, e Procloridul fero in regolato fiftema.
S.Giuſtino, che avea più ſtudiatii Platoni ici, che Platone era perfuafo, che
l'idee foſſero ſoſtanzeſeparate, collocate con Dio nella sfera più alta. S.
Cirillo rifiuţa Giuliano A poſtaca, che credeva il Sole, la Luna, egli
altrieller l'idee viſibili e comporre gli Dei. 11 P. Balto riferiſce a lungo
ipaſſi di S. Ireneo, di S. Bafilio e d'altri, i quali impugnarono l'idee
ſeparate, che introdu cendo il politeismo rovinavano ne'ſuoiprincipj la
Religione Criſtia pa. Soſpetta il P. Balto, che Eufebio difendere l'idee
Platoniche persè ſuffiftenţia pro dell'Arianismo da lui profeſfaco. Negli
ultimi tempi il Clerico ne rinovd la ſentenza, e molto più l'anonimo Soci niano
nel tuo Platonismo ſvelato, ove ſi confondono con l'idee di Platone, gli Eoni
rami de'Seffirotii cabaliſtici adottati da' Valencia niani e da' Baſiliani, e
de'quali nella concinuazione dell'iſtoria degli Ebrei parla a lungo il Basnage,
I comentatori di Platone abbagliatidatante autorità, nè avendo forza di critica
fufficiente per reliltervi, s'abbandonarono ai fantasmi di Proclo, e di
Jamblico, anziche abbadarea'ceſti di Platone, ne s ' avviſarono di ben pelare
le dottrine del Parmenide contro l'idee ſeparate aggiunte da Ariſtotele alla
metafiſica. S. A goſtino è il primo de' Padri Latini, che non fepara l'idee Pla
toniche da Dio; dando a Dio la creazione del mondo non poteva egli non
concepire nell' intelletto divino la ragione dell'ordine del le coſe create, e
queſte appunto ſono l' idee su le quali poi San Tommaſo ſeguito da' Teologi, ne
fece molti articoli, of. feryando che l'idee divine ſono univerſali, onon
rappreſentano a Dio (35 ) 2 € Dio ſolo le ſpecie, ma ancora gl'individui, col
rappreſentargli le coſe non quali noi per la limitazione della noſtra mente le
veggiamo, ma quali ſono in fé ſteſſe. Il Padre Balco riprende a dritto su
queſto punto il Dacier, che per difender malamen te Platone, cade non volendo
in un errore. Ma fe Platone preſe da’ Pitragorici l' idee nel ſenſo, che le
propoſero Pitcagora, ed Archira, pare che egli ancora come queſti ſentiſſe
intorno la Divinità. S'è già dimoſtraco che dopo Pitcagora, Senofane e
Parmenide conſideravano Dio non altrimenti, che l'anima del mondo. Lunga cofa,
dice Ci cerone, (a ) ſarebbe a dire dell'incoſtanza di Platone intorno a Dio;
nel Timeo nega, che porta nominarſi il Padre del mondo; nel libro delle leggi,
ſtima non doverfa ricercar affatto coſa ſia Dio. Lo stesſo nel Timeo, e nelle
leggi, dice eſſer Dio, il mondo, e gli altri e la terra, e gli animi, e gli
altri Dei, che abbiamo ricevuti dagl' iftitu ti de' Maggiori. Il Padre Arduino
raccolſe tutti i paffi, ove Pla tone parla degli Dei nel ſenſo ſtero. Dio nel
Timeo ſi chiama bensì il Padre, e l'artefice del mondo, ma non mai il Signore,
il Sovrano; ſi chiamava il mondo un Dio generato, il quale ba una perfetta
ſomiglianza con Dio; figliuolo, e figliuolo unico di Dio; un Dio completo, un
Dio generato da un altro Dio, un Dio felice, im magine del Diointelligibile,
perfetta copia d un originale perfetto Dio ottimo malimo, qual appunto i Romani
doceano diGiove, per cui folo intendevano il deſtino inviſibile delle coſe.
Molci alcri paſſi ſpiega l' Arduino, e da cutii ſi raccoglie, che Placone non
co noſceva Dio, che come principio intelligente, qual lo conobbe Pittagora,
Senofane, PARMENIDE DI VELIA, e cant alori, a' quali può ben applicarſi il
pallo di S. Paolo, in un ſenſo filoſofico, che cono ſcendo Dio, non come Dio
l'onorarono (non ſeparandolo affacco dal la materia, o, ponendolo ad eſsa
coeterno. ) Pitcagora avea generato il mondo, e lo generarono i Fenici, Orfeo,
ed Eliodo. A queſt'idea poetica, Platone aggiunſe le Fi loſofiche accennate da
Timeo di Locri nel fuo ragionamento della natura, e dell'anima del mondo, e ne
compofe il Timeo, nel qual volea nell'ordine oſſervato dalla ſapienza nella
fabbrica del mon do, dar un modello di quella Repubblica, che poſcia propoſe
nel Dialogo del Giuſto. Ariſtocele pur comparava la coſtituzione del mondo ad
una Repubblica, in queſta v'è il Principe, che comanda ai Magiſtrati militari,
e civili, e nel mondo v'è Dio, che col miniſtero degli Dei inferiori, compie,
conſerva, ed ordina cuc te le coſe. S'è © e di lo Lei li i e lo i e (a ) D:
Natura Deorum lib. s'è gia dimoſtrato,
che i Platonici recenti nel divider in due punti, o ſegni, l'eternità,
neaſſegnavano il primo ſegno a Dio, in quanto a Dio, ed il ſecondo a Dio
creatore della materia la difficoltà è di ritrovare in Platone qualche coſa che
s'av vicini a queſta dottrina. Teofilo (a ) non ve la ritrovd altri menti
dicendo, che Platone coi ſuoi ſeguaci poneva Dio, e la materia ingenita; con
che non venia a porre Dio, nè uno; nè ſolo. lo qui ſtenderò un lungo paſſo di
Plutarco, perché fe 'ne giudichi. Il mondo, dice egli,è bensì ſtato fabbricato
da Dio, perchè fra tutte le coſe è bellißimo il mondo e Dio fra le cagioni
l'ottimo, ma la ſoſtanza, e la materia, della quale è ſtato formato, non eſſer
mai nata, ma ſempre averſi trovata ſottopoſta ab Maeſtro, ed ubbidiente a
ricever quell'ordine, e quella diſpoſizione, che fore in quanto ella potelle
comportare a lui fimigliante, percbè il mondo non fu creato dinulla, ma di ciò
che era privo, di bellezza, di leggiadria, e di perfezione, ſiccome la caſa, la
veſte, la ſtatua, perciocchè tutte le cose, primache naſceſe il mondo, foffero
confuſe, e diſordinate, nondimeno le coſe confuſe non erano ſenza corpo, ſenza
fora ma, ſenza regola, moſle da movimento a caſo, e ſenza ragione. Que sto
altro non era; che la ſproporzione dell' anima, di ragione Spoglia ta,
perciocchè Dio di coſa ſenza corpo non fece corpo, nè anima di coſa d'anima
priva, nella maniera che noi vediamo, cbe il Maeſtro di muſica, e dell armonia,
non fa egli la voce, bensì la voce acconcia, e il moto proporzionato; così
parimenti Dio non fece il corpo trattabile, e ſodo, nè l'anima atta a moverſi,
ed in gannarſi, ma preſo l' uno, e l'altro principio, quello oſcuro e pienodi
tenebre, queſto confuſo e pazzo, amendue più rozzi, e più difformidel
convenevole ordinandoli; e diſponendoli, e congiungendoli formd un animal
beltiſſimo, e perfettiſſimo. Dunque la natura del corpo non è punto diverſa da
quella natura, come dice Platone, che abbraccio il tutto, ed è fondamento e
nutrice di tutte le coſe che naſcono; non dimeno la natura delp anima fu da
Platone nel Filebo nominata infini to, il quale non riceve numero, nè
proporzione, nè vi ſi trova miſu ra, o termine alcuno di mancamento, di
ſoverchio, di ſimiglianza, o di differenza. Così parla Plutarco ed è facile il
dedurne, che ſecondo Pla tone eterna era bensì la materia del mondo, ma nuova
la for ma, (a ) Teophil. ad Autolicum 1.2. Plato cum ſuis aſſeclis Deum quidem
confitetur ingenitum, patrem præterea et conditorem hominum, at que deinde
fubjicit, live ſupponit Deo materiam quoque ingenitam, quæ fimul cum Deo
prodiderit five extiterit; verum fi Deus cen ſetur ingenitus, et materia
perhibetur ingenita, jam nec amplius Deus conditor et creator eſt hominum etiam
fecundum Platonicos, nec quod unus et folus ſit ab his vere demonftratur. nè il
moto, ma 1 1 (37 ) má, ed in queſto Platone differiva da Ariftotele, il quale,
come s'accennd, fece ad un tempo eterne, e la materia, e la forma; Ariſtotele
rimprovera perciò Platone, d' aver fuppofto, che la materia con cuiDio compoſe
le coſe, foſſe in moto, e loda Anaf fagora, che la poſe in quiete. Vuole egli
ignorare, che affatto poetico foſſe il Timeo; pure non è credibile,che egli non
l'aveſſe udito dir più volte da Placone ſteſſo, che nel Dialogo finſe Socra te
a favellar con Timeo di Locri contemporaneo forſe a Pittagora; parla dell'
abboccamento che Solone ebbe coi Sacerdoti d'Egitto, iutta ſpaccia la favola
dell'Iſola Atlantide., ſtempera in una taz za i numeri armonici dell'anima del
mondo compoſta di cre ſo ftanze, ne ſparge le reliquie su le ſuperficie de
glòbi', conſidera come coſa reale la mecemplicoſi, che Timem (a ) nel ſuo
ragiona. mento introduce come coſa politica. In ſomma ben eſaminan do tutte le
frafi Platoniche e tutto il conteſto della dottrina Filoſofica poeticamente
maſcherata, io ſon perſuaſo, che in Platone, comene Pictagorici, Dio vi
s'introduca qual animadel mondo, o la ſteſſa mente, e ſapienza perfecta ſparſa
per tutto; allora perciò che dice CICERONE nella natura degli Dei, e quan do
Platone fa Dio incorporeo (b ) egli confonde Dio con la mate+ ria, la quale era
incorporea, come ſi diffe, prima che da Dio ſe ne eſtraffero i corpi.
Dall'alcra parte nell'ipateli, che Dio gli abbia eſtratti, fece Dio
concepirſi" al di fuori della materia, co me l'architetto al Palagio, e lo
ſcultore alla ſtatua. In vano dun que dall' opere di Platone, e degli altri
Filoſofi antichi, i qua li ammifero la materia eterna, li cerca l'idea del Dio
che ado. riamo; egli è uno ſpirito infinito, nella di cui natura inviſibile
ſono riunite cutte le perfezioni immaginabili, e poflibili; onde gli ſcolaſtici
lo chiamarono il cumulo delle perfezioni; e i Cartuliani l'ente infinitamente
perfecto. Sino a què l' ammet cevano gli ſtefli Pagani, ma la definizione non
balta, ſe ad el fa non s? aggiunge, che Dio ha tratto dal niente l' Univerſo, e
che è diltinto realmente, e ſoſtanzialmente da tutto ciò che ha creato. Tale
definizione come ortodoſſa propoſe l' Abbate d'Oliveta ’ Filoſofi (c ) dopo di
aver eſpoſte tutte le loro fen tenze, tra le quali entra e Pittagora, é
Senofane, e Parmeni de, e Platone Itello, Non (a. ) Nel fine. (6 ) Cicer.
Natur. Deor. (c ) Nel fine del Tomo 3. della traduzione della Natura degli
Dei;. Par ce
mot. Dieu, je veux dire un eſprit infini, dont la nature eſt indiviſible et incomunicable;
dans lequel font réunies toutes les perfections imaginables et poſsibles, ſans
aucun mélange d' imperfe etion; qui'a tiré du ndant l'univers, et qui eſt
diſtinct réellement et ſubſtantiellement de tout ce qu'il a créé. 0 1 (38 ) o dell' Non è tuttavia, che debbano
ſpregiarſi le dottrine di Placone, e rigettarle come inutili; conobbe egli Dio
ſotto un'idea con fuſa, come lo conobbe Ariſtotele, e in quella guiſa che S.
Tom maſo da Ariſtotele tralle molti principi, e combinandoli coi rivelati
propoſe molte concluſioni Teologiche, così può farſi di Platone; S. Tommaſo
dall' uno, e dall'altro traſfe l'eſiſtenza di Dio, impiegando i mori, le
cagioni, l'ordine del mondo, i gra di più o meno perfetti delle coſe, ma non
potè trarla dall' en te contingente e neceſſario, che Platone non conoſceva,
ponen do ecerna la materia, e chiamandola neceſſità. Dimoſtrar il primo ente
qual principio intelligente, per l'adequaca idea di Dio, non baſta le da eſſo
non ti rimovono tutte le compoſizio ni, dimoſtrando, come fa S. Tommaſo, che in
lui non ve n'ha nè di forma, nè di materia, e che non può ridurſi ad alcun
genere, Nel Parmenide però non v'è biſogno d'alcuno di queſti ar tificj; tutto
vi fi' riduce all'idea metafiſica dellence uno. Convien dedurla da' ſuoi
principj, od eſtrarla come fece Pittagora, e Peritione da tutti i compofti, ed
eſaminarne le proprietà. Così AQUINO (si veda), ove tratta dell'unicà, e della
bontà di Dio, prima ricerca, quanto la ragione, gli può per mettere, coſa ſia
l' uno, e coſa ſia il buono, indi col princi pio rivelato cid combinando,
dimoſtra la purità, e la bon tà di Dio. Io parimenti ricercherò con la ragione,
fe si poſſa ben intendere l' uno del Parmenide, laſciando agli altri la fa rica
di ſpiegarlo in un modo fublime, applicandovi le coſe Teologiche, delle quali
non intendo d' attaccarne, o diftrug. gerne la minima. Io cratterò della
dottrina del fine, indi del metodo del Dialogo. Gli antichi con ragione
intitolarono queſto Dialogo, il Par menide o dell' idee, perchè Parmenide parla
più degli altri, e tutti i ſuoi ragionamenti raggirano su l' idee, o per
cercarle con le aſtrazioni della mente, o per diſtruggere le ſeparate, eſempli
ficandone il caſo nell'idea dell' uno, la più ſemplice di tutte l'al tre, e a
cutte l'altre comune. Supponevano i Pictagorici, che tutte le coſe imicaſſero,
o par ticipaſſero l'idee, o le fpecie; provacontro loro Parmenide, che le cofe
non poſſono eſſer partecipi delle fpecie, nè ſecondo il tutto, nè ſecondo
unaparte, indi col principio di contraddizione, col progreſſo all'infinito, e
coll' ideaſteſſa delle perfezioni divine; gli fteffi argomenti di cui ſono nel
Parmenide i femi, fteſe Ariſto tele, ed è mirabile che i comentatori non
abbiano penſato di con frontarlo nel ragionamento dell'idee con Placone, ciò
che attri buiſco all'ipoceli da loro fiſsata, che in queſto Dialogo Parmenide,
o Platone confermi e non diſtrugga. l' idee ſeparate. Annullate tali idee in
modo cheSocrate ne reſta convinto, Pare menide per non laſciarlo nell'
imbarazzo gli moſtra la neceſſità che ha il Filoſofo d'ammettere certi principj
fiſſi ed immutabili e tanto più difficili a comprendere, quanto che non fi
poffono de terminare, nè co' ſenſi, nè colla fantaſia. Parmenide' nell'etem
plificare il caſo del metodo propone l'idea dell'uno, e la con ūdera
relativamente a ſe ſteſſa, indi all'ente, al fine, al non en te. Così un
matematico trattando per eſempio del triangolo, lo conſidererebbe prima in ſe
ſteſſo, poi per rapporto all'altre figure rettilinee o piane, ed al fine alle
non rettilinee, od alcerchio. Definiſce Zenone l'uno per oppoſizione a molti, e
chiama uno ciò che non è molti. Ariſtotele, nella metafiſica molto ap prova
queſta definizione, perché i molti ſono più noti al ſenſo che l' uno; prende
Parmenide la definizione, e negando dellº uno tutto ciò che s'include in molti
o li predica de' molti; negà ch' egli fia cutro, parte, principio, mezzo, fine,
figura moto, quiete, lo ſteſſo, diverſo, ſimile, diſſimile, eguale, mag giore,
minore; in oltre gli nega le differenze del tempo, pre lente, paſſato, futuro,
l'eſſenza, la ſoſtanza, il nome, il ſen fo, la ſcienza, l'opinione. Parmenide
prende ſempre l'uno nel ſuo concetto aſtrattiflimo, nè men volendo che l'uno â
conſideri per rapporto a ſe ſteſſo, perchè nel riferir l'uno a sè li concepireb
be come due o come molti. La ſeconda quiſtione è, ſe l'uno ſia che accada all'
uno, ed all'altre coſe; qui l'uno fi ſuppone inſeparabile dall'ente, come rente
dall' uno, onde tutto ciò che s' include o li predica dell', pud predicarſi
dell' uno; quindi ſe nell' ente's include o dell'ente fi predica, la parte, il
tutto, il finito, l'infinito, il principio, mezzo, il fine, la figura, il luogo,
il moto, la quiete, il fimile, il diffimile, lo iteſto, il diverſo, l'eguale,
il maggiore, il minore, il tempo paffato, preſente, e futuro, 1 eſſenza, o la
ſoſtanza, la ſcienza, l'opinione, il ſenſo, tutte queſte coſe ſi predicheranno
ancora dell'uno. Non ſi predicano però queſte coſe oppoſte dell' uno, e
dell'ente. nel medelimo tempo, e ſecondo lo ſteſſo riſpetto, ma in varj te m pi
o ſecondo diverſi riſpetti, e ciò fa che le contraddizioni non ſieno, che
apparenti, o del genere di quei meraviglioſi, che de generano ſpiegandoſi in
puerilità. Cosi penſa lo ſtelfo Platone nel Teeteto, maParmenide nel cercar qui
ſe ſia l'uno, quali altre co fe ne fieguano, non cela all'uſo de Sofiſti, ma
ſpiega come vero Filoſofo in termini ſemplici i miſteri, e queſta iola credo
una nuova prova del liftema Parmenideo da me ſtabilito. In queſte due prime
nozioni dell' uno non vi ſi framiſchiano le immaginarie', o poetiche; mabensì
ve ne fono nella terza, ove fi rapportal'uno al non ente, o al nulla, di cui
non s'ha nozionereale', ma ſolamente immaginaria come dell'impoffibile. V'è un
affioma Logico, il qual diceche, dall' impoflibile ogni coſa ſe ne deduce, pera
che in lui fi complicano i contraddicorj, anzi il criterio per co nofcerlo è
per mezzo dei contradditorj, e poichè l'uno è inſe párabile dall'ente; fia lo
ſteſſo dir il non uno, che il non en te, ma del non ente o dell'impoffibile fi
dice che ha effenza, o che non l'ha, che è lo ſteſſo e diverſo, che è ſimile, e
non fi mile, eguale, non eguale, cheſe genera e fi diſtrugge ec. Dun que le
ſteſſe coſe che ſi predicheranno del non ente conveniran no ancora al non uno.
Nell'attribuire il non uno all'altre coſe, fi trasformeranno queſte in
fantasmi, o sogni d'eſtenſione, di mal fa, di moto e di quiete, ciò che rende
il mondo più poetico del cabbaliftico. Platone o Parmenide maneggiano queſto
argo mento con ſomma ſagacità, e delicatezza, e ben ſi vede quanto foſſe la
loro Filoſofia profonda, e quanto utiliffima eller poſla, non cangiando il
grado dell' aſtrazione, nè inneſtandovi opinioni affatto encufiaftiche, come
fece FICINO. I celebri Pittori, attenti ad oſſervare in ogni luogo tutto ciò
che loro ſomminiſtra idee nuove d'atteggiamenti, di ſcorcii, di lineamenti,
difigure, ſe mai su i muri più affumicati ritro. yano quelle ſtriſcie fortuite
impreſſevi dalla caligine, le vanno combinando con la loro immaginazione, e
creano delle figure leggiadramente fimecrizzate, e canto ſi rifcaldano nel
vagheggiar opera loro, che le additano agli altri, come fe ivi foffero,e ſi
cruciano e fremono, e ingiuriano, quando queſti ſemplicemen te riſpondono di
non ravvifare, che orme irregolari di fumo. I Filofofi, e particolarmente i
comentatori hanno lo ſteſſo coſtu me, fiffi in un fiftema l'addatano a tutto
ciò che incontrano nell' autore da loro accarezzato, e dove egli ancora parla
nel modo più ſemplice, e naturale, e conveniente a'ſuoi principj, par loro di
fargli torto, ſe non l'abiſfano nelle loro profonde ſpeculazioni, e lo
dimoſtrano tanto più ammirabile, quanto nyono l'intendono, c quanto dagli altri
è meno intefo. In tutti i Dialoghi s'è prefiſſo FICINO, di far di Placone (a )
un Teologo Criſtiano, ma non so come ritorni in queſto Dialogo al (a ) Prima ex
quinque ſuperioribus de uno fupremoque Deo dixerint quomodo procreat
diſponitque deorum ſequentium ordines. Secunda de fingulis Deorum ordinibus, quo pacto ab
ipſo Deo proficiſcuntur ec. argum. Marſ.
Ficini Parm. vel de uño rerum principio, et de 9 ideis. (41 ) al Paganeſimo, e
vi traſporti tutte le idee fimboliche del Timeo, e del Fedro ſenza biſogno, e
profitto; e che coſa ſon queſti Dei che ſeguono Dio nell'ordine loro, ed in
qual parte del Parmeni de li ritrovo? Annullò il Serano gli Dei, e vi ſoſtituì
due ſorti d'idee; Dio è la prima e principal idea, le ſeconde ſono le va. rie
idee delle coſe create; ma ſe Parmenide non diſtingueva Dia dal mondo; coſe
affatto poeriche non ſono le idee divine? Non bado il Serano, che Parmenide
toglie all'ente ſino il tem po' preſente, e le toglie ancora l'eſſenza. Si, ma
intende il Se rano l'eſſenza delle coſe ſingolari, e quando Parmenide dice, che
l'uno è molte coſe, vuol dire, che egli dà la forza d'elfte re alle coſe
ſingolari. Or come ſi può includere nell'idea dell' uno, in quanto tale la
forza? E come poteva Parmenide inclu derla nell' uno, ſenza concepirvi l'
eſſenza, e nell' accoppiare l' eliftenza alla forza, e non concepir l' uno come
molti contro l? ipoteſi? La prima idea, dice il Serano, fi diffonde in maniera
ſulle coſe create', alle quali Dio dà la forza, e facoltà d ' eſiſtere, che ad
ogni modo circoſcrive ne' determinati cancelli dell' uno, la feffa moltiplici,
tà, e quaſi infinità delle coſe ſingolari. Queſta è la luce tenebroſa del Flud,
chi può ſpiegarla? Va il Serano peſcando le affezioni dell' idee ſeconde, e ne
ri trova ſei, dopo le quali la ſua vena metafiſica, e teologica, ſi conſuma, o
perde, ed in tutto il reſto del Dialogo immobil mente fiſto, ed eſtatico ſul
ceſto Platonico, par uno di que' Chineſi, che per molti anni guardandoſi la
punta del naſo s'im maginano di veder l'eſſenza divina; non batte egli palpebra
tutto concentrato in sè, nè degna abbaſſarſi a ſoſtener con note margina li
l'imbarazzato lettore. Io ſon ben lontano dal condannare le al tre note di
queſto autore, colle quali negli altri Dialoghi eſpone la conneſſione, e
callora le ragioni ſemplici del teſto, ma nel Par menide ſpiegando alto il volo
per emular il Ficino, li dimentica del ſuo coſtume, e laſcia in aſciutco il
leccore; ma come è poſſi. bile, che avendo egli canto ſtudiaco Platone, e
confrontati i teſti, nonabbia atteſo ad unpaſſo del Filebo, in cui li ſpiega il
fine, che Platone ſi prefiſſe in queſto Dialogo? Nel Filebo, che non ſenza ragione
gli antichi faceano ſeguir al Parmenide, cosi ſi parla da Socrate a Protarco.
Tu, o Protar dice Socrate, intorno l' uno ed i molti ai dette le coſe pubbliche
dei meraviglioſi, le quali, per dir cosi, ſono concedute da tutti, che non
fieno punto da toccarli, ejendone alcune puerili, e facili da conoſcerſi, e per
nuocere maſſimamente a ragionamenti, fe alcun le ammetteſſe; nè è Tom. II. f de
(42 ) - 1 1 tal uno, da ſtimarſi coſa meraviglioſa, ſe alcun dividendo rolla
ragione le mem-, bra d'alcuna coſa, e tutte quelle parti, confeſſando quella
eſerne una; di poi la confutalle, e ne prendeſe beffe quaſi sforzato a con.
feſare coſe moſtruoſe, cioè che una ſola coſa ſia molte ed infinite, ele molte
quaſi una ſola, E' quì da notarli quel dividere con la ragione le membra di
alcuna coſa, formula che egli repplica ſovente nel Parmenide, in cui dice,
ſeparar le coſe con l'intelligenza, e fino sbranarle; indizio manifeſto che qui
non ſi tratta, che d'aftrazione di ra gione, per cui nelle coſe più ſemplici fi
diſtinguono, non le par ii, ma gli attributi, e le relazioni che le fan molte
per rapporto alla mente; or tutto ciò che dice nel Parmenide dell'ente, e dell'
uno, non divien egli un di que' meraviglioſi puerili, de' quali par la Socrate,
fe non s'averte, che le contraddizioniſono apparen. ti, o che nel medeſimo
tempo, e ſecondo lo ſteſſo non s'aſcrive all'uno, il fimile e diffimile? Siegue
Socrate: quando alcuno giovane pone l'uno, non eſſer alcu na di quelle coſe, le
quali naſcono, e muojono, perciocchè quì un co come poco fa dicemmo, ſi è
conceduto, che non ſi debba con futare. Parla quà Socrate della prudenza, della
ſcienza, e della men te, di loro natura une, immortali, ed eterne nel ſiſtema
Piccagori co, e delle quali, come d'eſſere reali, parla nel Sofiſta. Conclude
Socrate: Ma quando ad affermare è altretto un fol Uo mo, un ſol bue, una coſa
bella, ed una coſa buona, allora veramen. te in queſte, ed in cotali unità ſi
rende ſollecito lo ſtudio, ed anche ſi fa ambiguala divifione. Primieramente ſe
ſieno da ammetterſi certe uni tà sì farte, che fieno veramente; di poi, in
qualguiſa ſia de penſarſi, che ciaſcuna di quelle coſe ſia una, e la medeſima
ſempre, nè fi pren da generazione, nè morte, ma ſe ne ſtia fermiſima nell'
unità di lei; finalmente ſe ſia da porſi alcuna coſa nelle coſe generate, od
infinite, o partita, ed oggimaifatta moite coſe, o tutta eſa in diſparte da ſe
medeſima, il che più di tutte l'altre coſe parrebbe impoſibile che uno, e lo
dello ſi facele parimente in uno, ed in molti. Quefto è l'uno, ed i molti che
ſi trovano intorno a cotali coſe, ma non quelli, o Protarco che non conceduti
bene ſono cagione d'ogni dubitanza, ed ogni facilità ben conceduti.
Manifeftiffimo è, che quì Socrate ripete le difficoltà ſull' idee ſeparate
fattegli da Parmenide, e ſu le quali confeffa, che impoſſi bile è di
scioglierle, indi fa attenzione al metodo inſegnato da Par menide, di cercar
l'idee per via dell' aſtrazioni, con le quali ſi to glie ogni difficoltà
intorno a'molti, e all'uno. Da queſti palli io deduco, che il fine di Platone
in queſto Dialogo altro non fu, che d'allontanarſi da quel meravigliolo e
puerile, in cui facilmente fi cade, quando non ben li diftingua no i concerci
della mente, o s'amia irasformare i concetti in ido li, ed a realizzarli
poeticamente, come faceano i Pittagorici. Per compir queſto diſegno fcelle
Platone il Filoſofo più ſpeculativo dell'antichità, e deſcritto da Socrate qual
Uomograve, evenerabile, e d'una profondità al tutto generoſa, il che vuol dire,
ſe non erro, che egli nella ſua maniera d'argomentare franca, libera, ed inſie
me profonda, nulla tenea del lopraciglio, e della vanità dei Sofi fi; Platone
quimoſtra fin dove arrivar pud l'ultima analiſi, che i Pitcagorici faceano
dell'idee, oltre le quali il procedere'era un eſporſi a pericolo di non più
intender quello che ſi dicea, comepur trop ро è arrivato ad alcuni Scolaſtici,
che fpingendo troppo, oltre le queſtioni oncologiche, ofarono ſin negare il
principio di con traddizione, ed affermarono chel'infinito ſi raggruppaffe in
un pun to. Nel GORGIA DI LEONZIO, nel Protagora, ed in altri Dialoghi contro
iSo fifti, coll'arte dell'ironia Socratica, li dipinge a diritto Platone quali
cacciatori mercenari d'uomini, mercatanti venditori, appal tatori di ſcienze, e
diſcipline falſe; ma chi può dire che Platone ebbe difegno di proporſi in
queſto Dialogo Parmenide, qual mer catante venditore, ed appaltatore di bujo
peſto, che così devono chiamarſi le quiſtioni tenebroſe, ed all'ambicate; bujo
peſto è quel lo di cui troppo liberalmente lo caricano il Ficino, ed il Sera
no, non quel che combina la doctrina d' Ariſtotele, con quella di Platone;
dotcrina che curt " i Peripatetici, e gli Scolaſtici ab bracciarono e che
ultimamente con tanta chiarezza e preci* fione, eſpoſe il Wolfio nella fua
Ontologia. Queſto Dialogo è primieramente ontologico, e preſo in queſto ſenſo
non ha in sè più di pericolo che la metafilica d' Ariſtocele, ma ridotta alla
Dialeccica, L'antica Dialetica verſava fu i generi di tutte le coſe, attenca a
compararli, a combinarli, per preparare' ed illuſtrare la quiſtio ne propoſta.
S'ingegna lo Stanlejo di ridur a tre generi la Dialec tica de Piccagorici.1. Ai
non ripugnanti, o ſia all'eſſenza delle coſe nelle quali ſi combinano, coſe tra
loro non contradditcorie.. Così l'eſſenza del triangolo o del quadrato, è
l'eſfer figure di cre o quattro linee, perchè non v'è ripugnanza, che il numero
ter nario o quaternario, s'adatti o fi combini alle linee rette. 2. Ai
differenti o alle coſe che tra loro ſi diverſificano nell'eſſenza, nc gli
attributi, e ne' modi; così il triangolo è differente dal qua drato, ed il
quadrato dal cerchio. 3. Ai relativi a'quali ſi riduco if 2 no (44 ) no tutte
le matematiche conſiderate dagli antichi, come il vero modello della diſciplina,
ed a cui i moderni riduſſero l'arte dell' analogie filoſofiche, ed il calcolo
de' probabili. Platone ſtabiliſce in molti luoghi non tre ma cinque generi del
le coſe; l'eſſenza o ciò che è, lo ſteſſo, il diverſo, il moto, e la quiere; a
queſte due ultime nozioni ſi riduceva tutta la fiſica antica, onde diſfe
Ariſtotele, che ignorato il moto s'ignora la natura. Lo ſteſſo e il diverfo
vaga per tutte le altre fcien ze; onde Platone dello fteſſo, e del diverſo,
compoſe l'anima del mondo, e la bellezza. Lo ſteſſo e il diverſo ſono relazioni
dell' ente in genere, fi ſpargono ſulle relazioni dell'ente in ſpecie, il
fimile, il diffi mile, Peguale, il maggiore, il minore, il nuovo, l'antico. Que
fta era la ſcala de'generi ſuperiori, o quelle nozioni ontologi che aſtratte
per l'acume della mente da' concreti, coſa ben di verſa dalla ſcala de'
predicamenti d' Ariſtotele. Il Wolfio fa propoſe per ultimo oggetto degli ſtudj
fuoi, di perfezionar" la Icala de'generi, e con eſſa ſciogliere il
problema dell' analiſ dell'idee, propoſta ma non trattata dal Leibnizio. I
Pittagorici ne diedero i primi ſemi, e Placone più li ſviluppò, applican doli
alla determinazione dell' idee, quindi è che nel Parmeni de tutti iſuoi
argomenti ſi riducono alle relazioni dell'ente, in genere dell'ente, in ſpecie.
Rinferrata ne' fuoi limiti la materia del Parmenide, il meto do che v’applica è
quello del principio di contraddizione, che ci conduce all' aſſurdo; metodo non
tanto accetto a noi, per. chè ci dimoſtra la noftra impotenza, ma che ci sforza
invin cibilmente all'faffenſo. In queſto metodo Platone ne aggruppa molti altri,
il metodo d' eſcluſione è quello dell'analiſi geo metrica. Nel metodo
d'eſclufione fi numerano tutti i caſi di una co ſa, e s'eſcludono o tutti per
dinotare l'aſsurdità, o tutti men in cui fi cerca la ſoluzione del problema.
Così Archi mede avendo dimoſtrato, che un dato poligono non è, nèmag giore, nè
minore del cerchio, nel quale è inſcritto o circon Icritto, conclude che gli è
eguale. Placone in molti caſi ado pra il metodo ſteſſo. Nel metodo dell'analili
geometrica, fi aſſume il quefito come
conceffo, e per legitime conſeguenze s'inoltra fino ad un ve 1 uno, ro (a )
Affumptio quæſiti tanquam conceſsi per ea quæ conſequentur ad verum conceffum. Wallis Il. dell’Algebra. To concesso, da cui
riteſsendo il ragionamento ', li dimoſtra il quelito; molti vogliono, che
Platone ſia l'inventore di queſto metodo, e che abbia fatto il Parmenide per
darne l'eſempio; maqueſti attribuirono al tutto ciò che conviene adalcune
parti, Utiliflime ſarebbono le metafiſiche de'moderni, fe i loro autori fi
foſsero limitati all'ipoteſi, e ſi foſſero guardati di proporle in for ma di
dogma, cagione d'eterni litigi non ſalvati, ne da ſtile elo quente, nè da
calcoli algebraici. Il Carteſio ſegui nelle ſue medi tazioni ilmetodo analitico,
ma diede occaſione a molti ſiſtemi più ſtrani de'ſogni, come quello degli
Egoiſti, conſeguenza dello fpi nofismo fpirituale. Che dirò dell'arte del
Dialogo, in cui s'è già dimoſtrato imi, tarſi i ragionamenti umani, come i
Poeti Dramatici aveano imi tate le azioni umane. All'imitazione. di queſte
convien il palco, ed il verſo, non all'imitazione de' ragionamenti, la quale
per ſua natura appartiene alla DIALECTICA: poco o nulla di leggiadria avrebbono
i sillogismi, egli entimemi in verſo, e poco o nulla lor gioverebbe l'apparato
della ſcena. Si è pur detto che la quiſtione, e la digreffione al Dialogo, è
come la favola, e l' epiſodio al Drama. Nel Parmenide la quiſtione è intorno
l'idee, ma non v'è digreſſione, ſe pur non fi voglia ridur a queſta, la
preparazione alla diſputa con Par menide, incominciata tra Zenone, e Socrate.
La differenza de' drami ſi prende dal diverſo modo dell'azio ne, la quale o è
ſemplice, o compoſta, e la differenza de’ Dia loghi dal modo del ragionamento,
nel quale, o s'inſegna, os inveſtiga da un ſolo, o s' inſegna, o s'inveſtiga da
molti la quiftione propoſta. A quattro generi riduce il Taffo i Dialoghi, al
dottrinale, al Dialettico, al tentativo, al contenzioſo. De’due primi generi è
miſto il Parmenide, perchè dopo di aver egli diſputato con Socra te, quaſi ſolo
favella, non contandoſi le riſpoſte d'Ariſtotele, approvazioni per lo più della
concluſione, o preghiere d' eſpor più chiaramente la ragione accennata. Nel
inlegnare qual fia la natura o l'idea dell'uno, qui non v'è tentativo, nè
litigio, nè in queſto Dialogo v'è molto a ricercare, ſe ſia meglio adat cato
all'inſegnamento che il maeſtro interroghi, od i diſcepo lo., perchè appena
termino la breve diſputa có Zenone, che Parmenide cominciò a interrogar Socrate,
ed avendolo confu? lo, ed imbarazzato con una difficoltà cui non poteva
riſpondere, Para (a ). Torquato Taſſo diſc. ful Dialogo. uno. Parmenide paſſa
ſenza interrompimento alle tre poſizioni dell ' Vuol Torquato Tallo, che come
una ſia l'azione nel Dra ma, così una fia la quiſtion nel Dialogo, la quale o è
infini ta, per eſempio ſe deve apprezzarſi la virtù, o è finita, per eſempio
che deggia far Socrate condannato a morte. La qui ftione del Parmenide è
infinita, perchè fi tratta dell' idee di cui ſi cerca la natura e l'origine, la
natura dimoſtrando che non ſono dalla noſtra mente feparate, l'origine
dimoſtrando come per via delle ſuppoſizioni s'acquiſtano. Queſte due coſe ne
fan no propriamente una, perché non ſi può intender la natura dell' idee ſenza
prima determinarne l'origine. L'una e l' altra determina Parmenide, e rimove l'
idee feparate per convertire il ragionamento al modo con cui la mente le
acquiſta. Parme nide lo propone, non lo dimoſtra per non allontanarſi dal co
ſtume della ſua fetta, che era di propor dubitando le coſe: Non è cutravia in
ciò ſolamente che appariſce il coſtume di Par menide. Dimanda Socrate, che gli
ſia dichiarata la quiſtione delle idee, ed intorno alle coſe che ſi veggono,ed
ancora intorno a quelle che ſi comprendono con la ragione. Parmenide, e Zenone
attentamente lo aſcoltano, eſpero guardandoſi l'un l'altro fog ghignano quaſi
di Socrate meravigliandofi. E queſta è quell'evi denza tanto neceſſaria al
Dialogo, e di cui Platone diede si chiari eſempj neli' Ippia, e nel Fedone.
Ella è qui ordinata a manife ſtare il coſtume d'un Filoſofo accento, e che
colla triſtezza, e coi fogghigni accenna, ciò che nel diſcepolo non s'accorda
con la ra gione. Un tratto poi del coſtume d'un Filoſofo attento, è do ve dice
Parmenide o Socrate troppo per tempo, innanzi che tu ti eſerciti a parlare, ti
sforzi di definire ciò che ſia il bello, il giu ſto, il buono, e qualunque
dell' altre ſpecie. Perchè poco fa il con fiderai vedendoti diſputare con
Ariſtotele. Per certo mi credi, que fto tuo fervore è bello è divino, il quale
alla ragion ſi conduce, ma recati in ſe ſtello, ed eſercitati mentre ſei
giovane in queſta fa coltà la quale a molti inutile, e ſi chiama dal volgo
garruli tà, altrimenti ſi fuggiria da la veritade. Parmenide qui accenna la
Dialectica in quanto vaga per cutti i generi, ſulla qual coſa poco dopo
ſoggiunge conſervando il co ſtume divecchio venerabile. Sarebbe cofa
ſconvenevole, cheſi trat tale maſſimamente da un vecchio certe coſe si fatte
alla preſenza di molti, non ſapendo il volgo, che ſenza queſto vagare, e
diſcerne re per tutte le coſeſia impoſſibile abbattendoſi nel vero acquiſtar
men te. Ariſtotele e gli altri lo pregarono, e Parmenide riſpoſe con un apo 7 pare
inutile apologo: egli è neceſſario finalmente che s'ubbidiſca, tutto che mi è
av viſo di tutto quello che patà il cavallo Ibico, cui Atleta e vecchio do
vendo prendere la conteſa delle carrette, e per l'eſperienza iremando de'
ſuccelli, alimigliando egli a ſe ſtello, dille cheegli già vecchio era
coſtretto di ritornar agli amori. Nel medeſimo modo diſſe Parmeni. de, a me
pare di temer malto, quando penſo in che guiſa cosè.d'età avanzata, io pola
paſar a nuoto un mare cosi profondo di ragionda menti. Intorno la ſentenza, o
ſia ciò che ſente il principale interlocu tore del Dialogo, ella è qual
conveniva a un Dialettico eſperto, nel vagar per i generi delle coſe, e
nell'argomentare, e ben de gno, che nelle coſe intellettuali Platone, Secondo
il teſtimonio di Apulejo, lo preferiſſe agli altri Pitiagorici, e n'imitaſſe la
ſotti gliezza, e nell' idee, e nel metodo di proporle. Nella Poelia. Epica,
altro è che il Poeta imiti narrando un facto, altro che introduca un degli
attori a narrarlo. Così nell' Odiſſea, aḥtre ſono le cofe che Omero
direttamente narra accadute ad Uliffe, altre quelle che narra Ulife ſteſſo.
S'in troducono ne' Poemi i racconti, per variar i modi dell' imita zione, ed
ancora per accreſcerla; ella è perciò doppia, quando nel Poema i perſonaggi
imitati, imitano effi fteffi col loro rac conto. In queſto Dialogo, Pitidoro
imita, narrando i diſcorſi che inteſe da Parmenide. I Dialoghi, benchè fpecie
di Poeſia Dramatica, in ciò con vengono con l' Epica, e Platone, che nelle
diſpute de'Filoſo fi volle imitare i combattimenti degli Eroi di Omero, emold
anche queſto nel modo di rappreſentarli. Nel Filebo propone ſenza alcro la
difputa chiaramente enunziata intorno la felici tà ed il piacere, nè premette
alcuna circoſtanza ſtorica ai ra gionamenti dei tre interlocutori, Socrate,,
Filebo e Protar co; così fa nel Sofiſta, nell' Eutifrone nelle Leggi, e nella
Repubblica, ma non cosi nel Convito, nel Fedone, e nel Par menide. Pitidoro vi
narra ciò che ha udito da Antifone, e queſto è modo più artificioſo dell'altro,
perchè vi ſi ricerca molta ſa gacità nel render neceffario il ragionamento, ed
accompagnar lo di quelle circoſtanze che più mettano la coſa fotto gli oc chi,
intereſſino il lettore ad aſcoltare i perſonaggi, e di tem po in tempo lo
ricreino con opportune digreffioni, ma tutte convergenti alla quiſtione
propoſta, ſenza che ſe ne accorga il lettore. Nel diſcorſo naturale noi
pafliamo ſenza rifleſſo da una coſa all'altra, ma nel Dialogo, ſe ſi vuol
imitando perfezionar la natura, nulla vi ſi deve introdurre ſenza ragion ſuf
ficiente. La ſomma difficoltà dell' artificio del Dialogo è nell:
interrogazioni, e nelle riſpoſte diftinte e preciſe, ma nel Par menide il
dialettico s'accoppia col dottrinale e queſta è la parte dominante, perchè
eſcluſe l' idee ſeparate, Parmenide ſem pre parla ſcorrendo per le
ſuppoſizioni.; ILLUSTRAZIONE D E L 1 PARMENIDE.}, ILLUSTRAZIONE di VELIA (si veda). tertentanut
Estates L A diſputa su l' idee fatta tra Parmenide, Zenone', Socra te, ed un
certo Ariſtotele, viene a Glaucone, e ad Adi manto riferita da Cefalo per bocca
d'Antifone, il quale avendo familiarmente converſato con Pitidoro compagno di
Ze none', avea su queſta materia udito da lui le ragioni dei tre Fi loſofi.
Reſtarono queſte cosi profondamente impreſſe nella me moria di Antifone allor
giovanetto, che molti anni dopo ſeb ben diſtratto dagli eſercizi equeſtri, poté
in tutte le loro cir coſtanze rappreſentarle nell' abboccamento, che egli ebbe
con Cefalo, e coi compagni. Tofto Cefalo eſpone il motivo della diſpuca
Parmenide ne Poemi avea detto che tutto è uno, e Zenone provato in uno ſcritto,
che uno non è molti. Si comincia la Jercura dello ſcritto, e Socrate vi fa
ſopra delle difficoltà a mi fura che ſi legge. Poco mancava' a' terminar la
lettura, quan do Parmenide con Pitidoro, e Ariſtotele entrarono in caſa. Si
leſſe di nuovo alla preſenza di Parmenide, e degli altri il pri moargomento, e
fi difputò incidentemente su la differenza del le due definizioni parendo a
Socrate, che il dire tutto è uno foffe lo ſteſſo che il dire, uno non è molti.
Glielo concede Zenone, é lodaća la ſagacità di Socrate dichiara', che non per
vanità o per 'arcano di Filoſofia egli ha' fcritto, ma per fo ftener l'orazion
di Parmenide contro coloro che ſi sforzavano di ſchernirlo, perchè ſe molte
contraddizioni degne di riſo pativa l' Orazion di Parmenide, molte altre di più
ridicole ſe ne inferivano dalle ſuppoſizioni degli altri. Zenone ſcriſfe il: li
bro nella ſua giovanezza, ma un certo avendoglielo rubato.fi pubblico. Si
ricomincia la diſputa. Parmenide, e Zenone lafciano a So. crace eſpor tutta la
ſua ſentenza su l'idee ſeparate, per le quali moſtrava la definizione dell'uno
da Zenone affegnata non eſſer univerſale ". Accorcol Parmenide, che tutta
la forza dell'argo mento (52 ) mento di Socrate fondavaſi su l’idee ſeparate,
l'imbarazza co ftringendolo ad aſſegnarne alle coſe fiſiche. Non sa Socrate ri
folvere la difficoltà. Parmenide fingendo di conceder l'idee ſe parate
argomenta contro la loro participazione, contro il lo ro progreſo all' infinito,
contro alla loro incomprenſibilità. So crate n'è molto curbato, credendo che
annullate l ' idee ſepara te non vi fieno più principj per ben filoſofare.
Ammira Par menide il fervor di Socrate, e lo conſiglia ad eſercitarſi nella
Dialetica per ben inveſtigare l'idee. Pitidoro ed Ariftotele, pre gano
Parmenide ad eſemplificar il metodo dell'inveſtigazione dell'Idee. Egli
ſcieglie l'idea dell' uno, e col metodo delle ſup poſizioni la tratta.
Orquattro ſono le quiſtioni che ſi poſſono eſtrar dal Parmeni de relativamente
alla definizione di Zenone, che l'uno non è molti. La prima è quella dell'uno
per rapporto all' idee feparate; Ia ſeconda dell'uno per rapporto asé; la terza
dell'unc per rap porto all ' ente; la quarta dell'uno per rapporto al non ente.
Le tre ultime quiſtioni ſono propoſte per via d'ipoteſi: ſe l'uno; ſe l ' uno è;
fe l'uno non è. Per non traſcurar nulla di ciò che agevola l'intelligenza del
Dialogo, premetterò partitamente ad ogni quiſtione la Ipiegazio ne delle voci,
e delle nozioni neceſſarie, ſtando più che mi ſia poſſibile attaccato alle
parole del teſto quale Dardi Bembo il tra duffe; mi par inutile di por tutto il
Dialogo, perchè eſſendoſi ri ſtampato di freſco, tutti coloro i quali hanno
vaghezza d inten derlo ſe ne faranno già proveduti,per gli altri èinutile e
vana ogni illuſtrazione. Zenone di VELIA defini l'uno ciò che non è molci.
Approva Ariſto tele (a ) queſta definizione, perchè in generale ogni defini
zione, dovendoſi aſſegnare per le coſe più lenfibilia e più note, l'eſperienza
di tutti i ſenſi ci moſtra, che i molti ci ſono più noti che l'uno; i fanciulli
più teneri nel coccare, nel vedere, e nell'udire pereepiſcono i molti, e la
loro cognizione è imme là dove hanno biſogno, che la loro ragione fi maturi un
poco per cominciare a dir uno, e quindi numerar su le I molti dunque eſſendo
più noti dell' uno, negandoli di forma 6 ) Metaf. lib. 1o. diata; dita. il (53
) il concetto negativo dell'uno in quella guiſa, che negando le par ti ſi fa il
concetto negativo del punto. Dall'uno G fa l'idea aſtratta dell'unità, come
dall'idea dell'uomo l'idea aſtratta dell'umanità. Tre ſono le ſpecie dell'unità;
la Lo gica, la Matematica, la Metafisica. L'unità Logica ſono i generi, e le
ſpecie, o certe idee univerſali atte a rappreſentar molti in uno; l'unità
matematica è il principio compoſitivo de' numeri, o il prin cipio per cui fi
numera; principio differente dal zero, da cui ſi nuinera. L'unità metafiſica' è
una proprietà traſcendentale dell' ente, o che conviene all'ente in quanto tale,
poichè d'ogni ente fi predica l'uno, come fi predica il vero, e il buono, o ſia
il perfetto, ma la verità, e la bontà, o la perfezione, inclu dendo ordine
nella varietà ſuppone l' uno, onde tra le proprie tà dell'ente egli è la più
univerſale (a ). L'unità o l'uno nel ſuo concetto aſtrattiſſimo preſcinde da
tutte le relazioni, potendoſi per l'aſtrazione della mente non riferire, nè
alle coſe che rappreſenta, nè a' numeri che compone, nè a ciò cui conviene: In
queſto ſenſo aftrattiflimo definiſce Zenone l' uno, opponendolo ai molti in
genere. Contro queſta definizione cosi argomenta Socrate. Vi ſono idee ſeparate:
dunque ogni idea eſſen do una in sè, e molti, nel participarſi a molti l'uno,
eimolti poſſono accoppiarſi; dunque non pud dirſi, che l'uno fia molti. Prima
di ſviluppar l' argomento rifletterò su certe voci, e nozioni di Socrate. $. 2.
Suppone toſto Socrate, che vi fieno idee ſeparate. L'idea ſe condo l'etimologia
della voce Greca, significa propriamente com fa viſta, e per traslato ſignifica
coſa inteſa, o ciò che s'inten de; ma tallora ſignifica l'atto per cui
s'intende, il qual però meglio ſi chiama nozione o concetto. Åleinoo defint
l'idea, intelligenza per rapporto a Dio, pri mo intelligibile per rapporto anoi,
miſura quanto alla mate ria, eſemplare quanto al mondo ſenſibile, effenza
quanto a ſe ſteſſa. In tutti queſti ſenſi la prende or Socrate, ora Parmeni de;
ma la prima nozione dell' idea ſeparata è che ella fia il primo intelligibile.
$. 3• ve ) Wolfo Metaf. (54 ) §. 3. Socrate: oltre l' idee del bello, dell'
oneſto, e del giufto, che Parmenide gli accorda, ammette ancora quelle del
limile, del diffimile, del moto, della quiete, dell' uno, e de' molti. Queſte
ultime idee ſono tra loro oppoſte e contrarie, come il caldo, il freddo, il
bianco, ed il nero; eſſendo contrarie, ciò che convie ne all'una, non conviene
all' alira, e quindi ſecondo Socrate i ge neri, e le ſpecie, idee più o meno
univerſali conſiderate in se non patiſcono paßioni contrarie, ma nulla vieta
nell'ipoteſi di Socrate, che non poſſano participarſi dalle coſe. 1 S. 4.
Partecipare è propriamente ritener in sè una parte d'un cutto;; così l'aria
partecipa la luce ', poichè ogni particella d' aria ha in sè una particella di
luce. In un ſenſo più ampio, la voce partici pare s'eſtende dalla quantità alla
qualità, all'azione, all effenza Iteffa.;. così ſi dice, che l'accidente
partecipa della ſoſtanza', gli effetti delle cagioni, un figlio le virtù,
eivizj.del padre: La par cipazione è quindi' più ampia della ſimiglianza
limitata alla ſola convenienza delle qualità, e molto più dell'imitazione, che
alla fimiglianza aggiunge la relazione tra il modello, e la copia; due gemelli
naſcendo saſlimigliano, e pur l'uno' non è la copia dell' altro. I Pittagorici'
nel riferir le coſe all' idee ſeparate, come a loro modellidiceano', che participavano
o imitavano l'idee, ma fecondo Ariſtotele non mai filoſoficamente ſpiegarono le
voci di participazione, e d'imitazione. S. 56 Cið fuppoſto, il primo argomento
di Socrate tratto da queſti principj fi pud diſtinguer in due per maggior
chiarezza. Ogni idea è una in sé, ed una in molti, dunque nel tempo ſteſſo, uno
può efser molti. Cosi lo conferma, Benchè l' idee lieno tra loro con crarie,
nondimeno poſsono eſserº nel tempo ſteſso participate da. molti, anzi dallo
ſteſso ſecondo diverſi riguardi, ma in queſte participazioni ritengono la loro
unità, dunque: ſon uno e molti. Così lo prova: oppoſte e contrarie ſono tra
loro l’idee, del ſimile, del diſſimile', del moto', della quiete, dell’'uno; é
dei molti; dunque comenulla viera, che lo ſteſso poſsa aver more in Metaf, in
una parte, e quiete nell'altra; eſfer fimile ad un altro in una parte, e
diffimile nell'altra, così nulla vieta che ſia uno, e molti; una Caſa ha molti
legni, e molte pietre; ogni. Uo mo è uno conſiderato in sè, ed è o ſeſto, o
ſettimo conſide rato con altri. la un Uomo, altra è la deſtra, altra la fini
ſtra, altre le parti dinanzi, altre di dietro, altre le ſupreme, al tre le
infime. Nel Sofiſta egli dice; noi chiamiamo un Uomo denominandolo con molti
cognomi, mentre a lui attribuiamo i colori, le figure, le grandezze, le virtù,
ed ivizi: nelle quali coſe tutte, ed in altre infinite, non ſolamente diciamo
che egli fia Uomo, ma ancora buono, ed altre infinite coſe, e le altre fecondo
la ſtella ragione. In cotal gui sa fupponendo noi qualunque coſa una, di nuovo
l'appelliamo molte e con molti nomi..... Onde ſi è da noi data occaſione di
contraddi re, come jo penſo a' giovani, ed a ' vecchi di tardo ingegno: percioc
che incontinente ci potrebbe chiunque far obbiezione che ſia coſa impos fibile,
che molte sofe folero una, ed una molte. Dunque uno può eſſer molti; dunque non
è generale la de finizione, che uno ſia non molti. La participazione dell' idea
evidentemente lo manifeſta. Sciolto è l'argomento ſe fi nega l'ipoteſi dell'
idee ſeparate perchè colte l'idee è colca la loro participazione. Parmenide ri
gecta l'ipoteſi, come nè generale, nè chiara; non generale.per chè non
s'eſtende a cutti i cafi poflibili i; non chiara., 'perchè non pud fpiegarſi la
participazione dell'idea. Cost:provo la pri ma parte non ſi debbonoaſſegnar
idee delle coſe ſeparate, o aſſegnarſene di tutte le coſe '; che vuol dire, non
baſta affe le.coſe morali, e matematiche, mabiſogna af. ſegnarne ancora per le
fifiche: dunque non ſolamente vi ſono idee del giuſto, del bello, del buono,
del grande, del fimile ec, ma dell'uomo, del foco, dell'acqua, e d' alcune coſe,
che molti fimano per avventura ridicoloſe; i peli, il fango, le macchie., ed
altre coſe ignobili, e vili. Socrate toſto lo nega, perchè gli pare, che
ammettere queſt' idee, ſarebbe coſa troppo diſconvenevole, poi can didamente
confera, che alcuna volta queſto penſiero lo turbo, e che quando di là fi ferma
ſe nefugge temendo di non corrompere la ſua mente, e fantaſia cadendo in
ciancie ineſplicabili., onde a quelle coſe ritornato (cioè all'idee del giuſto,
del bello, del buono, ed all idee 'matematiche ) verſa intorno a quelle. In (a
) Sof, pag. 306, (56.) In un caſo ſimile ſi ritrovò il P. Malebranchio;
ſentendo egli la difficoltà di ſpiegar chiaramente, come l'eſtenſione
intelligibi-: le, eſſendo immobile in Dio, gli rappreſenti il moto, ove il
luſtra queſto articolo dice nel fine: (a ) Io non oso impegnarmi'. a trattar
queſto ſoggetto a fondo, temendo di dir coſe, o troppo aftrat te, o troppo
ſtravaganti, o ſe ſi vuole, per non azzardarmi a dir co ſe che non so, nè sono
capace di diſcoprire. Queſto è il ripiego di Socrate. Ariſtotele (do ) ove
nella Metafiſica combatte l' idee ſeparate malamente attribuite a Platone,
adduce tra l'altre coſe, che dandoſi idee ſeparate ſi dovrebbe darne de'
ſingolari, de' corrut tibili; egli non eſtendeche l'argomento da Parmenide
eſemplifica to, e poida Alcinoo, che afferi non darſi nel fiſtema de' Platonici
idee delle coſe arcifiziali; uno ſcudo, una lira ec. ne delle co fe oltre
natura la febbre, la bile non naturale; non delle coſe ſingolari, Socrate,
Placone; non delle vili, ed abbiecte ſozzure, paglie ec. donde traffero i
Platonici dopo Ariſtotele, queſta di ſtinzione, ſe non dal Parmenide? Propoſta
che ha VELIA (si veda) un'obbiezione, che Socrate non può riſolvere, egli
cangia l' argomento ad judicium in quello aid hominem, che vuol dire non
argomenta più ſecondo i principi della ragione univerſale, ma ſecondo i
principj del diſputante, e ne deduce la contraddizione. Suppone dunque che vi
fieno idee ſeparate ", ma come poi date queſte idee lo ſpiegare che lieno
participate dalle coſe Queſta participazione ſi fa, o ſecondo il tutto, o
ſecondo la parte. Parmenide dimoſtra, che nèl'uno, nè l'altro può eſſere. Sia
da una coſa participaca l'idea ſecondo il cutco, dunque tut ta l'idea è in ſe
ſteſſa.; e tutta fuori di ſe ſteſſa; dunque nel tempo ſteſſo eſiſte tutta in sè,
e cutca fuori di sè. Siaľ idea conliderata in sè A, e participata fia B, C, D
ec. generalmen te, o non A; dunque nel tempo ſteſſo l'idea è A, e non A, ciò
che è contraddittorio. Nè occor dire che un giorno è uno, e lo Steffo, ed
inſieme in mola ti luoghi, e pur non è da ſesteso in diſparte. Il giorno non è
che la luce del sole, diffuſa in tutto il noſtro emisfero. Or quel la parte di
luce, che illumina me, non illumina il compagno ſebben mi lia vicino. Parmenide
li ſerve dell'eſempio della ve la, (a ) Ricerca della verità T. 4. pag.... (b )
Metaf. I..... (57 ) la, la quale molti coprendo, non è perd una in molti,
perchè la parte c he copre l'uno, non è la parte che copre l'altro. Reſta
a dimoſtrare, che l'idea non è participata dalle coſe ſe condo una parte; la
dimoſtrazione è da se manifefta, perchè l'idea participata ſarebbe una, e non
una; una tutta in sè, e non una nelle coſe che ne hanno ſolo una parte. Queſto
modo d'ar gomentare, è fondato ſul principio di contraddizione adoprato lovente
da Platone, e ſtabilito da Ariſtotele, come il primo prin cipio in cui ſi
riſolvono cutti gli altri. Eſperimentiamo noi cal eſſere la natura della noſtra
mente, la qual mentre giudica che una coſa ſia, non può inſieme giudicare, che
la ſteſſa non ſia. Parmenide eſemplifica l'impoſſibilità di queſta ipoteſi. 5.
8. La grandezza è ciò che è capace di più e di meno. Nel conce pir il più fi
concepiſce il maggiore, nel concepir il meno fi conce piſce il minore, e nel
concepir l'eguale non ſi concepiſce nè più, nè meno nelle quantità che ſi
comparano. lo dico che li comparano, perchè nè il più, nè il meno, nè l' eguale
concepir ſi poſſono ſenza riguardar una coſa nel tempo ſteſ to che l'altra o
ſenza compararle, e in queſta comparazione pro priamente la grandezza confifte,
la quale, come ben dice il Wol fio, non ſi può concepir ſenza un altro a
differenza della quali tà. Tutto quindi l' effer della grandezza è relativo, od
ha tut to l'eſſere in ordine ad un altro. Così Platone eſpreſſe la natu ra
della relazione nel Politico, nel Simpoſio, nel Sofifta, e pri ma di lui
Archita, ed Ocello, (a ) i quali diviſero la relazio ne in quattro generi. Da
queſti autori traſfe Ariſtotele (6 ) la definizione, che dà della relazione.
Nulla perd vieta, come et proverà, che per compendiare i concetti non ſi
concepiſca la gran dezza come qualche coſa di aſſoluto, a cui accade – eſſere
mag giore, minore, ed eguale, e che di nuovo ſi concepiſcano il maggiore, o'l
minore come aſſoluti, a' quali accada il più, o meno, o nè l'uno, nè l'altro.
Suppoſto dunque, che fi dia l'idea della grandezza, e in conſeguenza del
maggiore, del minore, dell' eguale, così argomenta Parmenide. Sia A l'idea del
maggiore, B del minore, C dell' eguale; ſi dividano tutte2, e tre in parti
ineguali: С poichè dunque una coſa in canto è maggiore, in quanto partecipa
l'idea del maggiore, lia l'idea - B del maggiore A diviſa in parti ineguali, e
la parte minore delmaggiore ſia participata, quello che la Tom. II. h par (á )
Diſcuſ. Perip. Patriz; T. 2. pag. 185. (b ) Ad aliquid alia dicuntur quæcunque
quod ipſa ſunt aliorum effe dicuntur. o il A (58 ) partecipa non ſarà egli nel
tempo fefto, e maggiore, e mino re? Maggiore, perchè parcecipa l'idea del
maggiore; minore per chè parcecipa la parte minor del maggiore. Così potrà
dirli della participazione della parte più picciola dell'idea del minore, e
dell' idea dell'eguale. Se'l idee dunque fi participano dalle coſe, ſe condo
una parte loro non potrà mai effer quefta, una delle par ri ineguali. Parmenide
non procede olore, maè facile l'aggiun-. gervi, che nè meno pud parcicipare
delle parti eguali, perchè la parte.eguale del maggiore participata dalla coſa,
la farebbe nel tempo ſteſſo eguale, e maggiore; e così la parte eguale del mi
nore, ſarebbe la coſa minore ed eguale.. 9. La noſtra mente, come per ſua
natura non può concepiricon tradditrorj, così non pud frappaſſar l'infinito,
biſogna che s'ar reſti ad un primo, o ad un ultimo, il qual è come Tuncino che
ſoſtiene curri gli anelli della catena. Ariſtocele, e'ne'mori, e nel le
cagioni, e ne'fini dimoſtra l' aſſurdità del progreſſo all' infini 10, modo d'
argomentare imparato dal Parmenide di Platone non men che l' altro del
principio di contraddizione. Il Wolfo dimoſtròeffer impoſibile il progreſſo
all'infinito rectilineo, e cir colare. g. 10,. Poſta l'aſſurdità del progreſſo
all'infinito, così argomenta Par menide: Tu ſtimi che qualunque ſpecie fia una,
quando pare i te cbe certe, e molte coſe fieno grandi, parendoti per avventura
in ris guardando a tutte le coſe, che ſia queſta una certa idea, onde tu penfi
che il grande fia uno. Prima d'inoltrarſi è da oſſervare, che qui Platone
inſegna, co me comparando le coſe, nel riflectere a quello in cui conven gono,
ne riſulta un'altra idea, come prima avea inſegnato Epicarmo, Queſt' idea è
ſempre una, perchè uno è l'atto della mente con cui ſi rifletre a ciò che le
coſe hanno di commune. Continua Parmenide: Se'il grande, e l'altre coſe che
ſono grandi nel medeſimo modo conſideralli per tutre le coſe, non apparirebbe
egli da capo ceri' una coſa grande, onde farebbe neceſſario che queſte tutte
pareffero grandi? Vuol dire che nel compararſi dalla mente di nuovo l'idea del
grande con le grandezze participate, nè riſulta un'altra idea di grandezza, per
la qual coſa concludeParmenide: apparirà di nuo po altra ſpecie di grandezza
fuor do esſa grandezza, e di quelle che fono ! (59 ) fono partecipi di lei, e
dopo tutte queſte, altra di nuovo con cui som rebbono queſte grandi, nè pide
qualunqueſpecie fia una, ma piuttoſto di numero infinito. La ragione è, che
l'idee della grandezza di nuovo aſtratte nella comparazione, eſſendo per loro
natura re lative faranno fena pre di nuovo comparabili, e così all' infini to.
Ariſtocele su queſto fondamento del Parmenide, e tutti i Platonici, e tra gli
altri Alcinoo dillero, che non fu potea aver idee de relativi. $. 11. cioè per
Dal modo con cui Parmenide comparando l'ideę, altre idee He deduffe, concluſe
Socrate, che le ſpecie ſono' atti dell'intel fetto, i quali non riſiedono, che
nell'animo. Gli concede Para menide, che ogni atto dell' intelletto è uno, ma
gli fa confef fare, che queſt' acto ha un oggetto, ed è l' ente'; l'ente perd
in quanto ſi concepiſce o s'intende', non s'immagina o ſente: prende egli qut
l'idea, non per la nozione, o per il concetro' della mente 1 atto, ma per la
relazione che ella ha ad un certo oggecto, e conſidera l'unità dell'idea' non
relativa mente all'atto dell'intelletto, ma all' ente che la partecipa poichè
ſecondo i principj di Socrate, ella è ſempre la ſteſa in tutte le coſe. Ne
deduce per confeguenza, che ſe l'idee ſono' at: ti dell'intelletto, le coſe che
partecipano della ſpezie', o deli? idea faranno tutte intellective, ed
intelligibili. Vi riſponde So crace, che le coſe non partecipano' dell' idee,
in quanto' queſte fono atti dell'intelletto, ma in quanto rappreſentano le coſe;
che vuol dire, in quanto l' idee Tono eſemplari, di cui le co fe fono
limiglianze; onde in tanto le coſe le partecipano', in quanto ad effe li fanno
ſimili. Parmenide contro queſte fimi glianze dell' idee, argomenta coll'
aſſurdità del progreſſo all' ip knito, come fece delle grandezze. $. 12
Supponiamo che' molte' coſé' fieno ſimili per la participazione dell' idee
della ſimiglianza. Potendoſi dunque comparar dall'in telletto le ' fimiglianze',
e delle coſe, e dell' idee, Te' ne' eſtrar rà un'altra' idea di ſimiglianza, e
queſta di nuovo comparando 1' idee con le coſe, darà un' altra idea di
fimiglianza, e co sh all'infinito, cio' che è aſſurdo”. Cosi eſprime queſto
argo mento Parmenide: non ſarebbe egli neceſſità grande, che' quel che è fimile
al fimile' folle partecipe dell' uno, e della fleffa ſpecie? Or hi 2 non (60 )
5 non ſarà ciò la ſtessa ſpecie, di cui le fimili coſe rendendoſi partecipi
fiano fimili? Dunque non può alcuna coſa eller ſimile alla ſpecie, ne la ſpecie
ad altrui, altrimenti oltre alla fpecie', altra ſpecie ſempre apparirebbe, che
ſe ella folle fimile ad alcuna coſa altra dacapo', ne cellerebbe mai queſto
progreſo, che non ſi faceſſe ſempre nuova fpe cie, ſe ancora folle ſimile la
ſpecie, a chi di lei ſi rendeſe partecipe: Ariſtotele propoſe lo ſteſſo
argomento ſebben oſcuramente L'Uomo, dice, ſignifica non meno la ſoſtanza
ſenſibile degli Uomini ſingolari, che la ſoſtanza intelligibile dell'Uomo per
sè, o fia l'idea dell' Uomo. Or ſe queſt' idee convengono in una coſa comune,
fi concepiſce comparandole un terzo Uomo, equin di un altro, e così all'infinit.
Ariftotele creſce l'aſſurdità Socrate lingolare participando dell'Uomo
univerſale partecipa, e dell'animale e dell'animale a due piedi, e d'altre coſe,
ciod, quelle che ha comuni colle piance, colle pietre, ed altre innume rabili.
Converrà dunque moltiplicare all'infinito l'idee, onde per una coſa ſenſibile
converrà porne infinite; ſi può aggiungere che queſto numero di nuovo ſi
moltiplicherà all'infinito am mettendoſi l' idee dei relativi, poichè ogni coſa
che è nell'Uo mo, pud compararſi a turce l' idee delle coſe viſibili, ed
invidia bili, o della ſteſſa, o di diverſa ſpecie. Ma l'Uomo ideale, diceano i
Pittagorici, effendo incorrutti bile, ed univerſale non ſi può comparar a coſa
ſingolare, e cor ruttibile, ed eſtrarne quindi nuova idea? Ariſtotele vi
riſponde: i binarj feparati ſono anche eſſi incorruttibili, e pur per conoſcer
li biſogna dar un'idea comune di binario, in cui convenga il binario B, il
binario C ec. In oltre l'idea di figura è comune al cerchio, al triangolo, ea
tutte le figure piane e ſolide, onde ella, è propriamente ge nere relativamente
alle ſpecie, ma chi può mai conoſcere una figura che non ſia, nè cerchio, nè
triangolo, nè altra ſimile? Intanto la concepiſce la figura in genere, in
quanto la mente non s' applica, che ai limiti che circonſcrivono lo ſpazio, fen
za far attenzione rifeffa, nè al modo, nè al numero, nè al fito dei limiti
ſtelli. Spiegherd la coſa con un eſempio più fa cile. Egli è impoſſibile che io
concepiſca un triangolo ſenza rappreſentarmi che egli fia, o Equilatero, o
Iſollele, Sca leno; altro è poi, che nel rappreſentarmi uno di queſti crian
goli io non faccia determinata attenzione alle ſpecie dei tre lati. Noi non
intendiamo le cofe, dice San Tommaſo, ſe non cona vertendoſi a' fantasmi loro.
Ora a qual fantasma è anneſſa l' idea della figura? Confuſamente a tutte le figure;
ma io non ne, con (01 ) conſidero diſtintamente alcuna, e ſolo attendo a ciò in
cui cut te convengono, ed è d' eſſere uno ſpazio circonſcritto; ma ſe nel
concepire l' idee de' generi delle coſe matematiche v'è canta dif ficoltà
ammettendo l' idee ſeparate, quale ve ne ſarà nell'idee metafiſiche?
Nell'ipoteſi Pitagorica ſi dovranno aſſegnar idee del poflibile, dell'ente,
dell'atto, della potenza, della cagione, del principio, del modo,
dell'attributo, del terminato, è dell ' indeterminato, del neceſſario, del
contingente', del perfetto dell'imperfetto ec. nè ſolo di queſte coſe, ma del
prima, del dopo, dell'inſieme, del ſeparato, e finalmente del genere in quanto
genere, e della ſpecie in quanto ſpecie: coſe tuote af furdiffime nè abbaſtanza
eſaminate da coloro che preteſero che noi vediamo le coſe in Dio, perchè ad
ognuna di queſte coſe non men che all'eſtenſione, ed al numero dovrebbe
aſſegnarſi un'idea, Ariſtotele con gran ragione v'aggiunſe, che neli ipo teſi
dell' idee ſeparate, oltre l'idee de relativi converrebbe am mettere l'idee
delle negazioni, e delle privazioni, o degli op pofti, cioè dei contraddittori
dei contrarj ec. 9. 13. Dace l'idee, data la loro participazione, ed eſcluſa la
compa razione a'ſenſibili, ricerca Parmenide fe debbonſi annoverare l'idee tra
gli enti relativi; od aſfoluti. Vi fono delle coſe, di cui tutta l'eſſenza
conſiſte nel riferir fi all'altre, e queſte ſono relative, (8. 8.) é ve ne ſon
altre di cui l'eſſenza conliſte nella non ripugnanza dei predicari, che le
coſtituiſcono, e queſte ſon le affolute; Poichè tutto l'efferé de’ relativi è
nel loro confronto, (5.8. ) includono effi neceffaria. mente due termini tra
loro oppoſti, il fondamento dei quali fo no le coſe affolute, che tra loro fi
comparano; quindi il fonda mento del relativo è sempre l' aſſoluto. Un Uomo
fuffifte per sè, e ſe foſſe ſolo nel mondo, non farebbe nè Padrone, nè ſer-' vo,
ma ſuppoſto che viva in una ſocietà, può eſſer l'uno, e l' altro, in guila però
che non è ſervo in quanto Padrone, nè Pa drone in quanto ſervo, ma come Padrone
ſi riferiſce a coloro cui comanda, come ſervo a coloro cui ubbidiſce, e l'uno,
e l' altro gli accade in quanto è Uomo, ed a diverſi Uomini li ri. feriſce.
Poichè dunque l'idee fi riferiſcono ai fimili che le par tecipano, biſogna che
ſieno in ſe ſteſſe e parimenti perchè i ſimili che partecipano l'idee fi
poffano riferir all’ idee, convie ne che fieno in ſe ſteſi. Biſogna in una
parola, che l'idee, e le coſe che le partecipano abbiano un' eſſenza
determinata. Con clude (62 ) 1 clude quindi Parmenide, che l'idee hanno tra
loro, un ' eſſenza, ma che queſta non è un eſſenza tutta: relativa alle coſe
che ſo no appreſſo di noi, o pure le coſe fi nominano ſimiglianze, o in
altramaniera di cui facendoſi partecipi, noi la nominiamo con, qualunque di
eſſe.;. aggiunge parimenti, che le coſe che ſono in noi, non hanno la virtù ſua
d'eſiſtere in verſo l' idee, ma fono quel che ſono relativamente a ſe ſteſſe.
Parmenide quin di chiama le cofe. che ſono in. noi,, e: in torno a noi:
equivoche: all' idee.. Cagione equivoca: degli animali, delle piante, de
metalli ec. diſero Ariſtocele, e gli Scolaſtici il Sole, perchè ſebben concorra
alla loro generazione, non conviene con loro, 0 non gli aſſomi glia che
nell'eſſere. Parmenide parlando ad bominem par che allu da all' opinione di
Socrate, il quale nell' ammecter l' idee, come cagioni delle coſe, era sforzato
ad ammetterle come cagioni equivoche,, non potendo ammetterle, come cagioni
eſemplari, il che: Ariſtotele così: dimoſtrò:-ſe quando l'Uomo fi genera da
Socra te, eglis'alfomiglia all'idea, e non a Socrate, fi potrà generar: { mile
all'idea, liavi o non ſiavi Socrate;; ma ľ Uomo generandofia non s'aſſomiglia
all'idea, ma a Socrate, come è manifeſto dall' eſperienza; dunque Socrate, e
non l'idea è l'eſemplare del generato: Poſto dunque che l' idee: influifcano
nella generazion delle coſe, convien ſempre porle, come cagioni equivoche;: ma
da: chi Ariſtotile traffe cal idea, ſe non da Placone? ' Or fe: l'idee non
hanno relazioni alle coſe, o ſono diloro ca gioni equivoche, come poſſiamo
conoſcerle? Se le piante, de pie tre ragionaſſero,. potrebbono
mairappreſentarli (rimirando ſe fteſ. ' fe,. ), che il Sole foſſe loro: tanto
diſſimile? che ebbe. tanta parte nella loro generazione. Le noſtre idee non
ſono cagioniequivoche delle coſe, le quali noi produciamo affilandoſi ſul loro
modello. Un Architeto uno Scultore, un Pitcore fanno la caſa, la ſtatua,.,
l'immagine ſecondo l'idea che ne hanno formata, e perciò comparano l'effet to
all' idea per miſurarla,, e perfezionarla;, nella combinazione dell'idée chiare,.
e diſtinte conſiſtendo la ſcienza, l'oggetto del la noſtra ha ſempre
proporzione all'idee che d'effo formiamo;.. ma ſe l.idee: ſeparate come cagioni
equivoche non hanno alcu na proporzione con le coſe che vediamo, non par
poffibile di: riconoſcerle, e in conſeguenza aver- Scienza di loro. Delle co fe
quindi rivelate, non abbiamo ſcienza ma fede; ſono certe, € infallibili, ma non
a noi: chiare e diftinte.. Platone nel Filebo ſtabiliſce due generi di coſe;
altre non 'han no avuto origine, nè finiranno giammai, perchè ſono immutabi li,
e fempiterne; altre non ſono perchè ſempre 'fi fanno ſono a generazione, et corruzzione
ſoggette: À queſti due ge neri di coſe, ' fa corriſponder due generi di
cognizione; delle coſe immutabili, ed eterne ſi ha ſcienza, dell' altre non ſi
ha che opinione. Le coſe di cui s' ha ſcienza ſono l'idee, perchè ſono ſempre
nello ſteſſo ſtaro, nè ſi può ſapere ſe non ciò che è, ed è ſempre nel medeſimo
modo; le coſe di cui s' ha opinione fono le coſe ſenſibili, perchè
continuamente fluendo, non ſono mai nello ſteſ fo ſtato. Come dunque Placone
nel Tilebo, dà fcienza dell'idee, e nel Parmenide non la dà? La riſpoſta
generale è, che da cid che ſi dice in un Dialogo,nulla deve inferirſi
relativamente a cid che ſi dice nell'altro, perchè Platone non ragiona ſecondo
la ſua ſentenza, come nelle lettere per eſempio, ma ſecondo le ſenten że altrui;
oltre a cid, Platone trattando nel Filebo della defini zione della ſcienza egli
è manifeſto, che tratta ſolo della ſua pof fibilità relativamente all'oggetto,ſenza
poi procurarſi di cercare, ſe ſi dia o no tale ſcienza negli Uomini, I
Matematici definiſco no il cerchio, e il triangolo in quanto è poffibile, nè fi
curano ſe eſiſta o.no: quindi ben ' li definiſce la Filolofia, la Scienza dei
poffibili in quanto tali; nel Parmenide non della poſſibili tà, ma
dell'attualità della ſcienza ſi tratta, e Parmenide mo ftra, che dandoſi l'
idee ſeparate non poſſiamo aver 'ſcienza di effe, perchè non hanno alcuna
proporzione con noi, e con le coſe.noſtre. 5. 15. Ammettendo con S. Agoſtino, e
S. Tommaſo, cheIddio ab bia idee, e molte idee, onde per eſſe conoſca i
ſingolari, i fu turi, i contingenti, gli infiniti, non perciò poſſiamo dire,
che abbiamo ſcienza dell' idee di Dio, o che poliamo conoſcere co me per queſt'
ideeegli conoſca le coſe. Il Malebranchio, ed il Poiret, che lo tentarono,
caderono ſecondo la fraſe di Socrate in ciancie ineſplicabili. 1. 16. (64 ). S.
'16.: s' inoltra Parmenide: La ſcienza in sè conliderata è un'idea, come la
bontà, la bellezza ec. ma ſe queſt' idea della ſcienza, non ha alcuna
proporzione alle ſcienze a noi note, non poßia mo conoſcerla, poichè le ſcienze
intanto a noi ſono note in quanto verſano su noi, o su le coſe che ſono intorno
a noi. Or non conoſcendo l'idea della ſcienza in quanto tale, nè men poſſiamo
conoſcere ſcientificamente l'altre idee, perchè per aver ſcienza dell' altre
idee convien participar dell'idea della ſcien za, ciò che è impoflibile:
Parmenide par qui ſupporre che la noftra ſcienza paragonata all'idea della
ſcienza ſia come il zero all' infinito ma ſe noi non participiamo dell'idea del
la ſcienza, come potremo ſcientificamente, o chiaramente, e diſtintamente
conoſcere il bello, l'oneſto, il giuſto, e l'altre idee? Nulla a mio credere
v'è di più acuto, e profondo che queſtº argomento, e quel d ' Ariſtotele non
l'eguaglia, benchè per altro concluda contro l'ipoteſi dell' idee ſeparate.
Oſservò egli che lº idee eſsendo immutabili per loro eſsenza, non ſi può per
eſse ſpie gar il moto, dalla cui cognizione dipende quella della natura; dunque
l' idee ſono inutili alla ſcienza per cui furono introdotte. Coloro i quali
amiſero con Eraclito, che le coſe ſenſibili ſono in un continuo fluſso,
ricorſero all'idee ſeparate, le quali immutabili eſsendo, ſomminiſtravano a?
Filoſofi dei principj immutabili del loro ſiſtema; la difficoltà è come i
Filolofi le conoſceſsero, ſe la lor mente, non nell' eſsere, ma nell operare
dipende dagli organi del corpo umano, ſoggetto alle vicende dell'altre coſe
fenfibili? f. 17. All' argomento tolto dal principio di contraddizione del pro
greſſo all' infinito, Placone aggiunge l' altro tolto dalle perfer zioni Divine.
Come il retto è la miſura di ſe ſteſſo, e del cur vo, così il cumulo di tutte
le perfezioni che è in Dio; ci ſer ve di miſura per giudicare, e delle
perfezioni di Dio ſteſso, e di quelle dell'altre coſe. Per via del principio di
contraddizio: ne del progreſso all'infinito ſi dimoſtra l'eſiſtenza di Dio, e
per via, o di negazione, o di eminenza, o di caſualità, fi di moſtrano le
infinite perfezioni di lui, onde ſe a qualche data ipoteſi conſegua
l'annullazione di qualche perfezione divina, l'al ſur ſurdo è maſſimo, perchè
Dio nell' effer principio dell'eſiſtenza, è ancora principio di tale eſiſtenza,
e nulla può eſiſtere ſe ri pugna alla natura Divina. Socrate non potea non
conoſcer Dio comeprincipio intelli gente, dunque era neceſſario, che gli
attribuiffè l' idee non me no convenevoli all'intelletto, che i tre lati ad un
triangolo; pur tace Socrate, quando Parmenide gli prova, che la perfec tiſſima
ſcienza o P idea della ſcienza convenendo a Dio, egli per queſt' idea non
poteva conoſcer le coſe, ciò che era con trario alla divina natura. Par dunque
che Socrate ſupponeſſe l' idee ſeparate, ma dall'altra parte Ariſtocele dice
chiaramen te, che Socrate noo ammetteva l' idee ſeparate ſe ben deffe gli
univerſali. Non ſi ſoddisfarebbe in parte alla difficoltà, di cendoli che
Platone, per bocca di Socrate, parlò dell' idee in fenfo poetico, per aver
occaſione d'annullarle, e propor la doc trina che ha da lui copiato Ariſtotele,
e della quale poi ſi ſervì contro que' diſcepoli di Platone, che realizzarono
l' idee ſeparate.. 18. Annullate l' idee ſeparate, la voce idea nel progreſo
del Dia logo, tutta fi riſtringe all' idee, che la mente aftrae comparan do le
coſe. S'è già accennato ($. 8.) il modo, con cui deduſ fe Parmenide l'idea
della grandezza, e de' ſimili, e li vedrà inoltrandoſi, che egli parlando dell'
uno e dell'ente, proteſta di ſeparar le coſe con l'intelligenza, e con queſta
fino sbra narle', che è quanto dire, diſtinguer i concetti o l' idee, ſecon do
i rapporti delle coſe, foſſero ancora quefte ſempliciffime; nulla v'è di più
ſemplice dell'anima per ſua natura indiviſibi le, e pur in eſſa ſi diſtinguono
varie potenze, ſecondo le rela zioni, che ai varj organi del corpo ella ha
operando, onde fi dice che ella ſente, ë che ella immagina. Nella parte ancora
intellettiva, ſi diſtinguono le facoltà che ella ha di comparare, e di aſtrarre,
e di combinare e di, e di contemplare l' idee', onde ella dichiaraſi mente, e
ingelletto, (c ) voci non altrimenti fi nonime, poichè le loro etimologie di
confrontano ai varj uffizj dell'anima; tutte quindi le ſcienze ſono ſu l'
aſtrazioni fonda te. La fiſica aftrae dalle coſe ſingolari, la matematica dalle
ſen Tom. 11. i (a) Mens è detta a menfura, poichè l' anima compara, e miſura le
coſe, Intellectus da intus legere, poichè intendendo ſcieglie, e deduce una
cola da un' altra. fibili, (06 ) fibili, la metafiſica da ogni materia. Vuole
il Patrizio, che come in una gran parte del Sofifta, čosi in tutto il Parmeni
de non ſi tratti che di quella metafiſica, che Ariſtotele colſe da Placone, e
di cui le prime idee ne diedero i Pitcagorici, e tra gli altri, Archira e
Peritione; io v'aggiungo che la me cafifica avendo due parti, cioè l' ontologia,
o la ſcienza, che tratta delle proprietà dell'ente, in quanto ente, e la Teolo
gia naturale o la ſcienza, che tratta delle ſoſtanze ſeparate dal la materia,
come Dio e l'anima, Parmenide ſi riſtringe in que ſto trattato all' ontologia,
e manifefte ne faranno nel progreſo ſo le prove; baſta accennar qui, che
dovendofi dar un elem pio del modo con cui s acquiſtano l ' idee, ſcieglie
Parmenide l'idea dell'uno, applicando ad efla il metodo delle fuppoſizio ni.
Due coſe aggiunge alluſive all'analiſi, ed alla ſinteſi. La prima che ufficio e
d' uomo ingegnoſo il poter apprendere, come ſi ritrovi il genere di qualunque
coſa, ciò che ſi fa cominciando dall'analiſi, o dall'eſame delle coſe
particolari, e per l'aſtra zione, elevandoſi agli univerſali; la ſeconda, che
ufficio è di uomo meraviglioſo inſegnar agli altri le coſe ritrovate, ciò che
ſi fa per la ſinteſi, combinando l'idee generali, e quindi le lo ro
combinazioni, da cui ſi deducono i problemi, e i teoremi, ed indi i corollari,
e le annotazioni. Sommo acume di men te fi ricerca nel far le opportune
aſtrazioni, e di nuovo da.quefte aftrarne altre, ſin che ” analiſi propoſta ſi
riduca all' ul time idee, e ſomma fodezza, ritrovare l'idee, concatenarle in
guifa che alcri con facilità, e prontezza le intendano, e l'uno, è l'altro
dimoſtra Parmenide, o col luo nome Placone. Se l'uno che ne ſegua. b. I. Vuol
Uole il Ficino, che queſta prima fuppoſizione debba inten derſi. Se l' uno,
perchè il verbo è, o ſia la copula del predicato o del ſoggetto v'è pofta, non
in grazia della coſa, ma dell' orazione. Nel legger la nota marginale del
Ficino mi ricordai, che Licofrone (a ) invecedi dire, il parete è bianco, di
ceva il parete bianco, ed altri il parete biancheggia, quaſi che Platone non
riprovaſſe nel Sofiſta l' orazion ſenza verbi, o che Ariſt. 1. Phil. che i verbi non foſſero ſtati inventati per
compendiare i gius dizi ! Non è forſe lo ſteſſo il dire, io amo, che io ſono
aman te é io biancheggio, che io fono biancheggiante? La fuppofi zione dunque,
je l' uno equivale all' orazione condizionata, ed implicità fé uno, nè così la
propone Parmenide, ſe non per intimarci, che a null' altro fi deve badare
nell'ipoteſi, che all uno preſo in un concetto aſtrattiflimo. Nella Geometria
ſinteticamente ſi comincia dal punto prin cipio della linea; nell'aritmetica,
dall'uno principio del nume ro; e nell' ontologia dall' uno traſcendentale, che
conviene ad ogni noftra idea. Eſclude tutte le relazioni, perchè riferendofi
l'uno per eſempio ad A, B, C ec. non è più uno, ma molti, in quanto in lui fi
conſiderano le diverſe faccie che ſi riferi ſcono ai molti. Parmenide in queſta
prima ipoteſi eſclude dall' uno cutte le relazioni, cioè quelle dell'ente in
genere, e l'alore dell'ente in fpecie. Relazioni dell'ente in genere ſono
l'identicà, e la di verſità, perchè non competono meno alla ſoſtanza, che alla
quantità, qualità, ed agli altri predicamenti. Relazioni dell'en te in fpecie
ſono, la limiglianza, la diſſimiglianza, Peguaglian za, l'ineguaglianza,
l'antichità, la novità eco perchè competo no o alle fole qualità, o alle ſole
quantità ec. * l une e l'altre intanto ſi dicono relazioni, in quanto non
conſiderano le coſe in ſe ſtelle, ma relativamente tra loro: il diffimile,
l'eguale ec. non li concepiſcono ſenza i due termini, che tra loro fi
paragonano. Se l' uno in quanto tale non può compararſi ad alcuna coſa, biſogna
eſcluder da lui tutte queſte relazioni, tan to più ſe nelle coſe riferite
s'includono i molti. Parmenide comincia dall'eſcluſione delle relazioni più
facili a conofcere', che ſono quelle della quantità; paſſa alle relazioni della
qualità, e ad alcre, e finalmente all'eſſenza; nè di ciò con tento efclude le
relazioni, che l'uno può aver all'opinione, al la ſcienza, é lino al nome. Se
l'uno in queſto concetto aftrat tiſſimo fi nominalle, avendo ogni nome
relazione al ſenſo, al la fantalia, od alla mente, e quindi a tutti gli uomini,
che lo pronunziano o l'odono, l'uno con l'aggiunta di queſte relazio ni ſarebbe
molti. Si ſente più che non s'eſprimequeſt' ultimo grado, ed abbiamo grande
obbligazione a Platone, che in que Ro Dialogo, nel rappreſentarci la dottrina
della fetta Eleatica, ci ha moſtrato l'uſo opportuno delle aſtrazioni. Egli di
conten ta di non moltiplicarla, che fino ad un certo grado, a fine che l'idea
coll' altrarla tanto non s'inlanguidifca, è sfumi; onde al fine la mente non
poſſa più ravviſarla in quella guiſa, che i 2 l'im 708 ) l'immagine d'un
oggetto riflettuta da uno ſpecchio ſucceflivamen te in molti altri, al fin
diviene si ombratile, che ſvaniſce da. gli occhi. Frattanto era neceſſario
dimoſtrare in un ſoggetto aſtrattiſſimo per sè, l'uſo dell'ultime aſtrazioni
che può far la mente, non eſſendovi altro modo di accennare, come in ogni
quiſtione s'arrivi a quell' ultima idea, in cui conviene che vi ci ripoſi, anco
malgrado l'impeto innato, che inevitabilmente ci porta a ſempre più nelle
cognizioni inoltrarci. Nell'inveſtigazione poi dell' idea vaga Parmenide per
tutti i generi, come era in uſo nell'antica Dialetica, e fatta la ſuppoſizio ne
determinata per via di comparazioni, ed eſcluſioni, egli ricava il punto
preciſo della quiſtione propoſta. Con la chiarezza maggio re che io poſſa,
procurerò deſprimer diſtintamente tutti i gra di tallor dell'analiſi, e callor
della ſinteſi Parmenidea. Nel trat çar l'altra quiſtione meconvenne ſeguire le
interrogazioni, e le riſpoſte degli Interlocutori ma quà folo Parmenide parla;
onde bafta ſolo ſeguendo l'ordine del Dialogo premetter le.co. ſe neceſſarie,
eſtrar la propoſizione, e dimoſtrarla fe fi può cal metodo de' Geometri. L' uno
non è molti. Abbiamo quanto baſta illuſtrata queſta definizione; qui fo lo
avverto, che come il Wolfio, dopo d'aver definito, che l'en te ſemplice è cid
che non ha parti, da queſta definizione ne gativa egli deduſſe, che l'ente
ſemplice non è ſteſo, non è diviſibi le, ſenza figura, ſenza grandezza, che non
riempie ſpazio, che non ha moto inteſtino ec. Così Platone, da ciò che è l '
uno, dimoſtra le fteſſe coſe, e molt'altre che andremo partitamente,
conſiderando, e deducendo dalle nozioni preme{le. g. 3. 11 Wolfio defini il
tutto ciò che è lo ſteſſo con molti; per abbracciar in una definizione non ſolo
il tutto integrale, che chiamaſi totum, ma ancora il potenziale che chiamali
omne. Lo ſteſſo, come ſi vedrà fra poco, conviene non meno alle quantia tà, che
alle qualità, ed alle ſoſtanze, e l'idea di molti è più univerſale, che quella
delle parti, convenendo i molti e agli enti ſemplici, ed a' compoſti come a'
quantitativi. Parmenide non definiſce qui, che il tutto integrale, raccogliendo
inſieme le 1 (69 ) le parti, e limitandole in uno, a cui niente manca, ed è per
fua natura indiviſibile; la nozione di molti è quindipiù aftratta della nozion
delle parti, e in queſto ſenſo Ariſtotele diffe, che il tutto è prima delle
parti, e non le parti del tutto, il che, ſe ſi crede al Patrizio, tolfe da
Ippodamo Turio. (a ) §. 4. L'uno non è nè tutto, nè parte di sè. Se l'uno è
tutto non vi manca alcuna parte, ($. 3. ) dunque ha parti; dunque è molti
contro la definizione dell' uno ($. 2. ) Se l'uno è parte di sè, è un tutto
riſpetto a sè, ma non pud eſser un tutto, come ſi dimoſtrò; dunque non è parte
disè. L'uno non effendo nè tutto, né ſteſo, od è indiviſibile, o è ſemplice.
parte, non è 8. S. Ogni cutto ha principio, mezzo, e fine. Cid vuol dire, che
propoſtoſi un turco nel numerarne le parti fi comincia da quella che chiamaſi
prima, e li progrediſce all' ultima paſſando per le intermedie. §. 6. L'uno non
ha principio, nè mezzo, nè fine. ol, Se l'aveſse ſarebbe un tutto ($. 5. ) il
che è impoſſibile (8.4. ) Speſre volte inſegnò Ariſtotele, che l'infinito è
ſenza principio, ſenza fine; offerva il Patrizio, che lo preſe dal Parmenide,
ove ſi dice, che l'infinito (o piuttoſto come io crederei l'indefinito ) non ha
ne principio, nè fine, cioè non ſi sa in eſſo, nè dove comin, ciar la
numerazione, ne dove terminarla. In queſto ſenſo una li nea non è propriamente
infinita, o indefinita, le comincia da un punto, nè una ſuperficie, nè un corpo,
ſe la ſuperficie comincia da una linea, e il corpo daunaſuperficie. A queſti
infiniti måtema rici, che cominciano da un termine, non compere la definizione,
che Platone aſſegna dell'infinito, da cui eſclude il principio, ed il fine. (a
) Diſcuſ. perip. T. 2. p. 280. S. 2: (70 ) S. 7. L ' uno è infinito. L'uno non
ha principio, nè fine (S. 6. ) Dunque è infinito. (An. Si 6: ) 9. 8. La figura
è una parte dello ſpazio, o dell'eſtenſione circonſcrit ca da cerci limiti, o è
retta come il quadrato, il cubo ec. o ro tonda, come il cerchio, la sfera,
Pelifli, l'eliffoide ec. o miſta dell'uno, e dell'altro. Il principio della
figura è dove i moder ni pongono il vertice, il fine dove pongono la baſe",
il mez zodove la figura fi divide per mecà. 8. 9. L'uno non ha figura. Ogni
figura, o recta, o rotonda ha principio, mezzo, o fine (8. 8. ) ma l'uno non ha
principio, nè mezzo, nè fine. ($. 6. ) Dunque non ha figura. L'uno è
infigurabile. $. 10. Non lo può concepire', che una coſa ſia in ſè ſteſſa ſenza
il di 1 ſtinguere con la mente, che ella è comprendente e compreſa, cid che è
concepirla due volte, o di uno far due. Non ſi può conce pire, che una coſa ſia
in altrui, ſenza che ella ſia toccata in mol te parti. Il luogo abbraccia, o
comprende la coſa in lui colloca ta · Eſer in alcrui, od effer in ſe ſtello,,
ſono due oppoſti ſenza. mezzo, come il moto, e la quiete. So IT. L'uno non è in
luogo. O ſarebbe in sé, o in altrui; ($. 10. ) ſe in sè, egli ſarebbe a sè il
ſuo luogo, onde abbracciando ſe ſteſſo ſarebbe nel tempo fteflo, e comprendente,
e compreſo, cioè l' uno ſarebbe due co ſe o molti contro la definizione ($. 2.)
ſe foſſe in altrui, fareb be 1 1 1 1 (71 ) be toccato in molte parti, onde
avrebbe molte parti contro la definizione. (§. 2. COROL. L'unonon è
circonſcritto da alcuna coſa, terra, Cielo, materia, ſpazio ec. ANNOT. Daqueſto
argomento lice inferire, che Parmenide cob ſidera qui l'uno, in quanto è dalla
mente aſtratto da corpi, che ſono in luogo; s'è già oſſervato, che l'ontologia
degli anti chi era fondata su l' idee aftratce dalla materia, dalla forma, dal
compoſto, dagli accidenti; onde queſt'uno aſtratto da corpi, e da loro
dipendente non ha alcuna relazione a Dio, ch'è un ente per sè, in sè, infinito
cc.. 12. Il moto alla ſoſtanza, ſecondo Ariſtotele, è quando una coſa, per
eſempio una parte di terra ceſſa d'eſfer terra, e comincia ad eſſer pianta. Il
moto alla quantità è quando una coſa, per eſempio un fanciullo creſce nella
ſtatura, ed un vecchio decreſce. Il moto alla qualità è quando per eſempio la
carne d unUomo fredda, dura, ed aſpra, li fa da sè calda, molle, liſcia. Preten
deva Ariſtotele, che queſti tre moti dipendendo dalla forza in crinſeca, che
facea cangiare alle coſe la ſoſtanza, e gli acciden ti loro, li diſtingueſſero
dal moto locale, nel qual altro non ſi con ſidera, che il paſſaggio da un luogo
all' altro: Parmenide, o Pla tone, benchè parli del moto di generazione, e
d'alterazione, par ſolo far attenzione, ſecondo l'ulo de'moderni,
all'accoppiamento delle parti, e quindi all aumento delle qualità, due coſe
accom pagnate dal moto locale, o di traslazione. Lo conſidera egli in linea
retta, oin cerchio, nel qual moto una parte della coſa et forma nel mezzo, e le
altre parti fi rivolgono intorno al mezzo. Vuol poi, che tutto ciò che ſi
genera ſi faccia in qualche luogo ſecondo il principio da lui in queſto Dialogo
replicato più volte. Ciò che non è in alcun luogo è nulla. Platone nel Teeteto
dice per bocca di Socrate: Se dimoſtran eli una ſpecie di moto, o due ſpecie,
come a me pare, nondimeno io conſidero che cid non ſolamente appaja a me folo,
mo ancora tu ne fii partecipe, acciocchè amendue parimenti patiamo qualunque
coſa face cia meſtieri, ficchè mi di, cbiami tu forſe moverſi, quando alcune
coſa fe mute da luogo a luogo, e nello steſo ſi raccoglie? Teodoro glie lo
concede. Socrate ſoggiugne: Dunque fiare una specie questa, ma quando
fermandoſi alcuna coſa nello ſteffo luogo s'invecchia, o di bian, ca fi fa nera,
o dara dimolle, e ſi altera da certa altra alterazione, son chiameremo noi
meritamente queſt' altra ſpecie di movimenti?... Ora dico che fieno due le
ſpecie del movimento cioè alterazione, la (72 ) la circonferenza. Egli dice
circonferenza in luogo di traslazione in cerchio, per moſtrar che nel pieno
ogni coſa va in giro., Conſidera poi quì, che nel farſi una coſa vi la un
accoppia mento, nel qual prima una parte fi congiunga a quella che li fa,
mentre l'altra parte, che ſi deve aggiungere, è ancora fuori della coſa. L'uno
non ha moto di alterazione, nè di generazione. Non di alterazione, perchè ſe ſi
altera non è più uno, ac quiſtando nuove qualità; ſe fi genera non è più uno,
acquiſtan do nuove parti. Or nuove qualità, e nuove parti fanno molti; dunque
ſe l' uno o fi altera, o fi genera, è molti contro la de finizione. IN ALTRO
MODO. Una coſa non può generarſi o farſi che in un' altra, perchè tutto ciò che
è, o fi fa, è in qualche luogo, ma ſe l'uno non può effer in un altro (S. 11. )
nè meno può farſi in eſſo. In ol tre ſe una coſa ſi fa in un altro, non ancora
ella è ſe ſi fa. Or quando una coſa ſi fa, una parte è in lei, e una fuori di
lei, perchè le parti fi vanno ſucceſſivamente aggiungendo, ma l'uno non avendo
parti (5. 4. ) nè può eſſer nè tutto te in sè, nè tutto, nè parte fuori di sè.
Dunque non può ge nerarſi. Corol. L' uno non è generabile, nè alterabile, nè
par §. 14. L'uno non ha il moto di traslazione. L'uno non è in luogo (5. 11. )
ma la traslazione in linea ret. ta è una mutazione ſucceſſiva del luogo. Dunque
l ' uno non eſſendo in luogo ($. 11. ) non può mutar il luogo, ſecondo la linea
retta, ma nè meno pud mutarlo, ſecondo la linea circo lare, perchè deve
raggirar nel mezzo, e tener fiffe le parti che fi rivolgono intorno al mezzo;
ma l'uno non ha nè mezzo, né parte, dunque non può rivolgerſi in cerchio'(. 13.
) Dunque le alluno non conviene nè l'uno, nè l'altro, non gli conviene il moto
di traslazione. Q. 15. 1 1. 1 (73 ) g. isi Come ſi concepiſce il moto, nel
concepire la traslazione fuc ceffiva del mobile, o ſia il rapporto
continuamente vario della diſtanza del mobile a ' corpi contigui, così fi
concepiſce la quie te nel concepir il rapporto coſtante di diſtanza a ' corpi
conti gui; quindi nel moto, il corpo va ſucceſſivamente occupan do diverſe
parti dello ſpazio, e nella quiece occupa le ſteſſe par ti dello ſpazio. $. 16.
Luno non è nè in quiete, nè in moto. L'uno non è in sè, nè in altrui (9.11. )
ma ciò che è in quiete, è ſempre nello ſteſſo, ciò che li move è ſempre in al
trui. Dunque ſe l'uno non è in ſe ſteſſo, nè in altrui, non ſi ripoſa, nè ſi
muove. $ 17 Platone ha ſin ora conſiderato l' uno per eſcluder da lui la ragion
di tutto, di parte, di principio, di fine, di mezzo, di figura, di luogo, di
moto, cioè per eſcluder dall' uno tutte le relazioni che appartengono alla
quantità, come la più nota, e più facile. Senofane pur provava, che l' uno era
infinito, im mobile, non ſi trasfigurava nella poſizione, non s'alterava nel la
forma, non fi milchiava con alcri. Non è egli molto veri ſimile, che egli ne
arecaffe le ſteſſe ragioni, che poi Parmeni de più fteſe, ed affottiglid? Paſſa
Parmenide ad eſcluder dall' uno le relazioni dell'ente che appartengono alla
qualicà, di cui le prime ſono l'identità e la diverſità. Non premette Parmenide
alcuna definizione dello ſteſſo, e del diverſo; come fece del tutto; dai
Pittagorici (a ) impard, al dir del Patrizio, che l'identità, e la diverſità
non devono conſiderar fi come paſſioni dell' ente, ma come generi ſecondarj, i
di cui primi ſono il moco e la quiere. Ariſtotele all'incontro riduce l'
identità a una certa unità, e dichiara che ella come la diverſità appartiene
alla ſuſtanza, poichè fteſse ſono quelle coſe che con vengono, o nella materia,
o nella ſpecie, o nel numero, o nel Tomo II. k gene (a ) Diſcuſ. Perip. T. 2.
p. 207. (74.), genere di cui una è la ſoſtanza. Platone eſtende l'identità, e
di verſità alle qualità, e da lui impårarono i matematici a dire, che le
ragioni o proporzioni, che ſono le ſteſſe con una ſtella, ſo no le ſteſſe tra
loro; e non ſi dice pur tutto giorno lo lteſto grado di calore, di lume ec. e.
parimente ragioni diverſe, di verſo grado di calore, di lume ec. Dunque non
alla ſola fo ftanza, ma alla quantità, alla qualità, ed agli altri predicamen
ti apparciene lo ſtello, e il diverſo. Inliftendo il Wolfio su le nozioni
ſcolaſtiche, dà il criterio per diſtinguere lo ſteſſo dal diverſo. Quelle coſe,
dice egli, fou no le stelle che ſi poſſono ſoftituire. ſcambievolmente ſalvo
qua lunque predicato, che loro aſſolutamente, ſotto qualche con dizione
convenga; ſicchè fatta la fortituzione, la coſa reſta ta le, come ſe non foſſe
ſtata ſoftituita. Se in una bilancia, in cui ſang equilibrati due peſi, in
cambio di un peſo, d' una certa grandezza, io ne ſoſtituiſco un alıro, in modo
che l'equilibrio Loro non lia tolto, queſti due peſi, in quanto peſi, nulla
diſtin guendoli: ſi chiamano gli ſteſſi. Se nel peſo che è prima nella bilancia,
vi foſſe una certa figura, ed un certo colore, eun cer to grado di calore, e di
freddo, ed anche un certo odore, e tutto ciò appuntino ſi ritrovalle nel peſo
che ſi ſoſtituiſce, que fti due peſi non diſtinguendoſi, e nel peſo, e nell'
altre qualità li chiamano gli fteſi; Lo ſteffo in numero è ciò che ſi afferma
di ſe ſteſſo, o cui ripugna d'efiftere due volte; nel dirſi, queſto triangolo è
que ſto triangoló, ' ſi predica lo ſteſſo triangolo di ſe ſteſſo, onde
convenendo la ſtella eliſtenza al ſoggetto, e al predicato, egli è manifeſto,
che il triangolo in quanto è nell' uno, e nell' altro non ha doppia eſiſtenza,
mala ſteſſa, I diverſi poi ſono quelli, che ſcambievolinente non poſſono
ſoſtituirfi, falvo ogni predicato che all' uno, o all' altro aſſo lacamente o
condizionatamente convenga. Così nel caſo della ſoſtituzione de' peſi della
bilancia, ſe un peſo nel ſoſtituirſi all' altro cangia d'equilibrio, il pelo
ſofticuito è diverſo dal peſo, di cui preſe la vece; egli è diverlo in ragion
di peſo, benchè per altro poteſſe eller lo ſteſſo nella grandezza, nella figura
nel calore, ed altre qualità. Poſſono dunque le coſe eſſer le ftel ſe in un
predicato, e diverfe negli altri; quindi ſi può diſtin guer lo ſteſſo, e il
diverlo in affoluto, e in relativo; ſono aſ loluti, ſe le coſe convengono in
tutti i predicati, o diſconven gono falva però la loro eliſtenza; ſono relativi
le convengono in alcuni predicati, ma diſconvengono in altri. E'cid neceſſa rio
di ben avvertire, perchè in queſto Dialogo fi prende lo ſteſ 1 1 ſo, 1 (75 ) fo,
e. il diverſo in queſti due fenfi. Qul Parmenide perd pren de aſtrattamente la
coſa, perchè a lui baſta, che l'identità, e la diverficà fiano affezioni, o
generi delle coſe non preſe in sé, ma relativamente all'altre, baſtando queſta
fola relazione per eſclu derle dall' uno; quindi può facilmente dimoſtrarſi,
che l'uno non è, nè a se, nd ad altrui lo ſteſſo, perchè nel ſuo concerto
aſtrat tiffimo efclude ogni comparazione; ma Parmenide in alcro modo lo
dimoſtra, rappreſentandoſi alla mente per via d'una nozione immaginaria, che l'
uno prima è uno, e poi per forza della com parazione egli è molti. Ciò ſi rende
ſenſibile col diſegnar l'uno col ſimbolo aritmetico I, e poi aggiongendovi A, o
qualche alera lettera, onde egli fia prima i, indi 1 + A. S. 78 L'uno non è lo
ſteſſo, nè diverfo a sè, nè ad altri. Se l'uno foſſe da fé ſteffo diverfo,
ſoſtituendoſi l'uno per l'uno dove prima della ſoſtituzione fi concepiva i,
dopo della foftitu zione si concepirebbe 1 + A, dunque non più i contro
l'ipoteſi. Se fia lo ſteſſo ad altrui egli farà quello, cioè 1 + A non cið che
è, od uno, il che di nuovo è contro l'ipoteſi.. 19. L'uno non è diverſo, nè da
altrui, ne da ſe ſteſſo. L'uno convenendo con tutte le coſe, perchè d'ogni coſa
ſi dice, uno non è diverſo da effe, che in virtù di qualche predicato; dun que
in quanto non è più uno; dunque non può eſſer diverſo dall' altre cofe. Non è
la ſteſſa la natura dell' uno, e dello ſteſfo, perchè quando una coſa li fa la
ſteſſa ad aleuna non ſi fa uno; il colore di A per efempio ſia lo ſteſſo, che
il colore di B, non perciò mai A è B, perchè le due coſe colorite comparandoſi,
benchè con vengano nel colore, e in queſto fieno uno, non perd convengono nell
' çliſtenza, Se gli Itelli non ſi conofcono, che per la Toſti tuzione, gli
ftelli convengono bene ne'predicati; ma ſono fem pre due. Dunque quando una
coſa ſi fa la ſteſſa con l'altra, di due non ſi få uno, ſe non inquanto ſi
concepiſce, che con vengono, o nella quantità, o nella qualità ec. ma non
perchè convengono non ſono due; dunque o l' uno paragonato all' uno ſi fanno
due, e cosi l'uno non è uno, o reſtando uno non k 2 ſi può (70 ) la pudfar
ſoſtituzione. Dunque non pud dirſi, che l' uno fia lo ſteſſo a ſe ſteſſo. 20.
Parmenide paſſa a comparar l'uno coi fimili, e diffimili. Aris ftorele dice,
che i ſimili ſono quelli che patiſcono lo ſteſſo, ei diffimili quei che
pariſcono il diverſo; de' primi una è la qualità, dei ſecondi è diverſa la
qualità,onde egli ripone i ſimili, e dilli mili ſotto l'identità, e diverſità,
il che imparò da Platone nel Filebo (a ) e più facilmente dal Parmenide, ove
Platone defini ſce il ſimile, per ciò cui adiviene patir lo tego, il diffimile,
ciò cui adiviene patir il diverſo. Conſidera quì Parmenide le.qualità, come
attributi o modi che ſi ricevano nel ſoggetto, il quale nel riceverle in cerca
guiſa paciſce; ſono queſte nozioni immaginarie, come quella della ſoſtanza. Su
queſte orme Parmenidee, il Wol fio definiſce i fimili quelli, in cui le ſteſſe
ſono le coſe, per le qua li doverebbono diſcernerſi, onde ſecondo lui, la
fimiglianza è l' identità di quelle coſe per cui dovrebbono tra loro
diftinguerli. Se in due volti per eſempio io ritrovo nelle parti gli ſteſſi
linea menti, ne' lineamenti gli ſteſſi gradi de' colori ec. in fomma ſe io
ritrovo, che le ftelle fieno tutte quelle qualità, per cui dovereb bono
diſtinguerſi, i due volti ſono ſimili; diffimili all'incontro ſono quei volti,
in cui diverſe ſi ricrovano le coſe per cui tra lo ro fi diſtinguono, che vuol
dire i lineamenti delle parti, le figu la collocazione, le grandezze. Il Wolfio
fi fece ſtrada con que ſta definizione a definir i ſimili matematici, ben
oſſervando, che le loro proporzioni, benchè abbiano per fondamento ilquanto, fi
riducono al quale. re, S. 21. L' uno non è fimile nè diffimile ad alcuno, o a
se, o ad altrui. Simile a quello cui adivienelo feſto (. 20. ) ma l' uno eſclu
de lo ſteſſo (S. 18. ) Dunque efclude il ſimile. L’uno ſe riceve alcuna coſa
fuor di quello che è l' eſſer uno, pa tiſce d'eſſer più l'uno, perchè egli è
l'uno, ed inſieme la coſa che pariſce, onde almeno egli è due o molti; dunque
non è più uno; dunque ſe l’uno non paciſce d'effer lo ſteſſo, o loco, o con
altri, non può eſſer a ſe ſteſſo, o ad alcri ſimile, (a ) Patriz. Diſcuſ.
perip. p.202. Il (77 ) Il dillimile è quel che pariſce diverſità (5. 20. ) ma
l'uno non può parire diverſità, dunque non è, nè diverſo da lui, nèda altre
coſe, altrimenti non ſarebbe più uno; dunque l'uno non è diſli mile, nè a ſe
ſteſſo, nè ad altrui. 1 l. 22 Concluſo che ha Parmenide non convenir all'uno,
nè l'iden: tità, nè la diverſità, nè la ſimiglianza, nè la diffimiglianza, paſ
fa a ricercare ſe gli convenga l'eguale o l'ineguale, due pro prietà delle
grandezze comparate P une all' altre; l'eguale im murabilmente ſta nel mezzo,
da cui l' ineguale allontanandoſi per ecceſſo ſi chiama maggiore, e per difetto
minore. L'egua le paragonato all'eguale ha le ſteſſe miſure, paragonato al mag
giore ha meno miſure, e ne ha più paragonato al minore. Ra gionando Parmenide
con Socrate ad bominem, fi ferve del ter mine di participare, che non è
allegorico, ove ſi tratta di par ti. Offervo che non miſurandoli, ſecondo
Platone, che con l'uni tà, e col numero, è manifeſto, che la miſura è ſecondo
lui quan tità; pur gli attribuiſce lo ſteſso, e il diverſo. g. 23. L'uno non è,
nè eguale, nè maggiore, nè minore. Non participando, nè dello ſteſso, nè del
diverſo, non parte cipa mai, o le ſteſse, o le diverſe miſure, in conſeguenza
non è nè eguale, nè maggiore, nè minore. 6. 24. Come ſi miſurano le grandezze
permanenti, così ancora ſi mi ſurano le ſucceſſive, le quali paragonare l'une
all' altre, compete loro lo ſteſso e il diverſo, cioè il più, e il meno. Si
dice che due Uomini hanno la ſteſsa età, quando è miſurata per lo ſteſso nu
mero di rivoluzioni ſolari, e che hanno maggiore o minor età le ella ſia
miſurata per maggiori o minori rivoluzioni ſolari. L'antichità, la vetuftà, la
novità ſono relazioni degli enti ſuc ceflivi per rapporto alla loro eſiſtenza
fucceffiva; antico ſi dice quello che da lungo intervallo di tempo e prima d'un
altro; nuo vo quel che ora è, e non fu che già poco tempo prima d'un al tro; il
giovane, il vecchio, ſono propriamente le differenze dell' età degli Uomini,
mas'attribuiſcono per mecafora a curce le coſe. 9.25. (78 ) f. 25. L'uno non è
più vecchio, più giovane di ſe ſteſso, o dell' altre coſe. L ' uno non pud
participare, oo delle ſteſse,, o di maggiori o minori miſure degli enti
ſucceflivi, perchè non può partici pare dello ſteſso, e del diverſo; ma quel
ch'è più vecchio, partecipa di maggiori miſure, quel che è più giovine di
minori, dunque ec. g. 26. Per ben intendere come uno nel farli più vecchio di
fe fteſso o d'un altro ſi fa più giovane, mi è neceſsario trasferire alcu ne
nozioni della ſeconda ipoteſi, ed aritmeticamente ſvilupparle. g. 27 6 3 5 4 Se
il rapporto del maggiore al minore crefca per l'aggiun ta agli antecedenti, e
a' conſeguenti d'una grandezza eguale, il rapporto ſempre decreſce. Sieno i
numeri 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, i quali ſucceſſivamen te creſcono per l'aggiunta
dell'unità, èmanifeſto che (a ) > 4 $ Si prendano i quozienti o valori delle
ragioni. Il valore della ragione di = it; il valore di = ito il valore di = i +.
Or tal eſsendo la ragione qual è il fuo valore ſe I +1/2 > it it ec. come è
mani 3 feſto fard > 5 ec. Or rappreſenti A C l' età d'un 3 fanciullo di 3
anni, e B D l'età d'un | fanciullo di due anni, s' aggiunga alla А С F prima
età un anno, ciod ad " A C. s'ag giunga CF, e alla ſeconda età B D SA D G.
aggiunga un altro anno o DG. Onde s' averà la ragione di }; li vada aggiungendo
ſucceſſivamente alle due età un'anno, ed indi un'anno, e li averanno le ragio
ni di e di. Egli è manifeſto, che il fanciullo di tre anni è più vecchio di
quello di due, ma nel creſcere all'uno, e all' al > 3 4 Ā 1 B tro (a ) Il
ſegno è quello del maggiore, Il ſegno di < del minore. Il ſegno è quello
dell'eguale. (79 ) tro un' anno la ragione che ne riſulta di è minore
dell'altra; molto minore è quella di, e molto più minore quella di onde ſebben
il primo fanciullo ſi faccia ſempre più vecchio dell'altro, contuttociò per
l'accreſcimento dell'egual quantità ſi fa più gio vane relativamente, perché
dove nella prima ragione la differen za era nella ſeconda è minore di 1, e
quindi, ſempre mi nore. Egli è vero dunque, che un fanciullo nel farli' più
vecchio d'un altro li fa ancora più giovane. Se non ſi compari l'età di due
fanciulli, ma ſi conſideri folo l' erà di uno, che ſempre riſpetto a ſe ſteſso
creſce di un'anno, egli è manifeſto, che per queſto eguale accreſcimento, nel
decreſcer ſempre le ragioni degli anni cra loro comparati, lo ſteſso fanciul lo
nel farſi più vecchio di ſe ſtefso, fi fa ancora più giovane. Si vede quindi,
che nel farſi il più vecchio dal più giovane, fi fa cid dal diverſo, e che non
è diverſo, ma'ſi fa. Corol. Lo era, lo efser ſtato, il li faceva, ſignificano i
modi del tempo paſsato; il ſi farà, il ſarà, e ſarà per farſi, i modi del
fucuro o dell'inanzi; l'eſsere, il farſi, i modi del preſente. f. 28. L'uno non
è in cempo. Se l'uno fofse in tempo participerebbe delle miſure del tempo;
dunque or ſarebbe più giovane, or più vecchio, ma queſto non pud eſsere, come
s'è dimoſtrato (9. 25. Dunque ec, IN ALTRO MODO. Quel che è in tempo nel farſi
più vecchio, ſi fa più giovane di ſe ſteſso, (§. 27.) ma l'uno non può farſi
più vecchio, nè più gio vane di ſe ſteſso, perchè non può farſi, nè una cola,
nè l'altra (9.25. ) Dunque non è in tempo. Il più giovane che ſi fa dal più
vecchio è diverſo da lui, e non è ma ſi fa, ma l'uno non può ricever il diverſo
(§. 18. ) Dunque non può farli dal più vecchio il più giovane; dunque non è in
tempo. Il più giovane non ſi fa dal più vecchio, nè in più lungo tem po, nè in
più breve di fe fteſso, ma ſempre nell'egual tempo con le ſteſso, o fia, o ſia
ſtato, o ſia per dover eſsere; mą l'uno non è ſuſcettibile dell'eguale (§. 23.
) Dunque nè meno dell' egual tempo; dunque non avendo le paſſioni del tempo non
è in cempo.. 29. (80 ) S. 29. L'uno non partecipa, nè del preſente, ' nè del
futuro nè del paſſato. L'uno non eſſendo in tempo non può partecipare del tem
po, ma le paſſioni del tempo ſono, il preſente, il paſſato, il futuro. ($. 27.
) Dunque non le partecipa. Corol. Se l'uno non è partecipe di niun tempo, non
fu mai, nè ſi faceva, nè era, nè ora è fatto, nè fi fa, nè farà. 8. 30. Ogni
ente, o ciò che è partecipe di eſſenza, è, ſecondo Plato ne, o nel tempo
preſente, o ſarà nel futuro, o fu nel paſſato. Nel Timeo egli dice, che Dio per
far il tempo fluente nel numero, fece un'immagine dell'eternità. Dunque
l'eternità fiſſa in ſe ſteſſa non contiene, che il preſente, e ciò pur dicono i
Teolo gi nel diffinirla con Boezio, una poſſeſſione tutta inſieme di una vita
interminabile. Negando dunque Parmenide, che il pre ſente competa all' uno, gli
nega l'eternità, onde è egli evidente che non parla di Dio, ma ſolo d'un ente
di ragione, dal quale per l' astrazion della mente eſclude tutto ciò che
involve rela zione a qualche coſa, ed anche a lui ſteſo. Dall' altra parte, qui
Parmenide non eſclude dall'uno, ſe non cid che appartie ne per lo più alle coſe
corporee e viſibili, il tutto, le parti, il luogo, l'eguale, il maggiore, il
minore, la generazione, la traslazione, le differenze del tempo; e ciò che dice
dello ſteſ. fo, e del diverſo, del fimile, e del diflimile, che pur conven gono
alle coſe incorporee, lo ricava da ciò che ha negato ne' quanti. 1. 31. L'uno
non è, o non ha eſſenza. L'uno non partecipa del preſente, del paſſato, del
futuro (9.29. ) ma ciò che ha effenza partecipa dell'uno, o dell'altro ($. 30.
) Dunque l'uno non ha eflenza. Annot. Dall'uno conſiderato preciſamente come
uno, cioè a dire oppoſto amolti, ſi debbe eſcludere, oltre l'eſſenza attuale,
an cor la poſſibile, perchè la poſſibilità come fonte, e principio della
realità porta ſeco qualche relazione a cid che eſiſte, é dall' uno ogni
relazione deve eſcluderſi.; molto più le relazioni dell' uno all'ente, di
ragione che chiamali intellettuale qual è il Lo-. gico, il metafiſico, il
matematico, e l'altre relazioni ancora ché aver poteſſe all'ente immaginario
ancor chimerico.. §. 32. tra coſa Primafi concepiſce la, non ripugnanza dei
predicati delle co ſe, ed è l'eſſenza, e queſta non ſi dice d'altre coſe, o
d'al tre eſſenze, ma bensì o gli attributi, i modi, e le relazioni fi dicono
deſsa; cal è la definizione logica, che Ariſtotele diede della ſoſtanza,
chiamandola ciò che non ſi predica d'al ma che tutte le coſe ſi predicano
d'eſsa. In que ſto ſenſo l'eſsenza nel ſuo concetto aſtratto, non differiſce
dal la foſtanza, che in quanto queſta ſi riferiſce a ſe ſteſſa, ed agli aleri
de' quali è ſoftegno, per il che ſi dice, che ella non ha contrario, e non è
capace di più, e di meno. Se l' uno non può predicarſi dell'uno, o di le ſteſſo,
per non radoppiarlo o farne due o molti, egli è manifeſto, che non è ſoſtanza
to più ſe fi conſidera col Wolfio, che nella nozione della fo ſtanza, v'è
qualche coſa d'immaginario, perchè ella fi rappre ſenca alla fantaſią, come un
valo od altra coſa, che in sè ri. ceve gli accidenti. $. 33 L'uno non è
ſoſtanza. L'uno non ha eſſenza. (S. 31. ) Dunque non ha ſoſtanza ($. 32. ) ſ.
34. La ragione è propriamente quell'atto della mente, che da una coſa
n'inferiſce un' alera, od è ancora ſe ſi vuole la con neſſione delle verità
univerſali; la ſcienza è la cognizione cer ta, ed evidente delle coſe, ed è
tutta opera della ragione che deduce una coſa da un' altra. Nell' attribuire
una coſa ad un altra, ſe li ha qualche cimore, che ad efla ſi poſſa attribuire
l'op poſto, ſi ha della coſa opinione. Col ſenſo poi non ſi percepi Icono, che
le coſe ſingolari, o determinate in ogni parte, e quindi compoſte di molti. Da
queſte definizioni e manifeſto chenegli oggetti della ragione, della ſcienza,
dell'opinione, del Tom. II. I fen ((82 ). fénfo s } includono moki, çd - in
oltre che ogni coſa, che.0.4 ſénte, o su cui di ragiona fcientificamente, od
opinabilmente, ha un' eſſenza attuale o poflibile; falfa o vera. 1 $. 356 Dell'
uno non li ha ragione, ſcienza, opinione, ſenfo. Quefte coſe includono molti, e
dipendono dall'ipoteſid' un eſſenza (§. 34. ) ma l' uno non ha eſenza (S. 31. )
e non in olude molti (.9.,2. ) Dunque ec, g. 36 Non ſi dà nome ſe non alle coſe,
della cui eſſenza, o per ragione, o per opinione, o per ſcienza, o per ſenſo ſi
ha un ' idea o chiara, od ofcura, o diſtinta, o, confula, o miſta di que Ite
differenze. S. 37... L'uno non ha nome. L'uno' non ha effetiza:(: 34:) Dunque
l'uno non ha nome. 1 §. 38. Ragruppando in poco ciò che ſin ora ſi è detto, ſi
può for mare tal fillogismo. Dal concetto aftrattiflimo dell' uno ſi de vono,
eſcluder i molti di qualunque genere effi fieno; ma cid che appatriene alla
quantità, alla qualità; alla refazione ec? vi s'includono imolti; dunque devono
queſti eſcluderſi dal.concet to aſtrattilfino dell'uno,. ] Se fi diceffe, che
così concludendo ſi confonde l'uno col nul la, manifeſto è l'inganno, poichè la
definizione del nulla è, che egli non abbia nozione alcuna o poſitiva, o
negativa, ciò che elclude dal nulla ogni realtà. Quando'io dico all'incontro,
l'uno non é molti, non tolgo a lui ogni realtà, benchè eſplicitámen te io non
vi rifletta. Io ſto più immobilmente che poſſo affil ſo su l'uno, in quanto
s’oppone a molti, e in queſta conſide razione preſcindo più che poſſo dal
conſiderar l' uno, o per rap porto all'ente, o per rapporto al mio penſiero;
noi poſſiamo, come accennai, più ſentire, che eſprimere queſte preciſionimen
tali, e momentanoe, ma 'non laſciamo di fentirte, e le fencia ·mo (83 ) mo ſe
poffiamo eſprimerle in qualche modo, e farle' intendered agli altri; nè per
altro la fcola Eleacica; ed indi Placone le pro poſe, che per addeſtrar la
mente ad inveſtigar l'idee delle coſe. Era necelfario fciegliere per eſempio
quell' idea, in cui la pre ciſione arriva all'ultimo grado, ove pofla mai
giungere la men te umana. Non ſi conoſce mai bene la natura', ' ed'i precetti
della arte, che l'imita, fe non ned maffimo. Io dimando al Lettore; che legge
attualmente il Parmenide di Platone, e lo confronta col mio comentario, fè
altro faccio in effo, che ſviluppare il fenſo.ovvio det tefto: Abbia pur Pro clo,
e gli altri Placonici, e Gentili, e Criſtiani confiderato queſto Dialogo, non
come ontologico, ma come Teologico, io ril pettando, e la dottrina, e
l'autorità loro', dirò che la mia Spiegazione ontologica non impediſce, che
degli intelletti più fublimi del mio, teologicamente non l'inalzino a coſe
maggio ri, come fece il Cardinal Befarione, applicando a queſto Dia logo la
dotrrina del preceſo S. Dionigi Areopagita. Si può ri leggere avendo preſente
tútra l'intiera ſeſſione, quanto ivi diſ fi appoggiandomi alla dottrina di S.
Tommaſo: Dio'è un en te fingolariſfimo, e nell' applicarvi quel che conviene
all' en te di ragione; biſogna ftar attenti che non ſi confonda l' uno ton
l'altro; la merafíſica degli antichi è la ſteffa che la me tafifica dei
moderni; mia nel riferir la prima ' alle coſe, queſte includevano Dio, che gli
antichi non ſeparavano dalla mate ria, che per preciſionedi mente, là dove la
ſeconda conſiderando fe coſe non ha a Dio, che un'analogia molco lontana,
perchè fi diſtingue eſenzialmente, é realmente dalle ſteſſe. Se l'uno è, quali
coſe adivengono intorno ad eſſo. I. I. Nom On ſi ricerca ſe faecia meſtieri,
che ſucceda- un cert' uno, ma ſe vi ſia l'uno; o pure ſoſtituendo la nozione
imma ginaria ſe l'uno partecipi l'eſfenza. Dall'ipoteſi così propoſta ne
fiegue', che' l'uno non è la pro: pria 'eflenza, o che l' effenzà, e l' uno non
ſono gli ſteſi con: cerci z chi dice elfenza, dice preciſamente la: non
ripugnanza dei predicati, e chi dice uno, dice 'non molti.; Nel cratcat queſta:
ſuppoſizionë, Platone comincia a frami I 2 fchia (84 ) ſchiare all' aſtrazioni
le nozioni immaginarie più che di ſopra Queſto fa ſovente l'oſcurità del teſto,
perchè per intenderlo ci sforziamo toſto a concepire ciò, che non è che un'
imaginazione ed imaginazione tallora falſa, da cui li deduce una contraddizio
ne, nèſempre però vera, ma apparente, il che raddoppia l'ab baglio, ſe non vi
s'attende; manifeſteranno gli eſempi ciò che io dico, in tanto mi ſia lecito di
contraſegnare con due ſimboli diverſi, A, e B, i due concettidell'ente, e
dell'uno. Nel farne il compleſſo A + B io rappreſento un tutto che ha due
parti, che io tra loro ſeparo con la mente, per ragionarne più diſtintamente fi
2. Se l'uno è, ogni parte di queſto tutto (uno è:) può dividerſi in infinite
particelle. Si prenda la particella uno, e ſi concepiſca come ſeparata per un
momento dall'altra particella ence, poichè per la fuppoſizio ne l'uno è, egli è
manifeſto, che conſta di due particelle, uno ed ente. Di queſto nuovo compleffo
ſi prenda la particella uno, e queſta per la ſteſſa ragione ſi dividerà in due
altre, ente ed uno, e così all'infinito. Or ſi prenda l'altra particella ente,
e poiché ogni ente è uno, ſi dividerà queſta particella in due altre, le quali
di nuovo fi divideranno, e così all'infinito; dunque ogni particel. la del
cutto uno è, ovvero è l'uno, ſi divide in infinite particel le all' infinito.
Così può ſenſibilmente rappreſentarſi. Ente uno А + B 1 Ente uno uno ente 2 a +
2b 2A + 2B ente uno uno | ente 3A ente, uno uno | ente 46 4A 4B 3. a 36 3B 1
uno, Come A + B rappreſenta il primo compleſſo immaginario della e dell'ente
così 2a + 2b rappreſenta il ſecondo com pleſſo immaginario dell'uno, e
dell'ence dedotto dall'ente, o da A, e parimenti 2A + 2B ſignifica il ſecondo
compleſſo imma ginario dell'uno, e dell'ente dedotto da B. ANNOT. Qui Platone
fuppone darli reciprocazione tra le due pror (85 ) propoſizioni l'uno è, è
l'uno, nella prima delle quali l' uno è il loggetro, cliente è l'attributo, e
nella ſeconda l'ente è il ſoggetto, e uno l'attributo. Perchè legitimamente ſia
la reciprocazione del le propoſizioni, biſogna che il ſoggetto ſia tanto ampio,
quanto l'attributo, onde può reciprocarſi la propoſizione. Il triangolo è una
figura di tre lati; nell'altra ogni figura di tre lati è un trians golo, ma non
già ſi reciproca la propoſizione, ogni ternario è nu. mero, perchè non ogni
numero è ternario. Il non aver avvertita la legge della reciprocazione fece
cader in molti parallogismi tallora i Geometri. Corol. Poichè ogni ente è uno,
l'uno ſi moltiplicherà come l'ente, onde potrà dirſi, che l'uno è infinito, o
che l'uno è mol ti. Queſta è la prima contraddizione di queſt' ipoteſi, ma è
con traddizione immaginaria od apparente, perchè l'uno per sè non è molti, ma è
molti per accidente, cioè perchè gli accade di mol tiplicarſi, ſecondo gli enti
che lo partecipano, onde non predi candoſi dell'uno nel tempo ſteſſo, e ſecondo
lo ſteſſo, gli oppoſti, non ha in sè vera contraddizione. g. 3. Platone
s'inoltra con le nozioni immaginarie. Conſiderando l? uno, in quanto partecipe
di eſsenza, lo prende ſecondo ſe ſteſso con l'intelligenza, ſpartato da quello
di cui diciamo che ſia par tecipe, cioè dell'eſsenza. Ciò vuol dire, che
dell'ente, e dell'uno Platone fi fa quei due idoli caratterizzati per A, e per
B. Nel dirli che li prende l'uno coll'intelligenza ſpar; tato dall'ente,
s'allude manifeſtamente all'aſtrazioni della mente. $. 4. 1 L'eſsenza o l'ente,
e l'uno ſono diverfi. Alcro è l'eſsenza, ed altro l'uno (: 32. Sez. 2.)
Dunque uno in quanto uno è dall'eſsenza diverſo, e l'eſsenza in quanto eſsenza
è diverſa dall'ano; dunque l'uno, e l'eſsenza ſono diverſi; Co sì può
illuſtrarſi tale ragionamento. L'ente o l'eſsenza in quanto eſsenza include la
non ripugnan za dei predicati coſtitutivi; l'uno in quanto uno include l'oppo
Gizione ai molti, ma queſti due concetti tra loro non convengo no; dunque ſono
diverfi. 8. 5. (86 ) $. s. L'eſsenza, l'uno, e il diverſo fanno tre concetti o
tre coſe trx loro diverſe. S'è già dirnoftrato, che l'uno, el ente non termi
nando lo ſteſso concetto ſono diverſi tra loro, ma il diverſo non includendo
nel ſuo concetto, che la non convenienza, fa un concet to diverſo, ed in
conſeguenza una coſa diverſa dall' altre due; dunque l'eſsenza, l'uno, il
diverſo fanno tre coſe diverſe.. 6. Si rappreſenti l'uno per A, l'enre per B, e
il diverſo per C ne riſultano quindi. Le combi- FA B7 In ogni combi-7 Tre poi
eſsendo le combina nazioni di nazione vie zioni v'è ancora A, B,CAC uno in due
Erre volte uno? in ogni com uno in due tre volte due E binazione В С! uno in
due tre volte tre Abbiamo dunque dedotto da A, B, C, o dall'ente, dall' uno e
dal diverſo il 2.primo pari, il ' tre primo diſpari, dae volte 3 parimenti
impari, 3 volce 3 imparimenti: impari. Sipuò an cora dedurre due volte due
parimenti pari', e queſte ſono tutte le ſpecie dei numeri. Combinandoſi il 2 il
3 due volte, tre volte e fin quattro volte, ma non altre, ſi compongono tutti i
numeri: fino al dieci. It 3* 2 + 2 = 4 2 + 3 2 + 6 = 3 ti 3 2 + 2 + 37 2 + 1 +
2 + 2 = 3 + 3 + 2 3 + 3 + = te: 2 + 2 + 2 +19 1 + 2 + 2 + + 3 = I + 2 + 3 + 4 =
10 II 10 è fatto dall'ı, e dal o, e ſignifica ', che il primo articolo dei
numeri termina alla prima decina; fe ſucceſſivamente alla de cina ſi aggiunge
l'i, il 2, il 3. ec. ſi arriva alla ſeconda decina, e collo ftelso metodo alla
terza, alla quarta ec: fino al 100, che è la decima decina da cui ſi va fino a
1000, o 10 volte 1oo ec. I Pita (87 ) I Pittagorici chiamavanol yno il finito,
come quello che li mitava l'infinito o l'indefinito ad una tal ſpecie o forma:
dot trina, dice nel Eilebo Platone, la quale diſcende dagli Dei; queſta è, the
tutte le coſe tengono in loro fteſſe il termine, o l'infinito innato; o
piuctoſto l ' indefinito. Lo rappreſentavano nella materia i Pittagorici, e lo
ſimboleggiavano nel 2, o nel binario, poichè ogni coſa ſteſa è divit bile in
due e ognuna delle parti in altre due,; e così all'infinito. Quando a queſto
infinito s'aggiungea luna, che vuol dir la forza o la forma ſe ne faceva il
compoſto che era l'altro principio, di cui par la Platone; queſto compoſto
dețerminato a una ſpecie dalla for ma componeva un tutto, in cui vera principio,
mezzo, e fi në. Lo diffegnavano i Pictagorici per il 3, e lo chiamavano numero
perfecto, medio, e proporzione; oſſervò S. Agoſtino che numerando fino al 3,, €
rapportando prima il 2 all'1, ed indi al tre nel comporſi la proporzione
continua, aritmetica fi forma per la replicazione del 2 il 4, numero che immediata
mente luccede al 3, ciò che non ſi ha negli altri numeri, per chè cominciando
la proporzione aritmetica dal.2 chi replica il 3 non fa il numero che
immediatamente lo ſegue od il 5 ma il 6; nel continuare la proporzione con
queſto metodo i numeri riſultanti ſempre più ſe n'allontanano. S. Agoſtino per
ciò offerva co'.Pittagorici, che la perfezione dei numeri è ne quattro primi,
in cui gli eftremi ſono intimamente uniti ai mezzi, e i mezzi agli eſtremi.
Quindi le più perfecte conſo nanze muſicali, ſono fatte dei primi quattro
numeri 2 3-4, 1 ' 2'3? ſ. 7. Se l'uno è, egli è ogni numero. Nella combinazione
dell'uno, dell'ente, e del diverſo fi de ducono tutti i numeri (9. 6.), Dunque
nell' uno, in quanto è, vi ſono tutti i numeri,; Carol. Il numero eſſendo molti
nell' uno, in quanto l'uno è., egli contiene moltitudine, e perchè i numeri
fono infiniti nell uno che è, vi farà una moltitudine infinita. COROL. 2. Il
numero in moltitudine infinita, eſſendo inclu ſo nell'uno che è, farà egli
partecipe d'eſſenza. Si prenda la ſerie naturale de numeri 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7
ec. fino al oo unità eterogenea alla prima, e da cui fi comincia l'alcra ferie
200, 30, 40, fino 200 = 60 altra unità eterogenea, da cui comin (88 ).
cominciali, un' altra ſerie 2 co ', 300'ec. ſino a o, e cosi all' infinito. Se
di queſte tre ſerie ſe ne fa una ſola ſi ha 1.2.3.4.5 ec. co '... 00?... oo...,
fino ad in cui ſi potrebbe cominciar di nuovo la numerazione. Cominciando da
uno, li può con le frazioni continuar la ſe. rie decreſcente con lo ſteſſo
ordine che l'altra, onde 1 I 1 ec. • • ec. fino 3 4 5 I 1 I I I wec. 4
Combinando la ſerie dei finiti intieri, rotti, e degli infiniti matematici, e
immaginarj, fi ha tutta la ſerie. ec. 1.2.3.4 ec. co oo oo ' ec. 0° 5 4 3 2 In
queſte eſpreſſioni non v'è errore, purchè non s' attenda, che alla proporzione
delle quantità, nè ſi realizzino i ſimboli. Ma non biſogna credere, che la
numerazione ſia terminata, po tendoſi concepire, e tra gli intieri, e tra rotti,
e tra gli infi. niti dei mezzi proporzionali, i quali ſono, come ben prova il
Ba rovio, veri numeri (ſe ben noi non poſſiamo eſprimerli ) perchè ſimboli di
vere quantità, come i numeri, ointieri, orotti, e gli infinitamente grandi,
egli infinitamente piccioli. Platone, al dir d'Ariſtotele, poſe i due infiniti (a
) magnum et parvum, e queſti, come ben ancora lo riconobbe il P. Grandi, ſono
gli infinita mente grandi, e gli infinitamente piccioli dei moderni Geome tri;
infiniti replico immaginarj, de' quali con tanta chiarezza trattò il Wolfio
nell'Ontologia, ſgombrando tutte le difficoltà' che v'oppoſero coloro, che non
ben inteſero queſte due ſpecie d'infiniti Platonici, caratterizzati da profondi
Geometri con tan to utile della Geomecria, della Mecanica, ed altre parti delle
Matematiche. Queſti due infiniti di Platone non ſono diverſi dai grandiflimi, e
menomiſlimi, di cui qui parla. 8. 8. In quanti luoghi è l' ente, in tanti è
l'uno. Se l' uno è egli accompagna ſempre l'ente, ma non v'è ente, che non ſia
in qual che luogo (9.12. Sez, 2. ) Dunque in quanti luoghi è l'ente, in tanti è
l'uno. a ) Plato vero duo infinita magnum et parvum. Arift. 3.Phiſ. c.4. §. 9: (89
) g. 9. Se l' uno è, non ſolo ' egli è l'uno, ma un certo uno. Ogni ente
ſingolare partecipa dell'ente, dunque dell'uno; dunque come ogni ente ſingolare
è un certo ente, ogni ente ſingolare è un certo uno. ČOROL. Si compartiſce
dunque l'uno, non ſolo con le coſe in genere, ma con le coſe ſingolari, onde
v'è l'uno, e il tal uno, e a queſto compete, come all'altro, eſfer molti,
perchè vi ſono molti enti ſingolari, e compete loro il luogo degli enti
ſingolari. g. 10. Se l'uno è, egli è un uno che è uno, e cert' uno, e mol ci, e
parti, e finito, e in moltitudine infinito. Egli è uno, e cert'uno, ſe
accompagnando gli enti è in ogni ente, ed in ogni cal ente; egli è tutto ſe
ogni ente, in quan to è, egli è un tutto; egli è párte, ſe ogni parte dell'ente
è jina; egli è finito, ſe ogni tutto ha i ſuoi limiti, e infinito le contiene
in sè tutti i numeri. Annot. Queſte contraddizioni non ſono che apparenti. D.
II. Se l'uno è, egli ha principio, mezzo, e fine. L'uno è finito, e tutto, e
parte (S. 10. Sez. 3. ) Dunque ha in sè limiti, perchè ogni una di queſte coſe
ne ha; dunque ha principio, mezzo, e fine. Corol. Dunque l' uno è partecipe di
figura retta o roton da, o d'amendue miſta. ANNOT. Come l'uno, di cui quì parla
Parmenide, pud effer Dio, o qualche idea divina, fe egli è circonſcritto da
tutti i luoghi degli enti, ſe s'individua cogli enti ſingolari, ſe è tutto,
parte, finito, figurato ec. 5 Tom. II. m 6. 12. (20 ) Do? 127 ** Se. l'uno è,
egli è in ſe ſtello, e iş altrui., Ciò che è tutto, comprende tutte le ſue
parti; ma l'uno com prende tutte le ſue parti, dunque l' uno è un tutto; ma il
tutto contien ſe ſteſſo, è l' uno è un turco. Dunque l'uno contiene ſe fteffa.
ANNOT. La propoſizione è identica, e vuol dire: un tutto è. un tutto; o iltutto
è nel tucta; non ſi faccia più attenzione al tutto, mamaall all'uno, e li
concluderà, che l'uno è nell'uno. Si com bini poi l'uno, e il cucco, e ſi
concluderà, che come il cutto è in ſe ſtello, così l'uno è in fe fteflo. Quel
che è in ſe ſteſſo, egli è in ogni ſua parte, ed in tutte le parti, ma il cutto
non può eſſer in niuna parte, perchè il più au conterebbe pel manco, nè meno il
tutto può eſſer in tutte le par ti, perchè ſe in cutie, farebbe ancora tutto in
ciaſcuna, dunque il tutto non è in ſe ſteſſo, ma l'uno è il cutto; dunque non è
in fe fteflo. Ogni coſa è in qualche luogo, perchè ciò chenon è in qualche
kuogo è nulla e quel che è in qualche luogo è in fe felio, o in altrui, perché
non li dà mezzo; mas'è dimoſtrato che ſe è l'uno egli non è in ſe ſteſſo,
dunque è in altrui; ma di ſopra s'era pur dimoſtrato, che egli era in le ſtello;
dunque è in ſe ſteſſo, ed in alcrui. ANNOT. Non v'è quì che contraddizione apparente,
perchè quando ſi dimoſtra, che l'uno è in ſe ſteſſo, ſi conlidera che l'uno è
un tutto le cui parti fon tutte inſieme, quando all'incontro fi confidera, che
l'uno è in altrui, non ſi concepiſce il tutto con le párti pret inleme, ma come
quello che non è in niuna delle ſue parti. S. 13. Se P upo è, egli fta, e ſi
muove. Quel che ſta è ſempre in ſe ſteſſo, perchè da lui non mai et di parte; '
ma l'uno eſſendo nell' uno, non ſi diparte mai da fe ftef ſo; dunque è ſempre
nello ſteſſo; dunque fta. Quel che è ſempre in altri non è mai nello ſteſſo, e
non eſsendo nello ſteſso mai non fta, e non ſtando ſi move, ma l' uno non è in
ſe ſteſso, ma ſempre in altrui; dunque ſempre fi move. ANNOT. Non è pur queſta,
che contraddizione apparente.. 14. (91 ) $. 14. 1 e il Una coſa comparata
all'altra, o è la ſteſsa, o diverſa, o è par te di quella coſa conliderata come
tutto, od è tutto, conſiderata 1a cofa come parte. Così dice Platone, e par
conſiderar lo ſteſso, e il diverſo relativamente alle qualità ſolamente, e la
parte, cutto relativamente alla quantità. Se dunque fi dimoſtraſse, che una
coſa relativamente a un' altra non foſse, nè tutto, ne pare ce, nè la Ateſsa,
ne ſeguirebbe per il metodo d' eſcluſione, che ella fofse diyerſa. g. 15. Se
l'uno è, egli è a ſe ſteſso lo ſteſso, ed a ſe ſteſso diverſo. Se egli è in le
ſteſso, e fta ſempre, egli è a ſe ſteſso lo ſteſso, ſe egli è in altrui, e
ſempre lr move, è da ſe ſteſso diverſo. L'uno non è parte di ſe ſteſso, nè
tutto rifpetto a ſe ſteſso, nè l'uno è diverſo dall'uno; or s'è luppoſto, che
una coſa compara ta ad un'altra, fe d'eſsa non è tutto, nè parce, nè diverſa
ſarà la ſteſsa; dunque l'uno ſarà lo ſteſso con ſeco; ma ſe l'uno è in al trui
non è ſempre lo ſteſso a ſe ſteſso; dunque per l' eſcluſione Platonica ſarà
egli da ſe ſteſso diverſo'. §. 16. ne Per eſpor: l'argomento ſeguente in tutta
la ſua forza, convie. ne particamente illuftrare i principj da cui dipende. Si
ſuppo 1. Che l' uno è da sè diverfo, come da ente nell'ipo teſi, che egli ſia.
2. Che il diverſo e lo ſteſſo, effendo contra rj, uno non può mai eſser dell'
altro. Cost lo ſpiego · Molci enti potendo efiftere, od eſiſtendo nel tempo
ſteſso, lo ſteſso farebbe nel diverſo, ciò che è impoſſibile, non potendo i con
trarj, cioè A, e non A ſtar inleme. Ben ſi vede che qui parla Platone del
diverſo, e dello ſteſso aſsoluto, e non relati. vo, quale abbiamo fpiegato nel
G. 17. Sez. 2. perchè nulla vie ta, che due coſe non poffino eſser diverſe'
nell'eſsenza, nelle quantità, nelle azioni ec. ed intanto eſiſtere nel tempo
ſteſso mi Iura eſtrinfeca delle coſe. Non è cosi conſiderando il diverſo
aſsoluto, o l'idea del diverſo, e conſiderando lo ſteſso aſſoluto o l'idea
dello ſteſso.; l'uno non può mai ſtar nell'altro, e in conſeguenza la ſteſsa
coſa non può mai partecipare nello ſteſso tempo di queſte due idee contrarie.
Allude qui tacitamente Par m 2 meni (92 ) menide a ciò che ha già dimoſtrato,
parlando della participazio ne dell'idee. L'argomento ha tanto maggior forza,
quando fi conſiderano gli enti ſeparati dall' uno, poichè ſe foſsero diverfi,
per ragion del diverſo participerebbono dell' idea del diverſo che è Tempre una,
dal che deduce Parmenide, che non poten do eſser diverſi per la participazione
dell'uno nell'ipoteſi di Socrate, non ſono diverſi tra loro. 3. Suppone che le
coſe che non ſon uno, non fieno partecipi dell'uno, perchè non ſarebbono uno,
ma uno in certo modo. Quì pur Parmenide parla dell'idea dell' uno, che
participandofi dalle coſe non è più uno, ma uno con certe circoſtanze, od in
certo modo, ma ſe non ſon uno nor faranno eziandio numero, perchè ogni numero è
uno. 4. Le coſe che uno non ſono, nè aſsolutamente uno, non poſsono eſser parti
dell'uno, poichè l' uno non può eſser parte delle co ſe che non fon uno, nè può
eſser tutto, quafi comparato a par ricella. Parmenide alludetacitamente a ciò
che diſse di ſopra, che idea non pud eſser participata, nè ſecondo la parte, nè
ſecon do il tutto, dal che deduce, che le coſe che non ſon uno ne fono
particelle dell' uno, nè ſono all' uno quaſi a particella. Ciò ſuppoſto così
argomenta Parmenide col metodo d' eſcluſione. g. 17. Se l'uno è, egli è diverſo,
e lo ſteſso con altre cofe; all'uno convien il diverſo, aſsolutamente in quanto
diverſo, e non all” altre coſe, cui non conviene, che relativamente Dun que
l'uno è diverſo dall'altre coſe.; le altre coſe non ſono diper fe dall'uno, nè
ſono parci, nè tutto riſpetto all' uno; dunque fono le Aeſse con l'uno. F. 18.
Chi proferiſce lo ſteſso pome una, e più volte ſenza riferirlo a più coſe, come
ſi riferiſce nei nomi equivoci, ed analoghi, eſprime fempre lo ſteſso concetto;
dunque nel proferire la voce, diverſo; applicandola all'uno, confiderato
relativamente agli altri, e un' altra volta agli altri conſiderati
relativamente all'uno, nell'ado prar lo ſteſso nome s'eſprime lo ſteſso
concetto. Quindi dice Par: menide: quando diciamo eſſer gli altri diverſi dall'
uno, e l'uno ef ſer dagli altri diverſo, non mai introduciamo il diverſo a
figuificar altra coſa, che la natura di cui è proprio nome. $. 19. (93 ) S. 19.
s'è gia oſſervato, che fimile è quel che patiſce lo ſteffo; difts mile quel che
patiſce il diverſo (9. 20.Sez. 2.) Se l'uno è, egli è ſimile, e diſſimile a ſe
ſteſſo, ed agli al tri. L'uno è diverſo dagli altri (9. 17. Sez. 3. ) Dunque
l'altre coſe ſono diverfe dall' uno, ma non fono diverſe nè più né meno
dall'uno, che l'uno dall' altre coſe (S. 18. Sez. 3. ) e ſe nè più, nè meno,
rimane che egualmente fia uno. In quanto adiviene alle uno l'effer diverſo
daglialtri, e gli altri dall'uno, egli patiſce la ſteſſo per rapporto agli
altri, e gli altri per rapporto a lui; ma ciò che patiſce lo ſteſſo è fimile,
dunque l'uno e limile agli altri, e gli altri per la ſteſſa ragione fon fimili
a lui. Il diverſo è contrario allo ſteſſo; ma fi dimoſtro, che l'uno agli altri
è lo ſteſſo, e diverſo, (S. 17. Sez. 3. ) ed è contraria paffione effer lo
ſteſſo agli altri, ed effer diverſo dagli altri ma in quanto diverſo parve
fimigliante; dunque in quanto lo Steffo fia diflimigliante, ſecondo la paſſione
contraria. E' da notarſi, che l'uno è ſimile agli altri, in quan to diverſo, e
diſſimile in quanto lo ſteſſo. S. 20. Due coſe che ſi toccano ſono preſenti
l'una all ' altra, nè tra effe vi ſi frammette un terzo, perchè in queſto caſo
non più toccherebbono ſe ſteſſe, ma il terzo frappoſto. Ove due coſe fi toccano,
due ſono le coſe, ed uno il contatto, ove tre li toc chino, tre ſono le coſe, e
due i contatti; in ſomma creſcen do i termini creſcono a proporzione i contatti,
ſecondo il nu mero dei termini meno uno. Si tocchino tra loro due punti
matematici, ' poichè nulla fra loro s'interpone, un punto per ragion del
contatto coinciderà con l'altro; fi facciano toccare da un terzo punto, queſto
pu. re coinciderà, e quindi infiniti punti matematici non fanno che un punto,
onde de liegue, che la linea non è compoſta di punti, o che i punti ſovrapofti
gli uni agli altri non fanno grandezze. Ciò naſce, perchè tutti i punti ſono
omogenei ſen za parti, ma ſe vi foſféro degli enti tra loro eterogenei, ben chè
non eſteſi, o ſenza parti, nulladimeno poſti gli uni appreſ so gli altri,
benchè non componeſſero grandezza, tuttavia fa rebbono più, come ben offervò
Ariſtotele. Ciò diede occaſio ne al Leibnizio di compor l'eſtenſione di enti
ſemplici, ma ete (94 ) eterogenei, o diverſi di ſpecie, che eſiſtendo
ſcambievolmente gli uni fuori degli altri coeſiſtano in uno; quindi per la no
zione dell' eſtenſione, convien conſiderare, e più enti che eſi Atano fuori di
sè, e che tra loro s'unifcano, e formino uno. Non fanno però un eſteſo;, perchè
fe ben inſieme eſiſtano, non ſono tuttavia tra loro uniti, come allora che
liquefatti più me talli ſi confondono in una maſſa. Le partipoi indeterminate
dell'eſteſo, conſiderate in aftratto, cioè ſenza far attenzione alla loro
fpecie, non diferiſcono tra lo ro, che nel numero. Non ſarà inutile quefta
offervazione nel progreſſo. Intanto ſi oſfervi, che l'uno eſcludendo nel ſuo
con cetto i più, oi molti, per quanto l'uno ſi moltiplichi per ſe ſteſ fo è
ſempre uno, onde egliè il ſuo quadrato, il fuo cubo, ed ogni altra potenza,
foſſe anche ella di dimenſioni infinite, e non folo avete un eſponente, ma
molti, come le quantità che ſi dicono eſponenziali. $. 21. Se l'uno è, egli
tocca ſe ſteſſo, e l'altre coſe. L'uno è in fe fteſſo, ed in altrui (5. 12.
Sez. 3. ) In quanto è in fe fteſſo vien impedito di toccar l'altre coſe, dunque
tocca fe Hello; in quanto è in altrui, è nell'altre coſe; dunque le coccherà.
IN ALTRO MODO Una coſa nel coccar l'altra giace appreffo quella che tocca, ed
occupa la ſede vicina; ma ſe l'uno tocca ſe ſteſſo, giace appreſſo ſe steſſo,
ed è quindi due coſe, il che non potendo effere, mani feſto è che non pud
toccarſi. Le coſe diverſe dall'uno, non potendo effer numero, perchè.non
partecipano l'uno, non pociamo mai con l'uno far due, ma nel contatto v'è
ſempre almeno due (9. 19. Sez.-3.) Dunque l'uno non toccherà l'altre coſe.:
ANNOT. La contraddizione pur è qut apparente, e ſi fa l'ano corporeo nel
fupporre, che ei tocchi. Nozione immaginaria. 22. Parmenide ragionando ad
hominem con Socrate fuppone la par ticipazione dell'idee, combattuta nella
prima parte; conſidera quindi la grandezza, e la piccolezza, come due ſpecie
ſeparate, tra (95 ) tra loro contrarie; ben a cid s'avverta, perchè in queſto
conſiſte la deſtrezza del Filoſofo, e la forza del ſuo ragionamento, S. 23 2
os' Se l'uno e, egli non è ně eguale, nè maggiore, në mi nore degli altri enti.
Sia l'ente minore degli altri enti, egli dunque participerà dell ' idea della
piccolezza, la qual è contraria alla ſpecie della gran dezza. Si concepiſca,
che la piccolezza ſia nell' uno, o farà in tutto l'uno, o in alcuna parte di
eſso; fe in tutto l' uno, eftenderà per l'intiero uno tutto al di dentro, che
vuol dire lo compenetrerà con la ſua ſoſtanza, o l'abbraccierà con eſtremi li.
miti al di fuori, che vuol dire lo comprenderà; ma ſe la picco lezza s'eſtende
al di dentro di tutto l' uno gli è eguale ", e fe lo comprende gli è
maggiore, onde la piccolezza ſarebbe nello ſteſ ſo tempo grande, ed eguale
contro l'idea di lei. Se la piccolezza è una parte dell'uno, ne ſeguirà, che
ella lia di nuovo in tutta la parte, o al di fuori, o ál di dentro quindi che
ella fia eguale, o maggiore per le coſe dimoſtrare; dunque non potendo eſser la
piccolezza, nè in tutto l' uno, nè in parte dell'uno, non ſarà nell'uno, onde
l'uno non farà pic colo, o minore degli altri enti. Corol. In alcuno degli enti
per la ſteſsa ragione non po irà ritrovarſi la piccolezza, onde in queſta
ipoteſi non v'è al tra cofa piccola, che la piccolezza ftetsa, ma dove non v'è
il piccolo, non v'è neppur il grande, perchè l' uno non è che per riſpetto
all'altro; dunque non vi faranno coſe grandi, trartone la grandezza, e quindi I
uno, e altre coſe ſaranno prive di grandezza, e di piccolezza. e S. 24. Se
l'uno è, le altre coſe non ſono di eſso nè maggiori, nè minori, nè eguali. Le
altre coſe aſsolutamente parlando ſono prive di grandezza, e di piccolezza,
dunque, rifpetto alla uno, non fono nè piccole, ne grandi, e per la ſteſsa
ragione, l'uno non è nè maggiore, nè minore dell'altre coſe, eſsendo privo di
grandezza, e dipiccolezza. 5.125. S. 25.
Se è l'uno egli farà eguale a ſe ſteſſo, ed all'altre coſe. Non è maggiore, nè
minore dell'altre coſe, ma ſe l'uno non è, nè maggiore, nè minore dell' altre
coſe, egli per la forza dell'eſcluſione ſarà eguale. §. 26. Se l'uno è, egli è
eguale a ſe ſteſſo, ed all'altre coſe. Non avendo in sè, nè grandezza, nè
piccolezza, nè eccede rà ſe ſteſſo, nè da ſe ſteſo farà ecceduto, dunque farà
eguale a ſe ſteſſo. S. 27. L'uno è maggiore, e minore di fe ſteſſo. Egli è in
ſeſteſſo, dunque li comprende; dunque èmag giore di ſe ſtello; eſſendo in ſe
ſteſſo, egli è da ſe ſteſſo com preſo, dunque è minore; dunque è maggiore, e
minore di ſe ſteffo. S. 28, Se l'uno è, le altre coſe ſono maggiori, minori ed
eguali all' uno. Null'altro v'è, che l'uno, e l'altre coſe, non dandoſi mez zo,
($. 12. Sez. 2. ) Quel che è in una coſa è minore di eſſa (S. 10. Sezione 2. )
e ciò che la contiene è maggiore; dun que, poi che ogni coſa è in un luogo, e
che altro non v'è che l' uno, è l' altre coſe neceſſariamente ſono nell' uno, o
l' uno nell'altre coſe; ma ſe l' uno è nell' altre coſe, queſte ſono maggiori
dell' uno, perchè lo conten gono; l'uno è minore, perchè è contenuto; dunque
l'altre co le ſono maggiori, e - minori dell’uno: ma s'è dimoſtrato, che l' uno
non eſſendo nè maggiore, nè minore dell' altre coſe, all' al tre coſe farà
eguale (§. 24. Sez. 3.) Dunque egli è eguale, mag giore, minore dell'altre
coſe. Corol. Egli dunque può eſſere di miſure eguali, maggiori, e minori,
riſpetto a sè, ed all' altre coſe. Quindi Ha 1 1 ! (97 ) Ha più miſure riſpetto
alle coſe delle quali è maggiore, me no miſure riſpetto a quelle delle quali è
minore, e pari miſu re riſpetto a quelle delle quali egli è eguale. 6. 29. 9
Paſſa a dimoſtrare Parmenide, che ſe l'uno è, egli è parce cipe del tempo, ed è,
e ſi fa più giovane, e più vecchio di ſe fteſto, e degli altri, ed in contrario,
e che non è, nè ſi fa nè più giovane, nè più vecchio di ſe ſtello, e degli
altri par cicipanti il tempo. Per intendere adequatamente queſte propoſizioni,
in cui s'af follano varj principi i biſogna prima ripaffare ciò che fi diſle
nel ſ. 3. Sez. 3. 9. 27. Sez. 2. ove fi dimoſtrò. 1. Che chi partecipa dell'
eſſenza, partecipa delle differenze del tempo. 2. Che cið che ſi fa più vecchio
di ſe ſteſſo, e dell'altre coſe, nel farſi più vecchio, li fa più giovane, e
cið per eguali parti di tempo, ag giunte agli ineguali, il che abbiamo
dimoſtrato coll' eſempio delle ragioni di e diſucceſſivamente accreſciute di 1.
comparando percið le ragioni di į, e di abbiam veduto, che i loro va Iori i ti,
eit ! + divengono ſempre minori. Altreſuppoſizioniegli fa ne' ſeguenti
argomenti. 1. Il tempo è un fluſſo, da cui ſi fa progreſſo dal pallaco al
preſente, e dal pre Tente al futuro, e dall'era all'è, è dall' è al ſarà. 2.
Che una coſa che'ſi fa paſſa dal preſente ove è, nel futuro ove ſarà, e perciò
nel farli è di mezzo cra l'uno, e l'altro, onde propria mente ciò che è nell'
inftante, non ſi fa, ma è quello che è, o, come l'eſprime Platone, una coſa che
ha fatto acquiſto del preſente cella di farſi, od è ciò che allora convien che
fi faccia. 3. Il preſente è ſempre unito all'uno, perchè è ſempre unito all'
ente, dal qual l'uno è inſeparabile. 4. Il diverſo, o l'idea del diverſo è la
ſtella coſa ſecondo i principi di Socra te, e percid è ſempre uno, onde quello
che non è uno, non può eſer il diverſo, o l'idea del diverſo, onde le coſe
diverſe dall' uno, o che partecipano il diverſo, ſono più che l'uno, o hanno in
sè moltitudine, e in conſeguenza numero o più. 5. Delle più ſono prima le poche,
che le molte, e delle poche prima il pochiſſimo. 6. La coſa che prima li fa è
la prima, e le dipoi ſono più giovani delle già fatte innanzi. 7. E' impof fibile',
che una coſa ſi faccia oltre la natura, onde in una co ſa che ha principio,
mezzo, e fine, prima li fa il principio, indi il mezzo, e poi il fine, che vuol
dire, il fine ti fa i'ulti mo. 8. Quel che ſi fa ultimo è più giovane di quel
che fi fa Tomo II. il a e ce I 21 S: i n (98 ) il primo. 9. Chi ſi fa con tutte
le parti infieme d'un tutto,, fi fa nello ſteſſo tempo inſieme col cutto.. 1 1
ſ. 30. Se l'uno è, egli è, e ſi fa, e non è, nè ſi fa più vecchio, e più
giovane di ſe ſteſſo. Se l' uno è participando l'eſſenza, participa del tempo ($.
3. Sez. 3. ) ma quel che è in tempo, è in un fluſſo continuo o pal ſa dal
paſſato al preſente, o dal preſente al futuro (S. 28. Sez: 3.) Dunque l'uno e
continuamente in queſto paſſaggio. In quanto paſſadall'era all' è fi fa più
vecchio di sè;ma nel farſi più vec chio, ſi fa più giovane (S. 26. Sez. 2. )
Dunque ſi fa più vec chio, e più giovane di ſe ſteſſo. Chi non oltrepaſſa il
preſente, nel far progreſſo dal paſſato, nell'avvenire non ſi fa, ma è ciò che
è ($.22. Sez. 4. ) Dunque quando l ' uno tocca primieramente il preſente, non
ſi fa allo ra vecchio, ma è vecchio oggimai, Nel toccar il preſente, co me ha
prima di lui fatto acquiſto, cefla di farli, od è ancora ciò che avvien che ſi
faccia i $. 28.Sez. 3.) Dunque l'uno, quan do fatto vecchio conſeguiſce il
preſence, cella di farſi, od è allora più vecchio di ſe ſteſſo, di ciò che era
toccando il pal fato; ma l'uno è di quello più vecchio, onde fi faceva vec chio;
e facevali di ſe ſteſſo, ed il più vecchio è più vecchio del giovane; dunque
allora l' uno è più giovane di ſe ſteſſo quando fatto vecchio conſeguiſce il
preſente, ma il preſente è fempre unito all'uno; dunque l'uno, ed è ſempre, e
li fa più vecchio, e più giovane di ſe ſteſſo; ma facendoſi tale, od ef ſendo
in tempo pari ritiene la ſteſſa età, e chi ritiene la ftel fa età, non è più
vecchio, nè più giovane; dunque l'uno eſ ſendo, e facendoli in tempo, non è più
vecchio, nè più gio vane di ſe ſteſſo. g. 31. Se l'uno è, egli è più vecchio
dell'altre coſe, o l'altre coſe più giovani di lui. Nelle coſe diverſe, che
hanno in sè moltitudine o numero, altre ſon fatte prima, altre dappoi; ma il
primo che ſi fa è pochifiimo, (9. 26. Sez. 3. ) e nei numeri l'uno è pochiſſimo,
dunque l'uno è facco inanzi alle coſe che hanno numero, o che fono. 1 fono
diverſe dall'uno, o ſono gli altri; ma il primo che ſi fa è più vecchio, le
coſe che dipoi ſi fanno, ſono più giovani; dunque l'uno è più vecchio
dell'alcre coſe, e l'altre coſe più giovani. g. 32. Se l'uno è, egli è più
giovane dell' altre coſe, e le altre coſe più vecchie dell' uno. L'uno non può
farſi oltre la natura fua. Dunque avendo parti, o principio, o mezzo, o fine,
ſi fa ſecondo la natura del principio, del mezzo, e del fine, ma il princi pio
fi fa il primo, è il fine ſi fa l'ultimo, ma l' ultimo fatto e più giovane
dell' altre coſe, e l' altre coſe più vecchie dell' uno ($. 26. Sez. 3. );
dunque l'uno è più giovane degli altri, e gli altri dell'uno. $. 33. Se l'uno è,
egli non è più vecchio, nè più giovane dell' altre coſe.. Ogni parte dell' uno
è una; ogni parte del mezzo è una, ed uno è parimente il fine, od il tutto,
onde fi farà l'uno, é colla prima coſa che fi fa, ed infieme colla ſeconda,
colla ter za ec. onde percorrendo ſin all'eſtremo fi farà un tutto, o 1 uno non
eſcluſo nella generazione dal mezzo, non dall' eftre mo, non dal primo, non da
altro; ma ſe l'uno ſi fa inſieme con tutte le parti d' un tutto ha la ſteſfa
età con tutti gli al tri; dunque ſe non è nato oltre la propria natura, non è
fac to prima nè dopo l'altre coſe, ma inſieme e fecondo queſta ragione non è
più vecchio, o più giovane degli altri, nè gli altri dell' uno. ſ. 34. Se l'
uno è, egli ſi fa più giovane, più vecchio di ſe ſteſſo. Se alcuna coſa foſſe
più vecchia d' altra, li farebbe ancora più vecchia di ſe ſteffa: A ſia più
vecchio di B, nel creſcerfi gli anni ad A, egli et fa più vecchio di fe fteffo,
e di B; dun n 2 que (100 ) | 1 que l'uno nel farſi più vecchio dell' altre coſe
ſi fa ancora più vecchio di sè; manel farſi più vecchio, ſi fa ancora più gio
vane per la ſteſſa ragione, che creſcendo tempi eguali, la ra gione decreſce (5.27.
Sez. 2. ) Dunque l'uno li fa più giovane di ſe ſteſſo, ma s'era dimoſtrato, che
ſi faceva più vecchio (S. 30. Sezione 3. ) Dunque ſi fa più giovane, e più
vecchio di ſe Iteffo. 1 f. 35. Se l'uno è, egli non può farſi, nè più vecchio,
nè più giovane dell'alere coſe. Ciò che fi fa più vecchio d'un altro, o più
giovane, ſi fa più vecchio, e più giovane ancora riguardo a sè (1.37. Sez. 3.)
ma l' uno non ſi fa, ma è, e più giovane, e più vecchio ri guardo a sè; dunque
non ſi fa, nè più giovane, nè più vec chio riguardo agli altri. Se l'uno è più
vecchio, che le altre coſe, ha più lungo tem po dell'altre coſe, ma creſcendoſi
il tempo, egli ſempre eccede meno, onde ſi fa più giovane riſpetto alle coſe,
delle quali era innanzi più vecchio; ma ſe egli ſi fa più giovane, quell' altre
coſe ſi faranno più vecchie; dunque le coſe che erano innanzi, e più giovani
dell'uno, ſi fanno dell' uno più vecchie, cinè fi fanno più vecchie, riſpetto a
quello che era più vecchio; ma le coſe più vecchie non ſono, ma fi fanno ſempre,
perchè la fanno più vecchie, mentre l'uno ſi fa più giovane; dunque le coſe ſi
fanno ſempre più vecchie dell'uno. Le coſe poi più vec chie, parimente ſi fanno
più giovani dell' uno più giovane perchè l'uno, e l'altre coſe movendoli in
contrario G fanno vi cendevolmente contrarie, cioè le coſe più giovani dell'uno,
ſi fanno più vecchie dell'uno che è vecchio, ed all'incontro l'una più vecchio,
li fa più giovane delle coſe più giovani;, ma non, è poffibile che l' uno, e l'
altre coſe fieno fatte nè più giova ni, nè più vecchie, perchè le cali foſſero,
non più li farebbo no; dunque le coſe, e l'uno tra loro ſi fanno più vecchie, e
più giovani: l'uno li fa più giovane delle cofe, per quello che parve eſſer più
vecchio, e prima fatto, l'altre coſe poi fi fanno più vecchie, per quello che
ſono ſtate fatte dopo, e ſecondo la ſella ragione: l'altre coſe ancora ſe ne
ſtanno riſpettivamente alla uno, come quelle che ſono ſtate più vecchie, e
prima dell'uno. Dunque inquanto che nè l' uno, nè gli altri fi fanno, diſtan do
1 (101 ) $ do ſempre tra loro di un numero pari, non ſi farà nè l'uno più
vecchio degli altri, nè gli altri dell' uno. Ma come decreſce ſempre la ragione
dei tempi, o con minor particella ſempre tra loro differiſcono le coſe prime
dall' ultime, e l'ultime dalle prime, così è neceſſario che l' altre coſe ſi
facciano, e più vecchie più giovani dell'uno, e l'uno dell'altre coſe. Quinci
aggruppando in uno tutte le propoſizioni, abbiamo di. moſtrato, che l'uno è, e
li fa più vecchio, e più giovane degli altri, e di nuovo non è più vecchio, nè
più giovane di ſe ſteſſo e degli altri. Corol. Perchè l' uno è partecipe del
tempo, o ſi fa più vec chio, e più giovane, egli è partecipe del quando, del
futuro, e del preſente. Dunque era l'uno, ed è, e ſarà, e ſi faceva, e fi fa, e
li farà, e ſarà ancora alcuna coſa in lui, e di lui, ed è, ed era, e farà.
COROL. 2. Perchè la ſcienza, l'opinione, il ſenſo, la defini zione, il nome,
riguardando le coſe che ſono nelle differenze dei tempi, in quanto l'uno è
capace di queſte differenze, è ancora fog getto di ſcienza, d'opinione, di
fenſo, può definirli, e può no. minarſi. Annot. Qui Parmenide non dà ſcienza, e
definizione, ſe non delle coſe ſoggette al tempo, il che biſogna accordare con
ciò che diſke (9.16. Sez. 1. ) La ſcienza che appreſſo noi è ſcienza del le
verità, che ſono a noi dintorno. 9. 36. Riſtringiamo adeſſo in poco, quanto
Platone ha propoſto nella propoſizione condizionale, o ſia nell'ipoteſi ſe
l'uno è. 1. Diftin le colla mente i due concetti dell'uno, e dell'ence., 2. Ne
com poſe un tutto intellectuale di due parti, o dei due concetçi dell' uno, e
dell'ente. 3. Tra loro paragonandoli ne deduſſe il terzo concetto del diverlo.
4. Conclure che nell' uno o è una moltitu dine infinita di numeri, che dividono
l' uno a proporzione dell' ente. 5. Che l'uno è tutto, e parte, e finiso, e
infinito. 6. Da ciò che è un tutto finito, conſiderò in effo il principio, il
mez-, 2o, il fine, e quindi la figura. 7. Da ciò che è un turto, e che il tutto
è nel tutto, conclure che l'uno è nell' uno, ed in fe ftel 1o. 8. Da ciò che
l'uno è comeparte nel tutto, conclure che è in altrui. 9. Che ſta, e ripoſa, ſe
egli è in ſe ſteſſo. 10. Che ſi mo ve, le è in altrui. 11. Che è ſimile a sè in
quanto l'uno, è lo ſteſſo che l'uno. 12. Simile agli altri, perchè paciſce d'
eſſere co me gli altri. Che è diffimile in quanto cert'uno, e certo ente. 14. (102
) 14. Che è lo ſteſſo, poichè ekſte, ed eſiſtono glialtrienti nello ſteſſo
tempo. 15. Che è diverſo, in quanto non ha in sè ciò che hanno gli altri enti.
16. Quindi fimile, e diffimile, perchè patiſce le ſteſſe cofe. 17. Che è
maggiore, minore, ed ineguale, e non maggio re, minore, nè eguale dell'altre
coſe. 18. Che è, e ſi fa più gio vane, e più vecchio di ſe ſteſſo, e dell'altre
coſe, e non è, e non fi fa, nè più vecchio, nè più giovane dell'altre coſe, e
l'altre co fe di lui. 19. Finalmente, che dell'uno in quanto è li ha ſcienza,,
ſenſo, opinione, e può denominarſi, e definirſi. Si potrebbe più
compendioſamente ridur in poco l'argomento di Parmenide, conſiderando che
reciproche ſono queſte due pro polizioni: l'unoid, è l ' uno, per il che ſi può
predicar dell'ente ciò che ſi predica dell' uno, e dell' uno ciò che ſi predica
dell' en per ragione dei diverſi concetti formali, predicandoſi dell' ente, la
parte, il finito, l'infinito, il principio, il mezzo, il fine, la figura, lo
ſteſſo, il diverſo, la quiete, il mo to, il limile, il diſſimile, e il maggiore,
l'eguale, il minore, it giovane, il vecchio ec. cutti queſti
predicaricompereranno pari mente all'uno. Ben ſi vede, che qui non ſi parla che
dell' en te corporeo, e degli enti particolari, a cui or compete una co fa, ed
or un'altra. il tutto, S. 37: Ma perchè i predicati oppoſti, come il fimile, il
diffimile, it maggiore, e il minore non poſſono competere nel tempo ſteſſo all'
uno, ed all'ente ſenza contraddizione, Parmenide moſtra che queſti attributi
contrari non gli competono nello ſteſſo tem po, ma in diverſi tempi; tal è la
natura di ogni ente finito: gli attributi, imodi, le relazioni, delle quali è
capace, non hanno luo go in lui, che ſucceſſivamente a differenza dell'ente
infinito, in cui tutte le perfezioni poſſibili, che attribuir gli ſi poſſono,.ftan
no in lui tutte inſieme, onde non male con due parole molto energiche, ſebben
barbare, ſi chiamò Dio dal Bulfingero, omni tudo compoſibilitatis. Gli
Scolaſtici lo chiamarono atto puro, cioè atto ſenza alcuna miſtura di potenza,
e quindi diametralmen te oppoſto alla materia che è pura potenza, e talmente
pura, che al cuni degli ſcolaſtici la ſpogliano dell'atto entitativo,
edell'eſiſtenza. $. 38 (103 ) go 38. Se l'uno è; egli prende diverfi ſtati
ſecondo le:: differenza dei tempi. Nel tempo ſteſſo non ſi può participare, e
non participare dell'eſſenza, e delle coſe che conſeguono al non participarla,
ed al participarla; or il farli è renderſi partecipe dell' ellenza; il
rovinarli e privarſi dell' effenza; dunque l'uno non può ne! tempo ſteſſo, e
prender, c laſciar l'eſſenza. Dunque la pren de, e la laſcia in diverſi tempi,
Quando ſi fa uno, egli perde l' eſfer molte coſe; quando ſi fa molte coſe ceffa
d'effer uno; nel farfi uno, e molte, li fepara, e fi congiunge, qualora ſi fa
ſimile, e diffimile, ſi affimiglia, e diffimiglia; quando ſi fa maggiore,
minore, ed eguale, creſce, decreſce, e li pareggia; quallora movendoſi fi
ferma, e quallo ra fermandoſi li move. Or tutte queſte coſe, eſſendo tra loro
contrarie, l ' uno non può averle nel tempo ſteſſo, dunque l'ha in tempi
diverfi. 9. 39 Non fi pud paſſar dalla quiete al moto, e dal møto alla quie te,
ſenza cangiamento di itato. Un corpo che cangia fuccelli vamente la relazione
di diſtanza, che egli ha ad altri corpi vi cini, ha uno ſtato diverſo da quello
d'un corpo, che conſerya ſempre a ' corpi vicini la ſteſſa diſtanza. Queſto
cangiamento di uno ſtato all' altro ſi fa in tempo; ma conſidera Platone, che
nel paſſaggio dal moto alla quiete, e dalla quiere al moro, v'è un non so che
d'improvviſo, e di momentaneo, che ſi conce piſce nell'iſtante del paſſaggio, e
non più appartiene al moto, che alla quiete; non al moto, perchè la coſa ſi
concepirebbe ancora in ripoſo; non al ripoſo, perchè la coſa fi concepiſce
ancora in moto, Conclude dunque Placone, che queſta natu ra improvviſa è quaſi
ſconvenevole tra il moto, e la quiete; che ella non è in verun tempo, e a
queſta da queſta paſſan do fi muta nello ftato ciò che li move, e nel moto ciò
che ſi ri pola. 8. 40. (104 ).. §. 40. Se l'uno è, nell'atto che cangia ſtato,
non gli competono più i predicati dell'ente. Nel paſsar l'uno dal moto alla
quiete fi muta momentaneamen te, e all'improvviſo, o mutandoli egli non è in
alcun tempo; dunque non ſta nè fi move. Così quando paſsa dall'eſsere alla ro
vina, o dal non eſsere al farſi, non è, nè ſi fa, nè fi diſtrugge. Parimente
quando paſsa dall' uno in molti, e da molti in uno, non è, nè uno, nè molti, nè
ſi congiunge, nè fi ſcongiunge, e paf fando dal ſimile al diſſimile, od al
contrario, non è, nè affimi gliato, nè diſlimigliato, e paſsando dal piccolo al
grande, ed all' eguale non creſce, nè decreſce, nè ſi pareggia. Annot. Da
queſta dottrina ſebben metaforicamente da ' Plato ne eſpreſsa, imparò
Ariſtotele ad introdurre tra i principj delle generazioni, la privazione mal a
propoſito ſchernità da coloro, che non ne inteſero nè la forza, nè l'uſo.
Quando una coſa ha perdute tutte le diſpoſizioni o determinazioni, che la
rendevano tale, ella ceſsa d' eſsere la tal coſa, cioè reſta priva di tutto ciò
che la coſtituiva, e diſtingueva dall'altre coſe, ma nell'atto ſteſ fo, in cui
ceſsa d'eſsere quel che era, comincia ad eſsere ciò che non era, o paſsa dalla
privazione alla forma contraria; queſto ſtato di mezzo che è tra la forma, e la
non forma, Platone chia ma natura mirabile, e momentanea, ed è certo, che ella
nel fifa far i gradi della noſtra cognizione ci moſtra quelli della natura che
non opera mai per falti. Nel Timeo dice: Dovendo eſer l'ef figie delle coſe
diſtinta da ogni verità di forma, non fia mai prepa rato quel medeſimo grembo
di tal formazione, ſe egli non farà informe di tutte quelle ſpecie, le quali è
per ricever da qualche parte, percid che ſe egli faravvi alcuna di quelle coſe
che in sé riceve fimiglianza, quando riceverà una natura contraria di quella di
cui è ſimile, ovve ro un' altra, affatto malagevolmente la ſimiglianza, e
l'effigie di quel la eſprimerà quando moſtrerà la ſua, però egli è convenevole,
che di tutte le ſpecie ſia privo quello che ha in sè da ricevere tutti i generi.
Siccomequelli che hanno da fare unguenti odoriferi, l'umida materia, la quale
vogliono di certo odore condire, di tal guiſa preparano, che * ella non abbia
alcun proprio odore. E coloro che vogliono in materie molli imprimerealcune
figure, niuna figura affatto laſciano primiera mente apparire in quella, ma quelle
cercano in prima di render qan to poſibil fia polite. Ciò ſi rende ſenſibile
nelle quantità algebraiche poſitive, e ne gative, nelle quali non ſi paſsa
dall'une all'altre ſenza paſsar per 1 1 1 il (105. ) o il zero, che non è nè
negativo, ne poſitivo, ed è il vero fim bolo della privazione. Nella Geometria
il punto matematico equi vale al zero, che è il principio negativo
dell'eſtenſione, e dal quale fi comincia la miſura, come l'unità è il principio
poſitivo, per cui fi comincia la ſteſſa miſura. Il punto è comune alla linea,
che ceſsa per eſempio di eſsere alla ſiniſtra, e comincia ad eſsere alla deſtra,
o che termina d' eſser in alto, e comincia ad eſser a baſso; così egli non è
deſtro, nè finiſtro, nè alto, nè baſso. Tut te queſte ſono eſpreſſioni
utiliNime, e ſebben noicele rappreſen ciamo per fpecie aliene, come il niente,
o l' impoflibile, tuttavia molto fervono a reggere i noſtri ragionamenti.
L'origine, e la natura del calcolo delle fuſioni dipende dall'uſo della natura
momentanea, ed ammirabile di Platone. In queſto calcolo non ſi cercano, ſecondo
il Newtono, le quantità infinita mente piccole, chemainon poſsono
determinarſi,ma la ragione del le quantità naſcenti, od evaneſcenti, cioè di
quelle, le cui fuffio ni, o velocità nel naſcere, o nel ſvanire equivagliono al
zero, il qual ſimboleggia il termine del ripoſo, e il principio del moto il
termine del moto, ed il principio del ripoſo. Sieno nel preſen te momento le
fluenti quantità y, x; nel momento ſeguente di verranno ſecondo l' eſpreſſione
Newtoniana y toy, ed xtoy, ove o y, od ox eſprimono i momenti delle velocità.
Softituite queſte eſpreſſioni in un'equazione propoſta, per eſempio in quel la
della parabola yy. =ax, quefta fi caogierà nell' equazione. yy + 2 oyy tooyy =
oaxtoax o cancellando gli eguali 2oyy tooyy = oax, e cancellando il comune o 2
yyt oyy = ax Sin che la quantità efpreſsa per o reſta finita, non può mai de
terminarli la ragione delle quantità che fluivano, ma nella ſup poſizione che
ella s' annulli, come nel caſo dell' ultima o della prima velocità delle
grandezze, ove o s'eguaglia a zero, fi ha 2 yy = ax, e ponendo l'equazione in
analogia 2 y.a:: x.y ragione determinata, con cui le qualità cominciano o
termic nano di Auire. Il Newcono ſpiega più a lungo queſte coſe nel ſuo
trattato delle Curve, e lo ſpiega non chiarezza il Ditton nell'inſtituzione
delle Auſſioni; baſta a me d'averlo quì accennato, per moſtrare che agli
antichi non man cavano quell' idee, che i moderni hanno poi ſviluppato, carat £
erizzandole con canta utilità delle ſcienze, e delle bell'arri., 1 Platone
preſuppone nel ſeguente argomento, che la partenon è parte nè di molti, nè di
tutti, ma di cert'una idea, e di cert'uno che chiamiamo tutto, ed è un cutto
fatto da tutte le parti, e in sè perfetto, Dalla parola idea lice argomentare,
che qui non fi craica che dei concetti, con cui fi concepiicono i molti, e il
tutto, e le parti. L'idea dei molti è l'idea dei più aſſolutamente preſi, e com
prende egualmente le parti, ed i tutti, dicendoſi molte, o più parti, molti o
più molti. L'idea del tutto è l'idea dell'uno più riſtretto in un certo numero,
o riſtretto in cerci limiti; idea della parte è l'idea d'uno incluſo in queſti
più già ridoc ti. Non ſi pud quindi rigoroſamente parlando dire, che la par te
ſia parte di molti, perchè conſiderandoli ſecondo la loro propria idea, non
fanno ancora il tutto a cui ha immediata re lazione la parte, Nel dir dunque
Platone, che la parte non è parte di mol ti, allude ai modi, o ai più vagamente
preli, e nel dir che la parte è parte del tutto, allude ai più riſtretti; ne'
più, come s'accennd, vi ſono incluſe indifferentemente le parti, ei tutti, onde
ſe la parte foſſe parte dei più, potrebbe eſſer parte di ſe Iteffa. Aggiunge
Platone, che ogni parte non è parte di qualun que uno ma d'un cert' uno, cioè
di un certo tutto. La par te del triangolo non è la parte del quadrato, nè un
ſoldato che è una parce d' un eſercito, è parte di una proceſſione di Frati. Il
tutto poi che è fatto di tutte le parti, o a cui non man ca alcuna parte, è
perfetto., Si oſſervi in oltre eſſer lo ſteſſo, il dir molti, o più d'uno; che
ogni coſa quindi o è uno, o più, cioè molci; che una parte dell' eſtenlione
cratca fuori di efla, o feparata da eſſa, eſſendo fteſa, contiene più, e ſe
dinuovo ſi ſepa ra in due, una di queſte parti eſſendo di nuovo fteſa, ritiene
ipiù. In altri termini ciò vuol dire, che non v'è parte dell'eſtenſione che non
ſia diviſibile all'infinito, e come la prima divifione fi fa per 2, ed indi per
2 i Pittagorici aſſegnavano il 2, come il fim bolo dell'infinito. Prima che una
parte fi ſeparaſſe da una certa eſtenſione, ella riteneva il nome di parte, ma
quando è ſeparata, e che di nuovo ſi divide, ella non è più parte, ma tutto.
Queſti nomi di tutto, e di parte ſono ſempre relativi; coloro per ciò che
definiſcono l' eſtenſione, ciò che ha parti fuori" di? parti, null' altro
dicono ſe non che l' eſtenſione è l'eſtenſione, perchè non ha parti ſe non ciò
che è eſteſo. Molto peggio fan no coloro, che ſuppongono, che l' eſtenſione
eſſendo compoſta di una infinità di parti fteſe, ſia compoſta d'una infinità di
ſo. ſtanze tra loro tutte ſeparate, perchè l'idea dell'eſtenſione null hache di
relativo, e ſuppone la coſa aſſoluta,' o la ſoſtanza, su cui la relazione ſi
fonda. Il corpo fiſico, e mecanico non ſono pura eſtenſione, come il
geometrico,; perchè nel corpo fiſico v'è la forza, o la for ma, e nel mecanico
il peſo, origine delle proprietà, e dei lo ro fenomeni.. 8. 42. Se l'uno è, le
parti in quanto parti ſono parti dell' uno, o partecipano dell'uno. Le parti
non poſſono eſſer parti di le ſteſſe, nè di molti ($. 40. Sezione 3. ) dunque
dell' uno, il che è dire, che partecipano dell' uno. §. 43, Se l'uno è, il
tutto in quanto tutto partecipa dell' uno. Il tutto cui nulla manca delle tre
parti è uno; dunque par tecipa dell'uno. Corol. Il tutto dunque, e le parti
partecipano dell' uno, e ciò ſignifica un non so che di ſeparato da gli altri,
ma eſiſten; te per sè, ſia egli qualunque coſa. ANNOT. Non par egli, che
Parmenide nel dir, che queſt' uno ſia ſeparato dagli altri, e per sè eſiſtente,
alluda all'idee feparatę che ha combattute nella prima ſeſſione '? Se non vuol
ciò dirſi, come contrario alla profonda Filoſofia d'un sì grande Uomo, non ne
liegue egli, che parlando qui con Socrate, parla bensi col fuo linguaggio, ma
nel tempo fteffo incende di favellare fecondo le attrazioni della mente. 0 2
9.44. (108 ) 8. 44. Se l'uno è, le cofe che partecipano dell' uno fono altra
coſa che l'uno. Niuna coſa può effer alcun uno fuor che lo ſteſſo uno; dunque
ſe le coſe partecipano dell'uno, che vuol dire, non ſono lo ſtes fo uno,
bifogna che fieno un'altra coſa. Dunque le coſe che partecipano dell' uno fono
de verſe dall'uno. S. 4.5. Se l' uno è, le coſe che partecipano dell'uno, ſono
in moltitudine infinite. Se le coſe che partecipano l'uno ſono diverſe dall'
uno, non ef fendo uno nè più d'uno non faranno niente; ma non fon l'uno, dunque
più d'ano, dunque ogni parte d'uno, include in eſſa i più, e queſti altri più,
e così in infinito, dunque le coſe clre parteci pano l'uno, ſono infinite in
moltitudine. COROL. Poichè il più include per fua natura la moltitudine in
finita, ogni parte che d'eſſo ſi tragga fuori con l'intelligenza le ben
piccoliflima rifpetto all'altre, ſarà in moltitudine infinita. ANNOT. Platone
dice da quelle (cioè dei molti ) trar fuori con r* intelligenza alcuna cofa
piccoliffima. In qual altro modo pud egli meglio indicar l'aſtrazione della
mente.? nel dir Platone, che confiderando la diverſa natura della fpecie
fecondo ſe ſteſſa quanto di lei vediamo, fia egli infinito, e in moltitudine,
altro non ſignifica con la diverſa natura, ſe non che ogni parte dell'
eftenfione include in sè più, e queſti altri più, e infiniti in. moltitudine. 1
g. 46. Se l'uno è, la parre in quanto parte è diverſa dell' uno, per chè l'uno
è per sè indiviſibile, e la parte per sè divifibile. Se l'uno è, le parti ſono
più che l' uno. Le parti diverſe dell'uno, ſe non ſono uno, o più d'uno, nulla
ſaranno, ma ogni cofa è uno o più; dunque ſe le parti diverſe dall uno non ſon
uno, ſaranno più che uno. S. 48. Se l'uno è, le parti che lo partecipano hanno
termine tra loro, e riſpetto al tutto, e il tutto riſpetto alle parti. Ogni
parte è una, ogni tutto è uno; ſe l'uno e l'altro parte cipa l'uno; ma quello
che è fatto uno ha un termine. Dunque ec. Corol. All' altre coſe, che all' uno,
avviene che partecipan do dell'uno, e di loro ſteſſe, ſi fanno in loro
cert'altra coſa, il che dà loro il termine, ma la natura loro che include i più,
è per eſſenza infinita in moltitudine; dunque le altre coſe che l'uno tutte
ſecondo le particelle loro, ſono infinite in numero, e par tecipi di termini. g.
49. Se l'uno è, le coſe che partecipano l'uno, fono fimili, e dil ſimili, ſi
movono, e ſi fermano, od hanno altre paſſioni con trarie, Le altre coſe che
l'uno, ſono tutte infinite, o indefinite, fe condo la loro natura, onde tutte
patiſcono lo ſteſſo, ed aven do cermini, e diverſi termini, patiſcono il
diverſo, ma il limi le è quel che patiſce il ſimile, il diſſimile quel che
patiſce il diverſo. Dunquele coſe, altre che l'uno, ſono ſimili, e diffimi li.
Maſe patiſcono le ſtelle coſe, e diverſe, pariranno anche il moverſi, ed il
fermarſi, l'eſſer maggiori, minori, ed eguali, l' eſſer più vecchie, più
giovani ec. e 3. 50 Riepilogando le coſe dette, abbiam dimoſtrato che ſe l'uno
che in quanto lo partecipano ſon d'ello parti. Che il tutto dal le parti
riſultante partecipa pur dell' uno; che le parti parte cipanti del tutto, è
dell' uno ſono infinite in moltitudine, che han (110 ). hanno termine tra loro,
e rifpetto al tutto, come il tutto l'ha riſpetto alle parci, onde nel patir le
coſe ſteſſe, e diverſe ſono ſimili, e diffimili, ſi moyono, e fi fermano. Paſſa
a confiderar Parmenide nella ſuppoſizione, che sia l'uno, coſa adiviene alle
coſe che non partecipano l'uno. g. 58. Se l'uno è, e le altre coſe che non
partecipano l'uno, non ſono nè tutto, nè parii, nè fimili, nè diffimili, nè le
ſteſſe nè diverſe, non ſi movono, non fi fermano, non ſi fanno, non ſi
diſtruggono, non ſono, nè maggiori, nè minori, nè eguali, nè vecchie, nè
giovani. Si concepiſca l'uno ſeparato dall'altre coſe, cioè fi concepi ſca che
le altre coſe non lo partecipano, non vi ſaranno mol ti, perchè ognun de molti
è uno; non vi ſarà numero, o mol titudine ordinata che principia dall’uno, il
quale ſucceſſivamen te li va aggiungendo a ſe ſteſſo, e fa ogni numero uno
nella fua fpecie; non vi ſarà tutto, che è una moltitudine riſtretta in uño;
non vi ſaranno parti, ognuna delle quali è uno ordi nata ad un altro uno; non
vi ſaranno coſe limili, nè diffimi li, nè le ſteſſe, nè diverſe con l' uno,
perchè ſe teneffero in se -ſimigliznza, ediffimiglianza, comprenderebbono in sè
due ſpecie tra loro contrarie, onde non eſſendo partecipi di due, nemme no lo
ſarebbono di due contrarj; non poſſono eſſer quindi le coſe nè ſteſſe, nè
diverfe, nè moverſi, nè formarſi, nè diftrug. gerſi, nè effer maggiori, giovani,
e vecchie, perchè eſſendo ſem pre partecipi di due coſe contrarie ſarebbono
partecipi di nu mero. ANNOT. Queſto è lo ſteſſo che concludere che l' uno
traſcen dentale, eſſendo inſeparabile dall' ente, è lo ſteſſo tor dalle coſe l'
uno, che l'ente, od annullarlo. g. 52. 1 Parmenide ha ultimamente conſiderato,
coſa accaderebbe alle coſe, ſe non vi foſſe l'uno, che per ipoteſi ſtabili. Or
cangia ipoteſi, e cerca, coſa accaderebbe alle cofe fe non vi foſse l'uno.
Queſte due ipoteſi ſembrano diverſe, ma ricadono poi nello ſteſso, perchè canto
è annullar le cote ſeparando da loro l' uno che è, od eſsere ſi concepiſce,
quanto annuliarle ponendo le co ſe, e negando l'uno. SE (111 ) . B. I. Uando
per eſempio fi dice grandezza, e non grandezza, QI si dicono due coſe oppoſte,
e tra loro contrarie, poichè la non grandezza diſtrugge ciò che la grandezza
pone o in natu ra, o nella mente; le fi fanno quindi le due propoſizioni, la
grandezza è la non grandezza non è, tutte e due ſono nega tive, ma l'una è d'
un ſoggetto finito, e determinato, l'altra d'un ſoggetro infinito, e
indeterminato. La grandezza é il ſog getto di decerminata ſignificazione, la
non grandezza di ſignifica zione indeterminara, perchè non grande è il piccolo,
non grande il punto, non grande l'unità ec. Or il determinato è contrario all
indeterminato; dunque, come ben oſservò Marſilio Ficino, le due propoſizioni,
la grandezza è, la non grandezza non è, ſono con trarie, ſebben l’una, e
l'alcra fieno negative. Lo ſteſso debbe dirſi delle due propoſizioni, l'uno non
è, il non uno non è, egeneral mente della propoſizione A non è; non A non è:
nella pri ma ſi nega ad A l'eſere, nella ſeconda ad A che fi nega, ga l'effere.
Negar ſemplicemente una coſa, e negare la nega zione, ſono coſe tra loro
contrarie. La propoſizione all'incon. tro A non è, e l'altra non A è, ſono
equivalenti, perchè nel la prima di A fi nega l' eſſere, nella ſeconda fi
afferma, che ad A fia negato l' eſſere. Affermare la negazione è lo ſteſſo che
negar la cola; dunque equivalenti propoſizioni ſaranno, l'uno non è, il non uno
è. E' poi da oſſervarli, che le negazioni, e pri vazioni ſi conoſcono per le
loro realtà oppofte, la cecità per la vi fione, le tenebre per la luce, non A
per A. ſi ne B. 2. Se l'uno non è, nel pronunziar la propoſizione ai concepiſce
chiaramente e diſtintamente, che l'uno non fia, o li ha fcien za di ciò che
s'eſprime, e s'eſprime qualche coſa diverſa dall' altra, l'uno è. Le privazioni,
e negazioni ſi concepiſcono chia ramente, e diſtintamente per le loro realtà
oppoſte, dunque il non uno per l' uno (J. 1. ) ma la propoſizione il non uno è,
è, equivalente all'altra l' uno non è, dunque queſta propoſizione l' uno non è,
fi concepiſce chiaramente e diſtintamente, o li ha ſcienza di lei. La
propoſizione l'uno non è, è diverſa dall' altra, 3 uno (112 ) ! $ 1 1 uno è, e
chiaramente, e diſtintamente ſi concepiſce la loro diver ſità; dunque nel dir
l' uno non è, ſi concepiſce qualche coſa di diverſo. Platone così lo dice:
eſprime primieramente alcuna coſa che ſi può conoſcere, poſcia differente
dall'altra, colui che dice uno, aggiungendovi l'eſfere, oil non eſſere,
perciocchè non ſi conoſce meno, ciò che fia quel che ſi dice non ellere, e come
ſia certa co fa differente dall'altra. Corol. Può dunque predicarſi dell' uno
la ſcienza, e la di yerſità. S. 3. Se non è l'uno, o ſe il non uno è, il non
uno partecipa delle coſe che di lui ſi predicano, e non le partecipa. Del non
uno è, ſi predica la ſcienza, e la diverſità (Cor. ant. ) dunque partecipa di
queſte coſe, mapoichè egli non è, non aven do eflenza, non può participarle,
perchè il non ente non ha pro prietà, dunque non le partecipa; dunque le
partecipa, e non le partecipa. COROL. Così s'eſprime Platone: Il non ente è
partecipe di sé, e d'alcuna coſa, e di queſta, e con queſta, e di queſta, e di
cut te le coſe sì fatte; concioliachè non li direbbe uno, nè le diverſe coſe
dell'uno, ne avrebbe egli alcuna coſa, nè alcuna coſa fi chia merebbe, ſe non
foſſe partecipe di alcuna, nè di queſte altre nondimeno è impoſſibile che ſia
l'uno, ſe egli non é, ma niuna cofa vieta, che non ſia partecipe di molte coſe,
ed è neceſſario ancora ſe è quello l'uno, e non altro, ma ſe non è, nè l'uno,
nè quello non ſarà egli; non ſi dirà nulla di lui, ed il ragionamento farà
d'altra cofa, ma ſe fi ſuppone che quello uno non ſia, è ne ceſſario che ſia
partecipe di lui, e di molte altre coſe,. 4. Se il non uno è, il non uno è
ſimile a ſe ſteſſo, e diffimile all'altre coſe, ed al contrario. Il non uno
convien col non uno, dunque con ſe ſteſſo; dunque è ſimile a ſe ſtello. Il non
uno è diverſo dall'altre coſe che parte cipano l'uno, dunque è diffimile
dall'altre coſe; ma il non uno non eſſendo, non può aver proprietà d'effer
ſimile, nè diffimi le, dunque ec. 8. S. 1 (113 ) §. 5. Se il non uno d, egli è
eguale, ed ineguale all' altre coſe, e nel tempo ſteſo eguale, ed ineguale. Gli
eguali ſono fimili nella quantità; ma il non uno non ha ſimiglianza con l'altre
coſe, dunque non ha egualita; ma ſe egli non è eguale agli altri, gli altri non
ſono eguali a lui, dunque è loro ineguale; ma gl' ineguali partecipano dell'
ineguaglianza, cioè di grandezza, edi piccolezza; dunque l'uno che non è, egli
è grande, e piccolo; ma tra il grande, e il piccolo ſi frammetter eguale, e chi
ha grandezza, e piccolezza, pud ancora aver eguaglianza; dunque l'uno che non è
può participare di queſte coſe; ma s'è dimoſtrato, che non le partecipa, dunque
ec. Se l'uno non è, ha in certo modo l'eſſere, o s'attri buiſcono a lui coſe
che l'hanno.. -. Nel dire che l'iuno non è, ſi ha ſcienza di cid che ſi dice;
nel dir che è, diverſo dall' uno, che è, e dall'alcre coſe; che è fimile, non
fimile; diſſimile, non diſſimile dall' altre coſe; eguale, no eguale, fi
profeſſa di concepire, e di pronunziare il vero, ma eſprimendoſi, e
pronunciandoli queſte coſe a guiſa di enti, all'uno che non è s' attribuiſcono
in queſto modo, onde egli ha in un certo modo l'eſſere. B. 70 Queſta
propoſizione: il nulla è nulla, il nulla non è nulla, equivale a queſte altre
due: il non ente è non ' ente; il non ente non è non ente. La prima di elle è
affirmativa, ed iden, tica, perchè fi afferma il nulla di ſe ſteſo, la ſeconda
è nega tiva, perchè ſi nega il nulla del nulla, che vuol dir, ſi affer. ma
qualche coſa, perche una negazione diſtruggendo l' altra elleno affermano. Nel
dire il non ente, non ente, il non en te vien a participare in un certo modo
dell effere, affine di ef ſer non ente.. Nel dire all'incontro il non ente non
è non en te, il non ente per non eſſere non ente che vuol dir per eſ ſere, vien
a partecipar del non eſſere. Così intendo Platone, Tomo II. P allor 1 allor che
dice: il non ente ad eller non ente ba il legame dei non eſſere, fe dee non
eſſere, come lente tiene nella ſtella guiſa il legame deli eſere, perchè ei non
ſia non ente, affinchè di nuovo ei fia perfettamente, e non ſiapartecipe il non
ente delléſenza, del non eſſer non ente, ma dell'eſenza dell'eſer non ente, ſe
il non ento fia perfettamente. $ Se l'uno non è, egli partecipa; e non
partecipa dell' eflenza 1 L'ente è partecipe del non eſſere, ed il non.ente
dell'eſſe re ($. 7. Sez. 4. ) ma ſe non è, l'uno é neceffario che ſia par
tecipe del non eſſere, affinchè ei non ſia; dunque appariſce, che l'eſſenza ſia
nell' uno, ſe egli non è, e la non effenza ſé egli è. ANNOT. Tutti queſti ſono
ſcherzi metafiſici, per dar luogo alle nozioni immaginarie, e quindi alle
contraddizioni, che mo ſtrano le coſe impoſſibili; ben deve oſſervarſi, che
facilmente con effe fi cade in quel mirabile, che degenera in puerilità.
Platone ſobriamente l' adopra, per dimoſtrare in quali raffina menti sfumavano
le dottrine della ſetta Elearica. 9. 9. Se l'uno non è, ha mutamento, e in
conſeguenza moto, e non ha moto, Šisru ! L'uno parve ente, e non ente, onde fta
così, e non così, dunque fi muta paſſando dall' eſfér al non effer; dunque ha
moto. Ma fe l'uno non è, non è in alcun luogo, perchè ogni en té è in qualche
luogo, ma non eſſendo mai in luogo non pudo paſſare da un luogo all'altro,
dunque non percid fi move, per che non ſi traſmuta.. io.: $. io. Y Se l'uno non
è, non ſi altera, e non alterandoli ne ſi muta, nè ſi move. L'uno non eſſendo,
non può mai verſare in quello che non è, dunque non alterarſi, poichè ſe l'uno
da ſe stello li alceral fe in alcun luogo, non ſi ragionerebbe più deil' uno,
ma di cer ta altra coſa; ma ſe non li altera non ſi rivolge in fe fteffo nè fi
muta, nè ſi altera; dunque ec. ļ $. Se l'uno non è, fta e ſi moồe, e fi altera,
Quel che non ſi move ſe ne ſta in quiete, e ſi ferma que gli che in quiete ne
fta; dunque l'ano non effendo, comeapo pariſce ſta egli e li move, anzi
movendoſi è neceſſario che ſi alteri, perchè in quanto alcuna coſa ſi move,
incanto ſe ne ſta ella non nello ſteſſo modo, ma altrimenti; dunque l'uno
mentre fi move ſi altera, e nondimeno non movendoſi in niun luogo in niuna
guiſa ſi può alterare; dunque in quanto fi move", ciò che non è uno ſi
altera; ma in quanto non ti move, non fi alce ra, dunque l'uno non eſſendo ſi
altera, e non ſi altera. $. 12 Se l'uno non è, egli è diverſo da quel che era
prima, non ſi altera; non fi fa, non ci muore, e di nuovo ſi fa, emuore. Cid
che ſi alcera è neceſſario che ſi faccia diverſo da quel che era prima, ma quel
che non fi altera, non ſi fa në muore; dunque l'uno, non eſſendo mentre fi
altera, e ſi fa, e periſce, ma non alterandoſi, non fi fa, nè muore, nè periſce,
ed in do tal guiſa l' uno 'non effendo, li fa, e muore e di nuovo non fi fa, nè
muore. §. 13: Sin ora ha dimoſtrato Platone, che ſe l' uno non è, egli dà di sè
fcienza, ed ha in sè diverlicà, che è partecipe, e non par tecipe di altre cole;
quindi lo ſteilo-, e non lo ſteſſo con ſe ſtel
ſi move fteffo, ſimile e diffimile nè ſimile, nè diffimile, eguale, ed
ineguale, non eguale, nè ineguale, partecipe d'eſſenza, e non partecipe, ſi
muta, e non ſi muta e non ſi mo ve, fi altera, e non fi altera, ft fa, c
periſce, e fi fa, e non periſce. Tutte queſte concluſioni derivano dalla
poſizione, l' uno non è; l'uno eſſendo inſeparabile dall'ente, ſe non v'è l'uno,
nè pur v'è l'ente. OrPente non è, che il poflibile. Annullato dunque il
poſſibile reſta l' impoffibile, da cui ſecondo l' Aflioma ſegue coſa, ex
impoſſibile ſequitur quolibet, perchè nell'idea aſtrat ta dell'impoſſibile
s'includono tutte le contraddizioni. Platone dal conſiderare, che l'uno non ha
eſſenza, e non n'è capace, nega tutte le altre relazioni che pud avere.
Premetto a ciò che quando diciamo, che alcuna coſa non ſia, nel proferire,
queſto non è, fi fignifica ſemplicemente, che non è al tutto in niun modo, e
non eſſendo in niun modo, non è capace in alcun modo di eſſenza; dunque non
potrà eſſere il non ente, ne in alcun modo farſi partecipe di eſsenza. §. 14.
Se l'uno non è, non può farſi in alcun modo par tecipe d'eſsenza. Quel che non
è, ſignifica ſemplicemente, che non è al tur 10, in niun modo, o non è
ſemplicemente capace di eſsenza, dunque fe l'uno non è, non può mai eſser
capace d'eſsenza.. 15: ne la per Se l'uno non è, non pud farſit, nd morire. Chi
non è partecipe di eſsenza, non la riceve, nè la de. Dunque fe. L'uno non è,
non pud nè ricever, nè acqui ftar l'eſsenza, perchè non n ' è capace; dunque
non periſce, nè fi fa. $. 16. Se l'uno nonè, non fi altera, nè fi move, nè ſe
ne ſta, non ha grandezza, nè piccolezza, nè parità, né limiglianza, e dia,
verlin (11 ) 3 onde eſsenza, non può aver ne grandezza, nèpic marfi. Se verſità
riſpetto all' altre coſe, e a ſe ſteſso, nè gli conviene ale cun altro
attributo Se l'uno non è, non ſi altera, perchè fi farebbe già, je pe rirebbe
potendo queſto; ſe non ſi alcera, nè men fi move, ſe come non ente, non eſsendo
in alcun luogo, non pud ſtar lo ſteſso in alcuna coſa, nè in alcuna coſa
fermarſi. Se non ha nè piccolezza, nè parità, eſser ſimile, o diverſo, o
rifpetto all'altre coſe, o a ſe ſteſso, nè le altre coſe potranno eſser in lui
in alcun modo, gli ſono, nè fimili, nè diffimili, nèle ſteſse, nè diverſe, nè
pud ſtar ſeco, non ha il di lui, o ciò che ſi dice di alcuna coſa, o queſto, o
di queſto, o d'altrui, o ad altrui, o alcuna volta, o dopo, o al preſente, o
ſcienza, o opinione, o ſenſo, o fer mone, o nome, o qualunque altro degli enti.
Annot. Sebben ſi oſserva, Platone al non uno toglie tutto quello che ha dato
all'uno, conſiderato in ſe ſteſso nella prima Sezione, argomento evidente, che,
quando tutti gli altri man caſsero, quì non ſi trarca che delle aſtrazioni
della mente, fra miſchiate tallora con le nozioni immaginarie, quali ſono in
que fta Sezione, e nel rimanente. Non ci reſta che l'ultima quiſtione, in cui
ſi cerca ſe non è l'uno, che accada all'altre coſe. $. 1. S'orser Oſservi
tolto. 1. Che ciò che è, o è l' uno, o l'altre co ſe • 2. Che ſe queſte non
foſsero (almeno nella noſtra im-. maginazione, o nella noſtra mente ) di loro
non ſi diſputereb be, perchè il nulla non ha proprierà. 3. Che ſe dell' altre
li fa vella, l'altre ſono il diverſo, poichè l'altro, e il diverſo ſono fi
nonimi', onde diciamo altro non eſser l'altro, che l'altro d'al tri, ed efser
del diverſo diverſo, e che per far le coſe altre dalla uno, vi ſi debbe
aggiungere qualche altra coſa, onde fieno per eſser altre, di cui ſaranno altre.
3 Tesni f. 2. (118 ) S. 2.. Se l'uno non è, le coſe altre o diverſe dall'uno,
non ſono altre. o diverſe, che per ragion di ſe ſteſse.. Nelle coſe altre dall'
uno o diverſe dall'uno, vi's include' qual che altra coſa, per cui fieno altre,
ma queſta coſa non pud ef ſer l'uno, perchè per ipoteſi egli non v'è. Dunque,
poiché non v'è, che l' uno, e l'altre coſe, eſcluſo che altre coſe non fieno.
altre per luno ne liegue che ſieno altre per ſe. ftelse, COROL.. Dunque: per ſe
ſteſse. ſono ciò che ſono tra se.., S: 3 Se: l'uno non v'è, le coſe altre dall'
uno ſono tali per una moltitudine infinita. Non v'è che uno o i più, dunque le
coſe altre o diverſe 1 dall’uno, non potendo eſser altre che l'uno, il quale
non v'è per ipoteſi, non ſaranno altre che per i più, cioè per la mol: titudine;
ma il più, o la moltitudine eſsendo per le ſteſsa in finita '; le coſe. altre
dall uno,. ſono alore per una: moltitudine infinita.. COROLLAR. Qualunque mala
dunque di loro appariſce in molti-. tudine infinita, e ſe alcuno ſi prenderà
ciò che menomilimo pare co. me. Sogno, incontinente in vece di quello che pare
uno, ſi fa innangi una moltitudine infinita, e in vece di quella
chemenomilimopar ve, apparirebbe grandiſſimo già, ſe il pareggialli ad altre
coſe in die Sparte da lui. Cosi: parla Platone: fia prefa qualunque parte
d'eſtenſione, el la è diviſibile in due, ed inoi in due, e così all'infinito.
Della di viſione di cui è capace il tutto, ſono capaci reſpettivamente le parti,
nè v'è particella si minima, che le noi nell' ipotefi che non v'è uno,
poteſſimo vedere con un microſcopio miracolo fo,, non ci pareſse diviſa in una
moltitudine infinita di parti, ma tali che nell' iſtante ſteſso, che noi
vedeſſimo la parte, la vedremmo attualmente diviſa in altre parti infinite, e
cosi all'in finito; non è che io dir voglia, che vedremmo l'infinito at tuale,
perchè non poſſiamo intenderlo, non che vederlo, nè so come il Leibnizio abbia
poruto concepir nella più minima parte di ciò che egli chiama 'materia, un
numero attualmente infinito di monadi"; biſogna prima provare, che noi
concepia mo l'infinito attuale -, ed indi che vi ſieno queſte monadi; ma ſe vi
foſsero, il che io non l' ammetto, che come principio di co gnizione, e non di
natura, in eſse, come l'eſprime il nome loro, v è un'unità, che è il fondamento
di concepir nella monade innumerabili proprietà; ma quì nell' eſtenlione
Platonica, biſo gna rappreſentarfi ogni parte deſsa ſeparata dall' uno; ' v'è
in ciò contraddizione, ma appunto Platone - la ſuppone per de dur dall'aſsurdo
i, l'impoſſibilità di ſeparar l' uno dall'ente. §. 4. Se non è l'uno in ogni
maſsa apparente apparirà il numero, e le proprietà dei numeri, l'eguale, il mag
giore, il minore. Tolto l' uno dalla maſsa, ci ſi fa come nel ſogno innanzi una
moltitudine infinita, in cui ſe ſi vuol ordinar colla mente la moltitudine, vi
ſi trova il numero; quindi il pari, e l' impari; il picciolo, il grande, il
piccioliſſimo, il grandiſſimo., compa rando tra loro le maſse, in cui s'è
diviſa la maſsa maggiore, e quindi l'eguale, perchè non ſi può paſsar dal
maggiore al mino re ſenza paſsar per l'eguale, ma queſti ſaranno tutti fantasmi
d' egualità, di maggiore, di minore, di pari, d'impari ec, come di numero. Se
non v'è l' uno, ogni maſsa apparente avendo termine appa rente, riſpetto all'
altra non ha nè principio, nè mezzo, nè fine riſpetto a fe ftefsa. Si prenda
alcuna delle maſse apparenti coll intelligenza, in nanzi al principio, ſe le fa
ſempre innanzi altro principio, e dopo il fine, ſegue ſempre un altro fine, e
nel mezzo altre coſe ſem pre più interne del mezzo, e ſempre minori, perchè non
ſi può ricever in queſta alcun uno, non eſsendo l'uno. Annot. E ' da
oſservarſi, che qui Platone dice, prender alcu na coſa con l'intelligenza, cioè
aſtrattamente conliderarla í vi aggiunge poi che potendoſi prender la maſsa
ſenza l' uno, cioè fenza far aftrazione dall'uno, ſi sbrana qualunque coſa così
pre ſa con l'intelligenza, che è quanto a dire con la mente fi* di vide in più
parti, e queſte in altre, e così all'infinito. S. 6. Se l'uno non è, preſa
qualunque maſſa a chi da lungi la mira groſſamente par uno, ma chi da preffo
l'in tende è un infinito in moltitudine. Non potendo noi nulla concepir ſenza
l' uno a prima viſta, e da lungi mirato ci par uno, ma da preſſo, e acutamente
vedendolo, tolto l'uno, ci rappreſenciamo infiniti. COROL. Se dunque non v'è
l'uno, ma l'altre coſe dall' uno, qualunque di eſſe è infinita, e con termine
ed uno, e molci. Se non v'è l'uno le altre coſe ci pareranno, e ſimili, e diffi
mili, e le ſteſſe, e le diverſe, e unire, e ſeparate, e moverſi, fermarſi; nè
potendo noi concepir le coſe ſenza l'uno le ve dremo, come adombrate da lunge,
e patir lo ſteſſo, ed eſſere fimiglianci, mada preſſo molte, e diverſe, e per
il fantasma della diverſità diverſe, e diflimiglianti tra loro ſteſſe e pari
mente ci pareranno le maſſe ſimili, e diffimili, e da loro ſteſ ſe, e tra di sè,
e le ſteſſe, e diverſe tra loro, e che tocchi no, e fieno ſeparate da loro
ſteſſe, e fi movano con tutti i mo ti, e ſi facciano, e periſcano, e nell' una,
e nell' altra manie e tutte le coſe sì fatte che li poſſono dedurre dalle coſe
7 ra, già dette. S. 7. Ha dimoſtrato fin ora Parmenide 3 che adiviene alle coſe
ſe non è l' uno, cerca poi che fieno gli altri che non ſon uno. Se non è l'uno, le alere coſe non ſon uno, ne
molti. Non ſono uno, perchè non v'è l' uno; non ſono molti perchè i molti
preſuppongono l'uno. ital 18. s. Se non v'è l'uno, non vi ſarà nè opinione, nè
fantasma, ne ſcienza dell'altre coſe. Le altre coſe non hanno alcun concetto
con niuna di quel le che non ſono, nè alcuna di quelle che non ſono è appreſso
ad alcuna dell'altre che ſono; dunque appreſſo ad altri non v'è opinione, non
v'è fantasma dell'ente, e quindi dell uno; ma ſe non v'è l'uno, non effendo
poſſibile il penſar a molte coſe fen za r uno, neppur èpoſſibile che ſi penſi
che fieno uno, o mol ti le coſe.. 10. Se non vè l' uno, le coſe non fono nè
fimili, nè diffi mili, nè le ſteſſe, nè diverſe, nè ſi toccano, ne et ſeparano
Non ſi poſſono concepir le coſe ſenza l'uno; dunque ſe non vi è l'uno, non ſi
poſſono concepire, nè ſimili, nè diffimili nè le fteffe, nè diverſe, nè unite,
nd ſeparate. COROL. Dunque ſe non v' è l' uno nulla v'è, onde o ſia l' uno, o
non fia, ed egli e l'altre coſe ancora ſono, e non ſo no ad ogni modo riſpetto
a fe ftelle, e tra di loro, e appajo no, e non appajono. II. Riftringendo in
poco tutto ciò che negli ultimi paragrafi s'è eſpoſto, egli è manifefto, che l'
uno efiendo inſeparabile dall' ente, ove non v'è più uno, non v'è più d'ente,
cioè v'è nul. la, ol'impoſſibile", da cui ſeguono tutti i contraddittorj,
qual Tomo II. q Pla Platone ci eſpoſe per via di nozioni affatto immaginarie;
egli ne fa veder i uſo, e moſtra nel tempo ſteſſo, quanto la fan taſia ſia
diverſa dall' intelletto, poichè ella ci rappreſenta una coſa, mentre la mente
ragionando ce ne fa concepire un'altra. Si conclude dunque, che Placone in
queſto Dialogo non fi af fiffa che a moſtrar ſuſo dell'aſtrazioni della mente,
nell' inve ſtigazione dell' idee. 1. Con le negazioni, come fece nel primo
capo. 2. Con le analogie dell'altre idee aſtratte; finalmente con le cognizioni
dell' idee, del ſenſo, della fantaſia, combinate a quelle della mente. LETTERA
A SALIER Primo Cuſtode della Biblioteca DEL RE CRISTIANISSIMO. On dubitate che
io ſia mai per dimenticarmi di voi, co N°me alcuni venuti ultimamente di
Francia m' accufaro no da voſtra parte; troppo m'è rimaſta impreſſa l'idea
della bontà, e gentilezza voftra, troppo è ſtato vivo il piacere e ſodo il
profitto, che io ricavai dalle converſazioni letterarie, che abbiamo fpeſſo
avute inſieme, e tra l'altre su l'opere di Platone; ce ne porgevano il motivo
le ſaggie rifleſſioni, che leggevaci l'Ab bate Fraguier, or su l'ironia di
Socrate, or ful carattere de'So fifti, or su la Repubblica, ed or su le Leggi,
tutti oggetti delle belle diſſertazioni, che egli diede alla voſtra Accademia.
Solo la Iciò egli intatto il Parmenide, o non aveſſe il tempo, o la voglia d'
applicarſi a ſviluppare un Dialogo, che è il più malagevole di Platone, o
temeſſe dioffendere la ſoavità del ſuo genio con l'idee troppo auftere, e
filoſofiche, delle quali il Dialogo abbonda. Voi ben ſapete, che per voſtro
conſiglio m' applicai a leggerlo con attenzione e ne concepii quel fiſtema, di
cui állor vi parlai. Venuto in Italia, e diftratto da graviſſimi intereſſi
dimeſtici, ne interruppi l'eſame già cominciato, ſebbene negli intervalli io
leggeſſi continuamente Platone; e l'avrete ve duto nel Sogno del Globo di
Venere, che il Signor Conte di Cai lus v avrà forſe dimoſtrato in lingua
Franceſe tradotto. Di tem po intempo io parlai del Parmenide con gli amici, e
mi fi fue gliò il deſiderio di compierne il ſiſtema da me abbozzato all'occa
lione del Platone di Dardi Bembo, che ſtampali in Venezia, con P aggiunta delle
note e degli argomenti del Serano letteralmente tradotti. Dalla Differtazione
preliminare ritrarrete l'idea generale del la Filoſofia di VELIA (si veda) così
celebre per l'acurezza, e per la profon dità de' Filoſofi, come la Jonica per
la fodezza dell'eſperienze, e l'Ita 1 1
ľ Italica per la felice combinazione della Geometria, e dell'A ſtronomia alla
Fiſica. Non è difficile ſcoprire, che la metafiſica do Ariſtotele è tratta in
granparte in queſto Dialogo, in cui Plato ne abbandona quaſi l' artificio
poetico adoprato negli altri, e ſi ſpiega nella maniera più ſemplice, e più
preciſa. Nella prima Sef fione io v'oſſervai i tre fonti delle allurdità degli
argomenti me tafiſici; il principio di contraddizione, il progreſſo
all'infinito, el' annullazione fuppofta di qualche perfezione divina.
GliEleatici, che forſe gli inventarono, riconoſceano i limiti dell'intelligenza
uma na, e pur era queſta la minor parte della Dialectica loro, la qual vaga va
per tutti i lommi generi delle coſe. La quiſtione dell'origine e della natura
dell' idee v'è più che abbozzata, e la riſpoſta che so crare diede a Parmenide,
su la maggior difficolcà dell' idee, è la ſteſſa che uso il Padre Malebranchio
nel medeſimo caſo. Nell'al tre opere s' accuſa il Commentatore di dar troppo
ſpirito al ſuo Filoſofo; in queſta è cutto il contrario, poichè per quanto ſi
ſpieghi Platone, vi reſta fempre molto a medicare, e la compa razione del reſto
fa ſempre vergogna al commento. Ficino e Serano, che aſſegnarono al Dialogo un
grado di ſublimità Teologica non convenevole, l'hanno sfigurato, e colto agli
altri il profitto, che avrebbono potuto ricavare da una ſpe colazione così ben
dedocta e conforta nè punto inteſa dai due Commentatori, i quali preteſero che
in queſto Dialogo chiama to dell'idee, voleſſe Platone diſputare a pro delle
feparate, quan do egli manifeſtamente le rifiuto, tutto riducendo all' Ontolo
gia che è la più bella, e la più utile parte della metafiſica In molci errori
cadè miſeramente il Carcelio, per averla ab bandonata, eſpregiata; e non furono
dal Leibnizio, ed indi dal Wolfio ridotti al ſuo vero lume i dogmi filoſofici,
ſe non dopo che effi s' affaticarono a dimoſtrare, le nozioni Ontologiche eſſer
quelle alle quali convien avertire prima d' inoltrarſi nella combinazione
dell'idee, e quindineiſiſtemi. Tutti gli uomini pre veggono gli aſtratti ne'
concreci, pochi hanno la forza di ſepa rarli, pochiſſimi quella di ridurli in
teoria, ed è ſolo riſerva to a' ſommi Filoſofi il farne ſiſtema. Voi molto più
vedete in Platone, che io poſſa eſprimere; in canto vi prego a conſer varmi il
voſtro affetto, ed eſſer certo che il mio farà ſempre inviolabile. La scuola
stoica è quella che nell'antichità ha sviluppato con maggior rigore e
profondità una riflessione semiotica. Tuttavia l'indagine degli stoici si
polarizza, com'era già av venuto per Aristotele, su due ambiti
fondamentalmente di stinti tra di loro: da una parte, una teoria del
linguaggio in senso stretto, che comporta anche un'analisi dei rapporti tra
linguaggio, pensiero e realtà (in corrispondenza della terna significante,
significato, oggetto esterno); dal l'altra, una teoria del segno
proposizionale, connessa con la teoria dell'inferenza. Questi aspetti della
filosofia stoica trovano però un pun to di convergenza, come vedremo, nel loro
comune legame con il lekt6n, un'entità che ha uno statuto eccezionale nella
metafisica stoica. In effetti, a fondamento di quest'ultima, si pone la
speciale dialettica tra le entità che condividono la proprietà di essere
"corpi" (sOmata) e quelle entità che sono invece corporee (asOmata).
Più in dettaglio si può dire che di solito l'ontologia stoica prende in
considerazione solo quegli individui che hanno la caratteristica di essere
oggetti tridimensionali e di possedere altresì una resistenza nel tem po.
Questi, appunto, sono i corpi e solo essi vengono consi derati esistenti. Ora,
tanto nella teoria del linguaggio, quan to in quella del segno proposizionale,
accanto alle entità corporee vengono prese in considerazione anche delle entità
incorporee, quali i lekta. Per il momento è invece necessario sgombrare il
campo da due equivoci. Il primo concerne il destino che tocca alle entità incorporee:
esse non vengono relegate semplicemente nell'ambito del non-esistente, ma
vengono investite di una esistenza derivativa' (Long ). Il secondo possibile
equivoco concerne la nozione stessa di corpo. Contra riamente a quello che ci
attenderemmo in relazione a una nozione moderna di corpo, per gli stoici erano
"corpi" an che le qualità, in quanto venivano considerate come
materia in un certo stato. Le proprietà di un certo individuo costi tuiscono
stati o modi del suo essere e, per la loro esistenza, dipendono dall'esistenza
di questo individuo. Se l'individuo esiste, le sue proprietà sono appunto
disposizioni esistenti di materia (Rist). Si profila, a questo punto, una
ontologia che pone al suo centro la nozione di "particolare": quest'ultimo
viene carat terizzato come un oggetto materiale, che ha una forma defi nita
come condizione necessaria e sufficiente della sua esi stenza. La forma, del
resto, è l'elemento caratteristico di un oggetto, che lo rende identificabile
come tale (Long). È proprio su questi presupposti antologici che si innesta e
si sviluppa la teoria semiolinguistica degli stoici: il bisogno di una teoria
del significato e della verità nasce appunto a proposito deIl'identificazione
dei "particolari", ed è con nesso a una teoria della percezione.
Così, si terrà presente innanzitutto che per gli stoici le im magini
(phantasfa1) prodotte nella mente dagli oggetti ester ni danno luogo a una
percezione vera se esse riproducono esattamente la configurazione di tali
oggetti.1 Del resto, le immagini giocano un ruolo importante nella teoria del
si gnificato degli stoici, come si sa che avevano una parte im portante anche
nella teoria del significato di Aristotele. In secondo luogo si può considerare
come fondamentale il fatto che uno dei modi di identificare un
"particolare" è quello di identificarlo linguisticamente. In questo
caso è fondamentale l'abilità di A nel comunicare a B che sta par lando
intorno a X, come pure l'abilità di B di indicare ad A che egli ha compreso il
suo riferimento. Il passo di Sesto Empirico che contiene i lineamenti fondamentali
della teoria linguistica stoica si trova proprio in un contesto che concerne un
conflitto di opinioni intorno alla verità. È importante sottolineare che per
gli stoici una teoria del la verità, cioè la ricerca delle basi per una
verifica delle pro posizioni, non può essere elaborata in maniera indipenden
te da una concezione della struttura del mondo e da ciò che può essere detto
intorno a esso. Ecco il passo di Sesto. Alcuni hanno riposto il vero e il falso
nella cosa significata (tò smainomenon), altri nella voce (phon), altri infine
nel movimento del pensiero. Della prima opinione sono stati i porta bandiera
gli stoici col sostenere che sono tra loro congiunte tre cose, ossia la cosa
significata (tò smainomenon), quella significante (tò smafnon), e
quella-che-si-trova-ad-esistere (tò tyn chanon), e che, tra queste, la cosa
significante è la voce (ad esempio la parola "Dione"); quella
significata è lo stesso stato di cose (autò tò pragma) indicato dalla voce
pronunciata (tò hyp'autis dloumenon), che noi percepiamo come coesistente
(paryphistamenon) con il nostro pensiero (dianoia1), mentre i barbari, pur
ascoltando la voce che lo indica, non lo compren dono; infine,
ciò-che-si-trova-ad-esistere è quello che sta fuori di noi (ad esempio, Dione
in persona). Di queste cose due sono corpi, cioè la voce e
ciò-che-si-trova-ad-esistere, ed una è incor porea, cioè l'oggetto significato
o "detto" (lekton), e proprio quest'ultimo è vero o falso (Sext.
Emp., Adv. Math.) A partire dalle notizie di Sesto, anche per gli stoici il fe
nomeno della significazione linguistica può essere ricostrui to nei termini di
un triangolo. Si può osservare che compaiono i termini significante e
significato (come è dato trovare anche nella teoria moderna di Saussure), ma
non quello di segno. Come anche slmsin6menon (significato) lekt6n
(detto) tmsm lnon (significente) tynchAnon in Aristotele, la
nozione di smeion appartiene a un altro ambito della teoria, che non è quello
strettamente linguistico. Si può notare anche che l'esempio che viene dato qui
è abbastanza particolare, in quanto si tratta di un nome proprio. In secondo
luogo, se da una parte, come per Aristotele, i termini che individuano la
significazione sono tre e comprendono anche l'oggetto, che propriamente è
esterno al linguaggio, tuttavia la coincidenza tra i due modelli è solo
parziale. Soltanto il primo e il terzo termine, cioè la voce si gnificante e
l'oggetto, possono essere assimilati nei due triangoli. Un caso assolutamente a
sé costituisce il termine che si trova al vertice superiore del triangolo,
chiamato prima ù·lJ_ main6menon, poi anche lekt6n. Soprattutto nella sua seconda
denominazione costituisce un termine peculiare della filosofia del linguaggio
degli stoici e rimanda a un concetto complesso e di grande interesse. Un primo
aspetto della sua peculiarità lo si può rilevare in un confronto con
Aristotele. (oggetto esterno, referente). Nella stessa posizione del triangolo
della significazione Aristotele pone delle entità psicologiche, che venivano
considerate le medesime per tutti gl’uomini. Il lekt6n degli stoici, come ci
dice Sesto nel passo riportato, ha caratteri completamente diversi, in quanto
i barbari, pur udendo i suoni e vedendo l'oggetto, non lo comprendono . Come
rileva Todorov, la differenza tra le due nozioni consiste innanzitutto nel
fatto che, mentre l'entità presa in considerazione da Aristotele si situa a
livello della mente dei locutori, quella considerata dagli stoici si situa
direttamente al livello del linguaggio. Todorov interpreta il lekt6n come la
capacità del primo elemento di designare il terzo. Tale interpretazione poggia
anche sul fatto che l'esempio dato è un nome proprio, che ha una capacità di
de signazione come gl’altri nomi, ma è molto controverso se abbia un *senso*.
La risposta che di solito si dà a questo interrogativo è negativa. I barbari
odono sicuramente la sequenza di suoni /dione/ e vedono Dione, ma sono incapaci
di connettere il suono con il suo oggetto di riferimento. Comprendere, dunque,
come avviene appunto nel caso dei Greci, consiste proprio nel percepire la
connessione tra la parola che viene pronunciata e l'oggetto cui si riferisce.
Anche Long identifica il lekt6n con tale connessione, ma nel senso che esso si
configura come l'affermazione che un enunciato fa nei confronti di qualche
oggetto; in questo caso, la traduzione più propria di lekt6n è "ciò che è
detto", in quanto tale espressione copre sia la nozione di giudizio che
quella di stato di cose significato da una parola o da una serie di parole.
L'idea che il lekton si può configurare come una affermazione intorno all’oggetto
emerge da una testimonianza di Seneca (Epistulae morales), in cui viene delineato
uno schema triadico della significazione analogo a quello di Sesto, ma con una
proposizione – “Cato ambulat” -- laddove Sesto propone solo un nome (“Dione”).
Seneca invita a distinguere tra l'oggetto di riferimento, cioè Catone, che è
un oggetto materiale, e l'asserzione intorno a esso, che è un incorporale. Tale
asserzione è propriamente il lekton, del quale termine Seneca propone tre
diverse traduzioni latine: “enuntiatum,” “effatum,” e “dictum.” Dato che
l'esempio proposto da Seneca è una proposizione, risulta più agevole, rispetto
ali'esempio di Sesto, capire come possa essergli applicato il predicato
"vero" o "falso".4 nfatti solo i lekta che costituiscono
una proposizione completa possono essere veri o falsi. Nel modello
aristotelico della significazione, una espressione e un simbolo di uno stato
psichico (pathmata en tiipsychi1) elo dei pensieri (noimata). In questo modo, non
viene operata una chiara distinzione tra la nozione di significato e quella di
pensiero. Tale concezione ricompare del resto nella nota teoria di Ogden e Richards,
i quali disegnano un triangolo semiotico in cui figura al vertice superiore la
nozione di "thought" ("pensiero"). Diversa è la concezione
proposta dagli stoici. In effetti, dalla testimonianza concorde di Sesto e di
Diogene, si ricava una nozione di significato nettamente distinto dal pensiero,
anche se intrattenente con questo un certo tipo di rapporto. Dice infatti Sesto.
“Gli stoici affermano che il lekton è ciò che sussiste in conformità con una
rappresentazione razionale (logike phantasia) e che una rappresentazione
razionale è quella secondo cui il rappresentato (phantasthén) può essere
espresso in parole (Sext. Emp., Adv. Math.). In termini del tutto analoghi si
esprime Diogene (Vitae), usando anche le stesse espressioni. Cosi, da entrambi
i passi si può ricavare l'idea che gli stoici operassero una distinzione netta
tra il lekton, che rappresentano il livello del significato, e la
rappresentazione razionalie (logike phantasma), che possiamo definire come delle
forme di atti vità intellettiva o dei pensieri. Quest'ultime entità sono peculiari
della specie umana e possono, ali'occorrenza, essere espresse in parole -- a
questo infatti si riferisce l'aggettivo, “logike”. Ma, sempre dai due passi, si
può ricavare anche che i due termini, il lekton e l'attività di pensiero,
vengono messi in relazione. Long cosi commenta il passo di Sesto: "I take this difficult
passage to mean that the lekton is defined as the objective content of acts of
thinking (noesis)" e aggiunge anche "or, what comes to the same
thing in Stoicism, the sense of significant discourse". Prima di approfondire il senso di questa
seconda asserzione di Long, soffermiamoci sulla prima. Dunque la relazione che
il lekton instaura con l'attività di pensiero è tale per cui esso si configura
come contenuto o risultato di tale attività. Ma questa nuova relazione, che ve
niamo scoprendo attraverso le testimonianze di Diogene e Sesto, comporta un
elemento nuovo rispetto a quanto lo stesso Sesto dice altrove (Adv.Math.),
quando ha messo in relazione il lekton con l'espressione significante (cioè con
il smainon). In effetti, se il lekton viene ora definito come qualcosa che
sussiste in conformità con una rappresentazione razionale, è evidente che
l'accento appare spostato dal precedente rapporto con il suono della voce, a
un rapporto con l'attività del pensiero. Questa, prima di dimostrarsi
un'apparente contraddizione o un falso dilemma, ha diviso sia le testimonianze
degl’esegeti antichi sia le interpretazioni degli studiosi moderni degli
stoici. Come mette bene in evidenza Mignucci, il lekton, essendo incorporeo,
non può essere disgiunti da qualcosa di corporeo che faccia in qualche modo da
supporto ad essi e che permetta la loro esprimibilità. Il proble ma diviene
allora quello di stabilire se a fare da supporto a un lekton siano: un suono della
voce; o l'attività della mente che li pensa. La prima definizione di Sesto opta
per la prima; la seconda, come pure la definizione di Diogene, per la seconda. Ugualmente,
tra gl’interpreti moderni, Mates risponde che è la parola a fare da supporto al
lekton. Zeller11 e Bréhier12 assumono l'altro punto di vista. Come dicevamo,
questo è un falso dilemma, non resolubile tuttavia filologicamente, in quanto
nei testi antichi c'è un'uguale quantità di elementi di convalida per ciascuno
dei due punti di vista. Piuttosto è necessario considerare un duplice
presupposto che sembra agire nella teoria stoica. Da un lato il verificarsi di
discorsi significativi rimanda a un'attività intellettuale, in assenza della
quale non è possibile che si diano i significati. Dall'altra, il risultato
dell'attività intellettuale ha bisogno dei suoni della voce significativi per
esplicitarsi oggettivamente. È possibile, anzi, trarre le conseguenze dal
fatto che un lekton è definito da una parte come *contenuto* di una
rappresentazioni razionale e dali'altra come il significato di una parola:
conseguenze che indicano la necessità di postulare una stretta connessione tra
i contenuti dell'attività rappresentativa della mente e il loro essere significati
attraverso le parole. I due termini, in realtà, non possono essere disgiunti
l'uno dall'altro. A questo punto possiamo comprendere la seconda asserzione di
Long che abbiamo anticipato: il senso del discorso significante e il contenuto
oggettivo degli atti di pensiero devono essere considerati come la stessa
cosa.. La precedente conclusione viene del resto appoggiata da tà14 è dato
dalla "rappresentazione" (phantasia) passo Diogene spiega che la
phantasia ha un ruolo assolutamente primario, in quanto non è possibile, senza
di essa, rendere conto di alcuni processi fondamentali della conoscenza, quali
l'assenso (synkatathesis), la comprensione (kata/psis) e l'attività di pensiero
(nosis). Infatti la rappresentazione viene per prima, poi il pensiero
(dianoia) che è capace di parlare (eklalètik), esprime in parole (/6g01) ciò
che esperimenta come il risultato della rappresentazione. Il passo di Diogene è importante perché
ripropone la nozione, già platonica, del pensiero come discorso interno. Tutto
ciò porta a concludere che per gli stoici esiste Long sulla considerazione di
un passo di Diogene Laerzio (Vitae) in cui viene detto che il criterio di veri-
.. In questo una sostanziale identità tra i processi del pensiero e quelli
della comunicazione linguistica. Il fatto poi che i processi cognitivi siano
basati sulla phantasia getta luce sul ruolo che le immagini mentali hanno nella
teoria linguistica del significato.Il lekton, che abbiamo finora incontrato
come elemento centrale della teoria del linguaggio, costituisce una nozione
fondamentale anche della teoria del segno e, in un certo f110do, è un fattore
di mediazione tra le due teorie. Infatti i 5egni (smefa) per gli stoici sono anzitutto
dei lekta, in auanto sono costituiti da proposizioni. Questo fa sì che, come
sottolinea Eco, nella se fllÌOtica stoica si verifichi una saldatura di
diritto tra la 0ottrina del linguaggio e la dottrina dei segni. Infatti, per
ché ci siano segni occorre che siano formulate proposizioni e le proposizioni
debbono organizzarsi secondo una sintassi Jogica che è rispecchiata e resa
possibile dalla sintassi linguistica. Occorre tener presente che gli stoici
non dicono ancora che le parole sono segni (-- cf. H. P. Grice – “Not all
things that mean are signs. Words are not”) -- sarà Agostino il pri (110 a
fare una simile asserzione -- e rimane, del resto, una differenza lessicale tra
la coppia smafnonlsmain6menon e sl!mefon. Tuttavia il fatto che i segni siano
dei lekta ci illumina sul ra necessità, avvertita dagli stoici, di tradurre il
segno non verbale in termini linguistici e di legare, dunque, per quanto jfl
maniera implicita e indiretta, le due teorie. Ecco la definizione di segno che
ci viene data da Sesto: Gli stoici, volendo presentare la nozione di segno,
dicono che è una proposizione (axioma) che è l'antecedente (prokathegoumenon)
in un condizionale vero (en hyghiei synemménOl), e che è rivelatore del CONSEQUENTE
(ekkalyptikòn tou ligontos). E dicono che la proposizione è un lekt6n completo
in se stesso; e il condizionale vero è quello che non comincia dal vero e
finisce ] Riprenderemo più avanti le varie problematiche che vengono
presentate in questo passo. Per il momento ci preme sottolineare che in esso si
definisce il segno come un lekt6n completo, cioè come una proposizione che si
pone in rapporto di implicazione con un altro lekt6n, cioè con un'altra
proposizione, secondo lo schema: p -:J q. Si deve notare che, come per
Aristotele, l'attenzione per il segno è esercitata in funzione della conoscenza
che esso permette di raggiungere: l'ottica, in altre parole, è ancora quella
epistemica, e il segno appartiene a un campo che è distinto sia da quello
logico sia da quello semantico in senso stretto. Il segno, infatti, non è una
proposizione qualsiasi che figuri come antecedente in un condizionale vero, ma SOLO
QUELLA PROPOSIZIONE CHE PERMETTE DI SCOPRIRE IL CONSEGUENTE – cioè, che
permette l'accesso a una nuova conoscenza. Va comunque notato che, se l'ottica
con cui gli stoici guardano al segno è la stessa di quella di Aristotele,
assolutamente diverso è il tipo di inquadramento logico. È normallnente
accettato che Aristotele pratichi la logica delle classi, mentre gli stoici
introducono quella proposizionale. Ciò comporta che l'attenzione venga spostata
dalla so stanza degli eventi (Todorov), per quanto concerne il punto di vista
antologico, e dal nome/aggettivo, che funge da predicato, alla proposizione,
per quanto concerne l'espressione linguistica. In effetti, in Aristotele si
poteva notare un certo disagio a trattare le sostanze e le proprietà come
segni. Ciò che, invece, può essere trattato come segno sono i fatti e gl’avvenimenti
espressi da proposizioni. E del resto Aristotele, pur senza denunciare la
differenza, tutta- nel falso [ di un condizionale che comincia con il vero e
finisce nel vero. Essa fa scoprire il conseguente poiché la proposizione "ESSA
HA LATTE" sembra essere rivelatrice (de/Otik6n) di quest'altra "ESSA
CONCEPTIO" (Sext. Emp., Hyp. Pyrrh.). Essi chiamano antecedente la prima
proposizione via fornisce alcuni esempi di segno -- come quello della
Retorica. "Se essa ha latte, essa ha partorito" -- in cui vengono
presi in considerazione eventi e non sostanze. Ma nella filosofia aristotelica
la teoria del segno ha una parte marginale. Il segno viene fatto rientrare nel
procedimento sillogistico (costituisce una premessa del sillogismo) e viene
confinato nel campo dei procedimenti retorico-dialettici, se non è un tekmirion,
cioè, un segno necessario. Nella scienza vera e propria, fondata sul sillogismo
perfetto, il smeion non trova f>osto. Al contrario, nelle scuole
postaristoteliche, l'inferenza da segni acquista un ruolo centrale: dalla
retorica e dialettica, suoi punti di partenza, il segno viene esteso alla
scienza in generale e alla filosofia nel suo grado più alto. Gli stoici e gl’epicurei
vedono nel segno il procedimento canonico del passaggio da ciò che è noto a ciò
che è ignoto. Preti sostiene che, a proposito della teoria del segno, tra
Aristotele e le scuole posteriori si può individuare un anello di congiunzione,
rappresentato dalla teoria di Nausifane, un seguace di Democrito e uno dei
maestri di Epicuro. Da quanto ci è rimasto della sua opera, il Tripo de, 1 8 è
possibile cogliere i punti essenziali di questo passag gio . Per Nausifane,
infatti, il discorso filosofico (basato per Aristotele sul sillogismo) e quello
retorico (basato sull'entimema) presentano in realtà la stessa struttura
logica. In entrambi i casi è necessario distinguere tra la CONSEQUENZA o
conclusione (ak6/outhon), la
"premessa" (homologoumenon) e "ciò che deriva dalle
premesse" (tlnon lphthénton ti symbafnei: il sillogismo?). In ognuno dei
due tipi di discorso il problema è quello di partire da cose presenti
(hyparchonta) per giungere in maniera metodica alle cose invisibili. Il metodo
del passaggio è la akolouthia, "la relazione di consequenzialità",
di implicazione o implicitazione, comune appunto a filosofia e retorica. Ora,
come testimonia Sesto, dalle cose evidenti (apò ton enargOn) alla comprensione
del le cose oscure (adla) per mezzo del segno come relazione di akolouthia
costituisce proprio il nocciolo della dottrina de gli stoici -- come pure di
tutti coloro che Sesto riunisce sotto la possibilità di passaggio il nome
di "dogmatici". Non solo, ma come prova della centralità della
semiotica, anche la dimostrazione viene considerata un segno: fatto che
testimonia la riduzione della filosofia della scienza a semiotica e che conferma
la tendenza delle scuole post-aristoteliche a ridurre o trasformare il
sillogismo nell'inferenza implicativa. 1 I tipi di segno, comune e proprio. Nella semiotica stoica si
registra la scomparsa della di stinzione terminologica tra tekmrion e smeion:
il primo termine non viene più usato e i segni vengono tutti denomi nati
smeia. Un'ipotesi plausibile è che ciò sia legato all'ab bandono del
sillogismo e della sua distinzione in figure la quale sorreggeva tale
opposizione. Tuttavia, al suo posto, sembra comparire un'opposizione tra
"segno comune" (koinòn smeion) e "segno proprio" (fdion).
Tale distinzione non era specificamente stoica, ma appartenente a una koini
filosofica ellenistica, sulla quale c'era accordo anche tra scuole per altro
verso in contrasto. Una definizione sufficientemente chiara dei due tipi di se
gno si trova nel trattato semiotico di Filodemo. Un segno è comune (koin6n) per
nessuna altra ragione che quella per cui può esistere, sia che l'oggetto non
percepito (tò adlon) esista, sia che non esista. Noi diciamo che la persona che
crede che questo particolare uomo sia buono a causa del fatto che è ricco, sta
usando un segno non valido e comune dal momento che molti che sono ricchi
risultano malvagi e molti buoni. Perciò il segno proprio (idion), se è
necessario (ananka stik6n), non può esistere altrimenti che con la cosa che
noi di ciamo appartenere di necessità ad esso, (cioè) l'oggetto non evi dente
di cui è segno (Philodemus, De signis)
C'è una convergenza nelle scuole postaristoteliche nel ri tenere il segno
comune come non valido e nell'accettare in vece unicamente il segno proprio.
Dalla definizione di Filodemo si ricava che una differenza peculiare consiste
nel ca rattere di necessità del segno proprio, che viene definito co me
"necessario" (anankastik6n), carattere non posseduto da quello
comune. Viene dunque da mettere in parallelo il segno proprio con il segno
necessario di Aristotele che ri chiedeva una connessione necessaria con
l'oggetto a cui rin viava. D'altra parte, il segno comune è definito come quel
segno che può rimandare a qualcosa di esistente, di cui sa rebbe segno, ma può
anche non rimandare a niente. Dato l'esempio, cioè l'inferire dalla ricchezza
di un uomo la sua bontà (inferenza che in certi casi funziona e in certi altri
no), sembra plausibile porre in relazione il segno comune e i segni in seconda
e terza figura di Aristotele. Infatti per Ari stotele si poteva inferire dal
pallore di una donna il suo es sere gravida (segno in 2a figura) oppure dalla
bontà di Pit taco la bontà dei sapienti (segno in 3a figura): ma questi se
gni non in ogni caso risultavano verificati. Si può così giungere a una
conclusione interessante: men tre Aristotele, pur negando validità scientifica
ai segni non necessari, ne prevedeva comunque un uso in un ambito epi
stemologicamente più basso, come quello della retorica, do minio delPopinione,
la scuole postaristoteliche sembrano aver fatto definitivamente piazza pulita
delle inferenze del tipo non necessario. I tipi di segno:
"rammemorativo" e "indicativo" Filodemo aveva scritto il
suo trattato intorno alla metà del I secolo a.C. Circa due secoli dopo, Sesto
riprende la di stinzione tra segno preso in senso proprio (idlos) e segno
preso in senso comune (koinOs), mettendola in esergo alla sua trattazione del
segno; ma, stranamente, assimila questa a un'altra opposizione, quella tra
segno rammemorativo e segno indicativo: Il segno si dice in due maniere, comune
(koinOs) e proprio (idt'Os). In maniera comune si dice segno quello che sembra
rive lare qualche cosa: in questo senso sogliono chiamare segno anche ciò che
serve a richiamare alla memoria la cosa osservata in sieme con esso. In
maniera propria si dice segno quello che è in dicativo di una cosa avvolta
nell'oscurità. (Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 143) Apparentemente, e in maniera
contraddittoria, tuttavia Sesto sembra voler mantenere la duplice distinzione,
in quanto, dopo aver introdotto l'opposizione tra segno co mune e segno
proprio, dichiara di voler trattare solo di que st'ultimo; e poiché il segno
proprio è quello che permette di scoprire le cose che sono oscure, egli propo
ne di distinguere preliminarmente le cose in "manifeste" e
"oscure", e di suddividere ulteriormente quest'ultime in tre
categorie. Ne risulta una quadruplice tipologia: (i) Le cose manifeste o
immediatamente evidenti: sono quelle che giungono alla conoscenza in maniera
diretta; co me esempio Sesto porta "il fatto che è giorno e che io sto di
scorrendo"23 quando io faccio realmente queste cose. Le cose oscure in
senso assoluto: sono quelle che han no una natura tale da non arrivare alla
nostra comprensio ne (kata/psis), come a esempio "se le stelle siano di
numero pari o dispari" o "se i granelli di sabbia della Libia siano
di un determinato numero".24 (iii) Le cose oscure temporaneamente: sono
quelle che pur avendo una natura manifesta divengono, per certe cir costanze,
non evidenti per un certo tempo: l'esempio è il fatto che, chi si trova a una
certa distanza, non vede la città di Atene. Atene, visibile per sua natura,
diviene tempora neamente invisibile a causa della distanza.2 (iv) Le cose
oscure per natura: sono quelle che hanno una natura tale da non essere
percepite, ma sono soltanto pen sabili (noto1). Gli esempi sono "i pori
intelligibili" e "il vuoto". Non si pone un problema di segni a
proposito della prima e della seconda categoria, in quanto le cose manifeste
ven gono comprese in maniera non mediata e le cose oscure in senso assoluto
non possono essere comprese affatto. Invece è proprio attraverso i segni che
possono essere comprese le cose che appartengono alle ultime due categorie. Ma
i tipi di segno sono diversi per ciascuna di esse. Le cose tempora
neamente oscure si colgono attraverso i segni rammemora tivi, quelle oscure
per natura attraverso i segni indicativi. Ecco la definizione che ne dà Sesto:
Dei segni, secondo i dogmatici, alcuni sono ram· memorativi (hypomnstika),
altri indicativi (endeiktika). Chia mano segno rammemorativo quello che,
osservato insieme con la cosa designata in maniera evidente, appena esso si
presenta, se quella è avvolta nell'oscurità, ci conduce a ricordare la cosa che
è stata osservata insieme a tal segno e che non si presenta ora in maniera
evidente, come avviene per il fumo e il fuoco. È invece indicativo, come
dicono, quel segno che, non osservato insieme con la cosa designata in maniera
evidente, pure, per la propria natura e costituzione, segnala ciò di cui è
segno; così, per esempio, i movimenti del corpo sono segni dell'anima. (Sext.
Empyr., Hyp. Pyrrh.) Il segno rammemorativo è, in sostanza, frutto di un'asso
ciazione costante tra cose comunemente osservate in con nessione empirica.
Sembra, tra l'altro, che gli esempi che Sesto sceglie per illustrare questo
tipo si distribuiscano se condo la tripartizione28
contemporaneità/anteriorità/po steriorità tra il segno e la cosa indicata: nel
caso di "fu mo-+fuoco" vi è contemporaneità; in
"cicatrice-+piaga" o in "fascia-unzione degli atleti" il
fatto indicato è anterio re; in "ferita al cuore-morte", il segno
rimanda a qualcosa di posteriore.29 Il segno indicativo, a differenza del
precedente, non è su scettibile di essere osservato insieme alla cosa di cui è
segno, in quanto quest'ultima non è mai stata manifesta e spesso non è nemmeno
sospettabile. Ne sono esempi "i movimenti del corpo" che permettono
di risalire all'"anima", o "il su dore" che rimanda ai
"pori della pelle".30 Sesto accetta la validità epistemologica dei
segni rammemorativi, mentre nega validità epistemologica ai segni indicativi,
che sono, secondo lui, un'invenzione dei "filosofi dogmatici" e dei
"medici razionalisti".3 1 Possiamo ricapitolare con il seguente
schema la classifi cazione di Sesto: cose manifeste oscure non
danno luogo a segni danno luogo a un segno in senso assoluto per natura danno
luogo a un segno indicativo rammemorativo Si deve però osservare che la
distinzione riportata da Se sto tra segno rammemorativo e segno indicativo
solleva molti dubbi circa la sua provenienza stoica. In effetti, non se ne
trova traccia in altre fonti e neppure nel resto della trattazione dello stesso
Sesto. Inoltre, tale distinzione appa re addirittura in contrasto con
l'indirizzo complessivo della filosofia stoica e soprattutto con l'orientamento
logico-for male della teoria del segno. Questa distinzione, per quanto
importante dal punto di vista epistemologico, appare irrile vante dal punto di
vista logico. Invece, sembra essere genuinamente stoica la distinzione tra
segno comune e segno proprio, secondo la testimonian za di Filodemo. È, tra
l'altro, il carattere necessario del se gno proprio che dimostra la coerenza
di essa con il pensiero stoico. Infatti, il segno degli stoici è sempre un
segno "ne cessario", come un'analisi più dettagliata della sua
struttura ci permetterà di vedere. Ritornando alla definizione stoìca di segno
che abbiamo visto, si devono prendere in considerazione almeno tre cose. Prima
di tutto la nozione di synemménon, che letteralmente significa
"connesso" o "connessione". Il suo significato logico ci
viene chiarito da Diogene: si tratta dell'asserto temporaneamente
condizionale del tipo "Se p, q", in cui a una prima proposizione
consegue una seconda come nell'esempio "Se è giorno, c'è luce". La
seconda cosa da prendere in considerazione è la nozione di condizionale valido
(hyghiés, "sano", igienico). Da un passo di Sesto, dove se ne trova
la definizione, è possibile ricavare che questa nozione è affine alla moderna INTERPRETAZIONE
VER-FUNZIONALE di "Se p, q". Infatti la validità o in validità
dell'asserto condizionale "Se p, q" dipende dal valore di verità dell’antecedente
e del conseguente di esso.Sesto, in due passi paralleli, camente quel
condizionale che non comincia dal vero e finisce nel falso e fcrnisce una
tavola dei valori di verità del tutto conforme a quella che la logica
contemporanea preve de per l'implicazione materiale: p q ·se p, q•
valido vero vero falso falso vero falso invalido falso vero valido Sesto
accenna anche a un disaccordo tra i logici stoici a proposito del criterio per
giudicare un condizionale valido. Esso corrisponde a ciò che è stato definito
dai Kneale il dibattito sulla natura dei condizionali, che anima le discussioni
di logica ali'epoca degli stoici. Il terzo elemento da rilevare è legato alla
nozione di se- definisce come valido uni valido gno come antecedente
(prokathegoumenon) in un condizionale valido. In effetti, come fa rilevare lo
stesso Sesto, i tipi di condizionale valido sono TRE nella tavola dei valori
di verità corrispondente all'IMPLICAZIONE MATERIALE: 1) V V; 2) F F, e 3) F V.
INVALIDO: V F. Il problema diviene dunque quello di vedere se la struttura del
segno sia da ricercare in ciascuno dei tre tipi di condizionale valido, o solo
in casi particolari. Ora, in effetti, un segno non può non essere espresso da
una proposizione vera, come pure deve essere vera la proposizione a cui esso
rimanda. Così SONO ESCLUSI sono il secondo (F F) e il terzo caso (F V), in
quanto hanno un antecedente falso. Dunque, l'unica possibilità è relativa al PRIMO
tipo di condizionale – cioè, quello che comincia dal vero e finisce nel vero. Ma
c'è un'ultima osservazione da fare, ed è relativa al carattere che il segno
deve avere di essere *rivelatore* (enkalyp tik6n) del conseguente. In effetti,
un condizionale del tipo "Se è giorno, c'è luce", nel momento in cui
si verifichino le due condizioni che sia giorno e che vi sia luce, è formato da
due proposizioni entrambe vere.Tuttavia, secondo Sesto, non si realizzano in
questo caso le condizioni perché vi sia un segno, in quanto entrambe le
proposizioni rimanno a FATTI DI PER SÉ EVIDENTI (cf. la caverna di Platone). Il
primo termine del condizionale non è *rivelatore* del secondo – cf. Grice:
“Black clouds mean rain” – yes). In effetti, per comprendere la vera natura del
segno bisogna passare dal piano strettamente logico a uno più generalmente
epistemologico, epistemico, o cognoscitivo, doxastico incluso. Il segno, per
gli stoici, non solo deve avere una corretta costruzione dal punto di vista
logico, individuabile nella implicazione tra due proposizioni vere, ma deve
anche possedere il carattere di dispositivo che permette di accrescere la conoscenza.
Come già in Aristotele, anche per gli stoici il segno si appoggia su un livello
logico, ma si inquadra in un'ottica conoscitiva. Gli esempi di carattere
medico (Grice: “Those spots didn’t mean anything to me, but to the doctor, they
meant measles”) denunciano l'origine di quest'ottica. In generale il segno
deve permettere il passaggio inferenziale da una conoscenza di facile accesso,
come "egli ha sputato cartilagine bronchiale" – or Grice’s “Spots” --
a una conoscenza di molto più difficile accesso, come "egli ha una piaga
nel polmone" (“measles – and Dahl ignored it. A tragedy – and part of a
father’s responsibility and liability to know what measles spots mean””)
Tuttavia, ciò che la teoria del segno acquisisce, passando dalle mani dei
medici a quella dei filosofi, è una solida struttura dal punto di vista
logico-formale, tale da escludere la possibilità di inferenze scorrette o non
igieniche – malatta. Quanto ampio e
difficoltoso fosse il lavoro che i filosofi dovevano svolgere, sul piano
logico, per stabilire un criterio atto a escludere le inferenze scorrette, lo
dimostra l'acceso dibattito che si sviluppò sulla natura dei condizionali
(Kneale). Scrive infatti Sesto Empirico. Tutti quanti i dialettici sono
generalmente d'accordo neli'affermare che un condizionale è valido quando il
suo conseguente segue (akolouthei) dal suo antecedente, ma disputano sul come e
quando esso segua, e propongono criteri rivali (Adv. Math.). Riferendosi a
questo dibattito, Sesto elenca quattro criteri che sono proposti per stabilire
la validità di un as serto condizionale: quello di FILONE MEGARICO (H. P.
GRICE); quello di Diodoro Crono; quello della srsnartsis attribuibile a
Crisippo; e quello della émphasis. Sulla disputa si può tuttavia fare
un'osservazione generale preliminare. Il punto di partenza, infatti, come fa
notare Hurst, è una relazione già conosciuta, nel senso che essa è
riconoscibile nei suoi esempi. Ciò che invece costituisce lo scopo è una
definizione di questa relazione di consequenzialità (akolouthla) in termini
formali. Nel corso dell'intero dibattito sulla natura dei condizionali i logici
si sono concentrati sul definiendum e non sul definiens. Quest'ultimo, che può
possedere proprietà autonome, essendo dotato di significato, non è stato preso
in considerazione se non nella misura in cui poteva essere provato che esso
coincideva con il definiendum. Si è cosi spesso creata una confusione tra i due
livelli e spesso sono stati scelti esempi che ambiguamente sono in grado di
elucidare sia la relazione riconosciuta, sia le proprietà della relazione
logica che essi tentavano di identificare con la prima. Può aiutarci a
comprendere meglio questo modo di procedere un paragone con i metodi della
logica contemporanea. I logici contemporanei, infatti, sono in genere interes
sati unicamente al definiens, cioè alla relazione che essi possono stabilire
in simboli, senza riguardo alla questione se tale relazione sia identica a
quella che è ampiamente conosciuta, facilmente riconosciuta, e poco compresa
come quella di una espressione di implicitazione ("following", “yielding”
-- Hurst). A esempio Peirce e Russell erano interessati alle proprietà della
implicazione materiale indipendentemente dal fatto che essa riproducesse il
significato "usuale" di "implica" ("implies", o
di “se”). Così pure Lewis era interessato al sistema della implicazione rigida
senza sostenere che l’im plicazione rigida rappresenti il significato di
"implica" (cf. H. P. GRICE citato da P. F. STRAWSON, Introduction to
Logical Theory – e P. F. STRAWSON, Introduction to “Philosophical Logic” on
Quine on the meaning of ‘if’. --. Questa differenza nel modo di procedere tra
antichi e moderni comporta un'ulteriore differenza formal. Mmentre i logici
antichi sono interessati a dare un'unica definizione, i moderni lo sono a
fornire due definizioni: quella di "implicazione materiale" e quella
di "implicazione rigida". Filone è il primo esponente della scuola
megarico-stoica citato da Sesto ed è il primo che dà un'interpretazione vero-funzionale
dell'espressione "Se p, q". Secondo Filone – citato da Grice nella
William James IV, ‘Condizionali indicativi’ --, un'espressione condizionale è
valida o o vera se, e solo se, non comincia con il vero e finisce con il
falso. Come abbiamo già visto, la definizione che Filone dà del criterio di
consequenzialità (ako/outhfas kritrion) corrisponde al quadro del
l'implicazione materiale. Infatti sono tre i casi in cui il condizionale è
valido, corrispondente ai tre esempi seguenti:
"Se è giorno, c'è luce" (VV); "Se la terra vola, la terra
ha le ali" (FF); e "Se la terra vola, la terra esiste" (FV).
Come sottolineano i Kneale, è probabile che Filone ha in mente l'uso
dell'espressione "Se p, q" nel ragionamento e che vuole attirare
l'attenzione sul fatto che la congiunzione dell'asserto condizionale con il suo
antecedente implicita sempre il conseguente. L'interpretazione proposta da
Filone è la più debole che soddisfi tale requisito. Diodoro Crono è il
maestro di Filone, e la ragione per cui Sesto lo cita per secondo può essere
forse attribuita al fatto che, mentre Diodoro riuscì a confutare Filone, que
st'ultimo non riuscì a fare altrettanto con il primo (Hurst – “wheras H. P.
Grice had no qualm about criticising his own tutee!”). La critica che Diodoro
muove all'interpretazione filoniana -- verso la sua diodoreana -- insiste
proprio sul carattere di debolezza di quest'ultima. Egli individua infatti degl’esempi
di condizionale che, pur potendo soddisfare il requisito filoniano in un tempo
tt, possono tuttavia mancare di soddisfarlo in un altro tempo t2. A esempio,
l'asserto "SE É GIORNO, IO STO CONVERSANDO” è considerato VERO da Filone
se si dessero le condizioni, in un tempo t, per cui è giorno e io sto
conversando. Diodoro invece crede dimostrare che esso è falso, sostenendo che
non c'è niente nella sua natura che permetta di dire se esso cada o no sotto la
DEFINIZIONE di Filone. Infatti, esso – “SE É GIORNO, IO STO CONVERSANDO” può
essere pronunciato anche in un tempo t2, quando è giorno -- MA io rimango
silenzioso. In questo caso esso avrebbe la forma – o interpretazione --
invalida (falsa) VF. Per ovviare a questo inconveniente, Diodoro elabora una
concezione secondo la quale un condizionale è valido quando "non ammise,
né ammette di cominciare con il vero e finire con il falso". L'esempio
che egli dà è "Se non esistono gl’elementi atomici delle cose, esistono
gl’elementi atomici delle cose", che, secondo Diodoro, ha l'antecedente
sempre falso e il conseguente semprevero: ciò basterà a escludere l'evenienza
di un antecedente vero con un conseguente falso, unico caso in cui il
condizionale sarebbe non valido La terza concezione di condizionale valido
riportata da Sesto è quella che, secondo diversi studiosi moderni (Mates; Bochenski),
corrisponde alla implicazione rigida di Lewis o comunque a una forma di
implicazione necessaria (Kneale; Preti). In maniera concorde con il passo di
Sesto, che abbiamo visto, questa con cezione viene riportata da Diogene (Vitæ).
ÈVERO un condizionale nel quale il contraddittorio (antikefmenon) del
conseguente è incompatibile (macheta1) con l'antecedente, come a esempio “se è
giorno, c'è luce”. Il nome del sostenitore di questa concezione non ci è stato
lasciato da chi la riferisce. Ma vi sono prove che essa appartenesse a Crisippo
(cfr. anche Miiller). La nozione di "incompatibilità", messa in scena
da que sta definizione, è molto interessante, ma problematica in quanto non
viene chiaramente definita. Hurst, commentando il passo, tende a mostrare che
la relazione di incompatibilità e anche, più in generale, quella di
"consequenzialità" (following, yielding), non possono essere espresse
in termini estensionali, cioè mediante relazioni esterne, che sussistono tra le
proposizioni in virtù di pro prietà che esse avrebbero al di fuori della
relazione. Al contrario, è necessario ricorrere alle relazioni interne che
sussi stono in virtù del loro significato. Può essere interessante confrontare
questa conclusione di Hurst con le osservazioni di Preti, il quale so stiene
che l'esempio di Sesto, dato a proposito della “synartsis” (connectio”) sembra
alludere a qualcosa di ancora più forte della strict implication di Lewis, alla
vera e propria tautologia". Preti basa la sua osservazione sulle notizie
circa la dottrina stoica che vengono riportate da Filodemo nel De signis. In
effetti in quel testo è presentato come genuinamente stoico il metodo
inferenziale della contrapposizione (ana skeu), che appare analogo a quello
della synartsis. Infatti, l'inferenza per contrapposizione è quella in cui la
negazione del conseguente comporta la negazione del l'antecedente. Essa si
configura in maniera tale che la verità del condizionale "Se il primo, il
secondo" è garantita dalla verità del corrispondente condizionale "Se
non il secondo, non il primo". Preti sottolinea le affinità tra la
synartsis (secondo cui la negazione del conseguente è incompatibile con
l'antecedente) e il metodo di contrapposizione (anaskeu) (in cui la negazione
del conseguente comporta la negazione dell'antecedente), e in entrambi i casi
chiama in causa la implicazione rigida di Lewis, con la precisazione che gli
esempi forniti da Filodemo sembrano indicare un rapporto più forte, che tende
a risolvere l'inferenza o in una forma di tautologia o in una forma di
L-implicazione. Nel passaggio dalla teoria aristotelica del segno a quella
stoica c'è, come abbiamo visto, uno spostamento di accento dai termini su cui
si costruiscono le proposizioni categori che nel sillogismo, alle relazioni
tra le proposizioni nell'as serto condizionale. Contemporaneamente si registra
un'accentuazione del carattere, già presente in Aristotele, di consequenzialità
necessaria che la relazione segnica è chiamata a istituire: l'inferenza dal
termine noto a quello non noto deve presentare un carattere cogente. – cfr.
Hobbes on ‘consequence’ – Computatio – e Grice, “Meaning Revisited” – x, y –
consequence --. Ci sono due ragioni di questo aspetto necessaristico della
semiotica stoica, una legata ali'analisi della natura della ra gione e dei
suoi processi, l'altra riferibile alla configurazio ne della metafisica stoica
(Lacy). Per il primo punto è Sesto stesso a informarci che gli stoici
ritenevano che l'uomo si differenzia dagli animali per la sua capacità di
discorso interno (logos endiathetos) e in virtù della sua abilità di combinare
i concetti e di passare dall'uno all'altro. L'uomo possiede infatti la nozione
di consequenzialità (akolouthfa) e con ciò egli possiede anche la nozione di
segno, che ha appunto la forma: "Se questo, quest'altro". Così l'esistenza del segno
si pone in stretta dipendenza dalla natura del pensiero umano. Quanto al
secondo punto, la metafisica stoica poggiava sull'idea che il reale fosse
costituito da una catena ininter rotta di eventi, legati tra loro da rapporti
di causa-effetto. Tali relazioni erano .:oncepite come necessarie in quanto
dipendenti daiPordine razionale istituito dalla divinità. In questo modo, la
consequenzialità necessaria nella relazione segnica valida riproduce quella
stessa consequenzialità che si rintraccia a livello della concatenazione degli
eventi. L'insistenza che gli stoici pongono sull'asserto condizionale e
sull'inferenza da segni indica proprio l'enfasi da loro col locata sulla
relazione necessaria tra concetti e proposizioni a livello logico e tra cause
ed effetti a livello metafisica. Su queste basi, del resto, riposa la stessa
accettazione, con riserva, della divinazione da parte degli stoici. La divi
nazione consiste, infatti, nel cogliere la relazione che colle ga certi
avvenimenti presenti e altri che avverranno.4 Ora, per quanto la razionalità
degl’uomini sia sostanzialmente dello stesso tipo di quella che hanno gli dei,
tuttavia questi ultimi possiedono la conoscenza dell'intera catena causale che
lega gli eventi ("conligatio causarum omnium"), mentre ai primi è
preclusa. Gli uomini non possono conoscere dunque le cause ma solo gli indizi
caratteristici delle cause ("signa causarum et notas") degli eventi e
su questi si basano per predire il futuro. Ma, a differenza di quanto av
verrebbe per gli dei, i condizionali degl’uomini intorno al futuro mancano di
necessità. Nel caso della scienza umana (che per gli stoici equivale a quello
della dialettica) il segno deve basarsi su un'impli cazione necessaria. Ma
questa, che è una caratteristica irri nunciabile, non è tuttavia sufficiente a
definire un segno. Infatti, in un condizionale come: "Se è giorno, c'è
luce» il giorno non potrebbe essere considerato un segno della luce in quanto
entrambe le cose sono evidenti e quindi l'inferenza non può provare nulla. La
verità su cui si basa è certamente a priori e analitica, come sembra richiesto
nel caso delle verità necessarie, ma tale condizionale è privo della
caratteristica di permettere di scoprire una nuova conoscenza. Il segno
stoico, in conclusione, si deve inquadrare in uno schema logico (che è quello
deli'implicazione necessaria), ma deve contemporaneamente superarlo per
collocarsi in un'ottica epistemologica, nella quale esso diventa fattore
dell'accrescimento del sapere: bisogna sempre tener presente che l'essenza del
segno è l'inferenza che va dalle cose ma nifeste a quelle non percepite. Ma a
questo punto sembra delinearsi nella semiotica stoi ca un problema
difficilmente resolubile: come è possibile che l'inferenza segnica sia
analitica (se si pensa alla L-impli.. cazione di cui parla Preti) e
contemporaneamente fornisca una nuova conoscenza (la scoperta di un fatto
nascosto)? Prendiamo come esempio di segno una dimostrazione (infatti anche la
dimostrazione viene considerata, secondo la testimonianza di Sesto, un segno):-
sono pori intellegibili nella pelle. - Il primo. - Dunque, il secondo . Qui
l'inferenza è condotta dal fatto percepibile rappre sentato dallo scorrere del
sudore al fatto nascosto che esi stano pori nella pelle. La presenza dei pori
è un fatto oscuro per natura. Infatti, essi possono soltanto essere conosciuti
dalla mente (noto1), ma non dai sensi in un'epoca in cui il microscopio non era
ancora stato inventato. Sesto aggiunge, come argomento rafforzativo delle
premesse nel ragionamento precedente, un'ulteriore argomentazione: - compatto
e non poroso. - Il sudore scorre attraverso il corpo. Pertanto non è possibile
che il corpo sia compatto, ma esso è poroso. La premessa maggiore di questa
argomentazione sembra essere basata sul test di contrapposizione (Q::jJ)
applicato alla premessa maggiore del precedente. Infatti se al condizionale: p
(se il sudore scorre attraverso la superficie del corpo) ::q (ci sono pori
intellegibili nella pelle) Se il sudore scorre attraverso la superficie del
corpo, ci È impossibile che un liquido scorra attraverso un corpo applichiamo
il test di contrapposizione, otteniamo l} (se la pelle è un corpo compatto e
non poroso) :>p (un liquido non vi può scorrere attraverso), espressione
che è alla base della premessa del secondo ragionamento di Sesto. Essa
permette di sviluppare un ragionamento corrispondente al MODVS TOLLENS, che
convalida la conclusione del primo ragionamento. Non si saprebbe dire se gli
stoici riescano a evitare, con il ricorso alla contrapposizione, la
contraddizione che esiste tra la richiesta di una relazione necessaria e a
priori tra le due proposizioni del condizionale e la necessità che il segno
produca nuova conoscenza. Di fatto la contrapposizione rende necessaria la
relazione anche nel caso di verità fattuali, poiché parte dall'assunzione che
il fatto oscuro per natura sia legato a quello evidente in modo tale che ciò
che è evi dente non potrebbe esistere se il fatto non percepito non fosse
quale viene rivelato essere. Antonio Schinella Conti. Antonio Conti. Keywords: Conti’s
French letters – Conti’s Scritti Filosofici, Dialoghi Filosofichi, about
whether corpori celesti are inhabited -- l’infinito, self-referential,
recursion, anti-sneak, regress, infinite regress in the analysis of
communication, calcolo finitesimale, calcolo infinitesimale, Enea stoico,
Ottavio Stoico, Cicerone stoico, semiotica stoica – allegoria dell’Eneide,
scudo di Enea, Il Parmenide di Platone – assiomatico dell’essere – L’essere e. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Conti” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza -- Grice e Conti: il primo storico italiano della filosofia
italiana – amato da Fiorentino -- la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale – scuola di San Miniato – filosofia pisana – filosfia toscana
-- filosofia italiana – Luigi Speranza (San Miniato).
Filosofo pisano. Filosofo toscano. Filosofo italiano. San Miniato, Pisa,
Toscana. Grice: “Conti is a good one – a historian of
philosophy, or rather a philosophical historian – I never know! – his chapter
on the Greek embassy that brought philosophy to Rome is stimulating!” Studia a
Siena e Pisa. Si laurea a Lucca. Insegna a Lucca, Pisa, Firenze. Filosofo del
bello, che define stare fra il vero e il buono, e li collega come il mezzo tra
il principio e fine. Altre opere: “Cose di storia e d'arte; Evidenza, amore e
fede, o i criteri della filosofia, discorsi e dialoghi. Famiglia, patria, Dio,
o i tre amori”; “I discorsi del tempo in un viaggio in Italia”. In ogni città
coglie occasione per un insegnamento civile; a Venezia isulla religione, a
Milano sullo stato, ecc.; “Il bello nel vero, o estetica”; “Il buono nel vero,
o morale e diritto naturale”. “Illustrazione delle sculture e dei mosaici sulla
facciata del Duomo di Firenze”; “Il vero nell'ordine, o ontologia e logica”; “L'armonia
delle cose, o antropologia”. Cerca di costruire una metafisica fondata sulla
relazione, l'armonia, l'ordine; Studia l’educazione religiosa, civile e private;
“Letteratura e patria, collana di ricordi nazionali”; “Nuovi discorsi del
tempo, o famiglia, Patria, Dio Religione ed arte, collana di ricordi
nazionali”; “Storia della filosofia”, molto accreditata. “Sveglie dell'anima.
Il Messia redentore vaticinato, uomo dei dolori, re della gloria. La mia corona
del rosario. Ai figli del popolo, consigli. Duprè o Dell'arte, 2 dialoghi.
Evidenza, amore e fede o i criteri della filosofia” -- lezioni e dialoghi sulla
filosofia cristiana; lavoro scientifico e popolare, e discorsi sulla storia
della filosofia, accordo della filosofia con la tradizione; discussione sulla
filosofia e la fede. La filosofia di Dante. “Il bello qual mezzo”. Dizionario
Biografico degli Italiani. Armonie ideali nell'opere belle. L'artista deve
tendere al più alto se gno ideale. Ordine dell'idea chiaro che include giudizj
e ragionamenti. Dialettica dell'arte, o dialettica rappre sentativa. L'idea è
universale, talchè i particolari dell'arte non debbono mai ecclissare o
escludere l'universalità del concetto; perché, altrimenti, arte bella non c'è’ L’ordine
ideale porge alle immagini formosità. eletta, che manifestasi o per cose
straordinarie, o per l'eccellenza de'modi, o per tutto ciò ad un tempo, ma
ſuggendo le ampollosità. L'ordine ideale
si determina ne sezni; onde s' origina l'armonia de'con trapposti. Armonia
dell'ordine ideale con la natura, legge di corrispondenza e di contrapposto
anche in ció. Armonia col divino per
natura.Il gusto del Bello. Regola prossima è il gusto. Sentimento di verità, di
bellezza, e di bene. Che cosa è il gusto? Ana logie del gusto intellettivo col
gusto sensitivo. Urficj del gusto; sanità e infermità; abiti buoni, o vizinsi; S'esamina
gli ufficj del gusto intellettivo della bellezza. Effetto del gusto. Il gusto
non può mancare a ' veri artisti, e avvertenze io giudicare il gusto loro dall'
opere. Quattro gradi del gusto. Aiuto che il gusto del bello riceve dal
sentimento logico e dalla morale coscienza. Stato di sanità o di malattia, cioè
buona o rea edu cazione. E empj. Stato
d' abiti buoni o viziosi. Esempj. Conclusione. Come si può guarire o correggere
il gusto falso. Le leggi del gusto. Che cosa presuppone l'esame ch'uno faccia
del proprio gusto, 3. affinchè possa regolarci un gusto buono e rettificarsi un
gusto cattivo, 4. e primiera mente il derivato da falsa educazione. 5. Studio
perciò di buoni esemplari. 6. Esame degli abiti viziosi, e quanto alla verità –
7. e quanto a ' fini dell'arte. - 8. Il gusto deve mostrarci il modo e il
quando dell'operare. Elevazione del sentimento.Verosimiglianza. Esempj.
Equazione di tutti gli elementi dell'arte con l'idea. Gusto de' limiti. I
limiti massi. mamente ne segni esteriori.
I Pedanti e i Licenziosi. Argomento. Che sieno i Pedanti e i Licenziosi.
Significato più generale di questi vocaboli. 4. Si gnificato più proprio e
stretto. Errori contrarj e vizj comuni. La pedanteria va fuori di natura. 7.
Esem pj. 8. Va fuor di natura la licenza. 9. Esempj. Non comprendono
l'universalità i Pedanti. Esempj. 12. Nė la comprendono Licenziosi. 13. Esempj.
Non hanno vera nobiltà i Pedanti, 15. e la licenza è ignobilità. Talchè gli uni
e gli altri non consegui scono fama durevole. Estro. Leggi dell'ordine
immaginato.. 1. Argomento. Immaginazione. Rinnovazione di fan tasmi, 3. e
innovazione o invenzione. 4. Queste per tre modi, spontaneo. pensato, meditato.Legge
univer sale della fantasia e sede di quella nell'intelletto. 6. Gradi
dell'invenzione immaginativa. Primo; mutamento di alcune cose percepite.Secondo;
immagini di cose reali non percepite. Terzo; novità d'imma.ini fra percezioni
oscure. 8. Quarto; un ordine di verosimiglianze relativo a un or dine di cose
reali determinato. 9. Quinto; relativo a no tizie vaghe. 10. Sesto; relativo ad
astratte generalità. 11. Settimo; fantasmi di cose semplici, spirituali,
divine. 12. Ultimo; armonia universale di fantasmi e loro elevazione. 13.
Perché l'estro abbia tal nome. Origini sue misteriose. 15. Estro fallace o
vuoto, e vero o fecondo. Conclusione. Armonia
interna delle Immagini. Argomento. Sceltezza e vita delle immagini, Scel. tezza
rispetto all'arti diverse; 3. e rispetto ai componi menti speciali d'un' arte;
e rispetto agli argomenti. Sceltezza per la qualità e per la quantità. 5. Vita
delle immagini, 6. come le figure d'affetto nell'arte del dire. Unione del
sensibile con l'ideale. Allegoria, e 8. allegorie speciali, e vizj
dell'allegoria. 10. L'im magine deve ritrarre l'idea intera; e quindi bisogna
imma ginar l'opera innanzi di farla e che rispondano i par ticolari al lutto e
l'e - trinseco venga dall'intrinseco, e gli accessorj dal principale. 13.
Spiritualità delle im magini. 14. e vizj opposti. 15. Relazione specificata
delle immagini co' segni. Armonie di verosimiglianza in generale. Argomento e
legge universale di corrispondenza e di con trapposto, e come si rifletta nelle
immagini dell'arte. 2. Questa legge apparisce nella qualità, quantità, tempo e
spa zio. 3. Relazioni. 4. Esempj antichi di letteratura. 5. Esempj dell'éra
nostra, - 6. Drammatica e lirica 7. Figure di confronto ne'linguaggi. – 8.
Esempi del disegno e della musica. 9. Analogia del corporeo e dello spiritua le.
10. Loro diversità; – 11. e contrapposto nella na tura e nell'arte. 12.
Verosimile immaginoso, che differi sce dal reale, benchè gli somigli. 13.
Quello trascende. Poesia e architettura. 14. Scultura, pittura, musica, e arti
ausiliari. Com'accade ciò. Armonie con la natura corporea. 1. Argomento. Legge
naturale di simetria. 5. Vi sta e udito porgono immediati all'arte bella i
sensibili rap presentati, Il lalto remotamente, il gusto e l'odorato
indirettamente forniscono all'arte cose immaginabili, salvo la poesia ch'è
universale. Legge naturale di simetria
ne ' visibili aspetti, - 6. e ne' suoni. - 7. Legge corrispon dente nell'arte
bella. 8. Simetria di quantità nel grado. Simetria di quantità nel numero de'
suoni, delle cose visibili. 11. Simetria naturale dello spazio. 12. Simetria
nell'arti, quanto a’limiti. 13. Simetria di limiti anche nell'unione di più
cose. Simetria di luo ghi. 15. Simetria di tempo misuratore, e di tempo rap
presentato. - Armonie con la natura spirituale. Gli affetti. Somiglianza loro;
3. varietà; 4. contrapposto. 5. Personificazione immaginosa dell'unmo, 6. e
della socievolezza; - 7. che dall'arti non prò mai scompagnarsi. - 8.
Personificazione immaginosa del mondo materiale per tre modi. Materialismo non
può spiegarla. 11. Person i ſicazione immaginosa del soprannaturale; 12. presa
sostanzialmente da simboli e miti di credenze religiose; 13. ma trasformate dal.
l'estro. 14. La personificazione, ritraendo l'uomo, ac cenna lo stato degli
artisti e de' tempi loro. Grecia, Roma, Italia; suo scadimento; letterature straniere..
16. Anche nell' altre arti avviene lo stesso. Immaginazioni tragiche e comiche
Argomento. Può l'ottimo essere argomento del l'arte bella? 3. Può il pessimo? —
15. Immaginazioni tragiche e comiche. - 5. Quando mai nasce l'immagina zione
tragica più specialmente? 6. Quando la comica? 7. Condizioni dell'una, - 8. e
dell' altra. La morte immaginata nell'arte, 10. eidolori del senso, tragica
mente; comicamente. 12. Deformità fisiche nel rispetto tragico; 13. e nel
comico. - 14. Le mostruosità nell'un rispetto, · 15. e nell'altro, e come in
ciò facilmente si trasmodi. Ordine de' Segni. Stile. Argomento. 2. Nozione
generica dello stile. - 3. Nozione meno generica. - 4. Nozione determinata. 5.
Ne cessità di meditare lo stile. 6. Idem. 7. Ordine dello stile. Unità. - 8.
proprietà, evidenza, 9. vivezza, for. mosità. 10. verosimiglianza. Legge sua
universale. - 11. L'unione di dette qualità forma il decoro. 12. Esempio di
essa, - 13. Esempio del contrario. 14. La misura nello stile. 15. Sunto.
Armonia intrinseca dello stile e co ' propri segni.. 1. Argomento. - 2.Unità
del bello stile. 3. Si riscon tra nell'arte del dire; ne'proverbj e rispetti, ·
4. nelle sentenze, 5. nel periodo, 6. nell'armonia e nell'unione del discorso.
7. Si riscontra nell' arti del disegno; nel l'architettura, 8. ch'è un discorso
anch'essa; - 9. nella scultura e nella pittura, 10. simili pur esse al discorso;
- 11. e nella inusica; 12. che ha disegno perfetto, o unione d'armonia e di
melodia. - 13. Proprietà de' se gni; e come segni adoperino l'arte del dire, la
musica, 14. l'architettura, e l'arti figurative; 15. onde viene la proprietà
dello stile. 16. Conclusione. Armonia dello stile col pensiero.. 1. Argomento.
2. In che consiste l'evidenza. -3. Dee rispondere lo stile a integrità del
pensiero; 4. e a varietà d'argomenti; - 5. abbracciando l'universalità dell'
argo mento, proprio, 6. e distinguendolo, per poi bene com porlo. 7. Mancamento
d'arte o di volontà impedisce tal perfezione. 8. Vivezza di stile, o moto, 9.
nell'arte del dire, 10. nella pittura e scultura, 11. nell'archi tettor3, 12.
nella musica. 13, Formosità, - 14. anche nello stile grande, e nel sublime. 15.
Onde procede la deformità? 1Armonia dello stile con la natura..... 228 1.
Argomento. 2. Il bello stile corrisponde alla natura dell'artista e a quella
degli oggetti. 3. Non si possono separare le due relazioni senz'errore e
deformità. – 4. Avvi una parte relativa all'artista; 5. e una parte relativa
agli oggetti, e danno armonia. 6. La legge di corrispondenza e di contrapposto
ſa nascere le diverso specie del bello stile in quei gradi che l'ordine ha varj
nella natura. 7. Idem. 8. Nello stile tenue an prevalenza i simili, 9. Qua lità
principale di esso è la venusià. 10. Nello stile mez. zano han prevalenza i
diversi. 11. Qualità principale di esso
è la naluralezza, 12. Nello stile grande han preva lenza i contrarj. 13.
Qualità principale di esso è la pe regrinità Nello stile sublime han prevalenza
i contrapposli supremi. 15. Qualità principale di esso è l ' ammirabilità. Arti
del Bello speciali. Come si originarono le Arti speciali del Bello. Pag. 249 1.
Argomento. — 2. Due generi supremi dell'arte bella, cioè arti di suono e arti
di prospettiva. 3. Arte de' suoni parlati, e arte de' suoni armonizzati. 4.
Arti prospettive di spazio, e arti prospettive di figura. -- 5. Arti
prospettive distinte in arti di spazio imitato e di spazio naturale; in arti di
figure imitate e di figure naturali. 6. Onde l'arti del disegno son distinte
dall'arti di naturale amenità e dalla mimica e danza, le quali sono arti
secondarie. 7. Arti ansiliari dell'arti principali e delle secondarie. 8. Diver
sità di segni sensibili determinò diversità del significato, quanto al mondo
esteriore, 9. e quanto al mondo interio. re. 10. Stato implicito dell'arti:
poesia; 11. arti del disegno e musica. 12. Poi si distinsero l'arti del Bello
fra loro; e s'esamina per la poesia, per l'architettura, 13. per l'arti
figurative, 14. e per l'arte musicale. Di stinzione di ogni specie in ispecie
minori. 15. Conclu sione. 16. L'arte bella fa quasi un mondo novello. Ordine
fra l’ Arti speciali del Bello...... 1. argomento. Criterio per giudicare i
gradi dell'arti belle. 3. Segni supremamente ideali della poesia. L'ordine loro
è una invenzione distinta dall'altra delle im magini. 5. Perfezione suprema de'
significati poetici. 6 Ma questa precedenza rende difficile al sommo il poetare
buopo. 7. In che la poesia verso l'altre arti sia inferiore. 8. Architettạra, e
perfezione ideale del suo disegno. 9. Perfezione del suo significato. -- 10. In
che cosa l'archi tettura è vinta dall'altre due arti del disegno. 11. Pit tura
e scultura; disputa di quale fra loro primeggj, antica. - 12. S' esamina quanto
a ' segni, 13. e quanto al signi ficato di queste arti. 14. Musica; in che sta
un suo sin golare pregio, 15. da cui procede la potenza musicale; benche in
altro rispetto la musica resti- superata. - Della Poesia Argomento; definizione
della poesia. -2. Come la poe sia somigli la filosofia. 3. Consentono tutti nel
divario fra considerare direttamente i sensibili esterni e il conside rarne
l'altinenza con l'anima. 4. Però l'idea che regola i poeti, si è l'idea
dell'uomo interiore, avvivata d'immagibi. Si riscontra ciò ne' sensibili
esterni, comuni alla musica e al segno e alla poesia; – 5, ne' sensibili
esterni, propri solo alle rappresentazioni poetiche; - 6. ne' sensibili inter
ni, che la sola poesia può prendere per oggetto immediato; - 7. e poi, nelle
cose di pura intelligibilità. 8. Tanto è più alta la poesia, quanto più rende
viva immagine del. l'uomo interiore; - 9. e, inoltre, quanto più rende imma
gine di ciò che l'uomo dev'essere; 10. perchè il poeta tende alle più élette
forme dell'anima; 11. e indi cerca immaginativamente di risolvere in armonia le
contraddizioni del mondo; 12. come si riscontra ne' poeti veri del tempo antico
e del nuovo, - 13. e anche ne' poeti scettici, ov'essi han vera poesia; 14.
talché, quest' arte rappresenta in immagini l'universalità dell'intelletto. 15.
E ogni ge nere perciò di componimenti nell'arte del dire può parteci - pare di
poesia. 16. Conclusione.Le specie della Poesia. Argomento. Tre modi principali
della poesia: espositivo, 3. narrativo, - 4. dialogico. sia par talora non
essere imitativa nè inventiva, se cade in soggetto reale. 6. Si scioglie la
difficoltà, distinguendo al. lora il soggetto reale dalla rappresentazione
immaginosa. 7. Indi è varia l ' attinenza fra la poetica rappresentazione ed il
soggetto. — 8. Idem. – 9. Indi anco è vario lo stile figu rato nella poesia
espositiva, 10. o nella narrativa, - 11. o nella dialogica. 12. Anche il numero
musicale dello stile diversifica. 13. Idem. 14. Diversifica pure l'ori. gine
de' tre modi principali di poesia, l'espositivo prece dendo a tutti, 15. e poi
al drammatico il narrativo. • 16. Conclusione. 302 5. La poe Dell'idioma, 1.
Argomento. - 2. Lingua, in significato generale, è unità parlata della morale
unità d'un popolo; 3. e che mai non manca di segni per cose antiche, 4. nè ha
sino nimi perfetti. 5. Le Parlate. 6. I Dialetti. - 7. Le Lingue. 8. Scelta fra
le tarlate. 9. Scelta fra' Dialetti. 10. Distinzione d'una lingua da ogni altra
lingua. 11. Uso di lingua parlata, e uso di lingua scritta; 12. iden tici
nell'essenza, e in che diversi, 13. Come uso di buoni scrittori giova, 14. e
come giova uso di ben parlanti. 15. Realismo e Idealismo nell' usare l'idioma.
10. Con clusione. Arti del disegno. Pag 338. 1. Che cosa sono l'arti del
disegno - 2. Il disegno è fon damento alle tre arti particolari.. 3. Doppia
significazione del vocabolo disegno. -- 4. Ogni qualità sensibile de' corpi ha
relazione con la lor forma; 5. e può risguardarsi per natura, e per l'arti del
disegno, quasi accessoria. - 6. La forma ci palesa l'unità; 7. ch' esterna
dipende dall ' in terno delle cose, si per natura e si per arte. 8. Esempj di
ciò; e in che dunque consiste l'ordine ideato comune al l ' arti del disegno. –
9. Per acquistare il disegno, ci oc corre abito astrallivo degli occhi, - 10.
fantasia ferma e viva in ritenere la linea pura, 11. e intelletto esercitato a
distinguere, paragonare, comprendere i contorni; 12. nè basta vedere, ma
bisogna saper vedere o guardare; 13. e in ciò sta il cosi detto giudizio degli
occhi. - 14. Come si faccia l'esercizio nel disegnare. 15. Una regola princi.
pale per l'arti secondarie. Architettura.... 1. Che cosa è l'architettura. 2.
Si originò dal convi. vere umano. - 3. Si distinse dall'ingegneria per fine di
bel lezza, 4. ritraendo l'immagine formosa del consorzio umano, 5. Questa idea
perció la rende inventiva; 6. e indi l'architettura prende significato a ' suoi
disegni, 7. e anche la loro unità; 8. ehe si palesa nelle proporzioni della
massa, nel congiungimento delle linee, 9. e anche negli ornamenti. – 10.
Com'espressione del consorzio uma no, quest' arte abbraccia le altre arti del
disegno; – 11. s' accorda co' luoghi abitati dall ' uomo, e a sė li conforma;
12. imprime la bellezza sua nelle città intere, - 13. nel l'intera patria d'una
nazione, — 14. per ogni luogo di es sa; 15. e si distende a tutta la terra
civile, com' efligie inica dell'incivilimento. 16. Conclusione. S ulura. Che
cosa è la scultura. - 2. Principale soggetto al l'arti figurative si è
l'aspetto umano. - 3. Più proprio della scultura è la relazione de' lineamenti
con la vita interiore, anziché dell'uomo con la natura. -- 4. Indi all'arte
sculto. ria il colorito e accidentale, ec. - 5. Nè la scultura di tutto rilievo
ha paesaggj, che ristretti son' anche nel bassorilievo: - 6. è limitata nel
figurare animali; --- 7. e anche ne'gruppi di ligure umane. - 8. Soggetto più
proprio alla scultura ė la bellezza umana del corpo, e in essa si comprende la
fisio. logica e la fisica. 9. E perché si dica ciò della scultura piucchè della
pittura, distinguendo tra figura e forma. - 10. L'unità intera della immagine
umana comparisce nella scule tura solamente. 11. Divario i'ra le due arti nel
nudo e ne' panneggiamenti. 12. Limiti posti dal pudore. 13. Qual sia -dunque
l'idea esemplare dell'arte scultoria, 14. E come bisogni evitare ia essa,
piucché nella pittura, il freddo ed il
generico; -- 15. ma senza cascare nei vizj opposti, 16. Conclusione. Pittura....
Pag. 395 1. Che cosa è la pittura. – 2. Idea che serve d' esemplare alle
immagini ed a'segni di quest'arte, cioè armonia fra l'uomo e la natura
esteriore, come rilevasi dal colorito; 3. e perciò dalla figura colorata e dal
prospetto aereo. - 4. Magistero essenziale della pittura è il colorito; – 5. ma
non contraſfacendo i rilievi della scultura, 6. nè gareggiando con le cose
reali pe' colorie per gli splendori, 7. nė pe' se goi di vitalità;
gareggiamento impossibile, - 8. e dannoso; 9. bensi eleggendo que' segni che
sveglino i sentimenti nell'anima nostra, come le cose di natura sogliono. 10.
La pittura è visione di fantasia. 11. che splende in gen tilezze d' ornamenti,
e in paesaggj. 12. e ne segni del con • versare umano, 13. e nell'unione
verosimile di più tempi e luoghi, 14. e nel simboleggiare affetti sovrammondani.
15. Conclusione. 16. Utilità di tutte l' arti del dia segno. Musica. Che cosa è
la musica. 2. Qual n'è l'idea regolatri ce. Relazione de' suoni col sentimento
umano. 3. Ragione anche fisiologica di tale attinenza. 4. E indi attinenza
principale di quest'arte con la voce umana. 5. Ma la relazione de' suoni col
sentimento é indefinita, 6. e però la musica può indefinitamente significare
ogni affetto. 7. Esprime e incita direttamente l' esaltazione degli af. fetti,
8. e viene usata per significare più vivo l'esalta. mento comune alla poesia ed
all' arti del disegno. 9. Ciò apparisce altresi dal significato universale
d'armonia. 10. Però idea suprema e reggitrice della musica è, ch' essa renda
immagine dell' esaltazione di ogni affetto umano. La quale idea si determina
nel concetto de' componimenti varj. 11. onde nasce la musicale unità, – 12. e
l'invenzione di una frase principale, 13. che si svolge. - 14. Errori sulla na.
tura della musica. Sensisti e Positivisti assoluti, - 15. Sen timentali,
Aritmeticanti, Retoricanti. 16. Conclusione. CAP. L. Unione fra tutte l’ Arti
del Bello... 434 1. Danni del separare l' Arti, e argomento. 2. Unità d'
obbietto, di soggetto e di potenza prevalente nell' Arti del Bello. 3. Perfezionamenti
loro successivi, e legge di que sta successione. - 4. Si risolve una difficoltà.
5. Prima si perfezionò la poesia; 6. indi l'architettura; - 7. poi la scultura,
e poi la pittura; — 8. Apalmente la musica. 9. Aiuto che si porgono l'Arti;
quale la poesia? – 10. quale l'architettura, 11. l'arti figurative, - 12. la
musica? 13. Si conferma l'unità essenziale dell'Arti fra loro. -- 14. Ri torno
del pensiero alle cose ragionate; 15 e 16. indi con clusione generale.
DIALETTICA. La Filosofia e i Concetti universali. Idea della Filosofia. Che
cosa è la Filosofia? È scienza del
pensiero, ma del pensiero in atto di vita, e non soltanto delle leggi logiche
astratte; e però è Scienza della coscienza e dello spirito; Scienza degli
oggetti connaturali al pensiero, e però di Dio, dell'universo e dell'uomo;
Scienza, per tanto, delle somme cause, dell'ultime ragioni e de' primi prin
cipj; Scienza, poi, della conoscenza, della scienza e della verità. Perciò
nell'idea di relazione s ' appuntano i quesiti tutti della Filosofia; e ivi
troviamo la sua più alta verità. Talchè la Filosofia e Scienza di Dio, del
mondo e del l'uomo nell'ordine loro uoiversale; o, più breve, Scienza delle
relazioni upiversali; e siccome queste forman l' ordine, dunque altresì Scienza
dell'ordine universale. Come in ogni
altra Scienza, cosi nella Filosofia si ha perfezionamento, levandosi a un'idea
superiore. - 12. Questa è l'idea di relazione. - 13. Ciò richiede la tendenza e
il bisogoo de' postri tempi. – 14.Im portanza della Filosofia; danni d'una
Filosofia separativa. Vantaggj d’una Filosofia comprensiva. 16. Sunto. La
Verità.... 1. Perché dobbiamo esaminare l'idea universale di verità. 2. La
verità è sempre entità conosciuta. – 5. La verità è ordine d'entità conosciuto.
- 4. Si procede relazione in relazione. L'unità dell'oggetto conosciuto si
comprende, si distingue, 6. si riupisce di nuovo. - 7. Però gli Antichi dissero
che la verità è pei giudizj. - 8. L'errore perciò sta nel vedere l'oggetto da
una parte sola, e quindi nel travedere, 9. come si rileva degli errori
metafisici; - 10. nello Scet ticismo medesimo, e negli errori morali e delle
Scienze fisiche. 11. Sicchè l'errore confonde, separa, nega. 12. Jadi
spieghiamo il progresso della scienza e della civiltà, 13. o il regresso; 14.
le invenzioni e le scoperte. – 15. esame dell'idea di verità ci mostra il
costrutto semplice degli Univer sali, presupposto da ogni conoscenza. - -
L'Entità. Pag. 1. Si comincia dalla nozione d'entità. — 2. Che cosa sono gli
universali, - 3. Tre ordini d'universali: gli analogici, 4. gli attributi
metafisici, e le condizioni universali del creato. - 5. L'uoiversale si è in
ogni cosa e presentasi all'intelletto. - 6. L'idea d' entità primeggia fra gli
universali. La esami Darono gli Antichi, – 7. i Padri, il Medioevo, e la
Filosofia moderoa. 8. Non possono farne a meno anche gli Scettici e i
Soggettivisti. 9. Questa idea non può pegarsi. Ma esaminandola, bisogna evitare
tre difetti. - 11. Si tripartisce: idea dell'essere comunissimo, - 12. idea
d'essenza, - 13. idea d'esistenza; – 14. com' apparisce anche da' linguaggi,
15. e dall'antica dottrina sull'essere e sulla possibilità, ch'è di tre specie.
- 16. Conclusione. L'Ordine dell'entità.... t. L'idea d'ordine si distingue
nell'idea di relazione, d'atto della relazione e di correlazione. 2. Che cosa è
la relazione? L'esperienza ce la mostra ovunque. 3. Ogoi en tità è un tutto di
relazioni, benchè, quando si tratta di cosa fioita, non essenziali. Ciò si
rileva dal concetto d' essere, - 4. d'essenza e d'esistenza. – 5. La relazione poi
è, o intrinseca, - 6. od estrinseca (cioè ad intra, o ad extra ). – 7. Ogni
relazione si è atlo; anche le attineoze ideali o di ragione. - 8. Conie si
procedè per giungere a questa universalità dell'idea d'allo. Gli Italioti,
gl’lonici, Platone; 9. Aristotele; 10. i Padri, gli Scolastici, e il Cartesio;
11. il Leiboitz e la Fisica nioderna. 12. Correlazioni. Unità e triplicità in
ogoi cosa. -- 13. Dottrine aptiche su ciò. - 14. Il Dogma cristiano della
Trinità. - 15. Le correlazioni spiegano la legge universale de' simili e de'
contrapposti, 16. Conclusione. l conoscimento dell'Ordine.. 1. Nel conoscimento
dell'ordine si distingue il Vero, il Bello ed il Buono, distinta la triplice
relazione della Verità col l'intelletto, benchè io significato generalissimo
ogoi relazione col nostro conoscimento sia Verità. 2. L'universalità del Vero
corrisponde ai gradi dell' essere; e come li notarono già i Filosofi. - 3. Cose
non animate; 4. cose animate; 5. gl'intelletti, ove la presenza dell'entità è
manifesta. 6. La verità è relazione dell'entità con gl’intelletti, cioè
intelligibi lità. Che cosa è la Bellezza, cioè l'ammirabilitd, con trapposta al
Vero. Suoi gradi, 8. ne' corpi non animati, Degli animati e negl'intelletti. 9.
Che cosa è il Bene, cioè l'amabilità. Suoi gradi, — 10. ne' corpi, negli
animali e nella mente, 11. Assioma che deriva dall'esame degli universali, -
12. e loro convertibilità mutua; – 13. la quale si manifesta nella scieoza,
nell'arte e nella vita, perché il Buono conduce al Vero ed al Bello, - 14. e il
Bello conduce al Vero e al Buono. -15. Nell'esame degli universali analogici
abbiamo riscontrato le distinzioni già fatte dai Filosofi antichi e recenti. -
16. Conclusione, e come il Bello morale sia l'accordo del Vero, del Bello e del
Buono. Attributi metafisici correlativi e Idea di Dio. Pag. 101 1. Esamedegli
attributi metafisici, al quale ci porta l'esame degli universali analogici. —
2. Che cosa s'intende per attri buti correlativi metafisici. 3. Idee di questi
attributi, tro vate nell'idea d'entitd; 4. trovate nell'idea d'ordine dela
Ľentità; - 5. trovate nell'idea di conoscimento dell'ordine. - 6. L'idee degli
attributi metafisici correlativi, e l'idea di Dio, non sono correlazioni
astratte; - 7. nè limiti soggettivi; - 8. nè un ideale soggettivo; 9. nè,
d'altra parte, sigoi ficano che Dio sia il grado supremo degli esseri; – 10. nè
la parte o il tutto; 1. nè Pessenza o la sostanza delle cose contingenti. – 12.
La correlazione degli attributi metafisici viene rappreseotata dall'idea del
possibile fra l'idea d'Eote e l'idea d'esistente, o dall'idea d ' indefinito
fra quelle d'Infinito e di finito. - 13. La correlazione stessa fu pure
significata dal Gen tilesimo, 14. da' simboli suoi più notevoli, 15. e dalla
simbologia naturale. - 16. Conclusione. Cap. VII. Idea di Creazione.... 121 1.
Possibilità razionale della creazione. - 2. Vi ha nel pensiero umano questa
idea dell'atto creativo, cioè di Causa prima. — 3. L'idea di causa si distingue
dall'idea di sostanza; 4. e si riferisce ad un che, il quale comincia dal nulla
quanto all'esistenza, benchè non quanto alla potenza; 5. si riferisce, poi, ad
un termine distinto essenzialmente dalla cau sa, o ad extra. - 6. Più vera e
più potente fra tutte le cagioni è l'intellettiva. 7. La Causa creatrice si
distingue dalle cause naturali, perchè alla totalità delle cose preesiste la
pos 8. perchè il soggetto, cioè la sostanza, si produce ad estra; 9. e perchè
avvi efficienza intellettuale assoluta: - 10. opde la Causa creatrice fu
chiamata Verbo ia tutte le Tradizioni sacre, e il mondo è arte di Dio; -11. la
quale produce una somigliaoza divina nell'universo, mentre Dio non somiglia i
finiti e li trascende. Gli errori e i dubbj sul dogma razionale di creazione
nascono dalla fantasia, - 13. e dallo sdegoare il mistero, comune ad ogni
causalita; 14. sicchè gli errori provocarono lo svolgimento del Teismo nell'età
de' Padri e de' Dottori, 15. e dell'età della Riforma e del Rinnovamento. - 16.
L'idea di creazione ba tanta importanza, sibilità pura; - perchè risguarda la
Causa universale. CAP. VIII. Idee relative all'Entità della Natura....... 143
1. Argomento; le condizioni dell' entità: Prima condizione della natura, per
l'essere suo, il quanto; 2. che si distia. gue nell'unità, 3. nel numero 4. (che
non può essere infinito), 5. e pella unione delle unità. 6. Condizione seconda
per l'essenza, il quale; - 7. che si distingue nella varietà, 8. nella
contrarietà, 9. e nella somiglianza;. 10. più notevoli dove la oatura è più
alta. - 11. Terza condizione per l'esistenza, il quando; 12. che si distingue
nel momento, -13. nella successione, - 14. e nella durata; - 15. non
predicabili dell' Eternità. 16. Conclusione. il pine. - Idee relative
all'Ordine della Natura....... Pag. 1. L'ordine della natura viene dall'
attinenza della crea zione, 2. La relazione delle cose create ci dà la
dipendenza, o derivazione; 3. ossia la sostanza, - 4. la causa, 5. e l'essenza
reale. - 6. L'Atto delle cose ci dà il come (quomodo); – 7. ossia il principio,
8. il mezzo, 9. e 10. Le correlazioni delle cose ci dàono il dove, che può
essere correlazione ancointellettiva, 11, e correle zione materiale; - 12.
ossia il punto, - 13. Y estensione particolare, 14. e lo spazio, 15, che non
può essere infinito, ma è nell'infinito; 16. e il sublime si origina da cið.
Cap. X. Condizioni naturali del conoscimento...... 1. Criterio della conoscenza;
ove si riscontrado: l'oggetto ideale, – 3.6. l'idea, - 4. che ci fa conoscere
il si mile per ilsimile, 5. (onde si spiega la formazione dell'idee universali,
e la conoscenza delle cose esteriori, 6. di noi stessi, degli altri uomini, -
7. e di Dio), - 8. c. il senti mento, in relazione del quale ogoi cosa dicesi
un fatto, ed esso medesimo ha questo pome. 9. Forma del bellezza; - 10. e qui
si riscontrano: la cosa formata, 11. l'idea esem plare, 12. e il gusto. - 13.
Legge del bene, ove si ri scontra il bene oggettivo, - 14. la felicità, - 15. e
l'utilitd. - 16. Conclusione. Divisione della Filosofia e Arte dialettica. L'Enciclopedia....
1. Per determinare i quesiti della Filosofia, bisogna ve. dere le sue parti e
l'Enciclopedia o l'albero del sapere umano, Ordine di formazione, ordine di
logica dipendenza. Criterio armonicamente oggettivo e soggettivo per trovare la
distiozione dello scibile e l'ordinamento suo. Quattro classi di conoscenze:
onde vengono la Teologia positiva, la Filosofia, le Matematiche e la Fisica. 6.
Parti della Fi losofia universale. - 7. Filosofie particolari e applicate. 8.
Matematica. - 9. Fisica. - 10. Storia sacra, umana, na turale. – 11. Arti
filosofiche, matematicofisiche e storiche. 12. Tradizione perenne dell'
Eociclopedia. – 13. Errori che la guastano. Pericolo dell'Enciclopedie a
dizionario, le quali spezzano la continuità del sapere. - 15. Divisione della
Filosofia in tre parti: la Dialettica, l' Estetica e la Morale. - 16.
Conclusione. La Dialettica. Che cosa è la Dialettica. È quasi un dialogo.
Esemplare unico dell'Arte logica è la natura, -se no e s'op v'è ignoranza. L'Arte
logica è osservazione di natura, - 6. se oo avvi leggerezza, impazienza e
preoccupazione appas sionata. È imitazione di natura, 8. se no avvi artifi cio.
– 9. È inveozione ordinativa, pop oggettiva, - 10. se no avvi l'assurdo. - 14.
È per fine di verità, - 12. se no si confondono l ' arti, che per altro s'
accordano e s ' aiutano. 13. La Verità, com'oggetto dell'Arte logica, viene
deter minata dalle operazioni di questa, - 14. e però è ordine d'en tità
ripensato, 15. ragionato, — 16. e significato. La Critica interiore vera e la
falsa........ Pag. 251 1. La Critica suppose un Criterio, che paturale cono
scenza porge alla riflessa. - 2. Il bisogno di Critica interiore viene dal
bisogno di cercar l'origini dell'errore, e dall'altro di sceverare nelle
cognizioni la parte oggettiva e la soggettiva; - 3. e però è antichissima;
benchè a questa si contrapponesse Ja Critica eccessiva. 4. Esempj dell'una e
dell'altra nel Cartesio e nel Kant. 5. Principiare dal dubbio universale non si
può; e questa è critica smodata, o fuori di natura. 6. La riflessione
filosofica deve cominciare dalla ignoranza filosofica, piuttostochè dal dubbio
metodico. 7. Però la Critica eccessiva non può condurre alla scienza; pone,
qualunque sia l'intenzione de' Critici, alla virtù; 9. è causa di desolazione,
- 10. o di misera indifferenza. 11. Jovece per la Critica razionale s' afferma
il oaturale co noscimento, 12. la forma di questo e la materia; 15. cioè la
forma naturale in relazione con gli oggetti, e la realtà degli oggetti stessi,
che costituiscono la materia necessa ria o coboaturale del pensiero. · 15.
Postulati della Critica - 16. Ogni operosità viene impedita dal Criticismo.
Cap. XIV. Verità connaturali al pensiero umano. 272 1. Tre requisiti delle
verità connaturali. – 2. Esistenza di noi stessi. - 5. Errore del Kant e de'
Positivisti, - 4. e loro confutazione. 5. Si riscontrano i requisiti della
conoscenza naturale nella coscienza di noi stessi. – 6. Notizia del mondo
esteriore, – 7. e dell'ordine suo. — 8. Opinione del Kant e de Positivisti, 9.
e loro confutazione. - 10. I requisiti della conoscenza naturale si trovano
nella notizia del mondo. 11. Idea di Dio. - 12. Opinione del Kapt e de'
Positivisti. 13. Confutazione, 14. Si riscontrano nell'idea di Dio gli stessi
requisiti o spontaneità, - 15.inconvertibililà e insepa rabilità. Da queste
notizie di noi, del mondo e di Dio risulta la sostanziale totalità della
coscienza. 16. La Filosofia non può disconoscere questa materia del pensiero e
della scienza. Armonia tra le forme della conoscenza e le cose. 294 1. Che cosa
è la forma. – 2. L'armonia tra le forme del conoscimento e gli oggetti, onde
provenga. 3. Apparenza sensibile, - 4. corrispondente agli oggetti percepiti; –
5. e quindi si fece da Galileo e poi dagli altri la distinzione fra le qualità
primarie de' corpi e le secondarie; - 6. talchè verifi chiamo che l'apparenze
sensibili son segoi reali, realmente vera. - . corrispondenti alla realtà delle
cose. -7. Aoche le apparenze, che dano'occasione d'inganno, procedono da leggi
di natura. - 8. La vista ci dà i segoi apparenti delle distanze. – 9. For me
intellettuali, corrispondenti all'entità e verità delle cose, ue' concetti, -
10. ne giudizi, -11. e oei raziocioj. 12. Armonia tra il conoscimento di ciò
ch'è o avviene deotro di noi, e il conoscimento di ciò ch'è fuori di noi: per i
segoi del l'anima del corpo; – 13. per l'analogie fra l'anima l'uoj verso; -
14. per l'intendimento delle qualità e delle condi zioni d'ogoi cosa esterna; e
per la conoscenza di Dio. 16. Conclusione. Principj armonici della ragione...
Pag. 318 1. Che sono i principj universali della ragione. — 2. Na scono dalle
idee universali, e s'ordipano com'esse. -3. Prima classe, corrispondente agli
universali analogici. Per l'entitd si distinguono più principj, riflettendo all
' idee d' essere, 4. e all' idee d'essenza e d'esistenza. 5. Per l'ordine del
l'entità, si distinguono, riflettendo all'idee di relazione, 6. di atto della
relazione e di correlazione. - 7. Per il cono. scimento dell'ordine, si
distinguono, riflettendo all' idee del Vero, – 8. del Bello e del Buono. – 9.
Seconda classe, cor rispondente agli attributi metafisici correlativi. – 10.
Terza classe, corrispondente alle universali condizioni della Datora fioita. Si
hanno: Per l'entità di questa, i priocipj di quantild, di qualità e di tempo;
11. per l'ordine della natura, i principj di derivazione o dipendenza, - 12. di
modalità e di confinazione o del dove; – 13. per il conoscimento dell'or dine,
com ' esso è negl' intelletti creati, i principj che risguar dano il criterio
della verità, la forma della bellezza e la regola del bene. In che stia
l'utilità de' principj uni versali. Due opinioni estreme ed erronee: l' una che
li Dega, l'altra che li reputa generativi di tutto il conoscimento. - 16.
Conclusione. L'Osservazione...... 340 1. Materie da trattarsi. — 2. Atteozione.
- 3. Osservazio ne. – 4. Riflessione. - 5. Si verifica ciò nelle verità d'espe
rienza esteriore, cosi per Arte logica naturale, 6. come scientificamente. 7.
Si verifica delle verità di esperieoza interiore, cosi per suggerimento di
natura, 8. come per la Scienza. 9. Si verifica delle verità intellettuali pure,
10. cioè negli universali della Metafisica e delle Matematiche. 11. Si verifica
nelle conoscenze ricevute dall'autorità, 12. e ipdi vien la Critica, 13. Lo
stesso aodamiento si vede nel procedimento storico delle Scienze. -44. Idem,-15.
Anche nel procedimento della Letteratura. 16. E anche nell'Arte pedagogica.
Metodo che imita la Natura...... 1. Che cosa è l'imitazione dialettica: parte
sostanziale del metodo. 2. Sintesi primitiva. – 3. Analisi. - 4. Sintesi 541 -
secondaria. 5. Legge dialettica. 6. Il metodo allora è quasi un contrappuoto
musicale. -7. Però non può essere nè solameote analitico, nè solamente
sintetico. 8. Difetti del Puno e dell'altro, - 9. Il metodo compreosivo gli
uoisce. 10. Contrarie inclioazioni di ogni età verso l'analisi eccessiva o la
sintesi eccessiva. 11. Esempio del Gioberti. - 12. Il vero metodo è
propriamente dialetlico o dialogico. 13. Sua utilità nelle Scienze; 14. nell'
Arti del Bello, - 15. e nel ” Arti del vivere civile.. 16. Conclusione. L'invenzione
dialettica..... Pag. 381 1. Che cosa è l'invenzione scientifica, o che cosa è
la Scienza com'ordine meditato di conosceoze, - 2. Si comincia dalla
comprensione dell'oggetto per una definizione nominale; - 3. poi si viene
all'analisi con la divisione, – 4. con la tési e con l ' antitesi, con la prova
dall'assurdo, e con l'elimina zione; - 5. fochè si giunge alla definizione
dialettica, che può essere o intrinseca o per via disole relazioni. Poscia,
passando alla sintesi, abbiamo l'ordine induttivo e il dedatti 7. Tutto questo
mirabile ordinamento è una ricerca delle ragioni, e uno spiegare per esse; oode
gli Antichi dis. sero che saper vero è un sapere per le cagioni; - 8. cioè per
principj; - 9. e questo s'avveranella teorica degli universali, - 10. e nella
Scienza dell'uomo, dell'universo e di Dio; s'avvera nelle Scieoze civili e
storiche; Delle Matematiche, e nella Fisica. Indi si spiega l'invenzione degli
stromenti e delle macchine; 15. come altresi la ipotesi e l'intuizione
dottrinale. 16. Supto. vo. – IL FINE DELL’ARTE DIALETTICA. Argomento. Connessione logica. Che stato der
essere quello di chi cerca la verità, e DIFETTI CHE BISOGNA EVITARE. Si può
errare io ciò per leggerezza, o per una
preoccupazione. CHIAREZZA e difetti da evitarsi. Errori che procedopo da
leggerezza, e da preoccupazione,
prendendo per chiaro ciò che non è. Certezza; e difetti evitabili; badando
anche ip ciò di non errare per leggerezza d' assensi e per qual che
preoccupazione, stimando che sia certo l'incerto, e vice Connessione, chiarezza,
certezza, non possono realmente trovarsi che pella verità. Si concbiude: che
fine d'ogoi Scienza, e perciò anche della Filosofia, non è di dare a noi, quasi
mancanti d'ogni ragionevole conoscenza, un primo conoscimento della verità, si
l' ordine riflesso della co gosceoza e della verità: e poi, che L’ARTE
DIALETTICA È ALTRESÌ UN ABITO MORALE; e ancora, che L’ABITO DEL PARLARE meditato giova molto all'ordine del pensare
RAGIONATO E RETTO versa.. I Criterj della Verità o Leggi universali della
Dialettica. L'Evidenza, o il Criterio della Verità. Argomento, e qual sia il
disegno della Dialettica, e qual ragione v'abbia di trattare qui de Criterj; e
dottrina loro semplicissima. Il Criterio è uoa regola, perch'è un segno della
verità in relazione con l'intelletto. Non può negar si, fuorchè negando la
conoscenza; non può travisarsi, fuorchè da' sistemi sostanzialmente falsi; e vi
ha una dottrina costante sulla natura del Criterio. Il Criterio è un segno
apparte nente all'ordine della verità, ed è universale. II Criterio, perciò, è
l ' evidenza dell' ordine di verild; è quindi uno e moltiplice, ossia è un
ordine di Criterj; perch'è l' evidenza dell'ordine di verild in sè stesso, e
ne' suoi contrassegni universali; cioè coutrassegni d'amore e di fede, perchè
l'ordine della verità corrisponde all'ordine della nalura umana. Il Criterio
vale altresi nelle cognizioni anteriori alla Scienza, 10. nè la Scienza può
disco noscerlo. 14. Nella Scienza, poi, l'evidenza precede il ragionamento,
l'accompagna, e lo compisce. 12. Nella Filosofia, l'evideoza del Criterio
naturale si converte in evi deoza scientifica; non già perchè si comioci dal
dubbio; anzi non può cominciarsi da esso, perch'è un riconoscimento. – 13.
Criterio della Filosofia è l' evidenza dell'ordine universale;. 14.senza di che
quella è fuor di natura. - 15. Criterio delle altre Scienze è l' evideoza d'un
ordine particolare; ma in essa i Criterj sccondarj bao solo un ufficio
indiretto e più ristretto. L'evidenza del Teismo, come di verità ordinatrice o
di Criterio supremo.... 1. Perchè la verità di Dio creatore sia Criterio
compren sivo alla riflessione. 2. La Scienza de' limiti è scienza ne cessaria;
e il Teismo ci avverte de' nostri limiti. 3. Questi sono la natura stessa
dell'intelletto e delle cose. 4. Soprin telligibile, soprannaturale, 5.
intelligibile: 6. la verità di creazione fa serbare questi limiti, e spiega il
perchè del sovrintelligibile divino, –7. del sovriptelligibile naturale, 8. e
ci rende liberi e sicuri nello studio delle cose intelligibili, che sono
inesauste a mente umana. - 9. Quindi essa rende soddisfatto qualunque bisogno
dell'uomo, e ordina le Scienze che si riferiscono a' bisogoi stessi. Teologia
positiva, - 10. Filosofia, Matematica, — 11. Fisica, 12. Filosofia della Sto
ria, Filologia e Critica. Quel Criterio spiega la legge del progresso in
Filosofia e il regresso sofistico. – 14. I siste mi, opposti alla verità di
creazione, ristringono la conoscenza riflessa, 15. e poi l'apoientano. - 16.
Conclusione. Sistemi opposti al Criterio della Verità, e pri mieramente il
Panteismo.... Pag. 472 1. Argomento. - 2. Contradizioni del Panteismo, e pro
posito di affermare le contradizioni.- 3. Panteismo orientale, 4. pitagorico, -
5. eleatico ed ionico; - 6. degli Ales sandrini e Gnostici, - 7. che
difendevano il Paganesimo; 8. de' Reali nel medioevo, – 9. e dell'altre Sètte;
- 10. del Bruno e del Campanella 11. (sterili, se paragonati al Car tesio ed a
Galileo ), · 12. dello Spinosa (non paragonabile alla fecondità del Leiboitz),
- 13. de' Panteisti tedeschi, 14. e de' loro discepoli. 15. Verità grandi, che
balenano dal Panteismo; 16. il quale, bensì, le travisa, e però nega i fatti
più sublimi della coscienza. II Dualismo. 493 1. Argomento. - 2. Io che il
Dualismo è peggio, e in che meglio del Panteismo? 5. Dualismo fra gl' Indiani.
4. D'Anassagora, - 5. di Platone, -d'Aristotele, 7. degli Stoici. - 8. Dualismo
tra certi Filosofi maomettani. 9. Dualismo nella Cristianità del medioevo; 10.
e come le tracce del Dualismo antico si trovino anche ne' Dottori scola stici;
- 14. talchè se n'occasionava, ne' tempi della Riforma, up Dualismo nuovo, non
antiteistico, macosmologico e antro pologico. Cartesio; – 15. ed effetti delsuo
Dualismo, segnatamente nel Malebranche, - 14. e nel Leibojtz; 15. o anche
nell'Idealismo, nel Sensismo e nello Scetticismo poste riori. 16. Il Dualismo
riduce i contrarj a contradittorj, - talchè rompe ogoi armonia. L ' Idealismo e
il Sensismo.... 515 1. Differenza fra l ' Idealismo e il Sensismo. 2. Cenno
storico di questi sistemi. – 3. Io che propriamente consiste l ' Idealismo (e
sbaglio d' alcuni moderni), e paragone con gli effetti del Sensismo. - 4. Vizio
principale degl ' Idealisti. 5. Nel Sensismo la coscienza umana non riconosce
sè stessa; 6. non l'intelletto, essenzialmente diverso dal senso; - 7. non - 8.
non l'idealità; 9. non la riflessione sopra di noi; 10. non la religiosità; 11.
non la certezza nella cogoizione de' corpi; 12. non la Filosofia; si solamente
la Fisica, - 13. ma falsata e con metodi non suoi. - 14. E sono alterate anco
le Matematiche, - 15. com' altresi la Sto ria. - 16. Sunto. Lo
Scetticismo. Argomento. 2. Scetticismo nell'Asia e fra gl ' Italo greci; - 3.
nell'età Socratica e del medioevo; 4. nell'età moderna. – 5. Eclettici e
Mistici, che non riparano allo Scet ticismo, dacchè gli concedono di partire
dal dubbio. – 6. Idea Jismo scettico e Sepsismo scettico. 7. Razionalismo, 8. e
Positivismo; – 9. e quindi Scetticismo metafisico, antimetafisico, - 11. che
bensi trova la Metafisica per tutto. – 12. Come la natura repugoi dallo
Scetticismo. 13. Con seguenze principali di questo. Desolazionee scherno. - 14.
Dif ficoltà pelle controversie, o Dommatismo scettico; abito di giudicare de'
fatti umani da sole circostanze esteriori. 16. Lo scetticismo riduce a nulla il
pensiero. 10. e 15. e L'Amore della Verità... 22 4. Che cosa è nell'ordine suo
pieno il Criterio? Condizioni intrinseche ed estrivseche per la conoscenza
della Verità. 2. Sentimento e amore. 3. L' affetto è conoscenza e la cono
scenza è affetto. -- 4. Bisogna secondare con la libera riflessione il naturale
affetto. 5. Come l'affetto della Verità dia im pulso al ragionamento,
l'accompagni e lo assicuri, e perciò bi sogna guardare a quell'impulso, 6. a
quella compagnia e a quel riposo; - 7. e sbagliarono tanto i Sentimentali, che
di visero l'affetto dall'evideoza; 8. quanto gli Astratteggian ti, che separarono
l'evidenza dall'affetto. 9. Ufficio del l'amore di Verità nelle Matematiche ed
io Fisica. - 10. Ufficio di quello in Filosofia, il quale altresì ci mostra gli
affetti con naturali, che corrispondono agli oggetti della Filosofia stessa; -
11. cioè l'amore di noi medesimi e degli altri uomioi, 12. l'ammirazione
affettuosa per l'ordine della natura 13. e gli affetti religiosi. – 14. Quello
è anche Criterio degli Studj critici, storici e teologici. – 15. Nelle passioni
l'affetto patu rale può facilmente riconoscersi. – 16. Per l'affetto la scienza
si converte in sapienza. salità; Il Senso Comune... Pag. 1. Quando la parola
serve di Criterio? - 2. Che cosa è il Seoso Comune? Due sigoificati di esso, -
5. dal separare i quali vennero due opinioni false, · 4. Limiti del Senso Co
mune:. 5. i principj, 6. le immediate percezioni, 7. e le immediate conclusioni.
8. Ufficio diretto e generale del Senso Comune in Filosofia; non cosi
nell'altre Scienze, 9. fuorchè dov'esse s' uniscono alla Filosofia stessa. -
10. Obie zioni sull'esistenza del Senso Comune, per la contrarietà delle
opinioni. Obiezioni contro la testimonianza de' Lioguagej al Senso Comune, per
la supposta indifferenza de' vocaboli al si e al no; – 12. per il materiale
significato primitivo di parole che ricevevano poi un sigoificato spirituale.
13. Obiczioni sulla ragionevolezza d'usare il Senso Comune a Criterio, qua
sichè questo sia credenza, non evidenza; - 14. quasichè vo gliamo reputarlo sapienza
o scienza; 15. quasichè occor resse interrogare tutti gli uomini.. 16. Sunto, e
necessità di ricondurre le Scienze alla natura, come le Arti del Bello.
Tradizioni e progressi nelle Scienze... 1. Criterio delle Tradizioni
scientifiche. 2. Due siguifi. cati del vocabolo Scienza. – 3. Dobbiamo
verificare l'univer 4. distinguendo i principj, i teoremi, i problemi, e gli
errori. 5. L'unità del consentimento non toglie la libera varietà. -6.
Consentimento e progresso pe' principj e ne' teo remi, -7. e ne' problemi. – 8.
Le Sètte son dimezzatrici della Verità; 99.. eppure confermano i teoremi, 10. e
son’oc casione di progresso, mostrando i mancamenti della Filosofia, 11.
perfezionandone la forma, 12. e alcune dottrine particolari, - 13. e le loro
conseguenze nelle dottrine de'Fi losofi. – 14. Nascono due opinioni false: cioè
i sosteoitori della sola evidenza privata; – 15. e i sostenitori del solo
criterio storico. - 16. Conclusione. Relazioni fra le Scienze e la Religione.....
1. L'argomento, che ora si tratta, è Glosofico di sua na tura, – 2. Due
significati della parola Religione. - 5. S'esclu de: che la Filosofia debba
ricevere l'autorità senz' uo motivo evidente di ragione; – 4. che, per l'esame,
debba sospendersi la Fede; 5. che l'autorità del verbo religioso sia un Crite
rio diretto per ogni Scienza; - 6. che la Filosofia debba en trar pe' Misteri,
o la Teologia nel ragionamento filosofico; – 7. che sia lo stesso metodo e lo
stesso fioe a’ Filosofi e a' Teologi. - 8. Nel fatto, l'efficacia delle
Religioni è universale sopra i sistemi filosofici; 9. e sempre la Religione s’
è reputata upa Fede; 10. Criterio è poi, se corrisponde alla coscienza; 11.
talchè sia un'evidenza e una credenza, cioè una credenza evidente. · 12. Fa
quasi specchio all' uomo interiore, - 15. che riconosce l'integrità dell'essere
suo io quella. 14. Gra vissimo errore del negare validità razionale lenza non
filosofica. 15. Il Criterio religioso sublima l'animo e lo ràs. serena,
porgendo così le due condizioni necessarie d'ogni me. ditazione più alta. 16.
Sunto. Leggi speciali della Dialettica. oi. - - Dell'Ordine, come suprema Legge
razionale. Legge suprema razionale.
Leggi concrete o datu rali, Legge soprema è l'ordine. Unione de' termi.
Cercare questa unione, rispetto agli oggetti, pelle operazioni, cosi dell'Arte
bella e dell' Arte buona, come dell'Arte dialettica. Cercare la somiglianza de'
ter mioi, – le loro differenze, e le
loro contrarietà, escludendo i contradittorj. Ksempio tolto dalla teo rica de'
Criterj. Errore, deformità, male, sono disor dini. Ogni errore non altro è, che
da una parte soltanto risguar dare la verità, segregandola dal resto che le
appartiene, e senza cui non è più verità. - Gli errori e il male cadono d'ec
cesso jo eccesso. Meraviglie della ragione umana, che imita l'ordine della
natura interiore ed esteriore. Coo clusione. Ordine dell'idee Ripensamento
dell'idee. L'idea, del suo valore intimo, è sempre vera; quantuoque altresi per
idea s’in. tenda lutto ciò che con la riflessione s'afferma e nega; e allora
l'idea può essere falsa. Bisogna esaminare il positivo del l'idee; nè può darsi
un'idea negativa per sè medesima. 6. Poi bisogna esaminare l'ordine dell'idee
con gli oggetti, e come non possiamo pegar l'idea d’un oggetto, se igooriamo la
sua intima essenza, nè possiamo negare l'idea d'un fatto, se ignoriamo il
comeavviene il fatto, ec.; e bisogoa esa minare qual sia la natura dell'oggetto,
coocepita per mezzo dell' idee. - 8. Idee a priori e a posteriori? L'idee hanno
fra loro uo ordine cbe va riconosciuto; 10. talcbè, riflettendo a quello, si
formano idee distinle, adequale, chia -A1. e ci leviamo all'idea perfetta.
Bisogna, in line, ch' esaminiamo la forma concettuale dell'idee, 13. la loro
estensione e comprensione, 14. onde riconosciamo l'unità 15. per la quale
l'idea è un esemplare unico di 16. Chi poo badi alla oatura dell' idee non può
intendere alcuni fatti maravigliosi della patura umana. Ordine della Memoria..
1. Argomento.La legge della Memoria è l'ordine stesso che regge l'idee. 3.
Associazione dell'idee. 4. Come possono in unità raccogliersi le varie
associazioni, notate da' Filosofi. 5. Quella medesima legge si distende al
richiamo de' fantasmi e de'segoi. - 6. E anzi, abbraccia tutte le facoltà,
concorrenti nella Memoria, 7. e unità naturale del. 8. e l'unità morale del
genere umano. — 9. Que st' ordine, ch'è legge della Memoria, diviene regola. È
neces saria l'attenzivce sull’idee e il raccoglimento. 10. Bisogoa 32 * re,
dell' idee, molte cose. ſaomo, - considerare la coonessione dell'idee e i segni
seosibili per facil. mente richiamarle. - 11. Inoltre, acquistar l'abito della
ri flessione sull'ordine de' giudizj e de' raciocinj, per il pronto discorso
scientifico. 12. Singolarmente quell'abito è neces sario per la Memoria delle
parole. 15. Tadi procede la pa dronanza dell'esporre. 14. Per l'uoità
coosapevole interna, occorre rammemorare il nostro passato. 15. Per unità
morale del genere umano poi, occorre la Tradizione, ch'è me moria. – 16.
Conclusione. Ordine de' giudizj.. Pag. 166 4. Argomento. 2. Co.ne dall'idee si
svolgono i giudizj; - 3. onde i giudizj possibili sono distinti da’ formati o
reali. - 4. Categorie, 5. oggettive e soggettive. 6. Perfezio oamento di questa
dottrina. - 7. Categorie oggettive, o se condo gli Universali; 8. Categorie
soggettive: 9. I. quanto alla forma concettuale dell'idee, giudizj universali,
ge nerali, particolari, singolari; - 10. II. quanto alle relazioni fra l'idee,
categorici, ipotetici, disgiuntivi, 11. problema tici, assertori, apodittici, -
12. diretti e comparativi, astratti e concreti, a priori e a posteriori, - 13.
analitici e sintetici; - 44.III. quanto alla forma de'giudizj, affermativi,
negativi, limitativi; 15. IV. quanto alla relazione di più giudizj,
equipollenti, convertibili, contradittorj, contrarj e subcontrarj. 16.
Conclusione; e come sia necessario, giudicando, solle varsi all'idea distinta,
chiara, adequata, e quindi perfetta, di ciò che meditiamo. Ordine del ragionamento..
186 1. Argomento. Regole. • 2. Legge dialettica. Idea media; e come il
raziocinio sia un giudizio complesso che si scioglie in tre giudizj. – 4.
Priocipio formale del raziocinio. - 5. Deduzione e induzione. - 6. Deduzione
dal simile al diverso. – 7. Induzione dal diverso al simile. - 8. La diffe
reoza tra il ragionamento deduttivo e l'induttivo, in che non può consistere? —
9. Qual'è duoque la differenza del ragiona mento deduttivo, 10. e
dell'induttivo? -Da essa viene la regola. 12. E, per opposto, dal violarla
vengono i sofi - 13. e si vedenel dedurre, - 14. e nell'indurre.: 15. Non deve
mai separarsi la 'regala formale dalla materia del ragionamento; - 16. oè la
materia di questo dall'ordine suo. C.: P. Utilità del ragionamento. 206 1.
Argomento. 2. Come deve intendersi che si procede dal noto all'ignoto? 5. Che
cosa troviamo di nuovo per via del ragionamento? 4. Deduzione; 5. in Fisica, in
Ma. tematica applicata; – 6. altre scoperte, – 7. per equipollen za,
conversione, opposizione, esclusione'; 8. deduzione per via di regole applicate.
– 9. Induzione, é sua certezza. --40. Induzioni fisiche. 11. Analogia. 12.
Ipotesi. – 13. In duzione metafisica. – 14. Due erroriopposti: l'uso di coloro
che immaginano la deduzione quasi generazione; 15. l'al tro di coloro che
negano il dedurre. 16. Conclusione. smi;
Unione e varietà de'Metodi. Argomento. 2. La verità, com ' ordine
conosciuto, si trasforma in Metodo: può vedersi dalla Storia della filosolia,
3. e delle Scienze fisiche; 4. talchè vana è la disputa se preceda l'importanza
de'Metodi o de principj; - 5. e quindi ancora si vede che il Metodo risguarda
il soggello e l'oggello, e ch'è psicologico ed ontologico insieme, 6. cioè
critico. - 7. Faria il Metodo; ma neile varietà c'è leggi comuoi. 8. Le varietà
poi derivano dalla natura dell'argomento, 9. taotoché riesce assurdo il
coofondere tra loro i Metodi; 10. e vba Scienze deduttive, 11. induttive,. 12,
miste; 13. più sintetiche, o più analitiche. 14. I Metodi, variando secondo la
varietà delle cose, diversificano pure secondo la mente di chi pensa la verità,
15. e secondo la mente di co loro, a cui la verità s ' espone. 16. Sunto. Abiti
necessarj al ragionamento Metodo è abito, e richiede: abito di virtù, abito
intellettuale che disponga l'intelletto all'Arte ragionativa, e abito
dell'Arte. Abito morale, cioè amore della Verità. Bisogna essere preoccupati
solo da questo amore; unito alle virtù morali, e come dagli abiti viziosi
opposti s' of feoda il ragionaiento buono. Abito intellettuale del rac
coglimento, donde nasce il diletto della meditazione, e che porta con sè
l'abito di badare all'armonia delle facoltà e delle dottrine, e di ordinare i
proprj studj. Abito intellettuale dell'Arte, cioè il possesso delle regole. 41.
e dell'ordine loro; 12 donde procede la necessità di tre atti razionali
abitualmente, cioè l'esame del pensiero del principio de' ragionamenti, a mezzo
e io fine; 13. il quale ultimo è importantissimo; 14. e indi viene il possesso
della ragione; 15. acquistato piucchè mai dall'esercizio della pewna e della
disputa; 16. purchè questa sia conveniente. L’ESPOSIZIONE. Iinportanza
dell'argomento, Ufbej della PAROLA: interno e SOCIALE. LA PAROLA s’unisce
strettamente al pensiero, ma non lo costituisce; bensi lo determina. Non
bastano i fantasmi, ma ci vuole IL SEGNO dell'idea, tanto più che IL DISCORSO
esterno aiuta con la successione sua la riflessione discorsiva. LEGGE
DELL’ESPOSIZIONE si è la legge dialettica; ossia determinare con la lingua
l'ordine del pensiero; il che apparisce anche da' nomi che si dànoo a'termio i
della proposizione e del raziocinio, e al congiungimento de' termini; e poi, la
bellezza dello stile dottrinale accorda il Vero col Buono. Regola perciò è:
determinare coll'ORDINE DELLA PAROLA l'ordine del pensiero; in conformità
dell'idee e dell'idioma, donde si traggono le regole tutte grammaticali, e dello stile. Quindi è impossibile separare
la bellezza dell ' Esposizione dalla profondità e dall'ordine del pensiero. Se
non determiniamo con le parole il proprio concetto, in conformità dell'intimo
legame fra i concetti, e in conformità del linguaggic, vengono gravi errori. L’INTERPRETAZIONE
E L’IMPLICATURA (“He hasn’t been to prison yet”). L'Interpretazione. Argomento.
In quante maniere debba determinarsi l'ordine del pensiero ALTRUI altrui.
Relazioni del DISCORSO con la lingua; e perciò la sappia, chi vuolesser critico;
tutti sapere ogni liogua, non si può pè giova; e allora valersi degl'interpreti
migliori. Relazioni del DISCORSO con la mente ALTRUI; e perciò stare al senso
letterale, quanto si puo; oon interpretare alla leggiera né cop troppo di SOTTIGLIEZZA,
non alterare né i difetti né i prenj; badare AI FINI che il testimone o lo
scrittore SI PROPONEVA – “what he meant, not what he means!” -- Relazioni del DISCORSO
con l' animo ALTRUI; e pero guardare alla capacità e alla veracità con
argomenti intrinseci ed estrioseci;: nè la capacità negare, preoccupati da
un'idea; nè, per la veracità, eccedere ne' due vizj opposti d'una Critica
adulatrice o caluoniatrice. Relazioni con la Società umana; e però con
l'incivilimento, con la Religione, con l
' uniune delle prove. Sunto, Metodi secondo le varie Discipline. Metodi speciali. Perchè i Metodi si
distinguono secoudo le Discipline varie?
Quanti sono i Metodi speciali, che procedono dalla relazione varia degli
oggetti con la mente? Ogni errore sostanziale di Metodo procede da un errore su
detta relazione. Gli errori de' sistemi sul Metodo, esaminati, rendono
testimonianza tutti insieme alla vera dottrina. La distinzione de' Metodi è
necessaria pell'Arte del Vero, come si distinguono l'Aiti speciali nell'Arte
del Bello; e chi oega la differenza de'
Metodi, pega implicitamente esplicitamente una qualche verità; come nell'Arti
Belle, 8. cosi nell'Arte dialettica. 9. Connessione de' Metodi;. 10. e ciò si
vede anco nell' Arti del Bello. Hl. Ma la connessione non toglie poi la
distinzione, 12. secoudocbė il rispetto delle verità mediane o collegatrici
diversifica; 13. onde bisogna rispet tare la varia competenza nelle Scienze
diverse; 14. beocbe uno Scienziato possa partecipare di più Scieoze. 15. Sunto.
- 16. La confusione de' Metodi è coutro il progresso della civiltà. Metodo
degli Studj religiosi. Argomento. 2.
Proprietà del Metodo negli Studj re ligiosi. – 3. Metodo storico circa i fatti;
– 4. e guardare do v apparisca propriamente la loro Storia. 5 Metodo joterpre
tativo circa i fatti, -6, e le dottrine, 7. Metodo filosolico circa la
possibilità razionale de' fatti dividi, 8, e come gli . Avversarj neghino irragionevolmente questa
possibilità; 9. poi, circa la razionale convenienza in genere de ' fatti divini,
ma esclusa sempre la necessità; -poi ancora, circa la ra zionale convenienza in
ispecie, cosi de preliminari della Fe de, 11. come nelle Verità misteriose. 12.
Unione del Metodo filosofico, dell'interpretativo e dello storico, per le
origini del Culto e per la sua universalità nel tempo, 13. per le sue relazioni
universali con le Scienze e con l'Arti, 14. con la Civiltà intera, e con tutti
gli altri Culti. Metodo teologico si distingue dagli altri Me. todi e vi
s'accorda.. Pag. 342 1. Argomento. 2. Il Metodo teologico si distingue dal
filosofico, perchè muove dall'autorità, – 3. perchè risguarda il soggetto
medesimo in un rispetto differente, 4. perchè, quantunque abbia io sè una parte
filosofica, non è meramente filosofico. Si distingue dal Metodo critico e
filologico, percbė storicameote e ioterpretativamente riconosciamo cause
sovrunane, l' Intelletto sovrumano, tini soprannaturali. 6. Si distingue dal
Metodo matematico, perchè risguarda la libertà divina e l'umana ne' fatti
religiosi. Si distingue dal Mo todo fisico; e tal distinzione ha importanza
eguale pe' Teologi, che non debbono considerare come il mondo è fatio, - 8.6 pe
' Fisici, che non debbono considerare come il moodó fu fatto. 9. Il Metodo
teologico s'accorda poi col filosofico; perchè il Teologo non deve separare mai
l'attinenza fra Teologia e Filo sofia che porge a quella le verità prelimioari,
l'analogie razio nali e l'ordinamento; - 10. pè il Filosofo deve mai separare
l'attinenza tra Filosofia e Teologia, che rende più autorevoli o efficaci le
verità razionali. II Metodo teologico
s'ac corda col critico, perchè il Teologo ha bisogno di guardare alla Storia
universale e alla Linguistica; — 12. il Filologo ba bi sogno diguardare alla
Storia religiosa e ai monumenti sacri. S'accorda col matematico, per la
severità del ragiona mento, per molti esempj, per molte dottrine
fisicomatematiche, per l'evidenza del concetto d'infinità. S'accorda col fisi
co, perchè il Teologo non deve mai tenere la scoperta di cose na - 15. pė il
fisico deve spregiare la verificazione delle ipotesi, secondo le narrazioni
sacre. 16. Sunto. Metodo della Filosofia. Argomento. Proprietà del Metodo
filosofico. – 3. Raccoglimento nella coscienza. 4. Esame de' fatti interni,
delle loro leggi e cause. turali; Delle relazioni con gli oggetti; 6. e però
avvi una parte del Metodo, asceosiva da'fatti agli oggetti stessi, e una parte
discensiya dagli oggetti a ' fatti. -7. Si distingue dal Metodo teologico, e
dal critico o filologico: 8. dal matematico, per la natura de' concetti, la
natura degli oggetti; – 10. dal fisico, per la natura de' fat ti, e per le
relazioni loro con gli oggetti, 11. e quindi per la ricerca delle classi loro,
e leggi e cause, e per i priocipi della ragione. - 12. Si accorda col Metodo
teologico per l'esa 9. e per . - me della coscienza; 13. col critico o
filologico, per lo stu. dio dell'umana natura pe' fatti umani esteriori e nelle
lingue; 14. col malematico, per la speculazione di verità con ma teriali; – col
fisico, per l'altigenze fra le cose intellettuali e le corporee. 16, Sunto.
Metodo della Filosofia Civile. Argomento.Proprietà del Metodo nella Filosofia
Civile. Questa si fondi sopr'i fatti, – 3. badando alla notizia loro precisa e
al collegamento loro. 4. Studio delle cagioni; ma fuggendo di prendere
l'analogie per identità. Esame delle cagioni esteriori ed interiori, non
separabili, ma distinte. - 6. Le cagioni interiori hanno più importanza: 7. ma
senza trascurare l' esteriori. Si ascende alle leggi o ragio ni. Leggi supreme
della Scienza storica, della Politica, della Giurisprudenza, dell'Economia. -
9. Le dette leggi non tol gono la libertà, - 10. come la libertà non toglie
alle conse guenze proprie la necessità; 11. tantochè in ciò risplende l'ordine
della Provvidenza. – 12. Dopo l'esame induttivo delle cagioni e leggi può farsi
la deduzione, o probabile o necessa ria, di ciò ch' è avvenuto e che può
avvenire. 13. Questa Filosofia delle ragioni o leggi, che governano le nazioni,
non può trascurare il procedimento storico; ma neppure si può, per questo,
trascurare la teorica di quelle. - 14. Talchè la Scienza civile ha due
presupposti, la Storia e la batura. –15. Però il Metodo suo si distingue da
ogni altro, 16. e a tutti si upisce. Metodo critico nella Storia. 401 t.
Argomento. – 2. Esame de' fatti, Discipline che aiutano in ciò la Storia:
Cronologia e Geografia, – 4. Archeo logia, Diplomatica, Statistica, Archeologia
preistorica, Etno grafia. 5. Come si può andare in eccessi con queste disci
pline. Ipercritica. Esame delle cagioni; e iodi lo Storico rifà la Storia entro
di sè. 8. Cause finali, 9. particolari, generali, 10. psicologiche, A1. divine.
Oggettività della Storia; 15. e come ciò la renda bel lissima e ammaestrativa.
– 14. Come lo storico si distingua da ogoi altro Metodo; 15, e vi si accordi.
16 Sunto, Metodo critico nella Linguistica. 1. Proprietà del Metodo
interpretativo delle Lingue. 2. Raccolta ed esame de' vocaboli. – 5. Come
bisogna valersi dell ' uso proprio nelle Lingue parlate, e come giovino i testi
moni dell'uso. A chi ricorrere per lo Lingue morte. Grammatica poi determina le
classi e le leggi de' vocaboli, 5. Avvisi necessarj a far bene la Grammatica. –
6. Io che con siste la Filologia comparata. – 7. Utilità di essa, e da quali
estremi bisogna fuggire. 8. Il fine dell'esame filologico è interpretativo
principalmente; – 9. e ciò ne determina i con fini, i modi, 10. e le relazioni;
che sono massimamente due: con la Letteratura, 11. e con la Storia, - 42. E
iodi anche vediamo le indirelle relazioni della Linguistica; cioè con 4. La ca,
la Teologia. 13. con la Filosofia, 14. cop la Matemati 15. e altresi con la
Fisica, sempre distinguendosi da tutto ciò. 16. Sunto. Metodo matematico...
Pag. 440 1. Proprietà del Metodo matematico. – 2. Quantità pore, cioè astratte
da ogni altra idea. – 5. Nel che, poi, bisogna di stinguere fra l'insegnamento
elementare ed il superiore. 4. Si cerchino le ragioni, sgombre da ogo' idea
straniera. 5. Idea dell'Infinito, distinto dall'indefinito matematico. - 6. Il
Cavalieri. – 7. Distiozione dal Metodo teologico, - 8. e relazioni con esso;
dal Metodo filosofico: e accordo con la Logica, onde l'insegnamento della
Matematica è razionale, 12. Distinzione dal Metodo critico, segnatamente dal
letterario, 13. e accordo. - 14. Relazione col Metodo fisico. 15. Come le
dimostrazioni matematiche abbian virtù di assestare gl'intelletti, e anche
possano dissestarli.. 16. Sunto. Metodo nelle Scienze fisiche. Argomento.
Proprietà del Metodo nelle Scienze fisiche, - 2. Prinia d'indurre si comincia
dall'Analogia; 3. cbe talora non può giungere all' Induzione, 4. Può essere
fonte di errori; o del troppo generaleggiare, 5. o del poco. Essa è di molta
difficoltà. 7. Regola da tenersi. – 8. Indu zione. Uffioj del senso e
dell'iotelletto. 9. Ci solleviamo alle 10. alle cause, - alle leggi, 12. e però
al. l'ordine. Doppio errore de' Sensisti e degl ' Idealisti. 14. Frantendono
allri la luduzione, ch'è legittima e necessa ria, 15. e da cui siamo condotti
alla Deduziune. Suato. Cap. L. Segue del Metodo fisico; e Ordine fra le Scienze..
479 classi, 16. 1. Argomento. Abiti che prende la meote per gli Studi fisici. –
5. Idem. 4. Necessità di mantenere l'ordine fra le Scienze. - 5. Guai, se la
Fisica è usurpativa. Confusione della Fisiologia con la Psicologia: – 6. de'
fatti esteriori con fl'interiori. Confusione di linguaggio, e dogmatismo. 8. Si
confondono i bruti con l'uomo; – 9. la volontà con gli atti meccanicamente
determinati. – 10. Si distingue il genere umano in più specie, poi si pongono
le trasformazioni di tutte le specie; -- 11. si confonde l'ordine de' fini col
piacere • con la materiale utilità. - Abiti cbe prende l'intelletto per gli
Studj religiosi; Filosofia; per le Matema. tiche; per la Gritica. Conclusione.
STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA. Epoca dell'’era pagana. Civiltà degl’ialici. Successione
dei loro sistemi.. Scuole italiche. Sistemi latini. CICERONE Giureconsulti
romani. CIVILTÀ DEGL'ITALICI. SUCCESSIONE DE'LORO SISTEMI. Tre tempi
dell'incivilimento italici; i l'elasghi, la trasformazione loro negli Elleni,
le colonie. Il terzo è più nolo; quali sono i suoi termini. Cinque cagioni più
principali dell'unione fra la civiltà orientale e l'italica: colonie, commerci,
viaggi, lingue, tradizioni. Tre opinioni sopr’esse; tutto dall'oriente, nulla e
opinione media. Dipendenza non generica nė volgare della filosofia italica;
daʼsistemi orien tali. La civiltà jtalica fiorisce primamente dove più vive le
comunicazioni con l’Asia e dove più ricco un anteriore incivilimento. l'ero
quest'epoca si chiama oriental italica. Questa è un'età di passaggio, fra le
qualità orientali e il tempo socratico. Si veda le attinenze lia filosofia italica
religione e civiltà. Quanto alla religione sacerdotale, se n'ha indizi per le
memorie de ' Pelasghi, de ' Misteri e degli Orfici. Celebre passo di Erodoto
sulla religione de ' Pelasghi, e sul nome degli dèi posteriori ec., e
conseguenze di ciò. Somigilianze tra la religione pelasgica e quella de'
Bragmani. Misteri: quelli di Samotracia istituiti da 'Pelasghi; domma che
s'insegnava segretamente e molto simile al panteismo dell'India. Ciò pur anche
ne’ misteri eleusini; panteismo naturale, metempsicosi, immortalità,
purificazione. - La teologia d’Eleusi non può interpretarsi solamente in senso
fisico. Testi monianze di lode que' Misteri pel domma sull'immortalità. Le due
anime; anch'in Omero ec. – Gli Orfici: qualcosa di storico v'è circa Orfeo,
benché con mistura di simbolo.-- La dottrina che va sotto il nome d'Orfeo si
raccoglie da tradizioni antiche e da'versi orlici. Le tradi zioni attribuiscono
a Orfeo una religione collegata poi a'Misteri eleusini: cosmogonie orliche,
somiglianti all'indiane. Quanto a'versi orlici, que sli non appartengono a
Orfeo; ma parecchi son certamente molto antichi. Da varj ioni (che si
riferiscono qui, apparisce il panteismo naturale come ne ' Vedi. Passi che fece
la religione tra l'Italogreci: panteismo natu rale con molte tracce del Dio
unico; adorazione degli astri, massime nel volgo; teogonie, o emanazioni sempre
più specificate e che prendono attri boti e nomi distinti; individuazione ultima
e volgare del politeismo, specie per opere degli artisti e de' poeti,
abbandonando quasi ogni simbolo. Memorie sul combattimento fra le religiose
tradizioni e il politeismo cre scente. - La filosofia, dunque, prima
sacerdotale; poi sacerdotale e laicale ad un tempo; cedè inline al politeismo,
rispettandolo, se non altro, come apparenza o credulità popolare. Questo
resistere al male, e poi cedergli, si vede ancora per l'altre parti della
civiltà italogreca. La filosofia venne preparata da molte cagioni, e però dovè
fiorirvi assai presto, anzi chè cominciare a' tempi di Talete molto dubbiosi. -
La filosolia mosse da un ritorno sulla coscienza morale Questa filosofia morale
e religiosa fiori, prima di Taleto, non solo in Italia ma tra gli Ionj pur anco;
e se n'ha prove non dubbie. La cuola pitagorica precedeva Talute; ma va di.
slinto Pitagora dal Pitagoresimo. - Molti argomenti di fatto e molte auto rità
per mettere in saldo le antiche origini di tal filosofia. Anche la scuola di
Xenofane antecedė Xenofane stesso; e quindi abbiamo, prima il Pitagoresimo, poi
la scuola cleatica e l'ionica, infine i sistemi negativi. L'epoca
dell'incivilimento italogreco si può distin guere in tre tempi; de Pelasghi (o
con qual altro nome si voglia chiamare que' popoli primitivi); della trasforma
zione di essi negli Elleni; delle colonie. L'età de' pelasghi o degl’antichi
abitatori d'Italia si perde nella notte de’ secoli, ignoto il principio e la
durata. È certo bensì, che quegl’abitatori vennero d'Oriente, come se n'ha
prova in tutte le memorie e ne’ linguaggi e nelle reliquie dell'arti, e che i pelasghi,
quantunque paruti barbari a Ecateo e ad Erodoto e di barbaro dialetto, sono la
più antica sorgente e più copiosa delle genti e lingue e religioni elleniche (Balbo,
St. d'It.; Cantù, St. univ.; Guignaut, note al Lib. IV del Creuzer, Rel. de
l'antiquité. Sembraron barbari, perchè reliquie di popoli più segregati allora
da'popoli nuovi, già molti passati avanti. Fatto è che di là, ove i pelasghi
abitarono, fan derivare i greci la civiltà loro, dall' Elicona, dall'Olimpo e
dal Pindo. Accadde poi e IN ITALIA un cozzo di popoli. Qual cozzo, e di che
popoli, è molto incerto agli eruditi. Ma questo si sa, ed Erodoto l'afferma più
volte, che al lora con trasformazione lunga e tempestosa i pelasghi si
convertirono in elleni. Viene poi l'età delle colonie; un rovesciarsi di genti
greche le une sull'altre, un invadere, un esulare, e indi un propagarsi di
colonie, prima nell'Asia minore e nell'isole, poi nella Calcide, nell'Eubea, in
Sicilia e SULLE COSTE D’ITALIA, e infine (propag gini di colonie da colonie) in
Asia, in Tracia, sul Danubio e nel Mar Nero. Questa terza età è propriamente
storica. Dell'altre due il più va ingombro di favole. La terza comincia,
secondo l'Hofler assai temperato nelle cronologie, sul secolo undecimo avanti
l'èra nostra. (St. Univ.) In un'età così lunga e operosa, e ch’ebbe così lunghe
e ricche preparazioni, si forma la civiltà e FILOSOFIA DEGL’ITALICI -- la
quale, svolgendosi nelle colonie d’ITALIAe dell'Asia minore, cedè poi al
primato d' Atene; onde comincia una seconda età di filosofia. Nell'epoca di che
si parla ora, in ogni tempo del l'epoca stessa, cinque cagioni principalmente
mantenevano unite la civiltà orientale e l'ITLICA; colonie, commerci, viaggi,
lingue, tradizioni: Le colonie, nè dico solo l'egiziane di Lelege, Danao,
Cecrope ed altri, ma le prime venute dalla terra degli arii e de' persiani, e
l'ultime ellene che si spargevano per l'Asia minore; i commerci, che com’appare
in Omero, non cessarono mai tra ITALIA e le coste dell'Asia. I viaggi per
l'Oriente, non possibili a negare in tutto, de FILOSOFI d'allora, come Ritter
non nega quelli di PITAGORA A CROTONE, Ritter negatore sì voglioso. Le lingue,
che certo prendevano gl'inizj degli Orientali, e con le lingue le tradizioni
d'ogni maniera. Tra queste, principali le religiose, in torno a cui son tre le
opinioni: da Erodoto fino a Creuzer la mitologia ITALICA, la greca
segnatamente, si reputarono di provenienza orientale e il più egiziana. Ma poi
Müller, Voss e altri riferirono tutto ad origine greca. Guignaut (Note al
Crcuzer) ed altri con lui tennero finalmente l'opinione media. E questa si è
che i germi delle credenze religiose si trapiantassero d' Asia com'anco radici
e forme generali delle lingue; ne può pensarsi altrimenti, dacchè ivi
coabitarono un tempo le genti ellene: ciò non impedì, nè mai l'im pedisce uno
svolgimento di proprie fattezze così nelle lingue come nelle religioni: all'età
poi delle colonie, quand' elle si sparsero sull' Asia minore, per l'Egeo e nel
Ponto Eusino, dalle comunicazioni fra loro e i vicini orientali scaturi la
fonte più copiosa d'idee e di simboli asiani, manifesta già in Esiodo ed in
Omero. Talchè (ponete mente, o signori),
se lo spargersi di colonie nell'Asia minore avvenne dall’undecimo all'ottavo
secolo incirca, e nel con tinente poi d'ITALIA e di Sicilia dall'ottavo al
sesto, que st'ultimo fatto s'incontra per appunto col ritornare delle
tradizioni orientali fra gl’elleni, e ne sorge in mezzo la filosofia nuova
degl'ITALICI. Non istarò dunque a disputare com’essa deriva più o meno
da’sistemi orientali, bastandomi ch'ella dipende per fermo da molte tradizioni
d'Oriente o per le origini delle schiatte o pel riaccostarsi loro all'Asia. Che
tal dipendenza poi de' popoli d'ITALIA, nazione antichissimamente civili e
nella civiltà loro pertinaci, possa credersi affatto generica e volgare, cioè
senz'efficacia sull'educazione speculativa, giudicatene voi, o signori, che pur
vedete gli effetti odierni del comunicare le nazioni fra loro. Dove fu egli il
primo fiorire della civiltà ITALICA? nelle colonie d'Asia e di Magna Grecia. Non
già in Grecia propriamente detta. Perchè mai, o signori? La ri sposta non par
malagevole. Prima che in Grecia, fiori la civiltà negl'Ionj dell'Asia minore,
appunto perchè più vicini all'Asia media, sorgente de' popoli e della civiltà;
e prima pure che in Grecia fiorì nella Magna Grecia, cioè in ITALIA, perchè ivi
più forse ch'altrove ra dicò la civiltà pelasga, e perchè le tradizioni che
fanno ionio Pitagora e ionio Xenofane, venuti tra noi, dan segno come frequenti
e vive fossero le comunicazioni tra LE COSTE ITALIANE e l’Asia minore. Dico
poi, ad ogni modo, che le colonie greche trovarono in ITALIA grandi semenze di
civiltà, nè però ebbero impedimento, anzi ebbero aiuto a presto incivilirsi e
prosperare. Di fatto recatevi a mente, o signori, due cose molto important. Prima,
che le tavole d'Eraclea, lette dl Mazzocchi, fan prova come i coloni greci
prendessero dagl'ITALIOTI misure e confinazioni agrarie. Seconda, che i Lucani,
i Bruzj, i Sanniti, dopo essersi ritirati davanti alle colonie greche, e
riparatisi a’ monti, ne discesero poi, e le ributtarono (Hofler), talchè più
non resta in ITALIA dialetti greci (in PUGLIA ve n'ha, ma di colonie recenti e
fuggite dai Turchi); la qual cosa non poteva accadere, se que'popoli montanari
non serbavano istituti civili. Ecco il perchè ho chiamato quest'epoca
orientalita logreca (italogreca ITALIOTA per più brevità); greca, perchè
filosofia di colonie greche; ITALIANA perchè sorse più splendida in ITALIA e
con tradizioni italiane (italica chia marono pure i Greci, come Platone ed
Aristotile, la scuola pitagorica e di VELIA); orientale, perchè con origini e
comunicazioni asiatiche. Non si toglie a' Greci la loro eccellenza ' se notiamo
quel ch ' essi appresero; offenderebbe la verità e loro chi loro negasse la
mira bile potenza di far proprio l'imparato e di dargli bellezza e compimento;
essi il ricevuto per dieci lo ridussero a mille e quel mille lo insegnarono al
mondo; ecco la lor gloria vera e non superata. Quant' all'ITALIA nostra, o
signori, principalmente sul terreno di lei sorse co' Pitagorici questa
filosofia nuova che tanto potè su Platone e sopr’Aristotile. L’ITALIA ricevè
dal 1 ° Oriente e da’Greci, l’ITALIA poi restituì alla Grecia e alla civiltà
de' secoli avvenire; e potè dirsi allora quel che poi disse PLINIO. Omnium
terrarum alumna et parens, omnium terrarum electa, una cunctarum gentium in
toto orbe patria. Ma le lodi antiche suonano vituperio a’tra lignati:
avvaloriamoci, o signori, d'emulazione e di virtù, e non di lode. E
quest'epoca, di fatto (come dissi altrove), è un'età di passaggio; ritiene
ancora le qualità orientali, ma che mostrano già di convertirsi nell'altre
dell'età socratica. Così tra gl’ITALIOTI come tra gli Asiatici, abbiamo un
sistema religioso sacerdotale; ma ora si nasconde ne' misteri, e si separa
perciò interamente dalle credenze popolari che prevalgono. Tra gli uni e tra
gli altri la filosofia dipende dal sistema religioso. Ma ora si svolge in un
modo più laicale e più da sè stesso, perchè così ri chiede la mobilità di
quelle repubbliche, e perchè il sistema religioso si rimpiatta, e nè ha
sull'invecchiare il vigore speculativo degl'inni e commentarj vedici; par come
un'eco de' tempi passati, più che voce vivente. E siccome la filosofia di
quest'epoca pigliò i germi da' misteri (Ritter), che hanno del panteismo
orientale, così ell'hanno del panteistico a mo' degl'Indiani, ma con tendenze
più manifeste alla DIALETTICA che va per distinzioni anzichè per confusioni.
Poi, qui come là s' unì la poesia con la speculazione, ma più altresi se ne
distinse; perchè i poemi omerici non furon mai ravviluppati con una
enciclopedia d'episodj. Ed i poemi scientifici di VELIA (il Sulla Natura di
Parmenide) e di GIRGENTI (il Della natura di Empedocle) s'accostano alla prosa.
E qui come là v'è ncertezze storiche, meno per altro. Giacchè il più delle
incertezze cadono su' misteri e sulle origini pitagoriche, non già sulle scuole
posteriori. Premesso ciò, si veda, o signori, qual fosse in attinenza con la
filosofia la religione e la civiltà degl'ITALIOTI. Della religione, come
sistema sacerdotale, me ne passerò più breve che non feci per l'India, giacchè
(com ' ho detto) quel sistema era sul morire, e se n'ha meno ragguagli e meno
certezza. La religione sacerdotale ITALIOTA si può ricercare in tre modi: per
le notizie assai oscure dei Pelasghi, i quali tennero idee religiose più
primitive e più vicine alle orientali; per le notizie scarsissime de' Misteri;
per quelle degli Orfici. Essi e l'origine de' Misteri appartengono, credo,
all'età di combattimento e di trasforma zione. Quanto a’ Pelasghi, Erodoto
scrive che da loro non si metteva nome agli dèi; aggiunge che i nomi vennero
d'Egitto e che i pelasghi non li volevano accettare, sì ne rimisero la
decisione all'oracolo di Dodona, riuscito favorevole a que' nomi; e dice infine
che le nascite e le forme e gli aspetti degli dèi vennero cantati da Esiodo e
da Omero; tutte cose già ignote. Vuol notarsi com’Erodoto accenni pure che un
simbolo osceno gli Ateniesi lo presero da’ Pelasghi, i quali ne spiegavano il
senso ne' Misteri; e sappiamo di fatto che pure ne' Misteri eleusini e bacchici
si mostrava i simboli femminili e maschili secondo i riti d'Oriente. Erodoto,
uomo schietto, n'avvisa che il narrato da lui circ' a ' Pelasghi glie l'avevano
appreso le sacerdotesse di Dodona, ma che il resto, circa le invenzioni d'Omero
e d' Esiodo, lo diceva di suo. Che cosa si raccoglie, o signori, da questo
luogo così famoso? Primo, che la religione de' Pelasghi era più delle succedute
lontana dal politeismo; secondo, che quella si rappresentava co'sim boli
orientali della generazione divina e però ne teneva i principali concetti;
terzo, che il passaggio dalle divi nità innominate alle nominate, cioè da un
che meno pagano ad un più, non accadde senza contrasto, e indi si ricorse agli
oracoli; quarto, che tenuto il simbolo antico ed esteriore, la sua spiegazione
si fece nell'in terno de' Misteri; quinto, che i nomi si suppongono venuti
d'Egitto in età più recente, perchè all' Asia media non s'imputavano queste tradizioni;
infine che Erodoto reca l'antropomorfismo ad invenzione di poeti, non perchè
già tal errore non fosse cominciato popolar mente, ma perchè que' poeti
l'ordinarono (più o men di proposito) in sistemi di mitologia, ed in modi
specificati. Che poi la religione pelasgica somigliasse quella de Brag mani lo
attestano Ferecide e Acusilao in Strabone (Ed. Sturz ); dicendo che i Cabiri,
divinità pelasgiche, son generati da Efesto e Cabira, e che sono tre Cabiri
maschi e tre femmine. (Creuzer ) Venendo a’ Misteri, abbiamo da Erodoto, non
solo che i Misteri di Samotracia venissero istituiti da' Pela sghi (II, 5), ma
(com’abbiamo sentito ) che altresì nel l'interno di quelli si spiegasse i
simboli esterni. Come si spiegavano essi? Apollonio di Rodi serbò del vecchio
storico Mnasea un luogo prezioso circa i dommi primi tivi di Samotracia. (Schol.
Apoll. Rhod. ad 1, 917.) Che dommi, o signori? Similissimi a quelli dell'India.
S'in segnava, di fatto, un principio onnipotente, Azieros; la materia fecondata,
Aziokersa, o principio passivo; e il principio attivo, fecondatore, Asiokersos.
Vuol egli dir ciò che il principio attivo ed il passivo si distinguono
dall'essenza universale, Azieros o Brahm? 0 piuttosto (giacchè l'
interpretazione di que' nomi non è certa ), Aziokersa, Azieros, Aziokersos e
Casmilo o Cammillo che da taluno s'aggiungeva secondo Apollonio, rispon dono a
Maya, a Brahma, Visnù e Siva, taciuta l'essenza universale, il Dio neutro, come
non si nomina il Dio supremo nel Rig Veda? tanto più che Casmilo rispon
derebbe, l'afferma Dionosidoro, ad Ermete cioè al Dio delle trasformazioni.
Comunque, nell'incertezza de' docu menti tal cosa è certa, il domma samotracio
mostrare analogie non poche col panteismo vedico e con la Trimurti. (Saint
Croix, sur le Mystères du Paganisme; Creuzer, V, 2. ) E risponde non meno a
quel panteismo la dottrina samotracia dell'età varie mondane, o che il mondo si
distrugga e rinnovi per forza di fuoco. Anche ne' Misteri eleusini s'esponeva
la dottrina d’un principio passivo, d'uno attivo, dell'armonia mon diale che ne
nasce, e di ciò che distrugge le forme senza intermissione. Bacco, Cerere,
lacco e Mercurio, ossia grecamente Dionisio, Demeter, Iacco ed Ermete, non
ritraggono forse, o signori, i sistemi dell'India, del l'Egitto e della Persia?
E forse su quelle divinità è, innominato, il Dio androgeno, o il Cronos e lo
Zeus de' tempi remoti, divenuto poi un principio maschile, contrapposto a
Giunone principio femminile. Di que' Mi steri non si sa i particolari, vietato
rigorosamente il propalarli, come dice Pausania (art. Beozia) e Apollodoro
(Argon. I), e come dimostra il Meursio (De Festis Græcorum). Pure, da'cenni
dell'antichità si ritrae che insegnavasi nell' orgie il panteismo naturale (com’ho
detto di sopra), e la metempsicosi, e l'immortalità del l'anima (forse col ritorno
all'essenza divina), e la puri ficazione per mezzo della virtù. Il panteismo
naturale viene indicato da CICERONE (De Nat. Deor.), che diceva: come le
dottrine de'Misteri eleusini, ridotte a termini di ragione, si conosce meglio
per esse la natura delle cose che quella degli dèi. Che vuol egli dire? CICERONE
accusa di dottrina neramente fisica gli Eleusini, che la teogonia confondevano,
in realtà con la cosmogonia, e ciò accade nel panteismo naturale. Prova,
dunque, tale accusa, e viene confermato da molt' indizj, che la religione d'
Eleusi somiglia il panteismo de' Vedi; di fatto, che si trattasse d'una fisica
soltanto, o senza vedervi dentro la divinità o un che superiore alla natura
esterna ce lo vieta lo stesso CICERONE. Egli scrive nel II “De Legibus”, che i
Misteri eleusini s ' hanno da riguardare come il massimo beneficio d'Atene,
perch'insegnano a viver lieti e a morire tranquilli nella speranza di vita
migliore; cosa ripetuta da lui nelle Verrine, V. Dice Platone (Fedone) che
l'iniziarsi a' Misteri purifica i cattivi, e dà a'buoni felicità eterna, cioè
un'abitazione comune con gli dèi dopo la morte. Isocrate afferma (Panegirico)
che i Mi steri mettono in cuore agl'iniziati le più dolci speranze quant'alla
fine di questa vita e quant'all'altra che non finirà mai. Che poi gl'iniziati
s'ammaestrassero alla virtù si ha da molti argomenti; e il Meursio dimostra che
quelli si preparavano a’ Misteri con gli esercizi di castità, e poi si
credevano astretti, quasi da sacramento, a rendersi migliori. Così Aristofane (Rane)
mette in bocca a un coro d'iniziati queste parole: « Il sole e una luce
aggradevole sono per noi che onoriamo i Misteri e osserviamo le regole della
pietà verso i forestieri e verso i cittadini. » Però que' Misteri si chiamavan
teleti (7: ) ett ), giacchè da loro veniva la perfezione della vita. Va notato
che la me tempsicosi s' univa col domma dell'immortalità in que sto modo:
credevano gli antichi che il principio animale, principio di vita e di senso,
distinguasi sostanzialmente dal principio intellettivo; e che l'uno, cioè
l'animale, passi di corpo in corpo, ma l'altro se ne sciolga dopo alquanti giri
di secoli e in premio del vivere onesto, ritornando all'essenza universale o
divina. Però si di stingueva in Persia il fervéro o genio dall' animazione, e
in China Hoen da Pe, e tra gl’Indiani atma e pran, e in Grecia il démone (dzepov)
o anche logo da psiche, e tra’ ROMANI “animus” da “anima”. Quindi l'anima
sensitiva s'immaginò non altrimenti che come materia sottilissima, e che,
divisa dal corpo, ne teneva le apparenze, erane lo spettro od il fantasma,
vagante nelle notti e intorno a' sepolcri. Tal distinzione si vede pertino in
Omero, allorchè Ulisse approdando a'Cimmerj inter roga i morti (Odiss.): «
D'Ercole mi s'offerse alfin la possa, Anzi il fantasma; però ch'ei de' numi
Giocondasi alla mensa, e cara sposa Gli siede accanto la dal piè leggiadro Ebe,
di Giove figlia e di Giunone. » La terza fonte di notizie, cioè le memorie
orfiche, non vanno soggette, o signori, a tanta perplessità, e può trarsene qualche
costrutto; purchè evitiamo così la co moda credulità come l'eccesso de critici.
S'è giunti a du bitare d'ogni realtà storica ed antica rispetto ad Orfeo; ma,
quantunque la parte storica si frammischi a' por tenti della favola, e un nome (al
solito) rappresenti le dottrine e i canti di più, nondimeno qualcosa di reale e
d'antico vi ha; perchè Ibico (in Prisc.) che fiorì presso al 550 prima di Gesù
Cristo, già ram menta Orfeo; lo rammenta Pindaro (Pith.), anzi lo chiama padre
de canti apdov Tr UTEP (Ott. Mül ler, St. della Lett. Gr. ); lo rammentano
ancora gli an tichi Ellenico e Ferecide e le tragedie ateniesi. Da molti luoghi
di Platone (Leg. VIII; Ione, Convito, Rep. 11) apparisce che a tempo di lui
eran divulgati già molti carmi col nome di Museo e d’Orfeo; questi è citato nel
Filebo e nel Cratilo; e si scorge che l ' espiazioni de’de litti appartenevano
alle discipline orfiche. La dottrina che va sott' il nome d’Orfeo si racco glie
da tradizioni antiche e da versi orfici. Quanto alle tradizioni antiche, elle
attribuiscono tutte ad Orfeo una religione, che istituita da lui si collegò
quindi a Misteri d'Eleusi (Müller): e ciò conferma il già detto sulla natura di
quel sistema religioso. Si rileva poi dagli antichi scrittori un sistema orfico
di cosmo gonia, benchè sotto più forme, e talora v'han messo la mano autori
dell' èra cristiana. Creuzer ne dà cinque di tali cosmogonie; rilevantissima
quella di Ferecide Siro, pel quale son tre i principj Zeus o Giove o Cronos o
l'etere, il Caos o massa inerte ch'egli vivifica, il Tempo o la durata senza
limiti. E qui voi scorgete, o signori, l'indefinito ch'è concepito nell'astra
zione del tempo (come tra’ Persiani ), e dall'indefinito i due principj,
l'attivo ed il passivo. Nella cosmogonia che viene riferita da Atanagora e da
Damascio, v’ha l'idea indiana dell' uovo nell'acque, da cui esce Eros o Fa
nete, amore o manifestazione dell'armonia universale; e tal idea orfica viene
rammentata negli Uccelli d'Aristofane. Il mondo, poi, si rinnova per
bruciamento (co me secondo Eraclito, gli stoici, gl'Indiani e l'orgie eleu
sine), in virtù di Dionisio corrispondente a Siva. (Creuzer) Mi pare che il
Maury ottimamente riduca le teogonie o cosmonie orfiche a questo: Cronos genera
i due principj, l'etere e il caos; il caos in virtù dell' etere prende la forma
d'uovo, avviluppato dal l'erebo o dalla notte, cioè dalle tenebre primitive, a
cui segue la luce o l'amore, quando l'uovo si spacca, ossia quando il germe
involuto si svolge nelle sue parti: queste le idee più principali che risultano
dal paragone de' più antichi testimoni. Ma i versi che ci restano sott'il nome
d’Orfeo, son essi autentici? Aristotile e Cicerone negarono già che i versi
propalati fin d'allora come d'Orfeo gli apparte nessero; e più n'è dubbio a' dì
nostri, perchè nei primi secoli dell' èra volgare molti documenti si rimaneggia
rono, e molti se ne invento. Ma dice Mullachio (Fragm. Phil. Græc., ed. Didot.
Parisiis): Plerique ver sus puroque et simplici sermone insignes sunt; talchè,
considerata la purità e il fare antico di molti versi, e il riscontro di varie
testimonianze. ond' essi ci sono tramandati, e l'accordo loro con le tradizioni
vetuste, possiamo affermare che quelli senz'essere forse d’un poeta che si
chiamava Orfeo, sien per altro reliquie vere degli Orfici antichi. Udite l'inno
insigne alla Natura, tradotto dal Cantù nella Storia universale e riferito
negli Schiarimenti (Tauchnitz): « Natura, diva madre universale, in tante guise
madre, celeste, venerabile, molto creante spirito (o cuor ), regina che tutto
domi indomata, tutto governi, in tutte parti splendi, onnipossente, ve nerata
in eterno, divinità a tutte superiore, indistrutti bile, primonata,
antichissima,... comune a tutti, sola, incomunicabile, padre a te stessa senza
padre, che per maschia forza tutto sai, tutto dài, nodrice e regina di tutto;
feconda operatrice di quanto cresce, di quanto è maturo dissolvitrice, delle
cose tutte vero padre e madre e nodrice e sostegno. Le quali ultime parole già
udimmo per Aditi nell'inno del Rig Veda. Or bene, che dottrina s’asconde, o
signori, ne' versi orfici? La stessa che ne' Vedi: la natura universale è padre
e madre, ossia, principio attivo e passivo; ell’è divina, perchè non è la
materia, sì l'essenza universale, spirito divino primo e materia prima in unità;
è senza padre, cioè senza principio; è primonata, cioè generata da sè stessa
con uscire all'atto dall'indefinita potenza; indi, ella è padre di sè stessa;
infine, si palesa con tre divine opera zioni, genera tutto, sostiene tutto,
distrugge tutto. In Clemente Alessandrino (Stro. V), in san Giustino (Co hort.
ad Græc.), in Eusebio, nell'egloghe di Stobeo, in Proclo, in Porfirio e in
altri si ha varj altri frammenti più o meno antichi, ma che rendono lo stesso
sistema. Un inno ch'Eusebio prese da Aristobulo peripatetico. insegna qual sia
l'unico genitore del mondo, comie lo chiamano i prischi documenti degli
uomini,contro l'er rore antico, cioè contro il politeismo; e che Dio tiene in
sè il principio, il mezzo e il fine. (Pr. Ev.) Riferirò un altro inno
ch’Eusebio tolse da Porfirio (Ivi, e Stobeo, Eclog. Phis. 1, 2, 23, e Bibliot.
del Didot, Framm. ec. p.6 ): « Primo e ultimo è Giove che splende col fulmine.
Egli capo e mezzo, e a lui son create tutte le cose. Giove è nato maschio,
Giove nato intatta ver gine. Egli sostiene la terra e l'aria stellata de 'cieli;
ed è insieme re e padre d'ogni cosa e autore della loro origine. Unica forza e
unico demone che governa tutte le cose, quest' unico le chiude tutte nel suo
corpo regale, il fuoco, l'onda, la terra, l'etere, e la notte e il giorno, e il
consiglio, e il primo genitore e nume del l'amore: contiene tutto ciò Giove
nell'immenso corpo. E il capo esimio di lui e il volto maestoso irradia il
cielo, intorno a cui sparge con molto lume la chioma pendente e aurea d'astri;
e gli sta sull'alta fronte, a somiglianza di toro, un doppio corno che
l'accende di fulgido oro. Ivi sono l'oriente e l'occidente, giri noti a' supremi
dèi. Son occhi di lui il sole e la luna che corre di contro al sole. In lui è
mente verace, ed etere regale non sottoposto a morte, il quale col consiglio
muove e regge ogni cosa; e quella mente, perchè prole di Giove, non può essere
nascosta da niuna voce o stre pito o suono o fama. Così, egli beato possiede e
senso dell'animo e vita immortale, spandendo il corpo illu stre, immenso,
immutabile e con valida forza di brac cio. A lui son omeri e petto e terga
immani le ampiezze dell'aria; e con veloci e native penue precipitando, egli
vola intorno a tutte le cose. La terra, madre comune, ei monti che levano l'
alte cime, formano il sacro ven tre di lui ne fanno la zona media i tumidi
flutti del mare sonante. L'ultima base che sostiene il nume, sta nell' intime
radici della terra e negli ampj spazi del l'erebo e negli ultimi confini che
inaccessa ed immota spande la terra. Tutte le cose egli nasconde primamente nel
mezzo del petto, e poi le manda fuori nell'alma luce con opera divina. » Tra le
figure poetiche non si può non vedere in quest'inni l'opera della riflessione
che affaticasi di scoprire e spiegare l'attinenza fra Dio e l'universo,
confondendola, per abuso d'induzione, con l'attinenza tra l'unità delle
sostanze e la moltiplicità c mutabilità de'fenomeni. Non fa dunque meraviglia
se Pitagorici, Eleati ed Ionj che presero gli esordj dalle dottrine orfiche e
de' Misteri e però dall'antiche tradi zioni pelasghe, cadessero nel panteismo.
Ecco dunque i passi che sembrano fatti dalla reli gione fra gl’ITALIOTE. Prima
è un tal panteismo natu rale, in cui le divinità sono le forze della naturu;
non le forze per altro simboleggiate, come interpretò poi la scuola de' Fisici
(Plutarco la distinse sì bene dall'an tica scuola de' Teologi), bensì le forze
naturali confuse con gli attributi divini. In quel panteismo, come nel Rig
Veda, gli dèi son poco determinati: differiscono poco gli uni dagli altri;
escono tutti e rientrano nel Dio unico (Creuzer, V, 4). Talche certi Padri
pensarono ch'ei fosse un culto dell' unico Dio creatore, e tal culto
contrapposero alla corruzione posteriore dell'idolatria; Storia della F lofint.
17 2 ill 1 ma, veramente, non può chiamarsi un teismo, bensì un panteismo
naturale, dove nondimeno le tracce del l'unità di Dio si conservano così
spiccate da causare l'opinione ch'io vi diceva. Però le divinità pelasghe non
avevano un nome, dice Erodoto; e a dar loro un nome s ' opponevano le
sacerdotali tradizioni (Ispot 20091). E come narra Platone nel Cratilo che
prima si chiamò in genere 0: 9 le divinità, così cabiri le dissero i Pelasghi,
ossia (forse) potenti; e ciò risponde agli dei complices o consentes degli
Etruschi. Poi, questo panteismo naturale si ristrinse più par ticolarmente (e
specie nel culto popolare) all'adorazione degli astri, dove più che in altro ci
apparisce la po tenza di Dio: e che sia così l'attestano Platone (Fileb. e
Crat. ) ed Aristotile (Met.). Allora Zeus o Giove fu proprio il cielo; e si
mantenne questo nel detto volgare: Giove che fa? per dire: che tempo fa? Ma il
panteismo naturale de' sacerdoti più e più si foggiò a sistema d'emanazioni,
per ispiegare con modo determinato la dipendenza di tutto dalla causa prima; e
indi le teogonie e cosmogonie orfiche e quella d’Esio do. Le operazioni divine,
allora, ebbero nome partico lare, e vennero simboleggiate con immagini esterne;
come narrai che la triade pelasga prese il nome dall'onnipo tenza e dalla
fecondazione; e si sa del Giove con tre occhi in Argo (Pausania ), della Venere
piramidale di Pafo, e co' due sessi (statuina nella bibliot. naz. di Pa rigi),
dell' Apollo a quattro mani, del Sileno a due te ste, di una dea a quattro
teste nel Ceramico d' Atene, del Giano bifronte, della Diana mammellata d'Efeso
e della Cibele come informe pietra. Tutti questi nomi e simboli, a poco a poco
divennero nomi e attributi pro pri di certe divinità specificate; e la Trimurti,
le cui vestigia restano fin anche negli dèi omerici, Giove, Net tuno e Plutone,
s'individuò per modo che l'un Dio non più si confuse con gli altri, e questi si
moltiplicarono all'infinito. Però, questa individuazione favoriva il politeismo
a volgare e si mescolava con esso, e n'era eccitata e lo eccitava; e ambedue si
stabilirono più che mai con l'arti del disegno, che lasciati quasi del tutto i
simboli, ri dusse gli dèi a forme umane, con alcune qualità pro prie di
ciascuno. Un'ombra di simbolo restò, ma velata, nelle forme tra maschili e
femminili di Bacco e d'altri dei, figura sacra dell'androgenia, quando
s'abbandono la rozzezza dello scarabeo (Winkelman, St. dell'arte ec. ); e tal
simbolo (sia detto di passaggio ) alcuni artisti vo gliono imitare quasi
perfezione di membra umane e le sono immaginarie! Fatto sta che la scuola
d'Egina, Polignoto, Fidia, Prassitele, imitando i poeti ebbero più ch'altro
efficacia nel fermare quel politeismo di dèi spicciolati. Vuolsi por mente
adunque, o signori, che da un lato restava la tradizione sacerdotale, benchè
più e più cor rotta, e cresceva dall'altro il politeismo. Come restava la
tradizione? Ne' Misteri; già lo vedemmo. E perchè mai dovè occultarsi? Dicono
le memorie antiche, i primi re di Grecia e d'Italia fossero ad un tempo sa
cerdoti, capitani e giudici; patriarcato ch'è origine d'ogni nazione. (Arist.
Pol. III, 14. ) Le memorie stesse ci nar l'ano poi d'un contrasto lungo e
sanguinoso tra le classi sacerdotali e le guerriere; il che apparisce anco
nell'In die; ma se ivi le liti si composero stabilmente, fra gl'Ita logreci al
contrario scapitò la classe sacerdotale che (l'accennano i racconti circa
Erettéo e gli Eumolpidi) si dovè segregare in alcuni luoghi, come Eleusi,
lasciando a' re tutto il resto; e così, a poco a poco, e tanto più quando
sorsero i governi popolari, s'abbandonò l'inse gnamento religioso e restò
solamente i riti esteriori del sacrifizio e delle feste. Quell'insegnamento,
dunque, escluso da ' popoli, rifuggivasi nel mistero, in que'luoghi appunto che
la classe sacerdotale abitò, com’Eleusi e i sacri querceti di Dorona. E che fa
intanto la filosofia? Ella è sacerdotale dap prima, o teologia, perchè tenute
le tradizioni asiatiche, cresce nel sacerdozio pelasgo ed orfico; poi, nell'
età che > il sacerdozio si separa e
s’asconde, dalle semenze reli giose de' Misteri germogliano i primi sistemi
come i pi tagorici, che han del sacerdotale e del laicale ad un tempo. Questa
filosofia, perciò, combattè dapprima il politeismo, per esempio ne' frammenti
di Xenofane che derideva il fingere dèi a somiglianza nostra. Poi, dac chè il
concetto di Dio sempre più s' annebbiò, i poste riori consentirono a' tempi, e
gl' Ionj, gli Eleati, e molto più i sofisti, menaron buona, se non altro come
appa renza o come credulità popolare la mitologia. Nè altrimenti andò negli
ordini tutti della civiltà. Di fatto; quando i governi regi si mutarono in
popola reschi, molta efficacia e salutare v'ebbe la filosofia mercè i
Pitagorici, e segnatamente Zeleuco e Caronda, i cui frammenti di leggi muovono
dal dimostrare che Dio è; ma in progresso la filosofia non potè resistere alla
li cenza, fu perseguitata, e però cadde in mano di sofisti che inventarono
l'arte della parola per la parola, malvagi adulatori di plebe e mercanti di
cavillo. Abbondando le ricchezze, nate da operosità, fiorirono scienza ed arte;
ma successe un abito d'ozio e di godimenti, e la Magna Grecia in ITALIA e
l'Ionia caddero in mollezze di trista fama. Resisterono i primi sapienti, come
dimostra l'istituto pitagorico; ma cedè a poco a poco la loro austerezza, e già
Xenofane canta « ch'è dolce nel verno stare al fuoco bevendo, e domándare
all'ospite: quant'anni avevi tu quand' il Medo invase? » il Medo, o signori,
invasore della patria ! lei sofisti, all'ultimo, la filosofia diventò l'arte di
godere. Nell'ordine morale s'arrivò a tal segno ch'Ateneo rimprovera Platone,
perch'e' disse nel Sofista come Parmenide di VELIA ama Zenone di VELIA;
quasichè tal parola, detta di giovane, non ricevesse mai buon senso. E la
filosofia, resistente dapprima co' Pitagorici, giunse co ' sofisti
all'indifferenza tra bene e male; indifferenza molto diversa e peggiore
dell'indiana; chè questa è non curanza del moltiplice e vario ch'apparisce, in
grazia dell'unità sostanziale, ma quella è non curanza senz'al tro; ivi è
un'ombra di moralità, qui nessuna. Mostrate così l ' attinenze tra filosofia,
religione e ci viltà degl'Italogreci, resta che vediamo il principio e la
successione de' loro sistemi. Cominciamo da dire che in tutta questa età e per
confessione di tutti, v'ha incer tezza sul tempo preciso de' varj filosofi; e
bisogna ri correre il più a Diogene Laerzio, autorità poco accettata. Le
congetture dunque son lecite; e tutti ne fanno. Avvertirò inoltre che sul
definire l'età de' tempi remoti variano le tendenze degli Orientali e de'
Greci; que sti tirano al meno e quelli al più. Per che ragione? I Greci amando
la certezza de' fatti, li trasportano quanto più si può nel tempo storico, e
lontani dal favoloso; al contrario degli Orientali, che amano l'indefinito de
se coli; effetto del panteismo. Premesso ciò, rammentate, o signori, che prima
dell'undecimo secolo avanti Cristo Pelasghi ed Elleni si mescolarono insieme; e
allora co minciò l'età delle colonie; e da esse la più nota civiltà ITALIOTA.
Quali preparazioni vi riscontriamo noi per la filosofia? La civiltà pelasga, le
dottrine orfiche, i Mi steri; inoltre le comunicazioni più che mai frequenti
per l'Asia minore (dove prosperavano tante colonie) coll' Asia media. E che
tempi erano quelli per l'Asia media? Rammentiamocene, o signori; erano i tempi
di splendida civiltà, quando circa il mille avanti Cristo si compilavano i Vedi
ed i poemi, e fiorivano le scuole di filosofia. Chi potrà dunque negare, che
date tali prepa razioni e la civiltà delle colonie, e dato quell'impeto di vita
civile ond' il pensiero s'agita tutto, e poste le sedi nuove in paesi non
selvaggi come l' America, ma già inciviliti, sorgessero presto le speculazioni
filosofi che? Non farebb' egli un'ipotesi strana chi le credesse indugiate a
tre o quattro secoli dopo, fino a Talete, anzichè colui che le dicesse più meno
già in via circa il mille od al novecento prima dell' èra volgare? A ogni modo,
tempi precisi non se n'ha; e poichè la critica devé supplire, parmi più
ragionevole vi supplisca così, che stando ad indizi già riconosciuti per poco
probabili. La filosofia mosse anc' allora da un ritorno sulla coscienza morale;
ce ne assicura la moltitudine di sen tenze attribuite dagli antichi a ' Sette
sapienti; a uno de' quali, cioè a Chilone, si reca il detto: conosci te stesso.
Abbiamo poi alcuni tra ' poeti gnomici, come le recide, della cui antichità non
si dubita punto; e chi, Foclide per esempio, lo fa contemporaneo, chi anteriore
a Pitagora. Le sentenze di Mimnermo, Evano, Metrodo ro, Teognide e va'
discorrendo, mostrano chiaramente la riflessione sulle verità morali, benchè
nascosta in afori smi. Così queste di Foclide: « Non dire mendacio, ma parla
sempre con verità. Primieramente venera Dio e quindi i tuoi genitori. Non
disprezzare i poveri, nè voler giudicare alcuno ingiustamente, perchè se tu
giudiche rai male, Dio poi ti giudicherà. Fu da Dio a’mortali dato in uso lo
spirito ch'è immagine di lui. Il corpo abbiamo dalla terra e si scioglie in
essa e siam polve re, ma lo spirito va in cielo. » Or bene, io dico, e mi
sembra di poter essere sicuro, che codesta filosofia morale e religiosa sorse e
fiori prima del panteismo materiale di Talete e d’Anassi mandro; perchè n'ho
prove storiche (come dirò), e per chè dalle tradizioni sacre orientali e orfiche
non si poté saltare in un subito alla materialità. Dove fiorì? Non in Italia
soltanto co ' più antichi savj della scuola ita lica, ma nell' Asia minore
altresì, fra gl ' Ionj, dovunque insomma germinò la civiltà ellena. Di fatto,
che che vo glia credersi delle tradizioni circa Pitagora e del suo venire dall'
Ionia, esse, unite alla certezza che Xeno fane pure ne derivasse, mostrano
almeno che l'antichi tà non reputò straniere agl' Ionj 1 ' idee pitagoriche ed
cleate. Aggiungete che Talete ha molti più segni di spiritualità che non i
posteriori; e tal peggioramento non si può negare. Perchè dunque, dimanderete,
vien solo ricordata la scuola italica? La risposta è facile e il caso è comune;
si ricorda i luoghi dove la scuola più crebbe e durò. y Ma la scuola pitagorica
o ITALIOTA, dimanderassi an cora, ell’è anteriore a Talete, cioè al panteismo
materiale degl' Ionj? Mi sembra certo, purchè si distingua Pitagora dal
Pitagoresimo; questo è la totalità di dot trine comuni a tutta una scuola di
filosofi; quegli è un tal nome, parte storico, parte simbolico, che può essere
prima o dopo, senzachè provi l'anteriorità o posteriorità della scuola nel suo
nome rappresentata. E nondimeno anche sull'età di Pitagora son diverse l'
opinioni. Quanto a Pitagora, Meiners lo crede nato al 584 avanti l'èra nostra;
lo crede nato Lacher al 608. Come si determina ciò? Per autorità non salde, e
per vie di congetture. Talete poi, secondo Apollodoro, sa rebbe nato il 640,
anteriore perciò a Pitagora; dáta non senza incertezze. (Ritter, St. della fil.
ant.) Ma ecco il Niebuhr (St. Rom. I) che contrapponendo a Polibio ed a
Cicerone l'autorità d'alcuni scrittori orientali, crede probabile la
contemporaneità di Pitagora e di Numa; talchè andremmo più oltre che la data di
Talete. Avanti alle dáte di Pitagora s'ha in ITALIA e Sicilia ZELEUCO E CARONDA,
legislatori l'uno di LOCRI e l'altro di CATANIA; e ne' frammenti di quelle
leggi v'ha il segno delº pitagoresimo. Il Krug fa CARONDA DI LOCRI del 668; il
Benteley, l'Heyne, il Saint Croix, Centofanti, del 730. Quando Pitagora venne
in Italia, in CROTONE, si dice che subito la scuola crescesse tanto di numero e
di potenza, da bisognare feroci persecuzioni a spiantarli: il che umanamente
non può accadere. La scuola dunque precedeva. Il personaggio di Pitagora,
l'istitutore insomma del Pitagoresimo, diventa un simbolo in gran parte; il che
dà segno d'antichità molta, e di tradizioni orientali. Nella scuola pitagorica
è mescolanza di culto e di speculazione; e ciò indica il passaggio dall' età
teologicha (MYTHOS) alla filosofica o LAICALE (LOGOS), che in modo distinto
vengono più tardi. Secondo la comune leggenda, tra l'istituzione della scuola ITALIOTA,
il suo prevalere anco negl' istituti civili, e la sua persecuzione, corsero
pochi anni; il quale rovesciamento di favori popolari si dà presto a un uomo,
tardi a un potente consorzio d'uomini. La storia di Pitagora, simbolico in gran
parte, ha natura di leggenda; e sogliono le leggende avvicinare tempi lontani.
Indi le confusioni dette di sopra. Nella
scuola pitagorica son chiare e molte le vestigia orfiche; talchè l'antichità di
queste palesa l'antichità di quella che le raccoglie; com'elle poi diminuiscono
in progresso, e appena si scorgono negl' lonj. I Pitagorici han forma di
consorteria, e tra loro è comune e costante un corpo di dottrine. Ciò rammenta,
o signori, gl’usi orientali che sempre più si perdono nelle repubblichette
popolari; e rammenta l'antichità più remota, dove più vale l'unione e
l'autorità. Aristotile dà la filosofia de' Pitagorici come una, e vi scopre
solo differenze accidentali. Le tavole d' ERACLEA, lette dal Mazzocchi (come accennai
già), mo strano un incivilimento anteriore, e quindi un'antica preparazione
alla scienza. E delle prove d'antica civiltà nelle genti d'ITALIA recherò qui
cosa che pare non fosse disputata fra' Greci, val a dire ch'essi, come dice
Taziano (Or. contra Greci) prendessero da’ TOSCANI la plastica. Cousin dimostra
con le autorità non ricusabili di Sozione, d' Apollodoro e di Sesto che
Xenofane nasceva il 620 avanti l'èra volgare, un 60 anni circa prima di
Pitagora stando agli anni di Meiners. Ora, se la dottrina di Xenofane tenne del
Pitagoresimo, come mai sarebb'egli tanto più vecchio del suo maestro? Se
bisogni stare alle memorie greche talquali, i capi della scuola pitagorica di
CROTONE e di VELIA vennero d'Ionia; men frechè in lonia correva un tutt'altro
pensare. Qui, prendendo la cosa talquale, v'ha due inverisimiglianze, prima che
ne luoghi de' capiscuola non ci avesse quell'indirizzo di speculazioni, come
sarebbe assurdo che d'Alemagna venissero in Italia fondatori d'eghelismo e là
non n'apparisse il focolare. Seconda, che piuttosto que' filosofi cercasser
favore in Italia, sé qui non preparato il terreno. Ma tutto si concilia, quando
il silenzio delle mete, in tanta oscurità di tempi dissero all'incirca il più
rinomato, tacquero il meno, senza negarlo bensi, chè non lo conobbero forse.
Dissero la scuola ionica, tacendo la scuola religiosa comune là ed a'
Magnogreci, O ITALIOTI, perchè più celebre qui; dissero i più famosi capi delle
scuole ITALIOTE, tacendo le lontane e recondite preparazioni. E ch'elle ci
fossero, mostra il celebre passo di Platone che fa dire a Zenone di VELIA. Queste
opinioni sull'uno cominciarono da Xenofane, anzi da più antichi di lui. (Soffista.)
Brandis e Ritter crederono s'alludesse ad avere quella dottrina germe innato
negl' intelletti. Al che ripugna Cousin e con ragione. Prima, qui si parla
storicamente e non teoreticamente. Poi, se volesse allu (lere a germi naturali
e senz' origine, come mai, anzi, parlerebbe Platone di cominciamento anteriore?
(te 2.2.1 i te tepisºsv č.pčarevov). De primi Pitagorici non v'è scritti;
scrissero i più vicini al tempo di Socrate; e ciò per l'uso degl'insegnamenti
orali, per la costanza delle tradizioni e pel segreto delle dottrine religiose.
Or tutto ciò è segno d'antichità e risponde agli usi orientali. Nella scuola
ionica poi sembra che fino il primo, cioè Talete, scrivesse versi,
probabilmente prose (Diog. Laert. I, 34, Plut. de Pitiæ Orac. 18, Arist. Phys.
); il che mostra un fare più nuovo, e desiderio di stabilire la novità. L'uso
di non iscrivere, uso lasciato si tardi da ' Pita gorici, spiega ben anco il
perchè sembrò più recente « lella scuola ionia il pitagoresimo: più recenti
erano le scritture, non la loro filosofia. Recherò infine (lue singolari
testimonianze di Padri greci, d'Ermia verso la fine del secondo secolo, e d'
Eusebio dottissi mo ne' libri originali della greca filosofia. Ermia, dun que,
nell'opera Derisione de' filosofi gentili enumera le contrarie opinioni loro
sull'anima, sul bene, sull'immortalità, sulla divinità e sui principj del mondo;
e poichè ha.rammentato varj filosofi, viene a Pitagora e lo distingue dagli
altri così: egli d'antica nazione. Qui, segnalare tra gli altri Pitagora per
antichità, è notabile assai. Eusebio, poi, più espressamente nelle Preparazioni
evangeliche dice: che Pitagora nacque a Samo O IN TOSCANA o altrove, ma non
greco, e ch' egli fu principe de filosofi, talchè alla filosofia ITALICA di
TOSCANA (ETRURIA) E CROTONA succedette la ionica e la di VELIA. Anzi anche Flavio
rammenta tre filosofi prischi con quest' ordine qui, Ferecide Siro, Pitagora e
Talete. Questi argomenti, la cui tesi è convalidata pure dal l'autorità di Niebuhr,
di Cousin, di Gioberti (nel Buono), di Poli (Appendice al Manuale del
Tennemann) e di Centofanti (Pitagora), e che non hanno in contrario argomenti
positivi di tradizione, o concordi autorità di storici antichi, mi fanno sicuro
che il pitagoresimo, come scuola religiosa e morale, anteceda l'altre scuole;
poi venga la di VELIA, e come più affine alla prima, e come precedente a
Xenofane stesso per la dottrina dell'unità universale; succeda loro l’ionica,
quant'al suo cominciamento bensì, non quanto alla sua continuazione che
s'accompagna (com' accade) con l'altre; e vengano infine, su che non ha dubbio,
le gative. I quali sistemi darann ' argomento ad altra lezione. vole ne SCUOLE
ITALCHE. Causa interiore del Pitagoresimo è la necessità d'una riforma morale:
da ciò l'esame di coscienza posto per principio di filosofia e di vita buona.
Cause esteriori. Si volle la riforma religiosa e morale da cui la civile, per
mezzo della filosofia. - Parti non dubbie nelle memorie degl'istituti
pitagorici. Notizie su Pitagora e sugli altri più famosi. Quali documenti
abbiamo certi sulla scuola italica. - Il Carme aureo i antico.- Le notizie che
ci danno gli Alessandrini non vanno accettate senza esame, ma nemmeno rigettate
con leggerezza. - Oggetto della filo sofia pitagorica, suo fine e metodo. —
Quali cagioni dettero impulso a quel metodo che fu applicazione d'idee
matematiche. Ma ciò non vuol dire che lal dottrina stia in un ideolismo
matematico; giacchè la monade si pensò come una forza. - Il numero
rappresentava l'attinenze o l'armo. nia; indi il simbolo musicale. Due furono i
significati del numero, it simbolico ed il reale. Verità del metodo matematico;
suoi eccessi nel pro cedere dall'astratto al concreto: esempi varj. – Si cercò
le leggi mentali della quantità effettuato nella realtà, per salire con esse a
Dio, causa, ragione e legge. Dio è principio de'principj; e poichè i principj
delle cose si dis ser numeri, Dio è il numero per eccellenza. -Questo è l'unità.
– L'unità bensi presa, non come parte d’un tutto, ma in senso generale. - A Dio
non si può applicare il concetto d'uniti nemmeno in quel senso; Dio è sopruni
tà; ma l'errore precedė dalla induzione astrattiva. Si dimostra co ' do cumenti
che il significato dell'unità pitagorica ė panteistico, ma ondeg giante tra il
vero ed il falso. - L’unità, come per gl'Indiani, parve l'indefinito che si
determina. — Grandi verità contenute nell'implicitezza di quelle dottrine. —
Dio si pensó come unità suprema di tutti i contrarj; l'universo, come i
contrarj in atto, e ridotti all'armonia da Dio. - L'uni tà generale o la monade
che si distingue in monadi secondarie, spiega lo teoriche d'allora
sugl'intervalli, sul vuoto, sull’intinito, sul finito ec. L'anima è numero, ed
è nel corpo come Dio nel mondo; è l'armonia del corpo. La verità è l'uno e il
numero; l'errore va fuori dell'armonia. -- Intelletto e senso. — Dio, ragione
prima del conoscere, perché gl’intelletti si credettero divini. Poi, perchè Dio
è il numero per eccellenza, e il nu mero è l'esemplare del mondo. Quanto alla
scienza, si sbagliò cercando sempre l'assoluta necessità razionale. Numero e
armonia il bene; disar monia il male. - Fine dell'anima intellettiva il ritorno
all'essenza pri ma. --- Come si tentó fuggire le contraddizioni del panteismo
naturale negando la cognizione diretta dell'essenza. - Xenofane tentó fuggirle
col panteismo ideale. - Cinque concetti principali di Xenofane: Dio è uno;
sommo potere; gli manca ogni contingenza e però non è nè finito nė infi nito né
in quiete nè in moto; Dio non può nascere, perchè il non ente non può dal nulla
divenire qualcosa: Dio è il tulto. — Indi segui che il mondo è apparenza. –
l'armenide stabilisce chiaro il doppio aforismo degli Eleati e degl ' Ionj, e
condanna il secondo. Muove dall'idea generale d'essere; Dio si fa più
indefinito che in Xenofane. – Tutto è idea. Melisso fa Dio più indeterminato
ancora, chiamandolo un qualcosa. -- Gli attributi della moralità non più
appariscono. – Panteismo materiale de gl'Ionj: nasce in condizioni opportune. -
Il moto delle cose vien conside rato nell’ente o nell'assoluto, ch'è la materia
eterna divina, dotata di pensiero. – Diversità nel concepire tal moto fra '
dinamici e i meccanici. E la causa prima del moto la posero diversamente in
quella cosa che più parve trasmutabile in ogni altra cosa. – Talete ba dello
spirituale anco ra; la grossolanità materiale viene crescendo. Anassayora vide
l'assur dità del panteismo, e prese il dualismo; ma non détte troppo alla mente.
— Idealismo ateo di Protagora; materialismo di Democrito; le due forme di
scetticismo particolare. Scetticismo universale di Gorgia ec. Misticismo
d'Empedocle; e perché il suo sistema paia indeterminato ed ecclettico. — Due
schiere d’uomini; gli atei e i l'itagorici di quel tempo: interpreta zione
storica, e interpretazione fisica della mitologia. Qual è mai, o signori, la
causa interna del Pitagoresimo? La necessità d'una riforma morale; necessità
profondamente sentita da uomini ornati, quanto la gentilità comporta, di grandi
virtù. Il conosci te stesso e esame di coscienza morale negli istituti
pitagorici, e fondamento altresì di speculazione; chè, nella coscienza
e'trovarono il dovere e nel dovere Dio. Cagioni esterne furono il guasto
crescente della religione, de costumi e della libertà, al quale s'oppone il
Pitagoresimo, e inoltre (com’ho avvertito più volte) le tradizioni e i commerci
d'Oriente, le dottrine orfiche ed i Misteri. Si volle, pertanto, una riforma
religiosa e morale, da cui venisse la civile; e criterio a tutto ciò désse la
Scienza. Il che spiega gl'isti tuti pitagorici su cui gli Alessandrini
mescolaron favole, ma la natura di consorteria e un culto segreto (Ritter ) e
la sostanza dell'arti educative non cadono in dubbio. La riforma religiosa si
tentò co’riti e dommi segreti; la morale con l'opporsi a tre vizi, voluttà,
superbia ed avarizia, ed esercitando anima e corpo nella musica e nella GINNASTICA;
la civile, domando la licenza con abiti disciplinati ossia con l'autorità (curos
pz) e con la vita comune. Il discepolato morale prepara così alle speculazioni,
e, preparato, s'eleva l'alunno a gradi più alti e più liberi. (Centofanti,
Pitagora; Puccini.) Circa Pitagora o di Samo nella lonia o di Samo nella Magna
Grecia in ITALIA, poco v'ha di sicuro e con mescolanza di simboli; pare
tuttavia che un fondamento storico v’ha e ch'egli e uomo di molta dottrina e
virtù. Per la dimenticanza in che vennero le colonie di Magna Grecia in ITALIA e
tutte le antichità italiche dopo le conquiste di ROMA, e per la guerra feroce
contro i Pitagorici, non ne sappiamo quasi nulla; li sappiamo bensì a lor tempo
in molta riverenza. Si rammentano con più certezza LISSIDE, CLINIA, ED ARCHITA
cittadini DI TARANTO in Magna Grecia, EURITE E FILOLAO o di TARANTO o di CROTONE.
ARCHITA, il più celebre di tutti, capitana più volte gli eserciti, e non ha mai
la peggio; buon padrefamiglia e cittadino, domatore di sè stesso, famoso per
invenzioni e scoperte in musica ed in matematica e per libri d'agricoltura. La
scuola pitagorica venne atrocemente perseguitata; molti fra gli scampati, o si
rifuggirono in Grecia o si sbandarono in ITALIA. Sembra che l'odio movesse da
opinioni politiche, parteggiando essi per GL’OTTIMATI; ma chi badi alla
segretezza del culto attestata da Erodoto, e alla tradizione che un capopopolo
attizza le ire, invelenito dal non es sere accolto nell'adunanze, s'accorgerà
che trattasi qui, come per Anassagora e per Socrate, del politeismo volgare
geloso e persecutore. Gli scritti col nome di TIMEO, d'ARCHITA e d'OCELLO
LUCANO sono apocrifi, e i frammenti di BRONTINO e d'EURISAMO; ma non quelli di
FILOLAO (vedili nel libro di Boecckh su FILOLAO, e Ritter); i quali col carme
aureo e con ciò che narra Platone ed Aristotile sulla scuola ITALICA, ne dánno
contezza. Nel sostanziale di essa gli storici vanno d'accordo. Quanto al Carme
aureo, e's'attribuì a FILOLAO, a EPICARMO, a LISIDE, a EMPEDOCLE di Girgenti,
da Crisippo a'Pitagorici. Sta il Mullachio per LISIDE; e: mostra, comunque, che
ne' versi aurei non v'ha nulla di non antico, e come un alemanno, secondo
l'usanza di molti critici odierni, neghi l'autenticità pel dubbio di tre’ sole
parole, che a lui non paiono antiche; e antiche le dimostra il Mullachio. (Fragm.
Phil. Græc. Didot). Le relazioni che ci danno del pensar pitagorico gli
Alessandrini, non vogliono accettarsi senza discrezione; chè in loro la critica
è poca, molta la voglia d'interpretare a lor modo gli antichi; tuttavia dire
come si dice) che il Pitagoresimo, quale dagli Alessandrini si descrive, non i
meriti fede per le grandi somiglianze con Platone, è dir troppo, sapendosi negli
Psilli di Timone Fliasio che quegli ebbe in gran pregio i Pitagorici: « E tu, o
Platone, giacchè ti possedeva l'animo il desiderio di sapere, comprasti con
gran pecunia un piccolo libro, da cui imparasti a scrivere tu pure il TIMEO. (Fragm.
Phil. etc. ) La filosofia de' Pitagorici, come tutta la filosofia antica, come
la filosofia d'ogni tempo, meditò i primi prin cipj dell'essere, del conoscere
e dell'operare. Il pensiero della causa suprema ch'è ragione e legge, vediamo
bene da tutte le loro memorie che occupò quegl'intelletti for temente. Fine
della filosofia parve loro ed a tutti gli antichi, la liberazione degli errori
e de' mali comuni, ma con tal divario dagl'Indiani, che la speculazione dovesse
congiungersi all'operosità civile. Metodo di filosofare fu il matematico; cioè
l'applicazione d'idee matematiche alla natura universale, così esterna come
interna, e al suo principio. Onde mai tal metodo? quali cagioni gli dettero im
pulso? Già negli antichi v'ha inclinazione di filosofare a priori sul mondo
(sebbene l'esperienza, anch'esterna, non s ' escludesse dai Pitagorici), perchè
mancavano gli stromenti; poi, premeva più lo speculare teologico, re cato
altresì nella fisica; e le lunghezze d'una fisica os servatrice non si
comportavano in tempo, che i varj studj non erano scompartiti tra più dotti.
Inoltre l'arimmetica e la geometria vennero d'Asia, nate tra le scienze più
antiche, perchè non bisognose d'osservazione. Altresì di tali scienze s’aveva
necessità tra popoli commercianti e tra colonie che dissodano terreni,
asciugano paduli, e scavano canali. Più, la discordia tra' politeisti e il mono
teismo - antico fece spiccare, quant'al concetto di Dio, le nozioni d'uno e di
moltiplice, come anche si scorge nel vecchio Testamento. Infine, tempo é spazio
ci danno la quantità, e sappiamo che l'induzione falsa indíava, come ne' Vedi,
lo spazio e massime il cielo (onde l'uranismo), e il tempo (onde l’Aherene de'
Persiani, il Crono de Greci, il Saturno de' Latini), talchè le tradizioni
orientali e or fiche, cadendo in tali concetti, davano impulso a quel modo di
filosofare. I Pitagorici, dunque, parlano dell'uno, del due, del tre, del dieci
e delle combinazioni loro allorchè discor rono del mondo e di Dio. Ma si vuol
credere forse che tal metodo li riducesse a vane astrazioni? ossia, ch'e'sti
massero Dio e il mondo idee matematiche e nulla più? In altre parole, il
Pitagoresimo fu egli un idealismo matematico? No, sicuramente; Aristotile lo
spiega chiaro dicendo: ch'essi stimarono le cose una imitazione de'numeri
(μίμησιν είναι τα όντα των αριτμών. Μet.). Imitazione, dunque; a leggi di
numero, cioè, rispondono le cose; e la mente ritrova l'une nell'altre; e in
questo è la scienza. Anzi (e va notato accuratamente ), che mai restava pe'
Pitagorici, levato il composto? Restava la monade. E che cos'era la monade?
Forse un'astratta unità, o l'atomo indifferente inattivo di Democrito e di
Leucippo? No; ma l'essenza ch'è una forza: il concetto di forza o d' attività
prevale nel Pitagoresimo, così ri spetto a Dio come rispetto al mondo. Di
fatti, e ch'è mai, secondo i Pitagorici, l'ordinamento universale se non la
continua limitazione (o determinazione) dell'inde finito? Ciò resulta da molti
riscontri, ma singolarmente dallo specchio de contrarj (di cui parleremo).
Inoltre, Dio per que’ filosofi è mente e causa o principio; causa è l'anima; e
causa d'ogni armonia è l'unità. (Frag. di FILOLAO; Siriano, Com. Met. d '
Arist. XIII; Ritter St. Fil. ant.; Bertini, Idea d'una Fil. della Vita) Quindi,
pe' Pitagorici, le leggi del numero e della geo metria rappresentavano
l'attinenze; cioè, significavano il rispetto d'una cosa all'altra, e d'uno
all'altro con cetto, l'armonie particolari e l'universale; da ciò i lor simboli
musicali. Si dica pertanto, o signori, che per la scuola italica eran due i
significati del numero; significato simbolico e reale. È significato reale
quando noi diciamo: Dio è uno e le creature sono moltiplici; e così dicevano
essi che Dio è il numero per eccellenza, cioè l'unità e la totalità d'ogni
perfezione. È significato simbolico quando s'astrae i numeri a significare gli
oggetti; come dicendo (per esempio) l'unità e il numero, e s'intendesse Dio e
le creature; così parlavano più spesso i Pitagorici. Al lora si fa come
l'algebrista un linguaggio figurativo. assai comune agli Orientali; e ciò
toglie l'apparente stranezza delle parole. Il metodo matematico ha egli verità?
Certo non manca di buon fondamento, perchè tutto nel mondo si distingue o
d'essenza o d'accidenti o di parti, di gradi o di potenza o di atti; e tutto,
dunque, è capace di numero e di misura. Per altro, le leggi matematiche non
hanno da cercarsi a priori nella realtà, bensi con l'osservazione; come
Galileo, osservato il cadere de corpi, vi scoperse la quantità del moto
crescente. Trovata la legge matematica, s'applica poi a nuove scoperte, come
dalla legge matematica delle oscillazioni s'inventò il pen dolo. Chi volesse
procedere a priori, sbaglierebbe, perchè dalla idealità non si può concludere
la realtà contingente; per esempio, dall'idea d'un circolo non si può conclu
dere ch'e' si dia in natura. Bensì, nella realtà si scopre ognora leggi ideali
a cui essa risponde sempre (come le proporzioni tra spazio e velocità nella
caduta son sempre le stesse ), ed anche, esemplando il reale all'ideale, quello
vi combacia, come, facendo un circolo, i raggi gli ha sempre uguali. Ebbene la
scuola italica non ignorò i buoni metodi della osservazione e delle matematiche
applicate; già ho notato le dottrine fisiche d'Archita; del metodo sperimentale
di Polo ci ragguaglia Aristotile (Met.); le dottrine musicali d'allora fan
supporre molti esperimenti; Erodoto scrivche i medici italiani erano i più
reputati; e tutti sappiamo le meraviglie d'Archimede. Tuttavia il metodo
astratto ebbe il diso pra. Così, rappresentando il principio, il mezzo ed il
fine col numero tre, lo vedevano in ogni cosa; però Filo lao divideva il mondo
in tre parti. Il numero dieci è compiuto in sè stesso, perchè si compone
sommando i suoi quattro numeri primi? ebbene, dieci i pianeti. Cin que i corpi
regolari nella geometria? dunque altrettanti gli elementi, e ciascun d'essi n '
ha la figura; la terra ha il cubo, il fuoco la piramide, l'aria l'ottaedro,
l'ac qua l'icosaedro, l'etere il dodecaedro; e dunque, altresì cinque i sensi.
Se i quattro numeri primi, sommati tra loro, fanno il dieci; e se i quattro
numeri pari (2, 4, 6, 8 ) e i quattro numeri dispari (1, 3, 5, 7), sommati, fan
tutt'insieme trentasei, la tetrattisi o quadernario dovrà riscontrarsi nelle
cose; e quattro, per esempio, sono i gradi della vita: minerale, pianta,
animale e uomo; e, ne' corpi, il punto è unità, la linea è qualità, la super
ficie è triade, il solido è quadernario, si compone, cioè. di quattro punti.
Questo metodo, applicato alle cose dell'esperienza, riuscì arbitrario non di
rado, e se, inalzato a Dio, ne guastò il concetto per l'astrazione dell'
indefinito; pure, accompagnato come fu da tradizioni buone, da molte virtù
morali, da preziose osservazioni interne ed anco esterne, ed eccitando la
speculazione, fece sorgere tra gli errori belle e profonde verità. Quel metodo
era (com’ac cennai): trovare le leggi mentali della quantità geome trica e
arimmetica effettuate nella realtà e salire con queste alla prima cagione, alla
prima ragione ed alla prima legge. Però dice FILOLAO che l'intendimento mate
matico è il criterio di verità. La prima cagione dell'essere, che è ella mai?
Sic come i Pitagorici voller trovare i principj delle cose e il principio de
principj, così precede il quesito: che son mai tali principj? Risponde
Aristotile: « I Pitagorici, educati nelle matematiche, dissero i numeri esser
prin cipj delle cose. » (Met.) cioè tutte le cose si ridu cono a leggi supreme
di numero, e queste leggi costi tuiscono la loro essenza. Or bene, che cos' è
la prima cagione? È il primo principio, per Filolao; è la causa che antecede
ogni altra causa, per Archita: « quam Are chytas causam ante causam esse
dicebat, Philolaus rero omnium principium esse affirmabat. » (Siriano, alla
Met. Storia della Filosofi. - 1. 18 l'
Arist. XIII. Dunque se i principj delle cose son numeri, il primo principio è
tale altresì; o, come diceva Hierocle nel commento al Carme aureo (Fragm. Phil.
Græc.): « Se tutto è numero, Dio è numero. » Che nu mero? Il numero per
eccellenza. Che cos' è il numero per eccellenza? Vediamolo. Il moltiplice fa
supporre l’unità; e l'unità n'è sem pre il principio; così abbiamo solido,
superficie, linea, punto; questo è il principio della linea, della superficie e
del solido. Dunque Dio, ch' essendo il primo principio, è il numero per
eccellenza, è altresì l'uno per eccellenza. (Aless. Afrod. Comm. alla Met. d '
Arist.) Resta da ve dere che cosa sia l'uno per eccellenza. L'unità,
idealmente, si può considerare e qual parte che compone la pluralità, e quale
idea generica che abbracci la pluralità stessa. Diciamo: il venti è compo sto
d'uno più uno, più uno ec.; ecco le unità che com pongono un tutto. Diciamo
ancora: una ventina, un centinaio, un migliaio, un milione; ecco l'unità gene
rica che abbraccia ogni numero, considerato come unità. Nel primo caso, l'unità
è l'elemento della pluralità; nel secondo, è la forma mentale che fa capaci di
compren dere in un concetto le moltiplicità sparpagliate. E in tal senso
l'unità si può chiamare il numero per eccel lenza, giacchè abbraccia ogni
numero. Or bene, o signori, si può egli applicare a Dio l'idea d'unità ne'
detti significati? No; Dio non è il compo nente della moltiplicità; nè Dio è un
che generico e comune alle moltiplicità particolari. L'unità di Dio è, a dir
così, una soprunità, come, secondo i Teologi, le rela zioni personali della
Trinità son soprannumero. (S. Aug. in Joann. Evang. ) Si dice uno per negare il
moltiplice, nulla più; e chi confonde l'analogia di tali concetti col
significato proprio, o cade nel panteismo, o accusa erro neamente la filosofia
e la teologia. Si domanda, per tanto: la scuola pitagorica usò que' concetti
nel signi ficato vero? Da’tre frammenti di Filolao apparisce che Dio per lui è
imperatore sommo e duce, uno, eterno, permanente, immobile, simile a sè stesso,
diverso dal l ' altre cose, potentissimo, supremo, e che solo conosce l'essenza
eterna. Anzi, Siriano nel luogo già citato dice, che pe' Pitagorici Dio è una e
singolare causa, astratta « la tutte le cose, e superiore alla dualità de'
principi, la quale vedremo più qua: « Ante duo principia unam et singulam
causam, et ab omni abstractam præponebat. Parrebb'egli, dunque, che l'unità de'
Pitagorici sia nel senso buono? Bertini interpreta più benignamente che si può
certe opinioni pitagoriche. le quali ne farebbero dubitare; e tuttavia
conclude: « Il sentimento religioso e morale gl'induceva a collocare Dio molto
al disopra del mondo; ma il fato della logica li forzava sovente ad
immedesimarli in una sola sostanza e ricacciavali nel panteismo. » Che vuole
dir mai fato della logica? Vuol dire la necessità di certe conse guenze, dati
certi principj. Or via, quali son dunque i principj che menavano al panteismo,
non ostante l'alte verità frammischiate in abbondanza? Era, appunto, il
concepire Dio quasi unità generica, o numero per eccel lenza; e questo in
grazia della non buona induzione. Di fatto, poichè i numeri son pari ed impari,
e l'unità, cioè il numero genericamente preso, s'estende ad en trambi; così la
scuola pitagorica chiamò Dio pari ed impari, e diceva che l' uno è l'essenza di
tutte le cose (Arist. Met. I ); l'essenza delle cose chiamata eterna (la FILOLAO;
che inoltre affermò, le cose diverse e con trarie non istarebbero senz'armonia,
e tale armonia è il numero per eccellenza, cioè Dio; aggiunse, che tal numero è
legame all'eterna durata del mondo; anzi (e questo val più ), esso legame
produce sè stesso. (V.framm. i FILOLAO nel Ritter. St. della Fil. ant.)
Finalmente. Dio pe' Pitagorici è limitato ed illimitato ad un tempong 11pTLOTES
PITTOy, Arist. Met. 1. ) Par dunque certo ch ' essi concepivano Dio com'unità
generica, in cui s 'uniscono potenzialmente i contrarj del mondo, pari e
dispari, femmina e maschio, male e bene, e via discorrendo; contrarj che si
distinguono attualmente quando il potenziale viene all'atto, e l'illimitato si
limita, e l'essenza universale (conosciuta solo da Dio, cioè da sè stessa) si
determina mano a mano ne' fenomeni. Dubitò il dotto Bertini che s'intendesse
da' Pitagorici, non dimmedesi mare le cose in un' essenza, ma d'accennare che
Dio la in sè i contrari perchè li supera. E non esito punto a dire che ciò e '
tenevano forse, ma in confuso, e la con fusione generava il panteismo. Di
fatto, se quel concetto era limpido, essi non avrebber detto che Dio è pari ed
impari; giacchè i contrarj sono il modo finito delle per fezioni mondane, e
però non si contengono in Dio. Si risponderà: noi n'abbiamo un'idea più chiara.
Va bene; se i Pitagorici avesser capito chiaro come Dio superi l'universo
infinitamente, le parole chiare l'avrebber tro vate anch'essi. Anzi, l'infinito
lo pigliavano per l'inde finito o potenziale; e quindi, il finito sembrò a loro
il perfetto, e l'infinito l ' imperfetto. Aristotile serbò lo specchio delle
contrarietà in dieci antitesi (dispari e pari, finito e infinito, uno e più,
quiete e moto, luce e tenebre, bene e male ec. ), fatto da qualche Pitagorico;
e Simplicio notò come le contrarietà si comprendano si risolvano in Dio. (Arist.
Met. I, Simpl. Phys.) Inol tre, come il mondo era la decade, cioè la pienezza
d'ogni grado d ' entità, e così Dio; che riceveva nome d'ogni numero, unità,
diade, triade, quadernario (o solido), set tenario, decade. Dimodochè pe
Pitagorici, come per tutta la filosofia pagana (avvertite, o signori ), il
quesito della causa pri venne a quest' altro: Come si limiti 1 illimitato;
ossia, pensarono gli antichi che la produzione del mondo consistesse nel
determinare in atto la potenzialità prec sistente: talchè Filolao pone tre
principj, l’illimitato. il confine, e la causa (το απειρων, το πέρας, το αίτιον
). Il che parve in due modi: i Pitagorici, com’i pan teisti ionj e indiani,
dissero che quel potenziale sta in Dio; i dualisti, che e' sta fuori di Dio, ed
è la mate ria informata da esso. Nella scuola italica, poi, la im plicitezza
de' concetti adombrò alte verità; Dio (per ma esempio), legame del tempo e
dello spazio, se non si prende com ' identità d'ogni essenza, vuol dire
benissimo che l'unità divina con l'unico atto creatore e conser vatore fa
l’unione del moltiplice disgregato: però Dio è l'armonia dell'armonie. Che
cos'è dunque Iddio pe' Pitagorici? L'unità su prema di tutti i contrarj. Che
cos'è l'universo? I con trarj in atto, e ridotti da Dio all'armonia. Come
l'unità generica non diviene numero se non si distingua in unità determinate o
particolari, così la monade suprema non genera il mondo se non si distingua in
monadi o so stanze particolari. Che si richiede, o signori, a formare il numero?
L'unità e la distinzione d'un'unità dall'al tra. Ma la distinzione, considerata
mentalmente, non è forse un concetto negativo e indeterminato, dacchè si
gnifichi che l'una cosa non è l ' altra? Or bene; e pen savano essi che a
formare l'universo ci voglia le unità o monadi particolari, poi la loro
distinzione; ossia, come (lice Aristotile, elementi positivi da un lato,
elementi nega tivi dall'altro. Da queste due maniere d'elementi si fa tempo e
spazio; nel tempoi momenti e la distinzione di un momento dall'altro, cioè
gl'intervalli; nello spazio i punti e la distinzione d’un punto dall'altro cioè
il vuoto. Tal cosa venne simboleggiata con l'ispirazione del vuoto; ossia
distinguendosi le monadi, il vuoto entra in loro com'aria ne’polmoni. I due
elementi, il positivo ed il negativo, uniti tra loro, fanno la diade o il pari;
l'ele mento positivo o l' unità, così sola come aggiunta al numero pari (per
esempio il tre), fa il dispari. Ed ecco, o signori, l' unità nell'altro senso
ch'io spiegava di sopra, cioè nel senso non generico ma particolare di compo
nente il composto. Talchè l'unità nel senso generico è Dio; le unità nel senso
particolare fanno il mondo. Ed ecco altresì perchè si diceva da’ Pitagorici che
il pari è illimitato, illimitato perchè il vuoto e l'intervallo (o la
negazione) è in astratto un che potenziale, può ricevere distinzione da' punti
e da’ momenti all' indefinito. Si diceva per contrapposto che il dispari è
limitato, giacchè chiude l'intervallo ed il vuoto tra due estremità positive o
tra due monadi, riduce in atto la potenza, e si fa la triade, numero perfetto
che ha principio, mezzo e fine. Voi capite, o signori, come per la teorica
de’toni e degl' intervalli si vedesse analogia tra la musica e l'universo. Il
quale, venendo dall'essenzá eterna come necessario svolgimento d'attività, non
ha reale comin ciamento, è ab eterno; comincia sì, ma quant' al nostro pensiero
(-o iniyocav), ossia il pensiero nol può con cepire altrimenti. Nè s'avvidero
essi che se il pensiero nol può concepire senza cominciamento, segno è che l'op
posto è irrazionale. Che cos'è l'uomo nell'universo? Un'anima razionale che sta
nel corpo come in u sepolcro, dice FILOLAO. L'anima è numero e armonia (Plut.
De plac. phil. IV, 2 ), o monade che riduce ad unione la moltiplicità del corpo
e n'è principio di vita e causa motrice. Se Platone confutò nel Fedone la
sentenza che l ' ani ma è armonia, combatte i materialisti che ponevano l'anima
com'un risultamento dell'unione corporale, an zichè com’un principio di essa, a
mo' de ' Pitagorici. Ma Platone invece s'accorda con Filolao dicendo, che l'ani
ma è sepolta nel corpo. Se non che in Platone ha senso più dualistico; ma ne’
Pitagorici significò (badando noi alla totalità delle lor opinioni), che come
Dio è l'anima del mondo, e vien da essa immediatamente l'anima uma na (V.
Ritter e Bertini), così vien dalla terra, infima ne'gradi dell' entità e delle
emanazioni tutte, il corpo. Derivano da tutto ciò le teoriche sulla ragione som
må del conoscere e sulla legge dell'operare. Come l'en tità, così la verità è
l'uno e il numero, e l'errore va fuori dell'armonia; talchè come il numero fa la
misura di ciascun ente o la specie loro, e fa l' attinenze del l'uno all'altro,
così la verità è nell' attinenza dell'in telletto con le specie degli enti e
con le loro attinenze. Ma come si conosce da noi? Il simile col simile; però
distinse la scuola italica il senso dall' intelletto come in due parti (Cic.
Tusc. IV, 5 ); l'intelletto è divino e si conosce per esso (benchè in modo
relativo, dice Filolao) la divinità della natura; il senso è terrestre, e si
conosce per esso il fenomeno o l'apparenza sensibile. Ragion prima del
conoscimento è dunque Dio; ma com’es senza prima degl'intelletti. In Dio sta la
ragione pri ma, non solo perchè raggiano da lui gl'intelletti, ma perche Dio è
numero, e il numero è l' esemplare del mondo; esemplare riconosciuto dall'
intelletto. (V. il Cou sin e lo Stalbaum, ambedue nel commento al TIMEO) Però,
avvertite, o signori, la scienza pe' Pitagorici, come per ognuno che n'abbia
vero concetto, stette nel ritro vare la necessità razionale di ciò che
conosciamo. Essi voller saper non solo ciò che è ed accade, ma perchè ciò
dev'essere ed accadere. Tuttavia successe a loro quel che ad ogni panteista; si
credè di trarre a priori le cose dal conoscimento dell'essenza universale, come
le pro prietà d'un triangolo. Ma invece, e lo dissi altrove, la necessità
razionale (eccetto la ontologia e la teologia naturale e le loro applicazioni e
le matematiche) sta solo in vedere come, supposto un che, ne venga di neces sità
un altro per attinenza; ad esempio, data la per cezione, non può non essere il
corpo, o data la volontà negli uomini che son razionali, non può non essere la
libertà. L'assoluta necessità vedesi solo dove può trarsi l'illazioni da
un'idea, anzichè sperimentare de' fatti; nel resto è necessità ipotetica, e non
altro; o anco è sola contingenza. (V. Lez. I. ) Come l'entità e la verità sono
numero, negazione la potenzialità indefinita e l'erro re, così è numero ed
armonia il bene, disarmonia o ne gazione il male. (Arist. Met. I.) Il bene è
misura, il male è dismisura: da ciò quel detto pitagorico: « La misura è
ottima, pétpov Žpustov. » E come Dio è l'ar monia universale, il numero per
eccellenza, egli è il bene o misura o legge. Però, come l'intendimento va per
armonie matematiche e musicali, così la volontà; e indi nasce la virtù, ch'è
numero dentro di noi, componente la discordia degli appetiti (Carme aureo,
57-60 ); numero fuor di noi nell'educazione della famiglia e della città.. (Fragm.di
LUCIANO OCELLO ) Allora l'anima si va conformando a Dio (ov.02.09749. Tapos to
delov ); la disforme da Dio passa in corpi diversi con la metempsicosi od è
punita nel Tartaro; la conforme a Dio ritorna nell'essenza ond'ella emanò. »
Sarai, dice il Carme aureo, un Dio immorta le, incorrotto, non sottoposto a
morte (v. 71: ETEL 0212. τος θεός, άμοροτος, ούκ έτι θνητος). Signori, chi non
mirerà, in mezzo a quell'ombre, la luce di sì alte dot trine? Ma, tralignando i
tempi, la filosofia traligno. Il sistema pitagorico è, quant'a'principj, un
pantei smo naturale; perchè l'unità per eccellenza vi comprende lo spirito e la
materia, distinti poi come tutte l'altre contrarietà. Come voleva egli scappare
il Pitagoresimo alla contraddizione suprema d'identificare tutte le contrad
dizioni? Dicendo che non conosciamo l'essenza in modo diretto: quasichè importi
tal conoscenza per escludere l'assurdo. La scuola di Elea tentò fuggire la
contrad. dizione, escludendo la materialità, il moltiplice ed ogni mutamento, e
così creò un panteismo ideale. Xenofane, nato a Colofone d'Ionia il 620 av. G.
Cri. sto, venne assai tardi a VELIA città di Magna Grecia. L'idealismo suo
nasceva prima di lui; ma egli lo recò a sistema. E l'idealismo nasceva per più
cagioni; pri ma, com'ho detto, ad evitare le contraddizioni del pan teismo
naturale; poi, perchè il sistema idealistico ha dello scetticismo, a cui ora
pendevano i Dorj non più austeri, e più gl'Ionj (ionica pure la colonia d'Elea);
scetticismo voluttuoso e mesto che apparisce nel poeta Mimnermo, di Colofone
anch'esso, e in alcuni versi di Xenofane; inoltre, già il sistema pitagorico,
benchè com prensivo, faceva prevalere i concetti spirituali, però Xeno fane,
vissuto a lungo in Ionia, venuto poi in Italia, mostra nell'ontologia
l'idealismo italico, ma nella cosmologia la fisica degl'Ionj. Egli scrisse in
versi, e ne resta frammenti, da cui, com'anche da Platone e da Aristotile, si
rileva le sue opinioni. (Fragm. Phil. Græc. Didot. ) Uscì di patria per le
invasioni Lidie, viaggiò in Sicilia, si fermò in VELIA; e visse più che
centenne. (Censorino.) Xenofane ha di Dio un'idea sublime. Egli è uno, non
simile all'uomo, immoto, è tutto vedere, intendere e udi re. Ma si deve, o
signori, notare cinque concetti che formano il sostanziale del sistema. Dio è
uno. Xenofane tolse il principio pitagorico che l'uno si converte con l'ente;
però Dio, entità suprema, è uno. L'unicità di Dio, Xenofane la provò benissimo
per un secondo concetto ancora, ch'è la potenza. Voi sapete già, o signori, che
per la scuola italica l'unità o la monade o l'entità (vocaboli equivalenti) è
forza, è un'energia. Ciò pure affermò Xenofane; e però Dio, ch'è l'ente, è
sommo po tere (20 % TELY ): quindi se più dèi uguali, nessuno è po tentissimo
per l'eguaglianza, se più dèi inferiori, nes suno è potentissimo per
l'inferiorità. Talchè Xenofane, riprensore d’Esiodo e d'Omero, scherniva
com’empie le superstizioni volgari, e, diceva, se i cavalli sapessero di
segnare, fingerebbero gli dèi a loro sembianza. Traeva da ciò un terzo concetto;
che a Dio manca ogni contin genza, finità e infinità, moto e riposo. L'infinità?
In che senso la nega egli Xenofane, e contro chi? Nel senso d'illimitato o
indefinito che si determina con atti successivi; contro i Pitagorici pe' quali
Dio è infinito e finito ad un tempo, si distingue nell'universo e vi si muta
perennemente, benchè immutato nell'essenza: for s'anche, dove Xenofane accenna
il moto e il riposo, con futa le opinioni degl' Ionj già cominciate e già oppo
ste all'ITALICHE più antiche, ma pe' Pitagorici ancora Dio comprende in sè le
contrarietà fra cui Aristotile notò (come vedemmo) il moto e la quiete,
ugualmente che il finito e l'infinito, il finito ch'è quiete, l'infinito
(indefi nito ) ch'è moto. Crederemo noi dunque, o signori, che quest'altra
verità, in Dio non essere contingenza, con ducesse gli Eleati al Dio creatore?
No; e si scorge dal l'esame d'un quarto concetto, per sè vero, ma falso
nell'applicazione: Dio non può nascere. Va bene; ma per chè? udiamolo, signori;
il perchè ce lo dà il trattatello De Xenophane, MELISSO e GORGIA, attribuito ad
Aristo tile, non di lui forse, antico ad ogni modo. Si dice, adunque: Dio non
può nascere, perchè l'ente non può non essere, e il non ente non può dal nulla
divenire qual cosa. L'ente, ch'è per essenza, certo non può non essere; ma il
non ente nel significato di Platone e pitagorico è il contingente; che può non
essere appunto, giacchè non è per essenza sua propria, bensì dall'ente.
Xenofane, per altro (notate, vi prego, siguori), prese il non ente in
significato di nulla, e il nulla è impossibile sia mai altro che nulla; ma ciò
che diventa, è nulla in sè, nulla non già nella potenza causatrice. Che ne
conchiudeva Xenofane? Non solo che non si dà creazione, ma che non si dà pure
causalità nessuna; non v'ha che l'es senza immobile, infeconda, inaccessibile. (ch'è
dun que il resto? o quel che ci pare in continua mutazione? Fenomeno,
apparenza, illusione, e nulla più; talchè la fisica che si fa con l'apparenze è
illusoria, non è scien za. Però egli disse in un verso: « Queste cose (del
mondo) non hanno altra vita che l'apparenza, e appartengono alla opinione. (Plut.
Symp. IX. ) De' dubbj di Xeno fane sul mondo parlo altresì Timone Fliasio ne'
Psilli. (Fragm. Phil. Græc.) E per provare ciò s'adoperava un quinto concetto:
che Dio o l'ente è tutto, o intero. (Fragm. di Xenoph.) Che vuol egli dire?
Cerchiamolo. Che idea vi dà, o signori, l'infinità? Certo, pienezza d'es sere,
cioè che ivi non ha mancamento. Ma tal pienezza significa forse il tutto? No,
chè tutto è idea relativa: tutto, implica parti; e quindi ogni tutto può essere
più o meno, come numero ch'egli è; nè numero assoluto si dà; mentre assoluto è
l'infinito. Or bene, l'induzione astrattiva concepisce il mondo com'un tutto e
confonde l'infinità (come pienezza d'essere) con l'universo. Così accadde agli
Eleati; e però Aristotile scriveva di Xeno fane: « Contemplando egli il tutto
del mondo, disse che l'unità è Dio. » Indi l'aforismo eleatico, uno è l'ente e
il tutto (ey to y uzi có Tiv). Che si concludeva mai da questo? Poichè al tutto
non manca nulla, e l'ente è il tutto, nulla può cominciare, perchè sarebbe
aggiun gimento: quasichè, o signori, ciò che viene dall'efficienza creatrice
aggiungasi all'infinità. E però vedete, che dove gli Eleati pareva negassero l
' indefinito pitago rico, van poi al medesimo vizio; perchè si piglia Dio
com'un tutto generico, che viene simboleggiato con lo sfero. Resta da sapere
che foss'egli per Xenofane l'ente o Dio. È ragione assoluta, intelletto
essenziale. (Fragm. di Xenoph.) Che v'ha dunque più di pitagorico negli Eleati?
Si lasciò la parte corporea ed ogni moto e restò la spirituale, divina ed
immutabile; quindi è un pan teismo ideale. Il qual sistema si continuò in PARMENIDE,
e ZENONE. Di PARMENIDE di VELIA dice Plutarco (Adv. Colot.) che détte alla
patria leggi avute in grande amore. Zenone di VELIA, scolare di Parmenide, amo
di cuore la patria, e poichè un tiranno lo condannò a morire, sostenne da uomo
il supplizio: Melisso di Samo fiori verso l'84a Olimpiade, seguì PARMENIDE DI
VELIA, fu uomo di Stato, e capitano gl'ITALIOTI contro Pericle. Questi gli
Eleati (VELINI) più famosi. L'opinioni di PARMENIDE vi son date assai chiare
ne' frammenti del suo poema. (Fragm. Phil. Græc. Didot. ) E che si trova in
quelli fin da principio? I due aspetti, già separati da Xenofane: l'ente, che
unico è; e il non ente o l'apparenza, che non è: non è, o signori, in modo
assoluto e non già perchè semplice contingenza. Ci ha due vie, scrive PARMENIDE,
di filosofare: 0 porre che l'ente è e che il non ente non è (70 ury; vedi anche
il Parm. di Plat.), e questa è la via retta, perchè s'afferma l'ente e si nega
il non ente o l'apparenza; o, al contrario, porre che l'ente non è c che sia di
necessità il non ente, questa è via non retta. Si descrive così la via degli
Eleati o VELINI da un lato, e la via degl'Ionj dall'altro, i quali si fermavano
a considerare il moto delle cose. Ebbene, che concetti ha egli Parmenide
allorchè e' mostra che l’ente è e il non ente non è? Gli stessi di Xenofane:
l'ente è conosci bile con la sola ragione, ingenito, non mobile, tutto (cudow )
unigeno, eterno; non fu nè sarà, perchè ora è tutto insieme; non può esser nato,
perch'è assurdo che l'ente non sia; non divisibile, somigliante a sè stesso
intera mente, riempie ogni cosa; la dura necessità (dir.n ) lo stringe in
vincoli (ossia egli è necessario; necessità di Dio trasferita da' panteisti al
mondo ed alla volontà uma na ); egli non è infinito (atedrventov ), non bisogna
di nulla, ed è lo stesso il pensare e ciò che si pensa. (Framm. e segnatamente
v. 66-94.) In che PARMENIDE differì da Xenofane? Quegli ha forma più
scientifica di speculare, perchè comincia dall'idea universale dell'essere, e
la contrappone al non essere. (Ritter, Bertini.) Ma crede reste voi che
Parmenide s'avvantaggi su Xenofane, come nella severità dialettica, così nella
perfezione dell'idea ili Dio? Anzi, dove il maestro partì dall'idea di Dio,
ragione pura, santità essenziale e provvidenza, lo sco lare poi con un vizio
più rilevato d'induzione si fermò al concetto dell'essere generale, nè
v'apparisce punto la personalità divina: sicchè Parmenide non avversa come
Xenofane la mitologia, anzi l'accetta qual credenza po polare. In man di lui,
perciò, il sistema eleatico si rese più ideale. E questa idealità condusse PARMENIDE
(sembra un paradosso ), come anco Xenofane alla confusione lel senso e
dell'intelletto. Quanto a Xenofane apparisce da un verso di lui in Sesto
Empirico; e quanto a PARMENIDE, lo notò espresso Aristotile (ppovaly usy tér vistn512).
Mentrechè il sensista dice: la sensazione è idea e tutto: l'idealista dice:
l'idea è sensazione e tutto. Ma sorge contraddizione nuova: se intelligenza e
senso son tut t'uno, come potrà egli il senso darci l'illusione? Ep pure, ZENONE
DI VELIA non pare ch'altro volesse co’suoi strani sofismi fuorchè mostrare:
com’abbandonandoci all'apparenze del moto e del moltiplice, cadiamo sem pre in
contraddizioni. E la parte negativa di tal sistema s'accrebbe in Melisso che (notate,
o signori) muove dal l'ente indeterminato come PARMENIDE, ma lo significa in
modo più indeterminato ancora, chiamandolo un qual cosa. (V. Fragm. Phil. Græc. Didot; De Xenophau Melisso et Gorgia; Arist. de
Soph. Elenchis,
e Plat. Thecet.) Se non che, Melisso torna co’ Pitagorici a dire che Dio è
infinito, negando a loro ch'e'sia finito, per chè l'ente non ha principio nè
fine. (Fragm. 2. ) E ciò va bene; ma pare che qui terminasse l'infinità nel
concetto di Melisso; egli non lo concepì come infinitu dine assoluta d'entità,
e pero dotato d'efficienza crea trice e pensiero puro; anzi l' indeterminatezza
di quel l'astrazione fece sì ch'egli non parla dell'intelletto e della bontà di
Dio, e l'idea ne vacilla dinnanzi com'om bra informe e vana. (Ritter, Bertini.)
Così da Xenofane in poi vi fu scadimento, come da ' Pitagorici di CROTONE agli
Eleati o VELINI Questi bensì fecero progredire la dialettica tendendo a
conciliare i contrari, e Aristotile fa inventore di quella ZENONE DI VELIA, che
si sa da Diogene Laerzio aver composto dialoghi. Se la scuola pitagorica
seguitò, ma con forme più filosofiche, il panteismo orfico nella sua totalità,
gli Eleati ne presero la parte ideale; gl’Ionj la corporea e sensuale. Ell'è
perciò la setta men filosofica. In che ci viltà? Tra'costumi voluttuosi della
Ionia, e in quelle città che presto soggiacquero alla servitù de’Lidj e de
Persiani. E se voi mi domandate, o signori: Que' sistemi da che gente vennero
professati? Rispondo, che salvo i più antichi, cioè Talete e Anassimandro nati
a Mileto nel l'Asia minore, delle virtù cittadine di tutti gli altri non si sa
nulla; o sappiamo d' Eraclito ch'era superbo, duro e solitario. Di Talete
stesso, bench’ Erodoto ricordi un consiglio di lui agl' Ionj, Platone (Teetete)
dice ch' ei s'astenne da' pubblici negozj. Qual diversità dalla storia de
Pitagorici ! non ci meravigli, pertanto, la diversità ne sistemi. (Fragm.
Philos. Græc. Didot, 1860.) Il moto delle cose lo crederono gli Ionj nell'asso
luto. E che cos'è l'assoluto? La materia del mondo. unica entità, eterna,
divina, dotata di pensiero ch'è di vino attributo. Tutti gli Ionj. fuorchè
Anassagora, ebber ciò di comune; e s'assomigliano alla scuola degli Eghe 286
PARTE PRIMA. liani materiali che succedettero agl' ideali. Ma gl' Ionj
diversificarono tra loro nel concepire il moto dell'uni verso; chi, come Talete
e Anassimene, Diogene d'Apollonia ed Eraclito, ebbe un sistema dinamico; chi,
come Anassimandro e Archelao, un sistema meccanico. Ed ec cone il divario:
cercaron tutti la prima cagione delle cose, ma pe' dinamici la produzione si fa
con isvolgi mento di forze vive, come gli animali e le piante; pe’miec canici
la produzione non ha se non forme apparenti. mutandosi solo le particelle
inerti come ne’minerali. La dottrina vera comprende le due opinioni; perchè la
cau salità modale trae sempre in atto le potenze, l'atto si produce (dinamica );
benchè quest'atto poi non ci dia sempre una specie o un individuo, come nella
generazione degli animali, bensì talora un aggregamento come ne'mi nerali. A
ogni modo, tal dottrina non s'applica punto alla causalità creatrice; e
gl’lonj, negando che dal nulla si faccia nulla, negando qualunque causalità che
non operi sopr'un soggetto preesistente, non s'avvidero, che tal cau salità non
può dirsi assoluta, ma condizionata. Questo in genere; venendo poi a
specificare la causa prima, gl’lonj la posero chi nell'una e chi nell'altra
cosa che più parve trasmutabile in ogni altra o quasi un germe, secondo i
dinamici, o quasi elemento univer sale, secondo i meccanici: Talete nell'acqua,
Anassi mandro in una natura media (udtaču puçev ), e però lo chiama principio
(apua), Anassimene nell'aria, Eraclito nel fuoco, Diogene altresì nell'aria.
Ma, badate, o si gnori, nè quell'acqua, nè quell' aria, nè quel fuoco, son
proprio ciò che ne vediamo; è un che più intimo e uni versale, simboleggiato in
cose visibili secondochè queste parevano più acconce a figurare l'universalità,
come l'acqua che tutto abbraccia, l' aria per cui si vive, il fuoco che tutto
vivifica e distrugge. E con questo pensare la causa prima, s'andò di male in
peggio. Talete serba confuso al materiale un < he di spirituale; però dice
che tutto è pieno degli dèi e che in ogni cosa è la mente, e, secondo CICERONE (Quest.
Tusc.), professa l'immortalità dell'anima. È un panteismo materiale, ma confuso
ed implicato: vi si sente ancora le reliquie della filosofia teologica più
antica, già comune (com' io dissi ) agl'Ioni, anzi a ogni gente ellenica ed
agl' Italioti; e però i Padri citano di Talete molti detti sapienti sulla
natura di Dio. Anassi mandro svolgeva la parte materiale dicendo che il prin
cipio, in cui tutto ritorna è infinito, perchè l'origine o il cominciare non
termina mai (tov © vo ) trn doury ENOL Ó žosipov. Fragm. Phil. Græc.; Didot);
però gli dèi nascono e moiono, e son astri e mondi; e la specie umana venne da'
pesci. Anassimene seguitò quella via; nè altrimenti Eraclito, benchè questi,
che cita Pitagora e Xenofane (Diog. Laert. IX, e Clem. Alex. Strom. I ), désse
alla dottrina del fuoco le apparenze d' una misti cità orientale. Non si
discostò dalla teorica degl'Ionj circa la causa lità l'altra teorica sulla
ragione prima. Qual è la ragione del conoscere? questa, che il principio
conoscitore sia formato della materia universale, di cui si formano le cose
conosciute, dacchè il simile si conosca pel simile. Sembra che di morale
gl'Ionj ne parlassero poco; e ciò sta col materialismo loro; Eraclito bensì
pone la legge nella ragione universale o divina, palese con le leggi della
patria; Achelao nega ogni legge necessaria; e il giusto e l'ingiusto fa nascere
dalle convenzioni umane. Tal panteismo ch ' è sempre a priori non détte, benchè
materiale e salvo poche verità, una fisica buona. All'assurdità del panteismo
volle rimediare Anassagora da Clazomene, nato verso il 500 avanti l'èra nostra,
però distinse la mente dal mondo. Ma non la stimò creatrice; sicchè s'apprese
al dualismo; anzi, (lacchè spiega poi la formazione del mondo come gli al tri
Ionj meccanici, non si sa bene che ufficio e' désse alla mente divina in
ordinare, il mondo. (Plat. Fodone.) Il suo libro cominciava: Tutte le cose
erano insieme; l'intelligenza le divise e le dispose. (Diog. Laert.) E così
distinse Dio, o la mente (vojv), dalla natura; e questa pose in particelle
simili, omeomerie, che son semi delle cose o per la disposizione già ricevuta o
che rice von poi di mano in mano (2.pay.tov otepusta.). Diogene di Apollonia in
parte lo seguì, ma peggiorando; chè fece l'aria dotata di mente, e quindi
ordinatrice. Archelao pure, ultimo fra gl' Ionj, alla confusione primitiva sta
bili ordinatrice la mente; ma questa non va esente di materialità (Fragm. Phil.
Didot); talchè il dualismo di Anassagora isterili. Che tenne dietro, o signori,
alla confusione del pan teismo ed alla separazione del dualismo? La negazione
degli scettici, particolare dapprima, universale poi. E di fatto, già svolte l'opinioni
de' Pitagorici e di VELIA, ben chè non anco terminate (come va sempre), e già
comin ciato il sistema d' Anassagora, sorsero pressochè ad un tempo le sette
degl'idealisti e de' materialisti. L'idea lismo ateo venne da Protagora (di cui
nel dialogo con tal nome ed in più luoghi scrive Platone ); colui, non si sa
quando nato, fiorì verso il 444 avanti l'èra nostra. Il principio d’un suo
libro cominciava: Degli dèi non so nulla; e Timone Fliasio scrive, che
Protagora quantun que dicesse ignorarli, osservò la legge ossia le cerimo nie
legali (Fragm. Phil. Græc.): nella osservanza della legge i sotisti posero
moralità e religione. Diceva Pro tagora con gl' Ionj: tutto si muta; e con gli
Eleati: tutto apparisce. Questa proposizione viene dall'altra; perchè se nulla
r’ha di stabile, tutto è fenomeno od ap parenza. Vedete, o signori, come
l'idealismo nascesse dall' opinioni anteriori. E sulle due proposizioni già
dette si fonda il sistema di Protagora, che disse perciò: se tutto muta, nulla
è in sè stesso; e se tutto apparisce, l'apparenza solo è vera; vere l'apparenze
contrarie, veri i contradittorj, vero insomma tutto ciò che si pensa, e l'anima
è la somma dei diversi pensieri (Condillac, Kant), e il fine del discorso sta
nel produrre l'appa renza: qui è il sostanziale dell'arte sofistica. Che vi
pare, o signori, non lo dicono anch ' oggi: tutto è vero quel che si pensa?
Quasi contemporaneo, ma un po'dopo è Democrito d'Abdera, nato per Apollonio il
460, e per Trasillo il 470; talchè, se fiorito con Protagora il 444. ciò
sarebbe avanti a' 16 od a'26 anni; impossibile il primo caso, non verosimile il
secondo, perchè Democrito dettò le cose sue dopo lunghi viaggi. Sa degl'Ionj,
perchè materialista, tiene bensì degli Eleati, perchè muove dal concetto
dell'ente; e dice: unico ente il vuoto e lo spazio con gli atomi nel seno;
dalle loro congiunzioni e dalle figure matematiche conseguenti nascono le
qualità; e poiche il simile si conosce col simile (τα όμοια ομοιών είναι
apestira ), v'ha conoscimento nell'anima, essendo ella un atomo a cui vengono
le figurette o immaginette dei corpi; rozza fantasia che male s'attribui ad
Aristotile. E Dio che cosa è per Democrito? Compiacendo alle plebi, egli finse
dèi come immagini enormi, ma sotto posti a morte; vero ateismo. (Fragm. Phil.
Græc. Di dot.) Vuol notarsi che Leucippo fiori con Eraclito il 500; ma poichè
il materialismo giungeva non opportuno. mancò allora il successo, in tal
maniera che di Leucippo non si sa pressochè nulla. Se Protagora s'accostò allo
scetticismo universale, non mi pare che vi giungesse: affermò che tutto si
muta, e ch' è solo quale apparisce, non si sa per altro ch'e' ne gasse l'entità
delle cose in questa loro perpetua muta bilità ed apparenza; chi giunse a tal
punto, risoluta mente, espressamente, e GORGIA DI LEONZIO (V. Dial. di Platone
col nome di lui, e altri dialoghi); perchè scrisse un libro sul non ente, cioè
sulla natura, e volle provare che o nulla è, o se è non può conoscersi o se si
conosce non può significarsi. Con Protagora e GORGIA v ' ha una schiera che la
Grecia infamò col nome di So tisti, Prodico, Eutidemo e simiglianti. Chi erano
costo ro? L'antichità gli ebbe per uomini venali. In che ci viltà vennero? In
età di corruzione. Che frutto recarono? Dicon gli antichi: pessimo nell'arte,
nella scienza e nel l'educazione della gioventù; benchè, come si vedrà, fossero
occasione di qualche miglioramento. Ma ecco fiorire verso que' tempi (V. Tavole
del Storia della Filosofia. - I. 19 Krug) un uomo che vuol riparare a tanta
dubbietà. Chi? Empedocle di GIRGENTI. Con che? col misticismo a cui s'ac
compagna (come accade sulla fine dei sistemi) un fare d'ecclettico. (Fragm.
Phil. Græc. Didot. ) Da'frammenti del suo poema (népe ouro ) e da' detti d'
Aristotile e d'altri si raccoglie che il sistema d'Empedocle non è già fisico
solamente; Dio per lui è mente santa incor porea: e nè un pretto dualismo,
perchè il mondo è tutto, e c'è divinità mondane o fisiche: e nè un pretto pan
teismo, perchè si distingue la mente divina e gli atomi: che cos'è dunque?
Parmi ch'e' non avesse un concetto nitido, com'accade agli ecclettici; e così
di lui pensa rono gli antichi: alcuno lo fa di Parmenide, altri pita gorico,
Platone lo mette con Eraclito, e Aristotile con Leucippo, con Democrito e con
Anassagora. Ma prevale il misticismo; perchè ne' frammenti del poema, Empe
docle si dà com’uomo miracoloso, e si crede un Dio immortale; e veste da
sacerdote. In lui sentite lo scet ticismo e l'estasi; egli pone la mente, umana
in parte ed in parte divina; quella c' illude, questa (come dice il Ritter) dà
un santo delirio e sorge alla contemplazione mistica di Dio nella natura. Tal è
l'Yoga indiano, tali gli Alessandrini. E questi, di fatto, ebbero in grande
stima Empedocle; ma Platone ed Aristotile, osservato ri, lo pregian poco.
Tuttavia egli seppe dimolto, e valse in fisica, e fu ben altr'uomo dei sofisti;
onorato dai suoi cittadini ed in tutta Sicilia. Così terminò quest'epoca, ed
ebbe strascico lungo in due schiere d'uomini; atei la cui morale era il
piacere, Evemero, Ippone, Nicanore, Pelleo, Teodoro, Egesia e Diagora;
Pitagorici o dati anch'essi al materialismo, così Ecfante, o mistici la maggior
parte. Questi atei com ' Evemero interpretarono storicamente la mitologia: gli
dèi furono uomini indiati, non altro. La scuola fisica poi degl'Ionj, più
tralignati, la interpretò fisicamente: gli dèi son le forze uniche della natura
EPOCA QUARTA DELL' ÈRA PAGANA. SISTEMI GRECOLATINI. CICERONE. Moltitudine
di scuole tra la seconda metà del penultimo secolo avanti l'èra volgare fin al
quarto secolo dell'era stessa, sullo spartimento delle quali non sono chiari
gli storici. Criterio per la distinzione del. l'epoche, e quindi per
l'assegnazione varia de ' sistemi. Con tal crite rio, le dette scuole si
spartiscono in due classi. – La prima classe si sud distingue; 1º negli eruditi;
2 ' negli scettici; 3 ne ' sistemi grecoasiatici: tutti formano la fine
dell'epoca terza, cioè sono la conseguenza de ' sistemi anteriori. La seconda
classe, o de' sistemi grecolatini, fa un'epoca da sė, cioè l'epoca quarta. È
un'epoca nuova, per la tentata riforma, e per l'efficacia grande cosi di
Cicerone come de' Giureconsulti. — Cagione del sorgere tardi la letteratura e
la filosofia in Roma. Elle sorsero, quando i Romani non furono più con tutta la
mente in fatti gravi e giornalieri. Allora può la riflessione volgersi alla
coscienza e contemplarvi l'uomo, – Il pensiero de ' Romani si distese
all'Italia e al genere umano. — Naziona lità naturale e politica degl' Italiani
merce i Romani. Affetti domestici nel buon tempo di Roma. Come si vedano in
Virgilio le qualità prin cipali della civiltà italica. I germi antichi di
questa erano in Roma; si svolsero per impulso di Grecia. Durò poco in Roma la
filosofia pura mente speculativa, perchè già la filosofia greca, declinando,
avea lasciato salve ben poche verità, e perché Roma cadde in servitù. Cicerone
e i Giureconsulti romani costituiscono la vera filosofia grecolatina. Cice rone
si proponeva di sceverare dal falso e dall'incerto le parti vere e certe ile'
sistemi greci, di comporle in ordine chiaro, d'applicurle praticamente, e che
se n' aiutasse l'eloquenza. - Sue virtù e suoi difetti. Si prova ch'egli non fu
copiatore de ' Greci, ma pensò di suo. Non pare da distinguere i suoi libri (com
' alcuno pensa) in popolari e dottrinali. Libri logici, fisici e morali.
Cicerone ripete il conosci te stesso come fondamento della filo sofia: la
coscienza con tutte le due relazioni. Indi l'evidenza interio Uso degli altri
criterj secondari, tenendo sempre in mente l'universi lità e dov'ella si
manifesti. Cosi egli potė cansare gli eccessi de ' sistemi; e si prova quanto a
’ Platonici, a' Peripatetici, agli Stoici, agli Accademici: rigettato
assolutamente l'Epicureismo. - Cicerone non elegyeva da ecclettico, ma per un
ordine di principj; vide cioè che la filosofia è da studiarsi entro di noi; e
da tale studio inferi tre verità, che gli furono regolatrici: 1º che l'uomo sta
sopr' all ' altre cose; 20 che la ragione dell'uomo prevale al senso e al
corpo; 3º che questa ragione con le sue leggi ci fa palese Dio. Talche delini
la filosofia: scienza delle cose divine e umane e delle cagioni di queste (off.):
l'altra definizione de' Tuscolani è come racconto dell'opinioni pitigori che.
Va seguito i principj spontanei, naturali, universali della ragione: ecco
l'assioma di Tullio. — Ma, per la moltitudine de ' sistemi, ei potè co gliere
poche verità; queste affermò, nel resto sospende il giudizio. Esem pio, il
finale de natura Deorum. Le dottrine certe di lui ne ' libri morali, o sulla
legge e sulla libertà; le opinioni verosimili ne'fisici, o sulla natura divina
e dell'anima; ne'ljbri logici l'une e l'altre; ossia, egli è certo su'prin cipj
e sull' evidenza interiore, ha solo verosimiglianza sul criterio delle per
cezioni esteriori. Dualismo. — Anche per la teorica del conoscimento. Teorica
dell'operare bellissima; legge naturale, eterna; Dio n'è la fonte; re. -. chi
non ammette Dio, non può ammettere la legge. — Il dovere. Gradi degli officj.
Quel ch'è giusto in sè stesso. Utile apparente, e utile vero; questo è
conseguenza della virtù. — Onestå. Le leggi positive nascono dalla naturale;
Dio è il proemio di tutte le leggi. - Buoni eifetti della filosofia di Cicerone.
Non anche terminata l' epoca terza cominciò la quarta, de' sistemi greco-latini
– LATINO – ROMANO. Dalla seconda metà del penultimo secolo avanti l'èra volgare
fino al quarto secolo dell' era stessa, troviamo una moltitudine di scuole, lo
spartimento delle quali dà qualche impaccio agli storici. Taluno le piglia
tutte insieme (e vi comprende gli Alessandrini) come una sequela de sistemi greci
anteriori; e così non pone ad esse un'epoca distinta. E per fermo se tutte le
dette scuole non fosser altro che discepoli, o raccoglitori eruditi,
mancherebbe la ragione del porle da sè, o del farne più classi. La ragione
d'un'epoca, quando si parla di scienze, è solamente una grande verità scoperta,
da cui dipende l'ordine universale d'una scienza qualunque, o il risorgimento
di essa dopo un tempo di scadimento, e quindi l'efficacia su ' tempi avvenire.
Insomma, v'ha un principio d'epoca, quando v’ha un principio di moto nuovo e
potente: la continuazione di moto, è continua zione d'epoca e nulla più.
Applicando tal criterio all' età sovraccennata, par chiaro che i sistemi vi si
distinguano in due parti; una sta nell'epoca terza precedente, ossia nella
greca e come termine di essa; la seconda costituisce un'epoca da se per qualità
sue proprie, o un'epoca quarta, benchè i siste mi dell'epoca terza la
precedano, l'accompagnino ed an che le sopravvivano: tanto è vero che la sola
divisione per tempi non segue la realtà. La prima parte che ter minò l'epoca
greca, si suddivide in tre, gli eruditi, gli scettici, i grecoasiatici. Da un
lato v'ha le scuole di pretta erudizione; le quali non iscopersero nulla, nè
rinnovarono nulla; gli Stoici eruditi; i Platonici eruditi, com’Areio Didimo,
Trasillo, Albino, Alcinoo, Massimo di Tiro; i Peripatetici eruditi o
commentatori d'Aristotile, come Alessandro d'Afrodisio; i Medici, eruditi
anch'essi, platonici e peripatetici, come Galeno. Poi da un altro lato v'ha lo
scetticismo d'Enesidemo e di Sesto Empirico, i quali compivano, anzi riducevano
a sistema il dubbio di Pirrone e di Timone, volgendosi specialmente contro la
causalità, e negandola per la singolare ragione che il modo intimo del causare
nol conosciamo; quasichè possa negarsi ciò ch'è ad evidenza, quando non si sa
spiegarlo. Da un terzo lato ancora, mescolati i Greci con gli Asiatici per le
conquiste d'Alessandro e poi per la vastità dell'impero di ROMA vediamo un
congiungimento tra la sapienza orientale e i sistemi greci; onde si svolse la
setta degl’Alessandrini, che non fecero altro se non ridurre a forme greche il
panteismo asiatico, già cominciato in Filone ebreo, nella Kabbala, in Apollonio
Tianeo e in Moderato, Nicomaco, Plutarco, Apuleio, Cronio, Numenio. Questi,
benchè distinti dalla scuola d'Alessandria (e fa male chi li confonde), in
sostanza cominciaron l'avvio di quella, che ne trasse i pensieri a compimento.
Gl’Alessandrini e i loro antecessori fanno essi dunque un'epoca nuova? No,
perchè i metodi sono affatto dell'età socratica, e i principj gli stessi. Lo
scetticismo poi che li conduce al misticismo, appartiene a quel medesimo tempo.
L'unione dell' orientalità con l'atticità pare un che nuovo, ma
scientificamente non è. Proviene dalle tendenze mistiche succedenti al dubbio,
non già da'me todi scienziali; piacque la misticità orientale, richiesta già
dagli animi. Ebbi l'opinione anch'io che gl’alessandrini facciano un'età da sè;
ma più attenta consi derazione m'hacondotto ad altro parere. La seconda parte
sì che fa un'epoca da sè, l'epoca quarta o LATINA O ROMANA. Introdotte le
scuole di Grecia in ROMA comincia ivi un ordine proprio di concetti per
efficacia delle tradizioni ITALICHE e per la civiltà di ROMA. Talchè, ripeto,
avvi un'epoca quarta, o de sistemi LATINI ROMANI; nuova per le riforme tentate
da CICERONE e per la novità dei iureconsulti, che hanno efficacia sì viva e
universale nella civiltà europea; e anco perchè CICERONE serve più che i greci
alla filosofia cristiana de' padri latini e dei dottori, i quali per via di lui,
piucchè in modo immediato, sanno l'antiche opinioni. Adunque in uno specchio
generale di storia si dee lasciare i filosofi eruditi, che non aggiungono nulla;
degli scettici dissi già nel passato. De'sistemi grecorientali poi si dee
trattare nella prim'epoca del l'èra cristiana, perch' essi combatterono la
sapienza de Padri e n'eccitarono la opposizione. Resta che noi parliamo qui de'
sistemi LATINI ROMANI, che soli ci danno un'epoca nuova. Non fa meraviglia che
in ROMA a nascesse tardi la filosofia. Nasce quando la riflessione si volge
alla coscienza, e vi contempla l'uomo interiore per elevarsi all'ideale
universalità. La filosofia vi s'eleva in modo astratto. Ma quando un popolo,
come IL ROMANO, è tutto inteso a fatti gravi e giornalieri che lo attirano o a
guerre esteriori od a contese interne; allora ti daranno bensì canti popolari
di guerra e d'illustri memorie (come gli accenna LIVIO. Ma non si possono dare
filosofia. In que' tempi guardasi al fine politico ed aʼmezzi, non alla natura
dell'uomo qualità generali delle operazioni, come fa il filosofo. Indi la
rozzezza de’ROMANI, talchè narra LIVIO, che lo storico più antico e FABIO
PITTORE a' tempi d'Annibale. Ma quando ROMA ha esteso la dominazione a tutta
Italia e oltre, allora IL ROMANO non vide più solo innanzi a sè le contese de'
vicini, e le contese del foro tra nobili e plebei, sì un'intera e grande
nazione e il genere umano. Così l'idea di ROMA si appresenta in relazione con
tutta l'Italia e l’Italia in relazione col mondo. Il pensiero de' ROMANI si
dilata. Si allarga fuori del cerchio de' fatti particolari. Il quirita si sente
più chiaramente e figlio di ROMA, e italiano, e uomo, tanto più che a poco a
poco LA CITTADINANZA ROMANA si estese a tutta Italia. A’tempi di Storia della
Filosofia. – 1. e alle 24 2 as 2 CICERONE non rimane quasi più possedimento in
ITALIA non assegnato a'cittadini per via di colonie; il qual fatto, unito
all'altro che già notai de’ primitivi abitatori ricaccianti le colonie greche,
spiega com’in Magna Grecia ed in Sicilia i dialetti sieno italici puri (chè i
pochi Greci di PUGLIA non sono gl’antichi), non già ellenici come in Grecia
moderna e in alcune parti del l'Asia minore. Le colonie di ROMA, aiutate
dall'affinità primitiva delle schiatte italiche, formano così l'unità naturale,
o la consanguinità della nostra nazione; nazionalità naturale determinata
da'naturali confini del nostro paese, e che si manifesta nell'unità formale de
dialetti, o già contemporanei al romano, o nati da esso. Indi allora nacque la
politica nazionalità benchè dopo cinque secoli di guerre; ma lasciando
a’municipj un'im magine di ROMA, consoli, senato e popolo com'a FIRENZE (Malespini
e Villani), e concedendo a que municipj amministrazione lor propria; indi
vennero i nostri comuni del medio evo. Roma e l'ITALIA, considerate in
relazione col mondo, formarono nelle menti romane com'un archetipo di perfezione.
Il vecchio PLINIO (giova ripeterlo qui) scrive dell' Italia. Omnium terrarum
alumna et parens, omnium terrarum electa; una cunctarum gentium in toto orbe
patria. E VIRGILIO, lodando magnificamente l'ITALIA nel secondo delle Georgiche,
non si ristringe a Roma, e dice. Hæc genus acre
virumi, Marsos pubemque Sabellam Adsuetumque malo Ligurem, Volcosque verutos
Extulite.” E
Virgilio finisce con quell'alte parole. “Salve, magna parens, Saturnia tellus
Magna virum.” Giunto un popolo a questa larghezza di sentimento e di
riflessione, possiede l'idealità necessaria per la filosofia. Non lo stringono
più le necessità de'fatti speciali, stende il pensiero alle attinenze,
considera la natura dell'uomo e delle cose. Questo svolgimento di coscienza per
la riflessione venne promosso da una causa tutta particolare a Roma ed all'ITALIA.
Qui, più ch'altrove nell'antichità, e sacro il connubio; e gli affetti di
famiglia v’ebbero consistenza per molti secoli. La stessa mitologia nostra,
come dice Polibio, rigetta le nefandezze de' simboli elleni. Or bene, gli
affetti di famiglia tengono vivo il senso morale, che dipende dal l'idealità
suprema della legge e del dovere. Non v'ha dunque da stupire, se VIRGILIO,
benchè imiti Omero, si distingua tanto da lui ne' principali concetti che
governano il poema; ossia, nel concetto che ordina il poema stesso e ch'è una
disposizione di provvidenza rispetto a’ Romani; poi, nel concetto di patria ch'
è Roma; in quello altresì di nazione (non di schiatta soltanto, come la Grecia
), cioè di tutte le genti italiane, non solo consanguinee (schiatta italica),
ma dimoranti pure in unico paese (nazionalità naturale) e poi congiunte da ROMA
(nazionalità politica): nell'altro di famiglia onde ri fulge l’Eneide dal
principio alla fine; per ultimo, nel l'intima e soave descrizione degli
affetti, con la quale il poeta mantovano prepara la poesia cristiana. Sicché,
quand' io leggo in alcuni libri ch'a Virgilio manca un'idealità propria, prego
da Dio la fine di certe passioni che impediscono la equità de' giudizj. Però,
mentre allargavasi il dominio romano, cresce vano le ragioni d'intima civiltà;
le quali, per altro, s'acchiudevano già in Roma ab antico. La prisca gente
romana che ch'ella fosse e in qualunque modo si ragunasse da prima, certo è,
che s'ella fu rozza per le necessità di continue guerre, sorse tuttavia tra
popoli molto civili; ebbe accanto la Magna Grecia e l'ETRURIA, e le tante città
de’ SABINI e del LAZIO. Ora chi non sa quanto valgano mai le tradizioni civili
anco tra popoli rozzi? NUMA vien detto alunno di Pitagora; ' e l'anteriorità di
quello è spiegata dall'antichità delle scuole pitagoriche, com'altrove narrai,
Dice CICERONE. “Romuli autem ætatem jam inveteratis literis atque doctrinis
fuisse cernimus.” (De rep.): e Agostino scrive nella “Città di Dio” che Romolo
e venuto non “redibus atque indoctis temporibus, sed jam eruditis et expolitis.”
Plinio cita le belle pitture d'Ardea più antiche di Roma. I Romani predarono
dalla sola Volsinia 2,000 statue. Bolsena in Fenicio significa città degli
Artisti (Cantù, St. Univ.) Se a ciò aggiungo la tradizione, che le leggi de
cemvirali si prendessero di Grecia (tradizione falsa per le leggi che
s'attengono a' costumi di Roma, vera probabilmente quant'al modo d'ordinarle ),
e se aggiungo altresì la perfezione che graduatamente il gius positivo ha dal
gius onorario, mi capacito che nel seno di ROMA cresce un germe di civiltà e
però di filosofia, da venire a compimento, quando se ne offerisse la occasione.
E questa occasione, testimonio la storia, è sempre qualcosa d' esterno.
L'occasione a Romani venne da Greci conquistati. Ed ha il proprio segnale
nell'ambasceria di Critolao, Carneade e Diogene babilonese. CATONE si sforza di
cacciare le sette greche. Invano, il terreno era preparato. E la pianta fiorisce.
Ben è vero che la speculazione puramente filosofica non dura a lungo, ma
prosegue a fecondare il diritto. E la qual brevità ha due cagioni principali. I
sistemi greci, che aveano menato tant' oltre la FORMA LOGICALE della filosofia,
quant'alla MATERIA poi l'aveano lasciata in dubbiezze infinite, come vedemmo;
talchè si richiede uno sforzo più che umano a rilevarla: poche verità si
conservavano intatte da ordirvi la scienza. Quindi, o rimane solo a far opera
d'eruditi e d'accozzatori, come gli ecclettici d'allora; o bisognara trar fuori
quel poco di certo, che non da soggetto a copiose speculazioni. In secondo
luogo, allorchè ROMA venn'a maturità di pensiero, cadde in servitù che isterili
la letteratura e la scienza. Quindi, i sistemi latini ROMANI si riducono il più
alla filosofia di CICERONE, e alle scuole de' Giureconsulti. I filosofi
anteriori a CICERONE seguirono i Greci pressochè interamente. LUCREZIO ripette
quasi le dottrine del Giardino; ma nondimeno LUCREZIO mostra la coscienza di
romano, allorchè, facendo materiale l'anima, pur conta fra gl’elementi
costitutivi di essa un elemento innominato, quasi animo dell'anima. “Nobilis illa vis, initum motus ab se que dividit ollis, Sensifer unde
oritur primum per viscera motus.” (De Nat.). E, quando stabilì negl’elementi
un moto spontaneo per ispiegare la libertà E quando celebra la divinità della
natura con versi stupendi e la santità del matrimonio. SENECA non si parte dal
PORTICO, benchè fa professione di non ispregiare nessuna scuola. ANTONINO, com’Epitetto,
ha lasciato aurei precetti, ma senza ordinamento di scienza. CICERONE, al
contrario, istitue speculazioni proprie, che certo hanno forza
nell'universalità de' Romani culti e nella giurisprudenza. Io dunque parlo di CICERONE
e de' Giureconsulti. Fin d'ora io dico che CICERONE si propone di sceverare
(con un principio superiore) le parti vere e certe de sistemi greci dalle false
od incerte, di comporle in ordine chiaro, d'applicarle alla vita privata, e
ch'elle confere all'eloquenza. Questa filosofia di CICERONE suol chiamarsi
ecclettica; e chi la intenda per metodo compositivo e logicamente ordinato,
passi. Ma dice male chi la pigliasse per una scelta a caso, senz’un principio
interiore e ordinatore. Nessuno puo negare che ciò distingua le speculazioni di
Tullio dall' ecclettismo de' Greci mentovati poco fa, i quali ragunavano nella
memoria, ma non componevano nel pensiero; e lè distingue pure da’migliori
sistemi dell'epoca antecedente, perchè CICERONE li giudica con libertà e li
trasceglie. Nè si può mettere in dubbio l'efficacia di CICERONE – non
MARC’ANTONIO, chi lo assassina -- su'secoli avvenire. I Padri e i Dottori lo
studiarono molto; e Agostino, da uomo grande che riconosce il vero ed il bene
onde che venga, scrive nelle Confessioni. Hic liber -- cioè la lettura dell'Or tension
-mutuvit affectum meum, et ad te ipsum, Domine, mutavit preces meas, et vota ac
desideria mea fecit alia.” Pare che CICERONE trade la schiatta da quel Tullo
Azio, che regna gloriosamente su’ Volsci (Plut. in Cic.). E quegli se lo tene
per certo, sicchè dice ne' libri Tuscolani, che Ferecide era antico -- fuit
cnim meo regnante gentili: indi la smania di comparire tra gli otti mati.
Lasciate le scuole, udì Filone accademico; ma insieme pratica Mucio,
personaggio assai versato nella politica, e principale tra’senatori, imparando
da lui scienza di leggi; e milita con SILLA tra’ Marsi (Plut.). Sente anche
Fedro epicureo e Diodoro stoico. In Atene segue Antioco accademico, e non
trascura Zenone all’Orto. Anda poi in Asia, e si ferma a Rodi, per esser
ammaestrato dallo stoico Posidonio. Favella con tal passione e con voce si
concitata, che gli reca danno alla salute. In Sicilia e pretore giusto, umano,
amatissimo. Dopo la congiura di Catilina, CATONE stesso chiama Cicerone padre
della patria dinanzi al popolo. Esiliato da Roma per le mene di CLODIO, vi
rientra poi come in trionfo. Gli furon trionfo tutte le vie d'Italia, per le
quali CICERONE passa. Stette fedele alla re pubblica contro la signoria di
GIULIO CESARE e la tirannia di MARC’ANTONIO. MARC’ANTONIO lo manda a trucidare,
e Cicerone porse il collo alla spada (Plut.) Ama la famiglia con tenerezza.
Esule, scrive a Terenzia sua e alla figliuola lettere d'amore sconsolato. Come
CICERONE intende la santità dei pubblici ufficj, lo mostra la famosa lettera a
Quinto fratello. Le sue lettere, scritte da lui senz'intenzione di pubblicità,
e che formano uno de' più bei libri del mondo, lo mostrano sempre d'animo
schietto e buono. Scrive a PETO. “Sii persuaso, che giorno e notte non altro
cerco, non altro penso, se non che i miei cittadini sien salvi e liberi. Non
lascio opportunità d'ammonire, di fare, di provvedere. Infine io son fisso qui,
che se in tanta cura e amministrazione ho da porre la vita, stimo di aver
finito preclaramente. (Ad fam.) Non pecca d'orgoglio, ma di vanità; si lodava
spesso, e questo aizza gl'invidiosi, e a lui diminusce rispetto. Faceto, morde
non di rado altrui, e, senza volere, s'accatta nemici; ma in lodare i meriti
veri abbonda con allegrezza e con liberalità d'uomo sincero e benevolo. Parve
talora incerto ne' propositi, e troppo addolorato nelle sventure. Prende due
mogli, ripudiando la prima. Volle dedicare un tempio alla figliuola morta. Loda
e invidia gli uccisori di GIULIO CESARE. Loda prima GIULIO CESARE troppo, ma
non l'opere mai. Dice Capponi (Archivio Storico ): Ma chi fosse più di me
severo a Tullio, pensi com'egli animosamente comincia la sua vita d'oratore e
la compiesse gloriosamente. Assalse nella difesa di Roscio d'Amelia un
Crisogono liberto di Silla ch'era affrontare SILLA medesimo. Principe nella
città e guida e anima del Senato, combatte MARC’ANTONIO e incontra la
morte.Oratore, accusa sempre gli scellerati, difese qualche volta i non
innocenti. FILOSOFO, stette per lo più dalla parte del vero. Bensì approvò il
suicidio, l'assassinio de' tiranni, la vendetta, un certo sfogo di carnalità, e
la schiavitù. Uomo di stato, cerca troppo la lode, ma insieme la grandezza e il
bene della patria. Scrive d'eloquenza, ed e oratore sommo. Scrive di filosofia
morale, ed e uomo dabbene. Scrive di cose civili, ed e gran cittadino. Ecco i
fatti principali e virtù e difetti che spiegano LA FILOSOFIA DI CICERONE. È impossibile non vedere in CICERONE tre forti
amori, di gloria, di patria e di famiglia. E' reca in tutto ciò un'ardenza di
cuore, la quale ha talvolta del molle, ma la tenerezza è temperata da un senso
vivo d'onestà e di decoro. (V. le Lettere scritte in esilio.) Ude tutte le
scuole, e però raccoglie il meglio; ma con iscelta libera e ordinata, perchè
uomo libero ed T 11 tro operoso, e ingegno forte. Romano e uomo di stato, segue,
più che non facessero le scuole greche, il precetto socratico di badare nella
scienza al fine del bene; e tal qualità pratica non diminuisce il valore delle
dottrine, anzi lo cresce, purchè la scienza si pregi anco per sè, come fa CICERONE.
Badando al bene, odia la parte ipotetica e vana de sistemi anteriori, e ne prende
il poco, ma certo e buono. Però, indulgente ad ogni setta, coll’Orto non volle
mai pace. Un po' vano, pompeggia assai nelle parole; il che gli scema vigore
qua e là. Ma nella filosofia va semplice e spedito. Uomo universale, senatore e
console di Roma, cerca l'universalità negli; e questa filosofia da a 'Romani
l'idea di tutto il sapere. Pieghevole alla opinione altrui per bontà di cuore e
per bramosía di favori popolari, combatte nella “Divinazione” le falsità del
culto, le rispetta in altri luoghi; ammira il suicidio dei filosofi del Portico,
non se l'attenta per sè, timido, dicon taluni, rimorso da coscienza non
confessata, dirò io, e lo credo. Taluno da quelle parole di CICERONE ad Attico:
ATÓMp492 sunt; minore labore fiunt, verba tantum affero, quibus abundo” (Ad
Att., XII, 52). Deduce ch'esso i libri filosofici traduce, non li facesse di
suo. Ma quando poi sentiamo che Cicerone stesso, in tempi che gli autori greci
erano familiari, e molti a Roma i maestri greci, e in opere dedicate a dotti di
greco, quali ATTICO e BRUTO, o a studenti in Grecia, come il figliuolo, dice
(De fin. 1, 3): Noi non facciamo ufficio d'interpreti, ma sosteniamo le
dottrine di coloro che approviamo, e aggiungiamo ad essi il nostro giudizio e
un ordine nostro di scrivere. E dice altrove (De off. I, 2): Ora seguiremo e in
tal soggetto il PORTICO principalmente, non come interpreti (non ut
interpretes); bensì, al solito nostro, berremo a’lor fonti quanto per giudizio
e arbitrio nostro ci parrà.” Allora, io affermo che Cicerone non poteva dire
una bugia così sfacciata ed inutile. Narra egregiamente Plutarco. Eragli studio
comporre dialoghi di filosofia e tradurre dal greco an 10 1:. bi lice. li 1 tes 377 (In Cic. ). E così un greco antico, più
che i moderni non greci, distingue bene i libri tradotti come il Timeo da'propri
di Cicerone. L ' opere di lui distingue Ritter in filosofiche o riposte ed in
popolari. A me non sembra; sì scorgo chiara la distinzione del DIALOGO
SPECULATIVO, come i libri accademici, dagli scritti che hanno un fine pratico,
ad esempio gli Offici, dell'Amicizia, e simili. Negli Officj chi mai non vede
un ordinamento scienziale? E se CICERONE rispetta gli dèi più qui che altrove,
pensiamo che ciò s'usa da tutti i filosofi, quando essi non ispeculavano
direttamente sulla divino. Mi pare, poi, manifesta la distinzione, e più
principale: tra la FILOSOFIA NATURALE (De natura Deorum, De divinatione ), LA
LOGICA -- Academicorum, Topica, De inventione, De oratore etc. – LA FILOSOFIA
MORALE (Tusculanorum, De officiis, De finibus, De senectute, De amicitia, De
legibus, De republica, De fato. Quantunque in ciascuna classe si trovino
mescolate più o meno le dottrine, non già divise assolutamente. L' Ortensio poi
è perduto, d'altri libri restano frammenti. Or dunque Cicerone, imitando
Socrate, tornò a'principj e al fondamento del sapere. Quegli, come questi, si
trova in mezzo a una confusione di sistemi, e, come Socrate, chiama i suoi al
conosci te stesso, affinchè nella coscienza di noi prendiamo il rimedio alle
superbie d'ipotesi vane e il principio della sapienza vera. Quand' io dico che
CICERONE imito Socrate, già non lo paragono a lui, nè come filosofo glielo fo
uguale, sì discepolo; dico bensì, che il tornare a'principj è in tutte le cose
rinnovamento unico e condizione di nuovo cammino; e chi rinnova, è istitutore
novello e cominciatore d'un'epoca propria. E se CICERONE non riuscì a tanto
come Socrate, ne chiarii altrove le cagioni; e a lui non s'ha da imputare. La
scienza e la civiltà del Paganesimo cadeno, e sempre più CICERONE le trova
quasi in fondo, nè potè nè sperò ritirarle in cima. Fatto è, che CICERONE, come
Socrate, capi la stranezza delle sette pagane. Ama con grand' amore la
filosofia, 2 ! la pre 18 MA Tha U.
>> TH e ne scrive lodi magnifiche in ogni suo libro; anzi l' Ortensio e
composto da lui per esortazione a filosofare; e nondimeno quand' ei volgevasi
attorno, e sente le strane opinioni di tante sette, esclama: Niente si può dire
di tanto assurdo, che non sia stato detto da qualche filosofo. (De div.) Ammone
per ciò a rientrare nella propria coscienza, a ripigliare il conoscimento di
noi, a seguire così una filosofia meno sicura de' propri sistemi, non
presuntuosa (minime arrogans: De div. II, 1 ). Ripeta il precetto che sta sul
tempio d'Apollo, nosce te ipsum, e dice: Essendo tante e sì grandi cose che si
scorgono nell’uomo interiore da quelli che voglion conoscere sè stessi, madre
loro e educatrice è la Sapienza (De off.). CICERONE invita a fermar l'occhio in
questa evidenza interiore, dove tante verità si veggono chiare -- quæ inesse in
homine perspiciuntur. In questa coscienza di noi stessi, CICERONE come Socrate,
più di Socrate forse perchè ROMANO, sente l'uni versalità del vero, distinta
dalle opinioni particolari, e l'amore che tende al vero, e l'essere nostro
sociale e religioso, relazioni universali anch'esse; e però CICERONE inculca
sempre di fermar l'occhio in ciò ch'è proprio dell'uomo, ossia nella retta
ragione (De off.); e contro L’ORTO fa valere gli affetti più generosi
dell'animo (ivi, e negli Acc. e ne Tuscul. e quasi per tutto ); e chiama in
sostegno il senso comune e le tradizioni umane e divine. Così ne' libri
Tuscolani adopera l'autorità del senso comune a dimostrare l'esistenza di un
divino e l'immortalità dell'anima umana; e dice ne'Paradossi contro gli Stoici Noi
più adope riamo quella filosofia che partorisce copia di dire, e dove si dicono
cose non molto discordi dal pensar della gente. (Proem.) – cf. Grice,
“Philosopher’s Paradox” -. E nelle seguenti parole del Tuscolani si vede com'ei
raccogliesse, di mezzo alle opinioni varie, le tradizioni universali de
filosofi e le divine. Inoltre, d'ottime autorità intorno a tal sentenza --cioè
l'immortalità dell'anima -- possiamo far uso; il che in tutte le que HIE ale Di
D. 4 stioni e dee e suole valere moltissimo -- in omnibus causis et debet et
solet valere plurimum. E prima, di tutta l'antichità (omni antiquitate ) -- la
quale, quanto più era presso all'origine divina (ab ortu et divina progenie ),
tanto più forse discerneva la verità. » (Tusc.) E tra filosofi, che CICERONE
cita, preferisce appunto FERECIDE, come antico, antiquus sane; e indi ne
conferma l'autorità con quella di Pitagora e de' Pitagorici; il nome de'quali,
egli dice, ebbe per tanti secoli tanta virtù che niun al tro paresse dotto (S
16). E dice più oltre che, secondo Platone, la filosofia e un dono, ma quanto a
sè, una invenzione degli dèi. Philosophia vero omnium mater artium, quid est
aliud, nisi, ut Plato ait, donum, ut ego, inventio deorum? » ($ 26. ) Nel che
s'accenna il principio divino della sapienza e della tradizione. Condotto da
questo filo tra i ravvolgimenti delle sette cansa gli eccessi d'ogni maniera. IL
PORTICO, per esempio, la cui morale severità CICERONE approva e segue, dice,
che nessun uomo è buono fuorchè il sapiente. Ma di questo sapiente ne fa
un'idea sì alta. che confessavano poi, e' non darsi quaggiù; e però IL PORTICO,
se consentanei a sè, dovevan dire impossibile umanamente la loro superba virtù
e disperarne come BRUTO morente. CICERONE al contrario riconosceva una più
umile sapienza e virtù, che può essere di tutti, e che ci abbisogna nel vivere
comune. (De amic.) IL PORTICO, crede CICERONE, indiando la natura, di poter
trarre le superstizioni volgari a senso ragionevole (come tenta VARRONE per
testimonianza d’Agostino – “Città di Dio”. Ma Cicerone le deride (De nat. Deor.).
Mena buono all’ACCADEMIA, al LIZIO, e al PORTICO, che la più alta felicità
dell'intellettuale natura sia la contemplazione (Hort. in Agost. De Trinit.). Ma
in questa vita, ei dice, la contemplazione senza la pratica delle virtù è nulla
(De off.); e quindi censura Platone che scrive: Il savio non essere obbligato a
civili negozi. (De off.). IL PORTICO, per alterezza di ragione, spregia il
corpo e i beni corporei. Ma Cicerone dice:
11 he COL iti be 111 15:-11 19 Poichè s'ha da seguire la natura. Noi
siam anima e CORPO. Non possiamo spregiar il corpo, nè si dee imitare
que'filosofi, che accorti d'un che superiore a'sensi ne spregiano la
testimonianza. Con che l'accoccava pure agl’Accademici. (De fin.). IL PORTICO
nega l'efficacia del dolore sull'uomo sapiente, e svile ogni piacere. CICERONE
invece mostra che il dolore eccessivo è impedimento agli officj, e che le
temperate giocondità son utili e buone. (De sen., De fin.). IL PORTICO,
concependo la virtù con altezzosa rigidità, stimano uguali tutti i malvagi e
tutti uguali i peccati, perchè tutti contrarj al bene. CICERONE confuta in più
luoghi tale uguaglianza e mostra, per esempio, ch'altro è mancare a posta,
altro è nell'impeto di passione. (De off.) Se nella morale ei tenne dal PORTICO,
rigettate le loro esagerazioni, in logica, metodo filosofico e analisi di
concetti stette per l’ACCADEMIA giacchè, come dissi altrove, la riforma del
filosofare comincia sempre da un dubbio temperato. Ma qui è il divario, la
temperanza; perchè, dove l’ACCADEMIA (a quello che ne sappiamo) nega ogni
verità e CERTEZZA nel percepire le cose e ammetteno solo una verosimiglianza,
uguale per tutte le opinioni. CICERONE invece ne' fondamentali principj e nelle
verità più alte non poneva dubbio, e quanto a' casi particolari li stima
probabili, non ugualmente, sì convarietà di gradi; e al probabile opponeva quel
ch ' è improbabile affatto. Ecco le sue parole: Vorrei che fosse ben chiaro il
nostro pensare; chè noi non siamo già di quelli il cui animo si crede aggirato
sempre in errori, e senz' alcun che da tenere: che sarebbe mai questa mente, o
questa vita piuttosto, negata ogni ragione, non solo del disputare, ma del
vivere altresì? Noi invece, come dagli altri si dicono certe alcune cose e
alcune incerte, così noi, dissenziendo da essi, diciamo probabili alcune e
alcune improbabili. (De off.) Qui si scorge, che il dubbio di Cicerone non cade
punto sulla ragione umana e sulla vita, o sull' essere proprio, ma sul domma fisico
e morale del PORTICO. E nel libro delle Leggi dice” « Preghiamo poi, che questa
Accademia nuova di Arcesilao e di Carneade, perturbatrice di tutto, si cheti;
perchè se darà dentro a tali dottrine, che ci sembrano ordinate e composte con
assai aggiustatezza, recherà troppo rovina. Io bensì desidero placarla, ma
cacciarla non oso.La qual conclusione mostra, ch'ei non rigetta in tutto i
dubbj, ma dov'essi erano cattivi. E più si discosta dagl’ACCADEMIA allor chè
dice. Quasi in tutte le cose, ma nelle fisiche più che mai, saprei dire
piuttosto quel che non è, che quel che è. (De nat. Deor.) Nel vivere nostro, e
massime a quei tempi fra tanto diluvio d'opinioni non monta già poco il sapere
quel ch’una cosa non è; significa sapere che il divino non è come noi, che il
divino o l'animo nostro non sono CORPO, che il fine dell'uomo non è la voluttà;
negazioni pregne d'affermazione, implicita si ma certa. E chi vuole stimare
quanto merita il ritegno di CICERONE, anc' allora ch ' ei parla di probabilità
negli officj particolari -- non mai nella legge suprema -- pensi l'assurdità
del panteismo e del dualismo antichi, le finzioni rozze di quella fisica,
l'incertezza della morale, anche in Platone e Aristotile; e s'accorgerà, che se
Socrate meritò lode dicendo, contro l’arroganza de' sofisti. Io so di non
sapere, merita pur lode il nostro CICERONE d'averlo imitato in tanta corruzione
di filosofia e di costumi. E quindi ei non ha dubbiezze contro L’ORTO. Dice a
loro: che la voluttà sia il nostro fine, voi non lo direste in Senato; nè la
voluttà va messa tra le virtù com'una meretrice in un'assemblea di matrone. (De
fin.) La natura ci ha fatti per qualcosa di meglio che non i piaceri del senso.
Il piacere stesso non cato per sè, ma per noi (De fin.). Il dovere ha da
cercarsi per sè stesso. E la dottrina dell’ORTO, se consentanea a sè, non
lascia luogo al dorere. (De off. ) Ma questo sceverare il vero dal falso, con
che 01. Jo (dine interno di principj si faceva? Già ho detto, che Cicerone
ritorna al conosci te stesso di Socrate, cioè al fondamento della coscienza. E
ho accennato, che ivi egli trova l'uomo non solitario, ma in relazione conl
divino, con gli altri uomini e col mondo. Però esclama: « In questa
magnificenza di cose, in questo cospetto e conoscimento della natura, o dèi
immortali, oh quanto conoscerà sè stesso l’uomo; il che c'impose Apollo Pizio! (De
off.) Per via della coscienza, s'accorse Cicerone in modo chiarissimo di tre
verità: prima, che l'uomo sta sopra l'altre cose; poi, che la ragione dell'uomo
prevale al senso e al corpo di lui; infine, che questa ragione ci mostra il
divino con le sue leggi. Viene da ciò la definizione della sapienza o della
filosofia nel II libro degli Officj (S2): scienza delle cose divine ed umane e
delle cagioni di queste; definizione più determinata che non l'altra ne' libri
Tuscolani (V. 3), dov'ei parla storicamente. E s'arguisce però, che Cicerone
stringe la scienza prima, secondo la universalità di essa, nel conoscimento
ragionato del divino e dell'uomo e de’sommi principj. CICERONE capisce, come
nella scienza si désse un ordinamento necessario; e diceva: « È malagevole
sapere alcun che in filosofia, chi non ne sappia o il più o il tutto. » (Tusc.
II, 1. ) Cicerone, come Socrate, ebbe una profonda coscienza della ragione.
Bisogna riflettere a noi stessi; in noi tro viamo la ragione, che ci distingue
da' bruti e dalle al tre cose; nella ragione troviamo i giudizj spontanei,
naturali, evidenti, universali. Questi fa d'uopo seguire. Ecco il principio
ordinatore della scienza e della virtù. Il tempo, scrive Cicerone, cancella i
capricci delle 110 stre opinioni, ma conferma i giudizj della natura. Opinionum
enim commenta delet dies, naturæ judicia con firmat (De nat. Deor.). Ma questi
giudizi erano avviluppati in una moltitudine di sistemi. Però, quanto alla
teorica dell'essere, Cicerone sta contento a poco. Chi potrebbe mai condannarlo
d'insipienza? Egli non si dà pensiero nella fisica nè de quattro elementi, nè
del quinto d'Aristotile, nè della materia o della forma. Le sue indagini hanno
per fine la esistenza e natura della divinità, le relazioni di questa col mondo
e l'immortalità dell'anima umana (Ritter). Quanto alla divinità, egli non ne
dubita punto, perchè sentiva nella ragione propria un che divino, la eterna
legge della giustizia (De leg.). Ma intorno alla natura di Dio non afferma gran
cosa. Del metodo di lui, su tali materie, porg' esempio il libro De natura
Deorum. Ivi disputano insieme un epicureo, uno stoico e un accademico.
L'accademico nega il dio animale degli Stoici, e termina dicendo: « Questo io
diceva, non perchè voglia negare la natura divina, ma per mostrare quant'ella
sia oscura e piena d'intrigate difficoltà. » Lo stoico poi combatte l '
epicureo. Cicerone, che si tiene da parte e non entra nel dialogo, che cosa
conclude? E' dice: la disputazione di COTTA (Accademico) sembra a VELLEIO (Epicureo)
più vera. A me l'altra di BALBO (Stoico), più verosimile. Cicerone, adunque,
mostra con singolare finezza quanto i dubbj dell'Accademia piacessero agli
Epicurei; e però com’egli, che s'allontana da questi, s'allontani pure da
quella ragionando sul divino. Pur tuttavia non sa nulla giudicare assolutamente
sulla natura del divino stesso e solo ammette verosimiglianze. Insomma, le
dottrine certe di lui le abbiamo ne' libri morali, dove si afferma l'esistenza
della divino (fonte ll'ogni giustizia e d'ogni diritto ), la legge morale e il
libero arbitrio, e dove perciò s'approva il detto di Crisippo, ch'ogni
proposizione è vera o falsa necessariamente (De fato); le opinioni verosimili
si hanno ne' libri di FILOSOFIA NATURALE, dove apparisce dubbj sulla natura del
divino e dell'anima, e sulle relazioni del divno con l'universo, e quindi sulla
prova fisica della divinità provvidente; ne' libri logici, finalmente, su '
principj della ragione e sull'evi denza interiore non v'ha dubbio di sorta,
beusì v'ha dubbio sul criterio per giudicare la natura delle cose esteriori
percepite da ' sensi. Anche Kant pose
superiore la certezza dell'argomento morale ad ogni altra certezza. Ma Kant
celebra quell'argomento dopo aver negata la validità della ragione pura o
teorica o speculativa. Cicerone, al contrario, non la nega mai, anzi la
magnifico, e solo crede ristretta di molto la possibilità de' giudizj
accertati. Dunque Cicerone, quant'alle dottrine supreme, e ch'egli poteva
conoscere fra l'ombre del Paganesimo sempre più fitte, ammette la verità e la
certezza; ma nel determinare più specificamente quelle verità pone la
verisimiglianza. In ciò solo fu accademico; e non pienamente nem men qui, come
avvertii già innanzi. Pare ch'egli cadesse nel dualismo, opponendo la necessità
della materia alla libertà divina; e che cadesse nel semi-panteismo, facendo
divina la nostra ragione. Il qual ultimo punto si raccoglie da più luoghi; ma
più da queste parole. Le altre parti, onde si compone l'uomo, fragili e
caduche, le prese da generazione mortale. Ma l'animo è generato dal divino (De
off.), e ammonisce di rammentare nel giuramento, che chiamiamo in testimone il
divino, « cioè, com'io penso (dice Cicerone) la mente propria, di cui non détte
il divino all ' uomo nulla di più divino. » Se non che, si vede la temperanza
dell'affermare in quello ut opinor; tant'era l' ecclissamento delle principali
verità sul finire del Paganesimo! Quant'alla teorica del conoscimento, CICERONE
distingue l'intelletto dal SENSO. Lo distingue tanto, che come Platone e
Aristotile, trovando un'immagine del divino nella mente nostra, la identifica con
esso. Anzi nel testimonio del SENSO non pone più autorità ch ' una
verisimiglianza, il che procedeva dal dualismo, secondo il quale il divino e la
mente son divisi dal resto. E per la logica si valse d'Aristotile, come si ha
dal libretto de' Topici. È stupenda la teorica dell'operare; perchè ivi reca
Cicerone più che altrove le verità universali raccolte dal testimonio della
coscienza; e vi reca quel suo modo di escludere l'esagerazioni e di comporre le
spatse verità con un principio più alto. Qual principio? Il rispetto della
ragione, che, in quanto conosce la verità, è retta ed è regola delle nostre
operazioni. Bisogna seguire, ei dice con gli Stoici, la natura, non l '
arbitrio delle passioni. Ma la natura nostra è ragionevole; dunque ogni atto
nostro dee farsi con ragione e sottomet terle l' appetito. (De off. I, 28, 29.
) E questa ragione ha potestà di comandare, perchè sta in essa una legge
naturale ed eterna del bene. « La legge (così Cicerone) è la ragione somma,
insita nella natura, e che comanda ciò ch'è da fare, proibisce il contrario.
(De leg.) Questa legge è nata da tutti i secoli, primache fosse scritta legge
alcuna, o che qualche città fosse istituita. Questa legge viene dal divino,
perch' ell ' è divina; e chi non ammette il divino, non può ammettere la legge
eterna e naturale. La legge è la ragione
divina partecipata a noi; e poich' è comune la retta ragione, e la comunanza di
questa è società, però noi siamo primamente consociati coll divino. E poich'
ell' è comune a tutti gli uomini, noi in secondo luogo formiamo la società del
genere umano « e tutti obbediamo a que st' ordine celeste, e alla mente divina,
e a Dio sovrap potente » (parent huic celesti descriptioni, mentique divinæ et
præpotenti divino. . Avendo questa legge divina nell'anima « tutti gli uomini
(soli essi fra gli altri animali) han qualche notizia del divino, nè v'ha gente
sì fiera che, ignorando qual divino adorare, pur non sappia che ve n'è uno. Noi
dunque siam nati alla giustizia; e il gius non è costituito per opinione, ma
per natura. Sì, per natura, giacchè siam tutti simili per la ragione, e ciascun
di noi si definisce com’uomo, e la mente di ciascuno « è diversa in dottrina,
ma nella facoltà del sapere è uguale. Dalla legge si genera il dovere, che va
quindi cer cato per sè stesso, come sudditi alla retta ragione, ne vi può
essere alcuna virtù se non si cerchi per sè, ma per la voluttà o per l'utilità.
(De off.) Come la ragione guida ogni atto umano, così la retta ragione reca in
ogni atto un officio. Talchè, dice il grand’uomo, « nè in cose pubbliche, nè in
private, nè in forensi, nè in domestiche, nè se tu operi teco stesso alcun che,
nè Storia della Filosofia. 25 se pattuisci con altrui; non v ' ha momento di
vita che possa mancare di qualch 'officio; e nell'adempirlo è tutta l'onestà,
nel trascurarlo la turpitudine. » (De off.) Nell'adempire gli officj stanno le
virtù, cioè la prudenza, la giustizia, la temperanza e la fortezza. La virtù,
se guendo la retta ragione che ci fa conoscere l'ordinamento naturale delle
cose, non è altro che l'osservanza dell'or dine stesso (De off. I, 4); sicchè «
nella universale so cietà son varj i gradi degli officj; onde si può sapere ciò
che si conviene a ciascuno; e quello che si dee prima agli dèi immortali, poi
alla patria, poi a' congiunti, infine di grado in grado agli altri. » (De off.)
Ma tant'è vero, che tutto ciò si vuol fare per l'autorità della legge eterna in
sè, e per la bellezza del dovere, che certe cose turpi non le giustifica
nemmeno l'amore di patria. (De off.) Egli distingueva poi l'utile apparente
dalla virtù: ma l'utile vero, diceva star sempre insieme con l'onestà; e quand'
apparisce che vi sia contrasto, è turpe eziandio di star a pensare sulla scelta.
(De off..) L'utilità è l'effetto, non il fine della virtù. (De amicitia) E
dalla virtù nasce l'onestà (che in latino ha senso d'onorabilità ), anche se
niuno la conoscesse: « etiam si a nullo lauda retur, natura esset laudabile. »
(De off.) Giacchè la virtù reca con sè il decoro, ch'è come la bellezza: «
l'uno viene dall' animo onesto, l'altra dalla sanità del corpo (De off.); e
come il decoro de' poeti è la convenienza delle parole col significato, così il
decoro della onestà è la convenienza con la natura. » (Ib. 28. ) Però, come i
Greci dicevano o" te uovoy (yóv to 2026, il solo buono è bello, così
Cicerone (come romano) muta il bello nel concetto d'onorabile, e dice: quod
honestum sit, id solum bonum esse: onorabile è solamente ciò ch ' è buono. (Paradox.
I, Osservazione del Ritter. ) Dalla legge eterna, che genera il dovere e la
virtù. nascono le leggi positive; talchè l'esistenza di Dio è il proemio di
tutte le leggi (habes legis proemium, De leg.). « È stoltissima cosa (segue
Cicerone contro l’Orto) che credasi giusto tutto ciò ch'è negl'istituti e nelle
leggi de' popoli. E che? dunque, anco le leggi de'tiranni?... Ma v'ha un unico
gius, da cui è unita la società degli uomini, e cui stabilì un'unica legge ch'è
la retta ragione di comandare e di proibire: e chi la ignora, è ingiusto, o
ch'ella sia scritta o no. Che se la giustizia è solo l'obbedienza a leggi
scritte e agl'istituti de' popoli; e se, come dicono coloro, tutto è da
misurare con la utilità, trascurerà le leggi e le infrangerà se può chi lo
creda fruttuoso. Così non v'ha più giustizia se non v'ha legge naturale, e ciò
che per utilità è stabilito, da un'altra utilità vien tolto via. Anzi, se da
natura non si conferma il giure, cessano tutte le virtù. » (De leg. I, 15. ) La
legge naturale ha da regolare il diritto pub blico, quello delle genti e il
privato; e il filosofo nostro dà precetti santi sulle pene, sulla guerra, sui
trattati. sui contratti e va' discorrendo. Così, dovrebb' essergli più mite il
giudizio degli stranieri, a legger ciò ch'ei dice della Repubblica romana: dopo
averne narrato l'umanità ne’secoli primi, aggiunge che questa diminuì a poco a
poco, e dopo le vittorie Sillane cessò; e quindi esclama: jure igitur plectimur
« a ragione dunque siamo puniti. » De off. II, 8. ) E quella pena noi abbiamo
scontata per se coli. De' pubblici reggimenti loda il misto, per gli stessi
argomenti d'Aristotile e con l'esempio di Roma. (De rep.) Che fa adunque la
filosofia di Cicerone? Essa gli donò (com’ei ripete più volte) copia e
splendore e, col crescere degli anni, efficace brevità d'eloquenza; gli dettò
que' Dialoghi di metafisica, dov'hai il fiore de sistemi greci, eletti e
temperati; que' libri rettorici, che sono un codice dell'arte per comune
giudizio; e que' libri morali degli Officj, delle Leggi e della Repubblica,
dove al me todo sperimentale dello Stagirita è unita la contempla zione
platonica e la severità stoica, senza i loro eccessi. Però, quand' io sento uno
storico illustre' scusarsi del l'aver troppo parlato di Cicerone perchè in lui
non v'ha troppo di nuovo, prego Dio che la scienza ritorni alla natura, e, più
che dell'insolito, sia desiderosa del vero. La giurisprudenza è scienza
filosofica, perché riguarda gli alti umani o personali. La giurisprudenza
positiva non altro fa se non appli care il diritto naturale. Si cerca, quindi,
lo svolgimento della giurispru denza romana e quanto alle forme logiche, e
quanto alla materia. Quattro età del gius romano. Prima età: consuetudini. È
difficile determinare qual parte avesse la civiltà, e quindi la scienza, in
que' primi germi del diritto. Ma vestigi di sapienza ve n'ba. Che cosa abbia di
vero e di falso la tradizione sulle dodici tavole. La materia di esse certo è
romana. Probabilmente la forma logica loro è di Ermodoro Efesio. Seconda età:
si pubblica il segreto delle azioni. La giurisprudenza, perciò, viene alla
gioventù dalla puerizia. Ma crebbe in modo segnalato allorché, sul cadere del
sesto secolo di Roma, si propaga ivi la filosofia. Il settimo se colo è quello
di Cicerone. Si prova con l'autorità di Cicerone, che allora si lero a grande
stato la giurisprudenza per lo studio della filosofia. Allora si conceve l'idea
d'un codice -- idea che vuol abito filosofico delle universalita. Terza età: la
signoria de’ Romani, dilatandosi a tutta Italia, fa pos sibili le scienze.
Cittadinanza romana a tutti gl 'I taliani. Gius italico che da il dominio
quiritario, e il diritto de’ comizii anche per deputati ec. Colonie romane per
tutta Italia. Si determina bene il concetto del paese italico. Gius equo e
buono. Altra cagione della fiorente giurisprudenza; giureconsulti, per lo più,
non sono causidici. Un'altra: l'emulazione in filosofia con gl’oratori. Cenno
su’ principali giureconsul ti. Loro virtù. Com'apparisca dagl’autori, ch’essi
citado ne' frammenti, lo studio loro ne’ poeti, negli oratori e ne ' filosofi.
Si paragona que’ giure consulti a' matematici per tre ragioni. Vigore delle
conseguenze. Cura nel l'evitare contraddizioni. Metodo induttivo e deduttivo.
L'efficacia della filosofia non si ristringe alla forma logica. Passa alla
materia. Tale influsso non apparisce solo da prove particolari, ma più ancora
dalla universale conformità di quelle dottrine alle leggi del pensiero e (salvo
qualch'errore di tempi ) alla natura umana. Nozioni della giurisprudenza, e
perchè i giureconsulti la definissero come la filosofia morale. Distingueno la
scienza del diritto dall'arte. Però s'elevano al concetto della filosofia vera,
rigettando gli eccessi: la speculazione de’ giureconsulti è contenuta nel vero
da' dettami di senso comune e dal fine pratico. Distinzione del diritto in jus
naturale, ius gentium et ius civi. Si
mostra ch'a torto i giureconsulti vennero ripresi sul concetto de’ diritti
naturali. Non accettabile, quanto alla servitù, la nozione del gius civile. Ma
i giureconsulti ROMANI diceno la servitù non secondo il gius naturale, e riconosceno
un fatto. Come la parola “ius” non esclude l'idea d'un diritto eterno. E si
distingue dalla espressione “legge.” Poi, si ha ne’ giureconsulti ROMANI l'idea
precisa del diritto eterno e del diritto naturale. L'efficacia della filosofia
si mostra nella giurisprudenza per via del diritto onorario, per via del
diritto ricevuto, e per l'interpretazione de ' giureconsulti. Molte novilà
introdotte dal gius ricevuto. La virtù e la vera FILOSOFIA de' giureconsulti ROMANI
si fa sentire per fino nel loro stile. Si reca un saggio della loro sapienza e
brevità elegante. Dalla esposizione delle dottrine di Tullio e de'
giureconsulti romani apparisce che l'epoca quarta cerca la comprensione finale.
Parlato di Cicerone, è da parlare de' giureconsulti romani. La giurisprudenza è
una scienza che e una parte della FILOSOFIA perchè risguarda gli atti umani o
personali. La giurisprudenza procede dalla FILOSOFIA MORALE, che abbraccia la
scienza de' doveri e quella de' diritti naturali. La giurisprudenza POSITIVA
non altro fa che determi nare nella varietà de' casi particolari le immutabili
generalità del diritto eterno. Però, se LA FILOSOFIA entra in tutte le scienze
com'ordinamento di concetti e di giudizj, entra poi nella GIURISPRUDENZA ROMANA,
non solo com'ordine logicale, ma eziandio come scienza dell'uomo e delle
ragioni supreme. Avrò dunque a cercare lo svolgimento di LA GIURISRPUDENZA
ROMANA, per l'impulso di LA FILOSOFIA ROMANA, nel doppio aspetto della FORMA
LOGICA e della materia. La storia di quella e distinta bene dall' Hugo in
quattro età nella sua “Histoire du Droit Romaine.” La prima va dall'origine di
ROMA fino a le XII tavole, cioè fino alla repubblica. La seconda fino a CICERONE.
La terza fino ad OTTAVIANO. Se vero, oltre i due secoli dell'èra volgare. La quarta eta, fino a GIUSTINIANO. Età di
fanciullezza, di gioventù, di virilità, e di vecchiaia. Il giureconsulto
Pomponio c'insegna (Fr. 2. D. De Or. Juris) che Roma, ne' primi tempi, si regge
SENZA LEGGE nè diritto stabile -- cioè per CONSUETUDINE. La CONSUDETUDINE forma,
dice Forti (“Istituzioni Civili”), il diritto privato con l'autorità degli
esempi, cioè de' fatti ripetuti, e forma con gli accordi de'potenti il diritto
pubblico. Così il potere assoluto del padre, del marito e del padroni è da'
giureconsulti risguardato sempre per CONSUETUDINARIO, ed anche l'uso delle
clientele. Quanta parte ha la civiltà, e con la civiltà la scienza, in
que'primi rudimenti del diritto romano è difficile a definire in antichità si
remota e perduti dalle guerre i documenti etruschi. Della Magna Grecia restano
scritti, perchè le serba con la lingua loro la stirpe greca. Ma de’ LATINI
PRISCHI e dell'Etruria non abbiamo più se non epigrafi tuttora ignote. Ogni
lingua e schiatta si confusero nell'unità romana. Certo è, tuttavia, che, almeno
gl’etruschi sono molto civili. Sembra non si possa dubitare che il sangue loro
si mescolasse nel popolo di Roma -- benchè l'Hugo lo nega. Ma LUCIO FLORO, parlando
della guerra sociale, dice chiaro. Quantunque la chiamiamo guerra “sociale” a
diminuirne l'odiosità. pure, se stiamo al vero, quella e guerra *civile* -- giacche
il popolo romano, avendo mescolato insieme gl’etruschi, i latini e i sabini, e
traendo da tutti un sangue solo – “unum ex omnibus sanguinem ducat” --, è di
più membri un corpo e di tutti è una unità (Rer. Rom.) Lerminier nella sua “Philosophie
du Droit” riscontra con molto acume in VIRGILIO la prima origine de' tre
popoli, in Virgilio studiosissimo delle memorie antiche. Lodando l'agricoltura,
VIRGILIO dice cosi. Questa vita tennero i vecchi Sabini, questa Remo e il fratello.
Così crebbe la forte Etruria. In tal modo si fa la bellissima di tutti
gl'imperi, Roma; e una, si circonda d'un muro i sette colli (Georgiche). Fatto
è che a taluno par vedere i *tre* popoli nelle tre tribù del primo popolo
romano, rammentate da Livio – TRIBU I: i Rannesi o Latini, -- TRIBU II: i Tarsi
o Sabini, e TRIBU III: i Luceri o Etruschi (Warnkoenig, “Histoire du Droit Romaine”).
Momen (Storia Romana) nega tal mescolanza. Ma Momsen non da le prove.
Probabile, a ogni modo, che quel nuovo comune di Roma. sorto fra ’comuni vicini,
si mescolasse pure di genti vicine. O si conceda dunque con Niebuhr la
preminenza agl’etruschi, o concedasi a’ latini con l’Hugo, un in dirizzo nelle
cose romane lo dettero i primi – gl’etruschi. Ciò spiega, come in tanta
rozzezza di popolo guerriero e racco gliticcio come il popolo latino LATINO DEL
LAZIO si possede un gius pontificio, e formule sacerdotali e simboli segreti.
Questo io dico per mostrare che le prime consuetudini ed istituzioni hanno
qualche ragione di civiltà, e riuscirono buon fondamento alla giurisprudenza
perfetta. Però, fin dalla prima età, si scorge in Roma la mirabile distinzione
da’magistrati (magistratus populi romani) che stabilivano il diritto, da'
giudici (judex, arbiter ) che giudicavano del fatto (Hugo) -- distinzione che a
poco a poco détte occasione al gius onorario. È noto che il reggimento di Roma
sott’i re e, più, ne' principj della repubblica, e degl’OTTIMATI, cioè, aristocratico.
Indi la opposizione civile dei PATRIZI colla plebe per avere un gius equo -- opposizione
che, divenuta incivile o violenta, rovina la repubblica, come la prima ne forma
la grandezza. La PLEBE dimanda leggi scritte per contenere l'arbitrio de' PATRIZI,
e si promulga la legge di le XII tavole. Narra il giureconsulto Pomponio, che
queste si raccolsero in Grecia, interprete d'esse l'efesio Ermodoro (Fr. 4, D.
De Orig. Juris.). Certamente, PLINIO il vecchio (“Hist. Nat.”) rammenta come
serbata fino a lui la statua fatta per decreto a questo Ermodoro. Talchè la
tradizione non pare favolosa in tutto. Ma è certo altresì che in le XII Tavole,
per quanto ne conosciamo, non si ha traccia del diritto che non e romano.
L’essenza – l’essenziale -- giudizj, patria potestà e connubio, eredità e
tutele, dominio e possesso, diritto pubblico e diritto sacro -- e cosa tutta
romana, come dice Vico, e ormai ripetono i più dotti stranieri come Warnkoenig.
Ma io credo abbisognasse l'opera di quel greco erudito per meditare questa o
quella vecchia CONSUETUDINE, e RIDURLA A CONCETTI determinati ed a’lor capi
principali, ufficio di riflessione addestrata. Nè ciò avrebber saputo I ROMANI,
dati all'armi anzichè agli studj. Ecco
il per chè quella primitiva sapienza, logicamente specificata e distinta d’Ermodoro,
trae in ammirazione Tullio. CICERONE scrive ne' libri “De Oratore”. Se ne
adirino pur tutti, io dirò quel che sento: a me, il solo libricciuolo di le XII
tavole, par superi (se tu guardi a' fonti e a'capi delle leggi) le biblioteche
de' filosofi tutti nel peso del l'autorità e nella copia dell'utilità. Quanto
prevalessero in prudenza i nostri maggiori a ogni altra gente, intenderà facile
chi le nostre leggi romane paragoni a quelle di Licurgo, di Dracone e di
Solone. È incredibile, di fatto, quant'ogni altro diritto civile, salvo il
nostro romano, sia in colto e quasi ridicolo. (De Or.) Le quali parole
attestano tre cose: l'antichissima civiltà di quelle genti che formano Roma, e
che vi recano le proprie tradizioni, benchè si dessero, poi, a vita agreste e
guerriera; la falsità che il gius civile romano procede ài Grecia ne' suoi
particolari; e come la perfezione della giurisprudenza si svolge da principj
non rozzi ne poco pensati. I ROMANNO danno la sostanza, i Greci probabilmente LA MERA FORMA LOGICA, per GENERE E SPECIE – cioè,
ordinamento di codice. Da le XII tavole nasce la necessità d'interpretarle per
disputare in giudizio, e di avere azioni utili a domandare la loro
applicazione. Di qui, come dice Pomponio venne il diritto civile non scritto o
l'autorità dei prudenti, e le azioni delle leggi (“legis actiones”). Ma tutto
ciò e un SEGRETO de' pontefici. Pubblicato il segreto nella seconda età, la
libera giurisprudenza passa dallo stato infantile alla gioventù. Ma quando mai accadde
tal cosa in modo più segnalato? A Roma si propaga il filosofare. Il secolo
posteriore è appunto il secolo di CICERONE. Or bene, la giurisprudenza,
cresciuta lentamente crebbe rapidamente. Allora proprio noi riscontriamo i
giureconsulti studiosi della filosofia e quant'alle leggi del pensiero e quanto
alla natura degl’atti umani in sè e nell' esteriori attinenze. Scrive CICERONE
la “Topica”, o logica inventrice degli argomenti a preghiera di TREBAZIO, come
si ha dal proemio di quel saggio, ov'è scritto. “Non potrei, adunque, con te,
che me ne pregavi spesso, benchè timoroso di noiarmi, come scorgevo facile, stare
in debito più a lungo, senza parer d'offendere lo stesso interprete del
diritto. Sicchè queste cose, non avendo libri con me, scrivo a memoria nella
mia navigazione, e dopo il viaggio ti ho mandate.” Il qual saggio è notevole
molto, perchè ogni precetto è confortato da esempi di giurisprudenza. E di SERVIO
SULPIZIO, primo in autorità tra' giureconsulti di que' tempi e solo studiato
da' giure consulti posteriori, ecco che scrive CICERONE, amico di lui. “Si
stima, o BRUTO, che grand'uso del gius civile s'avesse da SCEVOLA e da molt'
altri, ma l'arte da que st' unico, cioè da SULPIZIO -al che non sarebbe giunta
in lui la scienza del giure, s'e' non avesse imparato quell'arte che insegna
spartire le materie composte, esplicare con le definizioni l'ascose, chiarire
con le interpretazioni l'oscure; e così a veder prima ben chiaro le cose
ambigue, poi a distinguerle, e ad avere in fine la regola per separare il vero
dal falso, le conseguenze diritte dalle contrarie. Questi adunque reca tal arte
(massima di tutte l'arti ), quasi luce in tutto ciò che dagli altri si
rispondeva o si faceva confusamente. (De CI. Orat.) Con le quali parole mostra
CICERONE la forma di scienza che si prese dal diritto in virtù della LOGICA. E
la FORMA scientifica, ch'è abito di riflessione interiore, leva le menti alle
generalità, senza cui, come non istà scienza nessuna, così nemmeno la scienza
del diritto. E il segnale n'è questo; che al termine dell'età seconda, cioè sul
fiorire della filosofia a Roma, GIULIO CESARE e POMPEO ebber disegno d'un
codice; disegno, che mostra l’uso e la stima degli universali astratti da ogni
caso particolare, ordinati poi secondo GENERI E SPECIE -- giacchè un codice val
quanto in istoria naturale un ordinamento PER CLASSI. Pare che SERVIO SULPIZIO effettuasse
un alcun che di somigliante a impulso di Cicerone, il quale alla sua volta ne'
libri delle leggi mostra un saggio di codice pel diritto pubblico, e al
trettanto promise pel diritto privato. Nè qui entro in disputa fra due scuole
alemanne, l'una che, con Savigny, sostiene il danno de’codici. Laltra che ne
difende l'utilità. Dico a ogni modo (nè si contrasta ) che un codice non si fa senz'abito
di speculazioni filosofiche. L'averlo pensato in Roma e tentato a quel tempo,
chia risce la efficacia loro nella giurisprudenza. Essa pervenne a compimento
nella terza età, cioè ne' primi due secoli e mezzo dell'impero. Il dilatarsi
del dominio romano a tutta Italia prepara il campo alla filosofia. I Romani,
sentendosi non più solo romani, ma italiani e uomini, la loro coscienza si
chiarì e s'arricchì, e l'intelletto loro medito le verità universali. Di questo
fatto non v' ha dubbio di sorta. Dopo la guerra sociale, per LA LEGGE PLAUZIA e
LA LEGGE GIULIA DE CIVITATE SOCIORUM e data, come nota Haubold nella sua “Tavola
cronologica per servire alla St. del Diritto”, a tutte le città italiche CITTADINANZA
ROMANA -- eccetto i Lucani e i Sanniti. Poi consegueno la cittadinanza i galli
oltrepò, conseguíta prima da'Galli cispadani. La ottenne tutta perciò la Gallia
cisalpina. (Framm. L. de Gallia Cisalpina). In tal modo, come scrive Savigny,
dopo la guerra italica i cittadini d'Italia divennero parte del popolo sovrano (St.
del Dir. rom). Questo gius italico da dominio quiritario, o dominio
solennemente e pie namente assicurato, immunità da tutte l'imposte dirette,
libero governo municipale delle città italiane (ivi), diritto d'intervenire
a'comizj o di mandarvi deputati. Talchè l'Italia, a ' tempi romani, con l'unità
politica suprema serbò le unità politiche secondarie, che si chiamavano socio
confederati. E questo accadde perchè i romani hanno già fatto l'unità naturale
della nazione col mescolamento de’ sangui, spargendo ovunque le colonie
(com'osserva Forti), nè per sei secoli ne mandaron mai fuori d'Italia. (Ist.
Civ.). L'Italia, dice Hugo, non si considera mai una provincia; chè le
provincie furono soggette a magistrati non propri, non compagne ma suddite (Hist.
du Dr. Rom..) I romani, allora, si levarono con la mente all'unità naturale del
territorio, come vediamo ne' Digesti. Al Fr. 99, $ 1 de Verborum significatione
è scritto. Dobbiam credere provincie continue le unite all'Italia, come la
Gallia cisalpine. Ma e la provincia di Sicilia più si ha da tenere per
continua, essendo separata d'Italia da piccolo stretto. “Continentes provincias
accipere debemus eas, quæ Italiæ junctæ sunt, ut puta Galliam: sed et
provinciam Siciliam magis inter continentes accipere eas oportet, quæ modico
freto Italia dividitur” Ulpiano. E al Fr. 9, D. de Judiciis et ubi etc., si
dice.Le isole d'Italia son parte d'Italia e di ciascuna provincia. “Insulæ
Italiæ pars Italiæ sunt et cuiusque provincie.” A questo concetto sì pieno
vennero i romani tra gli ultimi tempi della repubblica e i primi del PRINCIPATO,
cioè tra la prima e la seconda età. Ecco il perchè la giurisprudenza romana,
con l'aiuto della filosofia, potè sorgere a tant'altezza. Si aggiunga poi, che
le sevizie de' principi cadevano in Roma su'patrizi più sospetti, ma quel
reggimento temperavano istituti repubblicani e ordini civili equi. Se no, come
dice Romagnosi, non si capirebbe il perchè in un governo da turchi uscissero
mai tanto insigni se natusconsulti e le belle costituzioni de' principi; e come
ALESSANDRO SEVERO ha un consiglio di XVI sapienti, tra cui i più chiari
giureconsulti, FABIO cioè, Sabino, Ulpiano, Paolo, Pomponio, Modestino e altri.
(Ind. e Fattori dell'incivilimento. P. 2, C. 1, § 1-5. ). E tanto è vero, che la notizia del “gius equo”
e buono splendesse viva nelle menti romane, che lo strapazzo delle provincie, finita
la guerra civile, non e punto legale, anzi contr'alle leggi; perchè, secondo le
costituzioni come dice Warnkoenig, le provincie stano bene, le imposte sono
lievi, lo stato pacifico, molto dell'amministrazione in mano di quelle (il che
scusa in parte il popolo romano); ma infierivano i governatori. Popolo e senato
li minacciavano con le leggi repetundarum, tornate vane per corruzione
de'giudizj. (Hist. du Dr. Rom.) Tali cagioni principalmente formarono la
sapienza de' giureconsulti romani. Inoltre, essi per lo più non eran causidici,
ma scioglievano questioni di diritto in generale. E ciò indica sempre più e la
natura scientifica del ministero loro, e perchè la scienza, libera da interessi
particolari, progredisse continuamente. (Cic., De CI. Orat.). Poi, l'emulazione
degli oratori che piegavano il gius alla varietà de’lor fini, co' giureconsulti
che ne volevano serbare la severità, incita questi a gareggiare in isplendore
di filosofia, e ad interpretare il diritto co' placiti del senso comune. Così
da una disputa tra l'oratore CRASSO -- contemporaneo al padre di Cicerone -- e MUZIO
SCEVOLA giureconsulto sull'interpretare i testamenti o a rigore di parola, o
secondo la probabile volontà del testatore, nacque la giurisprudenza in
quest'ultimo senso, ripresa da Forti, ma e forse meglio approvata da Cuiacio.
Infine, l'esercitarsi tale ufficio da’giureconsulti senz'ombra di lucro, la
illustre loro condizione e l'affetto all'antiche leggi e consuetudini di Roma,
indica il perchè tennero essi per lo più l'austerità della morale del Portico,
che ci chiarisce alla sua volta il decoro, l’equità e sottilità della loro
scienza; e tutto insieme poi spiega la nobiltà di vita de' più tra loro, e n'è
spiegato. Le poche notizie che n’abbiamo ce li fanno apparire la più parte
uomini onorandi. Nomino dapprima QUINTO MUZIO SCEVOLA, assassinato a’tempi di MARIO.
Dice POMPONIO che Muzio costitue primo il decreto civile, disponendolo per capi
di materie (“generatim”) in XVIII libri. SERVIO SULPIZIO riduce il diritto a
stato di scienza. SULPIZIO e prima oratore grande, poi giureconsulto per un rim
provero che gli fa MUZIO SCEVOLA d'ignorare le leggi del proprio paese, egli
oratore e patrizio. Sostenne la repubblica. Avversa i Triumviri. La repubblica
gli alza una statua. Abbiamo di que' tempi ALFENO VARO e OFELIO, ambidue
discepoli di SERVIO, e TREBAZIO (a cui la Logica di Cicerone) e un altro MUZIO
SCEVOLA – PONTIFICE -- e CASCELLIO. Muzio non accetta da Ottaviano il consolato.
Cascellio non volle mai comporre una formola secondo le leggi de' Triumviri; e
a chi lo consiglia si temperasse rispondeva, “Son vecchio e senza figliuoli.” LABEONE,
il cui padre e morto a Filippi, rifiuta il consolato da OTTAVIANO anch'egli, e
serba spiriti antichi. Dice Pomponio: Ageio Capitoni si détte moltissimo agli
studj. Divide l'anno in modo che sta sei mesi a Roma co' discepoli (“cum
studiosis”), e sei mesi lontano per iscrivere libri. Così lascia XL volumi, che
i più s'usano ancora. Ateio CAPITONE (segue Pomponio) persevere nell'antico. Ma
LABEONE, che molto medita nell'altre parti della sapienza (“qui et in cæteris
sapientiæ operam dederat”), per valore d'ingegno e per fidanza di dottrina
comincia innovare molto” (Fr., D. De Or. Jur. ). I cinque giureconsulti più
celebri e più recenti (lasciando gli altri) sono: EMILIO PAPINIANO, PAOLO,
GAIO, ULPIANO, E MODESTINO. PAPINIANO, familiare di SETTIMIO SEVERO e
principale nel governo, stette per GETA contro il suo fratello CARACALLA, e
volendo costui una difesa legale del fratricidio. PAPINAINO la nega e venne
ucciso. Scrive “I fatti,” che le dono la pietà, il buon nome e il pudore
nostro, e che, a dirlo in genere, son contro al costume, si dee tenere che noi
uomini dabbene non possiamo farli (Fr. D. De servis exportandis etc.). Gl’altri
quattro illustrano, come dice, il consiglio di ALESSANDRO SEVERO. I
giureconsulti, massime della terza età, levano a stato di scienza le loro
discipline. Ciò nacque dalla molta erudizione loro, non solo in filosofia, ma
eziandio in lettere; e se n'ha prova ne' lor libri per le citazioni da' Greci;
com'a dire Omero, Ippocrate, Platone, Demostene e Crisippo. E il primo effetto e,
come notai de' tempi di CICERONE, che la giurisprudenza prende forma logica
tanto sicura e stringente, ch'è una meraviglia. Si sa da molti e ab antico, dice
Hugo, la filosofia de' giureconsulti, ma si sa da pochi, che nessuno più di
quelli sta in confronto de’matematici per tre ragioni. Cioè per vigore di
conseguenze da principj fissi, per diligenza nell'evitare contraddizioni -- che
Gaio dimandava “inelegantia juris” --, e pel metodo distintivo e compositivo,
induttivo e deduttivo ad un tempo -- distintivo e induttivo salendo alle specie
generali del diritto; compositivo e deduttivo traendone con brevità ed evidenza
le illazioni. Il gran Leibnitz, insigne filosofo, scrive nell' Epist. “Io
ammiro l'opera de Digesti, o, meglio, i lavori de' giureconsulti, ond' ell' è
presa. Ne vidi mai nulla che più s'accosti al pregio de matematici. O che tu
guardi all'acume degli argomenti, o a'nervi del dire. Ma questa efficacia della
filosofia non potè fermarsi all'ordine de' pensieri, dovè penetrare
nell'interno, giacchè, com'avvertii, materia della giurisprudenza son gl’atti
umani o personali, soggetto filosofico. Tal efficacia non si creda particolare
ma generale. Quindi, coloro che cercano ne'giureconsulti le traccie minute o del
Portico o d'altri sistemi, errano forte se non passano inoltre a considerare
l'opera generale della riflessione interna. È certissimo, com'avvertono gl’eruditi,
che i più de'giureconsulti tolsero dal Portico l'argomentare per analogia,
l'amore dell' etimologie, la spartizione delle materie, LA SOTTILE DIALETTICA che
conviene al foro, e molte dottrine sulla ragione dell'onesto, applicate da essi
egregiamente al gius civile. Ma l'essenziale sta in quel gran corpo, così
disposto bene secondo le leggi del pensiero, e, salvo qualch'errore de' tempi, così
con formato alla natura umana nelle regole eterne di lei e nelle relazioni
esteriori. Sicchè il gius romano serve di lume al gius de’ popoli più civili,
come si ha dal codice Napoleone: e gli Alemanni, dimenticata noi tanta gloria,
vi fanno su studj esimj e perseveranti. E perchè si chiarisca il filosofare
intimo de' giureconsulti, guardiamo la nozione, ch'e'si fanno della
giurisprudenza e della filosofia. Ulpiano nel Tit. 1 dei Digesti scrive. Dand'opera
al gius, occorre prima sapere onde ne venga il nome. “Gius” è chiamato da
giustizia. Perchè, come Celso lo define elegantemente, il gius è l'arte del
buono e dell'equo. Però siamo chiamati, con ragione, sacerdoti della giustizia.
Di fatto, professiamo la giustizia e manifestiamo la scienza del buono e
dell'equo; separando l'equo dall' iniquo, e discernendo le cose lecite dalle
contrarie; desiderosi di far buoni gl’uomini, non per timore delle pene, ma
eziandio per l'incitamento de'premj; ricercatori, se non m'inganno, di vera e
non simulata filosofia. Se la definizione della giurisprudenza si prenda qui a
rigore, ella non regge, perchè si stende a tutta la filosofia morale. Ma se
badiamo al concetto che avevano di questa gl’antichi, e al generarsi la scienza
del diritto dall'altra del dovere, ci formeremo idea chiara del come
intimamente e FILOSOFICA LA GIURISPRUDENZA ROMANA. Secondo i sistemi filosofici,
sommità di perfezione umana è LO STATO ROMANO. Talchè la morale s'ordina alla
politica. Concetto vero per l'attinenze esteriori, falso e pagano quant'
all'ultimo fine. Non faccia dunque meraviglia se i giureconsulti romani definino
il gius civile come la morale. Lo definano così, perchè, a sentimento di tutti
gl’antichi, le due scienze si mescolavano in una. Noi con più ragione le distinguiamo,
ma s'erra da chi ne dimentica l'unità superiore, ch'è la scienza de' primi
principj e dell' uomo -- dimenticanza ignota agl’antichi, che però svolgeno
razionalmente il diritto e non lo maneggiano materialmente. Notate ancora che
nel passo citato si distingue la scienza dall'arte. Se nelle Istituzioni poi la
giustizia è definita: Costante e perpetua volontà di rendere a ciascuno il suo
diritto: e se la giurisprudenza è definita; Notizia delle cose umane e divine e
scienza del giusto e dell'ingiusto, pr. e S 1, Inst. De just. et jure, si vuol
fare la stessa osservazione detta di sopra; e noto con Cuiacio, che in tal
luogo la giurisprudenza è indicata bene com' abito dell'intelletto o scienza, e
com’abito della VOLONTA, secondo l'antica filosofia. E la filosofia la pensano
essi, non senz'alta speculazione, ma contenuta nel vero da' dettami del senso
comune e dal fine pratico. Di fatto s' inalzarono all'eternità del diritto -- come
osserva Vico nella “Scienza Nuova” -- allorchè dissero: Il tempo non muta nè
scioglie i diritti: “Tempus non est modus costituendi vel dissolvendi juris.”
E, quando discernano il diritto naturale dal positive, nello stesso tempo rigetteno
gl’eccessi del Portico, come l'eguaglianza della imputazione; finalmente
derisero le stranezze, l'ipocrisie, l'avarizia di quelle sette in età di
scadimento. Così sente Ulpiano, che distingue filosofia schietta dalla
mascherata; e nel Fr. 6, § 7, D. al Tit. De his quæ in testamento delentur, è
schernito il suicidio de' filosofi per ostentazione, e nel Fr. 1, § 4, D. de
extraordinariis cognitionibus etc., dove si stabilisce gl’onorarj delle
professioni, li nega il giureconsulto a' filosofi che, vantando di spregiare le
mercedi, n'andano a caccia. I giureconsulti poi mostrno tre specie di diritti:
jus naturale, gentium, et civile; distinzione che non si vuol confondere con
l'altra più pratica in jus gentium vel naturale e in jus civile; e chi non vi
badi, tassa i giureconsulti d'errori, ch'e'non hanno. La distinzione
praticamette divario tra leggi proprie di Roma (jus civile) e istituzioni
comuni a ogni popolo non selvatico (jus gentium vel naturale). L’altra è
distinzione più speculativa e fondamentale. Ulpiano nel Tit. De just. et jure,
D. dal Fr. 2 al 6, distingue diritto pubblico da privato; e distingue il
privato in diritto naturale, che natura insegna a tutti gl’animali, come la
procreazione de’ figliuoli; in diritto delle genti, del quale, tra gl’animali, hann'
uso gl’uomini soli, come la religione verso il divino, l’obbedire a' genitori e
alla patria: in diritto civile ch'è proprio d'un popolo. Ora, s'accusa Ulpiano
d'aver confuso il diritto naturale con gl' istinti del l'animalità; ' e sì che
Piccolomini da qualche secolo fa, come Warnkoenig, nota che qui, secondo le
dottrine vere d' Aristotile, son distinti nel l'uomo i diritti che vengono
dalla natura animale, quelli che vengono dalla razionale, e gl’altri che pone
la comunanza civile. Non s'intende già che una bestia -- detta da'
giureconsulti cosa, non PERSONA – ha diritto, ma che le potenze animali
dell'uomo, in quanto appartengono all'uomo, generan diritti, come li generano
le potenze razionali. Talchè in Ulpiano si trova benissimo sceverata
l'animalità dalla razionalità. È da confessare invece, che il diritto civile si
define per quello che toglie o aggiunge al diritto naturale e delle genti; e
s'allude alla servitù ch'è contro alla natura, come si dice nel Tit. De regulis
juris. Ma tuttavia meritan lode i giureconsulti, che se non condannarono la
servitù, la dissero contraria bensì al diritto naturale, migliori di Platone e
di Aristotile. Anzi nelle Istituzioni è detto, che il gius naturale e istituito
dalla divina provvidenza, come insegna il Portico (De Jur. Nat. Gen. et Cir.);
nel qual testo il gius naturale abbraccia pur l'altro delle genti. Poi, essi
definino il gius civile qual e in fatto allora. Osservo di passaggio che il
chiarissimo Conforti nel l'annotazioni a Stahl (“Storia della Filosofia del
Diritto”, Torino) opina con altri, che i romani non avessero idea del diritto
eterno, perchè jus viene da “iubeo”, comandare; dove la parola diritto, e le
simili del francese, tedesco e inglese, hanno il concetto di rettitudine, o di
rittura alla legge eterna. Ma quel valentuomo non pensa forse al come definisce
la parola Jus Forcellini (Voc. ad V.). Gius è tutto ciò che in generale vien
costi tuito da leggi o naturali, o divine, o delle genti o civili -- Jus est
autem universim id, quod legibus constitutum est etc. Si nomina con altro nome
equità comune, equo universale, legittimo, cioè adequato alle leggi, quasi
norma e regola degli atti umani. Sicchè I ROMANI chiamano “ius” un che
costituito da una legge qua lunque. Così distingueno la legge da ciò che ne
procede, e ch’è l'EFFETO DEL SUO COMMANDO. Cicerone (Rep. et De Leg.) adopera
legge e gius in tal significato. Ma la risposta migliore si è
in quell'assioma de romani già citato: Il tempo non muta nè scioglie i
diritti; conobbero, dunque, i romani la santità del diritto fuori del tempo,
cioè nell'eternità, o nel suo fondamento assoluto. Inoltre vedemmo che il gius
civile si distingue dal naturale. Ma tornando a'giureconsulti, la loro scienza
origina il diritto onorario, di cui parla Forti se non con molta novità, certo
con più chiarezza di tutti gli altri da me esaminati. E io ritrarrò in breve la
sentenza di lui, e n'usce la prova del quanto potè la scienza dell'uomo e la
filosofia morale in tanta perfezione di gius. Ma prima dico che il gius
onorario contene gli editti del urbano e del peregrino, e quelli degli edili e
proconsoli e propretori delle provincie -- edictum provinciale. Pare che il
gius predetto, almeno in modo segnalato, principiasse per chè Cicerone nella
seconda Verrina dice. Postea quam jus prætorium constitutum est. Hugo dimostra,
contro Heinneccio, che tal diritto ha forza di legge; poichè, tra gli altri
argomenti, Cicerone non contrasta nelle Verrine che L’EDITTO DI VERRE SIA LEGGE
da tenere, ma lo accusa di averlo infranto VERRE stesso, o conformato non
secondo ragione (Hugo, Hist.). Or dunque, i pretori rendevano giustizia
ne'civili negozi, gli edili per le convenzioni de' mercati e per LA POLIZIA
DELLA CITTA. E tanto gli uni che gl’altri, quando pigliavano i magistrati,
mandano fuori un editto, ove stabilivano le forme del giudizio e LE MASSIME -- ottimo
istituto in repubblica popolare. Non mutano il gius, ne determinano
l'applicazione. Eccone gli esempi. In primo luogo, salva LA FORMA LEGALE,, si
supponga che i contraenti hanno pattuito o per inganno, o per errore, o per
timore, o per forza. Mancando la moralità dell'atto, la legge non conservavasi
uguale per tutti. Quindi i pretori statuiron una MASSIMA PER L’EFFICACIA CIVILE
DELLA MORALITA NEGL’ATTI, scuse legittime per negare agl'ingiusti la sanzione
della legge e i mezzi legali. Perchè QUESTA O QUELLA MASSIMA d'equità si
recassero ad effetto. I codici moderni han composto di questa o quella MASSIMA
le lor legge universale. Allora, dice Forti, gli editti de' magistrati sono uno
de' principali modi, per cui la filosofia venne applicata gradatamente ai
bisogni civili. Sicchè, quant'alla moralità degli atti, trovarono i magistrati
l'ECCEZIONI perpetue contro le obbligazioni per dolo, per timore, per errore,
per violenza; la restituzione in intero, i modi legali a sciogliere le dette
obbligazioni, od a ripetere ciò che pel tenore loro fosse stato pagato. In
secondo luogo, la legge, definito il diritto e ordinatane la sanzione, lascia
a'magistrati il modo d'effettuarla. Per esempio, la legge stabilice i modi
d'acquistare la proprietà, ma non i modi della sua difesa; che più torna
necessaria, quanto più divise le possessioni, e distinta la varietà
de'godimenti e diritti che si comprendono nella mozione del dominio -- onde
nacquero nuovi contratti e bisogni di nuove difese. Quind'i pretori differenziano
a capello il dominio e il possesso, e gl'interdetti che lo proteggono, e va'
discorrendo (Ist. Civ., L. I. S. 1). Le dottrine de'giureconsulti poi vennero a
formare un'altra maniera di gius -- ioè il diritto ricevuto -- “jus receptum”.
Essi, introducendo ne'contratti clausule, con cui si stipulava l'osservanza
della buona fede, costringeno i magistrati a giudicare di que'contratti, non
secondo la nude parola della legge, sì a lume di naturale onestà; come le
clausale, si lodate da CICERONE uti ne propter te, fidemre tuam captus,
fraudatusne sim; e ut inter bonos bene agier oportet et sine fraudatione (De
Off.). I giureconsulti si dano all'interpretazione; e poi chè questa o
considera la legge in sè, o L’ATTO DELLA VOLONTA UMANA, così la filosofia di
que'sapienti gl’aiuto all’un fine con le spiegazioni delle parole e con la
definizione de'termini astratti, e col mirare alla ragione della legge stessa:
gli aiutò all’altro fine co giudizi sulla moralità dell’ATTO, e con le regole
per interpretare l'altrui volontà. Gravina così accenna le novità del gius
ricevuto. Dalle interpretazioni de' giureconsulti passate in uso, e mitiganti a
poco a poco e come di soppiatto l'asprezza della legge, sono venute le regole
di diritto, temperate dalla ragione d'equità. Nacquero da essi, l'uso dei
codicilli, l'azione del dolo, le azioni quasi tutte che chiamaron utili, perchè
procedono dall’equa e utile interpretazione, le stipulazioni aquiliane, autore
AQUILIO giureconsulto, le varie differenze delle successioni. la regola
catoniana, la sostituzione pupillare, il divieto della donazione tra marito e
moglie, e l'altro che i pupilli s'obblighino senza l'autorità del tutore. Da
essi vernero i giudizi di buona fede, le azioni rei uxorie, la querela
dell'inofficioso testamento, e infine tutto ciò che si trova citato sotto nome
di costumi, di consuetudini e di gius ricevuto (De ortu et progr. I, Civ., C. )
Tale acume di riflessione disciplinata reca i giureconsulti per fino ad un
computo di probabilità sulla vita umana quant'all' usufrutto ed agl’alimenti
(come si vede Fr. D Ad Legem Falcidiam ). Cosa notabile molto, perchè fa
supporre grand'abito d'osservazione e di giudizi astratti. La virtù e la vera
filosofia de' giureconsulti le sentiamo pur anche nel loro stile, che in mezzo
alle ampollosità di SENECA e degli altri si tien semplice e puro.. Nelle
Pandette v' ha errori di lingua, per vizio de' compilatori greci e de' copisti.
Ma specie i frammenti di Gaio e d'Ulpiano son gioielli, ammirati da' principali
maestri di latinità. Termino recando un saggio di tal sapienza ed elegante
brevità, in alcune regole di gius dall' ultimo titolo de' Digesti. I diritti
del sangue non posson finire per niuna legge civile (Fr.). Sempre nelle cose
oscure s' ha da tenere il meno. Sta in natura che le comodità d'una cosa seguan
colui che ne sente gl' incomodi. Ciò che dapprima è vizioso non si può col
tempo sanare. Nulla è più naturale che sciogliersi a quel modo ch' uno s ' è
legato. Però l ' obbligazione di parole sciogliesi con parole, e quella di nudo
consenso con altro consenso. Che si fa o si dice nel caldo dell'ira, non si
stima. Vi sia consenso d'animo, se non v' ha perseveranza. Nessuno può
trasferire altrui più diritti che non ha. Sempre nel dubbio son da preferire le
sentenze più benigne. L'erede si stima di quelle facoltà e di que' diritti che
il defunto. È proprio di quel sofisma che i Greci chiamano sorite, o
ammucchiato sillogismo, di trar la disputa, con lievissime mutazioni, da cose
evidentemente vere a evidentemente false. Quante volte l’espressione in un
discorso PARE rendere DUE sensi, prendasi quello ch'E PIU ADDATO AL DA FARE. Non
si dà benefizio per forza. Nes suno può mutare il proposito suo in altrui danno.
In ogni cosa, ma più nel gius, è da guardare all’equità. Ne’discorsi AMBIGUI è
il più da guardare all'INTENDIMENTO DI CHI LI FA. Nelle cose oscure si badi al
più verosimile, e a ciò che accade più spesso. Il timore vano non è buona scusa.
Per l'impossibile non c'è obbligo che tenga. Le cose proibite da natura non
sono convalidate da legge nessuna. Per gius di natura nessuno dee farsi più
ricco a danno altrui. Per gius civile i servi si stimano nulla. Non per diritto
naturale, secondo cui tutti gli uomini sono uguali. Quando l'impero si foggia
all'orientale, la giurisprudenza cadde in vano eccletticismo; come n'è segno “la
indigesta mole de’ digesti” e ciò accadde alla quarta età, o di vecchiezza.
Poichè abbiamo con qualche sufficienza esposto la filosofia latina di CICERONE
e de' giureconsulti, e abbiam veduto come proposito di questi e di quello
apparisca sempre l'armonia tra le speculazioni e la pratica, e, nelle
speculazioni, fuggire tutti gl’eccessi delle sette, componendone, guidati dalla
coscienza e dal senso comune, un'unità, siam chiari, mi sembra, che veramente
dopo la dialettica distintiva de' greci, tendevano I ROMANI alla comprensione
finale, e che tal è proprio la qualità prevalente in quest'epoca quarta della
filosofia. Cicerone affronta e sviluppa la problematica semiotica in due
importanti ambiti della sua produzione teorica: e opere di argomento retorico;
(le opere che parlano dei segni divinatori. Se prendiamo in considerazione il
primo di questo ambito, possiamo osservare che l'interesse per i segni non è
ugualmente centrale in tutti i testi. Infatti, da una parte, ci sono il De
oratore, l'Orator, il Brutus, il De optimo genere oratorum che affrontano una
problematica a carattere so- cio-politico, volta a definire la figura
dell'oratore perfetto, il suo ruolo nella società romana, la sua posizione
rispetto alla scuola attica e a quella di Pergamo; in queste opere tut- to ciò
che costituisce l'apparato tecnico tradizionale della retorica (e con esso
anche la problematica sui segni e sulle prove indiziarie) appare non tanto
trascurato, quanto dato per scontato: esso si confi;:ura come un vasto campo di
competenza che rimane implicito sullo sfondo e affiora solo nei termini di un
uso personalissimo che ne fa l'autore, in prima persona o attraverso i
personaggi del dialogo. Dall'altra parte ci sono, poi, il De inventione, le
Partitio- nes oratoriae e i Topica, opere molto diverse tra loro, ma accomunate
dalla caratteristica di prendere in considerazio- ne e di sistematizzare la
gran massa delle nozioni che com- pongono l'apparato tecnico della retorica. Un
limite di que- ste opere, in generale, è rintracciabile nella minuziosità del
procedimento classificatorio, che raggiunge talvolta il pa- rossismo, come nel
De inventione, e che spesso non trova un'adeguijta giustificazione teoretica.
Tuttavia è proprio ali'interno di queste opere che è dato rintracciare gli
spunti e i documenti per la ricostruzione di una teoria ciceroniana del segno.
9.2.1 Il "De inventione" Il De inventione è un'opera giovanile di
Cicerone e con- densa l'ampia tradizione retorica che da Aristotele giunge fino
a Ermagora: è quindi naturale che al suo interno si tro- vino riprodotti alcuni
aspetti della concezione del segno che in quell'ambito si era sedimentata. In
particolare è presente la concezione del segno in forma proposizionale, come
an- tecedente che permette di scoprire un conseguente. Viene poi confermata
l'attenzione verso i segni involontari (l'im- pallidire, l'arrossire, il
balbettare dell'imputato) come indi- zi di colpevolezza. Infine compare la
classica divisione degli indizi secondo la loro relazione temporale con il
fatto crimi- noso (anteriorità, contemporaneità, posteriorità). Questi i punti
di contatto con la tradizione. Ma bisogna anche dire che la classificazione dei
segni proposta da Cice- rone è in larga misura diversa da quelle precedenti.
Essa ap- pare infatti all'interno della teoria della argumentatio (ar-
gomentazione), cioè del procedimento attraverso il quale vengono addotte delle
prove per confermare una certa tesi: "L'argomentazione sembra essere
qualche cosa che si esco- gita da qualche genere e che rivela un'altra cosa in
maniera probabile (probabiliter ostendens), o la dimostra in"un mo- do
necessario (necessarie demonstrans)" (De inv., I, 44). Anche se non viene
usato il normale lessico semiotico, ciò che è in gioco in questa definizione è
proprio il meccanismo del segno: infatti, qualcosa che è stato trovato (un
indizio che viene depositato nel dossier dell'avvocato) rinvia a qualcos'altro.
Compare, a questo punto, la distinzione (già aristotelica) tra una forza argomentativa
debole (probabili- ter ostendens) e un'inferenza necessaria (necessarie demon-
strans). 9.2.1.1 Rinvio necessario e non necessario I segni necessari sono così
definiti: "Viene dimostrato in modo necessario ciò che non può verificarsi
né essere pro- vato diversamente da come viene detto" (ibidem). Ne sono
esempi: "Se ha partorito, è stata con un uomo" (ibidem); "Se
respira, è vivo", "Se è giorno, c'è luce" (De inv., I, 86). Come
Cicerone spiega in un altro passo, in casi di questo genere l'antecedente e il
conseguente sono legati da una re- lazione inscindibile (cum priore necessario
posterius cohae- rere videtur, De inv., I. 86). Il rapporto di rinvio non
necessario viene poi cosi defini- to: "Probabile è poi ciò che suole
generalmente accadere, o che è basato sulla comune opinione, o che ha in sé
qualche somiglianza con questa qualità, sia esso vero o sia falso" (De
inv., I, 46). Con questa definizione Cicerone mette in evidenza due caratteri:
(i) quello probabilistico e (ii) quello doxastico; il primo di questi era da
Aristotele attribuito peculiarmente al1'eik6s (verisimile). E infatti i primi
due esempi sono di un tipo che Aristotele avrebbe classificato come eik6s:
"Se è madre, ama suo figlio", "Se è avido, non fa gran caso del
giuramento" (De inv., I, 46). In essi compare anche il tipico rapporto di
generalizzazio- ne che per Aristotele definisce il verosimile (Arist., Rhet.,
1357a). C'è però un terzo esempio, "Se c'era molta polvere nei calzari,
era sicuramente reduce da un viaggio" (De inv., 9.2 CICERONE), che non
sembra dello stesso tipo, ma è più vicino al semefon aristotelico. 9.2.1.2
L'indizio La categoria di signum, poi, compare come una sottopar- tizione dei
segni non necessari, accanto al credibile (credibi- le), all'iudicatum
(giudicato) e al comparabile (paragonabi- le). Se le ultime tre nozioni
appaiono distinte in base a crite- ri estrinseci (e scompariranno nelle
trattazioni successive), il signum corrisponde a una categoria di fenomeni
abbastan- za particolare: "Segno è ciò che cade sotto qualcuno dei no-
stri sensi e indica (significat) un qualcosa che sembra deri- vato dal fatto
stesso, e che può essere verificato prima del fatto, durante il fatto, o può
averlo seguito, e tuttavia ha bisogno di una prova e di una conferma più sicura"
(De inv., I, 48). Ne sono esempi: "il sangue", "il
pallore", "la fuga", "la polvere". Si tratta, come si
vede, degli indizi, intesi come fenomeni percepibili, scarsamente codificati e
generalmente non vo- lontari. Qui sono presentati in una forma non proposizio-
nale; ma niente vieta che vengano sviluppati in proposizio- ni, come dimostra
il caso dell'indizio "polvere": "Se c'era molta polvere nei
calzari, era sicuramente reduce da un viaggio". Gli indizi, infine,
vengono suddivisi secondo la nota relazione temporale con il fatto criminoso.
Possiamo quindi schematizzare la classificazione propo- sta nel De inventione
(cfr. p. 212). 9.2.2 "Partitiones oratoriae" Le Partitiones oratoriae
sono un'opera della tarda matu- rità di Cicerone, nella quale la classificazione
della materia semiotica presenta alcune differenze e peculiarità rispetto al
trattato giovanile. Innanzitutto la terminologia si sgancia completamente da
quella dei modelli greci e viene completa- mente latinizzata. In secondo luogo
gli indizi (qui chiamati argumentatio~ Né questo è un caso isolato in ambito
giuridico. Per quel che riguarda la cultura greca, si ricorderà L'orazione per
l'uccisione di Erode, in cui Antifonte così si esprimeva: "Tutto quel che
era provabile con indizi e testimonianze umane l'avete udito, ma in questo caso
dovete votare dopo aver trattato indizi anche dai segni che vengono dagli
dei" (Lanza). Il verisimile e il segno caratteristico I segni umani sono
invece trattati tra gli argomenti intrin- seci, in particolare tra quelli che
riguardano lo stato di cau- sa congetturale. Infatti la congettura può essere
tratta da due tipi di segni: i verisimilia (verisimili) e le notae propriae
rerum (segni caratteristici delle cose). Il verisimile, come dice Cicerone, è "ciò
che accade per lo più" (Pari. or., 34), come a esempio "la gioventù è
incline al piacere in modo particolare". Questo tipo di segno corri-
sponde ali' eik6s aristotelico, di cui ha il carattere probabili- stico e
generalizzante. La nata propria rei viene definita come "una prova che non
si verifica mai direttamente e indica una cosa certa, co- me il fumo indica il
fuoco" (Part. or., 34). Si tratta, evi- dentemente, del segno necessario,
come è dimostrato anche dall'esempio e dall'uso dell'aggettivo proprius, che
riman- da alla nozione di fdion semefon (segno proprio). Per Ari- stotele il
segno proprio era la caratteristica specifica di un certo genere, come, ad
esempio, il fatto che i leoni avessero grandi estremità, segno del coraggio
(An. Pr., 70 b, 11-38). Per le scuole postaristoteliche il segno proprio aveva
carat- tere di necessità e si definiva come quel segno che non può esistere se
non esiste la cosa a cui rimanda (Philod., De si- gnis, I, 12-16). 9.2.2.2 Gli
indizi di fatto Ci sono, poi, i vestigia facti (indizi di fatto), dei quali
necessaria (•ea quae aliter ac discuntur nec fieri nec probari pos- sunt"I
es.: ·se ha partorito, è stata con un uomo" probabilis (•quod !ere solet
fieri aut quod in opi- nione μositum est") es.: ·se è madre, ama suo
figlio" signum credibile indicatt.:m comparabile ("quod sub sensum
aliquem cadit, et quiddam significat, quod ex ipso .!'rofectu.m .est"I.
es.: sangue, fuga, "pallore", "polvere" vestigia facll) non
compaiono più come sottopartizione di un'altra categoria, ma assumono ur..
ruolo autonomo. Infine viene accettata la distinzione aristotelica tra
"luo- ghi estrinseci" (corrispondenti alle "prove
extratecniche", titechno1) e "luoghi intrinseci" (corrispondenti
alle "prove tecniche", éntechno1), che veniva criticata nel De
inventione (Il, 47) e che invece sarà sviluppata nei Topica. È curioso notare
come tra i luoghi estrinseci (sine arte) trovino posto, accanto alle
testimonianze umane, anche quelle "divine": gli oracoli, gli auspici,
i vaticini, i responsi sacri (di sacerdoti, aruspici, interpreti onirici)
(Part. or., 6). Tutto ciò è sicuramente un residuo di una concezione orda- lica
e antichissima dell'amministrazione della giustizia; tut- tavia è anche un
indizio di un continuo riaffiorare del para- digma divinatorio all'interno dei
fatti semiotici, anche quando ormai i segni si sono completamente laicizzati.
Né questo è un caso isolato in ambito giuridico. Per quel che riguarda la
cultura greca, si ricorderà L'orazione per l'uccisione di Erode, in cui
Antifonte così si esprimeva: "Tutto quel che era provabile con indizi e
testimonianze umane l'avete udito, ma in questo caso dovete votare dopo aver
trattato indizi anche dai segni che vengono dagli dei" (V, 81; Lanza 1979:
105). 9.2.2.1 Il verisimile e il segno caratteristico I segni umani sono invece
trattati tra gli argomenti intrin- seci, in particolare tra quelli che
riguardano lo stato di cau- sa congetturale. Infatti la congettura può essere
tratta da due tipi di segni: i verisimilia (verisimili) e le notae propriae
rerum (segni caratteristici delle cose). Il verisimile, come dice Cicerone, è
"ciò che accade per lo più" (Pari. or., 34), come a esempio "la
gioventù è incline al piacere in modo particolare". Questo tipo di segno
corri- sponde ali' eik6s aristotelico, di cui ha il carattere probabili- stico
e generalizzante. La nata propria rei viene definita come "una prova che
non si verifica mai direttamente e indica una cosa certa, co- me il fumo indica
il fuoco" (Part. or., 34). Si tratta, evi- dentemente, del segno
necessario, come è dimostrato anche dall'esempio e dall'uso dell'aggettivo
proprius, che riman- da alla nozione di fdion semefon (segno proprio). Per Ari-
stotele il segno proprio era la caratteristica specifica di un certo genere,
come, ad esempio, il fatto che i leoni avessero grandi estremità, segno del
coraggio (An. Pr., 70 b, 11-38). Per le scuole postaristoteliche il segno
proprio aveva carat- tere di necessità e si definiva come quel segno che non
può esistere se non esiste la cosa a cui rimanda (Philod., De si- gnis, I,
12-16). 9.2.2.2 Gli indizi di fatto Ci sono, poi, i vestigia facti (indizi di
fatto), dei quali vengono dati questi esempi: "un'arma, macchie di sangue,
grida, lamenti, imbarazzo, alterazione del colorito, discor- so
contraddittorio, tremore [...]. gli indizi materiali della premeditazione, le
confidenze sulle intenzioni delittuose, le risultanze visive, uditive, rivelate"
(Part. or., 39). Cicerone non definisce qufsto tipo di segni, se non dicendo
che si tratta di "fenomeni avvertibili con i sensi" (ibidem),
caratte- ristica condivisa anche dai signa del De inventione (I, 48), in cui
ricorrono esempi analoghi, e dagli argumenta di Cor- nificio (Rhet. ad Her.,
II, 8). I commentatori si sono chiesti se i vestigia f acti siano più in
relazione con i segni necessari (notae propriae rerum) o con i verisimili
(verisimile) (Crapis 1986: 61-62). In realtà questa sembra una categoria abbastanza
autonoma non avendo la necessità dei primi, ma nemmeno le caratteristi- che
degli ultimi. È plausibile che essa corrisponda alla cate- goria dei semefa
aristotelici, diversi tanto dai tekméria quanto dagli eik6ta. Da un altro passo
delle Partitiones oratoriae (114), dove ricorrono esempi analoghi, i
vestigiafacti (chiamati lì anche signa) vengono definiti come consequentia,
cioè inferenze che si traggono dal conseguente, caratteristica che definiva
appunto, per Aristotele, i segni non necessari. Ma mentre Aristotele condannava
i semefa da un punto di vista episte- mologico per la loro insicurezza,
Cicerone è pronto a rico- noscerne l'efficacia qualora si presentino in gran
numero (coacervata proficiunt, 40). Possiamo quindi schematizzare la classificazione
cicero- niana nelle Partitiones oratoriae (cfr. p. 215). 9.2.3 Le opere sulla
divinazione Molte cose collegano la retorica giudiziaria alla divina- zione.
Innanzitutto il fatto che entrambe si avvalgano dei segni per arrivare alla
conoscenza di fatti non direttamente accessibili alla percezione. In secondo
luogo, in entrambe viene operata una distinzione tra aspetti che sono eminente-
mente congetturali e altri aspetti che sono invece naturali o coniectura -- I
--vestigia facti osigna verisimili& notae propriae rerum c•quod plerumque
ita r11·1 es.: ·adolescenza- incllnazione alla libidine· c•quod numquam aliter
fit certumque declarat•) es.: ·tumo-fuoco· 1•sensu percipi potest") es.:
·sangue-uccisione• dati: alla dicotomia retorica tra prove tecniche (o congettu-
rali) e prove extratecniche corrisponde la distinzione tra di- vinazione
artificiale (basata sull'interpretazione e sulla con- gettura) e divinazione
naturale. Infine, come Cicerone pole- micamente rileva (De div., Il, 55), i
segni della divinazione sono talvolta interpretati in maniera diametralmente
oppo- sta, proprio come avviene nel processo, in cui l'accusa e la difesa
propongono dello stesso fatto due interpretazioni di- verse ed entrambe
plausibili. Ma Cicerone apprezza i metodi dell'indagine giudiziaria, mentre
nutre una diffidenza enorme nei confronti della di- vinazione. In linea,
infatti, con un vasto gruppo di intellet- tuali della sua epoca, educati ai
metodi di indagine della fi- losofia greca, a fondamento razionalistico, e
contempora- neamente impegnato in politica, sente l'esigenza di operare una
distinzione netta tra religione e superstizione, di cui la divinazione fa, per
lui, parte. La religione appartiene alla più antica tradizione romana e, posta
come è ai fondamenti dello stato, deve essere conservata, pena la disgregazione
dello stato ste~so; la superstizione, invece, costituita dal coacervo degli
elementi spuri che inquinano e rendono poco credibile la religione stessa,
dev'essere respinta, anche per- ché non venga limitata la libertà del cittadino
romano nel suo impegno di gestione della repubblica. Cicerone affronta questi
argomenti nel De natura deo- rum, nel De fato e, soprattutto, nel De
divinatione. Que- st'ultima opera è scritta in forma di dialogo tra l'autore e
il fratello Quinto, il quale difende l'arte divinatoria basandosi sulle teorie
storiche che legavano la divinazione all'esistenza degli dei. Le osservazioni
di Cicerone contro la teoria soste- nuta da Quinto sono particolarmente
interessanti perché costituiscono una vera e propria critica a un meccanismo
semiotico settoriale e contribuiscono, in negativo, a una concezione generale
del segno. 9.2.3.1 La divinazione "artificiale" Secondo la teoria di
Quinto, gli dei si pongono come fon- te dell'informazione e come emittenti nei
processi di comu- nicazione divinatoria, dei quali gli uomini sono i destinata-
ri. Ma, a seconda dei due specifici tipi di divinazione, il pro- cesso
comunicativo si struttura in modo differente. Il primo tipo è costituito dalla
divinatio artificialis, in cui l'interpretazione dei segni è legata a un'ars,
ovvero a una tecnica professionale di decriptazione, demandata a specia- listi,
ciascuno esperto in un settore: extispices (esaminatori delle viscere),
interpretes monstrorum et fu/gurum (inter- preti dei fatti prodigiosi e dei
fulmini), augures (interpreti del volo degli uccelli), astrologi (interpreti
delle stelle), in- terpretes sortium (interpreti delle combinazioni di
tavolette mescolate in un'urna ed estratte a caso). In tale divinazione
l'informazione proveniente dalla divinità si materializza prima di tutto in una
sostanza espressiva percepibile, a cui l'ars permetterà di abbinare un
contenuto semantico. I presupposti su cui si basano le interpretazioni di
questo tipo sono dati dalla teoria, di origine stoica, secondo cui tutti i
fenomeni sono legati tra di loro in una catena di cau- se ed effetti, senza
soluzione di continuità. Questa catena che ha come fondamento primo il /6gos
divino e costituisce il fato (heimarméne), non è conoscibile per intero da
parte degli uomini, dato che l'onniscienza è prerogativa della sola divinità
(De div.). Tuttavia viene prevista l'esistenza di un tempo ciclico che
"può essere paragonato con lo srotolarsi di una gomena, in quanto non dà
mai luogo a fatti nuovi, ma ripete sempre quanto prima è accaduto" (De
div., I, 127). Questo fa sì che gli uomini, attraverso l'osservazione attenta,
colgano il mo- do in cui gli eventi si ripetono e, pur non potendo conoscere
direttamente le cause, possono però arrivare a coglierne gli indizi
caratteristici (signa tame.1causarum et notas cernunt) (ibidem). Dato poi che è
possibile tramandare memoria dalle con- nessioni passate, si crea un vero e
proprio codice basato sul- la iteratività. Si può schematizzare così il processo:
emittente divino-segni di cause-eventi futuri codice basato sulla iter attività
9.2.3.2 La divinazione "naturale" Il secondo tipo di divinazione è
quello definito naturalis, in quanto indipendente da qualunque tecnica
professionale, ma derivante piuttosto da una diretta ispirazione divina, senza
passare attraverso la mediazione di un segno esterno. Fanno parte di questo
tipo le forme di preveggenza derivan- ti da invasamento profetico, cioè le
vaticinationes e quelle derivanti dai sogni. Il palinsesto filosofico ·a cui è
legato questo secondo tipo di divinazione è quello delle teorie peri- patetiche
(Dicearco e Cratippo vengono esplicitamente no- minati, De div.), secondo le
quali l'anima, per il suo legame naturale con la divinità, una volta che sia spinta
da una divina follia o sciolta, nel sonno, dai vincoli che la legano al corpo,
partecipa direttamente della conoscenza del dio. Il ruolo del codice è in
questo caso ridotto, se non addirittura sostituito da una parziale
identificazione tra emittente e ricevente, secondo lo schema:
emittente divino - Ma ci sono altri gravi difetti che la divinazione
presenta dal punto di vista semiotico: (i) le interpretazioni di uno stesso
segno sono spesso diametralmente opposte (De div., II, 83); (ii) si verificano
frequentemente fenomeni di falsa identificazione dell'antecedente, per cui un
certo evento non è connesso a quello individuato come segno prodigio- so, ma a
ben diverse cause naturali (De div.); (iii) l'interpretazione avviene a
posteriori e così toglie ogni ne- cessità di rapporto tra antecedente e
conseguente (De div., II, 66); (iv) in certi casi l'interpretazione è motivata
da ra- gioni di faziosità politica e quindi è priva di oggettività (De
div.).segno interno - evento futuro •➔ ricevente
umano 9.2.3.3 Critiche "semiologiche" contro i segni divinatori
Le obiezioni che Cicerone muove ai sostenitori della divi- nazione si basano su
argomenti specificamente semiotici. La tesi generale, mediante la quale
Cicerone nega valore alla divinazione, è che essa non abbia veramente carattere
semiotico, e cioè che i fenomeni che essa interpreta come se- gni non siano
veramente tali, ovvero che non si comportino veramente come degli antecedenti
rispetto a dei conse- guenti. Per distinguere i segni veri rispetto a quelli
presunti della divinazione, Cicerone istituisce un paragone tra le tecniche
scientifiche (come la medicina, la meteorologia, la nautica, la tecnica
previsionale del contadino e dell'astronomo) e la divinazione. In entrambi i
casi è in gioco la predizione del futuro a partire da certi indizi; ma, mentre
le pratiche pro- fessionali adottano una vera e propria metodologia che
comporta "scienza (ars), ragionamento (ratio), esperienza (usus) e
congettura (coniectura)" (De div., II, 14), le prati- che divinatorie si
basano sul "capriccio della sorte, tanto che nemmeno la divinità sembra
che possa avere, fra le sue prerogative, quella di sapere quali fatti il caso
farà accade- re" (De div., II, 18). Questa opposizione tra ciò che, in definitiva,
è il codice (anche se si tratta di legami naturali basati sulla frequenza
statistica) 1 e il caso è del resto la stessa con cui i medici ip- pocratici
tendevano a distinguere la propria scienza profes- sionale dalla divinazione e
dalla medicina magica (Antica medicina, cap. XII). Cicerone poi si sbarazza in
termini razionalistici della teoria secondo cui anche nel caso della
divinazione tecnica si farebbe appello all'osservazione iterata delle
coincidenze, ritenendola ridicola e insostenibile (De div., II, 28). Ma ci sono
altri gravi difetti che la divinazione presenta dal punto di vista semiotico:
(i) le interpretazioni di uno stesso segno sono spesso diametralmente opposte
(De div., II, 83); (ii) si verificano frequentemente fenomeni di falsa
identificazione dell'antecedente, per cui un certo evento non è connesso a
quello individuato come segno prodigio- so, ma a ben diverse cause naturali (De
div.); (iii) l'interpretazione avviene a posteriori e così toglie ogni ne-
cessità di rapporto tra antecedente e conseguente (De div., II, 66); (iv) in
certi casi l'interpretazione è motivata da ragioni di faziosità politica e
quindi è priva di oggettività (De div.,). Nel suo saggio Semiotica e
filosofia del linguaggio ECO (si veda) osserva come la semiotica, proprio nel
momento storico in cui esce dalla marginalità, affermandosi come disciplina e
vedendosi riconosciuto addirittura il ruolo di scienza paradigma, proprio in
questo volgere di seco lo, appunto, diventa anche il referente ultimo di una
serie di dichiarazioni che proclamano la morte del segno o, almeno, la sua
crisi. Situazione non nuova, osserva Eco: la storia del pensiero occidentale è
anche leggibile come storia di una cancellazione e rimozione, quella della
semiotica come scienza, al di là dei (e nonostante i) numerosi pre-annunci,
progetti, ipotesi di una teoria dei segni che, a più riprese, hanno percorso la
riflessione teorica degl’ultimi duemila cinquecento anni. La proposta di ECO
(si veda) è quella di pensare a un progetto attuale di semiotica che trovi
giustificazione proprio nello spazio che intercorre tra le attuali negazioni e
le reali presenze del passato. Ciò significa che la semiotica deve percorrere a
ritroso il cammino della storia e divenire archeologia del sapere segnico:
diverrebbe così possibile su perare i crampi linguistici che sono alla base
delle attuali de finizioni del segno (che ne criticano il formato come troppo
angusto o troppo ampio, che comunque non ne ritrovano il modello quando escono
dai sistemi verbali). Il presente saggio costituisce un tentativo di accogliere
il suggerimento di ECO (si veda) e si propone di indagare le pratiche semiotiche
dell’origini e la riflessione teorica sul segno, che sono elaborate dal mondo
antico e che ci sono state consegnate dalla TRADIZIONE letteraria, FILOSOFICA,
medica, storiografica, retorica. Si propone cioè di ritrovare le tracce di un
filo rosso che percorre il mondo antico, dalle origini e che porta alla
costituzione di una nozione di segno abbastanza diversa da quella proposta
dalle teorie del Novecento. La maggior parte, infatti, delle dottrine del segno
che sono elaborate nel Novecento - sia in ambito linguistico, a partire dal
Cours saussuriano, sia in ambito più gene ralmente semiologico - si fondano su
due presupposti, che risultano del tutto assenti nella riflessione classica su
questo soggetto: il modello di segno, sul quale l'intera indagine semiologica
viene articolata, è quello del segno linguistico – ecceto in H. P. GRICE --; il
tipo di rapporto postulato come instaurantesi tra le due facce del segno è
quello dell'equivalenza (p=q) o almeno CONSEQUENZA (Hobbes, Grice). Da questa
seconda assunzione dipende il fatto che la nozione di signi-FICATO più diffusa
fino a qualche anno fa nelle teorie semantiche fosse quella che lo vede come
sinonimia o come definizione essenziale. A partire, infatti, dallo
strutturalismo hjelmsleviano, fino ad arrivare alle teorie di semantica componenziale
e interpretativa di impostazione generativista, il singolo termine linguistico,
o se si preferisce, la forma dell'espressione di un segno, è sentito come
equivalente a una serie di figure del contenuto, o marche semantiche, espresse
a loro volta meta-linguisticamente da altrettante forme linguistiche (ad
esempio: uomo = essere animato + umano + maschio + adulto). Cf. H. P. Grice: Bachelor: unmarried male – In defence of a dogma. Una
indagine sul modo in cui nasce e si articola nell'antichità classica greco-romana
(e particolarmente ROMANA) la riflessione sul segno ci permette di scoprire
che, rispetto al primo punto, in origine, non solo non si ha omologazione dei
vari tipi di segno sotto la specie di quello linguistico, ma che, anzi, le due
teorie (quella semantica del linguaggio e quella del segno non-linguistico)
procedono in maniera parallela, senza inter-connettersi. Ne è un esempio chiaro
il fatto che Aristotele,nel LIZIO, adoperi il termine “symbolon” per indicare
il segno linguistico, ma le espressioni “smefon” o “tekmrion” per indicare
quello non linguistico. La saldatura avvienne molto più tardi, in Agostino. Ma,
in questo caso, è l'espressione linguistica a essere sussunta sotto la
categoria più generale [cf. H. P. Grice] e già costituita del segno non-linguistico.
Per quello che riguarda il secondo punto, le pratiche segniche che la
tradizione ci ha tramandato e le teorie classiche prevedono un funzionamento
del segno non secondo lo schema dell'equivalenza, bensì secondo quello
deli'implicazione (p ⊃ q) – cf.
Hobbes, Grice: CONSEQUENTIA. Per citare un esempio celebre, che percorre
l'intera tradizione antica da Aristotele del LIZIO alla retorica romana di Quintiliano,
passando per IL PORTICO, un caso paradigmatico di segno è: Se una donna ha
latte, ha partorito. The fact that this female has produced milk NATURALLY
means that this female has given birth (H. P. Grice). A questo punto è
già possibile un confronto. Il modello antico classico greco-romano, e
particolarmente ROMANO, implicazionale – cf. Moore, ENTAIL – Frege assertion
sign --, appare non solo molto più interessante rispetto a quello equazionale,
ma certamente molto più, per così dire, attuale. Infatti, è in corso nella
ricerca contemporanea una revisione di paradigma, che tenta di superare le
semantiche cosiddette "a dizionario" (che funzionano secondo il
modello dell'equivalenza) per passare alla proposta di semantiche
"istruzionali,” che funzionano secondo il modello dell'implicazione).
Tuttavia, l'interesse di un lavoro di ricostruzione delle teorie semiotiche
dell'antichità non è limitato soltanto al reperimento di materiale sommerso,
finalizzato, magari, alla costituzione di un quadro da mettere in confronto con
quello attuale di H. P. GRICE. C'è un interesse intrinseco anche
nell'osservare come i campi nozionali, e la terminologia LATINA associata a
essi si siano venuti distinguendo lentamente e abbiamo preso forma a partire
da situazioni d’usi linguistici originariamente molto più magmatici. Anche in
questo caso bisogna citare Aristotele del LIZIO come il primo che impone dei
confini netti a termini e concetti, che sono stati usati sino alla fine del V
secolo a.C. e oltre (a esempio nei testi del Corpus Hippocraticum) con una
oscillazione semantica considerevole. Prima della categorizzazione aristotelica
del LIZIO, espressioni quali “semefon,” “aitia,” “prophasis,” “tekmrion,” ed “eikos,”
non solo costituivano un campo di termini imparentati, ma anche di termini che
ammettevano una parziale sovrapposizione e intercambiabilità (Lloyd). Ugualmente,
il riferimento culturale di certe espressioni è stato, prima di Aristotele nel
LIZIO, eterogeneo e diverso. “smafno,” a esempio, come ci mostra il frammento
(Diels-Kranz) d’Eraclito è il verbo che indica la rivelazione oscura del dio di
Delfi. “tekmairomai,” poi, denota in generale il procedere attraverso un
ragionamento congetturale, ma nei tragici e nei lirici vienne usato in
riferimento alla pratica dell'interpretazione divinatoria. “smefon,” infine (o
la sua variante omerica “séma”), è il termine più complesso di tutti,
indicando, fin dalle origini, una molteplicità di cose, dall'INDIZIO al SEGNO
di riconoscimento, al prodigio divino, fino a essere usato come termine
generale per il segno divinatorio (Bloch: tr. it.; Benveniste: tr. it.). È
innanzitutto alla divinazione, all'astronomia e, tramite queste, all'arte della
navigazione, che la problematica del segno viene in origine connessa. Come
testimonianza di tale connessione, si può ricordare la cosmogonia d’Alcmane in
cui all'origine del mondo compare la dea marina Teti, accompagnata da tre
personaggi divini. Da una parte P6ros (''la via") e Tékmor ("il segnale",
"il punto di riferimento"); dall'altra Sk6tos ("l'oscurità").
Come sottolineano Detienne e Vernant, Tékmor svolge un ruolo fondamentale. Nell'oscurità
[sk6tos] del cielo e delle acque in origine confuse, Tekmor introduce vie
[p6roll differenziate, che rendono visibili sulla volta celeste e sul mare le
varie direzioni dello spazio, orientando una distesa prima sprovvista di ogni
tracciato, di ogni punto di riferimento, aporon kai atékmarton". I
naviganti devono congetturare, “tekmafre sthal”, sulla distesa indifferenziata
del mare, la loro rotta e gli dei e gli indovini la fanno loro intravedere,
fissando in anticipo percorsi e punti di riferimento. In questo modo. i
naviganti gettano un ponte tra il visibile o proprio il SENSIBILE e
l'invisibile. Con Aristotele nl LIZIO, i termini del vocabolario semiotico, che
mantenneno fino ad allora il riferimento alla sfera del sacro (e che continuano
a essere usati in tal senso fuori dagl’ambienti filosofici e razionalistici),
vengono piegati a un uso esclusivamente profano (Lanza) filosofico – cf. H. P.
Grice: Words are not signs. Tuttavia, se si perde il carattere sacro dell’origini,
qualche traccia rimane ed è leggibile in trasparenza, se è vero che Aristotele
nel LIZIO, nella sua delimitazione dei campi concettuali – cf. Austin/Grice,
Seminar on DE INTERPRETATIONE --, riserva l'espressione “smeion” al segno che
non dà certezza e che può risultare ingannevole (mentre riserva l'espressione
“tekmrion” al segno sicuro). Qui, quello che è il segno
ambiguo della rivelazione divina, diviene il segno ambiguo del modello
conoscitivo razionalistico (“Those spots didn’t mean anything to me, but to the
doctor, they meant that he had the measles – By uttering, ‘He hasn’t been to
prison yet” he might have meant that he is potentially dishonest. Grice. Se
il paradigma semiotico affonda le sue radici nelle pratiche non-scientifiche o
non-filosofiche della divinazione e della medicina magica (l’"iatromantica"),
tuttavia lentamente depura, nel corso dei secoli, queste origini da tutto ciò
che in esse c'è di irrazionale e di non controllabile (anche se sempre, al di
fuori delle teorizzazioni della FILOSOFIA ANALITICA tipo H. P. Grice,
rimarranno usi magmatici e irrazionali di questo paradigma, come dimostrano, a
esempio, le opere d’Artemidoro di Daldis o d’Elio Aristide sui segni onirici).
Se si tiene presente quest'ottica, non è più sorprendente osservare che la
forma proposizionale e implicazionale (p ⊃ q) che IL
PORTICO danno al segno -- Se c'è cicatrice, c'è stata piaga -- si ritrova
identica nelle tavolette divinatorie mesopotamiche. Anche gl’antichi babilonesi
esprimeno il segno attraverso un periodo ipotetico, formato da una protasi,
introdotta dalla congiunzione summa (equivalente alla “ei” greca e il “si”
latino, che introduce il condizionale del PORTICO), e da una apodosi. Esse,
rispettivamente, traducono in proposizioni linguistiche il segno e la sua
interpretazione. Se il polmone è rossastro a destra e sinistra, vi sarà un
incendio. Bottero. In ambiente greco, una saldatura tra segno divinatorio e
forma logica dell'implicazione (p⊃ q) la si
trova testimoniata in uno dei dialoghi delfici di Plutarco, L 'E di Delfi. In
quest'opera, alcuni prestigiosi personaggi discutono sul significato d’un
oggetto, avente la forma di E, che si trova tra i doni votivi del tempio di
Delfi. Tra essi, Teone propone un'interpretazione della E ricorrendo al nome
che nella lingua antica questa lettera riceve, e cioè ei. Teone assimila poi
questo nome alla congiunzione ipotetica ei (latino “si,” italiano ''se") e
mostra che tale congiunzione svolge nella dialettica un ruolo essenziale, in
quanto serve a esprimere il rapporto logico per eccellenza, quello che si ha
nei condizionali del tipo, Se è giorno, c'è luce -- esempio, questo, che è tra
i più classi ci della logica semiotica del PORTICO). Teone sottolinea, infine,
che il dio di Delfi, Apollo, è un dio molto amante della dialettica, tanto è
vero che i vaticini presuppongono la forma del condizionale, p ⊃
q, che è la forma stessa che assumono i fenomeni dell'universo (e qui il
richiamo è alla teoria del PORTICO della simpatia universale. Certo, quello che
risulta dal testo di Plutarco è al massimo che la teoria del PORTICO del fato e
della divinazione si fonda su base logica. Il destino consiste in una serie
interconnessa di condizionali. Ma se l'ipotesi da porre fosse quella esattamente
contraria? Se, cioè, lo strumento così asettico e razionale della logica
traesse in realtà le sue origini dall'ambito divinatorio? Come dimostra la sua
stretta connessione con i segni e la divinazione presso IL PORTICO
(Goldschmidt; Verbeke). Un enorme cammino è tuttavia stato compiuto dai testi
divinatori babilonesi alla logica del PORTICO. La forma proposizionale rimane
la stessa.. Ma nel caso del PORTICO è depurata non solo di ogni carattere
sacrale, ma anche di ogni elemento contenutistico. È lì solo per il calcolo
proposizionale. Nel caso degl’antichi mesopotamici, invece, il contenuto della
protasi permette di inferire il contenuto dell'apodo si mediante più o meno
complicati processi di analogia e giochi tropici. Il "rossore" del
polmone permette di inferire "incendio" per un TRATTO SEMANTICO
COMUNE. Infine una disamina sulla riflessione semiotica antica permette di
scoprire come il dibattito sui segni, sulla loro natura e sulla loro
classificazione si sia attestato a livelli sorprendentemente alti, come è il
caso della discussione sui condizionali in seno alla stessa scuola del PORTICO
(tra Diodoro, Filone – citato da H. P. Grice -- e Crisippo) o della disputa tra
IL PORTICO e L’ORTO sul rapporto tra antecedente e conseguente nei segni, di
cui puntualmente ci informa il De signis di Filodemo. La discussione di
carattere semiotico, insomma, si riferisce sempre a, o si identifica
decisamente con, il quadro più generale o più fondamentale del problema della
psicologia razionale o della conoscenza. È poi nel mondo romano che queste
problematiche d’ordine conoscitivo generale vienneno piegate all’esigenze più
pragmatiche della conoscenza giudiziaria – “Hart is no philosopher, he’s a
laywer” -- Grice: il problema dei segni si identifica con quello delle
metodiche per assegnare un maggiore o minor valore di PROVA agl’indizi presentati
in un procedimento processuale. La semiotica vienne messa al servizio dell'arte
del detective, in ciò prefigurando uno degl’aspetti più singolari dell'interesse
contemporaneo nei confronti dei paradigmi indiziari (Eco e Sebeok). È, infine,
con Agostino – e con Grice a Oxford --, che la teoria del segno fornisce un
paradigma anche per la teoria del linguaggio, permettendo d’UNIFICARE in
un'unica categoria anche i segni verbali. Desidero ringraziare i molti amici
che hanno letto e discusso con me parti di questo lavoro. Tra coloro che mi
hanno offerto preziosi suggerimenti critici vorrei ricordare Bernardini,
Borutti, Crevatin, Fabbri, Manuli, Marmo, Tabarroni, Vegetti, e Violi. Per
molte delle idee e per l'impostazione generale del saggio sono debitore a ECO
(si veda), di Bologna, la piu antica varisita del mondo, che segue e incoraggia
il lavoro fin dai suoi inizi. Un ringraziamento particolare va a Conte, che ha
rivisto una precedente versione del manoscritto, e dal quale ho ricevuto una
infinità di preziosi consigli. Quanto agl’errori e alle imprecisioni, ne
assumo invece totale responsabilità. C'è un campo specifico in relazione al
quale tutte le culture antiche riconoscevano l'eccellenza e il magistero dei
popoli mesopotamici: quello della divinazione. Non ci si può nascondere
tuttavia, a questo proposito, che l'atteggiamento sviluppato dalla cultura
moderna nei confronti delle pratiche che rientrano in questo campo è fortemente
svalutativo. Esse, infatti, rappresentano un paradigma che si pone esattamente
agl’antipodi di quello che normalmente è assunto come il paradigma scientifico.
Ma ci sono almeno due ragioni che ci inducono a guardare alla divinazione
mesopotamica come a qualcosa che merita più di un interesse puramente
occasionale o erudito. In primo luogo, infatti, è necessario ripensare, come
suggerisce Ginzburg, ai rapporti tra paradigma divinatorio e paradigma
scientifico come a qualcosa di molto più complesso di quello che si assume di
solito e che non comporta affatto una svalutazione del primo termine. Infatti,
per Ginzburg, il paradigma divinatorio (definito anche, a seconda dei contesti
in cui si manifesta, come indiziario, semeiotico, e venatorio), costituisce un
modello di sapere specifico, caratterizzato dall'aspetto qualitativo: e cioè
basato sulla conoscenza dell'individuale, attraverso l'uso della congettura.
Ciò gli permette di giungere a risul tati notevoli, in tutte quell’aree del
sapere che lo utilizzano privilegiatamente (al di là della mantica,
sicuramente, anche la medicina, la filologia e cosi via, su su fino alla detection,
la connoisseurship, la psicoanalisi), anche se per questo deve pagare il
prezzo di una ineliminabile dose di aleatorietà. Si tratta, in realtà, di un
sapere del tipo che Peirce [cf. Grice’s lectures on Peirce] definisce
abduttivo, in contrapposi zione al modello del sapere quantitativo che fa uso
della deduzione come metodo di ragionamento. In secondo luogo bisogna
ricordare che, in Mesopotamia, la divinazione subisce un lungo processo
evolutivo che dalla fondamentale e primaria tendenza a inferire le cause dagl’effetti
(procedimento tipico dell'abduzione) la porterà ad accentuare sempre di più i
tratti generalizzanti e aprioristici, in modo da gettare le basi per una vera e
propria scientifici tà di tipo astratto (Bottero 1974: tr. it. 211). Ciò che
risulta di maggiore interesse, dal punto di vista della ricostruzione storica
di una disciplina semiotica, è che al centro del pensiero divinatorio si pone
proprio il segno in una accezione non banale. Quest'ultimo, infatti,
costituisce anzitutto uno schema di ragionamento inferenziale, che permette di
trarre alcune conclusioni a partire da certi dati. È interessante notare come
il segno divenga centrale nel l'universo cognitivo mesopotamico, in quanto,
partendo dal campo della divinazione, si estenderà in seguito anche alel altre
pratiche culturali e discipline, come la medicina e la giurisprudenza, e
arriverà ad articolare, unificandola sot to il suo modello, la totalità del
sapere. Si raggiungerà dun que, in Mesopotamia, un punto in cui il sapere, a
livello molecolare, funzionerà secondo lo schema, unificato e for male, del
segno divinatorio, anche se contenuti di volta in volta differenziati verranno
utilizzati per dargli corpo. Pos siamo già accennare (anche se vi torneremo su
in seguito con maggiore ampiezza di dettagli) alal forma assunta nella cultura
mesopotamica dal modello segnico: quella di un pe riodo ipotetico in cui una
certa conclusione è data nella apodosi, come derivante direttamente dallo stato
di cose presentate nella protasi: in cui, in altre parole, la protasi è
"segno" deli'apodosi. Un modello segnico di questo tipo ("Se p,
allora q") è molto vicino a quello tramandatoci dalla cultura greca nella
fase della sua maggiore maturità semiotica: in particolare funziona secondo lo
schema implicativo il modello di segno elaborato dalla scuola stoica. Ma qui,
una volta rilevata l'affinità, devono subito essere messe in luce le
differenze: nel segno della divinazione mesopotamica sono in genere gli
elementi materiali (o contenutistici) che permettono il pas saggio dalla
protasi all'apodosi; in quello della semiotica stoica, invece, le inferenze
sono rese possibili unicamente grazie agli elementi formali. A ogni modo,
nonostante queste profonde divergenze e al di là del problema, che pure si
pone, degli eventuali debiti specifici della cultura greca nei confronti di
quella mesopo tamica a questo proposito,1 è interessante verificare la pre
senza dello stesso schema segnico p -:J q che attraversa due civiltà (quella
greca e quella mesopotamica) e due ambiti culturali (la divinazione e la
filosofia) per altri versi tanto distanti tra loro. 1. 1 Divinazione e
scrittura Il fatto che quella mesopotamica sia essenzialmente una civiltà della
scrittura costituisce senz'altro uno dei presup posti per capire il tipo di
divinazione sviluppatosi in Meso potamia e le ragioni della sua ampia
diffusione: è la scrittu ra, infatti, che in Mesopotamia fornisce la forma e
il mo dello per tutta una serie di attività intellettuali, prima fra tutte
quella deli'interpretazione dei segni inviati dagli dei. La lettura
dell'avvenire e la conoscenza del nascosto non avvengono qui per diretta
ispirazione divina, ma seguono lo stesso procedimento messo in atto
neli'interpretazione dei segni della scrittura. 'l E proprio in relazione alla
grande importanza assunta dalla scrittura nella cultura mesopotamica che il
modello ri sultato egemone è quello della divinazione tecnica (Bouché
Leclercq), quello cioè basato sulla interpretazione di segni che si realizzano
esternamente al l'uomo e che richiedono l'intervento esplicativo degli spe
cialisti. Per comprendere il ruolo che la coppia scritturaloralità gioca negli
orientamenti divinatori è sufficiente mettere in relazione la civiltà
mesopotamica con quella greca. Que st'ultima, come noto, è una cultura
essenzialmente orale, dove la scrittura si sviluppa in un periodo relativamente
re cente e non costituisce un fenomeno autonomo rispetto al parlato, bensì,
essenzialmente, una sua riproduzione in ca ratteri fonetici. In stretta
connessione con il carattere orale della cultura, in Grecia risulta egemone
proprio il modello della divina zione ispirata, in cui il dio parla ali'uomo
attraverso un profeta, avvertito come suo portavoce, secondo il celebre esempio
della divinazione oracolare della Pizia a Delfi. E non è poi un caso che la
società greca non abbia favorito, come avviene invece in Mesopotamia, la
nascita e la presen za stabile di una classe sacerdotale preposta
ali'interpreta zione specialistica sia dei segni della scrittura sia di quelli
della divinazione. Al contrario, nella cultura mesopotamica la scrittura, per
un verso, è un fenomeno piuttosto antico, per l'altro è un dispositivo dotato
di meccanismi in larga misura autonomi rispetto al parlato. Le prime attestazioni
della scrittura cuneiforme, infatti, si hanno tra la fine del IV millennio e
l'inizio del III.2 Nella sua forma primitiva la scrittura è pittografica, in
quanto fatta di segni che intendono designare ciò che raffigurano: a esempio la
rappresentazione di una testa di bovino, trac ciata nei suoi contorni, ma
perfettamente identificabile, in dicava in prima istanza "il bue";
ma, per una sorta di am pliamento semantico del segno, esso indicava anche
"la vac ca" e "il bestiame grosso". Ugualmente il disegno
schemati co di un piede aveva anche il significato di "stare in
piedi" e quindi quello di "immobile", di "camminare",
di "parti re", fino ad arrivare addirittura a quello di
"portare via''. Come si vede l'abbinamento tra significanti e significati
non si presenta né univoco né banale: esso infatti comporta un lavoro
interpretativo piuttosto complesso per controlla re i processi di ampliamento
o di slittamento dei significati per uno stesso segno. Processi che si
complicavano attraverso nuove associa zioni derivanti dalla giustapposizione
di segni diversi: il se gno del pane messo accanto a quello della bocca dà il
pro dotto semantico "mangiare"; quello dell'acqua accanto a quello
deli'occhio significa "lacrime"; se invece è messo ac canto a quello
del cielo significa "pioggia". Più curioso an cora è il caso del
segno della montagna che, giustapposto al segno indicante la donna, produce il
senso "la schiava", in quanto le montagne delimitavano a est e a nord
la regione, e una donna portata da un paese situato oltre la montagna era una
straniera destinata a tale condizione. Ci sono dunque complicati meccanismi
enciclopedici che governano l'interpretazione. Ma si può osservare anche che,
nella sua forma più anti ca, quella cuneiforme è una scrittura di cose
(Bottero 1974: tr. it. 168), in quanto non ha bisogno di passare attraverso il
linguaggio verbale per designare gli oggetti della realtà. La sua autonomia
rispetto alla realizzazione verbale è tota le, tanto è vero che i segni
possono essere compresi da per sone che parlano lingue diverse e, del resto,
sono pronun ciati in modo diverso in ciascuna di queste lingue come av viene,
a esempio, per i numeri arabi nel mondo moderno. I Mesopotamici si dimostrarono
molto legati a questa "scrit tura di cose" e non l'abbandonarono
neppure quando ven nero fatti notevoli passi avanti verso il fonetismo con
l'in venzione della scrittura sillabica. In effetti, circa un secolo dopo la
sua prima scoperta, i segni della scrittura pittografica avevano cominciato a
subi re un processo di scollegamento dalle "cose" che designava no,
per essere collegati più direttamente alle "parole" con cui il
linguaggio verbale designava i medesimi oggetti. Il ca rattere monosillabico
di molte parole e l'alta percentuale di omonimi, avevano favorito questo
processo. Un esempio interessante del fenomeno, che è anche il più antico, è
quel- lo del segno della fr H 1---, che viene a in- dicare non più solo
"la freccia" ma anche "la vita": la me diazione è stata
dali'omonimia tra le parole designanti i due concetti, pronunciate entrambe
ltil nella lingua sumerica.3 Possiamo così schematizzare il processo: pronuncia
l ti l l"" significato ..freccia· ..vita• l ::rafico HH H'VA questo
punto per arrivare a un alfabeto sillabico per fetto sarebbe stato sufficiente
eliminare tutti gli ideogram mi indicanti parole per lasciare soltanto i segni
di sillabe, sorta di unità minime infinitamente reimpiegabili. Invece i
Mesopotamici lasciarono sopravvivere, accanto ai segni presi nel loro valore
fonetico (indicanti una sillaba), i segni presi nel loro precedente valore
pittografico. Ci sono almeno due importanti conseguenze che derivano da questa
organizzazione della scrittura, per la divinazione. Anzitutto, come abbiamo
visto da alcuni esempi, la scrit tura pittografica ha la caratteristica
essenziale di tessere una rete sottile e complessa di rapporti tra le cose:
abitua la mente a vedere nelle cose relazioni segrete e legami inso spettati.
Essa suggerisce, altresi, un'attitudine mentale che porta a guardare anche alle
cose del mondo reale come in nescanti un analogo processo semiosico: non solo,
quindi, l'abbinamento pittografico del segno della montagna e di quello della
donna indicheranno "schiava", ma anche lo stesso abbinamento osservato
nella realtà, oppure in un so gno, porterà a trarre una inferenza analoga. È
proprio un meccanismo inferenziale di questo tipo che si pone alla base della
divinazione. La seconda conseguenza è connessa con il carattere spe cialistico
delle conoscenze richieste per l'interpretazione della scrittura: i caratteri
cuneiformi non sono accessibili a tutti, dato il sistema di cifrazione cosi
complesso. Si crea al lora una sorta di aristocrazia di esperti capaci di
interpretare i segni della scrittura. Allo stesso titolo si crea, per l'in
terpretazione dei segni mandati dagli dei, la casta degli in dovini baro, i
quali hanno come emblema della loro corpo razione proprio la tavoletta e il
calamo. 1.2 La scrittura degli dei Come sottolinea Jeannie Carlier (1978:
1227), in Meso potamia "parlare di una scrittura degli dei non è una meta
fora". Infatti quella cultura proietta nel campo teologico lo stesso
modello di organizzazione che vede operante nel campo della burocrazia statale.
Come ii re diffonde il suo potere dal centro alla periferia attraverso una
capillare e sviluppatissima rete amministrativa che trasmette i suoi or dini
scritti indirizzati ai sudditi, così gli dei si servono della scrittura per far
conoscere agli uomini i destini che hanno fissato per ciascuno di loro; solo
che "l'unica tavoletta a lo ro misura è l'universo intero" (ibidem).
Sama e Adad, gli dei della divinazione, sono per un ver so come il
sovrano che notifica la sua volontà ai sudditi per mezzo di messaggi scritti;
per un altro sono come il giudice che, dopo aver preso una decisione, la
ratifica sulla tavolet ta per darle validità e pubblicità. Il mondo, dunque,
in questa concezione, è una immensa tavoletta, costituito da oggetti che sono
il supporto materia le dei presagi da cui verranno ricavati gli oracoli, come
vie ne testimoniato, tra l'altro, anche da un inno di Assurbani pal a Sama5:
"Tu scruti alla luce (del) tuo (sguardo) la terra intera come
(altrettanti) segni cuneiformi". Del resto i Babilonesi parlavano della disposizione
degli astri come "scrittura del cielo" che veniva "letta"
dagli astrologi. E d'altra parte non era raro il caso in cui un pre sagio
consistesse letteralmente in un segno di scrittura trac ciato nelle pieghe del
fegato di un animale o sulla fronte di un uomo. 1.3 Una semiologia "ante
litteram" Una volta messo in luce il carattere di profonda affinità tra il
sistema della scrittura cuneiforme e la divinazione concepita come scrittura
degli dei, passiamo a esaminare la struttura interna del segno divinatorio. È
possibile farsene un'idea abbastanza precisa attraverso i numerosi trattati di
vinatori che ci sono pervenuti. Questi ultimi consistevano in lunghissimi
elenchi di proposizioni complesse, ciascuna composta da una protasi e da
un'apodosi. La protasi è in trodotta dall'espressione summa (equivalente alla
congiun zione "se") e ha il verbo al presente o al passato: essa
costi tuisce il "presagio", cioè il segno ominoso che deve essere
interpretato; l'apodosi ha il verbo di solito al futuro e costi tuisce
!'"oracolo", ciò che viene indicato o svelato dall'in terpretazione
del segno. Vediamo alcuni esempi che, pur in relazione a differenti tecniche
divinatorie, presentano tutti la stessa struttura:4 Astrologia Se nel giorno
della sua scomparsa, la Luna si attarda nel cielo (invece di scomparire d'un
tratto)- vi sarà siccità-e-arestia nel paese. Fisiognomonia Se un uomo ha il
pelo delle spalle ricciuto - le donne lo ame ranno. Oniromanzia Se un uomo
sogna che gli consegnano un sigillo - avrà un fi glio. Lecanomanzia Se, dal
centro dell'olio (gettato sull'acqua), si staccano due "ponti", uno
maggiore dell'aJtro - la sposa dell'interessato met terà aJ mondo un figlio
maschio; quanto aJ malato, guarirà. Estispicina Se il polmone è rosso-vivo a
destra e a sinistra - vi sarà un in cend io. PASSAGGIO DALLA PROTASI
ALL'APODOSI 17 Libanomanzia Se, quando versi (la sostanza aromatica) sulla
brace, il fumo si sprigiona (solamente) verso destra, e non verso sinistra -
avrai la meglio sul tuo avversario. Se si sprigiona (solamente) verso sinistra
e non verso destra - il tuo avversario avrà la meglio su di te. Questi esempi
permettono già di fare due osservazioni a proposito del meccanismo semiotico in
essi instaurato. In primo luogo la struttura del segno è espressa in termini di
rapporti tra proposizioni e non tra singole unità lessicali o tra un
significante e un significato in senso saussuriano. Questo fa sì che i segni
non verbali e gli eventi acquisiscano subito un'importanza predominante, in quanto
trovano ap punto nella proposizione il modo migliore di essere espressi. In
secondo luogo il rapporto che c'è, all'interno di cia scun segno, tra la
protasi e l'apodosi è di tipo implicativo, intendendo però questo termine come
designante un'infe renza ancora abbastanza generica: come vedremo, all'inter
no della scuola stoica, invece, l'interesse si accentuerà pro prio sul
tentativo di definire il nesso implicativo che caratte rizza il segno e a
questo proposito si accenderanno diver genze che alimenteranno una lunga e
complessa discus sione . 1.4 n passaggio dalla protasi all'apodosi Messi di
fronte ali'enorme massa delle proposizioni divi natorie documentate dai
trattati mesopotamici può sembra re che regni la più completa casualità nel
movimento che re gola il passaggio delle protasi-presagio alle relative apodo
si-oracolo. A ben guardare, però, è possibile rintracciare al cune linee
generali che consentono di mettere un po' d'ordi ne in un coacervo altrimenti
amorfo e di cogliere alcuni principi di regolazione. Sono rintracciabili in
realtà tre casi teorici di passaggio non casuale dalla prima alla seconda
proposizione: Il primo tipo di passaggio è connesso al principio del co
siddetto empirismo divinatorio: protasi e apodosi regi strano eventi che si
sono verificati effettivamente secon do una concomitanza temporale. Questo
genere di mec canismo si trova nei cosiddetti "oracoli storici",
caratte rizzati dal fatto di avere l'apodosi al passato, anziché al futuro;
essi riproducono verisimilmente la forma del tipo originario di divinazione. 2.
3. Il secondo tipo di passaggio non arbitrario è connesso alla possibilità di
un gioco di associazioni tra elementi della protasi ed elementi dell'apodosi:
naturalmente sono possibili i due casi, tanto del gioco fonetico sui signifi
canti, quanto di quello tropico sui significati. Il terzo tipo di passaggio tra
le due proposizioni è con nesso alla presenza di codici che prevedono una
serie esauriente e completamente specificabile di casi. In realtà, nella fase
più recente della storia della divina zione mesopotamica, i trattati subiscono
un'evoluzione nel la direzione della sistematicità e dell'astrazione. Il
sistema astratto e, in un certo senso, totalmente deduttivo prende il
sopravvento anche sulla verisimiglianza stessa dei presagi. La furia
classificatoria dei Mesopotamici guarda più ali'e saurimento di tutti i casi
astrattamente possibili che non al la loro concreta possibilità di verifica.
Avviene così che l'abbinamento di un'apodosi con una certa protasi dipenda
dallo schema astratto e, dunque, divenga prevedibile. 1.4. 1 Gli "oracoli
storici" e l'empirismo divinato rio Sommersi, e quasi fossilizzati,
nell'insieme delle decine di migliaia di oracoli che i trattati mesopotamici ci
hanno con servato, gli oracoli "storici" costituiscono un numero non
grande, ma significativo. Essi possono essere attribuiti, in base all'analisi
interna, all'epoca delle origini, anche se compaiono in trattati più
recenti. PASSAGGIO DALLA PROTASI ALL'APODOSI 19 Essi presentano infatti
quattro caratteristiche specifiche: l. hanno tutti la tipica apodosi al
passato; 2. gli argomenti di cui trattano fanno riferimento ad avvenimenti
storici che, nel caso in cui possano essere confrontati con altre fonti,
risultano degni di fede; 3. i fatti e i personaggi che in essi sono menzionati
sono collocabili, nella maggior parte dei casi, nell'epoca di Accad (ca.
2340-2160 a.C.); 4. fanno, quasi tutti, iniziare l'apodosi con la formula amat
"(è il) presagio di", formula che è assolutamente inusuale negli al
tri oracoli. Vediamone alcuni esempi: Se (nel Fegato) la Porta del Palazzo è
doppia, se vi sono tre Ro gnoni e a destra della Vescichetta-biliare sono
scavate (pa/Iu) due perforazioni (pilsu) ben nette - (è il) presagio degli
abitanti di Apgal, che Naram-Sin (ca. 2260-23) per mezzo di scavi (pii fu)
fece prigionieri. Se, a destra del Fegato, si trovano due Diti - (è il)
presagio del l 'Epoca-dei-Competitori. In entrambi questi casi l'apodosi fa
riferimento a fatti e personaggi storici reali deli'epoca di Accad. Si può
ipotizza re che gli oracoli così formulati non siano stati molto di stanti
cronologicamente dali'epoca dei fatti storici di cui parlano le apodosi. Anzi,
il punto fondamentale è proprio che tali oracoli avrebbero registrato delle
coincidenze "significative", a po steriori, tra un particolare stato
di cose considerato ornino so e un evento della storia: tali coincidenze
avrebbero as sunto in seguito valore di paradigma. A persuaderei di questa
ipotesi, che risponde appunto al principio dell'empirismo divinatorio
(Bouché-Leclercq 1879-82: vol. l, 298; Bottero 1974: tr. it. 161), c'è il fatto
che spesso i Fegati di Mari contengono una formula che mostra come il gioco
delle coincidenze si sia potuto stabi lire: Quando il mio paese si è rivoltato
contro lbbi-Sin (2027-2003), questo (=il Fegato) si trovava così disposto. LA
DIVINAZIONE MESOPOTAMlCA Il plastico di Mari riproduce la forma assunta dal
fegato reale esaminato durante un rito di estispicina: esso registra la
coincidenza tra questa forma, assunta come ominosa, e un evento storico di
importanza determinante, cioè la rivol ta contro l'ultimo re del periodo
neosumerico, lbbi-S'ìn. L'ipotesi dell"'empirismo divinatorio" si
spinge anche ol tre, ipotizzando che alla base stessa della scoperta della di
vinazione si porrebbe la scoperta delle coincidenze tra la se rie di presagi e
quella degli oracoli; ipotesi che può essere avvalorata dal fatto che tutti gli
"oracoli storici" possono essere cronologicamente situati nel periodo
delle origini del la divinazione mesopotamica. Nella istituzione stessa della
pratica divinatoria si sarebbe vicini, così, a una forma del principio del post
hoc, ergo propter hoc, per cui qualsiasi evento che fuoriesce in qual che
maniera dal corso "normale" e che è seguìto da un altro evento,
considerato a sua volta eccezionale, finirebbe per costituire con quest'ultimo
una coppia inscindibile. Il colle gamento tra i due eventi, una volta
stabilito, diventerebbe irresolubile; e il secondo evento, se non propriamente
cau sato dal primo, risulterebbe almeno annunciato da quello. Ciò che di fatto
viene qui elaborato è il metodo semiotico dell'inferenza delle cause dagli
effetti, che è tipica dell'ab duzione. È vero che in questo caso si arriva a
conclusioni che ci appaiono assurde, a causa di un errore fondamentale
nell'applicazione del metodo: infatti quello che viene preso come risultato (o
effetto) (una certa ben definita disposizio ne del fegato) che si presume
essere il caso di una certa re gola (o causa) (rivoltarsi contro lbbi-Sin), in
realtà non è affatto tale. Ma questo ha poca importanza: formalmente siamo di
fronte a un'abduzione. Un tale principio è applicato costantemente. Non c'è nes
sun interesse della divinazione a rivolgersi al passato: se le apodosi degli
oracoli storici lo fanno è appunto perché la fi losofia che sta dietro a
questo tipo di oracoli è che la storia può ripetersi. Nell'abduzione, infatti,
una volta che sia sta ta inferita la regola che spiega un certo risultato, è
possibile tenere a disposizione tale regola per successive applicazioni
deduttive. PASSAGGIO DALLA PROTASI ALL'APODOSI 21 1.4.2 Oracoli con gioco
associativo tra protasi e apodosi La seconda possibilità di un legame non
casuale tra pro tasi e apodosi dipende dalla presenza di rapporti associativi
tra elementi contenuti nella prima ed elementi contenuti nella seconda
proposizione. È operante qui in maniera evidente il modello della scrit tura
cuneiforme. Abbiamo infatti visto che essa tende a creare o suggerire una rete
di relazioni tra cose non diretta mente in contatto. Sappiamo come
l'interpretazione di un segno della scrittura cuneiforme apra la strada a una
catena di veri e propri interpretanti: la rappresentazione ideografi ca
dell'orecchio, a esempio, non solo significa "ascoltare", ma anche
"obbedire", "apprendere'', "il sapere",
"l'intelli genza". Ugualmente possono entrare in corto circuito se
mantico due ideogrammi omografi o che differiscano per pochi tratti del
significante. Cosi abbiamo due tipi di gioco associativo : l . quello sui
significati; 2. quello sui significanti. 1 .4.2. 1 Il gioco sui significati Il
rapporto che si instaura tra protasi e apodosi nel caso di un gioco associativo
sui significati è quello che si ha tra un "cifrato" tropico, e una
sorta di "chiaro" al grado zero. Vediamo alcuni esempi: Se il 29 del
mese di Aiiar (aprile-maggio) si verifica un'eclisse di sole - il re morirà,
duramente punito da Sam mortalità gene rale. Se un parto-anormale è doppio,
con due teste, l'una saldata al l'altra, e otto zampe, ma una sola
colonna-vertebrale - il paese sarà precipitato nella confusione per effetto
delle dispute inte stine . Se un cavallo cerca di accoppiarsi con un bue -
riduzione del l'incremento del bestiame. Nel primo esempio )'"eclisse di
sole" può essere conside rata una metafora rispetto alla "morte del
re"; del resto la metafora deli'eclisse come segno della morte di un
sovrano si catacresizzerà ed entrerà in una lunga tradizione mantica anche
greco-romana. Nel secondo esempio compare pure una metafora complessa: infatti
la protasi parla del corpo di un unico animale (''una sola
colonna-vertebrale"), che però ha organi doppi ("due teste",
"otto zampe"); viene al lora istituito un parallelo con l'organismo
statale (''il pae se"), unico, ma dilaniato e reso doppio dalle
"dispute inte stine". Il terzo esempio presenta un caso di
accoppiamento tra due animali di specie diverse, destinato dunque alla infe
condità, il quale simbolizza una "riduzione dell'incremento del
bestiame": la protasi ha la funzione (dal punto di vista della produzione
segnica) deli 'esempio (Eco 1 975 : 296; Eco 1984: 47), che vale per l'intera
classe. In generale, questi esempi mostrano come la logica che regola il
rapporto tra protasi e apodosi è dell'ordine del simbolico. Naturalmente molto
spesso la relazione tra il ci frato tropico e il chiaro ci sfugge, perché il
linguaggio figu rato è dipendente dal contesto culturale: è verosimile che in
molti casi operino associazioni che per la distanza spazio temporale tra le
culture non possiamo più avvertire. 1 .4.2.2 Il gioco sui significanti Vediamo
ora alcuni esempi di oracoli in cui nella protasi ci sono elementi che
differiscono per pochi tratti del signifi cante da elementi correlati
nell'apodosi: Se piove (zunnu iznun) nel giorno (della festa) del dio della
città - quest'ultimo sarà adirato (zenl) contro di essa. Se la Vescichetta
biliare è rientrante (na!Jsat) è inquietante (na!Jdat). - Se la Vescichetta
biliare è presa dentro (kussti) il grasso - farà freddo (kU$$U). 1 .4
PASSAGGIO DALLA PROTASI ALL'APODOSI 23 Se il Diaframma è aderente (emid) -
aiuto (imid) divino. La somiglianza tra i significanti fa sì che un fatto,
indica to da una parola con un certo suono, sia considerato segno di un altro
fatto, indicato da una parola con suono affine. 1 .4.3 I codici sistematici Il
terzo tipo di abbinamento non casuale tra protasi e apodosi è quello legato
alla presenza di codici sistematici. Come dicevamo, è possibile registrare
nella divinazione mesopotamica un'evoluzione diacronica per cui, dall'epoca
delle origini al periodo più recente, il modo di porre il rap porto tra
protasi e apodosi si modifica nel senso dell'astra zione. Il culmine di tale
processo porterà alla creazione di codici che prevedono una casistica generale
ed esaustiva: in questo caso verrà totalmente abbandonato il principio del
l'empirismo divinatorio per far spazio a una logica in un certo modo deduttiva,
che fa dipendere dalla configurazio ne generale del codice l'inferenza del
singolo caso. Infatti, a partire dal secondo quarto del II millennio, la
documentazione storica non ci presenta più oracoli singoli, ma registra la
presenza di un centinaio di "trattati", cioè di raccolte sistematiche
e spesso molto dettagliate, di segni di vinatori.s La sistemazione in
trattati, questo nuovo aspetto della di vinazione nel II millennio, ha come
tratto saliente quello di risultare funzionale al raggruppamento di diversi
segni ora colari in relazione a un unico oggetto, considerato ornino so.
Quest'ultimo veniva scomposto nell'intera gamma delle sue parti o variazioni,
ciascuna delle quali veniva a essere il tema di una singola protasi. Si
registra, in effetti, una mi nuziosa opera di pertinentizzazione del reale: se
un oggetto risulta esteso e divisibile, per ognuno dei singoli aspetti
identificati, viene costruita una coppia presagio-oracolo. Ecco come, a
esempio, in un trattato di estispicina, una sin gola porzione del fegato, la
cosiddetta "Porta del Palazzo", viene esaminata: Se, sulla
Soglia della Porta del Palazzo, a destra, si trova una fessura - . . . Se,
sulla Soglia della Porta del Palazzo, a destra, una fessura è segnata per il
lungo - . . . Se, sulla Soglia della Porta del Palazzo, a sinistra, si trova
una fessura - . . . Se, sulla Soglia della Porta del Palazzo, a sinistra, una
fessura è segnata per il lungo - Se, nel bel mezzo della Porta del Palazoz, si
trova una fessura - ... Come si può vedere, tutte queste protasi
risultano co struite su un principio strutturale di opposizioni binarie tra
Ila Soglia! e Iii bel mezzo! della Porta del Palazzo, tra jde stral e
jsinistral, tra j fessuraj e l fessura segnata per il lungoj . È dunque proprio
il sistema, inteso in un senso strutturali stico ante litteram, a prendere il
sopravvento . Non vengono registrati più solo i casi che sono stati
effettivamente osser vati, ma tutti i casi virtualmente possibili, in
relazione a un sistema basato su opposizioni e regole astratte. Questo fatto
diviene particolarmente evidente quando in contriamo in un trattato delle
protasi che prendono in con siderazione fino a sette Vescichette biliari per
uno stesso fe gato: la logica del sistema (basata in questo caso sulla rego
la: n --+ n + l) prevale non solo sulla realtà, ma perfino sulla
verisimiglianza. Una cosa analoa avviene quando, all'ini zio del trattato di
teratomanzia Summa izbu, vengono pre viste, per un neonato perfettamente
umano, circa quaranta possibilità di aspetto mostruoso: tra esse, che il
neonato as somigli a un cavallo, a un leone, a un cane, a un maiale, a un bue,
a un asino, oppure a una mano, a un piede e, addi rittura, a un corno di capra
o a un mattone. Sotto la spinta della sistematizzazione, la divinazione cambia
radicalmente: tutto l'impegno non è più dedicato al la ricerca di eventi
ominosi, ma alla costruzione degli s-co dici (Eco 1975; 1984: 266) delle
sequenze di protasi; a parti 1.5 ESPLICITAZIONE DELLE REGOLE DI CODIFICA
25 re da queste sequenze verrà costruito il codice vero e pro prio di abbinamento
con le serie di apodosi. In questo sen so, anche se non formulate, varranno
regole generali del ti po: "ogni volta che trovi il numero x nella
protasi, assegna la caratteristica y all'apodosi"; cosi, a esempio, se
l'indovi no incontra in un evento-protasi il numero sette, che il siste ma
abbina costantemente, poniamo, alle caratteristiche del la
"perfezione" e della "totalità", può dare come oracolo
"vi sarà Pimpero". Sono del resto molte le regole di codifica non
espresse, ma costanti, come a esempio quella per cui tutto ciò che è a destra è
connesso con un auspicio favorevole, mentre tutto ciò che è a sinistra, esprime
un augurio contrario. Oppure quella per cui è possibile "cambiare di
segno", come in alge bra, alla predizione in base al contesto: a esempio,
un pre sagio di per sé sfavorevole, se messo in rapporto con la sini stra,
diventa favorevole, o viceversa. In questo senso l'apodosi diviene deducibile
dalla prata si, in quanto basta osservare le caratteristiche sistematiche che in
essa sono contenute per inferirla: è il trattato che for nisce in realtà la
regola (anche senza esplicitarla): di fronte a un nuovo caso sarà facile per
l'indovino trovare il risulta to applicando la regola. 1.5 L'esplicitazione
delle regole di codifica Se nei trattati del II millennio si assiste al
superamento della fase empirica a favore di una ristrutturazione della di
vinazione su base sistematica e deduttiva, tuttavia, le regole della deduzione,
per quanto largamente operanti, rimango no implicite. Nei trattati del I
millennio si assiste a un'ulteriore evolu zione della divinazione, che porta
ali'esplicitazione delle re gole stesse della codifica. Ciò è testimoniato dal
grande trattato di aruspicina del I millennio, che aveva un capitolo in cui
erano formulati i va lori essenziali di certe caratteristiche espresse dalle
protasi. Il testo era disposto non più su due, ma su tre colonne. La 26
l. LA DIVINAZIONE MESOPOTAMICA prima riguardava il presagio, o meglio la
caratteristica che appariva ominosa nell'oggetto preso come segno. Di solito si
trattava di una qualità, espressa o da un aggettivo ("gros so") o da
un sostantivo astratto ("lunghezza") oppure, an cora, da un verbo
all'infinito ("essere piegato verso il bas so"). Nella seconda
colonna veniva registrato il valore fon damentale dell'oracolo, come a esempio
"gloria", "poten za", "vittoria". La terza
colonna, infine, proponeva una esemplificazione con un oracolo completo, tale
che nella protasi comparisse la qualità registrata dalla prima colonna e
neli'apodosi il valore risultante nella seconda colonna. Ec cone un esempio:
Lunghezza Riuscita Se la Stazione è abbastanza lun ga da arrivare fino alla
Strada il principe riuscirà nella campa gna che avrà intrapreso. È evidente
qui l'ulteriore progresso compiuto nella dire zione dell'astrazione: abbiamo
infatti la vera e propria pre sentazione della chiave del deciframento dei
segni. Le leggi deli'esegesi sono messe in chiaro. Presentare il trattato sulle
tre colonne equivale proprio a mettere in luce le leggi di cifratura. Ciò che
vi è di arbitrario nell'abbina mento tra protasi e apodosi viene dichiarato
fornendo i due termini della corrispondenza. Questo processo di astrazione non
si arresterà qui, ma procederà fino alla completa riduzione dei valori alla
dico tomia fondamentale: favorevole/sfavorevole. All'estrema complessità e
particolarizzazione degli oraco li più antichi si contrapporrà l'estrema
semplificazione di una logica binaria che prevede solo il sì o il no. 2.
LA DIVINAZIONE GRECA 2.0 Divinazione e conoscenza Il campo delle pratiche
divinatorie costituisce il primo ambito sufficientemente omogeneo in cui nella
Grecia anti ca si parla di segni. Il termine semefon, che si incontra qui per
la prima volta, è un nome di genere, che indica un segno divinatorio di tipo
qualsiasi e comprende anche il responso oracolare, costituito in realtà da un
testo verbale.1 Accanto a esso, come sue specificazioni relative ad ambiti
particolari della divinazione (o, potremmo dire, a particola ri manifestazioni
di sostanza dell'espressione), si trovano vari altri termini; tra essi oion6s
che indica etimologicamen te il segno dato dal volo degli uccelli; phasma, che
si riferi sce inizialmente ai presagi che si possono trarre dai fenome ni
atmosferici, ma che si estende in seguito alle visioni in ge nere; téras, che
costituisce l'equivalente deli 'espressione la tina prodigium e sta a indicare
qualsiasi fenomeno o avve nimento insolito, e in qualche maniera mostruoso,
che pos sa essere preso come base per una interpretazione divinato ria (Bioch
1963: tr. it. 19; Benveniste 1969: tr. it. 477). In tutti questi casi, qualcosa
sta per qualcos'altro, o meglio è assunto come base per un procedimento di
inferenza. Nonostante che in Grecia la divinazione come pratica ef fettiva
abbia avuto un'importanza abbastanza marginale,2 tuttavia il segno divinatorio
ha dato origine a una tradizio ne, letteraria e filosofica, che lo insedia nel
punto di origine mitico del processo di conoscenza. 28 2. LA DIVINAZIONE
GRECA Innanzitutto, infatti, l'indovino (mtintis), colui che è ca pace di
interpretare il segno proveniente dagli dei, è preci puamente un sapiente, e
il tipo di sapienza di cui il mantis è portatore non si identifica con
un'accezione limitativa del termine, come la conoscenza di una tecnica. Al
contrario, la sua è piuttosto una sapienza di ordine generale e sicura mente
superiore a qualsiasi tipo di conoscenza umana, co me suggerisce anche
l'etimologia del termine mantis, che è collegato alla radice •men, con cui
viene indicato un movi mento di accrescimento e di potenziamento dell'animo
(Crahay 1974: tr. it. 220). In Omero, per la prima volta, incontriamo
l'espressione che identifica la divinazione con la conoscenza "delle cose
che sono, di quelle che saranno e di quelle che sono state in passato":
Calcante, figlio di Testore, di gran lunga il migliore tra gli scru tatori di
uccelli l che conosceva ciò che è e ciò che sarà e ciò che è stato prima (hòs
id ta t 'e6nta ta t 'ess6mena pr6 t 'e6nta), l e aveva guidato verso Ilio le
navi degli Achei l con la sua arte di vinatoria, che Febo Apollo gli aveva
concesso. (Il., I, 69-72)3 Il passo omerico mette in risalto il carattere
generale e to tale della conoscenza rappresentata dalla divinazione; è una
conoscenza che trova un paragone solo con quella, molto più tarda, di ordine
filosofico: l'espressione tà eonta ("le cose che sono"), che nel
passo indica l'oggetto di conoscen za dell'indovino Calcante, rimarrà immutato
nella tradizio ne filosofica, in Eraclito, Empedocle, Platone, Aristotele,
come termine tecnico per indicare appunto gli oggetti della conoscenza
filosofica in generale. In secondo luogo, il segno, che è lo strumento
attraverso cui si attiva tale conoscenza, non proviene dalla sfera del
l'umano, ma da quella più alta e numinosa del divino; esso è lo strumento di
mediazione tra la conoscenza totale che ha il dio e quella limitata dell'uomo.
Il segno è altresì, nella prospettiva aperta da Colli (1977: 379; 1975: 40), il
luogo dell'irruzione della sapienza divina nella sfera dell'umano. Ma il
dio parla un linguaggio che non è quello dell'uomo. La parola del responso
oracolare, a esempio, è umana solo come suono, ma non produce alcun significato
se le viene applicato il codice del linguaggio verbale degli uomini. C'è dunque
una difformità nell'espressione dei contenuti della conoscenza che separa
l'uomo dal dio; ma c'è anche una più radicale differenza nelle modalità stesse
della conoscen za. Il dio padroneggia il tempo attraverso la "vista"
simul tanea e del passato, e del presente, e del futuro: la sua anni scienza
deriva appunto dal fatto di possedere una visione panoptica. Infatti Apollo,
secondo l'espressione usata da Pindaro (Pyth., III, 29), possiede
"l'occhiata che conosce ogni cosa". L'uomo, al contrario, può vedere
solo il suo presente, mentre gli sono irrimediabilmente sottratte le altre
dimen sioni del tempo. Solo il dio può permettergliene l'accesso; ma la
visione deve essere tradotta in parole, in quanto l'uo mo accede alla
conoscenza solo attraverso l'udito. Per il poeta, a esempio, la memoria del
passato è garantita dal racconto che traduce la visione panoptica delle Muse
(Horn., Il., Il, 484-486). Allo stesso titolo l'indovino è colui che rivela
all'uomo il futuro traducendo in parole la "visio ne" che il dio gli
comunica; ma proprio in questa traduzio ne il messaggio perde di perspicuità
(Lanza 1979: 99-l00; Detienne 1967: tr. it. 1). Per questi motivi il segno
divinatorio è enigmatico, oscu ro e per lo più incomprensibile. Per decifrarlo
c'è bisogno di un interprete, qualcuno che sia diverso dal soggetto nel quale
si è compiuto il processo di comunicazione e di tra sformazione della
conoscenza. Platone individua due distinte figure, rispettivamente "l'uomo
mantico" (colui che riceve la visione) e il "profeta" (colui che
interpreta le parole pronunciate dal primo duran te l'estasi). Il celebre
passo del Timeo, che propone tale di stinzione, in sé costituisce un piccolo
trattato teorico della divinazione quale se la rappresentavano i Greci, e
presenta con grande perspicuità la tradizione del segno divinatorio come segno
non direttamente decodificabile: Vi è un segno sufficiente che il dio ha
dato la divinazione alla dissennatezza umana: difatti nessuno che sia padrone
dei suoi pensieri raggiunge una divinazione ispirata dal dio e veridica.
Occorre piuttosto che la forza della sua intelligenza sia impedi ta dal sonno
o dalla malattia, oppure che egli l'abbia deviata es sendo posseduto da un
dio. Ma appartiene all'uomo assennato il ricordare le cose dette (tà rhthénta)
nel sogno o nella veglia dalla natura divinatrice ed entusiastica, il
riflettere su di esse, il discernere con il ragionamento tutte le visioni (tà
phasmata) al lora contemplate, il vedere onde quelle cose ricevano un signifi
cato e a chi indichino (smalnel) un male o un bene futuro o passato o presente.
A chi invece è esaltato e persiste in questo stato non spetta giudicare le
apparizioni e le parole da lui dette. Questa è una buona e vecchia massima: soltanto
a chi è assen nato conviene fare e conoscere ciò che lo riguarda, e conoscere
se stesso. Di qui deriva la legge di erigere il genere dei profeti a interprete
delle divinazioni ispirate dal dio. Questi profeti, alcu ni li chiamano
divinatori, ignorando del tutto che essi sono in terpreti delle parole
pronunziate mediante enigmi e di quelle immagini, ma per nulla divinatori. La
cosa più giusta è di chia marli profeti, cioè interpreti di ciò che è stato
divinato. (Plat., Tim., 7le-72a) Al centro concettuale del passo si pone il
verbo smafno, che indica appunto la rivelazione del dio; quest'ultimo si
presenta come il vero enunciatore, attraverso l'uomo ispira to, del testo
divinatorio. Il soggetto grammaticale di smal no è costituito dai due termini
che indicano le due forme di segno divinatorio, cioè "le cose dette"
e "le visioni contem plate", ma il responsabile della produzione di
questi segni è "la natura divinatrice ed entusiastica", cioè il dio
stesso che fa irruzione nell'uomo tramite l'invasamento (come indica anche
l'etimologia del secondo termine, collegata a theos). L'uomo non è che un
canale di trasmissione o un portavo ce. E perché il significato arrivi fino al
destinatario c'è biso gno di un complesso procedimento di interpretazione.
Cosi se prendiamo il verbo semalno come un predicato associato a un certo
numero di ruoli (o casi logici) e lo mettiamo in relazione a un processo di
comunicazione e a uno di inter pretazione, possiamo leggere il passo platonico
secondo il seguente schema (molto semplificato in alcune sue parti): 30
soggeno •te cose dette'" "le visioni contemplate'" il dio l'uomo
invasato significato - destinatario "'un male o un bene futuro o passato o
presente'" trice ed entusia- stica· 2.0 DIVINAZIONE E CONOSCENZA 3 1
--- - - -, '"la natura divina- l l'uomo processo di
interpretazione del segno, effe"uato da personaggi con un sapere
specializzato, a favore del destinatario "'i profeti'" Il
verbo smafno, dunque, non ha il banale senso di "si gnificare", nel
senso deli'instaurazione di un rapporto tra un piano dell'espressione e un
piano del contenuto all'inter no di un segno. Esso sembra piuttosto riferirsi
al processo di comunicazione stesso che il dio attiva nei confronti del
l'uomo: in altre parole, nel passo platonico, il verbo sembra riferirsi alla
situazione per cui il dio "indica attraverso segni (enigmatici)"
all'uomo qualcosa, che a quest'ultimo è sco nosciuto . A confermare l'uso del
verbo smafno con questo senso nei contesti divinatori si trova una lunga
tradizione che risa le almeno a Eraclito, al noto frammento 93 dell'edizione
Diels-Kranz (tr. it. 1974). È stato Romeo (1976) che, in una lucida e complessa
analisi del frammento, ha messo in evi denza questo significato del verbo
smafno, arrivando alla traduzione: (sorgente) (strumento) smafnei (oggetto)
(scopo) enunciatore- segno -- canale -l! 2. I.A DIVINAZIONE GRECA Il ··•Hno• c
du: ha l'oracolo in Delfi, né dischiude, né nasconde il,•.un pnJ.•,ac•o, rna lo
indicaattraversosegni(smalner)4 rourro una lunga tradizione che rendeva la
forma verbale sl'nuJinei con "significa" o con altre espressioni che
avevano l'cffcllo di rendere contraddittorio o incomprensibile l'inte ro
frammento. Si viene qui a profilare un'opposizione tra due tipi di lin
guaggio, che hanno caratteristiche antitetiche. Da una parte c'è il linguaggio
umano, caratterizzato dalla trasparenza e dall'immediata decifrabilità (e
possiamo fare l'ipotesi che proprio questo tipo di linguaggio sia circoscritto
da entram bi i termini della coppia oppositiva "dischiudo
[/égO]"/"na scondo [krfptO]": l'uomo o svela completamente il
suo pen siero, usando il linguaggio, oppure lo nasconde del tutto, non
esternandolo in parole). Dall'altra parte c'è un diverso tipo di linguaggio,
quello attribuito direttamente al dio nel frammento di Eraclito (e
indirettamente nel passo platoni co), che è indicato dal verbo semafno e che
ha le caratteristi che opposte dell'oscurità e della non immediata decodifica
bilità. Il dio non concede all'uomo una rivelazione comple ta, né gli nega
totalmente la conoscenza: gli fornisce piutto sto, attraverso il segno
oracolare, una base di inferenza sul la quale l'uomo dovrà lavorare per
giungere a una conclu sione, senza però dargli alcuna garanzia sulla via da
seguire con il ragionamento. Ci sono due spiegazioni al fatto che la cultura
letteraria e filosofica greca si sia rappresentata il segno divinatorio co me
oscuro e ambiguo. La prima è quella che abbiamo visto inquadrarsi nell'otti ca
di Colli, secondo cui il segno divinatorio può essere con siderato come
"l'impronta del divino" nell'uomo, indizio di un punto di contatto
(quello attraverso cui la conoscenza divina si comunica all'uomo), e
contemporaneamente di un punto di fuga.s La seconda spiegazione è quella messa
in luce da Vernant (1974: tr. it. 20-21), ed è inerente al tipo di razionalità
speci fica messa in gioco dalla divinazione, come pratica effetti va, oltre
che come teoria. Essa si connette al diverso ruolo 2.0 DIVINAZIONE E
CONOSCENZA 33 che gioca il destino rispettivamente nella sfera divina e in
quella umana. Infatti, a livello dell'esistenza umana, il de stino è
concepibile come una successione lineare di avveni menti (rappresentato
metaforicamente dal filo delle Par che), i quali si connettono tra loro
apparentemente senza che possa essere attribuito loro un senso globale. Questa
successione acquisisce un significato solo quando è arrivata al suo termine,
quando cioè il destino "si compie". È solo a questo punto che esso
diventa intelligibile e permette di spiegare, alla luce degli ulteriori
sviluppi, anche gli avveni menti passati ai quali non si era saputo dare un
senso. Fino a quel momento, tuttavia, l'uomo rimane in una fondamen tale
ignoranza: anzi, è proprio questa ignoranza a caratte rizzare l'esistenza
umana. A livello degli dei, al contrario, il destino di ciascun uo mo è
presente e intelligibile in ogni momento nella sua tota lità. Esso infatti è
stabilito in maniera irrevocabile e iscritto nell'eternità già prima della
nascita di ogni uomo. La divi nazione trova il suo spazio proprio in questo
scarto di cono scenza che si apre tra gli uomini e gli dei: l'oracolo (e in
ulti ma analisi anche ogni altro tipo di segno divinatorio) si sup pone che
riveli all'uomo, quando è ancora in vita, proprio il significato segreto del
suo destino, mentre questo sarebbe accessibile, dal punto di vista umano, solo
dopo la morte. Tuttavia, se la divinazione compisse la sua funzione pro fetica
sino in fondo, se cioè abolisse totalmente lo scarto di conoscenza che esiste
tra l'uomo e la divinità, risulterebbe con ciò cancellata anche la differenza
che distingue l'uomo dal dio. Per questa ragione il dio non svela il destino
più di quanto lo nasconda in effetti, secondo la formulazione di Eraclito.
L'oracolo lo lascia intravedere, ma nello stesso tempo lo dissimula; lo dà a
indovinare attraverso un segno oscuro ed enigmatico che per i consultanti non è
più intelli gibile di quanto lo siano gli avvenimenti per i quali si sono
rivolti all'oracolo. Così, la logica della divinazione fa in modo che con
l'ambiguità del segno venga reintrodotta, a livello umano, quella
"opacità" circa il destino che l'anni scienza divinatoria avrebbe il
compito di attenuare, se non di eliminare del tutto. 14 2. LA DIVINAZIONE
GRECA 2. 1 llue tipi di divinazione 2 . 1 . 1 La divinazione naturale Il passo
platonico del Timeo, come pure il frammento di Eraclito, fanno riferimento a un
tipo di divinazione che vie ne di solito definita "ispirata": essa
rientra all'interno della categoria generale della mantik atechnos, della
divinazione cioè che non richiede un apparato di mezzi tecnici per la sua messa
in opera e per questo, talvolta, riceve anche il nome di "divinazione
naturale" (Cic., De divinatione). Il carattere specifico di questo tipo di
divinazione è quel lo per cui il sapere del dio non passa attraverso mezzi di
ma nifestazione esterni all'uomo: l'ispirazione divina raggiunge direttamente
l'individuo attraverso i sogni (cioè un testo iconico) o si comunica a un profeta-portavoce
che emette un responso (normalmente un testo verbale). Per usare l'e
spressione di Romeo (1976: 84), si tratta di un tipo di divi nazione
"endosemiotica". Secondo questo modello funzionava il più noto e
presti gioso oracolo della Grecia antica, quello di Delfi6 in cui la Pizia, la
sacerdotessa di Apollo, emetteva un responso co stituito da un testo verbale.
Ma, come abbiamo visto, per quanto esso fosse formulato nei termini del
linguaggio na turale, il suo senso non era decodificabile mediante la sem
plice applicazione delle regole del codice linguistico a livello denotativo.
Più avanti vedremo alcuni esempi di decodifica aberrante di responsi, fraintesi
proprio per la pedissequa applicazione di questo codice senza far ricorso a
regole più complesse (come quelle di tipo retorico-tropico). 2. 1 .2 La
divinazione artificiale Il secondo tipo di divinazione è la mantik technik,
defi nita, a seconda dei commentatori, come "congetturale",
"induttiva", "deduttiva" o "artificiale". Era
basata suli'a nalisi dei segni (visibili, acustici, sensibili) che si
realizzava-no nell'ambiente esterno all'uomo e che potevano essere spontanei
(come i fulmini o le eclissi) oppure provocati (co me il lancio dei dadi o
l'estispicina).7 Questo secondo tipo di divinazione mette in gioco una lo gica
particolare, basata sull'ipotesi che esistano rapporti di omologia e di
corrispondenza tra il microcosmo, rappresen tato dal fenomeno preso come
segno, e il macrocosmo, rap presentato dall'ordine generale dell'universo (J.
Vernant 1948; J.-P. Vernant 1974). A questo proposito vengono isolate delle
porzioni di spa zio - che possono essere, a esempio, le regioni del cielo per
l'astrologia, come pure la superficie del fegato della vittima sacrificale per
l'estispicina - che vengono caricate di valore simbolico e deputate a
funzionare da specchio dell'ordine cosmico generale. Negli spazi così
delimitati è possibile leg gere la configurazione futura degli eventi,
sottratta a quella aleatorietà, a cui gli eventi reali sono invece sottoposti,
e per sopprimere appunto la quale il consultante si rivolge al la divinazione.
Si creano così due serie, quella delle configurazioni strut turali interne al
testo segnico e quella degli eventi a cui tali configurazioni rimandano; tra le
due si stabilisce un vero e proprio codice di corrispondenza, che permette di
passare immediatamente dal segno al suo significato. Ne vediamo un esempio molto
semplice nel seguente passo di Omero: Dico che un cenno ci dette il Cronide
superbo l il giorno che sulle navi veloci in cammino salivano gli Argivi l a
portare stra ge e morte ai Troiani l tuonando da destra, mostrando segni di
buon augurio. (//., Il, 351-354) In questo caso la volta celeste viene
costituita come spa zio significativo, come microcosmo in cui sia possibile
leg gere i segni del destino. Questo spazio viene articolato in una struttura
binaria che oppone due regioni, la destra e la sinistra: a ciascuna di esse
viene abbinato un valore seman tico (ldestral--+"buon auspicio",
!sinistra!-+"cattivo auspi cio"). Una più articolata configurazione
del significato deLA DIVINAZIONE GRECA riva dalla circostanza di enunciazione,
cioè dalla sua rela zione con la domanda esplicita (o implicita, come in
questo caso) che l'interrogante pone alla divinità·. Nel passo omeri co la
circostanza di enunciazione è la partenza della spedi zione per Troia, e la
domanda implicita concerne la riuscita dell'impresa: dunque il tuono che
proviene dalla regione de stra del cielo viene a significare "buona riuscita
dell'impresa dei Greci contro Troia". Infatti, per quel che riguarda
l'individuazione del signifi cato ultimo del segno, tutti i sistemi divinatori
si basano su un equilibrio più o meno stabile tra le strutture formali del
codice che permettono di cifrare in maniera completa l'av venimento prodigioso
e insolito, e la molteplicità delle si tuazioni concrete a cui tale
avvenimento-segno può riman dare nei contesti specifici. Nell'esempio omerico
il codice è così semplice da essere diventato patrimonio comune, tanto che non
si fa cenno della presenza di un indovino, per decifrare il segno. Di so lito
non è così per la divinazione artificiale, il cui carattere "tecnico"
risiedeva proprio nel fatto che per l'interpretazio ne dei segni era
necessario fare ricorso alla conoscenza spe cializzata di personaggi
depositari di un sapere che verte sulle regole di decodifica. L'indovino è
infatti essenziale nel caso, appena più com plesso, riportato da Plutarco
nella Vita di Dione (24). L'a neddoto riguarda la spedizione effettuata nel
357 a.C. da Diane contro Dionigi di Siracusa, durante la quale si verifi cò
un'eclisse di luna. L'indovino Miltas, chiamato a inter pretare quel segno,
dichiarò che esso annunciava che qual cosa che era stato splendente fino ad
allora, si sarebbe oscu rato: non poteva, dunque, che trattarsi del regno
tirannico di Dionigi, il quale era destinato a soccombere sotto l'attac co
portatogli da Dione. Anche qui ci sono le due fasi: la prima determina il signi
ficato degli abbinamenti del codice e la seconda quello deri vante dalla sua
applicazione alla situazione concreta. Inol tre l'indovino Miltas si avvale di
una tecnica più sofisticata, che fa ricorso anche alle trasformazioni
retoriche: la rela zione tra il macrocosmo della luna che viene oscurata
dal- 2. 1 DUE TIPI DI DIVINAZIONE 37 l'eclisse e il microcosmo del regno
di Dionigi destinato a soccombere è mediata dall'elemento comune !splendore!
con cui si designa in modo proprio una qualità della luna e in modo figurato una
proprietà del regno di Dionigi. Esistevano poi codici notevolmente elaborati
già al sem plice livello degli abbinamenti, come a esempio il codice
dell'estispicina. In questa pratica venivano esaminate le vi scere degli
animali, in particolare il fegato, del quale si os servavano l'aspetto e la
posizione del lobo, della vescichetta e delle porte.8 Per quello che riguarda
la cultura greca non abbiamo esempi del modo in cui venivano effettivamente
realizzati gli abbinamenti tra gli elementi significanti e quel li a cui essi
rinviavano. Tuttavia Luc Brisson (1974), in uno studio molto interessante e
completo sulla divinazione in Platone, ha segnalato un passo del Timeo (71 a-d)
in cui, nonostante non si parli direttamente di estispicina, si descri ve un
fenomeno che con essa ha molti punti di contatto. Il passo illustra i processi
che si determinan9 quando l'anima razionale, che ha sede nel cervello, lascia
la sua impronta, "come in uno specchio", sul fegato che è la sede
dell'anima appetitiva: questo permette di vedere riprodotte nel fegato (nei
suoi aspetti via via diversificantisi) le impressioni la sciate dali'anima
razionale. La specularità è, però, solo metaforica perché si verifica no in
realtà dei processi di codificazione molto forte, che fanno pensare ai
meccanismi della "comunicazione biochi mica" . In definitiva il
fegato viene a costituire un testo segnico sul quale I 'anima appetitiva legge
i contenuti intelligibili, di venuti sensibili attraverso un processo di
codifica. Esso co stituisce altresì un microcosmo che rispecchia, anche se in
modo molto particolare, l'assetto del macrocosmo costitui to dali'anima
razionale. Si può presumere che i codici dell'estispicina funzionasse ro in un
modo analogo a quello descritto per i processi di comunicazione
"intrapsichica" illustrati dal Timeo. Tuttavia, proprio da Platone
scaturisce una delle più reci se condanne che la Grecia classica abbia
espresso nei con fronti della divinazione artificiale. Tale condanna si
trova 38 2. LA DIVINAZIONE GRECA formulata nei due testi del Timeo (72 b)
e del Fedro (244 c-d). Nel primo di questi, in particolare, è contenuta una
condanna dell'epatoscopia: infatti Platone, che accetta la possibilità di
leggere sul fegato molti segni quando questo è contenuto in un organismo
vivente, sostiene che esso non può rivelare niente di sicuro agli uomini,
quando è privato della vita e non è più sottoposto all'influsso luminoso del
l'anima razionale. Più generale e radicale è la condanna della divinazione
tecnica nel Fedro. In quel testo Platone fa l'elogio della fol lia, di cui
considera la divinazione una specie, e separa la mantica ispirata ed
entusiastica da tutte le altre forme di in vestigazione del futuro. In
particolare la "mantica", nel senso ristretto, viene contrapposta
alla "oionistica", cioè la divinazione mediante l'osservazione dei
segni dati dal volo degli uccelli. La ragione della discriminazione è chiara:
nella divina zione tecnica la ragione umana pretende di sostituirsi ali'i
spirazione divina. Per indicare che in questo modo non si raggiunge che un
grado molto pallido e incerto di conoscen za, Platone inventa addirittura una
connessione etimologi ca tra "oionistica" e olsis (''opinione")
("L'investigazione del futuro [. . .] attraverso gli uccelli [. . .] fu
chiamata 'oio noistica', che i moderni, rendendola solenne con un omega,
dicono oionistica": Phaedr., 244 c). Nella divinazione ispi rata, invece,
la conoscenza deriva all'uomo da una posses sione divina e questo è garan.zia
di verità. Sembra profilarsi un'opposizione tra smafnein e tekmal resthai, il
primo verbo indicando, come nel Timeo e in Era clito, il dono della conoscenza
elargita dal dio, mentre il se condo indica la congettura puramente umana.
Questa op posizione richiama il motto di Alcmeone: Delle cose invisibili e
delle cose visibili gli dei hanno conoscenza certa; ma agli uomini tocca
procedere per indizi (tekmafre sthal) . (Diels-Kranz, 24 b l) su cui avremo
occasione di tornare. 2.2 DUE MODELLI DI DIVINAZIONE ORACOLARE 39 I
passi platonici non esemplificano soltanto l'opinione del filosofo ateniese, ma
si pongono altresì in linea con la scelta di fondo compiuta da tutta la civiltà
greca nei con fronti della divinazione ispirata. Infatti, per quanto in Gre
cia venissero praticate anche forme di divinazione tecnica, a esse è stata
sempre riservata un'importanza secondaria, mentre l'attenzione si è concentrata
soprattutto sulle forme della divinazione oracolare, che si esprimevano
attraverso la parola. D'altra parte questo fenomeno deve essere messo in rela
zione con il fatto che la civiltà greca è essenzialmente di tipo orale; in essa
la scrittura è non soltanto un fenomeno recen te, ma del tutto dipendente dal
parlato, che essa tende a ri produrre foneticamente. In altre civiltà, come
quella meso potamica o quella cinese, la scrittura è molto più antica e
funziona come un sistema autonomo rispetto alla lingua, presentando a suo modo,
attraverso i segni grafici, quelle realtà che la lingua presenta in altra
maniera: in queste ci viltà la scelta compiuta nei confronti del tipo di
divinazione è opposta a quella greca. 2.2 Due modelli della divinazione
oracolare Esistono tuttavia profonde differenze tra l'immagine che della
divinazione oracolare propongono i testi letterari e il modo in cui essa veniva
praticata effettivamente nei santua ri a essa adibiti. J.-P. Vernant (1974)
parla di due distinti modelli. Nella Grecia dell'età classica, infatti, la
divinazione come pratica effettiva ha una rilevanza marginale nel regime della polis.
Infatti l'oracolo viene consultato non per ottenere una predizione sul destino,
ma per prospettargli, in forma di alternativa, un certo corso di eventi che si
ha intenzione di intraprendere e per domandargli se la via sia libera o pre
clusa.9 Si instaura a questo proposito un vero e proprio dialogo tra il
consultante e l'oracolo (Crahay 1974): quest'ultimo ri sponde innanzitutto
alla domanda che è stata posta in for- LA DIVlNAZIONE GRECA ma chiusa,
predicendo al consultante se farà o non farà una determinata cosa. Il
consultante pone poi all'oracolo una seconda domanda, in forma aperta, ma
limitata a una con dizione rituale di successo: in sostanza, esso domanda al
l'oracolo quali ostacoli debbono essere rimossi perché l'im presa prospettata
giunga a buon fine. È interessante a que sto punto vedere come la formula
usata di solito dall'oraco lo nell'emanare il consiglio di carattere rituale
rispecchi quella che veniva usata per redigere le decisioni dell'assem blea
sancite dal popolo. L'oracolo dice infatti loion kai ameinon éstai (''sarà più
conveniente e preferibile"), pro prio come nei decreti deli'assemblea si
usano formule che pongono l'accento sulla "preferenza" tra le
opinioni, piut tosto che sull'intimatività della decisione. Ciò è indice del
fatto che nella civiltà greca è il modello della discussione as sembleare che
si proietta sulla divinazione, e non viceversa come avveniva nella civiltà
mesopotamica. Ed è interessante che in questo modello di divinazione non si
trovi alcuna traccia di risposta ambigua o oscura. Ambiguità e oscurità si
trovano solo nel secondo model lo, quello "teorico,, della divinazione
oracolare, presente in tutta la letteratura scritta, da Erodoto ai poeti
tragici, ai fi losofi. Esso costituisce la rappresentazione che la cultura
della città si dà della divinazione. Secondo·questo modello, l'oracolo viene
consultato non per ottenere un consiglio, ma direttamente sul destino. Ciò
determina la supposizione che l'oracolo sia onnisciente, in quanto deve
conoscere sia lo sviluppo futuro degli eventi, sia, nel contempo, il passa to,
in cui si situano le remote origini delle sorti attuali e fu ture
deli'indi\iduo o del gruppo consultante. La logica a cui questo modello
risponde non è più bina ria: l'oracolo deve qui impegnarsi a ridurre a una
sola, spe cifica, opzione l'infinità dei possibili. Il responso oscuro e
ambiguo reintroduce, del resto, l'in certezza che caratterizza la condizione
umana che l'oracolo tende ad annullare. Così, nei racconti oracolari dei testi
let terari, la profezia sembra sempre inadeguata rispetto al cor so preso
dagli eventi. Il segno rimane oscuro fintantoché il "compiersi" della
sorte si incarica di fare chiarezza e di de- 2.3 L'INTERPRETAZIONE NEI
RACCONTI ORACOLARI 41 sambiguare, ormai troppo tardi, la polisemia del testo
pro fetico. 2.3 Il problema interpretativo nei racconti oraco lari
Naturalmente, per capire come la nozione di smefon si sia sedimentata nella
cultura greca, per vedere quale sia il nucleo semantico con cui il termine
indicante il segno è sta to consegnato alla tradizione filosofica, il
riferimento ali'u so di smefon nei testi letterari è altrettanto importante
quanto il suo significato nelle pratiche divinatorie effettive. Soprattutto nei
testi di Erodoto e dei tragediografi è pos sibile vedere come costantemente
venga tematizzato il pro blema interpretativo che il segno oracolare pone:
l'oscurità del segno è in principio legata alla difficoltà, che diviene
immancabilmente impossibilità, di risolvere tale problema. Si deve però dire
che in primo luogo l'uomo è accecato dal la hjbris, e palesa la sua scarsa
ricettività alla parola della profezia in vari modi: la dimentica, non ne segue
le diretti ve, sbaglia la modalità di consultazione; alla fine, però, il suo
errore fondamentale è quello di scegliere sempre il ter mine errato
dell'alternativa posta dal segno ambiguo. Se la sua colpa è, dunque, un peccato
di tracotanza, il suo errore è un errore di conoscenza, e ha un carattere squi
sitamente semiotico. Ancora una volta compare l'opposizione "linguaggio
umano"/"linguaggio divino": l'uomo infatti interpreta sempre la
profezia secondo il proprio codice, non tentando mai di intendere la parola
della rivelazione come cifrata in un altro linguaggio, quello appunto della
divinità. In termini semiotici, in tutti i racconti sul tema della divi
nazione oracolare, l'uomo interpreta invariabilmente il te sto in modo
letterale, mentre questo dovrebbe ricevere una lettura secondo quello che
potremmo definire modo enig matico.10 Infatti, l'idea fondamentale che i
racconti oracolari sug geriscono è che esista sempre nella profezia un senso
secon- 42 2. LA DIVINAZIONE GRECA do, che è nascosto e che costituisce il
vero e unico significa to del segno: è la scoperta di questo secondo senso,
scartan do il primo, che qui chiamiamo interpretazione secondo il modo
enigmatico. Invece l'uomo coinvolto nell'interpreta zione, data la sua
incapacità di attingere la sapienza divina, compie proprio il gesto contrario,
scartando la possibilità di un senso non letterale. Vi sono tuttavia diverse
forme dell'errore di interpreta zione. (i) La prima consiste nella incapacità
di assegnare un senso al testo, o meglio, di adeguarlo a circostanze reali no
te: non si trovano oggetti a cui le parole della profezia pos sano essere
riferite e il testo appare totalmente assurdo. (ii) La seconda forma di errore
consiste nel riferire la profezia a oggetti reali, ma erroneamente
identificati; ve ne sono due sottospecie, a seconda che l'errore sia dovuto a
una omoni mia o a un equivoco (e quest'ultimo è ulteriormente suddi
visibile). Tutto ciò può essere illustrato mediante il seguente schema:
Interpretazione secondo il modo
enigmatico ~l et t e r a l e n o n se n so sen~ so errato per omonlmia
per equivoco errate scambio assunzioni di prospettiva di credenza 2.3
L'INTERPRETAZIONE NEI RACCONTI ORACOLAR.I 43 Vediamo ora alcuni racconti
oracolari in cui sono esem plificate queste modalità di errore. L'incapacità
di assegnare un senso al testo profetico si ha in vari racconti nei quali
vengono utilizzati meccanismi re torici, tra cui alcuni di tipo metaforico. È
naturale che, quando il veicolo metaforico viene interpretato "letteral
mente", si ottenga una assurdità sul piano del senso, a me no che non si
immagini un mondo possibile, diverso da quello reale, in cui i muli possano
diventare re dei Medi e gli araldi siano dipinti di rosso. Il consultante, che
prende in considerazione soltanto il mondo reale, si trova in difficoltà ad
assegnare un senso e una denotazione a testi siffatti. Ma vediamo che cosa
succede nel primo di questi racconti. È Erodoto a narrarci la storia degli
abitanti deli'isola di Sifno, i quali, essendo giunti a un notevole grado di
ricchez za con le loro miniere d'oro e d'argento, decisero di consul tare
l'oracolo di Delfi per sapere se avrebbero potuto con servare a lungo la loro
prosperità. La Pizia rispose: "Ma quando, a Sifno, il pritaneo sarà bianco
e bianco il bordo della piazza pubblica, allora c'è bisogno di un uomo accor
to per guardarsi dall'agguato di legno e dall'araldo rosso" (Herod., Hist.,
III, 57). La storia continua narrando del l'arrivo di una nave dei Sami, della
loro ambasceria per chiedere denaro e del saccheggio che questi ultimi fanno
dell'isola dei Sifni. Erodoto sottolinea l'incapacità manifestata dai Sifni di
dare un senso al testo ("l Sifni non furono capaci di com prendere
l'oracolo"); per loro il testo, e in particolare, si presume, le
espressioni "agguato di legno" e "araldo ros so", sono
prive di senso, perché appunto essi si fermano a un livello letterale di
interpretazione. In realtà il dio gioca con vari meccanismi tropici: innan
zitutto con una doppia enallage1 1 (è il legno [ = nave] che anticamente è
rosso, come spiega Erodoto, ed è l'araldo [ = gli ambasciatori] che organizza
un agguato), complican do poi il testo con meccanismi metonimici (legno per
nave, il singolare araldo per il plurale ambasciatori). Un secondo esempio di
mancata comprensione si trova in un episodio di quel lungo e complesso
"romanzo oracolare" 2 . LA DIVINAZIONE GRECA t·hc
l·:rodotodedicaaCreso,quandoquest'ultimochiedeal l ' oracolo di Delfi se la
sua monarchia sarebbe durata a lun o . La Pizia risponde: "Quando un mulo
sarà re dei Medi, allora, Lidio dai piedi delicati, fuggi lungo l'Ermo sassoso,
non indugiare e non temere di essere vile" (Herod., Hist., l, 55). Anche
in questo caso, l'interpretazione che viene data alla profezia sceglie il senso
letterale: Creso ritiene, di con seguenza, impossibile che venga a verificarsi
uno stato di cose che soddisfi alla descrizione della frase "un mulo sarà
re dei Medi"; la conclusione che egli trae da questa impossi bilità è che
sia altrettanto impossibile che il suo regno abbia una fine. Sarà poi il dio
stesso a spiegare al re il suo gioco metafo rico, quando ormai i fatti si
saranno compiuti e Creso sarà caduto sotto la dominazione dei Persiani . Il
"mulo" è, in ef fetti, Ciro, e il passaggio è mediato dalla
proprietà "sangue misto", che è condivisa sia dal termine metaforizzante
sia dal termine metaforizzato: ·sangue misto• / Tanto maggiore è la cecità di
Creso se si pensa che l'ele mento comune è doppiamente esemplificato in Ciro,
in quanto figlio "di madre nobile e di padre di oscuro lignag gio" e
"di madre meda e di padre persiano", come il testo di Erodoto non
manca di sottolineare. Vale la pena di rilevare che l'interpretazione del senso
fi gurato è un'operazione realmente più difficile di quello che si potrebbe
immaginare, fatto che giustifica in qualche ma niera gli insuccessi dei
consultanti. Essa è legata a cono scenze enciclopediche locali, oltre che ai
meccanismi retori ci che su quelle conoscenze si applicano. Ciò è tanto più ve
ro se si considera che è impossibile anche per il lettore mo derno fornire
l'interpretazione del testo profetico quando il testo letterario non ci informa
sulle relative porzioni di enciclopedia. Ciò avviene, a esempio, nel racconto
oracolare di Arcesilao (Herod., Hist., IV, 163-164) in cui, accanto a scambi
metaforici tra "anfore" e "uomini", tra "torri" e
"forni" che vengono spiegati dal prosieguo della narrazio ne,
compare l'espressione "il tuo più bel toro" che rimane inspiegata ed
è anche per noi incomprensibile. Vediamo ora il caso in cui il testo appare
interpretabile secondo un percorso di senso letterale, in cui cioè sia rin
tracciabile un corso di eventi corrispondente a esso, senza però essere quello
inteso dalla profezia. Consideriamo in particolare il caso in cui l'errore
interpretativo sia dovuto a omonimia. Questo meccanismo, accompagnato dal
costante frain tendimento, caratterizza l'intero romanzo oracolare di Cambise.
Si tratta di una storia in cui i vari segni si collega no tra di loro in una
catena di rimandi interni. Questa storia ha inizio con un sogno: Smerdi
(fratello di Cambise) era già tornato in patria (la Persia) quando Cambise ebbe
in sogno questa visione: gli parve che un messo, giunto dalla Persia, gli annunciasse
che Smerdi, seduto sul trono regale, toccava con la testa il cielo. Temendo
perciò che il fratello meditasse di ucciderlo per impadronirsi del regno, mandò
in Persia Prexaspe, che gli era fedelissimo fra tutti i Per siani, a uccidere
Smerdi. (Herod., Hist., III, 30) Dopo parecchi paragrafi, in cui la storia
continua narran do le stravaganze e le crudeltà di Cambise, ci viene raccon
tata la ribellione in Persia dei due fratelli Magi, uno dei quali, che si
chiamava anch'esso Smerdi, era stato collocato sul trono. Quando Cambise viene
a conoscenza di questo fatto, comprende il vero senso del sogno. Ma la storia
non finisce qui: Dopo che ebbe pianto e si fu afflitto di tanta sciagura,
Cambise balzò a cavallo per muovere al più presto verso Susa contro il Mago;
ma, mentre saliva in arcione, gli cadde il puntate del fo dero della spada,
che rimasta nuda lo ferì alla coscia. Colpito così nello stesso punto in cui
aveva trafitto il dio egizio Api, il 2. LA DIVINAZIONE GRECA fl\
iudicando mortale la sua ferita, domandò ancora come si chiarnassc la città
dove si trovavano e gli risposero che si chia rnava Ecbatana. Ora, molto tempo
addietro, a lui che l'aveva consultato, l'oracolo di Buto aveva risposto che
sarebbe morto ad Ecbatana ed egli aveva interpretato che sarebbe morto, vec
chio, ad Ecbatana di Media, dove aveva tutti i suoi beni, men tre l'oracolo
aveva inteso di indicare Ecbatana di Siria. Pertan to Cambise, come ebbe
saputo il nome della città, sotto il dupli ce colpo della rivolta del Mago e
della ferita, rinsavì e, com prendendo finalmente il divino responso, esclamò:
"Qui è desti no che muoia Cambise, figlio di Ciro". (Herod., Hist.,
III, 64) La rivolta del Mago e la ferita sono, più che avvenimenti, dei segni,
in quanto permettono a Cambise di accedere alla conoscenza, di comprendere,
finalmente senza più ambigui tà, l'oracolo, di non rimanere più prigioniero
dei giochi di parole: la rivolta che gli fa capire la differenza tra Smerdi suo
fratello e Smerdi Mago; la ferita mortale, la differenza tra Ecbatana in Media
ed Ecbatana di Siria. Infine c'è l'ulteriore caso di errata interpretazione a
cau sa di un equivoco, non strettamente linguistico, e che può essere di varia
natura. L'equivoco più famoso di tutta la letteratura oracolare greca è
senz'altro quello di cui cade vittima Edipo. Come noto, durante un banchetto
Edipo viene insospettito dalle insinuazioni fatte da un convitato circa la sua
paternità e decide allora di interrogare il dio della sapienza, il quale gli
predice che ucciderà il padre e che si congiungerà con la ma dre (Soph.,
Oedipus tyrannus, 787-798). L'equivoco riguar da le assunzioni di crede...zza:
Edipo non sa che i suoi veri genitori sono Laio, re di Tebe, e Giocasta, ma
crede che sia no Polibo, re di Corinto, e Merope; per questo, al fine di
stornare gli avvenimenti predetti dall'oracolo, si allontana da Corinto per
andare in direzione di Tebe, e compie, così, inconsapevolmente, proprio il
destino che gli è stato annun ciato. Altre volte l'equivoco riguarda lo
sca1nbio diprospettiva. Il caso emblematico è quello di Creso che manda a
consul tare congiuntamente l'oracolo di Delfi e quello di Anfiarao
L'INTERPRETAZIONE NEI RACCONTI ORACOLARJ 47 per sapere se dovesse fare guerra
ai Persiani. I due oraco li, concordemente, predicono che "se avesse
mosso contro i Persiani, avrebbe distrutto un grande impero" (Herod.,
Hist., l, 53). Creso interpreta il responso come facente rife rimento alla
distruzione dell'impero dei Persiani, mentre, come si scopre in seguito, sarà
proprio il suo impero a subi re tale destino. A sviare il re dalla giusta
interpretazione in terviene un meccanismo semiotico implicito: l'assunzione di
Creso che, dal momento che l'oracolo è rivolto a lui, anche il dio assuma la
sua prospettiva. E, ovviamente, nella pro spettiva di Creso, il grande impero
da distruggere non può che essere quello persiano. Si incomincia a intravedere
in questo esempio, più che nei precedenti, una caratteristica che è tipica
deli'enigma: una fortissima carica aggressiva, potenzialmente distrutti va, da
parte del dio nei confronti dell'uomo quando gli po ne un problema
interpretativo da risolvere. Una conferma si trova nel racconto analogo in cui
l'ora colo di Delfi predice agli Spartani che misureranno la terra di Tegea
con le funi (Herod., Hist., l, 66). Gli Spartani in terpretano il riferimento
alle funi come indicante Patto di misurare le terre per distribuirle ai
conquistatori e, di conse guenza, fanno una spedizione contro Tegea. In realtà
esse sono inserite in un altroframe o sceneggiatura (Eco 1984), in quanto
serviranno agli Spartani, ridotti in schiavitù dopo la sconfitta, per misurare
le terre che dovranno lavorare. L'attributo con cui viene qualificato il
responso è klbd los che, nel suo senso traslato, significa
"ambiguo", "fal so", "ingannevole", ma nel suo
senso base fa riferimento alla carica estranea che adultera il metallo
prezioso. Ciò che ne risulta, come nei casi presi in considerazione, è la com
mistione di due metalli, uno buono e uno non, che fa lucci care come oro ciò
che oro non è. Analogo meccanismo, infine, si trova negli aneddoti, ri portati
da Diodoro Siculo (Biblioteca, XVI, 91-92; XX, 29), nei quali viene annunciato
a un generale che pranzerà o alloggerà nella città che sta assediando; queste
cose si verifi cheranno, ma la prospettiva non sarà quella del vincitore bensì
quella del prigioniero. LA DIVINAZIONE GRECA 2.4 Il segno come sfida:
divinazione ed enigma Abbiamo accennato alla carica di aggressività che si cela
dietro al segno oscuro. Questo aspetto collega immediata mente il segno
divinatorio all'enigma vero e proprio, an ch'esso oscuro e insolubile e,
mitologicamente, espressione della sfida che la divinità lancia ali'uomo. È
stato Colli ( 1 975 : 1 8) a mettere in luce il rapporto tra la divinazione,
l'enigma e l'altra faccia di Apollo, quella mi nacciosa e distruttrice. 1 2
Apollo, infatti, non è soltanto di vinità benefica che dona agli uomini l'arte
mantica e la me dicina: egli è anche il dio della freccia e dell'arco. Queste
in dicazioni assumono un valore direttamente semiotico quan do si scopre che
la freccia di Apollo e il segno oscuro sono non due cose diverse, ma due mezzi
di espressione della me desima potenza del dio e che possono avere anche lo
stesso funzionamento, come si può inferire da un passo di Pinda ro (0/ymp.,
II, 83-85). Il vero destinatario delle frecce di Apollo è l'uomo in quanto
interprete. Fuori dal linguaggio figurato l'uomo-in terprete raccoglie una
sfida che il dio, con intenzione ostile, gli lancia; e, dagli esempi stessi che
abbiamo visto nei rac conti oracolari, si è potuto notare che il non riuscire
a vin cere questa gara con il dio, cioè non riuscire a interpretare il segno
oscuro, conduce alla rovina. Non sembrano esserci, a questo punto, più dubbi
sulla relazione assolutamente stretta tra segno divinatorio ed enigma. Ciò
viene confermato anche da un'analisi diacroni ca del "genere"
enigma, che nasce proprio all'interno della sfera religiosa della divinazione
con i due ben precisi carat teri dell'ostilità divina nei confronti dell'uomo
e dell'aspet to di sfida a una gara. Lentamente l'enigma si staccherà dal
contesto sacro per dare origine a una sua storia evolutiva, nel corso della
quale attenuerà, pur conservandone traccia, i caratteri iniziali. La storia
deli'enigma è la storia stessa dell'interpretazione intesa come gara, fino ad
approdare al l'idea di interpretazione come confronto dialettico tra due
opinioni opposte. Può essere interessante per il nostro discorso, inteso
a 2.4 n SEGNO COME SFIDA 49 enucleare l'aspetto del segno divinatorio
come dispositivo scatenatore di interpretazione, seguire alcune delle fasi più
salienti dell'evoluzione deli'enigma. Come noto, il primo e più celebre esempio
di apparizione dell'enigma in un contesto sacro è quello presente nel mito
della Sfinge. La creatura mostruosa mandata da Apollo im pone agli abitanti di
Tebe l'enigma sulle tre età dell'uomo. La posta in gara è la vita: chi non
riesce a risolverlo è divo rato dalla Sfinge; chi invece lo risolve - e il
solo Edipo ne è capace - fa precipitare la Sfinge nell'abisso. Ma nella prima
evoluzione deli'enigma, già in età arcai ca, la lotta tra un personaggio
divino e uno umano, si spo sta a quella tra due personaggi umani, che però
conservano ancora un aggancio con la sfera del sacro in quanto sono due
divinatori. Questa fase è illustrata dall'aneddoto di Strabone sulla gara tra
Calcante e Mopso. Calcante propo ne a Mopso di "indovinare" quale è
il numero di frutti che porta un fico selvatico che si trova sul loro cammino.
Mop so dà una risposta estremamente dettagliata ("Sono dieci mila di
numero, la loro misura è un medimno, ma uno di questi fichi è di troppo e non
rientra nella misura") di fron te alla cui esattezza Calcante viene
colpito da un "sonno di morte" (Geogr., VI, 232-235). Di fronte alla
sapienza, ancora di origine divina, dei due personaggi, anche il contenuto
dell'enigma passa in secon do piano, come dimostra la banalità deli'oggetto
che deve essere scoperto. È, del resto, la stessa irrilevanza contenuti stica
che si poteva notare nell'enigma della Sfinge, cosi sproporzionato rispetto ai
rischi mortali che comportava. Tuttavia, nel passaggio ulteriore, quando
l'enigma si umanizza completamente, anche il suo testo assume un as setto
formale elaborato, basato sulla formulazione di una contraddizione che, anziché
non designare niente (come av viene di norma in un caso del genere), designa
altresì qual cosa di reale. Questa forma la si trova nella leggenda ri
guardante la morte di Omero: Omero interrogò il dio per sapere chi fossero i
suoi genitori e quale la sua patria; e il dio così rispose: "L'isola di lo
è patria di 2. LA DIVINAZIONE GRECA tua madre, ed essa ti accoglierà
morto; ma tu guardati dall'e nigma di giovani uomini [. . . ]" . Giunse
ad Io. Qui, seduto su uno scoglio, vide dei pescatori che si avvicinavano alla
riva e chiese loro se avessero qualcosa. Quelli, poiché non avevano pescato
nulla, ma si spidocchiavano, per la mancanza di pesca, cosi risposero:
"Quanto abbiamo preso l'abbiamo lasciato, quanto non abbiamo preso lo
portiamo", alludendo con un enigma al fatto che i pidocchi che avevano
preso li avevano uc cisi e lasciati cadere, e quelli che non avevano preso li
portava no nelle vesti. Omero, non essendo capace di risolvere l'enig ma,
morì per lo scoramento. (Arist., Dept., fr. 8) Nel frammento compaiono ancora
gli elementi dell'enig ma che abbiamo già incontrato: la sfida circa un
oggetto di conoscenza e il rischio mortale per il sapiente che non si di
mostra in grado di risolvere l'enigma; ma in più compare la forma elaborata di
una contraddizione, che da allora sarà tipica di questo genere. Più
precisamente compaiono due coppie di determinazioni contraddittorie
"abbiamo preso - non abbiamo preso" e "abbiamo lasciato -
portiamo", che possono essere così disposte sul quadrato logico: 50
·abbiamo preso· CONTRARI {non abbiamo fasciato = ) ·portiamo· ·non abbiamo
preso'" SUB CONTRARI ·abbiamo fasciato• 2.5 AGONISMO,
DIALETTICA, RETORICA 51 Ciascun singolo termine della prima coppia di contrad
dittori ("abbiamo preso"/"non abbiamo preso") entra in
relazione di congiunzione con un singolo termine della se conda coppia
("abbiamo lasciato"/"portiamo"), ma in mo do diverso da
quello che ci si attenderebbe intuitivamente (cioè "quanto abbiamo preso,
lo portiamo" e "quanto non abbiamo preso, l'abbiamo lasciato").
Invece nell'enigma ri sultano congiunti termini che logicamente sono in opposi
zione contraria: "quanto abbiamo preso, l'abbiamo lascia to" e
"quanto non abbiamo preso, lo portiamo". Eppure l'enigma non è, come
sappiamo, assurdo. Il sapiente, che domina la ragione, deve essere in grado di
sciogliere questo groviglio problematico. Umanizzandosi completamente, l'enigma
mette in evi denza l'aspetto competitivo, di gara per la sapienza, e si sta
bilizza sulla forma della contraddizione apparentemente in solubile.
L'ulteriore e ultima tappa di questa evoluzione conduce, secondo l'ipotesi di
Colli (1975), alla nascita della dialet tica. 2.5 Agonismo, dialettica,
retorica La dialettica, nel senso antico del termine, nasce infatti sul terreno
stesso dell'agonismo: essa si presenta come di scussione tra due persone su un
qualsiasi argomento cono scitivo; su questo campo comune si instaura una gara
desti nata a far emergere un vincitore. L'andamento generale della discussione
segue questo schema (Arist., Top.): inizialmente, lo sfidante propone una
domanda in forma alternativa, presentando i due corni di una contraddizione.
L'avversario sceglie uno dei due cor· ni e ne sostiene la verità. A questo
punto lo sfidante deve dimostrare come vera l'altra alternativa e cosi
confutare l'affermazione dell'avversario. Naturalmente il procedi mento può
richiedere anche una serie molto lunga e artico lata di successive domande e
risposte, miranti, in maniera diretta o, per lo più, indiretta, alla
dimostrazione. LA DIVINAZIONE GRECA Al suo nascere, però, il linguaggio
dialettico è limitato a un ambiente ristretto e in qualche modo elitario. l)ccisi
vi cambiamenti sono, tuttavia, destinati a verificar si con l'accrescersi
della cultura ad Atene e con il definitivo affermarsi del regime democratico;
infatti le forme della dialettica entrano nella sfera pubblica e si connettono
con il mondo politico. Così la discussione si allarga indefinita mente e la
dialettica, in una sua forma in qualche modo adulterata, si trasforma in
retorica. Dialettica e retorica sono basate entrambe su un forte spirito di
competizione. Tuttavia ciò che le distingue è che, nella prima, non c'è bisogno
di un giudice per assegnare la palma della vittoria a uno dei due contendenti:
la vittoria di uno dei partecipanti risulta dalla discussione stessa, in
quanto, durante lo sviluppo del dibattito, l'avversario ha contraddetto la tesi
che prima affermava. Nel caso della re torica, invece, l'agonismo è molto più
diretto e acceso, in quanto saranno gli ascoltatori a giudicare quale è stato
il migliore discorso; manca nella retorica una sanzione intrin seca (come c'è
nella dialettica) e per questo deve aggiungere un elemento emozionale, legato
all'intento persuasivo. 2.6 Divinazione e interpretazione persuasiva Il
processo evolutivo che abbiamo descritto è iniziato con il segno divinatorio
come sfida conoscitiva posta dal dio al l'uomo ed è approdato, nel punto del
suo massimo allonta namento, alla competizione conoscitiva della dialettica e
della retorica. Ma proprio a questo punto il cerchio sembra chiudersi tornando
al punto iniziale, con l'introduzione, ali'interno della divinazione stessa,
dei metodi della discussione dialet tico-retorica. È molto indicativo, a
questo proposito, un passo di Ero doto, in cui assistiamo a una sorta di
conciliazione appunto tra la divinazione, con la sua tipica concezione
deterministi ca del mondo, e l'eloquenza politica, legata a una visione mobile
della vita, che sottopone ogni cosa a una incessante 2.6 DIVINAZIONE E
INTERPRETAZIONE PERSUASIVA 53 discussione. Egli infatti narra che gli Ateniesi,
trovandosi di fronte alla minaccia di una invasione persiana, mandarono a Delfi
degli ambasciatori per consultare l'oracolo. Ma, in un primo momento, la Pizia
li affrontò con l'annuncio di gravissime sciagure. Costernati, senza però darsi
per vinti, gli Ateniesi sollecitarono una seconda consultazione, im plorando
un responso più favorevole e stabilendo di non muoversi più dall'oracolo fino a
che non l'avessero ottenu to. La Pizia accettò di emettere un secondo
responso: Zeus concede a Tritogenia (Atena) che solo un muro di legno sia
inespugnabile, il quale salverà te e i tuoi figli. Non aspettare, inerte, la
cavalleria e le forze di terra che arrivano in massa dal continente, ma
ritìrati, volgi le spalle; verrà il giorno in cui po trai tenere testa. O
divina Salamina, farai perire figli di donne, o quando si semina o quando si
raccoglie il frutto di Demetra. (Herod., Hist., VII, 141) Il racconto d i
Erodoto mostra chiaramente come i l segno divinatorio, il responso oracolare,
innanzitutto non venga accolto con atteggiamento fatalistico. l messaggeri non
si accontentano del primo responso, ma sfidano a loro volta il dio, minacciando
di non muoversi dal santuario fintanto ché non abbiano indotto il dio a
mitigare il suo atteggia mento ostile. Ma, ciò che è più interessante, il
testo erodo teo mostra bene come il segno oracolare sia sottoposto a una
discussione. Infatti i messaggeri, una volta ottenuta la risposta, la
trascrivono e ripartono alla volta di Atene per riferire il responso
all'Assemblea. La forma della discussione che si svolge davanti aiPAs semblea
è quella tipica della dialettica. Il segno oscuro sca tena un processo
interpretativo che prevede varie possibilità di percorso. Ma, anzitutto,
dialetticamente, si presenta co me una dicotomia tra due soluzioni opposte e
mutualmente escludentisi: (i) ritirarsi sull'acropoli, anticamente fortifica
ta con una palizzata, perché a essa alludeva il dio con l'e spressione
"muro di legno"; (ii) allestire una flotta, perché il dio intende
riferirsi (sma(nein), con quella espressione enigmatica, a una barriera di
navi. 54 2. LA DIVINAZIONE GRECA Ciascun corno della contraddizione è
fatto proprio da un gruppo: (i) "alcuni anziani" (affiancati dai
cresmologi) so stengono il primo termine; (ii) "altri" (tra i quali
compare Temistocle) assumono il secondo. Per ora siamo solo alla presentazione
del problema: è poi necessario sviluppare una dimostrazione che porti a
contraddire una delle due tesi. La discussione segue il secondo corno del
dilemma; è co me se si dicesse: "Ammettiamo che l'interpretazione giusta
sia quella che consiglia di allestire una flotta. Quale con traddizione
comporta questa interpretazione?". I cresmologi fanno notare, a questo
punto, che accettare il secondo corno del dilemma comporta una contraddizione
con quella parte del testo che predice a Salamina di divenire causa della morte
di molti uomini. Accettare la giustezza di questo sottoproblema posto dai
cresmologi comporterebbe l'autoconfutazione della tesi principale. Si è però
nel frattempo verificato uno spostamento del li vello tematico della
discussione: a questo punto, per avere ragione sulla tesi dei cresmologi, è
sufficiente dimostrare in.. fondata la loro obiezione. È appunto quello che fa
Temistocle, negando che l'obie zione dei cresmologi comporti una reale
contraddizione. E anche in questo caso il ragionamento procede per assurdo e
prende in considerazione una questione di prospettiva: se infatti avessero
ragione gli avversari con il dire che Salami na (metonimia per "battaglia
con la flotta") avrebbe causa to morte agli Ateniesi, e se anche questa
seconda parte della profezia fosse rivolta, come la prima, ancora agli
Ateniesi, il dio non avrebbe attribuito all'isola l'epiteto di
"divina", ma di "sventurata". In altre parole, c'è
contraddizione tra l'epiteto "divina" usato per Salamina e
la morte degli Ate niesi. Dunque questa seconda parte del responso,
contenen te una predizione di morte, deve essere intesa come rivolta ai
nemici. Non sfuggirà che in questa seconda fase della discussione il metodo
dialettico va impercettibilmente sfumando in quello più propriamente retorico.
Conclusivamente Temistocle propone una interpretazio ne che tende più a
persuadere in positivo della validità del 2.6 DIVINAZIONE E
INTERPRETAZIONE PERSUASIVA 55 proprio ragionamento che non a dimostrare la
falsità della tesi fondamentale degli avversari. Infine interviene il giudi
zio dell'uditorio, elemento fondamentale appunto del di scorso retorico, per
sancire la vittoria di uno dei due con tendenti. Il testo dice che gli
Ateniesi "giudicarono preferì bile (hairetbtera)" la spiegazione di
Temistocle rispetto a quella dei cresmologi. Al discreto della logica binaria
del l'alternativa dialettica, succede il continuo della logica gra duata del
preferibile. La discussione può aver fatto perdere di vista che oggetto di
dibattito è un vaticinio del dio di Delfi. Ma non a caso. La logica, appunto,
che viene fatta intervenire neli'interpre tazione del responso divinatorio è
esattamente la stessa che guida le assemblee politiche. E del resto non è senza
significato il fatto che in questo contesto gli avversari di Temistocle siano
dei "cresmologi", cioè interpreti specializzati dei responsi divini,
ed è notevole che essi risultino sconfitti: è la conferma paradigmatica di come
nella Grecia della polis sia la razionalità politica a im porre i suoi metodi
alla divinazione e non viceversa. In definitiva, il carattere di oscurità
attribuito al segno divinatorio rende un ottimo servigio ali'orientamento fon
damentalmente orale e dialettico della cultura greca: con ferma il segno
stesso come dispositivo scatenatore di inter pretazioni, da sondare con la
procedura del confronto tra discorsi contrapposti. Il segno rinvia a una realtà
altra da sé, nascosta e ambi gua, ma alla quale si può arrivare se ci si
impegna in un confronto tra interpretazioni contrastanti: procedura che, lungi
dali'essere paralizzante, è invece stimolante e produt tiva. In questa
prospettiva il segno divinatorio si allontana da quelle che erano due sue
caratteristiche fondamentali, cioè il primato della visione e la concezione
della verità come ri velazione: la verità come a-ltheia, intesa come caduta
dei veli che la tenevano nascosta (lanthano). 1 3 Nel passo di Erodoto non sono
gli indovini con la loro vi sione panoptica a rivelare il senso nascosto del
segno: esso prende qui luce dalla congettura (che in Erodoto è sempre 56
2. LA DIVINAZIONE GRECA espressa dal verbo symba/10 e dai suoi derivati,
equivalente al più diffuso tekmafroma1). E saranno proprio la congettura e
l'abbandono della vi sione che permetteranno di far evolvere il segno dal
campo della divinazione a quello della scienza vera e propria. SEGNI E PROCESSI
SEMIOSICI NELLA MEDICINA GRECA 3.0 Introduzione Ci siamo finora interessati
dell'ampio e magmatico cam po della divinazione, dove abbiamo visto emergere
le prime pratiche semiosiche, connesse, nella cultura greca, con la nascita
stessa di un pensiero sapienziale. Ci occuperemo ora dell'altra grande area di
manifestazione di un pensiero se mioticamente orientato, che sorge prima e in
maniera indi pendente dalla ricerca filosofica in senso stretto: la medici na
greca. In quest'area, accanto alla presenza fondamentale dei processi
semiosici, si possono registrare anche le prime vere e proprie elaborazioni
teoriche intorno al segno e all'infe renza (Vegetti 1976: 49 ss.). In seguito,
la riflessione semio tica sarà consegnata direttamente alla filosofia e alla
retori ca; ma ampie tracce delle origini rimarranno sia negli esempi che
filosofi e trattatisti di retorica sceglieranno per illustrare il segno (esempi
spesso di carattere medico, talvol ta fisiognomico) sia nella scelta di un
modello di funziona mento logico del segno secondo lo schema "Se p,
allora q", che abbiamo visto operante nella divinazione e che vedremo
trasposto nella medicina con diversi contenuti, ma con eguale forma. A
differenza della divinazione, per la quale disponiamo di testimonianze per lo
più indirette e disorganiche, la medi cina greca può contare su una ricca
documentazione, rap presentata in particolare dal Corpus Hippocraticum, 1
un 58 3. I SEGNI NELLA MEDICINA GRECA insieme abbastanza ampio e vario di
testi (circa un centi naio) in cui si trovano illustrate le pratiche e le
teorie medi che del V e IV secolo a.C. Tali testi non appartengono a un unico
autore, come la tradizione aveva indotto a credere, attribuendoli a Ippocrate,2
né a un'epoca circoscrivibile con la vita di un uomo. Sono invece presenti
all'interno del C.H. opere con diverse finalità ed3esprimenti indirizzi di
versi nel campo del sapere medico. Tuttavia, nonostante la disomogeneità che è
dato riscon trare all'interno del C.H., è possibile vedere nello studio della
medicina del V e IV secolo uno dei più importanti campi di indagine del
pensiero greco, che si affianca sen z'altro alla ricerca filosofica e alla
storiografia coeve e che intrattiene con esse dei rapporti fecondissimi di
interscam bio. È noto il giudizio di Werner Jaeger, secondo cui il pen siero
socratico non sarebbe stato possibile senza le opere ip pocratiche,4 ed è
stato sottolineato il debito che la storio grafia scientifica, inaugurata da
Tucidide nell'ultimo scor cio del V secolo, ha contratto nei confronti della
téchn ip pocratica. Ciò che la medicina aveva da offrire tanto alla filosofia
quanto alla storiografia era un modello di sapere specifica mente semiotico,
articolato sul doppio livello rappresenta to, da una parte, da una solida
struttura formale (il loghi smos, cioè il ragionamento inferenziale, nei suoi
due mo menti abduttivo e deduttivo) e, dall'altra, da un orienta mento di
base empirico.6 Come vedremo meglio in seguito, il segno medico costi tuisce
proprio il prodotto del ragionamento inferenziale ap plicato alla ricorrenza
dei fenomeni, i quali in tanto acquisi scono senso, divenendo segni, in quanto
sono riconducibili appunto al loghismos. 3.1 Ambiguità della prognosi A
differenza del medico moderno, che legge i segni in funzione della diagnosi, il
medico antico elaborava il suo ragionamento in funzione della prognosi. Un
intero trattato 3. l AMBIGmTÀ DELLA PROONOSI 59 del C.H., Ilprognostico,
è specificamente dedicato a questo problema. Eccone il passo iniziale e
programmatico: Quanto al medico, mi sembra che la cosa migliore sia che egli
pratichi la previsione; infatti, con una conoscenza e dichiara zione
preventiva, di fronte ai malati, dei loro casi presenti, pas sati e futuri, e
con una puntuale esposizione di quanto gli infer mi tralasciano di dire, egli
conquisterà maggiore fiducia di po ter conoscere le condizioni dei malati,
così che gli uomini si ri solvano ad affidare se stessi al medico. (cap. 1)7
Dal passo si può osservare che la prognosi non è concepi ta come previsione di
eventi soltanto futuri, ma coinvolge anche elementi di conoscenza che
riguardano sia il presente sia il passato:8 il medico deve avere la capacità di
descrivere anche quei sintomi, o quei fatti in generale, che gli ammala ti
tralasciano di esporre. Dal procedimento descritto nel Prognostico non sono
assenti scopi chiaramente manipola tori: dicendo ciò che sfugge ai malati, il
medico mira ad ac quistare maggiore credito presso di loro per persuaderli ad
affidarsi alle sue cure. È interessante che una procedura che vuole presentarsi
con i crismi della scientificità e dell'obiet tività, si ponga non tanto lo
scopo del rispecchiamento del la realtà (nosologica in questo caso), ma quello
della sua manipolazione. II discorso del medico è fatto, in questo ca so,
anche di "segni efficaci" come uello della retorica in cantatoria di
Gorgia o della magia. Del resto, la formula con il triplice riferimento al
passa to, al presente e al futuro, che non costituisce un caso isola to, ma
ricorre a esempio anche in Epidemie l (come pure, per definire la medicina, nel
Lachete platonico, 198 d), spinge a istituire un parallelo con l'analoga
formula usata per individuare il procedimento divinatorio (Brtescu 1 975: 46) .
1 0 D'altra parte, se per un verso si possono riscontrare ele menti comuni tra
la medicina e la divinazione, per un altro molti degli scritti medici del C.H.
sottolineano esplicita mente e con forza la distanza e i punti di divergenza.
A 60 3. I SEGNI NELLA MEDICINA GRECA esempio l'autore del libro Il regime
nelle malattie acute (cap. 8) polemizza contro le pratiche discordanti dei
cattivi medici, paragonandole alle pratiche di interpretazione divi natoria.
L'attacco sferrato alla divinazione è su base semiotica: il segno divinatorio è
ambiguo, può significare due cose dia metralmente opposte, e perciò è lontano
da quel piano di oggettività al quale aspira la scienza medica. Anche l'autore
del Prorretico II si scaglia contro i cattivi medici criticando le loro
predizioni miracolose, che li rendono simili agli in dovini, e contrappone
orgogliosamente il proprio metodo basato sui segni umani e sulla congettura:
Per parte mia non farò affatto delle divinazioni del genere (ou manteU.somat),
ma scriverò i segni (smeia) attraverso i quali si deve congetturare (tekmafresthat),
tra i malati, quali guariran no e quali moriranno, quali guariranno e quali
moriranno in poco o in molto tempo. (cap. l) L'inferenza divinatoria
(manteuein) è direttamente con trapposta alla congettura (tekmairesthaz). La
violenza con cui i medici polemizzano contro la divinazione e la netta presa di
distanza rispetto a essa è sicuramente indizio del fatto che essi tentavano di
imporre un nuovo e autonomo paradigma epistemologico, una "semiotica
profana"; ma è indizio, anche, del fatto che il rischio di confusione o di
fraintendimento era ancora presente. Sotto certi aspetti la medicina
ippocratica appare effetti vamente come la continuazione di una medicina
preceden te, popolare e antichissima, impostata su basi magiche (Parker 1983:
213 ss.). Certi settori della terminologia de nunciano chiaramente questa
situazione: Pimportanza cen trale, nel C.H., della katharsis
("purificazione") rimanda alle purificazioni magiche dello
iatr6mantis "medico-indo vino" e dei purificatori apollinei come
Epimenide e Bacide; lo stesso termine che indica il medicamento, pharmakon, era
in origine impiegato per indicare ciascuno dei due citta dini di Atene che
regolarmente il 6 di Targelione, o anche in 3.2 MEDICINA E SEMIOTICA
MAGICHE 61 caso di pestilenze, erano sottoposti a osservanze rituali, fla
gellati e scacciati dalla città e forse uccisi, per adempiere a una cerimonia
di purificazione (Lanata 1967: 45). Proprio per questi motivi il tentativo di
autodifferenzia zione dei medici ippocratici rispetto al paradigma magico
doveva assumere toni molto accesi, come ci mostra uno dei trattati più
interessanti del corpus, il Male sacro. Poiché, dal punto di vista della storia
della semiotica, la medicina magica non è meno importante di quella laica,
dedicheremo il prossimo paragrafo a illustrare il suo paradigma. Dopodi ché
esporremo la critica di questo stesso paradigma quale ci viene presentata
dall'autorè del Male sacro. 3.2 Medicina e semiotica magiche Molte fonti
letterarie suggeriscono l'idea di un'origine mitica comune per la divinazione e
per la medicina: entram be le pratiche, infatti, figurano come doni di Apollo
e sono a lui variamente collegate. Così, per esempio, Platone nel Simposio (197
a): "In verità Apollo scoprì l'arte del tiro con l'arco e la medicina e la
divinazione". È molto suggestivo, dal punto di vista semiotico, che le due
pratiche primordiali che inaugurano un sapere basato sui segni, siano avvertite
come originariamente collegate. E un effettivo stretto colle gamento esse lo
trovano nella figura antichissima dello ia tr6mantis, il medico-indovino, che
unisce in sé le facoltà di un veggente e la capacità di curare le malattie.
L'appellati vo iatr6mantis è riferito in prima istanza allo stesso Apollo; ma
passa poi a una serie di personaggi in vario modo legati al dio, che uniscono
al dono della mantica e della medicina, anche quello di effettuare delle
purificazioni. Un elemento fondamentale che caratterizza la figura del lo
iatr6mantis è la sua capacità di usare una procedura dia gnostica: trattandosi
di un veggente, egli è in grado di indi viduare la causa nascosta di una
malattia, causa che è da at tribuirsi sempre a un intervento soprannaturale.
In epoca antichissima la malattia è concepita infatti come miasma, come
contaminazione, dovuta a un contatto con un'entità 62 3. I SEGNI NELLA
MEDICINA GRECA divina o demonica. 1 1 Per questa ragione c'è bisogno di un
medico-indovino, in grado di leggere i segni che gli rendono accessibile il
mondo delle forze oscure e soprannaturali alle quali è imputato il presente
stato di contaminazione; in se guito alla sua diagnosi, lo iatr6mantis può
indicare gli stru menti magici atti a purificare il miasma. Questa concezione
è ben iliustrata da una notizia di un autore di scuola pitagorica, Alessandro
Poliistore, che cita le Memorie pitagoriche: L'aria (secondo i Pitagorici) è
piena di anime; ed essi le conside rano demoni ed eroi e pensano che siano
essi a inviare agli uo mini i sogni e i segni premonitori (smefa) e le
malattie, e non solo agli uomini, ma anche alle greggi e agli altri animali da
pa scolo; e a questi (demoni ed eroi) sono dirette le cerimonie ca tartiche e
apotropaiche e tutta la mantica e i vaticini e tutto ciò che è di tal genere.12
Sono presenti in questo passo tutti gli elementi di una se miologia sacra
abbinata a una medicina magica. I demoni sono la fonte delle malattie che
affliggono gli uomini; ma, contemporaneamente, sono anche la fonte
dell'informazio ne che concerne il mondo invisibile, inviando agli uomini i
segni (compreso quel particolare tipo di segno che sono i so gni) dai quali si
rende riconoscibile l'origine della malattia. Del resto il circolo comunicativo
si chiude attraverso gli speciali segni che gli uomini sono chiamati a
produrre: i riti catartici e apotropaici. In particolare le cerimonie apotro
paiche sono costituite dalla recita di epOidal, cioè di formu le verbali
incantatorie, ritenute idonee a scongiurare il ma le: si tratta di segni
linguistici che da una parte chiudono il circuito comunicativo con il
soprannaturale, dall'altra sono "efficaci", nel senso che intendono
agire sul mondo e non rispecchiarlo. 3.3 La critica alla magia e alla semiotica
sacra Prenderemo ora in considerazione le critiche rivolte alla 3.3 LA
CRITICA ALLA SEMIOTICA SACRA 63 magia sul piano specificamente semiotico ed
epistemologi co. L'autore del Male sacro si muove sostanzialmente in due
direzioni: l . contrapporre alla nozione di "sacro" quel la di
struttura naturale (phjsis) e di causa razionale (pro phasis); 2. mostrare
l'inconsistenza sul piano logico del ra gionamento sotteso dalle procedure
della medicina magica, apponendovi un tipo di ragionamento inferenziale basato
sul tekmérion (che qui compare già con il senso di "prova", di
"segno sicuro") (cap. l). Ciò che l'autore del trattato vuole
contestare è la conce zione di un'origine divina della malattia; e questo vale
tanto per il "male sacro", cioè l'epilessia, quanto per qualunque
altro tipo di morbo. Sotto accusa è la nozione di "sacro'', come qualcosa
che si riconduce all'intervento divino. In ef fetti, il termine hier6s, anche
se in greco si specializzò molto presto in senso religioso, in origine non
apparteneva alla sfera olimpica, ma era legato a una concezione animistica:
hier6s è tutto quello in cui si rivela una vitalità prodigiosa e magica, e una
malattia è sacra in quanto inviata da una for za soprannaturale. Lo stesso
termine iasthai, "curare" (da cui iatr6s "medico"),
originariamente doveva indicare un curare come "un ristorare, un ridonare
le forze attraverso appropriate operazioni magico-mediche" (Ramat 1962:
20). In effetti, l'idea della malattia come riconducibile a un intervento
diretto "del piano verticale della trascendenza su taluni punti di quello
orizzontale della causalità naturale" (Vegetti 1976: 291) appare mettere
fuori gioco ogni idea di regolarità dei fenomeni ed escludere,
contemporaneamente, la possibilità di controllo su di essi e di previsione. La
no zione di "natura", che l'autore del trattato contrappone a quella
di "sacro", viene a reintrodurre proprio la regolarità nel movimento
di cause ed effetti, rendendo possibile l'im postazione della medicina su basi
scientifiche. Inoltre, se la nozione di phjsis individua la struttura oggettiva
e omoge nea di ricorrenze tra cause ed effetti, quella, correlata, di
pr6phasis (in altri casi aftion, aitle) rimanda al momento della spiegazione
del singolo fenomeno. 64 3. I SEGNI NELLA MEDICINA GRECA 3.4 Le forme di
argomentazione logica e il "tekmérion" Tuttavia il punto di maggior
forza dell'autore del Male sacro rispetto ai suoi avversari consiste nelle
modalità di ar gomentazione logica che adotta: facendo un esplicito ricor so
al tekmrion (''prova", "segno sicuro") egli riesce a indi
viduare delle contraddizioni interne al sistema della medici na magica e a
confutarla. Vediamone subito un esempio: E v'è un 'altra grande prova (méga
tekmrion) che questa non è più divina delle altre malattie; insorge ai
flegmatici per natura, ma non colpisce i biliosi: mentre, se fosse più divina
delle altre, in tutti ugualmente dovrebbe prodursi questa malattia, senza
distinguere tra biliosi e flegmatici. (cap. 2)13 L'argomentazione assume la
forma rigorosa di quello che in seguito sarà chiamato nzodus tollens, cioè
"Se p, allora q; ma non-q; di conseguenza non-p''. In altre parole
l'autore del A-lale sacro ragiona così: "Se questa malattia fosse più
divina delle altre (p}, essa dovrebbe colpire indistintamente tutti (q); ma
questo non si verifica (perché colpisce i flegma tici, ma non i biliosi)
(non-q); ne consegue che essa non è più divina delle altre (non-p)". Si
deve rilevare che l'autore utilizza la non verità del conseguente nel modus
tollens (''che la malattia non colpisce indiscriminatamente tutti") come
segno (teknzérion "segno sicuro", "prova") della non verità
dell'antecedente (''che l'epilessia non è più divina del le altre
malattie"). Naturalmente bisognerà aspettare Aristotele prima che il
nzodus tollens come schema ragionativo venga teorizzato e che venga fornita una
definizione rigorosa di teknzérion. Del resto, spetterà poi agli stoici di dare
un'analisi formale di questo schema argomentativo e di dire che ogni schema
argomentativo deve essere considerato come un segno. È in teressante,
tuttavia, che già l'autore ippocratico leghi l'e spressione tekmrion (che da
Aristotele in poi assumerà ine quivocabilmente il significato di "segno
inconfutabile") con 3.5 LA VISTA E OLI ALTRI SENSI 65 lo schema
inferenziale del modus tollens: logica e semiotica vengono già a trovare un
punto di convergenza e di saldatu ra. Saldatura che con gli stoici sarà
totale. 3.5 La vista e gli altri sensi Tuttavia la contrapposizione tra una
semiologia sacra e una profana non si basa soltanto sulla capacità, che la se
conda possiede, di utilizzare un ragionamento rigoroso e di fare ricorso a
segni che si inquadrino in uno schema logico inferenziale. Come ha mostrato
Lanza (1979: 103), un altro importante elemento di divergenza tra il paradigma
divina torio e quello della medicina ippocratica è dato dal diverso ruolo che
la vista gioca nei processi di conoscenza. Nella divinazione e nella medicina
magica la vista ha una parte fondamentale, in quanto è fonte primaria, e in
qual che modo unica, dell'attività conoscitiva. Non per niente Apollo, dio
della divinazione, è nelle parole di Pindaro co lui che possiede
"l'occhiata che conosce ogni cosa" (Pyth., III, 29): niente infatti è
sottratto alla sua vista nel passato, nel presente e nel futuro; a lui
appartiene il "dominio del tempo". L'uomo può conoscere solo ciò che
contingente mente capita sotto il suo sguardo. Solo l'indovino e il poeta
possiedono una seconda vista, che permette loro di vedere anche ciò che è al di
là delle limitazioni cui sono sottoposti i comuni mortali; per questo spesso i
primi sono ciechi, per essere ricettivi a questa vista; e un'analoga
limitazione delle facoltà percettive si verifica anche nell'attività onirica,
du rante la quale la raccolta di stimoli esterni si attenua fin quasi a
scomparire.14 Tanto nel poeta quanto nell'indovi no, poi, la visione si
tramuta in parola, diventando il segno che supplisce alla mancanza di presenza.
Questa concezione comporta una dipendenza del segno dalla divinità e una di
cotomia tra ciò che è percepibile con la vista e ciò che non lo è. Ma un primo
superamento della dipendenza dalla divi nità per la conoscenza dell'invisibile
si ha nel famoso motto di Anassagora "Vista dell'invisibile è ciò che
appare" (6psis ad/On tà phainomena) (D-K, 59 B 21a). Il fenomeno
viene I SEGNI NELLA MEDICINA GRECA qui a sostituirsi alla divinità. La
vista tuttavia rimane cen trale. Caratteristicamente in un trattato medico
arcaico. Malattie delle donne, al cap. 60, si dice che attraverso il dito il
medico "vedrà" il modo di presentarsi del collo dell'u tero.
Certamente le opere del C.H. procedono sul cammino aperto da Anassagora, ma
contemporaneamente in esse il ruolo della vista perde di importanza nel
processo di cono scenza. Ci sono ragioni specificamente inerenti alla téchn
ippocratica che portano a una svalutazione, o almeno a un ridimensionamento,
del ruolo della vista. Nel trattato L 'ar te si dice esplicitamente che
"delle malattie alcune hanno se de in luoghi non celati alla vista, e non
sono molte, altre in luoghi non aperti alla vista, e sono molte" (cap. 9).
Per giungere alla conoscenza di queste ultime, il medico trae congetture da
segni tattili, uditivi, olfattivi e talvolta persi no gustativi: è attraverso
l'intera gamma della tipologia se gnica che il medico può elaborare la sua
previsione, percor rendo il tempo anche nella dimensione di un passato e di un
futuro che sono nascosti. Non solo, ma avviene che, quan do i segni non si
presentano spontaneamente, il medico giunga a "forzare la natura" per
costringerla a fornire degli indizi (cap. 13). A questo punto è possibile
tentare un riesame dell'oppo sizione visibile/invisibile nel momento in cui
essa passa dal la divinazione, che l'aveva inventata, agli altri ambiti del
sapere. La ritroviamo, a esempio, in ambito giuridico, con l'anti tesi tra
"beni apparenti" e "beni non apparenti" che, secon do la
penetrante analisi di Gernet (1968: tr. it. 399 sgg.), si configura come
opposizione tra i beni materiali (fondiari e patrimoniali soprattutto) che si
possono percepire, e i credi ti in genere, "invisibili" (a esempio,
i crediti nei confronti di un banchiere presso cui si è depositato del denaro).
Poi, nell'ambito strettamente filosofico, l'opposizione assume un carattere
squisitamente antologico, dando vita a una duplicazione dei livelli di realtà.
In Eraclito, a esempio, il "nascosto" costituisce la realtà vera in
contrapposizione all'"apparente", dicotomia di cui si trova chiara
traccia nei 3.6 L'ANALOGIAE LACONGETTURA 67 due frammenti:
"L'armonia che non si vede è superiore a quella manifesta" (D-K, 22 B
54) e "La natura ama nascon dersi" (D-K, 22 B 123). Come si può
osservare, mentre nella divinazione il "visibile" richiamava
apertamente la funzio ne, tutta fisiologica, svolta dali'organo della vista,
una vol ta avvenuta la trasposizione in altri campi questo legame si attenua.
Di fatto scompare quasi del tutto nella scienza, do ve visibile e invisibile
vengono concepiti come due mondi, la cui comunicazione è garantita non dalla
vista, ma dalla congettura. 3.6 L'analogia e la congettura Il carattere
semiotico della rivoluzione effettuata dal pen siero ippocratico è stato messo
in luce da Vegetti (1976), il quale, ponendo in relazione gli scritti dei
medici ippocratici con la cultura scientifica e filosofica del loro tempo, ha
mo strato come essi fossero impegnati in una lotta a favore di un "metodo
semiotico", contro il cosiddetto "procedimento analogico",
tipico della filosofia ionica e di quei medici e intellettuali che a essa in
qualche maniera si richiamavano. In effetti, quella ionica, più che come una
filosofia vera e propria, si caratterizzava come una physiologhla, cioè una
indagine sulla natura (phjsis), e come ricerca di un suo principio (arch). La
natura dei filosofi ionici è in sostanza il mondo quale si manifesta
all'osservatore, ma presenta un duplice aspet to: esso è, contemporaneamente,
molteplice, perché si com pone di una infinità di fenomeni, e unitario, in
quanto cia scun fenomeno manifesta lo stesso principio rintracciabile in ogni
altro frammento del reale. L'unico procedimento conoscitivo, in questo quadro,
è l'analogia: di fronte a qualsiasi fenomeno, si tratta di riper correre il
cammino della phjsis che porta, per via analogi ca, dal singolo fenomeno
all'arch. Dal punto di vista se- miotico, la filosofia ionica ragiona come se
qualsiasi tipo di modalità di produzione segnica fosse ridotto al solo metodo
del riconoscimento di campioni: un frammento sta costan- 68 3. I SEGNI
NELLA MEDICINA GRECA temente per una totalità che è a esso completamente omoge
nea (Eco 1975: 296; 1984: 48). Un paradigma diverso è quello che si impone a
partire da Alcmeone di Crotone proprio con la proposta del principio semiotico
della congettura: Delle cose invisibili e delle cose visibili solo gli dci
hanno cono scenza certa; gli uomini possono soltanto congetturare (lekmaf
resthal). (Diog.Lart.,VIII,83== D-K,24Bl) Mentre per i filosofi ionici e per la
medicina dei postulati c'era continuità tra i principi della natura, i suoi
fenomeni e l'osservatore stesso di quei fenomeni, con lcmeone nasce una
frattura profonda tra l'uomo e la realtà. Il mondo del l'esperienza non si dà
a conoscere spontaneamente, non è più trasparente. Proprio sulla frattura
inaugurata da Alc meone si impernia il metodo semiotico. Essa conduce alla
necessità di sostituire il procedimento dell'analogia con uno basato
sull'indizio: la conoscenza umana assume per princi pio il tekmafresthai, il
procedere per indizi e congetture. Ciò che la medicina ippocratica svilupperà,
e che è ancora assente in Alcmeone, è l'inquadramento del metodo conget turale
in una struttura logica compiuta. 3.7 Metodo analogico e metodo semiotico A
questo punto è possibile domandarsi quale forma assu ma la metodologia della
ricerca congetturale nei trattati ip pocratici. Una prima risposta a questa
domanda può essere cercata attraverso un'analisi della polen1ica che, a questo
proposito, ha opposto Regenbogen (1930) a Diller (1932) nella prima metà di
questo secolo. In questa polemica ritro viamo una contrapposizione tra
"metodo semiotico" e "me todo analogico"; ma in un senso
sensibilmente diverso da quello esaminato finora, in quanto la nozione di
"analogia" era assunta in un senso lato, molto vicino alla nozione se
miotica di "omomatericità".15 3 .7 METODO ANALOGICO E METODO
SEMIOTICO 69 In questo secondo caso la nozione di "analogico" viene
assunta in un senso strettamente tecnico, come istituzione di un parallelismo
tra un fenomeno da spiegare e un altro fenomeno noto, con conseguente
possibilità di inferenza dal secondo al primo. L'inferenza analogica del tipo
de scritto costituisce, secondo Regenbogen, il carattere specifi co della
metodologia di ricerca utilizzata dali'autore del gruppo di trattati Sulla
procreazione, Sulla natura del bam bino, Sulle malattie I V: in questi testi
vengono spesso messi a confronto processi di tipo non osservabile con processi
osservabili e i primi vengono chiariti mediante un'analogia con i secondi, come
si verifica a esempio quando viene isti tuito un parallelo tra lo sviluppo del
feto e quello delle pian te (Littré 1839, VII 528, 22 e sgg.) o quello di un
uccello (Littré 1839, VII 530, 14 e sgg.). L'autore dei trattati si at tiene
di fatto al principio di Anassagora secondo cui ciò che appare permette di
avere una visione anche di ciò che è invi sibile, e applica questo principio
sistematicamente. Il para gone con l'oggetto visibile, su cui si basa
l'analogia, viene visto come una prova deli'oggetto di partenza. Il
procedimento analogico non è limitato ali'ambito me dico-biologico, ma se ne
possono rintracciare esempi chia rissimi in ambito storico. A esempio Erodoto
(Hist., II, 33), quando parla del Nilo, il cui corso, le cui sorgenti e la cui
lunghezza gli sono sconosciuti, sostiene: "a quanto io ri tengo,
congetturando (tekmair6menos) dalle cose note quelle ignote, (il Nilo) muove da
una longitudine eguale a quella da cui muove il Danubio". Il ragionamento
è il se guente: il corso del Danubio è conosciuto dalle sorgenti alla foce, e,
posto sullo stesso meridiano, nella concezione di Erodoto, scorre nella
direzione opposta a quella del Nilo, cioè da nord a sud verso il mar Nero, così
come il Nilo scor re da sud a nord verso il mar Mediterraneo; il Danubio, in
fine, è il fiume maggiore dell'Europa, come pure il Nilo lo è dell'Africa. Dati
questi elementi, si può immaginare il corso del Nilo in analogia con quello del
Danubio. Secondo Diller (1932: 17), tuttavia, l'analogia non riesce a coprire
tutti i casi di inferenza dal visibile all'invisibile, e porta a questo
proposito un certo numero di esempi, tra i 70 3 . I SEGNI NELLA MEDICINA
GRECA quali l'inferenza sperimentale contenuta al cap. 8 del tratta to Le
arie, le acque, i luoghi. L'esperimento vuole dimo strare che le acque che
provengono dalla neve e dai ghiacci, perdono le qualità di leggerezza, di
limpidezza e di dolcez za, mentre conservano quelle di pesantezza e di
torbidezza. L'autore del trattato suggerisce a questo proposito di versa re,
durante l'inverno, dell'acqua in un recipiente e, dopo averla misurata, di
esporla all'aperto per lasciarla gelare. Il giorno seguente va messa di nuovo
al caldo e fatta scioglie re: misurandola, ci si accorgerà che la sua quantità
è molto diminuita. Questa è una prova (tekmrion) del fatto che, gelando,
l'acqua ha lasciato andar via la parte più leggera e delicata e dimostra,
contemporaneamente, la scadente qua· lità dell'acqua proveniente dalla neve e
dai ghiacci. Questo esperimento viene definito tekmrion e si basa sulla istitu
zione di un parallelismo tra due serie di dati di realtà. Ma, giustamente,
Diller mette in dubbio che si tratti an che di un procedimento analogico: in
effetti l'unica analo gia che vi si può istituire è che per una piccola
quantità di una materia (acqua: ghiaccio) valgono le stesse leggi che valgono
per l'elemento nella sua totalità. Si può esprimere quello che avviene
nell'esperimento attraverso la formula "parte : parte = tutto :
tutto"; la vera inferenza consiste nel trarre conclusioni dalla parte sul
tutto. Comunque, per Dil ler, qui siamo di fronte a un tipo di inferenza che
non è ana logica nello stesso senso in cui è analogica l'inferenza che abbiamo
visto in Erodoto, in quanto qui "tutto si svolge al l'interno del
processo che dovrebbe essere spiegato, senza che un processo analogo sia
chiamato in causa" (ibidem, 19). Con un ragionamento non diverso, secondo
Diller, l'au tore del trattato Le arie, le acque, i luoghi sostiene che la
parte più fine e più pura deli'acqua ingerita viene espulsa dall'organismo,
quella che è più densa e più torbida sedi menta: la prova (tekmrion) è data
dall'osservazione di co loro che soffrono di calcoli alla vescica, i quali
espellono un'urina limpidissima, in quanto la parte più densa e torbi da si
condensa appunto in calcoli. Ciò che questi esempi hanno in comune è che
qualcosa di 3 .7 METODO ANALOGICO E METODO SEMIOTICO 7 1 non percepibile
viene spiegato attraverso dei fenomeni per cepibili. Però questi fenomeni non
sono degli analoga di ciò che deve essere spiegato, bensì dei segni: essi
stabiliscono, rispetto al processo che deve essere spiegato, lo stesso rap
porto che c'è tra l'effetto e la causa. Quindi, per Diller, l'in ferenza
semiotica (propriamente: semeiotisch, ibidem, 20, da lui collegata strettamente
al procedimento medico) deve intendersi nel preciso senso (che sarebbe stato
poi quello aristotelico) di inferenza dal conseguente. Ulteriormente per
Diller, mentre l'inferenza analogica rende chiaro il "So sein" di un
processo o di uno stato sconosciuto quella se miotica indizia del suo
"Dasein". Recentemente la problematica è stata ripresa da Lonie
(1981: 79 ss.),16 che ha sottolineato come nei trattati presi in considerazione
dal Regenbogen, ma anche in altri testi del C.H. in generale (a esempio in Le
arie, le acque, i luoghi, cap. 8), sono rintracciabili degli esempi di processi
esplicati vi complessi, che comportano sia una inferenza semiotica (inferire
le cause da fenomeni osservabili), sia una induzio ne analogica. Molto
interessante a questo proposito è il capitolo 12 (= Littré 1839, VII 486, 3
ss.) del trattato Sulla natura del bambino: l'autore stabilisce anzitutto la
teoria (elemento non osservabile) per cui lo sperma, trovandosi nell'ambien te
umido e caldo dell'utero materno, acquisisce una capaci tà di respiro (pneuma)
che si apre una breccia verso l'ester no: esso emette un soffio e, in una
seconda fase, inspira aria fresca attraverso la breccia. Per provare questa
teoria, l'autore ricorre a un'analogia con tre diverse classi di ogget ti, in
cui si verificherebbe lo stesso fenomeno: il legno, le foglie, le sostanze
commestibili. Viene poi descritto il com portamento del legno quando brucia:
esso espelle aria cal da, in corrispondenza del punto in cui è stato tagliato
e, contemporaneamente, attira a sé un altro soffio freddo. L'azione dei due
movimenti contrapposti fa sì che il fumo e il vapore si avvolgano intorno al
legno. Questo fatto viene descritto come un fenomeno osservabile ("noi
vediamo che accade questo"), dal quale viene tratta un'inferenza (eklo
ghismos) circa la causa del fenomeno stesso. Tale inferenza 72 3. I SEGNI
NELLA MEDICINA GRECA assume la forma di un modus tollens "Se non-p, allora
non-q; ma q; perciòp": "Se non ci fosse questo duplice mo vimento
contrapposto, allora il soffio (fumo e vapore) non si avvolgerebbe intorno al
legno, fuoriuscendo" (Littré 1839, VII, 486, 20-21). L'autore passa poi a
illustrare lo stesso tipo di comporta mento negli altri esempi di analoga e
procede quindi alla formulazione di una legge generale per induzione:
"tutte le cose che sono riscaldate emettono un soffio (pneuma) e fanno
entrare un soffio freddo per rimpiazzarlo". Alla fine l'autore sostiene
che i fenomeni descritti devono essere con siderati come "prove
necessarie" della sua affermazione teorica intorno allo sperma. Nel
procedimento conoscitivo messo in scena nell'esem pio precedente possono
essere messi in luce tre diversi ele menti . Anzitutto si ha l'istituzione di
un'analogia tra un fatto non osservabile (il comportamento dello sperma
neli'utero materno) e alcuni fenomeni osservabili. In secondo luogo, c'è una
inferenza semiotica (che è pro priamente quella di cui parlava Diller,
chiamandola "infe renza semeiotica'' e che Lonie chiama "inferenza
causale") consistente nel risalire dal fenomeno osservabile (a esempio
l'emissione di fumo e vapore durante la combustione del le gno) alla sua causa
ovvero alla natura del processo. È inte ressante notare che inferenze di
questo tipo sono molto fre quenti nei trattati considerati e che l'espressione
che designa il fenomeno da cui l'inferenza è tratta è smefon. In terzo luogo,
si ha la formulazione, per induzione, di una legge generale, che è intesa come
valida anche per il pri mo termine (quello da dimostrare) dell'analogia. In
com plesso si può dire che il valore probante dell'analogia consi ste nel
fatto che essa permette di convalidare una proposi zione di partenza (relativa
a fatti non osservabili) mediante il ricorso a proposizioni concernenti fatti
analoghi, ma os servabili, che sono considerati come esempi di una legge va
lida generalmente. Lonie (1981: 85) iliustra i rapporti tra analogia, principio
generale ed enunciazione di partenza con il seguente diagramma: 3.8 LA
SEMIOTICA NEI TRATTATI METODOLOGICI 73 principio generale esemplifica/
tt(",, conferma /// '' /' > analogo illustra asserzione di pertenza 3.8
Il metodo semiotico nei trattati metodologici Nel gruppo di opere del C.H. dove
vengono maggior mente approfonditi gli aspetti teorici della medicina (Antica
medicina, Le arie, le acque, i luoghi, Ilprognostico, Il regi me nelle
malattie acute, Male sacro, Le epidemie l e III e le maggiori opere
chirurgiche) è possibile rintracciare, nel mo do più chiaro, la formulazione
della metodologia/semioti ca, quella appunto a cui si riferiva Diller (1932) e
che Lonie (1981) individua come procedimento di "inferenza causa
le". In questo paragrafo cercherò di approfondire in che co sa consiste
tale metodologia, indipendentemente dagli altri procedimenti che possono
esserle associati, come abbiamo visto che avveniva con l'analogia. Nelle
opere che abbiamo sopra menzionato viene innan zitutto aperto il problema del
significato dei dati di osserva zione.17 Il singolo fenomeno (hékaston), non
essendo più collegato con (né riconducibile a) una presunta unità della natura,
come nella physiologhla, ha bisogno di essere inter pretato, cioè riconnesso a
un sistema di riferimento. È a questo punto che inizia il procedimento
inferenziale, o loghism6s, che è in un primo momento essenzialmente abduttivo:
18 si comincia a ipotizzare che il fenomeno singo lo, che si presenta
ali'osservazione del medico, sia un caso di una qualche regola generale. Si
prova, cioè, a pensare che lo hékaston, di per sé insignificante, possa essere
consi derato come un smeion, un segno che rimanda a un siste- 3. I SEGNI
NELLA MEDICINA GRECA ma, e dal quale riceve senso. Questo primo momento ascen
dente, di costruzione del sistema di riferimento, viene segui to da un secondo
movimento, discendente, di verifica. Se il sistema ipotizzato sia valido e
funzionante, può essere pro vato applicandolo a nuovi e diversi casi: il segno
si trasfor ma così in tekmirion e il metodo diviene deduttivo. Usando lo
schema proposto da Eco (1984: 41) per l'abduzione si po trebbe cosi illustrare
il processo: codice eziologico e/o prognostico: r--, son: h,jksston (singolo
fenomeno) : l risultato l -- 1 r - - -,
l l regola 1 l -----_j l l lL - - -- - 1 .----l L Vegetti
(1976: 49) mette molto bene in luce questo dupli ce movimento
abduttivo-deduttivo della téchnippocratica: "Ciò d'altro canto conferiva
alla funzione dello hékaston, spogliato dai privilegi 'metafisici', una dignità
nuova. Esso infatti era, da un lato, chiamato ad essere segno, smeion,
sull'altro da sé, sul sistema cui, per via di inferenza, era supposto
appartenesse; e dall'altro lato, acquistava il ruolo di 'prova', tekmirion,
sulla validità dell'inferenza stessa, che si misura appunto sulla possibilità
di trovare conferma ___..J 1 l 74 3.9 LA STRUITURA FORMALE DEL SEGNO 75
negli hékasta. Il metodo semeiotico si configurava cosi, per la téchn
ippocratica, come un movimento - 'dialettico' - che procedendo dallo hékaston
posto dall'osservazione (ma è il caso ormai di parlare di 'esperienza' scientifica),
lo tra sforma in smefon, mediante un'inferenza logico-concet tuale
(loghism6s) e poi in prova o tekmrion, per conclude re, se il circolo si fosse
saldato, nella capacità di compren sione e di intervento pratico su sempre
nuovi hékasta". Sicuramente lo schema di riferimento che il medico deve
costruire è un codice, ma di tipo particolare: è infatti pro babilistico. Come
ha messo in evidenza Di Benedetto (1966 e 1986: 132), i testi del C.H. sono
disseminati di espressioni che indicano una tendenza o una probabilità quali
"la mag gior parte", "i più", "molti",
"soprattutto", "spesso", "tal volta" ecc. Questo
non significa che i medici della collezio ne ippocratica non siano impegnati
nella costruzione di si stemi di riferimento costanti e funzionanti
generalmente. Semplicemente la logica del hoi pleistoi ("la maggior par
te") si sostituiva alla logica del ptintes ("tutti"). Del resto,
proprio il carattere probabilistico contraddistingue l'infe renza abduttiva o
ipotetica rispetto a quella strettamente deduttiva. 3.9 La struttura formale
del segno La nozione di smeion ("segno", "sintomo") è una
delle nozioni centrali nei testi del C.H. La struttura formale at traverso la
quale il segno è introdotto è relativamente co stante, in quanto prevede
l'inquadramento in uno schema implicativo del tipo: p-:Jq Dal punto di vista
linguistico, molto spesso p e q sono rap presentate da proposizioni (o da
sequenze di proposizioni), il cui collegamento costituisce un periodo
ipotetico, come possiamo vedere da un brano tratto dal cap. 9 del Progno stico
: 76 3. I SEGNI NELLA MEDICINA GRECA Ma bisogna osservare anche gli altri
sintomi (smefa): se (n) in fatti il malato sembra sopportare favorevolmente il
male, oppu re, oltre a questi, mostra qualche altro dei sintomi salutari, c'è
speranza che il male si risolva in ascesso, sicché l'uomo soprav viva, pur
perdendo le parti annerite del corpo. In questo esempio la prima parte
dell'implicazione è co stituita da una sequenza di due proposizioni
condizionali introdotte da n ("se"), che si riferiscono a dati di
osserva zione (protasi), mentre la seconda parte presenta un perio do
complesso (apodosi) relativo a una previsione medica. Se il riempimento
semantico della protasi con dati di osser vazione, ovvero elenchi di sintomi,
è relativamente costan te, l'apodosi può contenere anche una enunciazione
diagno stica, sebbene ciò avvenga meno frequentemente, data la centralità
della prognosi nella medicina antica.. Inoltre l'a podosi può contenere anche
(e talvolta essere sostituita da) una indicazione terapeutica. 3. 10 Moduli
espressivi arcaici Il modello "Se p, allora q", che serve molto
spesso (a esempio nei trattati tecnico-terapeutici) a introdurre la ma lattia
stessa, è molto antico e può essere messo in relazione agli analoghi moduli di
presentazione della malattia nei trattati medici assiro-babilonesi e in quelli
egiziani.19 Il mo dello implicativo nei testi assiro-babilonesi prevede la pre
senza di una protasi, introdotta da §umma ("se", "nel caso
che"), contenente l'indicazione dei sintomi, seguita da un'a podosi
contenente un'indicazione terapeutica. A esempio: Se il cranio di un uomo ha
una infiammazione, le sue tempie so no afflitte da SA.ZI (?) con turbamento
dei suoi occhi, essendo i suoi occhi affetti da offuscamento, obnubilamento,
disturbo, arrossamento (?), con le vene infiammate (?), e molto pianto, tu devi
tritare in una macina l/3 di ka di lolium (e) spelta mon data, setacciare,
quanto più puoi, e quindi prendere l/3 di kq, impastare in acqua di rose,
radere a sua testa), applicare legando, e non toglierlo per tre giorni.2
3 . l 0 MODULI ESPRESSIVI ARCAICI 77 La struttura implicativa del modulo
assiro-babilonese può essere considerata struttura segnica (anche se non si
parla esplicitamente di segno), con la particolarità che al li vello semantico
è sostituito direttamente il livello praxeolo gico:21 il segno (propriamente,
l'antecedente del condizio nale) suggerisce, senza mediazione, un
comportamento. Questo modulo, comunque, estremamente arcaico, è tal volta
rappresentato anche in alcuni dei trattati tecnico-tera peutici, che sono
anche i più antichi del C.H. : in Malattie II A e nello stato arcaico (A) del
trattato ginecologico Su/le malattie delle donne. Si tratta tuttavia di attestazioni
spora diche, che sono presenti accanto a moduli diversi, centrati sulla
relazione tra sintomatologia e malattia. Un discorso a parte merita il trattato
Sulle affezioni in terne, dove il modulo espressivo di presentazione della ma
lattia assume un carattere del tutto particolare. Esso è infat ti composto di
tre elementi strutturali: (A) una prima pro posizione (o serie di
proposizioni) introdotte da "se", dove è presentato un fenomeno
interno, non visibile, da conside rarsi come "la causa" della
malattia; (B) una seconda serie di proposizioni, introdotte dall'espressione
tade paschei ("tali cose soffre il malato"), nella quale è presentata
la sin tomatologia (i fenomeni rilevabili esternamente); (C) una terza serie
di proposizioni che sono relative alle indicazioni terapeutiche. Avviene molto
spesso che la parte A sia sdop piata in due: At (le cause dirette dei
sintomi); A2 (le cause che hanno prodotto la malattia stessa). Ecco un esempio,
tratto dal cap. 8, dove distinguiamo gli elementi strutturali: (At) Se (in) nel
petto e nelle spalle si produce una rottura, (A2) fatto che si verifica
soprattutto a causa di uno sforzo, (B) ecco i sintomi (tade [...] ptischez):
tosse vivace, espettorazione talvolta sanguinolenta; di solito brividi e febbre;
dolore acuto nel petto e nelle spalle. Il malato ha l'impressione che una
pietra gli pesi sul fianco; i dolori lo trapassano come se lo si bucasse con un
ago. (C) Stando così le cose, lo si farà ingrassare con il latte e subito si
cauterizzeranno il petto e le spalle. (Littré 1839, VII, 186, 3-10) 78 3.
l SEGNI NELLA MEDICINA GRECA Ciò che è interessante di questo modulo dal punto
di vista semiotico è che l'inferenza tra i primi due elementi ("Se A,
allora B") è non abduttiva (cioè dagli effetti alle cause), ma deduttiva.
Ciò significa che l'accento è posto sul sistema, già preliminarmente
ricostruito, delle cause che possono produrre determinati sintomi. Questo è il
punto di vista del trattatista: nella pratica il medico risalirà invece dai
sintomi alle cause. Si deve inoltre notare che Sulle affezioni interne presenta
anche una sezione prognostica (D), collocata tra B e C oppure dopo C: il testo
citato continuava con "In que sto modo il malato sarà molto presto
guarito". Un altro termine di confronto per i moduli della medici na
greca è quello rintracciabile nei testi egiziani. Le formule che questi ultimi
adoperano sono diverse da quelle della medicina assiro-babilonese in quanto
hanno anche una se zione dedicata alla diagnosi. Come Vincenzo Di Benedetto
(1986: 91) ha mostrato, esse potevano essere divise in tre elementi
strutturali: una prima sezione (A), introdotta dalla congiunzione
"se", presenta la sintomatologia come il risul tato di un
esame/visita del medico; una seconda sezione (B), sempre attraverso la messa in
rilievo della parola del medico che fa la diagnosi, enuncia la causa; una terza
sezio ne (C) presenta l'intervento terapeutico del medico. Vedia mo un
esempio tratto dal papiro Ebers (scritto intorno al 1550 a.C.): (A) Se tu
esamini un uomo che soffre al suo stomaco, tutte le parti del suo corpo sono
appesantite come per l'insorgere della stanchezza: tu devi allora mettere la
mano sul suo stomaco e lo trovi a mo' di timpano, in quanto va e viene sotto le
tue mani. (B) Allora tu devi dire "è un'inerzia nel mangiare che non per
mette che egli mangi dell'altro". (C) Allora tu devi preparargli un
rimedio che svuoti (seguono le indicazioni degli ingredienti della ricetta). In
questo caso si ha un andamento abduttivo: la sintoma tologia costituisce il
punto di partenza per ricostruire il qua dro eziologico, cioè una realtà
nascosta che deve essere in terpretata a partire dai dati esterni
disponibili. MODULI ESPRESSIVI ARCAICI 79 Tutti questi moduli, attraverso
i quali si definisce la pre sentazione della sintomatologia medica,
costituiranno una base di riflessione, rimanendo talvolta sullo sfondo, ma più
spesso affiorando negli esempi, quando la filosofia cerche rà di definire la
struttura formale del segno. PLATONE 4.0 Introduzione Platone è il primo
compiuto erede della grande tradizione culturale che lo precede. Nelle sue
opere tale tradizione dà luogo a un'ampia e articolata teoria del linguaggio,
ma non produce, allo stesso tempo, una separata teorìa del segno, come invece
avverrà in Aristotele e in genere nelle scuole fi losofiche successive. Si
possono, però, osservare due fatti: da una parte l'ana lisi dei contesti in
cui Platone usa termini scmiotici permette di ricostruire un can1po teorico di
sfondo abbastanza omo geneo, i cui contorni definiscono il segno; dall'altra
certi aspetti della stessa teoria platonica del linguaggio presenta no un
carattere intrinsecamente semiotico, fatto che non si verificherà nelle teorie
Enguistichc dei filosofi successivi. Esaminiamo separatamentc i due problemi.
4.1 I segni 4. 1 . 1 La comunicazione divina Raccogliendo la tradizione
divinatoria, Platone parla di "segni" in tutti quei contesti in cui
si instaura una comuni cazione tra dei e uomini (Repubblica, 382 e; Timeo, 71
a - 4.1 I SEGNI 81 72 b; Fedro, 244 b-e). In questi casi viene anche
usato il ver bo smafno che, come abbiamo già visto, nell'ambito divi natorio
non indica tanto il "significare", quanto l"'inviare un
segno", vero tramite della comunicazione divina. Tale segno può essere un
testo verbale, come il responso della Pi zia di Delfi, o anche un testo
visivo, come lo sono le imma gini del sogno (Timeo, 71 e), o quelle impresse
nel fegato che funziona come uno specchio (Timeo, 10 b). Il segno può anche
essere rappresentato da un evento na turale, come il volo degli uccelli; ma in
questo caso (che è quello più classico della divinazione tecnica) la comunica
zione è troppo mediata per avere davvero alore e produce più opinione che
conoscenza (Fedro, 244 c). In effetti, il ca so della comunicazione più
efficace con il soprannaturale è quello del "segno demonico" di
Socrate, che si manifesta come una "voce" interna (Fedro, 242 b-e;
Apologia, 31 d) che parla direttamente al destinatario. 4. 1 .2 Il segno come
"impronta nell'anima" In una seconda serie di contesti il segno
appare come im pronta (tjpos), nel preciso senso in cui è un segno l'impron
ta lasciata da un sigillo. Questa accezione è presente nel Teeteto (191 a - 195
b), dove, per la soluzione di problemi epistemologici, viene sviluppata la
metafora dell'anima co me blocco di cera, su cui vanno a imprimersi i segni
prodot ti dalle sensazioni (tOn aisthseon smefa). Questi segni, quando sono
incisi profondamente, costituiscono la base per le elaborazioni della memoria e
per la formazione della retta opinione. In effetti si crea falsa opinione in
tutti quei casi in cui gli uomini si dimostrano incapaci di "assegnare
ciascuna cosa al proprio segno'' (195 a), cioè di far combaciare il segno
impresso nell'anima con la nuova sensazione, in quanto il rapporto che si viene
a stabilire nel rinnovato processo per cettivo è lo stesso che si instaura tra
"copie e originali" (apotypOmata kaì tjpous) (194 b). 82 4.
PLATONE 4.1.3 I segni della scrittura Il tema della memoria, che abbiamo
trovato accennato a proposito dei segni impressi nell'anima nel Teeteto,
ritorna in maniera centrale nel Fedro (274 c - 276 a), quando l'at tenzione di
Platone si focalizza sui segni della scrittura. Nel mito che Socrate racconta,
infatti, i segni alfabetici sono un dono che il dio egizio Theuth offre al re
di Tebe Thamus, invitandolo a diffonderli in tutto l'Egitto perché, secondo il
dio, essi sarebbero stati "una medicina per la sapienza e la memoria"
(Fedro, 274 e). Thamus però non accoglie senza riserve il dono di Theuth,
convinto che i segni della scrittura abbiano un effetto contrario rispetto a
quello previsto dal dio, indebolendo la memoria: gli uomini "fidandosi
dello scritto richiamerebbero le cose alla mente non più dalPin terno di se
stessi, ma dal di fuori, attraverso segni (tjpol) estranei" (Fedro, 275
a). Sviluppando questo concetto, Socrate giunge a una con trapposizione tra
"le parole scritte" e "il discorso scritto nell'anima":
quest'ultimo è "vivente e animato", è scritto con la scienza ed è
capace di selezionare i buoni destinatari; le parole scritte, invece, hanno
solo l'apparenza della vita, ma in realtà sono capaci di dire una sola cosa e
sempre la stessa, al pari delle immagini pittoriche che, se interrogate,
"mantengono un maestoso silenzio"; inoltre si rivolgono in
discriminatamente a tutti. Ma, posto il primato del discorso scritto
nell'anima, si istaura tuttavia una relazione semiotica tra i due termini: come
propone Fedro, le parole scritte possono essere consi derate "un'immagine
(eldolon)" del discorso scritto nell'a nima (276 a); ciò nonostante esse
rimangono segni estrinse ci, capaci solo di "rinfrescare la memoria di
coloro che già sanno" (277 e). Si possono rappresentare questi rapporti se
miotici con un triangolo (cfr. p. 83). La linea tratteggiata indica il fatto
che per Platone le pa role scritte, di per sé, non permettono la vera
conoscenza, che deve essere mediata dal discorso interiore, ma produco no solo
opinione (275 b). 4.1.4 Il segno come inferenza 4.1 I SEGNI discorso
scritto nell'anima 83 immagini { 8 /d lJI B ) parole scrrtte oggetti
della conoscenza Infine, una serie di contesti ci presenta un uso del termine
"segno" (stmeion, in alternanza con tekmrion) come indi cante un
fatto, un evento, uno stato dal quale si può inferi re un altro fatto, evento
o stato secondo il modello già in contrato nella divinazione mesopotamica e
nella medicina greca (p::)q). Nel Teeteto (153 a), a esempio, si dice che il
fatto per cui il movimento e lo sfregamento producono il calore e il fuo co, i
quali a loro volta producono tutte le altre cose, è un se gno sufficiente
(hikanòn stmeion) per argomentare che il moto produce l'essere e il divenire,
mentre la quiete produ ce il non essere e il perire. Negli stessi termini si
parla di se gno nell'Epistola VII (332 c), dove il fatto di avere o meno degli
amici viene presentato come il più grande segno del carattere virtuoso o
vizioso di una persona. Ancora, nel Gorgia (520 d-e) si definisce un bel segno
(ka/òn stmeion) del successo ottenuto il fatto che chi ha reso un servigio ri
ceva un adeguato contraccambio. In tutti questi casi il se gno è espresso da
una proposizione legata da un rapporto implicativo con un'altra proposizione.
Ma, su questa accezione basilare, si innesta l'idea del st- 84 4. PLATONE
mefon come segno che serve a distinguere una certa cosa da tutte le altre. In
un passo del Teeteto (208 c - 209 c) si dice che il segno distintivo del sole,
sufficiente (hikan6n) per co noscerlo, è dato dal fatto che esso è il più
risplendente tra tutti i corpi celesti che girano intorno alla terra. Natural
mente la forma logica sottesa a questa formulazione super ficiale è quella
implicativa ("Se un corpo celeste che gira in torno alla terra è il più
risplendente di tutti, allora esso è il sole"). Ma a questo punto Platone
si interroga sul valore episte mologico della conoscenza attraverso i segni,
chiedendosi se cogliere il segno distintivo di una data cosa (''il segno onde
la cosa di cui si domanda differisce da tutte le altre", 208 c),
significhi cogliere anche la ragione (/6gos) di quella stessa cosa.
L'interrogativo non è di piccola importanza e si può notare che esso riapparirà
in Aristotele sotto forma di ricer ca dei rapporti tra il "segno" e
la "causa" di un fenomeno. E, come farà Aristotele, anche Platone qui
distingue il se gno dalla ragione di conoscenza (/6gos epistms), soste nendo
che il segno contribuisce al formarsi della retta opi nione, ma non della
conoscenza. 4.2 La teoria del linguaggio 4.2. 1 Carattere semiotico della
concezione lingui stica di Platone Nella speculazione successiva a Platone, la
teoria del se gno e quella del linguaggio verranno a costituire due ambiti
completamente separati, che considereranno diversi gli og getti delle
rispettive indagini, chiamandoli con nomi diversi (in Aristotele, a esempio, il
segno linguistico sarà sjmbo lon, e non smefon). Nella filosofia platonica,
invece, que sta divaricazione non si è ancora affermata, ma, al contra rio,
si può notare che la sua teoria linguistica ha un caratte re spiccatamente
semiotico. 4.2 LA TEORIA DEL LINGUAGGIO 85 In generale, nella cultura
greca, il segno è concepito come un elemento percepibile che rimanda a (o
permette di giun gere alla conoscenza di) un elemento che non è manifesto
(adlon, aphanés ecc.); come abbiamo visto, del resto, nel caso della medicina
e, prima ancora, della divinazione, il segno costituisce la mediazione tra il
piano delle cose acces sibili ai sensi e il piano delle cose non accessibili.
Proprio con questi caratteri si presenta il segno linguisti co nei dialoghi
platonici (soprattutto nel Crati/o e nel So/i sta): esso è d/Oma
("rivelazione") di un oggetto non perce pibile (sia esso un
"significato", sia esso l"'essenza" della cosa nominata).
Costantemente il verbo smafno ("signifi co", "manifesto
attraverso segni") si alterna al verbo d/60 (''rivelo",
"manifesto") quando si parla di una forma espressiva che rimanda a un
contenuto che non viene colto con i sensi. Ciò avviene a esempio in un passo
del Crati/o (422 e), nel quale Socrate indaga la capacità che hanno i prO/a
on6mata (gli elementi primi e irriducibili del linguag gio) di rendere
evidenti (phanera) ciascuno degli enti: a que sto proposito li paragona ai
segni gestuali dei muti, che so no capaci di indicare (smalnein) le cose con
le mani, con il capo e con il resto del corpo, pur essendo impossibilitati a
manifestarle (dlot2n) con il linguaggio verbale. A più riprese nel corso del
Crati/o viene affermato il compito semiotico di "rivelazione" (d/Oma)
che hanno gli elementi del linguaggio. Ma Platone distingue la rivelazione
effettuata dai nomi da QUella effettuata dagli enunciati (Lo renz e
Mittelstrass 1967: 8): questi ultimi, infatti, rivelano sempre qualcosa intorno
agli oggetti (Sofista, 262 d), men tre soltanto i nomi "corretti"
rivelano gli oggetti come sono (Crati/o, 422 d). Anzi, è proprio il carattere
di rivelazione che riveste il nome a costituire il suo criterio di correttezza.
Nel Sojzsta (262 a) il nome è definito espressamente "se gno vocale"
(smefon tis phonis), espressione che è usata come equivalente a d/Oma e la cui
funzione è quella di ma nifestare l'"essenza" della cosa nominata:
"lo direi infatti che c'è un duplice genere dei nostri segni fonici (tii
phonii [.. .] dlomaton) che indicano l'essere di qualche cosa" (So- fista,
261 e). 86 4. PLATONE Particolari combinazioni di questi "segni
vocali" danno luogo agli enunciati (/6go1), facendo scattare un livello su
periore. In effetti, nel Sofista viene preso in considerazione il problema che,
in termini aristotelici, sarà descrivibile co me opposizione tra
"semantico" e "apofantico". In Plato ne, questa si
presenta come opposizione tra il livello ono mazein ("nominare") e
il livello légein ("enunciare") (262 d). I singoli segni vocali,
siano essi on6mata ("nomi") o rhimata ("verbi"),
manifestano un contenuto nel momento in cui nominano qualcosa. Le corrette combinazioni
di que sti segni vocali si situano a un diverso livello, perché, oltre a
manifestare un contenuto, lo presentano come "essere il ca so" o
"non essere il caso" di un determinato evento, stato o processo, cioè
ne costituiscono un'asserzione (De Rijk 1986: 199-200). 4.2.2 La teoria
linguistica del "Cratilo" Il problema fondamentale che viene
affrontato nel Crati lo è quello della "correttezza dei nomi". Esso
è posto fin dali'inizio del dialogo al centro di una disputa che oppone Cratilo
a Ermogene e per la quale Socrate è scelto come giu dice. Complessivamente,
nella discussione, Cratilo sostiene una tesi che possiamo definire
"naturalista", mentre Ermo gene una tesi
"convenzionalista"; ma le rispettive posizioni sono più stratificate
e presuppongono alcune distinzioni. Innanzitutto c'è un primo livello di
discorso che riguarda l'atto della nominazione in un momento del linguaggio che
possiamo considerare aurorale. Per Ermogene tale atto è frutto di convenzione e
nasce dali'accordo degli uomini, che già hanno una conoscenza preliminare delle
cose. Per Cratilo, al contrario, l'atto della nominazione non presup pone
alcun accordo tra gli uomini, ma avviene in maniera naturale. Un secondo
livello di discorso è rappresentato dall'analisi dello stesso fenomeno
trascurando il momento diacronico della formazione del linguaggio e
focalizzando il rapporto di correttezza rintracciabile tra il nome e la cosa a
cui esso è 4.2 LA TEORIA DEL LINOUAOOIO 87 applicato sincronicamente. In
questo caso tanto Ermogene quanto Cratilo propongono la stessa soluzione,
sostenendo che i nomi sono sempre correttamente riferiti alle cose. L'u nica
differenza tra le due posizioni consiste nel fatto che per Cratilo la
correttezza dei nomi segue una legge naturale, mentre Ermogene sostiene il
carattere convenzionale delle regole che stabiliscono la correttezza, e adduce
come prova il fatto che i nomi possono essere cambiati a piacere, senza
disturbare tale rapporto. Un terzo livello di discorso, che scaturisce
direttamente dal precedente, è quello che riguarda l'estensione della vali
dità del rapporto di correttezza. Per Cratilo la correttezza del nome è
"universale", vale tanto per i Greci, quanto per i barbari. Per
Ermogene, invece, sembra che tale correttezza debba essere limitata alla
comunità linguistica particolare che ha adottato la convenzione. Si possono
distribuire questi dati su una matrice: Ermogene
Cratilo atto della nomina- zione primordiale frutto di accordo n aturale sempre
presente sempre presente correnezza basata su leggi con- venzionali basata su
leggi naturali validità del rap- porto di correnezza limitata alla comu- nitè
inguistica particolare universale Come abbiamo visto, entrambi i
contendenti danno per scontato il carattere di correttezza dei nomi rispetto
alle co se. Tuttavia ciascuno fornisce una risposta diversa alla do manda su
chi garantisce la correttezza. La legge naturale, 88 4. PLATONE che ne è
responsabile per Cratilo, focalizza il rapporto che si stabilisce tra il nome e
gli oggetti che lo portano, senza che abbia alcuna importanza ciò che gli
utenti del nome ne pensano. Al contrario, la convenzione, che per Ermogene è
garanzia di correttezza del nome, è una regola che riguarda gli utenti del
nome, senza che venga presa in alcuna consi derazione la natura dei portatori
del nome stesso (Kretz mann 1971: 127). 4.2.3 Il problema linguistico e la
dialettica Accanto a quelle di Ermogene e di Cratilo, nel dialogo è presente
anche una terza teoria, sviluppata dallo stesso So crate attraverso la
confutazione delle posizioni dei due con tendenti. Socrate, come al solito, è
portavoce delle opinioni di Platone e le ragioni per cui egli rifiuta entrambe
le altre posizioni sono da connettersi con la concezione generale del metodo
della filosofia che propugna Platone. Infatti, se Cratilo o Ermogene avessero
ragione, la via della dialettica, come mezzo per raggiungere la conoscenza,
risulterebbe impercorribile (Weingartner 1969: 6). Platone prevede il
linguaggio come mezzo necessario nella ricerca fi losofica, ma pensa anche che
la verità vada cercata nelle co se e non nel linguaggio stesso, come suona
appunto la con clusione del dialogo. Le teorie di Ermogene e di Cratilo
mettono entrambe in pericolo questo principio. Vediamo brevemente in quale
modo. La teoria di Ermogene si presenta all'inizio come una teoria
"convenzionalista classica", sostenendo il principio secondo cui la
convenzione e l'accordo costituiscono il cri terio di correttezza dei nomi
(384 c-d). Tuttavia questa non è l'unica posizione che Ermogene sostiene e non
è quella che è effettivamente attaccata da Socrate. Subito dopo Er mogene
sostiene anche che, "qualsiasi nome uno imponga a una cosa, questo è
quello corretto", precisando che, "se uno sostituisce quel nome con
un altro, non usando più il precedente, il secondo nome non è affatto meno
giusto del primo" (384 d). A questo punto Socrate costringe Ermoge-
4.2 LA TEORIA DEL LINGUAGGIO 89 ne a effettuare un cambiamento di
focalizzazione e a preci sare che chiunque può operare questo cambiamento di
no mi, non solo una comunità, ma anche un singolo individuo. Ne risulta una
dottrina degli idioletti autonomi, tanto parcellizzati da coincidere con la
parlata di un solo uomo, che fa scoppiare il convenzionalismo di Ermogene in un
soggettivismo totale; tanto che Socrate non manca di met terlo in parallelo
con il relativismo di Protagora (386 a). Questa "Humpty Dumpty
position", come è stata arguta mente chiamata (Weingartner 1969: 7), fa
perdere al lin guaggio la funzione comunicativa e rende impossibile la
dialettica, in quanto non permette di distinguere tra enun ciati veri ed enunciati
falsi. Tuttavia anche la posizione di Cratilo conduce, altrettan to
perentoriamente, a una impossibilità della dialettica. Egli infatti elabora una
teoria che ha le caratteristiche di un "iconismo assoluto": il nome
rivela la natura della cosa che nomina, imitandola; ma questa imitazione è
totale o è un nonsenso. La configurazione sonora, che si distaccasse an che
per una piccola parte dalla perfezione deli'imitazione, verrebbe a essere
niente di più che "il rumore che fa uno che agita un vaso di bronzo
percuotendolo" (430 a). Poiché per Cratilo la produzione linguistica
sembra dare luogo in certi casi a imitazioni corrette, in certi altri a dei
nonsensi, in entrambe le evenienze la dialettica verrebbe ri dotta a uno
strumento sprovvisto di senso. Se, a esempio, la ricerca dialettica cominciasse
con il chiedersi "Che cos'è la giustizia?" e sperasse di raggiungere,
nel corso del dibattito, la conoscenza dell'entità sotto indagine. Si
presenterebbero allora due possibilità: (i) se l'espressione !giustiziai
rivelasse naturalmente l'oggetto, che nomina, la ricerca finirebbe prima di
cominciare; (ii) se invece essa fosse analoga al "ru more prodotto da un
vaso di bronzo percosso", la domanda stessa non avrebbe senso. La
dialettica, per quanto debba giungere a giudizi veri, deve avere la possibilità
di enunciare giudi.zi falsi, che devono essere corretti nel corso del dibatti
to. Ed è appunto questa possibilità che viene eliminata dalla teoria di
Cratilo. 90 4. PLATONE 4 . 2 . 4 Il nome come strumento Uno dei punti
fondamentali del dialogo platonico è costi tuito dalla ricerca di un criterio
oggettivo che permetta di assegnare un valore di verità tanto agli enunciati
quanto ai nomi. Per raggiungere adeguatamente questo scopo, Socra te sposta
temporaneamente il discorso dal piano linguistico a quello ontologico,
affermando che le cose (pragmata) hanno in loro stesse una stabile essenza e
non dipendono dal giudizio soggettivo (386 e). Una tale caratteristica di
oggettività è attribuita da Socra te anche alle azioni (praxeis), che al pari
delle cose (pragma ta) sono delle specie di enti (onta). Infatti, dal momento
che ci aspettiamo che le azioni abbiano certi effetti, esse non possono essere
compiute arbitrariamente. Ma, per Socrate, anche il dire (légein) e il
denominare (onomazein, che è una parte del dire), costituiscono delle forme di
azione e, di con seguenza, devono essere compiute in maniera non arbitra ria.
Possiamo illustrare questa serie di divisioni attraverso il seguente schema:
enti (6nts) cose (pr8gmsta) l ""azioni (prAxtJis) /\ dire (/(lgein)
/\ Nel resto del dialogo l'intuizione che il dire e il denomi nare
costituiscono delle specie di azioni non verrà ulterior mente sviluppata, ma
rimane comunque una importante in dicazione di una possibilità di sviiuppo in
senso pragmatico che avrebbe potuto avere la linguistica greca. In questo
contesto, lo scopo di mostrare che il linguaggio ha un legame oggettivo con la
realtà, commisurato con il fi- denominare (onomAzein) 4.2 LA TEORIA DEL
LINGUAGGIO 91 ne di raggiungere una comunicazione efficace, è perseguito
attraverso il paragone del nome con uno strumento (orga non): proprio come la
spola serve a sceverare la trama del tessuto, così il nome è "uno
strumento didascalico e sceve rativo dell'essenza" (388 c). In altre
parole, in primo luogo, i nomi operano una tassonomia della realtà, separando
gli oggetti del reale, in maniera tale da rispettare le loro nature (Kretzmann
1971: 128); in secondo luogo i nomi permetto no di comunicare questa tassonomia.
4.2.5 Forma ("eldos") e materia del nome Se lo scopo dei nomi è
quello di far acquisire la conoscen za delle cose e di comunicarla agli altri,
è necessario che chi ha denominato la realtà (il "nomoteta",
personificazione di un'autorità linguistica accettata), categorizzandola in una
certa maniera, già ne possedesse una conoscenza prelimi nare. In effetti, per
garantire la correttezza dei nomi, il nomo teta ha agito come il costruttore
di spole. Come quest'ulti mo guarda ali'eidos ("forma", "idea")
della spola, così il nomoteta, per costruire il nome, guarda al "nome in
sé", cioè alla forma ideale del nome (389 b; 390 a). Allo stesso titolo,
come non ogni materiale è adatto alla costruzione di uno strumento, ma è
necessario usare la ma teria che meglio si adatta alla forma (a esempio il
ferro per il trapano e il legno per la spola, e non viceversa), ugual mente
sarà necessario che i nomi siano costruiti con suoni e sillabe, piuttosto che
con altro materiale, se devono com piere bene la loro funzione. Tuttavia non
sarà necessario che la forma fonica (direm mo: di superficie) dei nomi sia
identica per tutte le lingue, ma ciascuna lingua suddividerà in modo diverso il
conti nuum sonoro (nello stesso modo in cui non ogni fabbro adopera lo stesso
ferro per lo stesso strumento atto allo stesso scopo) (389 e). In questo modo
Platone spiega la di versità delle lingue, le quali pure, indistintamente,
sono or ganizzate in maniera da rispettare i medesimi modelli. Ciò 92 4.
PLATONE che varia da lingua a lingua è la materia, da interpretarsi co me la
configurazione superficiale di nomi e di sillabe che as sume ciascun nome. Ciò
che rimane costante è laforma (eidos, idéa) del nome che conviene a ciascuna
cosa (390 a). Un modo di pensare a questa forma è quello proposto
dali'interpretazione di Kretzmann, che la identifica con la funzio ne e lo
scopo essenziali a ciascun nome, di separare le cose e di separarle in maniera
da rispettare le loro giunture natura li. In questo modo, a esempio, il nome
greco l hippos l o quelli barbari lchevall, lcavallol, lborsel, lPferdl ecc.
saranno tutti corretti se riusciranno a ritagliare la realtà se condo le
"naturali" giunture; e sembrerebbe esserci il pre supposto che tali
giunture debbano essere le stesse per tutte le culture. Come si vede, Platone
qui sta affrontando una questione che potremmo definire
"hjelmsleviana",1 e così potremmo parlare, più che di funzione, come
fa Kretzmann, di forma e sostanza, di espressione e contenuto, come fa
Hjelmslev: la forma espressiva (la materia di Platone) può variare da lingua a
lingua; ma, affinché il nome sia quello giusto, è ne cessario che la forma del
contenuto (l'eidos o idéa di Plato ne) ritagli la materia del contenuto
secondo le medesime ar ticolazioni. Cosi l hippos l, l cheval l, l cavallo l,
l borse l, l Pferd l saranno tutti nomi giusti se ritaglieranno il conti nuum
materiale del contenuto ("la cavallinità, all'interno dello spettro
relativo agli animali) esattamente secondo le stesse giunture. Che poi l'elaborazione
dei nomi debba essere messa in corrispondenza con una corretta tassonomia del
continuum della realtà, da effettuarsi verosimilmente con il metodo della
divisione (diairesis), è dimostrato dal fatto che spetta al dialettico,
personificazione dell'autorità scientifica e filo sofica, giudicare se il
lavoro dei vari nomoteti è stato fatto bene (390 d). LA TEORIA DEL
LINGUAGGIO 93 4.2.6 La prima teoria semantica Seguendo l'interpretazione di
Donatella Di Cesare (1981) si possono rintracciare nel Crati/o due diverse
teorie seman tiche, che si riferiscono, la prima a una situazione di lin
guaggio ideale, e la seconda a una situazione di linguaggio come realtà
storicamente data. Esaminiamo brevemente la prima. A un certo punto del dialogo
(393 d), infatti, Socrate so stiene che ciò che è veramente importante per il
nome è di significare (smalnein) l'essenza della cosa (ousfa tofl prag matos),
la quale viene chiaramente espressa (dJoumén) dal nome. Una volta che il nome
esprime l'essenza della co sa, non ha nessuna importanza se vengono aggiunte o
tolte delle lettere al nome. L'esempio che viene portato è quello del nome di
una let tera dell'alfabeto, il bita: esso nomina la lettera l b l, ma a essa
aggiunge ita (lel), tau (ltl) e alpha (lal); nonostante queste aggiunte, esso
nomina correttamente il l b l, in quan to fa comparire il "valore"
della lettera che doveva essere nominata. Un analogo ragionamento vale per
tutti i nomi: essi sono corretti se nominano l'essenza della cosa di cui so no
nomi. Il significato è, dunque, identificato con questa essenza della cosa. Più
avanti (394 b-e) Socrate introduce un altro concetto, quello di djnamis
("valore"), che sembra anch'esso identifi carsi con il significato.
Infatti egli sostiene che chi è vera mente pratico di nomi guarda al loro
valore (djnamis), non lasciandosi sviare né da aggiunte né da trasposizioni di
let tere. Cosi i nomi Astyanax ("Astianatte" = "signore della
città") e Héktor (''Ettore" = "che tiene saldo"), pur
avendo in comune solo la lettera l t l, significano la stessa cosa (tau tòn
smalne1). Dunque il significato del nome è dato da entrambi gli ele menti,
l'essenza della cosa nominata e la djnamis del nome: essi di fatto coincidono,
in quanto il nome, attraverso il suo significato, deve esprimere la cosa che
nomina. Si possono illustrare i rapporti tra nome, significato e cosa con il se
guente triangolo: 4. PLATONE essenza della cosa = In effetti, come l03),
per Platone il nome non "rispecchia" la cosa, ma solo la sua essenza,
ed è questa la ragione per cui possono esserci nomi diversi per lo stesso
oggetto. Del resto, per rispecchia re l'essenza della cosa, il nome deve
"associare l'individuo al genere cui appartiene" (ibidem); fatto che
corrisponde a quanto avevano sottolineato Lorenz e Mittelstrass (1967: 6- 8),
con la loro attribuzione di una funzione predicativa al nome. Il significato
specifico del nome, la sua dynamis, consiste allora neli'assegnare ciascuno
degli oggetti al con cetto appropriato, o al genere che gli compete. Ed è
rispetto a questa operazione che si può valutare oggettivamente la correttezza
o meno del nome. Se ci soffermiamo a considerare i risultati della teoria del
significato esposta nella prima parte del dialogo, vediamo che tutta la
dimostrazione di Socrate è rivolta a mostrare la coincidenza della struttura
linguistica con quella logico-on tologica: il linguaggio, attraverso i nomi,
ritaglia il reale se condo le stesse giunture che quest'ultimo naturalmente
pre senta. Così, imitando e rappresentando la struttura della realtà, il
linguaggio costituisce una mediazione tra il mondo delle idee e quello
sensibile. Del resto il nome rappresenta il genere stesso che può essere
predicato di ciascuna cosa e che, inafferrabile in natura, si concretizza nella
materia fo nica. dynamis nome cosa sottolinea Donatella Di Cesare ( 1 98
1 : 94 4.2 LA TEORIA DEL LINGUAGGIO 95 Tuttavia, come dicevamo,
l'identità descritta nella prima parte del dialogo non costituisce per Platone
un dato di fat to, ma un obiettivo ideale. Infatti dalla parte finale del dia
logo, che segue la digressione etimologica scaturirà una se conda e ben
diversa teoria semantica. 4.2.7 La seconda teoria semantica In effetti,
l'analisi etimologica svolta da Socrate nella parte centrale del dialogo, e la
congiunta riflessione sull'ori gine del linguaggio, erano state intraprese per
dimostrare la sostanziale identità tra la struttura linguistica e quella anto
logica, in generale, e tra l'essenza dell'oggetto e la djnamis, in particolare.
Ma il risultato a cui esse approdano è esatta mente l'op,posto: il linguaggio
non rispecchia la struttura oggettiva del reale, ma piuttosto è espressione
dell'idea che del reale si è formato il nomoteta. Il significato, dunque, viene
a essere identificato con la rappresentazione del reale che si forma nel
soggetto (Di Ce sare 1981 : 131), rappresentazione che è il risultato delle
opi nioni, sensazioni, impressioni che vengono esercitate sul soggetto dagli
oggetti della realtà. Pagliara (1956 a: 73) ave va del resto individuato
questo passaggio da una prima a una seconda teoria semantica come analisi di
due aspetti di stinti del fatto linguistico: (i) il rapporto tra il
significante e l'oggetto, nella prima parte del dialogo; (ii) il rapporto tra
il significante e il significato, nella seconda. In base alla seconda teoria,
il triangolo che illustra i rap porti tra nome, significato e cosa dovrebbe
avere una parti colare struttura (cfr. p. 96). Il linguaggio, dunque, non
rispecchia il mondo delleidee, cioè l'essenza delle cose, ma piuttosto il mondo
empirico: esso costituisce una realtà storica, che contiene la visione del
mondo che avevano i primi nomoteti, quando tentarono di dare un ordine al
reale, classificandolo e categorizzando lo, proprio servendosi dei nomi come
"strumenti sceverati vi". Ciò non esclude, tuttavia, che si potrebbe
arrivare a un adeguato rispecchiamento della realtà mediante il linguag-
96 4. PLATONE rappresentazione soggettiva = significato nome gio, qualora si
raggiungesse una completa conoscenza delle cose. Di particolare interesse
risulta poi il fatto che è prevista una precisa funzione mediatrice dell'anima,
grazie alla qua le la teoria platonica si avvicina a quelle moderne, in cui il
linguaggio viene riconosciuto come fatto psichico. Platone raccoglie qui
l'eredità dei sofisti, che unici tra i filosofi pre cedenti avevano insistito
sulla dimensione psichica del lin guaggio, in contrapposizione a quanti
prevedevano la possi bilità per il reale di essere rispecchiato nel linguaggio
in ma niera diretta e senza mediazione. 4.2.8 La mimesi La prima parte del
dialogo era stata dedicata alla confu tazione della teoria convenzionalista.
L'ultima parte è inve ce dedicata alla confutazione della teoria del
rispecchiamen to sostenuta da Cratilo. Già la sezione centrale, dedicata al
l'etimologia, ha portato alla conclusione che il linguaggio costituisce una
rappresentazione soggettiva, fatto che, di per sé, contraddice la tesi di
Cratilo. Tuttavia Socrate, per condurre ancora di più all'assurdo la tesi di
quest'ultimo, solleva il problema della mimesi, proponendo provvisoria mente
una definizione del nome come "imitazione con voce cosa
4.2 LA TEORIA DEL LINGUAGGIO 97 di cosa che si imita; e colui che imita nomina
con la voce ciò che imita" (423 b-e). Quel che è interessante è che anche
l'imitazione sembra avere, in linea generale, un carattere semiotico: infatti
l'imi tazione "svela" (dloi) l'essenza della cosa. Ma quello di
imitazione non è un concetto pacifico e So crate lo indaga in tre diversi
ambiti: (i) nel ritratto; (ii) nel caso dei doppi; (iii) nel caso del
rispecchiamento "metafisi ca". Esaminiamo il primo caso. Tanto il
ritratto quanto il nome possono essere messi a confronto con l'oggetto che
imitano. Per Socrate si verifica allora il fenomeno per cui certi elementi
presenti nell'origi nale possono risultare trascurati, come pure elementi
assen ti possono risultare aggiunti. La copia ha dunque un carat tere di
iconicità, ma presenta variazioni all'interno di un continuum. Questo, per
Socrate, è lo stesso fenomeno che presentano i nomi, fatto che equivale a
sottolineare il loro carattere segnico. Ma Cratilo non è della stessa opinione,
in quanto pensa che i nomi debbano avere un carattere di so miglianza
assoluta, in mancanza della quale non sono affat to tali. Ecco in schema le
due posizioni: Socrate Cratilo rapporto
..nome/oggetto• iconico icon ico carattere della mimesi continuo discreto
A questo punto Socrate introduce l'argomento del dop pio: se nella
mimesi tutti i caratteri deli'originale venissero riprodotti, non si avrebbe
una imitazione, ma una occor- 98 4. PLATONE renza identica dello stesso
oggetto. Non si sarebbe dunque in presenza di un rapporto di rappresentazione,
ma di un vero e proprio doppio, in una situazione in cui è impossibile
stabilire quale è il rappresentante e quale il rappresentato. In altre parole,
il nome possiede un carattere segnico pro prio in virtù di questa sua
dissimiglianza rispetto all'oggetto cui rimanda. Il terzo caso considerato, che
abbiamo definito come "ri specchiamento metafisico", pone in primo
piano il tema dell'imitazione che il singolo suono compie di un singolo
frammento della struttura del reale. La parola sklrots, che significa
"durezza",ontrariamente a quanto ci aspette remmo se i suoni
rispecchiassero in tutto le essenze delle co se, contiene al suo interno un
/ambda ( I I I ), che esprime "mollezza" e "scivolosità".
Dunque la parola imita la "du rezza" solo in parte, mentre in parte
se ne discosta. Con ul teriori esempi, poi, Socrate mira a negare anche
un'altra ipotesi, più fondamentale filosoficamente: quella secondo cui nel
linguaggio venga rispecchiata la veduta eraclitea del la realtà come eterno
flusso e movimento (41 1 c; 436 e); ciò infatti non si verifica perché, come
sottolinea Socrate, nel linguaggio molte voci lessicali presentano la realtà
come perfettamente immobile (437 c). 4.2.9 L'uso e la convenzione Dalle critiche
che Socrate muove, soprattutto a Cratilo, scaturisce una proposta positiva. Avendo
infatti osservato che il nome sklrots (''durezza") è inesatto, in quanto
con tiene nel suo significante elementi che non corrispondono alla qualità
della cosa designata, Socrate osserva anche che, nonostante ciò, esso adempie
perfettamente alla sua funzio ne comunicativa: infatti i Greci si intendono
quando tale nome viene usato. La responsabilità di questa comprensione è
attribuita da Socrate ai due fenomeni dell'uso (éthos) e della convenzio ne
(xynthk): questi fenomeni non circoscrivono soltanto un rapporto tra i due
utenti del nome, ma si rintracciano 4.3 TEORIA LINGUISTICA DELL'«EPISTOLA
Vll» 99 anche a livello delle relazioni tra il nome e l'oggetto, cioè al
livello denotativo (Kretzmann 1971: 138). L'idea che il no me sia
"rivelazione" (d/Oma) dell'oggetto denotato non viene abbandonata, ma
viene solo spostata la responsabilità di questa rivelazione dal rapporto di
somiglianza tra i due termini, alla convenzione che li associa (435 a-b).
Platone, tuttavia, non sostituisce semplicemente una con cezione
convenzionalista a una in cui la semiosi avviene per somiglianza. Per lui la
situazione ideale rimane quella in cui i nomi sono immagini che riproducono
l'essenza degli og getti nominati; ma sono i limiti del linguaggio naturale
che rendono necessario il ricorso all'accordo (435 b-e). Questo è del resto il
punto in cui i commentatori hanno scorto un compromesso tra il convenzionalismo
di Ermogene e il na turalismo di Cratilo. Nella chiusura del dialogo si deve
rilevare anche uno spo stamento nella funzione assegnata al segno linguistico:
c'è una accentuazione della funzione comunicativa a scapito di quella
cognitiva. Il linguaggio non è uno strumento abba stanza valido per la
conoscenza della realtà, per raggiungere la quale sarà necessario percorrere
una via più diretta: quel la del ricorso alle cose stesse (439 b). Esso però
si configura come un ottimo strumento per il buono svolgersi della co
municazione interoggettiva. 4.3 La teoria linguistica deii'"Epistola
VII" Un'interessante trattazione degli elementi coinvolti in una teoria
del significato la si può trovare nell'Epistola VII, un testo attribuito a
Platone, ma la cui autenticità è stata più volte messa in dubbio (Edelstein
1966). A molti è sem brato che essa non contenesse niente di veramente non pla
tonico, e a ogni modo presenta un interesse intrinseco che induce a farne
oggetto di un'analisi particolare. Nella sua parte centrale, la lettera
contiene un passo teo rico (342 a - 344 d), in cui vengono indagati gli
elementi che permettono di raggiungere e trasmettere la conoscenza. Si tratta
anche, allo stesso tempo, di elementi che intervengo- 100 4. PLATONE no
nel processo di semiosi. Il primo di questi è il nome (onoma); il secondo la
definizione (/ogos); il terzo l'imma gine (efdo/on); il quarto la conoscenza
(epistm); il quinto, infine, l'oggetto conoscibile (gnost6n) e veramente reale
(althos 6n) (342 a-b). Questi elementi, secondo P interpretazione di Morrow
(1935: 68), sono organizzabili secondo un ordine interno. Infatti, da una parte
si possono collocare i fattori che costi tuiscono gli strumenti di conoscenza:
i nomi, le definizioni, le immagini o diagrammi; dall'altra, in opposizione
diame trale, si trovano gli oggetti conoscibili e reali. A mediare tra gli
strumenti e l'oggetto della conoscenza si trova l'epist mt, che Morrow
interpreta come "apprensione soggettiva", e che è ulteriormente
suddivisa, come Platone dice più avanti (242 c), in retta opinione (a/ths
doxa), conoscenza (epistm) (ritorna curiosamente come nome di una specie,
quello che è il nome dell'intero genere) e ragione o intuizio ne (noas), del
quale ultimo Platone precisa che è il più vici no al quinto fattore. Nella
lettera si dice che questi tre elementi, che compon gono complessivamente
l'epistémt e che devono essere con siderati come un unico grado, non risiedono
"né nelle voci, né nelle figure corporee, ma nelle anime (en
psychais)", fat to che, come Platone sottolinea, li distingue sia
dall'oggetto reale, sia dagli strumenti di conoscenza. Il richiamo ali'ani ma,
che può essere messo in parallelo con il ruolo assegnato all'anima nella
seconda teoria semantica del Crati/o, induce ad accostare questa nozione di
epistm alla nozione di si gnificato; fatto che del resto può venir confermato
se leg giamo il passo con l'ottica della tradizione posteriore, so prattutto
aristotelica, che colloca il significato esattamente nell'anima (tà en tii
psychr) (De interpreta/ione, 16 a). Possiamo distribuire i cinque elementi sul
triangolo se miotico nel modo illustrato alla p. 1 0 1 . Tutto l'interesse del
passo è orientato a mostrare il carat· tere difettoso degli strumenti di
conoscenza. E, per suggeri re come si può ovviare a questo inconveniente,
Platone ela bora una dottrina che è molto vicina alla teoria di Peirce della
semiosi come "fuga di interpretanti". Vediamola at- TEORIA
LINGUISTICA DELL'«EPISTOLA Vll» 101 4. apprensione soggettiva ( epistml)
3. immagine- (efdDion) 2. definizione (/6gos) l intuizione (noùs) l
conoscenza (epistmlJ} l retta opinione (allfths d6xa) 6. oggetto conoscibile
(gnst6n) e veramente reale (sleth;;s 6n) 1 . nome (6noms) traverso l'esempio
stesso che fa da filo conduttore al discor so platonico. Si tratta
deli'esempio del "cerchio", non a caso di carat tere matematico. Non
è difficile per Platone mostrare che il referente dell'espressione l cerchio l
non è un oggetto del mondo reale, sottoposto al divenire e alla corruzione, ma
è un'entità di altro tipo. A essa non si può arrivare se non passando attraverso
l'intera serie dei gradi preliminari e, so prattutto attraverso un processo di
continua sostituzione dell'uno con l'altro: "trascorrendo continuamente
fra tutti questi, salendo e discendendo per ciascuno di essi, si può, quando si
ha buona natura, generare a gran fatica la cono scenza" (343 e). Ciascun
elemento, di per sé incompleto (co me lo sono gli interpretanti di Peirce),
contribuisce al rag giungimento della conoscenza se inserito in questo
processo instancabile di sostituzione e di confronto. Questo processo di
continua sostituzione permette di ovviare all'imperfezio ne degli
strumenti. 102 4. PLATONE In effetti il carattere di imperfezione del
nome è dovuto al fatto che, come sappiamo dal Crati/o, nel linguaggio sto
ricamente dato esso non è l'immagine della cosa che nomi na, ma è legato alla
convenzione. Questo, secondo l'autore ' Epistola VII, gli toglie stabilità, in
quanto potremmo dell usare l'espressione l linea retta l per riferirei alle
cose circo lari e l'espressione l cerchio l per designare la linea retta,
senza provocare cambiamenti nelle cose stesse (343 a-b). Si può ricorrere
allora alla definizione del cerchio come "quella figura che ha tutti i
punti distanti dal centro" (342 b); ma anch'essa, per quanto aggiunga
qualcosa, risulta composta di nomi e di verbi e dunque presenta difetti ana
loghi a quelli incontrati a proposito dei nomi. Tra l'altro, sottolineare che
la definizione è "formata di nomi e di ver bi" significa accentuarne
il carattere di significante, piutto sto che quello di significato. Essa è
semplicemente un'altra espressione, che può essere sostituita, nel processo
conosci tivo e/o semiosico, al nome. Del resto, alla possibilità di una
sostituzione tra nomi, Platone aveva già accennato, presupponendo
l'intercambiabilità di l cerchio l (kyklos), l rotondo l (strongylon), l
circolare l (peripherés) (242 b-e). Qualcosa ancora viene aggiunto dal terzo
livello, quello rappresentato dagli eldola ("immagini"). Qui il
cerchio è conosciuto come "quello che si disegna e si cancella, che si
costruisce al tornio e che perisce" (242 c). Si tratta della so
stituzione di un interpretante iconico ai precedenti interpre tanti verbali:
per capire che cosa è il cerchio in sé, non sono necessarie solo le spiegazioni
verbali, ma anche le illustra zioni e le astensioni. Anche a questo livello la
conoscenza presenta un carattere incerto, in quanto incontra oggetti in cui
l'essenza (tò 6n) risulta inquinata dalla qualità (tò poi6n 11), cioè da
proprietà accidentali e contrarie, talvolta, alla vera natura del suo referente
metafisica: infatti per ogni punto del cerchio può essere costruita una
tangente (343 a), tale che, isolando quel brevissimo tratto, non si saprebbe se
esso fa parte di un cerchio o di una retta (Taylor 1912: 361). Il passo teorico
deli'Epistola VIl si chiude ritornando su un concetto assai vicino a quello
della semiosi illimitata, an che se ovviamente modulata in chiave platonica:
"mentre 4.3 TEORIA LINGUISTICA DELL'«EPISTOLA Vll» 103 ciascun
elemento (nomi, definizioni, immagini visive e per cezioni), in dispute
benevole e in discussioni fatte senza ostilità, viene sfregato con gli altri,
avviene che l'intuizione e l'intellezione di ciascuno brillino a chi compie
tutti gli sforzi che può fare un uomo" (344 b-e). La metafora dello "sfregamento",
con cui il passo si av via alla conclusione, è funzionale sia all'idea
epistemologica dell'improvviso accendersi e brillare deli'intuizione, sia an
che all'idea semiotica che il senso finale non lo si ottiene at traverso
l'immediata e semplicistica sostituzione di un signi ficante con un
significato, ma attraverso una strategia di mosse successive e ripetute, come
sono quelle appunto del processo di semiosi illimitata. LINGUAGGIO E SEGNI IN
ARISTOTELE 5.0 Introduzione Con Aristotele vengono a inaugurarsi nella storia
del se gno alcuni fatti nuovi, destinati ad avere una notevole du revolezza.
Il primo di questi riguarda l'ampia e profonda opera di normalizzazione teorica
che Aristotele compie nei confronti del lessico delle scienze e delle pratiche
professio nali che avevano fatto riferimento ai segni e al sapere con
getturale in genere. Il vasto alone semantico, l'alternanza di usi forti, o
pregnanti, e di usi deboli che aveva caratteriz zato per tutto il V secolo
termini quali smefon, tekmirion, aitia, pr6phasis, eik6s negli scritti medici,
nella storiogra fia, nella stessa letteratura filosofica, viene piegato alle
esi genze di una definizione categoriale, che fissa gli usi esatti dei termini
e ne delimita e separa i campi nozionali. L'operazione, come rileva Lanza
(1979: 107), non ha che un successo parziale nella pratica linguistica, in
quanto è solo sul piano teorico che Aristotele riesce a rendere rigoro se e
rigide le distinzioni, proposte in due passi paralleli dei Primi analitici e
della Retorica; 1 ma, nella stessa prosa del la Retorica e in generale nelle
opere che trattano di argo mento scientifico, come ha fatto rilevare Le Blond
(1939, ried. 1973: 241), l'uso dei vari termini del lessico semiotico
gnoseologico resta fluido e i termini spesso vengono impie gati senza speciali
sfumature di significato. Ciò non con traddice, tuttavia, il fatto che la
revisione terminologica, da un punto di vista teorico, sia stata profonda e
abbia inau- 5.1 TEORIA DEL LINGUAGGIO E DEL SEGNO 105 gurato una solida
tradizione, che continuerà nella trattati stica successiva, fin nella retorica
romana del I secolo d.C. Del resto le esigenze di distinzione teorica non si
limite ranno a intervenire con un'operazione normalizzatrice sul lessico, ma
entreranno anche nel vivo delle concezioni pro fonde coinvolte dal sapere
congetturale. Abbiamo infatti visto come il dominio del tempo fosse centrale
tanto nel sapere ascientifico della mantica quanto in quello protoscientifico
della medicina. La conoscenza contemporanea del passato, del presente e del
futuro era un elemento essenziale, sebbene secondo modalità diverse, in
entrambi questi ambiti di sapere. Aristotele riprende, concettualizza e piega
alle esigenze della classificazione teorica anche tale aspetto. Infatti, nella
classificazione dei tipi di discorso proposta nella Retorica, Aristotele
individua in primo luogo due ca tegorie di destinatari dei discorsi: colui che
osserva (theo ros) e colui che decide (krits). Il primo agisce nella dimen
sione del presente ed è il tipo di pubblico che assiste al di scorso
epidittico o celebrativo. Il secondo, invece, può agi re nelle altre due
dimensioni del tempo proprie degli altri due generi di discorso: il giudice
(dikasts) decide sul passa to; il membro dell'assemblea (ekklsiasts) sul
futuro.2 Co me osserva giustamente Lanza (1979: 102), la classificazio ne è
totalmente estrinseca ali'oggetto considerato, ma è chiaro l'intento
aristotelico di congiungere la ripartizione canonica dei tipi di discorso con
le tre dimensioni del tem po che fin dall'epoca di Omero appaiono associate
agli am biti di manifestazione, esoterico o tecnico, del sapere. 5.1 Teoria
del linguaggio e teoria del segno 5 . 1 . 1 Il triangolo serniotico Il secondo
fatto importante, inaugurato dalla riflessione aristotelica, è quello che
riguarda la disarticolazione, e la conseguente trattazione separata, della
teoria del linguag- }()6 5. UNGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE gio e della
teoria del segno. Si tratta di un fatto che desta sorpresa e che appare molto
rilevante proprio perché nelle teorie semiologiche moderne è assolutamente dato
per scontato che i termini del linguaggio verbale sono dei "se gni":
anzi, secondo un certo strutturalismo, sono i segni per eccellenza, e non sono
stati pochi coloro che sono arri vati ali'eccesso di pensare che essi
potessero fornire il mo dello anche per gli altri tipi di segno. In
Aristotele, invece, gli elementi su cui si costruisce una teoria del linguaggio
ricevono il nome di sjmbola, mentre gli altri elementi di una teoria del segno
vengono denomi nati smeia o tekmiria.3 In realtà, come vedremo, la teoria del
segno propriamen te detto è articolata alla teoria del sillogismo e riveste un
in teresse sia logico sia epistemologico. Il segno è, infatti, al centro del
problema delle modalità di acquisizione della co noscenza, mentre il simbolo
linguistico è connesso princi palmente al problema dei rapporti che si
instaurano tra le espressioni linguistiche, le astrazioni concettuali e gli
stati del mondo. È nel De interpreta/ione che Aristotele espone la sua teo ria
del simbolo linguistico, articolandola secondo uno sche ma a tre termini: i
suoni della voce, che sono i "simboli" delle affezioni dell'anima, le
quali, a loro volta, sono le im magini degli oggetti esterni: Ordunque, i
suoni della voce (tà en tii phoniz) sono simboli (symbola) delle affezioni che
hanno luogo nell'anima (tOn en tii psychii pathmatOn), e le lettere scritte
(graphtJmena), sono simboli dei suoni della voce. Allo stesso modo poi che le
lettere non sono le medesime per tutti, così neppure i suoni sono i me desimi;
tuttavia, suoni e lettere risultano segni (smela), anzi tutto, delle affezioni
dell'anima, che sono le medesime per tutti e costituiscono le immagini (homoi6mata)
di oggetti (pragma ta), già identici per tutti. (Arist., De int., 16 a, 3-8)
Bisogna innanzitutto dire che il fatto di incontrare il ter mine smeia come
apparente sinonimo di sjmbola non si gnifica affatto che le due espressioni
siano intercambiabili: 5.1 TEORIA DEL LINGUAGGIO E DEL SEGNO 107 in
realtà in questo passo Aristotele usa il termine smefon in un'accezione debole,
che ci conferma appunto la tenden za a un uso sfumato delle espressioni del
lessico semiotico, quando non sia in questione la costruzione del sistema di
demarcazioni teoriche. In secondo luogo qui Aristotele usa smeia per dire che
l'esistenza di suoni e lettere può essere considerata come indizio
deli'esistenza parallela di affezio ni dell'anima. A ogni modo, è possibile
costruire, trascurando il livello grafematico, un triangolo semiotico di questo
tipo: 1 ) affezioni dell'anima (psthlimsts sn tlii psychliil 2) pensteri
(nomat8) rapporto convenzionale motivato ra ppo rto ( sn ti phntl
(prSgmsta) suoni della voce oggetti esterni Come si può osservare, diverso è il
rapporto tra le coppie di termini appartenenti alla triade: tra suoni e stati
d'animo c'è un rapporto immotivato e convenzionale, in quanto gli stati d'animo
sono uguali, secondo Aristotele, per tutti gli uomini, ma essi vengono espressi
in maniera diversa a se conda delle varie lingue e culture, esattamente come
avvie ne per le forme scritte;4 invece tra gli stati d'animo e gli og getti
c'è un rapporto di motivazione, che appare addirittura iconico, in quanto i
primi sono le immagini dei secondi. Bi sogna precisare che sarebbe scorretto
identificare in manie ra diretta la tesi della convenzionalità degli elementi
del lin guaggio, cui aderisce Aristotele, con la tesi deli'arbitrarietà
108 5. LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE del segno linguistico sviluppata da
Saussure. In realtà nella teoria saussuriana esiste un rapporto arbitrario tra
due en tità strettamente interne al linguaggio: il significante e il si
gnificato sono le due facce del segno, in quanto unità lin guistica. In
Aristotele troviamo invece un rapporto conven zionale tra elementi del
linguaggio (il nome, il verbo, il 16- gos) ed elementi che propriamente non
appartengono al lin guaggio, in quanto sono entità psichiche. Si deve inoltre
ri levare che la teoria linguistica elaborata da Aristotele non si esaurisce
nei testi di prevalente interesse logico, quali il De interpreta/ione, ma
continua anche nei testi di interesse estetico: in questi ultimi, dove prevale
la funzione poetica del linguaggio, il principio della convenzionalità viene in
parte attenuato (Belardi 1975: 75 e passim). 5.1.2 I "suoni della
voce" Ciascuno dei termini posti ai vertici del triangolo presen ta
aspetti degni di nota e spesso non privi di problematicità. Per cominciare, che
cosa intende Aristotele con l'espressio ne tà en tii phonii? A questa domanda
vi sono risposte di verse. Donatella Di Cesare (1981: 161) sostiene che
Aristotele attribuisce a questa espressione lo stesso valore che Saussu re dà
al termine "significante" quando spiega la natura del segno
linguistico. Belardi (1975: 198), invece, aveva sostenuto che tà en tii phonii
doveva riferirsi non ai significanti, ma alle "espres sioni
linguistiche" intese nella loro forma compiuta di 6no ma (nome), rhima
(verbo), /6gos (discorso), come pure di kataphasis (affermazione) e ap6phasis
(negazione); le ra gioni di questa scelta si basano sul fatto che questi
elemen ti, facenti parte del programma di analisi di Aristotele, ven gono
definiti "simboli" delle affezioni dell'anima (An. Pr., 16 a, 25; 24
b, 2). Ora è indubbio che Aristotele intenda con l'espressione "suoni
della voce" qualcosa che sottolinea molto chiara mente la veste fonica e
il carattere di "significante". Tutta- 5.1 TEORIA DEL
LINGUAGGIO E DEL SEGNO 109 via si deve anche sottolineare che l'ottica con cui
Aristote le, almeno neli'Organon, guarda ai fatti di linguaggio sem bra
diversa da quella saussuriana. Infatti Aristotele è qui interessato a saggiare
le possibilità e le garanzie deli'uso del linguaggio neli'analisi della realtà.
Tali garanzie sembrano esserci quando si dia una reciproca bilità tra i due
ambiti del linguaggio e del reale. Ora, posto che per Aristotele la simbolicità
del linguaggio nei confron ti del reale è sempre di secondo grado, in quanto
il nome sta per un'immagine, la quale è appunto immagine di una cosa, sul
vertice sinistro del triangolo deve stare qualcosa che (per gli scopi logici
perseguiti nel De interpreta/ione) sia intercambiabile con ciò che si trova al
vertice superiore. Da qui deriva l'uso della nozione di sjmbolon, che Ari
stotele riprende da una tradizione risalente fino a Democri to (D-K, 68, B 5,
1). Le ragioni che permettono la specializ zazione di questo termine nel senso
di indicare le espressio ni linguistiche convenzionali, sono connesse alla sua
etimo· logia. Nella lingua greca, infatti, il termine sjmbolon indica ciascuna
delle due metà in cui viene spezzato un oggetto (a esempio un astragalo, una
medaglia, una moneta) in ma niera intenzionale, affinché possano servire, in
un momen to successivo, come segno di riconoscimento, o come prova di una
certa cosa (Belardi 1975: 198; Eco 1984: 199): il fat to che le due metà
riescano a combaciare perfettamente vie ne a indicare la presenza di un
rapporto precedentemente istituito (a esempio un rapporto di ospitalità, di
amicizia, di paternità), la cui documentazione è affidata appunto alla
congruenza perfetta dei due sjmbola. Si viene in effetti a realizzare una situazione
in cui ciascuna delle due parti può scambiarsi di posto con l'altra, senza che
venga a perdersi il valore di prova. Così dal momento che ciascuna parte pre
suppone l'altra, o stabilisce con l'altra una stretta corri spondenza,
l'espressione sjmbolon viene ad acquisire il si gnificato di "ciò che sta
per qualcos'altro". Ma il fatto che venga preferita nel contesto della
teoria linguistica aristote lica la parola sjmbolon all'espressione smefon
(che pure indica uno "stare per") induce a indagare su una
possibile LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE specificità del rinvio
istituito dal simbolo. In effetti, nel ca so del segno, i due termini del
rinvio (che, come vedremo, è una implicazione) non sono sempre reciprocabili:
un primo termine può rimandare a un secondo, senza che necessaria mente il
secondo rimandi al primo. Nel caso del simbolo, invece, i due termini sono
perfettamente reciprocabili; non è un caso che sjmbo/on dal III secolo a.C. al
III d.C. sia attestato anche nel senso di "ricevuta", talvolta
redatta in duplice copia: le due parti hanno, per cosi dire, lo stesso valore.
Questo aspetto etimologico è presente neli'uso che in particolare Aristotele fa
dell'espressione sjmbolon nel De interpreta/ione: i nomi ono simboli degli
stati d'animo nel preciso senso che si realizza, previo un accordo (synthk), un
combaciare perfetto tra di loro e una perfetta intercam biabilità, che
garantisce la correttezza del nome stesso (Be lardi 1975: 199). In quanto
sjmbolon, il nome non è più dloma ("rivela zione"), come lo era per
Platone: in Aristotele il nome è "suono della voce significativo per
convenzione" (phon s mantik katà synthkn) (De int., 16 a, 19). Questo
marca il passaggio da una linguistica che conservava un carattere semiotico,
come quella platonica, a una linguistica che non parla più di segni e che è
intrinsecamente non semiotica. Mentre per Platone le espressioni linguistiche
erano segni che "rivelano" qualcosa di non percepibile (l'essenza del
l'oggetto o la djnamis), per Aristotele esse sono simboli che stabiliscono
convenzionalmente una pura relazione di equivalenztr tra i due correlati, senza
alcuna preoccupazio ne che l'un termine "riveli" l'altro. 5 . l . 3
Il linguaggio degli animali Del resto, l'opposizione convenzionalelnaturale6
permet te di distinguere anche tra il linguaggio umano e i suoni emessi dagli
animali,7 questi ultimi essendo, per altro, ugualmente (i) vocali e (ii)
interpretabili. Già la nozione di "voce" (phon) presenta alcune
interes- 5. 1 TEORIA DEL LINGUAGGIO E DEL SEGNO 1 1 1 santi
particolarità. Nel De anima si dice che un suono può essere definito una
"voce" quando: (i) sia emesso da un es sere animato (II, 420 b, 5);
(ii) sia dotato di significato (s mantik6s) (Il, 420 b, 29-33). Ora, i suoni
emessi dagli ani mali, per quanto definiti ps6phoi (''rumori"), hanno
tutta via le due precedenti caratteristiche. Ciò che li distingue dalle voci
emesse dagli uomini sono due fattori: (i) non sono convenzionali (e di
conseguenza non possono essere né simboli né nomi), ma sono "per na
tura" (De int., 16 a, 26-30); (ii) sono agrammatoi, cioè
"inarticolabili" o "non combinabili" (ibidem, e Pot., 1456
b, 22-24). La nozione di "combinabilità", del resto, come mostra
Morpurgo-Tagliabue (1967: 33 e sgg.), è al centro stesso del carattere di
semanticità del linguaggio umano, i cui suoni semplici (adiafretoi,
"invisibili") possono articolarsi in uni tà più grandi dotate di
significato.8 Gli animali, invece, emettono solo suoni indivisibili, ma non
combinabili (Pot., 1465 b, 22-24). Si possono illustrare riassuntivamente i
caratteri del lin guaggio umano in contrapposizione ai suoni emessi dagli
animali, attraverso il seguente schema: linguaggio umano - per convenzione -
elementi indivisibili combi- nabili e elementi divisibili - lettere - elementi
dotati di signifi- cato - simboli - nomi suoni degli animali - per natura -
elementi indivisibili non combinabili - non lettere - elementi che rivelano (d-
loflsl) qualcosa - non simboli - non nomi Si deve rilevare, tra l'altro, che la
semanticità dei suoni emessi dagli animali è espressa dal verbo dlofìsi
(''rivela no", De int., 16 a, 28), fatto che conferma l'idea che per
Aristotele, quando non sia in gioco la convenzione, come nel caso del
linguaggio degli animali, torna di nuovo in pri mo piano il carattere
semiotico d'una espressione. I suoni degli animali sono sintomi che rivelano la
loro causa. 1 12 5. LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE 5. 1 .4 Le
"affezioni dell'anima" Ritornando poi al triangolo aristotelico della
significa zione, la seconda nozione degna di rilievo è quella di pathmata en
tii psychi. Si noterà che, dove ci si aspetterebbe la nozione di
"significato", troviamo invece un'entità psichi ca, qualcosa che non
è posto all'interno del linguaggio, ma nella mente stessa degli utenti del
linguaggio. Per di più le affezioni dell'anima concepite da Aristotele, pur
configu randosi come eventi psichici, non sono affatto individuali: si tratta
piuttosto di elementi che, come dice Aristotele, so no identici per tutti,
fatto che connette la teoria del lin guaggio con una sorta di psicologia
sociale, se non addirit tura universale, piuttosto che individuale (Todorov
1977: 16). In secondo luogo è necessario rilevare una sorta di ambi guità che
si trova nella nozione posta al vertice superiore del triangolo. Infatti
Aristotele dice che i pathimata en tii psychii sono le immagini (homoiomata)
degli oggetti esterni: con ciò in tende che tra gli oggetti e le entità
psichiche c'è lo stesso rapporto che esiste tra l'originale e la copia.
Tuttavia, poi, per indicare la rappresentazione mentale usa anche, più avanti,
l'espressione noma ("pensiero", "nozione", 16 a, 10): ma,
in questo secondo caso, precisa che i pensieri, sot to certe condizioni,
possono essere veri o falsi. Da ciò con segue che i nomata vengono concepiti
come forme di giu dizio . Si tratta di due nozioni completamente diverse, e il
fatto che venissero entrambe messe in rapporto con le medesime espressioni
linguistiche aveva fatto pensare a un loro uso si nonimico, che risultava
aporetico. In realtà, come ha messo in evidenza Belardi (1975: 109), nessuna
delle due nozioni esaurisce da sola il livello della rappresentazione psichica,
ma esse rimandano a due facoltà differenti dell'anima: i pathtnata rimandano a
una facoltà passiva dell'anima, quella di subire impressioni dagli oggetti del
mondo ester no; i nomata rimandano a una facoltà attiva, quella di ela borare
giudizi. Questa relazione è del resto confermata dal 5.l TEORIA DEL
LINGUAGGIO E DEL SEGNO 113 rinvio che Aristotele fa al De anima, trattato nel
quale non vengono discussi solo i pathimata, ma anche le altre fa coltà. 5.1.5
Semantico e apofantico Non si può, a questo punto, non fare un cenno (anche se,
di necessità, breve) a una distinzione che si affaccia, nel pensiero
linguistico di Aristotele, tra la categoria del "se mantico" e
quella dell'"apofantico". Nel De interpretatione (16 a, 9 e sgg.)
viene aperta la problematica circa la diffe renza tra phasis (il semplice
"detto") e kataphasis (!'"affer mazione"). I nomi (ma così
anche i verbi) in sé costituisco no un "detto", ma non possono da
soli costituire un'affer mazione o una negazione. Correlatamente, vengono
distin ti due tipi di rappresentazioni mentali (noimata): l . quella "che
prescinde dal vero e dal falso"; 2. quella "cui spetta
necessariamente o di essere vera o di essere falsa". Ciò che in realtà
viene a essere contrapposto è la nozione di significato rispetto a quella di
condizioni di verità. Al primo tipo di rappresentazione, infatti, corrispondo
no i nomi (e anche i verbi) presi da soli, i quali possono avere un
significato, ma non hanno condizioni di verità. Ciò è provato da Aristotele
mediante la scelta di un caso particolare: il termine "ircocervo"
(traghélaphos). Esso "si gnifica bensì qualcosa" (cioè una
commistione mostruosa tra un caprone e un cervo), ma non può essere detto vero
o falso. Il "qualcosa" a cui si riferisce qui Aristotele indivi dua
appunto la dimensione della semanticità pura, regolata da leggi diverse da
quelle della referenzialità. Al secondo tipo corrispondono, invece, quelle
entità che hanno la dimensione linguistica della proposizione: è quan do si
passa agli enunciati affermativi e negativi che diviene possibile parlare di
verità o di falsità. È solo in questo caso che diviene possibile parlare di
apofanticità come dimensio ne aggiuntiva (non contrappositiva) rispetto a
quella se mantica. Ma qual è il mezzo specifico per passare dalla
dimensio- LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE ne semplicemente semantica a
quella apofantica? Non ci sono dubbi che esso consiste nell'uso del verbo come
predi cato. Del verbo Aristotele valorizza essenzialmente la fun zione
predicativa, quando, parlando del giudizio, riduce il verbo a !copula +
predicatol: "non c'è differenza", sostiene egli infatti, "tra
dire: l'uomo cammina, e dire: l'uomo è camminante" (De int., 21 b, 9-10).
In effetti il verbo viene qui concepito come nome assunto in funzione
predicativa (Morpurgo-Tagliabue 1967: 62). Tuttavia, affinché il verbo possa
esplicare questa sua funzione occorre che esso sia congiunto a qualcos'altro
(cioè a un nome); preso da solo, cioè quando la sua funzio ne predicativa non
può dispiegarsi, esso non può affermare alcunché (De int., 16 b, 19-25).
L'incapacità del verbo preso da solo, ad affermare l'esi stenza di una certa
cosa (cioè a fare asserzioni) è dimostrata da Aristotele con il ricorso
all'esempio del verbo "essere": nemmeno esso preso da solo è capace
di affermare che una cosa è. Così commenta Eco (1984: 25): "Pertanto,
quando Aristotele dice che neppure il verbo essere da solo è segno
dell'esistenza della cosa, vuoi dire che l'enunciazione isola ta del verbo non
è indizio che si stia affermando l'esistenza di qualcosa: perché il verbo possa
avere tale valore indiziale occorre che sia congiunto gli altri termini
dell'enunciato, il soggetto e il predicato (e quindi il verbo l essere l è
indizio di asserzione di esistenza, o di predicazione deli'inerenza attuale di
un predicato a un soggetto, quando appaia in contesti come lx è yl oppure lx èl,
nel senso di "x esiste di fatto)". 5.2 La teoria del segno 5.2.1 La
definizione Completamente irrelata rispetto alla teoria del linguag gio, in
Aristotele la dottrina del segno si pone nel punto di intersezione tra logica e
retorica e i segni sono trattati tanto nei Primi analitici quanto nella
Retorica. 5.2 LA TEORIA DEL SEGNO 115 Allo stesso tempo, la nozione di
segno presenta due aspetti fondamentali: da una parte infatti ha un interesse
epistemologico e antologico, in quanto si configura come strumento di
conoscenza, che deve servire a condurre l'at tenzione dei soggetti conoscenti
a operare un passaggio da un fatto a un altro (Todorov 1977: 19; Simone 1969:
91); dall'altra ha un carattere prettamente logico, in quanto è dotato di un
meccanismo formale che presiede al suo fun zionamento. La definizione generale
del segno (smeion) è data nei Primi analitici (II, 70 a, 7-9). Di questo passo
esistono di verse traduzioni (Colli 1982: 252; Todorov 1977: 19 ecc.); ma
quella che sembra individuare nel modo più soddisfa cente il significato del
passo è quella di Preti (1956: 5): Quando, una cosa essendo, un'altra è, oppure
quando una cosa divenendo, un'altra diviene anteriormente o posteriormente,
queste ultime sono segni del divenire o dell'essere. La sottolineatura che
abbiamo effettuato intende mettere in risalto appunto la specificità
deIl'interpretazione di Pre ti, che restituisce al passo aristotelico tutta la
sua carica di problematicità e la complessità, che appunto gli ulteriori
sviluppi, a opera delle scuole successive, della dottrina del segno metteranno
in luce. Prima di tutto vediamo però ciò su cui tutte le interpreta zioni del
passo concordano, cioè che la nozione di segno proposta da Aristotele prevede
l'instaurarsi di un rapporto di tipo implicativo: il segno coincide press'a
poco con il rapporto di implicazione "p implica q", accezione,
questa, abbastanza comune della nozione di segno e che abbiamo già trovato
operante in altri ambiti, diversi dalla filosofia. Ma più precisamente, e
particolarmente in questa defini zione, il segno coincide con uno dei termini
dell'implicazio ne. L'interpretazione di Preti suggerisce che esso coincida in
particolare con il secondo termine, cioè suggerisce che la definizione
aristotelica vada letta nel senso che "q è segno di p": ora questa
definizione, che viene a configurare il rap porto segnico come "Se q,
allora p", comporta, ai fini della 116 5. LINGUAGGIO E SEGNI IN
ARISTOTELE sua applicazione ad argomentazioni inferenziali, un'inver sione da
"p implica q" a "q implica p". È proprio questo fatto che
conferisce alla nozione di se gno il carattere di problematicità e che conduce
all'instau razione di un dibattito serrato e complesso in seno alle scuole
filosofiche postaristoteliche, anche se esse non fa ranno esplicitamente
riferimento ad Aristotele. D'alta parte, questo tipo di inversione sembra porsi
an che alla base della richiesta, ai fini della validità del segno, di
un'implicazione tra p e q più stretta di quanto non sia, a esempio, l'implicazione
materiale. Sembra, in sostanza, che già nella definizione aristotelica venga
richiesta la con dizione "Se non-q, non-p" ("q, o non-p"),
cioè esattamente quel tipo di implicazione stretta che verrà dagli stoici consi
derata necessaria per la validità del segno. Al di là di questo si deve anche
notare che nella defini zione (e in genere nell'intera trattazione) del segno
condot ta da Aristotele è riscontrabile un'ambiguità di fondo nel modo di
concepire i due termini del rapporto implicativo. Per un verso, infatti, essi
costituiscono dei fatti (o delle proprietà) (e non a caso una parola centrale
della definizio ne è tò pragma "il fatto"). Aristotele del resto dà
esempi di questo genere: "il mostrare che una certa donna è gravida
attraverso il fatto che essa ha il latte"; il segno è "l'aver lat
te", che appare appunto essere l'espressione di un fatto o di una
proprietà. Per un altro verso il segno è concepito come una proposi zione, in
quanto un segno può costituire la premessa da cui si sviluppa un sillogismo:
"Un segno, invece, vuole essere una premessa dimostrativa, o necessaria o
fondata sulla opinione" (An. Pr., II, 70 a, 6-7). In realtà, la
definizione di segno come proposizione, che può costituire una premes sa in un
ragionamento infcrenziale, è abbastanza centrale in Aristotele. Infatti il
ruolo fondamentale che egli attribui sce al smefon è proprio quello di essere
uno degli elementi che forniscono premesse a quel particolare tipo di siilogi
smo che è I'entimema. LA TEORIA DEL SEGNO 1 17 5.2.2 L'entimema e i segni
Nella nozione di entimema coesistono due aspetti com plementari, che la
tradizione successiva svilupperà talvolta separatamente. Da una parte
l'entimema può essere consi derato un sillogismo tronco, in cui una delle
premesse è mancante, perché ritenuta nota o ovvia.9 DalPaltra, l'enti mema
viene considerato un sillogismo che tende alla per suasione, e non alla
dimostrazione; in quanto tale non è ne cessario che le sue premesse siano
vere, ma soltanto che sia no probabili (hos epì tò poly). Aristotele sviluppa
esplicita mente il secondo aspetto delle definizioni parallele dei Pri mi
analitici (II, 70 a, 9-10) e della Retorica (1, 1357 a, 30- 32) . Dunque il
segno trova la sua principale applicazione nel l'ambito del discorso
persuasivo, ovvero retorico, dove, sotto forma di proposizione, entra nel
meccanismo dell'en timema e vi svolge il ruolo di "protasi", di
premessa. Ma, in quell'ambito, si profila una prima distinzione tra la no
zione di smeion e quella di eikos "verosimile" o "probabi
le"), pur imparentate per il fatto di poter figurare entrambe come
premesse negli entimemi. Ciò che contraddistingue la nozione di eikos è
essenzial mente il suo carattere probabilistico, che lo lega irrevoca
bilmente all'opinione, rimuovendolo in una zona del sapere piuttosto insicura,
lontano dalla possibilità di una dimo strazione scientifica. 5.2.3 L'inferenza
dal conseguente Per quello che riguarda la nozione di segno, la situazione è
diversa e senz'altro molto più complessa. In effetti il s meion non costituisce
una categoria semplice, bensì una classe composita che prevede al suo interno
tipi con carat teristiche molto differenziate tra loro. Ma, prima di porre
l'accento sulle differenze interne, è forse possibile osservare che qualcosa
unisce i vari tipi di segni rispetto alla nozione di eikos: invece che sulla
probabilità, nel caso del segno 118 5. LINGUAGGIO ESEGNI IN ARISTOTELE
l'attenzione è concentrata sul carattere di "consequenziali tà". Il
ragionamento inferenziale, basato sui segni, procede tipicamente ek ton
hepomén{Jn, "per conseguenze", tende cioè a inferire la causa
dall'effetto. Per questa ragione sono possibili sia applicazioni corrette sia
applicazioni inganne voli. ÈinparticolarenelleConfutazionisofistiche(167b,
1-5) che Aristotele sviluppa chiaramente la teoria del ragiona mento per
conseguenze: quest'ultimo porta a conclusioni ingannevoli come, a esempio, nel
caso in cui qualcuno, avendo osservato una volta che la terra è bagnata dopo la
pioggia, volesse concludere in generale che, se la terra è ba gnata, allora è
piovuto. Un secondo esempio di ragiona mento per conseguenze dato da
Aristotele concerne le pro prietà, anziché gli eventi, come avveniva in quello
prece dente: se qualcuno, avesse sperimentato che il miele ha la proprietà di
essere giallo e volesse conciudere che qualcosa è miele partendo dalla
proprietà che ha il colore giallo, cor rerebbe il rischio di scambiare per
miele il fiele (ibidem, 167 b, 6-8). In tale contesto Aristotele giunge a identificare
de cisamente questo tipo di inferenza con quello specifico del segno:
"Nei discorsi retorici, del pari, le dimostrazioni trat te da segni si
fondano sulle conseguenze" (ibidem, 167 b, 8- 9). È possibile a questo
punto tornare agli Analitici e com prendere meglio perché Aristotele proceda
innanzitutto alla distinzione fondamentale tra due tipi di segni: il tekmrion,
segno "necessario" o "inconfutabile",10 e il generico s
meion, che ha le caratteristiche opposte. In realtà quest'ultima distinzione
(che, come vedremo, comporta non solo due, ma tre tipi di entità, poiché vi
sono due specie di segni non necessari) corrisponde a un tentati vo di
Aristotele di articolare una tipologia dei segni alle modalità di sviluppo
possibile del sillogismo. Sono infatti tre i modi in cui il sillogismo può
utilizzare la premessa che esprime un segno, corrispondenti alle posizioni
possibili del medio nelle varie figure. In questo modo si possono avere
inferenze che partono da un segno sulla prima, sulla secon da o sulla terza
figura. 5.3 n. MECCANISMO LOGICO 1 19 5.3 D meccanismo logico 5 . 3 . l
Il tekmérion come segno nella prima figura del sillogismo Prima però di entrare
nei dettagli tecnici di questa distin zione, vale la pena di rilevare
preliminarmente che ben di verso è il valore epistemologico che Aristotele
attribuisce al segno che si sviluppa in un sillogismo di prima figura, cioè il
tekmrion, rispetto a quelli che si sviluppano in seconda e in terza figura,
cioè i generici smefa. In realtà, nei due ultimi casi si verifica la tipica
illusione segnalatanelleConfutazionisofistiche(167b, 1-5),cioèav viene di
credere che ci sia possibilità di conversione tra ra gione e conseguenza,
senza che questo sia di fatto giustifi cato: dunque, in questi casi,
l'inferenza dalle conseguenze alle cause è estremamente ipotetica e insicura.
Nel primo caso, invece, cioè con il tekmrion, si ha un ti po di inferenza che
parte anch'essa dalle conseguenze, co me dimostra l'esempio "se una donna
ha latte, allora essa è gravida", in quanto l'"avere latte"
costituisce sia una con seguenza dell'essere gravida, sia un segno di tale
fatto; tut tavia, al contrario che nei casi precedenti, sembra esserci
possibilità di conversione tra causa ed effetto; o, come sug gerivano le
osservazioni di Preti (1956: 6) riportate prima, sembra essere previsto da
Aristotele, in questo caso, un ti po di implicazione più stretta che non
l'implicazione mate riale. Possiamo vedere ora come Aristotele sviluppa
l'aspetto tecnico dei tre tipi di segno, partendo da quello in prima fi gura:
Ad esempio, il provare che una donna è gravida, in quanto essa ha latte, si
fonda sulla prima figura: il medio è infatti l'aver lat te. Poniamo che A
indichi "esser gravida", che B indichi "aver latte", che C
indichi "donna". (An. Pr., Il, 70 a, 12-16)11 120 5. LINGUAGGIO
E SEGNI IN ARISTOTELE Traducendo il ragionamento di Aristotele nel comune schema
illustrativo del sillogismo, si otterrà: 8 "chi ha latte" c
"donna" c "donna" In questo esempio il segno "avere nello
schema sillogistico come noi ma è anche il termine intermedio dal punto di
vista esten sionale, tanto che potrebbe essere costruita la seguente fi gura
per illustrare i rapporti tra i termini del sillogismo: A essere gravida l . A
"essere gravida" 2. 8 "avere latte" si predica di si
predica di 3. A sipredicadi "essere gravida" latte" non solo è
medio lo abbiamo riportato, 5.3 n MECCANISMO LOGICO 121 5.3.2 La
seconda e la terza figura del sillogismo e i "semeia" Nella seconda e
nella terza figura il termine medio è il le game che consente Pinferenza, ma
non occupa, né nella formula né estensionalmente, la posizione centrale. Questo
fa sì che l'etichetta di "maggiore" e "minore" sia
"arbitra ria nella seconda o nella terza figura, a qualunque dei due
termini si voglia dare il nome di maggiore o minore" (Allan 1970: tr. it.
1973, 123). Del resto è indubbio che il punto di vista adottato da Aristotele
nella trattazione che egli fa delle premesse sia quello estensionale. Legata a
questo punto di vista è di cer to la svalutazione della seconda e della terza
figura. Passiamo ora ad analizzare il tipo di segno che si svilup pa in un
sillogismo basato sulla seconda figura: "Se una donna è pallida, allora
essa è gravida". Questa è l'analisi di Aristotele: Infine, la presunta
prova che una donna risulta gravida, in quanto è pallida, si sviluppa
attraverso la seconda figura. In realtà, dato che il pallore è una
determinazione conseguente delle donne gravide, e che tale determinazione
appartiene altre si a una certa donna, si crede allora provato che questa
donna sia gravida. Indichiamo con A "la nozione di pallore", con B
"l'essere gravida" e con C "donna". (An. Pr., Il, 70 a,
20-24) Lo schema che può essere costruito in corrispondenza di questo
sillogismo è il seguente: l . 2. 3. A "essere pallida" A "essere
pallida" 8 si predica di si predica di si predica di 8 "chi è
gravida" C "questa donna" C "essere gravida"
"questa donna" 122 5. LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE In
questo caso il segno "essere pallida", che è anche il medio, ha la
posizione di un estremo e si predica contem poraneamente dei due termini
"essere gravida" e di "donna". 12 Aristotele condanna
questa inferenza come non valida. Come si può osservare, ci ritroviamo qui di
fronte al ca so più emblematico di inferenza tratta dalle conseguenze. Una
conferma di questa condanna la si trova anche nel pas so corrispondente della
Retorica (1, 1357 b, 17-21): "Se uno respira rapidamente è segno che ha la
febbre". Anche que sto esempio di segno dà origine a un sillogismo sulla
secon da figura, in cui il medio, "respirare rapidamente", ha la
posizione dell'estremo maggiore e si predica di entrambi i termini "avere
la febbre" e "uomo". Nella definizione di questo tipo di segno
data nella Reto rica vengono aggiunte due particolarità interessanti rispetto
a quella presentata negli Analitici: (i) la prima è che il se gno è
confutabile anche se esso risultasse vero (kàn althès i1): viene dunque
prevista la possibilità di costruire un'infe renza che risulti conforme alla
verità, anche se questo è so lo un caso, si direbbe, accidentale; ciò deriva
dal fatto che il sillogismo èformalmente scorretto, ma ci sono casi in cui esso
porta, nonostante tutto, a conclusioni materialmente vere (Plebe 1966); (ii) la
seconda particolarità consiste nel l'accennare al fatto che questo tipo di
segno instaura una relazione "dall'universale al particolare": ciò è
probabil- mente da mettersi in relazione al fatto che è proprio il ter mine
estensionalmente maggiore a svolgere la funzione di medio, e che si predica
prima di una classe, poi di un indi viduo . Vediamo ora un segno dal quale si
sviluppa un sillogismo basato sulla terza figura. Ecco la definizione che ne
viene data negli Analitici: D'altro canto la presunta prova che i sapienti sono
eccellenti - poiché Pittaco è eccellente - si costruisce attraverso l'ultima fi
gura. Poniamo che A indichi "la nozione di eccellente", che B indichi
"i sapienti", che C indichi "Pittaco". Risponde in tal ca
so a verità il predicare di C tanto A quanto B; senonché la pre- 5.3 IL
MECCANISMO LOGICO 123 messa BC non viene enunciata, perché risaputa, mentre
Paltra è assunta espressamente. (An. Pr., II, 70 a, 16-20) Il segno, più
precisamente, è la protasi del condizionale "Se Pittaco è eccellente, i
sapienti sono eccellenti " . Su di es so si sviluppa un sillogismo che
può essere rappresentato dalla formula: l . 2. 3. A si predica di "essere
eccellente" c "Pittaco" c "Pittaco" 8 "chi è
sapiente" 8 "essere sapiente" si predica di A si predica di
"essere eccellente" In questo caso il medio è "Pittaco",
che ha la posizione del termine minore estensionalmente. Anche il sillogismo
costruito su questo tipo di segno vie ne condannato in quanto confutabile
(/jsimos). Del resto Aristotele aggiunge che esso rimane confutabile (come
quello in seconda figura) anche nell'evenienza in cui esso conduca a una
conclusione accidentalmente vera. Inoltre, nel passo parallelo della Retorica
(I, 1357 b, 10-11), viene precisato che esso instaura un rapporto che va
"dal partico lare all'universale"; anche in questo caso è la
posizione del medio, che qui è il termine estensionalmente minore, a sug
gerire questa determinazione ad Aristotele; in effetti si par te dalla
proprietà di un individuo particolare per conclude re che tale proprietà
appartiene a un'intera classe di cui l'individuo fa parte. 5.3.3 La
classificazione Una volta stabilita una distinzione fra i tre tipi di segno
sulla base della posizione che prende il medio in ciascuna 124 5.
LINGUAOOIO E SEGNI IN ARISTOTELE delle figure, Aristotele procede a una
ricapitolazione gene rale, dove consolida le distinzioni terminologiche e
ribadi sce la diversità della potenza conoscitiva in relazione a cia scun
tipo: il nome tekmirion ("indizio sicuro", "prova") viene
riservato a quei segni che prendono realmente la posi zione del termine
intermedio (cioè in cui il termine è medio anche dal punto di vista
estensionale, sul quale si sviluppa un sillogismo in prima figura); invece il
nome generico s meion viene lasciato a quei segni che all'intero sillogismo
hanno la posizione di un estremo (sui quali cioè si svilup pano delle
inferenze in seconda e terza figura) (An. Pr., Il, 70b, 1-6). Rispetto a quanto
abbiamo già detto, è necessario ag giungere una precisazione sulla nozione di
éndoxon, che ca ratterizza nel massimo grado il sillogismo basato sul· tekmi
rion. In effetti nei Topici Aristotele precisa che i sillogismi dia lettici
che danno il massimo di garanzia sono i sillogismi che derivano da premesse che
sono degli éndoxa. Vengono poi definite éndoxa quelle proposizioni che sono
"condivise da tutti o dai più o dai sapienti, e tra questi da tutti, dai
più o dai più noti e famosi" (Top., l, 100 b, 21-23). Sono queste, del
resto, le condizioni che permettono di confermare dialetticamente una tesi
(Viano 1958 a). Il passo parallelo della Retorica propone un'analoga
classificazione che distingue tra il segno necessario (anan kaion),
corrispondente al tekmjrion, e il segno non neces sario m anankaion), corrispondente
al generico s meion, 3 e ulteriormente suddivisi in "segno che si trova
in rapporto dali'universale al particolare" (da mettersi in rela zione ai
segni in seconda figura del sillogismo) e "segno che si trova nel rapporto
del particolare ali'universale" (da met tersi in relazione ai segni in
terza figura). La classificazione aristotelica può allora essere disposta sullo
schema della pagina seguente: premesse da cui derivano gli entimemi
/ eik6s smelon (segno) ("probabile", "verisimile") -
è tmdoxon ("fondato sulla opinione") es.: "è amato -ama" ·è
invidioso -detesta• m'S snsnkslon ("'non necessario") - è
éndoxon ("fondato sulla opinione") snsnkslon (..necessario")
tekm"érion ("prova") - è IJ/yton (..inconfutabile·) - è il medio
di un sillo- gismo in 1 • figura es.: ..essa ha latte-è gravide" "ha
la febbre -è malata" t6 ksth ' kéksston pr6s t6 ksth61on ("dal
particolare all'universale") rl) ksth6/on pr6s rl) kstll méros (
·dall'universale al particolare") - è lyron (..confutabile") - è
medio in un sillogismo - è lyton (..confutabile") - è medio in un
sillogismo in 3• figura es.: "Pittacco è giusto-i sapienti sono
giusti" in 2• figura es.: ..respira rapidamente-ha la febbre" "è
pallida -è gravido" LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE 5.4 Un sistema
particolare di segni non linguisti ci: la fisiognomica La particolare
concezione che Aristotele ha del segno, come cosa o fatto che serve a condurre
l'attenzione del sog getto conoscente su un'altra cosa o fatto, permette di
por tare in primo piano un tipo di conoscenza che si ottiene in modo
indipendente dal linguaggio verbale. Ciò conduce a un'evidente valorizzazione
dei sistemi di segni non lingui stici . Aristotele, infatti, nei Primi
analitici, dopo aver esposto la teoria del segno, propone un'interessante,
quanto curio sa applicazione a un tipo di segni molto speciali: quelli del la
fisiognomica. Neli'esempio dato si tratta di risalire da un segno visivo a un
tratto del carattere: le grandi estremità del leone vengo no assunte come
segno del suo coraggio. Tutto l'interesse di Aristotele è concentrato su due
punti: da una parte egli tende ad acquisire una conoscenza circa l'ordine
psichico partendo da un fatto rilevabile attraverso i sensi; dall'altra tende a
stabilire il legame più stretto pos sibile tra due fatti che l'esperienza gli
mostra associati (in questo caso: grandi estremità e coraggio), come presuppo
sto dell'affidabilità stessa della conoscenza. Per dare validi tà al suo
esempio di fisiognomica Aristotele propone di fa re tre assunzioni: 1 4 (i)
che "le affezioni naturali trasformino simultaneamente il corpo e
l'anima"; (ii) che vi sia un solo segno di un unico fatto, cioè
dell'affezione dell'anima che deve essere scoperta; (iii) che ogni genere abbia
un'affezio ne propria e un proprio segno (fdion [... ] semefon). Come si può
osservare, Aristotele, con queste assunzio ni, tenta di razionalizzare e di
dare dignità filosofica a una materia che era eminentemente mantica. Qui non
c'è più la divinità che garantisce la corrispondenza fra un tratto per
cepibile dell'aspetto fisico e qualcosa che si inscrive nell'or dine
dell'invisibile (sia esso il carattere di un uomo o più generalmente il destino
legato a quel carattere). Per Aristo tele vi può essere corrispondenza fra un
tratto fisico e un LA FISIOGNOMICA 127 aspetto interiore perché qualsiasi
affezione trasforma con temporaneamente corpo e anima, proprio come avviene
nel caso di chi ha imparato la musica, che si è trasformato non solo
nell'abilità fisica di suonare, ma anche nella sua sensi bilità interna. Ma
come avveniva per la mantica, in questa materia si può correre il rischio
deli'ambiguità. È proprio per elimina re quest'ultima evenienza che Aristotele
propone le sue ul teriori assunzioni. Infatti l'ambiguità si può verificare in
due casi distinti: (i) quando si hanno molti segni che riman dano a un'unica
affezione (fenomeno che potremmo avvi cinare alla sinonimia): l'unico rimedio
epistemologico è, in questo caso, assumere che i segni siano univoci, cioè che
un unico fatto sia significato da un solo segno; (ii) quando un genere abbia
più affezioni, in maniera tale che si rimane in decisi su quale sia quella a
cui rimanda il segno (fenomeno che potremmo avvicinare all'omonimia): la
soluzione pro posta da Aristotele è quella di stabilire per ogni genere qua
le sia l'affezione che gli è propria e quale il segno proprio, in maniera da
riferire quest'ultimo univocamente alla prima. Stabilendo preliminarmente le
tre precedenti assunzioni è possibile per Aristotele fare della fisiognomica
una scienza. E, rispettando appunto queste assunzioni, è possibile stabi lire
che per il leone le grandi estremità sono il segno del co raggio (An. Pr., II,
70 b, 16-17). Fin qui abbiamo seguito Aristotele nel suo ragionamento che si
svolge su un piano, per così dire, deduttivistico. È possibile ricostruire,
però, anche un altro versante dell'ar gomentazione che si colloca
geneticamente in un momento in cui la regola deduttiva non è ancora stata
posta. In effet ti è possibile pensare a un momento in cui si osserva che una
certa affezione, il coraggio, è associata al genere dei leoni;
contemporaneamente si osserva che ai leoni è asso ciata la caratteristica di
are grandi estremità. A questo punto viene formulata l'ipotesi che il segno del
coraggio sia rappresentato dal possesso di grandi estremità. Il processo logico
che verrebbe qui a configurarsi segui rebbe lo schema: 128 5. LINGUAGGIO
E SEGNI IN ARISTOTELE l. "essere coraggiosi" 2. "avere grandi
estremità" 3. "essere coraggiosi" (probabilmente) si predica di
si predica di si predica di "leoni, "leoni" "chi ha grandi
estremità" Un sillogismo in 3a figura, come è questo, secondo Peir ce
costituirebbe una induzione, ma di un tipo talmente "ti mido da perdere
totalmente la caratteristica ampliativa pro pria dell'induzione genuina"
(1984: 210). Esso avrebbe un forte carattere ipotetico. Tuttavia Aristotele non
segue in effetti questo ragiona mento perché non riesce ad accettare come
valido dal pun to di vista logico un procedimento che risulta privo di ga
ranzie. Così è costretto a inquadrare questo, si noti bene, quanto mai
aleatorio segno del coraggio in uno schema an cora una volta deduttivo. In
altre parole, l'osservazi,"ne deli'associazione tra coraggio e grandi
estremità deve tra mutarsi in un legame stretto e costante. Lo sforzo di Ari
stotele è tutto rivolto a dimostrare che ogni volta che ci sia coraggio, questo
venga manifestato dalla presenza di gran di estremità, e viceversa. In termini
tecnìci, la situazione ideale, cioè il massimo della certezza, si ottiene
quando si verifica conversione (antistréphein) tra ciò che funge da se gno e
ciò a cui esso rimanda, ovverosia quando l'estensione del primo termine è
esattamente uguale a quella del secon do. Da qui la necessità (puramente
logica, e non semiotica) che un unico segno si riferisca a un'unica affezione:
solo in questo modo è possibile la conversione tra i due termini. A questo
punto il problema di fare un'ipotesi su quale sia il segno del coraggio si
trasforma in quello di trovare un elemento di mediazione tra il
"coraggio" e il "genere dei leoni", che ne appaiono
costantemente provvisti. Tale elemento di mediazioneJ che sembra appunto giusti
ficare l'associazione, è "avere grandi estremità", che divie ne così
il segno, sul quale viene costruito il seguente schema sillogistico deduttivo
(An. Pr., II, 70 a, 32-38): SVALUTAZIONE DEL SAPERE SEONICO 129 A si
predica di B "essere coraggioso" "chi ha grandi estremità"
B si predica di c 2. 3. A si predica di c "avere grandi estremità''
"leone" "essere coraggioso" "leone" Ma ciò che
Aristotele trascura di mettere in luce è che, come abbiamo visto, i dati di
partenza della deduzione stes sa poggiano su una precedente inferenza a
carattere più ipotetico. L'esempio proposto è interessante perché, prima della
presentazione dello schema formale, tutto il ragiona mento è rivolto a
stabilire i criteri che permettano di dire che qualcosa è segno di
qualcos'altro. Ma ciò è possibile solo formulando un'ipotesi, che solo in
seguito può essere verificata deduttivamente. 5.5 La svalutazione del sapere
segnico In effetti la diffidenza di Aristotele nei confronti della conoscenza
che si può ricavare dai segni è molto marcata. Infatti, nella concezione
aristotelica, anche quando tra i due termini del segno vi sia un legame
necessario, la cono scenza del termine non noto sembra imporcisi dall'esterno,
senza che si riesca a comprenderne la causa. Aristotele nei Secondi analitici
(1, 75 a, 28-36) oppone il ragionamento basato sull'essenza a quello basato
sulsegno; quest'ultimo infatti viene definito come ragionamento che si fonda
sulle determinazioni accidentali. Ne consegue, peraltro, che soltanto con il
primo tipo è possibile arrivare a conoscere la causa. Ciò non significa che la
conoscenza attraverso il segno sia totalmente esterio re. In certi casi, che
sono quelli dei segni necessari, il segno permette di risalire alla causa: così
la constatazione del fat to che una donna ha latte permette di risalire alla
causa, cioè al suo essere gravida, come pure l'accertamento della 130 5.
LINGUAGGIO E SEGNI IN ARlSTOTELE presenza della febbre permette di risalire
allo stato di ma lattia che la determina. Tuttavia questo tipo di ragionamento
non arriva a forni re una vera e propria scienza dei fatti, in quanto
quest'ulti ma si ottiene solo a partire dalla causa. Il ragionamento at
traverso il segno parte invece dall'effetto e permette soltan to
l'affermazione del fatto, cioè dello h6ti ("che"), senza condurre
alla comprensione delle cause, cioè del di6ti ("perché"). Nel
capitolo 13 dei Secondi analitici Aristotele insiste sul fatto che la
dimostrazione veramente scientifica non consi ste nella scoperta o nella
conclusione della causa, ma essa è scientifica proprio in quanto parte dalla
causa; in quel con testo viene infatti fondata la distinzione tra "il
sapere che qualcosa è" e "il sapere perché qualcosa è". In
effetti alle scienze dello h6ti viene riconosciuto un cer to diritto di
esistenza; tuttavia esse vengono considerate in feriori in quanto portano sui
fatti, senza raggiungere la co noscenza del necessario e a malapena quella
dell'universale. Ma quali sono queste scienze dello hoti? Dagli esempi che
Aristotele fornisce si direbbe che si tratta eminentemente di scienze
indiziarie, basate sui segni e fornite di un carattere fortemente ipotetico in
contrapposizione ad altre che invece hanno carattere deduttivo. Tra questi
esempi Aristotele cita il caso dell'astronomia (astrologhfa), nome condiviso
sia da una certa scienza nau tica (nautik) sia da una scienza basata su
fondamenti ma tematici (mathmatik). Solo la seconda è scienza delle cau se.
Ugualmente Aristotele contrappone la medicina alla geometria: infatti, nel caso
delle ferite circolari, spetta al medico di sapere che esse guariscono più
lentamente, men tre spetta all'esperto di geometria conoscere il perché di
questo fatto. Dunque abbiamo medicina e scienza della navigazione contro
matematica e geometria: il senso della scelta aristo telica contro il segno
non potrebbe essere più chiaro. È interessante osservare come per Aristotele
sia possibile anche sviluppare un ragionamento dello hoti oppure uno del dioti
all'interno di una stessa scienza. La differenza che 5.5 SVALUTAZIONE DEL
SAPERE SEGNICO 131 contraddistingue i due tipi è duplice. Infatti si fa un
ragio namento dello h6ti, in primo luogo, quando il sillogismo non si basa su
premesse immediate (che, nell'epistemologia aristotelica, significa assumere la
causa prima e prossima); in secondo luogo, quando, pur basandosi su premesse im
mediate, la deduzione non discende dal termine che indica la causa di un fatto,
ma dal più noto di due termini, en trambi riferiti al fatto. In altre parole,
la differenza specifi ca del sillogismo del dioti è ancora che esso va dalla
causa ali'effetto e non dali'effetto alla causa. L'esempio che Aristotele
fornisce è molto interessante. Posto, infatti, che c'è una certa relazione tra
il non sfavilla re dei pianeti e la loro vicinanza alla terra, Aristotele mo
stra come attraverso questi due termini sia possibile svilup pare due tipi di
ragionamento di diverso valore epistemolo gico . Da una parte è infatti
possibile dedurre la vicinanza dei pianeti dal fatto che non sfavillano (''Se
non sfavillano, so no vicini"). Si ha in questo caso un ragionamento
dello hoti e si può osservare che in questo contesto il "non
sfavillare" è tipicamente un segno del fatto che risulta come conclusio
ne, cioè la loro "vicinanza" alla terra. Il sillogismo costruito sul
segno non parte dalla causa del non sfavillamento dei pianeti (che è costituita
dalla loro vi cinanza), ma parte dell'effetto, che viene assunto come ter
mine medio, per arrivare alla causa. È possibile anche che la causa non venga
mai realmente conosciuta. Aristotele contrappone a questo tipo di ragionamento
quello che deduce il non sfavillamento dei pianeti dalla loro vicinanza. Si ha
in questo caso un ragionamento del dioti, che mostra il perché qualcosa sia,
dal momento che coglie la causa precisamente in quanto causatrice dell'effetto;
for malmente ciò avviene in quanto viene assunto come medio proprio il termine
che indica la causa. Dunque tra il sillogismo del dioti e quello dello hoti c'è
un rapporto di simmetria inversa. È sufficiente infatti in vertire i termini
del secondo per ottenere il primo. Tuttavia ciò non è sempre possibile, come
precisa il com mentatore del testo aristotelico Filopono: 132 5.
LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE Spesso è necessario che, quando viene posta la
causa, anche l'effetto sia posto, mentre non è affatto necessario che, quando
si dà l'effetto, anche la causa si dia: così il fatto di avere il co lorito
pallido non si accompagna necessariamente al parto, ma se una donna ha
partorito, essa ha sempre il colorito pallido: infatti possono esserci varie
cause del medesimo fatto. (Philop., in Anal. Post., Wallies, 169-9)
L'aleatorietà del procedimento inferenziale tipico del se gno (dal pallore al
parto) viene qui messa in risalto preve dendo il caso che un effetto possa
avere molteplici cause, situazione nella quale, secondo Filopono, non potrà
essere costruito un vero sillogismo dello h6ti, ma soltanto un sil logismo del
di6ti. Del resto, Aristotele stesso aveva previsto il caso che un effetto
potesse avere cause differenti,15 che rendono difficile e aleatorio il percorso
di risalita dali'effet to alla causa. D'altra parte, però, secondo il
con1mentatore Filopono, si può verificare anche il caso opposto, quello cioè in
cui sia possibile soltanto un ragionamento dello h6ti. Infatti è possibile
risalire dal fatto che una donna ha partorito (co me effetto e segno) al fatto
che essa si è unita a un uomo (come causa): ma la reciproca non è necessaria,
poiché il parto non segue necessariamente all'accoppiamento (Phi lop., in
Ana/. Post., Wallies, 169-21). C'è infine un'ultima caratteristica che
contraddistingue il ragionamento dello h6ti da quello del di6ti, consistente
nel fatto che il primo è tipico del emplice osservatore dei feno meni, non
specialista, mentre il secoildo spetta all'uomo di scienza (An. Post., I l, 79
a, 2-3). In Aristotele, in definitiva, le scienze indiziarie e il segno in
generale sono oggetto di una svalutazione epistemologi ca, in quanto nella sua
concezione teorica della scienza non viene fatto alcuno spazio alla ricerca e
all'ipotesi, quale è presupposta invece da una concezione semiotica del sapere.
Come sottolinea Le Blond (1939, tr. it. 1973: l 05), per
Ari stotele la scienza "n'est elle pas principalement recherche, mais
possession; les Analytiques n'apportent guère d'indi cations sur la recherche:
il décrivent la science achevée, qui 5.6 DEDUZIONE E ABDUZIONE 133
descend des causes aux effets et coincide absolument avec le dynamisme des
choses - conception singulièrement con fiante, on le voit, qui pose en
principe la connaissance par faite de la réalité". 5.6 Deduzione e
abduzione Non si deve tuttavia pensare che questa posizione teorica corrisponda
esattamente alla pratica di ricerca adottata di fatto da Aristotele, a esempio
nelle opere scientifiche. Né, d'altra parte, si deve accettare enza riserve
l'asserzione ari stotelica circa il carattere assolutamente deduttivo delle
scienze del di6ti. Come ha mostrato Eco (1983: 242), per Aristotele trovare il
perché di un certo fenomeno significa trovare un buon termine medio che spieghi
quel fenomeno: ma questo termine medio può essere, in certi casi, anche molto
ardito e sofisticato, e non corrispondere a nessuna conoscenza già accertata.
Esso può essere, cioè, una "ipote si" nel senso peirceano. È
illuminante, a questo riguardo, il ragionamento svilup pato da Aristotele nel
trattato Parti degli animali, in cui, a proposito degli animali provvisti di
corna, vengono regi strati alcuni "fatti sorprendenti" bisognosi di
spiegazione. A esempio: (i) che tutti gli animali con le corna hanno una sola
fila di denti, cioè mancano degli incisivi superiori (663 b - 664 a); (ii) che
tutti gli animali con le corna hanno quat tro stomaci (674 a-b); (iii) che
tutti gli animali con quattro stomaci mancano degli incisivi superiori (674 a)
ecc. Il problema che ha di fronte Aristotele, in questo caso, è quello di
spiegare la ragione per cui, innanzitutto, agli ani mali con le corna mancano
gli incisivi superiori. Come sot tolinea Eco, Aristotele "deve porre una
Regola tale che, se il Risultato che vuole spiegare fosse un Caso di questa Re
gola, tale Risultato non sarebbe più sorprendente'' (1983: 239). E del resto,
secondo Peirce, quando una circostanza "strana" si spiega supponendo
che essa sia il caso di una certa regola 0enerale, siamo di fronte a un'ipotesi
o abdu zione . 134 5. LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE Proprio in questi
termini procede Aristotele, supponen do che, nel caso considerato,
probabilmente, la materia du ra è stata deviata dagli incisivi superiori alla
testa con lo scopo di formare le corna. A sua volta, la mancanza di in cisivi
superiori è causa dello sviluppo di un quarto stomaco ed è il medio dal quale
si sviluppa un ulteriore sillogismo. Espresso nei termini del sillogismo (nella
formalizzazione peirceana adottata da Eco) il primo ragionamento si rico
struisce così: Regola = Tutti gli animali devianti (cioè che hanno deviato la
materia dura dalla bocca alla testa) mancano degli in cisivi superiori.
Caso=Tutti gli animali con le corna hanno deviato. Risultato = Tutti gli
animali con le corna mancano degli in cisivi superiori. La "deviazione
deUa materia dura" costituisce contem poraneamente il medio del
sillogismo e la spiegazione del fenomeno. Quello che Eco mette giustamente in
risalto è che lo sforzo di spiegare a titolo ipotetico perché un feno meno è
così come è, costruendo una forma rigorosamente deduttiva, non differisce in
niente da ciò che Peirce chiama abduzione: in ciascuno dei due casi c'è un
lavoro su ipotesi che permettono di spiegare fenomeni che appaiono "sor
prendenti " . L'idea di Eco, in sostanza, è che al di sotto e prima del li
vello deduttivo preso in considerazione da Aristotele esista un livello
abduttivo che Aristotele rifiuta di riconoscere, ma al quale ricorre nel caso
che debba costruire delle defi nizioni scientifiche: definire il perché di un
fatto sorpren dente "significa stabilire una gerarchia di collegamenti
cau sali per via di una sorta di ipotesi che può essere convalida ta solo
quando dà luogo a un sillogismo deduttivo che agi sce come previsione di
successive modifiche" (ibidem, 241). Ed è in definitiva proprio il mancato
riconoscimento di questo movimento inferenziale preliminare che vieta ad
Aristotele di riconoscere il carattere ipotetico della scienza e, nel contempo,
la produttività dello stesso sapere segnico. 6. LA TEORIA DEL LINGUAGGIO
E LA SEMIOTICA DEGLI STOICI 6.0 Introduzione La scuola stoica è quella che
nell'antichità ha sviluppato con maggior rigore e profondità una riflessione
semiotica. Tuttavia l'indagine degli stoici si polarizza, com'era già av
venuto per Aristotele, su due ambiti fondamentalmente di stinti tra di loro:
da una parte, una teoria del linguaggio in senso stretto, che comporta anche
un'analisi dei rapporti tra linguaggio, pensiero e realtà (in corrispondenza
della terna "significante", "significato", "oggetto
esterno"); dal l'altra, una teoria del "segno" proposizionale,
connessa con la teoria dell'inferenza. Questi aspetti della filosofia stoica
trovano però un pun to di convergenza, come vedremo, nel loro comune legame
con il lekt6n, un'entità che ha uno statuto eccezionale nella metafisica
stoica. In effetti, a fondamento di quest'ultima, si pone la speciale
dialettica tra le entità che condividono la proprietà di essere
"corpi" (sOmata) e quelle entità che sono invece corporee (asOmata).
Più in dettaglio si può dire che di solito l'ontologia stoica prende in
considerazione solo quegli individui che hanno la caratteristica di essere
oggetti tridimensionali e di possedere altresì una resistenza nel tem po.
Questi, appunto, sono i corpi e solo essi vengono consi derati esistenti. Ora,
tanto nella teoria del linguaggio, quan to in quella del segno proposizionale,
accanto alle entità corporee vengono prese in considerazione anche delle entità
incorporee, quali i lekta. LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI Per il
momento è invece necessario sgombrare il campo da due equivoci. Il primo
concerne il destino che tocca alle entità incorporee: esse non vengono relegate
semplicemente nell'ambito del non-esistente, ma vengono investite di una
"esistenza derivativa'' (Long 197I a: 89-90). Il secondo pos sibile
equivoco concerne la nozione stessa di corpo. Contra riamente a quello che ci
attenderemmo in relazione a una nozione moderna di corpo, per gli stoici erano
"corpi" an che le qualità, in quanto venivano considerate come
materia in un certo stato. Le proprietà di un certo individuo costi tuiscono
stati o modi del suo essere e, per la loro esistenza, dipendono dall'esistenza
di questo individuo. Se l'individuo esiste, le sue proprietà sono appunto
disposizioni esistenti di materia (Rist I969: 52-55). Si profila, a questo
punto, una ontologia che pone al suo centro la nozione di
"particolare": quest'ultimo viene carat terizzato come un oggetto
materiale, che ha una forma defi nita come condizione necessaria e sufficiente
della sua esi stenza. La forma, del resto, è l'elemento caratteristico di un
oggetto, che lo rende identificabile come tale (Long I97I a: 76). È proprio su
questi presupposti antologici che si innesta e si sviluppa la teoria
semiolinguistica degli stoici: il bisogno di una teoria del significato e della
verità nasce appunto a proposito deIl'identificazione dei
"particolari", ed è con nesso a una teoria della percezione. Così,
si terrà presente innanzitutto che per gli stoici le im magini (phantasfa1)
prodotte nella mente dagli oggetti ester ni danno luogo a una percezione vera
se esse riproducono esattamente la configurazione di tali oggetti.1 Del resto,
le immagini giocano un ruolo importante nella teoria del si gnificato degli
stoici, come si sa che avevano una parte im portante anche nella teoria del
significato di Aristotele. In secondo luogo si può considerare come
fondamentale il fatto che uno dei modi di identificare un "particolare"
è quello di identificarlo linguisticamente. In questo caso è fondamentale
l'abilità di A nel comunicare a B che sta par lando intorno a X, come pure
l'abilità di B di indicare ad A che egli ha compreso il suo riferimento.
6.1 LA TEORIA DEL LINGUAGGIO 137 6.1 La teoria del linguaggio 6 . 1 . 1 Il
triangolo semiotico Il passo di Sesto Empirico che contiene i lineamenti fon
damentali della teoria linguistica stoica si trova proprio in un contesto che
concerne un conflitto di opinioni intorno alla verità. È importante
sottolineare che per gli stoici una teoria del la verità, cioè la ricerca
delle basi per una verifica delle pro posizioni, non può essere elaborata in
maniera indipenden te da una concezione della struttura del mondo e da ciò che
può essere detto intorno a esso. Ecco il passo di Sesto. Alcuni hanno riposto
il vero e il falso nella cosa "significata" (tò smainomenon), altri
nella voce (phon), altri infine nel mo vimento del pensiero. Della prima
opinione sono stati i porta bandiera gli stoici col sostenere che sono tra
loro congiunte tre cose, ossia la cosa significata (tò smainomenon), quella
signi ficante (tò smafnon), e quella-che-si-trova-ad-esistere (tò tyn
chanon), e che, tra queste, la cosa significante è la voce (ad esempio la
parola "Dione"); quella significata è lo stesso stato di cose (autò
tò pragma) indicato dalla voce pronunciata (tò hyp'autis dloumenon), che noi
percepiamo come coesistente (paryphistamenon) con il nostro pensiero
(dianoia1), mentre i barbari, pur ascoltando la voce che lo indica, non lo
compren dono; infine, ciò-che-si-trova-ad-esistere è quello che sta fuori di
noi (ad esempio, Dione in persona). Di queste cose due sono corpi, cioè la voce
e ciò-che-si-trova-ad-esistere, ed una è incor porea, cioè l'oggetto
significato o "detto" (lekton), e proprio quest'ultimo è vero o
falso. 2 (Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 11-12) A partire dalle notizie di
Sesto, anche per gli stoici il fe nomeno della significazione linguistica può
essere ricostrui to nei termini di un triangolo (cfr. p. 138). Si può
osservare che compaiono i termini "significante" e
"significato" (come è dato trovare anche nella teoria mo derna di
Saussure), ma non quello di "segno": come anche 138 6. LA
TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI slmsin6menon (significato) lekt6n (
detto) tmsm lnon (aignificente) tynchAnon in Aristotele, la nozione
di smeion appartiene a un altro ambito della teoria, che non è quello
strettamente linguisti co. Si può notare anche che l'esempio che viene dato
qui è abbastanza particolare, in quanto si tratta di un nome pro prio. In
secondo luogo, se da una parte, come per Aristotele, i termini che individuano
la significazione sono tre e com prendono anche l'oggetto, che propriamente è
esterno al linguaggio, tuttavia la coincidenza tra i due modelli è solo
parziale: soltanto il primo e il terzo termine, cioè la voce si gnificante e
l'oggetto, possono essere assimilati nei due triangoli. 6. 1 .2 Il
"lekt6n" come "asserzione" Un caso assolutamente a sé
costituisce il termine che si trova al vertice superiore del triangolo,
chiamato prima ù·lJ_ main6menon, poi anche lekt6n. Soprattutto nella sua se
conda denominazione costituisce un termine peculiare della filosofia del
linguaggio degli stoici e rimanda a un concetto complesso e di grande
interesse. Un primo aspetto della sua peculiarità lo si può rilevare in un
confronto con Aristotele. (oggetto esterno, referente) LA TEORIA
DEL LINGUAGGIO Nella stessa posizione del triangolo della significazione Ari
stotele poneva delle entità psicologiche, che venivano consi derate le
medesime per tutti gli uomini. Il lekt6n degli stoici, come ci dice Sesto nel
passo riporta to, ha caratteri completamente diversi, in quanto i barbari, pur
udendo i suoni e vedendo l'oggetto, non lo compren dono . Come rileva Todorov
(1977: 17-18), la differenza tra le due nozioni consiste innanzitutto nel fatto
che, mentre l'en tità presa in considerazione da Aristotele si situa a livello
della mente dei locutori, quella considerata dagli stoici si si- tua
direttamente al livello del linguaggio: Todorov interpreta il lekt6n come la
capacità del primo elementodi designare il terzo. Tale interpretazione poggia
anche sul fatto che l'e sempio dato è un nome proprio, che ha una capacità di
de signazione come gli altri nomi, ma è molto controverso se abbia un senso;
la risposta che di solito si dà a questo inter rogativo è negativa. I barbari
odono sicuramente la sequenza di suoni l Dio ne l e vedono l l Dione l l, ma
sono incapaci di connettere il suono con il suo oggetto di riferimento.
Comprendere, dun que, come avviene appunto nel caso dei Greci, consiste pro
prio nel percepire la connessione tra la parola che viene pro nunciata e
l'oggetto cui si riferisce. Anche Long (1971 a: 77) identifica il lekt6n con
tale connessione, ma nel senso che esso si configura come l'affermazione che un
enunciato fa nei confronti di qualche oggetto; in questo caso, la tra duzione
più propria di lekt6n è "ciò che è detto", in quanto tale espressione
copre sia la nozione di "giudizio" che quella di "stato di cose
significato da una parola o da una serie di parole".3 L'idea che i lekta
si potessero configurare come "affer mazioni intorno agli oggetti"
emerge da una testimonianza di Seneca (Epistulae mora/es, 1 17, 13), in cui
viene delinea to uno schema triadico della significazione analogo a quello di
Sesto, ma con una proposizione ( l Catone cammina l ), laddove Sesto proponeva
solo un nome ( l Diane l ). Seneca invita a distinguere tra l'oggetto di
riferimento, cioè Cato ne, che è un oggetto materiale, e l'asserzione intorno
a esso 140 6. LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI ( l Cato ambulat l ),
che è un "incorporale". Tale asserzione è propriamente il lekton, del
quale termine Seneca propone tre diverse traduzioni latine: enuntiatum
("enunciazione"), effatum ("affermazione"), dictum
("asserzione"). Dato che l'esempio proposto da Seneca è una
proposizio ne, risulta più agevole, rispetto ali'esempio di Sesto, capire come
possa essergli applicato il predicato "vero" o "falso".4
Infatti solo i lekta che costituiscono una proposizione com pleta possono
essere veri o falsi.5 6. 1 .3 I rapporti tra il "lekt6n" e il
pensiero Nel modello aristotelico della significazione le espressioni
linguistiche sono i simboli degli stati psichici (pathmata en tiipsychi1) elo
dei pensieri (noimata). In questo modo non viene operata una chiara distinzione
tra la nozione di "si gnificato" e quella di "pensiero".
Tale concezione ricompa re del resto nella nota teoria novecentesca di Ogden e
Ri chards (1936: tr. it. 37), i quali disegnano un triangolo se miotico in
cui figura al vertice superiore la nozione di "thought"
("pensiero"). Diversa è la concezione proposta dagli stoici. In
effetti, dalla testimonianza concorde di Sesto e di Diogene si ricava una
nozione di significato nettamente distinto dal pensiero, anche se intrattenente
con questo un certo tipo di rapporto. Dice infatti Sesto: [Gli stoici]
affermano che il /ekton è ciò che sussiste in confor mità con una
rappresentazione razionale (loghik phantasia) e che una rappresentazione
razionale è quella secondo cui il rap· presentato (phantasthén) può essere
espresso in parole. (Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 70) In termini del tutto
analoghi si esprime Diogene (Vitae, VII, 63), usando anche le stesse
espressioni. Cosi, da en trambi i passi si può ricavare l'idea che gli stoici
operassero una distinzione netta tra i lekta, che rappresentano il livello del
"significato", e le "rappresentazioni razionali"
(loghikaì 6.1 LA TEORIA DEL LINGUAGGIO 141 phantasfa1), che possiamo
definire come delle forme di atti vità intellettiva o dei pensieri;
quest'ultime entità sono pe culiari della specie umana6 e possono,
ali'occorrenza, essere espresse in parole (a questo infatti si riferisce
l'aggettivo lo ghikaf). Ma, sempre dai due passi, si può ricavare anche che i
due termini, il lekton e l'attività di pensiero, vengono messi in relazione. Long (1971 a: 82) cosi commenta il passo di Se sto: "I take this
difficult passage to mean that the /ekton is defined as the objective content
of acts of thinking (no sis)" e aggiunge anche "or, what comes to the
same thing in Stoicism, the sense of significant discourse". Prima di ap
profondire il senso di questa seconda asserzione di Long, soffermiamoci sulla
prima. Dunque la relazione che il lekton instaura con l'attività di pensiero è
tale per cui esso si configura come contenuto o risultato di tale attività. Ma
questa nuova relazione, che ve niamo scoprendo attraverso le testimonianze di
Diogene e Sesto, comporta un elemento nuovo rispetto a quanto lo
stessoSestoavevadettoaltrove(Adv.Math.,VIII, 11-12), quando aveva messo in
relazione il lekton con l'espressione significante (cioè con il smainon). In
effetti, se il lekton viene ora definito come qualcosa che sussiste in
conformità con una rappresentazione razionale, è evidente che l'accen to
appare spostato dal precedente rapporto con il suono della voce, a un rapporto
con l'attività del pensiero. Questa, prima di dimostrarsi un'apparente
contraddizio ne o un falso dilemma, ha diviso sia le testimonianze degli
esegeti antichi sia le interpretazioni degli studiosi moderni degli stoici.
Come mette bene in evidenza Mignucci (1965: 92-93), i lekta, essendo
incorporei, "non possono essere disgiunti da qualcosa di corporeo che
faccia in qualche modo da sup porto ad essi e che permetta la loro
esprimibilità". Il proble ma diviene allora quello di stabilire se a fare
da supporto ai lekta siano: (i) i suoni della voce; o (ii) l'attività della
mente che li pensa. La prima definizione di Sesto7 opta per la solu zione
(i),9mentre la seconda,8 come pure la definizione di Diogene, optano per la
soluzione (ii). Ugualmente, tra gli 1 42 6 . LA TEORIA DEL LINGUAGGIO
DEGLI STOICI interpreti moderni, Mates10 risponde che sono le parole a fare da
supporto ai lekta; Zeller11 e Bréhier12 assumono l'altro punto di vista. Come
dicevamo, questo è un falso dilemma, non resolu bile tuttavia filologicamente,
in quanto nei testi antichi c'è un'uguale quantità di elementi di convalida per
ciascuno dei due punti di vista. Piuttosto è necessario considerare un du
plice presupposto che sembra agire nella teoria stoica: da un lato il
verificarsi di discorsi significativi rimanda a un'at tività intellettuale, in
assenza della quale non è possibile che si diano i significati; dall'altra il
risultato dell'attività intel lettuale ha bisogno dei suoni della voce
significativi per esplicitarsi oggettivamente. È possibile, anzi, trarre le con
seguenze dal fatto che i lekta siano definiti da una parte co me contenuti
delle rappresentazioni razionali e dali'altra come significati delle parole:
conseguenze che indicano la necessità di postulare una stretta connessione tra
i contenuti dell'attività rappresentativa della mente e il loro essere si
gnificati attraverso le parole. I due termini, in realtà, non possono essere
disgiunti l'uno dall'altro.13 A questo punto possiamo comprendere la seconda
asserzione di Long che abbiamo anticipato: il senso del discorso significante e
il contenuto oggettivo degli atti di pensiero devono essere considerati come la
stessa cosa.. La precedente conclusione viene del resto appoggiata da tà14 è
dato dalla "rappresentazione" (phantasia) passo Diogene spiega che la
phantasia ha un ruolo assoluta mente primario, in quanto non è possibile,
senza di essa, rendere conto di alcuni processi fondamentali della cono
scenza, quali l'assenso (synkatathesis), la comprensione (kata/psis) e
l'attività di pensiero (n6sis): "infatti la rap presentazione viene per
prima, poi il pensiero (dianoia) che è capace di parlare (eklalètik), esprime
in parole (/6g01) ciò che esperimenta come il risultato della
rappresentazione". Il passo di Diogene è importante perché ripropone la no
zione, già platonica,15 del pensiero come "discorso inter no".16
Tutto ciò porta a concludere che per gli stoici esiste Long sulla
considerazione di un passo di Diogene Laerzio (Vitae, VII, 49-50) in cui viene
detto che il criterio di veri- .. In questo 6.2 LA TEORIA DEL SEGNO 143
una sostanziale identità tra i processi del pensiero e quelli della
comunicazione linguistica. Il fatto poi che i processi cognitivi siano basati
sulla phantasia getta luce sul ruolo che le immagini mentali hanno nella teoria
linguistica del si gnificato. 6.2 La teoria del segno 6.2. 1 Il
"lekt6n" e la teoria del segno Il lekton, che abbiamo finora
incontrato come elemento centrale della teoria del linguaggio, costituisce una
nozione fondamentale anche della teoria del segno e, in un certo f110do, è un
fattore di mediazione tra le due teorie. Infatti i 5egni (smefa) per gli stoici
sono anzitutto dei lekta, in auanto sono costituiti da proposizioni. Questo fa
sì che, come sottolinea Eco (1984: 30), nella se fllÌOtica stoica si verifichi
una saldatura "di diritto" tra la 0ottrina del linguaggio e la
dottrina dei segni. Infatti, "per ché ci siano segni occorre che siano
formulate proposizioni e le proposizioni debbono organizzarsi secondo una
sintassi Jogica che è rispecchiata e resa possibile dalla sintassi lingui
stica" (ibidem). Occorre tener presente che gli stoici non di cono ancora
che le parole sono segni (sarà Agostino il pri (110 a fare una simile
asserzione) e rimane, del resto, una òifferenza lessicale tra la coppia
smafnonlsmain6menon e sl!mefon. Tuttavia il fatto che i segni siano dei lekta
ci illumina sul ra necessità, avvertita dagli stoici, di tradurre il segno non
verbale in termini linguistici e di legare, dunque, per quanto jfl maniera
implicita e indiretta, le due teorie. Ecco la definizione di segno che ci viene
data da Sesto: Gli stoici, volendo presentare la nozione di segno, dicono che è
una proposizione (axloma) che è l'antecedente (prokathegou menon) in un
condizionale vero (en hyghiei synemménOl), e che è rivelatore del conseguente
(ekkalyptikòn tou ligontos). E di- 144 6. LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI
STOICI cono che la proposizione è un lekt6n completo in se stesso; e il
condizionale vero è quello che non comincia dal vero e finisce ] Riprenderemo
più avanti le varie problematiche che ven gono presentate in questo passo. Per
il momento ci preme sottolineare che in esso si definisce il segno come un
lekt6n completo, cioè come una proposizione che si pone in rap porto di
implicazione con un altro lekt6n, cioè con un'altra proposizione, secondo lo
schema: p -:J q. Si deve notare che, come per Aristotele, l'attenzione per il
segno è esercitata in funzione della conoscenza che esso pe_rmette di
raggiungere: l'ottica, in altre parole, è ancora quella epistemica, e il segno
appartiene a un campo che è di stinto sia da quello logico sia da quello
semantico in senso stretto. Il segno, infatti, non è una proposizione qualsiasi
che figuri come antecedente in un condizionale vero, ma so lo quella
proposizione che permette di scoprire il conse guente (cioè che permette
l'accesso a una nuova conoscen za). Su questo torneremo tuttavia più avanti.
Va comunque notato che, se l'ottica con cui gli stoici guardano al segno è la
stessa di quella di Aristotele, assolu tamente diverso è il tipo di
inquadramento logico. È nor mallnente accettato che Aristotele pratichi la
logica delle classi, mentre gli stoici introducono quella proposizionale. Ciò
comporta che l'attenzione venga spostata: (i) dalla so stanza degli eventi
(Todorov 1 977 : 21), per quanto concerne il punto di vista antologico; (ii)
dal nome/aggettivo, che funge da predicato, alla proposizione, per quanto
concerne l'espressione linguistica. In effetti, in Aristotele si poteva notare
un certo disagio a trattare le sostanze e le proprietà come segni. Ciò che,
invece, può essere trattato come segno sono i fatti e gli avvenimenti espressi
da proposizioni. E del resto Aristotele, pur senza denunciare la differenza,
tutta- nel falso [ di un condizionale che comincia con il vero e finisce nel
vero. Essa fa scoprire il conseguente poiché la proposizione "essa ha
latte" sembra essere rivelatrice (de/Otik6n) di quest'altra "essa
concepito". 17 (Sext. Emp., Hyp. Pyrrh., II, 104-106) ... . Essi chiamano
antecedente la prima proposizione LA TEORIA DEL SEGNO 145 via fornisce
alcuni esempi di segno (come quello della Reto rica, I, 1357 b, 16-18:
"Se essa ha latte, essa ha partorito"), in cui vengono presi in
considerazione eventi e non sostan ze. Ma nella filosofia aristotelica la
teoria del segno ha una parte marginale: il segno viene fatto rientrare nel
procedi mento sillogistico (costituisce una premessa del sillogismo) e viene
confinato nel campo dei procedimenti retorico-dia lettici, se non è un
tekmirion, cioè un segno necessario. Nella scienza vera e propria, fondata sul
sillogismo perfet to, il smeion non trova f>osto. Al contrario, nelle
scuole postaristoteliche, l'inferenza da segni acquista un ruolo centrale:
dalla retorica e dialettica, suoi punti di partenza, il segno viene esteso alla
scienza in generale e alla filosofia nel suo grado più alto. Gli stoici e gli
epicurei vedono nel segno il procedimento canonico del passaggio da ciò che è
noto a ciò che è ignoto. Preti (1956: 7-8) sostiene che, a proposito della
teoria del segno, tra Aristotele e le scuole posteriori si può individuare un
anello di congiunzione, rappresentato dalla teoria di Nausifane, un seguace di
Democrito e uno dei maestri di Epicuro. Da quanto ci è rimasto della sua opera,
il Tripo de, 1 8 è possibile cogliere i punti essenziali di questo passag gio
. Per Nausi fane, infatti, il discorso filosofico (basato per Aristotele sul
sillogismo) e quello retorico (basato sull'enti mema) presentano in realtà la
stessa struttura logica. In en trambi i casi è necessario distinguere tra la
"conseguenza" (ak6/outhon), la "premessa" (homologoumenon)
e "ciò che deriva dalle premesse" (tlnon lphthénton ti symbafnei: il
sillogismo?). In ognuno dei due tipi di discorso il problema è quello di
partire da cose presenti (hyparchonta) per giun gere in maniera metodica alle
cose invisibili. Il metodo del passaggio è la akolouthia, "la relazione di
consequenziali tà", di implicazione o implicitazione, comune appunto a
filosofia e retorica. 20 Ora, come testimonia Sesto, dalle cose evidenti (apò
ton enargOn) alla comprensione del le cose oscure (adla) per mezzo del segno
come relazione di akolouthia costituisce proprio il nocciolo della dottrina de
gli stoici (come pure di tutti coloro che Sesto riunisce sotto la possibilità
di passaggio LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI il nome di
"dogmatici"). Non solo, ma come prova della centralità della
semiotica, anche la dimostrazione viene considerata un segno:21 fatto che
testimonia la riduzione della filosofia della scienza a semiotica e che
conferma la tendenza delle scuole postaristoteliche a ridurre o trasfor mare
il sillogismo nell'inferenza implicativa. 6.2.2. 1 I tipi di segno: A)
"comune" e "proprio" Nella semiotica stoica si registra la
scomparsa della di stinzione terminologica tra tekmrion e smeion: il primo
termine non viene più usato e i segni vengono tutti denomi nati smeia.
Un'ipotesi plausibile è che ciò sia legato all'ab bandono del sillogismo e
della sua distinzione in figure la quale sorreggeva tale opposizione. Tuttavia,
al suo posto, sembra comparire un'opposizione tra "segno comune"
(koinòn smeion) e "segno proprio" (fdion). Tale distinzione non era
specificamente stoica, ma appartenente a una koini filosofica ellenistica,
sulla quale c'era accordo anche tra scuole per altro verso in contrasto. Una
definizione sufficientemente chiara dei due tipi di se gno si trova nel
trattato semiotico di Filodemo (l secolo a.C.): Un segno è comune (koin6n) per
nessuna altra ragione che quella per cui può esistere, sia che l'oggetto non
percepito (tò adlon) esista, sia che non esista. Noi diciamo che la persona che
crede che questo particolare uomo sia buono a causa del fatto che è ricco, sta
usando un segno non valido e comune dal momento che molti che sono ricchi
risultano malvagi e molti buoni. Perciò il segno proprio (idion), se è
necessario (ananka stik6n), non può esistere altrimenti che con la cosa che
noi di ciamo appartenere di necessità ad esso, (cioè) l'oggetto non evi dente
di cui è segno. 22 (Philodemus, De signis, I, 1-17) C'è una convergenza nelle
scuole postaristoteliche nel ri tenere il segno comune come non valido e
nell'accettare in vece unicamente il segno proprio. Dalla definizione di
Filo- LA TEORIA DEL SEGNO demo si ricava che una differenza peculiare
consiste nel ca rattere di necessità del segno proprio, che viene definito co
me "necessario" (anankastik6n), carattere non posseduto da quello
comune. Viene dunque da mettere in parallelo il segno proprio con il segno
necessario di Aristotele che ri chiedeva una connessione necessaria con
l'oggetto a cui rin viava. D'altra parte, il segno comune è definito come quel
segno che può rimandare a qualcosa di esistente, di cui sa rebbe segno, ma può
anche non rimandare a niente. Dato l'esempio, cioè l'inferire dalla ricchezza
di un uomo la sua bontà (inferenza che in certi casi funziona e in certi altri
no), sembra plausibile porre in relazione il segno comune e i segni in seconda
e terza figura di Aristotele. Infatti per Ari stotele si poteva inferire dal
pallore di una donna il suo es sere gravida (segno in 2a figura) oppure dalla
bontà di Pit taco la bontà dei sapienti (segno in 3a figura): ma questi se
gni non in ogni caso risultavano verificati. Si può così giungere a una
conclusione interessante: men tre Aristotele, pur negando validità scientifica
ai segni non necessari, ne prevedeva comunque un uso in un ambito epi
stemologicamente più basso, come quello della retorica, do minio delPopinione,
la scuole postaristoteliche sembrano aver fatto definitivamente piazza pulita
delle inferenze del tipo non necessario. 6.2.2.2 I tipi di segno: B)
"rammemorativo" e "indicativo" Filodemo aveva scritto il
suo trattato intorno alla metà del I secolo a.C. Circa due secoli dopo, Sesto
riprende la di stinzione tra segno preso in senso proprio (idlos) e segno
preso in senso comune (koinOs), mettendola in esergo alla sua trattazione del
segno; ma, stranamente, assimila questa a un'altra opposizione, quella tra
segno rammemorativo e segno indicativo: Il segno [. . .] si dice in due
maniere, comune (koinOs) e proprio (idt'Os). In maniera comune si dice segno
quello che sembra rive lare qualche cosa: in questo senso sogliono chiamare
segno an- LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI che ciò che serve a
richiamare alla memoria la cosa osservata in sieme con esso. In maniera
propria si dice segno quello che è in dicativo di una cosa avvolta
nell'oscurità. (Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 143) Apparentemente, e in maniera
contraddittoria, tuttavia Sesto sembra voler mantenere la duplice distinzione,
in quanto, dopo aver introdotto l'opposizione tra segno co mune e segno
proprio, dichiara di voler trattare solo di que st'ultimo (ibidem, 143); e
poiché il segno proprio è quello che permette di scoprire le cose che sono
oscure, egli propo ne di distinguere preliminarmente le cose in
"manifeste" e "oscure", e di suddividere ulteriormente
quest'ultime in tre categorie. Ne risulta una quadruplice tipologia: (i) Le
cose manifeste o immediatamente evidenti: sono quelle che giungono alla
conoscenza in maniera diretta; co me esempio Sesto porta "il fatto che è
giorno e che io sto di scorrendo"23 quando io faccio realmente queste
cose. (ii) Le cose oscure in senso assoluto: sono quelle che han no una natura
tale da non arrivare alla nostra comprensio ne (kata/psis), come a esempio
"se le stelle siano di numero pari o dispari" o "se i granelli
di sabbia della Libia siano di un determinato numero".24 (iii) Le cose
oscure temporaneamente: sono quelle che pur avendo una natura manifesta
divengono, per certe cir costanze, non evidenti per un certo tempo: l'esempio
è il fatto che, chi si trova a una certa distanza, non vede la città di Atene.
Atene, visibile per sua natura, diviene tempora neamente invisibile a causa
della distanza.2 (iv) Le cose oscure per natura: sono quelle che hanno una
natura tale da non essere percepite, ma sono soltanto pen sabili (noto1).26
Gli esempi sono "i pori intelligibili" e "il vuoto". Non si
pone un problema di segni a proposito della prima e della seconda categoria, in
quanto le cose manifeste ven gono comprese in maniera non mediata e le cose
oscure in senso assoluto non possono essere comprese affatto. Invece è proprio
attraverso i segni che possono essere comprese le cose che appartengono alle
ultime due categorie. Ma i tipi 6.2 LA TEORIA DEL SEGNO 149 di segno sono
diversi per ciascuna di esse. Le cose tempora neamente oscure si colgono
attraverso i segni rammemora tivi, quelle oscure per natura attraverso i segni
indicativi. Ecco la definizione che ne dà Sesto: Dei segni [...], secondo
costoro [i dogmatici], alcuni sono ram· memorativi (hypomnstika), altri
indicativi (endeiktika). Chia mano segno rammemorativo quello che, osservato
insieme con la cosa designata in maniera evidente, appena esso si presenta, se
quella è avvolta nell'oscurità, ci conduce a ricordare la cosa che è stata
osservata insieme a tal segno e che non si presenta ora in maniera evidente,
come avviene per il fumo e il fuoco. È invece indicativo, come dicono, quel
segno che, non osservato insieme con la cosa designata in maniera evidente,
pure, per la propria natura e costituzione, segnala ciò di cui è segno; così,
per esempio, i movimenti del corpo sono segni dell'anima. (Sext. Empyr., Hyp.
Pyrrh., II, l00-1Ol)27 Il segno rammemorativo è, in sostanza, frutto di un'asso
ciazione costante tra cose comunemente osservate in con nessione empirica.
Sembra, tra l'altro, che gli esempi che Sesto sceglie per illustrare questo
tipo si distribuiscano se condo la tripartizione28
contemporaneità/anteriorità/po steriorità tra il segno e la cosa indicata: nel
caso di "fu mo-+fuoco" vi è contemporaneità; in
"cicatrice-+piaga" o in "fascia-unzione degli atleti" il
fatto indicato è anterio re; in "ferita al cuore-morte", il segno
rimanda a qualcosa di posteriore.29 Il segno indicativo, a differenza del
precedente, non è su scettibile di essere osservato insieme alla cosa di cui è
segno, in quanto quest'ultima non è mai stata manifesta e spesso non è nemmeno
sospettabile. Ne sono esempi "i movimenti del corpo" che permettono
di risalire all'"anima", o "il su dore" che rimanda ai
"pori della pelle".30 Sesto accetta la validità epistemologica dei
segni rammemorativi, mentre nega validità epistemologica ai segni indicativi,
che sono, secondo lui, un'invenzione dei "filosofi dogmatici" e dei
"medici razionalisti".3 1 Possiamo ricapitolare con il seguente
schema la classifi cazione di Sesto: cose manifeste oscure non
danno luogo a segni danno luogo a un segno in senso assoluto per natura danno
luogo a un segno indicativo rammemorativo Si deve però osservare che la
distinzione riportata da Se sto tra segno rammemorativo e segno indicativo
solleva molti dubbi circa la sua provenienza stoica. In effetti, non se ne
trova traccia in altre fonti e neppure nel resto della trattazione dello stesso
Sesto. Inoltre, tale distinzione appa re addirittura in contrasto con
l'indirizzo complessivo della filosofia stoica e soprattutto con l'orientamento
logico-for male della teoria del segno. Questa distinzione, per quanto
importante dal punto di vista epistemologico, appare irrile vante dal punto di
vista logico. Invece, sembra essere genuinamente stoica la distinzione tra
segno comune e segno proprio, secondo la testimonian za di Filodemo. È, tra
l'altro, il carattere necessario del se gno proprio che dimostra la coerenza
di essa con il pensiero stoico. Infatti, il segno degli stoici è sempre un
segno "ne cessario", come un'analisi più dettagliata della sua
struttura ci permetterà di vedere. 6.2.3 La struttura del segno nel
"condizionale" Ritornando alla definizione stoìca di segno che
abbiamo visto, si devono prendere in considerazione almeno tre cose. Prima di
tutto la nozione di synemménon, che letteralmente significa
"connesso" o "connessione". Il suo significato lo gico ci
viene chiarito da Diogene:32 si tratta dell'asserto temporanea mente 6.2
LA TEORIA DEL SEGNO 151 condizionale del tipo "Se p, allora q", in
cui a una prima proposizione consegue una seconda come nell'esempio "Se è
giorno, c'è luce". La seconda cosa da prendere in considerazione è la no
zione di condizionale valido (hyghiés, "sano"). Da un passo di Sesto,
dove se ne trova la definizione, è possibile ricavare che questa nozione è
affine alla moderna interpretazione vero-funzionale di "Se p, allora
q"; infatti la validità o in validità dell'asserto condizionale "Se
p, allora q" dipende dal valore di verità deli'antecedente e del
conseguente di esso. 33 Sesto, in due passi paralleli, camente "quel
condizionale che non comincia dal vero e fi nisce nel falso" e fcrnisce
una tavola dei valori di verità del tutto conforme a quella che la logica
contemporanea preve de per l'implicazione materiale: p q ·se p, allora
q• valido vero vero falso falso vero falso invalido falso vero valido Sesto
accenna anche a un disaccordo tra i logici stoici a pro posito del criterio
per giudicare un condizionale valido:34 esso corrisponde a ciò che è stato
definito dai Kneale ( 1 962: tr. it. 154 e sgg.) "il dibattito sulla
natura dei condizionali", che animò le discussioni di logica ali'epoca
degli stoici. Il terzo elemento da rilevare è legato alla nozione di se-
definisce come valido uni valido 152 6. LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI
STOICI gno come antecedente (prokathegoumenon) in un condizio nale valido. In
effetti, come fa rilevare lo stesso Sesto,3s i ti pi di condizionale valido
sono tre nella tavola dei valori di verità corrispondente all'implicazione
materiale (V V; F F; F V); il problema diviene dunque quello di vedere se la
struttura del segno sia da ricercare in ciascuno dei tre tipi di condizionale
valido, o solo in casi particolari. Ora, in effet ti, un segno non può non
essere espresso da una proposizio ne vera, come pure deve essere vera la
proposizione a cui es so rimanda. Così sono esclusi il secondo e il terzo caso
(F F; F V), in quanto hanno un antecedente falso. Dunque l'uni ca possibilità
è relativa al primo tipo di condizionale, cioè quello che comincia dal vero e
finisce nel vero.36 Ma c'è un'ultima osservazione da fare, ed è relativa al ca·
rattere che il segno deve avere di essere rivelatore (enkalyp tik6n) del
conseguente. In effetti un condizionale del tipo "Se è giorno, c'è
luce", nel momento in cui si verifichino le due condizioni che sia giorno
e che vi sia luce, è formato da due proposizioni entrambe vere. Tuttavia,
secondo Sesto,37 non si realizzano in questo caso le condizioni perché vi sia
un segno, in quanto entrambe le proposizioni rimand?no a fatti di per sé
evidenti. Il primo termine del condizionale non è rivelatore del secondo. In
effetti, per comprendere la vera natura del segno bisogna passare dal piano
strettamen te logico a uno più generalmente epistemologico. Il segno, per gli
stoici, non solo deve avere una corretta costruzione dal punto di vista logico,
individuabile nella implicazione tra due proposizioni vere, ma deve anche
possedere il carat tere di dispositivo che permette di accrescere la cono
scenza.38 Come già in Aristotele, anche per gli stoici il segno si ap· poggia
su un livello logico, ma si inquadra in un'ottica co noscitiva. Gli esempi di
carattere medico denunciano l'ori gine di quest'ottica. In generale il segno
deve permettere il passaggio inferenziale da una conoscenza di facile accesso,
come "egli ha sputato cartilagine bronchiale", a una cono scenza di
molto più difficile accesso, come "egli ha una pia ga nel polmone".
Tuttavia, ciò che la teoria del segno ac quisisce, passando dalle mani dei
medici a quella dei filoso.. 6.2 LA TEORIA DEL SEGNO fi, è una solida
struttura dal punto di vista logico-formale, tale da escludere la possibilità
di inferenze scorrette. 6.2.4. 1 Il dibattito sulla natura dei condizionali
Quanto ampio e difficoltoso fosse il lavoro che i filosofi dovevano svolgere,
sul piano logico, per stabilire un criterio atto a escludere le inferenze scorrette,
lo dimostra l'acceso dibattito che si sviluppò sulla "natura dei
condizionali" (Kneale 1962). Scrive infatti Sesto Empirico: "Tutti
quanti i dialettici sono generalmente d'accordo neli'affermare che un
condizionale è valido quando il suo conseguente segue (akolouthei) dal suo
antecedente, ma disputano sul come e quando esso segua, e propongono criteri
rivali" (Adv. Math., VIII, 12). Riferendosi a questo dibattito, Sesto
elenca quattro crite ri che erano stati proposti per stabilire la validità di
un as serto condizionale: (i) quello di Filone Megarico; (ii) quello di
Diodoro Crono; (iii) quello della srsnartsis attribuibile a Crisippo; (iv)
quello della émphasis. 9 Sulla disputa si può tuttavia fare un'osservazione
genera le preliminare. Il punto di partenza, infatti, come fa notare Martha
Hurst (1935: 492), è una relazione già conosciuta, nel senso che essa è
riconoscibile nei suoi esempi. Ciò che invece costituisce lo scopo è una
definizione di questa rela zione di consequenzialità (akolouthla) in termini
formali. Nel corso dell'intero dibattito sulla natura dei condizionali i logici
antichi si sono concentrati sul definiendum e non sul definiens. Quest'ultimo,
che può possedere proprietà auto nome, essendo dotato di significato, non è
stato preso in considerazione se non nella misura in cui poteva essere pro
vato che esso coincideva con il definiendum. Si è cosi spesso creata una
confusione tra i due livelli e spesso sono stati scelti esempi che ambiguamente
erano in grado di elucidare sia la relazione riconosciuta, sia le proprietà
della relazione logica che essi tentavano di identificare con la prima. Può
aiutarci a comprendere meglio questo modo di pro cedere un paragone con i
metodi della logica contempora- LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI nea. I
logici contemporanei, infatti, sono in genere interes sati unicamente al
definiens, cioè alla relazione che essi pos sono stabilire in simboli, senza
riguardo alla questione se tale relazione sia identica a quella che è
ampiamente cono sciuta, facilmente riconosciuta, e poco compresa come quella
di una espressione di implicitazione ("fol/owing", Hurst 1935: 492).
A esempio Peirce e Russell erano interes sati alle proprietà della
implicazione materiale indipenden temente dal fatto che essa riproducesse il
significato "usua le" di "implica" ("implies").
Così pure Lewis era interessato al sistema della implicazione rigida senza
sostenere che l ' im plicazione rigida rappresenti il significato di
"implica". Questa differenza nel modo di procedere tra antichi e
moderni comporta un'ulteriore differenza formale: mentre i logici antichi erano
interessati a dare un'unica definizione, i moderni lo sono a fornire due
definizioni: quella di "im plicazione materiale" e quella di
"implicazione rigida". 6.2.4.2 L'implicazione filoniana Filone è il
primo esponente della scuola megarico-stoica citato da Sesto ed è il primo che
dà un'interpretazione vero funzionale dell'espressione "Se p, allora
q": secondo lui, un'espressione condizionale è valida se, e solo se, non
co mincia con il vero e finisce con il falso. Come abbiamo già visto, la
definizione che Filone dà del criterio di consequen zialità (ako/outhfas
kritrion) corrisponde al quadro del l'implicazione materiale. Infatti sono tre
i casi in cui il con dizionale è valido, corrispondente ai tre esempi
seguenti: (i) "Se è giorno, c'è luce" (VV); (ii) "Se la terra
vola, la terra ha le ali" (FF); (iii) "Se la terra vola, la terra
esiste" (FV). Come sottolineano i Kneale (1962: tr. it. 157), è probabi
le che Filone avesse in mente l'uso dell'espressione "Se p, allora q"
nei ragionamenti e che volesse attirare l'attenzione sul fatto che la
congiunzione dell'asserto condizionale con il suo antecedente implicita sempre
il conseguente. L'inter pretazione proposta da Filone è la più debole che
soddisfi tale requisito. LA TEORIA DEL SEGNO L'implicazione diodorea
Diodoro Crono era il maestro di Filone, e la ragione per cui Sesto lo cita per
secondo può essere forse attribuita al fatto che, mentre Diodoro riuscì a
confutare Filone, que st'ultimo non riuscì a fare altrettanto con il primo
(Hurst 1935: 435 n.). La critica che Diodoro muove all'interpretazione filonia
na insiste proprio sul carattere di debolezza di quest'ultima. Egli individua
infatti degli esempi di condizionale che, pur potendo soddisfare il requisito
filoniano in un tempo tt, possono tuttavia mancare di soddisfarlo in un altro
tempo t2. A esempio, l'asserto "Se è giorno, io sto conversando"
sarebbe considerato vero da Filone se si dessero le condizio ni, in un tempo t,
per cui fosse giorno e io stessi conversan do. Diodoro invece dimostra che
esso è falso, sostenendo che non c'è niente nella sua natura che permetta di
dire se esso cada o no sotto la definizione di Filone. Infatti esso potrebbe
essere pronunciato anche in un tempo t2, quando fosse giorno, ma io rimanessi
silenzioso. In questo caso es so avrebbe la forma invalida VF. Per ovviare a
questo inconveniente, Diodoro elabora una concezione secondo la quale un
condizionale è valido quan do "non ammise, né ammette di cominciare con
il vero e fi nire con il falso".40 L'esempio che egli dà è "Se non
esisto no gli elementi atomici delle cose, allora esistono gli ele menti
atomici delle cose", che, secondo Diodoro, ha l'ante cedente sempre falso
e il conseguente sempre vero: ciò ba sterà a escludere l'evenienza di un
antecedente vero con un conseguente falso, unico caso in cui il condizionale
sarebbe non valido.41 6.2.4.4 L'"implicazione connessiva"
("synartesis") di Cri sippo La terza concezione di condizionale
valido riportata da Sesto è quella che, secondo diversi studiosi moderni
(Mates LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI; Bochenski), corrisponde
alla implica zione rigida di Lewis o comunque a una forma di implica zione
necessaria (Kneale 1962; Preti 1956). In maniera con corde con il passo di
Sesto, che abbiamo visto, questa concezione viene riportata da Diogene (Vitae)
: " È v e r o un condizionale nel quale il contraddittorio (antikefmenon)
del conseguente è incompatibile (macheta1) con l'anteceden te, come a esempio
'se è giorno, c'è luce' ". Il nome del sostenitore di questa concezione
non ci è sta to lasciato da chi la riferisce; ma vi sono prove che essa ap
partenesse a Crisippo (cfr. anche Miiller). La nozione di "incompatibilità",
messa in scena da que sta definizione, è molto interessante, ma problematica
in quanto non viene chiaramente definita. Martha Hurst (1935: 495), commentando
il passo, tende a mostrare che la relazione di incompatibilità e anche, più in
generale, quella di "consequenzialità" (jollowing), non possono
essere espresse in termini estensionali, cioè mediante relazioni esterne, che
sussistono tra le proposizioni in virtù di pro prietà che esse avrebbero al di
fuori della relazione: al con trario, è necessario ricorrere alle relazioni
interne che sussi stono in virtù del loro significato. Può essere interessante
confrontare questa conclusione di M. Hurst con le osservazioni di Preti (1956:
13), il quale so stiene che l'esempio di Sesto, dato a proposito della synar
tsis "sembra alludere a qualcosa di ancora più forte (della strict
implication di Lewis): alla vera e propria tautologia". Preti basa la sua
osservazione sulle notizie circa la dottrina stoica che vengono riportate da
Filodemo nel De signis. In effetti in quel testo (come vedremo meglio nel
capitolo spe- cificamente dedicatogli) è presentato come genuinamente stoico il
metodo inferenziale della "contrapposizione" (ana skeu), che appare
analogo a quello della synartsis. Infatti, l'inferenza per
"contrapposizione" è quella in cui la negazione del conseguente
comporta la negazione del l'antecedente. Essa si configura in maniera tale che
la verità del condizionale "Se il primo, allora il secondo" è
garantita dalla verità del corrispondente condizionale "Se non il se
condo, non il primo".42 6.3 CONCLUSIONI 157 Preti sottolinea le
affinità tra la synartsis (secondo cui la negazione del conseguente è
incompatibile con l'anteceden te) e il metodo di contrapposizione (anaskeu)
(in cui la ne gazione del conseguente comporta la negazione dell'antece
dente), e in entrambi i casi chiama in causa la implicazione rigida di Lewis,
con la precisazione che gli esempi forniti da Filodemo sembrano indicare un
rapporto più forte, che ten de a risolvere l'inferenza o in una forma di
tautologia o in una forma di L-implicazione. 6.3 Conclusioni Nel passaggio
dalla teoria aristotelica del segno a quella stoica c'è, come abbiamo visto,
uno spostamento di accento dai termini su cui si costruiscono le proposizioni
categori che nel sillogismo, alle relazioni tra le proposizioni nell'as serto
condizionale. Contemporaneamente si registra un'ac centuazione del carattere,
già presente in Aristotele, di con sequenzialità necessaria che la relazione
segnica è chiamata a istituire: l'inferenza dal termine noto a quello non noto
deve presentare un carattere cogente. Ci sono due ragioni di questo aspetto
necessaristico della semiotica stoica, una legata ali'analisi della natura
della ra gione e dei suoi processi, l'altra riferibile alla configurazio ne
della metafisica stoica (De Lacy 1978: 208). Per il primo punto è Sesto43
stesso a informarci che gli stoici ritenevano che l'uomo si differenzia dagli
animali per la sua capacità di "discorso interno " (16gos endiathetos)
e in virtù della sua abilità di combinare i concetti e di passare dall'uno
all'altro. L'uomo possiede infatti la nozione di consequenzialità (akolouthfa)
e con ciò egli possiede anche la nozione di segno, che ha appunto la forma:
"Se questo, allora quest'altro". Così l'esistenza del segno si pone
in stretta dipendenza dalla natura del pensiero umano. Quanto al secondo punto,
la metafisica stoica poggiava sull'idea che il reale fosse costituito da una
catena ininter rotta di eventi, legati tra loro da rapporti di causa-effetto.
Tali relazioni erano .:oncepite come necessarie in quanto di- 158 6. LA
TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI pendenti daiPordine razionale istituito
dalla divinità. In questo modo, la consequenzialità necessaria nella relazione
segnica valida riproduce quella stessa consequenzialità che si rintraccia a
livello della concatenazione degli eventi.44 L'insistenza che gli stoici
pongono sull'asserto condizionale e sull'inferenza da segni indica proprio
l'enfasi da loro col locata sulla relazione necessaria tra concetti e
proposizioni a livello logico e tra cause ed effetti a livello metafisica. Su
queste basi, del resto, riposa la stessa accettazione, con riserva, della
divinazione da parte degli stoici. La divi nazione consiste, infatti, nel
cogliere la relazione che colle ga certi avvenimenti presenti e altri che
avverranno.4Ora, per quanto la razionalità degli uomini sia sostanzialmente
dello stesso tipo di quella che hanno gli dei, tuttavia questi ultimi
possiedono la conoscenza dell'intera catena causale che lega gli eventi
("conligatio causarum omnium"),46 men tre ai primi è preclusa. Gli
uomini non possono conoscere dunque le cause ma solo gli indizi caratteristici
delle cause ("signa [.. . ] causarum et notas") degli eventi e su
questi si basano per predire il futuro. Ma, a differenza di quanto av verrebbe
per gli dei, i condizionali degli uomini intorno al futuro mancano di
necessità. Nel caso della scienza umana (che per gli stoici equivale a quello
della dialettica) il segno deve basarsi su un'impli cazione necessaria. Ma
questa, che è una caratteristica irri nunciabile, non è tuttavia sufficiente a
definire un segno. Infatti, in un condizionale come: "Se è giorno, c'è
luce»47 il giorno non potrebbe essere considerato un segno della luce in quanto
entrambe le cose sono evidenti e quindi l'in ferenza non può provare nulla. La
verità su cui si basa è certamente a priori e analitica, come sembra richiesto
nel caso delle verità necessarie, ma tale condizionale è privo della caratteristica
di permettere di scoprire una nuova co noscenza. Il segno stoico, in
conclusione, si deve inquadrare in uno schema logico (che è quello
deli'implicazione necessaria), ma deve contemporaneamente superarlo per
collocarsi in un'ottica epistemologica, nella quale esso diventa fattore
dell'accrescimento del sapere: bisogna sempre tener presen- 6.3
CONCLUSIONI 1 59 te che l'essenza del segno è l'inferenza che va dalle cose ma
nifeste a quelle non percepite. Ma a questo punto sembra delinearsi nella
semiotica stoi ca un problema difficilmente resolubile: come è possibile che
l'inferenza segnica sia analitica (se si pensa alla L-impli.. cazione di cui
parla Preti) e contemporaneamente fornisca una nuova conoscenza (la scoperta di
un fatto nascosto)? Prendiamo come esempio di segno una dimostrazione (infatti
anche la dimostrazione viene considerata, secondo la testimonianza di Sesto, un
segno):48 - sono pori intellegibili nella pelle. - Il primo. - Dunque, il
secondo . Qui l'inferenza è condotta dal fatto percepibile rappre sentato
dallo scorrere del sudore al fatto nascosto che esi stano pori nella pelle. La
presenza dei pori è un fatto oscuro per natura: infatti essi possono soltanto
essere conosciuti dalla mente (noto1), ma non dai sensi in un'epoca in cui il
microscopio non era ancora stato inventato. Sesto aggiun ge, come argomento
rafforzativo delle premesse nel ragio namento precedente, un'ulteriore
argomentazione:49 - compatto e non poroso. - Il sudore scorre attraverso il
corpo. - Pertanto non è possibile che il corpo sia compatto, ma esso è poroso.
La premessa maggiore di questa argomentazione sembra essere basata sul test di
contrapposizione (Q::jJ) applicato alla premessa maggiore del precedente.
Infatti se al condi zionale: p (se il sudore scorre attraverso la superficie
del corpo) ::q (ci sono pori intellegibili nella pelle) Se il sudore scorre
attraverso la superficie del corpo, ci È impossibile che un liquido scorra
attraverso un corpo 160 6. LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI applichiamo
il test di contrapposizione, otteniamo l} (se la pelle è un corpo compatto e
non poroso) :>p (un li quido non vi può scorrere attraverso), espressione
che è alla base della premessa del secondo ra gionamento di Sesto. Essa
permette di sviluppare un ragio namento corrispondente al modus tollens, che
convalida la conclusione del primo ragionamento. Non si saprebbe dire se gli
stoici riescano a evitare, con il ricorso alla contrapposizione, la
contraddizione che esiste tra la richiesta di una relazione necessaria e a
priori tra le due proposizioni del condizionale e la necessità che il segno
produca nuova conoscenza. Di fatto la contrapposizione rende necessaria la
relazione anche nel caso di verità fattua li, poiché parte dall'assunzione che
il fatto oscuro per natu ra sia legato a quello evidente in modo tale che ciò
che è evi dente non potrebbe esistere se il fatto non percepito non fosse
quale viene rivelato essere. INFERENZA E LINGUAGGIO IN EPICURO 7.O Introduzione
Contemporaneo allo sviluppo della riflessione stoica sul segno è il capitolo
della semiotica antica scritto dalla scuola epicurea. Uno dei cardini
dell'epistemologia epicurea, in fatti, è il principio semiotico del
congetturare dai fenomeni visibili fatti che sono per natura non percepibili
con i sensi. Gli stessi elementi fondamentali della metafisica epicurea (cioè
l'esistenza degli atomi e del vuoto, le configurazioni e le ragioni dei
fenomeni celesti) vengono stabiliti attraverso inferenze semiotiche che partono
dai fenomeni percepibili: Gli indizi (semeia) dei fenomeni celesti ce li
forniscono alcuni fenomeni che accadono presso di noi, e che si vede dove e
come avvengono, e non i fenomeni celesti stessi, che possono avvenire in molte
maniere. (Epic., Epistula ad Pythoclem, 87) Epicuro rifiutava il ragionamento
deduttivo, tipico di Aristotele e degli stoici, giudicandolo vuoto e privo di
utili tà, ma accettava e valorizzava l'inferenza analogica che si sviluppa a
partire dai segni. Nel periodo ellenistico, anzi, gli epicurei divennero i
portabandiera di un metodo di ragiona mento qualificabile come "induzione
semiotica", e proprio sul metodo deli ' in ferenza si posero in polemica
con gli esponenti della scuola stoica. Un intero trattato del I secolo a.C., il
Perì smelon kaì smeioseon (Sui segni e sulle infe- 162 7. INFERENZA E
LINGUAGGIO IN EPICURO renze), redatto dall'epicureo Filodemo di Gadara, è
dedica to, del resto, al dibattito intercorso fra stoici ed epicurei sul tema
dell'inferenza semiotica.1 Epicuro, così, e la scuola epicurea nel suo insieme,
pro pugnano la possibilità di elaborare giudizi che siano oggetti vamente
validi su fenomeni non direttamente conosciuti at traverso l'esperienza, sulla
base di inferenze elaborate a partire dai segni. Il problema centrale diviene,
allora, quello di stabilire il criterio per verificare se ed entro quali limiti
tali giudizi pos sano essere considerati attendibili o non attendibili (cioè
ve ri o falsi) e di fornire le basi per poter dire se certe asserzio ni
corrispondano effettivamente ai fatti che esse descrivo no. Si fa strada
quindi la nozione di "criterio di verità", che costituisce la cornice
di sfondo all'interno della quale si col locano tanto la teoria deli'inferenza
semiotica quanto la teoria del linguaggio. In effetti il criterio di verità è
non uni co, ma molteplice: secondo la testimonianza di Diogene Laerzio,2 esso
comprende le sensazioni (aisthseis), le affe zioni (path), le preconcezioni
(prolpseis), a cui può essere aggiunta, per motivi che vedremo, l'evidenza
immediata (enargheia). I criteri di verità, e tra essi la pro/essi
("antici pazione", "preconcezione") in particolare,
giocano un ruo lo fondamentale in entrambe le teorie sia nella teoria del
l'inferenza3 sia nella teoria del linguaggio;4 in questo modo essi
costituiscono un elemento di connessione tra le due teo rie. Tuttavia ciò non
è ancora sufficiente a permettere un'articolazione comune tra segno
inferenziale e segno lin guistico, che rimangono ancora una volta oggetti di
due in dagini separate. Si ricorderà che anche per gli stoici la teoria del
segno lin guistico, chiamato smafnon, nasceva ali'interno di una di scussione
sul criterio di verità e sul "vero"; e anche in quel caso il segno
inferenziale, chiamato smefon, non aveva al cun punto di contatto con il
precedente se non per il ruolo giocato dalla nozione di lekt6n, a cui spettava
il carico di essere vero o falso. Si deve però notare una peculiarità della
semiotica epicurea: essa si arricchisce anche di una teoria deli'immagine percettiva,
che si collega al criterio di verità, 7 . l CRITERIO DI VERITÀ ED
EPISTEMOLOGIA EPICUREA 1 63 ma che anticipa anche alcuni problemi interessanti
per una teoria semiotica deli'iconismo. Così, nei paragrafi seguenti
esamineremo le questioni del criterio di verità, della prolessi e deli'immagine
percettiva in Epicuro, che collegheremo con la teoria deli'inferenza se
miotica, da una parte, e con la teoria del linguaggio, dall'al tra. Gli
sviluppi che la teoria semiotica epicurea avrà nel trattato De signis di
Filodemo saranno esposti, data la loro ampiezza, a parte nel prossimo capitolo.
7.1 ll criterio di verità e l'epistemologia epicurea L'impostazione generale
della filosofia di Epicuro, dal punto di vista epistemologico, è un tentativo
di fondare la conoscenza su basi puramente empiriche. In primo piano vengono
posti i fatti o gli oggetti; ma anche le parole essen zialmente costituiscono
una via per giungere alle cose. In questo modo si presentano per la filosofia
due metodi di ri cerca: (i) uno orientato alla conoscenza che proviene dalle
parole; (ii) l'altro a quella che proviene direttamente dalle cose.s Tuttavia
il primo è considerato un processo prelimi nare rispetto al secondo, e spesso
la conoscenza che si ottie ne attraverso gli strumenti del linguaggio, come
quella che si produce attraverso le proposizioni, è vuota e inganne vole.6 Il
fondamento ultimo della conoscenza sono i criteri di verità, i quali sono in
grado di procurare all'uomo niente meno che l'imperturbabilità.7 Essi sono dunque
posti alla base stessa della filosofia generale di Epicuro; del resto essi
erano trattati in un'opera perduta, intitolata Canone, in cui era contenuta la
materia propedeutica rispetto all'intero si stema dottrinario.8 Se noi
pensiamo alla verità in termini moderni, cioè come una funzione delle
proposizioni, corriamo il rischio di non comprendere il pensiero di Epicuro. In
effetti, nella lingua greca in generale, l'aggettivo althés ("vero")
può servire tanto a qualificare la verità di una proposizione, quanto a
indicare ciò che sussiste di fatto o che è reale. In Epicuro, in 164 7.
INFERENZA E LINGUAGGIO IN EPICURO particolare, l'aggettivo "vero"
implica un'effettiva consape volezza di qualcosa. Si giustifica così la sua
applicazione al le sensazioni e alle affezioni, in quanto dire che una certa
sensazione (o una certa affezione) è vera equivale a dire che essa fornisce un
indizio effettivo su un fatto reale, renden docene consapevoli.9 Prima di
passare in rassegna le varie forme del criterio di verità, è necessario
sottolineare fin d'ora come esso sia fun zionale a una teoria dell'inferenza
semiotica. Infatti esso tende a stabilire delle verità basilari riguardanti le
cose per cepibili, che servono a loro volta come punto di partenza per fare
inferenze intorno alle cose non direttamente rag giungibili con i sensi.10 7.2
Le forme del criterio di verità Epicuro, dunque, considerava come criteri di
verità le sensazioni, le p[econcezioni (o prolessi), le affezioni (o sen
timenti). 1 1 Nel paragrafo 82 della Lettera ad Erodoto veni va fatto cenno
anche alla enargheia ("evidenza immediata, o "chiara visione").
Riferendosi a questi passi, Long (1971 b: 116) fa una interessante proposta
circa l'organizzazione interna delle forme del criterio di verità. Suggerisce
infatti di ordinarie in modo gerarchizzato: in primo luogo ci sono le affezioni
e le sensazioni; poi l'evidenza immediata; infine le preconcezioni. Secondo
Long, le prime due hanno un va lore di verità puramente soggettivo, se prese
da sole, e devo no essere coordinate all'evidenza immediata e alle prolessi,
per giungere a costituire un criterio oggettivo. Le affezioni e le sensazioni
comportano la consapevolez za di qualcosa, e la loro "verità"
consiste proprio in questa consapevolezza, anche se, appunto, soggettiva. Si
possono riprodurre le relazioni tra le forme del criterio di verità se condo
il seguente schema: TEORIA DEI SIMULACRI criteri di veritè consapevolezza consapevolezza soggettiva
oggettiva ll affezioni sensazioni evidenza 7.3 Teoria dei simulacri
prolessi Finora abbiamo considerato il processo conoscitivo dalla
parte del soggetto che prova una sensazione o ha una affe zione in relazione
agli stimoli esterni. Se consideriamo lo stesso processo dalla parte opposta,
cioè partendo dall'oggetto, possiamo constatare che Epicu ro aveva elaborato
una vera e propria teoria dell'immagine che ha molti elementi di interesse per
una semiotica dell'ico nismo. Dal paragrafo 46 della Lettera ad Erodoto
Epicuro inizia a parlare del modo in cui si rende possibile la perce zione
degli oggetti. Questi ultimi, infatti, emettono in conti nuazione degli
efflussi di atomi estremamente fini, che compongono configurazioni in tutto e
per tutto identiche alla forma esterna dei corpi solidi.12 Queste
configurazioni prendono il nome di simulacri (eldO!a). Essi viaggiano a una
velocità estremamente alta e possono penetrare nei no stri organi di senso o
nella nostra mente, e lì produrre un ' immagine (phantasfa) più o meno esatta
del corpo da cui i simulacri sono stati emanati. Il processo può essere sche
matizzato così: oggetti - - - simuh1cri
- - .-.. immsgini mentali (stertJmnia) (sfd"lJfs)
(phsntssfst) INFERENZA E LINGUAGGIO IN EPICURO Quella di Epicuro può
essere definita una teoria "causale" (Long) della percezione, in
quanto gli ogget ti sono responsabili dell'esistenza dei simulacri e questi
ulti mi causano direttamente il formarsi delle immagini nella mente. Si deve
però dire che le immagini sono una diretta conseguenza dei simulacri, ma solo secondariamente
una conseguenza degli oggetti, dai quali possono anche essere difformi. In
effetti la continuità del processo può essere interrotta al livello del
passaggio dell'efflusso dagli oggetti esterni ai simulacri . Questi ultimi,
sebbene di solito risultino delle co pie esatte degli oggetti, talvolta
possono subire delle modifi cazioni per il fatto di entrare in collisione con
altri atomi nel passaggio attraverso l'aria e possono anche ridursi in di
mensione nel momento in cui entrano in una persona (in quanto, anche in questo
caso, entrano in collisione con altri atomi). 1 3 Epicuro è, con questa teoria,
impegnato a rendere conto del fatto che gli oggetti, visti da vicino,
presentano certe di mensioni, mentre ne presentano altre, molto minori, se
visti da lontano, senza entrare in contraddizione con il principio che la
sensazione è garanzia di verità in ogni caso, e ci si troverebbe di fronte
veramente a una contraddizione se la phantasfa fosse un'immagine dell'oggetto,
mentre in realtà è un'immagine del simulacro (ekiOion). Sesto Empirico sembra
riportare correttamente il pensie ro di Epicuro quando cita, a questo
proposito, l'esempio della "torre": Così io non oserei dire che la
vista suggerisca il falso per il fatto che a grande distanza essa vede la torre
piccola e rotonda e a di stanza accorciata la vede più grande e quadrata, ma
direi piut tosto che la vista suggerisca il vero, perché l'immagine ricevuta
dai sensi, quando le appare piccola e di una certa forma, è real mente piccola
e di quella determinata forma, per il fatto che i li miti appartenenti ai
simulacri (eldola) vengono cancellati dal passaggio attraverso l'aria. (Sext.
Emp., Adv. Math., VII, 208-209) 7.4 TEORIA DELL'ERRORE E DELL'OPINIONE
167 In effetti, ciò che i sensi recepiscono è il flusso di atomi che si stacca
dall'oggetto e che costituisce il suo simulacro e non l'oggetto stesso. Tale
flusso, passando attraverso l'a ria, si altera nella sua configurazione,
producendo la diver sità delle immagini che si hanno dello stesso oggetto.
Cosi ogni immagine mentale (phantasfa) è effettivamente vera perché è relativa
non all'oggetto, ma a ciascuno dei simula cri dell'oggetto, che sono diversi
in relazione alla distanza percorsa per raggiungere il soggetto che percepisce.
L'importante è non identificare il simulacro che si produ ce nelle vicinanze
dell'oggetto con quello che si ha in una vi sione a distanza. 7.4 Teoria
dell'errore e dell'opinione Il tema deli'inferenza semiotica diventa sempre più
cen trale nel campo dei processi percettivi quando si abbandona il terreno
sicuro della sensazione per esplorare quello insi dioso delle opinioni, in cui
si può verificare l'evenienza del l'errore. Se gli uomini si attenessero
soltanto alle loro sen sazioni e si limitassero a descrivere le loro immagini
mentali (phantasfa1), non ci sarebbe possibilità di errore. Ma ciò non avviene,
e l'errore sorge quando viene ad aggiungersi alla sensazione qualche processo
mentale che Epicuro, nella Lettera ad Erodoto (5 1), chiama "secondo movimento"
(al l klnèsis). Long (1971 b: 1 18) identifica questo "secondo movimen
to" proprio con il processo di elaborazione deli'opinione. Infatti Epicuro
dice che esso è "connesso" con il primo mo vimento (cioè la semplice
apprensione di immagini), ma, a differenza di questo, "ammette una
distinzione": quella tra il falso e il vero. Il primo movimento, cioè
l'apprensione di immagini, non ammette alcuna distinzione di questo gene re,
perché è prodotto da cause esterne, ovvero dai simula cri; il secondo movimento,
invece, consistendo nell'aggiun ta di un giudizio che noi facciamo su queste
immagini, può ricevere conferma o attestazione contraria. Si può così sche
matizzare il processo: 168 7. INFERENZA E LINOUAOQIO IN EPICURO processo
conoscitivo / apprensione di immagmi lphsntsstik epiboli'J sempre vera opinione
(d6xs) conferma e non attestazione contraria vera attestazione
contraria e non conferma falsa In effetti, se, sulla scorta di una
visione distante e oscura, io dico, traducendo in parole le mie sensazioni:
"Quella ha le apparenze di una torre rotonda", io parlo in maniera
veri tiera; ma se dico: "Quella è una torre rotonda", il mio giu
dizio è disconfermato nel caso che, avvicinandomi, riceva l'immagine di una
torre quadrata. In definitiva, le immagi ni sono tutte vere mentre le opinioni
sono alcune vere e altre false. 14 Quello che comunque risulta è il carattere
congettu rale dell'opinione. 7.5 La congettura È naturale che all'interno di
una teoria dell'opinione uno spazio privilegiato venga dedicato alla
congettura. Infatti, in generale, la congettura consiste proprio in un'ipotesi
co noscitiva su una dimensione che va oltre ciò che può essere colto
attraverso i sensi. L'opinione, come la concepisce Epi curo, è associata
esattamente a queste caratteristiche, consi stendo appunto in un giudizio che
prevede l'impegno del soggetto su qualcosa che attende conferma. Ci sono alcune
parole chiave che definiscono il processo conoscitivo attuato attraverso
l'opinione. La prima è pro- 7.5 LA CONGETTURA 169 sménon, "ciò che
attende conferma", 1 5 che è appunto l'og getto sul quale si esercita il
giudizio. Una seconda e una terza parole chiave, collegate tra loro da una
relazione di antonimia, sono epimartjrsis "attesta zione" e
antimartjrsis "attestazione contraria" o "conte stazione".
Tuttavia, il sistema di Epicuro per la conferma o la disconferma di una certa
opinione non gioca su due, ben si su quattro termini: c'è infatti conferma
quando si ha "at testazione" o "non contestazione"; c'è
disconferma quando c'è "contestazione" o "non
attestazione". Si viene cosi a creare un vero quadrato semiotico:
attestazione contestazione ( epimsrtyrlJsis) non contestazione (ouk
sntimsrtyrsis) ( sntimsrtyrlJsis) non attestazione (ouk epimsrf'jrlJsis)
in cui, per Epicuro, due termini (o quelli della deissi positi va, o quelli
della deissi negativa) congiuntamente sono ne cessari per decidere di
un'opinione. 1 6 Tuttavia ciascuno dei quattro termini è idoneo a stabilire la
validità di un'opinione. Infatti nella teoria semiotica ri portata nel De
signis da Filodemo, il criterio per decidere sulla validità di un'inferenza
induttiva sarà rappresentato dalla sola non contestazione, ovvero dal non
conflitto del l'espressione segnica con i fenomeni percepibili. Nel quadrato
di Epicuro sorge il problema di stabilire un criterio per definire in che cosa
consista il termine base, cioè l'attestazione. Questo criterio è rintracciabile
nella enargheia ("l'eviden za", "la chiara visione"), come
ci dice Sesto: 170 7. INFERENZA E LINGUAGGIO IN EPICURO Ed è attestazione
(epimartjris) una apprensione, conseguita mediante evidenza (di' enarghefas),
del fatto che l'oggetto opi nato è appunto quello che precedentemente veniva
opinato, co me, ad esempio, se Platone da lontano incede verso di me, io
congetturo ed opino, a causa della distanza, che si tratti di Pla tone, e,
quando egli mi si è accostato, viene attestato che si trat ti eli Platone,
mercé la soppressione della distanza, e la confer ma si è avuta in virtù della
stessa evidenza. (Sext. Emp., Adv. Math., VII, 212) In effetti Epicuro era ben
consapevole del fatto che si possono commettere degli errori
neli'identificazione o nel riconoscimento degli oggetti della percezione e,
probabil mente, egli pensava che in ogni atto percettivo, accanto alla pura e
semplice sensazione, anche la d6xa gioca sempre un ruolo. In questo modo la
congettura diviene onnipresente, in quanto è coinvolta in ogni atto percettivo.
Di conseguen za, la funzione che vengono ad assumere le sensazioni e le
immagini mentali è quella di fornire i dati sulla base dei quali elaborare le
congetture. 1 7 Nella Lettera ad Erodoto (38) sembrano essere presi in
considerazione due tipi di oggetti sui quali l'inferenza se miotica si
esercita: (l) ciò che attende conferma (prosménon) (2) ciò che non cade sotto i
sensi (adlon) che danno luogo a due tipi di processi inferenziali. Il primo è
relativo al genere di congettura che si instaura all'interno degli stessi
processi percettivi ed è illustrato dal l'esempio, riportato da Sesto, del
vedere in lontananza Pla tone che si avvicina, e poter solo congetturare che
si tratti proprio di lui. In questo caso l'oggetto su cui si esercita la
congettura è qualcosa che viene colto dai sensi, ma non di stintamente.
Tuttavia, questo processo si conclude con una verifica: in questo caso, la
conferma del dato congetturato, attraverso una visione chiara. Chiameremo
questo tipo in ferenza percettiva. Il secondo è relativo all'inferenza su cose
assolutamente escluse dal processo percettivo: è il caso della congettura nel
senso fliù classico. Anche di questo ci fornisce un esempio Sesto. 8 Si tratta
di risalire dali'esistenza del moto (cioè di 7.6 L'INFERENZA DA SEGNI 171
un elemento percepibile, un phain6menon) all'esistenza del vuoto (cioè di un
elemento non percepibile, adlon). È la ti pica relazione logica di
implicazione (chiamata da Sesto akolouthfa) tra un antecedente e un
conseguente. Chiame remo questo secondo tipo di processo inferenza al non per
cepibile. 7.6 L'inferenza da segni L'inferenza al non percepibile è una tipica
inferenza da segni. Infatti in molti casi, come quello che abbiamo visto,
"Se c'è moto-+c'è vuoto", non è possibile conoscere diret tamente
l'oggetto sul quale viene fatta l'inferenza ("il vuo to"), ma lo si
deve attingere attraverso un segno ("il mo to"). In effetti, anche
per Epicuro, l'inferenza da segni è connessa con la possibilità di ampliare i
limiti della cono scenza oltre la sfera degli oggetti sensibili. È proprio
grazie a una teoria dell'inferenza segnica che la scuola epicurea riesce a
superare i limiti del proprio radicale empirismo, aprendo la via anche alla
conoscenza di fenomeni non per cepibili direttamente dai sensi. Anzi, nel De
signis di Filode mo (fr. 2), c'è un esplicito invito a considerare le conoscen
ze ottenute tramite inferenza, altrettanto sicure di quelle di rette. Un
programma conoscitivo di questo tipo presuppone un'epistemologia che divide gli
oggetti in quattro categorie, in maniera del resto non molto diversa da quanto
avveniva nella semiotica stoica: ( l ) Oggetti o fatti evidenti (enarghi):
"quegli oggetti che vengono recepiti involontariamente per mezzo di una
rappresentazione o di una affezione" (Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 316).
Come esempi vengono dati il fatto che sia giorno o il riconoscimento che una
certa persona è un uomo. (2) Oggetti oscuri in modo assoluto (phjsei adla):
"quegli oggetti che né furono conosciuti nel passato, né sono conosciuti
nel presente, né saranno conosciuti nel futu- 172 7. INFERENZA E
LINGUAGGIO IN EPICURO ro, ma sono inconoscibili in eterno" (Sext. Emp.,
Adv. Math., VIII, 317-318). Come esempio viene data l'im possibilità di
conoscere se il numero delle stelle sia pari o dispari. Fatti di questo genere
sono inconoscibili, co me spiega Sesto, non per la loro natura, ma per la no
stra natura, dato il tipo di limitazioni a cui è sottoposta la conoscenza
umana. (3) Oggetti oscuri di per sé (ghénei adla): "quegli oggetti che
sono oscuri per la propria natura, ma che si stima vengano conosciuti per mezzo
di segni e di dimostrazio ni" (Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 319). Gli
esempi so no gli atomi e il vuoto infinito. L'esistenza degli atomi e del
vuoto era postulata da Leucippo e da Democrito su basi puramente razionali, ma
Epicuro insisterà, in con formità con il suo empirismo, che possono essere
cono sciuti attraverso l'inferenza analogica. (4) Oggetti che attendono
conferma (prosménonta): sono quegli oggetti posti immediatamente oltre la
nostra esperienza (Ep. Hdt., 38), la cui conoscibilità è limitata da fattori,
quali la distanza nello spazio o il loro essere situati nel futuro. Come si può
vedere, gli unici oggetti che possono essere conosciuti attraverso l'inferenza
sono quelli che apparten gono alla terza e alla quarta classe. Essi sono da
porre in corrispondenza con i due tipi di inferenza di cui abbiamo già parlato.
L'inferenza percettiva, infatti, verte intorno agli oggetti appartenenti alla
quarta classe, quelli "che attendono con ferma". L'inferenza al non
percepìbile, invece, verte intorno agli oggetti appartenenti alla terza classe,
cioè è rivolta alla co noscenza di quegli oggetti che sono "oscuri di per
sé" e che non arrivano mai a essere esperiti dai sensi . In questo caso il
metodo di verifica assume una forma indiretta: la "non at testazione
contraria" (ouk antimartjresis). Il vuoto, come abbiamo visto, non è
verificabile per esperienza diretta, ma gli epicurei sostengono che la sua
esistenza non è in contra sto con nessun fatto conosciuto, 1 9 mentre la sua
negazione 7.7 LA PROLESSI 173 entra in conflitto con l'esperienza
empirica del movimento, che richiede il vuoto per attuarsi. Il cuore del
ragionamento basato sulla non attestazione contraria consiste nel fatto che,
quando si hanno due proposizioni contraddittorie in torno a qualcosa che non è
percepibile, e una di esse risulta falsa in base a una prova empirica
(nell'esempio preceden te, la non esistenza del vuoto, in quanto entra in
conflitto con l'esistenza del moto), allora l'altra può essere conside rata
vera (De Lacy 1978: 188). 7.7 La prolessi La prolessi (o
"anticipazione" o "preconcezione") costi tuisce il secondo
dei due criteri di verità che abbiamo defini to "oggettivi". Essa ha
un ruolo determinante nell'inferenza percettiva, come mostra Diogene: Per
esempio, per poter affermare: "Ciò che sta lontano è un ca vallo o un
bue", dobbiamo per prolessi (o anticipazione) già aver conosciuto una
volta la figura di un cavallo e di un bue. (Diog. Lai!rt.. Vitae, X, 33) In
effetti la protessi è necessaria perché si abbia percezio ne in senso proprio,
cioè affinché si passi dalla semplice consapevolezza del fatto che si sta
vedendo un'immagine, al giudizio oggettivo che questa è immagine di un oggetto
pre ciso. In altre parole, secondo Epicuro, per poter effettiva mente
percepire un cavallo o un bue, si deve: l . avere avuto precedentemente
un'immagine di questi animali; 2. averla immagazzinata nella mente; 3.
effettuare un confronto con i dati che vengono forniti dalla propria attuale
sensazione. Le prolessi sono in realtà delle immagini mentali o dei concetti
che si sono formati in seguito a numerose esperien ze relative agli oggetti
esterni. Esse hanno due caratteri fon damentali: (i) sono strettamente legate
alla memoria di esperienze precedenti; (ii) sono evidenti (enargeis). Come
concetti, le prolessi non necessariamente corri spondono a singoli oggetti
esterni, ma costituiscono piutto- INFERENZA E LINGUAGGIO IN EPICURO sto
il tipo, di cui le singole esperienze percettive sono le oc correnze. Ciò, del
resto, è strettamente collegato al fatto che esse rappresentano un test di
verità: solo possedendo il concetto generale di "uomo", si può
decidere se ciò che si ha di fronte sia o non sia un'occorrenza particolare di
esso. 7.8 La teoria del linguaggio Le protessi costituiscono anche una
condizione necessaria del linguaggio e agiscono tanto al livello della
decodifica quanto a quello della codifica. Infatti, da una parte, l'atto di
pronunciare un nome (a esempio juomol) richiama nella mente dell'ascoltatore
un'immagine o un concetto, cioè un'entità che è soggiacente, hyfootetagménon, a
quel nome e che è derivata dalla protessi; 0 potremmo dire che la pre senza di
un significante fa scattare nell'ascoltatore I'abbina mento con un
significato. Dall'altra, il Iocutore deve posse dere una preconcezione di ciò
che intende esprimere, altri menti non gli sarebbe possibile dire niente: in
questo caso, il locutore codifica un significato presente nella sua mente per
mezzo di un artificio espressivo (un "nome"). Nella teoria epicurea
la prolessi sembra coinvolta in ogni caso nella formazione dei concetti.
Infatti Diogene dice che "tutti i concetti (epfnoia1) sorgono dalle
sensazioni, o per diretta esperienza, o per analogia, o per somiglianza, o per
combinazione, con una certa collaborazione anche da parte del
ragionamento" ( Vitae, X, 32). Long (1971 b: 1 19) sug gerisce di
identificare con le prolessi la prima classe di con cetti, cioè quelli che
sorgono per diretta esperienza dalle sensazioni. Se dunque le prolessi sono
alla base di ogni concetto, si viene a configurare una teoria del segno
linguistico sensibil mente diversa da quella che è normalmente attribuita agli
epicurei sulla scorta delle testimonianze di Sesto e di PIutar co.21 Questi
ultimi, infatti, sostenevano che nella teoria lin guistica di Epicuro solo due
fattori erano implicati: la cosa significante (sèmainon, o voce, ph(Jn) e la
cosa designata (tynchanon). In effetti, la ragione per cui Plutarco e
Sesto 7.8 LA TEORIA DEL LINGUAGGIO 175 trascurano le protessi nella
teoria del significato linguistico è imputabile al fatto che essi non vedono
nella teoria epicu rea niente di simile al lekt6n stoico, che è contemporanea
mente incorporeo e completamente diverso da un'immagine mentale. Ciò non
impedisce, tuttavia, alle protessi di avere la stes sa funzione dei lekta
stoici, cioè di costituire un elemento di mediazione tra le parole e le cose.
Di conseguenza, la teoria epicurea del segno linguistico dovrebbe essere così
rico struita: prolessi nomi cose Del resto, se a Epicuro fosse
attribuita una teoria lingui stica secondo cui le parole si riferiscono
direttamente alle cose, senza la mediazione delle protessi, entrerebbe in con
traddizione tutta la sua dottrina della falsa credenza. A esempio, poiché gli
uomini credono erroneamente che gli dei siano malevoli nei loro confronti ed
esprimono verbal mente questa credenza, se non esistesse il livello
concettuale delle prolessi, non ci sarebbe niente che corrisponde alla
proposizione "Gli dei sono malevoli nei confronti degli uo mini". La
presenza della prolessi come elemento mediatore tra le parole e le cose può
rendere conto di molte asserzioni false e di asserzioni su cose che non
esistono. Ciò che gli uo mini fanno, pensando agli dei come malevoli, è una
falsa supposizione, ovvero un concetto non derivato dali'ogget to, cioè dagli
dei stessi. La centralità della protessi nella teoria linguistica epicu rea è
dimostrata anche dal fatto che essa deve essere identi ficata anche con quel
particolare significato che è il "signifi- 176 7. INFERENZA E
LINGUAGGIO IN EPICURO cato basico" o "primario" (proton ennoma),
di cui si parla nella Lettera ad Erodoto (37-38) e che si oppone a tutti gli
altri significati che possono essere considerati derivati da esso.22 7.9
L'origine del linguaggio La teoria linguistica in Epicuro è connessa con quella
del l'origine stessa del linguaggio, che è discussa principalmen te nella
Lettera ad Erodoto (75-76).23 Per Epicuro il linguaggio è un'attività che gli
uomini han no sviluppato nel corso della loro evoluzione, passando at
traverso due stadi distinti. Nel primo stadio il linguaggio esprime una
relazione con la realtà che potrebbe essere defi nita naturale, mentre nel
secondo una relazione che potreb be essere definita convenzionale. In effetti
Epicuro, nella polemica phjsisln6mos, assume una posizione mediana e molto
particolare, rifiutando sia l'idea che ci sia stato un unico datore di nomi,
sia l'idea (per altro sostenuta dagli stoici) che le parole si accordino in
maniera naturale alle co se. Esaminiamo più in particolare come è descritto il
pro cesso di nascita e sviluppo del linguaggio nella Lettera ad Erodoto . In
una prima fase l'attività linguistica degli uomini non è affatto diversa dai
processi naturali quali tossire, starnuti re, gemere ecc.: infatti gli uomini
emettono suoni, simili a parole, sotto lo stimolo involontario e naturale delle
affe zioni (path) che provano e delle immagini (phantasmata) che si formano in
loro. Il linguaggio primitivo costituisce una reazione istintiva all'arnbiente,
e la tesi di Epicuro sem bra essere, in relazione a questo stadio, a pieno
titolo quella naturalista. Ma, a ben guardare, essa presenta qualcosa di più.
Infatti ha sempre costituito un problema, per i sosteni tori della tesi del
naturale accordo tra le parole e le cose, spiegare la diversità delle lingue:
qui Epicuro non evita que sto aspetto del problema,24 ma lo integra nella sua
teoria. La diversità delle lingue è diretta conseguenza della diver sità degli
ambienti in cui i vari popoli si trovano e in relazio- 7. l0 EPICURO E
TRADIZIONE «PHYSIS/N6MOS» 177 ne ai quali emettono suoni diversi. Insomma, le
lingue va riano perché le cose variano da regione a regione. Inoltre gli
uomini, accorgendosi che si producono suoni diversi in re lazione alle
affezioni e alle immagini prodotte dagli oggetti, trovano utile usare questi
suoni come nomi-etichette degli oggetti. A questo punto interviene il secondo
stadio nel processo evolutivo del linguaggio, in cui vengono introdotti degli
ele menti di convenzione. Questi ultimi si instaurano sotto una duplice
spinta: da una parte c'è un movimento che tende a razionalizzare il linguaggio,
rendendo le espressioni ambi gue, createsi naturalmente "più chiare"
e "più concise"; dal l'altra c'è l'operato degli "uomini
colti", i quali tendono a introdurre concetti relativi a cose che vanno
oltre la perce zione e che dunque non hanno potuto essere nominate at
traverso il processo naturale. Come sottolinea Sedley (1973: 19), il tentativo
deliberato di introdurre processi di semplifi cazione nell'evoluzione del
linguaggio corrisponde al desi derio di rendere conto dei processi astratti,
come quelli in cui la relazione uno e uno tra parole e cose non è più soste
nibile. Ciò avviene sostanzialmente in due casi, che sono le gati all'intera
problematica linguistica di Epicuro, cioè (i) nella formazione dei termini
generali e (ii) nei processi di metaforizzazione. 7.lO Epicuro e la tradizione
"physis/nomos" Dopo aver esaminato la teoria epicurea dell'origine
del linguaggio, è possibile ritornare al triangolo semiotico e analizzare quali
relazioni siano implicate tra i vari termini, in rapporto con altre posizioni
della tradizione linguistica. Un primo confronto può essere stabilito con
Aristotele. Spesso gli studiosi hanno suggerito una dipendenza della teoria
linguistica di Epicuro da quella di Aristotele (tra gli altri, Arrighetti 1960:
476), o almeno una stretta somiglian za (Long 1971 b: 121). In effetti nel De
interpreta/ione (16 a) Aristotele pensa alle affezioni dell'anima come a immagi
ni provenienti dalle espressioni sensoriali derivate dalle cose INFERENZA
E LINGUAGGIO IN EPICURO esterne, in un modo non molto diverso da come le
protessi di Epicuro derivano dagli oggetti. Se questo è un punto di contatto
tra le due teorie, tuttavia maggiori sono, secondo Sedley, le divergenze.
Anzitutto, per Aristotele i diversi popoli hanno esattamente le stesse
affezioni mentali, ma le rappresentano attraverso espressioni linguistiche
diverse. Per Epicuro, invece (come abbiamo visto a proposito dell'origine del
linguaggio), le forme linguistiche sono diverse perché le affezioni mentali
(path e phantasmata, ambedue inclusi negli aristotelici pathmata) sono diverse
da popolo a popolo, in relazione ai diversi ambienti naturali. Ma ci sono anche
altri elementi di divergenza tra Aristotele ed Epicuro. Per il primo, infatti,
nessun nome preso di per sé ha funzione apofantica, cioè nessun nome può essere
detto vero o falso; inoltre nessuna espressione diviene un simbolo se non in
seguito a conven zione. Per Epicuro, invece, i nomi di oggetti individuali
comportano verità o falsità, come avveniva, del resto, an che nel Crati/o
platonico; inoltre, una certa espressione, che può essere anche un semplice
rumore, può essere usata co me un simbolo, per quanto in assenza di elementi
conven zionali, come avviene negli stadi primitivi della comunica zione. Un
secondo confronto può essere stabilito poi anche con la posizione platonica. Sicuramente
in Epicuro non è pre sente alcuna posizione simile a quella della prima teoria
se mantica di Platone,25 adottata in seguito anche dagli stoici, secondo la
quale il nome è una lista abbreviata delle pro prietà dell'oggetto a cui si
riferisce. Platone, infatti, vede le parole primitive come una rappresentazione
fedele delle proprietà dell'oggetto, quasi che tutto il vocabolario fosse
deliberatamente costituito da onomatopee. La posizione naturalistica di Epicuro
si limita a sostenere che, ali'interno di ciascun linguaggio, ogni nome ha un
uso corretto quando viene impiegato per denotare l'oggetto, o la classe di
oggetti, a cui è stato associato nel momento del la sua origine naturale.
Tuttavia, nonostante questa distin zione, ci sono forti elementi di
convergenza tra la posizione platonica e quella epicurea, in quanto in entrambe
i nomi EPICURO E TRADIZIONE «PHYSIS/N6MOS» 179 hanno alla loro origine un
valore cognitivo, che viene par zialmente obliterato attraverso i cambiamenti
del linguag gio nel corso del tempo.26 Per Platone il recupero del senso
originario delle parole avviene attraverso l'etimologia, stra da sulla quale
lo seguiranno anche gli stoici. Epicuro ritie ne, invece, che la relazione
originaria del linguaggio con gli oggetti percepibili sia stata oscurata
soprattutto da processi metaforici e, per recuperare il valore epistemologico
origi nario dei nomi, suggerisce di ricercare "la prima immagine"
(prOton enn6ema: Ep. Hdt., 38). Questa prima immagine è da identificarsi con la
prolessi, cioè con il concetto che si è formato alla prima percezione
dell'oggetto e che è stato as sociato al nome. In conclusione, rispetto alla
teoria di Aristotele e alla pri ma teoria semantica di Platone, si può dire
che Epicuro as sume una posizione intermedia. Per Aristotele i nomi sono
simboli e sono convenzionali. Per Platone, invece, i nomi sono delle icone
degli oggetti e sono naturali. Per Epicuro i nomi sono simboli, come per
Aristotele, in quanto non riproducono le proprietà degli og getti, ma sono
naturali, come per Platone, nella loro origi ne, coincidente con il primo dei
due stadi evolutivi del lin guaggio . Gli elementi di convenzionalità si
sviluppano soltanto in seguito, nel secondo stadio. Questa posizione intermedia
di Epicuro spiega perché non venga fatto ricorso all'etimolo gia, come invece
avviene in Platone e negli stoici, e, pur tut tavia, si chieda di tenere
presente "la prima immagine": in realtà, la corrispondenza biunivoca
tra il nome e "la prima immagi ne" si fonda non sulla forma, ma sulla
origine naturale . IL ''DE SIGNIS'' DI FILODEMO 8.0 Introduzione Dopo
Epicuro la teoria del segno trovò un ampio svilup po negli scritti dei suoi
seguaci. Un trattato del I secolo a.C.,1
ilPerìsmet'Onkaìsmei8seon(Suisegniesulleinfe renze)2 di Filodemo, testimonia
ampiamente del grado di raffinatezza e di complessità che la teoria del segno
aveva raggiunto in seno alla scuola epicurea. Si tratta di un'opera composta
probabilmente a uso della scuola epicurea di Er colano, della quale Filodemo
fu uno dei più importanti esponenti. Il De signis non costituisce un vero e
proprio trattato metodologico, né un'esposizione sistematica della teoria
epicurea del segno, ma riporta la polemica allora in corso fra stoici ed
epicurei sull'inferenza da segni e su varie tematiche semiotiche a essa
connesse. Il trattato è diviso in quattro sezioni, nelle quali sono esposte le
argomentazioni di tre maestri epicurei, Zenone di Sidone, Bromio e Deme trio
di Laconia,3 a favore della teoria epicurea del segno e contro le critiche a
essa mosse dagli esponenti della scuola stoica. Il trattato è di grandissima
importanza semiotica, perché tanto gli stoici quanto gli epicurei costruivano
la loro teoria logica sull'inferenza da segni. Nel confronto le due teorie si
illuminano a vicenda. Inoltre il De signis dibatte una serie di problemi che
ancora oggi sono al centro della discussione semiotica. Del resto, per la sua
pertinenza semiotica, que st'opera aveva attirato anche l'interesse di Charles
Sanders 8.l RELAZIONE SEGNICA «A PRIORI» E «A POSTERIORI» 181 Peirce, che
ne aveva affidato l'approfondimento e l'analisi all'allievo Allan Marquand; di
quest'ultimo ci rimane un saggio sulla logica semiotica degli epicurei.4 8.1 La
relazione segnica è "a priori" o "a poste riori"? Al
centro del trattato di Filodemo si colloca il contrasto fondamentale tra le due
scuole circa il modo di concepire il rapporto che si instaura tra i due termini
della relazione se gnica: gli stoici sono sostenitori di una posizione che vede
tale relazione come a priori, formale e di natura razionale; gli epicurei,
invece, sostengono che tale relazione è a poste riori e interamente fondata su
basi empiriche. Il punto di vi sta epicureo, in effetti, è che per poter
stabilire una relazio ne tra un segno e ciò a cui esso rinvia, è necessario
aver os servato più volte i due termini in un qualche tipo di con giunzione
(sia essa spaziale, temporale, causale ecc.). Così la relazione si stabilisce
in seguito ali'esperienza, e non a priori, come sostenevano gli stoici. Di
conseguenza, il me todo semiotico proposto dagli epicurei è quello deH'analo
gia (ho katà tn homoi6tta tr6pos), cioè un "metodo stret tamente empirico
e basato sull'osservazione delle similarità nella nostra esperienza e su certe
congiunzioni costanti, dal le quali noi inferiamo ugualmente delle similarità
e delle congiunzioni nella sfera di ciò che è oscuro" (De Lacy 1938: 398).
In corrispondenza con i due modi di concepire la relazio ne segnica, stoici ed
epicurei sviluppano anche due differen ti teorie sulla verifica della validità
logica della relazione. Gli stoici consideravano valida la relazione segnica
basata sulla contrapposizione (anaskeu), secondo cui la negazione del
conseguente comporta la contemporanea negazione del l'antecedente. A esempio,
nell'inferenza "Se c'è moto, c'è vuoto", gli stoici sostenevano che
la negazione della cosa si gnificata ("c'è vuoto") implicherebbe
anche la negazione del segno (''c'è moto"). Si tratta di un metodo di
verifica as solutamente a priori e astratto, al quale gli epicurei con-
182 8. IL «DE SIGNIS)) DI FILODEMO trappongono un metodo completamente
empirico. Anzi, gli epicurei sostengono che nessun metodo a priori è possibile
fino a che non sia stata costruita un'inferenza su base empi rica: l'esistenza
del vuoto, nell'esempio precedente, è inferi ta a partire dalla osservazione
empirica che non si verifica il moto senza l'esistenza congiunta del vuoto, e
da una conse guente generalizzazione.5 Ciò significa che il principio astratto
degli stoici può esse re formulato soltanto dopo che l'inferenza è stata
costruita su base empirica e con il ricorso a un ragionamento analogi co. Così
gli epicurei sostengono che il metodo della con trapposizione poggia,
inconsapevolmente, sul fondamento ultimo dell'analogia epicurea. In questo modo
le verità ne cessarie, che gli stoici consideravano analitiche e a priori,
sono in realtà stabilite attraverso l'induzione. Gli epicurei prospettano un
punto di vista secondo cui la logica dedutti va è susseguente a una logica
induttiva in ordine di svilup po: la prima dipende infatti dalla seconda (De
Lacy 1978: 221). Se questa idea è chiaramente espressa nel trattato di
Filodemo, non ci si deve tuttavia aspettare una discussione articolata sulle
relazioni tra la logica formale e deduttiva da una parte, e logica induttiva e
metodo empirico dall'altra. Anzi, a ben vedere, nel corso del trattato,
entrambi i prota gonisti della discussione tendono a confondere due cose che
la logica moderna avrebbe piuttosto tendenza a tenere di stinte: da una parte,
il metodo per la costruzione di un'infe renza segnica; dall'altra, il criterio
per la verifica della sua validità (Martinelli) . Così, il metodo di
costruzione deli'inferenza per gli epicurei è l'analogia, mentre il criterio è
più precisamente quello della inconcepibilità (adianosfa). Tuttavia la
distinzione non è così forte, in quanto sia il me todo sia il criterio sono su
base empirica: in effetti, nel di battito, gli stoici tenderanno ad attaccare il
metodo per in validare il criterio e viceversa. 8.2 Contrapposizione vs
inconcepibilità Vediamo di analizzare, in termini formali, l'opposizione
CONTRAPPOSIZIONE VS INCONCEPmiLITÀ · 1 83 che si stabilisce tra il criterio
stoico della contrapposizione e quello epicureo della inconcepibililà. Data
l'inferenza p-:Jq il criterio della sua verifica secondo la contrapposizione
stoica è esprimibile come il che equivale a dire che, negando per ipotesi il
conseguen te, anche l'antecedente risulta negato. La prova dell'infe renza,
dunque, avviene su base formale e non empirica. Il criterio della
inconcepibilità epicurea, invece, prescinde da considerazioni formali ed è
basato sull'analogia empiri ca. Esso viene così illustrato nelle parole di
Filodemo: Ma talvolta l'inferenza non è provata essere vera in questo mo do (
= per contrapposizione), ma proprio per l'impossibilità di concepire che il
primo sia, o abbia una certa proprietà, mentre il secondo non sia, o non abbia
tale proprietà, come per esem pio: "Se Platone è un uomo, anche Socrate è
un uomo". Se è vera questa inferenza, diviene vero anche che "Se
Socrate non è un uomo, nemmeno Platone è un uomo", non perché, attraver
so la negazione di Socrate, Platone sia negato insieme ad esso, ma perché non è
possibile che Socrate non sia un uomo e Plato ne sia un uomo; e questa
inferenza appartiene al metodo dell'a nalogia . (col. XII, 14-31=cap. 17) Dal
punto di vista formale il criterio della inconcepibilità è esprimibile come
impossibile (pl\q) In effetti le due formule che corrispondono rispettiva
mente al criterio di verifica stoico e a quello epicureo non esprimono un
contenuto logico molto diverso l'una rispetto all'altra. La stessa presenza di
un operatore modale nella 184 8. n «DE SIGNIS» DI FnODEMO formula
del criterio di inconcepibilità è controbilanciata dal carattere, ugualmente
modale, di necessità, che sappiamo essere richiesta dali'implicazione come la
concepivano gli stoici . Tuttavia, in Filodemo i due metodi sono presentati
come contrapposti, e anzi, nel passo citato, sembra che trovino applicazione in
casi diversi. Se non è dunque sul piano del contenuto logico che si dif
ferenziano, che cosa è allora che li rende diversi? È possibi le cercare una
risposta a questo interrogativo soffermando ci sull'esempio che viene
riportato da Filodemo di inferenza verificata con il metodo
dell'inconcepibilità: "Se Platone è un uomo, anche Socrate è un uomo"
Questa inferenza, ci dice Filodemo, appartiene al metodo dell'analogia.
Infatti, entrambi i membri dell'inferenza condividono un elemento, cioè la
proprietà attribuita ai soggetti rispettivi delle due proposizioni, fatto che
potrem mo esprimere come: u {P) u {S)
in cui "u" è la proprietà di "essere un uomo",
"P" è "Plato ne" e "S" è "Socrate".
Questo aiuta a capire che cosa intendano esattamente con "analogia" e
con "inferenza segnica basata sull'analogia" gli epicurei. In
effetti, mentre per gli stoici non è necessario alcun elemt.nto in comune tra i
due membri dell'inferenza segnica, una tale caratteristica diviene essenziale
per gli epi curei.6 Il fatto, però, che l'analogia, da un punto di vista
logico, si venga precisando come situazione in cui c'è una proprietà condivisa
dai soggetti delle due proposizioni membri del l'inferenza, ci permette di
dire che la logica usata dagli epi curei non è la stessa di quella usata dagli
stoici: mentre que sti ultimi si servono della logica delle proposizioni, gli
epi curei ritornano a una logica dei predicati, sotto un certo punto di vista
più simile a quella aristotelica.CONTRAPPOSIZIONE VS INCONCEPIBILITÀ 185 A
distinguere il metodo della contrapposizione da quello dell'inconcepibilità è
dunque l'ambito di applicazione: le proposizioni nel primo caso, le proprietà
nel secondo. Lo scopo è tuttavia lo stesso: dimostrare che l'inferenza ha un
carattere di necessità. Ora non c'è nessun problema a considerare necessaria la
relazione stoica verificata dalla contrapposizione, in quanto il metodo
adottato è aprioristi co. Ci sono maggiori problemi, invece, come gli stoici
sot tolineano, a considerare necessaria l'inferenza analogica. A ogni modo,
per gli epicurei le relazioni segniche vengo no scoperte empiricamente e, se
la ricerca è ben condotta, la relazione tra il segno e l'oggetto a cui il segno
rimanda' è necessaria. Tuttavia, il metodo stesso dell'inconcepibilità è un
metodo empirico, in quanto una certa cosa è inconcepi bile solo nei termini
della nostra esperienza. Le inferenze verificate dall'inconcepibilità sono
basate sull'analogia tra il segno e ciò a cui esso rimanda: "Un oggetto
che non ab bia niente in comune con ciò che appare è inconcepibile" (col.
XXI, 27.;.29 = cap. 36). Anche le inferenze su ciò che va di là dell'esperienza
sono basate sull'analogia con le proprietà che presentano le cose ali'interno
deli'esperienza. Se non è possibile verificare di rettamente la presenza di
quelle proprietà negli oggetti non percepiti, si ricorre alla prova indiretta
della non incompati bilità (ouk antimartjrsis) con i dati empirici.7
L'inferenza che viene presa in considerazione è la seguente: Se gli uomini che
noi conosciamo direttamente, una volta deca pitati muoiono, senza che
ricrescano nuove teste, allora tutti gli uomini, dovunque, una volta decapitati
muoiono e non ricre scono nuove teste. Il primo membro del condizionale è
considerato segno del secondo. Tra i due membri si stabilisce un elemento co
mune, e l'inferenza è propriamente un'induzione: l'espe rienza ripetuta
dell'associazione tra decapitazione da una parte e morte congiunta alla non
ricrescita della testa dal l'altra, porta alla generalizzazione di questa
associazione, in modo da poter fare inferenze e previsioni anche in casi
186 8. IL «DE SIONIS» DI FnODEMO non precedentemente osservati, o non
osservabili in asso luto. Inoltre, poiché è impossibile verificare l'inferenza
sui casi non osservabili, gli epicurei la ritengono veri ficata basando si
sulla non incompatibilità con i casi che cadono nel domi nio deli'esperienza.
La condizione è tuttavia quella di sce gliere i casi giusti, che sono quelli
che appartengono allo stesso genere: a esempio, per inferire la non ricrescita
delle teste, è necessario non basarsi sulla ricrescita dei capelli o delle
unghie (coli. XIII, 20 - XIV, 2 = cap. 18). 8.3 Segni comuni e segni propri La disputa
sui metodi di verifica dell'inferenza si lega alla discussione sui tipi
possibili di segno. Tanto gli stoici quan to gli epicurei distinguevano tra
segno comune (koinòn s mefon) e segno proprio (fdion smefon). Definivano il
segno comune come quella entità che può esistere anche in assen za di
un'entità cui dovrebbe rinviare (a esempio, nell'infe renza "Se
quest'uomo particolare è ricco, allora è buono"! la ricchezza può
sussistere anche se non sussiste la bontà). Definivano poi il segno proprio
come quell'entità che può esistere solo se esiste un oggetto non percepibile a
cui essa rinvia (a esempio, nell'inferenza "Se c'è moto, c'è9vuoto",
il moto può esistere solo se esiste anche il vuoto). Gli epicurei erano
d'accordo con gli stoici nel rifiutare i segni comuni come basi inaffidabili di
inferenze, ma non concordavano sul fatto che ogni caso di segno proprio fosse
anche un caso (come sostenevano gli stoici) di segno stabili to per
contrapposizione, cioè stabilito aprioristicamente. Per essi era possibile
stabilire dei segni propri usando un criterio empirico, come è quello
dell'inconcepibilità.10 Se consideriamo l'inferenza: "Se Epicuro è un
uomo, allora anche Metrodoro è un uomo " ci troviamo di fronte a un segno
proprio costruito per ana- SEGNI COMUNI E SEGNI PROPRI 187 logia, cioè
sull'osservazione di una proprietà in Epicuro che è inconcepibile pensare che
Metrodoro non abbia esatta mente negli stessi termini. In altre parole si può
dire che, posto l'accordo tra le due scuole sulla validità dei soli segni
propri, gli stoici costituivano un oggetto come segno a par tire dal
conseguente (ovvero dal rinviato), mentre gli epicu rei lo costituivano a
partire dall'antecedente. È l'oggetto che compare nell'antecedente, infatti,
che nella semiotica epicurea viene associato a certe proprietà (costantemente
osservate) e diviene segno di un altro ogget to non percepibile a cui vengono
attribuite le proprietà del primo. Tuttavia, il primo oggetto X deve avere
almeno due proprietà Pt e P2 e il secondo oggetto deve avere almeno una di
queste: la proprietà comune diviene il segno della presenza della seconda
proprietà che può non essere perce pibile direttamente nel secondo oggetto. A
esempio, se un certo individuo X ha le due proprietà: Pt = "essere un uomo"
p2 = "non poter avere la ricrescita della testa, una volta tagliata"
sarà sufficiente che un altro individuo Xt abbia la proprietà Pt perché gli si
possa attribuire anche la proprietà p2. Le condizioni della validità generale
di questa inferenza sono due: (i) che l'associazione tra le due proprietà nel
pri mo membro dell'inferenza sia costante; (ii) che tale associa zione non si
stabilisca tra proprietà casuali. Come vedremo in seguito, si tratta di
scegliere delle proprietà che siano "es senziali". Rimane da fare
una considerazione generale sul tipo di segno proposto dagli epicurei: esso
sembra costantemente configurarsi come segno iconico, in quanto, in termini
peir ceani, rimanda al suo oggetto in virtù di una somiglianza o per avere
alcune proRrietà in comune con esso (Peirce 1980: 140; Eco 1973: 51). 1
188 8. ll «DE SIGNIS» DI FILODEMO 8.4 Critica stoica all'induzione epicurea Gli
stoici non accettano la validità dell'inferenza basata su un criterio
induttivo, come proponevano gli epicurei. A essa contrappongono inferenze
segniche basate sostanzial mente su due tipi di criterio: (i) la tautologia;
(ii) la L-impli cazione. 12 Seguiamo lo sviluppo dell'argomentazione degli
stoici. Essi prendono come punto di partenza una tipica in ferenza induttiva,
o analogica, epicurea: "Se gli uomini tra di noi sono mortali, allora
tutti gli uomi ni lo sono''. Per gli stoici l'inferenza cosi formulata è
inaccettabile. Per acquisire validità, essa deve essere riformulata secondo
l'uno o l'altro dei criteri che abbiamo menzionato. Vedia mo il criterio
definito come tautologia. Gli stoici sostengo no che, per rendere valida
l'inferenza, cioè, dal loro punto di vista, per rendere necessaria la relazione
tra i due mem bri, entrambe le proprietà prima considerate devono essere
contenute nella premessa. 1 3 Gli stoici propongono così di riformulare
l'inferenza nel modo seguente: Dal momento che gli uomini tra di noi sono
mortali, e se in altri luoghi vi sono uomini simili a quelli tra di noi sotto
tutti i ri spetti, e anche nell'essere mortali, essi sono eventualmente mor
tali . (coIl. II, 37 - III, 4= cap. 5) Il carattere tautologico dell'inferenza
è sottolineato dagli stoici stessi, i quali sostengono espressamente che
"la con clusione appresa attraverso questo segno non differisce dal segno
a partire dal quale si trae l'inferenza (smeioume tha)".14 Infatti viene
assunta la premessa che entrambe le serie di entità (cioè sia gli uomini che si
trovano tra di noi, sia gli uomini che sono in luoghi sconosciuti) hanno non so
lo la proprietà comune di essere "uomini", ma anche con
temporaneamente quella di essere "mortali". 8.5 RISPOSTA
EPICUREA A FAVORE DELL'INDUZIONE L'assunzione nella premessa dello stesso
carattere di "mortalità" che dovrà essere anche oggetto di inferenza
è, per gli stoici, condicio sine qua non della necessità dell'infe renza.
L'inferenza sarà valida, dunque, solo se totalmente analitica o tautologica.
Vediamo ora l'argomentazione stoica contro l'induzione secondo il criterio
definito L-implicazione. In questo secon do caso gli stoici propongono di
riformulare l'inferenza epi curea di partenza in maniera tale che il carattere
di "morta lità" da inferire sia contenuto nella definizione stessa
di "uomo". Per esprimere l'idea che la parola luomol implicita
semanticamente tutto un insieme di proprietà che una defi nizione metterebbe
in luce, essi introducono le espressioni hii "in quanto" e kath6
"nella misura in cui". L'inferenza riformulata secondo questo
principio assume la forma se guente: Dal momento che gli uomini tra di noi, in
quanto (hi1) e nella misura in cui (kath6) sono uomini, sono mortali, anche in
qual siasi altro luogo gli uomini sono mortali.ts in cui la semplice
espressione l uomo l è data come implici tante la proprietà
"mortale" da inferire. Gli stoici sostengono che l'attribuzione della
proprietà di essere "mortale" a l uomo l, se avviene in qualsiasi
altro modo diverso da questo, come appunto fanno gli epicurei, rende vana
l'inferenza. 8.5 La risposta epicurea a favore dell'induzione La sostanza della
replica epicurea è che il sistema stoico, per quanto appaia analitico e a
priori, tuttavia poggia in ul tima analisi su una base induttiva. In realtà,
secondo gli epicurei, la necessità della relazione inferenziale è costruita
sull'osservazione di congiunzioni costanti. È a causa del fatto di non vedere
mai il fumo senza il fuoco, né il moto senza la presenza del vuoto, che noi
arriviamo a dire che il fumo è segno del fuoco e il moto segno del vuoto.16
Cosi è 190 8. IL «DE SIGNIS» DI FILODEMO su base empirica che viene
stabilito il sistema di necessità lo gica a priori alla quale fanno ricorso
gli stoici . Del resto, la stessa connessione necessaria tra due termini,
espressa at traverso il test della contrapposizione, può essere verificata
solo dopo che l'esperienza ha mostrato la costante congiun zione tra di essi.
Come giustamente interpreta Estelle De Lacy (1938: 405), "le ipotesi sul
livello logico e teoretico sono formulate sulla base di informazioni intorno
alla connessione di termini da ti dali'osservazione deli'esperienza dei sensi.
La validità di queste ipotesi, di conseguenza, dipende dalla loro corri
spondenza con i fatti e dalla loro adeguatezza nel compren dere tali fatti,
come pure dalla loro interna coerenza o com patibilità dell'uno con
l'altra". Se questa è la sostanza della replica epicurea alle critiche
stoiche sull'induzione, vale però anche la pena di analizzare la risposta
specifica17 alla seconda critica stoica. Infatti, in relazione alla L-implicazione,
gli epicurei, ribaltando l'ar gomento stoico, sollevano una questione
interessante: la de finizione di uomo in quanto mortale è non il punto di par
tenza di un'inferenza deduttiva, ma il punto di arrivo di ri petute inferenze
induttive. In altre parole, si costruisce la definizione di uomo in quanto
tale, come comprendente an che la proprietà di essere "mortale" in
conseguenza di due serie di informazioni: (i) le informazioni che ci fornisce
la storia sulle vite degli uomini che ci hanno preceduti; (ii) le informazioni
che ci derivano dali'esperienza diretta dei no stri contemporanei. Così gli
epicurei pongono l'equivalenza tra la proposizione: (a) "Gli uomini, in
quanto uomini, sono mortali " (che è la formula suggerita dagli stoici, e
che indica dedutti visticamente il fatto che nella nozione di "uomo"
vi è com presa la proprietà "mortale"), e la proposizione: (b)
"Gli uomini con questa proprietà (di essere mortali) sono uomini" PROPRIETÀ
ESSENZIALI E ACCIDENTALI 191 che è la formula epicurea, la quale suggerisce in
qual modo venga costruita la definizione. In sostanza, gli epicurei sem brano
sostenere che la definizione di "uomo" viene costrui ta mediante
un'accumulazione di proprietà che sono rileva te mediante un metodo analogico
in entità che sono9deno minate in un certo modo, in questo caso, luominil.1
8.6 Proprietà essenziali e proprietà accidentali Un altro interessante problema
che emerge nella disputa tra stoici ed epicurei è quello della distinzione tra
proprietà primarie e proprietà secondarie. Questa distinzione risale a
Democrito, che è stato il primo a usarla (De Lacy 1938: 403). Il problema non è
affatto banale e ancora oggi, in molte teorie semantiche, si ricorre a
un'analoga distinzione. Gli epicurei affrontano l'argomento per rispondere a
una critica stoica che attacca il metodo dell'analogia mostrando il rischio che
si corre neli'applicarla a proprietà che non hanno tutte la stessa ripartizione
o generalità. Infatti, so stengono gli stoici, allo stesso modo in cui viene
universaliz zata la concomitanza osservata tra la proprietà "uomo" e
la proprietà "mortale'', altrettanto potrebbe essere fatto per la
concomitanza osservata tra "uomo" e "di breve vita": il ri
schio è che, così facendo, si viene ad attribuire quest'ultima proprietà anche
agli abitanti del monte Athos, che nell'anti chità erano proverbialmente
considerati longevi.20 Proprio da questo tipo di critica gli epicurei sono
spinti a elaborare una distinzione tra proprietà che sono variabili (cioè
peculiari a certi individui) e proprietà che sono costan ti (cioè
rintracciabili in ogni individuo). L'inferenza corret ta sarà quella che parte
dalle proprietà costanti. Tuttavia, sostengono gli epicurei, la stessa presenza
di proprietà va riabili, invece di indebolire la teoria dell'inferenza analogi
ca, la rafforza: posto infatti che gli uomini conosciuti diffe riscono
moltissimo rispetto alla lunghezza della vita (essen do alcuni di breve vita e
altri longevi), diviene possibile, proprio sulla base dell'esistenza della
variazione, fare cor rettamente l'inferenza che altrove esistano uomini di
ecce- 192 8. IL «DE SIGNIS» DI FILODEMO zionale longevità, come lo sono
appunto gli abitanti del monte Athos.21 Ma ciò che spinge gli epicurei ad
andare ancora più a fon do su questa strada è l'attacco stoico a proposito di
inferen... ze che hanno conseguenze sulla loro teoria metafisica. La
provocazione stoica concerne la teoria degli atomi, che, nel la metafisica
epicurea, hanno la proprietà di essere "incolo ri" e "indistruttibili";
però essi hanno anche la proprietà di essere "corpi", a cui,
nell'esperienza, sono associate le pro prietà opposte (cioè
"colorati" e "distruttibili"). Queste so no le due
inferenze che, secondo gli stoici, gli epicurei do vrebbero fare, applicando
correttamente il metodo analo gico: (l) "Dal momento che tutti i corpi
della nostra esperienza hanno colore e anche gli atomi sono corpi, anche gli
atomi hanno colore." (2) "Dal momento che tutti i corpi nella nostra
esperienza sono distruttibili, e anche gli atomi sono corpi, gli atomi devono
essere tutti distruttibili."22 La replica epicurea è molto interessante,
per due motivi. In primo luogo, perché precisa ulteriormente la necessità di
fare distinzioni tra proprietà a cui il metodo analogico si applica, e
proprietà a cui non si applica; infatti il metodo agisce selettivamente sulle
proprietà e non in modo ca suale.23 In secondo luogo, la replica epicurea è
interessante per ché modula la precedente distinzione in termini teoricamen
te più forti: essa diviene una distinzione in proprietà che possiamo definire
essenziali e proprietà accidentali. Infatti gli epicurei parlano di certe
proprietà che i corpi hanno pro prio "in quanto corpi" (hei somata),
che essi mantengono in ogni occasione: prima fra tutte la proprietà di
"opporre resistenza al tocco". Questa è dunque una proprietà essen
ziale. Poi ci sono quelle proprietà che non sono strettamen te legate alla
natura dei corpi e che possono variare a secon da delle condizioni: si tratta
di proprietà accidentali, che i PROPRIETÀ ESSENZIALI E ACCIDENTALI corpi
hanno "in quanto partecipano di una natura opposta a quella corporea e non
resistente",24 come a esempio la di struttibilità o il colore, il quale
ultimo è tanto accidentale che scompare nelle condizioni di buio. Possiamo
schematizzare queste due serie di proprietà at traverso una tabella:
proprietè entitè corpi A B proprietè accidentali (in quanto partecipano
di una nature opposta) ..distruttibilitè• ·colore• (in quanto tali)
·resistenze al tocco· proprietè essenziali Gli epicurei precisano molto
chiaramente che le inferenze induttive generalizzanti non dovranno partire
dalle proprie tà della colonna B; ma niente impedirà di fare inferenze ge
neralizzanti, con il metodo dell'analogia, partendo dalle proprietà della
colonna A.25 A conferma di questo schema si può riportare l'esempio del
"fuoco'',26 per il quale, accanto alla proprietà essenziale di bruciare,
viene elencata una serie di proprietà variabili peculiari ai vari tipi:
8. IL «DE SIGNIS» DI FILODEMO proprietà essenziali proprietà accidentali
(koin6ttes) (idi6ttes) ·di lunga o corta durata• ·non tutte le sostanze sono
bruciate nello stesso modo· ·facili o difficili da spegnere · ·duri o teneri·
•di colore variabile a seconda del combustibile· Nella sezione di Bromio27
viene anche prevista una specie di topica per individuare la ripartizione delle
proprietà: in fatti, ai fini della correttezza delle inferenze, le proprietà
es.. senziali (o comuni, koin6ttes) e quelle accidentali (o pecu liari,
idiOttes) devono essere analizzate nei vari campi o ca tegorie che sono di
pertinenza di un oggetto: nelle sostanze, nei poteri, nelle qualità, negli
attributi, nelle disposizioni, nelle quantità, nei numeri. Lo scopo di questa
topica appare essere quello di giustifi care inferenze universalizzanti
ali'interno di categorie omo genee: infatti, a esempio, pur essendoci
un'infinita varietà di esseri umani e di cibi che li nutrono, se si considera
il fie no rispetto alla categoria dei "poteri", si troverà che esso
ha due proprietà costanti: "di non nutrire gli esseri umani" e
"di non essere digerito da essi".28 Perciò, al di là delle diverse
caratteristiche che questo og getto potrà presentare (diversi colori, diversa
consistenza, diverso grado di maturazione ecc.), potremo fare con sicu rezza
l'inferenza che da nessuna parte si troverà del fieno che abbia la proprietà di
nutrire gli uomini e di essere da lo ro digerito. Ma che cosa sono
propriamente per gli epicurei quelle proprietà degli oggetti ''in quanto
tali", che abbiamo defini to proprietà essenziali? Dai precedenti esempi
(e da altri analoghi) appare chiaramente che esse sono, per loro, le - 194
propnettt r entità ! fuochi PROPRIETÀ ESSENZIALI E ACCIDENTALI 195
proprietà definitorie di un oggetto, cioè quelle che concor rono alla sua
definizione essenziale. Abbiamo visto che per gli stoici una definizione viene
co struita analiticamente, attraverso una ricognizione delle proprietà
implicite nella nozione da definire: un individuo, in quanto è uomo, ha la
proprietà di essere mortale. Per gli epicurei le cose vanno nel senso opposto.
La defi nizione di una nozione viene costruita per accumulo delle proprietà
comuni a certi individui. Di conseguenza, tra le proprietà comuni (o
essenziali) rilevate empiricamente e le proprietà che fanno parte della
definizione, non c'è diffe renza. Lo dimostra anche l'uso della particella hi
("in quanto") che viene utilizzata (come vedremo meglio più avanti)
nelle espressioni definitorie. Rimane aperto il pro blema se sia possibile
costruire empiricamente una defini zione annotando le proprietà comuni a una
classe di ogget ti, o se il processo non sia in qualche maniera viziato (alme
no in parte) proprio dalla preliminare esistenza di definizio ni che rimandano
alla lingua come struttura globale interde finita e/o storicamente
stratificata. Questa seconda ipotesi sembra in parte prospettarsi con la
definizione di l uomo l . Per gli epicurei, infatti, la pro prietà
"mortale'' è, come abbiamo visto, una proprietà es senziale o definitoria
di l uomo l . Si deve però notare che es sa fa parte della definizione di l
uomo l già in una lunga tra dizione che risale per lo meno ad Aristotele.
Quest'ultimo definiva infatti l uomo l come "animale mortale provvisto di
ragione" (Top., V, l, 128 b, 35-36). Gli stoici poi lo defi nivano come
"animale razionale mortale" (Epictetus, Diss. II, 9, 2). La
tradizione epicurea, infine, lo definiva come "mortale provvisto di
sapienza pratica" (De signis, col. XXII, 22-24=cap. 37).29 È probabile,
dunque, che definizioni di questo genere co stituissero un'implicita guida
nella stessa ricognizione empi rica delle proprietà comuni a una serie di
oggetti (gli uomini percepibili) analizzati in vista di un'inferenza al non
perce pibile . 196 8. IL «DE SIGNIS» DI FILODEMO 8.7 Modalità di inerenza
delle proprietà essenziali ai soggetti Quando nel trattato di Filodemo si parla
di proprietà co muni o essenziali, queste vengono congiunte al soggetto me
diante le particelle héi, kath6, par6, che equivalgono nel si gnificato alle
espressioni italiane "in quanto", ''nella misura in cui". Esse
vengono a indicare una condizione restrittiva nell'inferenza al non
percepibile, come abbiamo visto nel l'esempio della natura degli atomi come
"corpi in quanto tali", o degli uomini come mortali "nella
misura in cui sono uomini". Nella sezione di Demetrio sono elencate
quattro accezioni fondamentali di queste particelle, che rimandano a quattro
modi di inerenza delle proprietà ai soggetti: (i) Secondo la prima accezione,
le proprietà possono es sere viste come conseguenze necessarie (ex ananks
synépe tar): come esempio di conseguenza necessaria del fatto di essere
uomini, sono riportati i fatti di avere un corpo e di essere soggetti alla
malattia e alla vecchiaia.3° Con questo esempio l'autore sembra individuare un
tipo di proprietà che in certe semantiche contemporanee sono chiamate fat
tuali o sintetiche3 1 o proprietà secondo il modo 1r). 32 (ii) Nella seconda
accezione, le proprietà sono individua te come essenziali alla definizione o
alla concezione fonda mentale (prolessi)33 di un certo oggetto. Questo si
verifica a esempio con espressioni del tipo: "I corpi, in quanto corpi,
hanno volume e resistenza", o come: "L'uomo, in quanto uomo, è un
animale razionale''. In questo caso il rapporto sembra essere di tipo equativo:
l'estensione del primo termi ne viene a coincidere con quella del secondo. Nel
caso del l'esempio di l uomo l, l'equivalenza definizionale viene data in
termini di genere ("animale"), più differenza specifica
("razionale"). (iii) Secondo la terza accezione, certe proprietà sono
vi ste come sempre concomitanti (synbebekénar), come nell'e sempio:
"L'uomo nella misura in cui è uomo, muore". L'autore sembra
individuare qui delle proprietà che nelle teorie contemporanee sono state
definite semantiche, anali tiche o proprietà secondo il modo E : "uomo,,
infatti, è in cluso nella classe più vasta di "mortale".
Quest'ultima, poi, ritorna sotto forma di marca semantica a comporre il seme
ma corrispondente al termine l uomo l . (iv) La definizione della quarta
accezione è perduta in una lacuna, ma essa può essere ricostruita dagli esempi
che il testo ha conservato: "L'uomo, nella misura in cui è folle, è
massimamente infelice,, "Un coltello taglia nella misura in cui è
affilato", "Gli atomi, nella misura in cui sono soli di, sono
indistruttibili", "Un corpo, nella misura in cui ha peso, cade verso
il basso". Marquand (1883: 125) interpreta questi come esempi di proprietà
che implicano gradazioni o proporzione. I De Lacy (1978: 125) fanno invece la
conget tura che si tratti di proprietà delle proprietà. Certi di questi esempi
farebbero pensare al rapporto se miotico della connotazione, inteso come
significato che si appoggia su un altro significato e che comunque è fissato da
un codice. Si possono schematizzare i quattro modi in cui le proprie tà
ineriscono al soggetto, · sia secondo l'interpretazione di Marquand, sia
secondo quella della semiotica contempora nea (cfr. p. 198). 8.8 Conclusioni
Se gli stoici avevano fornito alla semiotica una solida im palcatura logica,
gli epicurei arricchiscono la problematica del segno mediante una serie di
specificazioni destinate ad avere valore operativo nella ricerca concreta ed
effettiva. Abbiamo già visto le distinzioni tra i tipi di segno, i tipi di proprietà,
i modi di inerenza delle proprietà ai soggetti. Ol tre a questi temi gli
epicurei affrontano anche il problema della gamma di variazione a cui i
fenomeni sono sottoposti e quello dei limiti di tale variazione, come
condizione per fare inferenze corrette. Infatti ammettono l'esistenza di
proprietà che variano da individuo a individuo, ma negano 198 8. IL «DE
SIGNIS)) DI FILODEMO semiotica contemporanea Marquand
conseguenza 1. 2. concezione estensionalmente necessaria definizione o
proprietè fattuali o sintetiche essenziale (protessi ) proprietà
equivalenti al soggetto 3. concomitanza proprietà semantiche o
analitiche 4. gradazione o connotazioni proporzione codificate che nei
fenomeni non percepibili la gamma di variazione sia illimitata e che comunque
superi i confini della variazione osservabile nei fenomeni conosciuti. Così non
si potrà infe rire che gli uomini fuori dalla nostra esperienza siano tanto
resistenti da essere invulnerabili, oppure che essi siano fatti di ferro, o che
passino attraverso le pareti, come quelli co nosciuti passano attraverso
l'aria. La giustificazione di que sto fatto viene data dal metodo
deli'inconcepibilità: "è in concepibile che ci sia un ogetto che non
abbia niente in co mune con ciò che appare". 5 Nel De signis vengono
anche affrontati i problemi con nessi ai vari tipi di inferenza: da classe a
classe; da oggetti identici ; da casi rari ; da casi unici . Tutti questi
problemi so no collegati a un tema che è costante nella semiotica epicurea:
quello delle garanzie di validità di un'inferenza. A esempio, un'inferenza
scorretta è quella che porta a concludere che tutti gli uomini sono bianchi,
partendo dal l'osservazione che gli uomini greci lo sono, o che, al contra
rio, porta a concludere che tutti gli uomini sono neri, par tendo
dali'osservazione che gli Etiopi sono tali. In effetti, simili inferenze sono
errate perché non sono frutto di "una accurata supervisione di tutti i
casi percepibili".36 Ciò che, dal punto di vista logico, avviene in casi
di questo genere è che si tenta di applicare ali'intera classe o genere (quello
de gli "uomini") una proprietà che di volta in volta è caratteri
stica di una sottoclasse o specie (quella dei "Greci" o, ri
spettivamente, quella degli "Etiopi"). In effetti, per garantire il
massimo di sicurezza, gli epicu rei pongono alla base del loro metodo per
costruire inferen ze una teoria della progressiva inclusione semantica tra in
dividui, specie e generi, cioè una teoria delle classi. È infatti legittimo
fare inferenze tra membri (classi o in dividui particolari) i quali si situino
a un livello analogo o che siano il più possibile vicini e simili. Naturalmente
que sto non significa che l'inferenza debba essere fatta esclusi vamente tra
membri che si situano esattamente allo stesso livello, altrimenti l'induzione
perderebbe molta della sua forza, ma nella maggior parte dei casi viene
previsto un mo vimento ascendente di generalizzazione.37 Una teoria delle
classi è implicita anche nella trattazione epicurea dei casi unici, elaborata
ancora una volta in rispo sta a una critica stoica. In effetti gli stoici
avevano tentato di attaccare il metodo deli'analogia ricorrendo ali'argomen to
deli'esistenza in natura di casi unici, che non presentano analogia con alcun
altro fenomeno: a esempio, in mezzo al la stragrande quantità di pietre che
esistono nella nostra esperienza, ce n'è una sola, il magnete, che è capace di
atti rare il ferro; ugualmente, solo l'ambra ha la proprietà di at tirare la
paglia; infine, non c'è che il quadrato che misura 4 di lato che ha il
perimetro e l'area espressi dallo stesso nu mero.38 Secondo gli epicurei,
però, le critiche degli stoici, invece di inficiare l'inferenza analogica, in
realtà la rafforzano. 200 8. IL «DE SIGNIS» DI Fll.ODEMO Per dimostrare
questo, gli epicurei ricorrono al metodo di ridurre ad altrettante classi gli
oggetti unici. Così, essi dico no, se alcuni magneti attirassero il ferro e
altri no, l'inferen za per analogia sarebbe inficiata; ma poiché così non
avvie ne, è possibile inferire le proprietà degli altri magneti a par tire
dal magnete che cade sotto la nostra percezione.39 Molti ancora sarebbero i
punti particolari da prendere in considerazione, per mostrare il modo con cui
gli epicurei tentano di dettagliare la teoria del segno. Ma quello che in
definitiva caratterizza la semiotica epi curea è il suo richiamo a un completo
programma empirista (che era condiviso, tra l'altro, anche dai medici
empirici). Tale programma comprende tre tappe fondamentali: osservazione;
storia; inferenza da simile a simile. I pri mi due momenti del programma
permettono di individuare le "proprietà essenziali", e quindi di
passare al terzo mo mento, che è quello della ricostruzione del processo
semioti co vero e proprio. Nei primi due momenti, infatti, vengono suggerite
delle condizioni sui fenomeni da osservare per ottenere le pro prietà
costanti: essi devono essere "molti", devono essere diversi tra di
loro (''vari") e, contemporaneamente, devono essere
"omogenei".40 Il terzo momento, infine, combina le proprietà
deli'enciclopedia semantica con le leggi della logi ca (che per gli epicurei
sono quelle della logica delle classi). In questo compromesso, appunto, tra i
concreti suggeri menti in vista della produttività empirica e il tentativo di
mantenere il massimo rigore formale deve essere individua ta l'originalità
della proposta epicurea. RETORICA LATINA. L'interesse per la problematica
semiotica nel mondo ro mano fa parte di quel processo di costante e
progressiva ac quisizione del patrimonio culturale greco, che inizia nel III
secolo a.C. Ma, nel passaggio dal mondo greco a quello ro mano, il paradigma
semiotico abbandona il campo della fi losofia in senso stretto, per
installarsi, in maniera centrale, nell'ambito retorico-giuridico. In Grecia la
conoscenza attraverso i segni era divenuta, soprattutto nelle scuole
postaristoteliche, il modello stesso della conoscenza in generale e, a partire
dagli stoici, aveva trovato la sua collocazione ali'interno della dialettica,
una delle branche più astratte della filosofia, in quanto sotto partizione
della stessa logica. Invece i Romani, aderendo a interessi maggiormente
orientati in direzione pragmatica, avevano bensì colto l'estremo interesse del
paradigma se miotico, ma lo avevano subito piegato ai fini, a loro più
congeniali, del dibattito politico e giudiziario, dibattito de stinato a
essere condotto con gli strumenti forniti appunto dalla retorica. Per rendersi
conto, nel modo più chiaro, del cambiamen to di prospettiva, basta mettere a
confronto l'atteggiamento di Aristotele con quello di Cicerone nei riguardi
della retori ca. Aristotele aveva fatto di questa disciplina l'argomento di un
suo importante trattato, la Retorica, e al suo interno aveva affrontato il tema
dei segni; ma, come era già avve- 202 9. RETORICA LATINA nuto nei Primi
analitici, aveva tentato di ridurre la forma dei vari tipi di segno a quella
dei tipi di sillogismo. Cosi fa cendo, aveva indicato un percorso ben preciso:
la logica stabilisce le forme fondamentali del ragionamento, che de vono
rimanere un punto di riferimento anche quando l'inte resse si sposta, come nel
caso della retorica, dal discorso scientifico a quello persuasivo, dai segni
referenziali a quelli efficaci . In Cicerone, e in genere nella trattatistica
retorica roma na, si registra un'inversione nell'ordine di priorità: la retori
ca non occupa più il secondo posto, rispetto a un primato della logica, ma, al
contrario, è la filosofia nel suo insieme che diviene scienza ancillare, il cui
scopo è quello di contri buire alla formazione del buon oratore. Tuttavia è
l'elo quenza l'espressione più alta dell'attività intellettuale. Un passo del
De oratore (Il, 159-160) mostra abbastanza chia ramente l'opinione di Cicerone
circa i rapporti tra dialettica e retorica, quando per bocca di Antonio viene
detto che i dialettici sono soltanto capaci di criticare degli enunciati, ma
non di produrne. In effetti, per Cicerone la retorica costituisce il
"corona mento" della filosofia, dalla quale non può essere
dissociata (De orat., III, 59-61), e non deve essere considerata una tec nica
capace di aggiungere un'espressione elegante a un pen siero già formato. Come
mettono bene in luce Mare Baratin e Françoise Desbordes (1981: 50), in Cicerone
agisce un principio, sempre sfumato, ma costantemente affermato, che, se si
parla bene, si pensa anche bene o, in altre parole, che non si pensa veramente
bene se non quando si parla ve ramente bene. Tuttavia la retorica,
indiscutibilmente, presenta anche un aspetto tecnico, e ogni trattatista mostra
che essa è organiz zata secondo due tipi di assi. Il primo concerne i tipi di
di scorso: il discorso dei tribunali (giuridico); il discorso del l'assemblea
(politico); il discorso delle cerimonie pubbliche (dimostrativo). Il secondo
riguarda le parti della retorica, ovvero i tipi di procedimenti che devono
essere messi in atto per strutturare progressivamente un discorso: inventio (ri
cerca degli argomenti); dispositio (ordinamento di quel che 9.l LA «RHETORICA
AD HERENNIUM» 203 è stato trovato); elocutio (resa degli argomenti in forma or
nata); memoria (procedimenti mnemotecnici); actio (recita zione del discorso:
gesti e dizione). La problematica riguardante il segno si colloca nel cuore
della inventio, quando cioè si devono "trovare" le prove che
convincano l'uditorio della colpevolezza o dell'innocenza di un imputato. Le
prove, in retorica, hanno una loro propria forza, muovono dal ragionamento e si
inseriscono nel pro gramma rivolto a convincere (/idem facere), il primo dei
due programmi in cui si articola l'inventio. L'altro pro gramma è il
commuovere (animos impellere) e consiste nel porre l'accento non sul messaggio
o sulla sua forza proba toria, ma sulle emozioni del destinatario. Tuttavia,
come sottolinea Barthes (1970: tr. it. 60), si ha un certo disagio a usare
l'espressione "prova" per indicare le probationes (pfsteis)
retoriche, in quanto questa parola ha oggi una conno tazione scientifica la
cui assenza appunto definisce le "pro ve" retoriche. Tuttavia, un
merito che va riconosciuto alla retorica è proprio quello di aver tentato di
dare una classifi cazione del diverso grado probatorio e della diversa forza
argomentativa delle "prove" stesse. Compito, quest'ultimo, che ogni
autore ha assolto in ma niera particolare, proponendo una classificazione che
non coincide, se non parzialmente, con quella data dagli altri. Nei prossimi
paragrafi, così, cercheremo di illustrare le li nee secondo le quali i tre
grandi autori della trattatistica re torica romana, cioè Cornificio (autore
della Rhetorica ad Herennium), Cicerone e Quintiliano, ricostruiscono nelle
rispettive opere la struttura del paradigma indiziario, cia scuno secondo
diverse modalità. 9.1 La "Rhetorica ad Herennium" di Comificio Una
documentazione diretta della retorica latina la si ha soltanto con i trattati
del I secolo a.C., tra cui la Rhetorica ad Herennium, attribuita un tempo a
Cicerone sulla scorta dell'autorità dei manoscritti, ma la cui paternità è oggi
asse gnata a Cornificio (Calboli: 1969). 204 9. RETORICA LATINA La
problematica semiotica viene sviluppata da Cornificio all'interno della
constitutio coniecturalis dove, per verifica re se sia stata commessa o no una
determinata azione da un certo imputato, si segni che ne mostrino la col
pevolezza o Pinnocenza. L'elemento non conoscibile diret tamente a cui i segni
devono rimandare non è il fatto o rea to, che è ovviamente noto, ma l'agente
responsabile di tale fatto, oppure le relazioni tra un certo individuo e un certo
fatto. Questo aspetto è abbastanza peculiare della semiotica giuridica ed è ben
illustrato dall'esempio di Cornificio: Aiace in un bosco, dopo essersi reso
conto di quello che aveva compiuto durante la sua pazzia, si gettò sulla spada.
Sopravviene Ulisse e lo vede morto; estrae dal suo corpo l'arma insanguinata.
Sopravviene Teucro, vede il fratello ucciso e il nemico del fratello con la
spada insanguinata. Lo accusa di assassinio. Qui si cerca la verità per
congettura. (Rhet. adHer., l, 18) Ma ciò che è in questione nell'esempio Oa
colpevolezza o meno di Ulisse) per i retori romani non può scaturire da una
intuizione spontanea, né da una abduzione fulminea. La retorica antica, come ha
sottolineato Barthes (1970: tr. it. 59), nutriva una fiducia incrollabile nel
metodo ed era ossessionata dali'idea che lo spontaneo e l'ametodico non
portavano a niente di buono. Così Cornificio, con il suo ti pico procedimento
diairetico, suddivide lo stato congettura le in sei parti, sei diverse vie per
arrivare alla verità (Il, 3): probabile (probabilità), conlatio (confronto),
signum (pro cedimento indiziario), argumentum (segno), consecutio
(conseguenza), adprobatio (conferma). La probabilità Troviamo qui una
terminologia in parte familiare, in quanto probabile può essere considerata la
trasposizione la tina di eik6s, e signum quella di smefon, per limitarci solo
a questi due casi. Ma i contenuti delle espressioni latine so- 9.l LA
«RHETORICA AD HERENNIUM» 205 no completamente difformi dalle corrispondenti
nozioni greche. Infatti il probabile è "ciò attraverso cui si dimostra che
era utile commettere il crimine e che l'imputato non si è mai astenuto da
comportamenti di tale turpitudine" (Il, 3), defi nizione nella quale non
rimane molto deli'eik6s aristotelico. Piuttosto la nozione di probabile è
connessa alla caratteriz zazione psicologica dell'individuo in questione (''Se
[l'accu satore] dirà che ha agito per denaro, mostri che egli è sem pre stato
avaro, se per una carica, ambizioso; così potrà far combaciare il difetto
congenito con il motivo del crimine", Il, 5) e, come si può cogliere dalla
sua ulteriore suddivisione in causa e vita, oscilla tra la nozione di
"movente" e quella di "precedenti". 9.1.2 Il procedimento
indiziario La nozione di signum viene definita da Cornificio come "ciò che
serve a mostrare come è stata cercata un'occasione favorevole ali'esecuzione
(del crimine)" (II, 6). Non ritro viamo nemmeno qui la nozione greca di
smeion. Piuttosto il signum costituisce l'insieme di quei procedimenti indizia
ri, di pertinenza dell'investigatore, che permettono di rico struire il fatto
scomponendolo, come suggerisce di fare Cornificio, in tanti oggetti di indagine
separata: sul luogo del delitto, sul tempo, sull'occasione, sulla speranza di
por tare a esecuzione il fatto, sulla speranza di tenerlo celato. 9.1.3 Il
segno Una nozione che presenta maggiore interesse è quella di argumentum. Se la
sua definizione non è ancora molto elo quente ("Argumentum è ciò
attraverso cui il crimine viene confermato con segni [argumentis] più precisi e
con un so spetto più sicuro", II, 8), gli esempi che vengono forniti ci
tolgono ogni dubbio che si tratti del segno come singolo fe nomeno
percepibile, che rimanda a un fatto non conoscibile 206 9. RETORICA
LATINA direttamente; la sua struttura è quella in ferenziale, espressa da
un periodo ipotetico: "Se il corpo del morto s'è alterato nel colore per
gonfiore o lividezza, significa che è stato uc ciso da una dose di
veleno" (Il, 8); se si trova del sangue sulle vesti dell'imputato, se è
stato visto sul luogo del delit to, significa che egli è colpevole (ibidem)
ecc. Caratteristicamente l'argumentum viene suddiviso in tre tipi, in relazione
al rapporto temporale (anteriorità, con temporaneità, posteriorità) che si
instaura fra antecedente e conseguente del segno; classificazione, questa, che
risale al la retorica prearistotelica (si trova a esempio nella Rhetori ca ad
Alexandrum, 1430 b, 30 e sgg.) e giunge almeno fino a Quintiliano. 9. 1 .4 Le
reazioni fisiche non controllabili Un'altra nozione interessante è quella di
consecutio, che Calboli (1969: 232) mette in relazione ai sjmptoma della
terminologia medica. Si tratta, come dice Cornificio, dei "segni (signa)
che solitamente presentano i colpevoli e gli innocenti" (II, 8), come, a
esempio, che l'imputato, quando si è giunti a interrogarlo, "sia
arrossito, sia impallidito, ab bia titubato, sia caduto in contraddizione, si
sia smarrito, abbia fatto qualche promessa, che sono segni di coscienza non
tranquilla" (ibidem). Sono dunque delle reazioni fisi che non
controllabili, dei segni involontari che possono ve nire messi in relazione,
in maniera abbastanza codificata, con degli stati d'animo (come il senso di
colpa). Questi se gni, per quanto non siano facilmente dissimulabili, sono pe
rò manipolabili a livello di interpretazione: infatti l'avvoca to difensore
può intervenire sulla loro presenza sostenendo che l'imputato, a esempio, si è
turbato per la gravità del pe ricolo e non per la coscienza della colpa;
d'altro canto, l'ac cusatore può intervenire sull'assenza di segni di tal
genere sostenendo che l' imputato aveva a tal punto premeditato la cosa da
presentare la massima sicurezza, ragione che rende l'assenza di turbamento
"segno di sicurezza, non d'inno cenza" (ibidem). probabile
causa - vita conlatio alii nemini bonum - neminem alium potuisse slgnum occasio
- spes per- ficiendi spes celandi l argumentum consecudo adprobatio -
praeteritum - signa 9.1 LA «RHETORICA AD HERENNIUM» 207 9. 1 .5 La
classificazione e la forza argomentativa Come si può vedere, il procedimento
indiziario che viene messo in atto in ambito retorico-giuridico gioca su vari
li velli: (i) innanzitutto, ci sono i segni della premeditazione. che nella
tassonomia di Cornificio sono distribuiti tra il probabile, la conlatio (che
consisteva nel dimostrare che l'imputato aveva più di ogni altro ragioni e
possibilità di commettere il delitto) e il signum; (ii) in secondo luogo ci
sono i segni delfatto stesso, che sono rappresentati dagli ar gumenta: essi
mettono in relazione diretta l'imputato con il reato; (iii) in terzo luogo c'è
quella sorta di segniproducibili quasi sperimentalmente, che si traggono dal
comportamen to dell'imputato osservato in un momento diverso e succes sivo
rispetto a quello dell'evento criminoso. Possiamo illustrare complessivamente
la classificazione della materia congetturale effettuata da Cornificio con il
se guente schema (Curcio 1900): - locus - tempus - spatium -
consequens Se messa a paragone con quella della Retorica aristoteli
ca, la classificazione di Cornificio appare filosoficamente meno coerente e non
saldamente fondata. Tuttavia, con temporaneamente, appare molto più aderente
alla materia instans conscientiae - signe confidentiae - signa
innocentiae 208 9. RETORICA LATINA cui è destinata ad applicarsi e non
priva di una logica inter na nel suo seguire i segni deli'imputato in un
percorso che parte dal momento precedente il crimine e culmina nel pro cesso .
Cornificio discute anche della forza argomentativa dei se gni, quando propone
di organizzare in una struttura logica gli argomenti trovati. E, a questo
proposito, nota che ci so no dei segni che non garantiscono nessuna certezza
come a esempio: uoeve aver partorito, poiché porta in braccio un bimbo
piccolo", oppure: "Dal momento che è pallido, deve essere
ammalato" (Il, 39). Come si può notare, si tratta di segni che
corrispondono a quelli in 2a figura di Aristotele: essi non sono sicuri perché,
a esempio, il pallore può bensi indicare malattia, ma anche una quantità di
altre cose. Quello che è però interessante è che Cornificio non li rifiu ta,
ma sottolinea un loro valore argomentativo nel caso che compaiano in gran
numero ("se però vi si aggiungono an che tutti gli altri, tali segni
hanno un certo peso per accre scere il sospetto", ibidem). 9.2 Cicerone
Cicerone affronta e sviluppa la problematica semiotica in due importanti ambiti
della sua produzione teorica: (i) le opere di argomento retorico; (ii) le opere
che parlano dei se gni divinatori. Se prendiamo in considerazione il primo di
questo ambi to, possiamo osservare che l'interesse per i segni non è
ugualmente centrale in tutti i testi. Infatti, da una parte, ci sono il De
oratore, I'Orator, il Brutus, il De optimo genere oratorum che affrontano una
problematica a carattere so cio-politico, volta a definire la figura
deli'oratore perfetto, il suo ruolo nella società romana, la sua posizione
rispetto alla scuola attica e a quella di Pergamo; in queste opere tut to ciò
che costituisce l'apparato tecnico tradizionale della retorica (e con esso
anche la problematica sui segni e sulle prove indiziarie) appare non tanto
trascurato, quanto dato per scontato: esso si confi:ura come un vasto campo
di competenza che rimane implicito sullo sfondo e affiora solo nei termini
di un uso personalissimo che ne fa l'autore, in prima persona o attraverso i
personaggi del dialogo. Dall'altra parte ci sono, poi, il De inventione, le
Partitio nes oratoriae e i Topica, opere molto diverse tra loro, ma accomunate
dalla caratteristica di prendere in considerazio ne e di sistematizzare la
gran massa delle nozioni che com pongono l'apparato tecnico della retorica. Un
limite di que ste opere, in generale, è rintracciabile nella minuziosità del
procedimento classificatorio, che raggiunge talvolta il pa rossismo, come nel
De inventione, e che spesso non trova un'adeguta giustificazione teoretica.
Tuttavia è proprio ali'interno di queste opere che è dato rintracciare gli
spunti e i documenti per la ricostruzione di una teoria ciceroniana del segno.
9.2. 1 Il "De inventione" Il De inventione è un'opera giovanile di
Cicerone e con densa l'ampia tradizione retorica che da Aristotele giunge fino
a Ermagora: è quindi naturale che al suo interno si tro vino riprodotti alcuni
aspetti della concezione del segno che in quell'ambito si era sedimentata. In
particolare è presente la concezione del segno in forma proposizionale, come an
tecedente che permette di scoprire un conseguente. Viene poi confermata
l'attenzione verso i segni involontari (l'im pallidire, l'arrossire, il
balbettare dell'imputato) come indi zi di colpevolezza. Infine compare la
classica divisione degli indizi secondo la loro relazione temporale con il
fatto crimi noso (anteriorità, contemporaneità, posteriorità). Questi i punti
di contatto con la tradizione. Ma bisogna anche dire che la classificazione dei
segni proposta da Cice rone è in larga misura diversa da quelle precedenti.
Essa ap pare infatti all'interno della teoria della argumentatio (ar gomentazione),
cioè del procedimento attraverso il quale vengono addotte delle prove per
confermare una certa tesi: "L'argomentazione sembra essere qualche cosa
che si esco gita da qualche genere e che rivela un'altra cosa in
maniera RETORICA LATINA probabile (probabiliter ostendens), o la dimostra
in . un mo do necessario (necessarie demonstrans)" (De inv., I, 44).
Anche se non viene usato il normale lessico semiotico, ciò che è in gioco in
questa definizione è proprio il meccanismo del segno: infatti, qualcosa che è
stato trovato (un indizio che viene depositato nel dossier deli'avvocato)
rinvia a qualcos'altro. Compare, a questo punto, la distinzione (già
aristotelica) tra una forza argomentativa debole (probabili ter ostendens) e
un'inferenza necessaria (necessarie demon strans) . 9.2 . 1 . 1 Rinvio
necessario e non necessario I segni necessari sono così definiti: "Viene
dimostrato in modo necessario ciò che non può verificarsi né essere pro vato
diversamente da come viene detto" (ibidem). Ne sono esempi: "Se ha
partorito, è stata con un uomo" (ibidem); "Se respira, è vivo",
"Se è giorno, c'è luce" (De inv., l, 86). Come Cicerone spiega in un
altro passo, in casi di questo genere l'antecedente e il conseguente sono
legati da una re lazione inscindibile (cum priore necessario posterius cohae
rere videtur, De inv., l. 86). Il rapporto di rinvio non necessario viene poi
cosi defini to: "Probabile è poi ciò che suole generalmente accadere, o
che è basato sulla comune opinione, o che ha in sé qualche somiglianza con
questa qualità, sia esso vero o sia falso" (De inv., l, 46). Con questa
definizione Cicerone mette in evidenza due caratteri: (i) quello probabilistico
e (ii) quello doxastico; il primo di questi era da Aristotele attribuito
peculiarmente all'eikos (verisimile). E infatti i primi due esempi sono di un
tipo che Aristotele avrebbe classificato come eikos: "Se è madre, ama suo
figlio", "Se è avido, non fa gran caso del giuramento" (De inv.,
I, 46). In essi compare anche il tipico rapporto di generalizzazio ne che per
Aristotele definisce il verosimile (Arist., Rhet., 1357 a). C'è però un terzo
esempio, "Se c'era molta polvere nei calzari, era sicuramente reduce da un
viaggio" (De inv., CICERONE 21 1 I, 47), che non sembra dello stesso
tipo, ma è più vicino al smeion aristotelico. 9.2. 1 .2 L'indizio La categoria
di signum, poi, compare come una sottopar tizione dei segni non necessari,
accanto al credibile (credibi le), ali'iudicatum (giudicato) e al comparabile
(paragonabi le). Se le ultime tre nozioni appaiono distinte in base a crite
ri estrinseci (e scompariranno nelle trattazioni successive), il signum
corrisponde a una categoria di fenomeni abbastan za particolare: "Segno è
ciò che cade sotto qualcuno dei no stri sensi e indica (significar) un
qualcosa che sembra deri vato dal fatto stesso, e che può essere verificato
prima del fatto, durante il fatto, o può averlo seguito, e tuttavia ha bisogno
di una prova e di una conferma più sicura" (De inv., I, 48). Ne sono
esempi: "il sangue", "il pallore", "la fuga",
"la poivere". Si tratta, come si vede, degli indizi, intesi come
fenomeni percepibili, scarsamente codificati e generalmente non vo lontari.
Qui sono presentati in una forma non proposizio nale; ma niente vieta che
vengano sviluppati in proposizio ni, come dimostra il caso deli'indizio
"polvere": "Se c'era molta polvere nei calzari, era sicuramente
reduce da un viaggio". Gli indizi, infine, vengono suddivisi secondo la
nota relazione temporale con il fatto criminoso. Possiamo quindi schematizzare
la classificazione propo sta nel De inventione (cfr. p. 212). 9.2.2
"Partitiones oratoriae" Le Partitiones oratoriae sono un'opera della
tarda matu rità di Cicerone, nella quale la classificazione della materia
semiotica presenta alcune differenze e peculiarità rispetto al trattato
giovanile. Innanzitutto la terminologia si sgancia completamente da quella dei
modelli greci e viene completa mente latinizzata. In secondo luogo gli indizi
(qui chiamati 212 9. RETORICA LATINA argumentatio necessaria probsbilis (·quod fero solet fiori
élut quod in opi nione positum est") es.: .. "pallore'",
..polvere" vestigiafactl) non compaiono più come sottopartizione di
un'altra categoria, ma assumono un ruolo autonomo. (·ea quae alitar ac
discuntur nec fieri nec probari pos sunt"l es . : ·se ha partorito, è
stata con un uomo'" (.,quod sub sensum aliquem cadit, et quiddam sig
nificat, quod ex ipso profectum est'") es.: ·sangue", ·ruga"',
Sa è madre, ama suo fi\]lio --- ---
- l "'·-- signum erodibile indicBtLm comparabile / -- -- Infine
viene accettata la distinzione aristotelica tra "luo ghi estrinseci"
(corrispondenti alle "prove extratecniche", titechnol) e "luoghi
intrinseci'' (corrispondenti alle "prove tecniche", éntechno1), che
veniva criticata nel De inventione (Il, 47) e che invece sarà sviluppata nei
Topica. È curioso notare come tra i luoghi estrinseci (sine arte) trovino
posto, accanto alle testirnonianze umane, anche quelle "divine": gli
oracoli, gli auspici, i vaticini, i responsi sacri (di sacerdoti, aruspici,
interpreti onirici) (Part. or., 6). Tutto ciò è sicuramente un residuo di una
concezione orda lica e antichissima deli'amministrazione della giustizia; tut
tavia è anche un indizio di un continuo riaffiorare del para digma divinatorio
all'interno dei fatti semiolici, anche quando ormai i segni si sono
completamente laicizzati. 9.2 CICERONE 213 Né questo è un caso isolato in
ambito giuridico. Per quel che riguarda la cultura greca, si ricorderà L,orazione
per /,uccisione di Erode, in cui Antifonte così si esprimeva: "Tutto quel
che era provabile con indizi e testimonianze umane l'avete udito, ma in questo
caso dovete votare dopo aver trattato indizi anche dai segni che vengono dagli
dei" (V, 81; Lanza 1979: l05). 9.2.2. 1 Il verisimile e il segno
caratteristico I segni umani sono invece trattati tra gli argomenti intrin
seci, in particolare tra quelli che riguardano lo stato di cau sa
congetturale. Infatti la congettura può essere tratta da due tipi di segni: i
verisimilia (verisimili) e le notaepropriae rerum (segni caratteristici delle
cose). Il verisimile, come dice Cicerone, è "ciò che accade per lo
più" (Part. or., 34), come a esempio "la gioventù è incline al
piacere in modo particolare". Questo tipo di segno corri sponde ali'eik6s
aristotelico, di cui ha il carattere probabili stico e generalizzante. La nnta
propria rei viene definita come "una prova che non si verifica mai
direttamente e indica una cosa certa, co me il fumo indica il fuoco"
(Part. or., 34). Si tratta, evi dentemente, del segno necessario, come è
dimostrato anche dall'esempio e dall'uso dell'aggettivo proprius, che riman da
alla nozione di fdion smeion (segno proprio). Per Ari stotele il segno proprio
era la caratteristica specifica di un certo genere, come, ad esempio, il fatto
che i leoni avessero grandi estremità, segno del coraggio (An. Pr., 70 b,
11-38). Per le scuole postaristoteliche il segno proprio aveva carat tere di
necessità e si definiva come quel segno che non può esistere se non esiste la
cosa a cui rimanda (Philod., De si gnis, l, 12-16). 9.2.2.2 Gli indizi di
fatto Ci sono, poi, i vestigia facti (indizi di fatto), dei quali 214 9.
RETORICA LATINA vengono dati questi esempi: "un'arma, macchie di sangue,
grida, lamenti, imbarazzo, alterazione del colorito, discor so
contraddittorio, tremore [...], gli indizi materiali della premeditazione, le
confidenze sulle intenzioni delittuose, le risultanze visive, uditive,
rivelate" (Pari. or., 39). Cicerone non definisce QUf)tO tipo di segni, se
non dicendo che si tratta di ''fenomeni avvertibili con i sensi" (ibidem),
caratte ristica condivisa anche dai signa del De inventione (l, 48), in cui
ricorrono esempi analoghi, e dagli argumenta di Cor nificio (Rhet. adHer., II,
8). I commentatori si sono chiesti se i vestigiafacti siano più in relazione
con i segni necessari (notae propriae rerum) o con i verisimili (verisimile)
(Crapis 1986: 61-62). In realtà questa sembra una categoria abbastanza autonoma
non avendo la necessità dei primi, ma nemmeno le caratteristi che degli
ultimi. È plausibile che essa corrisponda alla cate goria dei semefa
aristotelici, diversi tanto dai tekmria quanto dagli eik6ta. Da un altro passo
delle Partitiones oratoriae (1 14), dove ricorrono esempi analoghi, i
vestigiafacti (chiamati lì anche signa) vengono definiti come consequentia,
cioè inferenze che si traggono dal conseguente, caratteristica che definiva
appunto, per Aristotele, i segni non necessari. Ma mentre Aristotele condannava
i smefa da un punto di vista episte mologico per la loro insicurezza, Cicerone
è pronto a rico noscerne l'efficacia qualora si presentino in gran numero
(coacervata proficiunt, 40). Possiamo quindi schematizzare la classificazione
cicero niana nelle Partitiones oratoriae (cfr. p. 215). 9.2.3 Le opere sulla
divinazione Molte cose collegano la retorica giudiziaria alla divina zione.
Innanzitutto il fatto che entrambe si avvalgano dei segni per arrivare alla
conoscenza di fatti non direttamente accessibili alla percezione. In secondo
luogo, in entrambe viene operata una distinzione tra aspetti che sono eminente
mente congetturali e altri aspetti che sono invece naturali o trt•)
(·sensu percipi potest•) es . : ·sangue - uccisione· es.: •adolescenza
inclinazione alla libidine · 9.2 CICERONE 215 coniecturs ---- l -----
verisimilie (•quod plerumque rta notse proprise rerum (•quod numquam alrter frt
certumque declarat•) es.: '"fumo-fuoco· vestigia fecti o signa dati: alla
dicotomia retorica tra prove tecniche (o congettu rali) e prove extratecniche
corrisponde la distinzione tra di vinazione artificiale (basata
sull'interpretazione e sulla con gettura) e divinazione naturale. Infine, come
Cicerone pole micamente rileva (De div., II, 55), i segni della divinazione
sono talvolta interpretati in maniera diametralmente oppo sta, proprio come
avviene nel processo, in cui l'accusa e la difesa propongono dello stesso fatto
due interpretazioni di verse ed entrambe plausibili. Ma Cicerone apprezza i
metodi deli'indagine giudiziaria, mentre nutre una diffidenza enorme nei
confronti della di vinazione. In linea, infatti, con un vasto gruppo di
intellet tuali della sua epoca, educati ai metodi di indagine della fi
losofia greca, a fondamento razionalistico, e contempora neamente impegnato in
politica, sente l'esigenza di operare una distinzione netta tra religione e
superstizione, di cui la divinazione fa, per lui, parte. La religione
appartiene alla più antica tradizione romana e, posta come è ai fondamenti
dello stato, deve essere conservata, pena la disgregazione dello stato stso; la
superstizione, invece, costituita dal coacervo degli elementi spuri che
inquinano e rendono poco credibile la religione stessa, dev'essere respinta,
anche per ché non venga limitata la libertà del cittadino romano nel suo
impegno di gestione della repubblica. 216 9. RETORICA LATINA Cicerone
affronta questi argomenti nel De natura deo rum, nel De fato e, soprattutto,
nel De divinatione. Que st'ultima opera è scritta in forma di dialogo tra
l'autore e il fratello Quinto, il quale difende l'arte divinatoria basandosi
sulle teorie storiche che legavano la divinazione all'esistenza degli dei. Le
osservazioni di Cicerone contro la teoria soste nuta da Quinto sono
particolarmente interessanti perché costituiscono una vera e propria critica a
un meccanismo semiotico settoriale e contribuiscono, in negativo, a una
concezione generale del segno. 9.2.3. 1 La divinazione "artificiale"
Secondo la teoria di Quinto, gli dei si pongono come fon te dell'informazione
e come emittenti nei processi di comu nicazione divinatoria, dei quali gli
uomini sono i destinata ri. Ma, a seconda dei due specifici tipi di
divinazione, il pro cesso comunicativo si struttura in modo differente. Il
primo tipo è costituito dalla divinatio artificialis, in cui l'interpretazione
dei segni è legata a un'ars, ovvero a una tecnica professionale di
decriptazione, demandata a specia listi, ciascuno esperto in un settore:
extispices (esaminatori delle viscere), interpretes monstrorum et fu/gurum
(inter preti dei fatti prodigiosi e dei fulmini), augures (interpreti del volo
degli uccelli), astrologi (interpreti delle stelle), in terpretes sortium
(interpreti delle combinazioni di tavolette mescolate in un'urna ed estratte a
caso). In tale divinazione l'informazione proveniente dalla divinità si
materializza prima di tutto in una sostanza espressiva percepibile, a cui l'ars
permetterà di abbinare un contenuto semantico. I presupposti su cui si basano
le interpretazioni di questo tipo sono dati dalla teoria, di origine stoica,
secondo cui tutti i fenomeni sono legati tra di loro in una catena di cau se
ed effetti, senza soluzione di continuità. Questa catena che ha come fondamento
primo il /6gos divino e costituisce il fato (heimarmén), non è conoscibile per
intero da parte degli uomini, dato che l'onniscienza è prerogativa della sola
divinità (De div., I, 125-127). 9.2 CICERONE 217 Tuttavia viene prevista
l'esistenza di un tempo ciclico che "può essere paragonato con lo
srotolarsi di una gomena, in quanto non dà mai luogo a fatti nuovi, ma ripete
sempre quantoprimaèaccaduto"(Dediv.,l, 127).Questofasìche gli uomini,
attraverso l'osservazione attenta, colgano il mo do in cui gli eventi si
ripetono e, pur non potendo conoscere direttamente le cause, possono però
arrivare a coglierne gli indizi caratteristici (signa tamc.z causarum et notas
cernunt) (ibidem). Dato poi che è possibile tramandare memoria dalle con
nessioni passate, si crea un vero e proprio codice basato sul la iteratività.
Si può schematizzare così il processo: emittente divino-segni di cause-eventi
futuri codice basato sulla iterattività 9.2.3.2 La divinazione
"naturale" Il secondo tipo di divinazione è quello definito
naturalis, in quanto indipendente da qualunque tecnica professionale, ma
derivante piuttosto da una diretta ispirazione divina, senza passare attraverso
la mediazione di un segno esterno. Fanno parte di questo tipo le forme di
preveggenza derivan ti da invasamento profetico, cioè le vaticinationes e
quelle derivanti dai sogni. Il palinsesto filosofico ·a cui è legato questo
secondo tipo di divinazione è quello delle teorie peri patetiche (Dicearco e
Cratippo vengono esplicitamente no minati, De div., II, 100), secondo le quali
l'anima, per il suo legame naturale con la divinità, una volta che sia spinta
da una divina follia o sciolta, nel sonno, dai vincoli che la legano al corpo,
partecipa direttamente della conoscenza del dio. Il ruolo del codice è in
questo caso ridotto, se non addirittura sostituito da una parziale
identificazione tra emittente e ricevente, secondo lo schema: RETORICA
LATINA emittente divino - segno interno - evento futuro .... ricevente umano
9.2.3 .3 Critiche "semiologiche" contro i segni divinatori Le
obiezioni che Cicerone muove ai sostenitori della divi nazione si basano su
argomenti specificamente semiotici. La tesi generale, mediante la quale
Cicerone nega valore alla divinazione, è che essa non abbia veramente carattere
semiotico, e cioè che i fenomeni che essa interpreta come se gni non siano
veramente tali, ovvero che non si comportino veramente come degli antecedenti
rispetto a dei conse guenti. Per distinguere i segni veri rispetto a quelli
presunti della divinazione, Cicerone istituisce un paragone tra le tecniche
scientifiche (come la medicina, la meteorologia, la nautica, la tecnica
previsionale del contadino e deli'astronomo) e la divinazione. In entrambi i
casi è in gioco la predizione del futuro a partire da certi indizi; ma, mentre
le pratiche pro fessionali adottano una vera e propria metodologia che
comporta "scienza (ars), ragionamento (ratio), esperienza (usus) e
congettura (coniectura)" (De div., II, 14), le prati che divinatorie si
basano sul "capriccio della sorte, tanto che nemmeno la divinità sembra
che possa avere, fra le sue prerogative, quella di sapere quali fatti il caso
farà accade re" (De div., II, 18). Questa opposizione tra ciò che, in
definitiva, è il codice (anche se 1si tratta di legami naturali basati sulla
frequenza statistica) e il caso è del resto la stessa con cui i medici ip
pocratici tendevano a distinguere la propria scienza profes sionale dalla
divinazione e dalla medicina magica (Antica medicina, cap. XII). Cicerone poi
si sbarazza in termini razionalistici della teoria secondo cui anche nel caso
della divinazione tecnica si farebbe appello ali'osservazione iterata delle
coincidenze, ritenendola ridicola e insostenibile (De div., II, 28). QUINTILIANO
Ma ci sono altri gravi difetti che la divinazione presenta dal punto di vista
semiotico: (i) le interpretazioni di uno stesso segno sono spesso
diametralmente opposte (De div.); (ii) si verificano frequentemente fenomeni di
falsa identificazione dell'antecedente, per cui un certo evento non è connesso
a quello individuato come segno prodigio so, ma a ben diverse cause naturali
(De div.); l'interpretazione avviene a
posteriori e così toglie ogni ne cessità di rapporto tra antecedente e
conseguente (De div., II, 66); (iv) in certi casi l'interpretazione è motivata
da ra gioni di faziosità politica e quindi è priva di oggettività (De div.,
II, 74). 9.3 Quintiliano All'epoca di Quintiliano, la trasformazione del regime
politico dalla repubblica all'impero aveva fatto si che la re torica divenisse
inutilizzabile come mezzo di agitazione po litica e sociale: per questo, da
strumento pragmatico quale l'aveva essenzialmente concepita Cicerone, era
divenuta so prattutto materia teorica. In questo quadro Quintiliano è colui
che espone i principi dell'arte retorica nella maniera migliore e più completa
di chiunque altro e contemporanea mente registra il processo di
cadaverizzazione che l'elo quenza stava subendo. Nella sua Institutio oratoria
tratta un programma completo del ciclo educativo del perfetto orato re, in cui
la competenza semiotica ha una posizione di rilie vo. Gran parte degli
elementi che compongono l'opera di Quintiliano hanno indiscutibilmente una
pertinenza semio tica; ma nella lnstitutio è presente anche una sezione speci
ficamente dedicata ai segni, come era ormai consuetudine per ogni trattato di
retorica. Vaie anche nel caso di Quintiliano la considerazione fatta a
proposito degli altri trattatisti di retorica, e cioè che la ri flessione sul
segno è saldamente inquadrata all'interno del l'ottica giuridica con cui viene
trattata la materia. I segni in fatti fanno parte delle probationes
artificiales, cioè delle RETORICA LA... INA prove che l'abilità (ars)
dell'oratore saprà trovare per far assolvere o condannare un imputato. D'altro
canto, le pro bationes inartificiales sono quegli elementi che derivano
dali'esterno del processo e vengono consegnati ali'oratore insieme al suo
dossier. Il seguente schema ne mostra l'inventario completo: 9.3. 1
Orientamento della retorica di Quintiliano probstiones (prove) i n
artificial tJ s praejudicia (pregiudizi) rumores (voce pubblica) tormenta,
quaesita ( inter rogatorio sotto tortura) tabulae (scritture, atti, contratti
ecc.) jusjursndum (giuramento) testimonia (testimonianze) a rt i f i c i s l e
s formale Va pure detto che la retorica di Quintiliano, accanto a un
orientamento giuridico, ne presenta anche uno fortemente teorico, che tende a
inquadrare la materia il più possibile in termini logici e formali (anche se è
stato rilevato che Quinti liano non si trova del tutto a suo agio in questo
campo) (Kennedy). Così tutti e tre i tipi di prove tecniche (signa, argumenta,
exempla) vengono inquadrati in un reticolo di relazioni lo giche vicine al
genere deli'implicazione, ovvero del rappor to "se p, allora q".
Infatti il meccanismo di avvaloramento signum (segno, prova di fatto)
argumentum (prova di ragionamento) exemplum (esempio) ed
epistemologico QUINTlIANO 221 delle prove deve assumere una forma logica
che coincide con uno dei seguenti quattro tipi: (i) il concludere dalPesse re
una cosa che un'altra non sia (p-+ - q) ("È giorno, dun que non è
notte"); (ii) il concludere dall'essere una cosa che un,altra sia (p-+q)
(''Il sole splende sulla terra, dunque è giorno"); (iii) il concludere dal
non essere qualcosa che qualcos'altro sia ( -p-+q) (''Non è notte, quindi è
giorno"); (iv) il concludere dal non essere qualcosa che un'altra sia (
-p-+ - q) ("Non è un essere razionale, quindi non è un uomo") (lnst.
or., V, 8, 7). Analizzati ali'interno di questa griglia, i segni tendono a
configurarsi come degli antecedenti rispetto a dei conse guenti; nozione,
questa, che Quintiliano non ha bisogno nemmeno di rendere esplicita, in quanto
attinta direttamen te dalla tradizione della retorica e della logica greca.
Dallo stesso ambito, del resto, verranno attinti anche molti esem pi, tra cui
l'ormai celebre "Se una donna ha partorito, si è unita con un uomo",
che, più o meno variato, ritorna in tutti i trattatisti del segno. Come
Aristotele, a cui fa costante riferimento, Quintilia no è orientato verso
un'ottica epistemologica, piuttosto che di calcolo logico: ciò che lo interessa
è soprattutto la possi bilità di acquisire una conoscenza a partire da un
segno. Scrive Eco (1984: 38) a questo proposito: "Aristotele, inte
ressato ad argomentazioni che in qualche modo rendessero ragione dei legami di
necessità che reggono i fatti, poneva distinzioni di forza epistemologica tra
segni necessari e se gni deboli. Gli stoici, interessati a puri meccanismi
formali dell'inferenza, evitano il problema. Sarà Quintiliano, inte ressato
alle reazioni di un'udienza forense, a cercare di giu stificare, secondo una
gerarchia di validità epistemologica, ogni tipo di segno che in qualche misura
risulti 'persua sivo' ". A proposito del carattere persuasivo dei signa,
Quintilia no fa una precisazione preliminare: i signa hanno molto in comune
con le prove extratecniche, in quanto, a esempio, una veste insanguinata, le
grida o i livori non vengono esco gitati dali'arte deli'oratore, ma gli
vengono consegnati nel dossier. Inoltre, se esi rimandano a un significato
inequi- RETORICA LATINA vocabile, scompare la possibilità di
argomentazione; se, in vece, essi sono ambigui, non sono delle prove ma
necessita no essi stessi di prove (lnst. or.). Per questa ragione i segni
devono essere divisi innanzitut to in necessari e non necessari. I segni
necessari l signa necessaria sono quelli che, come dice Quintiliano,
"aliter se habere non possunt" (lnst. or., V, 9, 3), cioè sono degli
antecedenti che rimandano in maniera necessaria a dei conseguenti, e vengono
messi in corrispondenza con i tekmria della tradizione greca. Si tratta di
segni insolubili (alyta smefa), ovvero legati inscindibilmente ai conseguen
ti. L'informazione che se ne ricava è sicura e incontroverti bile . La furia
classificatoria, tipica del mondo antico, porta inoltre Quintiliano a
sottoclassificare questo tipo di segni in base al fatto che i loro conseguenti
siano individuabili nel tempo passato ("Se una donna ha partorito, si è
unita con un uomo"), nel presente (''Se soffia un forte vento sul ma re,
si formano su di esso le onde"), nel futuro ("Se uno è stato ferito
al cuore, morirà") (lnst. or., V, 9, 5). Questi segni vengono, poi,
sottoposti anche a un altro ti po di classificazione basata sul criterio di
reversibilità dei termini: ci sono relazioni segniche, come "Se vive,
respira", che mantengono la relazione di necessità anche invertendo
antecedente e conseguente: "Se respira, allora vive"; ma vi sono
anche relazioni segniche in cui la reversibilità non è possibile, come in
"Se cammina, si muove", "Se ha partori to, si è unita con un
uomo", "Se è ferito al cuore, morirà", "Se si è raccolta la
messe, si è seminato", "Se è stato ferito dalla spada, ha una
cicatrice" (lnst. or., V, 9, 7). Quintilia no sembra sollevare qui il
problema della "conversazione" (antistréphein), che per Aristotele
(An. Pr., 70 b, 32 e sgg.) è condizione del segno proprio, cioè
dell'"esserci un unico segno di un'unica cosa". QUINTllANO
9.3.3 I segni non necessari 223 I signa non necessaria, che Quintiliano mette
in corri spondenza con gli eik6ta greci, sono le verisimiglianze, cioè quei
fatti su cui vi è comunemente accordo, quelli che, se condo Eco (1984: 40),
potendo essere altrettanto convincen ti di un segno necessario, dipendono dai
codici e dalle sce neggiature che una certa comunità registra come
"buone". Quintiliano ne distingue tre tipi fondamentali, in base al
l'intensità del legame che si stabilisce fra antecedente e con seguente:
firmissimum (sicurissimo), corrispondente alla norma statistica, come "Se
sono genitori, amano i propri fi gli"; propensius (molto probabile), come
"Se uno sta bene in salute, allora giungerà fino al giorno
successivo"; non re pugnans (non contraddittorio), cioè non contrastante
con il senso comune, come "Se c'è stato un furto dentro la casa, allora è
stato fatto da chi era in casa". Nessuna di queste inferenze presenta un
grado di certezza accettabile. Ma nell'ottica del discorso persuasivo esse pos
sono essere molto efficaci, soprattutto nel caso che si pre sentino in gran
numero avvalorandosi a vicenda (lnst. or., V, 9, 8), poiché ricostruiscono una
tessitura isomorfa a quella dell'opinione pubblica. 9.3.4 Gli indizi materiali
Nel contesto dei signa non necessaria (lnst. or.) Quintiliano parla del signum
senza altra determinazione (messo in corrispondenza sia con indicium e
vestigium, sia con il greco smeion). Non si capisce bene se esso venga
considerato una categoria autonoma rispetto alle due prece denti (segni
necessari e verisimiglianze), come del resto av veniva nella fonte
aristotelica, o se Quintiliano consideri analoghi eik6ta e smeia. Nella seconda
ipotesi si potrebbe parlare di un vero e proprio errore di Quintiliano, come fa
Cousin (1936). Tuttavia il fatto che consideri un sinonimo l'espressione vestigium
e ricorra all'esempio del sangue che permette di scoprire l'uccisione, spinge a
stabilire un parallelo con i vestigia facti delle Partitiones oratoriae (39)
cice roniane, dove compariva lo stesso esempio. Si tratterebbe, in definitiva,
della abituale categoria degli indizi materiali (lividi., enfiagioni, ferite
ecc.) (lnst. or., V, 9, I l) percepibili sensorialmente. Quintiliano li
definisce come quelli "attraverso cui si comprende un'altra cosa, (per
quod alia res inte/ligitur, V, 9, 9), sottolineando che con essi si stabilisce
un rapporto di significazione, che parte da un sensibile per arrivare a
qualcos'altro. Nella precedente categoria (quella dci signa non necessa ria ==
eik6ta) venivano classificati fatti o proprictfi che forni vano
un'informazione non sicura, perché non convalidabile dal punto di vista
sciePtifico (se uno sta bene oggi, non è scient((ica1nente sicuro che arriverà
a domani); nella cate goria dei signa sono classificati fatti che sono
insicuri per ché ambigui (una macchia di sangue su una veste può ri mandare
tanto bene a un omicidio, come a una epistassi o allo schizzare del sangue di
una vitti1na durante un sacrifi cio). La classificazione, allora, dovrebbe
essere così formu lata: necessaria relazione necessaria tra a'ltecadente e
cons&guento es.: "Se una donna ha partorito, si è unita con un uomo· l
------- signa non necssaria verisimiglianze non conva!idabili scienti
ficamente es.: "Se uno sta bene in salute, giungerà fino al g iorno
successivo" signa indizi materiali ambigui es.: ..Se macchia di sangue,
allora omi cidio, o epistassi, o sacrificio· Questo spiega anche come mai
Quintiliano chiami signa non necessaria dei casi chiari di verisimiglianza (e
non si gna), come gli esempi che egli riprende da Ermagora e che 9.3
QUINTILIANO 225 critica: "Tra le cose che sono segni, ma non necessari, Er
magora ritiene questo, che non sia vergine Atalanta perché vaga nei boschi con
i giovani" (lnst. or., V, 9, 12). Quinti liano ha una certa riluttanza a
considerare questo e altri esempi di verisimiglianze molto deboli come elementi
pro banti in un processo: "Ma se accoglieremo questo come se gno, temo
che si ritengano come segni tutte le conseguenze che si traggono da un
fatto". Tuttavia, egli aggiunge, "essi si trattano allo stesso modo
dei segni" (ibidem). Quella che viene descritta è la condizione tipica
della semiotica giuridi ca, in perenne dialettica tra la forza oggettivamente
proba toria degli argomenti e l'abilità dell'avvocato di fare un uso
persuasivo anche di segni debolissimi. Naturalmente, in un'ottica semiotica
generale, non c'è al cun problema a considerare come segni "tutte le
conseguen ze che si traggono da un fatto". Le proprietà che l'enciclo
pedia registra a proposito di un certo oggetto o fatto sono tutte, a buon
diritto, dei segni di questo oggetto o di questo fatto. Saranno poi le
relazioni circostanziali e contestuali a garantire le differenze nella forza
probatoria: una pis.tola può essere segno di un delitto, ma diversi sono i casi
in cui essa venga rinvenuta in casa di un presunto terrorista, di un
poliziotto, di un armaiolo (Eco 1984: 39). E forse questo era stato oscuramente
intuito dalla retori ca antica, già da Aristotele, ma ancor più da
Quintiliano, i quali, da una parte ponevano una distinzione netta tra "cer
tezza scientifica" e "certezza legata ai codici socio-cultura
li", ma, dall'altra, utilizzavano entrambe, caso mai racco mandando, nel
secondo caso, l'assunzione congiunta di più prove che si rafforzassero a
vicenda. AGOSTINO 10.0 Unificazione delle teorie del segno e del lin guaggio
Con Agostino si opera, per la prima volta e in maniera esplicita, una completa
saldatura fra la teoria del segno e quella del linguaggio. Per trovare una
altrettanto rigorosa presa di posizione teorica bisogna aspettare il Corso di
lin guistica generale di Saussure, scritto quindici secoli dopo. La grande
importanza che la tematica semiolinguistica ha in Agostino deriva in gran parte
dal suo assorbimento della lezione stoica, come del resto testimonia il
trattato giovanile De dialectica: in esso sono riassunti molti dei principali
temi stoici in materia semiotica, tra cui il princi pio che la conoscenza è,
in linea generale, conoscenza attra verso segni (Simone). Ma vari elementi
differenziano l'impostazione agostinia na da quella stoica. In primo luogo,
infatti, gli stoici, racco gliendo e formalizzando una lunga tradizione di
origine so prattutto medica e mantica, consideravano propriamente segni
(smeia) solo i segni non verbali, come il fumo che svela il fuoco e la
cicatrice che rinvia a una precedente feri ta. Agostino, invece, per primo
nell'antichità, include nella categoria dei signa non solo i segni non verbali
come i gesti, le insegne militari, le fanfare, la pantomima ecc., ma anche le
espressioni del linguaggio parlato (''Noi diciamo in gene rale segno tutto ciò
che significa qualche cosa, e fra questi abbiamo anche le parole", De
Magistro). STRATIFICAZIONE TERMINOLOGICA 227 In secondo luogo, gli stoici
avevano individuato nell'e nunciato il punto di congiunzione tra il
significante (semaf non) e il significato (semain6menon), elemento che comun
que non coincideva con il segno (semefon). Agostino, inve ce, individua nella
singola espressione linguistica, cioè nel verbum (''parola"), l'elemento
in cui significante e signifi cato si fondono, e considera questa fusione un
segno di qualcos'altro ("Quindi, dopo aver sufficientemente assoda to che
le parole [verba] non sono nient'altro che segni [si gna] e che non può essere
segno ciò che non significhi [si gniflcet] qualcosa, tu hai proposto un verso
di cui io mi sforzassi di mostrare che cosa significhino le singole paro
le", De Mag., 7.19). In terzo luogo, gli stoici avevano elaborato una
teoria del linguaggio che aveva le due caratteristiche di essere formale (il
lekt6n non coincideva con alcuna sostanza) e centrata sulla significazione.
Agostino, invece, elabora una teoria del segno linguistico che ha un carattere
psicologistico (i si gnificati si trovano nell'animo) e comunicazionale
(passano nell'animo dell'ascoltatore) (Todorov; Markus). 10.1 n triangolo
semiotico e la stratificazione ter minologie& È del resto con l'analisi
della nozione stessa di parola (verbum simplex) che si apre il De dia/ectica ed
è con questa nozione che si inaugura una serie interessante di distinzioni
terminologiche. Al capitolo V, Agostino elabora una triplice distinzione che
possiamo mettere in corrispondenza con i moderni con cetti di significato,
significante e referente. Infatti individua in primo luogo la vox articu/ata (o
il sonus) della parola, cioè quello che è percepito dali'orecchio quando la
parola viene pronunciata. In secondo luogo individua il dicibi/e1
(corrispondente, anche dal punto di vista della trasposizio ne linguistica, al
/ekt6n stoico), definito come ciò che viene avvertito dall'animo e che è in
esso contenuto. In terzo luo- 228 10. AGOSTINO go, infine, distingue la
res, che viene definita come un og getto qualsiasi, percepibile con i sensi, o
con l'intelletto, op pure che sfugge alla percezione (De dialect., cap. V). È
così possibile ricostruire il triangolo semiotico nei se guenti termini:
dicibile vox articulata (o sonus) res Ma Agostino guarda ai segni anche
dal punto di vista del loro potere di designazione, oltre che da quello della
signifi cazione. Questo lo spinge a elaborare un'ulteriore suddivi sione
terminologica in corrispondenza dei due aspetti che può assumere il referente
di una parola: (i) può infatti avve nire che la parola rimandi a se stessa
come proprio referente (fatto che si verifica nel caso della citazione, ovvero
della designazione metalinguistica), e allora prende il nome di verbum;2 (ii)
oppure può avvenire che la parola, intesa co me combinazione del significante
e del significato, abbia come referente una cosa diversa da se stessa (come
avviene con l'uso denotativo del linguaggio), nel qual caso prende il nome di
dictio.3 È precisamente la nozione di dictio che, come ha osserva to Baratin (
198 1 ), costituisce l'elemento di congiunzione tra la teoria del linguaggio e
quella del segno. E ciò in virtù di uno sfasamento semantico che la nozione
stoica di léxis (si gnificante articolato, ma senza essere necessariamente por
tatore di significato) ha subìto nel corso degli studi lingui stici
antichi. RELAZIONE D'EQUIVALENZA E D'IMPLICAZIONE 229 Dictio è traduzione
di léxis; ma non ha lo stesso significa to che le attribuivano gli stoici,
bensì quello che le davano i grammatici alessandrini, in particolare Dionisio
Trace, che definiva la léxis come "la più piccola parte dell'enunciato
costruito" (Grammatici graeci), a metà strada tra le lettere e le sillabe,
da una parte, e l'enunciato, dall'al tra. Questa sua particolare posizione fa
sì che la léxis venga considerata come portatrice di un significato (in
contrappo sizione alle lettere e alle sillabe che non lo posseggono), ma
incompleto (in opposizione all'enunciato che porta un sen so completo). Lo
spostamento di fuoco dalla centralità stoica dell'e nunciato alla centralità
alessandrina della singola parola, fa sì che quest'ultima assuma al(\une delle
funzioni prima spet tanti solo all'enunciato. In particolare, quella di essere
un segno.4 Agostino definisce decisamente la parola come un segno al cap. V del
De dialectica: "La parola è, per ciascuna cosa, un segno che, enunciato
dal locutore, può essere compreso dall'ascoltatore". E, del resto, il
segno viene definito come "ciò che presentandosi in quanto tale alla
percezione sensi bile, presenta anche qualche cosa alla percezione intellet
tuale (animus)" (ibidem). 10.2 Relazione di equivalenza e relazione di im
plicazione Ponendo l'accento sulla parola, anziché sull'enunciato, Agostino
ritrova l'opposizione platonica tra parole e cose. Incontro non casuale, in
quanto Platone è l'unico, prima di Agostino, ad avere una concezione semiotica
del linguag gio; per Platone, infatti, il nome era d/Oma, svelamento di
qualcosa che non è direttamente percepibile, ovvero dell'es senza della cosa.
Ma mentre nel Crati/o platonico si discute se il rapporto tra nome e cosa sia
un rapporto iconico (pe raltro con la soluzione che conosciamo, cfr. cap. 4),
in Agostino tale rapporto - configura subito come una rela zione di
significazione: il nomt "significa" una cosa (nozio- 230 10.
AGOSTINO ne equivalente a quella di "essere segno di" una cosa). Nel
momento in cui Agostino propone la sua concezione della parola come segno, si
producono alcune modificazio ni teoriche, conseguenti allo spostamento di
prospettiva. In effetti nelle teorie linguistiche precedenti a quella di Agosti
no il rapporto tra le espressioni linguistiche e i loro conte nuti era stato
concepito come una relazione di equivalenza. La ragione, come noto, era di
carattere epistemologico e ri guardava la possibilità di lavorare direttamente
sul linguag gio, in sostituzione degli oggetti della realtà, dato che il lin
guaggio veniva concepito come un sistema di rappresenta zione del reale (per
quanto mediato dall'anima). Al contrario, il rapporto tra un segno e ciò a cui
esso rin via era stato concepito come una relazione di implicazione, per cui
il primo termine permetteva, per lo stesso fatto di esistere, di arrivare alla
conoscenza del secondo. Eco ha suggerito che, nell'enunciato stoico, i rapporti
tra la relazione segnica e quella linguistica possono essere illustra ti da
uno schema in cui il livello implicazionale si regge su quello
equazionale: onIE=>c m_E:! c
dove E indica "espressione", C "contenuto", ::J
"implica" e == "è equivalente a". In Agostino
l'unificazione tra le due prospettive avviene a livello della singola parola e
senza chiamare in causa rapporti di equivalenza. Caso mai la dic tio, che è
rappresentabile con il livello i, è costituita dali'u nione, o prodotto
logico, di una vox (significante) e di un dicibile (significato), unità che
diviene segno di qualcos'al tro (livello ii). 10.3 UNmCAZIONE
DELLE PROSPETI Conseguenze dell'unificazione delle prospet tive La prima
conseguenza dell'unificazione agostiniana, co me sottolinea Eco (1984: 33), è
che la lingua comincia a tro varsi a disagio all'interno del quadro
implicativo. Essa in fatti costituisce un sistema troppo forte e troppo
strutturato per sottomettersi a una teoria dei segni nata per descrivere
rapporti così elusivi e generici, come quelli che si ritrovano, a esempio,
nelle classificazioni della retorica greca e roma na. Infatti l'implicazione
semiotica era aperta alla possibili tà di percorrere l'intero continuum dei
rapporti di necessità e di debolezza. Inoltre la lingua, come del resto
Agostino mette in risalto nel De Magistro, possiede un carattere peculiare
rispetto agli altri sistemi di segni, corrispondente al fatto di essere un
"sistema modellizzante primario",5 cioè tale che qualun que altro
sistema semiotico può essere tradotto in esso. La forza e l'importanza della
lingua fanno sì che i rapporti con gli altri sistemi di segni si rovescino, e
che essa, da specie, divenga genere: a poco a poco, il modello del segno lingui
stico finirà per essere senz'altro il modello semiotico per ec cellenza. Ma
quando il processo evolutivo arriva a Saussure, che ne rappresenta il punto
culminante, si è ormai venuto a per dere il carattere implicativo, e il segno
linguistico si è cri stallizzato nella forma degradata del modello
dizionariale, in cui il rapporto tra la parola e il suo contenuto è concepito
come situazione sinonimica o definizione essenziale. La seconda importante
conseguenza dell'innovazione agostiniana riguarda il problema della fondazione
della dia lettica e della scienza (Baratin 1 98 1 : 266 e sgg.). Fintanto ché
il rapporto tra linguaggio e oggetto del reale era conce pito nei termini
dell'equivalenza, il primo non appariva di rettamente responsabile della
conoscenza del secondo. Ma nel momento in cui si attribuisce un carattere di
segno alle espressioni linguistiche, la conoscenza delle parole sembra
implicare, di per se stessa, e a priori, la conoscenza delle co se di cui esse
sono segno. Tutta la grande tradizione serniotica, del resto, convergeva nel
considerare il segno come il punto di accesso, senza ulteriori mediazioni, alla
conoscen za dell'oggetto di riferimento. Il problema che si pone ad Agostino è
allora quello di prendere una posizione rispetto alla questione se il linguag
gio fornisca o meno, di per se stesso, informazioni sulle co se che significa.
Linguaggio e informazione Agostino affronta la questione del carattere
informativo dei segni linguistici nel De Magistro. L'opera, in forma di dialogo
tra Agostino e il figlio Adeodato, inizia stabilendo due fondamentali funzioni
del linguaggio: in· segnare (docere) e richiamare alla memoria (commemorare),
sia propria sia degli altri. Si tratta di funzioni con temporaneamente
informative e comunicative, in quanto coinvolgono in maniera centrale la
presenza del destinatario nel momento in cui forniscono informazione. La prima
parte del dialogo è tesa a dimostrare che queste funzioni, principalmente
quella informativa, sono svolte dal linguaggio in quanto sistema di segni. Sono
le parole, infatti, che, in qualità di segni, danno informazione sulle cose,
senza che nient'altro possa assolvere alla medesima funzione. Nella seconda
parte del dialogo, però, Agostino ritorna sull'argomento e cambia completamente
la sua prospettiva. Fondandosi ancora una volta sul fatto che la lingua è un in
sieme di segni, egli mostra che si possono presentare due ca si: il primo caso
è quello in cui il locutore produce un se gno che si riferisce a una cosa
sconosciuta al destinatario; in tale situazione il segno non è in grado, di per
se stesso, di fornire informazione, come dimostra l'esempio, riportato da
Agostino, dell'espressione saraballae, la quale, se non precedentemente nota,
non permetterà di comprendere il ri ferimento ai "copricapr', che essa
effettua; il secondo caso è quello in cui il locutore produce un segno che si
rife risce a qualcosa che è già noto al destinatario; e nemmeno
COMUNICAZIONE DEL VERBO INTERIORE in questa evenienza si potrà parlare di un
vero e proprio processo di conoscenza (De Mag.). Alla fine Agostino conclude
invertendo il rapporto cono scitivo tra segno e oggetto, e stabilendo che è
necessario co noscere preliminarmente l'oggetto di riferimento per poter dire
che una parola ne è un segno. È la conoscenza della co sa che informa sulla
presenza del segno e non viceversa. La soluzione ha una ascendenza chiaramente
platonica, e a es sa si collega anche la presa di posizione, di marca ugual
mente platonica, che la conoscenza delle cose deve essere pregiata maggiormente
della conoscenza dei segni, perché "qualunque cosa sta per un'altra, è
necessario che valga meno di quella per cui essa sta" (De Mag.). Ma se per
le cose sensibili (sensibilia) sono gli oggetti esterni che ci permettono di
arrivare alla conoscenza, non altrettanto avviene nel caso delle cose puramente
intelligibi li (intelligibilia). Per queste ultime Agostino individua una
soluzione "teologica": la loro conoscenza deriva dalla rive lazione
che viene fatta dal Maestro interiore, il quale è ga ranzia tanto
deli'informazione quanto della verità (De Mag., 12.39). Ma anche con questa
soluzione "teologica" del problema linguistico, al linguaggio è
lasciato uno spazio, che in parte coincide con la funzione del segno
rammemorativo, ma in parte la supera: quando conosciamo già l'oggetto di riferi
mento, le parole ci ricordano l'informazione; quando non lo conosciamo, ci
spingono a cercare (De Mag.). Espressione e comunicazione del verbo inte riore
In Agostino la soluzione teologica non è una scappatoia per uscire da
un'impasse teorica. Al contrario, essa mette capo a nuove problematiche. È nel
De Trinitate (415) che viene affrontato il tema dell'espressione del verbo
interiore, una volta che sia stato concepito nella profondità dell'ani mo. In
effetti, per poter comunicare con gli altri, gli uomini si servono della parola
o di un segno sensibile, per poter 234 10. AGOSTINO provocare nell'anima
dell'interlocutore un verbo simile a quello che si trova nel loro animo mentre
parlano (De Trin., IX, VII, 12). D'altra parte Agostino sottolinea la natura
prelinguistica del verbo interiore, il quale non appartiene a nessuna delle
lingue naturali, ma deve essere codificato in un segno quan do ha bisogno di
essere espresso e portato alla comprensio ne dei destinatari. Il verbo
interiore ha, del resto, una duplice origine: da una parte esso costituisce una
conoscenza immanente, la cui sorgente è Dio stesso; dall'altra esso è
determinato dalle im pronte lasciate neli'anima dagli oggetti di conoscenza.
Ma anche in questo secondo caso esso è riconducibile a Dio, in quanto il mondo
è il linguaggio attraverso il quale Dio si esprime. Si trovano qui gli embrioni
del simbolismo univer sale, che tanta parte avrà nella cultura del Medioevo.
Quello che comunque emerge con sempre maggiore chia rezza è il carattere
comunicativo della semiologia agostinia na, che è individuabile anche nello
schema riassuntivo pro posto da Todorov (1977: 42): oggetti di conoscenza
potenza !Immanente verbo verbo verbo divina interiore - esteriore - esteriore
pensato proferito sa pere 10.6 Le classificazioni È comunque
innegabile, come sottolinea Simone (1969: 96 n. 2), che se la semiologia
agostiniana presenta un aspet to "teologico", connesso al problema
del verbo divino, tut tavia possiede anche un ben individuato e autonomo aspet
to laico, che prende in considerazione i caratteri che il segno ha di per se
stesso. Fanno parte di quest'ultimo aspetto le varie classificazioni dei segni,
alle quali Agostino si dedica soprattutto nel trattato De doctrina
Christiana, l . 2. 3. 4. 5. secondo il modo di trasmissione: vista/udito
secondo l'origine e l'uso: segni naturali/segni intenzio nali secondo lo
statuto sociale: segni naturali/segni conven zionali secondo la natura del
rapporto simbolico: proprio/tra slato secondo la natura del designato:
segno/cosa LE CLASSffiCAZIONI 235 con aggiunte più tarde), ma che ritorna anche
in varie altre opere . Todorov (1977: 43 e sgg.) individua e analizza cinque
tipi di classificazione a cui Agostino sottopone la nozione di se gno :
Todorov lamenta il fatto che Agostino giustappone quel lo che in realtà
avrebbe potuto articolare, in quanto gene ralmente queste opposizioni sono tra
di loro irrelate. Questo non è però del tutto vero, perché (soprattutto nel De
Magistro) c'è un tentativo di dare una classificazione combinata di alcuni
aspetti del segno. A questo proposito è possibile ricostruire tale classifica
zione ordinandola secondo uno schema arboriforme (Ber nardelli 1987), secondo
il modello dell'albero di Porfirio (Eco 1984: 91 e sgg.); cfr. p. 236. La classificazione
di Agostino non è totalmente a inclu sione, come tende a essere quella
porfiriana; e si può osser vare che se venissero sviluppati i rami
collaterali, si vedreb bero comparire, una seconda volta, alcune categorie
elenca te sotto il ramo principale. Tuttavia è Agostino stesso a metterei
sulla strada di una classificazione inclusiva da ge nere a specie quando
definisce la relazione tra nome e paro la come "la stessa che c'è tra
cavallo e animale" e includen do la categoria delle parole in quella più
ampia dei segni (DeMag., 4.9). genen· e specie AES SEGNO PAROLA NOME --
segno udibile di cose (funzione denotativa) res sensibili (Romulus, Roma,
fluvius) differenze significanti qualcosa verbale (voce articolata)
differenze ( s i g n i fi c s b i l i s l non significanti
nome in senso particolare non verbale (gesti. insegne, lettere, tromba
militare ecc.) altra parte del discorso (si, ve/, ex, nsmque, neve, ergo,
quonism ecc.) segno udibile di segni udibili (funzione metalinguistìca) res
intelligibili ( virtus) SIGNIFICANTE delle .. AES" LE
CLASSIFICAZIONI 237 10.6. 1 "Res" e "signa" La prima
relazione interessante è quella tra res e signa. Per quanto il mondo
sostanziahnente venga diviso in cose e segni, tuttavia, Agostino non concepisce
tale distinzione co me ontologica, bensì come funzionale e relativa. Infatti
anche i segni sono delle res e l'uomo è libero di as sumere come segno una res
che fino a quel momento era sprovvista di quella dignità. Anzi, la stessa
nozione di res viene definita in termini rigorosamente semiologici (Simone
1969: 105): "In senso proprio ho chiamato cose (res) quegli oggetti che
non sono impiegati per essere segni di qualche cosa: per esempio i legno, la
pietra, il bestiame" (De doctr. Christ., I, Il, 2). Ma, immediatamente
dopo, cosciente del la pervasività dei processi di semiosi, aggiunge: "Ma
non quel legno che, leggiamo, Mosè gettò nelle acque amare per dissipare la
loro amarezza (Esodo, XV, 25); né quella pietra sulla quale Giacobbe riposò la
sua testa (Gen., XXVIII, I l); né quella pecora che Abramo immolò al posto di
suo figlio (id., XXII, 13)". L'articolazione che esiste tra segni e cose è
analoga a quella dei due processi essenziali: usare (ut1) e godere (jrul) (De
doctr. Christ., l, IV, 4). Le cose di cui si usa sono tran sitive, come i
segni, che sono strumenti per giungere a qual cos'altro; le cose di cui si
gode sono intransitive, cioè sono prese in considerazione per se stesse
(Todorov 1977: 39). Nel De Magistro (4.8) Agostino propone anche un nome per le
cose che non sono usate come segni, ma sono signifi cate attraverso segni:
significabilia. Niente toglie che in un secondo momento anche quest'ultime
possano essere assun te con funzione significante. Dopo aver così articolato i
rapporti tra segni e cose, Ago stino propone questa definizione di segno nel
De doctrina Christiana. Il segno è una cosa (res) che, al di là
dell'impressione che produce sui sensi, di per se stessa, fa venire in mente
(in cogitationem) qualcos'altro". 238 10. AGOSTINO 10.6.2 Segni
verbali e non verbali Nel nostro albero porfiriano abbiamo deciso di ricostrui
re la principale suddivisione agostiniana dei segni secondo la dicotomia
verbale/non verbale, anche se altre opzioni, ugualmente esplicite nei testi di
Agostino, erano disponibili. Questa decisione è autorizzata da un passo del De
doctrina Christiana (Il, IV, 4) in cui, a conclusione di un'analisi dei vari
tipi di segni, Agostino sostiene: "Infatti di tutti quei se gni, di cui
ho brevemente abbozzato la tipologia, ho potuto parlare attraverso le parole;
ma le parole in nessun modo avrei potuto enunciarle attraverso quei
segni". Viene esplicitamente fatto riferimento al carattere, tipico del
linguaggio verbale, di essere un sistema modellizzante primario, e tale
carattere viene assunto come criterio della divisione fondamentale dei segni.
I0.6.3 Segni classificati in base al canale di perce zione Una classificazione
incrociata rispetto alla precedente è quella effettuata in base al canale di
percezione. Agostino infatti sostiene che "tra i segni di cui gli uomini
si servono per comunicare tra di loro ciò che provano, certi dipendono dalla
vista, la maggior parte dali'udito, pochissimi dagli al tri sensi" (De
doctr. Christ., Il, III, 4). Tra i segni che vengono percepiti con l'udito ci
sono quel li, fondamentalmente estetici, emessi dagli strumenti musi cali,
come il flauto e la cetra, o anche quelli essenzialmente comunicativi emessi
dalla tromba militare. Naturalmente, ritroviamo tra i segni percepìbili con l'udito,
in una posizio ne dominante, anche le parole: "Le parole, in effetti,
hanno ottenuto tra gli uomini il primissimo posto per l'espressione dei
pensieri di ogni genere, che ciascuno di essi vuole ester nare" (Dedoctr.
Christ.). Tra i segni percepibili con la vista Agostino elenca i cenni della
testa, i gesti, i movimenti corporei degli attori, le ban diere e le insegne
militari, le lettere. LE CLASSIFICAZIONI Infine vengono presi in
considerazione i segni che riguar dano altri sensi, come l'odorato (l'odore
dell'unguento sparso sui piedi di Cristo), il gusto (il sacramento dell'euca
ristia), il tatto (il gesto della donna che toccò la veste di Cri sto e fu
guarita). 10.6.4 "Signa naturalia" e "signa data"
Sicuramente fondamentale, anche se non direttamente integrabile al nostro
albero inclusivo, risulta lo schema di classificazione che oppone i signa
naturalia ai signa data. I primi sono "quelli che senza intenzione, né
desiderio di si gnificare, fanno conoscere qualcos'altro, oltre a se stessi, come
il fumo significa il fuoco" (De doctr. Christ.). Ne sono esempi anche le
tracce lasciate da un animale e le espressioni facciali che rivelano,
inintenzionalmente, irrita zione o gioia . Dopo averli definiti, Agostino
dichiara di non volerli trattare ulteriormente. È invece maggiormente
interessato ai signa data, in quan to a questa categoria appartengono anche i
segni della Sa cra Scrittura. Essi vengono definiti come "quelli che
tutti gli esseri viventi si fanno, gli uni agli altri, per mostrare, per quanto
possono, i movimenti della loro anima, cioè tutto ciò che essi sentono e
pensano" (De doctr. Christ.). Gli esempi sono soprattutto i segni
linguistici umani (le pa role) . Ma Agostino, curiosamente, include in questa
classe an che i segni emessi dagli animali, come quelli che si hanno quando il
gallo segnala alla gallina di aver trovato il cibo (ibidem). Questo crea una
marcata differenza rispetto ad Aristotele, che include i gridi degli animali
tra i segni natu rali (De int., 16 a). Ma Aristotele opponeva
"naturale" a "convenzionale", mentre i signa data non sono
i "segni convenzionali", come Markus aveva suggerito (e come del
resto era sta to proposto dalla traduzione francese di G. Combès e J. Farges).
I signa data sono i "segni intenzionali" (Engels 1962: 367; Darrel
Jackson 1969: 14), e corrispondono a 1:1na 240 10. AGOSTINO ben precisa
intenzione comunicativa (De doctr. Christ.). È del resto il carattere
intenzionale che permette ad Agostino di includere tra i signa data quelli
emessi dagli animali, anche se egli non si pronuncia sulla natura di que sta
intenzionalità animale (Eco 1987: 78). Del resto, come nota Todorov (1977: 46),
porre l'accento sull'idea di intenzione corrisponde al progetto semiologico
generale di Agostino, orientato verso la comunicazione. I segni intenzionali, o
meglio, creati espressamente in vista della comunicazione, possono essere messi
in corrisponden za del syrnbolon di Aristotele e della combinazione stoica di
un significante con un significato; quelli naturali, ovvero già esistenti come
cose, corrispondono invece ai smeia, sia aristotelici che stoici. 10.7 Semiosi
illimitata a modello "istruzionale" Uno dei punti fondamentali della
semiologia agostiniana, infine, è costituito dalla ricerca dei modi in cui si
può stabi lire il significato dei segni. Tale indagine è condotta soprat
tutto nel De Magistro, dove si può rintracciare una conce zione semantica che
si avvicina al tipo della "semiosi illimi tata" di Peirce. Come ha
rilevato anche Markus (1957: 66), il significato di un segno, per Agostino, può
essere stabilito o espresso mediante altri segni, per esempio: fornendo dei
sinonimi; attraverso l'indicazione con il dito puntato; per mezzo di gesti;
tramite astensione (De Mag., III e VII). Questa concezione del significato si
rende possibile sol tanto nel momento in cui viene abbandonato lo schema
equazionale del simbolo, per adottare, come fa Agostino, quello implicazionale
del segno. La teoria semiologica ago stiniana si apre così, come ha messo in
evidenza Eco, verso un modello "istruzionale" della descrizione
semantica. Se ne può cogliere un esempio neIl'analisi che Agostino conduce
insieme ad Adeodato del verso virgiliano "si nihil ex tanta superis placet
urbe relinqui" (De Mag.). Esso viene definito come composto di otto segni,
dei quali, appunto si cerca il significato. SEMIOSI ILLIMITATA L'indagine
comincia da l si l, di cui si riconosce che espri me un significato di
"dubbio", dopo aver tuttavia sottoli neato che non si è trovato un
altro termine da sostituire al primo per illustrare lo stesso concetto. Si
passa, poi, a lni hi/1, il cui significato viene individuato come
!'"affezione dell'animo" che si verifica quando, non vedendo una
cosa, se ne riconosce l'assenza. In seguito Agostino chiede ad Adeodato il
significato di lexl ed esso propone una definizione sinonimica: lexl sa rebbe
equivalente a l de l . Agostino non è soddisfatto di questa soluzione e
argomenta che il secondo termine è certo un'interpretazione del primo, ma ha
bisogno di essere a sua volta interpretato. La solu2ione finale è che l ex l
significa "una separazione" da un oggetto. A questa conclusione, pe
rò, viene aggiunta anche una successiva istruzione per la sua decodifica
contestuale: il termine può esprimere separa zione rispetto a qualcosa che non
esiste più, come nel caso della città di Troia a cui si allude nel verso
virgiliano; oppu re il termine può esprimere separazione da qualcosa che è
ancora esistente, come quando diciamo che in Africa ci so no alcuni negozianti
provenienti da Roma. Il significato di un termine, allora, "è un blocco
(una se rie, un sistema) di istruzioni per le sue possibili inserzioni
contestuali, e per i suoi diversi esiti semantici in contesti di versi (ma
tutti ugualmente registrabili in termini di codice)" (Eco 1984: 34). La
struttura implicativa permette regole del tipo "Se A appare nei contesti
x, y, allora significa B; ma se B, allora C; ecc.", regole che sono comuni
tanto al modello istruzio nale quanto alla semiosi illimitata. In definitiva,
è proprio grazie ali'assunzione generalizza ta del modello implicazionale che
la semiologia agostiniana riesce a porsi sia come sintesi delle acquisizioni
semiolingui stiche del mondo antico (teoria della parola come segno), sia come
potente anticipazione di alcune delle più recenti tendenze della ricerca
attuale in campo semantico (modello istruzionale) . NOTE 1 Anche se non è
ancora possibile stabilire se e in quale misura la cultura greca sia debitrice
a quella mesopotamica della nozione di segno, secondo lo schema implicativo, in
generale, è possibile, però, rilevare una connes sione storicamente
documentabile tra le due culture in ambiti di uso parti colare del segno. A
esempio nelPambito della medicina viene fatto ricorso allo schema del segno
implicativo ("se..., allora...") nella presentazione dei complessi
eziologici tanto nei trattati mesopotamici quanto in quelli greci, ambito in
cui si sa che ci sono stati contatti positivi tra le due culture (cfr. Di
Benedetto-Lami 1983: I l). 2 Barthes e Marty (1980: 71) collocano nel 3500 a.C.
la nascita dei primi germi della scrittura in Mesopotamia. Alcuni, come Cardona
(1981: 70), fanno risalire al 3500 l'invenzione degli stessi caratteri cuneiformi.
Bottero (1974: tr. it. 155) posticipa molto la data, sostenendo che "la
scrittura cu neiforme è stata inventata nella bassa Mesopotamia verso il 2850
avanti la nostra era"; cfr. anche Barthes e Mauriès (1981: 602). 3 Si veda
il sumerogramma n. 73 del manuale di Labat (1948: 69). È cu rioso notare come
si registri qui un gioco simile a quello omografico greco tra bios
(''vita") e bios (''arco"), presente nel frammento 48 (D-K) di Era
clito: "L'arco (bios) ha dunque per nome vita (bios) e per opera
morte". 4 In ciascun esempio dividiamo la protasi dali'apodosi con un
trattino, allo scopo di far meglio risaltare la distinzione. Per questi esempi,
come per la maggioranza dei testi mesopotamici riportati nel corso di questo ca
pitolo, siamo debitori al ricchissimo e ben documentato saggio di Bottero
(1974). Qui, una volta per tutte, rimandiamo a esso per l'indicazione delle
fonti primarie e delle edizioni critiche. Anche per gran parte delle notizie
contenute in questo capitolo si fa riferimento a quel saggio. Si potevano contare oltre cento oracoli per
tavoletta, e alcune raccolte potevano arrivare a un numero di circa venti
tavolette. Infatti da un'analisi del vocabolario dell'azione oracolare compiuta
da Crahay risulta che alcuni vocaboli
presentano il testo della rivelazione come un segno, molto spesso un segno
anticipatorio, in quanto orientano l'azione verso l'avvenire. Tra questi si
ricordino i due verbi smafno e prosmafnO (cioè "informare in anticipo con
segni") e l'ag gettivo di origine verbale pr6phanton che esprime l'idea
di un'informazio ne prima del fatto. 2 Ciò è tanto più evidente se si opera un
confronto con civiltà come quella mesopotamica che mettevano la divinazione al
centro della vita pubblica (Vernant 1974) e ne estendevano il modello formale
anche a tutti gli altri ambiti culturali (a esempio, alla medicina e alla
giurisprudenza). 3 Cfr . anche //., I I I, 277 . Per i passi citati sono
utilizzate, nel corso del l'intero testo, traduzioni correnti, talvolta
parzialmente modificate. 4 Traduco dal testo in inglese di Romeo (1976: 86):
"The lord, who has the oracle in Delphi, l neither discloses nor hides his
thought, l but indica tes it through signs". s Infatti la divinazione è
indissolubilmente legata ad Apollo, e Apollo è indissolubilmente legato alla
sapienza. La sapienza del dio è totale e simul tanea e non ha bisogno di
essere frammentata in parole. Tuttavia agli uo mini egli concede, invece, solo
la frammentazione della parola oracolare, oscura e incomprensibile, in quanto
in essa la sapienza divina appare come follia dell'uomo invasato. La follia,
del resto, che Platone ritiene essere l'essenza stessa della mantica,
riconnettendo nel Fedro (244 a-c) l'etimolo gia di mantiké a maniké
("arte folle"), non è altro che la sapienza vista dal l'esterno. 6
Ma si veda anche Amandry per la presenza di possibili procedi menti anche di
cleromanzia (divinazione attraverso il lancio delle sorti) presso l'oracolo di
Delfi. 7 Talvolta certi fenomeni naturali potevano perdere il carattere di ca
sualità ed essere sottoposti a un processo di istituzionalizzazione, come av
veniva nel caso dell'oracolo di Dodona, dove si interpretavano i segni dati
dallo stormire del vento tra le fronde di una quercia sacra a Zeus (come pure,
probabilmente, il tubare e il volo dei piccioni sacri e iJ mormorio di una
fonte, gli echi di un gong). Per gli oracoli in generale, si vedano Ferri
(1916) e Parke (1967); per una disamina generale e approfondita dei vari ti pi
di divinazione i testi basilari sono Bouché-Leclercq ( 1 879-82) e Halliday
(1913). 8 "Lobo", "vescichette" e "porte" erano i
termini tecnici designanti par ti che gli specialisti di questo tipo di
divinazione prendevano come segni da cui elaborare interpretazioni; cfr.
Arist., Historia anima/ium, l, 17, 496 b 32· Eurip., E/ectra, 826-828. 9 Le
forme della consultazione oracolare ci sono note attraverso un cer to numero
di iscrizioni epigrafiche, provenienti principalmente da Delfi e da Dodona;
cfr. Parke-Wormell e Fontenrose. Quest'ultima categoria fa ovvio riferimento
alla nozione di enigma, come era presente nella cultura greca: esso comportava,
come vedremo NOTE 245 meglio più avanti, sia un aspetto di sfida (da
parte del dio all'uomo), sia la presenza nascosta di un secondo senso, sia,
infine, l'idea che il primo senso doveva essere immediatamente scontato. Il
termine "modo", poi, pone l'accento sul fatto che non vi è presenza
di un unico meccanismo, ma di una galassia di procedimenti espressivi molto
eterogenei, che vanno dalla banale omonimia, alla metafora (metasememi), allo
scambio di prospetti va (metalogismi) ecc. L'espressione "modo"
enigmatico fa naturalmente riferimento alla categoria di modo simbolico
elaborata da Eco. Pur troppo non è qui possibile usare direttamente quella
categoria perché essa, pur avendo molti punti in comune con questa che qui
proponiamo, se ne discosta per la presenza di alcuni caratteri specifici
(rapporto stretto tra si gnificante e significato, nebulosa di sensi multipli
tendenzialmente coesi stenti ecc.) che qui non si ritrovano. È un peccato,
perché ci sarebbe sem brato appropriato definire "simbolico" il modo
di parlare del dio. 1 1 Il meccanismo retorico dell'enallage ricorda il
meccanismo oracolare usato dalla Sibilla cumana, nella descrizione di Virgilio
(Aen., VI): la sa cerdotessa di Apollo scrive le varie parti del responso su
delle foglie, se guendo l'ordine sintagmatico del linguaggio umano; poi lascia
quelle fo glie al vento, che scompiglia l'ordine precedente, creandone un
altro, in cui i riferimenti incrociati fra i ternlini rendono oscuro il testo e
difficile l'interpretazione. 12 L'ambiguità del dio è simbolizzata dai due
attributi antitetici della li ra e dell'arco: la lira rappresenta la faccia
benigna ed esaltante (quella che compare nell'interpretazione di Nietzsche);
l'arco, quella maligna e deva stante. Del resto l'etimologia stessa del suo
nome suggerisce il significato di "colui che distrugge totalmente",
ed è sotto questo aspetto che Apollo si presenta all'inizio dell'Iliade, dove
le sue frecce portano lutto e distruzione nel campo degli Achei (Colli). Per
una nozione complessa e articolata della nozione di "verità" nel
mondo antico, si veda Detienne. In particolare, sulla concezione di a/theia
come "sintesi del passato, del presente e del futuro", comune al
poeti ispirati, agli indovini e agli ambienti filosofico-religiosi, Detienne. D'ora
in avanti ci riferiremo al Corpus Hippocraticum con la sigla C.H. Naturalmente,
per una documentazione completa sulla medicina gre ca, dovrebbero essere prese
in specifica considerazione almeno anche le opere di Galeno; tuttavia queste
ultime, appartenendo a un'epoca molto più recente (II sec. d.C.) e attingendo a
una tradizione filosofica (quella aristotelica e stoica) che aveva già portato
molto avanti lo studio sul segno, si situano in parte al di fuori del discorso
che stiamo svolgendo . Rimandia mo, comunque, a Manuli (1980). 2 La massiccia
attribuzione dei trattati di medicina del V e lV secolo 246 NOTE 3 Si
possono distinguere all'interno del C.H. gruppi omogenei di opere. Innanzitutto
il gruppo di trattati tecnico-terapeutici (Sulle affezioni inter ne, il libro
II delle Malattie (A), il libro III delle Malattie, la parte più ar caica del
trattato Sulle malattie delle donne), caratterizzati da un carattere spiccato
di arcaicità e da una maggiore attenzione all'aspetto terapeutico della
medicina (Di Benedetto 1986: 5 e 80). In secondo luogo, un gruppo di trattati
in cui appaiono maggiormente approfonditi i principi teorici e me todologici
della medicina. Vegetti (1976: 21 e sgg.) ha proposto di definire
convenzionalmente "pensiero ippocratico" queJJo che da questi ultimi
ri sulta (indipendentemente dal fatto che essi siano attribuibili a molti
autori e probabilmente tutti diversi dali'lppocrate storico vissuto tra il 460
e il 370 a.C.). Questi testi, collocabili cronologicamente nella seconda metà
del V secolo a.C., sono: Antica medicina, Le arie, le acque, i luoghi, Il 4
Cfr. Jaeger (1947: tr. it. 3). s Cfr. Vegetti (1976: 65 ss.); Vegetti (1967: 78).
6 Anche se, come mette in evidenza Lloyd (1979), la medicina ippocrati ca non
arriverà mai a essere sperimentale in senso compiuto. 7 Per le traduzioni ci
atteniamo al criterio di usare versioni correnti, tal volta apportandovi delle
modifiche. 8 Solo più tardi, con la Scuola di Alessandria, sarà stabilita una
distin zione fornaie tra anamnsis, relativa ai fenomeni collocati nel passato,
diaghnOsis, ovvero individuazionc dello stato presente, e pr6ghnOsis, cioè
previsione deJJ'andamento futuro della malattia; cfr. Di Benedetto-Lami (1983:
166). Sulla pr6ghnOsis si veda anche Grmek (1983: tr. it. 499 ss.). Si deve poi
segnalare che Irigoin (1983: 179) collega il prefisso pro-, unito ai verbi di
"dire", con il significato di "pubblicamente ", anziché con
un si gnificato di "anticipazione". a.C . a lppocrate avviene
nell'ambito della biblioteca di Alessandria nel I I I secolo a.C.; cfr. Di
Benedetto (1986: 81). prognostico, Il regime nelle malattie acute, il Male
sacro, Le epidemie l e III, e poi le maggiori opere chirurgiche (Leferite nella
testa, Le articola zioni, Lefratture). 9 Cfr. Detienne (1967: tr. it. 99 n.).
10 In certi casi, il vocabolario usato per indicare la previsione medica ri
calca queJJo della divinazione, come nel cap. 9 delle Articolazioni in cui si
dice che è compito del medico "vaticinare" (katamante-Usasthal) certi
pro cessi relativi allo stato di salute. 1 1 Si tratta di una concezione (vale
la pena sottolineado) che affonda le radici in una religione preolimpica,
animistica e demonica; cfr. Lanata (1967); Detienne (1963: 32 e sgg.); Dodds
(1951); Lloyd (1979); Parker ( 1 983) . Un'ampia panoramica sul movimento
magico e catartico era già stata fornita dagli studi del Rohde (1890-94: tr.
it. 1982). 12 Cfr. Diog. Laert., Vitae, VIII, 32 D-K, 58 B la. Va notato, di
sfug gita, che il carattere molto arcaico della concezione espressa dal brano
è garantito dal riferimento al bestiame coinvolto nelle stesse vicende della
comunità umana: c'è la rappresentazione di una comunità agricola in cui uomini
e bestie formano una unità inscindibile; cfr. Deticnne (1963: 32). n Un esempio
assolutamente analogo a questo si trova nel cap. 21 del = NOTE 247
trattato Le arie, le acque, i luoghi, dove si confuta, usando i1 modus tol
/ens, la tesi secondo cui l'impotenza che colpisce certuni degli Sciti sia do
vuta a causa divina, in quanto colpisce i ricchi (che vanno a cavallo, essen
do questa, per l'autore, la causa della malattia) e non i più poveri. Se fosse
di origine divina, continua l'autore, colpirebbe indifferentemente tutti.
1"' Si pensi a questo proposito all'indebolimento dei sensi durante il son
no di cui parla Platone nel Timeo e a1la diminuzione dei turbamenti nell'aria
che rende possibile il sorgere dei sogni secondo Aristotele (De di vinatione
per somnum) . •s Per la nozione di "omomaterico", cfr. Eco (1975:
295): per "omoma tericità" si intende il fenomeno per cui
"l'oggetto, visto come pura espres sione, è fatto della stessa materia
del suo possibile referente. Cfr. anche Lichtenthaeler (1983) e Wenskus (1983).
17 Cfr. Vegetti (1976: 48); Manuli (1985: 233). 18 Sull'abduzione si vedano
Thagard; Proni (1981); Eco (1983); Bonfantini-Proni; Bonfantini; Peirce; Eco.
Di Benedetto (1986) ha messo in luce, in maniera molto convincente, i rapporti
tra i moduli espressivi di presentazione della malattia nella medi cina greca
e quelli dei trattati mesopotamici ed egiziani; cfr. anche Di Be nedetto-Lami
(1983). 2° Cfr. Campbell Thompson (1937: 285, I, 1). 2 1 Per questa nozione,
cfr. Conte. Cfr. Hjelmslev. Cfr. Arist., An. Pr., Il, 70 a-b; Rhet., Cfr.
Arist., Rhet., l, 1358 a, 36 e sgg. 3 Cfr.Arist., De int.,16a; An.Pr.,11,70a-b.
"' Su questa nozione cfr. Di Cesare. s Cfr. Eco. Cfr. Heinimann. 7 Cfr.
Eco-Lambertini-Manno-Tabarroni (1984); Eco. Emerge qui, per quanto
nebulosamente, il tema della doppia articola zione del linguaggio umano, che
verrà poi sviluppato in epoca contempo ranea da André Martinet (1960). 9 Anche
se Aristotele non dà esplicitamente questa definizione, tuttavia nella Retorica
(1, 1357 a, 14-22) c'è un passo che suggerisce l'idea dell'enti mema come
sillogismo accorciato. Inoltre, in un passo dei Primi analitici 248 NOTE
(Il, 70 a, 24-25), Aristotele tenta anche di distinguere il segno dal sillogi
smo in base al numero di premesse assunte (una sola nel primo caso, due nel
secondo). 1ella Retorica infatti il tekmirion verrà definito esplicitamente
"neces sario" (anankaion), mentre il smefon è definito ..non
necessario" (mè anankafon) (Rhet.). 1 1 Lo stesso punto di vista e la
stessa terminologia ricorrono anche nel passo parallelo della Retorica. 12
Quanto al carattere di confutabilità di questo tipo di segno, Aristote le così
commenta l'esempio dato negli Analitici; "D'altra parte il sillogi smo
che si sviluppa attraverso la figura intermedia risulterà sempre confu tabile
(ljsimos), senza eccezione. In realtà, quando i termini si comporta no come si
è detto sopra, non si costituirà mai un sillogismo: se infatti la donna gravida
è pallida, e se inoltre una determinata donna è pallida, non per questo sarà
necessario che questa determinata donna sia gravida"' (An. Pr.J Il, 70 a,
34-37). 1 Dei segni quello necessario è la prova, quello non necessario non ha
un nome corrispondente a questa differenza. Intendo per necessarie le
proposizioni da cui derivano sillogismi. Perciò anche dei segni quello che è
tale è la prova: quando infatti si ritiene che non è possibile confutare la
proposizione enunciata, allora si pensa di apportare una prova, che si ritie
ne dimostrata e compiuta; nella lingua antica infatti tékmar (prova) e pé ras
Ccompimento') significavano la stessa cosa" (Rhet.). Si deve tuttavia
segnalare il fatto che, se negli Analitici e nella Retorica la di stinzione
tra tekmrion e semeion è rigida e netta, l'uso che Aristotele fa di questi
termini nei trattati scientifici sembra essere molto più fluido, senza
distinzioni speciali tra l'uno e l'altro termine. Si trova anche impiegato un
terzo termine, martyrion, in un senso analogo a quello di semeion; cfr. Le
Blond. Cfr. Arist., An Pr., II, 70 b,'7-14. I!!. Cfr. Arist.,
An. Post.,
II, 98 b, 25-30. È del resto sulla base delle immagini prodotte nella mente
dagli oggetti esterni, in particolare su certi tipi di immagini, chegli stoici
chiamano ka talptikaì phantasfai, che viene basato il "criterio di
verità", cioè "ciò a cui ci atteniamo nell'affermare che alcune cose
esistono e altre no e che certe cose determinate sono vere ( = sono il caso) e
certe altre sono false ( = non sono il caso)" (Sext. Emp., Adversus
Mathematicos, VII, 29); cfr. Mi gnucci; Sandbach; "The crite rion of
truth" di Rist. Cfr. anche Sext. Emp., A dv. Math. 1 Si deve sottolineare
che /ekt6n è l'aggettivo verbale del verbo /éghein. 6 Cfr. Diog. Lart., Vitae, VII, 51; Long Cfr. Sext. Emp., Adv. Math.,
VIII, 11-12. 8 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 70. 9 Cfr. Diog. Lart.,
Vitae, Vll, NOTE 249 A questo proposito si ricorderà che, come sostiene Diogene
Laerzio ( Vitae, VII, 57), gli stoici distinguevano tra il
"proferire" (prophéresthal), che consisteva nel puro emettere dei
suoni, e il "dire" (léghein), che consisteva nel fare ciò in modo da
significare (sma{nein) lo stato delle cose in mente; cfr. anche Sext. Emp.,
Adv. Math., VIII, 80. Long (1971 a: 77) sostiene di preferire, per lekt6n, la
traduzione "what is said" rispetto a quella propo sta da Mates e dai
Kneale, "what is meant", in quanto la prima è più gene rale e
permette al lekt6n di essere interpretato come avente funzione tanto logica
quanto grammaticale. 4 Si deve tuttavia sottolineare che vi è una tradizione,
risalente al Crati lo platonico, secondo la quale nominare qualcuno equivale a
dire "questo è il suo nome". In questo caso anche l'esempio di Sesto
dovrebbe essere compreso nei termini di una proposizione implicita come
"'Dione è il nome di costui" oppure "Questo è Dione"; cfr.
Long (1971 a: 107 n. 1 1). ..s I lekta venivano classificati dagli stoici in
completi e incompleti; cia scuno dei due tipi dava luogo a una
sottoclassificazione, anche molto com plessa, che non prenderemo qui in
considerazione; si veda a questo proposito Mates. 63. 1° Cfr. Mates (1953: 1
1-12): Mates infatti concepisce i lekta come signi ficato delle parole e
avvicina la loro definizione a quella di Sinn di Frege e a uella di intension
di Carnap. 1 Cfr. Zeller (1865: 78-79). 12 Cfr. Bréhier. 13 Cfr. Mignucci
(1965: 96). 14 Una definizione del criterio di verità la fornisce Sesto (A dv. Math.,
VII, 29): "Ciò a cui ci atteniamo nell'affermare che alcune cose esistono
e altre no e che certe cose determinate sono vere e certe altre sono
false". Sul problema del criterio di verità, cfr. Rist (1969: 133-151);
Sandbach (1971 a: 9 e sgg.); Mignucci (1966). 17 Cfr. anche Adv. Math., VIII,
245-257. 18 Cfr. Diels-Kranz, 75, B 2. 19 Si veda, a proposito di questa
questione terminologica, la esaustiva 1 Cfr. Platone, Th., 190 a (206 d);
Soph., 263 a. 16 In effetti il "discorso interno" (endiathetos
/6gos), a differenza delle espressioni emesse materialment (prophorikòs 16gos),
è un fattore che si dimostra capace di distinguere l'uomo dagli animali. Dice
infatti Sesto (Adv. Math., VIII, 275-276): "(Gli stoici) dicono che l'uomo
differisce da gli animali irrazionali a causa del discorso interno, non a
causa di quello pronunciato, in quanto corvi, pappagalli e gazze pronunciano
suoni arti colati"; cfr. anche Pohlenz (1959, 1: 61-62). trattazione di
Conte (1972: XXXV), curatore dcll'edizione italiana dei Kneale (1962). 20 Cfr.
Sext. Emp., Hyp. Pirrh., Il, 95-96. 21 Ibidem: "anche la dimostrazione in
quanto al genere è, a quel che pa- 250 NOTE re, un segno"; cfr.
anche Adv. Math., VIII, 180. 22 Il testo del De signis, con traduzione inglese,
è contenuto in Ph . e E.A. De Lacy (1978). 21 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math.,
VIII, 144; Hyp. Pyrrh., Il, 97. lA Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 147; Hyp.
Pyrrh., II, 97. 2' Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII,
145; Hyp. Pyrrh., II, 98. 26 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 146; Hyp.
Pyrrh., Il, 98. 27
Cfr. anche Adv. Math., VIII, 151-155. 28 Tale tripartizione verrà
esplicitamente teorizzata nella retorica roma- na: vedi il capitolo relativo. 29 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 152-153. 30 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math.,
VIII, 154. 11 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 156. Al di là del carattere
pole mico, l'osservazione di Sesto è interessante perché, citando
"medici" e "fi losofi", fissa i due punti estremi di un
ciclo di sviluppo deli'interesse verso il segno: l'introduzione di tale
interesse da parte dei medici (come, poi, di mostrano anche i numerosi esempi
di carattere medico presenti in tutte le trattazioni) e lo studio sistematico
del segno da parte dei filosofi. 12 Cfr. Diog. Latrt., Vitae, VII, 71. 13 Cfr.
Sext. Emp., Hyp. Pyrrh., Il, 104-105; Adv. Math., VIII, 245- 247 . 34 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 245. 1' Cfr. Sext. Emp., Adv.
Math., VIII, 248; Hyp. Pyrrh., Il, 106. 16 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII,
249-250; Hyp. Pyrrh., Il, 106. 37 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 250-251.
11 Cfr. Sext. Emp., Hyp. Pyrrh., Il, 106-107; Adv. Math., VIII, 252- 253 . 39
Cfr. Sext. Emp., Hyp. Pyrrh., Il, IlO-I12. Qui prenderemo in
consi derazione solo i primi tre criteri, perché il quarto sembra avere
un'origine diversa dalla scuola megarico-stoica. 4() Cfr. Sext. Emp., Hyp.
Pyrrh., Il, lIO-I12; Adv. Math., VIII, 115- 117. •U Sono state proposte varie
interpretazioni del condizionale diodoreo, che non possiamo qui prendere in
considerazione. Segnaliamo tuttavia i saggi di Hurst (1935), di Mates (1949 a),
dei Kneale (1962) e di Mignucci (1966), che affrontano l'argomento in una
successione cronologica e teo rica. "2 Cfr. Phil., De signis, XIV, 11-14=
19; Xl, 32-XII, 1 = 17. l numeri romani, relativi ai paragrafi del testo greco,
sono messi in correlazione con il segno " = " ai capitoli della
traduzione inglese dei De Lacy (1978). "3 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math.,
VIII, 275-276; 287. Cfr. Goldschmidt
(1953: 79 e sgg.); Verbeke (1978: 401-402); Manuli (1986: 262). ..s Sul
rapporto tra filosofia e divinazione, Verbeke (1978: 402) osserva molto
opportunamente che per gli stoici il filosofo "est le médecin de cet
organisme vivant qu'est le monde; il est aussi une sorte de prophète, un de
vin, un exégète, un interprète des signes qu'il observe". 46 Cfr. Cic., De divinatione, I, 125-127. 49 Cfr. Sext. Emp., Adv.
Math., 309. CAPITOLO 7. NOTE 251 "7 Cfr. Sext. Emp., Hyp. Pyrrh., II,
140; Adv. Math., VIII, 305. 48 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 180:
"D'altronde anche la dimo strazione è, in linea generale, un segno,
giacché essa è considerata come di svelatrice della conclusione". 1 Il
testo di Filodemo, giunto a noi attraverso il papiro ercolanese 1065, è ora
disponibile nell'ottima edizione critica dei De Lacy (1978); d'ora in poi
citeremo quest'opera con il titolo latino De signis: a essa è dedicato il
prossimo capitolo. 2 Cfr. Diog. Laert., Vitae, X, 31; cfr. ancheEpic.,
EpistulaadHerodo tum (d'ora in poi Ep. Hdt.), 38; Kyriai Doxai (d'ora in poi
K.D.), XXIV. 3 Cfr.Phil.,Designis,fr.l. " Cfr. Diog. Laert., Vitae, X, 33;
Epic., Nat., XXVIII, fr. 4, col. III, in Arrighetti (1960: 296-297). Long (1971
b: 1 14) sostiene che un simile rap porto tra linguaggio e pro/essi è
presupposto anche nella Ep. Hdt., 37-38.
Cfr. Diog. Laert., Vitae, Cfr. Epic., Ep. Pyth., Cfr. Epic., Ep. Hdt.,
Cfr. Diog. Laert., Vitae, Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., Cfr. Diog. Laert.,
Vitae, Cfr. Diog. Laert., Vitae, Cfr. Epic., Ep. Hdt., Cfr. Epic., Ep. Hdt.,
48. 1" Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VII, 211. 15 Cfr. Epic., K.D., XXIV.
16 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VII, 211. 1 7 La congettura semiotica è
espressa dal verbo smeiolJ (Ep. Hdt., 38) e prende la forma dell'induzione
nella teoria epicurea. Il sostantivo da esso derivato, smeilJsis, non
direttamente attestato negli scritti di Epicuro, avrà ampio spazio nel trattato
di Filodemo. 18 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VII, 21 3-214. 19 Come vedremo nel
prossimo capitolo, il criterio della "non incompa tibilità" con i
fatti conosciuti è centrale nella teoria dell'inferenza come è esosta nel De
signis di Filodemo. ° Cfr. Diog. Laert., Vitae, X, 33. 21 Cfr. Sext. Emp.,
Adv. Math., VIII, 13; 258; Plut., Adversus Colo tem, 1119f. 22 Si deve
segnalare l'articolo di Glidden (1983) che tratta il problema semantico in
Epicuro in termini molto diversi da quelli in cui lo abbiamo trattato qui e
recupera, sostanzialmente, le posizioni di Sesto e di Plutarco, sostenendo che
non esiste nella filosofia linguistica epicurea un livello spe- 252 NOTE
cifico del "significato" in termini intensionali. 23 Cfr. Sedley
(1973: 17-18); il testo di Sedley in parte si discosta da quello di Arrighetti.
Come veniva evitato, nel Crati/o platonico, tanto da Cratilo quanto da Socrate.
Cfr. capitolo relativo a Platone in questo libro. 26 Cfr. Plat., Crat., 421 d,
435 c; cfr. Sedley. La data di composizione del trattato, che è controversa,
oscilla tra il 542e il 40 a.C.; cfr. De Lacy (1978: 163-164). Il titolo greco,
essendo il testo in parte corrotto, è frutto della conget tura di T. Gompers;
altre congetture sono state proposte. D'ora in poi ci riferiremo a esso nella
sua versione latina De signis; cfr. De Lacy. Nella prima sezione vengono
riportate le risposte di Zenone di Sidone alle critiche stoiche; nella seconda
viene esposta la versione di Bromio del l'enumerazione e confutazione di
Zenone degli argomenti contro l'inferen za empirica; nella terza viene
riportata l'enumerazione di Demetrio di La conia degli errori comuni degli
antagonisti del metodo analogico; la quarta sezione, che espone una seconda
lista degli errori degli oppositori, è anoni ma, ma, con molta probabilità, è
anch'essa da attribuire a Demetrio. .. Cfr. Marquand; Deledalle. Cfr. Phil., Designis, coll.VIII,32-IX,3= cap.13).
Il riferimentobi bliografico al trattato di Filodemo è dato in maniera
duplice, indicando prima la colonna e il numero delle righe del testo greco del
papiro, poi il numero del capitolo corrispondente nella traduzione inglese
effettuata dai De Lacy. 6 Come è a più riprese ribadito anche nella terza
sezione che riporta il pensiero di Demetrio; cfr. col. XXVIII, 13-25 = cap. 45,
e col. XXXVII, 12-24=cap. 57. 7 Cfr.col.XIII,1-15=cap.18. 8 Cfr. col. I, 1-12 9
Cfr. col. I, 12-16=cap. 2. 1° Cfr. col. XII, 14-31=cap. 17. 11 In Peirce (1980:
140), del resto, c'è a proposito dell'icona anche un'interessante
considerazione (sulla possibilità che l'oggetto del segno iconico esista o non
esista), la quale sembra riproporre, in epoca contem poranea, una tematica
simile a quella stoica ed epicurea circa la distinzione dei segni in propri e
comuni: "Un'Icona è un segno che si riferisce all'Og getto che essa
denota semplicemente in virtù di caratteri suoi propri, e che essa possiede
nello stesso identico modo sia che un tale Oggetto esista ef fettivamente, sia
che non esista. È vero che, a meno che vi sia realmente un tale Oggetto,
l'Icona non agisce come segno". = cap . 2,ecol.XIV,4-11=cap. 19.
NOTE 12 Cfr. Preti 1956: 13; si veda anche il cap. VI del presente lavoro. Cfr.
col. II, 25·36=cap. 5. ... Cfr. col. III, 4-8= cap. 5. 1Cfr. col. III, 30-34 =
cap. 6. 16 Cfr. coli. XXXV, 35 - XXXVI, 7=cap. 53. 17 Le risposte alle
obiezioni stoiche sono, nella sezione di Zenone, alle coli. XVI, 4 · XVII, 28 =
capp. 23-24, e, nella sezione di Bromio, alle coli. XXII, 28 - XXIII, 7=cap.
38. 18 Cfr. col. XVII, 3-7=cap. 24. 19 Una discussione attribuita ai
"dogmatici" sul problema della defini zione come combinazione di
attributi, a esempio "animale", "mortale",
"ragionevole" rispetto a uomo, è presente anche in Sesto Empirico,
Adv. Math., VII, 276-277. 2° Cfr.col.IV,3-5=cap.6. 21 Cfr. col. XVII, 1 1-28 =
cap. 24. 22 Cfr.V,l-7=cap.7. 21 Cfr. col. XVII, 29-36=cap. 25. 2A Cfr. coli.
XVII, 37 - XVIII, 3 = cap. 25. 2 Cfr. col. XVIII, I0-16=cap. 25. 26 Cfr. coll.
XXIII, 13 - XXIV, 8=cap. 39. 27 Cfr. col. XXIV, 10-17 = cap. 40. 28 Cfr. col.
XXVI, 6-9=cap. 41. 29 La tradizione continua dopo gli epicurei, e nella tarda
antichità le de finizioni vengono talvolta combinate; cosi si ha quella di
Galeno: "animali razionali, cioè provvisti di ragione" (De P/ac.
Hipp. et Plat., IX, 3); e quella di Sesto Empirico: "animale razionale
mortale, provvisto di intelli genza e razionalità" (Adv. Math., VII,
269). 3° Cfr. 11 Cfr. 12 Cfr. 31 Cfr. 34 Cfr. 1 Cfr. 36 Cfr. l7 Cfr. 18
Cfr.coli.I,19-II,3=cap.3. 39 Cfr. coli. XIV, 28 - XV, 13=Cfr.coli.XX,32-XXI,3= cap.35.
coli. XXXIII, 35 - XXXIV, 5=cap. 52. Eco (1984: 130 e sgg.). Groupe p. (1970:
100). col . col. col . col. col. XXXIV, 5-7 = cap. 52. XXXIV, 11-15=cap. 52.
XXI, 27-29 = cap. 36. XXX, 27-31 =cap. 47. XVIII, 23-29=cap. 26. CAPITOLO 9. 1
A questo proposito Cicerone parla di "regolarità della ragione"
(ratio et constantia) contrapposta alla "sorte" (fortuna) (De div., I
l, 1 8) In altre opere, al posto di dicibile troviamo l'espressione
significatio; a esempio in De Magistro, 10.34. 2 Si deve notare che Agostino
adopera l'espressione verbum in due sen si: (i) uno tecnico e specifico, che è
quello dell'uso metalinguistico della pa rola; (ii) uno generale, che
corrisponde alla nozione ampia di "parola", co me "segno di
ciascuna cosa che, proferito dal parlante, possa essere inteso
dalJ'ascoltatore" (cap. V). 1 La natura della nozione di dictio, come
composizione di significante e significato, è messa chiaramente in risalto
dalla definizione del cap. V da De dialectica: Quel che ho detto dictio è una
parola, ma una parola che significhi ormaj le due unità precedenti
conten1poraneamente, la parola (verbum) stessa e ciò che è prodotto nell'animo
per mezzo della parola [di cibile]". La dictio, inoltre, "non
procede per se stessa, ma per significare qualcosa d'altro" (ibidem). 4 Si
ricorderà che dagli stoici un segno era concepito, in termini propo sizionali,
come un antecedente che rimandava a un conseguente; cfr. Sext. Emp., Adv.
Math., VliI, 245. s Per questa nozione, cfr. Lotman-Uspenskij Les Storcien.s et
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filosofia romana, la semiotica di Cicerone. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Conti” – The
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