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Monday, February 10, 2025

LUIGI SPERANZA -- GRICE ITALO A-Z C CON

 

Luigi Speranza -- Grice e Consoli – l’italiano come lingua universale – filosofia italiana – Luigi Speranza (Catania). Filosofo catanese. Filosofo siciliano. Filosofo italiano. Lingua nazionale della terra. Linguaggio mondiale. Ling du mond. Ling nazionel de le ter. Vox mondiel. Il latino lingua universala, Storia della letteratura latina. Catania. Santi Consoli Sindaco di Catania Durata mandato Predecessore Salvatore Di Stefano Giuffrida Successore Salvatore Di Stefano Giuffrida C. è stato un filosofo, storico, letterato e politico italiano. Filosofo, storico e letterato, C è insegnante di letteratura latina e filosofia romana a Catania.  Divenne sindaco di Catania. Organizza l'«Esposizione agricola  siciliana», che venne inaugurata da Vittorio Emanuele. Termina il suo mandato e torna ad occuparsi dell'insegnamento.  Scrive anche alcuni saggi sulla storia della Sicilia.  Pubblica numerose opere tra cui Italiensk grammatik til brug for norske og danske, Catania, Letteratura Norvegiana, Milano, De C. Plinii Caecilii Secundi rhetoricis studiis, Catania), L’autore del De origine et situ Germanorum, Roma; Brevi annotazioni critiche alle Satire di Persio, Roma, Il neo-logismo (deutero-esperanto) in Plinio il Giovane, Palermo, Sicilia gloriosa, Catania). Santi Correnti, La città semprerifiorente, Catania.  Santo Daniele Spina, Andrea D’Amico Franz, commediografo e politico in Catania, Agorà.  Opere su MLOL, Horizons Unlimited.Predecessore Sindaco di Catania Successore Salvatore Di Stefano Giuffrida Salvatore Di Stefano Giuffrida. Portale Biografie: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di biografie Categorie: Storici italiani del XX secolo Letterati italiani Politici italiani Sindaci di Catania [altre]. Ricerca Libri aiuta  i lettori a scoprirci libri di tulio il mondo e conseiil c ad aulun ed edili in di ragg i ungere un pubblico più ampio, l'imi cffclluarc una ricerca sul Web  nell'intero testo di questo libro da |.-.-;..-[! e. comi Jkj^àj, à?JL garbarti College li&rarg  CONSTANTIUS FUND   EstiblJshed by Professor E. A. Sofhoclbs of Harvard   University for " the parchase of Greek ud ritiri  books, (the utdenl elusici) or of Arabie  hook», or of hooks illustratine or ex.  soch Greek, Latin, or     Arabie t     ' Will)     Jii^. .1.^.0.1,. !>   I I V IL NEOLOGISMO NEGLI SCRITTI DI PLINIO IL GIOVANE Altre opere di C. ITALIENSK GRAMMATIK til "for-u.gr     for IbTcrslce cgr  Catania L  esposte , secondo il metodo scientifico , agli alunni   delle scuole secondarie classiche.   Catania (E ALLO Siili) IL 1. N.  Torino TJI Milano  liettet*atat*a Ho^eQtena   Milano. De C. Plinii Gaecilii Secanti     RHRTORICIS STUDIIS.   Catinae, 1897. L. 3 (esaurito).     e   IL NEOLOGISMO   NEGLI SCRITTI DI PLINIO IL GIOVANE CONTRIBUTO AGLI STUDI SULLA LATINITÀ ARGENTEA Libero docente di letteratura e lingua latina nella R. Università di Catania PALERMO LIBRERIA ALB. REBER  • r   &/. X? & >RD CÓQ;     Ql -VL-^./UOl-/W rfcLu-ó xu^x-oL (Catania, Via Maddem, n. 160)     Tipografia editrice BARBACALLO & 8CUDERÌ , in Catania. MARGRETHE CONSOLI  nata GLÒERSEN   MIA DILETTA E VENERATA MOGLIE  NEL III ANNIVERSARIO DELLA SUA MORTE Il ne faut point dédaigner les études  qui ont pour objet d*écl«ircir méme tei  ou tei petit point particulier de la langue  d' un auteur.   0. RlEMANN. È noto che neiprimi tempi dell'impero romano, tanto  per i inutamenti politici avvenuti quanto per il progresso  lento, ma costante, del ' sermo plebeius' che tendeva  a prevalere sul ' sermo urbanus ', la lingua letteraria  era divenuta, a poco a poco, una lingua artificiale che  ogni scrittore, non più vincolato dall'uso del linguaggio delle conversazioni colte, soleva per lo più plasmare  da sé, secondo i suoi gusti e secondo i fini letterari che  si era proposto di raggiungere. 1 Tale tendenza, che costituisce appunto uno dei caratteri precipui della latinità argentea, abbiamo potuto osservare in particol&r  modo negli scritti che ancora ci rimangono di Plinio  il giovane ; e, poiché dell' arte retorica di lui ci siamo  occupati di proposito in» un nostro lavoro stampato di  recente, 2 ora ci proponiamo dimettere in rilievo i neo   1 Cfr. O. Riemann, Études sur la langue et la grammaire de  Tite-Live, Paris, Thorin,   DeC Plinii Caecilii Secundi rhetoricis studiis, Cat'msLOy . cod. Vatic.  ;   F = cod. Florentin. già della bibl.- S. Marco 284 ;  D = cod. Dresd. D 166 ;  [R = cod. Riccard. 488];  p = -o :: o- I -- :Da quanto ci è dato argomentare , considerando i resti della letteratura romana pervenuti sino a  noi, pare che Plinio il giovane sia ricorso per il primo  ai temi degli aggettivi ' sinister ' e ' socialis  per formare le due voci nuove ' siriisteritas ' e ' socialitas \  . l.° Il SIGNIFICATO di ' sinisteritas ' non si può disgiungere da quello delle voci ' stultitia ' e ' rusticitas  ; e  indica perciò « goffaggine , inettitudine » , l' antitesi ,  in somma, di ' dexteritas '. Se ne ha la conferma nei  seguenti passi di Plinio : Quae tanta grauitas ? quae  tanta sapientia ? quae immopigritia, adrogantia, sinisteritas ac potius amentia, in hoc totum diem inpendere, ut offendas, ut inimicum relinquas ad quem tamquam amicissimura ueneris ? ' Epist. VI 17, 3.  ' Plerique autem, dum uerentur ne gratiae potentium nimium  inpertire uideantur, sinisteritatis atque etiam raalignitatis famam consequuntur. ' Epist. IX 5, 2.   2.° L' altro sostantivo ' socialitas ' vale lo stesso di  ' comitas ' = « affabilità , cortesia , socievolezza » : ce  lo affermano i seguenti due luoghi di Plinio: ' Non remissionibus tuis eadem frequentia eademque illa soci a1 i t a s interest ? ' Pan. 49, 4.  ' Primum est autem suo  esse contentimi , deinde quos praecipue scias indigere  sustentantem fouentemque orbe quodam socialitatis  ambire. ' Epist. IX 30, 3. È nondimeno da notarsi che  nelP ed. a leggesi ' societatis ' invece di ' socialitatis \   6) Plinio, memore forse d'un ben noto precetto oraziano sulla ' callida iunctura ' di parole note, 1 formò  per il primo , a quanto pare , mediante composizione,  quattro nuovi sostantivi : ' cauaedium, sesquihora, duumuiratus, laudiceni. Cauaedium ' risulta dalla fusione intimadelle due  voci cauum aedium ' , che> troviamo appunto usate in  stretta dipendenza tra loro, ma separate (cioè: ' cauum  aedium ' ), da Varrone, 2 Vitruvio 3 e Plinio il vecchio 4 ;  e vale « cortile, corte » , quello spazio nel mezzo delle  case romane, dove cadeva la. pioggia dal tettò. Si può.  assomigliare il ' cauaedium ' all' ' inpluuium ' , voce usata da Cicerone e. da Livio 5 ; ma se ne differenzia in     i Horat. Epist II 3, 47-48. Cfr. Cic. De oraL III 38, 154.    Varr. De Un. Lat V 33, 161 e 162 (Spengel).   3 Vitrvv. De arch. VI 3, 1.   4 Plin. sen. Nat hist XIX 1 (6), 24; XVII 21 (35), 166.   5 Cic. In Verr. act see. I 23, 61; 56, 147. Liv. XLIII 13, 6.  ciò che T i inpluuium ' solevasi costruire nelle case piccole, mentre il ' cauaedium ' era di maggiori dimensioni,  adatto alle case più grandi. 1 Plinio il giovane scrisse :   Est contra medias (se. porticus) cauaedi u m hilare '.  Epist II 17, 5. E nello stesso passo si ripete la voce  ' cauaedium ' : ' A tergo cauaedium'.   2.° La voce i sesqui ', irrigidita, servi , prima ancora  dell' età augustea, a foggiare alcune voci composte. 2 Anche gli scrittori del primo secolo dell'impero usarono  nuove voci composte col numerale ' sesqui \ 3 Dovette,  per ciò, Plinio il giovane sentirsi quasi abilitato dai numerosi esempi, accolti nelP uso comune, a formare la  voce ' sesquihora', che vale «un' ora e mezzo »: ' Egeram horis tribus et dimidia, supererat sesquihora'.  Epist IV 9,9.   3.° Dal numero delle persone elette a cooperare per  uno stesso ufficio, ne venne la denominazione di alcune  magistrature romane, come p. es. ' triumuiratus, quin    Vedi E. Guhl und W. Koner, Dos Leben der Grieehen und  Rómer nach antiken Bildwerken dargestellt, 419. J. Overbeck,  Pompe ji in seinen Gebàuden, Alterthùm. und Kunstwerken,  I, 241.   2 Ne «iano d’esempio le seguenti : ' sesquialter, sesquilibra,  sesquimensis, sesquimodius, sesquioctauus, sesquiopus, sesquipedalis, sesqui pes, sesqui plex (sescuplex), sesquitertius ', etc. :  per le quali voci vedasi il Georges, Ausfuhrliehes lateinischdeuisches Handwòrterbuth, 7 a ediz., Leipzig, 1880, 2° voi., coli.  2363-2364. Per le seguenti voci composte con * sesqui ' si hanno soltanto esempi negli scritti del primo secolo dell'impero : 'sescuncia,  sescuplus, sesquicullearis, sesquicyathus, sesquidigitalis, sesquidigitus, 8esquiiugerum, sesquiobolus, sesquiopera, sesquipedaneus, sesquiplaga ', etc. queuiratus ', etc. 1 Dello stesso modo troviamo in Plinio  per la prima volta la voce ' duumuiratus ' :' ' Hunc Trebonius Ruflnus... in duumuiratu tollendum abolendumque curauit. ' Epist IV 22, 1. Ma certamente il sostantivo ' duumuiratus ' dovette essere accolto prima  nell'uso comune dei contemporanei di Plinio e, fors'anche, nell'uso dell' età anteriore. 2   È noto, in fatti, che Cicerone accenna, in una sua  orazione, all' ufficio dei ' duumuiri perduellionis ', 3 e  Cesare a quello dei ' duumuiri municipiorum \ 4 Livio,  inoltre, in più luoghi fa cenno dei ' duumuiri ', distinguendoli in a) ' duumuiri nauales o ' duumuiri  nauales classis ornandae reflciendaeque causa ' (IX 30,  4; cfr. XL 18, 7 e 8); b) ' duumuiri sacrorum ' (III 10,  7) ovvero ' duumuiri sacris faciundis ' (V 13, 6; VI 37,  12) o ' sacris faciendis' (VI 5, 8); e) 'duumuiri ad aedem faciendam ' (VII 28, 5 ; cfr. XXII 33, 8) o  i La voce ' seruatio * riappare, più tardi, nella Vulgata,  E8dr. IV 8, 21-22; e in Cael. Avrbl. Celer. uel acut pass. Ili  4,45.   « Cic. In Pis. 34, 84.  Vare. Rer. rust II 1, 16.  Cfr. Vlpian.  in Big. XLVII 14, 1, §§ 2 e 4. Calustrat. in Big. Non teniamo conto della congettura del Gièrig che  legge : ' abacta hospitum iumenta cerneres ', così lon-*  tana dal testo quale è stato conservato dai codici, tranne il e, e dalle più antiche edizioni del Paneg. E, dall'ai-?  tro canto, la congettura dell' Ernesti : ' abactus hospitum  exercèretur ' o ' exercerentur ', attenendosi all'uso passivo del verbo i exercere ', lascia intatto il neologismo  1 abactus ', a cui si riferisce la nostra osservazione.   3.° Il nome ' praelusio ' si nota nel seguente passo  di Plinio: 'Tu tamen aestima, quantum nos in ipsa pugna certaminis maneat, cuius quasi praelusio atque  praecursio has contentiones excitauit '. Epist. VI 13, 6.  Perciò * praelusio ' si equipara alla voce ' prolusio ', l  che significa « preludio, prolusione, saggio ». 2   Alcuni vorrebbero sostituire nel passo citato dell'epistola pliniana a ' praelusio ' la voce i prolusio ', prima usata  da Cicerone, per evitare, forse, d'attribuirsi a Plinio la  novità del vocabolo ; ma si farebbe cosa inesatta, perchè alla sostituzione osta V unanime conferma della  voce ' praelusio ', che vien data dai codici più autorevoli dell' epistolario di Plinio. 8     i Cic. De orai. II 80, 325; Diuinat in Caec. 14, 47. .   2 Nella tarda latinilà riappare la voce l praelusio ' : per es.:  Evmen. Pro restaurandis scholis (Augustoduni) oratio, 2 : * Ibi  armantur ingenia, hic proeliantur ; ibi p r a e 1 u s i o, hic pugna  committitur ' (edit De la Baune, il quale nella nota a pag. 142,  col. 2 a , sospetta: * praelusio forte prolusio').  Ambros. De  exeidio urbis Hierosolymitanae III 8: 'Praelusio quaedam  belli * ( Migne, Patrolog. curs., ser. I, toni. 15 , col. 2077 ) ; etc.  Per altri esempi vedii lessici Forcellini - De Vit (tom. 4° [1868], col. 2 a ), e Georges (voi. 2° [J880J, col. 1658). >   3 Non è, forse, infondata la congettura che presume sostituire ' praeludit ' a * proludit ' nel passo vergiliano : ' Arbori^  Più per un ricordo omerico che per la simmetria  della frase, pare che Plinio siasi indotto a formare, in  antitesi a ' nutus ', il nome composto ' renutus ': ' Vide  in quo me fastigio collocaris, cum mihi idem potestatis  idemque regni dederis, quod Homerus Ioui optimo maxi mo nam ego quoque simili nutu ac renutu re spondere uoto tuo possum \ Epist I 7, 1-2. Talché ' renutus ', in opposizione a ' nutus ', vale lo stesso che  ' recusatio ', cioè « far cenno di no, accennare di no ,  rifiutare ». l   e) Plinio si avvalse anche di temi verbali per formare i due nuovi sostantivi : i unctorium ' e ' auocamentum '. *   1.° Nei bagni degli antichi Romani e' era , di solito ,  un luogo apposito dove i bagnanti si ungevano il corpo,  dopo essersi lavati nelle vasche de' bagni. In tutte le  opere degli scrittori latini , anteriori a Plinio, che sono  giunte integre o a frammenti sino a noi, non c'è parola  che serva ad indicare tale luogo di unzione. Primo ad  indicarlo, valendosi della voce ' unctorium ', apparisce  Plinio (Épist II 17, 11 ): e tuttavia pertanto tempo prima di lui si era fatto uso del luogo di unzione, sì necessario a complemento del bagno. Non sarebbe quindi  improbabile che il nome ' unctorium ' fosse stato accolto  nelP uso letterario in tempi anteriori a quelli di Plinio;  tanto più che e Plauto e Cicerone avevano usato le voci     obnixus trunco, uèntosque tacessi t | Ictibus, et sparsa ad pugnato i) r o 1 u d i t* barena ' (Ribbeck); il quale passo si nota  identico in Georg. Ili 233-234 ed Aen.   i Cfr, Hoic IL XVI 250. unctor, unctio, unctura ' l , derivate, come ' unctorium ',  dal tema del verbo ' ungere ' o ' unguere \   2.° Col suffisso -men-to- aggiunto al tema del verbo  composto , 30.  Qvintu,. //mi/, orat VI 3, 61.   Martial.. Epigr. XIV 20 (Schneidewin. 19), 1; XI 58, 9. Cfr.  Vlpian. in Dfg. XXXII 52, § 8 ; etc.  In uo luogo di Varr.  Rer. rust. I 48, 1 leggevasi un tempo la voce * theca' : 'ut  grani t li e e a sit gluma et apex arista ': nella recente edi?. del  Keil (Lips., Teubner, 1889, pag. 59) si legge: 'ut grani apex  sit gluma et arista'. ellenismi, alcuni de' quali sono rappresentati da voci  semplici, altri da voci composte.   a) Alcuni de' grecismi dedotti da voci sempiici furono da Plinio latinizzati nella desinenza; altri conservarono la desinenza greca originaria.   ad) Si presentano con la desinenza latinizzata :   1.° ' Baptisterium ', « bacino per bagnarsi e nuotare,  bagno ». Se ne ha la conferma nei seguenti due luoghi di Plinio : Inde apodyterium balinei laxum et talare excipit cella frigidaria, in qua baptisterium  amplum atque opacum \ Epist V 6 , 25.  ' Inde balinei cella frigidaria spatiosa et effusa, cuius in contrariis parietibus duo baptisteria uelut eiecta sinuantur\ Epist. Nel passo che abbiamo citato per il secondo , la lezione del cod. D i duobus aptisteria ' differisce da quella  comunemente accettata; ma si scorge evidente che l'amanuense fu tratto in errore da ciò che, essendo scritte  neir esemplare tutte di seguito le due voci ' duo baptisteria ' in modo da formare ' duobaptisteria ', egli credette dividere il nesso in ' duob. aptisteria ', ritenendo  la prima parte un' abbreviazione di * duobus \ Quanto  al passo citato sopra per il primoj se si accoglie la lezione ' sphaeristerium ', che presentano lo stesso cod. D i Per gli scrittori ecclesiastici la voce ' baptisterium ' passò  a significare il luogo in cui si amministra il sacramento del  battesimo; ma in un luogo dell'epistola 2* del Iib. ir Apollinare Sidonio continuò a conservarne il significato pliniano: 4 Huic  basiiicae appendix piscina forinsecus seu, si graecari mauis,  baptisterium ab oriente connectitur ' (Migne , Pairolog.  tur*., ser. I, tona. 58, col. 475). è l'ed. p, non resta menomata per nulla la nostra osservazione sulP ellenismo ' baptisterium ', che è conferà  mato per neologismo pliniano dal luogo della Epist.  II 17, 11.   2;° Nei seguenti passi del libro delle epistole di Plinio all'imperatore Traiano si legge per la prima volta il  grecismo i buleuta % avente il significato di « senatore   greco, consigliere »: ' Claudiopolitani ingens balineum   defodiunt magis quam aediflcant, et quidem ex ea pecunia quam b u 1 e u t a e additi beneficio tuo aut iam  obtuleruntob introitimi autnobis exigentibus conferunt\  Epist X 39 (48), 5.  ' Superest ergo ut ipse dispicias,  an in omnibus ciuitatibus certum aliquid omnes qui  deinde b u 1 e u t a e legentur debeant prò introitu dare '. Epist. Adfirmabatur mihi in  omni ciuitate plurimos .esse buleutas ex aliis ciuitatibus '. Epist X 114 (115), 3. 1   3.° ' Eranus ' significò propriamente « gradevole compagnia »; poi si disse ' eranus ' un' associazione privata in Grecia, avente lo scopo di assicurare ai suoi membri un appoggio nel caso che cadessero nella indigenza, ma a patto che il beneficato dovesse restituire  all' associazione il soccorso in danaro ricevuto, ove la  sua condizione economica si fosse migliorata. In conseguenza, valse poi a significare anche qualunque tassa o contribuzione o colletta imposta per venire in soccorso ai bisognosi. L'uso della voce buleuta si trova ripetuto presso Ael.  Spartian. Seuer. 17, 2: * Alexandriuis ius buleutarum dedit * (Peter). Vedi i lessici Freund-Theil (tom. I [1855], pagina 368;. e Georges (voi. l.° [1879], col. 819).   * Dell' ' eranus ' de' Cristiani trattò Flor. Tbrtvll. Apologet. Cicerone fa uso del vocabolo in esame, ma conservandolo tale e quale, con le stesse lettere greche * . Plinio lo latinizzò : ' Datum mihi libellum ad eranos  pertinentem his litteris subieci'. Epist X 92 (93). Il  vocabolo si trova anche latinizzato nella lettera di risposta dell'imperatore Traiano a Plinio, Epist. X 93 (94).   Il Beroaldus fece bene a restituire nel passo di Plinio, sopra citato, la grafia legittima ' eranos ', invece  della grafia ' heranos ' portata dall' ed. A.   4.° i Idyllium ' indica un genere ben noto di poesia  pastorale: * Siue epigrammata siue i d y 1 1 i a siue eglogas siue , ut multi , poematia seu quod aliud uocare  malueris licebit uoces '. Epist IV 14, 9.   È da notarsi che la grafia della voce ' idyllium ' non  è conservata costante nei codici e nelle più antiche edizioni di Plinio. Alla grafia ' idyllia ', che è presentata dai codd. M, V, e accettata dal Beroaldus, si avvicina la grafia ' edyllia ' dell' ed. p; perciocché è ben noto che nelle parole greche latinizzate il dittongo et davanti ad una vocale si rappresentò in latino tanto con  e quanto con i : ma 1' uso prevalente dell' e è più antico, mentre nel primo secolo dell' impero il suono vocalico i rappresentò più spesso il dittongo greco che  stiamo considerando.   Da ' edyllia ' a ' edullia ', grafia accolta dall' ed. a,  il passaggio era facile, stante che il suono vocalico greco o ebbe per primo suo rappresentante in latino Yu:     aduers. gent. prò Christ, cap. 39 (Migne, Patrolog. cura., ser.  I, tom. 1°, col. 468 e col. 470).  i Cic. Epiai, ad Att. XII 5, 1.  Cpiwqli  II Neologismo puntano, cfr. ' cumba * e c cymba \ Solo per disaccortezza del  copista si trova scritta nel cod. F la forma ' dullia '  invece di ' edullia ' : non vi si vorrà certo scorgere lina poco spiegabile aferesi.   La grafia ' hedylia ' del cod. si deve attribuire all' uso inesatto del segno dell' aspirazione h ed alla riduzione abusiva del doppio suono liquido l, per la considerazione, forse, che in alcune parole era rimasta  oscillante la scrittura latina tra F uso d' una sola o di  due l, l   Non si scorge chiaro per quale via siasi pervenuto  a rappresentare ' idyllia ' con ' dugtia ' nel cod. /?.   5.° ' Poematium ' vale « breve componimento poetico,  poemetto ». Veramente noi e' immaginiamo la forma  del singolare ' poematium ', ma la parola ci viene presentata nella forma del plurale ' poematia ' tanto nel  passo precedentemente citato della Epist IV 14, 9, in  proposito del grecismo ' idyllium ', quanto nel passo  seguente : ' Audiui recitantem Sentium Augurinum cum  summa mea uoluptate, immo etiam admiratione. poematia appellai'. Epist IV 27, 1. 2     i Vedi la nostra Fonologia latina^ ediz. cit., n. 27, pp. 31-32.   2 La voce ' poematium ' si osserva, sempre nelle forme del  plurale, in due luoghi degli Opuseula di Deg. Magn. Avson. :  XVII, Cento nuptialis (verso la fine) : * Probissimo uiro Plinio  in poematiis lasciuiam, in moribus constitisse censuram '  (Peiper); IX, De bissula: 'Poematia, quae in nlumnam moara luseram rudia et incohata ad do mestica e soiacium cantilenae ' (Peiper, pag. 114). Ma si deve avvertine che  nel luogo citato per il primo, il cod. Laurent. 51 , 13 presenta la forma € poematis '; e in quello citato il secondo, nel  cod. Tilianus o Leidensis Voss. lat. Q. 107 (prima Voss. lat 191)  si preferisce la forma ' poema.ta \ Cosicché, ove si accolgano      35    Neil' ammettere ohe Plinio abbia introdotto il grecismo ' poematium ', ci siamo attenuti, tanto per il primo passo citato dell' Epist IV 14, 9 quanto per il secondo passo, ai codd. M, V. Ma la lezione ' poemata ' è  ammessa , per tutti e due i passi pliniani sopra citati,  dal cod. F e dall' ed, a. Anche la ed. p presenta per  il passo dell' Epist IV 14, 9 la lezione ' poemata ' ; e  dello stesso modo il cod. R presenta ' poemata ' per il  passo cit. dell' Epist IV 27, 1. '   La lezione ' poematica ', presentata con notevole persistenza, in tutti e due i passi che abbiamo riportati  sopra, dal cod, />, verrebbe a dare forma adiettiva al  sostantivo 'poematia': e ci sarebbe sempre un neologismo di fonte greca, non usato da alcuno scrittore latino i cui scritti ci siano rimasti. Ma il lessico la ripudia, tuttoché la lezione ' poematica ' sia ammessa anche dalla ed. p nel passo dell' Epist. IV 27, 1.   Avvertenza.  Del diminutivo di fonte greca ' sipunculus ' ci siamo occupati sopra, a pag. 27.   * Vb) Plinio conservò la desinenza greca nei seguenti  tre grecismi, che egli per il primo introdusse nelP uso  letterario latino :   Buie SIGNIFICA consiglio, senato o collegio  dei decurioni nelle città elleniche e in quelle città che     le varianti presentate dai detti codici, non si può ammettere  con oerte2za che Ausonio abbia continuato Fuso della voce  » poematium \   1 II Vallauri , che registra nel suo Lex. Latini Italique  sermoni* tutti i neologismi pliniani, ommeite soltanto ' poematium \      36    erano rette secondo le norme amministrative greche.  Ne troviamo esempi nel libro delle epistole di Plinio  a Traiano, nelle forme dell'accusativo e dell'ablativo  del singolare: ' Qui uirilem togam sumunt uel nuptias  faciunt uel ineunt magistratum uel opus publicum dedicane solent totam b u 1 e n atque etiam e plebe non  exiguum numerum uocare '. Epist X 116 (117), 1. Vedi per altri esempi Epist. X 81 (85), 1; 110 (111), 1;  112 (113), 1.   2.° ' Lyristes ' significa « sonatore di lira », e osservasi per la prima volta nei segg. luoghi pliniani: Epist  I 15, 2; IX 17, 3; 36, 4; 40, 2. l  Quanto alla grafia sono concordi i codd., l'ed. p e le più antiche edizioni dell' epistolario pliniano : si eccettui il cod. M che,  nel passo citato dell' Epist. IX 17, 3 presenta al nominativo ' lyristis ', come se ai tempi di Plinio il suono  vocalico greco -q avesse avuto il valore dell' i. *   3.° i Phantasma ' significa « fantasma , spettro , visione , larva » : i Igitur perquam uelim scire , esse  phantasmata et habere propriam figuram numenque aliquod putes, an inania et ùana ex metu nostro  imaginem accipere '. Epist VII 27 , 1. Il Casaubonus  credette sostituire a ' phantasmata ' la voce ' phasmata ', per evitare, forse, che si attribuisse a Plinio Pin   ì Della voce ' lyristes ' si valse, di poi, Apollin. Sidon. Epist.  Vili 11 (Migne, Patrolog. curs., ser. I, tona. 58, col. 605).   2 In proposito della pronunzia dell' ij, che Y Inama osserva  essere stata oscillante fin dai tempi di Platone, leggasi la memoria d9l D* Ovidio, ' Di un luogo di Plato*  ne addotto a prova dell' antichità dell' itacismo ', pubblicata  negli « Atti della R. Accademia di scienze morali e politiche  di Napoli o, voi. 24°, a. 1891, pagg. 217-237.      37    troduzione del neologismo ' phantasma ' nell'idioma latino, poiché la voce greca ' phasma ' era già nota come  titolo di una commedia di Menandro, * e per F indicazione di un mimo. 2 Ma contro la sostituzione proposta dal Casaubonus sta F affermazione concorde dei codici e delle più antiche edizioni delle epistole di Plinio.  E da notarsi che Plinio, benché avesse introdotto Fuso  della voce ' phantasma ', pure nella stessa epist. 27 ,  lib. VII, invece di ripetere il nuovo grecismo , si avvalse delle voci latine rispondenti a * phantasma ' : ' efflgies ' {Epist VII 27, 8 ; III 5, 4) ,  che nella forma mediale ha il significato di «e distribuire ». Si oppone nondimeno al legame di discendenza tra il cit  verbo greco e la voqe ' diamoerie ' il tramite attico e  quello della koiné, per cui le voci elleniche si trasfusero nella lingua latina negli ultimi tempi della repubblica romana e nei primi secoli dell'impero; poiché si  sarebbe dovuto ottenere nella trascrizione latina della  voce greca, al caso genitivo del singolare, la forma  * diamoerias o * diamoeras e non ' diamoeries ' o , secondo la ed. A, ' diamories \   La grafia ' diamones ', data dall' ed. a , non si saprebbe a quale voce greca riferirla; e perciò la si deve  credere il risultamento di un' inavvertita spostatura di  lettere della voce ' dianomes Cosi T interpreta il Lagergren Vedi il lessico Porcellini - De Vit, tom. 2, pag. 696, col. l.«  L' osservazione fu accolta dal Vallauri a pag. 207, col. 1.% del  Lexicon Latini Iialique ter/noni*.   s II Dizionario Georges-Calonghi, che registra tutti gli ellenismi introdotti da Plinio, non nota ' dianome ' nò ' diamone '  mentre nelT Ausfuhrl. Handioòrterb. del Georges ò registrata  la voce 'dianome', coL Procoeton VALE anticamera. Deinde uel  cubiculum grande uel modica cenatio, quae plurimo sole,  plurimo mari lucet ; post hanc cubiculum cum proc o e t o n e , altitudine aestiuum, munimentis hibernum \  Epist. II 17, 10.  Per altri esempi vedi Epist. II 17,  10 e 23.   Se è vero che Terenzio Varrone nel proemio del libro  secondo Rerum t+usticarum usò la voce  ^ i     1 Ma in non poche edizioni dei tre libri Rerum rustìcaram  di Varrone la voce ' procoetona ' del proemio del libro 2 3 resta  conservata con le lettere greche , come per es. nelt* edizione  * cum notife Iosephi Scaligeri, Adriani Turnebr, Petri Vicfcorii et  Antonii Augustinl ; Amstelodami, 1623', pag. 56; nell'adizione  ohe sotto la denominazione Les agronome» latin» è compresa  nella Collection Nisard, pag» 100, col. l a ; nell'edizione di ' Ioannes Gymnicus, Coloniae, 1536 \ pag. 96 ; eto.  NelF edizione  del Keil (Lipsia, Teubnér, 1889, pag. 70) si trova accolta la  forma in lettere latine ' procoetona \ ma in nota si avverte che  nei codici consultali dall' editore si legge invece ' procoeoona considerando in primo luogo gli aggettivi di fonte nominale, poi quelli di fonte verbale , indi gli aggettivi  composti, e, in fine, gli aggettivi dedotti dal greco.   A.  Riconosciamo come d' immediata derivazione  da nomi sostanti vi i seguenti cinque aggettivi: * orarius,  bellatorius, castigatorius, praecursorius , sacerdotali^ ',  quantunque, eccetto il primo, gli altri quattro si riferiscano a sostantivi aventi il loro fondamento in temi   verbali.   1.° ' Orarius * deriva da ' ora *, « costa, spiaggia del  mare », e perciò vale ad indicare la qualità di cosa  appartenente alla costa, avente, per così dire, relazione  con la spiaggia o lido; quindi ' oraria nauis ' o ' oraria  nauicula ' significa « piccolo naviglio da costeggiare ».  Plinio si valse dell'aggettivo ' orarius * nei seguenti due  luoghi: l Nunc destino partim o r a r i i s nauibus partim  uehiculis prouinciam petere \ Epist X 15 (26).  * Rur sus, cum transissem in orarias nauiculas, Bithy niam intraui '. Epist. X 17A (28), 2.   Il Keil, pur conservando nel testo pliniano la lezione  comune ' orariis nauibus ' e ' orarias nauiculas * , avverte in nota , rispettivamente , ' fortasse onerariis '  e ' fortasse onerarias ' ; ma la congettura di lui non  pare accettabile : nei due luoghi citati il testo pliniano non presenta nei codici variante alcuna. E, del  resto , la sostituzione dell' aggettivo i oneraritts *, se  vale a rimuovere da Plinio la menda d'avere introdotto  un neologismo non necessario, non rende il testo migliore di quel che è in fatto, conservandosi il neologismo ' orarius \   2.° Da ' bellator ', « battagliero, guerriero » , Plinio foggiò P aggettivo i bellatorius \ che applicò in traslato  a ' stilus ' per indicare lo « stile polemico » , proprio  delle dispute; ma, riconoscendo egli stesso l'arditezza  del traslato, lo mitigò con l'aggiunzione della minorante ' quasi ' : ' Scio nunc tibi esse praecipuum studium orandi ; sed non ideo semper pugnacem hunc et  quasi bellatorium stilum suaserim'. Epist. VII 9,  7. Se non che è da avvertire che nel luogo citato il  cod. D e V ed. p presentano la lezione .' quasi bellorum stilum \ l   3.° Plinio dedusse 1' aggettivo * castigatorius ' dal nome i castigator ', per indicare qualità propria di chi  castiga o corregge; e nell'esempio seguente unì appunto la qualità indicata da ' castigatorius ' col nome  ' solacium ', a fin di significare quel conforto con cui  ci si studia di consolare una persona afflitta, trovando  da biasimare il dolore eccessivo che la opprime. Certo è  ardito associare 1' epiteto i castigatorius ' con l' idea di  conforto rappresentata da ' solacium '; e però l'autore,  ad attenuare lo stridente contrasto , premise , come al  solito, la parola ' quasi'. Il passo è il seguente : ' Proinde siquas ad eum de dolore tam iusto litteras mittes ,     i Ambi. Marceli*, usò anche , ma in senso proprio , l' aggettivo ' bellatorius ' : * Ideoque hoc ni mia cauendum , quod militem colsi nominis cum bellatoriis iumentis extinxit '.  (Rer. gest. XXIII 5, 13. Gardthausen). Cfr. XXXI 2, 22. Si deve  riconoscere pure il significato proprio di ( bellatorius ' nel seguente luogo dell'antica traduzione latina di Irbn. Deteet et  euer*. falso cognomin. agnition. seu contro, haereses IV 34, 4:  'la tantum transmutationem fecit, ut gladios et lanceas b ella torias in aratra fabricauerit ipse ' (Migne, Patrolog. curi  ser. Graeca et Orientai., toni. 5, col. 985). memento adhibere solacium, non quasi castigatori u m et nimis forte, sed molle et humanum '. Epist  V 16, 10. «   Notisi che nel luogo cit. il solo cod. M presenta la  voce ' castigatorium ' : V ed. a dà la lez. ' castigatorum ', che si potrebbe intendere nel modo stesso che  si è detto sopra intorno a ' bellorum ' sostituito a  4 bellatorium \ Tuttavia , come bene avverte il Gierig, 2  il genitivo plurale ' castigatorum ' non si adatterebbe  con gli aggettivi che seguono ' forte, molle, humanum \  e nocerebbe all' efficacia della frase.   4.° Un altro aggettivo , formato , come i due precedenti, da temi di ' nomina agentis ', è ' praecursorius ',  da ' praecursor ', e significa « preventivo, che precorre,  che precede » : ma V arditezza dell' immagine è attenuata , come nei due neologismi precedenti , dalla pa^  rola premessa ' quasi ': ' Interim ne quid festinationi  meae pereat, quod sum praesens petiturus hac quasi  praecursoria epistula rogo \ Epist. IV 13, 2. Così  il passo di Plinio si legge nei codd. Jf, V e nelP ed. p.  La lezione ' praeciirsori ' data dal D deve essere considerata come grafìa monca , poiché il dativo singolare  del nome ' praecursor ' non può coordinarsi con le altre parole del testo.     1 Apollinare Sidonio fece uso più acconcio dell'aggettivo  ' castigatorius ', associandolo alia voce 'seueritas': Epist. IV  1 :,' Aetatulam nostrum, mobilem , teneram , crudam , modo  castigatoria seueritate decoqueret , modo mandato*  rum salubritate condirei ' (Migne, Patrolog. curs., ser. I, tom.  58, col. 508).   * Gierig op. cit., tom. 1°, pag. 446, col. 2. a  Consoli  il Neologismi) puntano, 4 Altra volta Plinio, invece di valersi del nuovo aggettivo ' praecursorius \ foggiato per esprimere la precedenza * , usò la voce greca ' pròdromos \ che HA IL VALORE di «" precorrente, che corre innanzi» 8 : v. Epist  IV 9, 23. Nel luogo cit. dell' Epist. IV 13, 2, alla voce  ' praecursoria ' trovasi sostituita ' praeceptoria ' nel  cod. F e nelFed. a. E il Gierig 3 avverte che neicodd.  Vosslail., Oxon., Arhzen. , Hamburg. ( Lindenbrogìana  excerpta) , Bongars. si legge pure * praeceptoria \ Per  ispìegare quest' altro neologismo ( che ' praeceptorius \  supposta l'ammissione di esso in sostituzione di 'praecursorius', sarebbe sempre un aggettivo di formazione  plinlanà , sul tipo dei precedenti aggettivi derivati da  ' nomina agentis * in -tor) si ricorre do alcuni commentatori di Plinio al contenuto dell'epistola di cui  Si tratta ; e poiché vi si parla di ' praeceptores ', se  ne trae la conclusione che i praeceptoria epistula '  dovrebbe avere il significato di epistola concernente  i precettori : interpretazione inesatta, perchè nel passo  cit. della Epist IV 13,2 non si accenna atìcora al  concetto di i praeceptores \ che viene in seguito , do   * V agg. • praecursorius ' fii adoperato nello stesso significato da Amm. Marcell. Rer. gest. XXXI 3, 6; XV 1, £; **»  e da Avrel. Cassiod. In psalt expos, p$a\m. XXXIX 8; Variar.  Ili epist. 51 (Migne, Patrolog. cura., ser. I, tona. 70, col. 290 ; e  totù. 09, col. 606). Vedi A. Corradi , In C. Plin. Caec. Seeundum obÈeruationes ad orationem uerborumque construetìonem  et usimi pertinente*; Bergamo, frat. Cattaneo, 1889; pag. té.  Vedi anche il lessico Forcellini-De Vit, tom. 4 (\%m), pag.78ì,  col. l a e 2*. .   « V. Aeschyl. SepL adii. Thtb. w. 80, 195, SophòA. Antig.  v. 108.   * Gierig op. cit., tom. 1°, pag. 339, col. 1.*      51    pò che se ne rende avvertito il lettore con le parole :  ' prius accipe causas rogandi \ Vi si accenna, invece,  alla fretta dell'autore ed a ciò che l'autore stesso avrebbe chiesto all' amico suo Tacito, se fosse stato in presenza di lui.   Ma se si vuole accettare per genuina la lezione ' praeceptoria \ bisogna darle il valore lessicale di ' praecursoria ', ricorrendo al verbo ' praecipere ' ( donde  ' praeceptor ' e ' praeceptorius '), il quale per Cesare,  Livio, Lucrezio, Virgilio ed altri ebbe pure il significato di « prendere prima, anticipare, prevenire ».'   5.° Dalla voce composta ' sacerdos % il cui secondo  elemento si riattacca al tema del verbo ' dare ', Plinio  dedusse il nuovo aggettivo ' sacerdotalis ', che , in rispondenza alla sua origine, significa « spettante ai sacerdoti, sacerdotale » : * Proximis sacerdotalibus  ludis productis in commissione pantomimis \ EpisL VII  24, 6. E per ' ludi sacerdotales ' si debbono intendere  quelli che davano i sacerdoti al loro entrare in carica. 2   Qui è necessario avvertire che abbiamo conservato  tra i neologismi pliniani la voce ' sacerdotalis ', non  ostante che l'uso di tale aggettivo si sia notato 3 nella  frase di Velleio Patercolo II 124, 4: 'Proxime a nobi   i Caes. De b. e. Ili 31, 2.-Liv. IH 46, 7; XXX 8, 9; XXXVl  19, 9.  Lvcret. De rer. nat VI 803 e 1048.  Vero. Bel. Ili  98.  Val. Flac. Argon. IV 341 (ma neir ed. aldina si legge  4 praeripiunt ').  Stat. Theb. Vili 328; etc.   * Sveton. io Ùiu.AuQUSt. 44 parla di Mudi pontificale*;*.   * la fotti, nel Dizionario Georges-Calonghi, [Torino, 1896],  col. 2396, si trova notato il vocabolo ( sacerdotalis ' con l'autorità di Plinio e di Velleio Patercolo. B lo stesso osservasi nelYAmf&hrL Handtoorterb. del Georges, voi, 2.° [J880], col. 2183.     _ so   lissimis ac sacerd-otalibus uiris desti nari praetoribus contigit ' (Halm) ; perciocché tanto nell'apografo di Bonifacio Amerbach , (il solo che ci resti della  storia romana di Velleio ; che, cohie è noto , il codice  Murbacensis , scoperto da Beato Renano verso il 1515,  si è perduto) , quanto nella ' editto princeps ' di Basilea, 1520, la lezione accertata, è ' sacerdoti bus uiris ' :  poi, per una congettura dello Scheffer si sostituì a ' sacerdotibus' Y aggettivo ' sacerdotatibus \   Dopo Plinio, si dilagò l'uso della voce ' sacerdotalis*,  massimamente negli scritti ecclesiastici : ne abbiamo  eziandio una conferma in diverse iscrizioni, in luoghi  di Ammiano Marcellino e di Macrobio, ! in alcune costituzioni imperiali raccolte nel Codice Teodosiano, 2 etc.   B.  Plinio ricorse ai temi dèi verbi ' haesito ' e  ' monstro ' per formare i due nuovi aggettivi i haesitabundus ' e ' monstrabilis '.   l.° ' Haesitabundus ' ha il significato del participio  presente ' haesitans ', che vale « esitante, dubbioso, confuso » : ' Expalluit notabiliter, quamuis palleat semper,  et haesitabundus « interrogai^, non ut tibi nocerem, sed ut Modesto » '. EpisL I 5, 13.   2.° L'altro aggettivo verbale fc iiionstrabilis' è sinonimo di ' insignis, illustris % e significa « notevole, cospicuo, illustre, insigne, chiaro » : 'Est enim probitate     i Amm. Marcell. Rer. gest. XXVlII 6, 10. Màcrob. Saturn.  Ili 5,6. Vedi inoltre i lessici Forcellitii-De Vit (toni. 5 [1871],  pag. 288, col. 2 a ), Freund-Theil (toro. 3 [ 1865 ], pp. 143-144),  Georges (voi. 2° [1880], col. 2183).   * Cod. Tkeodos. XII 1, 145; XII 5, 2; XVI 10, 20 (Haenei).  morum, ingenii elegantia, operum uarietate monstrabilis'. Epist. VI 21, 3. '   C.  I nuovi aggettivi composti, che appariscono per  la prima volta negli scritti di Plinio, hanno la maggior parte per primo elemento componente la particella negativa ' in- : due soli sono formati con la particella 4 per- premessa, ed uno con la particella ' prò- \   a) È stato giustamente osservato che nella latinità  argentea, per amor di vivezza nei contrasti, si preferiva formare l'antitesi di un aggettivo col premettere  allo stesso la particella negativa 'in-', invece di accompagnare all' aggettivo V avverbio ' non ' o di ricorrere a eleganti circorìlocuzioni, come l'uso prescriveva  neir età aurea della prosa latina. Plinio non si allontanò dal gusto prevalente ai tempi suoi, e, oltre all'accettare P uso di aggettivi in tal modo formati da scrittori suoi contemporanei, egli stesso ne formò altri sette, premettendo la particella negativa, 'in-' a due aggettivi semplici ed a cinque aggettivi composti.   aa) 1.° L'aggetti vq  ,299), * ob die  sogenannten senteutiae Varronis Varronisches enthalten ist  ganz unsìcher*.   * Cic. Tusc. diap. Ili 34, 81 ; De legib.h 11, 32. Vero. Georg.  IV 94; Aen. IX 548.- Stat. Theb. IX, 109.-Tac. Agr.9; Ann.  XII 14; Hiat. 1.» ' Incongruens ' significa « inconseguente, incongruente, disconvenevole *. Plinio se ne valse nel seg. passo: ' Quibus sententi^ Caepionis placuit, sententiam  Macri ut rigidam durjimque reprehendunt: quibus Macri, illam alterarli dis^olutam atque etiam in congruente ni uocant \ Epkt. IV 9, 19. l   2.° D3II0 stesso modo, per indicare ' qui non reueretur \ « chi ha poca stima, i' irriverente » , il nostro  autore premise la par(,ic3lla negativa ' in- ' al partieir  pio presente del verho ' re-uereor ', e die origine al  neologismo * inreuerens', che si legge nel luogo se^  guente: ' Sum enim deprecatus ne quis ut inreue^  r e n t e m operis arguepet, quod recitaturus \ Epist. VIH  21, 3. 2   Non nuoce alla nostra osservazione sul neologismo  pliniano ' inreuerens ' il considerare che nel cod, M si  trova la lezione ' ut inreuerenti ', perchè la differenza  del caso, importante senza dubbio per V ordine sintattico della frase, non contrasta al valore lessicale della  parola.     1 A. Gell. Noci. AH. XII 5, 5 continuò V uso dell' aggettivo  * iucou^ruens ' ; e Avhkl. Avgvst. De don, perseu. 22, 01 (M-~  gne, Patrolog. eurs., §gr, }, tom. 45, col. 1030; 1' accolse n$Ua  forma del grado superlativo. Vedi per altri esempi presentati  da Lattanzio il Georges, Ausfùhrl. Handwòrterb., voi. 2° (1880)  coi. 133.   * Aleute tracce della continuazione dell* uso dell'agg. ' tnre-*  uerens ' troviamo in Ael. Spartian. Carae. 2, 5 (secondo il Peter);  e particolarmente in Flou. Tertvll. De orai. 16; Ad nat. I 10;  Aduers. Mare. II 14 (Migqe, Patrolog. cura., ser. I, tom. 1 , col.  1173,575; tom. 2, col. 302). Vedi altri esempi nei lassici ForcelUni-Da Vit (tom. 3 [1865], pag. 623, col. 2 J ), e George* (voi. 2'  [1880], col. 381).  Dàlia forma participiale ' ascensus \ premessa la  particella negativa ' in- ', si è formato ' inascensus ',  che vale « non prima salito, dove nessuno è salito »,  e perciò « inaccessibile ». Plinio se ne servì per il primo nel Pan. 65, 3: 'Inascensum illum superbiae  principum locum terere\ Nel riferire il passo di Plinio  abbiamo seguito la lezione presentata dai codd. d, e; poiché la lezione ' inaccensum ' del cod. d non pare che possa adattarsi, per contrasto di significato, alle seguenti.  parole della frase citata : ' illum superbiae principum locum \ Non contrasterebbe al concetto di tutta la frase la  congettura del Lipsius, per la quale si viene a sostituire al neologismo ' inascensum ' la voce ' inaccessum ',  usata da Virgilio e da altri x ; ma sarebbe grave errore posporre la lezione genuina data da codici autorevoli, la quale non contrasta col senso dell' intera frase,  ad una congettura, per quanto questa possa apparire  più gradita all' interprete e sia proposta da un filologo  insigne.   4.° Nel seguente periodo del Pan. 4,7:' Iam firmitas, iam proceritas corporis , iam honor capitis et dignitas oris, ad hoc aetatis i n d e f 1 e x a matur itas nec  sine quodam munere dèum festinatis senectutis insignibus ad augendam maiestatem ornata caesaries, nonne  longe lateque principem ostentant ? '  presentasi l'aggettivo nuovo ' indeflexus ', che risulta dall'unione della  particella negativa ' in- ' con una forma participiale del     1 Vero. Aen. VII 11 : Vili 195. Senec. Herc. '[furens] 606.Sil. Ital. Pun. Ili 516. -Plin. sen. Nat. hist VI 28 (32), 144;  XII 14(30), 52. Tac. Hist IV 50; e altrove.  Poi Macrob.  Saturn. V 17, 7 ; etc.          verbo ' de-flecto \ E però ' indeflexus ' significa « non  piegato » ; e, riferendosi ad ' aetatis maturi tas ', assume il significato di « non indebolito » , non mai di  « invariabile », come inesattamente qualcuno interpreta.?   Il Beroaldus, forse per evitare il neologismo, ha sostituito nel testo di Plinio a ' indeflexa '. la voce ' inflexa ', senza avvertire che V uso ha determinato un valore non negativo alla particella ' in- '• preposta al verbo  ' flectere '. E, di fatto ,  Ivvbkal. Sii i 1, &   t Vlfiak in Din XXkVll 11, 4 Cfr. Porphyr. Hor.epist  1 20, IO, citato dui Georges ne\Y Amfùhrl Handworterb., voi. 2°  (18S0), col. 1212.   * Vedi Cic. De orai II 80, 325; Pro Cluent 21, 58; De legibtt* Il 7, 16; Epint ad Ali. IV 16a, 2; XVI 6, 4; etc.  che consideriamo, si spiega con la forma mediale del  verbo greco corrispondente. l   2.° Dal tema della voce ' uber ', passato par il tramite di * ubertas ' o di * ubertus \ * Plinio formò il verbo l ubertare ', avente il significato di « fecondare, fer*  tìlizzare, rendere fecondo o abbondante » : * * Et caelo  quidem ftumquam benigni tas tanta, ut omnes si nini ter-*  ras u b e r t e t foaeatque \ Pan. 32 , 2. Tale è la lezione del cod. A ; ì codd. d, o, d presentano la lezione i uberet % che sì adatta anche bene al concetto che  Fautore volle esprimere nel luogo citato del Panegi^  fico. Ma il verbo * uberare ' non può èssere considerato come un neologismo introdotto da Plinio , poiché Puso del Verbo 'uberar^' è stato accertato in Columella 4 ; ed è noto cbe Columbia fu contemporaneo     1 L* uso del verbo ' prooemiari ' fu accolto poi da Ivl. Victv  Are rhet 15, (nella ed. Orelli delle opere di Cicerone [1833],  voi. 5, parte 1", pag. 244); da Apollin. Sidon. Epìst. ad Ma*  meri Claudian. (Migne, Patrolog. curs. t aer. I, tom. 53, còl 781).  Vedi A. Corradi op. cit., pag. 35, nota.   « L'aggettilo 'ubertus' ha per sé l'autorità di &.Oell. Noci.  Att VI (VII) 14, 7. Non teniamo contò d*un passò di Solfilo fcl,  & ' solo pla&ò u b e r t o q u e ', presentato dal òod* Aogetomom  I, 4, 15, e dal feod. Sangallòns. 187, ma rifiutato dal Motnttisert  òhe sì avvale deli* autorità di altri codici : il óod. Parisin» 68 te  presenta invece : ' Pannonia solo planò uberiqufe '.   • Riappare molto tardi il verbo * ubertare ' in Evmén. Ornilo*.  aetio Cbnstànlino Aug. Mauienèium nomine, 9: ' Agros diuturno  ardore sitiòntes expetitus uotis imber u b e r t a t ' • ( Mìgae» Pdtrótog. extra. , sar. I, toni. 8, col. 649).   * Colvm. De re rtist. V 9, 11. Vedi atìcbe Pallad. De re  rud. X! fòatòber) 8, 3.      64 -~   di Seneca il filosofo, è scrisse i suoi libri prima di Plinio il vecchio. *   B.  Di verbi nuovi, composti con preposizioni, Plinio ne presenta soltanto quattro : ' indecere, defreraere,  interscribere, pertribuere '. Li considereremo successivamente come sono stati enunciati, secondo P ordine  della lettera iniziale del verbo semplice. ,   -1.° Il verbo ' indecere _' significa « sconvenire* essere  disdicevole, star male ». Non pare che Plinio sia stato  il primo ad usarlo, tuttoché negli scritti di lui si osservi per la prima volta la forma verbale ' indecent \  In fatti, tanto la forma participiale ' indecens ', adoperata in senso di aggettivo, quanto la forma avverbiale  6 indecenter ' si trovano negli scritti dei contemporanei  di Plinio. - Il passo pliniano che presenta il verbo  ' indecere ' è il seg. ': ' Nam iuuenes confusa adhuc  quaedam et quasi turbata non indecent'. Epist. Ili  1, 2. *   I cQdd. M e V danno nel passo citato la lezione Mndicent', la quale non si adatta al concetto che informa     1 Thuffsl-Schwàbe, G. d. r. L. », a. 293, pag. 713,   • Per la voce ' indecens ' v. Vitrvv. De arch. VII 5; Patron.  Sai. 128, 3; Qvintil.- Imi orai. XI 3, 158; Martial. Epigr. II  11, 4; V 14, 7; XI 61, 13; Svlton. Diu. Claud. 30. Per Taw,  4 Indecenter' v. Qvintil. ìn$L orati 5, 64 ; Martial. Epigr. XII  22, 1 ; etc. ; e per la forma superi. * indecentiesime ': Qvintil.  Imst. orai. Vili 3, 45. Cfr V Antibarb. del Krebs , y. 'indaoere'.   * Osservasi il v rl>^ ' indecere * nel seguente luogo di A, G 4 bll.  Noci. AtL VI (VII) 12, 2. ( Feininisque solis uestem longe late-.  que diffu?am in dece re existimauervint ad ulnas cruraque  aduersus oculos protegenda ' (ed. Hertz: ma sbcondo la ' lectio  Gronouiana ' é da leggerti 4 decorarti * i a vece di ' indec^re ').      65    il periodo, e nemmeno corrisponde al verbo della proposizione seguente ' conueniunt '. È necessità, dunque, accogliere il neologismo ' indecent ' per non cadere in una  dissonanza sintattica e in una stortura del senso del periodo.   2.° Il seguente luogo di Plinio, letto secondo il cod. M:  ' Ego et modestius et constantius arbitratus immanissimum reum non communi temporum inuidia, sed proprio crimine urgere , cum iam satis primus ille impetus defremuisset et languidior in dies ira ad iustitiam redisset, .... mitto ad Anteiam ' etc. Epist IX 13,  4;  ci ha dato argomento di notare tra i neologismi  pliniani il verbo composto ' de-fremere % che vale « cessar di fremere »*. Ma la lezione ' deferuissèt \ presentata dal cod. D e dalle edd. p f a, e P equivalente lezione ' deferbuisset ', data dalle edd. prealdine del Laetus, del Beroaldus e del Catanaeus, non sono da trascurarsi , poiché il verbo ' deferuescere ' ( ' déferuere '),  che significa « cessar di bollire, finir di fermentare »,  e, in senso traslato, « sbollire, quietarsi, calmarsi », si  adatta meglio ad esprimere quello sbollimento d' ira,  quella calma succeduta allo sdegno, che Plinio accenna in modo non dubbio con le frasi : ' primus ille impetus', ' languidior in dies ira', ' ad iustitiam redire', 2     i Ne vediamo continuato l'uso da Apollin. Sidon. Epp.l 5; IV  12; IX 9 (Migne, Patrolog. eurs., ser. I, tom. 58, coli. 455,518,  623 ). V. i lessici Freund-Theil (tom. 1° [1855], pag. 753) e  Georges (voi. 1° [1879J, col 1860).   2 Nel Dizionario Georges-Calonghi non è notato il verbo  20. >•**  Cfr. V 6, 21 e 6, 27.   2.° ' Cohors ', come termine tecnico militare:, valse a  significare la decima parte di una legione , oonteaente  tre ' manipuli ' o sei ' centuriae ' ;, si: ebbe anche il significato di « schiere ausiliarie » : ma in tutti e dite  significati si riferì sempre ai soldati di fanteria- o pe*  doni (' pedites '). Plinio riferì anche ' cohors ' alla cavalleria (' equites '), scrivendo: ' P. Accio Aquila, centurione e o h o r t i s sextae equestris'. Epist. X 106  (107). Ma nell& risposta dell' imperatore TrAittno st? li   l Colvm. De re rust. X 362 ; XI 2, 30.      renio (Epist X 107 (108): ' Libellum P. Aedi Aquilae, centurionis sextae equestris) , la voce ' cohortis ' è evitata ,  come ben si osserva nella ed. A: per una congettura del  Beroaldus si legge la voce ' cohortis ' premessa alle parole ' sextae equestris ' nel testo della cit. epistola di  Traiano.   Donde s' indusse Plinio ad associare il concetto di  ' cohors ' con quello di ' equites ' ? Probabilmente non  dall'essere in quella sesta coorte commisti insieme cavalieri e pedoni , come suppone il Lagergren , riepilogando l'opinione del Forcellini l , (che militarmente ciò  avrebbe prodotto una dannosa confusione), ma dalla necessità di dare un termine adatto ad una parte dell' i equitatus ' , ricorrendo , per somiglianza di ordinamento militare, ai nomi delle divisioni della fanteria.  Cicerone aveva, però, ben chiaramente distinto 1' i equitatus' dalle 'cohortes'. 2   3.° ' Species ' nell' uso della latinità aurea ebbe o il  significato attivo di « vedere, guardare », o quello passivo, di « aspetto, apparenza, figura, imagine ». Plinio  se ne valse per significare « ipotesi, caso particolare »,  facendone un sinonimo di ' casus ' ; e con tale significato, trasmesso per tradizione, la voce ' species ' si conservò nel linguaggio dei giuristi. 3 Nei seguenti passi di  Plinio abbiamo la conferma del nuovo significato del  sostantivo ' species ' : ' Nam haec quoque species in   1 Lagergren, op. cit, pag. 74.  Vedi il lessico ForcelliniDe Vit, tona. 2° (1861), pag. 264, col. l. a  * Cic. Pro M. Marcello 2, 7 ; EpisL ad fam. XV 2, 7.  3 Vlfiàn. in Dig. cidit in cognitionem meam\ Epist. X 56 (64), 4.   ' Mox ipso tractatu, ut fieri solet, diffundente se crimine  plures s p e e i e s inciderunt \ Epist. X 96 (97), 4.   Per quale tramite sia venuta la significazione di ' species ' adottata da Plinio, non può dirsi con certezza.  Tuttavia F essersi indicato da Cicerone e da Varrone 1  con la voce ' species ' anche le « specie di un genere »  ci dà una probabile spiegazione; poiché, essendo le specie come i casi particolari di un genere , si rendeva  non difficile il passaggio dalla significazione di « specie » a quella di « caso ».   4.° La locuzione particolare ' uenia sit dicto *, usata  tra parentesi, la quale corrisponde alF espressione italiana « sia permesso di dire, sia detto con permesso,  mi si permetta di dirlo », è dovuta a Plinio : ' Vsque  adhuc certe neminem ex iis quos eduxeram mecum  (uenia sit dicto) ibi amisi. Epist V 6, 46. Dal  passo citato si presume che Plinio abbia fatto uso  della locuzione * uenia sit dicto ', per allontanare da sé  r ira degli dei, che, secondo la credenza popolare romana, F avrebbe colpito , se egli immodestamente si  fosse vantato. In un altro luogo per esprimere lo stesso concetto, in proposito di una convalescente da grave  malattia, Plinio scrisse la frase ' inpune dixisse liceat'  (Epist Vili 11, 2. 2   B.  I nomi sostantivi di fonte verbale, che si ebbero da Plinio un significato nuovo, sono un ' nomen     i Cic. Top. 7, 30 ; De ìnuent. I 27, 40. Varr. Rer. rust. Ili 3,3.  s Lagergren, op. cit., pag. 75,      78   agenti» ' in rsor e quattro ' nomina actioois' in -Ho o   l.° Il nome ' mensor ', dal verbo i metiri *, si ebbe  da prima da Orazio il significato di « misuratore », in  generale. 1 Poi Ovidio e Columella ne fecero un sinoniBM eli . ' deeempedator \ cioè « misuratore dei eampi,  agrimensore ».* Plinio attribuì alla voce  ', ehe Quintiliano adoperò al singolare* col significato  di « annotazione^ nota » ; 4 ma Plinio, usandolo al plurale, attribuì ai vocabolo il significato di « osservar  ùonì scritte al margine di un libro > : ' Nuno a te Mk  brum urmmn cum adnotatioaibiis tuis expecto.'   ìiptet; VK 30, &   3.° Il sostantivo ' excursio ', considerato come temniiie     1 HoaAT. Carnkn l. 28, %  Cfr Mauxuiì, Epigr. X 17> &   t Ovid. Metam. I 106. Col vm. V l. Cfr. per 'deeempedator*  Cic. Philip. XIII 18,37.   3 V. in proposilo l'osservazione del Gbsner, cit, da A. Corradi, pagi 3&   * Qvintil. Imi. orai X 7, 31.     tecnico Al cose militari, valse ad indicare, fla dall' età  aure^ cjell'idiopia Latino, la sortita da una città ( f eruptio ') *, la scorreria (• discursio milHaris ') 2 e la soarawucci$ (' prima incursio militaris 'X 3 Plinio per il pripjo attribuì al vocabolo il significato di qualsivoglia  4 qp#r$a, gita, scappata in paese »: ' An, ut solebas, Uttaglione rei farai liaris otoeundaei crebris excursiouibus  a^acaris ? \ Epist. I 3, 2. Del resto , noa è estraneo fi  tale accezione della voce ' excprsio ' V uso cjke in pi»  Jpogttf Plinio stessa fece del verbo * excurrere \ dwde  * excur^Q. \ per indicare de' viaggi intrapresi : ' Gnpa  juiblicufp opus m,ea pecunia inchoaturus in Tuseos  e,]fcuciirrUsera.' Epist III 4,2.  'Destino eròe»,  si tamen offlcii ratio permiserit, excurrere isto \  ffeist. JII 6, 6.  ' Nunc uideor commodissime . po&K» in  rem praesentem excurrere.' Epist X 8 (24), 3* 4   4.° Nel periodo della latinità aurea il nome ' ppaeeeptip ' significò « precetto , insegnamento * , e aocihe  « preconcetto, pregiudizio ». 5 Plinio attribuì a ' praeceptio ' il significato di « prelevamento o prelevazione » di  parte di un'eredità prima degli altri coeredi: 'Saturninas autem, qui nos reltquit taeredes, quadrantem rei  publicae nostrae, deinde prò quadrante praeceptionem quadringentorum milium dedit'. Epist V 7,1.     t Cabsl P* k a II 30, 1.   « Cic. De prou. cons. 2,4; Pro * Deiói 8, 2& Liv. XXX VII  143.   3 Usl XXX 8, 4 ; 1 1, a XXX VII 18, 4.   4 II, giureconsulto Scovala conservò il significato pliniano di  'e;xpursp/ u^Dig. XXXIII 1, L3, in fine.   5 Cip. Pari orai. Con ciò Plinio si attenne più da vicino alla fonte della  parola, che è il verbo ' praecipere '=« prendere innanzi, prendere prima »; talché, invece di dare un significato nuovo al nome ' praeceptio ', restituì allo stesso  il valore lessicale originario che, a poco a poco, si era  modificato nell'uso: tanto più che Plinio stesso usò il  verbo ' praecipere ' nel significato di « ottenere prima,  percepire innanzi , prelevare da un' eredità » , come  osservasi in Epist, V 7, 1 ; X 75 (79), 2.   Nella lingua dei giureconsulti romani la parola in  esame conservò sempre il significato anzidetto; e. si  diede appunto la qualità indicata dall' aggettivo ' praecipuus' a quella parte di eredità, prelevata, che non  entrava nella divisione dell' asse ereditario; 1 mentre  * praecipuum ' sostantivato aveva avuto presso Cicerone  il significato di « preminenza, eccellenza, vantaggio ».*   5.° ' Praesumptio ' non fu voce accolta nella latinità  aurea. 3 Plinio l' usò nel senso di « godimento prema   1 Vlpian.ìii Dig. XXXIII 4,2. Papinian. in Dig. XL 5,23, § 2;  XXXI 75 e 76. Cfr. Apollin. Sidon. Epist. VI 12 (Migne, Patrolog. cur8. % ser. I, tona. 58, col. 560-561). Del resto, tale uso può  considerarsi come una conseguenza del significato attribuito  fin dai tempi antichi all' espressione ' pars praecipua ' o ' res  praecipua'. Vedi Plavt. Rudens 188-189; Terent. Adelph. 258.   * Cic. De finibus II 33, 110: 'Homini.... praecipui a natura nihil datum e3se diceraus ? '   8 Leggevasi in un luogo di Cicerone, De diuinat. II 53, 108 :  'Praesumptio tamen.... non dabitur*. Ma in realtà i codd.   Leidens. Voss. 84, Leidens. Voss. 86, Leidens. Heins. 118, Vin 189  dobon. 2Qjr danno concordemente ' praesensio ', invece di * praesumptio \ Il Pearcius vi sostituì, per mera congettura, la voce      81    turo, uso prematuro », facendone quasi un sinonimo  della voce ' praeceptio \ Ma, nell' assegnare al nome  ' praesumptio ' tale significato, Plinio si allontanò dall' uso che ne fecero i suoi contemporanei. Quintiliano ,  in fatti, P adoperò come termine di retorica, per indicare la figura ' prolepsis \ 1 D' altro canto , Seneca 2 e  poi Giustino ed altri 3 attribuirono alla voce ' praesumptio ' il significato di « speranza, fiducia , aspettazione ,  opinione ». Plinio, invece, conservò alla voce il significato più vicino all' etimologia della stessa (' prae ' e  4 sumere '), cioè « uso o godimento anticipato » , equivalente perciò , come dicevamo sopra , a quello del  nome ' praeceptio ', ma non facilmente assimilabile ,  come suppone il Lagergren 4 , al significato della voce  ' anticipatio ', che per Cicerone vale « prenozione, prenotizia, idea anticipata ». 5   La conferma del significato pliniano del sostantivo  ' praesumptio ' è data dai seguenti luoghi : ' Rerum     ' adsumptio' : lo seguirono il Christ (nella 2. a ed. Orelliana, Turici, 1861; voi. 4, pag. 554), il Nobbo (Lips., 1850, pag. 1162, col. 2. a )  ed altri.   i Qvintil. Inai. orai. IX 2, 16 ; 2, 18.   2 Senec. Episi. mor. XIX 8 (117), 6. Cfr. A. F. Rosengren ,  De elocut. L. Annaei Seneeae commentano; Upsaliae, Wahlstròm (senza data della pubblicazione, ma è, probabilmente,  del 1849-1850), pag. 38.   s Ivstin. Epit hist Phil III 4, 3.  Spartian. Hadr. 2, 9.  Si valsero anche della voce * praesumptio ', in significato simile, i giureconsulti Papin. in Dig. XLI 3, 44, § 4, e Vlpian.  in Dig. XXIX 2, 30, § 4; XL 5, 24, § 8; XLIII 4, 3, § 3; etc.   * Lagergren, op. cit., pag. 57. '   s Cic. De nat deor. I 16, 43; 17, 44.   Consoli  II Neologismo Pliniano, 6      82    quas adsequi cupias praesumptio ìpsa iucunda est'.  Epist. IV 15, 11.  ' Ego beatissimum esistitilo qui bonae mansuraeque famae praesumptioDe perfruitur certusque posteritatis curii futura gloria uiuit '. Epist.  IX 3, 1.   Il significato attribuito da Plinio al nome ' praesumptio ' si deve non al dotto arbitrio dì autorevole scrittore, ma all' efficacia che Bull* accezione di ; praesumptio ' esercitò, con molta probabilità, V uso che lo stesso  Plinio fece del verbo ' praesumere ', accostando al significato primitivo di « prendere prima » anche i significati di « adempiere prima, porre prima, pregustare »,  che risultano dai segg. esempi: Epist. II 10, 6; III 1, 11;  VI 10, 5; Vili, 11, 1; Pan. 79, 4.   C.  Quanto al significato dei grecismi ' cataracta ,  paedagogìum, sipo ', Plinio presenta delle novità che  ' ne presso gli scrittori dell' età aurea, né presso i contemporanei di lui ci è dato osservare.   I.° ' Cataracta ' o ' cataractes ' servì ad indicare, per  antonomasia, le cascate o cateratte del Nilo. ■ Livio se  ne valse per denotare le « saracinesche » alle porte  delle fortezze. ! Plinio, invece, indica con ' cataracta ' o  • cataractes ' la « chiavica o cateratta » che è nei fiumi  por reggere il corso dell'acqua: 'Si nihil nobis loci     i Vitrw. De arch. Vili >.  Sknkc. Nat. quaest. IV 2, A.  I'lin. sBN.'jVflt hit!. V 9 (IO), 54 e 59.   * Liv. XXVII 28, 10 e 11.  Cfc Vboet. Epit rei mil. IV 4.  Lo slesso significato notasi in Plvtar. Anton. 76, 2 : cfr. anche dello stesso Plutarco Aratus 26, 1.      83    natura praestaret, expeditum tamen erat cataractis  aquae cursum temperare. ' Epist X 61 (69), 4. l   2.° La latinità classica non si avvalse del grecismo  4 paedagogium ' 2 : cominciò a servirsene la latinità argentea. Svetonio con la frase ' ingenuorum paedagogia '  alluse alla sfrontata prostituzione e seduzione dei tempi  di Nerone, se pure nel testo svetoniano non si voglia  preferire alla lezione ' paedagogia ' l'altra lezione 6 proagogia. 3 Seneca e Plinio il vecchio indicarono con ' paedagogium ' , per metonimia , i fanciulli educati in un  istituto, ossia la scolaresca. 4 Ma Plinio il giovane restituì a ' paedagogium ' il significato di luogo o istituto dove erano educati i fanciulli destinati ad impieghi o uffici superiori : ' Puer in paedagogio mixtus  pluribus dormiebat. ' Epist VII 27, 13.   L' etimologia mista greco-latina della pretesa voce  ' paedagium ', la quale fu accolta dalla ed. p nel luogo  cit. dell' epist. pliniana, potrebbe solo tentarsi per ispie-,  gare una parola nuova che dai codici concordemente  si attesti essere stata usata dal nostro autore, come, per  es., la voce ' cryptoporticus ' ; ma si deve sempre rifiutare, quando con essa si voglia tentare V accettazione     1 Cfr. Rvtil. Nàmàt. Dered. suo I 481: ' Tum cataractarum claustris excluditur aequor * (Baehrens, Poetae Latin, min.  voi. 5°, pag. 21 : ma nel cod. Vindobon. 277 (387; si accoglie la  grafia ' catharactarum ').   * Vedi per il significato della voce greca considerata: Demosth.  Orai, de corona 258 (313, 10-12) ; Plvtar. Pomp. 6, 2.   3 Sveton. Nero 28.   * Senec. Dial VII {De uita beata) 17, 2 ; Dial. IX (De tranquii animi) 1, 8; Epist mor. XX 6 (123), 7.  Plin. sen. Nat  hist XXXIII 12 (54), 152,      84   di una parola che non è accolta dai codici né registrata   nei lessici, ma soltanto proposta come congettura d'interprete. Molto meno si può fare buon viso alla congettura del Lipsins ', che, movendo dal presupposto che  ' paedagogium ' dovesse riferirsi soltanto alla riunione  degli alunni, non mai al luogo della riunione, voleva  sostituire la espressione ' puer e paedagogio ' alla lezione data dai codici ' puer in paedagogio '.   3." Il grecismo ' sipo ', che vale « corpo vuoto o  cavo, sifone », penetrò nella lingua latina dopo 1' età  di Cicerone -; e se ne valsero gli scrittori dell'età argentea per indicare « sifone , canale, pompa per alzar  1' acqua », oper termine di confronto a cosa somigliante     1 Ivsti Lipsi Ad Annales C. Taciti liber tommentarius, Parisiis, N. Buon, 1606; pag. 236, Ad librum XV Ann.: ' Vides  ergo ubique paedagogia prò coetu et quasi collegio puerorum. prò loco non accipiò, ne epud Plinium quidem lib. VI]  epist. « Puer io paedagogio mistus pluribus dormiebat ». rescriboque : « Puer e paedagogio >. intellegit enim puerum paedagogianum'.   » Si è preteso riconoscere la parola 'siphone' iu un luigodi  Lucilio, cit. da Cic, De flnibusll 8, 23; ma lalezkmu é incerisi  Il cod. Palat., ora Vatic. 1513, presenta 'hirsizon'; l'altro cod  Palat., ora Vatic. 1525, presenta 'hrysizou': gli altri codd. ,  come il More)., 1" Erlang. 38, il Vratisl. IV F 180 danno ' hirsiphon". Nella 1" ed. dell' Orelli, del 18;8, si legge ' hir sìpliovo ';  e quasi consimile lez. ' fir siphoue' si osserva in quella  del Medvig. L' Ernest! la trasformò a dirittura in ' si pitone ' ;  ma 11 Bailer (2* ed. Orellian», Turici, 1861, voi. 4', pag. 103} la,  restimi alta Torma 'hirsizon', data dal 1° cod. sopra cit. del secolo XI. A noi parrebbe meglio conservarsi la lez. del cod. Vatic. 1525, ' hrysizou ' p. ' hrysiazon ', part. pres. del verb') greco  rhysiàio, Torse 'rhysizo. Ma, in tanta incertezza, nulla si può affermare che rispanda sicuramenle al vero.     r      85    al sifone K Plinio se ne servì , attribuendo alla parola  il significato di « tromba da incendio », e venne così  a determinare in un caso particolare il significato  generico di « tromba per acqua » : i Alioqui nullus  usquam in publico sipo, nulla hama, nullum denique  instrumentum ad incendia compescenda \ Epist. X 33  (42), 2. 2 Ma è probabile (e, nell'incertezza della conclusione, ci siamo indotti a notare la voce i sipo ' tra i neologismi di fonte pliniana) , che Plinio non sia stato il  primo a designare con ' sipo ' la tromba da incendio ;  perocché il retore Musa, citato da Seneca il retore 3 , con  la frase 'caelo repluunt ', detta in proposito dei sifoni,  accenna al significato in generale di tromba che schizzi  l'acqua in modo che questa, ricadendo in forma di pioggia, sembri che ripiova dal cielo. 4   Sez. II.  Altre parti del discorso.   A.  In due soli aggettivi ci è stato dato di osser   1 Senec. Nat. quaest. II 16.  Colvm. De re rust. Ili 10; IX  14.-Plin. sen. Nat hist II 65 (66), 166; XXXII 10 (42;, 124.   Ivvenal. Sai II 6, 310.   * Anche Ulpiano accenna a ' siphones ' per gli incendi in  Big. XXXIII 7, 12, § 18.   3 Senec. rhet. Controuers. X praef., 9.   4 Nel Dizionario Georges-Calonghi, v. * repluo ', col. 2341, e  v. ' sipho ', col. 2500, si afferma ripetutamente, ma non sappiamo renderci convinti del motivo, che da Seneca il retore si attribuì alla voce ' sipho ' il significato di  (1880), col. 2412, e riferita contemporaneamente tanto al significato eine Spritze, quanto al  significato Feuerspritze.      86    vare che il significato attribuito ai medesimi da Plinio  si allontana dal significato che si ebbero nell'uso dell' età anteriore e in quello dei contemporanei di Plinio  stesso. Tali aggettivi sono : ' octogenarius ' e ' otiosus \   1.° L' aggettivo ' octogenarius ' fu da Vitruvio e da  Frontino adoperato a significare una misura. ' Plinio se  ne valse per indicare « vecchio di ottanta anni, ottuagenario, ottogenario »: ' Femina splendide nata , nupta  praetorio uiro, exheredata ab octogenario patre \  Epist VI 33, 2.   2.° L' aggettivo ' otiosus ', che significa propriamente  « ozioso, inoperoso, disoccupato », ed equivale a ' uacuus muneribus ', soleva essere riferito anche a cose  inanimate, p. es. a tempo, età 2 , discorso, 3 etc. A questo uso si accostò Plinio, scrivendo: 'Per hos dies libentissime otium meum in litteris conloco, quos alii  otiosissimis occupationibus perdunt. ' Epist IX  6, 4. Ma nessuno prima di Plinio aveva riferito V epiteto di ' otiosae ' alle somme di danaro non date ad interesse, ' non occupatae ' : ' Pecuniae publicae, domine,  prouidentia tua et ministerio nostro et iam exactae  sunt et exiguntur; quae uereor ne otiosae iaceant. '  Epist. X 54 (62), 1.   Anche il giureconsulto Scevola applicò alla ' pecunia ' non data ad usura la qualità di ' otiosa \ 4     i Vitrw. De areh. Vili 7 ('fistulae octogenariae';.  Frontin. De aqu. urb. Rom. 58 : ' Fistola octogenaria diametri digitos X\   * Cic. Epist ad Q. fratr. Ili 8, 3 ; De seneci 14, 49.  3 Qvintil. Inst. orai Vili 2, 19; I ), 35.   * Scabvol. in Dig. XXII 1, 13, § 1: « Pro pecunia otiosa  usuras praestare debeat ' (Mommsen : ma nel cod, Florent. dei  Digesta è scritto ' pecunia uitiosa ').  Come si è già avvertito, Plinio fu parco d' innovazioni quanto ai verbi. Egli, in fatti, attribuì significato non noto agli scrittori dell' età anteriore , né , a  quanto appare, accolto dai contemporanei, ai tre verbi  * exseri bere, per colere, prosecare ', conservandoli sempre  in senso proprio.   l.° La latinità aurea presenta V uso di 'ex-scribere '  nel significato di « trascrivere, copiare », ed anche nei  significato di « notare, registrare, mettere per iscritto ». 1  Plinio, invece, assegnò al verbo ' exseribere ' due signiAcati nuovi, 1' uno proprio e 1' altro figurato , che non  troviamo negli scritti dei contemporanei di lui. Il significato proprio , di cui ora interessa intrattenerci ,  (che, al suo tempo, tratteremo del verbo ' exseribere ' in  senso traslato) è: « dipingere, disegnare , rappresentare » : ' Herennius Seuerus, uir doctissimus, magni aestimat in bibliotheca sua ponere imagines municipum tuo rum petitque exseribendas pingendasque de legem '. Epist IV 28, -1. Donde tale significato ?   È noto che ' scribere ' ebbe anche il significato di  «e disegnare, dipingere ». 2 Plinio il vecchio, a determi^  nare meglio il lavoro di copiatura di una pittura, si valse  del verbo ' transcribere \ 3 Appare probabile quindi che  Plinio il giovane, attenendosi allo stesso ordine di concetti, meglio che della preposizione ' trans ' si sia servito della preposizione ' ex ', che esprime con maggiore  esattezza l'idea di « trarre fuori, dedurre », e, pre   l Cic. in Verr. aet. see. II 77, 189. Varr. Rer. rust. II 5, 18.   * Cic. Tu8c. dìsp. V 39, 113.  Catvll. Carm. 37, 10.   3 Plin. sen. Nat. hist XXV 2 (4), 8: * Veruna ot indura falla* est colori bus... multumqu 3 riamente significa « usatto,  piccolo socco, calzare leggiero », che si soleva portare  dalle donne e dai damerini effeminati. Ma poiché il socco era usato dagli attori comici per la rappresentazione della commedia, e quindi, per figura metonimia, venne a significare la commedia, così Plinio che, adoperando il linguaggio scenico , aveva chiamato una sua  villa, presso al lago Lario, col nome ' comoedia ', ne indicò il sito basso, rasente il lido del lago, col diminutivo ' socculus \ Ecco il passo pliniano : ' Huius (lacus)  in litore plures uillae meae, sed duae maxime ut delectant ita exercent. altera inposita saxis more Baiano  lacum prospicit, altera aeque more Baiano lacum tangit, itaque illam tragoediam, hanc appellare comoediam  soleo ; illam, quod quasi cothurnis , hanc , quod quasi  s o e e u 1 i s sustinetur \ Epist IX 7, 2-3.   La lezione ' oculis ' che, invece di ' socculis ', è data  dal cod. D e dalle edd. p, a, non ci pare in alcun modo  attendibile, prima di tutto perchè vien meno il parallelismo che l'autore vuol mettere in evidenza tra la villa  chiamata ' tragoedia ' e quella che porta il nome di  6 comoedia ' ; in secondo luogo, perchè bisogna forzare  il senso della frase per supporre omogeneità tra ' sustinetur cothurnis ' e ' sustinetur oculis \ Preferiamo, dunque, la lezione ' socculis ', che è presentata dal cod. IH  e dalle edizioni prealdine.      97    10.? Dicevasi propriamente ' sportula ', diminutivo di  i sporta ', quel canestrino di cibi, che si soleva dare dai  patroni ai clienti, allorquando questi si recavano da loro  per salutarli. In senso traslato, Plinio se ne valse per  indicare quelle largizioni che per lo più da autori, di  poco merito si solevano dare ai ' laudicene, per essere  applauditi di continuo da questi durante la recitazione  dei loro lavori letterari : ' Sequuntur auditores actoribus similes, conducti et redempti: manceps conuenitur:  in media basilica tam palam sportulae . quam in  triclinio dantur. ' Epist II 14, 4. .   Pare che Quintiliano si sia accostato al concetto di  Plinio con l'avvertire che è sconveniente per gli oratori  ' inter moras laudationum ' il * respicere ad librarios  suos,. ut sportulam dictare uideantur. ' l E da avvertirsi inoltre che il nome ' sportula ' fu anche usato,  in senso traslato, dall' imperatore Claudio per indicare  i « brevi giochi dati al popolo I sostantivi di fonte verbale, innovati nel loro  senso traslato dal nostro autore , si possono ordinare  così : a) ' nomina agentis ' formati col suffisso -tor ;  b) ' nomina actionis ' col suffisso -tion ; e) sostantivi  formati da temi di verbi per il tramite del tema del  participio presente; d) sostantivi verbali aventi diverso  suffisso.   a) Non molto è da dirsi dei quattro ' nomina agentis ':     i Qvintil. InsL orai. XI 3, 131.  « Sveton. Diu. Claud. 21.   Consoli  li Neologismo puntano*      98    *   * debitor, frenator, gestator, reductor, '  che nei loro  significati in traslato presentano tracce d' innovazione.   1.° Il nome ' debitor' significò propriamente « chi  deve una somma di danaro ad un suo creditore ». l  Accolto in traslato, indicò « chi è obbligato , chi è tenuto a qualche cosa », la quale veniva espressamente  enunciata, per es. * uitae , animae , uoti, etc. ' 2 Plinio  accolse tale significato del nome ' debitor *, considerato  in traslato, ma vi apportò la novità di adoperarlo assolutamente , cioè senza indicazione della cosa* per cui  si restava obbligato : ' Cuius generis quae prima occasio  tibi, conferas in eum rogo; habebis me, habebis ipsum  gratissimum debitorem. ' Epist. Ili 2, 6.   2.° La voce ' frenator ' appare per la prima volta  nella latinità argentea, e riferita sempre a cose materiali, per es. il giavellotto, 3 il cavallo. 4 Plinio lo riferì,,  per traslato, ad argomenti morali : ' Contemptor ambitiónis et infìnitae potestatis domitor et frenator animus ipsa uetustate florescit. ' Pan. 55, 9.   3.° Quanto al nome ' gestator ', che significa « portatore per guadagno, facchino », ed è perciò sinonimo di ' baiulus ' p ' baiolus ', voce usata da Cicerone 5 ,  Plinio lo riferì a un delfino che portava sul dorso i  figli : * Incredibile, tam uerum tamen quam priora, delphinum gestatorem collusoremque puerorum in     i Cic. De off. II 22, 78.  Senec. De bene/. VI 19, 5.  Modestia in Dig. L 16, 108.   2 Ovid. Ex Pon. IV 1, 2; Triti. I 5, 10.  Martin Epigr.  IX 42, 8.   3 Val. Flac. Argon. VI 162.   4 Stat. Theb. I 27..   5 Cic. De orai. II 10, 40 ; Parad. IL-, 2, 23.      99   terram quoque extrahi solitum harenisque siccatum,  ubi incaluisset, in mare reuolui. ' Epist. IX 33, 8.   4.° Il nome ' reductor ', considerato in senso proprio,  significa « riconduttore, chi riconduce » : e in tale skgniflcato T usò Livio. 1 Ma Plinio adoperò ' reductor '•  nel senso traslato di « restauratore » : ' (Titinius Capito)  colit studia, studiosos amat fouet prouehit, multorum  qui aliqua conponunt portus sirius gremium , omnium  exemplum, ipsarum denique litterarum iam senesceiitium reductor ac reformator. ' Epist. Vili 12, 1.   6) I. quattro ' nomina actionis ' : ' descensio , dispensalo , egestio , nutatio ', formati da temi verbali , presentano le seguenti innovazioni nel loro uso traslato.   l.° ' Descensio ' indica propriamente « discesa, l'azione  del discendere ». 2 Plinio ne preferì V uso metonimico  per indicare i luoghi stessi nei quali si discende per  mezzo di gradinir 'Frigidariae cellae conectitur media,  cui sol benignissime praesto est; caldariae magis : pròminet enim. in hac tres descensio nes, duae in  sole, tertia a sole longius, à luce non longius. * Epist  V 6, 26. Talché, come bene avverte il Gierig , le ' deseensiones ' erano non le scale, ma ' lacus, in quos per  gradua descendebatur. ' 3     i Liv. II 33, il.   « Cic. De flnibus V 24, 70: ' Quem Tiberina descensio,  festo ilio die, tanto gaudio ad feci t, quanto L. Paullum, cum regem Perseo captum adduceret, eodem flumine inuectio?' (Citiamo il passo di Cic. secondo il ood. Palat. (Vatic) 1525 e la  ed. Cratandrina del 1528; che, invece di 'descensio', si legge  ' dissensio ' nel cod. Morelian., e ' decursio ' nella prima ediz.  dell' Orelli, 1828).   8 Giehig, op. cit., tom. 1°, pag. 409, col. l. a     . 100   Che Plinio sia stato veramente il primo ad introdurre nella lingua letteraria tale uso metonimico della voce ' descensio ', c'induce a dubitare l'avvertenza del Nàgelsbach 1 , che soventi volte ad alcuni casi mancanti  nella flessione dei nomi verbali in -us si suppliva coi  corrispondenti casi dei nomi verbali in -io. Or , tanto  in Irzio 2 quanto in Virgilio 3 , trovasi usato 'descensus'  in senso metonimico di « via che discende » : e se, come nota opportunamente il Lagergren 4 , ai casi non  usati della flessione di * descensus ' si dovette supplire  coi corrispondenti casi della flessione di ' descensio ' ,  questo nome non poteva non avere il valore metonimico di ' descensus ' ; e quindi è assai probabile, sebbene  non si abbia alcuna prova diretta in conferma, che il  significato metonimico attribuito a 'descensio' sia anteriore all' età di Plinio.   2.° In dipendenza dal significato fondamentale proprio  del verbo ' dispensare ', che vale « pesare esattamente,  dividere o distribuire proporzionatamente », il sostantivo verbale * dispensatio ' si riferì a cose materiali, indicandone la distribuzione economica o l'amministra-zione o il maneggio, per es; ' dispensatio aerarii 5 , annonae '* etc. Plinio riferì la voce ' dispensatio % in senso traslato, anche a cose morali, scrivendo all'imperatore Traiano : * Iulius... Largus ex Ponto nondunr mihi  uisus ac ne audi.tus quidem.... dispensationem     i Naegelsbach, Lateinische Stilistik 3 , pag. 151 eg.  « Hirt. De b. Gal. Vili 40, 4.   3 Vbrg. Aen. VI 126.   4 Lagergren, op. cit., pag. 56.   5 Cic. In Vatin. 15, 36.   « Liv. X 11,9. Cfr. IV 12, 10.      10Ì    quandam ' mihi erga te pietatis suae ministeriuniqùó  mandauH. ' Epist. X 75 (79), 1.   È probabile .che la via per giungere al significato  pliniano della voce 4 dispensatio ' sia stata aperta dall' uso, accolto da Cicerone e poi da Livio , Seneca ed  altri, del verbo 4 dispensare n riferito ad argomenti immateriali. l   3.° 4 Egestio ', sostantivo nato dal verbo 4 egerere '=»  « portare fuori, condurre via », è voce che apparisce  per la prima volta nella latinità argentea, col significato proprio di « trasporto », ed anche, particolarmente, di « egestione, evacuazione ».* Plinio, riferendolo per  traslato ad 4 opes publicae', ne fece un sinonimo di  4 effusfo ' di danaro, voce già usata da Cicerone. 3 Il passo di Plinio è il seguente : ' Hoc tunc uotum senatus ,  hoc praecipuum gaudium populi, haec liberalitatis materia gratissima, si Pallantis facultates adiuuare publicarum opum egestione contingeret. ' Epist. Vili 6, 7.   4.° Il verbo 'nutare' fu gradito ai poeti dell'età augustea : a Cicerone nemmeno dispiacque farne uso nel  senso traslato di « vacillare nel giudizio, essere incerto » 4 . Ciò non ostante, il sostantivo verbale 4 nutatio '  non pare che sia stato accolto dalla latinità . aurea. I  contemporanei di Plinio V usarono in senso proprio di  « barcollamento, vacillamento ». 5 Plinio, invece, Tado   i Cic. De orai. I 3i, 142.-Liv. XXVII 50, 10; XXXVIII 47, 3.   Sbnec. Dial. VI (Ad Mare, de eonsol) 11, 1  * Sveton. Diu. Claud.O.  s Cic. Pro Rose. Am. 46, 134.   4 Cic. De nat. deor. I 43, 120,-Cfr. Tac. Hist. II 98; III 40;  IV 52.   5 Srnkg Nat quaest. VI2, 6, Qvintil. ln*t. orai. però in senso figurato, riferendolo a ' res publica ', per  indicare «decadenza, rovina dello Stato»: 'Cogi porro  non poteras nisi periculo patriae et nutatione rei  pùblicae. ' Pan. 5, 6.   La nostra osservazione si poggia sulla premessa che,  nel passo citato, la lezione ' nutatione ',' presentata dal  Cuspinian. e dal cod. Liuineii, sia da preferirsi alla lezione * mutatione ', che è data concordemente dai codd.  A } 6, o 9 d.      e) I due sostantivi verbali formati per il tramite del  tema del participio presente sono 'audentia' e 'instantia'.   1.° Il nome ' audentia ' non fu accolto dalla latinità  aurea. Nella latinità d' argento se ne fece uso per si' gnificare « arditezza, coraggio », in dipendenza dal significato del verbo ' audere ', da cui proveniva. ' Ma  Plinio trasferì: il significato di 'audentia' all'uso delle  parole, per indicare « ardimento -, audàcia nel dire »" :  'Si datur Homero et mollia uoeabulà et Graeca ad leuitatem uersus contrahere, extendere, inflectere, cur tibi similis audentia, praesertim non delicata sed necessaria, non detur ? ' Epist. Vili 4, 4. :   2.° Il sostantivo ' iftstantia ', conformemente al verbo  ' instare ', da cui prende origine, significò « imminenza  immediata ». 2 Plinio attribuì ài vocabolo, che adoperò  in traslato, due significati : a) « veemenza del discorso »•*  ' Habet quidem oratio et historia multa communia ,  sed plura diuersa in his ipsis quae communia uiden   1 Tac. Ann. XV 53; Germ. 31 e 34. Cfr. 'audentior' nei Deal  de oratoribus, 14 (Halm ; ' ardentior * per il Bàhrens) e in Qvintil. Inst. orai. XII 10, 23.   * Cig. De fato 12, 27.      103    #   tur haec uel maxime ui amaritudine instanti e,   illa tractu et suauitate atque etiam dùlcedine placet/  Epist V 8, 9-10.  b) «diligenza, studio assiduo»: ' Quid  est enim quod non aut illae occupationes inpedire aut  haec instantia non possit efflcere ? ' Epist. IH 5, 18.  Per il primo dei due significati predetti Quintiliano si  era. già avvalso dell'avverbio ' instanter V   d) Resta a parlare dei tre sostantivi verbali: ' iadtwcatus, motus, retinaculum \   l.° La voce i aduocatus ' nei tempi della Repubblica  romana designò V uomo perito nella conoscènza del diritto, che veniva chiamato a dare i suoi coitigli in tòtano ad una questione giuridica da trattarsi dinanzi ai  magistrati, e sosteneva poi co' suoi suggerimenti e fcftft  la presenza una delle parti litiganti dinanzi ai wi&gl 1  strati stessi. 2 Neil' età imperiale * adiiocatufc ' tìivéhitè  sinonimo di ' patronus causae ', cioè « difensore o pà*  trocinatore; causidico, che assiste e conduce il pi*oc&&ò *.  E di questo secondo significato di ' aduocatus ' Plinio^  al pari de' suoi contemporanei 3 , ci presenta àlquahtl  esempi. 4 Ma Plinio stesso attribuì anche alla voce ' aduocatus ' un significato in traslato , riferendola non &     1 QtfitffriL. tnsì. orai. IX 4, 126: ' Vbicunque acriter erit, i nstànter, pugnaciter dicendunT (Bonnell;.   « Cig. Pro Sul. 29, 81 ; Pro CluenL 40, 110; De orai il 74,  301 ; De off. I 10, 32; Epist. ad fam. VII 14, 1 ; etc.  'Aduocatus ' per « aiuto » in genere, v. Pro Caectaa 9, 20.   3 Qvintil. Inst. orai. XII 1, 13.  Sveton. Dia. Claud. 15 e  33.  Diàl. de oratoribus, 1.   * Epist. cause ò liti o questioni giuridiche, ma alla ' abstinentia ' : ' Id uero deerat, ut cum Pallante auctoritate publica ageretur , Pallas rogaretur ut senatui cederet, ut  illi superbissimae abstinentiae Caesar ipse aduocatus esset. ' Epist. Vili 6, 9.   Quanto abbiamo osservato sul significato pliniano della voce ' aduocatus ', considerata in traslato , non sarebbe accettabile, se nel luogo citato, invece di ' Caesar  ipse aduocatus esset', si leggesse, come si suòle  comunemente: ' Caesar ipse patronus aduocaretur'.  Così appunto è presentata la lezione dall' ed. a, con la  ripetizione del pronome ' ipse ' dopo ' patronus ': ' Caesar ipse patronus ipse aduocaretur '.   2.° Dalla radice del verbo ' mouere ' col. suffisso -tu- si  formò il nome ben noto ' motus ', che in traslato, óltre  ali! indicare « il moto dèi sensi e 1' attività o energia  dello spirito, la commozione dell'animo, la passione »,  servì a significare « i motivi, le cause, i moventi » di  un dato divisamente. Plinio fu il primo ad adoperare  la voce ' motus ' in tale significato: 'Audisti consilii mei  motus'. Epist. Ili 4, 9.   3.° Il sostantivo i retinaculum ', non discostandosi dal  significato proprio del verbo ' reti nere ', da cui deriva,  servì ad indicare qualunque oggetto potesse servire a  trattenere o a tener fermo; perciò, secondo i casi particolari , significò « cavezza \ gomena o fune 2 , briglia  o redina 3 , vimini pieghevoli per legare le viti 4 », etc.  Plinio per il primo attribuì un significato figurato alla     i Horat, Sai I 5, 18.   2 Ovid. Metam. XIV 547; XV 696.   8 Vbrg. Georg. I 513.   i Vbrg. Georg. I 265.      105    voce ' retinaculum ', per indicare « i legami o vincoli  morali della vita » : ' Adfuit tamen deus uoto, cuius ille  compos , ut iam securus liberque moriturus, multa illa  uitae, sed minora r e t i n a e u 1 a abrupit.' Epist I 12, 8.  Nella stessa epistola , § 4 /egli chiamò questi ' uitae  retinacula', in modo più diretto , * preda uiuendi,' come li aveva detto, prima di lui, Plinio il vecchio ! ; ed  al § 3, li disse * uiuendi causae '.   C.  I grecismi nei quali, considerati in senso traslato, si nota l'innovazione pliniana sono due: ' cratér *  e ' xenium '.   1.° ' Crater ', « grande coppa, cratere, vaso da mescere », è un grecismo accolto nella lingua latina e latinizzato nella forma ' cratera*'. Passò al senso traslato  per P uso particolare che ne fecero i poeti, per significare « voragine vulcanica V vaso per Polio » 3 , e anche  una costellazione 4 , ete. Ma Plinio fu il primo, e forse  il solo, ad usare il grecismo ' crater ' nel senso traslato  di « conca o bacino d' acqua » : ' Fonticulus in hoc, in  fonte crater'. Epist V 6, 23.   2.° ' Xenium ' rappresentava, secondo l'etimo greco 5 ,  il dono ospitale, fatto, cioè, agli ospiti o ai commen   1 Plin. sen. Nat hist. XXII 6 (7), 14: 'Addidere uiuendi  pretia deliciae Juxusque * (Mayhofl). Tacito indica i ' uitae  retinacula ' come 'pretia nasceadi' (Germ. 31; ma in più codici si legge * noscendi ').   * Lvcrbt. De ter, nau VI 701. Ovid. Metam. V 424.  Cfr.  Plin. sen. Nat hist. II 106 (110), 237; III 8 (14), 88.   » Verg. Aen. VI 225.  Cfr. Martial. Epigr. XII 32, 12.   4 Ovid. Fast li 244. Cfr. Cic. De nat deor. II 44, 114 {Arati  phaenom. 219).   5 Vedi Svidàs Lexic. Graee. et Lai, vol2°, col. 1032 (Bernhardy).      Ì06    sali. E in tale significato, oltre gli esempi di Vitruvio,  Marziale ed altri ', abbiamo l'esempio di Plinio stesso:  ' Summo die abeuntibus nobis, tam diligens in Caesare  humanitas, xenia sunt missa'. Epist. VI 31, 14. Ma  Plinio assegnò inoltre al grecismo * xenia ' il significato triaslato di « dóni fatti a certe persone per ottenere da loro qualche favore », ed in particolare i doni  che si facevano agli avvocati o causidici per patrocinare con maggiore impegno le cause: ' Quam me iuuat  quod in causis agendis non modo pactione dono munere  ùerum etiam x e n i i s semper abstinui ! ' Epist V 13  (14), 8. E, dopo P esempio di Plinio, si ampliò àncora  di più il significato della voce ' xenium ', indicandosi  con essa i doni che si offrivano dai provinciali ai proconsoli o ad altre autorità 2 .   Sbz. ii. -^ Aggettati.   Li distingueremo in aggettivi derivati da fonte nominale ed aggettivi formati con temi verbali.   A. «-* 1.° L' aggettivo ' enodis ', formato dalla preposizione.' e' e dal tema del sostantivo 'nodus'» nel significato proprio vale « liscio , senza nodi ». In tale  accezione 1' usò appunto Virgilio , che lo riferì quale  attributo alla voce ' truncus \ 8 Plinio l'adoperò in senso  traslato, riferendolo ad alcune poesie per indicarne la  scorrevolezza e la facilità : ' Recitabat.. f erudit&m sane     1 Vitrvv. De afòh. VI 9. Martial. Epigr. XIII 3, ì-2 e 5-6.  * Vlpiàì*. iti Dig. I 16, 6, § 3.   i 'V'fcRG. Georg. Il 78 : ' Rursum e n o d e s trunci resecantur '  (Ribbeck).  Cfr. Plin. sen, Nat hM, V 1, 14.      ìot    I   luculentamque materiam. scripta elegia* erat fluentibus  et teneris et e n o d i b u s , sublimibus etiam, ut poposcit locus. ' Epist  Hamatus ' derivato da ' hamus ', in senso proprio  significò «fornito d'amo»; e Cicerone l'usò in tale significato. l L' accezione in traslato dell' aggettivo * hamatus', per indicare cose che , insidiose come l'amo ,  si mettono in opera per ottenere vantaggi maggiori, si  deve a Plinio, che lo riferì a ' munera ' con -P intendimento d' indicare quei doni che si fanno col fine sottinteso di ricavarne maggiori remunerazioni : i Hos ego  uiscatis hamatisque muneribus non sua promere  puto, sed aliena corripere '. Epist. IX 30, 2. Plinio dovette certamente venire all' uso traslatò di ' hamatus ',  indottovi dal significato attribuito in traslato al nome  4 hamus ' da scrittori a lui anteriori e da scrittori contemporanei. 2   3.° ' Inamoenus ' appartiene a quella serie di aggettivi sì graditi alla latinità argentea, formati col premettere all' aggettivo la particella negativa i in- ' : significa P opposto di ' amoenus ', e perciò « spiacevole,  sgraziato, disameno ». Ovidio se ne valse per indicare  PAverno. 3 Plinio ne fece, per traslata, un attributo di  certi lavori letterari « senza attrattiva, spiacevoli, inameni »: ' Oratiunculam unam alteram retractaui. quàhiquam id genus operis inamabile, inamoenum magisque laboribus ruris quam uoluptatibus simile '. Epist  IX 10, 3. - .     l Cic. Acad. priòr. II 38 121.   * Huràt. Sai. II 5, 25.  Martial. Epigr. V 18, 7; VI 63, 5.   Vedi anche Plin. Pan. 43, 5.  3 Ovid. Metam. X 15.  Cfr. Stat. Sii II 2, 3*3,      Ì08    4.° L' aggettivo ' peracerbus ' vale lo. stesso di * acerbus ' con un rafforzamento indicato dalla particella preposta ' per'; significa perciò, in senso proprio, « molto  aspro , molto acerbo » , come disse appunto Cicerone  dell' uva immatura. ] Plinio adoperò in traslato V ag. gettivo ' peracerbus ' per significare un che di « doloroso , assai spiacevole » : '• Mihi quidem illud etiam  peracerbum fuit, quod sunt alter alteri quid pararent indicati. ' Epist VI 5, 6.   5.° L'aggettivo ' saxeus ' propriamente significa « sasseo, di pietra ». Plinio attribuì a ' saxeus ' il significato di « insensibile », duro come di pietra, che non  sente impressione di alcuna cosa bella : ' Ego Isaeum  non disertissimum tantum uerum etiarn beatissimum  iudico. quem tu nisi cognoscere concupiscis, saxeus  ferreusque es .' Epist II 3, 7. Ma in ciò egli si avvicinò all' espressione di Ovidio : ' Mater ad auditas stupuit ceu s a x e a voces ' 2 ; nella quale l'epiteto ' saxea '  vale attonita per la meraviglia dolorosa, come se fosse  divenuta di sasso. Forse, nel l'attribuire alla voce 'saxeus',  in senso figurato, il significato anzidetto, Plinio ebbe  presente la frase che si legge nel v. 258 del Prometti,  uinctus di Eschilo.   B.  1° e 2.° Tra gli aggettivi di fonte verbale, che  si ebbero da Plinio un nuovo significato in traslàto, si  annoverano 'adductus' e ' circumscriptus ': entrambi  dotati della forma del comparativo.   ' Adductus \ che propriamente significa « angusto ,     1 Cic. De senect. 15, 53.   * Ovid. Metom stretto », si ebbe in traslato vari significati , uno dei  quali riferito in forma comparativa da Plinio air oratore, vale « più serrato, più breve nelF espressione »•  Similmente ' circumscriptus ', che in senso proprio significa « circoscritto » , in senso traslato fu da Cicerone riferito alla frase, ali" ambitus uerborum M , mentre da Plinio fu riferito, anche in forma comparativa,  all' oratore stesso per indicare la qualità della concisione, che fregia il discorso di lui. Eccone la conferma:  ' In contionibus idem qui in orationibus est, pressior  tamen et.circumscriptior et adductior'.  Epist I 16, 4.   3.° Il significato proprio di ' incustoditus ' è « non  custodito, senza guardie ». La latinità argentea attribuì  a ' incustoditus ' due significati in traslato, uno considerato in passivo, ed è dovuto a Tacito ; P altro considerato in attivo,' ed è stato per la prima volta determinato da Plinio. Nel primo significato vale « inosservato », 2 o pure « non contegnoso, non celato » 3 . Nel  traslato attivo, secondo l'accezione pliniana, * incustoditus ' significa « improvvido, incauto, imprevidente, senza precauzione » : ' Tuitus sum Iulium Bassum ut i ncustoditum nimis et incautum ita minime malum \ 4  Epist. VI 29, 10.   4.° Dal significato proprio che all'aggettivo ' inductus '  proveniva dalla sua qualità originaria di participio per   1 Cic. OraL 12, 38; cfr. 61, 204.   * Tao. Ann. II 12; XV 55.  3 Tac. Ann. XII 4.   * In proposito il Gierig, op. cit., tom. 2, pag. 91, col. 2% aggiunge il* commento: ' Puer enim, qui non custoditur, noglegens, remissus nimis esse solet '     . no    fetta del verbo ' inducere ', Plinio, lo volse in traslato, e lo attribuì a ' sermo ' per indicare un linguaggio  straniero : ' Inuidéo Graecis, quod illorum lingua seribere maluisti. neque enim coniectura eget, quid sermone patrio exprimere possis, cum hoc insiticio et i n d u ct o tam praeclara opera perfeceris \ Epist IV 3, 5,   6 Totam uillam oculis tuis subicere conamur , si nihil  inductum et quasi deuium loquimur.' Epist V 6, 44.  Cfr. Epist. Ili 18, 10.   Nulla osta ad ammettere che Plinio si sia permesso di  attribuire a ' inductus ', in senso traslato, il significato  anzidetto, per aver tenuto presente che già Cicerone  si era servito ad un fine consimile del verbo * inducereV   5.° Nel luogo testé citato della Epist. IV 3, 5, si osserva eziandio che Plinio per il primo adoperò in senso  traslato l'aggettivo ' insiticius ' , derivato dal verbo  i inserere ', a fin di significare il linguaggio importato  dal di fuori, in antitesi alla lingua materna. La voce  ' insiticius ' nel significato proprio di ,« innestato » era  già stata accolta nella lingua letteraria, molto tempo  prima di Plinio. 2   Sez. III.  Verbi.   I verbi ai quali, considerati in traslato, Plinio attribuì un significato nuovo, sono , eccetto uno, tutti composti ; e la ragione ne è manifesta, perchè nell'ampliare le funzioni del traslato ha molta efficacia la particella che forma il primo elemento della composizione.     i Cic. Philip. XIII 19, 43.   * Ne sia d'es. Varr. Rer. rasi. II 8, 1. Vedi in prcfposito la  osservazione del.GESNER, riportala da A. Corradi, pag. 33.     r  Ili    A.  Esamineremo da prima i verbi composti che  provengono da un tema semplice originariamente verbale , e poi i verbi composti nel cui tema si contiene  un tema nominale.   a) I vèrbi composti della prima serie saranno trattati secondo l'ordine alfabetico della lettera iniziale del  tema verbale semplice.   l. Q 11 verbo ' in-arescere ', come P incoativo 'arescere ', originariamente ' arere ', ebbe il significato proprio  di « disseccarsi, inaridire » : e, oltre non pochi scrittori fioriti al tempo della latinità argentea, ne dà la  conferma lo stesso Plinio : ' Buxus, qua parte defendltur tectis, abunde uiret; aperto caelo apertoque uento  et quamquam longinqua aspergine maris inarescit'.  Epist. II 17, 14. Ma Plinio attribuì anche al verbo ' inarescere ' il significato di « finire », riferito a oose immateriali : 'Sed quod cessat ex reditu frugalitate suppletur/ex qua uelut fonte liberalitas nostra decurrit :  quae tamen ita temperanda est, ne nimia profusione  inarescat. ' Epist. II 4, 3-4.   La sola ed. p presenta, invece di ' inarescat', la pa^rola * marcescat ', che pare un' emendazione fatta dall' editore per fare rieritrareF espressione di Plinio nelP uso traslato del verbo ' marcescere ', che Livio e 0vidio riferirono alle voci ' desidia, otium V   2.° Il significato proprio del. verbo ' per-domare ', che  vale « soggiogare, domare », si riferì costantemente ad  esseri animati, come per es. ' uiri, 2 gentes,* canes, 4     l Liv. XXVIII 35, 2. Ovid. Ex Pon. II 9, 61.   * Tibvl. II 1, 72.   8 Vell.' Paterc. Hist Rom. II 95, 2. Cfr. Liv. XL 41, 2.   4 Tibvl. I 2, 52.      m    «   serpentes, tauri, l età; ovvero a regioni designate invece  dei popoli che le abitano, per es. il ' Latium ', 2 la ' Britannia ', 3 una regione in generale. * Plinio applicò in  traslato il verbo ' perdoniate ' al suolo che si coltiva :  ' Tantis glaebis tenacissimum solum, cura primum pròsecatur, adsurgit , ut nono deraum sulco perdomet u r. ' Epist V 6, 10.   Gli scrittori contemporanei avevano agevolato a Plinio la via per venire all'uso traslato del verbo ' perdonare', poiché lo avevano riferito, in generale, a cose  inanimate. Così in Seneca si osserva la frase ' perdomare farinam ', che significa « dimenare la farina con  l'acqua e farne una pasta » 5 ; e in Stazio, la frase 'perdomita Ceres ' 6 . Ma a Virgilio fu più gradita l'espressione figurata ' imperare aruis ' 7 per riferirla a chi  ' exercet frequens tellurem '.   3.° Il significato proprio del verbo ' con-fodere ' fu  « trapassare , trafiggere , ferire ». Plinio 1' adoperò in  traslato per indicare quel segno fatto con una linea trasversale sulle parole d'uno scritto, che dovevano essere  cancellate o emendate 8 : ' Expecto ut quaedarn ex hac  epistula, ut illud « gubernacula gemunt » et « dis ma   i Ovid. Heroid. 12, 163-164.  « Liv. Vili 13, 8.   3 Tac. Hist. I 2.   4 Liv. XXVIII 12, 12.  Martial. Epigr. IX 43, 8.   5 Senec. Episi. mor. XIV 2 (90;, 23.  Stat. Theb. I 524   7 Vbrg. Georg. I 99.   8 Vedi in proposito di tale segno le *Notae XXIquae uersibus apponi consuerunt * (cod. Paris., 7530), ripubblicate dal Keil  nella collezione dei Grammatici Latini, voi. VII, pagg. 533-536.      113    ris proximus », isdem notis quibus ea de quibus scribo  confodias. ' Epist IX 26, 13. La differenza tra V accezione pliniana del verbo ' confodere ', considerato in  senso traslato, e il significato che allo stesso verbo attribuì, anche in traslato, Tito Livio, sta in ciò che questi lo riferi ad argomento morale o giuridico, 1 mentre  Plinio lo applicò ad indicare l'azione materiale del segnare i luoghi da emendare d'uno scritto. 2   4.° Da una composizione multipla risultò il verbo ' recom-ponere ', il cui significato proprio è « racconciare,  mettere in ordine ». 3 Plinio indicò con ' recomponere *  il concetto di « placare, calmare, acchetare , rappattumare » : ' Quo magis quosdam e numero nostro inprobaui, qui modo ad Celsum modo ad Nepotem, prout hic  uel ille diceret, cupiditate audiendi cursitabant, et nunc  quasi stimularent et accenderent, nunc quasi reconciliarent ac recomponerent, frequentius singulis ,  ambobus interdum propitium Caesarem.... precabantur. '  Epist VI 5, 5.   È uopo avvertire che la lezione ' recomponerent % nel  passo citato, è data' in modo approssimativo dal cod. flf,   e   che presenta la parola scritta in guisa incerta: ' re omponerent\ Invece il cod. D e le edizioni p, a danno la  lezione ' reconciliarent componerentque ' : la quale , se  venisse accettata, renderebbe inutile la nostra osservazione, poiché il verbo ' componere ' nel senso traslato  di « acchetare, pacificare, riconciliare » era stato già  usato, prima di Plinio , nelle frasi : ' componere bel * Liv. V il, 12.   « Cfr. Cic. Epist adfam. IX 10, 1. Horat. Epist. II ,3, 446-447.  3 Ovid. Amor. I 7, 68.  Consoli  Il Neologismo puntano 8     - 114    lum, 1 componere controuersias,* componere lites, 1 componere seditiones ', 4 etc.   5.° Il verbo ' ad-radere ', nel suo significato proprio  di « radere , accorciare , mozzare » , si rapporta alla  barba, ai capelli e anche ai rami degli alberi. Plinio  lo accolse in traslato per significare il concetto di     103    »    44    »    16    »    75    »    120    >    102         una ijuaiu si nana, uei u   abactus^ Pan. 20, 4.  acor 3 : VII 3, 5.  actiuncula t : IX 15, 2.  adductus 3 : I 16, 4.  adnotatio 2 : VII 20, 2.  adnotator x : Pan. 49, 6.  adradere 3 : II 12, 1.  adsistere aduocatus aposphragisma ,: X 74   Q6Ì. 3. baptisterium t : II 17,   11; V 6, 25.  bellatorius buie! IH defremere ,: IX 13, 4.  » 99 descensio 3 : V 6, 26.  » 116 destringere 3 : Pan. 37,   2 (cfr. Ili 5, 14).  > 45 dianome,:X 1 16(1 17),2.  » 100 dispensatio 3 : X 75  (79), I.  73 districte , : IX 21, 4.  11 duurauiratus,: IV 22, 1.   ecclesiali 10 (111),1.  egestio 3 : Vili 6, 7.  eiecta { : II 17, 11.  electa t : III 5, 17.  enodis 3 : V 17,2.  eranus t : X 92 (93).  excursio 2 : I 3, 2.  exscribere 2 : IV 28, 1.  exsoribere 3 : V 16, 9.  exsecare 3 : II 12, 3.  exultantius t : III 18, 10.   Pag. 98 frenator 3 : Pan. gestator à     »    55    »    109    »    64     52 haesitabundus t :1 5, 13.  15 haesitator^V 10(11), %.  J07 hamatus ? : IX 30, 2.  40 heliocammus^II 17,20.  38 hetaeria , : X 34 (43),   1; 96 (97), 7.  68 historice t : II 5, 5.     idyllium , : IV 14, 9.  inamoenus 3 : IX 10, 3.  inarescere^; li 4, 4.  inascensus ,: Pan. 65,3.  incongruensj: IV 9, 19.  incustoditus 3 :VI 29 f 10.  indecere t : II J 1, 2.     Pag. 56  » 25   » 109        Pag.  »     »     Pag.     »  »     53  58  55  71   110  102   66   54   119   40   61   91     indeflexus ,: Pan. 4, 7.  indignatiuncula x : VI   17, 1.  inductus 3 : III* 18, 10;   IV 3, 5; V 6, 44.  ingloriosi^: 1X26, 4.  inperspicuus,: 1 20, 17.  inreuerens,: Vili 21,3*  inreuerenter^ il 14,2;   VI 13, 2.   insitici us 3 : IV 3, 5.  instantia interscribere,:VII 9, 5.  inturbàtus { : Pan. 64, 2.  inumbrare 3 : Pan. 19,1,  iselasticum , : X 118   (119), 1; 119 (120).  iselasticus,:X 118(119)   1-2; 119 (120),  iuba 3 : V 8, 10.     89 Latine , : VII 4, 9.  92 latitudo 3 : I Ì0, 5.  13 laudiceni t : II 14, 5.  120 lectkare 3 :VII 17, 4.  38 lyrica , : III 1, 7 ; VII   17, 3; IX 22, 2.  36 Jvristes , : I 15, 2; IX   17, 3; 36, 4; 40, 2.   78 mensor 2 : X I7B , 5;   18 (29), 3.  41 mesochorus t : II 14, 6.  28 mettila , : V 6, 35.  41 muniambij: VI 21,452 monstrabihs,: VI 21, 3.  68 mortifere t : III 16, 3.  104 motus . : III 4, 9.  9? muscufus % : V 8, 10.      181      Pag. 93 numeri 3 : III- 4, 5.  » 101 nutatiog : Pan. octogenarius 9 :Vl 33,2.  27 offendiculuir^:IXll,l.   61 opisthographus L : III   5 17.  47 orarius , : X 15 (26) ;   17A (28), 2.  86 otiosus g: X 54 (62), 1.   83 paedagogium-, :VII 2.7,   13.  108 peracerbus 3 : VI 5, 6.  88 percolere 2 : V 6, 41.   58 pereopiosus ,: IX 31, 1.   59 perdecorus^ III 9, 28.  Ili perdomare 3 : V 6, 10.  119 perseuerare 3 :VI20,19.   94 pertica , : Vili 2, 8.  66 pertribuere t : X 86B   (18), 2.  36 phantasma »:VII 27, 1.  34 poematium , : IV 14 ,   9; 27, 1.   79 praeceptio 2 : V 7, 1.  49 praecursorius.:IV 13,2.  21 praelusio f : VI 13, 6.   116 praesternere 3 : V8, 14;  Pan. 31, 1.   80 praesumptio 2 1 IV 15,   11; IX 3, 1.  46 procoeton 4 : II 17, 10;   17, 23.  59 prominulus 4 : V 6, 15.   62 prooemiari t : II 3, 3.  88 prosecare 2 : V 6 , 10.  42 protopraxia l : X 108   (109), 1.  121 proxirae.,: I 10, 11; IV   29 1' V 7 4.  69 puellariter,: Vili 10,1.      recomponere 3 : VI 5, 5.  » 99 reductor s : Vili 12, 1.  71 redundanter ,: 120, 21.  118 reformare a : Pan. 53, 1.  18 reformator 1 :VHI 12, 1.  22 renutus t : I 7, 2.  117 resultare.* : VIII 4, 3;   Pan. 73, 1.  104 retinaculum^: I 12, 8.        »     Pag. 51  » 122        Pag.     108  69  19  11  94  9   84   27   96  10   76   95   97   119   14     sacerdotalis ,:VII 24,6.  salubriter 3 : I 24, 4;  VI 30, 3.  saxeus 3 : II 3, 7.  scurriliter ,: IV 25, 3.  seruatio.rX 120(121),1.  sesquihora t : IV 9, 9.  singultus 3 : IV 30, 6.  sinisteritas x : VI 17, 3;   IX 5, 2.   sipo 2 : X 33 (42), 2.  sipunculus t : V 6, 23;   6, 36.  socculus 3 : IX 7, 3.  social itas t : IX 30, 3;   Pan. 49, 4.  species o : X 56 (64), 4;   96 (97), 4.   spoliarìum 3 : Pan. 36, 1.  sportula 3 : II 14, 4.  subsignare 3 : III 1, 12;   X 4 (3), 4.  subterraneum 4 :IV 11,9.     63 ubertare , : Pan. 32, 2.  77 ueria , : V 6, 46; Vili unctorium xenium zotheca zothecula Epist. Epist. Epist. Epist. Epist.  ^»s& Epist. Epist. J^rtst Epist. Panegyr. L'AUTORE DEL LIBRO DE ONRAR BISI (ERMANOKYA RICERCHE CRITICHE Libero docente di letteratura e lingua latina nella R. Università di Catania DERE ROMA.  Ermanno LoescHER & Co  (Bretsehneider e Regenberg)  Librai di S. M. la Regina d’Italia Catania, via Maddem   MII    Tipografia editrice BARBACALLO & SCUDERI, in Catania.  Pad  «TI  AG    -YC16 A RoBERTO DI CARCACI    MIO ALUNNO NEGLI ANNI 1889 = 1894 Nel presente libro si compendiano i risultamenti di  un lavoro paziente di ricerche, durato per più anni. Le  conclusioni, alle quali siamo pervenuti, sembreranno a  taluni molto ardite ; e, forse, non tutti coloro che degneranno il libro di una lettura attenta, stimeranno che  si debbano fare a tali conclusioni « accoglienze oneste  e liete ». Ma chiunque esamini il nostro libro con animo alieno da preconcetti, non potrà, pur dissentendo  dalle conclusioni, disconoscere che le nostre indagini  critiche sono state sempre obiettive e senza il disegno  di far prevalere, ad ogni costo e in qualunque, modo,  una tesi prestabilita. Delle osservazioni che ci saranno  fatte, terremo il debito conto, ringraziando fin d’ ora  i lettori benevoli.   È opportuno, inoltre, avvertire che, quanto al testo  di Tacito, abbiamo seguito l’ ediz. curata dal Halm ; e  per la nat. Rist. di Plinio, l’ ediz. Jan-Mayhoff. Quanto  al testo della Germ., abbiamo preferito attenerci alla  recente ediz. di Ioannes Mueller (Wien u. Prag , F.  Tempsky ; Leipzig, G. Freytag: 1900, ed. II maior).   Citando di Tacito un intero capitolo o più parti d  uno stesso capitolo, si è omesso di indicare il num. del  rigo accanto al num. d’ ordine del capitolo. Degli autori che sono citati nel corso del libro , abbiamo conservato i testi tali quali si presentano nelle edd. consultate, senza variarne menomamente la grafia, ancorchè  questa apparisca, talvolta, inesatta. TTI DT NR gi TÀ  + + GND è + CHIND è + GHIND è + HD + è qu» 00:  LL tt rit ‘rl    eee e asi  _ > _ «= ++ «mm è  Malatano li sen a cut NA limiter sociali leva st E rc Dell’aureo libretto de origine et situ Germanorum 1,  che indicheremo, come altri han fatto prima, con l’abbreviatura Germ., non trovasi fatta menzione nell’ antichità, sia perchè non se n’ebbe notizia dagli scrittori    1 Il tit. de origine et situ Germanorum è indicato per la prima volta dal Panormita, in una lettera dell’ aprile 1426 diretta  al Guarini di Verona (vedi cod. Marciano XIV 221 f 95; cod.  Classense 419, 8 f. 3: cit. dal SABBADINI, notizie storico-critiche  di alcuni codici latini, in Studi italiani di filol. class. VII pp.  122-125), ed è confermato dai codd. Vatic. 1862 e Vatic. 1518.  In una nota di Pier Candido Decembrio (cod. Ambros. R 88  sup. £. 112: vedi SABBADINI, il ms. hersfeldese delle opere minori di Tac., in Rio. di filol. e d' istruz. class. XXIX 262) leggesi il tit. de orig. et situ Germaniae, ripetuto dal cod. Neapol.  Il cod. Leidens. dà: de origine situ moribus ac populis Germanorum : cf. WoELFFLIN, sum Titel der Germania des Tac.,  in Rhein. Mus. N. F. XLVIII 2, 312.    CoNsoLI : L’ autore della Germania, 1    sad    le cui opere sono pervenute sino a noi; sia perchè, sebbene ne avessero avuto notizia, essi credettero di mettere il libretto in non cale; sia anche perchè quanto  potè essere scritto intorno allo stesso, non si conservò  intatto dall’ azione del tempo. Quale di queste tre ipotesi risponda al vero o a questo più si avvicini, nello  stato presente delle nostre cognizioni sull’ antichità  classica, non può con certezza affermarsi. Nemmeno un  cenno sull’autore della Germ. è pervenuto sino a noi;  e tutto quello che ci è dato sapere in proposito si può  soltanto dedurre dal contenuto della Germ. stessa 1.  Nessun dubbio, però, si può avere sulla romanità del1’ autore, il quale, in tutto quanto scrive sui Germani,  mostra che ha costantemente l’attenzione volta alle condizioni morali, politiche e militari di Roma, che talora  gli son causa di vive inquietudini. Ma degli scrittori  romani che trattarono delle relazioni, in pace e in guerra,  dei Romani coi Germani, dopo quello che ne aveva  scritto il ‘ summus auctorum diuus Iulius ?, ® ce ne sono  parecchi, nel primo secolo dell’ impero. * Tito Livio a  4 Qualcuno, spingendo all’ estremo le conseguenze del silenzio degli antichi sul nome dell’a. della Germ., è giunto a negare l'autenticità del libro: vedi quel che scrive in proposito  A. GeFFRoy, Rome et les barbares, étude sur la Germanie de  Tacite, Paris 1874, pp. 55-56.   2? Germ. 28, ì.   3 Vedi W. ScHLEUSNER, quae ratio inter Taciti Germaniam  ac ceteros primi saeculi libros Latinos,in quibus Germani tangantur, intercedere uideatur. Acc. loci quidam Amm. Marcellini. 1886. A. LUECKENBACH, de Germaniae quae uocatur Taciteae fontibus. Marb. 1891. A. GUDEMAN, the sources of the Germania of Tacitus, in Transactions and proceedings of the  American philological association, 1909, vol. XXXI, pp. 93-111.    aa    veva già trattato dei Germani nel corso delle sue storie, scrivendo delle imprese di Giulio Cesare! e delle  spedizioni di Druso. ? Dello stesso argomento si era certamente dovuto intrattenere l’imperatore Ottaviano Augusto, tanto nelle sue memorie, * quanto nell’elogio che  egli scrisse per il figliastro Druso 4; e, dopo Ottaviano,  anche Vipsanio Agrippa nella sua autobiografia *;  Giulio Marato, liberto e biografo di Augusto $; e forse  Cremuzio Cordo ne’ suoi libri de rebus Augusti ?: chè  notevoli furono, durante l’ impero augusteo, i conflitti  tra Romani e Germani. Di poi Velleio Patercolo, menzionata la disfatta di Varo, promise intrattenersi dei  Germani. * Non potevasi escludere un cenno della poli  l Vedi il principio dell’epit. del 1. CIV : ‘ prima pars libri situm Germaniae moresque continet ’.   ? Epitomae dei Il. CKXXVII, CXXXVIII, CXXXIX e CXL.   8 Sveron. Aug. 85; Claud. 1. Cf. G. BERNHARDY, Grundriss d.  r L.5 $ 46,261. TEUFFEL-SCHWABE, G. d. r. L. 5 $ 220, 3,468.   4 Vedi l’ epit. ll CXL di Livio. Sveron. Claud. 1. Cass. Dion.  r. Rom. LV 2, 2.   5 Intorno all'autobiografia di Agrippa vedi la menzione che ne  fa Serv. comm. in Verg. georg. II 162,235, vol. 3°, fasc. 1°,  rec. Th.   6 SveToN. Aug. 79.   7 Vedi SEN. dial. VI 1, 3; 22,4; 26,1 e 5. Tac. ann. IV 34 e  35. Cass. Dion. r. Rom. LVII 24, 1-4. Sveron. Tib. 61; Calig.  16. Neli’ ed. Bonnell di QvinTIL. X 1,04, vol. 2°,163 non si  fa menzione di Cremuzio Cordo; e dove alcuni pretendono leggere ‘ nec immerito Cremutii libertas '’, lo Zumpt coi migliori  codd. legge: ‘nec immerito remitti ( cod. Bamb ‘ rem uti ’ )  lib., dix. uel noc. *   8 VeLL. PaTERC. A. R. II 119 ‘“ordinem atrocissimae calamitatis , qua nulla post Crassi in Parthis damnum in externis gentibus grauior Romanis fuit, iustis uoluminibus ut alii, ita n 0 s  conabimur exponere: nune summa deflenda est’ (Halm).     di    tica romana, quanto alle relazioni coi Germani, nelle  autobiografie degli imperatori Tiberio ! e Claudio * ; e  di proposito si dovette trattare delle lotte, sì varie e  persistenti , contro i Germani negli scritti di Cornelio  Lentulo Getulico, che fu a capo delle legioni della Germania superiore 3, e nei commentarii di Cn. Domizio  Corbulone , che fu anche’ a capo degli eserciti romani  in Germania e mosse guerra contro i ‘Chauci?. ' Nè  può presumersi che le importanti vicende delle armi  romane nella Germania siano state lasciate senza alcuna  menzione nelle Ristoriae di Cornelio Bocco, Servilio Noniano, Cluvio Rufo *, Fabio Rustico e di altri istoriografi, ai quali pare che si debbano riferire le affermazioni generiche ‘ memorant , ‘ quidam opinantur ’, ‘ adhuc extare ’, che si notano nel cap. 3° della Germ.  Storicamente è accertato che trattarono dei Germani  e delle guerre germaniche Aufidio Basso e ©. Plinio  Secondo. Il lavoro di Aufidio Basso aveva per titolo  belli germanici libri", e probabilmente formava parte    1 Sveron. Tib. 61; Dom. 20.   2 Sen. lud. de m. Claud. 5, 4. PLIN. n. Ah. XII 17 (39), 78  Sveron. Claud. Al.   8 Cass. Dion. r. Rom. LIX 22, 5: cf. SveToNn. Galb. 6. Ma il  Jahn (Pers.CXLII) ammette che Lentulo Getulico non abbia  scritto propriamente una storia, sibbene un carme sulle spedizioni contro i Germani ed i Britanni.   4 Tac. ann. XI 18 e 20.   5 Il GIORDANI, studi sopra Tac., crede che si accenni a Cluvio  Rufo nel celebre elogio di QvintIL. i. 0. X 1, 104 ‘superest adhue et exornat aetatis nostrae gloriam uir saeculorum memoria dignus’, cet. Vedi opere di P.G., pubblic. da A. Gussalli,  vol. 12°, pag. 215; Milano, Sanvito, 1857,   6 QUvINTIL. i. 0. X ], 103.    Vea  d’un altro lavoro storico più ampio, scritto da lui  stesso !. Plinio Secondo narrò in libri trentuno @ fine  Aufidii Bassi la storia de’ suoi tempi, in continuazione di quella scritta da A. Basso ?, e perciò vi dovette includere la trattazione delle relazioni dell’ impero coi Germani: dovette in particolar modo trattare di tali relazioni nei due libri de vita Pomponii  Secundi, il quale fu legato in Germania sotto Claudio,  e, per la vittoria sui ‘Chatti’ devastatori; si ebbe lo  onore del trionfo. Plinio scrisse inoltre venti libri  bellorum Germaniàe! o Germanicorum bellorum î, nei  quali trattò (ripetiamo le parole del nipote di lui, Plinio il giovane) ‘omnia quae cum Germanis gessimus bella”.6 La storia pliniana delle guerre germaniche si conservò in Germania sino al sec. XVII;  poi sparve e non se n° ebbe più notizia: ma non si è    perduta la speranza che il prezioso ms. si possa ritrovare, ?       1 TEUFFEL - ScHWABE, G. d. r. L.5 S 277, 2,664. CL R.  NicoLa1, G. d. r. L. Magdeb. .1881, n. 107,616,   ? PLIN.n. h,, praef. 20. PLIN. epist. III 5, 6: vedi anche V_ 8,5,   3 PLIN. epist. II 5, 3. Tac. ann. XII 27 e 28,   4 PLIN. epist. III 5,4.   5 Tac. ann. I 69,6. SyYMMACH. epist. IV 18 ad Protadium, 152: ‘ enitar, si fors uotum iuuet, etiam Plinii Secundi Germanica bella conquirere”.   6 PLIN. epist. III 5, 4. La frase di Plinio il giovane è ripetuta da Suetònio :' ‘bella’ omnia, quae unquam cum Germanis gesta sunt, XX uoluminibus comprehendit’: v. C. SveTon. TRANO. deperditorum librorum reliquiae, ed. Roth, 1882, 300. i   © H. F. Massmann; Germ. des C. Corn. Tac., Quedlinburg u.  Leipzig 1847,179, noja 6, riferisce un passo dei monumenta    ME    Sicchè non sarebbe fuor di luogo il supporre che  quanto si contiene nel libretto de origine et situ Germanorum avesse potuto, per intiero o in parte, in una  forma identica a quella con cui è pervenuto sino a noi  o alla stessa somigliante, costituire, come un’introduzione geo-etnografica o in altro modo, parte integrante dei lavori storici sulla Germania di Aufidio Basso o  di Plinio Secondo; e particolarmente di quest’ ultimo  che, oltre al continuare l’opera di Basso, trattò più  ampiamente e, con migliore e più esatta conoscenza dei  fonti e dei fatti il tema delle guerre germaniche. Se  non che ad ammettere ciò pare che contrastino alcuni  luoghi notevoli del testo della Germ., poichè in essi,  secondo quel che comunemente affermasi, si menzionano fatti posteriori alla morte di Plinio Secondo (a. 79  d. Cr.). Infatti, nelle parole ‘ac rursus inde pulsi ( sc.  Germani) proximis temporibus triumphati magis quam  uicti sunt” (Germ. 37, 26) si vuol vedere un’allusione  al trionfo di Domiziano sui ‘Chatti?, a. 83 d. Cr.! Si  pretende riconoscere nelle parole del cap. 42, 9 della  Germ. ‘raro armis nostris, saepius pecunia iuuantur ’  (sc. Marcomani et Quadi), l’usanza invalsa sotto Domi  Paderbornensia del FuEeRsTENBERG: ‘Plinii XX uwolumina de  bellis Germanis... quae Conr. Gesnerus Augustae Vindelicorum,  alii Tremoniae in Westphalia apud Casparum Swarzium patricium Tremoniensem exstitisse tradiderunt’. La nota del  Massmann è ripetuta dal Geffroy, op. cit.,85, n. 3.   1 Sveron. Dom. 6 ‘de Catthis Dacisque post uaria proelia  duplicem triumphum egit’. Cf. Dom. 13, in fine. Le monete in  cui si dà a Domiziano il tit. di ‘Germanicus’ sono del principio dell'a. 84. Vedi EcKkHEL VI 378; 397: e MommsEN-DE RuGGIERO, le prov. rom. da Ces. a Dioclez., Roma, 1887; cap. IV, 139, e nota 1* nella stessa pag.     7  ziano di dar danaro ai capi dei barbari per tenerseli:  ubbidienti e dar loro i mezzi di accrescere il numero  dei partigiani dei Romani. ! Si scorge nel cap. 45 della  Germ. un accenno intorno alle notizie sulle. regioni  nordiche, pervenute a Roma dopo la spedizione di Giulio  Agricola ?. Osservasi inoltre che l’annessione dei campi  decumati, indicata nel cap. 29, 19 Germ. con le parole  ‘mox limite acto promotisque praesidiis sinus imperii et pars prouinciae habentur (sc. agri decumates)’,  si compì al tempo di Domiziano o di Traiano, 3 Si fa menzione nel cap. 33 Germ. dello sterminio dei ‘ Bructeri/,  che vuolsi avvenuto verso l’ a. 100 d. Cr. Infine si. adduce come prova evidentissima che la Germ.. fu scritta  e pubblicata verso la fine del secolo I d. Cr., il computo degli anni presentato nel cap. 37, 6 per, indicare  la durata della lotta coi Germani: ‘sescentesimum et  quadragesimum annum urbs nostra agebat, cum primum Cimbrorum audita sunt arma...... ex quo si ad  alterum imperatoris Traiani consulatum computemus,  ducenti ferme et decem anni colliguntur *.  Consideriamo l’ uno dopo l’altro i ll. citati..    I.  Germ. 37, 23 ‘ mox ingentes Gai Caesaris minae  in ludibrium uersae. inde otium, donec occasione discordiae nostrae et ciuilium armorum expugnatis legio  1 Cass. Dion. r. Rom. LXVII 7, 3-4 (Xiphil.).   2 Tac. Agr. cc. 10, 12 e 33 in fine.   3 Così affermasi nei comm. alla Germ: di I. F. K. Dilthey  (Braunschweig 1823,187 sg.), di Th, Kiessling (Lps. 1832, 119 sg.). di U. Zernial (Berl. 1890,60), di A. Pais (Torino  1890,49), di G. Marina (Romania e Germania ovvero il  mondo germanico secondo le relazioni di Tac., Trieste 1892, 97), etc.    RR era  num hibernis etiam Gallias adfectauere; ac rursus inde  pulsi proximis temporibus triumphati magis quam uicti  sunt’. Nella lotta, dunque, contro i Germani, il passo  cit. ci rappresenta successivamente i sgg. fatti : a) la  spedizione poco seria di Caligola; d) la sospensione di  qualsiasi spedizione militare sotto Claudio e Nerone;  c) l'insurrezione dei ‘ Bataui ” guidati da Giulio Civile,  la quale si estese anche alle Gallie ; d) un trionfo di  nessuna importanza, sui barbari. Tale trionfo non può  essere altro che soltanto quello di cui menò vanto Domiziano sui ‘ Chatti ’ ? A noi pare, invece, che l’ autore abbia voluto riferirsi ai vantaggi, di poca efficacia  e poco duraturi, riportati dalle armi di Vespasiano sui  ‘‘Bataui’ e sugli alleati di questi. Se, in vero, l’autore  avesse voluto riferirsi al trionfo di Domiziano, non avrebbe certamente tralasciato di menomarne, in un modo  qualsiasi, 1’ importanza, come appunto si legge nel de  uita et moribus Iulii Agricolae * e in altri scritti che  menzionano o fanno allusione alla vantata vittoria di  Domiziano. * Si aggiunga che l’ autore, avendo mal animo contro Domiziano ; se per Caligola disse poco  prima, notando il ridicolo delle imprese di lui contro       1 Tac. Agr. 39, 3 scrive di Domiziano: ‘inerat conscientia  derisui fuisse nuper falsum e Germania triumphum, emptis per  commercia, quorum habituset crines in captiuorum speciem  formarentur. ’   ? PLIN. pan. 16, 3 ‘accipiet ergo aliquando Capitolium non  mimicos currus nec falsae simulacra uictoriae, sed imperatorem ueram ac solidam gloriam reportantem ’ e. q. s. Cass. Dion.  r. Rom. LXVII 4, 1. Oros. hist. adu. pag. VII 10, 3 e 4. Loda,  invece, MARTIAL, ep.IX 6; e FRONTIN. sfrat. I 1, 8; 3, 10. II 3,  23; 11, 7. IV 3, 14 (ed. Gundermann) mostra di non dubitare  menomamente dell’ importanza della spedizione di Domiziano,    i. Gas    i Germani : ‘ ingenies Gai Caesaris minae in ludibrium  uersae ’, ! avrebbe scritto parole più gravi contro Domiziano , ove avesse voluto DIADIESI alla iattanza di  EI imperatore.   D’ altro canto, la frase ‘ proximis temporibus triumphati magis quam wicti sunt" non può riferirsi all’ onore trionfale concesso, nell’a. 50 «dd. Cr., a Pomponio Secondo che aveva sottomesso i ‘ Chatti ’ e liberato, dopo  lunghi anni di cattività, alcuni dei soldati -di Varo,  caduti prigionieri nella battaglia di Teutoburg ?; poichè l’ insurrezione dei ‘ Bataui ’, dilatata nelle Gallie,  alla quale si accenna con le parole ‘ expugnatis legionum hibernis etiam Gallias adfectauere ’, * è posteriore  di circa venti anni alla vittoria di Pomponio Secondo.   E però le parole citate del testo della Germ. ‘ proximis temporibus triumphati magis quam uicti sunt’,  non possono che riferirsi al tempo in cui Vespasiano  riusciva a sedare l’ insurrezione batavica; e, sebbene  intorno a ciò non sia dato d’ avere dirette notizie da  Tacito, perchè le historiae di lui restano interrotte nel  lib. V 26, appunto quando lo storico insigne si accingeva  a trattare della fine dell’insurrezione di Civile,e della vittoria riportata dalla politica di Vespasiano sulle sedizioni germaniche, pure il trionfo di Vespasiano sui ‘ Bataui? e i loro alleati germanici è indicato chiaramente  dalle parole ‘ uidimus sub diuo Vespasiano Velaedam  diu apud plerosque numinis loco habitam ? (Germ. 8, 8).    1 Lo stesso apprezzamento notasi in Tac. Agr. 13,11. rist. IV  15, 9. Cf. A. RIESE,der Feldzug des Caligula an der Rhein, in  Neue Heidelberger Jahrbicher, vol. VI, fasc. 2. i   2 Tac. ann. XII 28.   3 Vedi anche Tac. hist. IV 17 e V 26.    40    Veleda, vergine fatidica di nazione bructera, ebbe, come è noto, una parte principalissima, insieme col suo  popolo e con altri popoli germanici, nel movimento insurrezionale sollevato da Civile. ! Essa fu, dunque, veduta a Roma, non pregiata nè tenuta in onore da  Vespasiano, come fu poi onorata da Domiziano la vergine Ganna, che a lei succedette nell’ arte del vaticinio ?, ma prigioniera *, probabilmente incatenata presso al carro trionfale del vincitore. 4   Un’altra ragione c’induce ad ammettere che nel passo  considerato della Germ, si tratti del trionfo di Vespasiano, verso l’a. 70 d. Cr, e non di quello arrogatosi,  insieme col titolo di Germanico >, da Domiziano.   I popoli che presero parte all’ insurrezione di Civile  furono, anzi tutto , i ‘ Bataui”, ai quali si unirono i  ‘ Canninefates’, i ‘ Frisii”, i ‘ Bructeri”, i ‘ Tencteri”, etc.0  Essi prevalsero da prima, mentre Roma era dilaniata  dalle guerre civili tra i pretendenti all’ impero, tanto  che ‘expugnatis legionum. hibernis etiam Gallias adfectauere ?. Perciò gl’insorti, di cui immediatamente dopo    1 Tac. hist. IV 61; 65. V 22; 24.   2 Cass. Dion. r. Rom. LXVII 5, 3 (Xiphil.).   3 STAT. silu. I 4, 89 sgg. ‘non uacat Arctoas acies, Rhenumque rebellem, | captiuaeque preces Veledae, et (quae  maxima nuper | gloria) depositam Dacis pereuntibus arcem |  pandere’. Vedi MommsEN-DE RucGIERO, op. cit., cap. IV, pp.  132 e 135.   4 U. Zernial, commentando la voce ‘ uidimus’ del |. c.,30,  dice esplicitamente: « Wir haben gesehen, n. zu Rom, auch  Tacitus selber, der sich des etwa im 15. Lebensjahre gesehenen  Triumphes ueber die Bataver sehr wohl erinnern konnte ».   5 Sveron. Dom. 13.   6 Tac. hist. IV 15; 16; 21.    Leida   sì dice ‘ rursus inde pulsi’ e. q. s., altri non sono che  gli stessi ‘ Bataui ed i loro alleati, che erano stati capitanati da Civile, e dei quali poi, stante il sopravvento  delle armi di Ceriale, menò trionfo Vespasiano, L° imperatore Domiziano , invece, si vantò del trionfo sui  ‘ Chatti’, non sui ‘ Bataui ’. È vero che, in origine , i  ‘ Batani” furono ‘ Chattorum quondam populus et seditione domestica in eas sedes transgressus, in quibus  pars Romani imperii fierent’ ( Germ. 29, 3); ! ma, al  tempo dell’insurrezione di Civile, erano del tutto separati dai ‘ Chatti” : e questi non si trovavano uniti coi  ‘Bataui’, già abbattuti da Vespasiano, quando Domiziano  fece irruzione, al dire di Suetonio, ‘ sponte in Catthos ” ?.   Non puossi, inoltre, non mettere in evidenza che, se  l’autore della Germ. avesse voluto riferire le sue considerazioni d’ordine politico e militare a Domiziano, non  si sarebbe valuto di un’allusione generica, spiegabile  solo per chi scrive in tempi di oppressione e di tirannide. Si conviene comunemente che la Germ, sia stata:  scritta e pubblicata verso il 98 d. Cr., allorchè ‘rara  temporum felicitate’, come scrisse Tacito stesso, ‘ ubi  sentire quae uelis et quae sentias dicere licet’ } 1° imperatore Nerva aveva riunito ‘res olim dissociabiles,  principatum ac libertatem’, e l’ imperatore Traiano  aveva accresciuto ‘ quotidie felicitatem temporum’;  sicchè ‘ nec spem modo ac uotum securitas publica, sed    1 Vedi inoltre Tac. hist. IV 12, 6 ‘ Bataui, donec trans Rhenum agebant, pars Chattorum, seditione domestica pulsî extrema  Gallicae orae uacua cultoribus..... occupauere ’,   2 Sveron. Dom. 6.   3 Tac. hist. 1 1, 19.    n ia   ipsius uoti fiduciam ac robur adsumpserit’!: e per  tanto, sein un lavoro che si suppone scritto prima della  Germ., cioè nel de vita et moribus Iulii Agricolae, lo  autore, non più preoccupato delle ‘conseguenze della  sua franchezza di linguaggio, chè i tempi di Domiziano  erano finiti per sempre, dichiara, con frase forse eccessiva, falso il trionfo di questo imperatore sui (Germani *, qual motivo poteva avere l’autore della Germ.  per indicare la stessa cosa con una timida e lontana  allusione, mentre si godeva da tutti piena libertà ?   In generale, poi, è da avvertirsi -che la frase più  volte citata ‘triumphati magis quam uicti sunt ’, se indubitabilmente è detta per i ‘ Bataui” ed i loro alleati,  nel pensiero dell’ autore si doveva eziandio estendere  dalla bravura dei ‘Bataui’ all’indomabile fierezza dei  Germani. Dello stesso modo Floro, riferendosi al breve  gaudio delle vittorie di Druso in Germania, ne concludeva in generale : ‘ quippe Germani uicti magis quam |  domiti erant ’?.    II.  Quanto ai ‘ Marcomani’ ed ai ‘ Quadi’ si avverte, nel. cap. 42 della Germ., che avevano avuto prima i loro re della nobile stirpe di Maroboduo e di Tudro, ma che poi avevano accolto re stranieri, il cui potere fondavasi sull’autorità di Roma : questi re, si conclude nel cap. cit., ‘ raro armis nostris, saepius pecunia iuuantur, nec minus ualent’. Chi siano stati i  ‘ reges externi’ imposti da Roma ai ‘ Marcomani ’ ed ai  ‘Quadi ’, non ci è dato saperlo, perchè i fonti fin qui noti    1 Tac. Agr. 3, 2-6; cf. 44, 15,  ? Tac. Agr. 39, 4: cf. la nota precedente.  3 FLOoR, epit. II 30 (IV 12, 30), pag. 101, ed. Halm, non soccorrono per determinare ne’ suoi particolari il  pensiero enunciato dall’autore !; e di conseguenza non ci  è noto in che modo e in qual tempo gli imperatori romani li abbiano giovati con armi o con danaro. Ma è  inesatto affermare che l’usanza di dare ai principi dei  Germani armi o danaro, per acquistare dei partigiani  e sostenere l’autorità dell’ impero sopra i barbari, sia  cominciata sotto Domiziano *; poichè fin dal 47 d. Cr.  l’imperatore Claudio aveva mandato Italico, nipote  di Arminio, a regnare sui ‘ Cherusci”, ‘auctum pecunia,  additis stipatoribus’*; e al tempo dell’ insurrezione di  Civile, a. 70, si osservava: ‘Germanos.... non iuberi,  non regi, sed cuncta ex libidine agere; pecuniamque ac dona, quis solis corrumpantur (sc. Germani), maiora apud Romanos”.* Di modo che il passo  di Cassio Dione, nel quale si dà la notizia che Domiziano mandò a Decebalo danari e operai abili nei di  ! Per i tempi posteriori a quelli in cui fu scritta la Germ. si  noverano soltanto i re dei ‘Quadi’ Viduarius, a. 358 (Amm. Marc.  r. g. XVII 12, 21) e Gabirius, a. 873 (id. XXIX 6,5. XXX, 5,3);  edi principi dei ‘Quadi’ Araharius (id. XVII 12, 12-16), Vitrodorus e Agilimundus. A qualche commentatore della Germ. (cf. i comm alla Germ. del Dilthey,265;  del Kiessling,151; del Pais, p: 64; etc.) è parso di scorgere  nella frase ‘iam et externos patiuntur' una probabile allusione  a Vamnio, di gente queda, imposto da Druso (a. 19) come re  ai ‘Suebi’ (Tac. ann. II 63. XII 29): e ciò può ben darsi, ma  l'accenno sarebbe sempre riferito ad un fatto anteriore al tempo  in cui imperò Domiziano.   2 V. i comm. alla Germ. del Dilthey,265; del Kiessling, 151 sg.; del Pais,64; del Marina,132.   3 Tac. ann. XI 16, 6.   4 Tac hist. IV 76, 9. Lo stesso concetto notasi in HERODIAN.  de Rom. imperatorum uita et rebus, VI 7.    FI Pn    versi mestieri sì in pace che in guerra, devesi coordinare ermeneuticamente coi ll. citati sopra, e concluderne che anche prima del 79 d. Cr. si era messa  in atto dagli imperatori romani la politica dei sussidi di armi e danaro, verso i barbari.    III.  Nel cap. 45 della Germ. si leggono le sgg.  notizie: ‘ trans Sitonas aliud mare, pigrum ac prope  immotum, quo cingi cludique terrarum orbem hinc fides, quod extremus cadentis iam solis fulgor in ortum  edurat, adeo clarus, ut sidera hebetet; sonum insuper  emergentis audiri formasque equorum et radios capitis  adspici persuasio adicit. illuc usque, si fama uera,tantum natura’.* Vuolsi che tali notizie siano pervenute  dal libro de vita et moribus Iulii Agricolae, al cui  autore furono riferite da Agricola stesso, reduce dalle  guerre di Britannia, non prima dell’a. 85 d. Cr., cioè  sei anni circa dopo la morte di Plinio Secondo. Infatti,  quanto al ‘ mare pigrum ac prope immotum ’, leggesi  nell’ Agr. 10, 18: ‘sed mare pigrum et graue remigantibus perhibent ne uentis quidem perinde attolli ?.  Che ivi fosse il limite del mondo ‘ cludique terrarum  orbem ’, riscontrasi in una frase del discorso di Agricola ai soldati: ‘nec inglorium fuerit in ipso terrarum ac naturae fine cecidisse’ (Agr. 33, 26). E il fenomeno che osservasi nelle regioni nordiche *, cioè :    1 Cass. Dion. r. Rom. LXVII 7, 3-4 (Xiphil.).   2 Secondo la recens. Halm e la recens. Io. Mueller.   3 Alcuni commentatori della Germ. (v.il comm. di U. Zernial, 87; e l’op. cit. del Marina,138 in fine e p.. 140 in principio, censurano l'autore di essa per aver confuso il nord della  Britannia con la Scandinavia; ma la censura non è giusta,    Masini    Ae  ‘ extremus cadentis iam solis fulgor in ortum edurat,  adeo clarus, ut sidera hebetet’, è accennato nel cap.  12, 9 dell'Agr.: ‘ nox clara et extrema Britanniae parte breuis, ut finem atque initium lucis exiguo discrimine  internoscas ?.   La rispondenza che abbiamo riportata intera tra le  notizie riferite nella Germ. e le notizie consimili che  presenta il libro de v. et m. I Agricolae, non porta  di conseguenza che l’autore dell’una abbia attinto alle  notizie esposte nell’altro libro, ma dà argomento ad  ammettere che tanto chi scrisse la Germ. quanto l’autore dell’Agr. attinsero le loro notizie agli stessi fonti,  che per questo ultimo furono confermati dalla narrazione fatta da ‘Agricola, al ritorno dalla Britannia. E  di tali fonti comuni alcuni sono pervenuti sino a noi,  e rendono agevole il riconoscere che le notizie recate in  principio del cap. 45 della Germ. erano già acquisite  alla coltura generale, prima ancora della spedizione di  Agricola in Britannia.   Il celebre viaggiatore Pytheas (a. 330 circa a. Cr.)  indica il mare che nella Germ. è detto ‘pigrum ac  prope immotum ’, con la designazione ‘ pepegyia thàlassa ’.! Anch’egli dovette far menzione delle chiare  notti estive delle regioni settentrionali, poichè osservò  che nell’ estrema Thyle si alternavano nel corso dell’anno sei mesi senza notte e sei mesi senza giorno *.    perchè il fenomeno della breve durata e della chiarezza delle  notti estive osservasi ugualmente tanto nell’un paese quanto  nell’ altro. Cf. Ven. Bepa, hist gentis Anglorum I 1, col. 1jin  operum tomus tertius, Colon. Agrip. 1612.   1 STRAB, geogr. I 4, 2 (C. 63), ed. Meineke, v. 1°,82.   ? Prin. n. A. II 75 (77), 187.    AE  Plinio, movendo dalla osservazione sulle chiare notti  estive in Britannia, cerca dare una spiegazione del fenomeno notato da Pytheas : egli scrive ‘ aestate lucidae noctes haut dubitare permittunt, id quod cogit ratio  credi, solstiti diebus accedente sole propius uerticem  mundi angusto lucis ambitu subiecta terrae continuos  dies habere senis mensibus, noctesque e ‘diuerso ad  brumam r emoto ’.' A Plinio si deve anche la divulgazione della rotizia, che poi venne, probabilmente, confermata dalla relazione orale o scritta di Agricola, sul  ‘mare pigrum ac p. i.’: egli lo dice ‘mare concretum ?, ed avverte che da alcuni era chiamato ‘ Cronium ’? e che, secondo Philemon, quella parte del  mare che precedeva il ‘ Cronium ’, sino al promontorio  ‘ Rusbeae ’,3 era detto dai Cimbri ‘Morimarusa ’, cioè  .‘mortuum mare ?’.* Ma prima di Plinio si era già osservato da Seneca padre che ai confini del mondo era  l’oceano, e dopo questo il nulla”: concetto che trovasi  ripetuto in parte nella frase della Germ.:* illuc usque,  si fama uera, tantum natura ’; alla quale risponde la  frase dell’Agr.: ‘in ipso terrarum ac naturae fine ”.  Resta la difficoltà dell’inciso ‘si fama uera”’, in cui  parrebbe contenersi un accenno alle notizie sull’ alto    1 Prin. n. h. L’ osservazione è ripetuta.   ? PLIn. n. A. Vsque ad promunturium Rusbeas': così nei codd. Leidens.  (A), Riccard. (R), Paris. 6797 (d) e nelle edd. Detlefsen (Berol.  1866), L. Jan (Lips. 1870). ‘ Roudoas’ è dovuto a correzione di  seconda mano nel cod. Leidens. Lips. 7 (F). Solino (coll. r. m.  19, 2, rec. Mommsen) lo trascrive ‘ad promunturium Rubeas”’   4 PLIN. n. Ah. IV 13 (27), 95.   5 SEN. RHET. suas. I 1,2, ed. Kiessling.    = If.  nord, conosciute meglio a Roma ovvero positivamente  confermate da Agricola dopo il suo ritorno dalla Britannia. Nei codd. leggesi veramente ‘et fama uera’,  che non pochi dei moderni edd. della Germ. hanno ripresentato. La sostituzione della cong. ‘si’ all’ ‘et’  è dovuta ad una congettura del Grozio ; cosicchè se,  per tale congettura, si può presumere che l’autore voglia presentare un suo dubbio, che valga a mettersi in  contrasto con le voci ‘ persuasio ’ e ‘ fides ’, con le quali  si annunziano certi fenomeni naturali, quali il rumore del  sorgere del sole, le forme dei cavalli e dei raggi del capo del sole stesso, e lo splendore dei raggi solari persistente fin dopo il tramonto e tanto da oscurare le  stelle; ogni dubbio si elimina con la lezione ‘et fama  uera’, che dà per indubitato il limite del mondo in  quel ‘mare pigrum’, con cui si cinge e si chiude lo  orbe terrestre. Nè da tale conclusione è possibile allontanarsi, ammettendo col Dòderlein lo spostamento  delle parole ‘et fama uera’ dopo ‘natura’, di modo  che l’ intera frase suoni: ‘illuc usque tantum natura,  et fama uera’. Il Ritter, invece di tentare di risolvere la questione, la tronca, chiudendo tra parentesi quadre tutta la frase ‘illuc usque, et fama uera, tantum  natura ’.! A noi pare che si debba, anzi tutto, tener  presente l’ avvertenza del Massmann: “libri impressi  iungunt vera tantum natura’.* E, d’ altro canto, 0sservando che nel cod. Rom. della bibl. Angelica (Augustinorum) Q 5,12 manca la voce ‘usque’ e stanno       1 P. Cornelii Taciti opera recensuit FRANCISCvs RITTER, Lps.  1864,651.   ? MASSMANN, Op. cit.,129, nota 23  ConsoLi : ZL’ autore della Germania. :    cy LA  accanto ‘illuc ‘ut’, e osservando inoltre che la particella  ‘‘ut’ è data ‘anche, invece di ‘ et’, dal cod. Florent. della  Laur. 73,20 e dal Vatic. 655, se ne deduce evidentemente  che la frase della Germ. dovette sonare: ‘ illuc, ut fama,  uera tantum natura’. ! E con lo scrivere ciò l’ autore  non si propose affermare alcuna cosa sulla verità o me‘‘no delle notizie attinte per fama intorno all’ argomento  studiato, ma soltanto mirò ad indicare con l’espressione ‘ut fama” un concetto di limitazione a quanto si  soleva affermare rispetto ai termini del mondo (‘na‘tura ’ ); concetto consimile a quello significato prima,  in rapporto allo splendore ed alle parvenze del sole,  con le voci ‘fides? e ‘persuasio’.   Del resto, ove non si vogliano accettare le varianti  ‘ dei codd. sopra citati, si può sempre pervenire alla  medesima conclusione, conservando la lez. ‘illuc usque,  et fama, uera tantum natura’; che vale « la natura  vera, ossia il mondo reale, ? si estende fin là soltanto:  tale ne è anche la ‘fama ». Talchè l’inciso ‘et fama ’=  ‘et fama haec est’ vale a mostrare che era general‘ mente noto che si estendevano sino a quel punto, non  oltre, i limiti della ‘natura reale.    IV.  Per garentire i confini dell’impero dalle in.cursioni dei barbari, si cominciò a costruire, anche dalla    1 Il Nipperdey, leggendo ‘usque et fama, ultra tant. nat. ’,  conviene, in parte, nello stesso concetto, togliere, cioè, a ‘ fa‘ma’ l’epiteto ‘‘uera’.   2 ‘“Verus’ non indica soltanto la qualità di ciò che si fonda  sulla ‘verità, ma rappresenta anche la qualità di tutto ciò che  ha per base la realtà o, per ripetere le parole del-GEoRGES,  ausfihrl. Handiob, II 3093, « in der Wirklichkeit begrindet,  *wirklich »,       PERS (3 pe  parte del Reno, un ‘limes’ o via fortificata, per lo più  munita di argini (‘aggeres ’) e di stazioni di guardia  (‘praesidia’)', sotto l’impero di Tiberio ®: fu continuato e probabilmente portato a compimento sotto Adriano. L’autore della Germ. dà per il primo, anzi il solo, la notizia che gli ‘agri decumates ’,  siti al sud-ovest della Germania, tra l’ alto Reno e le  sorgenti «lel Danubio, e sui quali il fisco riscoteva, forse, un diritto di decima dai possessori, ‘ vennero incorporati all’ impero; onde, per la difesa del territorio  annesso, il ‘limes’ insieme coi ‘ praesidia’ si portò  innanzì, oltre il Reno; e però i campi decumati ‘ sinus  imperii et pars prouinciae habentur ? (Germ. 29, 19).  Quande si fece tale spostamento ? Alcuni dei commen  1 TH. MommsEn, der Begriff des Limes, in Westdeutsche Zeitschrift fiur Geschichte u. Kunst, a. XIII, fasc. 2°. Vedi inoltre  MommsEN-DE RucGiIERO, op. cit., cap. IV,115, nota l.   2 Tac. ann. I 50, 3 ‘limitemque a Tiberio coeptum”’. II 7, 11  “et cuncta inter castellum Alisonem ac Rhenum nouis limitibus aggeribusque permunita’ (a. 16 d. Cr.).   8 Cf. SPARTIAN. Hadr. 12, 6; in scriptt. hist. Aug. I p. 14, ed.  H. Peter. Nell'op. cit. MomMseNn-DE RuGGIERO, cap. IV, p. 142,  si fa menzione di nuove costruzioni aggiunte ai ‘ limites’ sotto i regni di Adriano, Antonino Pio e Marco Aurelio. Notasi  inoltre, in un discorso del console Velio (Vettio ?) Cornificio  Gordiano (a. 275), che alla morte di Aureliano i Germani ruppero il ‘ limes’ transrenano ed invasero alcune forti e ricche  città dell'impero: v. Vopisc. Tac. 3, 4, in scriptt. hist. Aug.  XXVII p. 187, ed. P.   4 GEFFROY, Op. cit., p. 318 sg. Ma il Mommsen giustamente  avverte che « nè è linguisticamente provato che ‘decumas’  possa significare obbligato alla decima, nè simili istituzioni son  note nell'impero ». Vedi MommsEN-DE RucGIERO, op. cit., cap.  IV, p. 141, nota 11,    ELI  tatori della Germ. si affrettano ad indicare il tempo  di Domiziano o, in generale, verso la fine del I sec.  ed il principio del II. ! Tale indicazione porterebbe di  conseguenza che l’autore della Germ. avesse atteso a  scrivere il suo lavoro sotto Domiziano o nei primi tempi dell’ impero di Traiano, in ogni caso dopo l’a. 79.  Ciò pare a noi inesatto.   Infatti, Domiziano se, per ingannare l’ opinione pubblica, aveva celebrato pseudo-trionfi sui Germani, non  ignorava, d’altro canto, che per un mero caso (cioè, la  piena del Reno) aveva superato la sedizione di L. Antonio, preside della Germania superiore, ? e che ai confini i suoi eserciti erano stati sopraffatti dai barbari; *  talchè, piuttosto che estendere i confini dell'impero di là  dal Reno, per annettere al suo dominio gli ‘ agri decumates’, avrebbe stimato gran ventura conservare i confini di prima, senza spingere in avanti il ‘limes’ ed i  ‘ praesidia ’. È supponibile che si estendano i confini del  dominio, allorquando ci sia la possibilità che i nemici  vinti lascino agio di spostare le antiche linee di difegno SM nuove opere militari a garentia  del territorio acquistatà sl ma quando i nemici sono  vincitori e minacciosi, com@nsi può mai deliberare e  attuare l'accrescimento del terytorio dello Stato ?   Non vi ha nemmeno notizia cha setto Traiano siano  stati inclusi dentro i confini dell'im € gli “agri decu  1 Vedi i comm. del Dilthey, p. 188; dello ernia, p. 60; del  Pais, p. 49; del Marina, p. 97; etc. x   2 SvETON. Dom. 6   3 Oros. hist. adu. pag. VII 10, 3 e 4. Orosio &ità in proposito  la storia, che or più non abbiamo, scritta da Cornelio Tacito  sulle imprese di Domiziano. Cf. Tac. ann. XI 1 4          REI (RT  mates’. Se Tacito avesse scritto qualcosa in proposito,  narrando la storia degli imperi di Nerva e di Traiano,  come egli aveva promesso di fare, riserbando il lavoro  per gli anni senili,* certo gli storici posteriori che si  valsero delle storie tacitiane, lo avrebbero in un modo  qualsiasi ripetuto o, almeno, accennato. Si ha, invece,  un’affermazione in contrario nel seg. luogo di Orosio:  ‘mox Germaniam trans Rhenum in pristinum statum  reduxit’? Avendo, per tanto, Traiano restituito le cose  oltre il Reno allo stato pristino, l’illazione non è dubbia, che anche gli ‘ agri decumates’, siti di là dal Reno,  dovettero ridursi, in conseguenza dei prosperi eventi  delle armi imperiali, alla condizione anteriore, di essere, cioè, ‘sinus imperii et pars prouinciae’. Perciò  non si può non inferirne che l’ annessione dei ‘ decumates ’ all'impero dovette compiersi prima del regno di  Traiano, giacchè questi si restrinse a ridurre la ‘ Germaniam trans Rhenum in pristinum statum”. E poi, se è vero che Traiano, per un sentimento di vanità indegno di  un prode e glorioso imperatore, avesse fatto scolpire  il suo nome sui monumenti eretti per conservare la  memoria di imprese da altri anteriormente compite,  ‘non ut ueterum instaurator sed conditor’, tanto che  ne avesse avuto il nomignolo ‘ herba parietina ’,* certo si dovrebbe restare perplessi, ove mai nei campi  decumati o altrove si trovasse qualche memoria lapidea  concernente l’annessione dei campi sopra menzionati,    1 Tac. hist. I 1, in fine.   ? Oros. hist. adu. pag. VII 12, 2.   3 Amm. Marc. r. g. XXVII 3, 7. Cf. ex Sexto Aur. Victore de  uita et moribus Rom. imperatorum epitome, Ven. 1586, f, 185,    SSR  sì dovrebbe; dicevamo, restar perplessi nell’ attribuire  a Traiano:ciò che prima di lui si era fatto.   Se, dunque, non si può non ammettere l’annessione  dei campi decumati all’ impero, anteriore ai regni di  Domiziano .e di Traiano, non è fuor di luogo il supporre che l’ abbiano attuata i due primi imperatori Flavi, e probabilmente (poichè è noto che sotto Tito l’impero godè di una perfetta tranquillità.) il solo Vespasiano, il quale, come avverte Tacito in un luogo citato  da Orosio; riaperse le porte del tempio di Giano un  anno dopo: che egli stesso le aveva chiuse ?, avendo  portato a. compimento l’impresa contro i Giudei 8.    V.  Nel cap. 33 della Germ. narrasi che il territorio, posseduto un tempo dai ‘Bructeri ’, era stato occupato dai. ‘ Chamaui’ e dagli ‘ Angriuarii’, posciachè  i ‘ Bructeri?” erano stati ‘ penitus excisi uicinarum consensu nationum, seu superbiae odio seu praedae dulcedine seu fauore quodam erga nos deorum’; e si ag     1 Oros. hist. adu. pag. VII 9, 13.   2 Oros. hist. adu. pag. VII 19, 4: ‘quas (se. Iani portas)  utrum post Vespasianum et Titum aliquis clauserit, neminem  scripsisse memini, cum tamen eas ab ipso Vespasiano post  annum apertas Cornelius Tacitus prodat’ (ed. Zangemeister).   3 Oros. hist. adu. pag. VII 3, 8; 9, 9. Il Mommsen ammette  che la fondazione della linea di confine, per la quale si comprese nell'impero la vallata del Neckar, sia stata opera dei Flavi;  ma la giunta dubitativa « principalmente forse di Domiziano »,  messa li soltanto perchè, non essendosi nominato nella Germ.  l'autore della linea di confine « è una prova che questi (l'autore) dovè. essere Domiziano », ci pare così priva di fondamento  da non potersi accogliere come notizia conforme al vero. Vedi  MomwmsEN-DE RucciERO, op. cit., cap. IV, p. 142 e nota 2 in d.*  P. 142.     93   giunge che di essi ‘super sexaginta milia non armis:  telisque' Romanis, sed quod magnificentius est, oblectationi oculisque ceciderunt’. Onde l’autore manda,  come dice il Vannucci *, un « fiero e spaventoso grido»  di gioia », esprimendo un « voto inumano »:: ‘ maneat,  quaeso, duretque gentibus, si non amor nostri,.at certe  odium sui, quando urgentibus imperii fatis nihil iam  praestare fortuna maius potest quam. hostium. discor=  diam’. L’esterminio dei ‘ Bructeri’ si compì appunto,  secondo l’ osservazione di qualche commentatore: della:  Germ., verso l’ a. 100.* In tal modo, annunciandosi!  nella Germ. fatti avvenuti verso il 100 d. Cr., il libro  non potè essere scritto prima dell’ a. 79. Risponde al  vero tale conclusione ?   Noi sappiamo che i ‘ Bructeri’, come in’ generale  tutte le altre genti di stirpe germanica, si mostrarono costantemente avversi ai Romani :? battuti prima  dalle armi romane, ‘ cooperarono alla. distruzione:delle  legioni di Varo;* molestarono, insieme: coi ‘Tubantes’ e gli ‘ Vsipetes ’, la ritirata di Germanico che aveva tratto orrenda vendetta dei ‘Marsi’ (a. 14 d.    i C. Corn. Tacito, tutte le opere con note italiane compilate  da A. VANNUCCI, Prato 1848, vol. IV, p. 274, in nota.   2 Vedi i comm. del Kiessling, p. 127; del. Marina, p. 105; etc.   8 Narra Suetonio (Tib. 19) che un Bructero commise un: attentato contro la vita di Tiberio: l'odio di nazione mutavasi in:  odio contro le persone.   4 VeLL. PaTERC. A. R. II 105, 1. Cf. l'epit. L CXXXVIII di. T.  Livio.   5 Vedi GEFFROY, Op. cit., p. 230. MommsEN-De RuGGIERO, Op. cit.,  cap. I, p. 44: cf. p. 52. Cf. anche A. Wixms, das Sehlachtfeld  im Teutoburger Walde, in Neue Jahrbùcher fùr Philologie u.  Paedag. CLIII p. I, fasc. 7; CLV p. I, fascec. 1, 26.3,    ei)    SR + gp  Cr.)!; ma furono, poco dopo (a. 15), sconfitti da L.  Stertinio, che tolse loro l’aquila della 19.* legione distrutta nella foresta di Teutoburg. ® E ancorchè, edotti  dalla sventura e atterriti dalle armi imperiali, avessero opposto un rifiuto alle insistenti sollecitazioni degli ‘ Ampsiuarii ’, che li incitavano a partecipare alla  guerra contro i Romani (a 58 d. Cr.) 3, pure non tralasciarono di unirsi con Giulio Civile, che aveva suscitato le fiamme dell’ insurrezione nella Germania e  nella Gallia‘, e presero parte in diversi scontri contro  i Romani. La vergine Veleda, che nell’ insurrezione  di Civile seppe coi suoi vaticini accrescere l’ardore patrio degli insorti, mediante il fanatismo POMEIONA, era  appunto di nazione bructera. ‘   L’insurrezione dei ‘ Bataui’ e degli altri popoli che  con loro si erano levati in armi contro Roma, a poro  a poco fu repressa, tra il 70 ed il 71 o 72 d. C. Nulla  sappiamo della fine di Civile : forse ottenne di vivere  in pace, sotto il dominio romano. Ma i compagni di  lui, Classico e Tutor duci dei ‘Treueri’, e i fratelli  Alpinio Montano e D. Alpinio personaggi autorevoli fra  gli stessi ‘Treueri’, forse si salvarono con la fuga,       i Tac. ann. I 51, 7.   2 Tac. ann. I 60, 10. Non sappiamo spiegarci perché nei loro  comm. alla Germ. lo Zernial (p. 65), il Marina (p. 104), etc. vogliano indicare l'aquila della 212 legione, e il Dilthey (p. 198) l'aquila  della 18°, quando le parole precise di Tac. sono: ‘interque  caedem et praedam repperit (sc. L. Stertinius) undeuicensimae. legionis aquilam cum Varo amissam'.   3 Tac. ann. XIII, 56.   4 Tac. hist. IV 21, 11.   5 Tac. hist. IV 77, 2. V 18, 4.   6 Tac. hist. IV 61 e 65.    _ di  forse si uccisero ciascuno di propria mano '; Giulio Sabino, capo dei ‘Lingones ?’, fu mandato al supplizio ; ?  e Veleda fu vista a Roma .dall’autore della Germ. *, e,  come sopra si è detto ', prigioniera.   Dopo il 71 o 72, i ‘ Bructeri’, vinti, dovettero sottomettersi alle condizioni imposte dai Romani vittoriosì : non avevano più per ispiratrice e guida la fatidica Veleda ‘numinis loco habita’; e della loro prostrazione morale e civile, non ancora rimarginate le  ferite avute nell’ultima insurrezione batavica, non potevano non profittare i popoli vicini, emuli per armi,  avidi di preda, bramosi di possedere le loro terre, e  forse anche rivali per comune parentela. Fecero, difatti, lega a danno dei ‘Bructeri’, li assalirono, li sopraffecero, perchè li trovarono più deboli o impreparati; e più di sessanta mila ne trucidarono. I ‘Chamaui’ e gli ‘ Angriuarii ’, che probabilmente si ebbero    1 Tacito fa menzione di Giulio Classico in Aist. II 14. IV 55;  57; 59; 70; 79. V 19 sgg.;di Giulio Tutor in Aist. IV 55 ; 57;  59; 70; 72. V 19; 21;dei fratelli Alpinii in hist. III 35. IV 31  e 32. V 19.   ? Cass. Dion. r. Rom. LXVI 16, 2 (Xiphil.).   3 Germ. 8,9.   4 Vedi la nota 3 a pag. 10.   5 Ammesso che, secondo Strabone (geogr. VII 1, 3 (C 291), p.  400 M.), vi fossero stati dei ‘ Bructeri minores”, e perciò la distinzione tra ‘B. maiores’ e ‘B. minores”, il Miillenhoff! conget=  tura che i ‘Bructeri maiores’ e i ‘ Chamaui' siano stati lo  stesso popolo. In tale ipotesi, i ‘ Bructeri' che si levarono in  armi con Civile contro Roma, sarebbero stati i ‘B. minores '.  Ammiano Marcellino (r. g. XVII 8, 5) narra che, molti anni  dopo, nel 358, i ‘Chamaui’ furono, alla loro volta, sterminati  dall'imperatore Giuliano,     DE  la parte precipua in tale guerra di sterminio, vennero  ad occupare le terre dei vinti.! I ‘ Bructeri” superstiti  all’immane strage, costretti a mutar sedi, restarono  sempre un popolo per sè, senza confondersi con altre  genti, ma si piegarono a sommissione verso l’autorità  romana, tanto da sottomettersi, alcuni anni dopo, al  re imposto loro da Vestricio Spurinna, legato della  Germania inferiore .* Tale sommessione dovette avvenire verso l’a. 97, durante l’impero di Nerva'.3 Or, tra    1 Germ. 33, 2. Non risponde al vero l’asserzione di alcuni  commentatori (v. per es. i comm. Pais p. 53, Marina p. 104,  etc.) che l'autore della Germ. abbia esagerato nelle notizie  date sullo sterminio dei ‘Bructeri’, poichè egli non dice soltanto ‘ Bructeris penitus excisis uicinarum consensu nationum ”,  ma premette ‘ pulsis Bructeris’: talchè il popolo dei ‘ Bructeri’ non fu completamente annientato. Potrà, forse, dirsi esagerato il numero dei morti, ‘super sexaginta milia’; ma una  statistica ufficiale dei caduti in battaglia, massime trattandosi  di pugne tra popoli barbari, non era allora possibile.   2 PLIN. epist. Il 7, 2.   8 Così opina il Mommsen, nell' Index nominum cum rerum  enarratione pubblicato in fine degli scritti di Plinio il giovane,  recens. Keil, Lps. 1870, p. 429, 2* c. Arrogi la considerazione  che, ammesso l'ordine cronologico nella disposizione delle epistole pliniane (cf Mommsen, aur Lebensgeschichte des jiingern  Plinius, in Hermes III (1869) pp. 31-53), tuttochè contraddetto da  Plinio stesso (episf. I 1, 1), le epistole del 2° lib., tra le quali  si annovera quella cit. concernente Spurinna, furono scritte  tra l'a. 97 e l'a. 100. Quando, però, il Mommsen afferma (vedi MommsEn - DE RucgiERO, op. cit., cap. IV, p. 135) : « questa  catastrofe (la sottomissione dei ‘ Bataui’ e degli altri popoli  insorti con Civile) e le ostilità coi vicini popoli fiaccarono la  loro potenza (cioè, la potenza dei ‘ Bructeri’); sotto Nerone essi dovettero per forza accettare dai vicini stessi, appoggiati indirettamente dal legato romano, un re che non vo:    SS, e   il 71 o 72, anno in cui i ‘ Bructeri” insieme coi ‘Bataui’ soccombettero sotto le armi romane, ed il 97 passa circa un venticinquennio, nei primi anni del quale  si compì la strage e l’espulsione dei ‘ Bructeri ’, colpiti  dalla lega dei popoli vicini. Indichiamo i primi anni  del venticinquenuio, perchè appare più rispondente al  vero, in mancanza di qualsiasi documento in proposito, che lo sterminio dei ‘Bructeri’ si fosse compito  appunto in un tempo più vicino al 71 o 72, quando  questi erano prostrati dalla vittoria romana sui ‘Bataui’ edi loro alleati, anzichè più tardi, quando, ricostituitisi nelle nuove sedi, riannodarono relazioni di  dipendenza con Roma, e si assoggettarono al re imposto dal legato romano. Non vi ha, del resto, alcun documento o alcuno accenno nelle storie antiche, che assegni l’a. 100 o altro anno anteriore o posteriore all’anno 100, all’avvenimento della distruzione dei ‘Bructeri’ ed all'immigrazione dei ‘ Chamaui ’ e degli ‘ Angriuarii’ nel territorio bructero ‘iuxta Tencteros?.   Poche altre notizie restano intorno ai ‘Bructeri ?.  Dopo i guai gravissimi inflitti loro dai popoli vicini,  essi, come si è detto sopra, non si dispersero nè perdettero la loro nazionalità nè il nome nella storia.!  Nella prima metà del sec. IV sono menzionati in due  panegirici a Costantino ; ®? poi, nello stesso sec. IV e    levano »; egli, se non c'inganniamo, non ha tenuto presente  che la sommessione dei ‘Bructeri’ ad un re imposto dal legato Vestricio Spurinna avvenne sotto Nerva, non sotto Nerone.   41 Vedi LEDEBUR, das Land und Volk der Bructerer, Berl.  1827.   2 Incerti pan. Constantino Aug. dictus, 12. NAZARI pan. Constantino Aug. dictus, 18: in BAEHRENS, XI panegyrici Latini,  VII e X, pp. 169, 227.    cin B$   ‘nel V si trovano stretti in lega con quelli che erano  stati nel I sec. i loro feroci persecutori, i ‘Chamaui ’  e gli ‘ Angriuarii’, e inoltre coi ‘Chatti’, gli ‘Ampsiuarii ’, i ‘ Sugambri ’, i ‘ Chasuarii ?!: formavano la  potente confederazione dei Franchi.® Anche il ven.  Beda fa menzione dei ‘Bructeri’, dicendoli ‘ Boruchtuarii ?.?    VI.  Il cap. 37 della Germ. presenta un importante  computo di anni. Se dall’anno 640 di R., in cui per la  prima volta si udì parlare delle invasioni cimbriche,  sì giunge al secondo consolato di Traiano, ‘ ducenti    1 Vedi Jos. WoRMSTALL, ueber die Chamaver, Brukterer und  Angrivarier, mit Rùcksicht auf den Ursprung der Franken  und Sachsen. Neue Studien 2: Germania des Tacitus, Gymn.Progr. Miinster, 1888. Il Millenho£, cit. da U. Zernial, p. 65, opina che gli ‘Angriuarii’ (v. Tac. ann. II 8, 13; 19,7; 22, 6; 24, 15;  41,.8) e gli ‘ Ampsiuarii’ (v. Tac. ann. XHI 55, 1; 56, 4) formassero uno stesso popolo, poichè « Angrivarii ist der rein  geographische Name der Anwohner der Weser oberhalb der  Chauken oder spàteren Friesen, und Ampsivarii nur eine speziellere, wie es scheint, gleichfalls geographische Benennung  fiir eine Abteilung des Volkes ».   ? Il nome ‘Franci’, adoperato per significare in complesso  più popoli, appare per la prima volta in una frase del panegirico d’ incerto autore a Costantino : ‘ terram Batauiam ..... a  diuersis Francorum gentibus occupatam’ (ed. cit. Baehrens VII 5, p. 163). Ma nella Castori Romanorum cosmographi tabula quae dicitur Peutingeriana, segm. II, n. 2, in alto, si  legge ‘ Chamavi. qui et Pranci” (1. Franci: la lett. c è corrosa  nella parte superiore): v. Die Weltkarte des Castorius, genannt  die Peutingersche Tafel: einleitender Text von Konrad Miller;  Ravensburg, 1887.   3 Ven. BEDA, hist. gentis Anglorum V 10, col. 124, in operum  tom. tertius, ed. cit.    bh   ferme et decem anni colliguntur’. È noto che Traiano  fu la prima volta console nell’ a. 91; fu nominato ad  un secondo consolato per il 98, nel quale anno, per la  morte di Nerva, venne assunto all’ impero: perciò se  ne conclude che la Germ. fu scritta in un tempo non  anteriore al 98, se appunto di questo anno è fatta espressa menzione nel testo del libro. E tale conclusione  si dovrebbe accettare, se non ostassero alcune considerazioni che non sono da omettersi.   L’autore comincia il cap. 37 col menzionare che i  Cimbri, un tempo sì potenti e di gran fama, si erano  ridotti ad una ‘ parua ciuitas ’. Il nome dei Cimbri ! gli  richiama alla mente le memorabili lotte che si erano  combattute dai Romani contro i popoli germanici, a  cominciar dal consolato di Cecilio Metello e Papirio  Carbone, a. 641/113. E di qui un breve ‘ excursus ’ sulle  vicende di tali lotte, che si ferma, come sopra abbiamo  dimostrato, al trionfo sui ‘ Bataui ’ e sugli altri popoli  insorti con essi, e che altri vorrebbe estendere sino al  trionfo di Domiziano sui ‘ Chatti’ nell’ a. 83. Nessuno    ? È notevole che nella Germ. non si fa alcun cenno dei Teutoni, che furono valorosi compagni dei Cimbri. Plinio tratta di  loro nella n. A. IV 14 (28), 99. XXXV 4 (8), 25. XXXVII 2 (11),  35. Tacito li menziona insieme coi Cimbri in hist. IV 73, 12: v.  anche VeLL. PATERC. A. R. II 8, 3; 12, 2 e 4. Pompon. MEL.  chor. III 3, 32; 6, 54. Amm. Marc. r. g. XVII 1, 14. XXXI 5, 12.  Oros. hist. adu. pag. V 16, 1. 9. 14. Ma forse l’autore della  Germ. si restrinse a menzionare i soli Cimbri, perché la guerra  contro i Cimbri ed i Teutoni si indicò pure con la sola espressione ‘ bellum Cimbricum * (v. l’ epit. Ul. LXVII, LXVIII di T.  Livio; ma in Floro epit. I 38 [III 3] ‘ bellum Cimbricum , Teutonicum ’); o forse anche- perché i Teutoni si reputavano un  popolo celtico : cf. APPIAN. IV 1, 2,       csf    accenno vi è intorno agli avvenimenti che si succedettero sino all’ a. 98, che è il termine del computo  dei 210 anni, fatto, per incidente, poco prima. E ciò  diviene inspiegabile, se si considera che l’autore, avendo  fissato per termine del computo degli anni di lotta coi  Germani l’ a. 98, importante perchè appunto allora  Traiano succedette al padre adottivo Nerva, non poteva  passare sotto silenzio, tra le altre cose, il fatto che la  autorità delle armi romane era a quel tempo in sì alto  pregio da fare ottenere a Vestricio Spurinna, legato di  Nerva, una vittoria incruenta sui ‘ Bructeri, ferocissima  gens’ germanica, soltanto con la minaccia della guerra  e col terrore !. Nè poteva tenere in non cale i buoni  risultamenti dell’ abile direzione politica e militare di  Traiano che, per assodare il dominio romano sul territorio dei ‘ Mattiaci ’ e per dar fine alle agitazioni delle  tribù germaniche della regione centrale del Reno, causate dall’ imprudente scorreria di Domiziano, stette ancora per qualche tempo al comando degli eserciti sul  Reno, prima di recarsi a Roma per assumervi il potere  supremo. Pare, inoltre, che dissoni dalle lodi concordemente date dai contemporanei ai due imperatori  Nerva e Traiano, e per il loro savio governo e per la  rinnovata autorità delle armi romane, il fatto che l’autore della Germ., il quale doveva, giusta la premessa,  estendere le sue considerazioni ed il suo rapido ‘ excursus’ sino al secondo consolato di Traiano, si è fermato, invece, alla desolante osservazione ‘ triumphati  magis quam uicti sunt’; egli avrebbe dovuto avere  sott'occhio gli avvenimenti che si compivano, sotto la    1 PLIN. epist. II 7, 2.    BRL) pesi    è stata nostra, e la Germania è vinta: ‘regno Arsacis  acrior est Germanorum libertas ’.   Oltre a ciò il tono retorico di tutta la frase fa dubitare di esservi stata un’ interpolazione. Precede e seguc  al periodo notato una considerazione storica che in nulla  è avvantaggiata dal periodo stesso, anzi resta da questo  interrotta per dar luogo all’ espressione enfatica ‘ tam  diu G. uincitur ’. Se si espungesse il periodo considerato, il pensiero dell’autore si mostrerebbe in gradato  svolgimento, moverebbesi eguale a sè stesso e non interrotto sino alla conclusione ultima che, per quel certo  pessimismo da cui è informata, nulla ha da fare con l’enfasi delle parole espunte. Nè vi è necessità di sostituire  alla particella ‘tam ’, che nella proposizione seg. ‘ medio tam longi aeui spatio multa in uicem damna’  pare collocata in riscontro col ‘ tam’ della frase ‘ tam  diu G. uincitur ’, la voce ‘ tamen’ che è data dal cod.  Leid. (0) nella forma tam®! e, più chiaramente, nella  forma completa tamen dal cod. Neapol. (c) ; perocchè,  fatta 1’ espunzione, si regge sempre bene tutta la frase,  che in origine dovette, secondo ogni probabilità, così  esser letta : ‘ sescentesimum et quadragesimum annum  urbs nostra agebat, cum primum Cimbrorum audita  sunt arma, Caecilio Metello ac Papirio Carbone consulibus. medio tam longi aeui spatio multa in vicem damna’ e. q. s.   A chi attribuirsi l’interpolazione, se interpolazione ci  fu? Può ben darsi che la si debba attribuire a qualche  antico grammatico , la cui glossa erudita sulla durata    1 Ma avverte il Massmann, op. cit., p. 110, nota 25, ‘ deleta abbreuiatura ‘,    RARE; A  delle guerre germaniche sia penetrata nel testo; può  darsi anche che sia una giunta correttiva fatta da chi  più tardi scrisse l’ apografo, sur un originale creduto  mendoso !. Ma a noi pare di scorgere, nel testo stesso  della frase che crediamo interpolata, l’ autore della  possibile interpolazione. A nessuno sfugge l’enfasi della  conclusione ‘ tam diu G. uincitur’; e la vittoria sulla  Germania è intimamente connessa col secondo termine  del computo fatto, cioè l’ ‘ alter imperatoris Traiani consulatus ’: dunque lo scopo della frase altro non poteva  essere che quello di lodare l’imperatore Traiano, il cui  secondo consolato aveva il merito altissimo di aver  dato termine, secondo che credevasi verso la fine del  sec. I, alla lotta contro i Germani , durata per più di  due secoli. Chi tra gli scrittori romani vissuti in sul  declinare del sec. I e nel principio del II largì più encomi agli imperatori Nerva e Traiano fu Plinio il giovane; tanto che uno dei moderni critici, che con ammirabile dottrina ha trattato della vita e dell’elocuzione  di lui, non ha esitato a scrivere: ‘nemo quidem possit negare, Plinium in Panegyrico modum in nuirtutibus  Traiani praedicandis transiisse (cf. pan. 30-82; 40; 57;  59-80), et tum in illa oratione tum in epistolis nonnullis  (cf. epist. ud. Tr. imp. 10 (5), 2 [a. 98]; 8 (24), 1 [a.  101]; 31 (40), 1) ex Bithynia ad Traianum missis sententias inesse plenas immodicae adulationis ac paene    1 È nota la dichiarazione che leggesi nel cod. Leid. Perizon.  della Germ., la quale è annoverata tra i ‘ libellos nuper adinuentos et in lucem relatos ab Enoc Asculano quamquam  satis mendosos”    ConsoLI: L’ autore della Germania. 3       IRE  seruilis erga Traianum et Neruam reuerentiae !. Plinio,  inoltre, diede in particolar modo evidenza al titolo di  Germanico attribuito a Traiano *; fece menzione delle  vittorie di lui nei paesi renani 3; e specialmente s’ intrattenne, con ampie lodi, del secondo consolato di Traiano ‘. L’a. 98 è per più ragioni anno notevole per Plinio:  gli è conferita da Nerva e da Traiano l’importante carica di ‘ praefectus aerarii Saturni ’ 5; il suo amico e  protettore Traiano è assunto all’impero, ed egli si affretta a scrivergli una breve epistola gratulatoria, esprimendo il voto: ‘ precor ergo ut tibi et per te generi  bumano prospera omnia, id est digna saeculo tuo, contingant ’ $. Nell’a. 98, in fine, si reputarono dai Romani  come finite, per l’ opera prudente di Traiano, le lotte  bisecolari contro i Germani, con la sottomissione di  questi.   Non sarebbe perciò una congettura priva di fondamento l’ammettere che Plinio il giovane, rendendosi interprete de’ sentimenti suoi e de’ suoi contemporanei ,  sentimenti di soddisfazione e di gioia per i vantaggi  apportati dagli avvenimenti dell’ a. 98 all’ impero romano, avesse inserito in una parte dell’opera dello zio,    4 J. P. LAGERGREN, de vita et elocutione C. Plinii Caecilii Secundi, Vpsaliae 1872, pp. 12-13; in Uysala universitets aarsskrift, 1871, V.   ? PLIN. pan. 9, 2. 14, ).   3 PLIN. pan. 14, 1-5. 82, 4-5.   PLIN. pan. 56, 3-7.   Vedi Mommsen, sur Lebensgeschichte d. j. Plin. sopra cit.;   e l'art. dello StoBBE nel Philologus XXVII, p. 641: donde la   notizia riferita dal LAGERGREN, 0. c., p.4; e dal NicoLaI, G. d. r. L.,n.   115, p. 640. Cf. TEUFFEL-SCHWABE, G. d. r. L, © n. 340, 1, p.849; ete.  6 PLIN. epist. ad Tr. imp. 1, 2.    (SISI    ini BB  intitolata bellorum Germaniae uiginti ll. (la quale parte  sarebbe probabilmente quella stessa pervenuta a noi col  titolo de orig. et situ Germanorum) la frase sopra notata del cap. 37, a fin di computare la durata delle  guerre germaniche sino all’a. 98, in cui, dopo sì lungo  tempo, la Germania era stata completamente vinta.   Nè certamente sarebbe stato intendimento di Plinio  violare con una postilla, che ora appare interpolazione,  il libro del dotto scrittore, il quale era a lui zio e padre  adottivo affettuoso, ma rendere il libro delle guerre  germaniche meglio rispondente ai tempi in cui cominciò a farsene la pubblicazione , cioè verso la fine del  sec. I. Quante volte non occorre a noi, oggidi, nel pubblicare un libro di autore antico, di aggiungere delle  note nelle quali si accenni, per completare o chiarire  i concetti espressi nel testo, ad avvenimenti posteriori  alla vita dello scrittore ? Ma al tempo dei Romani non  avevasi il mezzo odierno di distinguere le postille e le  note dal testo; talchè sovente queste penetrarono nel  testo stesso , dal quale indistinte si riprodussero negli  apografi scritti in tempi seriori; e da ciò il lavoro, non  facile nè sempre sicuro ne’ suoi risultamenti, della critica moderna, di espungere dai testi classici tutto ciò  che si considera come interpolato.   Un altro argomento ci conferma nella nostra congettura. Plinio il giovane nell’epistola a Bebio Macro, nella  quale espone in ordine cronologico i libri dello zio, nota  tra questi : ‘ bellorum Germaniae uiginti, quibus omnia  quae cum Germanis gessimus bella collegit ’. ! Evidentemente, poichè l’epistola fu scritta l’a. 101, come tutte    1 PLIN. epist. III 5, 4.     36     le altre contenute nel lib. 3°, con la frase ‘ omnia q.  c. G. gessimus bella’, si allude a tutte le guerre combattute contro i Germani sino a quel tempo in cui  credevasi comunemente che fossero finite per l’opera sagace di Traiano, cioè sino all’a. 98; e nella voce ‘ gessimus ’ si travede il pensiero che la narrazione storica  di Plinio Secondo era stata prolungata dal nipote sino  a comprendere tutte le guerre germaniche ; chè, se si  fosse ristretta alle sole guerre combattute mentre era  ancora in vita Plinio Secondo, ed avesse conservato lo  scopo precipuo per cui era stata scritta, cioè salvare ‘ ab  iniuria obliuionis’ la memoria di Druso Nerone, sarebbesi detto obiettivamente ‘ gesta sunt’: nella voce ‘ gessimus’ si scorge non difficilmente la persona di chi ha  scritto l’epistola a Bebio Macro. In tale argomento soccorre l’autorità di Suetonio, il quale, scrivendo di Plinio  Secondo : ‘ itaque bella omnia, quae unquam cum  Germanis gesta sunt, XX uwoluminibus comprebendit ’,' da un canto ripete l’espressione di Plinio il giovane  ‘omnia bella ?, e dall’ altro canto con 1° uso del verbo  ‘ gesta sunt” dà evidenza al tempo sino a cui erano state  narrate le guerre germaniche.   Si aggiunga un’altra considerazione. Plinio Secondo  nella pref. alla sua nat. Rist. serive : ‘ uos quidem omnes,  patrem te fratremque (sc. Vespasianum, Titum, Domitianum), diximus opere iusto, temporum nostrorum  historiam orsi a fine Aufidi Bassi. ubi sit ea quaeres ?  iam pridem peracta sancitur, et alioquin statutum erat  heredi (cioè al figlio adottivo, Plinio il giovane) mandare, ne quid ambitioni dedisse uita iu  1 V. pag. 5, nota é.    GI    dicaretur”’'. Era quindi proposito di lui, a fin di  evitare la facile accusa di avere alterato il vero per  mire ambiziose , affidare al figlio adottivo, che, giovinetto, molto aveva appreso dalla molteplice e copiosa  dottrina del suo secondo padre, l’incarico di pubblicare,  dopo la sua morte, i lavori storici che gli affidava, e  forse anche di limare o farvi delle opportune giunte,  per rendere la pubblicazione meglio adatta ai tempi in  cui essa aveva luogo. Che vale, infatti, la frase ‘ peracta sancitur’ se non, come spiega Io. Harduinus, ‘ accuratius elimatur, castigatur ° ?*? Non poteva forse il figlio  adottivo , valente letterato anch’ egli, prender parte a  tale ‘ limae labor ’, dopo la morte dell’ autore, avendo  l’obbligo di pubblicare i libri di lui? E, dal canto suo,  Plinio il giovane aveva, quanto alla storia, una certa  competenza, perchè aveva atteso agli studi storîci secondo l’ es. paterno, come egli stesso dichiarava : ‘ me  uero a«l hoc studium (sc. historiae) impellit domesticum  quoque exemplum 5.   Gli antichi non può dirsi che siano stati molto serupolosi nel metter mano sui lavori altrui, per emendarli,    1 PLIN. n. A. praef. 20. Ma il Detlefsen (ed. Berl. 1866) accoglie la lez. ‘ per acta sancitum et alioqui ’.   2 Vedi C. Plin. Sec. hist. nat. Ul XXX VII quos interpretatione  et notis illustrauit IoanNES HARDVINVS, Paris. 1741, t. I, p. 4,  not. 7. Ma nelle ‘ notae et emend. ad 1. I', n. VI, p. 7, spiegandosi il perchè sia stata preferita nel testo la jez. ‘ peracta  sarcitur’ invece di ‘ sancitur ’, si aggiunge: ‘ hoc est, reuocatur,  retractatur, accuratius elimatur, ad polituram sarcitur; uti de  araneae tela Plinius ipse loquitur’ (n. A. XI 24 (28), 84 ‘ ad  polituram sarciens ’.)   8 PLIN. epist. V 8, 1 e 4.     38    massime quando questi non erano stati ancora pnbblicati. Che non si disse per le commedie di Terenzio, emendate e forse preparate da Scipione l’Africano e da  C. Lelio ?! Anneo Cornuto lasciò forse intatte le satire  dell'amico e discepolo suo Persio Flacco ? ?. È superfluo  addurre altri esempi: ci basti rammentare che, se le  mani di L. Vario e di Plozio Tucca si astennero dal profanare il poema lasciato incompleto da Virgilio, ciò avvenne per espresso ordine di Augusto, cui non era lecito disubbidire ?.    VII.  A niuno, poi, sfugge l’ osservazione che nella  Germ. non si fa cenno dei rapporti di tregua e di guerra  tra i Romani ed i Germani, dopo il regno di Vespasiano. Nulla si dice della venuta in Roma, verso l’ a.  85, di* Masyos, re dei ‘ Semnones ’, e di Ganna, vergine  fatidica, che succedette a Veleda: entrambi furono accolti onorevolmente da Domiziano. Trascurasi di menzionare 1’ impresa di Domiziano contro i ‘ Chatti”; chè,  come si è dimostrato sopra, non può indursi un’ allusione a tale impresa dalle ultime parole del cap. 37  ‘ proximis temporibus triumphati magis quam uicti sunt’.  Omettesi di far menzione della spedizione di Vestricio  Spurinna contro i ‘ Bructeri’, dopo la morte di Domi  4 Vedi Cic. ad Att. VII 3, 10. QvinTIL. è. 0. X 1, 99; ed un  framm. del libro de poetis di Suetonio, ed. Roth 1882, p. 293, 5-6.   2 V. la vita A. Persii Flacci de commentario Probi Valeri  sublata: il Roth la omise nella sua ed. dei framm. di Suetonio.   8 SERV. comm. in Verg. Aen. I: ‘ Augustus uero, ne tantum  opus (sc. Aeneis) periret, Tuccam et Varium hac lege iussit  emendare, ut superflua demerent, nihil adderent tamen’: vol.  I, fasc. 1°, p. 2, ed, Th.    dia   ziano: ed altre omissioni potremmo aggiungere. Invece  tutto ad un tratto si passa dalle notizie sopra avvenimenti occorsi durante il regno di Vespasiano al secondo  consolato di Traiano ; e sì importante lacuna dà .nuovo  argomento a sospettare interpolato il passo del cap. 37,  del quale si è sopra a lungo discusso.   Cosicchè, e per i molteplici argomenti che ci offre il  testo della Germ., convenientemente interpretato, e per  gli argomenti esterni sopra esposti, non puossi non riconoscere che nella Germ. non sono menzionati avvenimenti posteriori all’a. 79 d. Cr.; e però sorge spontaneo il dubbio che non Tacito, istoriografo fiorito alquanti anni dopo, ' ma Plinio Secondo (se è da non tenersi conto di Aufidio Basso, scrittore anch’egli di guerre  germaniche) possa essere stato l’ autore della Germ. ;  o meglio, che questa in principio abbia formato parte,  come una digressione necessaria, dei venti libri bellorum Germaniae. Nè quarantasei capitoli (si direbbero  meglio paragrafi) di un’introduzione o di una digressione, quanti se ne contano appunto nella Germ., si possono ritenere troppi per un lavoro storico che ha il  ‘ suo svolgimento in venti libri; poichè è noto che la  digressione sull’Africa è di non breve estensione nel d.  Iug. di Sallustio; e similmente la digressione di Tacito sulla Britannia, nel libro de vita ef moribus Iulii    1 Il libro de wita et moribus Iulit Agricolae, primo, in ordine  cronologico, dei lavori di Tacito, è dell'a. 98: diciamo primo,  perchè pare ormai dimostrato che il dial. de oratoribus non  sia lavoro di Tacito. Vedi L. VALMAGGI, nuovi appunti sulla  critica recentissima del dialogo degli oratori, in Rio. di filol,  e d'i. cl, a. XXX, fasc. 1°, p. 23.    PRE (pn  Agricolae, occupa non meno di sette capitoli; e l’altra  digressione di Tacito stesso sulla Giudea si svolge in  ben dodici capitoli sui ventisei cc. del lib. V delle Rist.,  il quale non ci è pervenuto completo.    diri    CAPITOLO SECONDO    La Germania nella tradizione degli scrittori sino  ai tempi del Rinascimento.    Costantemente si è indicato Tacito quale autore della  Germ., sin dal tempo in cui l’aureo libretto fu scoperto  e rimesso in onore insieme con tanti altri tesori letterari dell’ antichità. Su quale fondamento si poggia  tale indicazione ? L’ indagheremo nel presente capitolo.   I.  Tacito fu sempre considerato dagli scrittori  posteriori, sia dell’ età antica sia del medio evo ', come ‘scriptor historiae Augustae ’ ?, o ‘ qui post Augustum usque ad mortem Domitiani uitas Caesarum  triginta uoluminibus exarauit ’ 8, o semplicemente ‘ annalium scriptor ’‘, o con altra indicazione analoga;    1 Vedi EMMERICH CoRrNELIvs, quomodo Tacitus historiarum  scriptor in hominum memoria uersatus sit usque ad renascentes literas saeculis XIV et XV; inaug. diss. Marpurgi Chatt.  1888. M. MANITIUS, Beitrtige sur Geschichte d. ròmischer Prosaiker in Mittelalter, II, in Philologus, N. F. I (1889), pp. 565-566.   2 Vopisc. Tac. 10,3; in scriptt. hist. Aug. XXVII p. 192, ed. P.   3 HreRoNYM. comm. in Zach. IIl 14, t. VI, coll. 913-914, ed.  Vallars., Veron. 1736.   4 IoRDAN. de or. act. Get. 2, 29, p. 3, ed. A. Holder. È però probabile che Iordanis, citando con inesattezza ‘ Cornelius annalium seriptor ’, mentre ripete le notizie contenute nel libro de  u. et m. Iul. Agric., cc. 10, 11, 12, riferisca osservazioni e notizie  non attinte direttamente ai libri di Tacito.   5 Omettiamo l’ epiteto ‘sane ille mendacium loquacissimus ’,  dato a Tacito da TERTVLL. apologet., cap. 16, pp. 47-48, Cantabrigiae 1686: le necessità della lotta rendevano talvolta ingiusti i primi apologisti del Cristianesimo.    ii dI  e in generale, anche quando non fu indicato, in forma  di epiteto aggiunto al nome proprio, il genere letterario da Tacito coltivato, si citarono i luoghi degli  annali o delle istorie, talvolta nominandosi Tacito autore, talvolta omettendosi il nome di lui.   Il nome dell’autore non sempre è indicato nello stesso  modo. Tertulliano ', Vopisco ?, San Girolamo *, Orosio 4,  Apollinare Sidonio *, etc. lo nominano ‘ Cornelius Tacitus ’. Lo stesso nome ‘ Cornelius Tacitus” osservasi in  uno scolio di Giovenale © e in un luogo degli annales  Fuldenses di Rudolf, monaco di Fulda, il quale si valse  della prima parte degli ann. di Tacito per la sua compilazione storica che va dall’ 838 all’ 863 ?; si nota an  1 TERTVLL. apologet. |. l1.: egli cita Tac Rist. V 3; 4; 9.   ? Vopisc. Auretian. 2, 1. Tae. 10,3; in seriptt. hist. Aug.  XXVI, XXVII, pp. 149,192, ed. P. Sul 1° luogo di Vopisco, che  nota di menzogna Livio, Sallustio, Tacito e Trogo Pompeo, il  Petrarca osserva: ‘notat ystoricos, immeriter puto, precipue  (sic) primos duos’. Vedi P. pe NoLHac, Petrarque et l’humanisme d'aprés un essai de restitution de sa bibliothèque, Paris  1892, p. 258.   3 HiERoNYm. l. l. sopra, in nota 3, pag. 4l.   4 Oros. hist. adu. pag. I 5,1 (cf. Tac. hist. V 7). VII 3,7 (cita  un luogo delle Aist. di Tac., forse del lib. VI o VII, non pervenuto a noi). VII 10, 4 (cita un luogo di Tac., che si è perduto: cf. Tac. hist. III 46. Cass. Dion. r. Rom. LXVII 6, 1; 7,  2; etc.). VII 19, 4 (la notizia che dà nel ]. c. non è in quel che  ci resta dei libri di Tac.). VII 27, l (cf. Tac. Rist. V 3, sgg.).   5 APOLLIN. SIpon. carm. 23, 153 sg. ‘et qui pro ingenio fluente  nulli, | Corneli Tacite, es tacendus ori’: ed. Luetjohann, in  monum. Germ. hist., Berl. 1887, t. VIII, p. 253.   6 Schol. Iuuenal. V 14,101 ‘cuius (sc. Moysis) Cornelius etiam  Tacitus meminit’: cf. Tac. hist. V 3.   7 Ann. Fuld. a. 852 ‘super amnem quem Cornelius Tacitus,       49-=  che in un’ epistola di Pietro di Bluis! e (tralasciando  di menzionare Frekulf, monaco di Fulda e poi vescovo  di Lisieux, Giovanni di Salisbury, Vincenzo di Beauvais,  i quali, come ormai è accertato, conobbero Tacito solo  di nome ?) in un’ epistola e altri Il. degli scritti del  Boccaccio 3, nel comentum super Dantis Aldigherij co  scriptor rerum a Romanis in ea gente gestarum, Visurgim,  moderni uero Wisaraha uocant’: in PERTZ, monum. Germ. hist.  vol. I, p. 368. Vedi per le citazioni tacitiane negli annali di  Fulda e nelle res gestae Saronicae di Widukind, monaco di  Corwey, la diss. cit. del Cornelius, p. 38.   4 PETRI BLESENSIS Bathoniensis in Anglia archidiaconi opera  omnia, Paris. 1667, epist. 101 ad R. archid. Nannet, p. 158, col.  2° ‘ profuit mihi frequenter inspicere...... Corn. Tacitum, Titum  Liuium' e. q. s. Ma A. HorTis, studj sulle opere latine del Boccaccio con particolare riguardo alla storia della erudizione nel m.  evo e alle letterature straniere, Trieste 1879, p. 425, dubita che  « Pietro di Blois conoscesse più in là del nome di Tac. ». Consente in ciò F. RamorINO, Corn. Tac. nella st;ria della coltura,  2* ed., Milano 1898, p. 91, nota 38. Vedi la diss. c. del Cornelius, p. 41.   ? Vedi HoRTIS, op. cit., p. 425, nota 3, e le monografie, ivi  menzionate, di E. Grunauer sui fonti della storia di Frekulf,  dello Schaarschmidt su Giov. di Salisbury, dello Schlosser su  Vinc. Bellovacense. Il Petrarca non scrisse mai il nome di  Tac., che tuttavia egli non poteva ignorare, poichè l’amico suo  Guglielmo da Pastrengo ne aveva fatto cenno nel libro de orig.  rer., f. 18: v. P. pE NoLHAC, op. cit., chap. VI, p. 266.   3 Boccaccio, epist. ad Nic. de Montefalcone : ‘ quaternum quem  asportasti Corn.i Tac.i quaeso saltem mittas ': v. FR. CORAZZINI,  le lettere edite e inedite di messer G. B. trad. e comm. con  nuovi documenti, Firenze 1877. La lettera porta la data ‘ Neapoli XIII kal. februarii’, ed è del 1371: v. Gustav KoERTING,  G. d. Litterat. Italiens im Zeitalter der Renaissance ; II (Boccaccio *s Leben u. Werke), Leipz. 1880, cap. I, pag. 47. Il Boc  i d4   moediam di Benvenuto de Rambaldis da Imola !, nel  liber Augustalis?, nello scritto de wiris claris di Domenico Bandini aretino ®, in una lettera del 1395 di  Coluccio Salutati , 4 etc. .5- Anche del solo nome ‘ Ta  caccio ripete il nome Cornelio Tacito altre due volte nel cap.  IV, p. 201 e p. 253, del comento sopra la Commedia di D. A.  iv. opere di m. G. B. cittadino fiorentino, con le annotazioni  di A. M. Salvini, vol. V, Firenze 1724); ed una sola volta nel  libro gen. deorum, INI 23, f. 28, ed. Parigi 1517. I detti luoghi  del Bocce. si riferiscono ai luoghi di T'ac. ann. XV 57 e 60-65.  hist. Il 2-3.    1 Comentum Inferni, c. IV, t. I, p. 152 ‘sicut patet apud Cor-°    nelium Tacitum': ed. Jac. Phil. Lacaita, Florentiae 1887. Vedi  per la citaz. tacitiana concernente Cleopatra (c. VI) le considerazioni del Ramorino, disc. c, p. 93, nota 43.   ? Liber Aug.c.5 ‘de... Messalina scribit Cornelius Tacitus ’;  in FREHER-STRUVE, rerum Germanicarum scriptores, t. II, p. 6.  Ha dato evidenza alla citaz. il MANITIUS, Beitrige zur G. d. r.  Pr. im Mittelalter sopra cit., p. 566.   3 Il Bandini scrive di Tacito: ‘ Cornelius Tacitus orator et  hystoricus eloquentissimus’. Vedi l’ epistolario di CoLuccio SaLUTATI, edito da Fr. Novati, III p. 297, nota.   4 C. SALUTATI, epist. IX 9, vol. III, p. 76, ed. cit.   5 Ci fermiamo con le nostre citazioni alla fine del sec. XIV: non  è necessario perciò ripetere le citazioni tacitiane che si notano  negli scritti dei più autorevoli umanisti del sec. XV, quali Sicco  Polenton, Poggio Bracciolini, Francesco Barbaro, Giov. Tortelli,  Flavio Biondo, Lor. Valla, L. B. Alberti, card. Bessarione, etc.  Vedi VoIGT-VALBUSA, il risorg. dell'antichità elass., Firenze 1888,  v. I, pp. 250-257. R. SABBADINI, storia e critica di alcuni testi  latini, in Museo it. di ant. class. ( Comparetti ), Firenza 1890,  v. III, p. 339 sgg. In. notizie storico-critiche di alcuni codd.  latini, in Studi ital. di filol. class., Firenze 1899, v. VII, pp. 119132. In. Za scuola e gli studi di Guarino Guarini veronese,  Catania 1896, p. 101, e il doc. 16 a pp. 193-194.     45   citus’ si valsero Vopisco ! e Apollinare Sidonio ?: quest’ ultimo 1’ unì con ‘ Gaius ?.* Ma da altri si preferì  l’ uso del solo nome “ Cornelius ’ ‘ : talora vi si aggiunse ‘ Gaius ?. 5   Non pochi citarono dei luoghi tacitiani senza però nominare l’ autore; così troviamo ripetuti, e talvolta quasi  alla lettera, alcuni passi delle rist. e degli ann. di Ta  1 Vopisc. Prob. 2, 7;in scriptt hist Aug. XXVIII p. 202, ed. P.  ‘non Sallustios, Liuios, Tacitos, Trogos atque omnes disertissimos imitarer”’.   2 APOLLIN. Sipon. epist. IV 22, 2. carm. II 192: ed. Luetjohaan,  p. 73 e p. 178.   3 APOLLIN. Sipon. epist. IV 14, 1 ‘ Gaius Tacitus unus e maioribus tuis’, p. 65; ma nel cod. Paris. 9551 (F.del Luetj.) c' è  ‘tacius corneli”. C£. col |. c. di Sidonio Tac. hist. V 26.   4 Oros. hist. adu. pag. I 10, 1 (cf. VII 34, 5); 10, 3 (cf. Tac.  hist. V 3); 10, 5. VII 9, 7 (cf. Tac. hist. V 13. SveToN. deperditorum librorum reliquiae, ed. Roth, IX, p. 287). APOLLIN. SIpon.  epist. IV 22, 2, ed. cit., pp. 72-73. Sehol. Iuuenal. I 2,99 (ef. Tac.  hist. libb. 1, II). IORDAN., Op. c., 2, 29. Boccaccio, com. sopra la  Comm. di D. A. pp. 202, 254, vol. e ed. cit. L. BRUNI, laudatio  urbis Florentinae (cf. Tac. hist. I 1. KrrNER, laud, urb. FI. L. B.,  Livorno 1889, pp. 19, 30). Omettiamo di citare il chron. Cas. di  Petrus, che nel catal. dei libri della badia di Montecassino annovera ‘ historiam Cornelii cum Omero (sîc)', perchè, come  bene avverte A. Hortis, op. c., p. 425, n. 2, la riunione del nome Cornelio con quello di Omero farebbe pensare « piuttosto  allo Pseudo-Cornelio Nipote ... ben noto per le sue attinenze  con le istorie troiane di Ditti e Darete ».   5 APOLLIN. Sipon. epist. IV 22, 2 ‘ cum Gaius Cornelius Gaio  Secundo (se. C. Plin. Caecil. Sec.) paria suasisset’; ed. c., p.  72: cf. PLIN. epist. V 8,    TRE    BENE gene    cito, in Sulpicio Severo , ! Orosio, ? e nello scoli aste di  Giovenale. ® Vi ha una frase di Cassiodorio, che pare  desunta dalle storie di Tacito.‘ Anche il Boccaccio si  valse, come abbiamo veduto, di Tacito , © talvolta senza    1 SvLP. SEv. chronica quae uulgo inscribuntur hist. sacra (in  S. S. opera studio et lab. Hier. De Prato, t. II, Veron. 1754) II  28, p. ì59 (cf. Tac. ann. XV 37 in fine); II 29, pp. 160-161 (cf.  Tac. ann. XV 40 e 44 in fine). È probabile che quanto scrive  Sulp. Sev. ‘ de Hierosolymorum supremo die’ II 30, pp. 163166, sia stato preso da un luogo ora perduto del lib. V Aist. di  Tac.: v. la nota 6* a p. 164, col. 1°, ed. c. ; e inoltre BERNAYS,  de chronicis Sulpicii Seueri, p. 55 sgg. Per uno strano invertimento dell’ ordine logico, P. Hochart nel suo libro de l’ authenticité des ann. et des hist. de Tac., Paris 1890, pp. 200-201,  scambia l’effetto con la causa, e ammette che il presunto falsificatore di Tac. abbia copiato da Sulpicio Severo quello che  in realtà costui copiò da Tac.   ? Oros. hist. adu. pag. VII 4, 11 (cf. Tac. ann. IV 62 e 63);  4, 17 (cf. Tac. ann. II 85 in fine).   3 Schol. Iuuenat. 1 5, 108 : cf. Tac. ann. XV 62.   4 Casson. war. XI 3i, p. 157, 2* col., in M. A. CassioporI 0pera omnia, ed. J. Garet.,, Ven. 1729, t.I: ‘more maiorum  scuto supposito "; cf. Tac. /A'st. IV 15, 10 ‘inpositusque scuto  more gentis ’.   5 Il Boccaccio ebbe conoscenza di Tac. ann. Il. XII-XVI e  hist. ]l. IIT-]II, perchè se ne avvalse, senza menzionare i fonti,  negli ultimi capitoli del libro de claris mulieribus, per narrare  la vita di Epicharis la cortigiana (c. 91: cf. Tac. ann. XV 5157), di Pompeia Paolina, moglie di Seneca (c. 92: cf. Tac. ann.  XV 60; 63; 64), di Poppea Sabina, amante e poi sposa di Nerone (c. 93: ct Tac arn. XIII 45 e 46. XIV 60-63. XV 23. XVI  6), di Triaria, moglie di L. Vitelliv fratello dell’ imperatore (c.  94: cf. Tac. Aist. II 63. III 77); e aggiungiamo anchela vita di  Agrippina, madre di Nerone (c. 90: cf. Tac. ann. Il. XII-XIV),  sebbene le notizie possano essere state prese da SvETon. Claud.  26. 29. 39. 43. 44. Ner.6. 9. 28. 34. 35. Vedi ScHUECK, Boccaccio's    RESO ge  nominarlo. ?    II.  Quanto alla Germ. non vi è, sino al sec. IX,  scrittore alcuno che ne abbia fatto menzione.o ne abbia tratto vantaggio, ripetendo o imitando qualche luogo di essa. Si è preteso scorgere un accenno alla Germ.  c. 45 ed al nome dell’ autore della stessa (Cornelio) in  un’ epistola di Cassiodorio *, con la quale il re Teodorico ringrazia il popolo degli ‘ Haesti ? 3 per un dono  di ambra. Nell’ ep. di Cassiodorio si legge : ‘ succina  quae a uobis ... directa sunt, grato animo fuisse suscepta:  quae ad uos oceani unda descendens, hanc leuissimam  substantiam, sicut et uestrorum relatio continebat, ex  lateinische Schriften, in Jahrbb. fiur Philol. u. Pidag. CX (1874),  p. 170 sgg. A. HoRTIS, op.c., pp. 425-426. G. KOERTING, Op. c.,  VII, p. 393. P_ pE NoLHAC, op. c., chap. VI, pp. 266-267: e Boccace et Tacite, in Mélanges de l Ecole de Rome, t. XII, 1892.  RAMORINO, disc. c., p. 92, nota 4l.   1 Dal novero degli scrittori che nell'età di mezzo si valsero  di Tac., senza menzionarlo, dobbiamo escludere l’autore ignoto  della vita Heinrici IV, vissuto nel sec XII, non ostante che il  Cornelius vi trovi delle frasi, in cui sembrano riflettersi certe  espressioni che si notano negli ann. di Tac.: v. MANITIUS, Beitr.  cit. p. 566; RAMORINO, disc. c., p. 91, nota 40. E si deve altresi  escludere dal novero Guglielmo di Malmesbury che, in un luogo  dei gesta reg. Angl. c. 68, ed. Hardy, I 95, con la frase * incredibile quantum breui adoleverit’ pare che abbia voluto riprodurre la frase tacitiana, Gist. II 73, 1 ‘ uix credibile memoratu  est quantum ... adoleuerit’; poichè la stessa frase leggesi in  SaLL. Cat. 6, 2 ‘incredibile memoratu est quam facile coaluerint'; e ciò avvertiva sin dal 17-III-1390 il GaABOTTO, in un art.  pubbl. nella Rio. di filol. e d’i. el. XIX (1891), pp. 397-308.   2 Cassion. uar. V 2, ed. c., t. I, p. 73.   3 ‘ Aestii ’, secondo il testo della Germ. 45, 8.     48     portat; sed unde ueniat, incognitum wos habere dixerunt, quam ante omnes homines patria uestra offerente  suscipitis. haec quodam Cornelio scribente  legitur in interioribus insulis oceani ex arboris succo  defluens, unde et succinum dicitur, paulatim solis ardore coalescere.  cum in maris fuerat delapsa confinio, aestu alternante purgata, uestris littoribus tradatur exposita.’ Or, il ‘ quidam Cornelius scribens’ non  è, come affermano alcuni ,' Corn. Tacito, autore delle  hist. e degli ann., ma ‘ Cornelius Bocchus ?. Il Peter  nota, infatti, il l. cit. di Cassiodorio tra i frammenti  delle storie di ‘ Cornelius Bocchus ’ ; * ed è noto che Plinio Secondosegna questo scrittore il quarto tra gli autori i cui scritti gli servirono di fonti per compilare  il libro XXXVII della sua naturalis historia :3 e appunto nel libro XXXVII trattasi del sucino o ambra ,'    1 Vedi MASSsMAnN, op. c., pp. 158-159. TH Finck, Germ. herausgegeben u. erlàutert, Gòttingen 1857, p. 14, nota 2. GEFFROY,  Op. c., p. 97. A: Pars, comm. cit, p. XIX. MARINA, Op. c., p. 4;  2. RAMORINO, disc. c., p. 31. etc.   ? Historic. Rom. fragmenta, ed. Peter, Lps. 1833, p. 298, n.° 8,*  Vedi Mommsen, introd. ai coll. r. m. di Solino, p. XVII.   3 PLIN. n. h. I ex auctoribus l. XXXVII. Si valse anche delle opere di Bocco per compilare i Il. XVI, XXXII e XXXIV;  ma in questi u'timi due si cita solo ‘ B»echus', senza il nome  * Cornelius.   4 PLIN. n. A. XXXVII 3 (11), 42 e 43. Le notizie sull'’ambra,  date da Bocco e raccolie da Plinio, furono poi ripetute da SoLIN. coll. r. m. 20, 9 sgg. Vedi il comm. c. del DiLTHEY, pp. 290296; e WoLFGANG HELBIG, osseroazioni sopra il commercio  dell’ ambra, in Atti d. Accad. d. Lincei, 1877 : inoltre v. le pp.  184-189 della dissertazione di ETTORE PAIS, intorno alle più antiche relazioni tra la Grecia e l'Italia, in Riv. di filol. e di.  cl. XX (1892).    Rea GEA   e vi si esprime lo stesso concetto annunciato da Cassiodorio, con parole quasi consimili. Nè vale il dire che  nelle voci ‘ legitur, insulis, ex arboris succo, solis ardore’ del 1. ce. di Cassiodorio si ripetono le voci del  testo della Germ. c. 45 ‘legunt, legitur, sucum arborum, insulis, solis radiis’; poichè, oltre la ripetizione  del concetto, vi ha maggiore analogia di forme tra il  passo cit. di Cassiodorio ed il corrispondente luogo di  Plinio Secondo, nel quale luogo si ripresentano, come  sì è avvertito sopra, le notizie date da Cornelio Bocco. !  Nemmeno può ammettersi che Iordanis abbia avuto  notizia della Germ.?® sol perchè nel c. 2 del de or.  act. Get. sì trovano le due voci ‘inaccessam, aperuit?, che si osservano usate anche nel c. 1° della  Germ., ma con tutt'altro intendimento e in due periodi  interamente separati e indipendenti l’ uno dall’ altro *.    1 Cassiod. ‘in interioribus insulis oceani’; cf. Plin. n. A.  XXXVII 3 (11), 42 ‘in insulis septentrionalis oceani’. Cassiod.  ‘ex arboris succo defluens’; cf. Plin. ibid. ‘ defluente medulla  pinei generis arboribus ’; e 43 ‘ arboris sucum esse’. Cassiod.  ‘unde etsuccinum dicitur ’; cf Plin.ibid. 43 ‘ ob id sucinum appellantes’ (e Solin. 20, 9 ‘sucum esse arboris de nominis capessas qualitate ’). Cassiod. ‘ aestu alternante purgata, littoribus  tradatur exposita ’; cf. Plin. ibid. 42 ‘ipse intumescens aestus  rapuit ex insulis, certe in litora expellitur esse concreti maris purgamentum. Che Iordanis abbia avuto notizia della Germ. l' ammette il  Massmann, op. c., p. 157.   3 IorpAN. de or. act. Get. 2, 5 p. 3, H. ‘quam diu siquidem  armis inaccessa m (sc. Britanniam) Romanis Iulius Caesar proeliis, ad gloriam tantum quaesitis, aperuit’. Si confronti con Germ. 1, 3 ‘cetera Oceanus ambit...... nuper co  CONSOLI : L’ autore della Germania. 4    i  50   E non solamente nella Germ. occorre il v. ‘ aperire ’ nel  significato di « far conoscere, dar notizia », e perciò  « rendere accessibile », perocchè con lo stesso significato appare in Livio !, Mela ?, Tacito 3, etc. Similmente  non è attendibile il confronto del c. 3 del lib. di Iordanis col c. 40 della Germ., ‘nei quali cc. sono comuni  le parole ‘est in Oceani insula’, non ordinate però in  modo identico in entrambi. Poi è da notarsi che  Iordanis cita, come fonte della sua designazione geografica, il secondo libro dell’opera di Tolomeo; nè, d’altro canto, è noto quale sia precisamente 1’ isola indicata nella Germ., nella quale era il luogo sacre alla  dea ‘ Nerthus” o ‘Terra mater ’ £.   Neppure il luogo del ven. Beda, che noi, trattando dei  ‘ Bructeri ’, abbiamo riferito sopra (p. 28, nota 3), dà la  certezza che questo scrittore, vissuto dal 674 al 735, ab     gnitis quibusdam gentibus ac regibus, quos bellum aperuit.  Rhenus, Raeticarum Alpium inaccesso ac praecipiti  uertice ortus’ e. q. s. i   1 Liv. X 24, 5. XXXVI 17, 14. XLII 52, 14.   2 Pompon. Met. chor. III 6, 49.   8 Tac. Agr. 22, 1. hist. IV 64, 19. ann. II 70, 10. Vedi inoltre  Lvcan. de b. c. IV 352. Var. FLAC. Arg. I 169.   4 ]l confronto è sostenuto anche dal Massmann, l. c.   5 IORDAN. 3, 4 p. 4, H. “est in Oceani arctoi salo posita insula magna, nomine Scandza ”. Germ. 40, 8 ‘ est in insula Oceani castum nemus ”.   6 Si discute ancora se sia Riigen, Fehmarn, Helgoland, Laaland, Bornholni, Seeland, la Scandinavia stessa , che gli antichi consideravano come isola. Il MicHELSEN, vorchristliche  Kultusstatten (citato da U. Zernial, comm. p. 78, da A. Pais,  comm. p. 61, e da G. Marina, op. c., p. 127) indica come più  probabile Alsen.« mit dem heiligen Walde Hellewith und dem  heiligen See Hellesò ».       pe    =.  bia avuto notizia diretta della Germ. Si asserisce, è vero,  che i nomi di popoli ‘ Fresones, Rugini, Boruchtuarii,  Anglii’ egli non poteva ad altro fonte attingerli che  alla Germ., perchè appunto nei cc. 34, 44 (43), 33, 40  della Germ. si tratta di essi !, Ma ciò è inesatto, perchè troviamo fatta menzione dei ‘ Frisii ’, che il Beda  chiama ‘ Fresones *, in Plinio Secondo, Cassio Dione, nel  panegyr. Constantio Caesari, oltrechè in Tacito. * Dei  ‘ Rugii ’, detti dal Beda ‘ Rugini ?, si fa menzione nell’appendice excerpta Valesiana alle storie di Ammiano  Marcellino ; inoltre in Iordanis, Procopio, Paolo diacono. ? Quanto ai ‘ Bructeri ’, che con lieve mutazione .il  Beda chiama ‘ Boruchtuarii ’, è opportuno aggiungere  che di loro si fa cenno non solamente da Velleio Patercolo, Plinio il giovane, Nazario e dall’autore del panegirico a Costantino Augusto, dei quali sopra si è tenuto discorso, ma anche da Strabone, Claudiano, Gregorio di Tours, etc. * Degli ‘Anglii’, che nel sec. V  passarono nella Britannia, leggesi un cenno in Tolomeo 5; e lo stesso Beda spiega l’ etimologia del loro    1 Vedi MassMann, op. c., p. 159.   2 Pcin. n. A. IV 15 (29), 101: qualcuno legge anche la voce  ‘ Frisii’ premessa a ‘gens tum fida’ in XXV 3 (6), 21. Cass.  Dion. r. Rom. LIV 32. Incerti pan. Const. Caes. 9; in BAEHRENS,  XII pan. Lat., V, p. 138. Tac. Agr. 28, 14. hist. IV 15, 12; 18,  26; 56, 15; 79,8. ann. I 60, 6.IV 72, 1; 74, 1. XI 19,3. XIII 54, 2.   3 Excerpta Vales. 10, 48 p. 292, 2° vol., ed. Gardthausen. IorDAN. de or. act. Get. 54,7 p. 64, H. PrRocoP. de db. Goth. II 14.  PavL. pIac. de gest. Langobard. I 19, in rer. Ital. scriptt. del  MURATORI, t. I, -pp. 415-416. Cf PTOLEM. geogr. II 11.   4 STRAB. geogr. VII 1, 3-4 (C. 290-292), pp. 398-401, ed. M.  CLAVDIAN. de IV cons. Hon. 451. GRrEGOR. TvRENS. II 9.   5 ProLem. geoyr. II 11. Un antico trad, di Tolomeo li disse    vi BO  nome: ‘porro de Anglis, hoc est de illa patria quae  Angulus (per altri, Anglia) dicitur.’ ! L'angolo sarebbe  il territorio che si estende da Flensburg sino all’ Eider,  a sud-ovest dello Schleswig. *    III.  Le prime e sicure tracce della Germ. appariscono nel sec. IX, in un libro intitolato franslatio S.  Alexandri?, che fu cominciato da Rudolf, monaco del  monastero di Fulda, nell’a. 863, e, per la morte di costui avvenuta nell’ 865, continuato e portato a fine da  un altro monaco dello stesso monastero, Meginhard.  Rudolf, trattando, nelle prime pagine del suo lavoro,  dei costumi dei Sassoni, riproduce alla lettera diversi  luoghi dei cc. 4, 9, 10, 11 della Germ., rendendone alcune espressioni più adatte al gusto letterario de’ suoi  tempi; ma non nomina mai l’autore del libro. Valgano i sgg. confronti, nei quali sono trascritte in corsivo    ‘ Sueui Angili, qui magis orientales sunt quam Longobardi '; Col.  Agrip. 1584, p. 27, col. 1°.   1 Ven. BEDA, hist. gent. Angl. I 15, col. 11, t. III, ed. c.   2 Si noti eziandio che il ven. Beda dovette attingere le notizie sui ‘Saxones’, dei quali fa cenno nel l. c., non soltanto  alla geogr. di Tolomeo, ma anche ad altri fonti, p. es. AMM.  Marc. r. g. XXVI 4,5. XXVII 8, 5. XXVIII 2, 12; 5, 1e4.  XXX 7, 8. PacaT. DREPAN. pan. Theodos. Aug. 5; in BAEHRENS, X// pan. Lat. XII, p. 275. Oros. hist. adu. pag. VII 25, 3;  32, 10. IORDAN. de or. act. Get. 36, p. 43, ed. H.   3 Pubbl. nei monum. Germ. historica, t. II, p. 675 sgg., ed.  Pertz.   4 Il RITTER, Op. c., praef. p. XVI, n., dimostra evidente l’errore in cui incorsero il Massmano, op. c., p. 224 sgg. e il Haupt  (comm. Germ.) di attribuire a Meginhard quella parte della  transl. S. Alex, che era stata scritta da Rudolf,    le parole e parti di parole della Germ. identicamente  ripetute nella dransl. S. Alexandri:    Rudolf: ‘nec facile ullis aliarum gentium... conubiis  infecti, propriam et sinceram et tantum sui similem gentem  facere conati sunt. unde habitus quoque... corporum...in tanto hominum numero, idem pene omnibus’: cf. Germ. 4,    Rudolf: ‘marime Mercurium venerabantur, cui certis  diebus humanis quoque hostiis litare consueuerant. Deos suos  neque templis includere neque ullae humani oris speciei adsimilare ex magnitudine... caelestium arbitrati sunt: lucos ae  nemora consecrantes deorumque nominibus appellantes secretum illud sola reuerentia contemplabantur’: cf. Germ. 9.    Rudolf: ‘auspicia et sortes quam maxime obseruabani :  sortium consuetudo simplex erat. uirgam frugiferae arbori decisam in surculos amputabant eosque notis quibusdam discretos super candidam uestem temere ac fortuito spargebant. mox,  sî publica consultatio fuit, sacerdos populi, sì priuata, ipse pater familias precatus deos coelumque suspiciens ter singulos tulit, sublatosque secundum inpressam ante notam interpretatus  est. sî prohibuerunt, nulla de eadem re ipsa die consultatio :  si permissum est, euentuum adhue fides exigebatur. auium uoces uolatusque interrogare proprium gentis illius erat; equorum quoque praesagia ac monitus experiri, hinnitusque ac fremitus obseruare; nec ulli auspicio maior fides, non solum apud plebem, sed etiam apud proceres habebatur. erat el alia  obseruatio auspiciorum, qua grauium bellorum euentus explorare solebant: eius quippe gentis, cum qua bellandum fuit, captiuum quoquo modo interceptum cum electo popularium suorum, patriis quemque armis, committere et uictoriam huius  uel illius pro iudicio habere ’: cf. Germ. 10.    Rudolf: ‘quomodo autem certis diebus, cum aut inchoatur luna aut impletur, agendis rebus auspicatissimum initium  crediderint...... praetereo ’: cf. Germ. 1l.    Si osservano anche tracce della Germ.in più luoghi  di Adamo di Brema, scrittore del sec. XI: in essi si PES gra   fa menzione della ‘Sueonia” e dei ‘ Sueones ’;! ed è  noto che in nessuno scritto, greco o latino, lasciatoci  dall’antichità classica, e anteriore alla Germ. (c. 44),  si fa parola dei ‘ Suiones ’, abitatori della penisola  scandinava o della parte orientale di essa. ? Iordanis  menziona la ‘ gens Suethans” e i ‘ Suethidi, cogniti in  hac gente reliquis corpore eminentiores 7.3 Ma Adamo  di Brema dovette ricavare dalla trans. S. Alex., non  dalla Germ. direttamente, quelle poche frasi del suo  lib. V, le quali sono consimili ad alcune frasi che si  leggono nei ce. 4, 9, 10, 11 della Germ. Lo stesso può  dirsi del chronicon Vraugiense del sec. XII, per quelle  espressioni che paiono imitate dalla Germ. e, invece,  furono desunte dalla stessa Zransl. S. Alex. 4   Il Cornelius, nel suo pregevole studio sulle vicende  delle opere tacitiane nel medio evo, ha creduto affermare che in un luogo della vita Mathildis di Donizone  (nel qual luogo si nota la facilità biasimevole, con cui  i Germani ingaggiavano delle risse cruente, massime se eccitati da troppe bevande spiritose) si ripete  l’ osservazione del c. 22 della Germ.: ‘crebrae, ut inter uinolentos, rixae raro conuiciis, saepius caede et  uulneribus transiguntur ’. Ma il confronto appare inverisimile, perchè Donizone, piuttosto che riferirsi ad una  cattiva usanza osservata dall’ autore della Germ., in  1 Descriptio insularum Aquilonis 21 (c. 230), in Micene, Patrolog. curs., t. CXLVI, col. 637; 27 (c. 235), col. 644; 26 (c. 234),  col. 642.   ? R. KEySER, Norges historie, Kristiania 1865, vol. I, p. 34 sg.   3 IORDAN. de or. act. Get. 3, 40; 3, 55, p.5 H.   4 V. il confronto dimostrativo fatto dal Massmann, op. c., Anhang tende dar notizia della facilità con cui a’ suoi tempi  si veniva a risse sanguinose per causa dell’ubbriachezza. * Del resto, trattasi di un’ usanza, che osserviamo  tutto dì nelle classi sociali che più difettano di coltura  e si abbandonano al vizio dell’ ubbriachezza : molto più    doveva ciò avvenire tra genti barbare, e nei tempi descritti da Donizone. *    Dalle osservazioni premesse ci è dato concludere che,  sino all’età del Rinascimento, sparutissime sono le tracce  della Germ. nella tradizione degli scrittori: non mai  Tacito venne indicato quale autore della Germ.    1 MANITIUS, Beitrige c., p. 566. RAMORINO, disc. c, pp. 91-92,  nota 40.   ? Tacito avvertiva: ‘nec facilem inter temulehtos consensum’ (Aist. I 26, 6)  ‘ uinolentiam ac libidines, grata barbaris Il primo degli umanisti, che abbia fatto menzione della scoperta di un libro intitolato de origine  et situ Germanorum, fu Antonio Beccadelli, detto il  Panormita, il quale, in una lettera diretta al Guarini  veronese, scriveva: ‘ compertus est Cor. Tacitus de origine et situ Germanorum. Item eiusdem liber de uita  lulii Agricolae isque incipit: clarorum wirorum facta  ceteraue. Quinetiam Sex. Iulii Frontonis liber de aquaeductibus qui in urbem Romam inducuntur; et est litteris  aureis transcriptus. Item eiusdem Frontonis liber alter,  qui in hunc modum iniciatur : cum omnis res ab imperatore delegata mentionem exrigat et cetera. Et inuentus est quidam dialogus de oratore et est, ut coniectamus, Cor. Taciti, atque is ita incipit: saepe ex  me requirunt et cetera. Inter quos et liber Suetonii  Tranquilli repertus de grammaticis et rbetoribus : huic  initium est: grammatica Romae. Hi et innumerabiles  alii qui in manibus uersantur, et praeterea alii fortasse qui in usu non sunt, uno in loco simul sunt; ii uero  omnes, qui ob hominum ignauiam in desuetudinem abierant ibique sunt, cuidam mihi coniunctissimo ii dimittentur propediem , ab illo autem ad me proxime  et de repente; tu secundo proximus eris, qui renatos  sane illustrissimos habiturus sis ’.! Alla lettera si assegna la data dell’ aprile 1426. Con la stessa lettera si  può ben mettere in confronto una epistola scritta dal    1 Studi ital. di filol. class. VII, p. 125.    E   Poggio al Niccoli, in data del 3 novembre dell’anno precedente. ! Il Poggio gli annunziava : ‘ quidam monachus  amicus meus ex quodam monasterio Germaniae, qui 0lim a nobis recessit, ad me misit litteras, quas nudius  quartus accepi; per quas scribit se reperisse aliqua uolumina de nostris, quae permutare uellet cum Nowuella  Ioannis Andreae, uel tum Speculo, tum Additionibus,  et nomina librorum mittit interclusa .. Inter ea uolumina est Iulius Frontinus et aliqua opera Corn. Tac.  nobis ignota. Videbis inuentarium, et quaeres illa uolumina legalia, si reperiri poterunt commodo’ pretio.  Libri ponentur in Nurimberga, quo et deferri debent  Speculum et Additiones, et exinde magna est facultas  libros aduehendi. Vt uidebis per inuentarium, haec est  particula quaedam, nam multi alii restant ; scribit enim  in hunce modum: « sicuti mihi supplicastis de notando  poetas, ut ex his eligeretis qui uobis placerent, inueni  multos e quibus collegi aliquos, quos in cedula hac inclusa reperietis La lettera del Panormita e quella del Poggio convergono nella notizia della stessa scoperta, che il primo accenna con particolari minuti, mentre il secondo,  tranne per le determinazioni concernenti Frontino e Tacito, si rimette all’ inventario; e convergono anche nella  notizia, che nel luogo della scoperta degli autori mentovati abbondavano libri antichi, parte già in uso e parte  ancora ignoti. ® La notizia al Poggio provenne dal mo  1 La data del 1425 è segnata nell’ ed. Tonelli dell’ epistol. del  Poggio, Firenze 1832.   ? Panorm.: “hi et innumerabiles alii quiin manibus uersantur, et praeterea alii fortasse qui in usu non sunt, uno in loco  simul sunt’. Pogg. :‘ haec est particula quaedam, nam multi haco che, appresso, è detto ‘ Hersfeldensis ° !; ma donde  provenne la notizia al Panormita? quale inventario o nota di libri gli fudato di osservare, per indicare poi con  tanta precisione il principio dell’ Agr., dei libri di Frontino, del dialogo de oratoribus e del libro di Suetonio  de gramm. et rhetoribus? Egli fa cenno di un suo  ‘ coniunctissimus ’, al quale sarebbero stati mandati i  libri ‘ propediem ’, e da questo a lui ‘proxime et de  repente ’. Perciò o il monaco hersfeldese, oltre all’avere iniziato delle trattative col Poggio, trattò anche dello  scambio dei codd. del suo monastero coi libri che desiderava, con qualche umanista amico del Panormita; ovvero il Panormita attinse la notizia, che egli comunica  al Guarini, direttamente dal Poggio, tanto più che allora egli era in sì buoni rapporti di amicizia col Poggio  da mandargli, per mezzo del suo discepolo ed amico  Giovanni Lamola, l’Ermafrodito, e ricevere da lui delle magnifiche lodi ® insieme con l’ avvertimento (non  bene accolto) di scegliere argomenti più serii per i suoi  carmi.    alii restant ’; cf. epist. 1. lib. III, del 14 settembre 1426 :‘ quin  etiam dedi operam, ut habeam inuentarium cuiusdam uetustissimi monasterii in Germania, ubi est ingens librorum copia’.  Queste affermazioni dovettero provenire dalla frase ‘inueni  multos’ e. q. s., che si legge in quella parte della lettera del  monaco hersfeldese, che è ripetuta dal Poggio.   1 Poem epist. III 12 T. ‘ monachum illum ,Hersfeldensem ’.   2 Poggi epist. ll 40 T.: ‘ laudo igitur doctrinam tuam, iucunditatem carminis, iocos et sales; tibique gratias ago pro portiuncula mea, qui Latinas Musas, quae iamdiu nimium dormierunt, a somno excitas.’ L’ epistola presenta la data 3 aprile 1426, perciò è contemporanea, o forse di pochi giorni anteriore, a quella scritta dal Panormita al Guarini, Così non si può discompagnare la scoperta della  Germ., indicata dal Panormita, dalle pratiche iniziate  dal Poggio col monaco hersfeldese per aversi, insieme  con altri codd., ‘ uolumen illud Corn. Taciti et aliorum,  quibus caremus ’.! Son note, dall’ epistolario del Poggio, le vicende di tali pratiche; ® ma si ignora quali  possano essere stati i risultamenti finali di esse. Si sa  tuttavia con quale pertinacia insistessero i cercatori di  opere classiche nell’ età del Rinascimento, e in ispecial  modo il Poggio e il Niccoli; talchè non è improbabile  che alla fine il monaco hersfeldese, dopo il vivo rimprovero che gli inflisse il Poggio e la minaccia di non  ottenere nulla, venuto meno il favore del Poggio medesimo, quanto alla lite che a nome del suo monastero  da più anni sosteneva dinanzi alla Curia, 3 si fosse indotto a portargli il cod. promesso. * Nè fa meraviglia  che il Poggio, avuto il cod., ne abbia conservato assoluto silenzio nell’ interesse suo, sia a vantaggio dei    4 Poca epist. III 12 T. Il Voret (trad. VALBUSA, II 4, vol. I,  P. 254) vorrebbe farla risalire alla scoperta fatta, nel 1422 in  Germania, da Bartolomeo Capra, arcivescovo di Milano; e del  parere del Voigt è il SABBADINI (v. Studi ital. di filolog. class.  VII, p. 128 sg.). Ma danno motivo a dubitare di ciò) le osservazioni fatte dal Poggio, in riguardo a tale scoperta, nella lettera  al Niccoli, del 10 giugno 1422 (epist. I 21).   ? Pocair epist. III 12; 13; 14; 19; 29.   3 Pogcir epist. III 29 T. (26 febbr. 1429): ‘ monachus Hersfeldensis uenit absque libro; multumque est a me increpatus ob  eam causam: asseuerauit se cito rediturum, nam litigat nomine monasterii, et portaturum librum. Rogauit me multa: dixi me nil facturum, risi librum haberemus; ideo spero ot illum nos habituros, quia eget fauore nostro”.   4 VOIGT-VALBUSA, op. c., II 4, vol. I, pp. 255-256.    REN no  suoi negozi librari, sia a causa delle vie tortuose e non  sempre legittime allora seguite per venire in possesso  di codd. preziosi. Egli stesso dichiara al Niccoli, in occasione che questi gli aveva prestato l’ esemplare allora noto di Tacito (oggi cod. Medic. II): ‘ Cornelium Tacitum, cum uenerit, obseruabo penes me occulte. Scie  enim ommem illam cantilenam, et unde exierit, et per  quem, et quis eum sibi uindicet, sed nil dubites, non  exibit a me ne uerbo quidem.’ ! Nè osta il giudizio espresso dal Poggio, nella lettera del 17 maggio 1427,  sull’ inventario portato dal monaco di Hersfeld,® cioè  che questo inventario era ‘ plenum uerbis, re uacuum ’,  e che nella parte del medesimo inventario, mandata al  Niccoli, concernente Tacito ed altri scrittori, vi fossero  ‘ res quaedam paruulae, non satis magno... aestimandae ’ ;  onde egli era caduto ‘ ex maxima spe, quam conceperat ex uerbis suis.’ Perciocchè, se in realtà fosse stato  di sì poca importanza e di sì minimo pregio il cod.  promesso, per qual motivo avrebbe il Poggio tanto insistito per averne il possesso, come egli attesta nelle  due lettere che scrisse poi al Niccoli, l’ una del 31  maggio 1427 e l’altra del 26 febbraio 1429? ® Anzi,  nella prima delle due lettere citate, dichiara espressa  mente di aver meglio che per altri. codd. provveduto ‘    al modo di aversi il ‘ uolumen ’ di Cornelio Tacito, ‘ quo  maxime indigemus, id quidem imprimis est, quod uolo:    1 Poee epist. III 14 T. (27 settem. 1427). In conferma del silenzio che tenevasi sui risultamenti delle investigazioni e delle  pratiche iniziate con mercatanti di codd. e con monasteri, v. l’epist. II 1.   2 Poca epist. III 12 T.   8 Pogeli epist. III 13; 29, in fine, T. POR; E  quin mandaui isti monacho, ut uel ipse secum deferret, nam credit se rediturum brevi, uel per alium monachum curaret deferendum : alios (sc. libros) iussi portari Nurimbergam, hunc uero Romam proficisci recta  uia, et ita se facturum recepit ’.   Il Poggio aveva osservato, nell’ inventario presentatogli dal monaco hersfeldese, dei libri classici che  erano ormai acquisiti alla repubblica letteraria ; e ne  traeva argomento per mostrare l’ ignoranza del frate  che, credendo nuovo per tutti quello che esso frate non  sapeva, aveva infarcito l’ inventario di libri già noti,  ‘qui sunt iidem (soggiunge il Poggio al Niccoli ') de  quibus alias cognouisti’. Probabilmente il Poggio dovette  vedere anche indicato nell’inventario del monaco hersfeldese quel tanto che già conoscevasi delle Rist. e degli ann.  di Tacito, e che egli stesso aveva avuto occasione di  leggere nell’esemplare, scritto ‘ litteris antiquis ’, che si  apparteneva a Coluccio Salutati o ad altri, e poi si  ebbe 1’ agio di osservare in un altro esemplare ( oggi  cod. Medic. II ) , scritto ‘ litteris Longobardis ’, prestatogli dal Niccoli ? ed a questo restituito per mezzo di  Bartolomeo de’ Bardi. * Perciò egli nutrì la speranza di  venire presto in possesso anche di qualcuno dei primi  libri degli annali, che forse nell’inventario erano adombrati con qualche indicazione diversa da quella data  comunemente per il codice già noto; ovvero nella presunzione che il frate, ignorante di studi umanistici, non  avesse saputo determinare con chiarezza il cod.posseduto,    1 Poco epist. III 12 T.   ? Pogau epist. III 15 T. (21 ottobre 1427).   3 V. il poscritto della lettera del Poggio al Niccoli, in data  del 5 giugno 1428 (III 17 T.)    I    e da ciòla possibilità che questo cod. per avventura contenesse altre parti non note dell’opera tacitiana; ovvero  per qualsivoglia altra ragione che a noi non è dato investigare. In tal modo può avere una spiegazione plausibile  l’insistenza del Poggio nel pretendere dal frate la consegna del ‘ uolumen Taciti ’, non ostante che prima, dato  uno sguardo superficiale all’ inventario , fosse rimasto  disingannato di quanto aveva sperato, e perciò avesse sì  poco pregiato i libri indicati e avesse notato di trattarsi di ‘ res quaedam paruulae , non satis magno aestimandae’; chè, ‘si quid egregium fuisset ’, serive egli al Niccoli, ‘ aut dignum Minerua nostra, non solum  scripsissem, sed ipse aduolassem, ut significarem ’.! Ed  a rinnovellare le speranze venute meno nell’animo del  Poggio avrà certamente contribuito il discorso fattogli  da Niccolò da Treviri, uomo dotto ‘ et, ut uwidetur, minime uerbosus aut fallax ’, intorno ad un libro di Plinio sulle guerre germaniche. * In questo libro pliniano  il Poggio dovette subodorare i primi libri degli annales, perchè, come bene avverte il Voigt, questi « non  portavano più verun nome d’ autore »;? e però, mentre da un canto iniziava, sebbene con una certa dubbiezza, delle pratiche col Trevirese per aversi il cod.    1 Poggi epist. III 12 T.   2 Poca epist. III 12 T. (17 maggio 1427): ‘ de historia Plinii  cum multa interrogarem Nicolaum hune Treuerensem, addidit  ad ea quae mihi d.xerat, se habere uolumen historiarum Plinii  satis magnum; tunc cum dicerem, uideretne esse /istoria naturalis, respondit se hunc quoque librum uidisse legisseque, sed  non esse illum, de quo loqueretur; in hoc enim bella Germanica contineri '.   3 VoIGT-VALBUSA, Op. c., II 4, vol, I, p. 252.    rm BI   pliniano, ! dall’altro canto, per meglio riuscire nel suo  intento, onorifico e al tempo stesso lucroso, è possibile  che abbia sollecitato anche il monaco hersfeldese per  lo stesso cod. pliniano, in cui, come si è detto, credeva  di potere rinvenire i libri perduti degli ann.; ma di questa seconda pratica nulla scriveva in particolare al  Niccoli, a cui soltanto prometteva, protestando la sua  sincerità , di dire a suo tempo quanto potesse interessarlo ?.    Le pratiche col Trevirese nel primo periodo non dovettero approdare a nulla, poichè costui, trattato malamente dalla Curia, se ne era allontanato sì malcontento da non volerne sentire più di libri o di altro; 3  onde il Poggio si propose di mandare qualcuno in  Germania, che curasse di portargli i libri desiderati, 4    1 PocaIr epist. III 12 T.‘adhuc neque despero, neque confido  uerbis suis (sc. Nicolai Treuerensis)  litterae sunt a quodam  socio suo, cui librorum mittendorum curam delegauit, se misisse libros Francofordiam, ut exinde Venetias deferrentur ’.  Notisi quanto mistero in quei negoziati, forse per non suscitare i sospetti degli amministratori dei monasteri, dai quali  venivano esportati, probabilmente per vie illecite, quei codd.  preziosi. Era forse ad Augsburg o a Dortmund il luogo in cui  conservavasi il cod, pliniano dei bella Germaniae (cf. MaAssMANN, Op. c., p. 179), ovvero nella stessa Frankfurt a/M? Hersfeld non è molto distante da questa città.   2 Pogcit epist. III 12 T. ‘ hie monachus eget pecunia: ingressus sum sermonem subueniendi sibi, dummodo ...... et nonnulla  alia opera quae, quamuis ea. habeamus, tamen non sunt negligenda, dentur mihi pro his pecuniis  haec tracto; nescio  quid concludam: omnia tamen a me scies postea.   3 PogaIr epist. III 13 T. (31 maggio 1427): cf. epist. III 14 (27  settembre 1427).   4 Pool epist. III 13 T. ‘ ego solus uolui aliquem mittere in    ns BA: n  Ma dopo non guari Niccolò da Treviri riapparve nel movimento del commercio librario :! nessun vantaggio  ebbe a ricavare il Poggio dal ritorno del Trevirese, in  quanto al codice pliniano delle guerre germaniche e,  fors° anche, in quanto ai libri di Tacito non ancora  noti? Certo non viè documento, apparso fin oggi, che  ci dia in proposito notizie precise. Ma il Voigt bene  avverte non essere probabile che il Poggio ed il Niccoli  vi avessero rinunziato, e « quel silenzio non sì spiegherebbe meno, se il codice fosse venuto in Italia per vie  segrete ». ?   Intorno ai risultamenti definitivi delle pratiche a lungo continuate tra il Poggio e il monaco hersfeldese,  non è improbabile la congettura del Voigt, che e per  le vive insistenze del Poggio stesso e per l’ efficacia  indubitata del danaro mediceo, alla fine il codice (* uolumen illud Corn. Taciti et aliorum, quibus caremus’ )  sia stato portato a Roma o a Firenze; « diversamente,  soggiunge il Voigt, quegli amici umanisti non si sarebbero dati più pace. Ma le vie difficili e tortuose,  con cui si giunse ad averlo, spiegano abbastanza, perchè il libro sia stato tenuto nascosto per una intera  generazione, dissimulandone il possesso, come quello  delle due parti degli annali ».* Or, si conserva un cod.  su cui si modellò la ‘ ed. princ. ’? stampata a Venezia,  probabilmente da Vindelin da Spira, verso il 1469 o il    Germaniam, qui curaret libros huc afferri: sed nolunt qui nolle  possunt, et deberent uelle”.   1 PoccI epist. III 29 (26 febbraio di e IV 4 T. (27 dicembre 1428).   2 VoIGT-VALBUSA, Op. c., Il 4, vol. I, p. 252.   3 VoIGT-VALBUSA, Op. c., II 4, vol. I, p. 256.    i È  1470: esso contiene gli. ultimi libri degli ann. uniti,  mediante numerazione successiva, coi libri che restano  delle Rist. ?, poi la Germ. e il dial. ; è il cod. Vindobonensis del sec. XV, di scrittura bella ma non accurata,  che a Mattia Corvino, re di Ungheria, provenne, senza  dubbio, da Firenze.? Il cod. Vindobon. porta la data del  1466, perciò è posteriore alla morte del Poggio‘: non  putrebbe, per tanto, essere stato una copia, fatta con poca  diligenza da qualcuno degli scribi del Poggio, sul cod.  primitivo o sur un apografo, venuto a Roma o a Firenze,  di provenienza hersfeldese? « Non è punto provato,  avverte il Ramorino, che tutti i Taciti diffusisi nel 400  provenissero dal secondo Mediceo ».° Sicchè, se la nostra congettura, avvalorata dalle ricerche precedenti e  non contrastata da alcun documento, è attendibile, non  è forse da ammettersi che il frate hersfeldese, ottemperando alle pressanti richieste del Poggio, abbia aggiunto, 1 Seguo l'opinione del Massmann, op. c., p. 23, accolta dg  Carlo Castellani, il quale, in una nota segnata sulla copertina  dell'esemplare che conservasi nella bibl. V. E. di Roma, attribuisce la ‘ princeps’ a Vindelin da Spira. Vedi’ introd. all’ ed.  delle opp. di Tac. fatta dal Jacob, 1885, vol. I, p. XXXV..   ? Ma delle hist. mancano gli ultimi tre capp. del lib. V, cioè  24, 25, 26 e circa metà del c. 23: si giunge sino alle parole  ‘nauium magnitudine potiorem * (V 23), come nel cod. Vatic. 1863.   3 Il Massmann, il Michaelis ed altri edd. di Tac. fanno menzione del cod. Vindobon.: di proposito ne tratta il HimER, in  Zeitschrift fur die bsterr. Gymn. 1878, p. 801.   4 Il Poggio mori il 30-X del 1459: v. i fonti di questa data  nell’ opusc. di G. A. CESAREO, un bibliofilo del quattrocento, p. 5,  2.à eol., nota 2 (estratto dalla riv. Natura ed arte, a. I, 1891-92).   5 RAMORINO, disc. c., p. 96, nota 49.   CONSOLI: L’ autore della Germania. 5    ASTRA    ca Bi   probabilmente in copia, al ‘ uolumen Corn. Taciti * una  parte, l’introduzione forse, insomma quel che aveva potuto avere, del cod. pliniano delle guerre germaniche, nel  quale il Poggio si aspettava di rintracciare i primi libri  degli ann. tacitiani? Ne sarebbe così derivata, o per  preconcetto del Poggio o per interessata annuenza del  frate tedesco o di altri (non escluso Niccolò da Treviri)  alle esigenti aspettative del Poggio, la intitolazione a  Tacito di una parte dei Germanica bella di Plinio Secondo.   Se, dunque, si ammette che fonte del cod. Vindobon.  sia stato il cod. o l’apografo venuto dalla Germania per  i lunghi e pertinaci maneggi del Poggio, e tenuto per  qualche tempo accuratamente nascosto in Firenze, si  spiega agevolmente il perchè fossero noti in Italia la  Germ. e il dial. prima ancora che si avesse notizia dei  codd. portati, sul declinare del 1455, da Enoch d’Ascoli.!    1 Nella bibl. di Cesena si conserva un ms. della Germ., che,  secondo il cat. del Muccioli, appartiene forse al sec. XIV. Tale  indicazione apparve inesatta al LEHNERDT (Enoche v. Ascoli  und die Germania des T.s, in Hermes, vol. XXXIII, fasc. 3°,  p. 504), perchè nel ms. è disegnato lo scudo e il nome di Malat[esta] N[ouellus], vicario apostolico di Cesena e fondatore di  quella bibl., morto nel 1465. Veramente la data del sec. XIV è  da reputarsi molto anteriore alla vera: ma non poteva il ms.  essere stato copiato sur un cod. o un apografo anteriore alla divulgazione dei libri portati da Enoch in Italia? non era  forse Malat. Novello in vita ed in grande autorità prima del  1455? Un altro ms, della Germ., più corretto del precedente,  è incluso nel cod. segnato D IV 112, che si conserva nella bibl.  Gambalunga di Rimini; porta la data del 1426, secondo il cat.  del prof. Attilio Tambellini (v. G. MAZZATINTI, inventari dei mss.  delle biblioteche d' Italia, Forlì 1892, vol. IL, p. 165, n.° 23), la     607     II.  Per altra via, qualche tempo dopo, gli umanisti del ‘400 ebbero di nuovo notizia della Germ. : se  ne ascrive il merito ad Enoch di Ascoli. ! Era questi  un mediocre erudito, ? che aveva passato alcuni anni  in Firenze, prima quale maestro dei figli di Cosimo  de’ Medici, e poi con l’ ufficio di ripetitore nella  famiglia de’ Bardi; indi insegnò belle lettere in Ascoli  e in Perugia. Sia per rapporti personali che egli aveva col papa, sia per autorevoli lettere commendatizie  concesse da Cosimo de’ Medici, a cui era stato prima  raccomandato dal dotto Ambrogio Traversari, generale  dell’ ordine dei Camaldolesi$ fu prescelto da Niccolò V  per fare delle ricerche di codd., specialmente delle deche perdute di T. Livio, nelle biblioteche delle chiese    quale data il LEHNERDT (I. c., p. 505) e R. RETZENSTEIN (zur Texrtgeschichte der Germania, in Philologus vol. LVII (n. s. XI),  fasc. 2°, p. 367 sg.) ritardano giustamente sino al 1476; tanto  più che chi scrisse l’apografo, certo Rainerius Maschius da  Rimini, dichiara di averlo scritto allorchè ‘ dicebatur oratores  imperatoris et regis Gallorum et aliorum ultramontanorum uenire ad oranlum Sixtum IIII pontificem'; perciò dopo il 1471,  anno in cui fu assunto alla tiara Sisto IV della Rovere.   4 Per i funti delle notizie intorno ad Enoch d'Ascoli, v. ALFREDo REUMONT, aneddoti storico-letterari, in Archivio storico italiano, serie III, t. XX (1874), pp. 188-189. VOIGT-VALBUSA, OP. C.,  vol. II, pp. 192-194.   2 Si deve riconoscere un encomiv esagerato in quel che scrisse  di lui Gius. LENTO, clarorum Asculanorum praeclara facinora,  Romae 1622, p 37: ‘ Enochus, sapienti et altiore mente praeditus, omnem mouere lapidem, donec res (cioè, la scoperta di  codd. antichi) prospere scilicet cesserit. quam ob rem non solum nutantes litteras Latinas confirmauit, uerum Graecam facundiam tuendo melius propagauit latius.'   3 A. TRAVERSARII epist., p. 335, ed. Mehus.     6R  e dei chiostri dell’ Europa settentrionale. Enoch partì  per il suo viaggio di esplorazioni letterarie nella primavera del 1451 : visitò l’ isola di Seeland, e di là scrisse una comunicazione a Leon Battista Alberti.! Poi non  diede più notizie di sè,” salvo quelle accennate dal Poggio in una lettera, con la frase sarcastica: ‘ Enoch Esculanus, qui adeo diligens fuit, ut nihil iam biennio  inuenerit dignum etiam indocti hominis lectione ’.8 Probabilmente, se si accoglie la testimonianza del Filelfo,*  Enoch penetrò nella penisola scandinava. Non si ha  alcuna notizia intorno alla via del ritorno: è possibile  che abbia percorso, per fare ritorno in patria, la Germania e vi abbia fatto delle indagini per iscoprire dei  codici. Si conserva ancora nell'archivio di Kònigsberg  il breve, con cui Niccolò V raccomandava al gran maestro dell’ Ordine teutonico, Ludwig von Erlichshausen,  il ‘ dilectum filium Enoch Esculanum qui diuersa  loca et monasteria inquirat, si quis ex ipsis deperditis  apud uos libris reperiretur ’.5 Ma non è provato da alcun       1 GrroL. MANCINI, vila di L. B. Alberti, Firenze i882, p. 328 sg.   2 Onde il Poggio ironicamente scriveva: ‘ ille enim Enoch adeo solers et diligens fuit, ut ne uerbum quidem ad me adhuc  scripserit’; epist. X 17 T. (22 gennaio 1452 [1453]).   3 Poca epist. IX 12: la lettera non porta data; è probabile  che sia stata scritta nel 1453.   4 Nella lettera del Filelfo a Callisto III, del 19 febbr. 1456,  (epist. Ven. 1502) si legge: ‘is enim Enochus in Daciam (/. Daniam) usque profectus est, et, ut referunt aliqui, in Candauiam  (. Scandinauiam) usque, quae quam longissime ultra reliquas  omnes insulas, de quibus exstet memoria apud priscos rerum  scriptores, posita est in mari oceano e regione Germaniae ad  septentrionem ’.   5 VOIGT-VALBUSA, Op. c., V ©, vol, II, p. 193,       lm    documento, che Enoch sia stato in Hersfeld ed abbia fatto  delle ricerche in qualche monastero di quella città. E,  del resto, a qual fine visitare i monasteri di Hersfeld, per  i quali egli avrebbe « senza dubbio ricevuto istruzioni  esatte da Poggio »,' se il monaco tedesco, con cui ebbe  a trattare il Poggio per il‘ uolumen illud Corn. Taciti  et aliorum ’, era, è vero, « nativo di Hersfeld », ma  « stava nel convento di Niirnberg, e andava e tornava spesso da Roma per interessi del monastero »,°  cioè del monastero norimberghese ? In ogni caso, non  sarebbe una congettura priva di fondamento, che Enoch,  nel suo viaggio di ritorno, avesse visitato qualcuno  dei monasteri di Nirnberg, secondo le possibili istruzioni dategli dal Poggio.   Enoch ritornò a Roma sul declinare del 1455, 5 portando seco alcuni codici ; ma non vi trovò liete accoglienze, come egli sperava, perchè Niccolò V, suo protettore, era morto, e il nuovo papa Callisto III non  mostravasi benevolo verso gli umanisti e le loro ricerche  letterarie. Aggiungasi che gli eruditi, tanto a Roma  quanto a Firenze, non mostravano benevolenza per lo  Ascolano, poichè questi si era deciso a non concedere  copia alcuna de’ suoi codd., prima che fosse stato. degnamente rimunerato delle sue fatiche. Scriveva, infatti,    1 Studi ital. di filol. class. vol. VII, p. 130.   ? Studi ital. di filol. class. vol. VII, p. 128.   8 « Forse nel novembre », aggiunse VITTORIO Rossi nella nota: l'indole e gli studi di Giovanni di Cosimo de’ Medici, notizie e documenti; pubblicata nei Rendiconti della R. Accad.  dei Lincei, classe di scienze morali, storiche e filologiche : es=  tratto dal vol. II, fasc. 19, Roma 1893. A p. 34 sg., n. 4, lo dimostra ampiamente,    A] Je    Carlo de’ Medici, protonotario apostolico , al fratello  Giovanni: « sì che vedete se volete gettare via tanti  danari per cose, che la lingua latina può molto bene  fare senza esse, che a dirvi l’oppenione di molti dotti  uomini, che gli anno visti, da questi quattro infuori che  sono segnati con questo segno x, tutto il resto non vale  una frulla ».'! Ciò non ostante Carlo de’ Medici mandò  al fratello, insieme con la lettera cit., l’inventario dei  codd. portati da Enocb. Su questo inventario si deter-.  minò meglio l’opinione punto benevola che i dotti fiorentini si erano formata per lo scopritore : di essa si  rese interprete Vespasiano da Bisticci che, per ispiegare  quel che tenevasi cattivo risultamento del viaggio fatto  da Enoch per investigazioni letterarie , scriveva nella  sua biografia del « maraviglioso grammatico » : « istimo  che procedesse per non avere universale notizia di tutti  gli scrittori, e quegli che erano e quegli che non si trovavano ». # Or, come mai si può conciliare tanta noncuranza , non diciamo dispregio , per i codd. scoperti  dall’ Ascolano, se tra questi era compreso quel codice  hersfeldese, o meglio norimberghese, per il cui possesso  si era sì lungo tempo e con tanta persistenza affaticato il Poggio, d’ accordo col Niccoli ? Non è lecito  forse da questa contraddizione argomentare che il cod.,  che si vuol dire hersfeldese, fosse probabilmente venuto  prima in possesso del Poggio? 3 Sarebbesi questi mo  1 GAxE, carteggio I, p. 163 sg. Vitt. Rossi, opusc. c., II, p. 27.  La lettera del Medici porta la data del 13 marzo 1456, st. com.;  1455, st. fior.   ? VESPASIANO, vile d'uomini illustri del sec. XV, ed. Bartoli,  p. 511.   8 Volet-VALBUSA, Op. c., V 5, vol, II, p. 194, nota 2: suppone    si  strato così indifferente per le scoperte di Enoch, e avrebbe  con la sua indifferenza provocato quel giudizio sì freddo  e altezzoso della scuola umanistica fiorentina, sulla quale’  valeva molto la sua grande autorità, se non avesse  posseduto prima del ritorno di Enoch, avendolo in un  modo qualsiasi ottenuto, un esemplare del cod. che per  lunghi anni aveva così vivamente ambito ?    III.  Enoch, disingannato per la fredda accoglienza  avuta e dai dotti umanisti e dai principi mecenati , si  ritirò ad Ascoli, dove poco dopo mori. Quand’ egli si  ricoverò nella sua città nativa, dovette portare seco i  codici che, per la forte remunerazione che si aspettava  di duecento o trecento fiorini, non aveva potuto trovare  occasione di cedere ad alcuno; e che egli avesse. con  sè i detti codici prima di morire, c’ induce ad ammetterlo una lettera del protonotario apostolico Carlo de’  Medici, del 10 dicembre 1457, nella quale questi serive  al fratello Giovanni che, avuta notizia della morte di  Enoch , sì era affrettato a scrivere a Stefano de’ Nardini, da Forlì, allora « governatore di tutta la Marca »,  per pregarlo di mandargli, se non gli originali, almeno  le copie dei codici dell’ Ascolano. !   Non si ha alcuna notizia certa intorno alle persone  che vennero in possesso dei codici portati da Enoch.  Quando questi giunse a Roma, dopo la sua lunga peregrinazione per i paesi nordici, dovette certamente, oltre  al presentare degli elenchi dei libri scoperti, permettere  anche di osservare i libri stessi; ma non permise a nes  che nell’ elenco di Enoch non fossero stati inclusi gli scritti di  Tacito e di Suetonio.  1 Vitt. Rossi, opusc. c., VIII, p. 30.    naz  suno di trarne copia, prima che gli si fosse data una degna remunerazione per la scoperta fatta.! Perciò, finchè  egli fu in vita, i codici che aveva scoperti rimasero in suo  potere. Aveva tentato, è vero, confortato forse dalle esortazioni dell’ Aurispa *, di offrirli a re Alfonso; ma  il risultamento delle nuove pratiche non dovette essere  conforme ai desideri di Enoch. Non è però improbabile  che, dopo la morte di Enoch, i codici di lui siano passati, mediante gli abili maneggi di Carlo de’ Medici e  la cooperazione di Stefano de’ Nardini, nella biblioteca  di Giovanni di Cosimo de’ Medici , e perciò a servizio  degli umanisti fiorentini. Un’ allusione a ciò pare di    1 Carlo de’ Medici scriveva al fratello Giovanni, in data del  13 marzo 1456 (1455, st. fior.): « Lui (Enoch) per insino a qui  non ha voluto farne copia a persona, imperò dice non vuole  avere durate fatiche per altri, e non delibera darne copia alcuna, se prima da qualche grande maestro non è remunerato  degnamente, ed ha oppenione d’averne almanco 200 o 300 fiorini ». GAYE, Op. c., I, p. 163. Vitt. Rossi, opuse. c., p. 27.   Sino al dicembre 1457, quando già era ‘avvenuta la morte di  Enoch, nè Carlo de’ Medici né il card. di Siena avevano potuto avere gli originali o le copie dei libri nuovi lasciati dal1 Ascolano : v. lett. VIII del 10 dicembre 1457, in Virt. Rossi,  opusc. c., pp. 30-31.   2 V. la lettera dell’Aurispa al Panormita, del 28 agosto 1455,  in SABBADINI, biogr. documentata di Giovanni Aurispa, Noto  1890, p. 128; e v. la chiusa di un’altra lettera dello stesso Aurispa al Panormita, del 13 dicembre 1455, pubblicata nel cit.  libro del Sabbadini, p. 133. Ma la data della prima lettera deve essere portata un po’ più tardi, probabilmente al 1457, come  han dimostrato con validi argomenti il CESAREO, opuse. c., I,  p. 4, col. 12, e il Rossi, opusc. c., pp. 34-35, nota 4.    A RES  scorgere in una lettera scritta da Carlo de’ Medici, il  13 gennaio 1458. !   In qual modo pervenne ad averne notizia, e come si  ebbe l’agio di farne l’apografo Gioviano Pontano, il  quale viveva lontano dai circoli letterari di Roma e  di Firenze? Nessun documento ci aiuta, per ora, a determinare una risposta precisa e certa al quesito proposto; e nulla c’ è da spigolare nè da congetturare  dalle due note attribuite al Pontano, che si leggono  nel cod. Leidens. Perizon. Ma è possibile che nuove ricerche sulle vicende di alcuni codici di fonte (come  credesi) pontaniana , i quali si conservano nella biblioteca di Minchen, p. es. il cod. degli Argon. di  Val. Flacco , ? e il cod. che contiene il libro Andreae Floci Florentini de Romanorum magistratibus ac sacerdotiis;* e nuove indagini negli archivi di  Firenze e di Napoli chiariscano le relazioni che ebbe  il Pontano con gli umanisti fiorentini, dai quali probabilmente si ebbe facoltà di prender copia dei codici  d’ Enoch, che egli trovava ‘ mendosos et imperfectos.’  Ma le congetture concernenti le relazioni del Pontano  con la scuola umanistica fiorentina non tolgono la pos  4 Nella cit. lettera del Medici (v. Rossi, opusc. c., IX, p. 31)  si legge: « Per una vostra sono avisato come aveste la lettera  mi scrisse m. Stephano de Nardinis supra quelli libri di Enoc;  non ho poi altro, ma non dubitate che per essere il primo che gl’abbia,non v’àanno acostare uno denaro di più ». Il Rossi tuttavia resta in dubbio « se quei  maneggi sortissero l’effetto desiderato » (pag. 39).   2 Nel cod. Lat. 802 (cod. Victorin. 123) leggesi appunto l' annotazione ‘emit Florentiae Iouianus ’.   3 Nel cod. Lat. 822 (cod. Victorin. 162) c'è la nota ‘ est Iouiani Pontani. Florentiae, MCCCCLXV III ',       i    sibilità, che egli sia venuto a conoscenza dei codici enochiani, per acquisto che abbia fatto degli stessi la  corte di Napoli; sebbene, in tal caso, non ci sarebbe  stato altro scopo per trarne copia, che quello di correggerne le mende numerose. Ma nessun documento nè  indizio ci aiuta per affermare o congetturare ciò.   Fatto certo è che il così detto cod. hersfeldese, quale  fu portato da Enoch a Roma, non si conservò in nessuna biblioteca: era scritto su pagine divise in colonne, e per la Germ. presentava (se quanto afferma il Decembrio, è da riferirsi al cod. anzidetto !) la particolarità dell'uso della v. ‘inscientia ? nel cap. 16, 6, invece  di ‘inscitia’; mentre, come è noto, nel sec. XV era  invalsa generalmente l’ usanza di scrivere le pagine  dei libri per intero, senza dividerle in colonne; e in>  oltre, in nessun cod. della Germ., finora conservato,  osservasi la v. ‘ inscientia ’ nel 1. c. ?    IV.  Quanto all’ elenco dei libri portati iu Italia da  Enoch d’ Ascoli, non abbiamo testimonianze del tutto  concordi nè complete. Bartolomeo Platina ne nota due:  il de re coquinaria di Celio Apicio e il comm. ad Orazio di Porfirione.* Degli stessi due libri fa menzione  Vespasiano da Bisticci. 4    1 Vedi SABBADINI, il ms. hersfeldese etc., in Rio. di filol. e d’i.  cl., a. XXIX (1901), p. 262.   ? Soltanto il cod. della bibl. Angelica (‘ Augustinorum’ ) Q 5,  12 del 1466, e il cod. Kappianus (K del Massmann) presentano  “iusticia’ invece di ‘ inscitia ”.   3 PLATYNAE de uitis max. pont. hist. periocunda, Venet. (Ph.  Pincio Mantuano) 1511, fol. 150,   4 VESPASIANO, l. c.    Par | pes   Il Panormita apprese da Teodoro Gaza che tra le  scoperte enochiane erano Apicio e un Caesaris iter;! e  l’Aurispa, in una lettera del 13 dicembre 1455, diretta al  Panormita, enumera: a) l’Apicio, cui chiama ‘ pauperem  coquinarium ’, inferiore nell’arte culinaria alla sua cuoca; b) il Caesaris iter, che ‘ prosa oratione est, non  uersu’; c) il commento di Porfirione, che a lui sembra ‘ magis aestimandus quam quicquam aliud ab ipso  allatum ?.* Il ‘ quicquam aliud ’ della frase dell’Aurispa  può tanto riferirsi ai due libri menzionati prima, Apicio e il Caesaris iter, quanto alle altre novità librarie  recate da Enoch, le quali l’Aurispa non credeva degne  di essere rammentate; chè non può supporsi che egli  le ignorasse, se scriveva al Panormita: ‘eum qui codices hos inuenit et Romam perduxit ad uos mittam  cum omnibus musis suis”.   Carlo de’ Medici chiedeva a Stefano de’ Nardini che  dei codici nuovi lasciati da Enoch, morto ad Ascoli,  gli mandasse: « Appicius de re quoquinaria, Porfirione  sopra Oratio, Suetonio de uiris illustribus, Itinerarium  Augusti ».* Dovevano essere gli stessi quattro libri  che avea contrassegnati nella lettera del 13 marzo 1456  a Giovanni de’ Medici; poichè il resto dei libri portati  dall’Ascolano non valeva, secondo lui, « una frulla » ‘.    1 Nella lettera del Panormita all'Aurispa (v. SABBADINI, dbiogr.  doc. di G. Aurispa, p. 133, n. 1) si legge: ‘ fac tecum deferas Apicium coquinarium et Caesaris « iter », nuperrime, ut refert  Theodorus tuus nunciam meus, inuentos Romamque perductos ’.   2 La lettera dell'Aurispa è cit. a p. 72, nota 2.*   8 Di questo incarico dato al Nardini egli scrive al fratello Giovanni, nella lett. del 10 dicembre 1457: v. VITT. Rossi, opusc. c.,  VIII, pp. 30-31.   4 Vitt, Rossi, opusc, cit., II, p. 27.    TR (; pere   Talchè ai tre libri che già conosciamo per le testimonianze sopra indicate, bisogna aggiungere, secondo quel  che scriveva Carlo de’ Medici, il libro di Suetonio de  uiris illustribus (non de grammaticis et rhetoribus).  Oltre questi quattro libri, null’ altro sappiamo degli altri libri portati da Enoch.' Nè a riempiere la lacuna può  valere la testimonianza, testè data alla luce, di P. C.  Decembrio; poichè questi non dice, nè lascia in alcun  modo intendere, che i quattro libri segnati nella nota  (Germ., Agr., dial. de oratoribus e Suetonio) si debbano comprendere tra le recenti scoperte di Enoch. L’a.  1455 a cui, nella nota del Decembrio, si accompagnano  le parole ‘ Cornelii taciti liber reperitur Rome uisus ”,  vale a indicare in qual tempo l’autore dello zibaldone  ebbe notizia o vide i libri che nota nell’ elenco, non  la data della scoperta di Enoch; chè, se intendimento  di lui fosse stato accennare in un modo qualsiasi tale  data, avrebbe certamente aggiunto qualche parolaanaloga a quelle che si osservano nella nota del cod. Leid.  Perizon. ‘ nuper adinuentos et in lucem relatos ab Enoc Asculano ?. :   Nulla, per tanto, osta ad ammettere che il Decembrio  abbia potuto attingere le notizie che trascrive nel suo  zibaldone a tutt’ altra fonte, che non a quella dei co  1 Appare inesatta l’asserzione, che nella lista di Carlo de'  Medici sia notata la sola opera di Suetonio « certamente perchè essa nel cod. occupava il primo posto » (v. Studi ital. di  filol. class. vol. VII, p. 130, nota 4); perocchè , argomentando  da una nota di Pier Candido Decembrio (Riv. di filol. e d'’ i.  cl., a. XXIX (1901), fasc. 2°, p. 268) l’opera di Suetonio occupava, invece, nel cod. l'ultimo posto. dici portati da Enoch! : probabilmente le avrà attinto al  codice del monaco hersfeldese, in quanto che verso la  metà del sec. XV questo cod. doveva essere già pervenuto tra le mani del Poggio. Il Decembrio, come è  noto, sin dal 1450 era al servizio della Curia romana.  Se, al contrario, si volesse ammettere che il Decembrio  fosse stato uno dei primi, anzi risolutamente il primo ?,  a vedere il così detto cod. hersfeldese delle opere minori di Tacito, portato in Italia da Enoch, si andrebbe  incontro ad un’affermazione indubitata di Carlo de’ Medici, il quale scriveva al fratello: « a dirvi l’oppenione  di molti dotti uomini, che gli Anno visti (cioè, i libri  portati dall’Ascolano), da questi quattro infuori che sono segnati...., tutto il resto non vale una frulla » :3 e  i quattro libri, l'abbiamo osservato sopra, erano Apicio,  Porfirione, Suetonio e l’Itinerarium. Sarebbe stato mai  possibile che i quattro libri segnati nella nota del  Decembrio fossero stati giudicati per « una frulla » da  quei dotti uomini, che costituivano, diremo così, il fiore  della scuola umanistica romana nel sec. XV ?   È da notarsi, inoltre, che il libro di Suetonio, accennato da P. C. Decembrio, ha per titolo de grammati  4 Si noti la differenza tra il tit. della Germ. segnato dal Decembrio (de origine et situ Germaniae) e quello scritto nel cod.  Leid. Perizon. (de origine situ moribus ac populis Germanorum), attribuito al Pontano. Se il Decembrio e lo scrittore del  cod. cit. avessero attinto la denominazione della Germ. alla stessa fonte, non avrebbero certamente mostrato alcuna discrepanza quanto al tit. del libro.   ? Così opina il Sabbadini : v. Rio. di filol. e d’i. cl., a. XXIX  (1901), p. 263.   3 Lett, cit. del 13-III 1456: v, Vitt. RossI, opusc, c., II, P. 27.    nun E   cis et rhetoribus, il quale non corrisponde al tit. de  viris illustribus, che si legge nella lettera di Carlo de’  Medici. Egli è vero che il secondo tit. include in sè l’altro,  come il genere contiene la specie; ma un titolo preciso, tutto proprio, doveva averselo il libro di Suetonio,  portato dall’Ascolano. Nel cod. Leid. Perizon. è scritto:  ‘ Caii Suetonii Tranquilli de wiris illustribus liber incipit. » de grammaticis ’; e in fine la nota: ‘ amplius  repertum non est adhuc. desunt rhetores XI”. Certo,  l’ indicazione del Decembrio risponde meglio al contenuto di quanto rimane del libro di Suetonio ; mentre  l’ indicazione di Carlo de’ Medici si riferisce alle notizie  che si avevano intorno ad un libro di Suetonio de wiris illustribus, del quale si era giovato S. Girolamo  per scrivere le vite degli uomini illustri, dall'età degli  apostoli sino a” suoi tempi.' E non pare perciò improbabile la congettura, che Enoch, per indicare nell’ inventario il libro di Suetonio, avesse usato il titolo  de uiris illustribus, a fin di attirar meglio sui suoi codici 1’ attenzione dei dot ti; stante che allera era divulgata la leggenda, che Sicco Polenton (de’ Ricci), dopo  essersi servito dell’ opera di Suetonio, per compilare il  suo libro de scriptoribus linguae Latinae, 1’ avesse distrutto col proposito di togliere qualsiasi prova a chi si  fosse avvisato di accusarlo di plagio.? In appoggio di tale  congettura, vale molto la nota, attribuita al Pontano,  che leggesi nel cod. Leid. Perizon: in essa, oltre l’ invettiva contro Sicco Polenton per la pretesa distruzio  i HieroNnyM. epist. XLVII ad Desiderium, t. I, col. 209, Veron.  1734; prol. ad Dextrum praet. praef. in libr. de uiris illustribus, t. II (1735), col. 807.   ? Vitm. Rossi, opusc. ne di quella parte del libro di Suetonio, ‘ quae est de  oratoribus ac poetis’, si trae occasione di lamentare  che Bartolomeo Fazio non avesse potuto, per l’ immatura morte (novembre 1457),' leggere lo scritto di Suetonio, mentre componeva il libro de uiris illustribus  temporis sui. Di modo che, con l’ intitolare de wiris  illustribus il libro di Suetonio, si volle indicare il contenuto del libro molto maggiore del vero, non tanto,  forse, per trarre in inganno chi si fosse deciso a comprare il codice, quanto per avvicinare la scoperta di Enoch  al libro compilato dal Polenton ed alle vite degli uomini  illustri del Fazio.   Non si può disconoscere che, se Enoch aveSse portato  seco degli scritti di Tacito, così pregiati dai dotti umanisti del sec. XV, non avrebbe di certo tralasciato di  dar loro evidenza, compilando 1’ elenco dei libri scoperti durante il suo viaggio nell’Europa settentrionale.  Nè è ammissibile che alla diligenza d’ un cercatore  di codici, scelto appunto per tali indagini da un pontefice di mente superiore e d’ illuminata liberalità, quale fu Niccolò V, fosse sfuggito il nome di Tacito, ove  questo nome si fosse trovato scritto sul frontespizio di  qualcuno dei codici o dei libri contenuti in uno stesso  codice; nè l’intendimento di trarre vantaggio dal mettere in prima linea il nome di Suetonio poteva essere  d’ ostacolo , che si scrivesse il nome di Tacito accanto  o anche dopo quello di Suetonio, se in realtà il nome  di Tacito si trovava in fronte a qualcuno dei libri  portati da Enoch in Italia. L’ importanza di Tacito nei    1 ZENO, diss. Voss., Ven. 1752, p. 70 sg.        80     giudizi degli umanisti del sec. XV non era inferiore a  quella attribuita a Suetonio. !   Molto meno attendibile ci sembra l’ avvertenza, che  fu omessa la menzione del nome di Tacito nella lettera  del Medici, 10 dicembre 1457, perchè questi vide solo  al principio del codice il libro di Suetonio. ®? Appare,  infatti, da un’ altra lettera di Carlo de’ Medici, con la  data « Roma, 13 marzo » (1456 st. com., 1455 st. fior.),3  che egli ebbe sott’ occhio l’ inventario compilato da Enoch, non il codice, sul quale inventario contrassegnò  quattro libri, i migliori secondo « l’oppenione di molti  dotti uomini, che gli Anno visti ». E di più nella cit.  lettera del*°10-XII 1457 non si fa elenco di codici, ma  solamente di libri, e tra questi il de wiris illustribus  di Suetonio occupa il terzo posto. Or, se Carlo de’ Medici vide 1’ inventario presentato da Enoch e non i codici, molto meno probabile appare la congettura, che  egli abbia veduto « una semplice copia, affine al cod.  Vaticano 4498, che reca tutte quattro le opere in que     1 Arrogi una considerazione: come si potrebbe conciliare la  niuna menzione della Germ. nell'inventario delle scoperte dell’Ascolano, col fatto che per avidità di guadagno i cercatori e  mercatanti di codici dicevano talvolta cose non vere o esageravano:quel che realmente si era scoperto? Valga d' es. il caso di Niccolò da Treviri: questi nell'inventario dei libri nuovi  mandato al Poggio scrisse di avere presso di sè un ‘ uolumen in  quo sunt XX comoediae Plauti' (v. Poca epist. III 29 T.); e  poi, invece, ne portò sedici (v. PocaIt epist. IV 4 T.).   ? Cosi appunto si legge in Studi ital. di filol. class. vol, VII,  p. 130, nota 4; e Rio. di filol. e d'i. cl. a. XXIX (1901), fasc. 2,  p. 264. E dello stesso avviso è anche il LEHNERDT, in Hermes,  vol. XXXIII (1898), p. 501.   3 GAYE, Op. c., I, p. 163 sg. Vitt. Rossi, opuse. c., II, p. 27.    ASI RS    st’ ordine» Suetonio de grammaticis, Tacito Agricola,  dialogus, Germania ».! Aggiungasi che nella nota dello  zibaldone del Decembrio il libro di Suetonio occupa  l’ultimo posto, e la Germ. ha il primo parsa: anteriore, perciò, all’Agr. e al dialogus.*   Altre considerazioni c’ inducono ad ammettere come  probabile che, tra i libri portati da Enoch in Italia,  quelli attribuiti a Tacito mancassero dell’ indicazione  del nome dell’ autore. Dalla lettera del Panormita al    1 Rio. di filol. e d’i. el. 1. c. Ma in realtà il cod. Vatic. 4498  contiene Suetonius de grammaticis et rhetoribus nel terzo posto: lo precedono Frontinus de aquaeduct. e Rufus de prouinciis.   2 Perciò appare, ora, infondato, alla luce dei documenti testé  scoperti, il ragionamento del LEHNERDT |. c., p. 501: « dass in  Carlos Briefe nur Suetonius, nicht aber die beiden Taciteischen Schriften genannt werden, findet leicht eine Erklàrung.  Wir erfuhren schon aus einem frilheren Briefe, dass Enoche  mit seinen Schàtzen sehr zuritckhaltend war; so lag auch  den beiden Medici nicht der Codex selbst, sundern nur das Inventar Enoches vor, in dem, wie so hàufig, nur das erste  Werk der Sammelbandschrift aufgefihrt war ».  La spiegazione, invece, sarebbe tutta al contrario, perchè, secondo la nota dello zibaldone di Pier Candido Decembrio, la  Germ. è il primo senitto del cod.; l’ultimo è il de gramm. et  rhetoribus di Suetonio. y   3 Vitt. Rossi nell'opusc. c., p. 38, nota 1, scrive: « se poi Enoch non trascrisse il cod. da lui scoperto, ma portò questo   stesso in Italia, può ben darsi gli sia sfuggito il nome di Tacito, che, come nel cod. Perizoniano, dovea leggersi in fronte  al secondo opuscolo contenutovi, alla Germania, e non al primo, il dialogo de oratoribus ». Ma il MASsMann, op. c., p. 7,  descrivendo îl cod. Leid. Perizon. XVIII C 21, osserva che il  1° opusc. porta nel fol. I il soprascritto di colore rosso ‘ CoRCONSOLI n L’ autore detta Germania, 6    cn a    Guarini veronese, citata in principio del presente capitolo, apprendiamo che solo per congettura erasi attribuito a Tacito il dialogus. Nè alla notizia precisa  data dal Panormita contrasta la nota del Decembrio,  per la quale si vuole riconoscere per vero « indi scutibilmente che il dialogo portava il nome di  Tacito »;! perocchè l’ affermazione del Decembrio devesi riferire allo stato del codice o di un apografo del  codice, ventinove anni dopo che ne avea dato l’ annunzio il Panormita. Dopo tanti anni era possibile che il  Decembrio avesse veduto e descritto qualche esemplare,  proveniente forse dal cod. annunziato dal frate hersfeldese, nel quale esemplare la congettura del Panormita fosse stata accolta come notizia indubitata, e si  fosse ascritta a Tacito la paternità del dial.   Quanto all’ Agr. manca qualsiasi testimonianza, che  il libretto formasse parte del cod. portato da Enoch.  Il Decembrio lo nota soltanto nell’ elenco, senza indicare espressamente che l’Agr. era incluso nello stesso  cod., insieme con la Germ., il dial. e il Suetonio, e ne  teneva il secondo posto. Nè havvi alcun codice, in cui si  presentino riunite insieme le tre così dette opere minori  di Tacito e il de gramm. et rhetoribus di Suetonio, nell’ordine stesso della descrizione che ne fece il Decembrio.   Alla mancanza di testimonio per l’Agr. non può supplire, come pare a noi, il cod. Vatic. 4498; * perchè, co  NELII TACITI DIALO-/gus de oratoribus incipit’: e la stessa osservazione ci è stata confermata, in una cortese lettera del 4-X  1901, dal prefetto della biblioteca universitaria di Leida sig. S. G.  de Vries, alla cui gentilezza ci siamo rivolti per avere delle  notiziecerte sull'argomento.   1 Rio. di filol. e d’ i. cl., 1. c., p. 264.   ? V. gli Studi ital. di filol. class. vol. VII, p. 130: si ammette me sopra si è in parte avvertito, ! in questo cod. non  si contengono raccolte le sole quattro opere che si dicono costituire il cod. hersfeldese, portato da Enoch in  Italia, e nemmeno nell’ ordine indicato dal Decembrio  (G. A. d. S.), ma vi si contengono anche: 1° Frontinus de aquaeduct.; 2° Rufus de prouinctis ;.... 4° [ Pseudo-] Plinius de viris illustribus ;..... 8° M. Iunii Nypsi  de mensuris ; 9° incerti de ponderibus ; 10° Senecae  apokolokyntosîs ; 11° Censorinus de die natali. Di que=  sti scritti alcuni, come p. es. il de aquaeduct. di Frontino,? erano già noti prima che il cod. dell’ Ascolano  fosse stato portato in Italia.    V. Resta la testimonianza che dicesi del Pontano,  scritta sul cod. Leid. Perizon., la quale avrebbe un notevole valore, se prima si chiarissero, mediante la scoperta di nuovi documenti, le difficoltà presentate dal  Voigt * e accolte dal Teuffel,' ma da altri respinte. *  Egli è vero che Vittorio Rossi è pervenuto a dimostrare, con documenti che si conservano nell’ archivio  fiorentino (Med. avanti il Princip.), essere conforme  al vero l’attestazione pontaniana: ‘qui (sc. Bartholomaeus Facius) ne hos Suetonii illustres uiros uidere pos  appunto che al difetto di testimonianza per l' Agricola debba  supplire il cod. Vatic. 4498,   1 V. p. 81, nota 1l?.   ? Poe epist. III 37. IV2e4T,   3 VoIGT-VALBUSA, Op. c., II 4, vol. I, p. 255 sg., nota 3.   4 TEUFFEL-SCHWABE, G. d. r. L. 5, $ 334, 4, p. 835.   5 Vedi WuENSCH, de Tac. Germaniae codicibus Germanicis,  Marburg 1893; e 4ur Texigeschichte der Germ., in Hermes  vol. XXXII (1897), fasc, 1°, p. 57.    dn   set, mors immatura effecit. Paulo enim post eius mortem in lucem redierunt.’ Infatti, il Fazio morì nel 1457;  e dalla lettera di Carlo de’ Medici, 13 genn. 1458, risulta che sino a quella data non si era potuta ottenere  copia dei libri portati da Enoch. Rimangono però senza  soddisfacente risposta altre obiezioni mosse dal Voigt.  Resta sempre nell’ attestazione attribuita al Pontano  una certa vacuità o mancanza d’ interesse, quanto alle  notizie che vi si annunziano. Egli si duole che il Fazio  sia stato sorpreso da morte immatura, sicchè non si  sia trovato presente quando veniva alla luce l’opuscolo  di Suetonio de wviris illustribus : la ragione di tale doglianza è evidentemente quella accennata sopra, che il  Fazio se ne sarebbe potuto servire nel comporre il suo  libro de viris illustribus temporis sui. Ma il Fazio in  una lettera al card. Enea Silvio Piccolomini, scritta nei  primi mesi del 1457,! gli dà la notizia: ‘ librum quem    1 La lettera, scritta da Napoli e senza data, fu pubblicata nella  raccolta assai confusa delle epistole di Enea Silvio Piccolomini, contenuta in opera quae exrtant omnia di lui, Basil. 1571,  p. 778, n. 233. Nella lett. si fa menzione, fra le altre cose, di  alcune lettere di congratulazione, scritte precedentemente dallo  stesso Fazio, per la promozione del Piccolomini al cardinalato ;  e vi si fa cenno anche del terremoto di Napoli. Or, secondo il breve di Callisto III (‘ dat. Romae apud S. Petrum anno MCCCCLVI  XV Kal. Ianuarii, pontificatus nostri anno II ’), riferito testualmente da Oporico RAYNALDO, in ann. ecel. el. D. Mansi, Lucae  1753, t. X, p. 99, la promozione del Piccolomini al cardinalato  ebbe luogo il 18 dicem. 1456, Il terremoto che rovinò Napoli ed  altre città del Regno avvenne « la domenica mattina a di 5 di  dicembre (1456), a ore dieci e mezza », e si ripeté nei giorni seguenti (v. cron. di Bologna, in MURATORI, rer. It. scriptt. t. XVIII,  cc. 722, 723; giornali napolitani dal 1266 al 1478, ibid. t. XXI,  c. 1132: l’INFESSURA, nel diurio della città di Roma, ibid, t. III,    SE  de uiris illustribus scripsi, Regi dedicaui ac tradidi*;  ed aggiunge: ‘ in quo opere, ut aliquando uidebis, si  non quantum uirtutum tuarum magnitudo postularet,  at quantum ingenii mei paruitas potuit, quantumcumque res ipsa passa est, tibi a me tributum cognosces.’  Cosicchè, se verso la fine del 1456 il Fazio portò a  compimento e pubblicò il suo libro sulla vita degli uomini illustri, e ne fece un presente ad Alfonso d’ Aragona, re di Napoli, è evidente che a nulla gli sarebbe  giovata, ancorchè egli fosse vissuto sino al principio  del 1458, la divulgazione del libro suetoniano, avvenuta in quel tempo.   Nella stessa annotazione del cod. Leid. Perizon. si  accoglie con leggerezza, come notizia indubitata, il supposto plagio di Sicco Polenton e la distruzione di quella  parte del libro di Suetonio, che trattava de oratoribus  ac poetis. !   Resta un’ altra difficoltà. Secondo l’ annotazione del  cod. Leid. Perizon., il libro de grammaticis et rhetoribus di Suetonio si divulgò poco dopo la morte del  Fazio, anzi, per i dati contenuti nella lettera di Carlo  de’ Medici, non prima del gennaio 1458. Un certo tem  p. II, c. 1137, menziona il terremoto del 24 dicembre 1456). La  lettera del Fazio è, per conseguenza, posteriore al dicembre  1456. Nella raccolta cit., p. 784, n. 251, è compresa una lett. del  card, Piccolomini di risposta a quella del Fazio, con la data  ‘ex urbe Roma die XXV Martii 1457,’ Si può, dunque, affermare che la lettera del Fazio dovette essere scritta tra la fine  del dicem. 1456 e la metà del marzo 1457.   1 RIiTscHL, Parerga zu Plautus und Terena, Leipz. 1845, I p.  632. RoTH, C. Sueton. Tranq. quae supersunt omnia, Lps. 1882 ;  praef., p. LI sg.    ana    po era, senza dubbio , necessario perchè i libri o le  copie di essi, che Stefano de’ Nardini avea promesso ,  giungessero a Carlo de’ Medici, e da questo si mandassero al fratello Giovanni, in Firenze, il quale doveva essere il primo ad averli. ' Perciò la divulgazione dei libri  portati da Enoch non poteva aver luogo prima che alcuni  mesi fossero scorsi dopo il gennaio 1458. Intanto Enea  Silvio Piccolomini è il primo a far menzione, sebbene in  un modo poco esatto, del contenuto della Germ. nella  grande epistola di risposta a Martino Meyer, cancelliere dell’ arcivescovo di Magonza ?. Il Meyer, con  lettera in data del 31 agosto 1457, * si era congratulato  col Piccolomini della promozione al cardinalato e nello  stesso tempo , colta la propizia occasione, avevagli  descritto le tristi condizioni fatte dalla Curia romana  alla Germania, e l’aveva avvertito che ‘ nunc uero, quasi  ex somno excitati, optimates nostri quibus remediis huic  calamitati obuiam pergant cogitare coeperunt iugumque  prorsus excutere et se in pristinam uindicare libertatem decreuerunt ’: sono i preludi della riforma religiosa.  Il card. Piccolomini, che aveva già scritto su tale ar  1 Le precise parole scritte da Carlo de' Medici nella lett. cit. del  13 genn. 1458 (F IX, doc. 576) sono queste : « non dubitate che  per essere il primo che gl'’abbia (i libri di Enoch),  non v'énno a costare uno denaro di più ».   ? L’epistola del card. Piccolomini è pubblicata col titolo de  ritu, situ, moribus et conditione Germaniae descriptio, in opera  quae extant omnia, ed. cit., pp. 1034-1086.   8 L' epistola del Meyer è pubblicata a p. 1035 delle opere di  E. S. Piccolomini, ed. c.; ma, per evidente menda di stampa,  porta la data erronea: ‘ex Hasthaffenburga pridie Calend,  Septembris MCCCCVII ”, invece del MCCCCLVII,    RT    gomento al Meyer la lettera del dì 8 agosto 1457, !  tornò a scrivergli in proposito, per confutare le affermazioni di lui, altre tre lettere * ; e di ciò non contento,  per dare, probabilmente, una maggiore pubblicità alle  ragioni addutte in confutazione delle osservazioni del  Meyer, si accinse a scrivergli una lunga epistola, che  prima mandò, per averne l’ autorevole parere, ad Antonio card, di S. Crisogono, con lettera in data del 1°  febbraio 1458. 3 Al Piccolomini premeva di ribattere le  accuse che provenivano dalla Germania, per prepararsi  i voti favorevoli nel prossimo conclave, che, difatti, lo  elevò, dopo la morte di Callisto III, all’ onore della  tiara; ed era importante per lui che tutti sapessero quel  che egli ne pensasse intorno alle agitazioni tedesche  contro la Curia di Roma. E però, per confutare gli ar© gomenti addotti dal Meyer (cui avverte ‘ nec dubitamus  te perditum iri, nisi e schola erroris et officina ueneni  retrahas pedem), arreca, tra le molte ragioni, i benefici fatti dalla Chiesa di Roma alla Germania, e fa un  confronto tra i costumi degli antichi Germani , quali  furono descritti da Cesare e Strabone, e la civiltà tedesca de’ suoi tempi; indi soggiugne (p. 1051): ‘ is igi  1 Epist. n°. 369, pp. 836-839, op. c.   ? Una delle tre lettere, che è segnata nella raccolta cit. col  n° 338, p. 822, porta la data ‘Romae XII Calend. Octobris a.  MCCCCLVII ’. Un' altra, di n° 345, p. 827, ha la data ‘ex urbe,  die uigesima Octobris’, senza indicazione dell’anno, che deve  essere lo stesso 1457. La rimanente, segnata col n° 288, p. 801,  non porta data, ma dal posto che occupa tra una epist. dell'11-IX 1457, e una del 3-X dello stesso anno, è probabile che  sia stata scritta nella seconda metà del settembre 1457.   3 La lett. al card. di S. Crisogono è pubblicata a p. 1034, e  precede immediatamente quella diretta al Meyer.    =,   tur fuit Germanorum status Strabonis tempore, quem  usque ad Tiberium Caesarem uixisse constat. his ferociora de Germanis scribit Cornelius Tacitus, quem in  Adriani tempore incurrisse perhibent. parum quidem  ea tempestate a feritate brutorum maiorum tuorum uita  distabat. erant enim plerumque pastores, syluarum incolae ac nemorum nec munitae his urbes erant,  neque oppida muro cincta, non arces altis innixae montibus, non templa sectis structa lapidibus uisebantur.  aberant hortorum ac uillarum delitiae, nulla uiridaria,  “nulla tempe, nulla uineta colebantur: praebebant largos  flumina potus; lacus et stagna inseruiebant lauacris et,  si quas natura calentes produxerat, aquae. parum apud  eos argentum, rarius aurum, margaritarum incognitus  usus. nulla gemmarum pompa, nulla ex ostro uel serico uestimenta. nondum metallorum inuestigatae minerae; nondum. miseros in uiscera terrae mortales -truserat auri sitis: laudanda haec et nostris anteferenda  moribus. at in hoc uiuendi ritu nulla fuit literarum  cognitio, nulla legum disciplina, nulla bonarum artium  studia. ipsa quoque religio barbara, inepta et, ut propriis utamur uocabulis , ferina ac brutalis. talis tua  Germania fuit usque ad Adrianum Caesarem, quamuis  iam ceterae orbis prouinciae excultae artibus ac mo‘ribus essent ’.   Dovette, dunque, il Piccolomini aver notizia, sebbene  alquanto imperfetta , della Germ. anteriormente al 1°  febbraio 1458, che è la data segnata nella missiva al  card. di S. Crisogono. E, se consideriamo attentamente  il contenuto della lettera del Piccolomini al Meyer, in  data 8 agosto 1457, appare non dubbio che egli ebbe  notizia della Germ. prima di questa ultima data; poi     ica   chè nella lettera si contengono , riassunte senza indicazione di autori, osservazioni consimili a quelle che  sui costumi dei Germani antichi sono ampiamente svolte nella grande epistola sopra cit. Leggesi, infatti, nella  lettera: dell’ 8 agosto 1457 : ‘ namque si legamus uetusta tempora, inueniemus Germanos olim ritu uixisse  barbaro, uestibus usos laceris; uenationi tantum et agrorum culturae dedisse operam, feroces quidem homines  et belli appetentes , sed argenti prorsus inopes, quibus  quippe nec uini usus erat. ipsaque Germania intra mare  et Danubium rursusque intra Rhenum et Albim continebatur; nunc uero quantum transgressa sit suos limites, non ignoramus ?. e. q. s.! Perciò il Piccolomini  dovette conoscere il contenuto della Germ. prima del1’ 8 agosto 1457, cioè circa sei mesi prima del tempo in cui, secondo la lettera di Carlo de’ Medici , del  13 gennaio 1458, si erano cominciati a divulgare i libri  portati da Enoch; e, per tanto, appare non vera l’ annotazione del cod. Leid. Perizon., d’essere, cioè, la Germ.  e gli altri opuscoli ‘ nuper adinuentos et in lucem re.latos ab Enoc Asculano ’, giacchè del contenuto della  Germ. sì era avuta notizia prima che i libri portati  da Enoch, in originale o in copia, fossero stati acquistati da Giovanni di Cosimo de’ Medici o da altri, e prima che se ne fosse cominciata la divulgazione.   Ma per quale via sia pervenuto il Piccolomini ad avere in sue mani la Germ. non ci è dato, secondo i  documenti del tempo scoperti sino ad oggi, determinarlo con certezza. Non è improbabile che il Piccolomini sia stato aiutato in tali indagini dal Poggio ? e   1 Epist. n.° 369, p. 838, ed cit.   2 Nella lettera del 4 gennaio 1457 il Poggio, congratula ndosi dal Panormita,! coi quali egli aveva relazioni di buona  amicizia: ed è noto quanto ebbe a stentare il primo, nei  lunghi e tediosi maneggi, per aversi il ms. del frate  hersfeldese ; del secondo si sa che sin dal 1426 aveva  dato notizie della Germ. nella lettera, citata sopra, al  Guarini veronese.   Il Lehnerdt però, per la soluzione del quesito, muove  da una notizia che si legge nella lettera del 10 dicembre 1457 di Carlo de’ Medici al fratello Giovanni: « heri  mandò per me il cardinale di Siena e domandomi se  Enoch avesse lasanti (1. lasciati) libri alcuni nel banco  nostro; dissigli che no. Lui mi domandava che via lui  potessi tenere ad avere certi libri che lui aveva: io fe”    col Piccolomini, per la promozione di lui al cardinalato, gli scriveva: ‘accedit ad consolationem meam et summam iocunditatem quod uir eloquentissimus (cioè il Piccolomini) optimisque artibus eruditus, fructum eloquentiae et doctrinae sit, quod  perraro accidit, consecutus: in quo gloriari quodam modo mihi  merito uideor posse nostri quondam ordinis uirum, hoc est eloquentiae studiis et dicendi exercitio praestantem, eo in statu  esse collocatum, ut suae doctrinae aemulos extollere et eis  praesidio atque ornamento esse possit'. Ed in un'altra lettera  del 3 novembre (manca l'indicazione dell’anno, ma è, senza  dubbio, del 1457) lo stesso Poggio profferiva i suoi servigi al  card. Piccolomini, scrivendogli: ‘me penitus tuum esse ubique  satisfaciendi cupidum, si qua in re mea tibi cura, studio, opere,  diligentia opus esset.’ Le due lettere del Poggio sono comprese  nell’ epistolario del Piccolomini, segnate l’una col n. 216, p. 771,  l’altra col n. 295, p. 806: tra le due lettere è compresa la responsiva di ringraziamento del Piccolomini al Poggio, n. 293,  p. 805.   1 Vedi la lettera del Piccolomini, allora ‘ episcopus Senensis ',  ad Antonio Panormita, n. 407, p. 951 sg.; e la menzione del  Panormita nell'epist. al Fazio, notata al n. 251, p. 784.    PEN co (ROSS   al giuoco del baloco. Di poi ho sentito che lui ha scritto ad Ascoli a certi sua amici; e pertanto vorria che  voi medesimo scrivessi a m. Stefano che in singulari  vostro servizio lui mi fessi avere o i libri di che io gli  ò scritto overo la copia ».! Il Lehnerdt ne argomenta  che il Piccolomini (denn niemand anders ist der betriebsame Cardinal von Siena) dovette attingere le notizie sulla Germania, annunziate nella lettera, a Martino  Meyer, al ms. enochiano, di cui venne in possesso prima del Medici. ? Ma alla congettura del Lehnerdt si  oppone il testo di un’altra lettera di Carlo de’ Medici,  in data del 13 gennaio 1458, che sopra abbiamo riferito. Stefano de’ Nardini, sollecitato, oltre che da Carlo,  anche da Giovanni de’ Medici, rispose dando promessa  certa, che questi avrebbe avuto i libri di Enoch o le  copie; e dovette aggiungere che lo stesso Giovanni de’  Medici li avrebbe avuti per il primo, poichè il fratello  Carlo nella lettera su cennata soggiugne le sgg. parole, più volte da noi citate: « non ho poi altro, ma non  dubitate che per essere il primo che gl’abbia non vanno a costare uno denaro di più. » 8 Or,  se Giovanni de’ Medici doveva essere il primo ad  aver i libri di Enoch, giusta l’ affermazione «di Carlo  confortata dalla lettera di Stefano de’ Nardini, non è  possibile che prima di lui il card. Piccolomini ne fosse  venuto in possesso.   E naturale poi che un certo tempo dovette trascorrere  tra la lettera del 13 gennaio 1458 e la trasmissione  dei libri di Enoch o di copie dei medesimi, che Gio     1 Vitt. Rossi, opusc. c., VIII, p. 31.  2 LEHNERDT, l. c., pp. 502, 504.  3 VITT. Rossi, opusc. c., IX, p. 31.    vanni de’ Medici desiderava avere: così si giunge alla fine di gennaio od al principio di febbraio. Il Piccolomini, che non risulta essere stato il primo ad averli e leggerli, poteva averne avuto notizia, stante la  difficoltà delle comunicazioni in quei tempi, verso la  ‘metà o la fine di febbraio: dunque non era possibile  che egli ne avesse avuto conoscenza prima «li scrivere  la lunga lettera al Meyer; la quale lettera fu, senza dubbio, preparata e scritta nel gennaio 1458, poichè in data  del 1° febbraio fu spedita per esame al card. di S. Crisogono. ! L’improbabilità che il Piccolomini avesse tratto vantaggio dai libri enochiani si rende ancor più evidente, se  si bada alla conclusione cui siamo pervenuti poco prima,  cioè, che per altra via il Piccolomini dovette aver notizia del contenuto della Germ., prima dell’8 agosto 1457.    VI.  Anche nella supposizione che la Germ. si fosse  trovata unita coi libri portati da Enoch, essa non doveva presentare, come sopra sì è avvertito, il nome dell’autore, poichè non se ne fa cenno nell’inventario dei libri di recente scoperti. Il nome dell’autore dovette essere aggiunto dopo, quando si cominciò la divulgazione  del libro, e si riconobbe che era identico a quello già    1 Nella lett. del Piccolomini al card. di S. Crisogono, p. 1034  ed. c., si legge: ‘ epistolam scribere institui et liber exiuit; quid  dixi liber? libri exiuere.  mittimus igitur ad tuum examen,  ut uideas corrigasque, uel, si melius putes, igne consumas. tu  solus es, cuius existimationem audiendam arbitror.  ad te  ergo ueluti ad fontem doctrinae uenio et ad ipsum iubar  scientiarum, si condendum aut comburendum opus iudicaueris,  obediam imperio tuo. si duxeris edendum, exibit liber intrepidus et nullius calumnias uerebitur, quando abs te probatus  fuerit, quem omnes probant.' e. q. s.    Pei 7, ME    indicato dal Panormita nella lettera dell’ aprile 1426,  diretta al Guarini. E per tal modo la Germ. fu annotata, ventinove anni dopo (1455), col nome di Tacito  nello zibaldone di Pier Candido Decembrio. Cosicchè  l’ indicazione di Tacito come autore della Germ. si riconnette, anche per il libro portato da Enoch, allo stesso fonte che abbiamo considerato sopra, trattando del  codice del frate hersfeldese: la conclusione ne sarebbe la  stessa. Per tale conclusione troverebbesi forse modo  di coordinare l’ attestazione notata nel cod. Leid. Perizon. con le ricerche fatte anteriormente dal Poggio, e  col fatto che il contenuto della Germ. era noto prima  che si fossero divulgati in Italia i libri portati da Enoch; in quanto che il Pontano, che è detto autore dell’ attestazione, non deve aver letto il nome di Tacito  in fronte alla Germ. che egli trascrisse, correggendone  le mende, ma ve l’appose per le notizie avutene a  Roma e a Firenze in quei circoli letterari, ai quali il  libro era prima noto.   Il vedersi, dunque, attribuita a Tacito la paternità  della Germ. nei codici del sec. XV, che soli ci rimangono dell’ aureo libretto , resta sempre dovuto, come  pare a noi, ad un presupposto del Poggio ed all’ annuenza non disinteressata del frate hersfeldese; se non  sì vuole direttamente ammettere che tale attribuzione  sì fondi sulla fede d’ un amanuense del sec. XV, fede,  come bene avverte il Valmaggi in proposito del dialogo de oratoribus, che si ha da reputare dubbia « per  lo meno, sino a tanto che altri documenti e prove sieno contro di lei ».!    1 L. VaLMaG6I, dial. degli oratori, Torino 1890; introduz., pagina XXXIX.    Di Uno studio che avesse 1’ obietto di comparare la  Germ. con gli scritti di Plinio Secondo, riuscirebbe certamente non poco utile a dare evidenza e conferma ai  risultamenti delle indagini fatte nei precedenti capitoli.  Ma un tale studio sarebbe, di necessità, incompleto,  perchè gli scritti di Plinio, i quali si avvicinano, per  analogia di argomento, alla Germ., cioè i venti libri  Germanicorum bellorum, la vita di Pomponio Secondo  e i libri di storia a fine Aufidii Bassi, non sono pervenuti sino a noi. Solo si può istituire il confronto tra  la' Germ. e la nat. hist., determinando anzi tutto quali  notizie, quali considerazioni, insomma quali concetti  presentino in entrambe le opere considerate il carattere di comune origine; sì che se ne possa indurre che  tanto l’una quanto l’altra debbano essere state manifestazioni, sebbene per obietti diversi, dei pensieri di una  stessa mente.   Seguiremo nelle nostre indagini l’ordine dei libri  della nat. hist.    * Restringiamo il confronto soltanto ai concetti o pensieri analoghi espressi nei due libri. Quanto al confronto lessicale,  sintattico e stilistico tra la Germ. e la n. A. di Plinio, abbiamo  prepa:ato un libro, che sarà pubblicato immediatamente dopo  il presente lavoro, di cui può considerarsi opportuno complemento. Valga la stessa avvertenza per il capitolo sg., in cui la  Germ. sarà comparata con gli scritti genuini di Tacito, = DE    I. a) Una spedizione navale, capitanata da Druso,  si mosse nel 742/12 dalle foci del Reno verso le regioni orientali, per fare delle scoperte ed estendere il  dominio romano. Un’altra spedizione fu tentata ventotto anni dopo, nel 16 d. Cr., dal prode Germanico.  Alla prima impresa si allude nella . A. II 67 (67), 167  ‘ septentrionalis uero oceanus maiore ex parte nauigatus est auspiciis diui Augusti Germaniam classe circumuecta ad Cimbrorum promunturium 7. Ad entrambe le  imprese si riferisce la notizia, di cui nella Germ. 34, 6  ‘ipsum quin etiam Oceanum illa temptauimus ”.!   b) Non è da omettersi che della strage di Crasso,  menzionata nella Germ. 37, 15, si fa cenno nella n. A.  II 56 (57), 147; e la notizia. si ripete in vari modi in  V 24 (21), 86. VI 16 (18), 47: cf. XV 19 (21), 83.   c) Nemmeno si deve tralasciare l’ osservazione, che il  cenno sulla guerra cimbrica, fatto nella Germ. 37, 7,  notasi anche nella n. A, II 57 (58), 148. *    II.  Nel lib. II della n. A. si osservano tre Il. di  confronto.   a) Dei ‘ Boi ’ Plinio dà notizia, indicando i luoghi, in  Italia, in cui le loro centododici tribù furono distrutte,    1 Della prima spedizione si fece, più tardi, menzione da SveTon. Claud. 1; e da Cass. Dion. r. Rom. LIV 32,2. La seconda  spedizione del 16 d. Cr. è lodata in versi da ALBINOv. PED. (v.  PLM. ed. Baehrens, vol. VI, pp. 351-352: cf. SEN. suas. I 15, p. 10,  ed. Kiessling); la narra Tac. ann. II 8; 23; 24.   ? La notizia è poi, in diverse occasioni, ripetuta nella n. A.  VII 22 (22), 86. VIII 40 (61), 143. XVI 32 (57), 132. XVII 1 (1),  2. XXII 6 (6), 11. XXVI 4 (9), 19, XXXIII 11 (53), 150. XXXVI  1 (1), 2; 25 (61), 185.    ci GG i   (n. h. Ill 15 (20), 116), e denotando, quali conseguenze  delle loro scorrerie: in Italia, la fondazione di ‘ Laus  Pompeia’ (III 17 (21), 124) e la distruzione di ‘ Melpum ? (III 17 (21), 125); indica anche i luoghi da loro  abitati in Gallia (IV 18 (32), 107). Nella Germ. (28, 7.  42, 3) si denotano i luoghi occupati e poi abbandonati  dai ‘ Boi” o ‘ Boii”, in Germania.   b) Quanto agli ‘ Arauisci ’, che avevano le loro sedi  nella Pannonia, sulla riva destra del Danubio, tra la  Drava e la Sava, trovasi menzione nella Germ. 28, 10  e nella n. A. III 25 (28), 148: li nominò anche Tolomeo, indicando le loro sedi più a settentrione di quelle  degli Scotdisci.* Vi è però una differenza nella grafia,  chè nella n. A. è scritto ‘ Erauisci’, e nella Germ.  ‘ Arauisci ’. Ma del nome usato da Tolomeo la lettera  iniziale è A. Una simile differenza notasi nel nome  ‘ Bastarnae ’, usato nella Germ. 46, 4, e ‘ Basternae ”,  adoperato nella n. A. IV 14 (28), 100. ?    1 ProLEM. geogr. ll 16, 3.   ? Ma si deve avvertire che la grafia ‘ Basternae' non è costante nella n. 4., come asserisce il GEORGES, ausfithrl. Handwb.  I, c. 743; poichè in IV 12 (25),81 mutasi in ‘ Basternaei” e poi  in VII 26 (27), 98 diviene all’abl. ‘ Bastrenis’, che nel cod.  Riccard. (R. del Mayhoff) è ‘ bastenis ’, e nel cod. Leid. (F. del  Mayh.) ‘ bostrenis’, Né i codd. della Germ. consentono tutti col  Leid. Perizon. nel presentare nel |. c. ‘ Bastarnas ’: il cod. Vatic. VRB. 655 presenta ‘basternes ’, e con strana metatesi il  Vindobon. ‘ bastranas’. Nemmeno la grafia accolta dal Leid.  Perizon. può mettersi in relazione con quella che osservasi in  Tac. ann. ll 65, 14, perché in questo la forma ‘ Bastarnas® è  dovuta ad una congettura di Beato Renano: nel cod. è ‘ basternas’. Cf. cod. inscr. Lat. Il 2, p. 862. Ma in Strabone sempre  ‘ Bastàrnai .    Ri odi  c) Soltanto nella Germ. 29, 17 (v. sopra, pp. 19-22)    sì nominano i‘ decumates agri’. La n. A. II 4 (5), 32  fa solamente menzione di una ‘ decumanorum colonia ”.    III.  Il lib. IV della n. /. offre un buon numero  di confronti con la Germ.   a) All’ indicazione generica della Germ. 44, 20 ‘ Suionibus Sitonum gentes continuantur ’,! risponde  quella più particolareggiata della 7. %. IV 11 (18), 41  ‘ circa Ponti litora Moriseni Sitonique Orphei  uatis genitores optinent ’. Resta però la differenza dell’ordine flessivo tra ‘Sitones” e ‘ Sitoni ?.   b) I gioghi dell’Abnoba, nella Selva nera, sono indicati, tanto nella n. %. IV 12 (24), 79 quanto nella Germ.  1, 9, come punto d’ origine del Danubio; anzi la retta  grafia ‘ Abnoba ’, indicata dai codici della n. A. e quale  venne accolta da Tolomeo,® fu di guida a Beato Renano  per determinare, nel testo della Germ. 1. c., la forma  esatta ‘ Abnobae ’ tra le varianti ‘ Arnobae ’ (cod. Vatic. 1862 e cod. Neapol.), ‘ Arbonae ’ (cod. Leid. e cod. Vatic. 1518), ‘ Arnibae ’ (cod. Arundel.). Due iscrizioni scoperte nello Schwarzwald hanno confermato la forma  ‘ Abnoba. ?.   c) È data dalla n. R. IV 12 (24), 79 la notizia, che       1 Omettiamo di citare per i ‘ Sitones ’ il 1. della Germ. 45, 1,  perché nei codd. si Iegge ‘trans Suionas”’ (nel Leid. ‘Suiones’).  Il MEISER ha sostituito ‘Sitonas ’; e la congettura di lui è stata accolta da U. Zernial, Io. Miiller, etc. Hanno conservato la  lezione dei codd. il Dilthey, il Kiessling, il Finek, il Kritz, il  Halm, il Ramorino, etc.   ? ProLEM. yeogr. Il 11.    ConsoLI: L’ autore della Germania. 7    osi OB ci  il Danubio ‘ in Pontum uastis sex fluminibus euoluitur ’; ma'non è del tutto esatta, nè conforme al cenno che prima ne avevano fatto Ovidio, Strabone e Mela,! e dopo ripeterono Solino, Ammiano Marcellino, Isidoro. ? Nella Germ. si conferma la notizia data dalla  n. h., salvochè, come spiegazione dell’esclusione di una  settima foce del gran fiume, si soggiugne immediatamente ‘ septimum os paludibus hauritur?. Se nessun  rapporto ci fosse stato nella composizione e nell’ intendimento della n. A. e della Germ., in questa sarebbesi  detto esplicitamente in modo consimile a quanto scrisse Ammiano Marcellino, l. c.: ‘ amnis Danuuius  s e p tem ostiis.... erumpit in mare  septimum segnius et palustri specie nigrum ?.   d) Nella Germ. 1, 2 i ‘Sarmatae ’ e i ‘ Daci ’*sono  indicati come confinanti coi Germani. La n. A., oltre  all’indicare il secondo nome dato dai Romani ai ‘ Daci *.  (‘ Getae ’), e dai Greci ai ‘Sarmatae’ (‘Sauromatae ’),  determina i luoghi da loro occupati (IV 12 (25), 80:  cf. VI 34 (39), 219), e mostra che presso di loro era in  uso il fafuaggio aggiunge che la Germania è confinante (‘contermina ’) con la Scizia (VIII  15 (15), 38).   e) Uno dei confini dei luoghi abitati dai ‘Chatti’ e    1 OvI. trist. II 189. STRAB. geogr. VII 3, 15 (C. 305), vol. II,  p. 419 ed. M. Pompon. Met. chor. II 1, 8. Confrontando il Danubio al Nilo, Mela dice che quello sbocca nel mare pontico  ‘ totidem quot ille (sc. Nilus) ostiis’; e il Nilo, secondo afferma  lo stesso Mela, chor. I 9, 51, ‘ septem in ora se scindens  singulis tamen grandis euoluitur ’.   ? SoLin. coll. r. m. 13, 1} p. 90, 12 ed. M. Amm, Marc. r. g.  XXII 8, 44 e 45. Is. orig. XII 21, p. 1158.       3 DO  dagli ‘Heluetii” è, secondo la Germ. 30, 5. 28, 6, il  ‘ sallus Hercynius” o ‘ Hercynia silua’: la stessa selva  è segnata nella n. %. IV 12 (25), 80 come confine della  gente pannonica dei “Carnunti’. Plinio denota anche  l’importanza della selva (IV 14 (28), 100), e avverte  che in essa sono ‘ inuisitata genera-alitum’ (X 47 (67),  132) e una ‘roborum uastitas intacta aeuis et congenita mundo ’ (XVI 2 (2), 6).   f) Nella Germ. 46, 4 si considera la voce ‘ Bastarnae ’  come un’altra denominazione del popolo dei ‘ Peucini ”.  La n. h. determina prima i luoghi occupati dai ‘ Basternaei’! (IV 12 (25), 81); poi annovera i ‘Basternae’ accanto ai ‘Peucini’ (IV 14 (28), 100). *   9g) Dei mari nordici, coi quali confina a settentrione  la terra dei Germani, è data nella Germ. 1,3 una notizia indeterminata: ‘cetera Oceanus ambit, latos sinus et insularum immensa spatia complectens’. Nella  n. h. la stessa notizia è presentata con maggiore determinazione: IV 13 (27), 96 ‘ mons Seuo ibi inmensus nec  Ripaeis iugis minor inmanem ad Cimbrorum usque  promunturium efficit sinum, qui Codanus uocatur re  1 Per la differenza grafica del nome del popolo considerato,  v. sopra, p. 96, nota 2°.   2 Nel |. c. della n. A. si legge: ‘quinta pars Peucini, Basternae supra dictis contermini Dacis’. Potrebbesi, tralasciato il  segna d’interpunzione messovi dall’edit. Jan, considerare ‘ Basternae’ come apposizione di ‘Peucini’: così ne sarebbe confermata l'osservazione della Germ., che fa tutto un popolo dei  ‘Bastarnae’ e dei ‘Peucini’. Del resto, in nessun altro l. della  n. h. si tratta dei ‘Peucini’, come di un popolo a sè, differente dai ‘ Basternae”. Cf. StRAB. geogr. VII 3, 15 (C 305); 3,  17 (C 306), p. 419 sg., ed. M.    ni 100  fertus insulis quarum clarissima est Scatinauia inconpertae magnitudinis ’.   h) All’ osservazione che leggesi nella n. A. IV 14  (28), 98 ‘Germania .... nec tota percognita est’, rispondono le considerazioni con cui l’autore della Germ.  dà termine al suo lavoro, tralasciando ‘ cetera iam fabulosa” e quel che egli trova ‘ut incompertum ?.   i) Intorno alle schiatte germaniche degli ‘ Ingaeuones’ (Germ.) o ‘ Ingyaeones ” (n. h.), degli ‘ Herminones?’ (Germ.) o ‘ Hermiones” (n. Ah.) e degli ‘ Istacuones’ (Germ.) o ‘Istyaeones ’ (n. 4.) non è fatta menzione alcuna in iscritti anteriori o posteriori alla Germ.  e alla n. X.! Sembra però che nella Germ. 2, 15 sg.  la distinzione delle tre schiatte sopra mentovate sia  stata fatta in dipendenza dai progenitori mitologici,  figli di Manno. Segue, infatti, nello stesso cap. della  Germ., una distinzione di popoli germanici fatta con  criterio alieno dalla leggenda (‘eaque uera et antiqua  nomina’), ma, come pare, per esemplificazione, cioè :  ‘ Marsi °, Gambriuii, Suebi, Vandilii ”.   La distinzione appare più precisa e completa nella  n. h. IV 14 (28), 99 e 100: I ‘ Vandili” 3, II ‘Ingyae  A Il Georges, ausfithri. Handwb. II, c. 216, registra Ingaevones, secondo la grafia accolta nel testo della Germ. (ma  ‘Ingaenones’ nei codd. Vatic. VRB. 655, Laurent. LXXIII 20,  Stotgard. IV 152, Venet. misc. XIV 1); registra Hermiones (I,  c. 2813), secondo la grafia della n. A.; ma nonsi cura di notare gli ‘Istaeuones'.   2 Nella Germ. nulla si dice dei ‘Marsi’ oltre del cenno del  c. 2, 17. Tacito ne fa menzione negli ann. I 50, 13; 56, 20. II  25, 4.   3 ‘Vandali’, nel cod, Paris ol   ones’, III ‘Istyaeones °°, IV ‘ Peucini °.8 Tra i ‘ Vandili” si comprendono : a) i ‘ Burgodiones” ‘4; b) i ‘ Varinnae’ 5; c) i ‘Charini’; d) i ‘Gutones’: dei quali  popoli due soltanto, cioè i ‘ Varinnae ’ e i ‘Gutones”,  sono annoverati nella Germ. 40, 4. 44, l, forse con  inesattezza, tra i ‘Suebi’; i due rimanenti, ‘Burgodiones’ e “‘Charini’, sono taciuti. Gli ‘Ingyaeones’  comprendono: a) i ‘ Cimbri’ ‘; b) i ‘Teutoni’% c)i  ‘ Chauci’:3 la Germ. tace dei ‘ Teutoni ’. Sotto il nome degli ‘Istyaeones ’ sono notati i ‘Sicambri’ (‘ Sugambri’, per Strabone), dei quali non si fa alcuna  menzione nella Germ. Si ascrivono agli ‘ Hermiones”:  a) i ‘Suebi’; * 6) gli ‘ Hermunduri ’ !; c) i ‘Chatti ’ !!;  d) i ‘ Cherusci ”. !2 I ‘ Peucini” (Basternae) sono espli     1 ‘Inguaeones’, ed. Detlef.; ‘Ingaeuones’, secondo la ‘1.  uulg.’ e nell’ed. Sillig.   ? ‘Istiaeones’, ed. Detlef, ; ‘Istaeuones’, secondo la ‘1. uulg.’  e nell’ed. Sillig.   3 Quanto ai ‘ Peucini’ cf. Germ. 46.   4 ‘Burgundiones’ nel cod. Paris. 6797 e nell'ed. Sillig.   5 ‘ Varine’ nel cod. Riccard.; ‘ Varini” secondo la ‘1. uulg.'  e nell’ed. Sillig. : ‘ Varini’ anche nella Germ. 40, 4.   6 I ‘Cimbri’ non si devono confondere coi ‘Gambriuii’. Strabone, infatti, pone in elenco separatamente i ‘Gambriuii’ e i  ‘Cimbri’: geogr. VII 1, 3 (C 291), p. 399, ed. M.   7 Cf. n. h. XXXV 4 (8), 25. XXXVII 2 (11), 35.   8 Intorno ai ‘ Chauci’ v. Germ. 35, 2. 36, 1. Cf. n. A. XVI 1  (1), 2; 1 (2), 5.   9 V. Germ. cc. 33-43; e inoltre 9, 4. Cf. n. h. IL 67 (67), 170.  IV 12 (25), 81; 14 (28), 100.   10 V. Germ. Al, 4. 42, 1.   ll Dei ‘Chatti’ si ha notizia in più Il. della Germ.: 29, 3. 30,  1, 4, 15. 31, 2 e I1. 32, l e 4, 35, 5. 36, 10 7. 38, 2.   12 V. Germ. 36, 1, 6, 8.        102     citamente annoverati tra le nazioni germaniche, eliminandosi così il dubbio annunziato uella Germ. 46, 2:  ‘Germanis an Sarmatis adscribam dubito’. Or,. se i  ‘Marsi’ edi ‘Gambriuii’, dei quali è fatta menzione nella Germ., sono da considerarsi in dipendenza dagli  ‘Ingaeuones’!; e se tra gli ‘ Herminones” son da comprendersi .i ‘Suebi’ e, in subordinazione a questi, i  ‘Vandilii?,*? (poichè i.’ Varini” ed i ‘ Gotones’, che  nella n. A. si annoverano tra i ‘ Vandilii”, sono compresi dall’autore della Germ. tra i ‘Suebi ’), restano  a rappresentare gli ‘Istaeuones’ le due nazioni dei  ‘Sugambri’’ e dei ‘ Peucini’: il che, considerati principalmente i luoghi occupati da loro, non pare possibile. Vi sono, dunque, delle incertezze e delle notizie incomplete nella Germ., che la n. &. ha interamente  chiarito o completato ; talchè, se si ammette che autore della Germ. sia quello stesso che scrisse la n. A.,  è evidente che questo lavoro dovette essere scritto dopo la Germ.: e in ciò sì avrebbe una indiretta conferma della notizia data da Plinio il giovane, che la  opera bella Germaniae (della quale la Germ. potrebbesi, secondo quanto si è osservato sopra, considerare  come la parte introduttiva) fu scritta prima della x. ’.   j) Il fiume ‘ Albis’ è solamente indicato nella n. /.    1 Vedi Marina, op. c., p. 33.   ? Vedi Dilthey, op. c., p. 249: « es wird dadurch sehr wahrscheinlich, dass die Vandalen selbst nur Ostliche Sueven waren ».   8 Plinio il giovane, presentando nell’epist. quinta del lib. III,  $ 2, l'elenco dei libri scritti dallo zio, avverte : ‘ fungar indicis  partibus atque etiam quo sint ordine scripti notum  tibi faciam’. L' opera della Ge rmaniae è indicata nell’ elenco  prima della n. },     103   IV 14 (28), 100 come uno degli ‘ amnes clari’ che ‘in  oceanum defluunt’. La Germ. 41, 9 presenta l’indicazione dell’ ‘ Albis’ con una certa enfasi : ‘ flumen inclutum et notum olim; nunc tantum auditur ’; ne denota prima l’ origine nel paese degli ‘ Hermunduri ’.   k) La menzione dei ‘Frisii’ fatta, prima d’,\ogni altro scrittore, da Plinio nella n. A. IV 15 (29), 101,  si osserva nella Germ. 34, 3. 35, 3, aggiunta la distinzione dei ‘Frisii’ in ‘maiores’ e ‘minores’; e  all’espressione ‘ gens tum fida’, di cui si fa cenno nella n. h. XXV 3 (6), 21, alludendosi ai ‘Frisii’?, risponde l’osservazione di Tacito: ‘ natio Frisiorum .infensa aut male fida”. *   l) Le notizie intorno ai popoli della prov. Belgica,  ‘Neruii’, ‘Tungri ’, ‘ Treueri ’, ‘ Heluetii”, sono comuni  alla n. h. ed alla Germ.; ma il semplice cenno fatto  dalla prima‘, è più particolareggiato nella seconda, per  i ‘Neruii’ e i “Treueri’, per i ‘Tungri’ (2,  20) e per gli ‘Heluetii” (28, 6).    1 Sarà certamente una menda di stampa il $ 110, invece del  101, segnato nella p. 119,.n. 1, delle prov. rom. del :MommsEn,  trad. De RuagieRo, Roma 1887.   ? Vedi Lup. JAN, scripturae discrepantia nel vol. IV dell’ ed.  della n. h., p. XVII.   3 Tac. ann. XI 19,3. De’ ‘Frisii’ tratta anche Tacito in Agr.  28, 14. hist. IV 15, 12; 18, 26; 56, 15; 79, 8. ann. I 60, 6. IV 72,  le; 73, 4; 74, 1. XI 19,3. XIII 54, 2, 9, 23. Per altre notizie  sui ‘ Frisii” v. Cass. Dion. r. Rom. LIV 32, 2-3; PTOLEM. geogr.  II 11; e il pan. d’incerto autore a Costanzo,.$ 9; in BAEHRENS,  ZII pan. Lat., V, p. 138.   4 V. n. h. IV 17 (31), 106: cf. inoltre XII 1 ;(2), :5 per gli  ‘ Heluetii’ ; e XXXI 2 (8), 12 per. la fonte di acqua ferruginosa presso i ‘ Tungri Similmente le brevi notizie che dà la n. A. IV: 17  (31), 106, concernenti i ‘ Nemetes”, i ‘ Triboci ?, i ‘ Vangiones’, gli “ Vbii” (‘ colonia Agrippinensis ’), i Bataui’, (con qualche particolare, per i ‘ Bataui?, in IV 15  (29), 101; e per gli ‘ Vbii”, in XVII 8 (4), 47), sì osservano nella Germ. 28, 19 sgg. e 29, 1 sgg.    IV.  Il ‘ Pontus Euxinus” è indicato nella Germ. 1,  10 con l’espressione ‘ Ponticum mare ’. Dello stesso mo‘ do è indicato nella n. R. V 27 (27), 97 ‘ hine Ponti cum, illinc Caspium et Hyrcanium ?. Osservasi prima  la stessa espressione in Livio e Mela !.    V.  Nella descrizione generale dei popoli germanici, la Germ. 4,6 dà evidenza ai sgg. caratteri: ‘ truces et caerulei oculi , rutilae comae, magna corpora ’  e. q. s. Nella n. A. VI 22 (24), 88 si annunziano quasi  con le stesse parole i caratteri di alcuni popoli dell’Asia: ‘ipsos uero excedere hominum magnitudinem, ru| tilis comis, caeruleis oculis , oris sono truci ’. Trovasi,  inoltre, nella n. A. XXVIII 12 (51), 191 l’avvertenza, in  proposito delle ‘ rutilae comae ’,sche ad arte si otteneva  o si rendeva, se naturale, più evidente tale colore «lei  capelli mediante l’ uso d’ un certo sapone gallico, adoperato in Germania più dagli uomini che dalle donne.    VI.  a) Cesare scriveva che la maggior parte degli antichi Germani si nutrivano di latte, cacio e carne. ? Nella Germ. 23, 3 si dà una notizia analoga a quella    1 Liv. XL 21, 2. Pompon. Met, chor. II 1, 5. Cf. Tac. ann. XIII  39, 2; e, per analogia, ‘os Ponticum”’ (ann. II 54, 4).  2 Cars. d. G. VI 22, 1: cf IV 1,8. data da Cesare quanto alla carne (‘recens fera ’), ma  si restringe la notizia concernente i latticini, poichè si  esclude il cacio dall’ ordinario vitto dei Germani, e si  indica il solo ‘lac concretum ?, cioè latte rappreso o  cagliato. La restrizione che notasi nella Germ. appare  confermata e più chiaramente indicata nella n. R. XI  41 (96), 259: ‘ mirum barbaras gentes quae lacte uiuant  ignorare aut spernere tot saeculis casei dotem, densantes  id alioqui in acorem iucundum et pingue butyrum.  spuma id est lacte concretior lentiorque quam quod  serum uocatur. Il pensiero laudativo per i Germani, indicato dalla  frase della Germ. 23, 3 ‘ cibi simplices, agrestia poma,  recens fera aut lac concretum: sine apparatu, sine blandimentis expellunt famem”’ ha complemento nell'osservazione igienica notata, in generale, da Plinio: ‘ homini cibus utilissimus simplex, aceruatio saporum pestifera et condimento perniciosior’ (n. A. XI 53 (117),  282).    VII.  a) Quando si legge nella Germ. 9, 9 la parte notevole che avevano per il culto delle genti primitive le selve sacre: ‘lucos ac nemora consecrant deorumque nominibus appellant secretum illud, quod sola  rewerentia uident’;! ricorre alla mente quel che osserva Plinio nella n. A. XII 1 (2), 3 ‘ haec fuere numinum templa, priscoque ritu simplicia rura etiam nunc  deo praecellentem arborem dicant’. E un concetto simile aveva prima espresso Seneca *.    1 Cf. GERM, cc. 39, 40, 43.  ? SEN. epist. IV 12 (41), Ad indicare le regioni del sud soggette a Roma, tanto  nella Germ. quanto nella n. A. è adoperata l’espressione  ‘orbis noster’: Germ. 2,6 ‘ Oceanus rarisab orbe nostro nauibus aditur?. n. A. XII 12 (26), 45 ‘in nostro .orbe proxime laudatur Syriacum (sc. nardum),  mox Gallicum ’, e. q. s. * Inoltre, l’accenno sul balsamo  nella Germ. 45, 25 ‘ Orientis secretis, ubi tura balsamaque sudantur ’, risponde alle notizie che, tra  i primi, ne diede Plinio in diversi luoghi della n. %. ?    VIII. Che l’espressione ‘ frugiferarum arborum impatiens ’, usata nella Germ. 5, 4, non debbasi intendere  senza restrizione, non solo ci avvertono l’indicazione della  maniera con cui si facevano certi sortilegi ( v. Germ.  10, 2 ‘ uirgam frugiferae arbori decisam in surculos  “amputant ’) e l'avvertenza intorno ai mezzi di nutrizione  degli antichi Germani (v. Germ. 23,3 ‘cibi simplices,  agrestia poma ’), ma anche una notizia che osservasi  nella n. &. XV 25 (30), 103, sulla presenza del ciliegio  sulle rive del Reno, in tempi remoti.    IX.  a) La particolarità geografica della terra germanica, che è, in generale, ‘aut siluis horrida aut paludibus foeda ’ (Germ. 5, 2), ha una conferma, in par  1 Osservasi prima in VeLL. PATERC. h. R.I 2,3. Cf. Tac,  Agr. 12, 9.   2 V. n. h. XII 25 (54), 111 sgg. XVI 32 (59), 135: cf. XIII 1  (2), 11. 13. 15. Vedi anche il nostro libro sui neologismi botanici  nei carmi bucolici e georgici di Virgilio, Palermo 1901; LV,  Pp. 103 sg.    RES, () pg  ticolare, nella descrizione che presenta Plinio (7. h. XVI  2 (2), 6) della selva ‘ Hercynia ?. !   b) Nella Germ. 17, 7 si osserva che i Germani ‘ detracta uelamina (sc. ferarum) spargunt maculis pellibusque beluarum, quasi exterior Oceanus atque ignotum  mare gignit’; ma non è detto in che modo facessero  i Germani per impadronirsi di tali belve marine. Possiamo argomentarlo da quel che si dice nella n. %.  XVI 40 (76, 2), 203, in proposito dei predoni di mare:  ‘singulis arboribus cauatis nauigant, quarum quaedam et XXX homines ferunt ’.   c) L’uso druidico delle adunanze ‘ sexta luna, quae  principia mensum annorumque his facit et saeculi post  tricesimum annum” (n. A. XVI 44 (95), 250), osservasi  esteso ad una consuetudine germanica, quella, cioè, di  farsi le riunioni popolari ‘ cum aut inchoatur luna aut  impletur ? (Germ. 11, 5).    X.  A integrare l’ osservazione che la terra germanica è ‘pecorum fecunda”’ (Germ. 5, 5), vale quello  che nota Plinio sugli ottimi pascoli della Germania:  ‘ nam quid laudatius Germaniae pabulis?’ (n. A. XVII  4 (3), 26).    XI.  a) Non appare una consuetudine particolare  dei popoli germanici, che ‘ leuioribus delictis pro modo  poena: equorum pecorumque numero conuicti multantur ? (Germ. 12, 7). La stessa consuetudine vigeva anche, secondo attesta Plinio, presso gli antichi Romani;    1 Cf. Pompon. Met. chor. III 3, 29 ‘ magna ex parte:siluis ac  paludibus inuia ”.     108   perciocchè ‘ multatio quoque non nisi ouium boumque  inpendio dicebatur’, e ‘cautum est, ne bouem prius  quam ouem nominaret, qui indiceret multam’ (n. &.  XVII 3 (3), 11).   b) Quantunque l’ avena si fosse potuta usare per la  preparazione della birra, non è da dirsi incompleta la  notizia, che presso i Germani era in uso ‘ potui umor  ex hordeo aut frumento, in quandam similitudinem  uini corruptus’ (Germ. 23, 1); poichè, secondo la menzione che se ne legge nella n. 4., se ne avvalsero allora più per cibo che per la fermentazione della bevanda gradita: ‘ quippe cum Germaniae populi serant  eam (sc. auenam) neque alia pulte uivant’ (n. %. XVIII  17 (44, 1), 149).!    XII.  a) Il vestiario delle donne germaniche non  si distingueva da quello degli uomini, se non che le  donne ‘ saepius lineis amictibus uelantur’ (Germ. 17,  10). La stessa notizia appare nella n. A. XIX 1 (2, 1),  8 ‘ uela texunt (sc. e lino) iam quidem et transrhenani hostes, nec pulchriorem aliam uestem eorum feminae nouere ’.   b) La notizia data dalla n. A. XIX 1 (2, 1), 9, che  in Germania facevasi il lavoro di tessitura in sotterranei : ‘in Germania autem defossae atque sub terra  id opus (sc. lina texendi) agunt’, completa l’ indicazione dell’uso di quelle abitazioni sotterranee, che nella  Germ. 16, 12 si dicono fatte per ‘suffuginm hiemi et  receptaculum frugibus ?.*       1 Vedi, quanto ai diversi nomi con cui s' indicava la birra,  n. h. XXII 25 (82), 164.  2 Pompon, MEL, chor. II 1, 10 dice lo stesso dei ‘Satarchae ’, In ciò che nella Germ. 46, 14 dicesi intorno al modo di vivere dei ‘Fenni’, ai quali era ‘ uictui herba, uestitui pelles, cubile humus”, pare di scorgere un caso particolare di quanto si considera, in generale, nella n. %. XXI 15 (50), 86, che vi sono delle  ‘ herbae sponte nascentes, quibus pleraeque gentium  utuntur in cibis”, ’    XIV.  Dei ‘ Mattiaci’ la Germ. 29, 9 considera il  popolo, sottomesso all'impero romano; la n. &. XXXI 2  (17), 20 ne menziona le fonti termali (oggi Wiesbaden).    XV.  La notizia data dalla Germ. 5, 18 sulla moneta antica (‘ serratos bigatosque ’), che era preferita  dai Germani vicini alle province romane del Reno e del  Danubio, negli scambi commerciali, è confermata, per  quanto concerne i ‘ denarii bigati’, dalla n. %. XXXII  3 (13), 46: ‘ notae argenti fuere bigae atque quadrigae,  inde bigati quadrigatique dicti °.    XVI.  L’ambra fu in origine un succo di vegetali:  nella Germ. 45,22 se ne adduce la sg. ragione: ‘ quia  terrena quaedam atque etiam uolucria animalia plerumque interlucent , quae implicata umore mox durescente materia cluduntur ’. Alla stessa conclusione si    popolo del Chersoneso Taurico: ‘ob saeua hiemis admodum  adsiduae, demersis in humum sedibus, specus aut suffossa habitant’ (Frick).   1 Sact. /ug. 18, 1 aveva prima avvertito che per i Getuli e i  Libii ‘ cibus erat caro ferina atque humi pabulum uti pecoribus”,     110     perviene, per altra via, nella ». %., in cui sono addutte  per prove l’opinione degli antichi e l’etimologia della  parola ‘ sucinum ’ : XXXVII 3 (11), 43 ‘ arboris sucum  esse etiam prisci nostri credidere, ob id sucinum appellantes ?. Nè vi è contraddizione se nella Germ. 45,  15 si afferma che gli ‘ Aestii ’, sulla spiaggia orientale  del mare suebico, ‘ soli omnium sucinum.... inter uada  atque in ipso litore legunt’, e che essi ‘ pretium (sc.  sucini) mirantes accipiunt ’; mentre nella n. %. XXXVII  2 (11), 35 si ripete la notizia annunziata da Pytheas :  ‘ Gutonibus Germaniae gente adcoli aestuarium Metonomon nomine......, ab hoc diei nauigatione abesse insulam Abalum , illo per uer fluctibus aduehi et esse    concreti maris purgamentum, incolas pro ligno ad ignem    uti eo (sc. sucino) proxumisque Teutonis uendere ?’. Gli  ‘ Aestii’ avevano le loro sedi accanto a quelle dei ‘ Gutones ° o ‘ Gotones ’, sulle spiagge orientali del mare    suebico (Baltico); era naturale, per ciò, che l’industria |    dell’ambra , così bene avviata presso gli ‘ Aestii ’, si  fosse estesa, come tra popoli vicini, e forse in dipendenza l’uno dall’altro, anche presso i ‘ Gotones ’; e da  ciò la notizia registrata nella n. /%., la quale toglie  quella rigidezza di apprezzamento , che traspare dalla  frase ‘ soli omnium ’ della Germ., riferita agli‘ Aestii ?.   È, inoltre, da considerare che, se i ‘ Gutones ” facevano il commercio dell’ ambra coi vicini ‘Teutoni ”,  lo vendevano a loro ‘ pro ligno ad ignem ’’; e perciò nessuna contraddizione si può notare con quanto è detto  nella n. 4., se gli ‘ Aestii” facevano delle meraviglie  nel vedersi pagare un prezzo per il sucino, di cui si  erano cominciate a fare delle ricerche presso di loro ,        11  da che il lusso romano aveva dato a tale merce un valore notevole !.    1 Un’altra relazione tra la Germ. ei lavori di Plinio avverte U. Zernial, nel suo comm. alla Germ. 3, 15 pp. 22-23, cioè,  che la frase ‘adhuc extare’, usata in proposito dei monumenti e tumoli con iscrizioni greche, che allora restavano nel  confine della Germania e della Rezia, si deve riferire a notizie  date da Plinio nei venti libri ‘ bellorum Germaniae. A rendere completo il nostro studio sulla Germ., ci  pare opportuno mettere anche in confronto il contenuto di essa con le opere genuine di Tacito. Il  confronto sarà ordinato come nel cap. precedente, restringendo il nostro esame ai soli concetti che presentino  un qualche indizio di dipendenza o di corrispondenza  tra loro.   Ci atterremo, quanto alla disposizione della materia,  all’ ordine delle opere di Tacito.    I.  a) Che le chiome bionde o rossicce e la corporatura grande formassero uno dei caratteri fisici  della nazionalità germanica è fatto cenno nell’Agr. 11,  3 ‘ rutilae Caledoniam habitantium comae, magni artus  Germanicam originem adseuerant ’: risponde alla descrizione che ne presenta la Germ. 4, 6 ‘rutilae comae, magna corpora et tantum ad impetum ualida ”.  Seneca aveva anteriormente fatto menzione del ‘ rufus  crinis et coactus in nodum apud, Germanos”.! Quanto  alla frase dell’Agr.1. c.* magni artus Germanicam originem adseuerant ’, alla quale si riattacca l’osservazione  intorno ai ‘ Bataui * (‘et forma conspicui , et est plerisque procera pueritia’ Mist. IV 14, 6: cf. V 18, 2)  ed ai ‘ Cherusci ’ (‘ procera membra” ann. I 64, 7),  risponde la considerazione generale intorno ai Germa  * Per i limiti del confronto, vedi l’ avvertenza * a pag. 94.  1 Sen. dial. V 26, 3.        113     ni, che si legge nella Gem. 20, 1 ‘in hos artus, in  hacc corpora, quae miramur, excrescunt ?. Cesare aveva  prima avvertito che il suo esercito era stato invaso  dal timore al sentire dai Galli e dai mercatanti la notizia ‘ ingenti magnitudine corporum Germanos, incredibili uirtute atque exercitatione in armis esse’ !; e Mela  aveva anche osservato che i Germani erano ‘ immanes  animis atque corporibus ?, perchè attendevano agli esercizi guerreschi ed erano afforzati dalla ‘adsuetudine  laborum maxime frigoris ”. *   b) Istituendo un confronto tra la fioridezza dei Galli  nei tempi anteriori e la decadenza che essi mostrarono  dopo, Tacito nell’ Agr. 11, 15 avverte: ‘ Gallos quoque  in bellis floruisse accepimus; mox segnitia cum otio  intrauit, amissa uirtute pariter ac libertate ’. Lo stesso  concetto appare nella Germ. 28, 15, allorchè, per dare  evidenza al carattere nazionale dei ‘ Treueri’ e dei  ‘ Neruii ’, si dice che essi ‘ circa adfectationem Germanicae originis ultro ambitiosi sunt, tamquam per hanc  gloriam sanguinis a similitudine et inertia Gallorum separentur ’. La superiorità dei Galli di un  tempo è attestata nello stesso 1. della Germ. 28, 1 sull’autorità di Giulio Cesare, che aveva ciò indicato nel  b. G. VI 24, 1.   c) La discordia tra i nemici di Roma cooperò sempre  a costituire la superiorità dei Romani ; onde la considerazione che leggesi nell’ Agr. 12, 4 ‘ nec aliud aduersus  ualidissimas gentis pro nobis utilius quam quod in com  1 Cars. db. G. I 39, 1.  ? Pompon. Met. chor. III 3, 26.    CONSOLI : L’ autore della Germania. 8     lla     mune non consulunt ’. Un pensiero analogosi manifesta  nell’ augurio che 1° autore della Germ. fa a’ suoi concittadini, ‘quando urgentibus imperii  fatis nihil iam  praestare fortuna maius potest quam hostium discordiam’ (Germ. 33, 9). Da ciò la politica, sì lodata, di  Druso nelle relazioni coi Germani: egli ‘ haud lene decus quaesiuit inliciens Germanos ad discordias’ (ann.  Il 62, 2).!   d) Un apprezzamento punto benevolo per la spedizione  di Caligola contro i Germani si legge tanto nell’ Agr.  13, 9 ‘ agitasse Gaium Caesarem de intranda Britannia  satis constat, ni uelox ingenio mobili paenitentiae, et  ingentes aduersus Germaniam conatus frustra fuissent ’;  quanto nelle Rist. IV 15, 8, in cui si narra di un Canninefate, che ‘ multa hostilia ausus Gaianarum expeditionum ludibrium inpune spreuerat ’. Lo stesso apprezzamento era stato manifestato prima nella Germ. 37, 23   ‘*ingentes Gai Caesaris minae iu ludibrium uersae ?.   e) La politica dei Romani solevasi avvalere di un  mezzo più efficace delle armi, per vincere e tenere assoggettati i barbari, l’allettamento dei vizi. Nell’ Agr.  21, 10 sgg. sì deridono gli ignoranti che fanno consistere la civiltà nei ‘delenimenta uitiorum’, che sono    1 Claudio Mamertino ripeté lo stesso concetto, che le discordie intestine dei barbari erano la fortuna dell'impero: ‘ tantam  esse imperii uestri felicitatem ut undique se barbarae nationes  uicissim lacerent et excidant, alternis dimicationibus et insidiis  clades suas duplicent et instaurent’ (Pan. genethl. Maxzimiano  Aug. d., 16; in BAFHRENS, AZ/ pan. Lat. III, p. 113 sg.).   2 Severe sono anche le parole con cui Suetonio giudica l’impresa di Caligola contro i Germani (Calig. 43 e 45-47). Persio  la deride (sat. 6, 43 sgg.). CÉ. Cass. Dion. r. Rom. invece strumenti di schiavitù. Similmente uno dei legati dei ‘Tencteri’ presso il ‘concilium Agrippinensium’ raccomandava, secondo racconta Tacito nelle hist.  IV 64, 19: ‘instituta cultumque patrium resumite, abruptis uoluptatibus, quibus Romani plus aduersus subiectos quam armis ualent’. Lo stesso concetto è denotato nella Germ. 23, 6 ‘si indulseris ebrietati suggerendo quantum concupiscunt, hawd minus facile uitiis  quam armis uincentur ”.   f) L'esperienza della vita dimostra vera la sentenza  che Tacito fa dire a Calgaco nell’ Agr. 30, 5: ‘ proelium atque arma, quae fortibus honesta, eadem etiam  ignauis tutissima sunt’. Nella Germ. 36, 2 la si vede  applicata per ispiegare la decadenza dei ‘ Cherusci ’, i  quali ‘ mimiam ac marcentem diu pacem inlacessiti nutrierunt”; e l’autore, considerando che ‘id iucundius  quam tutius fuit”, assurge ad un avvertimento d’ordine  generale, che in nessun tempo è da trascurarsi dagli  uomini di Stato: ‘inter inpotentes et ualidos falso  quiescas ?.   g) Nell’apostrofe di Tacito al suocero estinto, si legge: ‘ nosque domum tuam ab infirmo desiderio et muliebribus lamentis ad contemplationem uirtutum tuarum uoces, quas neque lugeri neque plangi fas est ’  (Agr. 46,3). La frase ‘ muliebribus lamentis’ richiama  alla mente la sentenza della Germ. 27, 7 ‘ feminis lugere honestum est, uiris meminisse’. E probabilmente  tutte e due le espressioni risalgono all’ ammonimento  di Seneca: ‘ obliuisci quidem suorum ac memoriam  cum corporibus efferre et effusissime flere, meminisse  parcissime, inhumani animi est. hoc prudentem uirum non decet: meminisse perseueret, lugere desinat’.! Seneca, presso a morire, ripetè in parte lo stesso concetto,  per confortare la consorte. La nazionalità degli ‘ Heluetii” è, secondo GIULIO (vedase) Cesare, gallica, poichè egli scrive di loro : ‘ Heluetii  quogue reliquos Gallos uirtute praecedunt, quod.  fere cotidianis Droga cum: Germanis contendunt’. 3  Dello stesso parere è Tacito che, considerando gli ‘ Heluetii’ quali erano divenuti a’ suoi tempi, avverte : ‘ Heluetii, Gallica gens olim armis uirisque, mox memoria  nominis clara’ (Rist. I 67, 2). La medesima osservazione è confermata nella Germ. 28, 8, che considera  tanto gli ‘ Falaotit ? quanto i ‘ Boii” come ‘ Gallica utraque gens ’   b) Era a nazionale dei Germani andare ala  pugna coi corpi nudi a diciamo « ignudi »): lo indica Tacito nelle isf. II 22, 6 ‘cohortes Germanorum,  cantu truci et more patrio nudis corporibus super umeros  scuta quatientium ’. Prima di lui, ne aveva dato notizia Cesare, sebbene la sua osservazione non si restringesse ai soli usi guerreschi : ‘pellibus aut paruis renonum tegimentis utuntur, magna. corporis parte nuda ?.!  E l’osservaziore di Cesare fu ripetuta nella Germ. rispetto ai combattimenti (‘ pedites et missilia spargunt....  atque in immensum uibrant, nudi aut sagulo leues  Germ. 6,7), agli esercizi militari dei giovani (‘ nudi    1 SEN. epist. XVI 4 (99), 24.   2 Tac. ann. XV 63.   3 Cars. db. G. 1 1, 4.   4 CAESs. db. G. VI 21,5. Dice lo stesso dei ‘Suebi’ iunenes .... inter gladios se atque infestas frameas saltu  iaciunt” Germ. 24, 2), e alla vita domestica (‘in omni  domo nudi ac sordidi’ e. q. s. Germ. 20, 1: cf. 17, 2). Intorno alla provenienza dei ‘Bataui’ ed ai luoghi da loro occupati, ci informa Tacito nelle Rist. IV  12, 6 ‘Bataui, donec trans Rhenum agebant, pars  Chattorum, :seditione domestica pulsi extrema Gallicae  orae uacua cultoribus simulque insulam iuxta' sitam  occupauere, quam mare Oceanus a fronte, Rhenus amnis tergum ac latera circumluit’. Della ‘insula Batauorum’ avevano già fatto menzione Cesare e Plinio  Secondo. * Nella Germ. 29, 1 si legge: ‘ omnium harum  gentium uirtute praecipui Bataui non multum ex ripa,  sed insulam Rheni amnis colunt ’; e, quanto alla loro  origine, immediatamente dopo si soggiugne : ‘ Chattorum quondam populus et seditione domestica in eas  sedes transgressus, in quibus pars Romani imperii fierent ’.   d) Narra Tacito (Rist. IV 14, 10) che Civile, in occasione di un banchetto tenuto in un bosco sacro, espose  ai convitati la necessità d’insorgere in difesa dei loro  diritti conculcati, contro il dominio romano. L’ usanza  germanica di trattare affari, sì privati che pubblici ,  durante i conviti è menzionata, in generale, nella Germ.  22, 9 ‘ de reconciliandis inuicem inimicis et iungendis  adfinitatibus et adsciscendis principibus, de pace denique ac bello plerumque in conuiuiis consultant : e la  ragione ne è spiegata ‘tamquam nullo magis tempore    1 Secondo la congettura del Walch: nel cod. si legge ‘ iuuata sit an”.  ? Cars. db. G. IV 10, 1. Prin. n. A. aut ad simplices cogitationes pateat animus aut ad  magnas incalescat ”.   e) La disposizione dei Germani per cunei, nelle battaglie, è menzionata nella Germ. 6, 20 ‘acies per cuneos componitur ?’. La conferma appare dal modo secondo  cui furono disposti i ‘ Canninefates’,i ‘ Frisii”, i ‘ Bataui ’, etc. nei combattimenti, durante l’insurrezione di  Civile (rist. IV 16. V 16), e dall’ordine del ‘ Bructerorum cuneus ” (Rist. V 18, 5).! Ma l’ ordinamento dei  combattenti per cunei era stato prima accennato da  Cesare *. Tacito ne fa pure menzione, descrivendo la  battaglia di Bedriaco 3.   f) Nello stesso lib. IV delle hisé. di Tacito, si nota  che i ‘ Bataui ’ furono esenti dall'obbligo di pagare ai  Romani i tributi: ‘ Batauos tributorum expertes (list.  IV 17, 11); ed è confermato in un altro luogo : * sibi  (sc. Batauis) non tributa sed uirtutem et uiros indici ’  (hist. V 25, 9: cf. IV 12, 10). Tale esenzione è notata  anche nella Germ. 29, 6 ‘ (Bataui) nec tributis contemnuntur nec publicanus atterit ’, per la ragione che essi  ‘ tantum in usum proeliorum sepositi, uelut tela atque  arma, bellis reseruantur ?.   g) Civile, nel determinare l’ ordine della battaglia,  ‘matrem suam sororesque, simul omnium coniuges par  1 Cf. Tac. hist. IV 20, 11. La disposizione dei combattenti per  cunei si continuò anche dopo presso i barbari: v. Amm. Marc.  r. g. XXVII 2, 4.   2 Cars. d. G. VI 40, 2: altrove lo indicò con la voce ‘phalanx *; db. G. I 52, 4.   3 Tac. hist. II 42, ]1 ‘comminus eminus, cateruis et cuneis  concurrebant': v. la nota al l. c. nel comm, del VALMAGGI, p.  78, Torino uosque liberos consistere a tergo iubet, hortamenta  uictoriae uel pulsis pudorem ” (Rist. IV 18, 14): si soggiugne poco dopo ‘ uirorum cantu, feminarum ululatu  sonuit acies’. Consimile ordine nei combattimenti a cui  preparavansi i Germani, è indicato nella Germ. 7, 11  ‘in proximo pignora, unde feminarum ululatus audiri,  unde uagitus infantium ’. Ma in tutti e due i Il. citati  la notizia pare che sia provenuta da quanto avevano  scritto prima Cesare sulle donne dei Germani nelle pugne combattute da Ariovisto !, e Strabone intorno alle  donne dei Cimbri. °   h) L’ usanza dei Germani di portare nei combattimenti effigie di animali o altri simboli rappresentanti  le loro divinità protettrici o qualche attributo delle  stesse, è indicata da Tacito, Rist. IV 22, 12: ‘ depromptae  siluis lucisque ferarum imagines, ut cuique genti inire  proelium mos est ’. Nella Ger. 7, 8 si osserva la stessa  consuetudine: ‘ effigiesque et signa quaedam detracta  lucis in proelium ferunt ’*. Così, ad es., gli ‘ Aestii ’ portavano per simboli divini immagini di cinghiali (‘ insigne superstitionis formas aprorum gestant’ Germ.    1 Cars. db. G. I 51, 3.   ? STRAB. geogr. VII 2, 3 (C 294), p. 404, ed. M. Vedi anche  PLvT. C. Mar. 19, 8, p. 497, ed. Th, Doehner. FLor. epit. I 38,  16-17 (III 3), ed. Halm.   3 Tra le‘ effigies” erano notevoli il lupo e il serpente (Wadan),  l’orso e il capro (Thunar), etc. ; tra i simboli o ‘ signa ’, la lancia (Wodan), il martello (Thunar), la spada (Tiu), etc. : v. F.  G. BERGMANN, poémes islandais tirés de l' Edda de Scemund,  Paris 1838, pp. 1-185, 243-259, 303-319; e le « notes explicatives » pp. 221 - 239, 292  300, 358 - 368; v. anche dello stesso  Bergmann la fascination de Gulfi (Gylfa ginning), traité de  mythologie scandinave, Strasbourg & Paris i Cimbri preferivano il toro di bronzo !. I  Germani non rappresentavano in forma umana le loro  divinità: ‘nec cohibere parietibus deos neque in ullam  humani oris speciem adsimulare ex magnitudine caelestium arbitrantur? (Germ. 9, 7).   i) Scoppiata l’ insurrezione di Civile, il danno maggiore fu recato dalle ostilità degli insorti contro gli  ‘ Vbii’, ‘quod gens Germanicae originis eiurata patria  Romanorum nomine ? Agrippinenses uocarentur (Rist.  IV 28, 6). Dalla Germ. 28, 19 si apprende che ‘ ne Vbii  quidem, quamquam Romana colonia esse meruerint ac  libentius Agrippinenses conditoris sui nomine uocentur,  origine erubescunt’; e da un luogo degli ann.'XII 27,  1-4 si ha la notizia più precisa, che ad istanza di Agrippina, moglie dell’imp. Claudio e madre di Nerone,  si condusse una colonia romana nell’ ‘ oppidum Vbiorum’, onde il nome di ‘ Colonia Agrippina’ o solamente ‘ Agrippina’, ovvero ‘ Colonia’ che si ebbe dopo.*   j) Quel che dice Tacito, isf. IV 61, 1, intorno allo  adempimento di un voto di Civile, il quale ‘ post coepta  aduersus Romanos arma propexum rutilatumque crinem    1 PLvr. C. Mar. 23, 6, p. 499, ed. c.   ? ‘ Romanorum nomine’ è dovuto a congettura del Weissenborn. Nel cod. è ‘nom’. La lez. ‘ Romanorum nomen’, che il  Gruter notò, è chiusa dal Halm, dal Ritter, dal Ramorino, etc.  tra parentesi quadre. Altri preferiscono ‘ Romano nomine’, secondo la congettura del Lipsius.   3 Amm. Marc. r. g. XV 8, 19; 11, 7. XVI 3, 1. Ma Io, Harduinus, nel comm. alla n. A. di Plinio, vol. I, p. 225, nota 2?,  crede che sia Agrippina la moglie di Germanico, perchè, come  egli dice, ‘ ueluti mater castrorum procurabat ex eo tractu annonam militibus, qui merebant in exercitu mariti sui : quamobrem et laureato capite pingitur in achate Tiberiano ’,    è    patrata demum caede legionum deposuit’, appare nella  Germ. 31, 3, riferito in ispecial modo ai ‘Chatti’: ‘ ut  primum adoleuerint, crinem barbamque submittere, nec  nisi hoste caeso exuere uotiuum obligatumque uirtuti  oris habitum”.' Anche a Roma non fu, come pare,  sconosciuta tale usanza, poichè Cesare, per dimostrare  il suo affetto ai soldati, ‘ audita clade Tituriana barbam  capillumque summiserit nec ante dempserit quam uindicasset ’. ?   kh) Da uno dei legati dei ‘ Tencteri ’ si diceva: ‘quod  contumeliosius est uiris ad arma natis, inermes ac  prope nudi sub custode et pretio coiremus’ (Qist. IV  64, 8). Il portare le armi, e in qualunque occasione,  stimavasi dai Germani un segno di valentia e di libertà. Ciò confermasi nella Germ. 13, 1 ‘ nihil autem  neque publicae neque priuatae rei nisi armati agunt’;  e si indica il modo con cui facevasi la dichiarazione  d’idoneità a portare le armi. L’ osservazione si ripete  nella Germ. 22, 5 ‘ad negotia nec minus saepe ad conuiuia procedunt armati’. Anche morto, il Germano  aveva seco le sue armi (Germ. 27, 4). Tale usanza, del  resto, non restringevasi ai soli Germani; Cesare la  indica prevalente presso i Galli. 5    1 La stessa usanza presso i Sassoni, in tempi posteriori, è  riferita da PAvL. pIAC. de gest. Langobard. III 7, p. 438, c. 2?.  E nella storia di Norvegia è narrato il giuramento del re Harald Haarfager, di non tagliarsi i capelli nè di pettinarli prima  d'avere spenti tutti i piccoli sovrani che tenevano divisa la  patria sua: e dopo lotte accanite che durarono più di dieci  anni, adempi quanto aveva giurato: v. R. KeysER, Norges historie, ed. c., vol. I, pp. 204-209.   2 SveTton. diu. Iul. 67.   3 Cas, d, G. V 56, 2: cf. VII 21, 1.     122    1) Un altro segno della piena libertà di cui godevano i Germani, e che, come del resto è nell’ordine naturale delle cose, trascendeva talora in dannosi eccessi, era quel che nota Tacito nelle Rist. IV 76,9: ‘ Germanos.... non iuberi, non regi, sed cuncta ex libidine  agere’. E da ciò quella lentezza nelle deliberazioni  delle assemblee, che era veramente un ‘ex libertate uitium’; poichè i Germani ‘ non simul nec ut iussi conueniunt, sed et alter et tertius dies cunctatione coèuntium absumitur’ (Germ. 11, 9). Presso i Galli, nota  Cesare, l’abuso era punito; e al principio della guerra,  quando tutti i giovani armati dovevano adunarsi in  un dato luogo, chi di loro ‘nouissimus conuenit, in  conspectu multitudinis omnibus cruciatibus affectus necatur ?.!   m) Nel luogo testè cit. delle Rist. IV 76, 10 si soggiugne: ‘pecuniamque ac dona, quis solis corrumpantur  (sc. Germani), maiora apud Romanos. Negli ann. XI   ‘ 16, 7 è detto che l’imp. Claudio si avvaleva del danaro per tenere sotto la sua dipendenza il re dei ‘Cherusci’, Italico. Or, tanto nel primo quanto nel secondo dei ll. cc., scorgesi l'applicazione del mezzo che non  di rado usavano i Romani, per meglio asservire il popolo germanico: onde la considerazione che leggesi  nella Germ. 15, 12 ‘iam et pecuniam -accipere docuimus’ ;? e, in particolar modo, intorno ai re dei ‘ Marcomani’ e dei ‘Quadi’ si dice: raro armis nostris,    1 CaEs. db. G. V 56, 2.   2 È noto che, per danaro, la milizie germaniche marciarono  contro gli stessi Germani: v. CAPITOLIN. M. Ant. philos. 21,7;  in scriptt. hist. Aug., IV p. 66, ed. P.,    Mi |    A  saepius pecunia iuuantur, nec minus ualent’ (Germ.  42, 9). !   n) I Germani ammettevano che le donne di condizione elevata fossero le più sicure garentie e i migliori ostaggi, per ottenere l’ adempimento dei patti convenuti tra popolo e popolo o tra i partiti di una stessa  gente. Un caso è rammentato da Tacito, Rist. IV 79,  1:‘orabant auxilium Agrippinenses offerebantque uxorem ac sororem Ciuilis et filiam Classici, relicta sibi  pignora societatis’; la quale ‘ societas’ sappiamo che  era stata già ‘ nobilissimis obsidum firmata’ (Rist. 1V  28, 2). La consuetudine era stata prima indicata nella  Germ. 8, 5: ‘ efficacius obligentur animi ciuitatum, quibus inter obsides puellae quoque nobiles imperantur ”.  Augusto aveva tentato di trarne vantaggio, chiedendo  ad alcuni capi.di nazioni vinte, per tenerli in fede e  soggezione, delle donne per ostaggio. *   o) Per significare 1° approvazione delle proposte discusse nelle assemblee, i Galli solevano battere le armi: ‘conclamat omnis multitudo et suo more armis  concrepat, quod facere in eo consuerunt, cuius orationem approbant ?. La stessa usanza notavasi presso  i Germani : ‘ sin placuit, frameas concutiunt : honoratissimum adsensus genus est armis laudare’ (Germ.  11, 17). Tacito l’accenna nelle Rist. V_ 17, 13 ‘ sono armorum tripudiisque, ita illis (sc. Germanis) mos, adprobata sunt dicta ’.    III.  a) La considerazione sulla maniera di com1 V. pag. 12 sg.    2 SvETON. Aug. 21.  3 Cars, db. G. VII 21, 1, Cf. Liv. battere dei ‘Chatti’, che osserviamo negli ann. I 56,  16 ‘non auso hoste terga abeuntium lacessere, quod  illi moris, quotiens astu magis quam per formidinem  cessit ’,  appare come un’applicazione al caso particolare dell’ osservazione fatta, in generale, sul carattere, dei Germani: ‘ cedere loco, dummodo rursus instes,  consilii quam formidinis arbitrantur’ Germ. 6, 20. Simile usanza presso i‘ Cherusci’ è notata negli ann. II  TIA   b) Tacito narra che, dopo la disfatta di Varo, i Germani sacrificarono presso le are i vinti ‘tribunos ac  primorum ordinum centuriones’ (ann. I 61, 13); e la  stessa notizia sui sacrifici umani egli ripete, in proposito della vittoria degli ‘ Hermunduri”’ sui ‘Chatti”:  ‘ uictores diuersam aciem Marti ac Mercurio sacrauere,  quo uoto equi uiri, cuncta uiua occidioni dantur’ (ann.  XIII 57, 10). Analoga osservazione era stata fatta nella Germ. 9, 1 ‘deorum maxime Mercurium colunt, cui  certis diebus humanis quoque hostiis litare fas habent ’;  ma placavano Marte ‘concessis animalibus’. I‘ Semnones’ anch’essi ‘ caeso publice homine celebrant barbari ritus horrenda primordia’ (Germ. 39, 5); e con  vittime umane si celebrava il culto della dea ‘Nerthus”  o ‘Terra mater’ (Germ. 40, 19). Strabone aveva prima fatto menzione dell’orrendo rito dei sacrifici umani presso i Cimbri '; istituto religioso, del resto, comune a tanti altri popoli primitivi. Iordanis afferma  che anche i Goti offrivano a Marte vittime umane; e    1 StRAB. geogr. VII 2, 3 (C 294), p, 404, ed. M.   2 IoRDAN. de or. act. Get. 5, p. 9, 23, ed. Holder: ‘ opinantes (se.  Gothi) bellorum praesulem apte humani sanguinis effusione  placandum. Procopio dice che l’orrendo rito si era continuato, per  le divinazioni, presso i Franchi già convertiti al Cristianesimo. *   c) All’ indicazione : ‘ certum iam alueo Rhenum ...  Vsipi ac Tencteri accolunt’ (Germ. 32, 1), risponde la  frase che si nota negli ann. II 6, 13 ‘ Rhenus uno alueo  continuus’. Mela dà più chiara spiegazione, ed usa  qualche parola che poi ripetè, sull'argomento stesso, lo  autore della Germ.: ‘(Rbenus) mox diu solidus et certo alueo lapsus haud procul a mari huc et illuc  dispergitur ?. ?   d) Negli ann. II 12, 3 si fa menzione di una selva  consacrata ad Ercole, luogo di convegno dei Germani.  Anche di Ercole e dei canti guerreschi, con cui si celebrava quel ‘primus omnium uwirorum fortium’, si  trova menzione nella Germ. 3, 1 sg.: cf. 9, 2. Evidentemente si allude al culto di Thor (Donar) che, per  interpretazione romana, si era rassomigliato ad Ercole.  Quanto, poi, all’espressione ‘siluam Herculi sacram?”,  che si legge nel 1. c. degli ann., e al ‘ sacrum nemus ”,  dove Civile riuniva i suoi (/Rist. IV 14, 10), si possono  considerare come esempi della consuetudine indicata,  in generale, nella Germ. 9, 9: ‘lucos ac nemora consecrant’. Dello stesso modo son da considerarsi come  casi particolari della consuetudine, di cui è discorso  nel presente paragrafo, la ‘silua auguriis patrum et  prisca formidine sacra’, dove, nel tempo stabilito, si  adunavano i ‘Semnones’ (Germ. 39, 3); il ‘castum  nemus’ consacrato, in un’isola dell’ oceano, alla dea   \    1 ProcoP. de b. Goth. II 25.  ? Pompon. Met. chor. Ill Nertbus’ (Germ. 40, 9); e quello ‘antiquae religionis  lucus ’, presso i ‘ Nahanaruali” (Germ. 43, 14). !   e) Nel discorso pronunziato da Germanico ai suoi  soldati si afferma: ‘non loricam Germano, non galeam,  ne scuta quidem ferro neruoue firmata’ (ann. II 14,  10) : perciò scarsezza, se non totale mancanza, del ferro presso i Germani. Il medesimo concetto è annunziato nella Germ. 6, 1 ‘ne ferrum quidem superest,  sicut ex genere telorum colligitur’; ma l’asserzione di  Germanico, il quale nella foga oratoria negava a tutti i  Germani la lorica e l’elmo, appare mitigata dall’ osservazione che si legge nella Germ. 6, 10 ‘paucis loricae, uix uni alteriue cassis aut galea’. Egli è vero  che i ‘ Cotini” conoscevano la metallurgia del ferro  (Germ. 43, 6), ma i ‘Cotini’” non erano stimati Germani: ‘Cotinos Gallica ... lingua coarguit non esse  Germanos, et quod tributa patiuntur’ (Germ. 43, 3).  Presso gli ‘ Aestii” era ‘rarus ferri, frequens fustium  usus’ (Germ. 45, 12).   Nella stessa orazione di Germanico si nota che i  Germani usavano per scudi ‘uiminum textus uel tenuis et fucatas colore tabulas’ (ann. II 14, 12): lo  stesso avvertesi in generale, intorno agli scudi dipinti,  nella Germ. 6, 9 ‘scuta tantum lectissimis coloribus  distinguunt ’. Soltanto gli ‘ Harii” avevano il costume  di portare gli scudi tinti in nero, per atterrire i nemici durante i combattimenti notturni, presentando un  certo ‘nouum ac uelut infernum adspectum’ (Germ.  43, 24), ?   ì V. rag 105, per la rispondenza con la n. A. di Plinio.    2 Sull'uso degli scudi dipinti v. EvrIr. Phoen. 142, vol. II, p.  402, ed. Nauck. Cic. de or. II 66, 266.        127     f) Del clima della Germania si dice negli ann. II  24, 1 ‘truculeutia caeli praestat Germania’. E l’autore  della Germ. si domanda: ‘(quis) Germaniam peteret,  informem terris, asperam caelo, tristem cultu aspectuque, nisi si patria sit ?° (Germ. 2, 8). Seneca fa una  osservazione consimile: ‘ perpetua illos (sc. Germanos)  hiems, triste caelum premit, maligne solum sterile sustentat” e. q. s.!   g) I soldati di Germanico, che sopraffatti dalla tempesta, sì erano dispersi, tornati poi nei quartieri, dopo  lunga peregrinazione, narravano cose meravigliose,  ‘uim turbinum et inauditas uolucres, monstra maris,  ambiguas hominum et beluarum formas, uisa siue ex  metu credita’ (ann. II 24, 18). Simili notizie favolose  sono riferite nella Germ. 46, 25 intorno agli ‘ Hellusii ’  ed agli ‘“Etiones’: “ora hominum uultusque, corpora  atque artus ferarum gerere’. Ma, mentre un che di  ironico traspare dalla frase ‘siue ex metu credita’,  nella Ger. si. osserva che tali racconti si tralasciano,  perchè sfuggono ad un esame giudizioso : ‘ quod ego ut  incompertum in medio relinquam’ (Germ. 46, 26). Ad  una conclusione non dissimile era venuto prima Pomponio Mela, trattando degli ‘Oeonae’, degli ‘Hippopodes’ e dei ‘ Panuatii ”. *   h) Alludendo ad un’età aurea degli ordinamenti sociali, in tempi antichissimi, Tacito osserva : ‘ uetustissimi mortalium, nulla adhuc mala libidine, sine probro,  scelere eoque sine poena aut coercitionibus agebant’    1 Sen. dial. | 4, 14.   ? Pomp. Met. chor. Ill 6, 56. Cf. Plin. n. h. IT 108 (112), 246.  IV 13 (27), 95 Sotin. coll. r. m. 19, 6-8, p. 105, ed. Mominsen.  Avevstin. de civ. Dei XVI 8, vol. II, p. 135 sg., ed, Dombart.     128   (ann. III 26, 1). Simile concetto, ma col proposito di  dare evidenza, mediante l’antitesi, alla decadenza morale dei Romani nell’età imperiale, è annunziato nella  Germ. 19, 17 ‘plusque ibi boni mores uwalent quam  alibi bonae leges ’. Al medesimo concetto avevano alluso Sallustio! e Orazio. *   î) La pretensione vessatrice di Olennio, che imponeva ai ‘ Frisii’ di soddisfare il tributo di pelli di buoi  con pelli di uri, offre a Tacito l’ occasione di osservare che ‘id aliis quoque nationibus arduum apud Germanos difficilius tolerabatur, quis ingentium beluarum  feraces saltus, modica domi armenta sunt’ (ann. IV  72, 7). Analoga osservazione sui buoi della Germania,  che erano più piccoli e meno belli de’ buoi degli altri  paesi, si nota nella Germ. 5, 5 ‘ pecorum fecunda, sed  plerumque improcera. ne armentis quidem suus honor  aut gloria frontis’. Cesare l’ aveva anche osservato:  ‘ sed, quae (sc. iumenta) sunt apud eos nata, parua atque deformia”.?   j) Tacito narra che Nerone mandò in Britannia uno  de’ suoi liberti, di nome ‘ Polyclitus ?, con l’incarico di  rimettere la concordia tra il legato e il procuratore,  e di rappacificare i barbari ribelli; ma il liberto ‘ hostibus inrisui fuit, apud quos flagrante etiam tum libertate nondum cognita libertinorum potentia erat;  mirabanturque quod dux et exercitus tanti belli confector seruitiis oboedirent’ (ann. XIV 39, 7). La  storia ci rammenta altri liberti potentissimi presso    1 SALL. Cat. 9, 1 “ius bonumque apud eos non legibus magis  quam natura ualebat’.   ? Hor. carm. III 24, 35 sg.   8 CAES. db. G. alcuni imperatori romani. E però, in antitesi a quella  superiorità che si riconosceva, dai Germani non sottoposti a monarchi, ai soli uomini liberi, 1’ autore della  Germ. osserva: ‘ liberti non multum supra seruos sunt,  raro aliquod momentum in domo, numquam in ciuitate,  exceptis dumtaxat iis gentibus, quae regnantur ? (Germ.  25, 8: cf. 44, in principio).   k) Argomento trito era quello dei vantaggi di cui  godeva l’ ‘ orbitas ’ di vecchi ricchi. ‘ Hereditatis spes ’,  scriveva Cicerone, ‘ quid iniquitatis in seruiendo non  suscipit? quem nutum locupletis orbi senis non obseruat ?’!. Orazio ne fa il tema della sat. quinta del lib.  II (cf. anche episf. I 1, 79); e Seneca avverte: ‘in ciuitate nostra plus gratiae orbitas confert quam eripit ?. ?  Allo stesso argomento si riferisce Tacito , scrivendo:  ‘ satis pretii esse orbis quod multa securitate, nullis 0neribus gratiam honores cuneta prompta et obuia haberent ? (ann. XV 19, 7); e in altri luoghi adduce per  esempi Calvia Crispinilla, ‘ magistra libidinum Neronis?, la quale fu ‘ potens pecunia et orbitate, quae bonis malisque temporibus iuxta ualent” (Risé. I 73, 8); e  un tale Pompeo Silvano, che ‘ ualuit pecuniosa orbitate  et senecta ’ (ann. XIII 52, 7). L’antitesi sì osserva nel  1 Cic. parad. V 2, 39.   2 Sen. dial. VI 19, 2; e degli scrittori che, dopo Plinio Secondo, s'intrattennero di tale argomento, v. PLIN. epist. IV 15,  3. IvvenaL. sat. IV 12,99 sgg. PETRON. sat. 1)6, p. 539. MARTIAL. epigr. IV 56, 1-6. Amm. Marc. r. g. XIV 6, 22.   3 Ma Domizio Balbo era stato ‘simul longa senecta, simul  orbitate et pecunia insidiis obnoxius L’ autore della Germania le istituzioni tradizionali dei Germani, presso i quali  ‘nec ulla orbitatis pretia’ (Germ. 20, 18).    IV.  In tutti i luoghi che nel presente capitolo abbiamo comparativamente esaminati, è agevole osservare  che la somiglianza o identità di concetto proviene per  lo più dai fonti comuni, donde i pensieri sono stati  dedotti ; e, ove tali fonti comuni manchino ovvero non  si riesca a determinarli, nulla vieta di ammettere che,  essendo il tempo della composizione della Gem. anteriore a quello in cui furono scritte le opere di Tacito,  questi, trattando ne’ suoi lavori storici di argomenti  analoghi ad alcuni già svolti o menzionati nella Germ.,  si sia avvalso di considerazioni , uotizie, insomma di  pensieri che erano stati espressi in questo ultimo libro.  Nondimeno Tacito non si attenne sempre a tali concetti,  chè talvolta di proposito se ne allontanò , o li modificò, o chiaramente li contraddisse. Valgano di conferma i sgg. esempi.   a) Della notizia, data da Cesare, ! sull’ antica potenza dei Galli fa menzione la Germ. 28, 1, indicandone  con lode somma il fonte: ‘ualidiores olim Gallorum  res fuisse summus auctoram diuus Iulius tradit’. La  medesima notizia appare nell’ Agr. 11, 15, ma senza  indicazione del fonte autorevole: ‘Gallos quoque in  bellis floruisse accepimus’. Anche in un altro luogo    dell’ Agr., c. 10, si ripete, senza che se ne indichi il    fonte, una notizia data da Cesare.* Soltanto, quando si  riferiscono le imprese militari contro la Britannia, si fa    1 Cars, db. G. VI 24, 1.  ? Cars. b. G. V 13, 1 sgg.    Mo]     1Bl    cenno di Cesare: ‘primus omnium Romanorum diuus  Iulius cum exercitu Britanniam ingressus ’ (Agr. 13, 3).   b) La lingua dei Britanni non era molto differente  da quella gallica, perchè entrambe derivavano dallo  stesso ceppo celtico: e su ciò è chiara l’ affermazione  dell’ Agr. 11, 12. Ma con tale affermazione non si  può conciliare quanto è detto nella Germ. 45, 9, cioè  che gli ‘Aestii’, i quali abitavano sulle spiagge ad  oriente del mare suebico, ed avevano costumanze e  riti simili a quelli dei Suebi, adoperassero una ‘lingua Britannicae propior ”.   c) La voce ‘Germania’ usata al plur. notasi nello  Agr. 15, 13. 28, 1: cf. ann. I 46, 9; è evitata nella  Germ., sebbene in questa si presenti non rara l’ occasione della sineddoche mediante l’uso del plur. invece  del sing.   ‘d) Del Norico, che è più volte nominato negli scritti  di Tacito (ist. I 11, 9; 70, 16. ann. II 63, 3), non si  fa menzione nel c. 1° della Germ., nel quale si descrivono i confini della Germania: appena, per incidenza,  sì nota in un altro ]. che la terra germanica è ‘ uentosior  qua Noricum ac Pannoniam aspicit’ (Germ. 5, 3); il  che rende più evidente l’omissione fatta nel c. 1°.   e) Col solo nome ‘Caesar’, Tacito indicò il dittatore  Giulio Cesare (Rist. III 66, 16): più volte premise o  aggiunse il titolo ‘ dictator” (/ist. III 68, 5. ann. I 8,  27. II 41, 3. IV 34,21. VI 16, 2. XI 25,9. XIII 3, 11.  XIV 9, 6); una sola volta lo fece precedere dal prenome C. (ann. IV 43, 5). Nella frase della Germ. 37,  20 ‘ Varum trisque cum eo legiones etiam Caesari  abstulerunt’, si indica col solo nome ‘Caesar’ l’imperatore Augusto. !   f) Facendo menzione della vergine fatidica Veleda,  la cui autorità era divenuta grande dopochè ella aveva  predetto la vittoria dei Germani e la distruzione delle  legioni romane, Tacito accenna ad un antico costume  presso i Germani, ‘quo plerasque feminarum fatidicas  et augescente superstitione arbitrantur deas’ (list. IV  61, 10). Nella Germ. si spiega il fondamento di tale credenza: ‘inesse quin etiam sanctum aliquid et prouidum putant, nec aut consilia earum aspernantur aut  responsa neglegunt’ (Germ. 8, 6); ma si avverte che  le donne fatidiche erano tenute ‘numinis loco’ e venerate ‘non adulatione nec tamquam facerent deas’.   9g) Per il ritorno degli ‘ Agrippinenses ’ in seno alla  grande famiglia germanica, si rendono grazie ‘ communibus deis et praecipuo deorum Marti’ (Qisf. IV 64, 4).  Nella Germ. 9, 1 si assevera, invece, che per i Germani il precipuo degli dei era Mercurio : ‘ deorum maxime Mercurium colunt ’.   h) Nelle Rist. IV 73, 12 si fa menzione dei Teutoni  accanto ai Cimbri; nella Germ. 37, benchè vi si tratti  delle guerre cimbriche, si omette qualsiasi cenno intorno ai Teutoni. *   i) Per l’autore degli ann. sono ‘clientes’ i compa  1 Negli ann. Augusto é detto una volta ‘Caesar Octauianus  (XII 6, 14) ed un’altra ‘Caesar’ (I 2, 3), riferendosi però a  tempi anteriori a quello in cui egli prese il nome di Augusto  (a. 727 /27: cf. WEISSENBORN, de Titi Liuii uita et scriptis). La disfatta di Quintilio Varo avvenne nel settembre dell'a. 9 d. Cr., cioè 36 anni dopo che Ottaviano era stato insignito col titolo di Augusto, gni dei capi barbari, p. es. i ‘clientes’ di Segeste (amm.  I 57, 13), di Inguiomero (ann. II 45, 4), di Vannio  (ann. XII 30, 7); e che significhi ‘ clientela’ per Tacito si  deduce dal l. degli ann. II 55,8. Nella Germ., invece,  i compagni dei capi son detti, con voce più nobile e  decorosa, ‘comites’ (Germ. 13,10, 12, 14, 14,7); ela  loro riunione ‘ comitatus” (Ger.),  non ‘ clientela”.   j) Secondo la Germ. 4, 6, i Germani hanno ‘magna  corpora et tantum ad impetum ualida’. Negli ann. II  14, 14 si restringe l’obietto di tale considerazione, poichè si nota che il corpo dei Germani è ‘uisu toruum  et ad breuem impetum ualidum ’. i   k) L’ autore della Germ. non saprebbe affermare  ‘nullam Germaniae uenam argentum aurumue gignere:  quis enim scrutatus est ?” (Germ. 5, 9). E nondimeno  negli ann. XI 20, 11 è detto espressamente che nell’a.  47 d. Cr. Curzio Rufo ‘in agro Mattiaco recluserat specus quaerendis uenis argenti ’, tuttochè con poco profitto e per breve tempo. Se è assodato, da quanto narra Tacito negli ann.  XIII 57, 2 sgg., che i Germani facevano uso del sale,  non può evitarsi il contrasto con l’osservazione che leggesi nella Germ. 23, 4, cioè che i Germani si preparavano i cibi ‘ sine apparatu, sine blandimentis ?.   Ed altri esempi omettiamo, per amore di brevità. Mende tipografiche    . 28 mendacium  13 comunica  18 Seguo  ll alle    leggi mendaciorum comunicava  Seguiamo  alle    I     At/n^^'^      l^arbarli College Eibrarg   FROM THE   CONSTANTIUS FUND     Established by Professor E. A. Sophoclbs of Harvard   University for " the purchase of Greek and Latin   books, (the andent classics) or of Arabie   books, or of books illustrating or ex plaining sudi Greek, Latin, or   Arabie books.»» (Will} La " GERMANIA " comparata   CON LA ''^NATÌ^RAUGHfGTOmA ' DI RDIMIO   e con le opere di Tacito     Altre opere del Prof. Dott. Santi Consoli :   Italiensk Crammatik til brug for Norske og Danske.  Catania , 1884. L. 3. (in deposito presso E.  Hauffs boghandel, Kristiania in Norvegia).   Istituzioni di lingua latina esposte, secondo il metodo scientifico, agli alunni delle scuole secondarie classiche. Catania, F. Tropea Introduzione allo studio del D. N.  Torino, F.lli  Bocca Fonologia latina Milano, U. Hoepli Letteratura norvegiana,  Milano, U. Hoepli De C. Piinii Caecllii Secundi rhetoricis studiis.    Catinae, C. Galatola Il neologismo negli scritti di Plinio il giovane.   Contributo agli studi sulla latinità argentea.  Palermo, A. Reber Neologismi botanici nei carmi bucolici e georglci di Virgilio. Contributo agli studi sulla latinità dell'evo augusteo. Palermo, A. Reber L' autore del libro " De origine et situ Cermanorum " : ricerche critiche.  Roma, Loescher LA GERMANIA COMPARATA COLLA NATVRALIS HISTORIA di Plinio e cosa le opere d.i rPaclto RICERCHE LESSIGRAFIGHE E SINTATTICHE lib. doc. di letteratura e lingua latina nella R. Università di Catania Loescher Bretaehneider e Regenberg Librai di S. M. la Regina d' Italia L-t l-l'iZ.i l \ (.Ji'ù i U ta.t ^ tCu>u Y^.   (Catai^a^ via MaddemfD. Ttpoffrafia editrice BARBACALLO & 8CUDERI, in Catania. Alla memòria benedetta di mia madre E DI MIA MOGLIE . Il sagio che C. sommettealla benevola attenzione dei lettori ha il solo obietto di dare evidenza ad alcune osservazioni lessigrafiche e sintattiche, più degne di  nota, che risultano dal confronto della Germania con  la naturalis historia di Plinio e con le opere di Tacito. Si ommettono, per tanto, tutte le particolarità, concernenti la lessigrafla e la sintassi, che presentano gli scritti comparati, in quanto che tali particolarità o casi isolati sfuggono ad un'indagine comparativa. Nelle ricerche sulla genesi e lo svolgimento delle voci e locuzioni considerate, terremo presente l'uso che  ne fecero i più autorevoli scrittori latini anteriori a Plinio Secondo ed a Cornelio Tacito, e quelli ad essi  contemporanei. Eviteremo, per ciò, salvo in qualche  caso raro, di seguire le vicende di una data espressione  o di un dato costrutto sintattico nell'uso letterario dei  tempi seriori. Sarà ommessa altresì l' indagine di quei  significati delle voci esaminate , i quali , non essendo  stati accolti nelle opere che sono obietto delle nostre  ricerche, non sembrano di alcun vantaggio per la comparazione istituita. Al nostro compito è sufficiente indagare per quale tramite la voce, la frase, il costrutto che  si esaminano , sì siano introdotti nelle opere messe in  comparazione. Qualche osservazione critica appare, talvolta, nelle note; che, trattandosi di indagini comparative, è necessario, anzi tutto, essere certi dei termini  del confronto ed aver notizia delle vie percorse dalla  critica per fissarli.   Quanto al testo di Tacito, ci siamo attenuti all' edizione curata dal Halm ; e, per il testo della naturalis  historia di Plinio, abbiamo seguito l'ediz. Jan-Mayhoff*.  Ci è parso opportuno seguire, quanto al testo della  Germania, la recente ediz. curata da Io. Mueller ( ' editio maior, II emendata, Vindobonae, Pragae, Lipsiae,  MDCCCC '). Nel citare i passi di un autore, abbiamo eoa    vili    servato invariata l'ortografia del testo, quale è presentata neir ed. di cui ci siamo serviti : e perciò occorre,  qualche volta, leggere nello stesso paragrafo o nello stesso rigo l'identica parola scritta in più modi; p. es. ' adgnoscere ' e ' agnoscere ' , ' adgnatus ' e ' agnatus ' ,  ' caespes ' e ' cespes ', ' conlatio ' e ' coUatio ', ' inlacessitus ' e ' illacessitus ', ' inpatiens ' e ' impatiens ', ' inputare ' e ' imputare ', ' inrumpere ' e ' irrumpere ', etc.  I passi di Tacito sono designati con la indicazione del  rigo , dopo il numero che rappresenta il cap. ; e per  maggiore chiarezza, a fin di agevolare le ricerche ed  i confronti, si è indicato , ogni volta che sia apparso  necessario, anche il num. del rigo nelle citazioni dei  passi di altri scrittori. Ad evitare, però, troppo curaolo  di numeri, si è ommessa, nel citare i luoghi di Plinio,  r indicazione dei numeri che rappresentano i capitoli  e le sezioni: il luogo che si cita è indit^ato soltanto col  numero d'ordine del libro e col numero del paragrafo.  Arrogi che , quante volte si è trascritto il testo di un  luogo della naturalis historia, il numero rappresentante il libro è stato sempre espresso con segni romani ;  allorché, invece, si è citato un luogo della detta opera per semplice confronto o richiamo, senza la trascrizione del testo, si è indicato (da pag. 33 in poi) anche  il numero d' ordine del libro con sole cifre arabiche.  Non pare superfluo, in fine, avvertire (tuttoché, del  resto , si sia chiaramente detto e ripetuto nelle prefazioni dei nostri libri sui neologismi pliniani e sui neologismi botanici nei carmi bucolici e georgici di Virgilio) che la nostra affermazione sulla novità di un  vocabolo o di un costrutto sintattico nelle opere messe  in confronto, o sul significato nuovo di voci anteriormente note, il quale si osserva nelle dette opere, va sempre accolta in senso ristretto , cioè in relazione al materiale letterario latino pervenuto sino a noi. Certamente  né Plinio né Tacito si sarebbero serviti di voci non  note ai loro contemporanei , né a voci usate prima avrebbero assegnato tali significati nuovi da non essere  compresi dai Tettori delle loro opere, A fin di determinare con la maggiore chiarezza che  ci sia possibile le relazioni lessicali tra i due libri  considerati, pare opportuno trattare prima delle voci e  frasi più notevoli, che appariscono usate dagli scrittori  anteriori alTetà di Plinio Secondo, con lo stesso valore  lessicale che si nota nella Oerm. e nella nat. hist Sostantivi :   1/ * aduentus ' : Ge^^m. 2, 2 ^ aliarum gentium aduentibus '. n. h. XVII 242 ' Xerxis aduentu ' : cf. XV 52,  XXIX 13. Plinio riferì ' aduentus ', oltreché a persone,  anche ad animali: n. h. X 30 ' ad hirundinum aduentum '. XXV 90 * florent aduentu hirundinum ' ;  e a  cose diverse : v. n. h. II 142. XVIII 218. XXXII 59.   C0N30U, La aermania comparata. 1      2 ~   etc. : egli perciò si attenne all'uso della voce ' aduenfcus '  accolto nella latinità arcaica e nella classica. ^   2.° ' alea ' vale « giuoco di fortuna , di rischio 5> :  Germ. 24, 6 ' aleam.. sobrii inter seria exercent '. n. h.  XIV 140 ' quantum alea quaesierit tantum bibit '. Per  indicare, in senso traslato, 4; dubbio, incertezza » , la  V. 'alea' è accolta nella 7^. ft^ praef. 7 ' M. Tullius  extra omnem ingeni aleam positus '. Tanto nell' uno  quanto nell'altro significato, la v. considerata ha degli  esempi in tutti gli stadi della latinità. ^   3.° ' amplitudo ' : Germ. 26, 6 ' nec enim cum ubertate et amplitudine soli labore contendunt '. n. h. VI  119 ' stadiorum LXX amplitudine ': cf. X 52 ' in magnam amplitudinem crescit '. XIV 28 ' foliorum amplitudo atque duritia ' : v. inoltre  etc. Nello stesso significato proprio di « ampiezza,  grandezza, estensione grande » era stata già la voce  ' amplitudo ' accolta nell' uso della latinità aurea. ^   4.*^ ' annales ' : Germ. 2, Il ' celebrant carminibus  antiquis, quod unum apud illos memoriae et annali um  genus est ' e. q. s. n. h. II 43 ' miraque humani ingeni  peste sanguinem et caedes condere annalibus iuuat '.  XXXIII 145 ' erubescant annales qui bellum ciuile illud     1 Vedi p. es. Pacvv. in Non. II p. 178 , 9 ed. Mere. ; p. 121 ,  a ed. Gerl.-Roth. Cic. de imp. Cn, Pomp, 5. 13. in Pis, 22, 51.  p. Mil 19, 49. ad Ait XII 50. Tuse. Ili 14, 29. de nat d. \ 38,  105. NtìP. XI (Iph.) 2, 5. Sall. lug. 97, 4. etc.   2 Vedi Forcellini-De Vit, lex t. I, p. 189. Georges, ausfùhrl  Handwb. I, e. 276.   3 Varr. r. r. II 4, 3. Cic in Verr. IV 49, 109. L'uso fu continuato anche da Tac. hisi. IV 22, 15. IdiaL de oraioribua 37,23}.      3    talibus uitiìs inputauere ' K Tale accezione di * annales ', per significare una narrazione storica in generale,  rese possibile la confusione che Puso seriore fece di   * historia ' e * annales ', malgrado le distinzioni d' ordine diverso fatte da Gelilo e Servio. ^   ò."" ' appellatio': Germ. 2, 17 * pluresque gentis appellationes '. ^ n. h. VII 59 ' se patris appellatione salutarent': v. anche II 116. XV 138. XXI 50. etc. Con  lo stesso significato metonimico di « nome, denominazione, appellativo », oltreché con altri significati, la v. appellatio ' appare prima in Cicerone. *   6." * argumentum ' : Germ. 25, 12 ' apud ceteros impares libertini libertatis argumentum sunt. ' n, h. Il  111 ' haut dubio coniectatur argumento ': v. inoltre II  7; 8. III 86; 122. X 106; 107. XI 94 . XII 68. XV 12;  134. XXII 39. etc. Lo stesso significato di « argomento,  segno , prova di fatto > , e talvolta « indizio » ha la  V. ' argumentum ', oltre ad altri significati, presso gli  scrittori anteriori. '^     1 Cf. Tac. ann. II 88, 16.   « Gfll. n, A. V 18 , 1-9. Sbrv. comm, in Verg. Aen. I 373,  voi. I, fase. 1^, p. 125 sg. Th. Cf. Isid. orig. I 43, col. 856.   3 Non pare che sia degna di essere accolta la lezione congetturata da loh. Mueller : ^ plurisque gentes et appellationes '.  Abbiamo preferito attenerci alla lezione data dai codd., rifiutando  anche il * plurisque ' dato dal Ritter , Kritz , Haltn * , Zernial,  Ramorino, etc : i codd. presentano * pluresque '.   ^ Cic. de dom. s. 50, 129. ad AH, V 20, 4. Un altro es. leggesi  in un I. di Tito Ampio, riferito da Sveton. diu. lui. 77, 2. Vedi  anche Tag. ann. Ili 56, 5.   5 V. i numerosi ess. di Plauto, Lucrezio, Cicerone, Livio, etc  nel lex. Forcbllini-De Vit, 1. 1, p. 383 e néiVausfiXhrl Handeob,  del G^ORGKS, I, e. 528 sg.     ~ 4 ~   7.** ^ armentum ' : nella Germ. vale a significare in  generale « branco di animali grossi domestici » : 21, 3  ^ luitur enim etiam homicidium certo armentorum ac  pecorum numero '. Plinio l'adopera nella n. h. per denotare branco di cavalli (Vili 165) o di cinocefali (VII 31)  di certi buoi della Frigia (XI 125) o di animali in  generale (Vili 44. XI 263). Per i vari significati della  V. * armentum ' si erano dati anteriormente degli ess.  da Varrone, Cicerone, Virgilio, Orazio, Ovidio, etc. ^   8.** ' ars ' : Gemi. 24, 3 ' exercitatio artem parauit ,  ars decorem '. n. h. XVIII 197 ' artis quoque cuiusdam  est aequaliter spargere (semen) ' : v. XI 81. XVIII 32.  In Terenzio la v. * ars ' aveva di già assunto il significato particolare di « abilità, destrezza ». ^   9.* ^ bigati ', antiche monete romane con l' impronta  della biga : Germ, 5, 17 ' pecuniam probant ueterem  et diu notam , serratos bigatosque '. n. h. XXXIII 46  ' notae argenti fuere bigae atque quadrigae , inde bigati quadrigatique dicti '. Livio l'usò anche con lo stesso  significato. ^   10. ** ^ cassis ', t. ' cassid- ' : Germ. 6, 10 ^ uix uni al   1 Varr. r. r. II 5, 7. Cic. Phil. Ili 12, 31. ad Att VII 7, 7. de  r. p, II 35, 60. Verg. bue. 2, 23. 4, 22. 6, 45 e 59. georg. I 355;  483. II 144; 195; 201; 329. III 71; 129; 150; 155; 162; 352. IV 223;  3P5. Aen, I 185. Ili 220; 540. VII 486; 539. Vili 214; 360. XI  494. XII 688; 719. Hor. carm. I 31, 6. Ili 3, 41. ep. 1 8, 6. Ovid.  mei. XV 84. fasi. II 277.   « Tbr. Andr. 31 (I 1, 4). adeìph^ 742 (IV 7, 24). Cf. Tag. Agr.  36, 2.   « Liv. XXIII 15, 15: ò adoperata col valore primitivo di aggettivo in XXXllI 23, 7.      5    terìue cassis aut galea '. ^ Con lo stesso significato  (« elmo di metallo ») la v. ' cassis ' fu adoperata dagli scrittori anteriori. Nella n. h. si presenta col significato metonimico di guerra : XIII 23 ^ ista patrocinia  quaerimus uitiis , ut per hoc ius sub casside unguenta  sumantur '.   11.° ^ ciuitas ': l'espressione * Hermundurorum ciuitas \  che leggasi nella Qerm. 41, 3, si riannoda direttamente  ad un* espressione consimile di Cesare. ^ A tale accezione della V. * ciuitas ' si ravvicina il passo della n. h,  XXXI 12 ^ Tungri ciuitas Galliae ': cf. VII 200 ' regiam  ciuitatera Aegyptii, popularem Attici post Theseum (se.  inuenerunt) \   12.** * colla tio ' ; Germ. 29, 6 ' exempti oneribus et  collationibus '. n. h. XXXVII 10 ' Maecenatis rana per  conlationes pecuniarum in magno terrore erat '. La v.  ^ collatio ' vale per ciò « contributo, sussidio »; e con  significato analogo era stata precedentemente usata da  Livio. ^ Ma in un altro 1. della n. h. la v. considerata  conserva il significato di « confronto, paragone », con  cui era stata accolta da Cicerone e da altri: * XXXVII  126 * optimae sunt quae in conlatione aurum albicare  quadam argenti facie cogunt '.   13.** ' color ' : appare nel significato proprio tanto  nella Germ. 6, 9 * senta tantum lectissimis coloribus     1 La differenza tra * cassis ' e * galea ' è notata da Isid. orig.  XVIII 14, e. 1272.   « Gaes. 6. e. IV 3, 3 * Vbii, quorum fuit ciuitas ampia atque  florens *. Cf. Tac. hist. I 54, 1 * ciuitas Liiigonum *. Agr. 17, 3  ' Brigantium e. '   3 Liv. IV 60, 6. V 25, 5. etc.   4 CiG. Tuse \y 38, 83. de natd. ni 28,70. de diu. Il 17,38. etc.      6   distingiiiint ' ; quanto in più luoghi della n. h. : Viti  193. XI 148; 151; 225. XXXV 81; 82. etc. La v. ' color'  era stata prima accolta nello stesso senso da Cicerone,  Cesare e dai poeti dell' età augustea. ^   14.*^ ' conciliura ': Germ. 12, 1 ' licet apud concilium  accusare '. n. h. XXXV 59 ' Amphictyones , quod est  publicum Graeciae concilium '. Con lo stesso significato  dì « adunanza , concilio » , appare presso gli scrittori  anteriori : ' riappare negli scritti di Tacito. *   15.° ' condicio ': il significato tradizionale della voce  ' condicio ' è conservato tanto nella Germ. 24, 12 ^ seruos condicionis huius per commercia tradunt ' ; quanto  nella n. h. Ili 91 ' Latinae condicionis '. IV 57 ' Aegina  liberae condicionis' etc; ^ salvo che nella n. h. si estende anche a cose estranee alle condizioni civili degli uomini : v. XVIII 187. XXIV 158.   16.'' ' conditor ': Germ. 2, 12 ' Tuistonem deum terra  editum et filium Mannum originem gentis conditoresque '. n. h. XVI 237 ' Tiburno conditore eorum ( se.     1 V. gli ess. addotti nel lex. Forcellini-Db Vit, t. II, p. 283;  e UQÌV ausfùhrl. Handwb. dei Georges, I, e. 1199.   « Il lex. Forgellini-Dk Vit, t II, p. 347, e V ausfùhrl Handwb.  del Georges , I, e. 1301 sg. notano, per inesattezza , che Plinio  abbia indicato con la v. ' concilium ' il fiore bianco della pianta   * iasine '. Nel passo della n. h. XXII 82 il fiore della ' iasine '  è rappresentato (secondo i codd. Leid. Voss., Paris. Lat. 6796 e  Riccard. di Firenze) dalla v. * concylium ', che V Urlichs ( Vindie.  Plinian. , Erlangae 1866, v. II 484 ) emendò rettamente • conchylium ', quale è stata accolta nella recente ediz. Mayhoff :   * concilium * fu presentato dalla * uulg. * sino all*ed. del Detlefóen,  Beri. 1868, voi. III.   8 Tac. hi8t. IV 64, 2.   4 Cf. Tag. ann. I 16, 13. hist. II 72, 10.     tiburtum) ' : v. Vili 61. XXII 5. etc. Nella n. h. si estende ancor più il significato di ^ conditor ' , riferendosi , secondo esempi offerti da scrittori precedenti , a  città : V 86, VI 92 ; 113 ; 177. XVI 216. età ; ^ alle  arti : praef. 26. XXXIV 89. XXXV 199. etc. ; ^ alla  storia : V 9. VII 111. XXXVI 106. etc. ; '^ alle leggi t  XVI 13; a scuole filosofiche: XXVI 11. etc.  * concurrunt multae opiniones ' : cosi  secondo i codd. ; neir ed. Fleckeisen si accoglie la congettura  ' concurrunt multa eam opinionem *. Cic. p. Rose. Am. 15, 45.  etc.   5 Plavt. Men. 756 ( V 2, 4 ). Cic. Tasc. V 15, 45. Caes. b. e.  hi 84, 3. Liv. IX 16, 13. Se ne valse anche Tao. hist I 79, ^     •^   SS."" ^ propìnquìtas ' : Germ. 7, 10 ^ non casus nec fortuita conglobalo turmam aut cuneum facit, sed famìliae et propinquitates ' : in traslato, per indicare « parentela », la V. * propinquitas ' era stata prima usata  da Cicerone, Cesare, Livio, etc. » Nella n. h. conserva  il significato proprio : II 64 ' idemque motus alias  maior alias minor centri propinquitate sentitur ' : v.  II 74. Il SIGNIFICATO PROPRIO di propinquitas ' osservasi  prima in Cicerone e Cesare. ^   34.*^ * quies ' : n. h. XVI 70 ' lenis quies materiae \ ^  XVIII 231 ^ uentorum quiete ' : nello stesso significato  di « calma, tranquillità » Cicerone e Virgilio avevano  accolto la v. ' quies '. * Ma nella Germ. ingrata  genti quies ', la v. considerata vale a indicare con     1 Cic. de fin. V 24, 69. Caes 6. G. II 4, 4. Liv. IV 4, 6. Cf.  Tao. ann. XI 1, 11. È usata al sing e con lo stesso eignificato  nei sgg. 11.: Cic. p. Quinci. 6, 26. p. Piane. 11, 27. Nep. X  (Dion) 1, ?. XVn (Ages.) 1, 3.   « Cic. de inu. rhei. I 26, 38. Phil III 6, 15. de off. Ili 11, 46.  Caes. 6. G. li 20, 4. VI 30, 3. b. e. Il 16, 3. etc.   3 Cosi leggiamo secondo i codd., tranne il Paris. 6795 (E del  Mayh.) e TÀrundel. del museo britannico di Londra, e secondo la ' lectio uulg. ' Neired. del Sillig. voi. Ili, Hamb. e Gotba  1853 , si afj^giunge ' est ' a ' quies '. Il Mayhoff , ed. Lps. 1892 ,  innova radicalmente la frase , e legge ' leuisque est ', che si  avvicina , nel suono della pronunzia , alla lez. * lenis qui est ',  presentata dai detti codd. E e Arundel. L* Urlichs ( Vindie.  Plin.y 264; Erlang. 1866) si allontana di più dai codd.,, ammettendo la congettura * leui cuiu3 '.   4 Cic. de leg. agr. 11 2 , 5 in Caiil. IV 1,2; 4, 7. p, Cael. 17.  31>. p. r. Deiot 13, 38. ex libris aeadem. ineeriis tv. 4. de fin.  I 14, 46. V 20, 55. Tuse. I 41, 97. de r. p. I 4, 8. IV 1, 5. etc.  Vbrg. geory. particolarità la « quiete dopo la guerra », come osservasi in Sallustio. ^   35.° ' receptaculum ': appare, nel senso di « ricovero,  rifugio, ricetto », tanto nella Germ. 46, 20 ^ hoc senum  receptaculum (se. ramorum nexus) ' ; quanto nella n. h.  X 100 ^ perdices spina et frutice sic muniunt receptaculum ut centra feram abunde uallentur \^ E ciò è  conforme air uso fattone prima da Cicerone , Cesare ,  Livio '. 3 Ma nella Germ. assume anche il significato  di « deposito, magazzino » per viveri: 16, 11 ^ subter raneos specus sufTugium hiemi et receptaculum   frugibus ': tale significato osservasi prima in Cicerone. ^   36.** ' reuerentia ' : Germ. 29, 9 ' protulit enim magnitudo populi Romani ultra Rhenum ultraque ueteres  terminos imperii reuerentiam '. n. h. XXXVI 66 ^ hac  admiratione operis effectum est ut , cum oppidum id  expugnaret Cambyses rex uentumque esset incendiis ad     1 Sall. Cai. 31, 1: cf. Cic. de imp, Cn. Pomp. 14, 40. Tacito si  valse della v. 'quies* tanto ìq senso metonimico, per indicare  « sogno, visione » (ann. I 65, 6: cf. Cic. acad. pr. II 16, 51. de  diu. I 21, 43; 24, 48; 25, 53; 28, 58; 29, 61; 43, 96; 55, 126. II 60,  124; 61, 126; 66, 135; 70, 145; etc). quanto nel senso proprio di   , è adope' rata nella Gemi. 36, 7 * tracti ruina Cheruscorum et   L Fosi, contermina gens '; e nella n. h. XVII 245 ' Ne |, ronis principis ruina '. Si noti, però, la differenza : nella   I Germ. , come in 11. consimili di Cicerone, Sallustio, Li S vio, Ovidio, etc. ^, la v. ' ruina' si riferisce alle con p dizioni di un popolo o di uno Stato; mentre nella n. h.   - concerne le condizioni di singole persone : di che si   i hanno ess. in Cicerone, Orazio, Ovidio, etc. ^ Plinio si   valse anche della v. ' ruina ' in senso metonimico : n. h.  ^ XXXIII 74 ' flumina ad lauandam hanc ruinam iugis   montium obiter duxere ' : ^ cf. XXXIII 66 ^ in ruina  ;; montium '.   40.* * saeculum ' : Germ, 19, 9 ' nec corrumpere et  corrumpi saeculum uocatur \ Di tal valore metonimico  di * saeculum ', per indicare i costumi dominanti in un   1 Cic p. SesL 2, 5. 51, 109. 57, 121. in Vatin. 8, 21. de proo,  eons. 18, 43. p. Balb. 26, 58. ep. (adfam.) V 17, 1. Sall. Cai.  31, 9. Liv. XLV 26, 6. Ovid. mei. VII! 498. Vbll. Paterg. h. R  II 91, 4. etc. li Gborges, ausfiXhrl Handiob.^ II, e. 2165 , attribuisce per inesattezza a Cicerone la frase sallustiana ' iocendium  meum ruina («e. rei publicae) restinguam * (^Cat 31 , 9). La  frase di Cicerone (p. Mur. 25, 51) é: * respondisset, si quod esset in suas fortunas Incendium excitatum, id se non aqua, sed  ruina restincturum '.   « Cic. in Catti I 6, 14. eum Sen. grat. egii 8, 18. de fin. I 6,  18: cf. de prou. eons, 0, 13. de dom. s. 36,96. Hor. earm. II 17,  9. Ovid. ex Pont I 4, 5.   '^ In simil modo , riferendola a città distrutte , usarono la v.  * ruina' Liv. IX 18, 7. XXI 14, 2. Vbll.Patbrc. h. R. II 19, 4;  ed altri.      19    dato tempo ( i Tedeschi ciò desigaano con la voce  « Zeitgeist ») si hanno ess. precedenti in Terenzio, Virgilio, Orazio, etc. ^; ma il tramite per cui dovette passare, per aversi il significato metonimico su cennato,  notasi , senza dubbio » conservato neir uso fattone da  Plinio nel sg. 1. della n. h. XXXVII 29 ' haec fuit suprema ultio saeculum suum punientis ( se. Neronis ) ' :  V. XXXVII 19.   41.** ^ sagum ': è voce di origine celtica, usata nella  Germ. ad indicare il saio o vestito dei Germani : 17 ,  1 ^ tegumen omnibus sagum fibula aut, si desit, spina  consertum '.^ Nella n. h. fu riferita al saio dei pastori : VIII 54 * pastoris Gaetulìae sago ' ; e ad un indumento dei Druidi: XVI 251. XXIX 52 : e ciò per analogia dell'uso fattone da Columella, che con la v. ^ sagum ' aveva indicato la veste dei contadini.^ Neil' uso  classico * sagum ' si restrinse a dinotare il mantello dei  soldati. ^   42*'' ^ sata ' : in diretta provenienza dall' uso fattone  da Virgilio, ^ in sostituzione della voce ' segetes ', os 1 Tbr. eun. 246 (Il 2, 15). Verg. georg. I 468. Aen. I 291. Hor.  carm. III 6, 17.   , che osservasi in Cicerone, ^ per il tramite dell' uso particolare  fattone da Bruto. ^   51.** * superstitio *: Germ. 39, 10 ^ eoque omnis superstitio respicit '. n. h. XXXI 95 ' superstitioni etiam  sacrìsque ludaeis dicatum ' : v. inoltre VII 5. XXI 182.  XXII 118. XXX 7. XXXVII 160. Si valsero prima della  v. '^ superstitio ' Cicerone, Virgilio , Livio, Seneca , Columella, etc. ^   52.** * temperantia ': Gerrn. 23, 5 ' aduersus sitira non  eadem temperantia '. n. h. XXVIII 56 * multo utilissima est temperantia in cibis \ Col medesimo significato     1 CiG. de /Ia. I U, 37 *doIoris amo tic successlonem efficit  udluptatis '. Ma in un fr. dell' esordio del libro Hortensius^ ri*  ferito da Avqvstin. de uit ò. 26, io opp, t. I p. 308, Bened. , la  V. 3.  Tuse. Ili 29, 72. de nat. d. I 17, 45; 20, 55; 27, 77; 42, 117. II  24, 63; 28, 70 e 71. Ili 20, 52. de diu. I 4, 7. II 7, 19; 39, 83; 41,  85; 60, 126; 63, 129; 67, 136; 72, 148 e 149. de legihm I 11,32.  II 16, 40; 18, 45. [Il fr. del 1. de legibus cit. da Serv. eomm. in  Verg, Aen. VI 611, voi. II, p;ig. 85, in cui notasi la frase * auget superstitionem ', ò riferito dal Thilo al 1. cit. II 16, 40. Il  Nobbe, pag. 1222, lo ascrive, invece, terzo tra i frammenti ' incertorum lib-orum de legibus']. Vedi inoltre Vero Aen. XII  817. Liv. XXVI 19, 4. SBN. ep. XX 5 (122), 16 (al quale I. si paragoni XV 3 (95J, 35). Colvm. de r. r. I 8 , p 326, 22. Cf. Tac.  Agt. li. 11. hist. 11 4, 13. V 13, 2. ann. W dì «teiiiperahza, continenza, moderazione» la v. Uernperantia ' era stata accolta nell' uso degli scrittori anteriori.  ' transfuga ': nel significato proprio , secondo   f: l'uso accolto prima da Cicerone, Sallustio, Livio, etc. ^',   si osserva nella Germ. 12, 3 ' proditores et transfugas arboribus suspendunt \ Attenendosi, invece, alla  tradizione avente in prevalenza carattere poetico ^,  Plinio si valse della v. * transfuga ' nel senso traslato:  n. h. XXIX 17 ' solam hanc artium Graecarum (se.  medicinam ).... Quiritium paucissimi attigere et ipsi  statim ad Graecos transfugae '.   54.** ^ tributum ': nel significato proprio appare egualmente nella Germ. 43, 4 * Osos Pannonica lingua  coarguit non esse Germanos, et quod tributa patiuatur '; e nella n. h. XXI 77 ' ceram ir\ tributa Romanis  praestet': v. altresì VI 119. XII 112. etc. Del resto, la v.  * tributum ', indicando cosa che ha tormentato i popoli in tutti i tempi, fu assai nota agli scrittori anteriori. ^  55.° ' uilitas : Plinio se ne avvalse tanto nel senso  r£ proprio di «poco prezzo, buon mercato», secondo gli     r.     1 CiG. de or. II 60, 247. pari. or. 22, 76. ep. (ad fam.) I 9, 22.   Tuae. Ili 8, 16. V 20, 57. de off. Ili 25,96; 33. 116. etc. Cf. Tac.   ann. I 14, 4.  8 CiG. de dia. I 44, 100. Sall. lug. 54, 2. Liv. XXIV 30, 6.   XXVII 17, 11. etc: cf. epit Z. LI.  f 3 HoR. earm. III 16, 23. Lvgan. de b. e. Vili 335.   l: •* Cic. m Verr. Il 53, 131; 55, 138. Ili 42, 100. p, Flaee. 9, 20.   19, 44. 32, 80. ep. (ad fam.) HI 7, 3. XV 4, 2. de off. W 21, 74;   22, 76. etc. Cabs. b. G. VI 13, 2. 6. e. HI 32, 2. Liv. IV 60, 4.   XXIU 31, 1. etc.     èss. presentati prima da Cicerone •: n. h. XVIII IS  ' annonae uilitas incredibilis erat ': v. anche Vili 7.  XIV 35; 50. XVIII 273. XXXIII 50. XXXV 47; quanto nel senso traslato di « poco valore, poca importanza »: fi. h. XX i ' nominum uilitate deceptus \ XXXVI  119 * quae uilitas animarum ista ': dello stesso modo  II 26. XI 39. XIX 59. XXVI 43. XXXIV 2. A questo  secondo significato, che si osserva in Plauto e in altri scrittori, ^ si avvicina 1' uso fattone nella Germ. 5,  11 * est uidere apud illos argentea uasa.... non in alia  uilitate " quam quae humo flnguntur '.     1 Cic. in Verr. Ili 92, 215; 93, 216; 98, 227. de imp, Cn, Ponip.  15, 44. eum pop. graL egii 8, 18. de dom, s. 6, U e 15. 7, 16  de off. Ili 12, 52.   « Plavt. eapt 230 (II 1, 37). Pbtron. sat. 118 Qvintil i. o.V  7, 23. etc. Cf, ' uilitatem uerbi * in Non. 12, p. 531, 2 ed. Mere;  p. 363 a ed. Gerì, e Roth.   3 * Vllìtas ', nel 1. e. della Germ , non significa « vilipendio,  spregio » ( « Geriogschaetzung », come commenta U. Zernial,  o. e., p. 24), ma «poco valore, poco pregio»; sicché l'intera  frase ' non in alia uilitate ' vale, secondo la giusta osservazione del Grbverus, Bemerkungen zu Taeiius' Germania, 01denb'urg 1850, p. 21, lo stesso che * eodem uili pretio*. La var.  * utilitate *, presentata dai codd. Vatic. VRB. 655,- Rom. Àug.  bìbl., Florent. Laurent. 73, 20, Viodobon., e sostenuta si vivamente dal Kritz, P. C. Tae. Germania, Beri. 1864, p. 42 sg,  che accusa di * sententìa prorsus absurda ' la lez. ' uilitate ',  probabilmente si deve a quella stessa inavvertenza dei copisti,  per la quale nel 1. della n. h. XX 1 si legge nei codd. ' utilitate \ invece di 'uilitate ' che è lez. data dal solo cod. Paris.  6795, accolta dalla ' uulgata ', e ripetuta nella recente ed. del  Mayhoff, voi. Ili, pag. 302, 14.     ^ 26  II.  Aggettivi :   1.^ * arcanus ': Germ. 40, 20 ^ arcanus bine terror ';  n. h. XXIX 21 ' arcana praecepta ': cosi notasi usato  da Cicerone, Virgilio, Ovidio, etc. ^ Ma nella n. h. è  riferito anche, secondo V accezione di Plauto, ^ a persona : VII 178 ' petiit uti Pompeius a4 se ueniret aut  aliquem ex arcanis mitteret ' ; per lo più è usato in  funzione di sostantivo : n. h. Il 65. VII 150. XXV 7.  XXVIII 129. XXX 9.   La frase * arcana sacra ' osservasi in Orazio e Ovidio ^ prima che nella Germ. 18, 7 ^ hoc maximum uinculum, haec arcana sacra, hos coniugales deos arbitrantur '.   2.^ ^ argenteus ' : nel significato comune di « argenteo,  fatto d' argento » * notasi nella Gerrn. 5, 12 ^ est uidere apud illos argentea uasa ' ; e nella n. h. XXXIIf  142 ' missa ab iis uasa argentea ^ non accepis$e ' : v. in   1 Cic. de fin. II 26, 85. Vl^rg Aen. IV 422. VI 72. Ovid mei.  IX 516. etc. Cf. Tac. ann. II 54, 13.   s Plavt. irin, 556 (li 4, 155): si può aggiungere il v. 518 (II  4. 117) in cui, secondo il commeuto del Cocchia, Torino 1886,  p. 65, la V. * arcano ' ò agg. di cas>o dat., che concorda con  ' tibi': ma nei lessici Forgbllini-De Vit., t. l, p. 361,é6B0ROES, I, e. 505, ò considerato come avverbio.   3 HoR. epocL 5, 52. Ovid meL X 436. Cf. ' fatorum sacra ' in  Vero Aen. I 266. VII 123.   * Tale significato osservasi in Liv. Andr. Odi9.tv. 5, in PLM  ed Baehrens, voi. VI, p. 38. Varr. de l L. IX 40, 66, p. 216 Sp.  Cic. in Verr, II 19, 47; 47, 115. IV 43, 93. V 54, 142. in Catil.  I 9. 24. II 6, 13: cf. de nat d. III 12, 30; 34 84. etc.   ^ Gli ' argentea uasa * sono prima menzionati da Cic. in Verr,  IV 1, 1. Phil. II 29, 73. HoR. sai. II 7, 72 sg. etc. Plinio li disse anche ' uasa ex argento ' : n. h. XXXIII 139.     oltre Vili 12. XXII 99. XXVIII 82; 126. XXIX 125.  XXXIII 52; 53; 56; 151 ; 152. XXXIV 160. XXXV 4.  XXXVII 105. etc. Nella n. h. valse apcbe a significare  € ornato o ricoperto d'argento, inargentato » ' : XXXIII  53 ^ G. Àntonius ludos scaena argentea fecit ' : v. altresì  XXXIII 144; 151. etc. ^ « argentino, del colore d'argento » : MI 90 ^ flt et candidus cometes argenteo crine ' : V. inoltre IV 31. XVI 76. XXIV 172. XXXVI 137.  XXXVII 146; 147. etc. Ma nel passo della Oenn. 5,  20 ^ numerus argenteorum facilior usui est ' , assunse  valore di sostantivo, come prima in Livio e poi in Vopisco, 3 per indicare certe monete d' argento , per le  quali Plinio adopera le espressioni ' argenteus denarius ' (n. h. XIX 38. XXI 185) o ^ nummus argenteus '  (n. h. XXXIII 47).   3.* * ater ' : Germ. 43, 22 * atras ad proelia nootes  legunt '. ^ n. h. II 79 * atram in obscuritatem ' . Nella  n. h. osservasi inoltre r agg. ^ ater ' attribuito al colore: VI 190. XI 171 (cf. XVIII 4). XIII 98. XXX 16.  XXXV 127; al sangue: Vili 49; alle nubi: XVIII 355;  alle erbe: XVII 33 S; alla bile: XXI 176; alle ulcere:     1 Significato analogo si osserva io Cic. p. Mar. 19, 40. Liv.  X 39, 13. etc.   2 Cosi in Cic. in Verr. IV 20, 42. Vbrg. Aen. Vili 655. Ovid.  mei. Ili 407. eie.   3 Liv. XXX Vili 11, 8. Vopisc. Prob. 4, 5. Bonosus 15, 8 : v.  seripit hist Aug. XXVIII e XXIX, voi. II, ed. Peter.   4 Cf. HoR. epod. 10, 9 ' atra nocte '.   5 Neired. Mayhoff deUa n. A., voi. Ili, p. 283, 6, leggesi per il  passo XIX )26, secondo la congettura del Salmasio (PUnianae  exereiiaiiones in Solini polghisiora^ Traiecti ad Rheo. 1689;,  ' albae (ac. lactucaQ) ' , meotre ì codd. , eccetto il Paris. 10318  (Q del Mayh.), e la ' uulgata ' danno ' atrae '.     XXtl 154; ad una qualità dì marmo: XXXVl 49. tn  accezioni consimili notasi la v. ^ ater ' in Cicerone, 0razio, Ovidio, Seneca, etc. *   4.*" ^ caeruleus ' : Tespressione ' caerulei oculi ' si legge  nella Germ. 4, 6 e nella n, h. Vili 74: in entrambe si  scorge r imitazione della frase ciceroniana * caeruleos  esse Neptuni {se. oculos) '. ^ Nella n. h. V epiteto * caeruleus ' è riferito , inoltre , a certi animali : Vili 141.  IX 46. XXIX 86; a vegetali: XV 128. XXII 57. XXVII  105; a minerali: XXXVI 128. XXXVII 134; alle acque  del Boristene nella stagione estiva: XXXI 56. I lessici  abbondano di ess. sull'uso dell' agg. 'caeruleus' nell'età anteriore a quella pliniana.   5.** * equester ' : riferito a cavalleria, gente a cavallo,  combattimento equestre , notasi , secondo gli ess. di  scrittori precedenti, ^ nella Germ. 32 , 3 ' Tencteri....  equestris disciplinae arte praecellunt '; e nella n. ^. Vili  162' in libro de iaculatione equestri condito ': v. XXXIV  66. XXXV 129. XXXVII 111. etc; e per ' statua equestris ' V. XXXIV 19; 23; 28. etc.   Notasi anche nella n. h. riferito all' ordine civile dei  cavalieri, come in 11. simili di Cicerone, Nepote, Orazio,  Livio, etc: * v. n. h. V 12. VI 181. VII 88; 177. IX     1 CiG. Phii II 16, 41. Tuse. V 39, 114. Hor. earm. II 16, 2.  OviD. am. I 14, 9. met XV 41. Sen. ep. IV 2 (31), 5 Cf. Tac.  hisL V 6, 19..   « Cic. de fiat d. I 30, 83.   3 Vedi Cic. in Verr, li 61, 150. PhiL IX 6, 13. de fin. II 34,  112. Caes. b, G. Ili 20, 3. Liv. Vili 7, 13. XXVII 1, 11 ; 42, 2. etc.   4 Cic. p. Piane. 35, 87. ad Q. />. I 2, 2, 6. de r. p. I 6, 10. Nep.  XXV (Att.) 1, 1. HoR. sai. II 7, 53. Liv. V 7, 5. etc     X      solo. X 71; 141. XII 13. XVII 245. XIX 110. XXXIII 32;  34; 112. etc. dub, seì^m. XV p. 55, 2 ed. Beck.   6.** * feralis ' : Germ. 43, 22 * ipsaque formidine atque  umbra feralis exercitus terrorem inferunt '. ^ n. h. XX  113 ^ defunctorum epulis feralibus ' : v. XVI 40. L'agg.  * feralis', in senso traslato, è adoperato, come in Ovidio, Lucano, etc. 2, anche nella n. h. XVIII 237 ' Caesar  et idus Mart. ferales sibi notauit scorpionis occasu ' :  V. X 35.   7.^ ' ferax ' : Ge^'^m. 5,4' satìs ferax ( se. terra ). '  n. h. XV 100 ' minime feraces musti (se. acini) ' : v.  XVII 105 ; 124. L' uso di ' ferax ' nel significato proprio , or con r ablativo or col genitivo , osservasi nei  poeti deir età augustea, ^   8.^ ' infamis ' : Germ. 12, 4 ' corpore infames caeno  ac palude... mergunt ' : v. anche 14, 3. n. h. XXXIII  48 ' nec iam Quiritiu.m aliquis sed uniuerso nomine Romano infami rex Mithridates Aquilio duci capto aurum  in OS infudit ' : v. IX 79. In Cicerone si notano numerosi esempi. ^   9.^ ' infernus ' : usato nel significato generale di     1 Con significato simile osservasi V agg. * feralis * in Verg  Aen, IV 462. VI 216. Ovid. irisL III 3, 81 ; 13, 21. etc. Cf. Tac.  hisL I 37, 10. ann. II 31, 7.   2 Ovid. met IX 213. Lycan de b. e. II 260. Cf. Tac. hisi V  25, 15. ann. IV 64, 2.   3 Con Fablat : Verg. georg. II 222. Col genit. : Hor. epod. 5,  22. Ovid. met VII 470. Col genit. e con T ablat. : Ovid. am. U  16, 7.   * Cic. p. Rose. Am. 35, 100. diu. in Caeeil 7, 24. in Verr. IV  9, 20. p. Font. Il, 34 /,. Cluent 47, 130. in Caiil. Il 4, 7. p.  Cael 22, 55. in Pis. 22, 53. />. Seaur. 2, 8. FhiL XI 3, 7. de fin.  U 4, 12. Cf. Tac, hist. II 56, 9. ann. I 73,7. VI 7, 6. XV 49, li.     y      30    « inferiore, di èotto, basso » , osservasi nella n. h. II  128 * ille infernus (s(7. auster) ex imo mari spirat ' ; ^  e prima in Cicerone, Livio, Seneca, Lucano.^ Nella Germ.  43, 23 ^ nullo hostium sustinente nouum ac uelut infernum adspectùm ', è adoperato nel significato particolare di « infernale, d'averno », secondo gli ess. che  ci è dato osservare precipuamente negli scritti poetici  del tempo d' Augusto. ^   10.^ * lineus ' : Qerm. 17, 10 ^ feminae saepius lineis  amictibus uelantur \ n, h. XII 25 ^ uestes lineas faciunt  folife \ XXIX 114 ' lineo panno ' : , 236.  ara am. I 205. ^   7 Cic. p. SesL 20, 46. de nat d. Il' 39, 100. Liv. I 4, 6. Cvrt.  hist. A. M. IV 9 (38), J9.       * multitudine pìscium fluitante ' : v. 15, 63. 16, 168. 37,  37. Nella Gemi, 17, 3 ' locupletìssimi ueste distinguuatur non fluitante ', è adoperato in traslato, secondo ess.  consimili presentati da Catullo, Ovidio, etc. ^   2.** ^ labans ' : 6r^r/n. 8, 1 * quasdam acies inclinatas  iam et labantes a feminis restitutas '. n. h. XXXV 117  ' sunt in eius exemplaribus nobiles palustri accessu  uillae, succoUatis sponsione mulieribus labantes, trepidis quae feruntur '. Conformi sono gli ess. che prima  ne avevano dato Cicerone, Virgilio , Orazio , etc. ^ Pel  significato proprio dell' agg. ' labans ', v. n. h, XXIV  119 * labantes dentesflrmant '. XXIX 37 ^ dentibus mire  prosunt, etiam labantibus '. *   3.** ^ marcens ' : Germ. 36 , 1 ^ Cherusci nimiam ac  marcentem diu pacem inlacessiti nutrierunt '. n. h. IX  147 ' alias marcenti similis et iactari se passa fluctu  algae uice ', e. q. s. Ess. anteriori si notano in Orazio,  Valerio Massimo, Seneca. ^   4.** * auspicatus ' : Germ. 11, 5 ' agendis rebus hoc  auspicatissimum initium credunt '. n. h. XIII 118 ^ nec  auspicatior in Lesbo insula arbor '. XVI 75 ' comitantur  et spina, nuptiarum facibus auspicatissima '. Nello stesso  significato di « prospero, di buono augurio, iniziato sotto     1 Catvll. 64, 68. OviD. mei. XI 470. ars am. II 433 sg. Cf.  Tac. hist III 27, 12. V 18, 3.   « Cic. p. Mil 25, 68. Verg. Aen. IV 22. XII 223. Hor. carm.  III 5, 45. etc. Cf. Tac. hist II 86, 8. ann. XIV 12, 21.   8 Vero. Aen, lì 463.   4 Hor. sat II 4, 58. Val. Max. f. et d. m, II 6, 3. Sen. ep. XIV  l (89), 18. Cf. IvsTXN. epii. XXXIV 2, 7.  auspici favorevoli » , era stato prima adoperato da  Catullo , Velleio Patercolo, etc. '   Per la forma comparativa ' auspicatius ' con valore  avverbiale, v. n. h. 3, 105. 7, 47.   5.'' ' contactus ': Gemi. 10, 13 ^ (equi) publico aluntur isdem nemoribus ac lucis, candidi et nullo mortali opere contacti '. Tale uso di ^ contactus ' in senso  t'raslato osservasi prima in Livio, Properzio, Ovidio,  Seneca. ^ In più luoghi della n, h. è accolto in senso  proprio: v. 7, 17. 8, 78; 85. 9, 147; 183. 11, 193; 277.  18, 152. 28, 80. 29, 51. 34, 146. 36, 58. etc.   6.° ' effusus ': Germ. 30, 2 ' non ita effusis ac palustribus locis, ut ceterae ciuitates '. Dello stesso modo,  per indicare luoghi estesi, vasti, fu usato da Orazio e  Velleio Patercolo. ^ Nella n. h., oltre al conservare il  significato proprio di « versato, sparso, etc. »: v. 4, 101.  6, 71. 8, 14; 161. 9, 102. 16, 2. 20, 90. 22, 145. 29, 50.  etc, il quale significato osservasi prima in Cicerone,  Virgilio, Livio ed altri ', passa in traslato ad indicare profusione, eccesso, esagerazione: III 42 ' Grai, genus in gloriam suam effusissimum ': v. 7, 94; eciòse   J Catvll. 45,- 26. Vell. Paterc. h. R. II 79, 2. Cf. Qvintil.  i. 0, X 1, 85. Col significato più generico di « inaugurato dopo  presi gli auspici » apparo in Cic. p. Rab. perd. 4, II. Hor.  carm. Ili 6, 10.   2 Liv. II 5, 2. IV 15, 8. VI 28, 6. XXI 48, 3. etc. Prof. I J, 2.  OviD. epist ( her, ) 4 , 50. Irist III 4, 78. Sen. Phaedr. 714. Cf  dial, de oraioribus 12, 8.   3 Hor. €p, I 11, 26. Vell. Paterc. A. R. Il 43, 1.   4 Cic. de diu. I 32, 69. Vero, georg. IV 288; 312; 337. Aen, VI  339; 686. X 893. Liv. I 4, 4. XXX 12, 1. etc.      37    condo gli ess. che ne avevano dato Cicerone, Nepole,  etc. «   7.** ^ excìsus ': Germ. 33, 3 ^ pulsis Bructeris ac penitus excisis uicinarum consensu nationum '. Prima la  V. * excisus '.era stata riferita non solo a popoli ed cserciti, ma anche a città, campi, regioni, etc. : ^ nella  n. h. si attiene più strettamente al significato proprio  e assume, talora, un significato pregnante: XXXIII 48   * caput eius {se. C. Gracchi) excisum '. ^ XXXIII 139   * anaglypta asperìtatemque exciso circa liniarum picturas quaerimus '. XXXVI 125 ' uias per montes excisas '. Ess. di tale accezione si osservano in Cicerone,  Virgilio, Ovidio, etc. ^   8.° ' infectus ': Germ. 4, 1 ' Germaniae populos nullis [aliis] aliarum nationum conubiis infectos '. n. h.  XXX 8 ' infecto, quacumque commeauerant, mundo '. Lo  stesso significato in traslato osservasi in Cicerone, Virgilio, Livio, Lucano, etc. ^ Nella n. h. appare anche usato nel significato proprio: VI 70 ' tinguntur sole po   1 Cic. p. Rose. Am. 24, 68. p. Cael. 6, 13. de nat. d. I 16 . 42.  Nep. I (Milt.) 6, 2. Cf. Tac. hisL li 45, 11. ann. I 54, 8.   « Cic. p. Sesi. 15, 35. in Pis. 40, 96. Cai m. 6, 18. Hor. carm.  Ili 3, 67. Vell. Patbrc. h. R. Il 115, 2; 122, 2: aggiungiamo  II 120, 3 Jelto secondo l'ed. prìnc. del 1520, che nell' apogp. Amerb. si legge ' occìsi exercitus ', invece di ' excisl exercitus '.  Cf. Tac. hist II 38, 4. ann. XII 39, 9   3 Cosi nei codd. e nella * iiulgata', ma nel solo cod. Bamberg.  e nelle edd Sillig., Jan e Mayhoff si legge * abscisum *.   4 Cic in Verr. Ili 50. 119 V 27, 68. Vero. Aen II 481. VI 42.  OviD ex Pont. Ili 1, 96. V. inoltre Plin. n. h. 35, 94; 154.   5 Cic. ad A ti. I 13, 3. Vero. Aen. VI 742. Liv. XL 11,3. Lvcan.  de b. e IV 736. Cf Tac. hi8t I 74, 1. ann. II 2, 7 ; 85, 13.      38    puli, ìam quidem infecti ': i v. inoltre 8, 197. 9, 18.  11, 31; 32; 154. 15, 87. 20, 25. 21, 26. 28, 83; 110. 32,  77. 35, 41. 37, 118. etc. Ess. precedenti di tale uso si  notano in Virgilio, Properzio, Mela, etc. ^   9.'' ^ ligatus ': Germ. 39, 7 ^ nemo nisi u inculo ligatus ingreditur '. n. h. IX 103 * breui nodo ligatis ': v.  altresì 11, 255. 17, 115. 18, 261. Nello stesso significato proprio osservasi ' ligatus ' in Catullo, Ovidio, Seneca, Columella, Lucano. ^   10.^ * monstratus ': Germ. 31, 11 ' iamque canent insignes et hostibus simul suisque monstrati '. n. h. XXII  44 ' hacherba dicitur sanatus, monstrata Perieli somnio  a Minerua ' : v. 8, 182. Lo stesso uso di ^ monstratus '  notasi prima in Virgilio, Ovidio, Lucano ed altri. ^   11.^ * nauigatus ': Germ. 34, 5 ^ ambìuntque immensos insuper lacus et Romanis classibus nauigatos '. n.  h. XXXVI 104 ' urbe pensili subterque nauigata ': v.  6, 72. Un es. consimile si osserva in Mela: ' non nauigata maria transgressus est '; ^ es. fondato sull'uso del  verbo ^ nauigare ' nelle forme passive, ^ in conseguen   i Un concetto consimile, espresso anche col verbo * inflcere ',  si nota in Sen. Oed. 122 sg. e Here. [OeQ 337.   « Vero. Aen. V 413. VII 341. Prop. TU 11 ( 18 b ), i (23) Muell.  PoMP. Mel. chor. III 6, 51 (cf. Cabs. b. G. V 14, 2). Vedi Tac.  hi8t III 11, 1.   3 Catvll. 2, 13. OviD. mei. Ili 575 (cf. Liv. V 27, 9). Sen. Med.  742. CoLVM. de r. r. XI 2, p. 591, 23. Lvcan. de b, e. Vili 61.   4 Vbrg. georg. IV 549. Aen. IV 636 : cf. Aen, IV 483. Ovid.  trést III 11, 53. Lvcan. de b. e. Vili 822. Cf. Tac. Agr. 13, 15.  hi8i. I 88, 3. Ili 73, 14.   5 Pompon. Mei*, ehor. II 2, 26.   6 Vedi SBN. n. q. l\ 2, 22. Pun. n. h. 2, 167. 6, 175.     -.89 «.   5Mi deiruso transitivo fattone prima da Cicerone, Virgilio, Ovidio, etc. »   12.** * publicatus ': Germ. 19, 7 * publicatae enim pudiciUae nulla uenia ': tale accezione in senso cattivo  del part. * publicatus ' dipende dal significato con cui  fu adoperato da Plauto il verbo * publicare '; - ma nella n. h. * publicatus ' assume il significato proprio di  «pubblicato, reso pubblico »: XXXIII 17 ^ publicatis  diebus fastis ' : » v. anche 29, 26. 35, 24.   13/ Si noti, in ultimo, ^ impatiens ', che è forma participiale con la negativa * in- ' premessa. È riferito, in  traslato, a cose prive di vita tanto nella Germ. 5, 4  ' satis ferax (se. terra), frugiferarum arborum impatiens '- quanto nella n. h. XXXVI 199 ' est autem caloris inpatiens (se. uitrum) ' : v. 33, 162. 37, 26. Nella  n. h. è riferito pure ad animali: v. 8, 28; 167. 10, 170.  23, 67. etc.; ed a piante: v. 14, 28. 16, 219. 18, 123.  19, 166. 21, 97. etc.   Dell' estensione in traslato del significato di ^ impatiens ' si asservatto ess. anteriori in Ovidio, Curzio, etc.^  Quanto al reggimento di ' impatiens ', v. il cap. Ili, C,  II, 3% *.   IV.  VerU :   1.° ^ absumere ' : Germ. il, 10 ^ sed et alter et tertius dies cunctatione coéuntium absumitur '. n. h. VI  103 * quia maior pars itineris conficitur noctibus propter     » Ctó. de M' '1 34, use. Vbro. Aen. I 67. Ovid. mei, XV 50.   « Plavt. Baeeh. S%3 (IV 8, 22).   » Cf Vkl. Patbrc. h. R. Il 114, 2.   * Ovid. ara am. II 60. C^rt. hiéi. A. M. ì\ 4 kìò), U. aestuus et statiuis dies absumuntur ' : cf. 5 , 58. 22 ,  98. Nello stesso significato , riferito al concetto di  tempo, era apparso prima in Cicerone, Livio, Ovidio,  etc. ^ Nella n. h. , secondo gli ess. presentati dagli scrittori anteriori,^ appare anche ristretto al significato proprio : II 45 ^ quem (se. umorem) solis radii absumant ':  V. inoltre 9, 119 ; 121. 28, 267. etc. ; e quanto alla forma passiva 'absumi ', v. 2, 184. 6, 91. 9, 153. 11, 128.  14, 33. 25, 57. 36, 131. etc. cf. 5, 56.   2.° ^ adfectare ' ; Germ. 37, 24 ' occasione discordiae  nostrae et ciuilium armorum expugnatis legionum hibernis etiam Gallias adfectauere '. n. h. XXXIV 30 * Sp.  Cassius, qui regnum adfectauerat ' : cf. 34, 15. Con lo  stesso significato concernente l' ordine politico, appare  in Sallustio, Velleio Patercolo, etc. ^ Nella n. h. si attiene anche, come osservasi negli scrittori precedenti, *  ad UN SIGNIFICATO PIU GENERALE diligentiam  superuacuis adfectare ': v. 7, 8. 17, 84. 22, 69. 25, 73. etc.     1 Cic. p. Quinci. 10, 34. Liv. XXII 49, 9. Ovid. irist IV 10, 114.  Cf. Tac. Agr. 21, 1. ann, II 8, 9.   « Plavt. Cure. 600 (V 2, 2). most 235 (I 3, 78). Ter. haut  458 (III 1, 49. Phorm. 834 (V 5, 6). Varr. r. r. IH 17, 6. CaTVLL. 64, 242. Vero. Aen. Ili 257. Hor. earm. II 14, 25. ep. I 15,  27. Liv. XXIV 47, 16. XXX! V 7, 4. Sen. de ben. VII 31, 5.   3 Sall. lug. 66y 1. />. hiat. I in Avgvstin. ciu. Dei III 17, p.  122, 19 ed. Dombart, v. I. Vell. Patbrg. h. R 1139,1. Cf. Tac.  Agr. 7, 6. hiat I 23, 2. IV 17, 5 ; 66, 2.   4 Plavt. Baech. 377 (III 1, 10). Cic. p. Rose. Am. 48. 140.  Seript. rhet. ad Her, IV 22, 30. Nep. XXV ( Att. ) 13, 5. Vero.  georg. IV 562. Liv. I 46, 2. XXIV 22, 11. Ovid. am. Ili 8/51 (1.  sospetto per R. Ehwald, praef., p. XII) ars am. Il 39. ex Pont  IV 8, 59. Val. Max./, et d. m. Vili 7, ext. 1. Cvrt. hisL A.M.  IV 7 (32), 31. Cf. QviNTiL. i. o. Ili 8, 61.     -. 41    3.^ * adiigare * : Oerm, 24, 10 ^ quamuis ìiiuenìor, quamuis robustior adligari se ac uenire patitur \ n. h.  XVI 239 * Argis elea etiaranum durare dicitur, ad quam  Io in tauram mutatam Argus alligauerit' : v. altresì  12, 45. 16, 176. 17,211. 18, 241; 262; 267. 21, 166. 27,  101. 28, 93; 98. 31, 98. 32, 7; 113. etc. In tale significato era stato accolto da Catone, Cicerone, Virgilio,  Seneca, etc. ^ Nella n. h. vale eziandio ad indicare, come osservasi in generale negli scritti di Seneca e Lucano, ^ un effetto di azione chimica concernente i colori : IX 134 ^ (bucinura) pelagio admodum alligatur ' .  XXXII 66 ^ ita colorem alligans, ut elui postea non  possit '.   i."" ^ adsignare' : Germ. 13, 7 * insignis nobilitas aut  magna patrum merita principis dignationem etiam adulescentulis adsignant '. n. /i. X 141 ^ quibus {se. auibus) rerum natura caelum adsignauerat '. Con lo stesso significato proprio di « assegnare » era stato usato  da Cicerone , Orazio , Livio , Celso , Columella , etc, ^'  Anche nel senso traslato di « attribuire , ascrivere »  notasi nella Oerm. 14, 5 ^ sua quoque fortia facta gloriae eius adsignare praecipuum sacramentum est ' ; e  nella n. h. VII 197 ' cui (se. Soli Oceani filio) Gellius  medicinae quoque inuentionem ex metallis assignat '.     i Cat. de a. e. 39, 1. Cic. in Verr. IV 42, 90. V28, 71. Tuse.  Il 17, 39. Verg. Aen. I 169; cf. georg. IV 480; Aen. VI 439. Sen.  dial. K 13, 6. Cf. dial. de oratoribus 13, 15.   « Sen. ep. VI 3 (55), 2. Lvcan. de b. e. IX 527.   3 Cic. Phil II 17, 43. ad AH. III 19, 3. de r,p. II 20, 36. Hor  ep. II 1, 8. Liv. V 7, 12; 22, 4. XXI 25, 3. XXXIX 19, 4. XLII  33, 6. Cbls. de med. Ili 18, p. 92. 3. Colvm. de r. r. XII 2, p.  622, 26. Cf. Tag. hist l 30, 19.     XXV 26 ' iauentionem eius ( se. berbae ) Mercurio  adsignat ' : di tale uso si hanno ess. anteriori. *   5.** ' adsimulare ' : Germ. 9, 7 ^ neque in uUam humani oris speciem adsimulare (se. deos) ex magnitudine  caelestium arbitrantur \ Si notano in Cicerone, Lucrezio , Virgilio , etc. ^ ess. consimili , nei quali il verbo  ' adsimulare ' è adoperato nel significato proprio di  « assomigliare, fare qualcosa simile ad un'altra ». Nella  n. h. appare particolarmente usato, come in molti ess.  di scrittori anteriori, ^ nel senso di « simulare, fingere,  prender sembianza » : Vili 106 ^ sermonera bumanum  Inter pastorum stabula adsimulari {se. ab hyaenis) ' :  V. inoltre 3, 43. 9, 10; 34; 113. 37, 179. etc.   6.° ^ ambiri ' : Germ. 17 , 17 ' qui non libidine , sed  ob nobilitatem pluribus nuptiis ambiuntur '. n. h. XVII  266 ^ eontra urucas ambiri arbores singulas a muliere  incitati mensis ' e. q. s.: v., oltre 1' es. cit. , 2, 80. 14,  11. 19, 60. 37, 203. L' espressione che notasi nel 1. e.     « CiG. Bruì. 19, 74. in Verr. V 50 , 131. p. Rab. P09L 10 , 21.  ad Q. fr. 14, 1. de fin. V 16, 44. de r. p. VI 15, 15: cf. ep.  (adfam.) X 18, 2. Vbll. Patbrc. A. R. II 38, 6. Vedi pjr altri  ess. sull'uso del v. * adsignare ' : n. h. 2, 23; 104. 15,65. 18, 64.  19, 50. 25, 60. 28, 33. 29, 2. etc. quanto alle forme dell'attivo; e  per le forme del passivo: 18, 18. 22, 44. 24, 2. 25, 34 ; 87. etc.   « Cxc. de inu. rhet I 28, 42. in Verr. II 77, 189. Lvgr. de r.  n. II 914. Vbrg. Aen. XII 224. Cf. Tac. Agr. 10, 11.   3 Plavt. eiBt 96 ( I 1, 98 ). Epid. 195 (\\2, 11 ). mil. gì 792  (HI 1, 197). Poen. 599-600 (IH 2, 22 sg.). Stick. 84 (I 2, 27 J. Ter.  Andr. 168 ( I 1, 141). haut. 888 (V 1, 15). eim. 461 (III 2, 8 ).  Phorm. 128 (I 2, 78) ; 210 (I 4, 32^. Trag. ine. fr. 0. 3, io Cic.  de off. Ili 26, 98. Cig. p. Cluent. 13, 36. p. CaeL 6, 14. de r.  p. I 21, 34. Vbrg. Aen. X 639. Ovid. mei. XIV 656. etc.     ^ 48 «   della Germ. pigliò, probabilmente, le mosse dalla frase  virgiliana ^ conubiis ambire Latinum \ '   7.° * animaduertere ' : Germ. 7, 4 * neque animaduer*  tere neque uincire, ne uerberare quidem nisì sacerdo*  ti bus permìssum '. n. h. Vili 145 ^ cum animaduerteretur  ex causa Neronis Germanici fili in Titium Sabinum et  seruitia eius '. Lo stesso significato di « dannare a  morte » presenta per eufemismo il verbo ^ animaduertere ' in Cicerone e Livio. ^   8.** ' animare ' : Germ. 29, 13 ^ ipso adbuc terrae suae  solo et caelo acrius animantur '. Uguale significato del  verbo * animare ' (=« dotare d'un temperamento, preparare l'animo»), derivato dal tema della v. ^animus',  appare prima in Plauto e Cicerone. ^ Nella n. h, * animare ' presenta il significato che si fonda sul tema  della V. * anima ', cioè € dar la vita , vivificare , far  vivo » : ^ VII 66 * tempore ipso animatur {se. semen) ':  V. anche 10, 184 ; e per le forme del participio : 2, 155.  5, 44. 7, 1. 11, 77. 18, 4. 23, 83. etc.   9.^ * ascendere ' : Germ. 25 , 11 Mbi enim et super  ingenuos et super nobiles ascendunt '. Con lo stesso significato e del medesimo modo costruito con ' super '  e Tace, il v. ^ ascendere ' era stato adoperato prima da     1 Verg. Aen. VII 333: v. Drabger, ueber Synt a. S*. d. Tae. «,  p. 128. Cf. Tac. hi8t. IV 51, 6.   2 CiG. p. Cluent, 46, 128 : cf. p. Rose. Am. 47, 137. in Verr. I  33, 83. m Caiil. I 12, 30. p. Mil 26, 71. V. inoUre Liv. XXIV  14, 7; e et Tac. hisL I 46, 26; 68, 16; 85 , 3. IV 49, 26. Svbtqn.  Aug. 15, 1.   3 Plavt. Men. 203 (I 3, 20). Cic. de diu. II 42, 89.   ^ Tale significato si osserva ifi più 11. degli scrittori anteriori:  Enn. ann. I fr. 59, ia PLM. voi. VI, p. 69, ed. Baehrens. Pagvv.  irag. 91 (citato da Cic. de diu, I 57, 131). Cic. top. 18, 69. de        Velleìo Patercolo. ^ La forma del passivo, secondo gli  ess. precedenti di Cesare , Vitruvio, Properzio, Velleio  Patercolo,- è pneferita nella n. h, XXXVI 88 ' portìcusque  ascenduntur nonagenis gradibus ' ; ^ ma non è esclusa  la forma attiva: IX 10 ^ ascendere eum nauigia nocturnis  temporibus ' ; cf. 35, 59.   10.° ^ augurari ': Germ. 3, 4 ' futuraeque pugnae  fortunam ipso cantu augurantur '. n, h. XVIII 225 ' ex  occasu eius ( se. sideris ) de hieme augurantur quibus  est cura insidiandi, negotiatores auari • : v. inoltre 6,  192. 10, 154. Accolto similmente in traslato e col significato generico di « profetizzare, predire », osservasi  in Cicerone, Ovidio ed altri. *   11.° ' canore ' (con la penult. lunga) : Germ. 31, 11  ^ iamque canent insignes et hostibus simul suisque monstrati \^ Con un significato più ampio, a dinotare « es   nat d, I 39, 110. de r. p. VI 15, 15. Lvcr. de r. n. V 145. Ovid.  mei. IV 619. XIV 566. Colvm. de r. r. VI 36, p. 492, 17. Vili 5,  p. 527, 20 e p. 528, JO. Scribon. Larg. conpos. 70, p. 29, 32; 95,  p. 40, 26 ed. Helmreich.   J Vell. Patbrc. a. R. II 53, 3. Nei deal, de oraioribus 7, 9 é  preferito ' supra ' con 1* acc. Cicerone lascia V acc. semplice :  p. Font. 1, 4. p, Cluent. 55, 150. p, Mur. 27, 55. de diu. I 28, 58.  de off, li 18 , 62 ; ovvero T accompagna con la prep. * in ' : p.  Cluent 40, HO. p. Sulla 2, 5. de dom. 8. 28 , 75. p. Mèi 35, 97.  PhiL III 8, 20. de fin. Il 22, 74. Tusc. I 46, IH. Cai. m. 10, 34.  Lael 23, 88.   « Caes. b. e. I 79, 2. ViTRvv. de areh. Ili 4 (3) Pkop. V 3,  63. Vell. Paterc. h. R. il 53, 3.   8 Neil' ed. Jan 1. e, voi. V, p. 121, 15, e nell'ed. Maylnff, voi.  V, p. 339, 6 si legge * descenduntur ', invece di * ascenduntur *.  Si noti la frase * gradibus ascen Jere ' in Cic de fin. V 14, 40.   4 Cic. Tuse. I 40, 96. Ovid. mei. III 519. Cf. Tao. hisL I 50, 20.   5 Un che di simile notasi in Vero. Aen. V 416.      45    sere di color chiaro, biancheggiare », notasi nella n. h.  XVIII 65 ' fortunalara Italiam frumento canere candido ' : ' ess. poetici di tale uso erano stati presentati  da Virgilio, Ovidio, Silio Italico. ^   12.*' ' cedere ' : Germ. 36, 7 ' Chattis uictoribus fortuna in sapientiam cessit'. n. h. XXIII 41 ' in prouerbium  cessit sapientiam uino obumbrari '. XVIII 110 * in bonura cedit '. XXXV 91 ' cessit in gloriam artiflcis '. Analoghi ess. si notano in Virgilio , Livio , Curzio ,  etc. '^ Per altri usi del v. * cedere ', notati nella Germ.  e nella n. h.y si osservano ess. negli scrittori precedenti. *   IS.'' ^ eludere ' : Germ. 45, 22 ' terrena quaedam atque etiam uolucria animalia plerumque interlucent ,  quae implicata umóre mox durescente materia cluduntur '. w. h. latera cluduntur tabulis ' : v.  inoltre 18, 330. 33, 25. Il verbo ^ eludere ' per ' clau   1 Cosi leggiamo secoDdo 1* ed. di Gelenio e il cod. Paris. 6795.   II Detlefsen ed il Mayhoff sostitui?cono a * canere ' il v. * serere *, poggiandosi sur un* emendazioQe di seconda mano fatta  nel cod. Vatic. 3861 ; ma in d^ cod. , come nei due codd. Pariss. 67U6, 6797 e nel Leid. si legge * carere *. Si potrebbe anche addurre per es. il 1. 17, 34, letto secondo Ted. Jan.   2 Vero, georg. II 13; 120. llf 325. etc. Ovid. met I \\0: fast,   III 880. SiL. 1t. Pan. I 205. XIV 362. Cic. preferi la formi incoativa 'canescere*: Brut 2, 8 (òf. Qvintil. L o XI 1, 31).  de legibus I 1, 1; la quale forma incoativa fu anche gradita a  Plin. n. h. 7, 23. 17, 34 (letto secondo la * uulg.' e V ed. Mayhoff). 20, 262. 30, 134. 31, 106. 35, 186.   3 Vero. Aen. VII 636, Liv. VI 34, 2. Cvrt. hisi. A. M. Ili 6  (16), 18. Cf. Germ, 14, 15.   4 Cosi per Germ. 6, 20 * cedere loco *: cf. Nep. XI I (Chabr.) 1.  2. Liv. II 47, 3. Ili 63, 1; per n. h. 33, 59 e 35, 80; cf. Cic. de nai.  d. II 61, 153. Cabs. 6. e. Il 6, 3. Ovip. met VI 207.      46    dere ' * è proprio della lingua popolare ; osservasi anche in alcuni scrittori anteriori all' età di Plinio. ^   14.° ' cohibere ' : 6r^rm. 9, 7 ' nec cohibere parietibus   deos ex magnitudine caelestium arbitrantur '. Lo   stesso significato proprio presenta il v. ' cohibere ' nella  ». h. 24, 6. 27, 93. 28, 61; 62. 29, 39; 49. 36, 29. etc;  quale prima era stato usato da Plauto, Cicerone, Orazio, Ovidio, Celso, Curzio, etc. ^   15.° ' commìgrare ' : Germ. 27, 11 ^ quae nationes e  Germania in Gallias commigrauerint '. n. h. XXXV  135 ' captoque Perseo rege Athenas commigrauit ( se.  Heraclides Macedo pictor) '. Lo stesso significato del v.  ^ commigrare ' si osserva in Plauto, Cicerone, Livio, etc. ^     1 Nei framm. cho ci restano degli otto libri c^uò. serm, di Plinio , si conserva costante la forma * claudere * : II e, p. 15, 7.  II A, p. 19, 15, XV p. 55, 22 ed. Beck.   8 Varr. r. r. HI 3, 5. Scribon. Laro, eonpoa. 42 , secondo la  ' ed. princ. Ruellii * (neired. Helmreìch p. 21, 8, Lps. 1887, sì legge ' ducenda ', invece di * cludeada ', conforme al cod; Laudan.  eoncordato col testo di Marcello, edito dal Cornario). Lvcan.  de h, e. Vili 59 (ma si legge * clausit * nei codd. Vossian. XIX  e Bruxell. 5330). Sil. It. Pun. XV 652. Cf. Tac. hist. I 33, 7.  [dial. de omioribus 30, 28]. In uni. di Cic. de nat d. II 39, 100  il Baiter legge ' cludit ' la v. * eludit ' data dai codd., che altri,  p. es. Heind., Schoem., C. F. W. Mueller, leggono * alludit '.   8 Plavt. mil gì 596 (III 1, 1). Cic. p. Casi 5, 11. de nat, d.  II 13, 35. de fai 9, 19. Qat m. 15, 51. Script h. Afr^ 98, 2. Hor.  earm. I 28, 2. Ili 4, 80; 14, 22. IV 6, 34. 8at II 4, 14. ep. II 1,  255. OviD. mei. XIV 224. Cels. de med. VIII 4, p. 314,7. Cvrt.  hist. A. M. VI 2 (5), 11. X 3 (12), 6.   4 Plavt. eisi 177 (I 3, 29;, irin. 1084 (IV 3, 77>. Cic. ad Q.  fr. II 3, 7. Liv. I 34, 1. XLI 8, 7. Ommettiamodi citare Ter. adelph. 649 ( IV 5, 15 ;, perché nel cod. Bemb. ( Vatic. 3226 ) si  legge * migrarant' : negli altri codd, ' co mmlgrarunt '*     ^ 47    16."* ' continuare ' ; con significato indicante spazio e  in forma passiva mediale, si nota nella Germ. 44, 20  ' Suiontbus Sìtonum gentes continuantur ' : così in Cicerone. * Nella n. h. presentasi anche nella forma passiva  e riferito al tempo: VI 220 * dies conti uuaren tur...  noctesque per uices '. XVII 13 ' si plures ita continuentiir anni ' : cf. 10, 94. 11, 103; ma talora presentasi nelle forme delPattivo: XIV 145 * biduo duabusque  noeti bus perpotationem continuasset '. XVII 233 ^ si  post brumam continuauere XL diebus ' : ^ ef. 3, 101. 16,  100. 18, 362. 20, 35. 30, 60.   17.* ' emergere ' : Germ. 45 , 4 ' sonum insuper emergentis (se. solis ) audiri.... persuasio adicit '. n. h.  II 58 ' amplior errantium stellarum quam lunae magnitudo colligitur, quando illae et a septenis interdum  partibus emergant ' : v. 2, 100; 179. Del v. ' emergere *  riferito al levar degli astri si notano altri ess. in Cicerone e Livio. ^ Nella n. h. appare, inoltre, nel significato proprio di « venir su, venire a galla >: XIII 109  ^- ad exorlus solis emergere extra aquam ac florem     V Cic. de nut. d. I 20, 54 II 45, 117.   * CdQsitnile accezione notasi ia Gic. Ta9e. II 17, 39. Hoa 9at.  II 6, 108. OviD ex Pont I 2, 26. Cf. Tag. a/i/i. XVI 5, 10.   3 É mesatta V effefoiazione del Gboroes, ausfuhrL Hnndwb,^  If, e. 2240, rrpeiuta nel Z>«fio/i. Gborgbs-Calonghf, Torino 1896,  e. 924, che a Plinio e Tacito si debba Festensione del significato  del V. ' emergere * • vom Aufgang der Sonne und der Gestirne » ; poiché tale estensione si osserva prima in Cic de nat di.  Il 44, 113 "^ut sese ostendens emorgit Scorpios alte* (ò trad.  d* UQ' passo del carme di A^ato) ; e in Liv. XLIV 37 9 , 6 ; 3 (12), 12.   3 CiG. in Verr. IV 41, 88. Ovid. mei. IH 448.   4 CiG. de leg. agr. II 32, 87. de fln, IV 15, 40. Liv. XLII 55,  10, secondo Ted. Weissenborn, Lps. 1887: nell'ed. Weissenborn,  Beri. "Weidmann 1876, si legge * speratus *, iavece di ' separalus erat*.   5 V. per gli ess. di autori anteriori i 11. citati nel Lex. Forcbllini-Db ViT, t. V, p. 453, e neWausfùhrl i/anrfeo6. del Georges, II, e. 2338. Cf. Tac. Agr. 31, 21. In Tacito inoltre il v. * se pcDere* APPARE USATO NEL SENSO DI « aljontaoare, relegare, spargere ' : Oerm. 17, 7 * eligunt feras et detracia uelamina spargunt maculis pellibusque beluarum ' : in senso traslato consimile era stato adoperato  da Virgilio ; ^ e, riferito ad irradiazioni luminose, si  nota, oltreché in Virgilio e Ovidio, ^ e nei contemporanei di Plinio,'^ anche nella n. h. XXXVII 181 * solis gemma candida est , ad speciem sideris in orbem  fulgentis spargens radios '. Appare eziandio nella n. h.  in senso traslato, per significare « aspergere , inumidire », secondo gli ess. anteriori di Virgilio e Orazio : *  XIII 132 ' si semine, madidum aut , si desint imbres,  satum spargitur ' ; ma nello stesso tempo vi è accolto  col significato proprio : ^ IV 101 ' ( Rhenus ) ab occidente in amnem Mosam se spargit.' : v. 11, 123. 12,  42. 16, 141. 24, 178. etc. ; ovvero in senso pregn.: XXI  45 ' genera enim tractamus in species multas sese spargentia '.   49.° ' superesse ' : Germ, 6, 1 ^ ne ferrum quidem  superest '. 26, 5 ' arua per annos mutant, et superest  ager '. n. h. XVI 224 ' pinus, piceae, alni ad aquarum   ductus in tubos cauantur ;, mirum in modum for tiores, si umor extra quoque supersit ' : cf. 25, 14. 34,  36. Terenzio e Cicerone avevano prima usato il v. * su   liandire »: hisL I 10, 5 (secondo i'emend. dell' Acidalio) ; 13, 17;  46, U] 88, 1. II 33, 9. ann. Ili 12, 8.   1 Vbrg. bue. 2, 41. Aen. VII 191.   « Verg. Aen. IV 584. XII 113. Ovid. met. XI 309.   8 SBN. Med. 74. Petron. sai. 22, p. 74, l. Sil. It. Pan. V 56.   * Vero, georg. IV 229. Hor. earm. II 6, 23.   5 Dello stesso modo in Vjprg. Aen. II 98. Hor. mì II 5, 103.  LvcAj?. de b. e. Ili 64. etc. Cf. Tao. hisL peresse ' nello stesso significato di « abbondare, ridondare ». ^   50.** * triumpbare ' : Germ. 37, 26 * rursus inde pulsi  proximis temporibus triumpbati magis quam uicti sunt'.  ». /i. V 36 * omnia armis Romanis superata et a Cornelio Balbo triumphata \ V uso del v. ' triumpbare '  nelle forme personali del passivo appare per la prima  volta nella poesia dell' età augustea : ^ Cicerone aveva  soltanto adoperato come v. impersonale il passivo  dell' intrans. * triumpbare '. ^   V.  Avverbi :   1.° * aliquanto ', forma ablativale in funzione di avverbio: Germ. 5, 1 * terra etsi aliquanto * specie differt '.   1 Ter. Phorm. 69 (I 2, 19> 162 (I 3, 10;: nel l* ed. Fleckeìsen  ò accolta la grafia ' super erat, super est *. Cic de or, II 25,  108. in Verr. a. pr. 4, 13. ep. (ad fam.) XIII 63, 2 de dia. I 52,  118. II 15, 35. Cf. Tag. Agr, 44, 5. 45, 23. hist I 51, 9; 83, 10.  an/i. I 67, 7. XIV 54, 12.   « Vbrg. georg. III 33. Aen. VI 836. Hor. earm. Ili 3, 43. Ovid.  am. I 15, 26. fast. Ili 732. Cf. Tac. ann. XII 19, 10.   5 Cic. de off. II 8, 28. Dopo Cicerone, se ne valse Liv. III 63,  ll.XLV 38,2.   •* Ad * aliquanto ', dato nel 1. e della Germ. dai codd. ', tranne il Bamberg. (B del Massmann) che presenta ' aliquando ',  TErnesti sostituisce 'aliquantum '; e il Halm, che nella 2.*  ed. delle opp. di Tac. (Lps. 1871, voi. II, p. 194) aveva accolto  senza alcuna esitazione * aliquanto ', nella 4.» (Lps. 1883, voi.  II, p. 222) dubitò che si dovesse sostituire con 'aliquantutn \  e confortò il dubbio con la frase dell' Agr. 24, 9 ' haud m u 1turo a Britannia differunt*. Il Ramorino (Cora. Taciti opera  quae supersunt, Milano 1893, voi. Il, p. 210) contrappone, in  sostegno di 'aliquanto*, il 1. di Plin. n. h. XXXV 80 'quanto  quid a quoque distare deberef: e Tosservazione di lui ò ripetuta da Io. Mueller, ed, e. , p. 6.       n. h. XXXV 56 ^ eosque, qui monochromatis pinxerint....  aliquanto ante fuisse '.^ Nella n. h, la v. ' alìquaato ' si  accompagna anche coi comparativi : V 3 * e uicino  tractii aliquanto excelsiore '. XXI 27 * folio aliquanto  altiore ' : se ne notano ess. precedenti in Plauto, Cicerone, Nepote, Sallustio e Livio. *  2.° * ceterum ' : è assunto in più funzioni :  a) per riprendere il discorso interrotto da una digressione : Germ. 3, 9 ' ceterum et Vlixen quidam opinantur ' e. q. s. n. h. V 149 ' ceterum intus in Bithynia  colonia Apamena ' e. q. s. : cf. 2, 30. ^   h) per significare quasi la stessa opposizione indicata  da ' sed ', in principio di una frase: Germ. 2, 19 * ce   1 Un altro es. da addarsi sarebbe presentato dal 1. della n.  h, XXXV 134 * et aliquanto praefertur Athenion ' ; cosi letto secondo i codd. Riccard., Paris. 6797 e Paris. 6801: il Jan, voi. V,  p. 91, 26 ed il Mayhoff, voi. V, p. 278, 6, vi sostituiscono * aliquando '.  Analoga costruzione della v. ^ aliquanto ' coi verbi  osservasi in Cic. de inu. rhet II 51, 154. p. Quinci, 12 , 40. p.  Rose. Ara. 45, 130. in Verr. Ili 17, 44. IV 39, 85; 63, 141. p. Caeein.  4, 11. in Cam. Ili 5, 11. p. Sull. 20 , 56. de dom. s. 23 , 59. 38,  102. p. Sest. 35, 75. in Vatin. 10, 25. ep. (ad fam.) IX 26, 4 de  r. p. VI 9 (1), 9. de legibus II 26, 64. de off. I 23, 81. etc.   « Plavt. aul 539 (III 6, 3). Epid. 380 (III 2, 44). Cic. p. Rose.  Am. 2, 7. 9, 26. diu. in Caecil. 5, 18. 15, 48. in Verr. I 1, 2; 27,  70; 54, 140. II 1, 1. Ili 38, 87; 43, 102; 47, 113; 63, 148; 64, 150;  57, 131 ; 92, 214. IV 34, 76. de leg. agr. II 2, 3. p. Rabir. perd.  3, 8. de har. resp. 22, 47. p. Cael. 3, 7. aead. pr. II 29, 93. de  fin. IV 3, 7 V 2, 4. Tuse. II 27, 6,  e poi qualsiasi segno divinatorio o presagio in generale, passò a significare la ^ consecratio \ come nel 1.  e. della Germ.   S."" ^ intumescere ' : notasi in più 11. delle poesie di  Ovidio, accolto in senso proprio ed in traslato; ^ di  preferenza fu usato neir età postaugustea : Oerm. 3,  8 ' obiectis ad os scutis , quo plenior et grauior uox  reperoussu intumescat'. n. Ti. II 196 'sine flatu intumescente fluetu subito': v. inoltre 2, 198; 217; 232.  6, 128. 18, 359. etc. ^ Quanto all' uso del v. ' intumescere' in senso proprio, v. n. h. 2,233. 8,85. 11, 179.  13, 124 14, 82. 17, 145. 20, 51. 21, 151. 22, 136. 23,  163. 28, 218; 242. 30, 38. etc.     1 Cia in Fallii. 10, 24 ' indicem in rostris , in ilio, io^uam  augurato tempio ac loco conlocaris ' ed. C. F. W. Mu^ller.   « Ovio. fast l 215. II 607. VI 700. ex Pont IV 14, 34. etc.   9 Id senso trasl. l'usarono pure Colvm. de r. r. 14, p. 318,  29. Tac. ann. I 38,5: cf. hist. Considerianoo ora quelle espressioni che, sebbene usate dagli scrittori anteriori, presentano nella Germ. e nella n. h.y come in altri scritti del primo secolo d.  Cr., UN SIGNIFICATO [non SENSO – H. P. Grice] NUOVO. Sostantivi.blandimentum ' : fu adoperato al plur., secondo  r accezione classica , nelle sgg. frasi pliniane : n. h.  VII 71 ^ fortunae blandimenta poUicentur '. XXVI 14  * alia quoque blandimenta excogitabat '. Significò « cura  assidua » in un 1. della n. h. XVII 98 * hoc blandimento inpetratis radicibus Inter poma ipsa et cacumina ' ; d' altro canto, valse, per estensione, ad indicare  « leccornie, ghiottornie », facendosi sinonimo di ' condimentum ' : v. Germ. 23, 4 ' sine blandimentis expellunt famem '. Questo ultimo significato notasi in un 1.  del sat. di Petronio. *   2.** ' meatus ' : Germ. 1, 10 ' donec in Ponticum mare  sex meati bus erumpat '. n. h. IV 75 * angusto meatu  inrumpit in terras ' : v. 5, 3. 16, 184. etc. ; e cf. 19 ,  85. 22, 117. 28, 197. Nello stesso significato metonimico di « via, corso », la v. ' meatus ' fu accolta dagli  scrittori del tempo di Plinio. ^ Ma, per significare moto,  la V. ' meatus ' fu usata da scrittori anteriori ^ e da     1 Petron. bcU. 141, p. 665, 12 ' aliqua inueniemus blandimenta, quibus saporem mutemiis '.   « Val. Flacg. Ar^on. Ili 403. Cf. Tag. ann. XIV 51, 4.   8 LvcR. de r. n. I 128. Verg. Aen. VI 849. Sil. It. Pan. XII  102. etc.      73    Plinio stesso: n. ft. X 1 1 1 * aues solae uario meatu feruntur et in terra et in aere ' ; v. inoltre: 6, 83. 9, 95.  11, 264. etc.   II.  Verbi :   1." ' firmare ' : Germ. 39, 2 ' fides antiquitatis religione flrmatur '. Con lo stesso significato in traslato ,  riferito a cose religiose, appare prima in un carme  cit. da Cicerone e nei carmi di Virgilio. * Nella n. h.y  oltre al presentare in più 11. il significato di « fermare, rassodare, rinforzare » : v. 10, 94. 17, 206; 212.  18, 47. 20, 212. 35, 182. etc, (il quale significato osservasi prima in Cicerone, Virgilio, Livio , Curzio , Columella ^) , si attiene , come si ha es. da Celso in poi , =^  ad argomenti di medicina: v. n. h. 14, 117. 21, 180.  24, 119. etc.   2." ^ imputare ' : apparve nella latinità dell' evo augusteo, col significato in traslato di « attribuire come  colpa, imputare »: * uso continuato poi da Valerio Massimo , Seneca , Plinio Secondo , e indi da Quintiliano,     1 CiG. de dia, 1 47, 106 'sic aquilae clarum fìrmault luppiter  omen '. Verg. Aen, II 691. XII 188: cf. XI 330.   « Cic. Tuse. II 15, 36. Verg. geonj. Ili 209. Aen. HI 659. Liv.  XXVII 13, 13. CVRT. hisL A. M. IV 9 (38), 18. IX 10 (41), 18  CoLVM. de r. r. VI 27, p. 486, 38. Cf. Tag. ann, IV 73, 7.   3 Cels. de med. Vili 7, p. 320, 5.. La frase * f. aluum solutam *,  che il Georges, ausfiXhrL Handwb,^ I, e. 2572 , attribuisce a  Celso, appartiene invece a Plinio: v. n h, XIV 117 * est centra  Lycia (8C. uua) quae solutam ( se. aluum ) firmat *. La fra^^e  genuina di Cels. de med. I 3, p. 20, 3 è la sg. : * aluum firmare is, cui fusa. *   * OviD. episL {her.) 6, 102. mei. II 400. XV 470. Vedi Krebs  -Sghmalz, aniib. I, p. 640.      T4Tacito e altri. MI v. ' imputare ' fu aftche adoperato  oell' età postclassica in senso traslato , per significare  « ascrivere a merito, attribuire come merito »: Germ.  21, 15'gaudent muneribus, sed nec data imputant nec  acceptis obiigantur '. n. h. Vili 60 ' ut facile appareret  gratiam referre et nihil inuicem iuputare '. Lo stesso  significato notasi in Seneca padre, Fedro, Seneca figlio,  etc. ^ Assume anche nella n. h. il significato semplice  di « assegnare, indicare »: XXIV 5 ' ulcerique paruo  medicina a Rubro mari inputatur '.   3."* * prouocare ' : Oerm. 35, 9 * quieti secretique nulla  prouocant bella '. n. h. XXXIII 4 ' didicit homo naturam prouocare': v. 6, 208. 19, 5. Con significato consimile si nota in Cicerone , Livio , Velleio Patercolo ,  Lucano, etc. ^ Plinio usò pure in traslato il v. ' prouocare ' : n. h. XVI 32 ^ omnes tamen has eiusf'sc. roboris)  dotes ilex solo prouocat cocco ' : v. 9, 66. 35, 94; e cf.  21, 4: tale uso fu continuato da Quintiliano, Tacito,  Plinio il giovane, Suetonio, etc. ^   4.'' ' submittere ': nel significato di : VII 112 ' fasces litterarum ianuae submisit is  cui se oriens occidensque submiserat ': v. 8, 3. 10, 132.  11, 260. etc. ; ^ quanto nel SENSO TRASLATO neque enim pudor , sed aemuli pretia summittunt. Avverbi.   1.** ^ adhuc ': Germ. 19, 10 ' melius quidem adhuc eae  ciuitates, in quibus tantum uirgines nubunt. ' n. h.  XVIII 24 * quandoquidem qui adhuc diligentius ea  tractauere ' e. q. s. L' avv. ' adhuc ', usato per particella rinforzativa col comparativo, invece della v. 'etiam'  preferita nel periodo aureo della lingua latina, appare  nella latinità argentea. ^ È anche postclassico l' uso di     i SBN. dial XI 17, 5. ep, XIX 5 (114), 21. Plin. episL VII 27,  14. SVBTON. din, lui. 67, 12.   2 Cosi in Liv. II 7, 7. XLV 7, 5. Ovid. fast. Ili 372.   5 Lteato in trasl., appare prima in Cic. diu. in Caeeil 15, 48.  p. Piane. 10, 24. Vbrg. Aen. IV 414. XII 832. Liv. VI 6, 7. Ovid.  epist (her) 4, 151. Sbn. de ben. V 3, 2. ep. VII 4 {66) y 6. XIV  4 (92), 2.   * SBN. ep. V 9 (49;, 3. Qvintil. e. o. I 5, 22. II 15, 28 e 29. X  1, 99. SvBTON. Tib. 17, 1. Vedi Goblzer, grammatieae in Sul-pieium Seuerum obaeruaiionea. Par. 1883, pp. 92-93. L'es. apparentemente simile, ma in realtà diverso* di uà 1. di Celio in  CiG. ep. (adfam.) Vili 7, 1 ' eo magia, quo adhuc feliciua rem  gessìsti *, è ben chiarito neir antib. Krbbs-Schmalz , I, p. 87.  et Hand, Turs. adhuc ', invece di ' praeterea ', nei segg. 11. Germ. 10,  9 ^ sin permissum, auspiciorum adhuc fldes exigitur. '  n. h. XXXIII 37 ' sunt adhuc aliquae non omittendae  in auro diflferentiae '. ^ Notasi inoltre ' adhuc ' nella  n. h. col valore di ' hactenus ' : XXXVII 27 ' magnitudo amplissima adhuc uisa nobis erat ' e. q. s. ; ^ e  nella Germ. in sostituzione delle espressioni classiche  ' tum ', ' etiam tum ', ' tum etiam ', etc. : ^ 28 , 5 ^ occuparet permutaretque sedes promiscuas adhuc et nulla  regnorum potentia diuisas '. *   2.*" ' clementer ' : Germ. 1^ 8 * Danuuius molli et clementer edito mentis Abnobae iugo effusus '. Prevalse  neir età argentea della lingua latina 1' uso di riferire  ' clementer ' a luoghi : ^ Plinio lo riferi ad animali,  e, trattando dell' addomesticamento degli elefanti , osservò: n. h. Vili 25 ' argumentum erat ramus homine  porrigente clementer acceptus (se. ab elephante) '. ^   3.° ' hodieque ' : Germ. 3, 12 ' quod (se. Asciburgium)  in ripa Rheni situm hodieque incolitur '. n. h. Ili 124  ' Nouaria ex Vertamacoris, Vocontiorum hodieque pa   1 V. ess. consimili in Sbn. n. q. IV 8. Qvintil. i. o. 11 21, 6.   2 Per la differenza tra ' adhuc ' e * hactenus ' v. Ha.nd, Turs.  IH pp. 4-14. Krebs-Schmalz, antib. I, p. 587 sg. Cocghca, sint  lai. § 85, XII, p. 199.   3 Gandino, sint lai. I, es. 71, n. 3, p 120. II, es. 150, n. 4, p. 97.   4 Cf. Tao. Agr, 16, 24. 37, 1. hist I 10, 1 ; 47, 8. ann, I, 5 13;  48, 2; 59, 11. II 46, 8. IV 56, 8. XI 23, 9. etc: nei quali 11. la v.  ' adhuc ' ò riferita ad un* azione passata.   5 CoLVM. de r. r. II 2, p. 332, 19. Sen. Oed, 281. SiL. It. Pun.  I 274, Cf. Tac. hist III 52, 2. ann. XII 33, 8. XIII 38, 13.   fi Cf. Gell. n. A. V 14, 12: vi si menziona il racconto di Apion Plistonlces intorno al leone di Androclo. go, (se. orla est) ' : v. inoltre 2, 150. 8, 176. 16, 10 ; 15.  18, 65. 30, 2; 13. 36, 189. etc. L'uso di ' hodieque '  nel significato delle espressioni classiche ' hodie quoque',  ' etiam hodie ', o semplicemente ' hodie ', ^ si comincia  ad osservare negli scritti della età postaugustea, alcuni dei quali anteriori alla Germ. od alla n. h. ^    D    L' uso delle voci, delle quali si tratta nella presente  sezione, apparisce tanto nella Gerani, e nella n. h,^ quanto  negli scritti, a noi pervenuti, del V sec. d. Cr. : negli  scritti anteriori non si osserva traccia alcuna di tali voci,   I.  Sostantivi :   1.^ ' adfectatio ' : Germ. 28, 15 ' Treueri et Neruii  circa adfectationem Germanicae originis ultro ambitiosi  sunt '. 3 n. h. XI 154 ' tanta est decoris adfectatio ut tin   1 Vedi Krebs-Schmalz, aniìb. I, p. 597. Gandino, sint lai. II,  es. 150, D. 4, p. 97. Cocchia, sint lai. § 137, rZ, p. 305.   « Vell. Paterc. h. R. I 4, e e 3. II 8, 3; 25, 4; 27, 5. Val. Max.  f. ei d. m. Vili 15, 1. Sen. consultum Claudianum de iure honorum Gallis dando ( tav. di Lyon ) , col. Il, 12 : vedi Dessau,  insertpi. Lai., voi I, Beri. 1892, p. 53. Sen. de clem. 1 10, 2 (ma  nel cod Leid. suppl. 459 [Lips. 49] si accoglie la lez. * hodie ').  n. q. I proL, 3. ep. XIV 2 c90), 16 ; 25 ; 33. Cf. Qvintil. i. o. X  1, 94. dial. de oraioribus 34, 37, secondo i codd. Vatic. 1518 e  Farnes. : il Halm vi accolse la lez. * hodie quoque '.   3 II FiNCK ( Tao. Germ. erìàuleri, Gòttingeii 1857 , p. 227 ), il  Kritz (op. e, p. 43) ed altri, valendosi della lez. presentata dai  codd. Vatic. 1862 , Vatic. 2964, Leid. , Venet. , leggono * nulla  affectatione animi' nel I. della Germ. 5, 19, dove gli altri codd.   danno * offcciir De '. Quanto al I. sopra cih "della Germ 28,      78    giiantur oculi quoque '. XXXIV 6 * circa id multorum  adfectatio furit '. Appare con lo stesso significato in  Seneca, Tacito, Suetonio: ^ l'assumono in senso retorico  Quintiliano e Io stesso Suetonio. ^   2.** ^ boraicidium ' : Germ. 21, 3 ' luitur enira etiam  homicidium certo armentorura ac pecorura nunaero '.  n. h. XVIII 12 ' suspensumque Cereri necari iubebant  grauius quam in homicidio conuictum '. Della v. * homicidium ', invece della v. classica ' caedes ', si valsero  anche Seneca padre, Petronio, Quintiliano. ^   3.° ' intellectus ' : Germ. 26, 10 ' hiems et uer et aestas intellectum ac uocabula habent '. Con lo stesso  valore passivo, ad indicare « significato, senso, concetto »  di qualche cosà, appare la v. ^ intellectus ' in Quintiliano. ^ Nella n. h, presenta il significato, in generale,  di « sentimento, percezione, senso »: XI 174 ' intellectus  saporum ceteris in prima lingua, homini et in palato '.     15, i codd. Monac, Rom. ( Aug. bib.l. ), Hummelian., Stotgard.  presentano la lez. ' affectionem * : migliore ò la lez. ' adfectationem ', data dal cod. Leid. e da altri, poichò, come nota il Dilthey  {Tae, Germ. libellus vollstaendiy erlàuiert, Braunschweig 1823,  p. 176) « ' affectio ' ist jede die Seele aufregende Leidenscbaft,  * affectatio * hiogegen das oft ins Laecherliche getriebene Streben nach einer Sacho Letzteres steht also hier (Germ, 28, 15)  an seiner Stelle. »   1 Ben. ep. XIV 1 (89), 4. Tao hi8t I 80, 7. Svkton. TU. 9, 5.   2 QVINTIL. i. O. I 6, 40. SVBTON. Tiò. 70, 3. etc.   8 Sen. rhet. conirou. IV 7, p. 270 , l. Petron. sai. 137, p.  653, 16. QviNTiL. L o. III 10, 1.   4 QviNTiL. i. 0. I 1, 28. VII 9, 2. Vin 3, 44. eie. Il 1« es. e. dì  Quintiliano é a torto attribuito a Seneca nell'aus/ì^/ir^. Handwb,^  II, e. 291, del Georges, e nel dizion. lat-it. GsoRaEs-CALONOiii,  ed. oit, e.    XI 280 * neque enim est intellectus ullus in odore uel  sapore ' : v. 2, 149. 13, 35. 19, 171. 31, 87; 88. etc. : è  riferito talvolta ad animali : X 108 ' columbis inest  quidam et gloriae intellectus ' ; per altri ess. v. 8 , 1 ;  3; 48; 156; 159. 9, 148. 10, 33; 43; 51; 137. 28, 19. 29,  106. etc.   4.** * repercussus ' : Germ, 3, 8 ^ quo plenior et grauìor  uox repercussu intumescat '. n. h. XXXVI 99 ' turres  septem acceptas uoces numeroso repercussu multiplicant. ' In altri 11. della n. h. la v. ^ repercussus ' presenta significati che si diramano dal concetto comune  del fenomeno di riflessione fisica : II 45 ^ in repercussu  aquae '. V 35 * solis repercussu '. V 55 ^ etesiarum eo  tempore ex aduerso flantium repercussum '. XII 86  * meridiani solis repercussus '. XVI 6 ^ occursantium  inter se radicum repercussu '. XXXVII 22 * colorum  repercussus ' : v. inoltre 10, 43. 11 , 148 ; 225. 31 , 45.  33, 128. 35, 97; 175. 37, 76; 104; 137; 165. etc. Altri  scrittori del periodo postclassico si valsero della v.  ^ repercussus '. ^   II. Verbi.   1.^ * excrescere ' : Germ. 20, 1 ' in omni domo nudi  ac sordidi in hos artus, in haec corpora, quae miramur, excrescunt '. Lo stesso uso di ' excrescere ' si nota  in Seneca. ^ Niella n. h. è, come nel de r. r\ di Colu   1 Vedi Plin. epist II 17, 17. Non è cit. eoa esattezza nel Lex,  Forcellini-De ViT, t. V, p. 176 , e neWaunfuhrl. Handiob. del  Georges, II, e. 2074, il passo di Flor. epit I 38 [III 3], 15, in  cui legges': * ex splendore galearum aere repercusso quasi ardere caelom uideretur* (Halm).    L* imitò Macrob. sat. I 7, 25. Vedi per rargomento le philologisehe Ahhandlungen di M. Hertz, Beri. 1888, p. 41.  2 CiG. p. Ro^e. Am, 22, 63. de fin. Ili 19, 62. V 14, 39.  8 Cabs. b. e. II! 92, 2.   4 Cf. Tac. Agr. 20, 7.   5 Liv. XXII 12, 7. XXXII 4, 4. Cf. Cic. de nat d. II 57, 144.   6 Pompon. Mbl. ehor, II 3, 34. Ili 1, 8 e 9 e 10 ; 8, 81. Plin.  n. h IV 76.      84    etc. ,* anche nella Germ. 27, 6 ' lamenta ac lacrimas  cito, dolorem et tristitiam tarde poniint '. Plinio adoperò la V. ' lamentum ' in traslato: n. h. X 155 ' lamenta circa piscinae stagna mergentibus se puUis natura duce '.   S.** ' lasciuia ' : Germ. 24, 5 ' quamuis audacis lasciuiae pretium est uoluptas spectantium '. Con significati  vicini a quello che si nota nel 1. e. della Germ. la v.  ' lasciuia ' era stata accolta da Pacuvio, Cicerone, Lucrezio, Seneca. ^ Plinio , oltre all' adoperarla secondo  l'uso comune (v. n. h. 5, 7. 9, 34. 18,364. etc), la rivolse, in traslato , a denotare quelli che a noi paiono  capricci della natura : n. h. XI 123 ^ nec alibi maior  naturae lasciuia '. XIV 15 ' est et illa naturae lasciuia ' :  V. 8, 52. 26, 2. 36, 12.   9.° ^ nodus ' : Germ. 38, 5 ^ insigne gentis obliquare  crinem nodoque substringere '. Ovidio aveva riferito  ' nodus ' all'acconciatura dei capelli. ^ Similmente nella  n. h. si adopera la v. ' nodus ' in senso proprio: XXVIII  63 ' uulnera nodo Herculis praeligare '; * ma vi è anche accolta in traslato, ora riferita ad argomenti zoo   1 Cic. in Pi8, 36, 89. p. Mil. 32, 86. Tuse. II 21,48. de legihus  II 25, 64. Cai. m. 20, 73. Vero. Aen. IV G67.,Pergli ess. di Lucrezio e di Livio , V. i' ausfuhrl. Handwb . del Georges, II, e.  483. Cf. inoltre Tac. Agr, 29, 3. hist IV 45, 5.   8 Pacvv. in CiG. de diu. I 14, 24. Cic. de fin. II 20, 65. Lvcr.  de r. n. V 1398. Sen. dial. XII 18, 5. Cf. Tac. hist. Ili 33 , 13.  ann. XI 31, 14; 36, 12.   3 OviD. ars am. Ili 139. Lo ripetè, più tardi, Martial. epigr.  V 37, 8.   * Del * nodus Herculis ' o * Herculaneus * è fatta menzione da  Sen. ep. XIII 2 (87), 38. Cf. Pavli exc. ex Uh, Pomp. Fesii^ voce  • cingillo ', p. 44, 24 ed. Thewr. d. P. 85   logici: V. 11, 177; 217. 28, 99; » o botanici : v. 13, 52.  16, 158; 198, secondo ess. precedenti ; ^ ora ( e , come  pare, per la prima volta) a minerali: v. 34, 136. 37, 55;  150; ovvero ad indicare tumori o indurimenti del corpo  umano: v. 24, 21 ; 24. 30, 110: cf. 11, 216.   10.° ' potus ' : Gerani. 23, 1 * potui umor ex hordeo  aut frumento '. n. h. XXII 164 ^ ex iisdem (se. frugibus)  • fiunt et potus '. Altri ess. della v. ^ potus ' presenta la  n. /^., tanto nel significato di bevanda, quanto in quello  di « bere, tracannare », secondo l'accezione precedente  di Cicerone, Celso, Curzio, etc. : ^ v. n. h, 8, 122 ; 162;  209. 9, 46. 10, 201. 11, 176; 283. 13, 25; 51. 14, 137;  149; 150. 16, 4. 21, 12. 23, 37. 26, 17. 28, 53; 55; 84;  197. 29, 26. 31, 33. 32, 34 ; 54 ; 57. 34 , 151. 36, 156.  etc; * ma per la prima volta notasi nella n. h, nel significato di « escremento umano » : v. 9, 138. 17, 51.   11.° ' pubertas ': n. h. VII 76 ' uidimus eadem ferme  omnia praeter pubertatem in Alio Corneli Taciti ' e. q. s.  cf. 21, 170. Con lo stesso significato metonimico , per  indicare il segno della pubertà, se ne valse Cicerone. ^  Ma la V. considerata assume il nuovo significato metonimico di 4c forza virile, virilità, facoltà di generare »  nella Germ. 20, 6 * sera iuuenum uenus , coque inex   ^ Cosi anche in Cabs. b. G. VI 27, 1. Vbrg. Aen. V 279. LvCAN. de h. e. VI 672. etc.   * Ess. precedenti se ne osservano in Verg. bue, V 90. georg,  II 76. Aen. VII 507. Vili 220. IX 743. XI 553. Liv. I 18, 7. Sen.  de ben. VII 9, 2. Colvm. de arb. 3, p. 670, 5.   « Cic. de diu. I 29, 60. Cels. de med. II 13, p. 56, 28. Cvrt.  hi8i. A. M. VII 5 (21), 16. Cf. Tao. ann. XIII 16, 4.   4 Vedi Krbbs-Schmalz, antib., v. * polio und polus ', II, p. 308.   5 Cic. de naL d. II 33, 86.     hausta pubertas': appare nella n. h.^ riferita, in traslato, alle piante : v. 23, 7. * Quanto a ^ pubertas ' in  senso proprio, v. 25, 154.   12.° * raptus': valse da prima a significare « ratto,  rapimento per amore » ; - nella n. h. fu usata anche  per indicare « strappo mediante uno strumento , piallata »: XVI 225 ' pampinato semper orbe se uoluens ad  incitatos runcinae raptus '. Nella Germ. si assunse nel  significato della v. ^ rapina ', accolta dalla latinità classica, cioè « ladroneccio, rapina »: 35, 10 ^ nullis raptibus aut latrociniis populantur '. ^   13.° ' sagitta ' : nel significato proprio di « freccia ,  dardo, strale, saetta », ^ osservasi nella Germ. 46, 15  ' solae in sagittis spes '; e nella n. h. VII 201 ^arcum  et sagittam Scythen louis filium , alii sagittas Persen  Persei filium inuenisse dicunt ': v. 11, 279. 16, 161. etc.  Ma nella n. h. vale eziandio non solamente a indicare, secondo gli ess. di scrittori precedenti, una specie di sorcolo  o magliuolo:^ v. 17, 156; e una costellazione : '^ v. 17,  131, 18, 309; 310; ma anche a designare (a quanto pare.     1 In un altro 1. della n. h. ò sostituita a ' pubertas ' la voce  propria : 12, 131 'in prima lanugine '.   2 CiG. in Verr. IV 48, 107. Tuse. IV 33, 71. Ovid. fasi. IV 417.  Sen. dial IV 9, 3. Plin. n. h. 34, 69. Cf. Tac. ann. VI 1, 15.   3 Lo stesso congiungimento di ' raptus * al plur. con * latrocinium ' o ' praeda ' si osserva in Tac. hi9t I 46, 13. ann, II 52, 4.   4 Vedi Cic. in Verr. IV 34, 74. Phil II 44, 112. aead. pr. II  28, 89. de fin, III 6, 22. Tuse. I 42, 101. II 7, 19. de nat d. I 36,  101. II 50, 126. etc.   5 CoLVM. de r. r. Ili 10, p. 384, 1-8 ; 17, p. 393, 9-10.   6 Cic. Arai phaen. cum Groti suppl. vers. 84 (325), pag. 369.  Gbrman. Arai, phaen. v. 315, in PLM. voi. I, p. 166, ed. Baehrens.  AviBN. Arat vv. 669, 689, 985, 1117, 1258 ed. Breysig.     per ia prima volta) la pianta detta comunemente € lingua di serpente »: XXI 111 * idem (se. Mago) oiston  adici t a Graecis uocari, quàm inter uluas sagittam appellamus '. ^   14.** ' satisfactio ' : voce usata prima da Cicerone, Cesare, Sallustio per significare « discolpa, scusa ». ^ Nella  Germ, conserva lo stesso significato, aggiuntovi il concetto della pena: 21, 3 ^ luitur enim etiam homicidium  certo armentorum ac pecorum numero recipitque satisfactionem uniuersa domus '. Plinio la riferì agli animali e, trattando delle colombe , scrisse : n. h. X 104  * tunc plenum querela guttur saeuique rostro ictus,- mox  in satisfactione exosculatio '.   15. "* ' sedes ' : in senso traslato, per indicare « soggiorno, stanza, dimora, paese, patria », secondo l'accezione classica, ^ appare nella Germ. 2, 3 ' classibus  aduehebantur qui mutare sedes quaerebant ': v. 25 , 2.  30, 1. Plinio ne fece uso tanto in senso traslato, analogo al precedente: v. n. h. 2, 102. 11 , 138 ; 157. 22,  14. 33, 74. 36, 102 ; ^ quanto in senso metonimico : v.  22, 61; 143. 23, 75; 83. 26, 90 32, 104 : in questa se   1 * Oiston • legge nel 1. e. della n. h. Ose. Weise ; v. Jahrbb.  del Fleckeisen, 1881, p. 512. 1 codd. Paris. 6795, Riccard., Leid.  Voss. e Ted. Detlefsen (voL III, Beri. 1868) danno * pistana \   « CiG. ep. (ad fam.) VII 13, 1. Caes. 6. G. VI 9, 8. Salì.. Cat  35, 2. etc.   3 Cic. p. Cluent 61, 171. 66, 188. p. Mar, 39, 85. p. Sulla 6,  18. p. Areh, 4, 9. de proo, eons. 14, 34. p. Marcel. 9, 29. Caes.  b. G. IV 4, 4. Sall. Cat 6, 1. Verg. Aen, XI 112. Ovid. mei.  Ili 539. XV 22. etc.   4 Cf. Caes. 6. G. I 31, 14 ^ aliud domicilium , alias sedes...  petant '.      88    conda accezione non pare che altri V abbia preceduto,  le."* ' tristitia ' : nella Oerm. e nella n. h. è accolta  nel significato proprio di « mestizia, tristezza », secondo l'uso che se ne era fatto dagli scrittori precedenti; '  Germ. 27, 7 ^ dolorem et tristitiam tarde ponunt '. ^  n. h, XXIV 24 ' inuenio potu modico tristitiam animi  resolui': v. pure 21, 159. 23, 38. 25, 12. 35, 73. Plinio  usò, inoltre, la v. ' tristitia ' in senso traslato, riferendola a cose inanimate : n. h, II 13 ' hic (se. sol) caeli  tristitiam discutit '. XVIII 184 ' sarculatio induratam  hiberno rigore soli tristitiam laxat temporibus uernis ':  e in ciò egli seguì gli ess. analoghi presentati da Cicerone; 3 ma, probabilmente per il primo, appropriò la  V. considerata ad animali : n. h. IX 34 ^ delphinorum  similitudinem habent qui uocantur thursiones. distant  et tristitia quadam adspectus ' : v. 11, 63 (per le api).  32, 60 (per le ostriche). Aggettivi:   1.° ' asper ': appare, usato in traslato, in un 1, della  Germ, 2, 8 * Germaniam peteret , informem terris , asperam caelo ' : * nella n. h. è assunto , come in 11. di     1 CiG. de or. II 17, 72. eum sen. grai, egii 6, 13. Lvcgbivs, in  Cic. ep. {ad fam.) V 14, 2. Sall. Cat 31, 1. Hor. carm. I 7, 18.  OviD. mei. IX 397. Val. Max. / et d. m, 1 6, 12. II 6, 14. Sen.  dial IX 15, 1.   « Consimile frase * tristitiam poni ' si legge iti Ovid. ex Pont  II 1, 10.   3 Cic. ad Ait. XII 40, 3. de nat d II 40, 102. de off, I 12, 37.   * Vi ha analogia con Taso fattone da Ovid. me^. XI490. Vell.  Patbrc. h. R. II 113, 3.      89    autori precedenti, » nel significato proprio: v. 3, 53. 6,  167. 17, 43 ; ed è anche riferito al senso del gusto : *^  V. 2, 222. 12, 27. 19, 111. 20, 97. 25, 159; e, probabilmente per la prima volta, al senso dell'odorato: XXVII  64 ^ radice longa, aequaliter crassa, odoris asperi '. ^  2.** ' uoluntarius ' : adoperato in senso obiettivo, per  indicare ciò che si compie per libera volontà, appare,  come in Cicerone, Livio, Valerio Massimo, etc, ^ anche  nella Qerm. 24, 9 ' uictus uoluntariam seruitutem adit ';  e nella n. h. VI 66 ' uoluntaria semper morte uitam  accenso prius rogo flnit ': v. 37, 3; e cf. 28, 113. Ma  nella n. h. si estende alla designazione di fatti naturali:     1 Varr. r. r. II 5, 8. Cic. pari, or, 10, 36. Lvcr. de r. n. VI  1148. Vbrg. bue. X 49. georg. II 413. Liv. XXV 36, 5: cf XXXVH  16, 5. OviD. mei VI 76.   2 Cosi in Plavt. capi. 188 (I 2, 85); 496 (III 1, 37). Ter. hauL  458 (III 1, 49). Verg. georg IV 277. etc.   3 II Georges nel suo ausfùhrl. Handwb, I, e. 581, in conferma del riferimento deli'agg. * asper * ai sensi del gusto e dell' odorato, cita il 1. di Cic. de fin, II 12, 36 * quid iudicant sensus ? dulce amarum, lene asperum ', e. q. s. ; e la citazione si  ripete nel dizion, laL-iL Georges-Calonghi, c. 250. Senza dubbio, r affermazione è esatta quanto al ' dulce amarum ' rife*  rito al gusto; ma ci pare inesatto riferire il * lene asperum '  air odorato, perchè nei citati vocabolari, in conferma del riferimento di * asper * al senso dell' udito, si ripete , poco dopo ,  lo stesso 1. di Cic. ' lene asperum *, con V avvertenz% che ad  * asper ' si contrappone * lenis ' : osservazione giusta questa  ultima, in quanto che nel 1. e. di Cic. le antitesi sgg. * prope  longe, stare mouere, quadratum rotundum ' non escludono che  r antitesi * lene asperum * si possa riferire al senso dell' udito.   4 CiG. ep. iadfam.) VII 3, 3. Liv. XXVI -36, 8. XXVIII 7, 9.  Val. Max. /. et d. m. I 8, 3. Cf. Tac. hisL II 45 , 3. [ deal, de  oraiorihuB 41, 17]. pinguius (se. serpyllum) uoluntarium et caildidioribus foliis ramisque '.   III.  Verbi:   1.° * adgnoscere ' : Germ. 5, 15 ' formasque quasdam  nostrae pecuniae adgnoscunt atque eligunt '. n. h. XXIX  19 ^ alienis oculis agnoscimus ' : v. 35, 89. Con tale significato il V. ' adgnoscere ' era stato usato prima * ; ma  nella n. h. è riferito anche ad animali: IX 23* nomen  Simonis omnes (se. delphini) miro modo agnoscunt '.   2.° ' colligere : Germ. 37, 8 ' ex quo si ad alterum  imperatoris Traiani consulatum computemus , ducenti  ferme et decem anni colliguntur '. n. h. XIII 85 * ad  quos (se. consules) a regno Numae colliguntur anni  DXXXV ': 2 cf. 6, 59; e, per la forma attiva, 2j 186. ^  Nella n. h. è riferito pure, tanto nella forma passiva  quanto nella attiva, a misure di lunghezza: IV 87  ' ad OS Bospori CCLX M pass, longitudo coUigitur ' :     1 Cic. de fin. V 18, 49. Lael 27, 100. Caes. 6. e. H 6, 4. Vbrg.  Aen. I 406. HI 82; 351. IV 23. Vili 155. X 843. XII 260. Ovu).  fasi. V 590. Lycan, de h. e. II 193. Cf. Tag Agr. 32, 18.   8 II n.o DXXXV nel 1. e. della n. h, leggesi neir ed. Mayhoff,  voi. II, p. 332, 18 ; e, in proposito del d.^ aura., non è nolata alcuna variante presentata dai cod J. Tuttavia il Georges, auifàhrl.  Handùcb., J, e. 1185, e il Valmaggi, dmi. degli oratori eommenL  Torino 1890, p. 66, T hanno mutato in DXXXXV: non sappiamo spiegarcene la ragione.   3 Cf. deal de oraioribus 17, 16 * centuna et uiginti anni ab  interitu Ciceronis in hunc diem colliguntur*. È usato nella  forma attiva in 24, 14 * cum praesertim centum et uiginti annos ab interitu Ciceronis in hunc diem [effici] ratio temporum  collegerit ' : espunto 1' ' effici ' secondo la proposta del RoenBch,  in Rev, de Vinsir. pubi, en Belg. 1865, p. 301.      91    V. 2, 245. 36 , 178. etc.  XII 23 ' sexaginta passns  pleraeque orbe colligant ' : v. 3, 132, 5, 136. 36, 77. etc.   3.° ^ eualescere ' : verbo usato da Virgilio , Orazio ,  Seneca, Lucano, etc. ^ fu da Plinio per la prima volta  riferito a vegetali: n. h. XV 121 * quae (se. myrtus  plebeia) postquam eualuit flauescente patricia ' : v. 16,  125. 17, 116. Nella Oerm. è usato tanto in senso proprio: 28, 4 * ut quaeque gens eualuerat'; quanto in  traslato, per indicare la prevalenza di determinate voci  neir uso comune : 2, 22 ^ ita nationis nomen, non gentis eualuisse paulatim lucrari ' : Germ. 24, 6 ^ aleam, quod mirere, sobri! inter seria exercent , tanta lucrandi perdendiue  temeritate, ut ' e. q. s. Con lo stesso significato proprio  il v. ^ lucrari ' fu adoperato da Cicerone e Orazio. ^  Nella n. h. acquista il significato particolare di « guadagnare mediante il risparmio » e perciò « risparmiare » : XVIII 68 ' quod {se. marina aqua subigi panem) plerique in maritimis locis faciunt occasione lucrandi salis '. Nello stesso senso pare che si debba intendere il V. ^ lucrari ' nel 1. della n. h. XXXIII 45  ^ ita res p. dìmidium lucrata est ', cioè lo Stato risparmiò la metà della spesa, accrescendo il valore di  alcune monete, al tempo della seconda guerra punica.   5.** * obtendere ' : con la forma mediale assume, per  la prima volta, nella Germ. e nella n. h. un signifl   1 Vero. Aen. VII 757. Hor ep. II 1, 201. Sen. ep. XV 2 (94) ,  31. LvcAN. de b. e, I 505. IV 84. Cf. Qvintil. L o. II 8,5. X 2, 10.   « Cf. Qvintil. l o. IX 3, 13. Tac. hist I 80, 8. ann XIV 58, 17.   3 Cic. in Verr, V 24, 61 ; 25, 62. p. Flaee. 14, 33. de off. II 24,  84. parad. 3, 1 (21). Hor. ep. II 3, 238. Quanto al senso trasl.  del v. ' lucrari ', vedi Cic. in Verr. I 12, 33. Hor. earm. cato locale d' uso geografico, ed ìndica « estendersi dinanzi » : Germ. 35, 3 ^ Chaucorura gens omnium   quas exposui gentium lateribus obtenditur , donec in  Chattos usque sinuetur '. n. h. Y 77 ^ buie (se. Libano)  par interueniente ualle mons aduersus Antilibaaus obtenditur '. * Nella n. h. presenta inoltre il significato ,  che notasi in Virgilio, ^ di « stendere dinanzi , porre  dinanzi » : XI 153 ' omnibus membrana nitri modo  tralucida obtenditur ' : v. 37, 100.   e.*" ^occurrere': presentasi la prima volta con significato geografico nella Gerrn. e nella n. h.-/^ Germ,  33, 1 ' iuxta Tencteros Bructeri olim occurrebant ' n,  h. Ili 95 ' quem locum occurrens Terinaeus stnus paninsulam efiìcit '. V 84 ' apud Elegeam occurrit ei {scEuphrati) Taurus mons': v. inoltre 6, 114; 128. etc.  Presenta anche nella n. h, tanto il significato, in traslato, di « rimediare, essere d'aiuto », secondo gli ess.  dati prima da Cicerone, Nepote, Valerio Massimo^ Persio: "* XVIII 189 ' constatque fertilitati non occurrere  homines ' : v. 18, 332. 20, 225. 30, 107. 31, 118. 32, 1;  99. etc. ; quanto il significato di « presentarsi alla  mente o alla vista, sovvenirsi y> quaesdonem  occurrere uerisimile est omnium , qui haec noscant ,  cogitationi ' : cf. 24, 156. Questo ultimo significato os   1 Cf. Tao. Agr. 10, 7.   « Vero, georg. 1 248 : cf. Aen. X 82.   3 A tale sigoiflcato dovette certamente pervenire per il tramite deir uso fattone da Liv. XXXVI 25 , 4 * in asperis locis  silex paene inpenetrabilis ferro occurrebat*. Cf. Pompon. Mel.  ehor. Ili 9, 89. Tag. Agr, 2, 9.   4 CiG. in Verr, IV 47, 105. p. CluenL 23, 63. Nep. XVI (Pel)  1, 1. Val. Max. f. et d. m. VIII 5, I. Pers. sai. 1, 62, 3, 64.      93    I servasi prima in Cicerone, Cesare, Orazio, Seneca, Cur ' zio, Columella, etc. *   7.° ^ periclitari ' : con valore intrans, pregn. di « arrischiare, essere intraprendente », appare la prima  volta nella Gemi. 40, 1 ^ plurimis ac ualentissimis nationibus cincti (se. Langobardi) non per obsequium, sed  proeliis ac periclitando tuti sunt ' ; cf. n. h. 18 , 302.  In Cicerone e Cesare ^ ha il significato generico di ¥. fare  esperimento, far prova ». In alcuni li. della n. h. conserva la qualità di v. intrans., ed è riferito , come in  Celso, ^ ai pericoli causati da certi morbi : XXX 114  ' utilissima sunt in iis ulceribus, quae uermibus periclitentur '. XXXII 54 ^ cinis eorum ( se. cancrorum  fluuiatilium) seruatus prodest pauore potus periclitantibus ex canis rabiosi morsu ': v. altresì 17, 217. 20, 165.  26, 112. etc.   8.** ^ praetexere ' : G^rm. 34, 4 ' utraeque nationes  usque ad Oceanum Rheno praetexuntur '. n. h. VI 112  ' semper fuit Parthyaea in radicibus montium saepius  dictorum qui omnes has gentes praetexunt '. Con significato consimile era stato prima adoperato da Virgilio. ^  Nella n. h. assume altresì , in traslato , il significato  generico di « preporre, porre avanti »: XVIII 212 ' quos     J Cic. de or. Il 24. 104. Ili 49, 191. p. Mil. 9, 25. Tuse. I 22,  51. Caes. b. G. VII 85, 2. Hor. sat. I 4, 136. Sen. deal. I 6, 4.  CvRT. hisL A. M. Ili 8 t21), 21. Colvm. de r. r. Il 2, pag. 334,  34. Cf. Tac. ann. XIV 53, 22.   « Cic. de off. III 18, 73. Caes. b. G. II 8, 1.   3 Cels. de med. Il 1, p. 30, 14. V 26, 24, p. 178, 37. eie.   4 Verg. bue. 7. 12. Aen. VI 5. Cf. Colvm. de r r. X 296, p579, 37.      94    (se. auctores) praetexuimus uolumini huic ': v. praef. 21.  16, 4. »   9.** ' rarescere ' : eoa l'accezione in traslato, per siguijfìcare « diminuire , divenire raro » , notasi la prima volta nella Germ. 30, 3 ' durant siquidem col les, paulatim rarescunt'.2 Nel significato proprio fu adoperato,  dopo Lucrezio, Virgilio, Properzio, Columella,^^ da Plinio:  n. h, XI 231 ' quadripedibus senectute (pili) crassescunt  lanaeque rarescunt '.   10.° ' tolerare ' : Germ. 4, 8 ^ minimeque sitim aestumque tolerare '. n. h. XXVI 3 ' foediore multorum ,  qui perpeti medicinam tolerauerant , cicatrice quam  morbo '. Lo stesso significato notasi in Terenzio, Cicerone, Sallustio, etc. ^ In un altro 1. la n. h. presenta il  V. ' tolerare ' per il concetto di « mantenere , sostentare », secondo l'uso fattone da Cicerone, Cesare, Virgilio, Columella , etc. : ^ VII 135 ' plurimi iuuentam  inopem in caliga militari tolerasse '. XXXIII 136  ^ (Ptolemaeum) octona milia equitum sua pecunia tole   1 Fu continuato tale uso da Plin. pan. 52, 1.  s Si ripete , poi , nella stossa accezione da Amm. Marc. r. g.  XXII 15, 25. XXVI 3, 1.   3 LvcR. de r. n. VI 513. Vero. Aen. IH 411. Prof. IV 14 (15),  33. CoLVM. de r. r. Ili 16, p. 392, 38. Cf. Sil. It. Pun. XVII 422.   4 Ter. hee. 478 (IH 5, 28). Cic. in Verr. Ili 87, 201. in Caiil.  II 5, IC; 10, 23. ep. (ad fam.) VII 18, 1. ad Q. fr. I 1, 8, 25. de  fin. IV 19, 52. Tuse. II 7, 18; 13, 30. V 26, 74; 37, 107. de din.  II 1, 2. Caes. b. G. V 47, 2. Sall. Cai. 10,2. 20, 11. lug, 31, 11.  Cf. Tac. hist n 56, 12. ann. Ili 3, 9.   5 Cic. p. Foni. 2, 13. Caes. b. G. VII 71, 4 Ccitato per inesattezza  dal Georges, ausfiXhrl. Handwb. II, e. 2821, con le indicazioni  7, 41, 7). h. e. Ili 49, 2; 58, 4. Verg. Aen. Vili 409. Colvm. de  r. r. Vili 17, p. 547, 19. Cf. Tac ann. II 24, 7. IV 40, 8. XV 45, 18    95    rauisse '. Ma vi si accoglie, per la prima volta , tanto  nel significato di  : Germ. 27, 9 ' haec in commune de  omnium Germanorum origine ac moribus accepimus '.  38, 4 ' quamquam in commune Suebi uocentur ' : cf.  40, 6; altrove (5, 1. 6, 14) si preferisce l'espressione  avverbiale equipollente ' in uniuersum '. n. h, XVII 9  ' quae ad cuncta arborum genera pertinent in commune  de caelo terraque dicemus '. XXIII 36 ' reliqua in commune dicentur '. Di una sola voce osserviamo essersi fatto uso, perla  prima volta, tanto nella Germ. quanto nella n.h.: è la v.  ' glaesum ', d'origine germanica, adoperata particolarmente dai soldati per significare l'ambra: " Germ, 45, 15  * soli omnium sucinum, quod ipsi glaesum uocant, inter  uada atque in ipso litore legunt '. n. h. XXXVII 42  ' certum estgigni in insulisseptentrionalis oceani et ab  Germanis appellari glaesum, itaque et ab nostris ob id  unam insularum Glaesariam appellatam '. Ma, come si  osserva nel 1. e, la Genn. accoglie anche la v. ' sucinum ', che trovasi nella n. h. identificata con I' ' electron ' dei Greci : III 152 ' iuxta eas Electridas uocauere in quibus proueniret sucinum quod illi electrum  appellant': v. 4,103.8,137. 37, 31; 33; 43-45; 204. e te. ^     J Tale uso deirespressione avv. * in commune * fu conlinuato  da QviNTiL. L o. VII 1, 49. Tag. ann, XV 12, 17.   « Plin. n. h. IV 97 * Glaesaria (se. insula) a sucino militiaa  appellata, a barbaris Austerauia *.   3 Vedi il nostro libro sui Neologismi botanici nei earmi bu"  coliei e georgiei di Virgilio, Palermo. Ad un buon numero delle relazioni lessicali si è data, di mano in mano, evidenza, mediante opportuni confronti e richiami indicati in fine delia maggior parte delle note che corredano le relazioni lessicali tra la Gemi. e la n. h. di Plinio. Restringiamo, ora, il nostro compito a dare evidenza  ad alcune relazioni lessicali tra la Germ. e gli scritti  di TACITO (vedasi), nelle quali non si scorge, salvo di rado e in modo indiretto, l' intermedio della n. H. Sostantivi: annus: Ge7^m. nec arare terram aut exspectare annum tam facile persuaseris \ Agr. 31, 5  ' ager atque annus in frumentum  conteruntur '. Della  V. ' annus ', adoperata per significare « il raccolto o  provento, la produzione dell' annata », un primo accenno appare in Cicerone * : fu accolta da Properzio, e poi  dai poeti e prosatori dell' età postaugustea. ^ Nella n.     1 Cic. in Verr, a. pr. 14, 40.   « Prof. V 8, 14. Lvcan. de b. e. Ili 452. Stat. sii III 2, 22.  Plin. pan. 29, 3.  Consoli, La Germania comparala. T      98    h. la V. * annus ' conserva il significato temporale: v.  2, 13. 9, 162. 18, 211. 28,22. etc. ; e solo si può scorgere come un tramite per giungere al significato sopra notato nei sgg. 11. : XV 98 ^ fructus anno maturescit \ XVI 95 ' sunt tristes quaedam ( se. arbores )  quaeque non sentiant gaudia annorum \   2.** * audentia': Germ. 31, 1 ' et aliis Germanorum  populis usurpatum raro et priuata cuiusque audentia  apud Chattos in consensum uertit ' e. q. s. 34, 10 ' nec  defuit audentia Druso Germanico', ann. XV 53, 9 * ut  quisque audentiae habuisset '. ' Audentia ' è voce della  l^tiqità argentea : altri ess. se ne osservano in Quintiliano e Plinio il giovane. ^ Nella n. h. si notano soltanto le forme della flessione del participio ' audens ';  V. 17, 222. 32, 53. 35, 61. etc.   3.** ^ copiae ' : consideriamo soltanto la forma del  plur. : 6r^rm. 30, 13 ^ omne robur in pedi te, quem super arma ferramentis quoque et copiis onerant '. his£.  Ili 15, 13 ' ut specie parandarum copiarum ciuili praeda  milites inbuerentur. IV 22, 5 ' parum prouisum ut copiae in castra conueberentur ': V. Agr. 22, 9. Prima  che nei 11. ce. la voce di forma plur. ^ copiae ', col significato di € provvisioni, provvigioni, viveri, alimenti », era apparsa in Cesare, Livio, Velleio Patercolo. ^   4.** ' fortuna ' : Germ. 21, 9 ' prò fortuna quisque apparatis epulis excipit '. ann. II 33, 13 ' quaeque ad usum parentur nimium aliquid aut modicum nisi ex fortuna possidentis ': v. IV 23, 11. XIV 54, 9. La forma     1 QviNTiL. I. o. XII prooera. , 4. Plin. episL Vili 4, 4.   « Vedi gli ess. citati dal Gboroes , ausfuhrl Handicb , I, e   1573: V. inoltre Plin. pan. sing. ' fortuna ', usata invece della forma plur. per indicare « ricchezze, beni di fortuna, averi, sostanze »,  osservasi accolta da Nepote, Orazio, Ovidio, poi da Quintiliano, ^ probabilmente per il tramite della frase ciceroniana : ^ cuius denique fortunae studia tum laudi et  gratulationi tuae se non obtulerunt ? ' " Valgano per  il confronto i sgg. 11. della n. h.i 11 118 ^ non erant  malora praemia in multos dispersa fortunae magnitudine '. VII 130 * si uerum facere iudicium uolumus ac  repudiata omni fortunae ambitione decernere , nerao  mortalium est felix ' : ma è accolta la forma regolare  del plur. in XXXVII 81 ' ille proscriptus fugiens hunc  e fortunis omnibus anulum abstulit secum ',   S."* ' pignora ' : consideriamo la sola forma del plur.::  Germ. 7, 11 * et in proximo pignora, unde feminarum  ulula tus audiri, unde uagitus infantium ' : ann. XII 2,  3 ' baudquaquam nouercalibus odiis uisura Britannicum  e^Octauiam, proxima suis pignora ': v. XV 36, 14; 57,  14. Agr. 38, 6. La forma plur. ^ pignora ' era stata  accolta nella poesia dell'età augustea, '^ per significare  figli, madri, mogli, insomma persone legate con intimi  vincoli di parentela; donde la formola di ' obsecratio '  giudiziaria: ' per carissima pignora'; della quale fa  menzione Quintiliano.*   6..'' ' suffugium ': Germ. 16, 11 ' solent et subterra   1 Nbp. XXV (Att.) 21, 1. HoR. ep, I 5, 12. Ovid. trist V 2, 57.   QVINTIL. /. 0. VI 1, 50.   « Cic. Phil. I le, 30.   3 Prof. V 11, 73. Ovid. meL III 134. XI 543. episL (her.) 6, 122.  12, 192. L'espressione * amoris pignora' di Liv. XXXIX 10, 1  ha un altro significato.   * QviNTiL. I. 0. VI 1, 33. neos specus aperire suffugiura hiemi et receptacu lum frugibus \ 46, 17 * nec aliud infantibus ferarum  imbriumque suffugium '. ann. IV 47, 7 ' sanguine barbarorum modico ob propinqua suffugia ' : v. Ili 74, 5.  La V. ' suffugium ', propria della latinità argentea, * si  osserva prima in Seneca e Curzio. ' Tacito se ne valse  anche in genso traslato, ^ accostandosi all' es. che ne  aveva presentato Quintiliano.*   Aggiungiamo altri due aggettivi di forma neutra  plur., assunti col valore di sostantivi : ^ I   7,** ^ ancipitia ' : Gemi. 14, 10 ' facilius inter ancipitia |   clarescunt '. hisL III 40, 10 ' mox utrumque consilium  aspernatus, quod inter ancipitia deterrimum est '. ^ ann.  XI 26, 12 ' scelusque inter ancipitia probatum ueris  mox pretiis aestimaret '. Tacito adoperò anche al sing.  l'agg. ' anceps ' sostantivato: ann. I 36, 9 ' in ancipiti  res publica '. IV 73, 16 ' ille dubia suorum re in anceps tractus '. Nella n. h. la v. ' anceps ' conserva la  ftinzione di aggettivo: IV 10 ' ancìpiti nauium ambitu '.  VII 149 ' ancipites morbi '. IX 152 ' periculum anceps \  XVII 191 ' anceps culpa '. XVIII 210 ' res anceps '.     J Si ha però un es. nel carme pseudo-ovidiano * nux ', v. 1 19  * quid, nisi suffugium nimbos uitantibus essem *.  8 SBN. dial IH 11, 3. CvRT. hUt A. M. VII! 4 (14}, 7.   3 Tac ann, IV »56, 11. XIV 58, 12.   4 QviNTiL. I. o. IX 2, 78.   5 V. la monografia di Th. Panhoff, de neuiriui generis adieeiiuor. subsianiiuo usu ap. Tao. 1883.   « F. RiTTBR, P. Corn. Tae. opp., Lps. 1864, p. 525, 20 espunge  dal testo tacitiano le parole ' quod - est \ chiudendole tra parentesi quadre.      101   XXIII 31 ' ancipiti euentu \ XXV 16 * ratio inuentionis anceps ' : v. inoltre 10, 17. 22, 97. 23, 17 ; 20. 24,  75. 28, 21. 29, 1. etc.   8.** * missilia ' : Oerm. 6, 7 * pedites et missilia spargunt, pluraque singuli '. hist. IV 71, 24 *paulum morae  in adscensu , dum missilia hostium praeuehuntur \ V  17, 14 ' saxis glandibusque et ceteris missilibus proelium incipitur '. L' uso di dare il valore di sostantivo  all'agg. ' missilia ', per indicare, in generale, proiettili  di guerra , come saette , pietre , etc. , appare prima in  Virgilio e Livio ; ^ poi si usò con lo stesso significato  anche nella forma del sing. ' missile ': - ne abbiamo un  es. nel sg. 1. della n. h. XXVIII 33 ' ferunt difflciles  partus statim solui, cum quis tectum, in quo sit grauida,^  transmiserit lapide uel missili ex iis, qui tria animalia  singulis ictibus interfecerint '. Del resto , nella n. h. è  preferito V uso di ' missilis ' come aggettivo : v. 8, 85;  125. 34, 138. etc.   II.  Aggettivi. Annoveriamo, per la loro funzione,  tra gli aggettivi le sgg. forme participiali :   1.** ^ inlacessitus ' : Germ. 36, 1 * Cherusci nimiam ac  marcentem diu pacem ini acessiti nutrierunt'. Agr. 20,     1 Vero. Aen. X 716. Liv. II 65, 4. VI 12, 9. IX 35, 5. XXVI 51,  4 XXXTV 39, 2. L'espressione * missilia fortunae ', che osservasi iu SBN. ep, IX 3 (74), 6, pare che abbia schiuso l'adito ad  un nuovo significato della v. ' missilia ' (= « doni largiti al  popolo »), che appare in Sveton. Aug. 98, 19. Ner. 11, 11.   « Vedi LvcAN. de b. e. VII 485. Vbget. epit r. m. (ed. C. Lang)  I 4, p. 9, 8; 14, p. 18, 6: in III 24, p. 117, 14 leggesi ' missibilia ',  ma nel cod. Perizon. F 17 si nota ' missilia ' ; e ' missilia ' osservasi anche nel cod. Palai. 909, corretto da ' missibilia nulla ante Britanniae noua pars pari/&r illacessita  transìerit '. Il part. sempl. ^ lacessitus ' notasi nella n.  h. Vili 23 ' nec nisi lacessiti nocent '.   2.** ' intectus ', con la particella premessa Mn - ' di  valore negativo: Germ. 17, 2 ^ cetera intecti totos dies  iuxta focum atque ignem agunt '. hist Y 22, 12 ^ dux  semisomnus ac prope intectus errore hostiura seruatur \  ann. II 59, 5 ^ pedibus intectis ': e nel senso traslato,  per significare « aperto , schietto , fidente >, ann. IV  1, 12 * sibi uni incautum intectumque efflceret \ '  » 3.** ' promptus ' : Germ. 7, 2 ' duces exemplo potius  quam imperio, si prompti , si conspicui , si ante aciem  agant, admìratione praesunt '. ann, IV 17, 16 * neque  aliud gliscentis discordiae remedium quam si unus alterne maxime prompti subuerterentur ': v. II 81, 7. IV  51, 16, XIV 40, 8. Con lo stesso significato di « coraggioso, audace, valoroso », appare la v. ' promptus ', nel  grado superlativo, in hist. I 51, 24. II 25, 13. Ili 69, 13.  IV 14, 9. Agr. 3, 12. Quanto all'agg. 'promptus' riferito a cose, V. n. h. 8, 129. 9, 112. 11, 24.   4.** ' reuerens ' : Germ. 34, 12 ' sanctiusque ac reuerentius uisum de actis deorum credere quam scir^ \  hist. I 17, 3. 'sermo erga patrem imperatoramque  reuerens '. Lo stesso significato presenta la v. * reuerens '  in Properzio. ^ Cicerone conservò T usq psi^rticipiale di  ' reuerens ' : * multa aduersa reuerens '. ^ Plinio vi a, anche nei sgg. 11. di Tacito: Agr. 34, 13 * transigite cum  expeditionibus '. hist III 46, 14 * quod Cremonae interim transegimus '. Il tramite, per giungere al significato sopra notato, dovette essere il valore giuridico che  si attribuì in principio al v. * transigere \ cioè « venire  a patti , definire la pendenza con un amichevole accordo > , insomma concludere qualcosa di definitivo  per dirimere le questioni. *   5.** * uocare ' : Germ. 14, 16 * nec arare terram aut  exspectare annum tam facile persuaseris quam uocare  hostem et uulnera mereri \ hist IV 80, 10 ' ncque  ipse deerat adrogantia uocare offensas. ' ann. VI 34, 1  ' Oroden sociorum inopem auctus auxilio Pharasmanes  uocare ad pugnam \ U equipollenza di ' uocare ' e  * prouocare ' muove dalla frase virgiliana * uocare hostem. ' 2   IV.  Avverbi :   1.*" * adductius ' : Germ. 44, 1 ' Gotones regnantur ,     1 Cf., per r uso deUe forme passive di * transigere ', Cic. p.  Quinci 5, 20. in Verr. a. pr. 10, 32. Tuse. IV 25, 55; e, quanto  alle forme attive: p. Rose. Am. 39, 114. p. Cluent. 13^ 39. Phil.  II 9, 21. etc.   « Vbrg. georg. IV 76 * magnisquo uocant clamoribus hostem '.  Sbrv. eomm. in Verg. georg. 1. L, voi. Ili, fase. 1*^, p. 326 Th.,  commenta: ' uocant hostem, prouocant '. Vedi 11 comm.del Heraeus a Tao. hist. IV 80, 10.      105   paulo iam adductius quam ceterae Germanorum gentes \ hist III 7, 4 ' Minucius lustus.... quia adductius  quam ciuili bello imperitabat, subtractus militum irae  ad Vespasianum missus est '. Nei due 11. citati il valore lessicale della v. ' adductius ' = « con maggior  rigore, più severamente , con freno più stretto », si  deve fare risalire alla frase di Cicerone ^ adducere habenas ', che è in contrapposto con V altra ' remittere  habenas. ' ^   2.*" L' espressione ^ haud perinde ', priva di valore  comparativo, adempie una funzione brachilogica: Germ,  5, 10 ' possessione et usu haud perinde adficiuntur '.  34,2 ' aliaeque gentes haud perinde memoratae. ' ann,  II 88, 16 ' Romanis haud perinde Celebris. ' IV 61 , 4  ' monimenta ingeni eius haud perinde retinentur. ' Alla  negativa * haud ' talvolta sono sostituite altre voci negative : ' non, ^ ne-quidem, ^ nec '. ^   Per r espressione comparativa ' haud perinde   quam ', invece della classica * h. p.  atque ', v. hist.  II 27, 1. Ili 58, 14. IV 49, 26. ann. II 1, 8; 5, 9. XIV  48, 7. XV 44, 18. Osservasi anche ^ nec perinde  quam '  o ' neque p.  q. ' in hist. II 39, 12. IV 72, 16. ann.  XIII 21, 7.   3.** * longe ' può adempiere V ufficio di rinforzare il     1 Cic. Lael. 13, 45.   2 Tac. ann. II 63, 10. Cf. Plin. epéaé. I 8, 12. Sveton. Aug. 80,  6. Galb. 13, 1. deperdit librorum relL p. 294, 2, ed. Roth.   3 Tac. Agr. 10, 19 (secondo la congettura del Grozio: nei codd.  * proinde '). Cf Sveton. Tib. 52, 3 sg.   4 Liv. IV 37, 6.     - 106 comparativo, col significato di « molto » : * Germ. S,  3 ' quam (se. captiuitatem) longe impatientius feminarum suarum nomine timent'. ann, IV 40, 10 Monge  acri US arsuras '. XII 2, 6 ' longeque rectius Lolliam  induci '. Altri ess. ne erano apparsi in Virgilio, Fedro,  Velleio Patercolo. ^    B    È notevole che Tacito si valse in più luoghi de' suoi  scritti di alcune espressioni o frasi che si osservano  nella Germ. : daremo evidenza alle più importanti di  esse, disponendone i confronti secondo l'ordine cronologico delle opere di Tacito. ^   I.  Per il libro de uila et morihus lulii AgHcolae:  1.** Germ. 36, 4 ^ ubi m a n u a g i t u r '. Agr. 9, 6  * plura manu agens'.     1 L'uso classico deU'avv. Moage' si restringe a rinforzare il  superlativo o ad accompagnare » per renderne più efficace la  significazione, alcune voci particolari, quali * alius> aliter, diuer*  sus, dissimiiis ', etc. ; e i verbi: ^abesse*, v. Cic. ep. (ad fatn)  II 7, 1. ad AiL VI 3, 1 ;"* antecellere *, v. id. in Yert, IV 53,  118. p. Mxir, 13, 29; * anteponere *, v. id. de or. I 21, 98; * dissentire ', v. id. Lael. 9, 32; • praestare ', v. id* Brut. 64, 230 ; e  simili. Quanto all'uso dell'avv. * longe ' col superlativo, v. inoltre  Plin. n. A. 3, 5. 4, 66. 5, 70. 9, 131. 19, 146. 23, 92. 24, 125. etc.   2 Vero. Aen, IX 556 * longe raelior \ Vell. Paterg. h. R» II  74, 1 * 1. tumultuosiorem *. Phaedr. /a6. Ili 7, 6 *L fortior'. Cf.  Pbtron, sat 9, p. 39, 1 ' 1. malore nisu '. 98, p. 465, 5 * 1. blaiidior '.   3 Nel confronto sarà incluso VAgr.^ tuttoché comunemente si  ammetta che questo sia stato scritto prima della Germi le ra^  gioni sono state esposte a lungo nel nostro libro sopra citato,  V autore del l * de origine et situ Germanorum ', Roma, 1902.      107    2.** Germ. 4, 4 ' unde habitus quoque corporum....  idem omnibus. Agr. \\^ 2 ' habitus corporum uarìi \ '   3/ Gemi. 6, 14Mn uniuersum aestimanti  plus penes peditem roboris '. Agr. 11,9 Mn uniuersum tamen a e stimanti Gallos uicinam insulam  occupasse credibile est'. ^   4.** Germ. 30, 13 ' orane r o b u r in p e d i t-e ': cf.  6, 14 ' plus penes peditem roboris '. Agr, 12, 1 M n  pedite robur'. Livio preferi la frase ' lecta robora  uirorum '. ^   5.** Germ. 17, 6 ' ut quibus nuUus per commercia  cultus '. 24, 12 ' seruos condicionis huius per commercia tradunt '. Agr. 28, 14^ per commercia  uenumdatos '. 39, 4 * emptis per commercia'.   6.** Geì^m. 21, 12 * notum ignotumque quantum  ad ius hospitis nemo disceruit '. Agr. 4:4^ 7 *quant u m a d gloriara, longissimum aeuum peregit '. Vedi  inoltre hist V 10, 8. Della espressione * quantum ad ',  sostituita alla comune ^ quod attinet ad ', si osserva  prin^ft un es., non incensurabile, in Ovidio: lo agcolse,  poi, Seneca. ^ Ma un termine dì passaggio tra le due     1 L' espressione ' habitus corporis ' fu , poi, ripetuta da Pliii.  efii8t VI 16, 20 e da Svbton. deperdiL Ubrorum reli pagt ^9^  12, e4 Ralh. Plin. n. h, U, 224 menziona i ^siqgulos anitpi habitus '.   « Vedi il cap. Ili, C, III, 2^   3 Liv. VII 7, 4: cf. Vili 10, 6. XXX 2. 1.   4 OviD ars am. I 744 ' quantum ad Pirithoum \ Skn. ^^ XII  3 («5?, 14 ' quantum ad habitum mentis *. Un altro ea^ di Seneca è cit neWausfùhrl. Handwh. del GaoaeES, II, o. 19091. Vedi  G. Leopardi , penneri di Daria filoso^ e di belln leUenklura »  Firenze, suec. Le Mounier, 1898 ; voi. I, p. 256.       locuzioni notasi nelle frasi dì Seneca il retore: ^ quantum  ad meum stuporem attinet; quantum ad ius attinet '. '   II.  Per le historiae :   1.° Germ. 25, 6 * occidere solent, non disciplina  et seueritate, sed impetu et ira '. hist I 51 , 5  ' asper^fto militiam tolerauerant ingenio loci caelique  et seueritate disciplinae'. La stessa frase ,  espressa in forma di endiadi come nella Germ,, appare  prima in Cicerone e nel beli. Alex. ^   2.** Germ. 3, 18 'ex ingenio suo quisque  demat uel addat fldem '. hist. I 82 , 13 ' manipulatim   adlocutl sunt ex suo quisque ingenio mi tius aut horridius '. Vi sì accosta la frase plìniana ;  * uaria circa hoc opinio ex ingenio cuiusque'. "^   3.° Germ. 13, 20 ' ipsa plerumque fama bella profi igant '. hist. II 4, 11 ' pr fi igauer at beli u m  ludaeicum Vespasianus '. IV 73, 6 ' profligato bello '.  La frase * proflìgare bellum ' risale a Cicerone e Livio: •* si rese d'estensione maggiore, sostituendosi a     i Sen. rhet. eonirou. VII 1 (16-, 1, p. 298, 18. X 5 (34), 16, p.  509, 8, ed. e. Nella n. h. 25, 12 sì nota * in quantum *.   s Cic. p. Cluent 46, 129 * magister ueleris disciplinae ac  soueri tatis ' : cf. m Catil. I 5, 12. Script b, Alex. 48, 3  * mìlitarem disciplinam seueritatemque minuebant '.  65, 1 ' quae dissoluendae disciplinae seuor i t a t i s q u e  essent ' (Kuebler). Cf. Liv. XXXIX 6, 5.   3 Plin. n. h. 8, 48: cf. 34, 57; e Liv. Ili 36, 1.   4 CiG. ep. dadfam.) Xll 30, 2. Liv. IX 29, 1 ; 37, 1. XXI 40,  11. XXXV 6, 3. XXXIX 38, 5. V. i commenti Orelli-Meiser,  Heraeus, Valmaggi a Tag. hist. II 4.     - 109  ' bellum ' gli aec. * aciem, classem, copias, hostem, iaimicos, proelium ', etc. ^   4.° Germ. 3, 18 'ex ingenio suo quisque demat  uel addat fidem'. hist II 50, 7 ' ita uolgatis  traditisque demere fidem non ausim \ III 39, 3  ' a d d i d i t facinori fidem': v. ann. IV 9, 5. Si  notano ess. delle locuzioni ' demere fidem ' e ' addere  fidem ' in Livio e Ovidio : ^ in un 1. di Cicerone i due  verbi ' addere ' e ' demere ' sono disposti in antitesi ,  come nel 1. e. della Oerm. ^   5.*" Germ. 42, 8 ' sed u i s et p o t e n t i a regibus  ex auctoritate Romana'. hisL III 11, 15 ' uni Antonio  uisac potestas in utrumque exercitum fuit '. **  L' espressione * uis ac potestas ' del 1. e. delle hist si  connette con la frase di Cicerone: ' u i m omnem deorum  ac potestatem'. ^   6.'' Germ. 36, 7 ' tracti ruina Cheruscorum et Fosi '.  hist. III 29, 5 ' quae (se, ballista) ut ad praesens disiecit obruitque quos inciderat , ita pinnas ac summa     i Plavt. mil. gL 230 (II 2, 75 . Cic. p. Rab. FosL 15, 42. Phil  XIV 14, 37. Cabs. b. e. II 32, 11. Nep. XIV vDat.) 6, 8. Liv. Vili  8, 9. X 20, 14. XXVIII 2, li. SiL. It. Pun. XI 398. Tac. ann.  XIV 36, 7.   « Liv. II 24, 6. OviD. rem. am. 290.   8 Cic. aead- pr. II 16, 49. Vedi per altri e?s. di posizione in  antitesi dei vv. * demere ' e ' addere * 1' ausfùhrl Handwb. del  Georges, I, e. 1903.   4 u! Zbrnial, op. e, p. 81, aggiunge al confronto un 1. del  dial. de oratoribus 19, 24 ' qui u i e t p o t e s t a t e , non iure  aut legibus cognoscunt '.   5 Cic de nat d. III 36, 88. Cf. seripL rhet ad Her. I 5, 8      no    ualli r u i n a sua t r a x: i t ' : ma nel 1. e. della Germ.  ' mina ' ha significato metaforico. *   7.° Germ. 44, 1 1 ^ m u t a b i 1 e... hincuel illinc  r e m i g i u m '. hist III 47, 18 ' pari utriraque prora  et mutabili remigio, quando bine u e 1 illinc appellere indiscretum et innoxium est ' : v. anche ann. II 6, 7.  8.° Germ 24, 13 ' ut se quoque pudore uictoriae  exsoluant '. hist III 61, 15 * p u d o r e proditionis cunctos exsoluerent'; arrogi ann, VI 44 ,  20 ^pudore proditionis oranes e x s o 1 u i t '. ^ In  simile accezione metaforica appare il v. ' exsoluere '  in Terenzio, Cicerone, Virgilio, Livio, etc.'*     1 Cf. la frase * tra bere ruinam' in Verg. Aen, II 465 ?g. ; 631.  Vili 192. IX 712 sg.   ^a  costruito ^ proditur ' nella Germ. 8, 1 ' meraoriae pròdilur quasdam acies inclinatas iam et labantes a Sforni nis restitutas '. ^   Consideriamo le leggi sintattiche aventi per obtóÉto  r uso dei casi.   I.  Accusativo :   l.*' L' acc. di relazione, in dipendenza da un aig^tivo da un participio, osservasi nella Gemi. 17, 12  ' nudae brachia ac lacertos '; e nella n. h, XIII 29 ' uitilem sibi arborique indutis circulum '. Ess. consiirfli     1 Quanto alla costpuzione del v. * narratur ' con Tace, e Titifin.,  invece di * narra ntur * col nominativo e l'infin, per significare,  come scrive G. Helmrbigh, c b e s t i m ra t e Angaba und M'itteilung, auch durch Schriftsteller, im Gegensatz zu vagem Gorùcht »: V. la recensione del l'bro del Wormstall, uebèr aie  Chamaoer, Brukterer und Angrioarier ole, nel Jahreàbèrìcht  ueber die Fortschritie der class. Alteri humswissensehaftyXVll  (1889;, 2. Abtheilung, p. 255 (Jahresb. ueb. Tao.),   « In altri 11. della n. A. ò preferita la f rma attiva * narrkht *:  V. 2, 126 ; 236. 8, 35. 32, 75 etc.   3 OviD. mei. XV 311 sg. ' admotis Aihamanas aquis actiiàhdere Jignum | narratur *.   4 Un costrutto analogo osservasi in Liv. XXV 31,9 Val. Mix.  /. ei d. m. II 6, 10. Cf. Caes. b. G. V 12 1. Tac. ann. Ili 65 ,  9. [dial. de orato ribus 32, 27].      136   si notano in Virgilio ^ ed altri poeti delPetli augustea:  ne presenta anche la latinità argentea , i cui scrittori  predilessero i costrutti poetici e di fonte greca. ^   2.^ L'acc. ' cetera ' è assunto , talvolta , in funzione  avverbiale: Germ. 17, 2 ' cetera intecti totos dies iuxta  focum atque ignem agunt '. 29 , 12 ^ cetera similes  Batauis '. 44, 20 ' cetera similes uno differunt '. n. h.  Vili 40 ' tradunt in Paeonia feram quae bonasus uocetur equina iuba , cetera tauro similem '. XXII 133  ' est etiamnum aliud sesamoides , Anticyrae nasqens ,  quod ideo antiqui Anticyricon uocant, cetera simile erigerenti herbae '. La prosa latina aveva già accolto lo  acc. ' cetera ' in funzione avverbiale, ^ ed anche prima  r aveva accolto la poesia, che ne continuò V accezione  neir età augustea. *     1 Verg. Aen, IV 558 sg. Non ó es. sicuro quello dell' Aen, I  320 ' nuda genu ', in cui ^ genu ' può essere accettato per ablativo. Per la stessa ragione il Draegkr, ueber Synt u. Si, d,  Tac^y § 39, p. 19, riconosce es. noi sicuro di acc. di relazione  il 1. degli ann. XVI 4, 11 * flexus genu '.   2 Vedi gli ess. in Màdvig, lai. Sprogl.'y § 203, a, Anm., p. 154.  Cocchia, sint. lai., § 55, p. 1 17 sg. Valmaggi, comm. hist Tae.  lib. 1, p. 134; lib. 11, p. 34. Cf. inoltre* Tag. hist IV 81, 9. ann.  VI 9, 13. XV 64, 15. e te.   3 Cic. orai, 25, 83 (letto secondo il cod. Viteberg., / del Friedrich). Sall. lug, 19, 7; cf. hisL IV 9 (Kritz). Liv. I 35,6. Vell.  Paterc. h. R,l\ 119, 4. Cf. Tac. Agr, 16, 10. ann, VI 15, 5; 42, 12.   * Enn. ann, 1 fr. 32, in PLM. , voi. VI, p. 64, ed. Baehrens.  Verg. Aen. Ili 594: IX 656: cf. Serv. eomm. in Aen. IX 653, p.  368, voi. 11, fase. 2.o Th. Hor. earm, IV 2, 60. ep, I 10, 2 e 50.  Vedi Madvig, lat Sprogly § 203, a, p. 154. Cocchia, sint lai, ,  § 60, b, p. 131.       IL  Genitivo : ^   1.^ Il genitivo parti ti vo trovasi in dipendenza dal relativo neutro * quod ', posposto, che funziona da soggetto della proposizione sg. : Germ. 15, 8 * conferre  principibus uel a r m e n t o r u m uel f r u g u m quod  prò honore acceptum etiam necessitatibus subuenit '. n.  Ti. XXX 127 * feni Graeci quod III digitis capiatur '. Ess. anteriori si notano in Cesare e Livio. ^  Vi ha, però, chi nel 1. e. della Gemi.y facendo precedere al ' quod ' una virgola, trovi un costrutto ellittico, che nella sua interezza somigli ad un altro 1. della  Germ. 18, 6 ' ipsa armo rum aliquid uiro adfert ', 3 simile al 1. della n. h. XXVII 130 / additur piperis aliquid et murrae '. Ma, se cosi fosse, avremmo  una costruzione ellittica isolata , priva di base , se ne  togli un ravvicinamento, del resto non improbabile, col  passo degli ann. di Tacito XV 53, 8 ' iacentem et impeditum tribuni et centuriones et ceterorum , ut quisque audentiae habuisset, adcurrerent trucidarentque '. ^   2.** Per l'uso del genitivo in dipendenza da un comparativo neutro plur., considerato come sostantivo, vi  è rispondenza tra la Germ. 41, 1 'in secretiora Ger   1 Vedi U. Zernial, sei quaedam eap. ex genet usu Toc.,  Gòtt. 1864.  « Caes. 6. G. Ili 16, 2. Liv. XXVIII 8, 9. Cf. Tac. hisL II 44, 20   3 U. Zernial, Germ. erkl p. 41. Cf. il comm. del Heraeus  alle hisL di Tac. II 44.   4 Vedi CoNSTANs, étude s. L langue d. Tac, n.^ 81, p. 45. figli crede probabile che sì tratti di un costrutto ammesso dalla  lingua popolare: non ne adduce però le ragioni.      138   maniae porrìgìtur ', ^ elsin.h. XVI 187 ' et sabuci interiora mire firma traduntur ' : cf. 6, 33. Se ne osserva qualche es. in Cicerone ^,   a** Tra gli aggettivi che, tanto nella Germ. quanto  nella n. h., hanno, talvolta, il loro complemento in una  forma nominale di caso genitivo, si debbono annoverare i sgg. :   a) ' fecundus ' : Germ. 5, 5 ' pecorum fecunda '. n. h.  XXXIII 78 ^ nulla fecundior metallorum quoque erat  tellus '. '^ Ma nella n. h, è ammessa anche la costruzione con r ablativo : XI 233 * numeroso fecunda parta '.*   b) * impatiens ' : Germ. 5, 4 ' frugiferarum arborum  impatiens '. ^ n. h.XXl 97 ' unum autem caulem rectum   habet uetustatis inpatieutem '. ^ Questa costruzione   appare la prima volta nella lingua poetica dell' età augustea; poi si estese alla lingua della prosa. ^     J Vedi Valmaggi, il geniiioo ipoiaitieo in Tae.\ in Boll, di ^lol class., a. IV, n.» 6, pp. 130-135.   2 Cic. ad AH. IV 3, 3. Cf. Tac. hist. II 22, 3. V 16, 5: nel secondo de' due 11. ce. il cod. dà la lez. * propiora fluminis Transrhenani tenuere ' ; il Nipperdey, il Halm, il Ritter e altri vi  sostituiscono * flumìni '.   3 La costruzione col genit. notasi prima in Hor. carm. IH 6,  17. CoLVM. de r. r, IX 4, p. 552, 5 Cf. Tac. hist. I 11, 3. ann.  VI 27, 16. XIV 13, 4   * V. ess. anteriori in Ovid. mei. Ili 31. X 220. Cf. Tac. hist.   I 51, 26. Il 92, 6. IV 50, 22. ann. XIII 57, 2.   5 L'espressione * patiens frugum ', in antitesi a quella u^ata  nella Germ. 1. e , osservasi in Tac. Agr. 12, 16.   6 V. altri ess. sopra, cap. I, A, 111, n.« 13, p. 39.   7 Vero. Aen. XI 639. Ovid. ars am. II 60. mei. VI 322. XIII  3. trist. V 2, 4. Vell. Paterc. /i. i? II 23, 1. Cvrt. hist. A. Ai.  Ili 2 (5j, 17. IX 4 (15). 11. Cf. SiL. IT. Pan. Vili 4. Tao. hist.   II 40, 11; 99, 7. ann. Il 64, 13. IV 3, 5; 72, 2. VI fó,8. XII 30, l.      139    e) * superstes ' : Germ. 6 , 24 * muHique «operdtites  bellorum infamiam laqueo flnierunt '. n. h, VII 156  ' M. Perpennaet nuper L. Volusius Saturninus omnium...  superstites fuere ' : v. 7, 134. Cicerone ne aveva dato  r es.* Nella Qerm. si accoglie anche la costruzione di  ' superstes ' col dativo, secondo gli ess. di scrittori precedenti : 2 14^ 3 * infame in omnem uitam ac probrosum superstitem principi suo ex acie recessisse '.   4.** Quanto al genitivo * moris ' col verbo * esse ' valgano i sgg. confronti: Germ. 13, 2 * arma sumere  non ante cuiquam moris, quam ' e. q. s. 21, 13 ' abeunti, si quid poposcerit, concedere moris \ n. h. XIX  51 ' usque ad eum (se. Epicurum) moris non fuerat in  oppidis habitari rura ' : v. 17, 66 ; 214. La locuzione  * moris esse ' col soggiuntivo retto da * ut ' o con Tinflnito, era stata adoperata da Cicerone, Livio, Velleio  Patercolo, Valerio Massimo, Seneca, etc. ; ^ poi, per il  tramite di Tacito e di Plinio il giovane, * passò nell'uso     1 Cic. ad Q. fr. l 3, 1. Cf. Tac. Agr. 3, 13. ann. I 61, 14. Il  71, 11. Ili 4, 11.   8 Plavt. asin. 21 (I 1, 6). Ter. haut. 1030 (V 4, 7). Ovid. ara  am. Ili 128. mei. XI 552. etc. Cf. Tac ann. V 8, 12. Nei sgg.  11. : Plavt. irin. 57 (I 2, 19); Cic. ep. {ad fam.) VI 2, 3; HoR.  e. saee. 42, resta io dubbio se la v. ' superstes ' sia costruita  col genit. o col dat., essendo forme dell' uno e dell' altro caso  ì rispettivi complementi : ' uitae tuae, rei publicae, patriae '.   3 Cic. in Verr. I 26, 66. Liv. XXXVI 28, 4. Vell. Patbro. A.  K lì 37, 5 ; 40, 3 Val. Max. /. et d. m. II 8 , 6. Sbn. disi. X  13, 8.   4 Tac. Agr. 33, 1. 39, 2 (Ietto secondo il cod. Vatic. 342(), A  del Halm). 42, 19. hist I 15, 3. ann. I 56, 17 ; 80, 2. IV 39, 3.  Plin. epi%t II 19, 8. Ili 21, 3.      degli scrittori seriori, ^ invece della  est ', preferita dalla latinità classica. ^   III.  Dativo : ^   1.° Il dat. di attribuzione trovasi, talvolta, sostituito  al genitivo, in dipendenza da alcuni sostantivi: Germ,   16, 11 ' solent et subterraneos specus aperire , suf fugium hiemi ^ et receptaculum frugibus '. 44, 11 ' est  apud illos et opibus honos '. n. h. XXXVI 198 ' maximus tamen honos in candido tralucentibus {se. uitris).-^  Il dativo di attribuzione osservasi , sebbene di rado,  negli scritti anteriori al 1.'' secolo dell'impero : ^ dopo.     1 Cf. IvLiAN. ìq dig. HI 2, 1. Vlpian. in dig. XLVIII 19, 9.   2 Vedi Georges, ausfuhrl. Handwb. , II, e. 904. Nella n. h, si  accoglie anche la locuzione classica ' mos est*: v. 4 , 33. 11 ,  184. 19, 73. 25, 77. 28, 36. 29, 4. 33 , 11; 21. 34 , 16. Si nota * in  more est * in 16, 13.   3 Vedi, quanto ali* uso del dat. la monografia di W. Knoess,  de dat. fin. qui die. usa Tac. eornm., Vpsaliae 1878; e quella  di A. CzYGZKiEWiGz, de dat. usu Taeit.y BroJy Hiemi ' ò la lez. data dai codJ. Il Reifferscheid ed il Halm  congetturano * hiemis *; il Halra però dubita: * aa hieme? * Certo è che la costruzione di * suffugium * col genitivo osservasi  in un altro 1. della Germ. 46, 18 * ferarum imbriumque suffugium * ; ed ò preferita da Qvintil. L o. IX 2, 78 * suffugia infirmitatis*; e da Tac aan. IV 66 , 11 * urguentium malopum  suffugium •.   5 In Tac. Agr. 21, 9. hist. I 21, 6 * honor ' si accompagna col  genitivo. Anche col genitivo sono costruiti ' rector* e * subsidia *  nella n. h. 2, 12. 35, 102.   6 Caec. Stat. eom, rei. ll9(Ribbeck) * meae morti remedium *.  Cic. de or. I 60, 255 * subsidiura... senectuti * ( ma nello stesso  1. * subsid. senectulis '). in Catll. II 5, 11 * huic..bello..ducem *.  Catvll. 63, 15 * mihi comites *. Vero. Aen. V 111 * pretium  uictoribus '.       r uso si estese di più. *   2.° Nella Germ. e nella n, h. si accoglie T uso del  ^ datiuus absolutus' : - Germ. 6, 14 * ìq uniuersurn a estimanti plus penes paditein roboris \ n. h. XVI  178 ' proxirneque aestimanti hoc uideantur esse,  quod in interiore parte mundi papyrum ' : v. inoltre  15, 72. 16, 200; e cf. 36, 120. Costrutti analoghi sì notano in Cesare, Virgilio, Livio, Ovidio. '•   3.** Degli aggettivi che, tanto nella Germ. quanto nella     » Vedi Tac. hisL 1 22, 11 ; 67 , 4 ; 88 , 5 ( ma ' minister ' col  genit. in hisL II 99, 13: cf. Verg. Aen. XI 658). II 1 , 2. Ili 6,   I. IV 19, 6; 22, 17; 61, 15 ( ma • pignus * col geoil. in hisL III  72, 4 ; 76, 4. V 8, 2. ann. I 3, 1 ; 22, 1 ; 24, 9; 56, 16. II 21, 13;  43, 27; 46, 23; 60, 18; 64, 18; 67, 12. Ili 14, 18; 40, 5 e 13. IV  60, 8; 67, 8. VI 20, 2 ; 36, 12 e 14; 37, 14. XI 8 , 4. XII 22, 10.  XV 53, 5. etc.   * Il Cocchia, sinL lai., § 73, IH, p. 159, lo chiama 'd«t. iudicantis '. Vedi Draeger, ueber Syni. u. Si, d. Tao. 3, § 50, p 24;  e Valmaggi, comm hisi. Tac, lib. II, p.' 96 II Constans, étude  8. l lanyued Tac-y n.^ 91, p 51, nega C come lo Sghmalz, lat.  Sf/ni. 426) che sia costruzione greca, e lo crede « un datif de  rinterèt atlénué »: tuttavia, mentre egli ammette che nell'A/yr.   II, 10 « le datif n'est pas douteux », per il 1. delUi Germ. 6, 14  dee « qu* il est trés probable »: n ^* 250, 2", p 114.   3 Caes b. e. Ili 80, 1. Verg. Aen. Vili 212. Liv.: cf. X 30, 4. Ovid. meL VI 656. VII 320. Cf. Tau Agr. 11, 10.  hist II 50, 12. Ili 8, 6. IV 17, 16. V 11, 18: aggiungiamo Agr,  10, 12, conservandovi lì lez. * transgressis ', data dal cod. Vatic.  3429 (A del Halm). B Renano, seguito dal Halm ( e, nella ed. torinese deWAgr., 1886, p. 23, dal Decia) la mutò in * transgressa ':  il Ritter, accogliendo la congettura del Busch, Tespunse. L'osservazione sul dat. assoluto resta ferma, ancorché si voglia accettare l'emendazione del Doederlein, che fa rientrare ' trans-^   gressis ' nella proposizione seg., dopo * sed *.      142    n. /i., reggono il dativo, ci sembrano degni di nota :   aji> * diuersus ' : Germ, 46, 11 ' quae omnia diuersa  Sarmatis sunt, in plaustro equoque uiuentibus '. n. h.  XII 97 * pretia nulli diuersiora '. ^ Cicerone non evitò  il costrutto col dat., " ma si avvalse anche di quello  COR' r ablativo. ^   h).' auspicatissimus ' : Genn. 11, 5 ' agendis rebus  hoc auspicatissimum initium credunt '. * n. h. XVI 75  * spina nuptiarum faci bus auspicatissima '. ^   4.° Quanto ai verbi composti che sono usati col dat., ^  notiamo i sgg. :   a) ' accedere ' : Gey^m. 4, 1 ' ipse eorum opinioni bus ^  accedo '. n. h. IX 17 ' nec me protinas huic opinioni  eorum accedere haud dissimulo ' : v. inoltre 6, 213. 7,  146. 15, 14. 32, 143. 34, 8. 37, 101. etc. Ma ess., tuttoché non frequenti, ne avevano dato Ennio, Cicerone,  Nepote, Orazio, Livio, Velleio Patercolo, Columella, etc. ^     1 'Dtiiemus* è costruito col genit. in Tao. hist. IV 84,2. ann.  XIV 19, 5.   « Cic. de leg, agr. II 32, 87. Cf. Vbll. Paterg. h. R. II 75, 2.   3 Clc. Brut 90, 307.   •* Vedi Draeger, ueber Syntu. SL d. Tao, 3 , § 206, B, b, p. 83.  CoNSTANS, étude s l langue d, Tae. , n.** 95, 3, p. 54.   5 Vedi 60pra, cap. I, A, III, 4.", pag. 35.   6 Vedi Av Lehmann, de tteròf'8 compos. apud Sali, Caes., Tae.  cum dat siruet, Breslau 1863.   7 II Meìser e il Halm sostituiscono * opinioni * ad *opinionibus'  che ò lez. data dai codd.: ò una sostituzione che non fa venir  meno 'a nostra osservazione: v. la nota 3, pag. 14.   8 Enn. ann. XIV fr 260, in PLM., voi. VI, p 95, ed. Baehrens  (cf. Magrob $at VI 5, 10) Cic. ad Q. fr. I I, 1. ad Ait V 20,  3. Nbp I (Milt.) 4, 5. HoR. sai II 5, 71 sg. Liv. XXVI 50, 12.   VEJ.L Patebc. h i?. I 8, 5 C0J.VM de r r III 21, p. 398, 8. Cf.     -- 143  b) ' eximere ' : Oey*m. 29, 6 ' exerapti oneribus et collationibus '. n, h. XXX 51 ' canìnus (se. lien) si uiuenti  exinaatur et in cibo sumatiir ', e. q. s. La costruzione  col dat. era stata prima accolta da Plauto, Virgilio, Livio, Seneca, Curzio, etc. '   e) ' interuenire ': Germ. 40 , 7 ' interuenire rebus  hominum '. n. h. XXI 68 * in Italia uiolis succedi t rosa,  buie interuenit liliura ' : v. 18, 342. 33, 127. È costruzione classica, confermata dagli ess. di Cicerone. ^   5.*" Il dat. appare usato per complemento di un verbo  passivo air infinito o in un tempo finito semplice : ^  Germ. 16, 1 ' nuUas Germanorum populis urbes habitari satis notum est'. 39, 13 * centum pagi iis habitantur '. ^ n. h. II 247 ' quem (se. Eratosthenen) cunctis     QviNTiL. L 0. IX 4, 2. Tac. hist. I 34, 2 ; 57, 7 ; 59, 8 ; 70, 4. II  33, 1 ; 58, I. etc.   1 Plavt. mere, 127 (l 2, 17). Vero. Aen. IX 447. Liv. Vili 35,  5. Sen. de ben. VI 9, 1. Cvrt. hist A. M. VII l (l), 6. È dubbio se si tratti di dativo o di ablativo nei ?gg. 11. : Hor. carm.  II 2, 18. ep. I 5, 18. Liv. V 15, 3. VI 41, 2. XXVIII 39, 18. XLV  31. 12. CvRT. hist A. M. VI 3 (7», 3; 11 (43., 24. Quanto alla  costiuzione col dat., cf. Qvintil. i. o. X 1, 74. Tao. ann. I 48 ,  7; 64, 9. IV 35, 4. XII 56, 17. XIV 48, 9; 64. 2 (ma con Tablai.  retto da * e ' in Agr. 3, 14}: vedi ilcomm. del Nipperdey ad ann.  XiV 64. Per la condizione postclassica del v. 'eximere' col dat.  nella prosa latina, v. Krebs-Schmalz, antib. I, p. 497.   2 Cic. de or. II 3, 14. ad Q. fr. l 2, 1,2. de fin. I 19, 63. Cf. Liv.  I 6, 4 ; 48, 1. XXIII 18, 6. Ovid. met XI 708. Tac. hist IV 85, li.   3 II dat. usato col part. perf. e coi tempi composti di un verbo passivo è un costrutto più frequente, anche nei tempi della  latinità aurea. Vedi Cocchia, sint lat , § 73, V, p 160.   ^ Nei codd. si legge ' pagis habitantur*: noi ci atteniamo all' enoendazione del Brolier, * pagi iis habitaniur ' , accolta dal  Ma^sroenn, dal Riiler,d8l Halm, dal Kritz, dal Finck, etc La.      144    probari uideo * : v. 3, 9; 54. 16, 249. 36, 12. etc. Cicerone se n' era avvalso, sebbene di rado, massime con  r intendimento di significare un'azione vantaggiosa all' autore di essa. ^   IV.  Ablativo:   1.** All'accusativo predicativo trovasi sostituito l'ablativo ' loco ' col genitivo : Ge?^m. 8, 9 * Velaedam diu  apud plerosque numinis loco habitam '. n. h. Vili 173  ' est in annalibus nostris peperisse saepe (se. mulas),  uerum prodigii loco habitum '. La sostituzione è riferita anche al nominativo : n. h. XXXIII 46 ' hic nummus {se. uictoriatus) ex lUyrico aduectus mercis loco  habebatur': cf. 11, 191. Cicerone, Cesare e Bruto avevano dato i primi ess. di tale uso sintattico. ^'   2.° L'ablativo di luogo appare privo della prep. ' in '  nei sgg. 11. della Germ.: 10, 13 Msdem nemoribus.ac  lucis'. 37, 3 * utraque ripa'. 40, 18 ^ secreto làcu abluitur '. etc. Lo stesso osservasi nella n. h. II 168 ' siue ea {se. palus Maeotica) illius oceani sinus est...., siue     congettura deir Ernest!, ^ pagis habitaot ' , fu seguita dal Dilthey,  dallo Zernial, da Io. Mueller, etc. Il Kiessiing riproduce la lez.  dei codd ,* quamquam nibil', egli soggiunge, op. e, p. 143,  ' adhuc ex scriptoribus Latinis afferri potuit, quod hunc huius  uerbì usum confirmaret*.   1 Cic. pari. or. 5, 15 m Verr. V 45, 118. ad AH. 1 19, 4. Tuse.  V 24, 68. de off. Ili 9, 38. Cai. m. 11, 38. Cf. Tag. Agr. 10, 7.  hi9i. I 11, 9; 27, 9; 35, 8. II 80, 21 ann I 11, 11; 17, 23. II 57,  18. XII 1, 9; 9, 8 etc.   « Cic. de inu. rhei. II 49, 144. de dom. s 14, 36. ep. (ad fam.)  VII 3, 6. Caes. ò. G. vi 13, 1. Brvt. in Cic. ep. ad Brut I 17,  5. Cf Tac. hisi. II 91, 2. IV 26, 7. ann. XIII 58, 4. Vedi Cocchia, ami. laL, § 12, V, e, p. 18.      145    angusto discreti situ restagnatio \ Vili 99 ' hiberno situ membrana corporis obducta ' : y. 6, 74. 10, 62. 19,  48. 25 , 63. etc. * Nella Germ. si accoglie anche 1' uso  della prep. ' in ', quando con 1' ablat. di luogo si accompagni il pron. * idem ', p. e. 12, 10 * in isdem conciliis ', che sintatticamente risponde al 1. e. sopra, 10,  13 ' isdem nemoribus '. Similmente nella n. h, 2, 205;  219 osservasi 1' espressione ' in eodena loco '. ^ Così  nella Germ. 36, 1 si legge ' in latere Chaucorum ' :  costrutto accolto nella n. h. 3, 22. 9, 50. 35, 22. etc. ,  ma rifiutato in 2, 73; 168. 4, 40; 110. 5, 72; 74. 6,  191. 24, 160. etc. ^   3.** Gli aggettivi ' ferax ' e ' ingens ' sono usati nella  Germ. con un complemento di relazione in ablativo :   a) Germ. 5, 4 ' satis ferax ' : al contrario n. h. XV  100 ' qui {se. acini) minime feraces musti '. Il costrutto     1 Potremmo aggiungere n. h. XXXVII 19 * exposìta occuparent iheatrum peculiare trans Tiberim h o r t ì s ' secoado la lez.  data dai codd. e dalla * uulgata ', accolla neir ed. Harduin, II,  p. 767, 9, ma rifiutata dal cod. Banberg. e dalle edd. Jan (vo^  V, p. 145, 38) e Mayhoff (voi. V, p. 388, 10}, che ammettono ' in  hortis •. Cf. Tao. hisL I 64, 17. II 1, 13; 43, I ; 50, 9 ; 62, 2; 66,  4. III 22, 15; 38, 3; 61, 5. V 5, 21. ann. I 61, 12; 65, 20. Ili 38,  10. IV 43, 9. XlV 61, 3. etc.   2 Negli scritti di Tac. si preferisce, in tal caso, respingere la  prep. * in •; valgano d'es. hisL I 55, 10. II 45, 12. Ili 13, 16; 72,  17. IV 53, 4. ann. I 31, 12. II 24, 11. XIV 44, 12. etc. Vedi la  monografia di F. Schneider, quaesL de obi. usu Tao., I, Lìgniciae 1882.   3 Tac. accolse tale costrutto in ann. III 74, 10; lo rifiutò in  ann. XV 38, 17. Per V uso classico dell* ablat. di luogo senza  la prep. * in ', v. Cocchia, sinL lai., § 78, I, p. 178 sgg.   Consoli, La Germania comparata. 10      146    col complemento in ablat. è dato da Virgilio; ^ m&. il  costrutto col genitivo è presentato da Orazio , Livio ,  Ovidio , e seguito da Valerio Fiacco , Tacito , etc. ^ :  d' onde quella incertezza d' uso, che si osserva in Plinio il giovane, ^ salvo che si voglia attribuire quella  che può parere incertezza, a difTerenza di significazione, secondo che propria o in traslato, della v. ' ferax '.  b) Genn. 37, 2 * parua nunc ciuitas, sed gloria ingeas ' : cf. n. h. 23, 75. Il costrutto di ' ingens ' con  r ablat. era stato adoperato da Virgilio : * Sallustio  preferì, invece, il costrutto col genitivo. ^    D    Le osservazioni che seguono si restringono a determinare le relazioni sintattiche concernenti 1' uso dei  modi: quello che e' è da dire in rapporto all' uso dei  tempi, sarà trattato in dipendenza dall' uso dei modi  del verbo.     1 Vero, georg. II 222 * illa ferax oleosi ' (Ribb.) , o maglio  ' oleo est \ secondo la lez. preseatata dai codd. Palat. e Rom.,  confermata da Nonio Marcello (p. 500, 23 ed. Mere; p. 341, 6  ed. Gerlach-Roth) e da Arusiano (VII 473 K).   « HoR. e. aaee. 19. epod. 5, 22. Liv. IX 16, 19. Ovid. mei. VII  470: cf. am. II 16, 7. Val. Flagg. Argon. VI 102. Tac. ann.  IV 72, 9. etc.   3 Plin. episi. IV 15, 8 * ferax... bonis artibus *. II 17, 15 * arborum .. ferax *. Vedi Draegbr, hist Synt, § 206, 3, p. 441 sg.  ueber Synt u. Si. d. Tac. 3, § 71, a, p. 33.   4 Vero. Aen. XI 124; 041. Cf. Stat. sii. I 4, 71 sg. Tac. hisL  I 53, 2; 61, 1. II 81, 3. ann. XI 10, 12. XV 53, 7.   5 Sall. hisi. III 10, ed. Kritz. Cf. Tac. hist IV 66, 17. ann. I  6% 4.      147    I.  Indicatwo:   1.** L' indicativo retto da * dum ' conservasi anche  nelle proposizioni subordinate che si trovino in dipendènza da altre subordinate: Oerm. 12, 5 ' diuersitas  supplicii illuc respicit, tamquam scolerà estendi oporteat , dum puniuntur, flagitia abscondi '. Lo  stesso si osserva nella n. h. XXVII 42 * uolneribus sanandis tanta praestantia est, ut carnes quoque, dum  cocuntur, conglutinet addita '. ^ Cicerone ne aveva dato qualche raro es., seguito poi da Livio e da  altri scrittori. ^   2."* Risponde all' uso sintattico più corretto * prout '  con r indicativo : Germ. 3, 6 ^ prout sonuit [acies '. n.  h. XII 121 ' prout quaeque res fuìt \ XXXI 58 * prout  res exiget ': v. 10, 180. ^ Ma in Plinio si amplia l'uso  di ' prout ', talché questo occorre anche col soggiuntivo: V. n. h. 2, 152. 5, 51. 28, 17. 29, 30. 33, 164. ^   1 Si accompagna anche col soggiuntivo nella n. h. XXVIII  1 70 * carnesque uesci eas et, dum coquantur, oculos  uaporari iis praecipiunt '.   « Cic. p. Cluent 32, 89. de fin. V 19 , 50. Liv. XXIV 19, 3.  CvRT. hi8i. A, M. VII 1 (3), 18; 8 (34), 14. etc. Cf. Tao. héat.  I 33, 6. Ili 38, 22; 70, 12. V 17, 6. ann. II 81 , 9. XIII 15 , 24.  XIV 58, 15. XV 45, 16; 59, 13. Idial de oraioribus 32, 34J. Vedi Draeger, ueher Synt a. SL d. Tao. », § 168, p. 68. Cocchia,  8int lai, § 173, IH, a, p. 417. Frigell, epileg. ad T, Liuii Cosi Cic. in Verr. II 34, 83. ad AH. XI 6, 7. Caes. 6. e. Ili  61, 3. Liv. XXXVIII 40, 14; 50, 5. Cf. Qvintil. i. o. I 7, 2. VII  2, 57. Tac. hisL I 51, 17. Il 10, 9. ann. XII 58, 9. idial de oraiorihm 31, 20].   4 Vedi SBN. ep. XII 3 (85), 11. Tac. hist I 48, 20; 59, 5 ; 62,  15. ann. XII 6, 15. XIII 8, 12. Vedi inoltre Valmaggi , eomm.  hist Tae. I, p. 22.      148    3.** La cong. causale ^ quaQdo ' è ordinata con l'indicativo: Germ. 33, 8 ' duretque gentibus, si non amor  nostri, at certe odium sui , quando... nihii iam praestare fortuna maius potest quam hostium discordiam '.  n. h. XVIII 126 ^quando alius usus praestantior ab iis  non est': v. 17, 13; 16. 21, 1. 34, 57. etc. Numerosi  sono gli ess, di tale costrutto presso gli scrittori anteriori. ^ Nella n. h, trovasi anche la cong. ' quando '  ordinata col soggiuntivo : XVII 27 ' neque fluminìbus  adgesta semper laudabilis, quando senescant ^ sata  quaedam aqua ' : v. 10, 58. dub. semi. XIII, p. 44, 14  sg., ed. Beck. Lo stesso costrutto col soggiuntivo si osserva in Livio e, poi, in Tacito. ^   4.** L'espressione ' ut qui ' con l' indicativo si nota  nella Qerm. 22, 2 * lauantur saepius calida, ut apud  quos plurimum hiems occupat': cf. n. h, 30, 10. Nella  n. h. si accoglie ' ut qui ' col soggiuntivo : XXXI 83  ^ quercus optima, ut quae per se ci nere sincero uim salis reddat ' : v. 18, 134. 36, 120. ^ Certo è che nel mi   1 Plavt. cist 116 (I 1, 118). Ter. adelph. 287 (II 4, 23;. Cic  top. 5, 26. de fin. V 23, 67. Tuse, IV 15, 34. Sall. lug. 102, 9.  Vero. Aen. X 366. Hor. sai. II 5, 9; 7, 5. Liv. XXXIX 51, 9.  Cf. SiL. IT. Pun. XIII 768. Tag. hi$i. I 87, 1 ; 90, 10. ann. I 44,  12. Vedi Cocchia, Bini, lai., § 169, VI, avv. 2, 6, p. 407.   * La lez. * senescant ' nel 1. e. della n. /i. ò presentata dai  codd. e confermata dal Mayhoff, voi. Ili, p. 72 , 14 : nella ed.  Sillig. (v. Ili, Hamb. e Gotha, 1853) si legge 'senescunt'.   3 Liv. Ili 52, 10. Tac. hisi li 34, 4. IH 8, 13. ann. IV 64, 10.  XII 6, 2.   4 Agli ess. dedotti dalla n. A. si può aggiungere 31, 31, ove  si voglia accogliere la lez. * ut quae *, che ò presentata dai  codd. Paris. 6795 e Riccard.», e accettata dalla ' uulg. * e dalle  edd. Harduin. II, p. 551, 6; Mayhoff, voi. V, p. 12, 9: il Jan,  voi IV, p. 266, 2 la rifiuta.      149 -^   giior tempo della lingua latina si diede la preferenza  al soggiuntivo; ^ e qualche es. contrario che osservavasi in Cicerone, è stato convenientemente emendato  dagli editori moderni. ^ Negli scritti di Tacito appare  costantemente la costruzione col soggiuntivo. ^   II.  Soggiuntivo :   1.** Osservasi, talvolta, il presente del soggiuntivo  retto da ' donec ', per indicare una circostanza reale o  un'azione che si suole ripetere per abito: Germ. a) 1,  10 ' donec in Ponticum mare sex meatibus erumpat '.  35, 5 * donec in Chattos usque sinuetur '. h) 20, 5 ' donec  aetas separet ingenuos, uirtus adgnoscat '. 31, 10 * donec se caede hostis absoluat ': v. inoltre 31, 16. 40, 16.  Ai 11. ce. della Germ. si possono confrontare i sgg.     > Cic. Phil XI 12, 30. Caes. 6. G. IV 23, 5. Livio accoglie tanto la costruzione con 1* indicativo : V 25, 9 ; quanto quella col  soggiuntivo. Vedi Riemann, op. e , § 115, n. 3, p.  291. Cocchia sint lai, § 160, III, ò, p. 372 sg.   s Cosi, p. es, in Cic. ad. AH. IV 16, 6 leggevasi prima • ut  qui iam intellegebamus * (v. ed. Nobbe, p. 847) ; ora si legge  * quod iam i. * (v. ed. Alb. Sad. Wesenberg, par. Ili, voi. II, p.  148, 10, in cui il 1. e. ò trasportato in IV 17 (18), 3). Parimente  ad Ali. Il 24, 4, nel passo ' utpote qui nihil contemnere soleinus, (V. ed. Nobbe, p. 834), si ò sostituito 'soleamus' nella cit.  ed. Wesenberg, voi. cit., p. 85, 20.   3 Tac. hist III 25, 4. ann. II 10, 12. IV 62, 6. etc. : perciò il  Prammer sostituisce nel testo della Germ. 22, 3 ad ^ occupat '  la forma del soggiuntivo ^ occupet *. Il Halm , al contrario, estende r accezione dell* indicativo dal 1. e. anche al 1. della  Germ, 17, 6, supplendo il v. «eat* nella frase ellittica * ut quibus nullus per commercia cultus ' : v. Germ ed. Halm, Lps  1883, p. 231, nota.     -150 della n. h.: IX 133 * donec spei satis fiat, uritur liquor \  XVIII 103 ' postea operiuntur in uasis, doaec acescant ':  e similmente 30, 86. 34, 122. etc. Se ne erano dati degli ess. prima da Orazio, Livio, Curzio ed altri. ^ Ma  nella Germ. 37, 24. 45, 19 la v. ' donec ' si accompagna, secondo l'uso sintattico comune, con V indicativo.   2.** La deviazione sintattica di ' quamquam ' col soggiuntivo appare prevalènte nella Germ.j poiché per otto  volte che tale voce è adoperata, in due (5, 13. 17, 14)  si nota al principio di una proposizione principale, in  funzione , come osserva il Draeger, ^ di avverbio ; ^ in  un 1. (4, 5) non è seguita da un verbo di modo finito;  in quattro 11. (28, 20. 29, 15. 35, 3. 38, 4) regge il presente il perfetto del soggiuntivo : in un 1. (46, 3) si  accompagna col presente indicativo. Dello stesso modo  osservasi nella n. h. la v. ' quamquam ' col verbo all' indicativo (16, 161 ; 204 ; 206. etc.) o al soggiuntivo  (18, 125 : cf. dub. serm. II i, p. 20, 13 , ed. Beck ) : si  osserva anche ' quamquam ' coi participi: v. 15, 52. 18,  265. 19, 50. 25, 87. 26, 21. 30, 13. etc. ; e con gli aggettivi: V. 15, 52. 29, 1. 30, 13. etc; talvolta si riferisce ad un verbo sottinteso : v. 3, 55. 8, 120. 16, 151.  34, 62: cf. dub. serm. II e^ p. 14, 27, ed. Beck.   Or, la deviazione sintattica di ' quamquam ' col soggiuntivo, la quale è notata di preferenza nell'età impe   1 HoR. ep, I 18, 63 sg. II 3, 155. Liv. XXI 10, 3. XL 8, 18.  CvRT. hisL A M IV 7 (31), 22. Cf Qvintil. L a XI 3,53. Tac.  hist II 1, 8. Ili 47, 17. V 6, 21. anr^, II 6, 16. etc. Vedi RiBìfAKK,  op. e, p. 297, n. 1.   2 Drabgbr, ueber Synt u. Si. d. Tacs, § 201, p. 81.   3 C£ Tac. ann. XII 65, 12. Idial de oratoribua 2B, 9^ 33^ Ili.     riale , appunto perchè allora , per etócàcia dèi ^rlafé  del volgo, sì cominciò a far confusione tra le funzióni  del modo indicativo e quelle del soggiuntivOj mostrasi  anche nell' età aurea della prosa latina , ma solo nel  caso che il pensiero che s' intende esprimere richieda,  indipendentemente dalla presenza di ' quamquam ', raso del soggiuntivo nella proposizione; come, p. es., per  indicare possibilità o condizione : * talvolta, e ciò bófte  avverte il Rieraann, 2 pare che la deviazione si debba  attribuire ad errore di copisti.   3.** Il soggiuntivo nelle proposizioni relative , tanto  consecutive quanto finali, è d'uso ordinario nel latino:  Gef^m. 29, 4 ' in eas sedes transgressus, in quibus pars  Romani imperii flerent '. 32, 2 * quique terminus esse  sufflciat '. 35, 8 ^ quique magnitudi nem suam malit iustitia tueri \ n, h. XXXIII 84 ' remedium abluere idlatum  et spargere eos, quibus mederi uelis ': v. 34, 122; 134.  etc. ^   4. Per il tramite della frase pliniana, n. h. XXXVI  113 ' cuius nescio an aedilitas maxime prostrauerit  mores \ modellata sulla frase di Cicerone, de fin. V 3,  7 ^ quem... haud scio an recte dixerim principénl ', dò   1 Varr. in Gbll. n. A. XIV 8, 2. Cic. de or. II 1, 1. Ili 7, 27;  26, 101. p. Piane. 22, 53. de fin. Ili 21, 70 (v. comm. Madvig).  Tuse. I 45, 109. V 30, 85 (v. comm. Kuehner). de legibus IH 8,  18. Nep. XXV (Att) 13, 6. Sall lug. 3, 2. 83, 1. Cf. Verg. Aen.  VI 394. Liv. XXXVI 34, 6. Tao. Agr. 3, 1. 13, 5. hist. I 9, U.  II 20, 5. Idial de oraioribus 34, 14].   « RlEMANN, op. e, § 126, p. 300 sg. V. iaoltre Cocchia, slni. lai,  § 181, III, p. 444. Georges, ausfuhrl. Handwb., II, e. 1906.   8 Per la conferma con ess. di Cic. v. Cocchia, séni, lai, § 160,  I e II, p. 366 sgg. Cf. Tag. Agr. 34, 12. hf'ai. I 15, 18. IV 8Ì^ 3.  ann. I U, 9; XV 47, 6. etc.      152    vette, probabilmeQte, penetrare nella elocuzione della  Germ. e di altri scritti dell' età argentea ^ V uso del  perfetto soggiuntivo potenziale nelle proposizioni subordinate: Germ. 2, 5 ' immensus ultra utque sic d i x er i m aduersus Oceanus raris ab orbe nostro nani bus  adi tur '.   Infinito :   1.° Dell' infinito descrittivo si hanno ess. nella n. h. :  V. 14, 6. 28, 146. etc. ^ Nella Germ. V infinito descrittivo giunge a penetrare nelle proposizioni relative improprie. 7, 11 ' et in proximo pignora, unde feminarum  ululatus a u d i r i , unde uagitus infantium '. ^ Sallustio aveva ammesso l' infinito descrittivo nelle proposizioni comincianti col pronome relativo; * e l' es. di lui  fu in più luoghi continuato da Tacito. ^     1 Vedi QviNTiL. i. o. V 13, 2. Tao. Agr. 3, 13. ann, XIV 53,  13. Idial. de oraioribus 34, 8. 40, 19J. Plin. episL II 5, 6. pan  42, 3.   2 Si notino gli ess. analoghi di Vbrg. georg. I 200 (cf. Aen,  II 169). Aen. IV 422. VII 15.   3 Cf. Tag hist. IV 80, 13. ann. VI 19, 12. Alcuni annotatori e  editori della Germ. non hanno accolto la forma ' audiri ' nel  1. e, perché, come scrive il Kritz, op. e, p. 47, * infinitiuus historicus ut iam per se h. 1. ferri nequit, ita multo minus  ex relatiua particula aptus esse potest ' ; ed hanno mutato  * audiri * in * auditur ' ( Kritz ), ' audiunt ' (Madvig), * audias '  (Woelfflin), * audiant ' (Hirschfelder), * est audire * (Schuetz e  Maehly): il Heraeus ha aggiunto * possit ' dopo * infantium *; il  Ritter ha espunto * audiri '.   4 Sall. lug. 70, 5 * litteras mittit, in quis mollitiam socor diamque uiri accusare, testari deos ' e. q. s.   5 Tac. hist I 52, 16; 81, 4. Ili 63, 13. IV 84, 3. Vedi P.      153    2.** Tra i verbi che nella Germ. si accompagnano con  r infinito, invece di reggere, secondo l'uso più comune  per alcuni di essi, il soggiuntivo con * ut ' o * ne ', notiamo i sgg. : ' coarguere, consentire, obsistere, persuadere , quaerere, suflìcere '. Ommettiamo di trattare dei  vv. ' coarguere, ' obsistere, *• sufflcere ', ^ perchè non ci  è dato trovarne adatto riscontro né nella n. h. né negli  scritti di Tacito : è probabile, però, V analogia di costrutto tra ' obsistere ' con l' infinito e ^prohibere ', che  Plinio usò pure con V infinito. *     Crbusny, de U8U inf. hiat ap. Tao. ; in Méaeel philol. liòellus,  Bresiau 1863.   * Il V. 'coarguere' costruito con TinfiiL appare, oltre che  nella Germ, 43, 4, anche in Qvintil. L o. IV 2, 4 e in un 1.  del 6. Alex, 68, 1, che sia letto, però^ come è presentato dai  codd., cioè col v. ' coarguisset * dopo T infinito * recipere *, e non  come leggesi ora neir ed. B. Kuebler. Lps. 1896, p. 43, 26, col  V. * coarguisset * mutato di posto.   * Il V. * obsistere * con l' infìn. si nota nella Germ. 34, 11 * obstitit Oceanus in se simul atque in Herculem ìnquiri '. Presso  gli altri scrittori si accompagna col soggiuntivo retto da ' ne '  o * quo minus ' ; p. es. Plavt. miì. gì 333 ( II 3, 62 ). Cic. in  Verr. V 2, 5. ad AH, VII 2, 3. de nai, d, II 13, 35. Nbp. I (MilL)   3, 5. etc.   •* * Suflìcere * con V infin. è costrutto poetico , dato da Vero.  Aen. V 21 sg. , e ripetuto nella Germ, 32, 2 * quique terminus  esse suflìciat *. Plinio Secondo preferi accompagnarlo col gerundio dativo: v. n. A. 13, 79. 18, 249. 36» 57; o col gerundio  accusativo retto da 'ad *: v. n. h, 24, 147. Plinio il giovane lo  associò con * ut* o 'ne* e il soggiuntivo: v. epist IX 21, 3;  33, 11.   4 Plin. n. h, XXII 90 * Cleemporus nigro prohibet uesci ut  morbos facìente '. Cf. Tag. hist, I 62, 13. ann,\ 69, 3. Vedi Madvio, lai, SprogU § 344 e § 350 Anm. 3, pp. 239, 244. Cocchia,  9ini, lai, , § 168, I, avv. 6, p. 391.     -184 a) La oastruzione del v. ^ consentire ' con V infinito  sì nota nella Oerm. 34, 9 * in claritatem eius referre  consensimus \ Nella n. h. si ha tanto la costruzione  con r infinito : XVII 80 ^ Graeci auctores consentiunt  non altìores quìno semipede esse debere': v. 18, 312;  quanto la costruzione con * ut ' e il soggiuntivo : XIV  64 * Tiberius Caesar dicebat consensisse medicos ut nobilitatem Surrentino (se. nino) darent \ La costruzione  con r infinito non fu estranea a Cicerone e Quintiliano ; ^ ma nemmeno fu trascurata quella con * ut ' e il  soggiuntivo. 2   h) Il V. ' persuadere ' è usato con V infinito nella  Germ. 14, 16 * nec arare terram aut exspectare annum  tam facile persuaseris '. La n. h. presenta * persuadere ' tanto con l' infinito : XXIII 40 ^ at nos e diuerso  fumi amaritudine uetustatem indui persuasum habemus ' ; quanto con * ut ' e il soggiuntivo : XXXVII 88  * persuasimus deinde Indis, ut ipsì quoque iis gauderent '. '   e) La costruzione del v. * quaerere ' con l' infinito,  nel senso di « ad oprarsi , cercare , tendere », appare  gradita ai poeti: * osservasi nella Oerm. 2, 3 * classi   i Cia de leg. agr. I 5, 15. Phil. II 7, 17. IV 3, 7. Qvintil. L e.  Ili 7, 28. IX 1, 17. etc. Cf. Tao. ann. VI 28, 7.   « Vedi Liv. XXX 24, II.   ' Per la dìffereuza neiriuK) classico tra ' persuadere ' eoi ^ggìuotivo cetto da * ut ' o senza, vedi Cocchia, sint tei, g 163,  X, avv. 1, a ed e, p. 380.   * LvcR. de r. n. I 103, Vbrg. Aen, IV 6Sl. Hor. eai^m. ì 16,  26. OviD. am. I 8, 51. episi, (her.) 12, 176. irèst V 4, 7. Phabdr.  fab^. m proL 25. IV 9, 2. ete.     ^ 166 bus aduebebantur qui mutare secles qui^rebant * ^ * e  nella n. h. Y 54 ^ Inter occursantis scopulos noB floere  inmenso fragore quaerit sed ruere '. Vili 214 * potia»  simum e monte aliquo in alium transilire quaerens*.  Non è certo cbe un costrutto consimile sia stato fpi^  ma adoperato da Cicerone. Participio:   1." ^ Velut ' è usato con un participio, iaveoedi ìmm  proposizione retta da * uelut si ' : Oerm, 7, 7 * uelut  deo imperante', n. h. X 47 ' uelut ideo tela iigiiAta  cruribus suis intellegentes '. In Livio tal^ uso notasi più  di frequente. ^   Z."" Participio perfetto aoristico : Germ. 40, 11 * is  adesse penetrali deam intellegit uectamque bubus  feminis multa cum ueneratione prosequitur '. n. h.  XXXVII 54 * nunc gemmarurn confessa gea^ra dicemus ab laudatissimis orsi': v. inoltre Zy 44, 5, 54.     1 U. Zernial, commentando il 1. e. della Germ. p. 19, %vv^.rte: « quaerebant e. inf. bei Tao. nur hier >.   t In un 1. di Cic. de inu. rhet II 26, 77 s? legge : ^ quaerat  tamen aliquam defensionem, et facti inutilitatem aut turpitudinem cum indignatione ppoferre '. Ma i codd. Herbipolit. {H)  il Paris. 7774 A (P) e il Sangall. (5) ommettoùo T infln. * proferre', che il Friedrich (Lps. 1893, par. I, voi. J,p. 201, 16-17) chiude tra parentesi quadre. Ammessa, per tanto, V Interpolazione  del V. ' proferre*, si avverte nell'an^eò. Krbbs-Sghmalz, II, p.  395, che il costrutto di cui ò discorso « ist nicht nachzuahmen » ; e il Georges, ausjuhrl Handtob. , lì, e. 1896 , citando  in proposito la hisi Synt III 301 der Draeger, nota che in questa è da cancellarsi Tes. di Cic. de ina. rhet , 1. e.   3 Liv. I 14, 8; 29, 4; 31, 3; 53, 5. Il 12, 13. XXV 39, 4. etc.  Cf. Tao. hi8t. IV 70, 5; 71, 7.      156    11, 22; 187; 217. 16, 163. 30, 1. 34, 63. 36, 54. etc.  L'uso del participio perfetto aoristico si nota prima in  Cicerone, Cesare ed altri. ^   3.** Participio futuro attivo nelle funzioni di una proposizione subordinata : Germ. 3,1* Herculem memorant, primumque omnium uirorum fortium i t u r i in  proelia canunt '. n. h. XXXV 92 ' Apelles inchoauerat  et aliam Venerem Coi, superaturus etiara illam  suam priorem ' : v. inoltre 7, 143. 16, 10. 17, 9; 173.  25, 22. 26, 117. 29, 19; 29. 34, 36. 36, 119. 37, 20. etc.  L' uso sintattico di cui si è fatta menzione, fu evitato  nella latinità aurea, ^ e, come è noto, cominciò a prevalere da Livio in poi. ^     1 CiG. p. Mur. 30, 63. Gaes. ò. G. II 7, 1. V 7, 3. VII 32, 1.  etc. Quanto ai confronti con 11. di Tac, v. Draeger , ueber,  Synt u. St d. Tac. 3 , § 209 , p. 84. Vedi anche Madvig , lai.  Sprogl, § 382, 6, p. 263. Cocchia, aint lai. , § 128, 6, IV, avv. 1.%  p. 282. Ramorino, i eomm, de b. G. ili. pp. 68, 156.   2 Vedi Madvig, lai. Sprogl, § 377, Anm. 5, p. 260 sg. GandiNO, 8ini. laty I, es. 4, n. 3, p. 6 sg.   3 Cf. Tac Agr. 31, 2. hist. I 27, 17. II 53, 7. ann. 128, 1; 31,  4; 36, 5; 45, 8; 46, 7. II 17, 4. etc. Quanto ai numerosi ess. che  presenta Tito Livio, v. Guethling, de T. Liuii orai, diì^puiatio^  LiegQitz 1872, cap. II, p.5 sgg. Kuehnast, die Hauptpunkte d.  lioianischen Synt, Beri. 1872, p. 267 sgg. Vedi anche la monografìa di F. Helm, quaesL synt. de pariie. usa Tac. Veli.  Sali , Lps. 1879 ; e la monografia di S, Lichotinsky , suir uso  del participio in Tac, Kiew 1891.     CAPITOLO QUARTO     Relazioni sintattiche tra la Qermania  e le opere di Tacito.   Le più notevoli relazioni sintattiche tra la Germ, e  gli scritti di Tacito sono state rese evidenti, mediante  appositi confronti segnati nelle note, nel cap. precedente, in cui si sono trattate le relazioni sintattiche  tra la Germ. e la n. h, di Plinio : nel presente capitolo ci restringiamo, per evitare inutili ripetizioni , a  notare quelle poche relazioni sintattiche tra la Germ.  e le opere di Tacito, per le quali non siamo riusciti  a trovare nella n. h. dei termini sicuri di confronto.   L  Quanto agli usi particolari di alcune parti del  discorso, notiamo :   1.** iPpron. Mpse ', in funzione appositiva al soggetto, trovasi unito con un part. perf. passivo costrutto  assolutamente, par supplire alla mancanza del part.  perf. attivo : Germ, 37 , 15 ' quid enira aliud nobis  quam caedem Crassi , amisso et ipse Pacoro,  infra Ventidium deiectus Oriens obiecerit? '. Agr. 25,  21*diuiso et ipse in tris partes e x e r e i t u  incessit': cf ann. XIV 26, 2. Analoghi costrutti presenta Livio nelle frasi : ' causa ipse prò se dieta,   quindecim milibus aeris damnatur '. ' dimissis et ipse  * adticis nauibus .... nauigare Aegyptum pergit '. ' È     1 Liv. IV 44, 10. XLV JO, 2: cf. XXX VIU 47, 7. Vedi Naegels3ACH, lai. Siy § 97, 2, 6, p. 262 sg.     possibile che tale uso del pron. * ipse ' sia stato introdotto dopo l'uso analogo fatto da Sallustio del pronome * quisque \ *   2.** La particella comparativa ' quam ' è adoperata,  talvolta, con V ellissi dell'avverbio corrispondente * potius ' ; Germ. 6, 20 * cedere loco, dummodo rursus instes, consilii quam formidinis arbitrantur'. hist. Ili 70,   '6 * ctir enim e rostris fratris domura quam Auen Untim et penates uxoris petisset ? ' : v. inoltre hist IV  5B, 6; 83, 20. ann. I 58, 6. IH 17, 16; 32, 9. V 6, 10.  Xin &y 16. XIV 61, 22. etc. L'ellissi di ' potius ' not»sA pure in Plauto, Nepote, etc. ^   3.*^ Quo modo ' è usato ad esprimere paragone, coalpe *ut*: Germ. 41,2 *quo modo paulo ante Rhenura,  aie ttunc Danuuium sequar '. Agr. 34 , 6 ' quo modo  eiiutts saltusque penetrantibus fortissimum quodque animal centra mere, pauida et inertia ipso agrainis sono  p^Ilebantur, sic acerrimi Britannorum ìam pridem ceciderunt '. ann. IV 70, 14 ' quo modo delubra^et altafìa, sic carcerem recludant ' : v. ann. IV 35, 7. XVI  31, 8; 32, 14. [dial. de oratoripus 36, 35]. Quanto  alla rispondenza * quo modo - ita ', \*. hist. IV 8, 19;     1 SAll. lug, 18, 3 ' multis sibi quisque itnperium petentibus \  Pel Bignificato di ' et ipse ' in casi aualoghi, v. la monografia  di J. Prammer , ' et ipse ' bei Tae. ; iù Zisehrf. f. d, oesierr.  Gymn, 1881, 500; e il comm. del Valmaggi a Tae. hist I 42,  J, p. 69 ; Il 33, 17, p. 62.   * Plavt. rud. 1114 (IV 4, 70). Afe/i. 726 (V 1, 26). Nep. XIV  (|)at.) 8, 1 ' statuii congredi quam ' cet. , secondo 1* ed. Halm ;  ina accolta la congettura del Fleckeisen ' statim maluit con»gnodi^V si rendei non adatta la nostra citaxióne^ Cf. Val. Flagg.  Argon. VII 428.      169    64, 18; 74, 9. ann. XIV 54, 5. XV 21,5. XVI 16, 11.»  Anche in Cicerone, oltre al significare domanda o ammirazione, osservasi V espressione ' quo modo ' adoperata in correlazione con ' sic ', di rado * ita '. '^   4.'' La prep. ' ex ' talvolta è usata con significato  modale : Germ. 7, 1 * reges ex nobilitate, duces ex uirtute sumunt ' : v. 3, 18. Agr. 40, 10 ' siue uerum istud,  giue ex ingenio principis fictum ac compositum est '.  hist. I 27, 16 * animum ex eaentu sumpturi ' : v. inoltre hist. 1 82, 14. II 85, 18. ann. 1 58, 4. Ili 69, 7. IV  64, 5. VI 11, 16. XllI 9, 4; 46, 19. XV 72, 3. etc. Di  tale uso della prep. ^ ex ' si notano numerosi ess« presso gli scrittori precedenti. ^   5.** La prep. * per ' ha valore modale neir espressione ' per otiura ': Germ. 15, 1 ' non multum uenatibus,  plus per otium transigunt \ ann. I 31, 12 ' isdem ae^  stiuis in finibus Vbiorum habebantur per otium aufc  leuia munia Notevoli ess. ne avevano     1 V. il comm. del Heraeus a Tao. hist III 77.   * Cic. de leg. agr. II 1, 3. aead. pr. II 12, 38 ; 47, 146. de fin.  Ili 20, 67. Tùse. I 38, 91. Ili 17, 37. IV 13, 28. V 7, 18. de legibua I 12,33. de off. I 38, 136. É inesatta, per ciò, raffermazioue  delio Zernial , op. e. , p. 80 , che è « * quo modo ' =: ' ut ' im  VergleìchuDgssatze wie Agr. 34, 6; bei Cic. nur in dar  Frage ».   3 Tbr. haut 203 a 2, 29;. Varr. de l. L. VI 7, 64, p. 96, 12  Sp. CiG. de ina. rhei. II 45, 132. p. Quinci. S, 30 e 31. dia. in,  Caeeil. r», 19. ep. (ad fam.) II 7, 3 ; 13, 4. XII 4, 2. XIII 56, 3.  de fin. II 11, 34. etc. Liv. I 23, 7; 40, 6. V 14,2. XLII 23, 6; 25»  11; 30, 6, Vedi Drabgèr , hist Sini, § 287 , 2 e 6, p. 592 sgg. ;  u^er Synt u. St d. Tae. 3, § 96, p. 41.   ^ et A. G^RBBR, nonn» de usu praepQ8.ap. ITac, Glueckstadt  1871.         160    dato prima Cicerone e Livio. *   6.^ La rispondenza' siue -seii ', che si osserva nella  Germ. 34, 8 ' siue adiit Hercules, seu quidquid ubique  magnificum est, in claritatem eius referre consensimus ' ; e negli ann. XIV 59 , 1 ' siue nullam opem  prouidebat inermis atque exul , seu taedio ambiguae  spei ' : V. XII 8, 1 ; 26, 8 ; fu prima applicata da Virgilio: ^ e dal modo di applicazione il Woelfflin ne dedusse che € dieso Variation flndet sich nur bei ungleich gebauten Saetzen oder Satzteilen, » ^   II.  Due osservazioni si debbono aggiungere quanto  all'uso dei casi. *   l.'' Il V. * inuidere ' costruito con l'ablativo di cosa:  Germ. 33, 5 * ne spectaculo quidera proelii inuidere  (se. nobis) '. ^ ann. I 22, 9 * ne hostes quidem sepultura     1 Cic. de inu. rhet I 3, 4. Liv. Il 39, 11. IV 58, 12. VI 27 , 7.  XXI 28, 4; 33, 10; 55, 1. XXVII 2. 9; 46, 10. XLIV 38, 10. etc  V. la monografia di F. G. Hensell, de praepos. * per ' usu Tao,  Maìb. 1876.   « Vbrg. Aen, IX 680. Vedi Manil. asiron. I 132-135. Caes b.  G, I 23, 3 ed aJtH presentano la relazione invertita * seu siue ',  che osservasi anche in Tac. ann. I 11, 9 * seu natura siue adsuetudine '. Nella n. h. di Piiaio notasi la rispondenza ' siue   uel ': XVII 223 ' siue fungum placet dici uel patellam '.   8 Woelfflin, 1. cit. dallo Zbrnial, op. e, p. 67.   4 Vedi la monografia di R. Seelisgh, de easuum obi ap. Val.  Max. usu Liu. et Taeiiei gen. rat. hab., Monasterii 1872.   5 Alcuni commentatori della Germ. dichiarano che * spectaculo ' nel 1. e. è dativo, come in Tac. ann. XIII 53, 12 ; e XV  63, 10 : V. Zbrnial, op. e, p. 66. Pais, op, e, p. 53. Ma anche  nel 1. degli ann. XV 63, 10 la frase * non inuidebo exemplo *  presenta, secondo afferma il Draeqer, ueber Synt. u. St. d,  Tae.^, § 64, p. 29, l'ablativo * exemplo \ •      161    inuìdent '. Quintiliano avverte in proposito : ^ si antiquum sermonem nostro comparemus, paene iarn quidquid  loquimur figura est : ut « hac re inuidere » non , ut  ueteres et Cicero praecipue, « hanc rem »'. ^ Il costrutto  considerato ha la conferma in alcuni 11. di Livio e  di Lucano. ^   2.° L'agg. * ferox ' con un complemento dì relazione  in ablativo: Germ. 32, 9 ' prout ferox bello et melior *.  Agr. 27, 1 ^ cuius conscienlia ac fama ferox exercìtus '.  hisL I 51, 2 ' ferox praeda gloriaque exercitus': vedi  inoltre hisL III 77, 21. IV 28, 12. V 15, 13. ann. 1 3,  20. Conformi sono gli ess. presentati da Cicerone, Sallustio, Orazio, etc. ^ Ma in altri 11. di Tacito V agg.  ' ferox ' si accompagna col genitivo, * come in Ovidio; ^  oppure con la prep. ' aduersus ' e l'accusativo. ^   III.  Per quanto concerne V uso dei modi e dei  tempi del verbo, si deve osservare :   I.v la costruzione del v. ' merere ' con V infinito :  Germ. 28, 20 * (Vbii) quamquam Romana colonia esse     » QviNTiL. i. o. IX 3, 1. Vedi Cic rase. Ili 9, 20. Hor. sai. 1  6, 49 sg,   « Liv. Il 40, 11. LvcAN. de b. e, VII 798. Ct Plin. n, h. 35, 92.  Cicerone accompagna ' inuìdeo * con V ablativo di cosa retto  dalla prep. 'in * ; v. de or. II 56, 228. p. Flacc. 29, 70. Vedi  Madvig, lai. Sprogl; e il coram. del Cocchia  a Liv. II 40, 11; Torino 1888, p. 130 sg.   3 Cia in Vatin. 2, 4. Sall Cai, 43, 4. Hor. earm. I 32, 6.   4 Tao. hist I 35. 6. ann, I 32, 11. IV 12, 7.   5 OviD. mei, VIII 613.   6 Tac. hisL III 69, 26. Notisi il costrutto col dativo in Liv.  VII 40, 8.   Consoli, La Germania comparata. U .      162    mèruerint '. ann. XV 67, 7 * diim amari meruiisti ': v.  *XIV 48, 14: tale costrutto fu accolto da Ovidio, Fedro,  ètc; ^ mentre Cicerone ed altri, attenendosi all'uso plautiriOj'diedero la preferenza al costrutto con ' ut ' o ^ ne '  e il soggiuntivo. ^   2.** il participio perfetto neutro usato al singolare  come sostantivo, in funzione di soggetto della proposizione : Germ. 31, 1 ^ et aliis Gèrmanorum populis  usurpatum raro et priuata cuiusque audenlia àpiid  Chattos in consensum uertit , ut primura adoléuerint ,  ìc'rihem barbamque submittere'. hist I 51,23 'accessit  catlide u o 1 g a t u ni , temere e r e d i t u m , decumari  iegiones et promptissimum quemque centurionum dimitti '. ann. Ili 22, 3 ' adiciebantur adulteria, ùerieiia  q u a e s i t u m q u e per Chaldaeós in doirium Caeàaris ' : à V. ann. Ili 9, 12. XV 58, 7. ** Tale sostantiva   1 OviD. in'sL V 11, 10. ex Pont IH 2, 20. Phaedr /dò. ìli 11,  7. Val. Flacc. Argon. I 519. V 223. Cf. Qvintil. /. o. X 1, 72   2 Plavt. Baceh. 1184 (V 2, 65). capt. 422 (II 3. 62; secondo  V ed. comm. dal Cocchia). Epfd. 712 (V 2, 47). Men.  217 (I 3, 34). Sdcfì. 24-26 il 1, 21-26;. Teii. Andr. 281 (I 5, 46).  hee. 760 (V l, 34). Cic de or, I 54. 232. ep.' (ad farà.) XÌV 6.  de fin. li 22, 74. de net. d. I 24, 67. (cf. in Ver\ IV 60, 135).  Ckiss.'b. G. VII 17, 5. Liv. VII 21, 6. Plin. /i. /i. 35, 8. Vedi  KuEBS-ScHMALz, antìb., II, p. 70.   3 II CoNSTANS ammétte da prima che nel 1. e. degli ann IH  22, 3 ci" sia Tuso del participio perf. passivo neutro comò soggetto della proposizione {éiude s l. languì d. Tac. , n.° 246, p.  112); poi riconosce nello stesso pariìcipio perfetto una proposizione infinitiva e non più una sostantivaz-one do! participio  (op. e, n.o 282, 12.^ p. 136): è una inesattézza dovuta a distrazione.   4 Nel citare l'es. ann. XV 58, 7 ci siamo attenuti alla * 1. ù'ulg. ':  'Taelatum erga coniuratos *. Nel cod. Med. &i legge •latatum'»      163   isione del participio perf. neutro, che manca di ess. in  Cesare e Sallustio, presentasi come un costrutto sporadico in Cicerone; frequente, invece, in Livio. '   Avvertenza, Nella Germ. non osservasi alcuno esempio del perfetto soggiuntivo di conseguenza, dipendente  ^a un tempo storico: tale costrutto notasi, al contrario,  più volte negli scritti di Tacito.    -che per il Haase diviene * non celatus tantum *, per il Halm  * clam actum *, e per il Ritter ' laeta tum nerba '. Il Ramorino  sospetta * iactatum erga coniuratos osculum. Cic. parL or. 33, 114. Liv.. XXVIII 26, 7. (cf. XXVII 45, 4). etc.  Vedi DRA.EGER, ueber Synl. u. Si. d. Tae, 3, § 211, p. 86. RieMANN, op. e, § 22, p. 104 sgg.   « Vedi Madvig, lat Sprogl, § 337, Anm. 2, p. 235. DRAEGEa,  hi8t. Synt,, § 133, p. 241 sgg.; ueber Synt u. SL d, Tae, 3, § 182,  p. 74. CoNSTANs, étude s. l langue de Tac. ANNOTAZIONI CRITICHE     AIiIiE     satire II MI e IV di Persio     ^>4>^sK-V ROMA   ERMANNO LOESCHER & C.'>   (Bretschneider e Regenherg)   Librai di 8. M. la Regina d'Italia   1905  Prezzo L. l.   m i 'à^.     SAiT'rx coM'sorii     HS^a,     Btevi Annotazioni Critiche     alle satire II III e IV di Persio Roma Ermanno Loescher & C''. (Bretschneidei e  Regenberg) Librai di S. M.la Regina d' Italia  1905, S\ pp, z8. Af.     BREVI ANNOTAZIONI CRITICHE  HLiLi^  satire II MI e IV di Persio ROMA ERMANNO LOESCHER & C:^   (Bretschneider e R^gimherg)   Librai di S. M, In Reggina d* Italift IpW. \d3.T     H»*v«?ti CdUgi Utwy   Gìh ef   Mmri* H. Morgan   Jan. l Idia     Proprietà letteraria dell' autore  (Catania^ via Maddem, lu 160)     Tipogr&iia editrice Homa dei Fratelli Per rotta, in Catania, 'imn^^'' cuy » -cg jAQO/N g» . -co^oor g»     Nel cod. Moatepessulano  (P) il Buecheler lesse indeciso  ' patru,. ' ; più chiaramente V Owen vi lesse * patruuin ' , che,  por correzione sovra pposta, osservasi, come sopra si è detto, nel  Monacense M 67. A ine pare che si debba restituire nel testo  di Persio la lezione ' patmuni ' presentata dal P. In fatto, tra  i voti immorali che si fanno alla divinità il poeta include quello  per primo, che si erediti preato dallo zio ; ma la crudezza di  tale voto, che muoia presto il parente per ereditare i beni di  lui, si vuole occultare con la finzione del decoro della famiglia,  in modo che non si chieda ^ o si ebuUiat patruus ', ^ espressione troppo dura e volgare^ ancorché si accompagni tosto con.  l' espressione vanagloriosa ' praeclarum funus ! ' ; nemmeno si  chieda ' o si ebulliat patrui praeclarum funus ', frase meno cruda ^ senza dubbio , della precedente , ma che spiace perchè è  sempre il funerale dello zio, che ardentemente si desidera : si  chieda, invece, alladivinitàcheun ' praeclarum funus ', quando  che siaj * ebulliat ' cioè dia evidenza ai meriti civili, alle qualità morali , alla distinzione della nobiltà e delle ricchezze ,  magnifichì insomma il nome autorevole del parente. Cosi non  si avrà V impudenza di cliiedere a Giove la morte dello zio ,  ma con un certo eufemiemo si manifesterà il desiderio che un  funerale splendido illustri, quando che sia, il nome e il casato  dello zìo^ e in tal modo il desiderio della morte del congiunto  appare subordinato o, dico meglio, con ipocrisia mascherato dal  voto, certamente lodevole, che sia splendidamente illustrato il  nome della famiglia, sebbene in circostanza luttuosa. Del resto,  il V, ^ obullirc 'j usato transitivamente, ebbe sempre, anche nella  In tal caso accanto ad ^ ebulliat * si dovrebbe sottintendere la voce ^ animam \ la quale, invece^ appare espressa nelle frasi : * animam  ebulliit ' di Seneca, lud, de mori, Claudii 4, 2 e di Petronio, sat cap. 42  p, 189, 2; * animam ebulUui* dello e tesso Petronio, sat cap. 62 p. 313,  1 : per Ja prima volta Persio sarebbesi privato, senza ragione, di apporre V uùQ, * animam ' al v. ^ tsbuHire ' ? latinità classi cdj il sìgniricato di ^ ìactare^ ostentare^ praedicare ';  od lina conferma ci è dato osservarlfty come ebbi a scrivere nelle  annotazioni critiche al testo di Persio p. tì3^ nota 1, in un luogo delle Tuìsc. di Cic* III 18^ 42 ' tj^ui si uirfcntes ebollire 'uolent et sapientiaa cet, '   Restituendo^ adunque, nel testo dì Persio la voce * patrnuni ^  non solo ai farà atto dì debito omaggio all' autorità del cod,  Jpf uìa, tra il contrasto dei codd. e delle edd.j si verrà a determinare la lez, in modo meglio rispondente al pensiero che il  poeta volle significare nei versi 10 e segg.     SaL li 52,   Tutti i codd. di Perno, che finora sono stati collazionati o  soltanto consultati , danno costantemente per il v. 52 la voce  ^ incussaqne ^; lo stesso osservasi ncù codd, degli e^rcerpta^ noi  quali è contenuto il y. citato* Un solo cod. di Persio fa eccezione ed è il P che presenta ' incusasque ' ; la coiTcttura ' incusaaquo * che notasi nello stesao, è di seconda mano, T^a Ica.  ^ ineussaquo ^ fu dal Jahn (ed Ma la spiegazione data dallo scoliaste fu disapprovata anche dall' Achaintre (ed. Par. 1812  p. 57).   A me pare che si debba preferire la lez. ^ laeto ' non solo  perchè ha per fondamento V autorità del cod. P. , ^ ma eziandio perchè è nell' ordine naturale delle cose che , al riceversi  un ricco dono,- il cuore per la grande gioia o , come dice una     ^ La vecchia interpretazione dello scoliaste fu confermata dal Beniley, m Hor, carm. II 19 , 6 con le parole * pect. laeu . s. sinistra parte  pectoris, ubi cor salit et sudor erumpere solet ' ; e dal Koenig * cor in  laetitiam pronum in sinistra pectoris parte lacrumas tibi excutiat ipso  gaudio ' : e a' nostri giorni è stata ripetuta dal prof. Geyza Nómethy  nel comm. alle satire di Pers. edito a Budapest nel 1903 p. 143. Alla  medesima attenendosi tradussero il Monti « il cor nel lato manco >;  il Wagner * aus der linken Brust » ; il Kayser * unter der linken  Brust » ; il Weber « zur linken Brust » ; il Binder « links aus der  Brust » ; il Duentzer « die Brust dir zur Linken » ; il Hemphill « drops  beneath your left breast». Sfuggi la questione il Fuelleborn (ed. Wien  1794 p. 61) , che tradusse « wie schlaegt vor uebergrosser Freude dir |  das Herz empor ! Schweiss rollt von deiner Wange, | und Freudenthraenen stroemen dir herab » : e la sfuggirono anche i due traduttori francesi di Persio, F. Duboys - Lamolignière (ed. Par.: « je vois  le trouble de vos sens, | et votre coeur s' épuise en longs remercfmens » )  e Vict. Develay (ed. Par. 1897 p. 1G2: « tu te pàmerais de joie et ton  coeur bondirait d' allégresse ».   2 La postilla marginale * uel leuo * (sic) del cod. P. è dovuta ad un  correttore antichissimo il quale, negli emendamenti apportati alle lezioni genuine del cod. P, dovette aver presente qualche esemplare della  recensione Sabiniana. ^loBsa del cod, Ottoburano , ^ ^ prac g:amlio esliìlaratuiu ' sì  sprema in gocce dentro il petto , che non può non sentir la  letìzia di cni eanlta il cuore. Né C' 6 ripetizione di concetto  dieendoBi ^ pectore laeto ' accanto a * laetari praetrcpidum ' ^ poiché in questa ultima ea press ione è indicata soltanto una condizione o tendenza dell' animo commosso per il dono ricevuto,  mentre con ^ pectore laeto ' si esprime quel che ne consegue  in realtà per effetto dell' offerta dei doni. All' accoglimento  della lez- * laeto ' nemmeno osta la vicinanza delle due voci  * laeto ' * laetari \ in quanto che è noto che ai Romani non  riuBci sgradita la prossimità di parole provenienti da una stessa  radice, ^ Leggo^ per ciò^ col Pithou :   I . 38i^ siano chiari e     * V.^ Alattliias ^illober, eim^ neiw Handschrift der nf'chs Satìrm dfx  A. Pers. FI , Augsburg 18tì^2 p, 24, col. l^   2 VJ per es. * omnibus ]aetitiis laetam. ' Cic. df fin. Il 4^ IB ; * Ime  purgati one purgatus erifc ' Cat. de a. e. 157, Vò ' gauisurum gfiudia ' Ter.  Andr. 9Gi (V 5, B) ; * qvianfca gaudia. ... gattdeat CatuU. 61, llìi-116;  * gaudi um gauderemuis * Cnel. ap- Cìc. fuìn. Vili 2, 1: cf. BiòL Toh, 11,  21 *cum gaudio magno gauiai sunt ' ; lùan. 3, 29 * gaudio gaudet ' ; eoe. veridici e d'efficacia maggiore quanto alla previsione del futuro,  più esplicitamente egli soggiunge : « per somnia enim siue insomnia intellegit praemonstratas curationes ac ^^py-nalo^c; ». Ma  il Plum bene avverte che all' interpretazione del Casaubon osta  « ipsa series orationis , cura in praecedente commate non de  corpore curando agitur , sed de re struenda , quae potius ad  Mercurium quam ad Aesculapiura pertinet ». Ne ci si parli di  sogni incatarrati o non incatarrati, da inferirne, come pensò il  Turnèbe, che « pituita purgatissima » valga « maxime carentia  pituita », o, come scrisse Eilhard Lubin, « omni pituita uacua  et carentia, id est nera, certa, non nana et temeraria »; perocché possono bensì gli uomini essere oppressi dalla ^ pituita ' o  malore catarrale, ma non i loro sogni.   Lo scoliaste di Pers. 2, 57 indica chiaramente in che consista  la ' pituita * ( ^ purgatio cerebri uel morbus gallinarum ' ), ma  ne conclude che gli uomini gravati da essa ^ non bona somnia  uideant '; sicché egli associa ' pituita ' con ' homines ', non  con ^ somnia ' : e sulP avviamento dello scoliaste i commentatori moderni di Persio parlano degli uomini che ^ pituita stomachi grauantur ' (ved. Némethy op. e. p. 147 ; e cfr. Hor.  sat. II 2, 75 sg.), ma evitano di congiungere in istretto legame ^ somnia ' con ' pituita '. Questo però non dovette essere  il pensiero di Persio che mise in istretta relazione ' somnia '  con ' pituita ' ; e per tanto V epiteto ' purgatissima \ al quale  si attengono tutte le edd. delle satire di Persio, perchè confermato da quasi tutti i codd. , non può rappresentarci la tradizione sincera di ciò che scrisse il poeta e si lesse dagli antichi  sino al tempo della recensione di Tryfoniano Sabino e forse  anche dopo. Per buona fortuna il cod. P, col quale concorda  in questo luogo il cod. Trevirens. del sec. IX/X, rappresenta  la lezione più sicura e genuina ' purgantissima ', la quale vedesi penetrare anche nelle letture del medio evo , come ce ne  fa fede il vestigio ' purgantis ' presentato dal cod. B àe\V opus  pì'osodiacum di Micene , verso 300 , in cui si cita appunto il veraci di Peri, 2, 57. * Or ^ con V epiteto purgantissima tutta^ a mio parare, si rende chiaro, tanto lo stretto legame eli  ' somuìa ' con ^ pituita \ ostuIantea oracula per somnani '; ed è noto^ come osservava Ci e* nelle Tnsv. IV lOj 23  che ^ cum aanguis corruptus est a ut pituita redmidat aut bilis^  in corpo re morbi aegrotatlnneaque nascuntur '.     Sat. II 71:5.   Codici j editori e imitatori di Persio non sono di accordo sulla  forma definitiva con cui debba essere fissata la voce * animxis ^  nel V. 73. La tradizione man user itta che muove dalla recensione Sabiniana afterma la lez, ^ animo \ che si osserva nei codd*  A Eh sopra citati j - nei tre codd. del sec. XI Laurentianpi. LXVIII 2% Paris, no. S049j Paria, no. ^^:?72; nel Monacens,  e. B del sec. XII e nel fìerolineus. no. 2 del see, XII o XIII;  nel Bernens* no. 648 del scc. XIII; nei due codd. del sec. XIV  Paris, no. 8050 e Rehdigeran. I; nei cinque codd. del sec. XV  Berolinenss. no. *-)H e no. .-^9 , Monacenss. no. 260 e no. \y2ij^  Kehdigeran, II; ^ nel cod, Berolinens, no, 9 del aec. XVI e nel   * V'^edi i Carmina Ct^nluìeiìsm p, ù^O^ moinun. Germ^ hùtt^ poeL Lat  ii^ui Caroìini tom. IH ex recens, Lud. Traobe, BeroU 1B96.   ^ Si scoree anche ' animo ' nella lez. ^ animimo ^ presentata dnl cod.  B di fonte oabmìana ^ I due codd, della biblioteca Jiehdigerana , Turio in pergamena del  sec. XIV e l'altro cartaceo del sec. XV, furono collazionati dallo  TzRchirner in servizio dell' ed, del KauthaJ : della collazione usufruì il  Jahn per la ' ed. maior ' del 1843. 1' Erlangens. anch' esso di data recente. La tradizione degli imitatori di Persio, che si prolungò per tutto il medio evo, si attenne alla lez. ' animi ' , la quale, in fatti, si legge nelle citazioni di Lattanzio (diu.instit. II 4 p. 126 1. 1 Lut. Paris. 1748),  dello scoliaste di Stazio (Theb. II 247 p. 81 Par. 1618), di Giovanni di Salisbury (poi. V 16 p. 319 Lugd. Bat. 1639) e del  Petrarca (epist. de rebus fam. VI 1 p. 309 voi. I ed. Fracassetti,  Firenze 1859); e si legge nei codd. degli excerpta Paris. 7647,  Paris. 17903 e Vatic. Reg. 1428 (deflorationes Persii), e nei rimanenti codd. di Persio, finora noti, eccetto il cod. P ed il  Monacens. no. 83 del sec. XII, i quali danno ' animos '.   Nemmeno gli editori di Persio, antichi e moderni, sono concordi sulla scelta : alcuni preferiscono la lez. ' animo ' , ^ altri  la lez. ' animi ' ; ^ nessuno ha scelto la lez. ' animos ' , la  quale credo che debba essere restituita nel testo, perchè è genuina e meglio adatta al contesto della frase in cui è collocata.  Che sia genuina, non alterata dalla recensione Sabiniana, ce  ne affida V autorità del cod. P che la presenta ; che si adatti  meglio alla frase risulta dalle segg. considerazioni.   Il pensiero dell' autore intorno agli elementi costitutivi della  santità dei costumi e della perfezione morale è evidente: col  ^ compositum ius fasque ' ha voluto significare, anzi tutto, V elemento estemo e formale, ossia l'elemento giuridico-religioso,  il più importante per le funzioni dell' organismo sociale róma   i Vi le edd. Casaub. 1647 p. 8; Schrevel. 1648 p. 573 e 1664 p. 542  Wetsten. (1684) p. 50 ; Prateus 1699 p. 335 ; Walth. 1765 p. 28 ; Bipontina del 1785 p. 11 ; Passow 1808 p. 13 e 1809 I p. 24 ; Weber 1826 p.  11; Hauthal 1837 p. 22; Jahn 1843 p. 28, 1851 p. 15, 1868 p. 21 ; Jahn  -Buecheler 1893 p. 22; Owen (Oxford, senza data e senza pag. nam.);  Némethy 19C6 p. 27 ; ecc.   « VM e edd. Monti p. 638; Achaintre 1812 p. 61; Casaub. 1889 (Duebner) p. XXV ; Duentzer 1844 p. 32 ; Hermann 1879 p. 7 ; Bucoiarelli  1888 p. 51; Kamorino 1905 p. 37; ecc. 11 Hermann aggiunge (praef, ed.  Lps. 1879 p. XIV) che * genetiuum tuebuntur etiam * uerba animi >  luuen. I 4, 91 ': cf. dello stesso Hermann lect. Pera., Marb. 1 842 III p. 12»  p«^lt*     - 15  ilo, con ^ anim. sanctosque recessus mentis ' V eleùietito psichico  o intimo ; e con 1' ' incoctura generoso pectus honesto ' V elemento etico dipendente dalla legge morale universale. Or, ciò  che è enunciato nel v. 73 si presenta costituito di due parti,  di cui la prima è ' compositum ius fasque ', la seconda ^ anim.  sanctosque recessus mentis \ Nessun dubbio che la prima parte  sia bimembre, cioè: a) ^ compositum ius '; b) ^ et fas ': perchè si  conservi la disposizione simmetrica della frase, è necessario che  anche la seconda parte sia pure formata di due elementi coordinati; e se uno di questi elementi è ' sanctosque recessus mentis ', V altro non può non essere costituito dall' idea espressa  mediante la voce ^ animus '.' La quale , coordinandosi , quanto  alla declinazione, nello stesso caso in cui sono espressi i ' sanctos  recessus mentis ', come prima il ^ compositum ius fasque % deve  essere nella forma dell' acc. 'animos', non del genit. 'animi' né  dell' abl. ' animo ', che se, rispetto alla sintassi, possono tollerarsi,  per quel che spetta alla disposizione simmetrica della frase ed  all'espressione del concetto, non sono, a mio parere, sostenibili. ^ Del resto , 1' avvicinamento di ' animus' con ' mens ', che  potrebbe parere una espressione sovrabbondante, per la prossimità di significato delle due voci considerate , non era per i  Romani cosa insolita. Plauto scrisse (trin. 454 [II 4, 53]): ' satin  tu's sanus mentis aut animi tui '; ^ e Cicerone (Cat. m. 11, 36):  ' nec nero corpori solum subueniendum est, sed menti atque animo  multo magis'; e Virgilio (Aen. VI 11 sg.): ' magnam cui mentem animumque | Delius inspirat uates ' ; e Orazio (epist. I 14,  8 sg.) : ' istuc mens animusque | fert '; e Stazio (silu. Per tal motivo gli edd. sono stati costretti a metterà il gen. ' animi ' o V abl. ' animo ' in dipendenza da ^ fasque ', disquilibrando cosi  tutta la frase e confondendo quanto si attiene ai sentimenti deir animo  con le esteriorità del formalismo religioso: cf. Servio, camm. in Verg.  georg, I 269, p. 193 , voi. Ili Th. * ad religionem fas, ad homlnes iura  pertinent. '   2 Neil' ed. Ck>ccbia , Torino 1886 p. 69, 4 è scritto: * satin tu sanu's  m. a. a. t. '9g,) : ' et te iara fecerat ilH [ men^ aniinusque patroni * : altri  ess, per brevità cimmetto.   Leggo, per tanto, i w. 73-74 della sat. II di Persio ;   * composi tuta ìus fasqae, anitnos sanctosqua recessus  mentiS} et in eoe tutu generoso pdctua honesto \     Bai, II T:).   Dalla recensione 8abiniana dovette prendere le mosse la lez,  * adiiioueani ' che ^W editori di Persio, quasi tuttij ^ fissarono  nel V* 75 della sat. II : e se noi cod. B^ di tonte, conte si è  dettOj Habiniana , appare ^ adinoucani \ la quale lez, riappare  circa cinque secoli dopo^ nel cod, Rebdigeran, I, ciò si deve ,  giusta la nota avvertenza del Criisiusj - al fatto che nei coddantichi non si distinzione chiaramente le forme del verbo  ^admoucù^ da quelle del verbo ^admoneo \ La lez. *adnìoneani'  trovasi semplificata in Mnoueani' nei codd. del sec. XI Pariss,  nobenhavn)  no* 2028, Monacens. no. Ìì80; nel cod. Ebneriano del sec* XI/XII,  collazionato dal Hermann; nel Bernens. no. 048 del sec. XIIT,  nel Paris, no. 80p")0 dfd sec. XIV: e sono variazioni dovixtc a  deviazioni di copista negligfontc u troppo dotto le forme  ' uoueam ' del cod. Bernens. no. f-ì98 del sec* X, * moneas ' del  cod. Paris» no. 8055 del sec. XI e *admoueas' del cod. Einsiedlens. no. i\2% del sec* XV.   Anteriore alla recensione Sabiniana dovette essere la lez.  ' admoueant ', di cui ci dà una preziosa testimonianza il cod.     ' Dico n quaìi tutti > ^ perchè ho letto * advnouoant ' soltant3 nelle  due edd. 1048 e 1GG4 delio Sdire veli us e uell* e^l. preparata dal Wetstenius.   * Crusius , in Sueton. dia. Clmtd. 39^ (ir cf, K F. C. Wunderlich j in  TiòulL IV Ij 189 Cpaneg. Mesmllat^) F^ * confermata , molto tempo dopo ^ dal cod. BeroliOp no, 49  del sec, XVI j e, nella forma semplificata ' moucant \ dal cod,  Monacens, M 67 del sec* XV* La lez, del P si adatta meglio  alla frase esaminata, poiché, disponendone in modo diretto  le parole , bì ha ^ cedo ut admoiieant (se. homines) templi^  haec i. e. composìtum ìua fasqne, anim. sanct. ree. ment. ^ et  incoct, gen* p ect. hon.j et farro litabo \ Sicché il pensiero dell' autore sarebbe: lascia che gli uomini ai accostino al tempio,  avendo nell'animo i nobili sentimenti dì giustizia, di pietà, di  onestà ecc., ed allora anch' io farò un sacrificio semplice e gradito di farro. Le parole ' conipositum Ìu3 fasque cet* * sono  usate nel 1. cit. con la funzione sintattica di coniplcm* oggetto  di * admoueant ', e la sintesi delle stesse si compendia nel pron,  * haec 'ì e però non si deve distìnguere con forte interpunzione  la fine del v, 74 dal principio del v. 75, dove il prou, ' liaec '  serve , come ho detto , di riepìlogo ai due versi precedenti : *  basta la vìrgola, leggendosi così il testo: ' e. i. f., a. s. r. | m.^  et Ìp g, p, honesto, | haec cedo ut admoueant tempi is, et farre  litabo ', II Buecheler riconosce che il /* dà ' admoueant * , ma, quasi petf  confortare con la tastimoniaaza del F la le^. ^ adnioueam \ che egli ha  scelta^ soggiunge che le due lettere finali nt rassomigliano alla m; ras^  somiglianza che non osservò , e perciò non ne prese nota , V Owen , il  qnale^ dopo il Buecheler, riesaminò e collazionò il cod. F. Perciò segnarono inopportunamente il punto fermo dopo * honesto *  il Waltbard, il Monti, il Passo w, il Casaubon (ed. Duebner, 1839), il Jahn  (edd. 1851 e 1368), il Hermann, il Bucoìarelli, ecc. ; il punto interrogativo il Casaub. (od. 1647), lo Scbrevel.^ il Wetsten*, 1^ ed, Biponfc. , V A^  chaintre^ il Kamorino, ecc.; il punto interrogativo insieme con V ammirativo il Hauthal; il segno dì due punti il Prateus , il Weber , il Bue^  cheler (III ed. del 1B93), l'Owen, il NémethVj ecc. La virgola dopo la  V. ' houesto ' fa segnata dal Jahn neir ed. del 1843 e dal Duentzer  nell'ed. 1644.     Gongoli, BreiJÌ aimot crit alle satin II, Iti e IV di Fersw, À  Sat. Ili 23.   La tradizione manoscritta, sia quella che muove dalla recensione Sabiniana ed ha i suoi più autorevoli rappresentanti nei  codd. A B, sia quella che proviene da una recensione anteriore  alla Sabiniana ed è rappresentata dal cod, P, dà concordemente per il V. 23 della sat. III la lez. ^ udura et molle lutum est': presentano anche ^ est ' il cod. reg. Londinens. e  due codd. del sec. XV, cioè il Monacens. M 67 ed il Basileens.  F. III. 6. Quante edd. di Persio ho avuto sott' occhio, sino alle  tre più recenti, cioè Ted. inglese delPOwen, Ted. ungherese del  Némethy e Ped. italiana del Ramorino, presentano costantemente,  invece di *'est', la lez. ^es', la quale si osserva in alcune imitazioni della frase di Persio fatte nel medio evo, come p, es. in  quello che scrissero Hildeberto, vescovo Cenomanense, nella mordi,  philos. quaest. I n. 40 col. 1037 B t. CLXXI ed. Migne, e Giovanni di Salisbury nel polìcrat, lib. VII cap. 19 p, 484 ed, Lugd.  Bat. 1639. Ma Pietro di Blois, che cita lo stesso luogo di Persio jxqW epist, LXXIV ad G. archidiaconum p. Ili col. 1* ed.  Sim. Piget, Par. 1667, ommette il verbo, scrivendo ^ udum et  molle lutum nunc nunc properandus, cet. '; e da tale ommissione  è facile argomentare che egli abbia letto ' est ' nel testo di  Persio , forma verbale più agevole a sottintendersi che non  ' es '. La stessa ommissione notasi nel cod. Berolinens. no. 2  del sec. XII o XIII, che presenta ' lutum nunc es properandus ' ;  sicché con ' lutum ' si chiude la prima proposizione e, cominciando con ^ nunc ' la seconda , non si può prescindere dallo  accompagnare ^ es ' con ^ properandus ' anziché con ^ lutum '.  Credo, per tanto, che si debba restituire nel testo di Persio  la lez. presentata dai codd. PAB e da altri codd. di minore  autorità, leggendosi nel 1. e. ' udum et molle lutum est ' come  una considerazione in generale , che fa il censore , introdotto  nel discorso dall' autore, sul tempo più opportuno per ottenere  il maggior profitto dall' educazione e dall' istruzione. Poi lo  stesso interlocutore, volgendosi al giovane neghittoso, lo ammonisce , come passando dalla considerazione generale al caso particolare di lui : ' nunc nunc properandus es ' ; ed insistendo  neir immagine tratta dalP arte del vasellaio , soggiunge : ^ et  acri fingendus es sine fine rota \ Cosi si viene a dare alle  voci ' udum et molle ' una funzione predicativa di ' lutum '  {' lutum est udum et molle '), come se dicesse: la creta è umida  e morbida e adatta ad essere maneggiata dal vasellaio. Quale  necessità di rivolgersi all' adolescente per fare una considerazione generale e impersonale, che la creta è pronta ? E opportuno, invece, il rivolgere la parola al giovane per esortarlo a  educarsi ed istruirsi , essendone in tempo. L' imbarazzo degli  edd. dovette essere, se mal non mi appongo, quell'incontro di  ^ udum et molle lutum est ' con le due forme participiali di  gen. maschile ^ properandus ' e ^ fingendus '; e però s'indussero  a fare di ^ udum et molle ' un attributo di ' lutum ' , costituendo ' tu ' soggetto sottinteso anche della proposizione che  deve conservare un carattere objettivo di concetto generico e  indipendente dalle condizioni degli interlocutori. Ma la difficoltà si elimina agevolmente fissando da prima una forte punteggiatura dopo ^ est ' , perchè resti nettamente determinato il  concetto generale dell' età più adatta all' educazione intellettuale  e morale; e poi, sulla traccia della lez. ' nunc es properandus '  presentata dal cod. Berolinens. no. 2 sopra citato , scrivendo  properandu's e fingendu's. Sai. Ili 60.   La lez. ' dirigis ', accolta dal maggior numero dei codd. e  degli edd. di Persio, piglia le mosse dalla recensione Sabiniana  e fondasi sui due codd. A B, Il correttore antichissimo del cod. P, il quale dovette avere a guida pelle sue emendazioni un esemplare di fonte Sabiniana, accetta anch' egli la lez. dirigis . Un’emendazione di seconda mano fatta sul cod. A muta dirigis in derigis, lezione approvata e accolta dai recenti edd. di Persio, Buecheler (Beri), Owen, Némethy. Il cod. P presenta, invece, In lez. dì modo soggiuntivo dirìgas, la quale, sebbene trascurata da tutti gli edd.j a me pare che debba essere restituita  nel testo di Persio, in quanto clie vale a denotare la possibilità  che ci sia qualche cosa verso cui si diriga l’arco, dello stesso  modo come più sotto è detto securus quo pes ferat Maj perchè bene si adatti il v. dirigas in dipendenza dalla frase est aliquid, è necessario, per rispondenza simmetrica delle parti nello stesso periodo sintattico, che il verbo precedente tendis posto anch'esso in una relativa subordinata, si muti in tendas. Cosicché j ove si voglia fare lieta accoglienza alla lez. presentata dal cod, Pf è necessario che il verso citato sìa lotto :   ^ est alìquìd quo tend&s et ìd quod dirlgas arcani \     JSat, III 93.   Nulla avrei da osservare sulla legittimità della fonna chiusa  di part. futuro ^ loturo ', che loggesi in quasi tutte le edd, di  Persio nel v, cit., ne della forma aperta lauturo ^, la quale fu  accolta dal Hauthat (ed. Lps.) : ^ questa ultima  è presentata dai codd. del sec. XI Paris, no. 8049; Paris, no.  8272, Monaeens. F//, Monaceus, no. 330; da altri due codd.  Monacensi del sec. XII , cioè Ìl cod. e. 3 e quello contenuto nel cod. segnato Kr/89. a ; e dal cod. Guelferbyt. Aug, 29. 12  del sec. XIII. La forma chiusa ^ loturo ' risale ad un' emendazione di seconda mano fatta al cod. A. , poiché tanto questo  i[uantQ il cod. B hanno ^ locu}>o ' , in cui il Buecheler credette  scorgere ' locnro '; ed osservasi anche nel cod. XXXVII 19  della bibl. Laurenzianaj del ecc. XI, esaminato di recente dal  Kamorino.   Leggesi * laturo ' nel cod. P e noi due codd. del sec, XI  Paris, no, 8048 e Bemcns, no. 327: nel cod. mutilo Bernens. si legge ^ laturo ' con la lettera ù sopra- Egli però non ne addusse le ragioni nelle Anmerkufìgen ^sur drUten  iSatirej scritta all' a ; e perciò la lez. si ricongiungerebbe con V emendazione antica segnata da seconda mano nel cod. A. Ma, se le  forme ^ lauturo ' e ' loturo ' non sono da rifiutarsi , si può dichiarare senz' altro come inaccettabile la forma ' laturo ', scritta  prima, come pare probabile, ^ luturo ' nel cod. P ?   Io credo che no ; perciocché , se accanto al v. ^ lauere '  fu accolto nella lingua il v. ^ lauare ' , la forma del supino  preclassica e classica ^ fu sempre ^ lauatum ' , come la forma  classica del part. perfetto fu sempre ^ lautus '. Non e' è dubbio  che dal tema del supino classico ' lauatum ' sia nato il part.  futuro ' lauaturus ' , che si osserva in Ovid. fast. Ili 12 ^ sacra  lauaturas mane petebat aquas ' : e da ' lauaturus ' , per il tramite normale laaturus, ebbe origine per contrazione la forma  ' laturus ' , di cui il cod. P ed altri codd. sopra notati ci danno conferma. Non sarebbe, dunque, contrario alle leggi fonetiche dell'idioma latino l'accogliere nel testo di Persio la lez.  ^ laturo ', che ha per fondamento l' autorità del cod. P : e della  presente annotazione vorranno tener conto, mi auguro, i lessigrafi della lingua latina. Sat. Ili 97. Il cod. P dà ^ sepellitur istas ' per il v. 97 della sat. Ili:  nei codd. ^ JS si legge ^ sepeliit urestas', che gli edd. tutti di  Persio hanno interpretato ' sepeli: tu restas ' , aggiunto o non  il punto interrogativo in fine. Per ispiegare la frase ^ tu restas ' , alcuni commentatori di Persio ricorrono al sottinteso  ' mihi sepeliendus ' ; ^ altri equiparano ^ tu restas ' a ' uiuis  adhuc et uiuis , ut mihi grauia praecipias ' ^ ovvero a ' tu     A Vedi Terent. hautt.  ; Hor. sat 1 3, 137.   * Il Némethy, ed. cit. p. 200, a conferma delle voci da sottintendersi  ^ mihi sepeliendus ' adduce il confronto con Hor. sat l 9, 28 : ' omnes  conposui. felices! nunc ego resto '.   3 Vi V ed. del Prateus, Lond. iiiìlii adlmc tutor restaa ': altri ancora, come Tommaso Farnal)io itA.) , interpretano ' tu cout(?m[)tnr pliiloi^opliorum  r4 p. 557 t, e dal Wetsteu. p. l>5 &.   ^ V* i luoghi Gitati delle edd, SchreveL e Wetsten. J Forse per tal motivo, o non per nuovo e più diligente esame del  cod. , il Jabn s^ indusse it scrivere nelle note critiche delU sua ed. 4 ' sepsi i tur istas ' C, che iìqIP ei. IBJl p* 20 aveva scritto   * seppelHtur istag ' C.   ^ La ragione metrica rifiuta altresì Del Inogo commentato la formu.   * sepe.lil ' j morfologicamente corretta, che dmmo due codd. del sec. X,  cioè il Bernens, no. 257 ed il Leìdoiis. no. 7H; due codd. del se&. XI,  ossia il Bernens. no, ^J2T ed il Paria. 8070; il Behdigerdu. II del sec. XVj  e inoltre il cod. reg. Londinens , la cui collazioaej fatta dal Bentley, fu  pubblicata nel Chtìisk. Jouni, Il cod. Beroens,  del sec. XIII, che presenta ' sepeliui * , om mette di couseguenza il ' tu '  a fin d' evitare che un piede deir esametro dattilico sia di tre sillabe  lunghe. Debbo notare che vi è incertezza intorno alla parola in esame, citata da Nonio Marcello. L' ed. Aldina Vea,  dà ' riisitatis *; T ed.dicativo di ^ risito ' la seconda pers. sing. dovrebbe essere stata,  secondo la flessione normale, *risitas, da cui, per sincope della  i breve della penultima sillaba, gradita forse nel linguaggio familiare, sarebbe nata ' ristas ' = « ridi spesso, ridi di frequente ». E però nel v. cit. di Persio ben si adatta ' tu ristas ?'  per significare il pensiero del giovane avido di piaceri anche  presso a morire, il quale al monitore risponde : " non essermi  come un tutore ; da più tempo V ho fatto seppellire „ : e, quasi  accorgendosi d' un sorriso ironico sulle labbra dell' interlocutore  che lo vede morente per intemperanza, gli chiede : « tu ne rid i  spesso ? » Talché il monitore, annoiato di tanta persistenza nel  male, gli risponde : ^ perge, tacebo '.   Concludendo, io son d' opinione che si debba rendere anche  per il V. 97 il dovuto omaggio al cod. P, leggendo :   ' iam pridem hunc sepeli. tu ristas ? * ' perge, tacebo '.     Sai. Ili 107.   Gli edd. di Persio leggono, tutti concordemente, il v. su indicato : ^ tange, miser, uenas et pone in pectore dextram ' . Non  nego che si possa leggere bene cosi il v. di Persio ; ma il cod.  P invece di ' dextram ' presenta ^ dextra ' : non si può in alcun  modo far posto a tale lez. ? I concetti espressi nel verso sono  due, ben distinti V uno dall' altro : a) tocca i polsi ; b) metti  la destra sul petto : il complem. oggetto del primo verbo ^ tange '  è ' uenas ' ; del secondo verbo ^ pone ' è ^ dextram ' . Nulla però  vieta che si possa intendere che i polsi si tocchino con la destra ; né e' è nulla che vieti che la destra, dopo aver tastati i     luniana Antv. risitant * (e cosi è citata nel Ipssìco Forcellini-De  Vit la 2^. ed. Merceriana Par.   risitantis '. Carrio  lesse * risitantes ', donde la congettura del Bothe ' missitantes % gradita al Georges, ausfUhrl. Handtvb, II col : al Vossio piacque congetturare ' usitant '. polsi, si poggi sul petto dell* ammalato. Può^ quindi^ il primo  concetto mettersi in istretto legame col secondo mediante il  aervizio comune della mano deatra j come se T autore dicesse:  ^ Ungej mìser, uenas dextra ot pone («e, eam) in pectore \ E  ciò può ben risultare dal verso considerato, leggendolo : tange, miser^ uenaa (et pooe in pectore) dexfcra ^ ,   Cosi nulla vieta che si dia posto alla lez. * dextra ' del cod.  P\ sebbene da quello inciso ' et pone in pectore ' derivi , uè  convengo anch' io^ un che di stenta to^ cUe^ del rcsto^ non sarebbe alieno dallo stile di Persio e di altri poeti satirici latini.     SaL IV 9.   Son d- opinione che nel cit. y, 9 si debba restituire il pron,  ' il] ut % nella fonna appunto che è presentata dal cod» P, e  la restituzione debba farai in tutti e due i luoghi^ nei quali ivi  è adoperato; ^ cosicché il v, di Persio sia da leggersi:  hoo puta non ìustum est^ illat male, recti ub illut ^ .   Né osta all' accoglimento di ^ illnt ^ la singolarità della forma  con la desinenza in -tj che non è rara , come a prima vista  potrebbe parere* In fatto^ come è notOj altri ess, di ^ illut ' ci  porgono i coddp Plautini ^ uetus ' o Vatìcanno (B) e ^ decurtatus ^ del se e» XI (C) al presente di nuovo in  Heidelberg ; il cod. Tereuziano Bembin. o Vatican,  del  sec. IV/A-^ (A) ; il palinsesto torinese del sec. IV/V (orazione  dì Cic. prò Tuli.) ; il palinsesto Vatican. Reg. 2077 del sec.     ^ Avverto^ in nota, che nel 2^* dei due IL indicati sostituiscono * istud '  al pron. dimostrativo che ivi è adoperato quattro codd. del sec, XI^ cioè  i Monacenss, Ffl e no. 330 ed i Pari ss. no- 8048 e no* 8070 ; tre codd.  del sec. XII, che sono il Monacens. no. 83, il Paris. 8246, il Berolinena,  no. 2; ed altri codd, più recenti. contenente le Verrin. di Cic. ; il cod. Vatican. - Basilio .  H 25 del sec. IX, in cui si contengono le Philipp, di Cic. ; ^  il cod. Paris. 5764 del s. XI/XII, che contiene i comm. de 6.  ciu. di Cesare; il palinsesto veronese del sec. V delle institutiones  di Gaio ; ecc. ^ Altri ess. presenta il Corpus inscr. Lat. : . ecc. Sat. Tanto il cod. P quanto i codd. A B danno concordemente  ' potis est ' per il v. 13 : la stessa lez. si ripete nel florilegio  contenuto nel cod. Monacens. no. 4423 del sec. XV. Una correzione di seconda mano fatta sul cod. A sostituisce ' potis es ' ;  e questa lez. osservasi nel cod. Laurenziano 19 del  sec. XI e, sotto cancellatura, nel cod. Paris, no. 8272 del medesimo sec. ^ Gli edd. di Persio hanno tutti accettato V emen-  dazione del correttore del cod. A, scrivendo il v. di Persio :   * et potis es nigrum uitio praefigere theta '.   Io credo che si debba ritornare alla lez. dei codd. P A B,  restituendo nel testo di Persio V espressione ' potis est ' : e mi  conferma in questa opinione, anzi tutto, il fatto che i dotti del  medio evo lessero ^ potis est ' nel verso citato , come ne fanno  fede Isidoro (sec. VI -VII) * e Giovanni di Salisbury; ^ e in secondo luogo una ragione ermeneutica. Al gio-     A Vi Mai, class, auct t. II pp. 7 e 810.  Il Neue (Formenlehre der lateinischen Sprache, III Auflage von C.  Wagener, Beri. Calvary) nelP elenco degli ess. sopra  menzionati trascura la lez. del cod. P di Persio.   ^ Non si può tener conto della lez. , evidentemente errata , * potis e  nigrum ' , che presenta il cod. Paris, no. 8048 del sec. XI.   4 Isidorus, on'g. I 23, 1 col. 837, 18 : * et potis est nigrum uitio prae-  figere tbeta '.   5 Ioannes Saresberiensis , policrat VI 18 p. 371, 36, ed. Io. Maire ^  Lugd. Bat.: et potis est nigrum uitiis praefigere theta '. vnìm aiiibizinso, ^il qua lo * inveii ìum e è rerum prudentia Meìùi  I ante pìlos neiut ' , il saggio pn^cettore dico : ^ scia etenim iu-^  ttum geuiina suspendere [unee | ancipiti^ librac '5 e tosto 90"^*i  giunge : ^ rectuui diseeniis ' ; e di taile discernimento fa, quanta  air obietto, tre ipotesi: a) ubi inter curmi aubit ' (^c. roc*'  tuiuj , cioè, couie spiega il prof. Geyza Németh^j  etiam  tuTii, cum difficìlo est rectum a non recto discern^ra * ; ò) ^ nel  cuui fa Hit pedo regula uaro ' , perehn il ^ aumnium iua ' è non  di rad^ì ^ aumina iniurjfi \ donde la necossità di mitigare U ri-  gore delle leggi eoi principi dell'equità; e) ^ et potis est Jii-  gi'Uin uitio praefigere tlieta % ossia la possibilità, in generale^  di punire ì colpevoli. Questa terza ipotesi v in istretto legame,  logieo e sintattico, con la precedente; e su il poeta ha preferito  avvalersi generalmente de IT espressione ^ uel cum fnllit \ non  potevasi, tanto per V unità di concetto quanto per la diretta di-  pendenza di ^ potis ,.. ' dalla stessa espressione ' nel cum ' eli e  regge il ' fallìt * precedente, non poteviisi^ dicevo^ venire al  verbo di feconda pers. es ' , ma era da con servarsi, per V ob-  biettività (mi si conceda V uso, qui necessario, della voce nuo-  va) della considerazione generale, la stessa terza pers. che si  V notata tanto in 'fallii ' quanto in * subit \   1 jCggo , d un q ne, coi miglio r i co dfl . di Pc r sio e sccond o la tra -  dizione conservata dai dntti nell'etìi di mezzo; et potis est nigrum uitio praefigere thefca,  Jn tutte le edd. di Persio si leggr;   ' ingetntfc ^ hoc bene sìt ' tunicatum ciirn stile mordens  cae|)e ^ ,  Kémethy, op, eìt. p* 21%  Ma il cod. P dà ' mordes ' invece di ^ mordens ' ; e , tutto-  ché il correttore antichissimo vi abbia apposto V emciidazioiui  ' mordens ' , fondata sulla recensione Sabiniana , io non credo  che la lez. genuina del P si possa senz' altro rifiutare. Tutti i  commentatori spiegano il passo cit. che V autore ci voglia pre-  sentare un tristo avaro , il quale , mordendo una cipolla con  sale, mormori soddisfatto ' hoc bene sit '. Secondo la lez, del  cod. P appare, invece, che l'avaro non si congratuli soltanto  con sé stesso del vilissimo cibo che mangia, ma ne faccia quasi  un'esortazione a chi conversi con lui, sulla bontà dei cibi frugali, di poca o nessuna spesa; onde il verso dovrebbe leggersi:   * ingemit « hoc bene, si tunicatum cum sale mordes  caepe » ' .   E in tal modo si rende necessario mutare ^ sit ' ì\\ ^ si ' ;  ma con ciò io non credo che si venga a forzare la parchi per  coordinarla con la lez. del P ^ mordes ' , poiché a me pare di  essere nel vero ammettendo che la t finale di ^ sit ' sia dovuta  air efficacia della pronunzia dejla lettera iniziale della voce  seg. ^ tunicatum ' : e non é improbabile che chi scrisse il P  abbia trovato, nelP esemplare da cui traeva V apografo, il nesso  ^ situnicatum ' e V abbia diviso, senza ben riflettere al mordes seg. , in  sit tunicatum '. Laonde non credo di essere in fallo  riconoscendo per vero che Tryfoniano Sabino, quando i^i accinse  ad emendare il testo di Persio, siasi trovato , recensendo il v., dinanzi alla difficoltà del ' sit ' coordinato con mordes e che abbia opinato di superarla lasciando ' sit ' e correggendo  ^ mordes ' in ^ mordens ' , che poi si ripetè nei codd. che ebbero  a fondamento la recensione di lui.   D'altro canto, non sarebbe sintatticamente inesatto se ai lasciasse coesistere il ^ sit ' col ^ mordes ' , leggendo : ingemit « hon (bene sit !) tunicatum cum sale mordes  caepe t;   ma spiace quell' indicazione di un fatto come realmente avve- mitoj mediante il ^ inordos ' di modo indicativo, laddove s' intenda t* eprime re un invito o consiglio o sollecitazione a man-  g"iare cipolle con sale.   La restituzione della lez. presentata dal P, con la sostila-  aion© della voce ^ si ' al v. * sit \ ha questo di vantaggio sulla  lez. coin un eniente segui taj che, oltre al dare maggiore evidenza  alla tìgura delP avaro che predica agli altri la bontà dei cibi  tiomplici y naturali e di poco o nessun costo ^ ha il merito di  evitare il cumolo dei due participi ' metuena ' e ^ niordens ' (o incidens come è scritto nel cod, Paris, no. 8050 dell' a. 1321}  e di conservare meglio la simmetria della frase.     Sat- IV 51.   La lez. * est ' invece di ' es ' nel v. 51 è data tanto dal  cod- P quanto dai codd, di fonte tSabiniana A B; e si osserva  ripetuta nel cod* Paris, no, 80oO scr. nel sec. XTV e nel cod.  Basileens. f\ III. 6 dtjl sec, XV, Olì edd, tutti l'hanno rifiu-  tata, ma a torto ^ ed hanno ammesso la lez. * es ' che appare  la prima volta in nn^ emendazione di seconda mano notata nel  cod, A e si ripete nel cod. Laurenziano XXXVII 19 del sec.  XL Dico eh a gli edd. l'hanno rifiutata a torto ^ perche il  pensiero dell' autore non è di consigliare il rifiuto dì ciò che  una perso uà non èj ma il disdegno per tutto quello che in real-  tà non t% cioè il disdegno per lo vane apjiarenze e per le cose  che non hanno valore alcuno: insomuia, il contenuto del consi-  glio che da 1' autore ha un* estensione objettiva maggiore chn  non resti espressa col verbo in seconda persoua * es \ Io cre-  do, per tanto ^ che si debba ritornare alla lez, presentata dai  codd, pili autorevoli, leggendo il verso su indicato di Pera io:  respue quod non estj tolUt sua muoera cerdo  K\in opere del Prof. Dott. Santi CirasDli : IIuIIòitkIc sninimntlk Ul brng for Koriitke og Danske, Catania , 1BB4.  L. 3. (in Oì?itu presso E. Ilaul'fs boghantlel, Krif>tiauìaj in Norvegia).   MHit/Aoiil di Ihii^nm kitmti espoF^te, fieeondo il mefcoLlo scientìfico , agli  al u imi dille scuole secondarie olaasicho. Ci^taaia^ F, Tropea, 18BT«  L. :i, 50 (esaurito),   Iiitrodii/ioue il Ilo studio del l>. K. — Torino^ Fratelli Bocca, ItiSH. L. Ci  (esaurito).   Fotioloiriu lutimu — 2'' ediz. riveduta e migliorata. — Milano, U. Hoepli.  im-2. L. 1, 50.   Lettera! lira no r ventatiMilano^ U. Hoepli De Cp Ffìiiiì CiiceilH 8ceiiiidl rlietorick s^tudll^,  Catiuae , C. Galatola ,  18^7, L 3 (esaurito).   Il neoloferismo iioflì Berltti di Plinio lì giovane. Contributo agli studi sulla  Uitiiiit^'i ar^outeti. ^ Palermo, A. Reber^ 1900. L. 3.   Neidosrìsnii 1)otiimei nei earinì biieoUei e g^jorgricl di Yì Icilio, Contributo  agli ytudl sulla latlcitfi dell' evo augusteo»  Palermo , A* ftebor .   Té* tt Ilio re ilei libro De origine et sitn (Teruiauorum ,| ; ricercke critiche,  Jtioma, E. Loeseher & a-, . L. 8.   Li Germauia, comparata con la Natni'alis lilstoria, di Plinio e eoli lo opero di Tnelto: ricerche lessigrafiche e sìutiitticbe. E orna, E.  Loe^cher & C", 19(Xl L a   ^^otc eritieiic e liìbilogi^Uciie di lettemtura latina^ puutata. I.  Catania^  Barba gai lo Lt Scuderi A« Pernii FI aeei saturartim libtr ; recensuit, adnotatione critica instruxit,  te stimolila usque ad saeculum XV addidlt Santi Consoli. Editio  maior. llomae, apud Hermannurn Loescher et socium. Note eritlelio e bibUoj^i'atìclie di lettemtuni latina, puntata II. Catania,  Fratelli Perrotta, MM, L 1,   A. Pei-sil Flacei satnrariini Hbcr ; recensuit Santi Consoli. Editio miaor.  EomaOi apud Hermann uni Loescher et socium, 19CM. L. 1,     Di prossima pubblicasiione :  Le fonti delie satire di Persio. Up Bf«v! afinm^lonE (critiche alle Set ì. Santi Consoli. S. Consoli. Consoli. Keywords: deutero-esperanto. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Consoli.” Consoli.

 

Luigi Speranza -- Grice e Conte: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del sacrificio – scuola di Pavia – filosofia lombarda -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Pavia). Filosofo paviano. Filosofo Lombardo. Filosofo Italiano.  Pavia, Lombardia. Grice: “Must say I love Conte – he  has almost the same talent for linguistic coinage that I do! In Italy ‘filosofia del diritto’ is much more respectable a discipline that it is at Oxford! But Conte managed to keep it philosophically interesting for the philosopher’s philosopher that I am!” “Conte proves that moral philosophy is at the heart of philosopohy qua-uni-virtue – for the critique of reason must include the buletic – and that’s all that Conte dedicates his philosophy too! Into the bargain, he expands into concepts like sacrifice, punishment, ‘fiducia’ (my principle of conversational trust), and so much more!” “He plays with language the way only Heidegger did in German and I in English!” Grice: “Conte is what I – and Italians – would call a ‘Griceian conversationali pragmaticist.’” Studia a Pavia e Padova. Si laurea a Torino sotto Bobbio con “Ius naturale.” Insegna a Pavia. Si occupa della semiotica del performativo deontico o buletico, la regola eidetico-costitutive, validità buletica – desirabilita -- deontica, modo imperativo, prammatica conversazionale – alla Grice. In che cosa consiste quell’’impero’, dal quale il modo imperativo prende il nome. Altre opere: “Interpretazione analogica. Pavia, Tipografia del Libro, “Ius ed ordine” (Torino, Giappichelli). Primi argomenti per una critica del normativismo. Pavia, Tipografia del Libro, Ricerca d'un paradosso deontico” (Pavia, Tipografia del Libro); Nove studi sul linguaggio normativo. Torino, Giappichelli); Filosofia del linguaggio normativo. I. Studi; Torino, Giappichelli, Filosofia del linguaggio normativo. II. Studi; Con una nota di Bobbio. Torino, Giappichelli); Imperativo ed ordine. Studi Torino, Giappichelli); Filosofia del linguaggio normativo. III. Studi, Torino, Giappichelli); Filosofia del diritto” (Milano, Cortina); Ricerche di Filosofia del diritto” Torino, Giappichelli); “Res ex nomine” (Napoli, Editoriale Scientifica); “Sociologia filosofica del diritto. Torino, Giappichelli); “Adelaster. Il nome del vero” (Milano, LED). È inventore del genere da lui chiamato "eido-gramma" ed autore di numerosi eidogrammi, solo parzialmente éditi:  Nella parola. Osnago, Pulcino elefante, Kenningar. Bari, Adriatica. "Per una critica della ragione deontica" (introduzione alla Filosofia del linguaggio normativo).  Pragmatica. Filosofia del diritto Logica deontica Ontologia Performativo (atto verbale) Pragmatica Semiotica Semantica.To undertake to set forth with any definiteness the  ‘religious’ – or eschatological -- ideas of ''a Roman philosopher'' – FILOSOFO ROMANO -- would be an  extremely difficult task.Those, ideas would differ  with the individual and the sect, being determined or varied by a  number of considerations and influences — by locality,  education, and temperament. SILIO would not hold  the views of SEIO. We may speak of the state religion – colto officiale -- of ROMA, as  distinct from various other ‘religions’ tolerated and  practised in different parts, but it is  scarcely possible to define the contents of that  ‘state religion’ – il SACERDOCIO. There are certain special priests  and priestly bodies who see to it that certain rites  and ceremonies are performed scrupulously in a  prescribed manner and on prescribed dates. But these  are officers of the state – LO STATO ROMANO -- whose knowledge and  functions are confined to the ritual observances with  which they have to deal. They are not persons  trained in a system of ‘theology’, nor are they  preachers of a code of doctrines or morals. They have no "cure of souls," and belong to no church. They  have no credo and no Bible or corresponding authority to which to refer. Though most well-informed  persons will know the prominent  deities in the calendar — such as IOVE or MARTE, or QUIRINO -- perhaps scarcely any one but an encyclopaedist or antiquarian could have named one-half of  the total. It is not merely that the deities on the  list are so numerous. There are other reasons for  ignorance or vagueness. In the first place, the line  between the operations of one deity and those of another is often too fine to draw, and deities originally  more or less distinct come to be confused or identified. Secondly, it is often hard, if not impossible, to  make up one's mind whether a so-called deity — such  as SPES — is supposed to have  a real existence, or whether it is simply the personification of an abstract quality. Thirdly, divinities fall out of fashion, and to a  large extent out of memory, while new ones come, or were  coming, into vogue.  The state possesses its old-established calendar of days sacred to a number of deities, and its code of  ritual to be performed in their honour. There are ancient prescriptions as to what certain priests should  wear, what they should do or avoid in their priestly  character, what victims — ox, sheep, or pig — they  should sacrifice, what instruments they should use for  the purpose, and in what formula of words they  should pray in particular connections. There is a  standing commission, with the PONTIFICE MASSIMO at this date that excellent religious authority, the emperor — at its head, to safeguard the state  religion, to see that its requirements are carried out,  and that no one ventures to commit an outrage  towards it. But the state will not tell you  with any precision that you must believe in just so  many deities and no others. It would not tell  you precisely what notions to entertain concerning  those deities whom it does officially recognise. The state  dictates no theological doctrine; neither does it dictate  any moral doctrine beyond those which you would  find in the secular law. It reserves the right to  prevent the introduction of a foreign divinity  if it finds sufficient cause; but so long as the  temples, the rites and ceremonies, the cardinal moral  axioms of the Roman ''religion,'' and the basic  principles of Roman society are respected, the state  practises no sort of inquisition into your beliefs or  non-beliefs, and in no way interferes with your  particular selection of favourite deities. Poly-theism in an advanced commimity is always  tolerant, because it is necessarily always indefinite. What it does not readily endure is an organised attack  upon the entire system, whether openly avowed or  manifestly implied. Even undisguised unbelief in  any deity at all it is often willing to tolerate, so long  as the unbelief is rather A MATTER OF PHILOSOPHICAL DIALECTICS than  anything else, and makes no attempt at a crusade.  When a state so disposed is found to interfere with a  novel religion, it will generally be easy to perceive  that the jealousy is not on behalf of the deities nor  of a creed, but on behalf of the community in its political, economic, or social aspect. Let us endeavour to realise  as best we can the religious situation among the  Roman population.  Though we are not here directly concerned with  the steps by which the Roman religion had come to  be what it was, we can scarcely hope to understand  the position without some comprehension of that  development. The Romans are a CONSERVATIVE people, and many of the peculiarities of their worship  are due to the retention of old forms which had lost  such spirit as they once possessed. In the infant days of the nation there had been no such things as gods in human shape, or in recognisable  shape at all. There were only ''powers" or "influences'' superior to mankind, by whose aid or concurrence man must work out his existence. The early  Romans and such Italian tribes - as they became  blended with were, as they still are, EXTREMELEY SUPERSTITIOUS. In a pre-scientific age they, like other  peoples, are at a loss to understand what produces  a thunder or a lightning, rain, the fertility or failure of  crops, the changes of the seasons, the flow or cessation  of springs and streams, the intoxication or exhilaration proceeding from wine, and a multitude of other  phenomena. Fire is a perplexing thing; so is  wind. The woods are full of mysterious sounds and  movements. They could comprehend neither birth  nor death, nor the fructification of plants. The  consequence is a feeling that these things are due to some unseen agency; and the attempt is made to  bring those powers into some sort of relation with  mankind, either by the compulsion of magical operations and magical formulae, or by sacrifices and offerings of propitiation, or by promises. A superhuman  power might be placed under a spell, or placated with  food and drink, or persuaded by a vow. Such  "powers" were exceedingly numerous. Greatest of  all, and recognised equally by all, was the power  working in the sky with the thunder and the rain.  Its presence was everywhere alike, and its bperations  most palpable at every season. Countless others were  concerned with particular localities or with particular  functions. Every wood, if not every tree, and also  every fountain, was controlled by some such higher  'power'; every manifestation or operation of nature  came from such an 'influence.'' There was no kind of  action or undertaking, no new stage of life or change  of condition, which did not depend for help or hin-  drance upon a similar power. At first "the ''powers"  bore no distinctive names, and were conceived in no  definite shapes. They were not yet gods. The  human being who sought to work upon them to  favour him could only do, say, and offer such things  as he thought likely to move them. But in process of  time it became inevitable that these superhuman  agencies should be referred to under some sort of  title, and the title literally expressed the conception.  Hence a multitude of names. Not only was there  the ever-prominent Jupiter or sky-father " ; there  was a veritable multitude^ of powers with provinces great and small. Among the larger conceptions the  power concerned with the sowing of seed was Saturn,  that with the growth of crops was Ceres, that with  the blazing of fire was Vesta. Among the smaller,  the power which taught a babe to eat was Edulia,  that which attended the bringing home of a bride was  Domiduca. The ability to speak or to walk was  supposed to be imparted by separate agencies named  accordingly. Flowers depended on Flora and fruits  on Pomona.   But to assign a name is a great step towards  creating a ''power'' into a ''god,'' and such agencies  began to take shape in the mind of those who named  them. This was the second stage. Jupiter, Ceres,  Satmn, and almost all the rest became "gods." The  powers in the woodlands — a Silvanus or Faunus —  became embodied, like the more modem gnomes and  kobbolds. Once imagine a shape, and the tendency  is to give it visible form in an image "like unto man,*'  and to honour it with an abode — a temple or shrine.  The earliest Romans known to us erected no images  or temples, but they were not long in creating them.  Particularly rapid was the reducing of a god to  human form when they came into close contact with  the Etruscans and the Greeks. For all the important  deities poetry and art combined to evolve an  appropriate bodily form, which gradually became  conventional, so that the ordinary notion of a Jupiter,  a Juno, a Mercury, or a Ceres was approximately that  which had been gathered from the statue thus  developed. This trouble was not taken with all the most ancient divinities. Many of the old rural and  local deities, and many of those with quite minor  provinces, were left vague and unrealised. They  were represented in no temples and by no statues. Natiu'ally as the Roman state grew from a set of  neighbouring farms into a great city, and from a small  settlement into a vast empire, the little local gods fell  into the background. The deities which concerned  the state, and to which it erected temples, were those  with the more far-reaching operations — such as the gods identified with the sky and its thunders, with  war, with fertility, with the sea, with the hearth-fire  of all Rome. The rest might well be left to localities  or to domestic worship.   From the early days of Rome there existed a  calendar for festivals to certain divinities important  to the little growing town, and a code of ceremonies  to be performed in their honour, and of formulae of  prayer to be offered to them. The later Romans, in  their characteristic conservatism, adhered to those  festivals, to that ritual, and to those formulae, even  when some of the deities had ceased to be of appreci-  able account, and when neither the meaning of the  ritual nor the sense of the old words was any longer  imderstood by the very priests who used them.   Reflect a moment on this situation. First, we  have a number of deities of the first rank, housed in  temples, embodied in statues, and recognised in all  the Roman world; next a number of minor divinities  whose operations and worship may be remotely rural  or otherwise local, and whose functions are by no  means always distinguishable from those of the  greater gods; then a series of more or less un-  intelligible ceremonials carried out by ancient rule  in honoiu" of divinities often practically forgotten ;  outside these a number of vague powers presiding  over small domestic and other actions; finally, a  peculiar Roman tendency — in keeping with the last  — to erect into divinities, and to symbolise in statues  housed in temples, all manner of abstract qualities and states, such as Hope, Harmony, Peace, Wealth,  Health, Fame, and Youth.   Reflect agam that, when the Romans, as they  spread, came into contact with Greeks, Egyptians, or  other foreigners, they met with deities whose provinces  were necessarily often identical with or closely akin      Fio. 110. — A Sacrifice.     to their own. Then remember that there is no  church and no official document to define the complete  list of Roman gods. Does it not follow, as a matter  of course, on the one hand, that the importation of  new gods was an easy matter, and on the other, that  no individual Roman could draw the line as to the  number of even the old-established deities in whom  he should or should not believe? The guardians of the public reUgion were satisfied  if the due rites were paid by the state to those deities,  on those. dates, and precisely in that manner, which  happened to be prescribed in the official religious  books. For the rest they left matters to the  individual.   So much it has been necessary to say in order to  account for existing attitudes. We must use the  plural, since the attitude of the state officials is but  one of several, and, inasmuch as the state officials  themselves were not a theological caste but only  secular servants of the community administering  the regulations for external worship as laid down in  the records, it often happened that their official  attitude had nothing to do with their individual  beliefs. Often they did not know or care whether  there was a real religious efficacy in the acts which  they performed ; sometimes all that they knew was  that they were doing what the state required to be  done properly by some one.   Cicero quotes a dictum of a Pontifex Maximus  that there was one religion of the poet, another of  the philosopher, and another of the statesman. This  is true, but it is hardly adequate. We must at least  add that of the common people. A well-known  statement of more modern birth puts the case — rather  too strongly — that at our period all religions were  regarded by the people as equally true, by the phi-  losopher as equally false and by the statesman as  equally useful. We may begin with the ordinary  people of whatever station, who were not poets nor thinkers nor magistrates. It is an error to  suppose that such Romans of the first eentiu'y were  either atheistic or indifferent to religion. Their fault  was rather that they were too superstitious, ready to  believe too much rather than too Uttle, but to beUeve  without relating their beUef to conduct. They did  not question the existence of the traditional gods,  nor the characters attributed to them; they were  ready to perform their dues of worship and to make  their due offerings, but all this had no bearing  upon their own morality. They believed with the  terror of the superstitious in omens and portents, and  in rites of expiation and purification to avert the  threatened evil. They were alarmed by thunder and  lightning, earthquakes, bad dreams, ravens seen on  the wrong side of the road, and other evil tokens.  They commonly accepted the existence of maUgn  spirits, including ghosts. They were prepared to  believe that on occasion a statue had bled or turned  round on its base; that an ox had spoken in  human language; or that there had been a rain of  blood. There were doubtless exceptions, and super-  stition was less dire and oppressive than once it  was. More than fifty years before our date Cicero  had said that even old women no longer shuddered  at the terrors of an underworld, and fifty years  after it the satirist asserts the same of children.  But both writers are speaking somewhat hyper-  bolically. Doubtless it had been wondered how  two augurs could look at each other without a  smile, but there is nothing to show that even a minority of augurs were acutely conscious of any-  thing to smile at.   In the multiplicity of deities the ordinary people  were prepared to accept as many more as you chose  to offer them, especially if the worship attaching to  them contained mystic or orgiastic ceremonies. By  this date the populace had become exceedingly mixed,  especially in the capital, and the cool hard-headed  Roman stock had been largely replaced or leavened  by foreign elements, especially from the East. The  official worship of the state was formal and frigid ; it  offered nothing to the emotions or the hopes. Many  among the people felt an instinct for something more  sacramental, and especially attractive was any form  of worship which promised a continued existence,  and probably a happier existence, after death. Even  the mere mysteriousness of a form of worship had its  allurements. Hence a tendency to Judaism, still  more to the Egyptian worship of Isis and Osiris.  The latter made many proselytes, particularly among  the women, and contained ideas which are by no  means ignoble but to our modern minds far more  truly ''religious'' than anything to be found in the  native Roman cults. To pass through purification,  to practise asceticism, to feel that there was a life  beyond the grave apportioned to your deserts, to go  through an impressive form of worship held every  day, and to have the emotion^-thus worked upon —  all this supplied something to the moral nature which  was lacking in the chill sacrifices and prayers to  Jupiter and the other national divinities. In vain had the authorities, in their doubt as to the moral  effects, tried on several occasions to suppress this  foreign worship; it always revived, and it now held  its established place both in the imperial city and in the provinces, particularly near the sea, for it was  especially a sailors' religion. Rome, like Pompeii,  had its temple of Isis and her daily celebrations.  There was, however, no necessary conflict between  this worship and the oflScial religion. It was quite  possible to accept Isis while accepting Jupiter. Nor, though this particular cult has required mention,  must it be taken as belonging to more than a section  of the Roman population. Most Romans would look  upon it and other deviations with acquiescence, some  with contempt, and perhaps some with a shake of the  head, while themselves satisfied with an indifferent  conformity to the more estabUshed customs of the  state.   Setting aside the devotees of the mystic, the more  ordinary point of view was that between Romans and  the established gods of Rome there is an understanding.  The gods will support Rome so long as Rome pays to  them their dues of formal recognition. Their ritual  must not be neglected by the authorities; it is not  necessary for an individual member of the community  to concern himself further in the matter. The  state, through its appointed ministers, will make the  necessary sacrifices and say the necessary words;  the citizen need not put in an appearance or take  any part. He will not do or say anything dis-  respectful towards the deities in question, and he will  enjoy the festivals belonging to them. If remarkable  portents and disasters occur, he will agree that there  is something wrong in the behavioiu* of the state,  and that there must be some public purification or  other placation of the gods. If the state orders such  a proceeding, he will perform whatever may be his  share in it. So far he is loyal to the ''religion of  the state.''   In his private capacity he has his own wants,  fears, and hopes. He therefore betakes himself to whatever divinity he considers most likely to help  him; he makes his own prayers and vows an offering  if his request is granted. Reduced to plain commercial  language his ordinary attitude is — no success, no  payment. A cardinal difference between the religion  of the Romans and our own is to be seen in the nature  of their prayers. They always ask for some definite  advantage — prosperity, safety, health, or the like.  They never pray for a clean heart or for some moral  improvement. Of more importance than the man's  moral condition will be his scrupulous observance  of the right external practices. Unlike the Greek,  he will cover his head when he prays. He will raise  his hand to his lips before the statue, or, if he is  appealing to the celestial deities, he will stretch his  palms upwards above his head ; if to the infernal  powers, he will hold them downwards. These are  the things that matter.   At home, if he belongs to the better type of  representative citizen, our Roman has his household  shrine and his household divinities, whom he never  neglects. If he is very pious, he may pray to them  every morning, or at least before every enterprise.  In any case he will remember them with a small  offering when he dines. There are the ''gods of the  stores" — his ''penates'' — certain deities whom he  has selected as guardians of his belongings, and who  have their little images by the hearth in the  kitchen. There is the household ''protector," or  more commonly there are two, who may be painted  under the form of Ughtly-stepping youths in a little niche or shrine above a small altar. To these  he will offer fruits, flowers, incense, and cakes.  And there is the ''Genius'' of the master of the  house, who is also painted on the wall, or who  may be represented by his own portrait bust or by  the pictxu-e of a snake. That "Genius" means the  power presiding over his vitality and health and well-  being. If he is an artisan and belongs to a guild, he  will pay special worship to the patron god or goddess  of that, guild — to Vesta, if he is a baker, to Minerva,  if he is a fuller. Out of doors he will find a street  shrine in the wall at a crossing, pertaining to the  tutelary god of what may be called his ''parish,'' and  this he will not neglect. Like all other orthodox  Romans he will not undertake any new enterprise —  betrothal, marriage, journey, or important business —  without ascertaining that the auspices are favourable.   In a general way he has a notion that the gods  are displeased at certain forms of crime, and that  they approve of justice and the carrying out of  compacts. The gods overlook the state, because the  state engages them so to do, and therefore to break  the laws of the state is to anger the gods of the state.  But this is rather subtle for the common man, and  there is generally no understood immediate relation  between these gods and his moral conduct, unless he has  sworn an oath by one or other of them. The purpose  of calling a god to witness is to bring upon a perjurer  the anger of the offended deity. But he entertains  no such conception as the modem one of "sin" or of  "remorse for sin." "Sin" is either a breach of the secular law or breach of a contract with a deity,  and ''remorse'' is but fear of or regret for the  consequences.   His morality is determined by the laws of the state,  family discipUne, and social custom. For that reason  his vices on the positive side will mostly be those of  his appetites, and on the negative side a want of  charity and compassion. He may be guiltless of lying  and stealing, murder and violence; he may be honest  and law-abiding ; but there .is nothing to make him  temperate, continent, or gentle. His avowed code is  duty,' and duty is defined by law and tradition.   If this is the religious condition of the conunon-  place man or woman — a blend of superstition,  formalism, and tolerance — it is by no means that of  the educated thinker. Such persons were for the  most part freethinkers. Many of them, finding no  better guide to conduct, conform to the "religion" of  the state without any real belief in its gods or  attaching any importance to its ceremonies. They  do not feel called upon to propagate any other views,  and they probably think the current notions are at  least as good fqr the ignorant as any others. If they  are poets, like Horace or Lucan, they will dress up  the mythology, mostly from Greek models, and write  fluently about Jupiter and Juno, Venus and Mercury,  either attributing to them the recognised characters  and legends, or varying them so as to make them  more picturesque and interesting — perhaps even improving them — but all the time believing no more in the stories they are telling^ or in the deities them-  selves,* than Tennyson need have beUeved in King  Arthur and Guinevere. The gods are good poetic  material and are sure to afford popular, or at least in-  offensive, reading. The poets doubtless do something  to hiunanise and beautify the popular conception of  a deity, but they seldom deUberately set out with any  such purpose. If the educated are not poets, but  pubUc men of affairs, they may beUeve just as Uttle,  and yet regard the established cult of the gods as an  excellent discipline for the vulgar and the best known  means of upholding the national principle of ''duty.''  If they are philosophers they may not, and the  Epicureans in reality do not, beUeve in the gods at all  — certainly not as they are generally conceived — and  will openly discuss in speech and in writing the ques-  tion of their existence or non-existence, and of their  character and nature if they do exist. They will  endeavour to substitute for the barren formalism of  rites and ceremonies, or the inconsistent or incomplete  traditional morality of duty, another set of principles  as a sounder guide to life and conduct. Some are  monotheists, some are simply in doubt. Says Nero's  own tutor, Seneca, ''Do you want to propitiate the  gods? Then be good. The true worshipper of the  gods is he who acts like them." "Better," remarks  Plutarch, "not believe in a God at all than cringe  before a god who is worse than the worst of men."  In the actual worship of images none of them believe.  One conspicuous writer of the time says : "To look for  a form and shape to a god, I consider to be a mark of human feebleness of mind." Concerning the schools  of thought and in particular the tenets of those Stoics  and Epicureans whom St. Paul met at Athens, and  whom he could meet in educated circles all over the  Roman Empire, we shall have to speak in a following  chapter, when sununing up the intellectual and moral  condition of the time. Meanwhile it should be under-  stood that, though a profound or anything approaching a professional study of philosophy was discouraged  among the true Romans — more than once the profes-  sional philosophers were banished from the capital —  there were few cultivated persons who did not to  some extent dabble in it, and even go so far as  to profess an adherence to one school or another.  None of these men believed in the "Roman religion"  as administered by the state, although many of  them were administering it themselves. The same  man could one day freely discuss the gods in con-  versation or a treatise, and the next he might be  clad in priestly garb and officially seeing that the  rites of sacrifice were being religiously carried out in  terms of the books, or that the auspices were being  properly taken.   It does not, however, follow at all that because  poet or public man cared nothing for the pantheon  and all its mythology, he was therefore without his  superstitions. He might still tremble at signs and  portents, at comets, at dreams, and at the un-  propitious behaviom* of birds and beasts. He might  believe in astrology and resort to its professors, called  the ''Chaldaeans." On the other hand he might  laugh at such things. It was all a matter of tempera-  ment. It certainly was not every man who dared to  act like one of the Roman admirals. When it was  reported that the omens were unpropitious to an  inuninent battle because the sacred chickens ''would  not eat," he ordered them to be thrown into the sea  so that at least they might drink. The freethinkers  were in advance of their times. "Science" in the  modern sense hardly existed, and until phenomena  are explained it is hard to avoid a perplexity or  astonishment which is equivalent to superstition.     Consider now these various states of mind — that  of the people, ready to add almost any deity to the  large and vague number aheady recognised ; that of  the poet, who finds the deities such useful literary  material ; that of the magistrate or public man, who,  without enthusiasm or necessary belief, regards  reUgion as a thing useful to society; and that  of the philosopher, who thinks all the current re-  Ugious conceptions unsound, if not absurd, and  morally almost useless.   Manifestly a society so composed will be one of  unusual tolerance. The Romans had no disposition  to force their religion on the subject provinces of the  empire. Their religion was the Roman religion; the  rehgion of the Greeks might be left Greek, the Jewish  religion Jewish, and the Egyptian religion Egyptian.  Any nation had a right to the religion of its fathers.  Nay, the Jews had such peculiar notions about a  Sabbath day and other matters that a Jew was exempted from the military service which would  have compelled him to break his national laws. All  religions were permitted, so long as they were national  religions. Also all religious views were permitted to  the individual, so long as they were not considered  dangerous to the empire or imperial rule, or so long as  they threatened no appreciable harm to the social  order. If a Jew came to Rome and practised Judaism,  well and good. It was, in the eyes of the Romans, a  narrow-minded and uncharitable religion, marked by  many strange and absurd practices and superstitions,  but if a misguided oriental people liked to indulge in  it, well and good. Even if a Roman became a  proselyte to Judaism, well and good, so long as he did  not flout the official reUgion of his own country. If  the Egyptians chose to worship cats, ibises, and  crocodiles, that was theii^ affair, so long as they let  other people alone. In Gaul, it is true, the emperor  Claudius, predecessor of Nero, had put down the Druids.  Earlier still the Druids had already been interfered  with ; but that was because the Druids — those weird  old white-sheeted men with their long beards and  strange magic — are performing human sacrifices —  burning men alive in wicker frames — and such  conduct was not pnly contrary to the secular law of  Rome, but even to natural law. And when Claudius  finally suppressed them, or drove the remnant out of  Gaul into Britain, it was not simply because they  worshipped non-Roman gods and performed non-  Roman rites, but because they were, as they had  always notoriously been, a dangerous political influence interfering with the proper canying out of  the Roman government.   And when we come to Christianity it must be  remarked that, so long as that nascent religion was  regarded as merely a variety of Judaism, it was actu-  ally protected by the Roman power, and owes no  little of its original progress to the fact. In the  Acts of the Apostles it is always from the Roman  governor that St. Paul receives, not only the fairest,  but the most courteous treatment. It is the Jews  who persecute him and work up difficulties against  him, because to them he is a renegade and is weaning  away their people. To the philosophers at Athens he  appears as the preacher of a new philosophy, and  they think him a "smatterer" in such subjects. To  the Roman he is a man charged by a certain com-  munity with being dangerous to social order, to wit,  causing factious disturbances and profaning the  temple; and since he refuses to let the local author-  ities judge his case, and has exercised his citizen  privilege by appealing to Caesar, to Caesar he is  sent. And, when a prisoner in somewhat free  custody at Rome, note that he is permitted to speak  ''with all freedom,'' and that in the first instance he  is acquitted.   True, but the fact remains that Nero bimit  Christians in his gardens after the great fire of Rome,  and that certain later emperors are found punishing  Christians merely for avowing themselves such. Why  was Christianity thus singled out? It was not  through what can be reasonably called ''religious intolerance/' for, as has been said, the Romans did  not seek to force Roman religion on other peoples,  nor did they make any inquisition into the beUefs of  Romans themselves. The reasons for singling out  Christianity for special treatment are obvious enough.  The question is not whether the reasons were sound,  whether the Romans properly understood or tried to  understand, whether they could be as wise before the  event as we are after it, but whether the motive was  what we should call a religious" one. To allow  Epicureans to deny the existence of gods at all, and  to make scornful concessions to the peculiar tenets of  Jews, could not be the action of a people which was  bigoted. If there was bigotry and intolerance, it was  political or social bigotry and intolerance, not reUgious.  To prevent any possible misconception let the present  writer say here that he considers the principles of  Christianity, as laid down by its Founder and as spread  by St. Paul, to have been the most humanizing and  civilising influence ever brought to bear upon society.  But that is not the point. The early Christians were  treated as they were, not because they held non-  Roman views, but because they held anti-Roman  views ; not because they did not believe in Jupiter  and Venus, but because they refused to let any one  else believe in them; not because they threatened to  weaken Roman faith, but because they threatened to  weaken and even to wreck the whole fabric of Roman  society ; not because they were known to be heretics,  but because they were supposed to be disloyal; not  because they converted men, but because they appeared to convert them into dangerous characters.  As it has been put, the Christians were regarded as  the ''Nihilists" of the period. We are apt to judge  the Romans from the standpoint of Christianity  dominant and understood; it is fairer to judge them  from the standpoint of a dominant pagan empire  looking on at a strange new phenomenon altogether  misunderstood and often deliberately misrepresented.  Moreover — and the point is worth more attention  than it commonly receives — we have only to read the  Epistles to the Corinthians, to perceive that the early  Christian gatherings were by no means always such  meek, pure, and model assemblages as they are almost  always assumed to have been. Some of the members,  for instance, quarrelled and ''were drunken.". There  were evidently many unworthy members of the new  communion, and of course there were also many  manifestations of insulting bigotry on their part. The  class of society to which the Christians belonged was  closely associated in the Roman mind with the rabble and the slave, if not with criminals. What the pagan  observer saw in the new religion was "a pestilent superstition," "hatred of the human race," "a malevolent  superstition." He thought its practices to be connected  with magic. The intransigeant Christian refused to  take the customary oath in the law courts, and there-  fore appeared to menace a trustworthy administration  of the law. He took no interest in the affairs of the  empire, but talked of another king and his coming  kingdom, and he appeared to be an enemy to the  Roman power. He held what appeared to be secret meetings, although the empire rigidly suppressed all  secret societies. He weakened the martial spirit of  the soldier. He divided f amiUes — the basis of Roman  society— against themselves. He was a socialist  leveller. He threatened with ruin all the trades  connected with either the established worship — as  amongst the silversmiths at Ephesus — or with the  luxuries and amusements of Ufe. Those amusements  in circus or amphitheatre he hated, and therefore  appeared misanthropic. He not only stood aloof  from the religious observances of the state and the  household, but treated them with contempt or  abhorrence.   Moreover, at this date, he refused to acknowledge  the one great symbol of the imperial authority. This was the statue of the emperor. When that statue  was set up in every town it was not understood by  any intelligent man that the emperor was actually a  god, or that, when incense was burnt before the statue,  it was being burned to the emperor himself as deity.  But just as every householder had his attendant  Genius'' — the power determining his vital functions  and well-being — which was often represented as a  bust with the man's own features, so the statue of  the Augustus, ''His Highness," represented the Genius  of that Head of the State, and the offering of incense  was meant as an appeal to the Genius to keep the  emperor and the imperial power ''in health and  wealth long to live." The man who refused to make  such an offering was necessarily considered to be ill-  disposed to the majesty and welfare of the Head of the State, and therefore of the state itself. The Roman  attitude towards the early Christians was partly that  of a modern government towards Nihilists, and partly  that of a generation or two ago to a blend of extreme  Radical with extreme atheist. We are not here concerned with the whole story of  the persecution of the Christians, but only with the  situation at and immediately after the date we have  chosen. It is at least quite cer ain that when Nero  burned the Christians in the year 64 he was treating  them, not as the adherents of a religion, but as social  criminals or nuisances. How far his notions of  Christianity may have been influenced by Poppaea  we do not know. At least he believed he was  pleasing the populace.  Grice: “Conte quotes from Aristotle’s Soph. El. On the ‘homonimia’ of deon’ – “sometimes for the good, but sometimes for the bad.” Conte distinguishes between semantic ambiguity – surely ‘must’ or the imperative mode does not have TWO senses – and ambivalenza prammatica. Since Aristotle is refusing to use Frege’s idea of ‘Sinn’, and keep referring to ‘semeion’ (Latin segnare) rather, we may well conclude that Aristotle is just Greek Grice. Conte does not dwell much on the imperative mode. Modo imperativo is qualified. Modo is qualified as being modo verbale – the mode of the verb impero. But then the future in French has a ‘valore imperativo.’ Conte is more interested in the ‘must.’ But surely his quoting from Philippa Foot and his joint work with von Wright into Kant’s hypo versus cate is very Griceian! On top, Conte has a taste for local historical analysis and has discovered some gems in some jurisprudential philosophers of his ‘paese’!”  Amedeo Giovanni Conte. Keywords: il sacrificio, the sorry story of deontic logic, fondatore della logica deontica al Ghislieri di Pavia, il giuridico, giudicare, giuridicare, impiego, employ (as noun), employ-ment, empiegamento, Conte e Wright – Wright cited by Grice, alethic --. Wright on change cited by Grice in “Actions and Events”, Mario Casotti, Volere, Grice, Volere --. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Conte” – The Swimming-Pool Library. Conte.

 

Luigi Speranza -- Grice e Contestabile: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale di BRVNO al rogo – scuola di Teano – filosofia casertese – filosofia campanese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Teano). Filosofo casertese. Filosofo campanese. Filosofo italiano. Teano, Caserta, Campania. Grice: “I love Contestabile; I love a philosopher with a sense of humour! At Oxford, it has become increasingly difficult to laugh at people’s surnames! But ‘grice’ means ‘pig,’ in Norwegian! – Anyway, Contestabile contests a revisionist account of Bruno’s life – “surely he wasn’t a coward – I know because of his links with the Campanella whom my family supported in his fight against the furriners!” Cacciato con una telefonata» Intervista di Dino Martirano, Corriere della sera. Con il Psi non ho ricoperto grandi incarichi ma ho avuto l'onore di essere stato amico di Craxi. Mi mancherà la politica ma non è una tragedia. Torno ai miei studi, alla filosofia medioevale. Mi mancheranno certi momenti. Io, che ero stato nel Psi fin quando la procura della Repubblica lo ha sciolto, ricordo bene i mesi trascorsi al ministero della Giustizia: col ministro Biondi fummo i protagonisti del tentativo fallito, però generoso, di riportare la giustizia sui binari della normalità. Sciolto il partito [Psi], chi si è fatto maomettano, chi ebreo, chi cattolico. Però sempre socialisti siamo rimasti. Avvocato e politico italiano Sottosegretario di Stato del Ministero della Giustizia Presidente Berlusconi Predecessore Sorice Successore Mirone Vicepresidente del Senato della Repubblica Presidente Mancino Senatore della Repubblica Italiana Legislature Gruppo parlamentare Forza Italia Circoscrizione Lombardia Collegio Cinisello Balsamo, Vigevano Incarichi parlamentari Sottosegretario di Stato per la grazia e giustizia Sito istituzionale Dati generali Partito politico FI Titolo di studio Laurea in giurisprudenza Professione avvocato. Avvocato e politico italiano.  Laureato in giurisprudenza, esercita la professione di avvocato. Entra in politica iscrivendosi al Partito Socialista Italiano (partito a cui è appartenuto fino agli eventi che hanno travolto tale formazione politica)[1]. In seguito aderisce a Forza Italia, affermando che in tale movimento politico l'area socialista era ben accolta e rappresentata. Viene eletto senatore ed è rieletto anche nelle due successive legislature. Vicepresidente del Senato. Incarichi parlamentariModifica Ha fatto parte delle seguenti commissioni parlamentari: Affari costituzionali e giustizia; Difesa. Membro, inoltre, della giunta per le elezioni e immunità parlamentari.  Sottosegretario di StatoModifica È stato sottosegretario di Stato per la Grazia e giustizia nel primo governo di Silvio Berlusconi. Tutti i figli e i figliastri del garofano. su qn.quotidiano.net. Adnkronos - Psi: C. a De Michelis, noi stiamo bene in FI ^ Senato - XIII legislatura Voci correlate Modifica Governo Berlusconi I Partito Socialista Italiano  C., su Senato.it - legislatura, Parlamento italiano. C., su Senato.it - XIII legislatura, Parlamento italiano. Domenico Contestabile, su Senato.it - legislatura, Parlamento italiano. Biografie Portale Biografie Politica Portale Politica Socialismo Portale Socialismo. PAGINE CORRELATE Fabrizio Cicchitto politico italiano  Maceratini politico e avvocato italiano  Scamarcio politico italiano   Altre saggi: Bruno: una revisione contestata” – La storia della filosofia è continua revisione, e non mi scandalizzo per il revisionismo bruniano. Mi sembra però che questi non colga nel segno. La vita diBruno, dalla fuga da S. Domenico Maggiore a Napoli fino al rogo di Campo dei Fiori a Roma, è di singolare coerenza. È una vita “contro”. L’accusa implicita di opportunismo mi sembra perciò singolare. E’ vero che, durante il processo, ritratta molte sue tesi, e avrebbe avuto salva la vita se continua in questo atteggiamento. Alla fine però si stanca, e scolge lucidamente di morire. È opportunista chi cerca solo di salvare la pelle, e poi decide di morire perché ritiene che il suoi giudice ha esagerato? In quanto alla tesi sul Bruno spia elisabettiana, essa non è provata, anzi è smentita dalla comparazione tra la grafia di Bruno e quella dei biglietti di spionaggio. Infine, la tesi a proposito della relazione tra Campanella e Bruno non mi ha mai convinto. Campanella (la sua rivolta e finanziata dalla nobile famiglia C., come ricorda Firpo nel suo ottimo saggio sul processo a Campanella) vuole poi un regime “comunista”? A leggere “La città del sole” non si direbbe.  (CA  ui  i) e iui Mia ba, VA  dai ‘agi LS  it Il    EGR Ln  i \ LA va Di =  | Pome Rm Te  ti n. i Li  I e Aa Kt Hlirpogt] lb pi  n 9 ha So Rif [a E Ji >    a  ILLE di pe  LIS   ia      Giordano Bruno       DRAMMA MILANO  Tipografia Commercial  n als  dtt,    TORIO EMANUELE, Carnevale.{Resta sapore PERSONAGGI BRUNO (si veda) Sig. G. SALASSA  LORENZO (figlio naturale di  GIORDANO BRUNO, «dot-    tato:da).. ... ». > A.D'ANDRADE  ROMANO DEI LOMBARDI «+. > F. MIGLIARA    LEANDRO giovine patrizio. S.ra ANGIOLETTI    LAURA figlia di ROMANO. >» A. Busi  IL GRANDE INQUISITORE . Sig. SALVARANI ROCCO LILLE DAMIANI    ANDREA. Ni agN°  UNGUARDIANO) che nonparlano N. N.  UN OsTE .. Ni Ni    Giovani e Nobili Veneziani, Servi di Romano,  Gondolieri, Seguaci di Bruno, Soldati, In-  quisitori, Si Servi del S. Uffizio,  Frati e Popolo.    L'azione del 1.° e 2.° Atto è in Veni  quella del:3.° e 4.° Atto in Re ber a  pieni  Sofee  bi;   pece  SUIT ZIA  PIAZZA IN VENEZIA, Un’Osteria e alcune seggiole. In fondo un canale  praticabile, che traversa la scena. Sul canale un  ponte, che mette in un viottolo, sull'angolo del  quale sorge a destra, un magnifico Palazzo illumi  minato a festa, prospiciente sul Canale. .Un in-  gresso laterale, illuminato da faci fisse ai muri, con-  ducedal viottolo nel Palazzo. La porta principale verso .  il Canale è aperta; durante la scena seguente, visi vedono approdare gondole, dalle quali scendono persone  ragguardevoli, che, ricevute dai servi, entrano nel  Palazzo.  Sera. i  TI,    GIOVANI e NOBILI VENEZIANI, parte ‘in abiti fanta-  stici con mezza maschera al volto, e parte in abiti  comuni, vengono da sinistra, traversano il ponte,  e dalla strada entrano nel Palazzo. LEANDRO,  ROCCO ed altri Giovani vanno e vengono ferman-  dosi sulla Piazza, cantando e ridendo, Poi LQ-  RENZO e LAURA.    Leandro  (accompagnandosi colla ghitarra)    A te, Venezia bella, adorata,  A te, mia sposa, la serenata. HEVVPETIAIAMITEREZI LIA VITE RENTAL rara rr ovinantosinezineneisevazize vecio sinioneee  IVTIPRErTA:Itr rara rirevenaatos aes szereris cva:i0e vice vi’ veve’ ’avurecovio sr 0uIvI vare ri [tti STA    Hocco  (Volgendosi all’osteria)    Leandro, scuotiti!  Le mura adori?...  Vieni ove brillano  Divini amori,  Ove donzelle  Cotanto belle  Potrai mirar.    Coro dei nobili  Al convito n’andiam! alla festa!    Leandro    Prima di venir alla gran festa  Distruggere io vo’ un'idea funesta!  Oste, su via porgetemi  Vino di Cipro; a questo petto ardente Occorre del più vecchio e più potente.  Vivan le belle  Danzanti; volano. Gli occhi fiammeggiano  Più che le stelle;  Ne’ Joro vortici  Mi ruban Vanima....  sui Crudo gioir!  «__°’Più non mi muovo Suolo dolcissimo, ir       belt  r__Frrrrrr n  -  a-rt-rvreorosoeeriovoe nueva zeranen sonia mise eeerarmierereriiovnieteacivoteote0ie    Nido mio nuovo!   Muoio in tue braccia...  Santo delir! |   A te, Venezia bella, adorata,   A te, mia sposa, la serenata,    Coro  AI Convito! n’andiam alla festa.  (S'appressano in una gondola LAURA e LORENZO) Eaurna    Sul mare immenso  più non impera   Nè sulla terra  che la circonda.Venezia, è fango  la tua bandiera!  Lutto e non feste!  Pianga e s’ asconda.    Core (con alto di cu iosità) E un amante e la sua Della  Che passeggiano alla luna;  Laura sembra la sua stella,  Ma egli fa poca fortuna.  Seguiam tutti i vaghi amanti,  E vediam, se pur n’ è dato,  In fra i suoni, i balli e i canti  Di trovar l’innamorato.   È Lorenzo di Giordano,   Che fuggì dal sacro tempio ;   lì Lorenzo... il vil, l’insano  Che ne porge un triste esempio.  Lorenzo (con ira) .    È rivolta a me l’offesa?  L’alma freme, batte il core!   - Già suonaron l’ultim’ ore; -  E voi tutti io sfiderò.    Laura    E rivolta a te I’effesa; rato  L’alma freme, batte il core!...  Già suonaron l'ultim’ ore  Io con te li sfiderò.  (LORENZO furente si scaglia contro ROCCO, e gli    toglie la spada. Gli altri NOBILI sguainano. le  proprie e si schierano în fondo)    SCENA II.    Detti, ROMANO dei LOMBARDI entra frettoloso dalla  casa di destra, seguito da servi con torce accese,    Bomano    Chi grida? Chi chiama? Qual chiasso villano?  Non son cîttadini, ma plebe briaca !   Lorenzo, tu?... Il ferro in mano hai snudato?....  Parla! Che avvenne! Sei pazzo ?... Ti placa! Laura (atterrita alla vista del padre)    Che mai dirà  Al Genitor?... pa Voce non ha,  Non ha più cor. Lorenzo (con timore)    Che mai dirò  AI Genitor?...  Voce non ho,  Non ho più cor.    Leandro (con circospezione)    Il segno di croce facciamoci... e andiam via!  Quel vecchio è uno sgherro dell’ Inquisizione.  Partiamo, fuggiamo... La belva più ria,  E un angelo a petto di questo demòne.    Romane (ai Nobili)    Non chiedo ragioni di vostra contesa,  Fra tenebre nacque... in tenebre resti;  E calmi la notte col sonno gli. ardori  Di giovani folli, di stolti furori....  Partite! Or è cauto lontani restar.    Coro di Nobili (infimoriti da Romano).    Fuggiam dal feroce  Vegliardo Romano :  Col fiato ne ammorba  Il truce, l’insano;    nea    Qui tutto è sospetto....  Amici, fuggìam. 1 NOBILI, it CORO, LEANDRO e LAURA sì riti-  rano pel ponte ed entrano nel Palazzo. L’OSTE  ha chiuso ed è scomparso durante la rissa, ROMANO  fa un cenno ai Servi di allontanarsi.    SCENA III.    ROMANO e LORENZO  Romano    Vengo, tu il sai, da Roma; e il Santo  Re e Pontefice armava il braccio mio.  ‘Or sotto il ferreo terribil manto  Della suprema Città di Dio  L’ Inquisizione veneta sta;  E a Roma solo ubbidirà.  Dell’ eresia le vampe infeste  Soffocherò . tutte le teste  D’ un colpo all’ idra io troncherò.    Lorenzo  Fu il Campanella scoperto e preso?  Romano    Libero ei 8° agita... Ma il gran sovrano  De’ rei, che Italia e il mondo ha acceso Contro la Chiesa santa, è Giordano.  Presso i suoi complici quì ascoso stà!    Lorenzo  Odio quel uomo tanto... tel giuro.    Romano    Non basta odiarlo: questo io non curo;  Tu quì arrestarlo ora dovrai:    (Musica da ballo neil’interno del Palazzo)    In fra le maschere lo scoprirai,  Ed il porrat  nelle mie man.    Lorenzo  Si chiede un atto di traditor?...  Romano  Queste ai novizi prove si dan.  Lorenzo  Tradir ricuso; son uom d’onor.  Romano (con sdegno)    A me tu, folle, devi? RANA RARA pinete    Lorenzo  Obbedienza !  Homano  Ed alia Chiesa! Trema...  . Lorenzo (soffocando il furore)  Obbedienza!  Romano  Dunque ?...  Lorenzo (con sottomissione)  Giordano io scoprirò!  Eomano (ricomponendosi)  Tuci giovanili e schictti  Modi ti gioveran, se manca il senno  Di età maggior, Tuo sguardo onestà; ispira,  K assai tua voce ad ascoltarti attira.  Per la grand’ opra non sarai solo,  D’altri miei fidi 1’ aiuto avrai;    Pronto a miei cenni sempre sarai,  Uno per ‘tutti sia il mio voler. Lorenzo (con dolore)    L’iniqua trama ahi mi colpisce!   La terra, il cielo pur n’ hanno orror!...  Vile è colui, ch’ altri tradisce,   Nè v' ha pietade pel traditor.    ERomano (imperioso) Come voglio, sia fatto. Or d’ altro; è m'’ odi.  Dal dì che ardenti e improvidi  Sguardi su Laura hai posti,  Travolto dalla subita  Cicca passion tu fosti;   N | Una rea febbre 1° agita   Tutte le membra o siolto,   E vedo nel tuo volto   Il fuoco del delir.  Bada! io ti scruto, o giovine,  E leggo il tuo desire;  Guai se tal fiamma ignobile  Io non vedrò svanire.  Tu sogni; ma chi vigila  l'e per tuo ben consiglia;  Dimentica mia figlia,  O trema del tuo ardir.    (parte da sinistra mentre  sì volge ancora con fiero sguardo su LORENZO).    Lorenzo (con dolore):    SO Solo alfin... solo quì sono...  Piangere, impallidir, tremar t’è dato sa Povero cor! Ma dannate in eterno  ei Son mie lacrime in lor foco d'inferno. Ci   i . . 0 cielo, perchè l’aere Fa A  ._ ©. Spargi de’ tuoi profumi? CRT   a O terra perchè il giubilo.   SA Delle tue stelle assumi? ©   nare: A me negata è l'estasi. da D’ ogni dolcezza umana,   No: ae d'ogni gioia lè vana (ale  EZIO Larva, che fugge ognor;  TERIOS L’ amor che è riso d’ angioli,   0; Di Nel povero mio cor.  i Strazio divien di dèmone,  WA Delirio agitator. pr  | Amar non posso... 0° AARON]  eta P, ‘L'odio mi restag» SS  CE ao ag Son stretto a questa to;  LR 1 sur aRatalità. EI  _: Vò di te vincere. |  Con santo zelo,  .. Servir vo’ il Cielo...  E questa l’ ultima. Mia volontà.  (parte con fretta per il ponte). ‘ Cala la Vela. arnie, onere ge oi    SALA NEL PALAZZO LOREDANO    Una splendida sala da Ballo nel Palazzo di Lore-  dano a Venezia, con colonnato per modo che si possa  figurare l’accesso in altre sale. Illuminazione splen-  didissima.    SCENA L  Coro degl’Invitati    ($   acc incanto dell’ebbre sale!  Che ballo immenso! Sarà immortale.  Quest’ è la reggia della letizia;  Il, paradiso. d’ ogni. delizia.  Deh! non fuggire, tempo; t’ arresta;  Bearsi al lungo delir giocondo  Della fatata splendida festa  Tutto in. Venezia vorrebbe il mondo.  {Gl’invitati s'allontanano in varie parti)    SCENA ILL BRUNO entra con cautela e colla maschera in  mano, poi gli amici. drrezadzanzecezanconca n ionici oc. c0100 dna enricicondiizeotentoro neo dan'ontooarcrroniòolo /Tasos signor cecanzara anee    Giordano    Quì ognun danza e delira   Spensierato e demente. E niun ragiona,   E senno e cuore ha niuno.   x tutto quì è in periglio, ove il Leone   Alato di San Marco   Prostrato dalla Santa Inquisizione   Ai piè, scordò il ruggito   Di cui tremò per secoli ogni lito  (volgendosi in fondo)    Ecco gli amici: ma assai lenti e scarsi.  Alcuni dei Primi  Luce!  Giordano  Giustizia a tutti!  E Primi  E verità!    Alcuni dei Secondi    [venendo oltre)  Luce !  Giordano  Giustizia a tutti E Secondi  E libertà!  Giordano    Grazie diletti !  Sian pochi i detti;  Molta l’opra. A ingannar V'astuta Corio  Dei biechi Inquisitori  Ho scelto queste sale  Di Loredano. È pronto ognuno ?    Coro  Ognuno!  Giordano    L’ ardir pari del vero alla grandezza?  Ed uniti?    Coro  Siam tuoi, Giordano Bruno!    Giordano e Coro    Nel popol vero s’ incominci 1’ opra:   S° illumini! Bugiarda è la parola   Di Roma e il suo Re, che Dio si noma,  Sull’ alma i Papi vogliono l’ impero   Per posseder la terra;   E coi libri e col braccio    tt Viva facciasi ovunque eterna guerra  Allo spirito, al verbo, a ogni menzogna,  Con che farci suoi schiavi Roma agogna    SCENA III.    DETTI e LAURA che entra anelante dalla sinistra  colla maschera in mano. Enura  Signor, fuggite!  Giordano  Io? no! non fuggo.  Coro (insospettito)  Fuggiamo.... È pazzo!  (fuggono da va»ie aio  Giordano (con ira)  Vili! Tu hai fede? (a Laura)    ERaunna (sempre ancelante)    Gran Dio! In queste sale  Circondavi un estremo  ‘ Periglio. Per voi tremo...  Fuggite per pietà.  IIIEEZZZERETET TEZIEXIZZELUPPEE PE CETO CE TI CE CES CECI ICI IA CIT ALIZICI AZIO LETO EI  Va besasnza rea dI gra rirvarai tion    Giordano (simulando)  Fuggir?... Da chi fuggire?    Laura    Da tutti! I delatori,   Cui fia virtù tradire,   Vi cercano là fuori...  Son mille a me ben noti,  Fierissimi e devoti   Al sacro Tribunal.    Giordano (sorpreso)  Mi conoscete?  Eguana    A Padova  Vi scorsi il«dì che ardito  Nel fiume vi gettaste,  E un fanciullin tornaste  Vivo al materno sen.  L’ Inquisizion seguiavi  Co’ mille sgherri suoi  Per arrestarvi; e voi  Tra il popolo festante  Poteste in un istante  Securo allor fuggir.    Giordano (simulando la calma)    Bruno era quegli, che allor miraste!  Io non lo sono!... Mal giudicaste, i       Laura (sorpresa)    Credetti... ho divinato! © ;  Voi siete il gran filosofo.    Giordano    Oh certo s’ è ingannato  Il vostro giovin cor.    Laura  Perdonate se un lembo alzo del velo,  Che a me vasconde... (solleva: dl velo)  Io v' ho scoperto!... siete...  Celarvi non potete...  Giordano  E chi son io?    Laura    Giordano Bruno, cittadin di Nola! Durante quest’ultimo colloquio, LORENZO entra da  destra, LEANDRO da sinistra; si fermano in -  fondo, e, non veduti funno alto di attenzione).    “erimmiberarisisaorizeoeee     Mi   nisi bro    aravrariszazazezea ripa paio    : Lorenza ngi    Ho. in mani, alfin 1, dai i  ‘Ch’ ha Italia avvelenato;  ‘Salvo da Ini mille: anime! a  Il mondo mi sia. EH 9    Leandro (LormNZO | con simulata ironia)    % TAL il salverài, mia “tnamo, | )    È quegli'il gran? ; Filosofo) di  Il celebre Giordanb. VESTA  Dal Tribunal del Dèmoni    Ù  401  1 PR. E O ARNO E ‘J RARE.    | Baura (| ‘801 ‘presa vi ala  PISAE) | dia 39 DS    IDE Lorenzo! dui GicoL..    (a o pi di te-che mai sarà?    F  a iI    Gietiala (con dolore)    Fui tradito !..-Oh cerudoltà    So IV I Santo phrto)  Tana ‘in Cactpnse deg   Di palpiti, di ladina, Tempo,non è, mio cuore; .: .Salvarlo, fat Miracoli. DERE eo   -0t devo ame l'amore. OL DI    Giordano © La luce tua mi sfolgora,       Fanciulla, nel pensiero;  Se il mio profeta! Libero  Trionferà il mio vero.    (poi fissando LORENZO)    Quel volto! V° è 1’ immagine  Impressa di Teresa...   Misto è quel volto... e annunziami  La gioia ed il dolor!    (Prendendo per mano LORENZO)    Giovane, dimmi: sei tu di Roma?  La tua favella mel dice... Parla!   Dimmi: tua madre come sì noma?  Teresa forse?    Lorenzo  Teresa?... Sì!  In fondo appare ROMANO con SERVI e SOLDATI  poi vengono gl’Invitati). Giordano    L’ inquisizione! Oh quale orror!  (a Lorenzo) E tu con essa? Ah traditor!  o Io a te la vita diedi... e la morte -  Tu, iniquo, appresti al Genitor!...  A te l’ inferno schiuda le porte...  Sii maledetto, vil delator.       fekresrey=neoan0enencastec pregsoneeaossog @zorrorerovrse ereeeericrone cer csvpirtetronertpariosonnen contiene nanenene    Lorenzo    Tu... padre mio?  Che mai feci io!...  Padre, perdonami  _Se pur ancora   ‘ Merto pietà.  GU INVITATI che riappariscono da destra e sinistra  e detti.    GI Envitati e Leandro    La festa è orrenda!  Fuggiamo tutti;  Qual tradimenti! > >  Keco distrutti ---  Degl’ innocenti   Gli almi piacer. HEomano    Grazie, o Ciel! Nelle mie mani  Or Giordane io vedo tratto!  Roma esulti...! Il suo desìo  Finalmente è soddisfatto.    Lerenzo    Orrenda infamia! Tu il. padre mio?...  Ah me infelice! Che mai fec? io!  Padre, perdonami... O Ciel, pietà! ERA EeIOrtitiezast:nuvo cene cen vinariesazyaza cc uPONPPA PESSANO MT RI    Laura (a BRUNO) Delle amarezze il calice   Berrò con te, Giordano;   Già in seno il duolo squarciami  Il core a brano a brano;   Peno per te, pel figlio   Mio primo e solo amor.    Leandro    Oh come ovunque penetra  La santa Inquisizione !  Come sarà terribile   La sua imputazione !   In lui perdiamo un figlio,  Che della patria è onor. Giordano (4 LAURA)    Ah no! Laura, non piangere...  Giordano ha l’alma forte !   Pel Vero è pronto a vincere  Il duolo pur di morte!   Dio deh! ritorna il figlio   A Laura e al Genitor,    Lorenzo    Sento nel seno piovermi  D'un aspro duol le stille!...  Il padre... oh! il padre scorgere    ab 0);    Temon le mie pupille!  Com'è infelice un figlio  Ribelle al genitor ! Romano    Entro mi serpe un fremito,  Che mi sconvolge il core,  Veggendo quest’ eretico   Di scismi banditore,   Che, della Chiesa*figlio,  Divenne traditor!    Leandro Tu piangi?... Incauto, a Lui {affida   Pel suo perdono; ma l’alma infida   Nel suo rimorso gran pena avrà.   Coro (a LORENZO)   Che piangi?... Ognuno vile ti grida;  Se’ un traditor; se’ un parricida!  Nè Dio, nè il mondo n’avran pietà.    (I SOLDATI circondano GIORDANO e cala la tela/.       IITTTTAAEIAIII    RA CORTI    Affo Cerzo   IN ROMA    Sala nel palazzo dell’Inquisizione.  In fondo, nel mezzo  della parete una cortina nera che chiudela scena,   A sinistra una finestra aperta con ferriata. In fondo  un tavolo coperto con un tappeto nero, a cui siedono  il grande INQUISITORE e DUE SCRIVANI; ai lati  siedono gl’INQUISITORI, e, di fronte, BRUNO, R0MANO e LORENZO,  Porte a destra e a sinistra.    SCENA I.    Romano    {> iordano! Voi siete’    D’innanzi ai vostri giudici, al supremo  Tribunal della terra! E qui dovete,  Smésso l’antico stile,   Risponder vero, obbediente, umile.    “cà ra    G. Inquisitore  Vostro nome è Giordan Bruno?    Giordano  Di Nola.       mrantsiorizea nano AMDI ATTI ANI ANAZANAZA NZ RATTI TIT IATA TERI ri prenpaniananan ananarenaenzana G. Inquisitore    Vi conosciamo! Voi correste in terre  D’eretici; lè in Praga, in Francoforte. ‘  E predicaste spesso agl’ infedeli   La santissima Chiesa dileggiando   Di Roma, tutti i novator germani  Esaltando. D’ Iddio 1’ essenza in false  Forme sponeste; come v’ inspirava   Mal talento. D’ Iddio la legge in pubblici  E in segreti convegni commentaste;   Le coscienze fùr guaste.    Giordano    Mentite!  Solo io dissi agli uomini  Il mondo ha una visiera  Di antiche, immense tenebre ;  Cerchi la luce vera.  Dio vuol che l’uomo spinga  L’acuta sua pupilla  Fin dove in cielo brilla  L’eterno suo splendor.    Coro d’Inquisitori    D’ anime felle  Empia utopia!  Il tuo, ribelle,  Un Dio non è.  Non ha che larve -    Tua fantasia; .0 et  gi ver disparve ;  “Se in eresia ft fo i  AI fuoco, ‘al fuoco: ©  Sia condannato! 1  “REP carcer. poco, s  ra ! tal OmpIO, egli de    (Si apre la cortina’ dalla’ quale ‘escono pina DTA  io GRANDE INQUISITORE, quindi ROMANO, poi  gli SCRIVANI, ‘gi ISQUISITORI, ed sea pIoR-SSf  DANÒ accompagnato, dalle GUARDIE. : Gala la  cortina e solo LORENZO rimane în ‘scend), DÒ  dt e Laura 01,3    (LAURA entra dalla' sinisird e presi itasi) di LORENZO |  in atto supplichevole). SÉ Roe    dia eor ATI    v Rat    Laura! moi  (HI dÉ tia Koi i  È et    Loréiizo i «105 si vo    MREPSRI RATA    GIL    Lorenzo  Di ea DO Ur  PA Ale 2 i sd Met: la "I    Che vuoi tut    ot Raid) fai  I nSetdi o SERRA  2 Senti la ToRe.e. un uomo Rico tu soi. “ rE:       Lorenzo    Tinura! Da me che brami?  Sento straziarmi il cuore...    Laura    Ah! tu il padre salvar déi,  Se una belva ancor non sei.    Lorenzo    Tact Laura! Il ver dicesti   È mio padre! Io lo sentìa  Quando'.il labbro suo: terribile.  Me colpevole maledia.   È mio padre! Ancor lo sento  AI perenne! e fier tormento.‘ ©’  Che m’ opprime e strazia il cor.    Laura |    Pietà del misero.  Tuo genitor.    Lorenzo  L’accento tuo terribile  E un dardo al traditor.    ebic Laura    Lorenzo. it i #1) Ma  shananorazi scenza sanacenencacaee cena sane oeanconeesccnionaaceaeae@ce0cui0reò’npsQa”ncceinci’’’ ne Agp ipmpasrssssso Lorenzo  Nol posso!    Laura    Va da me lungi, o perfido,   Se nieghi al genitor   Salvar la vita.   E sorga il dì terribile   Che ognuno, o traditor,   Ti nieghi aita.   Lorenzo   Taci!.... e che far poss’ io?   Laura    Aiutarmi a salvarlo; tu lo puoi!  ‘Ei fugga da quell’ orrida  Fossa in serena terra,   Ove su lui degli uomini  Taccia sì cruda guerra.  Ove un demén carnefice  Non trovi nell’ amico,  Nel figlio, un traditor;  Ove il sovran suo spirito  Onnipotente e pio   Possa inalzarsi libero   Di tutti al Padre, a Dio;  E riabbracciar qui un figlio, Che traviò pentito,  Stringendolo al suo cor. .    pra, im masasena nanasasesc’poossoncostor09posporooscoesaesose®  Lorenzo    Quell’ardire, che in volto a te brilla,  La speranza, la fede m' ispira:   E una sacra, divina favilla   Della fiamma, che tarde nel cor.    Raura e Lorenzo (assieme)    Con te nutro la credula speme,  Che a giustizia il trionfo sorrida;  Siamo uniti per vincere insieme  Od insieme da forti morir. (partono).  Muta la scena.  Carcere di BRUNO con porte in  fondo: dentro vedesi un giaciglio di pietra, una seg-  giola ed un tavolo su cuì arde una lampada.  A    sinistra una scala da cui si accede agli Uftizii del-  l’ Inquisizione. Giordane (seduto sul giaciglio)    «Ecco, o Roma, l’eretico   In questo tetro carcere rinchiuso ! Del sangue suo dissetinsi   I tuoi Inquisitori   Ebbri di gioia in lor ciechi furori! (Gleaso   Sul rabido rogo dall’empio innalzato   La fiamma divampa sanguigna e stridente,   Ma in mezzo all'incendio securà possente   Del martire invitto la voce s’ udrà.  Il rogo non strugge  la libera idea;  Ma, eterna fenice  risorge o sfavilla; Del vasto creato  nel verbo s'inslilla   Te dense tenebre  del mondo a fugar.  In mano ai carnefici chi, miser, mi trasse,  Tu fosti, mio figlio;  tu sli maledetto ' 9  Ma no maledirti, + ma no, nol poss’io:  La morte è un trionfo  per me, figlio mio!    SCENA IV.    LORENZO apre con furia la porta del fondo che mette  nel carcere; indi entra anche LAURA. Entrambi  «$0NO Raealii in domino nero come i servi del-    V’ Inquisizione.   Lorenzo (di piedi di BRUNO)  Padre mio! Tuo figlio...  Giordano   Non sogno!  Lorenzo  Si, son io, ch’ hai maledetto ;  Ma figlio tuo! Ripeti un altra volta  La tua maledizione i  Coll’ accento d’ un padre, ed al mio cuore  Più cara suonerà di quel che fora    Del sacerdote la benedizione ;  Ah! lasciami morir a pieid tuoi.    TIrCItIVISIÀ poorrcensersantisaazuztt=veSnII=TIERERA TATE conuaca riv ertaziori (apusa ra rara zar sara ra bist enaneronesane  ‘Giordano Felice è un tal momento!  A me t’ adusse Iddio;  Ora tu sei redento!   M’ abbraccia, o figlio mio. Lorenzo Padro' i] mio cuore un balsamo  Nella tua voce trova!   Col tuo perdon risorgere   Mi sembra a vita nuova. Laura    Redento il figlio, accoglierlo  Ben può il paterno core;  Quale inattesa grazia !..,  Disparve ogni terrore.    Mutti (inginocchiandosi)    Gran Dio, che fra le angoscie  Apri a quest’ alma il riso,   E mesci ai loro spasimi   In terra un paradiso.   A te, che i santi vincoli  Riannodi di natura,   Salga da queste mura   L’ inno de’ nostri cor. Giordano    (STO ER Dal fondo del cor mio 2/0  SARA Grazie a te sien, gran Dio! a    Pi    E |   re k » à,  s ER  wr: DETTI, e ROMANO, che presentasi in cima della    >°    dente. Fissa collo sguardo LORENZO, indi scende  rapidamente. Lo seguono il GUARDIANO Retles    va x carceri e i SERVI del S. UHEIZIO: - da  si ‘Romano <  È Come tu qui?... La figlia ancor Di vedo, ea  Oh mio furore ' eco 3 F : x  Laura e Lorenzo 00 o  O qual terror! > ua |  » Romano È  ‘ Giiordano..- Questa ou fatale a me una figlia  nn dio Spa ma a te la vita.  (LEANDRO, il GUARDIANO delle carceri ei SERVI.    del S. UFFIZIO mascherati ed armati si ap- d  pressano). Lg i VEL  7    Pi AE Li    unisoseorevrespropeosovo Romano (a BRUNO)  Trencar ti voglio, qual vile stelo;  Delle tue carni la terra e il Cielo  Io colle fiamme consolerò.   Lorenzo  Ed io fidato m’ ero a tal jena ?  Tutto l’inferno qui si scatena,  E cielo e terra han di te orror.   Laura e Leandro   Sublime martire! La tua gran vita  Tronca in un lampo tra l’infinita  Gioia... Qual strazio sento nel cor!  Giordano  Del mio carnefice sul volto scritto  Sta col livore il suo delitto;   Solo dal Cielo giustizia avrò.  Romano (a° Soldati)  Innanzi al Tribunal condotto sia.  Coro (Servi e Soldati)    S'innalza un turbine Di guai novelli.  Su de’ fratelli   Tratti in error.  E l’empio eretico <   «N° è lavcagionez 9:13 <L  Maledizione  Sul corruttor!  Al rogo ignifico  ‘ Condotto Sia. ©  Chi l’eresia  Tra noi portò. Legge inviolabile  Il turbolento  A tal tormento  Già condannò.  RIC    FROCIO RA ATONTAITA  Atto Quarto Gran sala nel Palazzo dell’Inquisizione in Roma. Nel  fondo una Galleria apertà sostenuta da colonne, fra  ile quali: si, aprono grandi fin:stre che lasciano tra-  vedere le cupole e i colli di Roma.  Porta: a de-  stra e a sinistra.  Nelmazzo un tavolo con quattro  candelabri.  Siedono al tavolo il grande INQUI-  SITORE, ROMANO e ) UE SCRIVANI.  DUE SERVI  «ai. lati, quindi gl’ INQUISITORI, i    SCENA I.  Coro d'Inquisitori || |)   eo nembo dall’aere piove Lupa  ' Di Giordano su:l’empia cervice!  "Non v'ha niun che l’appelli infelice,   Non v'ha cor che si muova a pietà.  Pronto è il rogo, la fiamma divampa...   E pur essa la vittima è pronta ! AI gran Nome Cristiano quest’onta.  Or. dal fuoco purgata sarà. }    SCENA II,    Giordano (appressandosi).  O sommo Inquisitor! Giunta è l'estrema  Ora, che me a gran prova. al rogo. appella!  G. Inquisitore (alle guardie)  Fuor della porta vigilate !    (le guardie e i servi partono)    O Bruno  Di Nola! Quest’ è 1’ ora che vi chiama  Alla prova del fuoco.... a morte.... 0 a vita  Lieta d'ogni uom nel mondo! E a voi concesso  Ciò e’ ha nessuno fu giammai; la scelta  Fra la vita e la morte! Scegliete. E in, vostre man la vostra sorte! Giordano  (Mi tentan!) Che si vuol da ms? Parlate.  G. Inquisitore    Qui in faccia a tutti, dichiararvi figlio  Della Romana Chiesa ora e in eterno  E vi doniam la vita; rimarrete  Prigion; ma al figlio libertà darete! Giordano. Dèmone tentator! Nol vò.... nol posso!  G. Inquisitore (qa RomaANO)]    Perduto! Udiste ?... La sentenza è data! (Parte coi servi, Le guardie circondano GIORDANO  e partono. Romano (in preda a soffocato sdegno).    Cieco sirumento io sono all’empie voglie  Di costoro! Ubbidir sempre... e frattanto  Spezzare di mia figlia il vergin core,  Serbando la mia vita al lutto e al pianto!  O Laura, tu l’adori  D’averno il rio Filosofo,  Che con l'accento magico  Tuo cuor conquise già.  Or ei morrà sul rogo!...  Ma temo per mia figlia. Dal duol trafitta, all’empio  Vicina ella cadrà!...  Senza la figlia, il padre  Più viver non potrà.  To l’adoro! In lei Tiposi  Ogni speme ed ogni alta;  La mia luce, la mia vita  Con la sua si spegnerà.  Volgi, o Dio su me, su lei  Un tuo sguardo protettor,  E la figlia, che perdei  Deh! ridona al genitor. (ROMANO parte da sinistra e nell'uscire si. moontra  con LAURA). Laura (apprdssandosi ‘a ROMANO)    Ah! padre caro, mi benedici!  Quel divin spirto, che t’empie il core,  Io pur lo sento! Odio i nemici  Di quel gran ùomo;-che' giùsto muore. Ma tu, che. il puoi, deh! tu lo salva;;  Se Do, «con Lui io morirò. :    (Romano    La rea fiamma, che in cor ti VE  Per chi scuote de’ Papi l’impero,  Sulla fronte il delitto’ ti Stampa  Che tu svolgi nel cupo pensiero...   “Salvo tu vuoi Giordano ?  Iniqua ! Nol sperar... tu Il chiedi > invano.    i (parte)  Laura (con disperazione)    Più di salvarlo non v' ha speranza!   L’ ala nel tempo batte spietata! Ah! la fatale ora 8° avanza. i   Con te Giordano io morirò. ( prende il veleno)  A morte infame traggono. ;  L’ apostolo del vero;  Ma dal suo rogo. pallida; |  La fiamma sorgerà.  Che sovra. il cieco popolo...  La luce porterà; COLERE Nè più potrassi spegnere  Quel fuoco che foriero  Sarà di libertà.    | Coro  frecta judicate filù hominum  Laura    Quai voci ascolto! Lugubre  E questo il canto estremo,  Ch’ ora al supplizio adduce-  L’apostolo del Ver.    Coro  Recta judicate fili hominum  Laura    Con te Giordano! Morir voglio!  Al gaudio tuo volar desio. SCENA Ve  {LORENZO e LEANDRO col corteo funebre s’inol-  trano nella scena. GIORDANO Tifo, le guardie si  fa avanti nel mezzo).  Giordano. Gran Dio! la vittima.  Tu vedi pronta  Il rogo a scendere   \a 1 1 Per la tua, fe; CERRI TERA ee    L'ira de’ perfidi,  Ovunque. conta,  Oggi terribile  Piombò su di me.    Coro    Etenim in corde iniquilates operamini;  Injustitias manus vestrae concinnant. Lorenzo. Si squarcino le tenebre  Or dell’uman pensiero,  E torni vivo a splendere  Il sol di verità,  Che strugga alla tirannide  L’ atroce maestà,  E’ incenerisca i fulmini  Del mistico nocchiero  Nella futura età..  Giordano e Leandro  Da’ rei carnefici  Il rogo ardente  Pel nuovo martire  E posto là;  Ma la giustizia  Di Dio clemente  Le braccia schiudere  A Lui vorrà. BRUNO circondato ddlle guardie parte col corteo. Leandro, Cero (partendo)    In terra injustitias manus. vestrae concinnant. (LORENZO s’appressa a LAURA, che si troverd, vicina.  a ROMANO), i    Lorenzo (con disperazione)    O Padre, addio. Per me l’estrema  Ora fatale suonata è già?   Guarda tuo figlio, che più non trema  Nel vendicare la verità.   A me di Laura l’amor fu tolto :  Perchè un mistero buio sognai...  Ah! padre, credilo, tutto: ignorai;  Solo or la luce scorgo del Ver. ER omamno  Lorenzo!   Lorenzo  [trattosi dall’ abito uu pugnale, si ferisce. Laura!  Laura (riavendosi avvicinasi a LORENZO)  Al gaudio Ei vola.   Romane (sorreggendo LORENZO)    Serbate a quanti spasimi  E il povero mio cor?    o    aaravai  -ercerecote e meriei ve oraconcorsoee «n - peacee -LilsSTFri= pone rete na dor e. Lorenzo È tardi, o padre, il piangere... .  Anche Lorenzo... muor! (gli cadde ai piedi). Romano. /Odesi “una campana a lenti rintocchi; avvicinandosi  a LAURA e sorreggendola/    Orribil pena mi strazia il core...  Un disumano fui genitore...!  Non v’ha infelice al par di me!    Laura (presso LORENZO)    Lieta è quest’ ora... della mia vita...  Bel paradiso la via... m’ addita  Giordano.... Io volo... In ciel... con tel    (Da una finestra vedonsi le fiamme del rogo, ed un    urlo di popolo annunzia la fine dello spettacolo.  Cala la tela],    op  de nia - oe  vr 2A  SN  DI LESANIA AL  TR I RRIA  Ji ) _ DE sa NI  Ao AME Ta0  “Si 1 iL VPI, |  ati  Lion "Ul ci    Li TR  PSR =  Hi (i dI    - Un pi Hi  3 i si  f  VI  % Y, ILA }  4 ”  ; A  Yy 4 Pi  f f lo L É  } 1}  Ì ;  A A Domenico Contestabile. Keywords: BRVNO, nobilita italiana, la famiglia Contestabile financia la rivolta di Campanella -- filosofia medioevale, Bruno, il melodramma. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Contestabile” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza -- Grice e Conti: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale VIRGILIANA – La nudità eroica d’Enea -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo romano. Filosofo lazio. Filosofo italiano. Roma, Lazio. Grice: “Conti is a good one – he reminds me of Bosanquet and Pater – the decadents in Italy came AFTER them at Oxford! Conti philosophised on many aesthetic subjects, such as man, masculinity, and maleness --!” Di una famiglia originaria di Arpino, dove frequenta il locale liceo. Si ccupa di filosofia estetica. D'Annunzio lo cita nel “Giovanni episcopo” e si ispira a lui per ‘Daniele Glauro’ in “Il fuoco”. Insegna a Firenze presso la Galleria degli Uffizi ed a Venezia presso l'Accademia di Belle Arti. Saggio: “Zorzi; o Giorgione – l’estetica di Zorzi” -- Tornato a Firenze, “La beata riva”, raccolta di saggi che delineavano la sua concezione critica ed estetica, ispirata dichiaratamente a Platone, Kant e Schopenhauer. La prefazione fu curata d’Annunzio, il quale scrive di stimare molto Conti e di ammirare il suo “ascetismo” estetico.  Direttore delle Antichità di Roma. Direttore della Reggia di Capodimonte a Napoli. Si ispirò alla poetica del filosofo oxoniese Pater e Ruskin.  Altre saggi: “Giorgione, Firenze, F.lli Alinari, “Catalogo raggionato delle regie gallerie di Venezia, Venezia, Tip. L. Merlo); La beata riva, Milano, F.lli Treves); Sul fiume del tempo, Napoli, R. Ricciardi); “Dopo il canto delle Sirene, Napoli, R. Ricciardi); Domenico Morelli, Napoli, Edizioni d'arte Renzo Ruggiero); “San Francesco, con un saggio di Giovanni Papini, Firenze, Vallecchi); “Virgilio dolcissimo padre, Napoli, R. Ricciardi). Praz nota che Parodi era solito leggere La beata riva di Conti prima di addormentarsi; quando morì, la lettura non era stata ancora terminata.  Dizionario Biografico degli Italiani, Forme del tragico nel teatro italiano. Modelli della tradizione e riscritture originali,Romantici, vittoriani, decadenti – filosofo decadente – decadentismo -- e museo dannunziano, in Bellezza e bizzarria – il bello e il bizzarro., Croce, La letteratura della nuova Italia, Marcello Carlino.C., Due conviti di Mattia Preti, Bollettino d'Arte.  Io vengo dal mare di Napoli e sono tornato qui a rivedere la primavera. Non c'è nessuna altra città in cui, come in questa, il rifiorire degli alberi e delle siepi si accordi con la giovinezza delle opere del genio umano, nessuna ove, come qui, la Primavera sembri rimanere per un istante velata, per poi riapparire pili fulgida e piìi lieta, al ritorno dei venti che spirano dalle colline e recano i nuovi fiori. Sono anche giunto fra voi, per parlarvi della pittura di Leonardo. Ma il mio compito, dopo la lettura deirillustre scrittore francese che m' ha preceduto, sarebbe oggi, non dico diffìcile, ma quasi vano, se le mie idee fossero affini alle sue ed egli fosse vicino al mio pensiero come io sono vicino al suo aff'etto per questa nobile terra toscana, ove l'arte ha continuato la grazia gentile e la pura bellezza della natura. Diversità di pensare e anche d'immaginare mi rendono oggi possibile esprimere qualche cosa a voi forse non detta, e combattere qualche affermazione troppo lontana dalla mia sicura fede. Leonardo è il discepolo del Vermocchio. Ora, che cosa poteva egli apprendere dal suo grande maestro? Non certamente l'arte, la quale non si apprende e non si insegna. Quale uomo, che sappia che cosa è l'arte, potrà mai pensare alla possibilità di creare con l'insegnamento un pittore, un musicista, un poeta? La natura sola genera gli artisti, e l'uomo al pili può aiutarli a trovare i mezzi d'esprimere la parola ch'essi son destinati a pronunziare nel mondo. Il maestro, al discepolo suo, nato artista, può dire: " Il tuo cuore è impaziente d'indugi, tu sei nato per il canto o per la espressione plastica o per la espressione mediante il colore della tua gioia o della tua amarezza; guarda, ecco il dizionario che contiene le parole di ogni umano discorso, ecco la tavolozza sulla quale io appresi a mescolare i colori che imitano la bellezza del cielo, della terra e del mare; ecco in qual modo si modella la creta, affinchè dall'informe materia apparisca viva dinanzi a noi l' immagine dell'uomo. Questi sono i mezzi, che io ti posso indicare; ma il discorso, il canto, il soffio debbono essere tuoi, né io te li posso insegnare „. Ogni opera d'arte è, rispetto alle opere precedenti, una cosa diversa e nuova, nella quale, se pure sono entrati, alcuni elementi precedenti e preesistenti, hanno mutato natura, si sono trasformati in parti di quel tutto inatteso e prodigioso che si chiama la creazione artistica. Chi non sa che in Leonardo appare un' immagine del sorriso che si mostra appena accennato sulle labbra del giovinetto Davide del Verrocchio? Si, appare, ma è un riHesso che illumina un altro mondo; poiché questo riso, ricomparendo dalle labbra dell'eroe adolescente sul viso e negli occhi della Gioconda, diviene il mistero della seduzione femminile, una grazia insidiosa e un periglio, un'armonia che nasce dall'espressione d'iin volto, si diffonde verso il paese lontano e attira il contemplatore. Il sorriso verrocchiesco è in Leonardo come nn brano di Plutarco in Shakespeare. Or chi oserebbe dire che l'immortale tragico inglese derivi da Plutarco? Leonardo e il Yerrocchio sono due artisti assolutamente distinti, che parlano un linguaggio interamente diverso e che, se somigliano esteriormente in qualche cosa, hanno due anime quasi opposte, chiusa l'una nella sua idea di bellezza e di stile, l'altra aperta a tutte le manifestazioni della natura e della vita, in una continua ansietà di fissarne l'immagine mutevole con la semplicità del segno rivelatore. Noi viviamo pur troppo in un triste momento della vita, poiché la maggior parte degli uomini ai quali parliamo non sanno che cosa sia l'arte, e lo Stato crede a chi meno vede. Non è forse ancora possibile vincere una così detta scuola di critica scientifica, fondata sull' errore già accennato e chiusa nella rete del pregiudizio cronologico. A coloro che ancora credono alle influenze sugli spiriti geniali e alla necessità in arte di una classificazione come in botanica, noi possiamo trionfalmente rispondere con Leonardo che l'artista genera le sue opere qual fanno le cose. Egli deve creare come fa la natura, e le sue opere superare e cancelUxre i segni del tempo che passa. Un quadro, una statua, un edifizio debbono nascere come le selve e apparire come le albe. Or chi penserà all'epoca d'una primavera o d'un ciclo stellato? Non c'è opera d'arte geniale che venga per noi dal passato lontano, come non e' è indizio di vetustà nelle montagne e nella aerea architettura delle nubi. Dinanzi all'umanità che passa, il genio si ferma e rende eterna la sua traccia come è nel cielo il cammino delle stelle. Avete udito il canto dcirusignolo? Lo riudirete in tutte le primavere. Il genio vi farà sempre udire la sua voce fresca e giovanile come nella stagion nuova della terra il canto dell'usignolo. Aprite Virgilio: ecco, è l'alba e cantano le allodole, è una notte serena, e l'uomo si perde nella luce lunare. Aprite Dante, e siete nell'eternità della vita. Ivi nulla dilegua, nessuna cosa invecchia o perisce, e noi stessi, -accanto a quelle grandi anime, siamo per un istante fuori del tempo. Questo momento di liberazione provai per la prima volta alcuni anni or sono a Milano, trovandomi dinanzi alla Cena, nel convento di Santa Maria delle Grazie. Vidi il capolavoro nella medesima ora indicata dalla luce clie lo illumina dal fondo, tanto che mi fu d'un tratto facile superare i mille e piìi anni passati e trovarmi presente alla scena Gesù era seduto nel centro del convito e da poco avea prò nunziato le parole: qualcuno di voi mi tradira. I convitati a destra e a manca s'erano ritratti e aggruppati in tumulto lasciando nel mezzo Gesù solo, con la sua tristezza infinita La sala era piena di gesti concitati e di ansiose interrogazioni. Il Maestro solo era calmo e la sua figura, sul paese che gli s'apriva lontano alle spalle, era immobile. Ma qual dramma in quella immobilità ! Mentre la sua mano destra, lievemente contratta, esprimeva un istante di ribellione e come un istintivo moto d'ira, la sinistra nel momento successivo s'abbandonava col dorso poggiato sulla tavola e le dita allungate, esprimendo la rassegnaziona e il perdono. Gli occhi abbassati non guardavano e non vedevano nulla di ciò che era presente, ma contemplavano internamente il grande spettacolo del dolore e della miseria umana, mentre la sua anima sembrava essersi già rifugiata in quel fondo di paese luminoso e lontano, dove abitavano una grande speranza e una eterna pace. Nessun uomo avevo veduto mai così solo come Gesù in mezzo a quel tumulto. Era un'isola in mezzo a un mare procelloso. Le onde fragorose del tempo, che travolgono^ uomini e cose, mi avevano forse spinto ad approdare ad una riva ove splendono i fiori eterni della vita? Mai infatti, come quel giorno, ebbi, per virtìi dell'arte, la visione della vita, in un oblio piti completo. Quando il custode del Cenacolo venne ad annunziarmi Fora della chiusura, io riudii nuovamente, dalla strada vicina, il rumore delle carrozze e il rombo dell'esistenza; e ritornai fra gli uomini. Pochi anni or sono Annunzio scrisse una bella pagina di poesia per rimpiangere la rovina del Cenacolo. Voi infatti sapete, che, come della antica e celebrata pittura dei greci, fra pochi anni della Cena vinciana non resterà se non il ricordo ^ Il doloroso avvenimento non ^ Questo studio su Leonardo lìiitore era già stato scritto, quando fu compiuta in Milano dal pittore prof. Luigi Cavenaghi l'opera di ristauro del Cenacolo, salutata da tutti i cultori ed amatori d'arte con gioia e gratitudine. Il Cenacolo, compiuto da Leonardo nel 1497, cominciò ben presto a guastarsi; ì primi provvedimenti per salvare il capolavoro risalgono al cardinale Borromeo, poi nei secoli si susseguirono alternative di lunghi abbandoni, di fallaci rimedi empirici, di studii incompleti e riparazioni deturpatrici, fin che il prof. Cavenaghi fuincaricato delle ricerche scientifiche e tecniclie che, precisando le cause e l'entità dei guasti, portassero ai rimedii più efficaci. Egli trovò — sono sue parole riprodotte naìVIllustrazione Italiana, n. 41, dell'I 1 ottobre 1908 — che il dipinto, coperto da polvere di secoli, si screpolava e la crosta di colore si sollepoteva non commuovere e non far riapparire la visione tragica del fato clic incombe sui capolavori. Ma è forse una illusione. In realtà la natura non distrugge ne i fiori o le selve della terra ne le opere del genio: la Minerva criselefantina di Fidia è passata dall'avorio e dall'oro nelle pagine immortali dei poeti e nella eterna memoria degli uomini. Quando un capolavoro scompare, noi non dobbiamo pensare che il tempo lo abbia distrutto, ma semplicemente che si sia oscurato lo specchio che ci proiettava la sua imagine nel tempo e nello spazio. Nella profonda unità dell'anima umana, clie rende i poeti e i filosofi simili ai figli d'una madre sola, l'ispirazione da cui esso nacque riman pura e vivente come una forza della terra non ancor vestita della sua forma. Se avessi la virtù del canto, vorrei lodare e far comTava dall'intonaco, a squame di varia misura, di modo clie parecchie di quelle i grandi, accartocciandosi, formavano altrettante sacche che si riempivano con al- tre piccole squamette che vi cadevano dall'alto. Vuotare ad una ad una le sac- che senza scuoterle, senza quasi toccarle, mediante una pagliuzza resa attaccaticcia da una sostanza adatta, poi fare aderire le sacche e le croste all'intorno, togliendone, con un certo liquido dal Cavenaghi ideato, la polvere alla superficie, questo sostanzialmente fu il lavoro paziente, mirabile, nel quale, per più di due mesi durò il Cavenaghi, rendendo più tonica la fibra in isfacelo, facendole riac- quistare un po' di colorito, così che il dipinto non debba peggiorare e possa vi- vere ancora a lungo, con infiniti riguardi ed amorose cure. Ma — disse il Cavenaghi — sarà sempre un organismo precario, e per le condizioni sue, pieno come è di cicatrici, e per l'ambiente. Ad ogni modo questo del Cavenaghi è •stato pel Cenacolo Vinciano il ristauro essenziale, decisivo, nei secoli; e grandi manifestazioni di gratitudine ed ammirazione sono state tributate all'assoluto disinterewse, pari all'amore grande per l'arte, spiegati dal benemerito ristauratore, al quale Caravaggio, sua terra natia, ha consacrato una targa artistica a memoria del fatto; ed i cultori ed amatori d'arte, auspice Luca Beltrami, gli hanno conferita, davanti al capolavoro vinciano, una bellissima medaglia d'oro. Il prof. Cavenaghi inoltre è stato chiamato dal Papa, in sostituzione 4el defunto prof. Seitz, all'onorifico ufficio di direttore delle pinacoteche vaticane. prendere la vita maravigliosa che il Cenacolo leonardesco chiude nella sua rovina. Come la rovina d'ogni cosa grande, essa equivale ad una purificazione e ad una apoteosi. Finche resterà un sol frammento della parete prodigiosa, finche un sol disegno, una sola stampa, una sola fotografia, custodiranno un riflesso lontano della sua bellezza, quella creazione del genio sarà per noi piìi potente che se il tempo e gli uomini l'avessero rispettata in tutte le sue parti caduche. E un errore credere che il tempo non rispetti i capolavori; e noi molto spesso parliamo, spinti dall'abitudine, contro l'eterna verità delle cose. Il tempo, artista maraviglioso, è il solo degno collaboratore del genio umano. Dove sembrava che l'opera geniale sì fermasse, egli la continua, mutilandola: dove appariva ciò che è chiuso e preciso, egli apre una via infinita all' imaginazione; dov' era un aspetto freddo e muto della realtà, egli fa nascere i segni del mistero. Ciò che sembra una distruzione e invece una rivelazione e una consacrazione. E la natura che riprende l'umana opera interrotta, che fa apparire la sua forza dove la mano dell'uomo cadde stanca, e che, dove l'ispirazione di questo si oscurò e si confuse, fa cantare le sue eterne aspirazioni. Ma non bisogna lodare il tempo soltanto per le sue rovine; è necessario esaltarlo anche per tutte le opere d'arte che, in compagnia del fato e della umana malvagità, ha impedito di compiere al genio umano. Alludo principalmente alle cosi dette sculture non finite di Michelangelo e ad un quadro, che è ancora considerato un abbozzo, di Leonardo. Come i capolavori in rovina appariscono vicini a rientrare Leonardo da Vinci.Conti, Leonardo pittore nella iiuiversalitìi della vita, i capolavori incompiuti seml)rano usciti da poco dal seno stesso della natura. L'artista ne segnò l'imaginc non fra i tormenti del lavoro consapevole, ma come in sogno, obbedendo ad una volonth oscura che per qualche istante abolì la sua volontà individuale. Poche tracce di pentimenti in quei primi segni, ma l'espressione d'una beata obbedienza, come di chi si affidi al mare, e una ricchezza e una esuberanza di vita uguale a quella di cento uomini felici. * Mi limito a parlarvi del quadro di Leonardo, oggi nella Galleria degli Uffizi, e che rappresenta l'Adorazione dei Magi. La prima cosa che ci colpisce è il movimento. Noi sentiamo subito che il pittore ha voluto rappresentare un avvenimento straordinario, un grande fatto della natura e della vita. Quasi tutte le figure vanno, strisciano, accorrono verso la parte centrale della rappresentazione, ove si fermano prostrate e come atterrate dallo stupore e dalla maraviglia. Fra i gruppi in movimento, alcune figure stanno diritte e immobili a guardare la scena. Nel centro una calma assoluta. La Madonna vi appare seduta in una attitudine piena di grazia materna, e sulle sue ginocchia il bambino si china e protende una mano per toccare il 'dono che un vecchio genuflesso gli porge. Intorno si raccoglie e si concentra tutto ciò che nel quadro raggiunge la maggiore intensità d'espressione e la maggior forza di vita. Questi vecchi che vengono da lontano, guidati dal mistero, sono una Conti, LeonarJo j)ittore 91 fra le più potenti creazioni del genio umano. Tutta la scena, piena della loro commozione e del loro sbigottimento, sembra irradiare come un vento di tempesta che, dall'anima dei vecchi, giunga sino ai punti piti lontani del quadro. Ed ecco che noi vediamo gli effetti dell'onda invisibile. Dietro il gruppo centrale è un accorrere disordinato di gente: uno ha le mani levate e grida come per un ignoto pericolo, un cavaliere non riesce a contenere lo spavento del suo cavallo, altri gruppi di cavalli nel fondo appariscono spinti dalla furia d'una battaglia; qua e là, sotto archi crollati, uomini che corrono e s'interrogano ansiosi, altri che salgono discendono a frotte e smarriti per una gradinata. Si sente che un grande avvenimento si compie, e per tutta l'ampia scena notturna è diffusa l'atmosfera del miracolo, come in un giorno sereno la luce del sole sulle campagne. E questa è appunto l'idea che Leonardo ha espressa nel suo quadro con una potenza e una eloquenza suprema. Mai infatti, sino a questi anni, la pittura aveva rappresentato il miracolo, mai lo stupore e il terrore di ciò che sembra turbare le leggi della natura e far presentire agli uomini un rinnovellamento del mondo, erano stati resi visibili nell'opera d'arte. Leonardo, con questa composizione sintetica, con questo semplice suo disegno a chiaroscuro, nel quale non un sol particolare h compiuto, è riuscito a rappresentare il miracolo come non sarebbe stato possibile con l'opera piìi meditata e più coscienziosamente finita. E la ragione mi sembra questa. Vi sono idee e sentimenti che le arti plastiche non possono rappresentare se non con mezzi somraarii, se non giovandosi di ciò che comiincmcnte si chiama V incomplitto. L' incompiuto è spesso un mezzo meraviglioso dì espressione per il genio umano; è, a rovescio, il mezzo stesso che la natura adopera per purificare e per consacrare nei secoli i capolavori degli uomini. In questi la natura procede per eliminazione, nell'opera rimasta incompiuta il genio lavora in uno stato di concentrazione suprema. Li^ Adorazione dei Magi non solo rappresenta un miracolo; ma è essa stessa un'opera miracolosa. La notte che vi si addensa è piena di luce per l'anima umana. Fra tutti i quadri della Galleria degli Uffizi è il più vivo, il piìi drammatico e il più profondo per significazione. Continuando per voi la enumerazione delle opere pittoriche vinciane e per mostrarvi che, come allora mi fu possibile liberarmi dal tempo, posso anche oggi, e mi piace, spezzare le catene della cronologia, passerò a parlare della Gioconda. La vidi alcuni anni or sono, e feci, quasi per lei sola, il mio pellegrinaggio da Firenze a Parigi. Quando entrai nella pinacoteca del Louvre, la giornata era grigia e le sale quasi in una penombra. Nella sala dei capolavori gli occhi delle figure dipinte da Tiziano, da Raffaello, da Yelasquez mi guardavano fiso. Cercai la Gioconda, corsi verso di lei. Entro la fioca luce indovinai il sorriso e sentii il fascino dello sguardo; vidi anche il candore del seno. Ogni altra cosa era indistinta. In una pinacoteca non è possibile abbandonarsi all'oblio, Angelo Coxti, Leonardo piUore 93 come in una chiesa o in nn cenacolo. Coloro che entrano a visitare le collezioni dei dipinti vanno per lo più a fare confronti, ad osservare particolari, a cercare note caratteristiche, e portano con sé libri e fotografie. Io, qnando mi dispongo ad andare o a tornare al cospetto d'nn capolavoro, m'affatico a togliermi di dosso ogni peso, affinchè mi sia dato procedere con passo leggero e mi trovi dinanzi all'opera geniale, con l'anima semplice e serena. Sono abituato a contemplare un quadro, come se fosse una costellazione. Nella notte ir cielo è pieno di silenzio e le stelle splendono armonizzando ciascuna il suo ritmo alla musica del cielo. Guardando gli occhi di Monna Lisa del Giocondo, li vidi palpitare in ritmo, in armonia con la musica del suo sorriso. Il quadro m'era ancora ignoto, e pensavo a Leonardo. Mi pareva vederlo, mentre nel suo studio fiorentino aspettava l'arrivo della sfinge ridente. Poco dopo ella entrava e si sedeva accanto alla finestra. In fondo apparivano le colline di Fiesole, Monte Morello, l'Appennino lontano, e l'Arno serpeggiava scintillando nel mattino, mentre le torri della città uscivano dalla nebbia al primo sole. Anch'egli si sedeva, e, presa la lira d'argento che s'era fabbricata con le sue mani, cominciava a cantare. La bella donna, udendo la laude melodiosa, sorrideva, mentre l'Arno da lungi diveniva più ricco di scintille. Poi cominciava a dipingere, e, dopo i primi tocchi una orchestra invisibile di liuti riprendeva la canzone interrotta. La donna sorrideva in una calma regale: i suoi istinti di conquista, di ferocia, tutta l'eredità delia specie, la volontà della seduzione e dell'agguato, la grazia dell'inganno, la bontà che cela un prò- 9i An'gelo Conti, Leomrdo pittore posito crudele, tutto ciò appariva alternativamente e scompariva dietro il velo ridente e si fondeva nel poema del suo sorriso. Per un momento usci un raggio di sole; ed io die m'ero allontanato dal prodigio, corsi e lo vidi intero. La donna era viva dinanzi a me, in tutta la sua vita reale e ideale. Buona e malvagia, crudele e compassionevole, graziosa e felina, ella rideva, e il suo riso si prolungava nel paese lontano e nell'anima mia; sino a darle l'oblio die viene dalla presenza delle cose immortali. Pochi istanti dopo, il sole scomparve e la penombra regnò nuovamente nella sala. Lì presso un sol quadro ardeva come una lampada e in esso cantava, non affievolita, la musica del colore. Era la Festa campestre: fra due donne nude, un suonatore di liuto svegliava alcuni accordi e pareva che la Gioconda ne sorridesse come quando VINCI (si veda) canta, per rendere piìi intensa la sua vita e per tradurre col disegno la sua misteriosa bellezza. Questo ritratto non esprime soltanto ciò che l'occhio vede, ma è il riflesso d'una creatura amata da uno spirito che per oltre quattro anni si affaticò a penetrarne a rivelarne la vita. Come dinanzi alla Gioconda, Leonardo si pone dinanzi ad ogni cosa vivente col medesimo ardore di conoscenza, con la stessa ansiosa curiosità e lo stesso desiderio invincibile di fissarla con segni semplici e definitivi. Tutto questo poema della sua anima, questo dramma intimo che si chiude in una alternativa di tentativi d' espressione e di istanti di tregua contemplativa, di rapimenti e di lotte con la sorda materia, d' ansietà e scoramenti e di calma trionfale, è raccontato nei suoi disegni, che sono 1' immagine più completa della sua potenza non solo intuitiva ma creativa. Per lo scultore il disegno è appena un segno, uno scliema, un presentimento dell'opera futura. Lo chiamiamo disegno, perchè ijon abbiamo altre parole per significare le notazioni figurative degli scultori; ma esso non è se non un appunta ideale, un mezzo per ricordare un sentimento. Ricordate i disegni di BUONARROTI (si veda) per le sue statue, ricordate gli odierni disegni di Rodin per i suoi gruppi e per i suoi monumenti. Qm^tì disegni, benché esprimano una visione di movimento, non sono pittura e non sono scultura perchè non illuminano una idea che potrà essere espressa, come chiaroscuro e come colore sopra una superficie e che sia per apparire come forma nello spazio. La scultura comincia soltanto col bozzetto in cera, in creta o in gesso, cioè a dire quando V idea, destinata a manifestarsi come forma nasce a somiglianza d'una cosa viva fra le altre cose viventi e sorge nello spazio, nell' aria e nella luce, sottoposta alle leggi del peso e chiusa nelle sue dimensioni. Per parlare con esattezza, la scultura non ha disegno. Nella pittura il disegno è tutto, è il primo segno che nota la visione ancora vaga sopra una superficie, ed è il chiaroscuro e il colore che pili tardi la renderanno eloquente, che le daranno una voce che parla e che canta, come in una musica e come in un poema. Per Leonardo, genio universale, il disegno non è soltanto linguaggio pittorico, ma è il mezzo adeguato d'espressione di tutto ciò che appare e che passa nel suo pensiero, nella sua memoria, nella sua imaginazione e nella sua fantasia. Tutti gli aspetti e tutti i momenti della multiforme ed inesaiiribilc attività del suo spirito trovano la loro espressione negli innumerevoli disegni che egli traccia in margine e fra le linee dei suoi manoscritti, la precedono e spesso la superano con la loro potenza di linea intuitiva e divinatoria. Mai come in Leonardo il disegno ha avuto la virtìi d'esprimere tante cose, dalle più athni alla pittura alle pili lontane, dalle pili concrete alle più astratte; mai come in Leonardo e giunto ad una cosi vasta e così intensa forza di analisi e di concentrazione. I disegni di Leonardo non sono solamente una testimonianza del suo amore per la natura, non sono soltanto un dialogo fra la sua anima e V anima delle cose, ma principalmente sono un mezzo di cui egli si è servito per conoscere l'universo. Invece di consultare i trattati scientifici ed i sistemi di filosofìa, Leonardo disegna. I disegni sono i suoi pensieri, le sue meditazioni, le sue osservazioni, le sue intuizioni, le sue scoperte. Ogni suo disegno contiene un segreto svelato, è una verità conquistata, è il segno d' un nuovo trionfo della indagine umana, è un lembo del mistero dell'universo sollevato dal genio umano. Dinanzi a ciò che noi chiamiamo il vero e può essere ugualmente chiamato il mistero, Leonardo ha lo sguardo limpido, sereno, nuovo, lo sguardo meravigliato del fanciullo, ha quella innocenza del genio, senza la quale, come afferma Bacone, non si può entrare ne nel regno della verità ne nel regno dei cieli. La differenza fra l'uomo di genio e l'uomo comune sta p principalmente in questo: dinanzi ai fatti e agli aspetti della natura e della vita V uomo comune si abitua e finisce con l'abolire in se il senso della maraviglia; le sue impressioni, invece d'avere sempre un carattere loro proprio, invece d'es- Leonardo da Yisci Pai'ig;], Museo del Lonvie. J-'ot. X. LA GIOCONDA. sere sempre eccitatrici di sentimenti nuovi, gradatamente si attenuano, si affievoliscono; finche si adattano e si sottopongono al modo di sentire individuale, finche si scolorano e muoiono davanti alla monotonia dei bisogni quotidiani. L'uomo guidato dalle abitudini è un addormentatore di se stesso, è uno schiavo di ciò che nel suo spirito è meno degno di comandare. Il genio invece è sempre libero, è sempre desto, e il sonno dell'abitudine non può far discendere un velo sui suoi grandi occhi puri. Leonardo è appunto della famiglia di coloro che non conoscono lo stato di sonno e d'indifferenza, ma che vivendo sempre in una ansiosa curiosità vedono il continuo apparire delle cose e l'infinito rinnovellarsi dei fenomeni, e che sembrano veramente nascere ogni mattina. In questo stato di attesa dell'ignoto e del nuovo, ogni osservazione è per Leonardo una visione, ogni analisi è una scoperta. Guarda un ramo con le sue foglie, ne cerca la vita col suo disegno, e gli appare la legge di filotassi; canta accompagnandosi con la sua lira d' argento, e scopre la legge di risonanza delle corde negli accordi. In ogni fenomeno egli sente e vede una confessione fatta dalla natura al suo genio divinatore. I suoi disegni sono la traduzione grafica di queste confessioni fatte alla sua anima dall' anima delle cose. Ciascuno d'essi pili che studio dal vero è opera d' immaginazione, è figurazione intuitiva, destniata ad illuminare la realtà e a fare apparire, dietro ciò che passa, l'aspetto immutabile delle idee eterne e delle eterne verità. Ogni loro contorno e una ricerca, ogni linea una interrogazione, ogni luce un riflesso del vivente chiarore del mondo, ogni ombra Leoxakdo da Vixci. lii 98 un'eco d'un vivente mistero; e tutta quella sua opera della penna, del carbone, della matita non è se non un mezzo potente da lui adoperato per stringere d' assedio la natura e per costringerla a rivelare il suo segreto. Sempre mediante le imagini, i paragoni e le analogie egli trova il cammino che deve condurlo verso la verità. Ricordate in un suo manoscritto e in un suo disegno il movimento dell'acqua veduto simile al movimento d' una capigliatura, ricordate in qual maniera i movimenti del nuoto lo aiutino a comprendere quelli del volo, in quel maraviglioso trattato che ha la virtìi di metterci in segreta comunicazione con 1' anima e con la forza delle creature volanti. In questo modo, sempre per mezzo di imagini e di indagini grafiche, di analogie, di forma e di movimento, osservando e studiando l'aria e l'acqua, il suono e la luce, e paragonando le loro proprietà essenziali, egli giunge ad intuire l'unità delle forze fisiche precorrendo Cartesio. E la sua conoscenza, alla quale appariscono come intuizioni le principali conquiste della scienza moderna, è figlia della sua imaginazione. Più ancora che nei suoi manoscritti è espresso nei suoi disegni il cammino fatto dalla sua conoscenza, guidata dall'amore e resa più profonda dalla sua infantile maraviglia. Chi non ricorda, fra gli altri innumerevoli, i suoi disegni di foglie e di fiori? Sono questi fra tutti gli altri, esclusi quelli solo che ritraggono la figura umana, i più precisi. Pure in questa precisione è l'infinito della vita. A prima giunta potete pensare o credere che quei segni corrispondano a qualche cosa di limitato e di esteriore; poi sentiamo che ciascuno di essi ha la potenza di continuarsi in noi. La sua precisione non è il segno rigido e freddo fatto da una mano abile, ma è la linea sicura del genio che ha trovato la vita. Però egli non trascura mai un solo particolare, non lascia mai nulla incompiuto e sembra dir tutto sino all'ultima parola. Infatti egli dice tutto; ma il suo linguaggio è come il mare e come l'infinito, e, nelF udirlo, la nostra piccola anima sembra farsi vasta come 1' anima del mondo. In qua! modo ha potuto egli raggiungere questa potenza d'espressione? In un modo semplice e grande: imitando la natura. L'imitazione della natura è il principio che Leonardo proclama in tutti i suoi scritti e mette in pratica in tutte le sue opere. Ma che cosa significa imitar la natura? Ciò non vuol dire copiare le sue apparenze esteriori, come fanno oggi la maggior parte dei nostri artisti, ma imitarla nelle sue leggi di vita. Imitar la natura, per Leonardo come per tutti i geni dell'umanità, significa divenire come la natura, acquistando la potenza di creare 1' opera d' arte nel modo stesso nel quale la natura crea le sue vite innumerevoli: qual fanno le cose. Voi sapete benissimo che i disegni vinciani fanno parte dei manoscritti di Milano, di Parigi, di Londra, che sono aiizi un complemento, uno sviluppo e un'irradiazione del testo. Poiché dunque l' uno e 1' altro sono connessi intimamente, non m' è possibile, dopo parlato dei disegni, non dirvi due parole dei manoscritti e significarvi in tal modo tutto il mio pensiero. Voi sapete che nei manoscritti sono pagine di ogni scienza. Perchè? Volle forse Leonardo coltivare r una dopo 1' altra le varie discipline scientifiche e contribuire al loro sviluppo? A questa domanda risponde Leonardo medesimo. L'uomo non dev'essere " solo un sacco dove si riceva il cibo e donde esso esca „, non deve essere soltanto un " transito di cibo „ e avere della specie umana la sola voce e la figura, e tutto il resto " essere assai manco che bestia „. Il vero scopo della vita umana è per Leonardo il pensiero. Il pensiero, per conoscere il passato e la nostra dimora terrena; ecco il mezzo per vivere nobilmente liberandoci dalla illusione del piacere. Il tempo che fece piangere Elena allorché ^ guardandosi nello specchio, vide i primi segni della vecchiezza, il tempo non può colpire il pensiero. Il conoscere la sapienza degli antichi e la vivente realtà delle cose presenti, ecco il decoro e l' alimento degli spiriti umani. Ma perchè un tal desiderio di conoscere? Questo e per me il punto capitale, il vero nodo della questione. Il sapere perchè Leonardo ha voluto studiare tante forme ed ha cercato il segreto di tanti fatti della vita universale, ci farà conoscere la qualità essenziale del suo genio. Nella sua indagine instancabile d'ogni fenomeno del cielo e della terra, nel suo ininterrotto colloquio con la natura, Leonardo non è animato da curiosità puramente scientifica, non da vanità di dottrina, né dalla naturale tendenza d'un intelletto analitico cui l'esercizio delia osservazione doni la gioia più intensa. Spirito sostanzialmente intuitivo e sintetico, egli si sottopone in tutta la sua vita al rigore e spesso al martirio dell' analisi, per acquistare una conoscenza pili ricca, più vasta e piti profonda. Le sue innumerevoli osservazioni, i suoi continui esperimenti sono i gradini che debbono condurlo colà dove, entro una luce inestinguibile, appare l'eternità della vita. Soffrire la disciplina del ragionamento e dell'esperimento per aver in fine, come premio, la visione della vita, non h forse una divina aspirazione? Più la sua conoscenza, nel quotidiano osservare e meditare, gli svelava nuove leggi e nuovi segreti, più cresceva in lui l'amore per tutta la natura; ne vi fu mai al mondo, dopo l' umile frate d'Assisi, chi l'abbia amata d'amore più puro e più ardente. Chi più conosce 'pia ama^ sono le sue parole. In questo amore generato dalla conoscenza è tutto il segreto dell'opera di Leonardo, dai manoscritti e disegni alle pitture. Il suo realismo è un mezzo per giungere all'idea, è il modo ch'egli adopera per ricomporre ciò che prima ha scomposto, in maniera che la natura stessa sembri formarsi dinanzi a noi e farci assistere alla sua stessa creazione. Chi conosca i manoscritti di AYindsor, nei quali i disegni hanno un'importanza assai maggiore del testo, può convincersi agevolmente di questa verità e può anche comprendere (cosa che in questo momento deve particolarmente interessarci) che quando Leonardo parla di anatomia o di fisiologia, come nei così detti trattati che si vanno ora pubblicando, egli non è mai un anatomico vero e proprio, ne un vero fisiologo, ma è sempre prima d' ogni altra cosa e sopra ogni altra cosa pittore. Tutta la sua opera di scienza, tutti i suoi disegni d'anatomia, d'embriologia, di botanica, non ser- vono se non a rendere più vasta, più profonda e più ricca la sua visione pittorica dell'uomo e della natura. La scienza non è se non un mezzo d'espressione della sua visione del mondo, ed egli se ne giova per dare un carattere di precisa realtà agli ardimenti del suo sogno. Scopo del suo immenso lavoro e di giungere a creare ima- 102 Angelo Conti, Leonardo pittore g'ini clic sembrino nate con le stesse leggi con le quali la natura produce le sue forme: qual fanno le cose. E doloroso che nella sua vasta opera essenzialmente pittorica, nella quale " non fu impedito „, come egli dice, " da avarizia o da negligenza, ma solo dal tempo „, manchi irreparabilmente una fra le pagine piti vive e più grandi: La Battaglia d'Anghiarl. Scrivo queste parole vicino a Santa Maria Novella, a pochi passi dal luogo nel quale egli disegnò r opera maravigliosa. Le campane che suonano nel campanile roseo al primo sole del mattino, sembrano diffondere sul mio ricordo una voce dì pianto. Li pochi mesi il lavoro fu compiuto, e immediatamente cominciata la pittura a fresco per la sala del Consiglio in Palazzo Vecchio. Leonardo vi dipinse dal 1504 al 1506. Poi l'opera fu da lui abbandonata. Nel 1559 il cartone di Leonardo era ancora nella sala del Papa, mentre il cartone della Guerra di Pisa disegnato da Michelangelo era nel Palazzo dei Medici, l'uno e l'altro esposti all'ammirazione del mondo. Da queir anno manca ogni notizia. Della pittura incominciata in Palazzo Vecchio si sa soltanto che nel 1513 esisteva ancora, ma cadente a causa della cattiva preparazione dell'intonaco e dei colori. Cito, contro il mio solito, dati di fatto e date, perchè l' opera pur troppo manca. Se l'opera esistesse, il suo linguaggio renderebbe insostenibile la voce della cronologia; ma poiché è perduta, ci è necessario contentarci delle parole di chiunque ce ne parli. I due tre ricordi pittorici rapidi e sommari dell' episodio centrale della battaglia, non bastano a dare un'idea di ciò che fece Leonardo. Chi sa in qual modo maraviglioso e straordinario egli avrà rappresentato la mischia, la furia guerresca intorno allo stendardo, che sappiamo fosse nel centro, qnal prodigio di scorci, quale evidenza di movimenti, nobiltà ed impeto di gesti e quale perfezione di cavalli, dei quali egli conosceva la vita come nessuno dei suoi tempi ! Di tutto ciò nulla e rimasto. Io imagino che nell'anno in cui ogni traccia dell'opera scomparve, la natura, per compensare il mondo, dovè creare una primavera favolosa, non veduta mai. Poiché nel mondo nulla si perde, e quando una bellezza è distrutta, sia essa una selva che arda, un' isola che si sommerga, un capolavoro che cada in rovina, la natura provvida fa nascere nuovi germogli, suscita nuove bellezze e nuove energie, e la sua forza di creazione rimane intatta in virtii della sua maggiore attività: il mutamento. Doctor Mysticus. Iride, mandata da Giunone, scende sulla terra per consigliare TURNO a idare l’assalto al campo troiano, finchè  è assente ENEA. Turno, avendo provocato invano i Troiani rinchiusi, pensa di dar fuoco alle navi, le quali si salvano per l’intervento di Cibele che le trasforma in ninfe del mare. TURNO, interpretato.  favorevolmente quel portento, idispone l’accampamento. Durante la notte, NISO confida ad EURIALO il’proponimento di andare in cerca d’ENEA. Ma Eurialo lo vuole seguire. Ascanio e i capi li lodano, e prometton loro grandi doni. Entrati nel campo dei Rùtuli, ne fanno strage. Ma quando, uskitine, si avviano per i boschi, sono scoperti da Volscente che veniva con trecento cavalieri di Laurento. Fuggono. NISO SI SALVA, MA EURÌALO È RAGGIUNTO ED UCCISO, NONOSTANTE L’INTERVENTO DI NISO, TORNATO INDIETRO A SALVARE IL COMPAGNO. Le teste recise dei due giovani, infilzate in una picca, son portate sotto il campo troiano, fra i disperati lamenti della madre di Eurialo.  Turno assale i Troiani con grande strage. E  poichè Numano insolentiva i nemici vantando le virtù  della stirpe italica, Ascanio compie il suo primo eroismo idi guerra, e lo trafigge con una freccia.Pandaro e Bizia, fratelli, tentano la riscossa lanciandosi sui Rùtuli; ma Bizia è ucciso da Turno, che riesce a entrare nel campo nemico, dove fa strage; finchè, eopraffatto dalla folla dei Troiani, si salva lanciandosi armato  a nuoto nel Tevere. Atque ea diversa penitus dum parte geruntur,  Irim de caelo misit Saturnia Iuno  audacem ad Turnum. Luco tum forte parentis  Pilumni Turnus sacrata valle sedebat.  Ad quem sic roseo Thaumantias ore locuta est:   « Turne, quod optanti Divum promittere nemo  auderet, volvenda dies en attulit ultro.  Aeneas urbe et sociis et classe relicta  sceptra Palatini sedemque petit Evandri.  Nec satis: extremas Corythi penetravit ad urbes 10  Lydorumque manum collectos armat agrestes.  Quid dubitas? nunc tempus equos, nunc poscere currus.  Rumpe moras omnes et turbata arripe castra. Dixit, et in caelum paribus se sustulit alis  ingentemque fuga secuit sub nubibus arcum. A&novit iuvenis duplicesque ad sidera palmas  sustulit ac tali fugientem est voce secutus:  « Iri, decus caeli, quis te mihi nubibus actam  detulit in terras? unde haec tam clara repente  tempestas? medium video discedere caelum palantesque polo stellas: sequor omina tanta,  quisquis in arma vocas. » Et sic effatus ad undam  processit summoque hausit de gurgite lymphas,  multa Deos orans, oneravitque aethera votis.   lamque omnis campis exercitus ibat apertis 25  dives equum, dives pictai vestis et auri.  Messapus primas acies, postrema céoercent  Tyrrhidae iuvenes, medio dux agmine Turnus  E mentre tutto questo in ben diversa parte succede,  Iride giù da cielo mandò la Saturnia Giunone a Turno  audace. Allora a caso sedeva Turno nel bosco dell’avo  Pilumno * entro alla sacra valle; e a lui con la rosea bocca la figlia di Taumante * parlò: « Turno, quel che nes  suno dei numi oserebbe promettere al tuo desiderio, ecco che il giorno che volge te l’offre spontaneamente. Énea lasciò la città e i compagni e la flotta, ed è salito  alla reggia del Palatino ed alla sede di Evandro. Nè basta: è penetrato nell’ultime ville di Còrito *, e raccoglie  ed arma agresti schiere di Etruschi. Che indugi? Il tempo è questo, è questo, di chiedere i cocchi e i cavalli.  Rompi ogni indugio, turba ed assali il suo campo ». Disse, e nell’alto del cielo si alzò con le ali levate, e nel  fuggire segnò sotto le nubi un grande arco. La riconobbe  il giovane, e alzò ambe le palme alle stelle, e, mentr’ella  volava, la seguiva con queste parole. Ìri, ornamento  del cielo, chi dalle nubi a me ti fece discendere sopra la  terra? E come mai, improvvisa, tanta chiarezza di cielo? A mezzo vedo dischiudersi i cieli e in alto vagare  le stelle. Chiunque tu sia, che mi chiami alle armi, obbedisco ad un tanto presagio ». E, così detto, al fiume  si accostò, ed attinse a fiore del gorgo le acque, molto  pregando gli Dei, colmando il cielo di voti. E già l’esercito intiero andava per le aperte pianure,  ricco di cavalli, ricco di vesti intessute nell’oro (all’avanguardia è Messapo, ultimi vengono, i figli di Tirro ‘,  ed a capo del grosso sta Turno: s’avanza brandendo ie    LI   [vertitur arma tenens et toto vertice supra est];   ceu septem surgens sedatis amnibus altus per tacitum Ganges, aut pingui flumine Nilus   cum refluit campis et iam se condidit alveo.   Hic subitam nigro glomerari pulvere nubem   prospiciunt Teucri ac tenebras insurgere campis.  Primus ab adversa conclamat mole Caicus: Quis globus, o cives, caligine volvitur atra?   Ferte citi ferrum, date tela, ascendite muros,   hostis adest, heia. » Ingenti clamore per omnes   condunt se Teucri portas et moenia complent.   Namque ita discedens praeceperat optimus armis 40  Aeneas, si qua interea fortuna fuisset,   neu struere auderent aciem, neu credere campo;  castra modo et tutos servarent aggere muros.   Ergo etsi conferre manum pudor iraque monstrat,  6biciunt portas tamen et praecepta facessunt armatique cavis exspectant turribus hostem.   Turnus, ut ante volans tardum praecesserat agmen  viginti lectis equitum comitatus, et urbi   improvisus adest: maculis quem Thracius albis   portat equus cristaque tegit galea aurea rubra. Ecquis erit, mecum, iuvenes, qui primus in hostem?  En » ait et iaculum intorquens emittit in auras,  principium pugnae, et campo sese arduus infert.  Clamorem excipiunt socii, fremituque sequuntur  horrisono; Teucrum mirantur inertia corda: 55  non aequo dare se campo, non obvia ferre   arma viros, sed castra fovere. Huc turbidus atque huc  lustrat equo muros aditumque per avia quaerit.   Ac veluti pleno lupus insidiatus ovili   cum fremit ad caulas, ventos perpessus et imbres, 60  nocte super media: tuti sub matribus agni   armi, e supera gli altri del capo); come tacito scorre  il Gange profondo, ingrossato da sette fiumi tranquil.  li, o il Nilo dalla pingue corrente, quando rifluisce dai  campi e già se ne torna al suo letto. Qui addensarsi una  nube di negra polvere i Teucri scorgono all’improvviso,  e i campi oscurarsi; Caico, primo dalla torre di fronte,  si mette a gridare: « Che turbine, o cittadini, si aggira  di negra caligine? Presto, alle armi, recate le armi, salite alle mura! Ecco il nemico, olà! ». E i Teucri con  grande schiamazzo si afiollan per tutte le porte, e col.  man le mura. Giacchè così, nel partire, Enea, esperto di  guerra, aveva ordinato: se intanto si offriva una qualche sorpresa, non osassero uscire in ischiera nè accettare battaglia; solo, tenessero il campo e 1 muri al riparo del vallo *. Or, benchè ira e vergogna li spingano  a dare battaglia, pure rinserran le porte, ed obbediscono agli ordini, ed aspettano armati dentro le torri il nemico. Turno, siccome volando davanti avea preceduto  il tardo suo stuolo, con venti cavalieri più scelti, ecco  appare improvviso davanti alle mura: lo porta un cavallo di Tracia pezzato di bianco, e il capo gli copre  un elmo d’oro con rosso il cimiero. « E chi sarà con me,  o giovani, chi primo incontro il nemico? Ecco! » esclama,  e un dardo vibrando, lo lancia per l’aure, segnale della  battaglia, ed alto si avanza nel campo. L'acclamano a  gran voce i compagni, e con un grido lo seguono che  orribile suona: e stupiscono dei cuori inerti dei Teucri,  e come non escano in campo aperto e non cozzin le armi con loro, ma stiano accovacciati là dentro. Turno,  ora qua ora là, esplora a cavallo le mura, e cerca —  ma impenetrabile è il luogo — un accesso. E come quando un lupo che insidia l’ovile ricolmo, freme là presso  al recinto, esposto al vento e alla pioggia, nel cuor della    2balatum exercent, ille asper et improbus ira  saevit in absentes, collecta ‘fatigat edendi  ex longo rabies et siccae sanguine fauces;  haud aliter Rutulo muros et castra tuenti  ignescunt irae, duris dolor ossibus ardet,  qua tentet ratione aditus et qua vi clausos  excutiat Teucros vallo atque effundat in aequor..  Classem, quae lateri castrorum adiuncta latebat,  aggeribus septam circum et fluvialibus undis,  invadit sociosque incendia poscit ovantes  atque manum pinu flagranti fervidus implet.  Tum vero incumbunt (urget praesentia Turni),  atque omnis facibus pubes accingitur atris.  Diripuere focos; piceum fert fumida lumen  taeda et commixtam Vulcanus ad astra favillam.  Quis Deus, o Musae, tam saeva incendia Teucris  avertit? tantos ratibus quis depulit ignes?  Dicite. Prisca fides facto, sed fama perennis.  Tempore quo primum Phrygia formabat in Ida  Aeneas classem et pelagi petere alta parabat,  ipsa Deum fertur genetrix Berecyntia magnum  vocibus his adfata Iovem: « Da, gnate, petenti,  quod tua cara parens domito te poscit Olympo.  Pinea silva mihi, multos dilecta per annos;  lucus in arce fuit summa, quo sacra ferebant,  nigranti picea trabibusque obscurus acernis.  Has ego Dardanio iuveni, cum classis egeret,  laeta dedi: nunc sollicitam timor anxius angit.Solve metus, atque hoc precibus sine posse parentem: 90    ne cursu quassatae ullo neu turbine venti  vincantur: prosit nostris in montibus ortas. »  Filius huic contra, torquet qui sidera mundi:   « O genetrix, quo fata vocas? aut quid petis istis?    notte: sotto le madri, al sicuro, vanno belando gli agnelli, ed esso, inasprito e feroce per l’ira, infuria contro i  lontani; e lo tormenta la lunga rabbia adunata del cibo  con le fauci che han sete di sangue; — non altrimenti  nel Rùtulo, a guardare i muri ed il campo, ardono lire,  il dolore nell’ossa dure lo brucia: come tentare l’accesso,  e come scacciar con la forza i Teucri dal vallo e spargerli nella pianura. Allora investe la flotta, che stava al  riparo di fianco al campo, recinta all’intorno dagli argini e dall'onde del fiume, e invita all'incendio i compagni esultanti, e furibondo impugna una fiaccola ardente; ed essi si accaniscono all’opera: li sprona la presenza di Turno, e tutta di negre faci la gioventù si fornisce. Saccheggiano i focolari; le torce fumose una luce  spandon color della pece, e Vulcano lancia fumo e faville alle stelle. Qual Dio, o Muse, un così fiero incendio allontanò dai  Troiani? chi discacciò dalle navi sì grandi fiamme? Voi  ditelo. Antica è la fede nel fatto, ma la sua fama è perenne. Nel tempo che dapprima fabbricava nell’Ida di  Frigia Enea la sua flotta e si accingeva a prendere il  mare infinito, dicono che essa stessa, la Berecinzia * madre dei numi, al gran Giove volgesse queste parole:  « Ascolta, o figlio, il mio prego, il primo che io, la tua  cara madre, ti chiedo, da quando domasti l'Olimpo. Ho  una selva di pini, da lunghissimi anni a me cara; ed era  il sacro mio bosco sulla cima del monte, ia dove si esercitava il mio culto, di nereggianti abeti ombroso e di  alti tronchi di aceri. Ed io ben lieta li ho dati al dàrdano eroe, allorchè aveva bisogno di navi; ma ora il timore mi rende ansiosa e sollecita: toglimi da questo af-.  fanno, e fa che questo ottenga la preghiera di una madre: fa che non siano mai schiantate da viaggio nes  2Mortaline manu factae immortale carinae  fas habeant? certusque incerta pericula lustret  Aeneas? cui tanta Deo permissa potestas?  Immo ubi defunctae finem portusque tenebunt  Ausonios olim, quaecumque evaserit undis  Dardaniumque ducem Laurentia vexerit arva,  mortalem eripiam formam magnique iubebo  aequoris esse Deas, qualis Nereia Doto  et Galatea secant spumantem pectore pontum. »  Dixerat, idque ratum Stygii per flumina fratris,  per pice torrentes atraque voragine ripas  adnuit, et totum nutu tremefecit Olympum.  Ergo aderat promissa dies et tempora Parcae  debita complerant, cum Turni iniuria Matrem  admonuit ratibus sacris depellere taedas.  Hic primum nova lux oculis effulsit, et ingens  visus ab Aurora caelum transcurrere nimbus  Idaeique chori: tum vox horrenda per auras  excidit et Troum Rutulorumque agmina complet.  « Ne trepidate meas, Teucri, defendere naves,  neve armate manus: maria ante exurere Turno,  quam sacras dabitur pinus. Vos ite solutae,  ite Deae pelagi; genetrix iubet. » Et sua quaeque  continuo puppes abrumpunt vincula ripis  delphinumque modo demersis aequora rostris  ima petunt: hinc virgineae (mirabile monstrum)  [quot prius aeratae steterant ad litora prorae]  reddunt se totidem facies pontoque feruntur.  Obstupuere animis Rutuli, conterritus ipse  turbatis Messapus equis, cunctatur et amnis  rauca sonans revocatque pedem Tiberinus ab alto.  At non audaci Turno fiducia cessit;  ultro animos tollit dictis atque increpat ultro: suno o da turbinose tempeste; e a lor giovi sui nostri  monti esser nate ». E a lei di rincontro il figliuolo, che  volge le stelle del cielo: « Madre, perchè vuoi tu cambiare il destino? e che cosa domandi per loro? Forse  che navi foggiate da mano mortale potranno avere una  sorte immortale? Ed Enea al sicuro affronterà i malsicuri perigli? E quale dei numi ha così grande potere?  Bensì, quando compiuto il lor corso si fermeranno un  giorno nei porti d’Ausonia, qualunque ne sia scampata  dall’onde ed abbia portato il duce dardànio nei campi  laurenti, io le toglierò la sua forma mortale, e vorrò  ch’elle sieno dee dell’ampie marine, come Doto e Galatea nereidi, che fendono il mare spumante col petto ».  Disse; e giuratolo per il fiume dello stigio fratello * e  per le sponde bollenti di pece dall’atra voragine, cennò, ed al cenno, tutto fece tremare l’Olimpo.   Era dunque arrivato il giorno promesso, e avevan  le Parche compiuto il debito tempo, quando l'offesa di  Turno indusse la Madre a cacciar dalle sacre navi le  fiaccole. Allora da prima una luce novella agli occhi rifulse, e immenso fu visto trascorrere dall'Oriente un nimbo pel cielo, e con esso i cori dell’Ida: così tremenda  una voce cadde per l’aria, e le schiere riempì dei Troiani  e dei Ruùtuli: « Non vi affannate a difendere i miei navigli, o Troiani, e non afferrate le armi: prima potrà ardere il mare, Turno, che bruciare i pini a me sacri. È  voi andatene sciolte, andatene, Dee del mare; la vostra  madre lo vuole ». E tosto ad una ad una ie poppe troncan le corde dal lido, e a guisa di delfini, tuffati i rostri, scendon nel fondo del înare: e di qui (meraviglioso  prodigio), quante prore di bronzo eran state prima alla  riva”, ricompaiono volti alirettanti di fanciulle, e si avvian sul mare.    2« Troianos haec monstra petunt, his Iuppiter ipse  auxilium solitum eripuit; non tela nec ignes  exspectant Rutulos. Ergo maria invia Teucris, 130  nec spes ulla fugae; rerum pars altera adempta est;  terra autem in nostris manibus: tot milia gentes   arma ferunt Italae. Nil me fatalia terrent,   si qua Phryges prae se iactant, responsa Deorum.   Sat fatis Venerique datum, tetigere quod arva 135  fertilis Ausoniae Troes. Sunt et mea contra   fata mihi, ferro sceleratam exscindere gentem,   coniuge praerepta; nec solos tangit Atridas   iste dolor solisque licet capere arma Mycenis.   Sed periisse semel satis est; peccare fuisset 140  ante satis penitus modo non, genus omne perosos  femineum? quibus haec medii fiducia valli  fossarumque morae, leti discrimina parva,   dant animos. An non viderunt moenia Troiae   Neptuni fabricata manu considere in ignes? 145  Sed vos, o lecti, ferro quis scindere vallum   adparat et mecum invadit trepidantia castra?   Non armis mihi Vulcani, non mille carinis   est opus in Teucros. Addant se protinus omnes   Etrusci socios. Tenebras et inertia furta ; 150  [Palladii caesis summae custodibus arcis]   ne timeant; nec equi caeca condemur in alvo:   luce palam certum est igni circumdare muros.   Haud sibi cum Danais faxo et pube Pelasga   esse putent, decimum quos distulit Hector in annum. 159  Nunc adeo, melior quoniam pars acta diei,   quod superest, laeti bene gestis corpora rebus  procurate, viri, et pugnam sperate parari. »   Interea vigilum excubiis obsidere portas   cura datur Messapo et moenia cingere flammis.  Stupiron nel cuore i Rùtuli, atterrito è lo stesso Messapo e i suoi cavalli s'impennano; il Tiberino fiume ancor esso s’indugia, rauco ‘sonando, e ritrae il piede dal  ‘ mare. Ma non a Turno audace vien meno l’ardire, chè  anzi rianima 1 cuori coi detti e li garrisce così: « Contro i Toiani, comparvero questi portenti; a loro, il solito scampo lo stesso Giove ha strappato: non v'è più  bisogno delle armi e dei fuochi dei Rùtuli. Così i Teucri non hanno più vie sul mare nè alcuna speranza di  fuga: son tolte loro le acque, e la terra è in nostro potere: tante migliaia di armati mandano l'itale genti!  Non mi atterriscono, no, i fatali responsi dei numi, di  cui i Frigi si vantano. Basti a Venere e ai fati, che della  fertile Ausonia toccarono i campi i Troiani. Ho i miei  destini io pure: esterminar con la spada la scellerata  gente, poichè mi ha rapita la sposa; e un tale dolore  non tocca soltanto gli Atridi‘°, nè soltanto a Micene  e lecito l’armi brandire. Ma esser periti una volta, poteva bastare; e non sarebbe bastato aver peccato una  volta, per odiar tutto il sesso femmineo? Certo, a loro dan forza il vallo interposto e dei fossati l’ostacolo,  breve ritardo alla morte. Ma non vider le mura di Troia  — e le aveva costrutte Nettuno! — ruinare in mezzo  alle fiamme? Ora di voi, o eletti, chi si prepara a rompere il vallo e ad assaltare con me gli accampamenti  tremanti? Non ho bisogno dell’armi, io, di Vulcano, e  di mille carene, per combattere contro i Troiani. E a  loro si aggiungano pure alleati tutti quanti gli Etruschi. Le tenebre e gli assalti infingardi [del Palladio,  e dei custodi della rocca la strage]! non tornano essi,  chè noi non ci chiuderemo nel ventre oscuro del cavallo:  alla luce, all’aperto, circonderemo ie mura di fiamme.  Io farò sì che non si credano in guerra coi Dànai e con     Bis septem Rutuli, muros qui milite servent,  delecti: ast illos centeni quemque sequuntur  purpurei cristis iuvenes auroque corusci.  Discurrunt variantque vices fusique per herbam  indulgent vino et vertunt crateras aénos. Collucent ignes: noctem custodia ducit  insomnem ludo.  Haec super e vallo prospectant Troes et armis  alta tenent, nec non trepidi formidine portas  explorant, pontesque et propugnacula iungunt, tela gerunt. Instant Mnestheus acerque Serestus,  quos pater Aeneas, si quando adversa vocarent,  rectores iuvenum et rerum dedit esse magistros. Omnis per muros legio, sortita periclum,  excubat, exercetque vices, quod cuique tuendum est. 175  Nisus erat portae custos, acerrimus armis,  Hyrtacides, comitem Aeneae quam miserat Ida  venatrix iaculo celerem levibusque sagittis;  et iuxta comes Eurialus, quo pulchrior alter  non fuit Aeneadum Troiana neque induit arma, 180 ‘  ora puer prima signans intonsa iuventa. ©  His amor unus erat, pariterque in bella ruebant;  tum quoque communi portam statione tenebant.  Nisus ait: « Dine hunc ardorem mentibus addunt,  Euryale, an sua cuique Deus fit dira cupido? Aut pugnam aut aliquid iamdudum invadere magnum  mens agitat mihi nec placida contenta quiete est.  Cernis, quae Rutulos habeat fiducia rerum.  Lumina rara micant: somno vinoque soluti  procubuere; silent late loca. Percipe porro, _ 190  quid dubitem et quae nunc animo sententia surgat.  Aeneam acciri omnes, populusque patresque,  exposcunt, mittique viros, qui certa reportent.  la gente Pelasga, che Ettore per ben dieci anni tardò.  Ora dunque, poichè è scorsa la parte migliore del giorno, quel tanto che avanza, lieti dei primi successi, concedetelo, o prodi, a ristorarvi le membra, e aspettate che  venga la pugna ». Frattanto si affida a Messapo di guardar con le scolte le porte !* e di cinger le mura di fuochi. Due volte sette Rùtuli son scelti a custodia dei muri coi loro guerrieri; ed ognuno da cento armati è seguito, con cimieri purpurei ed armi che brillano d’oro.  Corron di qua e di là, si danno il cambio, e sdraiati su  l'erba tracannano il vino e lo versan dai crateri di bronzo. Splendono i fuochi; e le guardie passano la notte  insonne giocando.  Di sopra al vallo i Troiani stanno a osservare, e con  l’armi guardan le mura, e così, in fretta, per il timore,  vanno studiando le porte, congiungon coi ponti le torri,  ammucchiano l’armi. Stanno su loro Mnèsteo ed il fiero  Seresto, che il padre Enea, se mai lo chiedesse il pericolo, avea destinati a guidare l’esercito e a governare  lo stato. Tutti, lungo le mura, al rischio che la sorte ha  voluto, i guerrieri vegliano, n scambiano i turni, secondo che tocca ad ognuno. Niso era a custodia di una porta, d’Irtaco il figlio, che, a compagno d’Enea, Ida aveva  sini la cacciatrice, ed era destro a gettare veloci  saette; e accanto gli era compagno Eurìalo, il più bello  fra tutti gli Enèadi e quanti vestivano l’armi troiane;  fanciullo ancora, gli fioriva sulle gote intonse la prima  lanugine. Stretto un amore li univa, e insieme si precipitavano in guerra; ed anche allora, compagni di scolta, guardavan la porta. Niso disse: « M'ispirano forse  gli Dèi questo mio ardor nella mente, o Eurialo? o il  suo fiero desìo diviene a ciascuno il suo Dio? Già da  gran tempo il mio cuore mi spinge alla pugna o a ten  Si tibi quae posco promittunt (nam mihi facti  fama sat est) tumulo videor reperire sub illo 195  posse viam ad muros et moenia Pallantea. »  Obstupuit magno laudum percussus amore  Euryalus: simul his ardentem adfatur amicum:  « Mene igitur socium summis adiungere rebus,  Nise, fugis? solum te in tanta pericula mittam? 200  non ita me genitor, bellis adsuetus Opheltes,  Argolicum terrorem inter Troiaeque labores  sublatum erudiit, nec tecum talia gessi >  magnanimum Aenean et fata extrema secutus.  Est hic, est animus lucis contemptor et istum 205  qui vita bene credat emi, quo tendis; honorem. »  Nisus ad haec: « Equidem de te nil tale verebar,  nec fas, non: ita me referat tibi magnus ovantem  luppiter, aut quicumque oculis haec adspicit aequis.  Sed si quis (quae multa vides discrimine tali), si quis adversum rapiat casusve Deusve,  te superesse velim: tua vita dignior aetas.  Sit, qui me raptum pugna pretiove redemptum  mandet humo; solita aut si qua id fortuna vetabit,  absenti ferat inferias, decoretque sepulchro; 215  neu matri miserae tanti sim causa doloris,  quae te sola, puer, multis e matribus ausa  persequitur, magni nec moenia curat Acestae. »  Ille autem: « Causas nequidquam nectis inanes,  nec mea iam mutata loco sententia cedit. 220  Adceleremus » ait. Vigiles simul excitat. Illi  succedunt servantque vices: statione relicta,  ipse comes Niso graditur, regemque requirunt.   Cetera per terras omnes animalia somno  laxabant curas et corda oblita laborum; 225  ductores Teucrum primi, delecta iuventus,    a è    o so pn    tare qualche gran fatto, e non sa placarsi a un tranquillo  riposo. Tu vedi quale fiducia s'è impadronita dei Rùtuli. Rari lampeggiano i lumi; immersi nel sonno e nel  vino giacquero; tutto all’intorno è silenzio. Odimi dunque quello ch’io penso, ed il disegno che ora mi sorge  nel cuore. Tutti, il popolo e i padri, chiedon che Enea  si richiami e gli si mandino messi che gli raccontino il  vero. Se mi promettono quello ch’io chiedo per te (per  mia parte, mi basta la gloria del fatto), credo, la, sotto  a quel colle, di ritrovare la via che mena del Pallantèo  alle mura ». Stupì, colpito da grande amore di gloria,  Eurìalo; e con queste parole si volge all’ardito compagno: « Niso, dunque rifuggi dal prendermi teco all’impresa sì grande? Ti lascerò andar solo in mezzo a cotanti perigli? Ah, non così mio padre, Ofelte assuefatto  alle guerre, fra lo spavento argolico ed i travagli di  Troia mi allevò, m’istruì; e non così mi mostrai accanto  a te, nel seguire il magnanimo Enea fino all’estreme  fortune. C’è qui, c'è qui un animo che sa disprezzare  la vita, e crede che ben con la vita si acquisti questa  gloria che agogni tu pure ». E Niso di rincontro: « Non  io certo dubitavo di te, nè lo potrei, oh no: così a te  mi riconduca in trionfo il grande Giove o chiunque  dall’alto ci guarda con occhio propizio. Ma se, come  spesso accade in rischi sì grandi, se un qualche caso, o  un Dio, mi tragga a morire, vorrei che tu rimanessi; ti  dà più diritto alla vita la tua giovinezza: e vi sia chi  mi sottragga alla mischia o mi ricompri al nemico per  sotterrarmi, e se, come accade, lo vieterà la fortuna, mi  renda i funebri offici, anche lontano, e di un sepolcro  mi onori. Ah, ch’io non sia cagione di un sì grande  dolore alla tua povera madre, che sola, o fanciullo, fra  tante madri osava seguirti, e non ristette del grande    3 - Vircuro - Eneide consilium summis regni de rebus habebant,   quid facerent quisve Aeneae iam nuntius esset.   Stant longis adnixi hastis et scuta tenentes   castrorum et campi medio. Tum Nisus et una ‘230  Euryalus confestim alacres admittier orant:   rem magnam, pretiumque morae fore. Primus Iulus  accepit trepidos ac Nisum dicere iussit.   Tunc sic Hyrtacides: « Audite o mentibus aequis,  Aeneadae, neve haec nostris spectentur ab annis, 235  quae ferimus. Rutuli somno vinoque soluti   conticuere: locum insidiis conspeximus ipsi,   qui patet in bivio portae, quae proxima ponto;  interrupti ignes, aterque ad sidera fumus   erigitur; si fortuna permittitis uti 240  quaesitum Aenean et moenia Pallantea,   mox hic cum spoliis ingenti caede peracta   adfore cernetis. Nec nos via fallet euntes:   vidimus obscuris primam sub vallibus urbem    venatu adsiduo et totum cognovimus amnem. » 245    Hic annis gravis atque animi maturus Aletes:   « Di patrii, quorum semper sub numine Troia est,   non tamen omnino Teucros delere paratis,   cum tales animos iuvenum et tam certa tulistis  pectora. » Sic memorans umeros dextrasque tenebat 250  amborum et vultum lacrimis atque ora rigabat:   « Quae vobis, quae digna, viri, pro laudibus istis,  praemia posse rear solvi? pulcherrima primum   Di moresque dabunt vestri; tum cetera reddet   actutum pius Aeneas atque integer aevi 259  Ascanius, meriti tanti non immemor umquam. Immo ego vos, cui sola salus genitore reducto,   excipit Ascanius, per magnos, Nise, Penates  Assaracique Larem et canae penetralia Vestae  Aceste alle mura ». Ma quegli: « Tu indarno intessi i  tuoi vani pretesti, e il mio voler non si muta e non cede. Presto!» soggiunge. E risveglia le scolte; queste  subentrano al cambio; lasciata la guardia, ei s’accompagna con Niso, e vanno in cerca del re.   Gli altri animali per tutte le terre placavan nel sonno i loro affanni nei cuori dimentichi d’ogni travaglio;  ma i duci primi dei Teucri, fior dei guerrieri, tenevan  consiglio sul grave momento del regno: che fare? e chi  mandar messaggero ad Enea? Stanno poggiati alle lunghe aste, e reggon gli scudi, nel mezzo alla piazza del  campo. Quand’ecco Niso, e con lui Eurìalo, pronti, chiedono d’essere uditi, subito: grande è la cosa, e d’interrompere vale la pena. Iulo per primo li accolse ansiosi,  e a Niso ordinò di parlare. Così allora l’Irtàcide: « Udite  con menti benigne, o Enèadi; e quel che portiamo non  lo giudicate dagli anni. I Rùtuli, immersi nel sonno e  nel vino, tacciono tutti; noi, un luogo abbiam scorto,  propizio alle insidie, che si scopre là al bivio della porta  ch’è prossima al mare. Son mezzo spenti i fuochi, e cupo il fumo si erge alle stelle; se ci lasciate tentare la  sorte a ricercare Enea e le mura del Pallanteo, presto  qui con le spoglie nemiche ed onusti di strage ci rivedrete tornare. E non smarriremo la via: sotto le oscure valli, nelle continue cacce, vedemmo lassù la città e  tutto il fiume esplorammo ». Allora, grave d’anni, e  maturo di senno rispose Alete: «O Dei della patria,  sotto il cui nume è ancor Troia, certo voi non pensate  di distruggere i Teucri del tutto, poi che c'inviaste tali  anime e petti sì fermi di giovani! ». Questo dicendo,  stringeva d’entrambi le spalle e le mani, rigando le  guance di pianto: « Oh, quale premio, o prodi, che degno premio per questa impresa vi potremo noi dare?  obtestor: quaecumque mihi fortuna fidesque est,  in vestris pono gremiis; revocate parentem,  reddite conspectum; nihil illo triste recepto.  Bina dabo argento perfecta atque aspera signis  pocula, devicta genitor quae cepit Arisba,   et tripodas geminos, auri duo magna talenta,  cratera antiquum, quem dat Sidonia Dido.   Si vero capere Italiam sceptrisque potiri  contigerit victori et praedae ducere sortem,  vidisti quo Turnus equo, quibus ibat in armis  aureus: ipsum illum, clipeum cristasque rubentes  excipiam sorti, iam nunc tua praemia, Nise.  Praeterea bis sex genitor lectissima matrum  corpora captivosque dabit, suaque omnibus arma:  insuper his, campi quod rex habet ipse Latinus,  Te vero, mea quem spatiis propioribus aetas  insequitur, venerande puer, iam pectore toto  accipio, et comitem casus complector in omnes.  Nulla meis sine te quaeretur gloria rebus:   seu pacem seu bella geram, tibi maxima rerum  verborumque fides. » Contra quem talia fatur  Euryalus: « Me nulla dies tam fortibus ausis  dissimilem arguerit; tantum fortuna secunda  haud adversa cadat. Sed te super omnia dona  unum oro: genetrix Priami de gente vetusta   est mihi, quam miseram tenuit non Ilia tellus  mecum excedentem, non moenia regis Acestae: hanc ego nunc ignaram huius, quodcumque pericli est,    inque salutatam linquo; nox et tua testis   dextera, quod nequeam lacrimas perferre parentis;  at tu, oro, solare inopem et succurre relictae.  Hanc sine me spem ferre tui: audentior ibo   in casus omnes. » Percussa mente dedere    290    Il primo ve lo daranno, e il più bello, gli Dèi e le vostre virtù; gli altri ben presto li avrete dal pio Enea  e da Ascanio, il giovinetto in fiore, che di un così grande servigio non sarà immemore mai ». « Anzi io, soggiunse Ascanio, che altra salvezza non ho se non il ritorno del padre, questo vi giuro, o Niso, per i grandi  Penati, per il lare di Assàraco e per l’altare della antichissima Vesta: ogni mia sorte ed ogni mia speranza,  in vostre mani io pongo; riconducetemi il padre, fate  che io lo riveda: se lo ricupero, nulla sarà più triste  per me. Due coppe vi darò, cesellate in argento e scolpite a bassorilievi, che il padre ebbe alla presa di Arisba; e due tripodi, e due grandi talenti di oro, ed un  cratere antico, dono della sidònia Didone. Se poi vincitore potrò prender l’Italia e tenere lo scettro e sorteggiare le prede, certo tu hai veduto quel destriero su cui  Turno veniva, e le ammi che lo vestivano d’oro: ebbene,  quel suo cavallo, e lo scudo e il cimiero vermiglio, li  sottrarrò dal sorteggio; fin d’ora è un tuo premio, o  Niso. Inoltre, mio padre darà due volte sei corpi di  donne, fra le più belle, ed altrettanti prigioni, con le  sue armi ciascuno: e oltre a ciò, proprio i campi che  or sono del rege Latino. Te poi, che sei vicino a me per  età, o venerando fanciullo, con tutto il cuore ti accolgo,  fin d’ora, e ti abbraccio, compagno per ogni fortuna.  Non cercherò per me gloria nessuna senza di te; ed in  pace ed in guerra, nei fatti e nelle parole, in te fiderò  sopra ognuno ». A lui di rincontro Eurìalo rispose così:  « Non verrà mai un giorno che mi palesi diverso da questo mio forte sentire: mi basta che la fortuna di seconda non muti in avversa. Ma sopra ogni altro dono, solo  una cosa t’imploro: ho una madre, della stirpe di  Priamo vetusta, che, misera, quando partii, non si fer  Dardanidae lacrimas, ante omnes pulcher Iulus,   atque animum patriae strinxit pictetie imago.   Tum sic effatur: Sponde digna tuis ingentibus omnia coeptis; |  namque erit ista mihi genetrix nomenque Creusae  solum defuerit, nec partum gratia talem   parva manet. Casus factum quicumque sequentur,   per caput hoc iuro, per quod pater ante solebat: 300  quae tibi polliceor reduci rebusque secundis,   haec eadem matrique tuae generique manebunt. »   Sic ait illacrimans: umero simul exuit ensem   auratum, mira quem fecerat arte Lycaon |  Gnosius atque habilem vagina aptarat eburna. 305  Dat Niso Mnestheus pellem horrentisque leonis  exuvias: galeam fidus permutat Aletes.   Protinus armati incedunt; quos omnis euntes  primorum manus ad portas iuvenumque senumque  prosequitur votis. Necnon et pulcher Iulus 310  ante annos animumque gerens curamque virilem,  multa patri mandata dabat portanda. Sed aurae   omnia discerpunt et nubibus irrita domant.   Egressi superant fossas, noctisque per umbram  castra inimica petunt, multis tamen ante futuri 315  exitio. Passim somno vinoque per herbam  corpora fusa vident, arrectos litore currus,  inter lora rotasque viros, simul arma iacere,  vina simul. Prior Hyrtacides sic ore locutus:   « Euryale, audendum dextra: nunc ipsa vocat res. 320  Hac iter est. Tu, ne qua manus se attollere nobis   a tergo possit, custodi et consule longe.   Haec ego vasta dabo et lato te limite ducam. »   Sic memorat vocemque premit; simul ense superbum  Rhamnetem adgreditur, qui forte tapetibus altis mò nella terra di Ilio nè fra le mura di Aceste. Or io  qui l’abbandono ignara di questo mio rischio, qual che  si sia, e insalutata: la notte e la tua destra mi sian testimoni che io non potrei sostenere le lacrime della mia  madre. Ma tu, te ne prego, consola la misera, soccorrila,  se resta sola. Lascia ch'io porti meco questa speranza di  te; poi, anderò più audace incontro ad ogni ventura ».  Commossi nel cuore i Dardànidi lagrimarono, il bel  Iulo anzi tutti, chè il cuore gli strinse il ricordo dell’amore paterno. È così disse: « Attenditi pur tutto quanto si deve alla tua grande impresa; chè essa sarà la mia  madre, e soltanto il nome le mancherà di Creusa: piccolo dono, a colei che generò un tal figlio. Qualunque  si sia l’evento, per questo mio capo ti giuro sul quale  soleva giurare mio padre: quello che io ti promisi se  tornerai vittorioso, alla tua madre sarà serbato ed alla  tua stirpe ». Così diceva piangendo, e dalla spalla si  tolse la spada d’oro che aveva foggiata con arte stupenda Licàone di Cnosso, scorrevole entro la guaina di  avorio. Mnèsteo a Niso donava di un irsuto leone la  pelle e la apoglia, e il fido Alete scambia il suo elmo  con lui. Tosto s’avviano armati; e tutta ia schiera dei  grandi, giovani e vecchi, alle porte li accompagnan coi  voti. E intanto il bello Iulo, che ha cuore e senno virile,  oltre l’età, affidava molti messaggi al suo padre. Ma  l’aura tutti li sperde inutili in mezzo alle nuvole.  Usciti, varcano i fossi, e per le ombre notturne vengbno al campo fatale; ma prima, a molti daranno la  morte. (Qua e là sparsi tra il sonno ed il vino scorgono  i corpi sull’erba, e i cocchi alzati sul lido, e, tra le briglie e le ruote, giacere i guerrieri, e con loro le armi,  ed i vini con loro. Primo il figlio di Irtaco così disse:  « Eurìalo, qui bisogna osar con la destra: l’oecasione lo exstructus toto proflabat pectore somnum,   rex idem et regi Turno gratissimus augur;   sed non augurio potuit depellere pestem.   Tres iuxta famulos temere inter tela iacentes  armigerumque Remi premit aurigamque sub ipsis nactus equis, ferroque secat pendentia colla.   Tum caput ipsi aufert domino, truncumque relinquit  sanguine singultantem; atro tepefacta cruore   terra torique madent. Necnon Lamyrumque Lamumque,  et iuvenem Sarranum, illa qui pluritha nocte luserat, insignis facie, multoque iacebat   membra Deo victus: felix, si protinus illum   aequasset nocti ludum in lucemque tulisset.   Impastus ceu plena leo per ovilia turbans, suadet enim vesana fames, manditque trahitque 340  molle pecus mutumque metu, fremit ore cruento.   Nec minor Euryali caedes; incensus et ipse   perfurit, ac multam in medio sine nomine plebem,  Fadumque Herbesumque subit Rhoetumque Abarimque  ignaros, Rhoetum vigilantem et cuncta videntem, sed magnum metuens se post cratera tegebat;   pectore in adverso totum cui comminus ensem  condidit adsurgenti et multa morte recepit.   Purpuream vomit ille animam et cum sanguine mixta  vina refert moriens: hic furto fervidus instat. 350  lamque ad Messapi socios tendebat: ibi ignem   deficere extremum et religatos rite videbat   carpere gramen equos: breviter cum talia Nisus  (sensit enim nimia caede atque cupidine ferri. Absistamus, ait, nam lux inimica propinquat. Poenarum exhaustum satis est, via facta per hostes. »  Multa virum solido argento perfecta relinquunt  armaque craterasque simul pulchrosque tapetas. vuole. Di qua è la via. Ora tu, perchè un qualche drappello non ci si levi alle spalle, fa guardia e sta attento  all’intorno. Io qui farò largo, e ti guiderò per un ampio  cammino >». Così dice, poi smorza la voce; ed il superbo  Ramnete con la sua spada colpisce; ed egli, sui tappeti  ammucchiati giacendo, dormiva lì a pieno petto, russando. Re egli pure, ed al re Turno il più grato degli  àuguri; ma non potè con la scienza profetica allontanare la morte. Lì presso, uccide tre servi che a caso giacevan fra l’armi, e lo scudiero di Remo, ed il suo auriga sorpreso sott’essi i cavalli, e col ferro taglia le gole  rovescie. Poscia anche al signore tronca il capo, ed il  busto lascia singhiozzante nel sangue; intiepiditi la  terra ed i letti di negro sangue s’imbevono. E poi Làmiro, e Lamo, e il giovin Sarrano, che fino a tardi la  notte aveva giocato, bello di volto, e giaceva vinte le  membra dal vino: felice, se avesse giocato tutta la notte  ed infino all’aurora! Così un leone digiuno imperversando tra gli ovili ricolmi — la fame rabbiosa lo istiga  — sbrana e trascina la greggia molle e per il terrore  ammutita, e rugge con bocca sanguigna. Nè minore è la  strage d’EURÌALO; ardendo anch'egli infuria, e alla rinfusa sorprende molta ignobile plebe, e Fado, ed Erbeso,  e Reto, ed Abari, inconsapevoli; Reto, era desto e tutto  vedeva, ma per paura si stava nascosto dietro un grande  cratere: ma mentre si alzava, gli immerse fino all’elsa  nel petto la spada, e la ritrasse grondante di sangue. Ed egli in un fiotto di porpora esala la vita, ed il vino,  morendo, rigetta col sangue. L’altro, più ardente, continua la strage furtiva. E già si volgeva ai compagni di  Messapo; ivi vedeva languire gli ultimi fuochi, e i cavalli al guinzaglio, com’è uso, pascere l’erba, allorchè NISO, che trascinato lo vide da brama soverchia di stra EURYALVS phaleras Rhamnetis et aurea bullis   cingula (Tiburti Remulo ditissimus olim quae mittit dona hospitio, cum iungeret absens,   Caedicus; ille suo moriens dat habere nepoti,   post mortem bello Rutuli pugnaque potiti),   haec rapit, atque umeris nequidquam fortibus aptat. Tum galeam Messapi habilem cristisque decorum induit. Excedunt castris, et tuta capessunt.  Interea praemissi equites ex urbe Latina, cetera dum legio campis instructa moratur,   ibant et Turno regi responsa ferebant, tercentum, scutati omnes, Volscente magistro. 370   lamque propinquabant castris murosque subibant,   cum procul hos laevo flectentes limite cernunt,   et galea Euryalum sublustri noctis in umbra   prodidit immemorem, radiisque adversa refulsit.   Haud temere est visum. Conclamat ab agmine Vol. [scens:   « State, viri: quae causa viae? quive estis in armis?   quove tenetis iter? » Nihil illi tendere contra;   sed celerare fugam in silvas et fidere nocti.   Obiciunt equites sese ad divortia nota   hinc atque hinc,omnemque aditum custode coronant. Silva fuit, late dumis atque ilice nigra   horrida, quam densi complerant undique sentes,   rara per occultos lucebat semita calles.   Euryalum tenebrae ramorum onerosaque praeda   impediunt, fallitque timor regione viarum. NISVS abit: iamque imprudens evaserat hostes   atque locos, qui post Albae de nomine dicti   Albani (tum rex stabula alta Latinus habebat).   Ut stetit et frustra absentem respexit amicum:   « Euryale infelix, qua te regione reliqui? ge, così brevemente. parlò: « Fermiamoci, chè oramai la  luce nemica si appressa. Li abbiamo puniti abbastanza,  e aperta in mezzo ai nemici è la via ». Lasciano lì molte  armi di guerrieri lavorate di argento massiccio, ed i  crateri insieme ed i belli tappeti. Eurìalo si toglie i fregi  di Ramnete ed il balteo dall’auree borchie, e, invano!,  sugli omeri forti lo adatta. A Rèmolo, il tiburtino, li  aveva mandati una volta il ricchissimo Cèdico, in segno  di ospitalità ch’egli stringeva da lungi; e quegli morendo li diede al nipote, e, questo morto, i Rùtuli se ne impadronirono in guerra. Poi l’elmo di Messapo si cinge,  agevole, e adorno di creste. Escon dal campo e s’avviano in salvo. Frattanto i cavalieri mandati innanzi dalla città di  Latino, mentre i pedoni attendono armati nella campagna, venivano per riportare al re Turno un responso:  trecento, tutti scudati, ed era lor duce Volscente. E già  erano. presso al campo e varcavan le mura, quando da  lungi li scorgono che piegavano verso sinistra; e l’elmo,  nella penombra notturna tradì EURÌALO immemore, a un  raggio di luna splendendo. È non fu vana la vista. Grida  dalla sua schiera Volscente: « Fermi, voi! perchè siete  in via? chi siete così armati? e dove andate? ». Ma quelli  non rispondono, anzi si affrettano in fuga pei boschi e  fidano nell’oscurità. 1 cavalieri si gettano di qua, di là ai  bivi ben noti, e tutte circondan di gnardie le uscite. Era  una selva spaziosa e orrida di nere querce e di pruni,  densa da ogni parte di sterpi; e tra le peste occulte,  raro si apriva un sentiero. L'ombre dei rami e il carico  del bottino ritardavano Euriìalo, e il timore gli fa smarrire la via. Niso è fuggito; e di già, senza pensare all’amico, altrepassati aveva i nemici ed i luoghi che poi  dal nome di Alba furon chiamati Albani (allora, v’era  Quaque sequar, rursus perplexum iter omne revolvens  fallacis silvae? » Simul et vestigia retro   observata legit dumisque silentibus errat. Audit equos, audit strepitus et signa sequentum.   Nec longum i in medio tempus, cum clamor ad aures pervenit ac videt EURYALVM, quem iam manus omnis  fraude loci et noctis, subito turbante tumultu, Oppressum rapit et conantem plurima frustra. Quid faciat? qua vi iuvenem, quibus audeat armis  eripere? an sese medios moriturus in hostes inferat, et pulchram properet per vulnera mortem?  Ocius adducto torquens hastile lacerto,   suspiciens altam Lunam, et sic voce precatur: Tu, Dea, tu praesens nostro succurre labori,  astrorum decus et nemorum Latonia custos: si qua tuis umquam pro me pater Hyrtacus aris   dona tulit, si qua ipse meis venatibus auxi,   supendive tholo aut sacra ad fastigia fixi:   hunc sine me turbare globum et rege tela per auras. Dixerat, et toto conixus corpore ferrum conicit. Hasta volans noctis diverberat umbras,   et venit adversi in tergum Sulmonis, ibique   frangitur, ac fisso transit praecordia ligno.   Volvitur ille vomens calidum de pectore flumen  frigidus et longis singultibus ilia pulsat. 415  Diversi circumspiciunt. Hoc acrior idem   ecce aliud summa telum librabat ab aure. Dum trepidant, it hasta Tago per tempus utrumque  stridens, traiectoque haesit tepefacta cerebro.   Saevit atrox Volscens nec teli conspicit usquam 420  auctorem nec quo se ardens immittere possit. Tu tamen interea calido mihi sanguine poenas  persolves amborum » inquit: simul ense recluso       i  no i pascoli incolti del re Latino). Come ristette, ed invano si volse a cercare l’amico: « O infelice EURIALO, e  dove mai t'ho lasciato? dove ti cercherò, ancor rifacendo  il cammino tortuoso per la selva fallace? ». E tosto nota  e ricalca all’indietro le tracce, ed erra silenzioso tra i  pruni. Ode i cavalli, ode lo strepito e i segnali degl’inseguitori. E ben presto agli orecchi un grido gli giunge;  ed Eurìalo vede, cui già tutta quanta la schiera, ingannato dal luogo e dal buio, turbato dall’improvviso tumulto, circonda ed incalza; ed invano ei tenta in mille  modi la fuga. Che fare? con quali forze, con quali armi  tentar di salvare il fanciullo? O non è meglio lanciarsi  in mezzo ai nemici a morire, e bella cercare con le ferite la morte? E subito, vibrando col braccio all’indietro un lanciotto, guarda la Luna nell’alto e così le rivolge una prece: « Tu, dea, tu, propizia, nel nostro periglio soccorrici, o Latònia, onore degli astri e delle selve  custode, se mai ai tuoi altari doni per me ti recò Irtaco,  il padre, se mai con le mie cacce anch’io ne aggiunsi, e li  sospesi alla volta o li infissi ai sacri pinnacoli '*, lascia  che io disordini questa schiera, e guidami i dardi per  l’aria ». Disse, e con tutto il suo corpo puntando, lanciò il ferro. E l’asta volando sferza le ombre notturne,  e trapassa nel petto fino alle spalle Sulmone, ed ivi si  spezza, e attraversa, infittavi dentro, i precordi. Cade di  sella colui, vomitando un caldo fiume dal petto, gia  freddo, ed i fianchi gli scuotono lunghi singhiozzi. Guardano gli altri qua e la; e Niso ne prende coraggio, e  dall’altezza del capo, ecco, un altro dardo librava. E,  nella trepida attesa, l’asta attraversa stridendo a Tago  le tempia, e s’infigge tiepida in mezzo al cervello. Atrocemente infuria Volscente, chè non vede l'autore del  eolpo per potersi lanciare ardente contro di lui. « Eb  de    ibat in EURYALVM. Tum vero exterritus, amens  conclamat Nisus, nec se celare tenebris . amplius, aut tantum potuit perferre dolorem:  « Me me, adsum qui feci, in me convertite ferrum, o Rutuli! mea fraus omnis: nihil iste nec ausus,  nec potuit: caelum hoc et conscia sidera testor.  Tantum infelicem nimium dilexit amicum. Talia dicta dabat: sed viribus ensis adactus  transabiit costas et candida pectora rumpit.  Volvitur Euryalus leto, pulchrosque per artus  it cruor, inque umeros cervix collapsa recumbit:  purpureus veluti cum flos succisus aratro 435  languescit moriens, lassove papavera collo  demisere caput, pluvia cum forte gravantur.  At NISVS ruit in medios solumque per omnes  Volscentem petit, in solo Volscente moratur.  Quem circum glomerati hostes hinc comminus spe  {hbinc 440   proturbant. Instat non secius ac rotat ensem  fulmineum, donec Rutuli clamantis in ore  condidit adverso et moriens animam abstulit hosti.  Tum super exanimum sese proiecit amicum  confossus placidaque ibi demum morte quievit. 445  Fortunati ambo! si quid mea carmina possunt,  nulla dies umquam memori vos eximet aevo,  dum domus Aeneae Capitolii immobile saxum  accolet imperiumque pater Romanus habebit.   Victores praeda Rutuli spoliisque potiti | 450  Volscentem exanimum flentes in castra ferebant. Nec minor in castris luctus, Rhamnete reperto  exsangui, et primis una tot caede peremptis  Sarranoque Numaque. Ingens concursus ad ipsa  corpora seminecesque viros tepidaque recentem bene, tu pagherai intanto col caldo tuo sangue per ambedue » gridò; e, sguainata la spada, senz’altro si avventa ad Eurìalo. Ma allora, atterrito, fuor di sè, con  un grido, non potè più celarsi nelle tenebre Niso, e  sopportare un sì grande dolore: « Me, me! Son qui, sono io il colpevole; in me rivolgete le armi, o Rùtuli! È  mia ogni frode; costui non osò, non poteva; pel cielo,  lo giuro, e per le consapevoli stelle. Sola sua colpa, che  troppo amò l’infelice suo amico ». Così diceva; ma il  ferro, vibrato con forza, attraversò le coste e ruppe il  candido petto. S'abbattè Eurìalo morendo, e per le membra leggiadre il sangue si spande, ed il collo si piega abbandonato sopra le spalle: come quando un fiore purpureo che l’aratro ha reciso, languisce morendo: o come quando i papaveri sul collo stanco la testa piegano,  se per caso li grava la pioggia.   Ma Niso si slancia nel mezzo, e solo, fra tutti, Volscente cerca, e sol di Volscente si cura. Gli si affollano  intorno i nemici, e d’ogni parte, da presso, lo ricacciano; e nondimeno egli incalza ruotando la spada fulminea, finchè la piantò nella bocca del Rùtulo, che schiamazzava, e, già morente, rapì al nemico la vita. Poi. si  gettò, crivellato di colpi sopra l’esanime amico, ed ivi,  infine, trovò in placida morte riposo. Fortunati ambedue! Se qualche valore ha il mio canto, giorno nessuno  mai vi torrà alla memoria dei tempi, finchè la stirpe di  Enea terrà del Campidoglio l’incrollabile rupe, e il padre della patria romana avrà qui l'impero !. Vincitori i Rùtuli, con la preda e con le spoglie, piangendo portavano esanime nell’accampamento Volscente. E non minore fu il lutto nel campo, allorchè si scoperse esangue Ramnete, ed insieme con lui tanti duci  uccisi alla strage, e Sarrano, e Numa; la folla si accalca caede locum et plenos spumanti sanguine rivos.  Agnoscunt spolia inter se galeamque nitentem  Messapi, et multo phaleras sudore receptas.   Et iam prima novo spargebat lumine terras  Tithoni croceum linquens ‘Aurora cubile;  iam sole infuso, iam rebus luce retectis,   Turnus in arma viros, armis circumdatus ipse,  suscitat, aeratasque acies in proelia cogit  quisque suas, variisque acuunt rumoribus iras.  Quin ipsa arrectis (visu miserabile) in hastis  praefigunt capita et multo clamore sequuntur  Euryali et Nisi.   Aeneadae duri murorum in parte sinistra  apposuere aciem, nam dextera cingitur amni,  ingentesque tenent fossas et turribus altis  stant maesti; simul ora virum praefixa movebant,  nota nimis miseris atroque fluentia tabo.   Interea pavidam volitans pinnata per urbem  nuntia Fama ruit, matrisque adlabitur aures EURYALI. At subitus miserae calor ossa reliquit:  excussi manibus radii revolutaque pensa.   Evolat infelix, et femineo ululatu,  scissa comam, muros amens atque agmina cursu  prima petit, non illa virum, non illa pericli telorumque memor; caelum dehinc questibus implet: 480  « Hunc ego te, EURYALE, adspicio? tunc illa senectae    sera meae requies, potuisti linquere solam,  crudelis? nec te, sub tanta pericula missum,  adfari extremum miserae data copia matri?  Heu, terra ignota canibus data praeda Latinis  alitibusque iaces, nec te, tua funera mater  produxi pressive oculos aut vulnere lavi,  veste tegens, tibi quam noctes festina diesque ai loro corpi, e ai guerrieri moribondi, ed al luogo ancor  caldo di strage recente, ed al sangue schiumante che  scorre in ruscelli. Riconoscon fra loro le epoglie, e di  Messapo il lucido elmo, e i fregi con grande sudore  riavuti. !   E già di nuova luce spargeva la terra la prima Aurora  lasciando il giaciglio croceo di Titone; già sorto il sole,  già scoperte le cose alla luce, Turno, già chiuso nell’armi, chiama alle armi i guerrieri; ed ordina ognuno in  battaglia le sue schiere coperte dî bronzo, e raccontando il fatto ne acuisce gli sdegni. Anzi, o miserabile vieta!, piantan sull’aste i capi, e li seguono forte gridando, di EURIALO e di NISO. Gli Enèadi saldi sulla parte  einistra dei muri ordinan la resistenza — chè la destra  è recinta dal fiume —, e difendono gli ampi fossati e  stan mesti in cima alle torri; e li sgomentano i volti confitti dei due guerrieri, ahi troppo noti a loro infelici, e  gocciolanti di marcia e di sangue.   Intanto messaggera la Fama volando alata per la  città spaventata va scorrendo, e agli orecchi giunge della madre di Eurìalo. Subitamente il calore lasciò dell’infelice le ossa: le cade di mano la spola e rotolan giù  i gomitoli. Esce correndo la misera, e, come donna, urlando, stracciate le chiome, folle, raggiunge di corsa le  mura e le prime avanguardie; e non si cura, essa, dei  guerrieri e del rischio dell’armi, e il cielo riempie con  i suoi lamenti: « Così ti rivedo, o Eurialo? Ultimo ri- .  poso alla mia vecchiezza, o crudele, lasciarmi sola hai  potuto? E non fu dato a tua madre infelice parlarti  l’ultima volta, quando movesti ad un rischio sì grande?  Ahi, in terra ignorata, preda ai cani latini ed agli uccelli tu giaci; ed io, tua madre, non ho seguito i tuoi  resti mortali, e non ti ho chiusi gli occhi e lavate le tue    4 - VircILI9 - Eneide - Vol. III    urgebam et tela curas solabar aniles.   Quo sequar? aut quae nunc artus avulsaque membra et funus lacerum tellus habet? hoc mihi de te,   nate, refers? hoc sum terraque marique secuta?   Figite me, si qua est pietas, in me omnia tela  conicite, o Rutuli: me primam absumite ferro:   aut tu, magne pater Divum, miserere, tuoque 495  invisum hoc detrude caput sub Tartara telo,   quando aliter nequeo crudelem abrumpere vita. »   Hoc fletu concussi ariimi, maestusque per omnes   it gemitus; torpent infractae ad proelia vires.   Illam incendentem luctus Idaeus et Actor 500  Jlionei monitu et multum lacrimantis Iuli   corripiunt interque manus sub tecta reponunt.   At tuba terribilem sonitum procul aere canoro  increpuit; sequitur clamor, caelumque remugit.  Accelerant acta pariter testudine Volsci et fossas implere parant ac vellere vallum.   Quaerunt pars aditum et scalis ascendere muros,   qua rara est acies interlucetque corona   non tam spissa viris. Telorum effundere contra   omne genus Teucri ac duris detrudere contis, 510  adsueti longo muros defendere bello.   Saxa quoque infesto volvebant pondere, si qua   possent tectam aciem perrumpere: cum tamen omnes  ferre iuvat subter densa testudine casus. Nec iam sufficiunt; nam, qua globus imminet ingens, 515  immanem Teucri molem volvuntque ruuntque,   quae stravit Rutulos late armorumque resolvit  tegmina. Nec curant caeco contendere Marte   amplius audaces Rutuli, sed pellere vallo   missilibus certant. 520  Parte alia horrendus visu quassabat Etruscam ferite, avvolgendoti poi nella veste che, giorno e notte,  per te, sollecita io tesseva, consolando al telaio i miei  affanni senili. Dove cercarti? Qual terra ha ora le tue  membra troncate e la tua lacera salma? Questo, o mio  figlio, mi riporti di te? Questo, questo, per terra e per  mare, ho seguito? Me trafiggete, se in voi è alcuna  pietà; su me tutte l’armi scagliate, o Rùtuli; me prima  uccidete col ferro! E se no, abbimi misericordia tu, o  gran padre dei numi, e col tuo dardo scagliami questo  mio capo odioso giù nel profondo del Tàrtaro, se in altro modo non posso troncar questa vita crudele ». Si  consumarono i cuori a quel pianto, e mesto fra tutti un  singhiozzare si spande; si fiaccano infrante le forze dei  guerrieri; ma Attore e Idèo, per ordine di Ilionèo e di  lulo molto piangente, la presero, chè suscitava troppo  dolore, ed a braccia la riportarono in casa.   Ma da lontano la tromba per il suo bronzo canoro  squillò con terribile suono; e la segue il grido di guerra  e ne rimbombano L cieli. Vengono i Volsci all'assalto,  sotto la testuggin ‘!* serrati, e s'accingono a colmare le  fosse e a svellere il vallo '”. Altri cercano un varco per  la scalata alle mura, là dove rada è la schiera, e vi traluce meno spessa di eroi la corona. Dall’altra' parte i  Teucri rovesciano ogni sorta di dardi, e li ricacciano  giù con le lor dure picche; chè erano avvezzi a difendere in lunga guerra le mura. E rotolavano in basso ad  offesa pesanti macigni, per tentar di spezzare la schiera coperta: ma questa, sotto la densa testuggine, sopporta ogni colpo. Ma ormai non possono più; chè laddove più folta e perigliosa è la schiera, un masso immenso i Troiani rotolano e piombano giù, che per un  ampio tratto schiacciò i Rùtuli e ruppe il riparo di  scudi. Allora non pensano più, i Rùtuli audaci, a farpinum et fumiferos infert Mezentius ignes.  At Messapus equum domitor Neptunia proles,  rescindit vallum et scalas in moenia poscit.   Vos, o Calliope, precor, adspirate canenti, 525  quas ibi tunc ferro strages, quae funera Turnus  ediderit, quem quisque virum demiserit Orco,  et mecum ingentes oras evolvite belli;  let meministis enim, Divae, et memorare potestis).   Turris erat vasto suspectu et pontibus altis, opportuna loco, summis quam viribus omnes  expugnare Itali summaque evertere opum vi  certabant, Troes contra defendere saxis  perque cavas densi tela intorquere fenestras.   Princeps ardentem coniecit lampada Turnus 535  et flammam adfixit lateri, quae plurima vento   | corripuit tabulas et postibus haesit adesis.   Turbati trepidare intus frustraque malorum   velle fugam. Dum se glomerant, retroque residunt   in partem, quae peste caret, tum pondere turris procubuit subito, et caelum tonat omne fragore. Semineces ad terram, immani mole eecuta,   confixique suis telis et pectora duro   transfossi ligno veniunt. Vix unus Helenor   et Lycus elapsi, quorum primaevus Helenor, Maeonio regi quem serva Licymnia furtim   sustulerat vetitisque ad Troiam miserat armis,   ense levis nudo parmaque inglorius alba.   Isque, ubi se Turni media inter milia vidit,   hinc acies atque hinc acies adstare Latinas; ut fera, quae, densa venantum saepta corona,   contra tela furit seseque haud nescia morti   inicit et saltu supra venabula fertur:   haud aliter iuvenis medios moriturus in hoetes  guerra così al coperto, ma lanciano dardi al nemico per  discacciarlo dal vallo. In altra parte, orrendo a vedersi,  squassava la fiaccola etrusca '* Mesenzio, e fuochi fumanti lanciava. E intanto Messapo, il domator di cavalli,  prole nettunia, rompeva il vallo e chiedeva le scale a  salir sulle mura.   Voi '’, o Calliope, ti prego, ispirate il mio canto: quali  stragi ivi col ferro, e che lutti Turno spargesse, e chi  ogni guerriero laggiù nell’Orco respinse; e meco il gran  quadro della guerra svolgete. Chè tutto voi ricordate,  o Dee, e agli altri ricordarlo potete. °°   V’era una torre, altissima a guardarla dal basso, con  erti ponti, opportunamente disposta; e tutti con ogni  forza lottavano gli Itali per espugnarla, e con estrema  | violenza tentavan di abbatterla: ma di rincontro i Troiani fitti la difendevan coi sassi e scagliavano dardi pei  vani delle finestre. Primo Turno lanciò una fiaccola ardente, e nel fianco vi confisse una fiamma, che, nutrita  dal vento, invase le tavole, e alle imposte corrose si  apprese. Spaventati, quelli di dentro, si scompigliano,  e invano cercan fuggendo lo scampo. E mentre si affollano, e s’arretrano in una parte ancora illesa dal fuoco, allora a quel peso la torre improvvisamente si schianta, e tutto a quel fragore il cielo rintuona. A terra semivivi, sotto l'enorme mole, cadono, dalle lor armi trafitti  o trapassato il petto dal duro legno. Due soli appena,  Elènore e Lico, scamparono; dei quali il giù giovine,  Elènore, Licinnia, una schiava, avea generato ad un re  Meonio con amore furtivo: e, con armi vietate ?!, a Troia  l’aveva mandato, alla leggera, con sola la spada, oscuro,  e con un semplice scudo. Ma egli, come si vide in mezzo  ai mille di Turno, e d’ogni parte incalzarlo schiere e  schiere latine: come una belva che cinta da un denso irruit et, qua tela videt densissima tendit. 559  At pedibus longe melior Lycus inter et hostes   inter et arma fuga muros tenet altaque certat   prendere tecta manu sociumque attingere dextras.  Quem Turnus, pariter cursu teloqye secutus,   increpat his victor: « Nostrasne evadere, demens, sperasti te posse manus? » simul arripit ipsum  pendentem, et magna muri cum parte revellit:   qualis ubi aut leporem ‘aut candenti corpore cycnum  sustulit alta petens pedibus Iovis armiger uncis,  quaesitum aut matri multis balatibus agnum 965  Martius a stabulis rapuit lupus. Undique clamor  tollitur; invadunt et fossas aggere complent;   ardentes taedas alii ad fastigia iactant.   Ilioneus saxo atque ingenti fragmine montis  Lucetium portae subeuntem ignesque ferentem, : Emathiona Liger, Corynaeum sternit Asylas,   hic iaculo bonus, hic longe fallente sagitta;   Ortygium Caeneus, victorem Caenea Turnus,   Turnus Ityn Cloniumque, Dioxippum Promolumque   et Sagarim et summis stantem pro turribus Idam: Privernum Capys. Hunc primo levis hasta Themillae  strinxerat; ille manum proiecto tegmine demens   ad vulnus tulit; ergo alis adlapsa sagitta   et laevo infixa est lateri manus abditaque intus  spiramenta animae letali vulnere rupit. Stabat in egregiis Arcentis filius armis,   pictus acu chlamydem et ferrugine clarus Ibera,  insignis facie, genitor quem miserat Arcens  eductum Matris luco Symaethia circum   flumina, pinguis ubi et placabilis ara Palici. Stridentem fundam, positis Mezentius hastis   ipse ter adducta circum caput agit habena, cerchio di cacciatori, infuria contro le armi, e conscia  si slancia a morire, e con un balzo sopra gli spiedi si  lancia, non altrimenti il giovane morituro si getta nel  mezzo ai nemici, e, dove vede più folte le armi, là tende. Ma, più veloce alla corsa, Lico, fra i nemici e fra  l’armi fuggendo è già presso alle mura, e cerca di afferrarsi là al sommo, e di aggrapparsi alle mani dei compagni;. ma Turno, a corsa, e con l’armi, lo segue e lo  giunge, e, vincitore, l’oltraggia: « Folle, sperasti tu dunque dalle mie mani scampare? » e sì dicendo lo afferra penzoloni e lo svelle con una gran parte del muro:  come quando una lepre o un cigno dal candido corpo  si porta nell’alto l’armigero di Giove °° con piedi artigliati, o come quando il marzio lupo rapisce dalla stalla un agnello, e lo cerca con lunghi belati la madre. Si  alzan da ogni parte le grida; vanno all’assalto, e col.  man di terra i fossati; altri fiaccole ardenti lanciano  verso le cime. Ilioneo con un sasso, un enorme pezzo di  monte, abbatte Lucezio, che già era sotto alla porta per  appicarvi il fuoco; Lìgero atterra Emazione: Asila,  Corineo; l’uno valente nell’asta, l’altro nel dardo che  coglie da lungi. Cèneo uccide Ortigio; e Turno, il vincitore Cèneo; Turno, Iti e Clònio e Diossippo e Pròmolo  e Sàgari e Ida, che guardava le altissime torri. Capi  uccise Priverno. L’aveva sfiorato da prima lievemente  la lancia di Temilla; ed egli, gettato lo scudo, folle portò la mano alla ferita: e allora, volando, una freccia gli  piantò nel fianco sinistro la mano, ed entrando gli ruppe con mortale ferita i polmoni. Stava nell’armi egregie il figlio di Arcente, con ricamata la clàmide, spleudente di porpora ibèra #, bello di aspetto, che il padre  Arcente aveva mandato; ed allevato lo aveva di Cibele  nel bosco, presso alle correnti del Simeto, là dove è et media adversi liquefacto tempora plumbo  diffidit ac multa porrectum extendit harena.  Tum primum bello celerem intendisse sagittam  dicitur, ante feras solitus terrere fugaces,  Ascanius, fortemque manu’ fudisse Numanum  cui Remulo cognomen erat, Turnique minorem  germanam nuper thalamo sociatus habebat.  Is primam ante aciem digna atque indigna relatu  vociferans, tumidusque novo praecordia regno  ibat et ingentem sese clamore ferebat:  « Non pudet obsidione iterum valloque teneri,  bis capti Phryges, et morti praetendere muros?  En qui nostra sibi bello conubia poscunt!  Quis Dens Italiam, quae vos dementia adegit?  Non hic Atridae nec fandi fictor Ulixes:  durum ab stirpe genus natos ad flumina primum  deferimus saevoque gelu duramus et undis:  venatu invigilant pueri silvasque fatigant,  flectere ludus equos et spicula tendere cornu.  At patiens operum parvoque adsueta iuventus  aut rastris terram domat aut quatit oppida bello.  Omne aevum ferro teritur, versaque iuvencum  terga fatigamus hasta; nec tarda senectus  debilitat vires animi mutatque vigorem;  canitiem galea premimus, semperque recentes  comportare iuvat praedas et vivere rapto.  Vobis picta croco et fulgenti murice vestes,  desidiae cordi; iuvat indulgere choreis,  . et tunicae manicas et habent redimicula mitrae.  O vere Phrygiae, neque enim Phryges, ite per alta  Dindyma, ubi adsuetis biforem dat tibia cantum.  Tympana vos buxusque vocant Berecyntia matris  Idaeae: sinite arma viris et cedite ferro. »  pingue di doni e mite l’altar di Palìco **. Posate le aste,  tre volte rotando la fune al suo capo, Mesenzio stesso  lanciava la fionda stridente; e con il piombo disciolto *.  gli ruppe nel mezzo le tempie, e lo rovesciò lungo disteso sul suolo.   Dicon che allora, la prima volta scagliasse in guerra  il suo agile dardo Ascanio, già assuefatto a spaventare  in fuga le fiere, e di sua mano abbattesse il forte Numano, Rèmolo detto, che aveva da poco sposata la sorella minore di Turno. Quegli, davanti a tutti, vociferando a diritto e a rovescio, gonfio nel cuore della fresca real parentela, andava avanzando borioso gridando: « E non vi vergognate, o Frigi acchiappati due vol.  te, di stare un’altra volta dentro ad un vallo assediati, e  di opporre alla morte le mura? Eccoli, quelli che chiedono le nostre spose con l’armi! Qual Dio vi ha spinti  in Italia o quale vostra follia? Non sono qui gli Atridi,  nè Ulisse spacciatore di frottole. Dura razza fin dalla radice, i nostri figli tuffiamo appena nati nei fiumi, e li  induriamo al crudo gelo dell’onde. Fanciulli, si danno  alle cacce e stamcan le selve, ed è lor gioco domare cavalli e tender dall'arco le frecce. Poi, pazienti al lavoro  e paghi di poco, i giovani doman la terra coi rastri, o  scrollano in guerra le mura. Ogni età si consuma tra il  ferro, e con l’asta a rovescio pungiamo le terga dei buoi;  nè la vecchiaia, ancor tarda, indebolisce le forze dell’animo o ne muta il vigore; premiamo con l’elmo i capelli canuti, e sempre ci giova portar via prede novelle  e vivere della rapina. Ma voi amate le vesti dipinte di  croco e di porpora splendida; vi piace badare alle danze, con tuniche adorne di maniche e mitre guarnite di  nastri. O veramente Frige, e non Frigi, andate per l’alto  del Dìndimo ?‘, dove solete ascoltare il canto del flauto Talia iactantem dictis ac dira canentem  non tulit Ascanius, nervoque obversus equino  intendit telum, diversaque bracchia ducens  constitit, ante lovem supplex per vota precatus:  « Iuppiter omnipotens, audacibus adnue coeptis,  ipse tibi ad tua templa feram sollemnia dona  et statuam ante aras aurata fronte iuvencum,  candentem, pariterque caput cum matre ferentem,  iam cornu petat et pedibus qui spargat harenam. »  Audiit et caeli genitor de parte serena intonuit laevum, sonat una fatifer arcus.  Effugit horrendum stridens adducta sagitta  perque caput Remuli venit et cava tempora ferro  traicit. « I, verbis virtutem illude superbis!  bis capti Phryges haec Rutulis responsa remittunt. Hoc tantum Ascanius. Teucri clamore sequuntur,  laetitiaque fremunt animosque ad sidera tollunt.  Aetheria tum forte plaga crinitus Apollo  desuper Ausonias acies urbemque videbat,  nube sedens, atque his victorem affatur Iulum: Macte nova virtute, puer: sic itur ad astra,  Dis genite et geniture Deos. Iure omnia bella  gente sub Assaraci fato ventura resident:  nec te Troia capit. » Simul haec effatus ab alto  aethere se mittit, spirantes dimovet auras, 645  Ascaniumque petit. Forma tum vertitur oris  antiquum in Buten. Hic Dardanio Anchisae  armiger ante fuit fidusque ad limina custos.  Tum comitem Ascanio pater addidit. Ibat Apollo  omnia longaevo similis, vocemque coloremque 650  et crines albos et saeva sonoribus arma;  atque his ardentem dictis adfatur Iulum:  « Sit satis, Aenide, telis impune Numanum a due canne. Vi chiamano i timpani del Berecinto e il  flauto di bosso della gran Madre idèa; lasciate agli uomini l’armi e rinunciate alla guerra ».   Le vanterie e gli insulti non tollerò Ascanio, e mentr’egli sbraitava, di fronte a lui incoccò sul nerbo equino °° una freccia, e con le braccia aperte stiè fermo, prima levando a Giove, supplichevole, il voto: « O Giove  onnipotente, consenti all'audace mia impresa. Ed io  solenni doni ti recherò ai tuoi templi, ed agli altari un  giovenco t'immolerò, dalle corna dorate, candido, che  porti il capo alto al par della madre, e già cozzi e coi  piedi sparga all’intorno l’arena ». L’udì il Padre, e dalla  plaga serena del cielo tuonò da sinistra: ed insieme risuonò il suo arco fatale. OCrribilmente stridendo fuggì la  scagliata saetta, e dentro il capo di Rèmolo s’infisse e  trapassò col ferro le concave tempia. « Va, schernisci il  valore con le parole superbe! I Frigi, due volte acchiappati, questa risposta ai Rùtuli inviano ». Nè altro disse  Ascanio; ma i Teucri lo applaudon gridando, e fremon  di letizia, ed alzano il cuore alle stelle. Proprio allora,  dall’alto del cielo Apollo crinito stava mirando le schiere ausonie ed il campo, seduto sopra una nube; e a  Iulo vittorioso volgeva queste parole: « Bene, o valoroso  fanciullo! Così si ascende alle stelle, o progenie di numi che dovrai generare altri numi. Ben tutte le guerre  future, per volere dei fati, sotto la stirpe di Assàraco  dovranno aver fine: troppo poco è Troia per te. Ciò  detto, dall’alto dell’etere si getta, e fende le aure vitali,  e viene ad Ascanio, mutando l’aspetto del volto in quello  di Bute, l’anziano. Questi già era stato di Anchise dardanio scudiero e fido custode alle soglie. Poscia il padre  lo diede compagno ad Ascanio; ed Apollo veniva simile  in tutto a quel vecchio, la voce, il colore, i capelli canoppetisse tuis: primam hanc tibi magnus Apollo   concedit laudem et paribus non invidit armis:cetera parce, puer, bello. » Sic orsus Apollo   mortales medio adspectus sermone reliquit,   et procul in tenuem ex oculis evanuit auram.   Agnovere Deum proceres divinaque tela   Dardanidae, pharetramque fuga sensere sonantem.Ergo avidum pugnae dictis ac numine Phoebi Ascanium prohibent: ipsi in certamina rursus   succedunt animasque in aperta pericula mittunt.   It clamor totis per propugnacula muris:   intendunt acres arcus amentaque torquent. 665   Sternitur omne solum telis; tum scuta cavaeque   dant sonitum flictu galeae; pugna aspera surgit; quantus ab occasu veniens pluvialibus Haedis .   verberat imber humum: quam multa grandine nimbi   in vada praecipitant, cum Iuppiter horridus Austris torquet aquosam hiemem et caelo cava nubila rumpit.  Pandarus et Bitias, Idaeo Alcanore creti,   quos Iovis eduxit luco silvestris Iaera abietibus iuvenes patriis et montibus aequos,   portam, quae ducis imperio commissa, recludunt, freti armis, ultroque invitant moenibus hostem.   Ipsi intus dextra ac laeva pro turribus adstant,   armati ferro et cristis capita alta corusci:   quales aériae liquentia flumina circum,   sive Padi ripis Athesim seu propter amoenum, consurgunt geminae quercus intonsaque caelo attollunt capita et sublimi vertice nutant.   Irrumpunt, aditus Rutuli ut videre patentes. Continuo Quercens et pulcher Aquicolus armis   et praeceps animi Tmarus et Mavortius Haemon agminibus totis aut versi terga dedere,  didi e l’armi ferocemente sonanti: ed all’ardente Iulo  si volge con queste parole: « Ti basti, o figliuolo d’Enea, che sia caduto Numano per il tuo colpo e senza tuo  male; questa prima lode a te il grande Apollo concede,  e non t’invidia se tu lo eguagli nell’ arco; ma d’ora in  poi, o fanciullo, astieniti dal guerreggiare ». Così dicendo Apollo, a mezzo il discorso lasciò l'aspetto mortale e lontano svanì dagli occhi nell’aria leggera. Riconobbero il Dio gli anziani dei Dàrdani, e l’armi divine,  e sentiron sonare, mentr'egli fuggìa, la faretra. Onde  ai detti e al volere di Febo allontanavano. Ascanio, avido ancora di pugna; ritornano essi a combattere, ed  espongono nell’aperto periglio la vita. S'alza da tutte  le mura per tutte le torri un clamore: tendono gli archi gagliardi e lanciano i giavellotti. Il suolo tutto si  copre di strali; ai colpi risuonan gli scudi e i concavi  elmi; insorge dura la pugna. Così al venir da ponente,  sotto i Capretti piovosi °°, sferza la pioggia la terra; così  con la grandine precipitano i nembi sul mare, quando  orrido Giove con gli Austri turbina l’acque a diluvio, e  nel cielo le concave nubi dirompe.   Pàndaro e Bizia, da Alcànore Idèo generati, che nel  bosco di Giove allevòo la silvestre Ièra *, giovani pari  agli abeti dei monti paterni, apron la porta, che il duce  aveva a loro affidata, fiduciosi nell’armi, e il nemico provocano a entrar nelle mura. Ed essi là dentro, a destra  e a sinistra, si rizzano a guisa di torri, di ferro armati,  e corruschi gli erti capi di creste; come aeree lunghesso  1 fiumi correnti, sulle sponde del Po o presso l'Adige  ameno, sorgon due querce gemelle, e innalzano le chiome intonse nel cielo, con le cime sublimi ondeggiando.  Irrompono i Ruùtuli, poi che videro aperte le porte; ma  tosto Quercente e Aquìcolo bello nell’armi e Tmaro aut ipso portae posuere in limine vitam.  Tum magis increscunt animis discordibus irae:  et iam collecti Troés glomerantur eodem  et conferre manum et procurrere longius audent. 690   Ductori Turno diversa in parte furenti  turbantique viros perfertur nuntius, hostem  fervere caede nova et portas praebere patentes.  Deserit inceptum atque immani concitus ira  Dardaniam ruit ad portam fratresque superbos. Ét primum Antiphaten (is enim se primus agebat),   Thebana de matre nothum Sarpedonis alti,  coniecto sternit iaculo: volat Itala cornus  aéra per tenerum, stomachoque infixa sub altum  pectus abit: reddit specus atri vulneris undam spumantem, et fixo ferrum in pulmone tepescit.  Tum Meropem atque Erymanta manu, tum sternit   [Aphidnum:   ‘tum Bitiam ardentem oculis animisque frementem,  non iaculo (neque enim iaculo vitam ille dedisset).  Sed magnum stridens contorta phalarica venit,, 705  fulminis acta modo, quam nec duo taurea terga  nec duplici squama lorica fidelis et auro  sustinuit. Collapsa ruunt immania membra.  Dat tellus gemitum, et clipeum super intonat ingens.  Talis in Euboico Baiarum litore quondam 710  saxea pila cadit, magnis quam molibus ante  constructam ponto iaciunt; sic illa ruinam  prona trahit penitusque vadis illisa recumbit;  miscent se maria et nigrae attolluntur harenae;  tum sonitu Prochyta alta tremit, durumque cubile 715  Inarime Iovis imperiis imposta Typhoeo. Hic Mars armipotens animum viresque Latinis  addidit et stimulos acres sub pectore vertit l’impetuoso ed il marziale Emone, con tutte le schiere,  o volser fuggendo le spalle, o sulla soglia stessa della  porta lasciaron la vita. Allora crescon vie più nei cuori  discordi le ire; e già ammassati i Troiani si stringon  colà, ed osan venire alle mani e avanzarsi fuori più  lungi.   Al duce Turno, che in altra parte infuriava e sgominava i guerrieri, giunge la nuova: il nemico arde di  strage novella, e aperte si offron le porte. Lascia l’impresa e spinto dall’ira tremenda, contro la porta dardania si scaglia e i fratelli superbi. E per il primo Antifate (poichè avanzava pel primo) di madre tebana bastardo di Sarpèdone alto, colpisce ed abbatte col dardo:  vola il corniolo italico *' per l’aria leggera, e piantatosi  in gola scende nel fondo del petto; sgorga dalla caverna della negra ferita un'onda spumante, e nel polmone  trafitto intiepidisce il ferro. Poi Mèrope ed FErimante  abbatte, poi Afidno, poi Bizia che Iampeggiava con gli  occhi e con il cuore fremeva; ma non con un dardo,  chè quegli con un dardo non dava la vita! Ma fortemente stridendo una falàrica  venne, lanciata a guisa di un  fulmine, cui le due pelli taurine non ressero, nè la fedele corazza di doppia squama dorata. Le membra immani stramazzano; la terra ne geme, e di sopra lo ecudo immenso rintuona. Tale nel lido euboico di Baia  . cade talora un blocco di macigni che costruiscon prima  con grandi massi e poi gettan nel mare; così esso rovina  all’ingiù, e scagliato nel più profondo si arresta: ma  ribollon le onde e negre si sollevan le arene, e a quel  fragore l’alta Pròcida trema, ed Ischia, che per comando di Giove, fu posta, duro letto, sopra Tifèo. Qui Marte signore dell’armi coraggio e forza ai Latini crebbe ed acuti gli sproni rivolse loro nel cuore, e immisitque Fugam Teucris atrumque Timorem.  Undique conveniunt, quoniam data copia pugnae,  bellatorque animo Deus incidit.   Pandarus ut fuso germanum corpore cernit,   et quo sit fortuna loco, qui casus agat res,  portam vi magna converso cardine torquet,  obnixus latis umeris; multosque suorum  moenibus exclusos duro in certamine linquit;  ast alios secum includit, recipitque ruentes,  demens, qui Rutulum in medio non agmine regem  viderit irrumpentem, ultroque incluserit urbi,  immanem veluti pecora inter inertia tigrim.  Continuo nova lux oculis effulsit, et arma  horrendum sonuere: tremunt in vertice cristae  sanguineae, clipeoque micantia fulmina mittit.  Agnoscunt faciem invisam atque immania membra  turbati subito Aeneadae. Tum Pandarus ingens  emicat, et mortis fraternae fervidus ira   effatur: « Non haec dotalis regia Amatae,   nec muris cohibet patriis media Ardea Turnum:  castra inimica vides; nulla hinc exire potestas. »  Olli subridens sedato pectore Turnus:   « Incipe, si qua animo virtus, et consere dextram:  hic etiam inventum Priamo narrabis Achillem. Dixerat. Ille rudem nodis et cortice crudo  intorquet summis adnixus viribus hastam.  Excepere aurae: vulnus Saturnia luno   detorsit veniens, portaeque infigitur hasta. At non hoc telum, mea quod vi dextera versat,  effugies: neque enim is teli nec vulneris auctor. »  Sic ait, et sublatum alte consurgit in ensem,   et mediam ferro gemina inter tempora frontem  dividit impubesque immani vulnere malas.  contro i Teucri lanciò la Fuga ed il cupo Terrore. Accorrono da ogni parte quelli, poichè si combatte da  presso, ed il guerriero Iddio entrato è a loro nel cuore.  Pandaro, come vede a terra disteso il fratello, e che la  fortuna è per gli altri ed è contrario l'evento, a gran  forza, puntando l’ampie spalle, la porta spinge sui cardini e serra; e molti dei suoi lascia fuor delle mura in  aspra battaglia; ma altri riesce a chiuder con sè e li  accoglie che precipitavano dentro. Folle, che il rùtulo  ‘re non vide, che in mezzo alla schiera dentro irrompeva,  ed anzi lo serrava nel campo, come, tra un gregge imbelle, feroce una tigre; di sùbito, gli sfavillo dagli occhi una luce novella, e le armi orribilmente suonarono:  si squassan sull’'elmo le creste sanguigne, ed agitando lo  scudo vibra bagliori di lampi. Riconoscon la faccia odiosa e le membra giganti, di subito _sgomenti gli Enèadi.  Allora gli sbalza davanti Pàndaro immenso, e fremendo  d’ira pel morto fratello, grida: « Non è questa la reggia  dotale di Amata, nè qui è Ardea, che Turno rinchiuda  fra le mura paterne. Campo nemico è questo che vedi;  ed uscir non potrai ». A lui sorridendo Turno con cuore  pacato: « Orsù, se hai coraggio, combatti con me: racconterai a Priamo che anche qui s’è trovato un Achille ». Sì disse; e quegli, con ogni sua forza poggiando,  aspro di nodi e di ruvida scorza un giavellotto lanciò.  Ma colpì l’aria, chè la saturnia Giunone deviò il colpo  mortale, e l’asta contro la porta s’infisse. « Ma non tu  questa spada, che ruota la mia destra a gran forza, sfuggirai: chè di un altro è l’arma ed è la ferita ». Così disse, e si alzò con tutta la spada levata; e con il ferro la  fronte gli spaccò in mezzo alle tempie, e, con orrenda  ferita, ancora imberbi le guance. Fu un fragore, e la  terra fu scossa al cader del gran peso; stende egli a VirciLio - Eneide - Vol. Fit sonus, ingenti concussa est pondere tellus:   collapsos artus atque arma cruenta cerebro   sternit humi moriens, atque illi partibus aequis.   huc caput atque illuc umero ex utroque pependit. Diffugiunt versi trepida formidine Troés;   et si continuo victorem ea cura subisset,   rumpere claustra manu sociosque immittere portis,   ultimus ille dies bello gentique fuisset.   Sed furor ardentem caedisque insana cupido egit in adversos.   Principio Phalerim et succiso poplite Gygen   excipit: hinc raptas fugientibus ingerit hastas   in tergum. Iuno vires animumque ministrat;   addit Halym comitem et confixa Phegea parma, 765   ignaros deinde in muris Martemque cientes   Alcandrumque Haliumque Noémonaque Prytanimque.   Lyncea tendentem contra sociosque vocantem © vibranti gladio conixus ab aggere dexter   occupat: huic uno deiectum comminus ictu cum galea longe iacuit caput. Inde ferarum vastatorem Amycum, quo non felicior alter   ungere tela manu ferrumque armare veneno,   et Clytium Aeoliden, et amicum Crethea Musis,   Crethea Musarum comitem, cui carmina semper et citharae cordi numerosque intendere nervis:   semper equos atque arma virum pugnasque canebat.  Tandem ductores, audita caede suorum,   conveniunt Teucri, Mnestheus acerque Serestus,   palantesque vident socios hostemque receptum. Et Mnestheus: « Quo deinde fugam, quo tenditis? inquit.   Quos alios muros, quae iam ultra moenia habetis?   Unus homo et vestris, o cives, undique saeptus   aggeribus, tantas strages impune per urbem terra morendo le membra prostrate e le armi sozze di  sangue e di cèrebro; e da ambedue le spalle gli penzola un capo e di qua e di là. Fuggon respinti da pauroso terrore i Troiani; e se il vincitore pensava, in quel  momento, a spezzare i cancelli e a far entrar per la  porta i compagni, l’ultimo giorno era quello della guerra e del popol troiano. Ma il suo furore e un folle desiderio di strage lo scagliò impetuoso in mezzo ai nemici.  Prima egli affronta Fàlari, e a Gige recide il garretto;  poi toglie loro le aste e le lancia alle spalle ai fuggenti.  Forze e coraggio gli somministra Giunone. Hali dà lor  per compagno, e, trafittogli lo scudo, Fegeo; poi, mentre  ignari sulle mura incitavano a guerra, Alcandro, ed Alio,  e Noèmone, e Prìtani. Lìnceo, che gli veniva incontro  e chiamava i compagni, egli previene, rotando la epada,  dallo steccato a destra: e d’un sol colpo da presso, il  capo troncato si giacque insieme con l’elmo lontano. Poi,  Amico, il distruttore di fiere, di cui altri non era più  esperto ad unger gli strali e avvelenare le armi; poi,  Clizio l’eòlide, e amico alle Muse Creteo, Creteo alle  Muse compagno, che sempre i carmi e le cetre ebbe a  cuore, e l’armonia delle corde: sempre i corsieri e le armi e le pugne eroiche cantava.   Alfine i Teucri duci, udita la strage dei loro, accorrono, Mnèsteo ed il padre Seresto, e vedono rotti i compagni, e, fra le mura, il nemico. E Mnèsteo: «E poi,  dove fuggite? dove andare volete? — diceva. — E che  altre mura, che altra città vi rimane? Un uomo solo, e  d’ogni parte rinchiuso dai vostri steccati, potrà, o cittadini, di stragi riempir la città, impunemente? Tanti  fra i primi guerrieri manderà giù nell’Orco? Non della  misera patria e degli antichi Iddii, e del magnanimo  Enea, codardi, vi tocca misericordia o vergogna? » Ac ediderit? iuvenum primos tot miserit Orco?   Non infelicis patriae veterumque Deorum et magni Aeneae, segnes, miseretque pudetque? »  Talibus accensi firmantur et agmine denso   consistunt. Turnus paulatim excedere pugna   “et fluvium petere ac partem, quae cingitur unda: 790  acrius hoc Teucri clamore incumbere magno   et glomerare manum, ceu saevum turba leonem cum telis premit infensis, at territus ille   asper, acerba tuens, retro redit, et neque terga   ora dare aut virtus patitur, nec tendere contra, ille quidem, hoc cupiens, potis est per tela virosque:  haud aliter retro dubius vestigia Turnus   improperata refert, et mens exaestuat ira.   Quin etiam bis tum medios invaserat hostes,   bis confusa fuga per muros agmina vertit; 800  sed manus e castris propere coit omnis in unum:   nec contra vires audet Saturnia luno   sufficere, aériam caelo nam luppiter Irim   demisit, germanae haud mollia iussa ferentem, ni Turnus cedat Teucrorum moenibus altis. Ergo nec clipeo iuvenis subsistere tantum,   nec dextra valet; iniectis sic undique telis   obruitur. Strepit adsiduo cava tempora circum   tinnitu galea, et saxis solida aera fatiscunt,  discussaeque iubae capiti, nec sufficit umbo ictibus; ingeminant hastis et Troès et ipse   fulmineus Mnestheus. Tum toto corpore sudor   liquitur et piceum (nec respirare potestas)   flumen agit: fessos quatit acer ànhelitus artus.   Tum demum praeceps saltu sese omnibus armis   in fluvium dedit. Ille suo cum gurgite flavo   accepit venientem ac mollibus extulit undis et laetum sociis abluta caede remisit. cesi da tali parole, riprendono cuore, e in ischiera serrata lo affrontano: e Turno a passo a passo si ritrae dalla battaglia, volgendo verso il fiume e la parte che n’era  ricinta; e però più accaniti i Troiani lo incalzan con  grande clamore, addensando le schiere. E come quando  un feroce leone stringon da presso con l’armi ostili i cacciatori, e quello, fiero, e torvo lo sguardo, retrocede, ma  nè l’ira o il valore non gli lascian voltare le spalle; ma  neppure potrebbe, benchè desioso, lanciarsi in mezzo  alle armi e alla turba: non altrimenti Turno, dubbioso,  lentamente si arretra, e il cuore per l’ira gli bolle. Anzi,  due volte si era gettato in mezzo ai nemici, due volte  volse in fuga per le mura le schiere sconvolte; ma tutto  rapidamente si accoglie dal campo l’esercito contro lui  solo, nè altre forze formirgli osa la Saturnia Giunone,  giacchè aerea dal cielo Giove Iride inviava, con suoi  bruschi comandi alla sorella **, se Turno non lasciasse  le mura alte dei Teucri. Dunque non può il giovane  con lo scudo o con la mano resistere ancora: son troppi  i dardi che d’ogni parte gli piovono giù. Senza riposo  tinnisce intorno alle concave tempie l’elmo, ed il solido  bronzo s’incrina alle pietre, e le creste si rovescian dal  capo, e ai colpi non basta lo scudo; raddoppian l’assalto i Troiani con l’aste, e primo, fulmineo, Mnèsteo. Da  tutto il corpo il sudore allora gli gronda, e gli cola —  omai il respiro gli manca — in un fiume color della  pece. E finalmente allora, a precipizio, di un salto, con  tutte le armi, nel fiume si lanciò; e quello, con la sua  bionda corrente l’accolse, e lo tenne sopra le onde tranquille, e, della strage asterso, lieto ai compagni lo rese. Angelo Conti. Keywords: VIRGILIANA, decadente, decadenza, divina decadenza, filosofia decadente, filosofo decadente, decadentismo, divinely decadent – d’annunzio, museo d’annunziano, il bello e il bizzarro, il bello bizzarro, estetica, sensatio, senso, sensum, sentior, sentitum, perceived, perceptum – sense and sensibilia, estetico/noetico (nihil est in intellectu qui prior non fuerit in sensu), propieta estetica, proprieta di secondo grado, secondary quality, Grice, Sibley, Scruton, Platone, Kant, Schopenhauer, Ruskin, Pater, Antichita, antico e moderno, il fascino dell’antico, from the antique, from life, Uffizi, Accademia Venezia, RegieAccademiadiVenezia, Capodemonti, Napoli, Antichita Roma, il fiume d’Eraclito, Ulisse e il canto delle sirene, Morelli, Francesco, Virgilio, dolcissimo padre, ascetismo, ascecis, zorzi, riva beata, Pater, Essay on Style by Pater, Da Vinci, Morelli, la nudita eroica d’Enea – Luigi Ratini. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Conti” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza -- Grice e Conti: la ragione conversazionale e l’implicatura converseazionale del dialogo filosofico – scuola di Padova – filosofia padovana – filosofia veneta -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Padova). Filosofo padovano. Filosofo veneto. Filosofo italiano. Padova, Veneto. Grice: “Conti is a good one; for one he is a ‘patrizio veneziano,’ for another he like Alexander Pope and detests Newton! (Italian temper there!) – My favourite are his “Dialoghi filosofici,’ full of implicata as they are!” Patrizio veneto, classicista, famoso per essere stato arbitro nella controversia tra Leibniz e Newton, circa l'invenzione del calcolo infinitesimale (keyword: infinito). Si lege in amicizia con  Fay, noto per gli esperimenti fisici che conduce all'Accademia delle Scienze. Di lui esiste una statua in Prato della Valle, fatta da Chiereghin. Scrive saggi riguardanti la struttura della tragedia, e nel “Trattato del fantasma poetico” discute la funzione del coro: monologo, dialogo, coro (terza persona?). Tra le sue tragedie, la più significativa fu il “Giulio Cesare”. Ne scrive altre tre, tutte di soggetto romano: “Marco Bruto”, “Giunio Bruto”, e “Druso”. Altre opere: “Opere” (Venezia, presso Giambatista Pasquali); “Versioni poetiche” (Bari, Laterza). Dizionario biografico degli italiani. Della nascita del C. sono r’ſuoi veri pu dj. Principio de’ suoi studi scritto da lui stero. Disputa col Nigrisoli e altre particolarità de’ suoi studi sono al primo viaggio di Francia. Primo viaggio in Francia. Primo viaggio in Inghilterra e prime conversazioni col Newtono. Mediazione tra il Newtono e il Leibnizio Studi e altre occupazioni di Conti a Londra. Suoi sudj di belle lettere. Viaggio d'Ollanda e d'Allemagna. Nuova dimora in Inghilterra. Ritorno in Francia e ſuoi pudi. Amicizie. e converſazioni in queſti anni in Francia. Querela col Newtono. Suo ritorno in Italia. Edizione del Cesare. Studi e commerzi. Edizione delle ſue Prose e Poesie. Sue Tragedie. Illustrazione del Parmenide di Velia di Platone; fima e onori di C.. Traduzioni. Altri suoi fudi. Progetti di nuove opere. Ultimi ſtudi. Edizione del Druso; ſua morte. Rifleli Jul carattere di C., e notizie particolari della sua vita private. Relazione de’ Manoscritti lasciati da C. Dell' Imitazione. Del Fantasma Poetico. La Poesia Greca. Allegoria dell'Eneide di Virgilio. Illuſtrazione dello Scudo di Enea. Illustrazione del Poema di Catullo intitolato le Nozze di Teride e di Peleo. Dissertazione sopra la Tebaide di Stazio. Discorso ſopra la Italiana Poesia. Illustrazione del Dialogo di Fracastoro intitolato il Na. wagero, o fia della Poesia. Disertazione sopra la Ragion Poetica del Gravina. Della Potenza conoscitiva dell'Anima. Della Fantasia. Poesie Tradotte dall' Inglese. Al Sig. Marcheſe Manfredo Repeta sopra il Poema del Riccio Rapito. Il Riccio Rapito. Prose Franceſe Italiane a Monſieur Perel. Dialogue ſur la Nature de l' Amour. Lettre à Madame la Preſidente Ferrant. Lettera al Sig. Cavalier Vallisnieri. Al sig. Marcheſe Maffei. Al N. U. Sig. Benedetto Marcello. Al P. D. Bernardo Piſenti C. R. Somaſco.A Monſignor Cerarti. L’allegoria dell’Eneide di Virgilio propone una cosa per farne intender un'altra, che ſeco è in proporzione, se l’ “Eneide” per consenso di tutti i più abili commentatori é un panegirico *allegorico* d'Augusto, convien necessariamente che la cosa proposta sieno l’azione d’Enea (l’explicatura), e la cosa che deve intendersi ed è loro proporzionata, l’azione d'Augusto (implicatura) più memorabile e più degna di lode. Per çiò con una ſuccinca narrazione pone prima sotto gli occhi l’azione d'Enea, che e il primo termine (l’explicatura) su cui l’allegoria o metafora o implicatura (& fonda, o come l'originale del ritratto; indi fa il confronto dell’azione di Augusto. Nell'istoria d'Enea, basta quloſſervare l’oggetto dell’epica, e il carattere stoico dell'eroe. L'oggetto tutto tende alla nuova colonia di Roma o al Principato ch'Enea (via Ascanio e Romolo e Remo) ha da fondare nel Lazio e Italia. Questo gli predisse Creusa, Febo, i Penati; questo le Arpie, Eleno e la Sibilla; e perchè fi compisca l’oracolo della predeterminazione e del fatalismo stoico, Enea li salva dagl in incendi e dalla strage di Troja. Ettore lo dichiara Pontefice. I compagni lo eleggono Re. Avvisato o protetto schiva i tradimenti, gli scogli, i ciclopi; non è sommerso nelle tempeste, non trattenuto dall’africana Didone più pericolosa delle stesse tempeste. Finalmente arrivato in nel Lazio trova il re latino dispoſto a riceverlo per genero, Evandro e i toscani pronti a dargli soccorso; sebben abbia a fronte Torno, un nimico feroce e collegato coi vicini, lo vince e l'uccide. Gli oracoli fatalisti predeterminati stoichi dunque, i viaggi, e le guerre d’Enea non riguardano se non lo stabilimento d'un regno o principato. Il carattere poi d’Enea o dell'eroe si vede in tutta l'Eneide composto della *virtù* stoica convenevoli al capo e fondatore d'un regno. La virtu e pietà verso l’uomo e verso Diuspater, senno nel provvedere a’pericoli e prevederli, valore da soldato e da capitano. La pietà (o compasione) verso l’uomo e la carità – l’imperativo della carita conversazionale, verso Diuspater religione. Della carita o benevelonza o compasione, o compieta verso l’uomo Enea dà esempi illustri per tutto. Salva il padre Anchise dalle fiamme portandolo sulle spalle dirige sempre il viaggio secondo i di lui consigli, celebra il suo anniversario co'giochi conſiderati da’ pagani come una parte della eeligione, e per ubbidirlo discende fino all’inferno! Quanto è tenero per il figliuolo Ascanio, e sollecito e della salute e de gli avanzamenti di lui! E quando Creusa sua moglie si smarrisce, non va egli a ricercarla tra gl'incendi e le stragi? Che dirò della sua pietà, carita, compassione, compieta, benevolenza, verso il suo compagno (o d’EURIALO verso NISO), verso l’amico, e verso Torno, il nemico stesso? Nella tempesta più s’affligge della loro perdita che della propria, gli consola e gl’incoraggisce negli affanni, li provvede di cibo, li divertisce e premia co’giochi, fa l’esequie a Polidoro suo parente, a Miseno suo trombettiere, a Gaeta sua nutrice; piange la morte di Palinuro e più quella di Pallante (Patroclo), e ne manda il cadavere ad Evandro con magnificenza e con lutto degno di un re. Avendo ferito a morte Lauro che l’assalì, gli itende la destra, lo solleva, e lascia che a Mesenzio se ne porsi il corpo. Vuol perdonare a Turno, e non l’uccide *che* per vendicar suo amante Pallante; ciò ch'era un atto di carita. Verso Diuspater sempre fervida e pronta è la sua pietà. Come stoico perfetto e negatore del libre arbitrio, nulla intraprende senza consultare l’oracolo, e non comincia alcun’azione senza offrir un voto, una preghiera e sacri fizj, ch’egli offre egualmente al Diuspater propizio, che alle Diuspater nonpropizio o Giunone e Pallade. Per ubbidir Diuspater supera la passione che la strega Didone invoca, cede rispettoso alla sua collera nell'incendio di Troia; conosce Apollo per principal protettore; ascolta attento i cantici d'Ercole, e invoca Berecintia che l'allista nella nuova guerra. Alla sua pietà corrisponde il suo senno. Tosto ch'entra in un paese vuol conoscere i liti, i luoghi, e la gente che l'azbita; così fa in Affrica, e nel regno d'Evandro, e scoperto l'assaſlinio di Polinestore fugge il pericolo di cadervi: fa metter in aguato i soldati per lorprender l'Arpie; egli steſſo dirige la nave che manca di piloto; manda ambasciatori al re del Lazio; cerca soccorso nella guerra; ricevuto lo distribuisce in due corpi per più imbarazzare il nemico ciò ch'è una parte della virtu o prudenza militare, non meno che assediar la città mentre il nemico è sospeso. Questo o quello segno (manifestazione secondo Vitters) del valore poi non dà nell'attaccare i nimici, nel farne stragi di sua mano? uccide i più forti e tra gli altri Lauso, Mesenzio, lo stesso Turno. Più comparisce il valore d'Enea, se col P. Boſsù fi confronti con quello di Turno, antagonista, avversario, dell’epica, ardente, milantatore, prepotente e buono sol per la guerra che vuole giusta od ingiusta, ed in questa è incauto e senza direzione. Enea all'opposto grave – la gravita romana --, misurato e non peccatore o essecivo, parla poco, laconico, opera molto, sempre consigliato e forte colla gloria del consiglio e dell'esecuzione. Di questo o quello segno della virtu -- pietà, senno, e valore, c’e un intreccio mirabile, sicche comparisce Enea saggio e paziente capitano come Agamennone, valoroo vincitor del nimico come Achille, destro a maneggiar lo spirito ed a condur una negoziazione o consenso cooperative conversazionale come Nestore e Ulise: giugne a questa virtù una pietà sincera, una probità esatta che mai non ſi ſmente, una compassion tenera per il suo amico e il suo suddito. Enea è buon figlio, buon padre, buon amico, buon amante, e tutto ciò per motivi superiori di dovere e di ragione morale kantiana alla luce del stoicismo fatalism del predeterminismo. Sopra tutto pero domina la specie della virtù più convenevole d’ogni altra specie al fondatore della dinastia di Romolo, perchè per essa si merita la protezione di Deuspater, si rende l’amico o il popolo che deve ubbidire, l’alleato, ed il vicino con cui si deve patteggiare e con-federarsi in cooperazione conversazionale verso un fine comune. Vi sarebbero il carattere degli altri personaggi e dei dell'epica, ma essendo scritti di mano dell’autore sono come non scritti. Anche la seconda parte che riguarda le azione del primo imperatore romano, Ottavio detto l’augusto è molto imperfetta; eccone qualche confronto. Nella rovina di Troja li ravvisano la rovina della Roma repubblicana di Cesare ed Catone. Da questa rovina, Ottavio, come Enea era stato preservato dalla provvità, 1 videnza del fato, come dice Orazio nel Carmie Secolare. Enea porta in ispalla suo padre Anchiee; Ottavio prende la vendetta del suo padre addotivo Cesare. Enea e in Troja maricato a Creusa da cui ha Julo; Ottavio e maricato a Scribonia da cui ha Giulia. Ma Creusa per ordine de’ Fati è colia ad Enea, come Scribonia ad Ottavio; e nel dir che ad Enea si apparecchia moglie, da cui doveano discendere tanci Re, adula cacitamente Livia. Didone che s’oppone al disegno (de-segno – plannificazione) d’Enea magnifica e vana dell'impero ha del carattere superbo, impecuo lo, ed astuto di questa altra Africana, Cleopatra, che impiegò cutre l'arti femmini li per impegnar Ottavio. Ma v'è un tratto finissimo di lode nella comparazione che poteano i romani fare d’Enea e ďOttavio, perchè laddove Enea cesse alle lusinghe di Didone, e dopo averla posseduta l’abbandona scorteſemente in preda alla disperazione, biasmo da cui poco lo scusanu gli ordini degli Dei; quanto più dovea stimarli Ottavio che mai non si lasciò vincere dalle tante arti di Cleopatra? In Evandro, che accoglie Enea, si puo ravvisar Cicerone, che col suo credito e colla sua eloquenza reſe tanti servigj a Ottavio. L’epica, però per non rimproverargli la disgrazia di Cicerone, fa che non Evandro ma il figliuolo di lui resti ucciso da Turno, nel quale *senza dubbio* vien “simboleggiato” Marc’Antonio, valoroso bensì, ma imprudente, e che le in molte cose mostra fortezza d’animo chiaro ed eccellente, in molte altre, come Turno, li governa malissimo, e da quello o questo segno non meno di magnanimità che di pulsanimità. Nulla dimostra più la finezza cortigianesca di Orazio e di Virgilio come il loro non nominar mai Cicerone. S'astennero dal risvegliar in Ottavio un'idea che gli dava de’ rimorsi. All'incontro nominarono Giunio Bruto e Catone, per mostrare che Ottavio non ha usurpata la libertà, ma che anzi ne era il protettore, l’imperatore, come negli ultimi tempi lo volea Cromuvelo (Lord Protector) in Inghilterra. Antonio stesso molto si risparmia, esi può osservare in Orazio che mai non si parla d’Antonio senza congiungerlo a l’africana Cleopatra per far cadere in lei l’odio e la colpa; e cosi fa Virgilio fagacemente nella battaglia d’Azio, quando parla d’Antonio palesemente, e quando ne parla per allegoria, supprime quell vizio che avrebbero dispiaciuto ai suoi partigiani ch’erano molti, ed a’figliuoli elevati da Ottavio a sommi onori. Queſta è pur la ragione prammatica, per la qual Virgilio non dipinta le guerre che fece Ottavio con Bruto, Callio e cogli altri, che per modo di peregrinazioni, onde non offender quei ch’erano ancora del partito di questi ultimi difensori della pubblica libertà. Il re del Lazio, Latino, che ammonito dall’oracolo vuol dar la figliuola più ad Enea, che a Turno, è il vero ritratto del senato romano, che vecchio (senior, senatore) ed impotente non potendo più regolar la repubblica, benchè per ispirazione divina egl’inchini più a lasciarsi governare d’Ottavio che da Marc’Antonio, atterrito nondimeno dagli apparecchi di guerra, lascia disputar la vittoria a’ due rivali, come appunto il re Latino fuggendo lascia terminar la guerra a Turno ed Enea. In Mesenzio ed in Lauso si veggono Cassio e Giunio Bruto, e l'empietà data a Mezenzio e la virtù data a Lauso lo persuadono. Muore Laulo ed Enea lo compiagne, come Ottavio compianse Bruto, al dir di Plutarco. Quando Lauro combatceva, era Mesenzio con la persona appresso di un tronco per posarvi appoggiato, e gli stava intorno un cerchio de’ più eletti e de’ più fidi; e quando vide Lauso ucciso, comincia a disperarsi, e a lagnarsi, e andar incontro alla morte. Queſta deſcrizione concorda molto con quella che fa Plutarco di Cassio, allora che ritirato sul colle stava rimirando l’esercito di Bruto, e credendo ch’egli fosse rotto, disperato si confiſſe nel le reni la spade. Non occorre cercare rassomiglianza perfetta tra questo o quello accidente vero e questo o quello accidente finto. Baſta che uno si ravvif nell'altro. I ritratti della Poesia, e particolarmente epica, sono “simili” a quelli che i gran pittori introducono ne’ quadri istoriati; negli Dei, negli eroi, ne’ capitani ritengono le fattezze del volto de viventi che vogliono onorare ma variano le attitudini, o le velti per variare le imagini, e produr nello spettatore maggior maraviglia ed affetti più vivi. Con questa regola si pollono ritrovare molti altri confronti nelle cose dell'Eneide colla vita d’Ottavio. Nè par probabile che tanta corriſpondenza sia effetto del caso, attesa spezialmente la sagacità del poeta, e l'idea generale dell'opera. Parte di questa corriſpondenza fa vedere nello scudo d' Enea la seguente illuſtrazione, che si dà intera. Come nell'Iliade d'Omero Teti porge ad Achille uno scudo fabbricato da Vulcano così nell'Eneide di Virgilio Venere porge ad Enea uno scudo fabbricato dallo stesso Dio. Quì non s'intraprende d'illuſtrare ſe non ciò che appartie. ne allo Scudo d'Enea, oſſervando prima generalmente, qual ne foſſe la materia, la faldezza, la figura, l'intreccio e i colori, ed indi particolarmente l' ordine e' i fiti delle coſe ſcolpite, le loro ſtorie, cd allegorie. I'Ciclopi impiegarono nell'armatura d'Enea il rame, l'ac ciajo, l'oro, e l'argento, ma fecero che ivi abbondante più dell'uno o dell'altro metallo ove era biſogno di maggior die feſa, o di più raro ornamento. L'Elmo che dovea abbagliando minacciare i nimici, riſplen dea per la terſezza dell'acciajo, non altrimenti che ſe fiam. me ſpargeſſe. La Lorica era ſcabra per i rilievi del rame e del bronzo, che quanto più maſſicci'ſi fingono, ed incurva ii, tanto più le faette e le ſpade ſpuntavano. Ben è vero che per la miſtura degli altri metalli, i colori della Lorica ſi mi ſchiavano con quei del bronzo e dell'oro, ond'ella riſplende va come un Iride in faccia al Sole. Nell'aſta e nelle ſchinie re abbondava particolarmente l'elettro che è un compofto d ' oro e ' una quinta parte d'argento, ma purgato più volte da'Ciclopi; l'oro nel foco avea ſvaporato l'argento, onde la compoſizione riuſciva più prezioſa, più denſa, ed impene. trabile. Nello Scudov'erano tutti e quattro i metalli tra loro op portunamente fuſi e temperati. I Ciclopi ne aveano appiana ta la maſſa in ſette piaſtre rotonde, che a guiſa dei ſette cuoi attorti dello Scudo d' Ajace implicarono l'une nell'altre, perchè lo Scudo refifteffe a tutte l'armi de' Latini. Miſterioſo era il numero di ſetre appreſſo gli Antichi per la relazione ch'egli avea al numero de Pianeti. Forſe credea no, che gli aſpetti di cucci e ſette influendo nella fabbrica d' uno Scudo gli deffero una tempra immortale. La figura dello Scudo d'Enea era ovale, nè a cid forſe an cora mancava il ſuo miſtero. Gli Scudi ancili chc fi fingea. no 177 no caduti dal Cielo a tempi di Numa, aveano la ſteſſa figura, Or lo Scudo d' Enea non era men celeſte di loro; ed Enea, che doveva portarlo, non ſi fuppone men pio di Numa. I Ciclopi nel fabbricar lo Scudo avendo poſta in opera per comando di Vulcano tutta la loro arte maeſtra, collocarono, intrecciarono, limetrizzarono, e colorirono le figure ſcolpite in maniera, che lo Scudo emulava la reflicura di un arazzo. Nè queſta a mio credere è un'Iperbole poetica, ma un'imi tazione di quell'idee che Virgilio, avea vedute ne'baſi rilievi di Roma, ove ſoggiornava, ed in quelli delle Città della Gre cia, ove per profittarlı dello ſtudio delle bell'arti avea viag giato. A Roma nelle Biblioteche e ne' Tempj ſtavano appeli certi Scudi tutti ſtoriati, e tra gli altri Plinio racconta, che nel Tempio di Bellona Appio Claudio confacrò uno Scudo, ove in picciole figure era rappreſentata tutta la Genealogia dell'antica famiglia de' Claud). Nel conveſſo dello Scudo di Minerva avea Fidia ſcolpita la battaglia delle Amazoni, e nel concavo la guerra degli Dei e de'Giganti. Offerva Plinio, che Fidia, volendo moſtrar l'arte nelle minimeparti, avea elpela ſo ne' Sandali della Dea la battaglia de' Lapiti e de'Centauri, e nella baſe della ſtatua la naſcita di Pandora con quella di trenia Dei. Ne'baſſi rilievi delle lamine che cingevano la ſe dia della fatura di Giove Olimpico, lo ſteſſo Fidia in oro ſcol pito avea, da una parte il sole che conduceva il cocchio, e dall'altra Giove e Giunone; a lato di Giove v'era una delle Grazie, indi Mercurio e Veſta., Venere pareva, uſcir dal ma re, l'Amore l'accoglieva, e la Dea Pito la coronava. Nello ſteſſo baſſo rilievo li vedeva Apollo e Diana, Minerva ed Er; cole, e nel piedeſtallo da un canto Anfitrite e Nettuno, e dall'altro la Luna, che galoppaya ſopra un cavallo. Qual mol ticudine, qual varietà ed intreccio di figure in poco ſpazio? Or è molto verifimile, che come lo Scudo d'Achille diede a Virgilio la prima idea dello Scudo d'Enea, così į baſli rilie vi da lui yeduti a Roma in Atene e in Olimpia gl'inſegnal ſero a perfezionarlo. Nella deſcrizione delle figure ben fi ſcor ge che l'artifizio dell'imitazione, non deriva dagli alerui fan tasmi, ma da un'acurata oſſervazione del ſenſo, che regold la fantaſia del Poeta fino · lo ſpingo oltre la conghiettura, e pretendo che alle figu. se veduce da Virgilio ſcolpite o nell’avorio, o nell'oro, od in altro metallo negli vi applicalle la forza e la leggiadrią Tomo II. 2 de' 3 178 ra 1 1 de colori da lui veduti nelle pitcure encauſtiche: Plioio ne annovera di tre fpezie, e non ſaprei fuggerirne una miglior idea che raſſomigliandole alle picture che vediamo, non dirò fulle porcellane di troppo fragil materia a confronto del me tallo, ma su fmali di più dura tempra, e su vaſi e ſulle cop pe antiche, ove la varietà del colore riſultò dal vario grado del foco, che lor fu dato nel fondere e nel tingere il metal lo. Difficile è proporzionare il grado del foco ad ogni colo re, ma difficiliſſimo ove i colori lieno per conſiſtenza e viva cità differenti, e ſi debba nello ſteſſo tempo abbrugiandoli laſciarli ſecondo il biſogno o floridi, od auſteri, ed a tutti imprimere quello fplendore che ſecondo Plinio non è lo ſtef To che il lume, ma di'mezzo tra il lume e l'ombra, ed è propriamente l'intenſione d'ogni colore nella ſua ſpezie. Il Sig. Abate Fraguier, la cui memoria mi ſarà ſempre ca. offerva, che nello Scudo d'Achille la terra fenduta in folco dall'aratro cangia in nero il color d'oro, che i grappo li d'uva ſono neri e la vigna d'oro, che le giovenche ſono rappreſentate al vivo col bianco e col giallo, cioè collo lta gno e con l'oro, e che veriſſimo è il langue trangugiato da due Leoni che lacerarono il bue. Da ciò inferiſce che l'arte encauſtica fioriva a'tempi d'Omero; ma quando anche i Cro nologi che non convengono dell'età d'Omero glielo conce deffero, molto più debbono elli concedere, che nel tempo d' Omero quell'arte era molto imperfetta a paragone dell'eccel lenza a cui la portarono i Greci nel secolo d'Aleſſandro, e ne’ſuſſeguenti. Le picture de' più celebri artefici encauſtici e rano ſtate portate dalla Grecia a Roma da' Capitani Romani, é poſcia conſecrate ne! Tempi. Virgilio che avea ſotto gli oc chj de'modelli così perfecti, gli ha verifimilmente adombra ti ne ' colori del ſuo Scudo yine queſta ſpezie d'imitazione pud negarſi ad ua Poeta sì doito, e d'on guſto così eſquiſito in ogni genere d'arte • Per reftarne convinti bafta riflettere alla varietà ed armonia de? colori delle figure deſcritte j ai sfuma menti, 0, come parla Plinio, alle commiſſure de culoriftel fi, ai fecreti più mirabili della perſpectiva introdotti negli ac» tidenti delle imagini, e finalmente all'efpreffione degli affec ti de coſtumidegli Uomini rappreſentation La varietà e larmonia de'colori appariſce nell'Oca d'ar gento che vola ne' portici d'oro, ne' flutti biancheggianti per lai fpuma ini un mare cerulco Larrei ſono i colli de'Galli, mentre le loro chiome fon d'oro, e vergate d'oro le veſti; il langue di Mezio è vermiglio e gocciola dalle ſpine che lo no verdi. Per gli sfumiamenti de colori, ed inſieme per l'eſpreſſione degli affetti e de' coſtumi, diverſi nell' arni e nelle veſti fo no i colori de' Barbari condotti in trionfo; il limitar del Tem. pio d'Apollo è bianco come la neve, ma più bianco è lo ſteſſo Dio; Cleopatra è pallida per la morte futura; il Nilo al ſembiante ed al geſto moſtra la doglia che lo crucia e l' impazienza di ſalvare i fuggitivi ſuoi figli. Che dirò della forza della perſpectiva? Parrafio dipinle, al dir di Plinio, il Demone degli Atenieſi vario, iracondo, in giuſto, incoſtante.. Virgilio rappreſenta Porſenna che nello Iteſſo tempo comanda, li ſdegna, e minaccia. Nel Portico a. vanti la Curia di Pompeo era dipinto, ſecondo lo ſteſſo Plinio, un Soldato che non ſi fapea ſe con lo Scudo aſcendeſſe o di Icenderſe. Virgilio fa che i bambini attaccati alle poppe del. la Lupa fieno da queſta alternaniente accarezzati; ciò che il Tallo imirò nelle figure delle porte d'Armida ove Marcanto nio nel ſeguir Cleopatra che fugge, Mirava alternamente or la crudele Pugna ch'è in dubbio, or le fuggenti vele. Ma paſſando a coſe più particolari, io per far meglio in tender l'ordine, l'intreccio, ed i fici delle figure, divido in quattro parii lo Scudo. La prima contiene la diſcendenza d ' Enca fino alla Lupa incluſivamente. La copula o, cioè an cora dimoſtra che tutto era nello ſtello baſſo rilievo. La ſeconda parte contiene molte coſe memorabili fotto i Re e ſotto la Repubblica. La terza la battaglia d' Azio. La quarta i tre Trionfi d'Auguſto. Queſte parti, ſi fanno ſenſibili dividendo l'ovale in quattro altre ovali concentriche che io ſegnerò co'numeri 1. 2. 3. 4. Nello spazio segnato i. ch' è come l'orlo dello Scudo io pongo le figure che rappreſentano i diſcendenti d'Enea anno verati da Virgilio nel primo libro e nel ſeſto: queſti ſono A Scanio, Silvio padre di molci Re, Proca, Capi, Silvio, Enea, i due giovani coronati di quercia, Numitore, e la Lupa che allatra i due bambini. De quindici Re d'Alba, di cui parla 2 2 Dio 186 Dionigi d’Alicarnaſſo e Tito Livio, Virgilio non nomina che queſti, perchè, come egli accenna, furono fondatori di colo. nie, avendo edificato Nomento, Gabia, Fidene, Collazia full? állo d'una montagna, ed il caſtello d'Inuo o di Pane. Fon darono ancora Bola e Cora, e queſte ed altre nominate Cit rà eſſendo nel Paeſe de' Sabini e de' Volſci, avranno dato oc caſione alle guerre e battaglie nello Scudo eſpreſſe. Nel baf ſo rilievo d'Alcanio dev'egli rappreſentarſi a guiſa d’un Ca. pirano o d'un Re che comanda di fabbricare una Città qual era Alba lunga. Altri prendono gli ordini, ed altri gli eſegui ſcono, ed i Soldati ſtanno riguardando l'opra. La pittura d ' Aſcanio è ſulla cima dello Scudo; nella parte oppofta, o nel ballo v'è la Lupa che allatta i bambini, e biſogna rappre ſentaría qual è in molte medaglie. Ne' lati dell'orlo dello Scudo toſto ſi vede un bambino in mano d'un paſtore ch' eſce da una ſelva; lo ſiegue in Re circondato da molti bam bini coronati, indi un Ře che guida un eſercito, un altro che eſpugna una Città, un altro che è in mezzo a Sacerdo ti e a Veltali, molti giovani Re cinti il capo di quercia che combattono e fondano colonie, o su monti, o nelle pianu. se. Nè Tito Livio, nè Dionigi d'Alicarnaſſo parlano in par ticolare di queſte battaglie, onde ſi poſſono ſcolpire a fanta ſia, ma devono eſſer ſcolpice in medaglie appeſe a rami od alle foglie d'un albero genealogico che ſerpeggi nell'orlo. Nello ſpazio ſegnato 2. io pongo da una parte due baſſi ri lievi di forma ellittica, ma incaſtrati di varj fogliami che riempiono i vuoti. Elli rappreſentano il ratto delle Sabine, e la pace cra Romolo e Tazio. Pongo dall'altra parte altri rilievi della ſteſſa forma che rappreſentano Mezio ſquarciato da ' cavalli, e Porſenna che afledia Roma. Nel ſommo dell'ovale ſi vede nelle figure più rilevate il Campidoglio affalito da’Galli, e difeſo daManlio; e nelle più lontane i Salj e le Matrone che eſulcano; nella parte oppo. fta che è la più baſſa dello Scudo v'è il Tartaro con Catili na affiffo allo ſcoglio, e ſopra il ſotterraneo (chiamato da Vir gilio la bocca profonda di Dite ) verdeggiano gli Elisj, ove Catone dà la legge all'anime pie. Le figure di queſto ſpazio ſono maggiori di quelle dell' orlo perchè le parti più vici ne al centro dello Scudo ove fi fogliono diriger i colpi, devo no eſſer più maſſiccie per più reliftere. Lo ſpazio è percid maggiore Nel i 81 5 Nello ſpazio ſegnato 3. v'è la battaglia d' Azio. Apollo ſaettante è ſul Promontorio, ove Auguſto gl’inalzò un Tem pio. Le navi d'Auguſto ſono alla deſtra ſchierate in arco; nel deftro corno v'è Augufto colla ftella in fronte e co' Pe. nati in mano, nel finiftro Agrippa cinto le tempia della co rona roftrata. Dirimpetto vi fono le Navi torreggianti d'An tonio. Secondo Plutarco, Antonio con Publicola reggeva il corno deſtro, e Clelio il ſiniſtro. Cleopatra è nel mezzo in atto di percuotere il fiftro, ſtromento dedicato ad Ilide che Cleopatra voleva emulare in curto. Tra i due ſemicerchi del. le navi ve ne ſono alcune diſtaccate che tra loro combatto no. Soggiunge Plutarco, che Ceſare non ſolamente non or dina ferir le prode dure e ferrate d'Antonio, ma nè anco inveſtirle per fianco, perciò che gli ſproni facilmente ſi ve nivano a romper urtando nelle cravi quadre incaſtrate infie me col ferro: Era dunque queſta battaglia (ſegue egli) mol to ſimile a una giornata per terra, anzi piuttoſto all'aſfalco d'una Cicà. Perciocchè tre o quattro navi di Ceſare com battevano intorno a una nave d'Antonio con partigiane, piche, e con fuoco. D'altra parte gli Antoniani ftando ſulle gabbie di legno traevano dardi e pietre contro i nimici. Così ap punto Virgilio rappreſenta le navi che combattono. Sulle navi di Cleopatra vi ſono i Dei moſtruoſi d'Egitto, in atto di ſaettar Neituno, Venere, Minerva, che ſtanno ſulle navi d'Auguſto, e contro alle quali egli diſſe al Senato che Antonio avea moſſo la guerra, non meno che contro al. la Patria. Marre è in  mezzo della batcaglia, la Diſcordia, e Bellona, ed in aria ſtanno le Furie. Tutto ciò è ſotto la fi. gura del Campidoglio o nella parte ſuperior dell'ovale, men tre a'lari ſono le navi ſchierate. Nella parte inferiore vi fo no le navi di Cleopatra che fuggono ſpinte dal vento Japiga, che ſoffia dal capo di Salentino; non lungi è la figura del Nilo, che allargà la veſte, e chiama i vinci a ricovrarli ne? ſuoi naſcondigli: egli è d' una figura giganteſca appoggiato ſull'urna che verſa i ſette fiumi nel mediterraneo, nel reſto dello ſpazio ſi diffonde il mare coi delfini che ſcherzano. Le figure di quello ſpazio ſono maggiori per la ragione ſopraccen nata, ed è maggiore lo ſpazio ſteſſo. Nello ſpazio ſegnato 4. vi ſono eſpreſli i tre trionfi d'Au guſto. Egli trionfo, dice Svetonio, in tre giorni l'uno dietro all'alcro; la prima volta per la vistoria Dalmacica, la ſecon da 4 182 1 da per l'Aziaca, e la terza per l'Aleſſandrina. Dione Caffio particolareggia i trionfi. Trionfo Ceſare, dic'egli, il primo giorno de' popoli Pannoni, Dalmatini, Japidi, ed altri loro circonvicini, e d'alcuni popoli della Gallia e della Germania ancora, perciocchè Cajo Carina avea già vinti e ſoggiogati i Morini e gli alıri popoli appreſſo, che nella ribellione da lo. Fo fatta gli erano ſtati compagni, ed oltre ciò avea dato una rolta a'Svevi, ed a quelli che aveano già paſſato il Reno; laonde ed egli e Ceſare feco rappreſentò il Trionfo percioc chè la vittoria folevaſi attribuire ſempre all'Imperatore, e l' Imperatore era Ceſare, è teneva in mano il governo di tut, 10. Il ſecondo giorno Ceſare rappreſentò il Trionfo della bat taglia fatta al promontorio d' Azio nel mare. Il terzo poi dell'Egitto ſoggiogato. Le ſpoglie in queſte guerre acquiftare furono baſtanti ad ornar tutto l'apparato di que' Trionfi; quel. Je però d'Egitto avvanzavano di gran lunga curti gli aliri ap parati d'ornamenti di ricchezza e di rarità; tra l'altre coſe vi fi vedea Cleopatra fteſa ſopra una colore in alto di morire, onde in un cerio modo queſta Reina era condotta in trionfo cogli altri prigioni, tra'quali v'era Aleſſandro ſuo figliuolo, e Cleopatra fua figliuola chiamati da lei col nome del Sole e della Luna. Gl’interpreti fi vanno inutilmente affaricando a cercar le ragioni della qualità de'prigioni, e particolarmente perchè ne' cocchi ſi vedeſſe l'imagine dell' Eufrate e dell’A. raſſe fiumi dell'Armenia e della Meſopotamia non conquiſtati da Auguſto. Il P. Arduino nelle ſue rifleſioni fopra Virgilio non ritrovando queſte vittorie d'Auguſto ne trae degli argo menti diſavantaggioſi all'Eneide. Io non perderò inutilmente il tempo a riſpondergli in particolare. Ciò che poſſo dire a coloro che ammettono l'autorità di Dion Callio, è far loro oſſervare, che Antonio dopo aver chiamara Cleopatra Reina dei Re, Ceſarione Re dei Re, ed aggiunto alla loro giuriſdi. zione l’Egico, donò la Siria a Tolomeo, e lutte le Provin cie di quà dall'Eufrate fino all'Elleſponto; donò l'Africa fino alla Cirenaica a Cleopatra, ed al fratello di coſtoro chiama to Aleflandro dond l'Armenia con tutto il rimanente del pae fe al di là dell'Eufrate Gno all'Indie. Or non è verifimile che Auguſto da cutti queſti Paeſi fcieglieſſe de' prigioni, che egli doveva aver fatti o nella battaglia d'Azio, o nella ſcon fiila data ad Antonio in Aleſſandria? Quanto al Reno, Agrip pa l'avea paſſato nel 717. nė fi curò del Trionfo, ma egli è pro. 183 probabile che Auguſto voleſſe che Agrippa trionfare ſeco co me Cajo Carina. Non v'era. ſegno d'amicizia e d'onore che non gli deſſe, perciocchè oltre la corona roſtrata, con cui lo fregið dopo aver vinto Seſto Pompeo in Sicilia, volea ch'egli avelle una cenda e l'altre inſegne militari ſimili a quelle dell' Imperatore, e, come dall'Imperatore, da lui ſi prendeſſe il ſegno della milizia, ed egli era in forſe di dargli per moglie Giulia: canto grande, gli diſſe Mecenate, tu faceſti Agrippa, che o biſogna ucciderlo, o ch'egli ſia tuo Genero. Dopo il Trionfo Auguſto inalzò molti Tempj; uno ad A. pollo ſecondo Svetonio ſul monte Palarino, al quale aggiun ſe una Loggia con una Biblioteca Greci e Latina; un altro ne edificò a Marte vendicatore per il voto fatto nella guerra contro Bruto e Caſſio per vendicare il Padre, ed un altro a Giove Tonante nel Campidoglio. Secondo Dione egli ancora conſecrò il Tempio di Minerva, ornò il Tempio di Giulio ſuo Padre ſoſpendendovi molti e molti doni della preda por tata d'Egitco, e molti ne conſecrò ed offerſe a Giove Capi. tolino, a Giunone, a Minerva. Non è da traſcurare che po fe l'imagine della vittoria ſecondo Dione nel Tempio di Mi nerva, e ſecondo Plinio nel Tempio del Padre Celare, il qua le era nel Foro; aggiunge Plinio, che vi poſe ancora i Ca ſtori che forſe ſimboleggiavano Auguſto ed Agrippa, nel pri mo libro aſſomigliati da Virgilio a Romolo ed a Remo, come interpreta Servio. Poſe ancora Augufto nel foro due quadri, uno della guerra, e l'altro del Trionfo; e s’io non m'ingan doveano queſti rappreſentare coſe alluſive alla battaglia d' Azio, ed ai trionfi dello ſteſſo Ceſare. Comunque la coſa ſia, ove è il centro dello Scudo che è la parte più alta, io pongo la Cupola del Tempio d'Apollo, alle cui porte Augufto affig ge le corone d'oro che erano i doni offertigli da’ Popoli dalle Provincie confederate. Tutto all'intorno vi ſono le are e gl’incenſi colle vittime, e quindi la pompa e la lecizia del trionfo. In quel giorno che Auguſto entrò in Roma, dice Dio ne, gli fu conceduto un Arco nella Piazza di Roma, e in o nor di lui li celebrarono i giuochi quinquennali, e gli anda rono incontro le Vergini Veítali, il Senaco ed il Popolo, colle mogli, e il figliuoli: mi par ſoverchio (ſoggiunge Dio. ne ) di raccontar i voti e le imagini ed altre coſe fatte per lui · La pompa del Trionfo conſiſte ne' prigioni Nomadi, o Numidi, Affricani, Lelegi, Cari popoli dell'Alia minore Ge no, e 184 Geloni ſpezie di Sciti, Morini popoli della Gallia Belgicà fi tuati verſo l' Oceano Britannico. Tra queſti vi ſono molti cocchi colle imagini dell'Eufrate, del Reno, e dell'Araffe col ponte che Auguſto vi fabbricò. Tali ſono i baſli rilievi e le figure di tutto lo Scudo; elle s'ingrandiſcono a proporzione ch'egli ſi va rilevando, e le miniature devono render ſenſi bili i colori di cui ſono in Virgilio dipinte. I colori domi nanti ſono il giallo e il bianco che rappreſentano l' acciajo ed il rame. Marte però deve eſſer dipinto con un colore fer rigno, o fia di ferro, non raffinato in acciajo; diverſi ſono i gradi de colori o floridi od auſteri che biſogna lumeggiare ed onibreggiare; ma ſopra tutto convien dar alle figure lo ſplen dore, o ſia quel grado vigoroſo di colore di cui s'è parlato. Spiegato in queſta maniera ciò che concerne la parte ma teriale e ſtorica dello Scudo, egli è tempo di ragionare delle relazioni che le figure hanno ad Auguſto, al quale tutto il Poema è diretto, come a lungo eſpoſi nell'altra diſſertazione. Biſogna quì ricordarſi che l'adulazione, ingegnoſiſlima nelle fue compiacenze, or impiega le lodi dirette e manifeſte, or l'indirette ed occulte, ſecondo che l'une e l'altre per le cir coſtanze fono più grate a colui che fi loda. Lodar Augufto per la ſua ſtirpe, lodarlo per la vittoria che gli diede l'Imperio, e per i tre trionfi, ne' quali fece tanto riſplender la ſua pietà, erano lodi che Auguſto fonima mente defiderava che ſi pubblicaſſero, onde eſſo poteſſe ritrar: ne più venerazione ed ubbidienza. Conviene a parte a parte moſtrarlo. Giulio Ceſare nel far l'Orazione funebre in lode di Giulia ſua Zia: La firpe materna, diſſe, di Giulia mia Zia ha origi ne dai Re, é la paterna è congiunta cogli Dei immortali, im perciocchè da Anco Marzio derivano i Re Marxj del cui nom fu mia Madre, da Venere i Giulj della cui gente è la noſtra Fa miglia. Trovaſ dunque nel ceppo antico della caſa noſtra la fantità dei Re la quale appreſſo gli Uomini è di grandiflima autorità e la Religione degli Dii nella podeſtà de' quali ſono el Re. Sin quì Svetonio. Non potea dunque che molto pia. cere ad Augufto che Virgilio noftraſſe e nel primo enel ſe fto e nell'ottavo che nella ſua genealogia verano i Re, gli Dei, e gli Eroi. Virgilio dice nel primo libro: il giovine A ſcanio che porta oggidiil cognome di Giulio e che ſi chiamava Ilo, mentre Ilio era in piedi, governerà Lavinio per trent'anni 1 in. 185 intieri etraſporterà la sede del Regno in Alba lunga di cui faa rà una forte Città. Nel feſto egli dice: uſcirà dal ſangue Tro jano miſto all' Italico Silvio ſuo figlio poſtumo che perpetuerd in Alba il ſuo nome, e ſarà egli fello Re e padre di molti Re,. per lui la noſtra ftirpe dominerà in Alba. Virgilio ſcaltro nul la parla delle guerre che ſecondo Dionigi d'Alicarnaſſo vi fu rono tra Giulio figliuolo d'Aſcanio e Silvio, e molto meno che per i ſuffragj del popolo ſi deſſe a Silvio il Regno che apparteneva a ſua madre, ea Giulio per contentarlo la fo vranità ſulle coſe della Religione, per cui, ſoggiunge Dionigi, la Famiglia Giulia ha goduto fin al mio tempo del ſovrano Pontificato, e s'è chiamata Giulia a cagion d' Julo da cui u ſciva. Io non so accordar queſto paſſo di Dionigi d'Alicarnaſ ſo con quell'altro di Plutarco e di Svetonio, ove ſi vede che Giulio Ceſare non per dricco di ſangue, ma per i ſuffragidel popolo in competenza di Catulo ottenne il ſommo Pontifica to. Laſciando cid, baſta quì oſſervare, che Virgilio confonde Aſcanio con Silvio figliuolo di Lavinia e gli altri diſcendenci da lui, poichè dice, che v'era ſcolpita tutta la ftirpe d'Enea cominciando da Aſcanio. Io così interpreto quel Ab Aſcanio. Di tutti queſti Re e di queſti Eroi Virgilio nefa come del le imagini trionfali, che pone nell'orlo del ſuo Scudo, come negli atrj delle caſe de' Romani ſi poncano le imagini degli Avi loro, ſulle quali Giuvenale e Plinio fanno sì gravi riflet fioni intorno al biasmo ed alla lode de' diſcendenti. Ciò ba fi intorno la lode manifeſta della ftirpe d'Auguſto. Palliamo alle lodi indirette. Nelle medaglie, ove fi legge Reft. o reſtitui, ſi vede l'ima. gine o d'un Bruto, o d'un Coclite, o della libertà, o d'al tre coſe alluſive alle azioni celebri de' Romani antichi, che gl' Imperatori Romani aveano imitate o reftituite. Il P. Ar duino vuole che queſte allegorie nelle medaglie cominciaſſero ſotto Tito, di cui ſi contano fino 22. medaglie di queſta ſpe. zie e terminaſſero ſotto Trajano, di cui ſe ne contano 24. ma non, perchè queſte medaglie non ci reſtino, ſi può dedur che ſotto gli altri Imperatori e particolarmente ſottoAuguſto, che vantavafi d'effere il difenſore della libertà del Senato e dei popolo, l'adulazione non aveſſe inventate l'allegoric; certo è almeno, che con queſt'ipoteſi ſi rileva il ſenſo del ratto del. le Sabine, e della pace ira Tazio e Romolo. Prima che Planco determinaffe il Senato a dar ad Occavio Tomo II. il 186 9 il nome d'Auguſto, molti volcano che ſi chiamafle Romolo. In fatti Auguſto l'imicava non ſolo nella fondazione d'un nuovo Impero, ma ancora in molte circoſtanze della ftella fon dazione. Come Romolo col ratto delle Sabine avea provvedu to al mantenimento della Città, così Auguito con la legge di maricar gli ordini che Orazio chiama legge Marita; due ne fece Auguſto., la prima nell' anno 736. e ſi chiamava legge Giulia, e l'altra dell'anno 762. e li chiamava legge Popea perchè fatta ſotto i Conſoli Sulpizio e Popeo. Con queſte leg. gi fi rinovarono l'antiche rammemorate da Cicerone e da Aulo Gellio, e Dion Caſſio merte in bocca d'Auguſto una lunga arringa su queſta materia al Senato, nella quale dopo d'aver cogli eſempj delle nozze degli Dei eſaltato il vantaggio e la giocondità de'figli, l'utile della Repubblica, e il biasmo di viver ſenza moglie, gli fa dire: Romolo autor noftro, e da cui diſcendiamo, non li ſdegnerà con tagione conſiderando il fuo naſcimento e i coftumi introdotti? Orazio nel Carme ſecolare lodando per queſta legge il Se nato obliquamente loda Auguſto; ma Virgilio nella lode obli. qua involge l'argomento del minore al maggiore come s'egli diceffe: fe tanta obbligazione hanno i Romani a Romolo che con una violenza provvide al mantenimento della Città, mol to maggior obbligazione i Romani hanno ad Auguſto che ſen. za danno de' vicini vi provvide con una legge si ſaggia. Romolo dopo le guerre con Tazio ai rapacificò ſolennemen. te con lui, e diviſe feco il Regno; ed Auguſto dopo molte guerre con Marcantonio conciliatoſi ſeco per l'opera de' co muni amici diviſe l'Impero, del quale il termine ſecondo Plu tarco era il Mar Jonio. Tutta la parte, dic'egli, verfo Levan te fu conceſſa ad Antonio, e l'alira verſo Occidente a Ceſare. Pegno della pace fu Ottavia maritata ad Antonio, e certamente ella è rappreſeatata nella vittima che ſi ſcanna nella ceremo nia del giuramento tra Romolo e Tazio: ne deve far difficol tà il noine della vittima, poichè tutto ciò che li confacrava agli Dei era fanto, e la Scrofa è ſtata ad Enea d'indizio del paeſe che ricercava. La pittura di Mezio non è meno allegorica; egli tradi Tul lo Oſtilio come Antonio tradì la Repubblica, e tradi Ottavio con la guerra che all'uno ed all'altra intimo per far piacere a Cleopatra. Mezio ne fu ſquarciato a viſta di Tullo; ed An. tonio fu coſtretto a darſi la morte quafi agli occhi d'Augufto. An 187 Antonio mentre s'incamminava al ſepolcro ove s'era rinchiuſa Cleopatra, andava verſando il ſangue per le Atrade come ap punto il corpo di Mezio per la ſelva. Non ſi potevano eſpri mer da Virgilio coſe sì delicate che in un quadro allegorico, Due volie, dice Svetonio, entrò Auguſto in Roma vitto rioſo e ſenza trionfare, una, poichè egli ebbe vinto Bruto e Caffio ne'campi Filippici, l'altra avendo vioto Seſto Pompeo in Sicilia; il che moftra, qual foſſe la modeſtia politica d ' Auguſto; queſta ſteſſa egli usò con Marcantonio del quale e gli non crionfo, ma di Cleopatra, come ſi può raccoglier dal Trionfo deſcrito da Dion Callio. Egli ſollevò i figliuoli d' Antonio alle prime dignità, nè col moſtrar odio e vendetta con Antonio dopo ch'egli era morto voleva offender Octavia a cui era ſempre grata la memoria del marito. Orazio e Vir gilio ben ſapendolo non mai parlarono di Marcantonio ſc non mettendolo in compagnia di Cleopatra su cui fecero ca der l'odio e la colpa; ma nel tempo ſteſſo, conoſcendo forſe che Auguſto ſi compiaceva, che negli animi de' Romani non ſi ſmarriſſero l'idee di quanto avea fatto contra Marcantonio per la finta difeſa della libertà, eſli procurarono di maſcherar ne l'azioni con l'allegoria, della quale Auguſto poteva abba ſtanza intenderne il ſenſo, e non offenderſi i partigiani d'An tonio per le varie interpretazioni che poteano darle. Nelle mie note su l’Odi d'Orazio io ſpiego con ciò molte coſe in intelligibili ſenza queſta ſuppoſizione, nè ſarà diſcaro che ne moſtri l'uſo nelle ſtorie di Porſenna e di Manlio ſcolpite da Virgilio nella ſeconda ovale dello Scudo. Porſenna voleva riſtabilire in Roma la tirannia traſportan dovi i Tarquinj, e nonmeno Antonio voleva riſtabilirla tra ſportandovi Cleopatra. Se Antonio, dice Dione, foſſe ſtato ſuperiore e ſignore del tutto, era per dare a Cleopatra la Cit tà di Roma; è poco dopo ſoggiunge, che Cleopatra era venu ta in ſperanza d'acquiſtar l'Impero Romano, e che quando al cuno le dimandava giuſtizia, ella riſpondeva che gliela fareb be in Campidoglio:al che pur allude Orazio nell'Ode 37. l. 1. dicendo ch'ella era ebbra di folli ſperanze non meno che di vino mareorico. Io non so ſe troppo raffini nel ritrovar in Clelia che ſi falva a nuoto, Ottavia che al dir di Plutarco eſce precipitoſamente dalla caſa d'Antonio; ma certamente Coclite che rompe il ponte è un ſimbolo d'Agrippa che con la vittoria navale interrompe l'avvanzamento d'Antonio. AQ 2 Tito 188 Tito Manlio è difenſore della libertà del Campidoglio con tra i Galli, come Antonio fu difenſore della preteſa libertà contra Caſſio e Bruto e gli altri nimici di Giulio Ceſare. Non mancarono, dice Plinio, i fregi delle coſe militari in Manlio Capitolino, ſe non gli aveſſe perduti nell'eſito della vita; e Tito Livio ſoggiunge, che lo ſteſſo luogo nell'Uomo ſteſſo fu un monumento e d'inſigne gloria e di ultima pena. Anto nio difeſe il popolo Romano ne' Campi Filippici, e il popo lo Romano in Azio ed in Aleſſandria l' inſeguì e fu cagione della ſua morte. I Salj ed i Luperci eſultano, e le matrone ne loro cocchi agiati conducono le coſe ſacre per la Città per dimoſtrare che non ſono ammeſſe in Roma le ſuperſtizio ni Egiziache, abborrite eſtremamente da' Romani ne'cempi d ' Auguſto e di Tiberio. Catilina tormentato nell' Inferno non moſtra egli le pene dovute a Marcantonio? e per la ragion de contrarj quante lo di meritava Auguſto per la ſalvata libertà? In grazia di que fta ſoffriva Augufto che fi lodaſſe Catone Uticenſe. Orazio nell’Ode 12. c. 1. lo mette tra gli Eroi di Roma. Loderò di Caton la nobil morte? Il P. Catrou pretende, che il Catone che negli Elisj dello Scudo dà legge agli ſpiriti, non fia altrimenti Catune Uricen ſe, ch'era troppo odioſo a'Ceſari, ma Catone il Cenſore, di cui dice Seneca, che tanto giovo co'ſuoi coſtumi al popolo Romano, quanto Scipione colle ſue guerre. Il P. della Rue é per il Carone Uticenſe, ma non ne aſſegna la ragione, la quale è manifefta, ſe ſi riflette al paſſo di Taciro da me nell' alıra diſſertazione addotto e che qui ancora ſoggiongo, perchè cgli moſtra quanto Ottavio fi vantafle, come Cromuello fece a' noſtri tempi, di paſſar per difenſore della pubblica libertà. Tito Livio (così fa dir Tacito a Cremuzio Cordo in Senato ) chiariffimo tra tutti gli Scrittori e per eloquenza e per fedel tà, celebrò con tante lodiGnco Pompeo che Auguſto lo chia mava Pompejano, nè perciò gli fu meno amico. Nelle Opere di Aſinio Pollione (cui Virgilio dedicò l'Egloga terza ) li fa onoratiflima memoria di Callio e Bruto: Meffala Corvino pre dicava Caffio per ſuo Imperatore, e l'uno e l'altro viſſero lun. gamente pieni di ricchezze e d'onori, ed Auguſto, non ſi sa le con maggior lode di manſuetudine o di prudenza, laſciò 1 cor 189 correr le lettere d'Antonio, e l'orazioni di Bruto, che molto lo diſonoravano; nel che forſe volle imitar Ceſare Dittatore che tollerò i verſi di Bibaculo e di Catullo, ed al libro di Marco Cicerone nel quale s' inalza Catone al Cielo, riſpoſe perorando come ſe foſse avanti i Giudici. Con queſto paſſo di Tacito ſi può dar la ragione per la quale Virgilio ed Ora zio non temerono, dedicando l'Opere loro ad Auguſto, di no. minar Giunio Bruto, Marco Bruto, e Callio, Catone, e Pom peo. Maquale ſcaltrezza cortigianeſca v'è in Virgilio nell' introdur Catone a dar legge agli ſpiriti? Par, ch'egli accen ni, che Carone meritava ſolamente grado in quella Repubbli ca ideale di Platone, la quale ſecondo Cicerone egli cercava nella feccia di Romolo. Ed ecco ciò che dovea dirſi intorno alle lodi indirette ed allegoriche. Le figure del quarto e del quinto ſpazio contengono lodi di rette, perchè cuite ripiene delle coſe di cui si compiaceva Auguſto che i Romani continuamente acclamaffero. Egli ſteſ ſo, come ſi diffe, avea nel Foro di Ceſare conſecrata l'ima gine della battaglia, e del Trionfo, nè io dubito punto che Virgilio ne aveſſe eſpreſli i tratti della pittura nello Scudo in quella guila, che nel primo libro nel rappreſentar il Furore alliſo ſopra i trofei e con le mani annodate al tergo imita la pittura ch'era nel Tempio di Giano. Tutto poi nella deſcrizione e della battaglia, e del Trion fo, è diretto alla lode d'Auguſto. Nella battaglia, Auguſto è coi Padri, col Popolo, coi Penati, e co'magni Dei, ed ha in fronte la ſtella paterna; ciò ſignifica, che la guerra era in trapreſa per la libertà del Popolo, del Senato e coll'alliſtenza di Giulio Ceſare già Deificato. All'incontro Antonio non ha ſeco che de' Barbari, ed un'effeminata Reina; Auguſto è di feſo da Venere genitrice, da Minerva, e da Apollo, Dei del la prudenza e del conſiglio, e da Nettuno, che gli era ſtato favorevole nelle guerre in Sicilia contro Seſto. All'incontro Antonio non ha ſeco che Dei moſtruoſi ed odiati da' Romani. Quanto cgli deſcrive più feroce la pugna, tanto maggior mente eſalta il valore d'Auguſto e d' Agrippa, ch'egli ſempre accompagna per le ragioni di ſopra accennate. Le Furie e la Diſcordia con Bellona liriferiſcono a Cleo patra; ma qual mai v'è ſagacità poetica nell'accennare la fu ga e la morte di queſta Reina? Mentre ella ſuona il filtro non vede i due ſerpi che la minacciano alle ſpalle; ella con fida iyo fida in vano nelle forze dell'Egitto, e in vano tenta di rifu. giarſi nelle più occulte ſpiagge delNilo. Tutto allude al.con higlio ed alle azioni di Cleopatra. Perchè poi Virgilio non nc introducefle nel Trionfo l'effigie, e tra i prigioni non poneſ ſe i figliuoli di lei, la cagione n'è forſe ſtata il timore d'ec citar nell'animo altrui con queſte imagini qualche grado di ammirazione e di compaffione, e perciò ſcemar in parte la lode d'Auguſto, e tra l'altre quella della pietà. Ne'gran Poe. ti biſogna egualmente riflettere e a quel che dicono e a quel che tacciono, onde molto male s'argomenta dalla Poeſia alla Storia, e dalla Storia alla Poeſia, quando non s'attende al fi ne a cui tutto vuol accomodare il Poeta. Il fine delle figure ſcolpite nei vari ſpazi dello Scudo ha relazione al fine gene rale dell'Eneide. Le figuredel ſecondo ſpazio riguardano il ſenno d'Auguſto, le figure del terzo il valore, le figure del quarto riguardano la ſua pierà. Queſte ſono le tre virtù do. minanti dell'Eneide. Dionigi d'Alicarnaſlo, che ſcriveva nel tempo d'Augufto, le ſtabiliſce come neceſſarie ai fondatori d ' un Impero, e Virgilio vi fabbrica ſovra l'Eneide. Molte altre coſe io potrei addurre intorno l'artifizio poeti. €0, la chiarezza, e la brevità, colla quale Virgilio in sì po chi verſi eſprime tante coſe, nè mai per oftentazione o d’in. gegno o di dottrina o d'erudizione, maſempre relativamente al diſſegno del tutto e delle parti, ciò che deve ſervire a' Poe. ti moderni di precetto e d'eſempio.  atentat nesatentratata L A ſecca della Filoſofia Italica fondata da Pitcagora ebbe nome e ſede nella Magna Grecia, tra le cui Provincie fu per l'eccellenza de'Filoſofi, che vi fiorirono, celebre la Lucania, ed in queſta la Città di Velia, o d'Elea così denomi nata dal fiume che l'irrigava. Quivi Senofane di Colofone, Cit tà della Jonia nell'Alia minore, ſtabilì e perfezionò la fecta, che dalla Città d'Elea fi diffe Eleacica, e meritò d'avere tra gli al tri diſcepoli Parmenide nato di Pireto, e quel Filoſofo grave e venerabile, che con Zenone paſsò in Atene, ove tenne la con ferenza con Socrate eſpreſſa in queſto Dialogo. Ora avendomi propoſto io d'illuſtrarlo nella ſua parte ſtori ca e Filoſofica, credo diſoddisfar quanto baſta al mio impegno ſe prima tento d'accordar l'erà controverſa dei tre Filoſofi nomi nati, indi ſe della dottrina Eleatica ſpiego l'origine e l'effetto, o la Filoſofia Pittagorica, e la Platonica; finalmente ſe mi fer punto che Platone in queſto Dialogo n'eſpoſe, e dichiaro l'artifizio filoſofico, e poetico dello ſteſſo Dialogo. lo difli, che Senofane ftabili, e perfezionò la ſecca Eleacica perchè Platone dice nel Sofiſta, la gente d ' Elea incomincia appref ſo di noi da Senofane, anzi da più antichi, i quali non poteano eller che Talete, o Pittagora, oi difcepoli loro; non regnando, allora alıra Filoſofia nella Grecia, ſe non l'introdotta dai due fondatori, o profeſſata da i loro allievi. Alcuni però fecero Se nofane poſteriore a Talete, ma più antico di Pittagora, nè fo dove prendeſſero le loro congetture cronologiche, alle quali oltre l'autorità di Platone, s'oppongono le ſcoperte dei due Fi loſofi, e i viaggi loro. Taletecalcolo il primo l' eccliſli lunari, ma come poteva egli calcolarle ſenza conoſcere la propolizione, che Euclide poi fe ce la 47 del primo libro degli Elementi, e di cui s'aſcrive or dinariamente l'invenzione a Pitcagora? I calcoli aſtronomici ſo mo ſul. no (4 ) no dedotti da trigonometrici, principio de' quali è il triangolo rettangolo miſura diſe ſteſſo, e de gli altri triangoli. Pittagora dunque, che l'invento, o fu contemporaneo di Talete, o fiori prima di lui., Io credei, che queſta foſſe una dimoſtrazione in cronologia, finchè in Plutarco (a ) ritrovai che gli Egizj ſimboleggiavano co? tre lati del triangolo rettangolo miſurati da 3, 4, e s le loro principali divinità Ilide, Oliride, ed Oro; aſſegnando ad Oſiri de la perpendicolare, la baſe ad Ilide, e ad Oro l'ipotenuſa; L'antichità del ſimbolo manifeſta quella della cognizione, tan to più che gli Egizi coltivarono l' aſtronomia da poi che eb bero inventato la geometria per miſurare i terreni, e non par veriſimile, che ſenza conoſcere il triangolo rettangolo, il pri mo e il più facile ad immaginarſi de gli altri, poteſſero riu ſcire nella pratica di queſte due ſcienze. V'aggiungo, che fe condo Platone (6.) noci erano, agli Egizi gl' incomenlurabili, la prima idea de' quali naſce dall' impoſſibilità di eſtrar la radice dal quadrato dell'ipotenuſa del triangolo; I lati del retcangolo Pitta gorico ſono i numeri accennati, e queſta è la prova che dagli E giz lo toglieſſe Pittagora, e nello ſteſſo tempo o poco prima l' aveſſe colto Talete, benchè poi Talete ſi contentaffe di moſtrare all'Aſia minore l'ulo aſtronomico della propoſizione, e Pictagora ne deſſe alla Magna Grecia la dimoſtrazione Geometrica, ed è forſe quella regiſtrata da Euclide nel primo libro diverſa dalla 8 del libro 6 dedotta dalle proporzioni delle linee, e che nel progreſſo del tempo Eudoffo, che fiori nel tempo di Placone, portò dall' Egitto col s elemento. Or fe i gradi delle cognizioni dello fpirito umano ſono fema pre gli ftefli, dall'analogie dell' Epoche moderne ſi poſſono de durre le antiche, e particolarmente quelle che hanno relazione agl'inventori de' principjmatematici. Nel paſſato ſecolo ſi trova prima dal Toricelli la Cicloide, e l' Ugenio l'applicò a regola re il moto dell'orologio a pendulo; il Newtono fi limitò all'altrace ta Teoria della luna, e l' Hallejo l'applico a correggere le Tavo le aſtronomiche. La ſeconda congettura della contemporaneità di Pitragora, e di Talete, ſi prende da coſe più facili. Vuol Jamblico, che Ta lete ſcriveſſe una lettera a Ferecide maeſtro di Pittagora, e gli legaſſe certi fcritti morendo, e par che Plinio convenga che i due Filoſofi foſſero ſtati in Egitto al tempo che regnava il Re Amaſi. La queſtione non cade più dunque ne ſu tutto il ſecolo, ne (a) Trattato d'Ilide, ed Oſiride. Nella Rep. e nelle leggi. 1 4 ne ful mezzo ſecolo, ma su l'età dell'uno e dell'altro di pochi anni diſtante; Talete par più vecchio ſe ſcriſſeuna lettera al maeſtro di Pittagora, machi sa poi ſe Pitragora non era allora in Egitto? queſta lieve differenza non toglie però, che ſe Talete' fu più d'un ſecoloprima di Senofane, non lo foſſe ancora Pittagora: Io ritrovo bensì, che Senofane era contemporanco d'Epicar mo, e diEmpedocle. Secondo Timeo lo Storico, Senofane paſsò in Sicilia al tempo di Gerone, ſotto il cui Regno Epicarmo era illuſtre per le ſue commedie, e Plutarco (a) ci conſervò la memo ' ia d'una riſpoſta, che diede Senofane ad Empedocle. Non è facile il determinare, nè qui lo cerco, quanto Epicar mo, ed Empedocle foſſero diſtanti da Pittagora, e quindidà Ar chita Tarentino il vecchio, da Peritione, da Timeo di Locri, da Ocello Lucano, e da altri, che ſi dimandavano Piccagorei (6 ) perchè udirono Pittagora, a differenza deglialtri, che ſi chiamava no Pittagoriſti. Quando cominciò Senofane a ſtudiar la Filoſofia, quella di Ta lete era già diffuſa nella Jonia, e quella di Pittagora nella Magna Grecia,e nella Sicilia; su queſto fondamento altri fecero Seno fane diſcepolo di Anaſimandro, ed altri di Archelao diſcepolo di Anafagora, il quale avea il primo traſportata la Filoſofia dalla Jonia in Atene, ove paffato Senofane ftudiò ſotto (c ) un certo Bottone Ateniere. Dalla povertà cacciato Senofane dalla Grecia, paſsò nella Sici lia e quà s'abbandono alle doctrine Pittagoriche, più delle Joniche conformi all'ingegno di lui acre, e profondo. Dalla Filoſofia Jo nica, e dall' Italica traſſe un nuovo liftema, è meritò ď' effer ca po della ſecta Eleatica primo fonte dell'Accademica, e della Pla tonica, delle quali poi furono rami lo ſcetticismo, e lo ſtoicismo, Nulla ancora s'è fatto, ſe non ſi dimoſtra accordarſi l'ecà di Senofane con quella di Parmenide, e queſta con quella di Socra te. Tralaſciare dunque molte epoche inverifimili, io m'arreſto a quella che aſſegna Timeo a Senofane, ed è che egli fiorille nell'olimpiade 76. Parmenide, ſecondo Laerzio ſeguito dallo Stan lejo, e da altri, fiorì nell' olimpiade 69 diſtante dalla 76 di 7 olimpiadi, che importano 28 anni, calcolando ogni olimpiade per 4 anni compiuti. La voce fiorire è molto vaga o ſteľa nel la Cronologia, perchè non ſempre moſtra, che un Filoſofo fof ſe nel punto più alto della ſua fama, ma che ſolo aveſſe un no meilluſtreacquiſtato. Il Newtono, che cosi rapidamente ſi per fezionò nelle matematiche, fioria del pari in Inghilterra quando ſcriſſe al Leibnizio la lettera in cui gli dichiarava lo ſvi luppo, (a ) Plut. de vit.pud. (6) Patr. diſcuſs. prop. 1. 6. (c) Laerzio vit.di Sen. (6 ) 3 8 luppo, e l'uſo del Binomio eſaltato ad una potenza indetermi nata, e nell'anno 1716 in cui molte coſe aggiunſe al ſuo libro de' colori, e n'illuſtrò molte altre nei principj naturali della Fi loſofia matematica, Senofane, che lo Scaligero fa vivere 104 an ni, ed altri almeno fino a 100, potea fiorire in olimpiadi mol to diftanti, perchè per la forza della ſua mente facilmente riu fcendo nelle fue applicazioni, in breve acquiſtava fama di lomme Filoſofo, e la ſua fama tanto più ſpargeali per le bocche degli Uomini, quanto egli abbelliva le ſue meditazioni filoſofiche con la Poelia per farle ricercare, e leggere con più d'avidità. Parmenide fece i ſuoi ftudi in Elea (a ) ſotto Amenia, e Dio cheta Pictagorici, i quali lo riduſſero a laſciar le ricchezze, ecol tivar la vita privata, e darſi tutto alla Filoſofia. Biſogna dun que che in eſſa molto riuſciſſe, o la Filoſofia foſſe la paſſione, che più lo dominava, ſe nato de' più ricchi, e de’più nobili di Elea ebbe tale coraggio; ma ciò molto applauſo dovea avergli acquiſtato appreſſo de'ſuoi Cittadini, ſe fin d'allora cominciarono a celebrarlo in guiſa, che al dir di Ermipo Empedocle l'emuld. Nulla vieta il ſupporre, che Empedocle avelTe molto ſoggiornato in Elea, e poi foſſe ritornato in Agrigento ſua Patria. In Elea era ſtato emulator di Parmenide doctiſſimo nelPittagoriſmo, e lo fu in Sicilia di Senofane, che lo profeſſava con qualche cangiamento', dopo gli anni 28 che è l'intervallo frappoſto tra l'olimpiade 69 e 76. Paſso Senofane in Elea, ed ivi Parmenide conſecrato agli ſtudi corſe ad udir Senofane, come i giovani nobili, e ben educati ſo leano far nella Grecia, quando nelle loro Circà udiano entrar un Filoſofo illuſtre, e che potea inſtruirli in qualche nuovo liſte ma, del che chiari gli eſempi ne vediamo nel Protagora, nelGor gia, ed in altri Dialoghi di Platone. Quando Parmenide udi Se nofane, queſti poteva eſfer molto vecchio; ma qualunque età dia ſi a Senofane, mi baſta, che nel pricipio dell' olimpiade 76Parme nide imparaſſe da lui il fiſtema dell'uno immobile, e non aveſſe allora che 36, e ancor 40 anni, la ſteſſa età che avea Zenone quando diſputò con Socrate in Acene. Socrate nacque al fine dell'olimpiade 77, ed avea 4 anni com piuti o 5 anni cominciati, quando nella noſtra ipoteſi Parmeni de ne avea 40. Se zo anni dopo ſi fuppone, che Parmenide con Ze none paſlaffe da Elea in Atene, come vuol Platone, non avea che 60 anni, e Socrate che 25, onde era egli molto giovane relativa mente a Parmenide. Semplici, e al fommo veriſimili ſono queſte ipoteſi degli ſtudi, 1 e dei (a ) Laerzio vita di Parmenide. 1 (7 ) e dei viaggi dei due Filoſofi, e ſe s'accordano facilmente con le olimpiadi, perchè oftinarſi a rigettarle, e rinunziare all'au corità di Platone, che potea molto meglio al fuo tempo cono fcere l'epoche dell'era filoſofica, che non ſi conobbero 6oo an ni dopo, e ben più? Le circoſtanze, con cui Platone accompagna l'abboccamento di Socrate con Parmenide, accoppiano in guiſa alla verità del fatto la veriſimiglianza ſtorica del Dialogo, che pare non do ver laſciarſi alcun ſoſpetto. Io le eſtrarro dal Dialogo. Parmenide, e Zenone fuo diſcepolo favorito o fuo figlio a dottivo abitavano fuor delle mura di Atene in caſa di un cer to Pitidoro. Nelle ſolennità de grandi Panatenei, itofene So crate a ritrovar Parmenide, ritrovò folo in caſa Zenone, e comia cid a diſputar feco fu l'idee. Entrato poco dopo Parmenide in caſa con Pitidoro, ſi proſeguì la diſputa incominciata alla pre fenza di molti, tra' quali Ariſtotele non lo Stagirita, ma uno dei 30 Governatori, o Tiranni di Atene. Tali ſono le circo ftanze del luogo, del tempo, e dei teſtimoni della diſputa. Socrate non avea allora che 25 anni; or eſſendo egli mor to nell'età di 72 anni, dall'abboccamento alla morte non vi fo no che 47 anni di diſtanza, e tanti appunto o pochi più dall' abboccamento al Dialogo, ſe Platone lo ſcriffe dopo la morte di Socrate: ma poniamo che l' aveſſe compoſto anche 20 anni dopo; la memoria di un Uomo così illuſtre qual era Parmeni de non potea più ignorarli in Atene, di quel s'ignori ora a Parigi la dimora che vi fece il Leibnizio, e l'Ugenio, e le di fpute che ebbero nell' Accademia reale. Alle verilimiglianze ſtoriche s'aggiungono le poetiche necef ſarie all' ornamento del Dialogo, che è una ſpecie di Poeſia Dramatica: così lo teſse Platone.: Cefalo per bocca di Antifone ſuo fratello uterino, e figliuo lo di Pirilampo, racconta ad A dimanto, e Glaucone, tutto ciò che avea udito da Pitidoro fu la diſputa che ebbero Zenone pri ma, e poi Parmenide con Socrate. ' Antifone avea converſaco familiarmente con Pitidoro compagno di Zenone, ma poi laſcia ta la Filoſofia coltivava l'arte equeſtre, e quando Cefalo ad in ſtigazione de' compagni andd a ritrovarlo, egli dava certo fre no ad accomodare ad un fabro; circoſtanza che io credo finta per dar rilievo al racconto, é fiffar la fantaſia del lettore con qualche coſa di ſtrano. Par toſto che Antifone occupato in un volgare eſercizio, non debba favellare ſe non di coſe volgari, nè mai s' aſpetta, che egli ſia per ſalire nell' ultime aſtrazio ni della metafiſica; quindi il lettore reſta ſorpreſo dalla mera viglia (8 ) 1 > e di viglia, allora che egli racconta il principio della diſputa tra So crate e Zenone, e che poi s'interrompe alla venuta di Parme nide, che fattoſi pregar un poco la continua fino al fine. Quan te menzogne, ſe Socrate non parld mai con Parmenide ! All incontro qual arte fina di veriſimiglianza poetica, per dar or namento alla verità del fatto di cuiCefalo, Adimanto, e Glau cone vivendo poteano renderne teſtimonianza? Come immagi narſi, che un Filoſofo il qual volea render accetta la lettura de ſuoi Dialoghi, cominciaſſe a diſguſtar il lettore con bugie le più sfacciate? Ariſtotele, che calunnia il ſuo Maeſtro in tante parti dell'opere ſue fue, e che parld ſovente di Parmenide Socrate non attaccò mai Platone ſul loro abboccamento, e pur ne poteva trar degli argomenti, per renderne la dottrina ſoſpetta. Non ne parlano altri autori Greci più vicini a Platone, non gli autori Latini, che più ſtudiarono i Greci, e tra gli altri Cicerone e Plinio, che tante coſe ci conſervarono fu l' iſtoria ed Era Filoſofica. Non v'è che il ſolo Ateneo il qual viſſe a' tempi di Marco Aurelio, che vuol dir quaſi più di 600 anni dopo Platone. (a ) Egli dice: Appena permette l' età che Socrate aveſe veduto, ed udito Parmenide, non dover però noi meravigliar ſene, perchè Platone ſuppoſe che Fedro vivere al tempo di Socrate; che Paralo, e Zantippo figliuoli di Pericle, e morti nella peſtilenza, ragionaſſero nel Protagora, e che Gorgia diceſſe nel Dialogo del ſuo nome quel che mai s'era fognato di dire. Molte altre accuſe contro Platone vibra Ateneo, e s'affatica a dipingerlo tanto mordace, e maledico quanto bugiardo. Non so perchè i Cronologi attenti a peſare ogni minuzia de'te fti non oſfervino, che Ateneo nel dire vix ætas permittit dichiara, che poco intervallo di tempo v'era ſtato tra la morte di Parme nide, e l'età di Socrate, maqueſto vix qual ha poi forza cronologica poſto in bocca di Guriſconſulti, di Oratori, diPoeti, di Filologi, non di Cronologi, che avrebbono diminuito l'allegrezza del convito coi loro calcoli, e colle lor aſciutte illazioni? Il Calaubono il qual nel ſuo comentario d'Ateneo in un'altro libro in foglio sfoga tanta eru dizione ſu l’erbe, ſu ipeſci, ſui coſtumidel convito, elu mille altre coſe inutiliffime a ſaperli nulla degna di dire ſu le accuſe colle qua li uno dei Dinnoſofiſti morde Platone. Io per me credo, che A teneo vedendoſi incapace d' emulare l'immenſità della dottrina Platonica, e l'arrificioſa maniera con cui l'eſpone Platone ne'ſuoi Dialoghi, teſſe lunga ſerie d'accuſe, e lo condanna di menzogne ro, e maledico per accreditar ſe non altro la veracità, e la mo deſtia colla quale caratterizza i ſuoi Dinnoſofiſti. Il buon Grama cico (a ) Ateneo lib. 14. Sympt, 9 ) tico ne goda egli pure, e ſen ' applauda; non per queſto io crede rò, che Parmenide non poteſſe ragionare con Socrate, e ſtard immobile nelle mie ipoteſi cronologiche, che a ben peſarle non vagliono meno di tante altre, che in queſto ſecolo fi ſpacciano, e fi difendono come i Teoremi diGeometria: Candidamente perd confeſſo, che io farò per ſacrificarle a colui, che all'autorità di Ateneo ne aggiungere qualchealtra più dimoſtrativa, e meno ſo fpecta; finalmente malgrado le congetture eſpoſte io ſon perſua ſo, che ſe Platone tutto finſe, il Dialogo è più ammirabile per la menzogna poetica tutta opera della ſua fantaſia, che non è per la verità del fatto, di cui poteano farſi onore i men dotti. Platone fcriffe in Filoſofia più ditutti gli antichi che lo precede rono, e come da Eraclito le coſe fiſiche, da Socrate le morali, così tolle da' Pittagorici lemetafiſiche, le quali non ſi correffero che nel fecondo ſecolo della Religione, per le varie diſpuce che, nacquero tra iPlatonici, e tra i Criſtiani. Eſaminerò dunque prima d'ogni altra coſa la natura della difpu ta, dopo di cui proporrò generalmente l'antica Filoſofia, ed in di la particolareggierò in Pittagora, e ne'Pittagorici, tra'quali Se nofane e Parmenide, e la terminerò con Platone. A queſte due coſe io riduco l'origine, e l'effetto dell'Eleatiça Filoſofia.. Gli antichi Filoſofi, ſenza eccettuarne nè pur uno, convennero nel principio, che di nulla fi fa nulla, e ciò gl' impedì di poter conoſcere che Dio era un ente ſingolariſlimo, uno, onnipoten re, buono, e libero; in ſomma di tutte quelle perfezioni dotato le quali o per negazione, o per caſualità, o per eminenza gli at tribuirono i SS. Padri, e cuti'i Teologi. Era Dio ſtato ſempre con la materia? Dunque altro non gli competea, che eſſer un modo di efla od un ente, che ſolo per preciſion di ragione dalla materia ſi diſtingueva; era egli per metà uno, per metà onnipotente, fe dipendea da un principio, ſenza il quale operar non potea, non più che il Pitcore dalla tela e dai colori, e lo Scultore dal marmo. La diminuzione della potenza toglieva a Dio la bontà, perchè non poteva egli vincer in guiſa la contumacia della materia, che non regnaſſe a ſuo malgrado il male miſto col bene. Come dunque Mosè per opporſi al politeiſmo del ſuo tempo dalla creazione cominciò la ſtoria del mondo; così per opporſi a tutti gli errori che derivarono dall'eternità della mate ria fi cominciò nel ſimbolo Apoftolico da Dio creatore, inſiſten do al dogma di S. Paolo, il quale nella Epiſtola agli Ebrei: In tendiamo; (a ) dice egli, per la fede eſſere ſtati connelli i ſecoli Tom. II. b dalla (a ) Epiſt. agli Ebrei cap. 11. Fide intelligimus aptata eſſe ſecula ver bo Dei. (10 ) dalla parola di Dio. I Padri nelle loro diſpute co'Gentili lo dichia rarono. Noi, dice Atenagora,Jepariam Diodalla materia, lamateria crediamo un ente diverſo ---- (m ) Dio è uno, ed ingenito, ed eterno; la materia è corruttibile; e poi celebriamo tutti un Dio ſolo crea tore di tutte le coſe. - -.- la fua forza immenſa non poterono abbrac ciar coloro con l'animo, che la notizia di Dio non cercarono nello ſtef fo Dio, ma dentro fe fteſi. Taciano (6 ) pur dice: Dio non s'inſi nua nella materia e negli spiriti materiali e nelle forme, ma egli è artefice inviſibile ed intangibile di tutte le coſe. Teofilo d'Antiochia (c) parlando ad Autolico, dice, ſe Dio è ingenito e la materia è pur tale, non è più Dio fabricatore e creatore di tutte le coſe. Queſti Pa dri viſfero tutti e tre nel ſecondo ſecolo non molto diftanti l' uno dall'altro. Gli errori de' Marcioniti, de' Valentiniani, de' Baſiliani, chefuronopur cutti e tre che in queſto ſecolo diedero occa fione a' Padri d'illuſtrare il lor zelo, dichiarando con la crea zione della materia il principio fondamentale della Religione Criſtiana. Anzi Taciano dimoſtro, che i Greci ne avevano ri cevute l'idee da'Barbari, ed i Barbari dagli Ebrei, benchè poi le aveſſero oſcurate e corrotse. Affaccendati gli altri Padri a purgarle, oſſervarono che Dio, autore del pari della Fede, che della ragione, non le avea ſeparate in un modo caliginoſo ed impenetrabile, ma le avea in maniera accordate, che dall'aurora dell'una fi potea paſſare al pieno giorno dell'altra, cogliendo però dalla ragione quanto e Platonici e Pittagorici e Stoici, ed Epicurei v aveano im preſſo col lor proprio carattere. Si compiacquero dunque della ſetta Eclerica, ed il primo che l'abbracciale fu Atenagora il primo de' Catechiſti d'Aleſſandria, poi S. Clemente ed Origene dal Veſcovo Uezio chiamato Pocamonico (d ) anzichè Platoni ço, San Clemente ſpinſe tant'oltre la condiſcendenza, che pro poſe come poflibile un ſiſtema filoſofico, il quale raccoglieſſe tut te le verità ſcoperte dalla ragione umana fin dal principio del mondo, ed agevolaſſe il metodo di far ricever i dogmi della fede, e quello della creazione. Amonio Sacca conciliator di Ariſtotele e di Platone, ritrovando che in Ariſtotele l' eternità del mondo ſi conciliava con l'eter nità di Dio, ſe ben egli nulla ſcriveſſe, laſcid tuttavia a' ſuoi diſcepoli, onde ſtabilire tal dogma. Diſtinſe egli l' eternica in due gradi o in due ſegni, nell' uno dei quali poneva Dio, nell'altro le coſe bensì create, ma da lui dipendenti, come il raggio dalSole, o l'ombra dal corpo. S'accorſero i Padri, che iFi (a ) Apologia pro Chriftianis. (6) Tat. allir, cont. Græc. (c ) Teof. Aut, lib. 2. (d ) Iftor. del Moeffenio nel finedelCuduortio. (11 ) e tras i Filoſofi mettendo con la creazione eterna una dipendenza tra la materia é tra Dio, coglievano a Dio la libertà, perché cacitamente fupponevano, che da Dio neceffariamente foſſe emanato il mondo come il raggio dal Sole e l'ombra dal corpo. Far di Dio un Agente neceſſario, è lo ſteſſo che farlo per metà Signore, per che ſe fi confeſſa da una parte, che da Dio dipenda la coſa che egli fa, fi nega dall' altra che da lui dipende il farla ed il non farla. La libertà è la maggiore delle perfezioni. Perchè dun que corla a un ente infinitamenteperfetto? Lafcio S. Ireneo, S.Cirillo, ed altri, cheſoddisfarono ampia mente a tutte l' obbiezioni; ma quello, che più degli altri le ſcDIonvolſe ed atterrò, è ſtato Lattanzio Firmiano, che con au reo ftile nel quarto ſecolo ſcriſe. In queſto ſecolo ancora ſcriffe ro Eufebio nella Preparazione evangelica, e poi S. Agoſtino nel la Città di Dio, l'uno ſegut l' ormeaccennace da Taziano, 1 alţro con erudizione più vigorofa, e più filoſofica ſcriffe contro l'eternità, l'animazione, la divinica del mondo, e l'immutabi lità del Fato. Apparve Proclo (as nel príncípio del V1. fecolo fondendo nella ſua Teologia molto di quella de' nomiDivini at tribuita a S. Dionigi Areopagita, rinovd il fiſtema di Amonio Sacca riſtoro il Platoniſmo caduto. Nel fecolo dopo, Zac caria di Mitilene, ed Enea di Gaza, ſcriſſero' pure contro l'eter nità del Mondo. E da' loro fcritii ſi raccoglie, che l'idea di Dio, combinata col policeiſmo era un'idea nugatoria, non men di quel la del bilineo rettilineo, che rappreſenta alla mente una figura, é non è che una contraddizione. Il P. Balto, nel ſuo dotuiffimo libro contro il Platoniſmo ſvelato, lo dimoftra; e dopo il Balto fe de fece dal Moeſfenio quella circoſtanziata iſtoria ſul Platonis la quale è nel fine dell' opere del Cuduortio, da lui tradotre dall' Ingleſe in Latino. lo nell’eſpor la doctrina de Filoſofi antichi non mi feryi rò dell'autorita de' Platonici recenti, non più, che fe non aveſ ſero mai ſcritto, ſalvo allora, che s'accordano cogli antichi, e ci confervano qualche circoſtanza ſtorica indifferente. Cercherò prima ne' teſti de' Filoſofi ftefli il ſenſo, che naturalmente preſen iano, e dove ſia queſto oſcuro, ed equivoco, ricorrerà all'in terpretazione o di Cicerone, o di Plutarco, o di Sefto Empirico, o di Laerzio Viſle Cicerone molti anni prima del Crifianeſimo, e Plutar co viffe a Roma ſotto Adriano, o Trajano, dopo d'aver ſtudiato in Egitto forro Amonio, diſcepolo di Potamone, e del quale egli b 2 par (a ) Pachimero in Suida, Vedi Fabrizio Bibliot. art, Proclo. e mo,. (12 ) parla nella vita di Temiſtocle ed altrove. Laerzio e Seſto Empi rico, fiorirono in circa ſotto Severo, che vuol dire molto prima di Amonio Sacca, di Plotino, di Porfirio, e di molti alori nimici del nomeCriſtiano; non rifiuterd dall'altro lato i ſoccorſi, che i Padri m'offrono allora particolarmente, che non hanno certa indulgenza alle opinioni filoſofiche, ſcrivendo agl’Imperatori, o non argomentano ad hominem contro coloro, che gl'inſultava no. La mecafiſica di Platone non è diverſa da quella de' Pittago rici, e ſe una volta io dimoſtro, che queſti e particolarmente Pitta gora, Senofane, e Parmenide conobbero bensì un principio intel ligente, ma non ſeparato dalla materia, anzi con effa non facen do che un tutto, avrò dimoſtrato, io mi perſuado, che queſto pur era il ſiſtema Platonico. Cominciero da Cicerone che in poche ma ſoſtanzioſe parole compendio tutto il ſiſtema de' primi Accademici o di Platone, e lo craſſe da' Pittagorici, come da Placone purtraſsero il loro gli Stoici, e i ſecondi e verzi Acca demici, poichè quanto a' Peripatetici (a ) eli convenendo nelle cafe non differivano, che ne' nomi. Gl’antichi, dice egli, divideano (b )lanatura in due coſe, l'una delle quali era efficiente, e l'altraad eſsa quafi preſtandoſi quella di cui ſi fa ceano le coſe.. Incid che facea riponevano la forza, in ciò di cui ſi fa cea, una certa materia, ma l'una e l'altra era nell' una e nell' altra perchè nè la materia può aver coerenza, ſe non ſia da qualche forza ritenuta, ne v'è la forza ſenza qualche materia, poichè nullo v'è che non fic in qualche luogo.. Se la forza e la materia erano indiviſibilmente unite, la fola mente le ſeparava, e perciò conſiderar l'una ſenza l'altra era un?: aſtrazione, una preciſion della menee. Cid che riſulta (c ) dall'uno e dall'altro, o ſia dall'accoppiamento, lo chiamavano corpo, e quafi certa qualità...--. Di queſte qualità al tre fono principali, ed altre derivate da queſte. Delle principali ſono ognuna [CICERONE, QUÆST. ACAD. -- Peripateticos', et Academicos nominibus differentes, et re congruentes lib. 2. (b ) De natura autem ita dicebant, ut eam dividerent in res duas, ut altera eſſet efficiens, altera autem quaſi huic fe præbens ea qua effi ceretur aliquid: in eo, quod efficeret vim eff: cenſebant; in eo au tem quod efficeretur materiam quamdam: in utroque tamen utrum, que: neque enim materiam ipfam cohærere potuiſſe, ſi nulla vi contineretur; neque vim line aliqua materia: nihil eft enim quod non alicubi eſſe cogatur. (c ) Sed quod ex utroque id jam corpus, et quaſi q uandam qualitatem nominabanc Earum igitur qualitatum ſunt aliæ Principes, aliæ ex his ortæ. Principes ſunt uniuſmodi, et ſimplices, ex iis au tem ortæ variæ funt, et quafi multiformes: itaque aer quoque (uti niur  ognuna della ſteſſa ſpecie, e ſemplici. Da queſte qualità, altre ne for no nate, e quaſi moltiformi. L'aere, il fuoco, l'acqua, ela terra for no primi, e da queſti nacquero le forme degli animali, e le altre coſe, che ſi generano dalla terra. Dunque que' principi, per tradurlo dal Greco, ſi dicono elementi, de' quali l' aria, il fuoco, banno la for za di muovere, e di fare, le altre parti di ricevere, e quaſi di pati re, l'acqua, dico, e la terra. La parola ſemplice quì non ſignifica indiviſibile, e Seſto (a ) Em pirico pur la prende in queſto ſenſo. Vè un quinto genere, b )di cui ſono gli aſtri, e le menti ſingolari, ed Ariftotele lo pone diſimile dagli altri quattro. Se le menti ſono tratte dallo ſteſſo elemento, che gli altri, non ſon eſſe ſemplici nel ſenſo d'indiviſibile, ciò che CICERONE dice altrove. Teniamo noi che l'animo abbia tre parti, come piacque a Platone, o ſia ſemplice ed uno; ſe ſemplice ſia egli come il foco, il fangue, l'anima, cioè il ſoffio. Queſte coſe conſtando di parti non ſono ſemplici. Continua CICERONE. (c ) Ma penſano, che di tutte ſia ſoggetto una certa materia priva di ogni specie, e d ogni qualità, e da eui Butte le coſe ſono eſpreſſe e fatte, e che può ricever in sè tutte le coſe. Se la materia era prima d'ogni fpecie, d'ogni qualità, non cra corpo, e perciò conſiderata dalla mente, indipendentemen te dalla forza, ella era incorporea; Selto Empirico chiama per. incorporei i punti, le linee, e le ſuperficie... Platone nel Timeo, la chiama difficile ed oſcura fpecie, e il recercacolo d'ogni generazione, e quali nutrice; aggiunge, che ella non fi diparte mai dalla propria potenza, perciocchè tut te le coſe riceve, nè prende maiper alcun modo, alcuna forma a queſte fimile, e prova eller convenevole, che di tutte le ſpecie ſia privo quel. che ha in sè da ricever tisti'i generi, comequelli che hanno da fa re unguenti odorofi, l'umida materia, che vogliono di certo odore, cori dire di tal guiſa preparano ', che ella non abbia alcun proprio odore e colore eziandio, vogliono in materie molli imprimere alcune pgure, los niuna mur' n. pro latino ) ignis, et aqua, et terra prima ſunt. Ex iis au tem' orræ animantium formæ earumque rerum quæ gignantur è ter ras, ergo illa initia, ut è Greco vertam, elementa dicuntur; è qui bus aer, et ignis movendi vim habent et efficiendi; reliquæ par tes accipiendi et quafi patiendi, aquam dico et terram. a ) Contra Mathematicos. (b ) Quintuin genus e quo eſſent aſtra mentesque ſingulares earum quatuor quæ ſupra dixi diſſimiles, Ariſtoteles quoddameſſe rebatur. (6 ) Sed Salicetam putant oinnibus fine ulla fpecie, atque carentem omni illa qualitate o... materiam quandam ex qua omnia eſptela, atque effecta lipt qux'- tota omnia accipere pofito (14 ) 1 njuna figura affatto laſciano primieramente apparire in quelle, ma cer cano pria di renderle quantopoſſibil fra polite. Molte altre coſe aggiunge Placone, che Ariſtotele in una de finizione riduce, dicendo che la materia non è alcuna di quelle co fe, di cui l'ente fi determina, e tra l'altre coſe annovera la qua lica, e la quantità, che par Cicerone ridurre alla ſola qualità; ma che l'idea del corpo, e della materia foffero diverſe ſecon do gli antichi, lo dimoſtrano le diverſe parole, con cui l'eſpri mevano, chiamando la materia ùns, ed il corpo owllde. Chi po ne un nome, dice Platone nel Sofiſta, dalla cofa diverſo, introdu ce veramente due coſe. La materia dunque, non eſſendo il corpo, ella era incorporea, ed incorporea la chiama in molti luoghi Sesto Empirico, e Plotino, la cui autorità qui è tanto più for te, quanto che egli ſteſo col nome d'incorporeo, non ſignifi cava la ſteſſa coſa che noi chiamšamo fpirituale. Stobeo (a ) lo conferma col dire: Si nega effer corpo lamateria non tanto, perchè manchi degl'intervalli del corpo, o delle tre dimenſioni, quanto perchè ſia priva d'altre coſe appartenenti al corpo, figura, co lore, gravità, leggerezza, ed ogni altra qualità, e quantità. La materia pud (b ) in tutti i modi mutarfi, ed in ogni parte non mai ridurſi al niente, ma ſolo in parti che poſsono all' infinito partir li, e dividerſi, nulla eſſendo di minimo in natura, che divider non fi pola. Le coſe poi che ſi movono tutte', moverſi con intervalli, che all'infinito ſi poſſono dividere, e cosi' movendoſi quella forza, cheab bian detta qualità (cioè il corpo ) e di qud, e di là verſando per fano, che tutta affatto la materia fi muti, efi faccian le coſe, che chix miam quali, dalle cui nature coerenti, e continue in tutte le ſue parti è fatto il mondo, fuori di cui non v'è alcuna parte di materia, nè abas cun corpo. Quante coſe raduna CICERONE in poche parole ! Con la divi fibilità all'infinito della materia, eſclude gli atomi forſe ammeſ da Empedocle ne' minutiſſimi corpicelli, che componevano gli elementi, e da Eraclito nelle mondature piccioliflime, ed indivi fibi (a ) Stobeo. I. 1. Egl. fil. cap. 14. 16 ) Omnibusque modismutare atque ex omni parte eoque etiam interi se non in nihilum ', ſed in ſuas partes quæ infinite lecari, atque di vidi pollint, cum ſit nihil omnino in rerum naturam minimum quod dividi nequeat: quæ autem moveantur omnia intervallis moveri; quzintervalla item infinite dividi poſfint, et cum ita moveatur il la vis, quam qualitatem effe diximus, et cum fic ultro citroque verfetur: et materiam ipfam totam penitus commutari putant, et ita effici quæ appellant qualia, e quibus in omninatura cohærente, et confirmata cum omnibus fuis partibus effectum elle mundunt, extra quem nulla pars materiæ fit nullumque corpus. (15 ) Ibili. Con la coerenza delle parti della materia, CICERONE eſclu de il vuoto negato da tutti, da Talece fino a Platone, onde dif ſe Empedocle: Nulla di vuoto vė, nulla che abbondi. Accenna pur CICERONE le leggi coſtanti che conſervano icore pi movendoſi, e nel dir che fi movono con certi intervalli, i quali all' infinito ſi poffon dividere, non applica egli le leggi del moto a' corpi minimi come a'fenfibili? Le parti (a) del mondo effer tutte le coſe che fono in eso, e tutte occupate da una natura che ſente, e nella quale v'è una ragione per fetta, e la ſteſsa fempiterna, nulla effendovi di più forteche poſsa diſtruggerla, e la steſſadirfi mente, ſapienza perfetta, e chiamarfi Dio, ed eſer.quafi certaprudenza di tutte le coſe, cheprovede alle coſe celefti, ed a quelle che in terra appartengono agli uomini. Se queſto Dio degli antichi Filoſofi rifultava dalle nature coerenti e continue di tutte le parti del mondo, ſe egli era il ſenſo, la ragione perfetta, la ſapienza, la providenza che reg gea queſte parti, era egli altro che una modificazione della forza e della materia, giacchè non v'era forza ſenza materia, nè materia fenza forza, e non era egli ſeparatamente dalle co ſe conſiderato che un ente di ragione? Qual relazione ha que fto Dio al noſtro, che è un ente ſingolariſtimo in sè, e fepa rato non per preciſion di ragione, ma realmente dalla forza e dalla materia, della quale egli è il Creatore? Alle volte lochiamiamo (b ) neceſſità, perchè null' altro pud farſi, ſe non ciò che da lei è coſtituito nella quafi fatale, e immutabile con tinuazione d'un ordine fempiterno; alle volte poi lo chiamiamo fortu na, la qual fa molte coſe improvvife, nè da noi penſate per l'oſcuri. tà, ed ignoranza delle cagioni; ed ecco Dio rappreſentato come agente neceſſario, o ſenza libertà; ecco diſegnato l' ordine fa tale e ſempiterno delle coſe; ecco come per la noſtra igno ranza non poſſiamo conoſcere la conneſſione, e le conſeguenze delle (a ) Partes autem mundi effe omnia quæ infint in eo quæ natura ſentiente teneantur, in qua ratio perfecta inſit quæ fit eadem ſem piterna: nihil enim valentius eſſe a quo intereat, quam vim ani mam effe dicunt mundi eandemque effe mentem fapientiamque per fectam quem Deum appellant, omniumque rerum quæ ſunt ei fub jedtæ quafi prudentiam quandam procurantem cæleftia maxime dein de in terris, eaque pertinent ad homines. 16 ) Quam interdum neceſitatem appellant quia nihil aliter poſfit, at que ab ea conftitutum fit inter qual fatalem, &immutabilem conti nuationem ordinis fempiterni; nonnunquam quidem eandem fortu nam, quod efficiat multa improviſa hæc nec optata nobis propter obſcuritatem ignorationemque cauſarum, (16 ) delle cagioni, e degli effetti loro. In ſomma l'antica Filoſofia aveva adotata l' eternità, l' animazione, la divinità del mondo, e l'immutabilità del Fato, le quattro coſe che Santo Agoſtino ha egregiamente combattute nella Città di Dio. Comparando il trattato d' Ilide, e d' Ogride di Plutarco col paſſo di CICERONE, non è difficile di raccogliere, che la Filoſo fia Egizia ne' principi eſſenziali non era diverſa dalla Greca, ſe non nella maniera di ſpiegarſi o ne' ſimboli. La materia, di cui parla CICERONE, era Ilide, la quale in ogni coſa potea tramu. tarſi, e di tutte le coſe eſer capace, della luce, delle tenebre, del giorno, della notte, della vita, della morte, del principio, e del fi ne. La forza è Oſiride, la cui veſte ſi facea ſenza ombra, e ſenza varietà, d'un color ſemplice, e rilucente; perchè ella è il principio dalla noſtramente ſolo, intefo, puro, e ſincero, tutt' iſimbolicontrarj a quelli delle proprietà dipendenti dalle qualità de' corpi diſegnati per Oro. Riſultava queſti dall'accoppiamento d'Ilde, e d'Oſiride, e chiamavaſi parto o creatura, rappreſentandoſi per l'ipotenuſa del triangolo miſurata dal 5; per cui ſi chiamava con la voce Pente, da cui deriva Panta, o l'Univerſo, che gli Egizi penſavano eſſer la ſteſſa coſa con Dio, nel che, come egli dice, s'accordava Ma netone Sebenita con Ecateo Abderita. Diodoro di Sicilia nel principio della ſua Storia, ſcrive coſa pen {aſſero gli Egizj su la generazione del mondo, ſul principio del le coſe, ſul naſcimento dell'Uomo. Par che Euſebio afcriva a Tot, che è il Mercurio degli Egizj, quanto ſcriſſe Sanconiatone ſul caos, e ſulla formazione della Luna, delle Stelle, degli Elementi. La Teologia miſtica dei Fenici, che dagli Ebrei, ſecondo Euſebio ed altri Padri, ſi preſe, reftd in guila alterata e confuſa, che nel caos poſero prima i principj delle coſe, ed introduſſero poi l'arte fice o l'amore, per opra del quale ordinarono il caos, é fabbrica rono il mondo. Orfeo il primo la portò nella Grecia e L'Inno criſto canto del caos vetufto, E come agli elementi, e come al Cielo Origin deffe, ed alla vaſta terra, E alla profondità del mar Amore Antichiſſimo, e ſaggio. Il caos era la materia, l'amore, o la forma, ed i prodotti, i compoſti, ed i corpi, ed in queſte tre coſe conſiſtea la fiſica generale degli antichi. La ſcienza che n'eftraſſero o la metafi fica rappreſentandola in una maniera molto indeterminata, la ſciava infeparata la materia da Dio, e dai compoſti, ed era molto perciò differente dalla noſtra metafiſica, la quale nell' en te include eſſenzialmente le creature, nè s'eſtende che per un ' 9 1 5 analogia molto lontana al Creatore. Io lo dimoſtrerò partita mente ne' liſtemi di Pittagora, di Senofane, e di Parmenide, e ſarà facile ad applicarne l'uſo a Platone. Pittagora e Platone (a ) giudicano, che il mondo ſia ſtato fatto da Dio: dunque le Platone fece da Dio generar il mon do ordinando la materia fluctuante, egli imparò ciò da Pitta gora, che l'avea imparato dagli Egizi, da Orfeo, anzi dal pro prio maeſtro (6 ) Ferecide Sciro. Avea egli ſoſtenuto, che in tut ta l'eternità Giove, il tempo, e la terra erano ſtati. Facciali pur di Giove, la cagione di tutte le coſe, e gli ſi dia ſomma pruden za, e fomma ſapienza, egli non ſarà mai che la forza, e l'amore che eguaglieraffi al tempo, e alla terra; vi ſi aggiunga, che poi chè Giove diede il premio alla terra ſi chiamò queſta Tellure, (c ) non altro mai ſi concluderà, ſe non che prima la forza, e l'amo re temperaffe, digeriſſe, ed ornaſſe quella mole indigeſta, che chiamavali terra. Pittagora generò il mondo dal foco, e a guiſa di foco ſotti liſſimo (d ) Iparſo, e rinchiuſo nel mondo, volea Placone, che foffe Dio. L'ornamento, (e ) l'unione, l'ordine di tutte le coſe furono chiamate da Pittagora Coſmos, o il mondo, e diffe egli, che il mondo viſibile era Dio. Stimò il primo, dice Cicerone (f) l'animo per tutta la natura delle coſe eſer diffuſo, e per la mente da cui gli animi noftri ſono tratti, ne vide per la detrazione di que fti diſtaccarſi, e ſquarciarſi Dio, e farſi miſera una parte di lui, mentre queſti ſoffrivano. Dio dunque era il mondo, e l'anime era no parti di Dio, effetto della Metempficoſi, ſe pur non era queſta una coſa affatto poetica, come Timeo di Locri lo dice. VIRGILIO espresse il sentimento di CICERONE nelle Georgiche. Della mente di Dio parci efſer l' api, E forfi eterei differo, che Dio Va per tutte le terre, e tutti i mari, E pel profondo Ciel; quindi gli armenti, E le pecore, e gli Uomini, e ogni ftirpe Di fere, e ogni altra, che da se rimove La tenue vita allorchè naſce. Tomo II. E nell (a ) Plut. de Ifid.& Ofir.car. 374. Franc. Edit. Vechel. (6 ) Laert. S. Clem. Aleſs. San Giuſtino apolog. Ermia nel fine dell'opere di S. Giuſtino. (e) Plut,plac.lib.2. (1) De Natura Deor. I. 1. Elle apibus partem divinæ mentis, et hauſtus Æthereos dixere: Deum namque iré per omnes Terrasque tractusque maris Columque profundum. Hinc pecudes, armenta, viros, genus omne ferarum Quemque fibi tenues naſcentem arceſſere vitas. 1.4. Georg.. C (18 ) E nell' Eneide, Nel principio le terre, il Cielo, e i campi Liquidi, e della Luna lo fplendente Globo, e gli aſtri Titanj, interno fpirco Alimenta, ed infuſa in ogni membro Tutta la mole n'agica la mente E fi framiſchia nel gran corpo; quindi E di pecore, e d'Uomini la ftirpe, De volanti la vita, e'l mar che i moftri Sorco la liſcia ſuperficie porta. no, Pittagora fu l'autor dell'idee; (a ) oſervd il primo tra'Greci che la mente non potendo rappreſentarſi ſingolari, perchè ſono in numerabili nel compararli, ne traſfe igeneri, e le ſpecie, ne'qua li ſi ravviſano le coſe ſparſe. Così ravviſava tutti gli individui umani nell'animal ragionevole. Nel far queſti aſtratti conſide rò, che la materia era mutabile, alterabile, Auflibile in ogni gui fa, ma che non vi ſono ſpecie, che s'accreſcano, o che perifca e perciò gli Uomini oſſervandole coſtantemente in tutti i tempi, e in tutti i Paeſi le credono eterne ed immutabili. La que ſtione era di rappreſentar queſt'idee. I numeri convengono all'Uomo, al cavallo, alla giuſtizia, al la caſa, e a che so io; dunque i numeri ſono univerſali, perchè atti alla rappreſentazione de' molti. L'oſſervazione è d'Ariſtotele, (c ) e molto più la ſtende Poſſidonio, riferito da Seſto Empirico, (d ) il qual dimoſtra per i numeri aſſimigliarſi cutte le coſe, e ſen za queſti non poterſi intendere nè gli elementi, nè l'armonia, nè alcuna delle tre dimenſioni del corpo, nè ciò che riſulta da corpi uniti, coerenti, diftánti, nè tutti i calcoli delle quantità fùccef five, nè ciò che appartiene alla vita, ed all' arti fondate su propor zioni ſolo intelligibili per i numeri. Pitragora dunque ſi ſervì del numero, per dar un ſimbolo dei due principj delle coſe, la forza, e la materia, di cui chiamò l'una l'uno, e l'altra il due. L'unità, diceva egli, è Dio, (e ) ed anche il bene che è di natura * Principio Coelum, ac terras camposque liquentes Lucentemque globum Lunæ Titaniaque altra Spiritus intus alit: totamque infuſa per artus Mens agitat molem, et magno ſe corpore miſcet. Inde hominum pecudumque genus vitæque volantum, Et quæ marmoreo fert monſtra ſub æquore pontus. (a ) Plut. plac. Phil. l. 1. (6 ) Plut. ib. l. 1. c.9. (c ) Metaf. lib. 10. (d ) Contra Logicos. (e ) Plut. plac. Phil. lib. 2. (19 ) un ſolo, e lo ſteſso intelletto, il due infinito, e genio triſto, d'inser torno il qual due ſi fa la quantità della materia. Chiamava uno la forza perchè noi la concepiamo a guiſa d'un non ſo che d'indi viſibile; chiamava due la materia, perchè ella è fempre divil bile in due, Di queſti due principj, uno è quello del bene, e l'altro del male, già l'ha inſinuato Plutarco. Archelao Veſcovo (a ) di Cara dice; Širiano introduce la dualità contraria a ſe ſteffa, la quale egli preſe da Pittagora, ſiccome tutti gli altri ſettatori di tak dogma,; quali difendono la dualità declinando dalla via retta della ſcrittura. Tutte in ſommal'ereſie, che vi ſono nel compendio della filosofia di CICERONE, che vuol dir l'eternità, l'animazione, la divis nità del mondo, Piccagora le raccolfe in un ſiſtema, ed in vano fi dice, che egli nulla fcriveſſe. Liſide diſcepolo (b ) di Pittagora in una lettera fcnca ad Ip parco, dopo la morte del maeſtro ſignifica non voler comuni care ad alcuno i precetti, e dimoſtra che delle coſe, le quali di ceano i ſeguaci di Pitcagora, non ve n'era nè pur ombra. Por firio nella vita di Pittagora dice, che agli Uomini oppreſli da tale calamitat, (cioè dalla morte di Piccagora ): manca lo ſciens di lui, la quale arcana e recondita cuſtodida in petto, nè vi reftas fono che certe coſe difficili da intenderſi imparate a memoria dagli udi tori dell'eſterna Filoſofia, poichènon v'era alçun ſcritto di Pittagora; ed aggiunge,che dopo la morte di lui „ Lilide, Archippo,ed altri furono folleciti, chei penſieridiPiccagora non ſi pubblicaffero, onde eutti gli arcani della ſua Filoſofia con lui perirono'. To dubito aſſai del la vericà della lettera di Liſide, la quale con quel che dice Porfirio pud eſſere ſtata finta,perchè i Criſtiani nontraeſfero argomenti da quanto ci reſta diPitagora, in CICERONE in Plutarco, in Laer zio: ma ſe non v'era coſa alcuna della Filoſofia di Pittagora,.co me poi Jamblico poeea gloriarſi di riftabilirla; e non è manifeſto che egli la riſtabili a fuo modo per combattere i Criſtiani de'quali fu accerbo' nimico; lo ſteſſo Porfirio, che dice nulla aver fcric to Pittagora, come poi ebbe fronte d'afferire, che egli avea ſcrit to fu l'ente, il che Euſebio (c ) riferiſce? Diſcepoli di Pitcagora furono Archita Tarentino il vecchio, Pe ritione, Timeo di Locri, ed Epicarmo. Archita il vecchio (d ), che Simplicio confonde col giovine, fcriſſe delle dieci voci corriſpondenti ai dieci concetti dell'animo, i quali s'eſtendono a cutte le cole, potendoſi d' ognuna cercar la (a ) Zaccagna collect. monumentorum veterum Eccleſiæ Græcæ, atque Latinæ. Archelai Epiſcopi acta. (6 ) Galeo. (c ) Propof. Evang, lalg. (d ) Patrizia diſcuſ, Peripa,1 (20 ) la ſoſtanza, la quantità, la qualità, l'azione, e gli altri acciden ti regiſtrati a lungo da Ariſtotele nella ſua Logica, in cui copiò il trattato di Archita. Lo Stanlejo, che pretende di numerare tutte le donne Pitcago riche, omette Peritione, e pur eſser ella dovea la più celebre,le da lei trafse Ariftotele (a ) tutta l'idea della ſua metafiſica. Lo prova con molta erudizione il Patrizio, allegando la definizio ne della fapienza di Peritione, e comparandola con quella di Ariſtotele. La ſapienza, diceva ella, verſa in tutt'i generi degli en ti, perchè verſa intorno tutti gli enti, come la viſione intorno tutti i viſibili. Ariſtotele definì la metafiſica, per la ſcienza che contem pla l'ente, in quanto ente, e le coſe che per sè gli convengono. Peritione egregiamente ſpiegò gli accidenti dicendo: delle coſe che accadono agli enti, alcune univerſalmente accadono a tutti, alcu ne altre a molti di loro, e certe ad un ſolo, ma riguardar univerſal mente, e contemplar tutti gli accidenti appartiene alla ſcienza. Que. fte ed altre cole che ilPatrizio aggiunge, danno idea della preci fione, e nettezza di Peritione, e nel tempo ſtefso quanto tra' Pittagorici erano familiari l'idee Pittagoriche, ſe le donne ſtef ſe ne ſcriveano con tanta eleganza filoſofica · Non dobbiamo tuttavia meravigliarſene, di poi cheabbiam veduto ne’noftri gior ni Madama la Marcheſa di Chatelet, ſcrivere ſulla natura del. le monadi Leibniziane, queſtione molto più oſcura di quella dell'ente. Timeo di Locri nel ſuo ragionamento ſull'anima del mondo, in queſta univerlità di natura, dice egli, v'è un certo che, il qual rimane, ed è l intelligibile eſemplare delle coſe, che ſono in un fuſo perpetuo di mutazioni, e queſto nelle vicende delle coſe ſingolari, co ftante, e perpetuo eſemplare ſi chiama idea, ed è dalla mente compre fo. Nell'univerſità dunque delle coſe, che vuol dir dentro le coſe o in cutti i compoſti v'è quel non ſo che, che mai non cangia, e può dalla mente eſtrarli qual idolo. Le coſe ſenſibili eſser in un perpetuo fluſso lo diſsegnarono, al dir di Platone, nell'Omero, ed Eſiodo ſotto l'imagine dell'Oceano, e di Te ti, e di queſte non aſsegnarono fcienza i Pictagorici, ma ſolo di quelle, che nè col ſenſo, né coll' immaginazione ſi ravviſa no, e queſta fu la prima differenza tra la Filoſofia Jonica, e l'Italica. Epicarmo ſommo Poeta, come Omero al dir di Platone, so all' una grandezza d'un cubito (diceva egli ) altra tu voglia aggiun gervi o ſottrarsi, non avrai mai certo la Nera miſura; gli Uomini pa rimen (a ) Patriz. l. 2. cap. 1. diſcuſ. Perip. (6) Ragion, ſu l'anima del Mondo. (21 ) rimente conſidera or accrefcere, ed or decreſcere, tutti ſoggiaciono ai cambiamenti del tempo.  Jeri tu fofti un altro, io pur vi fui, E un altro ſiamo in queſto tempo, e fieno Di nuovo gli altri, che non mai gli ſteſſi Noi ſiamo, come la ragion lo predica. Per l'Intelligibile così parlo: A. L'arte tibicinal è qualche coſa? B. Perchè no. A. Forſe è l' Uom queſta tal arte? B. Non mai A. Vediam, che coſa queſto ſia Tibicine B. Egli è un Uom; non dico il vero? A. Il ver ma ftimi che non debba diri Ciò pur del bene? Io voglio dir che il bene Una coſa pur ſia, ma s'altri impari Ad effer buon ei già dirafli buono; Il Tibicine è quegli che la tibia A ſuonar imparò. Quel che a ſaltare Salvatore, e ceſtor quegli che a teſſere Impararo, e così d'ogni altro l'arte Certamente non è, ma ben l'artefice. Nel dir Epicarmo, che il bene è una coſa come l'arte, e che nè il buono, nè l'arte ſono gli uomini che la partecipano, egli c ' inſegna a far le aſtrazioni della mente, la qual avendo comparato tra loro molti Uomini che fien buoni, molti tibicini, molti falcatori e teſtori, ne ha compoſto quell'idea, che poi convie ne a tutti. Queſt'idea reſtando ſempre la ſteſſa in tutti i tem pi, ed in tutti i caſi, per quanto variano i temperamenti, e le figure degli Uomini, li confidera ſempre nello Iteſſo modo, ed è principio del diſcorſo, o di ciò che nel Teeteto ſi chiamano analogie ſcoperte, le quali nel raccogliere le coſe col mezzo de' ſenli, le fanno comprendere la ragione. Epicarmo era contemporaneo di Senofane, come ſi diffe, ed eccoci a ' Filolofi più vicini a Socrate, ed indi a Platone, i qua li a poco preffo ſi trasfuſero le ſtelle idee non diverſificate, che dalla maniera d'eſporle, e di colorirle. Senofane, dice Euſebio, e quelli (6 ) che lo ſeguirono, moſfero così con (a ) Laerzio Vita di Platone. (6 ) Lib. 11. cap. 1. Prep. Evang.  1. 1 contenzioſe ragioni, che piuttoſto arrecareno a' Filoſofanti confuſio ne, che ajuto. Pittagora volea che il mondo foffe eterno, benst come gli altri Filoſofi, quanto alla materia, ma non quanto alla forma, poichè credea che foſſe ſtato generato dal foco; Se nofane pofe il mondo non generato, ma eterno, 'aderendo ad Ocello Lucano, che fcriffe fu l'eternità del mondo prima d'A. riſtotele; ecco la prima differenza tra Senofane, e Pittagora Un'altra più forte ve n' era; Pittagora avea pofti per principj l'uno, e il due, Senofane riduſſe tutto all'uno, Senofane", dice CICERONE, è più antico di Anafagora; vuel che uno fieno tutte le coſe, nè queſto uno è mutabile, ed è Dio non mai nato, e ſempiter no, e di conglobata figura. Seſto Empirico (b ) parlando per bocca di Timone foggiunge, che fecondo Senofane l' Univerſo era una fola coſa, che Dio eſiſteva in tutte le coſe, e che era di figura sfe rica, e di ragione dotato. Ad Empirico ſi conforma Laerzio (c ) dicendo, che ſecondo Senofane, Dio nella materia tutto udiva tutto vedeva, ſebben non reſpirale, e che tutte le coſe inſieme erano la prudenza, la mente, l'eternità. Io dimando, ſe nel far Dio fparfo per tutte le coſe, e fen ſitivo, e prudente, e intelligente, differiva egli dall' opinione che CICERONE eſpoſe nel compendio della Filoſofia? Non v'è che la figura sferica che gli aſſegna Senofane, e per cui non infinito, ma finito lo rende; ma chi fa, fe nel concepir gli antichi la figu ra sferica, comela più ſemplice, intendeſſero ſimbolicamente d'ac tribuir a Dio tutte le perfezioni? converrebbe faper fe Senofane fcriſſe ciò in profa, od in verſo, e ben eſaminare tutto il conte fto della fua dottrina. Non reſtandoci che conghietture, io m'at tengo a quella del ſimbolo per accordar CICERONE con se stesso, il quale nella natura degli Dei combatte Senofane, che aggiunſe la mente all'infinito. Queſt'infinità era una conſeguenza del fuo ſiſtema, perchè ſup poſta l'eternità della materia cost argomentava: (d ) Eterno è cid che è, se è eterno è infinito, fe infinito uno, ſe uno fimile a sèl. Di nuovo ſe l' uno è eterno e ſimile, egli è ancora immobile, fe immobile non ſi trasfigura per poſizioni, non ſi altera per forme, non ſi miſchia con altri. Ariſtocele elamina i ſoffiſmi contenuti in queſto ragio namento; il principale è; da ciò che il mondo è ecerno, infini to, uno, non ne fiegue che egli lia effettivamente immobile, per che le coſe eſiſtono nella maniera che poſfono eſiſtere, e la materia ſe ſteſſa il principio del moto non v'è contradizione a cont (a ) Queſt. Acad. lib. 1. (6 ) Lib. 1. dell'ipotipoſi. (c ) Laert. lib. 9. idí Arift. contra Xenof, Zenon. et Gorgiam. eſſendo per i 2 (23 ) a concepire, che il moto ſia eterno come la materia. Coloro che ammettevano il caos eterno, davano eterno il moto, ſebben ſen za regola o forma. Non ſi cerca qui però, ſe concludeſſe l'argomento di Seno fane, ma ſolo qual foſſe la ſua ſentenza, e coſa egli ne dedu ceſse. Come poi accordarla colla ſua fifica? Ammetteva egli per principj (a ) delle coſe naturali la terra, il foco, l'aria, e l' acqua, e dalle alterazioni di queſti elementi, rendea tutti i miſti a generazione, e corruzione ſoggetti. Grand uſo fece di quefte due coſe, perchè, ſecondo lui, conſiſteva il So le negl'ignicoli raccolti dall umida (6 ) eſalazione in una nuvola ignita, e la Luna in una nuvola coſtipata. Manon era poſſi bile decerminare il grado di verilimiglianza filoſofica ch'egli da va all'Ipoteli, poichè nelle ſentenze filiche di Senofane y' è mani. feſta contradizione. Poneva egli de' Soli innumerabili, e la Lu na abitata. I ſoli innumerabili erano quelli de' Pitcagorici, e di Orfeo (C ); ma come abitar una nuvola? La terra (d ) la quale per immenſa profondicà fi ftendea di ſotto, era coſa ri pugnante alla sfera armillare che Anaſimandro forſe di lui, maeſtro avea inventata o propagata per cutta la Grecia. Cor revano allora tali dottrine, e Senofane, in Colofone, in Atene, in Sicilia, e in Elea le avea ſtudiate; avea Talęce calcolate l'eccliffi del Sole, e della Luna, avea Pittagora applicare al liſtema celeſte le conſonanze Muſicali, e nella lira a lette corde determinato il pu mero, e le diſtanze de' Pianeti; non è poſſibile, che Senofane in un tempo così illuminato voleſſe diſcredicare il ſuo ingegno con ipoteſi aſſurde e ad ogni ragione contrarie; non erano dunque, che idoli fantaſtici, iperboli poetiche, o ſimiglianze groſſolane, in cui ſi deve più badare al color, che alla coſa. La grande difficoltà di Senofane era nel combinare il fiſico col metafiſico, o lo ſtato ideale con l'obiettivo. Avea già ſtabilito Pictagora, l'intelletto altro non eſſer che (e ) mente, ſcienza, opi nione, ſenſo, da cui tutte l' arti, e le ſcienze nacquero. Egli diſse gnava la mente per l'uno, ciò che adeſſo noi chiamiamo lemplice intelligenza; diſegnava la ſcienza pel due, poichè s'acquiſta la ſcienza deducendo una coſa da un'altra; diſsegnava l'opinione per il tre, poichè nel trar la conſeguenza da un principio proba bile ſe ne riguarda nello ſteſſo tempo due, in uno de'quali v'èla ragion ſufficiente d'affermare, nell'altro di negar la coſa. I Pit 3 ta (a ) Laert. vit. di Xen. Plut. plac. (6) Plutar. lib.... Origenes Philoſ. (c ) Veggali Moefenio ſu l'eſiſtenza d'Orfee. Plutar. plac. de Fil. lib.i. (d) Gregorii Aſtronomici Pref. (c ) Plutar. lib. 1. de plac. (24 ) tagorici furono tutti dogmatici, o per dar credito alle ſentenze del ſuo maeſtro, o perchè pareſſe loro, che la fapienza non do veſſe mai eſſer miſtad'ignoranza, come accade nell' opinione milta dell' una, e dell' altra. Senofane fu il primo ad introdur il dubbio nella Filoſofia, e quindi l'opinione. Chiaro l'Uomo non ſa, nè ſaprà mai Degli Dei coſa alcuna ed altre coſe Che da me dette fur, ſiaſi perfetto Pur quanto ei dice, tuttavia non fallo, E v'è opinion in tutte queſte coſe. Da queſti verſi Seſto Empirico inferiſce, che Senofane non to glica la comprenſione, ma ſolamente quella che dalla ſcienza de riva; nel dire in tutte queſte coſe d'è opinione accenna il proba bile, e l'opinabile, onde conclude che Senofane deve porſi tra coloro, che negano darſi criterio della verità, e non tra gli ac cattalecici, che negavano alcuna coſa poterſi da noi compren dere. L'autorità di Selto Empirico è d'un gran peſo, ove ſi tratta di determinare i gradi della cognizione, ma non è da ſprezzar fi ciò che dice CICERONE: Senofane e Parmenide quan tunque con non buoni verſi però con certi verſi accufano quaſi irati d'ignoranza coloro, che ofano dir di ſaper qualche coſa allo ra che nulla fanno. Chi dice nulla eſclude ogni ſcienza, ed ogni opinione. Senofane ſi diſtinſe per la Logica, (c ) e ſecondo la Cro nologia di Euſebio, egli fu udito da Protagora, e da Nef ſa; Metrodoro udi Nefra; Diogene Metrodoro; Anaſarco Diogene, e coſtui Pirro d' Elea, dal qual ebbero nome i Filo ſofi Scercici fino a Gorgia, il qual diceva: Non v'è nulla;,fe anche vi foſe qualche coſa, non ſi potrebbe comprendere, e ſe compren dere, non mai ſpiegare con le parole. Come inoltrarſi dopo tale raf finamento di dubbj? Tra i diſcepoli però di Senofane il più illuſtre fu Parmeni de deſcritto da Platone nel Teeteto qual vecchio grave, e vene rabile e di una profondità al tutto generoſa, il che vuol dire, ſe mal non m'appoogo, che egli nella diſputa non era oſtinato, ſu perbo, rozzo ed agreſte, come Ariſtotele (e ) dipinge Senofane è Meliſſo. Socrate in quel Dialogo, ed in altri s'aſtiene quanto pud (a) Xenoph. ap. Seſt. Emp, adv. Matem. (6 ) QUEST. ACAD.; Eufeb.1.6. C. 19. (d ) Id. l. 12, c. 7. (c ) Metaf. lib.... (25 ) può di ragionare contro le ſentenze di Parmenide per la rive renza che ad eſſo portava. Euſebio caratterizza la dottrina di Parmenide, qual via contraria a quella di Senofane. Ermia però, dice Parmenide in bei verſi, c'inſegna che queſto Univerſo è eterno, immobile, e ſempre ſimile a ſe ſtero. Lo ſteſſo Euſebio credeva, che ſecondo Parmeni de l'univerſo foſſe ſempiterno, ed immobile. Stobeo riferiſce, che Senofane, Parmenide, e Meliſſo colſero affatto la generazio ne, e la corruzione. In che dunque diſconvenia Parmenide da Se nofane, (6 ) Ariſtotele chiaramente lo ſpiega nell' accennar la dif ferenza che v'era tra Parmenide e Meliſſo, dicendo: volea Par menide, che tutto foſe uno ſecondo la ragione, e Meliſo ſecondo la materia, e da queſti due differiva Senofane, che chiaramente non dif ſe nè l'uno, nè l'altro. Eſer uno ſecondo la materia, è il medeſimo che ritrovar nell eſſenza della materia la ragion ſufficiente dell'unità della ſteſſa. Ed in fatti una è la materia, fe in tutte le parti e nel tutco e nella medeſima fpecie è omogenea, qual CICERONE la deſcrit ſe nel compendio della filoſofia, e l'ammiſero Platone, ed Ariſto tele. CICERONE rammemora ancora la forza, utrumque in utroque, ma conſiderando forſe Meliſſo, che gli effetti della forza, o ſieno le forme, ed i modi aggiunti ſucceſſivamente alla materia, non mai erano continuamente cangiando, gli eſcluſe dall'eſſenza, e in con ſeguenza dall'unità della materia; ma ſe una era eſſenzialmente la materia, uno era il mondo o l'univerſo, che da eſſa riſultava e ſe uno in ſe ſteſſo indiviſibile, eterno, ed immutabile. Malgrado dunque le continue aggregazioni delle parti ne' loro tutti, e le continue diſſoluzioni de'tutti nelle lor parti, malgrado le altera zioni, le generazioni, e le corruzioni, contemplando Meliſo l' univerſo nella parte effenziale lo credeva uno, e immutabile in quella guiſa che è ilmare, non oſtante le continue agitazioni che foffre da innumerabili flutti. Se tal era la ſentenza di Meliſo, ella non è men empia ri ſpetto a noi, che ridicola preſo i Pagani, perchè la materia, fe condo lo ſteſſo CICERONE, non può aver coerenza, e in conſeguen Tomo II. d za (a ) Cap. 5. l. t. Præp. Evang. (6 ) Parmenides unum fecundum rationem attigiffe videtur, Meliſſus vero fecundum materiam, quare id et ille quidem finitum, hic ve ro infinitum ait effe, Xenophanes autem quando prior iſtis unum poſuerat (nam Parmenides hujus auditor fuiffe dicitur ) nihil tamen clarum dixit, et neutrius eorum naturam attigiſſe videtur, ſed ad folum coelum refpiciens ille unum ait effe Deum. Metaf, Arift. l. 1. cap. 5. ediz, Parigi  1 1 1 4 > za unità, ſe non è ritenuta da qualche forza, e la continua ſuccef fione delle forme conſiderata affolutamente in ſe ſteſſa, non è me no eſſenziale al mondo, che alla materia. Ragionava dunque più ſottilmente Parmenide; dalla materia, e dalla forza, dalla ſoſtanza, e dall'accidente, avea coll'aſtra zione della mente dedotta l'idea dell'ente e dell'uno, e preten dea che l'uno nel ſuo concetto aſtrattiflimo preſcindeffe da tutte le forme, e le differenze dell'ente ſteſſo. Il P. Maſtrio quali tre mille anni dopo ebbe una fimile idea, poichè egli vuole che l'en te in quanto tale preſcinda dal finito, e dall'infinito, da Dio, e dalle creature e la ſentenza è ſeguita da tutti gli Scotiſti. Qualunque ella fiali, certo è che come quella di Parmenide curta opera della ragione più raffinata, e che ben diſſe Arifto tele, che l'uno di Parmenide di VELIA era tutto ſecondo la ragione, non che la ſentenza di Meliſſo ancor non lo foffe, ma egli nel fondarla tutta ſulla materia croppo s'accomodava ai pregiudizi del ſenſo. Da Parmenide, e da Meliſſo ſi diſtaccava Senofane, il quale ef ſendo il primo a ragionare dell'immobilità dell'ente e dell'uno, s'at tenne alla concluſione ſenza ſpiegar il metodo con cui la deduſſe. Ariſtotele (a ) che avea diviſe le loro fentenze nella metafiſi ca, par che nella fiſica le confonda dove diffe', che altri di lo ro tolfero la generazione', e la generazione, e la corruzione, i quali come ben dicano in altre coſe non ſi deve perd penſare che parlino da Fifici, poichè l'efervi alcuni enti immobili è più inſpezione di una ſcienza ſuperiore, che della Fiſica. Non condanna dunque PARMENIDE DI VELIA, e MELISSO DI VELIA, perchè aveſſero tratcato dell'unità, ed immo bilità dell'ente, ma perchè ne aveano fatto un punto di Fiſica, dalla quale egli eſclule il trattato delle coſe eterne, e immuta bili, onde credendo che il mondo, e il Cielo lo foffero, parte ne trattò nella ſteſſa metafiſica, e parte ne' libri del Cielo; na chi può credere che Parmenide non diſtingueffe queſte due ſcien ze, avendo aſſegnati due principi delle generazioni, il foco, e la terra? e determinato che un foco ſottiliſſimo, o lia l'etere cingeſſe gli altri, e che movendoſi in vortice raffrenaffe colla ſua rotazione ſe ſteſſo, e le coſe contenute, ciò che è il principio de' più moderni FILOSOFI (6 ) Egli componeva il mondo di molte ghirlande tra loro teſſüste, una rara, e l'altra' denfa; fra le ghirlan de ne poneva dell'altre meſcolate di tenebre, e di luce, e volea che la coſa la qual a guiſa di muro le circondava forje foda, e maliccia. Queſte ghirlande, e corone erano i vortici di Empedocle, dei qua li egli dice parlando de caſtighi de'genj. Quelli (a ) Ariſt. Fiſic. lib. 1, (b ) Plut, lib. 2. cap. 7. (17 ) (* ) Quelli nel mar ſollicitante forza Dell' etere rifpinge, e fola ſpucali Ne’ſotterranei abimi, e nella lampada Dell'almo Sole dalla terra cacciali, E il Sole infaticabile tramandali Ne' wortici dell'etere. Accoppiando il paffo di Parmenide con quel di Empedocle, par che tutti due deſſero vortici alle Stelle, raffigurando Parinenide nella luce le fiffe, e nelle tenebre i Pianeti; chi sa, che queſta coſa maf ſiccia non foſſe il moto del vortice tutto luminoſo, perchè tutto etereo, il quale impediffe con la ſua forza di rotazione lo sfaſcia mento del mondo viſibile? il moto della Luna, dice Plutarco, (a ) ol'impero con cui gira, l'impediſce di cadere in quella guiſa, che la fionda torta in giro dalbraccio impediſce la caduta del faffo. Vuol Favorino, che Parmenide primo ſcopriſſe, che la ſteſſa Stella pre cede il Sole la mattina, e lo fiegue la fera, o che il Veſpero è lo ſteſſo che il Fosforo. PLINIO ne attribuiſce la ſcoperta a Piccago ra, il quale veriſimilmente la portò d'Egitto, col ſiſtema cele fte; ma forſe Parmenide, nella Teoria di queſta ftella, più che gli altri Pittagorici ſi diſtinſe, come Filolao nel moto della ter ra. Filolao la facea gira r in cerchio intorno alSole, ed Ecfan to volea, che movendoſinon partiſſe dal proprio luogo, ma fer mata a guiſa di ruota, ſopra l'aſſe proprio intorno quello giraffe da Occidente in Oriente; non (6 ) aderiva Parmenide, nè a Filo lao, nè ad Ecfanto, ma conſiderando la terra d'ogni intorno egualmente lontana dalCielo, la ponea in equilibrio, e voleva che ſenza eſſer fpinta da alcuna forza a queſto, o quell'altro verſo, ella fi ſquaſfaſe bensì, ma non ſi moveſſe. Parmenide feparò il primo le parti abitate della terra fuor de' cerchj fol ftiziali, indizio manifeſto, che egli avea proficcato delle teorie di Anaſimandro, di cui ſi ſuol far ignorante Senofane. Tal era: il ſiſtema aſtronomico di Parmenide: nel fiſico egli divinizzò la guerra, la difcordia, l'amore, e diffe: Di tutti gli altri Dei cauſa è l'amore. * Αιθέριον μεν γαρ σφεμένος πόντον δε διώκει, Πόντος δέσχθονος έδας απέπτυσε, γαία δ' εσαύθις Η'ελία ακαμαντος, ο δ αιθέρος εμβαλε δίνεις. Α'λος δ' εξ άλα δέχεται και συγένεσι δε πάντες. Plut. de Ifide, et Ofiride. (a ) De facie Lunæ. 16 ) Plut,deplac. Phil. lib. 3. d 2 Cosi (28 ) 1 Così gli attribuiſce Simplizio, ed Ariſtofane colle da Par menide l'amore che ordina, e fabbrica le coſe nella commedia degli uccelli, gli altri Dei non erano, che gli elementi già di vinizzati da Parmenide. (a ) Empedocle l' emulò, benchè egli quattro elementi poneſse, e due Parmenide, il foco, e la ter ra, principali architetti delle corruzioni, e delle generazioni, e che rarefatti, o condenſati, ſi cangiano in aria, ed in acqua. I principj, ſecondo Ariſtotele, devono eſser tra loro contrari, e nulla v'è di più contrario, che il caldo, e il freddo, a quali corriſpondono il raro, ee ilil denſo denſo,, ilil moto moto,, e la quiete. Tutto queſto ſiſtema fiſico di Parmenide eſpreſse Platone nel Sofiſta. Le mu je Jadi, ele Siciliane, dice, a queſte poſterioriſtimaronocoſa più ſicura d'annodare le coſe inſieme, in modo che l'ente ſia molte coſe ed uno, e ſi tenga colla diſcordia, e colla concordia, perchè diſcordando (6 ) fem pre s'accoſta egli come dicono le più forti muſe, ma le più molli non hanno voluto, che ciò ſe ne ſia ſempre così, ma privatamente alcuna volta dicono che l'Univerſo ſia uno, ed amica per Venere, altra volta molte, e con sè per ſeco diſcordanſi con certa conteſa. S'io non m'in ganno, qui s'allude all'amicizia, e alla diſcordia, o all’amore, e alla lite, che Parmenide poſe come principj efficienti delle genera zioni, e corruzioni; molti Poeti ſtaccando ciò dalle Poeſie di Par menide, e di Empedocle, non ifpiegarono con la lite, e con l'ami cizia, ſe non alcunifenomeni particolari, come chi dalſiſtemadel Newtono, il quale poſe per principio univerſale l’ attrazione; al tri ſolo la prendeſse per iſpiegare i fenomeni del magnetiſmo, e poi per iſpiegare l'eletricità, la gravità ec. fi valeſse d'altro prin cipio. Non può dirſi dunque, che Parmenide non foſse eccellente Fi fico, ſe egli allora penſava a ciò che il Newtono pensò tanti ſeco li dopo; ſcriſſe in verſi il trattato della Natura, come Lucre zio, ma il Poema s'è perduto, e non ce ne reſta che il principio conſervatoci da Seſto Empirico. (c ) Mi portano i deſtrier, e quant'io voglio Traſcorrono; che già m'aveano tratto Nella celebre via del Genio; via Di cui m'aveano ammaeſtrato appieno Gľ (a ) CICERONE. 6 ) Nel Gítema Newtoniano in tanto una parte di erta fugge da un' altra parte, in quanto ella è attratta con più forza da un altro corpo; quindi dall'attrazione ſi deduce l'a repulfione. () I verli ſono in Seſto Empirico contra Logicos. (29 ) 1 Gl'infigni coridori, e dalla fama. Correndo il cocchio ſquaſsano, cui Duce Le fanciulle precedono, ma l'aſſe Splende ſtridendo nell'eſtrema parce De' raggi tra due fiſso orbi torniti. Allorchè s'affrettaro le fanciulle Eliadi, e della notte abbandonando Le café tenebroſe oltrepaſsarle, Nella via della luce al fine entraro; Da i ſpiragli rimoſsero le vele Con man robuſta dove ſon le porte Delle vie della notte, e della luce; L'une e l'altre circonda un arco immenſo, E il pavimento tutto n'è di marmo; Agiliffime corronvi, e s'appreſsano Colà dove tenea Dice le chiavi, L'ultrice Dea, che premj, e pene imparte. Con parole molcendola ottennero Le fanciulle, che all'uſcio ella fmoveſse L'interna leva. L'adattata chiave Spalancando le porte per immenſo Foro i chioſtri ſcoperfe, mentre l'affe Si rivolgeva, e l'orbita del cocchio, Facilmente reggean l'alme fanciulle, A cui ben pronti il cocchio, ed i cavalli Ubbidiro. La Dea liera m’accolfe, E per la deſtra preſomi usd meco Tali parole. Dio ti ſalvi, o figlio Dilecto figlio, che alla noſtra Řeggia Guidarono que' nobili deſtrieri Che hanno in forte di reggere il divino Cocchio, nè rea fortuna ti conduſse In tal via. Non è trita a paſſi umani Ma audacemente di pregare è d'uopo I Numi, onde ti laſcino le leggi Inveſtigar della natura, in grembo Di veritade, che a ubbidire è proſta, E de' mortali tu fuggir potrai Le opinion, di cui non vera fede, Ma tu rimovi il tuo penſier da queſta Via di ricerca, nè ti sforzi lunga Eſperienza delle coſe gli occhi Figgere accenti o pur aperte orecchie Ai Ai dogmi che ragion non prova. Quello Che ti preſcrive eſperienza lunga La ſola mente dall'error corregge. Seſto Empirico, comentando queſti verſi oſſerva, che Parmeni de chiama gli appetiti dell'animo i cavalli, la ragione il genio, o demone, e gli occhi le fanciulle Eliadi; tutto il reſto è fancaf ma poetico, e, comeSenofane, egli penſava intorno alla ricer ca del vero; concludendo il giudizio appartener alla ragione, e non ai ſenſi, ſenza eccettuare i due delladifciplina, o l'udi to, e la viſta; dogma che fu poi quello dell'accademia, come a lungo Cicerone lo prova. I verſi fe hanno per oggetto cofe fublimi, e leggiadramente accoppino l' allegoria all' imitazione, e all' armonia, foddisfanno in un tempo ſtesſo, al fenſo, alla fantaſia, e all'incellecco, ono de queſte potenze coſpirando inſieme a ben rappreſentarci le co fe cantase, a preſtano ſcambievolmente le loro cognizioni, affin chè troppo sfumando nelle aſtrazioni, non ſvaniſca l'idea, e le ſenſazioni, e i fantasmi non l'offuſchino, ma ſervino alla mente di ſpecchio per ben contemplarla. La grande arte è, che lo ſpec chio non abbia troppo d'aſprezze, le quali non diſpergano ſover chiamente, ed affortiglino il raggio, che turbaco non ci laſci diſcernere, dove è l'oggetto. Alla proſa dunque, ma proſa poe tica ricorre Platone volendo appagare tutte le potenze della anima. Ed eccoci finalmente a Platone, dopo d' aver eſaminato come Pittagora dall'eternità, divinità, animazione del mondo racco glieſe l'idee; le divideſfero in certe claſſi generali i Pittagorici le diſtaccaſſero dal tutto, e ne faceſſero degli enti a parte; come Senofane, il primo ricavaſſe la concluſione dell'ente uno ed im-. mobile, come Parmenide contemplaſse ſecondo la ragione queſt' idea, e nelle coſe fiſiche s'uniformaffe a Senofane, diſtinguendo ľ opinabile dal vero. Tutta queſta fabbrica era fondata ſu la maniera di penſar di Pictagora, maniera falla, e pienamente diſtrutta da Padri, che molto al di là del IV. fecolo non combatterono collo fteffo Pit tagora, ma con Platone, di cui ſi debbe adeſſo rintracciare qua li influenze aveſſero nel Dialogo la dottrina dell'idee, dell'uno immobile, e dello ſcetticismo, perchè egli vi parla, e dell'idee, e dell'uno, e tutto proponendo per iporeli nulla conclude. Prima però di ſviluppar queſte cofe l'ordine della doctrina ricerca, che favelliamo dello ſtile Platonico in generale. Profonda e delicata cognizione della lingua Greca ſi ricerca per (31 ) e per ben intendere la bellezza, la forza, e l'armonia dello ſti le poetico di Płacone; lFraguier, che in tutto il cor ſo della ſua vita, l'avea con un ſpirito molto colto nella POESIA LATINA, ed in ogni altro genere di belle lettere ſtu diato, ben eſaminando il ſuo ſtile, ritrovava che Platone avea trasfuſo ne' Dialoghi l' Epico, il Lirico, ed il Dramatico. Com parava egli la profopopea, colla quale Dio nel Timeo ra giona agli Dei inferiori 'all' ode più ſublime di Pindaro travedeva nelle narrazioni dello ſteíſo Timeo, e in alcune del la Repubblica, la magnificenza Epica dell'Iliade. Nel paſſo cita so di ' Ateneo ', Gorgia mal ſoddisfatto di quel Dialogo intito lato col ſuo nome, ci dice, che un giovane, e Lepido Archilo co regnava in Atene; allude egli a Platone, che irritato con tro i Sofifti, non riſparmid le accucezze, ed i ſali contro di lo ro, ma i ſali di Platone non erano aſpri, ed ulcerofi, come quelli di Archiloco, e di Ariſtofane, ma eſtratti dallo ſteſſo mare, in cui nacque Venere. Così Plutarco dice di Menandro, e con non men di ragione io poſſo dirlo di Platone, che tut to comicamente condiſce con le grazie, e con le luſinghe della Poeſia di Omero, ed ingentiliſce in guiſa le accuſe de Sofiſti, che non mai gli affronta con quell' ingiurie, colle quali il Re de'Re alla preſenza dell'eſercito rinfaccia Achille. L' ironia di Socrate a ' è la chiave, ed ella è così ben maneggiata, che da alcuni ſi crede nel Menedemo (a) lodarſi le orazioni funebri, e pure vi ſi condannano. L'allegoria è perpetua in tutti i Dialoghi; allegorici ſono i nu meri armonici, di cui teſſuta è l'anima del mondo; allegoriche le Sirene degli orbi celeſti; allegorico il carro dell'anima, l'ali e il coc chiere; allegorici gli Androgini, la naſcita dell' amore, la gradazionedegli animali di Prometeo, e di Epimeteo, la guerra de gli Atenieſi contro i popoli del mar Atlantico, e quanto diſſe dell'Iſola Atlantica, e ſulle leggi, esu i coſtumidegli abitanti; tutto vi è finto per preparar l'idea della Repubblica, il cui modello cerca Platone nella fabbrica ſteſſa del mondo, ed ordiſce così la men zogna poetica, che molti s'affaticarono di ſpiegare ſtoricamente l'Iſola Atlantide, come il Ciro di Senofonte. Più s'occulta Pla tone in certe allegorie incluſe nelle frafi poetiche, per le qua li ſimboleggia molte coſe, e politiche, e morali, e metafiſiche, diſegnando l'ulcime con coſe colte, o dalla muſica, o dall'altro nomia, o dalla geometria; tre ſcienze (6 ) nelle quali era fo mamente dorto al ſuo tempo. Certo è, che ſe giuſtamente non retro s'ap (a ) CERONE,  Acad. (6 ) Ab, Fleurì nella lode di Platone. s'apprezzano le fraſi poetiche riducendole al ſenſo filoſofico, li corre riſchio di non intender mai, nè le parti, nè il tucco di un certo Dialogo, e ne vedremo nel Parmenide ſteſso gli eſempj. Ebbe dunque Platone comune la poeſia con Parmenide, ma molto egli l'accrebbe col Dialogo, modo più naturale per iftrui re, più comodo per illuminare, adoprato da Socrate, da Seno fonte, da Stilfone, daEuclide, da Glaucone, e al dire d'Ariſto tele da un certo Aleffamene inventato. S'imitano col Dialogo i ragionamenti degli Uomini, come ne? drami s'imitano le azioni. Platone che voleva emular in tutto la poeſia di Omero, ſi sforzo d'imitar le diſpute de Filoſofi, in quella guiſa che Omero avea imitate le azionidegli Eroi. Ciò che al Drama è la favola e l'epiſodio, è la queſtione al Dialogo, e la digreffione, e' nell'una, e nell'altra riuſcì egregiamente Plato ne. Non v'è Tragedia antica, che meglio eſprima il principio, la percurbazione, il ſcioglimento dell'azione, di quel che Platone proponga, diſcuta, termini la queſtione, in cui ſebben nulla concluda, però gli bafta d'aver conſumate le ragioni dall' una, e dall'altra parte. Nelle digreffioni comincia per lenti gradi ad allontanarſi dalla queſtione, poi ſpazia o nella Geometria nella muſica, od in altra ſcienza a fuo talento, e ſenza che il lettore fe ne accorga, il riconduce alla prima propoſizione non per ſalti, ma per gradi. Anche in cid imitd Omero, che al dir del Gravina (a ) traſcorre tallora alſoverchio, tallora moſtra ď abbandonare, ma poi per altra ſtrada ſoccorre. Platone non imita meno Omero nel carattere degl'interlocu tori, e delle ſentenze; io ravviſo in Alcibiade un non so che del carattere di Paride, l'uno e l'altro è milapcatore, fuperbo, e laſcivo; il carattere di Neftore è trasfuſo in quella parte del carattere di Socrate, ove queſto conſiglia, ma Neſtore auto rizza i ſuoi diſcorſi con l'eſperienze acquiſtare nell'uſo della vita, e Socrate con l'impreſſioni del genio che il dominava. I caratteri de' Sofiſti ſono preli da quei dei Trojani, che ſenza ordine, e ſen za diſcipliita s'avanzano come le Gru ſchiamazzando, e poi reſta no ſconfitti da' Greci, il cui coraggio e valore era ſoſtenuto dalla ſapienza, e dal consiglio, e fino da Minerva. Molti. pretendono che Platone ſpieghi la ſua ſentenza nel far ragionare Socrate, Timeo, Parmenide, l'Oſpite Arepieſe, e l' Eleatico, due perſone anonime, e che gli faccia dire a Gorgia, a Traſimaco a Claride., a. Protagora, et Eucidemo, ciò che non approva e vuol rifiutare, ma coſtoro non avvertono, che nel Ragion Poetica. nel far Platone ſiſtematico lo fanno peſlimo Dialogiſta, e talor peffi moFiloſofo, perchè egli concraddice a ſe ſteſſo in diverſiDialoghi, o almeno le coſe vi ſono così ſconneſſe, che non ſi può raccoglierle, non più che le membra di Penteo (a ) diſunite e sbranate. Tratto di cutte le parti della Filoſofia, or Logica, or Fiſica, or Metafiſica, accennomolte ſcoperte de' ſuoi tempiintorno alla mufica, all'aſtro nomia, all'ottica, ma imitando poi la ſetta Eleatica ne'dubbj, e nell'opinioni, tutto propoſe ſenza nulla concludere. CICERONE lo conſidera come il primo degli Accademici, o quel che diede ad Arceſilao, ed indi a Carneade il metodo di dubitare. Seſto Empirico ſenza altro lo pone tra' Pirronici nelle materie an cora più gravi, come in quelle dell'anima,del mondo, di Dio; nè a ciò CICERONE è contrario. Conveniamo dunque che Platone, co me nello ſtile poetico convenne colla ſcola Eleacica, così vi conven ne nel metodo di opinare,che egli col Dialogo reſe più problematico. Confideriamolo adeſſo nelle fentenze, e principalmente in quelle che riguardano l'idee ſulla Divinità, e ſulla materia. S'è già dimoſtrato, che i Pitcagorici riducevano tutto all'idee, ed ai numeri. Platone ſcielſe, e perfezionò ilmetodo dell'idee, econ duffe lo ſpirito alla cognizione del bene per l'idea del bene, della bellezza per l'idea della bellezza, e cosìfece del valore, della tem peranza, della ſcienza, e dell'altre virtù morali ed intellettuali, com ponendo tra loro l'idee n'eſtraffe l'idea della Repubblica, o l'idea del giuſto conſiderato nell'amminiſtrazione d'una Repubblicazimmagine di quella amminiſtrazione, che delle potenze dell'anima fa la ragione. Credevå egli, che ſpiegar le coſe particolari per le univerſali, fof ſe il metodo chela natura leguiva, allorchè procede dalle cagioniagli effecti. Parve ad Ariftotele, che foſſe più facile, e più ſendibile nelle inſegnar le ſcienze, ſeguir l'ordine dello ſpirito, chealla cagionevi per l'effetto. Non ſono più oppofti queſtimetoditra loro, che la ſin teſi, e l'analių, di cui l'una comincia dalle coſe generali, per difcen dere alle particolari, e l'altra dalle particolari, peraſcendere alle ge nerali; l'uno e l'altro Filoſofo nell'inveſtigar l'idee delle coſe, adoprò il metodo ſteſſo di comparare i ſingolari,e di farnele aſtrazioni oppor. rune, e lo dimoſtrerd a lungo pel ragionamento dell'idee Placoniche. CICERONE riduce l'idea alla terza parte della Filoſofia, che ver ſa nel difputare. Così l'idea trattavasi dagli antichi, che ſebbene ac cordavano ella naſcer de ſenſi, però volevano che il giudizio nonfoſe ne fenſi, ma che la mente fore giudice delle coſe, ſtimandola ſola atta a di ſcopriril vero, perchèfola diſcopriva cid cheera ſemplice, della ſteſanas tura, o tal qual era, e queſto lo chiamavano idea già così nominata da Platone, e noi poſiamo (conclude egli ) rettamente chiamarla la lpecie. Non erano perciò l'idee Platoniche, a ben comprenderle, che le fpe cie, eigeneri che noi facciamo, comparando ed altraendo, eche, Tom. II. (a ) Eufeb.Prop.Evang. (6 ) De Natura Deorum. (c ) Lib.1.Accad. 2 e come (34 ) 1 come ſi diffe, cappreſentavano i Pittagorici per l'unità, poichè la mente tutto va unificando per ſua natura. Una ſpiegazione sì facile, e breve dell'idee Platoniche, perfectamente s'accorda co' principi d'Ariſtotele. Egli tratta nella Merafilica l'idee Platoniche da metafc re poetiche, e queſto nome gli avrebbe pur dato Platone, se avelle dogmaticamente ſcritto come Ariſtotele', ma nel Dialogo ſpecie di Poelia Dramatica egli eguagliò la compoſizioneallo ſtile. Morco Platone, ed offeſo Ariſtocele di vederſi poſpoſto a Pfeufipo „ a lui tanto inferiore in ingegno, e in dotcrina vi oppoſe un'altra ſcuola di cui ſi fece capo, e per accreditarla cominciò a combattere le fentenze del ſuo antagoniſta, attaccandoſi alla parte più difficile, e più equivoca o alla quiſtionedell'idee, alle quali Preuſipo imitando.forſe il metodo di Platone dovea dar troppo di realità. Ariſtotele ſcriſe dunque contro l'idee ſeparate, ma Platone avendo già nel Par menide conſumato quanto potea dirli contro di loro, Ariftotele ne copiò gli argomenti dipeſo, ed al ſuo ſolito con brevica ed oſcurità di ſtile, fingendo di combatter Placone critico Preuſipo, ed i ſuoi di i fcepoli. Dital congettura è mallevadore il Patrizio nelle ſue diſcuſ fioni peripatetiche. S'elle ſon vere, non che verifimili, verifimile è pure che fin d'allora ſi ſpargeſſero i ſemi che prima Ammonio Sacca, ed indiPlotino, Porfirio coltivarono, e Jamblico, e Procloridul fero in regolato fiftema. S.Giuſtino, che avea più ſtudiatii Platoni ici, che Platone era perfuafo, che l'idee foſſero ſoſtanzeſeparate, collocate con Dio nella sfera più alta. S. Cirillo rifiuţa Giuliano A poſtaca, che credeva il Sole, la Luna, egli altrieller l'idee viſibili e comporre gli Dei. 11 P. Balto riferiſce a lungo ipaſſi di S. Ireneo, di S. Bafilio e d'altri, i quali impugnarono l'idee ſeparate, che introdu cendo il politeismo rovinavano ne'ſuoiprincipj la Religione Criſtia pa. Soſpetta il P. Balto, che Eufebio difendere l'idee Platoniche persè ſuffiftenţia pro dell'Arianismo da lui profeſfaco. Negli ultimi tempi il Clerico ne rinovd la ſentenza, e molto più l'anonimo Soci niano nel tuo Platonismo ſvelato, ove ſi confondono con l'idee di Platone, gli Eoni rami de'Seffirotii cabaliſtici adottati da' Valencia niani e da' Baſiliani, e de'quali nella concinuazione dell'iſtoria degli Ebrei parla a lungo il Basnage, I comentatori di Platone abbagliatidatante autorità, nè avendo forza di critica fufficiente per reliltervi, s'abbandonarono ai fantasmi di Proclo, e di Jamblico, anziche abbadarea'ceſti di Platone, ne s ' avviſarono di ben pelare le dottrine del Parmenide contro l'idee ſeparate aggiunte da Ariſtotele alla metafiſica. S. A goſtino è il primo de' Padri Latini, che non fepara l'idee Pla toniche da Dio; dando a Dio la creazione del mondo non poteva egli non concepire nell' intelletto divino la ragione dell'ordine del le coſe create, e queſte appunto ſono l' idee su le quali poi San Tommaſo ſeguito da' Teologi, ne fece molti articoli, of. feryando che l'idee divine ſono univerſali, onon rappreſentano a Dio (35 ) 2 € Dio ſolo le ſpecie, ma ancora gl'individui, col rappreſentargli le coſe non quali noi per la limitazione della noſtra mente le veggiamo, ma quali ſono in fé ſteſſe. Il Padre Balco riprende a dritto su queſto punto il Dacier, che per difender malamen te Platone, cade non volendo in un errore. Ma fe Platone preſe da’ Pitragorici l' idee nel ſenſo, che le propoſero Pitcagora, ed Archira, pare che egli ancora come queſti ſentiſſe intorno la Divinità. S'è già dimoſtraco che dopo Pitcagora, Senofane e Parmenide conſideravano Dio non altrimenti, che l'anima del mondo. Lunga cofa, dice Ci cerone, (a ) ſarebbe a dire dell'incoſtanza di Platone intorno a Dio; nel Timeo nega, che porta nominarſi il Padre del mondo; nel libro delle leggi, ſtima non doverfa ricercar affatto coſa ſia Dio. Lo stesſo nel Timeo, e nelle leggi, dice eſſer Dio, il mondo, e gli altri e la terra, e gli animi, e gli altri Dei, che abbiamo ricevuti dagl' iftitu ti de' Maggiori. Il Padre Arduino raccolſe tutti i paffi, ove Pla tone parla degli Dei nel ſenſo ſtero. Dio nel Timeo ſi chiama bensì il Padre, e l'artefice del mondo, ma non mai il Signore, il Sovrano; ſi chiamava il mondo un Dio generato, il quale ba una perfetta ſomiglianza con Dio; figliuolo, e figliuolo unico di Dio; un Dio completo, un Dio generato da un altro Dio, un Dio felice, im magine del Diointelligibile, perfetta copia d un originale perfetto Dio ottimo malimo, qual appunto i Romani doceano diGiove, per cui folo intendevano il deſtino inviſibile delle coſe. Molci alcri paſſi ſpiega l' Arduino, e da cutii ſi raccoglie, che Placone non co noſceva Dio, che come principio intelligente, qual lo conobbe Pittagora, Senofane, PARMENIDE DI VELIA, e cant alori, a' quali può ben applicarſi il pallo di S. Paolo, in un ſenſo filoſofico, che cono ſcendo Dio, non come Dio l'onorarono (non ſeparandolo affacco dal la materia, o, ponendolo ad eſsa coeterno. ) Pitcagora avea generato il mondo, e lo generarono i Fenici, Orfeo, ed Eliodo. A queſt'idea poetica, Platone aggiunſe le Fi loſofiche accennate da Timeo di Locri nel fuo ragionamento della natura, e dell'anima del mondo, e ne compofe il Timeo, nel qual volea nell'ordine oſſervato dalla ſapienza nella fabbrica del mon do, dar un modello di quella Repubblica, che poſcia propoſe nel Dialogo del Giuſto. Ariſtocele pur comparava la coſtituzione del mondo ad una Repubblica, in queſta v'è il Principe, che comanda ai Magiſtrati militari, e civili, e nel mondo v'è Dio, che col miniſtero degli Dei inferiori, compie, conſerva, ed ordina cuc te le coſe. S'è © e di lo Lei li i e lo i e (a ) D: Natura Deorum lib.  s'è gia dimoſtrato, che i Platonici recenti nel divider in due punti, o ſegni, l'eternità, neaſſegnavano il primo ſegno a Dio, in quanto a Dio, ed il ſecondo a Dio creatore della materia la difficoltà è di ritrovare in Platone qualche coſa che s'av vicini a queſta dottrina. Teofilo (a ) non ve la ritrovd altri menti dicendo, che Platone coi ſuoi ſeguaci poneva Dio, e la materia ingenita; con che non venia a porre Dio, nè uno; nè ſolo. lo qui ſtenderò un lungo paſſo di Plutarco, perché fe 'ne giudichi. Il mondo, dice egli,è bensì ſtato fabbricato da Dio, perchè fra tutte le coſe è bellißimo il mondo e Dio fra le cagioni l'ottimo, ma la ſoſtanza, e la materia, della quale è ſtato formato, non eſſer mai nata, ma ſempre averſi trovata ſottopoſta ab Maeſtro, ed ubbidiente a ricever quell'ordine, e quella diſpoſizione, che fore in quanto ella potelle comportare a lui fimigliante, percbè il mondo non fu creato dinulla, ma di ciò che era privo, di bellezza, di leggiadria, e di perfezione, ſiccome la caſa, la veſte, la ſtatua, perciocchè tutte le cose, primache naſceſe il mondo, foffero confuſe, e diſordinate, nondimeno le coſe confuſe non erano ſenza corpo, ſenza fora ma, ſenza regola, moſle da movimento a caſo, e ſenza ragione. Que sto altro non era; che la ſproporzione dell' anima, di ragione Spoglia ta, perciocchè Dio di coſa ſenza corpo non fece corpo, nè anima di coſa d'anima priva, nella maniera che noi vediamo, cbe il Maeſtro di muſica, e dell armonia, non fa egli la voce, bensì la voce acconcia, e il moto proporzionato; così parimenti Dio non fece il corpo trattabile, e ſodo, nè l'anima atta a moverſi, ed in gannarſi, ma preſo l' uno, e l'altro principio, quello oſcuro e pienodi tenebre, queſto confuſo e pazzo, amendue più rozzi, e più difformidel convenevole ordinandoli; e diſponendoli, e congiungendoli formd un animal beltiſſimo, e perfettiſſimo. Dunque la natura del corpo non è punto diverſa da quella natura, come dice Platone, che abbraccio il tutto, ed è fondamento e nutrice di tutte le coſe che naſcono; non dimeno la natura delp anima fu da Platone nel Filebo nominata infini to, il quale non riceve numero, nè proporzione, nè vi ſi trova miſu ra, o termine alcuno di mancamento, di ſoverchio, di ſimiglianza, o di differenza. Così parla Plutarco ed è facile il dedurne, che ſecondo Pla tone eterna era bensì la materia del mondo, ma nuova la for ma, (a ) Teophil. ad Autolicum 1.2. Plato cum ſuis aſſeclis Deum quidem confitetur ingenitum, patrem præterea et conditorem hominum, at que deinde fubjicit, live ſupponit Deo materiam quoque ingenitam, quæ fimul cum Deo prodiderit five extiterit; verum fi Deus cen ſetur ingenitus, et materia perhibetur ingenita, jam nec amplius Deus conditor et creator eſt hominum etiam fecundum Platonicos, nec quod unus et folus ſit ab his vere demonftratur. nè il moto, ma 1 1 (37 ) má, ed in queſto Platone differiva da Ariftotele, il quale, come s'accennd, fece ad un tempo eterne, e la materia, e la forma; Ariſtotele rimprovera perciò Platone, d' aver fuppofto, che la materia con cuiDio compoſe le coſe, foſſe in moto, e loda Anaf fagora, che la poſe in quiete. Vuole egli ignorare, che affatto poetico foſſe il Timeo; pure non è credibile,che egli non l'aveſſe udito dir più volte da Placone ſteſſo, che nel Dialogo finſe Socra te a favellar con Timeo di Locri contemporaneo forſe a Pittagora; parla dell' abboccamento che Solone ebbe coi Sacerdoti d'Egitto, iutta ſpaccia la favola dell'Iſola Atlantide., ſtempera in una taz za i numeri armonici dell'anima del mondo compoſta di cre ſo ftanze, ne ſparge le reliquie su le ſuperficie de glòbi', conſidera come coſa reale la mecemplicoſi, che Timem (a ) nel ſuo ragiona. mento introduce come coſa politica. In ſomma ben eſaminan do tutte le frafi Platoniche e tutto il conteſto della dottrina Filoſofica poeticamente maſcherata, io ſon perſuaſo, che in Platone, comene Pictagorici, Dio vi s'introduca qual animadel mondo, o la ſteſſa mente, e ſapienza perfecta ſparſa per tutto; allora perciò che dice CICERONE nella natura degli Dei, e quan do Platone fa Dio incorporeo (b ) egli confonde Dio con la mate+ ria, la quale era incorporea, come ſi diffe, prima che da Dio ſe ne eſtraffero i corpi. Dall'alcra parte nell'ipateli, che Dio gli abbia eſtratti, fece Dio concepirſi" al di fuori della materia, co me l'architetto al Palagio, e lo ſcultore alla ſtatua. In vano dun que dall' opere di Platone, e degli altri Filoſofi antichi, i qua li ammifero la materia eterna, li cerca l'idea del Dio che ado. riamo; egli è uno ſpirito infinito, nella di cui natura inviſibile ſono riunite cutte le perfezioni immaginabili, e poflibili; onde gli ſcolaſtici lo chiamarono il cumulo delle perfezioni; e i Cartuliani l'ente infinitamente perfecto. Sino a què l' ammet cevano gli ſtefli Pagani, ma la definizione non balta, ſe ad el fa non s? aggiunge, che Dio ha tratto dal niente l' Univerſo, e che è diltinto realmente, e ſoſtanzialmente da tutto ciò che ha creato. Tale definizione come ortodoſſa propoſe l' Abbate d'Oliveta ’ Filoſofi (c ) dopo di aver eſpoſte tutte le loro fen tenze, tra le quali entra e Pittagora, é Senofane, e Parmeni de, e Platone Itello, Non (a. ) Nel fine. (6 ) Cicer. Natur. Deor. (c ) Nel fine del Tomo 3. della traduzione della Natura degli Dei;. Par ce mot. Dieu, je veux dire un eſprit infini, dont la nature eſt indiviſible et incomunicable; dans lequel font réunies toutes les perfections imaginables et poſsibles, ſans aucun mélange d' imperfe etion; qui'a tiré du ndant l'univers, et qui eſt diſtinct réellement et ſubſtantiellement de tout ce qu'il a créé. 0 1 (38 ) o dell' Non è tuttavia, che debbano ſpregiarſi le dottrine di Placone, e rigettarle come inutili; conobbe egli Dio ſotto un'idea con fuſa, come lo conobbe Ariſtotele, e in quella guiſa che S. Tom maſo da Ariſtotele tralle molti principi, e combinandoli coi rivelati propoſe molte concluſioni Teologiche, così può farſi di Platone; S. Tommaſo dall' uno, e dall'altro traſfe l'eſiſtenza di Dio, impiegando i mori, le cagioni, l'ordine del mondo, i gra di più o meno perfetti delle coſe, ma non potè trarla dall' en te contingente e neceſſario, che Platone non conoſceva, ponen do ecerna la materia, e chiamandola neceſſità. Dimoſtrar il primo ente qual principio intelligente, per l'adequaca idea di Dio, non baſta le da eſſo non ti rimovono tutte le compoſizio ni, dimoſtrando, come fa S. Tommaſo, che in lui non ve n'ha nè di forma, nè di materia, e che non può ridurſi ad alcun genere, Nel Parmenide però non v'è biſogno d'alcuno di queſti ar tificj; tutto vi fi' riduce all'idea metafiſica dellence uno. Convien dedurla da' ſuoi principj, od eſtrarla come fece Pittagora, e Peritione da tutti i compofti, ed eſaminarne le proprietà. Così AQUINO (si veda), ove tratta dell'unicà, e della bontà di Dio, prima ricerca, quanto la ragione, gli può per mettere, coſa ſia l' uno, e coſa ſia il buono, indi col princi pio rivelato cid combinando, dimoſtra la purità, e la bon tà di Dio. Io parimenti ricercherò con la ragione, fe si poſſa ben intendere l' uno del Parmenide, laſciando agli altri la fa rica di ſpiegarlo in un modo fublime, applicandovi le coſe Teologiche, delle quali non intendo d' attaccarne, o diftrug. gerne la minima. Io cratterò della dottrina del fine, indi del metodo del Dialogo. Gli antichi con ragione intitolarono queſto Dialogo, il Par menide o dell' idee, perchè Parmenide parla più degli altri, e tutti i ſuoi ragionamenti raggirano su l' idee, o per cercarle con le aſtrazioni della mente, o per diſtruggere le ſeparate, eſempli ficandone il caſo nell'idea dell' uno, la più ſemplice di tutte l'al tre, e a cutte l'altre comune. Supponevano i Pictagorici, che tutte le coſe imicaſſero, o par ticipaſſero l'idee, o le fpecie; provacontro loro Parmenide, che le cofe non poſſono eſſer partecipi delle fpecie, nè ſecondo il tutto, nè ſecondo unaparte, indi col principio di contraddizione, col progreſſo all'infinito, e coll' ideaſteſſa delle perfezioni divine; gli fteffi argomenti di cui ſono nel Parmenide i femi, fteſe Ariſto tele, ed è mirabile che i comentatori non abbiano penſato di con frontarlo nel ragionamento dell'idee con Placone, ciò che attri buiſco all'ipoceli da loro fiſsata, che in queſto Dialogo Parmenide, o Platone confermi e non diſtrugga. l' idee ſeparate. Annullate tali idee in modo cheSocrate ne reſta convinto, Pare menide per non laſciarlo nell' imbarazzo gli moſtra la neceſſità che ha il Filoſofo d'ammettere certi principj fiſſi ed immutabili e tanto più difficili a comprendere, quanto che non fi poffono de terminare, nè co' ſenſi, nè colla fantaſia. Parmenide' nell'etem plificare il caſo del metodo propone l'idea dell'uno, e la con ūdera relativamente a ſe ſteſſa, indi all'ente, al fine, al non en te. Così un matematico trattando per eſempio del triangolo, lo conſidererebbe prima in ſe ſteſſo, poi per rapporto all'altre figure rettilinee o piane, ed al fine alle non rettilinee, od alcerchio. Definiſce Zenone l'uno per oppoſizione a molti, e chiama uno ciò che non è molti. Ariſtotele, nella metafiſica molto ap prova queſta definizione, perché i molti ſono più noti al ſenſo che l' uno; prende Parmenide la definizione, e negando dellº uno tutto ciò che s'include in molti o li predica de' molti; negà ch' egli fia cutro, parte, principio, mezzo, fine, figura moto, quiete, lo ſteſſo, diverſo, ſimile, diſſimile, eguale, mag giore, minore; in oltre gli nega le differenze del tempo, pre lente, paſſato, futuro, l'eſſenza, la ſoſtanza, il nome, il ſen fo, la ſcienza, l'opinione. Parmenide prende ſempre l'uno nel ſuo concetto aſtrattiflimo, nè men volendo che l'uno â conſideri per rapporto a ſe ſteſſo, perchè nel riferir l'uno a sè li concepireb be come due o come molti. La ſeconda quiſtione è, ſe l'uno ſia che accada all' uno, ed all'altre coſe; qui l'uno fi ſuppone inſeparabile dall'ente, come rente dall' uno, onde tutto ciò che s' include o li predica dell', pud predicarſi dell' uno; quindi ſe nell' ente's include o dell'ente fi predica, la parte, il tutto, il finito, l'infinito, il principio, mezzo, il fine, la figura, il luogo, il moto, la quiete, il fimile, il diffimile, lo iteſto, il diverſo, l'eguale, il maggiore, il minore, il tempo paffato, preſente, e futuro, 1 eſſenza, o la ſoſtanza, la ſcienza, l'opinione, il ſenſo, tutte queſte coſe ſi predicheranno ancora dell'uno. Non ſi predicano però queſte coſe oppoſte dell' uno, e dell'ente. nel medelimo tempo, e ſecondo lo ſteſſo riſpetto, ma in varj te m pi o ſecondo diverſi riſpetti, e ciò fa che le contraddizioni non ſieno, che apparenti, o del genere di quei meraviglioſi, che de generano ſpiegandoſi in puerilità. Cosi penſa lo ſtelfo Platone nel Teeteto, maParmenide nel cercar qui ſe ſia l'uno, quali altre co fe ne fieguano, non cela all'uſo de Sofiſti, ma ſpiega come vero Filoſofo in termini ſemplici i miſteri, e queſta iola credo una nuova prova del liftema Parmenideo da me ſtabilito. In queſte due prime nozioni dell' uno non vi ſi framiſchiano le immaginarie', o poetiche; mabensì ve ne fono nella terza, ove fi rapportal'uno al non ente, o al nulla, di cui non s'ha nozionereale', ma ſolamente immaginaria come dell'impoffibile. V'è un affioma Logico, il qual diceche, dall' impoflibile ogni coſa ſe ne deduce, pera che in lui fi complicano i contraddicorj, anzi il criterio per co nofcerlo è per mezzo dei contradditorj, e poichè l'uno è inſe párabile dall'ente; fia lo ſteſſo dir il non uno, che il non en te, ma del non ente o dell'impoffibile fi dice che ha effenza, o che non l'ha, che è lo ſteſſo e diverſo, che è ſimile, e non fi mile, eguale, non eguale, cheſe genera e fi diſtrugge ec. Dun que le ſteſſe coſe che ſi predicheranno del non ente conveniran no ancora al non uno. Nell'attribuire il non uno all'altre coſe, fi trasformeranno queſte in fantasmi, o sogni d'eſtenſione, di mal fa, di moto e di quiete, ciò che rende il mondo più poetico del cabbaliftico. Platone o Parmenide maneggiano queſto argo mento con ſomma ſagacità, e delicatezza, e ben ſi vede quanto foſſe la loro Filoſofia profonda, e quanto utiliffima eller poſla, non cangiando il grado dell' aſtrazione, nè inneſtandovi opinioni affatto encufiaftiche, come fece FICINO. I celebri Pittori, attenti ad oſſervare in ogni luogo tutto ciò che loro ſomminiſtra idee nuove d'atteggiamenti, di ſcorcii, di lineamenti, difigure, ſe mai su i muri più affumicati ritro. yano quelle ſtriſcie fortuite impreſſevi dalla caligine, le vanno combinando con la loro immaginazione, e creano delle figure leggiadramente fimecrizzate, e canto ſi rifcaldano nel vagheggiar opera loro, che le additano agli altri, come fe ivi foffero,e ſi cruciano e fremono, e ingiuriano, quando queſti ſemplicemen te riſpondono di non ravvifare, che orme irregolari di fumo. I Filofofi, e particolarmente i comentatori hanno lo ſteſſo coſtu me, fiffi in un fiftema l'addatano a tutto ciò che incontrano nell' autore da loro accarezzato, e dove egli ancora parla nel modo più ſemplice, e naturale, e conveniente a'ſuoi principj, par loro di fargli torto, ſe non l'abiſfano nelle loro profonde ſpeculazioni, e lo dimoſtrano tanto più ammirabile, quanto nyono l'intendono, c quanto dagli altri è meno intefo. In tutti i Dialoghi s'è prefiſſo FICINO, di far di Placone (a ) un Teologo Criſtiano, ma non so come ritorni in queſto Dialogo al (a ) Prima ex quinque ſuperioribus de uno fupremoque Deo dixerint quomodo procreat diſponitque deorum ſequentium ordines. Secunda de fingulis Deorum ordinibus, quo pacto ab ipſo Deo proficiſcuntur ec. argum. Marſ. Ficini Parm. vel de uño rerum principio, et de 9 ideis. (41 ) al Paganeſimo, e vi traſporti tutte le idee fimboliche del Timeo, e del Fedro ſenza biſogno, e profitto; e che coſa ſon queſti Dei che ſeguono Dio nell'ordine loro, ed in qual parte del Parmeni de li ritrovo? Annullò il Serano gli Dei, e vi ſoſtituì due ſorti d'idee; Dio è la prima e principal idea, le ſeconde ſono le va. rie idee delle coſe create; ma ſe Parmenide non diſtingueva Dia dal mondo; coſe affatto poeriche non ſono le idee divine? Non bado il Serano, che Parmenide toglie all'ente ſino il tem po' preſente, e le toglie ancora l'eſſenza. Si, ma intende il Se rano l'eſſenza delle coſe ſingolari, e quando Parmenide dice, che l'uno è molte coſe, vuol dire, che egli dà la forza d'elfte re alle coſe ſingolari. Or come ſi può includere nell'idea dell' uno, in quanto tale la forza? E come poteva Parmenide inclu derla nell' uno, ſenza concepirvi l' eſſenza, e nell' accoppiare l' eliftenza alla forza, e non concepir l' uno come molti contro l? ipoteſi? La prima idea, dice il Serano, fi diffonde in maniera ſulle coſe create', alle quali Dio dà la forza, e facoltà d ' eſiſtere, che ad ogni modo circoſcrive ne' determinati cancelli dell' uno, la feffa moltiplici, tà, e quaſi infinità delle coſe ſingolari. Queſta è la luce tenebroſa del Flud, chi può ſpiegarla? Va il Serano peſcando le affezioni dell' idee ſeconde, e ne ri trova ſei, dopo le quali la ſua vena metafiſica, e teologica, ſi conſuma, o perde, ed in tutto il reſto del Dialogo immobil mente fiſto, ed eſtatico ſul ceſto Platonico, par uno di que' Chineſi, che per molti anni guardandoſi la punta del naſo s'im maginano di veder l'eſſenza divina; non batte egli palpebra tutto concentrato in sè, nè degna abbaſſarſi a ſoſtener con note margina li l'imbarazzato lettore. Io ſon ben lontano dal condannare le al tre note di queſto autore, colle quali negli altri Dialoghi eſpone la conneſſione, e callora le ragioni ſemplici del teſto, ma nel Par menide ſpiegando alto il volo per emular il Ficino, li dimentica del ſuo coſtume, e laſcia in aſciutco il leccore; ma come è poſſi. bile, che avendo egli canto ſtudiaco Platone, e confrontati i teſti, nonabbia atteſo ad unpaſſo del Filebo, in cui li ſpiega il fine, che Platone ſi prefiſſe in queſto Dialogo? Nel Filebo, che non ſenza ragione gli antichi faceano ſeguir al Parmenide, cosi ſi parla da Socrate a Protarco. Tu, o Protar dice Socrate, intorno l' uno ed i molti ai dette le coſe pubbliche dei meraviglioſi, le quali, per dir cosi, ſono concedute da tutti, che non fieno punto da toccarli, ejendone alcune puerili, e facili da conoſcerſi, e per nuocere maſſimamente a ragionamenti, fe alcun le ammetteſſe; nè è Tom. II. f de (42 ) - 1 1 tal uno, da ſtimarſi coſa meraviglioſa, ſe alcun dividendo rolla ragione le mem-, bra d'alcuna coſa, e tutte quelle parti, confeſſando quella eſerne una; di poi la confutalle, e ne prendeſe beffe quaſi sforzato a con. feſare coſe moſtruoſe, cioè che una ſola coſa ſia molte ed infinite, ele molte quaſi una ſola, E' quì da notarli quel dividere con la ragione le membra di alcuna coſa, formula che egli repplica ſovente nel Parmenide, in cui dice, ſeparar le coſe con l'intelligenza, e fino sbranarle; indizio manifeſto che qui non ſi tratta, che d'aftrazione di ra gione, per cui nelle coſe più ſemplici fi diſtinguono, non le par ii, ma gli attributi, e le relazioni che le fan molte per rapporto alla mente; or tutto ciò che dice nel Parmenide dell'ente, e dell' uno, non divien egli un di que' meraviglioſi puerili, de' quali par la Socrate, fe non s'averte, che le contraddizioniſono apparen. ti, o che nel medeſimo tempo, e ſecondo lo ſteſſo non s'aſcrive all'uno, il fimile e diffimile? Siegue Socrate: quando alcuno giovane pone l'uno, non eſſer alcu na di quelle coſe, le quali naſcono, e muojono, perciocchè quì un co come poco fa dicemmo, ſi è conceduto, che non ſi debba con futare. Parla quà Socrate della prudenza, della ſcienza, e della men te, di loro natura une, immortali, ed eterne nel ſiſtema Piccagori co, e delle quali, come d'eſſere reali, parla nel Sofiſta. Conclude Socrate: Ma quando ad affermare è altretto un fol Uo mo, un ſol bue, una coſa bella, ed una coſa buona, allora veramen. te in queſte, ed in cotali unità ſi rende ſollecito lo ſtudio, ed anche ſi fa ambiguala divifione. Primieramente ſe ſieno da ammetterſi certe uni tà sì farte, che fieno veramente; di poi, in qualguiſa ſia de penſarſi, che ciaſcuna di quelle coſe ſia una, e la medeſima ſempre, nè fi pren da generazione, nè morte, ma ſe ne ſtia fermiſima nell' unità di lei; finalmente ſe ſia da porſi alcuna coſa nelle coſe generate, od infinite, o partita, ed oggimaifatta moite coſe, o tutta eſa in diſparte da ſe medeſima, il che più di tutte l'altre coſe parrebbe impoſibile che uno, e lo dello ſi facele parimente in uno, ed in molti. Quefto è l'uno, ed i molti che ſi trovano intorno a cotali coſe, ma non quelli, o Protarco che non conceduti bene ſono cagione d'ogni dubitanza, ed ogni facilità ben conceduti. Manifeftiffimo è, che quì Socrate ripete le difficoltà ſull' idee ſeparate fattegli da Parmenide, e ſu le quali confeffa, che impoſſi bile è di scioglierle, indi fa attenzione al metodo inſegnato da Par menide, di cercar l'idee per via dell' aſtrazioni, con le quali ſi to glie ogni difficoltà intorno a'molti, e all'uno. Da queſti palli io deduco, che il fine di Platone in queſto Dialogo altro non fu, che d'allontanarſi da quel meravigliolo e puerile, in cui facilmente fi cade, quando non ben li diftingua no i concerci della mente, o s'amia irasformare i concetti in ido li, ed a realizzarli poeticamente, come faceano i Pittagorici. Per compir queſto diſegno fcelle Platone il Filoſofo più ſpeculativo dell'antichità, e deſcritto da Socrate qual Uomograve, evenerabile, e d'una profondità al tutto generoſa, il che vuol dire, ſe non erro, che egli nella ſua maniera d'argomentare franca, libera, ed inſie me profonda, nulla tenea del lopraciglio, e della vanità dei Sofi fi; Platone quimoſtra fin dove arrivar pud l'ultima analiſi, che i Pitcagorici faceano dell'idee, oltre le quali il procedere'era un eſporſi a pericolo di non più intender quello che ſi dicea, comepur trop ро è arrivato ad alcuni Scolaſtici, che fpingendo troppo, oltre le queſtioni oncologiche, ofarono ſin negare il principio di con traddizione, ed affermarono chel'infinito ſi raggruppaffe in un pun to. Nel GORGIA DI LEONZIO, nel Protagora, ed in altri Dialoghi contro iSo fifti, coll'arte dell'ironia Socratica, li dipinge a diritto Platone quali cacciatori mercenari d'uomini, mercatanti venditori, appal tatori di ſcienze, e diſcipline falſe; ma chi può dire che Platone ebbe difegno di proporſi in queſto Dialogo Parmenide, qual mer catante venditore, ed appaltatore di bujo peſto, che così devono chiamarſi le quiſtioni tenebroſe, ed all'ambicate; bujo peſto è quel lo di cui troppo liberalmente lo caricano il Ficino, ed il Sera no, non quel che combina la doctrina d' Ariſtotele, con quella di Platone; dotcrina che curt " i Peripatetici, e gli Scolaſtici ab bracciarono e che ultimamente con tanta chiarezza e preci* fione, eſpoſe il Wolfio nella fua Ontologia. Queſto Dialogo è primieramente ontologico, e preſo in queſto ſenſo non ha in sè più di pericolo che la metafilica d' Ariſtocele, ma ridotta alla Dialeccica, L'antica Dialetica verſava fu i generi di tutte le coſe, attenca a compararli, a combinarli, per preparare' ed illuſtrare la quiſtio ne propoſta. S'ingegna lo Stanlejo di ridur a tre generi la Dialec tica de Piccagorici.1. Ai non ripugnanti, o ſia all'eſſenza delle coſe nelle quali ſi combinano, coſe tra loro non contradditcorie.. Così l'eſſenza del triangolo o del quadrato, è l'eſfer figure di cre o quattro linee, perchè non v'è ripugnanza, che il numero ter nario o quaternario, s'adatti o fi combini alle linee rette. 2. Ai differenti o alle coſe che tra loro ſi diverſificano nell'eſſenza, nc gli attributi, e ne' modi; così il triangolo è differente dal qua drato, ed il quadrato dal cerchio. 3. Ai relativi a'quali ſi riduco if 2 no (44 ) no tutte le matematiche conſiderate dagli antichi, come il vero modello della diſciplina, ed a cui i moderni riduſſero l'arte dell' analogie filoſofiche, ed il calcolo de' probabili. Platone ſtabiliſce in molti luoghi non tre ma cinque generi del le coſe; l'eſſenza o ciò che è, lo ſteſſo, il diverſo, il moto, e la quiere; a queſte due ultime nozioni ſi riduceva tutta la fiſica antica, onde diſfe Ariſtotele, che ignorato il moto s'ignora la natura. Lo ſteſſo e il diverfo vaga per tutte le altre fcien ze; onde Platone dello fteſſo, e del diverſo, compoſe l'anima del mondo, e la bellezza. Lo ſteſſo e il diverſo ſono relazioni dell' ente in genere, fi ſpargono ſulle relazioni dell'ente in ſpecie, il fimile, il diffi mile, Peguale, il maggiore, il minore, il nuovo, l'antico. Que fta era la ſcala de'generi ſuperiori, o quelle nozioni ontologi che aſtratte per l'acume della mente da' concreti, coſa ben di verſa dalla ſcala de' predicamenti d' Ariſtotele. Il Wolfio fa propoſe per ultimo oggetto degli ſtudj fuoi, di perfezionar" la Icala de'generi, e con eſſa ſciogliere il problema dell' analiſ dell'idee, propoſta ma non trattata dal Leibnizio. I Pittagorici ne diedero i primi ſemi, e Placone più li ſviluppò, applican doli alla determinazione dell' idee, quindi è che nel Parmeni de tutti iſuoi argomenti ſi riducono alle relazioni dell'ente, in genere dell'ente, in ſpecie. Rinferrata ne' fuoi limiti la materia del Parmenide, il meto do che v’applica è quello del principio di contraddizione, che ci conduce all' aſſurdo; metodo non tanto accetto a noi, per. chè ci dimoſtra la noftra impotenza, ma che ci sforza invin cibilmente all'faffenſo. In queſto metodo Platone ne aggruppa molti altri, il metodo d' eſcluſione è quello dell'analiſi geo metrica. Nel metodo d'eſclufione fi numerano tutti i caſi di una co ſa, e s'eſcludono o tutti per dinotare l'aſsurdità, o tutti men in cui fi cerca la ſoluzione del problema. Così Archi mede avendo dimoſtrato, che un dato poligono non è, nèmag giore, nè minore del cerchio, nel quale è inſcritto o circon Icritto, conclude che gli è eguale. Placone in molti caſi ado pra il metodo ſteſſo. Nel metodo dell'analili geometrica, fi aſſume  il quefito come conceffo, e per legitime conſeguenze s'inoltra fino ad un ve 1 uno, ro (a ) Affumptio quæſiti tanquam conceſsi per ea quæ conſequentur ad verum conceffum.  Wallis Il. dell’Algebra. To concesso, da cui riteſsendo il ragionamento ', li dimoſtra il quelito; molti vogliono, che Platone ſia l'inventore di queſto metodo, e che abbia fatto il Parmenide per darne l'eſempio; maqueſti attribuirono al tutto ciò che conviene adalcune parti, Utiliflime ſarebbono le metafiſiche de'moderni, fe i loro autori fi foſsero limitati all'ipoteſi, e ſi foſſero guardati di proporle in for ma di dogma, cagione d'eterni litigi non ſalvati, ne da ſtile elo quente, nè da calcoli algebraici. Il Carteſio ſegui nelle ſue medi tazioni ilmetodo analitico, ma diede occaſione a molti ſiſtemi più ſtrani de'ſogni, come quello degli Egoiſti, conſeguenza dello fpi nofismo fpirituale. Che dirò dell'arte del Dialogo, in cui s'è già dimoſtrato imi, tarſi i ragionamenti umani, come i Poeti Dramatici aveano imi tate le azioni umane. All'imitazione. di queſte convien il palco, ed il verſo, non all'imitazione de' ragionamenti, la quale per ſua natura appartiene alla DIALECTICA: poco o nulla di leggiadria avrebbono i sillogismi, egli entimemi in verſo, e poco o nulla lor gioverebbe l'apparato della ſcena. Si è pur detto che la quiſtione, e la digreffione al Dialogo, è come la favola, e l' epiſodio al Drama. Nel Parmenide la quiſtione è intorno l'idee, ma non v'è digreſſione, ſe pur non fi voglia ridur a queſta, la preparazione alla diſputa con Par menide, incominciata tra Zenone, e Socrate. La differenza de' drami ſi prende dal diverſo modo dell'azio ne, la quale o è ſemplice, o compoſta, e la differenza de’ Dia loghi dal modo del ragionamento, nel quale, o s'inſegna, os inveſtiga da un ſolo, o s' inſegna, o s'inveſtiga da molti la quiftione propoſta. A quattro generi riduce il Taffo i Dialoghi, al dottrinale, al Dialettico, al tentativo, al contenzioſo. De’due primi generi è miſto il Parmenide, perchè dopo di aver egli diſputato con Socra te, quaſi ſolo favella, non contandoſi le riſpoſte d'Ariſtotele, approvazioni per lo più della concluſione, o preghiere d' eſpor più chiaramente la ragione accennata. Nel inlegnare qual fia la natura o l'idea dell'uno, qui non v'è tentativo, nè litigio, nè in queſto Dialogo v'è molto a ricercare, ſe ſia meglio adat cato all'inſegnamento che il maeſtro interroghi, od i diſcepo lo., perchè appena termino la breve diſputa có Zenone, che Parmenide cominciò a interrogar Socrate, ed avendolo confu? lo, ed imbarazzato con una difficoltà cui non poteva riſpondere, Para (a ). Torquato Taſſo diſc. ful Dialogo. uno. Parmenide paſſa ſenza interrompimento alle tre poſizioni dell ' Vuol Torquato Tallo, che come una ſia l'azione nel Dra ma, così una fia la quiſtion nel Dialogo, la quale o è infini ta, per eſempio ſe deve apprezzarſi la virtù, o è finita, per eſempio che deggia far Socrate condannato a morte. La qui ftione del Parmenide è infinita, perchè fi tratta dell' idee di cui ſi cerca la natura e l'origine, la natura dimoſtrando che non ſono dalla noſtra mente feparate, l'origine dimoſtrando come per via delle ſuppoſizioni s'acquiſtano. Queſte due coſe ne fan no propriamente una, perché non ſi può intender la natura dell' idee ſenza prima determinarne l'origine. L'una e l' altra determina Parmenide, e rimove l' idee feparate per convertire il ragionamento al modo con cui la mente le acquiſta. Parme nide lo propone, non lo dimoſtra per non allontanarſi dal co ſtume della ſua fetta, che era di propor dubitando le coſe: Non è cutravia in ciò ſolamente che appariſce il coſtume di Par menide. Dimanda Socrate, che gli ſia dichiarata la quiſtione delle idee, ed intorno alle coſe che ſi veggono,ed ancora intorno a quelle che ſi comprendono con la ragione. Parmenide, e Zenone attentamente lo aſcoltano, eſpero guardandoſi l'un l'altro fog ghignano quaſi di Socrate meravigliandofi. E queſta è quell'evi denza tanto neceſſaria al Dialogo, e di cui Platone diede si chiari eſempj neli' Ippia, e nel Fedone. Ella è qui ordinata a manife ſtare il coſtume d'un Filoſofo accento, e che colla triſtezza, e coi fogghigni accenna, ciò che nel diſcepolo non s'accorda con la ra gione. Un tratto poi del coſtume d'un Filoſofo attento, è do ve dice Parmenide o Socrate troppo per tempo, innanzi che tu ti eſerciti a parlare, ti sforzi di definire ciò che ſia il bello, il giu ſto, il buono, e qualunque dell' altre ſpecie. Perchè poco fa il con fiderai vedendoti diſputare con Ariſtotele. Per certo mi credi, que fto tuo fervore è bello è divino, il quale alla ragion ſi conduce, ma recati in ſe ſtello, ed eſercitati mentre ſei giovane in queſta fa coltà la quale a molti inutile, e ſi chiama dal volgo garruli tà, altrimenti ſi fuggiria da la veritade. Parmenide qui accenna la Dialectica in quanto vaga per cutti i generi, ſulla qual coſa poco dopo ſoggiunge conſervando il co ſtume divecchio venerabile. Sarebbe cofa ſconvenevole, cheſi trat tale maſſimamente da un vecchio certe coſe si fatte alla preſenza di molti, non ſapendo il volgo, che ſenza queſto vagare, e diſcerne re per tutte le coſeſia impoſſibile abbattendoſi nel vero acquiſtar men te. Ariſtotele e gli altri lo pregarono, e Parmenide riſpoſe con un apo 7 pare inutile apologo: egli è neceſſario finalmente che s'ubbidiſca, tutto che mi è av viſo di tutto quello che patà il cavallo Ibico, cui Atleta e vecchio do vendo prendere la conteſa delle carrette, e per l'eſperienza iremando de' ſuccelli, alimigliando egli a ſe ſtello, dille cheegli già vecchio era coſtretto di ritornar agli amori. Nel medeſimo modo diſſe Parmeni. de, a me pare di temer malto, quando penſo in che guiſa cosè.d'età avanzata, io pola paſar a nuoto un mare cosi profondo di ragionda menti. Intorno la ſentenza, o ſia ciò che ſente il principale interlocu tore del Dialogo, ella è qual conveniva a un Dialettico eſperto, nel vagar per i generi delle coſe, e nell'argomentare, e ben de gno, che nelle coſe intellettuali Platone, Secondo il teſtimonio di Apulejo, lo preferiſſe agli altri Pitiagorici, e n'imitaſſe la ſotti gliezza, e nell' idee, e nel metodo di proporle. Nella Poelia. Epica, altro è che il Poeta imiti narrando un facto, altro che introduca un degli attori a narrarlo. Così nell' Odiſſea, aḥtre ſono le cofe che Omero direttamente narra accadute ad Uliffe, altre quelle che narra Ulife ſteſſo. S'in troducono ne' Poemi i racconti, per variar i modi dell' imita zione, ed ancora per accreſcerla; ella è perciò doppia, quando nel Poema i perſonaggi imitati, imitano effi fteffi col loro rac conto. In queſto Dialogo, Pitidoro imita, narrando i diſcorſi che inteſe da Parmenide. I Dialoghi, benchè fpecie di Poeſia Dramatica, in ciò con vengono con l' Epica, e Platone, che nelle diſpute de'Filoſo fi volle imitare i combattimenti degli Eroi di Omero, emold anche queſto nel modo di rappreſentarli. Nel Filebo propone ſenza alcro la difputa chiaramente enunziata intorno la felici tà ed il piacere, nè premette alcuna circoſtanza ſtorica ai ra gionamenti dei tre interlocutori, Socrate,, Filebo e Protar co; così fa nel Sofiſta, nell' Eutifrone nelle Leggi, e nella Repubblica, ma non cosi nel Convito, nel Fedone, e nel Par menide. Pitidoro vi narra ciò che ha udito da Antifone, e queſto è modo più artificioſo dell'altro, perchè vi ſi ricerca molta ſa gacità nel render neceffario il ragionamento, ed accompagnar lo di quelle circoſtanze che più mettano la coſa fotto gli oc chi, intereſſino il lettore ad aſcoltare i perſonaggi, e di tem po in tempo lo ricreino con opportune digreffioni, ma tutte convergenti alla quiſtione propoſta, ſenza che ſe ne accorga il lettore. Nel diſcorſo naturale noi pafliamo ſenza rifleſſo da una coſa all'altra, ma nel Dialogo, ſe ſi vuol imitando perfezionar la natura, nulla vi ſi deve introdurre ſenza ragion ſuf ficiente. La ſomma difficoltà dell' artificio del Dialogo è nell: interrogazioni, e nelle riſpoſte diftinte e preciſe, ma nel Par menide il dialettico s'accoppia col dottrinale e queſta è la parte dominante, perchè eſcluſe l' idee ſeparate, Parmenide ſem pre parla ſcorrendo per le ſuppoſizioni.; ILLUSTRAZIONE D E L 1 PARMENIDE.},  ILLUSTRAZIONE di VELIA (si veda). tertentanut Estates L A diſputa su l' idee fatta tra Parmenide, Zenone', Socra te, ed un certo Ariſtotele, viene a Glaucone, e ad Adi manto riferita da Cefalo per bocca d'Antifone, il quale avendo familiarmente converſato con Pitidoro compagno di Ze none', avea su queſta materia udito da lui le ragioni dei tre Fi loſofi. Reſtarono queſte cosi profondamente impreſſe nella me moria di Antifone allor giovanetto, che molti anni dopo ſeb ben diſtratto dagli eſercizi equeſtri, poté in tutte le loro cir coſtanze rappreſentarle nell' abboccamento, che egli ebbe con Cefalo, e coi compagni. Tofto Cefalo eſpone il motivo della diſpuca Parmenide ne Poemi avea detto che tutto è uno, e Zenone provato in uno ſcritto, che uno non è molti. Si comincia la Jercura dello ſcritto, e Socrate vi fa ſopra delle difficoltà a mi fura che ſi legge. Poco mancava' a' terminar la lettura, quan do Parmenide con Pitidoro, e Ariſtotele entrarono in caſa. Si leſſe di nuovo alla preſenza di Parmenide, e degli altri il pri moargomento, e fi difputò incidentemente su la differenza del le due definizioni parendo a Socrate, che il dire tutto è uno foffe lo ſteſſo che il dire, uno non è molti. Glielo concede Zenone, é lodaća la ſagacità di Socrate dichiara', che non per vanità o per 'arcano di Filoſofia egli ha' fcritto, ma per fo ftener l'orazion di Parmenide contro coloro che ſi sforzavano di ſchernirlo, perchè ſe molte contraddizioni degne di riſo pativa l' Orazion di Parmenide, molte altre di più ridicole ſe ne inferivano dalle ſuppoſizioni degli altri. Zenone ſcriſfe il: li bro nella ſua giovanezza, ma un certo avendoglielo rubato.fi pubblico. Si ricomincia la diſputa. Parmenide, e Zenone lafciano a So. crace eſpor tutta la ſua ſentenza su l'idee ſeparate, per le quali moſtrava la definizione dell'uno da Zenone affegnata non eſſer univerſale ". Accorcol Parmenide, che tutta la forza dell'argo mento (52 ) mento di Socrate fondavaſi su l’idee ſeparate, l'imbarazza co ftringendolo ad aſſegnarne alle coſe fiſiche. Non sa Socrate ri folvere la difficoltà. Parmenide fingendo di conceder l'idee ſe parate argomenta contro la loro participazione, contro il lo ro progreſo all' infinito, contro alla loro incomprenſibilità. So crate n'è molto curbato, credendo che annullate l ' idee ſepara te non vi fieno più principj per ben filoſofare. Ammira Par menide il fervor di Socrate, e lo conſiglia ad eſercitarſi nella Dialetica per ben inveſtigare l'idee. Pitidoro ed Ariftotele, pre gano Parmenide ad eſemplificar il metodo dell'inveſtigazione dell'Idee. Egli ſcieglie l'idea dell' uno, e col metodo delle ſup poſizioni la tratta. Orquattro ſono le quiſtioni che ſi poſſono eſtrar dal Parmeni de relativamente alla definizione di Zenone, che l'uno non è molti. La prima è quella dell'uno per rapporto all' idee feparate; Ia ſeconda dell'uno per rapporto asé; la terza dell'unc per rap porto all ' ente; la quarta dell'uno per rapporto al non ente. Le tre ultime quiſtioni ſono propoſte per via d'ipoteſi: ſe l'uno; ſe l ' uno è; fe l'uno non è. Per non traſcurar nulla di ciò che agevola l'intelligenza del Dialogo, premetterò partitamente ad ogni quiſtione la Ipiegazio ne delle voci, e delle nozioni neceſſarie, ſtando più che mi ſia poſſibile attaccato alle parole del teſto quale Dardi Bembo il tra duffe; mi par inutile di por tutto il Dialogo, perchè eſſendoſi ri ſtampato di freſco, tutti coloro i quali hanno vaghezza d inten derlo ſe ne faranno già proveduti,per gli altri èinutile e vana ogni illuſtrazione. Zenone di VELIA defini l'uno ciò che non è molci. Approva Ariſto tele (a ) queſta definizione, perchè in generale ogni defini zione, dovendoſi aſſegnare per le coſe più lenfibilia e più note, l'eſperienza di tutti i ſenſi ci moſtra, che i molti ci ſono più noti che l'uno; i fanciulli più teneri nel coccare, nel vedere, e nell'udire pereepiſcono i molti, e la loro cognizione è imme là dove hanno biſogno, che la loro ragione fi maturi un poco per cominciare a dir uno, e quindi numerar su le I molti dunque eſſendo più noti dell' uno, negandoli di forma 6 ) Metaf. lib. 1o. diata; dita. il (53 ) il concetto negativo dell'uno in quella guiſa, che negando le par ti ſi fa il concetto negativo del punto. Dall'uno G fa l'idea aſtratta dell'unità, come dall'idea dell'uomo l'idea aſtratta dell'umanità. Tre ſono le ſpecie dell'unità; la Lo gica, la Matematica, la Metafisica. L'unità Logica ſono i generi, e le ſpecie, o certe idee univerſali atte a rappreſentar molti in uno; l'unità matematica è il principio compoſitivo de' numeri, o il prin cipio per cui fi numera; principio differente dal zero, da cui ſi nuinera. L'unità metafiſica' è una proprietà traſcendentale dell' ente, o che conviene all'ente in quanto tale, poichè d'ogni ente fi predica l'uno, come fi predica il vero, e il buono, o ſia il perfetto, ma la verità, e la bontà, o la perfezione, inclu dendo ordine nella varietà ſuppone l' uno, onde tra le proprie tà dell'ente egli è la più univerſale (a ). L'unità o l'uno nel ſuo concetto aſtrattiſſimo preſcinde da tutte le relazioni, potendoſi per l'aſtrazione della mente non riferire, nè alle coſe che rappreſenta, nè a' numeri che compone, nè a ciò cui conviene: In queſto ſenſo aftrattiflimo definiſce Zenone l' uno, opponendolo ai molti in genere. Contro queſta definizione cosi argomenta Socrate. Vi ſono idee ſeparate: dunque ogni idea eſſen do una in sè, e molti, nel participarſi a molti l'uno, eimolti poſſono accoppiarſi; dunque non pud dirſi, che l'uno fia molti. Prima di ſviluppar l' argomento rifletterò su certe voci, e nozioni di Socrate. $. 2. Suppone toſto Socrate, che vi fieno idee ſeparate. L'idea ſe condo l'etimologia della voce Greca, significa propriamente com fa viſta, e per traslato ſignifica coſa inteſa, o ciò che s'inten de; ma tallora ſignifica l'atto per cui s'intende, il qual però meglio ſi chiama nozione o concetto. Åleinoo defint l'idea, intelligenza per rapporto a Dio, pri mo intelligibile per rapporto anoi, miſura quanto alla mate ria, eſemplare quanto al mondo ſenſibile, effenza quanto a ſe ſteſſa. In tutti queſti ſenſi la prende or Socrate, ora Parmeni de; ma la prima nozione dell' idea ſeparata è che ella fia il primo intelligibile. $. 3• ve ) Wolfo Metaf. (54 ) §. 3. Socrate: oltre l' idee del bello, dell' oneſto, e del giufto, che Parmenide gli accorda, ammette ancora quelle del limile, del diffimile, del moto, della quiete, dell' uno, e de' molti. Queſte ultime idee ſono tra loro oppoſte e contrarie, come il caldo, il freddo, il bianco, ed il nero; eſſendo contrarie, ciò che convie ne all'una, non conviene all' alira, e quindi ſecondo Socrate i ge neri, e le ſpecie, idee più o meno univerſali conſiderate in se non patiſcono paßioni contrarie, ma nulla vieta nell'ipoteſi di Socrate, che non poſſano participarſi dalle coſe. 1 S. 4. Partecipare è propriamente ritener in sè una parte d'un cutto;; così l'aria partecipa la luce ', poichè ogni particella d' aria ha in sè una particella di luce. In un ſenſo più ampio, la voce partici pare s'eſtende dalla quantità alla qualità, all'azione, all effenza Iteffa.;. così ſi dice, che l'accidente partecipa della ſoſtanza', gli effetti delle cagioni, un figlio le virtù, eivizj.del padre: La par cipazione è quindi' più ampia della ſimiglianza limitata alla ſola convenienza delle qualità, e molto più dell'imitazione, che alla fimiglianza aggiunge la relazione tra il modello, e la copia; due gemelli naſcendo saſlimigliano, e pur l'uno' non è la copia dell' altro. I Pittagorici' nel riferir le coſe all' idee ſeparate, come a loro modellidiceano', che participavano o imitavano l'idee, ma fecondo Ariſtotele non mai filoſoficamente ſpiegarono le voci di participazione, e d'imitazione. S. 56 Cið fuppoſto, il primo argomento di Socrate tratto da queſti principj fi pud diſtinguer in due per maggior chiarezza. Ogni idea è una in sé, ed una in molti, dunque nel tempo ſteſſo, uno può efser molti. Cosi lo conferma, Benchè l' idee lieno tra loro con crarie, nondimeno poſsono eſserº nel tempo ſteſso participate da. molti, anzi dallo ſteſso ſecondo diverſi riguardi, ma in queſte participazioni ritengono la loro unità, dunque: ſon uno e molti. Così lo prova: oppoſte e contrarie ſono tra loro l’idee, del ſimile, del diſſimile', del moto', della quiete, dell’'uno; é dei molti; dunque comenulla viera, che lo ſteſso poſsa aver more in Metaf, in una parte, e quiete nell'altra; eſfer fimile ad un altro in una parte, e diffimile nell'altra, così nulla vieta che ſia uno, e molti; una Caſa ha molti legni, e molte pietre; ogni. Uo mo è uno conſiderato in sè, ed è o ſeſto, o ſettimo conſide rato con altri. la un Uomo, altra è la deſtra, altra la fini ſtra, altre le parti dinanzi, altre di dietro, altre le ſupreme, al tre le infime. Nel Sofiſta egli dice; noi chiamiamo un Uomo denominandolo con molti cognomi, mentre a lui attribuiamo i colori, le figure, le grandezze, le virtù, ed ivizi: nelle quali coſe tutte, ed in altre infinite, non ſolamente diciamo che egli fia Uomo, ma ancora buono, ed altre infinite coſe, e le altre fecondo la ſtella ragione. In cotal gui sa fupponendo noi qualunque coſa una, di nuovo l'appelliamo molte e con molti nomi..... Onde ſi è da noi data occaſione di contraddi re, come jo penſo a' giovani, ed a ' vecchi di tardo ingegno: percioc che incontinente ci potrebbe chiunque far obbiezione che ſia coſa impos fibile, che molte sofe folero una, ed una molte. Dunque uno può eſſer molti; dunque non è generale la de finizione, che uno ſia non molti. La participazione dell' idea evidentemente lo manifeſta. Sciolto è l'argomento ſe fi nega l'ipoteſi dell' idee ſeparate perchè colte l'idee è colca la loro participazione. Parmenide ri gecta l'ipoteſi, come nè generale, nè chiara; non generale.per chè non s'eſtende a cutti i cafi poflibili i; non chiara., 'perchè non pud fpiegarſi la participazione dell'idea. Cost:provo la pri ma parte non ſi debbonoaſſegnar idee delle coſe ſeparate, o aſſegnarſene di tutte le coſe '; che vuol dire, non baſta affe le.coſe morali, e matematiche, mabiſogna af. ſegnarne ancora per le fifiche: dunque non ſolamente vi ſono idee del giuſto, del bello, del buono, del grande, del fimile ec, ma dell'uomo, del foco, dell'acqua, e d' alcune coſe, che molti fimano per avventura ridicoloſe; i peli, il fango, le macchie., ed altre coſe ignobili, e vili. Socrate toſto lo nega, perchè gli pare, che ammettere queſt' idee, ſarebbe coſa troppo diſconvenevole, poi can didamente confera, che alcuna volta queſto penſiero lo turbo, e che quando di là fi ferma ſe nefugge temendo di non corrompere la ſua mente, e fantaſia cadendo in ciancie ineſplicabili., onde a quelle coſe ritornato (cioè all'idee del giuſto, del bello, del buono, ed all idee 'matematiche ) verſa intorno a quelle. In (a ) Sof, pag. 306, (56.) In un caſo ſimile ſi ritrovò il P. Malebranchio; ſentendo egli la difficoltà di ſpiegar chiaramente, come l'eſtenſione intelligibi-: le, eſſendo immobile in Dio, gli rappreſenti il moto, ove il luſtra queſto articolo dice nel fine: (a ) Io non oso impegnarmi'. a trattar queſto ſoggetto a fondo, temendo di dir coſe, o troppo aftrat te, o troppo ſtravaganti, o ſe ſi vuole, per non azzardarmi a dir co ſe che non so, nè sono capace di diſcoprire. Queſto è il ripiego di Socrate. Ariſtotele (do ) ove nella Metafiſica combatte l' idee ſeparate malamente attribuite a Platone, adduce tra l'altre coſe, che dandoſi idee ſeparate ſi dovrebbe darne de' ſingolari, de' corrut tibili; egli non eſtendeche l'argomento da Parmenide eſemplifica to, e poida Alcinoo, che afferi non darſi nel fiſtema de' Platonici idee delle coſe arcifiziali; uno ſcudo, una lira ec. ne delle co fe oltre natura la febbre, la bile non naturale; non delle coſe ſingolari, Socrate, Placone; non delle vili, ed abbiecte ſozzure, paglie ec. donde traffero i Platonici dopo Ariſtotele, queſta di ſtinzione, ſe non dal Parmenide? Propoſta che ha VELIA (si veda) un'obbiezione, che Socrate non può riſolvere, egli cangia l' argomento ad judicium in quello aid hominem, che vuol dire non argomenta più ſecondo i principi della ragione univerſale, ma ſecondo i principj del diſputante, e ne deduce la contraddizione. Suppone dunque che vi fieno idee ſeparate ", ma come poi date queſte idee lo ſpiegare che lieno participate dalle coſe Queſta participazione ſi fa, o ſecondo il tutto, o ſecondo la parte. Parmenide dimoſtra, che nèl'uno, nè l'altro può eſſere. Sia da una coſa participaca l'idea ſecondo il cutco, dunque tut ta l'idea è in ſe ſteſſa.; e tutta fuori di ſe ſteſſa; dunque nel tempo ſteſſo eſiſte tutta in sè, e cutca fuori di sè. Siaľ idea conliderata in sè A, e participata fia B, C, D ec. generalmen te, o non A; dunque nel tempo ſteſſo l'idea è A, e non A, ciò che è contraddittorio. Nè occor dire che un giorno è uno, e lo Steffo, ed inſieme in mola ti luoghi, e pur non è da ſesteso in diſparte. Il giorno non è che la luce del sole, diffuſa in tutto il noſtro emisfero. Or quel la parte di luce, che illumina me, non illumina il compagno ſebben mi lia vicino. Parmenide li ſerve dell'eſempio della ve la, (a ) Ricerca della verità T. 4. pag.... (b ) Metaf. I..... (57 ) la, la quale molti coprendo, non è perd una in molti, perchè la parte c he copre l'uno, non è la parte che copre l'altro. Reſta a dimoſtrare, che l'idea non è participata dalle coſe ſe condo una parte; la dimoſtrazione è da se manifefta, perchè l'idea participata ſarebbe una, e non una; una tutta in sè, e non una nelle coſe che ne hanno ſolo una parte. Queſto modo d'ar gomentare, è fondato ſul principio di contraddizione adoprato lovente da Platone, e ſtabilito da Ariſtotele, come il primo prin cipio in cui ſi riſolvono cutti gli altri. Eſperimentiamo noi cal eſſere la natura della noſtra mente, la qual mentre giudica che una coſa ſia, non può inſieme giudicare, che la ſteſſa non ſia. Parmenide eſemplifica l'impoſſibilità di queſta ipoteſi. 5. 8. La grandezza è ciò che è capace di più e di meno. Nel conce pir il più fi concepiſce il maggiore, nel concepir il meno fi conce piſce il minore, e nel concepir l'eguale non ſi concepiſce nè più, nè meno nelle quantità che ſi comparano. lo dico che li comparano, perchè nè il più, nè il meno, nè l' eguale concepir ſi poſſono ſenza riguardar una coſa nel tempo ſteſ to che l'altra o ſenza compararle, e in queſta comparazione pro priamente la grandezza confifte, la quale, come ben dice il Wol fio, non ſi può concepir ſenza un altro a differenza della quali tà. Tutto quindi l' effer della grandezza è relativo, od ha tut to l'eſſere in ordine ad un altro. Così Platone eſpreſſe la natu ra della relazione nel Politico, nel Simpoſio, nel Sofifta, e pri ma di lui Archita, ed Ocello, (a ) i quali diviſero la relazio ne in quattro generi. Da queſti autori traſfe Ariſtotele (6 ) la definizione, che dà della relazione. Nulla perd vieta, come et proverà, che per compendiare i concetti non ſi concepiſca la gran dezza come qualche coſa di aſſoluto, a cui accade – eſſere mag giore, minore, ed eguale, e che di nuovo ſi concepiſcano il maggiore, o'l minore come aſſoluti, a' quali accada il più, o meno, o nè l'uno, nè l'altro. Suppoſto dunque, che fi dia l'idea della grandezza, e in conſeguenza del maggiore, del minore, dell' eguale, così argomenta Parmenide. Sia A l'idea del maggiore, B del minore, C dell' eguale; ſi dividano tutte2, e tre in parti ineguali: С poichè dunque una coſa in canto è maggiore, in quanto partecipa l'idea del maggiore, lia l'idea - B del maggiore A diviſa in parti ineguali, e la parte minore delmaggiore ſia participata, quello che la Tom. II. h par (á ) Diſcuſ. Perip. Patriz; T. 2. pag. 185. (b ) Ad aliquid alia dicuntur quæcunque quod ipſa ſunt aliorum effe dicuntur. o il A (58 ) partecipa non ſarà egli nel tempo fefto, e maggiore, e mino re? Maggiore, perchè parcecipa l'idea del maggiore; minore per chè parcecipa la parte minor del maggiore. Così potrà dirli della participazione della parte più picciola dell'idea del minore, e dell' idea dell'eguale. Se'l idee dunque fi participano dalle coſe, ſe condo una parte loro non potrà mai effer quefta, una delle par ri ineguali. Parmenide non procede olore, maè facile l'aggiun-. gervi, che nè meno pud parcicipare delle parti eguali, perchè la parte.eguale del maggiore participata dalla coſa, la farebbe nel tempo ſteſſo eguale, e maggiore; e così la parte eguale del mi nore, ſarebbe la coſa minore ed eguale.. 9. La noſtra mente, come per ſua natura non può concepiricon tradditrorj, così non pud frappaſſar l'infinito, biſogna che s'ar reſti ad un primo, o ad un ultimo, il qual è come Tuncino che ſoſtiene curri gli anelli della catena. Ariſtocele, e'ne'mori, e nel le cagioni, e ne'fini dimoſtra l' aſſurdità del progreſſo all' infini 10, modo d' argomentare imparato dal Parmenide di Platone non men che l' altro del principio di contraddizione. Il Wolfo dimoſtròeffer impoſibile il progreſſo all'infinito rectilineo, e cir colare. g. 10,. Poſta l'aſſurdità del progreſſo all'infinito, così argomenta Par menide: Tu ſtimi che qualunque ſpecie fia una, quando pare i te cbe certe, e molte coſe fieno grandi, parendoti per avventura in ris guardando a tutte le coſe, che ſia queſta una certa idea, onde tu penfi che il grande fia uno. Prima d'inoltrarſi è da oſſervare, che qui Platone inſegna, co me comparando le coſe, nel riflectere a quello in cui conven gono, ne riſulta un'altra idea, come prima avea inſegnato Epicarmo, Queſt' idea è ſempre una, perchè uno è l'atto della mente con cui ſi rifletre a ciò che le coſe hanno di commune. Continua Parmenide: Se'il grande, e l'altre coſe che ſono grandi nel medeſimo modo conſideralli per tutre le coſe, non apparirebbe egli da capo ceri' una coſa grande, onde farebbe neceſſario che queſte tutte pareffero grandi? Vuol dire che nel compararſi dalla mente di nuovo l'idea del grande con le grandezze participate, nè riſulta un'altra idea di grandezza, per la qual coſa concludeParmenide: apparirà di nuo po altra ſpecie di grandezza fuor do esſa grandezza, e di quelle che fono ! (59 ) fono partecipi di lei, e dopo tutte queſte, altra di nuovo con cui som rebbono queſte grandi, nè pide qualunqueſpecie fia una, ma piuttoſto di numero infinito. La ragione è, che l'idee della grandezza di nuovo aſtratte nella comparazione, eſſendo per loro natura re lative faranno fena pre di nuovo comparabili, e così all' infini to. Ariſtocele su queſto fondamento del Parmenide, e tutti i Platonici, e tra gli altri Alcinoo dillero, che non fu potea aver idee de relativi. $. 11. cioè per Dal modo con cui Parmenide comparando l'ideę, altre idee He deduffe, concluſe Socrate, che le ſpecie ſono' atti dell'intel fetto, i quali non riſiedono, che nell'animo. Gli concede Para menide, che ogni atto dell' intelletto è uno, ma gli fa confef fare, che queſt' acto ha un oggetto, ed è l' ente'; l'ente perd in quanto ſi concepiſce o s'intende', non s'immagina o ſente: prende egli qut l'idea, non per la nozione, o per il concetro' della mente 1 atto, ma per la relazione che ella ha ad un certo oggecto, e conſidera l'unità dell'idea' non relativa mente all'atto dell'intelletto, ma all' ente che la partecipa poichè ſecondo i principj di Socrate, ella è ſempre la ſteſa in tutte le coſe. Ne deduce per confeguenza, che ſe l'idee ſono' at: ti dell'intelletto, le coſe che partecipano della ſpezie', o deli? idea faranno tutte intellective, ed intelligibili. Vi riſponde So crace, che le coſe non partecipano' dell' idee, in quanto' queſte fono atti dell'intelletto, ma in quanto rappreſentano le coſe; che vuol dire, in quanto l' idee Tono eſemplari, di cui le co fe fono limiglianze; onde in tanto le coſe le partecipano', in quanto ad effe li fanno ſimili. Parmenide contro queſte fimi glianze dell' idee, argomenta coll' aſſurdità del progreſſo all' ip knito, come fece delle grandezze. $. 12 Supponiamo che' molte' coſé' fieno ſimili per la participazione dell' idee della ſimiglianza. Potendoſi dunque comparar dall'in telletto le ' fimiglianze', e delle coſe, e dell' idee, Te' ne' eſtrar rà un'altra' idea di ſimiglianza, e queſta di nuovo comparando 1' idee con le coſe, darà un' altra idea di fimiglianza, e co sh all'infinito, cio' che è aſſurdo”. Cosi eſprime queſto argo mento Parmenide: non ſarebbe egli neceſſità grande, che' quel che è fimile al fimile' folle partecipe dell' uno, e della fleffa ſpecie? Or hi 2 non (60 ) 5 non ſarà ciò la ſtessa ſpecie, di cui le fimili coſe rendendoſi partecipi fiano fimili? Dunque non può alcuna coſa eller ſimile alla ſpecie, ne la ſpecie ad altrui, altrimenti oltre alla fpecie', altra ſpecie ſempre apparirebbe, che ſe ella folle fimile ad alcuna coſa altra dacapo', ne cellerebbe mai queſto progreſo, che non ſi faceſſe ſempre nuova fpe cie, ſe ancora folle ſimile la ſpecie, a chi di lei ſi rendeſe partecipe: Ariſtotele propoſe lo ſteſſo argomento ſebben oſcuramente L'Uomo, dice, ſignifica non meno la ſoſtanza ſenſibile degli Uomini ſingolari, che la ſoſtanza intelligibile dell'Uomo per sè, o fia l'idea dell' Uomo. Or ſe queſt' idee convengono in una coſa comune, fi concepiſce comparandole un terzo Uomo, equin di un altro, e così all'infinit. Ariftotele creſce l'aſſurdità Socrate lingolare participando dell'Uomo univerſale partecipa, e dell'animale e dell'animale a due piedi, e d'altre coſe, ciod, quelle che ha comuni colle piance, colle pietre, ed altre innume rabili. Converrà dunque moltiplicare all'infinito l'idee, onde per una coſa ſenſibile converrà porne infinite; ſi può aggiungere che queſto numero di nuovo ſi moltiplicherà all'infinito am mettendoſi l' idee dei relativi, poichè ogni coſa che è nell'Uo mo, pud compararſi a turce l' idee delle coſe viſibili, ed invidia bili, o della ſteſſa, o di diverſa ſpecie. Ma l'Uomo ideale, diceano i Pittagorici, effendo incorrutti bile, ed univerſale non ſi può comparar a coſa ſingolare, e cor ruttibile, ed eſtrarne quindi nuova idea? Ariſtotele vi riſponde: i binarj feparati ſono anche eſſi incorruttibili, e pur per conoſcer li biſogna dar un'idea comune di binario, in cui convenga il binario B, il binario C ec. In oltre l'idea di figura è comune al cerchio, al triangolo, ea tutte le figure piane e ſolide, onde ella, è propriamente ge nere relativamente alle ſpecie, ma chi può mai conoſcere una figura che non ſia, nè cerchio, nè triangolo, nè altra ſimile? Intanto la concepiſce la figura in genere, in quanto la mente non s' applica, che ai limiti che circonſcrivono lo ſpazio, fen za far attenzione rifeffa, nè al modo, nè al numero, nè al fito dei limiti ſtelli. Spiegherd la coſa con un eſempio più fa cile. Egli è impoſſibile che io concepiſca un triangolo ſenza rappreſentarmi che egli fia, o Equilatero, o Iſollele, Sca leno; altro è poi, che nel rappreſentarmi uno di queſti crian goli io non faccia determinata attenzione alle ſpecie dei tre lati. Noi non intendiamo le cofe, dice San Tommaſo, ſe non cona vertendoſi a' fantasmi loro. Ora a qual fantasma è anneſſa l' idea della figura? Confuſamente a tutte le figure; ma io non ne, con (01 ) conſidero diſtintamente alcuna, e ſolo attendo a ciò in cui cut te convengono, ed è d' eſſere uno ſpazio circonſcritto; ma ſe nel concepire l' idee de' generi delle coſe matematiche v'è canta dif ficoltà ammettendo l' idee ſeparate, quale ve ne ſarà nell'idee metafiſiche? Nell'ipoteſi Pitagorica ſi dovranno aſſegnar idee del poflibile, dell'ente, dell'atto, della potenza, della cagione, del principio, del modo, dell'attributo, del terminato, è dell ' indeterminato, del neceſſario, del contingente', del perfetto dell'imperfetto ec. nè ſolo di queſte coſe, ma del prima, del dopo, dell'inſieme, del ſeparato, e finalmente del genere in quanto genere, e della ſpecie in quanto ſpecie: coſe tuote af furdiffime nè abbaſtanza eſaminate da coloro che preteſero che noi vediamo le coſe in Dio, perchè ad ognuna di queſte coſe non men che all'eſtenſione, ed al numero dovrebbe aſſegnarſi un'idea, Ariſtotele con gran ragione v'aggiunſe, che neli ipo teſi dell' idee ſeparate, oltre l'idee de relativi converrebbe am mettere l'idee delle negazioni, e delle privazioni, o degli op pofti, cioè dei contraddittori dei contrarj ec. 9. 13. Dace l'idee, data la loro participazione, ed eſcluſa la compa razione a'ſenſibili, ricerca Parmenide fe debbonſi annoverare l'idee tra gli enti relativi; od aſfoluti. Vi fono delle coſe, di cui tutta l'eſſenza conſiſte nel riferir fi all'altre, e queſte ſono relative, (8. 8.) é ve ne ſon altre di cui l'eſſenza conliſte nella non ripugnanza dei predicari, che le coſtituiſcono, e queſte ſon le affolute; Poichè tutto l'efferé de’ relativi è nel loro confronto, (5.8. ) includono effi neceffaria. mente due termini tra loro oppoſti, il fondamento dei quali fo no le coſe affolute, che tra loro fi comparano; quindi il fonda mento del relativo è sempre l' aſſoluto. Un Uomo fuffifte per sè, e ſe foſſe ſolo nel mondo, non farebbe nè Padrone, nè ſer-' vo, ma ſuppoſto che viva in una ſocietà, può eſſer l'uno, e l' altro, in guila però che non è ſervo in quanto Padrone, nè Pa drone in quanto ſervo, ma come Padrone ſi riferiſce a coloro cui comanda, come ſervo a coloro cui ubbidiſce, e l'uno, e l' altro gli accade in quanto è Uomo, ed a diverſi Uomini li ri. feriſce. Poichè dunque l'idee fi riferiſcono ai fimili che le par tecipano, biſogna che ſieno in ſe ſteſſe e parimenti perchè i ſimili che partecipano l'idee fi poffano riferir all’ idee, convie ne che fieno in ſe ſteſi. Biſogna in una parola, che l'idee, e le coſe che le partecipano abbiano un' eſſenza determinata. Con clude (62 ) 1 clude quindi Parmenide, che l'idee hanno tra loro, un ' eſſenza, ma che queſta non è un eſſenza tutta: relativa alle coſe che ſo no appreſſo di noi, o pure le coſe fi nominano ſimiglianze, o in altramaniera di cui facendoſi partecipi, noi la nominiamo con, qualunque di eſſe.;. aggiunge parimenti, che le coſe che ſono in noi, non hanno la virtù ſua d'eſiſtere in verſo l' idee, ma fono quel che ſono relativamente a ſe ſteſſe. Parmenide quin di chiama le cofe. che ſono in. noi,, e: in torno a noi: equivoche: all' idee.. Cagione equivoca: degli animali, delle piante, de metalli ec. diſero Ariſtocele, e gli Scolaſtici il Sole, perchè ſebben concorra alla loro generazione, non conviene con loro, 0 non gli aſſomi glia che nell'eſſere. Parmenide parlando ad bominem par che allu da all' opinione di Socrate, il quale nell' ammecter l' idee, come cagioni delle coſe, era sforzato ad ammetterle come cagioni equivoche,, non potendo ammetterle, come cagioni eſemplari, il che: Ariſtotele così: dimoſtrò:-ſe quando l'Uomo fi genera da Socra te, eglis'alfomiglia all'idea, e non a Socrate, fi potrà generar: { mile all'idea, liavi o non ſiavi Socrate;; ma ľ Uomo generandofia non s'aſſomiglia all'idea, ma a Socrate, come è manifeſto dall' eſperienza; dunque Socrate, e non l'idea è l'eſemplare del generato: Poſto dunque che l' idee: influifcano nella generazion delle coſe, convien ſempre porle, come cagioni equivoche;: ma da: chi Ariſtotile traffe cal idea, ſe non da Placone? ' Or fe: l'idee non hanno relazioni alle coſe, o ſono diloro ca gioni equivoche, come poſſiamo conoſcerle? Se le piante, de pie tre ragionaſſero,. potrebbono mairappreſentarli (rimirando ſe fteſ. ' fe,. ), che il Sole foſſe loro: tanto diſſimile? che ebbe. tanta parte nella loro generazione. Le noſtre idee non ſono cagioniequivoche delle coſe, le quali noi produciamo affilandoſi ſul loro modello. Un Architeto uno Scultore, un Pitcore fanno la caſa, la ſtatua,., l'immagine ſecondo l'idea che ne hanno formata, e perciò comparano l'effet to all' idea per miſurarla,, e perfezionarla;, nella combinazione dell'idée chiare,. e diſtinte conſiſtendo la ſcienza, l'oggetto del la noſtra ha ſempre proporzione all'idee che d'effo formiamo;.. ma ſe l.idee: ſeparate come cagioni equivoche non hanno alcu na proporzione con le coſe che vediamo, non par poffibile di: riconoſcerle, e in conſeguenza aver- Scienza di loro. Delle co fe quindi rivelate, non abbiamo ſcienza ma fede; ſono certe, € infallibili, ma non a noi: chiare e diftinte.. Platone nel Filebo ſtabiliſce due generi di coſe; altre non 'han no avuto origine, nè finiranno giammai, perchè ſono immutabi li, e fempiterne; altre non ſono perchè ſempre 'fi fanno ſono a generazione, et corruzzione ſoggette: À queſti due ge neri di coſe, ' fa corriſponder due generi di cognizione; delle coſe immutabili, ed eterne ſi ha ſcienza, dell' altre non ſi ha che opinione. Le coſe di cui s' ha ſcienza ſono l'idee, perchè ſono ſempre nello ſteſſo ſtaro, nè ſi può ſapere ſe non ciò che è, ed è ſempre nel medeſimo modo; le coſe di cui s' ha opinione fono le coſe ſenſibili, perchè continuamente fluendo, non ſono mai nello ſteſ fo ſtato. Come dunque Placone nel Tilebo, dà fcienza dell'idee, e nel Parmenide non la dà? La riſpoſta generale è, che da cid che ſi dice in un Dialogo,nulla deve inferirſi relativamente a cid che ſi dice nell'altro, perchè Platone non ragiona ſecondo la ſua ſentenza, come nelle lettere per eſempio, ma ſecondo le ſenten że altrui; oltre a cid, Platone trattando nel Filebo della defini zione della ſcienza egli è manifeſto, che tratta ſolo della ſua pof fibilità relativamente all'oggetto,ſenza poi procurarſi di cercare, ſe ſi dia o no tale ſcienza negli Uomini, I Matematici definiſco no il cerchio, e il triangolo in quanto è poffibile, nè fi curano ſe eſiſta o.no: quindi ben ' li definiſce la Filolofia, la Scienza dei poffibili in quanto tali; nel Parmenide non della poſſibili tà, ma dell'attualità della ſcienza ſi tratta, e Parmenide mo ftra, che dandoſi l' idee ſeparate non poſſiamo aver 'ſcienza di effe, perchè non hanno alcuna proporzione con noi, e con le coſe.noſtre. 5. 15. Ammettendo con S. Agoſtino, e S. Tommaſo, cheIddio ab bia idee, e molte idee, onde per eſſe conoſca i ſingolari, i fu turi, i contingenti, gli infiniti, non perciò poſſiamo dire, che abbiamo ſcienza dell' idee di Dio, o che poliamo conoſcere co me per queſt' ideeegli conoſca le coſe. Il Malebranchio, ed il Poiret, che lo tentarono, caderono ſecondo la fraſe di Socrate in ciancie ineſplicabili. 1. 16. (64 ). S. '16.: s' inoltra Parmenide: La ſcienza in sè conliderata è un'idea, come la bontà, la bellezza ec. ma ſe queſt' idea della ſcienza, non ha alcuna proporzione alle ſcienze a noi note, non poßia mo conoſcerla, poichè le ſcienze intanto a noi ſono note in quanto verſano su noi, o su le coſe che ſono intorno a noi. Or non conoſcendo l'idea della ſcienza in quanto tale, nè men poſſiamo conoſcere ſcientificamente l'altre idee, perchè per aver ſcienza dell' altre idee convien participar dell'idea della ſcien za, ciò che è impoflibile: Parmenide par qui ſupporre che la noftra ſcienza paragonata all'idea della ſcienza ſia come il zero all' infinito ma ſe noi non participiamo dell'idea del la ſcienza, come potremo ſcientificamente, o chiaramente, e diſtintamente conoſcere il bello, l'oneſto, il giuſto, e l'altre idee? Nulla a mio credere v'è di più acuto, e profondo che queſtº argomento, e quel d ' Ariſtotele non l'eguaglia, benchè per altro concluda contro l'ipoteſi dell' idee ſeparate. Oſservò egli che lº idee eſsendo immutabili per loro eſsenza, non ſi può per eſse ſpie gar il moto, dalla cui cognizione dipende quella della natura; dunque l' idee ſono inutili alla ſcienza per cui furono introdotte. Coloro i quali amiſero con Eraclito, che le coſe ſenſibili ſono in un continuo fluſso, ricorſero all'idee ſeparate, le quali immutabili eſsendo, ſomminiſtravano a? Filoſofi dei principj immutabili del loro ſiſtema; la difficoltà è come i Filolofi le conoſceſsero, ſe la lor mente, non nell' eſsere, ma nell operare dipende dagli organi del corpo umano, ſoggetto alle vicende dell'altre coſe fenfibili? f. 17. All' argomento tolto dal principio di contraddizione del pro greſſo all' infinito, Placone aggiunge l' altro tolto dalle perfer zioni Divine. Come il retto è la miſura di ſe ſteſſo, e del cur vo, così il cumulo di tutte le perfezioni che è in Dio; ci ſer ve di miſura per giudicare, e delle perfezioni di Dio ſteſso, e di quelle dell'altre coſe. Per via del principio di contraddizio: ne del progreſso all'infinito ſi dimoſtra l'eſiſtenza di Dio, e per via, o di negazione, o di eminenza, o di caſualità, fi di moſtrano le infinite perfezioni di lui, onde ſe a qualche data ipoteſi conſegua l'annullazione di qualche perfezione divina, l'al ſur ſurdo è maſſimo, perchè Dio nell' effer principio dell'eſiſtenza, è ancora principio di tale eſiſtenza, e nulla può eſiſtere ſe ri pugna alla natura Divina. Socrate non potea non conoſcer Dio comeprincipio intelli gente, dunque era neceſſario, che gli attribuiffè l' idee non me no convenevoli all'intelletto, che i tre lati ad un triangolo; pur tace Socrate, quando Parmenide gli prova, che la perfec tiſſima ſcienza o P idea della ſcienza convenendo a Dio, egli per queſt' idea non poteva conoſcer le coſe, ciò che era con trario alla divina natura. Par dunque che Socrate ſupponeſſe l' idee ſeparate, ma dall'altra parte Ariſtocele dice chiaramen te, che Socrate noo ammetteva l' idee ſeparate ſe ben deffe gli univerſali. Non ſi ſoddisfarebbe in parte alla difficoltà, di cendoli che Platone, per bocca di Socrate, parlò dell' idee in fenfo poetico, per aver occaſione d'annullarle, e propor la doc trina che ha da lui copiato Ariſtotele, e della quale poi ſi ſervì contro que' diſcepoli di Platone, che realizzarono l' idee ſeparate.. 18. Annullate l' idee ſeparate, la voce idea nel progreſo del Dia logo, tutta fi riſtringe all' idee, che la mente aftrae comparan do le coſe. S'è già accennato ($. 8.) il modo, con cui deduſ fe Parmenide l'idea della grandezza, e de' ſimili, e li vedrà inoltrandoſi, che egli parlando dell' uno e dell'ente, proteſta di ſeparar le coſe con l'intelligenza, e con queſta fino sbra narle', che è quanto dire, diſtinguer i concetti o l' idee, ſecon do i rapporti delle coſe, foſſero ancora quefte ſempliciffime; nulla v'è di più ſemplice dell'anima per ſua natura indiviſibi le, e pur in eſſa ſi diſtinguono varie potenze, ſecondo le rela zioni, che ai varj organi del corpo ella ha operando, onde fi dice che ella ſente, ë che ella immagina. Nella parte ancora intellettiva, ſi diſtinguono le facoltà che ella ha di comparare, e di aſtrarre, e di combinare e di, e di contemplare l' idee', onde ella dichiaraſi mente, e ingelletto, (c ) voci non altrimenti fi nonime, poichè le loro etimologie di confrontano ai varj uffizj dell'anima; tutte quindi le ſcienze ſono ſu l' aſtrazioni fonda te. La fiſica aftrae dalle coſe ſingolari, la matematica dalle ſen Tom. 11. i (a) Mens è detta a menfura, poichè l' anima compara, e miſura le coſe, Intellectus da intus legere, poichè intendendo ſcieglie, e deduce una cola da un' altra. fibili, (06 ) fibili, la metafiſica da ogni materia. Vuole il Patrizio, che come in una gran parte del Sofifta, čosi in tutto il Parmeni de non ſi tratti che di quella metafiſica, che Ariſtotele colſe da Placone, e di cui le prime idee ne diedero i Pitcagorici, e tra gli altri, Archira e Peritione; io v'aggiungo che la me cafifica avendo due parti, cioè l' ontologia, o la ſcienza, che tratta delle proprietà dell'ente, in quanto ente, e la Teolo gia naturale o la ſcienza, che tratta delle ſoſtanze ſeparate dal la materia, come Dio e l'anima, Parmenide ſi riſtringe in que ſto trattato all' ontologia, e manifefte ne faranno nel progreſo ſo le prove; baſta accennar qui, che dovendofi dar un elem pio del modo con cui s acquiſtano l ' idee, ſcieglie Parmenide l'idea dell'uno, applicando ad efla il metodo delle fuppoſizio ni. Due coſe aggiunge alluſive all'analiſi, ed alla ſinteſi. La prima che ufficio e d' uomo ingegnoſo il poter apprendere, come ſi ritrovi il genere di qualunque coſa, ciò che ſi fa cominciando dall'analiſi, o dall'eſame delle coſe particolari, e per l'aſtra zione, elevandoſi agli univerſali; la ſeconda, che ufficio è di uomo meraviglioſo inſegnar agli altri le coſe ritrovate, ciò che ſi fa per la ſinteſi, combinando l'idee generali, e quindi le lo ro combinazioni, da cui ſi deducono i problemi, e i teoremi, ed indi i corollari, e le annotazioni. Sommo acume di men te fi ricerca nel far le opportune aſtrazioni, e di nuovo da.quefte aftrarne altre, ſin che ” analiſi propoſta ſi riduca all' ul time idee, e ſomma fodezza, ritrovare l'idee, concatenarle in guifa che alcri con facilità, e prontezza le intendano, e l'uno, è l'altro dimoſtra Parmenide, o col luo nome Placone. Se l'uno che ne ſegua. b. I. Vuol Uole il Ficino, che queſta prima fuppoſizione debba inten derſi. Se l' uno, perchè il verbo è, o ſia la copula del predicato o del ſoggetto v'è pofta, non in grazia della coſa, ma dell' orazione. Nel legger la nota marginale del Ficino mi ricordai, che Licofrone (a ) invecedi dire, il parete è bianco, di ceva il parete bianco, ed altri il parete biancheggia, quaſi che Platone non riprovaſſe nel Sofiſta l' orazion ſenza verbi, o che Ariſt. 1. Phil.  che i verbi non foſſero ſtati inventati per compendiare i gius dizi ! Non è forſe lo ſteſſo il dire, io amo, che io ſono aman te é io biancheggio, che io fono biancheggiante? La fuppofi zione dunque, je l' uno equivale all' orazione condizionata, ed implicità fé uno, nè così la propone Parmenide, ſe non per intimarci, che a null' altro fi deve badare nell'ipoteſi, che all uno preſo in un concetto aſtrattiflimo. Nella Geometria ſinteticamente ſi comincia dal punto prin cipio della linea; nell'aritmetica, dall'uno principio del nume ro; e nell' ontologia dall' uno traſcendentale, che conviene ad ogni noftra idea. Eſclude tutte le relazioni, perchè riferendofi l'uno per eſempio ad A, B, C ec. non è più uno, ma molti, in quanto in lui fi conſiderano le diverſe faccie che ſi riferi ſcono ai molti. Parmenide in queſta prima ipoteſi eſclude dall' uno cutte le relazioni, cioè quelle dell'ente in genere, e l'alore dell'ente in fpecie. Relazioni dell'ente in genere ſono l'identicà, e la di verſità, perchè non competono meno alla ſoſtanza, che alla quantità, qualità, ed agli altri predicamenti. Relazioni dell'en te in fpecie ſono, la limiglianza, la diſſimiglianza, Peguaglian za, l'ineguaglianza, l'antichità, la novità eco perchè competo no o alle fole qualità, o alle ſole quantità ec. * l une e l'altre intanto ſi dicono relazioni, in quanto non conſiderano le coſe in ſe ſtelle, ma relativamente tra loro: il diffimile, l'eguale ec. non li concepiſcono ſenza i due termini, che tra loro fi paragonano. Se l' uno in quanto tale non può compararſi ad alcuna coſa, biſogna eſcluder da lui tutte queſte relazioni, tan to più ſe nelle coſe riferite s'includono i molti. Parmenide comincia dall'eſcluſione delle relazioni più facili a conofcere', che ſono quelle della quantità; paſſa alle relazioni della qualità, e ad alcre, e finalmente all'eſſenza; nè di ciò con tento efclude le relazioni, che l'uno può aver all'opinione, al la ſcienza, é lino al nome. Se l'uno in queſto concetto aftrat tiſſimo fi nominalle, avendo ogni nome relazione al ſenſo, al la fantalia, od alla mente, e quindi a tutti gli uomini, che lo pronunziano o l'odono, l'uno con l'aggiunta di queſte relazio ni ſarebbe molti. Si ſente più che non s'eſprimequeſt' ultimo grado, ed abbiamo grande obbligazione a Platone, che in que Ro Dialogo, nel rappreſentarci la dottrina della fetta Eleatica, ci ha moſtrato l'uſo opportuno delle aſtrazioni. Egli di conten ta di non moltiplicarla, che fino ad un certo grado, a fine che l'idea coll' altrarla tanto non s'inlanguidifca, è sfumi; onde al fine la mente non poſſa più ravviſarla in quella guiſa, che i 2 l'im 708 ) l'immagine d'un oggetto riflettuta da uno ſpecchio ſucceflivamen te in molti altri, al fin diviene si ombratile, che ſvaniſce da. gli occhi. Frattanto era neceſſario dimoſtrare in un ſoggetto aſtrattiſſimo per sè, l'uſo dell'ultime aſtrazioni che può far la mente, non eſſendovi altro modo di accennare, come in ogni quiſtione s'arrivi a quell' ultima idea, in cui conviene che vi ci ripoſi, anco malgrado l'impeto innato, che inevitabilmente ci porta a ſempre più nelle cognizioni inoltrarci. Nell'inveſtigazione poi dell' idea vaga Parmenide per tutti i generi, come era in uſo nell'antica Dialetica, e fatta la ſuppoſizio ne determinata per via di comparazioni, ed eſcluſioni, egli ricava il punto preciſo della quiſtione propoſta. Con la chiarezza maggio re che io poſſa, procurerò deſprimer diſtintamente tutti i gra di tallor dell'analiſi, e callor della ſinteſi Parmenidea. Nel trat çar l'altra quiſtione meconvenne ſeguire le interrogazioni, e le riſpoſte degli Interlocutori ma quà folo Parmenide parla; onde bafta ſolo ſeguendo l'ordine del Dialogo premetter le.co. ſe neceſſarie, eſtrar la propoſizione, e dimoſtrarla fe fi può cal metodo de' Geometri. L' uno non è molti. Abbiamo quanto baſta illuſtrata queſta definizione; qui fo lo avverto, che come il Wolfio, dopo d'aver definito, che l'en te ſemplice è cid che non ha parti, da queſta definizione ne gativa egli deduſſe, che l'ente ſemplice non è ſteſo, non è diviſibi le, ſenza figura, ſenza grandezza, che non riempie ſpazio, che non ha moto inteſtino ec. Così Platone, da ciò che è l ' uno, dimoſtra le fteſſe coſe, e molt'altre che andremo partitamente, conſiderando, e deducendo dalle nozioni preme{le. g. 3. 11 Wolfio defini il tutto ciò che è lo ſteſſo con molti; per abbracciar in una definizione non ſolo il tutto integrale, che chiamaſi totum, ma ancora il potenziale che chiamali omne. Lo ſteſſo, come ſi vedrà fra poco, conviene non meno alle quantia tà, che alle qualità, ed alle ſoſtanze, e l'idea di molti è più univerſale, che quella delle parti, convenendo i molti e agli enti ſemplici, ed a' compoſti come a' quantitativi. Parmenide non definiſce qui, che il tutto integrale, raccogliendo inſieme le 1 (69 ) le parti, e limitandole in uno, a cui niente manca, ed è per fua natura indiviſibile; la nozione di molti è quindipiù aftratta della nozion delle parti, e in queſto ſenſo Ariſtotele diffe, che il tutto è prima delle parti, e non le parti del tutto, il che, ſe ſi crede al Patrizio, tolfe da Ippodamo Turio. (a ) §. 4. L'uno non è nè tutto, nè parte di sè. Se l'uno è tutto non vi manca alcuna parte, ($. 3. ) dunque ha parti; dunque è molti contro la definizione dell' uno ($. 2. ) Se l'uno è parte di sè, è un tutto riſpetto a sè, ma non pud eſser un tutto, come ſi dimoſtrò; dunque non è parte disè. L'uno non effendo nè tutto, né ſteſo, od è indiviſibile, o è ſemplice. parte, non è 8. S. Ogni cutto ha principio, mezzo, e fine. Cid vuol dire, che propoſtoſi un turco nel numerarne le parti fi comincia da quella che chiamaſi prima, e li progrediſce all' ultima paſſando per le intermedie. §. 6. L'uno non ha principio, nè mezzo, nè fine. ol, Se l'aveſse ſarebbe un tutto ($. 5. ) il che è impoſſibile (8.4. ) Speſre volte inſegnò Ariſtotele, che l'infinito è ſenza principio, ſenza fine; offerva il Patrizio, che lo preſe dal Parmenide, ove ſi dice, che l'infinito (o piuttoſto come io crederei l'indefinito ) non ha ne principio, nè fine, cioè non ſi sa in eſſo, nè dove comin, ciar la numerazione, ne dove terminarla. In queſto ſenſo una li nea non è propriamente infinita, o indefinita, le comincia da un punto, nè una ſuperficie, nè un corpo, ſe la ſuperficie comincia da una linea, e il corpo daunaſuperficie. A queſti infiniti måtema rici, che cominciano da un termine, non compere la definizione, che Platone aſſegna dell'infinito, da cui eſclude il principio, ed il fine. (a ) Diſcuſ. perip. T. 2. p. 280. S. 2: (70 ) S. 7. L ' uno è infinito. L'uno non ha principio, nè fine (S. 6. ) Dunque è infinito. (An. Si 6: ) 9. 8. La figura è una parte dello ſpazio, o dell'eſtenſione circonſcrit ca da cerci limiti, o è retta come il quadrato, il cubo ec. o ro tonda, come il cerchio, la sfera, Pelifli, l'eliffoide ec. o miſta dell'uno, e dell'altro. Il principio della figura è dove i moder ni pongono il vertice, il fine dove pongono la baſe", il mez zodove la figura fi divide per mecà. 8. 9. L'uno non ha figura. Ogni figura, o recta, o rotonda ha principio, mezzo, o fine (8. 8. ) ma l'uno non ha principio, nè mezzo, nè fine. ($. 6. ) Dunque non ha figura. L'uno è infigurabile. $. 10. Non lo può concepire', che una coſa ſia in ſè ſteſſa ſenza il di 1 ſtinguere con la mente, che ella è comprendente e compreſa, cid che è concepirla due volte, o di uno far due. Non ſi può conce pire, che una coſa ſia in altrui, ſenza che ella ſia toccata in mol te parti. Il luogo abbraccia, o comprende la coſa in lui colloca ta · Eſer in alcrui, od effer in ſe ſtello,, ſono due oppoſti ſenza. mezzo, come il moto, e la quiete. So IT. L'uno non è in luogo. O ſarebbe in sé, o in altrui; ($. 10. ) ſe in sè, egli ſarebbe a sè il ſuo luogo, onde abbracciando ſe ſteſſo ſarebbe nel tempo fteflo, e comprendente, e compreſo, cioè l' uno ſarebbe due co ſe o molti contro la definizione ($. 2.) ſe foſſe in altrui, fareb be 1 1 1 1 (71 ) be toccato in molte parti, onde avrebbe molte parti contro la definizione. (§. 2. COROL. L'unonon è circonſcritto da alcuna coſa, terra, Cielo, materia, ſpazio ec. ANNOT. Daqueſto argomento lice inferire, che Parmenide cob ſidera qui l'uno, in quanto è dalla mente aſtratto da corpi, che ſono in luogo; s'è già oſſervato, che l'ontologia degli anti chi era fondata su l' idee aftratce dalla materia, dalla forma, dal compoſto, dagli accidenti; onde queſt'uno aſtratto da corpi, e da loro dipendente non ha alcuna relazione a Dio, ch'è un ente per sè, in sè, infinito cc.. 12. Il moto alla ſoſtanza, ſecondo Ariſtotele, è quando una coſa, per eſempio una parte di terra ceſſa d'eſfer terra, e comincia ad eſſer pianta. Il moto alla quantità è quando una coſa, per eſempio un fanciullo creſce nella ſtatura, ed un vecchio decreſce. Il moto alla qualità è quando per eſempio la carne d unUomo fredda, dura, ed aſpra, li fa da sè calda, molle, liſcia. Preten deva Ariſtotele, che queſti tre moti dipendendo dalla forza in crinſeca, che facea cangiare alle coſe la ſoſtanza, e gli acciden ti loro, li diſtingueſſero dal moto locale, nel qual altro non ſi con ſidera, che il paſſaggio da un luogo all' altro: Parmenide, o Pla tone, benchè parli del moto di generazione, e d'alterazione, par ſolo far attenzione, ſecondo l'ulo de'moderni, all'accoppiamento delle parti, e quindi all aumento delle qualità, due coſe accom pagnate dal moto locale, o di traslazione. Lo conſidera egli in linea retta, oin cerchio, nel qual moto una parte della coſa et forma nel mezzo, e le altre parti fi rivolgono intorno al mezzo. Vuol poi, che tutto ciò che ſi genera ſi faccia in qualche luogo ſecondo il principio da lui in queſto Dialogo replicato più volte. Ciò che non è in alcun luogo è nulla. Platone nel Teeteto dice per bocca di Socrate: Se dimoſtran eli una ſpecie di moto, o due ſpecie, come a me pare, nondimeno io conſidero che cid non ſolamente appaja a me folo, mo ancora tu ne fii partecipe, acciocchè amendue parimenti patiamo qualunque coſa face cia meſtieri, ficchè mi di, cbiami tu forſe moverſi, quando alcune coſa fe mute da luogo a luogo, e nello steſo ſi raccoglie? Teodoro glie lo concede. Socrate ſoggiugne: Dunque fiare una specie questa, ma quando fermandoſi alcuna coſa nello ſteffo luogo s'invecchia, o di bian, ca fi fa nera, o dara dimolle, e ſi altera da certa altra alterazione, son chiameremo noi meritamente queſt' altra ſpecie di movimenti?... Ora dico che fieno due le ſpecie del movimento cioè alterazione, la (72 ) la circonferenza. Egli dice circonferenza in luogo di traslazione in cerchio, per moſtrar che nel pieno ogni coſa va in giro., Conſidera poi quì, che nel farſi una coſa vi la un accoppia mento, nel qual prima una parte fi congiunga a quella che li fa, mentre l'altra parte, che ſi deve aggiungere, è ancora fuori della coſa. L'uno non ha moto di alterazione, nè di generazione. Non di alterazione, perchè ſe ſi altera non è più uno, ac quiſtando nuove qualità; ſe fi genera non è più uno, acquiſtan do nuove parti. Or nuove qualità, e nuove parti fanno molti; dunque ſe l' uno o fi altera, o fi genera, è molti contro la de finizione. IN ALTRO MODO. Una coſa non può generarſi o farſi che in un' altra, perchè tutto ciò che è, o fi fa, è in qualche luogo, ma ſe l'uno non può effer in un altro (S. 11. ) nè meno può farſi in eſſo. In ol tre ſe una coſa ſi fa in un altro, non ancora ella è ſe ſi fa. Or quando una coſa ſi fa, una parte è in lei, e una fuori di lei, perchè le parti fi vanno ſucceſſivamente aggiungendo, ma l'uno non avendo parti (5. 4. ) nè può eſſer nè tutto te in sè, nè tutto, nè parte fuori di sè. Dunque non può ge nerarſi. Corol. L' uno non è generabile, nè alterabile, nè par §. 14. L'uno non ha il moto di traslazione. L'uno non è in luogo (5. 11. ) ma la traslazione in linea ret. ta è una mutazione ſucceſſiva del luogo. Dunque l ' uno non eſſendo in luogo ($. 11. ) non può mutar il luogo, ſecondo la linea retta, ma nè meno pud mutarlo, ſecondo la linea circo lare, perchè deve raggirar nel mezzo, e tener fiffe le parti che fi rivolgono intorno al mezzo; ma l'uno non ha nè mezzo, né parte, dunque non può rivolgerſi in cerchio'(. 13. ) Dunque le alluno non conviene nè l'uno, nè l'altro, non gli conviene il moto di traslazione. Q. 15. 1 1. 1 (73 ) g. isi Come ſi concepiſce il moto, nel concepire la traslazione fuc ceffiva del mobile, o ſia il rapporto continuamente vario della diſtanza del mobile a ' corpi contigui, così fi concepiſce la quie te nel concepir il rapporto coſtante di diſtanza a ' corpi conti gui; quindi nel moto, il corpo va ſucceſſivamente occupan do diverſe parti dello ſpazio, e nella quiece occupa le ſteſſe par ti dello ſpazio. $. 16. Luno non è nè in quiete, nè in moto. L'uno non è in sè, nè in altrui (9.11. ) ma ciò che è in quiete, è ſempre nello ſteſſo, ciò che li move è ſempre in al trui. Dunque ſe l'uno non è in ſe ſteſſo, nè in altrui, non ſi ripoſa, nè ſi muove. $ 17 Platone ha ſin ora conſiderato l' uno per eſcluder da lui la ragion di tutto, di parte, di principio, di fine, di mezzo, di figura, di luogo, di moto, cioè per eſcluder dall' uno tutte le relazioni che appartengono alla quantità, come la più nota, e più facile. Senofane pur provava, che l' uno era infinito, im mobile, non ſi trasfigurava nella poſizione, non s'alterava nel la forma, non fi milchiava con alcri. Non è egli molto veri ſimile, che egli ne arecaffe le ſteſſe ragioni, che poi Parmeni de più fteſe, ed affottiglid? Paſſa Parmenide ad eſcluder dall' uno le relazioni dell'ente che appartengono alla qualicà, di cui le prime ſono l'identità e la diverſità. Non premette Parmenide alcuna definizione dello ſteſſo, e del diverſo; come fece del tutto; dai Pittagorici (a ) impard, al dir del Patrizio, che l'identità, e la diverſità non devono conſiderar fi come paſſioni dell' ente, ma come generi ſecondarj, i di cui primi ſono il moco e la quiere. Ariſtotele all'incontro riduce l' identità a una certa unità, e dichiara che ella come la diverſità appartiene alla ſuſtanza, poichè fteſse ſono quelle coſe che con vengono, o nella materia, o nella ſpecie, o nel numero, o nel Tomo II. k gene (a ) Diſcuſ. Perip. T. 2. p. 207. (74.), genere di cui una è la ſoſtanza. Platone eſtende l'identità, e di verſità alle qualità, e da lui impårarono i matematici a dire, che le ragioni o proporzioni, che ſono le ſteſſe con una ſtella, ſo no le ſteſſe tra loro; e non ſi dice pur tutto giorno lo lteſto grado di calore, di lume ec. e. parimente ragioni diverſe, di verſo grado di calore, di lume ec. Dunque non alla ſola fo ftanza, ma alla quantità, alla qualità, ed agli altri predicamen ti apparciene lo ſtello, e il diverſo. Inliftendo il Wolfio su le nozioni ſcolaſtiche, dà il criterio per diſtinguere lo ſteſſo dal diverſo. Quelle coſe, dice egli, fou no le stelle che ſi poſſono ſoftituire. ſcambievolmente ſalvo qua lunque predicato, che loro aſſolutamente, ſotto qualche con dizione convenga; ſicchè fatta la fortituzione, la coſa reſta ta le, come ſe non foſſe ſtata ſoftituita. Se in una bilancia, in cui ſang equilibrati due peſi, in cambio di un peſo, d' una certa grandezza, io ne ſoſtituiſco un alıro, in modo che l'equilibrio Loro non lia tolto, queſti due peſi, in quanto peſi, nulla diſtin guendoli: ſi chiamano gli ſteſſi. Se nel peſo che è prima nella bilancia, vi foſſe una certa figura, ed un certo colore, eun cer to grado di calore, e di freddo, ed anche un certo odore, e tutto ciò appuntino ſi ritrovalle nel peſo che ſi ſoſtituiſce, que fti due peſi non diſtinguendoſi, e nel peſo, e nell' altre qualità li chiamano gli fteſi; Lo ſteffo in numero è ciò che ſi afferma di ſe ſteſſo, o cui ripugna d'efiftere due volte; nel dirſi, queſto triangolo è que ſto triangoló, ' ſi predica lo ſteſſo triangolo di ſe ſteſſo, onde convenendo la ſtella eliſtenza al ſoggetto, e al predicato, egli è manifeſto, che il triangolo in quanto è nell' uno, e nell' altro non ha doppia eſiſtenza, mala ſteſſa, I diverſi poi ſono quelli, che ſcambievolinente non poſſono ſoſtituirfi, falvo ogni predicato che all' uno, o all' altro aſſo lacamente o condizionatamente convenga. Così nel caſo della ſoſtituzione de' peſi della bilancia, ſe un peſo nel ſoſtituirſi all' altro cangia d'equilibrio, il pelo ſofticuito è diverſo dal peſo, di cui preſe la vece; egli è diverlo in ragion di peſo, benchè per altro poteſſe eller lo ſteſſo nella grandezza, nella figura nel calore, ed altre qualità. Poſſono dunque le coſe eſſer le ftel ſe in un predicato, e diverfe negli altri; quindi ſi può diſtin guer lo ſteſſo, e il diverlo in affoluto, e in relativo; ſono aſ loluti, ſe le coſe convengono in tutti i predicati, o diſconven gono falva però la loro eliſtenza; ſono relativi le convengono in alcuni predicati, ma diſconvengono in altri. E'cid neceſſa rio di ben avvertire, perchè in queſto Dialogo fi prende lo ſteſ 1 1 ſo, 1 (75 ) fo, e. il diverſo in queſti due fenfi. Qul Parmenide perd pren de aſtrattamente la coſa, perchè a lui baſta, che l'identità, e la diverficà fiano affezioni, o generi delle coſe non preſe in sé, ma relativamente all'altre, baſtando queſta fola relazione per eſclu derle dall' uno; quindi può facilmente dimoſtrarſi, che l'uno non è, nè a se, nd ad altrui lo ſteſſo, perchè nel ſuo concerto aſtrat tiffimo efclude ogni comparazione; ma Parmenide in alcro modo lo dimoſtra, rappreſentandoſi alla mente per via d'una nozione immaginaria, che l' uno prima è uno, e poi per forza della com parazione egli è molti. Ciò ſi rende ſenſibile col diſegnar l'uno col ſimbolo aritmetico I, e poi aggiongendovi A, o qualche alera lettera, onde egli fia prima i, indi 1 + A. S. 78 L'uno non è lo ſteſſo, nè diverfo a sè, nè ad altri. Se l'uno foſſe da fé ſteffo diverfo, ſoſtituendoſi l'uno per l'uno dove prima della ſoſtituzione fi concepiva i, dopo della foftitu zione si concepirebbe 1 + A, dunque non più i contro l'ipoteſi. Se fia lo ſteſſo ad altrui egli farà quello, cioè 1 + A non cið che è, od uno, il che di nuovo è contro l'ipoteſi.. 19. L'uno non è diverſo, nè da altrui, ne da ſe ſteſſo. L'uno convenendo con tutte le coſe, perchè d'ogni coſa ſi dice, uno non è diverſo da effe, che in virtù di qualche predicato; dun que in quanto non è più uno; dunque non può eſſer diverſo dall' altre cofe. Non è la ſteſſa la natura dell' uno, e dello ſteſfo, perchè quando una coſa li fa la ſteſſa ad aleuna non ſi fa uno; il colore di A per efempio ſia lo ſteſſo, che il colore di B, non perciò mai A è B, perchè le due coſe colorite comparandoſi, benchè con vengano nel colore, e in queſto fieno uno, non perd convengono nell ' çliſtenza, Se gli Itelli non ſi conofcono, che per la Toſti tuzione, gli ftelli convengono bene ne'predicati; ma ſono fem pre due. Dunque quando una coſa ſi fa la ſteſſa con l'altra, di due non ſi få uno, ſe non inquanto ſi concepiſce, che con vengono, o nella quantità, o nella qualità ec. ma non perchè convengono non ſono due; dunque o l' uno paragonato all' uno ſi fanno due, e cosi l'uno non è uno, o reſtando uno non k 2 ſi può (70 ) la pudfar ſoſtituzione. Dunque non pud dirſi, che l' uno fia lo ſteſſo a ſe ſteſſo. 20. Parmenide paſſa a comparar l'uno coi fimili, e diffimili. Aris ftorele dice, che i ſimili ſono quelli che patiſcono lo ſteſſo, ei diffimili quei che pariſcono il diverſo; de' primi una è la qualità, dei ſecondi è diverſa la qualità,onde egli ripone i ſimili, e dilli mili ſotto l'identità, e diverſità, il che imparò da Platone nel Filebo (a ) e più facilmente dal Parmenide, ove Platone defini ſce il ſimile, per ciò cui adiviene patir lo tego, il diffimile, ciò cui adiviene patir il diverſo. Conſidera quì Parmenide le.qualità, come attributi o modi che ſi ricevano nel ſoggetto, il quale nel riceverle in cerca guiſa paciſce; ſono queſte nozioni immaginarie, come quella della ſoſtanza. Su queſte orme Parmenidee, il Wol fio definiſce i fimili quelli, in cui le ſteſſe ſono le coſe, per le qua li doverebbono diſcernerſi, onde ſecondo lui, la fimiglianza è l' identità di quelle coſe per cui dovrebbono tra loro diftinguerli. Se in due volti per eſempio io ritrovo nelle parti gli ſteſſi linea menti, ne' lineamenti gli ſteſſi gradi de' colori ec. in fomma ſe io ritrovo, che le ftelle fieno tutte quelle qualità, per cui dovereb bono diſtinguerſi, i due volti ſono ſimili; diffimili all'incontro ſono quei volti, in cui diverſe ſi ricrovano le coſe per cui tra lo ro fi diſtinguono, che vuol dire i lineamenti delle parti, le figu la collocazione, le grandezze. Il Wolfio fi fece ſtrada con que ſta definizione a definir i ſimili matematici, ben oſſervando, che le loro proporzioni, benchè abbiano per fondamento ilquanto, fi riducono al quale. re, S. 21. L' uno non è fimile nè diffimile ad alcuno, o a se, o ad altrui. Simile a quello cui adivienelo feſto (. 20. ) ma l' uno eſclu de lo ſteſſo (S. 18. ) Dunque efclude il ſimile. L’uno ſe riceve alcuna coſa fuor di quello che è l' eſſer uno, pa tiſce d'eſſer più l'uno, perchè egli è l'uno, ed inſieme la coſa che pariſce, onde almeno egli è due o molti; dunque non è più uno; dunque ſe l’uno non paciſce d'effer lo ſteſſo, o loco, o con altri, non può eſſer a ſe ſteſſo, o ad alcri ſimile, (a ) Patriz. Diſcuſ. perip. p.202. Il (77 ) Il dillimile è quel che pariſce diverſità (5. 20. ) ma l'uno non può parire diverſità, dunque non è, nè diverſo da lui, nèda altre coſe, altrimenti non ſarebbe più uno; dunque l'uno non è diſli mile, nè a ſe ſteſſo, nè ad altrui. 1 l. 22 Concluſo che ha Parmenide non convenir all'uno, nè l'iden: tità, nè la diverſità, nè la ſimiglianza, nè la diffimiglianza, paſ fa a ricercare ſe gli convenga l'eguale o l'ineguale, due pro prietà delle grandezze comparate P une all' altre; l'eguale im murabilmente ſta nel mezzo, da cui l' ineguale allontanandoſi per ecceſſo ſi chiama maggiore, e per difetto minore. L'egua le paragonato all'eguale ha le ſteſſe miſure, paragonato al mag giore ha meno miſure, e ne ha più paragonato al minore. Ra gionando Parmenide con Socrate ad bominem, fi ferve del ter mine di participare, che non è allegorico, ove ſi tratta di par ti. Offervo che non miſurandoli, ſecondo Platone, che con l'uni tà, e col numero, è manifeſto, che la miſura è ſecondo lui quan tità; pur gli attribuiſce lo ſteſso, e il diverſo. g. 23. L'uno non è, nè eguale, nè maggiore, nè minore. Non participando, nè dello ſteſso, nè del diverſo, non parte cipa mai, o le ſteſse, o le diverſe miſure, in conſeguenza non è nè eguale, nè maggiore, nè minore. 6. 24. Come ſi miſurano le grandezze permanenti, così ancora ſi mi ſurano le ſucceſſive, le quali paragonare l'une all' altre, compete loro lo ſteſso e il diverſo, cioè il più, e il meno. Si dice che due Uomini hanno la ſteſsa età, quando è miſurata per lo ſteſso nu mero di rivoluzioni ſolari, e che hanno maggiore o minor età le ella ſia miſurata per maggiori o minori rivoluzioni ſolari. L'antichità, la vetuftà, la novità ſono relazioni degli enti ſuc ceflivi per rapporto alla loro eſiſtenza fucceffiva; antico ſi dice quello che da lungo intervallo di tempo e prima d'un altro; nuo vo quel che ora è, e non fu che già poco tempo prima d'un al tro; il giovane, il vecchio, ſono propriamente le differenze dell' età degli Uomini, mas'attribuiſcono per mecafora a curce le coſe. 9.25. (78 ) f. 25. L'uno non è più vecchio, più giovane di ſe ſteſso, o dell' altre coſe. L ' uno non pud participare, oo delle ſteſse,, o di maggiori o minori miſure degli enti ſucceflivi, perchè non può partici pare dello ſteſso, e del diverſo; ma quel ch'è più vecchio, partecipa di maggiori miſure, quel che è più giovine di minori, dunque ec. g. 26. Per ben intendere come uno nel farli più vecchio di fe fteſso o d'un altro ſi fa più giovane, mi è neceſsario trasferire alcu ne nozioni della ſeconda ipoteſi, ed aritmeticamente ſvilupparle. g. 27 6 3 5 4 Se il rapporto del maggiore al minore crefca per l'aggiun ta agli antecedenti, e a' conſeguenti d'una grandezza eguale, il rapporto ſempre decreſce. Sieno i numeri 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, i quali ſucceſſivamen te creſcono per l'aggiunta dell'unità, èmanifeſto che (a ) > 4 $ Si prendano i quozienti o valori delle ragioni. Il valore della ragione di = it; il valore di = ito il valore di = i +. Or tal eſsendo la ragione qual è il fuo valore ſe I +1/2 > it it ec. come è mani 3 feſto fard > 5 ec. Or rappreſenti A C l' età d'un 3 fanciullo di 3 anni, e B D l'età d'un | fanciullo di due anni, s' aggiunga alla А С F prima età un anno, ciod ad " A C. s'ag giunga CF, e alla ſeconda età B D SA D G. aggiunga un altro anno o DG. Onde s' averà la ragione di }; li vada aggiungendo ſucceſſivamente alle due età un'anno, ed indi un'anno, e li averanno le ragio ni di e di. Egli è manifeſto, che il fanciullo di tre anni è più vecchio di quello di due, ma nel creſcere all'uno, e all' al > 3 4 Ā 1 B tro (a ) Il ſegno è quello del maggiore, Il ſegno di < del minore. Il ſegno è quello dell'eguale. (79 ) tro un' anno la ragione che ne riſulta di è minore dell'altra; molto minore è quella di, e molto più minore quella di onde ſebben il primo fanciullo ſi faccia ſempre più vecchio dell'altro, contuttociò per l'accreſcimento dell'egual quantità ſi fa più gio vane relativamente, perché dove nella prima ragione la differen za era nella ſeconda è minore di 1, e quindi, ſempre mi nore. Egli è vero dunque, che un fanciullo nel farli' più vecchio d'un altro li fa ancora più giovane. Se non ſi compari l'età di due fanciulli, ma ſi conſideri folo l' erà di uno, che ſempre riſpetto a ſe ſteſso creſce di un'anno, egli è manifeſto, che per queſto eguale accreſcimento, nel decreſcer ſempre le ragioni degli anni cra loro comparati, lo ſteſso fanciul lo nel farſi più vecchio di ſe ſtefso, fi fa ancora più giovane. Si vede quindi, che nel farſi il più vecchio dal più giovane, fi fa cid dal diverſo, e che non è diverſo, ma'ſi fa. Corol. Lo era, lo efser ſtato, il li faceva, ſignificano i modi del tempo paſsato; il ſi farà, il ſarà, e ſarà per farſi, i modi del fucuro o dell'inanzi; l'eſsere, il farſi, i modi del preſente. f. 28. L'uno non è in cempo. Se l'uno fofse in tempo participerebbe delle miſure del tempo; dunque or ſarebbe più giovane, or più vecchio, ma queſto non pud eſsere, come s'è dimoſtrato (9. 25. Dunque ec, IN ALTRO MODO. Quel che è in tempo nel farſi più vecchio, ſi fa più giovane di ſe ſteſso, (§. 27.) ma l'uno non può farſi più vecchio, nè più gio vane di ſe ſteſso, perchè non può farſi, nè una cola, nè l'altra (9.25. ) Dunque non è in tempo. Il più giovane che ſi fa dal più vecchio è diverſo da lui, e non è ma ſi fa, ma l'uno non può ricever il diverſo (§. 18. ) Dunque non può farli dal più vecchio il più giovane; dunque non è in tempo. Il più giovane non ſi fa dal più vecchio, nè in più lungo tem po, nè in più breve di fe fteſso, ma ſempre nell'egual tempo con le ſteſso, o fia, o ſia ſtato, o ſia per dover eſsere; mą l'uno non è ſuſcettibile dell'eguale (§. 23. ) Dunque nè meno dell' egual tempo; dunque non avendo le paſſioni del tempo non è in cempo.. 29. (80 ) S. 29. L'uno non partecipa, nè del preſente, ' nè del futuro nè del paſſato. L'uno non eſſendo in tempo non può partecipare del tem po, ma le paſſioni del tempo ſono, il preſente, il paſſato, il futuro. ($. 27. ) Dunque non le partecipa. Corol. Se l'uno non è partecipe di niun tempo, non fu mai, nè ſi faceva, nè era, nè ora è fatto, nè fi fa, nè farà. 8. 30. Ogni ente, o ciò che è partecipe di eſſenza, è, ſecondo Plato ne, o nel tempo preſente, o ſarà nel futuro, o fu nel paſſato. Nel Timeo egli dice, che Dio per far il tempo fluente nel numero, fece un'immagine dell'eternità. Dunque l'eternità fiſſa in ſe ſteſſa non contiene, che il preſente, e ciò pur dicono i Teolo gi nel diffinirla con Boezio, una poſſeſſione tutta inſieme di una vita interminabile. Negando dunque Parmenide, che il pre ſente competa all' uno, gli nega l'eternità, onde è egli evidente che non parla di Dio, ma ſolo d'un ente di ragione, dal quale per l' astrazion della mente eſclude tutto ciò che involve rela zione a qualche coſa, ed anche a lui ſteſo. Dall' altra parte, qui Parmenide non eſclude dall'uno, ſe non cid che appartie ne per lo più alle coſe corporee e viſibili, il tutto, le parti, il luogo, l'eguale, il maggiore, il minore, la generazione, la traslazione, le differenze del tempo; e ciò che dice dello ſteſ. fo, e del diverſo, del fimile, e del diflimile, che pur conven gono alle coſe incorporee, lo ricava da ciò che ha negato ne' quanti. 1. 31. L'uno non è, o non ha eſſenza. L'uno non partecipa del preſente, del paſſato, del futuro (9.29. ) ma ciò che ha effenza partecipa dell'uno, o dell'altro ($. 30. ) Dunque l'uno non ha eflenza. Annot. Dall'uno conſiderato preciſamente come uno, cioè a dire oppoſto amolti, ſi debbe eſcludere, oltre l'eſſenza attuale, an cor la poſſibile, perchè la poſſibilità come fonte, e principio della realità porta ſeco qualche relazione a cid che eſiſte, é dall' uno ogni relazione deve eſcluderſi.; molto più le relazioni dell' uno all'ente, di ragione che chiamali intellettuale qual è il Lo-. gico, il metafiſico, il matematico, e l'altre relazioni ancora ché aver poteſſe all'ente immaginario ancor chimerico.. §. 32. tra coſa Primafi concepiſce la, non ripugnanza dei predicati delle co ſe, ed è l'eſſenza, e queſta non ſi dice d'altre coſe, o d'al tre eſſenze, ma bensì o gli attributi, i modi, e le relazioni fi dicono deſsa; cal è la definizione logica, che Ariſtotele diede della ſoſtanza, chiamandola ciò che non ſi predica d'al ma che tutte le coſe ſi predicano d'eſsa. In que ſto ſenſo l'eſsenza nel ſuo concetto aſtratto, non differiſce dal la foſtanza, che in quanto queſta ſi riferiſce a ſe ſteſſa, ed agli aleri de' quali è ſoftegno, per il che ſi dice, che ella non ha contrario, e non è capace di più, e di meno. Se l' uno non può predicarſi dell'uno, o di le ſteſſo, per non radoppiarlo o farne due o molti, egli è manifeſto, che non è ſoſtanza to più ſe fi conſidera col Wolfio, che nella nozione della fo ſtanza, v'è qualche coſa d'immaginario, perchè ella fi rappre ſenca alla fantaſią, come un valo od altra coſa, che in sè ri. ceve gli accidenti. $. 33 L'uno non è ſoſtanza. L'uno non ha eſſenza. (S. 31. ) Dunque non ha ſoſtanza ($. 32. ) ſ. 34. La ragione è propriamente quell'atto della mente, che da una coſa n'inferiſce un' alera, od è ancora ſe ſi vuole la con neſſione delle verità univerſali; la ſcienza è la cognizione cer ta, ed evidente delle coſe, ed è tutta opera della ragione che deduce una coſa da un' altra. Nell' attribuire una coſa ad un altra, ſe li ha qualche cimore, che ad efla ſi poſſa attribuire l'op poſto, ſi ha della coſa opinione. Col ſenſo poi non ſi percepi Icono, che le coſe ſingolari, o determinate in ogni parte, e quindi compoſte di molti. Da queſte definizioni e manifeſto chenegli oggetti della ragione, della ſcienza, dell'opinione, del Tom. II. I fen ((82 ). fénfo s } includono moki, çd - in oltre che ogni coſa, che.0.4 ſénte, o su cui di ragiona fcientificamente, od opinabilmente, ha un' eſſenza attuale o poflibile; falfa o vera. 1 $. 356 Dell' uno non li ha ragione, ſcienza, opinione, ſenfo. Quefte coſe includono molti, e dipendono dall'ipoteſid' un eſſenza (§. 34. ) ma l' uno non ha eſenza (S. 31. ) e non in olude molti (.9.,2. ) Dunque ec, g. 36 Non ſi dà nome ſe non alle coſe, della cui eſſenza, o per ragione, o per opinione, o per ſcienza, o per ſenſo ſi ha un ' idea o chiara, od ofcura, o diſtinta, o, confula, o miſta di que Ite differenze. S. 37... L'uno non ha nome. L'uno' non ha effetiza:(: 34:) Dunque l'uno non ha nome. 1 §. 38. Ragruppando in poco ciò che ſin ora ſi è detto, ſi può for mare tal fillogismo. Dal concetto aftrattiflimo dell' uno ſi de vono, eſcluder i molti di qualunque genere effi fieno; ma cid che appatriene alla quantità, alla qualità; alla refazione ec? vi s'includono imolti; dunque devono queſti eſcluderſi dal.concet to aſtrattilfino dell'uno,. ] Se fi diceffe, che così concludendo ſi confonde l'uno col nul la, manifeſto è l'inganno, poichè la definizione del nulla è, che egli non abbia nozione alcuna o poſitiva, o negativa, ciò che elclude dal nulla ogni realtà. Quando'io dico all'incontro, l'uno non é molti, non tolgo a lui ogni realtà, benchè eſplicitámen te io non vi rifletta. Io ſto più immobilmente che poſſo affil ſo su l'uno, in quanto s’oppone a molti, e in queſta conſide razione preſcindo più che poſſo dal conſiderar l' uno, o per rap porto all'ente, o per rapporto al mio penſiero; noi poſſiamo, come accennai, più ſentire, che eſprimere queſte preciſionimen tali, e momentanoe, ma 'non laſciamo di fentirte, e le fencia ·mo (83 ) mo ſe poffiamo eſprimerle in qualche modo, e farle' intendered agli altri; nè per altro la fcola Eleacica; ed indi Placone le pro poſe, che per addeſtrar la mente ad inveſtigar l'idee delle coſe. Era necelfario fciegliere per eſempio quell' idea, in cui la pre ciſione arriva all'ultimo grado, ove pofla mai giungere la men te umana. Non ſi conoſce mai bene la natura', ' ed'i precetti della arte, che l'imita, fe non ned maffimo. Io dimando al Lettore; che legge attualmente il Parmenide di Platone, e lo confronta col mio comentario, fè altro faccio in effo, che ſviluppare il fenſo.ovvio det tefto: Abbia pur Pro clo, e gli altri Placonici, e Gentili, e Criſtiani confiderato queſto Dialogo, non come ontologico, ma come Teologico, io ril pettando, e la dottrina, e l'autorità loro', dirò che la mia Spiegazione ontologica non impediſce, che degli intelletti più fublimi del mio, teologicamente non l'inalzino a coſe maggio ri, come fece il Cardinal Befarione, applicando a queſto Dia logo la dotrrina del preceſo S. Dionigi Areopagita. Si può ri leggere avendo preſente tútra l'intiera ſeſſione, quanto ivi diſ fi appoggiandomi alla dottrina di S. Tommaſo: Dio'è un en te fingolariſfimo, e nell' applicarvi quel che conviene all' en te di ragione; biſogna ftar attenti che non ſi confonda l' uno ton l'altro; la merafíſica degli antichi è la ſteffa che la me tafifica dei moderni; mia nel riferir la prima ' alle coſe, queſte includevano Dio, che gli antichi non ſeparavano dalla mate ria, che per preciſionedi mente, là dove la ſeconda conſiderando fe coſe non ha a Dio, che un'analogia molco lontana, perchè fi diſtingue eſenzialmente, é realmente dalle ſteſſe. Se l'uno è, quali coſe adivengono intorno ad eſſo. I. I. Nom On ſi ricerca ſe faecia meſtieri, che ſucceda- un cert' uno, ma ſe vi ſia l'uno; o pure ſoſtituendo la nozione imma ginaria ſe l'uno partecipi l'eſfenza. Dall'ipoteſi così propoſta ne fiegue', che' l'uno non è la pro: pria 'eflenza, o che l' effenzà, e l' uno non ſono gli ſteſi con: cerci z chi dice elfenza, dice preciſamente la: non ripugnanza dei predicati, e chi dice uno, dice 'non molti.; Nel cratcat queſta: ſuppoſizionë, Platone comincia a frami I 2 fchia (84 ) ſchiare all' aſtrazioni le nozioni immaginarie più che di ſopra Queſto fa ſovente l'oſcurità del teſto, perchè per intenderlo ci sforziamo toſto a concepire ciò, che non è che un' imaginazione ed imaginazione tallora falſa, da cui li deduce una contraddizio ne, nèſempre però vera, ma apparente, il che raddoppia l'ab baglio, ſe non vi s'attende; manifeſteranno gli eſempi ciò che io dico, in tanto mi ſia lecito di contraſegnare con due ſimboli diverſi, A, e B, i due concettidell'ente, e dell'uno. Nel farne il compleſſo A + B io rappreſento un tutto che ha due parti, che io tra loro ſeparo con la mente, per ragionarne più diſtintamente fi 2. Se l'uno è, ogni parte di queſto tutto (uno è:) può dividerſi in infinite particelle. Si prenda la particella uno, e ſi concepiſca come ſeparata per un momento dall'altra particella ence, poichè per la fuppoſizio ne l'uno è, egli è manifeſto, che conſta di due particelle, uno ed ente. Di queſto nuovo compleffo ſi prenda la particella uno, e queſta per la ſteſſa ragione ſi dividerà in due altre, ente ed uno, e così all'infinito. Or ſi prenda l'altra particella ente, e poiché ogni ente è uno, ſi dividerà queſta particella in due altre, le quali di nuovo fi divideranno, e così all'infinito; dunque ogni particel. la del cutto uno è, ovvero è l'uno, ſi divide in infinite particel le all' infinito. Così può ſenſibilmente rappreſentarſi. Ente uno А + B 1 Ente uno uno ente 2 a + 2b 2A + 2B ente uno uno | ente 3A ente, uno uno | ente 46 4A 4B 3. a 36 3B 1 uno, Come A + B rappreſenta il primo compleſſo immaginario della e dell'ente così 2a + 2b rappreſenta il ſecondo com pleſſo immaginario dell'uno, e dell'ence dedotto dall'ente, o da A, e parimenti 2A + 2B ſignifica il ſecondo compleſſo imma ginario dell'uno, e dell'ente dedotto da B. ANNOT. Qui Platone fuppone darli reciprocazione tra le due pror (85 ) propoſizioni l'uno è, è l'uno, nella prima delle quali l' uno è il loggetro, cliente è l'attributo, e nella ſeconda l'ente è il ſoggetto, e uno l'attributo. Perchè legitimamente ſia la reciprocazione del le propoſizioni, biſogna che il ſoggetto ſia tanto ampio, quanto l'attributo, onde può reciprocarſi la propoſizione. Il triangolo è una figura di tre lati; nell'altra ogni figura di tre lati è un trians golo, ma non già ſi reciproca la propoſizione, ogni ternario è nu. mero, perchè non ogni numero è ternario. Il non aver avvertita la legge della reciprocazione fece cader in molti parallogismi tallora i Geometri. Corol. Poichè ogni ente è uno, l'uno ſi moltiplicherà come l'ente, onde potrà dirſi, che l'uno è infinito, o che l'uno è mol ti. Queſta è la prima contraddizione di queſt' ipoteſi, ma è con traddizione immaginaria od apparente, perchè l'uno per sè non è molti, ma è molti per accidente, cioè perchè gli accade di mol tiplicarſi, ſecondo gli enti che lo partecipano, onde non predi candoſi dell'uno nel tempo ſteſſo, e ſecondo lo ſteſſo, gli oppoſti, non ha in sè vera contraddizione. g. 3. Platone s'inoltra con le nozioni immaginarie. Conſiderando l? uno, in quanto partecipe di eſsenza, lo prende ſecondo ſe ſteſso con l'intelligenza, ſpartato da quello di cui diciamo che ſia par tecipe, cioè dell'eſsenza. Ciò vuol dire, che dell'ente, e dell'uno Platone fi fa quei due idoli caratterizzati per A, e per B. Nel dirli che li prende l'uno coll'intelligenza ſpar; tato dall'ente, s'allude manifeſtamente all'aſtrazioni della mente. $. 4. 1 L'eſsenza o l'ente, e l'uno ſono diverfi. Alcro è l'eſsenza, ed altro l'uno (: 32. Sez. 2.) Dunque uno in quanto uno è dall'eſsenza diverſo, e l'eſsenza in quanto eſsenza è diverſa dall'ano; dunque l'uno, e l'eſsenza ſono diverſi; Co sì può illuſtrarſi tale ragionamento. L'ente o l'eſsenza in quanto eſsenza include la non ripugnan za dei predicati coſtitutivi; l'uno in quanto uno include l'oppo Gizione ai molti, ma queſti due concetti tra loro non convengo no; dunque ſono diverfi. 8. 5. (86 ) $. s. L'eſsenza, l'uno, e il diverſo fanno tre concetti o tre coſe trx loro diverſe. S'è già dirnoftrato, che l'uno, el ente non termi nando lo ſteſso concetto ſono diverſi tra loro, ma il diverſo non includendo nel ſuo concetto, che la non convenienza, fa un concet to diverſo, ed in conſeguenza una coſa diverſa dall' altre due; dunque l'eſsenza, l'uno, il diverſo fanno tre coſe diverſe.. 6. Si rappreſenti l'uno per A, l'enre per B, e il diverſo per C ne riſultano quindi. Le combi- FA B7 In ogni combi-7 Tre poi eſsendo le combina nazioni di nazione vie zioni v'è ancora A, B,CAC uno in due Erre volte uno? in ogni com uno in due tre volte due E binazione В С! uno in due tre volte tre Abbiamo dunque dedotto da A, B, C, o dall'ente, dall' uno e dal diverſo il 2.primo pari, il ' tre primo diſpari, dae volte 3 parimenti impari, 3 volce 3 imparimenti: impari. Sipuò an cora dedurre due volte due parimenti pari', e queſte ſono tutte le ſpecie dei numeri. Combinandoſi il 2 il 3 due volte, tre volte e fin quattro volte, ma non altre, ſi compongono tutti i numeri: fino al dieci. It 3* 2 + 2 = 4 2 + 3 2 + 6 = 3 ti 3 2 + 2 + 37 2 + 1 + 2 + 2 = 3 + 3 + 2 3 + 3 + = te: 2 + 2 + 2 +19 1 + 2 + 2 + + 3 = I + 2 + 3 + 4 = 10 II 10 è fatto dall'ı, e dal o, e ſignifica ', che il primo articolo dei numeri termina alla prima decina; fe ſucceſſivamente alla de cina ſi aggiunge l'i, il 2, il 3. ec. ſi arriva alla ſeconda decina, e collo ftelso metodo alla terza, alla quarta ec: fino al 100, che è la decima decina da cui ſi va fino a 1000, o 10 volte 1oo ec. I Pita (87 ) I Pittagorici chiamavanol yno il finito, come quello che li mitava l'infinito o l'indefinito ad una tal ſpecie o forma: dot trina, dice nel Eilebo Platone, la quale diſcende dagli Dei; queſta è, the tutte le coſe tengono in loro fteſſe il termine, o l'infinito innato; o piuctoſto l ' indefinito. Lo rappreſentavano nella materia i Pittagorici, e lo ſimboleggiavano nel 2, o nel binario, poichè ogni coſa ſteſa è divit bile in due e ognuna delle parti in altre due,; e così all'infinito. Quando a queſto infinito s'aggiungea luna, che vuol dir la forza o la forma ſe ne faceva il compoſto che era l'altro principio, di cui par la Platone; queſto compoſto dețerminato a una ſpecie dalla for ma componeva un tutto, in cui vera principio, mezzo, e fi në. Lo diffegnavano i Pictagorici per il 3, e lo chiamavano numero perfecto, medio, e proporzione; oſſervò S. Agoſtino che numerando fino al 3,, € rapportando prima il 2 all'1, ed indi al tre nel comporſi la proporzione continua, aritmetica fi forma per la replicazione del 2 il 4, numero che immediata mente luccede al 3, ciò che non ſi ha negli altri numeri, per chè cominciando la proporzione aritmetica dal.2 chi replica il 3 non fa il numero che immediatamente lo ſegue od il 5 ma il 6; nel continuare la proporzione con queſto metodo i numeri riſultanti ſempre più ſe n'allontanano. S. Agoſtino per ciò offerva co'.Pittagorici, che la perfezione dei numeri è ne quattro primi, in cui gli eftremi ſono intimamente uniti ai mezzi, e i mezzi agli eſtremi. Quindi le più perfecte conſo nanze muſicali, ſono fatte dei primi quattro numeri 2 3-4, 1 ' 2'3? ſ. 7. Se l'uno è, egli è ogni numero. Nella combinazione dell'uno, dell'ente, e del diverſo fi de ducono tutti i numeri (9. 6.), Dunque nell' uno, in quanto è, vi ſono tutti i numeri,; Carol. Il numero eſſendo molti nell' uno, in quanto l'uno è., egli contiene moltitudine, e perchè i numeri fono infiniti nell uno che è, vi farà una moltitudine infinita. COROL. 2. Il numero in moltitudine infinita, eſſendo inclu ſo nell'uno che è, farà egli partecipe d'eſſenza. Si prenda la ſerie naturale de numeri 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7 ec. fino al oo unità eterogenea alla prima, e da cui fi comincia l'alcra ferie 200, 30, 40, fino 200 = 60 altra unità eterogenea, da cui comin (88 ). cominciali, un' altra ſerie 2 co ', 300'ec. ſino a o, e cosi all' infinito. Se di queſte tre ſerie ſe ne fa una ſola ſi ha 1.2.3.4.5 ec. co '... 00?... oo..., fino ad in cui ſi potrebbe cominciar di nuovo la numerazione. Cominciando da uno, li può con le frazioni continuar la ſe. rie decreſcente con lo ſteſſo ordine che l'altra, onde 1 I 1 ec. • • ec. fino 3 4 5 I 1 I I I wec. 4 Combinando la ſerie dei finiti intieri, rotti, e degli infiniti matematici, e immaginarj, fi ha tutta la ſerie. ec. 1.2.3.4 ec. co oo oo ' ec. 0° 5 4 3 2 In queſte eſpreſſioni non v'è errore, purchè non s' attenda, che alla proporzione delle quantità, nè ſi realizzino i ſimboli. Ma non biſogna credere, che la numerazione ſia terminata, po tendoſi concepire, e tra gli intieri, e tra rotti, e tra gli infi. niti dei mezzi proporzionali, i quali ſono, come ben prova il Ba rovio, veri numeri (ſe ben noi non poſſiamo eſprimerli ) perchè ſimboli di vere quantità, come i numeri, ointieri, orotti, e gli infinitamente grandi, egli infinitamente piccioli. Platone, al dir d'Ariſtotele, poſe i due infiniti (a ) magnum et parvum, e queſti, come ben ancora lo riconobbe il P. Grandi, ſono gli infinita mente grandi, e gli infinitamente piccioli dei moderni Geome tri; infiniti replico immaginarj, de' quali con tanta chiarezza trattò il Wolfio nell'Ontologia, ſgombrando tutte le difficoltà' che v'oppoſero coloro, che non ben inteſero queſte due ſpecie d'infiniti Platonici, caratterizzati da profondi Geometri con tan to utile della Geomecria, della Mecanica, ed altre parti delle Matematiche. Queſti due infiniti di Platone non ſono diverſi dai grandiflimi, e menomiſlimi, di cui qui parla. 8. 8. In quanti luoghi è l' ente, in tanti è l'uno. Se l' uno è egli accompagna ſempre l'ente, ma non v'è ente, che non ſia in qual che luogo (9.12. Sez, 2. ) Dunque in quanti luoghi è l'ente, in tanti è l'uno. a ) Plato vero duo infinita magnum et parvum. Arift. 3.Phiſ. c.4. §. 9: (89 ) g. 9. Se l' uno è, non ſolo ' egli è l'uno, ma un certo uno. Ogni ente ſingolare partecipa dell'ente, dunque dell'uno; dunque come ogni ente ſingolare è un certo ente, ogni ente ſingolare è un certo uno. ČOROL. Si compartiſce dunque l'uno, non ſolo con le coſe in genere, ma con le coſe ſingolari, onde v'è l'uno, e il tal uno, e a queſto compete, come all'altro, eſfer molti, perchè vi ſono molti enti ſingolari, e compete loro il luogo degli enti ſingolari. g. 10. Se l'uno è, egli è un uno che è uno, e cert' uno, e mol ci, e parti, e finito, e in moltitudine infinito. Egli è uno, e cert'uno, ſe accompagnando gli enti è in ogni ente, ed in ogni cal ente; egli è tutto ſe ogni ente, in quan to è, egli è un tutto; egli è párte, ſe ogni parte dell'ente è jina; egli è finito, ſe ogni tutto ha i ſuoi limiti, e infinito le contiene in sè tutti i numeri. Annot. Queſte contraddizioni non ſono che apparenti. D. II. Se l'uno è, egli ha principio, mezzo, e fine. L'uno è finito, e tutto, e parte (S. 10. Sez. 3. ) Dunque ha in sè limiti, perchè ogni una di queſte coſe ne ha; dunque ha principio, mezzo, e fine. Corol. Dunque l' uno è partecipe di figura retta o roton da, o d'amendue miſta. ANNOT. Come l'uno, di cui quì parla Parmenide, pud effer Dio, o qualche idea divina, fe egli è circonſcritto da tutti i luoghi degli enti, ſe s'individua cogli enti ſingolari, ſe è tutto, parte, finito, figurato ec. 5 Tom. II. m 6. 12. (20 ) Do? 127 ** Se. l'uno è, egli è in ſe ſtello, e iş altrui., Ciò che è tutto, comprende tutte le ſue parti; ma l'uno com prende tutte le ſue parti, dunque l' uno è un tutto; ma il tutto contien ſe ſteſſo, è l' uno è un turco. Dunque l'uno contiene ſe fteffa. ANNOT. La propoſizione è identica, e vuol dire: un tutto è. un tutto; o iltutto è nel tucta; non ſi faccia più attenzione al tutto, mamaall all'uno, e li concluderà, che l'uno è nell'uno. Si com bini poi l'uno, e il cucco, e ſi concluderà, che come il cutto è in ſe ſtello, così l'uno è in fe fteflo. Quel che è in ſe ſteſſo, egli è in ogni ſua parte, ed in tutte le parti, ma il cutto non può eſſer in niuna parte, perchè il più au conterebbe pel manco, nè meno il tutto può eſſer in tutte le par ti, perchè ſe in cutie, farebbe ancora tutto in ciaſcuna, dunque il tutto non è in ſe ſteſſo, ma l'uno è il cutto; dunque non è in fe fteflo. Ogni coſa è in qualche luogo, perchè ciò chenon è in qualche kuogo è nulla e quel che è in qualche luogo è in fe felio, o in altrui, perché non li dà mezzo; mas'è dimoſtrato che ſe è l'uno egli non è in ſe ſteſſo, dunque è in altrui; ma di ſopra s'era pur dimoſtrato, che egli era in le ſtello; dunque è in ſe ſteſſo, ed in alcrui. ANNOT. Non v'è quì che contraddizione apparente, perchè quando ſi dimoſtra, che l'uno è in ſe ſteſſo, ſi conlidera che l'uno è un tutto le cui parti fon tutte inſieme, quando all'incontro fi confidera, che l'uno è in altrui, non ſi concepiſce il tutto con le párti pret inleme, ma come quello che non è in niuna delle ſue parti. S. 13. Se P upo è, egli fta, e ſi muove. Quel che ſta è ſempre in ſe ſteſſo, perchè da lui non mai et di parte; ' ma l'uno eſſendo nell' uno, non ſi diparte mai da fe ftef ſo; dunque è ſempre nello ſteſſo; dunque fta. Quel che è ſempre in altri non è mai nello ſteſſo, e non eſsendo nello ſteſso mai non fta, e non ſtando ſi move, ma l' uno non è in ſe ſteſso, ma ſempre in altrui; dunque ſempre fi move. ANNOT. Non è pur queſta, che contraddizione apparente.. 14. (91 ) $. 14. 1 e il Una coſa comparata all'altra, o è la ſteſsa, o diverſa, o è par te di quella coſa conliderata come tutto, od è tutto, conſiderata 1a cofa come parte. Così dice Platone, e par conſiderar lo ſteſso, e il diverſo relativamente alle qualità ſolamente, e la parte, cutto relativamente alla quantità. Se dunque fi dimoſtraſse, che una coſa relativamente a un' altra non foſse, nè tutto, ne pare ce, nè la Ateſsa, ne ſeguirebbe per il metodo d' eſcluſione, che ella fofse diyerſa. g. 15. Se l'uno è, egli è a ſe ſteſso lo ſteſso, ed a ſe ſteſso diverſo. Se egli è in le ſteſso, e fta ſempre, egli è a ſe ſteſso lo ſteſso, ſe egli è in altrui, e ſempre lr move, è da ſe ſteſso diverſo. L'uno non è parte di ſe ſteſso, nè tutto rifpetto a ſe ſteſso, nè l'uno è diverſo dall'uno; or s'è luppoſto, che una coſa compara ta ad un'altra, fe d'eſsa non è tutto, nè parce, nè diverſa ſarà la ſteſsa; dunque l'uno ſarà lo ſteſso con ſeco; ma ſe l'uno è in al trui non è ſempre lo ſteſso a ſe ſteſso; dunque per l' eſcluſione Platonica ſarà egli da ſe ſteſso diverſo'. §. 16. ne Per eſpor: l'argomento ſeguente in tutta la ſua forza, convie. ne particamente illuftrare i principj da cui dipende. Si ſuppo 1. Che l' uno è da sè diverfo, come da ente nell'ipo teſi, che egli ſia. 2. Che il diverſo e lo ſteſſo, effendo contra rj, uno non può mai eſser dell' altro. Cost lo ſpiego · Molci enti potendo efiftere, od eſiſtendo nel tempo ſteſso, lo ſteſso farebbe nel diverſo, ciò che è impoſſibile, non potendo i con trarj, cioè A, e non A ſtar inleme. Ben ſi vede che qui parla Platone del diverſo, e dello ſteſso aſsoluto, e non relati. vo, quale abbiamo fpiegato nel G. 17. Sez. 2. perchè nulla vie ta, che due coſe non poffino eſser diverſe' nell'eſsenza, nelle quantità, nelle azioni ec. ed intanto eſiſtere nel tempo ſteſso mi Iura eſtrinfeca delle coſe. Non è cosi conſiderando il diverſo aſsoluto, o l'idea del diverſo, e conſiderando lo ſteſso aſſoluto o l'idea dello ſteſso.; l'uno non può mai ſtar nell'altro, e in conſeguenza la ſteſsa coſa non può mai partecipare nello ſteſso tempo di queſte due idee contrarie. Allude qui tacitamente Par m 2 meni (92 ) menide a ciò che ha già dimoſtrato, parlando della participazio ne dell'idee. L'argomento ha tanto maggior forza, quando fi conſiderano gli enti ſeparati dall' uno, poichè ſe foſsero diverfi, per ragion del diverſo participerebbono dell' idea del diverſo che è Tempre una, dal che deduce Parmenide, che non poten do eſser diverſi per la participazione dell'uno nell'ipoteſi di Socrate, non ſono diverſi tra loro. 3. Suppone che le coſe che non ſon uno, non fieno partecipi dell'uno, perchè non ſarebbono uno, ma uno in certo modo. Quì pur Parmenide parla dell'idea dell' uno, che participandofi dalle coſe non è più uno, ma uno con certe circoſtanze, od in certo modo, ma ſe non ſon uno nor faranno eziandio numero, perchè ogni numero è uno. 4. Le coſe che uno non ſono, nè aſsolutamente uno, non poſsono eſser parti dell'uno, poichè l' uno non può eſser parte delle co ſe che non fon uno, nè può eſser tutto, quafi comparato a par ricella. Parmenide alludetacitamente a ciò che diſse di ſopra, che idea non pud eſser participata, nè ſecondo la parte, nè ſecon do il tutto, dal che deduce, che le coſe che non ſon uno ne fono particelle dell' uno, nè ſono all' uno quaſi a particella. Ciò ſuppoſto così argomenta Parmenide col metodo d' eſcluſione. g. 17. Se l'uno è, egli è diverſo, e lo ſteſso con altre cofe; all'uno convien il diverſo, aſsolutamente in quanto diverſo, e non all” altre coſe, cui non conviene, che relativamente Dun que l'uno è diverſo dall'altre coſe.; le altre coſe non ſono diper fe dall'uno, nè ſono parci, nè tutto riſpetto all' uno; dunque fono le Aeſse con l'uno. F. 18. Chi proferiſce lo ſteſso pome una, e più volte ſenza riferirlo a più coſe, come ſi riferiſce nei nomi equivoci, ed analoghi, eſprime fempre lo ſteſso concetto; dunque nel proferire la voce, diverſo; applicandola all'uno, confiderato relativamente agli altri, e un' altra volta agli altri conſiderati relativamente all'uno, nell'ado prar lo ſteſso nome s'eſprime lo ſteſso concetto. Quindi dice Par: menide: quando diciamo eſſer gli altri diverſi dall' uno, e l'uno ef ſer dagli altri diverſo, non mai introduciamo il diverſo a figuificar altra coſa, che la natura di cui è proprio nome. $. 19. (93 ) S. 19. s'è gia oſſervato, che fimile è quel che patiſce lo ſteffo; difts mile quel che patiſce il diverſo (9. 20.Sez. 2.) Se l'uno è, egli è ſimile, e diſſimile a ſe ſteſſo, ed agli al tri. L'uno è diverſo dagli altri (9. 17. Sez. 3. ) Dunque l'altre coſe ſono diverfe dall' uno, ma non fono diverſe nè più né meno dall'uno, che l'uno dall' altre coſe (S. 18. Sez. 3. ) e ſe nè più, nè meno, rimane che egualmente fia uno. In quanto adiviene alle uno l'effer diverſo daglialtri, e gli altri dall'uno, egli patiſce la ſteſſo per rapporto agli altri, e gli altri per rapporto a lui; ma ciò che patiſce lo ſteſſo è fimile, dunque l'uno e limile agli altri, e gli altri per la ſteſſa ragione fon fimili a lui. Il diverſo è contrario allo ſteſſo; ma fi dimoſtro, che l'uno agli altri è lo ſteſſo, e diverſo, (S. 17. Sez. 3. ) ed è contraria paffione effer lo ſteſſo agli altri, ed effer diverſo dagli altri ma in quanto diverſo parve fimigliante; dunque in quanto lo Steffo fia diflimigliante, ſecondo la paſſione contraria. E' da notarſi, che l'uno è ſimile agli altri, in quan to diverſo, e diſſimile in quanto lo ſteſſo. S. 20. Due coſe che ſi toccano ſono preſenti l'una all ' altra, nè tra effe vi ſi frammette un terzo, perchè in queſto caſo non più toccherebbono ſe ſteſſe, ma il terzo frappoſto. Ove due coſe fi toccano, due ſono le coſe, ed uno il contatto, ove tre li toc chino, tre ſono le coſe, e due i contatti; in ſomma creſcen do i termini creſcono a proporzione i contatti, ſecondo il nu mero dei termini meno uno. Si tocchino tra loro due punti matematici, ' poichè nulla fra loro s'interpone, un punto per ragion del contatto coinciderà con l'altro; fi facciano toccare da un terzo punto, queſto pu. re coinciderà, e quindi infiniti punti matematici non fanno che un punto, onde de liegue, che la linea non è compoſta di punti, o che i punti ſovrapofti gli uni agli altri non fanno grandezze. Ciò naſce, perchè tutti i punti ſono omogenei ſen za parti, ma ſe vi foſféro degli enti tra loro eterogenei, ben chè non eſteſi, o ſenza parti, nulladimeno poſti gli uni appreſ so gli altri, benchè non componeſſero grandezza, tuttavia fa rebbono più, come ben offervò Ariſtotele. Ciò diede occaſio ne al Leibnizio di compor l'eſtenſione di enti ſemplici, ma ete (94 ) eterogenei, o diverſi di ſpecie, che eſiſtendo ſcambievolmente gli uni fuori degli altri coeſiſtano in uno; quindi per la no zione dell' eſtenſione, convien conſiderare, e più enti che eſi Atano fuori di sè, e che tra loro s'unifcano, e formino uno. Non fanno però un eſteſo;, perchè fe ben inſieme eſiſtano, non ſono tuttavia tra loro uniti, come allora che liquefatti più me talli ſi confondono in una maſſa. Le partipoi indeterminate dell'eſteſo, conſiderate in aftratto, cioè ſenza far attenzione alla loro fpecie, non diferiſcono tra lo ro, che nel numero. Non ſarà inutile quefta offervazione nel progreſſo. Intanto ſi oſfervi, che l'uno eſcludendo nel ſuo con cetto i più, oi molti, per quanto l'uno ſi moltiplichi per ſe ſteſ fo è ſempre uno, onde egliè il ſuo quadrato, il fuo cubo, ed ogni altra potenza, foſſe anche ella di dimenſioni infinite, e non folo avete un eſponente, ma molti, come le quantità che ſi dicono eſponenziali. $. 21. Se l'uno è, egli tocca ſe ſteſſo, e l'altre coſe. L'uno è in fe fteſſo, ed in altrui (5. 12. Sez. 3. ) In quanto è in fe fteſſo vien impedito di toccar l'altre coſe, dunque tocca fe Hello; in quanto è in altrui, è nell'altre coſe; dunque le coccherà. IN ALTRO MODO Una coſa nel coccar l'altra giace appreffo quella che tocca, ed occupa la ſede vicina; ma ſe l'uno tocca ſe ſteſſo, giace appreſſo ſe steſſo, ed è quindi due coſe, il che non potendo effere, mani feſto è che non pud toccarſi. Le coſe diverſe dall'uno, non potendo effer numero, perchè.non partecipano l'uno, non pociamo mai con l'uno far due, ma nel contatto v'è ſempre almeno due (9. 19. Sez.-3.) Dunque l'uno non toccherà l'altre coſe.: ANNOT. La contraddizione pur è qut apparente, e ſi fa l'ano corporeo nel fupporre, che ei tocchi. Nozione immaginaria. 22. Parmenide ragionando ad hominem con Socrate fuppone la par ticipazione dell'idee, combattuta nella prima parte; conſidera quindi la grandezza, e la piccolezza, come due ſpecie ſeparate, tra (95 ) tra loro contrarie; ben a cid s'avverta, perchè in queſto conſiſte la deſtrezza del Filoſofo, e la forza del ſuo ragionamento, S. 23 2 os' Se l'uno e, egli non è ně eguale, nè maggiore, në mi nore degli altri enti. Sia l'ente minore degli altri enti, egli dunque participerà dell ' idea della piccolezza, la qual è contraria alla ſpecie della gran dezza. Si concepiſca, che la piccolezza ſia nell' uno, o farà in tutto l'uno, o in alcuna parte di eſso; fe in tutto l' uno, eftenderà per l'intiero uno tutto al di dentro, che vuol dire lo compenetrerà con la ſua ſoſtanza, o l'abbraccierà con eſtremi li. miti al di fuori, che vuol dire lo comprenderà; ma ſe la picco lezza s'eſtende al di dentro di tutto l' uno gli è eguale ", e fe lo comprende gli è maggiore, onde la piccolezza ſarebbe nello ſteſ ſo tempo grande, ed eguale contro l'idea di lei. Se la piccolezza è una parte dell'uno, ne ſeguirà, che ella lia di nuovo in tutta la parte, o al di fuori, o ál di dentro quindi che ella fia eguale, o maggiore per le coſe dimoſtrare; dunque non potendo eſser la piccolezza, nè in tutto l' uno, nè in parte dell'uno, non ſarà nell'uno, onde l'uno non farà pic colo, o minore degli altri enti. Corol. In alcuno degli enti per la ſteſsa ragione non po irà ritrovarſi la piccolezza, onde in queſta ipoteſi non v'è al tra cofa piccola, che la piccolezza ftetsa, ma dove non v'è il piccolo, non v'è neppur il grande, perchè l' uno non è che per riſpetto all'altro; dunque non vi faranno coſe grandi, trartone la grandezza, e quindi I uno, e altre coſe ſaranno prive di grandezza, e di piccolezza. e S. 24. Se l'uno è, le altre coſe non ſono di eſso nè maggiori, nè minori, nè eguali. Le altre coſe aſsolutamente parlando ſono prive di grandezza, e di piccolezza, dunque, rifpetto alla uno, non fono nè piccole, ne grandi, e per la ſteſsa ragione, l'uno non è nè maggiore, nè minore dell'altre coſe, eſsendo privo di grandezza, e dipiccolezza. 5.125.  S. 25. Se è l'uno egli farà eguale a ſe ſteſſo, ed all'altre coſe. Non è maggiore, nè minore dell'altre coſe, ma ſe l'uno non è, nè maggiore, nè minore dell' altre coſe, egli per la forza dell'eſcluſione ſarà eguale. §. 26. Se l'uno è, egli è eguale a ſe ſteſſo, ed all'altre coſe. Non avendo in sè, nè grandezza, nè piccolezza, nè eccede rà ſe ſteſſo, nè da ſe ſteſo farà ecceduto, dunque farà eguale a ſe ſteſſo. S. 27. L'uno è maggiore, e minore di fe ſteſſo. Egli è in ſeſteſſo, dunque li comprende; dunque èmag giore di ſe ſtello; eſſendo in ſe ſteſſo, egli è da ſe ſteſſo com preſo, dunque è minore; dunque è maggiore, e minore di ſe ſteffo. S. 28, Se l'uno è, le altre coſe ſono maggiori, minori ed eguali all' uno. Null'altro v'è, che l'uno, e l'altre coſe, non dandoſi mez zo, ($. 12. Sez. 2. ) Quel che è in una coſa è minore di eſſa (S. 10. Sezione 2. ) e ciò che la contiene è maggiore; dun que, poi che ogni coſa è in un luogo, e che altro non v'è che l' uno, è l' altre coſe neceſſariamente ſono nell' uno, o l' uno nell'altre coſe; ma ſe l' uno è nell' altre coſe, queſte ſono maggiori dell' uno, perchè lo conten gono; l'uno è minore, perchè è contenuto; dunque l'altre co le ſono maggiori, e - minori dell’uno: ma s'è dimoſtrato, che l' uno non eſſendo nè maggiore, nè minore dell' altre coſe, all' al tre coſe farà eguale (§. 24. Sez. 3.) Dunque egli è eguale, mag giore, minore dell'altre coſe. Corol. Egli dunque può eſſere di miſure eguali, maggiori, e minori, riſpetto a sè, ed all' altre coſe. Quindi Ha 1 1 ! (97 ) Ha più miſure riſpetto alle coſe delle quali è maggiore, me no miſure riſpetto a quelle delle quali è minore, e pari miſu re riſpetto a quelle delle quali egli è eguale. 6. 29. 9 Paſſa a dimoſtrare Parmenide, che ſe l'uno è, egli è parce cipe del tempo, ed è, e ſi fa più giovane, e più vecchio di ſe fteſto, e degli altri, ed in contrario, e che non è, nè ſi fa nè più giovane, nè più vecchio di ſe ſtello, e degli altri par cicipanti il tempo. Per intendere adequatamente queſte propoſizioni, in cui s'af follano varj principi i biſogna prima ripaffare ciò che fi diſle nel ſ. 3. Sez. 3. 9. 27. Sez. 2. ove fi dimoſtrò. 1. Che chi partecipa dell' eſſenza, partecipa delle differenze del tempo. 2. Che cið che ſi fa più vecchio di ſe ſteſſo, e dell'altre coſe, nel farſi più vecchio, li fa più giovane, e cið per eguali parti di tempo, ag giunte agli ineguali, il che abbiamo dimoſtrato coll' eſempio delle ragioni di e diſucceſſivamente accreſciute di 1. comparando percið le ragioni di į, e di abbiam veduto, che i loro va Iori i ti, eit ! + divengono ſempre minori. Altreſuppoſizioniegli fa ne' ſeguenti argomenti. 1. Il tempo è un fluſſo, da cui ſi fa progreſſo dal pallaco al preſente, e dal pre Tente al futuro, e dall'era all'è, è dall' è al ſarà. 2. Che una coſa che'ſi fa paſſa dal preſente ove è, nel futuro ove ſarà, e perciò nel farli è di mezzo cra l'uno, e l'altro, onde propria mente ciò che è nell' inftante, non ſi fa, ma è quello che è, o, come l'eſprime Platone, una coſa che ha fatto acquiſto del preſente cella di farſi, od è ciò che allora convien che fi faccia. 3. Il preſente è ſempre unito all'uno, perchè è ſempre unito all' ente, dal qual l'uno è inſeparabile. 4. Il diverſo, o l'idea del diverſo è la ſtella coſa ſecondo i principi di Socra te, e percid è ſempre uno, onde quello che non è uno, non può eſer il diverſo, o l'idea del diverſo, onde le coſe diverſe dall' uno, o che partecipano il diverſo, ſono più che l'uno, o hanno in sè moltitudine, e in conſeguenza numero o più. 5. Delle più ſono prima le poche, che le molte, e delle poche prima il pochiſſimo. 6. La coſa che prima li fa è la prima, e le dipoi ſono più giovani delle già fatte innanzi. 7. E' impof fibile', che una coſa ſi faccia oltre la natura, onde in una co ſa che ha principio, mezzo, e fine, prima li fa il principio, indi il mezzo, e poi il fine, che vuol dire, il fine ti fa i'ulti mo. 8. Quel che ſi fa ultimo è più giovane di quel che fi fa Tomo II. il a e ce I 21 S: i n (98 ) il primo. 9. Chi ſi fa con tutte le parti infieme d'un tutto,, fi fa nello ſteſſo tempo inſieme col cutto.. 1 1 ſ. 30. Se l'uno è, egli è, e ſi fa, e non è, nè ſi fa più vecchio, e più giovane di ſe ſteſſo. Se l' uno è participando l'eſſenza, participa del tempo ($. 3. Sez. 3. ) ma quel che è in tempo, è in un fluſſo continuo o pal ſa dal paſſato al preſente, o dal preſente al futuro (S. 28. Sez: 3.) Dunque l'uno e continuamente in queſto paſſaggio. In quanto paſſadall'era all' è fi fa più vecchio di sè;ma nel farſi più vec chio, ſi fa più giovane (S. 26. Sez. 2. ) Dunque ſi fa più vec chio, e più giovane di ſe ſteſſo. Chi non oltrepaſſa il preſente, nel far progreſſo dal paſſato, nell'avvenire non ſi fa, ma è ciò che è ($.22. Sez. 4. ) Dunque quando l ' uno tocca primieramente il preſente, non ſi fa allo ra vecchio, ma è vecchio oggimai, Nel toccar il preſente, co me ha prima di lui fatto acquiſto, cefla di farli, od è ancora ciò che avvien che ſi faccia i $. 28.Sez. 3.) Dunque l'uno, quan do fatto vecchio conſeguiſce il preſence, cella di farſi, od è allora più vecchio di ſe ſteſſo, di ciò che era toccando il pal fato; ma l'uno è di quello più vecchio, onde fi faceva vec chio; e facevali di ſe ſteſſo, ed il più vecchio è più vecchio del giovane; dunque allora l' uno è più giovane di ſe ſteſſo quando fatto vecchio conſeguiſce il preſente, ma il preſente è fempre unito all'uno; dunque l'uno, ed è ſempre, e li fa più vecchio, e più giovane di ſe ſteſſo; ma facendoſi tale, od ef ſendo in tempo pari ritiene la ſteſſa età, e chi ritiene la ftel fa età, non è più vecchio, nè più giovane; dunque l'uno eſ ſendo, e facendoli in tempo, non è più vecchio, nè più gio vane di ſe ſteſſo. g. 31. Se l'uno è, egli è più vecchio dell'altre coſe, o l'altre coſe più giovani di lui. Nelle coſe diverſe, che hanno in sè moltitudine o numero, altre ſon fatte prima, altre dappoi; ma il primo che ſi fa è pochifiimo, (9. 26. Sez. 3. ) e nei numeri l'uno è pochiſſimo, dunque l'uno è facco inanzi alle coſe che hanno numero, o che fono. 1 fono diverſe dall'uno, o ſono gli altri; ma il primo che ſi fa è più vecchio, le coſe che dipoi ſi fanno, ſono più giovani; dunque l'uno è più vecchio dell'alcre coſe, e l'altre coſe più giovani. g. 32. Se l'uno è, egli è più giovane dell' altre coſe, e le altre coſe più vecchie dell' uno. L'uno non può farſi oltre la natura fua. Dunque avendo parti, o principio, o mezzo, o fine, ſi fa ſecondo la natura del principio, del mezzo, e del fine, ma il princi pio fi fa il primo, è il fine ſi fa l'ultimo, ma l' ultimo fatto e più giovane dell' altre coſe, e l' altre coſe più vecchie dell' uno ($. 26. Sez. 3. ); dunque l'uno è più giovane degli altri, e gli altri dell'uno. $. 33. Se l'uno è, egli non è più vecchio, nè più giovane dell' altre coſe.. Ogni parte dell' uno è una; ogni parte del mezzo è una, ed uno è parimente il fine, od il tutto, onde fi farà l'uno, é colla prima coſa che fi fa, ed infieme colla ſeconda, colla ter za ec. onde percorrendo ſin all'eſtremo fi farà un tutto, o 1 uno non eſcluſo nella generazione dal mezzo, non dall' eftre mo, non dal primo, non da altro; ma ſe l'uno ſi fa inſieme con tutte le parti d' un tutto ha la ſteſfa età con tutti gli al tri; dunque ſe non è nato oltre la propria natura, non è fac to prima nè dopo l'altre coſe, ma inſieme e fecondo queſta ragione non è più vecchio, o più giovane degli altri, nè gli altri dell' uno. ſ. 34. Se l' uno è, egli ſi fa più giovane, più vecchio di ſe ſteſſo. Se alcuna coſa foſſe più vecchia d' altra, li farebbe ancora più vecchia di ſe ſteffa: A ſia più vecchio di B, nel creſcerfi gli anni ad A, egli et fa più vecchio di fe fteffo, e di B; dun n 2 que (100 ) | 1 que l'uno nel farſi più vecchio dell' altre coſe ſi fa ancora più vecchio di sè; manel farſi più vecchio, ſi fa ancora più gio vane per la ſteſſa ragione, che creſcendo tempi eguali, la ra gione decreſce (5.27. Sez. 2. ) Dunque l'uno li fa più giovane di ſe ſteſſo, ma s'era dimoſtrato, che ſi faceva più vecchio (S. 30. Sezione 3. ) Dunque ſi fa più giovane, e più vecchio di ſe Iteffo. 1 f. 35. Se l'uno è, egli non può farſi, nè più vecchio, nè più giovane dell'alere coſe. Ciò che fi fa più vecchio d'un altro, o più giovane, ſi fa più vecchio, e più giovane ancora riguardo a sè (1.37. Sez. 3.) ma l' uno non ſi fa, ma è, e più giovane, e più vecchio ri guardo a sè; dunque non ſi fa, nè più giovane, nè più vec chio riguardo agli altri. Se l'uno è più vecchio, che le altre coſe, ha più lungo tem po dell'altre coſe, ma creſcendoſi il tempo, egli ſempre eccede meno, onde ſi fa più giovane riſpetto alle coſe, delle quali era innanzi più vecchio; ma ſe egli ſi fa più giovane, quell' altre coſe ſi faranno più vecchie; dunque le coſe che erano innanzi, e più giovani dell'uno, ſi fanno dell' uno più vecchie, cinè fi fanno più vecchie, riſpetto a quello che era più vecchio; ma le coſe più vecchie non ſono, ma fi fanno ſempre, perchè la fanno più vecchie, mentre l'uno ſi fa più giovane; dunque le coſe ſi fanno ſempre più vecchie dell'uno. Le coſe poi più vec chie, parimente ſi fanno più giovani dell' uno più giovane perchè l'uno, e l'altre coſe movendoli in contrario G fanno vi cendevolmente contrarie, cioè le coſe più giovani dell'uno, ſi fanno più vecchie dell'uno che è vecchio, ed all'incontro l'una più vecchio, li fa più giovane delle coſe più giovani;, ma non, è poffibile che l' uno, e l' altre coſe fieno fatte nè più giova ni, nè più vecchie, perchè le cali foſſero, non più li farebbo no; dunque le coſe, e l'uno tra loro ſi fanno più vecchie, e più giovani: l'uno li fa più giovane delle cofe, per quello che parve eſſer più vecchio, e prima fatto, l'altre coſe poi fi fanno più vecchie, per quello che ſono ſtate fatte dopo, e ſecondo la ſella ragione: l'altre coſe ancora ſe ne ſtanno riſpettivamente alla uno, come quelle che ſono ſtate più vecchie, e prima dell'uno. Dunque inquanto che nè l' uno, nè gli altri fi fanno, diſtan do 1 (101 ) $ do ſempre tra loro di un numero pari, non ſi farà nè l'uno più vecchio degli altri, nè gli altri dell' uno. Ma come decreſce ſempre la ragione dei tempi, o con minor particella ſempre tra loro differiſcono le coſe prime dall' ultime, e l'ultime dalle prime, così è neceſſario che l' altre coſe ſi facciano, e più vecchie più giovani dell'uno, e l'uno dell'altre coſe. Quinci aggruppando in uno tutte le propoſizioni, abbiamo di. moſtrato, che l'uno è, e li fa più vecchio, e più giovane degli altri, e di nuovo non è più vecchio, nè più giovane di ſe ſteſſo e degli altri. Corol. Perchè l' uno è partecipe del tempo, o ſi fa più vec chio, e più giovane, egli è partecipe del quando, del futuro, e del preſente. Dunque era l'uno, ed è, e ſarà, e ſi faceva, e fi fa, e li farà, e ſarà ancora alcuna coſa in lui, e di lui, ed è, ed era, e farà. COROL. 2. Perchè la ſcienza, l'opinione, il ſenſo, la defini zione, il nome, riguardando le coſe che ſono nelle differenze dei tempi, in quanto l'uno è capace di queſte differenze, è ancora fog getto di ſcienza, d'opinione, di fenſo, può definirli, e può no. minarſi. Annot. Qui Parmenide non dà ſcienza, e definizione, ſe non delle coſe ſoggette al tempo, il che biſogna accordare con ciò che diſke (9.16. Sez. 1. ) La ſcienza che appreſſo noi è ſcienza del le verità, che ſono a noi dintorno. 9. 36. Riſtringiamo adeſſo in poco, quanto Platone ha propoſto nella propoſizione condizionale, o ſia nell'ipoteſi ſe l'uno è. 1. Diftin le colla mente i due concetti dell'uno, e dell'ence., 2. Ne com poſe un tutto intellectuale di due parti, o dei due concetçi dell' uno, e dell'ente. 3. Tra loro paragonandoli ne deduſſe il terzo concetto del diverlo. 4. Conclure che nell' uno o è una moltitu dine infinita di numeri, che dividono l' uno a proporzione dell' ente. 5. Che l'uno è tutto, e parte, e finiso, e infinito. 6. Da ciò che è un tutto finito, conſiderò in effo il principio, il mez-, 2o, il fine, e quindi la figura. 7. Da ciò che è un turto, e che il tutto è nel tutto, conclure che l'uno è nell' uno, ed in fe ftel 1o. 8. Da ciò che l'uno è comeparte nel tutto, conclure che è in altrui. 9. Che ſta, e ripoſa, ſe egli è in ſe ſteſſo. 10. Che ſi mo ve, le è in altrui. 11. Che è ſimile a sè in quanto l'uno, è lo ſteſſo che l'uno. 12. Simile agli altri, perchè paciſce d' eſſere co me gli altri. Che è diffimile in quanto cert'uno, e certo ente. 14. (102 ) 14. Che è lo ſteſſo, poichè ekſte, ed eſiſtono glialtrienti nello ſteſſo tempo. 15. Che è diverſo, in quanto non ha in sè ciò che hanno gli altri enti. 16. Quindi fimile, e diffimile, perchè patiſce le ſteſſe cofe. 17. Che è maggiore, minore, ed ineguale, e non maggio re, minore, nè eguale dell'altre coſe. 18. Che è, e ſi fa più gio vane, e più vecchio di ſe ſteſſo, e dell'altre coſe, e non è, e non fi fa, nè più vecchio, nè più giovane dell'altre coſe, e l'altre co fe di lui. 19. Finalmente, che dell'uno in quanto è li ha ſcienza,, ſenſo, opinione, e può denominarſi, e definirſi. Si potrebbe più compendioſamente ridur in poco l'argomento di Parmenide, conſiderando che reciproche ſono queſte due pro polizioni: l'unoid, è l ' uno, per il che ſi può predicar dell'ente ciò che ſi predica dell' uno, e dell' uno ciò che ſi predica dell' en per ragione dei diverſi concetti formali, predicandoſi dell' ente, la parte, il finito, l'infinito, il principio, il mezzo, il fine, la figura, lo ſteſſo, il diverſo, la quiete, il mo to, il limile, il diſſimile, e il maggiore, l'eguale, il minore, it giovane, il vecchio ec. cutti queſti predicaricompereranno pari mente all'uno. Ben ſi vede, che qui non ſi parla che dell' en te corporeo, e degli enti particolari, a cui or compete una co fa, ed or un'altra. il tutto, S. 37: Ma perchè i predicati oppoſti, come il fimile, il diffimile, it maggiore, e il minore non poſſono competere nel tempo ſteſſo all' uno, ed all'ente ſenza contraddizione, Parmenide moſtra che queſti attributi contrari non gli competono nello ſteſſo tem po, ma in diverſi tempi; tal è la natura di ogni ente finito: gli attributi, imodi, le relazioni, delle quali è capace, non hanno luo go in lui, che ſucceſſivamente a differenza dell'ente infinito, in cui tutte le perfezioni poſſibili, che attribuir gli ſi poſſono,.ftan no in lui tutte inſieme, onde non male con due parole molto energiche, ſebben barbare, ſi chiamò Dio dal Bulfingero, omni tudo compoſibilitatis. Gli Scolaſtici lo chiamarono atto puro, cioè atto ſenza alcuna miſtura di potenza, e quindi diametralmen te oppoſto alla materia che è pura potenza, e talmente pura, che al cuni degli ſcolaſtici la ſpogliano dell'atto entitativo, edell'eſiſtenza. $. 38 (103 ) go 38. Se l'uno è; egli prende diverfi ſtati ſecondo le:: differenza dei tempi. Nel tempo ſteſſo non ſi può participare, e non participare dell'eſſenza, e delle coſe che conſeguono al non participarla, ed al participarla; or il farli è renderſi partecipe dell' ellenza; il rovinarli e privarſi dell' effenza; dunque l'uno non può ne! tempo ſteſſo, e prender, c laſciar l'eſſenza. Dunque la pren de, e la laſcia in diverſi tempi, Quando ſi fa uno, egli perde l' eſfer molte coſe; quando ſi fa molte coſe ceffa d'effer uno; nel farfi uno, e molte, li fepara, e fi congiunge, qualora ſi fa ſimile, e diffimile, ſi affimiglia, e diffimiglia; quando ſi fa maggiore, minore, ed eguale, creſce, decreſce, e li pareggia; quallora movendoſi fi ferma, e quallo ra fermandoſi li move. Or tutte queſte coſe, eſſendo tra loro contrarie, l ' uno non può averle nel tempo ſteſſo, dunque l'ha in tempi diverfi. 9. 39 Non fi pud paſſar dalla quiete al moto, e dal møto alla quie te, ſenza cangiamento di itato. Un corpo che cangia fuccelli vamente la relazione di diſtanza, che egli ha ad altri corpi vi cini, ha uno ſtato diverſo da quello d'un corpo, che conſerya ſempre a ' corpi vicini la ſteſſa diſtanza. Queſto cangiamento di uno ſtato all' altro ſi fa in tempo; ma conſidera Platone, che nel paſſaggio dal moto alla quiete, e dalla quiere al moro, v'è un non so che d'improvviſo, e di momentaneo, che ſi conce piſce nell'iſtante del paſſaggio, e non più appartiene al moto, che alla quiete; non al moto, perchè la coſa ſi concepirebbe ancora in ripoſo; non al ripoſo, perchè la coſa fi concepiſce ancora in moto, Conclude dunque Placone, che queſta natu ra improvviſa è quaſi ſconvenevole tra il moto, e la quiete; che ella non è in verun tempo, e a queſta da queſta paſſan do fi muta nello ftato ciò che li move, e nel moto ciò che ſi ri pola. 8. 40. (104 ).. §. 40. Se l'uno è, nell'atto che cangia ſtato, non gli competono più i predicati dell'ente. Nel paſsar l'uno dal moto alla quiete fi muta momentaneamen te, e all'improvviſo, o mutandoli egli non è in alcun tempo; dunque non ſta nè fi move. Così quando paſsa dall'eſsere alla ro vina, o dal non eſsere al farſi, non è, nè ſi fa, nè fi diſtrugge. Parimente quando paſsa dall' uno in molti, e da molti in uno, non è, nè uno, nè molti, nè ſi congiunge, nè fi ſcongiunge, e paf fando dal ſimile al diſſimile, od al contrario, non è, nè affimi gliato, nè diſlimigliato, e paſsando dal piccolo al grande, ed all' eguale non creſce, nè decreſce, nè ſi pareggia. Annot. Da queſta dottrina ſebben metaforicamente da ' Plato ne eſpreſsa, imparò Ariſtotele ad introdurre tra i principj delle generazioni, la privazione mal a propoſito ſchernità da coloro, che non ne inteſero nè la forza, nè l'uſo. Quando una coſa ha perdute tutte le diſpoſizioni o determinazioni, che la rendevano tale, ella ceſsa d' eſsere la tal coſa, cioè reſta priva di tutto ciò che la coſtituiva, e diſtingueva dall'altre coſe, ma nell'atto ſteſ fo, in cui ceſsa d'eſsere quel che era, comincia ad eſsere ciò che non era, o paſsa dalla privazione alla forma contraria; queſto ſtato di mezzo che è tra la forma, e la non forma, Platone chia ma natura mirabile, e momentanea, ed è certo, che ella nel fifa far i gradi della noſtra cognizione ci moſtra quelli della natura che non opera mai per falti. Nel Timeo dice: Dovendo eſer l'ef figie delle coſe diſtinta da ogni verità di forma, non fia mai prepa rato quel medeſimo grembo di tal formazione, ſe egli non farà informe di tutte quelle ſpecie, le quali è per ricever da qualche parte, percid che ſe egli faravvi alcuna di quelle coſe che in sé riceve fimiglianza, quando riceverà una natura contraria di quella di cui è ſimile, ovve ro un' altra, affatto malagevolmente la ſimiglianza, e l'effigie di quel la eſprimerà quando moſtrerà la ſua, però egli è convenevole, che di tutte le ſpecie ſia privo quello che ha in sè da ricevere tutti i generi. Siccomequelli che hanno da fare unguenti odoriferi, l'umida materia, la quale vogliono di certo odore condire, di tal guiſa preparano, che * ella non abbia alcun proprio odore. E coloro che vogliono in materie molli imprimerealcune figure, niuna figura affatto laſciano primiera mente apparire in quella, ma quelle cercano in prima di render qan to poſibil fia polite. Ciò ſi rende ſenſibile nelle quantità algebraiche poſitive, e ne gative, nelle quali non ſi paſsa dall'une all'altre ſenza paſsar per 1 1 1 il (105. ) o il zero, che non è nè negativo, ne poſitivo, ed è il vero fim bolo della privazione. Nella Geometria il punto matematico equi vale al zero, che è il principio negativo dell'eſtenſione, e dal quale fi comincia la miſura, come l'unità è il principio poſitivo, per cui fi comincia la ſteſſa miſura. Il punto è comune alla linea, che ceſsa per eſempio di eſsere alla ſiniſtra, e comincia ad eſsere alla deſtra, o che termina d' eſser in alto, e comincia ad eſser a baſso; così egli non è deſtro, nè finiſtro, nè alto, nè baſso. Tut te queſte ſono eſpreſſioni utiliNime, e ſebben noicele rappreſen ciamo per fpecie aliene, come il niente, o l' impoflibile, tuttavia molto fervono a reggere i noſtri ragionamenti. L'origine, e la natura del calcolo delle fuſioni dipende dall'uſo della natura momentanea, ed ammirabile di Platone. In queſto calcolo non ſi cercano, ſecondo il Newtono, le quantità infinita mente piccole, chemainon poſsono determinarſi,ma la ragione del le quantità naſcenti, od evaneſcenti, cioè di quelle, le cui fuffio ni, o velocità nel naſcere, o nel ſvanire equivagliono al zero, il qual ſimboleggia il termine del ripoſo, e il principio del moto il termine del moto, ed il principio del ripoſo. Sieno nel preſen te momento le fluenti quantità y, x; nel momento ſeguente di verranno ſecondo l' eſpreſſione Newtoniana y toy, ed xtoy, ove o y, od ox eſprimono i momenti delle velocità. Softituite queſte eſpreſſioni in un'equazione propoſta, per eſempio in quel la della parabola yy. =ax, quefta fi caogierà nell' equazione. yy + 2 oyy tooyy = oaxtoax o cancellando gli eguali 2oyy tooyy = oax, e cancellando il comune o 2 yyt oyy = ax Sin che la quantità efpreſsa per o reſta finita, non può mai de terminarli la ragione delle quantità che fluivano, ma nella ſup poſizione che ella s' annulli, come nel caſo dell' ultima o della prima velocità delle grandezze, ove o s'eguaglia a zero, fi ha 2 yy = ax, e ponendo l'equazione in analogia 2 y.a:: x.y ragione determinata, con cui le qualità cominciano o termic nano di Auire. Il Newcono ſpiega più a lungo queſte coſe nel ſuo trattato delle Curve, e lo ſpiega non chiarezza il Ditton nell'inſtituzione delle Auſſioni; baſta a me d'averlo quì accennato, per moſtrare che agli antichi non man cavano quell' idee, che i moderni hanno poi ſviluppato, carat £ erizzandole con canta utilità delle ſcienze, e delle bell'arri., 1 Platone preſuppone nel ſeguente argomento, che la partenon è parte nè di molti, nè di tutti, ma di cert'una idea, e di cert'uno che chiamiamo tutto, ed è un cutto fatto da tutte le parti, e in sè perfetto, Dalla parola idea lice argomentare, che qui non fi craica che dei concetti, con cui fi concepiicono i molti, e il tutto, e le parti. L'idea dei molti è l'idea dei più aſſolutamente preſi, e com prende egualmente le parti, ed i tutti, dicendoſi molte, o più parti, molti o più molti. L'idea del tutto è l'idea dell'uno più riſtretto in un certo numero, o riſtretto in cerci limiti; idea della parte è l'idea d'uno incluſo in queſti più già ridoc ti. Non ſi pud quindi rigoroſamente parlando dire, che la par te ſia parte di molti, perchè conſiderandoli ſecondo la loro propria idea, non fanno ancora il tutto a cui ha immediata re lazione la parte, Nel dir dunque Platone, che la parte non è parte di mol ti, allude ai modi, o ai più vagamente preli, e nel dir che la parte è parte del tutto, allude ai più riſtretti; ne' più, come s'accennd, vi ſono incluſe indifferentemente le parti, ei tutti, onde ſe la parte foſſe parte dei più, potrebbe eſſer parte di ſe Iteffa. Aggiunge Platone, che ogni parte non è parte di qualun que uno ma d'un cert' uno, cioè di un certo tutto. La par te del triangolo non è la parte del quadrato, nè un ſoldato che è una parce d' un eſercito, è parte di una proceſſione di Frati. Il tutto poi che è fatto di tutte le parti, o a cui non man ca alcuna parte, è perfetto., Si oſſervi in oltre eſſer lo ſteſſo, il dir molti, o più d'uno; che ogni coſa quindi o è uno, o più, cioè molci; che una parte dell' eſtenlione cratca fuori di efla, o feparata da eſſa, eſſendo fteſa, contiene più, e ſe dinuovo ſi ſepa ra in due, una di queſte parti eſſendo di nuovo fteſa, ritiene ipiù. In altri termini ciò vuol dire, che non v'è parte dell'eſtenſione che non ſia diviſibile all'infinito, e come la prima divifione fi fa per 2, ed indi per 2 i Pittagorici aſſegnavano il 2, come il fim bolo dell'infinito. Prima che una parte fi ſeparaſſe da una certa eſtenſione, ella riteneva il nome di parte, ma quando è ſeparata, e che di nuovo ſi divide, ella non è più parte, ma tutto. Queſti nomi di tutto, e di parte ſono ſempre relativi; coloro per ciò che definiſcono l' eſtenſione, ciò che ha parti fuori" di? parti, null' altro dicono ſe non che l' eſtenſione è l'eſtenſione, perchè non ha parti ſe non ciò che è eſteſo. Molto peggio fan no coloro, che ſuppongono, che l' eſtenſione eſſendo compoſta di una infinità di parti fteſe, ſia compoſta d'una infinità di ſo. ſtanze tra loro tutte ſeparate, perchè l'idea dell'eſtenſione null hache di relativo, e ſuppone la coſa aſſoluta,' o la ſoſtanza, su cui la relazione ſi fonda. Il corpo fiſico, e mecanico non ſono pura eſtenſione, come il geometrico,; perchè nel corpo fiſico v'è la forza, o la for ma, e nel mecanico il peſo, origine delle proprietà, e dei lo ro fenomeni.. 8. 42. Se l'uno è, le parti in quanto parti ſono parti dell' uno, o partecipano dell'uno. Le parti non poſſono eſſer parti di le ſteſſe, nè di molti ($. 40. Sezione 3. ) dunque dell' uno, il che è dire, che partecipano dell' uno. §. 43, Se l'uno è, il tutto in quanto tutto partecipa dell' uno. Il tutto cui nulla manca delle tre parti è uno; dunque par tecipa dell'uno. Corol. Il tutto dunque, e le parti partecipano dell' uno, e ciò ſignifica un non so che di ſeparato da gli altri, ma eſiſten; te per sè, ſia egli qualunque coſa. ANNOT. Non par egli, che Parmenide nel dir, che queſt' uno ſia ſeparato dagli altri, e per sè eſiſtente, alluda all'idee feparatę che ha combattute nella prima ſeſſione '? Se non vuol ciò dirſi, come contrario alla profonda Filoſofia d'un sì grande Uomo, non ne liegue egli, che parlando qui con Socrate, parla bensi col fuo linguaggio, ma nel tempo fteffo incende di favellare fecondo le attrazioni della mente. 0 2 9.44. (108 ) 8. 44. Se l'uno è, le cofe che partecipano dell' uno fono altra coſa che l'uno. Niuna coſa può effer alcun uno fuor che lo ſteſſo uno; dunque ſe le coſe partecipano dell'uno, che vuol dire, non ſono lo ſtes fo uno, bifogna che fieno un'altra coſa. Dunque le coſe che partecipano dell' uno fono de verſe dall'uno. S. 4.5. Se l' uno è, le coſe che partecipano dell'uno, ſono in moltitudine infinite. Se le coſe che partecipano l'uno ſono diverſe dall' uno, non ef fendo uno nè più d'uno non faranno niente; ma non fon l'uno, dunque più d'ano, dunque ogni parte d'uno, include in eſſa i più, e queſti altri più, e così in infinito, dunque le coſe clre parteci pano l'uno, ſono infinite in moltitudine. COROL. Poichè il più include per fua natura la moltitudine in finita, ogni parte che d'eſſo ſi tragga fuori con l'intelligenza le ben piccoliflima rifpetto all'altre, ſarà in moltitudine infinita. ANNOT. Platone dice da quelle (cioè dei molti ) trar fuori con r* intelligenza alcuna cofa piccoliffima. In qual altro modo pud egli meglio indicar l'aſtrazione della mente.? nel dir Platone, che confiderando la diverſa natura della fpecie fecondo ſe ſteſſa quanto di lei vediamo, fia egli infinito, e in moltitudine, altro non ſignifica con la diverſa natura, ſe non che ogni parte dell' eftenfione include in sè più, e queſti altri più, e infiniti in. moltitudine. 1 g. 46. Se l'uno è, la parre in quanto parte è diverſa dell' uno, per chè l'uno è per sè indiviſibile, e la parte per sè divifibile. Se l'uno è, le parti ſono più che l' uno. Le parti diverſe dell'uno, ſe non ſono uno, o più d'uno, nulla ſaranno, ma ogni cofa è uno o più; dunque ſe le parti diverſe dall uno non ſon uno, ſaranno più che uno. S. 48. Se l'uno è, le parti che lo partecipano hanno termine tra loro, e riſpetto al tutto, e il tutto riſpetto alle parti. Ogni parte è una, ogni tutto è uno; ſe l'uno e l'altro parte cipa l'uno; ma quello che è fatto uno ha un termine. Dunque ec. Corol. All' altre coſe, che all' uno, avviene che partecipan do dell'uno, e di loro ſteſſe, ſi fanno in loro cert'altra coſa, il che dà loro il termine, ma la natura loro che include i più, è per eſſenza infinita in moltitudine; dunque le altre coſe che l'uno tutte ſecondo le particelle loro, ſono infinite in numero, e par tecipi di termini. g. 49. Se l'uno è, le coſe che partecipano l'uno, fono fimili, e dil ſimili, ſi movono, e ſi fermano, od hanno altre paſſioni con trarie, Le altre coſe che l'uno, ſono tutte infinite, o indefinite, fe condo la loro natura, onde tutte patiſcono lo ſteſſo, ed aven do cermini, e diverſi termini, patiſcono il diverſo, ma il limi le è quel che patiſce il ſimile, il diſſimile quel che patiſce il diverſo. Dunquele coſe, altre che l'uno, ſono ſimili, e diffimi li. Maſe patiſcono le ſtelle coſe, e diverſe, pariranno anche il moverſi, ed il fermarſi, l'eſſer maggiori, minori, ed eguali, l' eſſer più vecchie, più giovani ec. e 3. 50 Riepilogando le coſe dette, abbiam dimoſtrato che ſe l'uno che in quanto lo partecipano ſon d'ello parti. Che il tutto dal le parti riſultante partecipa pur dell' uno; che le parti parte cipanti del tutto, è dell' uno ſono infinite in moltitudine, che han (110 ). hanno termine tra loro, e rifpetto al tutto, come il tutto l'ha riſpetto alle parci, onde nel patir le coſe ſteſſe, e diverſe ſono ſimili, e diffimili, ſi moyono, e fi fermano. Paſſa a confiderar Parmenide nella ſuppoſizione, che sia l'uno, coſa adiviene alle coſe che non partecipano l'uno. g. 58. Se l'uno è, e le altre coſe che non partecipano l'uno, non ſono nè tutto, nè parii, nè fimili, nè diffimili, nè le ſteſſe nè diverſe, non ſi movono, non fi fermano, non ſi fanno, non ſi diſtruggono, non ſono, nè maggiori, nè minori, nè eguali, nè vecchie, nè giovani. Si concepiſca l'uno ſeparato dall'altre coſe, cioè fi concepi ſca che le altre coſe non lo partecipano, non vi ſaranno mol ti, perchè ognun de molti è uno; non vi ſarà numero, o mol titudine ordinata che principia dall’uno, il quale ſucceſſivamen te li va aggiungendo a ſe ſteſſo, e fa ogni numero uno nella fua fpecie; non vi ſarà tutto, che è una moltitudine riſtretta in uño; non vi ſaranno parti, ognuna delle quali è uno ordi nata ad un altro uno; non vi ſaranno coſe limili, nè diffimi li, nè le ſteſſe, nè diverſe con l' uno, perchè ſe teneffero in se -ſimigliznza, ediffimiglianza, comprenderebbono in sè due ſpecie tra loro contrarie, onde non eſſendo partecipi di due, nemme no lo ſarebbono di due contrarj; non poſſono eſſer quindi le coſe nè ſteſſe, nè diverfe, nè moverſi, nè formarſi, nè diftrug. gerſi, nè effer maggiori, giovani, e vecchie, perchè eſſendo ſem pre partecipi di due coſe contrarie ſarebbono partecipi di nu mero. ANNOT. Queſto è lo ſteſſo che concludere che l' uno traſcen dentale, eſſendo inſeparabile dall' ente, è lo ſteſſo tor dalle coſe l' uno, che l'ente, od annullarlo. g. 52. 1 Parmenide ha ultimamente conſiderato, coſa accaderebbe alle coſe, ſe non vi foſſe l'uno, che per ipoteſi ſtabili. Or cangia ipoteſi, e cerca, coſa accaderebbe alle cofe fe non vi foſse l'uno. Queſte due ipoteſi ſembrano diverſe, ma ricadono poi nello ſteſso, perchè canto è annullar le cote ſeparando da loro l' uno che è, od eſsere ſi concepiſce, quanto annuliarle ponendo le co ſe, e negando l'uno. SE (111 ) . B. I. Uando per eſempio fi dice grandezza, e non grandezza, QI si dicono due coſe oppoſte, e tra loro contrarie, poichè la non grandezza diſtrugge ciò che la grandezza pone o in natu ra, o nella mente; le fi fanno quindi le due propoſizioni, la grandezza è la non grandezza non è, tutte e due ſono nega tive, ma l'una è d' un ſoggetto finito, e determinato, l'altra d'un ſoggetro infinito, e indeterminato. La grandezza é il ſog getto di decerminata ſignificazione, la non grandezza di ſignifica zione indeterminara, perchè non grande è il piccolo, non grande il punto, non grande l'unità ec. Or il determinato è contrario all indeterminato; dunque, come ben oſservò Marſilio Ficino, le due propoſizioni, la grandezza è, la non grandezza non è, ſono con trarie, ſebben l’una, e l'alcra fieno negative. Lo ſteſso debbe dirſi delle due propoſizioni, l'uno non è, il non uno non è, egeneral mente della propoſizione A non è; non A non è: nella pri ma ſi nega ad A l'eſere, nella ſeconda ad A che fi nega, ga l'effere. Negar ſemplicemente una coſa, e negare la nega zione, ſono coſe tra loro contrarie. La propoſizione all'incon. tro A non è, e l'altra non A è, ſono equivalenti, perchè nel la prima di A fi nega l' eſſere, nella ſeconda fi afferma, che ad A fia negato l' eſſere. Affermare la negazione è lo ſteſſo che negar la cola; dunque equivalenti propoſizioni ſaranno, l'uno non è, il non uno è. E' poi da oſſervarli, che le negazioni, e pri vazioni ſi conoſcono per le loro realtà oppofte, la cecità per la vi fione, le tenebre per la luce, non A per A. ſi ne B. 2. Se l'uno non è, nel pronunziar la propoſizione ai concepiſce chiaramente e diſtintamente, che l'uno non fia, o li ha fcien za di ciò che s'eſprime, e s'eſprime qualche coſa diverſa dall' altra, l'uno è. Le privazioni, e negazioni ſi concepiſcono chia ramente, e diſtintamente per le loro realtà oppoſte, dunque il non uno per l' uno (J. 1. ) ma la propoſizione il non uno è, è, equivalente all'altra l' uno non è, dunque queſta propoſizione l' uno non è, fi concepiſce chiaramente e diſtintamente, o li ha ſcienza di lei. La propoſizione l'uno non è, è diverſa dall' altra, 3 uno (112 ) ! $ 1 1 uno è, e chiaramente, e diſtintamente ſi concepiſce la loro diver ſità; dunque nel dir l' uno non è, ſi concepiſce qualche coſa di diverſo. Platone così lo dice: eſprime primieramente alcuna coſa che ſi può conoſcere, poſcia differente dall'altra, colui che dice uno, aggiungendovi l'eſfere, oil non eſſere, perciocchè non ſi conoſce meno, ciò che fia quel che ſi dice non ellere, e come ſia certa co fa differente dall'altra. Corol. Può dunque predicarſi dell' uno la ſcienza, e la di yerſità. S. 3. Se non è l'uno, o ſe il non uno è, il non uno partecipa delle coſe che di lui ſi predicano, e non le partecipa. Del non uno è, ſi predica la ſcienza, e la diverſità (Cor. ant. ) dunque partecipa di queſte coſe, mapoichè egli non è, non aven do eflenza, non può participarle, perchè il non ente non ha pro prietà, dunque non le partecipa; dunque le partecipa, e non le partecipa. COROL. Così s'eſprime Platone: Il non ente è partecipe di sé, e d'alcuna coſa, e di queſta, e con queſta, e di queſta, e di cut te le coſe sì fatte; concioliachè non li direbbe uno, nè le diverſe coſe dell'uno, ne avrebbe egli alcuna coſa, nè alcuna coſa fi chia merebbe, ſe non foſſe partecipe di alcuna, nè di queſte altre nondimeno è impoſſibile che ſia l'uno, ſe egli non é, ma niuna cofa vieta, che non ſia partecipe di molte coſe, ed è neceſſario ancora ſe è quello l'uno, e non altro, ma ſe non è, nè l'uno, nè quello non ſarà egli; non ſi dirà nulla di lui, ed il ragionamento farà d'altra cofa, ma ſe fi ſuppone che quello uno non ſia, è ne ceſſario che ſia partecipe di lui, e di molte altre coſe,. 4. Se il non uno è, il non uno è ſimile a ſe ſteſſo, e diffimile all'altre coſe, ed al contrario. Il non uno convien col non uno, dunque con ſe ſteſſo; dunque è ſimile a ſe ſtello. Il non uno è diverſo dall'altre coſe che parte cipano l'uno, dunque è diffimile dall'altre coſe; ma il non uno non eſſendo, non può aver proprietà d'effer ſimile, nè diffimi le, dunque ec. 8. S. 1 (113 ) §. 5. Se il non uno d, egli è eguale, ed ineguale all' altre coſe, e nel tempo ſteſo eguale, ed ineguale. Gli eguali ſono fimili nella quantità; ma il non uno non ha ſimiglianza con l'altre coſe, dunque non ha egualita; ma ſe egli non è eguale agli altri, gli altri non ſono eguali a lui, dunque è loro ineguale; ma gl' ineguali partecipano dell' ineguaglianza, cioè di grandezza, edi piccolezza; dunque l'uno che non è, egli è grande, e piccolo; ma tra il grande, e il piccolo ſi frammetter eguale, e chi ha grandezza, e piccolezza, pud ancora aver eguaglianza; dunque l'uno che non è può participare di queſte coſe; ma s'è dimoſtrato, che non le partecipa, dunque ec. Se l'uno non è, ha in certo modo l'eſſere, o s'attri buiſcono a lui coſe che l'hanno.. -. Nel dire che l'iuno non è, ſi ha ſcienza di cid che ſi dice; nel dir che è, diverſo dall' uno, che è, e dall'alcre coſe; che è fimile, non fimile; diſſimile, non diſſimile dall' altre coſe; eguale, no eguale, fi profeſſa di concepire, e di pronunziare il vero, ma eſprimendoſi, e pronunciandoli queſte coſe a guiſa di enti, all'uno che non è s' attribuiſcono in queſto modo, onde egli ha in un certo modo l'eſſere. B. 70 Queſta propoſizione: il nulla è nulla, il nulla non è nulla, equivale a queſte altre due: il non ente è non ' ente; il non ente non è non ente. La prima di elle è affirmativa, ed iden, tica, perchè fi afferma il nulla di ſe ſteſo, la ſeconda è nega tiva, perchè ſi nega il nulla del nulla, che vuol dir, ſi affer. ma qualche coſa, perche una negazione diſtruggendo l' altra elleno affermano. Nel dire il non ente, non ente, il non en te vien a participare in un certo modo dell effere, affine di ef ſer non ente.. Nel dire all'incontro il non ente non è non en te, il non ente per non eſſere non ente che vuol dir per eſ ſere, vien a partecipar del non eſſere. Così intendo Platone, Tomo II. P allor 1 allor che dice: il non ente ad eller non ente ba il legame dei non eſſere, fe dee non eſſere, come lente tiene nella ſtella guiſa il legame deli eſere, perchè ei non ſia non ente, affinchè di nuovo ei fia perfettamente, e non ſiapartecipe il non ente delléſenza, del non eſſer non ente, ma dell'eſenza dell'eſer non ente, ſe il non ento fia perfettamente. $ Se l'uno non è, egli partecipa; e non partecipa dell' eflenza 1 L'ente è partecipe del non eſſere, ed il non.ente dell'eſſe re ($. 7. Sez. 4. ) ma ſe non è, l'uno é neceffario che ſia par tecipe del non eſſere, affinchè ei non ſia; dunque appariſce, che l'eſſenza ſia nell' uno, ſe egli non è, e la non effenza ſé egli è. ANNOT. Tutti queſti ſono ſcherzi metafiſici, per dar luogo alle nozioni immaginarie, e quindi alle contraddizioni, che mo ſtrano le coſe impoſſibili; ben deve oſſervarſi, che facilmente con effe fi cade in quel mirabile, che degenera in puerilità. Platone ſobriamente l' adopra, per dimoſtrare in quali raffina menti sfumavano le dottrine della ſetta Elearica. 9. 9. Se l'uno non è, ha mutamento, e in conſeguenza moto, e non ha moto, Šisru ! L'uno parve ente, e non ente, onde fta così, e non così, dunque fi muta paſſando dall' eſfér al non effer; dunque ha moto. Ma fe l'uno non è, non è in alcun luogo, perchè ogni en té è in qualche luogo, ma non eſſendo mai in luogo non pudo paſſare da un luogo all'altro, dunque non percid fi move, per che non ſi traſmuta.. io.: $. io. Y Se l'uno non è, non ſi altera, e non alterandoli ne ſi muta, nè ſi move. L'uno non eſſendo, non può mai verſare in quello che non è, dunque non alterarſi, poichè ſe l'uno da ſe stello li alceral fe in alcun luogo, non ſi ragionerebbe più deil' uno, ma di cer ta altra coſa; ma ſe non li altera non ſi rivolge in fe fteffo nè fi muta, nè ſi altera; dunque ec. ļ $. Se l'uno non è, fta e ſi moồe, e fi altera, Quel che non ſi move ſe ne ſta in quiete, e ſi ferma que gli che in quiete ne fta; dunque l'ano non effendo, comeapo pariſce ſta egli e li move, anzi movendoſi è neceſſario che ſi alteri, perchè in quanto alcuna coſa ſi move, incanto ſe ne ſta ella non nello ſteſſo modo, ma altrimenti; dunque l'uno mentre fi move ſi altera, e nondimeno non movendoſi in niun luogo in niuna guiſa ſi può alterare; dunque in quanto fi move", ciò che non è uno ſi altera; ma in quanto non ti move, non fi alce ra, dunque l'uno non eſſendo ſi altera, e non ſi altera. $. 12 Se l'uno non è, egli è diverſo da quel che era prima, non ſi altera; non fi fa, non ci muore, e di nuovo ſi fa, emuore. Cid che ſi alcera è neceſſario che ſi faccia diverſo da quel che era prima, ma quel che non fi altera, non ſi fa në muore; dunque l'uno, non eſſendo mentre fi altera, e ſi fa, e periſce, ma non alterandoſi, non fi fa, nè muore, nè periſce, ed in do tal guiſa l' uno 'non effendo, li fa, e muore e di nuovo non fi fa, nè muore. §. 13: Sin ora ha dimoſtrato Platone, che ſe l' uno non è, egli dà di sè fcienza, ed ha in sè diverlicà, che è partecipe, e non par tecipe di altre cole; quindi lo ſteilo-, e non lo ſteſſo con ſe ſtel  ſi move fteffo, ſimile e diffimile nè ſimile, nè diffimile, eguale, ed ineguale, non eguale, nè ineguale, partecipe d'eſſenza, e non partecipe, ſi muta, e non ſi muta e non ſi mo ve, fi altera, e non fi altera, ft fa, c periſce, e fi fa, e non periſce. Tutte queſte concluſioni derivano dalla poſizione, l' uno non è; l'uno eſſendo inſeparabile dall'ente, ſe non v'è l'uno, nè pur v'è l'ente. OrPente non è, che il poflibile. Annullato dunque il poſſibile reſta l' impoffibile, da cui ſecondo l' Aflioma ſegue coſa, ex impoſſibile ſequitur quolibet, perchè nell'idea aſtrat ta dell'impoſſibile s'includono tutte le contraddizioni. Platone dal conſiderare, che l'uno non ha eſſenza, e non n'è capace, nega tutte le altre relazioni che pud avere. Premetto a ciò che quando diciamo, che alcuna coſa non ſia, nel proferire, queſto non è, fi fignifica ſemplicemente, che non è al tutto in niun modo, e non eſſendo in niun modo, non è capace in alcun modo di eſſenza; dunque non potrà eſſere il non ente, ne in alcun modo farſi partecipe di eſsenza. §. 14. Se l'uno non è, non può farſi in alcun modo par tecipe d'eſsenza. Quel che non è, ſignifica ſemplicemente, che non è al tur 10, in niun modo, o non è ſemplicemente capace di eſsenza, dunque fe l'uno non è, non può mai eſser capace d'eſsenza.. 15: ne la per Se l'uno non è, non pud farſit, nd morire. Chi non è partecipe di eſsenza, non la riceve, nè la de. Dunque fe. L'uno non è, non pud nè ricever, nè acqui ftar l'eſsenza, perchè non n ' è capace; dunque non periſce, nè fi fa. $. 16. Se l'uno nonè, non fi altera, nè fi move, nè ſe ne ſta, non ha grandezza, nè piccolezza, nè parità, né limiglianza, e dia, verlin (11 ) 3 onde eſsenza, non può aver ne grandezza, nèpic marfi. Se verſità riſpetto all' altre coſe, e a ſe ſteſso, nè gli conviene ale cun altro attributo Se l'uno non è, non ſi altera, perchè fi farebbe già, je pe rirebbe potendo queſto; ſe non ſi alcera, nè men fi move, ſe come non ente, non eſsendo in alcun luogo, non pud ſtar lo ſteſso in alcuna coſa, nè in alcuna coſa fermarſi. Se non ha nè piccolezza, nè parità, eſser ſimile, o diverſo, o rifpetto all'altre coſe, o a ſe ſteſso, nè le altre coſe potranno eſser in lui in alcun modo, gli ſono, nè fimili, nè diffimili, nèle ſteſse, nè diverſe, nè pud ſtar ſeco, non ha il di lui, o ciò che ſi dice di alcuna coſa, o queſto, o di queſto, o d'altrui, o ad altrui, o alcuna volta, o dopo, o al preſente, o ſcienza, o opinione, o ſenſo, o fer mone, o nome, o qualunque altro degli enti. Annot. Sebben ſi oſserva, Platone al non uno toglie tutto quello che ha dato all'uno, conſiderato in ſe ſteſso nella prima Sezione, argomento evidente, che, quando tutti gli altri man caſsero, quì non ſi trarca che delle aſtrazioni della mente, fra miſchiate tallora con le nozioni immaginarie, quali ſono in que fta Sezione, e nel rimanente. Non ci reſta che l'ultima quiſtione, in cui ſi cerca ſe non è l'uno, che accada all'altre coſe. $. 1. S'orser Oſservi tolto. 1. Che ciò che è, o è l' uno, o l'altre co ſe • 2. Che ſe queſte non foſsero (almeno nella noſtra im-. maginazione, o nella noſtra mente ) di loro non ſi diſputereb be, perchè il nulla non ha proprierà. 3. Che ſe dell' altre li fa vella, l'altre ſono il diverſo, poichè l'altro, e il diverſo ſono fi nonimi', onde diciamo altro non eſser l'altro, che l'altro d'al tri, ed efser del diverſo diverſo, e che per far le coſe altre dalla uno, vi ſi debbe aggiungere qualche altra coſa, onde fieno per eſser altre, di cui ſaranno altre. 3 Tesni f. 2. (118 ) S. 2.. Se l'uno non è, le coſe altre o diverſe dall'uno, non ſono altre. o diverſe, che per ragion di ſe ſteſse.. Nelle coſe altre dall' uno o diverſe dall'uno, vi's include' qual che altra coſa, per cui fieno altre, ma queſta coſa non pud ef ſer l'uno, perchè per ipoteſi egli non v'è. Dunque, poiché non v'è, che l' uno, e l'altre coſe, eſcluſo che altre coſe non fieno. altre per luno ne liegue che ſieno altre per ſe. ftelse, COROL.. Dunque: per ſe ſteſse. ſono ciò che ſono tra se.., S: 3 Se: l'uno non v'è, le coſe altre dall' uno ſono tali per una moltitudine infinita. Non v'è che uno o i più, dunque le coſe altre o diverſe 1 dall’uno, non potendo eſser altre che l'uno, il quale non v'è per ipoteſi, non ſaranno altre che per i più, cioè per la mol: titudine; ma il più, o la moltitudine eſsendo per le ſteſsa in finita '; le coſe. altre dall uno,. ſono alore per una: moltitudine infinita.. COROLLAR. Qualunque mala dunque di loro appariſce in molti-. tudine infinita, e ſe alcuno ſi prenderà ciò che menomilimo pare co. me. Sogno, incontinente in vece di quello che pare uno, ſi fa innangi una moltitudine infinita, e in vece di quella chemenomilimopar ve, apparirebbe grandiſſimo già, ſe il pareggialli ad altre coſe in die Sparte da lui. Cosi: parla Platone: fia prefa qualunque parte d'eſtenſione, el la è diviſibile in due, ed inoi in due, e così all'infinito. Della di viſione di cui è capace il tutto, ſono capaci reſpettivamente le parti, nè v'è particella si minima, che le noi nell' ipotefi che non v'è uno, poteſſimo vedere con un microſcopio miracolo fo,, non ci pareſse diviſa in una moltitudine infinita di parti, ma tali che nell' iſtante ſteſso, che noi vedeſſimo la parte, la vedremmo attualmente diviſa in altre parti infinite, e cosi all'in finito; non è che io dir voglia, che vedremmo l'infinito at tuale, perchè non poſſiamo intenderlo, non che vederlo, nè so come il Leibnizio abbia poruto concepir nella più minima parte di ciò che egli chiama 'materia, un numero attualmente infinito di monadi"; biſogna prima provare, che noi concepia mo l'infinito attuale -, ed indi che vi ſieno queſte monadi; ma ſe vi foſsero, il che io non l' ammetto, che come principio di co gnizione, e non di natura, in eſse, come l'eſprime il nome loro, v è un'unità, che è il fondamento di concepir nella monade innumerabili proprietà; ma quì nell' eſtenlione Platonica, biſo gna rappreſentarfi ogni parte deſsa ſeparata dall' uno; ' v'è in ciò contraddizione, ma appunto Platone - la ſuppone per de dur dall'aſsurdo i, l'impoſſibilità di ſeparar l' uno dall'ente. §. 4. Se non è l'uno in ogni maſsa apparente apparirà il numero, e le proprietà dei numeri, l'eguale, il mag giore, il minore. Tolto l' uno dalla maſsa, ci ſi fa come nel ſogno innanzi una moltitudine infinita, in cui ſe ſi vuol ordinar colla mente la moltitudine, vi ſi trova il numero; quindi il pari, e l' impari; il picciolo, il grande, il piccioliſſimo, il grandiſſimo., compa rando tra loro le maſse, in cui s'è diviſa la maſsa maggiore, e quindi l'eguale, perchè non ſi può paſsar dal maggiore al mino re ſenza paſsar per l'eguale, ma queſti ſaranno tutti fantasmi d' egualità, di maggiore, di minore, di pari, d'impari ec, come di numero. Se non v'è l' uno, ogni maſsa apparente avendo termine appa rente, riſpetto all' altra non ha nè principio, nè mezzo, nè fine riſpetto a fe ftefsa. Si prenda alcuna delle maſse apparenti coll intelligenza, in nanzi al principio, ſe le fa ſempre innanzi altro principio, e dopo il fine, ſegue ſempre un altro fine, e nel mezzo altre coſe ſem pre più interne del mezzo, e ſempre minori, perchè non ſi può ricever in queſta alcun uno, non eſsendo l'uno. Annot. E ' da oſservarſi, che qui Platone dice, prender alcu na coſa con l'intelligenza, cioè aſtrattamente conliderarla í vi aggiunge poi che potendoſi prender la maſsa ſenza l' uno, cioè fenza far aftrazione dall'uno, ſi sbrana qualunque coſa così pre ſa con l'intelligenza, che è quanto a dire con la mente fi* di vide in più parti, e queſte in altre, e così all'infinito. S. 6. Se l'uno non è, preſa qualunque maſſa a chi da lungi la mira groſſamente par uno, ma chi da preffo l'in tende è un infinito in moltitudine. Non potendo noi nulla concepir ſenza l' uno a prima viſta, e da lungi mirato ci par uno, ma da preſſo, e acutamente vedendolo, tolto l'uno, ci rappreſenciamo infiniti. COROL. Se dunque non v'è l'uno, ma l'altre coſe dall' uno, qualunque di eſſe è infinita, e con termine ed uno, e molci. Se non v'è l'uno le altre coſe ci pareranno, e ſimili, e diffi mili, e le ſteſſe, e le diverſe, e unire, e ſeparate, e moverſi, fermarſi; nè potendo noi concepir le coſe ſenza l'uno le ve dremo, come adombrate da lunge, e patir lo ſteſſo, ed eſſere fimiglianci, mada preſſo molte, e diverſe, e per il fantasma della diverſità diverſe, e diflimiglianti tra loro ſteſſe e pari mente ci pareranno le maſſe ſimili, e diffimili, e da loro ſteſ ſe, e tra di sè, e le ſteſſe, e diverſe tra loro, e che tocchi no, e fieno ſeparate da loro ſteſſe, e fi movano con tutti i mo ti, e ſi facciano, e periſcano, e nell' una, e nell' altra manie e tutte le coſe sì fatte che li poſſono dedurre dalle coſe 7 ra, già dette. S. 7. Ha dimoſtrato fin ora Parmenide 3 che adiviene alle coſe ſe non è l' uno, cerca poi che fieno gli altri che non ſon uno.  Se non è l'uno, le alere coſe non ſon uno, ne molti. Non ſono uno, perchè non v'è l' uno; non ſono molti perchè i molti preſuppongono l'uno. ital 18. s. Se non v'è l'uno, non vi ſarà nè opinione, nè fantasma, ne ſcienza dell'altre coſe. Le altre coſe non hanno alcun concetto con niuna di quel le che non ſono, nè alcuna di quelle che non ſono è appreſso ad alcuna dell'altre che ſono; dunque appreſſo ad altri non v'è opinione, non v'è fantasma dell'ente, e quindi dell uno; ma ſe non v'è l'uno, non effendo poſſibile il penſar a molte coſe fen za r uno, neppur èpoſſibile che ſi penſi che fieno uno, o mol ti le coſe.. 10. Se non vè l' uno, le coſe non fono nè fimili, nè diffi mili, nè le ſteſſe, nè diverſe, nè ſi toccano, ne et ſeparano Non ſi poſſono concepir le coſe ſenza l'uno; dunque ſe non vi è l'uno, non ſi poſſono concepire, nè ſimili, nè diffimili nè le fteffe, nè diverſe, nè unite, nd ſeparate. COROL. Dunque ſe non v' è l' uno nulla v'è, onde o ſia l' uno, o non fia, ed egli e l'altre coſe ancora ſono, e non ſo no ad ogni modo riſpetto a fe ftelle, e tra di loro, e appajo no, e non appajono. II. Riftringendo in poco tutto ciò che negli ultimi paragrafi s'è eſpoſto, egli è manifefto, che l' uno efiendo inſeparabile dall' ente, ove non v'è più uno, non v'è più d'ente, cioè v'è nul. la, ol'impoſſibile", da cui ſeguono tutti i contraddittorj, qual Tomo II. q Pla Platone ci eſpoſe per via di nozioni affatto immaginarie; egli ne fa veder i uſo, e moſtra nel tempo ſteſſo, quanto la fan taſia ſia diverſa dall' intelletto, poichè ella ci rappreſenta una coſa, mentre la mente ragionando ce ne fa concepire un'altra. Si conclude dunque, che Placone in queſto Dialogo non fi af fiffa che a moſtrar ſuſo dell'aſtrazioni della mente, nell' inve ſtigazione dell' idee. 1. Con le negazioni, come fece nel primo capo. 2. Con le analogie dell'altre idee aſtratte; finalmente con le cognizioni dell' idee, del ſenſo, della fantaſia, combinate a quelle della mente. LETTERA A SALIER Primo Cuſtode della Biblioteca DEL RE CRISTIANISSIMO. On dubitate che io ſia mai per dimenticarmi di voi, co N°me alcuni venuti ultimamente di Francia m' accufaro no da voſtra parte; troppo m'è rimaſta impreſſa l'idea della bontà, e gentilezza voftra, troppo è ſtato vivo il piacere e ſodo il profitto, che io ricavai dalle converſazioni letterarie, che abbiamo fpeſſo avute inſieme, e tra l'altre su l'opere di Platone; ce ne porgevano il motivo le ſaggie rifleſſioni, che leggevaci l'Ab bate Fraguier, or su l'ironia di Socrate, or ful carattere de'So fifti, or su la Repubblica, ed or su le Leggi, tutti oggetti delle belle diſſertazioni, che egli diede alla voſtra Accademia. Solo la Iciò egli intatto il Parmenide, o non aveſſe il tempo, o la voglia d' applicarſi a ſviluppare un Dialogo, che è il più malagevole di Platone, o temeſſe dioffendere la ſoavità del ſuo genio con l'idee troppo auftere, e filoſofiche, delle quali il Dialogo abbonda. Voi ben ſapete, che per voſtro conſiglio m' applicai a leggerlo con attenzione e ne concepii quel fiſtema, di cui állor vi parlai. Venuto in Italia, e diftratto da graviſſimi intereſſi dimeſtici, ne interruppi l'eſame già cominciato, ſebbene negli intervalli io leggeſſi continuamente Platone; e l'avrete ve duto nel Sogno del Globo di Venere, che il Signor Conte di Cai lus v avrà forſe dimoſtrato in lingua Franceſe tradotto. Di tem po intempo io parlai del Parmenide con gli amici, e mi fi fue gliò il deſiderio di compierne il ſiſtema da me abbozzato all'occa lione del Platone di Dardi Bembo, che ſtampali in Venezia, con P aggiunta delle note e degli argomenti del Serano letteralmente tradotti. Dalla Differtazione preliminare ritrarrete l'idea generale del la Filoſofia di VELIA (si veda) così celebre per l'acurezza, e per la profon dità de' Filoſofi, come la Jonica per la fodezza dell'eſperienze, e l'Ita  1 1 ľ Italica per la felice combinazione della Geometria, e dell'A ſtronomia alla Fiſica. Non è difficile ſcoprire, che la metafiſica do Ariſtotele è tratta in granparte in queſto Dialogo, in cui Plato ne abbandona quaſi l' artificio poetico adoprato negli altri, e ſi ſpiega nella maniera più ſemplice, e più preciſa. Nella prima Sef fione io v'oſſervai i tre fonti delle allurdità degli argomenti me tafiſici; il principio di contraddizione, il progreſſo all'infinito, el' annullazione fuppofta di qualche perfezione divina. GliEleatici, che forſe gli inventarono, riconoſceano i limiti dell'intelligenza uma na, e pur era queſta la minor parte della Dialectica loro, la qual vaga va per tutti i lommi generi delle coſe. La quiſtione dell'origine e della natura dell' idee v'è più che abbozzata, e la riſpoſta che so crare diede a Parmenide, su la maggior difficolcà dell' idee, è la ſteſſa che uso il Padre Malebranchio nel medeſimo caſo. Nell'al tre opere s' accuſa il Commentatore di dar troppo ſpirito al ſuo Filoſofo; in queſta è cutto il contrario, poichè per quanto ſi ſpieghi Platone, vi reſta fempre molto a medicare, e la compa razione del reſto fa ſempre vergogna al commento. Ficino e Serano, che aſſegnarono al Dialogo un grado di ſublimità Teologica non convenevole, l'hanno sfigurato, e colto agli altri il profitto, che avrebbono potuto ricavare da una ſpe colazione così ben dedocta e conforta nè punto inteſa dai due Commentatori, i quali preteſero che in queſto Dialogo chiama to dell'idee, voleſſe Platone diſputare a pro delle feparate, quan do egli manifeſtamente le rifiuto, tutto riducendo all' Ontolo gia che è la più bella, e la più utile parte della metafiſica In molci errori cadè miſeramente il Carcelio, per averla ab bandonata, eſpregiata; e non furono dal Leibnizio, ed indi dal Wolfio ridotti al ſuo vero lume i dogmi filoſofici, ſe non dopo che effi s' affaticarono a dimoſtrare, le nozioni Ontologiche eſſer quelle alle quali convien avertire prima d' inoltrarſi nella combinazione dell'idee, e quindineiſiſtemi. Tutti gli uomini pre veggono gli aſtratti ne' concreci, pochi hanno la forza di ſepa rarli, pochiſſimi quella di ridurli in teoria, ed è ſolo riſerva to a' ſommi Filoſofi il farne ſiſtema. Voi molto più vedete in Platone, che io poſſa eſprimere; in canto vi prego a conſer varmi il voſtro affetto, ed eſſer certo che il mio farà ſempre inviolabile. La scuola stoica è quella che nell'antichità ha sviluppato con maggior rigore e profondità una riflessione semiotica. Tuttavia l'indagine degli stoici si polarizza, com'era già av­ venuto per Aristotele, su due ambiti fondamentalmente di­ stinti tra di loro: da una parte, una teoria del linguaggio in senso stretto, che comporta anche un'analisi dei rapporti tra linguaggio, pensiero e realtà (in corrispondenza della terna significante, significato, oggetto esterno); dal­ l'altra, una teoria del segno proposizionale, connessa con la teoria dell'inferenza. Questi aspetti della filosofia stoica trovano però un pun­ to di convergenza, come vedremo, nel loro comune legame con il lekt6n, un'entità che ha uno statuto eccezionale nella metafisica stoica. In effetti, a fondamento di quest'ultima, si pone la speciale dialettica tra le entità che condividono la proprietà di essere "corpi" (sOmata) e quelle entità che sono invece corporee (asOmata). Più in dettaglio si può dire che di solito l'ontologia stoica prende in considerazione solo quegli individui che hanno la caratteristica di essere oggetti tridimensionali e di possedere altresì una resistenza nel tem­ po. Questi, appunto, sono i corpi e solo essi vengono consi­ derati esistenti. Ora, tanto nella teoria del linguaggio, quan­ to in quella del segno proposizionale, accanto alle entità corporee vengono prese in considerazione anche delle entità incorporee, quali i lekta. Per il momento è invece necessario sgombrare il campo da due equivoci. Il primo concerne il destino che tocca alle entità incorporee: esse non vengono relegate semplicemente nell'ambito del non-esistente, ma vengono investite di una esistenza derivativa' (Long ). Il secondo pos­sibile equivoco concerne la nozione stessa di corpo. Contra­ riamente a quello che ci attenderemmo in relazione a una nozione moderna di corpo, per gli stoici erano "corpi" an­ che le qualità, in quanto venivano considerate come materia in un certo stato. Le proprietà di un certo individuo costi­ tuiscono stati o modi del suo essere e, per la loro esistenza, dipendono dall'esistenza di questo individuo. Se l'individuo esiste, le sue proprietà sono appunto disposizioni esistenti di materia (Rist). Si profila, a questo punto, una ontologia che pone al suo centro la nozione di "particolare": quest'ultimo viene carat­ terizzato come un oggetto materiale, che ha una forma defi­ nita come condizione necessaria e sufficiente della sua esi­ stenza. La forma, del resto, è l'elemento caratteristico di un oggetto, che lo rende identificabile come tale (Long). È proprio su questi presupposti antologici che si innesta e si sviluppa la teoria semiolinguistica degli stoici: il bisogno di una teoria del significato e della verità nasce appunto a proposito deIl'identificazione dei "particolari", ed è con­ nesso a una teoria della percezione. Così, si terrà presente innanzitutto che per gli stoici le im­ magini (phantasfa1) prodotte nella mente dagli oggetti ester­ ni danno luogo a una percezione vera se esse riproducono esattamente la configurazione di tali oggetti.1 Del resto, le immagini giocano un ruolo importante nella teoria del si­ gnificato degli stoici, come si sa che avevano una parte im­ portante anche nella teoria del significato di Aristotele. In secondo luogo si può considerare come fondamentale il fatto che uno dei modi di identificare un "particolare" è quello di identificarlo linguisticamente. In questo caso è fondamentale l'abilità di A nel comunicare a B che sta par­ lando intorno a X, come pure l'abilità di B di indicare ad A che egli ha compreso il suo riferimento. Il passo di Sesto Empirico che contiene i lineamenti fon­damentali della teoria linguistica stoica si trova proprio in un contesto che concerne un conflitto di opinioni intorno alla verità. È importante sottolineare che per gli stoici una teoria del­ la verità, cioè la ricerca delle basi per una verifica delle pro­ posizioni, non può essere elaborata in maniera indipenden­ te da una concezione della struttura del mondo e da ciò che può essere detto intorno a esso. Ecco il passo di Sesto. Alcuni hanno riposto il vero e il falso nella cosa significata (tò smainomenon), altri nella voce (phon), altri infine nel mo­vimento del pensiero. Della prima opinione sono stati i porta­ bandiera gli stoici col sostenere che sono tra loro congiunte tre cose, ossia la cosa significata (tò smainomenon), quella signi­ficante (tò smafnon), e quella-che-si-trova-ad-esistere (tò tyn­ chanon), e che, tra queste, la cosa significante è la voce (ad esempio la parola "Dione"); quella significata è lo stesso stato di cose (autò tò pragma) indicato dalla voce pronunciata (tò hyp'autis dloumenon), che noi percepiamo come coesistente (paryphistamenon) con il nostro pensiero (dianoia1), mentre i barbari, pur ascoltando la voce che lo indica, non lo compren­ dono; infine, ciò-che-si-trova-ad-esistere è quello che sta fuori di noi (ad esempio, Dione in persona). Di queste cose due sono corpi, cioè la voce e ciò-che-si-trova-ad-esistere, ed una è incor­ porea, cioè l'oggetto significato o "detto" (lekton), e proprio quest'ultimo è vero o falso (Sext. Emp., Adv. Math.) A partire dalle notizie di Sesto, anche per gli stoici il fe­ nomeno della significazione linguistica può essere ricostrui­ to nei termini di un triangolo. Si può osservare che compaiono i termini significante e significato (come è dato trovare anche nella teoria mo­derna di Saussure), ma non quello di segno. Come anche slmsin6menon (significato) lekt6n (detto)  tmsm lnon (significente) tynchAnon  in Aristotele, la nozione di smeion appartiene a un altro ambito della teoria, che non è quello strettamente linguisti­co. Si può notare anche che l'esempio che viene dato qui è abbastanza particolare, in quanto si tratta di un nome pro­prio. In secondo luogo, se da una parte, come per Aristotele, i termini che individuano la significazione sono tre e com­prendono anche l'oggetto, che propriamente è esterno al linguaggio, tuttavia la coincidenza tra i due modelli è solo parziale. Soltanto il primo e il terzo termine, cioè la voce si­ gnificante e l'oggetto, possono essere assimilati nei due triangoli. Un caso assolutamente a sé costituisce il termine che si trova al vertice superiore del triangolo, chiamato prima ù·lJ_ main6menon, poi anche lekt6n. Soprattutto nella sua se­conda denominazione costituisce un termine peculiare della filosofia del linguaggio degli stoici e rimanda a un concetto complesso e di grande interesse. Un primo aspetto della sua peculiarità lo si può rilevare in un confronto con Aristotele. (oggetto esterno, referente). Nella stessa posizione del triangolo della significazione Ari­stotele pone delle entità psicologiche, che venivano consi­derate le medesime per tutti gl’uomini. Il lekt6n degli stoici, come ci dice Sesto nel passo riporta­to, ha caratteri completamente diversi, in quanto i barbari, pur udendo i suoni e vedendo l'oggetto, non lo compren­dono . Come rileva Todorov, la differenza tra le due nozioni consiste innanzitutto nel fatto che, mentre l'en­tità presa in considerazione da Aristotele si situa a livello della mente dei locutori, quella considerata dagli stoici si situa direttamente al livello del linguaggio. Todorov interpreta il lekt6n come la capacità del primo elemento di designare il terzo. Tale interpretazione poggia anche sul fatto che l'e­sempio dato è un nome proprio, che ha una capacità di de­ signazione come gl’altri nomi, ma è molto controverso se abbia un *senso*. La risposta che di solito si dà a questo inter­rogativo è negativa. I barbari odono sicuramente la sequenza di suoni /dione/ e vedono Dione, ma sono incapaci di connettere il suono con il suo oggetto di riferimento. Comprendere, dun­que, come avviene appunto nel caso dei Greci, consiste pro­prio nel percepire la connessione tra la parola che viene pro­nunciata e l'oggetto cui si riferisce. Anche Long identifica il lekt6n con tale connessione, ma nel senso che esso si configura come l'affermazione che un enunciato fa nei confronti di qualche oggetto; in questo caso, la tra­duzione più propria di lekt6n è "ciò che è detto", in quanto tale espressione copre sia la nozione di giudizio che quella di stato di cose significato da una parola o da una serie di parole. L'idea che il lekton si può configurare come una affer­mazione intorno all’oggetto emerge da una testimonianza di Seneca (Epistulae morales), in cui viene delinea­to uno schema triadico della significazione analogo a quello di Sesto, ma con una proposizione – “Cato ambulat” -- laddove Sesto propone solo un nome (“Dione”). Seneca invita a distinguere tra l'oggetto di riferimento, cioè Cato­ne, che è un oggetto materiale, e l'asserzione intorno a esso, che è un incorporale. Tale asserzione è propriamente il lekton, del quale termine Seneca propone tre diverse traduzioni latine: “enuntiatum,” “effatum,” e “dictum.” Dato che l'esempio proposto da Seneca è una proposizio­ne, risulta più agevole, rispetto ali'esempio di Sesto, capire come possa essergli applicato il predicato "vero" o "falso".4 nfatti solo i lekta che costituiscono una proposizione com­pleta possono essere veri o falsi. Nel modello aristotelico della significazione, una espressione e un simbolo di uno stato psichico (pathmata en tiipsychi1) elo dei pensieri (noimata). In questo modo, non viene operata una chiara distinzione tra la nozione di si­gnificato e quella di pensiero. Tale concezione ricompa­re del resto nella nota teoria di Ogden e Ri­chards, i quali disegnano un triangolo se­miotico in cui figura al vertice superiore la nozione di "thought" ("pensiero"). Diversa è la concezione proposta dagli stoici. In effetti, dalla testimonianza concorde di Sesto e di Diogene, si ricava una nozione di significato nettamente distinto dal pensiero, anche se intrattenente con questo un certo tipo di rapporto. Dice infatti Sesto. “Gli stoici affermano che il lekton è ciò che sussiste in confor­mità con una rappresentazione razionale (logike phantasia) e che una rappresentazione razionale è quella secondo cui il rappresentato (phantasthén) può essere espresso in parole (Sext. Emp., Adv. Math.). In termini del tutto analoghi si esprime Diogene (Vitae), usando anche le stesse espressioni. Cosi, da en­trambi i passi si può ricavare l'idea che gli stoici operassero una distinzione netta tra il lekton, che rappresentano il livello del significato, e la rappresentazione razionalie (logike phantasma), che possiamo definire come delle forme di atti­ vità intellettiva o dei pensieri. Quest'ultime entità sono pe­culiari della specie umana e possono, ali'occorrenza, essere espresse in parole -- a questo infatti si riferisce l'aggettivo, “logike”. Ma, sempre dai due passi, si può ricavare anche che i due termini, il lekton e l'attività di pensiero, vengono messi in relazione. Long cosi commenta il passo di Se­sto: "I take this difficult passage to mean that the lekton is defined as the objective content of acts of thinking (no­esis)" e aggiunge anche "or, what comes to the same thing in Stoicism, the sense of significant discourse". Prima di ap­profondire il senso di questa seconda asserzione di Long, soffermiamoci sulla prima. Dunque la relazione che il lekton instaura con l'attività di pensiero è tale per cui esso si configura come contenuto o risultato di tale attività. Ma questa nuova relazione, che ve­ niamo scoprendo attraverso le testimonianze di Diogene e Sesto, comporta un elemento nuovo rispetto a quanto lo stesso Sesto dice altrove (Adv.Math.), quando ha messo in relazione il lekton con l'espressione significante (cioè con il smainon). In effetti, se il lekton viene ora definito come qualcosa che sussiste in conformità con una rappresentazione razionale, è evidente che l'accen­to appare spostato dal precedente rapporto con il suono della voce, a un rapporto con l'attività del pensiero. Questa, prima di dimostrarsi un'apparente contraddizio­ne o un falso dilemma, ha diviso sia le testimonianze degl’esegeti antichi sia le interpretazioni degli studiosi moderni degli stoici. Come mette bene in evidenza Mignucci, il lekton, essendo incorporeo, non può essere disgiunti da qualcosa di corporeo che faccia in qualche modo da sup­porto ad essi e che permetta la loro esprimibilità. Il proble­ ma diviene allora quello di stabilire se a fare da supporto a un lekton siano: un suono della voce; o l'attività della mente che li pensa. La prima definizione di Sesto opta per la prima; la seconda, come pure la definizione di Diogene, per la seconda. Ugualmente, tra gl’interpreti moderni, Mates risponde che è la parola a fare da supporto al lekton. Zeller11 e Bréhier12 assumono l'altro punto di vista. Come dicevamo, questo è un falso dilemma, non resolu­bile tuttavia filologicamente, in quanto nei testi antichi c'è un'uguale quantità di elementi di convalida per ciascuno dei due punti di vista. Piuttosto è necessario considerare un du­plice presupposto che sembra agire nella teoria stoica. Da un lato il verificarsi di discorsi significativi rimanda a un'at­tività intellettuale, in assenza della quale non è possibile che si diano i significati. Dall'altra, il risultato dell'attività intel­lettuale ha bisogno dei suoni della voce significativi per esplicitarsi oggettivamente. È possibile, anzi, trarre le con­seguenze dal fatto che un lekton è definito da una parte co­me *contenuto* di una rappresentazioni razionale e dali'altra come il significato di una parola: conseguenze che indicano la necessità di postulare una stretta connessione tra i contenuti dell'attività rappresentativa della mente e il loro essere si­gnificati attraverso le parole. I due termini, in realtà, non possono essere disgiunti l'uno dall'altro. A questo punto possiamo comprendere la seconda asserzione di Long che abbiamo anticipato: il senso del discorso significante e il contenuto oggettivo degli atti di pensiero devono essere considerati come la stessa cosa.. La precedente conclusione viene del resto appoggiata da tà14 è dato dalla "rappresentazione" (phantasia) passo Diogene spiega che la phantasia ha un ruolo assoluta­mente primario, in quanto non è possibile, senza di essa, rendere conto di alcuni processi fondamentali della conoscenza, quali l'assenso (synkatathesis), la comprensione (kata/psis) e l'attività di pensiero (nosis). Infatti la rap­presentazione viene per prima, poi il pensiero (dianoia) che è capace di parlare (eklalètik), esprime in parole (/6g01) ciò che esperimenta come il risultato della rappresentazione.  Il passo di Diogene è importante perché ripropone la no­zione, già platonica, del pensiero come discorso inter­no. Tutto ciò porta a concludere che per gli stoici esiste Long sulla considerazione di un passo di Diogene Laerzio (Vitae) in cui viene detto che il criterio di veri- .. In questo una sostanziale identità tra i processi del pensiero e quelli della comunicazione linguistica. Il fatto poi che i processi cognitivi siano basati sulla phantasia getta luce sul ruolo che le immagini mentali hanno nella teoria linguistica del si­gnificato.Il lekton, che abbiamo finora incontrato come elemento centrale della teoria del linguaggio, costituisce una nozione fondamentale anche della teoria del segno e, in un certo f110do, è un fattore di mediazione tra le due teorie. Infatti i 5egni (smefa) per gli stoici sono anzitutto dei lekta, in auanto sono costituiti da proposizioni. Questo fa sì che, come sottolinea Eco, nella se­ fllÌOtica stoica si verifichi una saldatura di diritto tra la 0ottrina del linguaggio e la dottrina dei segni. Infatti, per­ ché ci siano segni occorre che siano formulate proposizioni e le proposizioni debbono organizzarsi secondo una sintassi Jogica che è rispecchiata e resa possibile dalla sintassi lingui­stica. Occorre tener presente che gli stoici non di­cono ancora che le parole sono segni (-- cf. H. P. Grice – “Not all things that mean are signs. Words are not”) -- sarà Agostino il pri­ (110 a fare una simile asserzione -- e rimane, del resto, una differenza lessicale tra la coppia smafnonlsmain6menon e sl!mefon. Tuttavia il fatto che i segni siano dei lekta ci illumina sul­ ra necessità, avvertita dagli stoici, di tradurre il segno non verbale in termini linguistici e di legare, dunque, per quanto jfl maniera implicita e indiretta, le due teorie. Ecco la definizione di segno che ci viene data da Sesto: Gli stoici, volendo presentare la nozione di segno, dicono che è una proposizione (axioma) che è l'antecedente (prokathegou­menon) in un condizionale vero (en hyghiei synemménOl), e che è rivelatore del CONSEQUENTE (ekkalyptikòn tou ligontos). E dicono che la proposizione è un lekt6n completo in se stesso; e il condizionale vero è quello che non comincia dal vero e finisce ] Riprenderemo più avanti le varie problematiche che ven­gono presentate in questo passo. Per il momento ci preme sottolineare che in esso si definisce il segno come un lekt6n completo, cioè come una proposizione che si pone in rap­porto di implicazione con un altro lekt6n, cioè con un'altra proposizione, secondo lo schema: p -:J q. Si deve notare che, come per Aristotele, l'attenzione per il segno è esercitata in funzione della conoscenza che esso permette di raggiungere: l'ottica, in altre parole, è ancora quella epistemica, e il segno appartiene a un campo che è di­stinto sia da quello logico sia da quello semantico in senso stretto. Il segno, infatti, non è una proposizione qualsiasi che figuri come antecedente in un condizionale vero, ma SOLO QUELLA PROPOSIZIONE CHE PERMETTE DI SCOPRIRE IL CONSEGUENTE – cioè, che permette l'accesso a una nuova conoscen­za. Va comunque notato che, se l'ottica con cui gli stoici guardano al segno è la stessa di quella di Aristotele, assolu­tamente diverso è il tipo di inquadramento logico. È nor­mallnente accettato che Aristotele pratichi la logica delle classi, mentre gli stoici introducono quella proposizionale. Ciò comporta che l'attenzione venga spostata dalla so­ stanza degli eventi (Todorov), per quanto concerne il punto di vista antologico, e dal nome/aggettivo, che funge da predicato, alla proposizione, per quanto concerne l'espressione linguistica. In effetti, in Aristotele si poteva notare un certo disagio a trattare le sostanze e le proprietà come segni. Ciò che, invece, può essere trattato come segno sono i fatti e gl’avvenimenti espressi da proposizioni. E del resto Aristotele, pur senza denunciare la differenza, tutta- nel falso [ di un condizionale che comincia con il vero e finisce nel vero. Essa fa scoprire il conseguente poiché la proposizione "ESSA HA LATTE" sembra essere rivelatrice (de/Otik6n) di quest'altra "ESSA CONCEPTIO" (Sext. Emp., Hyp. Pyrrh.). Essi chiamano antecedente la prima proposizione  via fornisce alcuni esempi di segno -- come quello della Reto­rica. "Se essa ha latte, essa ha partorito" -- in cui vengono presi in considerazione eventi e non sostan­ze. Ma nella filosofia aristotelica la teoria del segno ha una parte marginale. Il segno viene fatto rientrare nel procedi­mento sillogistico (costituisce una premessa del sillogismo) e viene confinato nel campo dei procedimenti retorico-dia­lettici, se non è un tekmirion, cioè, un segno necessario. Nella scienza vera e propria, fondata sul sillogismo perfet­to, il smeion non trova f>osto. Al contrario, nelle scuole postaristoteliche, l'inferenza da segni acquista un ruolo centrale: dalla retorica e dialettica, suoi punti di partenza, il segno viene esteso alla scienza in generale e alla filosofia nel suo grado più alto. Gli stoici e gl’epicurei vedono nel segno il procedimento canonico del passaggio da ciò che è noto a ciò che è ignoto. Preti sostiene che, a proposito della teoria del segno, tra Aristotele e le scuole posteriori si può individuare un anello di congiunzione, rappresentato dalla teoria di Nausifane, un seguace di Democrito e uno dei maestri di Epicuro. Da quanto ci è rimasto della sua opera, il Tripo­ de, 1 8 è possibile cogliere i punti essenziali di questo passag­ gio . Per Nausifane, infatti, il discorso filosofico (basato per Aristotele sul sillogismo) e quello retorico (basato sull'enti­mema) presentano in realtà la stessa struttura logica. In en­trambi i casi è necessario distinguere tra la CONSEQUENZA o conclusione  (ak6/outhon), la "premessa" (homologoumenon) e "ciò che deriva dalle premesse" (tlnon lphthénton ti symbafnei: il sillogismo?). In ognuno dei due tipi di discorso il problema è quello di partire da cose presenti (hyparchonta) per giun­gere in maniera metodica alle cose invisibili. Il metodo del passaggio è la akolouthia, "la relazione di consequenziali­tà", di implicazione o implicitazione, comune appunto a filosofia e retorica. Ora, come testimonia Sesto, dalle cose evidenti (apò ton enargOn) alla comprensione del­ le cose oscure (adla) per mezzo del segno come relazione di akolouthia costituisce proprio il nocciolo della dottrina de­ gli stoici -- come pure di tutti coloro che Sesto riunisce sotto la possibilità di passaggio il nome di "dogmatici". Non solo, ma come prova della centralità della semiotica, anche la dimostrazione viene considerata un segno: fatto che testimonia la riduzione della filosofia della scienza a semiotica e che conferma la tendenza delle scuole post-aristoteliche a ridurre o trasfor­mare il sillogismo nell'inferenza implicativa. 1 I tipi di segno,  comune e proprio. Nella semiotica stoica si registra la scomparsa della di­ stinzione terminologica tra tekmrion e smeion: il primo termine non viene più usato e i segni vengono tutti denomi­ nati smeia. Un'ipotesi plausibile è che ciò sia legato all'ab­ bandono del sillogismo e della sua distinzione in figure la quale sorreggeva tale opposizione. Tuttavia, al suo posto, sembra comparire un'opposizione tra "segno comune" (koinòn smeion) e "segno proprio" (fdion). Tale distinzione non era specificamente stoica, ma appartenente a una koini filosofica ellenistica, sulla quale c'era accordo anche tra scuole per altro verso in contrasto. Una definizione sufficientemente chiara dei due tipi di se­ gno si trova nel trattato semiotico di Filodemo. Un segno è comune (koin6n) per nessuna altra ragione che quella per cui può esistere, sia che l'oggetto non percepito (tò adlon) esista, sia che non esista. Noi diciamo che la persona che crede che questo particolare uomo sia buono a causa del fatto che è ricco, sta usando un segno non valido e comune dal momento che molti che sono ricchi risultano malvagi e molti buoni. Perciò il segno proprio (idion), se è necessario (ananka­ stik6n), non può esistere altrimenti che con la cosa che noi di­ ciamo appartenere di necessità ad esso, (cioè) l'oggetto non evi­ dente di cui è segno  (Philodemus, De signis) C'è una convergenza nelle scuole postaristoteliche nel ri­ tenere il segno comune come non valido e nell'accettare in­ vece unicamente il segno proprio. Dalla definizione di Filodemo si ricava che una differenza peculiare consiste nel ca­ rattere di necessità del segno proprio, che viene definito co­ me "necessario" (anankastik6n), carattere non posseduto da quello comune. Viene dunque da mettere in parallelo il segno proprio con il segno necessario di Aristotele che ri­ chiedeva una connessione necessaria con l'oggetto a cui rin­ viava. D'altra parte, il segno comune è definito come quel segno che può rimandare a qualcosa di esistente, di cui sa­ rebbe segno, ma può anche non rimandare a niente. Dato l'esempio, cioè l'inferire dalla ricchezza di un uomo la sua bontà (inferenza che in certi casi funziona e in certi altri no), sembra plausibile porre in relazione il segno comune e i segni in seconda e terza figura di Aristotele. Infatti per Ari­ stotele si poteva inferire dal pallore di una donna il suo es­ sere gravida (segno in 2a figura) oppure dalla bontà di Pit­ taco la bontà dei sapienti (segno in 3a figura): ma questi se­ gni non in ogni caso risultavano verificati. Si può così giungere a una conclusione interessante: men­ tre Aristotele, pur negando validità scientifica ai segni non necessari, ne prevedeva comunque un uso in un ambito epi­ stemologicamente più basso, come quello della retorica, do­ minio delPopinione, la scuole postaristoteliche sembrano aver fatto definitivamente piazza pulita delle inferenze del tipo non necessario. I tipi di segno: "rammemorativo" e "indicativo" Filodemo aveva scritto il suo trattato intorno alla metà del I secolo a.C. Circa due secoli dopo, Sesto riprende la di­ stinzione tra segno preso in senso proprio (idlos) e segno preso in senso comune (koinOs), mettendola in esergo alla sua trattazione del segno; ma, stranamente, assimila questa a un'altra opposizione, quella tra segno rammemorativo e segno indicativo: Il segno si dice in due maniere, comune (koinOs) e proprio (idt'Os). In maniera comune si dice segno quello che sembra rive­ lare qualche cosa: in questo senso sogliono chiamare segno anche ciò che serve a richiamare alla memoria la cosa osservata in­ sieme con esso. In maniera propria si dice segno quello che è in­ dicativo di una cosa avvolta nell'oscurità. (Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 143) Apparentemente, e in maniera contraddittoria, tuttavia Sesto sembra voler mantenere la duplice distinzione, in quanto, dopo aver introdotto l'opposizione tra segno co­ mune e segno proprio, dichiara di voler trattare solo di que­ st'ultimo; e poiché il segno proprio è quello che permette di scoprire le cose che sono oscure, egli propo­ ne di distinguere preliminarmente le cose in "manifeste" e "oscure", e di suddividere ulteriormente quest'ultime in tre categorie. Ne risulta una quadruplice tipologia: (i) Le cose manifeste o immediatamente evidenti: sono quelle che giungono alla conoscenza in maniera diretta; co­ me esempio Sesto porta "il fatto che è giorno e che io sto di­ scorrendo"23 quando io faccio realmente queste cose. Le cose oscure in senso assoluto: sono quelle che han­ no una natura tale da non arrivare alla nostra comprensio­ ne (kata/psis), come a esempio "se le stelle siano di numero pari o dispari" o "se i granelli di sabbia della Libia siano di un determinato numero".24 (iii) Le cose oscure temporaneamente: sono quelle che pur avendo una natura manifesta divengono, per certe cir­ costanze, non evidenti per un certo tempo: l'esempio è il fatto che, chi si trova a una certa distanza, non vede la città di Atene. Atene, visibile per sua natura, diviene tempora­ neamente invisibile a causa della distanza.2 (iv) Le cose oscure per natura: sono quelle che hanno una natura tale da non essere percepite, ma sono soltanto pen­ sabili (noto1). Gli esempi sono "i pori intelligibili" e "il vuoto". Non si pone un problema di segni a proposito della prima e della seconda categoria, in quanto le cose manifeste ven­ gono comprese in maniera non mediata e le cose oscure in senso assoluto non possono essere comprese affatto. Invece è proprio attraverso i segni che possono essere comprese le cose che appartengono alle ultime due categorie. Ma i tipi di segno sono diversi per ciascuna di esse. Le cose tempora­ neamente oscure si colgono attraverso i segni rammemora­ tivi, quelle oscure per natura attraverso i segni indicativi. Ecco la definizione che ne dà Sesto: Dei segni, secondo i dogmatici, alcuni sono ram· memorativi (hypomnstika), altri indicativi (endeiktika). Chia­ mano segno rammemorativo quello che, osservato insieme con la cosa designata in maniera evidente, appena esso si presenta, se quella è avvolta nell'oscurità, ci conduce a ricordare la cosa che è stata osservata insieme a tal segno e che non si presenta ora in maniera evidente, come avviene per il fumo e il fuoco. È invece indicativo, come dicono, quel segno che, non osservato insieme con la cosa designata in maniera evidente, pure, per la propria natura e costituzione, segnala ciò di cui è segno; così, per esempio, i movimenti del corpo sono segni dell'anima. (Sext. Empyr., Hyp. Pyrrh.) Il segno rammemorativo è, in sostanza, frutto di un'asso­ ciazione costante tra cose comunemente osservate in con­ nessione empirica. Sembra, tra l'altro, che gli esempi che Sesto sceglie per illustrare questo tipo si distribuiscano se­ condo la tripartizione28 contemporaneità/anteriorità/po­ steriorità tra il segno e la cosa indicata: nel caso di "fu­ mo-+fuoco" vi è contemporaneità; in "cicatrice-+piaga" o in "fascia-unzione degli atleti" il fatto indicato è anterio­ re; in "ferita al cuore-morte", il segno rimanda a qualcosa di posteriore.29 Il segno indicativo, a differenza del precedente, non è su­ scettibile di essere osservato insieme alla cosa di cui è segno, in quanto quest'ultima non è mai stata manifesta e spesso non è nemmeno sospettabile. Ne sono esempi "i movimenti del corpo" che permettono di risalire all'"anima", o "il su­ dore" che rimanda ai "pori della pelle".30 Sesto accetta la validità epistemologica dei segni rammemorativi, mentre nega validità epistemologica ai segni indicativi, che sono, secondo lui, un'invenzione dei "filosofi dogmatici" e dei "medici razionalisti".3 1 Possiamo ricapitolare con il seguente schema la classifi­ cazione di Sesto: cose manifeste oscure   non danno luogo a segni danno luogo a un segno in senso assoluto per natura danno luogo a un segno indicativo rammemorativo Si deve però osservare che la distinzione riportata da Se­ sto tra segno rammemorativo e segno indicativo solleva molti dubbi circa la sua provenienza stoica. In effetti, non se ne trova traccia in altre fonti e neppure nel resto della trattazione dello stesso Sesto. Inoltre, tale distinzione appa­ re addirittura in contrasto con l'indirizzo complessivo della filosofia stoica e soprattutto con l'orientamento logico-for­ male della teoria del segno. Questa distinzione, per quanto importante dal punto di vista epistemologico, appare irrile­ vante dal punto di vista logico. Invece, sembra essere genuinamente stoica la distinzione tra segno comune e segno proprio, secondo la testimonian­ za di Filodemo. È, tra l'altro, il carattere necessario del se­ gno proprio che dimostra la coerenza di essa con il pensiero stoico. Infatti, il segno degli stoici è sempre un segno "ne­ cessario", come un'analisi più dettagliata della sua struttura ci permetterà di vedere. Ritornando alla definizione stoìca di segno che abbiamo visto, si devono prendere in considerazione almeno tre cose. Prima di tutto la nozione di synemménon, che letteralmente significa "connesso" o "connessione". Il suo significato lo­gico ci viene chiarito da Diogene: si tratta dell'asserto temporaneamente  condizionale del tipo "Se p, q", in cui a una prima proposizione consegue una seconda come nell'esempio "Se è giorno, c'è luce". La seconda cosa da prendere in considerazione è la no­zione di condizionale valido (hyghiés, "sano", igienico). Da un passo di Sesto, dove se ne trova la definizione, è possibile ricavare che questa nozione è affine alla moderna INTERPRETAZIONE VER-FUNZIONALE di "Se p, q". Infatti la validità o in­ validità dell'asserto condizionale "Se p, q" dipende dal valore di verità dell’antecedente e del conseguente di esso.Sesto, in due passi paralleli, camente quel condizionale che non comincia dal vero e fi­nisce nel falso e fcrnisce una tavola dei valori di verità del tutto conforme a quella che la logica contemporanea preve­ de per l'implicazione materiale:  p q ·se p, q• valido vero vero falso falso vero falso invalido falso vero valido Sesto accenna anche a un disaccordo tra i logici stoici a pro­posito del criterio per giudicare un condizionale valido. Esso corrisponde a ciò che è stato definito dai Kneale il dibattito sulla natura dei condizionali, che anima le discussioni di logica ali'epoca degli stoici. Il terzo elemento da rilevare è legato alla nozione di se- definisce come valido uni­ valido  gno come antecedente (prokathegoumenon) in un condizionale valido. In effetti, come fa rilevare lo stesso Sesto, i ti­pi di condizionale valido sono TRE nella tavola dei valori di verità corrispondente all'IMPLICAZIONE MATERIALE: 1) V V; 2) F F, e 3) F V. INVALIDO: V F. Il problema diviene dunque quello di vedere se la struttura del segno sia da ricercare in ciascuno dei tre tipi di condizionale valido, o solo in casi particolari. Ora, in effet­ti, un segno non può non essere espresso da una proposizio­ne vera, come pure deve essere vera la proposizione a cui es­so rimanda. Così SONO ESCLUSI sono il secondo (F F) e il terzo caso (F V), in quanto hanno un antecedente falso. Dunque, l'uni­ca possibilità è relativa al PRIMO tipo di condizionale – cioè, quello che comincia dal vero e finisce nel vero. Ma c'è un'ultima osservazione da fare, ed è relativa al carattere che il segno deve avere di essere *rivelatore* (enkalyp­ tik6n) del conseguente. In effetti, un condizionale del tipo "Se è giorno, c'è luce", nel momento in cui si verifichino le due condizioni che sia giorno e che vi sia luce, è formato da due proposizioni entrambe vere.Tuttavia, secondo Sesto, non si realizzano in questo caso le condizioni perché vi sia un segno, in quanto entrambe le proposizioni rimanno a FATTI DI PER SÉ EVIDENTI (cf. la caverna di Platone). Il primo termine del condizionale non è *rivelatore* del secondo – cf. Grice: “Black clouds mean rain” – yes). In effetti, per comprendere la vera natura del segno bisogna passare dal piano strettamen­te logico a uno più generalmente epistemologico, epistemico, o cognoscitivo, doxastico incluso. Il segno, per gli stoici, non solo deve avere una corretta costruzione dal punto di vista logico, individuabile nella implicazione tra due proposizioni vere, ma deve anche possedere il carat­tere di dispositivo che permette di accrescere la cono­scenza. Come già in Aristotele, anche per gli stoici il segno si appoggia su un livello logico, ma si inquadra in un'ottica co­noscitiva. Gli esempi di carattere medico (Grice: “Those spots didn’t mean anything to me, but to the doctor, they meant measles”) denunciano l'ori­gine di quest'ottica. In generale il segno deve permettere il passaggio inferenziale da una conoscenza di facile accesso, come "egli ha sputato cartilagine bronchiale" – or Grice’s “Spots” -- a una cono­scenza di molto più difficile accesso, come "egli ha una pia­ga nel polmone" (“measles – and Dahl ignored it. A tragedy – and part of a father’s responsibility and liability to know what measles spots mean””) Tuttavia, ciò che la teoria del segno ac­quisisce, passando dalle mani dei medici a quella dei filosofi, è una solida struttura dal punto di vista logico-formale, tale da escludere la possibilità di inferenze scorrette o non igieniche – malatta.  Quanto ampio e difficoltoso fosse il lavoro che i filosofi dovevano svolgere, sul piano logico, per stabilire un criterio atto a escludere le inferenze scorrette, lo dimostra l'acceso dibattito che si sviluppò sulla natura dei condizionali (Kneale). Scrive infatti Sesto Empirico. Tutti quanti i dialettici sono generalmente d'accordo neli'affermare che un condizionale è valido quando il suo conseguente segue (akolouthei) dal suo antecedente, ma disputano sul come e quando esso segua, e propongono criteri rivali (Adv. Math.). Riferendosi a questo dibattito, Sesto elenca quattro crite­ri che sono proposti per stabilire la validità di un as­ serto condizionale: quello di FILONE MEGARICO (H. P. GRICE); quello di Diodoro Crono; quello della srsnartsis attribuibile a Crisippo; e quello della émphasis. Sulla disputa si può tuttavia fare un'osservazione genera­le preliminare. Il punto di partenza, infatti, come fa notare Hurst, è una relazione già conosciuta, nel senso che essa è riconoscibile nei suoi esempi. Ciò che invece costituisce lo scopo è una definizione di questa rela­zione di consequenzialità (akolouthla) in termini formali. Nel corso dell'intero dibattito sulla natura dei condizionali i logici si sono concentrati sul definiendum e non sul definiens. Quest'ultimo, che può possedere proprietà autonome, essendo dotato di significato, non è stato preso in considerazione se non nella misura in cui poteva essere pro­vato che esso coincideva con il definiendum. Si è cosi spesso creata una confusione tra i due livelli e spesso sono stati scelti esempi che ambiguamente sono in grado di elucidare sia la relazione riconosciuta, sia le proprietà della relazione logica che essi tentavano di identificare con la prima. Può aiutarci a comprendere meglio questo modo di procedere un paragone con i metodi della logica contemporanea. I logici contemporanei, infatti, sono in genere interes­ sati unicamente al definiens, cioè alla relazione che essi pos­sono stabilire in simboli, senza riguardo alla questione se tale relazione sia identica a quella che è ampiamente cono­sciuta, facilmente riconosciuta, e poco compresa come quella di una espressione di implicitazione ("following", “yielding” -- Hurst). A esempio Peirce e Russell erano interes­sati alle proprietà della implicazione materiale indipenden­temente dal fatto che essa riproducesse il significato "usua­le" di "implica" ("implies", o di “se”). Così pure Lewis era interessato al sistema della implicazione rigida senza sostenere che l’im­ plicazione rigida rappresenti il significato di "implica" (cf. H. P. GRICE citato da P. F. STRAWSON, Introduction to Logical Theory – e P. F. STRAWSON, Introduction to “Philosophical Logic” on Quine on the meaning of ‘if’. --. Questa differenza nel modo di procedere tra antichi e moderni comporta un'ulteriore differenza formal. Mmentre i logici antichi sono interessati a dare un'unica definizione, i moderni lo sono a fornire due definizioni: quella di "im­plicazione materiale" e quella di "implicazione rigida". Filone è il primo esponente della scuola megarico-stoica citato da Sesto ed è il primo che dà un'interpretazione vero­-funzionale dell'espressione "Se p, q". Secondo Filone – citato da Grice nella William James IV, ‘Condizionali indicativi’ --, un'espressione condizionale è valida o o vera se, e solo se, non co­mincia con il vero e finisce con il falso. Come abbiamo già visto, la definizione che Filone dà del criterio di consequen­zialità (ako/outhfas kritrion) corrisponde al quadro del­ l'implicazione materiale. Infatti sono tre i casi in cui il con­dizionale è valido, corrispondente ai tre esempi seguenti:  "Se è giorno, c'è luce" (VV); "Se la terra vola, la terra ha le ali" (FF); e "Se la terra vola, la terra esiste" (FV). Come sottolineano i Kneale, è probabi­le che Filone ha in mente l'uso dell'espressione "Se p, q" nel ragionamento e che vuole attirare l'attenzione sul fatto che la congiunzione dell'asserto condizionale con il suo antecedente implicita sempre il conseguente. L'interpretazione proposta da Filone è la più debole che soddisfi tale requisito.  Diodoro Crono è il maestro di Filone, e la ragione per cui Sesto lo cita per secondo può essere forse attribuita al fatto che, mentre Diodoro riuscì a confutare Filone, que­ st'ultimo non riuscì a fare altrettanto con il primo (Hurst – “wheras H. P. Grice had no qualm about criticising his own tutee!”). La critica che Diodoro muove all'interpretazione filonia­na -- verso la sua diodoreana -- insiste proprio sul carattere di debolezza di quest'ultima. Egli individua infatti degl’esempi di condizionale che, pur potendo soddisfare il requisito filoniano in un tempo tt, possono tuttavia mancare di soddisfarlo in un altro tempo t2. A esempio, l'asserto "SE É GIORNO, IO STO CONVERSANDO” è considerato VERO da Filone se si dessero le condizio­ni, in un tempo t, per cui è giorno e io sto conversan­do. Diodoro invece crede dimostrare che esso è falso, sostenendo che non c'è niente nella sua natura che permetta di dire se esso cada o no sotto la DEFINIZIONE di Filone. Infatti, esso – “SE É GIORNO, IO STO CONVERSANDO” può essere pronunciato anche in un tempo t2, quando è giorno -- MA io rimango silenzioso. In questo caso es­so avrebbe la forma – o interpretazione -- invalida (falsa) VF. Per ovviare a questo inconveniente, Diodoro elabora una concezione secondo la quale un condizionale è valido quan­do "non ammise, né ammette di cominciare con il vero e fi­nire con il falso". L'esempio che egli dà è "Se non esisto­no gl’elementi atomici delle cose, esistono gl’ele­menti atomici delle cose", che, secondo Diodoro, ha l'ante­cedente sempre falso e il conseguente semprevero: ciò ba­sterà a escludere l'evenienza di un antecedente vero con un conseguente falso, unico caso in cui il condizionale sarebbe non valido La terza concezione di condizionale valido riportata da Sesto è quella che, secondo diversi studiosi moderni (Mates; Bochenski), corrisponde alla implica­zione rigida di Lewis o comunque a una forma di implicazione necessaria (Kneale; Preti). In maniera con­corde con il passo di Sesto, che abbiamo visto, questa con­ cezione viene riportata da Diogene (Vitæ). ÈVERO un condizionale nel quale il contraddittorio (antikefmenon) del conseguente è incompatibile (macheta1) con l'anteceden­te, come a esempio “se è giorno, c'è luce”. Il nome del sostenitore di questa concezione non ci è sta­to lasciato da chi la riferisce. Ma vi sono prove che essa appartenesse a Crisippo (cfr. anche Miiller). La nozione di "incompatibilità", messa in scena da que­ sta definizione, è molto interessante, ma problematica in quanto non viene chiaramente definita. Hurst, commentando il passo, tende a mostrare che la relazione di incompatibilità e anche, più in generale, quella di "consequenzialità" (following, yielding), non possono essere espresse in termini estensionali, cioè mediante relazioni esterne, che sussistono tra le proposizioni in virtù di pro­ prietà che esse avrebbero al di fuori della relazione. Al con­trario, è necessario ricorrere alle relazioni interne che sussi­ stono in virtù del loro significato. Può essere interessante confrontare questa conclusione di Hurst con le osservazioni di Preti, il quale so­ stiene che l'esempio di Sesto, dato a proposito della “synar­tsis” (connectio”) sembra alludere a qualcosa di ancora più forte della strict implication di Lewis, alla vera e propria tautologia". Preti basa la sua osservazione sulle notizie circa la dottrina stoica che vengono riportate da Filodemo nel De signis. In effetti in quel testo è presentato come genuinamente stoico il metodo inferenziale della contrapposizione (ana­ skeu), che appare analogo a quello della synartsis. Infatti, l'inferenza per contrapposizione è quella in cui la negazione del conseguente comporta la negazione del­ l'antecedente. Essa si configura in maniera tale che la verità del condizionale "Se il primo, il secondo" è garantita dalla verità del corrispondente condizionale "Se non il se­condo, non il primo". Preti sottolinea le affinità tra la synartsis (secondo cui la negazione del conseguente è incompatibile con l'anteceden­te) e il metodo di contrapposizione (anaskeu) (in cui la ne­gazione del conseguente comporta la negazione dell'antece­dente), e in entrambi i casi chiama in causa la implicazione rigida di Lewis, con la precisazione che gli esempi forniti da Filodemo sembrano indicare un rapporto più forte, che ten­de a risolvere l'inferenza o in una forma di tautologia o in una forma di L-implicazione. Nel passaggio dalla teoria aristotelica del segno a quella stoica c'è, come abbiamo visto, uno spostamento di accento dai termini su cui si costruiscono le proposizioni categori­ che nel sillogismo, alle relazioni tra le proposizioni nell'as­ serto condizionale. Contemporaneamente si registra un'ac­centuazione del carattere, già presente in Aristotele, di con­sequenzialità necessaria che la relazione segnica è chiamata a istituire: l'inferenza dal termine noto a quello non noto deve presentare un carattere cogente. – cfr. Hobbes on ‘consequence’ – Computatio – e Grice, “Meaning Revisited” – x, y – consequence --. Ci sono due ragioni di questo aspetto necessaristico della semiotica stoica, una legata ali'analisi della natura della ra­ gione e dei suoi processi, l'altra riferibile alla configurazio­ ne della metafisica stoica (Lacy). Per il primo punto è Sesto stesso a informarci che gli stoici ritenevano che l'uomo si differenzia dagli animali per la sua capacità di discorso interno (logos endiathetos) e in virtù della sua abilità di combinare i concetti e di passare dall'uno all'altro. L'uomo possiede infatti la nozione di consequenzialità (akolouthfa) e con ciò egli possiede anche la nozione di segno, che ha appunto la forma: "Se questo,  quest'altro". Così l'esistenza del segno si pone in stretta dipendenza dalla natura del pensiero umano. Quanto al secondo punto, la metafisica stoica poggiava sull'idea che il reale fosse costituito da una catena ininter­ rotta di eventi, legati tra loro da rapporti di causa-effetto. Tali relazioni erano .:oncepite come necessarie in quanto dipendenti daiPordine razionale istituito dalla divinità. In questo modo, la consequenzialità necessaria nella relazione segnica valida riproduce quella stessa consequenzialità che si rintraccia a livello della concatenazione degli eventi. L'insistenza che gli stoici pongono sull'asserto condizionale e sull'inferenza da segni indica proprio l'enfasi da loro col­ locata sulla relazione necessaria tra concetti e proposizioni a livello logico e tra cause ed effetti a livello metafisica. Su queste basi, del resto, riposa la stessa accettazione, con riserva, della divinazione da parte degli stoici. La divi­ nazione consiste, infatti, nel cogliere la relazione che colle­ ga certi avvenimenti presenti e altri che avverranno.4 Ora, per quanto la razionalità degl’uomini sia sostanzialmente dello stesso tipo di quella che hanno gli dei, tuttavia questi ultimi possiedono la conoscenza dell'intera catena causale che lega gli eventi ("conligatio causarum omnium"), men­tre ai primi è preclusa. Gli uomini non possono conoscere dunque le cause ma solo gli indizi caratteristici delle cause ("signa causarum et notas") degli eventi e su questi si basano per predire il futuro. Ma, a differenza di quanto av­ verrebbe per gli dei, i condizionali degl’uomini intorno al futuro mancano di necessità. Nel caso della scienza umana (che per gli stoici equivale a quello della dialettica) il segno deve basarsi su un'impli­ cazione necessaria. Ma questa, che è una caratteristica irri­ nunciabile, non è tuttavia sufficiente a definire un segno. Infatti, in un condizionale come: "Se è giorno, c'è luce» il giorno non potrebbe essere considerato un segno della luce in quanto entrambe le cose sono evidenti e quindi l'in­ferenza non può provare nulla. La verità su cui si basa è certamente a priori e analitica, come sembra richiesto nel caso delle verità necessarie, ma tale condizionale è privo della caratteristica di permettere di scoprire una nuova co­noscenza. Il segno stoico, in conclusione, si deve inquadrare in uno schema logico (che è quello deli'implicazione necessaria), ma deve contemporaneamente superarlo per collocarsi in un'ottica epistemologica, nella quale esso diventa fattore dell'accrescimento del sapere: bisogna sempre tener presente che l'essenza del segno è l'inferenza che va dalle cose ma­ nifeste a quelle non percepite. Ma a questo punto sembra delinearsi nella semiotica stoi­ ca un problema difficilmente resolubile: come è possibile che l'inferenza segnica sia analitica (se si pensa alla L-impli.. cazione di cui parla Preti) e contemporaneamente fornisca una nuova conoscenza (la scoperta di un fatto nascosto)? Prendiamo come esempio di segno una dimostrazione (infatti anche la dimostrazione viene considerata, secondo la testimonianza di Sesto, un segno):- sono pori intellegibili nella pelle. - Il primo. - Dunque, il secondo . Qui l'inferenza è condotta dal fatto percepibile rappre­ sentato dallo scorrere del sudore al fatto nascosto che esi­ stano pori nella pelle. La presenza dei pori è un fatto oscuro per natura. Infatti, essi possono soltanto essere conosciuti dalla mente (noto1), ma non dai sensi in un'epoca in cui il microscopio non era ancora stato inventato. Sesto aggiun­ge, come argomento rafforzativo delle premesse nel ragio­namento precedente, un'ulteriore argomentazione: - compatto e non poroso. - Il sudore scorre attraverso il corpo. Pertanto non è possibile che il corpo sia compatto, ma esso è poroso. La premessa maggiore di questa argomentazione sembra essere basata sul test di contrapposizione (Q::jJ) applicato alla premessa maggiore del precedente. Infatti se al condi­zionale: p (se il sudore scorre attraverso la superficie del corpo) ::q (ci sono pori intellegibili nella pelle) Se il sudore scorre attraverso la superficie del corpo, ci È impossibile che un liquido scorra attraverso un corpo applichiamo il test di contrapposizione, otteniamo l} (se la pelle è un corpo compatto e non poroso) :>p (un li­quido non vi può scorrere attraverso), espressione che è alla base della premessa del secondo ra­gionamento di Sesto. Essa permette di sviluppare un ragio­namento corrispondente al MODVS TOLLENS, che convalida la conclusione del primo ragionamento. Non si saprebbe dire se gli stoici riescano a evitare, con il ricorso alla contrapposizione, la contraddizione che esiste tra la richiesta di una relazione necessaria e a priori tra le due proposizioni del condizionale e la necessità che il segno produca nuova conoscenza. Di fatto la contrapposizione rende necessaria la relazione anche nel caso di verità fattua­li, poiché parte dall'assunzione che il fatto oscuro per natu­ra sia legato a quello evidente in modo tale che ciò che è evi­ dente non potrebbe esistere se il fatto non percepito non fosse quale viene rivelato essere. Antonio Schinella Conti. Antonio Conti. Keywords: Conti’s French letters – Conti’s Scritti Filosofici, Dialoghi Filosofichi, about whether corpori celesti are inhabited -- l’infinito, self-referential, recursion, anti-sneak, regress, infinite regress in the analysis of communication, calcolo finitesimale, calcolo infinitesimale, Enea stoico, Ottavio Stoico, Cicerone stoico, semiotica stoica – allegoria dell’Eneide, scudo di Enea, Il Parmenide di Platone – assiomatico dell’essere – L’essere e. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Conti” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza -- Grice e Conti:  il primo storico italiano della filosofia italiana – amato da Fiorentino -- la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – scuola di San Miniato – filosofia pisana – filosfia toscana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (San Miniato). Filosofo pisano. Filosofo toscano. Filosofo italiano. San Miniato, Pisa, Toscana. Grice: “Conti is a good one – a historian of philosophy, or rather a philosophical historian – I never know! – his chapter on the Greek embassy that brought philosophy to Rome is stimulating!” Studia a Siena e Pisa. Si laurea a Lucca. Insegna a Lucca, Pisa, Firenze. Filosofo del bello, che define stare fra il vero e il buono, e li collega come il mezzo tra il principio e fine. Altre opere: “Cose di storia e d'arte; Evidenza, amore e fede, o i criteri della filosofia, discorsi e dialoghi. Famiglia, patria, Dio, o i tre amori”; “I discorsi del tempo in un viaggio in Italia”. In ogni città coglie occasione per un insegnamento civile; a Venezia isulla religione, a Milano sullo stato, ecc.; “Il bello nel vero, o estetica”; “Il buono nel vero, o morale e diritto naturale”. “Illustrazione delle sculture e dei mosaici sulla facciata del Duomo di Firenze”; “Il vero nell'ordine, o ontologia e logica”; “L'armonia delle cose, o antropologia”. Cerca di costruire una metafisica fondata sulla relazione, l'armonia, l'ordine; Studia l’educazione religiosa, civile e private; “Letteratura e patria, collana di ricordi nazionali”; “Nuovi discorsi del tempo, o famiglia, Patria, Dio Religione ed arte, collana di ricordi nazionali”; “Storia della filosofia”, molto accreditata. “Sveglie dell'anima. Il Messia redentore vaticinato, uomo dei dolori, re della gloria. La mia corona del rosario. Ai figli del popolo, consigli. Duprè o Dell'arte, 2 dialoghi. Evidenza, amore e fede o i criteri della filosofia” -- lezioni e dialoghi sulla filosofia cristiana; lavoro scientifico e popolare, e discorsi sulla storia della filosofia, accordo della filosofia con la tradizione; discussione sulla filosofia e la fede. La filosofia di Dante. “Il bello qual mezzo”. Dizionario Biografico degli Italiani. Armonie ideali nell'opere belle. L'artista deve tendere al più alto se gno ideale. Ordine dell'idea chiaro che include giudizj e ragionamenti. Dialettica dell'arte, o dialettica rappre sentativa. L'idea è universale, talchè i particolari dell'arte non debbono mai ecclissare o escludere l'universalità del concetto; perché, altrimenti, arte bella non c'è’ L’ordine ideale porge alle immagini formosità. eletta, che manifestasi o per cose straordinarie, o per l'eccellenza de'modi, o per tutto ciò ad un tempo, ma ſuggendo le ampollosità.  L'ordine ideale si determina ne sezni; onde s' origina l'armonia de'con trapposti. Armonia dell'ordine ideale con la natura, legge di corrispondenza e di contrapposto anche in ció.  Armonia col divino per natura.Il gusto del Bello. Regola prossima è il gusto. Sentimento di verità, di bellezza, e di bene. Che cosa è il gusto? Ana logie del gusto intellettivo col gusto sensitivo. Urficj del gusto; sanità e infermità; abiti buoni, o vizinsi; S'esamina gli ufficj del gusto intellettivo della bellezza. Effetto del gusto. Il gusto non può mancare a ' veri artisti, e avvertenze io giudicare il gusto loro dall' opere. Quattro gradi del gusto. Aiuto che il gusto del bello riceve dal sentimento logico e dalla morale coscienza. Stato di sanità o di malattia, cioè buona o rea edu cazione.  E empj. Stato d' abiti buoni o viziosi. Esempj. Conclusione. Come si può guarire o correggere il gusto falso. Le leggi del gusto. Che cosa presuppone l'esame ch'uno faccia del proprio gusto, 3. affinchè possa regolarci un gusto buono e rettificarsi un gusto cattivo, 4. e primiera mente il derivato da falsa educazione. 5. Studio perciò di buoni esemplari. 6. Esame degli abiti viziosi, e quanto alla verità – 7. e quanto a ' fini dell'arte. - 8. Il gusto deve mostrarci il modo e il quando dell'operare. Elevazione del sentimento.Verosimiglianza. Esempj. Equazione di tutti gli elementi dell'arte con l'idea. Gusto de' limiti. I limiti massi. mamente ne segni esteriori.  I Pedanti e i Licenziosi. Argomento. Che sieno i Pedanti e i Licenziosi. Significato più generale di questi vocaboli. 4. Si gnificato più proprio e stretto. Errori contrarj e vizj comuni. La pedanteria va fuori di natura. 7. Esem pj. 8. Va fuor di natura la licenza. 9. Esempj. Non comprendono l'universalità i Pedanti. Esempj. 12. Nė la comprendono Licenziosi. 13. Esempj. Non hanno vera nobiltà i Pedanti, 15. e la licenza è ignobilità. Talchè gli uni e gli altri non consegui scono fama durevole. Estro. Leggi dell'ordine immaginato.. 1. Argomento. Immaginazione. Rinnovazione di fan tasmi, 3. e innovazione o invenzione. 4. Queste per tre modi, spontaneo. pensato, meditato.Legge univer sale della fantasia e sede di quella nell'intelletto. 6. Gradi dell'invenzione immaginativa. Primo; mutamento di alcune cose percepite.Secondo; immagini di cose reali non percepite. Terzo; novità d'imma.ini fra percezioni oscure. 8. Quarto; un ordine di verosimiglianze relativo a un or dine di cose reali determinato. 9. Quinto; relativo a no tizie vaghe. 10. Sesto; relativo ad astratte generalità. 11. Settimo; fantasmi di cose semplici, spirituali, divine. 12. Ultimo; armonia universale di fantasmi e loro elevazione. 13. Perché l'estro abbia tal nome. Origini sue misteriose. 15. Estro fallace o vuoto, e vero o fecondo.  Conclusione. Armonia interna delle Immagini. Argomento. Sceltezza e vita delle immagini, Scel. tezza rispetto all'arti diverse; 3. e rispetto ai componi menti speciali d'un' arte; e rispetto agli argomenti. Sceltezza per la qualità e per la quantità. 5. Vita delle immagini, 6. come le figure d'affetto nell'arte del dire. Unione del sensibile con l'ideale. Allegoria, e 8. allegorie speciali, e vizj dell'allegoria. 10. L'im magine deve ritrarre l'idea intera; e quindi bisogna imma ginar l'opera innanzi di farla e che rispondano i par ticolari al lutto e l'e - trinseco venga dall'intrinseco, e gli accessorj dal principale. 13. Spiritualità delle im magini. 14. e vizj opposti. 15. Relazione specificata delle immagini co' segni. Armonie di verosimiglianza in generale. Argomento e legge universale di corrispondenza e di con trapposto, e come si rifletta nelle immagini dell'arte. 2. Questa legge apparisce nella qualità, quantità, tempo e spa zio. 3. Relazioni. 4. Esempj antichi di letteratura. 5. Esempj dell'éra nostra, - 6. Drammatica e lirica 7. Figure di confronto ne'linguaggi. – 8. Esempi del disegno e della musica. 9. Analogia del corporeo e dello spiritua le. 10. Loro diversità; – 11. e contrapposto nella na tura e nell'arte. 12. Verosimile immaginoso, che differi sce dal reale, benchè gli somigli. 13. Quello trascende. Poesia e architettura. 14. Scultura, pittura, musica, e arti ausiliari. Com'accade ciò. Armonie con la natura corporea. 1. Argomento. Legge naturale di simetria. 5. Vi sta e udito porgono immediati all'arte bella i sensibili rap presentati, Il lalto remotamente, il gusto e l'odorato indirettamente forniscono all'arte cose immaginabili, salvo la poesia ch'è universale.  Legge naturale di simetria ne ' visibili aspetti, - 6. e ne' suoni. - 7. Legge corrispon dente nell'arte bella. 8. Simetria di quantità nel grado. Simetria di quantità nel numero de' suoni, delle cose visibili. 11. Simetria naturale dello spazio. 12. Simetria nell'arti, quanto a’limiti. 13. Simetria di limiti anche nell'unione di più cose. Simetria di luo ghi. 15. Simetria di tempo misuratore, e di tempo rap presentato. - Armonie con la natura spirituale. Gli affetti. Somiglianza loro; 3. varietà; 4. contrapposto. 5. Personificazione immaginosa dell'unmo, 6. e della socievolezza; - 7. che dall'arti non prò mai scompagnarsi. - 8. Personificazione immaginosa del mondo materiale per tre modi. Materialismo non può spiegarla. 11. Person i ſicazione immaginosa del soprannaturale; 12. presa sostanzialmente da simboli e miti di credenze religiose; 13. ma trasformate dal. l'estro. 14. La personificazione, ritraendo l'uomo, ac cenna lo stato degli artisti e de' tempi loro. Grecia, Roma, Italia; suo scadimento; letterature straniere.. 16. Anche nell' altre arti avviene lo stesso. Immaginazioni tragiche e comiche Argomento. Può l'ottimo essere argomento del l'arte bella? 3. Può il pessimo? — 15. Immaginazioni tragiche e comiche. - 5. Quando mai nasce l'immagina zione tragica più specialmente? 6. Quando la comica? 7. Condizioni dell'una, - 8. e dell' altra. La morte immaginata nell'arte, 10. eidolori del senso, tragica mente; comicamente. 12. Deformità fisiche nel rispetto tragico; 13. e nel comico. - 14. Le mostruosità nell'un rispetto, · 15. e nell'altro, e come in ciò facilmente si trasmodi. Ordine de' Segni. Stile. Argomento. 2. Nozione generica dello stile. - 3. Nozione meno generica. - 4. Nozione determinata. 5. Ne cessità di meditare lo stile. 6. Idem. 7. Ordine dello stile. Unità. - 8. proprietà, evidenza, 9. vivezza, for. mosità. 10. verosimiglianza. Legge sua universale. - 11. L'unione di dette qualità forma il decoro. 12. Esempio di essa, - 13. Esempio del contrario. 14. La misura nello stile. 15. Sunto. Armonia intrinseca dello stile e co ' propri segni.. 1. Argomento. - 2.Unità del bello stile. 3. Si riscon tra nell'arte del dire; ne'proverbj e rispetti, · 4. nelle sentenze, 5. nel periodo, 6. nell'armonia e nell'unione del discorso. 7. Si riscontra nell' arti del disegno; nel l'architettura, 8. ch'è un discorso anch'essa; - 9. nella scultura e nella pittura, 10. simili pur esse al discorso; - 11. e nella inusica; 12. che ha disegno perfetto, o unione d'armonia e di melodia. - 13. Proprietà de' se gni; e come segni adoperino l'arte del dire, la musica, 14. l'architettura, e l'arti figurative; 15. onde viene la proprietà dello stile. 16. Conclusione. Armonia dello stile col pensiero.. 1. Argomento. 2. In che consiste l'evidenza. -3. Dee rispondere lo stile a integrità del pensiero; 4. e a varietà d'argomenti; - 5. abbracciando l'universalità dell' argo mento, proprio, 6. e distinguendolo, per poi bene com porlo. 7. Mancamento d'arte o di volontà impedisce tal perfezione. 8. Vivezza di stile, o moto, 9. nell'arte del dire, 10. nella pittura e scultura, 11. nell'archi tettor3, 12. nella musica. 13, Formosità, - 14. anche nello stile grande, e nel sublime. 15. Onde procede la deformità? 1Armonia dello stile con la natura..... 228 1. Argomento. 2. Il bello stile corrisponde alla natura dell'artista e a quella degli oggetti. 3. Non si possono separare le due relazioni senz'errore e deformità. – 4. Avvi una parte relativa all'artista; 5. e una parte relativa agli oggetti, e danno armonia. 6. La legge di corrispondenza e di contrapposto ſa nascere le diverso specie del bello stile in quei gradi che l'ordine ha varj nella natura. 7. Idem. 8. Nello stile tenue an prevalenza i simili, 9. Qua lità principale di esso è la venusià. 10. Nello stile mez. zano han prevalenza i diversi. 11. Qualità principale di  esso è la naluralezza, 12. Nello stile grande han preva lenza i contrarj. 13. Qualità principale di esso è la pe regrinità Nello stile sublime han prevalenza i contrapposli supremi. 15. Qualità principale di esso è l ' ammirabilità. Arti del Bello speciali. Come si originarono le Arti speciali del Bello. Pag. 249 1. Argomento. — 2. Due generi supremi dell'arte bella, cioè arti di suono e arti di prospettiva. 3. Arte de' suoni parlati, e arte de' suoni armonizzati. 4. Arti prospettive di spazio, e arti prospettive di figura. -- 5. Arti prospettive distinte in arti di spazio imitato e di spazio naturale; in arti di figure imitate e di figure naturali. 6. Onde l'arti del disegno son distinte dall'arti di naturale amenità e dalla mimica e danza, le quali sono arti secondarie. 7. Arti ansiliari dell'arti principali e delle secondarie. 8. Diver sità di segni sensibili determinò diversità del significato, quanto al mondo esteriore, 9. e quanto al mondo interio. re. 10. Stato implicito dell'arti: poesia; 11. arti del disegno e musica. 12. Poi si distinsero l'arti del Bello fra loro; e s'esamina per la poesia, per l'architettura, 13. per l'arti figurative, 14. e per l'arte musicale. Di stinzione di ogni specie in ispecie minori. 15. Conclu sione. 16. L'arte bella fa quasi un mondo novello. Ordine fra l’ Arti speciali del Bello...... 1. argomento. Criterio per giudicare i gradi dell'arti belle. 3. Segni supremamente ideali della poesia. L'ordine loro è una invenzione distinta dall'altra delle im magini. 5. Perfezione suprema de' significati poetici. 6 Ma questa precedenza rende difficile al sommo il poetare buopo. 7. In che la poesia verso l'altre arti sia inferiore. 8. Architettạra, e perfezione ideale del suo disegno. 9. Perfezione del suo significato. -- 10. In che cosa l'archi tettura è vinta dall'altre due arti del disegno. 11. Pit tura e scultura; disputa di quale fra loro primeggj, antica. - 12. S' esamina quanto a ' segni, 13. e quanto al signi ficato di queste arti. 14. Musica; in che sta un suo sin golare pregio, 15. da cui procede la potenza musicale; benche in altro rispetto la musica resti- superata. - Della Poesia Argomento; definizione della poesia. -2. Come la poe sia somigli la filosofia. 3. Consentono tutti nel divario fra considerare direttamente i sensibili esterni e il conside rarne l'altinenza con l'anima. 4. Però l'idea che regola i poeti, si è l'idea dell'uomo interiore, avvivata d'immagibi. Si riscontra ciò ne' sensibili esterni, comuni alla musica e al segno e alla poesia; – 5, ne' sensibili esterni, propri solo alle rappresentazioni poetiche; - 6. ne' sensibili inter ni, che la sola poesia può prendere per oggetto immediato; - 7. e poi, nelle cose di pura intelligibilità. 8. Tanto è più alta la poesia, quanto più rende viva immagine del. l'uomo interiore; - 9. e, inoltre, quanto più rende imma gine di ciò che l'uomo dev'essere; 10. perchè il poeta tende alle più élette forme dell'anima; 11. e indi cerca immaginativamente di risolvere in armonia le contraddizioni del mondo; 12. come si riscontra ne' poeti veri del tempo antico e del nuovo, - 13. e anche ne' poeti scettici, ov'essi han vera poesia; 14. talché, quest' arte rappresenta in immagini l'universalità dell'intelletto. 15. E ogni ge nere perciò di componimenti nell'arte del dire può parteci - pare di poesia. 16. Conclusione.Le specie della Poesia. Argomento. Tre modi principali della poesia: espositivo, 3. narrativo, - 4. dialogico. sia par talora non essere imitativa nè inventiva, se cade in soggetto reale. 6. Si scioglie la difficoltà, distinguendo al. lora il soggetto reale dalla rappresentazione immaginosa. 7. Indi è varia l ' attinenza fra la poetica rappresentazione ed il soggetto. — 8. Idem. – 9. Indi anco è vario lo stile figu rato nella poesia espositiva, 10. o nella narrativa, - 11. o nella dialogica. 12. Anche il numero musicale dello stile diversifica. 13. Idem. 14. Diversifica pure l'ori. gine de' tre modi principali di poesia, l'espositivo prece dendo a tutti, 15. e poi al drammatico il narrativo. • 16. Conclusione. 302 5. La poe Dell'idioma, 1. Argomento. - 2. Lingua, in significato generale, è unità parlata della morale unità d'un popolo; 3. e che mai non manca di segni per cose antiche, 4. nè ha sino nimi perfetti. 5. Le Parlate. 6. I Dialetti. - 7. Le Lingue. 8. Scelta fra le tarlate. 9. Scelta fra' Dialetti. 10. Distinzione d'una lingua da ogni altra lingua. 11. Uso di lingua parlata, e uso di lingua scritta; 12. iden tici nell'essenza, e in che diversi, 13. Come uso di buoni scrittori giova, 14. e come giova uso di ben parlanti. 15. Realismo e Idealismo nell' usare l'idioma. 10. Con clusione. Arti del disegno. Pag 338. 1. Che cosa sono l'arti del disegno - 2. Il disegno è fon damento alle tre arti particolari.. 3. Doppia significazione del vocabolo disegno. -- 4. Ogni qualità sensibile de' corpi ha relazione con la lor forma; 5. e può risguardarsi per natura, e per l'arti del disegno, quasi accessoria. - 6. La forma ci palesa l'unità; 7. ch' esterna dipende dall ' in terno delle cose, si per natura e si per arte. 8. Esempj di ciò; e in che dunque consiste l'ordine ideato comune al l ' arti del disegno. – 9. Per acquistare il disegno, ci oc corre abito astrallivo degli occhi, - 10. fantasia ferma e viva in ritenere la linea pura, 11. e intelletto esercitato a distinguere, paragonare, comprendere i contorni; 12. nè basta vedere, ma bisogna saper vedere o guardare; 13. e in ciò sta il cosi detto giudizio degli occhi. - 14. Come si faccia l'esercizio nel disegnare. 15. Una regola princi. pale per l'arti secondarie. Architettura.... 1. Che cosa è l'architettura. 2. Si originò dal convi. vere umano. - 3. Si distinse dall'ingegneria per fine di bel lezza, 4. ritraendo l'immagine formosa del consorzio umano, 5. Questa idea perció la rende inventiva; 6. e indi l'architettura prende significato a ' suoi disegni, 7. e anche la loro unità; 8. ehe si palesa nelle proporzioni della massa, nel congiungimento delle linee, 9. e anche negli ornamenti. – 10. Com'espressione del consorzio uma no, quest' arte abbraccia le altre arti del disegno; – 11. s' accorda co' luoghi abitati dall ' uomo, e a sė li conforma; 12. imprime la bellezza sua nelle città intere, - 13. nel l'intera patria d'una nazione, — 14. per ogni luogo di es sa; 15. e si distende a tutta la terra civile, com' efligie inica dell'incivilimento. 16. Conclusione. S ulura. Che cosa è la scultura. - 2. Principale soggetto al l'arti figurative si è l'aspetto umano. - 3. Più proprio della scultura è la relazione de' lineamenti con la vita interiore, anziché dell'uomo con la natura. -- 4. Indi all'arte sculto. ria il colorito e accidentale, ec. - 5. Nè la scultura di tutto rilievo ha paesaggj, che ristretti son' anche nel bassorilievo: - 6. è limitata nel figurare animali; --- 7. e anche ne'gruppi di ligure umane. - 8. Soggetto più proprio alla scultura ė la bellezza umana del corpo, e in essa si comprende la fisio. logica e la fisica. 9. E perché si dica ciò della scultura piucchè della pittura, distinguendo tra figura e forma. - 10. L'unità intera della immagine umana comparisce nella scule tura solamente. 11. Divario i'ra le due arti nel nudo e ne' panneggiamenti. 12. Limiti posti dal pudore. 13. Qual sia -dunque l'idea esemplare dell'arte scultoria, 14. E come bisogni evitare ia essa, piucché nella pittura, il freddo  ed il generico; -- 15. ma senza cascare nei vizj opposti, 16. Conclusione. Pittura.... Pag. 395 1. Che cosa è la pittura. – 2. Idea che serve d' esemplare alle immagini ed a'segni di quest'arte, cioè armonia fra l'uomo e la natura esteriore, come rilevasi dal colorito; 3. e perciò dalla figura colorata e dal prospetto aereo. - 4. Magistero essenziale della pittura è il colorito; – 5. ma non contraſfacendo i rilievi della scultura, 6. nè gareggiando con le cose reali pe' colorie per gli splendori, 7. nė pe' se goi di vitalità; gareggiamento impossibile, - 8. e dannoso; 9. bensi eleggendo que' segni che sveglino i sentimenti nell'anima nostra, come le cose di natura sogliono. 10. La pittura è visione di fantasia. 11. che splende in gen tilezze d' ornamenti, e in paesaggj. 12. e ne segni del con • versare umano, 13. e nell'unione verosimile di più tempi e luoghi, 14. e nel simboleggiare affetti sovrammondani. 15. Conclusione. 16. Utilità di tutte l' arti del dia segno. Musica. Che cosa è la musica. 2. Qual n'è l'idea regolatri ce. Relazione de' suoni col sentimento umano. 3. Ragione anche fisiologica di tale attinenza. 4. E indi attinenza principale di quest'arte con la voce umana. 5. Ma la relazione de' suoni col sentimento é indefinita, 6. e però la musica può indefinitamente significare ogni affetto. 7. Esprime e incita direttamente l' esaltazione degli af. fetti, 8. e viene usata per significare più vivo l'esalta. mento comune alla poesia ed all' arti del disegno. 9. Ciò apparisce altresi dal significato universale d'armonia. 10. Però idea suprema e reggitrice della musica è, ch' essa renda immagine dell' esaltazione di ogni affetto umano. La quale idea si determina nel concetto de' componimenti varj. 11. onde nasce la musicale unità, – 12. e l'invenzione di una frase principale, 13. che si svolge. - 14. Errori sulla na. tura della musica. Sensisti e Positivisti assoluti, - 15. Sen timentali, Aritmeticanti, Retoricanti. 16. Conclusione. CAP. L. Unione fra tutte l’ Arti del Bello... 434 1. Danni del separare l' Arti, e argomento. 2. Unità d' obbietto, di soggetto e di potenza prevalente nell' Arti del Bello. 3. Perfezionamenti loro successivi, e legge di que sta successione. - 4. Si risolve una difficoltà. 5. Prima si perfezionò la poesia; 6. indi l'architettura; - 7. poi la scultura, e poi la pittura; — 8. Apalmente la musica. 9. Aiuto che si porgono l'Arti; quale la poesia? – 10. quale l'architettura, 11. l'arti figurative, - 12. la musica? 13. Si conferma l'unità essenziale dell'Arti fra loro. -- 14. Ri torno del pensiero alle cose ragionate; 15 e 16. indi con clusione generale. DIALETTICA. La Filosofia e i Concetti universali. Idea della Filosofia. Che cosa è la Filosofia?  È scienza del pensiero, ma del pensiero in atto di vita, e non soltanto delle leggi logiche astratte; e però è Scienza della coscienza e dello spirito; Scienza degli oggetti connaturali al pensiero, e però di Dio, dell'universo e dell'uomo; Scienza, per tanto, delle somme cause, dell'ultime ragioni e de' primi prin cipj; Scienza, poi, della conoscenza, della scienza e della verità. Perciò nell'idea di relazione s ' appuntano i quesiti tutti della Filosofia; e ivi troviamo la sua più alta verità. Talchè la Filosofia e Scienza di Dio, del mondo e del l'uomo nell'ordine loro uoiversale; o, più breve, Scienza delle relazioni upiversali; e siccome queste forman l' ordine, dunque altresì Scienza dell'ordine universale.  Come in ogni altra Scienza, cosi nella Filosofia si ha perfezionamento, levandosi a un'idea superiore. - 12. Questa è l'idea di relazione. - 13. Ciò richiede la tendenza e il bisogoo de' postri tempi. – 14.Im portanza della Filosofia; danni d'una Filosofia separativa. Vantaggj d’una Filosofia comprensiva. 16. Sunto. La Verità.... 1. Perché dobbiamo esaminare l'idea universale di verità. 2. La verità è sempre entità conosciuta. – 5. La verità è ordine d'entità conosciuto. - 4. Si procede relazione in relazione. L'unità dell'oggetto conosciuto si comprende, si distingue, 6. si riupisce di nuovo. - 7. Però gli Antichi dissero che la verità è pei giudizj. - 8. L'errore perciò sta nel vedere l'oggetto da una parte sola, e quindi nel travedere, 9. come si rileva degli errori metafisici; - 10. nello Scet ticismo medesimo, e negli errori morali e delle Scienze fisiche. 11. Sicchè l'errore confonde, separa, nega. 12. Jadi spieghiamo il progresso della scienza e della civiltà, 13. o il regresso; 14. le invenzioni e le scoperte. – 15. esame dell'idea di verità ci mostra il costrutto semplice degli Univer sali, presupposto da ogni conoscenza. - - L'Entità. Pag. 1. Si comincia dalla nozione d'entità. — 2. Che cosa sono gli universali, - 3. Tre ordini d'universali: gli analogici, 4. gli attributi metafisici, e le condizioni universali del creato. - 5. L'uoiversale si è in ogni cosa e presentasi all'intelletto. - 6. L'idea d' entità primeggia fra gli universali. La esami Darono gli Antichi, – 7. i Padri, il Medioevo, e la Filosofia moderoa. 8. Non possono farne a meno anche gli Scettici e i Soggettivisti. 9. Questa idea non può pegarsi. Ma esaminandola, bisogna evitare tre difetti. - 11. Si tripartisce: idea dell'essere comunissimo, - 12. idea d'essenza, - 13. idea d'esistenza; – 14. com' apparisce anche da' linguaggi, 15. e dall'antica dottrina sull'essere e sulla possibilità, ch'è di tre specie. - 16. Conclusione. L'Ordine dell'entità.... t. L'idea d'ordine si distingue nell'idea di relazione, d'atto della relazione e di correlazione. 2. Che cosa è la relazione? L'esperienza ce la mostra ovunque. 3. Ogoi en tità è un tutto di relazioni, benchè, quando si tratta di cosa fioita, non essenziali. Ciò si rileva dal concetto d' essere, - 4. d'essenza e d'esistenza. – 5. La relazione poi è, o intrinseca, - 6. od estrinseca (cioè ad intra, o ad extra ). – 7. Ogni relazione si è atlo; anche le attineoze ideali o di ragione. - 8. Conie si procedè per giungere a questa universalità dell'idea d'allo. Gli Italioti, gl’lonici, Platone; 9. Aristotele; 10. i Padri, gli Scolastici, e il Cartesio; 11. il Leiboitz e la Fisica nioderna. 12. Correlazioni. Unità e triplicità in ogoi cosa. -- 13. Dottrine aptiche su ciò. - 14. Il Dogma cristiano della Trinità. - 15. Le correlazioni spiegano la legge universale de' simili e de' contrapposti, 16. Conclusione. l conoscimento dell'Ordine.. 1. Nel conoscimento dell'ordine si distingue il Vero, il Bello ed il Buono, distinta la triplice relazione della Verità col l'intelletto, benchè io significato generalissimo ogoi relazione col nostro conoscimento sia Verità. 2. L'universalità del Vero corrisponde ai gradi dell' essere; e come li notarono già i Filosofi. - 3. Cose non animate; 4. cose animate; 5. gl'intelletti, ove la presenza dell'entità è manifesta. 6. La verità è relazione dell'entità con gl’intelletti, cioè intelligibi lità. Che cosa è la Bellezza, cioè l'ammirabilitd, con trapposta al Vero. Suoi gradi, 8. ne' corpi non animati, Degli animati e negl'intelletti. 9. Che cosa è il Bene, cioè l'amabilità. Suoi gradi, — 10. ne' corpi, negli animali e nella mente, 11. Assioma che deriva dall'esame degli universali, - 12. e loro convertibilità mutua; – 13. la quale si manifesta nella scieoza, nell'arte e nella vita, perché il Buono conduce al Vero ed al Bello, - 14. e il Bello conduce al Vero e al Buono. -15. Nell'esame degli universali analogici abbiamo riscontrato le distinzioni già fatte dai Filosofi antichi e recenti. - 16. Conclusione, e come il Bello morale sia l'accordo del Vero, del Bello e del Buono. Attributi metafisici correlativi e Idea di Dio. Pag. 101 1. Esamedegli attributi metafisici, al quale ci porta l'esame degli universali analogici. — 2. Che cosa s'intende per attri buti correlativi metafisici. 3. Idee di questi attributi, tro vate nell'idea d'entitd; 4. trovate nell'idea d'ordine dela Ľentità; - 5. trovate nell'idea di conoscimento dell'ordine. - 6. L'idee degli attributi metafisici correlativi, e l'idea di Dio, non sono correlazioni astratte; - 7. nè limiti soggettivi; - 8. nè un ideale soggettivo; 9. nè, d'altra parte, sigoi ficano che Dio sia il grado supremo degli esseri; – 10. nè la parte o il tutto; 1. nè Pessenza o la sostanza delle cose contingenti. – 12. La correlazione degli attributi metafisici viene rappreseotata dall'idea del possibile fra l'idea d'Eote e l'idea d'esistente, o dall'idea d ' indefinito fra quelle d'Infinito e di finito. - 13. La correlazione stessa fu pure significata dal Gen tilesimo, 14. da' simboli suoi più notevoli, 15. e dalla simbologia naturale. - 16. Conclusione. Cap. VII. Idea di Creazione.... 121 1. Possibilità razionale della creazione. - 2. Vi ha nel pensiero umano questa idea dell'atto creativo, cioè di Causa prima. — 3. L'idea di causa si distingue dall'idea di sostanza; 4. e si riferisce ad un che, il quale comincia dal nulla quanto all'esistenza, benchè non quanto alla potenza; 5. si riferisce, poi, ad un termine distinto essenzialmente dalla cau sa, o ad extra. - 6. Più vera e più potente fra tutte le cagioni è l'intellettiva. 7. La Causa creatrice si distingue dalle cause naturali, perchè alla totalità delle cose preesiste la pos 8. perchè il soggetto, cioè la sostanza, si produce ad estra; 9. e perchè avvi efficienza intellettuale assoluta: - 10. opde la Causa creatrice fu chiamata Verbo ia tutte le Tradizioni sacre, e il mondo è arte di Dio; -11. la quale produce una somigliaoza divina nell'universo, mentre Dio non somiglia i finiti e li trascende. Gli errori e i dubbj sul dogma razionale di creazione nascono dalla fantasia, - 13. e dallo sdegoare il mistero, comune ad ogni causalita; 14. sicchè gli errori provocarono lo svolgimento del Teismo nell'età de' Padri e de' Dottori, 15. e dell'età della Riforma e del Rinnovamento. - 16. L'idea di creazione ba tanta importanza, sibilità pura; - perchè risguarda la Causa universale. CAP. VIII. Idee relative all'Entità della Natura....... 143 1. Argomento; le condizioni dell' entità: Prima condizione della natura, per l'essere suo, il quanto; 2. che si distia. gue nell'unità, 3. nel numero 4. (che non può essere infinito), 5. e pella unione delle unità. 6. Condizione seconda per l'essenza, il quale; - 7. che si distingue nella varietà, 8. nella contrarietà, 9. e nella somiglianza;. 10. più notevoli dove la oatura è più alta. - 11. Terza condizione per l'esistenza, il quando; 12. che si distingue nel momento, -13. nella successione, - 14. e nella durata; - 15. non predicabili dell' Eternità. 16. Conclusione. il pine. - Idee relative all'Ordine della Natura....... Pag. 1. L'ordine della natura viene dall' attinenza della crea zione, 2. La relazione delle cose create ci dà la dipendenza, o derivazione; 3. ossia la sostanza, - 4. la causa, 5. e l'essenza reale. - 6. L'Atto delle cose ci dà il come (quomodo); – 7. ossia il principio, 8. il mezzo, 9. e 10. Le correlazioni delle cose ci dàono il dove, che può essere correlazione ancointellettiva, 11, e correle zione materiale; - 12. ossia il punto, - 13. Y estensione particolare, 14. e lo spazio, 15, che non può essere infinito, ma è nell'infinito; 16. e il sublime si origina da cið. Cap. X. Condizioni naturali del conoscimento...... 1. Criterio della conoscenza; ove si riscontrado: l'oggetto ideale, – 3.6. l'idea, - 4. che ci fa conoscere il si mile per ilsimile, 5. (onde si spiega la formazione dell'idee universali, e la conoscenza delle cose esteriori, 6. di noi stessi, degli altri uomini, - 7. e di Dio), - 8. c. il senti mento, in relazione del quale ogoi cosa dicesi un fatto, ed esso medesimo ha questo pome. 9. Forma del bellezza; - 10. e qui si riscontrano: la cosa formata, 11. l'idea esem plare, 12. e il gusto. - 13. Legge del bene, ove si ri scontra il bene oggettivo, - 14. la felicità, - 15. e l'utilitd. - 16. Conclusione. Divisione della Filosofia e Arte dialettica. L'Enciclopedia.... 1. Per determinare i quesiti della Filosofia, bisogna ve. dere le sue parti e l'Enciclopedia o l'albero del sapere umano, Ordine di formazione, ordine di logica dipendenza. Criterio armonicamente oggettivo e soggettivo per trovare la distiozione dello scibile e l'ordinamento suo. Quattro classi di conoscenze: onde vengono la Teologia positiva, la Filosofia, le Matematiche e la Fisica. 6. Parti della Fi losofia universale. - 7. Filosofie particolari e applicate. 8. Matematica. - 9. Fisica. - 10. Storia sacra, umana, na turale. – 11. Arti filosofiche, matematicofisiche e storiche. 12. Tradizione perenne dell' Eociclopedia. – 13. Errori che la guastano. Pericolo dell'Enciclopedie a dizionario, le quali spezzano la continuità del sapere. - 15. Divisione della Filosofia in tre parti: la Dialettica, l' Estetica e la Morale. - 16. Conclusione. La Dialettica. Che cosa è la Dialettica. È quasi un dialogo. Esemplare unico dell'Arte logica è la natura, -se no e s'op v'è ignoranza. L'Arte logica è osservazione di natura, - 6. se oo avvi leggerezza, impazienza e preoccupazione appas sionata. È imitazione di natura, 8. se no avvi artifi cio. – 9. È inveozione ordinativa, pop oggettiva, - 10. se no avvi l'assurdo. - 14. È per fine di verità, - 12. se no si confondono l ' arti, che per altro s' accordano e s ' aiutano. 13. La Verità, com'oggetto dell'Arte logica, viene deter minata dalle operazioni di questa, - 14. e però è ordine d'en tità ripensato, 15. ragionato, — 16. e significato. La Critica interiore vera e la falsa........ Pag. 251 1. La Critica suppose un Criterio, che paturale cono scenza porge alla riflessa. - 2. Il bisogno di Critica interiore viene dal bisogno di cercar l'origini dell'errore, e dall'altro di sceverare nelle cognizioni la parte oggettiva e la soggettiva; - 3. e però è antichissima; benchè a questa si contrapponesse Ja Critica eccessiva. 4. Esempj dell'una e dell'altra nel Cartesio e nel Kant. 5. Principiare dal dubbio universale non si può; e questa è critica smodata, o fuori di natura. 6. La riflessione filosofica deve cominciare dalla ignoranza filosofica, piuttostochè dal dubbio metodico. 7. Però la Critica eccessiva non può condurre alla scienza; pone, qualunque sia l'intenzione de' Critici, alla virtù; 9. è causa di desolazione, - 10. o di misera indifferenza. 11. Jovece per la Critica razionale s' afferma il oaturale co noscimento, 12. la forma di questo e la materia; 15. cioè la forma naturale in relazione con gli oggetti, e la realtà degli oggetti stessi, che costituiscono la materia necessa ria o coboaturale del pensiero. · 15. Postulati della Critica - 16. Ogni operosità viene impedita dal Criticismo. Cap. XIV. Verità connaturali al pensiero umano. 272 1. Tre requisiti delle verità connaturali. – 2. Esistenza di noi stessi. - 5. Errore del Kant e de' Positivisti, - 4. e loro confutazione. 5. Si riscontrano i requisiti della conoscenza naturale nella coscienza di noi stessi. – 6. Notizia del mondo esteriore, – 7. e dell'ordine suo. — 8. Opinione del Kant e de Positivisti, 9. e loro confutazione. - 10. I requisiti della conoscenza naturale si trovano nella notizia del mondo. 11. Idea di Dio. - 12. Opinione del Kapt e de' Positivisti. 13. Confutazione, 14. Si riscontrano nell'idea di Dio gli stessi requisiti o spontaneità, - 15.inconvertibililà e insepa rabilità. Da queste notizie di noi, del mondo e di Dio risulta la sostanziale totalità della coscienza. 16. La Filosofia non può disconoscere questa materia del pensiero e della scienza. Armonia tra le forme della conoscenza e le cose. 294 1. Che cosa è la forma. – 2. L'armonia tra le forme del conoscimento e gli oggetti, onde provenga. 3. Apparenza sensibile, - 4. corrispondente agli oggetti percepiti; – 5. e quindi si fece da Galileo e poi dagli altri la distinzione fra le qualità primarie de' corpi e le secondarie; - 6. talchè verifi chiamo che l'apparenze sensibili son segoi reali, realmente vera. - . corrispondenti alla realtà delle cose. -7. Aoche le apparenze, che dano'occasione d'inganno, procedono da leggi di natura. - 8. La vista ci dà i segoi apparenti delle distanze. – 9. For me intellettuali, corrispondenti all'entità e verità delle cose, ue' concetti, - 10. ne giudizi, -11. e oei raziocioj. 12. Armonia tra il conoscimento di ciò ch'è o avviene deotro di noi, e il conoscimento di ciò ch'è fuori di noi: per i segoi del l'anima del corpo; – 13. per l'analogie fra l'anima l'uoj verso; - 14. per l'intendimento delle qualità e delle condi zioni d'ogoi cosa esterna; e per la conoscenza di Dio. 16. Conclusione. Principj armonici della ragione... Pag. 318 1. Che sono i principj universali della ragione. — 2. Na scono dalle idee universali, e s'ordipano com'esse. -3. Prima classe, corrispondente agli universali analogici. Per l'entitd si distinguono più principj, riflettendo all ' idee d' essere, 4. e all' idee d'essenza e d'esistenza. 5. Per l'ordine del l'entità, si distinguono, riflettendo all'idee di relazione, 6. di atto della relazione e di correlazione. - 7. Per il cono. scimento dell'ordine, si distinguono, riflettendo all' idee del Vero, – 8. del Bello e del Buono. – 9. Seconda classe, cor rispondente agli attributi metafisici correlativi. – 10. Terza classe, corrispondente alle universali condizioni della Datora fioita. Si hanno: Per l'entità di questa, i priocipj di quantild, di qualità e di tempo; 11. per l'ordine della natura, i principj di derivazione o dipendenza, - 12. di modalità e di confinazione o del dove; – 13. per il conoscimento dell'or dine, com ' esso è negl' intelletti creati, i principj che risguar dano il criterio della verità, la forma della bellezza e la regola del bene. In che stia l'utilità de' principj uni versali. Due opinioni estreme ed erronee: l' una che li Dega, l'altra che li reputa generativi di tutto il conoscimento. - 16. Conclusione. L'Osservazione...... 340 1. Materie da trattarsi. — 2. Atteozione. - 3. Osservazio ne. – 4. Riflessione. - 5. Si verifica ciò nelle verità d'espe rienza esteriore, cosi per Arte logica naturale, 6. come scientificamente. 7. Si verifica delle verità di esperieoza interiore, cosi per suggerimento di natura, 8. come per la Scienza. 9. Si verifica delle verità intellettuali pure, 10. cioè negli universali della Metafisica e delle Matematiche. 11. Si verifica nelle conoscenze ricevute dall'autorità, 12. e ipdi vien la Critica, 13. Lo stesso aodamiento si vede nel procedimento storico delle Scienze. -44. Idem,-15. Anche nel procedimento della Letteratura. 16. E anche nell'Arte pedagogica. Metodo che imita la Natura...... 1. Che cosa è l'imitazione dialettica: parte sostanziale del metodo. 2. Sintesi primitiva. – 3. Analisi. - 4. Sintesi 541 - secondaria. 5. Legge dialettica. 6. Il metodo allora è quasi un contrappuoto musicale. -7. Però non può essere nè solameote analitico, nè solamente sintetico. 8. Difetti del Puno e dell'altro, - 9. Il metodo compreosivo gli uoisce. 10. Contrarie inclioazioni di ogni età verso l'analisi eccessiva o la sintesi eccessiva. 11. Esempio del Gioberti. - 12. Il vero metodo è propriamente dialetlico o dialogico. 13. Sua utilità nelle Scienze; 14. nell' Arti del Bello, - 15. e nel ” Arti del vivere civile.. 16. Conclusione. L'invenzione dialettica..... Pag. 381 1. Che cosa è l'invenzione scientifica, o che cosa è la Scienza com'ordine meditato di conosceoze, - 2. Si comincia dalla comprensione dell'oggetto per una definizione nominale; - 3. poi si viene all'analisi con la divisione, – 4. con la tési e con l ' antitesi, con la prova dall'assurdo, e con l'elimina zione; - 5. fochè si giunge alla definizione dialettica, che può essere o intrinseca o per via disole relazioni. Poscia, passando alla sintesi, abbiamo l'ordine induttivo e il dedatti 7. Tutto questo mirabile ordinamento è una ricerca delle ragioni, e uno spiegare per esse; oode gli Antichi dis. sero che saper vero è un sapere per le cagioni; - 8. cioè per principj; - 9. e questo s'avveranella teorica degli universali, - 10. e nella Scienza dell'uomo, dell'universo e di Dio; s'avvera nelle Scieoze civili e storiche; Delle Matematiche, e nella Fisica. Indi si spiega l'invenzione degli stromenti e delle macchine; 15. come altresi la ipotesi e l'intuizione dottrinale. 16. Supto. vo. – IL FINE DELL’ARTE DIALETTICA.  Argomento. Connessione logica. Che stato der essere quello di chi cerca la verità, e DIFETTI CHE BISOGNA EVITARE. Si può errare io ciò per leggerezza,  o per una preoccupazione. CHIAREZZA e difetti da evitarsi. Errori che procedopo da leggerezza,  e da preoccupazione, prendendo per chiaro ciò che non è. Certezza; e difetti evitabili; badando anche ip ciò di non errare per leggerezza d' assensi e per qual che preoccupazione, stimando che sia certo l'incerto, e vice Connessione, chiarezza, certezza, non possono realmente trovarsi che pella verità. Si concbiude: che fine d'ogoi Scienza, e perciò anche della Filosofia, non è di dare a noi, quasi mancanti d'ogni ragionevole conoscenza, un primo conoscimento della verità, si l' ordine riflesso della co gosceoza e della verità: e poi, che L’ARTE DIALETTICA È ALTRESÌ UN ABITO MORALE; e ancora, che L’ABITO DEL PARLARE  meditato giova molto all'ordine del pensare RAGIONATO E RETTO versa.. I Criterj della Verità o Leggi universali della Dialettica. L'Evidenza, o il Criterio della Verità. Argomento, e qual sia il disegno della Dialettica, e qual ragione v'abbia di trattare qui de Criterj; e dottrina loro semplicissima. Il Criterio è uoa regola, perch'è un segno della verità in relazione con l'intelletto. Non può negar si, fuorchè negando la conoscenza; non può travisarsi, fuorchè da' sistemi sostanzialmente falsi; e vi ha una dottrina costante sulla natura del Criterio. Il Criterio è un segno apparte nente all'ordine della verità, ed è universale. II Criterio, perciò, è l ' evidenza dell' ordine di verild; è quindi uno e moltiplice, ossia è un ordine di Criterj; perch'è l' evidenza dell'ordine di verild in sè stesso, e ne' suoi contrassegni universali; cioè coutrassegni d'amore e di fede, perchè l'ordine della verità corrisponde all'ordine della nalura umana. Il Criterio vale altresi nelle cognizioni anteriori alla Scienza, 10. nè la Scienza può disco noscerlo. 14. Nella Scienza, poi, l'evidenza precede il ragionamento, l'accompagna, e lo compisce. 12. Nella Filosofia, l'evideoza del Criterio naturale si converte in evi deoza scientifica; non già perchè si comioci dal dubbio; anzi non può cominciarsi da esso, perch'è un riconoscimento. – 13. Criterio della Filosofia è l' evidenza dell'ordine universale;. 14.senza di che quella è fuor di natura. - 15. Criterio delle altre Scienze è l' evideoza d'un ordine particolare; ma in essa i Criterj sccondarj bao solo un ufficio indiretto e più ristretto. L'evidenza del Teismo, come di verità ordinatrice o di Criterio supremo.... 1. Perchè la verità di Dio creatore sia Criterio compren sivo alla riflessione. 2. La Scienza de' limiti è scienza ne cessaria; e il Teismo ci avverte de' nostri limiti. 3. Questi sono la natura stessa dell'intelletto e delle cose. 4. Soprin telligibile, soprannaturale, 5. intelligibile: 6. la verità di creazione fa serbare questi limiti, e spiega il perchè del sovrintelligibile divino, –7. del sovriptelligibile naturale, 8. e ci rende liberi e sicuri nello studio delle cose intelligibili, che sono inesauste a mente umana. - 9. Quindi essa rende soddisfatto qualunque bisogno dell'uomo, e ordina le Scienze che si riferiscono a' bisogoi stessi. Teologia positiva, - 10. Filosofia, Matematica, — 11. Fisica, 12. Filosofia della Sto ria, Filologia e Critica. Quel Criterio spiega la legge del progresso in Filosofia e il regresso sofistico. – 14. I siste mi, opposti alla verità di creazione, ristringono la conoscenza riflessa, 15. e poi l'apoientano. - 16. Conclusione. Sistemi opposti al Criterio della Verità, e pri mieramente il Panteismo.... Pag. 472 1. Argomento. - 2. Contradizioni del Panteismo, e pro posito di affermare le contradizioni.- 3. Panteismo orientale, 4. pitagorico, - 5. eleatico ed ionico; - 6. degli Ales sandrini e Gnostici, - 7. che difendevano il Paganesimo; 8. de' Reali nel medioevo, – 9. e dell'altre Sètte; - 10. del Bruno e del Campanella 11. (sterili, se paragonati al Car tesio ed a Galileo ), · 12. dello Spinosa (non paragonabile alla fecondità del Leiboitz), - 13. de' Panteisti tedeschi, 14. e de' loro discepoli. 15. Verità grandi, che balenano dal Panteismo; 16. il quale, bensì, le travisa, e però nega i fatti più sublimi della coscienza. II Dualismo. 493 1. Argomento. - 2. Io che il Dualismo è peggio, e in che meglio del Panteismo? 5. Dualismo fra gl' Indiani. 4. D'Anassagora, - 5. di Platone, -d'Aristotele, 7. degli Stoici. - 8. Dualismo tra certi Filosofi maomettani. 9. Dualismo nella Cristianità del medioevo; 10. e come le tracce del Dualismo antico si trovino anche ne' Dottori scola stici; - 14. talchè se n'occasionava, ne' tempi della Riforma, up Dualismo nuovo, non antiteistico, macosmologico e antro pologico. Cartesio; – 15. ed effetti delsuo Dualismo, segnatamente nel Malebranche, - 14. e nel Leibojtz; 15. o anche nell'Idealismo, nel Sensismo e nello Scetticismo poste riori. 16. Il Dualismo riduce i contrarj a contradittorj, - talchè rompe ogoi armonia. L ' Idealismo e il Sensismo.... 515 1. Differenza fra l ' Idealismo e il Sensismo. 2. Cenno storico di questi sistemi. – 3. Io che propriamente consiste l ' Idealismo (e sbaglio d' alcuni moderni), e paragone con gli effetti del Sensismo. - 4. Vizio principale degl ' Idealisti. 5. Nel Sensismo la coscienza umana non riconosce sè stessa; 6. non l'intelletto, essenzialmente diverso dal senso; - 7. non - 8. non l'idealità; 9. non la riflessione sopra di noi; 10. non la religiosità; 11. non la certezza nella cogoizione de' corpi; 12. non la Filosofia; si solamente la Fisica, - 13. ma falsata e con metodi non suoi. - 14. E sono alterate anco le Matematiche, - 15. com' altresi la Sto ria. - 16. Sunto.  Lo Scetticismo. Argomento. 2. Scetticismo nell'Asia e fra gl ' Italo greci; - 3. nell'età Socratica e del medioevo; 4. nell'età moderna. – 5. Eclettici e Mistici, che non riparano allo Scet ticismo, dacchè gli concedono di partire dal dubbio. – 6. Idea Jismo scettico e Sepsismo scettico. 7. Razionalismo, 8. e Positivismo; – 9. e quindi Scetticismo metafisico, antimetafisico, - 11. che bensi trova la Metafisica per tutto. – 12. Come la natura repugoi dallo Scetticismo. 13. Con seguenze principali di questo. Desolazionee scherno. - 14. Dif ficoltà pelle controversie, o Dommatismo scettico; abito di giudicare de' fatti umani da sole circostanze esteriori. 16. Lo scetticismo riduce a nulla il pensiero. 10. e 15. e L'Amore della Verità... 22 4. Che cosa è nell'ordine suo pieno il Criterio? Condizioni intrinseche ed estrivseche per la conoscenza della Verità. 2. Sentimento e amore. 3. L' affetto è conoscenza e la cono scenza è affetto. -- 4. Bisogna secondare con la libera riflessione il naturale affetto. 5. Come l'affetto della Verità dia im pulso al ragionamento, l'accompagni e lo assicuri, e perciò bi sogna guardare a quell'impulso, 6. a quella compagnia e a quel riposo; - 7. e sbagliarono tanto i Sentimentali, che di visero l'affetto dall'evideoza; 8. quanto gli Astratteggian ti, che separarono l'evidenza dall'affetto. 9. Ufficio del l'amore di Verità nelle Matematiche ed io Fisica. - 10. Ufficio di quello in Filosofia, il quale altresì ci mostra gli affetti con naturali, che corrispondono agli oggetti della Filosofia stessa; - 11. cioè l'amore di noi medesimi e degli altri uomioi, 12. l'ammirazione affettuosa per l'ordine della natura 13. e gli affetti religiosi. – 14. Quello è anche Criterio degli Studj critici, storici e teologici. – 15. Nelle passioni l'affetto patu rale può facilmente riconoscersi. – 16. Per l'affetto la scienza si converte in sapienza. salità; Il Senso Comune... Pag. 1. Quando la parola serve di Criterio? - 2. Che cosa è il Seoso Comune? Due sigoificati di esso, - 5. dal separare i quali vennero due opinioni false, · 4. Limiti del Senso Co mune:. 5. i principj, 6. le immediate percezioni, 7. e le immediate conclusioni. 8. Ufficio diretto e generale del Senso Comune in Filosofia; non cosi nell'altre Scienze, 9. fuorchè dov'esse s' uniscono alla Filosofia stessa. - 10. Obie zioni sull'esistenza del Senso Comune, per la contrarietà delle opinioni. Obiezioni contro la testimonianza de' Lioguagej al Senso Comune, per la supposta indifferenza de' vocaboli al si e al no; – 12. per il materiale significato primitivo di parole che ricevevano poi un sigoificato spirituale. 13. Obiczioni sulla ragionevolezza d'usare il Senso Comune a Criterio, qua sichè questo sia credenza, non evidenza; - 14. quasichè vo gliamo reputarlo sapienza o scienza; 15. quasichè occor resse interrogare tutti gli uomini.. 16. Sunto, e necessità di ricondurre le Scienze alla natura, come le Arti del Bello. Tradizioni e progressi nelle Scienze... 1. Criterio delle Tradizioni scientifiche. 2. Due siguifi. cati del vocabolo Scienza. – 3. Dobbiamo verificare l'univer 4. distinguendo i principj, i teoremi, i problemi, e gli errori. 5. L'unità del consentimento non toglie la libera varietà. -6. Consentimento e progresso pe' principj e ne' teo remi, -7. e ne' problemi. – 8. Le Sètte son dimezzatrici della Verità; 99.. eppure confermano i teoremi, 10. e son’oc casione di progresso, mostrando i mancamenti della Filosofia, 11. perfezionandone la forma, 12. e alcune dottrine particolari, - 13. e le loro conseguenze nelle dottrine de'Fi losofi. – 14. Nascono due opinioni false: cioè i sosteoitori della sola evidenza privata; – 15. e i sostenitori del solo criterio storico. - 16. Conclusione. Relazioni fra le Scienze e la Religione..... 1. L'argomento, che ora si tratta, è Glosofico di sua na tura, – 2. Due significati della parola Religione. - 5. S'esclu de: che la Filosofia debba ricevere l'autorità senz' uo motivo evidente di ragione; – 4. che, per l'esame, debba sospendersi la Fede; 5. che l'autorità del verbo religioso sia un Crite rio diretto per ogni Scienza; - 6. che la Filosofia debba en trar pe' Misteri, o la Teologia nel ragionamento filosofico; – 7. che sia lo stesso metodo e lo stesso fioe a’ Filosofi e a' Teologi. - 8. Nel fatto, l'efficacia delle Religioni è universale sopra i sistemi filosofici; 9. e sempre la Religione s’ è reputata upa Fede; 10. Criterio è poi, se corrisponde alla coscienza; 11. talchè sia un'evidenza e una credenza, cioè una credenza evidente. · 12. Fa quasi specchio all' uomo interiore, - 15. che riconosce l'integrità dell'essere suo io quella. 14. Gra vissimo errore del negare validità razionale lenza non filosofica. 15. Il Criterio religioso sublima l'animo e lo ràs. serena, porgendo così le due condizioni necessarie d'ogni me. ditazione più alta. 16. Sunto. Leggi speciali della Dialettica. oi. - - Dell'Ordine, come suprema Legge razionale. Legge suprema razionale.  Leggi concrete o datu rali, Legge soprema è l'ordine. Unione de' termi. Cercare questa unione, rispetto agli oggetti, pelle operazioni, cosi dell'Arte bella e dell' Arte buona, come dell'Arte dialettica. Cercare la somiglianza de' ter mioi, –  le loro differenze, e le loro contrarietà, escludendo i contradittorj. Ksempio tolto dalla teo rica de' Criterj. Errore, deformità, male, sono disor dini. Ogni errore non altro è, che da una parte soltanto risguar dare la verità, segregandola dal resto che le appartiene, e senza cui non è più verità. - Gli errori e il male cadono d'ec cesso jo eccesso. Meraviglie della ragione umana, che imita l'ordine della natura interiore ed esteriore. Coo clusione. Ordine dell'idee Ripensamento dell'idee. L'idea, del suo valore intimo, è sempre vera; quantuoque altresi per idea s’in. tenda lutto ciò che con la riflessione s'afferma e nega; e allora l'idea può essere falsa. Bisogna esaminare il positivo del l'idee; nè può darsi un'idea negativa per sè medesima. 6. Poi bisogna esaminare l'ordine dell'idee con gli oggetti, e come non possiamo pegar l'idea d’un oggetto, se igooriamo la sua intima essenza, nè possiamo negare l'idea d'un fatto, se ignoriamo il comeavviene il fatto, ec.; e bisogoa esa minare qual sia la natura dell'oggetto, coocepita per mezzo dell' idee. - 8. Idee a priori e a posteriori? L'idee hanno fra loro uo ordine cbe va riconosciuto; 10. talcbè, riflettendo a quello, si formano idee distinle, adequale, chia -A1. e ci leviamo all'idea perfetta. Bisogna, in line, ch' esaminiamo la forma concettuale dell'idee, 13. la loro estensione e comprensione, 14. onde riconosciamo l'unità 15. per la quale l'idea è un esemplare unico di 16. Chi poo badi alla oatura dell' idee non può intendere alcuni fatti maravigliosi della patura umana. Ordine della Memoria.. 1. Argomento.La legge della Memoria è l'ordine stesso che regge l'idee. 3. Associazione dell'idee. 4. Come possono in unità raccogliersi le varie associazioni, notate da' Filosofi. 5. Quella medesima legge si distende al richiamo de' fantasmi e de'segoi. - 6. E anzi, abbraccia tutte le facoltà, concorrenti nella Memoria, 7. e unità naturale del. 8. e l'unità morale del genere umano. — 9. Que st' ordine, ch'è legge della Memoria, diviene regola. È neces saria l'attenzivce sull’idee e il raccoglimento. 10. Bisogoa 32 * re, dell' idee, molte cose. ſaomo, - considerare la coonessione dell'idee e i segni seosibili per facil. mente richiamarle. - 11. Inoltre, acquistar l'abito della ri flessione sull'ordine de' giudizj e de' raciocinj, per il pronto discorso scientifico. 12. Singolarmente quell'abito è neces sario per la Memoria delle parole. 15. Tadi procede la pa dronanza dell'esporre. 14. Per l'uoità coosapevole interna, occorre rammemorare il nostro passato. 15. Per unità morale del genere umano poi, occorre la Tradizione, ch'è me moria. – 16. Conclusione. Ordine de' giudizj.. Pag. 166 4. Argomento. 2. Co.ne dall'idee si svolgono i giudizj; - 3. onde i giudizj possibili sono distinti da’ formati o reali. - 4. Categorie, 5. oggettive e soggettive. 6. Perfezio oamento di questa dottrina. - 7. Categorie oggettive, o se condo gli Universali; 8. Categorie soggettive: 9. I. quanto alla forma concettuale dell'idee, giudizj universali, ge nerali, particolari, singolari; - 10. II. quanto alle relazioni fra l'idee, categorici, ipotetici, disgiuntivi, 11. problema tici, assertori, apodittici, - 12. diretti e comparativi, astratti e concreti, a priori e a posteriori, - 13. analitici e sintetici; - 44.III. quanto alla forma de'giudizj, affermativi, negativi, limitativi; 15. IV. quanto alla relazione di più giudizj, equipollenti, convertibili, contradittorj, contrarj e subcontrarj. 16. Conclusione; e come sia necessario, giudicando, solle varsi all'idea distinta, chiara, adequata, e quindi perfetta, di ciò che meditiamo. Ordine del ragionamento.. 186 1. Argomento. Regole. • 2. Legge dialettica. Idea media; e come il raziocinio sia un giudizio complesso che si scioglie in tre giudizj. – 4. Priocipio formale del raziocinio. - 5. Deduzione e induzione. - 6. Deduzione dal simile al diverso. – 7. Induzione dal diverso al simile. - 8. La diffe reoza tra il ragionamento deduttivo e l'induttivo, in che non può consistere? — 9. Qual'è duoque la differenza del ragiona mento deduttivo, 10. e dell'induttivo? -Da essa viene la regola. 12. E, per opposto, dal violarla vengono i sofi - 13. e si vedenel dedurre, - 14. e nell'indurre.: 15. Non deve mai separarsi la 'regala formale dalla materia del ragionamento; - 16. oè la materia di questo dall'ordine suo. C.: P. Utilità del ragionamento. 206 1. Argomento. 2. Come deve intendersi che si procede dal noto all'ignoto? 5. Che cosa troviamo di nuovo per via del ragionamento? 4. Deduzione; 5. in Fisica, in Ma. tematica applicata; – 6. altre scoperte, – 7. per equipollen za, conversione, opposizione, esclusione'; 8. deduzione per via di regole applicate. – 9. Induzione, é sua certezza. --40. Induzioni fisiche. 11. Analogia. 12. Ipotesi. – 13. In duzione metafisica. – 14. Due erroriopposti: l'uso di coloro che immaginano la deduzione quasi generazione; 15. l'al tro di coloro che negano il dedurre. 16. Conclusione. smi;  Unione e varietà de'Metodi. Argomento. 2. La verità, com ' ordine conosciuto, si trasforma in Metodo: può vedersi dalla Storia della filosolia, 3. e delle Scienze fisiche; 4. talchè vana è la disputa se preceda l'importanza de'Metodi o de principj; - 5. e quindi ancora si vede che il Metodo risguarda il soggello e l'oggello, e ch'è psicologico ed ontologico insieme, 6. cioè critico. - 7. Faria il Metodo; ma neile varietà c'è leggi comuoi. 8. Le varietà poi derivano dalla natura dell'argomento, 9. taotoché riesce assurdo il coofondere tra loro i Metodi; 10. e vba Scienze deduttive, 11. induttive,. 12, miste; 13. più sintetiche, o più analitiche. 14. I Metodi, variando secondo la varietà delle cose, diversificano pure secondo la mente di chi pensa la verità, 15. e secondo la mente di co loro, a cui la verità s ' espone. 16. Sunto. Abiti necessarj al ragionamento Metodo è abito, e richiede: abito di virtù, abito intellettuale che disponga l'intelletto all'Arte ragionativa, e abito dell'Arte. Abito morale, cioè amore della Verità. Bisogna essere preoccupati solo da questo amore; unito alle virtù morali, e come dagli abiti viziosi opposti s' of feoda il ragionaiento buono. Abito intellettuale del rac coglimento, donde nasce il diletto della meditazione, e che porta con sè l'abito di badare all'armonia delle facoltà e delle dottrine, e di ordinare i proprj studj. Abito intellettuale dell'Arte, cioè il possesso delle regole. 41. e dell'ordine loro; 12 donde procede la necessità di tre atti razionali abitualmente, cioè l'esame del pensiero del principio de' ragionamenti, a mezzo e io fine; 13. il quale ultimo è importantissimo; 14. e indi viene il possesso della ragione; 15. acquistato piucchè mai dall'esercizio della pewna e della disputa; 16. purchè questa sia conveniente. L’ESPOSIZIONE. Iinportanza dell'argomento, Ufbej della PAROLA: interno e SOCIALE. LA PAROLA s’unisce strettamente al pensiero, ma non lo costituisce; bensi lo determina. Non bastano i fantasmi, ma ci vuole IL SEGNO dell'idea, tanto più che IL DISCORSO esterno aiuta con la successione sua la riflessione discorsiva. LEGGE DELL’ESPOSIZIONE si è la legge dialettica; ossia determinare con la lingua l'ordine del pensiero; il che apparisce anche da' nomi che si dànoo a'termio i della proposizione e del raziocinio, e al congiungimento de' termini; e poi, la bellezza dello stile dottrinale accorda il Vero col Buono. Regola perciò è: determinare coll'ORDINE DELLA PAROLA l'ordine del pensiero; in conformità dell'idee e dell'idioma, donde si traggono le regole tutte grammaticali,  e dello stile. Quindi è impossibile separare la bellezza dell ' Esposizione dalla profondità e dall'ordine del pensiero. Se non determiniamo con le parole il proprio concetto, in conformità dell'intimo legame fra i concetti, e in conformità del linguaggic, vengono gravi errori. L’INTERPRETAZIONE E L’IMPLICATURA (“He hasn’t been to prison yet”). L'Interpretazione. Argomento. In quante maniere debba determinarsi l'ordine del pensiero ALTRUI altrui. Relazioni del DISCORSO con la lingua; e perciò la sappia, chi vuolesser critico; tutti sapere ogni liogua, non si può pè giova; e allora valersi degl'interpreti migliori. Relazioni del DISCORSO con la mente ALTRUI; e perciò stare al senso letterale, quanto si puo; oon interpretare alla leggiera né cop troppo di SOTTIGLIEZZA, non alterare né i difetti né i prenj; badare AI FINI che il testimone o lo scrittore SI PROPONEVA – “what he meant, not what he means!” -- Relazioni del DISCORSO con l' animo ALTRUI; e pero guardare alla capacità e alla veracità con argomenti intrinseci ed estrioseci;: nè la capacità negare, preoccupati da un'idea; nè, per la veracità, eccedere ne' due vizj opposti d'una Critica adulatrice o caluoniatrice. Relazioni con la Società umana; e però con l'incivilimento,  con la Religione, con l ' uniune delle prove. Sunto, Metodi secondo le varie Discipline.  Metodi speciali. Perchè i Metodi si distinguono secoudo le Discipline varie?  Quanti sono i Metodi speciali, che procedono dalla relazione varia degli oggetti con la mente? Ogni errore sostanziale di Metodo procede da un errore su detta relazione. Gli errori de' sistemi sul Metodo, esaminati, rendono testimonianza tutti insieme alla vera dottrina. La distinzione de' Metodi è necessaria pell'Arte del Vero, come si distinguono l'Aiti speciali nell'Arte del Bello;  e chi oega la differenza de' Metodi, pega implicitamente esplicitamente una qualche verità; come nell'Arti Belle, 8. cosi nell'Arte dialettica. 9. Connessione de' Metodi;. 10. e ciò si vede anco nell' Arti del Bello. Hl. Ma la connessione non toglie poi la distinzione, 12. secoudocbė il rispetto delle verità mediane o collegatrici diversifica; 13. onde bisogna rispet tare la varia competenza nelle Scienze diverse; 14. beocbe uno Scienziato possa partecipare di più Scieoze. 15. Sunto. - 16. La confusione de' Metodi è coutro il progresso della civiltà. Metodo degli Studj religiosi.  Argomento. 2. Proprietà del Metodo negli Studj re ligiosi. – 3. Metodo storico circa i fatti; – 4. e guardare do v apparisca propriamente la loro Storia. 5 Metodo joterpre tativo circa i fatti, -6, e le dottrine, 7. Metodo filosolico circa la possibilità razionale de' fatti dividi, 8, e come gli .  Avversarj neghino irragionevolmente questa possibilità; 9. poi, circa la razionale convenienza in genere de ' fatti divini, ma esclusa sempre la necessità; -poi ancora, circa la ra zionale convenienza in ispecie, cosi de preliminari della Fe de, 11. come nelle Verità misteriose. 12. Unione del Metodo filosofico, dell'interpretativo e dello storico, per le origini del Culto e per la sua universalità nel tempo, 13. per le sue relazioni universali con le Scienze e con l'Arti, 14. con la Civiltà intera, e con tutti gli altri Culti. Metodo teologico si distingue dagli altri Me. todi e vi s'accorda.. Pag. 342 1. Argomento. 2. Il Metodo teologico si distingue dal filosofico, perchè muove dall'autorità, – 3. perchè risguarda il soggetto medesimo in un rispetto differente, 4. perchè, quantunque abbia io sè una parte filosofica, non è meramente filosofico. Si distingue dal Metodo critico e filologico, percbė storicameote e ioterpretativamente riconosciamo cause sovrunane, l' Intelletto sovrumano, tini soprannaturali. 6. Si distingue dal Metodo matematico, perchè risguarda la libertà divina e l'umana ne' fatti religiosi. Si distingue dal Mo todo fisico; e tal distinzione ha importanza eguale pe' Teologi, che non debbono considerare come il mondo è fatio, - 8.6 pe ' Fisici, che non debbono considerare come il moodó fu fatto. 9. Il Metodo teologico s'accorda poi col filosofico; perchè il Teologo non deve separare mai l'attinenza fra Teologia e Filo sofia che porge a quella le verità prelimioari, l'analogie razio nali e l'ordinamento; - 10. pè il Filosofo deve mai separare l'attinenza tra Filosofia e Teologia, che rende più autorevoli o efficaci le verità razionali.  II Metodo teologico s'ac corda col critico, perchè il Teologo ha bisogno di guardare alla Storia universale e alla Linguistica; — 12. il Filologo ba bi sogno diguardare alla Storia religiosa e ai monumenti sacri. S'accorda col matematico, per la severità del ragiona mento, per molti esempj, per molte dottrine fisicomatematiche, per l'evidenza del concetto d'infinità. S'accorda col fisi co, perchè il Teologo non deve mai tenere la scoperta di cose na - 15. pė il fisico deve spregiare la verificazione delle ipotesi, secondo le narrazioni sacre. 16. Sunto. Metodo della Filosofia. Argomento. Proprietà del Metodo filosofico. – 3. Raccoglimento nella coscienza. 4. Esame de' fatti interni, delle loro leggi e cause. turali; Delle relazioni con gli oggetti; 6. e però avvi una parte del Metodo, asceosiva da'fatti agli oggetti stessi, e una parte discensiya dagli oggetti a ' fatti. -7. Si distingue dal Metodo teologico, e dal critico o filologico: 8. dal matematico, per la natura de' concetti, la natura degli oggetti; – 10. dal fisico, per la natura de' fat ti, e per le relazioni loro con gli oggetti, 11. e quindi per la ricerca delle classi loro, e leggi e cause, e per i priocipi della ragione. - 12. Si accorda col Metodo teologico per l'esa 9. e per . - me della coscienza; 13. col critico o filologico, per lo stu. dio dell'umana natura pe' fatti umani esteriori e nelle lingue; 14. col malematico, per la speculazione di verità con ma teriali; – col fisico, per l'altigenze fra le cose intellettuali e le corporee. 16, Sunto. Metodo della Filosofia Civile. Argomento.Proprietà del Metodo nella Filosofia Civile. Questa si fondi sopr'i fatti, – 3. badando alla notizia loro precisa e al collegamento loro. 4. Studio delle cagioni; ma fuggendo di prendere l'analogie per identità. Esame delle cagioni esteriori ed interiori, non separabili, ma distinte. - 6. Le cagioni interiori hanno più importanza: 7. ma senza trascurare l' esteriori. Si ascende alle leggi o ragio ni. Leggi supreme della Scienza storica, della Politica, della Giurisprudenza, dell'Economia. - 9. Le dette leggi non tol gono la libertà, - 10. come la libertà non toglie alle conse guenze proprie la necessità; 11. tantochè in ciò risplende l'ordine della Provvidenza. – 12. Dopo l'esame induttivo delle cagioni e leggi può farsi la deduzione, o probabile o necessa ria, di ciò ch' è avvenuto e che può avvenire. 13. Questa Filosofia delle ragioni o leggi, che governano le nazioni, non può trascurare il procedimento storico; ma neppure si può, per questo, trascurare la teorica di quelle. - 14. Talchè la Scienza civile ha due presupposti, la Storia e la batura. –15. Però il Metodo suo si distingue da ogni altro, 16. e a tutti si upisce. Metodo critico nella Storia. 401 t. Argomento. – 2. Esame de' fatti, Discipline che aiutano in ciò la Storia: Cronologia e Geografia, – 4. Archeo logia, Diplomatica, Statistica, Archeologia preistorica, Etno grafia. 5. Come si può andare in eccessi con queste disci pline. Ipercritica. Esame delle cagioni; e iodi lo Storico rifà la Storia entro di sè. 8. Cause finali, 9. particolari, generali, 10. psicologiche, A1. divine. Oggettività della Storia; 15. e come ciò la renda bel lissima e ammaestrativa. – 14. Come lo storico si distingua da ogoi altro Metodo; 15, e vi si accordi. 16 Sunto, Metodo critico nella Linguistica. 1. Proprietà del Metodo interpretativo delle Lingue. 2. Raccolta ed esame de' vocaboli. – 5. Come bisogna valersi dell ' uso proprio nelle Lingue parlate, e come giovino i testi moni dell'uso. A chi ricorrere per lo Lingue morte. Grammatica poi determina le classi e le leggi de' vocaboli, 5. Avvisi necessarj a far bene la Grammatica. – 6. Io che con siste la Filologia comparata. – 7. Utilità di essa, e da quali estremi bisogna fuggire. 8. Il fine dell'esame filologico è interpretativo principalmente; – 9. e ciò ne determina i con fini, i modi, 10. e le relazioni; che sono massimamente due: con la Letteratura, 11. e con la Storia, - 42. E iodi anche vediamo le indirelle relazioni della Linguistica; cioè con 4. La ca, la Teologia. 13. con la Filosofia, 14. cop la Matemati 15. e altresi con la Fisica, sempre distinguendosi da tutto ciò. 16. Sunto. Metodo matematico... Pag. 440 1. Proprietà del Metodo matematico. – 2. Quantità pore, cioè astratte da ogni altra idea. – 5. Nel che, poi, bisogna di stinguere fra l'insegnamento elementare ed il superiore. 4. Si cerchino le ragioni, sgombre da ogo' idea straniera. 5. Idea dell'Infinito, distinto dall'indefinito matematico. - 6. Il Cavalieri. – 7. Distiozione dal Metodo teologico, - 8. e relazioni con esso; dal Metodo filosofico: e accordo con la Logica, onde l'insegnamento della Matematica è razionale, 12. Distinzione dal Metodo critico, segnatamente dal letterario, 13. e accordo. - 14. Relazione col Metodo fisico. 15. Come le dimostrazioni matematiche abbian virtù di assestare gl'intelletti, e anche possano dissestarli.. 16. Sunto. Metodo nelle Scienze fisiche. Argomento. Proprietà del Metodo nelle Scienze fisiche, - 2. Prinia d'indurre si comincia dall'Analogia; 3. cbe talora non può giungere all' Induzione, 4. Può essere fonte di errori; o del troppo generaleggiare, 5. o del poco. Essa è di molta difficoltà. 7. Regola da tenersi. – 8. Indu zione. Uffioj del senso e dell'iotelletto. 9. Ci solleviamo alle 10. alle cause, - alle leggi, 12. e però al. l'ordine. Doppio errore de' Sensisti e degl ' Idealisti. 14. Frantendono allri la luduzione, ch'è legittima e necessa ria, 15. e da cui siamo condotti alla Deduziune. Suato. Cap. L. Segue del Metodo fisico; e Ordine fra le Scienze.. 479 classi, 16. 1. Argomento. Abiti che prende la meote per gli Studi fisici. – 5. Idem. 4. Necessità di mantenere l'ordine fra le Scienze. - 5. Guai, se la Fisica è usurpativa. Confusione della Fisiologia con la Psicologia: – 6. de' fatti esteriori con fl'interiori. Confusione di linguaggio, e dogmatismo. 8. Si confondono i bruti con l'uomo; – 9. la volontà con gli atti meccanicamente determinati. – 10. Si distingue il genere umano in più specie, poi si pongono le trasformazioni di tutte le specie; -- 11. si confonde l'ordine de' fini col piacere • con la materiale utilità. - Abiti cbe prende l'intelletto per gli Studj religiosi; Filosofia; per le Matema. tiche; per la Gritica. Conclusione. STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA. Epoca dell'’era pagana. Civiltà degl’ialici. Successione dei loro sistemi.. Scuole italiche. Sistemi latini. CICERONE Giureconsulti romani. CIVILTÀ DEGL'ITALICI. SUCCESSIONE DE'LORO SISTEMI. Tre tempi dell'incivilimento italici; i l'elasghi, la trasformazione loro negli Elleni, le colonie. Il terzo è più nolo; quali sono i suoi termini. Cinque cagioni più principali dell'unione fra la civiltà orientale e l'italica: colonie, commerci, viaggi, lingue, tradizioni. Tre opinioni sopr’esse; tutto dall'oriente, nulla e opinione media. Dipendenza non generica nė volgare della filosofia italica; daʼsistemi orien tali. La civiltà jtalica fiorisce primamente dove più vive le comunicazioni con l’Asia e dove più ricco un anteriore incivilimento. l'ero quest'epoca si chiama oriental italica. Questa è un'età di passaggio, fra le qualità orientali e il tempo socratico. Si veda le attinenze lia filosofia italica religione e civiltà. Quanto alla religione sacerdotale, se n'ha indizi per le memorie de ' Pelasghi, de ' Misteri e degli Orfici. Celebre passo di Erodoto sulla religione de ' Pelasghi, e sul nome degli dèi posteriori ec., e conseguenze di ciò. Somigilianze tra la religione pelasgica e quella de' Bragmani. Misteri: quelli di Samotracia istituiti da 'Pelasghi; domma che s'insegnava segretamente e molto simile al panteismo dell'India. Ciò pur anche ne’ misteri eleusini; panteismo naturale, metempsicosi, immortalità, purificazione. - La teologia d’Eleusi non può interpretarsi solamente in senso fisico. Testi monianze di lode que' Misteri pel domma sull'immortalità. Le due anime; anch'in Omero ec. – Gli Orfici: qualcosa di storico v'è circa Orfeo, benché con mistura di simbolo.-- La dottrina che va sotto il nome d'Orfeo si raccoglie da tradizioni antiche e da'versi orlici. Le tradi zioni attribuiscono a Orfeo una religione collegata poi a'Misteri eleusini: cosmogonie orliche, somiglianti all'indiane. Quanto a'versi orlici, que sli non appartengono a Orfeo; ma parecchi son certamente molto antichi. Da varj ioni (che si riferiscono qui, apparisce il panteismo naturale come ne ' Vedi. Passi che fece la religione tra l'Italogreci: panteismo natu rale con molte tracce del Dio unico; adorazione degli astri, massime nel volgo; teogonie, o emanazioni sempre più specificate e che prendono attri boti e nomi distinti; individuazione ultima e volgare del politeismo, specie per opere degli artisti e de' poeti, abbandonando quasi ogni simbolo. Memorie sul combattimento fra le religiose tradizioni e il politeismo cre scente. - La filosofia, dunque, prima sacerdotale; poi sacerdotale e laicale ad un tempo; cedè inline al politeismo, rispettandolo, se non altro, come apparenza o credulità popolare. Questo resistere al male, e poi cedergli, si vede ancora per l'altre parti della civiltà italogreca. La filosofia venne preparata da molte cagioni, e però dovè fiorirvi assai presto, anzi chè cominciare a' tempi di Talete molto dubbiosi. - La filosolia mosse da un ritorno sulla coscienza morale Questa filosofia morale e religiosa fiori, prima di Taleto, non solo in Italia ma tra gli Ionj pur anco; e se n'ha prove non dubbie. La cuola pitagorica precedeva Talute; ma va di. slinto Pitagora dal Pitagoresimo. - Molti argomenti di fatto e molte auto rità per mettere in saldo le antiche origini di tal filosofia. Anche la scuola di Xenofane antecedė Xenofane stesso; e quindi abbiamo, prima il Pitagoresimo, poi la scuola cleatica e l'ionica, infine i sistemi negativi. L'epoca dell'incivilimento italogreco si può distin guere in tre tempi; de Pelasghi (o con qual altro nome si voglia chiamare que' popoli primitivi); della trasforma zione di essi negli Elleni; delle colonie. L'età de' pelasghi o degl’antichi abitatori d'Italia si perde nella notte de’ secoli, ignoto il principio e la durata. È certo bensì, che quegl’abitatori vennero d'Oriente, come se n'ha prova in tutte le memorie e ne’ linguaggi e nelle reliquie dell'arti, e che i pelasghi, quantunque paruti barbari a Ecateo e ad Erodoto e di barbaro dialetto, sono la più antica sorgente e più copiosa delle genti e lingue e religioni elleniche (Balbo, St. d'It.; Cantù, St. univ.; Guignaut, note al Lib. IV del Creuzer, Rel. de l'antiquité. Sembraron barbari, perchè reliquie di popoli più segregati allora da'popoli nuovi, già molti passati avanti. Fatto è che di là, ove i pelasghi abitarono, fan derivare i greci la civiltà loro, dall' Elicona, dall'Olimpo e dal Pindo. Accadde poi e IN ITALIA un cozzo di popoli. Qual cozzo, e di che popoli, è molto incerto agli eruditi. Ma questo si sa, ed Erodoto l'afferma più volte, che al lora con trasformazione lunga e tempestosa i pelasghi si convertirono in elleni. Viene poi l'età delle colonie; un rovesciarsi di genti greche le une sull'altre, un invadere, un esulare, e indi un propagarsi di colonie, prima nell'Asia minore e nell'isole, poi nella Calcide, nell'Eubea, in Sicilia e SULLE COSTE D’ITALIA, e infine (propag gini di colonie da colonie) in Asia, in Tracia, sul Danubio e nel Mar Nero. Questa terza età è propriamente storica. Dell'altre due il più va ingombro di favole. La terza comincia, secondo l'Hofler assai temperato nelle cronologie, sul secolo undecimo avanti l'èra nostra. (St. Univ.) In un'età così lunga e operosa, e ch’ebbe così lunghe e ricche preparazioni, si forma la civiltà e FILOSOFIA DEGL’ITALICI -- la quale, svolgendosi nelle colonie d’ITALIAe dell'Asia minore, cedè poi al primato d' Atene; onde comincia una seconda età di filosofia. Nell'epoca di che si parla ora, in ogni tempo del l'epoca stessa, cinque cagioni principalmente mantenevano unite la civiltà orientale e l'ITLICA; colonie, commerci, viaggi, lingue, tradizioni: Le colonie, nè dico solo l'egiziane di Lelege, Danao, Cecrope ed altri, ma le prime venute dalla terra degli arii e de' persiani, e l'ultime ellene che si spargevano per l'Asia minore; i commerci, che com’appare in Omero, non cessarono mai tra ITALIA e le coste dell'Asia. I viaggi per l'Oriente, non possibili a negare in tutto, de FILOSOFI d'allora, come Ritter non nega quelli di PITAGORA A CROTONE, Ritter negatore sì voglioso. Le lingue, che certo prendevano gl'inizj degli Orientali, e con le lingue le tradizioni d'ogni maniera. Tra queste, principali le religiose, in torno a cui son tre le opinioni: da Erodoto fino a Creuzer la mitologia ITALICA, la greca segnatamente, si reputarono di provenienza orientale e il più egiziana. Ma poi Müller, Voss e altri riferirono tutto ad origine greca. Guignaut (Note al Crcuzer) ed altri con lui tennero finalmente l'opinione media. E questa si è che i germi delle credenze religiose si trapiantassero d' Asia com'anco radici e forme generali delle lingue; ne può pensarsi altrimenti, dacchè ivi coabitarono un tempo le genti ellene: ciò non impedì, nè mai l'im pedisce uno svolgimento di proprie fattezze così nelle lingue come nelle religioni: all'età poi delle colonie, quand' elle si sparsero sull' Asia minore, per l'Egeo e nel Ponto Eusino, dalle comunicazioni fra loro e i vicini orientali scaturi la fonte più copiosa d'idee e di simboli asiani, manifesta già in Esiodo ed in Omero.  Talchè (ponete mente, o signori), se lo spargersi di colonie nell'Asia minore avvenne dall’undecimo all'ottavo secolo incirca, e nel con tinente poi d'ITALIA e di Sicilia dall'ottavo al sesto, que st'ultimo fatto s'incontra per appunto col ritornare delle tradizioni orientali fra gl’elleni, e ne sorge in mezzo la filosofia nuova degl'ITALICI. Non istarò dunque a disputare com’essa deriva più o meno da’sistemi orientali, bastandomi ch'ella dipende per fermo da molte tradizioni d'Oriente o per le origini delle schiatte o pel riaccostarsi loro all'Asia. Che tal dipendenza poi de' popoli d'ITALIA, nazione antichissimamente civili e nella civiltà loro pertinaci, possa credersi affatto generica e volgare, cioè senz'efficacia sull'educazione speculativa, giudicatene voi, o signori, che pur vedete gli effetti odierni del comunicare le nazioni fra loro. Dove fu egli il primo fiorire della civiltà ITALICA? nelle colonie d'Asia e di Magna Grecia. Non già in Grecia propriamente detta. Perchè mai, o signori? La ri sposta non par malagevole. Prima che in Grecia, fiori la civiltà negl'Ionj dell'Asia minore, appunto perchè più vicini all'Asia media, sorgente de' popoli e della civiltà; e prima pure che in Grecia fiorì nella Magna Grecia, cioè in ITALIA, perchè ivi più forse ch'altrove ra dicò la civiltà pelasga, e perchè le tradizioni che fanno ionio Pitagora e ionio Xenofane, venuti tra noi, dan segno come frequenti e vive fossero le comunicazioni tra LE COSTE ITALIANE e l’Asia minore. Dico poi, ad ogni modo, che le colonie greche trovarono in ITALIA grandi semenze di civiltà, nè però ebbero impedimento, anzi ebbero aiuto a presto incivilirsi e prosperare. Di fatto recatevi a mente, o signori, due cose molto important. Prima, che le tavole d'Eraclea, lette dl Mazzocchi, fan prova come i coloni greci prendessero dagl'ITALIOTI misure e confinazioni agrarie. Seconda, che i Lucani, i Bruzj, i Sanniti, dopo essersi ritirati davanti alle colonie greche, e riparatisi a’ monti, ne discesero poi, e le ributtarono (Hofler), talchè più non resta in ITALIA dialetti greci (in PUGLIA ve n'ha, ma di colonie recenti e fuggite dai Turchi); la qual cosa non poteva accadere, se que'popoli montanari non serbavano istituti civili. Ecco il perchè ho chiamato quest'epoca orientalita logreca (italogreca ITALIOTA per più brevità); greca, perchè filosofia di colonie greche; ITALIANA perchè sorse più splendida in ITALIA e con tradizioni italiane (italica chia marono pure i Greci, come Platone ed Aristotile, la scuola pitagorica e di VELIA); orientale, perchè con origini e comunicazioni asiatiche. Non si toglie a' Greci la loro eccellenza ' se notiamo quel ch ' essi appresero; offenderebbe la verità e loro chi loro negasse la mira bile potenza di far proprio l'imparato e di dargli bellezza e compimento; essi il ricevuto per dieci lo ridussero a mille e quel mille lo insegnarono al mondo; ecco la lor gloria vera e non superata. Quant' all'ITALIA nostra, o signori, principalmente sul terreno di lei sorse co' Pitagorici questa filosofia nuova che tanto potè su Platone e sopr’Aristotile. L’ITALIA ricevè dal 1 ° Oriente e da’Greci, l’ITALIA poi restituì alla Grecia e alla civiltà de' secoli avvenire; e potè dirsi allora quel che poi disse PLINIO. Omnium terrarum alumna et parens, omnium terrarum electa, una cunctarum gentium in toto orbe patria. Ma le lodi antiche suonano vituperio a’tra lignati: avvaloriamoci, o signori, d'emulazione e di virtù, e non di lode. E quest'epoca, di fatto (come dissi altrove), è un'età di passaggio; ritiene ancora le qualità orientali, ma che mostrano già di convertirsi nell'altre dell'età socratica. Così tra gl’ITALIOTI come tra gli Asiatici, abbiamo un sistema religioso sacerdotale; ma ora si nasconde ne' misteri, e si separa perciò interamente dalle credenze popolari che prevalgono. Tra gli uni e tra gli altri la filosofia dipende dal sistema religioso. Ma ora si svolge in un modo più laicale e più da sè stesso, perchè così ri chiede la mobilità di quelle repubbliche, e perchè il sistema religioso si rimpiatta, e nè ha sull'invecchiare il vigore speculativo degl'inni e commentarj vedici; par come un'eco de' tempi passati, più che voce vivente. E siccome la filosofia di quest'epoca pigliò i germi da' misteri (Ritter), che hanno del panteismo orientale, così ell'hanno del panteistico a mo' degl'Indiani, ma con tendenze più manifeste alla DIALETTICA che va per distinzioni anzichè per confusioni. Poi, qui come là s' unì la poesia con la speculazione, ma più altresi se ne distinse; perchè i poemi omerici non furon mai ravviluppati con una enciclopedia d'episodj. Ed i poemi scientifici di VELIA (il Sulla Natura di Parmenide) e di GIRGENTI (il Della natura di Empedocle) s'accostano alla prosa. E qui come là v'è ncertezze storiche, meno per altro. Giacchè il più delle incertezze cadono su' misteri e sulle origini pitagoriche, non già sulle scuole posteriori. Premesso ciò, si veda, o signori, qual fosse in attinenza con la filosofia la religione e la civiltà degl'ITALIOTI. Della religione, come sistema sacerdotale, me ne passerò più breve che non feci per l'India, giacchè (com ' ho detto) quel sistema era sul morire, e se n'ha meno ragguagli e meno certezza. La religione sacerdotale ITALIOTA si può ricercare in tre modi: per le notizie assai oscure dei Pelasghi, i quali tennero idee religiose più primitive e più vicine alle orientali; per le notizie scarsissime de' Misteri; per quelle degli Orfici. Essi e l'origine de' Misteri appartengono, credo, all'età di combattimento e di trasforma zione. Quanto a’ Pelasghi, Erodoto scrive che da loro non si metteva nome agli dèi; aggiunge che i nomi vennero d'Egitto e che i pelasghi non li volevano accettare, sì ne rimisero la decisione all'oracolo di Dodona, riuscito favorevole a que' nomi; e dice infine che le nascite e le forme e gli aspetti degli dèi vennero cantati da Esiodo e da Omero; tutte cose già ignote. Vuol notarsi com’Erodoto accenni pure che un simbolo osceno gli Ateniesi lo presero da’ Pelasghi, i quali ne spiegavano il senso ne' Misteri; e sappiamo di fatto che pure ne' Misteri eleusini e bacchici si mostrava i simboli femminili e maschili secondo i riti d'Oriente. Erodoto, uomo schietto, n'avvisa che il narrato da lui circ' a ' Pelasghi glie l'avevano appreso le sacerdotesse di Dodona, ma che il resto, circa le invenzioni d'Omero e d' Esiodo, lo diceva di suo. Che cosa si raccoglie, o signori, da questo luogo così famoso? Primo, che la religione de' Pelasghi era più delle succedute lontana dal politeismo; secondo, che quella si rappresentava co'sim boli orientali della generazione divina e però ne teneva i principali concetti; terzo, che il passaggio dalle divi nità innominate alle nominate, cioè da un che meno pagano ad un più, non accadde senza contrasto, e indi si ricorse agli oracoli; quarto, che tenuto il simbolo antico ed esteriore, la sua spiegazione si fece nell'in terno de' Misteri; quinto, che i nomi si suppongono venuti d'Egitto in età più recente, perchè all' Asia media non s'imputavano queste tradizioni; infine che Erodoto reca l'antropomorfismo ad invenzione di poeti, non perchè già tal errore non fosse cominciato popolar mente, ma perchè que' poeti l'ordinarono (più o men di proposito) in sistemi di mitologia, ed in modi specificati. Che poi la religione pelasgica somigliasse quella de Brag mani lo attestano Ferecide e Acusilao in Strabone (Ed. Sturz ); dicendo che i Cabiri, divinità pelasgiche, son generati da Efesto e Cabira, e che sono tre Cabiri maschi e tre femmine. (Creuzer ) Venendo a’ Misteri, abbiamo da Erodoto, non solo che i Misteri di Samotracia venissero istituiti da' Pela sghi (II, 5), ma (com’abbiamo sentito ) che altresì nel l'interno di quelli si spiegasse i simboli esterni. Come si spiegavano essi? Apollonio di Rodi serbò del vecchio storico Mnasea un luogo prezioso circa i dommi primi tivi di Samotracia. (Schol. Apoll. Rhod. ad 1, 917.) Che dommi, o signori? Similissimi a quelli dell'India. S'in segnava, di fatto, un principio onnipotente, Azieros; la materia fecondata, Aziokersa, o principio passivo; e il principio attivo, fecondatore, Asiokersos. Vuol egli dir ciò che il principio attivo ed il passivo si distinguono dall'essenza universale, Azieros o Brahm? 0 piuttosto (giacchè l' interpretazione di que' nomi non è certa ), Aziokersa, Azieros, Aziokersos e Casmilo o Cammillo che da taluno s'aggiungeva secondo Apollonio, rispon dono a Maya, a Brahma, Visnù e Siva, taciuta l'essenza universale, il Dio neutro, come non si nomina il Dio supremo nel Rig Veda? tanto più che Casmilo rispon derebbe, l'afferma Dionosidoro, ad Ermete cioè al Dio delle trasformazioni. Comunque, nell'incertezza de' docu menti tal cosa è certa, il domma samotracio mostrare analogie non poche col panteismo vedico e con la Trimurti. (Saint Croix, sur le Mystères du Paganisme; Creuzer, V, 2. ) E risponde non meno a quel panteismo la dottrina samotracia dell'età varie mondane, o che il mondo si distrugga e rinnovi per forza di fuoco. Anche ne' Misteri eleusini s'esponeva la dottrina d’un principio passivo, d'uno attivo, dell'armonia mon diale che ne nasce, e di ciò che distrugge le forme senza intermissione. Bacco, Cerere, lacco e Mercurio, ossia grecamente Dionisio, Demeter, Iacco ed Ermete, non ritraggono forse, o signori, i sistemi dell'India, del l'Egitto e della Persia? E forse su quelle divinità è, innominato, il Dio androgeno, o il Cronos e lo Zeus de' tempi remoti, divenuto poi un principio maschile, contrapposto a Giunone principio femminile. Di que' Mi steri non si sa i particolari, vietato rigorosamente il propalarli, come dice Pausania (art. Beozia) e Apollodoro (Argon. I), e come dimostra il Meursio (De Festis Græcorum). Pure, da'cenni dell'antichità si ritrae che insegnavasi nell' orgie il panteismo naturale (com’ho detto di sopra), e la metempsicosi, e l'immortalità del l'anima (forse col ritorno all'essenza divina), e la puri ficazione per mezzo della virtù. Il panteismo naturale viene indicato da CICERONE (De Nat. Deor.), che diceva: come le dottrine de'Misteri eleusini, ridotte a termini di ragione, si conosce meglio per esse la natura delle cose che quella degli dèi. Che vuol egli dire? CICERONE accusa di dottrina neramente fisica gli Eleusini, che la teogonia confondevano, in realtà con la cosmogonia, e ciò accade nel panteismo naturale. Prova, dunque, tale accusa, e viene confermato da molt' indizj, che la religione d' Eleusi somiglia il panteismo de' Vedi; di fatto, che si trattasse d'una fisica soltanto, o senza vedervi dentro la divinità o un che superiore alla natura esterna ce lo vieta lo stesso CICERONE. Egli scrive nel II “De Legibus”, che i Misteri eleusini s ' hanno da riguardare come il massimo beneficio d'Atene, perch'insegnano a viver lieti e a morire tranquilli nella speranza di vita migliore; cosa ripetuta da lui nelle Verrine, V. Dice Platone (Fedone) che l'iniziarsi a' Misteri purifica i cattivi, e dà a'buoni felicità eterna, cioè un'abitazione comune con gli dèi dopo la morte. Isocrate afferma (Panegirico) che i Mi steri mettono in cuore agl'iniziati le più dolci speranze quant'alla fine di questa vita e quant'all'altra che non finirà mai. Che poi gl'iniziati s'ammaestrassero alla virtù si ha da molti argomenti; e il Meursio dimostra che quelli si preparavano a’ Misteri con gli esercizi di castità, e poi si credevano astretti, quasi da sacramento, a rendersi migliori. Così Aristofane (Rane) mette in bocca a un coro d'iniziati queste parole: « Il sole e una luce aggradevole sono per noi che onoriamo i Misteri e osserviamo le regole della pietà verso i forestieri e verso i cittadini. » Però que' Misteri si chiamavan teleti (7: ) ett ), giacchè da loro veniva la perfezione della vita. Va notato che la me tempsicosi s' univa col domma dell'immortalità in que sto modo: credevano gli antichi che il principio animale, principio di vita e di senso, distinguasi sostanzialmente dal principio intellettivo; e che l'uno, cioè l'animale, passi di corpo in corpo, ma l'altro se ne sciolga dopo alquanti giri di secoli e in premio del vivere onesto, ritornando all'essenza universale o divina. Però si di stingueva in Persia il fervéro o genio dall' animazione, e in China Hoen da Pe, e tra gl’Indiani atma e pran, e in Grecia il démone (dzepov) o anche logo da psiche, e tra’ ROMANI “animus” da “anima”. Quindi l'anima sensitiva s'immaginò non altrimenti che come materia sottilissima, e che, divisa dal corpo, ne teneva le apparenze, erane lo spettro od il fantasma, vagante nelle notti e intorno a' sepolcri. Tal distinzione si vede pertino in Omero, allorchè Ulisse approdando a'Cimmerj inter roga i morti (Odiss.): « D'Ercole mi s'offerse alfin la possa, Anzi il fantasma; però ch'ei de' numi Giocondasi alla mensa, e cara sposa Gli siede accanto la dal piè leggiadro Ebe, di Giove figlia e di Giunone. » La terza fonte di notizie, cioè le memorie orfiche, non vanno soggette, o signori, a tanta perplessità, e può trarsene qualche costrutto; purchè evitiamo così la co moda credulità come l'eccesso de critici. S'è giunti a du bitare d'ogni realtà storica ed antica rispetto ad Orfeo; ma, quantunque la parte storica si frammischi a' por tenti della favola, e un nome (al solito) rappresenti le dottrine e i canti di più, nondimeno qualcosa di reale e d'antico vi ha; perchè Ibico (in Prisc.) che fiorì presso al 550 prima di Gesù Cristo, già ram menta Orfeo; lo rammenta Pindaro (Pith.), anzi lo chiama padre de canti apdov Tr UTEP (Ott. Mül ler, St. della Lett. Gr. ); lo rammentano ancora gli an tichi Ellenico e Ferecide e le tragedie ateniesi. Da molti luoghi di Platone (Leg. VIII; Ione, Convito, Rep. 11) apparisce che a tempo di lui eran divulgati già molti carmi col nome di Museo e d’Orfeo; questi è citato nel Filebo e nel Cratilo; e si scorge che l ' espiazioni de’de litti appartenevano alle discipline orfiche. La dottrina che va sott' il nome d’Orfeo si racco glie da tradizioni antiche e da versi orfici. Quanto alle tradizioni antiche, elle attribuiscono tutte ad Orfeo una religione, che istituita da lui si collegò quindi a Misteri d'Eleusi (Müller): e ciò conferma il già detto sulla natura di quel sistema religioso. Si rileva poi dagli antichi scrittori un sistema orfico di cosmo gonia, benchè sotto più forme, e talora v'han messo la mano autori dell' èra cristiana. Creuzer ne dà cinque di tali cosmogonie; rilevantissima quella di Ferecide Siro, pel quale son tre i principj Zeus o Giove o Cronos o l'etere, il Caos o massa inerte ch'egli vivifica, il Tempo o la durata senza limiti. E qui voi scorgete, o signori, l'indefinito ch'è concepito nell'astra zione del tempo (come tra’ Persiani ), e dall'indefinito i due principj, l'attivo ed il passivo. Nella cosmogonia che viene riferita da Atanagora e da Damascio, v’ha l'idea indiana dell' uovo nell'acque, da cui esce Eros o Fa nete, amore o manifestazione dell'armonia universale; e tal idea orfica viene rammentata negli Uccelli d'Aristofane. Il mondo, poi, si rinnova per bruciamento (co me secondo Eraclito, gli stoici, gl'Indiani e l'orgie eleu sine), in virtù di Dionisio corrispondente a Siva. (Creuzer) Mi pare che il Maury ottimamente riduca le teogonie o cosmonie orfiche a questo: Cronos genera i due principj, l'etere e il caos; il caos in virtù dell' etere prende la forma d'uovo, avviluppato dal l'erebo o dalla notte, cioè dalle tenebre primitive, a cui segue la luce o l'amore, quando l'uovo si spacca, ossia quando il germe involuto si svolge nelle sue parti: queste le idee più principali che risultano dal paragone de' più antichi testimoni. Ma i versi che ci restano sott'il nome d’Orfeo, son essi autentici? Aristotile e Cicerone negarono già che i versi propalati fin d'allora come d'Orfeo gli apparte nessero; e più n'è dubbio a' dì nostri, perchè nei primi secoli dell' èra volgare molti documenti si rimaneggia rono, e molti se ne invento. Ma dice Mullachio (Fragm. Phil. Græc., ed. Didot. Parisiis): Plerique ver sus puroque et simplici sermone insignes sunt; talchè, considerata la purità e il fare antico di molti versi, e il riscontro di varie testimonianze. ond' essi ci sono tramandati, e l'accordo loro con le tradizioni vetuste, possiamo affermare che quelli senz'essere forse d’un poeta che si chiamava Orfeo, sien per altro reliquie vere degli Orfici antichi. Udite l'inno insigne alla Natura, tradotto dal Cantù nella Storia universale e riferito negli Schiarimenti (Tauchnitz): « Natura, diva madre universale, in tante guise madre, celeste, venerabile, molto creante spirito (o cuor ), regina che tutto domi indomata, tutto governi, in tutte parti splendi, onnipossente, ve nerata in eterno, divinità a tutte superiore, indistrutti bile, primonata, antichissima,... comune a tutti, sola, incomunicabile, padre a te stessa senza padre, che per maschia forza tutto sai, tutto dài, nodrice e regina di tutto; feconda operatrice di quanto cresce, di quanto è maturo dissolvitrice, delle cose tutte vero padre e madre e nodrice e sostegno. Le quali ultime parole già udimmo per Aditi nell'inno del Rig Veda. Or bene, che dottrina s’asconde, o signori, ne' versi orfici? La stessa che ne' Vedi: la natura universale è padre e madre, ossia, principio attivo e passivo; ell’è divina, perchè non è la materia, sì l'essenza universale, spirito divino primo e materia prima in unità; è senza padre, cioè senza principio; è primonata, cioè generata da sè stessa con uscire all'atto dall'indefinita potenza; indi, ella è padre di sè stessa; infine, si palesa con tre divine opera zioni, genera tutto, sostiene tutto, distrugge tutto. In Clemente Alessandrino (Stro. V), in san Giustino (Co hort. ad Græc.), in Eusebio, nell'egloghe di Stobeo, in Proclo, in Porfirio e in altri si ha varj altri frammenti più o meno antichi, ma che rendono lo stesso sistema. Un inno ch'Eusebio prese da Aristobulo peripatetico. insegna qual sia l'unico genitore del mondo, comie lo chiamano i prischi documenti degli uomini,contro l'er rore antico, cioè contro il politeismo; e che Dio tiene in sè il principio, il mezzo e il fine. (Pr. Ev.) Riferirò un altro inno ch’Eusebio tolse da Porfirio (Ivi, e Stobeo, Eclog. Phis. 1, 2, 23, e Bibliot. del Didot, Framm. ec. p.6 ): « Primo e ultimo è Giove che splende col fulmine. Egli capo e mezzo, e a lui son create tutte le cose. Giove è nato maschio, Giove nato intatta ver gine. Egli sostiene la terra e l'aria stellata de 'cieli; ed è insieme re e padre d'ogni cosa e autore della loro origine. Unica forza e unico demone che governa tutte le cose, quest' unico le chiude tutte nel suo corpo regale, il fuoco, l'onda, la terra, l'etere, e la notte e il giorno, e il consiglio, e il primo genitore e nume del l'amore: contiene tutto ciò Giove nell'immenso corpo. E il capo esimio di lui e il volto maestoso irradia il cielo, intorno a cui sparge con molto lume la chioma pendente e aurea d'astri; e gli sta sull'alta fronte, a somiglianza di toro, un doppio corno che l'accende di fulgido oro. Ivi sono l'oriente e l'occidente, giri noti a' supremi dèi. Son occhi di lui il sole e la luna che corre di contro al sole. In lui è mente verace, ed etere regale non sottoposto a morte, il quale col consiglio muove e regge ogni cosa; e quella mente, perchè prole di Giove, non può essere nascosta da niuna voce o stre pito o suono o fama. Così, egli beato possiede e senso dell'animo e vita immortale, spandendo il corpo illu stre, immenso, immutabile e con valida forza di brac cio. A lui son omeri e petto e terga immani le ampiezze dell'aria; e con veloci e native penue precipitando, egli vola intorno a tutte le cose. La terra, madre comune, ei monti che levano l' alte cime, formano il sacro ven tre di lui ne fanno la zona media i tumidi flutti del mare sonante. L'ultima base che sostiene il nume, sta nell' intime radici della terra e negli ampj spazi del l'erebo e negli ultimi confini che inaccessa ed immota spande la terra. Tutte le cose egli nasconde primamente nel mezzo del petto, e poi le manda fuori nell'alma luce con opera divina. » Tra le figure poetiche non si può non vedere in quest'inni l'opera della riflessione che affaticasi di scoprire e spiegare l'attinenza fra Dio e l'universo, confondendola, per abuso d'induzione, con l'attinenza tra l'unità delle sostanze e la moltiplicità c mutabilità de'fenomeni. Non fa dunque meraviglia se Pitagorici, Eleati ed Ionj che presero gli esordj dalle dottrine orfiche e de' Misteri e però dall'antiche tradi zioni pelasghe, cadessero nel panteismo. Ecco dunque i passi che sembrano fatti dalla reli gione fra gl’ITALIOTE. Prima è un tal panteismo natu rale, in cui le divinità sono le forze della naturu; non le forze per altro simboleggiate, come interpretò poi la scuola de' Fisici (Plutarco la distinse sì bene dall'an tica scuola de' Teologi), bensì le forze naturali confuse con gli attributi divini. In quel panteismo, come nel Rig Veda, gli dèi son poco determinati: differiscono poco gli uni dagli altri; escono tutti e rientrano nel Dio unico (Creuzer, V, 4). Talche certi Padri pensarono ch'ei fosse un culto dell' unico Dio creatore, e tal culto contrapposero alla corruzione posteriore dell'idolatria; Storia della F lofint. 17 2 ill 1 ma, veramente, non può chiamarsi un teismo, bensì un panteismo naturale, dove nondimeno le tracce del l'unità di Dio si conservano così spiccate da causare l'opinione ch'io vi diceva. Però le divinità pelasghe non avevano un nome, dice Erodoto; e a dar loro un nome s ' opponevano le sacerdotali tradizioni (Ispot 20091). E come narra Platone nel Cratilo che prima si chiamò in genere 0: 9 le divinità, così cabiri le dissero i Pelasghi, ossia (forse) potenti; e ciò risponde agli dei complices o consentes degli Etruschi. Poi, questo panteismo naturale si ristrinse più par ticolarmente (e specie nel culto popolare) all'adorazione degli astri, dove più che in altro ci apparisce la po tenza di Dio: e che sia così l'attestano Platone (Fileb. e Crat. ) ed Aristotile (Met.). Allora Zeus o Giove fu proprio il cielo; e si mantenne questo nel detto volgare: Giove che fa? per dire: che tempo fa? Ma il panteismo naturale de' sacerdoti più e più si foggiò a sistema d'emanazioni, per ispiegare con modo determinato la dipendenza di tutto dalla causa prima; e indi le teogonie e cosmogonie orfiche e quella d’Esio do. Le operazioni divine, allora, ebbero nome partico lare, e vennero simboleggiate con immagini esterne; come narrai che la triade pelasga prese il nome dall'onnipo tenza e dalla fecondazione; e si sa del Giove con tre occhi in Argo (Pausania ), della Venere piramidale di Pafo, e co' due sessi (statuina nella bibliot. naz. di Pa rigi), dell' Apollo a quattro mani, del Sileno a due te ste, di una dea a quattro teste nel Ceramico d' Atene, del Giano bifronte, della Diana mammellata d'Efeso e della Cibele come informe pietra. Tutti questi nomi e simboli, a poco a poco divennero nomi e attributi pro pri di certe divinità specificate; e la Trimurti, le cui vestigia restano fin anche negli dèi omerici, Giove, Net tuno e Plutone, s'individuò per modo che l'un Dio non più si confuse con gli altri, e questi si moltiplicarono all'infinito. Però, questa individuazione favoriva il politeismo a volgare e si mescolava con esso, e n'era eccitata e lo eccitava; e ambedue si stabilirono più che mai con l'arti del disegno, che lasciati quasi del tutto i simboli, ri dusse gli dèi a forme umane, con alcune qualità pro prie di ciascuno. Un'ombra di simbolo restò, ma velata, nelle forme tra maschili e femminili di Bacco e d'altri dei, figura sacra dell'androgenia, quando s'abbandono la rozzezza dello scarabeo (Winkelman, St. dell'arte ec. ); e tal simbolo (sia detto di passaggio ) alcuni artisti vo gliono imitare quasi perfezione di membra umane e le sono immaginarie! Fatto sta che la scuola d'Egina, Polignoto, Fidia, Prassitele, imitando i poeti ebbero più ch'altro efficacia nel fermare quel politeismo di dèi spicciolati. Vuolsi por mente adunque, o signori, che da un lato restava la tradizione sacerdotale, benchè più e più cor rotta, e cresceva dall'altro il politeismo. Come restava la tradizione? Ne' Misteri; già lo vedemmo. E perchè mai dovè occultarsi? Dicono le memorie antiche, i primi re di Grecia e d'Italia fossero ad un tempo sa cerdoti, capitani e giudici; patriarcato ch'è origine d'ogni nazione. (Arist. Pol. III, 14. ) Le memorie stesse ci nar l'ano poi d'un contrasto lungo e sanguinoso tra le classi sacerdotali e le guerriere; il che apparisce anco nell'In die; ma se ivi le liti si composero stabilmente, fra gl'Ita logreci al contrario scapitò la classe sacerdotale che (l'accennano i racconti circa Erettéo e gli Eumolpidi) si dovè segregare in alcuni luoghi, come Eleusi, lasciando a' re tutto il resto; e così, a poco a poco, e tanto più quando sorsero i governi popolari, s'abbandonò l'inse gnamento religioso e restò solamente i riti esteriori del sacrifizio e delle feste. Quell'insegnamento, dunque, escluso da ' popoli, rifuggivasi nel mistero, in que'luoghi appunto che la classe sacerdotale abitò, com’Eleusi e i sacri querceti di Dorona. E che fa intanto la filosofia? Ella è sacerdotale dap prima, o teologia, perchè tenute le tradizioni asiatiche, cresce nel sacerdozio pelasgo ed orfico; poi, nell' età che  > il sacerdozio si separa e s’asconde, dalle semenze reli giose de' Misteri germogliano i primi sistemi come i pi tagorici, che han del sacerdotale e del laicale ad un tempo. Questa filosofia, perciò, combattè dapprima il politeismo, per esempio ne' frammenti di Xenofane che derideva il fingere dèi a somiglianza nostra. Poi, dac chè il concetto di Dio sempre più s' annebbiò, i poste riori consentirono a' tempi, e gl' Ionj, gli Eleati, e molto più i sofisti, menaron buona, se non altro come appa renza o come credulità popolare la mitologia. Nè altrimenti andò negli ordini tutti della civiltà. Di fatto; quando i governi regi si mutarono in popola reschi, molta efficacia e salutare v'ebbe la filosofia mercè i Pitagorici, e segnatamente Zeleuco e Caronda, i cui frammenti di leggi muovono dal dimostrare che Dio è; ma in progresso la filosofia non potè resistere alla li cenza, fu perseguitata, e però cadde in mano di sofisti che inventarono l'arte della parola per la parola, malvagi adulatori di plebe e mercanti di cavillo. Abbondando le ricchezze, nate da operosità, fiorirono scienza ed arte; ma successe un abito d'ozio e di godimenti, e la Magna Grecia in ITALIA e l'Ionia caddero in mollezze di trista fama. Resisterono i primi sapienti, come dimostra l'istituto pitagorico; ma cedè a poco a poco la loro austerezza, e già Xenofane canta « ch'è dolce nel verno stare al fuoco bevendo, e domándare all'ospite: quant'anni avevi tu quand' il Medo invase? » il Medo, o signori, invasore della patria ! lei sofisti, all'ultimo, la filosofia diventò l'arte di godere. Nell'ordine morale s'arrivò a tal segno ch'Ateneo rimprovera Platone, perch'e' disse nel Sofista come Parmenide di VELIA ama Zenone di VELIA; quasichè tal parola, detta di giovane, non ricevesse mai buon senso. E la filosofia, resistente dapprima co' Pitagorici, giunse co ' sofisti all'indifferenza tra bene e male; indifferenza molto diversa e peggiore dell'indiana; chè questa è non curanza del moltiplice e vario ch'apparisce, in grazia dell'unità sostanziale, ma quella è non curanza senz'al tro; ivi è un'ombra di moralità, qui nessuna. Mostrate così l ' attinenze tra filosofia, religione e ci viltà degl'Italogreci, resta che vediamo il principio e la successione de' loro sistemi. Cominciamo da dire che in tutta questa età e per confessione di tutti, v'ha incer tezza sul tempo preciso de' varj filosofi; e bisogna ri correre il più a Diogene Laerzio, autorità poco accettata. Le congetture dunque son lecite; e tutti ne fanno. Avvertirò inoltre che sul definire l'età de' tempi remoti variano le tendenze degli Orientali e de' Greci; que sti tirano al meno e quelli al più. Per che ragione? I Greci amando la certezza de' fatti, li trasportano quanto più si può nel tempo storico, e lontani dal favoloso; al contrario degli Orientali, che amano l'indefinito de se coli; effetto del panteismo. Premesso ciò, rammentate, o signori, che prima dell'undecimo secolo avanti Cristo Pelasghi ed Elleni si mescolarono insieme; e allora co minciò l'età delle colonie; e da esse la più nota civiltà ITALIOTA. Quali preparazioni vi riscontriamo noi per la filosofia? La civiltà pelasga, le dottrine orfiche, i Mi steri; inoltre le comunicazioni più che mai frequenti per l'Asia minore (dove prosperavano tante colonie) coll' Asia media. E che tempi erano quelli per l'Asia media? Rammentiamocene, o signori; erano i tempi di splendida civiltà, quando circa il mille avanti Cristo si compilavano i Vedi ed i poemi, e fiorivano le scuole di filosofia. Chi potrà dunque negare, che date tali prepa razioni e la civiltà delle colonie, e dato quell'impeto di vita civile ond' il pensiero s'agita tutto, e poste le sedi nuove in paesi non selvaggi come l' America, ma già inciviliti, sorgessero presto le speculazioni filosofi che? Non farebb' egli un'ipotesi strana chi le credesse indugiate a tre o quattro secoli dopo, fino a Talete, anzichè colui che le dicesse più meno già in via circa il mille od al novecento prima dell' èra volgare? A ogni modo, tempi precisi non se n'ha; e poichè la critica devé supplire, parmi più ragionevole vi supplisca così, che stando ad indizi già riconosciuti per poco probabili. La filosofia mosse anc' allora da un ritorno sulla coscienza morale; ce ne assicura la moltitudine di sen tenze attribuite dagli antichi a ' Sette sapienti; a uno de' quali, cioè a Chilone, si reca il detto: conosci te stesso. Abbiamo poi alcuni tra ' poeti gnomici, come le recide, della cui antichità non si dubita punto; e chi, Foclide per esempio, lo fa contemporaneo, chi anteriore a Pitagora. Le sentenze di Mimnermo, Evano, Metrodo ro, Teognide e va' discorrendo, mostrano chiaramente la riflessione sulle verità morali, benchè nascosta in afori smi. Così queste di Foclide: « Non dire mendacio, ma parla sempre con verità. Primieramente venera Dio e quindi i tuoi genitori. Non disprezzare i poveri, nè voler giudicare alcuno ingiustamente, perchè se tu giudiche rai male, Dio poi ti giudicherà. Fu da Dio a’mortali dato in uso lo spirito ch'è immagine di lui. Il corpo abbiamo dalla terra e si scioglie in essa e siam polve re, ma lo spirito va in cielo. » Or bene, io dico, e mi sembra di poter essere sicuro, che codesta filosofia morale e religiosa sorse e fiori prima del panteismo materiale di Talete e d’Anassi mandro; perchè n'ho prove storiche (come dirò), e per chè dalle tradizioni sacre orientali e orfiche non si poté saltare in un subito alla materialità. Dove fiorì? Non in Italia soltanto co ' più antichi savj della scuola ita lica, ma nell' Asia minore altresì, fra gl ' Ionj, dovunque insomma germinò la civiltà ellena. Di fatto, che che vo glia credersi delle tradizioni circa Pitagora e del suo venire dall' Ionia, esse, unite alla certezza che Xeno fane pure ne derivasse, mostrano almeno che l'antichi tà non reputò straniere agl' Ionj 1 ' idee pitagoriche ed cleate. Aggiungete che Talete ha molti più segni di spiritualità che non i posteriori; e tal peggioramento non si può negare. Perchè dunque, dimanderete, vien solo ricordata la scuola italica? La risposta è facile e il caso è comune; si ricorda i luoghi dove la scuola più crebbe e durò. y Ma la scuola pitagorica o ITALIOTA, dimanderassi an cora, ell’è anteriore a Talete, cioè al panteismo materiale degl' Ionj? Mi sembra certo, purchè si distingua Pitagora dal Pitagoresimo; questo è la totalità di dot trine comuni a tutta una scuola di filosofi; quegli è un tal nome, parte storico, parte simbolico, che può essere prima o dopo, senzachè provi l'anteriorità o posteriorità della scuola nel suo nome rappresentata. E nondimeno anche sull'età di Pitagora son diverse l' opinioni. Quanto a Pitagora, Meiners lo crede nato al 584 avanti l'èra nostra; lo crede nato Lacher al 608. Come si determina ciò? Per autorità non salde, e per vie di congetture. Talete poi, secondo Apollodoro, sa rebbe nato il 640, anteriore perciò a Pitagora; dáta non senza incertezze. (Ritter, St. della fil. ant.) Ma ecco il Niebuhr (St. Rom. I) che contrapponendo a Polibio ed a Cicerone l'autorità d'alcuni scrittori orientali, crede probabile la contemporaneità di Pitagora e di Numa; talchè andremmo più oltre che la data di Talete. Avanti alle dáte di Pitagora s'ha in ITALIA e Sicilia ZELEUCO E CARONDA, legislatori l'uno di LOCRI e l'altro di CATANIA; e ne' frammenti di quelle leggi v'ha il segno delº pitagoresimo. Il Krug fa CARONDA DI LOCRI del 668; il Benteley, l'Heyne, il Saint Croix, Centofanti, del 730. Quando Pitagora venne in Italia, in CROTONE, si dice che subito la scuola crescesse tanto di numero e di potenza, da bisognare feroci persecuzioni a spiantarli: il che umanamente non può accadere. La scuola dunque precedeva. Il personaggio di Pitagora, l'istitutore insomma del Pitagoresimo, diventa un simbolo in gran parte; il che dà segno d'antichità molta, e di tradizioni orientali. Nella scuola pitagorica è mescolanza di culto e di speculazione; e ciò indica il passaggio dall' età teologicha (MYTHOS) alla filosofica o LAICALE (LOGOS), che in modo distinto vengono più tardi. Secondo la comune leggenda, tra l'istituzione della scuola ITALIOTA, il suo prevalere anco negl' istituti civili, e la sua persecuzione, corsero pochi anni; il quale rovesciamento di favori popolari si dà presto a un uomo, tardi a un potente consorzio d'uomini. La storia di Pitagora, simbolico in gran parte, ha natura di leggenda; e sogliono le leggende avvicinare tempi lontani. Indi le confusioni dette di sopra.  Nella scuola pitagorica son chiare e molte le vestigia orfiche; talchè l'antichità di queste palesa l'antichità di quella che le raccoglie; com'elle poi diminuiscono in progresso, e appena si scorgono negl' lonj. I Pitagorici han forma di consorteria, e tra loro è comune e costante un corpo di dottrine. Ciò rammenta, o signori, gl’usi orientali che sempre più si perdono nelle repubblichette popolari; e rammenta l'antichità più remota, dove più vale l'unione e l'autorità. Aristotile dà la filosofia de' Pitagorici come una, e vi scopre solo differenze accidentali. Le tavole d' ERACLEA, lette dal Mazzocchi (come accennai già), mo strano un incivilimento anteriore, e quindi un'antica preparazione alla scienza. E delle prove d'antica civiltà nelle genti d'ITALIA recherò qui cosa che pare non fosse disputata fra' Greci, val a dire ch'essi, come dice Taziano (Or. contra Greci) prendessero da’ TOSCANI la plastica. Cousin dimostra con le autorità non ricusabili di Sozione, d' Apollodoro e di Sesto che Xenofane nasceva il 620 avanti l'èra volgare, un 60 anni circa prima di Pitagora stando agli anni di Meiners. Ora, se la dottrina di Xenofane tenne del Pitagoresimo, come mai sarebb'egli tanto più vecchio del suo maestro? Se bisogni stare alle memorie greche talquali, i capi della scuola pitagorica di CROTONE e di VELIA vennero d'Ionia; men frechè in lonia correva un tutt'altro pensare. Qui, prendendo la cosa talquale, v'ha due inverisimiglianze, prima che ne luoghi de' capiscuola non ci avesse quell'indirizzo di speculazioni, come sarebbe assurdo che d'Alemagna venissero in Italia fondatori d'eghelismo e là non n'apparisse il focolare. Seconda, che piuttosto que' filosofi cercasser favore in Italia, sé qui non preparato il terreno. Ma tutto si concilia, quando il silenzio delle mete, in tanta oscurità di tempi dissero all'incirca il più rinomato, tacquero il meno, senza negarlo bensi, chè non lo conobbero forse. Dissero la scuola ionica, tacendo la scuola religiosa comune là ed a' Magnogreci, O ITALIOTI, perchè più celebre qui; dissero i più famosi capi delle scuole ITALIOTE, tacendo le lontane e recondite preparazioni. E ch'elle ci fossero, mostra il celebre passo di Platone che fa dire a Zenone di VELIA. Queste opinioni sull'uno cominciarono da Xenofane, anzi da più antichi di lui. (Soffista.) Brandis e Ritter crederono s'alludesse ad avere quella dottrina germe innato negl' intelletti. Al che ripugna Cousin e con ragione. Prima, qui si parla storicamente e non teoreticamente. Poi, se volesse allu (lere a germi naturali e senz' origine, come mai, anzi, parlerebbe Platone di cominciamento anteriore? (te 2.2.1 i te tepisºsv č.pčarevov). De primi Pitagorici non v'è scritti; scrissero i più vicini al tempo di Socrate; e ciò per l'uso degl'insegnamenti orali, per la costanza delle tradizioni e pel segreto delle dottrine religiose. Or tutto ciò è segno d'antichità e risponde agli usi orientali. Nella scuola ionica poi sembra che fino il primo, cioè Talete, scrivesse versi, probabilmente prose (Diog. Laert. I, 34, Plut. de Pitiæ Orac. 18, Arist. Phys. ); il che mostra un fare più nuovo, e desiderio di stabilire la novità. L'uso di non iscrivere, uso lasciato si tardi da ' Pita gorici, spiega ben anco il perchè sembrò più recente « lella scuola ionia il pitagoresimo: più recenti erano le scritture, non la loro filosofia. Recherò infine (lue singolari testimonianze di Padri greci, d'Ermia verso la fine del secondo secolo, e d' Eusebio dottissi mo ne' libri originali della greca filosofia. Ermia, dun que, nell'opera Derisione de' filosofi gentili enumera le contrarie opinioni loro sull'anima, sul bene, sull'immortalità, sulla divinità e sui principj del mondo; e poichè ha.rammentato varj filosofi, viene a Pitagora e lo distingue dagli altri così: egli d'antica nazione. Qui, segnalare tra gli altri Pitagora per antichità, è notabile assai. Eusebio, poi, più espressamente nelle Preparazioni evangeliche dice: che Pitagora nacque a Samo O IN TOSCANA o altrove, ma non greco, e ch' egli fu principe de filosofi, talchè alla filosofia ITALICA di TOSCANA (ETRURIA) E CROTONA succedette la ionica e la di VELIA. Anzi anche Flavio rammenta tre filosofi prischi con quest' ordine qui, Ferecide Siro, Pitagora e Talete. Questi argomenti, la cui tesi è convalidata pure dal l'autorità di Niebuhr, di Cousin, di Gioberti (nel Buono), di Poli (Appendice al Manuale del Tennemann) e di Centofanti (Pitagora), e che non hanno in contrario argomenti positivi di tradizione, o concordi autorità di storici antichi, mi fanno sicuro che il pitagoresimo, come scuola religiosa e morale, anteceda l'altre scuole; poi venga la di VELIA, e come più affine alla prima, e come precedente a Xenofane stesso per la dottrina dell'unità universale; succeda loro l’ionica, quant'al suo cominciamento bensì, non quanto alla sua continuazione che s'accompagna (com' accade) con l'altre; e vengano infine, su che non ha dubbio, le gative. I quali sistemi darann ' argomento ad altra lezione. vole ne SCUOLE ITALCHE. Causa interiore del Pitagoresimo è la necessità d'una riforma morale: da ciò l'esame di coscienza posto per principio di filosofia e di vita buona. Cause esteriori. Si volle la riforma religiosa e morale da cui la civile, per mezzo della filosofia. - Parti non dubbie nelle memorie degl'istituti pitagorici. Notizie su Pitagora e sugli altri più famosi. Quali documenti abbiamo certi sulla scuola italica. - Il Carme aureo i antico.- Le notizie che ci danno gli Alessandrini non vanno accettate senza esame, ma nemmeno rigettate con leggerezza. - Oggetto della filo sofia pitagorica, suo fine e metodo. — Quali cagioni dettero impulso a quel metodo che fu applicazione d'idee matematiche. Ma ciò non vuol dire che lal dottrina stia in un ideolismo matematico; giacchè la monade si pensò come una forza. - Il numero rappresentava l'attinenze o l'armo. nia; indi il simbolo musicale. Due furono i significati del numero, it simbolico ed il reale. Verità del metodo matematico; suoi eccessi nel pro cedere dall'astratto al concreto: esempi varj. – Si cercò le leggi mentali della quantità effettuato nella realtà, per salire con esse a Dio, causa, ragione e legge. Dio è principio de'principj; e poichè i principj delle cose si dis ser numeri, Dio è il numero per eccellenza. -Questo è l'unità. – L'unità bensi presa, non come parte d’un tutto, ma in senso generale. - A Dio non si può applicare il concetto d'uniti nemmeno in quel senso; Dio è sopruni tà; ma l'errore precedė dalla induzione astrattiva. Si dimostra co ' do cumenti che il significato dell'unità pitagorica ė panteistico, ma ondeg giante tra il vero ed il falso. - L’unità, come per gl'Indiani, parve l'indefinito che si determina. — Grandi verità contenute nell'implicitezza di quelle dottrine. — Dio si pensó come unità suprema di tutti i contrarj; l'universo, come i contrarj in atto, e ridotti all'armonia da Dio. - L'uni tà generale o la monade che si distingue in monadi secondarie, spiega lo teoriche d'allora sugl'intervalli, sul vuoto, sull’intinito, sul finito ec. L'anima è numero, ed è nel corpo come Dio nel mondo; è l'armonia del corpo. La verità è l'uno e il numero; l'errore va fuori dell'armonia. -- Intelletto e senso. — Dio, ragione prima del conoscere, perché gl’intelletti si credettero divini. Poi, perchè Dio è il numero per eccellenza, e il nu mero è l'esemplare del mondo. Quanto alla scienza, si sbagliò cercando sempre l'assoluta necessità razionale. Numero e armonia il bene; disar monia il male. - Fine dell'anima intellettiva il ritorno all'essenza pri ma. --- Come si tentó fuggire le contraddizioni del panteismo naturale negando la cognizione diretta dell'essenza. - Xenofane tentó fuggirle col panteismo ideale. - Cinque concetti principali di Xenofane: Dio è uno; sommo potere; gli manca ogni contingenza e però non è nè finito nė infi nito né in quiete nè in moto; Dio non può nascere, perchè il non ente non può dal nulla divenire qualcosa: Dio è il tulto. — Indi segui che il mondo è apparenza. – l'armenide stabilisce chiaro il doppio aforismo degli Eleati e degl ' Ionj, e condanna il secondo. Muove dall'idea generale d'essere; Dio si fa più indefinito che in Xenofane. – Tutto è idea. Melisso fa Dio più indeterminato ancora, chiamandolo un qualcosa. -- Gli attributi della moralità non più appariscono. – Panteismo materiale de gl'Ionj: nasce in condizioni opportune. - Il moto delle cose vien conside rato nell’ente o nell'assoluto, ch'è la materia eterna divina, dotata di pensiero. – Diversità nel concepire tal moto fra ' dinamici e i meccanici. E la causa prima del moto la posero diversamente in quella cosa che più parve trasmutabile in ogni altra cosa. – Talete ba dello spirituale anco ra; la grossolanità materiale viene crescendo. Anassayora vide l'assur dità del panteismo, e prese il dualismo; ma non détte troppo alla mente. — Idealismo ateo di Protagora; materialismo di Democrito; le due forme di scetticismo particolare. Scetticismo universale di Gorgia ec. Misticismo d'Empedocle; e perché il suo sistema paia indeterminato ed ecclettico. — Due schiere d’uomini; gli atei e i l'itagorici di quel tempo: interpreta zione storica, e interpretazione fisica della mitologia. Qual è mai, o signori, la causa interna del Pitagoresimo? La necessità d'una riforma morale; necessità profondamente sentita da uomini ornati, quanto la gentilità comporta, di grandi virtù. Il conosci te stesso e esame di coscienza morale negli istituti pitagorici, e fondamento altresì di speculazione; chè, nella coscienza e'trovarono il dovere e nel dovere Dio. Cagioni esterne furono il guasto crescente della religione, de costumi e della libertà, al quale s'oppone il Pitagoresimo, e inoltre (com’ho avvertito più volte) le tradizioni e i commerci d'Oriente, le dottrine orfiche ed i Misteri. Si volle, pertanto, una riforma religiosa e morale, da cui venisse la civile; e criterio a tutto ciò désse la Scienza. Il che spiega gl'isti tuti pitagorici su cui gli Alessandrini mescolaron favole, ma la natura di consorteria e un culto segreto (Ritter ) e la sostanza dell'arti educative non cadono in dubbio. La riforma religiosa si tentò co’riti e dommi segreti; la morale con l'opporsi a tre vizi, voluttà, superbia ed avarizia, ed esercitando anima e corpo nella musica e nella GINNASTICA; la civile, domando la licenza con abiti disciplinati ossia con l'autorità (curos pz) e con la vita comune. Il discepolato morale prepara così alle speculazioni, e, preparato, s'eleva l'alunno a gradi più alti e più liberi. (Centofanti, Pitagora; Puccini.) Circa Pitagora o di Samo nella lonia o di Samo nella Magna Grecia in ITALIA, poco v'ha di sicuro e con mescolanza di simboli; pare tuttavia che un fondamento storico v’ha e ch'egli e uomo di molta dottrina e virtù. Per la dimenticanza in che vennero le colonie di Magna Grecia in ITALIA e tutte le antichità italiche dopo le conquiste di ROMA, e per la guerra feroce contro i Pitagorici, non ne sappiamo quasi nulla; li sappiamo bensì a lor tempo in molta riverenza. Si rammentano con più certezza LISSIDE, CLINIA, ED ARCHITA cittadini DI TARANTO in Magna Grecia, EURITE E FILOLAO o di TARANTO o di CROTONE. ARCHITA, il più celebre di tutti, capitana più volte gli eserciti, e non ha mai la peggio; buon padrefamiglia e cittadino, domatore di sè stesso, famoso per invenzioni e scoperte in musica ed in matematica e per libri d'agricoltura. La scuola pitagorica venne atrocemente perseguitata; molti fra gli scampati, o si rifuggirono in Grecia o si sbandarono in ITALIA. Sembra che l'odio movesse da opinioni politiche, parteggiando essi per GL’OTTIMATI; ma chi badi alla segretezza del culto attestata da Erodoto, e alla tradizione che un capopopolo attizza le ire, invelenito dal non es sere accolto nell'adunanze, s'accorgerà che trattasi qui, come per Anassagora e per Socrate, del politeismo volgare geloso e persecutore. Gli scritti col nome di TIMEO, d'ARCHITA e d'OCELLO LUCANO sono apocrifi, e i frammenti di BRONTINO e d'EURISAMO; ma non quelli di FILOLAO (vedili nel libro di Boecckh su FILOLAO, e Ritter); i quali col carme aureo e con ciò che narra Platone ed Aristotile sulla scuola ITALICA, ne dánno contezza. Nel sostanziale di essa gli storici vanno d'accordo. Quanto al Carme aureo, e's'attribuì a FILOLAO, a EPICARMO, a LISIDE, a EMPEDOCLE di Girgenti, da Crisippo a'Pitagorici. Sta il Mullachio per LISIDE; e: mostra, comunque, che ne' versi aurei non v'ha nulla di non antico, e come un alemanno, secondo l'usanza di molti critici odierni, neghi l'autenticità pel dubbio di tre’ sole parole, che a lui non paiono antiche; e antiche le dimostra il Mullachio. (Fragm. Phil. Græc. Didot). Le relazioni che ci danno del pensar pitagorico gli Alessandrini, non vogliono accettarsi senza discrezione; chè in loro la critica è poca, molta la voglia d'interpretare a lor modo gli antichi; tuttavia dire come si dice) che il Pitagoresimo, quale dagli Alessandrini si descrive, non i meriti fede per le grandi somiglianze con Platone, è dir troppo, sapendosi negli Psilli di Timone Fliasio che quegli ebbe in gran pregio i Pitagorici: « E tu, o Platone, giacchè ti possedeva l'animo il desiderio di sapere, comprasti con gran pecunia un piccolo libro, da cui imparasti a scrivere tu pure il TIMEO. (Fragm. Phil. etc. ) La filosofia de' Pitagorici, come tutta la filosofia antica, come la filosofia d'ogni tempo, meditò i primi prin cipj dell'essere, del conoscere e dell'operare. Il pensiero della causa suprema ch'è ragione e legge, vediamo bene da tutte le loro memorie che occupò quegl'intelletti for temente. Fine della filosofia parve loro ed a tutti gli antichi, la liberazione degli errori e de' mali comuni, ma con tal divario dagl'Indiani, che la speculazione dovesse congiungersi all'operosità civile. Metodo di filosofare fu il matematico; cioè l'applicazione d'idee matematiche alla natura universale, così esterna come interna, e al suo principio. Onde mai tal metodo? quali cagioni gli dettero im pulso? Già negli antichi v'ha inclinazione di filosofare a priori sul mondo (sebbene l'esperienza, anch'esterna, non s ' escludesse dai Pitagorici), perchè mancavano gli stromenti; poi, premeva più lo speculare teologico, re cato altresì nella fisica; e le lunghezze d'una fisica os servatrice non si comportavano in tempo, che i varj studj non erano scompartiti tra più dotti. Inoltre l'arimmetica e la geometria vennero d'Asia, nate tra le scienze più antiche, perchè non bisognose d'osservazione. Altresì di tali scienze s’aveva necessità tra popoli commercianti e tra colonie che dissodano terreni, asciugano paduli, e scavano canali. Più, la discordia tra' politeisti e il mono teismo - antico fece spiccare, quant'al concetto di Dio, le nozioni d'uno e di moltiplice, come anche si scorge nel vecchio Testamento. Infine, tempo é spazio ci danno la quantità, e sappiamo che l'induzione falsa indíava, come ne' Vedi, lo spazio e massime il cielo (onde l'uranismo), e il tempo (onde l’Aherene de' Persiani, il Crono de Greci, il Saturno de' Latini), talchè le tradizioni orientali e or fiche, cadendo in tali concetti, davano impulso a quel modo di filosofare. I Pitagorici, dunque, parlano dell'uno, del due, del tre, del dieci e delle combinazioni loro allorchè discor rono del mondo e di Dio. Ma si vuol credere forse che tal metodo li riducesse a vane astrazioni? ossia, ch'e'sti massero Dio e il mondo idee matematiche e nulla più? In altre parole, il Pitagoresimo fu egli un idealismo matematico? No, sicuramente; Aristotile lo spiega chiaro dicendo: ch'essi stimarono le cose una imitazione de'numeri (μίμησιν είναι τα όντα των αριτμών. Μet.). Imitazione, dunque; a leggi di numero, cioè, rispondono le cose; e la mente ritrova l'une nell'altre; e in questo è la scienza. Anzi (e va notato accuratamente ), che mai restava pe' Pitagorici, levato il composto? Restava la monade. E che cos'era la monade? Forse un'astratta unità, o l'atomo indifferente inattivo di Democrito e di Leucippo? No; ma l'essenza ch'è una forza: il concetto di forza o d' attività prevale nel Pitagoresimo, così ri spetto a Dio come rispetto al mondo. Di fatti, e ch'è mai, secondo i Pitagorici, l'ordinamento universale se non la continua limitazione (o determinazione) dell'inde finito? Ciò resulta da molti riscontri, ma singolarmente dallo specchio de contrarj (di cui parleremo). Inoltre, Dio per que’ filosofi è mente e causa o principio; causa è l'anima; e causa d'ogni armonia è l'unità. (Frag. di FILOLAO; Siriano, Com. Met. d ' Arist. XIII; Ritter St. Fil. ant.; Bertini, Idea d'una Fil. della Vita) Quindi, pe' Pitagorici, le leggi del numero e della geo metria rappresentavano l'attinenze; cioè, significavano il rispetto d'una cosa all'altra, e d'uno all'altro con cetto, l'armonie particolari e l'universale; da ciò i lor simboli musicali. Si dica pertanto, o signori, che per la scuola italica eran due i significati del numero; significato simbolico e reale. È significato reale quando noi diciamo: Dio è uno e le creature sono moltiplici; e così dicevano essi che Dio è il numero per eccellenza, cioè l'unità e la totalità d'ogni perfezione. È significato simbolico quando s'astrae i numeri a significare gli oggetti; come dicendo (per esempio) l'unità e il numero, e s'intendesse Dio e le creature; così parlavano più spesso i Pitagorici. Al lora si fa come l'algebrista un linguaggio figurativo. assai comune agli Orientali; e ciò toglie l'apparente stranezza delle parole. Il metodo matematico ha egli verità? Certo non manca di buon fondamento, perchè tutto nel mondo si distingue o d'essenza o d'accidenti o di parti, di gradi o di potenza o di atti; e tutto, dunque, è capace di numero e di misura. Per altro, le leggi matematiche non hanno da cercarsi a priori nella realtà, bensi con l'osservazione; come Galileo, osservato il cadere de corpi, vi scoperse la quantità del moto crescente. Trovata la legge matematica, s'applica poi a nuove scoperte, come dalla legge matematica delle oscillazioni s'inventò il pen dolo. Chi volesse procedere a priori, sbaglierebbe, perchè dalla idealità non si può concludere la realtà contingente; per esempio, dall'idea d'un circolo non si può conclu dere ch'e' si dia in natura. Bensì, nella realtà si scopre ognora leggi ideali a cui essa risponde sempre (come le proporzioni tra spazio e velocità nella caduta son sempre le stesse ), ed anche, esemplando il reale all'ideale, quello vi combacia, come, facendo un circolo, i raggi gli ha sempre uguali. Ebbene la scuola italica non ignorò i buoni metodi della osservazione e delle matematiche applicate; già ho notato le dottrine fisiche d'Archita; del metodo sperimentale di Polo ci ragguaglia Aristotile (Met.); le dottrine musicali d'allora fan supporre molti esperimenti; Erodoto scrivche i medici italiani erano i più reputati; e tutti sappiamo le meraviglie d'Archimede. Tuttavia il metodo astratto ebbe il diso pra. Così, rappresentando il principio, il mezzo ed il fine col numero tre, lo vedevano in ogni cosa; però Filo lao divideva il mondo in tre parti. Il numero dieci è compiuto in sè stesso, perchè si compone sommando i suoi quattro numeri primi? ebbene, dieci i pianeti. Cin que i corpi regolari nella geometria? dunque altrettanti gli elementi, e ciascun d'essi n ' ha la figura; la terra ha il cubo, il fuoco la piramide, l'aria l'ottaedro, l'ac qua l'icosaedro, l'etere il dodecaedro; e dunque, altresì cinque i sensi. Se i quattro numeri primi, sommati tra loro, fanno il dieci; e se i quattro numeri pari (2, 4, 6, 8 ) e i quattro numeri dispari (1, 3, 5, 7), sommati, fan tutt'insieme trentasei, la tetrattisi o quadernario dovrà riscontrarsi nelle cose; e quattro, per esempio, sono i gradi della vita: minerale, pianta, animale e uomo; e, ne' corpi, il punto è unità, la linea è qualità, la super ficie è triade, il solido è quadernario, si compone, cioè. di quattro punti. Questo metodo, applicato alle cose dell'esperienza, riuscì arbitrario non di rado, e se, inalzato a Dio, ne guastò il concetto per l'astrazione dell' indefinito; pure, accompagnato come fu da tradizioni buone, da molte virtù morali, da preziose osservazioni interne ed anco esterne, ed eccitando la speculazione, fece sorgere tra gli errori belle e profonde verità. Quel metodo era (com’ac cennai): trovare le leggi mentali della quantità geome trica e arimmetica effettuate nella realtà e salire con queste alla prima cagione, alla prima ragione ed alla prima legge. Però dice FILOLAO che l'intendimento mate matico è il criterio di verità. La prima cagione dell'essere, che è ella mai? Sic come i Pitagorici voller trovare i principj delle cose e il principio de principj, così precede il quesito: che son mai tali principj? Risponde Aristotile: « I Pitagorici, educati nelle matematiche, dissero i numeri esser prin cipj delle cose. » (Met.) cioè tutte le cose si ridu cono a leggi supreme di numero, e queste leggi costi tuiscono la loro essenza. Or bene, che cos' è la prima cagione? È il primo principio, per Filolao; è la causa che antecede ogni altra causa, per Archita: « quam Are chytas causam ante causam esse dicebat, Philolaus rero omnium principium esse affirmabat. » (Siriano, alla Met. Storia della Filosofi. - 1. 18  l' Arist. XIII. Dunque se i principj delle cose son numeri, il primo principio è tale altresì; o, come diceva Hierocle nel commento al Carme aureo (Fragm. Phil. Græc.): « Se tutto è numero, Dio è numero. » Che nu mero? Il numero per eccellenza. Che cos' è il numero per eccellenza? Vediamolo. Il moltiplice fa supporre l’unità; e l'unità n'è sem pre il principio; così abbiamo solido, superficie, linea, punto; questo è il principio della linea, della superficie e del solido. Dunque Dio, ch' essendo il primo principio, è il numero per eccellenza, è altresì l'uno per eccellenza. (Aless. Afrod. Comm. alla Met. d ' Arist.) Resta da ve dere che cosa sia l'uno per eccellenza. L'unità, idealmente, si può considerare e qual parte che compone la pluralità, e quale idea generica che abbracci la pluralità stessa. Diciamo: il venti è compo sto d'uno più uno, più uno ec.; ecco le unità che com pongono un tutto. Diciamo ancora: una ventina, un centinaio, un migliaio, un milione; ecco l'unità gene rica che abbraccia ogni numero, considerato come unità. Nel primo caso, l'unità è l'elemento della pluralità; nel secondo, è la forma mentale che fa capaci di compren dere in un concetto le moltiplicità sparpagliate. E in tal senso l'unità si può chiamare il numero per eccel lenza, giacchè abbraccia ogni numero. Or bene, o signori, si può egli applicare a Dio l'idea d'unità ne' detti significati? No; Dio non è il compo nente della moltiplicità; nè Dio è un che generico e comune alle moltiplicità particolari. L'unità di Dio è, a dir così, una soprunità, come, secondo i Teologi, le rela zioni personali della Trinità son soprannumero. (S. Aug. in Joann. Evang. ) Si dice uno per negare il moltiplice, nulla più; e chi confonde l'analogia di tali concetti col significato proprio, o cade nel panteismo, o accusa erro neamente la filosofia e la teologia. Si domanda, per tanto: la scuola pitagorica usò que' concetti nel signi ficato vero? Da’tre frammenti di Filolao apparisce che Dio per lui è imperatore sommo e duce, uno, eterno, permanente, immobile, simile a sè stesso, diverso dal l ' altre cose, potentissimo, supremo, e che solo conosce l'essenza eterna. Anzi, Siriano nel luogo già citato dice, che pe' Pitagorici Dio è una e singolare causa, astratta « la tutte le cose, e superiore alla dualità de' principi, la quale vedremo più qua: « Ante duo principia unam et singulam causam, et ab omni abstractam præponebat. Parrebb'egli, dunque, che l'unità de' Pitagorici sia nel senso buono? Bertini interpreta più benignamente che si può certe opinioni pitagoriche. le quali ne farebbero dubitare; e tuttavia conclude: « Il sentimento religioso e morale gl'induceva a collocare Dio molto al disopra del mondo; ma il fato della logica li forzava sovente ad immedesimarli in una sola sostanza e ricacciavali nel panteismo. » Che vuole dir mai fato della logica? Vuol dire la necessità di certe conse guenze, dati certi principj. Or via, quali son dunque i principj che menavano al panteismo, non ostante l'alte verità frammischiate in abbondanza? Era, appunto, il concepire Dio quasi unità generica, o numero per eccel lenza; e questo in grazia della non buona induzione. Di fatto, poichè i numeri son pari ed impari, e l'unità, cioè il numero genericamente preso, s'estende ad en trambi; così la scuola pitagorica chiamò Dio pari ed impari, e diceva che l' uno è l'essenza di tutte le cose (Arist. Met. I ); l'essenza delle cose chiamata eterna (la FILOLAO; che inoltre affermò, le cose diverse e con trarie non istarebbero senz'armonia, e tale armonia è il numero per eccellenza, cioè Dio; aggiunse, che tal numero è legame all'eterna durata del mondo; anzi (e questo val più ), esso legame produce sè stesso. (V.framm. i FILOLAO nel Ritter. St. della Fil. ant.) Finalmente. Dio pe' Pitagorici è limitato ed illimitato ad un tempong 11pTLOTES PITTOy, Arist. Met. 1. ) Par dunque certo ch ' essi concepivano Dio com'unità generica, in cui s 'uniscono potenzialmente i contrarj del mondo, pari e dispari, femmina e maschio, male e bene, e via discorrendo; contrarj che si distinguono attualmente quando il potenziale viene all'atto, e l'illimitato si limita, e l'essenza universale (conosciuta solo da Dio, cioè da sè stessa) si determina mano a mano ne' fenomeni. Dubitò il dotto Bertini che s'intendesse da' Pitagorici, non dimmedesi mare le cose in un' essenza, ma d'accennare che Dio la in sè i contrari perchè li supera. E non esito punto a dire che ciò e ' tenevano forse, ma in confuso, e la con fusione generava il panteismo. Di fatto, se quel concetto era limpido, essi non avrebber detto che Dio è pari ed impari; giacchè i contrarj sono il modo finito delle per fezioni mondane, e però non si contengono in Dio. Si risponderà: noi n'abbiamo un'idea più chiara. Va bene; se i Pitagorici avesser capito chiaro come Dio superi l'universo infinitamente, le parole chiare l'avrebber tro vate anch'essi. Anzi, l'infinito lo pigliavano per l'inde finito o potenziale; e quindi, il finito sembrò a loro il perfetto, e l'infinito l ' imperfetto. Aristotile serbò lo specchio delle contrarietà in dieci antitesi (dispari e pari, finito e infinito, uno e più, quiete e moto, luce e tenebre, bene e male ec. ), fatto da qualche Pitagorico; e Simplicio notò come le contrarietà si comprendano si risolvano in Dio. (Arist. Met. I, Simpl. Phys.) Inol tre, come il mondo era la decade, cioè la pienezza d'ogni grado d ' entità, e così Dio; che riceveva nome d'ogni numero, unità, diade, triade, quadernario (o solido), set tenario, decade. Dimodochè pe Pitagorici, come per tutta la filosofia pagana (avvertite, o signori ), il quesito della causa pri venne a quest' altro: Come si limiti 1 illimitato; ossia, pensarono gli antichi che la produzione del mondo consistesse nel determinare in atto la potenzialità prec sistente: talchè Filolao pone tre principj, l’illimitato. il confine, e la causa (το απειρων, το πέρας, το αίτιον ). Il che parve in due modi: i Pitagorici, com’i pan teisti ionj e indiani, dissero che quel potenziale sta in Dio; i dualisti, che e' sta fuori di Dio, ed è la mate ria informata da esso. Nella scuola italica, poi, la im plicitezza de' concetti adombrò alte verità; Dio (per ma esempio), legame del tempo e dello spazio, se non si prende com ' identità d'ogni essenza, vuol dire benissimo che l'unità divina con l'unico atto creatore e conser vatore fa l’unione del moltiplice disgregato: però Dio è l'armonia dell'armonie. Che cos'è dunque Iddio pe' Pitagorici? L'unità su prema di tutti i contrarj. Che cos'è l'universo? I con trarj in atto, e ridotti da Dio all'armonia. Come l'unità generica non diviene numero se non si distingua in unità determinate o particolari, così la monade suprema non genera il mondo se non si distingua in monadi o so stanze particolari. Che si richiede, o signori, a formare il numero? L'unità e la distinzione d'un'unità dall'al tra. Ma la distinzione, considerata mentalmente, non è forse un concetto negativo e indeterminato, dacchè si gnifichi che l'una cosa non è l ' altra? Or bene; e pen savano essi che a formare l'universo ci voglia le unità o monadi particolari, poi la loro distinzione; ossia, come (lice Aristotile, elementi positivi da un lato, elementi nega tivi dall'altro. Da queste due maniere d'elementi si fa tempo e spazio; nel tempoi momenti e la distinzione di un momento dall'altro, cioè gl'intervalli; nello spazio i punti e la distinzione d’un punto dall'altro cioè il vuoto. Tal cosa venne simboleggiata con l'ispirazione del vuoto; ossia distinguendosi le monadi, il vuoto entra in loro com'aria ne’polmoni. I due elementi, il positivo ed il negativo, uniti tra loro, fanno la diade o il pari; l'ele mento positivo o l' unità, così sola come aggiunta al numero pari (per esempio il tre), fa il dispari. Ed ecco, o signori, l' unità nell'altro senso ch'io spiegava di sopra, cioè nel senso non generico ma particolare di compo nente il composto. Talchè l'unità nel senso generico è Dio; le unità nel senso particolare fanno il mondo. Ed ecco altresì perchè si diceva da’ Pitagorici che il pari è illimitato, illimitato perchè il vuoto e l'intervallo (o la negazione) è in astratto un che potenziale, può ricevere distinzione da' punti e da’ momenti all' indefinito. Si diceva per contrapposto che il dispari è limitato, giacchè chiude l'intervallo ed il vuoto tra due estremità positive o tra due monadi, riduce in atto la potenza, e si fa la triade, numero perfetto che ha principio, mezzo e fine. Voi capite, o signori, come per la teorica de’toni e degl' intervalli si vedesse analogia tra la musica e l'universo. Il quale, venendo dall'essenzá eterna come necessario svolgimento d'attività, non ha reale comin ciamento, è ab eterno; comincia sì, ma quant' al nostro pensiero (-o iniyocav), ossia il pensiero nol può con cepire altrimenti. Nè s'avvidero essi che se il pensiero nol può concepire senza cominciamento, segno è che l'op posto è irrazionale. Che cos'è l'uomo nell'universo? Un'anima razionale che sta nel corpo come in u sepolcro, dice FILOLAO. L'anima è numero e armonia (Plut. De plac. phil. IV, 2 ), o monade che riduce ad unione la moltiplicità del corpo e n'è principio di vita e causa motrice. Se Platone confutò nel Fedone la sentenza che l ' ani ma è armonia, combatte i materialisti che ponevano l'anima com'un risultamento dell'unione corporale, an zichè com’un principio di essa, a mo' de ' Pitagorici. Ma Platone invece s'accorda con Filolao dicendo, che l'ani ma è sepolta nel corpo. Se non che in Platone ha senso più dualistico; ma ne’ Pitagorici significò (badando noi alla totalità delle lor opinioni), che come Dio è l'anima del mondo, e vien da essa immediatamente l'anima uma na (V. Ritter e Bertini), così vien dalla terra, infima ne'gradi dell' entità e delle emanazioni tutte, il corpo. Derivano da tutto ciò le teoriche sulla ragione som må del conoscere e sulla legge dell'operare. Come l'en tità, così la verità è l'uno e il numero, e l'errore va fuori dell'armonia; talchè come il numero fa la misura di ciascun ente o la specie loro, e fa l' attinenze del l'uno all'altro, così la verità è nell' attinenza dell'in telletto con le specie degli enti e con le loro attinenze. Ma come si conosce da noi? Il simile col simile; però distinse la scuola italica il senso dall' intelletto come in due parti (Cic. Tusc. IV, 5 ); l'intelletto è divino e si conosce per esso (benchè in modo relativo, dice Filolao) la divinità della natura; il senso è terrestre, e si conosce per esso il fenomeno o l'apparenza sensibile. Ragion prima del conoscimento è dunque Dio; ma com’es senza prima degl'intelletti. In Dio sta la ragione pri ma, non solo perchè raggiano da lui gl'intelletti, ma perche Dio è numero, e il numero è l' esemplare del mondo; esemplare riconosciuto dall' intelletto. (V. il Cou sin e lo Stalbaum, ambedue nel commento al TIMEO) Però, avvertite, o signori, la scienza pe' Pitagorici, come per ognuno che n'abbia vero concetto, stette nel ritro vare la necessità razionale di ciò che conosciamo. Essi voller saper non solo ciò che è ed accade, ma perchè ciò dev'essere ed accadere. Tuttavia successe a loro quel che ad ogni panteista; si credè di trarre a priori le cose dal conoscimento dell'essenza universale, come le pro prietà d'un triangolo. Ma invece, e lo dissi altrove, la necessità razionale (eccetto la ontologia e la teologia naturale e le loro applicazioni e le matematiche) sta solo in vedere come, supposto un che, ne venga di neces sità un altro per attinenza; ad esempio, data la per cezione, non può non essere il corpo, o data la volontà negli uomini che son razionali, non può non essere la libertà. L'assoluta necessità vedesi solo dove può trarsi l'illazioni da un'idea, anzichè sperimentare de' fatti; nel resto è necessità ipotetica, e non altro; o anco è sola contingenza. (V. Lez. I. ) Come l'entità e la verità sono numero, negazione la potenzialità indefinita e l'erro re, così è numero ed armonia il bene, disarmonia o ne gazione il male. (Arist. Met. I.) Il bene è misura, il male è dismisura: da ciò quel detto pitagorico: « La misura è ottima, pétpov Žpustov. » E come Dio è l'ar monia universale, il numero per eccellenza, egli è il bene o misura o legge. Però, come l'intendimento va per armonie matematiche e musicali, così la volontà; e indi nasce la virtù, ch'è numero dentro di noi, componente la discordia degli appetiti (Carme aureo, 57-60 ); numero fuor di noi nell'educazione della famiglia e della città.. (Fragm.di LUCIANO OCELLO ) Allora l'anima si va conformando a Dio (ov.02.09749. Tapos to delov ); la disforme da Dio passa in corpi diversi con la metempsicosi od è punita nel Tartaro; la conforme a Dio ritorna nell'essenza ond'ella emanò. » Sarai, dice il Carme aureo, un Dio immorta le, incorrotto, non sottoposto a morte (v. 71: ETEL 0212. τος θεός, άμοροτος, ούκ έτι θνητος). Signori, chi non mirerà, in mezzo a quell'ombre, la luce di sì alte dot trine? Ma, tralignando i tempi, la filosofia traligno. Il sistema pitagorico è, quant'a'principj, un pantei smo naturale; perchè l'unità per eccellenza vi comprende lo spirito e la materia, distinti poi come tutte l'altre contrarietà. Come voleva egli scappare il Pitagoresimo alla contraddizione suprema d'identificare tutte le contrad dizioni? Dicendo che non conosciamo l'essenza in modo diretto: quasichè importi tal conoscenza per escludere l'assurdo. La scuola di Elea tentò fuggire la contrad. dizione, escludendo la materialità, il moltiplice ed ogni mutamento, e così creò un panteismo ideale. Xenofane, nato a Colofone d'Ionia il 620 av. G. Cri. sto, venne assai tardi a VELIA città di Magna Grecia. L'idealismo suo nasceva prima di lui; ma egli lo recò a sistema. E l'idealismo nasceva per più cagioni; pri ma, com'ho detto, ad evitare le contraddizioni del pan teismo naturale; poi, perchè il sistema idealistico ha dello scetticismo, a cui ora pendevano i Dorj non più austeri, e più gl'Ionj (ionica pure la colonia d'Elea); scetticismo voluttuoso e mesto che apparisce nel poeta Mimnermo, di Colofone anch'esso, e in alcuni versi di Xenofane; inoltre, già il sistema pitagorico, benchè com prensivo, faceva prevalere i concetti spirituali, però Xeno fane, vissuto a lungo in Ionia, venuto poi in Italia, mostra nell'ontologia l'idealismo italico, ma nella cosmologia la fisica degl'Ionj. Egli scrisse in versi, e ne resta frammenti, da cui, com'anche da Platone e da Aristotile, si rileva le sue opinioni. (Fragm. Phil. Græc. Didot. ) Uscì di patria per le invasioni Lidie, viaggiò in Sicilia, si fermò in VELIA; e visse più che centenne. (Censorino.) Xenofane ha di Dio un'idea sublime. Egli è uno, non simile all'uomo, immoto, è tutto vedere, intendere e udi re. Ma si deve, o signori, notare cinque concetti che formano il sostanziale del sistema. Dio è uno. Xenofane tolse il principio pitagorico che l'uno si converte con l'ente; però Dio, entità suprema, è uno. L'unicità di Dio, Xenofane la provò benissimo per un secondo concetto ancora, ch'è la potenza. Voi sapete già, o signori, che per la scuola italica l'unità o la monade o l'entità (vocaboli equivalenti) è forza, è un'energia. Ciò pure affermò Xenofane; e però Dio, ch'è l'ente, è sommo po tere (20 % TELY ): quindi se più dèi uguali, nessuno è po tentissimo per l'eguaglianza, se più dèi inferiori, nes suno è potentissimo per l'inferiorità. Talchè Xenofane, riprensore d’Esiodo e d'Omero, scherniva com’empie le superstizioni volgari, e, diceva, se i cavalli sapessero di segnare, fingerebbero gli dèi a loro sembianza. Traeva da ciò un terzo concetto; che a Dio manca ogni contin genza, finità e infinità, moto e riposo. L'infinità? In che senso la nega egli Xenofane, e contro chi? Nel senso d'illimitato o indefinito che si determina con atti successivi; contro i Pitagorici pe' quali Dio è infinito e finito ad un tempo, si distingue nell'universo e vi si muta perennemente, benchè immutato nell'essenza: for s'anche, dove Xenofane accenna il moto e il riposo, con futa le opinioni degl' Ionj già cominciate e già oppo ste all'ITALICHE più antiche, ma pe' Pitagorici ancora Dio comprende in sè le contrarietà fra cui Aristotile notò (come vedemmo) il moto e la quiete, ugualmente che il finito e l'infinito, il finito ch'è quiete, l'infinito (indefi nito ) ch'è moto. Crederemo noi dunque, o signori, che quest'altra verità, in Dio non essere contingenza, con ducesse gli Eleati al Dio creatore? No; e si scorge dal l'esame d'un quarto concetto, per sè vero, ma falso nell'applicazione: Dio non può nascere. Va bene; ma per chè? udiamolo, signori; il perchè ce lo dà il trattatello De Xenophane, MELISSO e GORGIA, attribuito ad Aristo tile, non di lui forse, antico ad ogni modo. Si dice, adunque: Dio non può nascere, perchè l'ente non può non essere, e il non ente non può dal nulla divenire qual cosa. L'ente, ch'è per essenza, certo non può non essere; ma il non ente nel significato di Platone e pitagorico è il contingente; che può non essere appunto, giacchè non è per essenza sua propria, bensì dall'ente. Xenofane, per altro (notate, vi prego, siguori), prese il non ente in significato di nulla, e il nulla è impossibile sia mai altro che nulla; ma ciò che diventa, è nulla in sè, nulla non già nella potenza causatrice. Che ne conchiudeva Xenofane? Non solo che non si dà creazione, ma che non si dà pure causalità nessuna; non v'ha che l'es senza immobile, infeconda, inaccessibile. (ch'è dun que il resto? o quel che ci pare in continua mutazione? Fenomeno, apparenza, illusione, e nulla più; talchè la fisica che si fa con l'apparenze è illusoria, non è scien za. Però egli disse in un verso: « Queste cose (del mondo) non hanno altra vita che l'apparenza, e appartengono alla opinione. (Plut. Symp. IX. ) De' dubbj di Xeno fane sul mondo parlo altresì Timone Fliasio ne' Psilli. (Fragm. Phil. Græc.) E per provare ciò s'adoperava un quinto concetto: che Dio o l'ente è tutto, o intero. (Fragm. di Xenoph.) Che vuol egli dire? Cerchiamolo. Che idea vi dà, o signori, l'infinità? Certo, pienezza d'es sere, cioè che ivi non ha mancamento. Ma tal pienezza significa forse il tutto? No, chè tutto è idea relativa: tutto, implica parti; e quindi ogni tutto può essere più o meno, come numero ch'egli è; nè numero assoluto si dà; mentre assoluto è l'infinito. Or bene, l'induzione astrattiva concepisce il mondo com'un tutto e confonde l'infinità (come pienezza d'essere) con l'universo. Così accadde agli Eleati; e però Aristotile scriveva di Xeno fane: « Contemplando egli il tutto del mondo, disse che l'unità è Dio. » Indi l'aforismo eleatico, uno è l'ente e il tutto (ey to y uzi có Tiv). Che si concludeva mai da questo? Poichè al tutto non manca nulla, e l'ente è il tutto, nulla può cominciare, perchè sarebbe aggiun gimento: quasichè, o signori, ciò che viene dall'efficienza creatrice aggiungasi all'infinità. E però vedete, che dove gli Eleati pareva negassero l ' indefinito pitago rico, van poi al medesimo vizio; perchè si piglia Dio com'un tutto generico, che viene simboleggiato con lo sfero. Resta da sapere che foss'egli per Xenofane l'ente o Dio. È ragione assoluta, intelletto essenziale. (Fragm. di Xenoph.) Che v'ha dunque più di pitagorico negli Eleati? Si lasciò la parte corporea ed ogni moto e restò la spirituale, divina ed immutabile; quindi è un pan teismo ideale. Il qual sistema si continuò in PARMENIDE, e ZENONE. Di PARMENIDE di VELIA dice Plutarco (Adv. Colot.) che détte alla patria leggi avute in grande amore. Zenone di VELIA, scolare di Parmenide, amo di cuore la patria, e poichè un tiranno lo condannò a morire, sostenne da uomo il supplizio: Melisso di Samo fiori verso l'84a Olimpiade, seguì PARMENIDE DI VELIA, fu uomo di Stato, e capitano gl'ITALIOTI contro Pericle. Questi gli Eleati (VELINI) più famosi. L'opinioni di PARMENIDE vi son date assai chiare ne' frammenti del suo poema. (Fragm. Phil. Græc. Didot. ) E che si trova in quelli fin da principio? I due aspetti, già separati da Xenofane: l'ente, che unico è; e il non ente o l'apparenza, che non è: non è, o signori, in modo assoluto e non già perchè semplice contingenza. Ci ha due vie, scrive PARMENIDE, di filosofare: 0 porre che l'ente è e che il non ente non è (70 ury; vedi anche il Parm. di Plat.), e questa è la via retta, perchè s'afferma l'ente e si nega il non ente o l'apparenza; o, al contrario, porre che l'ente non è c che sia di necessità il non ente, questa è via non retta. Si descrive così la via degli Eleati o VELINI da un lato, e la via degl'Ionj dall'altro, i quali si fermavano a considerare il moto delle cose. Ebbene, che concetti ha egli Parmenide allorchè e' mostra che l’ente è e il non ente non è? Gli stessi di Xenofane: l'ente è conosci bile con la sola ragione, ingenito, non mobile, tutto (cudow ) unigeno, eterno; non fu nè sarà, perchè ora è tutto insieme; non può esser nato, perch'è assurdo che l'ente non sia; non divisibile, somigliante a sè stesso intera mente, riempie ogni cosa; la dura necessità (dir.n ) lo stringe in vincoli (ossia egli è necessario; necessità di Dio trasferita da' panteisti al mondo ed alla volontà uma na ); egli non è infinito (atedrventov ), non bisogna di nulla, ed è lo stesso il pensare e ciò che si pensa. (Framm. e segnatamente v. 66-94.) In che PARMENIDE differì da Xenofane? Quegli ha forma più scientifica di speculare, perchè comincia dall'idea universale dell'essere, e la contrappone al non essere. (Ritter, Bertini.) Ma crede reste voi che Parmenide s'avvantaggi su Xenofane, come nella severità dialettica, così nella perfezione dell'idea ili Dio? Anzi, dove il maestro partì dall'idea di Dio, ragione pura, santità essenziale e provvidenza, lo sco lare poi con un vizio più rilevato d'induzione si fermò al concetto dell'essere generale, nè v'apparisce punto la personalità divina: sicchè Parmenide non avversa come Xenofane la mitologia, anzi l'accetta qual credenza po polare. In man di lui, perciò, il sistema eleatico si rese più ideale. E questa idealità condusse PARMENIDE (sembra un paradosso ), come anco Xenofane alla confusione lel senso e dell'intelletto. Quanto a Xenofane apparisce da un verso di lui in Sesto Empirico; e quanto a PARMENIDE, lo notò espresso Aristotile (ppovaly usy tér vistn512). Mentrechè il sensista dice: la sensazione è idea e tutto: l'idealista dice: l'idea è sensazione e tutto. Ma sorge contraddizione nuova: se intelligenza e senso son tut t'uno, come potrà egli il senso darci l'illusione? Ep pure, ZENONE DI VELIA non pare ch'altro volesse co’suoi strani sofismi fuorchè mostrare: com’abbandonandoci all'apparenze del moto e del moltiplice, cadiamo sem pre in contraddizioni. E la parte negativa di tal sistema s'accrebbe in Melisso che (notate, o signori) muove dal l'ente indeterminato come PARMENIDE, ma lo significa in modo più indeterminato ancora, chiamandolo un qual cosa. (V. Fragm. Phil. Græc. Didot; De Xenophau Melisso et Gorgia; Arist. de Soph. Elenchis, e Plat. Thecet.) Se non che, Melisso torna co’ Pitagorici a dire che Dio è infinito, negando a loro ch'e'sia finito, per chè l'ente non ha principio nè fine. (Fragm. 2. ) E ciò va bene; ma pare che qui terminasse l'infinità nel concetto di Melisso; egli non lo concepì come infinitu dine assoluta d'entità, e pero dotato d'efficienza crea trice e pensiero puro; anzi l' indeterminatezza di quel l'astrazione fece sì ch'egli non parla dell'intelletto e della bontà di Dio, e l'idea ne vacilla dinnanzi com'om bra informe e vana. (Ritter, Bertini.) Così da Xenofane in poi vi fu scadimento, come da ' Pitagorici di CROTONE agli Eleati o VELINI Questi bensì fecero progredire la dialettica tendendo a conciliare i contrari, e Aristotile fa inventore di quella ZENONE DI VELIA, che si sa da Diogene Laerzio aver composto dialoghi. Se la scuola pitagorica seguitò, ma con forme più filosofiche, il panteismo orfico nella sua totalità, gli Eleati ne presero la parte ideale; gl’Ionj la corporea e sensuale. Ell'è perciò la setta men filosofica. In che ci viltà? Tra'costumi voluttuosi della Ionia, e in quelle città che presto soggiacquero alla servitù de’Lidj e de Persiani. E se voi mi domandate, o signori: Que' sistemi da che gente vennero professati? Rispondo, che salvo i più antichi, cioè Talete e Anassimandro nati a Mileto nel l'Asia minore, delle virtù cittadine di tutti gli altri non si sa nulla; o sappiamo d' Eraclito ch'era superbo, duro e solitario. Di Talete stesso, bench’ Erodoto ricordi un consiglio di lui agl' Ionj, Platone (Teetete) dice ch' ei s'astenne da' pubblici negozj. Qual diversità dalla storia de Pitagorici ! non ci meravigli, pertanto, la diversità ne sistemi. (Fragm. Philos. Græc. Didot, 1860.) Il moto delle cose lo crederono gli Ionj nell'asso luto. E che cos'è l'assoluto? La materia del mondo. unica entità, eterna, divina, dotata di pensiero ch'è di vino attributo. Tutti gli Ionj. fuorchè Anassagora, ebber ciò di comune; e s'assomigliano alla scuola degli Eghe 286 PARTE PRIMA. liani materiali che succedettero agl' ideali. Ma gl' Ionj diversificarono tra loro nel concepire il moto dell'uni verso; chi, come Talete e Anassimene, Diogene d'Apollonia ed Eraclito, ebbe un sistema dinamico; chi, come Anassimandro e Archelao, un sistema meccanico. Ed ec cone il divario: cercaron tutti la prima cagione delle cose, ma pe' dinamici la produzione si fa con isvolgi mento di forze vive, come gli animali e le piante; pe’miec canici la produzione non ha se non forme apparenti. mutandosi solo le particelle inerti come ne’minerali. La dottrina vera comprende le due opinioni; perchè la cau salità modale trae sempre in atto le potenze, l'atto si produce (dinamica ); benchè quest'atto poi non ci dia sempre una specie o un individuo, come nella generazione degli animali, bensì talora un aggregamento come ne'mi nerali. A ogni modo, tal dottrina non s'applica punto alla causalità creatrice; e gl’lonj, negando che dal nulla si faccia nulla, negando qualunque causalità che non operi sopr'un soggetto preesistente, non s'avvidero, che tal cau salità non può dirsi assoluta, ma condizionata. Questo in genere; venendo poi a specificare la causa prima, gl’lonj la posero chi nell'una e chi nell'altra cosa che più parve trasmutabile in ogni altra o quasi un germe, secondo i dinamici, o quasi elemento univer sale, secondo i meccanici: Talete nell'acqua, Anassi mandro in una natura media (udtaču puçev ), e però lo chiama principio (apua), Anassimene nell'aria, Eraclito nel fuoco, Diogene altresì nell'aria. Ma, badate, o si gnori, nè quell'acqua, nè quell' aria, nè quel fuoco, son proprio ciò che ne vediamo; è un che più intimo e uni versale, simboleggiato in cose visibili secondochè queste parevano più acconce a figurare l'universalità, come l'acqua che tutto abbraccia, l' aria per cui si vive, il fuoco che tutto vivifica e distrugge. E con questo pensare la causa prima, s'andò di male in peggio. Talete serba confuso al materiale un < he di spirituale; però dice che tutto è pieno degli dèi e che in ogni cosa è la mente, e, secondo CICERONE (Quest. Tusc.), professa l'immortalità dell'anima. È un panteismo materiale, ma confuso ed implicato: vi si sente ancora le reliquie della filosofia teologica più antica, già comune (com' io dissi ) agl'Ioni, anzi a ogni gente ellenica ed agl' Italioti; e però i Padri citano di Talete molti detti sapienti sulla natura di Dio. Anassi mandro svolgeva la parte materiale dicendo che il prin cipio, in cui tutto ritorna è infinito, perchè l'origine o il cominciare non termina mai (tov © vo ) trn doury ENOL Ó žosipov. Fragm. Phil. Græc.; Didot); però gli dèi nascono e moiono, e son astri e mondi; e la specie umana venne da' pesci. Anassimene seguitò quella via; nè altrimenti Eraclito, benchè questi, che cita Pitagora e Xenofane (Diog. Laert. IX, e Clem. Alex. Strom. I ), désse alla dottrina del fuoco le apparenze d' una misti cità orientale. Non si discostò dalla teorica degl'Ionj circa la causa lità l'altra teorica sulla ragione prima. Qual è la ragione del conoscere? questa, che il principio conoscitore sia formato della materia universale, di cui si formano le cose conosciute, dacchè il simile si conosca pel simile. Sembra che di morale gl'Ionj ne parlassero poco; e ciò sta col materialismo loro; Eraclito bensì pone la legge nella ragione universale o divina, palese con le leggi della patria; Achelao nega ogni legge necessaria; e il giusto e l'ingiusto fa nascere dalle convenzioni umane. Tal panteismo ch ' è sempre a priori non détte, benchè materiale e salvo poche verità, una fisica buona. All'assurdità del panteismo volle rimediare Anassagora da Clazomene, nato verso il 500 avanti l'èra nostra, però distinse la mente dal mondo. Ma non la stimò creatrice; sicchè s'apprese al dualismo; anzi, (lacchè spiega poi la formazione del mondo come gli al tri Ionj meccanici, non si sa bene che ufficio e' désse alla mente divina in ordinare, il mondo. (Plat. Fodone.) Il suo libro cominciava: Tutte le cose erano insieme; l'intelligenza le divise e le dispose. (Diog. Laert.) E così distinse Dio, o la mente (vojv), dalla natura; e questa pose in particelle simili, omeomerie, che son semi delle cose o per la disposizione già ricevuta o che rice von poi di mano in mano (2.pay.tov otepusta.). Diogene di Apollonia in parte lo seguì, ma peggiorando; chè fece l'aria dotata di mente, e quindi ordinatrice. Archelao pure, ultimo fra gl' Ionj, alla confusione primitiva sta bili ordinatrice la mente; ma questa non va esente di materialità (Fragm. Phil. Didot); talchè il dualismo di Anassagora isterili. Che tenne dietro, o signori, alla confusione del pan teismo ed alla separazione del dualismo? La negazione degli scettici, particolare dapprima, universale poi. E di fatto, già svolte l'opinioni de' Pitagorici e di VELIA, ben chè non anco terminate (come va sempre), e già comin ciato il sistema d' Anassagora, sorsero pressochè ad un tempo le sette degl'idealisti e de' materialisti. L'idea lismo ateo venne da Protagora (di cui nel dialogo con tal nome ed in più luoghi scrive Platone ); colui, non si sa quando nato, fiorì verso il 444 avanti l'èra nostra. Il principio d’un suo libro cominciava: Degli dèi non so nulla; e Timone Fliasio scrive, che Protagora quantun que dicesse ignorarli, osservò la legge ossia le cerimo nie legali (Fragm. Phil. Græc.): nella osservanza della legge i sotisti posero moralità e religione. Diceva Pro tagora con gl' Ionj: tutto si muta; e con gli Eleati: tutto apparisce. Questa proposizione viene dall'altra; perchè se nulla r’ha di stabile, tutto è fenomeno od ap parenza. Vedete, o signori, come l'idealismo nascesse dall' opinioni anteriori. E sulle due proposizioni già dette si fonda il sistema di Protagora, che disse perciò: se tutto muta, nulla è in sè stesso; e se tutto apparisce, l'apparenza solo è vera; vere l'apparenze contrarie, veri i contradittorj, vero insomma tutto ciò che si pensa, e l'anima è la somma dei diversi pensieri (Condillac, Kant), e il fine del discorso sta nel produrre l'appa renza: qui è il sostanziale dell'arte sofistica. Che vi pare, o signori, non lo dicono anch ' oggi: tutto è vero quel che si pensa? Quasi contemporaneo, ma un po'dopo è Democrito d'Abdera, nato per Apollonio il 460, e per Trasillo il 470; talchè, se fiorito con Protagora il 444. ciò sarebbe avanti a' 16 od a'26 anni; impossibile il primo caso, non verosimile il secondo, perchè Democrito dettò le cose sue dopo lunghi viaggi. Sa degl'Ionj, perchè materialista, tiene bensì degli Eleati, perchè muove dal concetto dell'ente; e dice: unico ente il vuoto e lo spazio con gli atomi nel seno; dalle loro congiunzioni e dalle figure matematiche conseguenti nascono le qualità; e poiche il simile si conosce col simile (τα όμοια ομοιών είναι apestira ), v'ha conoscimento nell'anima, essendo ella un atomo a cui vengono le figurette o immaginette dei corpi; rozza fantasia che male s'attribui ad Aristotile. E Dio che cosa è per Democrito? Compiacendo alle plebi, egli finse dèi come immagini enormi, ma sotto posti a morte; vero ateismo. (Fragm. Phil. Græc. Di dot.) Vuol notarsi che Leucippo fiori con Eraclito il 500; ma poichè il materialismo giungeva non opportuno. mancò allora il successo, in tal maniera che di Leucippo non si sa pressochè nulla. Se Protagora s'accostò allo scetticismo universale, non mi pare che vi giungesse: affermò che tutto si muta, e ch' è solo quale apparisce, non si sa per altro ch'e' ne gasse l'entità delle cose in questa loro perpetua muta bilità ed apparenza; chi giunse a tal punto, risoluta mente, espressamente, e GORGIA DI LEONZIO (V. Dial. di Platone col nome di lui, e altri dialoghi); perchè scrisse un libro sul non ente, cioè sulla natura, e volle provare che o nulla è, o se è non può conoscersi o se si conosce non può significarsi. Con Protagora e GORGIA v ' ha una schiera che la Grecia infamò col nome di So tisti, Prodico, Eutidemo e simiglianti. Chi erano costo ro? L'antichità gli ebbe per uomini venali. In che ci viltà vennero? In età di corruzione. Che frutto recarono? Dicon gli antichi: pessimo nell'arte, nella scienza e nel l'educazione della gioventù; benchè, come si vedrà, fossero occasione di qualche miglioramento. Ma ecco fiorire verso que' tempi (V. Tavole del Storia della Filosofia. - I. 19 Krug) un uomo che vuol riparare a tanta dubbietà. Chi? Empedocle di GIRGENTI. Con che? col misticismo a cui s'ac compagna (come accade sulla fine dei sistemi) un fare d'ecclettico. (Fragm. Phil. Græc. Didot. ) Da'frammenti del suo poema (népe ouro ) e da' detti d' Aristotile e d'altri si raccoglie che il sistema d'Empedocle non è già fisico solamente; Dio per lui è mente santa incor porea: e nè un pretto dualismo, perchè il mondo è tutto, e c'è divinità mondane o fisiche: e nè un pretto pan teismo, perchè si distingue la mente divina e gli atomi: che cos'è dunque? Parmi ch'e' non avesse un concetto nitido, com'accade agli ecclettici; e così di lui pensa rono gli antichi: alcuno lo fa di Parmenide, altri pita gorico, Platone lo mette con Eraclito, e Aristotile con Leucippo, con Democrito e con Anassagora. Ma prevale il misticismo; perchè ne' frammenti del poema, Empe docle si dà com’uomo miracoloso, e si crede un Dio immortale; e veste da sacerdote. In lui sentite lo scet ticismo e l'estasi; egli pone la mente, umana in parte ed in parte divina; quella c' illude, questa (come dice il Ritter) dà un santo delirio e sorge alla contemplazione mistica di Dio nella natura. Tal è l'Yoga indiano, tali gli Alessandrini. E questi, di fatto, ebbero in grande stima Empedocle; ma Platone ed Aristotile, osservato ri, lo pregian poco. Tuttavia egli seppe dimolto, e valse in fisica, e fu ben altr'uomo dei sofisti; onorato dai suoi cittadini ed in tutta Sicilia. Così terminò quest'epoca, ed ebbe strascico lungo in due schiere d'uomini; atei la cui morale era il piacere, Evemero, Ippone, Nicanore, Pelleo, Teodoro, Egesia e Diagora; Pitagorici o dati anch'essi al materialismo, così Ecfante, o mistici la maggior parte. Questi atei com ' Evemero interpretarono storicamente la mitologia: gli dèi furono uomini indiati, non altro. La scuola fisica poi degl'Ionj, più tralignati, la interpretò fisicamente: gli dèi son le forze uniche della natura  EPOCA QUARTA DELL' ÈRA PAGANA. SISTEMI GRECOLATINI. CICERONE. Moltitudine di scuole tra la seconda metà del penultimo secolo avanti l'èra volgare fin al quarto secolo dell'era stessa, sullo spartimento delle quali non sono chiari gli storici. Criterio per la distinzione del. l'epoche, e quindi per l'assegnazione varia de ' sistemi. Con tal crite rio, le dette scuole si spartiscono in due classi. – La prima classe si sud distingue; 1º negli eruditi; 2 ' negli scettici; 3 ne ' sistemi grecoasiatici: tutti formano la fine dell'epoca terza, cioè sono la conseguenza de ' sistemi anteriori. La seconda classe, o de' sistemi grecolatini, fa un'epoca da sė, cioè l'epoca quarta. È un'epoca nuova, per la tentata riforma, e per l'efficacia grande cosi di Cicerone come de' Giureconsulti. — Cagione del sorgere tardi la letteratura e la filosofia in Roma. Elle sorsero, quando i Romani non furono più con tutta la mente in fatti gravi e giornalieri. Allora può la riflessione volgersi alla coscienza e contemplarvi l'uomo, – Il pensiero de ' Romani si distese all'Italia e al genere umano. — Naziona lità naturale e politica degl' Italiani merce i Romani. Affetti domestici nel buon tempo di Roma. Come si vedano in Virgilio le qualità prin cipali della civiltà italica. I germi antichi di questa erano in Roma; si svolsero per impulso di Grecia. Durò poco in Roma la filosofia pura mente speculativa, perchè già la filosofia greca, declinando, avea lasciato salve ben poche verità, e perché Roma cadde in servitù. Cicerone e i Giureconsulti romani costituiscono la vera filosofia grecolatina. Cice rone si proponeva di sceverare dal falso e dall'incerto le parti vere e certe ile' sistemi greci, di comporle in ordine chiaro, d'applicurle praticamente, e che se n' aiutasse l'eloquenza. - Sue virtù e suoi difetti. Si prova ch'egli non fu copiatore de ' Greci, ma pensò di suo. Non pare da distinguere i suoi libri (com ' alcuno pensa) in popolari e dottrinali. Libri logici, fisici e morali. Cicerone ripete il conosci te stesso come fondamento della filo sofia: la coscienza con tutte le due relazioni. Indi l'evidenza interio Uso degli altri criterj secondari, tenendo sempre in mente l'universi lità e dov'ella si manifesti. Cosi egli potė cansare gli eccessi de ' sistemi; e si prova quanto a ’ Platonici, a' Peripatetici, agli Stoici, agli Accademici: rigettato assolutamente l'Epicureismo. - Cicerone non elegyeva da ecclettico, ma per un ordine di principj; vide cioè che la filosofia è da studiarsi entro di noi; e da tale studio inferi tre verità, che gli furono regolatrici: 1º che l'uomo sta sopr' all ' altre cose; 20 che la ragione dell'uomo prevale al senso e al corpo; 3º che questa ragione con le sue leggi ci fa palese Dio. Talche delini la filosofia: scienza delle cose divine e umane e delle cagioni di queste (off.): l'altra definizione de' Tuscolani è come racconto dell'opinioni pitigori che. Va seguito i principj spontanei, naturali, universali della ragione: ecco l'assioma di Tullio. — Ma, per la moltitudine de ' sistemi, ei potè co gliere poche verità; queste affermò, nel resto sospende il giudizio. Esem pio, il finale de natura Deorum. Le dottrine certe di lui ne ' libri morali, o sulla legge e sulla libertà; le opinioni verosimili ne'fisici, o sulla natura divina e dell'anima; ne'ljbri logici l'une e l'altre; ossia, egli è certo su'prin cipj e sull' evidenza interiore, ha solo verosimiglianza sul criterio delle per cezioni esteriori. Dualismo. — Anche per la teorica del conoscimento. Teorica dell'operare bellissima; legge naturale, eterna; Dio n'è la fonte; re. -. chi non ammette Dio, non può ammettere la legge. — Il dovere. Gradi degli officj. Quel ch'è giusto in sè stesso. Utile apparente, e utile vero; questo è conseguenza della virtù. — Onestå. Le leggi positive nascono dalla naturale; Dio è il proemio di tutte le leggi. - Buoni eifetti della filosofia di Cicerone. Non anche terminata l' epoca terza cominciò la quarta, de' sistemi greco-latini – LATINO – ROMANO. Dalla seconda metà del penultimo secolo avanti l'èra volgare fino al quarto secolo dell' era stessa, troviamo una moltitudine di scuole, lo spartimento delle quali dà qualche impaccio agli storici. Taluno le piglia tutte insieme (e vi comprende gli Alessandrini) come una sequela de sistemi greci anteriori; e così non pone ad esse un'epoca distinta. E per fermo se tutte le dette scuole non fosser altro che discepoli, o raccoglitori eruditi, mancherebbe la ragione del porle da sè, o del farne più classi. La ragione d'un'epoca, quando si parla di scienze, è solamente una grande verità scoperta, da cui dipende l'ordine universale d'una scienza qualunque, o il risorgimento di essa dopo un tempo di scadimento, e quindi l'efficacia su ' tempi avvenire. Insomma, v'ha un principio d'epoca, quando v’ha un principio di moto nuovo e potente: la continuazione di moto, è continua zione d'epoca e nulla più. Applicando tal criterio all' età sovraccennata, par chiaro che i sistemi vi si distinguano in due parti; una sta nell'epoca terza precedente, ossia nella greca e come termine di essa; la seconda costituisce un'epoca da se per qualità sue proprie, o un'epoca quarta, benchè i siste mi dell'epoca terza la precedano, l'accompagnino ed an che le sopravvivano: tanto è vero che la sola divisione per tempi non segue la realtà. La prima parte che ter minò l'epoca greca, si suddivide in tre, gli eruditi, gli scettici, i grecoasiatici. Da un lato v'ha le scuole di pretta erudizione; le quali non iscopersero nulla, nè rinnovarono nulla; gli Stoici eruditi; i Platonici eruditi, com’Areio Didimo, Trasillo, Albino, Alcinoo, Massimo di Tiro; i Peripatetici eruditi o commentatori d'Aristotile, come Alessandro d'Afrodisio; i Medici, eruditi anch'essi, platonici e peripatetici, come Galeno. Poi da un altro lato v'ha lo scetticismo d'Enesidemo e di Sesto Empirico, i quali compivano, anzi riducevano a sistema il dubbio di Pirrone e di Timone, volgendosi specialmente contro la causalità, e negandola per la singolare ragione che il modo intimo del causare nol conosciamo; quasichè possa negarsi ciò ch'è ad evidenza, quando non si sa spiegarlo. Da un terzo lato ancora, mescolati i Greci con gli Asiatici per le conquiste d'Alessandro e poi per la vastità dell'impero di ROMA vediamo un congiungimento tra la sapienza orientale e i sistemi greci; onde si svolse la setta degl’Alessandrini, che non fecero altro se non ridurre a forme greche il panteismo asiatico, già cominciato in Filone ebreo, nella Kabbala, in Apollonio Tianeo e in Moderato, Nicomaco, Plutarco, Apuleio, Cronio, Numenio. Questi, benchè distinti dalla scuola d'Alessandria (e fa male chi li confonde), in sostanza cominciaron l'avvio di quella, che ne trasse i pensieri a compimento. Gl’Alessandrini e i loro antecessori fanno essi dunque un'epoca nuova? No, perchè i metodi sono affatto dell'età socratica, e i principj gli stessi. Lo scetticismo poi che li conduce al misticismo, appartiene a quel medesimo tempo. L'unione dell' orientalità con l'atticità pare un che nuovo, ma scientificamente non è. Proviene dalle tendenze mistiche succedenti al dubbio, non già da'me todi scienziali; piacque la misticità orientale, richiesta già dagli animi. Ebbi l'opinione anch'io che gl’alessandrini facciano un'età da sè; ma più attenta consi derazione m'hacondotto ad altro parere. La seconda parte sì che fa un'epoca da sè, l'epoca quarta o LATINA O ROMANA. Introdotte le scuole di Grecia in ROMA comincia ivi un ordine proprio di concetti per efficacia delle tradizioni ITALICHE e per la civiltà di ROMA. Talchè, ripeto, avvi un'epoca quarta, o de sistemi LATINI ROMANI; nuova per le riforme tentate da CICERONE e per la novità dei iureconsulti, che hanno efficacia sì viva e universale nella civiltà europea; e anco perchè CICERONE serve più che i greci alla filosofia cristiana de' padri latini e dei dottori, i quali per via di lui, piucchè in modo immediato, sanno l'antiche opinioni. Adunque in uno specchio generale di storia si dee lasciare i filosofi eruditi, che non aggiungono nulla; degli scettici dissi già nel passato. De'sistemi grecorientali poi si dee trattare nella prim'epoca del l'èra cristiana, perch' essi combatterono la sapienza de Padri e n'eccitarono la opposizione. Resta che noi parliamo qui de' sistemi LATINI ROMANI, che soli ci danno un'epoca nuova. Non fa meraviglia che in ROMA a nascesse tardi la filosofia. Nasce quando la riflessione si volge alla coscienza, e vi contempla l'uomo interiore per elevarsi all'ideale universalità. La filosofia vi s'eleva in modo astratto. Ma quando un popolo, come IL ROMANO, è tutto inteso a fatti gravi e giornalieri che lo attirano o a guerre esteriori od a contese interne; allora ti daranno bensì canti popolari di guerra e d'illustri memorie (come gli accenna LIVIO. Ma non si possono dare filosofia. In que' tempi guardasi al fine politico ed aʼmezzi, non alla natura dell'uomo qualità generali delle operazioni, come fa il filosofo. Indi la rozzezza de’ROMANI, talchè narra LIVIO, che lo storico più antico e FABIO PITTORE a' tempi d'Annibale. Ma quando ROMA ha esteso la dominazione a tutta Italia e oltre, allora IL ROMANO non vide più solo innanzi a sè le contese de' vicini, e le contese del foro tra nobili e plebei, sì un'intera e grande nazione e il genere umano. Così l'idea di ROMA si appresenta in relazione con tutta l'Italia e l’Italia in relazione col mondo. Il pensiero de' ROMANI si dilata. Si allarga fuori del cerchio de' fatti particolari. Il quirita si sente più chiaramente e figlio di ROMA, e italiano, e uomo, tanto più che a poco a poco LA CITTADINANZA ROMANA si estese a tutta Italia. A’tempi di Storia della Filosofia. – 1. e alle 24 2 as 2 CICERONE non rimane quasi più possedimento in ITALIA non assegnato a'cittadini per via di colonie; il qual fatto, unito all'altro che già notai de’ primitivi abitatori ricaccianti le colonie greche, spiega com’in Magna Grecia ed in Sicilia i dialetti sieno italici puri (chè i pochi Greci di PUGLIA non sono gl’antichi), non già ellenici come in Grecia moderna e in alcune parti del l'Asia minore. Le colonie di ROMA, aiutate dall'affinità primitiva delle schiatte italiche, formano così l'unità naturale, o la consanguinità della nostra nazione; nazionalità naturale determinata da'naturali confini del nostro paese, e che si manifesta nell'unità formale de dialetti, o già contemporanei al romano, o nati da esso. Indi allora nacque la politica nazionalità benchè dopo cinque secoli di guerre; ma lasciando a’municipj un'im magine di ROMA, consoli, senato e popolo com'a FIRENZE (Malespini e Villani), e concedendo a que municipj amministrazione lor propria; indi vennero i nostri comuni del medio evo. Roma e l'ITALIA, considerate in relazione col mondo, formarono nelle menti romane com'un archetipo di perfezione. Il vecchio PLINIO (giova ripeterlo qui) scrive dell' Italia. Omnium terrarum alumna et parens, omnium terrarum electa; una cunctarum gentium in toto orbe patria. E VIRGILIO, lodando magnificamente l'ITALIA nel secondo delle Georgiche, non si ristringe a Roma, e dice. Hæc genus acre virumi, Marsos pubemque Sabellam Adsuetumque malo Ligurem, Volcosque verutos Extulite.” E Virgilio finisce con quell'alte parole. “Salve, magna parens, Saturnia tellus Magna virum.” Giunto un popolo a questa larghezza di sentimento e di riflessione, possiede l'idealità necessaria per la filosofia. Non lo stringono più le necessità de'fatti speciali, stende il pensiero alle attinenze, considera la natura dell'uomo e delle cose. Questo svolgimento di coscienza per la riflessione venne promosso da una causa tutta particolare a Roma ed all'ITALIA. Qui, più ch'altrove nell'antichità, e sacro il connubio; e gli affetti di famiglia v’ebbero consistenza per molti secoli. La stessa mitologia nostra, come dice Polibio, rigetta le nefandezze de' simboli elleni. Or bene, gli affetti di famiglia tengono vivo il senso morale, che dipende dal l'idealità suprema della legge e del dovere. Non v'ha dunque da stupire, se VIRGILIO, benchè imiti Omero, si distingua tanto da lui ne' principali concetti che governano il poema; ossia, nel concetto che ordina il poema stesso e ch'è una disposizione di provvidenza rispetto a’ Romani; poi, nel concetto di patria ch' è Roma; in quello altresì di nazione (non di schiatta soltanto, come la Grecia ), cioè di tutte le genti italiane, non solo consanguinee (schiatta italica), ma dimoranti pure in unico paese (nazionalità naturale) e poi congiunte da ROMA (nazionalità politica): nell'altro di famiglia onde ri fulge l’Eneide dal principio alla fine; per ultimo, nel l'intima e soave descrizione degli affetti, con la quale il poeta mantovano prepara la poesia cristiana. Sicché, quand' io leggo in alcuni libri ch'a Virgilio manca un'idealità propria, prego da Dio la fine di certe passioni che impediscono la equità de' giudizj. Però, mentre allargavasi il dominio romano, cresce vano le ragioni d'intima civiltà; le quali, per altro, s'acchiudevano già in Roma ab antico. La prisca gente romana che ch'ella fosse e in qualunque modo si ragunasse da prima, certo è, che s'ella fu rozza per le necessità di continue guerre, sorse tuttavia tra popoli molto civili; ebbe accanto la Magna Grecia e l'ETRURIA, e le tante città de’ SABINI e del LAZIO. Ora chi non sa quanto valgano mai le tradizioni civili anco tra popoli rozzi? NUMA vien detto alunno di Pitagora; ' e l'anteriorità di quello è spiegata dall'antichità delle scuole pitagoriche, com'altrove narrai, Dice CICERONE. “Romuli autem ætatem jam inveteratis literis atque doctrinis fuisse cernimus.” (De rep.): e Agostino scrive nella “Città di Dio” che Romolo e venuto non “redibus atque indoctis temporibus, sed jam eruditis et expolitis.” Plinio cita le belle pitture d'Ardea più antiche di Roma. I Romani predarono dalla sola Volsinia 2,000 statue. Bolsena in Fenicio significa città degli Artisti (Cantù, St. Univ.) Se a ciò aggiungo la tradizione, che le leggi de cemvirali si prendessero di Grecia (tradizione falsa per le leggi che s'attengono a' costumi di Roma, vera probabilmente quant'al modo d'ordinarle ), e se aggiungo altresì la perfezione che graduatamente il gius positivo ha dal gius onorario, mi capacito che nel seno di ROMA cresce un germe di civiltà e però di filosofia, da venire a compimento, quando se ne offerisse la occasione. E questa occasione, testimonio la storia, è sempre qualcosa d' esterno. L'occasione a Romani venne da Greci conquistati. Ed ha il proprio segnale nell'ambasceria di Critolao, Carneade e Diogene babilonese. CATONE si sforza di cacciare le sette greche. Invano, il terreno era preparato. E la pianta fiorisce. Ben è vero che la speculazione puramente filosofica non dura a lungo, ma prosegue a fecondare il diritto. E la qual brevità ha due cagioni principali. I sistemi greci, che aveano menato tant' oltre la FORMA LOGICALE della filosofia, quant'alla MATERIA poi l'aveano lasciata in dubbiezze infinite, come vedemmo; talchè si richiede uno sforzo più che umano a rilevarla: poche verità si conservavano intatte da ordirvi la scienza. Quindi, o rimane solo a far opera d'eruditi e d'accozzatori, come gli ecclettici d'allora; o bisognara trar fuori quel poco di certo, che non da soggetto a copiose speculazioni. In secondo luogo, allorchè ROMA venn'a maturità di pensiero, cadde in servitù che isterili la letteratura e la scienza. Quindi, i sistemi latini ROMANI si riducono il più alla filosofia di CICERONE, e alle scuole de' Giureconsulti. I filosofi anteriori a CICERONE seguirono i Greci pressochè interamente. LUCREZIO ripette quasi le dottrine del Giardino; ma nondimeno LUCREZIO mostra la coscienza di romano, allorchè, facendo materiale l'anima, pur conta fra gl’elementi costitutivi di essa un elemento innominato, quasi animo dell'anima. “Nobilis illa vis, initum motus ab se que dividit ollis, Sensifer unde oritur primum per viscera motus.” (De Nat.). E, quando stabilì negl’elementi un moto spontaneo per ispiegare la libertà E quando celebra la divinità della natura con versi stupendi e la santità del matrimonio. SENECA non si parte dal PORTICO, benchè fa professione di non ispregiare nessuna scuola. ANTONINO, com’Epitetto, ha lasciato aurei precetti, ma senza ordinamento di scienza. CICERONE, al contrario, istitue speculazioni proprie, che certo hanno forza nell'universalità de' Romani culti e nella giurisprudenza. Io dunque parlo di CICERONE e de' Giureconsulti. Fin d'ora io dico che CICERONE si propone di sceverare (con un principio superiore) le parti vere e certe de sistemi greci dalle false od incerte, di comporle in ordine chiaro, d'applicarle alla vita privata, e ch'elle confere all'eloquenza. Questa filosofia di CICERONE suol chiamarsi ecclettica; e chi la intenda per metodo compositivo e logicamente ordinato, passi. Ma dice male chi la pigliasse per una scelta a caso, senz’un principio interiore e ordinatore. Nessuno puo negare che ciò distingua le speculazioni di Tullio dall' ecclettismo de' Greci mentovati poco fa, i quali ragunavano nella memoria, ma non componevano nel pensiero; e lè distingue pure da’migliori sistemi dell'epoca antecedente, perchè CICERONE li giudica con libertà e li trasceglie. Nè si può mettere in dubbio l'efficacia di CICERONE – non MARC’ANTONIO, chi lo assassina -- su'secoli avvenire. I Padri e i Dottori lo studiarono molto; e Agostino, da uomo grande che riconosce il vero ed il bene onde che venga, scrive nelle Confessioni. Hic liber -- cioè la lettura dell'Or tension -mutuvit affectum meum, et ad te ipsum, Domine, mutavit preces meas, et vota ac desideria mea fecit alia.” Pare che CICERONE trade la schiatta da quel Tullo Azio, che regna gloriosamente su’ Volsci (Plut. in Cic.). E quegli se lo tene per certo, sicchè dice ne' libri Tuscolani, che Ferecide era antico -- fuit cnim meo regnante gentili: indi la smania di comparire tra gli otti mati. Lasciate le scuole, udì Filone accademico; ma insieme pratica Mucio, personaggio assai versato nella politica, e principale tra’senatori, imparando da lui scienza di leggi; e milita con SILLA tra’ Marsi (Plut.). Sente anche Fedro epicureo e Diodoro stoico. In Atene segue Antioco accademico, e non trascura Zenone all’Orto. Anda poi in Asia, e si ferma a Rodi, per esser ammaestrato dallo stoico Posidonio. Favella con tal passione e con voce si concitata, che gli reca danno alla salute. In Sicilia e pretore giusto, umano, amatissimo. Dopo la congiura di Catilina, CATONE stesso chiama Cicerone padre della patria dinanzi al popolo. Esiliato da Roma per le mene di CLODIO, vi rientra poi come in trionfo. Gli furon trionfo tutte le vie d'Italia, per le quali CICERONE passa. Stette fedele alla re pubblica contro la signoria di GIULIO CESARE e la tirannia di MARC’ANTONIO. MARC’ANTONIO lo manda a trucidare, e Cicerone porse il collo alla spada (Plut.) Ama la famiglia con tenerezza. Esule, scrive a Terenzia sua e alla figliuola lettere d'amore sconsolato. Come CICERONE intende la santità dei pubblici ufficj, lo mostra la famosa lettera a Quinto fratello. Le sue lettere, scritte da lui senz'intenzione di pubblicità, e che formano uno de' più bei libri del mondo, lo mostrano sempre d'animo schietto e buono. Scrive a PETO. “Sii persuaso, che giorno e notte non altro cerco, non altro penso, se non che i miei cittadini sien salvi e liberi. Non lascio opportunità d'ammonire, di fare, di provvedere. Infine io son fisso qui, che se in tanta cura e amministrazione ho da porre la vita, stimo di aver finito preclaramente. (Ad fam.) Non pecca d'orgoglio, ma di vanità; si lodava spesso, e questo aizza gl'invidiosi, e a lui diminusce rispetto. Faceto, morde non di rado altrui, e, senza volere, s'accatta nemici; ma in lodare i meriti veri abbonda con allegrezza e con liberalità d'uomo sincero e benevolo. Parve talora incerto ne' propositi, e troppo addolorato nelle sventure. Prende due mogli, ripudiando la prima. Volle dedicare un tempio alla figliuola morta. Loda e invidia gli uccisori di GIULIO CESARE. Loda prima GIULIO CESARE troppo, ma non l'opere mai. Dice Capponi (Archivio Storico ): Ma chi fosse più di me severo a Tullio, pensi com'egli animosamente comincia la sua vita d'oratore e la compiesse gloriosamente. Assalse nella difesa di Roscio d'Amelia un Crisogono liberto di Silla ch'era affrontare SILLA medesimo. Principe nella città e guida e anima del Senato, combatte MARC’ANTONIO e incontra la morte.Oratore, accusa sempre gli scellerati, difese qualche volta i non innocenti. FILOSOFO, stette per lo più dalla parte del vero. Bensì approvò il suicidio, l'assassinio de' tiranni, la vendetta, un certo sfogo di carnalità, e la schiavitù. Uomo di stato, cerca troppo la lode, ma insieme la grandezza e il bene della patria. Scrive d'eloquenza, ed e oratore sommo. Scrive di filosofia morale, ed e uomo dabbene. Scrive di cose civili, ed e gran cittadino. Ecco i fatti principali e virtù e difetti che spiegano LA FILOSOFIA DI CICERONE.  È impossibile non vedere in CICERONE tre forti amori, di gloria, di patria e di famiglia. E' reca in tutto ciò un'ardenza di cuore, la quale ha talvolta del molle, ma la tenerezza è temperata da un senso vivo d'onestà e di decoro. (V. le Lettere scritte in esilio.) Ude tutte le scuole, e però raccoglie il meglio; ma con iscelta libera e ordinata, perchè uomo libero ed T 11 tro operoso, e ingegno forte. Romano e uomo di stato, segue, più che non facessero le scuole greche, il precetto socratico di badare nella scienza al fine del bene; e tal qualità pratica non diminuisce il valore delle dottrine, anzi lo cresce, purchè la scienza si pregi anco per sè, come fa CICERONE. Badando al bene, odia la parte ipotetica e vana de sistemi anteriori, e ne prende il poco, ma certo e buono. Però, indulgente ad ogni setta, coll’Orto non volle mai pace. Un po' vano, pompeggia assai nelle parole; il che gli scema vigore qua e là. Ma nella filosofia va semplice e spedito. Uomo universale, senatore e console di Roma, cerca l'universalità negli; e questa filosofia da a 'Romani l'idea di tutto il sapere. Pieghevole alla opinione altrui per bontà di cuore e per bramosía di favori popolari, combatte nella “Divinazione” le falsità del culto, le rispetta in altri luoghi; ammira il suicidio dei filosofi del Portico, non se l'attenta per sè, timido, dicon taluni, rimorso da coscienza non confessata, dirò io, e lo credo. Taluno da quelle parole di CICERONE ad Attico: ATÓMp492 sunt; minore labore fiunt, verba tantum affero, quibus abundo” (Ad Att., XII, 52). Deduce ch'esso i libri filosofici traduce, non li facesse di suo. Ma quando poi sentiamo che Cicerone stesso, in tempi che gli autori greci erano familiari, e molti a Roma i maestri greci, e in opere dedicate a dotti di greco, quali ATTICO e BRUTO, o a studenti in Grecia, come il figliuolo, dice (De fin. 1, 3): Noi non facciamo ufficio d'interpreti, ma sosteniamo le dottrine di coloro che approviamo, e aggiungiamo ad essi il nostro giudizio e un ordine nostro di scrivere. E dice altrove (De off. I, 2): Ora seguiremo e in tal soggetto il PORTICO principalmente, non come interpreti (non ut interpretes); bensì, al solito nostro, berremo a’lor fonti quanto per giudizio e arbitrio nostro ci parrà.” Allora, io affermo che Cicerone non poteva dire una bugia così sfacciata ed inutile. Narra egregiamente Plutarco. Eragli studio comporre dialoghi di filosofia e tradurre dal greco  an 10 1:. bi lice. li 1 tes  377 (In Cic. ). E così un greco antico, più che i moderni non greci, distingue bene i libri tradotti come il Timeo da'propri di Cicerone. L ' opere di lui distingue Ritter in filosofiche o riposte ed in popolari. A me non sembra; sì scorgo chiara la distinzione del DIALOGO SPECULATIVO, come i libri accademici, dagli scritti che hanno un fine pratico, ad esempio gli Offici, dell'Amicizia, e simili. Negli Officj chi mai non vede un ordinamento scienziale? E se CICERONE rispetta gli dèi più qui che altrove, pensiamo che ciò s'usa da tutti i filosofi, quando essi non ispeculavano direttamente sulla divino. Mi pare, poi, manifesta la distinzione, e più principale: tra la FILOSOFIA NATURALE (De natura Deorum, De divinatione ), LA LOGICA -- Academicorum, Topica, De inventione, De oratore etc. – LA FILOSOFIA MORALE (Tusculanorum, De officiis, De finibus, De senectute, De amicitia, De legibus, De republica, De fato. Quantunque in ciascuna classe si trovino mescolate più o meno le dottrine, non già divise assolutamente. L' Ortensio poi è perduto, d'altri libri restano frammenti. Or dunque Cicerone, imitando Socrate, tornò a'principj e al fondamento del sapere. Quegli, come questi, si trova in mezzo a una confusione di sistemi, e, come Socrate, chiama i suoi al conosci te stesso, affinchè nella coscienza di noi prendiamo il rimedio alle superbie d'ipotesi vane e il principio della sapienza vera. Quand' io dico che CICERONE imito Socrate, già non lo paragono a lui, nè come filosofo glielo fo uguale, sì discepolo; dico bensì, che il tornare a'principj è in tutte le cose rinnovamento unico e condizione di nuovo cammino; e chi rinnova, è istitutore novello e cominciatore d'un'epoca propria. E se CICERONE non riuscì a tanto come Socrate, ne chiarii altrove le cagioni; e a lui non s'ha da imputare. La scienza e la civiltà del Paganesimo cadeno, e sempre più CICERONE le trova quasi in fondo, nè potè nè sperò ritirarle in cima. Fatto è, che CICERONE, come Socrate, capi la stranezza delle sette pagane. Ama con grand' amore la filosofia, 2  ! la pre 18 MA Tha U. >> TH e ne scrive lodi magnifiche in ogni suo libro; anzi l' Ortensio e composto da lui per esortazione a filosofare; e nondimeno quand' ei volgevasi attorno, e sente le strane opinioni di tante sette, esclama: Niente si può dire di tanto assurdo, che non sia stato detto da qualche filosofo. (De div.) Ammone per ciò a rientrare nella propria coscienza, a ripigliare il conoscimento di noi, a seguire così una filosofia meno sicura de' propri sistemi, non presuntuosa (minime arrogans: De div. II, 1 ). Ripeta il precetto che sta sul tempio d'Apollo, nosce te ipsum, e dice: Essendo tante e sì grandi cose che si scorgono nell’uomo interiore da quelli che voglion conoscere sè stessi, madre loro e educatrice è la Sapienza (De off.). CICERONE invita a fermar l'occhio in questa evidenza interiore, dove tante verità si veggono chiare -- quæ inesse in homine perspiciuntur. In questa coscienza di noi stessi, CICERONE come Socrate, più di Socrate forse perchè ROMANO, sente l'uni versalità del vero, distinta dalle opinioni particolari, e l'amore che tende al vero, e l'essere nostro sociale e religioso, relazioni universali anch'esse; e però CICERONE inculca sempre di fermar l'occhio in ciò ch'è proprio dell'uomo, ossia nella retta ragione (De off.); e contro L’ORTO fa valere gli affetti più generosi dell'animo (ivi, e negli Acc. e ne Tuscul. e quasi per tutto ); e chiama in sostegno il senso comune e le tradizioni umane e divine. Così ne' libri Tuscolani adopera l'autorità del senso comune a dimostrare l'esistenza di un divino e l'immortalità dell'anima umana; e dice ne'Paradossi contro gli Stoici Noi più adope riamo quella filosofia che partorisce copia di dire, e dove si dicono cose non molto discordi dal pensar della gente. (Proem.) – cf. Grice, “Philosopher’s Paradox” -. E nelle seguenti parole del Tuscolani si vede com'ei raccogliesse, di mezzo alle opinioni varie, le tradizioni universali de filosofi e le divine. Inoltre, d'ottime autorità intorno a tal sentenza --cioè l'immortalità dell'anima -- possiamo far uso; il che in tutte le que HIE ale Di D. 4 stioni e dee e suole valere moltissimo -- in omnibus causis et debet et solet valere plurimum. E prima, di tutta l'antichità (omni antiquitate ) -- la quale, quanto più era presso all'origine divina (ab ortu et divina progenie ), tanto più forse discerneva la verità. » (Tusc.) E tra filosofi, che CICERONE cita, preferisce appunto FERECIDE, come antico, antiquus sane; e indi ne conferma l'autorità con quella di Pitagora e de' Pitagorici; il nome de'quali, egli dice, ebbe per tanti secoli tanta virtù che niun al tro paresse dotto (S 16). E dice più oltre che, secondo Platone, la filosofia e un dono, ma quanto a sè, una invenzione degli dèi. Philosophia vero omnium mater artium, quid est aliud, nisi, ut Plato ait, donum, ut ego, inventio deorum? » ($ 26. ) Nel che s'accenna il principio divino della sapienza e della tradizione. Condotto da questo filo tra i ravvolgimenti delle sette cansa gli eccessi d'ogni maniera. IL PORTICO, per esempio, la cui morale severità CICERONE approva e segue, dice, che nessun uomo è buono fuorchè il sapiente. Ma di questo sapiente ne fa un'idea sì alta. che confessavano poi, e' non darsi quaggiù; e però IL PORTICO, se consentanei a sè, dovevan dire impossibile umanamente la loro superba virtù e disperarne come BRUTO morente. CICERONE al contrario riconosceva una più umile sapienza e virtù, che può essere di tutti, e che ci abbisogna nel vivere comune. (De amic.) IL PORTICO, crede CICERONE, indiando la natura, di poter trarre le superstizioni volgari a senso ragionevole (come tenta VARRONE per testimonianza d’Agostino – “Città di Dio”. Ma Cicerone le deride (De nat. Deor.). Mena buono all’ACCADEMIA, al LIZIO, e al PORTICO, che la più alta felicità dell'intellettuale natura sia la contemplazione (Hort. in Agost. De Trinit.). Ma in questa vita, ei dice, la contemplazione senza la pratica delle virtù è nulla (De off.); e quindi censura Platone che scrive: Il savio non essere obbligato a civili negozi. (De off.). IL PORTICO, per alterezza di ragione, spregia il corpo e i beni corporei. Ma Cicerone dice:  11 he COL iti be 111 15:-11 19 Poichè s'ha da seguire la natura. Noi siam anima e CORPO. Non possiamo spregiar il corpo, nè si dee imitare que'filosofi, che accorti d'un che superiore a'sensi ne spregiano la testimonianza. Con che l'accoccava pure agl’Accademici. (De fin.). IL PORTICO nega l'efficacia del dolore sull'uomo sapiente, e svile ogni piacere. CICERONE invece mostra che il dolore eccessivo è impedimento agli officj, e che le temperate giocondità son utili e buone. (De sen., De fin.). IL PORTICO, concependo la virtù con altezzosa rigidità, stimano uguali tutti i malvagi e tutti uguali i peccati, perchè tutti contrarj al bene. CICERONE confuta in più luoghi tale uguaglianza e mostra, per esempio, ch'altro è mancare a posta, altro è nell'impeto di passione. (De off.) Se nella morale ei tenne dal PORTICO, rigettate le loro esagerazioni, in logica, metodo filosofico e analisi di concetti stette per l’ACCADEMIA giacchè, come dissi altrove, la riforma del filosofare comincia sempre da un dubbio temperato. Ma qui è il divario, la temperanza; perchè, dove l’ACCADEMIA (a quello che ne sappiamo) nega ogni verità e CERTEZZA nel percepire le cose e ammetteno solo una verosimiglianza, uguale per tutte le opinioni. CICERONE invece ne' fondamentali principj e nelle verità più alte non poneva dubbio, e quanto a' casi particolari li stima probabili, non ugualmente, sì convarietà di gradi; e al probabile opponeva quel ch ' è improbabile affatto. Ecco le sue parole: Vorrei che fosse ben chiaro il nostro pensare; chè noi non siamo già di quelli il cui animo si crede aggirato sempre in errori, e senz' alcun che da tenere: che sarebbe mai questa mente, o questa vita piuttosto, negata ogni ragione, non solo del disputare, ma del vivere altresì? Noi invece, come dagli altri si dicono certe alcune cose e alcune incerte, così noi, dissenziendo da essi, diciamo probabili alcune e alcune improbabili. (De off.) Qui si scorge, che il dubbio di Cicerone non cade punto sulla ragione umana e sulla vita, o sull' essere proprio, ma sul domma fisico e morale del PORTICO. E nel libro delle Leggi dice” « Preghiamo poi, che questa Accademia nuova di Arcesilao e di Carneade, perturbatrice di tutto, si cheti; perchè se darà dentro a tali dottrine, che ci sembrano ordinate e composte con assai aggiustatezza, recherà troppo rovina. Io bensì desidero placarla, ma cacciarla non oso.La qual conclusione mostra, ch'ei non rigetta in tutto i dubbj, ma dov'essi erano cattivi. E più si discosta dagl’ACCADEMIA allor chè dice. Quasi in tutte le cose, ma nelle fisiche più che mai, saprei dire piuttosto quel che non è, che quel che è. (De nat. Deor.) Nel vivere nostro, e massime a quei tempi fra tanto diluvio d'opinioni non monta già poco il sapere quel ch’una cosa non è; significa sapere che il divino non è come noi, che il divino o l'animo nostro non sono CORPO, che il fine dell'uomo non è la voluttà; negazioni pregne d'affermazione, implicita si ma certa. E chi vuole stimare quanto merita il ritegno di CICERONE, anc' allora ch ' ei parla di probabilità negli officj particolari -- non mai nella legge suprema -- pensi l'assurdità del panteismo e del dualismo antichi, le finzioni rozze di quella fisica, l'incertezza della morale, anche in Platone e Aristotile; e s'accorgerà, che se Socrate meritò lode dicendo, contro l’arroganza de' sofisti. Io so di non sapere, merita pur lode il nostro CICERONE d'averlo imitato in tanta corruzione di filosofia e di costumi. E quindi ei non ha dubbiezze contro L’ORTO. Dice a loro: che la voluttà sia il nostro fine, voi non lo direste in Senato; nè la voluttà va messa tra le virtù com'una meretrice in un'assemblea di matrone. (De fin.) La natura ci ha fatti per qualcosa di meglio che non i piaceri del senso. Il piacere stesso non cato per sè, ma per noi (De fin.). Il dovere ha da cercarsi per sè stesso. E la dottrina dell’ORTO, se consentanea a sè, non lascia luogo al dorere. (De off. ) Ma questo sceverare il vero dal falso, con che 01. Jo (dine interno di principj si faceva? Già ho detto, che Cicerone ritorna al conosci te stesso di Socrate, cioè al fondamento della coscienza. E ho accennato, che ivi egli trova l'uomo non solitario, ma in relazione conl divino, con gli altri uomini e col mondo. Però esclama: « In questa magnificenza di cose, in questo cospetto e conoscimento della natura, o dèi immortali, oh quanto conoscerà sè stesso l’uomo; il che c'impose Apollo Pizio! (De off.) Per via della coscienza, s'accorse Cicerone in modo chiarissimo di tre verità: prima, che l'uomo sta sopra l'altre cose; poi, che la ragione dell'uomo prevale al senso e al corpo di lui; infine, che questa ragione ci mostra il divino con le sue leggi. Viene da ciò la definizione della sapienza o della filosofia nel II libro degli Officj (S2): scienza delle cose divine ed umane e delle cagioni di queste; definizione più determinata che non l'altra ne' libri Tuscolani (V. 3), dov'ei parla storicamente. E s'arguisce però, che Cicerone stringe la scienza prima, secondo la universalità di essa, nel conoscimento ragionato del divino e dell'uomo e de’sommi principj. CICERONE capisce, come nella scienza si désse un ordinamento necessario; e diceva: « È malagevole sapere alcun che in filosofia, chi non ne sappia o il più o il tutto. » (Tusc. II, 1. ) Cicerone, come Socrate, ebbe una profonda coscienza della ragione. Bisogna riflettere a noi stessi; in noi tro viamo la ragione, che ci distingue da' bruti e dalle al tre cose; nella ragione troviamo i giudizj spontanei, naturali, evidenti, universali. Questi fa d'uopo seguire. Ecco il principio ordinatore della scienza e della virtù. Il tempo, scrive Cicerone, cancella i capricci delle 110 stre opinioni, ma conferma i giudizj della natura. Opinionum enim commenta delet dies, naturæ judicia con firmat (De nat. Deor.). Ma questi giudizi erano avviluppati in una moltitudine di sistemi. Però, quanto alla teorica dell'essere, Cicerone sta contento a poco. Chi potrebbe mai condannarlo d'insipienza? Egli non si dà pensiero nella fisica nè de quattro elementi, nè del quinto d'Aristotile, nè della materia o della forma. Le sue indagini hanno per fine la esistenza e natura della divinità, le relazioni di questa col mondo e l'immortalità dell'anima umana (Ritter). Quanto alla divinità, egli non ne dubita punto, perchè sentiva nella ragione propria un che divino, la eterna legge della giustizia (De leg.). Ma intorno alla natura di Dio non afferma gran cosa. Del metodo di lui, su tali materie, porg' esempio il libro De natura Deorum. Ivi disputano insieme un epicureo, uno stoico e un accademico. L'accademico nega il dio animale degli Stoici, e termina dicendo: « Questo io diceva, non perchè voglia negare la natura divina, ma per mostrare quant'ella sia oscura e piena d'intrigate difficoltà. » Lo stoico poi combatte l ' epicureo. Cicerone, che si tiene da parte e non entra nel dialogo, che cosa conclude? E' dice: la disputazione di COTTA (Accademico) sembra a VELLEIO (Epicureo) più vera. A me l'altra di BALBO (Stoico), più verosimile. Cicerone, adunque, mostra con singolare finezza quanto i dubbj dell'Accademia piacessero agli Epicurei; e però com’egli, che s'allontana da questi, s'allontani pure da quella ragionando sul divino. Pur tuttavia non sa nulla giudicare assolutamente sulla natura del divino stesso e solo ammette verosimiglianze. Insomma, le dottrine certe di lui le abbiamo ne' libri morali, dove si afferma l'esistenza della divino (fonte ll'ogni giustizia e d'ogni diritto ), la legge morale e il libero arbitrio, e dove perciò s'approva il detto di Crisippo, ch'ogni proposizione è vera o falsa necessariamente (De fato); le opinioni verosimili si hanno ne' libri di FILOSOFIA NATURALE, dove apparisce dubbj sulla natura del divino e dell'anima, e sulle relazioni del divno con l'universo, e quindi sulla prova fisica della divinità provvidente; ne' libri logici, finalmente, su ' principj della ragione e sull'evi denza interiore non v'ha dubbio di sorta, beusì v'ha dubbio sul criterio per giudicare la natura delle cose esteriori percepite da ' sensi. Anche  Kant pose superiore la certezza dell'argomento morale ad ogni altra certezza. Ma Kant celebra quell'argomento dopo aver negata la validità della ragione pura o teorica o speculativa. Cicerone, al contrario, non la nega mai, anzi la magnifico, e solo crede ristretta di molto la possibilità de' giudizj accertati. Dunque Cicerone, quant'alle dottrine supreme, e ch'egli poteva conoscere fra l'ombre del Paganesimo sempre più fitte, ammette la verità e la certezza; ma nel determinare più specificamente quelle verità pone la verisimiglianza. In ciò solo fu accademico; e non pienamente nem men qui, come avvertii già innanzi. Pare ch'egli cadesse nel dualismo, opponendo la necessità della materia alla libertà divina; e che cadesse nel semi-panteismo, facendo divina la nostra ragione. Il qual ultimo punto si raccoglie da più luoghi; ma più da queste parole. Le altre parti, onde si compone l'uomo, fragili e caduche, le prese da generazione mortale. Ma l'animo è generato dal divino (De off.), e ammonisce di rammentare nel giuramento, che chiamiamo in testimone il divino, « cioè, com'io penso (dice Cicerone) la mente propria, di cui non détte il divino all ' uomo nulla di più divino. » Se non che, si vede la temperanza dell'affermare in quello ut opinor; tant'era l' ecclissamento delle principali verità sul finire del Paganesimo! Quant'alla teorica del conoscimento, CICERONE distingue l'intelletto dal SENSO. Lo distingue tanto, che come Platone e Aristotile, trovando un'immagine del divino nella mente nostra, la identifica con esso. Anzi nel testimonio del SENSO non pone più autorità ch ' una verisimiglianza, il che procedeva dal dualismo, secondo il quale il divino e la mente son divisi dal resto. E per la logica si valse d'Aristotile, come si ha dal libretto de' Topici. È stupenda la teorica dell'operare; perchè ivi reca Cicerone più che altrove le verità universali raccolte dal testimonio della coscienza; e vi reca quel suo modo di escludere l'esagerazioni e di comporre le spatse verità con un principio più alto. Qual principio? Il rispetto della ragione, che, in quanto conosce la verità, è retta ed è regola delle nostre operazioni. Bisogna seguire, ei dice con gli Stoici, la natura, non l ' arbitrio delle passioni. Ma la natura nostra è ragionevole; dunque ogni atto nostro dee farsi con ragione e sottomet terle l' appetito. (De off. I, 28, 29. ) E questa ragione ha potestà di comandare, perchè sta in essa una legge naturale ed eterna del bene. « La legge (così Cicerone) è la ragione somma, insita nella natura, e che comanda ciò ch'è da fare, proibisce il contrario. (De leg.) Questa legge è nata da tutti i secoli, primache fosse scritta legge alcuna, o che qualche città fosse istituita. Questa legge viene dal divino, perch' ell ' è divina; e chi non ammette il divino, non può ammettere la legge eterna e naturale.  La legge è la ragione divina partecipata a noi; e poich' è comune la retta ragione, e la comunanza di questa è società, però noi siamo primamente consociati coll divino. E poich' ell' è comune a tutti gli uomini, noi in secondo luogo formiamo la società del genere umano « e tutti obbediamo a que st' ordine celeste, e alla mente divina, e a Dio sovrap potente » (parent huic celesti descriptioni, mentique divinæ et præpotenti divino. . Avendo questa legge divina nell'anima « tutti gli uomini (soli essi fra gli altri animali) han qualche notizia del divino, nè v'ha gente sì fiera che, ignorando qual divino adorare, pur non sappia che ve n'è uno. Noi dunque siam nati alla giustizia; e il gius non è costituito per opinione, ma per natura. Sì, per natura, giacchè siam tutti simili per la ragione, e ciascun di noi si definisce com’uomo, e la mente di ciascuno « è diversa in dottrina, ma nella facoltà del sapere è uguale. Dalla legge si genera il dovere, che va quindi cer cato per sè stesso, come sudditi alla retta ragione, ne vi può essere alcuna virtù se non si cerchi per sè, ma per la voluttà o per l'utilità. (De off.) Come la ragione guida ogni atto umano, così la retta ragione reca in ogni atto un officio. Talchè, dice il grand’uomo, « nè in cose pubbliche, nè in private, nè in forensi, nè in domestiche, nè se tu operi teco stesso alcun che, nè Storia della Filosofia. 25 se pattuisci con altrui; non v ' ha momento di vita che possa mancare di qualch 'officio; e nell'adempirlo è tutta l'onestà, nel trascurarlo la turpitudine. » (De off.) Nell'adempire gli officj stanno le virtù, cioè la prudenza, la giustizia, la temperanza e la fortezza. La virtù, se guendo la retta ragione che ci fa conoscere l'ordinamento naturale delle cose, non è altro che l'osservanza dell'or dine stesso (De off. I, 4); sicchè « nella universale so cietà son varj i gradi degli officj; onde si può sapere ciò che si conviene a ciascuno; e quello che si dee prima agli dèi immortali, poi alla patria, poi a' congiunti, infine di grado in grado agli altri. » (De off.) Ma tant'è vero, che tutto ciò si vuol fare per l'autorità della legge eterna in sè, e per la bellezza del dovere, che certe cose turpi non le giustifica nemmeno l'amore di patria. (De off.) Egli distingueva poi l'utile apparente dalla virtù: ma l'utile vero, diceva star sempre insieme con l'onestà; e quand' apparisce che vi sia contrasto, è turpe eziandio di star a pensare sulla scelta. (De off..) L'utilità è l'effetto, non il fine della virtù. (De amicitia) E dalla virtù nasce l'onestà (che in latino ha senso d'onorabilità ), anche se niuno la conoscesse: « etiam si a nullo lauda retur, natura esset laudabile. » (De off.) Giacchè la virtù reca con sè il decoro, ch'è come la bellezza: « l'uno viene dall' animo onesto, l'altra dalla sanità del corpo (De off.); e come il decoro de' poeti è la convenienza delle parole col significato, così il decoro della onestà è la convenienza con la natura. » (Ib. 28. ) Però, come i Greci dicevano o" te uovoy (yóv to 2026, il solo buono è bello, così Cicerone (come romano) muta il bello nel concetto d'onorabile, e dice: quod honestum sit, id solum bonum esse: onorabile è solamente ciò ch ' è buono. (Paradox. I, Osservazione del Ritter. ) Dalla legge eterna, che genera il dovere e la virtù. nascono le leggi positive; talchè l'esistenza di Dio è il proemio di tutte le leggi (habes legis proemium, De leg.). « È stoltissima cosa (segue Cicerone contro l’Orto) che credasi giusto tutto ciò ch'è negl'istituti e nelle leggi de' popoli. E che? dunque, anco le leggi de'tiranni?... Ma v'ha un unico gius, da cui è unita la società degli uomini, e cui stabilì un'unica legge ch'è la retta ragione di comandare e di proibire: e chi la ignora, è ingiusto, o ch'ella sia scritta o no. Che se la giustizia è solo l'obbedienza a leggi scritte e agl'istituti de' popoli; e se, come dicono coloro, tutto è da misurare con la utilità, trascurerà le leggi e le infrangerà se può chi lo creda fruttuoso. Così non v'ha più giustizia se non v'ha legge naturale, e ciò che per utilità è stabilito, da un'altra utilità vien tolto via. Anzi, se da natura non si conferma il giure, cessano tutte le virtù. » (De leg. I, 15. ) La legge naturale ha da regolare il diritto pub blico, quello delle genti e il privato; e il filosofo nostro dà precetti santi sulle pene, sulla guerra, sui trattati. sui contratti e va' discorrendo. Così, dovrebb' essergli più mite il giudizio degli stranieri, a legger ciò ch'ei dice della Repubblica romana: dopo averne narrato l'umanità ne’secoli primi, aggiunge che questa diminuì a poco a poco, e dopo le vittorie Sillane cessò; e quindi esclama: jure igitur plectimur « a ragione dunque siamo puniti. » De off. II, 8. ) E quella pena noi abbiamo scontata per se coli. De' pubblici reggimenti loda il misto, per gli stessi argomenti d'Aristotile e con l'esempio di Roma. (De rep.) Che fa adunque la filosofia di Cicerone? Essa gli donò (com’ei ripete più volte) copia e splendore e, col crescere degli anni, efficace brevità d'eloquenza; gli dettò que' Dialoghi di metafisica, dov'hai il fiore de sistemi greci, eletti e temperati; que' libri rettorici, che sono un codice dell'arte per comune giudizio; e que' libri morali degli Officj, delle Leggi e della Repubblica, dove al me todo sperimentale dello Stagirita è unita la contempla zione platonica e la severità stoica, senza i loro eccessi. Però, quand' io sento uno storico illustre' scusarsi del l'aver troppo parlato di Cicerone perchè in lui non v'ha troppo di nuovo, prego Dio che la scienza ritorni alla natura, e, più che dell'insolito, sia desiderosa del vero. La giurisprudenza è scienza filosofica, perché riguarda gli alti umani o personali. La giurisprudenza positiva non altro fa se non appli care il diritto naturale. Si cerca, quindi, lo svolgimento della giurispru denza romana e quanto alle forme logiche, e quanto alla materia. Quattro età del gius romano. Prima età: consuetudini. È difficile determinare qual parte avesse la civiltà, e quindi la scienza, in que' primi germi del diritto. Ma vestigi di sapienza ve n'ba. Che cosa abbia di vero e di falso la tradizione sulle dodici tavole. La materia di esse certo è romana. Probabilmente la forma logica loro è di Ermodoro Efesio. Seconda età: si pubblica il segreto delle azioni. La giurisprudenza, perciò, viene alla gioventù dalla puerizia. Ma crebbe in modo segnalato allorché, sul cadere del sesto secolo di Roma, si propaga ivi la filosofia. Il settimo se colo è quello di Cicerone. Si prova con l'autorità di Cicerone, che allora si lero a grande stato la giurisprudenza per lo studio della filosofia. Allora si conceve l'idea d'un codice -- idea che vuol abito filosofico delle universalita. Terza età: la signoria de’ Romani, dilatandosi a tutta Italia, fa pos sibili le scienze. Cittadinanza romana a tutti gl 'I taliani. Gius italico che da il dominio quiritario, e il diritto de’ comizii anche per deputati ec. Colonie romane per tutta Italia. Si determina bene il concetto del paese italico. Gius equo e buono. Altra cagione della fiorente giurisprudenza; giureconsulti, per lo più, non sono causidici. Un'altra: l'emulazione in filosofia con gl’oratori. Cenno su’ principali giureconsul ti. Loro virtù. Com'apparisca dagl’autori, ch’essi citado ne' frammenti, lo studio loro ne’ poeti, negli oratori e ne ' filosofi. Si paragona que’ giure consulti a' matematici per tre ragioni. Vigore delle conseguenze. Cura nel l'evitare contraddizioni. Metodo induttivo e deduttivo. L'efficacia della filosofia non si ristringe alla forma logica. Passa alla materia. Tale influsso non apparisce solo da prove particolari, ma più ancora dalla universale conformità di quelle dottrine alle leggi del pensiero e (salvo qualch'errore di tempi ) alla natura umana. Nozioni della giurisprudenza, e perchè i giureconsulti la definissero come la filosofia morale. Distingueno la scienza del diritto dall'arte. Però s'elevano al concetto della filosofia vera, rigettando gli eccessi: la speculazione de’ giureconsulti è contenuta nel vero da' dettami di senso comune e dal fine pratico. Distinzione del diritto in jus naturale, ius gentium et  ius civi. Si mostra ch'a torto i giureconsulti vennero ripresi sul concetto de’ diritti naturali. Non accettabile, quanto alla servitù, la nozione del gius civile. Ma i giureconsulti ROMANI diceno la servitù non secondo il gius naturale, e riconosceno un fatto. Come la parola “ius” non esclude l'idea d'un diritto eterno. E si distingue dalla espressione “legge.” Poi, si ha ne’ giureconsulti ROMANI l'idea precisa del diritto eterno e del diritto naturale. L'efficacia della filosofia si mostra nella giurisprudenza per via del diritto onorario, per via del diritto ricevuto, e per l'interpretazione de ' giureconsulti. Molte novilà introdotte dal gius ricevuto. La virtù e la vera FILOSOFIA de' giureconsulti ROMANI si fa sentire per fino nel loro stile. Si reca un saggio della loro sapienza e brevità elegante. Dalla esposizione delle dottrine di Tullio e de' giureconsulti romani apparisce che l'epoca quarta cerca la comprensione finale. Parlato di Cicerone, è da parlare de' giureconsulti romani. La giurisprudenza è una scienza che e una parte della FILOSOFIA perchè risguarda gli atti umani o personali. La giurisprudenza procede dalla FILOSOFIA MORALE, che abbraccia la scienza de' doveri e quella de' diritti naturali. La giurisprudenza POSITIVA non altro fa che determi nare nella varietà de' casi particolari le immutabili generalità del diritto eterno. Però, se LA FILOSOFIA entra in tutte le scienze com'ordinamento di concetti e di giudizj, entra poi nella GIURISPRUDENZA ROMANA, non solo com'ordine logicale, ma eziandio come scienza dell'uomo e delle ragioni supreme. Avrò dunque a cercare lo svolgimento di LA GIURISRPUDENZA ROMANA, per l'impulso di LA FILOSOFIA ROMANA, nel doppio aspetto della FORMA LOGICA e della materia. La storia di quella e distinta bene dall' Hugo in quattro età nella sua “Histoire du Droit Romaine.” La prima va dall'origine di ROMA fino a le XII tavole, cioè fino alla repubblica. La seconda fino a CICERONE. La terza fino ad OTTAVIANO. Se vero, oltre i due secoli dell'èra volgare. La  quarta eta, fino a GIUSTINIANO. Età di fanciullezza, di gioventù, di virilità, e di vecchiaia. Il giureconsulto Pomponio c'insegna (Fr. 2. D. De Or. Juris) che Roma, ne' primi tempi, si regge SENZA LEGGE nè diritto stabile -- cioè per CONSUETUDINE. La CONSUDETUDINE forma, dice Forti (“Istituzioni Civili”), il diritto privato con l'autorità degli esempi, cioè de' fatti ripetuti, e forma con gli accordi de'potenti il diritto pubblico. Così il potere assoluto del padre, del marito e del padroni è da' giureconsulti risguardato sempre per CONSUETUDINARIO, ed anche l'uso delle clientele. Quanta parte ha la civiltà, e con la civiltà la scienza, in que'primi rudimenti del diritto romano è difficile a definire in antichità si remota e perduti dalle guerre i documenti etruschi. Della Magna Grecia restano scritti, perchè le serba con la lingua loro la stirpe greca. Ma de’ LATINI PRISCHI e dell'Etruria non abbiamo più se non epigrafi tuttora ignote. Ogni lingua e schiatta si confusero nell'unità romana. Certo è, tuttavia, che, almeno gl’etruschi sono molto civili. Sembra non si possa dubitare che il sangue loro si mescolasse nel popolo di Roma -- benchè l'Hugo lo nega. Ma LUCIO FLORO, parlando della guerra sociale, dice chiaro. Quantunque la chiamiamo guerra “sociale” a diminuirne l'odiosità. pure, se stiamo al vero, quella e guerra *civile* -- giacche il popolo romano, avendo mescolato insieme gl’etruschi, i latini e i sabini, e traendo da tutti un sangue solo – “unum ex omnibus sanguinem ducat” --, è di più membri un corpo e di tutti è una unità (Rer. Rom.) Lerminier nella sua “Philosophie du Droit” riscontra con molto acume in VIRGILIO la prima origine de' tre popoli, in Virgilio studiosissimo delle memorie antiche. Lodando l'agricoltura, VIRGILIO dice cosi. Questa vita tennero i vecchi Sabini, questa Remo e il fratello. Così crebbe la forte Etruria. In tal modo si fa la bellissima di tutti gl'imperi, Roma; e una, si circonda d'un muro i sette colli (Georgiche). Fatto è che a taluno par vedere i *tre* popoli nelle tre tribù del primo popolo romano, rammentate da Livio – TRIBU I: i Rannesi o Latini, -- TRIBU II: i Tarsi o Sabini, e TRIBU III: i Luceri o Etruschi (Warnkoenig, “Histoire du Droit Romaine”). Momen (Storia Romana) nega tal mescolanza. Ma Momsen non da le prove. Probabile, a ogni modo, che quel nuovo comune di Roma. sorto fra ’comuni vicini, si mescolasse pure di genti vicine. O si conceda dunque con Niebuhr la preminenza agl’etruschi, o concedasi a’ latini con l’Hugo, un in dirizzo nelle cose romane lo dettero i primi – gl’etruschi. Ciò spiega, come in tanta rozzezza di popolo guerriero e racco gliticcio come il popolo latino LATINO DEL LAZIO si possede un gius pontificio, e formule sacerdotali e simboli segreti. Questo io dico per mostrare che le prime consuetudini ed istituzioni hanno qualche ragione di civiltà, e riuscirono buon fondamento alla giurisprudenza perfetta. Però, fin dalla prima età, si scorge in Roma la mirabile distinzione da’magistrati (magistratus populi romani) che stabilivano il diritto, da' giudici (judex, arbiter ) che giudicavano del fatto (Hugo) -- distinzione che a poco a poco détte occasione al gius onorario. È noto che il reggimento di Roma sott’i re e, più, ne' principj della repubblica, e degl’OTTIMATI, cioè, aristocratico. Indi la opposizione civile dei PATRIZI colla plebe per avere un gius equo -- opposizione che, divenuta incivile o violenta, rovina la repubblica, come la prima ne forma la grandezza. La PLEBE dimanda leggi scritte per contenere l'arbitrio de' PATRIZI, e si promulga la legge di le XII tavole. Narra il giureconsulto Pomponio, che queste si raccolsero in Grecia, interprete d'esse l'efesio Ermodoro (Fr. 4, D. De Orig. Juris.). Certamente, PLINIO il vecchio (“Hist. Nat.”) rammenta come serbata fino a lui la statua fatta per decreto a questo Ermodoro. Talchè la tradizione non pare favolosa in tutto. Ma è certo altresì che in le XII Tavole, per quanto ne conosciamo, non si ha traccia del diritto che non e romano. L’essenza – l’essenziale -- giudizj, patria potestà e connubio, eredità e tutele, dominio e possesso, diritto pubblico e diritto sacro -- e cosa tutta romana, come dice Vico, e ormai ripetono i più dotti stranieri come Warnkoenig. Ma io credo abbisognasse l'opera di quel greco erudito per meditare questa o quella vecchia CONSUETUDINE, e RIDURLA A CONCETTI determinati ed a’lor capi principali, ufficio di riflessione addestrata. Nè ciò avrebber saputo I ROMANI, dati all'armi  anzichè agli studj. Ecco il per chè quella primitiva sapienza, logicamente specificata e distinta d’Ermodoro, trae in ammirazione Tullio. CICERONE scrive ne' libri “De Oratore”. Se ne adirino pur tutti, io dirò quel che sento: a me, il solo libricciuolo di le XII tavole, par superi (se tu guardi a' fonti e a'capi delle leggi) le biblioteche de' filosofi tutti nel peso del l'autorità e nella copia dell'utilità. Quanto prevalessero in prudenza i nostri maggiori a ogni altra gente, intenderà facile chi le nostre leggi romane paragoni a quelle di Licurgo, di Dracone e di Solone. È incredibile, di fatto, quant'ogni altro diritto civile, salvo il nostro romano, sia in colto e quasi ridicolo. (De Or.) Le quali parole attestano tre cose: l'antichissima civiltà di quelle genti che formano Roma, e che vi recano le proprie tradizioni, benchè si dessero, poi, a vita agreste e guerriera; la falsità che il gius civile romano procede ài Grecia ne' suoi particolari; e come la perfezione della giurisprudenza si svolge da principj non rozzi ne poco pensati. I ROMANNO danno la sostanza, i Greci probabilmente  LA MERA FORMA LOGICA, per GENERE E SPECIE – cioè, ordinamento di codice. Da le XII tavole nasce la necessità d'interpretarle per disputare in giudizio, e di avere azioni utili a domandare la loro applicazione. Di qui, come dice Pomponio venne il diritto civile non scritto o l'autorità dei prudenti, e le azioni delle leggi (“legis actiones”). Ma tutto ciò e un SEGRETO de' pontefici. Pubblicato il segreto nella seconda età, la libera giurisprudenza passa dallo stato infantile alla gioventù. Ma quando mai accadde tal cosa in modo più segnalato? A Roma si propaga il filosofare. Il secolo posteriore è appunto il secolo di CICERONE. Or bene, la giurisprudenza, cresciuta lentamente crebbe rapidamente. Allora proprio noi riscontriamo i giureconsulti studiosi della filosofia e quant'alle leggi del pensiero e quanto alla natura degl’atti umani in sè e nell' esteriori attinenze. Scrive CICERONE la “Topica”, o logica inventrice degli argomenti a preghiera di TREBAZIO, come si ha dal proemio di quel saggio, ov'è scritto. “Non potrei, adunque, con te, che me ne pregavi spesso, benchè timoroso di noiarmi, come scorgevo facile, stare in debito più a lungo, senza parer d'offendere lo stesso interprete del diritto. Sicchè queste cose, non avendo libri con me, scrivo a memoria nella mia navigazione, e dopo il viaggio ti ho mandate.” Il qual saggio è notevole molto, perchè ogni precetto è confortato da esempi di giurisprudenza. E di SERVIO SULPIZIO, primo in autorità tra' giureconsulti di que' tempi e solo studiato da' giure consulti posteriori, ecco che scrive CICERONE, amico di lui. “Si stima, o BRUTO, che grand'uso del gius civile s'avesse da SCEVOLA e da molt' altri, ma l'arte da que st' unico, cioè da SULPIZIO -al che non sarebbe giunta in lui la scienza del giure, s'e' non avesse imparato quell'arte che insegna spartire le materie composte, esplicare con le definizioni l'ascose, chiarire con le interpretazioni l'oscure; e così a veder prima ben chiaro le cose ambigue, poi a distinguerle, e ad avere in fine la regola per separare il vero dal falso, le conseguenze diritte dalle contrarie. Questi adunque reca tal arte (massima di tutte l'arti ), quasi luce in tutto ciò che dagli altri si rispondeva o si faceva confusamente. (De CI. Orat.) Con le quali parole mostra CICERONE la forma di scienza che si prese dal diritto in virtù della LOGICA. E la FORMA scientifica, ch'è abito di riflessione interiore, leva le menti alle generalità, senza cui, come non istà scienza nessuna, così nemmeno la scienza del diritto. E il segnale n'è questo; che al termine dell'età seconda, cioè sul fiorire della filosofia a Roma, GIULIO CESARE e POMPEO ebber disegno d'un codice; disegno, che mostra l’uso e la stima degli universali astratti da ogni caso particolare, ordinati poi secondo GENERI E SPECIE -- giacchè un codice val quanto in istoria naturale un ordinamento PER CLASSI. Pare che SERVIO SULPIZIO effettuasse un alcun che di somigliante a impulso di Cicerone, il quale alla sua volta ne' libri delle leggi mostra un saggio di codice pel diritto pubblico, e al trettanto promise pel diritto privato. Nè qui entro in disputa fra due scuole alemanne, l'una che, con Savigny, sostiene il danno de’codici. Laltra che ne difende l'utilità. Dico a ogni modo (nè si contrasta ) che un codice non si fa senz'abito di speculazioni filosofiche. L'averlo pensato in Roma e tentato a quel tempo, chia risce la efficacia loro nella giurisprudenza. Essa pervenne a compimento nella terza età, cioè ne' primi due secoli e mezzo dell'impero. Il dilatarsi del dominio romano a tutta Italia prepara il campo alla filosofia. I Romani, sentendosi non più solo romani, ma italiani e uomini, la loro coscienza si chiarì e s'arricchì, e l'intelletto loro medito le verità universali. Di questo fatto non v' ha dubbio di sorta. Dopo la guerra sociale, per LA LEGGE PLAUZIA e LA LEGGE GIULIA DE CIVITATE SOCIORUM e data, come nota Haubold nella sua “Tavola cronologica per servire alla St. del Diritto”, a tutte le città italiche CITTADINANZA ROMANA -- eccetto i Lucani e i Sanniti. Poi consegueno la cittadinanza i galli oltrepò, conseguíta prima da'Galli cispadani. La ottenne tutta perciò la Gallia cisalpina. (Framm. L. de Gallia Cisalpina). In tal modo, come scrive Savigny, dopo la guerra italica i cittadini d'Italia divennero parte del popolo sovrano (St. del Dir. rom). Questo gius italico da dominio quiritario, o dominio solennemente e pie namente assicurato, immunità da tutte l'imposte dirette, libero governo municipale delle città italiane (ivi), diritto d'intervenire a'comizj o di mandarvi deputati. Talchè l'Italia, a ' tempi romani, con l'unità politica suprema serbò le unità politiche secondarie, che si chiamavano socio confederati. E questo accadde perchè i romani hanno già fatto l'unità naturale della nazione col mescolamento de’ sangui, spargendo ovunque le colonie (com'osserva Forti), nè per sei secoli ne mandaron mai fuori d'Italia. (Ist. Civ.). L'Italia, dice Hugo, non si considera mai una provincia; chè le provincie furono soggette a magistrati non propri, non compagne ma suddite (Hist. du Dr. Rom..) I romani, allora, si levarono con la mente all'unità naturale del territorio, come vediamo ne' Digesti. Al Fr. 99, $ 1 de Verborum significatione è scritto. Dobbiam credere provincie continue le unite all'Italia, come la Gallia cisalpine. Ma e la provincia di Sicilia più si ha da tenere per continua, essendo separata d'Italia da piccolo stretto. “Continentes provincias accipere debemus eas, quæ Italiæ junctæ sunt, ut puta Galliam: sed et provinciam Siciliam magis inter continentes accipere eas oportet, quæ modico freto Italia dividitur” Ulpiano. E al Fr. 9, D. de Judiciis et ubi etc., si dice.Le isole d'Italia son parte d'Italia e di ciascuna provincia. “Insulæ Italiæ pars Italiæ sunt et cuiusque provincie.” A questo concetto sì pieno vennero i romani tra gli ultimi tempi della repubblica e i primi del PRINCIPATO, cioè tra la prima e la seconda età. Ecco il perchè la giurisprudenza romana, con l'aiuto della filosofia, potè sorgere a tant'altezza. Si aggiunga poi, che le sevizie de' principi cadevano in Roma su'patrizi più sospetti, ma quel reggimento temperavano istituti repubblicani e ordini civili equi. Se no, come dice Romagnosi, non si capirebbe il perchè in un governo da turchi uscissero mai tanto insigni se natusconsulti e le belle costituzioni de' principi; e come ALESSANDRO SEVERO ha un consiglio di XVI sapienti, tra cui i più chiari giureconsulti, FABIO cioè, Sabino, Ulpiano, Paolo, Pomponio, Modestino e altri. (Ind. e Fattori dell'incivilimento. P. 2, C. 1, § 1-5. ).  E tanto è vero, che la notizia del “gius equo” e buono splendesse viva nelle menti romane, che lo strapazzo delle provincie, finita la guerra civile, non e punto legale, anzi contr'alle leggi; perchè, secondo le costituzioni come dice Warnkoenig, le provincie stano bene, le imposte sono lievi, lo stato pacifico, molto dell'amministrazione in mano di quelle (il che scusa in parte il popolo romano); ma infierivano i governatori. Popolo e senato li minacciavano con le leggi repetundarum, tornate vane per corruzione de'giudizj. (Hist. du Dr. Rom.) Tali cagioni principalmente formarono la sapienza de' giureconsulti romani. Inoltre, essi per lo più non eran causidici, ma scioglievano questioni di diritto in generale. E ciò indica sempre più e la natura scientifica del ministero loro, e perchè la scienza, libera da interessi particolari, progredisse continuamente. (Cic., De CI. Orat.). Poi, l'emulazione degli oratori che piegavano il gius alla varietà de’lor fini, co' giureconsulti che ne volevano serbare la severità, incita questi a gareggiare in isplendore di filosofia, e ad interpretare il diritto co' placiti del senso comune. Così da una disputa tra l'oratore CRASSO -- contemporaneo al padre di Cicerone -- e MUZIO SCEVOLA giureconsulto sull'interpretare i testamenti o a rigore di parola, o secondo la probabile volontà del testatore, nacque la giurisprudenza in quest'ultimo senso, ripresa da Forti, ma e forse meglio approvata da Cuiacio. Infine, l'esercitarsi tale ufficio da’giureconsulti senz'ombra di lucro, la illustre loro condizione e l'affetto all'antiche leggi e consuetudini di Roma, indica il perchè tennero essi per lo più l'austerità della morale del Portico, che ci chiarisce alla sua volta il decoro, l’equità e sottilità della loro scienza; e tutto insieme poi spiega la nobiltà di vita de' più tra loro, e n'è spiegato. Le poche notizie che n’abbiamo ce li fanno apparire la più parte uomini onorandi. Nomino dapprima QUINTO MUZIO SCEVOLA, assassinato a’tempi di MARIO. Dice POMPONIO che Muzio costitue primo il decreto civile, disponendolo per capi di materie (“generatim”) in XVIII libri. SERVIO SULPIZIO riduce il diritto a stato di scienza. SULPIZIO e prima oratore grande, poi giureconsulto per un rim provero che gli fa MUZIO SCEVOLA d'ignorare le leggi del proprio paese, egli oratore e patrizio. Sostenne la repubblica. Avversa i Triumviri. La repubblica gli alza una statua. Abbiamo di que' tempi ALFENO VARO e OFELIO, ambidue discepoli di SERVIO, e TREBAZIO (a cui la Logica di Cicerone) e un altro MUZIO SCEVOLA – PONTIFICE -- e CASCELLIO. Muzio non accetta da Ottaviano il consolato. Cascellio non volle mai comporre una formola secondo le leggi de' Triumviri; e a chi lo consiglia si temperasse rispondeva, “Son vecchio e senza figliuoli.” LABEONE, il cui padre e morto a Filippi, rifiuta il consolato da OTTAVIANO anch'egli, e serba spiriti antichi. Dice Pomponio: Ageio Capitoni si détte moltissimo agli studj. Divide l'anno in modo che sta sei mesi a Roma co' discepoli (“cum studiosis”), e sei mesi lontano per iscrivere libri. Così lascia XL volumi, che i più s'usano ancora. Ateio CAPITONE (segue Pomponio) persevere nell'antico. Ma LABEONE, che molto medita nell'altre parti della sapienza (“qui et in cæteris sapientiæ operam dederat”), per valore d'ingegno e per fidanza di dottrina comincia innovare molto” (Fr., D. De Or. Jur. ). I cinque giureconsulti più celebri e più recenti (lasciando gli altri) sono: EMILIO PAPINIANO, PAOLO, GAIO, ULPIANO, E MODESTINO. PAPINIANO, familiare di SETTIMIO SEVERO e principale nel governo, stette per GETA contro il suo fratello CARACALLA, e volendo costui una difesa legale del fratricidio. PAPINAINO la nega e venne ucciso. Scrive “I fatti,” che le dono la pietà, il buon nome e il pudore nostro, e che, a dirlo in genere, son contro al costume, si dee tenere che noi uomini dabbene non possiamo farli (Fr. D. De servis exportandis etc.). Gl’altri quattro illustrano, come dice, il consiglio di ALESSANDRO SEVERO. I giureconsulti, massime della terza età, levano a stato di scienza le loro discipline. Ciò nacque dalla molta erudizione loro, non solo in filosofia, ma eziandio in lettere; e se n'ha prova ne' lor libri per le citazioni da' Greci; com'a dire Omero, Ippocrate, Platone, Demostene e Crisippo. E il primo effetto e, come notai de' tempi di CICERONE, che la giurisprudenza prende forma logica tanto sicura e stringente, ch'è una meraviglia. Si sa da molti e ab antico, dice Hugo, la filosofia de' giureconsulti, ma si sa da pochi, che nessuno più di quelli sta in confronto de’matematici per tre ragioni. Cioè per vigore di conseguenze da principj fissi, per diligenza nell'evitare contraddizioni -- che Gaio dimandava “inelegantia juris” --, e pel metodo distintivo e compositivo, induttivo e deduttivo ad un tempo -- distintivo e induttivo salendo alle specie generali del diritto; compositivo e deduttivo traendone con brevità ed evidenza le illazioni. Il gran Leibnitz, insigne filosofo, scrive nell' Epist. “Io ammiro l'opera de Digesti, o, meglio, i lavori de' giureconsulti, ond' ell' è presa. Ne vidi mai nulla che più s'accosti al pregio de matematici. O che tu guardi all'acume degli argomenti, o a'nervi del dire. Ma questa efficacia della filosofia non potè fermarsi all'ordine de' pensieri, dovè penetrare nell'interno, giacchè, com'avvertii, materia della giurisprudenza son gl’atti umani o personali, soggetto filosofico. Tal efficacia non si creda particolare ma generale. Quindi, coloro che cercano ne'giureconsulti le traccie minute o del Portico o d'altri sistemi, errano forte se non passano inoltre a considerare l'opera generale della riflessione interna. È certissimo, com'avvertono gl’eruditi, che i più de'giureconsulti tolsero dal Portico l'argomentare per analogia, l'amore dell' etimologie, la spartizione delle materie, LA SOTTILE DIALETTICA che conviene al foro, e molte dottrine sulla ragione dell'onesto, applicate da essi egregiamente al gius civile. Ma l'essenziale sta in quel gran corpo, così disposto bene secondo le leggi del pensiero, e, salvo qualch'errore de' tempi, così con formato alla natura umana nelle regole eterne di lei e nelle relazioni esteriori. Sicchè il gius romano serve di lume al gius de’ popoli più civili, come si ha dal codice Napoleone: e gli Alemanni, dimenticata noi tanta gloria, vi fanno su studj esimj e perseveranti. E perchè si chiarisca il filosofare intimo de' giureconsulti, guardiamo la nozione, ch'e'si fanno della giurisprudenza e della filosofia. Ulpiano nel Tit. 1 dei Digesti scrive. Dand'opera al gius, occorre prima sapere onde ne venga il nome. “Gius” è chiamato da giustizia. Perchè, come Celso lo define elegantemente, il gius è l'arte del buono e dell'equo. Però siamo chiamati, con ragione, sacerdoti della giustizia. Di fatto, professiamo la giustizia e manifestiamo la scienza del buono e dell'equo; separando l'equo dall' iniquo, e discernendo le cose lecite dalle contrarie; desiderosi di far buoni gl’uomini, non per timore delle pene, ma eziandio per l'incitamento de'premj; ricercatori, se non m'inganno, di vera e non simulata filosofia. Se la definizione della giurisprudenza si prenda qui a rigore, ella non regge, perchè si stende a tutta la filosofia morale. Ma se badiamo al concetto che avevano di questa gl’antichi, e al generarsi la scienza del diritto dall'altra del dovere, ci formeremo idea chiara del come intimamente e FILOSOFICA LA GIURISPRUDENZA ROMANA. Secondo i sistemi filosofici, sommità di perfezione umana è LO STATO ROMANO. Talchè la morale s'ordina alla politica. Concetto vero per l'attinenze esteriori, falso e pagano quant' all'ultimo fine. Non faccia dunque meraviglia se i giureconsulti romani definino il gius civile come la morale. Lo definano così, perchè, a sentimento di tutti gl’antichi, le due scienze si mescolavano in una. Noi con più ragione le distinguiamo, ma s'erra da chi ne dimentica l'unità superiore, ch'è la scienza de' primi principj e dell' uomo -- dimenticanza ignota agl’antichi, che però svolgeno razionalmente il diritto e non lo maneggiano materialmente. Notate ancora che nel passo citato si distingue la scienza dall'arte. Se nelle Istituzioni poi la giustizia è definita: Costante e perpetua volontà di rendere a ciascuno il suo diritto: e se la giurisprudenza è definita; Notizia delle cose umane e divine e scienza del giusto e dell'ingiusto, pr. e S 1, Inst. De just. et jure, si vuol fare la stessa osservazione detta di sopra; e noto con Cuiacio, che in tal luogo la giurisprudenza è indicata bene com' abito dell'intelletto o scienza, e com’abito della VOLONTA, secondo l'antica filosofia. E la filosofia la pensano essi, non senz'alta speculazione, ma contenuta nel vero da' dettami del senso comune e dal fine pratico. Di fatto s' inalzarono all'eternità del diritto -- come osserva Vico nella “Scienza Nuova” -- allorchè dissero: Il tempo non muta nè scioglie i diritti: “Tempus non est modus costituendi vel dissolvendi juris.” E, quando discernano il diritto naturale dal positive, nello stesso tempo rigetteno gl’eccessi del Portico, come l'eguaglianza della imputazione; finalmente derisero le stranezze, l'ipocrisie, l'avarizia di quelle sette in età di scadimento. Così sente Ulpiano, che distingue filosofia schietta dalla mascherata; e nel Fr. 6, § 7, D. al Tit. De his quæ in testamento delentur, è schernito il suicidio de' filosofi per ostentazione, e nel Fr. 1, § 4, D. de extraordinariis cognitionibus etc., dove si stabilisce gl’onorarj delle professioni, li nega il giureconsulto a' filosofi che, vantando di spregiare le mercedi, n'andano a caccia. I giureconsulti poi mostrno tre specie di diritti: jus naturale, gentium, et civile; distinzione che non si vuol confondere con l'altra più pratica in jus gentium vel naturale e in jus civile; e chi non vi badi, tassa i giureconsulti d'errori, ch'e'non hanno. La distinzione praticamette divario tra leggi proprie di Roma (jus civile) e istituzioni comuni a ogni popolo non selvatico (jus gentium vel naturale). L’altra è distinzione più speculativa e fondamentale. Ulpiano nel Tit. De just. et jure, D. dal Fr. 2 al 6, distingue diritto pubblico da privato; e distingue il privato in diritto naturale, che natura insegna a tutti gl’animali, come la procreazione de’ figliuoli; in diritto delle genti, del quale, tra gl’animali, hann' uso gl’uomini soli, come la religione verso il divino, l’obbedire a' genitori e alla patria: in diritto civile ch'è proprio d'un popolo. Ora, s'accusa Ulpiano d'aver confuso il diritto naturale con gl' istinti del l'animalità; ' e sì che Piccolomini da qualche secolo fa, come Warnkoenig, nota che qui, secondo le dottrine vere d' Aristotile, son distinti nel l'uomo i diritti che vengono dalla natura animale, quelli che vengono dalla razionale, e gl’altri che pone la comunanza civile. Non s'intende già che una bestia -- detta da' giureconsulti cosa, non PERSONA – ha diritto, ma che le potenze animali dell'uomo, in quanto appartengono all'uomo, generan diritti, come li generano le potenze razionali. Talchè in Ulpiano si trova benissimo sceverata l'animalità dalla razionalità. È da confessare invece, che il diritto civile si define per quello che toglie o aggiunge al diritto naturale e delle genti; e s'allude alla servitù ch'è contro alla natura, come si dice nel Tit. De regulis juris. Ma tuttavia meritan lode i giureconsulti, che se non condannarono la servitù, la dissero contraria bensì al diritto naturale, migliori di Platone e di Aristotile. Anzi nelle Istituzioni è detto, che il gius naturale e istituito dalla divina provvidenza, come insegna il Portico (De Jur. Nat. Gen. et Cir.); nel qual testo il gius naturale abbraccia pur l'altro delle genti. Poi, essi definino il gius civile qual e in fatto allora. Osservo di passaggio che il chiarissimo Conforti nel l'annotazioni a Stahl (“Storia della Filosofia del Diritto”, Torino) opina con altri, che i romani non avessero idea del diritto eterno, perchè jus viene da “iubeo”, comandare; dove la parola diritto, e le simili del francese, tedesco e inglese, hanno il concetto di rettitudine, o di rittura alla legge eterna. Ma quel valentuomo non pensa forse al come definisce la parola Jus Forcellini (Voc. ad V.). Gius è tutto ciò che in generale vien costi tuito da leggi o naturali, o divine, o delle genti o civili -- Jus est autem universim id, quod legibus constitutum est etc. Si nomina con altro nome equità comune, equo universale, legittimo, cioè adequato alle leggi, quasi norma e regola degli atti umani. Sicchè I ROMANI chiamano “ius” un che costituito da una legge qua lunque. Così distingueno la legge da ciò che ne procede, e ch’è l'EFFETO DEL SUO COMMANDO. Cicerone (Rep. et De Leg.) adopera legge e gius in tal significato. Ma la risposta migliore si è in quell'assioma de romani già citato: Il tempo non muta nè scioglie i diritti; conobbero, dunque, i romani la santità del diritto fuori del tempo, cioè nell'eternità, o nel suo fondamento assoluto. Inoltre vedemmo che il gius civile si distingue dal naturale. Ma tornando a'giureconsulti, la loro scienza origina il diritto onorario, di cui parla Forti se non con molta novità, certo con più chiarezza di tutti gli altri da me esaminati. E io ritrarrò in breve la sentenza di lui, e n'usce la prova del quanto potè la scienza dell'uomo e la filosofia morale in tanta perfezione di gius. Ma prima dico che il gius onorario contene gli editti del urbano e del peregrino, e quelli degli edili e proconsoli e propretori delle provincie -- edictum provinciale. Pare che il gius predetto, almeno in modo segnalato, principiasse per chè Cicerone nella seconda Verrina dice. Postea quam jus prætorium constitutum est. Hugo dimostra, contro Heinneccio, che tal diritto ha forza di legge; poichè, tra gli altri argomenti, Cicerone non contrasta nelle Verrine che L’EDITTO DI VERRE SIA LEGGE da tenere, ma lo accusa di averlo infranto VERRE stesso, o conformato non secondo ragione (Hugo, Hist.). Or dunque, i pretori rendevano giustizia ne'civili negozi, gli edili per le convenzioni de' mercati e per LA POLIZIA DELLA CITTA. E tanto gli uni che gl’altri, quando pigliavano i magistrati, mandano fuori un editto, ove stabilivano le forme del giudizio e LE MASSIME -- ottimo istituto in repubblica popolare. Non mutano il gius, ne determinano l'applicazione. Eccone gli esempi. In primo luogo, salva LA FORMA LEGALE,, si supponga che i contraenti hanno pattuito o per inganno, o per errore, o per timore, o per forza. Mancando la moralità dell'atto, la legge non conservavasi uguale per tutti. Quindi i pretori statuiron una MASSIMA PER L’EFFICACIA CIVILE DELLA MORALITA NEGL’ATTI, scuse legittime per negare agl'ingiusti la sanzione della legge e i mezzi legali. Perchè QUESTA O QUELLA MASSIMA d'equità si recassero ad effetto. I codici moderni han composto di questa o quella MASSIMA le lor legge universale. Allora, dice Forti, gli editti de' magistrati sono uno de' principali modi, per cui la filosofia venne applicata gradatamente ai bisogni civili. Sicchè, quant'alla moralità degli atti, trovarono i magistrati l'ECCEZIONI perpetue contro le obbligazioni per dolo, per timore, per errore, per violenza; la restituzione in intero, i modi legali a sciogliere le dette obbligazioni, od a ripetere ciò che pel tenore loro fosse stato pagato. In secondo luogo, la legge, definito il diritto e ordinatane la sanzione, lascia a'magistrati il modo d'effettuarla. Per esempio, la legge stabilice i modi d'acquistare la proprietà, ma non i modi della sua difesa; che più torna necessaria, quanto più divise le possessioni, e distinta la varietà de'godimenti e diritti che si comprendono nella mozione del dominio -- onde nacquero nuovi contratti e bisogni di nuove difese. Quind'i pretori differenziano a capello il dominio e il possesso, e gl'interdetti che lo proteggono, e va' discorrendo (Ist. Civ., L. I. S. 1). Le dottrine de'giureconsulti poi vennero a formare un'altra maniera di gius -- ioè il diritto ricevuto -- “jus receptum”. Essi, introducendo ne'contratti clausule, con cui si stipulava l'osservanza della buona fede, costringeno i magistrati a giudicare di que'contratti, non secondo la nude parola della legge, sì a lume di naturale onestà; come le clausale, si lodate da CICERONE uti ne propter te, fidemre tuam captus, fraudatusne sim; e ut inter bonos bene agier oportet et sine fraudatione (De Off.). I giureconsulti si dano all'interpretazione; e poi chè questa o considera la legge in sè, o L’ATTO DELLA VOLONTA UMANA, così la filosofia di que'sapienti gl’aiuto all’un fine con le spiegazioni delle parole e con la definizione de'termini astratti, e col mirare alla ragione della legge stessa: gli aiutò all’altro fine co giudizi sulla moralità dell’ATTO, e con le regole per interpretare l'altrui volontà. Gravina così accenna le novità del gius ricevuto. Dalle interpretazioni de' giureconsulti passate in uso, e mitiganti a poco a poco e come di soppiatto l'asprezza della legge, sono venute le regole di diritto, temperate dalla ragione d'equità. Nacquero da essi, l'uso dei codicilli, l'azione del dolo, le azioni quasi tutte che chiamaron utili, perchè procedono dall’equa e utile interpretazione, le stipulazioni aquiliane, autore AQUILIO giureconsulto, le varie differenze delle successioni. la regola catoniana, la sostituzione pupillare, il divieto della donazione tra marito e moglie, e l'altro che i pupilli s'obblighino senza l'autorità del tutore. Da essi vernero i giudizi di buona fede, le azioni rei uxorie, la querela dell'inofficioso testamento, e infine tutto ciò che si trova citato sotto nome di costumi, di consuetudini e di gius ricevuto (De ortu et progr. I, Civ., C. ) Tale acume di riflessione disciplinata reca i giureconsulti per fino ad un computo di probabilità sulla vita umana quant'all' usufrutto ed agl’alimenti (come si vede Fr. D Ad Legem Falcidiam ). Cosa notabile molto, perchè fa supporre grand'abito d'osservazione e di giudizi astratti. La virtù e la vera filosofia de' giureconsulti le sentiamo pur anche nel loro stile, che in mezzo alle ampollosità di SENECA e degli altri si tien semplice e puro.. Nelle Pandette v' ha errori di lingua, per vizio de' compilatori greci e de' copisti. Ma specie i frammenti di Gaio e d'Ulpiano son gioielli, ammirati da' principali maestri di latinità. Termino recando un saggio di tal sapienza ed elegante brevità, in alcune regole di gius dall' ultimo titolo de' Digesti. I diritti del sangue non posson finire per niuna legge civile (Fr.). Sempre nelle cose oscure s' ha da tenere il meno. Sta in natura che le comodità d'una cosa seguan colui che ne sente gl' incomodi. Ciò che dapprima è vizioso non si può col tempo sanare. Nulla è più naturale che sciogliersi a quel modo ch' uno s ' è legato. Però l ' obbligazione di parole sciogliesi con parole, e quella di nudo consenso con altro consenso. Che si fa o si dice nel caldo dell'ira, non si stima. Vi sia consenso d'animo, se non v' ha perseveranza. Nessuno può trasferire altrui più diritti che non ha. Sempre nel dubbio son da preferire le sentenze più benigne. L'erede si stima di quelle facoltà e di que' diritti che il defunto. È proprio di quel sofisma che i Greci chiamano sorite, o ammucchiato sillogismo, di trar la disputa, con lievissime mutazioni, da cose evidentemente vere a evidentemente false. Quante volte l’espressione in un discorso PARE rendere DUE sensi, prendasi quello ch'E PIU ADDATO AL DA FARE. Non si dà benefizio per forza. Nes suno può mutare il proposito suo in altrui danno. In ogni cosa, ma più nel gius, è da guardare all’equità. Ne’discorsi AMBIGUI è il più da guardare all'INTENDIMENTO DI CHI LI FA. Nelle cose oscure si badi al più verosimile, e a ciò che accade più spesso. Il timore vano non è buona scusa. Per l'impossibile non c'è obbligo che tenga. Le cose proibite da natura non sono convalidate da legge nessuna. Per gius di natura nessuno dee farsi più ricco a danno altrui. Per gius civile i servi si stimano nulla. Non per diritto naturale, secondo cui tutti gli uomini sono uguali. Quando l'impero si foggia all'orientale, la giurisprudenza cadde in vano eccletticismo; come n'è segno “la indigesta mole de’ digesti” e ciò accadde alla quarta età, o di vecchiezza. Poichè abbiamo con qualche sufficienza esposto la filosofia latina di CICERONE e de' giureconsulti, e abbiam veduto come proposito di questi e di quello apparisca sempre l'armonia tra le speculazioni e la pratica, e, nelle speculazioni, fuggire tutti gl’eccessi delle sette, componendone, guidati dalla coscienza e dal senso comune, un'unità, siam chiari, mi sembra, che veramente dopo la dialettica distintiva de' greci, tendevano I ROMANI alla comprensione finale, e che tal è proprio la qualità prevalente in quest'epoca quarta della filosofia. Cicerone affronta e sviluppa la problematica semiotica in due importanti ambiti della sua produzione teorica: e opere di argomento retorico; (le opere che parlano dei segni divinatori. Se prendiamo in considerazione il primo di questo ambito, possiamo osservare che l'interesse per i segni non è ugualmente centrale in tutti i testi. Infatti, da una parte, ci sono il De oratore, l'Orator, il Brutus, il De optimo genere oratorum che affrontano una problematica a carattere so- cio-politico, volta a definire la figura dell'oratore perfetto, il suo ruolo nella società romana, la sua posizione rispetto alla scuola attica e a quella di Pergamo; in queste opere tut- to ciò che costituisce l'apparato tecnico tradizionale della retorica (e con esso anche la problematica sui segni e sulle prove indiziarie) appare non tanto trascurato, quanto dato per scontato: esso si confi;:ura come un vasto campo di competenza che rimane implicito sullo sfondo e affiora solo nei termini di un uso personalissimo che ne fa l'autore, in prima persona o attraverso i personaggi del dialogo. Dall'altra parte ci sono, poi, il De inventione, le Partitio- nes oratoriae e i Topica, opere molto diverse tra loro, ma accomunate dalla caratteristica di prendere in considerazio- ne e di sistematizzare la gran massa delle nozioni che com- pongono l'apparato tecnico della retorica. Un limite di que- ste opere, in generale, è rintracciabile nella minuziosità del procedimento classificatorio, che raggiunge talvolta il pa- rossismo, come nel De inventione, e che spesso non trova un'adeguijta giustificazione teoretica. Tuttavia è proprio ali'interno di queste opere che è dato rintracciare gli spunti e i documenti per la ricostruzione di una teoria ciceroniana del segno. 9.2.1 Il "De inventione" Il De inventione è un'opera giovanile di Cicerone e con- densa l'ampia tradizione retorica che da Aristotele giunge fino a Ermagora: è quindi naturale che al suo interno si tro- vino riprodotti alcuni aspetti della concezione del segno che in quell'ambito si era sedimentata. In particolare è presente la concezione del segno in forma proposizionale, come an- tecedente che permette di scoprire un conseguente. Viene poi confermata l'attenzione verso i segni involontari (l'im- pallidire, l'arrossire, il balbettare dell'imputato) come indi- zi di colpevolezza. Infine compare la classica divisione degli indizi secondo la loro relazione temporale con il fatto crimi- noso (anteriorità, contemporaneità, posteriorità). Questi i punti di contatto con la tradizione. Ma bisogna anche dire che la classificazione dei segni proposta da Cice- rone è in larga misura diversa da quelle precedenti. Essa ap- pare infatti all'interno della teoria della argumentatio (ar- gomentazione), cioè del procedimento attraverso il quale vengono addotte delle prove per confermare una certa tesi: "L'argomentazione sembra essere qualche cosa che si esco- gita da qualche genere e che rivela un'altra cosa in maniera probabile (probabiliter ostendens), o la dimostra in"un mo- do necessario (necessarie demonstrans)" (De inv., I, 44). Anche se non viene usato il normale lessico semiotico, ciò che è in gioco in questa definizione è proprio il meccanismo del segno: infatti, qualcosa che è stato trovato (un indizio che viene depositato nel dossier dell'avvocato) rinvia a qualcos'altro. Compare, a questo punto, la distinzione (già aristotelica) tra una forza argomentativa debole (probabili- ter ostendens) e un'inferenza necessaria (necessarie demon- strans). 9.2.1.1 Rinvio necessario e non necessario I segni necessari sono così definiti: "Viene dimostrato in modo necessario ciò che non può verificarsi né essere pro- vato diversamente da come viene detto" (ibidem). Ne sono esempi: "Se ha partorito, è stata con un uomo" (ibidem); "Se respira, è vivo", "Se è giorno, c'è luce" (De inv., I, 86). Come Cicerone spiega in un altro passo, in casi di questo genere l'antecedente e il conseguente sono legati da una re- lazione inscindibile (cum priore necessario posterius cohae- rere videtur, De inv., I. 86). Il rapporto di rinvio non necessario viene poi cosi defini- to: "Probabile è poi ciò che suole generalmente accadere, o che è basato sulla comune opinione, o che ha in sé qualche somiglianza con questa qualità, sia esso vero o sia falso" (De inv., I, 46). Con questa definizione Cicerone mette in evidenza due caratteri: (i) quello probabilistico e (ii) quello doxastico; il primo di questi era da Aristotele attribuito peculiarmente al1'eik6s (verisimile). E infatti i primi due esempi sono di un tipo che Aristotele avrebbe classificato come eik6s: "Se è madre, ama suo figlio", "Se è avido, non fa gran caso del giuramento" (De inv., I, 46). In essi compare anche il tipico rapporto di generalizzazio- ne che per Aristotele definisce il verosimile (Arist., Rhet., 1357a). C'è però un terzo esempio, "Se c'era molta polvere nei calzari, era sicuramente reduce da un viaggio" (De inv., 9.2 CICERONE), che non sembra dello stesso tipo, ma è più vicino al semefon aristotelico. 9.2.1.2 L'indizio La categoria di signum, poi, compare come una sottopar- tizione dei segni non necessari, accanto al credibile (credibi- le), all'iudicatum (giudicato) e al comparabile (paragonabi- le). Se le ultime tre nozioni appaiono distinte in base a crite- ri estrinseci (e scompariranno nelle trattazioni successive), il signum corrisponde a una categoria di fenomeni abbastan- za particolare: "Segno è ciò che cade sotto qualcuno dei no- stri sensi e indica (significat) un qualcosa che sembra deri- vato dal fatto stesso, e che può essere verificato prima del fatto, durante il fatto, o può averlo seguito, e tuttavia ha bisogno di una prova e di una conferma più sicura" (De inv., I, 48). Ne sono esempi: "il sangue", "il pallore", "la fuga", "la polvere". Si tratta, come si vede, degli indizi, intesi come fenomeni percepibili, scarsamente codificati e generalmente non vo- lontari. Qui sono presentati in una forma non proposizio- nale; ma niente vieta che vengano sviluppati in proposizio- ni, come dimostra il caso dell'indizio "polvere": "Se c'era molta polvere nei calzari, era sicuramente reduce da un viaggio". Gli indizi, infine, vengono suddivisi secondo la nota relazione temporale con il fatto criminoso. Possiamo quindi schematizzare la classificazione propo- sta nel De inventione (cfr. p. 212). 9.2.2 "Partitiones oratoriae" Le Partitiones oratoriae sono un'opera della tarda matu- rità di Cicerone, nella quale la classificazione della materia semiotica presenta alcune differenze e peculiarità rispetto al trattato giovanile. Innanzitutto la terminologia si sgancia completamente da quella dei modelli greci e viene completa- mente latinizzata. In secondo luogo gli indizi (qui chiamati argumentatio~ Né questo è un caso isolato in ambito giuridico. Per quel che riguarda la cultura greca, si ricorderà L'orazione per l'uccisione di Erode, in cui Antifonte così si esprimeva: "Tutto quel che era provabile con indizi e testimonianze umane l'avete udito, ma in questo caso dovete votare dopo aver trattato indizi anche dai segni che vengono dagli dei" (Lanza). Il verisimile e il segno caratteristico I segni umani sono invece trattati tra gli argomenti intrin- seci, in particolare tra quelli che riguardano lo stato di cau- sa congetturale. Infatti la congettura può essere tratta da due tipi di segni: i verisimilia (verisimili) e le notae propriae rerum (segni caratteristici delle cose). Il verisimile, come dice Cicerone, è "ciò che accade per lo più" (Pari. or., 34), come a esempio "la gioventù è incline al piacere in modo particolare". Questo tipo di segno corri- sponde ali' eik6s aristotelico, di cui ha il carattere probabili- stico e generalizzante. La nata propria rei viene definita come "una prova che non si verifica mai direttamente e indica una cosa certa, co- me il fumo indica il fuoco" (Part. or., 34). Si tratta, evi- dentemente, del segno necessario, come è dimostrato anche dall'esempio e dall'uso dell'aggettivo proprius, che riman- da alla nozione di fdion semefon (segno proprio). Per Ari- stotele il segno proprio era la caratteristica specifica di un certo genere, come, ad esempio, il fatto che i leoni avessero grandi estremità, segno del coraggio (An. Pr., 70 b, 11-38). Per le scuole postaristoteliche il segno proprio aveva carat- tere di necessità e si definiva come quel segno che non può esistere se non esiste la cosa a cui rimanda (Philod., De si- gnis, I, 12-16). 9.2.2.2 Gli indizi di fatto Ci sono, poi, i vestigia facti (indizi di fatto), dei quali necessaria (•ea quae aliter ac discuntur nec fieri nec probari pos- sunt"I es.: ·se ha partorito, è stata con un uomo" probabilis (•quod !ere solet fieri aut quod in opi- nione μositum est") es.: ·se è madre, ama suo figlio" signum credibile indicatt.:m comparabile ("quod sub sensum aliquem cadit, et quiddam significat, quod ex ipso .!'rofectu.m .est"I. es.: sangue, fuga, "pallore", "polvere" vestigia facll) non compaiono più come sottopartizione di un'altra categoria, ma assumono ur.. ruolo autonomo. Infine viene accettata la distinzione aristotelica tra "luo- ghi estrinseci" (corrispondenti alle "prove extratecniche", titechno1) e "luoghi intrinseci" (corrispondenti alle "prove tecniche", éntechno1), che veniva criticata nel De inventione (Il, 47) e che invece sarà sviluppata nei Topica. È curioso notare come tra i luoghi estrinseci (sine arte) trovino posto, accanto alle testimonianze umane, anche quelle "divine": gli oracoli, gli auspici, i vaticini, i responsi sacri (di sacerdoti, aruspici, interpreti onirici) (Part. or., 6). Tutto ciò è sicuramente un residuo di una concezione orda- lica e antichissima dell'amministrazione della giustizia; tut- tavia è anche un indizio di un continuo riaffiorare del para- digma divinatorio all'interno dei fatti semiotici, anche quando ormai i segni si sono completamente laicizzati. Né questo è un caso isolato in ambito giuridico. Per quel che riguarda la cultura greca, si ricorderà L'orazione per l'uccisione di Erode, in cui Antifonte così si esprimeva: "Tutto quel che era provabile con indizi e testimonianze umane l'avete udito, ma in questo caso dovete votare dopo aver trattato indizi anche dai segni che vengono dagli dei" (V, 81; Lanza 1979: 105). 9.2.2.1 Il verisimile e il segno caratteristico I segni umani sono invece trattati tra gli argomenti intrin- seci, in particolare tra quelli che riguardano lo stato di cau- sa congetturale. Infatti la congettura può essere tratta da due tipi di segni: i verisimilia (verisimili) e le notae propriae rerum (segni caratteristici delle cose). Il verisimile, come dice Cicerone, è "ciò che accade per lo più" (Pari. or., 34), come a esempio "la gioventù è incline al piacere in modo particolare". Questo tipo di segno corri- sponde ali' eik6s aristotelico, di cui ha il carattere probabili- stico e generalizzante. La nata propria rei viene definita come "una prova che non si verifica mai direttamente e indica una cosa certa, co- me il fumo indica il fuoco" (Part. or., 34). Si tratta, evi- dentemente, del segno necessario, come è dimostrato anche dall'esempio e dall'uso dell'aggettivo proprius, che riman- da alla nozione di fdion semefon (segno proprio). Per Ari- stotele il segno proprio era la caratteristica specifica di un certo genere, come, ad esempio, il fatto che i leoni avessero grandi estremità, segno del coraggio (An. Pr., 70 b, 11-38). Per le scuole postaristoteliche il segno proprio aveva carat- tere di necessità e si definiva come quel segno che non può esistere se non esiste la cosa a cui rimanda (Philod., De si- gnis, I, 12-16). 9.2.2.2 Gli indizi di fatto Ci sono, poi, i vestigia facti (indizi di fatto), dei quali vengono dati questi esempi: "un'arma, macchie di sangue, grida, lamenti, imbarazzo, alterazione del colorito, discor- so contraddittorio, tremore [...]. gli indizi materiali della premeditazione, le confidenze sulle intenzioni delittuose, le risultanze visive, uditive, rivelate" (Part. or., 39). Cicerone non definisce qufsto tipo di segni, se non dicendo che si tratta di "fenomeni avvertibili con i sensi" (ibidem), caratte- ristica condivisa anche dai signa del De inventione (I, 48), in cui ricorrono esempi analoghi, e dagli argumenta di Cor- nificio (Rhet. ad Her., II, 8). I commentatori si sono chiesti se i vestigia f acti siano più in relazione con i segni necessari (notae propriae rerum) o con i verisimili (verisimile) (Crapis 1986: 61-62). In realtà questa sembra una categoria abbastanza autonoma non avendo la necessità dei primi, ma nemmeno le caratteristi- che degli ultimi. È plausibile che essa corrisponda alla cate- goria dei semefa aristotelici, diversi tanto dai tekméria quanto dagli eik6ta. Da un altro passo delle Partitiones oratoriae (114), dove ricorrono esempi analoghi, i vestigiafacti (chiamati lì anche signa) vengono definiti come consequentia, cioè inferenze che si traggono dal conseguente, caratteristica che definiva appunto, per Aristotele, i segni non necessari. Ma mentre Aristotele condannava i semefa da un punto di vista episte- mologico per la loro insicurezza, Cicerone è pronto a rico- noscerne l'efficacia qualora si presentino in gran numero (coacervata proficiunt, 40). Possiamo quindi schematizzare la classificazione cicero- niana nelle Partitiones oratoriae (cfr. p. 215). 9.2.3 Le opere sulla divinazione Molte cose collegano la retorica giudiziaria alla divina- zione. Innanzitutto il fatto che entrambe si avvalgano dei segni per arrivare alla conoscenza di fatti non direttamente accessibili alla percezione. In secondo luogo, in entrambe viene operata una distinzione tra aspetti che sono eminente- mente congetturali e altri aspetti che sono invece naturali o coniectura -- I --vestigia facti osigna verisimili& notae propriae rerum c•quod plerumque ita r11·1 es.: ·adolescenza- incllnazione alla libidine· c•quod numquam aliter fit certumque declarat•) es.: ·tumo-fuoco· 1•sensu percipi potest") es.: ·sangue-uccisione• dati: alla dicotomia retorica tra prove tecniche (o congettu- rali) e prove extratecniche corrisponde la distinzione tra di- vinazione artificiale (basata sull'interpretazione e sulla con- gettura) e divinazione naturale. Infine, come Cicerone pole- micamente rileva (De div., Il, 55), i segni della divinazione sono talvolta interpretati in maniera diametralmente oppo- sta, proprio come avviene nel processo, in cui l'accusa e la difesa propongono dello stesso fatto due interpretazioni di- verse ed entrambe plausibili. Ma Cicerone apprezza i metodi dell'indagine giudiziaria, mentre nutre una diffidenza enorme nei confronti della di- vinazione. In linea, infatti, con un vasto gruppo di intellet- tuali della sua epoca, educati ai metodi di indagine della fi- losofia greca, a fondamento razionalistico, e contempora- neamente impegnato in politica, sente l'esigenza di operare una distinzione netta tra religione e superstizione, di cui la divinazione fa, per lui, parte. La religione appartiene alla più antica tradizione romana e, posta come è ai fondamenti dello stato, deve essere conservata, pena la disgregazione dello stato ste~so; la superstizione, invece, costituita dal coacervo degli elementi spuri che inquinano e rendono poco credibile la religione stessa, dev'essere respinta, anche per- ché non venga limitata la libertà del cittadino romano nel suo impegno di gestione della repubblica. Cicerone affronta questi argomenti nel De natura deo- rum, nel De fato e, soprattutto, nel De divinatione. Que- st'ultima opera è scritta in forma di dialogo tra l'autore e il fratello Quinto, il quale difende l'arte divinatoria basandosi sulle teorie storiche che legavano la divinazione all'esistenza degli dei. Le osservazioni di Cicerone contro la teoria soste- nuta da Quinto sono particolarmente interessanti perché costituiscono una vera e propria critica a un meccanismo semiotico settoriale e contribuiscono, in negativo, a una concezione generale del segno. 9.2.3.1 La divinazione "artificiale" Secondo la teoria di Quinto, gli dei si pongono come fon- te dell'informazione e come emittenti nei processi di comu- nicazione divinatoria, dei quali gli uomini sono i destinata- ri. Ma, a seconda dei due specifici tipi di divinazione, il pro- cesso comunicativo si struttura in modo differente. Il primo tipo è costituito dalla divinatio artificialis, in cui l'interpretazione dei segni è legata a un'ars, ovvero a una tecnica professionale di decriptazione, demandata a specia- listi, ciascuno esperto in un settore: extispices (esaminatori delle viscere), interpretes monstrorum et fu/gurum (inter- preti dei fatti prodigiosi e dei fulmini), augures (interpreti del volo degli uccelli), astrologi (interpreti delle stelle), in- terpretes sortium (interpreti delle combinazioni di tavolette mescolate in un'urna ed estratte a caso). In tale divinazione l'informazione proveniente dalla divinità si materializza prima di tutto in una sostanza espressiva percepibile, a cui l'ars permetterà di abbinare un contenuto semantico. I presupposti su cui si basano le interpretazioni di questo tipo sono dati dalla teoria, di origine stoica, secondo cui tutti i fenomeni sono legati tra di loro in una catena di cau- se ed effetti, senza soluzione di continuità. Questa catena che ha come fondamento primo il /6gos divino e costituisce il fato (heimarméne), non è conoscibile per intero da parte degli uomini, dato che l'onniscienza è prerogativa della sola divinità (De div.). Tuttavia viene prevista l'esistenza di un tempo ciclico che "può essere paragonato con lo srotolarsi di una gomena, in quanto non dà mai luogo a fatti nuovi, ma ripete sempre quanto prima è accaduto" (De div., I, 127). Questo fa sì che gli uomini, attraverso l'osservazione attenta, colgano il mo- do in cui gli eventi si ripetono e, pur non potendo conoscere direttamente le cause, possono però arrivare a coglierne gli indizi caratteristici (signa tame.1causarum et notas cernunt) (ibidem). Dato poi che è possibile tramandare memoria dalle con- nessioni passate, si crea un vero e proprio codice basato sul- la iteratività. Si può schematizzare così il processo: emittente divino-segni di cause-eventi futuri codice basato sulla iter attività 9.2.3.2 La divinazione "naturale" Il secondo tipo di divinazione è quello definito naturalis, in quanto indipendente da qualunque tecnica professionale, ma derivante piuttosto da una diretta ispirazione divina, senza passare attraverso la mediazione di un segno esterno. Fanno parte di questo tipo le forme di preveggenza derivan- ti da invasamento profetico, cioè le vaticinationes e quelle derivanti dai sogni. Il palinsesto filosofico ·a cui è legato questo secondo tipo di divinazione è quello delle teorie peri- patetiche (Dicearco e Cratippo vengono esplicitamente no- minati, De div.), secondo le quali l'anima, per il suo legame naturale con la divinità, una volta che sia spinta da una divina follia o sciolta, nel sonno, dai vincoli che la legano al corpo, partecipa direttamente della conoscenza del dio. Il ruolo del codice è in questo caso ridotto, se non addirittura sostituito da una parziale identificazione tra emittente e ricevente, secondo lo schema:   emittente divino - Ma ci sono altri gravi difetti che la divinazione presenta dal punto di vista semiotico: (i) le interpretazioni di uno stesso segno sono spesso diametralmente opposte (De div., II, 83); (ii) si verificano frequentemente fenomeni di falsa identificazione dell'antecedente, per cui un certo evento non è connesso a quello individuato come segno prodigio- so, ma a ben diverse cause naturali (De div.); (iii) l'interpretazione avviene a posteriori e così toglie ogni ne- cessità di rapporto tra antecedente e conseguente (De div., II, 66); (iv) in certi casi l'interpretazione è motivata da ra- gioni di faziosità politica e quindi è priva di oggettività (De div.).segno interno - evento futuro • ricevente umano  9.2.3.3 Critiche "semiologiche" contro i segni divinatori Le obiezioni che Cicerone muove ai sostenitori della divi- nazione si basano su argomenti specificamente semiotici. La tesi generale, mediante la quale Cicerone nega valore alla divinazione, è che essa non abbia veramente carattere semiotico, e cioè che i fenomeni che essa interpreta come se- gni non siano veramente tali, ovvero che non si comportino veramente come degli antecedenti rispetto a dei conse- guenti. Per distinguere i segni veri rispetto a quelli presunti della divinazione, Cicerone istituisce un paragone tra le tecniche scientifiche (come la medicina, la meteorologia, la nautica, la tecnica previsionale del contadino e dell'astronomo) e la divinazione. In entrambi i casi è in gioco la predizione del futuro a partire da certi indizi; ma, mentre le pratiche pro- fessionali adottano una vera e propria metodologia che comporta "scienza (ars), ragionamento (ratio), esperienza (usus) e congettura (coniectura)" (De div., II, 14), le prati- che divinatorie si basano sul "capriccio della sorte, tanto che nemmeno la divinità sembra che possa avere, fra le sue prerogative, quella di sapere quali fatti il caso farà accade- re" (De div., II, 18). Questa opposizione tra ciò che, in definitiva, è il codice (anche se si tratta di legami naturali basati sulla frequenza statistica) 1 e il caso è del resto la stessa con cui i medici ip- pocratici tendevano a distinguere la propria scienza profes- sionale dalla divinazione e dalla medicina magica (Antica medicina, cap. XII). Cicerone poi si sbarazza in termini razionalistici della teoria secondo cui anche nel caso della divinazione tecnica si farebbe appello all'osservazione iterata delle coincidenze, ritenendola ridicola e insostenibile (De div., II, 28). Ma ci sono altri gravi difetti che la divinazione presenta dal punto di vista semiotico: (i) le interpretazioni di uno stesso segno sono spesso diametralmente opposte (De div., II, 83); (ii) si verificano frequentemente fenomeni di falsa identificazione dell'antecedente, per cui un certo evento non è connesso a quello individuato come segno prodigio- so, ma a ben diverse cause naturali (De div.); (iii) l'interpretazione avviene a posteriori e così toglie ogni ne- cessità di rapporto tra antecedente e conseguente (De div., II, 66); (iv) in certi casi l'interpretazione è motivata da ragioni di faziosità politica e quindi è priva di oggettività (De div.,).  Nel suo saggio Semiotica e filosofia del linguaggio ECO (si veda) osserva come la semiotica, proprio nel mo­mento storico in cui esce dalla marginalità, affermandosi come disciplina e vedendosi riconosciuto addirittura il ruolo di scienza paradigma, proprio in questo volgere di seco­ lo, appunto, diventa anche il referente ultimo di una serie di dichiarazioni che proclamano la morte del segno o, almeno, la sua crisi. Situazione non nuova, osserva Eco: la storia del pensiero occidentale è anche leggibile come storia di una cancellazione e rimozione, quella della semiotica come scienza, al di là dei (e nonostante i) numerosi pre-annunci, progetti, ipotesi di una teoria dei segni che, a più riprese, hanno percorso la riflessione teorica degl’ultimi duemila­ cinquecento anni. La proposta di ECO (si veda) è quella di pensare a un progetto attuale di semiotica che trovi giustificazione proprio nello spazio che intercorre tra le attuali negazioni e le reali presenze del passato. Ciò significa che la semiotica deve percorrere a ritroso il cammino della storia e divenire archeologia del sapere segnico: diverrebbe così possibile su­ perare i crampi linguistici che sono alla base delle attuali de­ finizioni del segno (che ne criticano il formato come troppo angusto o troppo ampio, che comunque non ne ritrovano il modello quando escono dai sistemi verbali). Il presente saggio costituisce un tentativo di accogliere il suggerimento di ECO (si veda) e si propone di indagare le pratiche se­miotiche dell’origini e la riflessione teorica sul segno, che sono elaborate dal mondo antico e che ci sono state consegnate dalla TRADIZIONE letteraria, FILOSOFICA, medica, storiografica, retorica. Si propone cioè di ritrovare le tracce di un filo rosso che percorre il mondo antico, dalle origini e che porta alla costituzione di una nozione di se­gno abbastanza diversa da quella proposta dalle teorie del Novecento. La maggior parte, infatti, delle dottrine del segno che so­no elaborate nel Novecento - sia in ambito linguisti­co, a partire dal Cours saussuriano, sia in ambito più gene­ ralmente semiologico - si fondano su due presupposti, che risultano del tutto assenti nella riflessione classica su questo soggetto: il modello di segno, sul quale l'intera indagine semiologica viene articolata, è quello del segno linguistico – ecceto in H. P. GRICE --; il tipo di rapporto postulato come instaurantesi tra le due facce del segno è quello dell'equivalenza (p=q) o almeno CONSEQUENZA (Hobbes, Grice). Da que­sta seconda assunzione dipende il fatto che la nozione di signi­-FICATO più diffusa fino a qualche anno fa nelle teorie seman­tiche fosse quella che lo vede come sinonimia o come de­finizione essenziale. A partire, infatti, dallo strutturalismo hjelmsleviano, fino ad arrivare alle teorie di semantica com­ponenziale e interpretativa di impostazione generativista, il singolo termine linguistico, o se si preferisce, la forma del­l'espressione di un segno, è sentito come equivalente a una serie di figure del contenuto, o marche semantiche, espresse a loro volta meta-linguisticamente da altrettante forme lin­guistiche (ad esempio: uomo = essere animato + uma­no + maschio + adulto). Cf. H. P. Grice: Bachelor: unmarried male – In defence of a dogma. Una indagine sul modo in cui nasce e si articola nell'anti­chità classica greco-romana (e particolarmente ROMANA) la riflessione sul segno ci permette di scoprire che, rispetto al primo punto, in origine, non solo non si ha omologazione dei vari tipi di segno sotto la specie di quello linguistico, ma che, anzi, le due teorie (quella semantica del linguaggio e quella del segno non-linguistico) procedono in maniera parallela, senza inter-connettersi. Ne è un esempio chiaro il fatto che Aristotele,nel LIZIO, adoperi il termine “symbolon” per indicare il segno linguistico, ma le espressioni “smefon” o “tekmrion” per indicare quello non linguistico. La saldatura avvienne molto più tardi, in Agostino. Ma, in questo caso, è l'espressione linguistica a essere sussunta sotto la categoria più generale [cf. H. P. Grice] e già costituita del segno non-linguistico. Per quello che riguarda il secondo punto, le pratiche se­gniche che la tradizione ci ha tramandato e le teorie classi­che prevedono un funzionamento del segno non secondo lo schema dell'equivalenza, bensì secondo quello deli'implica­zione (p q) – cf. Hobbes, Grice: CONSEQUENTIA. Per citare un esempio celebre, che percorre l'intera tradizione antica da Aristotele del LIZIO alla retorica romana di Quintiliano, pas­sando per IL PORTICO, un caso paradigmatico di segno è: Se una donna ha latte, ha partorito. The fact that this female has produced milk NATURALLY means that this female has given birth (H. P. Grice). A questo punto è già possibile un confronto. Il modello antico classico greco-romano, e particolarmente ROMANO, implicaziona­le – cf. Moore, ENTAIL – Frege assertion sign --, appare non solo molto più interessante rispetto a quello equazionale, ma certamente molto più, per così dire, attua­le. Infatti, è in corso nella ricerca contemporanea una revi­sione di paradigma, che tenta di superare le semantiche co­siddette "a dizionario" (che funzionano secondo il modello dell'equivalenza) per passare alla proposta di semantiche "istruzionali,” che funzionano secondo il modello dell'im­plicazione). Tuttavia, l'interesse di un lavoro di ricostruzione delle teorie semiotiche dell'antichità non è limitato soltanto al re­perimento di materiale sommerso, finalizzato, magari, alla costituzione di un quadro da mettere in confronto con quel­lo attuale di H. P. GRICE. C'è un interesse intrinseco anche nell'osservare come i campi nozionali, e la terminologia LATINA associata a essi si siano venuti distinguendo lentamente e abbiamo preso for­ma a partire da situazioni d’usi linguistici originariamente molto più magmatici. Anche in questo caso bisogna citare Aristotele del LIZIO come il primo che impone dei confini netti a ter­mini e concetti, che sono stati usati sino alla fine del V seco­lo a.C. e oltre (a esempio nei testi del Corpus Hippocrati­cum) con una oscillazione semantica considerevole. Prima della categorizzazione aristotelica del LIZIO, espressioni quali “semefon,” “aitia,” “prophasis,” “tekmrion,” ed “eikos,” non solo costituivano un campo di termini imparentati, ma anche di termini che ammettevano una parziale sovrapposizione e in­tercambiabilità (Lloyd). Ugualmen­te, il riferimento culturale di certe espressioni è stato, prima di Aristotele nel LIZIO, eterogeneo e diverso. “smafno,” a esempio, come ci mostra il frammento (Diels-Kranz) d’Eraclito è il verbo che indica la rivelazione oscura del dio di Del­fi. “tekmairomai,” poi, denota in generale il procedere at­traverso un ragionamento congetturale, ma nei tragici e nei lirici vienne usato in riferimento alla pratica dell'interpreta­zione divinatoria. “smefon,” infine (o la sua variante omerica “séma”), è il termine più complesso di tutti, indicando, fin dalle origini, una molteplicità di cose, dall'INDIZIO al SEGNO di riconoscimento, al prodigio divino, fino a essere usato come termine generale per il segno divinatorio (Bloch: tr. it.; Benveniste: tr. it.). È innanzitutto alla divinazione, all'astronomia e, tramite queste, all'arte della navigazione, che la problematica del segno viene in origine connessa. Come testimonianza di tale connessione, si può ricordare la cosmogonia d’Alcmane in cui all'origine del mondo compare la dea marina Teti, accompagnata da tre personaggi divini. Da una parte P6ros (''la via") e Tékmor ("il se­gnale", "il punto di riferimento"); dall'altra Sk6tos ("l'o­scurità"). Come sottolineano Detienne e Vernant, Tékmor svolge un ruolo fonda­mentale. Nell'oscurità [sk6tos] del cielo e delle acque in origine confuse, Tekmor introduce vie [p6roll differenziate, che rendono visibili sulla volta celeste e sul mare le varie dire­zioni dello spazio, orientando una distesa prima sprovvista di ogni tracciato, di ogni punto di riferimento, aporon kai atékmarton". I naviganti devono congetturare, “tekmafre­ sthal”, sulla distesa indifferenziata del mare, la loro rotta e gli dei e gli indovini la fanno loro intravedere, fissando in anticipo percorsi e punti di riferimento. In questo modo. i naviganti gettano un ponte tra il visibile o proprio il SENSIBILE e l'invisibile. Con Aristotele nl LIZIO, i termini del vocabolario semiotico, che mantenneno fino ad allora il riferimento alla sfera del sacro (e che continuano a essere usati in tal senso fuori dagl’ambienti filosofici e razionalistici), vengono pie­gati a un uso esclusivamente profano (Lanza) filosofico – cf. H. P. Grice: Words are not signs. Tuttavia, se si perde il carattere sacro dell’origini, qual­che traccia rimane ed è leggibile in trasparenza, se è vero che Aristotele nel LIZIO, nella sua delimitazione dei campi concettua­li – cf. Austin/Grice, Seminar on DE INTERPRETATIONE --, riserva l'espressione “smeion” al segno che non dà certez­za e che può risultare ingannevole (mentre riserva l'espres­sione “tekmrion” al segno sicuro). Qui, quello che è il segno ambiguo della rivelazione divina, diviene il segno am­biguo del modello conoscitivo razionalistico (“Those spots didn’t mean anything to me, but to the doctor, they meant that he had the measles – By uttering, ‘He hasn’t been to prison yet” he might have meant that he is potentially dishonest. Grice. Se il paradigma semiotico affonda le sue radici nelle pra­tiche non-scientifiche o non-filosofiche della divinazione e della medicina magica (l’"iatromantica"), tuttavia lentamente depura, nel corso dei secoli, queste origini da tutto ciò che in esse c'è di irrazionale e di non controllabile (anche se sempre, al di fuori delle teorizzazioni della FILOSOFIA ANALITICA tipo H. P. Grice, rimarranno usi magmatici e irrazionali di questo paradigma, come dimo­strano, a esempio, le opere d’Artemidoro di Daldis o d’Elio Aristide sui segni onirici). Se si tiene presente quest'ottica, non è più sorprendente osservare che la forma proposizionale e implicazionale (p q) che IL PORTICO danno al segno -- Se c'è cicatrice, c'è stata piaga -- si ritrova identica nelle tavolette divinatorie mesopotamiche. Anche gl’antichi babilonesi esprimeno il segno attra­verso un periodo ipotetico, formato da una protasi, intro­dotta dalla congiunzione summa (equivalente alla “ei” greca e il “si” latino, che introduce il condizionale del PORTICO), e da una apodosi. Es­se, rispettivamente, traducono in proposizioni linguistiche il segno e la sua interpretazione. Se il polmone è rossastro a destra e sinistra, vi sarà un incendio. Bottero. In ambiente greco, una saldatura tra segno divinatorio e forma logica dell'implicazione (p q) la si trova testimoniata in uno dei dialoghi delfici di Plutarco, L 'E di Delfi. In que­st'opera, alcuni prestigiosi personaggi discutono sul signifi­cato d’un oggetto, avente la forma di E, che si trova tra i doni votivi del tempio di Delfi. Tra essi, Teone propone un'interpretazione della E ricorrendo al nome che nella lin­gua antica questa lettera riceve, e cioè ei. Teone assimila poi questo nome alla congiunzione ipotetica ei (latino “si,” italiano ''se") e mo­stra che tale c­ongiunzione svolge nella dialettica un ruolo essenziale, in quanto serve a esprimere il rapporto logico per eccellenza, quello che si ha nei condizionali del tipo, Se è giorno, c'è luce -- esempio, questo, che è tra i più classi­ ci della logica semiotica del PORTICO). Teone sottolinea, infine, che il dio di Delfi, Apollo, è un dio molto amante della dialettica, tanto è vero che i vaticini presuppongono la for­ma del condizionale, p q, che è la forma stessa che assu­mono i fenomeni dell'universo (e qui il richiamo è alla teo­ria del PORTICO della simpatia universale. Certo, quello che risulta dal testo di Plutarco è al massimo che la teoria del PORTICO del fato e della divinazione si fonda su base logica. Il destino consiste in una serie interconnessa di condizionali. Ma se l'ipotesi da porre fosse quella esatta­mente contraria? Se, cioè, lo strumento così asettico e ra­zionale della logica traesse in realtà le sue origini dall'ambi­to divinatorio? Come dimostra la sua stretta connessione con i segni e la divinazione presso IL PORTICO (Goldschmidt; Verbeke). Un enorme cammino è tuttavia stato compiuto dai testi divinatori babilonesi alla logica del PORTICO. La forma proposizio­nale rimane la stessa.. Ma nel caso del PORTICO è depura­ta non solo di ogni carattere sacrale, ma anche di ogni ele­mento contenutistico. È lì solo per il calcolo proposiziona­le. Nel caso degl’antichi mesopotamici, invece, il contenuto della protasi permette di inferire il contenuto dell'apodo­ si mediante più o meno complicati processi di analogia e giochi tropici. Il "rossore" del polmone permette di infe­rire "incendio" per un TRATTO SEMANTICO COMUNE. Infine una disamina sulla riflessione semiotica antica per­mette di scoprire come il dibattito sui segni, sulla loro natu­ra e sulla loro classificazione si sia attestato a livelli sor­prendentemente alti, come è il caso della discussione sui condizionali in seno alla stessa scuola del PORTICO (tra Diodoro, Filone – citato da H. P. Grice -- e Crisippo) o della disputa tra IL PORTICO e L’ORTO sul rapporto tra antecedente e conseguente nei segni, di cui puntualmente ci informa il De signis di Filodemo. La discussione di carattere semiotico, insomma, si riferi­sce sempre a, o si identifica decisamente con, il quadro più generale o più fondamentale del problema della psicologia razionale o della cono­scenza. È poi nel mondo romano che queste problematiche d’ordine conoscitivo generale vienneno piegate all’esigenze più pragmatiche della conoscenza giudiziaria – “Hart is no philosopher, he’s a laywer” -- Grice: il problema dei segni si identifica con quello delle metodiche per as­segnare un maggiore o minor valore di PROVA agl’indizi pre­sentati in un procedimento processuale. La semiotica vienne messa al servizio dell'arte del detective, in ciò prefigurando uno degl’aspetti più singolari dell'interesse contemporaneo nei confronti dei paradigmi indiziari (Eco e Sebeok). È, infine, con Agostino – e con Grice a Oxford --, che la teo­ria del segno fornisce un paradigma anche per la teoria del linguaggio, permettendo d’UNIFICARE in un'unica categoria anche i segni verbali. Desidero ringraziare i molti amici che hanno letto e di­scusso con me parti di questo lavoro. Tra coloro che mi hanno offerto preziosi suggerimenti critici vorrei ricordare Bernardini, Borutti, Crevatin, Fabbri, Manuli, Marmo, Ta­barroni, Vegetti, e Violi. Per molte delle idee e per l'impostazione generale del saggio sono debitore a ECO (si veda), di Bologna, la piu antica varisita del mondo, che segue e incoraggia il lavoro fin dai suoi inizi. Un ringraziamento particolare va a Conte, che ha rivisto una precedente versione del mano­scritto, e dal quale ho ricevuto una infinità di preziosi con­sigli. Quanto agl’errori e alle imprecisioni, ne assumo inve­ce totale responsabilità. C'è un campo specifico in relazione al quale tutte le cul­ture antiche riconoscevano l'eccellenza e il magistero dei popoli mesopotamici: quello della divinazione. Non ci si può nascondere tuttavia, a questo proposito, che l'atteggiamento sviluppato dalla cultura moderna nei confronti delle pratiche che rientrano in questo campo è fortemente svalutativo. Esse, infatti, rappresentano un pa­radigma che si pone esattamente agl’antipodi di quello che normalmente è assunto come il paradigma scientifico. Ma ci sono almeno due ragioni che ci inducono a guardare alla divinazione mesopotamica come a qualcosa che merita più di un interesse puramente occasionale o erudito. In primo luogo, infatti, è necessario ripensare, come sug­gerisce Ginzburg, ai rapporti tra paradigma divinatorio e paradigma scientifico come a qualcosa di molto più complesso di quello che si assume di solito e che non comporta affatto una svalutazione del primo termine. Infatti, per Ginzburg, il paradigma divinatorio (definito an­che, a seconda dei contesti in cui si manifesta, come indi­ziario, semeiotico, e venatorio), costituisce un modello di sapere specifico, caratterizzato dall'aspetto qualitativo: e cioè basato sulla conoscenza dell'individuale, attraverso l'uso della congettura. Ciò gli permette di giungere a risul­ tati notevoli, in tutte quell’aree del sapere che lo utilizzano privilegiatamente (al di là della mantica, sicuramente, anche la medicina, la filologia e cosi via, su su fino alla detec­tion, la connoisseurship, la psicoanalisi), anche se per que­sto deve pagare il prezzo di una ineliminabile dose di aleato­rietà. Si tratta, in realtà, di un sapere del tipo che Peirce [cf. Grice’s lectures on Peirce] definisce abduttivo, in contrapposi­ zione al modello del sapere quantitativo che fa uso della de­duzione come metodo di ragionamento. In secondo luogo bisogna ricordare che, in Mesopotamia, la divinazione subisce un lungo processo evolutivo che dalla fondamentale e primaria tendenza a inferire le cause dagl’effetti (procedimento tipico dell'abduzione) la porterà ad accentuare sempre di più i tratti generalizzanti e aprioristici, in modo da gettare le basi per una vera e propria scientifici­ tà di tipo astratto (Bottero 1974: tr. it. 211). Ciò che risulta di maggiore interesse, dal punto di vista della ricostruzione storica di una disciplina semiotica, è che al centro del pensiero divinatorio si pone proprio il segno in una accezione non banale. Quest'ultimo, infatti, costituisce anzitutto uno schema di ragionamento inferenziale, che permette di trarre alcune conclusioni a partire da certi dati. È interessante notare come il segno divenga centrale nel­ l'universo cognitivo mesopotamico, in quanto, partendo dal campo della divinazione, si estenderà in seguito anche alel altre pratiche culturali e discipline, come la medicina e la giurisprudenza, e arriverà ad articolare, unificandola sot­ to il suo modello, la totalità del sapere. Si raggiungerà dun­ que, in Mesopotamia, un punto in cui il sapere, a livello molecolare, funzionerà secondo lo schema, unificato e for­ male, del segno divinatorio, anche se contenuti di volta in volta differenziati verranno utilizzati per dargli corpo. Pos­ siamo già accennare (anche se vi torneremo su in seguito con maggiore ampiezza di dettagli) alal forma assunta nella cultura mesopotamica dal modello segnico: quella di un pe­ riodo ipotetico in cui una certa conclusione è data nella apodosi, come derivante direttamente dallo stato di cose presentate nella protasi: in cui, in altre parole, la protasi è "segno" deli'apodosi. Un modello segnico di questo tipo ("Se p, allora q") è molto vicino a quello tramandatoci dalla cultura greca nella fase della sua maggiore maturità semiotica: in particolare funziona secondo lo schema implicativo il modello di segno elaborato dalla scuola stoica. Ma qui, una volta rilevata l'affinità, devono subito essere messe in luce le differenze: nel segno della divinazione mesopotamica sono in genere gli elementi materiali (o contenutistici) che permettono il pas­ saggio dalla protasi all'apodosi; in quello della semiotica stoica, invece, le inferenze sono rese possibili unicamente grazie agli elementi formali. A ogni modo, nonostante queste profonde divergenze e al di là del problema, che pure si pone, degli eventuali debiti specifici della cultura greca nei confronti di quella mesopo­ tamica a questo proposito,1 è interessante verificare la pre­ senza dello stesso schema segnico p -:J q che attraversa due civiltà (quella greca e quella mesopotamica) e due ambiti culturali (la divinazione e la filosofia) per altri versi tanto distanti tra loro. 1. 1 Divinazione e scrittura Il fatto che quella mesopotamica sia essenzialmente una civiltà della scrittura costituisce senz'altro uno dei presup­ posti per capire il tipo di divinazione sviluppatosi in Meso­ potamia e le ragioni della sua ampia diffusione: è la scrittu­ ra, infatti, che in Mesopotamia fornisce la forma e il mo­ dello per tutta una serie di attività intellettuali, prima fra tutte quella deli'interpretazione dei segni inviati dagli dei. La lettura dell'avvenire e la conoscenza del nascosto non avvengono qui per diretta ispirazione divina, ma seguono lo stesso procedimento messo in atto neli'interpretazione dei segni della scrittura. 'l E proprio in relazione alla grande importanza assunta dalla scrittura nella cultura mesopotamica che il modello ri­ sultato egemone è quello della divinazione tecnica (Bouché­ Leclercq), quello cioè basato sulla interpretazione di segni che si realizzano esternamente al­ l'uomo e che richiedono l'intervento esplicativo degli spe­ cialisti. Per comprendere il ruolo che la coppia scritturaloralità gioca negli orientamenti divinatori è sufficiente mettere in relazione la civiltà mesopotamica con quella greca. Que­ st'ultima, come noto, è una cultura essenzialmente orale, dove la scrittura si sviluppa in un periodo relativamente re­ cente e non costituisce un fenomeno autonomo rispetto al parlato, bensì, essenzialmente, una sua riproduzione in ca­ ratteri fonetici. In stretta connessione con il carattere orale della cultura, in Grecia risulta egemone proprio il modello della divina­ zione ispirata, in cui il dio parla ali'uomo attraverso un profeta, avvertito come suo portavoce, secondo il celebre esempio della divinazione oracolare della Pizia a Delfi. E non è poi un caso che la società greca non abbia favorito, come avviene invece in Mesopotamia, la nascita e la presen­ za stabile di una classe sacerdotale preposta ali'interpreta­ zione specialistica sia dei segni della scrittura sia di quelli della divinazione. Al contrario, nella cultura mesopotamica la scrittura, per un verso, è un fenomeno piuttosto antico, per l'altro è un dispositivo dotato di meccanismi in larga misura autonomi rispetto al parlato. Le prime attestazioni della scrittura cuneiforme, infatti, si hanno tra la fine del IV millennio e l'inizio del III.2 Nella sua forma primitiva la scrittura è pittografica, in quanto fatta di segni che intendono designare ciò che raffigurano: a esempio la rappresentazione di una testa di bovino, trac­ ciata nei suoi contorni, ma perfettamente identificabile, in­ dicava in prima istanza "il bue"; ma, per una sorta di am­ pliamento semantico del segno, esso indicava anche "la vac­ ca" e "il bestiame grosso". Ugualmente il disegno schemati­ co di un piede aveva anche il significato di "stare in piedi" e quindi quello di "immobile", di "camminare", di "parti­ re", fino ad arrivare addirittura a quello di "portare via''. Come si vede l'abbinamento tra significanti e significati non si presenta né univoco né banale: esso infatti comporta un lavoro interpretativo piuttosto complesso per controlla­ re i processi di ampliamento o di slittamento dei significati per uno stesso segno. Processi che si complicavano attraverso nuove associa­ zioni derivanti dalla giustapposizione di segni diversi: il se­ gno del pane messo accanto a quello della bocca dà il pro­ dotto semantico "mangiare"; quello dell'acqua accanto a quello deli'occhio significa "lacrime"; se invece è messo ac­ canto a quello del cielo significa "pioggia". Più curioso an­ cora è il caso del segno della montagna che, giustapposto al segno indicante la donna, produce il senso "la schiava", in quanto le montagne delimitavano a est e a nord la regione, e una donna portata da un paese situato oltre la montagna era una straniera destinata a tale condizione. Ci sono dunque complicati meccanismi enciclopedici che governano l'interpretazione. Ma si può osservare anche che, nella sua forma più anti­ ca, quella cuneiforme è una scrittura di cose (Bottero 1974: tr. it. 168), in quanto non ha bisogno di passare attraverso il linguaggio verbale per designare gli oggetti della realtà. La sua autonomia rispetto alla realizzazione verbale è tota­ le, tanto è vero che i segni possono essere compresi da per­ sone che parlano lingue diverse e, del resto, sono pronun­ ciati in modo diverso in ciascuna di queste lingue come av­ viene, a esempio, per i numeri arabi nel mondo moderno. I Mesopotamici si dimostrarono molto legati a questa "scrit­ tura di cose" e non l'abbandonarono neppure quando ven­ nero fatti notevoli passi avanti verso il fonetismo con l'in­ venzione della scrittura sillabica. In effetti, circa un secolo dopo la sua prima scoperta, i segni della scrittura pittografica avevano cominciato a subi­ re un processo di scollegamento dalle "cose" che designava­ no, per essere collegati più direttamente alle "parole" con cui il linguaggio verbale designava i medesimi oggetti. Il ca­ rattere monosillabico di molte parole e l'alta percentuale di omonimi, avevano favorito questo processo. Un esempio interessante del fenomeno, che è anche il più antico, è quel- lo del segno della fr H 1---, che viene a in- dicare non più solo "la freccia" ma anche "la vita": la me­ diazione è stata dali'omonimia tra le parole designanti i due concetti, pronunciate entrambe ltil nella lingua sumerica.3 Possiamo così schematizzare il processo: pronuncia l ti l l"" significato ..freccia· ..vita• l ::rafico HH H'VA questo punto per arrivare a un alfabeto sillabico per­ fetto sarebbe stato sufficiente eliminare tutti gli ideogram­ mi indicanti parole per lasciare soltanto i segni di sillabe, sorta di unità minime infinitamente reimpiegabili. Invece i Mesopotamici lasciarono sopravvivere, accanto ai segni presi nel loro valore fonetico (indicanti una sillaba), i segni presi nel loro precedente valore pittografico. Ci sono almeno due importanti conseguenze che derivano da questa organizzazione della scrittura, per la divinazione. Anzitutto, come abbiamo visto da alcuni esempi, la scrit­ tura pittografica ha la caratteristica essenziale di tessere una rete sottile e complessa di rapporti tra le cose: abitua la mente a vedere nelle cose relazioni segrete e legami inso­ spettati. Essa suggerisce, altresi, un'attitudine mentale che porta a guardare anche alle cose del mondo reale come in­ nescanti un analogo processo semiosico: non solo, quindi, l'abbinamento pittografico del segno della montagna e di quello della donna indicheranno "schiava", ma anche lo stesso abbinamento osservato nella realtà, oppure in un so­ gno, porterà a trarre una inferenza analoga. È proprio un meccanismo inferenziale di questo tipo che si pone alla base della divinazione. La seconda conseguenza è connessa con il carattere spe­ cialistico delle conoscenze richieste per l'interpretazione della scrittura: i caratteri cuneiformi non sono accessibili a tutti, dato il sistema di cifrazione cosi complesso. Si crea al­ lora una sorta di aristocrazia di esperti capaci di interpretare i segni della scrittura. Allo stesso titolo si crea, per l'in­ terpretazione dei segni mandati dagli dei, la casta degli in­ dovini baro, i quali hanno come emblema della loro corpo­ razione proprio la tavoletta e il calamo. 1.2 La scrittura degli dei Come sottolinea Jeannie Carlier (1978: 1227), in Meso­ potamia "parlare di una scrittura degli dei non è una meta­ fora". Infatti quella cultura proietta nel campo teologico lo stesso modello di organizzazione che vede operante nel campo della burocrazia statale. Come ii re diffonde il suo potere dal centro alla periferia attraverso una capillare e sviluppatissima rete amministrativa che trasmette i suoi or­ dini scritti indirizzati ai sudditi, così gli dei si servono della scrittura per far conoscere agli uomini i destini che hanno fissato per ciascuno di loro; solo che "l'unica tavoletta a lo­ ro misura è l'universo intero" (ibidem). Sama e Adad, gli dei della divinazione, sono per un ver­ so come il sovrano che notifica la sua volontà ai sudditi per mezzo di messaggi scritti; per un altro sono come il giudice che, dopo aver preso una decisione, la ratifica sulla tavolet­ ta per darle validità e pubblicità. Il mondo, dunque, in questa concezione, è una immensa tavoletta, costituito da oggetti che sono il supporto materia­ le dei presagi da cui verranno ricavati gli oracoli, come vie­ ne testimoniato, tra l'altro, anche da un inno di Assurbani­ pal a Sama5: "Tu scruti alla luce (del) tuo (sguardo) la terra intera come (altrettanti) segni cuneiformi". Del resto i Babilonesi parlavano della disposizione degli astri come "scrittura del cielo" che veniva "letta" dagli astrologi. E d'altra parte non era raro il caso in cui un pre­ sagio consistesse letteralmente in un segno di scrittura trac­ ciato nelle pieghe del fegato di un animale o sulla fronte di un uomo. 1.3 Una semiologia "ante litteram" Una volta messo in luce il carattere di profonda affinità tra il sistema della scrittura cuneiforme e la divinazione concepita come scrittura degli dei, passiamo a esaminare la struttura interna del segno divinatorio. È possibile farsene un'idea abbastanza precisa attraverso i numerosi trattati di­ vinatori che ci sono pervenuti. Questi ultimi consistevano in lunghissimi elenchi di proposizioni complesse, ciascuna composta da una protasi e da un'apodosi. La protasi è in­ trodotta dall'espressione summa (equivalente alla congiun­ zione "se") e ha il verbo al presente o al passato: essa costi­ tuisce il "presagio", cioè il segno ominoso che deve essere interpretato; l'apodosi ha il verbo di solito al futuro e costi­ tuisce !'"oracolo", ciò che viene indicato o svelato dall'in­ terpretazione del segno. Vediamo alcuni esempi che, pur in relazione a differenti tecniche divinatorie, presentano tutti la stessa struttura:4 Astrologia Se nel giorno della sua scomparsa, la Luna si attarda nel cielo (invece di scomparire d'un tratto)- vi sarà siccità-e-arestia nel paese. Fisiognomonia Se un uomo ha il pelo delle spalle ricciuto - le donne lo ame­ ranno. Oniromanzia Se un uomo sogna che gli consegnano un sigillo - avrà un fi­ glio. Lecanomanzia Se, dal centro dell'olio (gettato sull'acqua), si staccano due "ponti", uno maggiore dell'aJtro - la sposa dell'interessato met­ terà aJ mondo un figlio maschio; quanto aJ malato, guarirà. Estispicina Se il polmone è rosso-vivo a destra e a sinistra - vi sarà un in­ cend io. PASSAGGIO DALLA PROTASI ALL'APODOSI 17 Libanomanzia Se, quando versi (la sostanza aromatica) sulla brace, il fumo si sprigiona (solamente) verso destra, e non verso sinistra - avrai la meglio sul tuo avversario. Se si sprigiona (solamente) verso sinistra e non verso destra - il tuo avversario avrà la meglio su di te. Questi esempi permettono già di fare due osservazioni a proposito del meccanismo semiotico in essi instaurato. In primo luogo la struttura del segno è espressa in termini di rapporti tra proposizioni e non tra singole unità lessicali o tra un significante e un significato in senso saussuriano. Questo fa sì che i segni non verbali e gli eventi acquisiscano subito un'importanza predominante, in quanto trovano ap­ punto nella proposizione il modo migliore di essere espressi. In secondo luogo il rapporto che c'è, all'interno di cia­ scun segno, tra la protasi e l'apodosi è di tipo implicativo, intendendo però questo termine come designante un'infe­ renza ancora abbastanza generica: come vedremo, all'inter­ no della scuola stoica, invece, l'interesse si accentuerà pro­ prio sul tentativo di definire il nesso implicativo che caratte­ rizza il segno e a questo proposito si accenderanno diver­ genze che alimenteranno una lunga e complessa discus­ sione . 1.4 n passaggio dalla protasi all'apodosi Messi di fronte ali'enorme massa delle proposizioni divi­ natorie documentate dai trattati mesopotamici può sembra­ re che regni la più completa casualità nel movimento che re­ gola il passaggio delle protasi-presagio alle relative apodo­ si-oracolo. A ben guardare, però, è possibile rintracciare al­ cune linee generali che consentono di mettere un po' d'ordi­ ne in un coacervo altrimenti amorfo e di cogliere alcuni principi di regolazione. Sono rintracciabili in realtà tre casi teorici di passaggio non casuale dalla prima alla seconda proposizione: Il primo tipo di passaggio è connesso al principio del co­ siddetto empirismo divinatorio: protasi e apodosi regi­ strano eventi che si sono verificati effettivamente secon­ do una concomitanza temporale. Questo genere di mec­ canismo si trova nei cosiddetti "oracoli storici", caratte­ rizzati dal fatto di avere l'apodosi al passato, anziché al futuro; essi riproducono verisimilmente la forma del tipo originario di divinazione. 2. 3. Il secondo tipo di passaggio non arbitrario è connesso alla possibilità di un gioco di associazioni tra elementi della protasi ed elementi dell'apodosi: naturalmente sono possibili i due casi, tanto del gioco fonetico sui signifi­ canti, quanto di quello tropico sui significati. Il terzo tipo di passaggio tra le due proposizioni è con­ nesso alla presenza di codici che prevedono una serie esauriente e completamente specificabile di casi. In realtà, nella fase più recente della storia della divina­ zione mesopotamica, i trattati subiscono un'evoluzione nel­ la direzione della sistematicità e dell'astrazione. Il sistema astratto e, in un certo senso, totalmente deduttivo prende il sopravvento anche sulla verisimiglianza stessa dei presagi. La furia classificatoria dei Mesopotamici guarda più ali'e­ saurimento di tutti i casi astrattamente possibili che non al­ la loro concreta possibilità di verifica. Avviene così che l'abbinamento di un'apodosi con una certa protasi dipenda dallo schema astratto e, dunque, divenga prevedibile. 1.4. 1 Gli "oracoli storici" e l'empirismo divinato­ rio Sommersi, e quasi fossilizzati, nell'insieme delle decine di migliaia di oracoli che i trattati mesopotamici ci hanno con­ servato, gli oracoli "storici" costituiscono un numero non grande, ma significativo. Essi possono essere attribuiti, in base all'analisi interna, all'epoca delle origini, anche se compaiono in trattati più recenti. PASSAGGIO DALLA PROTASI ALL'APODOSI 19 Essi presentano infatti quattro caratteristiche specifiche: l. hanno tutti la tipica apodosi al passato; 2. gli argomenti di cui trattano fanno riferimento ad avvenimenti storici che, nel caso in cui possano essere confrontati con altre fonti, risultano degni di fede; 3. i fatti e i personaggi che in essi sono menzionati sono collocabili, nella maggior parte dei casi, nell'epoca di Accad (ca. 2340-2160 a.C.); 4. fanno, quasi tutti, iniziare l'apodosi con la formula amat "(è il) presagio di", formula che è assolutamente inusuale negli al­ tri oracoli. Vediamone alcuni esempi: Se (nel Fegato) la Porta del Palazzo è doppia, se vi sono tre Ro­ gnoni e a destra della Vescichetta-biliare sono scavate (pa/Iu) due perforazioni (pilsu) ben nette - (è il) presagio degli abitanti di Apgal, che Naram-Sin (ca. 2260-23) per mezzo di scavi (pii­ fu) fece prigionieri. Se, a destra del Fegato, si trovano due Diti - (è il) presagio del­ l 'Epoca-dei-Competitori. In entrambi questi casi l'apodosi fa riferimento a fatti e personaggi storici reali deli'epoca di Accad. Si può ipotizza­ re che gli oracoli così formulati non siano stati molto di­ stanti cronologicamente dali'epoca dei fatti storici di cui parlano le apodosi. Anzi, il punto fondamentale è proprio che tali oracoli avrebbero registrato delle coincidenze "significative", a po­ steriori, tra un particolare stato di cose considerato ornino­ so e un evento della storia: tali coincidenze avrebbero as­ sunto in seguito valore di paradigma. A persuaderei di questa ipotesi, che risponde appunto al principio dell'empirismo divinatorio (Bouché-Leclercq 1879-82: vol. l, 298; Bottero 1974: tr. it. 161), c'è il fatto che spesso i Fegati di Mari contengono una formula che mostra come il gioco delle coincidenze si sia potuto stabi­ lire: Quando il mio paese si è rivoltato contro lbbi-Sin (2027-2003), questo (=il Fegato) si trovava così disposto. LA DIVINAZIONE MESOPOTAMlCA Il plastico di Mari riproduce la forma assunta dal fegato reale esaminato durante un rito di estispicina: esso registra la coincidenza tra questa forma, assunta come ominosa, e un evento storico di importanza determinante, cioè la rivol­ ta contro l'ultimo re del periodo neosumerico, lbbi-S'ìn. L'ipotesi dell"'empirismo divinatorio" si spinge anche ol­ tre, ipotizzando che alla base stessa della scoperta della di­ vinazione si porrebbe la scoperta delle coincidenze tra la se­ rie di presagi e quella degli oracoli; ipotesi che può essere avvalorata dal fatto che tutti gli "oracoli storici" possono essere cronologicamente situati nel periodo delle origini del­ la divinazione mesopotamica. Nella istituzione stessa della pratica divinatoria si sarebbe vicini, così, a una forma del principio del post hoc, ergo propter hoc, per cui qualsiasi evento che fuoriesce in qual­ che maniera dal corso "normale" e che è seguìto da un altro evento, considerato a sua volta eccezionale, finirebbe per costituire con quest'ultimo una coppia inscindibile. Il colle­ gamento tra i due eventi, una volta stabilito, diventerebbe irresolubile; e il secondo evento, se non propriamente cau­ sato dal primo, risulterebbe almeno annunciato da quello. Ciò che di fatto viene qui elaborato è il metodo semiotico dell'inferenza delle cause dagli effetti, che è tipica dell'ab­ duzione. È vero che in questo caso si arriva a conclusioni che ci appaiono assurde, a causa di un errore fondamentale nell'applicazione del metodo: infatti quello che viene preso come risultato (o effetto) (una certa ben definita disposizio­ ne del fegato) che si presume essere il caso di una certa re­ gola (o causa) (rivoltarsi contro lbbi-Sin), in realtà non è affatto tale. Ma questo ha poca importanza: formalmente siamo di fronte a un'abduzione. Un tale principio è applicato costantemente. Non c'è nes­ sun interesse della divinazione a rivolgersi al passato: se le apodosi degli oracoli storici lo fanno è appunto perché la fi­ losofia che sta dietro a questo tipo di oracoli è che la storia può ripetersi. Nell'abduzione, infatti, una volta che sia sta­ ta inferita la regola che spiega un certo risultato, è possibile tenere a disposizione tale regola per successive applicazioni deduttive. PASSAGGIO DALLA PROTASI ALL'APODOSI 21 1.4.2 Oracoli con gioco associativo tra protasi e apodosi La seconda possibilità di un legame non casuale tra pro­ tasi e apodosi dipende dalla presenza di rapporti associativi tra elementi contenuti nella prima ed elementi contenuti nella seconda proposizione. È operante qui in maniera evidente il modello della scrit­ tura cuneiforme. Abbiamo infatti visto che essa tende a creare o suggerire una rete di relazioni tra cose non diretta­ mente in contatto. Sappiamo come l'interpretazione di un segno della scrittura cuneiforme apra la strada a una catena di veri e propri interpretanti: la rappresentazione ideografi­ ca dell'orecchio, a esempio, non solo significa "ascoltare", ma anche "obbedire", "apprendere'', "il sapere", "l'intelli­ genza". Ugualmente possono entrare in corto circuito se­ mantico due ideogrammi omografi o che differiscano per pochi tratti del significante. Cosi abbiamo due tipi di gioco associativo : l . quello sui significati; 2. quello sui significanti. 1 .4.2. 1 Il gioco sui significati Il rapporto che si instaura tra protasi e apodosi nel caso di un gioco associativo sui significati è quello che si ha tra un "cifrato" tropico, e una sorta di "chiaro" al grado zero. Vediamo alcuni esempi: Se il 29 del mese di Aiiar (aprile-maggio) si verifica un'eclisse di sole - il re morirà, duramente punito da Sam mortalità gene­ rale. Se un parto-anormale è doppio, con due teste, l'una saldata al­ l'altra, e otto zampe, ma una sola colonna-vertebrale - il paese sarà precipitato nella confusione per effetto delle dispute inte­ stine . Se un cavallo cerca di accoppiarsi con un bue - riduzione del­ l'incremento del bestiame. Nel primo esempio )'"eclisse di sole" può essere conside­ rata una metafora rispetto alla "morte del re"; del resto la metafora deli'eclisse come segno della morte di un sovrano si catacresizzerà ed entrerà in una lunga tradizione mantica anche greco-romana. Nel secondo esempio compare pure una metafora complessa: infatti la protasi parla del corpo di un unico animale (''una sola colonna-vertebrale"), che però ha organi doppi ("due teste", "otto zampe"); viene al­ lora istituito un parallelo con l'organismo statale (''il pae­ se"), unico, ma dilaniato e reso doppio dalle "dispute inte­ stine". Il terzo esempio presenta un caso di accoppiamento tra due animali di specie diverse, destinato dunque alla infe­ condità, il quale simbolizza una "riduzione dell'incremento del bestiame": la protasi ha la funzione (dal punto di vista della produzione segnica) deli 'esempio (Eco 1 975 : 296; Eco 1984: 47), che vale per l'intera classe. In generale, questi esempi mostrano come la logica che regola il rapporto tra protasi e apodosi è dell'ordine del simbolico. Naturalmente molto spesso la relazione tra il ci­ frato tropico e il chiaro ci sfugge, perché il linguaggio figu­ rato è dipendente dal contesto culturale: è verosimile che in molti casi operino associazioni che per la distanza spazio­ temporale tra le culture non possiamo più avvertire. 1 .4.2.2 Il gioco sui significanti Vediamo ora alcuni esempi di oracoli in cui nella protasi ci sono elementi che differiscono per pochi tratti del signifi­ cante da elementi correlati nell'apodosi: Se piove (zunnu iznun) nel giorno (della festa) del dio della città - quest'ultimo sarà adirato (zenl) contro di essa. Se la Vescichetta biliare è rientrante (na!Jsat) è inquietante (na!Jdat). - Se la Vescichetta biliare è presa dentro (kussti) il grasso - farà freddo (kU$$U).  1 .4 PASSAGGIO DALLA PROTASI ALL'APODOSI 23 Se il Diaframma è aderente (emid) - aiuto (imid) divino. La somiglianza tra i significanti fa sì che un fatto, indica­ to da una parola con un certo suono, sia considerato segno di un altro fatto, indicato da una parola con suono affine. 1 .4.3 I codici sistematici Il terzo tipo di abbinamento non casuale tra protasi e apodosi è quello legato alla presenza di codici sistematici. Come dicevamo, è possibile registrare nella divinazione mesopotamica un'evoluzione diacronica per cui, dall'epoca delle origini al periodo più recente, il modo di porre il rap­ porto tra protasi e apodosi si modifica nel senso dell'astra­ zione. Il culmine di tale processo porterà alla creazione di codici che prevedono una casistica generale ed esaustiva: in questo caso verrà totalmente abbandonato il principio del­ l'empirismo divinatorio per far spazio a una logica in un certo modo deduttiva, che fa dipendere dalla configurazio­ ne generale del codice l'inferenza del singolo caso. Infatti, a partire dal secondo quarto del II millennio, la documentazione storica non ci presenta più oracoli singoli, ma registra la presenza di un centinaio di "trattati", cioè di raccolte sistematiche e spesso molto dettagliate, di segni di­ vinatori.s La sistemazione in trattati, questo nuovo aspetto della di­ vinazione nel II millennio, ha come tratto saliente quello di risultare funzionale al raggruppamento di diversi segni ora­ colari in relazione a un unico oggetto, considerato ornino­ so. Quest'ultimo veniva scomposto nell'intera gamma delle sue parti o variazioni, ciascuna delle quali veniva a essere il tema di una singola protasi. Si registra, in effetti, una mi­ nuziosa opera di pertinentizzazione del reale: se un oggetto risulta esteso e divisibile, per ognuno dei singoli aspetti identificati, viene costruita una coppia presagio-oracolo. Ecco come, a esempio, in un trattato di estispicina, una sin­ gola porzione del fegato, la cosiddetta "Porta del Palazzo", viene esaminata: Se, sulla Soglia della Porta del Palazzo, a destra, si trova una fessura - . . . Se, sulla Soglia della Porta del Palazzo, a destra, una fessura è segnata per il lungo - . . . Se, sulla Soglia della Porta del Palazzo, a sinistra, si trova una fessura - . . . Se, sulla Soglia della Porta del Palazzo, a sinistra, una fessura è segnata per il lungo - Se, nel bel mezzo della Porta del Palazoz, si trova una fessura - ...  Come si può vedere, tutte queste protasi risultano co­ struite su un principio strutturale di opposizioni binarie tra Ila Soglia! e Iii bel mezzo! della Porta del Palazzo, tra jde­ stral e jsinistral, tra j fessuraj e l fessura segnata per il lungoj . È dunque proprio il sistema, inteso in un senso strutturali­ stico ante litteram, a prendere il sopravvento . Non vengono registrati più solo i casi che sono stati effettivamente osser­ vati, ma tutti i casi virtualmente possibili, in relazione a un sistema basato su opposizioni e regole astratte. Questo fatto diviene particolarmente evidente quando in­ contriamo in un trattato delle protasi che prendono in con­ siderazione fino a sette Vescichette biliari per uno stesso fe­ gato: la logica del sistema (basata in questo caso sulla rego­ la: n --+ n + l) prevale non solo sulla realtà, ma perfino sulla verisimiglianza. Una cosa analoa avviene quando, all'ini­ zio del trattato di teratomanzia Summa izbu, vengono pre­ viste, per un neonato perfettamente umano, circa quaranta possibilità di aspetto mostruoso: tra esse, che il neonato as­ somigli a un cavallo, a un leone, a un cane, a un maiale, a un bue, a un asino, oppure a una mano, a un piede e, addi­ rittura, a un corno di capra o a un mattone. Sotto la spinta della sistematizzazione, la divinazione cambia radicalmente: tutto l'impegno non è più dedicato al­ la ricerca di eventi ominosi, ma alla costruzione degli s-co­ dici (Eco 1975; 1984: 266) delle sequenze di protasi; a parti 1.5 ESPLICITAZIONE DELLE REGOLE DI CODIFICA 25 re da queste sequenze verrà costruito il codice vero e pro­ prio di abbinamento con le serie di apodosi. In questo sen­ so, anche se non formulate, varranno regole generali del ti­ po: "ogni volta che trovi il numero x nella protasi, assegna la caratteristica y all'apodosi"; cosi, a esempio, se l'indovi­ no incontra in un evento-protasi il numero sette, che il siste­ ma abbina costantemente, poniamo, alle caratteristiche del­ la "perfezione" e della "totalità", può dare come oracolo "vi sarà Pimpero". Sono del resto molte le regole di codifica non espresse, ma costanti, come a esempio quella per cui tutto ciò che è a destra è connesso con un auspicio favorevole, mentre tutto ciò che è a sinistra, esprime un augurio contrario. Oppure quella per cui è possibile "cambiare di segno", come in alge­ bra, alla predizione in base al contesto: a esempio, un pre­ sagio di per sé sfavorevole, se messo in rapporto con la sini­ stra, diventa favorevole, o viceversa. In questo senso l'apodosi diviene deducibile dalla prata­ si, in quanto basta osservare le caratteristiche sistematiche che in essa sono contenute per inferirla: è il trattato che for­ nisce in realtà la regola (anche senza esplicitarla): di fronte a un nuovo caso sarà facile per l'indovino trovare il risulta­ to applicando la regola. 1.5 L'esplicitazione delle regole di codifica Se nei trattati del II millennio si assiste al superamento della fase empirica a favore di una ristrutturazione della di­ vinazione su base sistematica e deduttiva, tuttavia, le regole della deduzione, per quanto largamente operanti, rimango­ no implicite. Nei trattati del I millennio si assiste a un'ulteriore evolu­ zione della divinazione, che porta ali'esplicitazione delle re­ gole stesse della codifica. Ciò è testimoniato dal grande trattato di aruspicina del I millennio, che aveva un capitolo in cui erano formulati i va­ lori essenziali di certe caratteristiche espresse dalle protasi. Il testo era disposto non più su due, ma su tre colonne. La  26 l. LA DIVINAZIONE MESOPOTAMICA prima riguardava il presagio, o meglio la caratteristica che appariva ominosa nell'oggetto preso come segno. Di solito si trattava di una qualità, espressa o da un aggettivo ("gros­ so") o da un sostantivo astratto ("lunghezza") oppure, an­ cora, da un verbo all'infinito ("essere piegato verso il bas­ so"). Nella seconda colonna veniva registrato il valore fon­ damentale dell'oracolo, come a esempio "gloria", "poten­ za", "vittoria". La terza colonna, infine, proponeva una esemplificazione con un oracolo completo, tale che nella protasi comparisse la qualità registrata dalla prima colonna e neli'apodosi il valore risultante nella seconda colonna. Ec­ cone un esempio: Lunghezza Riuscita Se la Stazione è abbastanza lun­ ga da arrivare fino alla Strada il principe riuscirà nella campa­ gna che avrà intrapreso. È evidente qui l'ulteriore progresso compiuto nella dire­ zione dell'astrazione: abbiamo infatti la vera e propria pre­ sentazione della chiave del deciframento dei segni. Le leggi deli'esegesi sono messe in chiaro. Presentare il trattato sulle tre colonne equivale proprio a mettere in luce le leggi di cifratura. Ciò che vi è di arbitrario nell'abbina­ mento tra protasi e apodosi viene dichiarato fornendo i due termini della corrispondenza. Questo processo di astrazione non si arresterà qui, ma procederà fino alla completa riduzione dei valori alla dico­ tomia fondamentale: favorevole/sfavorevole. All'estrema complessità e particolarizzazione degli oraco­ li più antichi si contrapporrà l'estrema semplificazione di una logica binaria che prevede solo il sì o il no.  2. LA DIVINAZIONE GRECA 2.0 Divinazione e conoscenza Il campo delle pratiche divinatorie costituisce il primo ambito sufficientemente omogeneo in cui nella Grecia anti­ ca si parla di segni. Il termine semefon, che si incontra qui per la prima volta, è un nome di genere, che indica un segno divinatorio di tipo qualsiasi e comprende anche il responso oracolare, costituito in realtà da un testo verbale.1 Accanto a esso, come sue specificazioni relative ad ambiti particolari della divinazione (o, potremmo dire, a particola­ ri manifestazioni di sostanza dell'espressione), si trovano vari altri termini; tra essi oion6s che indica etimologicamen­ te il segno dato dal volo degli uccelli; phasma, che si riferi­ sce inizialmente ai presagi che si possono trarre dai fenome­ ni atmosferici, ma che si estende in seguito alle visioni in ge­ nere; téras, che costituisce l'equivalente deli 'espressione la­ tina prodigium e sta a indicare qualsiasi fenomeno o avve­ nimento insolito, e in qualche maniera mostruoso, che pos­ sa essere preso come base per una interpretazione divinato­ ria (Bioch 1963: tr. it. 19; Benveniste 1969: tr. it. 477). In tutti questi casi, qualcosa sta per qualcos'altro, o meglio è assunto come base per un procedimento di inferenza. Nonostante che in Grecia la divinazione come pratica ef­ fettiva abbia avuto un'importanza abbastanza marginale,2 tuttavia il segno divinatorio ha dato origine a una tradizio­ ne, letteraria e filosofica, che lo insedia nel punto di origine mitico del processo di conoscenza.  28 2. LA DIVINAZIONE GRECA Innanzitutto, infatti, l'indovino (mtintis), colui che è ca­ pace di interpretare il segno proveniente dagli dei, è preci­ puamente un sapiente, e il tipo di sapienza di cui il mantis è portatore non si identifica con un'accezione limitativa del termine, come la conoscenza di una tecnica. Al contrario, la sua è piuttosto una sapienza di ordine generale e sicura­ mente superiore a qualsiasi tipo di conoscenza umana, co­ me suggerisce anche l'etimologia del termine mantis, che è collegato alla radice •men, con cui viene indicato un movi­ mento di accrescimento e di potenziamento dell'animo (Crahay 1974: tr. it. 220). In Omero, per la prima volta, incontriamo l'espressione che identifica la divinazione con la conoscenza "delle cose che sono, di quelle che saranno e di quelle che sono state in passato": Calcante, figlio di Testore, di gran lunga il migliore tra gli scru­ tatori di uccelli l che conosceva ciò che è e ciò che sarà e ciò che è stato prima (hòs id ta t 'e6nta ta t 'ess6mena pr6 t 'e6nta), l e aveva guidato verso Ilio le navi degli Achei l con la sua arte di­ vinatoria, che Febo Apollo gli aveva concesso. (Il., I, 69-72)3 Il passo omerico mette in risalto il carattere generale e to­ tale della conoscenza rappresentata dalla divinazione; è una conoscenza che trova un paragone solo con quella, molto più tarda, di ordine filosofico: l'espressione tà eonta ("le cose che sono"), che nel passo indica l'oggetto di conoscen­ za dell'indovino Calcante, rimarrà immutato nella tradizio­ ne filosofica, in Eraclito, Empedocle, Platone, Aristotele, come termine tecnico per indicare appunto gli oggetti della conoscenza filosofica in generale. In secondo luogo, il segno, che è lo strumento attraverso cui si attiva tale conoscenza, non proviene dalla sfera del­ l'umano, ma da quella più alta e numinosa del divino; esso è lo strumento di mediazione tra la conoscenza totale che ha il dio e quella limitata dell'uomo. Il segno è altresì, nella prospettiva aperta da Colli (1977: 379; 1975: 40), il luogo dell'irruzione della sapienza divina nella sfera dell'umano. Ma il dio parla un linguaggio che non è quello dell'uomo. La parola del responso oracolare, a esempio, è umana solo come suono, ma non produce alcun significato se le viene applicato il codice del linguaggio verbale degli uomini. C'è dunque una difformità nell'espressione dei contenuti della conoscenza che separa l'uomo dal dio; ma c'è anche una più radicale differenza nelle modalità stesse della conoscen­ za. Il dio padroneggia il tempo attraverso la "vista" simul­ tanea e del passato, e del presente, e del futuro: la sua anni­ scienza deriva appunto dal fatto di possedere una visione panoptica. Infatti Apollo, secondo l'espressione usata da Pindaro (Pyth., III, 29), possiede "l'occhiata che conosce ogni cosa". L'uomo, al contrario, può vedere solo il suo presente, mentre gli sono irrimediabilmente sottratte le altre dimen­ sioni del tempo. Solo il dio può permettergliene l'accesso; ma la visione deve essere tradotta in parole, in quanto l'uo­ mo accede alla conoscenza solo attraverso l'udito. Per il poeta, a esempio, la memoria del passato è garantita dal racconto che traduce la visione panoptica delle Muse (Horn., Il., Il, 484-486). Allo stesso titolo l'indovino è colui che rivela all'uomo il futuro traducendo in parole la "visio­ ne" che il dio gli comunica; ma proprio in questa traduzio­ ne il messaggio perde di perspicuità (Lanza 1979: 99-l00; Detienne 1967: tr. it. 1). Per questi motivi il segno divinatorio è enigmatico, oscu­ ro e per lo più incomprensibile. Per decifrarlo c'è bisogno di un interprete, qualcuno che sia diverso dal soggetto nel quale si è compiuto il processo di comunicazione e di tra­ sformazione della conoscenza. Platone individua due distinte figure, rispettivamente "l'uomo mantico" (colui che riceve la visione) e il "profeta" (colui che interpreta le parole pronunciate dal primo duran­ te l'estasi). Il celebre passo del Timeo, che propone tale di­ stinzione, in sé costituisce un piccolo trattato teorico della divinazione quale se la rappresentavano i Greci, e presenta con grande perspicuità la tradizione del segno divinatorio come segno non direttamente decodificabile: Vi è un segno sufficiente che il dio ha dato la divinazione alla dissennatezza umana: difatti nessuno che sia padrone dei suoi pensieri raggiunge una divinazione ispirata dal dio e veridica. Occorre piuttosto che la forza della sua intelligenza sia impedi­ ta dal sonno o dalla malattia, oppure che egli l'abbia deviata es­ sendo posseduto da un dio. Ma appartiene all'uomo assennato il ricordare le cose dette (tà rhthénta) nel sogno o nella veglia dalla natura divinatrice ed entusiastica, il riflettere su di esse, il discernere con il ragionamento tutte le visioni (tà phasmata) al­ lora contemplate, il vedere onde quelle cose ricevano un signifi­ cato e a chi indichino (smalnel) un male o un bene futuro o passato o presente. A chi invece è esaltato e persiste in questo stato non spetta giudicare le apparizioni e le parole da lui dette. Questa è una buona e vecchia massima: soltanto a chi è assen­ nato conviene fare e conoscere ciò che lo riguarda, e conoscere se stesso. Di qui deriva la legge di erigere il genere dei profeti a interprete delle divinazioni ispirate dal dio. Questi profeti, alcu­ ni li chiamano divinatori, ignorando del tutto che essi sono in­ terpreti delle parole pronunziate mediante enigmi e di quelle immagini, ma per nulla divinatori. La cosa più giusta è di chia­ marli profeti, cioè interpreti di ciò che è stato divinato. (Plat., Tim., 7le-72a) Al centro concettuale del passo si pone il verbo smafno, che indica appunto la rivelazione del dio; quest'ultimo si presenta come il vero enunciatore, attraverso l'uomo ispira­ to, del testo divinatorio. Il soggetto grammaticale di smal­ no è costituito dai due termini che indicano le due forme di segno divinatorio, cioè "le cose dette" e "le visioni contem­ plate", ma il responsabile della produzione di questi segni è "la natura divinatrice ed entusiastica", cioè il dio stesso che fa irruzione nell'uomo tramite l'invasamento (come indica anche l'etimologia del secondo termine, collegata a theos). L'uomo non è che un canale di trasmissione o un portavo­ ce. E perché il significato arrivi fino al destinatario c'è biso­ gno di un complesso procedimento di interpretazione. Cosi se prendiamo il verbo semalno come un predicato associato a un certo numero di ruoli (o casi logici) e lo mettiamo in relazione a un processo di comunicazione e a uno di inter­ pretazione, possiamo leggere il passo platonico secondo il seguente schema (molto semplificato in alcune sue parti): 30  soggeno •te cose dette'" "le visioni contemplate'" il dio l'uomo invasato significato - destinatario "'un male o un bene futuro o passato o presente'" trice ed entusia- stica· 2.0 DIVINAZIONE E CONOSCENZA 3 1  --- - - -,  '"la natura divina- l l'uomo  processo di interpretazione del segno, effe"uato da personaggi con un sapere specializzato, a favore del destinatario "'i profeti'"   Il verbo smafno, dunque, non ha il banale senso di "si­ gnificare", nel senso deli'instaurazione di un rapporto tra un piano dell'espressione e un piano del contenuto all'inter­ no di un segno. Esso sembra piuttosto riferirsi al processo di comunicazione stesso che il dio attiva nei confronti del­ l'uomo: in altre parole, nel passo platonico, il verbo sembra riferirsi alla situazione per cui il dio "indica attraverso segni (enigmatici)" all'uomo qualcosa, che a quest'ultimo è sco­ nosciuto . A confermare l'uso del verbo smafno con questo senso nei contesti divinatori si trova una lunga tradizione che risa­ le almeno a Eraclito, al noto frammento 93 dell'edizione Diels-Kranz (tr. it. 1974). È stato Romeo (1976) che, in una lucida e complessa analisi del frammento, ha messo in evi­ denza questo significato del verbo smafno, arrivando alla traduzione: (sorgente) (strumento) smafnei (oggetto) (scopo) enunciatore- segno -- canale -l! 2. I.A DIVINAZIONE GRECA Il ··•Hno• c du: ha l'oracolo in Delfi, né dischiude, né nasconde il,•.un pnJ.•,ac•o, rna lo indicaattraversosegni(smalner)4 rourro una lunga tradizione che rendeva la forma verbale sl'nuJinei con "significa" o con altre espressioni che avevano l'cffcllo di rendere contraddittorio o incomprensibile l'inte­ ro frammento. Si viene qui a profilare un'opposizione tra due tipi di lin­ guaggio, che hanno caratteristiche antitetiche. Da una parte c'è il linguaggio umano, caratterizzato dalla trasparenza e dall'immediata decifrabilità (e possiamo fare l'ipotesi che proprio questo tipo di linguaggio sia circoscritto da entram­ bi i termini della coppia oppositiva "dischiudo [/égO]"/"na­ scondo [krfptO]": l'uomo o svela completamente il suo pen­ siero, usando il linguaggio, oppure lo nasconde del tutto, non esternandolo in parole). Dall'altra parte c'è un diverso tipo di linguaggio, quello attribuito direttamente al dio nel frammento di Eraclito (e indirettamente nel passo platoni­ co), che è indicato dal verbo semafno e che ha le caratteristi­ che opposte dell'oscurità e della non immediata decodifica­ bilità. Il dio non concede all'uomo una rivelazione comple­ ta, né gli nega totalmente la conoscenza: gli fornisce piutto­ sto, attraverso il segno oracolare, una base di inferenza sul­ la quale l'uomo dovrà lavorare per giungere a una conclu­ sione, senza però dargli alcuna garanzia sulla via da seguire con il ragionamento. Ci sono due spiegazioni al fatto che la cultura letteraria e filosofica greca si sia rappresentata il segno divinatorio co­ me oscuro e ambiguo. La prima è quella che abbiamo visto inquadrarsi nell'otti­ ca di Colli, secondo cui il segno divinatorio può essere con­ siderato come "l'impronta del divino" nell'uomo, indizio di un punto di contatto (quello attraverso cui la conoscenza divina si comunica all'uomo), e contemporaneamente di un punto di fuga.s La seconda spiegazione è quella messa in luce da Vernant (1974: tr. it. 20-21), ed è inerente al tipo di razionalità speci­ fica messa in gioco dalla divinazione, come pratica effetti­ va, oltre che come teoria. Essa si connette al diverso ruolo  2.0 DIVINAZIONE E CONOSCENZA 33 che gioca il destino rispettivamente nella sfera divina e in quella umana. Infatti, a livello dell'esistenza umana, il de­ stino è concepibile come una successione lineare di avveni­ menti (rappresentato metaforicamente dal filo delle Par­ che), i quali si connettono tra loro apparentemente senza che possa essere attribuito loro un senso globale. Questa successione acquisisce un significato solo quando è arrivata al suo termine, quando cioè il destino "si compie". È solo a questo punto che esso diventa intelligibile e permette di spiegare, alla luce degli ulteriori sviluppi, anche gli avveni­ menti passati ai quali non si era saputo dare un senso. Fino a quel momento, tuttavia, l'uomo rimane in una fondamen­ tale ignoranza: anzi, è proprio questa ignoranza a caratte­ rizzare l'esistenza umana. A livello degli dei, al contrario, il destino di ciascun uo­ mo è presente e intelligibile in ogni momento nella sua tota­ lità. Esso infatti è stabilito in maniera irrevocabile e iscritto nell'eternità già prima della nascita di ogni uomo. La divi­ nazione trova il suo spazio proprio in questo scarto di cono­ scenza che si apre tra gli uomini e gli dei: l'oracolo (e in ulti­ ma analisi anche ogni altro tipo di segno divinatorio) si sup­ pone che riveli all'uomo, quando è ancora in vita, proprio il significato segreto del suo destino, mentre questo sarebbe accessibile, dal punto di vista umano, solo dopo la morte. Tuttavia, se la divinazione compisse la sua funzione pro­ fetica sino in fondo, se cioè abolisse totalmente lo scarto di conoscenza che esiste tra l'uomo e la divinità, risulterebbe con ciò cancellata anche la differenza che distingue l'uomo dal dio. Per questa ragione il dio non svela il destino più di quanto lo nasconda in effetti, secondo la formulazione di Eraclito. L'oracolo lo lascia intravedere, ma nello stesso tempo lo dissimula; lo dà a indovinare attraverso un segno oscuro ed enigmatico che per i consultanti non è più intelli­ gibile di quanto lo siano gli avvenimenti per i quali si sono rivolti all'oracolo. Così, la logica della divinazione fa in modo che con l'ambiguità del segno venga reintrodotta, a livello umano, quella "opacità" circa il destino che l'anni­ scienza divinatoria avrebbe il compito di attenuare, se non di eliminare del tutto.  14 2. LA DIVINAZIONE GRECA 2. 1 llue tipi di divinazione 2 . 1 . 1 La divinazione naturale Il passo platonico del Timeo, come pure il frammento di Eraclito, fanno riferimento a un tipo di divinazione che vie­ ne di solito definita "ispirata": essa rientra all'interno della categoria generale della mantik atechnos, della divinazione cioè che non richiede un apparato di mezzi tecnici per la sua messa in opera e per questo, talvolta, riceve anche il nome di "divinazione naturale" (Cic., De divinatione). Il carattere specifico di questo tipo di divinazione è quel­ lo per cui il sapere del dio non passa attraverso mezzi di ma­ nifestazione esterni all'uomo: l'ispirazione divina raggiunge direttamente l'individuo attraverso i sogni (cioè un testo iconico) o si comunica a un profeta-portavoce che emette un responso (normalmente un testo verbale). Per usare l'e­ spressione di Romeo (1976: 84), si tratta di un tipo di divi­ nazione "endosemiotica". Secondo questo modello funzionava il più noto e presti­ gioso oracolo della Grecia antica, quello di Delfi6 in cui la Pizia, la sacerdotessa di Apollo, emetteva un responso co­ stituito da un testo verbale. Ma, come abbiamo visto, per quanto esso fosse formulato nei termini del linguaggio na­ turale, il suo senso non era decodificabile mediante la sem­ plice applicazione delle regole del codice linguistico a livello denotativo. Più avanti vedremo alcuni esempi di decodifica aberrante di responsi, fraintesi proprio per la pedissequa applicazione di questo codice senza far ricorso a regole più complesse (come quelle di tipo retorico-tropico). 2. 1 .2 La divinazione artificiale Il secondo tipo di divinazione è la mantik technik, defi­ nita, a seconda dei commentatori, come "congetturale", "induttiva", "deduttiva" o "artificiale". Era basata suli'a­ nalisi dei segni (visibili, acustici, sensibili) che si realizzava-no nell'ambiente esterno all'uomo e che potevano essere spontanei (come i fulmini o le eclissi) oppure provocati (co­ me il lancio dei dadi o l'estispicina).7 Questo secondo tipo di divinazione mette in gioco una lo­ gica particolare, basata sull'ipotesi che esistano rapporti di omologia e di corrispondenza tra il microcosmo, rappresen­ tato dal fenomeno preso come segno, e il macrocosmo, rap­ presentato dall'ordine generale dell'universo (J. Vernant 1948; J.-P. Vernant 1974). A questo proposito vengono isolate delle porzioni di spa­ zio - che possono essere, a esempio, le regioni del cielo per l'astrologia, come pure la superficie del fegato della vittima sacrificale per l'estispicina - che vengono caricate di valore simbolico e deputate a funzionare da specchio dell'ordine cosmico generale. Negli spazi così delimitati è possibile leg­ gere la configurazione futura degli eventi, sottratta a quella aleatorietà, a cui gli eventi reali sono invece sottoposti, e per sopprimere appunto la quale il consultante si rivolge al­ la divinazione. Si creano così due serie, quella delle configurazioni strut­ turali interne al testo segnico e quella degli eventi a cui tali configurazioni rimandano; tra le due si stabilisce un vero e proprio codice di corrispondenza, che permette di passare immediatamente dal segno al suo significato. Ne vediamo un esempio molto semplice nel seguente passo di Omero: Dico che un cenno ci dette il Cronide superbo l il giorno che sulle navi veloci in cammino salivano gli Argivi l a portare stra­ ge e morte ai Troiani l tuonando da destra, mostrando segni di buon augurio. (//., Il, 351-354) In questo caso la volta celeste viene costituita come spa­ zio significativo, come microcosmo in cui sia possibile leg­ gere i segni del destino. Questo spazio viene articolato in una struttura binaria che oppone due regioni, la destra e la sinistra: a ciascuna di esse viene abbinato un valore seman­ tico (ldestral--+"buon auspicio", !sinistra!-+"cattivo auspi­ cio"). Una più articolata configurazione del significato deLA DIVINAZIONE GRECA riva dalla circostanza di enunciazione, cioè dalla sua rela­ zione con la domanda esplicita (o implicita, come in questo caso) che l'interrogante pone alla divinità·. Nel passo omeri­ co la circostanza di enunciazione è la partenza della spedi­ zione per Troia, e la domanda implicita concerne la riuscita dell'impresa: dunque il tuono che proviene dalla regione de­ stra del cielo viene a significare "buona riuscita dell'impresa dei Greci contro Troia". Infatti, per quel che riguarda l'individuazione del signifi­ cato ultimo del segno, tutti i sistemi divinatori si basano su un equilibrio più o meno stabile tra le strutture formali del codice che permettono di cifrare in maniera completa l'av­ venimento prodigioso e insolito, e la molteplicità delle si­ tuazioni concrete a cui tale avvenimento-segno può riman­ dare nei contesti specifici. Nell'esempio omerico il codice è così semplice da essere diventato patrimonio comune, tanto che non si fa cenno della presenza di un indovino, per decifrare il segno. Di so­ lito non è così per la divinazione artificiale, il cui carattere "tecnico" risiedeva proprio nel fatto che per l'interpretazio­ ne dei segni era necessario fare ricorso alla conoscenza spe­ cializzata di personaggi depositari di un sapere che verte sulle regole di decodifica. L'indovino è infatti essenziale nel caso, appena più com­ plesso, riportato da Plutarco nella Vita di Dione (24). L'a­ neddoto riguarda la spedizione effettuata nel 357 a.C. da Diane contro Dionigi di Siracusa, durante la quale si verifi­ cò un'eclisse di luna. L'indovino Miltas, chiamato a inter­ pretare quel segno, dichiarò che esso annunciava che qual­ cosa che era stato splendente fino ad allora, si sarebbe oscu­ rato: non poteva, dunque, che trattarsi del regno tirannico di Dionigi, il quale era destinato a soccombere sotto l'attac­ co portatogli da Dione. Anche qui ci sono le due fasi: la prima determina il signi­ ficato degli abbinamenti del codice e la seconda quello deri­ vante dalla sua applicazione alla situazione concreta. Inol­ tre l'indovino Miltas si avvale di una tecnica più sofisticata, che fa ricorso anche alle trasformazioni retoriche: la rela­ zione tra il macrocosmo della luna che viene oscurata dal-  2. 1 DUE TIPI DI DIVINAZIONE 37 l'eclisse e il microcosmo del regno di Dionigi destinato a soccombere è mediata dall'elemento comune !splendore! con cui si designa in modo proprio una qualità della luna e in modo figurato una proprietà del regno di Dionigi. Esistevano poi codici notevolmente elaborati già al sem­ plice livello degli abbinamenti, come a esempio il codice dell'estispicina. In questa pratica venivano esaminate le vi­ scere degli animali, in particolare il fegato, del quale si os­ servavano l'aspetto e la posizione del lobo, della vescichetta e delle porte.8 Per quello che riguarda la cultura greca non abbiamo esempi del modo in cui venivano effettivamente realizzati gli abbinamenti tra gli elementi significanti e quel­ li a cui essi rinviavano. Tuttavia Luc Brisson (1974), in uno studio molto interessante e completo sulla divinazione in Platone, ha segnalato un passo del Timeo (71 a-d) in cui, nonostante non si parli direttamente di estispicina, si descri­ ve un fenomeno che con essa ha molti punti di contatto. Il passo illustra i processi che si determinan9 quando l'anima razionale, che ha sede nel cervello, lascia la sua impronta, "come in uno specchio", sul fegato che è la sede dell'anima appetitiva: questo permette di vedere riprodotte nel fegato (nei suoi aspetti via via diversificantisi) le impressioni la­ sciate dali'anima razionale. La specularità è, però, solo metaforica perché si verifica­ no in realtà dei processi di codificazione molto forte, che fanno pensare ai meccanismi della "comunicazione biochi­ mica" . In definitiva il fegato viene a costituire un testo segnico sul quale I 'anima appetitiva legge i contenuti intelligibili, di­ venuti sensibili attraverso un processo di codifica. Esso co­ stituisce altresì un microcosmo che rispecchia, anche se in modo molto particolare, l'assetto del macrocosmo costitui­ to dali'anima razionale. Si può presumere che i codici dell'estispicina funzionasse­ ro in un modo analogo a quello descritto per i processi di comunicazione "intrapsichica" illustrati dal Timeo. Tuttavia, proprio da Platone scaturisce una delle più reci­ se condanne che la Grecia classica abbia espresso nei con­ fronti della divinazione artificiale. Tale condanna si trova  38 2. LA DIVINAZIONE GRECA formulata nei due testi del Timeo (72 b) e del Fedro (244 c-d). Nel primo di questi, in particolare, è contenuta una condanna dell'epatoscopia: infatti Platone, che accetta la possibilità di leggere sul fegato molti segni quando questo è contenuto in un organismo vivente, sostiene che esso non può rivelare niente di sicuro agli uomini, quando è privato della vita e non è più sottoposto all'influsso luminoso del­ l'anima razionale. Più generale e radicale è la condanna della divinazione tecnica nel Fedro. In quel testo Platone fa l'elogio della fol­ lia, di cui considera la divinazione una specie, e separa la mantica ispirata ed entusiastica da tutte le altre forme di in­ vestigazione del futuro. In particolare la "mantica", nel senso ristretto, viene contrapposta alla "oionistica", cioè la divinazione mediante l'osservazione dei segni dati dal volo degli uccelli. La ragione della discriminazione è chiara: nella divina­ zione tecnica la ragione umana pretende di sostituirsi ali'i­ spirazione divina. Per indicare che in questo modo non si raggiunge che un grado molto pallido e incerto di conoscen­ za, Platone inventa addirittura una connessione etimologi­ ca tra "oionistica" e olsis (''opinione") ("L'investigazione del futuro [. . .] attraverso gli uccelli [. . .] fu chiamata 'oio­ noistica', che i moderni, rendendola solenne con un omega, dicono oionistica": Phaedr., 244 c). Nella divinazione ispi­ rata, invece, la conoscenza deriva all'uomo da una posses­ sione divina e questo è garan.zia di verità. Sembra profilarsi un'opposizione tra smafnein e tekmal­ resthai, il primo verbo indicando, come nel Timeo e in Era­ clito, il dono della conoscenza elargita dal dio, mentre il se­ condo indica la congettura puramente umana. Questa op­ posizione richiama il motto di Alcmeone: Delle cose invisibili e delle cose visibili gli dei hanno conoscenza certa; ma agli uomini tocca procedere per indizi (tekmafre­ sthal) . (Diels-Kranz, 24 b l) su cui avremo occasione di tornare.   2.2 DUE MODELLI DI DIVINAZIONE ORACOLARE 39 I passi platonici non esemplificano soltanto l'opinione del filosofo ateniese, ma si pongono altresì in linea con la scelta di fondo compiuta da tutta la civiltà greca nei con­ fronti della divinazione ispirata. Infatti, per quanto in Gre­ cia venissero praticate anche forme di divinazione tecnica, a esse è stata sempre riservata un'importanza secondaria, mentre l'attenzione si è concentrata soprattutto sulle forme della divinazione oracolare, che si esprimevano attraverso la parola. D'altra parte questo fenomeno deve essere messo in rela­ zione con il fatto che la civiltà greca è essenzialmente di tipo orale; in essa la scrittura è non soltanto un fenomeno recen­ te, ma del tutto dipendente dal parlato, che essa tende a ri­ produrre foneticamente. In altre civiltà, come quella meso­ potamica o quella cinese, la scrittura è molto più antica e funziona come un sistema autonomo rispetto alla lingua, presentando a suo modo, attraverso i segni grafici, quelle realtà che la lingua presenta in altra maniera: in queste ci­ viltà la scelta compiuta nei confronti del tipo di divinazione è opposta a quella greca. 2.2 Due modelli della divinazione oracolare Esistono tuttavia profonde differenze tra l'immagine che della divinazione oracolare propongono i testi letterari e il modo in cui essa veniva praticata effettivamente nei santua­ ri a essa adibiti. J.-P. Vernant (1974) parla di due distinti modelli. Nella Grecia dell'età classica, infatti, la divinazione come pratica effettiva ha una rilevanza marginale nel regime della polis. Infatti l'oracolo viene consultato non per ottenere una predizione sul destino, ma per prospettargli, in forma di alternativa, un certo corso di eventi che si ha intenzione di intraprendere e per domandargli se la via sia libera o pre­ clusa.9 Si instaura a questo proposito un vero e proprio dialogo tra il consultante e l'oracolo (Crahay 1974): quest'ultimo ri­ sponde innanzitutto alla domanda che è stata posta in for- LA DIVlNAZIONE GRECA ma chiusa, predicendo al consultante se farà o non farà una determinata cosa. Il consultante pone poi all'oracolo una seconda domanda, in forma aperta, ma limitata a una con­ dizione rituale di successo: in sostanza, esso domanda al­ l'oracolo quali ostacoli debbono essere rimossi perché l'im­ presa prospettata giunga a buon fine. È interessante a que­ sto punto vedere come la formula usata di solito dall'oraco­ lo nell'emanare il consiglio di carattere rituale rispecchi quella che veniva usata per redigere le decisioni dell'assem­ blea sancite dal popolo. L'oracolo dice infatti loion kai ameinon éstai (''sarà più conveniente e preferibile"), pro­ prio come nei decreti deli'assemblea si usano formule che pongono l'accento sulla "preferenza" tra le opinioni, piut­ tosto che sull'intimatività della decisione. Ciò è indice del fatto che nella civiltà greca è il modello della discussione as­ sembleare che si proietta sulla divinazione, e non viceversa come avveniva nella civiltà mesopotamica. Ed è interessante che in questo modello di divinazione non si trovi alcuna traccia di risposta ambigua o oscura. Ambiguità e oscurità si trovano solo nel secondo model­ lo, quello "teorico,, della divinazione oracolare, presente in tutta la letteratura scritta, da Erodoto ai poeti tragici, ai fi­ losofi. Esso costituisce la rappresentazione che la cultura della città si dà della divinazione. Secondo·questo modello, l'oracolo viene consultato non per ottenere un consiglio, ma direttamente sul destino. Ciò determina la supposizione che l'oracolo sia onnisciente, in quanto deve conoscere sia lo sviluppo futuro degli eventi, sia, nel contempo, il passa­ to, in cui si situano le remote origini delle sorti attuali e fu­ ture deli'indi\iduo o del gruppo consultante. La logica a cui questo modello risponde non è più bina­ ria: l'oracolo deve qui impegnarsi a ridurre a una sola, spe­ cifica, opzione l'infinità dei possibili. Il responso oscuro e ambiguo reintroduce, del resto, l'in­ certezza che caratterizza la condizione umana che l'oracolo tende ad annullare. Così, nei racconti oracolari dei testi let­ terari, la profezia sembra sempre inadeguata rispetto al cor­ so preso dagli eventi. Il segno rimane oscuro fintantoché il "compiersi" della sorte si incarica di fare chiarezza e di de-  2.3 L'INTERPRETAZIONE NEI RACCONTI ORACOLARI 41 sambiguare, ormai troppo tardi, la polisemia del testo pro­ fetico. 2.3 Il problema interpretativo nei racconti oraco­ lari Naturalmente, per capire come la nozione di smefon si sia sedimentata nella cultura greca, per vedere quale sia il nucleo semantico con cui il termine indicante il segno è sta­ to consegnato alla tradizione filosofica, il riferimento ali'u­ so di smefon nei testi letterari è altrettanto importante quanto il suo significato nelle pratiche divinatorie effettive. Soprattutto nei testi di Erodoto e dei tragediografi è pos­ sibile vedere come costantemente venga tematizzato il pro­ blema interpretativo che il segno oracolare pone: l'oscurità del segno è in principio legata alla difficoltà, che diviene immancabilmente impossibilità, di risolvere tale problema. Si deve però dire che in primo luogo l'uomo è accecato dal­ la hjbris, e palesa la sua scarsa ricettività alla parola della profezia in vari modi: la dimentica, non ne segue le diretti­ ve, sbaglia la modalità di consultazione; alla fine, però, il suo errore fondamentale è quello di scegliere sempre il ter­ mine errato dell'alternativa posta dal segno ambiguo. Se la sua colpa è, dunque, un peccato di tracotanza, il suo errore è un errore di conoscenza, e ha un carattere squi­ sitamente semiotico. Ancora una volta compare l'opposizione "linguaggio umano"/"linguaggio divino": l'uomo infatti interpreta sempre la profezia secondo il proprio codice, non tentando mai di intendere la parola della rivelazione come cifrata in un altro linguaggio, quello appunto della divinità. In termini semiotici, in tutti i racconti sul tema della divi­ nazione oracolare, l'uomo interpreta invariabilmente il te­ sto in modo letterale, mentre questo dovrebbe ricevere una lettura secondo quello che potremmo definire modo enig­ matico.10 Infatti, l'idea fondamentale che i racconti oracolari sug­ geriscono è che esista sempre nella profezia un senso secon-  42 2. LA DIVINAZIONE GRECA do, che è nascosto e che costituisce il vero e unico significa­ to del segno: è la scoperta di questo secondo senso, scartan­ do il primo, che qui chiamiamo interpretazione secondo il modo enigmatico. Invece l'uomo coinvolto nell'interpreta­ zione, data la sua incapacità di attingere la sapienza divina, compie proprio il gesto contrario, scartando la possibilità di un senso non letterale. Vi sono tuttavia diverse forme dell'errore di interpreta­ zione. (i) La prima consiste nella incapacità di assegnare un senso al testo, o meglio, di adeguarlo a circostanze reali no­ te: non si trovano oggetti a cui le parole della profezia pos­ sano essere riferite e il testo appare totalmente assurdo. (ii) La seconda forma di errore consiste nel riferire la profezia a oggetti reali, ma erroneamente identificati; ve ne sono due sottospecie, a seconda che l'errore sia dovuto a una omoni­ mia o a un equivoco (e quest'ultimo è ulteriormente suddi­ visibile). Tutto ciò può essere illustrato mediante il seguente schema: Interpretazione  secondo il modo enigmatico ~l et t e r a l e n o n se n so sen~  so errato per omonlmia per equivoco errate scambio assunzioni di prospettiva di credenza  2.3 L'INTERPRETAZIONE NEI RACCONTI ORACOLAR.I 43 Vediamo ora alcuni racconti oracolari in cui sono esem­ plificate queste modalità di errore. L'incapacità di assegnare un senso al testo profetico si ha in vari racconti nei quali vengono utilizzati meccanismi re­ torici, tra cui alcuni di tipo metaforico. È naturale che, quando il veicolo metaforico viene interpretato "letteral­ mente", si ottenga una assurdità sul piano del senso, a me­ no che non si immagini un mondo possibile, diverso da quello reale, in cui i muli possano diventare re dei Medi e gli araldi siano dipinti di rosso. Il consultante, che prende in considerazione soltanto il mondo reale, si trova in difficoltà ad assegnare un senso e una denotazione a testi siffatti. Ma vediamo che cosa succede nel primo di questi racconti. È Erodoto a narrarci la storia degli abitanti deli'isola di Sifno, i quali, essendo giunti a un notevole grado di ricchez­ za con le loro miniere d'oro e d'argento, decisero di consul­ tare l'oracolo di Delfi per sapere se avrebbero potuto con­ servare a lungo la loro prosperità. La Pizia rispose: "Ma quando, a Sifno, il pritaneo sarà bianco e bianco il bordo della piazza pubblica, allora c'è bisogno di un uomo accor­ to per guardarsi dall'agguato di legno e dall'araldo rosso" (Herod., Hist., III, 57). La storia continua narrando del­ l'arrivo di una nave dei Sami, della loro ambasceria per chiedere denaro e del saccheggio che questi ultimi fanno dell'isola dei Sifni. Erodoto sottolinea l'incapacità manifestata dai Sifni di dare un senso al testo ("l Sifni non furono capaci di com­ prendere l'oracolo"); per loro il testo, e in particolare, si presume, le espressioni "agguato di legno" e "araldo ros­ so", sono prive di senso, perché appunto essi si fermano a un livello letterale di interpretazione. In realtà il dio gioca con vari meccanismi tropici: innan­ zitutto con una doppia enallage1 1 (è il legno [ = nave] che anticamente è rosso, come spiega Erodoto, ed è l'araldo [ = gli ambasciatori] che organizza un agguato), complican­ do poi il testo con meccanismi metonimici (legno per nave, il singolare araldo per il plurale ambasciatori). Un secondo esempio di mancata comprensione si trova in un episodio di quel lungo e complesso "romanzo oracolare"  2 . LA DIVINAZIONE GRECA t·hc l·:rodotodedicaaCreso,quandoquest'ultimochiedeal­ l ' oracolo di Delfi se la sua monarchia sarebbe durata a lun­ o . La Pizia risponde: "Quando un mulo sarà re dei Medi, allora, Lidio dai piedi delicati, fuggi lungo l'Ermo sassoso, non indugiare e non temere di essere vile" (Herod., Hist., l, 55). Anche in questo caso, l'interpretazione che viene data alla profezia sceglie il senso letterale: Creso ritiene, di con­ seguenza, impossibile che venga a verificarsi uno stato di cose che soddisfi alla descrizione della frase "un mulo sarà re dei Medi"; la conclusione che egli trae da questa impossi­ bilità è che sia altrettanto impossibile che il suo regno abbia una fine. Sarà poi il dio stesso a spiegare al re il suo gioco metafo­ rico, quando ormai i fatti si saranno compiuti e Creso sarà caduto sotto la dominazione dei Persiani . Il "mulo" è, in ef­ fetti, Ciro, e il passaggio è mediato dalla proprietà "sangue misto", che è condivisa sia dal termine metaforizzante sia dal termine metaforizzato: ·sangue misto• / Tanto maggiore è la cecità di Creso se si pensa che l'ele­ mento comune è doppiamente esemplificato in Ciro, in quanto figlio "di madre nobile e di padre di oscuro lignag­ gio" e "di madre meda e di padre persiano", come il testo di Erodoto non manca di sottolineare. Vale la pena di rilevare che l'interpretazione del senso fi­ gurato è un'operazione realmente più difficile di quello che si potrebbe immaginare, fatto che giustifica in qualche ma­ niera gli insuccessi dei consultanti. Essa è legata a cono­ scenze enciclopediche locali, oltre che ai meccanismi retori­ ci che su quelle conoscenze si applicano. Ciò è tanto più ve­ ro se si considera che è impossibile anche per il lettore mo­ derno fornire l'interpretazione del testo profetico quando il testo letterario non ci informa sulle relative porzioni di enciclopedia. Ciò avviene, a esempio, nel racconto oracolare di Arcesilao (Herod., Hist., IV, 163-164) in cui, accanto a scambi metaforici tra "anfore" e "uomini", tra "torri" e "forni" che vengono spiegati dal prosieguo della narrazio­ ne, compare l'espressione "il tuo più bel toro" che rimane inspiegata ed è anche per noi incomprensibile. Vediamo ora il caso in cui il testo appare interpretabile secondo un percorso di senso letterale, in cui cioè sia rin­ tracciabile un corso di eventi corrispondente a esso, senza però essere quello inteso dalla profezia. Consideriamo in particolare il caso in cui l'errore interpretativo sia dovuto a omonimia. Questo meccanismo, accompagnato dal costante frain­ tendimento, caratterizza l'intero romanzo oracolare di Cambise. Si tratta di una storia in cui i vari segni si collega­ no tra di loro in una catena di rimandi interni. Questa storia ha inizio con un sogno: Smerdi (fratello di Cambise) era già tornato in patria (la Persia) quando Cambise ebbe in sogno questa visione: gli parve che un messo, giunto dalla Persia, gli annunciasse che Smerdi, seduto sul trono regale, toccava con la testa il cielo. Temendo perciò che il fratello meditasse di ucciderlo per impadronirsi del regno, mandò in Persia Prexaspe, che gli era fedelissimo fra tutti i Per­ siani, a uccidere Smerdi. (Herod., Hist., III, 30) Dopo parecchi paragrafi, in cui la storia continua narran­ do le stravaganze e le crudeltà di Cambise, ci viene raccon­ tata la ribellione in Persia dei due fratelli Magi, uno dei quali, che si chiamava anch'esso Smerdi, era stato collocato sul trono. Quando Cambise viene a conoscenza di questo fatto, comprende il vero senso del sogno. Ma la storia non finisce qui: Dopo che ebbe pianto e si fu afflitto di tanta sciagura, Cambise balzò a cavallo per muovere al più presto verso Susa contro il Mago; ma, mentre saliva in arcione, gli cadde il puntate del fo­ dero della spada, che rimasta nuda lo ferì alla coscia. Colpito così nello stesso punto in cui aveva trafitto il dio egizio Api, il  2. LA DIVINAZIONE GRECA fl\ iudicando mortale la sua ferita, domandò ancora come si chiarnassc la città dove si trovavano e gli risposero che si chia­ rnava Ecbatana. Ora, molto tempo addietro, a lui che l'aveva consultato, l'oracolo di Buto aveva risposto che sarebbe morto ad Ecbatana ed egli aveva interpretato che sarebbe morto, vec­ chio, ad Ecbatana di Media, dove aveva tutti i suoi beni, men­ tre l'oracolo aveva inteso di indicare Ecbatana di Siria. Pertan­ to Cambise, come ebbe saputo il nome della città, sotto il dupli­ ce colpo della rivolta del Mago e della ferita, rinsavì e, com­ prendendo finalmente il divino responso, esclamò: "Qui è desti­ no che muoia Cambise, figlio di Ciro". (Herod., Hist., III, 64) La rivolta del Mago e la ferita sono, più che avvenimenti, dei segni, in quanto permettono a Cambise di accedere alla conoscenza, di comprendere, finalmente senza più ambigui­ tà, l'oracolo, di non rimanere più prigioniero dei giochi di parole: la rivolta che gli fa capire la differenza tra Smerdi suo fratello e Smerdi Mago; la ferita mortale, la differenza tra Ecbatana in Media ed Ecbatana di Siria. Infine c'è l'ulteriore caso di errata interpretazione a cau­ sa di un equivoco, non strettamente linguistico, e che può essere di varia natura. L'equivoco più famoso di tutta la letteratura oracolare greca è senz'altro quello di cui cade vittima Edipo. Come noto, durante un banchetto Edipo viene insospettito dalle insinuazioni fatte da un convitato circa la sua paternità e decide allora di interrogare il dio della sapienza, il quale gli predice che ucciderà il padre e che si congiungerà con la ma­ dre (Soph., Oedipus tyrannus, 787-798). L'equivoco riguar­ da le assunzioni di crede...zza: Edipo non sa che i suoi veri genitori sono Laio, re di Tebe, e Giocasta, ma crede che sia­ no Polibo, re di Corinto, e Merope; per questo, al fine di stornare gli avvenimenti predetti dall'oracolo, si allontana da Corinto per andare in direzione di Tebe, e compie, così, inconsapevolmente, proprio il destino che gli è stato annun­ ciato. Altre volte l'equivoco riguarda lo sca1nbio diprospettiva. Il caso emblematico è quello di Creso che manda a consul­ tare congiuntamente l'oracolo di Delfi e quello di Anfiarao L'INTERPRETAZIONE NEI RACCONTI ORACOLARJ 47 per sapere se dovesse fare guerra ai Persiani. I due oraco­ li, concordemente, predicono che "se avesse mosso contro i Persiani, avrebbe distrutto un grande impero" (Herod., Hist., l, 53). Creso interpreta il responso come facente rife­ rimento alla distruzione dell'impero dei Persiani, mentre, come si scopre in seguito, sarà proprio il suo impero a subi­ re tale destino. A sviare il re dalla giusta interpretazione in­ terviene un meccanismo semiotico implicito: l'assunzione di Creso che, dal momento che l'oracolo è rivolto a lui, anche il dio assuma la sua prospettiva. E, ovviamente, nella pro­ spettiva di Creso, il grande impero da distruggere non può che essere quello persiano. Si incomincia a intravedere in questo esempio, più che nei precedenti, una caratteristica che è tipica deli'enigma: una fortissima carica aggressiva, potenzialmente distrutti­ va, da parte del dio nei confronti dell'uomo quando gli po­ ne un problema interpretativo da risolvere. Una conferma si trova nel racconto analogo in cui l'ora­ colo di Delfi predice agli Spartani che misureranno la terra di Tegea con le funi (Herod., Hist., l, 66). Gli Spartani in­ terpretano il riferimento alle funi come indicante Patto di misurare le terre per distribuirle ai conquistatori e, di conse­ guenza, fanno una spedizione contro Tegea. In realtà esse sono inserite in un altroframe o sceneggiatura (Eco 1984), in quanto serviranno agli Spartani, ridotti in schiavitù dopo la sconfitta, per misurare le terre che dovranno lavorare. L'attributo con cui viene qualificato il responso è klbd­ los che, nel suo senso traslato, significa "ambiguo", "fal­ so", "ingannevole", ma nel suo senso base fa riferimento alla carica estranea che adultera il metallo prezioso. Ciò che ne risulta, come nei casi presi in considerazione, è la com­ mistione di due metalli, uno buono e uno non, che fa lucci­ care come oro ciò che oro non è. Analogo meccanismo, infine, si trova negli aneddoti, ri­ portati da Diodoro Siculo (Biblioteca, XVI, 91-92; XX, 29), nei quali viene annunciato a un generale che pranzerà o alloggerà nella città che sta assediando; queste cose si verifi­ cheranno, ma la prospettiva non sarà quella del vincitore bensì quella del prigioniero. LA DIVINAZIONE GRECA 2.4 Il segno come sfida: divinazione ed enigma Abbiamo accennato alla carica di aggressività che si cela dietro al segno oscuro. Questo aspetto collega immediata­ mente il segno divinatorio all'enigma vero e proprio, an­ ch'esso oscuro e insolubile e, mitologicamente, espressione della sfida che la divinità lancia ali'uomo. È stato Colli ( 1 975 : 1 8) a mettere in luce il rapporto tra la divinazione, l'enigma e l'altra faccia di Apollo, quella mi­ nacciosa e distruttrice. 1 2 Apollo, infatti, non è soltanto di­ vinità benefica che dona agli uomini l'arte mantica e la me­ dicina: egli è anche il dio della freccia e dell'arco. Queste in­ dicazioni assumono un valore direttamente semiotico quan­ do si scopre che la freccia di Apollo e il segno oscuro sono non due cose diverse, ma due mezzi di espressione della me­ desima potenza del dio e che possono avere anche lo stesso funzionamento, come si può inferire da un passo di Pinda­ ro (0/ymp., II, 83-85). Il vero destinatario delle frecce di Apollo è l'uomo in quanto interprete. Fuori dal linguaggio figurato l'uomo-in­ terprete raccoglie una sfida che il dio, con intenzione ostile, gli lancia; e, dagli esempi stessi che abbiamo visto nei rac­ conti oracolari, si è potuto notare che il non riuscire a vin­ cere questa gara con il dio, cioè non riuscire a interpretare il segno oscuro, conduce alla rovina. Non sembrano esserci, a questo punto, più dubbi sulla relazione assolutamente stretta tra segno divinatorio ed enigma. Ciò viene confermato anche da un'analisi diacroni­ ca del "genere" enigma, che nasce proprio all'interno della sfera religiosa della divinazione con i due ben precisi carat­ teri dell'ostilità divina nei confronti dell'uomo e dell'aspet­ to di sfida a una gara. Lentamente l'enigma si staccherà dal contesto sacro per dare origine a una sua storia evolutiva, nel corso della quale attenuerà, pur conservandone traccia, i caratteri iniziali. La storia deli'enigma è la storia stessa dell'interpretazione intesa come gara, fino ad approdare al­ l'idea di interpretazione come confronto dialettico tra due opinioni opposte. Può essere interessante per il nostro discorso, inteso a  2.4 n SEGNO COME SFIDA 49 enucleare l'aspetto del segno divinatorio come dispositivo scatenatore di interpretazione, seguire alcune delle fasi più salienti dell'evoluzione deli'enigma. Come noto, il primo e più celebre esempio di apparizione dell'enigma in un contesto sacro è quello presente nel mito della Sfinge. La creatura mostruosa mandata da Apollo im­ pone agli abitanti di Tebe l'enigma sulle tre età dell'uomo. La posta in gara è la vita: chi non riesce a risolverlo è divo­ rato dalla Sfinge; chi invece lo risolve - e il solo Edipo ne è capace - fa precipitare la Sfinge nell'abisso. Ma nella prima evoluzione deli'enigma, già in età arcai­ ca, la lotta tra un personaggio divino e uno umano, si spo­ sta a quella tra due personaggi umani, che però conservano ancora un aggancio con la sfera del sacro in quanto sono due divinatori. Questa fase è illustrata dall'aneddoto di Strabone sulla gara tra Calcante e Mopso. Calcante propo­ ne a Mopso di "indovinare" quale è il numero di frutti che porta un fico selvatico che si trova sul loro cammino. Mop­ so dà una risposta estremamente dettagliata ("Sono dieci­ mila di numero, la loro misura è un medimno, ma uno di questi fichi è di troppo e non rientra nella misura") di fron­ te alla cui esattezza Calcante viene colpito da un "sonno di morte" (Geogr., VI, 232-235). Di fronte alla sapienza, ancora di origine divina, dei due personaggi, anche il contenuto dell'enigma passa in secon­ do piano, come dimostra la banalità deli'oggetto che deve essere scoperto. È, del resto, la stessa irrilevanza contenuti­ stica che si poteva notare nell'enigma della Sfinge, cosi sproporzionato rispetto ai rischi mortali che comportava. Tuttavia, nel passaggio ulteriore, quando l'enigma si umanizza completamente, anche il suo testo assume un as­ setto formale elaborato, basato sulla formulazione di una contraddizione che, anziché non designare niente (come av­ viene di norma in un caso del genere), designa altresì qual­ cosa di reale. Questa forma la si trova nella leggenda ri­ guardante la morte di Omero: Omero interrogò il dio per sapere chi fossero i suoi genitori e quale la sua patria; e il dio così rispose: "L'isola di lo è patria di  2. LA DIVINAZIONE GRECA tua madre, ed essa ti accoglierà morto; ma tu guardati dall'e­ nigma di giovani uomini [. . . ]" . Giunse ad Io. Qui, seduto su uno scoglio, vide dei pescatori che si avvicinavano alla riva e chiese loro se avessero qualcosa. Quelli, poiché non avevano pescato nulla, ma si spidocchiavano, per la mancanza di pesca, cosi risposero: "Quanto abbiamo preso l'abbiamo lasciato, quanto non abbiamo preso lo portiamo", alludendo con un enigma al fatto che i pidocchi che avevano preso li avevano uc­ cisi e lasciati cadere, e quelli che non avevano preso li portava­ no nelle vesti. Omero, non essendo capace di risolvere l'enig­ ma, morì per lo scoramento. (Arist., Dept., fr. 8) Nel frammento compaiono ancora gli elementi dell'enig­ ma che abbiamo già incontrato: la sfida circa un oggetto di conoscenza e il rischio mortale per il sapiente che non si di­ mostra in grado di risolvere l'enigma; ma in più compare la forma elaborata di una contraddizione, che da allora sarà tipica di questo genere. Più precisamente compaiono due coppie di determinazioni contraddittorie "abbiamo preso - non abbiamo preso" e "abbiamo lasciato - portiamo", che possono essere così disposte sul quadrato logico: 50 ·abbiamo preso· CONTRARI {non abbiamo fasciato = ) ·portiamo· ·non abbiamo preso'" SUB CONTRARI ·abbiamo fasciato•   2.5 AGONISMO, DIALETTICA, RETORICA 51 Ciascun singolo termine della prima coppia di contrad­ dittori ("abbiamo preso"/"non abbiamo preso") entra in relazione di congiunzione con un singolo termine della se­ conda coppia ("abbiamo lasciato"/"portiamo"), ma in mo­ do diverso da quello che ci si attenderebbe intuitivamente (cioè "quanto abbiamo preso, lo portiamo" e "quanto non abbiamo preso, l'abbiamo lasciato"). Invece nell'enigma ri­ sultano congiunti termini che logicamente sono in opposi­ zione contraria: "quanto abbiamo preso, l'abbiamo lascia­ to" e "quanto non abbiamo preso, lo portiamo". Eppure l'enigma non è, come sappiamo, assurdo. Il sapiente, che domina la ragione, deve essere in grado di sciogliere questo groviglio problematico. Umanizzandosi completamente, l'enigma mette in evi­ denza l'aspetto competitivo, di gara per la sapienza, e si sta­ bilizza sulla forma della contraddizione apparentemente in­ solubile. L'ulteriore e ultima tappa di questa evoluzione conduce, secondo l'ipotesi di Colli (1975), alla nascita della dialet­ tica. 2.5 Agonismo, dialettica, retorica La dialettica, nel senso antico del termine, nasce infatti sul terreno stesso dell'agonismo: essa si presenta come di­ scussione tra due persone su un qualsiasi argomento cono­ scitivo; su questo campo comune si instaura una gara desti­ nata a far emergere un vincitore. L'andamento generale della discussione segue questo schema (Arist., Top.): inizialmente, lo sfidante propone una domanda in forma alternativa, presentando i due corni di una contraddizione. L'avversario sceglie uno dei due cor· ni e ne sostiene la verità. A questo punto lo sfidante deve dimostrare come vera l'altra alternativa e cosi confutare l'affermazione dell'avversario. Naturalmente il procedi­ mento può richiedere anche una serie molto lunga e artico­ lata di successive domande e risposte, miranti, in maniera diretta o, per lo più, indiretta, alla dimostrazione.  LA DIVINAZIONE GRECA Al suo nascere, però, il linguaggio dialettico è limitato a un ambiente ristretto e in qualche modo elitario. l)ccisi vi cambiamenti sono, tuttavia, destinati a verificar­ si con l'accrescersi della cultura ad Atene e con il definitivo affermarsi del regime democratico; infatti le forme della dialettica entrano nella sfera pubblica e si connettono con il mondo politico. Così la discussione si allarga indefinita­ mente e la dialettica, in una sua forma in qualche modo adulterata, si trasforma in retorica. Dialettica e retorica sono basate entrambe su un forte spirito di competizione. Tuttavia ciò che le distingue è che, nella prima, non c'è bisogno di un giudice per assegnare la palma della vittoria a uno dei due contendenti: la vittoria di uno dei partecipanti risulta dalla discussione stessa, in quanto, durante lo sviluppo del dibattito, l'avversario ha contraddetto la tesi che prima affermava. Nel caso della re­ torica, invece, l'agonismo è molto più diretto e acceso, in quanto saranno gli ascoltatori a giudicare quale è stato il migliore discorso; manca nella retorica una sanzione intrin­ seca (come c'è nella dialettica) e per questo deve aggiungere un elemento emozionale, legato all'intento persuasivo. 2.6 Divinazione e interpretazione persuasiva Il processo evolutivo che abbiamo descritto è iniziato con il segno divinatorio come sfida conoscitiva posta dal dio al­ l'uomo ed è approdato, nel punto del suo massimo allonta­ namento, alla competizione conoscitiva della dialettica e della retorica. Ma proprio a questo punto il cerchio sembra chiudersi tornando al punto iniziale, con l'introduzione, ali'interno della divinazione stessa, dei metodi della discussione dialet­ tico-retorica. È molto indicativo, a questo proposito, un passo di Ero­ doto, in cui assistiamo a una sorta di conciliazione appunto tra la divinazione, con la sua tipica concezione deterministi­ ca del mondo, e l'eloquenza politica, legata a una visione mobile della vita, che sottopone ogni cosa a una incessante  2.6 DIVINAZIONE E INTERPRETAZIONE PERSUASIVA 53 discussione. Egli infatti narra che gli Ateniesi, trovandosi di fronte alla minaccia di una invasione persiana, mandarono a Delfi degli ambasciatori per consultare l'oracolo. Ma, in un primo momento, la Pizia li affrontò con l'annuncio di gravissime sciagure. Costernati, senza però darsi per vinti, gli Ateniesi sollecitarono una seconda consultazione, im­ plorando un responso più favorevole e stabilendo di non muoversi più dall'oracolo fino a che non l'avessero ottenu­ to. La Pizia accettò di emettere un secondo responso: Zeus concede a Tritogenia (Atena) che solo un muro di legno sia inespugnabile, il quale salverà te e i tuoi figli. Non aspettare, inerte, la cavalleria e le forze di terra che arrivano in massa dal continente, ma ritìrati, volgi le spalle; verrà il giorno in cui po­ trai tenere testa. O divina Salamina, farai perire figli di donne, o quando si semina o quando si raccoglie il frutto di Demetra. (Herod., Hist., VII, 141) Il racconto d i Erodoto mostra chiaramente come i l segno divinatorio, il responso oracolare, innanzitutto non venga accolto con atteggiamento fatalistico. l messaggeri non si accontentano del primo responso, ma sfidano a loro volta il dio, minacciando di non muoversi dal santuario fintanto­ ché non abbiano indotto il dio a mitigare il suo atteggia­ mento ostile. Ma, ciò che è più interessante, il testo erodo­ teo mostra bene come il segno oracolare sia sottoposto a una discussione. Infatti i messaggeri, una volta ottenuta la risposta, la trascrivono e ripartono alla volta di Atene per riferire il responso all'Assemblea. La forma della discussione che si svolge davanti aiPAs­ semblea è quella tipica della dialettica. Il segno oscuro sca­ tena un processo interpretativo che prevede varie possibilità di percorso. Ma, anzitutto, dialetticamente, si presenta co­ me una dicotomia tra due soluzioni opposte e mutualmente escludentisi: (i) ritirarsi sull'acropoli, anticamente fortifica­ ta con una palizzata, perché a essa alludeva il dio con l'e­ spressione "muro di legno"; (ii) allestire una flotta, perché il dio intende riferirsi (sma(nein), con quella espressione enigmatica, a una barriera di navi.  54 2. LA DIVINAZIONE GRECA Ciascun corno della contraddizione è fatto proprio da un gruppo: (i) "alcuni anziani" (affiancati dai cresmologi) so­ stengono il primo termine; (ii) "altri" (tra i quali compare Temistocle) assumono il secondo. Per ora siamo solo alla presentazione del problema: è poi necessario sviluppare una dimostrazione che porti a contraddire una delle due tesi. La discussione segue il secondo corno del dilemma; è co­ me se si dicesse: "Ammettiamo che l'interpretazione giusta sia quella che consiglia di allestire una flotta. Quale con­ traddizione comporta questa interpretazione?". I cresmologi fanno notare, a questo punto, che accettare il secondo corno del dilemma comporta una contraddizione con quella parte del testo che predice a Salamina di divenire causa della morte di molti uomini. Accettare la giustezza di questo sottoproblema posto dai cresmologi comporterebbe l'autoconfutazione della tesi principale. Si è però nel frattempo verificato uno spostamento del li­ vello tematico della discussione: a questo punto, per avere ragione sulla tesi dei cresmologi, è sufficiente dimostrare in.. fondata la loro obiezione. È appunto quello che fa Temistocle, negando che l'obie­ zione dei cresmologi comporti una reale contraddizione. E anche in questo caso il ragionamento procede per assurdo e prende in considerazione una questione di prospettiva: se infatti avessero ragione gli avversari con il dire che Salami­ na (metonimia per "battaglia con la flotta") avrebbe causa­ to morte agli Ateniesi, e se anche questa seconda parte della profezia fosse rivolta, come la prima, ancora agli Ateniesi, il dio non avrebbe attribuito all'isola l'epiteto di "divina", ma di "sventurata". In altre parole, c'è contraddizione tra l'epiteto "divina" usato per Salamina e la morte degli Ate­ niesi. Dunque questa seconda parte del responso, contenen­ te una predizione di morte, deve essere intesa come rivolta ai nemici. Non sfuggirà che in questa seconda fase della discussione il metodo dialettico va impercettibilmente sfumando in quello più propriamente retorico. Conclusivamente Temistocle propone una interpretazio­ ne che tende più a persuadere in positivo della validità del  2.6 DIVINAZIONE E INTERPRETAZIONE PERSUASIVA 55 proprio ragionamento che non a dimostrare la falsità della tesi fondamentale degli avversari. Infine interviene il giudi­ zio dell'uditorio, elemento fondamentale appunto del di­ scorso retorico, per sancire la vittoria di uno dei due con­ tendenti. Il testo dice che gli Ateniesi "giudicarono preferì­ bile (hairetbtera)" la spiegazione di Temistocle rispetto a quella dei cresmologi. Al discreto della logica binaria del­ l'alternativa dialettica, succede il continuo della logica gra­ duata del preferibile. La discussione può aver fatto perdere di vista che oggetto di dibattito è un vaticinio del dio di Delfi. Ma non a caso. La logica, appunto, che viene fatta intervenire neli'interpre­ tazione del responso divinatorio è esattamente la stessa che guida le assemblee politiche. E del resto non è senza significato il fatto che in questo contesto gli avversari di Temistocle siano dei "cresmologi", cioè interpreti specializzati dei responsi divini, ed è notevole che essi risultino sconfitti: è la conferma paradigmatica di come nella Grecia della polis sia la razionalità politica a im­ porre i suoi metodi alla divinazione e non viceversa. In definitiva, il carattere di oscurità attribuito al segno divinatorio rende un ottimo servigio ali'orientamento fon­ damentalmente orale e dialettico della cultura greca: con­ ferma il segno stesso come dispositivo scatenatore di inter­ pretazioni, da sondare con la procedura del confronto tra discorsi contrapposti. Il segno rinvia a una realtà altra da sé, nascosta e ambi­ gua, ma alla quale si può arrivare se ci si impegna in un confronto tra interpretazioni contrastanti: procedura che, lungi dali'essere paralizzante, è invece stimolante e produt­ tiva. In questa prospettiva il segno divinatorio si allontana da quelle che erano due sue caratteristiche fondamentali, cioè il primato della visione e la concezione della verità come ri­ velazione: la verità come a-ltheia, intesa come caduta dei veli che la tenevano nascosta (lanthano). 1 3 Nel passo di Erodoto non sono gli indovini con la loro vi­ sione panoptica a rivelare il senso nascosto del segno: esso prende qui luce dalla congettura (che in Erodoto è sempre  56 2. LA DIVINAZIONE GRECA espressa dal verbo symba/10 e dai suoi derivati, equivalente al più diffuso tekmafroma1). E saranno proprio la congettura e l'abbandono della vi­ sione che permetteranno di far evolvere il segno dal campo della divinazione a quello della scienza vera e propria. SEGNI E PROCESSI SEMIOSICI NELLA MEDICINA GRECA 3.0 Introduzione Ci siamo finora interessati dell'ampio e magmatico cam­ po della divinazione, dove abbiamo visto emergere le prime pratiche semiosiche, connesse, nella cultura greca, con la nascita stessa di un pensiero sapienziale. Ci occuperemo ora dell'altra grande area di manifestazione di un pensiero se­ mioticamente orientato, che sorge prima e in maniera indi­ pendente dalla ricerca filosofica in senso stretto: la medici­ na greca. In quest'area, accanto alla presenza fondamentale dei processi semiosici, si possono registrare anche le prime vere e proprie elaborazioni teoriche intorno al segno e all'infe­ renza (Vegetti 1976: 49 ss.). In seguito, la riflessione semio­ tica sarà consegnata direttamente alla filosofia e alla retori­ ca; ma ampie tracce delle origini rimarranno sia negli esempi che filosofi e trattatisti di retorica sceglieranno per illustrare il segno (esempi spesso di carattere medico, talvol­ ta fisiognomico) sia nella scelta di un modello di funziona­ mento logico del segno secondo lo schema "Se p, allora q", che abbiamo visto operante nella divinazione e che vedremo trasposto nella medicina con diversi contenuti, ma con eguale forma. A differenza della divinazione, per la quale disponiamo di testimonianze per lo più indirette e disorganiche, la medi­ cina greca può contare su una ricca documentazione, rap­ presentata in particolare dal Corpus Hippocraticum, 1 un  58 3. I SEGNI NELLA MEDICINA GRECA insieme abbastanza ampio e vario di testi (circa un centi­ naio) in cui si trovano illustrate le pratiche e le teorie medi­ che del V e IV secolo a.C. Tali testi non appartengono a un unico autore, come la tradizione aveva indotto a credere, attribuendoli a Ippocrate,2 né a un'epoca circoscrivibile con la vita di un uomo. Sono invece presenti all'interno del C.H. opere con diverse finalità ed3esprimenti indirizzi di­ versi nel campo del sapere medico. Tuttavia, nonostante la disomogeneità che è dato riscon­ trare all'interno del C.H., è possibile vedere nello studio della medicina del V e IV secolo uno dei più importanti campi di indagine del pensiero greco, che si affianca sen­ z'altro alla ricerca filosofica e alla storiografia coeve e che intrattiene con esse dei rapporti fecondissimi di interscam­ bio. È noto il giudizio di Werner Jaeger, secondo cui il pen­ siero socratico non sarebbe stato possibile senza le opere ip­ pocratiche,4 ed è stato sottolineato il debito che la storio­ grafia scientifica, inaugurata da Tucidide nell'ultimo scor­ cio del V secolo, ha contratto nei confronti della téchn ip­ pocratica. Ciò che la medicina aveva da offrire tanto alla filosofia quanto alla storiografia era un modello di sapere specifica­ mente semiotico, articolato sul doppio livello rappresenta­ to, da una parte, da una solida struttura formale (il loghi­ smos, cioè il ragionamento inferenziale, nei suoi due mo­ menti abduttivo e deduttivo) e, dall'altra, da un orienta­ mento di base empirico.6 Come vedremo meglio in seguito, il segno medico costi­ tuisce proprio il prodotto del ragionamento inferenziale ap­ plicato alla ricorrenza dei fenomeni, i quali in tanto acquisi­ scono senso, divenendo segni, in quanto sono riconducibili appunto al loghismos. 3.1 Ambiguità della prognosi A differenza del medico moderno, che legge i segni in funzione della diagnosi, il medico antico elaborava il suo ragionamento in funzione della prognosi. Un intero trattato  3. l AMBIGmTÀ DELLA PROONOSI 59 del C.H., Ilprognostico, è specificamente dedicato a questo problema. Eccone il passo iniziale e programmatico: Quanto al medico, mi sembra che la cosa migliore sia che egli pratichi la previsione; infatti, con una conoscenza e dichiara­ zione preventiva, di fronte ai malati, dei loro casi presenti, pas­ sati e futuri, e con una puntuale esposizione di quanto gli infer­ mi tralasciano di dire, egli conquisterà maggiore fiducia di po­ ter conoscere le condizioni dei malati, così che gli uomini si ri­ solvano ad affidare se stessi al medico. (cap. 1)7 Dal passo si può osservare che la prognosi non è concepi­ ta come previsione di eventi soltanto futuri, ma coinvolge anche elementi di conoscenza che riguardano sia il presente sia il passato:8 il medico deve avere la capacità di descrivere anche quei sintomi, o quei fatti in generale, che gli ammala­ ti tralasciano di esporre. Dal procedimento descritto nel Prognostico non sono assenti scopi chiaramente manipola­ tori: dicendo ciò che sfugge ai malati, il medico mira ad ac­ quistare maggiore credito presso di loro per persuaderli ad affidarsi alle sue cure. È interessante che una procedura che vuole presentarsi con i crismi della scientificità e dell'obiet­ tività, si ponga non tanto lo scopo del rispecchiamento del­ la realtà (nosologica in questo caso), ma quello della sua manipolazione. II discorso del medico è fatto, in questo ca­ so, anche di "segni efficaci" come uello della retorica in­ cantatoria di Gorgia o della magia. Del resto, la formula con il triplice riferimento al passa­ to, al presente e al futuro, che non costituisce un caso isola­ to, ma ricorre a esempio anche in Epidemie l (come pure, per definire la medicina, nel Lachete platonico, 198 d), spinge a istituire un parallelo con l'analoga formula usata per individuare il procedimento divinatorio (Brtescu 1 975: 46) . 1 0 D'altra parte, se per un verso si possono riscontrare ele­ menti comuni tra la medicina e la divinazione, per un altro molti degli scritti medici del C.H. sottolineano esplicita­ mente e con forza la distanza e i punti di divergenza. A  60 3. I SEGNI NELLA MEDICINA GRECA esempio l'autore del libro Il regime nelle malattie acute (cap. 8) polemizza contro le pratiche discordanti dei cattivi medici, paragonandole alle pratiche di interpretazione divi­ natoria. L'attacco sferrato alla divinazione è su base semiotica: il segno divinatorio è ambiguo, può significare due cose dia­ metralmente opposte, e perciò è lontano da quel piano di oggettività al quale aspira la scienza medica. Anche l'autore del Prorretico II si scaglia contro i cattivi medici criticando le loro predizioni miracolose, che li rendono simili agli in­ dovini, e contrappone orgogliosamente il proprio metodo basato sui segni umani e sulla congettura: Per parte mia non farò affatto delle divinazioni del genere (ou manteU.somat), ma scriverò i segni (smeia) attraverso i quali si deve congetturare (tekmafresthat), tra i malati, quali guariran­ no e quali moriranno, quali guariranno e quali moriranno in poco o in molto tempo. (cap. l) L'inferenza divinatoria (manteuein) è direttamente con­ trapposta alla congettura (tekmairesthaz). La violenza con cui i medici polemizzano contro la divinazione e la netta presa di distanza rispetto a essa è sicuramente indizio del fatto che essi tentavano di imporre un nuovo e autonomo paradigma epistemologico, una "semiotica profana"; ma è indizio, anche, del fatto che il rischio di confusione o di fraintendimento era ancora presente. Sotto certi aspetti la medicina ippocratica appare effetti­ vamente come la continuazione di una medicina preceden­ te, popolare e antichissima, impostata su basi magiche (Parker 1983: 213 ss.). Certi settori della terminologia de­ nunciano chiaramente questa situazione: Pimportanza cen­ trale, nel C.H., della katharsis ("purificazione") rimanda alle purificazioni magiche dello iatr6mantis "medico-indo­ vino" e dei purificatori apollinei come Epimenide e Bacide; lo stesso termine che indica il medicamento, pharmakon, era in origine impiegato per indicare ciascuno dei due citta­ dini di Atene che regolarmente il 6 di Targelione, o anche in  3.2 MEDICINA E SEMIOTICA MAGICHE 61 caso di pestilenze, erano sottoposti a osservanze rituali, fla­ gellati e scacciati dalla città e forse uccisi, per adempiere a una cerimonia di purificazione (Lanata 1967: 45). Proprio per questi motivi il tentativo di autodifferenzia­ zione dei medici ippocratici rispetto al paradigma magico doveva assumere toni molto accesi, come ci mostra uno dei trattati più interessanti del corpus, il Male sacro. Poiché, dal punto di vista della storia della semiotica, la medicina magica non è meno importante di quella laica, dedicheremo il prossimo paragrafo a illustrare il suo paradigma. Dopodi­ ché esporremo la critica di questo stesso paradigma quale ci viene presentata dall'autorè del Male sacro. 3.2 Medicina e semiotica magiche Molte fonti letterarie suggeriscono l'idea di un'origine mitica comune per la divinazione e per la medicina: entram­ be le pratiche, infatti, figurano come doni di Apollo e sono a lui variamente collegate. Così, per esempio, Platone nel Simposio (197 a): "In verità Apollo scoprì l'arte del tiro con l'arco e la medicina e la divinazione". È molto suggestivo, dal punto di vista semiotico, che le due pratiche primordiali che inaugurano un sapere basato sui segni, siano avvertite come originariamente collegate. E un effettivo stretto colle­ gamento esse lo trovano nella figura antichissima dello ia­ tr6mantis, il medico-indovino, che unisce in sé le facoltà di un veggente e la capacità di curare le malattie. L'appellati­ vo iatr6mantis è riferito in prima istanza allo stesso Apollo; ma passa poi a una serie di personaggi in vario modo legati al dio, che uniscono al dono della mantica e della medicina, anche quello di effettuare delle purificazioni. Un elemento fondamentale che caratterizza la figura del­ lo iatr6mantis è la sua capacità di usare una procedura dia­ gnostica: trattandosi di un veggente, egli è in grado di indi­ viduare la causa nascosta di una malattia, causa che è da at­ tribuirsi sempre a un intervento soprannaturale. In epoca antichissima la malattia è concepita infatti come miasma, come contaminazione, dovuta a un contatto con un'entità  62 3. I SEGNI NELLA MEDICINA GRECA divina o demonica. 1 1 Per questa ragione c'è bisogno di un medico-indovino, in grado di leggere i segni che gli rendono accessibile il mondo delle forze oscure e soprannaturali alle quali è imputato il presente stato di contaminazione; in se­ guito alla sua diagnosi, lo iatr6mantis può indicare gli stru­ menti magici atti a purificare il miasma. Questa concezione è ben iliustrata da una notizia di un autore di scuola pitagorica, Alessandro Poliistore, che cita le Memorie pitagoriche: L'aria (secondo i Pitagorici) è piena di anime; ed essi le conside­ rano demoni ed eroi e pensano che siano essi a inviare agli uo­ mini i sogni e i segni premonitori (smefa) e le malattie, e non solo agli uomini, ma anche alle greggi e agli altri animali da pa­ scolo; e a questi (demoni ed eroi) sono dirette le cerimonie ca­ tartiche e apotropaiche e tutta la mantica e i vaticini e tutto ciò che è di tal genere.12 Sono presenti in questo passo tutti gli elementi di una se­ miologia sacra abbinata a una medicina magica. I demoni sono la fonte delle malattie che affliggono gli uomini; ma, contemporaneamente, sono anche la fonte dell'informazio­ ne che concerne il mondo invisibile, inviando agli uomini i segni (compreso quel particolare tipo di segno che sono i so­ gni) dai quali si rende riconoscibile l'origine della malattia. Del resto il circolo comunicativo si chiude attraverso gli speciali segni che gli uomini sono chiamati a produrre: i riti catartici e apotropaici. In particolare le cerimonie apotro­ paiche sono costituite dalla recita di epOidal, cioè di formu­ le verbali incantatorie, ritenute idonee a scongiurare il ma­ le: si tratta di segni linguistici che da una parte chiudono il circuito comunicativo con il soprannaturale, dall'altra sono "efficaci", nel senso che intendono agire sul mondo e non rispecchiarlo. 3.3 La critica alla magia e alla semiotica sacra Prenderemo ora in considerazione le critiche rivolte alla  3.3 LA CRITICA ALLA SEMIOTICA SACRA 63 magia sul piano specificamente semiotico ed epistemologi­ co. L'autore del Male sacro si muove sostanzialmente in due direzioni: l . contrapporre alla nozione di "sacro" quel­ la di struttura naturale (phjsis) e di causa razionale (pro­ phasis); 2. mostrare l'inconsistenza sul piano logico del ra­ gionamento sotteso dalle procedure della medicina magica, apponendovi un tipo di ragionamento inferenziale basato sul tekmérion (che qui compare già con il senso di "prova", di "segno sicuro") (cap. l). Ciò che l'autore del trattato vuole contestare è la conce­ zione di un'origine divina della malattia; e questo vale tanto per il "male sacro", cioè l'epilessia, quanto per qualunque altro tipo di morbo. Sotto accusa è la nozione di "sacro'', come qualcosa che si riconduce all'intervento divino. In ef­ fetti, il termine hier6s, anche se in greco si specializzò molto presto in senso religioso, in origine non apparteneva alla sfera olimpica, ma era legato a una concezione animistica: hier6s è tutto quello in cui si rivela una vitalità prodigiosa e magica, e una malattia è sacra in quanto inviata da una for­ za soprannaturale. Lo stesso termine iasthai, "curare" (da cui iatr6s "medico"), originariamente doveva indicare un curare come "un ristorare, un ridonare le forze attraverso appropriate operazioni magico-mediche" (Ramat 1962: 20). In effetti, l'idea della malattia come riconducibile a un intervento diretto "del piano verticale della trascendenza su taluni punti di quello orizzontale della causalità naturale" (Vegetti 1976: 291) appare mettere fuori gioco ogni idea di regolarità dei fenomeni ed escludere, contemporaneamente, la possibilità di controllo su di essi e di previsione. La no­ zione di "natura", che l'autore del trattato contrappone a quella di "sacro", viene a reintrodurre proprio la regolarità nel movimento di cause ed effetti, rendendo possibile l'im­ postazione della medicina su basi scientifiche. Inoltre, se la nozione di phjsis individua la struttura oggettiva e omoge­ nea di ricorrenze tra cause ed effetti, quella, correlata, di pr6phasis (in altri casi aftion, aitle) rimanda al momento della spiegazione del singolo fenomeno.  64 3. I SEGNI NELLA MEDICINA GRECA 3.4 Le forme di argomentazione logica e il "tekmérion" Tuttavia il punto di maggior forza dell'autore del Male sacro rispetto ai suoi avversari consiste nelle modalità di ar­ gomentazione logica che adotta: facendo un esplicito ricor­ so al tekmrion (''prova", "segno sicuro") egli riesce a indi­ viduare delle contraddizioni interne al sistema della medici­ na magica e a confutarla. Vediamone subito un esempio: E v'è un 'altra grande prova (méga tekmrion) che questa non è più divina delle altre malattie; insorge ai flegmatici per natura, ma non colpisce i biliosi: mentre, se fosse più divina delle altre, in tutti ugualmente dovrebbe prodursi questa malattia, senza distinguere tra biliosi e flegmatici. (cap. 2)13 L'argomentazione assume la forma rigorosa di quello che in seguito sarà chiamato nzodus tollens, cioè "Se p, allora q; ma non-q; di conseguenza non-p''. In altre parole l'autore del A-lale sacro ragiona così: "Se questa malattia fosse più divina delle altre (p}, essa dovrebbe colpire indistintamente tutti (q); ma questo non si verifica (perché colpisce i flegma­ tici, ma non i biliosi) (non-q); ne consegue che essa non è più divina delle altre (non-p)". Si deve rilevare che l'autore utilizza la non verità del conseguente nel modus tollens (''che la malattia non colpisce indiscriminatamente tutti") come segno (teknzérion "segno sicuro", "prova") della non verità dell'antecedente (''che l'epilessia non è più divina del­ le altre malattie"). Naturalmente bisognerà aspettare Aristotele prima che il nzodus tollens come schema ragionativo venga teorizzato e che venga fornita una definizione rigorosa di teknzérion. Del resto, spetterà poi agli stoici di dare un'analisi formale di questo schema argomentativo e di dire che ogni schema argomentativo deve essere considerato come un segno. È in­ teressante, tuttavia, che già l'autore ippocratico leghi l'e­ spressione tekmrion (che da Aristotele in poi assumerà ine­ quivocabilmente il significato di "segno inconfutabile") con  3.5 LA VISTA E OLI ALTRI SENSI 65 lo schema inferenziale del modus tollens: logica e semiotica vengono già a trovare un punto di convergenza e di saldatu­ ra. Saldatura che con gli stoici sarà totale. 3.5 La vista e gli altri sensi Tuttavia la contrapposizione tra una semiologia sacra e una profana non si basa soltanto sulla capacità, che la se­ conda possiede, di utilizzare un ragionamento rigoroso e di fare ricorso a segni che si inquadrino in uno schema logico­ inferenziale. Come ha mostrato Lanza (1979: 103), un altro importante elemento di divergenza tra il paradigma divina­ torio e quello della medicina ippocratica è dato dal diverso ruolo che la vista gioca nei processi di conoscenza. Nella divinazione e nella medicina magica la vista ha una parte fondamentale, in quanto è fonte primaria, e in qual­ che modo unica, dell'attività conoscitiva. Non per niente Apollo, dio della divinazione, è nelle parole di Pindaro co­ lui che possiede "l'occhiata che conosce ogni cosa" (Pyth., III, 29): niente infatti è sottratto alla sua vista nel passato, nel presente e nel futuro; a lui appartiene il "dominio del tempo". L'uomo può conoscere solo ciò che contingente­ mente capita sotto il suo sguardo. Solo l'indovino e il poeta possiedono una seconda vista, che permette loro di vedere anche ciò che è al di là delle limitazioni cui sono sottoposti i comuni mortali; per questo spesso i primi sono ciechi, per essere ricettivi a questa vista; e un'analoga limitazione delle facoltà percettive si verifica anche nell'attività onirica, du­ rante la quale la raccolta di stimoli esterni si attenua fin quasi a scomparire.14 Tanto nel poeta quanto nell'indovi­ no, poi, la visione si tramuta in parola, diventando il segno che supplisce alla mancanza di presenza. Questa concezione comporta una dipendenza del segno dalla divinità e una di­ cotomia tra ciò che è percepibile con la vista e ciò che non lo è. Ma un primo superamento della dipendenza dalla divi­ nità per la conoscenza dell'invisibile si ha nel famoso motto di Anassagora "Vista dell'invisibile è ciò che appare" (6psis ad/On tà phainomena) (D-K, 59 B 21a). Il fenomeno viene  I SEGNI NELLA MEDICINA GRECA qui a sostituirsi alla divinità. La vista tuttavia rimane cen­ trale. Caratteristicamente in un trattato medico arcaico. Malattie delle donne, al cap. 60, si dice che attraverso il dito il medico "vedrà" il modo di presentarsi del collo dell'u­ tero. Certamente le opere del C.H. procedono sul cammino aperto da Anassagora, ma contemporaneamente in esse il ruolo della vista perde di importanza nel processo di cono­ scenza. Ci sono ragioni specificamente inerenti alla téchn ippocratica che portano a una svalutazione, o almeno a un ridimensionamento, del ruolo della vista. Nel trattato L 'ar­ te si dice esplicitamente che "delle malattie alcune hanno se­ de in luoghi non celati alla vista, e non sono molte, altre in luoghi non aperti alla vista, e sono molte" (cap. 9). Per giungere alla conoscenza di queste ultime, il medico trae congetture da segni tattili, uditivi, olfattivi e talvolta persi­ no gustativi: è attraverso l'intera gamma della tipologia se­ gnica che il medico può elaborare la sua previsione, percor­ rendo il tempo anche nella dimensione di un passato e di un futuro che sono nascosti. Non solo, ma avviene che, quan­ do i segni non si presentano spontaneamente, il medico giunga a "forzare la natura" per costringerla a fornire degli indizi (cap. 13). A questo punto è possibile tentare un riesame dell'oppo­ sizione visibile/invisibile nel momento in cui essa passa dal­ la divinazione, che l'aveva inventata, agli altri ambiti del sapere. La ritroviamo, a esempio, in ambito giuridico, con l'anti­ tesi tra "beni apparenti" e "beni non apparenti" che, secon­ do la penetrante analisi di Gernet (1968: tr. it. 399 sgg.), si configura come opposizione tra i beni materiali (fondiari e patrimoniali soprattutto) che si possono percepire, e i credi­ ti in genere, "invisibili" (a esempio, i crediti nei confronti di un banchiere presso cui si è depositato del denaro). Poi, nell'ambito strettamente filosofico, l'opposizione assume un carattere squisitamente antologico, dando vita a una duplicazione dei livelli di realtà. In Eraclito, a esempio, il "nascosto" costituisce la realtà vera in contrapposizione all'"apparente", dicotomia di cui si trova chiara traccia nei  3.6 L'ANALOGIAE LACONGETTURA 67 due frammenti: "L'armonia che non si vede è superiore a quella manifesta" (D-K, 22 B 54) e "La natura ama nascon­ dersi" (D-K, 22 B 123). Come si può osservare, mentre nella divinazione il "visibile" richiamava apertamente la funzio­ ne, tutta fisiologica, svolta dali'organo della vista, una vol­ ta avvenuta la trasposizione in altri campi questo legame si attenua. Di fatto scompare quasi del tutto nella scienza, do­ ve visibile e invisibile vengono concepiti come due mondi, la cui comunicazione è garantita non dalla vista, ma dalla congettura. 3.6 L'analogia e la congettura Il carattere semiotico della rivoluzione effettuata dal pen­ siero ippocratico è stato messo in luce da Vegetti (1976), il quale, ponendo in relazione gli scritti dei medici ippocratici con la cultura scientifica e filosofica del loro tempo, ha mo­ strato come essi fossero impegnati in una lotta a favore di un "metodo semiotico", contro il cosiddetto "procedimento analogico", tipico della filosofia ionica e di quei medici e intellettuali che a essa in qualche maniera si richiamavano. In effetti, quella ionica, più che come una filosofia vera e propria, si caratterizzava come una physiologhla, cioè una indagine sulla natura (phjsis), e come ricerca di un suo principio (arch). La natura dei filosofi ionici è in sostanza il mondo quale si manifesta all'osservatore, ma presenta un duplice aspet­ to: esso è, contemporaneamente, molteplice, perché si com­ pone di una infinità di fenomeni, e unitario, in quanto cia­ scun fenomeno manifesta lo stesso principio rintracciabile in ogni altro frammento del reale. L'unico procedimento conoscitivo, in questo quadro, è l'analogia: di fronte a qualsiasi fenomeno, si tratta di riper­ correre il cammino della phjsis che porta, per via analogi­ ca, dal singolo fenomeno all'arch. Dal punto di vista se- miotico, la filosofia ionica ragiona come se qualsiasi tipo di modalità di produzione segnica fosse ridotto al solo metodo del riconoscimento di campioni: un frammento sta costan-  68 3. I SEGNI NELLA MEDICINA GRECA temente per una totalità che è a esso completamente omoge­ nea (Eco 1975: 296; 1984: 48). Un paradigma diverso è quello che si impone a partire da Alcmeone di Crotone proprio con la proposta del principio semiotico della congettura: Delle cose invisibili e delle cose visibili solo gli dci hanno cono­ scenza certa; gli uomini possono soltanto congetturare (lekmaf­ resthal). (Diog.Lart.,VIII,83== D-K,24Bl) Mentre per i filosofi ionici e per la medicina dei postulati c'era continuità tra i principi della natura, i suoi fenomeni e l'osservatore stesso di quei fenomeni, con lcmeone nasce una frattura profonda tra l'uomo e la realtà. Il mondo del­ l'esperienza non si dà a conoscere spontaneamente, non è più trasparente. Proprio sulla frattura inaugurata da Alc­ meone si impernia il metodo semiotico. Essa conduce alla necessità di sostituire il procedimento dell'analogia con uno basato sull'indizio: la conoscenza umana assume per princi­ pio il tekmafresthai, il procedere per indizi e congetture. Ciò che la medicina ippocratica svilupperà, e che è ancora assente in Alcmeone, è l'inquadramento del metodo conget­ turale in una struttura logica compiuta. 3.7 Metodo analogico e metodo semiotico A questo punto è possibile domandarsi quale forma assu­ ma la metodologia della ricerca congetturale nei trattati ip­ pocratici. Una prima risposta a questa domanda può essere cercata attraverso un'analisi della polen1ica che, a questo proposito, ha opposto Regenbogen (1930) a Diller (1932) nella prima metà di questo secolo. In questa polemica ritro­ viamo una contrapposizione tra "metodo semiotico" e "me­ todo analogico"; ma in un senso sensibilmente diverso da quello esaminato finora, in quanto la nozione di "analogia" era assunta in un senso lato, molto vicino alla nozione se­ miotica di "omomatericità".15  3 .7 METODO ANALOGICO E METODO SEMIOTICO 69 In questo secondo caso la nozione di "analogico" viene assunta in un senso strettamente tecnico, come istituzione di un parallelismo tra un fenomeno da spiegare e un altro fenomeno noto, con conseguente possibilità di inferenza dal secondo al primo. L'inferenza analogica del tipo de­ scritto costituisce, secondo Regenbogen, il carattere specifi­ co della metodologia di ricerca utilizzata dali'autore del gruppo di trattati Sulla procreazione, Sulla natura del bam­ bino, Sulle malattie I V: in questi testi vengono spesso messi a confronto processi di tipo non osservabile con processi osservabili e i primi vengono chiariti mediante un'analogia con i secondi, come si verifica a esempio quando viene isti­ tuito un parallelo tra lo sviluppo del feto e quello delle pian­ te (Littré 1839, VII 528, 22 e sgg.) o quello di un uccello (Littré 1839, VII 530, 14 e sgg.). L'autore dei trattati si at­ tiene di fatto al principio di Anassagora secondo cui ciò che appare permette di avere una visione anche di ciò che è invi­ sibile, e applica questo principio sistematicamente. Il para­ gone con l'oggetto visibile, su cui si basa l'analogia, viene visto come una prova deli'oggetto di partenza. Il procedimento analogico non è limitato ali'ambito me­ dico-biologico, ma se ne possono rintracciare esempi chia­ rissimi in ambito storico. A esempio Erodoto (Hist., II, 33), quando parla del Nilo, il cui corso, le cui sorgenti e la cui lunghezza gli sono sconosciuti, sostiene: "a quanto io ri­ tengo, congetturando (tekmair6menos) dalle cose note quelle ignote, (il Nilo) muove da una longitudine eguale a quella da cui muove il Danubio". Il ragionamento è il se­ guente: il corso del Danubio è conosciuto dalle sorgenti alla foce, e, posto sullo stesso meridiano, nella concezione di Erodoto, scorre nella direzione opposta a quella del Nilo, cioè da nord a sud verso il mar Nero, così come il Nilo scor­ re da sud a nord verso il mar Mediterraneo; il Danubio, in­ fine, è il fiume maggiore dell'Europa, come pure il Nilo lo è dell'Africa. Dati questi elementi, si può immaginare il corso del Nilo in analogia con quello del Danubio. Secondo Diller (1932: 17), tuttavia, l'analogia non riesce a coprire tutti i casi di inferenza dal visibile all'invisibile, e porta a questo proposito un certo numero di esempi, tra i  70 3 . I SEGNI NELLA MEDICINA GRECA quali l'inferenza sperimentale contenuta al cap. 8 del tratta­ to Le arie, le acque, i luoghi. L'esperimento vuole dimo­ strare che le acque che provengono dalla neve e dai ghiacci, perdono le qualità di leggerezza, di limpidezza e di dolcez­ za, mentre conservano quelle di pesantezza e di torbidezza. L'autore del trattato suggerisce a questo proposito di versa­ re, durante l'inverno, dell'acqua in un recipiente e, dopo averla misurata, di esporla all'aperto per lasciarla gelare. Il giorno seguente va messa di nuovo al caldo e fatta scioglie­ re: misurandola, ci si accorgerà che la sua quantità è molto diminuita. Questa è una prova (tekmrion) del fatto che, gelando, l'acqua ha lasciato andar via la parte più leggera e delicata e dimostra, contemporaneamente, la scadente qua· lità dell'acqua proveniente dalla neve e dai ghiacci. Questo esperimento viene definito tekmrion e si basa sulla istitu­ zione di un parallelismo tra due serie di dati di realtà. Ma, giustamente, Diller mette in dubbio che si tratti an­ che di un procedimento analogico: in effetti l'unica analo­ gia che vi si può istituire è che per una piccola quantità di una materia (acqua: ghiaccio) valgono le stesse leggi che valgono per l'elemento nella sua totalità. Si può esprimere quello che avviene nell'esperimento attraverso la formula "parte : parte = tutto : tutto"; la vera inferenza consiste nel trarre conclusioni dalla parte sul tutto. Comunque, per Dil­ ler, qui siamo di fronte a un tipo di inferenza che non è ana­ logica nello stesso senso in cui è analogica l'inferenza che abbiamo visto in Erodoto, in quanto qui "tutto si svolge al­ l'interno del processo che dovrebbe essere spiegato, senza che un processo analogo sia chiamato in causa" (ibidem, 19). Con un ragionamento non diverso, secondo Diller, l'au­ tore del trattato Le arie, le acque, i luoghi sostiene che la parte più fine e più pura deli'acqua ingerita viene espulsa dall'organismo, quella che è più densa e più torbida sedi­ menta: la prova (tekmrion) è data dall'osservazione di co­ loro che soffrono di calcoli alla vescica, i quali espellono un'urina limpidissima, in quanto la parte più densa e torbi­ da si condensa appunto in calcoli. Ciò che questi esempi hanno in comune è che qualcosa di  3 .7 METODO ANALOGICO E METODO SEMIOTICO 7 1 non percepibile viene spiegato attraverso dei fenomeni per­ cepibili. Però questi fenomeni non sono degli analoga di ciò che deve essere spiegato, bensì dei segni: essi stabiliscono, rispetto al processo che deve essere spiegato, lo stesso rap­ porto che c'è tra l'effetto e la causa. Quindi, per Diller, l'in­ ferenza semiotica (propriamente: semeiotisch, ibidem, 20, da lui collegata strettamente al procedimento medico) deve intendersi nel preciso senso (che sarebbe stato poi quello aristotelico) di inferenza dal conseguente. Ulteriormente per Diller, mentre l'inferenza analogica rende chiaro il "So­ sein" di un processo o di uno stato sconosciuto quella se­ miotica indizia del suo "Dasein". Recentemente la problematica è stata ripresa da Lonie (1981: 79 ss.),16 che ha sottolineato come nei trattati presi in considerazione dal Regenbogen, ma anche in altri testi del C.H. in generale (a esempio in Le arie, le acque, i luoghi, cap. 8), sono rintracciabili degli esempi di processi esplicati­ vi complessi, che comportano sia una inferenza semiotica (inferire le cause da fenomeni osservabili), sia una induzio­ ne analogica. Molto interessante a questo proposito è il capitolo 12 (= Littré 1839, VII 486, 3 ss.) del trattato Sulla natura del bambino: l'autore stabilisce anzitutto la teoria (elemento non osservabile) per cui lo sperma, trovandosi nell'ambien­ te umido e caldo dell'utero materno, acquisisce una capaci­ tà di respiro (pneuma) che si apre una breccia verso l'ester­ no: esso emette un soffio e, in una seconda fase, inspira aria fresca attraverso la breccia. Per provare questa teoria, l'autore ricorre a un'analogia con tre diverse classi di ogget­ ti, in cui si verificherebbe lo stesso fenomeno: il legno, le foglie, le sostanze commestibili. Viene poi descritto il com­ portamento del legno quando brucia: esso espelle aria cal­ da, in corrispondenza del punto in cui è stato tagliato e, contemporaneamente, attira a sé un altro soffio freddo. L'azione dei due movimenti contrapposti fa sì che il fumo e il vapore si avvolgano intorno al legno. Questo fatto viene descritto come un fenomeno osservabile ("noi vediamo che accade questo"), dal quale viene tratta un'inferenza (eklo­ ghismos) circa la causa del fenomeno stesso. Tale inferenza  72 3. I SEGNI NELLA MEDICINA GRECA assume la forma di un modus tollens "Se non-p, allora non-q; ma q; perciòp": "Se non ci fosse questo duplice mo­ vimento contrapposto, allora il soffio (fumo e vapore) non si avvolgerebbe intorno al legno, fuoriuscendo" (Littré 1839, VII, 486, 20-21). L'autore passa poi a illustrare lo stesso tipo di comporta­ mento negli altri esempi di analoga e procede quindi alla formulazione di una legge generale per induzione: "tutte le cose che sono riscaldate emettono un soffio (pneuma) e fanno entrare un soffio freddo per rimpiazzarlo". Alla fine l'autore sostiene che i fenomeni descritti devono essere con­ siderati come "prove necessarie" della sua affermazione teorica intorno allo sperma. Nel procedimento conoscitivo messo in scena nell'esem­ pio precedente possono essere messi in luce tre diversi ele­ menti . Anzitutto si ha l'istituzione di un'analogia tra un fatto non osservabile (il comportamento dello sperma neli'utero materno) e alcuni fenomeni osservabili. In secondo luogo, c'è una inferenza semiotica (che è pro­ priamente quella di cui parlava Diller, chiamandola "infe­ renza semeiotica'' e che Lonie chiama "inferenza causale") consistente nel risalire dal fenomeno osservabile (a esempio l'emissione di fumo e vapore durante la combustione del le­ gno) alla sua causa ovvero alla natura del processo. È inte­ ressante notare che inferenze di questo tipo sono molto fre­ quenti nei trattati considerati e che l'espressione che designa il fenomeno da cui l'inferenza è tratta è smefon. In terzo luogo, si ha la formulazione, per induzione, di una legge generale, che è intesa come valida anche per il pri­ mo termine (quello da dimostrare) dell'analogia. In com­ plesso si può dire che il valore probante dell'analogia consi­ ste nel fatto che essa permette di convalidare una proposi­ zione di partenza (relativa a fatti non osservabili) mediante il ricorso a proposizioni concernenti fatti analoghi, ma os­ servabili, che sono considerati come esempi di una legge va­ lida generalmente. Lonie (1981: 85) iliustra i rapporti tra analogia, principio generale ed enunciazione di partenza con il seguente diagramma:  3.8 LA SEMIOTICA NEI TRATTATI METODOLOGICI 73 principio generale esemplifica/ tt(",, conferma /// '' /' > analogo illustra asserzione di pertenza 3.8 Il metodo semiotico nei trattati metodologici Nel gruppo di opere del C.H. dove vengono maggior­ mente approfonditi gli aspetti teorici della medicina (Antica medicina, Le arie, le acque, i luoghi, Ilprognostico, Il regi­ me nelle malattie acute, Male sacro, Le epidemie l e III e le maggiori opere chirurgiche) è possibile rintracciare, nel mo­ do più chiaro, la formulazione della metodologia/semioti­ ca, quella appunto a cui si riferiva Diller (1932) e che Lonie (1981) individua come procedimento di "inferenza causa­ le". In questo paragrafo cercherò di approfondire in che co­ sa consiste tale metodologia, indipendentemente dagli altri procedimenti che possono esserle associati, come abbiamo visto che avveniva con l'analogia.  Nelle opere che abbiamo sopra menzionato viene innan­ zitutto aperto il problema del significato dei dati di osserva­ zione.17 Il singolo fenomeno (hékaston), non essendo più collegato con (né riconducibile a) una presunta unità della natura, come nella physiologhla, ha bisogno di essere inter­ pretato, cioè riconnesso a un sistema di riferimento. È a questo punto che inizia il procedimento inferenziale, o loghism6s, che è in un primo momento essenzialmente abduttivo: 18 si comincia a ipotizzare che il fenomeno singo­ lo, che si presenta ali'osservazione del medico, sia un caso di una qualche regola generale. Si prova, cioè, a pensare che lo hékaston, di per sé insignificante, possa essere consi­ derato come un smeion, un segno che rimanda a un siste-  3. I SEGNI NELLA MEDICINA GRECA ma, e dal quale riceve senso. Questo primo momento ascen­ dente, di costruzione del sistema di riferimento, viene segui­ to da un secondo movimento, discendente, di verifica. Se il sistema ipotizzato sia valido e funzionante, può essere pro­ vato applicandolo a nuovi e diversi casi: il segno si trasfor­ ma così in tekmirion e il metodo diviene deduttivo. Usando lo schema proposto da Eco (1984: 41) per l'abduzione si po­ trebbe cosi illustrare il processo: codice eziologico e/o prognostico: r--, son: h,jksston (singolo fenomeno) : l risultato l -- 1 r -  - -, l l regola 1  l -----_j l  l  lL - - -- - 1 .----l L Vegetti (1976: 49) mette molto bene in luce questo dupli­ ce movimento abduttivo-deduttivo della téchnippocratica: "Ciò d'altro canto conferiva alla funzione dello hékaston, spogliato dai privilegi 'metafisici', una dignità nuova. Esso infatti era, da un lato, chiamato ad essere segno, smeion, sull'altro da sé, sul sistema cui, per via di inferenza, era supposto appartenesse; e dall'altro lato, acquistava il ruolo di 'prova', tekmirion, sulla validità dell'inferenza stessa, che si misura appunto sulla possibilità di trovare conferma ___..J 1 l 74  3.9 LA STRUITURA FORMALE DEL SEGNO 75 negli hékasta. Il metodo semeiotico si configurava cosi, per la téchn ippocratica, come un movimento - 'dialettico' - che procedendo dallo hékaston posto dall'osservazione (ma è il caso ormai di parlare di 'esperienza' scientifica), lo tra­ sforma in smefon, mediante un'inferenza logico-concet­ tuale (loghism6s) e poi in prova o tekmrion, per conclude­ re, se il circolo si fosse saldato, nella capacità di compren­ sione e di intervento pratico su sempre nuovi hékasta". Sicuramente lo schema di riferimento che il medico deve costruire è un codice, ma di tipo particolare: è infatti pro­ babilistico. Come ha messo in evidenza Di Benedetto (1966 e 1986: 132), i testi del C.H. sono disseminati di espressioni che indicano una tendenza o una probabilità quali "la mag­ gior parte", "i più", "molti", "soprattutto", "spesso", "tal­ volta" ecc. Questo non significa che i medici della collezio­ ne ippocratica non siano impegnati nella costruzione di si­ stemi di riferimento costanti e funzionanti generalmente. Semplicemente la logica del hoi pleistoi ("la maggior par­ te") si sostituiva alla logica del ptintes ("tutti"). Del resto, proprio il carattere probabilistico contraddistingue l'infe­ renza abduttiva o ipotetica rispetto a quella strettamente deduttiva. 3.9 La struttura formale del segno La nozione di smeion ("segno", "sintomo") è una delle nozioni centrali nei testi del C.H. La struttura formale at­ traverso la quale il segno è introdotto è relativamente co­ stante, in quanto prevede l'inquadramento in uno schema implicativo del tipo: p-:Jq Dal punto di vista linguistico, molto spesso p e q sono rap­ presentate da proposizioni (o da sequenze di proposizioni), il cui collegamento costituisce un periodo ipotetico, come possiamo vedere da un brano tratto dal cap. 9 del Progno­ stico :  76 3. I SEGNI NELLA MEDICINA GRECA Ma bisogna osservare anche gli altri sintomi (smefa): se (n) in­ fatti il malato sembra sopportare favorevolmente il male, oppu­ re, oltre a questi, mostra qualche altro dei sintomi salutari, c'è speranza che il male si risolva in ascesso, sicché l'uomo soprav­ viva, pur perdendo le parti annerite del corpo. In questo esempio la prima parte dell'implicazione è co­ stituita da una sequenza di due proposizioni condizionali introdotte da n ("se"), che si riferiscono a dati di osserva­ zione (protasi), mentre la seconda parte presenta un perio­ do complesso (apodosi) relativo a una previsione medica. Se il riempimento semantico della protasi con dati di osser­ vazione, ovvero elenchi di sintomi, è relativamente costan­ te, l'apodosi può contenere anche una enunciazione diagno­ stica, sebbene ciò avvenga meno frequentemente, data la centralità della prognosi nella medicina antica.. Inoltre l'a­ podosi può contenere anche (e talvolta essere sostituita da) una indicazione terapeutica. 3. 10 Moduli espressivi arcaici Il modello "Se p, allora q", che serve molto spesso (a esempio nei trattati tecnico-terapeutici) a introdurre la ma­ lattia stessa, è molto antico e può essere messo in relazione agli analoghi moduli di presentazione della malattia nei trattati medici assiro-babilonesi e in quelli egiziani.19 Il mo­ dello implicativo nei testi assiro-babilonesi prevede la pre­ senza di una protasi, introdotta da §umma ("se", "nel caso che"), contenente l'indicazione dei sintomi, seguita da un'a­ podosi contenente un'indicazione terapeutica. A esempio: Se il cranio di un uomo ha una infiammazione, le sue tempie so­ no afflitte da SA.ZI (?) con turbamento dei suoi occhi, essendo i suoi occhi affetti da offuscamento, obnubilamento, disturbo, arrossamento (?), con le vene infiammate (?), e molto pianto, tu devi tritare in una macina l/3 di ka di lolium (e) spelta mon­ data, setacciare, quanto più puoi, e quindi prendere l/3 di kq, impastare in acqua di rose, radere a sua testa), applicare legando, e non toglierlo per tre giorni.2  3 . l 0 MODULI ESPRESSIVI ARCAICI 77 La struttura implicativa del modulo assiro-babilonese può essere considerata struttura segnica (anche se non si parla esplicitamente di segno), con la particolarità che al li­ vello semantico è sostituito direttamente il livello praxeolo­ gico:21 il segno (propriamente, l'antecedente del condizio­ nale) suggerisce, senza mediazione, un comportamento. Questo modulo, comunque, estremamente arcaico, è tal­ volta rappresentato anche in alcuni dei trattati tecnico-tera­ peutici, che sono anche i più antichi del C.H. : in Malattie II A e nello stato arcaico (A) del trattato ginecologico Su/le malattie delle donne. Si tratta tuttavia di attestazioni spora­ diche, che sono presenti accanto a moduli diversi, centrati sulla relazione tra sintomatologia e malattia. Un discorso a parte merita il trattato Sulle affezioni in­ terne, dove il modulo espressivo di presentazione della ma­ lattia assume un carattere del tutto particolare. Esso è infat­ ti composto di tre elementi strutturali: (A) una prima pro­ posizione (o serie di proposizioni) introdotte da "se", dove è presentato un fenomeno interno, non visibile, da conside­ rarsi come "la causa" della malattia; (B) una seconda serie di proposizioni, introdotte dall'espressione tade paschei ("tali cose soffre il malato"), nella quale è presentata la sin­ tomatologia (i fenomeni rilevabili esternamente); (C) una terza serie di proposizioni che sono relative alle indicazioni terapeutiche. Avviene molto spesso che la parte A sia sdop­ piata in due: At (le cause dirette dei sintomi); A2 (le cause che hanno prodotto la malattia stessa). Ecco un esempio, tratto dal cap. 8, dove distinguiamo gli elementi strutturali: (At) Se (in) nel petto e nelle spalle si produce una rottura, (A2) fatto che si verifica soprattutto a causa di uno sforzo, (B) ecco i sintomi (tade [...] ptischez): tosse vivace, espettorazione talvolta sanguinolenta; di solito brividi e febbre; dolore acuto nel petto e nelle spalle. Il malato ha l'impressione che una pietra gli pesi sul fianco; i dolori lo trapassano come se lo si bucasse con un ago. (C) Stando così le cose, lo si farà ingrassare con il latte e subito si cauterizzeranno il petto e le spalle. (Littré 1839, VII, 186, 3-10)  78 3. l SEGNI NELLA MEDICINA GRECA Ciò che è interessante di questo modulo dal punto di vista semiotico è che l'inferenza tra i primi due elementi ("Se A, allora B") è non abduttiva (cioè dagli effetti alle cause), ma deduttiva. Ciò significa che l'accento è posto sul sistema, già preliminarmente ricostruito, delle cause che possono produrre determinati sintomi. Questo è il punto di vista del trattatista: nella pratica il medico risalirà invece dai sintomi alle cause. Si deve inoltre notare che Sulle affezioni interne presenta anche una sezione prognostica (D), collocata tra B e C oppure dopo C: il testo citato continuava con "In que­ sto modo il malato sarà molto presto guarito". Un altro termine di confronto per i moduli della medici­ na greca è quello rintracciabile nei testi egiziani. Le formule che questi ultimi adoperano sono diverse da quelle della medicina assiro-babilonese in quanto hanno anche una se­ zione dedicata alla diagnosi. Come Vincenzo Di Benedetto (1986: 91) ha mostrato, esse potevano essere divise in tre elementi strutturali: una prima sezione (A), introdotta dalla congiunzione "se", presenta la sintomatologia come il risul­ tato di un esame/visita del medico; una seconda sezione (B), sempre attraverso la messa in rilievo della parola del medico che fa la diagnosi, enuncia la causa; una terza sezio­ ne (C) presenta l'intervento terapeutico del medico. Vedia­ mo un esempio tratto dal papiro Ebers (scritto intorno al 1550 a.C.): (A) Se tu esamini un uomo che soffre al suo stomaco, tutte le parti del suo corpo sono appesantite come per l'insorgere della stanchezza: tu devi allora mettere la mano sul suo stomaco e lo trovi a mo' di timpano, in quanto va e viene sotto le tue mani. (B) Allora tu devi dire "è un'inerzia nel mangiare che non per­ mette che egli mangi dell'altro". (C) Allora tu devi preparargli un rimedio che svuoti (seguono le indicazioni degli ingredienti della ricetta). In questo caso si ha un andamento abduttivo: la sintoma­ tologia costituisce il punto di partenza per ricostruire il qua­ dro eziologico, cioè una realtà nascosta che deve essere in­ terpretata a partire dai dati esterni disponibili.  MODULI ESPRESSIVI ARCAICI 79 Tutti questi moduli, attraverso i quali si definisce la pre­ sentazione della sintomatologia medica, costituiranno una base di riflessione, rimanendo talvolta sullo sfondo, ma più spesso affiorando negli esempi, quando la filosofia cerche­ rà di definire la struttura formale del segno. PLATONE 4.0 Introduzione Platone è il primo compiuto erede della grande tradizione culturale che lo precede. Nelle sue opere tale tradizione dà luogo a un'ampia e articolata teoria del linguaggio, ma non produce, allo stesso tempo, una separata teorìa del segno, come invece avverrà in Aristotele e in genere nelle scuole fi­ losofiche successive. Si possono, però, osservare due fatti: da una parte l'ana­ lisi dei contesti in cui Platone usa termini scmiotici permette di ricostruire un can1po teorico di sfondo abbastanza omo­ geneo, i cui contorni definiscono il segno; dall'altra certi aspetti della stessa teoria platonica del linguaggio presenta­ no un carattere intrinsecamente semiotico, fatto che non si verificherà nelle teorie Enguistichc dei filosofi successivi. Esaminiamo separatamentc i due problemi. 4.1 I segni 4. 1 . 1 La comunicazione divina Raccogliendo la tradizione divinatoria, Platone parla di "segni" in tutti quei contesti in cui si instaura una comuni­ cazione tra dei e uomini (Repubblica, 382 e; Timeo, 71 a -  4.1 I SEGNI 81 72 b; Fedro, 244 b-e). In questi casi viene anche usato il ver­ bo smafno che, come abbiamo già visto, nell'ambito divi­ natorio non indica tanto il "significare", quanto l"'inviare un segno", vero tramite della comunicazione divina. Tale segno può essere un testo verbale, come il responso della Pi­ zia di Delfi, o anche un testo visivo, come lo sono le imma­ gini del sogno (Timeo, 71 e), o quelle impresse nel fegato che funziona come uno specchio (Timeo, 10 b). Il segno può anche essere rappresentato da un evento na­ turale, come il volo degli uccelli; ma in questo caso (che è quello più classico della divinazione tecnica) la comunica­ zione è troppo mediata per avere davvero alore e produce più opinione che conoscenza (Fedro, 244 c). In effetti, il ca­ so della comunicazione più efficace con il soprannaturale è quello del "segno demonico" di Socrate, che si manifesta come una "voce" interna (Fedro, 242 b-e; Apologia, 31 d) che parla direttamente al destinatario. 4. 1 .2 Il segno come "impronta nell'anima" In una seconda serie di contesti il segno appare come im­ pronta (tjpos), nel preciso senso in cui è un segno l'impron­ ta lasciata da un sigillo. Questa accezione è presente nel Teeteto (191 a - 195 b), dove, per la soluzione di problemi epistemologici, viene sviluppata la metafora dell'anima co­ me blocco di cera, su cui vanno a imprimersi i segni prodot­ ti dalle sensazioni (tOn aisthseon smefa). Questi segni, quando sono incisi profondamente, costituiscono la base per le elaborazioni della memoria e per la formazione della retta opinione. In effetti si crea falsa opinione in tutti quei casi in cui gli uomini si dimostrano incapaci di "assegnare ciascuna cosa al proprio segno'' (195 a), cioè di far combaciare il segno impresso nell'anima con la nuova sensazione, in quanto il rapporto che si viene a stabilire nel rinnovato processo per­ cettivo è lo stesso che si instaura tra "copie e originali" (apotypOmata kaì tjpous) (194 b).  82 4. PLATONE 4.1.3 I segni della scrittura Il tema della memoria, che abbiamo trovato accennato a proposito dei segni impressi nell'anima nel Teeteto, ritorna in maniera centrale nel Fedro (274 c - 276 a), quando l'at­ tenzione di Platone si focalizza sui segni della scrittura. Nel mito che Socrate racconta, infatti, i segni alfabetici sono un dono che il dio egizio Theuth offre al re di Tebe Thamus, invitandolo a diffonderli in tutto l'Egitto perché, secondo il dio, essi sarebbero stati "una medicina per la sapienza e la memoria" (Fedro, 274 e). Thamus però non accoglie senza riserve il dono di Theuth, convinto che i segni della scrittura abbiano un effetto contrario rispetto a quello previsto dal dio, indebolendo la memoria: gli uomini "fidandosi dello scritto richiamerebbero le cose alla mente non più dalPin­ terno di se stessi, ma dal di fuori, attraverso segni (tjpol) estranei" (Fedro, 275 a). Sviluppando questo concetto, Socrate giunge a una con­ trapposizione tra "le parole scritte" e "il discorso scritto nell'anima": quest'ultimo è "vivente e animato", è scritto con la scienza ed è capace di selezionare i buoni destinatari; le parole scritte, invece, hanno solo l'apparenza della vita, ma in realtà sono capaci di dire una sola cosa e sempre la stessa, al pari delle immagini pittoriche che, se interrogate, "mantengono un maestoso silenzio"; inoltre si rivolgono in­ discriminatamente a tutti. Ma, posto il primato del discorso scritto nell'anima, si istaura tuttavia una relazione semiotica tra i due termini: come propone Fedro, le parole scritte possono essere consi­ derate "un'immagine (eldolon)" del discorso scritto nell'a­ nima (276 a); ciò nonostante esse rimangono segni estrinse­ ci, capaci solo di "rinfrescare la memoria di coloro che già sanno" (277 e). Si possono rappresentare questi rapporti se­ miotici con un triangolo (cfr. p. 83). La linea tratteggiata indica il fatto che per Platone le pa­ role scritte, di per sé, non permettono la vera conoscenza, che deve essere mediata dal discorso interiore, ma produco­ no solo opinione (275 b).  4.1.4 Il segno come inferenza 4.1 I SEGNI discorso scritto nell'anima 83  immagini { 8 /d lJI B ) parole scrrtte oggetti della conoscenza Infine, una serie di contesti ci presenta un uso del termine "segno" (stmeion, in alternanza con tekmrion) come indi­ cante un fatto, un evento, uno stato dal quale si può inferi­ re un altro fatto, evento o stato secondo il modello già in­ contrato nella divinazione mesopotamica e nella medicina greca (p::)q). Nel Teeteto (153 a), a esempio, si dice che il fatto per cui il movimento e lo sfregamento producono il calore e il fuo­ co, i quali a loro volta producono tutte le altre cose, è un se­ gno sufficiente (hikanòn stmeion) per argomentare che il moto produce l'essere e il divenire, mentre la quiete produ­ ce il non essere e il perire. Negli stessi termini si parla di se­ gno nell'Epistola VII (332 c), dove il fatto di avere o meno degli amici viene presentato come il più grande segno del carattere virtuoso o vizioso di una persona. Ancora, nel Gorgia (520 d-e) si definisce un bel segno (ka/òn stmeion) del successo ottenuto il fatto che chi ha reso un servigio ri­ ceva un adeguato contraccambio. In tutti questi casi il se­ gno è espresso da una proposizione legata da un rapporto implicativo con un'altra proposizione. Ma, su questa accezione basilare, si innesta l'idea del st-  84 4. PLATONE mefon come segno che serve a distinguere una certa cosa da tutte le altre. In un passo del Teeteto (208 c - 209 c) si dice che il segno distintivo del sole, sufficiente (hikan6n) per co­ noscerlo, è dato dal fatto che esso è il più risplendente tra tutti i corpi celesti che girano intorno alla terra. Natural­ mente la forma logica sottesa a questa formulazione super­ ficiale è quella implicativa ("Se un corpo celeste che gira in­ torno alla terra è il più risplendente di tutti, allora esso è il sole"). Ma a questo punto Platone si interroga sul valore episte­ mologico della conoscenza attraverso i segni, chiedendosi se cogliere il segno distintivo di una data cosa (''il segno onde la cosa di cui si domanda differisce da tutte le altre", 208 c), significhi cogliere anche la ragione (/6gos) di quella stessa cosa. L'interrogativo non è di piccola importanza e si può notare che esso riapparirà in Aristotele sotto forma di ricer­ ca dei rapporti tra il "segno" e la "causa" di un fenomeno. E, come farà Aristotele, anche Platone qui distingue il se­ gno dalla ragione di conoscenza (/6gos epistms), soste­ nendo che il segno contribuisce al formarsi della retta opi­ nione, ma non della conoscenza. 4.2 La teoria del linguaggio 4.2. 1 Carattere semiotico della concezione lingui­ stica di Platone Nella speculazione successiva a Platone, la teoria del se­ gno e quella del linguaggio verranno a costituire due ambiti completamente separati, che considereranno diversi gli og­ getti delle rispettive indagini, chiamandoli con nomi diversi (in Aristotele, a esempio, il segno linguistico sarà sjmbo­ lon, e non smefon). Nella filosofia platonica, invece, que­ sta divaricazione non si è ancora affermata, ma, al contra­ rio, si può notare che la sua teoria linguistica ha un caratte­ re spiccatamente semiotico.  4.2 LA TEORIA DEL LINGUAGGIO 85 In generale, nella cultura greca, il segno è concepito come un elemento percepibile che rimanda a (o permette di giun­ gere alla conoscenza di) un elemento che non è manifesto (adlon, aphanés ecc.); come abbiamo visto, del resto, nel caso della medicina e, prima ancora, della divinazione, il segno costituisce la mediazione tra il piano delle cose acces­ sibili ai sensi e il piano delle cose non accessibili. Proprio con questi caratteri si presenta il segno linguisti­ co nei dialoghi platonici (soprattutto nel Crati/o e nel So/i­ sta): esso è d/Oma ("rivelazione") di un oggetto non perce­ pibile (sia esso un "significato", sia esso l"'essenza" della cosa nominata). Costantemente il verbo smafno ("signifi­ co", "manifesto attraverso segni") si alterna al verbo d/60 (''rivelo", "manifesto") quando si parla di una forma espressiva che rimanda a un contenuto che non viene colto con i sensi. Ciò avviene a esempio in un passo del Crati/o (422 e), nel quale Socrate indaga la capacità che hanno i prO/a on6mata (gli elementi primi e irriducibili del linguag­ gio) di rendere evidenti (phanera) ciascuno degli enti: a que­ sto proposito li paragona ai segni gestuali dei muti, che so­ no capaci di indicare (smalnein) le cose con le mani, con il capo e con il resto del corpo, pur essendo impossibilitati a manifestarle (dlot2n) con il linguaggio verbale. A più riprese nel corso del Crati/o viene affermato il compito semiotico di "rivelazione" (d/Oma) che hanno gli elementi del linguaggio. Ma Platone distingue la rivelazione effettuata dai nomi da QUella effettuata dagli enunciati (Lo­ renz e Mittelstrass 1967: 8): questi ultimi, infatti, rivelano sempre qualcosa intorno agli oggetti (Sofista, 262 d), men­ tre soltanto i nomi "corretti" rivelano gli oggetti come sono (Crati/o, 422 d). Anzi, è proprio il carattere di rivelazione che riveste il nome a costituire il suo criterio di correttezza. Nel Sojzsta (262 a) il nome è definito espressamente "se­ gno vocale" (smefon tis phonis), espressione che è usata come equivalente a d/Oma e la cui funzione è quella di ma­ nifestare l'"essenza" della cosa nominata: "lo direi infatti che c'è un duplice genere dei nostri segni fonici (tii phonii [.. .] dlomaton) che indicano l'essere di qualche cosa" (So- fista, 261 e).  86 4. PLATONE Particolari combinazioni di questi "segni vocali" danno luogo agli enunciati (/6go1), facendo scattare un livello su­ periore. In effetti, nel Sofista viene preso in considerazione il problema che, in termini aristotelici, sarà descrivibile co­ me opposizione tra "semantico" e "apofantico". In Plato­ ne, questa si presenta come opposizione tra il livello ono­ mazein ("nominare") e il livello légein ("enunciare") (262 d). I singoli segni vocali, siano essi on6mata ("nomi") o rhimata ("verbi"), manifestano un contenuto nel momento in cui nominano qualcosa. Le corrette combinazioni di que­ sti segni vocali si situano a un diverso livello, perché, oltre a manifestare un contenuto, lo presentano come "essere il ca­ so" o "non essere il caso" di un determinato evento, stato o processo, cioè ne costituiscono un'asserzione (De Rijk 1986: 199-200). 4.2.2 La teoria linguistica del "Cratilo" Il problema fondamentale che viene affrontato nel Crati­ lo è quello della "correttezza dei nomi". Esso è posto fin dali'inizio del dialogo al centro di una disputa che oppone Cratilo a Ermogene e per la quale Socrate è scelto come giu­ dice. Complessivamente, nella discussione, Cratilo sostiene una tesi che possiamo definire "naturalista", mentre Ermo­ gene una tesi "convenzionalista"; ma le rispettive posizioni sono più stratificate e presuppongono alcune distinzioni. Innanzitutto c'è un primo livello di discorso che riguarda l'atto della nominazione in un momento del linguaggio che possiamo considerare aurorale. Per Ermogene tale atto è frutto di convenzione e nasce dali'accordo degli uomini, che già hanno una conoscenza preliminare delle cose. Per Cratilo, al contrario, l'atto della nominazione non presup­ pone alcun accordo tra gli uomini, ma avviene in maniera naturale. Un secondo livello di discorso è rappresentato dall'analisi dello stesso fenomeno trascurando il momento diacronico della formazione del linguaggio e focalizzando il rapporto di correttezza rintracciabile tra il nome e la cosa a cui esso è  4.2 LA TEORIA DEL LINOUAOOIO 87 applicato sincronicamente. In questo caso tanto Ermogene quanto Cratilo propongono la stessa soluzione, sostenendo che i nomi sono sempre correttamente riferiti alle cose. L'u­ nica differenza tra le due posizioni consiste nel fatto che per Cratilo la correttezza dei nomi segue una legge naturale, mentre Ermogene sostiene il carattere convenzionale delle regole che stabiliscono la correttezza, e adduce come prova il fatto che i nomi possono essere cambiati a piacere, senza disturbare tale rapporto. Un terzo livello di discorso, che scaturisce direttamente dal precedente, è quello che riguarda l'estensione della vali­ dità del rapporto di correttezza. Per Cratilo la correttezza del nome è "universale", vale tanto per i Greci, quanto per i barbari. Per Ermogene, invece, sembra che tale correttezza debba essere limitata alla comunità linguistica particolare che ha adottato la convenzione. Si possono distribuire questi dati su una matrice:        Ermogene Cratilo atto della nomina- zione primordiale frutto di accordo n aturale sempre presente sempre presente correnezza basata su leggi con- venzionali basata su leggi naturali validità del rap- porto di correnezza limitata alla comu- nitè inguistica particolare universale    Come abbiamo visto, entrambi i contendenti danno per scontato il carattere di correttezza dei nomi rispetto alle co­ se. Tuttavia ciascuno fornisce una risposta diversa alla do­ manda su chi garantisce la correttezza. La legge naturale,  88 4. PLATONE che ne è responsabile per Cratilo, focalizza il rapporto che si stabilisce tra il nome e gli oggetti che lo portano, senza che abbia alcuna importanza ciò che gli utenti del nome ne pensano. Al contrario, la convenzione, che per Ermogene è garanzia di correttezza del nome, è una regola che riguarda gli utenti del nome, senza che venga presa in alcuna consi­ derazione la natura dei portatori del nome stesso (Kretz­ mann 1971: 127). 4.2.3 Il problema linguistico e la dialettica Accanto a quelle di Ermogene e di Cratilo, nel dialogo è presente anche una terza teoria, sviluppata dallo stesso So­ crate attraverso la confutazione delle posizioni dei due con­ tendenti. Socrate, come al solito, è portavoce delle opinioni di Platone e le ragioni per cui egli rifiuta entrambe le altre posizioni sono da connettersi con la concezione generale del metodo della filosofia che propugna Platone. Infatti, se Cratilo o Ermogene avessero ragione, la via della dialettica, come mezzo per raggiungere la conoscenza, risulterebbe impercorribile (Weingartner 1969: 6). Platone prevede il linguaggio come mezzo necessario nella ricerca fi­ losofica, ma pensa anche che la verità vada cercata nelle co­ se e non nel linguaggio stesso, come suona appunto la con­ clusione del dialogo. Le teorie di Ermogene e di Cratilo mettono entrambe in pericolo questo principio. Vediamo brevemente in quale modo. La teoria di Ermogene si presenta all'inizio come una teoria "convenzionalista classica", sostenendo il principio secondo cui la convenzione e l'accordo costituiscono il cri­ terio di correttezza dei nomi (384 c-d). Tuttavia questa non è l'unica posizione che Ermogene sostiene e non è quella che è effettivamente attaccata da Socrate. Subito dopo Er­ mogene sostiene anche che, "qualsiasi nome uno imponga a una cosa, questo è quello corretto", precisando che, "se uno sostituisce quel nome con un altro, non usando più il precedente, il secondo nome non è affatto meno giusto del primo" (384 d). A questo punto Socrate costringe Ermoge-  4.2 LA TEORIA DEL LINGUAGGIO 89 ne a effettuare un cambiamento di focalizzazione e a preci­ sare che chiunque può operare questo cambiamento di no­ mi, non solo una comunità, ma anche un singolo individuo. Ne risulta una dottrina degli idioletti autonomi, tanto parcellizzati da coincidere con la parlata di un solo uomo, che fa scoppiare il convenzionalismo di Ermogene in un soggettivismo totale; tanto che Socrate non manca di met­ terlo in parallelo con il relativismo di Protagora (386 a). Questa "Humpty Dumpty position", come è stata arguta­ mente chiamata (Weingartner 1969: 7), fa perdere al lin­ guaggio la funzione comunicativa e rende impossibile la dialettica, in quanto non permette di distinguere tra enun­ ciati veri ed enunciati falsi. Tuttavia anche la posizione di Cratilo conduce, altrettan­ to perentoriamente, a una impossibilità della dialettica. Egli infatti elabora una teoria che ha le caratteristiche di un "iconismo assoluto": il nome rivela la natura della cosa che nomina, imitandola; ma questa imitazione è totale o è un nonsenso. La configurazione sonora, che si distaccasse an­ che per una piccola parte dalla perfezione deli'imitazione, verrebbe a essere niente di più che "il rumore che fa uno che agita un vaso di bronzo percuotendolo" (430 a). Poiché per Cratilo la produzione linguistica sembra dare luogo in certi casi a imitazioni corrette, in certi altri a dei nonsensi, in entrambe le evenienze la dialettica verrebbe ri­ dotta a uno strumento sprovvisto di senso. Se, a esempio, la ricerca dialettica cominciasse con il chiedersi "Che cos'è la giustizia?" e sperasse di raggiungere, nel corso del dibattito, la conoscenza dell'entità sotto indagine. Si presenterebbero allora due possibilità: (i) se l'espressione !giustiziai rivelasse naturalmente l'oggetto, che nomina, la ricerca finirebbe prima di cominciare; (ii) se invece essa fosse analoga al "ru­ more prodotto da un vaso di bronzo percosso", la domanda stessa non avrebbe senso. La dialettica, per quanto debba giungere a giudizi veri, deve avere la possibilità di enunciare giudi.zi falsi, che devono essere corretti nel corso del dibatti­ to. Ed è appunto questa possibilità che viene eliminata dalla teoria di Cratilo.  90 4. PLATONE 4 . 2 . 4 Il nome come strumento Uno dei punti fondamentali del dialogo platonico è costi­ tuito dalla ricerca di un criterio oggettivo che permetta di assegnare un valore di verità tanto agli enunciati quanto ai nomi. Per raggiungere adeguatamente questo scopo, Socra­ te sposta temporaneamente il discorso dal piano linguistico a quello ontologico, affermando che le cose (pragmata) hanno in loro stesse una stabile essenza e non dipendono dal giudizio soggettivo (386 e). Una tale caratteristica di oggettività è attribuita da Socra­ te anche alle azioni (praxeis), che al pari delle cose (pragma­ ta) sono delle specie di enti (onta). Infatti, dal momento che ci aspettiamo che le azioni abbiano certi effetti, esse non possono essere compiute arbitrariamente. Ma, per Socrate, anche il dire (légein) e il denominare (onomazein, che è una parte del dire), costituiscono delle forme di azione e, di con­ seguenza, devono essere compiute in maniera non arbitra­ ria. Possiamo illustrare questa serie di divisioni attraverso il seguente schema: enti (6nts) cose (pr8gmsta) l ""azioni (prAxtJis) /\ dire (/(lgein) /\  Nel resto del dialogo l'intuizione che il dire e il denomi­ nare costituiscono delle specie di azioni non verrà ulterior­ mente sviluppata, ma rimane comunque una importante in­ dicazione di una possibilità di sviiuppo in senso pragmatico che avrebbe potuto avere la linguistica greca. In questo contesto, lo scopo di mostrare che il linguaggio ha un legame oggettivo con la realtà, commisurato con il fi- denominare (onomAzein)  4.2 LA TEORIA DEL LINGUAGGIO 91 ne di raggiungere una comunicazione efficace, è perseguito attraverso il paragone del nome con uno strumento (orga­ non): proprio come la spola serve a sceverare la trama del tessuto, così il nome è "uno strumento didascalico e sceve­ rativo dell'essenza" (388 c). In altre parole, in primo luogo, i nomi operano una tassonomia della realtà, separando gli oggetti del reale, in maniera tale da rispettare le loro nature (Kretzmann 1971: 128); in secondo luogo i nomi permetto­ no di comunicare questa tassonomia. 4.2.5 Forma ("eldos") e materia del nome Se lo scopo dei nomi è quello di far acquisire la conoscen­ za delle cose e di comunicarla agli altri, è necessario che chi ha denominato la realtà (il "nomoteta", personificazione di un'autorità linguistica accettata), categorizzandola in una certa maniera, già ne possedesse una conoscenza prelimi­ nare. In effetti, per garantire la correttezza dei nomi, il nomo­ teta ha agito come il costruttore di spole. Come quest'ulti­ mo guarda ali'eidos ("forma", "idea") della spola, così il nomoteta, per costruire il nome, guarda al "nome in sé", cioè alla forma ideale del nome (389 b; 390 a). Allo stesso titolo, come non ogni materiale è adatto alla costruzione di uno strumento, ma è necessario usare la ma­ teria che meglio si adatta alla forma (a esempio il ferro per il trapano e il legno per la spola, e non viceversa), ugual­ mente sarà necessario che i nomi siano costruiti con suoni e sillabe, piuttosto che con altro materiale, se devono com­ piere bene la loro funzione. Tuttavia non sarà necessario che la forma fonica (direm­ mo: di superficie) dei nomi sia identica per tutte le lingue, ma ciascuna lingua suddividerà in modo diverso il conti­ nuum sonoro (nello stesso modo in cui non ogni fabbro adopera lo stesso ferro per lo stesso strumento atto allo stesso scopo) (389 e). In questo modo Platone spiega la di­ versità delle lingue, le quali pure, indistintamente, sono or­ ganizzate in maniera da rispettare i medesimi modelli. Ciò  92 4. PLATONE che varia da lingua a lingua è la materia, da interpretarsi co­ me la configurazione superficiale di nomi e di sillabe che as­ sume ciascun nome. Ciò che rimane costante è laforma (eidos, idéa) del nome che conviene a ciascuna cosa (390 a). Un modo di pensare a questa forma è quello proposto dali'interpretazione di Kretzmann, che la identifica con la funzio­ ne e lo scopo essenziali a ciascun nome, di separare le cose e di separarle in maniera da rispettare le loro giunture natura­ li. In questo modo, a esempio, il nome greco l hippos l o quelli barbari lchevall, lcavallol, lborsel, lPferdl ecc. saranno tutti corretti se riusciranno a ritagliare la realtà se­ condo le "naturali" giunture; e sembrerebbe esserci il pre­ supposto che tali giunture debbano essere le stesse per tutte le culture. Come si vede, Platone qui sta affrontando una questione che potremmo definire "hjelmsleviana",1 e così potremmo parlare, più che di funzione, come fa Kretzmann, di forma e sostanza, di espressione e contenuto, come fa Hjelmslev: la forma espressiva (la materia di Platone) può variare da lingua a lingua; ma, affinché il nome sia quello giusto, è ne­ cessario che la forma del contenuto (l'eidos o idéa di Plato­ ne) ritagli la materia del contenuto secondo le medesime ar­ ticolazioni. Cosi l hippos l, l cheval l, l cavallo l, l borse l, l Pferd l saranno tutti nomi giusti se ritaglieranno il conti­ nuum materiale del contenuto ("la cavallinità, all'interno dello spettro relativo agli animali) esattamente secondo le stesse giunture. Che poi l'elaborazione dei nomi debba essere messa in corrispondenza con una corretta tassonomia del continuum della realtà, da effettuarsi verosimilmente con il metodo della divisione (diairesis), è dimostrato dal fatto che spetta al dialettico, personificazione dell'autorità scientifica e filo­ sofica, giudicare se il lavoro dei vari nomoteti è stato fatto bene (390 d).  LA TEORIA DEL LINGUAGGIO 93 4.2.6 La prima teoria semantica Seguendo l'interpretazione di Donatella Di Cesare (1981) si possono rintracciare nel Crati/o due diverse teorie seman­ tiche, che si riferiscono, la prima a una situazione di lin­ guaggio ideale, e la seconda a una situazione di linguaggio come realtà storicamente data. Esaminiamo brevemente la prima. A un certo punto del dialogo (393 d), infatti, Socrate so­ stiene che ciò che è veramente importante per il nome è di significare (smalnein) l'essenza della cosa (ousfa tofl prag­ matos), la quale viene chiaramente espressa (dJoumén) dal nome. Una volta che il nome esprime l'essenza della co­ sa, non ha nessuna importanza se vengono aggiunte o tolte delle lettere al nome. L'esempio che viene portato è quello del nome di una let­ tera dell'alfabeto, il bita: esso nomina la lettera l b l, ma a essa aggiunge ita (lel), tau (ltl) e alpha (lal); nonostante queste aggiunte, esso nomina correttamente il l b l, in quan­ to fa comparire il "valore" della lettera che doveva essere nominata. Un analogo ragionamento vale per tutti i nomi: essi sono corretti se nominano l'essenza della cosa di cui so­ no nomi. Il significato è, dunque, identificato con questa essenza della cosa. Più avanti (394 b-e) Socrate introduce un altro concetto, quello di djnamis ("valore"), che sembra anch'esso identifi­ carsi con il significato. Infatti egli sostiene che chi è vera­ mente pratico di nomi guarda al loro valore (djnamis), non lasciandosi sviare né da aggiunte né da trasposizioni di let­ tere. Cosi i nomi Astyanax ("Astianatte" = "signore della città") e Héktor (''Ettore" = "che tiene saldo"), pur avendo in comune solo la lettera l t l, significano la stessa cosa (tau­ tòn smalne1). Dunque il significato del nome è dato da entrambi gli ele­ menti, l'essenza della cosa nominata e la djnamis del nome: essi di fatto coincidono, in quanto il nome, attraverso il suo significato, deve esprimere la cosa che nomina. Si possono illustrare i rapporti tra nome, significato e cosa con il se­ guente triangolo:  4. PLATONE essenza della cosa = In effetti, come l03), per Platone il nome non "rispecchia" la cosa, ma solo la sua essenza, ed è questa la ragione per cui possono esserci nomi diversi per lo stesso oggetto. Del resto, per rispecchia­ re l'essenza della cosa, il nome deve "associare l'individuo al genere cui appartiene" (ibidem); fatto che corrisponde a quanto avevano sottolineato Lorenz e Mittelstrass (1967: 6- 8), con la loro attribuzione di una funzione predicativa al nome. Il significato specifico del nome, la sua dynamis, consiste allora neli'assegnare ciascuno degli oggetti al con­ cetto appropriato, o al genere che gli compete. Ed è rispetto a questa operazione che si può valutare oggettivamente la correttezza o meno del nome. Se ci soffermiamo a considerare i risultati della teoria del significato esposta nella prima parte del dialogo, vediamo che tutta la dimostrazione di Socrate è rivolta a mostrare la coincidenza della struttura linguistica con quella logico-on­ tologica: il linguaggio, attraverso i nomi, ritaglia il reale se­ condo le stesse giunture che quest'ultimo naturalmente pre­ senta. Così, imitando e rappresentando la struttura della realtà, il linguaggio costituisce una mediazione tra il mondo delle idee e quello sensibile. Del resto il nome rappresenta il genere stesso che può essere predicato di ciascuna cosa e che, inafferrabile in natura, si concretizza nella materia fo­ nica. dynamis  nome cosa sottolinea Donatella Di Cesare ( 1 98 1 : 94  4.2 LA TEORIA DEL LINGUAGGIO 95 Tuttavia, come dicevamo, l'identità descritta nella prima parte del dialogo non costituisce per Platone un dato di fat­ to, ma un obiettivo ideale. Infatti dalla parte finale del dia­ logo, che segue la digressione etimologica scaturirà una se­ conda e ben diversa teoria semantica. 4.2.7 La seconda teoria semantica In effetti, l'analisi etimologica svolta da Socrate nella parte centrale del dialogo, e la congiunta riflessione sull'ori­ gine del linguaggio, erano state intraprese per dimostrare la sostanziale identità tra la struttura linguistica e quella anto­ logica, in generale, e tra l'essenza dell'oggetto e la djnamis, in particolare. Ma il risultato a cui esse approdano è esatta­ mente l'op,posto: il linguaggio non rispecchia la struttura oggettiva del reale, ma piuttosto è espressione dell'idea che del reale si è formato il nomoteta. Il significato, dunque, viene a essere identificato con la rappresentazione del reale che si forma nel soggetto (Di Ce­ sare 1981 : 131), rappresentazione che è il risultato delle opi­ nioni, sensazioni, impressioni che vengono esercitate sul soggetto dagli oggetti della realtà. Pagliara (1956 a: 73) ave­ va del resto individuato questo passaggio da una prima a una seconda teoria semantica come analisi di due aspetti di­ stinti del fatto linguistico: (i) il rapporto tra il significante e l'oggetto, nella prima parte del dialogo; (ii) il rapporto tra il significante e il significato, nella seconda. In base alla seconda teoria, il triangolo che illustra i rap­ porti tra nome, significato e cosa dovrebbe avere una parti­ colare struttura (cfr. p. 96). Il linguaggio, dunque, non rispecchia il mondo delleidee, cioè l'essenza delle cose, ma piuttosto il mondo empirico: esso costituisce una realtà storica, che contiene la visione del mondo che avevano i primi nomoteti, quando tentarono di dare un ordine al reale, classificandolo e categorizzando­ lo, proprio servendosi dei nomi come "strumenti sceverati­ vi". Ciò non esclude, tuttavia, che si potrebbe arrivare a un adeguato rispecchiamento della realtà mediante il linguag-  96 4. PLATONE rappresentazione soggettiva = significato nome gio, qualora si raggiungesse una completa conoscenza delle cose. Di particolare interesse risulta poi il fatto che è prevista una precisa funzione mediatrice dell'anima, grazie alla qua­ le la teoria platonica si avvicina a quelle moderne, in cui il linguaggio viene riconosciuto come fatto psichico. Platone raccoglie qui l'eredità dei sofisti, che unici tra i filosofi pre­ cedenti avevano insistito sulla dimensione psichica del lin­ guaggio, in contrapposizione a quanti prevedevano la possi­ bilità per il reale di essere rispecchiato nel linguaggio in ma­ niera diretta e senza mediazione. 4.2.8 La mimesi La prima parte del dialogo era stata dedicata alla confu­ tazione della teoria convenzionalista. L'ultima parte è inve­ ce dedicata alla confutazione della teoria del rispecchiamen­ to sostenuta da Cratilo. Già la sezione centrale, dedicata al­ l'etimologia, ha portato alla conclusione che il linguaggio costituisce una rappresentazione soggettiva, fatto che, di per sé, contraddice la tesi di Cratilo. Tuttavia Socrate, per condurre ancora di più all'assurdo la tesi di quest'ultimo, solleva il problema della mimesi, proponendo provvisoria­ mente una definizione del nome come "imitazione con voce   cosa  4.2 LA TEORIA DEL LINGUAGGIO 97 di cosa che si imita; e colui che imita nomina con la voce ciò che imita" (423 b-e). Quel che è interessante è che anche l'imitazione sembra avere, in linea generale, un carattere semiotico: infatti l'imi­ tazione "svela" (dloi) l'essenza della cosa. Ma quello di imitazione non è un concetto pacifico e So­ crate lo indaga in tre diversi ambiti: (i) nel ritratto; (ii) nel caso dei doppi; (iii) nel caso del rispecchiamento "metafisi­ ca". Esaminiamo il primo caso. Tanto il ritratto quanto il nome possono essere messi a confronto con l'oggetto che imitano. Per Socrate si verifica allora il fenomeno per cui certi elementi presenti nell'origi­ nale possono risultare trascurati, come pure elementi assen­ ti possono risultare aggiunti. La copia ha dunque un carat­ tere di iconicità, ma presenta variazioni all'interno di un continuum. Questo, per Socrate, è lo stesso fenomeno che presentano i nomi, fatto che equivale a sottolineare il loro carattere segnico. Ma Cratilo non è della stessa opinione, in quanto pensa che i nomi debbano avere un carattere di so­ miglianza assoluta, in mancanza della quale non sono affat­ to tali. Ecco in schema le due posizioni:       Socrate Cratilo rapporto ..nome/oggetto• iconico icon ico carattere della mimesi continuo discreto    A questo punto Socrate introduce l'argomento del dop­ pio: se nella mimesi tutti i caratteri deli'originale venissero riprodotti, non si avrebbe una imitazione, ma una occor-  98 4. PLATONE renza identica dello stesso oggetto. Non si sarebbe dunque in presenza di un rapporto di rappresentazione, ma di un vero e proprio doppio, in una situazione in cui è impossibile stabilire quale è il rappresentante e quale il rappresentato. In altre parole, il nome possiede un carattere segnico pro­ prio in virtù di questa sua dissimiglianza rispetto all'oggetto cui rimanda. Il terzo caso considerato, che abbiamo definito come "ri­ specchiamento metafisico", pone in primo piano il tema dell'imitazione che il singolo suono compie di un singolo frammento della struttura del reale. La parola sklrots, che significa "durezza",ontrariamente a quanto ci aspette­ remmo se i suoni rispecchiassero in tutto le essenze delle co­ se, contiene al suo interno un /ambda ( I I I ), che esprime "mollezza" e "scivolosità". Dunque la parola imita la "du­ rezza" solo in parte, mentre in parte se ne discosta. Con ul­ teriori esempi, poi, Socrate mira a negare anche un'altra ipotesi, più fondamentale filosoficamente: quella secondo cui nel linguaggio venga rispecchiata la veduta eraclitea del­ la realtà come eterno flusso e movimento (41 1 c; 436 e); ciò infatti non si verifica perché, come sottolinea Socrate, nel linguaggio molte voci lessicali presentano la realtà come perfettamente immobile (437 c). 4.2.9 L'uso e la convenzione Dalle critiche che Socrate muove, soprattutto a Cratilo, scaturisce una proposta positiva. Avendo infatti osservato che il nome sklrots (''durezza") è inesatto, in quanto con­ tiene nel suo significante elementi che non corrispondono alla qualità della cosa designata, Socrate osserva anche che, nonostante ciò, esso adempie perfettamente alla sua funzio­ ne comunicativa: infatti i Greci si intendono quando tale nome viene usato. La responsabilità di questa comprensione è attribuita da Socrate ai due fenomeni dell'uso (éthos) e della convenzio­ ne (xynthk): questi fenomeni non circoscrivono soltanto un rapporto tra i due utenti del nome, ma si rintracciano  4.3 TEORIA LINGUISTICA DELL'«EPISTOLA Vll» 99 anche a livello delle relazioni tra il nome e l'oggetto, cioè al livello denotativo (Kretzmann 1971: 138). L'idea che il no­ me sia "rivelazione" (d/Oma) dell'oggetto denotato non viene abbandonata, ma viene solo spostata la responsabilità di questa rivelazione dal rapporto di somiglianza tra i due termini, alla convenzione che li associa (435 a-b). Platone, tuttavia, non sostituisce semplicemente una con­ cezione convenzionalista a una in cui la semiosi avviene per somiglianza. Per lui la situazione ideale rimane quella in cui i nomi sono immagini che riproducono l'essenza degli og­ getti nominati; ma sono i limiti del linguaggio naturale che rendono necessario il ricorso all'accordo (435 b-e). Questo è del resto il punto in cui i commentatori hanno scorto un compromesso tra il convenzionalismo di Ermogene e il na­ turalismo di Cratilo. Nella chiusura del dialogo si deve rilevare anche uno spo­ stamento nella funzione assegnata al segno linguistico: c'è una accentuazione della funzione comunicativa a scapito di quella cognitiva. Il linguaggio non è uno strumento abba­ stanza valido per la conoscenza della realtà, per raggiungere la quale sarà necessario percorrere una via più diretta: quel­ la del ricorso alle cose stesse (439 b). Esso però si configura come un ottimo strumento per il buono svolgersi della co­ municazione interoggettiva. 4.3 La teoria linguistica deii'"Epistola VII" Un'interessante trattazione degli elementi coinvolti in una teoria del significato la si può trovare nell'Epistola VII, un testo attribuito a Platone, ma la cui autenticità è stata più volte messa in dubbio (Edelstein 1966). A molti è sem­ brato che essa non contenesse niente di veramente non pla­ tonico, e a ogni modo presenta un interesse intrinseco che induce a farne oggetto di un'analisi particolare. Nella sua parte centrale, la lettera contiene un passo teo­ rico (342 a - 344 d), in cui vengono indagati gli elementi che permettono di raggiungere e trasmettere la conoscenza. Si tratta anche, allo stesso tempo, di elementi che intervengo-  100 4. PLATONE no nel processo di semiosi. Il primo di questi è il nome (onoma); il secondo la definizione (/ogos); il terzo l'imma­ gine (efdo/on); il quarto la conoscenza (epistm); il quinto, infine, l'oggetto conoscibile (gnost6n) e veramente reale (althos 6n) (342 a-b). Questi elementi, secondo P interpretazione di Morrow (1935: 68), sono organizzabili secondo un ordine interno. Infatti, da una parte si possono collocare i fattori che costi­ tuiscono gli strumenti di conoscenza: i nomi, le definizioni, le immagini o diagrammi; dall'altra, in opposizione diame­ trale, si trovano gli oggetti conoscibili e reali. A mediare tra gli strumenti e l'oggetto della conoscenza si trova l'epist­ mt, che Morrow interpreta come "apprensione soggettiva", e che è ulteriormente suddivisa, come Platone dice più avanti (242 c), in retta opinione (a/ths doxa), conoscenza (epistm) (ritorna curiosamente come nome di una specie, quello che è il nome dell'intero genere) e ragione o intuizio­ ne (noas), del quale ultimo Platone precisa che è il più vici­ no al quinto fattore. Nella lettera si dice che questi tre elementi, che compon­ gono complessivamente l'epistémt e che devono essere con­ siderati come un unico grado, non risiedono "né nelle voci, né nelle figure corporee, ma nelle anime (en psychais)", fat­ to che, come Platone sottolinea, li distingue sia dall'oggetto reale, sia dagli strumenti di conoscenza. Il richiamo ali'ani­ ma, che può essere messo in parallelo con il ruolo assegnato all'anima nella seconda teoria semantica del Crati/o, induce ad accostare questa nozione di epistm alla nozione di si­ gnificato; fatto che del resto può venir confermato se leg­ giamo il passo con l'ottica della tradizione posteriore, so­ prattutto aristotelica, che colloca il significato esattamente nell'anima (tà en tii psychr) (De interpreta/ione, 16 a). Possiamo distribuire i cinque elementi sul triangolo se­ miotico nel modo illustrato alla p. 1 0 1 . Tutto l'interesse del passo è orientato a mostrare il carat· tere difettoso degli strumenti di conoscenza. E, per suggeri­ re come si può ovviare a questo inconveniente, Platone ela­ bora una dottrina che è molto vicina alla teoria di Peirce della semiosi come "fuga di interpretanti". Vediamola at-  TEORIA LINGUISTICA DELL'«EPISTOLA Vll» 101 4. apprensione soggettiva ( epistml)   3. immagine- (efdDion) 2. definizione (/6gos) l intuizione (noùs) l conoscenza (epistmlJ} l retta opinione (allfths d6xa) 6. oggetto conoscibile (gnst6n) e veramente reale (sleth;;s 6n) 1 . nome (6noms) traverso l'esempio stesso che fa da filo conduttore al discor­ so platonico. Si tratta deli'esempio del "cerchio", non a caso di carat­ tere matematico. Non è difficile per Platone mostrare che il referente dell'espressione l cerchio l non è un oggetto del mondo reale, sottoposto al divenire e alla corruzione, ma è un'entità di altro tipo. A essa non si può arrivare se non passando attraverso l'intera serie dei gradi preliminari e, so­ prattutto attraverso un processo di continua sostituzione dell'uno con l'altro: "trascorrendo continuamente fra tutti questi, salendo e discendendo per ciascuno di essi, si può, quando si ha buona natura, generare a gran fatica la cono­ scenza" (343 e). Ciascun elemento, di per sé incompleto (co­ me lo sono gli interpretanti di Peirce), contribuisce al rag­ giungimento della conoscenza se inserito in questo processo instancabile di sostituzione e di confronto. Questo processo di continua sostituzione permette di ovviare all'imperfezio­ ne degli strumenti.  102 4. PLATONE In effetti il carattere di imperfezione del nome è dovuto al fatto che, come sappiamo dal Crati/o, nel linguaggio sto­ ricamente dato esso non è l'immagine della cosa che nomi­ na, ma è legato alla convenzione. Questo, secondo l'autore ' Epistola VII, gli toglie stabilità, in quanto potremmo dell usare l'espressione l linea retta l per riferirei alle cose circo­ lari e l'espressione l cerchio l per designare la linea retta, senza provocare cambiamenti nelle cose stesse (343 a-b). Si può ricorrere allora alla definizione del cerchio come "quella figura che ha tutti i punti distanti dal centro" (342 b); ma anch'essa, per quanto aggiunga qualcosa, risulta composta di nomi e di verbi e dunque presenta difetti ana­ loghi a quelli incontrati a proposito dei nomi. Tra l'altro, sottolineare che la definizione è "formata di nomi e di ver­ bi" significa accentuarne il carattere di significante, piutto­ sto che quello di significato. Essa è semplicemente un'altra espressione, che può essere sostituita, nel processo conosci­ tivo e/o semiosico, al nome. Del resto, alla possibilità di una sostituzione tra nomi, Platone aveva già accennato, presupponendo l'intercambiabilità di l cerchio l (kyklos), l rotondo l (strongylon), l circolare l (peripherés) (242 b-e). Qualcosa ancora viene aggiunto dal terzo livello, quello rappresentato dagli eldola ("immagini"). Qui il cerchio è conosciuto come "quello che si disegna e si cancella, che si costruisce al tornio e che perisce" (242 c). Si tratta della so­ stituzione di un interpretante iconico ai precedenti interpre­ tanti verbali: per capire che cosa è il cerchio in sé, non sono necessarie solo le spiegazioni verbali, ma anche le illustra­ zioni e le astensioni. Anche a questo livello la conoscenza presenta un carattere incerto, in quanto incontra oggetti in cui l'essenza (tò 6n) risulta inquinata dalla qualità (tò poi6n 11), cioè da proprietà accidentali e contrarie, talvolta, alla vera natura del suo referente metafisica: infatti per ogni punto del cerchio può essere costruita una tangente (343 a), tale che, isolando quel brevissimo tratto, non si saprebbe se esso fa parte di un cerchio o di una retta (Taylor 1912: 361). Il passo teorico deli'Epistola VIl si chiude ritornando su un concetto assai vicino a quello della semiosi illimitata, an­ che se ovviamente modulata in chiave platonica: "mentre  4.3 TEORIA LINGUISTICA DELL'«EPISTOLA Vll» 103 ciascun elemento (nomi, definizioni, immagini visive e per­ cezioni), in dispute benevole e in discussioni fatte senza ostilità, viene sfregato con gli altri, avviene che l'intuizione e l'intellezione di ciascuno brillino a chi compie tutti gli sforzi che può fare un uomo" (344 b-e). La metafora dello "sfregamento", con cui il passo si av­ via alla conclusione, è funzionale sia all'idea epistemologica dell'improvviso accendersi e brillare deli'intuizione, sia an­ che all'idea semiotica che il senso finale non lo si ottiene at­ traverso l'immediata e semplicistica sostituzione di un signi­ ficante con un significato, ma attraverso una strategia di mosse successive e ripetute, come sono quelle appunto del processo di semiosi illimitata. LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE 5.0 Introduzione Con Aristotele vengono a inaugurarsi nella storia del se­ gno alcuni fatti nuovi, destinati ad avere una notevole du­ revolezza. Il primo di questi riguarda l'ampia e profonda opera di normalizzazione teorica che Aristotele compie nei confronti del lessico delle scienze e delle pratiche professio­ nali che avevano fatto riferimento ai segni e al sapere con­ getturale in genere. Il vasto alone semantico, l'alternanza di usi forti, o pregnanti, e di usi deboli che aveva caratteriz­ zato per tutto il V secolo termini quali smefon, tekmirion, aitia, pr6phasis, eik6s negli scritti medici, nella storiogra­ fia, nella stessa letteratura filosofica, viene piegato alle esi­ genze di una definizione categoriale, che fissa gli usi esatti dei termini e ne delimita e separa i campi nozionali. L'operazione, come rileva Lanza (1979: 107), non ha che un successo parziale nella pratica linguistica, in quanto è solo sul piano teorico che Aristotele riesce a rendere rigoro­ se e rigide le distinzioni, proposte in due passi paralleli dei Primi analitici e della Retorica; 1 ma, nella stessa prosa del­ la Retorica e in generale nelle opere che trattano di argo­ mento scientifico, come ha fatto rilevare Le Blond (1939, ried. 1973: 241), l'uso dei vari termini del lessico semiotico­ gnoseologico resta fluido e i termini spesso vengono impie­ gati senza speciali sfumature di significato. Ciò non con­ traddice, tuttavia, il fatto che la revisione terminologica, da un punto di vista teorico, sia stata profonda e abbia inau-  5.1 TEORIA DEL LINGUAGGIO E DEL SEGNO 105 gurato una solida tradizione, che continuerà nella trattati­ stica successiva, fin nella retorica romana del I secolo d.C. Del resto le esigenze di distinzione teorica non si limite­ ranno a intervenire con un'operazione normalizzatrice sul lessico, ma entreranno anche nel vivo delle concezioni pro­ fonde coinvolte dal sapere congetturale. Abbiamo infatti visto come il dominio del tempo fosse centrale tanto nel sapere ascientifico della mantica quanto in quello protoscientifico della medicina. La conoscenza contemporanea del passato, del presente e del futuro era un elemento essenziale, sebbene secondo modalità diverse, in entrambi questi ambiti di sapere. Aristotele riprende, concettualizza e piega alle esigenze della classificazione teorica anche tale aspetto. Infatti, nella classificazione dei tipi di discorso proposta nella Retorica, Aristotele individua in primo luogo due ca­ tegorie di destinatari dei discorsi: colui che osserva (theo­ ros) e colui che decide (krits). Il primo agisce nella dimen­ sione del presente ed è il tipo di pubblico che assiste al di­ scorso epidittico o celebrativo. Il secondo, invece, può agi­ re nelle altre due dimensioni del tempo proprie degli altri due generi di discorso: il giudice (dikasts) decide sul passa­ to; il membro dell'assemblea (ekklsiasts) sul futuro.2 Co­ me osserva giustamente Lanza (1979: 102), la classificazio­ ne è totalmente estrinseca ali'oggetto considerato, ma è chiaro l'intento aristotelico di congiungere la ripartizione canonica dei tipi di discorso con le tre dimensioni del tem­ po che fin dall'epoca di Omero appaiono associate agli am­ biti di manifestazione, esoterico o tecnico, del sapere. 5.1 Teoria del linguaggio e teoria del segno 5 . 1 . 1 Il triangolo serniotico Il secondo fatto importante, inaugurato dalla riflessione aristotelica, è quello che riguarda la disarticolazione, e la conseguente trattazione separata, della teoria del linguag-  }()6 5. UNGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE gio e della teoria del segno. Si tratta di un fatto che desta sorpresa e che appare molto rilevante proprio perché nelle teorie semiologiche moderne è assolutamente dato per scontato che i termini del linguaggio verbale sono dei "se­ gni": anzi, secondo un certo strutturalismo, sono i segni per eccellenza, e non sono stati pochi coloro che sono arri­ vati ali'eccesso di pensare che essi potessero fornire il mo­ dello anche per gli altri tipi di segno. In Aristotele, invece, gli elementi su cui si costruisce una teoria del linguaggio ricevono il nome di sjmbola, mentre gli altri elementi di una teoria del segno vengono denomi­ nati smeia o tekmiria.3 In realtà, come vedremo, la teoria del segno propriamen­ te detto è articolata alla teoria del sillogismo e riveste un in­ teresse sia logico sia epistemologico. Il segno è, infatti, al centro del problema delle modalità di acquisizione della co­ noscenza, mentre il simbolo linguistico è connesso princi­ palmente al problema dei rapporti che si instaurano tra le espressioni linguistiche, le astrazioni concettuali e gli stati del mondo. È nel De interpreta/ione che Aristotele espone la sua teo­ ria del simbolo linguistico, articolandola secondo uno sche­ ma a tre termini: i suoni della voce, che sono i "simboli" delle affezioni dell'anima, le quali, a loro volta, sono le im­ magini degli oggetti esterni: Ordunque, i suoni della voce (tà en tii phoniz) sono simboli (symbola) delle affezioni che hanno luogo nell'anima (tOn en tii psychii pathmatOn), e le lettere scritte (graphtJmena), sono simboli dei suoni della voce. Allo stesso modo poi che le lettere non sono le medesime per tutti, così neppure i suoni sono i me­ desimi; tuttavia, suoni e lettere risultano segni (smela), anzi­ tutto, delle affezioni dell'anima, che sono le medesime per tutti e costituiscono le immagini (homoi6mata) di oggetti (pragma­ ta), già identici per tutti. (Arist., De int., 16 a, 3-8) Bisogna innanzitutto dire che il fatto di incontrare il ter­ mine smeia come apparente sinonimo di sjmbola non si­ gnifica affatto che le due espressioni siano intercambiabili:  5.1 TEORIA DEL LINGUAGGIO E DEL SEGNO 107 in realtà in questo passo Aristotele usa il termine smefon in un'accezione debole, che ci conferma appunto la tenden­ za a un uso sfumato delle espressioni del lessico semiotico, quando non sia in questione la costruzione del sistema di demarcazioni teoriche. In secondo luogo qui Aristotele usa smeia per dire che l'esistenza di suoni e lettere può essere considerata come indizio deli'esistenza parallela di affezio­ ni dell'anima. A ogni modo, è possibile costruire, trascurando il livello grafematico, un triangolo semiotico di questo tipo: 1 ) affezioni dell'anima (psthlimsts sn tlii psychliil 2) pensteri (nomat8)  rapporto convenzionale motivato ra ppo rto ( sn ti phntl (prSgmsta) suoni della voce oggetti esterni Come si può osservare, diverso è il rapporto tra le coppie di termini appartenenti alla triade: tra suoni e stati d'animo c'è un rapporto immotivato e convenzionale, in quanto gli stati d'animo sono uguali, secondo Aristotele, per tutti gli uomini, ma essi vengono espressi in maniera diversa a se­ conda delle varie lingue e culture, esattamente come avvie­ ne per le forme scritte;4 invece tra gli stati d'animo e gli og­ getti c'è un rapporto di motivazione, che appare addirittura iconico, in quanto i primi sono le immagini dei secondi. Bi­ sogna precisare che sarebbe scorretto identificare in manie­ ra diretta la tesi della convenzionalità degli elementi del lin­ guaggio, cui aderisce Aristotele, con la tesi deli'arbitrarietà  108 5. LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE del segno linguistico sviluppata da Saussure. In realtà nella teoria saussuriana esiste un rapporto arbitrario tra due en­ tità strettamente interne al linguaggio: il significante e il si­ gnificato sono le due facce del segno, in quanto unità lin­ guistica. In Aristotele troviamo invece un rapporto conven­ zionale tra elementi del linguaggio (il nome, il verbo, il 16- gos) ed elementi che propriamente non appartengono al lin­ guaggio, in quanto sono entità psichiche. Si deve inoltre ri­ levare che la teoria linguistica elaborata da Aristotele non si esaurisce nei testi di prevalente interesse logico, quali il De interpreta/ione, ma continua anche nei testi di interesse estetico: in questi ultimi, dove prevale la funzione poetica del linguaggio, il principio della convenzionalità viene in parte attenuato (Belardi 1975: 75 e passim). 5.1.2 I "suoni della voce" Ciascuno dei termini posti ai vertici del triangolo presen­ ta aspetti degni di nota e spesso non privi di problematicità. Per cominciare, che cosa intende Aristotele con l'espressio­ ne tà en tii phonii? A questa domanda vi sono risposte di­ verse. Donatella Di Cesare (1981: 161) sostiene che Aristotele attribuisce a questa espressione lo stesso valore che Saussu­ re dà al termine "significante" quando spiega la natura del segno linguistico. Belardi (1975: 198), invece, aveva sostenuto che tà en tii phonii doveva riferirsi non ai significanti, ma alle "espres­ sioni linguistiche" intese nella loro forma compiuta di 6no­ ma (nome), rhima (verbo), /6gos (discorso), come pure di kataphasis (affermazione) e ap6phasis (negazione); le ra­ gioni di questa scelta si basano sul fatto che questi elemen­ ti, facenti parte del programma di analisi di Aristotele, ven­ gono definiti "simboli" delle affezioni dell'anima (An. Pr., 16 a, 25; 24 b, 2). Ora è indubbio che Aristotele intenda con l'espressione "suoni della voce" qualcosa che sottolinea molto chiara­ mente la veste fonica e il carattere di "significante". Tutta-  5.1 TEORIA DEL LINGUAGGIO E DEL SEGNO 109 via si deve anche sottolineare che l'ottica con cui Aristote­ le, almeno neli'Organon, guarda ai fatti di linguaggio sem­ bra diversa da quella saussuriana. Infatti Aristotele è qui interessato a saggiare le possibilità e le garanzie deli'uso del linguaggio neli'analisi della realtà. Tali garanzie sembrano esserci quando si dia una reciproca­ bilità tra i due ambiti del linguaggio e del reale. Ora, posto che per Aristotele la simbolicità del linguaggio nei confron­ ti del reale è sempre di secondo grado, in quanto il nome sta per un'immagine, la quale è appunto immagine di una cosa, sul vertice sinistro del triangolo deve stare qualcosa che (per gli scopi logici perseguiti nel De interpreta/ione) sia intercambiabile con ciò che si trova al vertice superiore. Da qui deriva l'uso della nozione di sjmbolon, che Ari­ stotele riprende da una tradizione risalente fino a Democri­ to (D-K, 68, B 5, 1). Le ragioni che permettono la specializ­ zazione di questo termine nel senso di indicare le espressio­ ni linguistiche convenzionali, sono connesse alla sua etimo· logia. Nella lingua greca, infatti, il termine sjmbolon indica ciascuna delle due metà in cui viene spezzato un oggetto (a esempio un astragalo, una medaglia, una moneta) in ma­ niera intenzionale, affinché possano servire, in un momen­ to successivo, come segno di riconoscimento, o come prova di una certa cosa (Belardi 1975: 198; Eco 1984: 199): il fat­ to che le due metà riescano a combaciare perfettamente vie­ ne a indicare la presenza di un rapporto precedentemente istituito (a esempio un rapporto di ospitalità, di amicizia, di paternità), la cui documentazione è affidata appunto alla congruenza perfetta dei due sjmbola. Si viene in effetti a realizzare una situazione in cui ciascuna delle due parti può scambiarsi di posto con l'altra, senza che venga a perdersi il valore di prova. Così dal momento che ciascuna parte pre­ suppone l'altra, o stabilisce con l'altra una stretta corri­ spondenza, l'espressione sjmbolon viene ad acquisire il si­ gnificato di "ciò che sta per qualcos'altro". Ma il fatto che venga preferita nel contesto della teoria linguistica aristote­ lica la parola sjmbolon all'espressione smefon (che pure indica uno "stare per") induce a indagare su una possibile  LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE specificità del rinvio istituito dal simbolo. In effetti, nel ca­ so del segno, i due termini del rinvio (che, come vedremo, è una implicazione) non sono sempre reciprocabili: un primo termine può rimandare a un secondo, senza che necessaria­ mente il secondo rimandi al primo. Nel caso del simbolo, invece, i due termini sono perfettamente reciprocabili; non è un caso che sjmbo/on dal III secolo a.C. al III d.C. sia attestato anche nel senso di "ricevuta", talvolta redatta in duplice copia: le due parti hanno, per cosi dire, lo stesso valore. Questo aspetto etimologico è presente neli'uso che in particolare Aristotele fa dell'espressione sjmbolon nel De interpreta/ione: i nomi ono simboli degli stati d'animo nel preciso senso che si realizza, previo un accordo (synthk), un combaciare perfetto tra di loro e una perfetta intercam­ biabilità, che garantisce la correttezza del nome stesso (Be­ lardi 1975: 199). In quanto sjmbolon, il nome non è più dloma ("rivela­ zione"), come lo era per Platone: in Aristotele il nome è "suono della voce significativo per convenzione" (phon s­ mantik katà synthkn) (De int., 16 a, 19). Questo marca il passaggio da una linguistica che conservava un carattere semiotico, come quella platonica, a una linguistica che non parla più di segni e che è intrinsecamente non semiotica. Mentre per Platone le espressioni linguistiche erano segni che "rivelano" qualcosa di non percepibile (l'essenza del­ l'oggetto o la djnamis), per Aristotele esse sono simboli che stabiliscono convenzionalmente una pura relazione di equivalenztr tra i due correlati, senza alcuna preoccupazio­ ne che l'un termine "riveli" l'altro. 5 . l . 3 Il linguaggio degli animali Del resto, l'opposizione convenzionalelnaturale6 permet­ te di distinguere anche tra il linguaggio umano e i suoni emessi dagli animali,7 questi ultimi essendo, per altro, ugualmente (i) vocali e (ii) interpretabili. Già la nozione di "voce" (phon) presenta alcune interes-  5. 1 TEORIA DEL LINGUAGGIO E DEL SEGNO 1 1 1 santi particolarità. Nel De anima si dice che un suono può essere definito una "voce" quando: (i) sia emesso da un es­ sere animato (II, 420 b, 5); (ii) sia dotato di significato (s­ mantik6s) (Il, 420 b, 29-33). Ora, i suoni emessi dagli ani­ mali, per quanto definiti ps6phoi (''rumori"), hanno tutta­ via le due precedenti caratteristiche. Ciò che li distingue dalle voci emesse dagli uomini sono due fattori: (i) non sono convenzionali (e di conseguenza non possono essere né simboli né nomi), ma sono "per na­ tura" (De int., 16 a, 26-30); (ii) sono agrammatoi, cioè "inarticolabili" o "non combinabili" (ibidem, e Pot., 1456 b, 22-24). La nozione di "combinabilità", del resto, come mostra Morpurgo-Tagliabue (1967: 33 e sgg.), è al centro stesso del carattere di semanticità del linguaggio umano, i cui suoni semplici (adiafretoi, "invisibili") possono articolarsi in uni­ tà più grandi dotate di significato.8 Gli animali, invece, emettono solo suoni indivisibili, ma non combinabili (Pot., 1465 b, 22-24). Si possono illustrare riassuntivamente i caratteri del lin­ guaggio umano in contrapposizione ai suoni emessi dagli animali, attraverso il seguente schema: linguaggio umano - per convenzione - elementi indivisibili combi- nabili e elementi divisibili - lettere - elementi dotati di signifi- cato - simboli - nomi suoni degli animali - per natura - elementi indivisibili non combinabili - non lettere - elementi che rivelano (d- loflsl) qualcosa - non simboli - non nomi Si deve rilevare, tra l'altro, che la semanticità dei suoni emessi dagli animali è espressa dal verbo dlofìsi (''rivela­ no", De int., 16 a, 28), fatto che conferma l'idea che per Aristotele, quando non sia in gioco la convenzione, come nel caso del linguaggio degli animali, torna di nuovo in pri­ mo piano il carattere semiotico d'una espressione. I suoni degli animali sono sintomi che rivelano la loro causa.  1 12 5. LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE 5. 1 .4 Le "affezioni dell'anima" Ritornando poi al triangolo aristotelico della significa­ zione, la seconda nozione degna di rilievo è quella di pathmata en tii psychi. Si noterà che, dove ci si aspetterebbe la nozione di "significato", troviamo invece un'entità psichi­ ca, qualcosa che non è posto all'interno del linguaggio, ma nella mente stessa degli utenti del linguaggio. Per di più le affezioni dell'anima concepite da Aristotele, pur configu­ randosi come eventi psichici, non sono affatto individuali: si tratta piuttosto di elementi che, come dice Aristotele, so­ no identici per tutti, fatto che connette la teoria del lin­ guaggio con una sorta di psicologia sociale, se non addirit­ tura universale, piuttosto che individuale (Todorov 1977: 16). In secondo luogo è necessario rilevare una sorta di ambi­ guità che si trova nella nozione posta al vertice superiore del triangolo. Infatti Aristotele dice che i pathimata en tii psychii sono le immagini (homoiomata) degli oggetti esterni: con ciò in­ tende che tra gli oggetti e le entità psichiche c'è lo stesso rapporto che esiste tra l'originale e la copia. Tuttavia, poi, per indicare la rappresentazione mentale usa anche, più avanti, l'espressione noma ("pensiero", "nozione", 16 a, 10): ma, in questo secondo caso, precisa che i pensieri, sot­ to certe condizioni, possono essere veri o falsi. Da ciò con­ segue che i nomata vengono concepiti come forme di giu­ dizio . Si tratta di due nozioni completamente diverse, e il fatto che venissero entrambe messe in rapporto con le medesime espressioni linguistiche aveva fatto pensare a un loro uso si­ nonimico, che risultava aporetico. In realtà, come ha messo in evidenza Belardi (1975: 109), nessuna delle due nozioni esaurisce da sola il livello della rappresentazione psichica, ma esse rimandano a due facoltà differenti dell'anima: i pathtnata rimandano a una facoltà passiva dell'anima, quella di subire impressioni dagli oggetti del mondo ester­ no; i nomata rimandano a una facoltà attiva, quella di ela­ borare giudizi. Questa relazione è del resto confermata dal  5.l TEORIA DEL LINGUAGGIO E DEL SEGNO 113 rinvio che Aristotele fa al De anima, trattato nel quale non vengono discussi solo i pathimata, ma anche le altre fa­ coltà. 5.1.5 Semantico e apofantico Non si può, a questo punto, non fare un cenno (anche se, di necessità, breve) a una distinzione che si affaccia, nel pensiero linguistico di Aristotele, tra la categoria del "se­ mantico" e quella dell'"apofantico". Nel De interpretatione (16 a, 9 e sgg.) viene aperta la problematica circa la diffe­ renza tra phasis (il semplice "detto") e kataphasis (!'"affer­ mazione"). I nomi (ma così anche i verbi) in sé costituisco­ no un "detto", ma non possono da soli costituire un'affer­ mazione o una negazione. Correlatamente, vengono distin­ ti due tipi di rappresentazioni mentali (noimata): l . quella "che prescinde dal vero e dal falso"; 2. quella "cui spetta necessariamente o di essere vera o di essere falsa". Ciò che in realtà viene a essere contrapposto è la nozione di significato rispetto a quella di condizioni di verità. Al primo tipo di rappresentazione, infatti, corrispondo­ no i nomi (e anche i verbi) presi da soli, i quali possono avere un significato, ma non hanno condizioni di verità. Ciò è provato da Aristotele mediante la scelta di un caso particolare: il termine "ircocervo" (traghélaphos). Esso "si­ gnifica bensì qualcosa" (cioè una commistione mostruosa tra un caprone e un cervo), ma non può essere detto vero o falso. Il "qualcosa" a cui si riferisce qui Aristotele indivi­ dua appunto la dimensione della semanticità pura, regolata da leggi diverse da quelle della referenzialità. Al secondo tipo corrispondono, invece, quelle entità che hanno la dimensione linguistica della proposizione: è quan­ do si passa agli enunciati affermativi e negativi che diviene possibile parlare di verità o di falsità. È solo in questo caso che diviene possibile parlare di apofanticità come dimensio­ ne aggiuntiva (non contrappositiva) rispetto a quella se­ mantica. Ma qual è il mezzo specifico per passare dalla dimensio- LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE ne semplicemente semantica a quella apofantica? Non ci sono dubbi che esso consiste nell'uso del verbo come predi­ cato. Del verbo Aristotele valorizza essenzialmente la fun­ zione predicativa, quando, parlando del giudizio, riduce il verbo a !copula + predicatol: "non c'è differenza", sostiene egli infatti, "tra dire: l'uomo cammina, e dire: l'uomo è camminante" (De int., 21 b, 9-10). In effetti il verbo viene qui concepito come nome assunto in funzione predicativa (Morpurgo-Tagliabue 1967: 62). Tuttavia, affinché il verbo possa esplicare questa sua funzione occorre che esso sia congiunto a qualcos'altro (cioè a un nome); preso da solo, cioè quando la sua funzio­ ne predicativa non può dispiegarsi, esso non può affermare alcunché (De int., 16 b, 19-25). L'incapacità del verbo preso da solo, ad affermare l'esi­ stenza di una certa cosa (cioè a fare asserzioni) è dimostrata da Aristotele con il ricorso all'esempio del verbo "essere": nemmeno esso preso da solo è capace di affermare che una cosa è. Così commenta Eco (1984: 25): "Pertanto, quando Aristotele dice che neppure il verbo essere da solo è segno dell'esistenza della cosa, vuoi dire che l'enunciazione isola­ ta del verbo non è indizio che si stia affermando l'esistenza di qualcosa: perché il verbo possa avere tale valore indiziale occorre che sia congiunto gli altri termini dell'enunciato, il soggetto e il predicato (e quindi il verbo l essere l è indizio di asserzione di esistenza, o di predicazione deli'inerenza attuale di un predicato a un soggetto, quando appaia in contesti come lx è yl oppure lx èl, nel senso di "x esiste di fatto)". 5.2 La teoria del segno 5.2.1 La definizione Completamente irrelata rispetto alla teoria del linguag­ gio, in Aristotele la dottrina del segno si pone nel punto di intersezione tra logica e retorica e i segni sono trattati tanto nei Primi analitici quanto nella Retorica.  5.2 LA TEORIA DEL SEGNO 115 Allo stesso tempo, la nozione di segno presenta due aspetti fondamentali: da una parte infatti ha un interesse epistemologico e antologico, in quanto si configura come strumento di conoscenza, che deve servire a condurre l'at­ tenzione dei soggetti conoscenti a operare un passaggio da un fatto a un altro (Todorov 1977: 19; Simone 1969: 91); dall'altra ha un carattere prettamente logico, in quanto è dotato di un meccanismo formale che presiede al suo fun­ zionamento. La definizione generale del segno (smeion) è data nei Primi analitici (II, 70 a, 7-9). Di questo passo esistono di­ verse traduzioni (Colli 1982: 252; Todorov 1977: 19 ecc.); ma quella che sembra individuare nel modo più soddisfa­ cente il significato del passo è quella di Preti (1956: 5): Quando, una cosa essendo, un'altra è, oppure quando una cosa divenendo, un'altra diviene anteriormente o posteriormente, queste ultime sono segni del divenire o dell'essere. La sottolineatura che abbiamo effettuato intende mettere in risalto appunto la specificità deIl'interpretazione di Pre­ ti, che restituisce al passo aristotelico tutta la sua carica di problematicità e la complessità, che appunto gli ulteriori sviluppi, a opera delle scuole successive, della dottrina del segno metteranno in luce. Prima di tutto vediamo però ciò su cui tutte le interpreta­ zioni del passo concordano, cioè che la nozione di segno proposta da Aristotele prevede l'instaurarsi di un rapporto di tipo implicativo: il segno coincide press'a poco con il rapporto di implicazione "p implica q", accezione, questa, abbastanza comune della nozione di segno e che abbiamo già trovato operante in altri ambiti, diversi dalla filosofia. Ma più precisamente, e particolarmente in questa defini­ zione, il segno coincide con uno dei termini dell'implicazio­ ne. L'interpretazione di Preti suggerisce che esso coincida in particolare con il secondo termine, cioè suggerisce che la definizione aristotelica vada letta nel senso che "q è segno di p": ora questa definizione, che viene a configurare il rap­ porto segnico come "Se q, allora p", comporta, ai fini della  116 5. LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE sua applicazione ad argomentazioni inferenziali, un'inver­ sione da "p implica q" a "q implica p". È proprio questo fatto che conferisce alla nozione di se­ gno il carattere di problematicità e che conduce all'instau­ razione di un dibattito serrato e complesso in seno alle scuole filosofiche postaristoteliche, anche se esse non fa­ ranno esplicitamente riferimento ad Aristotele. D'alta parte, questo tipo di inversione sembra porsi an­ che alla base della richiesta, ai fini della validità del segno, di un'implicazione tra p e q più stretta di quanto non sia, a esempio, l'implicazione materiale. Sembra, in sostanza, che già nella definizione aristotelica venga richiesta la con­ dizione "Se non-q, non-p" ("q, o non-p"), cioè esattamente quel tipo di implicazione stretta che verrà dagli stoici consi­ derata necessaria per la validità del segno. Al di là di questo si deve anche notare che nella defini­ zione (e in genere nell'intera trattazione) del segno condot­ ta da Aristotele è riscontrabile un'ambiguità di fondo nel modo di concepire i due termini del rapporto implicativo. Per un verso, infatti, essi costituiscono dei fatti (o delle proprietà) (e non a caso una parola centrale della definizio­ ne è tò pragma "il fatto"). Aristotele del resto dà esempi di questo genere: "il mostrare che una certa donna è gravida attraverso il fatto che essa ha il latte"; il segno è "l'aver lat­ te", che appare appunto essere l'espressione di un fatto o di una proprietà. Per un altro verso il segno è concepito come una proposi­ zione, in quanto un segno può costituire la premessa da cui si sviluppa un sillogismo: "Un segno, invece, vuole essere una premessa dimostrativa, o necessaria o fondata sulla opinione" (An. Pr., II, 70 a, 6-7). In realtà, la definizione di segno come proposizione, che può costituire una premes­ sa in un ragionamento infcrenziale, è abbastanza centrale in Aristotele. Infatti il ruolo fondamentale che egli attribui­ sce al smefon è proprio quello di essere uno degli elementi che forniscono premesse a quel particolare tipo di siilogi­ smo che è I'entimema.  LA TEORIA DEL SEGNO 1 17 5.2.2 L'entimema e i segni Nella nozione di entimema coesistono due aspetti com­ plementari, che la tradizione successiva svilupperà talvolta separatamente. Da una parte l'entimema può essere consi­ derato un sillogismo tronco, in cui una delle premesse è mancante, perché ritenuta nota o ovvia.9 DalPaltra, l'enti­ mema viene considerato un sillogismo che tende alla per­ suasione, e non alla dimostrazione; in quanto tale non è ne­ cessario che le sue premesse siano vere, ma soltanto che sia­ no probabili (hos epì tò poly). Aristotele sviluppa esplicita­ mente il secondo aspetto delle definizioni parallele dei Pri­ mi analitici (II, 70 a, 9-10) e della Retorica (1, 1357 a, 30- 32) . Dunque il segno trova la sua principale applicazione nel­ l'ambito del discorso persuasivo, ovvero retorico, dove, sotto forma di proposizione, entra nel meccanismo dell'en­ timema e vi svolge il ruolo di "protasi", di premessa. Ma, in quell'ambito, si profila una prima distinzione tra la no­ zione di smeion e quella di eikos "verosimile" o "probabi­ le"), pur imparentate per il fatto di poter figurare entrambe come premesse negli entimemi. Ciò che contraddistingue la nozione di eikos è essenzial­ mente il suo carattere probabilistico, che lo lega irrevoca­ bilmente all'opinione, rimuovendolo in una zona del sapere piuttosto insicura, lontano dalla possibilità di una dimo­ strazione scientifica. 5.2.3 L'inferenza dal conseguente Per quello che riguarda la nozione di segno, la situazione è diversa e senz'altro molto più complessa. In effetti il s meion non costituisce una categoria semplice, bensì una classe composita che prevede al suo interno tipi con carat­ teristiche molto differenziate tra loro. Ma, prima di porre l'accento sulle differenze interne, è forse possibile osservare che qualcosa unisce i vari tipi di segni rispetto alla nozione di eikos: invece che sulla probabilità, nel caso del segno  118 5. LINGUAGGIO ESEGNI IN ARISTOTELE l'attenzione è concentrata sul carattere di "consequenziali­ tà". Il ragionamento inferenziale, basato sui segni, procede tipicamente ek ton hepomén{Jn, "per conseguenze", tende cioè a inferire la causa dall'effetto. Per questa ragione sono possibili sia applicazioni corrette sia applicazioni inganne­ voli. ÈinparticolarenelleConfutazionisofistiche(167b, 1-5) che Aristotele sviluppa chiaramente la teoria del ragiona­ mento per conseguenze: quest'ultimo porta a conclusioni ingannevoli come, a esempio, nel caso in cui qualcuno, avendo osservato una volta che la terra è bagnata dopo la pioggia, volesse concludere in generale che, se la terra è ba­ gnata, allora è piovuto. Un secondo esempio di ragiona­ mento per conseguenze dato da Aristotele concerne le pro­ prietà, anziché gli eventi, come avveniva in quello prece­ dente: se qualcuno, avesse sperimentato che il miele ha la proprietà di essere giallo e volesse conciudere che qualcosa è miele partendo dalla proprietà che ha il colore giallo, cor­ rerebbe il rischio di scambiare per miele il fiele (ibidem, 167 b, 6-8). In tale contesto Aristotele giunge a identificare de­ cisamente questo tipo di inferenza con quello specifico del segno: "Nei discorsi retorici, del pari, le dimostrazioni trat­ te da segni si fondano sulle conseguenze" (ibidem, 167 b, 8- 9). È possibile a questo punto tornare agli Analitici e com­ prendere meglio perché Aristotele proceda innanzitutto alla distinzione fondamentale tra due tipi di segni: il tekmrion, segno "necessario" o "inconfutabile",10 e il generico s­ meion, che ha le caratteristiche opposte. In realtà quest'ultima distinzione (che, come vedremo, comporta non solo due, ma tre tipi di entità, poiché vi sono due specie di segni non necessari) corrisponde a un tentati­ vo di Aristotele di articolare una tipologia dei segni alle modalità di sviluppo possibile del sillogismo. Sono infatti tre i modi in cui il sillogismo può utilizzare la premessa che esprime un segno, corrispondenti alle posizioni possibili del medio nelle varie figure. In questo modo si possono avere inferenze che partono da un segno sulla prima, sulla secon­ da o sulla terza figura.  5.3 n. MECCANISMO LOGICO 1 19 5.3 D meccanismo logico 5 . 3 . l Il tekmérion come segno nella prima figura del sillogismo Prima però di entrare nei dettagli tecnici di questa distin­ zione, vale la pena di rilevare preliminarmente che ben di­ verso è il valore epistemologico che Aristotele attribuisce al segno che si sviluppa in un sillogismo di prima figura, cioè il tekmrion, rispetto a quelli che si sviluppano in seconda e in terza figura, cioè i generici smefa. In realtà, nei due ultimi casi si verifica la tipica illusione segnalatanelleConfutazionisofistiche(167b, 1-5),cioèav­ viene di credere che ci sia possibilità di conversione tra ra­ gione e conseguenza, senza che questo sia di fatto giustifi­ cato: dunque, in questi casi, l'inferenza dalle conseguenze alle cause è estremamente ipotetica e insicura. Nel primo caso, invece, cioè con il tekmrion, si ha un ti­ po di inferenza che parte anch'essa dalle conseguenze, co­ me dimostra l'esempio "se una donna ha latte, allora essa è gravida", in quanto l'"avere latte" costituisce sia una con­ seguenza dell'essere gravida, sia un segno di tale fatto; tut­ tavia, al contrario che nei casi precedenti, sembra esserci possibilità di conversione tra causa ed effetto; o, come sug­ gerivano le osservazioni di Preti (1956: 6) riportate prima, sembra essere previsto da Aristotele, in questo caso, un ti­ po di implicazione più stretta che non l'implicazione mate­ riale. Possiamo vedere ora come Aristotele sviluppa l'aspetto tecnico dei tre tipi di segno, partendo da quello in prima fi­ gura: Ad esempio, il provare che una donna è gravida, in quanto essa ha latte, si fonda sulla prima figura: il medio è infatti l'aver lat­ te. Poniamo che A indichi "esser gravida", che B indichi "aver latte", che C indichi "donna". (An. Pr., Il, 70 a, 12-16)11  120 5. LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE Traducendo il ragionamento di Aristotele nel comune schema illustrativo del sillogismo, si otterrà: 8 "chi ha latte" c "donna" c "donna" In questo esempio il segno "avere nello schema sillogistico come noi ma è anche il termine intermedio dal punto di vista esten­ sionale, tanto che potrebbe essere costruita la seguente fi­ gura per illustrare i rapporti tra i termini del sillogismo: A essere gravida l . A "essere gravida" 2. 8 "avere latte" si predica di si predica di 3. A sipredicadi "essere gravida" latte" non solo è medio lo abbiamo riportato,   5.3 n MECCANISMO LOGICO 121 5.3.2 La seconda e la terza figura del sillogismo e i "semeia" Nella seconda e nella terza figura il termine medio è il le­ game che consente Pinferenza, ma non occupa, né nella formula né estensionalmente, la posizione centrale. Questo fa sì che l'etichetta di "maggiore" e "minore" sia "arbitra­ ria nella seconda o nella terza figura, a qualunque dei due termini si voglia dare il nome di maggiore o minore" (Allan 1970: tr. it. 1973, 123). Del resto è indubbio che il punto di vista adottato da Aristotele nella trattazione che egli fa delle premesse sia quello estensionale. Legata a questo punto di vista è di cer­ to la svalutazione della seconda e della terza figura. Passiamo ora ad analizzare il tipo di segno che si svilup­ pa in un sillogismo basato sulla seconda figura: "Se una donna è pallida, allora essa è gravida". Questa è l'analisi di Aristotele: Infine, la presunta prova che una donna risulta gravida, in quanto è pallida, si sviluppa attraverso la seconda figura. In realtà, dato che il pallore è una determinazione conseguente delle donne gravide, e che tale determinazione appartiene altre­ si a una certa donna, si crede allora provato che questa donna sia gravida. Indichiamo con A "la nozione di pallore", con B "l'essere gravida" e con C "donna". (An. Pr., Il, 70 a, 20-24) Lo schema che può essere costruito in corrispondenza di questo sillogismo è il seguente: l . 2. 3. A "essere pallida" A "essere pallida" 8 si predica di si predica di si predica di 8 "chi è gravida" C "questa donna" C "essere gravida" "questa donna"  122 5. LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE In questo caso il segno "essere pallida", che è anche il medio, ha la posizione di un estremo e si predica contem­ poraneamente dei due termini "essere gravida" e di "donna". 12 Aristotele condanna questa inferenza come non valida. Come si può osservare, ci ritroviamo qui di fronte al ca­ so più emblematico di inferenza tratta dalle conseguenze. Una conferma di questa condanna la si trova anche nel pas­ so corrispondente della Retorica (1, 1357 b, 17-21): "Se uno respira rapidamente è segno che ha la febbre". Anche que­ sto esempio di segno dà origine a un sillogismo sulla secon­ da figura, in cui il medio, "respirare rapidamente", ha la posizione dell'estremo maggiore e si predica di entrambi i termini "avere la febbre" e "uomo". Nella definizione di questo tipo di segno data nella Reto­ rica vengono aggiunte due particolarità interessanti rispetto a quella presentata negli Analitici: (i) la prima è che il se­ gno è confutabile anche se esso risultasse vero (kàn althès i1): viene dunque prevista la possibilità di costruire un'infe­ renza che risulti conforme alla verità, anche se questo è so­ lo un caso, si direbbe, accidentale; ciò deriva dal fatto che il sillogismo èformalmente scorretto, ma ci sono casi in cui esso porta, nonostante tutto, a conclusioni materialmente vere (Plebe 1966); (ii) la seconda particolarità consiste nel­ l'accennare al fatto che questo tipo di segno instaura una relazione "dall'universale al particolare": ciò è probabil- mente da mettersi in relazione al fatto che è proprio il ter­ mine estensionalmente maggiore a svolgere la funzione di medio, e che si predica prima di una classe, poi di un indi­ viduo . Vediamo ora un segno dal quale si sviluppa un sillogismo basato sulla terza figura. Ecco la definizione che ne viene data negli Analitici: D'altro canto la presunta prova che i sapienti sono eccellenti - poiché Pittaco è eccellente - si costruisce attraverso l'ultima fi­ gura. Poniamo che A indichi "la nozione di eccellente", che B indichi "i sapienti", che C indichi "Pittaco". Risponde in tal ca­ so a verità il predicare di C tanto A quanto B; senonché la pre-  5.3 IL MECCANISMO LOGICO 123 messa BC non viene enunciata, perché risaputa, mentre Paltra è assunta espressamente. (An. Pr., II, 70 a, 16-20) Il segno, più precisamente, è la protasi del condizionale "Se Pittaco è eccellente, i sapienti sono eccellenti " . Su di es­ so si sviluppa un sillogismo che può essere rappresentato dalla formula: l . 2. 3. A si predica di "essere eccellente" c "Pittaco" c "Pittaco" 8 "chi è sapiente" 8 "essere sapiente" si predica di A si predica di "essere eccellente" In questo caso il medio è "Pittaco", che ha la posizione del termine minore estensionalmente. Anche il sillogismo costruito su questo tipo di segno vie­ ne condannato in quanto confutabile (/jsimos). Del resto Aristotele aggiunge che esso rimane confutabile (come quello in seconda figura) anche nell'evenienza in cui esso conduca a una conclusione accidentalmente vera. Inoltre, nel passo parallelo della Retorica (I, 1357 b, 10-11), viene precisato che esso instaura un rapporto che va "dal partico­ lare all'universale"; anche in questo caso è la posizione del medio, che qui è il termine estensionalmente minore, a sug­ gerire questa determinazione ad Aristotele; in effetti si par­ te dalla proprietà di un individuo particolare per conclude­ re che tale proprietà appartiene a un'intera classe di cui l'individuo fa parte. 5.3.3 La classificazione Una volta stabilita una distinzione fra i tre tipi di segno sulla base della posizione che prende il medio in ciascuna  124 5. LINGUAOOIO E SEGNI IN ARISTOTELE delle figure, Aristotele procede a una ricapitolazione gene­ rale, dove consolida le distinzioni terminologiche e ribadi­ sce la diversità della potenza conoscitiva in relazione a cia­ scun tipo: il nome tekmirion ("indizio sicuro", "prova") viene riservato a quei segni che prendono realmente la posi­ zione del termine intermedio (cioè in cui il termine è medio anche dal punto di vista estensionale, sul quale si sviluppa un sillogismo in prima figura); invece il nome generico s­ meion viene lasciato a quei segni che all'intero sillogismo hanno la posizione di un estremo (sui quali cioè si svilup­ pano delle inferenze in seconda e terza figura) (An. Pr., Il, 70b, 1-6). Rispetto a quanto abbiamo già detto, è necessario ag­ giungere una precisazione sulla nozione di éndoxon, che ca­ ratterizza nel massimo grado il sillogismo basato sul· tekmi­ rion. In effetti nei Topici Aristotele precisa che i sillogismi dia­ lettici che danno il massimo di garanzia sono i sillogismi che derivano da premesse che sono degli éndoxa. Vengono poi definite éndoxa quelle proposizioni che sono "condivise da tutti o dai più o dai sapienti, e tra questi da tutti, dai più o dai più noti e famosi" (Top., l, 100 b, 21-23). Sono queste, del resto, le condizioni che permettono di confermare dialetticamente una tesi (Viano 1958 a). Il passo parallelo della Retorica propone un'analoga classificazione che distingue tra il segno necessario (anan­ kaion), corrispondente al tekmjrion, e il segno non neces­ sario m anankaion), corrispondente al generico s­ meion, 3 e ulteriormente suddivisi in "segno che si trova in rapporto dali'universale al particolare" (da mettersi in rela­ zione ai segni in seconda figura del sillogismo) e "segno che si trova nel rapporto del particolare ali'universale" (da met­ tersi in relazione ai segni in terza figura). La classificazione aristotelica può allora essere disposta sullo schema della pagina seguente:  premesse da cui derivano gli entimemi /  eik6s smelon (segno) ("probabile", "verisimile") - è tmdoxon ("fondato sulla opinione") es.: "è amato -ama" ·è invidioso -detesta•  m'S snsnkslon ("'non necessario") - è éndoxon ("fondato sulla opinione") snsnkslon (..necessario") tekm"érion ("prova") - è IJ/yton (..inconfutabile·) - è il medio di un sillo- gismo in 1 • figura es.: ..essa ha latte-è gravide" "ha la febbre -è malata"  t6 ksth ' kéksston pr6s t6 ksth61on ("dal particolare all'universale") rl) ksth6/on pr6s rl) kstll méros ( ·dall'universale al particolare") - è lyron (..confutabile") - è medio in un sillogismo - è lyton (..confutabile") - è medio in un sillogismo in 3• figura es.: "Pittacco è giusto-i sapienti sono giusti" in 2• figura es.: ..respira rapidamente-ha la febbre" "è pallida -è gravido" LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE 5.4 Un sistema particolare di segni non linguisti­ ci: la fisiognomica La particolare concezione che Aristotele ha del segno, come cosa o fatto che serve a condurre l'attenzione del sog­ getto conoscente su un'altra cosa o fatto, permette di por­ tare in primo piano un tipo di conoscenza che si ottiene in modo indipendente dal linguaggio verbale. Ciò conduce a un'evidente valorizzazione dei sistemi di segni non lingui­ stici . Aristotele, infatti, nei Primi analitici, dopo aver esposto la teoria del segno, propone un'interessante, quanto curio­ sa applicazione a un tipo di segni molto speciali: quelli del­ la fisiognomica. Neli'esempio dato si tratta di risalire da un segno visivo a un tratto del carattere: le grandi estremità del leone vengo­ no assunte come segno del suo coraggio. Tutto l'interesse di Aristotele è concentrato su due punti: da una parte egli tende ad acquisire una conoscenza circa l'ordine psichico partendo da un fatto rilevabile attraverso i sensi; dall'altra tende a stabilire il legame più stretto pos­ sibile tra due fatti che l'esperienza gli mostra associati (in questo caso: grandi estremità e coraggio), come presuppo­ sto dell'affidabilità stessa della conoscenza. Per dare validi­ tà al suo esempio di fisiognomica Aristotele propone di fa­ re tre assunzioni: 1 4 (i) che "le affezioni naturali trasformino simultaneamente il corpo e l'anima"; (ii) che vi sia un solo segno di un unico fatto, cioè dell'affezione dell'anima che deve essere scoperta; (iii) che ogni genere abbia un'affezio­ ne propria e un proprio segno (fdion [... ] semefon). Come si può osservare, Aristotele, con queste assunzio­ ni, tenta di razionalizzare e di dare dignità filosofica a una materia che era eminentemente mantica. Qui non c'è più la divinità che garantisce la corrispondenza fra un tratto per­ cepibile dell'aspetto fisico e qualcosa che si inscrive nell'or­ dine dell'invisibile (sia esso il carattere di un uomo o più generalmente il destino legato a quel carattere). Per Aristo­ tele vi può essere corrispondenza fra un tratto fisico e un  LA FISIOGNOMICA 127 aspetto interiore perché qualsiasi affezione trasforma con­ temporaneamente corpo e anima, proprio come avviene nel caso di chi ha imparato la musica, che si è trasformato non solo nell'abilità fisica di suonare, ma anche nella sua sensi­ bilità interna. Ma come avveniva per la mantica, in questa materia si può correre il rischio deli'ambiguità. È proprio per elimina­ re quest'ultima evenienza che Aristotele propone le sue ul­ teriori assunzioni. Infatti l'ambiguità si può verificare in due casi distinti: (i) quando si hanno molti segni che riman­ dano a un'unica affezione (fenomeno che potremmo avvi­ cinare alla sinonimia): l'unico rimedio epistemologico è, in questo caso, assumere che i segni siano univoci, cioè che un unico fatto sia significato da un solo segno; (ii) quando un genere abbia più affezioni, in maniera tale che si rimane in­ decisi su quale sia quella a cui rimanda il segno (fenomeno che potremmo avvicinare all'omonimia): la soluzione pro­ posta da Aristotele è quella di stabilire per ogni genere qua­ le sia l'affezione che gli è propria e quale il segno proprio, in maniera da riferire quest'ultimo univocamente alla prima. Stabilendo preliminarmente le tre precedenti assunzioni è possibile per Aristotele fare della fisiognomica una scienza. E, rispettando appunto queste assunzioni, è possibile stabi­ lire che per il leone le grandi estremità sono il segno del co­ raggio (An. Pr., II, 70 b, 16-17). Fin qui abbiamo seguito Aristotele nel suo ragionamento che si svolge su un piano, per così dire, deduttivistico. È possibile ricostruire, però, anche un altro versante dell'ar­ gomentazione che si colloca geneticamente in un momento in cui la regola deduttiva non è ancora stata posta. In effet­ ti è possibile pensare a un momento in cui si osserva che una certa affezione, il coraggio, è associata al genere dei leoni; contemporaneamente si osserva che ai leoni è asso­ ciata la caratteristica di are grandi estremità. A questo punto viene formulata l'ipotesi che il segno del coraggio sia rappresentato dal possesso di grandi estremità. Il processo logico che verrebbe qui a configurarsi segui­ rebbe lo schema:  128 5. LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE l. "essere coraggiosi" 2. "avere grandi estremità" 3. "essere coraggiosi" (probabilmente) si predica di si predica di si predica di "leoni, "leoni" "chi ha grandi estremità" Un sillogismo in 3a figura, come è questo, secondo Peir­ ce costituirebbe una induzione, ma di un tipo talmente "ti­ mido da perdere totalmente la caratteristica ampliativa pro­ pria dell'induzione genuina" (1984: 210). Esso avrebbe un forte carattere ipotetico. Tuttavia Aristotele non segue in effetti questo ragiona­ mento perché non riesce ad accettare come valido dal pun­ to di vista logico un procedimento che risulta privo di ga­ ranzie. Così è costretto a inquadrare questo, si noti bene, quanto mai aleatorio segno del coraggio in uno schema an­ cora una volta deduttivo. In altre parole, l'osservazi,"ne deli'associazione tra coraggio e grandi estremità deve tra­ mutarsi in un legame stretto e costante. Lo sforzo di Ari­ stotele è tutto rivolto a dimostrare che ogni volta che ci sia coraggio, questo venga manifestato dalla presenza di gran­ di estremità, e viceversa. In termini tecnìci, la situazione ideale, cioè il massimo della certezza, si ottiene quando si verifica conversione (antistréphein) tra ciò che funge da se­ gno e ciò a cui esso rimanda, ovverosia quando l'estensione del primo termine è esattamente uguale a quella del secon­ do. Da qui la necessità (puramente logica, e non semiotica) che un unico segno si riferisca a un'unica affezione: solo in questo modo è possibile la conversione tra i due termini. A questo punto il problema di fare un'ipotesi su quale sia il segno del coraggio si trasforma in quello di trovare un elemento di mediazione tra il "coraggio" e il "genere dei leoni", che ne appaiono costantemente provvisti. Tale elemento di mediazioneJ che sembra appunto giusti­ ficare l'associazione, è "avere grandi estremità", che divie­ ne così il segno, sul quale viene costruito il seguente schema sillogistico deduttivo (An. Pr., II, 70 a, 32-38):  SVALUTAZIONE DEL SAPERE SEONICO 129 A si predica di B "essere coraggioso" "chi ha grandi estremità" B si predica di c 2. 3. A si predica di c "avere grandi estremità'' "leone" "essere coraggioso" "leone" Ma ciò che Aristotele trascura di mettere in luce è che, come abbiamo visto, i dati di partenza della deduzione stes­ sa poggiano su una precedente inferenza a carattere più ipotetico. L'esempio proposto è interessante perché, prima della presentazione dello schema formale, tutto il ragiona­ mento è rivolto a stabilire i criteri che permettano di dire che qualcosa è segno di qualcos'altro. Ma ciò è possibile solo formulando un'ipotesi, che solo in seguito può essere verificata deduttivamente. 5.5 La svalutazione del sapere segnico In effetti la diffidenza di Aristotele nei confronti della conoscenza che si può ricavare dai segni è molto marcata. Infatti, nella concezione aristotelica, anche quando tra i due termini del segno vi sia un legame necessario, la cono­ scenza del termine non noto sembra imporcisi dall'esterno, senza che si riesca a comprenderne la causa. Aristotele nei Secondi analitici (1, 75 a, 28-36) oppone il ragionamento basato sull'essenza a quello basato sulsegno; quest'ultimo infatti viene definito come ragionamento che si fonda sulle determinazioni accidentali. Ne consegue, peraltro, che soltanto con il primo tipo è possibile arrivare a conoscere la causa. Ciò non significa che la conoscenza attraverso il segno sia totalmente esterio­ re. In certi casi, che sono quelli dei segni necessari, il segno permette di risalire alla causa: così la constatazione del fat­ to che una donna ha latte permette di risalire alla causa, cioè al suo essere gravida, come pure l'accertamento della  130 5. LINGUAGGIO E SEGNI IN ARlSTOTELE presenza della febbre permette di risalire allo stato di ma­ lattia che la determina. Tuttavia questo tipo di ragionamento non arriva a forni­ re una vera e propria scienza dei fatti, in quanto quest'ulti­ ma si ottiene solo a partire dalla causa. Il ragionamento at­ traverso il segno parte invece dall'effetto e permette soltan­ to l'affermazione del fatto, cioè dello h6ti ("che"), senza condurre alla comprensione delle cause, cioè del di6ti ("perché"). Nel capitolo 13 dei Secondi analitici Aristotele insiste sul fatto che la dimostrazione veramente scientifica non consi­ ste nella scoperta o nella conclusione della causa, ma essa è scientifica proprio in quanto parte dalla causa; in quel con­ testo viene infatti fondata la distinzione tra "il sapere che qualcosa è" e "il sapere perché qualcosa è". In effetti alle scienze dello h6ti viene riconosciuto un cer­ to diritto di esistenza; tuttavia esse vengono considerate in­ feriori in quanto portano sui fatti, senza raggiungere la co­ noscenza del necessario e a malapena quella dell'universale. Ma quali sono queste scienze dello hoti? Dagli esempi che Aristotele fornisce si direbbe che si tratta eminentemente di scienze indiziarie, basate sui segni e fornite di un carattere fortemente ipotetico in contrapposizione ad altre che invece hanno carattere deduttivo. Tra questi esempi Aristotele cita il caso dell'astronomia (astrologhfa), nome condiviso sia da una certa scienza nau­ tica (nautik) sia da una scienza basata su fondamenti ma­ tematici (mathmatik). Solo la seconda è scienza delle cau­ se. Ugualmente Aristotele contrappone la medicina alla geometria: infatti, nel caso delle ferite circolari, spetta al medico di sapere che esse guariscono più lentamente, men­ tre spetta all'esperto di geometria conoscere il perché di questo fatto. Dunque abbiamo medicina e scienza della navigazione contro matematica e geometria: il senso della scelta aristo­ telica contro il segno non potrebbe essere più chiaro. È interessante osservare come per Aristotele sia possibile anche sviluppare un ragionamento dello hoti oppure uno del dioti all'interno di una stessa scienza. La differenza che  5.5 SVALUTAZIONE DEL SAPERE SEGNICO 131 contraddistingue i due tipi è duplice. Infatti si fa un ragio­ namento dello h6ti, in primo luogo, quando il sillogismo non si basa su premesse immediate (che, nell'epistemologia aristotelica, significa assumere la causa prima e prossima); in secondo luogo, quando, pur basandosi su premesse im­ mediate, la deduzione non discende dal termine che indica la causa di un fatto, ma dal più noto di due termini, en­ trambi riferiti al fatto. In altre parole, la differenza specifi­ ca del sillogismo del dioti è ancora che esso va dalla causa ali'effetto e non dali'effetto alla causa. L'esempio che Aristotele fornisce è molto interessante. Posto, infatti, che c'è una certa relazione tra il non sfavilla­ re dei pianeti e la loro vicinanza alla terra, Aristotele mo­ stra come attraverso questi due termini sia possibile svilup­ pare due tipi di ragionamento di diverso valore epistemolo­ gico . Da una parte è infatti possibile dedurre la vicinanza dei pianeti dal fatto che non sfavillano (''Se non sfavillano, so­ no vicini"). Si ha in questo caso un ragionamento dello hoti e si può osservare che in questo contesto il "non sfavillare" è tipicamente un segno del fatto che risulta come conclusio­ ne, cioè la loro "vicinanza" alla terra. Il sillogismo costruito sul segno non parte dalla causa del non sfavillamento dei pianeti (che è costituita dalla loro vi­ cinanza), ma parte dell'effetto, che viene assunto come ter­ mine medio, per arrivare alla causa. È possibile anche che la causa non venga mai realmente conosciuta. Aristotele contrappone a questo tipo di ragionamento quello che deduce il non sfavillamento dei pianeti dalla loro vicinanza. Si ha in questo caso un ragionamento del dioti, che mostra il perché qualcosa sia, dal momento che coglie la causa precisamente in quanto causatrice dell'effetto; for­ malmente ciò avviene in quanto viene assunto come medio proprio il termine che indica la causa. Dunque tra il sillogismo del dioti e quello dello hoti c'è un rapporto di simmetria inversa. È sufficiente infatti in­ vertire i termini del secondo per ottenere il primo. Tuttavia ciò non è sempre possibile, come precisa il com­ mentatore del testo aristotelico Filopono:  132 5. LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE Spesso è necessario che, quando viene posta la causa, anche l'effetto sia posto, mentre non è affatto necessario che, quando si dà l'effetto, anche la causa si dia: così il fatto di avere il co­ lorito pallido non si accompagna necessariamente al parto, ma se una donna ha partorito, essa ha sempre il colorito pallido: infatti possono esserci varie cause del medesimo fatto. (Philop., in Anal. Post., Wallies, 169-9) L'aleatorietà del procedimento inferenziale tipico del se­ gno (dal pallore al parto) viene qui messa in risalto preve­ dendo il caso che un effetto possa avere molteplici cause, situazione nella quale, secondo Filopono, non potrà essere costruito un vero sillogismo dello h6ti, ma soltanto un sil­ logismo del di6ti. Del resto, Aristotele stesso aveva previsto il caso che un effetto potesse avere cause differenti,15 che rendono difficile e aleatorio il percorso di risalita dali'effet­ to alla causa. D'altra parte, però, secondo il con1mentatore Filopono, si può verificare anche il caso opposto, quello cioè in cui sia possibile soltanto un ragionamento dello h6ti. Infatti è possibile risalire dal fatto che una donna ha partorito (co­ me effetto e segno) al fatto che essa si è unita a un uomo (come causa): ma la reciproca non è necessaria, poiché il parto non segue necessariamente all'accoppiamento (Phi­ lop., in Ana/. Post., Wallies, 169-21). C'è infine un'ultima caratteristica che contraddistingue il ragionamento dello h6ti da quello del di6ti, consistente nel fatto che il primo è tipico del emplice osservatore dei feno­ meni, non specialista, mentre il secoildo spetta all'uomo di scienza (An. Post., I l, 79 a, 2-3). In Aristotele, in definitiva, le scienze indiziarie e il segno in generale sono oggetto di una svalutazione epistemologi­ ca, in quanto nella sua concezione teorica della scienza non viene fatto alcuno spazio alla ricerca e all'ipotesi, quale è presupposta invece da una concezione semiotica del sapere. Come sottolinea Le Blond (1939, tr. it. 1973: l 05), per Ari­ stotele la scienza "n'est elle pas principalement recherche, mais possession; les Analytiques n'apportent guère d'indi­ cations sur la recherche: il décrivent la science achevée, qui  5.6 DEDUZIONE E ABDUZIONE 133 descend des causes aux effets et coincide absolument avec le dynamisme des choses - conception singulièrement con­ fiante, on le voit, qui pose en principe la connaissance par­ faite de la réalité". 5.6 Deduzione e abduzione Non si deve tuttavia pensare che questa posizione teorica corrisponda esattamente alla pratica di ricerca adottata di fatto da Aristotele, a esempio nelle opere scientifiche. Né, d'altra parte, si deve accettare enza riserve l'asserzione ari­ stotelica circa il carattere assolutamente deduttivo delle scienze del di6ti. Come ha mostrato Eco (1983: 242), per Aristotele trovare il perché di un certo fenomeno significa trovare un buon termine medio che spieghi quel fenomeno: ma questo termine medio può essere, in certi casi, anche molto ardito e sofisticato, e non corrispondere a nessuna conoscenza già accertata. Esso può essere, cioè, una "ipote­ si" nel senso peirceano. È illuminante, a questo riguardo, il ragionamento svilup­ pato da Aristotele nel trattato Parti degli animali, in cui, a proposito degli animali provvisti di corna, vengono regi­ strati alcuni "fatti sorprendenti" bisognosi di spiegazione. A esempio: (i) che tutti gli animali con le corna hanno una sola fila di denti, cioè mancano degli incisivi superiori (663 b - 664 a); (ii) che tutti gli animali con le corna hanno quat­ tro stomaci (674 a-b); (iii) che tutti gli animali con quattro stomaci mancano degli incisivi superiori (674 a) ecc. Il problema che ha di fronte Aristotele, in questo caso, è quello di spiegare la ragione per cui, innanzitutto, agli ani­ mali con le corna mancano gli incisivi superiori. Come sot­ tolinea Eco, Aristotele "deve porre una Regola tale che, se il Risultato che vuole spiegare fosse un Caso di questa Re­ gola, tale Risultato non sarebbe più sorprendente'' (1983: 239). E del resto, secondo Peirce, quando una circostanza "strana" si spiega supponendo che essa sia il caso di una certa regola 0enerale, siamo di fronte a un'ipotesi o abdu­ zione .  134 5. LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE Proprio in questi termini procede Aristotele, supponen­ do che, nel caso considerato, probabilmente, la materia du­ ra è stata deviata dagli incisivi superiori alla testa con lo scopo di formare le corna. A sua volta, la mancanza di in­ cisivi superiori è causa dello sviluppo di un quarto stomaco ed è il medio dal quale si sviluppa un ulteriore sillogismo. Espresso nei termini del sillogismo (nella formalizzazione peirceana adottata da Eco) il primo ragionamento si rico­ struisce così: Regola = Tutti gli animali devianti (cioè che hanno deviato la materia dura dalla bocca alla testa) mancano degli in­ cisivi superiori. Caso=Tutti gli animali con le corna hanno deviato. Risultato = Tutti gli animali con le corna mancano degli in­ cisivi superiori. La "deviazione deUa materia dura" costituisce contem­ poraneamente il medio del sillogismo e la spiegazione del fenomeno. Quello che Eco mette giustamente in risalto è che lo sforzo di spiegare a titolo ipotetico perché un feno­ meno è così come è, costruendo una forma rigorosamente deduttiva, non differisce in niente da ciò che Peirce chiama abduzione: in ciascuno dei due casi c'è un lavoro su ipotesi che permettono di spiegare fenomeni che appaiono "sor­ prendenti " . L'idea di Eco, in sostanza, è che al di sotto e prima del li­ vello deduttivo preso in considerazione da Aristotele esista un livello abduttivo che Aristotele rifiuta di riconoscere, ma al quale ricorre nel caso che debba costruire delle defi­ nizioni scientifiche: definire il perché di un fatto sorpren­ dente "significa stabilire una gerarchia di collegamenti cau­ sali per via di una sorta di ipotesi che può essere convalida­ ta solo quando dà luogo a un sillogismo deduttivo che agi­ sce come previsione di successive modifiche" (ibidem, 241). Ed è in definitiva proprio il mancato riconoscimento di questo movimento inferenziale preliminare che vieta ad Aristotele di riconoscere il carattere ipotetico della scienza e, nel contempo, la produttività dello stesso sapere segnico.  6. LA TEORIA DEL LINGUAGGIO E LA SEMIOTICA DEGLI STOICI 6.0 Introduzione La scuola stoica è quella che nell'antichità ha sviluppato con maggior rigore e profondità una riflessione semiotica. Tuttavia l'indagine degli stoici si polarizza, com'era già av­ venuto per Aristotele, su due ambiti fondamentalmente di­ stinti tra di loro: da una parte, una teoria del linguaggio in senso stretto, che comporta anche un'analisi dei rapporti tra linguaggio, pensiero e realtà (in corrispondenza della terna "significante", "significato", "oggetto esterno"); dal­ l'altra, una teoria del "segno" proposizionale, connessa con la teoria dell'inferenza. Questi aspetti della filosofia stoica trovano però un pun­ to di convergenza, come vedremo, nel loro comune legame con il lekt6n, un'entità che ha uno statuto eccezionale nella metafisica stoica. In effetti, a fondamento di quest'ultima, si pone la speciale dialettica tra le entità che condividono la proprietà di essere "corpi" (sOmata) e quelle entità che sono invece corporee (asOmata). Più in dettaglio si può dire che di solito l'ontologia stoica prende in considerazione solo quegli individui che hanno la caratteristica di essere oggetti tridimensionali e di possedere altresì una resistenza nel tem­ po. Questi, appunto, sono i corpi e solo essi vengono consi­ derati esistenti. Ora, tanto nella teoria del linguaggio, quan­ to in quella del segno proposizionale, accanto alle entità corporee vengono prese in considerazione anche delle entità incorporee, quali i lekta. LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI Per il momento è invece necessario sgombrare il campo da due equivoci. Il primo concerne il destino che tocca alle entità incorporee: esse non vengono relegate semplicemente nell'ambito del non-esistente, ma vengono investite di una "esistenza derivativa'' (Long 197I a: 89-90). Il secondo pos­ sibile equivoco concerne la nozione stessa di corpo. Contra­ riamente a quello che ci attenderemmo in relazione a una nozione moderna di corpo, per gli stoici erano "corpi" an­ che le qualità, in quanto venivano considerate come materia in un certo stato. Le proprietà di un certo individuo costi­ tuiscono stati o modi del suo essere e, per la loro esistenza, dipendono dall'esistenza di questo individuo. Se l'individuo esiste, le sue proprietà sono appunto disposizioni esistenti di materia (Rist I969: 52-55). Si profila, a questo punto, una ontologia che pone al suo centro la nozione di "particolare": quest'ultimo viene carat­ terizzato come un oggetto materiale, che ha una forma defi­ nita come condizione necessaria e sufficiente della sua esi­ stenza. La forma, del resto, è l'elemento caratteristico di un oggetto, che lo rende identificabile come tale (Long I97I a: 76). È proprio su questi presupposti antologici che si innesta e si sviluppa la teoria semiolinguistica degli stoici: il bisogno di una teoria del significato e della verità nasce appunto a proposito deIl'identificazione dei "particolari", ed è con­ nesso a una teoria della percezione. Così, si terrà presente innanzitutto che per gli stoici le im­ magini (phantasfa1) prodotte nella mente dagli oggetti ester­ ni danno luogo a una percezione vera se esse riproducono esattamente la configurazione di tali oggetti.1 Del resto, le immagini giocano un ruolo importante nella teoria del si­ gnificato degli stoici, come si sa che avevano una parte im­ portante anche nella teoria del significato di Aristotele. In secondo luogo si può considerare come fondamentale il fatto che uno dei modi di identificare un "particolare" è quello di identificarlo linguisticamente. In questo caso è fondamentale l'abilità di A nel comunicare a B che sta par­ lando intorno a X, come pure l'abilità di B di indicare ad A che egli ha compreso il suo riferimento.  6.1 LA TEORIA DEL LINGUAGGIO 137 6.1 La teoria del linguaggio 6 . 1 . 1 Il triangolo semiotico Il passo di Sesto Empirico che contiene i lineamenti fon­ damentali della teoria linguistica stoica si trova proprio in un contesto che concerne un conflitto di opinioni intorno alla verità. È importante sottolineare che per gli stoici una teoria del­ la verità, cioè la ricerca delle basi per una verifica delle pro­ posizioni, non può essere elaborata in maniera indipenden­ te da una concezione della struttura del mondo e da ciò che può essere detto intorno a esso. Ecco il passo di Sesto. Alcuni hanno riposto il vero e il falso nella cosa "significata" (tò smainomenon), altri nella voce (phon), altri infine nel mo­ vimento del pensiero. Della prima opinione sono stati i porta­ bandiera gli stoici col sostenere che sono tra loro congiunte tre cose, ossia la cosa significata (tò smainomenon), quella signi­ ficante (tò smafnon), e quella-che-si-trova-ad-esistere (tò tyn­ chanon), e che, tra queste, la cosa significante è la voce (ad esempio la parola "Dione"); quella significata è lo stesso stato di cose (autò tò pragma) indicato dalla voce pronunciata (tò hyp'autis dloumenon), che noi percepiamo come coesistente (paryphistamenon) con il nostro pensiero (dianoia1), mentre i barbari, pur ascoltando la voce che lo indica, non lo compren­ dono; infine, ciò-che-si-trova-ad-esistere è quello che sta fuori di noi (ad esempio, Dione in persona). Di queste cose due sono corpi, cioè la voce e ciò-che-si-trova-ad-esistere, ed una è incor­ porea, cioè l'oggetto significato o "detto" (lekton), e proprio quest'ultimo è vero o falso. 2 (Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 11-12) A partire dalle notizie di Sesto, anche per gli stoici il fe­ nomeno della significazione linguistica può essere ricostrui­ to nei termini di un triangolo (cfr. p. 138). Si può osservare che compaiono i termini "significante" e "significato" (come è dato trovare anche nella teoria mo­ derna di Saussure), ma non quello di "segno": come anche  138 6. LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI slmsin6menon (significato) lekt6n ( detto)  tmsm lnon (aignificente) tynchAnon  in Aristotele, la nozione di smeion appartiene a un altro ambito della teoria, che non è quello strettamente linguisti­ co. Si può notare anche che l'esempio che viene dato qui è abbastanza particolare, in quanto si tratta di un nome pro­ prio. In secondo luogo, se da una parte, come per Aristotele, i termini che individuano la significazione sono tre e com­ prendono anche l'oggetto, che propriamente è esterno al linguaggio, tuttavia la coincidenza tra i due modelli è solo parziale: soltanto il primo e il terzo termine, cioè la voce si­ gnificante e l'oggetto, possono essere assimilati nei due triangoli. 6. 1 .2 Il "lekt6n" come "asserzione" Un caso assolutamente a sé costituisce il termine che si trova al vertice superiore del triangolo, chiamato prima ù·lJ_ main6menon, poi anche lekt6n. Soprattutto nella sua se­ conda denominazione costituisce un termine peculiare della filosofia del linguaggio degli stoici e rimanda a un concetto complesso e di grande interesse. Un primo aspetto della sua peculiarità lo si può rilevare in un confronto con Aristotele. (oggetto esterno, referente)   LA TEORIA DEL LINGUAGGIO Nella stessa posizione del triangolo della significazione Ari­ stotele poneva delle entità psicologiche, che venivano consi­ derate le medesime per tutti gli uomini. Il lekt6n degli stoici, come ci dice Sesto nel passo riporta­ to, ha caratteri completamente diversi, in quanto i barbari, pur udendo i suoni e vedendo l'oggetto, non lo compren­ dono . Come rileva Todorov (1977: 17-18), la differenza tra le due nozioni consiste innanzitutto nel fatto che, mentre l'en­ tità presa in considerazione da Aristotele si situa a livello della mente dei locutori, quella considerata dagli stoici si si- tua direttamente al livello del linguaggio: Todorov interpreta il lekt6n come la capacità del primo elementodi designare il terzo. Tale interpretazione poggia anche sul fatto che l'e­ sempio dato è un nome proprio, che ha una capacità di de­ signazione come gli altri nomi, ma è molto controverso se abbia un senso; la risposta che di solito si dà a questo inter­ rogativo è negativa. I barbari odono sicuramente la sequenza di suoni l Dio­ ne l e vedono l l Dione l l, ma sono incapaci di connettere il suono con il suo oggetto di riferimento. Comprendere, dun­ que, come avviene appunto nel caso dei Greci, consiste pro­ prio nel percepire la connessione tra la parola che viene pro­ nunciata e l'oggetto cui si riferisce. Anche Long (1971 a: 77) identifica il lekt6n con tale connessione, ma nel senso che esso si configura come l'affermazione che un enunciato fa nei confronti di qualche oggetto; in questo caso, la tra­ duzione più propria di lekt6n è "ciò che è detto", in quanto tale espressione copre sia la nozione di "giudizio" che quella di "stato di cose significato da una parola o da una serie di parole".3 L'idea che i lekta si potessero configurare come "affer­ mazioni intorno agli oggetti" emerge da una testimonianza di Seneca (Epistulae mora/es, 1 17, 13), in cui viene delinea­ to uno schema triadico della significazione analogo a quello di Sesto, ma con una proposizione ( l Catone cammina l ), laddove Sesto proponeva solo un nome ( l Diane l ). Seneca invita a distinguere tra l'oggetto di riferimento, cioè Cato­ ne, che è un oggetto materiale, e l'asserzione intorno a esso  140 6. LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI ( l Cato ambulat l ), che è un "incorporale". Tale asserzione è propriamente il lekton, del quale termine Seneca propone tre diverse traduzioni latine: enuntiatum ("enunciazione"), effatum ("affermazione"), dictum ("asserzione"). Dato che l'esempio proposto da Seneca è una proposizio­ ne, risulta più agevole, rispetto ali'esempio di Sesto, capire come possa essergli applicato il predicato "vero" o "falso".4 Infatti solo i lekta che costituiscono una proposizione com­ pleta possono essere veri o falsi.5 6. 1 .3 I rapporti tra il "lekt6n" e il pensiero Nel modello aristotelico della significazione le espressioni linguistiche sono i simboli degli stati psichici (pathmata en tiipsychi1) elo dei pensieri (noimata). In questo modo non viene operata una chiara distinzione tra la nozione di "si­ gnificato" e quella di "pensiero". Tale concezione ricompa­ re del resto nella nota teoria novecentesca di Ogden e Ri­ chards (1936: tr. it. 37), i quali disegnano un triangolo se­ miotico in cui figura al vertice superiore la nozione di "thought" ("pensiero"). Diversa è la concezione proposta dagli stoici. In effetti, dalla testimonianza concorde di Sesto e di Diogene si ricava una nozione di significato nettamente distinto dal pensiero, anche se intrattenente con questo un certo tipo di rapporto. Dice infatti Sesto: [Gli stoici] affermano che il /ekton è ciò che sussiste in confor­ mità con una rappresentazione razionale (loghik phantasia) e che una rappresentazione razionale è quella secondo cui il rap· presentato (phantasthén) può essere espresso in parole. (Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 70) In termini del tutto analoghi si esprime Diogene (Vitae, VII, 63), usando anche le stesse espressioni. Cosi, da en­ trambi i passi si può ricavare l'idea che gli stoici operassero una distinzione netta tra i lekta, che rappresentano il livello del "significato", e le "rappresentazioni razionali" (loghikaì  6.1 LA TEORIA DEL LINGUAGGIO 141 phantasfa1), che possiamo definire come delle forme di atti­ vità intellettiva o dei pensieri; quest'ultime entità sono pe­ culiari della specie umana6 e possono, ali'occorrenza, essere espresse in parole (a questo infatti si riferisce l'aggettivo lo ghikaf). Ma, sempre dai due passi, si può ricavare anche che i due termini, il lekton e l'attività di pensiero, vengono messi in relazione. Long (1971 a: 82) cosi commenta il passo di Se­ sto: "I take this difficult passage to mean that the /ekton is defined as the objective content of acts of thinking (no sis)" e aggiunge anche "or, what comes to the same thing in Stoicism, the sense of significant discourse". Prima di ap­ profondire il senso di questa seconda asserzione di Long, soffermiamoci sulla prima. Dunque la relazione che il lekton instaura con l'attività di pensiero è tale per cui esso si configura come contenuto o risultato di tale attività. Ma questa nuova relazione, che ve­ niamo scoprendo attraverso le testimonianze di Diogene e Sesto, comporta un elemento nuovo rispetto a quanto lo stessoSestoavevadettoaltrove(Adv.Math.,VIII, 11-12), quando aveva messo in relazione il lekton con l'espressione significante (cioè con il smainon). In effetti, se il lekton viene ora definito come qualcosa che sussiste in conformità con una rappresentazione razionale, è evidente che l'accen­ to appare spostato dal precedente rapporto con il suono della voce, a un rapporto con l'attività del pensiero. Questa, prima di dimostrarsi un'apparente contraddizio­ ne o un falso dilemma, ha diviso sia le testimonianze degli esegeti antichi sia le interpretazioni degli studiosi moderni degli stoici. Come mette bene in evidenza Mignucci (1965: 92-93), i lekta, essendo incorporei, "non possono essere disgiunti da qualcosa di corporeo che faccia in qualche modo da sup­ porto ad essi e che permetta la loro esprimibilità". Il proble­ ma diviene allora quello di stabilire se a fare da supporto ai lekta siano: (i) i suoni della voce; o (ii) l'attività della mente che li pensa. La prima definizione di Sesto7 opta per la solu­ zione (i),9mentre la seconda,8 come pure la definizione di Diogene, optano per la soluzione (ii). Ugualmente, tra gli ­  1 42 6 . LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI interpreti moderni, Mates10 risponde che sono le parole a fare da supporto ai lekta; Zeller11 e Bréhier12 assumono l'altro punto di vista. Come dicevamo, questo è un falso dilemma, non resolu­ bile tuttavia filologicamente, in quanto nei testi antichi c'è un'uguale quantità di elementi di convalida per ciascuno dei due punti di vista. Piuttosto è necessario considerare un du­ plice presupposto che sembra agire nella teoria stoica: da un lato il verificarsi di discorsi significativi rimanda a un'at­ tività intellettuale, in assenza della quale non è possibile che si diano i significati; dall'altra il risultato dell'attività intel­ lettuale ha bisogno dei suoni della voce significativi per esplicitarsi oggettivamente. È possibile, anzi, trarre le con­ seguenze dal fatto che i lekta siano definiti da una parte co­ me contenuti delle rappresentazioni razionali e dali'altra come significati delle parole: conseguenze che indicano la necessità di postulare una stretta connessione tra i contenuti dell'attività rappresentativa della mente e il loro essere si­ gnificati attraverso le parole. I due termini, in realtà, non possono essere disgiunti l'uno dall'altro.13 A questo punto possiamo comprendere la seconda asserzione di Long che abbiamo anticipato: il senso del discorso significante e il contenuto oggettivo degli atti di pensiero devono essere considerati come la stessa cosa.. La precedente conclusione viene del resto appoggiata da tà14 è dato dalla "rappresentazione" (phantasia) passo Diogene spiega che la phantasia ha un ruolo assoluta­ mente primario, in quanto non è possibile, senza di essa, rendere conto di alcuni processi fondamentali della cono­ scenza, quali l'assenso (synkatathesis), la comprensione (kata/psis) e l'attività di pensiero (n6sis): "infatti la rap­ presentazione viene per prima, poi il pensiero (dianoia) che è capace di parlare (eklalètik), esprime in parole (/6g01) ciò che esperimenta come il risultato della rappresentazione". Il passo di Diogene è importante perché ripropone la no­ zione, già platonica,15 del pensiero come "discorso inter­ no".16 Tutto ciò porta a concludere che per gli stoici esiste Long sulla considerazione di un passo di Diogene Laerzio (Vitae, VII, 49-50) in cui viene detto che il criterio di veri- .. In questo  6.2 LA TEORIA DEL SEGNO 143 una sostanziale identità tra i processi del pensiero e quelli della comunicazione linguistica. Il fatto poi che i processi cognitivi siano basati sulla phantasia getta luce sul ruolo che le immagini mentali hanno nella teoria linguistica del si­ gnificato. 6.2 La teoria del segno 6.2. 1 Il "lekt6n" e la teoria del segno Il lekton, che abbiamo finora incontrato come elemento centrale della teoria del linguaggio, costituisce una nozione fondamentale anche della teoria del segno e, in un certo f110do, è un fattore di mediazione tra le due teorie. Infatti i 5egni (smefa) per gli stoici sono anzitutto dei lekta, in auanto sono costituiti da proposizioni. Questo fa sì che, come sottolinea Eco (1984: 30), nella se­ fllÌOtica stoica si verifichi una saldatura "di diritto" tra la 0ottrina del linguaggio e la dottrina dei segni. Infatti, "per­ ché ci siano segni occorre che siano formulate proposizioni e le proposizioni debbono organizzarsi secondo una sintassi Jogica che è rispecchiata e resa possibile dalla sintassi lingui­ stica" (ibidem). Occorre tener presente che gli stoici non di­ cono ancora che le parole sono segni (sarà Agostino il pri­ (110 a fare una simile asserzione) e rimane, del resto, una òifferenza lessicale tra la coppia smafnonlsmain6menon e sl!mefon. Tuttavia il fatto che i segni siano dei lekta ci illumina sul­ ra necessità, avvertita dagli stoici, di tradurre il segno non verbale in termini linguistici e di legare, dunque, per quanto jfl maniera implicita e indiretta, le due teorie. Ecco la definizione di segno che ci viene data da Sesto: Gli stoici, volendo presentare la nozione di segno, dicono che è una proposizione (axloma) che è l'antecedente (prokathegou­ menon) in un condizionale vero (en hyghiei synemménOl), e che è rivelatore del conseguente (ekkalyptikòn tou ligontos). E di-  144 6. LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI cono che la proposizione è un lekt6n completo in se stesso; e il condizionale vero è quello che non comincia dal vero e finisce ] Riprenderemo più avanti le varie problematiche che ven­ gono presentate in questo passo. Per il momento ci preme sottolineare che in esso si definisce il segno come un lekt6n completo, cioè come una proposizione che si pone in rap­ porto di implicazione con un altro lekt6n, cioè con un'altra proposizione, secondo lo schema: p -:J q. Si deve notare che, come per Aristotele, l'attenzione per il segno è esercitata in funzione della conoscenza che esso pe_rmette di raggiungere: l'ottica, in altre parole, è ancora quella epistemica, e il segno appartiene a un campo che è di­ stinto sia da quello logico sia da quello semantico in senso stretto. Il segno, infatti, non è una proposizione qualsiasi che figuri come antecedente in un condizionale vero, ma so­ lo quella proposizione che permette di scoprire il conse­ guente (cioè che permette l'accesso a una nuova conoscen­ za). Su questo torneremo tuttavia più avanti. Va comunque notato che, se l'ottica con cui gli stoici guardano al segno è la stessa di quella di Aristotele, assolu­ tamente diverso è il tipo di inquadramento logico. È nor­ mallnente accettato che Aristotele pratichi la logica delle classi, mentre gli stoici introducono quella proposizionale. Ciò comporta che l'attenzione venga spostata: (i) dalla so­ stanza degli eventi (Todorov 1 977 : 21), per quanto concerne il punto di vista antologico; (ii) dal nome/aggettivo, che funge da predicato, alla proposizione, per quanto concerne l'espressione linguistica. In effetti, in Aristotele si poteva notare un certo disagio a trattare le sostanze e le proprietà come segni. Ciò che, invece, può essere trattato come segno sono i fatti e gli avvenimenti espressi da proposizioni. E del resto Aristotele, pur senza denunciare la differenza, tutta- nel falso [ di un condizionale che comincia con il vero e finisce nel vero. Essa fa scoprire il conseguente poiché la proposizione "essa ha latte" sembra essere rivelatrice (de/Otik6n) di quest'altra "essa concepito". 17 (Sext. Emp., Hyp. Pyrrh., II, 104-106) ... . Essi chiamano antecedente la prima proposizione  LA TEORIA DEL SEGNO 145 via fornisce alcuni esempi di segno (come quello della Reto­ rica, I, 1357 b, 16-18: "Se essa ha latte, essa ha partorito"), in cui vengono presi in considerazione eventi e non sostan­ ze. Ma nella filosofia aristotelica la teoria del segno ha una parte marginale: il segno viene fatto rientrare nel procedi­ mento sillogistico (costituisce una premessa del sillogismo) e viene confinato nel campo dei procedimenti retorico-dia­ lettici, se non è un tekmirion, cioè un segno necessario. Nella scienza vera e propria, fondata sul sillogismo perfet­ to, il smeion non trova f>osto. Al contrario, nelle scuole postaristoteliche, l'inferenza da segni acquista un ruolo centrale: dalla retorica e dialettica, suoi punti di partenza, il segno viene esteso alla scienza in generale e alla filosofia nel suo grado più alto. Gli stoici e gli epicurei vedono nel segno il procedimento canonico del passaggio da ciò che è noto a ciò che è ignoto. Preti (1956: 7-8) sostiene che, a proposito della teoria del segno, tra Aristotele e le scuole posteriori si può individuare un anello di congiunzione, rappresentato dalla teoria di Nausifane, un seguace di Democrito e uno dei maestri di Epicuro. Da quanto ci è rimasto della sua opera, il Tripo­ de, 1 8 è possibile cogliere i punti essenziali di questo passag­ gio . Per Nausi fane, infatti, il discorso filosofico (basato per Aristotele sul sillogismo) e quello retorico (basato sull'enti­ mema) presentano in realtà la stessa struttura logica. In en­ trambi i casi è necessario distinguere tra la "conseguenza" (ak6/outhon), la "premessa" (homologoumenon) e "ciò che deriva dalle premesse" (tlnon lphthénton ti symbafnei: il sillogismo?). In ognuno dei due tipi di discorso il problema è quello di partire da cose presenti (hyparchonta) per giun­ gere in maniera metodica alle cose invisibili. Il metodo del passaggio è la akolouthia, "la relazione di consequenziali­ tà", di implicazione o implicitazione, comune appunto a filosofia e retorica. 20 Ora, come testimonia Sesto, dalle cose evidenti (apò ton enargOn) alla comprensione del­ le cose oscure (adla) per mezzo del segno come relazione di akolouthia costituisce proprio il nocciolo della dottrina de­ gli stoici (come pure di tutti coloro che Sesto riunisce sotto la possibilità di passaggio  LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI il nome di "dogmatici"). Non solo, ma come prova della centralità della semiotica, anche la dimostrazione viene considerata un segno:21 fatto che testimonia la riduzione della filosofia della scienza a semiotica e che conferma la tendenza delle scuole postaristoteliche a ridurre o trasfor­ mare il sillogismo nell'inferenza implicativa. 6.2.2. 1 I tipi di segno: A) "comune" e "proprio" Nella semiotica stoica si registra la scomparsa della di­ stinzione terminologica tra tekmrion e smeion: il primo termine non viene più usato e i segni vengono tutti denomi­ nati smeia. Un'ipotesi plausibile è che ciò sia legato all'ab­ bandono del sillogismo e della sua distinzione in figure la quale sorreggeva tale opposizione. Tuttavia, al suo posto, sembra comparire un'opposizione tra "segno comune" (koinòn smeion) e "segno proprio" (fdion). Tale distinzione non era specificamente stoica, ma appartenente a una koini filosofica ellenistica, sulla quale c'era accordo anche tra scuole per altro verso in contrasto. Una definizione sufficientemente chiara dei due tipi di se­ gno si trova nel trattato semiotico di Filodemo (l secolo a.C.): Un segno è comune (koin6n) per nessuna altra ragione che quella per cui può esistere, sia che l'oggetto non percepito (tò adlon) esista, sia che non esista. Noi diciamo che la persona che crede che questo particolare uomo sia buono a causa del fatto che è ricco, sta usando un segno non valido e comune dal momento che molti che sono ricchi risultano malvagi e molti buoni. Perciò il segno proprio (idion), se è necessario (ananka­ stik6n), non può esistere altrimenti che con la cosa che noi di­ ciamo appartenere di necessità ad esso, (cioè) l'oggetto non evi­ dente di cui è segno. 22 (Philodemus, De signis, I, 1-17) C'è una convergenza nelle scuole postaristoteliche nel ri­ tenere il segno comune come non valido e nell'accettare in­ vece unicamente il segno proprio. Dalla definizione di Filo-  LA TEORIA DEL SEGNO demo si ricava che una differenza peculiare consiste nel ca­ rattere di necessità del segno proprio, che viene definito co­ me "necessario" (anankastik6n), carattere non posseduto da quello comune. Viene dunque da mettere in parallelo il segno proprio con il segno necessario di Aristotele che ri­ chiedeva una connessione necessaria con l'oggetto a cui rin­ viava. D'altra parte, il segno comune è definito come quel segno che può rimandare a qualcosa di esistente, di cui sa­ rebbe segno, ma può anche non rimandare a niente. Dato l'esempio, cioè l'inferire dalla ricchezza di un uomo la sua bontà (inferenza che in certi casi funziona e in certi altri no), sembra plausibile porre in relazione il segno comune e i segni in seconda e terza figura di Aristotele. Infatti per Ari­ stotele si poteva inferire dal pallore di una donna il suo es­ sere gravida (segno in 2a figura) oppure dalla bontà di Pit­ taco la bontà dei sapienti (segno in 3a figura): ma questi se­ gni non in ogni caso risultavano verificati. Si può così giungere a una conclusione interessante: men­ tre Aristotele, pur negando validità scientifica ai segni non necessari, ne prevedeva comunque un uso in un ambito epi­ stemologicamente più basso, come quello della retorica, do­ minio delPopinione, la scuole postaristoteliche sembrano aver fatto definitivamente piazza pulita delle inferenze del tipo non necessario. 6.2.2.2 I tipi di segno: B) "rammemorativo" e "indicativo" Filodemo aveva scritto il suo trattato intorno alla metà del I secolo a.C. Circa due secoli dopo, Sesto riprende la di­ stinzione tra segno preso in senso proprio (idlos) e segno preso in senso comune (koinOs), mettendola in esergo alla sua trattazione del segno; ma, stranamente, assimila questa a un'altra opposizione, quella tra segno rammemorativo e segno indicativo: Il segno [. . .] si dice in due maniere, comune (koinOs) e proprio (idt'Os). In maniera comune si dice segno quello che sembra rive­ lare qualche cosa: in questo senso sogliono chiamare segno an- LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI che ciò che serve a richiamare alla memoria la cosa osservata in­ sieme con esso. In maniera propria si dice segno quello che è in­ dicativo di una cosa avvolta nell'oscurità. (Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 143) Apparentemente, e in maniera contraddittoria, tuttavia Sesto sembra voler mantenere la duplice distinzione, in quanto, dopo aver introdotto l'opposizione tra segno co­ mune e segno proprio, dichiara di voler trattare solo di que­ st'ultimo (ibidem, 143); e poiché il segno proprio è quello che permette di scoprire le cose che sono oscure, egli propo­ ne di distinguere preliminarmente le cose in "manifeste" e "oscure", e di suddividere ulteriormente quest'ultime in tre categorie. Ne risulta una quadruplice tipologia: (i) Le cose manifeste o immediatamente evidenti: sono quelle che giungono alla conoscenza in maniera diretta; co­ me esempio Sesto porta "il fatto che è giorno e che io sto di­ scorrendo"23 quando io faccio realmente queste cose. (ii) Le cose oscure in senso assoluto: sono quelle che han­ no una natura tale da non arrivare alla nostra comprensio­ ne (kata/psis), come a esempio "se le stelle siano di numero pari o dispari" o "se i granelli di sabbia della Libia siano di un determinato numero".24 (iii) Le cose oscure temporaneamente: sono quelle che pur avendo una natura manifesta divengono, per certe cir­ costanze, non evidenti per un certo tempo: l'esempio è il fatto che, chi si trova a una certa distanza, non vede la città di Atene. Atene, visibile per sua natura, diviene tempora­ neamente invisibile a causa della distanza.2 (iv) Le cose oscure per natura: sono quelle che hanno una natura tale da non essere percepite, ma sono soltanto pen­ sabili (noto1).26 Gli esempi sono "i pori intelligibili" e "il vuoto". Non si pone un problema di segni a proposito della prima e della seconda categoria, in quanto le cose manifeste ven­ gono comprese in maniera non mediata e le cose oscure in senso assoluto non possono essere comprese affatto. Invece è proprio attraverso i segni che possono essere comprese le cose che appartengono alle ultime due categorie. Ma i tipi  6.2 LA TEORIA DEL SEGNO 149 di segno sono diversi per ciascuna di esse. Le cose tempora­ neamente oscure si colgono attraverso i segni rammemora­ tivi, quelle oscure per natura attraverso i segni indicativi. Ecco la definizione che ne dà Sesto: Dei segni [...], secondo costoro [i dogmatici], alcuni sono ram· memorativi (hypomnstika), altri indicativi (endeiktika). Chia­ mano segno rammemorativo quello che, osservato insieme con la cosa designata in maniera evidente, appena esso si presenta, se quella è avvolta nell'oscurità, ci conduce a ricordare la cosa che è stata osservata insieme a tal segno e che non si presenta ora in maniera evidente, come avviene per il fumo e il fuoco. È invece indicativo, come dicono, quel segno che, non osservato insieme con la cosa designata in maniera evidente, pure, per la propria natura e costituzione, segnala ciò di cui è segno; così, per esempio, i movimenti del corpo sono segni dell'anima. (Sext. Empyr., Hyp. Pyrrh., II, l00-1Ol)27 Il segno rammemorativo è, in sostanza, frutto di un'asso­ ciazione costante tra cose comunemente osservate in con­ nessione empirica. Sembra, tra l'altro, che gli esempi che Sesto sceglie per illustrare questo tipo si distribuiscano se­ condo la tripartizione28 contemporaneità/anteriorità/po­ steriorità tra il segno e la cosa indicata: nel caso di "fu­ mo-+fuoco" vi è contemporaneità; in "cicatrice-+piaga" o in "fascia-unzione degli atleti" il fatto indicato è anterio­ re; in "ferita al cuore-morte", il segno rimanda a qualcosa di posteriore.29 Il segno indicativo, a differenza del precedente, non è su­ scettibile di essere osservato insieme alla cosa di cui è segno, in quanto quest'ultima non è mai stata manifesta e spesso non è nemmeno sospettabile. Ne sono esempi "i movimenti del corpo" che permettono di risalire all'"anima", o "il su­ dore" che rimanda ai "pori della pelle".30 Sesto accetta la validità epistemologica dei segni rammemorativi, mentre nega validità epistemologica ai segni indicativi, che sono, secondo lui, un'invenzione dei "filosofi dogmatici" e dei "medici razionalisti".3 1 Possiamo ricapitolare con il seguente schema la classifi­ cazione di Sesto: cose manifeste oscure   non danno luogo a segni danno luogo a un segno in senso assoluto per natura danno luogo a un segno indicativo rammemorativo Si deve però osservare che la distinzione riportata da Se­ sto tra segno rammemorativo e segno indicativo solleva molti dubbi circa la sua provenienza stoica. In effetti, non se ne trova traccia in altre fonti e neppure nel resto della trattazione dello stesso Sesto. Inoltre, tale distinzione appa­ re addirittura in contrasto con l'indirizzo complessivo della filosofia stoica e soprattutto con l'orientamento logico-for­ male della teoria del segno. Questa distinzione, per quanto importante dal punto di vista epistemologico, appare irrile­ vante dal punto di vista logico. Invece, sembra essere genuinamente stoica la distinzione tra segno comune e segno proprio, secondo la testimonian­ za di Filodemo. È, tra l'altro, il carattere necessario del se­ gno proprio che dimostra la coerenza di essa con il pensiero stoico. Infatti, il segno degli stoici è sempre un segno "ne­ cessario", come un'analisi più dettagliata della sua struttura ci permetterà di vedere. 6.2.3 La struttura del segno nel "condizionale" Ritornando alla definizione stoìca di segno che abbiamo visto, si devono prendere in considerazione almeno tre cose. Prima di tutto la nozione di synemménon, che letteralmente significa "connesso" o "connessione". Il suo significato lo­ gico ci viene chiarito da Diogene:32 si tratta dell'asserto temporanea­ mente  6.2 LA TEORIA DEL SEGNO 151 condizionale del tipo "Se p, allora q", in cui a una prima proposizione consegue una seconda come nell'esempio "Se è giorno, c'è luce". La seconda cosa da prendere in considerazione è la no­ zione di condizionale valido (hyghiés, "sano"). Da un passo di Sesto, dove se ne trova la definizione, è possibile ricavare che questa nozione è affine alla moderna interpretazione vero-funzionale di "Se p, allora q"; infatti la validità o in­ validità dell'asserto condizionale "Se p, allora q" dipende dal valore di verità deli'antecedente e del conseguente di esso. 33 Sesto, in due passi paralleli, camente "quel condizionale che non comincia dal vero e fi­ nisce nel falso" e fcrnisce una tavola dei valori di verità del tutto conforme a quella che la logica contemporanea preve­ de per l'implicazione materiale:  p q ·se p, allora q• valido vero vero falso falso vero falso invalido falso vero valido Sesto accenna anche a un disaccordo tra i logici stoici a pro­ posito del criterio per giudicare un condizionale valido:34 esso corrisponde a ciò che è stato definito dai Kneale ( 1 962: tr. it. 154 e sgg.) "il dibattito sulla natura dei condizionali", che animò le discussioni di logica ali'epoca degli stoici. Il terzo elemento da rilevare è legato alla nozione di se- definisce come valido uni­ valido  152 6. LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI gno come antecedente (prokathegoumenon) in un condizio­ nale valido. In effetti, come fa rilevare lo stesso Sesto,3s i ti­ pi di condizionale valido sono tre nella tavola dei valori di verità corrispondente all'implicazione materiale (V V; F F; F V); il problema diviene dunque quello di vedere se la struttura del segno sia da ricercare in ciascuno dei tre tipi di condizionale valido, o solo in casi particolari. Ora, in effet­ ti, un segno non può non essere espresso da una proposizio­ ne vera, come pure deve essere vera la proposizione a cui es­ so rimanda. Così sono esclusi il secondo e il terzo caso (F F; F V), in quanto hanno un antecedente falso. Dunque l'uni­ ca possibilità è relativa al primo tipo di condizionale, cioè quello che comincia dal vero e finisce nel vero.36 Ma c'è un'ultima osservazione da fare, ed è relativa al ca· rattere che il segno deve avere di essere rivelatore (enkalyp­ tik6n) del conseguente. In effetti un condizionale del tipo "Se è giorno, c'è luce", nel momento in cui si verifichino le due condizioni che sia giorno e che vi sia luce, è formato da due proposizioni entrambe vere. Tuttavia, secondo Sesto,37 non si realizzano in questo caso le condizioni perché vi sia un segno, in quanto entrambe le proposizioni rimand?no a fatti di per sé evidenti. Il primo termine del condizionale non è rivelatore del secondo. In effetti, per comprendere la vera natura del segno bisogna passare dal piano strettamen­ te logico a uno più generalmente epistemologico. Il segno, per gli stoici, non solo deve avere una corretta costruzione dal punto di vista logico, individuabile nella implicazione tra due proposizioni vere, ma deve anche possedere il carat­ tere di dispositivo che permette di accrescere la cono­ scenza.38 Come già in Aristotele, anche per gli stoici il segno si ap· poggia su un livello logico, ma si inquadra in un'ottica co­ noscitiva. Gli esempi di carattere medico denunciano l'ori­ gine di quest'ottica. In generale il segno deve permettere il passaggio inferenziale da una conoscenza di facile accesso, come "egli ha sputato cartilagine bronchiale", a una cono­ scenza di molto più difficile accesso, come "egli ha una pia­ ga nel polmone". Tuttavia, ciò che la teoria del segno ac­ quisisce, passando dalle mani dei medici a quella dei filoso..  6.2 LA TEORIA DEL SEGNO fi, è una solida struttura dal punto di vista logico-formale, tale da escludere la possibilità di inferenze scorrette. 6.2.4. 1 Il dibattito sulla natura dei condizionali Quanto ampio e difficoltoso fosse il lavoro che i filosofi dovevano svolgere, sul piano logico, per stabilire un criterio atto a escludere le inferenze scorrette, lo dimostra l'acceso dibattito che si sviluppò sulla "natura dei condizionali" (Kneale 1962). Scrive infatti Sesto Empirico: "Tutti quanti i dialettici sono generalmente d'accordo neli'affermare che un condizionale è valido quando il suo conseguente segue (akolouthei) dal suo antecedente, ma disputano sul come e quando esso segua, e propongono criteri rivali" (Adv. Math., VIII, 12). Riferendosi a questo dibattito, Sesto elenca quattro crite­ ri che erano stati proposti per stabilire la validità di un as­ serto condizionale: (i) quello di Filone Megarico; (ii) quello di Diodoro Crono; (iii) quello della srsnartsis attribuibile a Crisippo; (iv) quello della émphasis. 9 Sulla disputa si può tuttavia fare un'osservazione genera­ le preliminare. Il punto di partenza, infatti, come fa notare Martha Hurst (1935: 492), è una relazione già conosciuta, nel senso che essa è riconoscibile nei suoi esempi. Ciò che invece costituisce lo scopo è una definizione di questa rela­ zione di consequenzialità (akolouthla) in termini formali. Nel corso dell'intero dibattito sulla natura dei condizionali i logici antichi si sono concentrati sul definiendum e non sul definiens. Quest'ultimo, che può possedere proprietà auto­ nome, essendo dotato di significato, non è stato preso in considerazione se non nella misura in cui poteva essere pro­ vato che esso coincideva con il definiendum. Si è cosi spesso creata una confusione tra i due livelli e spesso sono stati scelti esempi che ambiguamente erano in grado di elucidare sia la relazione riconosciuta, sia le proprietà della relazione logica che essi tentavano di identificare con la prima. Può aiutarci a comprendere meglio questo modo di pro­ cedere un paragone con i metodi della logica contempora- LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI nea. I logici contemporanei, infatti, sono in genere interes­ sati unicamente al definiens, cioè alla relazione che essi pos­ sono stabilire in simboli, senza riguardo alla questione se tale relazione sia identica a quella che è ampiamente cono­ sciuta, facilmente riconosciuta, e poco compresa come quella di una espressione di implicitazione ("fol/owing", Hurst 1935: 492). A esempio Peirce e Russell erano interes­ sati alle proprietà della implicazione materiale indipenden­ temente dal fatto che essa riproducesse il significato "usua­ le" di "implica" ("implies"). Così pure Lewis era interessato al sistema della implicazione rigida senza sostenere che l ' im­ plicazione rigida rappresenti il significato di "implica". Questa differenza nel modo di procedere tra antichi e moderni comporta un'ulteriore differenza formale: mentre i logici antichi erano interessati a dare un'unica definizione, i moderni lo sono a fornire due definizioni: quella di "im­ plicazione materiale" e quella di "implicazione rigida". 6.2.4.2 L'implicazione filoniana Filone è il primo esponente della scuola megarico-stoica citato da Sesto ed è il primo che dà un'interpretazione vero­ funzionale dell'espressione "Se p, allora q": secondo lui, un'espressione condizionale è valida se, e solo se, non co­ mincia con il vero e finisce con il falso. Come abbiamo già visto, la definizione che Filone dà del criterio di consequen­ zialità (ako/outhfas kritrion) corrisponde al quadro del­ l'implicazione materiale. Infatti sono tre i casi in cui il con­ dizionale è valido, corrispondente ai tre esempi seguenti: (i) "Se è giorno, c'è luce" (VV); (ii) "Se la terra vola, la terra ha le ali" (FF); (iii) "Se la terra vola, la terra esiste" (FV). Come sottolineano i Kneale (1962: tr. it. 157), è probabi­ le che Filone avesse in mente l'uso dell'espressione "Se p, allora q" nei ragionamenti e che volesse attirare l'attenzione sul fatto che la congiunzione dell'asserto condizionale con il suo antecedente implicita sempre il conseguente. L'inter­ pretazione proposta da Filone è la più debole che soddisfi tale requisito. LA TEORIA DEL SEGNO L'implicazione diodorea Diodoro Crono era il maestro di Filone, e la ragione per cui Sesto lo cita per secondo può essere forse attribuita al fatto che, mentre Diodoro riuscì a confutare Filone, que­ st'ultimo non riuscì a fare altrettanto con il primo (Hurst 1935: 435 n.). La critica che Diodoro muove all'interpretazione filonia­ na insiste proprio sul carattere di debolezza di quest'ultima. Egli individua infatti degli esempi di condizionale che, pur potendo soddisfare il requisito filoniano in un tempo tt, possono tuttavia mancare di soddisfarlo in un altro tempo t2. A esempio, l'asserto "Se è giorno, io sto conversando" sarebbe considerato vero da Filone se si dessero le condizio­ ni, in un tempo t, per cui fosse giorno e io stessi conversan­ do. Diodoro invece dimostra che esso è falso, sostenendo che non c'è niente nella sua natura che permetta di dire se esso cada o no sotto la definizione di Filone. Infatti esso potrebbe essere pronunciato anche in un tempo t2, quando fosse giorno, ma io rimanessi silenzioso. In questo caso es­ so avrebbe la forma invalida VF. Per ovviare a questo inconveniente, Diodoro elabora una concezione secondo la quale un condizionale è valido quan­ do "non ammise, né ammette di cominciare con il vero e fi­ nire con il falso".40 L'esempio che egli dà è "Se non esisto­ no gli elementi atomici delle cose, allora esistono gli ele­ menti atomici delle cose", che, secondo Diodoro, ha l'ante­ cedente sempre falso e il conseguente sempre vero: ciò ba­ sterà a escludere l'evenienza di un antecedente vero con un conseguente falso, unico caso in cui il condizionale sarebbe non valido.41 6.2.4.4 L'"implicazione connessiva" ("synartesis") di Cri­ sippo La terza concezione di condizionale valido riportata da Sesto è quella che, secondo diversi studiosi moderni (Mates  LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI; Bochenski), corrisponde alla implica­ zione rigida di Lewis o comunque a una forma di implica­ zione necessaria (Kneale 1962; Preti 1956). In maniera con­ corde con il passo di Sesto, che abbiamo visto, questa con­cezione viene riportata da Diogene (Vitae) : " È v e r o un condizionale nel quale il contraddittorio (antikefmenon) del conseguente è incompatibile (macheta1) con l'anteceden­ te, come a esempio 'se è giorno, c'è luce' ". Il nome del sostenitore di questa concezione non ci è sta­ to lasciato da chi la riferisce; ma vi sono prove che essa ap­ partenesse a Crisippo (cfr. anche Miiller). La nozione di "incompatibilità", messa in scena da que­ sta definizione, è molto interessante, ma problematica in quanto non viene chiaramente definita. Martha Hurst (1935: 495), commentando il passo, tende a mostrare che la relazione di incompatibilità e anche, più in generale, quella di "consequenzialità" (jollowing), non possono essere espresse in termini estensionali, cioè mediante relazioni esterne, che sussistono tra le proposizioni in virtù di pro­ prietà che esse avrebbero al di fuori della relazione: al con­ trario, è necessario ricorrere alle relazioni interne che sussi­ stono in virtù del loro significato. Può essere interessante confrontare questa conclusione di M. Hurst con le osservazioni di Preti (1956: 13), il quale so­ stiene che l'esempio di Sesto, dato a proposito della synar­ tsis "sembra alludere a qualcosa di ancora più forte (della strict implication di Lewis): alla vera e propria tautologia". Preti basa la sua osservazione sulle notizie circa la dottrina stoica che vengono riportate da Filodemo nel De signis. In effetti in quel testo (come vedremo meglio nel capitolo spe- cificamente dedicatogli) è presentato come genuinamente stoico il metodo inferenziale della "contrapposizione" (ana­ skeu), che appare analogo a quello della synartsis. Infatti, l'inferenza per "contrapposizione" è quella in cui la negazione del conseguente comporta la negazione del­ l'antecedente. Essa si configura in maniera tale che la verità del condizionale "Se il primo, allora il secondo" è garantita dalla verità del corrispondente condizionale "Se non il se­ condo, non il primo".42  6.3 CONCLUSIONI 157 Preti sottolinea le affinità tra la synartsis (secondo cui la negazione del conseguente è incompatibile con l'anteceden­ te) e il metodo di contrapposizione (anaskeu) (in cui la ne­ gazione del conseguente comporta la negazione dell'antece­ dente), e in entrambi i casi chiama in causa la implicazione rigida di Lewis, con la precisazione che gli esempi forniti da Filodemo sembrano indicare un rapporto più forte, che ten­ de a risolvere l'inferenza o in una forma di tautologia o in una forma di L-implicazione. 6.3 Conclusioni Nel passaggio dalla teoria aristotelica del segno a quella stoica c'è, come abbiamo visto, uno spostamento di accento dai termini su cui si costruiscono le proposizioni categori­ che nel sillogismo, alle relazioni tra le proposizioni nell'as­ serto condizionale. Contemporaneamente si registra un'ac­ centuazione del carattere, già presente in Aristotele, di con­ sequenzialità necessaria che la relazione segnica è chiamata a istituire: l'inferenza dal termine noto a quello non noto deve presentare un carattere cogente. Ci sono due ragioni di questo aspetto necessaristico della semiotica stoica, una legata ali'analisi della natura della ra­ gione e dei suoi processi, l'altra riferibile alla configurazio­ ne della metafisica stoica (De Lacy 1978: 208). Per il primo punto è Sesto43 stesso a informarci che gli stoici ritenevano che l'uomo si differenzia dagli animali per la sua capacità di "discorso interno " (16gos endiathetos) e in virtù della sua abilità di combinare i concetti e di passare dall'uno all'altro. L'uomo possiede infatti la nozione di consequenzialità (akolouthfa) e con ciò egli possiede anche la nozione di segno, che ha appunto la forma: "Se questo, allora quest'altro". Così l'esistenza del segno si pone in stretta dipendenza dalla natura del pensiero umano. Quanto al secondo punto, la metafisica stoica poggiava sull'idea che il reale fosse costituito da una catena ininter­ rotta di eventi, legati tra loro da rapporti di causa-effetto. Tali relazioni erano .:oncepite come necessarie in quanto di-  158 6. LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI pendenti daiPordine razionale istituito dalla divinità. In questo modo, la consequenzialità necessaria nella relazione segnica valida riproduce quella stessa consequenzialità che si rintraccia a livello della concatenazione degli eventi.44 L'insistenza che gli stoici pongono sull'asserto condizionale e sull'inferenza da segni indica proprio l'enfasi da loro col­ locata sulla relazione necessaria tra concetti e proposizioni a livello logico e tra cause ed effetti a livello metafisica. Su queste basi, del resto, riposa la stessa accettazione, con riserva, della divinazione da parte degli stoici. La divi­ nazione consiste, infatti, nel cogliere la relazione che colle­ ga certi avvenimenti presenti e altri che avverranno.4Ora, per quanto la razionalità degli uomini sia sostanzialmente dello stesso tipo di quella che hanno gli dei, tuttavia questi ultimi possiedono la conoscenza dell'intera catena causale che lega gli eventi ("conligatio causarum omnium"),46 men­ tre ai primi è preclusa. Gli uomini non possono conoscere dunque le cause ma solo gli indizi caratteristici delle cause ("signa [.. . ] causarum et notas") degli eventi e su questi si basano per predire il futuro. Ma, a differenza di quanto av­ verrebbe per gli dei, i condizionali degli uomini intorno al futuro mancano di necessità. Nel caso della scienza umana (che per gli stoici equivale a quello della dialettica) il segno deve basarsi su un'impli­ cazione necessaria. Ma questa, che è una caratteristica irri­ nunciabile, non è tuttavia sufficiente a definire un segno. Infatti, in un condizionale come: "Se è giorno, c'è luce»47 il giorno non potrebbe essere considerato un segno della luce in quanto entrambe le cose sono evidenti e quindi l'in­ ferenza non può provare nulla. La verità su cui si basa è certamente a priori e analitica, come sembra richiesto nel caso delle verità necessarie, ma tale condizionale è privo della caratteristica di permettere di scoprire una nuova co­ noscenza. Il segno stoico, in conclusione, si deve inquadrare in uno schema logico (che è quello deli'implicazione necessaria), ma deve contemporaneamente superarlo per collocarsi in un'ottica epistemologica, nella quale esso diventa fattore dell'accrescimento del sapere: bisogna sempre tener presen-  6.3 CONCLUSIONI 1 59 te che l'essenza del segno è l'inferenza che va dalle cose ma­ nifeste a quelle non percepite. Ma a questo punto sembra delinearsi nella semiotica stoi­ ca un problema difficilmente resolubile: come è possibile che l'inferenza segnica sia analitica (se si pensa alla L-impli.. cazione di cui parla Preti) e contemporaneamente fornisca una nuova conoscenza (la scoperta di un fatto nascosto)? Prendiamo come esempio di segno una dimostrazione (infatti anche la dimostrazione viene considerata, secondo la testimonianza di Sesto, un segno):48 - sono pori intellegibili nella pelle. - Il primo. - Dunque, il secondo . Qui l'inferenza è condotta dal fatto percepibile rappre­ sentato dallo scorrere del sudore al fatto nascosto che esi­ stano pori nella pelle. La presenza dei pori è un fatto oscuro per natura: infatti essi possono soltanto essere conosciuti dalla mente (noto1), ma non dai sensi in un'epoca in cui il microscopio non era ancora stato inventato. Sesto aggiun­ ge, come argomento rafforzativo delle premesse nel ragio­ namento precedente, un'ulteriore argomentazione:49 - compatto e non poroso. - Il sudore scorre attraverso il corpo. - Pertanto non è possibile che il corpo sia compatto, ma esso è poroso. La premessa maggiore di questa argomentazione sembra essere basata sul test di contrapposizione (Q::jJ) applicato alla premessa maggiore del precedente. Infatti se al condi­ zionale: p (se il sudore scorre attraverso la superficie del corpo) ::q (ci sono pori intellegibili nella pelle) Se il sudore scorre attraverso la superficie del corpo, ci È impossibile che un liquido scorra attraverso un corpo  160 6. LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI applichiamo il test di contrapposizione, otteniamo l} (se la pelle è un corpo compatto e non poroso) :>p (un li­ quido non vi può scorrere attraverso), espressione che è alla base della premessa del secondo ra­ gionamento di Sesto. Essa permette di sviluppare un ragio­ namento corrispondente al modus tollens, che convalida la conclusione del primo ragionamento. Non si saprebbe dire se gli stoici riescano a evitare, con il ricorso alla contrapposizione, la contraddizione che esiste tra la richiesta di una relazione necessaria e a priori tra le due proposizioni del condizionale e la necessità che il segno produca nuova conoscenza. Di fatto la contrapposizione rende necessaria la relazione anche nel caso di verità fattua­ li, poiché parte dall'assunzione che il fatto oscuro per natu­ ra sia legato a quello evidente in modo tale che ciò che è evi­ dente non potrebbe esistere se il fatto non percepito non fosse quale viene rivelato essere. INFERENZA E LINGUAGGIO IN EPICURO 7.O Introduzione Contemporaneo allo sviluppo della riflessione stoica sul segno è il capitolo della semiotica antica scritto dalla scuola epicurea. Uno dei cardini dell'epistemologia epicurea, in­ fatti, è il principio semiotico del congetturare dai fenomeni visibili fatti che sono per natura non percepibili con i sensi. Gli stessi elementi fondamentali della metafisica epicurea (cioè l'esistenza degli atomi e del vuoto, le configurazioni e le ragioni dei fenomeni celesti) vengono stabiliti attraverso inferenze semiotiche che partono dai fenomeni percepibili: Gli indizi (semeia) dei fenomeni celesti ce li forniscono alcuni fenomeni che accadono presso di noi, e che si vede dove e come avvengono, e non i fenomeni celesti stessi, che possono avvenire in molte maniere. (Epic., Epistula ad Pythoclem, 87) Epicuro rifiutava il ragionamento deduttivo, tipico di Aristotele e degli stoici, giudicandolo vuoto e privo di utili­ tà, ma accettava e valorizzava l'inferenza analogica che si sviluppa a partire dai segni. Nel periodo ellenistico, anzi, gli epicurei divennero i portabandiera di un metodo di ragiona­ mento qualificabile come "induzione semiotica", e proprio sul metodo deli ' in ferenza si posero in polemica con gli esponenti della scuola stoica. Un intero trattato del I secolo a.C., il Perì smelon kaì smeioseon (Sui segni e sulle infe-  162 7. INFERENZA E LINGUAGGIO IN EPICURO renze), redatto dall'epicureo Filodemo di Gadara, è dedica­ to, del resto, al dibattito intercorso fra stoici ed epicurei sul tema dell'inferenza semiotica.1 Epicuro, così, e la scuola epicurea nel suo insieme, pro­ pugnano la possibilità di elaborare giudizi che siano oggetti­ vamente validi su fenomeni non direttamente conosciuti at­ traverso l'esperienza, sulla base di inferenze elaborate a partire dai segni. Il problema centrale diviene, allora, quello di stabilire il criterio per verificare se ed entro quali limiti tali giudizi pos­ sano essere considerati attendibili o non attendibili (cioè ve­ ri o falsi) e di fornire le basi per poter dire se certe asserzio­ ni corrispondano effettivamente ai fatti che esse descrivo­ no. Si fa strada quindi la nozione di "criterio di verità", che costituisce la cornice di sfondo all'interno della quale si col­ locano tanto la teoria deli'inferenza semiotica quanto la teoria del linguaggio. In effetti il criterio di verità è non uni­ co, ma molteplice: secondo la testimonianza di Diogene Laerzio,2 esso comprende le sensazioni (aisthseis), le affe­ zioni (path), le preconcezioni (prolpseis), a cui può essere aggiunta, per motivi che vedremo, l'evidenza immediata (enargheia). I criteri di verità, e tra essi la pro/essi ("antici­ pazione", "preconcezione") in particolare, giocano un ruo­ lo fondamentale in entrambe le teorie sia nella teoria del­ l'inferenza3 sia nella teoria del linguaggio;4 in questo modo essi costituiscono un elemento di connessione tra le due teo­ rie. Tuttavia ciò non è ancora sufficiente a permettere un'articolazione comune tra segno inferenziale e segno lin­ guistico, che rimangono ancora una volta oggetti di due in­ dagini separate. Si ricorderà che anche per gli stoici la teoria del segno lin­ guistico, chiamato smafnon, nasceva ali'interno di una di­ scussione sul criterio di verità e sul "vero"; e anche in quel caso il segno inferenziale, chiamato smefon, non aveva al­ cun punto di contatto con il precedente se non per il ruolo giocato dalla nozione di lekt6n, a cui spettava il carico di essere vero o falso. Si deve però notare una peculiarità della semiotica epicurea: essa si arricchisce anche di una teoria deli'immagine percettiva, che si collega al criterio di verità,  7 . l CRITERIO DI VERITÀ ED EPISTEMOLOGIA EPICUREA 1 63 ma che anticipa anche alcuni problemi interessanti per una teoria semiotica deli'iconismo. Così, nei paragrafi seguenti esamineremo le questioni del criterio di verità, della prolessi e deli'immagine percettiva in Epicuro, che collegheremo con la teoria deli'inferenza se­ miotica, da una parte, e con la teoria del linguaggio, dall'al­ tra. Gli sviluppi che la teoria semiotica epicurea avrà nel trattato De signis di Filodemo saranno esposti, data la loro ampiezza, a parte nel prossimo capitolo. 7.1 ll criterio di verità e l'epistemologia epicurea L'impostazione generale della filosofia di Epicuro, dal punto di vista epistemologico, è un tentativo di fondare la conoscenza su basi puramente empiriche. In primo piano vengono posti i fatti o gli oggetti; ma anche le parole essen­ zialmente costituiscono una via per giungere alle cose. In questo modo si presentano per la filosofia due metodi di ri­ cerca: (i) uno orientato alla conoscenza che proviene dalle parole; (ii) l'altro a quella che proviene direttamente dalle cose.s Tuttavia il primo è considerato un processo prelimi­ nare rispetto al secondo, e spesso la conoscenza che si ottie­ ne attraverso gli strumenti del linguaggio, come quella che si produce attraverso le proposizioni, è vuota e inganne­ vole.6 Il fondamento ultimo della conoscenza sono i criteri di verità, i quali sono in grado di procurare all'uomo niente­ meno che l'imperturbabilità.7 Essi sono dunque posti alla base stessa della filosofia generale di Epicuro; del resto essi erano trattati in un'opera perduta, intitolata Canone, in cui era contenuta la materia propedeutica rispetto all'intero si­ stema dottrinario.8 Se noi pensiamo alla verità in termini moderni, cioè come una funzione delle proposizioni, corriamo il rischio di non comprendere il pensiero di Epicuro. In effetti, nella lingua greca in generale, l'aggettivo althés ("vero") può servire tanto a qualificare la verità di una proposizione, quanto a indicare ciò che sussiste di fatto o che è reale. In Epicuro, in  164 7. INFERENZA E LINGUAGGIO IN EPICURO particolare, l'aggettivo "vero" implica un'effettiva consape­ volezza di qualcosa. Si giustifica così la sua applicazione al­ le sensazioni e alle affezioni, in quanto dire che una certa sensazione (o una certa affezione) è vera equivale a dire che essa fornisce un indizio effettivo su un fatto reale, renden­ docene consapevoli.9 Prima di passare in rassegna le varie forme del criterio di verità, è necessario sottolineare fin d'ora come esso sia fun­ zionale a una teoria dell'inferenza semiotica. Infatti esso tende a stabilire delle verità basilari riguardanti le cose per­ cepibili, che servono a loro volta come punto di partenza per fare inferenze intorno alle cose non direttamente rag­ giungibili con i sensi.10 7.2 Le forme del criterio di verità Epicuro, dunque, considerava come criteri di verità le sensazioni, le p[econcezioni (o prolessi), le affezioni (o sen­ timenti). 1 1 Nel paragrafo 82 della Lettera ad Erodoto veni­ va fatto cenno anche alla enargheia ("evidenza immediata, o "chiara visione"). Riferendosi a questi passi, Long (1971 b: 116) fa una interessante proposta circa l'organizzazione interna delle forme del criterio di verità. Suggerisce infatti di ordinarie in modo gerarchizzato: in primo luogo ci sono le affezioni e le sensazioni; poi l'evidenza immediata; infine le preconcezioni. Secondo Long, le prime due hanno un va­ lore di verità puramente soggettivo, se prese da sole, e devo­ no essere coordinate all'evidenza immediata e alle prolessi, per giungere a costituire un criterio oggettivo. Le affezioni e le sensazioni comportano la consapevolez­ za di qualcosa, e la loro "verità" consiste proprio in questa consapevolezza, anche se, appunto, soggettiva. Si possono riprodurre le relazioni tra le forme del criterio di verità se­ condo il seguente schema: TEORIA DEI SIMULACRI criteri di veritè  consapevolezza consapevolezza soggettiva oggettiva ll affezioni sensazioni evidenza 7.3 Teoria dei simulacri prolessi   Finora abbiamo considerato il processo conoscitivo dalla parte del soggetto che prova una sensazione o ha una affe­ zione in relazione agli stimoli esterni. Se consideriamo lo stesso processo dalla parte opposta, cioè partendo dall'oggetto, possiamo constatare che Epicu­ ro aveva elaborato una vera e propria teoria dell'immagine che ha molti elementi di interesse per una semiotica dell'ico­ nismo. Dal paragrafo 46 della Lettera ad Erodoto Epicuro inizia a parlare del modo in cui si rende possibile la perce­ zione degli oggetti. Questi ultimi, infatti, emettono in conti­ nuazione degli efflussi di atomi estremamente fini, che compongono configurazioni in tutto e per tutto identiche alla forma esterna dei corpi solidi.12 Queste configurazioni prendono il nome di simulacri (eldO!a). Essi viaggiano a una velocità estremamente alta e possono penetrare nei no­ stri organi di senso o nella nostra mente, e lì produrre un ' immagine (phantasfa) più o meno esatta del corpo da cui i simulacri sono stati emanati. Il processo può essere sche­ matizzato così: oggetti - - -  simuh1cri - - .-.. immsgini mentali (stertJmnia) (sfd"lJfs) (phsntssfst) INFERENZA E LINGUAGGIO IN EPICURO Quella di Epicuro può essere definita una teoria "causa­le" (Long) della percezione, in quanto gli ogget­ ti sono responsabili dell'esistenza dei simulacri e questi ulti­ mi causano direttamente il formarsi delle immagini nella mente. Si deve però dire che le immagini sono una diretta conseguenza dei simulacri, ma solo secondariamente una conseguenza degli oggetti, dai quali possono anche essere difformi. In effetti la continuità del processo può essere interrotta al livello del passaggio dell'efflusso dagli oggetti esterni ai simulacri . Questi ultimi, sebbene di solito risultino delle co­ pie esatte degli oggetti, talvolta possono subire delle modifi­ cazioni per il fatto di entrare in collisione con altri atomi nel passaggio attraverso l'aria e possono anche ridursi in di­ mensione nel momento in cui entrano in una persona (in quanto, anche in questo caso, entrano in collisione con altri atomi). 1 3 Epicuro è, con questa teoria, impegnato a rendere conto del fatto che gli oggetti, visti da vicino, presentano certe di­ mensioni, mentre ne presentano altre, molto minori, se visti da lontano, senza entrare in contraddizione con il principio che la sensazione è garanzia di verità in ogni caso, e ci si troverebbe di fronte veramente a una contraddizione se la phantasfa fosse un'immagine dell'oggetto, mentre in realtà è un'immagine del simulacro (ekiOion). Sesto Empirico sembra riportare correttamente il pensie­ ro di Epicuro quando cita, a questo proposito, l'esempio della "torre": Così io non oserei dire che la vista suggerisca il falso per il fatto che a grande distanza essa vede la torre piccola e rotonda e a di­ stanza accorciata la vede più grande e quadrata, ma direi piut­ tosto che la vista suggerisca il vero, perché l'immagine ricevuta dai sensi, quando le appare piccola e di una certa forma, è real­ mente piccola e di quella determinata forma, per il fatto che i li­ miti appartenenti ai simulacri (eldola) vengono cancellati dal passaggio attraverso l'aria. (Sext. Emp., Adv. Math., VII, 208-209)  7.4 TEORIA DELL'ERRORE E DELL'OPINIONE 167 In effetti, ciò che i sensi recepiscono è il flusso di atomi che si stacca dall'oggetto e che costituisce il suo simulacro e non l'oggetto stesso. Tale flusso, passando attraverso l'a­ ria, si altera nella sua configurazione, producendo la diver­ sità delle immagini che si hanno dello stesso oggetto. Cosi ogni immagine mentale (phantasfa) è effettivamente vera perché è relativa non all'oggetto, ma a ciascuno dei simula­ cri dell'oggetto, che sono diversi in relazione alla distanza percorsa per raggiungere il soggetto che percepisce. L'importante è non identificare il simulacro che si produ­ ce nelle vicinanze dell'oggetto con quello che si ha in una vi­ sione a distanza. 7.4 Teoria dell'errore e dell'opinione Il tema deli'inferenza semiotica diventa sempre più cen­ trale nel campo dei processi percettivi quando si abbandona il terreno sicuro della sensazione per esplorare quello insi­ dioso delle opinioni, in cui si può verificare l'evenienza del­ l'errore. Se gli uomini si attenessero soltanto alle loro sen­ sazioni e si limitassero a descrivere le loro immagini mentali (phantasfa1), non ci sarebbe possibilità di errore. Ma ciò non avviene, e l'errore sorge quando viene ad aggiungersi alla sensazione qualche processo mentale che Epicuro, nella Lettera ad Erodoto (5 1), chiama "secondo movimento" (al­ l klnèsis). Long (1971 b: 1 18) identifica questo "secondo movimen­ to" proprio con il processo di elaborazione deli'opinione. Infatti Epicuro dice che esso è "connesso" con il primo mo­ vimento (cioè la semplice apprensione di immagini), ma, a differenza di questo, "ammette una distinzione": quella tra il falso e il vero. Il primo movimento, cioè l'apprensione di immagini, non ammette alcuna distinzione di questo gene­ re, perché è prodotto da cause esterne, ovvero dai simula­ cri; il secondo movimento, invece, consistendo nell'aggiun­ ta di un giudizio che noi facciamo su queste immagini, può ricevere conferma o attestazione contraria. Si può così sche­ matizzare il processo:  168 7. INFERENZA E LINOUAOQIO IN EPICURO processo conoscitivo / apprensione di immagmi lphsntsstik epiboli'J sempre vera opinione (d6xs)   conferma e non attestazione contraria vera attestazione contraria e non conferma falsa  In effetti, se, sulla scorta di una visione distante e oscura, io dico, traducendo in parole le mie sensazioni: "Quella ha le apparenze di una torre rotonda", io parlo in maniera veri­ tiera; ma se dico: "Quella è una torre rotonda", il mio giu­ dizio è disconfermato nel caso che, avvicinandomi, riceva l'immagine di una torre quadrata. In definitiva, le immagi­ ni sono tutte vere mentre le opinioni sono alcune vere e altre false. 14 Quello che comunque risulta è il carattere congettu­ rale dell'opinione. 7.5 La congettura È naturale che all'interno di una teoria dell'opinione uno spazio privilegiato venga dedicato alla congettura. Infatti, in generale, la congettura consiste proprio in un'ipotesi co­ noscitiva su una dimensione che va oltre ciò che può essere colto attraverso i sensi. L'opinione, come la concepisce Epi­ curo, è associata esattamente a queste caratteristiche, consi­ stendo appunto in un giudizio che prevede l'impegno del soggetto su qualcosa che attende conferma. Ci sono alcune parole chiave che definiscono il processo conoscitivo attuato attraverso l'opinione. La prima è pro-  7.5 LA CONGETTURA 169 sménon, "ciò che attende conferma", 1 5 che è appunto l'og­ getto sul quale si esercita il giudizio. Una seconda e una terza parole chiave, collegate tra loro da una relazione di antonimia, sono epimartjrsis "attesta­ zione" e antimartjrsis "attestazione contraria" o "conte­ stazione". Tuttavia, il sistema di Epicuro per la conferma o la disconferma di una certa opinione non gioca su due, ben­ si su quattro termini: c'è infatti conferma quando si ha "at­ testazione" o "non contestazione"; c'è disconferma quando c'è "contestazione" o "non attestazione". Si viene cosi a creare un vero quadrato semiotico: attestazione contestazione ( epimsrtyrlJsis) non contestazione (ouk sntimsrtyrsis) ( sntimsrtyrlJsis) non attestazione (ouk epimsrf'jrlJsis)  in cui, per Epicuro, due termini (o quelli della deissi positi­ va, o quelli della deissi negativa) congiuntamente sono ne­ cessari per decidere di un'opinione. 1 6 Tuttavia ciascuno dei quattro termini è idoneo a stabilire la validità di un'opinione. Infatti nella teoria semiotica ri­ portata nel De signis da Filodemo, il criterio per decidere sulla validità di un'inferenza induttiva sarà rappresentato dalla sola non contestazione, ovvero dal non conflitto del­ l'espressione segnica con i fenomeni percepibili. Nel quadrato di Epicuro sorge il problema di stabilire un criterio per definire in che cosa consista il termine base, cioè l'attestazione. Questo criterio è rintracciabile nella enargheia ("l'eviden­ za", "la chiara visione"), come ci dice Sesto:  170 7. INFERENZA E LINGUAGGIO IN EPICURO Ed è attestazione (epimartjris) una apprensione, conseguita mediante evidenza (di' enarghefas), del fatto che l'oggetto opi­ nato è appunto quello che precedentemente veniva opinato, co­ me, ad esempio, se Platone da lontano incede verso di me, io congetturo ed opino, a causa della distanza, che si tratti di Pla­ tone, e, quando egli mi si è accostato, viene attestato che si trat­ ti eli Platone, mercé la soppressione della distanza, e la confer­ ma si è avuta in virtù della stessa evidenza. (Sext. Emp., Adv. Math., VII, 212) In effetti Epicuro era ben consapevole del fatto che si possono commettere degli errori neli'identificazione o nel riconoscimento degli oggetti della percezione e, probabil­ mente, egli pensava che in ogni atto percettivo, accanto alla pura e semplice sensazione, anche la d6xa gioca sempre un ruolo. In questo modo la congettura diviene onnipresente, in quanto è coinvolta in ogni atto percettivo. Di conseguen­ za, la funzione che vengono ad assumere le sensazioni e le immagini mentali è quella di fornire i dati sulla base dei quali elaborare le congetture. 1 7 Nella Lettera ad Erodoto (38) sembrano essere presi in considerazione due tipi di oggetti sui quali l'inferenza se­ miotica si esercita: (l) ciò che attende conferma (prosménon) (2) ciò che non cade sotto i sensi (adlon) che danno luogo a due tipi di processi inferenziali. Il primo è relativo al genere di congettura che si instaura all'interno degli stessi processi percettivi ed è illustrato dal­ l'esempio, riportato da Sesto, del vedere in lontananza Pla­ tone che si avvicina, e poter solo congetturare che si tratti proprio di lui. In questo caso l'oggetto su cui si esercita la congettura è qualcosa che viene colto dai sensi, ma non di­ stintamente. Tuttavia, questo processo si conclude con una verifica: in questo caso, la conferma del dato congetturato, attraverso una visione chiara. Chiameremo questo tipo in­ ferenza percettiva. Il secondo è relativo all'inferenza su cose assolutamente escluse dal processo percettivo: è il caso della congettura nel senso fliù classico. Anche di questo ci fornisce un esempio Sesto. 8 Si tratta di risalire dali'esistenza del moto (cioè di  7.6 L'INFERENZA DA SEGNI 171 un elemento percepibile, un phain6menon) all'esistenza del vuoto (cioè di un elemento non percepibile, adlon). È la ti­ pica relazione logica di implicazione (chiamata da Sesto akolouthfa) tra un antecedente e un conseguente. Chiame­ remo questo secondo tipo di processo inferenza al non per­ cepibile. 7.6 L'inferenza da segni L'inferenza al non percepibile è una tipica inferenza da segni. Infatti in molti casi, come quello che abbiamo visto, "Se c'è moto-+c'è vuoto", non è possibile conoscere diret­ tamente l'oggetto sul quale viene fatta l'inferenza ("il vuo­ to"), ma lo si deve attingere attraverso un segno ("il mo­ to"). In effetti, anche per Epicuro, l'inferenza da segni è connessa con la possibilità di ampliare i limiti della cono­ scenza oltre la sfera degli oggetti sensibili. È proprio grazie a una teoria dell'inferenza segnica che la scuola epicurea riesce a superare i limiti del proprio radicale empirismo, aprendo la via anche alla conoscenza di fenomeni non per­ cepibili direttamente dai sensi. Anzi, nel De signis di Filode­ mo (fr. 2), c'è un esplicito invito a considerare le conoscen­ ze ottenute tramite inferenza, altrettanto sicure di quelle di­ rette. Un programma conoscitivo di questo tipo presuppone un'epistemologia che divide gli oggetti in quattro categorie, in maniera del resto non molto diversa da quanto avveniva nella semiotica stoica: ( l ) Oggetti o fatti evidenti (enarghi): "quegli oggetti che vengono recepiti involontariamente per mezzo di una rappresentazione o di una affezione" (Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 316). Come esempi vengono dati il fatto che sia giorno o il riconoscimento che una certa persona è un uomo. (2) Oggetti oscuri in modo assoluto (phjsei adla): "quegli oggetti che né furono conosciuti nel passato, né sono conosciuti nel presente, né saranno conosciuti nel futu-  172 7. INFERENZA E LINGUAGGIO IN EPICURO ro, ma sono inconoscibili in eterno" (Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 317-318). Come esempio viene data l'im­ possibilità di conoscere se il numero delle stelle sia pari o dispari. Fatti di questo genere sono inconoscibili, co­ me spiega Sesto, non per la loro natura, ma per la no­ stra natura, dato il tipo di limitazioni a cui è sottoposta la conoscenza umana. (3) Oggetti oscuri di per sé (ghénei adla): "quegli oggetti che sono oscuri per la propria natura, ma che si stima vengano conosciuti per mezzo di segni e di dimostrazio­ ni" (Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 319). Gli esempi so­ no gli atomi e il vuoto infinito. L'esistenza degli atomi e del vuoto era postulata da Leucippo e da Democrito su basi puramente razionali, ma Epicuro insisterà, in con­ formità con il suo empirismo, che possono essere cono­ sciuti attraverso l'inferenza analogica. (4) Oggetti che attendono conferma (prosménonta): sono quegli oggetti posti immediatamente oltre la nostra esperienza (Ep. Hdt., 38), la cui conoscibilità è limitata da fattori, quali la distanza nello spazio o il loro essere situati nel futuro. Come si può vedere, gli unici oggetti che possono essere conosciuti attraverso l'inferenza sono quelli che apparten­ gono alla terza e alla quarta classe. Essi sono da porre in corrispondenza con i due tipi di inferenza di cui abbiamo già parlato. L'inferenza percettiva, infatti, verte intorno agli oggetti appartenenti alla quarta classe, quelli "che attendono con­ ferma". L'inferenza al non percepìbile, invece, verte intorno agli oggetti appartenenti alla terza classe, cioè è rivolta alla co­ noscenza di quegli oggetti che sono "oscuri di per sé" e che non arrivano mai a essere esperiti dai sensi . In questo caso il metodo di verifica assume una forma indiretta: la "non at­ testazione contraria" (ouk antimartjresis). Il vuoto, come abbiamo visto, non è verificabile per esperienza diretta, ma gli epicurei sostengono che la sua esistenza non è in contra­ sto con nessun fatto conosciuto, 1 9 mentre la sua negazione  7.7 LA PROLESSI 173 entra in conflitto con l'esperienza empirica del movimento, che richiede il vuoto per attuarsi. Il cuore del ragionamento basato sulla non attestazione contraria consiste nel fatto che, quando si hanno due proposizioni contraddittorie in­ torno a qualcosa che non è percepibile, e una di esse risulta falsa in base a una prova empirica (nell'esempio preceden­ te, la non esistenza del vuoto, in quanto entra in conflitto con l'esistenza del moto), allora l'altra può essere conside­ rata vera (De Lacy 1978: 188). 7.7 La prolessi La prolessi (o "anticipazione" o "preconcezione") costi­ tuisce il secondo dei due criteri di verità che abbiamo defini­ to "oggettivi". Essa ha un ruolo determinante nell'inferenza percettiva, come mostra Diogene: Per esempio, per poter affermare: "Ciò che sta lontano è un ca­ vallo o un bue", dobbiamo per prolessi (o anticipazione) già aver conosciuto una volta la figura di un cavallo e di un bue. (Diog. Lai!rt.. Vitae, X, 33) In effetti la protessi è necessaria perché si abbia percezio­ ne in senso proprio, cioè affinché si passi dalla semplice consapevolezza del fatto che si sta vedendo un'immagine, al giudizio oggettivo che questa è immagine di un oggetto pre­ ciso. In altre parole, secondo Epicuro, per poter effettiva­ mente percepire un cavallo o un bue, si deve: l . avere avuto precedentemente un'immagine di questi animali; 2. averla immagazzinata nella mente; 3. effettuare un confronto con i dati che vengono forniti dalla propria attuale sensazione. Le prolessi sono in realtà delle immagini mentali o dei concetti che si sono formati in seguito a numerose esperien­ ze relative agli oggetti esterni. Esse hanno due caratteri fon­ damentali: (i) sono strettamente legate alla memoria di esperienze precedenti; (ii) sono evidenti (enargeis). Come concetti, le prolessi non necessariamente corri­ spondono a singoli oggetti esterni, ma costituiscono piutto-  INFERENZA E LINGUAGGIO IN EPICURO sto il tipo, di cui le singole esperienze percettive sono le oc­ correnze. Ciò, del resto, è strettamente collegato al fatto che esse rappresentano un test di verità: solo possedendo il concetto generale di "uomo", si può decidere se ciò che si ha di fronte sia o non sia un'occorrenza particolare di esso. 7.8 La teoria del linguaggio Le protessi costituiscono anche una condizione necessaria del linguaggio e agiscono tanto al livello della decodifica quanto a quello della codifica. Infatti, da una parte, l'atto di pronunciare un nome (a esempio juomol) richiama nella mente dell'ascoltatore un'immagine o un concetto, cioè un'entità che è soggiacente, hyfootetagménon, a quel nome e che è derivata dalla protessi; 0 potremmo dire che la pre­ senza di un significante fa scattare nell'ascoltatore I'abbina­ mento con un significato. Dall'altra, il Iocutore deve posse­ dere una preconcezione di ciò che intende esprimere, altri­ menti non gli sarebbe possibile dire niente: in questo caso, il locutore codifica un significato presente nella sua mente per mezzo di un artificio espressivo (un "nome"). Nella teoria epicurea la prolessi sembra coinvolta in ogni caso nella formazione dei concetti. Infatti Diogene dice che "tutti i concetti (epfnoia1) sorgono dalle sensazioni, o per diretta esperienza, o per analogia, o per somiglianza, o per combinazione, con una certa collaborazione anche da parte del ragionamento" ( Vitae, X, 32). Long (1971 b: 1 19) sug­ gerisce di identificare con le prolessi la prima classe di con­ cetti, cioè quelli che sorgono per diretta esperienza dalle sensazioni. Se dunque le prolessi sono alla base di ogni concetto, si viene a configurare una teoria del segno linguistico sensibil­ mente diversa da quella che è normalmente attribuita agli epicurei sulla scorta delle testimonianze di Sesto e di PIutar­ co.21 Questi ultimi, infatti, sostenevano che nella teoria lin­ guistica di Epicuro solo due fattori erano implicati: la cosa significante (sèmainon, o voce, ph(Jn) e la cosa designata (tynchanon). In effetti, la ragione per cui Plutarco e Sesto  7.8 LA TEORIA DEL LINGUAGGIO 175 trascurano le protessi nella teoria del significato linguistico è imputabile al fatto che essi non vedono nella teoria epicu­ rea niente di simile al lekt6n stoico, che è contemporanea­ mente incorporeo e completamente diverso da un'immagine mentale. Ciò non impedisce, tuttavia, alle protessi di avere la stes­ sa funzione dei lekta stoici, cioè di costituire un elemento di mediazione tra le parole e le cose. Di conseguenza, la teoria epicurea del segno linguistico dovrebbe essere così rico­ struita: prolessi  nomi cose Del resto, se a Epicuro fosse attribuita una teoria lingui­ stica secondo cui le parole si riferiscono direttamente alle cose, senza la mediazione delle protessi, entrerebbe in con­ traddizione tutta la sua dottrina della falsa credenza. A esempio, poiché gli uomini credono erroneamente che gli dei siano malevoli nei loro confronti ed esprimono verbal­ mente questa credenza, se non esistesse il livello concettuale delle prolessi, non ci sarebbe niente che corrisponde alla proposizione "Gli dei sono malevoli nei confronti degli uo­ mini". La presenza della prolessi come elemento mediatore tra le parole e le cose può rendere conto di molte asserzioni false e di asserzioni su cose che non esistono. Ciò che gli uo­ mini fanno, pensando agli dei come malevoli, è una falsa supposizione, ovvero un concetto non derivato dali'ogget­ to, cioè dagli dei stessi. La centralità della protessi nella teoria linguistica epicu­ rea è dimostrata anche dal fatto che essa deve essere identi­ ficata anche con quel particolare significato che è il "signifi-  176 7. INFERENZA E LINGUAGGIO IN EPICURO cato basico" o "primario" (proton ennoma), di cui si parla nella Lettera ad Erodoto (37-38) e che si oppone a tutti gli altri significati che possono essere considerati derivati da esso.22 7.9 L'origine del linguaggio La teoria linguistica in Epicuro è connessa con quella del­ l'origine stessa del linguaggio, che è discussa principalmen­ te nella Lettera ad Erodoto (75-76).23 Per Epicuro il linguaggio è un'attività che gli uomini han­ no sviluppato nel corso della loro evoluzione, passando at­ traverso due stadi distinti. Nel primo stadio il linguaggio esprime una relazione con la realtà che potrebbe essere defi­ nita naturale, mentre nel secondo una relazione che potreb­ be essere definita convenzionale. In effetti Epicuro, nella polemica phjsisln6mos, assume una posizione mediana e molto particolare, rifiutando sia l'idea che ci sia stato un unico datore di nomi, sia l'idea (per altro sostenuta dagli stoici) che le parole si accordino in maniera naturale alle co­ se. Esaminiamo più in particolare come è descritto il pro­ cesso di nascita e sviluppo del linguaggio nella Lettera ad Erodoto . In una prima fase l'attività linguistica degli uomini non è affatto diversa dai processi naturali quali tossire, starnuti­ re, gemere ecc.: infatti gli uomini emettono suoni, simili a parole, sotto lo stimolo involontario e naturale delle affe­ zioni (path) che provano e delle immagini (phantasmata) che si formano in loro. Il linguaggio primitivo costituisce una reazione istintiva all'arnbiente, e la tesi di Epicuro sem­ bra essere, in relazione a questo stadio, a pieno titolo quella naturalista. Ma, a ben guardare, essa presenta qualcosa di più. Infatti ha sempre costituito un problema, per i sosteni­ tori della tesi del naturale accordo tra le parole e le cose, spiegare la diversità delle lingue: qui Epicuro non evita que­ sto aspetto del problema,24 ma lo integra nella sua teoria. La diversità delle lingue è diretta conseguenza della diver­ sità degli ambienti in cui i vari popoli si trovano e in relazio-  7. l0 EPICURO E TRADIZIONE «PHYSIS/N6MOS» 177 ne ai quali emettono suoni diversi. Insomma, le lingue va­ riano perché le cose variano da regione a regione. Inoltre gli uomini, accorgendosi che si producono suoni diversi in re­ lazione alle affezioni e alle immagini prodotte dagli oggetti, trovano utile usare questi suoni come nomi-etichette degli oggetti. A questo punto interviene il secondo stadio nel processo evolutivo del linguaggio, in cui vengono introdotti degli ele­ menti di convenzione. Questi ultimi si instaurano sotto una duplice spinta: da una parte c'è un movimento che tende a razionalizzare il linguaggio, rendendo le espressioni ambi­ gue, createsi naturalmente "più chiare" e "più concise"; dal­ l'altra c'è l'operato degli "uomini colti", i quali tendono a introdurre concetti relativi a cose che vanno oltre la perce­ zione e che dunque non hanno potuto essere nominate at­ traverso il processo naturale. Come sottolinea Sedley (1973: 19), il tentativo deliberato di introdurre processi di semplifi­ cazione nell'evoluzione del linguaggio corrisponde al desi­ derio di rendere conto dei processi astratti, come quelli in cui la relazione uno e uno tra parole e cose non è più soste­ nibile. Ciò avviene sostanzialmente in due casi, che sono le­ gati all'intera problematica linguistica di Epicuro, cioè (i) nella formazione dei termini generali e (ii) nei processi di metaforizzazione. 7.lO Epicuro e la tradizione "physis/nomos" Dopo aver esaminato la teoria epicurea dell'origine del linguaggio, è possibile ritornare al triangolo semiotico e analizzare quali relazioni siano implicate tra i vari termini, in rapporto con altre posizioni della tradizione linguistica. Un primo confronto può essere stabilito con Aristotele. Spesso gli studiosi hanno suggerito una dipendenza della teoria linguistica di Epicuro da quella di Aristotele (tra gli altri, Arrighetti 1960: 476), o almeno una stretta somiglian­ za (Long 1971 b: 121). In effetti nel De interpreta/ione (16 a) Aristotele pensa alle affezioni dell'anima come a immagi­ ni provenienti dalle espressioni sensoriali derivate dalle cose  INFERENZA E LINGUAGGIO IN EPICURO esterne, in un modo non molto diverso da come le protessi di Epicuro derivano dagli oggetti. Se questo è un punto di contatto tra le due teorie, tuttavia maggiori sono, secondo Sedley, le divergenze. Anzitutto, per Aristotele i diversi popoli hanno esattamente le stesse affezioni mentali, ma le rappresentano attraverso espressioni linguistiche diverse. Per Epicuro, invece (come abbiamo visto a proposito dell'origine del linguaggio), le forme linguistiche sono diverse perché le affezioni mentali (path e phantasmata, ambedue inclusi negli aristotelici pathmata) sono diverse da popolo a popolo, in relazione ai diversi ambienti naturali. Ma ci sono anche altri elementi di divergenza tra Aristotele ed Epicuro. Per il primo, infatti, nessun nome preso di per sé ha funzione apofantica, cioè nessun nome può essere detto vero o falso; inoltre nessuna espressione diviene un simbolo se non in seguito a conven­ zione. Per Epicuro, invece, i nomi di oggetti individuali comportano verità o falsità, come avveniva, del resto, an­ che nel Crati/o platonico; inoltre, una certa espressione, che può essere anche un semplice rumore, può essere usata co­ me un simbolo, per quanto in assenza di elementi conven­ zionali, come avviene negli stadi primitivi della comunica­ zione. Un secondo confronto può essere stabilito poi anche con la posizione platonica. Sicuramente in Epicuro non è pre­ sente alcuna posizione simile a quella della prima teoria se­ mantica di Platone,25 adottata in seguito anche dagli stoici, secondo la quale il nome è una lista abbreviata delle pro­ prietà dell'oggetto a cui si riferisce. Platone, infatti, vede le parole primitive come una rappresentazione fedele delle proprietà dell'oggetto, quasi che tutto il vocabolario fosse deliberatamente costituito da onomatopee. La posizione naturalistica di Epicuro si limita a sostenere che, ali'interno di ciascun linguaggio, ogni nome ha un uso corretto quando viene impiegato per denotare l'oggetto, o la classe di oggetti, a cui è stato associato nel momento del­ la sua origine naturale. Tuttavia, nonostante questa distin­ zione, ci sono forti elementi di convergenza tra la posizione platonica e quella epicurea, in quanto in entrambe i nomi  EPICURO E TRADIZIONE «PHYSIS/N6MOS» 179 hanno alla loro origine un valore cognitivo, che viene par­ zialmente obliterato attraverso i cambiamenti del linguag­ gio nel corso del tempo.26 Per Platone il recupero del senso originario delle parole avviene attraverso l'etimologia, stra­ da sulla quale lo seguiranno anche gli stoici. Epicuro ritie­ ne, invece, che la relazione originaria del linguaggio con gli oggetti percepibili sia stata oscurata soprattutto da processi metaforici e, per recuperare il valore epistemologico origi­ nario dei nomi, suggerisce di ricercare "la prima immagine" (prOton enn6ema: Ep. Hdt., 38). Questa prima immagine è da identificarsi con la prolessi, cioè con il concetto che si è formato alla prima percezione dell'oggetto e che è stato as­ sociato al nome. In conclusione, rispetto alla teoria di Aristotele e alla pri­ ma teoria semantica di Platone, si può dire che Epicuro as­ sume una posizione intermedia. Per Aristotele i nomi sono simboli e sono convenzionali. Per Platone, invece, i nomi sono delle icone degli oggetti e sono naturali. Per Epicuro i nomi sono simboli, come per Aristotele, in quanto non riproducono le proprietà degli og­ getti, ma sono naturali, come per Platone, nella loro origi­ ne, coincidente con il primo dei due stadi evolutivi del lin­ guaggio . Gli elementi di convenzionalità si sviluppano soltanto in seguito, nel secondo stadio. Questa posizione intermedia di Epicuro spiega perché non venga fatto ricorso all'etimolo­ gia, come invece avviene in Platone e negli stoici, e, pur tut­ tavia, si chieda di tenere presente "la prima immagine": in realtà, la corrispondenza biunivoca tra il nome e "la prima immagi ne" si fonda non sulla forma, ma sulla origine natu­rale . IL ''DE SIGNIS'' DI FILODEMO 8.0 Introduzione Dopo Epicuro la teoria del segno trovò un ampio svilup­ po negli scritti dei suoi seguaci. Un trattato del I secolo a.C.,1 ilPerìsmet'Onkaìsmei8seon(Suisegniesulleinfe­ renze)2 di Filodemo, testimonia ampiamente del grado di raffinatezza e di complessità che la teoria del segno aveva raggiunto in seno alla scuola epicurea. Si tratta di un'opera composta probabilmente a uso della scuola epicurea di Er­ colano, della quale Filodemo fu uno dei più importanti esponenti. Il De signis non costituisce un vero e proprio trattato metodologico, né un'esposizione sistematica della teoria epicurea del segno, ma riporta la polemica allora in corso fra stoici ed epicurei sull'inferenza da segni e su varie tematiche semiotiche a essa connesse. Il trattato è diviso in quattro sezioni, nelle quali sono esposte le argomentazioni di tre maestri epicurei, Zenone di Sidone, Bromio e Deme­ trio di Laconia,3 a favore della teoria epicurea del segno e contro le critiche a essa mosse dagli esponenti della scuola stoica. Il trattato è di grandissima importanza semiotica, perché tanto gli stoici quanto gli epicurei costruivano la loro teoria logica sull'inferenza da segni. Nel confronto le due teorie si illuminano a vicenda. Inoltre il De signis dibatte una serie di problemi che ancora oggi sono al centro della discussione semiotica. Del resto, per la sua pertinenza semiotica, que­ st'opera aveva attirato anche l'interesse di Charles Sanders  8.l RELAZIONE SEGNICA «A PRIORI» E «A POSTERIORI» 181 Peirce, che ne aveva affidato l'approfondimento e l'analisi all'allievo Allan Marquand; di quest'ultimo ci rimane un saggio sulla logica semiotica degli epicurei.4 8.1 La relazione segnica è "a priori" o "a poste­ riori"? Al centro del trattato di Filodemo si colloca il contrasto fondamentale tra le due scuole circa il modo di concepire il rapporto che si instaura tra i due termini della relazione se­ gnica: gli stoici sono sostenitori di una posizione che vede tale relazione come a priori, formale e di natura razionale; gli epicurei, invece, sostengono che tale relazione è a poste­ riori e interamente fondata su basi empiriche. Il punto di vi­ sta epicureo, in effetti, è che per poter stabilire una relazio­ ne tra un segno e ciò a cui esso rinvia, è necessario aver os­ servato più volte i due termini in un qualche tipo di con­ giunzione (sia essa spaziale, temporale, causale ecc.). Così la relazione si stabilisce in seguito ali'esperienza, e non a priori, come sostenevano gli stoici. Di conseguenza, il me­ todo semiotico proposto dagli epicurei è quello deH'analo­ gia (ho katà tn homoi6tta tr6pos), cioè un "metodo stret­ tamente empirico e basato sull'osservazione delle similarità nella nostra esperienza e su certe congiunzioni costanti, dal­ le quali noi inferiamo ugualmente delle similarità e delle congiunzioni nella sfera di ciò che è oscuro" (De Lacy 1938: 398). In corrispondenza con i due modi di concepire la relazio­ ne segnica, stoici ed epicurei sviluppano anche due differen­ ti teorie sulla verifica della validità logica della relazione. Gli stoici consideravano valida la relazione segnica basata sulla contrapposizione (anaskeu), secondo cui la negazione del conseguente comporta la contemporanea negazione del­ l'antecedente. A esempio, nell'inferenza "Se c'è moto, c'è vuoto", gli stoici sostenevano che la negazione della cosa si­ gnificata ("c'è vuoto") implicherebbe anche la negazione del segno (''c'è moto"). Si tratta di un metodo di verifica as­ solutamente a priori e astratto, al quale gli epicurei con-  182 8. IL «DE SIGNIS)) DI FILODEMO trappongono un metodo completamente empirico. Anzi, gli epicurei sostengono che nessun metodo a priori è possibile fino a che non sia stata costruita un'inferenza su base empi­ rica: l'esistenza del vuoto, nell'esempio precedente, è inferi­ ta a partire dalla osservazione empirica che non si verifica il moto senza l'esistenza congiunta del vuoto, e da una conse­ guente generalizzazione.5 Ciò significa che il principio astratto degli stoici può esse­ re formulato soltanto dopo che l'inferenza è stata costruita su base empirica e con il ricorso a un ragionamento analogi­ co. Così gli epicurei sostengono che il metodo della con­ trapposizione poggia, inconsapevolmente, sul fondamento ultimo dell'analogia epicurea. In questo modo le verità ne­ cessarie, che gli stoici consideravano analitiche e a priori, sono in realtà stabilite attraverso l'induzione. Gli epicurei prospettano un punto di vista secondo cui la logica dedutti­ va è susseguente a una logica induttiva in ordine di svilup­ po: la prima dipende infatti dalla seconda (De Lacy 1978: 221). Se questa idea è chiaramente espressa nel trattato di Filodemo, non ci si deve tuttavia aspettare una discussione articolata sulle relazioni tra la logica formale e deduttiva da una parte, e logica induttiva e metodo empirico dall'altra. Anzi, a ben vedere, nel corso del trattato, entrambi i prota­ gonisti della discussione tendono a confondere due cose che la logica moderna avrebbe piuttosto tendenza a tenere di­ stinte: da una parte, il metodo per la costruzione di un'infe­ renza segnica; dall'altra, il criterio per la verifica della sua validità (Martinelli) . Così, il metodo di costruzione deli'inferenza per gli epicurei è l'analogia, mentre il criterio è più precisamente quello della inconcepibilità (adianosfa). Tuttavia la distinzione non è così forte, in quanto sia il me­ todo sia il criterio sono su base empirica: in effetti, nel di­ battito, gli stoici tenderanno ad attaccare il metodo per in­ validare il criterio e viceversa. 8.2 Contrapposizione vs inconcepibilità Vediamo di analizzare, in termini formali, l'opposizione  CONTRAPPOSIZIONE VS INCONCEPmiLITÀ · 1 83 che si stabilisce tra il criterio stoico della contrapposizione e quello epicureo della inconcepibililà. Data l'inferenza p-:Jq il criterio della sua verifica secondo la contrapposizione stoica è esprimibile come il che equivale a dire che, negando per ipotesi il conseguen­ te, anche l'antecedente risulta negato. La prova dell'infe­ renza, dunque, avviene su base formale e non empirica. Il criterio della inconcepibilità epicurea, invece, prescinde da considerazioni formali ed è basato sull'analogia empiri­ ca. Esso viene così illustrato nelle parole di Filodemo: Ma talvolta l'inferenza non è provata essere vera in questo mo­ do ( = per contrapposizione), ma proprio per l'impossibilità di concepire che il primo sia, o abbia una certa proprietà, mentre il secondo non sia, o non abbia tale proprietà, come per esem­ pio: "Se Platone è un uomo, anche Socrate è un uomo". Se è vera questa inferenza, diviene vero anche che "Se Socrate non è un uomo, nemmeno Platone è un uomo", non perché, attraver­ so la negazione di Socrate, Platone sia negato insieme ad esso, ma perché non è possibile che Socrate non sia un uomo e Plato­ ne sia un uomo; e questa inferenza appartiene al metodo dell'a­ nalogia . (col. XII, 14-31=cap. 17) Dal punto di vista formale il criterio della inconcepibilità è esprimibile come impossibile (pl\q) In effetti le due formule che corrispondono rispettiva­ mente al criterio di verifica stoico e a quello epicureo non esprimono un contenuto logico molto diverso l'una rispetto all'altra. La stessa presenza di un operatore modale nella   184 8. n «DE SIGNIS» DI FnODEMO formula del criterio di inconcepibilità è controbilanciata dal carattere, ugualmente modale, di necessità, che sappiamo essere richiesta dali'implicazione come la concepivano gli stoici . Tuttavia, in Filodemo i due metodi sono presentati come contrapposti, e anzi, nel passo citato, sembra che trovino applicazione in casi diversi. Se non è dunque sul piano del contenuto logico che si dif­ ferenziano, che cosa è allora che li rende diversi? È possibi­ le cercare una risposta a questo interrogativo soffermando­ ci sull'esempio che viene riportato da Filodemo di inferenza verificata con il metodo dell'inconcepibilità: "Se Platone è un uomo, anche Socrate è un uomo" Questa inferenza, ci dice Filodemo, appartiene al metodo dell'analogia. Infatti, entrambi i membri dell'inferenza condividono un elemento, cioè la proprietà attribuita ai soggetti rispettivi delle due proposizioni, fatto che potrem­ mo esprimere come: u {P)  u {S) in cui "u" è la proprietà di "essere un uomo", "P" è "Plato­ ne" e "S" è "Socrate". Questo aiuta a capire che cosa intendano esattamente con "analogia" e con "inferenza segnica basata sull'analogia" gli epicurei. In effetti, mentre per gli stoici non è necessario alcun elemt.nto in comune tra i due membri dell'inferenza segnica, una tale caratteristica diviene essenziale per gli epi­ curei.6 Il fatto, però, che l'analogia, da un punto di vista logico, si venga precisando come situazione in cui c'è una proprietà condivisa dai soggetti delle due proposizioni membri del­ l'inferenza, ci permette di dire che la logica usata dagli epi­ curei non è la stessa di quella usata dagli stoici: mentre que­ sti ultimi si servono della logica delle proposizioni, gli epi­ curei ritornano a una logica dei predicati, sotto un certo punto di vista più simile a quella aristotelica.CONTRAPPOSIZIONE VS INCONCEPIBILITÀ 185 A distinguere il metodo della contrapposizione da quello dell'inconcepibilità è dunque l'ambito di applicazione: le proposizioni nel primo caso, le proprietà nel secondo. Lo scopo è tuttavia lo stesso: dimostrare che l'inferenza ha un carattere di necessità. Ora non c'è nessun problema a considerare necessaria la relazione stoica verificata dalla contrapposizione, in quanto il metodo adottato è aprioristi­ co. Ci sono maggiori problemi, invece, come gli stoici sot­ tolineano, a considerare necessaria l'inferenza analogica. A ogni modo, per gli epicurei le relazioni segniche vengo­ no scoperte empiricamente e, se la ricerca è ben condotta, la relazione tra il segno e l'oggetto a cui il segno rimanda' è necessaria. Tuttavia, il metodo stesso dell'inconcepibilità è un metodo empirico, in quanto una certa cosa è inconcepi­ bile solo nei termini della nostra esperienza. Le inferenze verificate dall'inconcepibilità sono basate sull'analogia tra il segno e ciò a cui esso rimanda: "Un oggetto che non ab­ bia niente in comune con ciò che appare è inconcepibile" (col. XXI, 27.;.29 = cap. 36). Anche le inferenze su ciò che va di là dell'esperienza sono basate sull'analogia con le proprietà che presentano le cose ali'interno deli'esperienza. Se non è possibile verificare di­ rettamente la presenza di quelle proprietà negli oggetti non percepiti, si ricorre alla prova indiretta della non incompati­ bilità (ouk antimartjrsis) con i dati empirici.7 L'inferenza che viene presa in considerazione è la seguente: Se gli uomini che noi conosciamo direttamente, una volta deca­ pitati muoiono, senza che ricrescano nuove teste, allora tutti gli uomini, dovunque, una volta decapitati muoiono e non ricre­ scono nuove teste. Il primo membro del condizionale è considerato segno del secondo. Tra i due membri si stabilisce un elemento co­ mune, e l'inferenza è propriamente un'induzione: l'espe­ rienza ripetuta dell'associazione tra decapitazione da una parte e morte congiunta alla non ricrescita della testa dal­ l'altra, porta alla generalizzazione di questa associazione, in modo da poter fare inferenze e previsioni anche in casi  186 8. IL «DE SIONIS» DI FnODEMO non precedentemente osservati, o non osservabili in asso­ luto. Inoltre, poiché è impossibile verificare l'inferenza sui casi non osservabili, gli epicurei la ritengono veri ficata basando­ si sulla non incompatibilità con i casi che cadono nel domi­ nio deli'esperienza. La condizione è tuttavia quella di sce­ gliere i casi giusti, che sono quelli che appartengono allo stesso genere: a esempio, per inferire la non ricrescita delle teste, è necessario non basarsi sulla ricrescita dei capelli o delle unghie (coli. XIII, 20 - XIV, 2 = cap. 18). 8.3 Segni comuni e segni propri La disputa sui metodi di verifica dell'inferenza si lega alla discussione sui tipi possibili di segno. Tanto gli stoici quan­ to gli epicurei distinguevano tra segno comune (koinòn s­ mefon) e segno proprio (fdion smefon). Definivano il segno comune come quella entità che può esistere anche in assen­ za di un'entità cui dovrebbe rinviare (a esempio, nell'infe­ renza "Se quest'uomo particolare è ricco, allora è buono"! la ricchezza può sussistere anche se non sussiste la bontà). Definivano poi il segno proprio come quell'entità che può esistere solo se esiste un oggetto non percepibile a cui essa rinvia (a esempio, nell'inferenza "Se c'è moto, c'è9vuoto", il moto può esistere solo se esiste anche il vuoto). Gli epicurei erano d'accordo con gli stoici nel rifiutare i segni comuni come basi inaffidabili di inferenze, ma non concordavano sul fatto che ogni caso di segno proprio fosse anche un caso (come sostenevano gli stoici) di segno stabili­ to per contrapposizione, cioè stabilito aprioristicamente. Per essi era possibile stabilire dei segni propri usando un criterio empirico, come è quello dell'inconcepibilità.10 Se consideriamo l'inferenza: "Se Epicuro è un uomo, allora anche Metrodoro è un uomo " ci troviamo di fronte a un segno proprio costruito per ana- SEGNI COMUNI E SEGNI PROPRI 187 logia, cioè sull'osservazione di una proprietà in Epicuro che è inconcepibile pensare che Metrodoro non abbia esatta­ mente negli stessi termini. In altre parole si può dire che, posto l'accordo tra le due scuole sulla validità dei soli segni propri, gli stoici costituivano un oggetto come segno a par­ tire dal conseguente (ovvero dal rinviato), mentre gli epicu­ rei lo costituivano a partire dall'antecedente. È l'oggetto che compare nell'antecedente, infatti, che nella semiotica epicurea viene associato a certe proprietà (costantemente osservate) e diviene segno di un altro ogget­ to non percepibile a cui vengono attribuite le proprietà del primo. Tuttavia, il primo oggetto X deve avere almeno due proprietà Pt e P2 e il secondo oggetto deve avere almeno una di queste: la proprietà comune diviene il segno della presenza della seconda proprietà che può non essere perce­ pibile direttamente nel secondo oggetto. A esempio, se un certo individuo X ha le due proprietà: Pt = "essere un uomo" p2 = "non poter avere la ricrescita della testa, una volta tagliata" sarà sufficiente che un altro individuo Xt abbia la proprietà Pt perché gli si possa attribuire anche la proprietà p2. Le condizioni della validità generale di questa inferenza sono due: (i) che l'associazione tra le due proprietà nel pri­ mo membro dell'inferenza sia costante; (ii) che tale associa­ zione non si stabilisca tra proprietà casuali. Come vedremo in seguito, si tratta di scegliere delle proprietà che siano "es­ senziali". Rimane da fare una considerazione generale sul tipo di segno proposto dagli epicurei: esso sembra costantemente configurarsi come segno iconico, in quanto, in termini peir­ ceani, rimanda al suo oggetto in virtù di una somiglianza o per avere alcune proRrietà in comune con esso (Peirce 1980: 140; Eco 1973: 51). 1  188 8. ll «DE SIGNIS» DI FILODEMO 8.4 Critica stoica all'induzione epicurea Gli stoici non accettano la validità dell'inferenza basata su un criterio induttivo, come proponevano gli epicurei. A essa contrappongono inferenze segniche basate sostanzial­ mente su due tipi di criterio: (i) la tautologia; (ii) la L-impli­ cazione. 12 Seguiamo lo sviluppo dell'argomentazione degli stoici. Essi prendono come punto di partenza una tipica in­ ferenza induttiva, o analogica, epicurea: "Se gli uomini tra di noi sono mortali, allora tutti gli uomi­ ni lo sono''. Per gli stoici l'inferenza cosi formulata è inaccettabile. Per acquisire validità, essa deve essere riformulata secondo l'uno o l'altro dei criteri che abbiamo menzionato. Vedia­ mo il criterio definito come tautologia. Gli stoici sostengo­ no che, per rendere valida l'inferenza, cioè, dal loro punto di vista, per rendere necessaria la relazione tra i due mem­ bri, entrambe le proprietà prima considerate devono essere contenute nella premessa. 1 3 Gli stoici propongono così di riformulare l'inferenza nel modo seguente: Dal momento che gli uomini tra di noi sono mortali, e se in altri luoghi vi sono uomini simili a quelli tra di noi sotto tutti i ri­ spetti, e anche nell'essere mortali, essi sono eventualmente mor­ tali . (coIl. II, 37 - III, 4= cap. 5) Il carattere tautologico dell'inferenza è sottolineato dagli stoici stessi, i quali sostengono espressamente che "la con­ clusione appresa attraverso questo segno non differisce dal segno a partire dal quale si trae l'inferenza (smeioume­ tha)".14 Infatti viene assunta la premessa che entrambe le serie di entità (cioè sia gli uomini che si trovano tra di noi, sia gli uomini che sono in luoghi sconosciuti) hanno non so­ lo la proprietà comune di essere "uomini", ma anche con­ temporaneamente quella di essere "mortali".  8.5 RISPOSTA EPICUREA A FAVORE DELL'INDUZIONE L'assunzione nella premessa dello stesso carattere di "mortalità" che dovrà essere anche oggetto di inferenza è, per gli stoici, condicio sine qua non della necessità dell'infe­ renza. L'inferenza sarà valida, dunque, solo se totalmente analitica o tautologica. Vediamo ora l'argomentazione stoica contro l'induzione secondo il criterio definito L-implicazione. In questo secon­ do caso gli stoici propongono di riformulare l'inferenza epi­ curea di partenza in maniera tale che il carattere di "morta­ lità" da inferire sia contenuto nella definizione stessa di "uomo". Per esprimere l'idea che la parola luomol implicita semanticamente tutto un insieme di proprietà che una defi­ nizione metterebbe in luce, essi introducono le espressioni hii "in quanto" e kath6 "nella misura in cui". L'inferenza riformulata secondo questo principio assume la forma se­ guente: Dal momento che gli uomini tra di noi, in quanto (hi1) e nella misura in cui (kath6) sono uomini, sono mortali, anche in qual­ siasi altro luogo gli uomini sono mortali.ts in cui la semplice espressione l uomo l è data come implici­ tante la proprietà "mortale" da inferire. Gli stoici sostengono che l'attribuzione della proprietà di essere "mortale" a l uomo l, se avviene in qualsiasi altro modo diverso da questo, come appunto fanno gli epicurei, rende vana l'inferenza. 8.5 La risposta epicurea a favore dell'induzione La sostanza della replica epicurea è che il sistema stoico, per quanto appaia analitico e a priori, tuttavia poggia in ul­ tima analisi su una base induttiva. In realtà, secondo gli epicurei, la necessità della relazione inferenziale è costruita sull'osservazione di congiunzioni costanti. È a causa del fatto di non vedere mai il fumo senza il fuoco, né il moto senza la presenza del vuoto, che noi arriviamo a dire che il fumo è segno del fuoco e il moto segno del vuoto.16 Cosi è  190 8. IL «DE SIGNIS» DI FILODEMO su base empirica che viene stabilito il sistema di necessità lo­ gica a priori alla quale fanno ricorso gli stoici . Del resto, la stessa connessione necessaria tra due termini, espressa at­ traverso il test della contrapposizione, può essere verificata solo dopo che l'esperienza ha mostrato la costante congiun­ zione tra di essi. Come giustamente interpreta Estelle De Lacy (1938: 405), "le ipotesi sul livello logico e teoretico sono formulate sulla base di informazioni intorno alla connessione di termini da­ ti dali'osservazione deli'esperienza dei sensi. La validità di queste ipotesi, di conseguenza, dipende dalla loro corri­ spondenza con i fatti e dalla loro adeguatezza nel compren­ dere tali fatti, come pure dalla loro interna coerenza o com­ patibilità dell'uno con l'altra". Se questa è la sostanza della replica epicurea alle critiche stoiche sull'induzione, vale però anche la pena di analizzare la risposta specifica17 alla seconda critica stoica. Infatti, in relazione alla L-implicazione, gli epicurei, ribaltando l'ar­ gomento stoico, sollevano una questione interessante: la de­ finizione di uomo in quanto mortale è non il punto di par­ tenza di un'inferenza deduttiva, ma il punto di arrivo di ri­ petute inferenze induttive. In altre parole, si costruisce la definizione di uomo in quanto tale, come comprendente an­ che la proprietà di essere "mortale" in conseguenza di due serie di informazioni: (i) le informazioni che ci fornisce la storia sulle vite degli uomini che ci hanno preceduti; (ii) le informazioni che ci derivano dali'esperienza diretta dei no­ stri contemporanei. Così gli epicurei pongono l'equivalenza tra la proposizione: (a) "Gli uomini, in quanto uomini, sono mortali " (che è la formula suggerita dagli stoici, e che indica dedutti­ visticamente il fatto che nella nozione di "uomo" vi è com­ presa la proprietà "mortale"), e la proposizione: (b) "Gli uomini con questa proprietà (di essere mortali) sono uomini" PROPRIETÀ ESSENZIALI E ACCIDENTALI 191 che è la formula epicurea, la quale suggerisce in qual modo venga costruita la definizione. In sostanza, gli epicurei sem­ brano sostenere che la definizione di "uomo" viene costrui­ ta mediante un'accumulazione di proprietà che sono rileva­ te mediante un metodo analogico in entità che sono9deno­ minate in un certo modo, in questo caso, luominil.1 8.6 Proprietà essenziali e proprietà accidentali Un altro interessante problema che emerge nella disputa tra stoici ed epicurei è quello della distinzione tra proprietà primarie e proprietà secondarie. Questa distinzione risale a Democrito, che è stato il primo a usarla (De Lacy 1938: 403). Il problema non è affatto banale e ancora oggi, in molte teorie semantiche, si ricorre a un'analoga distinzione. Gli epicurei affrontano l'argomento per rispondere a una critica stoica che attacca il metodo dell'analogia mostrando il rischio che si corre neli'applicarla a proprietà che non hanno tutte la stessa ripartizione o generalità. Infatti, so­ stengono gli stoici, allo stesso modo in cui viene universaliz­ zata la concomitanza osservata tra la proprietà "uomo" e la proprietà "mortale'', altrettanto potrebbe essere fatto per la concomitanza osservata tra "uomo" e "di breve vita": il ri­ schio è che, così facendo, si viene ad attribuire quest'ultima proprietà anche agli abitanti del monte Athos, che nell'anti­ chità erano proverbialmente considerati longevi.20 Proprio da questo tipo di critica gli epicurei sono spinti a elaborare una distinzione tra proprietà che sono variabili (cioè peculiari a certi individui) e proprietà che sono costan­ ti (cioè rintracciabili in ogni individuo). L'inferenza corret­ ta sarà quella che parte dalle proprietà costanti. Tuttavia, sostengono gli epicurei, la stessa presenza di proprietà va­ riabili, invece di indebolire la teoria dell'inferenza analogi­ ca, la rafforza: posto infatti che gli uomini conosciuti diffe­ riscono moltissimo rispetto alla lunghezza della vita (essen­ do alcuni di breve vita e altri longevi), diviene possibile, proprio sulla base dell'esistenza della variazione, fare cor­ rettamente l'inferenza che altrove esistano uomini di ecce-  192 8. IL «DE SIGNIS» DI FILODEMO zionale longevità, come lo sono appunto gli abitanti del monte Athos.21 Ma ciò che spinge gli epicurei ad andare ancora più a fon­ do su questa strada è l'attacco stoico a proposito di inferen... ze che hanno conseguenze sulla loro teoria metafisica. La provocazione stoica concerne la teoria degli atomi, che, nel­ la metafisica epicurea, hanno la proprietà di essere "incolo­ ri" e "indistruttibili"; però essi hanno anche la proprietà di essere "corpi", a cui, nell'esperienza, sono associate le pro­ prietà opposte (cioè "colorati" e "distruttibili"). Queste so­ no le due inferenze che, secondo gli stoici, gli epicurei do­ vrebbero fare, applicando correttamente il metodo analo­ gico: (l) "Dal momento che tutti i corpi della nostra esperienza hanno colore e anche gli atomi sono corpi, anche gli atomi hanno colore." (2) "Dal momento che tutti i corpi nella nostra esperienza sono distruttibili, e anche gli atomi sono corpi, gli atomi devono essere tutti distruttibili."22 La replica epicurea è molto interessante, per due motivi. In primo luogo, perché precisa ulteriormente la necessità di fare distinzioni tra proprietà a cui il metodo analogico si applica, e proprietà a cui non si applica; infatti il metodo agisce selettivamente sulle proprietà e non in modo ca­ suale.23 In secondo luogo, la replica epicurea è interessante per­ ché modula la precedente distinzione in termini teoricamen­ te più forti: essa diviene una distinzione in proprietà che possiamo definire essenziali e proprietà accidentali. Infatti gli epicurei parlano di certe proprietà che i corpi hanno pro­ prio "in quanto corpi" (hei somata), che essi mantengono in ogni occasione: prima fra tutte la proprietà di "opporre resistenza al tocco". Questa è dunque una proprietà essen­ ziale. Poi ci sono quelle proprietà che non sono strettamen­ te legate alla natura dei corpi e che possono variare a secon­ da delle condizioni: si tratta di proprietà accidentali, che i PROPRIETÀ ESSENZIALI E ACCIDENTALI corpi hanno "in quanto partecipano di una natura opposta a quella corporea e non resistente",24 come a esempio la di­ struttibilità o il colore, il quale ultimo è tanto accidentale che scompare nelle condizioni di buio. Possiamo schematizzare queste due serie di proprietà at­ traverso una tabella:   proprietè entitè corpi A B proprietè accidentali (in quanto partecipano di una nature opposta) ..distruttibilitè• ·colore•  (in quanto tali) ·resistenze al tocco· proprietè essenziali  Gli epicurei precisano molto chiaramente che le inferenze induttive generalizzanti non dovranno partire dalle proprie­ tà della colonna B; ma niente impedirà di fare inferenze ge­ neralizzanti, con il metodo dell'analogia, partendo dalle proprietà della colonna A.25 A conferma di questo schema si può riportare l'esempio del "fuoco'',26 per il quale, accanto alla proprietà essenziale di bruciare, viene elencata una serie di proprietà variabili peculiari ai vari tipi:  8. IL «DE SIGNIS» DI FILODEMO proprietà essenziali proprietà accidentali (koin6ttes) (idi6ttes) ·di lunga o corta durata• ·non tutte le sostanze sono bruciate nello stesso modo· ·facili o difficili da spegnere · ·duri o teneri· •di colore variabile a seconda del combustibile· Nella sezione di Bromio27 viene anche prevista una specie di topica per individuare la ripartizione delle proprietà: in­ fatti, ai fini della correttezza delle inferenze, le proprietà es.. senziali (o comuni, koin6ttes) e quelle accidentali (o pecu­ liari, idiOttes) devono essere analizzate nei vari campi o ca­ tegorie che sono di pertinenza di un oggetto: nelle sostanze, nei poteri, nelle qualità, negli attributi, nelle disposizioni, nelle quantità, nei numeri. Lo scopo di questa topica appare essere quello di giustifi­ care inferenze universalizzanti ali'interno di categorie omo­ genee: infatti, a esempio, pur essendoci un'infinita varietà di esseri umani e di cibi che li nutrono, se si considera il fie­ no rispetto alla categoria dei "poteri", si troverà che esso ha due proprietà costanti: "di non nutrire gli esseri umani" e "di non essere digerito da essi".28 Perciò, al di là delle diverse caratteristiche che questo og­ getto potrà presentare (diversi colori, diversa consistenza, diverso grado di maturazione ecc.), potremo fare con sicu­ rezza l'inferenza che da nessuna parte si troverà del fieno che abbia la proprietà di nutrire gli uomini e di essere da lo­ ro digerito. Ma che cosa sono propriamente per gli epicurei quelle proprietà degli oggetti ''in quanto tali", che abbiamo defini­ to proprietà essenziali? Dai precedenti esempi (e da altri analoghi) appare chiaramente che esse sono, per loro, le - 194 propnettt r entità ! fuochi PROPRIETÀ ESSENZIALI E ACCIDENTALI 195 proprietà definitorie di un oggetto, cioè quelle che concor­ rono alla sua definizione essenziale. Abbiamo visto che per gli stoici una definizione viene co­ struita analiticamente, attraverso una ricognizione delle proprietà implicite nella nozione da definire: un individuo, in quanto è uomo, ha la proprietà di essere mortale. Per gli epicurei le cose vanno nel senso opposto. La defi­ nizione di una nozione viene costruita per accumulo delle proprietà comuni a certi individui. Di conseguenza, tra le proprietà comuni (o essenziali) rilevate empiricamente e le proprietà che fanno parte della definizione, non c'è diffe­ renza. Lo dimostra anche l'uso della particella hi ("in quanto") che viene utilizzata (come vedremo meglio più avanti) nelle espressioni definitorie. Rimane aperto il pro­ blema se sia possibile costruire empiricamente una defini­ zione annotando le proprietà comuni a una classe di ogget­ ti, o se il processo non sia in qualche maniera viziato (alme­ no in parte) proprio dalla preliminare esistenza di definizio­ ni che rimandano alla lingua come struttura globale interde­ finita e/o storicamente stratificata. Questa seconda ipotesi sembra in parte prospettarsi con la definizione di l uomo l . Per gli epicurei, infatti, la pro­ prietà "mortale'' è, come abbiamo visto, una proprietà es­ senziale o definitoria di l uomo l . Si deve però notare che es­ sa fa parte della definizione di l uomo l già in una lunga tra­ dizione che risale per lo meno ad Aristotele. Quest'ultimo definiva infatti l uomo l come "animale mortale provvisto di ragione" (Top., V, l, 128 b, 35-36). Gli stoici poi lo defi­ nivano come "animale razionale mortale" (Epictetus, Diss. II, 9, 2). La tradizione epicurea, infine, lo definiva come "mortale provvisto di sapienza pratica" (De signis, col. XXII, 22-24=cap. 37).29 È probabile, dunque, che definizioni di questo genere co­ stituissero un'implicita guida nella stessa ricognizione empi­ rica delle proprietà comuni a una serie di oggetti (gli uomini percepibili) analizzati in vista di un'inferenza al non perce­ pibile .  196 8. IL «DE SIGNIS» DI FILODEMO 8.7 Modalità di inerenza delle proprietà essenziali ai soggetti Quando nel trattato di Filodemo si parla di proprietà co­ muni o essenziali, queste vengono congiunte al soggetto me­ diante le particelle héi, kath6, par6, che equivalgono nel si­ gnificato alle espressioni italiane "in quanto", ''nella misura in cui". Esse vengono a indicare una condizione restrittiva nell'inferenza al non percepibile, come abbiamo visto nel­ l'esempio della natura degli atomi come "corpi in quanto tali", o degli uomini come mortali "nella misura in cui sono uomini". Nella sezione di Demetrio sono elencate quattro accezioni fondamentali di queste particelle, che rimandano a quattro modi di inerenza delle proprietà ai soggetti: (i) Secondo la prima accezione, le proprietà possono es­ sere viste come conseguenze necessarie (ex ananks synépe­ tar): come esempio di conseguenza necessaria del fatto di essere uomini, sono riportati i fatti di avere un corpo e di essere soggetti alla malattia e alla vecchiaia.3° Con questo esempio l'autore sembra individuare un tipo di proprietà che in certe semantiche contemporanee sono chiamate fat­ tuali o sintetiche3 1 o proprietà secondo il modo 1r). 32 (ii) Nella seconda accezione, le proprietà sono individua­ te come essenziali alla definizione o alla concezione fonda­ mentale (prolessi)33 di un certo oggetto. Questo si verifica a esempio con espressioni del tipo: "I corpi, in quanto corpi, hanno volume e resistenza", o come: "L'uomo, in quanto uomo, è un animale razionale''. In questo caso il rapporto sembra essere di tipo equativo: l'estensione del primo termi­ ne viene a coincidere con quella del secondo. Nel caso del­ l'esempio di l uomo l, l'equivalenza definizionale viene data in termini di genere ("animale"), più differenza specifica ("razionale"). (iii) Secondo la terza accezione, certe proprietà sono vi­ ste come sempre concomitanti (synbebekénar), come nell'e­ sempio: "L'uomo nella misura in cui è uomo, muore". L'autore sembra individuare qui delle proprietà che nelle teorie contemporanee sono state definite semantiche, anali­ tiche o proprietà secondo il modo E : "uomo,, infatti, è in­ cluso nella classe più vasta di "mortale". Quest'ultima, poi, ritorna sotto forma di marca semantica a comporre il seme­ ma corrispondente al termine l uomo l . (iv) La definizione della quarta accezione è perduta in una lacuna, ma essa può essere ricostruita dagli esempi che il testo ha conservato: "L'uomo, nella misura in cui è folle, è massimamente infelice,, "Un coltello taglia nella misura in cui è affilato", "Gli atomi, nella misura in cui sono soli­ di, sono indistruttibili", "Un corpo, nella misura in cui ha peso, cade verso il basso". Marquand (1883: 125) interpreta questi come esempi di proprietà che implicano gradazioni o proporzione. I De Lacy (1978: 125) fanno invece la conget­ tura che si tratti di proprietà delle proprietà. Certi di questi esempi farebbero pensare al rapporto se­ miotico della connotazione, inteso come significato che si appoggia su un altro significato e che comunque è fissato da un codice. Si possono schematizzare i quattro modi in cui le proprie­ tà ineriscono al soggetto, · sia secondo l'interpretazione di Marquand, sia secondo quella della semiotica contempora­ nea (cfr. p. 198). 8.8 Conclusioni Se gli stoici avevano fornito alla semiotica una solida im­ palcatura logica, gli epicurei arricchiscono la problematica del segno mediante una serie di specificazioni destinate ad avere valore operativo nella ricerca concreta ed effettiva. Abbiamo già visto le distinzioni tra i tipi di segno, i tipi di proprietà, i modi di inerenza delle proprietà ai soggetti. Ol­ tre a questi temi gli epicurei affrontano anche il problema della gamma di variazione a cui i fenomeni sono sottoposti e quello dei limiti di tale variazione, come condizione per fare inferenze corrette. Infatti ammettono l'esistenza di proprietà che variano da individuo a individuo, ma negano  198 8. IL «DE SIGNIS)) DI FILODEMO semiotica contemporanea   Marquand conseguenza  1. 2. concezione estensionalmente necessaria definizione o proprietè fattuali o sintetiche  essenziale (protessi ) proprietà equivalenti al soggetto  3. concomitanza proprietà semantiche o analitiche  4. gradazione o connotazioni proporzione codificate che nei fenomeni non percepibili la gamma di variazione sia illimitata e che comunque superi i confini della variazione osservabile nei fenomeni conosciuti. Così non si potrà infe­ rire che gli uomini fuori dalla nostra esperienza siano tanto resistenti da essere invulnerabili, oppure che essi siano fatti di ferro, o che passino attraverso le pareti, come quelli co­ nosciuti passano attraverso l'aria. La giustificazione di que­ sto fatto viene data dal metodo deli'inconcepibilità: "è in­ concepibile che ci sia un ogetto che non abbia niente in co­ mune con ciò che appare". 5 Nel De signis vengono anche affrontati i problemi con­ nessi ai vari tipi di inferenza: da classe a classe; da oggetti identici ; da casi rari ; da casi unici . Tutti questi problemi so­ no collegati a un tema che è costante nella semiotica epicurea: quello delle garanzie di validità di un'inferenza. A esempio, un'inferenza scorretta è quella che porta a concludere che tutti gli uomini sono bianchi, partendo dal­ l'osservazione che gli uomini greci lo sono, o che, al contra­ rio, porta a concludere che tutti gli uomini sono neri, par­ tendo dali'osservazione che gli Etiopi sono tali. In effetti, simili inferenze sono errate perché non sono frutto di "una accurata supervisione di tutti i casi percepibili".36 Ciò che, dal punto di vista logico, avviene in casi di questo genere è che si tenta di applicare ali'intera classe o genere (quello de­ gli "uomini") una proprietà che di volta in volta è caratteri­ stica di una sottoclasse o specie (quella dei "Greci" o, ri­ spettivamente, quella degli "Etiopi"). In effetti, per garantire il massimo di sicurezza, gli epicu­ rei pongono alla base del loro metodo per costruire inferen­ ze una teoria della progressiva inclusione semantica tra in­ dividui, specie e generi, cioè una teoria delle classi. È infatti legittimo fare inferenze tra membri (classi o in­ dividui particolari) i quali si situino a un livello analogo o che siano il più possibile vicini e simili. Naturalmente que­ sto non significa che l'inferenza debba essere fatta esclusi­ vamente tra membri che si situano esattamente allo stesso livello, altrimenti l'induzione perderebbe molta della sua forza, ma nella maggior parte dei casi viene previsto un mo­ vimento ascendente di generalizzazione.37 Una teoria delle classi è implicita anche nella trattazione epicurea dei casi unici, elaborata ancora una volta in rispo­ sta a una critica stoica. In effetti gli stoici avevano tentato di attaccare il metodo deli'analogia ricorrendo ali'argomen­ to deli'esistenza in natura di casi unici, che non presentano analogia con alcun altro fenomeno: a esempio, in mezzo al­ la stragrande quantità di pietre che esistono nella nostra esperienza, ce n'è una sola, il magnete, che è capace di atti­ rare il ferro; ugualmente, solo l'ambra ha la proprietà di at­ tirare la paglia; infine, non c'è che il quadrato che misura 4 di lato che ha il perimetro e l'area espressi dallo stesso nu­ mero.38 Secondo gli epicurei, però, le critiche degli stoici, invece di inficiare l'inferenza analogica, in realtà la rafforzano.  200 8. IL «DE SIGNIS» DI Fll.ODEMO Per dimostrare questo, gli epicurei ricorrono al metodo di ridurre ad altrettante classi gli oggetti unici. Così, essi dico­ no, se alcuni magneti attirassero il ferro e altri no, l'inferen­ za per analogia sarebbe inficiata; ma poiché così non avvie­ ne, è possibile inferire le proprietà degli altri magneti a par­ tire dal magnete che cade sotto la nostra percezione.39 Molti ancora sarebbero i punti particolari da prendere in considerazione, per mostrare il modo con cui gli epicurei tentano di dettagliare la teoria del segno. Ma quello che in definitiva caratterizza la semiotica epi­ curea è il suo richiamo a un completo programma empirista (che era condiviso, tra l'altro, anche dai medici empirici). Tale programma comprende tre tappe fondamentali: os­servazione; storia; inferenza da simile a simile. I pri­ mi due momenti del programma permettono di individuare le "proprietà essenziali", e quindi di passare al terzo mo­ mento, che è quello della ricostruzione del processo semioti­ co vero e proprio. Nei primi due momenti, infatti, vengono suggerite delle condizioni sui fenomeni da osservare per ottenere le pro­ prietà costanti: essi devono essere "molti", devono essere diversi tra di loro (''vari") e, contemporaneamente, devono essere "omogenei".40 Il terzo momento, infine, combina le proprietà deli'enciclopedia semantica con le leggi della logi­ ca (che per gli epicurei sono quelle della logica delle classi). In questo compromesso, appunto, tra i concreti suggeri­ menti in vista della produttività empirica e il tentativo di mantenere il massimo rigore formale deve essere individua­ ta l'originalità della proposta epicurea.  RETORICA LATINA. L'interesse per la problematica semiotica nel mondo ro­ mano fa parte di quel processo di costante e progressiva ac­ quisizione del patrimonio culturale greco, che inizia nel III secolo a.C. Ma, nel passaggio dal mondo greco a quello ro­ mano, il paradigma semiotico abbandona il campo della fi­ losofia in senso stretto, per installarsi, in maniera centrale, nell'ambito retorico-giuridico. In Grecia la conoscenza attraverso i segni era divenuta, soprattutto nelle scuole postaristoteliche, il modello stesso della conoscenza in generale e, a partire dagli stoici, aveva trovato la sua collocazione ali'interno della dialettica, una delle branche più astratte della filosofia, in quanto sotto­ partizione della stessa logica. Invece i Romani, aderendo a interessi maggiormente orientati in direzione pragmatica, avevano bensì colto l'estremo interesse del paradigma se­ miotico, ma lo avevano subito piegato ai fini, a loro più congeniali, del dibattito politico e giudiziario, dibattito de­ stinato a essere condotto con gli strumenti forniti appunto dalla retorica. Per rendersi conto, nel modo più chiaro, del cambiamen­ to di prospettiva, basta mettere a confronto l'atteggiamento di Aristotele con quello di Cicerone nei riguardi della retori­ ca. Aristotele aveva fatto di questa disciplina l'argomento di un suo importante trattato, la Retorica, e al suo interno aveva affrontato il tema dei segni; ma, come era già avve-  202 9. RETORICA LATINA nuto nei Primi analitici, aveva tentato di ridurre la forma dei vari tipi di segno a quella dei tipi di sillogismo. Cosi fa­ cendo, aveva indicato un percorso ben preciso: la logica stabilisce le forme fondamentali del ragionamento, che de­ vono rimanere un punto di riferimento anche quando l'inte­ resse si sposta, come nel caso della retorica, dal discorso scientifico a quello persuasivo, dai segni referenziali a quelli efficaci . In Cicerone, e in genere nella trattatistica retorica roma­ na, si registra un'inversione nell'ordine di priorità: la retori­ ca non occupa più il secondo posto, rispetto a un primato della logica, ma, al contrario, è la filosofia nel suo insieme che diviene scienza ancillare, il cui scopo è quello di contri­ buire alla formazione del buon oratore. Tuttavia è l'elo­ quenza l'espressione più alta dell'attività intellettuale. Un passo del De oratore (Il, 159-160) mostra abbastanza chia­ ramente l'opinione di Cicerone circa i rapporti tra dialettica e retorica, quando per bocca di Antonio viene detto che i dialettici sono soltanto capaci di criticare degli enunciati, ma non di produrne. In effetti, per Cicerone la retorica costituisce il "corona­ mento" della filosofia, dalla quale non può essere dissociata (De orat., III, 59-61), e non deve essere considerata una tec­ nica capace di aggiungere un'espressione elegante a un pen­ siero già formato. Come mettono bene in luce Mare Baratin e Françoise Desbordes (1981: 50), in Cicerone agisce un principio, sempre sfumato, ma costantemente affermato, che, se si parla bene, si pensa anche bene o, in altre parole, che non si pensa veramente bene se non quando si parla ve­ ramente bene. Tuttavia la retorica, indiscutibilmente, presenta anche un aspetto tecnico, e ogni trattatista mostra che essa è organiz­ zata secondo due tipi di assi. Il primo concerne i tipi di di­ scorso: il discorso dei tribunali (giuridico); il discorso del­ l'assemblea (politico); il discorso delle cerimonie pubbliche (dimostrativo). Il secondo riguarda le parti della retorica, ovvero i tipi di procedimenti che devono essere messi in atto per strutturare progressivamente un discorso: inventio (ri­ cerca degli argomenti); dispositio (ordinamento di quel che  9.l LA «RHETORICA AD HERENNIUM» 203 è stato trovato); elocutio (resa degli argomenti in forma or­ nata); memoria (procedimenti mnemotecnici); actio (recita­ zione del discorso: gesti e dizione). La problematica riguardante il segno si colloca nel cuore della inventio, quando cioè si devono "trovare" le prove che convincano l'uditorio della colpevolezza o dell'innocenza di un imputato. Le prove, in retorica, hanno una loro propria forza, muovono dal ragionamento e si inseriscono nel pro­ gramma rivolto a convincere (/idem facere), il primo dei due programmi in cui si articola l'inventio. L'altro pro­ gramma è il commuovere (animos impellere) e consiste nel porre l'accento non sul messaggio o sulla sua forza proba­ toria, ma sulle emozioni del destinatario. Tuttavia, come sottolinea Barthes (1970: tr. it. 60), si ha un certo disagio a usare l'espressione "prova" per indicare le probationes (pf­steis) retoriche, in quanto questa parola ha oggi una conno­ tazione scientifica la cui assenza appunto definisce le "pro­ ve" retoriche. Tuttavia, un merito che va riconosciuto alla retorica è proprio quello di aver tentato di dare una classifi­ cazione del diverso grado probatorio e della diversa forza argomentativa delle "prove" stesse. Compito, quest'ultimo, che ogni autore ha assolto in ma­ niera particolare, proponendo una classificazione che non coincide, se non parzialmente, con quella data dagli altri. Nei prossimi paragrafi, così, cercheremo di illustrare le li­ nee secondo le quali i tre grandi autori della trattatistica re­ torica romana, cioè Cornificio (autore della Rhetorica ad Herennium), Cicerone e Quintiliano, ricostruiscono nelle rispettive opere la struttura del paradigma indiziario, cia­ scuno secondo diverse modalità. 9.1 La "Rhetorica ad Herennium" di Comificio Una documentazione diretta della retorica latina la si ha soltanto con i trattati del I secolo a.C., tra cui la Rhetorica ad Herennium, attribuita un tempo a Cicerone sulla scorta dell'autorità dei manoscritti, ma la cui paternità è oggi asse­ gnata a Cornificio (Calboli: 1969).  204 9. RETORICA LATINA La problematica semiotica viene sviluppata da Cornificio all'interno della constitutio coniecturalis dove, per verifica­ re se sia stata commessa o no una determinata azione da un certo imputato, si segni che ne mostrino la col­ pevolezza o Pinnocenza. L'elemento non conoscibile diret­ tamente a cui i segni devono rimandare non è il fatto o rea­ to, che è ovviamente noto, ma l'agente responsabile di tale fatto, oppure le relazioni tra un certo individuo e un certo fatto. Questo aspetto è abbastanza peculiare della semiotica giuridica ed è ben illustrato dall'esempio di Cornificio: Aiace in un bosco, dopo essersi reso conto di quello che aveva compiuto durante la sua pazzia, si gettò sulla spada. Sopravviene Ulisse e lo vede morto; estrae dal suo corpo l'arma insanguinata. Sopravviene Teucro, vede il fratello ucciso e il nemico del fratello con la spada insanguinata. Lo accusa di assassinio. Qui si cerca la verità per congettura. (Rhet. adHer., l, 18) Ma ciò che è in questione nell'esempio Oa colpevolezza o meno di Ulisse) per i retori romani non può scaturire da una intuizione spontanea, né da una abduzione fulminea. La retorica antica, come ha sottolineato Barthes (1970: tr. it. 59), nutriva una fiducia incrollabile nel metodo ed era ossessionata dali'idea che lo spontaneo e l'ametodico non portavano a niente di buono. Così Cornificio, con il suo ti­ pico procedimento diairetico, suddivide lo stato congettura­ le in sei parti, sei diverse vie per arrivare alla verità (Il, 3): probabile (probabilità), conlatio (confronto), signum (pro­ cedimento indiziario), argumentum (segno), consecutio (conseguenza), adprobatio (conferma). La probabilità Troviamo qui una terminologia in parte familiare, in quanto probabile può essere considerata la trasposizione la­ tina di eik6s, e signum quella di smefon, per limitarci solo a questi due casi. Ma i contenuti delle espressioni latine so-  9.l LA «RHETORICA AD HERENNIUM» 205 no completamente difformi dalle corrispondenti nozioni greche. Infatti il probabile è "ciò attraverso cui si dimostra che era utile commettere il crimine e che l'imputato non si è mai astenuto da comportamenti di tale turpitudine" (Il, 3), defi­ nizione nella quale non rimane molto deli'eik6s aristotelico. Piuttosto la nozione di probabile è connessa alla caratteriz­ zazione psicologica dell'individuo in questione (''Se [l'accu­ satore] dirà che ha agito per denaro, mostri che egli è sem­ pre stato avaro, se per una carica, ambizioso; così potrà far combaciare il difetto congenito con il motivo del crimine", Il, 5) e, come si può cogliere dalla sua ulteriore suddivisione in causa e vita, oscilla tra la nozione di "movente" e quella di "precedenti". 9.1.2 Il procedimento indiziario La nozione di signum viene definita da Cornificio come "ciò che serve a mostrare come è stata cercata un'occasione favorevole ali'esecuzione (del crimine)" (II, 6). Non ritro­ viamo nemmeno qui la nozione greca di smeion. Piuttosto il signum costituisce l'insieme di quei procedimenti indizia­ ri, di pertinenza dell'investigatore, che permettono di rico­ struire il fatto scomponendolo, come suggerisce di fare Cornificio, in tanti oggetti di indagine separata: sul luogo del delitto, sul tempo, sull'occasione, sulla speranza di por­ tare a esecuzione il fatto, sulla speranza di tenerlo celato. 9.1.3 Il segno Una nozione che presenta maggiore interesse è quella di argumentum. Se la sua definizione non è ancora molto elo­ quente ("Argumentum è ciò attraverso cui il crimine viene confermato con segni [argumentis] più precisi e con un so­ spetto più sicuro", II, 8), gli esempi che vengono forniti ci tolgono ogni dubbio che si tratti del segno come singolo fe­ nomeno percepibile, che rimanda a un fatto non conoscibile  206 9. RETORICA LATINA direttamente; la sua struttura è quella in ferenziale, espressa da un periodo ipotetico: "Se il corpo del morto s'è alterato nel colore per gonfiore o lividezza, significa che è stato uc­ ciso da una dose di veleno" (Il, 8); se si trova del sangue sulle vesti dell'imputato, se è stato visto sul luogo del delit­ to, significa che egli è colpevole (ibidem) ecc. Caratteristicamente l'argumentum viene suddiviso in tre tipi, in relazione al rapporto temporale (anteriorità, con­ temporaneità, posteriorità) che si instaura fra antecedente e conseguente del segno; classificazione, questa, che risale al­ la retorica prearistotelica (si trova a esempio nella Rhetori­ ca ad Alexandrum, 1430 b, 30 e sgg.) e giunge almeno fino a Quintiliano. 9. 1 .4 Le reazioni fisiche non controllabili Un'altra nozione interessante è quella di consecutio, che Calboli (1969: 232) mette in relazione ai sjmptoma della terminologia medica. Si tratta, come dice Cornificio, dei "segni (signa) che solitamente presentano i colpevoli e gli innocenti" (II, 8), come, a esempio, che l'imputato, quando si è giunti a interrogarlo, "sia arrossito, sia impallidito, ab­ bia titubato, sia caduto in contraddizione, si sia smarrito, abbia fatto qualche promessa, che sono segni di coscienza non tranquilla" (ibidem). Sono dunque delle reazioni fisi­ che non controllabili, dei segni involontari che possono ve­ nire messi in relazione, in maniera abbastanza codificata, con degli stati d'animo (come il senso di colpa). Questi se­ gni, per quanto non siano facilmente dissimulabili, sono pe­ rò manipolabili a livello di interpretazione: infatti l'avvoca­ to difensore può intervenire sulla loro presenza sostenendo che l'imputato, a esempio, si è turbato per la gravità del pe­ ricolo e non per la coscienza della colpa; d'altro canto, l'ac­ cusatore può intervenire sull'assenza di segni di tal genere sostenendo che l' imputato aveva a tal punto premeditato la cosa da presentare la massima sicurezza, ragione che rende l'assenza di turbamento "segno di sicurezza, non d'inno­ cenza" (ibidem).  probabile causa - vita conlatio alii nemini bonum - neminem alium potuisse slgnum occasio - spes per- ficiendi spes celandi l argumentum consecudo adprobatio - praeteritum - signa 9.1 LA «RHETORICA AD HERENNIUM» 207 9. 1 .5 La classificazione e la forza argomentativa Come si può vedere, il procedimento indiziario che viene messo in atto in ambito retorico-giuridico gioca su vari li­ velli: (i) innanzitutto, ci sono i segni della premeditazione. che nella tassonomia di Cornificio sono distribuiti tra il probabile, la conlatio (che consisteva nel dimostrare che l'imputato aveva più di ogni altro ragioni e possibilità di commettere il delitto) e il signum; (ii) in secondo luogo ci sono i segni delfatto stesso, che sono rappresentati dagli ar­ gumenta: essi mettono in relazione diretta l'imputato con il reato; (iii) in terzo luogo c'è quella sorta di segniproducibili quasi sperimentalmente, che si traggono dal comportamen­ to dell'imputato osservato in un momento diverso e succes­ sivo rispetto a quello dell'evento criminoso. Possiamo illustrare complessivamente la classificazione della materia congetturale effettuata da Cornificio con il se­ guente schema (Curcio 1900):  - locus - tempus - spatium - consequens   Se messa a paragone con quella della Retorica aristoteli­ ca, la classificazione di Cornificio appare filosoficamente meno coerente e non saldamente fondata. Tuttavia, con­ temporaneamente, appare molto più aderente alla materia instans conscientiae - signe  confidentiae - signa  innocentiae  208 9. RETORICA LATINA cui è destinata ad applicarsi e non priva di una logica inter­ na nel suo seguire i segni deli'imputato in un percorso che parte dal momento precedente il crimine e culmina nel pro­ cesso . Cornificio discute anche della forza argomentativa dei se­ gni, quando propone di organizzare in una struttura logica gli argomenti trovati. E, a questo proposito, nota che ci so­ no dei segni che non garantiscono nessuna certezza come a esempio: uoeve aver partorito, poiché porta in braccio un bimbo piccolo", oppure: "Dal momento che è pallido, deve essere ammalato" (Il, 39). Come si può notare, si tratta di segni che corrispondono a quelli in 2a figura di Aristotele: essi non sono sicuri perché, a esempio, il pallore può bensi indicare malattia, ma anche una quantità di altre cose. Quello che è però interessante è che Cornificio non li rifiu­ ta, ma sottolinea un loro valore argomentativo nel caso che compaiano in gran numero ("se però vi si aggiungono an­ che tutti gli altri, tali segni hanno un certo peso per accre­ scere il sospetto", ibidem). 9.2 Cicerone Cicerone affronta e sviluppa la problematica semiotica in due importanti ambiti della sua produzione teorica: (i) le opere di argomento retorico; (ii) le opere che parlano dei se­ gni divinatori. Se prendiamo in considerazione il primo di questo ambi­ to, possiamo osservare che l'interesse per i segni non è ugualmente centrale in tutti i testi. Infatti, da una parte, ci sono il De oratore, I'Orator, il Brutus, il De optimo genere oratorum che affrontano una problematica a carattere so­ cio-politico, volta a definire la figura deli'oratore perfetto, il suo ruolo nella società romana, la sua posizione rispetto alla scuola attica e a quella di Pergamo; in queste opere tut­ to ciò che costituisce l'apparato tecnico tradizionale della retorica (e con esso anche la problematica sui segni e sulle prove indiziarie) appare non tanto trascurato, quanto dato per scontato: esso si confi:ura come un vasto campo di competenza che rimane implicito sullo sfondo e affiora solo nei termini di un uso personalissimo che ne fa l'autore, in prima persona o attraverso i personaggi del dialogo. Dall'altra parte ci sono, poi, il De inventione, le Partitio­ nes oratoriae e i Topica, opere molto diverse tra loro, ma accomunate dalla caratteristica di prendere in considerazio­ ne e di sistematizzare la gran massa delle nozioni che com­ pongono l'apparato tecnico della retorica. Un limite di que­ ste opere, in generale, è rintracciabile nella minuziosità del procedimento classificatorio, che raggiunge talvolta il pa­ rossismo, come nel De inventione, e che spesso non trova un'adeguta giustificazione teoretica. Tuttavia è proprio ali'interno di queste opere che è dato rintracciare gli spunti e i documenti per la ricostruzione di una teoria ciceroniana del segno. 9.2. 1 Il "De inventione" Il De inventione è un'opera giovanile di Cicerone e con­ densa l'ampia tradizione retorica che da Aristotele giunge fino a Ermagora: è quindi naturale che al suo interno si tro­ vino riprodotti alcuni aspetti della concezione del segno che in quell'ambito si era sedimentata. In particolare è presente la concezione del segno in forma proposizionale, come an­ tecedente che permette di scoprire un conseguente. Viene poi confermata l'attenzione verso i segni involontari (l'im­ pallidire, l'arrossire, il balbettare dell'imputato) come indi­ zi di colpevolezza. Infine compare la classica divisione degli indizi secondo la loro relazione temporale con il fatto crimi­ noso (anteriorità, contemporaneità, posteriorità). Questi i punti di contatto con la tradizione. Ma bisogna anche dire che la classificazione dei segni proposta da Cice­ rone è in larga misura diversa da quelle precedenti. Essa ap­ pare infatti all'interno della teoria della argumentatio (ar­ gomentazione), cioè del procedimento attraverso il quale vengono addotte delle prove per confermare una certa tesi: "L'argomentazione sembra essere qualche cosa che si esco­ gita da qualche genere e che rivela un'altra cosa in maniera RETORICA LATINA probabile (probabiliter ostendens), o la dimostra in . un mo­ do necessario (necessarie demonstrans)" (De inv., I, 44). Anche se non viene usato il normale lessico semiotico, ciò che è in gioco in questa definizione è proprio il meccanismo del segno: infatti, qualcosa che è stato trovato (un indizio che viene depositato nel dossier deli'avvocato) rinvia a qualcos'altro. Compare, a questo punto, la distinzione (già aristotelica) tra una forza argomentativa debole (probabili­ ter ostendens) e un'inferenza necessaria (necessarie demon­ strans) . 9.2 . 1 . 1 Rinvio necessario e non necessario I segni necessari sono così definiti: "Viene dimostrato in modo necessario ciò che non può verificarsi né essere pro­ vato diversamente da come viene detto" (ibidem). Ne sono esempi: "Se ha partorito, è stata con un uomo" (ibidem); "Se respira, è vivo", "Se è giorno, c'è luce" (De inv., l, 86). Come Cicerone spiega in un altro passo, in casi di questo genere l'antecedente e il conseguente sono legati da una re­ lazione inscindibile (cum priore necessario posterius cohae­ rere videtur, De inv., l. 86). Il rapporto di rinvio non necessario viene poi cosi defini­ to: "Probabile è poi ciò che suole generalmente accadere, o che è basato sulla comune opinione, o che ha in sé qualche somiglianza con questa qualità, sia esso vero o sia falso" (De inv., l, 46). Con questa definizione Cicerone mette in evidenza due caratteri: (i) quello probabilistico e (ii) quello doxastico; il primo di questi era da Aristotele attribuito peculiarmente all'eikos (verisimile). E infatti i primi due esempi sono di un tipo che Aristotele avrebbe classificato come eikos: "Se è madre, ama suo figlio", "Se è avido, non fa gran caso del giuramento" (De inv., I, 46). In essi compare anche il tipico rapporto di generalizzazio­ ne che per Aristotele definisce il verosimile (Arist., Rhet., 1357 a). C'è però un terzo esempio, "Se c'era molta polvere nei calzari, era sicuramente reduce da un viaggio" (De inv., CICERONE 21 1 I, 47), che non sembra dello stesso tipo, ma è più vicino al smeion aristotelico. 9.2. 1 .2 L'indizio La categoria di signum, poi, compare come una sottopar­ tizione dei segni non necessari, accanto al credibile (credibi­ le), ali'iudicatum (giudicato) e al comparabile (paragonabi­ le). Se le ultime tre nozioni appaiono distinte in base a crite­ ri estrinseci (e scompariranno nelle trattazioni successive), il signum corrisponde a una categoria di fenomeni abbastan­ za particolare: "Segno è ciò che cade sotto qualcuno dei no­ stri sensi e indica (significar) un qualcosa che sembra deri­ vato dal fatto stesso, e che può essere verificato prima del fatto, durante il fatto, o può averlo seguito, e tuttavia ha bisogno di una prova e di una conferma più sicura" (De inv., I, 48). Ne sono esempi: "il sangue", "il pallore", "la fuga", "la poivere". Si tratta, come si vede, degli indizi, intesi come fenomeni percepibili, scarsamente codificati e generalmente non vo­ lontari. Qui sono presentati in una forma non proposizio­ nale; ma niente vieta che vengano sviluppati in proposizio­ ni, come dimostra il caso deli'indizio "polvere": "Se c'era molta polvere nei calzari, era sicuramente reduce da un viaggio". Gli indizi, infine, vengono suddivisi secondo la nota relazione temporale con il fatto criminoso. Possiamo quindi schematizzare la classificazione propo­ sta nel De inventione (cfr. p. 212). 9.2.2 "Partitiones oratoriae" Le Partitiones oratoriae sono un'opera della tarda matu­ rità di Cicerone, nella quale la classificazione della materia semiotica presenta alcune differenze e peculiarità rispetto al trattato giovanile. Innanzitutto la terminologia si sgancia completamente da quella dei modelli greci e viene completa­ mente latinizzata. In secondo luogo gli indizi (qui chiamati  212 9. RETORICA LATINA argumentatio  necessaria probsbilis (·quod fero solet fiori élut quod in opi­ nione positum est") es.: .. "pallore'", ..polvere" vestigiafactl) non compaiono più come sottopartizione di un'altra categoria, ma assumono un ruolo autonomo. (·ea quae alitar ac discuntur nec fieri nec probari pos­ sunt"l es . : ·se ha partorito, è stata con un uomo'" (.,quod sub sensum aliquem cadit, et quiddam sig nificat, quod ex ipso profectum est'") es.: ·sangue", ·ruga"', Sa è madre, ama suo fi\]lio   --- --- -  l "'·-- signum erodibile indicBtLm comparabile / -- -- Infine viene accettata la distinzione aristotelica tra "luo­ ghi estrinseci" (corrispondenti alle "prove extratecniche", titechnol) e "luoghi intrinseci'' (corrispondenti alle "prove tecniche", éntechno1), che veniva criticata nel De inventione (Il, 47) e che invece sarà sviluppata nei Topica. È curioso notare come tra i luoghi estrinseci (sine arte) trovino posto, accanto alle testirnonianze umane, anche quelle "divine": gli oracoli, gli auspici, i vaticini, i responsi sacri (di sacerdoti, aruspici, interpreti onirici) (Part. or., 6). Tutto ciò è sicuramente un residuo di una concezione orda­ lica e antichissima deli'amministrazione della giustizia; tut­ tavia è anche un indizio di un continuo riaffiorare del para­ digma divinatorio all'interno dei fatti semiolici, anche quando ormai i segni si sono completamente laicizzati.  9.2 CICERONE 213 Né questo è un caso isolato in ambito giuridico. Per quel che riguarda la cultura greca, si ricorderà L,orazione per /,uccisione di Erode, in cui Antifonte così si esprimeva: "Tutto quel che era provabile con indizi e testimonianze umane l'avete udito, ma in questo caso dovete votare dopo aver trattato indizi anche dai segni che vengono dagli dei" (V, 81; Lanza 1979: l05). 9.2.2. 1 Il verisimile e il segno caratteristico I segni umani sono invece trattati tra gli argomenti intrin­ seci, in particolare tra quelli che riguardano lo stato di cau­ sa congetturale. Infatti la congettura può essere tratta da due tipi di segni: i verisimilia (verisimili) e le notaepropriae rerum (segni caratteristici delle cose). Il verisimile, come dice Cicerone, è "ciò che accade per lo più" (Part. or., 34), come a esempio "la gioventù è incline al piacere in modo particolare". Questo tipo di segno corri­ sponde ali'eik6s aristotelico, di cui ha il carattere probabili­ stico e generalizzante. La nnta propria rei viene definita come "una prova che non si verifica mai direttamente e indica una cosa certa, co­ me il fumo indica il fuoco" (Part. or., 34). Si tratta, evi­ dentemente, del segno necessario, come è dimostrato anche dall'esempio e dall'uso dell'aggettivo proprius, che riman­ da alla nozione di fdion smeion (segno proprio). Per Ari­ stotele il segno proprio era la caratteristica specifica di un certo genere, come, ad esempio, il fatto che i leoni avessero grandi estremità, segno del coraggio (An. Pr., 70 b, 11-38). Per le scuole postaristoteliche il segno proprio aveva carat­ tere di necessità e si definiva come quel segno che non può esistere se non esiste la cosa a cui rimanda (Philod., De si­ gnis, l, 12-16). 9.2.2.2 Gli indizi di fatto Ci sono, poi, i vestigia facti (indizi di fatto), dei quali  214 9. RETORICA LATINA vengono dati questi esempi: "un'arma, macchie di sangue, grida, lamenti, imbarazzo, alterazione del colorito, discor­ so contraddittorio, tremore [...], gli indizi materiali della premeditazione, le confidenze sulle intenzioni delittuose, le risultanze visive, uditive, rivelate" (Pari. or., 39). Cicerone non definisce QUf)tO tipo di segni, se non dicendo che si tratta di ''fenomeni avvertibili con i sensi" (ibidem), caratte­ ristica condivisa anche dai signa del De inventione (l, 48), in cui ricorrono esempi analoghi, e dagli argumenta di Cor­ nificio (Rhet. adHer., II, 8). I commentatori si sono chiesti se i vestigiafacti siano più in relazione con i segni necessari (notae propriae rerum) o con i verisimili (verisimile) (Crapis 1986: 61-62). In realtà questa sembra una categoria abbastanza autonoma non avendo la necessità dei primi, ma nemmeno le caratteristi­ che degli ultimi. È plausibile che essa corrisponda alla cate­ goria dei semefa aristotelici, diversi tanto dai tekmria quanto dagli eik6ta. Da un altro passo delle Partitiones oratoriae (1 14), dove ricorrono esempi analoghi, i vestigiafacti (chiamati lì anche signa) vengono definiti come consequentia, cioè inferenze che si traggono dal conseguente, caratteristica che definiva appunto, per Aristotele, i segni non necessari. Ma mentre Aristotele condannava i smefa da un punto di vista episte­ mologico per la loro insicurezza, Cicerone è pronto a rico­ noscerne l'efficacia qualora si presentino in gran numero (coacervata proficiunt, 40). Possiamo quindi schematizzare la classificazione cicero­ niana nelle Partitiones oratoriae (cfr. p. 215). 9.2.3 Le opere sulla divinazione Molte cose collegano la retorica giudiziaria alla divina­ zione. Innanzitutto il fatto che entrambe si avvalgano dei segni per arrivare alla conoscenza di fatti non direttamente accessibili alla percezione. In secondo luogo, in entrambe viene operata una distinzione tra aspetti che sono eminente­ mente congetturali e altri aspetti che sono invece naturali o  trt•) (·sensu percipi potest•) es . : ·sangue - uccisione· es.: •adolescenza­ inclinazione alla libidine · 9.2 CICERONE 215 coniecturs ---- l ----- verisimilie (•quod plerumque rta notse proprise rerum (•quod numquam alrter frt certumque declarat•) es.: '"fumo-fuoco· vestigia fecti o signa dati: alla dicotomia retorica tra prove tecniche (o congettu­ rali) e prove extratecniche corrisponde la distinzione tra di­ vinazione artificiale (basata sull'interpretazione e sulla con­ gettura) e divinazione naturale. Infine, come Cicerone pole­ micamente rileva (De div., II, 55), i segni della divinazione sono talvolta interpretati in maniera diametralmente oppo­ sta, proprio come avviene nel processo, in cui l'accusa e la difesa propongono dello stesso fatto due interpretazioni di­ verse ed entrambe plausibili. Ma Cicerone apprezza i metodi deli'indagine giudiziaria, mentre nutre una diffidenza enorme nei confronti della di­ vinazione. In linea, infatti, con un vasto gruppo di intellet­ tuali della sua epoca, educati ai metodi di indagine della fi­ losofia greca, a fondamento razionalistico, e contempora­ neamente impegnato in politica, sente l'esigenza di operare una distinzione netta tra religione e superstizione, di cui la divinazione fa, per lui, parte. La religione appartiene alla più antica tradizione romana e, posta come è ai fondamenti dello stato, deve essere conservata, pena la disgregazione dello stato stso; la superstizione, invece, costituita dal coacervo degli elementi spuri che inquinano e rendono poco credibile la religione stessa, dev'essere respinta, anche per­ ché non venga limitata la libertà del cittadino romano nel suo impegno di gestione della repubblica.  216 9. RETORICA LATINA Cicerone affronta questi argomenti nel De natura deo­ rum, nel De fato e, soprattutto, nel De divinatione. Que­ st'ultima opera è scritta in forma di dialogo tra l'autore e il fratello Quinto, il quale difende l'arte divinatoria basandosi sulle teorie storiche che legavano la divinazione all'esistenza degli dei. Le osservazioni di Cicerone contro la teoria soste­ nuta da Quinto sono particolarmente interessanti perché costituiscono una vera e propria critica a un meccanismo semiotico settoriale e contribuiscono, in negativo, a una concezione generale del segno. 9.2.3. 1 La divinazione "artificiale" Secondo la teoria di Quinto, gli dei si pongono come fon­ te dell'informazione e come emittenti nei processi di comu­ nicazione divinatoria, dei quali gli uomini sono i destinata­ ri. Ma, a seconda dei due specifici tipi di divinazione, il pro­ cesso comunicativo si struttura in modo differente. Il primo tipo è costituito dalla divinatio artificialis, in cui l'interpretazione dei segni è legata a un'ars, ovvero a una tecnica professionale di decriptazione, demandata a specia­ listi, ciascuno esperto in un settore: extispices (esaminatori delle viscere), interpretes monstrorum et fu/gurum (inter­ preti dei fatti prodigiosi e dei fulmini), augures (interpreti del volo degli uccelli), astrologi (interpreti delle stelle), in­ terpretes sortium (interpreti delle combinazioni di tavolette mescolate in un'urna ed estratte a caso). In tale divinazione l'informazione proveniente dalla divinità si materializza prima di tutto in una sostanza espressiva percepibile, a cui l'ars permetterà di abbinare un contenuto semantico. I presupposti su cui si basano le interpretazioni di questo tipo sono dati dalla teoria, di origine stoica, secondo cui tutti i fenomeni sono legati tra di loro in una catena di cau­ se ed effetti, senza soluzione di continuità. Questa catena che ha come fondamento primo il /6gos divino e costituisce il fato (heimarmén), non è conoscibile per intero da parte degli uomini, dato che l'onniscienza è prerogativa della sola divinità (De div., I, 125-127).  9.2 CICERONE 217 Tuttavia viene prevista l'esistenza di un tempo ciclico che "può essere paragonato con lo srotolarsi di una gomena, in quanto non dà mai luogo a fatti nuovi, ma ripete sempre quantoprimaèaccaduto"(Dediv.,l, 127).Questofasìche gli uomini, attraverso l'osservazione attenta, colgano il mo­ do in cui gli eventi si ripetono e, pur non potendo conoscere direttamente le cause, possono però arrivare a coglierne gli indizi caratteristici (signa tamc.z causarum et notas cernunt) (ibidem). Dato poi che è possibile tramandare memoria dalle con­ nessioni passate, si crea un vero e proprio codice basato sul­ la iteratività. Si può schematizzare così il processo: emittente divino-segni di cause-eventi futuri codice basato sulla iterattività 9.2.3.2 La divinazione "naturale" Il secondo tipo di divinazione è quello definito naturalis, in quanto indipendente da qualunque tecnica professionale, ma derivante piuttosto da una diretta ispirazione divina, senza passare attraverso la mediazione di un segno esterno. Fanno parte di questo tipo le forme di preveggenza derivan­ ti da invasamento profetico, cioè le vaticinationes e quelle derivanti dai sogni. Il palinsesto filosofico ·a cui è legato questo secondo tipo di divinazione è quello delle teorie peri­ patetiche (Dicearco e Cratippo vengono esplicitamente no­ minati, De div., II, 100), secondo le quali l'anima, per il suo legame naturale con la divinità, una volta che sia spinta da una divina follia o sciolta, nel sonno, dai vincoli che la legano al corpo, partecipa direttamente della conoscenza del dio. Il ruolo del codice è in questo caso ridotto, se non addirittura sostituito da una parziale identificazione tra emittente e ricevente, secondo lo schema: RETORICA LATINA emittente divino - segno interno - evento futuro .... ricevente umano 9.2.3 .3 Critiche "semiologiche" contro i segni divinatori Le obiezioni che Cicerone muove ai sostenitori della divi­ nazione si basano su argomenti specificamente semiotici. La tesi generale, mediante la quale Cicerone nega valore alla divinazione, è che essa non abbia veramente carattere semiotico, e cioè che i fenomeni che essa interpreta come se­ gni non siano veramente tali, ovvero che non si comportino veramente come degli antecedenti rispetto a dei conse­ guenti. Per distinguere i segni veri rispetto a quelli presunti della divinazione, Cicerone istituisce un paragone tra le tecniche scientifiche (come la medicina, la meteorologia, la nautica, la tecnica previsionale del contadino e deli'astronomo) e la divinazione. In entrambi i casi è in gioco la predizione del futuro a partire da certi indizi; ma, mentre le pratiche pro­ fessionali adottano una vera e propria metodologia che comporta "scienza (ars), ragionamento (ratio), esperienza (usus) e congettura (coniectura)" (De div., II, 14), le prati­ che divinatorie si basano sul "capriccio della sorte, tanto che nemmeno la divinità sembra che possa avere, fra le sue prerogative, quella di sapere quali fatti il caso farà accade­ re" (De div., II, 18). Questa opposizione tra ciò che, in definitiva, è il codice (anche se 1si tratta di legami naturali basati sulla frequenza statistica) e il caso è del resto la stessa con cui i medici ip­ pocratici tendevano a distinguere la propria scienza profes­ sionale dalla divinazione e dalla medicina magica (Antica medicina, cap. XII). Cicerone poi si sbarazza in termini razionalistici della teoria secondo cui anche nel caso della divinazione tecnica si farebbe appello ali'osservazione iterata delle coincidenze, ritenendola ridicola e insostenibile (De div., II, 28). QUINTILIANO Ma ci sono altri gravi difetti che la divinazione presenta dal punto di vista semiotico: (i) le interpretazioni di uno stesso segno sono spesso diametralmente opposte (De div.); (ii) si verificano frequentemente fenomeni di falsa identificazione dell'antecedente, per cui un certo evento non è connesso a quello individuato come segno prodigio­ so, ma a ben diverse cause naturali (De div.);  l'interpretazione avviene a posteriori e così toglie ogni ne­ cessità di rapporto tra antecedente e conseguente (De div., II, 66); (iv) in certi casi l'interpretazione è motivata da ra­ gioni di faziosità politica e quindi è priva di oggettività (De div., II, 74). 9.3 Quintiliano All'epoca di Quintiliano, la trasformazione del regime politico dalla repubblica all'impero aveva fatto si che la re­ torica divenisse inutilizzabile come mezzo di agitazione po­ litica e sociale: per questo, da strumento pragmatico quale l'aveva essenzialmente concepita Cicerone, era divenuta so­ prattutto materia teorica. In questo quadro Quintiliano è colui che espone i principi dell'arte retorica nella maniera migliore e più completa di chiunque altro e contemporanea­ mente registra il processo di cadaverizzazione che l'elo­ quenza stava subendo. Nella sua Institutio oratoria tratta un programma completo del ciclo educativo del perfetto orato­ re, in cui la competenza semiotica ha una posizione di rilie­ vo. Gran parte degli elementi che compongono l'opera di Quintiliano hanno indiscutibilmente una pertinenza semio­ tica; ma nella lnstitutio è presente anche una sezione speci­ ficamente dedicata ai segni, come era ormai consuetudine per ogni trattato di retorica. Vaie anche nel caso di Quintiliano la considerazione fatta a proposito degli altri trattatisti di retorica, e cioè che la ri­ flessione sul segno è saldamente inquadrata all'interno del­ l'ottica giuridica con cui viene trattata la materia. I segni in­ fatti fanno parte delle probationes artificiales, cioè delle RETORICA LA... INA prove che l'abilità (ars) dell'oratore saprà trovare per far assolvere o condannare un imputato. D'altro canto, le pro­ bationes inartificiales sono quegli elementi che derivano dali'esterno del processo e vengono consegnati ali'oratore insieme al suo dossier. Il seguente schema ne mostra l'inventario completo: 9.3. 1 Orientamento della retorica di Quintiliano probstiones (prove)  i n artificial tJ s praejudicia (pregiudizi) rumores (voce pubblica) tormenta, quaesita ( inter­ rogatorio sotto tortura) tabulae (scritture, atti, contratti ecc.) jusjursndum (giuramento) testimonia (testimonianze) a rt i f i c i s l e s  formale Va pure detto che la retorica di Quintiliano, accanto a un orientamento giuridico, ne presenta anche uno fortemente teorico, che tende a inquadrare la materia il più possibile in termini logici e formali (anche se è stato rilevato che Quinti­ liano non si trova del tutto a suo agio in questo campo) (Kennedy). Così tutti e tre i tipi di prove tecniche (signa, argumenta, exempla) vengono inquadrati in un reticolo di relazioni lo­ giche vicine al genere deli'implicazione, ovvero del rappor­ to "se p, allora q". Infatti il meccanismo di avvaloramento signum (segno, prova di fatto) argumentum (prova di ragionamento) exemplum (esempio) ed epistemologico QUINTlIANO 221 delle prove deve assumere una forma logica che coincide con uno dei seguenti quattro tipi: (i) il concludere dalPesse­ re una cosa che un'altra non sia (p-+ - q) ("È giorno, dun­ que non è notte"); (ii) il concludere dall'essere una cosa che un,altra sia (p-+q) (''Il sole splende sulla terra, dunque è giorno"); (iii) il concludere dal non essere qualcosa che qualcos'altro sia ( -p-+q) (''Non è notte, quindi è giorno"); (iv) il concludere dal non essere qualcosa che un'altra sia ( -p-+ - q) ("Non è un essere razionale, quindi non è un uomo") (lnst. or., V, 8, 7). Analizzati ali'interno di questa griglia, i segni tendono a configurarsi come degli antecedenti rispetto a dei conse­ guenti; nozione, questa, che Quintiliano non ha bisogno nemmeno di rendere esplicita, in quanto attinta direttamen­ te dalla tradizione della retorica e della logica greca. Dallo stesso ambito, del resto, verranno attinti anche molti esem­ pi, tra cui l'ormai celebre "Se una donna ha partorito, si è unita con un uomo", che, più o meno variato, ritorna in tutti i trattatisti del segno. Come Aristotele, a cui fa costante riferimento, Quintilia­ no è orientato verso un'ottica epistemologica, piuttosto che di calcolo logico: ciò che lo interessa è soprattutto la possi­ bilità di acquisire una conoscenza a partire da un segno. Scrive Eco (1984: 38) a questo proposito: "Aristotele, inte­ ressato ad argomentazioni che in qualche modo rendessero ragione dei legami di necessità che reggono i fatti, poneva distinzioni di forza epistemologica tra segni necessari e se­ gni deboli. Gli stoici, interessati a puri meccanismi formali dell'inferenza, evitano il problema. Sarà Quintiliano, inte­ ressato alle reazioni di un'udienza forense, a cercare di giu­ stificare, secondo una gerarchia di validità epistemologica, ogni tipo di segno che in qualche misura risulti 'persua­ sivo' ". A proposito del carattere persuasivo dei signa, Quintilia­ no fa una precisazione preliminare: i signa hanno molto in comune con le prove extratecniche, in quanto, a esempio, una veste insanguinata, le grida o i livori non vengono esco­ gitati dali'arte deli'oratore, ma gli vengono consegnati nel dossier. Inoltre, se esi rimandano a un significato inequi- RETORICA LATINA vocabile, scompare la possibilità di argomentazione; se, in­ vece, essi sono ambigui, non sono delle prove ma necessita­ no essi stessi di prove (lnst. or.). Per questa ragione i segni devono essere divisi innanzitut­ to in necessari e non necessari. I segni necessari l signa necessaria sono quelli che, come dice Quintiliano, "aliter se habere non possunt" (lnst. or., V, 9, 3), cioè sono degli antecedenti che rimandano in maniera necessaria a dei conseguenti, e vengono messi in corrispondenza con i tekmria della tradizione greca. Si tratta di segni insolubili (alyta smefa), ovvero legati inscindibilmente ai conseguen­ ti. L'informazione che se ne ricava è sicura e incontroverti­ bile . La furia classificatoria, tipica del mondo antico, porta inoltre Quintiliano a sottoclassificare questo tipo di segni in base al fatto che i loro conseguenti siano individuabili nel tempo passato ("Se una donna ha partorito, si è unita con un uomo"), nel presente (''Se soffia un forte vento sul ma­ re, si formano su di esso le onde"), nel futuro ("Se uno è stato ferito al cuore, morirà") (lnst. or., V, 9, 5). Questi segni vengono, poi, sottoposti anche a un altro ti­ po di classificazione basata sul criterio di reversibilità dei termini: ci sono relazioni segniche, come "Se vive, respira", che mantengono la relazione di necessità anche invertendo antecedente e conseguente: "Se respira, allora vive"; ma vi sono anche relazioni segniche in cui la reversibilità non è possibile, come in "Se cammina, si muove", "Se ha partori­ to, si è unita con un uomo", "Se è ferito al cuore, morirà", "Se si è raccolta la messe, si è seminato", "Se è stato ferito dalla spada, ha una cicatrice" (lnst. or., V, 9, 7). Quintilia­ no sembra sollevare qui il problema della "conversazione" (antistréphein), che per Aristotele (An. Pr., 70 b, 32 e sgg.) è condizione del segno proprio, cioè dell'"esserci un unico segno di un'unica cosa".  QUINTllANO 9.3.3 I segni non necessari 223 I signa non necessaria, che Quintiliano mette in corri­ spondenza con gli eik6ta greci, sono le verisimiglianze, cioè quei fatti su cui vi è comunemente accordo, quelli che, se­ condo Eco (1984: 40), potendo essere altrettanto convincen­ ti di un segno necessario, dipendono dai codici e dalle sce­ neggiature che una certa comunità registra come "buone". Quintiliano ne distingue tre tipi fondamentali, in base al­ l'intensità del legame che si stabilisce fra antecedente e con­ seguente: firmissimum (sicurissimo), corrispondente alla norma statistica, come "Se sono genitori, amano i propri fi­ gli"; propensius (molto probabile), come "Se uno sta bene in salute, allora giungerà fino al giorno successivo"; non re­ pugnans (non contraddittorio), cioè non contrastante con il senso comune, come "Se c'è stato un furto dentro la casa, allora è stato fatto da chi era in casa". Nessuna di queste inferenze presenta un grado di certezza accettabile. Ma nell'ottica del discorso persuasivo esse pos­ sono essere molto efficaci, soprattutto nel caso che si pre­ sentino in gran numero avvalorandosi a vicenda (lnst. or., V, 9, 8), poiché ricostruiscono una tessitura isomorfa a quella dell'opinione pubblica. 9.3.4 Gli indizi materiali Nel contesto dei signa non necessaria (lnst. or.) Quintiliano parla del signum senza altra determinazione (messo in corrispondenza sia con indicium e vestigium, sia con il greco smeion). Non si capisce bene se esso venga considerato una categoria autonoma rispetto alle due prece­ denti (segni necessari e verisimiglianze), come del resto av­ veniva nella fonte aristotelica, o se Quintiliano consideri analoghi eik6ta e smeia. Nella seconda ipotesi si potrebbe parlare di un vero e proprio errore di Quintiliano, come fa Cousin (1936). Tuttavia il fatto che consideri un sinonimo l'espressione vestigium e ricorra all'esempio del sangue che permette di scoprire l'uccisione, spinge a stabilire un parallelo con i vestigia facti delle Partitiones oratoriae (39) cice­ roniane, dove compariva lo stesso esempio. Si tratterebbe, in definitiva, della abituale categoria degli indizi materiali (lividi., enfiagioni, ferite ecc.) (lnst. or., V, 9, I l) percepibili sensorialmente. Quintiliano li definisce come quelli "attraverso cui si comprende un'altra cosa, (per quod alia res inte/ligitur, V, 9, 9), sottolineando che con essi si stabilisce un rapporto di significazione, che parte da un sensibile per arrivare a qualcos'altro. Nella precedente categoria (quella dci signa non necessa­ ria == eik6ta) venivano classificati fatti o proprictfi che forni­ vano un'informazione non sicura, perché non convalidabile dal punto di vista sciePtifico (se uno sta bene oggi, non è scient((ica1nente sicuro che arriverà a domani); nella cate­ goria dei signa sono classificati fatti che sono insicuri per­ ché ambigui (una macchia di sangue su una veste può ri­ mandare tanto bene a un omicidio, come a una epistassi o allo schizzare del sangue di una vitti1na durante un sacrifi­ cio). La classificazione, allora, dovrebbe essere così formu­ lata: necessaria relazione necessaria tra a'ltecadente e cons&guento es.: "Se una donna ha partorito, si è unita con un uomo· l ------- signa  non necssaria verisimiglianze non conva!idabili scienti­ ficamente es.: "Se uno sta bene in salute, giungerà fino al g iorno successivo" signa indizi materiali ambigui es.: ..Se macchia di sangue, allora omi­ cidio, o epistassi, o sacrificio· Questo spiega anche come mai Quintiliano chiami signa non necessaria dei casi chiari di verisimiglianza (e non si­ gna), come gli esempi che egli riprende da Ermagora e che  9.3 QUINTILIANO 225 critica: "Tra le cose che sono segni, ma non necessari, Er­ magora ritiene questo, che non sia vergine Atalanta perché vaga nei boschi con i giovani" (lnst. or., V, 9, 12). Quinti­ liano ha una certa riluttanza a considerare questo e altri esempi di verisimiglianze molto deboli come elementi pro­ banti in un processo: "Ma se accoglieremo questo come se­ gno, temo che si ritengano come segni tutte le conseguenze che si traggono da un fatto". Tuttavia, egli aggiunge, "essi si trattano allo stesso modo dei segni" (ibidem). Quella che viene descritta è la condizione tipica della semiotica giuridi­ ca, in perenne dialettica tra la forza oggettivamente proba­ toria degli argomenti e l'abilità dell'avvocato di fare un uso persuasivo anche di segni debolissimi. Naturalmente, in un'ottica semiotica generale, non c'è al­ cun problema a considerare come segni "tutte le conseguen­ ze che si traggono da un fatto". Le proprietà che l'enciclo­ pedia registra a proposito di un certo oggetto o fatto sono tutte, a buon diritto, dei segni di questo oggetto o di questo fatto. Saranno poi le relazioni circostanziali e contestuali a garantire le differenze nella forza probatoria: una pis.tola può essere segno di un delitto, ma diversi sono i casi in cui essa venga rinvenuta in casa di un presunto terrorista, di un poliziotto, di un armaiolo (Eco 1984: 39). E forse questo era stato oscuramente intuito dalla retori­ ca antica, già da Aristotele, ma ancor più da Quintiliano, i quali, da una parte ponevano una distinzione netta tra "cer­ tezza scientifica" e "certezza legata ai codici socio-cultura­ li", ma, dall'altra, utilizzavano entrambe, caso mai racco­ mandando, nel secondo caso, l'assunzione congiunta di più prove che si rafforzassero a vicenda. AGOSTINO 10.0 Unificazione delle teorie del segno e del lin­ guaggio Con Agostino si opera, per la prima volta e in maniera esplicita, una completa saldatura fra la teoria del segno e quella del linguaggio. Per trovare una altrettanto rigorosa presa di posizione teorica bisogna aspettare il Corso di lin­ guistica generale di Saussure, scritto quindici secoli dopo. La grande importanza che la tematica semiolinguistica ha in Agostino deriva in gran parte dal suo assorbimento della lezione stoica, come del resto testimonia il trattato giovanile De dialectica: in esso sono riassunti molti dei principali temi stoici in materia semiotica, tra cui il princi­ pio che la conoscenza è, in linea generale, conoscenza attra­ verso segni (Simone). Ma vari elementi differenziano l'impostazione agostinia­ na da quella stoica. In primo luogo, infatti, gli stoici, racco­ gliendo e formalizzando una lunga tradizione di origine so­ prattutto medica e mantica, consideravano propriamente segni (smeia) solo i segni non verbali, come il fumo che svela il fuoco e la cicatrice che rinvia a una precedente feri­ ta. Agostino, invece, per primo nell'antichità, include nella categoria dei signa non solo i segni non verbali come i gesti, le insegne militari, le fanfare, la pantomima ecc., ma anche le espressioni del linguaggio parlato (''Noi diciamo in gene­ rale segno tutto ciò che significa qualche cosa, e fra questi abbiamo anche le parole", De Magistro). STRATIFICAZIONE TERMINOLOGICA 227 In secondo luogo, gli stoici avevano individuato nell'e­ nunciato il punto di congiunzione tra il significante (semaf­ non) e il significato (semain6menon), elemento che comun­ que non coincideva con il segno (semefon). Agostino, inve­ ce, individua nella singola espressione linguistica, cioè nel verbum (''parola"), l'elemento in cui significante e signifi­ cato si fondono, e considera questa fusione un segno di qualcos'altro ("Quindi, dopo aver sufficientemente assoda­ to che le parole [verba] non sono nient'altro che segni [si­ gna] e che non può essere segno ciò che non significhi [si­ gniflcet] qualcosa, tu hai proposto un verso di cui io mi sforzassi di mostrare che cosa significhino le singole paro­ le", De Mag., 7.19). In terzo luogo, gli stoici avevano elaborato una teoria del linguaggio che aveva le due caratteristiche di essere formale (il lekt6n non coincideva con alcuna sostanza) e centrata sulla significazione. Agostino, invece, elabora una teoria del segno linguistico che ha un carattere psicologistico (i si­ gnificati si trovano nell'animo) e comunicazionale (passano nell'animo dell'ascoltatore) (Todorov; Markus). 10.1 n triangolo semiotico e la stratificazione ter­ minologie& È del resto con l'analisi della nozione stessa di parola (verbum simplex) che si apre il De dia/ectica ed è con questa nozione che si inaugura una serie interessante di distinzioni terminologiche. Al capitolo V, Agostino elabora una triplice distinzione che possiamo mettere in corrispondenza con i moderni con­ cetti di significato, significante e referente. Infatti individua in primo luogo la vox articu/ata (o il sonus) della parola, cioè quello che è percepito dali'orecchio quando la parola viene pronunciata. In secondo luogo individua il dicibi/e1 (corrispondente, anche dal punto di vista della trasposizio­ ne linguistica, al /ekt6n stoico), definito come ciò che viene avvertito dall'animo e che è in esso contenuto. In terzo luo-  228 10. AGOSTINO go, infine, distingue la res, che viene definita come un og­ getto qualsiasi, percepibile con i sensi, o con l'intelletto, op­ pure che sfugge alla percezione (De dialect., cap. V). È così possibile ricostruire il triangolo semiotico nei se­ guenti termini: dicibile  vox articulata (o sonus) res Ma Agostino guarda ai segni anche dal punto di vista del loro potere di designazione, oltre che da quello della signifi­ cazione. Questo lo spinge a elaborare un'ulteriore suddivi­ sione terminologica in corrispondenza dei due aspetti che può assumere il referente di una parola: (i) può infatti avve­ nire che la parola rimandi a se stessa come proprio referente (fatto che si verifica nel caso della citazione, ovvero della designazione metalinguistica), e allora prende il nome di verbum;2 (ii) oppure può avvenire che la parola, intesa co­ me combinazione del significante e del significato, abbia come referente una cosa diversa da se stessa (come avviene con l'uso denotativo del linguaggio), nel qual caso prende il nome di dictio.3 È precisamente la nozione di dictio che, come ha osserva­ to Baratin ( 198 1 ), costituisce l'elemento di congiunzione tra la teoria del linguaggio e quella del segno. E ciò in virtù di uno sfasamento semantico che la nozione stoica di léxis (si­ gnificante articolato, ma senza essere necessariamente por­ tatore di significato) ha subìto nel corso degli studi lingui­ stici antichi. RELAZIONE D'EQUIVALENZA E D'IMPLICAZIONE 229 Dictio è traduzione di léxis; ma non ha lo stesso significa­ to che le attribuivano gli stoici, bensì quello che le davano i grammatici alessandrini, in particolare Dionisio Trace, che definiva la léxis come "la più piccola parte dell'enunciato costruito" (Grammatici graeci), a metà strada tra le lettere e le sillabe, da una parte, e l'enunciato, dall'al­ tra. Questa sua particolare posizione fa sì che la léxis venga considerata come portatrice di un significato (in contrappo­ sizione alle lettere e alle sillabe che non lo posseggono), ma incompleto (in opposizione all'enunciato che porta un sen­ so completo). Lo spostamento di fuoco dalla centralità stoica dell'e­ nunciato alla centralità alessandrina della singola parola, fa sì che quest'ultima assuma al(\une delle funzioni prima spet­ tanti solo all'enunciato. In particolare, quella di essere un segno.4 Agostino definisce decisamente la parola come un segno al cap. V del De dialectica: "La parola è, per ciascuna cosa, un segno che, enunciato dal locutore, può essere compreso dall'ascoltatore". E, del resto, il segno viene definito come "ciò che presentandosi in quanto tale alla percezione sensi­ bile, presenta anche qualche cosa alla percezione intellet­ tuale (animus)" (ibidem). 10.2 Relazione di equivalenza e relazione di im­ plicazione Ponendo l'accento sulla parola, anziché sull'enunciato, Agostino ritrova l'opposizione platonica tra parole e cose. Incontro non casuale, in quanto Platone è l'unico, prima di Agostino, ad avere una concezione semiotica del linguag­ gio; per Platone, infatti, il nome era d/Oma, svelamento di qualcosa che non è direttamente percepibile, ovvero dell'es­ senza della cosa. Ma mentre nel Crati/o platonico si discute se il rapporto tra nome e cosa sia un rapporto iconico (pe­ raltro con la soluzione che conosciamo, cfr. cap. 4), in Agostino tale rapporto - configura subito come una rela­ zione di significazione: il nomt "significa" una cosa (nozio-  230 10. AGOSTINO ne equivalente a quella di "essere segno di" una cosa). Nel momento in cui Agostino propone la sua concezione della parola come segno, si producono alcune modificazio­ ni teoriche, conseguenti allo spostamento di prospettiva. In effetti nelle teorie linguistiche precedenti a quella di Agosti­ no il rapporto tra le espressioni linguistiche e i loro conte­ nuti era stato concepito come una relazione di equivalenza. La ragione, come noto, era di carattere epistemologico e ri­ guardava la possibilità di lavorare direttamente sul linguag­ gio, in sostituzione degli oggetti della realtà, dato che il lin­ guaggio veniva concepito come un sistema di rappresenta­ zione del reale (per quanto mediato dall'anima). Al contrario, il rapporto tra un segno e ciò a cui esso rin­ via era stato concepito come una relazione di implicazione, per cui il primo termine permetteva, per lo stesso fatto di esistere, di arrivare alla conoscenza del secondo. Eco ha suggerito che, nell'enunciato stoico, i rapporti tra la relazione segnica e quella linguistica possono essere illustra­ ti da uno schema in cui il livello implicazionale si regge su quello equazionale:  onIE=>c  m_E:! c dove E indica "espressione", C "contenuto", ::J "implica" e == "è equivalente a". In Agostino l'unificazione tra le due prospettive avviene a livello della singola parola e senza chiamare in causa rapporti di equivalenza. Caso mai la dic­ tio, che è rappresentabile con il livello i, è costituita dali'u­ nione, o prodotto logico, di una vox (significante) e di un dicibile (significato), unità che diviene segno di qualcos'al­ tro (livello ii).   10.3 UNmCAZIONE DELLE PROSPETI Conseguenze dell'unificazione delle prospet­ tive La prima conseguenza dell'unificazione agostiniana, co­ me sottolinea Eco (1984: 33), è che la lingua comincia a tro­ varsi a disagio all'interno del quadro implicativo. Essa in­ fatti costituisce un sistema troppo forte e troppo strutturato per sottomettersi a una teoria dei segni nata per descrivere rapporti così elusivi e generici, come quelli che si ritrovano, a esempio, nelle classificazioni della retorica greca e roma­ na. Infatti l'implicazione semiotica era aperta alla possibili­ tà di percorrere l'intero continuum dei rapporti di necessità e di debolezza. Inoltre la lingua, come del resto Agostino mette in risalto nel De Magistro, possiede un carattere peculiare rispetto agli altri sistemi di segni, corrispondente al fatto di essere un "sistema modellizzante primario",5 cioè tale che qualun­ que altro sistema semiotico può essere tradotto in esso. La forza e l'importanza della lingua fanno sì che i rapporti con gli altri sistemi di segni si rovescino, e che essa, da specie, divenga genere: a poco a poco, il modello del segno lingui­ stico finirà per essere senz'altro il modello semiotico per ec­ cellenza. Ma quando il processo evolutivo arriva a Saussure, che ne rappresenta il punto culminante, si è ormai venuto a per­ dere il carattere implicativo, e il segno linguistico si è cri­ stallizzato nella forma degradata del modello dizionariale, in cui il rapporto tra la parola e il suo contenuto è concepito come situazione sinonimica o definizione essenziale. La seconda importante conseguenza dell'innovazione agostiniana riguarda il problema della fondazione della dia­ lettica e della scienza (Baratin 1 98 1 : 266 e sgg.). Fintanto­ ché il rapporto tra linguaggio e oggetto del reale era conce­ pito nei termini dell'equivalenza, il primo non appariva di­ rettamente responsabile della conoscenza del secondo. Ma nel momento in cui si attribuisce un carattere di segno alle espressioni linguistiche, la conoscenza delle parole sembra implicare, di per se stessa, e a priori, la conoscenza delle co­ se di cui esse sono segno. Tutta la grande tradizione serniotica, del resto, convergeva nel considerare il segno come il punto di accesso, senza ulteriori mediazioni, alla conoscen­ za dell'oggetto di riferimento. Il problema che si pone ad Agostino è allora quello di prendere una posizione rispetto alla questione se il linguag­ gio fornisca o meno, di per se stesso, informazioni sulle co­ se che significa. Linguaggio e informazione Agostino affronta la questione del carattere informativo dei segni linguistici nel De Magistro. L'opera, in forma di dialogo tra Agostino e il figlio Adeodato, inizia stabilendo due fondamentali funzioni del linguaggio: in· segnare (docere) e richiamare alla memoria (commemo­rare), sia propria sia degli altri. Si tratta di funzioni con­ temporaneamente informative e comunicative, in quanto coinvolgono in maniera centrale la presenza del destinatario nel momento in cui forniscono informazione. La prima parte del dialogo è tesa a dimostrare che queste funzioni, principalmente quella informativa, sono svolte dal linguaggio in quanto sistema di segni. Sono le parole, infatti, che, in qualità di segni, danno informazione sulle cose, senza che nient'altro possa assolvere alla medesima funzione. Nella seconda parte del dialogo, però, Agostino ritorna sull'argomento e cambia completamente la sua prospettiva. Fondandosi ancora una volta sul fatto che la lingua è un in­ sieme di segni, egli mostra che si possono presentare due ca­ si: il primo caso è quello in cui il locutore produce un se­ gno che si riferisce a una cosa sconosciuta al destinatario; in tale situazione il segno non è in grado, di per se stesso, di fornire informazione, come dimostra l'esempio, riportato da Agostino, dell'espressione saraballae, la quale, se non precedentemente nota, non permetterà di comprendere il ri­ ferimento ai "copricapr', che essa effettua; il secondo caso è quello in cui il locutore produce un segno che si rife­ risce a qualcosa che è già noto al destinatario; e nemmeno  COMUNICAZIONE DEL VERBO INTERIORE in questa evenienza si potrà parlare di un vero e proprio processo di conoscenza (De Mag.). Alla fine Agostino conclude invertendo il rapporto cono­ scitivo tra segno e oggetto, e stabilendo che è necessario co­ noscere preliminarmente l'oggetto di riferimento per poter dire che una parola ne è un segno. È la conoscenza della co­ sa che informa sulla presenza del segno e non viceversa. La soluzione ha una ascendenza chiaramente platonica, e a es­ sa si collega anche la presa di posizione, di marca ugual­ mente platonica, che la conoscenza delle cose deve essere pregiata maggiormente della conoscenza dei segni, perché "qualunque cosa sta per un'altra, è necessario che valga meno di quella per cui essa sta" (De Mag.). Ma se per le cose sensibili (sensibilia) sono gli oggetti esterni che ci permettono di arrivare alla conoscenza, non altrettanto avviene nel caso delle cose puramente intelligibi­ li (intelligibilia). Per queste ultime Agostino individua una soluzione "teologica": la loro conoscenza deriva dalla rive­ lazione che viene fatta dal Maestro interiore, il quale è ga­ ranzia tanto deli'informazione quanto della verità (De Mag., 12.39). Ma anche con questa soluzione "teologica" del problema linguistico, al linguaggio è lasciato uno spazio, che in parte coincide con la funzione del segno rammemorativo, ma in parte la supera: quando conosciamo già l'oggetto di riferi­ mento, le parole ci ricordano l'informazione; quando non lo conosciamo, ci spingono a cercare (De Mag.). Espressione e comunicazione del verbo inte­ riore In Agostino la soluzione teologica non è una scappatoia per uscire da un'impasse teorica. Al contrario, essa mette capo a nuove problematiche. È nel De Trinitate (415) che viene affrontato il tema dell'espressione del verbo interiore, una volta che sia stato concepito nella profondità dell'ani­ mo. In effetti, per poter comunicare con gli altri, gli uomini si servono della parola o di un segno sensibile, per poter  234 10. AGOSTINO provocare nell'anima dell'interlocutore un verbo simile a quello che si trova nel loro animo mentre parlano (De Trin., IX, VII, 12). D'altra parte Agostino sottolinea la natura prelinguistica del verbo interiore, il quale non appartiene a nessuna delle lingue naturali, ma deve essere codificato in un segno quan­ do ha bisogno di essere espresso e portato alla comprensio­ ne dei destinatari. Il verbo interiore ha, del resto, una duplice origine: da una parte esso costituisce una conoscenza immanente, la cui sorgente è Dio stesso; dall'altra esso è determinato dalle im­ pronte lasciate neli'anima dagli oggetti di conoscenza. Ma anche in questo secondo caso esso è riconducibile a Dio, in quanto il mondo è il linguaggio attraverso il quale Dio si esprime. Si trovano qui gli embrioni del simbolismo univer­ sale, che tanta parte avrà nella cultura del Medioevo. Quello che comunque emerge con sempre maggiore chia­ rezza è il carattere comunicativo della semiologia agostinia­ na, che è individuabile anche nello schema riassuntivo pro­ posto da Todorov (1977: 42): oggetti di conoscenza potenza !Immanente verbo verbo verbo divina interiore - esteriore - esteriore pensato proferito sa pere    10.6 Le classificazioni È comunque innegabile, come sottolinea Simone (1969: 96 n. 2), che se la semiologia agostiniana presenta un aspet­ to "teologico", connesso al problema del verbo divino, tut­ tavia possiede anche un ben individuato e autonomo aspet­ to laico, che prende in considerazione i caratteri che il segno ha di per se stesso. Fanno parte di quest'ultimo aspetto le varie classificazioni dei segni, alle quali Agostino si dedica soprattutto nel trattato De doctrina Christiana,  l . 2. 3. 4. 5. secondo il modo di trasmissione: vista/udito secondo l'origine e l'uso: segni naturali/segni intenzio­ nali secondo lo statuto sociale: segni naturali/segni conven­ zionali secondo la natura del rapporto simbolico: proprio/tra­ slato secondo la natura del designato: segno/cosa LE CLASSffiCAZIONI 235 con aggiunte più tarde), ma che ritorna anche in varie altre opere . Todorov (1977: 43 e sgg.) individua e analizza cinque tipi di classificazione a cui Agostino sottopone la nozione di se­ gno : Todorov lamenta il fatto che Agostino giustappone quel­ lo che in realtà avrebbe potuto articolare, in quanto gene­ ralmente queste opposizioni sono tra di loro irrelate. Questo non è però del tutto vero, perché (soprattutto nel De Magistro) c'è un tentativo di dare una classificazione combinata di alcuni aspetti del segno. A questo proposito è possibile ricostruire tale classifica­ zione ordinandola secondo uno schema arboriforme (Ber­ nardelli 1987), secondo il modello dell'albero di Porfirio (Eco 1984: 91 e sgg.); cfr. p. 236. La classificazione di Agostino non è totalmente a inclu­ sione, come tende a essere quella porfiriana; e si può osser­ vare che se venissero sviluppati i rami collaterali, si vedreb­ bero comparire, una seconda volta, alcune categorie elenca­ te sotto il ramo principale. Tuttavia è Agostino stesso a metterei sulla strada di una classificazione inclusiva da ge­ nere a specie quando definisce la relazione tra nome e paro­ la come "la stessa che c'è tra cavallo e animale" e includen­ do la categoria delle parole in quella più ampia dei segni (DeMag., 4.9).  genen· e specie AES SEGNO PAROLA NOME -- segno udibile di cose (funzione denotativa) res sensibili (Romulus, Roma, fluvius) differenze significanti qualcosa verbale (voce articolata) differenze  ( s i g n i fi c s b i l i s l non significanti     nome in senso particolare non verbale (gesti. insegne, lettere, tromba militare ecc.) altra parte del discorso (si, ve/, ex, nsmque, neve, ergo, quonism ecc.) segno udibile di segni udibili (funzione metalinguistìca) res intelligibili ( virtus)   SIGNIFICANTE delle .. AES"  LE CLASSIFICAZIONI 237 10.6. 1 "Res" e "signa" La prima relazione interessante è quella tra res e signa. Per quanto il mondo sostanziahnente venga diviso in cose e segni, tuttavia, Agostino non concepisce tale distinzione co­ me ontologica, bensì come funzionale e relativa. Infatti anche i segni sono delle res e l'uomo è libero di as­ sumere come segno una res che fino a quel momento era sprovvista di quella dignità. Anzi, la stessa nozione di res viene definita in termini rigorosamente semiologici (Simone 1969: 105): "In senso proprio ho chiamato cose (res) quegli oggetti che non sono impiegati per essere segni di qualche cosa: per esempio i legno, la pietra, il bestiame" (De doctr. Christ., I, Il, 2). Ma, immediatamente dopo, cosciente del­ la pervasività dei processi di semiosi, aggiunge: "Ma non quel legno che, leggiamo, Mosè gettò nelle acque amare per dissipare la loro amarezza (Esodo, XV, 25); né quella pietra sulla quale Giacobbe riposò la sua testa (Gen., XXVIII, I l); né quella pecora che Abramo immolò al posto di suo figlio (id., XXII, 13)". L'articolazione che esiste tra segni e cose è analoga a quella dei due processi essenziali: usare (ut1) e godere (jrul) (De doctr. Christ., l, IV, 4). Le cose di cui si usa sono tran­ sitive, come i segni, che sono strumenti per giungere a qual­ cos'altro; le cose di cui si gode sono intransitive, cioè sono prese in considerazione per se stesse (Todorov 1977: 39). Nel De Magistro (4.8) Agostino propone anche un nome per le cose che non sono usate come segni, ma sono signifi­ cate attraverso segni: significabilia. Niente toglie che in un secondo momento anche quest'ultime possano essere assun­ te con funzione significante. Dopo aver così articolato i rapporti tra segni e cose, Ago­ stino propone questa definizione di segno nel De doctrina Christiana. Il segno è una cosa (res) che, al di là dell'impressione che produce sui sensi, di per se stessa, fa venire in mente (in cogitationem) qualcos'altro".  238 10. AGOSTINO 10.6.2 Segni verbali e non verbali Nel nostro albero porfiriano abbiamo deciso di ricostrui­ re la principale suddivisione agostiniana dei segni secondo la dicotomia verbale/non verbale, anche se altre opzioni, ugualmente esplicite nei testi di Agostino, erano disponibili. Questa decisione è autorizzata da un passo del De doctrina Christiana (Il, IV, 4) in cui, a conclusione di un'analisi dei vari tipi di segni, Agostino sostiene: "Infatti di tutti quei se­ gni, di cui ho brevemente abbozzato la tipologia, ho potuto parlare attraverso le parole; ma le parole in nessun modo avrei potuto enunciarle attraverso quei segni". Viene esplicitamente fatto riferimento al carattere, tipico del linguaggio verbale, di essere un sistema modellizzante primario, e tale carattere viene assunto come criterio della divisione fondamentale dei segni. I0.6.3 Segni classificati in base al canale di perce­ zione Una classificazione incrociata rispetto alla precedente è quella effettuata in base al canale di percezione. Agostino infatti sostiene che "tra i segni di cui gli uomini si servono per comunicare tra di loro ciò che provano, certi dipendono dalla vista, la maggior parte dali'udito, pochissimi dagli al­ tri sensi" (De doctr. Christ., Il, III, 4). Tra i segni che vengono percepiti con l'udito ci sono quel­ li, fondamentalmente estetici, emessi dagli strumenti musi­ cali, come il flauto e la cetra, o anche quelli essenzialmente comunicativi emessi dalla tromba militare. Naturalmente, ritroviamo tra i segni percepìbili con l'udito, in una posizio­ ne dominante, anche le parole: "Le parole, in effetti, hanno ottenuto tra gli uomini il primissimo posto per l'espressione dei pensieri di ogni genere, che ciascuno di essi vuole ester­ nare" (Dedoctr. Christ.). Tra i segni percepibili con la vista Agostino elenca i cenni della testa, i gesti, i movimenti corporei degli attori, le ban­ diere e le insegne militari, le lettere. LE CLASSIFICAZIONI Infine vengono presi in considerazione i segni che riguar­ dano altri sensi, come l'odorato (l'odore dell'unguento sparso sui piedi di Cristo), il gusto (il sacramento dell'euca­ ristia), il tatto (il gesto della donna che toccò la veste di Cri­ sto e fu guarita). 10.6.4 "Signa naturalia" e "signa data" Sicuramente fondamentale, anche se non direttamente integrabile al nostro albero inclusivo, risulta lo schema di classificazione che oppone i signa naturalia ai signa data. I primi sono "quelli che senza intenzione, né desiderio di si­ gnificare, fanno conoscere qualcos'altro, oltre a se stessi, come il fumo significa il fuoco" (De doctr. Christ.). Ne sono esempi anche le tracce lasciate da un animale e le espressioni facciali che rivelano, inintenzionalmente, irrita­ zione o gioia . Dopo averli definiti, Agostino dichiara di non volerli trattare ulteriormente. È invece maggiormente interessato ai signa data, in quan­ to a questa categoria appartengono anche i segni della Sa­ cra Scrittura. Essi vengono definiti come "quelli che tutti gli esseri viventi si fanno, gli uni agli altri, per mostrare, per quanto possono, i movimenti della loro anima, cioè tutto ciò che essi sentono e pensano" (De doctr. Christ.). Gli esempi sono soprattutto i segni linguistici umani (le pa­ role) . Ma Agostino, curiosamente, include in questa classe an­ che i segni emessi dagli animali, come quelli che si hanno quando il gallo segnala alla gallina di aver trovato il cibo (ibidem). Questo crea una marcata differenza rispetto ad Aristotele, che include i gridi degli animali tra i segni natu­ rali (De int., 16 a). Ma Aristotele opponeva "naturale" a "convenzionale", mentre i signa data non sono i "segni convenzionali", come Markus aveva suggerito (e come del resto era sta­ to proposto dalla traduzione francese di G. Combès e J. Farges). I signa data sono i "segni intenzionali" (Engels 1962: 367; Darrel Jackson 1969: 14), e corrispondono a 1:1na  240 10. AGOSTINO ben precisa intenzione comunicativa (De doctr. Christ.). È del resto il carattere intenzionale che permette ad Agostino di includere tra i signa data quelli emessi dagli animali, anche se egli non si pronuncia sulla natura di que­ sta intenzionalità animale (Eco 1987: 78). Del resto, come nota Todorov (1977: 46), porre l'accento sull'idea di intenzione corrisponde al progetto semiologico generale di Agostino, orientato verso la comunicazione. I segni intenzionali, o meglio, creati espressamente in vista della comunicazione, possono essere messi in corrisponden­ za del syrnbolon di Aristotele e della combinazione stoica di un significante con un significato; quelli naturali, ovvero già esistenti come cose, corrispondono invece ai smeia, sia aristotelici che stoici. 10.7 Semiosi illimitata a modello "istruzionale" Uno dei punti fondamentali della semiologia agostiniana, infine, è costituito dalla ricerca dei modi in cui si può stabi­ lire il significato dei segni. Tale indagine è condotta soprat­ tutto nel De Magistro, dove si può rintracciare una conce­ zione semantica che si avvicina al tipo della "semiosi illimi­ tata" di Peirce. Come ha rilevato anche Markus (1957: 66), il significato di un segno, per Agostino, può essere stabilito o espresso mediante altri segni, per esempio: fornendo dei sinonimi; attraverso l'indicazione con il dito puntato; per mezzo di gesti; tramite astensione (De Mag., III e VII). Questa concezione del significato si rende possibile sol­ tanto nel momento in cui viene abbandonato lo schema equazionale del simbolo, per adottare, come fa Agostino, quello implicazionale del segno. La teoria semiologica ago­ stiniana si apre così, come ha messo in evidenza Eco, verso un modello "istruzionale" della descrizione semantica. Se ne può cogliere un esempio neIl'analisi che Agostino conduce insieme ad Adeodato del verso virgiliano "si nihil ex tanta superis placet urbe relinqui" (De Mag.). Esso viene definito come composto di otto segni, dei quali, appunto si cerca il significato.  SEMIOSI ILLIMITATA L'indagine comincia da l si l, di cui si riconosce che espri­ me un significato di "dubbio", dopo aver tuttavia sottoli­ neato che non si è trovato un altro termine da sostituire al primo per illustrare lo stesso concetto. Si passa, poi, a lni­ hi/1, il cui significato viene individuato come !'"affezione dell'animo" che si verifica quando, non vedendo una cosa, se ne riconosce l'assenza. In seguito Agostino chiede ad Adeodato il significato di lexl ed esso propone una definizione sinonimica: lexl sa­ rebbe equivalente a l de l . Agostino non è soddisfatto di questa soluzione e argomenta che il secondo termine è certo un'interpretazione del primo, ma ha bisogno di essere a sua volta interpretato. La solu2ione finale è che l ex l significa "una separazione" da un oggetto. A questa conclusione, pe­ rò, viene aggiunta anche una successiva istruzione per la sua decodifica contestuale: il termine può esprimere separa­ zione rispetto a qualcosa che non esiste più, come nel caso della città di Troia a cui si allude nel verso virgiliano; oppu­ re il termine può esprimere separazione da qualcosa che è ancora esistente, come quando diciamo che in Africa ci so­ no alcuni negozianti provenienti da Roma. Il significato di un termine, allora, "è un blocco (una se­ rie, un sistema) di istruzioni per le sue possibili inserzioni contestuali, e per i suoi diversi esiti semantici in contesti di­ versi (ma tutti ugualmente registrabili in termini di codice)" (Eco 1984: 34). La struttura implicativa permette regole del tipo "Se A appare nei contesti x, y, allora significa B; ma se B, allora C; ecc.", regole che sono comuni tanto al modello istruzio­ nale quanto alla semiosi illimitata. In definitiva, è proprio grazie ali'assunzione generalizza­ ta del modello implicazionale che la semiologia agostiniana riesce a porsi sia come sintesi delle acquisizioni semiolingui­ stiche del mondo antico (teoria della parola come segno), sia come potente anticipazione di alcune delle più recenti tendenze della ricerca attuale in campo semantico (modello istruzionale) . NOTE 1 Anche se non è ancora possibile stabilire se e in quale misura la cultura greca sia debitrice a quella mesopotamica della nozione di segno, secondo lo schema implicativo, in generale, è possibile, però, rilevare una connes­ sione storicamente documentabile tra le due culture in ambiti di uso parti­ colare del segno. A esempio nelPambito della medicina viene fatto ricorso allo schema del segno implicativo ("se..., allora...") nella presentazione dei complessi eziologici tanto nei trattati mesopotamici quanto in quelli greci, ambito in cui si sa che ci sono stati contatti positivi tra le due culture (cfr. Di Benedetto-Lami 1983: I l). 2 Barthes e Marty (1980: 71) collocano nel 3500 a.C. la nascita dei primi germi della scrittura in Mesopotamia. Alcuni, come Cardona (1981: 70), fanno risalire al 3500 l'invenzione degli stessi caratteri cuneiformi. Bottero (1974: tr. it. 155) posticipa molto la data, sostenendo che "la scrittura cu­ neiforme è stata inventata nella bassa Mesopotamia verso il 2850 avanti la nostra era"; cfr. anche Barthes e Mauriès (1981: 602). 3 Si veda il sumerogramma n. 73 del manuale di Labat (1948: 69). È cu­ rioso notare come si registri qui un gioco simile a quello omografico greco tra bios (''vita") e bios (''arco"), presente nel frammento 48 (D-K) di Era­ clito: "L'arco (bios) ha dunque per nome vita (bios) e per opera morte". 4 In ciascun esempio dividiamo la protasi dali'apodosi con un trattino, allo scopo di far meglio risaltare la distinzione. Per questi esempi, come per la maggioranza dei testi mesopotamici riportati nel corso di questo ca­ pitolo, siamo debitori al ricchissimo e ben documentato saggio di Bottero (1974). Qui, una volta per tutte, rimandiamo a esso per l'indicazione delle fonti primarie e delle edizioni critiche. Anche per gran parte delle notizie contenute in questo capitolo si fa riferimento a quel saggio.  Si potevano contare oltre cento oracoli per tavoletta, e alcune raccolte potevano arrivare a un numero di circa venti tavolette. Infatti da un'analisi del vocabolario dell'azione oracolare compiuta da Crahay  risulta che alcuni vocaboli presentano il testo della rivelazione come un segno, molto spesso un segno anticipatorio, in quanto orientano l'azione verso l'avvenire. Tra questi si ricordino i due verbi smafno e prosmafnO (cioè "informare in anticipo con segni") e l'ag­ gettivo di origine verbale pr6phanton che esprime l'idea di un'informazio­ ne prima del fatto. 2 Ciò è tanto più evidente se si opera un confronto con civiltà come quella mesopotamica che mettevano la divinazione al centro della vita pubblica (Vernant 1974) e ne estendevano il modello formale anche a tutti gli altri ambiti culturali (a esempio, alla medicina e alla giurisprudenza). 3 Cfr . anche //., I I I, 277 . Per i passi citati sono utilizzate, nel corso del­ l'intero testo, traduzioni correnti, talvolta parzialmente modificate. 4 Traduco dal testo in inglese di Romeo (1976: 86): "The lord, who has the oracle in Delphi, l neither discloses nor hides his thought, l but indica­ tes it through signs". s Infatti la divinazione è indissolubilmente legata ad Apollo, e Apollo è indissolubilmente legato alla sapienza. La sapienza del dio è totale e simul­ tanea e non ha bisogno di essere frammentata in parole. Tuttavia agli uo­ mini egli concede, invece, solo la frammentazione della parola oracolare, oscura e incomprensibile, in quanto in essa la sapienza divina appare come follia dell'uomo invasato. La follia, del resto, che Platone ritiene essere l'essenza stessa della mantica, riconnettendo nel Fedro (244 a-c) l'etimolo­ gia di mantiké a maniké ("arte folle"), non è altro che la sapienza vista dal­ l'esterno. 6 Ma si veda anche Amandry per la presenza di possibili procedi­ menti anche di cleromanzia (divinazione attraverso il lancio delle sorti) presso l'oracolo di Delfi. 7 Talvolta certi fenomeni naturali potevano perdere il carattere di ca­ sualità ed essere sottoposti a un processo di istituzionalizzazione, come av­ veniva nel caso dell'oracolo di Dodona, dove si interpretavano i segni dati dallo stormire del vento tra le fronde di una quercia sacra a Zeus (come pure, probabilmente, il tubare e il volo dei piccioni sacri e iJ mormorio di una fonte, gli echi di un gong). Per gli oracoli in generale, si vedano Ferri (1916) e Parke (1967); per una disamina generale e approfondita dei vari ti­ pi di divinazione i testi basilari sono Bouché-Leclercq ( 1 879-82) e Halliday (1913). 8 "Lobo", "vescichette" e "porte" erano i termini tecnici designanti par­ ti che gli specialisti di questo tipo di divinazione prendevano come segni da cui elaborare interpretazioni; cfr. Arist., Historia anima/ium, l, 17, 496 b 32· Eurip., E/ectra, 826-828. 9 Le forme della consultazione oracolare ci sono note attraverso un cer­ to numero di iscrizioni epigrafiche, provenienti principalmente da Delfi e da Dodona; cfr. Parke-Wormell e Fontenrose. Quest'ultima categoria fa ovvio riferimento alla nozione di enigma, come era presente nella cultura greca: esso comportava, come vedremo  NOTE 245 meglio più avanti, sia un aspetto di sfida (da parte del dio all'uomo), sia la presenza nascosta di un secondo senso, sia, infine, l'idea che il primo senso doveva essere immediatamente scontato. Il termine "modo", poi, pone l'accento sul fatto che non vi è presenza di un unico meccanismo, ma di una galassia di procedimenti espressivi molto eterogenei, che vanno dalla banale omonimia, alla metafora (metasememi), allo scambio di prospetti­ va (metalogismi) ecc. L'espressione "modo" enigmatico fa naturalmente riferimento alla categoria di modo simbolico elaborata da Eco. Pur­ troppo non è qui possibile usare direttamente quella categoria perché essa, pur avendo molti punti in comune con questa che qui proponiamo, se ne discosta per la presenza di alcuni caratteri specifici (rapporto stretto tra si­ gnificante e significato, nebulosa di sensi multipli tendenzialmente coesi­ stenti ecc.) che qui non si ritrovano. È un peccato, perché ci sarebbe sem­ brato appropriato definire "simbolico" il modo di parlare del dio. 1 1 Il meccanismo retorico dell'enallage ricorda il meccanismo oracolare usato dalla Sibilla cumana, nella descrizione di Virgilio (Aen., VI): la sa­ cerdotessa di Apollo scrive le varie parti del responso su delle foglie, se­ guendo l'ordine sintagmatico del linguaggio umano; poi lascia quelle fo­ glie al vento, che scompiglia l'ordine precedente, creandone un altro, in cui i riferimenti incrociati fra i ternlini rendono oscuro il testo e difficile l'interpretazione. 12 L'ambiguità del dio è simbolizzata dai due attributi antitetici della li­ ra e dell'arco: la lira rappresenta la faccia benigna ed esaltante (quella che compare nell'interpretazione di Nietzsche); l'arco, quella maligna e deva­ stante. Del resto l'etimologia stessa del suo nome suggerisce il significato di "colui che distrugge totalmente", ed è sotto questo aspetto che Apollo si presenta all'inizio dell'Iliade, dove le sue frecce portano lutto e distruzione nel campo degli Achei (Colli). Per una nozione complessa e articolata della nozione di "verità" nel mondo antico, si veda Detienne. In particolare, sulla concezione di a/theia come "sintesi del passato, del presente e del futuro", comune al poeti ispirati, agli indovini e agli ambienti filosofico-religiosi, Detienne. D'ora in avanti ci riferiremo al Corpus Hippocraticum con la sigla C.H. Naturalmente, per una documentazione completa sulla medicina gre­ ca, dovrebbero essere prese in specifica considerazione almeno anche le opere di Galeno; tuttavia queste ultime, appartenendo a un'epoca molto più recente (II sec. d.C.) e attingendo a una tradizione filosofica (quella aristotelica e stoica) che aveva già portato molto avanti lo studio sul segno, si situano in parte al di fuori del discorso che stiamo svolgendo . Rimandia­ mo, comunque, a Manuli (1980). 2 La massiccia attribuzione dei trattati di medicina del V e lV secolo  246 NOTE 3 Si possono distinguere all'interno del C.H. gruppi omogenei di opere. Innanzitutto il gruppo di trattati tecnico-terapeutici (Sulle affezioni inter­ ne, il libro II delle Malattie (A), il libro III delle Malattie, la parte più ar­ caica del trattato Sulle malattie delle donne), caratterizzati da un carattere spiccato di arcaicità e da una maggiore attenzione all'aspetto terapeutico della medicina (Di Benedetto 1986: 5 e 80). In secondo luogo, un gruppo di trattati in cui appaiono maggiormente approfonditi i principi teorici e me­ todologici della medicina. Vegetti (1976: 21 e sgg.) ha proposto di definire convenzionalmente "pensiero ippocratico" queJJo che da questi ultimi ri­ sulta (indipendentemente dal fatto che essi siano attribuibili a molti autori e probabilmente tutti diversi dali'lppocrate storico vissuto tra il 460 e il 370 a.C.). Questi testi, collocabili cronologicamente nella seconda metà del V secolo a.C., sono: Antica medicina, Le arie, le acque, i luoghi, Il 4 Cfr. Jaeger (1947: tr. it. 3). s Cfr. Vegetti (1976: 65 ss.); Vegetti (1967: 78). 6 Anche se, come mette in evidenza Lloyd (1979), la medicina ippocrati­ ca non arriverà mai a essere sperimentale in senso compiuto. 7 Per le traduzioni ci atteniamo al criterio di usare versioni correnti, tal­ volta apportandovi delle modifiche. 8 Solo più tardi, con la Scuola di Alessandria, sarà stabilita una distin­ zione fornaie tra anamnsis, relativa ai fenomeni collocati nel passato, diaghnOsis, ovvero individuazionc dello stato presente, e pr6ghnOsis, cioè previsione deJJ'andamento futuro della malattia; cfr. Di Benedetto-Lami (1983: 166). Sulla pr6ghnOsis si veda anche Grmek (1983: tr. it. 499 ss.). Si deve poi segnalare che Irigoin (1983: 179) collega il prefisso pro-, unito ai verbi di "dire", con il significato di "pubblicamente ", anziché con un si­ gnificato di "anticipazione". a.C . a lppocrate avviene nell'ambito della biblioteca di Alessandria nel I I I secolo a.C.; cfr. Di Benedetto (1986: 81). prognostico, Il regime nelle malattie acute, il Male sacro, Le epidemie l e III, e poi le maggiori opere chirurgiche (Leferite nella testa, Le articola­ zioni, Lefratture). 9 Cfr. Detienne (1967: tr. it. 99 n.). 10 In certi casi, il vocabolario usato per indicare la previsione medica ri­ calca queJJo della divinazione, come nel cap. 9 delle Articolazioni in cui si dice che è compito del medico "vaticinare" (katamante-Usasthal) certi pro­ cessi relativi allo stato di salute. 1 1 Si tratta di una concezione (vale la pena sottolineado) che affonda le radici in una religione preolimpica, animistica e demonica; cfr. Lanata (1967); Detienne (1963: 32 e sgg.); Dodds (1951); Lloyd (1979); Parker ( 1 983) . Un'ampia panoramica sul movimento magico e catartico era già stata fornita dagli studi del Rohde (1890-94: tr. it. 1982). 12 Cfr. Diog. Laert., Vitae, VIII, 32 D-K, 58 B la. Va notato, di sfug­ gita, che il carattere molto arcaico della concezione espressa dal brano è garantito dal riferimento al bestiame coinvolto nelle stesse vicende della comunità umana: c'è la rappresentazione di una comunità agricola in cui uomini e bestie formano una unità inscindibile; cfr. Deticnne (1963: 32). n Un esempio assolutamente analogo a questo si trova nel cap. 21 del =  NOTE 247 trattato Le arie, le acque, i luoghi, dove si confuta, usando i1 modus tol­ /ens, la tesi secondo cui l'impotenza che colpisce certuni degli Sciti sia do­ vuta a causa divina, in quanto colpisce i ricchi (che vanno a cavallo, essen­ do questa, per l'autore, la causa della malattia) e non i più poveri. Se fosse di origine divina, continua l'autore, colpirebbe indifferentemente tutti. 1"' Si pensi a questo proposito all'indebolimento dei sensi durante il son­ no di cui parla Platone nel Timeo e a1la diminuzione dei turbamenti nell'aria che rende possibile il sorgere dei sogni secondo Aristotele (De di­ vinatione per somnum) . •s Per la nozione di "omomaterico", cfr. Eco (1975: 295): per "omoma­ tericità" si intende il fenomeno per cui "l'oggetto, visto come pura espres­ sione, è fatto della stessa materia del suo possibile referente. Cfr. anche Lichtenthaeler (1983) e Wenskus (1983). 17 Cfr. Vegetti (1976: 48); Manuli (1985: 233). 18 Sull'abduzione si vedano Thagard; Proni (1981); Eco (1983); Bonfantini-Proni; Bonfantini; Peirce; Eco. Di Benedetto (1986) ha messo in luce, in maniera molto convincente, i rapporti tra i moduli espressivi di presentazione della malattia nella medi­ cina greca e quelli dei trattati mesopotamici ed egiziani; cfr. anche Di Be­ nedetto-Lami (1983). 2° Cfr. Campbell Thompson (1937: 285, I, 1). 2 1 Per questa nozione, cfr. Conte. Cfr. Hjelmslev. Cfr. Arist., An. Pr., Il, 70 a-b; Rhet., Cfr. Arist., Rhet., l, 1358 a, 36 e sgg. 3 Cfr.Arist., De int.,16a; An.Pr.,11,70a-b. "' Su questa nozione cfr. Di Cesare. s Cfr. Eco. Cfr. Heinimann. 7 Cfr. Eco-Lambertini-Manno-Tabarroni (1984); Eco. Emerge qui, per quanto nebulosamente, il tema della doppia articola­ zione del linguaggio umano, che verrà poi sviluppato in epoca contempo­ ranea da André Martinet (1960). 9 Anche se Aristotele non dà esplicitamente questa definizione, tuttavia nella Retorica (1, 1357 a, 14-22) c'è un passo che suggerisce l'idea dell'enti­ mema come sillogismo accorciato. Inoltre, in un passo dei Primi analitici  248 NOTE (Il, 70 a, 24-25), Aristotele tenta anche di distinguere il segno dal sillogi­ smo in base al numero di premesse assunte (una sola nel primo caso, due nel secondo). 1ella Retorica infatti il tekmirion verrà definito esplicitamente "neces­ sario" (anankaion), mentre il smefon è definito ..non necessario" (mè anankafon) (Rhet.). 1 1 Lo stesso punto di vista e la stessa terminologia ricorrono anche nel passo parallelo della Retorica. 12 Quanto al carattere di confutabilità di questo tipo di segno, Aristote­ le così commenta l'esempio dato negli Analitici; "D'altra parte il sillogi­ smo che si sviluppa attraverso la figura intermedia risulterà sempre confu­ tabile (ljsimos), senza eccezione. In realtà, quando i termini si comporta­ no come si è detto sopra, non si costituirà mai un sillogismo: se infatti la donna gravida è pallida, e se inoltre una determinata donna è pallida, non per questo sarà necessario che questa determinata donna sia gravida"' (An. Pr.J Il, 70 a, 34-37). 1 Dei segni quello necessario è la prova, quello non necessario non ha un nome corrispondente a questa differenza. Intendo per necessarie le proposizioni da cui derivano sillogismi. Perciò anche dei segni quello che è tale è la prova: quando infatti si ritiene che non è possibile confutare la proposizione enunciata, allora si pensa di apportare una prova, che si ritie­ ne dimostrata e compiuta; nella lingua antica infatti tékmar (prova) e pé­ ras Ccompimento') significavano la stessa cosa" (Rhet.). Si deve tuttavia segnalare il fatto che, se negli Analitici e nella Retorica la di­ stinzione tra tekmrion e semeion è rigida e netta, l'uso che Aristotele fa di questi termini nei trattati scientifici sembra essere molto più fluido, senza distinzioni speciali tra l'uno e l'altro termine. Si trova anche impiegato un terzo termine, martyrion, in un senso analogo a quello di semeion; cfr. Le Blond. Cfr. Arist., An Pr., II, 70 b,'7-14. I!!. Cfr. Arist., An. Post., II, 98 b, 25-30. È del resto sulla base delle immagini prodotte nella mente dagli oggetti esterni, in particolare su certi tipi di immagini, chegli stoici chiamano ka­ talptikaì phantasfai, che viene basato il "criterio di verità", cioè "ciò a cui ci atteniamo nell'affermare che alcune cose esistono e altre no e che certe cose determinate sono vere ( = sono il caso) e certe altre sono false ( = non sono il caso)" (Sext. Emp., Adversus Mathematicos, VII, 29); cfr. Mi­ gnucci; Sandbach; "The crite­ rion of truth" di Rist. Cfr. anche Sext. Emp., A dv. Math. 1 Si deve sottolineare che /ekt6n è l'aggettivo verbale del verbo /éghein.  6 Cfr. Diog. Lart., Vitae, VII, 51; Long Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 11-12. 8 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 70. 9 Cfr. Diog. Lart., Vitae, Vll, NOTE 249 A questo proposito si ricorderà che, come sostiene Diogene Laerzio ( Vitae, VII, 57), gli stoici distinguevano tra il "proferire" (prophéresthal), che consisteva nel puro emettere dei suoni, e il "dire" (léghein), che consisteva nel fare ciò in modo da significare (sma{nein) lo stato delle cose in mente; cfr. anche Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 80. Long (1971 a: 77) sostiene di preferire, per lekt6n, la traduzione "what is said" rispetto a quella propo­ sta da Mates e dai Kneale, "what is meant", in quanto la prima è più gene­ rale e permette al lekt6n di essere interpretato come avente funzione tanto logica quanto grammaticale. 4 Si deve tuttavia sottolineare che vi è una tradizione, risalente al Crati­ lo platonico, secondo la quale nominare qualcuno equivale a dire "questo è il suo nome". In questo caso anche l'esempio di Sesto dovrebbe essere compreso nei termini di una proposizione implicita come "'Dione è il nome di costui" oppure "Questo è Dione"; cfr. Long (1971 a: 107 n. 1 1). ..s I lekta venivano classificati dagli stoici in completi e incompleti; cia­ scuno dei due tipi dava luogo a una sottoclassificazione, anche molto com­ plessa, che non prenderemo qui in considerazione; si veda a questo propo­sito Mates. 63. 1° Cfr. Mates (1953: 1 1-12): Mates infatti concepisce i lekta come signi­ ficato delle parole e avvicina la loro definizione a quella di Sinn di Frege e a uella di intension di Carnap. 1 Cfr. Zeller (1865: 78-79). 12 Cfr. Bréhier. 13 Cfr. Mignucci (1965: 96). 14 Una definizione del criterio di verità la fornisce Sesto (A dv. Math., VII, 29): "Ciò a cui ci atteniamo nell'affermare che alcune cose esistono e altre no e che certe cose determinate sono vere e certe altre sono false". Sul problema del criterio di verità, cfr. Rist (1969: 133-151); Sandbach (1971 a: 9 e sgg.); Mignucci (1966). 17 Cfr. anche Adv. Math., VIII, 245-257. 18 Cfr. Diels-Kranz, 75, B 2. 19 Si veda, a proposito di questa questione terminologica, la esaustiva 1 Cfr. Platone, Th., 190 a (206 d); Soph., 263 a. 16 In effetti il "discorso interno" (endiathetos /6gos), a differenza delle espressioni emesse materialment (prophorikòs 16gos), è un fattore che si dimostra capace di distinguere l'uomo dagli animali. Dice infatti Sesto (Adv. Math., VIII, 275-276): "(Gli stoici) dicono che l'uomo differisce da­ gli animali irrazionali a causa del discorso interno, non a causa di quello pronunciato, in quanto corvi, pappagalli e gazze pronunciano suoni arti­ colati"; cfr. anche Pohlenz (1959, 1: 61-62). trattazione di Conte (1972: XXXV), curatore dcll'edizione italiana dei Kneale (1962). 20 Cfr. Sext. Emp., Hyp. Pirrh., Il, 95-96. 21 Ibidem: "anche la dimostrazione in quanto al genere è, a quel che pa-  250 NOTE re, un segno"; cfr. anche Adv. Math., VIII, 180. 22 Il testo del De signis, con traduzione inglese, è contenuto in Ph . e E.A. De Lacy (1978). 21 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 144; Hyp. Pyrrh., Il, 97. lA Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 147; Hyp. Pyrrh., II, 97. 2' Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 145; Hyp. Pyrrh., II, 98. 26 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 146; Hyp. Pyrrh., Il, 98. 27 Cfr. anche Adv. Math., VIII, 151-155. 28 Tale tripartizione verrà esplicitamente teorizzata nella retorica roma- na: vedi il capitolo relativo. 29 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 152-153. 30 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 154. 11 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 156. Al di là del carattere pole­ mico, l'osservazione di Sesto è interessante perché, citando "medici" e "fi­ losofi", fissa i due punti estremi di un ciclo di sviluppo deli'interesse verso il segno: l'introduzione di tale interesse da parte dei medici (come, poi, di­ mostrano anche i numerosi esempi di carattere medico presenti in tutte le trattazioni) e lo studio sistematico del segno da parte dei filosofi. 12 Cfr. Diog. Latrt., Vitae, VII, 71. 13 Cfr. Sext. Emp., Hyp. Pyrrh., Il, 104-105; Adv. Math., VIII, 245- 247 . 34 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 245. 1' Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 248; Hyp. Pyrrh., Il, 106. 16 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 249-250; Hyp. Pyrrh., Il, 106. 37 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 250-251. 11 Cfr. Sext. Emp., Hyp. Pyrrh., Il, 106-107; Adv. Math., VIII, 252- 253 . 39 Cfr. Sext. Emp., Hyp. Pyrrh., Il, IlO-I12. Qui prenderemo in consi­ derazione solo i primi tre criteri, perché il quarto sembra avere un'origine diversa dalla scuola megarico-stoica. 4() Cfr. Sext. Emp., Hyp. Pyrrh., Il, lIO-I12; Adv. Math., VIII, 115- 117. •U Sono state proposte varie interpretazioni del condizionale diodoreo, che non possiamo qui prendere in considerazione. Segnaliamo tuttavia i saggi di Hurst (1935), di Mates (1949 a), dei Kneale (1962) e di Mignucci (1966), che affrontano l'argomento in una successione cronologica e teo­ rica. "2 Cfr. Phil., De signis, XIV, 11-14= 19; Xl, 32-XII, 1 = 17. l numeri romani, relativi ai paragrafi del testo greco, sono messi in correlazione con il segno " = " ai capitoli della traduzione inglese dei De Lacy (1978). "3 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 275-276; 287.  Cfr. Goldschmidt (1953: 79 e sgg.); Verbeke (1978: 401-402); Manuli (1986: 262). ..s Sul rapporto tra filosofia e divinazione, Verbeke (1978: 402) osserva molto opportunamente che per gli stoici il filosofo "est le médecin de cet organisme vivant qu'est le monde; il est aussi une sorte de prophète, un de­ vin, un exégète, un interprète des signes qu'il observe". 46 Cfr. Cic., De divinatione, I, 125-127.  49 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., 309. CAPITOLO 7. NOTE 251 "7 Cfr. Sext. Emp., Hyp. Pyrrh., II, 140; Adv. Math., VIII, 305. 48 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 180: "D'altronde anche la dimo­ strazione è, in linea generale, un segno, giacché essa è considerata come di­ svelatrice della conclusione". 1 Il testo di Filodemo, giunto a noi attraverso il papiro ercolanese 1065, è ora disponibile nell'ottima edizione critica dei De Lacy (1978); d'ora in poi citeremo quest'opera con il titolo latino De signis: a essa è dedicato il prossimo capitolo. 2 Cfr. Diog. Laert., Vitae, X, 31; cfr. ancheEpic., EpistulaadHerodo­ tum (d'ora in poi Ep. Hdt.), 38; Kyriai Doxai (d'ora in poi K.D.), XXIV. 3 Cfr.Phil.,Designis,fr.l. " Cfr. Diog. Laert., Vitae, X, 33; Epic., Nat., XXVIII, fr. 4, col. III, in Arrighetti (1960: 296-297). Long (1971 b: 1 14) sostiene che un simile rap­ porto tra linguaggio e pro/essi è presupposto anche nella Ep. Hdt., 37-38.  Cfr. Diog. Laert., Vitae, Cfr. Epic., Ep. Pyth., Cfr. Epic., Ep. Hdt., Cfr. Diog. Laert., Vitae, Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., Cfr. Diog. Laert., Vitae, Cfr. Diog. Laert., Vitae, Cfr. Epic., Ep. Hdt., Cfr. Epic., Ep. Hdt., 48. 1" Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VII, 211. 15 Cfr. Epic., K.D., XXIV. 16 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VII, 211. 1 7 La congettura semiotica è espressa dal verbo smeiolJ (Ep. Hdt., 38) e prende la forma dell'induzione nella teoria epicurea. Il sostantivo da esso derivato, smeilJsis, non direttamente attestato negli scritti di Epicuro, avrà ampio spazio nel trattato di Filodemo. 18 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VII, 21 3-214. 19 Come vedremo nel prossimo capitolo, il criterio della "non incompa­ tibilità" con i fatti conosciuti è centrale nella teoria dell'inferenza come è esosta nel De signis di Filodemo. ° Cfr. Diog. Laert., Vitae, X, 33. 21 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 13; 258; Plut., Adversus Colo­ tem, 1119f. 22 Si deve segnalare l'articolo di Glidden (1983) che tratta il problema semantico in Epicuro in termini molto diversi da quelli in cui lo abbiamo trattato qui e recupera, sostanzialmente, le posizioni di Sesto e di Plutarco, sostenendo che non esiste nella filosofia linguistica epicurea un livello spe-  252 NOTE cifico del "significato" in termini intensionali. 23 Cfr. Sedley (1973: 17-18); il testo di Sedley in parte si discosta da quello di Arrighetti. Come veniva evitato, nel Crati/o platonico, tanto da Cratilo quanto da Socrate. Cfr. capitolo relativo a Platone in questo libro. 26 Cfr. Plat., Crat., 421 d, 435 c; cfr. Sedley. La data di composizione del trattato, che è controversa, oscilla tra il 542e il 40 a.C.; cfr. De Lacy (1978: 163-164). Il titolo greco, essendo il testo in parte corrotto, è frutto della conget­ tura di T. Gompers; altre congetture sono state proposte. D'ora in poi ci riferiremo a esso nella sua versione latina De signis; cfr. De Lacy. Nella prima sezione vengono riportate le risposte di Zenone di Sidone alle critiche stoiche; nella seconda viene esposta la versione di Bromio del­ l'enumerazione e confutazione di Zenone degli argomenti contro l'inferen­ za empirica; nella terza viene riportata l'enumerazione di Demetrio di La­ conia degli errori comuni degli antagonisti del metodo analogico; la quarta sezione, che espone una seconda lista degli errori degli oppositori, è anoni­ ma, ma, con molta probabilità, è anch'essa da attribuire a Demetrio. .. Cfr. Marquand; Deledalle.  Cfr. Phil., Designis, coll.VIII,32-IX,3= cap.13). Il riferimentobi­ bliografico al trattato di Filodemo è dato in maniera duplice, indicando prima la colonna e il numero delle righe del testo greco del papiro, poi il numero del capitolo corrispondente nella traduzione inglese effettuata dai De Lacy. 6 Come è a più riprese ribadito anche nella terza sezione che riporta il pensiero di Demetrio; cfr. col. XXVIII, 13-25 = cap. 45, e col. XXXVII, 12-24=cap. 57. 7 Cfr.col.XIII,1-15=cap.18. 8 Cfr. col. I, 1-12 9 Cfr. col. I, 12-16=cap. 2. 1° Cfr. col. XII, 14-31=cap. 17. 11 In Peirce (1980: 140), del resto, c'è a proposito dell'icona anche un'interessante considerazione (sulla possibilità che l'oggetto del segno iconico esista o non esista), la quale sembra riproporre, in epoca contem­ poranea, una tematica simile a quella stoica ed epicurea circa la distinzione dei segni in propri e comuni: "Un'Icona è un segno che si riferisce all'Og­ getto che essa denota semplicemente in virtù di caratteri suoi propri, e che essa possiede nello stesso identico modo sia che un tale Oggetto esista ef­ fettivamente, sia che non esista. È vero che, a meno che vi sia realmente un tale Oggetto, l'Icona non agisce come segno". = cap . 2,ecol.XIV,4-11=cap. 19.  NOTE 12 Cfr. Preti 1956: 13; si veda anche il cap. VI del presente lavoro. Cfr. col. II, 25·36=cap. 5. ... Cfr. col. III, 4-8= cap. 5. 1Cfr. col. III, 30-34 = cap. 6. 16 Cfr. coli. XXXV, 35 - XXXVI, 7=cap. 53. 17 Le risposte alle obiezioni stoiche sono, nella sezione di Zenone, alle coli. XVI, 4 · XVII, 28 = capp. 23-24, e, nella sezione di Bromio, alle coli. XXII, 28 - XXIII, 7=cap. 38. 18 Cfr. col. XVII, 3-7=cap. 24. 19 Una discussione attribuita ai "dogmatici" sul problema della defini­ zione come combinazione di attributi, a esempio "animale", "mortale", "ragionevole" rispetto a uomo, è presente anche in Sesto Empirico, Adv. Math., VII, 276-277. 2° Cfr.col.IV,3-5=cap.6. 21 Cfr. col. XVII, 1 1-28 = cap. 24. 22 Cfr.V,l-7=cap.7. 21 Cfr. col. XVII, 29-36=cap. 25. 2A Cfr. coli. XVII, 37 - XVIII, 3 = cap. 25. 2 Cfr. col. XVIII, I0-16=cap. 25. 26 Cfr. coll. XXIII, 13 - XXIV, 8=cap. 39. 27 Cfr. col. XXIV, 10-17 = cap. 40. 28 Cfr. col. XXVI, 6-9=cap. 41. 29 La tradizione continua dopo gli epicurei, e nella tarda antichità le de­ finizioni vengono talvolta combinate; cosi si ha quella di Galeno: "animali razionali, cioè provvisti di ragione" (De P/ac. Hipp. et Plat., IX, 3); e quella di Sesto Empirico: "animale razionale mortale, provvisto di intelli­ genza e razionalità" (Adv. Math., VII, 269). 3° Cfr. 11 Cfr. 12 Cfr. 31 Cfr. 34 Cfr. 1 Cfr. 36 Cfr. l7 Cfr. 18 Cfr.coli.I,19-II,3=cap.3. 39 Cfr. coli. XIV, 28 - XV, 13=Cfr.coli.XX,32-XXI,3= cap.35. coli. XXXIII, 35 - XXXIV, 5=cap. 52. Eco (1984: 130 e sgg.). Groupe p. (1970: 100). col . col. col . col. col. XXXIV, 5-7 = cap. 52. XXXIV, 11-15=cap. 52. XXI, 27-29 = cap. 36. XXX, 27-31 =cap. 47. XVIII, 23-29=cap. 26. CAPITOLO 9. 1 A questo proposito Cicerone parla di "regolarità della ragione" (ratio et constantia) contrapposta alla "sorte" (fortuna) (De div., I l, 1 8) In altre opere, al posto di dicibile troviamo l'espressione significatio; a esempio in De Magistro, 10.34. 2 Si deve notare che Agostino adopera l'espressione verbum in due sen­ si: (i) uno tecnico e specifico, che è quello dell'uso metalinguistico della pa­ rola; (ii) uno generale, che corrisponde alla nozione ampia di "parola", co­ me "segno di ciascuna cosa che, proferito dal parlante, possa essere inteso dalJ'ascoltatore" (cap. V). 1 La natura della nozione di dictio, come composizione di significante e significato, è messa chiaramente in risalto dalla definizione del cap. V da De dialectica: Quel che ho detto dictio è una parola, ma una parola che significhi ormaj le due unità precedenti conten1poraneamente, la parola (verbum) stessa e ciò che è prodotto nell'animo per mezzo della parola [di­ cibile]". La dictio, inoltre, "non procede per se stessa, ma per significare qualcosa d'altro" (ibidem). 4 Si ricorderà che dagli stoici un segno era concepito, in termini propo­ sizionali, come un antecedente che rimandava a un conseguente; cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VliI, 245. s Per questa nozione, cfr. Lotman-Uspenskij Les Storcien.s et leur logique, Actes du Colloque de Chan­ tilly, Vrin, Paris Al, D.J. The Philosophy ofAristotle, Oxford, Ox­ ford (tr. it. La filosofia di Aristotele, Lampugnani Nigri, Milano, AMANDRY, La mantique apollinienne à Delphes. E5sai sur lefonction­ nement de roracle, Thèse (Bibliotèque des Écoles Françai­ ses de Athènes et de Rome), Paris Oracles, littérature et politique", in Revue des études an­ ciennes, 61, 1-2, pp. 400-413 AllENs, H. (ed.) 1984 Aristotle's Theory of Language and Its Tradition. Texts from 500 to l750, Benjamins, Amsterdam-Philadel­ phia AlusTOTELE Opere. I. Organon (trad. di G. Colli), Einaudi, Torino ARluGHEITI, Epicuro. 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