Luigi Speranza -- Grice e Viano: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del va’ pensiero – il
carattere della filosofia italiana – la scuola d’Aosta -- filosofia italiana – Luigi
Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Aosta). Filosofo italiano. Aosta,
Valled’Aostda. Esential Italian philosopher. Filosofo italiano. Si laurea in filosofia a Torino sotto
ABBAGNANO. Insegna a Milano e Cagliari. Fa ritorno, in qualità di ordinario
fuori ruolo di storia della filosofia, a Torino. Fa parte del Comitato
Nazionale per la bio-etica, ed è stato membro del direttivo della “Rivista di filosofia”
e socio nazionale dell'accademia delle scienze di Torino. Insignito del
premio Feltrinelli per la storia dela filosofia. Di formazione illuminista,
V. si occupa di storia della filosofia antica. -- è autore di importanti studi
su Aristotele (“La logica di Aristotele” (Torino, Taylor) e l’empirismo (“Dal
razionalismo all'illuminismo” (Einaudi, Torino); “Il pensiero politico”
(Laterza, Roma). Nel campo dell'etica, oltre a studi storici -- “L'etica” (Mondatori,
Milano), “Teorie etiche” (Boringhieri, Torino) -- si dedica a promuovere la
costruzione di una bio-etica e a denunciare la timidezza dei laici di fronte
alle ingerenze del cristianesimo. Da Mistretta, direttore editoriale
della Laterza di Roma, gli fu affidata, la direzione di una “Storia della
filosofia.” Altre saggi: “La selva delle somiglianze: il filosofo e il medico”
(Torino, Einaudi); “Va' pensiero: il carattere della filosofia italiana”
(Torino, Einaud); “Filosofia italiana nel dopo-guerra” (Bologna, Mulino);
“Etica pubblica” (Roma/Bari, Laterza); “Le città filosofiche: per una geografia
della cultura filosofica italiana” (Bologna, Il Mulino); “Le imposture degl’antichi
e i miracoli dei moderni” (Torino, Einaudi); “Laici in ginocchio” (Roma/Bari,
Laterza); “Stagioni filosofiche: la filosofia del Novecento fra Torino e l'Italia”
(Bologna, Mulino); “La scintilla di Caino: storia della coscienza e dei suoi
usi” (Torino, Boringhieri). Profilo biografico sull’accademia delle scienze. Mori,
Torino ricorda V., su Torino. Cerimonia nell'accademia nazionale dei lincei, su
presidenza della repubblica, Roma. Treccani Enciclopedie, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Enciclopedia
Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Registrazioni su Radio Radicale,
Radio Radicale. Biografia e testi
sull'Enciclopedia multimediale RAI delle scienze filosofiche Rassegna stampa
sul Sito Italiano per la Filosofia Recensione di "Le città
filosofiche" su Recensioni Filosofiche. Il lizio. Il punto di vista da cui
intendiamo prendere le mosse e che ci pare adatto a permettere un proficuo
studio della logica del LIZIO – tanto celelbrato a Roma -- può essere
sufficientemente precisato se messo in rapporto con la tradizione storiografica
concernente questo argomento. Le non molte pagine che compongono l’ “Organon”
hanno suscitato interessi per secoli intieri dal tempo dei commenti romani fino
ai rinnovati studi aristotelici del '500, attraverso gli studi medioevali, e
fino alla logica classica dell'800. Ma una vera e propria indagine
storiografica volta non a sviluppare una tecnica logica i cui principi si
considerassero posti da Aristotele, bensì a comprendere il significato delle
dottrine dello Stagirita e nei rapporti con gli atteggiamenti di pensiero dei
suoi contemporanei e nei rapporti con gli interessi dello Stagirita stesso,
sorse solo all'inizio del secolo scorso e tramontò abbastanza rapidamente:
tanto che da cinquant'anni a questa parte poche e non molto significative sono
le opere dedicate alla logica aristotelica.
Le ragioni di ciò si possono forse trovare nella impostazione che nella
filosofia contemporanea viene data al problema logico. Infatti, nell'800 da un
lato la critica kantiana presenta un' interpretazione della scienza classica
servendosi proprio delle categorie della logica tradizionale come categorie
proprie dell'intelletto umano, categorie di cui si serve ancora la logica
hegeliana che pretende addirittura di assurgere a logica di tutta la realtà;
d'altra parte il positivismo, soprattutto in Inghilterra, tenta di elaborare
una logica empirica servendosi degli schemi che la logica tradizionale aveva
mutuato da Aristotele; e la stessa logica formale ottocentesca finisce con il
favorire lo studio di quello che i suoi cultori conside ravano come il
fondatore della loro disciplina. Invece nel 'goo l'ideali-smo neo-hegeliano
abbandona l' esigenza panlogistica, almeno quale si configura nello Hegel,
preferendo parlare di una Coscienza assoluta più che di un'Idea che si svolga
secondo una necessità logica, scoprendo perciò negli schemi cui ancora la
Wissenschaft der Logik si era attenuta contraddizioni insanabili, come il
Bradley, o vedendo nella logica che si attiene agli schemi aristotelici una
indebita infiltrazione di schemi verbali irrigiditi nel campo del pensiero
puro, come CROCE, o l' irrigidirsi del pensiero pensante nell'astratto pensiero
pensato, come GENTILE. D'altra parte anche la logica della scienza tentava di
liberarsi degli schemi tradizionali diventati incapaci di intendere i metodi
nuovi di cui l' indagine scientifica si serviva o avvicinandosi sempre di più
alla tecnica della ma- tematica, con la
logistica, o configurandosi come rigorosa analisi sintat-tica del linguaggio o
servendosi delle nuove categorie che il pragmatismo offriva per
l'interpretazione della scienza. In questo orizzonte gli studi sulla logica
aristotelica non trovavano terreno propizio per germogliare. Infatti gli interpreti idealisti, tra i quali
il più significativo è forse CALOGERO, accettavano ben volentieri la
qualificazione della logica aristotelica come logica formale, come
solidificazione astratta ed artificiosa dell'opera vivente del pensiero e
perciò tentavano di mostrare come essa non fosse essenziale per la comprensione
del vero pensiero aristotelico in quanto costituisce un' intrusione del
dianoetico nella noesi, cioè nell'atto di pensiero puro che determina i suoi
contenuti immediatamente e senza ricorrere allo schema verbale del giudizio,
come dimostrerebbe nel modo più lampante il libro della Metaphysica ed il
frequente affiorare di questa esigenza anche nelle pagine dell'Organon,
additate con molto acume e con molta perizia nella succitata opera del CALOGERO.
La logistica, per bocca del Russell, prendeva un netto atteggiamento polemico
nei riguardi della logica aristotelica vedendo in essa un insieme di schemi
verbali non rispondenti però ad un'autentica tecnica logica, perché inficiati
dal presupposto sostanzialistico, di carattere metafisico, che, riducendo tutte
le enunciazioni a proposizioni della forma soggetto-predicato, preclude ogni
considerazione delle relazioni. Tuttavia proprio nell'ambito della logistica
doveva sorgere un altro atteggiamento verso la logica ari-stotelica, meno
polemico, rappresentato soprattutto dallo Scholz, dal Becker e dal Bochénski.
Comune a questi interpreti è il presupposto che la logica di Aristotele sia
logica formale, cioè volta ad elaborare schemi linguistici aventi rapporti noti
ed indipendenti dal valore dato alle incognite che in essi possono comparire.
In questo modo, pur accettando l'osservazione del Russell che la logica
aristotelica non va accettata così com'è perché deve essere integrata e
sviluppata soprattutto con l'aggiunta della logica delle relazioni, essi non
polemizzano più contro di essa, ma anzi la considerano come il precedente
storico della logica formale contemporanea che si presenta appunto come un
progresso rispetto a quella. Di conseguenza questi interpreti non mettono in
problema le dottrine aristoteliche e l'impostazione da esse data al problema
della logica; ma anzi accettano che quella dello Stagirita sia la vera
impostazione del problema logico, la soluzione del quale consiste nello
sviluppo diretto delle dottrine dell'Organon. Infatti secondo lo Scholz Aristotele
avrebbe formulato un'as-siomatica che permetteva alla scienza del suo tempo di
organizzarsi come un sistema di proposizioni necessariamente connesse; su
questa base, da un lato, il Becker ha intrapreso una trascrizione in simboli
della dottrina aristotelica della possibilità senza dare ragione delle diverse
interpretazioni che di questa categoria lo Stagirita veniva dando, mentre
dall'altro il Bochénski ha svolto un esame particolareggiato dell'assio-matica
di cui parlava lo Scholz e della dottrina linguistica da questa pre-supposta,
senza però vedere i rapporti tra questa e quella. Contro questo rapporto di
derivazione diretta della logica formale contemporanea da quella aristotelica
protestava il Veatch facendo però uso di argomenti non molto persuasivi. Fuori
della logistica, frattanto, le difficoltà sorgenti dal tentativo di
interpretare la scienza contemporanea con la logica aristotelica venivano messe
in luce dal Reiser in alcuni articoli assai superficiali e disordinati, ma
contenenti alcune buone osservazioni, e soprattutto dal Dewey che, con un
atteggiamento ben più equilibrato, notava come la logica aristotelica
presupponesse l'ontologia della sostanza alla quale era legata. Ma, facendo
occasionalmente queste osservazioni in un'opera teorica, egli lasciava aperto
proprio il problema di trovare i modi precisi di questo rapporto tra ontologia
e logica e di determinare come l'ontologia si modelli attraverso la
logica. Dall'esame delle interpretazioni
surriferite si possono trarre alcune importanti considerazioni che permettono
subito di orientarsi di fronte alla logica aristotelica. Infatti lo studio
della logica propria della scienza contemporanea ci fa subito avvertiti che ad
essa 101 sono più applicabili gli schemi dell'Organon distruggendo così la pretesa
di vedere in esso le tavole eterne, sebbene magari ancora incomplete, su cui
sono segnate le leggi del pensiero umano e scoprendo le quali Aristotele
avrebbe fatto l'uomo razionale, dopo che Dio lo aveva fatto semplice creatura a
due gambe, come disse il Locke. Ciò posto, risulta impossibile giustificare
storicamente la logica aristotelica vedendo in essa la scoperta del
procedimento del pensiero in quanto tale, che è in fondo l'interpretazione del
Barthélemy Saint-Hilaire, o anche solo dell’intelletto che sarà poi superato
dialetticamente dalla Ragione, come sostiene Hegel. Ma allora il problema della
logica del LIZIO si presenta in tutta la sua gravità. Infatti essa non potrà
più essere giustificata come insieme di regole che reggano il corso del
pensiero stesso in quanto tale, ma bisognerà esaminare l'effettivo valore che
essa ha per noi, i problemi che essa ci pone, gli eventuali mezzi per
risolverli che essa ci offre. Ma queste sono prospettive di ricerca che ci si
offrono solo in quanto alla logica aristotelica non si attribuisca una validità
metastorica e si riconosca in essa un insieme di dottrine storicamente
condizionate che storicamente vanno studiate. Da ciò consegue che la logica di
Aristotele non potrà essere studiata come logica in quanto tale, ma dovrà
essere studiata come logica aristotelica: cioè svolgere una ricerca su di essa
vorrà dire giustificare il suo posto nell'insieme delle opere aristoteliche,
mettere in luce quali problemi il suo autore si proponeva di risolvere e quali riusciva
a risolvere con essa. Perciò le interpretazioni idealistiche e lo- gistiche, che sopra abbiamo esaminato, non
conducono a fondo l'interpretazione storica della logica aristotelica in quanto
lasciano sussistere dei termini - logica formale, schema verbale - il cui
significato non viene determinato nel corso dell'indagine stessa, ma
presupposto ad essa. È vero che la logica di Aristotele è costruita di schemi
verbali; ma l'osservare che quegli schemi verbali sono troppo limitati o che
essi oggi non servono più e rimproverare ad essi di soffocare la vera vita del
pensiero non serve a comprendere storicamente il pensiero dello Stagirita;
piuttosto giova vedere che cosa potesse significare per Aristotele stesso «
schema verbale», quale uso di esso egli giustificasse, di quali dimensioni
tenesse conto e quali eliminasse per costruire proprio quella nozione. Ed
altrettanto dicasi per la qualificazione della sua logica come logica formale:
in un certo senso questa attribuzione può essere sostenuta in quanto almeno gli
Analytica priora si occupano di pure forme verbali in cui i termini sono
rappresentati con lettere che prescindono da ogni eventuale contenuto. Ma il
problema che subito si presenta è quello di determinare che significato abbia
per Aristotele la « forma» e l'aggettivo « verbale» che ad essa viene
attribuito. Perciò la comprensione storica della logica aristotelica ha come
sua condizione la connessione delle dottrine logiche con le altre dottrine
filosofiche dello Stagirita: a questo modo la logica non verrà considerata come
la scienza del pensiero in quanto tale, ma come la logica resa possibile da una
ben determinata posizione filosofica, presupponente una ben determinata
metafisica, mentre, d'altra parte, sarà aperta la via a considerare con quali
mezzi logico-lin-guistici sia stato possibile costruire quella metafisica. La connessione delle dottrine logiche con
quelle metafisiche nell' interpretazione di Aristotele non è nuova e, anzi,
costituisce il tema dominante di alcuni studi assai celebri. Essa è
riscontrabile nelle opere appartenenti alla storiografia francese di
ispirazione spiritualistica facente capo al Ravaisson, all' Hamelin ed al
Bergson. Carattere comune di questi studi è la presupposizione di una certa
interpretazione della metafisica aristotelica, nella quale si cerca un posto
per la logica o partendo dalla quale si discutono questioni pertinenti
propriamente alla logica. E anche l'interpretazione della metafisica è
caratterizzabile in modo assai tipico: essa infatti viene spiegata con schemi
in prevalenza neoplatonici in base ai quali si vuole vedere teorizzata l'opera
di un universale che darebbe vita agli individuali senza tuttavia risolversi
totalmente in essi, lasciando così sussistere quelle aporie che. secondo questi
interpreti, sarebbero riscontrabili nel xoprouós delle idec platoniche. Di
conseguenza le interpretazioni della logica appartenenti a questa corrente,
comc quelle di Chevalier, Aslan, Badareu, Robin, e Mansion rivelano un unico
schema nel quale la logica appare come la dottrina dell'universale puro ed
assolutamente necessario che lascia fuori di sé il particolare esistente, nel
quale la nocessità si attenua fino a diventare soltanto il per lo più: anche
qui cioè spunta la difficoltà della metafisica per cui da un lato l'universale
è il solo oggetto veramente conoscibile, dall'altro il particolare è il solo
oggetto veramente esistente. A questa interpretazione si potrebbe obbiettare
che lascia insoluto proprio il problema della logica come logica, ossia come
ricerca sulla possibilità di un discorso rigoroso, in quanto in questi studi
non si vede come lo stesso discorso rigoroso, per potersi costituire come tale,
richieda per Aristotele una certa metafisica. Del resto è assai significativo
che questi interpreti si siano cimentati ben poco con gli Analytica priora
esponendone semmai la dottrina, ma accettando implicitamente la tesi che in
essi è svolta una trattazione di logica formale. Lo stesso Chevalier, che più
degli altri si addentra nell'analisi di questo trattato, dichiara che esso
rappresenta un tentativo di costruire una logica formale -- tentativo fallito
perché il sillogismo richiede come fondamento una necessità reale che è
concepibile solo se le premesse sono immediatamente intuibili, perché in caso
contrario la pura necessità logica diventerebbe una mera necessità ipotetica.
Ma la difficoltà sta proprio qui, cioè nell'assunzione che il sillogismo sia un
mero mezzo di svolgere cocrente-mente un'ipotesi, il cui unico contatto con la
realta consista in un' intui-zione intellettuale. Ben più significativo è il modo in cui il
Prantl tenta di connettere la logica con la metafisica nella sua Geschichte der
Logik im Abendlande. Il fondamento della mediazione logica è un Realprincip
immanente alle cose stesse e costituente l'equivalente ontologico delle
categorie linguistiche di cui fa uso la logica. Il merito del Prantl consiste
appunto nel tentare di definire per quel che gli è possibile il principio
ontologico con categorie logiche, mettendo in luce la stretta connessione che
per Aristotele sussiste tra questi due aspetti. Senonché anche qui non si vede
poi come non solo il Realprincip sia definibile con categorie logiche, ma come
le stesse categorie logiche determinino il Realprincip costituendosi pro-prio
come categorie logiche. Mentre Prantl pone al centro della inter-pretazione il
concetto che è definibile contemporaneamente con catego-rie ontologiche e con
categorie logiche, il Trendelenburg preferisce par-tire dalla considerazione
del giudizio nel quale prendono senso lc cate-gorie che deriverebbero dalle
varie parti del discorso distinte dalla gram-matica. Da questa interpretazione
prendeva l'avvio una lunga discus-sione sulla dottrina delle categorie
aristoteliche condotta da Bonitz, Apelt, Gercke, Witte, Geyser, Gillespie, e Fritz,
nel corso della quale si tenta di penetrare sei-pre meglio i precedenti
academici della dottrina aristotelica e si abban-dona anche l'analogia con le
categorie kantiane che in un primo tempo erano state il termine del confronto
che tutte le trattazioni si sentivano in dovere di fare impedendosi cosi la
comprensione del significato propria-mente aristotelico di quella dottrina. Ma
il motivo della centralità del giudizio nella logica aristotelica veniva
ripreso ed ampliato dal Maier che intitolava un'amplissima opera sulla logica
aristotelica Die Syllogistik des Aristoteles, mostrando appunto di voler
imperniare tutte le sue indagini sul sillogismo considerato come la base di
tutte le dottrine dell'Organon. Il Maier rifiuta nettamente l'interpretazione
formalistica della logica aristotelica sostenendo che per lo Stagirita giudizio
e sillogismo hanno sempre un valore logico ed un valore ontologico. Ma poi
distingue il significato ontologico da quello metafisico considerando
l'intrusione del metafisico nella logica come un passaggio indebito compiuto in
più punti dallo stesso Aristotele. Di conseguenza la logica, anziché essere
interpretata in connessione con le dottrine metafisiche di Aristotele, viene
disgiunta da esse ed irrigidita in una struttura formale che a quelle è
estranea: perciò solo apparentemente il Maier respinge l'interpretazione
formale della logica aristotelica, in quanto la sua interpretazione si
distingue da quella formalistica solo perché non riconosce valore meramente linguistico
agli schemi logici, ma li trasporta nel reale stesso pur senza alterare la loro
natura. Appunto perciò l'interprete non è poi in grado di mettere in luce la
connessione di quegli schemi con le altre dottrine filosofiche dello Stagirita,
dalle quali, anzi, pretende di prescindere. Il Maier mette iu luce una esigenza
che si fa veramente valere nell'indagine sull' Organon - cioè il bisogno di
precisare il valore ontologico degli schemi logici —, ma non è in grado di
soddi-sfarla, in quanto la distinzione dell'ontologia dalla mctafisica non
regge, almeno nell'ambito delle dottrine aristoteliche, perché 1°) per
Aristotele la metafisica si configura appunto come ontologia, in quanto
pretende di essere la teoria dell'essere in quanto tale; 2°) l'eliminazione
della metafisica dalla pura ontologia costituita dalle dottrine dell'Organon ha
costretto Maier ad espungere idealmente dalla logica aristotelica sviluppi non
irrilevanti. Poiché abbiamo visto che
l'autentica comprensione storica delle dottrine logiche dello Stagirita ha come
condizione la loro connessione con le dottrine metafisiche, ci pare di poter
affermare che gli interpreti che si sono messi su questa via e che sopra
abbiamo citato, non hanno realizzato appieno il loro proposito in quanto non
hanno del tutto realizzato proprio quella condizione. Infatti o, come il Maier,
hanno irrigidito la logica in una struttura che ha impedito ogni suo ulteriore
collegamento son le errin pietarite
oraco, i Pro e su pisto mone nageione,
poi la logica si sarebbe dovuta adeguare. Per stabilire un più stretto
legame tra logica e metafisica aristoteliche bisogna esaminare la logica con
l'intento di cercarvi gli strumenti con cui Aristotele ha potuto costruire la
metafisica: cioè non si deve studiare la logica presupponendo la meta-fisica,
ma considerando la metafisica come punto di arrivo della logica. Ciò tuttavia non implica che la logica si
svolga senza presupposti metafisici; ché anzi le dottrine logiche si vengono
precisando via via con il precisarsi delle dottrine metafisiche e presuppongono
posizioni metafisiche dalle quali sono indisgiungibili. La metafisica, perciò,
si costituisce come punto di arrivo della logica non perché sia separata da
questa, ma perché queste stesse categoric della metafisica si configurano in
modo tale da determinare anche gli strumenti con cui esse sono usabili; d'altra
parte dallo studio della logica si vedrà appunto come l'uso di certi
determinati strumenti logici, l'impostazione della ricerca su certe determinate
dimensioni e l'eliminazione di altre, porti all'elaborazione di una certa
determinata metafisica che, a sua volta, giustifica quegli strumenti ed è il
loro presupposto. A questo modo è possibile trarre dallo studio della logica
l'orizzonte categoriale della metafisica, vale a dire l'unità delle dottrine
metafisiche stabilite in base all'uso degli strumenti ad esse ap-propriati.
Solo dalla indagine delle effettive categorie di cui Aristotele fa uso e del
loro modo di operare potrà così emergere l'unità della filosofia aristotelica. Ma per far ciò non sarà più possibile
considerare la logica aristotelica come dottrina del procedere naturale
dell'intelligenza o dottrina della conoscenza in generale, ma bisognerà fare
concreto rifcrimento al modo preciso in cui Aristotele pensò che l'intelligenza
lavorasse, cioè alla sua concezione della scienza. Infatti la stretta
connessione della logica con la metafisica, nel modo che sopra abbiamo
illustrato, diventa la stretta connessione della logica con la scienza, in
quanto la metafisica di Aristotele si presenta appunto come una scienza che ha
la medesima struttura delle altre scienze. Perciò dire che l'oggetto della
logica aristotelica è il discorso comune, come fa il Kapp, non è interamente
vero, in quanto il discorso comune può si costituire il punto di partenza ed il
materiale delle considerazioni di Aristotele il cui oggetto, però, è la
costruzione di un discorso scientifico fondato sul reale. Perciò se da un lato
la metafisica esige la logica come quella che può determinare gli strumenti con
cui le categorie metafisiche sono usabili, d'altra parte la logica tende alla
metafisica come quella che, dando un fondamento nell' essere alle categorie
logiche, legittima l'uso degli strumenti che quelle presuppongono. Ed appunto
perciò la logica non sarà, come la tradizione con il nome di organon ha
tramandato e come lo Zeller interpreta, uno strumento essa stessa, anche se
mette in luce gli strumenti con cui certe categorie possono essere usate: essa,
infatti, è una struttura che è necessaria all'essere perché possa esserci un
discorso che lo enunci e al discorso per potersi costituire come discorso,
anche sbagliato. Perciò presentandosi come logica della scienza quella di
Aristotele non si configura come inetodologia, in quanto quest'ultima è possibile
solo là dove non si presupponga l'esistenza di una struttura dell'essere già
costituita e gli strumenti per conoscere la quale sono stabiliti una volta per
tutte e stanno originariamente nelle nostre mani. Di conseguenza l'unico
precetto metodologico che dalla logica aristotelica deriva è quello di non
falsare gli strumenti che possediamo e di riconoscere l'essere in quello che
veramente è. Ma tutto ciò potrà veramente venire alla luce solo attraverso lo
studio dei fondamenti linguistici della logica aristotelica: infatti per
Aristotele, come per Eraclito, la ragione è essenzialmente lóyos, discorso,
cioè capacità di cogliere e di indicare con parole l'essenza stessa
dell'essere. Il linguaggio, perciò, è lo strumento essenziale con il quale le
categorie aristoteliche hanno da essere usate; e la posizione che ad esso
Aristotele conferisce e le possibilità che ad esso apre costituiscono i
fondamenti di tutta la costruzione logica e metafisica dello Stagirita. Del
resto questo lato dell'indagine risponde pienamente agli interessi cui la
filosofia odierna dedica la sua attenzione. Infatti, mentre da un lato la
logica e la metodologia delle scienze dedicano sempre maggiore cura all'esame
delle scienze in quanto fanno uso di certi determinati linguaggi e alle
possibilità e ai limiti di questi linguaggi, dall'altro la considerazione
dell'elemento linguistico della ricerca filosofica ha assai contribuito ad
aumentare la cautela critica di quest'ultima e l'interesse per l'indagine sulle
sue reali possibilità. Dalla tendenza volta a limitare la filosofia ad
un'attività critica sull'uso delle parole ad altre più propense a dare ad essa
un più vasto significato, le correnti più significative della filosofia
con-temporanca si rendono conto dell'importanza che ha la determinazione del
tipo di discorso che la filosofia deve adottare e delle possibilità che ne può
trarre; e nella stessa tecnica dell'indagine filosofia l'analisi linguistica
dei termini è praticata con sempre maggior frequenza nel tentativo di eliminare
quelle parole o quei significati la cui determinazione non è possibile fare con
mezzi il cui comportamento sia noto e, in qualche modo, controllabile. Il
linguaggio cioè non è un insieme di segni assolutamente trasparenti, capaci di
riprodurre fedelmente il puro pensiero o l'essere senza nulla pregiudicare di
quella ricerca che nelle parole troverebbe solo la sede adatta alle sue
conclusioni, ma interviene attivamente nella ricerca rischiando di deviarla su
direzioni del tutto illusorie. Questo problema è particolarmente importante per
la filosofia aristotelica che pretende di rintracciare, proprio avvalendosi del
discorso, una struttura dell'essere universalmente valida e che nella logica si
preoccupa di mettere in luce la posizione che il linguaggio ha come mezzo per
enunciare quella strut-tura. Dalla soluzione data al problema del linguaggio
come mezzo per enunciare l'essere dipende la configurazione della logica come
struttura necessaria e non come disciplina possibile del discorso; nel senso
che i mezzi semantici di cui il discorso è costituito sono sempre adatti a
mettere capo ad un insieme in cui le categorie dell'essere sono adeguatamente
aggravata dal fatto che sull'autenticità di due opere del corpus logicum si
sono sollevati dubbi. È nostro preciso intento trattare questo problema nella
misura richiesta dall'indagine che intendiamo condurre ed esclusivamente in
vista di essa. Ora, del trattato delle Categoriae ci siamo serviti solo in
quanto conteneva dottrine del tutto confermate da altri scritti di sicura
attribuzione, mentre più largo uso abbiamo fatto del De interpretatione. Contro
le difficoltà di natura oggettiva sollevate fin dall'antichità contro il
trattatello ha svolto considerazioni probanti il Maier. Quanto a noi ce ne
siamo serviti per studiare dottrine che trovano sicuro riscontro negli
Analytica priora (qualità e quantità dei giudizi e dottrina della modalità),
salvo differenze trascurabili per il punto di vista da cui ci siamo collocati
(p. es. la comparsa dei giudizi individuali non considerati dagli Analytica).
La dottrina della convenzionalità non trova invece riscontro letterale in altri
testi aristotelici; senonché si può osservare: 1°) la nozione di inópavas come
avíleois di arópiois e xatápaois compare anche negli Analytica posteriora e la
costituzione di un discorso apofantico presuppone appunto l'eliminazione del
problema della semanticità, che è proprio il senso in cui abbiamo interpretato
la nozione aristotelica di convenzionalità del linguaggio; 2°) la dottrina del
giudizio in tutte le sue enunciazioni presuppone la convenzionalità nel senso
sopra specificato; 3") la Poetica che parairasa passi del “De interpretatione”
eliminando la tesi della convenzionalità è stato dimostrato dal Maier essere un'in-terpolazione
tendenziosa. Perciò mentre mancano criteri oggettivi sicuri capaci di sostenere
la tesi dell' inautenticità, neppure l'esito dell'esame condotto sulla
concordanza dottrinale può indurrc a pronunciare l'atetesi del De
interpretatione, o almeno delle parti che ci interessano. Assai più difficile si presenta la questione
della collocazione cronologica degli scritti logici. Essa fu affrontata
dapprima dal Brandis che sostenne la precedenza dei Topica rispetto alle altre
opere aristote-liche, tesi ripresa e completata dal Maier che ritenne di poter
dividere i Topica in parti che non presuppongono la conoscenza del sillogismo e
parti che la presuppongono. Altre a ciò il Maier ritenne di poter considerare
il De interpreta-tiene posteriore agli Analytica, dando così un piano completo
della successione delle opere logiche aristoteliche, dai più accettato e
confer-mato recentemente, con uno studio sui rinvii reciproci delle singole
opere, dal Tielscher. Mentre la considerazione dei libri B e H (nei ca-pitoli
sopra citati) come le parti più antiche dell' Organon sembra del tutto
pacifica, maggiori riserve si potrebbero sollevare di fronte alla col-locazione
nello stesso periodo dei libri che eseguono un progetto tracciato all' inizio
del A, sì da costituire un corpo ab-bastanza unitario nel quale si trova un
rinvio ben netto alla dottrina della dimostrazione di Analytica posteriora. Se
questo indizio nonè affatto sufficiente per posticipare i libri in questione,
esso rivela tuttavia il tentativo di trovare, attraverso un' interpolazione, un
inserimento della dialettica dei Topica nella sillogistica degli Analytica.
Quanto alla posticipazione del “De interpretatione”, le ragioni più importanti
addotte dal Maier - la mancanza di citazioni in altri scritti e la
giustificazione del cap. go come polemica contro Diodoro Crono - non sono del
tutto probanti. L'opera iniziata dal
Maier portava innanzi il Solmsen che, partendo dagli studi del Jäger, suo
maestro, dava un ordinamento del tutto nuovo al corpus logicum accettando quasi
integralmente le tesi del Maier per i Topica ma facendo precedere gli Analytica
posteriora ai priora; ordinamento che, accettato dallo Stocks, veniva criticato
con consi-derazioni ragionevoli del Ross. D'altra parte il Gohlke, prendendo in
esame le dottrine della quantità e della modalità dei giudizi tentava di
individuare strati diversi di composizione delle opere dell' Organon;
ten-tativo parzialmente condotto anche dal Becker. In realtà nessuno di questi
tentativi ha dato finora un ordine cronologico fornito di un grado apprezzabile
di probabilità e stabilito su basi puramente oggettive, cioè tale da non
implicare un' interpretazione filosofica della logica aristotelica. Vista l'estrema difficoltà di stabilire un
ordine cronologico filologi-camente fondato in maniera soddisfacente, abbiamo
preferito rinunciare all'ordine cronologico (che sarebbe stato ben malsicuro),
pur tenendo conto, dove ciò ci è parso indispensabile, dei nessi di priorità che
ci sono sembrati indiscutibili. Ma, d'altra parte, abbiamo cercato di non
irrigidire le dottrine di Aristotele in un sistema che non fosse il sistema
stesso di Aristotele, tentando piuttosto di mettere in luce l'orizzonte in cui
tutte quelle dottrine si impostano e sforzandoci di non impacciare le loro
movenze pur cercando la loro unità: unità consistente appunto nel problema di
rintracciare una struttura linguistica universalmente necessaria. Se essa
precisa i suoi tratti con particolare evidenza nel De interpretatione e negli
Analytica priora, tuttavia sta già alla base della dottrina del giudizio e del
ragionamento rintracciabile nei Topica e costituisce uno dei tratti tipici
dell'aristotelismo; quell'aristotelismo che è già riscontrabile nel platonisino
del Aristotele dell’Accademia e non del Lizio! Viano. Keywords: la filosofia
romana, il neo-tradizionalismo. Refs.: The H. P. Grice Papers, Bancroft MS –
Luigi Speranza, “Grice e Viano: il neo-tradizionalismo” – “Viano e la filosofia
romana” -- The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria. Viano.
Luigi
Speranza -- Grice e Viazzi: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale della bellezza
della vita – la scuola d’Alessandria – filosofia alessandrina – filosofia
piemontese -- filosofia italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P.
Grice, The Swimming-Pool Library (Gavi). Filosofo alessandrino.
Filoofo piemontese. Filosofo italiano. Gavi, Alessadria, Piemonte. Essential
Italian philosopher. Filosofo italiano. Apprezzato teorico e studioso di
filosofia. Fra critici e interpreti di VICO, vuol esser ricordato con speciale
considerazione, V.; il quale cura un'edizione della Scienza Nuova, facendola
precedere d'una sua lunga prefazione, “La modernità e il positivismo di V.”, e
accompagnandola con note che vorrebbero essere interpretative del testo. Comte
e Spencer, Vogt e LOMBROSO, Büchner Haeckel, Ribot e Morselli, son questi i
nomi cari a V. E accanto ad essi, egli pone quello del VICO, come di un sicuro
e diretto loro antenato. Gli è che l'opera del VICO, fuori l'indirizze genuino
dei metodi naturalistici, non può affatto intendersi, com non l'hanno intesa
appunto - afferma esplicitarente il nostre nuovo interprete vichiano - tutti i
metafisici, dai concettualisti pur ai neo-critici. Nè, altresì, conviene
altrimenti giudicare il metod‹ vichiano, nell'idea e nell'attuazione, se non
come empirico, in duttivo e psicologico, in forza del quale, è chiaro come il
pen siero del filosofo, fortemente temprato dell'empiria del Bacone traesse
decisamente a un sistema di sociologia o di demopsicologia. Il vero si è che
VICO, accanto a Comte e Spencer, deve esser considerato come uno dei fondatori
della scienza sociale; e nel modo suo di ricerca, negl'indirizzi degli studi
nel loro stesso risultato, ci si rivela come il più genuino forse dei
precursori dell'odierno positivismo critico, o filosofia scientifica che altri
la voglia chiamare. Se è cosi, la nota dell'irreligiosità, nel sistema di
dottrine di VICO, deve risonare con aperta e larga intonazione, non come un semplice
motivo, chiuso chiuso, di preludio. Non si tratta più, dunque, di germi ideali
ancora immaturi per il loro tempo, ma destinati poi alla fecondazione, dopo
circa due se! coli d' inosservata incubazione; a spandere i loro effluvi
inebbrianti sul campo rinnovellato del pensiero, che reca la piena iberta dello
spirito, la suprema indipendenza della ragione. Contrariamente a ciò che opina
il CROCE con i suoi, le conclusioni antireligiose dei principi vichiani sono
apparse limpidamente delineate nel libero pensiero del filosofo; e inoltre sono
state, esplicitamente, già dedotte dall'autore medesimo con una certa
sufficienza, a chi ben osserva, e insieme con meditata parsi-monia, e, secondo
l'importanza che esse hanno nell'organismo del sistema, messe nella loro vera
luce, sebbene non piena e sfolgorante e a tutti accessibile. Sicché, da ogni
pagina della Scienza Nuova emerge spontaneo, per una critica evoluta, il
pensiero tutto vibrante di naturalità scientifica, tutto saturo di positivismo,
che s'effonde con facile corso, attraverso il modo suo di ricerca,
nell'indirizzo degli studi, nel loro stesso rieultato. Che se il VICO, per tal
modo, ebbe a bandire estremamente, con matura persuasione e con coscienza,
dall'opera sua di pensiero ogni genuina idea del divino e di religione, non
poté conservare alcuna fede in fondo al suo cuore. Questo è ovvio. Nè deve fare impressione di sorta il parlare,
talvolta coperto, dell'autore, talvolta, ancora, irto di reticenze e concessioni,
che sembra voglian salvare la forma d'una certa professione religiosa. Tale
professione di fede (ci si fa notare) soverchiamente ripetuta, ha quasi sempre
tutta la forma di un voler parere, più che altro si rifletta all'epoca ed al
luogo in cui scrisse il nostro autore, e si comprenderà tutta la ragionevolezza
pratica di talune concessioni'». Siamo, dunque, intesi: era una pura finzione
di religiosità; una professione di fede, che doveva servire soltanto per il
libero scambio nello smercio delle idee. E V. viene alle corte. A carico del
VICO (s' intende, dall'aspetto del positivismo) fu quasi unanimemente posta la
importanza, reputata eccessiva, non solo, ma intaccante alla base tutto il suo
sistema, ch'egli dà ad una provvidenza divina regolatrice di questo mondo delle
nazioni che egli prese a studiare. Ma quei che in tal guisa obbiettano,
s'arrestano alla corteccia, e non penetrano con lo sguardo al midollo
sottostante. Non s'è detto, insomma, che
VICO, non amante delle noie, cercava sempre, con insistente ostentazione, di
allontanare il pericolo che s'addensassero, intorno alla sua opera, i sospetti
e le avversioni dell'ortodossia dominante? Vico lo sente, quest'odioso freno
all'espressione della sua idea, ma vi si trova costretto, e lo subisce. E
incredulo qual'era nel pensiero e nel sentimento, tuttavia volle adoperare un
ripiego formale che, senza dubbio, poteva giovargli di passaporto nell'epoca e
nel luogo di pubblicazione del suo libro.? Si rifletta poi, in fine, che egli
non era punto di apostolo.Se avesse avuto l'animo di BRUNO, si sa che le cose
sarebbero procedute ben altrimenti. Cosi il nostro animoso interprete vichiano
va difilato alla conclusione della sua fatica, per quel che concerne l'idea
(della provvidenza divina) che domina e vivifica tutta l'esposizione dottrinale
della Scienza Nuova. È chiaro, secondo lui, che anche qui la parola e
l'espressione metempirica adoperate segnano un concetto prettamente positivo.
Ricordiamo anzitutto come con singolare ostinazione VICO si richiami assai
spesso a questo suo concetto, che il mondo delle gentili nazioni è pur
certamente opera degli uomini. Questo nel campo delle idee. Nel campo ristretto
della sua operosità di uomo, bisogna tener conto del fatto che VICO era
obbligato a mettere i suoi libri sotto la protezione di cardinali; che scriveva
prolusioni le quali non dovevano soverchiamente urtare il Corpo accademico
dell'Università. Poichè in Italia si faceva professione di cattolicismo. quanto
più superficiale tanto più generalmente ostentato; era utile e, più che utile,
necessario, per un uomo che si trovava nelle umilissime condizioni del nostro
autore dimostrare l'importanza del sentimento religioso nella vita sociale? Pio
Viazzi. Viazzi. Keywords: Vico. Refs.: The H. P. Grice Papers, Bancroft MS –
Luigi Speranza, “Grice e Viazzi” – “Il Vico di Grice e il Vico di Viazzi” --
The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria. Viazzi.
Luigi
Speranza -- Grice e Vico: “We should treat those who were great and are dead as
if they were great and living” (Grice)
-- la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dell’antichissima
sapienza degl'italici -- da rintracciare nelle origini della sua lingua – la
scuola di Napoli – filosofia napoletana – filosofia campanese -- filosofia
italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The
Swimming-Pool Library (Napoli). Filosofo napoletano. Filosofo campanese.
Napoli, Campania. Filosofo italiano. “The best philosopher, but that’s
Hampshire’s judgement!” – Grice. “Si
potrebbe presentare la storia ulteriore del pensiero come un ricorso delle idee
del Vico” (CROCE, La filosofia di V., Laterza, Bari). – cf. Whitehead on
metaphysics as footnotes to Plato. matematiche perché siamo noi a farle tramite
postulati, definizioni, ma non potremo mai dire di conoscere nello stesso modo
la natura perché non siamo noi ad averla creata. Conoscere una cosa significa rintracciarne i
principi primi, le cause, poiché, secondo l'insegnamento aristotelico,
veramente la scienza è «scire per causas» ma questi elementi primi li possiede
realmente solo chi li produce, «provare per cause una cosa equivale a
farla». Le obiezioni a Cartesio Il
principio del verum ipsum factum non era una nuova e originale scoperta di Vico
ma era già presente nell'occasionalismo, nel metodo baconiano che richiedeva
l'esperimento come verifica della verità, nel volontarismo scolastico che,
tramite la tradizione scotista, era presente nella cultura filosofica
napoletana del tempo di V.. La tesi fondamentale di queste concezioni
filosofiche è che la piena verità di una cosa sia accessibile solo a colui che
tale cosa produce; il principio del verum-factum, proponendo la dimensione
fattiva del vero, ridimensiona le pretese conoscitive del razionalismo
cartesiano che V. inoltre giudica insufficiente come metodo per la conoscenza
della storia umana e delle scienze sociali, che non possono essere analizzate
solo in astratto, perché esse hanno sempre un margine di imprevedibilità. V. però si serve di quel principio per
avanzare in modo originale le sue obiezioni alla filosofia cartesiana
trionfante in quel periodo. Il cogito cartesiano infatti potrà darmi certezza
della mia esistenza ma questo non vuol dire conoscenza della natura del mio
essere, coscienza non è conoscenza: avrò coscienza di me ma non conoscenza
poiché non ho prodotto il mio essere ma l'ho solo riconosciuto. L'uomo, egli dice, può dubitare se senta, se
viva, se sia esteso, e infine in senso assoluto, se sia; a sostegno della sua
argomentazione escogita un certo genio ingannatore e maligno... Ma è
assolutamente impossibile che uno non sia conscio di pensare, e che da tale
coscienza non concluda con certezza che egli è. Pertanto Renato (René
Descartes) svela che il primo vero è questo: "Penso dunque
sono".» (Giambattista V., De
antiquissima Italorum sapientia in Opere filosofiche a cura di Paolo
Cristofolini, Firenze, Sansoni 1971, p.70)
Il criterio del metodo cartesiano dell'evidenza procurerà dunque una
conoscenza chiara e distinta, che però per V. non è scienza se non è capace di
produrre ciò che conosce. In questa prospettiva, dell'essere umano e della
natura colti nella loro interezza e nelle loro relazioni solo Dio, creatore di
entrambi, possiede la verità (livello di conoscenza maggiore: inter -
legere). Mentre quindi la mente umana
procedendo astrattamente nelle sue costruzioni, come accade per la matematica e
la geometria, crea una realtà che le appartiene, essendo il risultato del suo
operare, giungendo così a una verità sicura, la stessa mente non arriva alle
stesse certezze per quelle scienze di cui non può costruire l'oggetto come
accade per la meccanica, meno certa della matematica, la fisica meno certa
della meccanica, la morale meno certa della fisica. Noi dimostriamo le verità geometriche poiché
le facciamo, e se potessimo dimostrare le verità fisiche le potremmo anche
fare.» (Ibidem, pag. 82) Mente umana e mente divina I latini...
dicevano che la mente è data, immessa negli uomini dagli dei. È dunque
ragionevole congetturare che gli autori di queste espressioni abbiano pensato
che le idee negli animi umani siano create e risvegliate da Dio [...] La mente
umana si manifesta pensando, ma è Dio che in me pensa, dunque in Dio conosco la
mia propria mente.» (Giambattista V., De
antiquissima, 6) Il valore di verità che
l'uomo ricava dalle scienze e dalle arti, i cui oggetti egli costruisce, è
garantito dal fatto che la mente umana, pur nella sua inferiorità, esplica
un'attività che appartiene in primo luogo a Dio. La mente dell'uomo è anch'essa
creatrice nell'atto in cui imita la mente, le idee, di Dio, partecipando
metafisicamente a esse. L'ingegno
Imitazione e partecipazione alla mente divina avvengono per opera di quella
facoltà che V. chiama ingegno che è la facoltà propria del conoscere... per cui
l'uomo è capace di contemplare e di imitare le cose». L'ingegno è lo strumento
principe, e non l'applicazione delle regole del metodo cartesiano, per il
progresso, ad esempio, della fisica che si sviluppa proprio attraverso gli
esperimenti escogitati dall'ingegno secondo il criterio del vero e del
fatto. L'ingegno dimostra, inoltre, i
limiti del conoscere umano e la contemporanea presenza della verità divina che
si rivela proprio attraverso l'errore:
Dio mai si allontana dalla nostra presenza, neppure quando erriamo,
poiché abbracciamo il falso sotto l'aspetto del vero e i mali sotto l'apparenza
dei beni; vediamo le cose finite e ci sentiamo noi stessi finiti, ma ciò
dimostra che siamo capaci di pensare l'infinito.» (Giambattista V., De antiquissima, 6) Il sapere metafisico Contro lo scetticismo V.
sostiene che è proprio tramite l'errore che l'uomo giunge al sapere
metafisico: Il chiarore del vero
metafisico è pari a quello della luce, che percepiamo soltanto in relazione ai
corpi opachi... Tale è lo splendore del vero metafisico non circoscritto da
limiti, né di forma discernibile, poiché è il principio infinito di tutte le
forme. Le cose fisiche sono quei corpi opachi, cioè formati e limitati, nei
quali vediamo la luce del vero metafisico.»
(Giambattista V., De antiquissima, 3)
Il sapere metafisico non è il sapere in assoluto: esso è superato dalla
matematica e dalle scienze ma, d'altro canto, la metafisica è la fonte di ogni
verità, che da lei discende in tutte le altre scienze.» Vi è dunque un
"primo vero", comprensione di tutte le cause», originaria spiegazione
causale di tutti gli effetti; esso è infinito e di natura spirituale poiché è
antecedente a tutti i corpi e che quindi si identifica con Dio. In Lui sono
presenti le forme, simili alle idee platoniche, modelli della creazione
divina. Il primo vero è in Dio, perché
Dio è il primo facitore (primus Factor); codesto primo vero è infinito, in
quanto facitore di tutte le cose; è compiutissimo, poiché mette dinanzi a Dio,
in quanto li contiene, gli elementi estrinseci e intrinseci delle cose.» (Giambattista V., De antiquissima Italorum
sapientia in Opere filosofiche a cura di P. Cristofolini, Firenze, Sansoni
1971, p. 62) La metafisica di V. Il
platonico V. Attraverso i propri scritti V. fa capire la sua conversione dalla
filosofia lucreziana e gassendiana a quella platonica, egli descrive la
metafisica del filosofo di riferimento come tale che: conduce a un principio fisico che è idea
eterna, che da sé educe e crea la materia medesima, come uno spirito seminale,
che esso stesso si fermi l'uovo.»
(Nicola Badaloni, "Introduzione a Gianbattista V., Opere
Filosofiche, a cura di P. Cristofolini, Firenze 1971, p. 11") Egli illustra nell'Autobiografia i suoi
capisaldi: 1) nella nostra mente sono
certe eterne verità che non possiamo sconoscere riniegare, e in conseguenza che
non sono da noi», cioè che non sono fatte da noi 2) del rimanente sentiamo in noi una libertà
di fare, intendendo, tutte le cose che han dipendenza dal corpo, e perciò le
facciamo in tempo, cioè quando vogliamo applicarvi, e tutte in conoscendo le
facciamo, e tutte le conteniamo dentro di noi: come le immagini con la
fantasia; le reminescenze con la memoria; con l’appetito le passioni; gli
odori, i sapori, i colori, i suoni, i tatti co’ sensi: e tutte queste cose le
conteniamo dentro di noi. […] Ma per le verità eterne che non sono da noi e non
hanno dipendenza dal corpo nostro, dobbiamo intendere essere Principio delle
cose tutte come una idea eterna tutta scevera da corpo, che nella sua
cognizione, ove voglia, crea tutte le cose in tempo e le contiene dentro
sé...».» La coerenza della filosofia
'timaica' di V. può essere analizzata anche da questi due punti, infatti, nel
primo caso, questa si riferisce a un principio materiale, immateriale, ideale,
eterno e attivo; nel secondo caso si riferisce al principio di materia che è
prodotta da ὗλη (materia) e conserva la propria capacità di muoversi a causa di
questa origine. La religione secondo V.
Anche per V. le religioni non sono vere, ma in esse non è nemmeno possibile che
tutto sia falso. Infatti, avrebbe senso se tutte le loro parti fossero
sbagliate, in quanto provocherebbero paura e odio, ma non possono spiegare come
abbiano saputo restituire la loro "tenerezza" secondo il metodo della
separazione. Tuttavia, per il filosofo Herbert Spencer (liberale), la religione
assume così la "rutunda Dei religio" nella sua forma puramente
circolare, che ritroveremo nel De Uno e in quella ricomparsa nella teoria del
ciclo storico di V.; ci sono molti punti in comune tra le filosofie di Herbert
e quella di V., anche se la causa finale è in V. determinata come
'conservazione', dunque non sbaglieremmo a leggere la filosofia vichiana e la
filosofia di Herbert contemporaneamente ponendo punti di connessione e paragone
tra le due. Un altro punto di contatto di Herbert con un capitolo del De Antiquissima
di V. parte dal concetto di provvidenza e sostiene l'inconciliabilità di questa
con le divinità dei 'gentili' e va quindi alla ricerca di alcuni elementi che
possano accordare le due cose (media sufficientia), perché, per lui, il Dio è
buono e la maggior parte degli uomini deve potersi salvare, egli trova tale
conciliazione nella capacità inventiva della mente umana che l'ha indotta nella
'divinatio' o alla 'deificatio', cioè a forme di sublimazione che esprimono
l'idea della bellezza del mondo, anche se l'errore ci può far vedere rotonda la
torre quadrata. Il conato Si giunge
dunque a uno dei punti cardine della metafisica vichiana: il conato, si tratta
del nocciolo di ciò che V. chiama zenonismo, ossia la dottrina dei punti
metafisici, riassumibile nella tesi che il punto in quanto momentum "non è
esteso, ma genera l'estensione". Il
punto-momento è il conatus che si allarga al di là della geometria e comprende
la fisica cosicché la triade dominante è: quiete=Dio;
conato=materia=virtù=idea; moto=corpo. Il moto non ha mai inizio autonomo,
perché è sottoposto al controllo dell'etere. Il conato, espressione fisica del
punto-momento, come non è punto né numero, ma il generatore di entrambi. È come
se le ricerche di Galilei sulla dinamica e sul continuo fossero state
trasferite nella metafisica, e alla fisica fossero stati lasciati solo i moti,
una tesi che merita di essere riscontrata nei testi. V. dà ai punti-conati (sia nella prima forma
numerica sia in quella più vicina alla fisica) una capacità 'impulsiva' simile
a questi indivisibili. Egli dice che: La
metafisica trascende la fisica perché tratta delle virtù e dell'infinito; la
fisica è parte della metafisica perché tratta delle forme e degli oggetti
finiti.» (V., "Opere Filosofiche,
pp. 93-94") Poi V. aggiunge: L'essenza del corpo consiste in indivisibili;
il corpo tuttavia si divide: dunque l'essenza del corpo non è: dunque è l'altra
cosa dal corpo. Cosa è dunque? È una indivisibil virtù, che contiene, sostiene,
mantiene il corpo, e sotto parti diseguali del corpo vi sta egualmente;
sostanza, della quale è solamente lecito raramente si somiglia alla divina, e
perciò unica a dimostrare l'umano vero.»
(Nicola Badaloni, "Introduzione a Gianbattista V., p.
94") Da un punto di vista
matematico il conato può essere paragonato all'Uno, esso è indivisibile perché
uno è l'infinito, e l'infinito è indivisibile, perché non ha in che dividersi,
non potendo dividerlo in nulla. Possiamo
raccontare V. come un seguace di Galilei; tuttavia, lo critica per aver
sostenuto la diversità tra infinito e indivisibile. Quando Galilei parla
dell'infinitezza, per esempio, della percossa, ovvero di quella espansiva degli
ignicoli, egli, per V., non fa che trasferire erroneamente il conato infinito
nel moto al fine di dare a quest'ultimo (che non è che occasione) un rilievo
maggiore. L'accumulo di moto, che Galilei vede risultare dall'infinitezza della
percossa, secondo V., che dà una interpretazione più rigida dell'equazione
conato=momento=punto indivisibile, è un tipo di energia potenziale che il
conato sviluppa in ogni sito e attimo dell'universo e che, dal punto di vista
metafisico, non varia mai, giacché il conato non è a base della dinamica ma
della struttura dell'universo. La questione del rapporto tra sentire e pensare
è ripresa nei capitoli V e VI del De Antiquissima. In quello intitolato De
animo et anima, V. sostiene che: Gli
stessi muscoli del cuore sono contratti e dilatati dai nervi, sicché il sangue
è continuamente fatto circolare per un processo di sistole e diastole ricevendo
dai nervi il proprio moto.» (Nicola
Badaloni, "Introduzione a Gianbattista V., p. 104") Dunque l'aria è lo spirito vitale che muove
il sangue; l'etere è lo spirito animale; la prima costituisce l'anima, il
secondo l'animo, la cui immortalità è spiegata col suo tendere all'infinito e
all'eterno. Entro l'animo è la mente che è mens animi, cioè la parte più
raffinata dell'animo stesso. Passando dalla teoria dell'anima a quella
dell'animo e di qui al primo cenno di quella della mente, V. commenta, in modo
platonico-spinoziano, che "forse importa più deporre gli affetti che
allontanare i pregiudizi". Il capitolo VI è intitolato De Mente; il suo
oggetto è appunto la animi mens che corrisponde alla libertà sui moti
dell'animo. La facoltà di desiderare in vari termini e modi "è Dio a
ciascuno" ma la libertà dell'arbitrio, cioè la mens animi rappresenta il
momento di fuoriuscita dall'ambito della psicologia e d'ammissione in quello di
una libertà umanamente inventiva. La mens animi è il punto di maggiore
avvicinamento al creare reale, talché "in Dio dunque conosco la mia stessa
mente". La metafisica vichiana a
confronto In letture recenti si è ripresentata l'antica analogia tra Kant e V.
(a parte le diverse capacità analitiche dei due filosofi), la reale divergenza
tra loro sta nel fatto che l'oggetto del primo è il sistema scientifico, già
costruito da Newton, e da Kant posto in relazione colle possibilità e coi
limiti delle facoltà umane; l'interesse di V. è invece rivolto a un 'oggetto'
del tutto nuovo che è il rapporto strutturato tra la scienza e la sua genesi,
nella mente dell'uomo primitivo e le situazioni e istituzioni sociali che hanno
accompagnato le sue modificazioni. V. è
a conoscenza della discussione sul platonismo precedente e seguente il suo
saggio sulla metafisica, conobbe sicuramente il libro di Brucker e a cui anzi
rivolse una critica importante. Scrive infatti nella Scienza Nuova (1744) che: Le scienze debbono incominciare da che
‘ncominciò la materia; esse ebbero inizio alle ch'i primi uomini cominciarono a
umanamente pensare, non già quando i filosofi cominciarono a riflettere sopra
l'umane menti (come ultimamente n'è uscito alla luce un libricciuolo erudito e
dotto col titolo Historia de ideis, che si conduce fin all'ultime controversie
che ne hanno avuto i due primi ingegni di questa età, il Leibnizio e ‘l
Newtone.» Con questa osservazione, V.
integra l'esposizione del platonismo moderno con un progetto d'interpretazione
della genesi di questo modo di pensare e del suo svolgimento. I sottoinsiemi
scientifici, che egli si appresta a costruire, sono condizionati da questo
punto di arrivo, che nella sua 'idealità' è metastorico, in senso quasi
trascendentale, e, nel suo contenuto, difficilmente nasconde il carattere
'semilibertino' della struttura sistematica sottesa. La critica di V. a Brucker
ci mette dunque in condizione di valutare il significato che egli attribuisce
alla scienza nuova. L''oggetto' costituito dalle idee platonico-galileiane è
nato, riferendosi al mondo tuttora in divenire, è la trasformazione strutturata
di un complesso di tradizioni, istituzioni e conoscenze umane che si sostengono
reciprocamente e si modificano conflittualmente. Il punto di attacco delle
scienze della natura di tipo galileiano (integrato nella filosofia del
platonismo moderno) con la scienza dell'uomo, è dato dal costituirsi di un
diverso 'oggetto' a esse legato, che ha però la sua autonomia, le sue regole,
costituendo un sottosistema aperto all'invenzione di nuovi strumenti
interpretativi. La scienza vichiana si
organizza in modo da delimitare un campo di ricerche concrete. La critica a
Brucker ha già dato un'idea del modo come V., partendo dalla scienza moderna e
violentemente ributtandola sui suoi principi ne ricerchi gli elementi genetici
e formativi per recuperarne, poi, gli aspetti complessi. La Scienza nuova Frontespizio della terza edizione 1744 della
Scienza nuova Se l'uomo non può considerarsi creatore della realtà naturale ma
piuttosto di tutte quelle astrazioni che rimandano a essa come la matematica,
la stessa metafisica, vi è tuttavia un'attività creatrice che gli
appartiene. questo mondo civile egli
certamente è stato fatto dagli uomini, onde se ne possono, perché se ne
debbono, ritruovare i principi dentro le modificazioni della nostra medesima
mente umana.» (Giambattista V. Scienza
nuova, terza ediz., libro I, sez. 3) La
storia creatrice L'uomo è dunque il creatore, attraverso la storia, della
civiltà umana. Nella storia l'uomo verifica il principio del verum ipsum
factum, creando così una scienza nuova che avrà un valore di verità come la
matematica. Una scienza che ha per oggetto una realtà creata dall'uomo e quindi
più vera e, rispetto alle astrazioni matematiche, concreta. La storia
rappresenta la scienza delle cose fatte dall'uomo e, allo stesso tempo, la
storia della stessa mente umana che ha fatto quelle cose.[44] Filosofia e "filologia" La
definizione dell'uomo e della sua mente non può prescindere dal suo sviluppo
storico se non si vuole ridurre tutto a un'astrazione. La concreta realtà
dell'uomo è comprensibile solo riportandola al suo divenire storico. È assurdo
credere, come fanno i cartesiani o i neoplatonici, che la ragione dell'uomo sia
una realtà assoluta, sciolta da ogni condizionamento storico. La filosofia contempla la ragione, onde viene
la scienza del vero; la filologia[45] osserva l'autorità dell'umano arbitrio
onde viene la coscienza del certo... Questa medesima degnità (assioma) dimostra
aver mancato per metà così i filosofi che non accertarono le loro ragioni con
l'autorità de' filologi, come i filologi che non curarono d'avverare la loro autorità
con la ragion dei filosofi.» (Giambattista
V. Ibidem Degnità X) Ma la filologia da
sola non basta, si ridurrebbe a una semplice raccolta di fatti che invece vanno
spiegati dalla filosofia. Tra filologia e filosofia vi deve essere un rapporto
di complementarità per cui si possa accertare il vero e inverare il certo. Le leggi della 'scienza nuova' Compito della
'scienza nuova' sarà quello di indagare la storia alla ricerca di quei principi
costanti che, secondo una concezione per certi versi platonizzante, fanno
presupporre nell'azione storica l'esistenza di leggi che ne siano a fondamento,
com'è per tutte le altre scienze: Poiché
questo mondo di nazioni egli è stato fatto dagli uomini, vediamo in quali cose
hanno con perpetuità convenuto e tuttavia vi convengono tutti gli uomini;
poiché tali cose ne potranno dare i principi universali ed eterni, quali devon
essere d'ogni scienza, sopra i quali tutte sursero e tutte vi si conservano le
nazioni.» (Giambattista V. Ibidem, libro
I, sez. 3) La storia quindi, come tutte
le scienze, presenta delle leggi, dei principi universali, di un valore ideale
di tipo platonico, che si ripetono costantemente allo stesso modo e che
costituiscono il punto di riferimento per la nascita e il mantenimento delle
nazioni. L'eterogenesi dei fini e la
Provvidenza storica Rifarsi alla mente umana per comprendere la storia non è
sufficiente: si vedrà, attraverso il corso degli avvenimenti storici, che la
stessa mente dell'uomo è guidata da un principio superiore a essa che la regola
e la indirizza ai suoi fini, che vanno al di là o contrastano con quelli che
gli uomini si propongono di conseguire; così accade che, mentre l'umanità si
dirige al perseguimento di intenti utilitaristici e individuali, si realizzino
invece obiettivi di progresso e di giustizia secondo il principio della
eterogenesi dei fini. Pur gli uomini
hanno essi fatto questo mondo di nazioni... ma egli è questo mondo, senza
dubbio, uscito da una mente spesso diversa ed alle volte tutta contraria e
sempre superiore ad essi fini particolari ch'essi uomini si avevan
proposti.» (Giambattista V. Ibidem,
Conclusione) La storia umana in quanto
opera creatrice dell'uomo gli appartiene per la conoscenza e per la guida degli
eventi storici, ma nel medesimo tempo lo stesso uomo è guidato dalla
Provvidenza che prepone alla storia divina.
I corsi storici Secondo V. il metodo storico dovrà procedere attraverso
l'analisi delle lingue dei popoli antichi poiché i parlari volgari debono
essere i testimoni più gravi degli antichi costumi de' popoli che si
celebrarono nel tempo ch'essi si formarono le lingue», e quindi tramite lo
studio del diritto, che è alla base dello sviluppo storico delle nazioni
civili. Questo metodo ha fatto
identificare nella storia una legge fondamentale del suo sviluppo che avviene
evolvendosi in tre età: l'età degli dei,
nella quale gli uomini gentili credettero vivere sotto divini governi, e ogni
cosa esser loro comandata con gli auspici e gli oracoli»;[46] l'età degli eroi,
dove si costituiscono repubbliche aristocratiche; l'età degli uomini, nella
quale tutti si riconobbero esser uguali in natura umana».[47] I bestioni La
storia umana, secondo V., inizia con il diluvio universale, quando gli uomini,
giganti simili a primitivi "bestioni", vivevano vagando nelle foreste
in uno stato di completa anarchia. Questa condizione bestiale era conseguenza
del peccato originale, attenuata dall'intervento benevolo della Provvidenza
divina che immise, attraverso la paura dei fulmini, il timore degli dei nelle
genti che scosse e destate da un terribile spavento d'una da essi stessi finta
e creduta divinità del cielo e di Giove, finalmente se ne ristarono alquanti e
si nascosero in certi luoghi; ove fermi con certe donne, per lo timore
dell'appresa divinità, al coverto, con congiungimenti carnali religiosi e
pudichi, celebrarono i matrimoni e fecero certi figlioli, e così fondarono le
famiglie. E con lo star quivi fermi lunga stagione e con le sepolture degli
antenati, si ritrovarono aver ivi fondati e divisi i primi domini della
terra».[48] La civiltà L'uscita dallo
stato di ferinità quindi avviene: per la
nascita della religione, nata dalla paura e sulla base della quale vengono
elaborate le prime leggi del vivere ordinato; per l'istituzione delle nozze che
danno stabilità al vivere umano con la formazione della famiglia; per l'uso
della sepoltura dei morti, segno della fede nell'immortalità dell'anima che
distingue l'uomo dalle bestie. Della prima età V. sostiene di non poter
scrivere molto poiché mancano documenti su cui basarsi: infatti quei bestioni
non conoscevano la scrittura e, poiché erano muti, si esprimevano a segni o con
suoni disarticolati. L'età degli eroi ebbe inizio dall'accomunarsi di genti che
trovavano così reciproco aiuto e sostegno per la sopravvivenza. Sorsero le
città guidate dalle prime organizzazioni politiche dei signori, gli eroi che
con la forza e in nome della ragion di Stato, conosciuta solo da loro,[49]
comandavano sui servi che, quando rivendicarono i propri diritti, si
ritrovarono contro i signori che, organizzati in ordini nobiliari, diedero vita
agli stati aristocratici che caratterizzano il secondo periodo della storia
umana. In questa seconda, dove predomina
la fantasia, nasce il linguaggio dai caratteri mitici e poetici. Infine la conquista
dei diritti civili da parte dei servi dà luogo alla età degli uomini e alla
formazione di stati popolari basati sul diritto umano dettato dalla ragione
umana tutta spiegata». Sorgono quindi stati non necessariamente democratici ma
che possono essere pure monarchici poiché l'essenziale è che rispettino la
ragione naturale, che eguaglia tutti».
La legge delle tre età costituisce la storia ideale eterna sopra la
quale corrono in tempo le storie di tutte le nazioni». Tutti i popoli
indipendentemente l'uno dall'altro hanno conformato il loro corso storico a
questa legge che non è solo delle genti ma anche di ogni singolo uomo che
necessariamente si sviluppa passando dal primitivo senso nell'infanzia, alla
fantasia nella fanciullezza, e infine alla ragione nell'età adulta: Gli uomini prima sentono senza avvertire;
dappoi avvertiscono con animo perturbato e commosso, finalmente riflettono con
mente pura.» (Giambattista V. Scienza
Nuova, 3a ediz. Degnità LIII) La verità
divina nella storia Se nella storia, pur tra le violenze e i disordini, appare
un ordine e un progressivo sviluppo, ciò è dovuto secondo V. all'azione della
Provvidenza, che immette nell'agire dell'uomo un principio di verità che si
presenta in modo diverso nelle tre età:
nelle prime due età il vero si presenta come certo gli uomini che non
sanno il vero delle cose procurano d'attenersi al certo, perché non potendo
soddisfare l'intelletto con la scienza, almeno la volontà riposi sulla
coscienza.» (Giambattista V., Scienza
Nuova, Degnità IX) Questa certezza non
viene all'uomo attraverso una verità rivelata ma da una constatazione di senso
comune, condivisa da tutti, per cui vi è un giudizio senz'alcuna riflessione,
comunemente sentito da tutto un ordine, da tutto un popolo, da tutta una
nazione o da tutto il genere umano.» La
sapienza poetica Vi è poi, nella seconda età della storia e dell'uomo,
caratterizzata dalla fantasia, un sapere tutto particolare che V. definisce
poetico. In questa età nasce infatti il linguaggio non ancora razionale ma
molto vicino alla poesia che alle cose insensate dà senso e passione, ed è
proprietà dei fanciulli di prender cose inanimate tra le mani e,
trastullandosi, favellarvi, come se fussero, quelle, persone vive. Questa
degnità filologica-filosofica ne appruova che gli uomini del mondo fanciullo,
per natura, furono sublimi poeti.»[50]
Se vogliamo quindi conoscere la storia dei popoli antichi dobbiamo
rifarci ai miti che hanno espresso nella loro cultura. Il mito infatti non è
solo una favola e neppure una verità presentata sotto le spoglie della fantasia
ma è una verità di per sé elaborata dagli antichi che, incapaci di esprimersi
razionalmente, si servivano di universali fantastici che, sotto spoglie
poetiche, presentavano modelli ideali universali: come fecero ad esempio i
Greci antichi che non definirono razionalmente la prudenza ma raccontarono di
Ulisse, modello universale fantastico dell'uomo prudente. La poesia V. si dedica poi a definire la
poesia che innanzitutto è autonoma come
forma espressiva differente dal linguaggio tradizionale. I tropi della poesia
come la metafora, la metonimia, la sineddoche, ecc. sono stati erroneamente
ritenuti strumenti estetici di abbellimento del linguaggio razionale di base,
mentre invece la poesia è una forma espressiva naturale e originaria i cui
tropi sono necessari modi di spiegarsi di tutte le prime nazioni poetiche»; La
poesia ha una funzione rivelativa, custodisce le prime immaginate verità dei
primi uomini;[51] Il linguaggio non ha quindi un'origine convenzionale perché
questo presupporrebbe un uso tecnico del linguaggio che invece sorge
spontaneamente come poesia. Poiché il linguaggio e i miti costituiscono la
cultura originaria e spontanea di tutto un popolo, V. arriva alla discoverta
del vero Omero che è non il singolo autore dei suoi poemi ma l'espressione del
patrimonio culturale comune di tutto il popolo greco. È comunque da respingere
la interpretazione platonica di Omero come filosofo,[52] fornito di una sublime
sapienza riposta». Farsi intendere da
volgo fiero e selvaggio[53] non è certamente (opera) d'ingegno addomesticato ed
incivilito da alcuna filosofia. Né da un animo da alcuna filosofia umanato ed
impietosito potrebbe nascer quella truculenza e fierezza di stile, con cui
descrive tante, sì varie e sanguinose battaglie, tante sì diverse e tutte in
istravaganti guise crudelissima spezie d'ammazzamenti, che particolarmente
fanno tutta la sublimità dell'Iliade.»
(Giambattista V., Scienza Nuova)
Verità e storia La sapienza antica ha per contenuto princìpi di
giustizia e ordine necessari per la formazione di popoli civili. Questi
contenuti si esprimono in modi diversi a seconda che siano formati dal senso o
dalla fantasia o dalla ragione. Questo vuol dire che la sapienza, la verità, si
manifesta in forme diverse storicamente, ma essa come verità eterna è al di
sopra della storia che di volta in volta la incarna. La verità della storia è
una verità metafisica nella storia. Nella storia si attua la mediazione tra
l'agire umano e quello divino: nel fare
umano si manifesta il vero divino; e il vero umano si realizza tramite il fare
divino: la Provvidenza, legge trascendente della storia, che opera attraverso e
nonostante il libero arbitrio dell'uomo. Questo non comporta una concezione
necessitata del corso della storia poiché è vero che la Provvidenza si serve
degli strumenti umani, anche i più rozzi e primitivi, per produrre un ordine ma
tuttavia questo rimane nelle mani dell'uomo, affidato alla sua libertà. La
storia quindi non è determinata come sostengono gli stoici e gli epicurei che
niegano la provvedenza, quelli facendosi strascinare dal fato, questi
abbandonandosi al caso», ma si sviluppa tenendo conto della libera volontà
degli uomini che, come dimostrano i ricorsi, possono anche farla
regredire: Gli uomini prima sentono il
necessario; dipoi badano all'utile; appresso avvertiscono il comodo; più
innanzi si dilettano nel piacere; quindi si dissolvono nel lusso; e finalmente
impazzano in istrapazzar di sostanze.»
(Giambattista V., Scienza Nuova, Degnità LXVI) A questa dissoluzione delle nazioni pone
rimedio l'intervento della Provvidenza che talora non può impedire la
regressione nella barbarie, da cui si genererà un nuovo corso storico che
ripercorrerà, a un livello superiore, poiché dell'epoca passata è rimasta una
sia pur minima eredità, la strada precedente.
La filosofia Paradossalmente la criticità del progresso storico appare
proprio con l'età della ragione, quando cioè questa invece dovrebbe assicurare
e mantenere l'ordine civile. Accade infatti che la tutela della Provvidenza che
si è imposta agli uomini nei precedenti due stadi, ora invece deve ricercare il
consenso della ragione tutta spiegata» che si sostituisce alla religione: Così
"ordenando la provvedenza": che non avendosi appresso a fare più per
sensi di religione (come si erano fatte innanzi) le azioni virtuose, facesse la
filosofia le virtù nella lor idea».[54] La ragione infatti, pur con la
filosofia, custode della legge ideale del vivere civile, con il suo libero
giudizio, può tuttavia incorrere nell'errore o nello scetticismo per cui si
diedero gli stolti dotti a calunniare la verità». La ragione non crea la verità, poiché non può
fare a meno dal senso e dalla fantasia senza le quali appare astratta e vuota.
Il fine della storia infatti non è affidato alla sola ragione ma alla sintesi
armonica di senso, fantasia e razionalità. La ragione poi è ispirata dalla
verità divina per cui la storia è sì opera dell'uomo, ma la mente umana da sola
non basta poiché occorre la Provvidenza che indichi la verità. La filosofia è
succeduta alla religione ma non l'ha sostituita anzi essa deve custodirla: Da tutto ciò che si è in quest'opera
ragionato, è da finalmente conchiudersi che questa Scienza porta
indivisibilmente seco lo studio della pietà,[55] e che, se non siesi pio, non
si può daddovero esser saggio.»
(Giambattista V. Scienza Nuova, Conclusione) Teorizzazione sul riso La concezione di V.
sul riso è riportata in Ridere la verità di Rosella Prezzo che scrive: La
teorizzazione vichiana sul riso, rimasta per lo più sconosciuta, si trova
celata in una digressione di un opuscolo polemico dal titolo Vici vindicae»,
dove il filosofo napoletano scrive che il riso proviene dall'inganno teso
all'ingegno umano, avido del vero: ragion per cui scoppia tanto più abbondante
quanto maggiore è la simulazione di questo».[56] Già Niccolò Tommaseo parlando
della grandezza del V. lo presentava come non invaghito per nulla dalla novità
che nuove (dic'egli) son anco le cose ridicole e mostruose» né cercando
l'arguzia siccome col riso le arguzie sterili, sono con la malinconia i
concetti possenti».[57] Francesco Flora riporta il racconto che V. fa
dell'origine dell'interiezione: Seguitarono a formarsi le voci umane con
l'interiezioni, che sono voci articolate nell'émpito di passioni violente, che
'n tutte le lingue son monosillabi», causate dalla meraviglia alla vista dei
primi fulmini, ad esempio, da cui l'immaginazione di Giove. Il riso intravede
la goffaggine di tali giganti» e vi si inserisce.[58] Il giudizio della filosofia posteriore
Predicavano la ragione individuale, ed egli le opponeva la tradizione, la voce
del genere umano. Gli uomini popolari, i progressisti di quel tempo, erano
Lionardo di Capua, Cornelio, Doria, Calopreso, che stavano con le idee nuove,
con lo spirito del secolo. Lui era un retrivo, con tanto di coda, come si
direbbe oggi. La coltura europea e la coltura italiana s'incontravano per la
prima volta, l'una maestra, l'altra ancella. V. resisteva. Era vanità di
pedante? Era fierezza di grande uomo? Resisteva a Cartesio, a Malebranche, a
Pascal, i cui Pensieri erano lumi sparsi», a Grozio, a Puffendorfio, a Locke,
il cui Saggio era la metafisica del senso». Resisteva, ma li studiava più che
facessero i novatori. Resisteva come chi sente la sua forza e non si lascia
sopraffare. Accettava i problemi, combattea le soluzioni, e le cercava per le
vie sue, co' suoi metodi e coi suoi studi. Era la resistenza della coltura
italiana, che non si lasciava assorbire, e stava chiusa nel suo passato, ma
resistenza del genio, che cercando nel passato trovava il mondo moderno. Era il
retrivo che guardando indietro e andando per la sua via, si trova da ultimo in
prima fila, innanzi a tutti quelli che lo precedevano. Questa era la resistenza
del V.. Era un moderno e si sentiva e si credeva antico, e resistendo allo
spirito nuovo, riceveva quello entro di sé.»
(Francesco De Sanctis, Storia della letteratura italiana [1870], Morano,
Napoli 1890, p. 314.) Fintanto che V. fu
in vita la portata e la ricezione critica del suo pensiero furono circoscritte
quasi unicamente agli ambienti intellettuali di Napoli, trovando poi un più
vasto seguito sol a quasi due secoli dalla sua morte, tra la seconda metà
dell'Ottocento e il Novecento. Affermatasi la fama del pensiero vichiano, esso
fu conteso dalle più disparate correnti filosofiche: dal pensiero cristiano
(nonostante l'iniziale rifiuto), dagli idealisti (dai quali fu proclamato
precursore dello storicismo hegeliano), dai positivisti e persino da diversi
marxisti.[16] Come fa notare il Fassò V. è ben più di un semplice filosofo
[...] tanto che in certi momenti della sua travagliatissima fama fu apprezzato
prevalentemente per la sua filosofia del diritto, così come in altri momenti fu
celebrato precursore della sociologia, della psicologia dei popoli, o come
campione fra i maggiori della filosofia della storia, mentre veniva ignorata la
sua pur genialissima metafisica, che è ad un tempo il punto d'arrivo e il
presupposto logico di tutte le ricerche da lui condotte nei più vari campi
dell'operare umano».[16] Il pensiero
vichiano, le cui prime fonti s'ispirano alla tradizione filosofica del Seicento
che permeava l'ambiente partenopeo, rappresenta un ponte fra la cultura
secentesca e quella settecentesca.[17] Nonostante V. non sia caratterizzato da
audacia innovatrice illuminista, il suo pensiero raggiunse – come nota
Abbagnano – alcuni risultati fondamentali» che lo connettono a pieno titolo al
Settecento.[17] Tuttavia non può tacersi il carattere conservatore della filosofia
politico-religiosa del V., generato dal turbamento di chi, assistendo alla fine
di un mondo famigliare, non sa scoprire i segni del sorgere di un nuovo».[59]
Ciò è dimostrato dalla giustapposizione del certo (ossia il peso dell'autorità
della tradizione) al vero (ossia lo sforzo innovatore della ragione) che è il
segno di una ricerca di equilibrio estranea al pensiero illuministico. A tali
conclusioni il pensiero vichiano fu condotto dalla limitatezza della sua
gnoseologia e dalla polemica contro il cartesianesimo, il quale professava, al
contrario, l'eliminazione di ogni limite gnoseologico.[17] Opere Sei Orazioni Inaugurali (1699-1707) De
nostri temporis studiorum ratione (1709) Orazione Inaugurale del 1708 De
antiquissima Italorum sapientia ex linguae latinae originibus eruenda (1710):
Proemium (1710) Liber metaphysicus (1710) Risposte al giornale dei letterati
Prima risposta (1711) Seconda risposta (1712) Institutiones oratoriae
(1711-1738) De universis Juris (1720-1721) De universis juris uno principio et
fine uno liber unus - include De opera proloquium» (1720) De constantia
jurisprudentis liber alter (1721) Notae in duos libros, alterum De uno universi
juris principio et fine uno», alterum De constantia jurisprudentis» (1722)
Scienza nuova prima (1725) Vici Vindiciae (1729) Vita di Giambattista V.
scritta da se medesimo, (l'Autobiografia» (1725-1728; Supplemento» 1731)
Scienza nuova seconda (1730) De mente heroica (1732) Scienza nuova terza (1744)
Edizioni Scritti storici, 1939
Giambattista V., Scienza nuova, Scrittori d'Italia 135, Bari, Laterza, 1931.
URL consultato il 16 aprile 2015. Giambattista V., Scienza nuova seconda. 1,
Scrittori d'Italia 112, Bari, Laterza, 1942. URL consultato il 16 aprile 2015.
Giambattista V., Scienza nuova seconda. 2, Scrittori d'Italia 113, Bari,
Laterza, 1942. URL consultato il 16 aprile 2015. Giambattista V., Opere a cura
di Fausto Nicolini, Laterza, Bari 1914-40 in otto volumi: I, 1914, Orazioni
inaugurali, De studiorum rationum, De antiquissima Italorum sapientia, Risposte
al giornale dei letterati; II, 1936, Diritto universale; III, 1931, Scienza
nuova I; IV, 1928, Scienza nuova II; V, 1929, Autobiografia, Carteggio, Poesie
varie; VI, 1939, Scritti storici; VII, 1940, Scritti vari e pagine disperse;
VIII, 1941, Poesie, Institutiones oratoriae. Giambattista V., Opere filosofiche
a cura di Paolo Cristofolini, Firenze, Sansoni, 1971. Giambattista V., Opere
giuridiche a cura di Paolo Cristofolini, Firenze, Sansoni, 1974. Giambattista V.,
Institutiones oratoriae, testo critico, versione e commento a cura di Giuliano
Crifò, Napoli, Istituto Suor Orsola Benincasa, 1989. Nicola Badaloni,
Introduzione a Gianbattista V., Bari, Laterza, 1999. Giambattista V., La
scienza nuova - Le tre edizioni del 1725, 1730, 1744, a cura di Manuela Sanna e
Vincenzo Vitiello, Milano, Bompiani, 2012, ISBN 978-88-452-7155-7. Leonardo
Amoroso, Introduzione alla Scienza nuova di V., Pisa, ETS, 2013, ISBN
978-884673126-5. Benedetto Croce, La filosofia di Giambattista V., Bari,
Laterza, 1965. Note ^ Benedetto Croce, La filosofia di Giambattista V., 2ª ed.,
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2008. ^ Ugo Grozio, Prolegomeni al diritto della guerra e della pace (a cura di
Guido Fassò), cit. p. 16, Morano Editore, 1979.
Giambattista V., La scienza nuova (a cura di Paolo Rossi), p. 46,
Biblioteca Universale Rizzoli, 2008. ^ Giovanni Liccardo, Storia irriverente di
eroi, santi e tiranni di Napoli. ^ V. che si era rivolto inutilmente per
sovvenzionare la stampa dell'opera prima al cardinale Orsini, poi a papa
Clemente XII, fu costretto a vendere un anello per farla pubblicare. V. scrisse
in seguito che, in fondo, l'accaduto era stato un bene poiché lo aveva spinto a
riscrivere l'opera in maniera più completa. (Cfr. M. Fubini, G.B.V..
Autobiografia, Torino Einaudi 1965). ^ M. Fubini, G.B. V.. Autobiografia,
Torino Einaudi 1965. ^ La prima redazione dell'opera, andata perduta, aveva il
titolo di Scienza nuova in forma negativa. ^ L'Autobiografia fu pubblicata
postuma nel 1818 ampliata con una modifica di V. del 1731. ^ Rivista di studi
crociani, Volume 6, a cura della "Società napoletana di storia
patria", 1969. ^ La fondazione "Giambattista V.", voluta da
Gerardo Marotta, presidente dell'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici,
con sede nella Chiesa di San Biagio Maggiore di Napoli, si occupa della
promozione del pensiero vichiano e della gestione di alcuni siti vichiani come
il castello Vargas di Vatolla (Salerno) e la Chiesa di San Gennaro all'Olmo in
Napoli. ^ Giambattista V., Principi di una scienza nuova d'intorno alla comune
natura delle nazioni, a cura di Giuseppe Ferrari, Società tipografica de'
Classici italiani, Milano 1843, p. 479. ^ Silvestro Candela, L'unità e la
religiosità del pensiero di Giambattista V., Cenacolo Serafico, 1969, p. 35. ^
Inesatto è altresì che V. terminasse di vivere il 20 gennaio 1744 a più di
settantasei anni: mancò nella notte tra il 22 e il 23 gennaio, a settantacinque
anni e sette mesi precisi. ...» in La Letteratura italiana: Storia e testi, Giambattista
V., Ricciardi, 1953. ^ La storia di Giambattista V., su napolitoday.it. URL
consultato il 16 marzo 2017 (archiviato il 16 marzo 2017). ^ Secondo notizie di
stampa diffuse nell'ottobre 2011, resti della salma di V. sarebbero stati
recuperati nei sotterranei della chiesa napoletana. (Vedi: Corriere del Giorno:
Ritrovata la salma di Giambattista V.? I ricercatori vanno cauti Archiviato il
14 novembre 2011 in Internet Archive.) La notizia è stata comunque commentata
con prudenza dagli esperti. ^ Giambattista V., La scienza nuova (a cura di
Paolo Rossi), pp.6-7, Biblioteca Universale Rizzoli, 2008. ^ Fausto Nicolini,
La giovinezza di Giambattista V.: saggio biografico, Società editrice Il
Mulino, 1992, p. 142, ISBN 9788815038326. ^ Croce, Nuovi saggi sul Seicento,
pp. 91-105. ^ Per una silloge di pensieri» del Malvezzi, Politici e moralisti
del Seicento, ediz. Croce-Caramella, Bari, Laterza, 1930. ^ V. nel perduto De
equilibrio corporis animantis esponeva una concezione secondo cui ...riponevo
la natura delle cose nel moto per il quale, come se fossero sottoposte alla
forza di un cuneo, tutte le cose vengono spinte verso il centro del loro stesso
moto e, invece, sotto l'azione di una forza contraria, vengono respinte verso
l'esterno; e sostenni anche che tutte le cose vivono e muoiono in virtù di
sistole e diastole». Secondo un'ipotesi di Benedetto Croce e Fausto Nicolini
l'opera era stata concepita come appendice al Liber physicus e fu donata in
forma manoscritta al suo grande amico, il giurista Domenico Aulisio tra il 1709
e il 1711. La trattazione di quella teoria di ispirazione cartesiana e
presocratica venne poi inserita più ampiamente nella Vita. ^ Stefania De Toma,
Ecco l'origine delle scienze umane: aspetti retorici di una contesa intorno al
De antiquissima italorum sapienti, in Bollettino del Centro di Studi Vichiani»,
XLI, 2, 2011 (Roma : Edizioni di Storia e Letteratura, 2011). ^ G.B. V., Opere,
Sansoni, Firenze, 1971, I, 1 p. 63 ^ V. è considerato da alcuni interpreti del
suo pensiero come il primo costruttivista. Infatti V. sostiene che l'uomo può
conoscere solo ciò che può costruire, aggiungendo poi che in effetti solo Dio
conosce veramente il mondo, avendolo creato lui stesso. Il mondo quindi è
esperienza vissuta e al suo riguardo non vale per gli uomini alcuna pretesa di
verità ontologica. (In Paul Watzlawick, La realtà inventata, Milano,
Feltrinelli, 2008, pag 26 e sgg.) ^ Per V. la filologia non è solo la scienza
del linguaggio ma anche storia, usi e costumi, religioni... ecc. dei popoli antichi.
^ L'età degli dei nella quale gli uomini gentili credettero vivere sotto divini
governi, e ogni cosa esser loro comandata con gli auspici e gli oracoli, che
sono le più vecchie cose della storia profana: l'età degli eroi, nella quale
dappertutto essi regnarono in repubbliche aristocratiche, per una certa da essi
rifiutata differenza di superior natura a quella de' lor plebei; e finalmente
l'età degli uomini, nella quale tutti si riconobbero esser uguali in natura
umana, e perciò vi celebrarono prima le repubbliche popolari e finalmente le
monarchie, le quali entrambe sono forma di governi umane.» (G. V., Scienza
Nuova, Idea dell'Opera). ^ G. V., Scienza Nuova, Idea dell'Opera. ^ Ibidem. ^
La ragion di Stato non è naturalmente conosciuta da ogni uomo ma da pochi
pratici di governo» (Ibidem). ^ Ibidem Degnità XXXVII. ^ Sull'immaginazione nei
primitivi secondo la filosofia vichiana si veda: Paolo Fabiani, La filosofia
dell'immaginazione in V. e Malebranche, Firenze University Press, 2002
Archiviato il 2 agosto 2016 in Internet Archive. ^ La rivendicazione
dell'assoluta autonomia dell'arte e della poesia nei confronti delle altre
attività spirituali fu uno dei meriti che Benedetto Croce riconobbe al pensiero
vichiano: [V.] criticò tutt'insieme le tre dottrine della poesia come
esortatrice e mediatrice di verità intellettuali, come cosa di mero diletto, e
come esercitazione ingegnosa di cui si possa senza far danno fare a meno. La
poesia non è sapienza riposta, non presuppone logica intellettuale, non contiene
filosofemi: i filosofi che ritrovano queste cose nella poesia, ve le hanno
introdotte essi stessi senza avvedersene. La poesia non è nata per capriccio,
ma per necessità di natura. La poesia tanto poco è superflua ed eliminabile,
che senza di essa non sorge il pensiero: è la prima operazione della mente
umana.» (Benedetto Croce, La filosofia
di Giambattista V.) ^ [qual era quello
dei tempi d'Omero] ^ G. V., Scienza Nuova, Conclusione. ^ Nel senso di pietas,
sentimento religioso. ^ Rosella Prezzo (a cura di), Ridere la verità. Scena
comica e filosofia, Minima, n. 24, Milano, Raffaello Cortina Editore, 1994, pp.
14-18 e 64-70. ^ Niccolò Tommaseo, Storia civile nella letteraria, in Studii,
Roma-Torino-Firenze, Loescher, 1872, pp. 104 sgg. ^ Francesco Flora,
Giambattista V., in Storia della letteratura italiana. Nuova edizione riveduta
e ampliata, Volume terzo, Il Cinquecento (parte seconda) Il Seicento-Il
Settecento, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1958, pp. 441-452. ^
Giambattista V., La scienza nuova (a cura di Paolo Rossi), p. 13, Biblioteca
Universale Rizzoli, 2008. Bibliografia Il pensiero vichiano rimase quasi del
tutto ignorato dalla cultura europea del XVIII secolo con una diffusione
limitata nell'Italia meridionale. Ancora in età romantica V. era poco
conosciuto anche se filosofi tedeschi come Johann Gottfried Herder, chiamato V.
tedesco, e Hegel presentano delle somiglianze con la dottrina vichiana per
quanto riguarda il ruolo della storia nello sviluppo della filosofia. La filosofia di V. comincia ad essere
conosciuta e apprezzata nel clima del romanticismo francese e italiano:
François-René de Chateaubriand e Joseph de Maistre ma, soprattutto Jules Michelet, Principes de la philosophie
de l'histoire, Parigi 1827 diffonde il pensiero di V. di cui apprezza la
concezione della storia come sintesi di umano e divino. Nella prima metà dell'Ottocento, Auguste
Comte e Karl Marx stimarono la filosofia della storia di V. ma furono i
filosofi italiani, come Antonio Rosmini, e soprattutto Vincenzo Gioberti, che
videro in lui un maestro. N. Tommaseo,
G.B. V. e il suo secolo, 1843, rist. Torino 1930, mette in evidenza la grande
affinità del pensiero vichiano con quello di Gioberti. Agostino Maria de Carlo,
Istituzione Filosofica secondo i Princìpj di Giambattista V. ad uso della
gioventù studiosa, Napoli, Tip. Cirillo, 1855. Nuove interpretazioni basate sul
principio vichiano del verum ipsum factum considerano V. un anticipatore del
positivismo Giuseppe Ferrari, Il genio
di V., 1837, rist. Lanciano, Carabba, 1916. C. Cattaneo, Sulla 'Scienza Nuova'
di V., Milano, 1946-47. C. Cantoni, V., Torino, 1967. P. Siciliani, Sul
rinnovamento della filosofia positiva in Italia, Firenze, Civelli, 1871.
Recentemente, viene rivalutato il legame stringente fra il filosofo e
l'Illuminismo: Alberto Donati, Giambattista
V.. Filosofo dell'Illuminismo, Ariccia, Aracne, 2016. Una spinta decisiva
all'apprezzamento e alla diffusione del pensiero vichiano come anticipatore di
Kant e dell'idealismo, si ebbe in Italia a cominciare dagli studi di Bertrando
Spaventa e De Sanctis iniziatori di quella corrente dottrinale interpretativa
che si ritrova soprattutto in Croce e G.
Gentile, Studi vichiani, Messina 1915, rist. Firenze, Sansoni, 1969, che ne
mette in luce le ascendenze neoplatoniche e rinascimentali rifiutandone nel
contempo l'interpretazione positivista e interpretandone il verum ipsum factum
in senso idealistico. Una forzatura questa, secondo alcuni critici, ripresa da B. Croce, La filosofia di G.B.V., Bari,
Laterza, 1911. che ebbe soprattutto il merito di aver intuito in V. una
definizione dell'arte come attività autonoma dello spirito e della visione
storicistica dello sviluppo dello spirito da cui Croce elimina ogni riferimento
alla trascendenza della Provvidenza vichiana.
Un'accurata ricerca storica su V. fu operata dal crociano Fausto Nicolini, La giovinezza di V., Bari,
Laterza, 1932. Fausto Nicolini, La religiosità di V., Bari, Laterza, 1949.
Fausto Nicolini, Commento storico alla seconda 'Scienza nuova', Roma, 1949-50.
Fausto Nicolini, Saggi vichiani, Napoli, Giannini, 1955. Fausto Nicolini,
Giambattista V. nella vita domestica. La moglie, i figli, la casa, Venosa,
Osanna, 1991. Contrari all'interpretazione immanentistica della Provvidenza
vichiana sono gli studi di autori cattolici che ne mettono invece in risalto la
trascendenza: E. Chiocchietti, La
filosofia di G. B. V., Milano, Vita e Pensiero, 1935. F. Amerio, Introduzione
allo studio di V., Torino, SEI, 1946. L. Bellafiore, La dottrina della
Provvidenza in G. B. V., Bologna, Cedam, 1962. A. Mano, Lo storicismo di G. B. V.,
Napoli, 1965. F. Lanza, Saggi di poetica vichiana, Varese, Magenta, 1961. Il
dibattito tra le interpretazioni laiche e cattoliche su V. si è attenuato in
periodi recenti dove lo studio del pensiero vichiano si è dedicato a
particolari aspetti della sua dottrina:
G. Fassò, I quattro auttori» del V.. Saggio sulla genesi della Scienza
nuova, Milano, Giuffrè, 1949. G. Fassò, V. e Grozio, Napoli, Guida, 1971. Maura
Del Serra, Eredità e kenosi tematica della "confessio" cristiana
negli scritti autobiografici di V., in Sapientia, XXXIII, n. 2, 1980, pp.
186–199. sulla concezione della storia ad opera della quale avviene la
conciliazione tra immanenza e trascendenza del pensiero vichiano: A. R.
Caponigri, Time and Idea, Londra-Chicago 1953, trad. it. Tempo e idea, Bologna,
Pàtron, 1969. sulla estetica vichiana gli studi più notevoli sono quelli di
Giovanni A. Bianca, Il concetto di poesia in G.B.V., Messina, D'Anna, 1967.
Thomas Gilbhard, V.s Denkbild. Studien zur Dipintura der Scienza Nuova und der
Lehre vom Ingenium, Berlin, Akademie Verlag, 2012, ISBN 978-3-05-005209-0.
Giuseppe Prestipino, La teoria del mito e la modernità di G. B. V., in Annali
della Facoltà di Palermo», 1972. Giuseppe Patella, Senso, corpo, poesia.
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nuova, Milano, LED, 2005, ISBN 88-7916-285-3. Giuseppe Patella, Giambattista V.
tra Barocco e Postmoderno, Milano, Mimesis, 2005, ISBN 9788884833983. Giuseppe
Patella, Ingegno V.. Saggi estetici, Pisa, ETS, 2022, ISBN 9788846764287. sugli
aspetti giuridici e sociologici: P. Fabiani, La filosofia dell'immaginazione in
V. e Malebranche, Firenze, Firenze University Press, 2002. B. Donati, Nuovi
studi sulla filosofia civile di G. B. V., Firenze, 1947. L. Bellafiore, La
dottrina del diritto naturale in G. B. V., Milano, 1954. D. Pasini, Diritto,
società e stato in V., Napoli Jovene, 1970. V. Giannantonio, Oltre V. -
L'identità del passato a Napoli e Milano tra '700 e '800, Lanciano, Carabba,
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Benedetto Croce Fausto Nicolini Storicismo Filosofia della storia Filologia
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versione), su MLOL, Horizons Unlimited. Modifica su Wikidata (EN) Opere di
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consultato il 30 ottobre 2008 (archiviato dall'url originale il 16 settembre
2007). integrali in più volumi dalla collana digitalizzata "Scrittori
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Giambattista V., su fondazionegbV..org. Portale V., su giambattistaV..it. V.,
Giambattista', su treccani.it., in Il contributo italiano alla storia del
Pensiero – Filosofia, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2012
Giambattista V., Principj di una scienza nuova di Giambattista V.: d'intorno
alla comune natura delle nazioni, Tip. di A. Parenti, 1847. Portale
Biografie Portale Diritto Portale Filosofia Portale Storia Categorie: Filosofi italiani
del XVII secoloFilosofi italiani del XVIII secoloStorici italiani del XVII
secoloStorici italiani del XVIII secoloGiuristi italiani del XVII
secoloGiuristi italiani del XVIII secoloNati nel 1668Morti nel 1744Nati il 23
giugnoMorti il 23 gennaioNati a NapoliMorti a NapoliFilosofi della
storiaOntologistiFilosofi del dirittoAccademici dell'ArcadiaProfessori
dell'Università degli Studi di Napoli Federico IIMemorialisti italiani[altre]Molte
delle notizie riguardanti la vita di V. sono tratte dalla sua “Autobiografia”,
scritta sul modello letterario delle “Confessioni” d’AGOSTINO.
Dall’autobiografia V. cancella ogni riferimento ai suoi interessi giovanili per
le dottrine atomistiche e per la filosofia di Cartesio, che hanno cominciato a
diffondersi a NAPOLI, ma venneno subito repressi dalla censura delle autorità
civili e religiose, che le consideravano moralmente perniciose e contrari all'indice
dei libri proibiti. Nato da una famiglia di modesta estrazione sociale – il
padre e un libraio – V. e un bambino molto vivace. A causa di una caduta, si
procura una frattura al cranio che gli impede di frequentare la scuola per III
anni e che, pur non alterando le sue capacità mentali, quantunque “il cerusico
ne fe' tal presagio: che egli o ne morrebbe o arebbe sopravvissuto stolido,”
contribusce a sviluppare “una natura malinconica ed acre.” Ammesso agli studi
di grammatica presso il collegio massimo dei gesuiti, li abbandona per
dedicarsi al privato approfondimento dei testi di NICOLETTI [vide], il quale,
tuttavia, rivelandosi superiore alle sue capacità, provoca l'allontanamento
dall'attività intellettuale per I anno e mezzo. Ripresa la via degli
studi, V. si reca nuovamente dai gesuiti per seguire le lezioni di RICCI. Rimasto
ancora una volta insoddisfatto, si apparta nuovamente a vita privata per
affrontare la meta-fisica. Successivamente, per secondare il desiderio paterno,
V. e “applicato agli studi legali.” Frequenta per II mesi le lezioni di VERDE,
s’iscrive alla facoltà di giurisprudenza, senza tuttavia seguirne i corsi, e si
cimenta, come di consueto, in studi di diritto. Conseguita la laurea a SALERNO,
si appassiona subito ai problemi filosofici, segno “di tutto lo studio che ha
egli da porre all'indagamento de’ princìpi del diritto universal.” Lapide nella
casa natale di via San Biagio dei Librai che recita: In questa cameretta nasce V..
Nella sottoposta piccola bottega del padre libraio usa passare le notti nello
studio. Vigilia della sua opera sublime. La città di Napoli pose.” Il periodo
di tempo intercorrente e denominato dell' “auto-perfezionamento.” Difatti,
nonostante l' “Auto-biografia” riporti indietro la data d'inizio del suo
magistero, svolge attività di precettore dei figli del marchese ROCCA presso il
castello di Vatolla nel Cilento e colà, usufruendo della grande biblioteca, ha modo
di studiare l’Accademia di FICINO e PICO. Approfondisce gli studi del Lizio,
nonostante la dichiarata avversione per Aristotele e la scolastica. Legge i
saggi di di BOTERO e di BODIN, scoprendo al contempo TACITO (che divenne un
maestro cui s'ispira la sua filosofia) e la sua “mente metafisica incomparabile
con cui contempla l'uomo qual è.” Affronta per un breve periodo studi di
geometria e pubblica la canzone “Affetti di un disperato,” d'ispirazione
lucreziana (vide LUCREZIO). Erma del V. Ritornato a Napoli, affetto dalla tisi,
rientra nella misera dimora paterna. A causa delle grosse difficoltà
economiche, V. è costretto a tenere ripetizioni di retorica e grammatica. Pubblica
un discorso proemiale a una crestomazia poetica dedicata alla partenza di
Benavides, vice-ré e conte di S. Stefano. Compone un'orazione funebre in
memoria di Cardona, madre del nuovo vice-ré. Tenta vanamente di ottenere un
posto di lavoro come segretario al municipio di Napoli. Vince, con striminzita
maggioranza, il concorso per la cattedra di eloquenza e retorica a Napoli, da
cui non riusce, con suo grande rammarico, a passare a una di diritto. -- è
aggregato all'accademia palatina fondata dal vice-ré Aragón, duca di
Medinaceli. Anche dopo la nomina accademica per il mantenimento del padre e dei
fratelli, totalmente dipendenti da lui, apre uno studio dove dà lezioni di
retorica e di grammatica e impegnarsi a lavorare su commissione alla stesura di
poesie, epigrafi, orazioni funebri, e panegirici. Può finalmente prendere in
affitto in V.lo dei Giganti una casa di tre camere, sala, cucina, loggia e
altre comodità, come rimessa e cantina e sposar e avere VIII figli. Da quel
momento non ha più la tranquillità necessaria per condurre gli studi, ma prosegue
ugualmente le sue meditazioni tra lo strepitio de' suoi figlioli. A questo
periodo risale, inoltre, la conoscenza con DORIA (vide) e l'incontro con la
filosofia di Bacone. Il governo partenopeo gli commissiona la scrittura del “Principum
neapolitanorum coniuratio” e in una cena a casa di DORIA, espone le sue idee
sulla filosofia della natura che lo conduceno alla composizione del “Liber
physicus.” Pronunzia in latino le VI orazioni inaugurali, ossia le prolusioni
all'anno accademico e, se ne aggiunge una VII, più ampia e importante, “De
nostri temporis studiorum ratione,” la quale si concentra molto sul metodo
degli studi giuridici, poiché sempre ha la mira a farsi merito con l'università
nella giurisprudenza per altra via che di leggerla ai giovinetti. Nel “De
ratione”, inoltre, è contenuta la critica al razionalismo di Cartesio e
l'elogio dell'eloquenza, della retorica, della fantasia, nonché dell’ingegno produttore
della META-FORA. L'insieme delle prolusioni universitarie sono rielaborate
per essere raccolte in “De studiorum finibus naturae humanae convenientibus”. È
aggregato all'accademia dell'Arcadia e pubblica il primo libro dell'opera
dedicata a DORIA, “De antiquissima italorum sapientia ex linguae latinae
originibus eruenda,” recante il sottotitolo “Liber primus sive metaphysicus.” Accanto
al “Liber Meta-Physicus,” l'opera comprender anche il “Liber Physicus” e un mai
compost, “Liber Moralis.” Un anonimo recensisce l'opera nel “Giornale de'
letterati d'Italia”, cui segue la risposta del V., accompagnata dal ristretto o
ri-assunto del “Liber Meta-Physicus”. Aseguito di nuove obiezioni prodotte
dall'anonimo recensore, replica con una Risposta II. Pubblica un trattatello
sulle febbri ispirato alle bozze del “Liber Physicus”, recante il titolo di “De
aequilibrio corporis animantis.” Inoltre, si dedica alla stesura del “De rebus
gestis Antonii Caraphaei,” una biografia del maresciallo Carafa. Durante i lavori
di questa opera biografica, V. si dedica alla ri-lettura del suo quarto
auttore», Grozio, cui dedicha un commento al “De iure belli ac pacis”.
L'incontro di V. con la filosofia di Ugon capo» ha un'importanza decisiva per
il suo sviluppo filosofico. Da quel momento, il suo interesse e completamente
assorbito dai problemi storici e giuridici. L'idea dell'esistenza di un'umanità
ferina e primitiva, dominata solamente dal senso e dalla fantasia, ed entro cui
si producono gl’ordini civili divenne centrale in tutta la sua filosofia. Vide
la luce un'opera di filosofia del diritto, intitolata “De uno universi iuris
principio et fine uno”, seguita dallo saggio “De constantia iurisprudentis,” diviso
in II parti, “De constantia philosophiae” e “De constantia philologiae,” e che,
nonostante il titolo si riferisca alla tematica giuridica, è meno incentrato
sull'argomento rispetto al “De uno”. Benché le due opere si differenzino, segno
di un rapido sviluppo della sua filosofia, è d'uso considerarli, come invero
fece anche V., insieme alle notae aggiunte e le sinopsi premesse al saggio,
sotto l'unico titolo di “Diritto universale”. S'iscrive al concorso per
ottenere la cattedra di diritto civile a Napoli e commenta un passo delle “Quaestiones
di Papiniano “davanti a un collegio di giudici, ma, con suo grande scorno, il
posto e assegnato a GENTILE. Dopo la fama ottenuta dalla pubblicazione della “Scienza
Nuova”, ottenne da Carlo III, la carica di storiografo regio. Tanto nuova e la
sua dottrina che la cultura del tempo non puo apprezzarla. Così che V. rimanda appartato
e quasi del tutto sconosciuto negl’ambienti filosofici, dovendosi accontentare
di una cattedra di secondaria importanza a Napoli che lo mantene inoltre in
tali ristrettezze economiche che per pubblicare il suo capolavoro, la “Scienza
Nuova”, dovette toglierne alcune parti in modo che risultasse meno costoso per
la stampa. Alle difficoltà economiche vissute per la pubblicazione dell'opera
sua, che inficiarono la sua notorietà nel seno dell'accademia partenopea, s’accompagna
una prosa involuta, pertanto di difficile penetrazione. Prima della “Scienza
Nuova” V. scrive la prolusione inaugurale “De nostri temporis studiorum
ratione,” il “De antiquissima italorum sapientia, EX LINGUAE LATINAE originibus
eruenda” a cui si devono aggiungere le II risposte al “Giornale dei letterati
di Venezia” che critica la sua filosofia, il “De uno universi iuris principio
et fine uno” e il “De costantia iurisprudentis”. Afflitto da difficoltà e
disgrazie familiari, V. incomincia a scrivere la sua “Autobiografia” pubblicata
a Venezia. Vengono pubblicati i “Principii di una scienza nuova intorno alla
natura delle nazioni.” Alla “Scienza nuova” lavora per tutto il corso della sua
vita, con un’edizione integralmente ri-scritta anche a seguito delle critiche
ricevute (cui aveva risposto nelle “Vici Vindiciae”) e, infine, rivista
completamente, senza grandi modifiche, per la edizione III, pubblicata pochi
mesi dopo la sua morte da suo figlio che lo aveva sostituito nell'insegnamento
accademico. La morte [incominciarono a crescere] quei malori che fin dai suoi
più floridi anni l’avevano debilitato. Comincia adunque ad essere indebolito in
tutto il sistema nervoso in guisa che a stento poteva camminare e, quel che più
lo affligea, e di vedersi ogni giorno infiacchire la reminiscenza. Il fiaccato
corpo anda in seguito ogni giorno più a debilitarsi in guisa che perde quasi
interamente la memoria fino a dimenticare gl’oggetti a sé più vicini ed a
scambiare i nomi delle cose più usuali. Affetto probabilmente dalla malattia di
Alzheimer, all'epoca non ancora descritta scientificamente, negl’ultimi anni
non riconosceva più i suoi stessi figli e e costretto ad allettarsi. Solo in
punto di morte ri-acquista la coscienza come svegliandosi da un lungo sonno. Chiese
i conforti religiosi e recitando i salmi di Davide muore. Per la celebrazione
delle esequie nasce un contrasto tra i confratelli della congregazione di S. Sofia,
alla quale V. era iscritto, e i professori di Napoli su chi dovesse tenere i
fiocchi della coltre mortuaria. Non giungendo ad un accordo il feretro, che era
stato calato nel cortile, e abbandonato dei membri della congregazione e e riportato
in casa. Da lì finalmente, accompagnato dai colleghi dell'università, e sepolto
nella chiesa dei padri dell'oratorio detta dei Gerolamini in Via dei Tribunali.
Nell'ambiente culturale napoletano, molto interessato alle nuove dottrine
filosofiche, V. ha modo di entrare in rapporto con il pensiero di Cartesio,
Hobbes, Gassendi, Malebranche e Leibniz anche se i suoi autori di riferimento
risalivano piuttosto alle dottrine neo-platoniche dell’accademia, rielaborate
dalla filosofia rinascimentale di FICINO e PICO, aggiornate dalle moderne
concezioni scientifiche di Bacone e GALILEI e del pensiero giusnaturalistico
moderno di Grozio e Selden. Dal Portico di MALVEZZI riprende l'intuizione che
il corso storico sia retto da una sua logica interna. Questa varietà di
interessi fa pensare alla formazione di un pensiero eclettico in V. che invece
giunse alla formulazione di un'originale sintesi tra una razionalità
sperimentatrice e la tradizione platonica, accademica, e religiosa. “De
antiquissima Italorum sapientia” consta di tre parti: il “Liber Meta-Physicus”,
che usce senza l'appendice riguardante la logica che, nella sua intenzione,
avrebbe dovuto avere; il “Liber Physicus”, che pubblica sotto forma di opuscolo
col titolo “De aequilibrio corporis animantis”, che anda smarrito, ma
ampiamente riassunto nella Vita; e infine il “Liber moralis”, di cui non abbozza
nemmeno il testo. Nel “De antiquissima” V., considerando il linguaggio come
oggettivazione del pensiero, è convinto che dall'analisi etimologica di alcune
parole si possano rintracciare originarie forme del pensiero. Applicando questo
metodo, risale ad un antico sapere filosofico delle popolazioni italiche. Il
fulcro di queste arcaiche concezioni filosofiche è la convinzione antichissima
che “Latinis verum et factum reciprocantur, seu, ut scholarum vulgus
loquitur, convertuntur” -- che cioè il criterio e la regola del vero consiste
nell'averlo fatto. Per cui possiamo dire ad esempio di conoscere le
proposizioni matematiche perché siamo noi a farle tramite postulati,
definizioni. Ma non potremo mai dire di conoscere nello stesso modo la natura, perché
non siamo noi ad averla creata. Conoscere una cosa significa
rintracciarne i principi primi, le cause, poiché, secondo l'insegnamento del
Lizio, veramente la scienza è “scire per causas.” Ma questi elementi primi li
possiede realmente solo chi li produce, “provare per cause una cosa equivale a
farla”. Il principio del “verum ipsum factum” non e una nuova e originale
scoperta di V. E già presente nell'occasionalismo, nel metodo baconiano che
richiede l'esperimento come verifica della verità, nel volontarismo scolastico
che, tramite la tradizione scotista, e presente nella cultura filosofica
napoletana del tempo di V. La tesi fondamentale di queste concezioni
filosofiche è che la piena verità di una cosa sia accessibile solo a colui che
tale cosa produce. Il principio del verum-factum, proponendo la dimensione
fattiva del vero, ridimensiona le pretese conoscitive del razionalismo di
Cartesio che inoltre giudica insufficiente come metodo per la conoscenza della
storia umana, che non può essere analizzata solo in astratto, perché essa ha
sempre un margine di imprevedibilità. Si serve, però, di quel principio
per avanzare in modo originale le sue obiezioni alla filosofia di Cartesio trionfante in quel periodo. Il cogito di
Cartesio infatti potrà darmi certezza della mia esistenza ma questo non vuol
dire conoscenza della natura del mio essere. Coscienza non è conoscenza. Avrò
coscienza di me ma non conoscenza poiché non ho prodotto il mio essere ma l'ho
solo riconosciuto. L'uomo può dubitare se senta, se viva, se sia esteso, e
infine in senso assoluto, se sia. A sostegno della sua argomentazione escogita
un certo genio ingannatore e maligno. Ma è assolutamente impossibile che uno
non sia conscio di pensare, e che da tale coscienza non concluda con certezza
che egli è. Pertanto Cartesio svela che il primo vero è questo, Penso dunque
sono. --“De antiquissima Italorum sapiential” in “Opere filosofiche,” a cura di
Cristofolini (Firenze, Sansoni). Il criterio del metodo di Cartesio
dell'evidenza procura dunque una conoscenza chiara e distinta, che però non è
scienza se non è capace di produrre ciò che conosce. In questa prospettiva,
dell'essere umano e della natura solo il divino, creatore di entrambi, possiede
la verità. Mentre quindi la mente umana procedendo astrattamente nelle
sue costruzioni, come accade per la matematica, la geometria crea una realtà
che le appartiene, essendo il risultato del suo operare, giungendo così a una
verità sicura, la stessa mente non arriva alle stesse certezze per quelle
scienze di cui non può costruire l'oggetto come accade per la meccanica, meno
certa della matematica, la fisica meno certa della meccanica, la morale meno
certa della fisica. Noi dimostriamo le verità geometriche poiché le
facciamo, e se potessimo dimostrare le verità fisiche le potremmo anche fare. I
latini diceno che la mente è data, immessa negl’uomini dagli dei. È dunque
ragionevole congetturare che gl’autori di queste espressioni abbiano pensato
che le idee negl’animi umani siano create e risvegliate dal divino. La mente
umana si manifesta pensando, ma è il divino che in me pensa, dunque nel divino
conosco la mia propria mente. Il valore di verità che l'uomo ricava dalle
scienze e dalle arti, i cui oggetti egli costruisce, è garantito dal fatto che
la mente umana, pur nella sua inferiorità, esplica un’attività che appartiene
in primo luogo al divino. La mente dell'uomo è anch'essa creatrice nell'atto in
cui imita la mente, le idee, del divino, partecipando metafisicamente ad
esse. Imitazione e partecipazione alla mente divina avvengono ad opera di
quella facoltà che V. chiama “ingegno” che è la facoltà propria del conoscere per
cui l'uomo è capace di contemplare e di imitare le cose. L'ingegno è lo
strumento principe, e non l'applicazione delle regole del metodo di Cartesio,
per il progresso, ad esempio, della fisica che si sviluppa proprio attraverso
gl’esperimenti escogitati dall'ingegno secondo il criterio del vero e del
fatto. L'ingegno dimostra, inoltre, i limiti del conoscere umano e la
contemporanea presenza della verità divina che si rivela proprio attraverso
l'errore. Il divino mai si allontana dalla nostra presenza, neppure quando
erriamo, poiché abbracciamo il falso sotto l'aspetto del vero e i mali sotto
l'apparenza dei beni. Vediamo le cose finite e ci sentiamo noi stessi finiti,
ma ciò dimostra che siamo capaci di pensare l'infinito. Contro la Scessi sostiene
che è proprio tramite l'errore che l'uomo giunge al sapere metafisico. Il
chiarore del vero metafisico è pari a quello della luce, che percepiamo
soltanto in relazione ai corpi opachi. Tale è lo splendore del vero metafisico
non circoscritto da limiti, né di forma discernibile, poiché è il principio
infinito di tutte le forme. Le cose fisiche sono quei corpi opachi, cioè
formati e limitati, nei quali vediamo la luce del vero metafisico. Il sapere
metafisico non è il sapere in assoluto. Esso è superato dalla matematica e
dalle scienze ma, d'altro canto, la metafisica è la fonte di ogni verità, che
da lei discende in tutte le altre scienze. Vi è dunque un primo vero,
comprensione di tutte le cause, originaria spiegazione causale di tutti gli
effetti; esso è infinito e di natura spirituale poiché è antecedente a tutti i
corpi e che quindi si identifica con divino. Nel divino sono presenti le forme,
simili alle idee platoniche, modelli della creazione divina. Il primo
vero è nel divino, perché il divino è il primo facitore (primus factor);
codesto primo vero è infinito, in quanto facitore di tutte le cose; è
compiutissimo, poiché mette dinanzi al divino, in quanto li contiene, gli
elementi estrinseci e intrinseci delle cose. Se l'uomo non può considerarsi
creatore della realtà naturale ma piuttosto di tutte quelle astrazioni che
rimandano ad essa come la matematica, la stessa metafisica, vi è tuttavia
un'attività creatrice che gli appartiene questo mondo civile egli
certamente è stato fatto dagli uomini, onde se ne possono, perché se ne
debbono, ritruovare i principi dentro le modificazioni della nostra medesima
mente umana. L'uomo è dunque il creatore, attraverso la storia, della civiltà
umana. Nella storia, l'uomo verifica il principio del “verum ipsum factum” creando
così una scienza nuova che ha un valore di verità come la matematica. Una
scienza che ha per oggetto una realtà creata dall'uomo e quindi più vera e,
rispetto alle astrazioni matematiche, concreta. La storia rappresenta la
scienza delle cose fatte dall'uomo e, allo stesso tempo, la storia della stessa
mente umana che ha fatto quelle cose. La definizione dell'uomo, della sua mente
non può prescindere dal suo sviluppo storico se non si vuole ridurre tutto a
un'astrazione. La concreta realtà dell'uomo è comprensibile solo riportandola
al suo divenire storico. È assurdo credere, come fa Cartesio o i ne-oplatonici,
che la ragione dell'uomo sia una realtà assoluta, sciolta da ogni
condizionamento storico. La filosofia contempla la ragione, onde viene la
scienza del vero. La filologia osserva l'autorità dell'umano arbitrio onde
viene la coscienza del certo. Questa medesima degnità o assioma dimostra aver
mancato per metà così i filosofi che non accertarono le loro ragioni con
l'autorità de’ filologi, come i filologi che non curarono d'avverare la loro
autorità con la ragion dei filosofi. Ma la filologia da sola non basta, si
ridurrebbe a una semplice raccolta di fatti che invece vanno spiegati dalla
filosofia. Tra filologia e filosofia vi deve essere un rapporto di
complementarità per cui si possa accertare il vero e inverare il certo. Compito
della 'scienza nuova' sarà quello di indagare la storia alla ricerca di quei
principi costanti che, secondo una concezione per certi versi platonizzante,
fanno presupporre nell'azione storica l'esistenza di una legge che ne sia a
fondamento com'è per tutte le altre scienze. Poiché questo mondo di nazioni
egli è stato fatto dagl’uomini, vediamo in quali cose hanno con perpetuità
convenuto e tuttavia vi convengono tutti gl’uomini; poiché tali cose ne
potranno dare i principi universali ed eterni, quali devon essere d'ogni
scienza, sopra i quali tutte sursero e tutte vi si conservano le nazioni. La
storia quindi, come tutte le scienze, presenta delle leggi, dei principi
universali, di un valore ideale di tipo platonico, che si ripetono
costantemente allo stesso modo e che costituiscono il punto di riferimento per
la nascita e il mantenimento delle nazioni. Rifarsi alla mente umana per
comprendere la storia non è sufficiente. Si vedrà, attraverso il corso degli
avvenimenti storici, che la stessa mente dell'uomo è guidata da un principio
superiore ad essa che la regola e la indirizza ai suoi fini che vanno al di là
o contrastano con quelli che gli uomini si propongono di conseguire; così
accade che, mentre l'umanità si dirige al perseguimento di intenti
utilitaristici e individuali, si realizzino invece obiettivi di progresso e di
giustizia secondo il principio della eterogenesi dei fini. Pur gli uomini
hanno essi fatto questo mondo di nazioni, ma egli è questo mondo, senza dubbio,
uscito da una mente spesso diversa ed alle volte tutta contraria e sempre
superiore ad essi fini particolari ch'essi uomini si avevan proposti. La storia
umana in quanto opera creatrice dell'uomo gli appartiene per la conoscenza e
per la guida degli eventi storici ma nel medesimo tempo lo stesso uomo è
guidato dalla provvidenza che prepone alla storia divina. Secondo V. il
metodo storico dove procedere attraverso l'analisi delle lingue dei popoli
antichi poiché i parlari volgari debono essere i testimoni più gravi degl’antichi
costumi de' popoli che si celebrarono nel tempo ch'essi si formarono le lingue,
e quindi tramite lo studio del diritto, che è alla base dello sviluppo storico
delle nazioni civili. Questo metodo ha fatto identificare nella storia
una legge fondamentale del suo sviluppo che avviene evolvendosi in tre
età: l'età degli dei, nella quale gli uomini gentili credettero vivere
sotto divini governi, e ogni cosa esser loro comandata con gl’auspici e gli
oracoli; l'età degl’eroi dove si costituiscono repubbliche aristocratiche;
l'età degl’uomini nella quale tutti si riconobbero esser uguali in natura umana.
La storia umana, secondo V., inizia con il diluvio universale, quando gl’uomini,
giganti simili a primitivi "bestioni", vivevno vagando nelle foreste
in uno stato di completa anarchia. Questa condizione bestiale e conseguenza del
peccato originale, attenuata dall'intervento benevolo della provvidenza divina
che immise, attraverso la paura dei fulmini, il timore degli dei nelle genti
che scosse e destate da un terribile spavento d'una da essi stessi finta e
creduta divinità del cielo e di Giove, finalmente se ne ristarono alquanti e si
nascosero in certi luoghi; ove fermi con certe donne, per lo timore
dell'appresa divinità, al coverto, con congiungimenti carnali religiosi e
pudichi, celebrarono i matrimoni e fecero certi figlioli, e così fondarono le
famiglie. E con lo star quivi fermi lunga stagione e con le sepolture degli
antenati, si ritrovarono aver ivi fondati e divisi i primi domini della terra. L'uscita
dallo stato di ferinità quindi avviene: per la nascita della religione,
nata dalla paura e sulla base della quale vengono elaborate le prime leggi del
vivere ordinato, per l'istituzione delle nozze che danno stabilità al vivere
umano con la formazione della famiglia e per l'uso della sepoltura dei morti,
segno della fede nell'immortalità dell'anima che distingue l'uomo dalle bestie.
Della prima età sostiene di non poter scrivere molto poiché mancano documenti
su cui basarsi. Infatti quei bestioni non conoscevano la scrittura e, poiché
erano muti, si esprimevano a segni o con suoni disarticolati. L'età degl’eroi ha
inizio dall'accomunarsi di genti che trovavano così reciproco aiuto e sostegno
per la sopravvivenza. Sorsero la città guidata dalle prime organizzazioni
politiche dei signori, gl’eroi che con la forza e in nome della ragion di
stato, conosciuta solo da loro, comandano su i servi che, quando rivendicano i
propri diritti, si ritrovarono contro i signori che, organizzati in ordini
nobiliari, danno vita allo stato aristo-cratico che caratterizza il secondo
periodo della storia umana. In questa seconda, dove predomina la
fantasia, nasce il linguaggio dai caratteri mitici e poetici. Infine, la
conquista dei diritti civili da parte dei servi dà luogo alla età degl’uomini e
alla formazione del stato popolari (res pubblica) basato sul diritto umano
dettato dalla ragione umana tutta spiegata. Sorge quindi uno stato non
necessariamente demo-cratico ma che puo essere pure monarchico poiché
l'essenziale è che rispetta la ragione naturale, che eguaglia tutti. La legge
delle tre età costituisce la storia ideale eterna sopra la quale corrono in
tempo le storie di nostra nazione. Il popolo conforma il suo corso storico a
questa legge che non è solo delle genti ma anche di ogni singolo uomo che
necessariamente si sviluppa passando dal primitivo senso nell'infanzia, alla
fantasia nella fanciullezza, e infine alla ragione nell'età adulta. Gl’uomini
prima sentono senza avvertire. Dappoi avvertiscono con animo perturbato e
commosso. Finalmente riflettono con mente pura. Se nella storia pur tra le
violenze, i disordini, appare un ordine e un progressivo sviluppo ciò è dovuto all'azione
della provvidenza che immette nell'agire dell'uomo un principio di verità che
si presenta in modo diverso nelle tre età. Nella prima età degl’eroi, il vero
si presenta come certo gl’uomini che non sanno il vero delle cose procurano
d'attenersi al certo, perché non potendo soddisfare l'intelletto con la
scienza, almeno la volontà riposi sulla coscienza. Questa certezza non viene
all'uomo attraverso una verità rivelata ma da una constatazione di senso
comune, condivisa da tutti, per cui vi è un giudizio senz'alcuna riflessione,
comunemente sentito da tutto un ordine, da tutto un popolo, da tutta una
nazione o da tutto il genere umano. Vi è poi, nella seconda età della storia e
dell'uomo, caratterizzata dalla fantasia, un sapere tutto particolare che V.
define poetico. In questa età nasce infatti il linguaggio non ancora razionale
ma molto vicino alla poesia che alle cose insensate dà senso e passione, ed è
proprietà dei fanciulli di prender cose inanimate tra le mani e,
trastullandosi, favellarvi, come se fussero, quelle, persone vive. Questa
degnità filologica-filosofica ne appruova che gl’uomini del mondo fanciullo,
per natura, furono sublimi poeti. Se vogliamo quindi conoscere la storia del
antico popoli romano dobbiamo rifarci ai miti che hanno espresso nella loro
cultura. Il mito o la leggenda infatti non è solo una favola e neppure una
verità presentata sotto le spoglie della fantasia ma è una verità di per sé
elaborata dagl’antichi che, incapaci di esprimersi razionalmente, si servano di
universali fantastici che, sotto spoglie poetiche, presentano modelli ideali
universali. I antichi romani non definano razionalmente la prudenza ma
raccontarono di ENEA, modello universale fantastico dell'uomo prudente. V.
si dedica poi a definire la poesia che innanzitutto è autonoma come forma
espressiva differente dal linguaggio tradizionale. I tropi della poesia come la
metafora, la metonimia, e la sineddoche, sono stati erroneamente ritenuti
strumenti estetici di abbellimento del linguaggio razionale di base. Invece, la
poesia è una forma espressiva naturale e originaria i cui tropi sono necessari
modi di spiegarsi della nazione romana poetica. La poesia ha una funzione
rivelativa, custodisce le prime immaginate verità dei primi uomini. La lingua
romana non ha quindi un'origine convenzionale. Questo presupporrebbe un uso
tecnico. Ma la lingua romana sorge invece spontaneamente come poesia. Poiché il
linguaggio e i miti costituiscono la cultura originaria e spontanea di tutto il
popolo romano, arriva alla discoverta dell’epica, l'espressione del patrimonio
culturale comune di tutto il popolo romano. È comunque da respingere la
interpretazione platonica dell’epica come filosofia, -- l’epica e fornita di
una sublime sapienza riposte. Farsi intendere da volgo fiero e selvaggio non è
certamente opera d'ingegno addomesticato ed incivilito da alcuna filosofia. Né
da un animo da alcuna filosofia umanato ed impietosito potrebbe nascer quella
truculenza e fierezza di stile, con cui descrive tante, sì varie e sanguinose
battaglie, tante sì diverse e tutte in istravaganti guise crudelissima spezie
d'ammazzamenti, che particolarmente fanno tutta la sublimità dell'epica romana.
La sapienza antica ha per contenuto principi di giustizia e ordine necessari
per la formazione di popoli civili. Questi contenuti si esprimono in modi
diversi a seconda che siano formati dal senso o dalla fantasia o dalla ragione.
Questo vuol dire che la sapienza, la verità, si manfesta in forme diverse
storicamente ma che essa come verità eterna è al di sopra della storia che di
volta in volta la incarna. La verità della storia è una verità metafisica nella
storia. Nella storia si attua la mediazione tra l'agire umano e quello
divino: nel fare umano si manifesta il vero divino e il vero umano si
realizza tramite il fare divino: la provvidenza, legge trascendente della
storia, che opera attraverso e nonostante il libero arbitrio dell'uomo. Questo
non comporta una concezione necessitata del corso della storia poiché è vero
che la provvidenza si serve degli strumenti umani, anche i più rozzi e
primitivi, per produrre un ordine ma tuttavia questo rimane nelle mani
dell'uomo, affidato alla sua libertà. La storia quindi non è determinata come
sostengono gli stoici e gl’epicurei che niegano la provvedenza, quelli
facendosi strascinare dal fato, questi abbandonandosi al caso», ma si sviluppa
tenendo conto della libera volontà degli uomini che, come dimostrano i ricorsi,
possono anche farla regredire. Gl’uomini prima sentono il necessario; dipoi
badano all'utile; appresso avvertiscono il comodo; più innanzi si dilettano nel
piacere; quindi si dissolvono nel lusso; e finalmente impazzano in istrapazzar
di sostanze. A questa dissoluzione delle nazioni pone rimedio l'intervento della
provvidenza che talora non può impedire la regressione nella barbarie, da cui
si genererà un nuovo corso storico che ripercorrerà, a un livello superiore,
poiché dell'epoca passata è rimasta una sia pur minima eredità, la strada
precedente. Paradossalmente la criticità del progresso storico appare proprio
con l'età della ragione, quando cioè questa invece dovrebbe assicurare e
mantenere l'ordine civile. Accade infatti che la tutela della provvidenza che
si è imposta agli uomini nei precedenti due stadi, ora invece deve ricercare il
consenso della ragione tutta spiegata che si sostituisce alla religione: Così
ordenando la provvedenza: che non avendosi appresso a fare più per sensi di
religione (come si erano fatte innanzi) le azioni virtuose, facesse la
filosofia le virtù nella lor idea. La ragione infatti, pur con la filosofia,
custode della legge ideale del vivere civile, con il suo libero giudizio, può
tuttavia incorrere nell'errore o nello scetticismo per cui si diedero gli
stolti dotti a calunniare la verità. La ragione non crea la verità,
poiché non può fare a meno dal senso e dalla fantasia senza le quali appare
astratta e vuota. Il fine della storia infatti non è affidato alla sola ragione
ma alla sintesi armonica di senso, fantasia e razionalità. La ragione poi è
ispirata dalla verità divina per cui la storia è sì opera dell'uomo, ma la
mente umana da sola non basta poiché occorre la provvidenza che indichi la
verità. La filosofia è succeduta alla religione ma non l'ha sostituita anzi
essa deve custodirla. Da tutto ciò che si è in quest'opera ragionato, è da
finalmente conchiudersi che questa Scienza porta indivisibilmente seco lo
studio della pietà, e che, se non siesi pio, non si può daddovero esser saggio.
Predicavano la ragione individuale, ed egli le opponeva la tradizione, la voce
del genere umano. Gl’uomini popolari, i progressisti di quel tempo, sono CAPUA,
DORIA, e CALOPRESO, che stano con le idee nuove, con lo spirito del secolo. Lui
e un re-trivo, con tanto di coda, come si direbbe oggi. La coltura europea e la
coltura italiana s'incontravano per la prima volta, l'una maestra, l'altra
ancella. Resiste. Era vanità di pedante? Era fierezza di grande uomo? Resiste a
Cartesio, a Malebranche, a Pascal, i cui pensieri sono lumi sparsi, a Grozio, a
Puffendorfio, a Locke, il cui saggio e la metafisica del senso. Resiste, ma li
studia più che facessero i novatori. Resiste come chi sente la sua forza e non
si lascia sopraffare. Accetta i problemi, combattea le soluzioni, e le cerca
per le vie sue, co' suoi metodi e coi suoi studi. E la resistenza della coltura
italiana, che non si lascia assorbire, e stava chiusa nel suo passato, ma
resistenza del genio, che cercando nel passato trovava il mondo moderno. E il
re-trivo che guardando indietro e andando per la sua via, si trova da ultimo in
prima fila, innanzi a tutti quelli che lo precedevano. Questa e la resistenza di
V. E un moderno e si sente e si crede antico, e resistendo allo spirito nuovo,
riceveva quello entro di sé. SANCTIS. Fintanto che e in vita la portata e la
ricezione critica del suo pensiero sono circoscritte quasi unicamente agl’ambienti
intellettuali della propria città, trovando poi un ben più vasto seguito. Affermatasi
la fama del pensiero vichiano, esso e conteso dalle più disparate correnti
filosofiche: dal pensiero cristiano -- nonostante l'iniziale rifiuto --, dagl’idealisti
-- dai quali fu proclamato precursore dell'immanentismo hegeliano --, dai
positivisti, e persino da diversi marxisti. V. è ben più di un semplice
filosofo tanto che in certi momenti della sua travagliatissima fama e
apprezzato prevalentemente per la sua filosofia del diritto, così come in altri
momenti e celebrato precursore della sociologia, della psicologia dei popoli, o
come campione fra i maggiori della filosofia della storia, mentre venne
ignorata la sua pur genialissima metafisica, che è ad un tempo il punto
d'arrivo e il presupposto logico di tutte le ricerche da lui condotte nei più
vari campi dell'operare umano. Il pensiero vichiano, le cui prime fonti
s'ispirano alla tradizione filosofica che permea l'ambiente partenopeo della
sua epoca, rappresenta un ponte. Nonostante V. non sia caratterizzato
dall'audacia innovatrice illuminista, il suo pensiero raggiunse – come nota ABBAGNANO
– alcuni risultati fondamentali che lo connettono a pieno titolo alla riforma.
Tuttavia, non può tacersi il carattere conservatore della sua filosofia
politico-religiosa, generato dal turbamento di chi, assistendo alla fine di un
mondo famigliare, non sa scoprire i segni del sorgere di un nuovo. Ciò è
dimostrato dalla giustapposizione del certo – ossia, il peso dell'autorità
della tradizione -- al vero – ossia, lo sforzo innovatore della ragione -- che
è il segno di una ricerca di equilibrio estranea all’illuminismo. A tali
conclusioni il pensiero vichiano e condotto dalla limitatezza della sua
gnoseologia e dalla polemica contro Cartesio, il quale professa, al contrario,
l'eliminazione di ogni limite gnoseologico. Altri saggi: “VI Orazioni
Inaugurali”: “De nostri temporis studiorum ratione”: “Orazione Inaugurale”;
“Proemium”; “Risposte al giornale dei letterati Prima risposta”; “Seconda
risposta”; “Institutiones oratoriae”; “De universis Juris”; “De universis juris
uno principio et fine uno liber unus - include “De opera proloquium”; “De
constantia jurisprudentis liber alter”; “ Notae in II libros, alterum De uno
universi juris principio et fine uno, alterum De constantia jurisprudentis”;
“Scienza nuova prima”; “Vici vindiciae”; “Vita di V. scritta da se medesimo,
(l'Autobiografia» (Supplemento») Scienza nuova seconda, De mente heroica,
Scienza nuova terza. Edizioni: Scritti storici, V., Scienza nuova, Scrittori
d'Italia, Bari, Laterza, V., Scienza nuova seconda. 1, Scrittori d'Italia, Bari,
Laterza, V., Scienza nuova seconda. Scrittori d'Italia, Bari, Laterza, V.,
Opere a cura di Nicolini, Laterza, Bari, Orazioni inaugurali, De studiorum
rationum, De antiquissima Italorum sapientia, Risposte al giornale dei
letterati; Diritto universale, Scienza nuova; Scienza nuova, Autobiografia,
Carteggio, Poesie varie; Scritti storici; Scritti vari e pagine disperse;
Poesie, Institutiones oratoriae. V., Opere filosofiche a cura di Cristofolini,
Firenze, Sansoni. V., Opere giuridiche a cura di Cristofolini, Firenze, Sansoni.
V., Institutiones oratoriae, testo critico, versione e commento a cura di
Crifò, Napoli, Istituto Suor Orsola Benincasa. Il pensiero vichiano rimase
quasi del tutto ignorato dalla cultura europea con una diffusione limitata
nell'Italia meridionale. Ancora in età romantica V. e poco conosciuto anche se
filosofi tedeschi come Herder, chiamato V. tedesco, e Hegel presentano delle
somiglianze con la dottrina vichiana per quanto riguarda il ruolo della storia
nello sviluppo della filosofia. La filosofia di V. comincia ad essere
conosciuta e apprezzata nel clima del romanticismo francese e italiano:
Chateaubriand e Maistre ma, soprattutto Michelet, “Principes de la
philosophie de l'histoire” (Parigi) diffonde il pensiero di V. di cui apprezza
la concezione della storia come sintesi di umano e divino. Comte e Marx
stimarono la filosofia della storia di V. Ma furono i filosofi italiani, come SERBATTI,
e soprattutto GIOBERTI, che videro in lui un maestro. Tommaseo, V. e il
suo secolo, rist. Torino mette in evidenza la grande affinità del pensiero
vichiano con quello di GIOBERTI. Carlo, “Istituzione Filosofica secondo i
Princìpj di V.” (Napoli, Cirillo). Nuove interpretazioni basate sul principio
vichiano del verum ipsum factum considerano V. un anticipatore del positivismo.
FERRARI, Il genio di V., rist. Carabba, CATTANEO, Sulla 'scienza nuova' di V.”
(Milano); CANTONI, “V.” (Torino); Siciliani, “Sul rinnovamento della filosofia
positiva in Italia” (Civelli Firenze). Viene rivalutato il legame stringente
fra il filosofo e l’illuminismo. Donati, “V., filosofo dell'Illuminismo” (Aracne).
Una spinta decisiva all'apprezzamento e alla diffusione del pensiero vichiano
come anticipatore di Kant e dell'idealismo, si ha in Italia a cominciare dagli
studi di SPAVENTA e SANCTIS iniziatori di quella corrente dottrinale
interpretativa che si ritrova soprattutto in CROCE e GENTILE, Studi
vichiani, Messina, rist. Sansoni Firenze che ne mette in luce le ascendenze neo-platoniche
e rinascimentali, rifiutandone nel contempo l'interpretazione positivista, e
interpretandone il verum ipsum factum in senso idealistico. Una forzatura
questa, secondo alcuni critici, ripresa da CROCE, “La filosofia di V.” (Laterza,
Bari) che ha soprattutto il merito di aver intuito in V. una definizione
dell'arte come attività autonoma dello spirito e della visione storicistica
dello sviluppo dello spirito da cui CROCE elimina ogni riferimento alla
trascendenza della provvidenza vichiana. Un'accurata ricerca storica su V.
e operata dal crociano Nicolini, “V.” (Laterza, Bari); Nicolini, “La
religiosità di V.” (Laterza, Bari); Nicolini, Commento storico alla seconda
'Scienza Nuova (Roma); Nicolini, Saggi vichiani (Giannini, Napoli); Nicolini, V. nella vita domestica. La moglie, i figli,
la casa” (Osanna Venosa). Contrari all'interpretazione immanentistica della provvidenza
vichiana sono gli studi di autori cattolici che ne mettono invece in risalto la
trascendenza: Chiocchietti, La filosofia di V., Vita e Pensiero, Milano,
Amerio, Introduzione allo studio di V., SEI, Torino, Bellafiore, “La dottrina
della provvidenza in V., Milani, Bologna, A. Mano, “Lo storicismo di V.” (Napoli);
Lanza, Saggi di poetica vichiana, Magenta, Varese, Il dibattito tra le
interpretazioni laiche e cattoliche su V. si è attenuato in periodi recenti
dove lo studio del pensiero vichiano si è dedicato a particolari aspetti della
sua dottrina: Fassò, I quattro auttori» del V.. Saggio sulla genesi della
Scienza nuova” (Milano, Giuffrè), non esistente. Fassò, V. e Grozio, Napoli,
Guida, Serra, Eredità e kenosi tematica della "confessio" cristiana
negli scritti autobiografici di V., in Sapientia, sulla concezione della storia
ad opera della quale avviene la conciliazione tra immanenza e trascendenza del
pensiero vichiano: Caponigri, Tempo e
idea, Pàtron, Bologna, sulla estetica vichiana gli studi più notevoli sono
quelli di Bianca, Il concetto di poesia in V., D'Anna, Messina, Prestipino, "La teoria
del mito e la modernità di V.", Annali della facoltà di Palermo, sugl’aspetti
giuridici e sociologici: Fabiani, La filosofia dell'immaginazione in V. e
Malebranche, Firenze, Donati, Nuovi
studi sulla filosofia civile (Firenze); Bellafiore, Il diritto naturale (Milano);
Pasini, Diritto, società e stato in V., Jovene, Napoli, Giannantonio,
"Oltre V. - L'identità del passato a Napoli e Milano (Carabba, Lanciano);
Leone, [rec. al vol. di] Giannantonio, "Oltre V. - L'identità del passato
a Napoli e Milano” (Carabba. Lanciano, in Misure critiche, La Fenice, Salerno,
e in "Forum Italicum", Wehle, Sulle vette di una ragione abissale: V.
e l'epopea di una 'Scienza Nuova'. In: Battistini e Guaragnella, V. e
l'enciclopedia dei saperi. - Lecce: Pensa multimedia (Mneme). Croce, La
filosofia di V., Bari, Laterza, Consiglia, Napoli, Editoria clandestina e
censura ecclesiastica a Napoli, in Rao, Editoria e cultura a Napoli, Napoli:
Liguori, Adorno, Gregory, Verra, Storia della filosofia, Laterza, V., La
scienza nuova (a cura di Rossi), Biblioteca Universale Rizzoli, V., Ferrari, La
scienza nuova (a cura di Rossi), Tip. de' Classici Italiani, Cioffi ed altri, I filosofi e le idee,
Mondadori, Armando, Sanna, Il Contributo italiano alla storia del Pensiero –
Politica, Enciclopedia Italiana Treccani, Adorno, Gregory, Verra, Storia della
filosofia (Laterza); Fassò, Storia della filosofia del diritto (Laterza); Abbagnano,
Storia della filosofia (L'Espresso); V., La scienza nuova (Rizzoli); V.,
Principj di scienza nuova, di V.: d'intorno alla comune natura delle nazioni, Amico, Nicolini,
V. nella vita domestica. La moglie, i figli, la casa, Osanna Venosa, V. Autobiografia,
ed. Nicolini (Bompiani, Milano); V., La scienza nuova (a cura di Rossi),
Rizzoli, Grozio, Prolegomeni al diritto della guerra e della pace (a cura di
Fassò), Morano, V., La scienza nuova (Rizzoli); Liccardo, Storia irriverente di
eroi, santi e tiranni di Napoli. V. che si era rivolto inutilmente per
sovvenzionare la stampa dell'opera prima al cardinale Orsini, poi a Papa
Clemente XII, e costretto a vendere un anello per farla pubblicare. V. scrisse
in seguito che, in fondo, l'accaduto era stato un bene poiché lo aveva spinto a
riscrivere l'opera in maniera più completa. Cfr. Fubini, V. Autobiografia (Torino
Einaudi). La prima redazione dell'opera, andata perduta, ha il titolo di
Scienza nuova in forma negative. L'Autobiografia e pubblicata
postuma ampliata con una modifica di V.. RIVISTA
DI STUDI CROCIANI, a cura della Società napoletana di storia patria, La fondazione
V. voluta da Marotta, presidente dell'Istituto Italiano per gli Studi
Filosofici, con sede nella Chiesa di S. Biagio Maggiore, Napoli, si occupa
della promozione del pensiero vichiano e della gestione di alcuni siti vichiani
come il castello Vargas di Vatolla (Salerno) e la Chiesa di S. Gennaro all'Olmo
in Napoli. V., Principi di una scienza nuova d'intorno alla comune natura delle
nazioni, a cura di Ferrari, Società tipografica de' Classici italiani, Milano. Candela,
L'unità e la religiosità del pensiero di V., Serafico, Inesatto è altresì che V.
terminasse di vivere a più di settantasei anni. Per contrario, manca ai vivi
nella notte e a settantacinque anni e sette mesi precisi, in La Letteratura
italiana: Storia e testi, V., Ricciardi. La storia di V., su napolit oday.
Secondo notizie di stampa diffuse resti della salma di V. sarebbero stati
recuperati nei sotterranei della chiesa napoletana. (Vedi: Corriere del Giorno:
Ritrovata la salma di V.? I ricercatori vanno cauti Archiviato in Internet
Archive. La notizia è stata comunque commentata con prudenza dagl’esperti. La
scienza nuova, Biblioteca Universale Rizzoli. Nicolini, V.: saggio biografico (Il
Mulino), CROCE, Nuovi saggi. Per una silloge di pensieri di MALVEZZI, Politici
e moralisti, ediz. CROCE-CARAMELLA, Bari, Laterza. V. nel perduto De equilibrio
corporis animantis espone una concezione secondo cui riponevo la natura delle
cose nel moto per il quale, come se fossero sottoposte alla forza di un cuneo,
tutte le cose vengono spinte verso il centro del loro stesso moto e, invece,
sotto l'azione di una forza contraria, vengono respinte verso l'esterno; e
sostenni anche che tutte le cose vivono e muoiono in virtù di sistole e diastole.
Secondo un'ipotesi di Croce e Nicolini l'opera e stata concepita come appendice
al “Liber Physicus” ed e donata in forma manoscritta al suo grande amico,
Aulisio. La trattazione di quella teoria di ispirazione cartesiana e pre-socratica
venne poi inserita più ampiamente nella Vita. Toma, Ecco l'origine
delle scienze umane: aspetti retorici di una contesa intorno al De antiquissima
italorum sapienti, Bollettino del CENTRO DI STUDI VICHIANI (Roma: Edizioni di
storia e letteratura). Opere, Sansoni, Firenze -- è considerato da
alcuni interpreti della sua filosofia come il primo ‘costruttivista’. Infatti, V.
sostiene che l'uomo può conoscere solo ciò che può costruire, aggiungendo poi
che in effetti solo il divino conosce veramente il mondo, avendolo creato lui
stesso. Il mondo quindi è esperienza vissuta e al suo riguardo non vale per gl’uomini
alcuna pretesa di verità ontologica. Watzlawick, La realtà inventata (Milano,
Feltrinelli) Per V. la filologia non è solo la scienza del
linguaggio ma anche storia, usi e costumi, e religioni dei popoli antichi.
L'età degli dei nella quale gl’uomini gentili credettero vivere sotto divini
governi, e ogni cosa esser loro comandata con gli auspici e gli oracoli, che
sono le più vecchie cose della storia profana: l'età degli eroi, nella quale
dappertutto essi regnarono in repubbliche aristocratiche, per una certa da essi
rifiutata differenza di superior natura a quella de’ lor plebei. Finalmente,
l'età degl’uomini, nella quale tutti si riconobbero esser uguali in natura
umana, e perciò vi celebrarono prima le repubbliche popolari e finalmente le monarchie,
le quali entrambe sono forma di governi umane. V., Scienza Nuova, Idea
dell'Opera. La RAGION DI STATO non è naturalmente conosciuta da ogni uomo ma da
pochi pratici di governo. Degnità. Sull'immaginazione nei primitivi secondo la
filosofia vichiana si veda: Fabiani, La filosofia dell'immaginazione in V. e
Malebranche, La rivendicazione dell'assoluta autonomia dell'arte e della poesia
nei confronti delle altre attività spirituali e uno dei meriti che CROCE riconosce
al pensiero vichiano. V. critica tutt'insieme le tre dottrine della poesia come
esortatrice e mediatrice di verità intellettuali, come cosa di mero diletto, e
come esercitazione ingegnosa di cui si possa senza far danno fare a meno. La
poesia non è sapienza riposta, non presuppone logica intellettuale, non
contiene filosofemi. I filosofi che ritrovano queste cose nella poesia, ve le
hanno introdotte essi stessi senza avvedersene. La poesia non è nata per
capriccio, ma per necessità di natura. La poesia tanto poco è superflua ed
eliminabile, che senza di essa non sorge il pensiero: è la prima operazione
della mente umana. CROCE, La filosofia di V. -- qual era quello dei tempi
d'Omero. V., Scienza Nuova, Conclusione Nel senso di pietas,
sentimento religioso. V., La scienza nuova (Biblioteca Universale
Rizzoli). CROCE NICOLINI Storicismo Filosofia della storia Filologia. su
Treccani – Enciclopedie, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Enciclopedia
Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. V., in Dizionario di storia,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. V., su sapere, De Agostini. V., su
Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Battistini, V., in
Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Bertland, La Scienza nuova su letteratura italiana Opere, su biblioteca italiana
integrali in più volumi dalla collana
"Scrittori d'Italia" Laterza, Fabiani, La filosofia
dell'immaginazione in V., su academia, Firenze, Pellegrino, 'La concezione
della storia di V., su centro studi LA RUNA it. CENTRO DI STUDI VICHIANI, su
Consiglio nazionale delle ricerche. Fondazione V., su Fondazione gbV. Portale V.,
su giambattist aV.. u treccani., in Il contributo italiano alla storia del
Pensiero, Filosofia, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, V., Principj di
una scienza nuova di V.: d'intorno alla comune natura delle nazioni, Tip. di A.
Parenti. Italian
philosopher. Grice: “The Italians revere him so much that his emblem is on one
of their stamps!”“It would be as having Ryle on one of ours!” V.: He is so beloved by the
Italians “that they made a stamp of him.”Grice. cited by H. P. Grice, “V. and
the origin of language.” Philosopher who founded modern philosophy of history,
philosophy of culture, and philosophy of mythology. He was born and lived all
his life in or near Naples, where he taught eloquence. The Inquisition was a
force in Naples throughout V.’s lifetime. A turning point in his career was his
loss of the concourse for a chair of civil law. Although a disappointment and
an injustice, it enabled him to produce his major philosophical work. He was
appointed royal historiographer by Charles of Bourbon. V.’s major work is “La
scienza nuova” completely revised in a second, definitive version.
He published three connected works on jurisprudence, under the title Universal
Law; one contains a sketch of his conception of a “new science” of the historical
life of nations. V.’s principal works preceding this are On the Study Methods
of Our Time, comparing the ancients with the moderns regarding human education,
and On the Most Ancient Wisdom of the Italians, attacking the Cartesian
conception of metaphysics. His Autobiography inaugurates the conception of
modern intellectual autobiography. Basic to V.’s philosophy is his principle
that “the true is the made” “verum ipsum factum”, that what is true is
convertible with what is made. This principle is central in his conception of
“science” scientia, scienza. A science is possible only for those subjects in
which such a conversion is possible. There can be a science of mathematics,
since mathematical truths are such because we make them. Analogously, there can
be a science of the civil world of the historical life of nations. Since we
make the things of the civil world, it is possible for us to have a science of
them. As the makers of our own world, like God as the maker who makes by
knowing and knows by making, we can have knowledge per caussas through causes,
from within. In the natural sciences we can have only conscientia a kind of
“consciousness”, not scientia, because things in nature are not made by the
knower. V.’s “new science” is a science of the principles whereby “men make
history”; it is also a demonstration of “what providence has wrought in
history.” All nations rise and fall in cycles within history corsi e ricorsi in
a pattern governed by providence. The world of nations or, in the Augustinian
phrase V. uses, “the great city of the human race,” exhibits a pattern of three
ages of “ideal eternal history” storia ideale eterna. Every nation passes
through an age of gods when people think in terms of gods, an age of heroes
when all virtues and institutions are formed through the personalities of
heroes, and an age of humans when all sense of the divine is lost, life becomes
luxurious and false, and thought becomes abstract and ineffective; then the
cycle must begin again. In the first two ages all life and thought are governed
by the primordial power of “imagination” fantasia and the world is ordered
through the power of humans to form experience in terms of “imaginative
universals” universali fantastici. These two ages are governed by “poetic
wisdom” sapienza poetica. At the basis of V.’s conception of history, society,
and knowledge is a conception of mythical thought as the origin of the human
world. Fantasia is the original power of the human mind through which the true
and the made are converted to create the myths and gods that are at the basis
of any cycle of history. MICHELET was the primary supporter of V.’s ideas. He
made them the basis of his own philosophy of history. COLERIDGE is the principal
disseminator of V.’s views in England. Joyce uses the New Science as a
substructure for Finnegans Wake, making plays on V.’s name, beginning with one
in Latin in the first sentence: “by a commodius vicus of recirculation.” CROCE
revives V.’s philosophical thought, wishing to conceive V. as
the Hegel. V.’s ideas have been the subject of analysis by such
prominent philosophical thinkers as Horkheimer and Berlin, by anthropologists
such a Leach, and by literary critics such as Wellek and Read. Refs.: S. N.
Hampshire, “V.,” in The New Yorker. Luigi Speranza, “V. alla Villa Grice.” H.
P. Grice, “V. and language.” Danesi, Metaphor,
and the Origin of Language. Serious
scholars of V. as well as glotto-geneticists will find much of value in this
excellent monograph. V. Studies. A provocative, well-researched argument which
might find re-application in philosophy. Theological Book Review. DANESI
returns to V. to create a persuasive, original account of the evolution and
development of the Italian language, one of the deep mysteries of Italians. V.’s
reconstruction of the origin of language is described and evaluated in light of
Grice’s philosophical conversational pragmatics. Keywords: V. e la filosofia romana,
V., VARRONE, storia della linguistica, storia della rhetorica, glotto-genesi, la
ricostruzione di V., The New Science Basic Notions. Language
and the Imagination: V.’s Glottogenetic Scenario; V.’s Approach; Reconstructing
the Primal Scene; After the Primal Scence; the dawn of communication: iconicita
e mimesi, hypotheses The Nature of Iconicity. Imagery, Iconicita e gesto.
Iconic Representation. Osmosis Hypothesis Ontogenesis From Percept al concetto.
The Metaphoricity Metaphor metafora; Metaphor and Concept-Formation Mentation,
Narrativity, e mito; the socio-biological-Computationist Viewpoint:A Vichian
Critique; The Vichian Scenario Revisited; Revisting the Genetic Perspective;
computationism. SAGGI FILOSOFICI ii V. CROCE LA
FILOSOFIA DI V. BARI LATERZA TI
l'OQ KAFI-KDITOBI-LIHK AI Stampato in Trani, coi tipi dolla
Ditta Tipografica Editrice Vecchi.ifs
V4GV0X WINDELBAND Per quali ragioni a Croce è sembrata necessaria una esposizione
della filosofia di V. puo agevolmente desumersi dai cenni sulla fortuna di
questo filosofo e dalle notizie bibliografiche, che si leggono nella seconda e
terza appendice. Qui occorre avvertire soltanto che l’esposizione di Croce. non vuol essere un riassunto saggio per saggio e
parte per parte dei saggi di V.; e, anzi, presuppone la conoscenza di questi saggi
e, ove manchi, vuol eccitare il lettore a procacciarsela per meglio seguire, e
per riscontrare, l’interpetrazioni ed i giudizi che gli vengono offerti da
Croce. Su questo presupposto, pur valendomi assai spesso (specialmente nei capitoli relativi alla storiografia) delle
parole testuali di V., Croce non crede opportuno virgoleggiarle (salvo dove
piace a Croce dare risalto alla precisa espressione originale), perché, avendole
di solito combinate da brani sparsi nei più vari luoghi e ora abbreviate ora
allargate e sempre frammischiate liberamente con parole e frasi di Croce
di commento, il continuo virgoleggiarle è
stato un mettere in mostra, con più di fastidio che d’utilità, il rovescio del ricamo
di Croce, che ciascuno puo osservare da sé, quando ne ha voglia, col sussidio
dei rimandi che Croce mette in fondo al saggio. Desideroso d’attestare, per
quanto è possibile a Croce, in ogni particolare del suo saggio, la reverenza che si deve al gran nome di V., Crice è studiato
d’essere breve, di quella brevità che V. considera quasi suggello di saggi
scientifici ben meditati. Al qual uopo Croce sacrifica anche le discussioni coi
singoli interpetri, contentandosi di semplici accenni. Del resto, parte dell’interpetrazioni
esposte sembrano a Croce frutti dell’indagini e controversie che costituiscono la migliore letteratura di
e su V.; e tutta quell'altra parte, che è personale di Croce, e l'idea stessa
generale del suo saggio, difende a suo tempo, se è il caso, contro i
dissenzienti e gl’obiettanti, nel modo diretto che nel corso dell'esposizione Croce
non stima d’adoperare. Perché Croce spera che il suo saggio ha l'effetto non
già di spegnere ma di raccendere le discussioni
intorno alla filosofia di V. Di questo altvater, come lo chiama Goethe, che è
fortuna per un popolo possedere, e al quale bisognerà sempre fare capo per SENTIRE
ITALIANAMENTE la filosofìa, pur pensandola cosmopoliticamente. La dedica del lavoro
(oltre a essere omaggio a uno dei maggiori maestri della storia della filosofia) vuol esprimere
l'augurio e la speranza che venga presto riempita, in tale storia, la lacuna,
sulla quale richiama l'attenzione più volte, e specialmente alla fine della
seconda dell’appendici del volume. Raiano, Aquila. L'augurio espresso nell’ultime
linee dell’avvertenza ha compimento, e non solo Windelband da luogo alla filosofia di
V. nella sua Storia della filosofìa (Leipzig), ma il saggio di Croce è
subito tradotto in francese, e altre versioni se ne preparavano, e fiorisceno l’indagini
e le discussioni, quando la guerra sopravvenne a sospendere quella ripresa di
studi e la divulgazione dell'opera di V. fuori d'Italia. Non si per altro che,
durante la guerra e in relazione ad
essa, i concetti di V. non sono qua e là richiamati per dominare col pensiero
il corso delle cose; e li richiama, tra gl’altri, lo stesso Windelband, nel suo
saggio, che è una lezione di guerra sulla filosofia della storia. L’edizione
contiene piccole correzioni, schiarimenti e aggiunte, ed è messa al corrente
nella parte bibliografica. La tavola dei rinvìi
ai testi di V. è resa più precisa, e in ciò, come nella revisione
generale, Croce ha l'amichevole aiuto di NICOLINI, benemerito editore della
Scienza nuova. Circa la concezione e il metodo del saggio non ha alcun
cangiamento d’introdurre né pentimento da
manifestare: sebbene da più parti mi sia stata rivolta la facile ma
superflcialissima critica, che
l'interpretazione di V. vi è tutta compenetrata
dal proprio pensiero filosofico di Croce, e perciò non è oggettiva. In
verità, chi voglia conoscere davvero V. deve leggere e meditare i saggi del V.;
e questo è indispensabile, e questa è la sola oggettività possibile: non la cosiddetta
esposizione oggettiva che altri ne faccia, e che non potrebbe riuscire se non lavoro estrinseco e materiale.
L'esposizione, invece, storica e critica d’un filosofo ha una diversa e più
alta oggettività, ed è necessariamente il dialogo tra un'antico e un nuovo
pensiero, nel quale solamente l'antico pensiero viene inteso e compreso. E tale
è, o procura d’essere, il saggio di Croce. Che cosa avrei potutoi ntendere
Croce di V., se non mi fossi travagliato
su problemi strettamente congiunti ai suoi o derivanti da quelli suoi? Per questa ragione anche non posso dare
importanza all'opposizione che mi è venuta d’egregi scrittori cattolici, i
quali è naturale che vedano le cose con occhi diversi dai miei. Ciò che, per
altro, non mi sembra logico, è il loro sforzo di ridurre V. a filosofo ortodosso; nel quale sforzo urtano
inevitabilmente in due gravi difficoltà. In primo luogo essi vengono a trovarsi
di fronte all'impossibilità di spiegare perché mai V., che, a loro giudizio,
non fa altro che ripetere o rinfrescare i concetti della tradizione filosofica,
sia sembrato e sembri tanto originale e rivoluzionario, e sia andato tanto
a genio ai filosofi. E parimente, in secondo luogo, si tolgono il modo di
spiegareT avversione che per lui provarono i cattolici del suo secolo e taluno
insigne del secolo seguente, come, per
es., BALBO (vedsi), che lo senti estraneo alla scienza. E questo basti
aver detto, perché, riguardoso come credo d'esser sempre stato verso i
cattolici, non perciò polemizzerei mai
con essi, stimando la cosa tanto poco utile, quanto utile e doveroso è, per me,
tirare innanzi per la mia via. Napoli. La prima forma della dottrina di V.
sulla conoscenza si presenta come diretta critica e antitesi del pensiero
cartesiano, che da oltre mezzo secolo da l'indirizzo generale allo spirito
europeo ed era destinato a dominare
ancora per un secolo le menti e gli animi. Cartesio colloca f ideale della scienza perfetta nella
geometria, sul modello della quale intende a riformare la filosofia e ogni altra
parte del sapere. E poiché il metodo geometrico perviene mercé l'analisi a
verità intuitive, e da queste muove dipoi per ottenere con deduzione sintetica
sempre più complesse affermazioni, la
filosofia, per procedere con rigore di scienza, dove, a mente di Cartesio,
cercare anch'essa il fermo punto d'appoggio in una verità primitiva e
intuitiva, dalla quale deduce tutte le sue ulteriori affermazioni, teologiche,
metafisiche, fisiche e morali. L'evidenza, la percezione o idea chiara e
distinta – H. P. Grice, “Descartes on clear and distinct ideas” -- era, dunque,
criterio supremo; e l'inferenza
immediata, l'intuitiva connessione del
pensiero coll'essere, del cogito col sum, porge la prima verità e la base pella
scienza. Con la percezione chiara e distinta, e col dubbio metodico che conduce
al cogito, Cartesio si argomenta di sconfiggere una volta per sempre lo
scetticismo. Ma, per ciò stesso, tutto
quel sapere non ancora ridotto o non riducibile a percezione chiara e distinta
e a deduzione geometrica, perde ai suoi occhi valore e importanza. Tale la
storia, che si fonda sulle testimonianze; l'osservazione naturalistica, non
ancora matematizzata; la saggezza pratica e l'eloquenza, che si valgono
dell'empirica conoscenza del cuore
umano; la poesia, che offre immagini fantastiche. Piuttosto che un
sapere, codesti prodotti spirituali erano per Cartesio illusioni e torbide
visioni: idee confuse, destinate o a farsi chiare e distinte e perciò a svestire
la loro anteriore forma d'esistenza, o a trascinare un'esistenza miserabile,
indegna dell'attenzione del filosofo. La
luce solare del metodo matematico
rende superflue le fiammelle che sono di guida nelle tenebre e proiettano
sovente ombre ingannatrici. Ora V. non si restringe e non s’attarda, come altr’avversari
di Cartesio, a prendere scandalo pelle conseguenze del metodo soggettivo,
pericoloso alla religione; o a disputare scolasticamente se il cogito sia o non
sia un sillogismo, e se come sillogismo
sia o no difettoso; o a protestare con l'offeso buon senso contro il disprezzo
cartesiano verso la storia, l'oratoria e la poesia. Egli va diritto al cuore
della questione, al criterio stesso stabilito da Cartesio per la verità
scientifica, al principio dell'evidenza; e dove il filosofo gallo stima d’aver fornito
tutto quanto si potesse richiedere pella
scienza più rigorosa, V. osserva che,
posta l'esigenza alla quale s'intende soddisfare, in realtà, col metodo
raccomandato, s’ottene ben poco o addirittura nulla. Bella scienza, dice V., è
codesta dell'idea chiara e distinta! Ch'io pensi quel ch'io penso è, si, cosa
indubitabile, ma non mi ha punto l'aria d’una proposizione scientifica. Ogni idea, per erronea che sia,
può apparire evidente; e, non perché a me appaia tale, acquista virtù di
scienza. Che se si pensa, si è anche, era cosa nota persino al Sosia di Plauto,
che esprime questa sua persuasione quasi colle stesse parole della
filosofia cartesiana. SED QVOM COGITO
EQVIDEM CERTO SVM. Ma lo scettico replica
sempre ai Sosì e ai Cartesì, che egli non dubita di pensare; professa anzi
asseverantemente che quel che a lui sembra scorgere è certo, e lo sosterrà con
ogni sorta di cavilli; e che non dubita d’essere, anzi cura d’esser bene, mercé
la sospensione dell'assenso, per non aggiungere ai fastidì delle cose gl’altri
provenienti dall’opinioni. Ma, nell'affermare
cosi, sosterrà insieme che la certezza del suo pensare e del suo essere
è coscienza e non scienza; ed è coscienza volgare. Tanto poco la chiara e
distinta percezione è scienza, che da quando, per effetto del cartesianismo,
essa viene adoperata nella fisica, la conoscenza delle cose naturali non è
divenuta punto più sicura. Cartesio spicca un salto per sollevarsi dalla coscienza volgare alla
scienza; ed è ricaduto di piombo in quella coscienza, senza raggiungere la
scienza agognata. Ma in che cosa la verità scientifica consiste, poiché
certamente non consiste nella coscienza immediata? In che la scienza differisce
dalla semplice coscienza? Qual è il criterio, o, in altri termini, quale la
condizione che rende possibile la
scienza? Colla chiarezza e colla distinzione non si muove un sol passo; coll'affermazione
d’un primo vero non si risolve il problema, che non è già circa un primo vero,
ma circa la forma che la verità deve avere perché possa essere riconosciuta
verità scientifica, ossia verità vera. V. risponde a questa domanda, e
giustifica la sua accusa d'
insufficienza al criterio cartesiano, col ricorrere a una proposizione che, a
bella prima, potrebbe dirsi ovvia e tradizionale. Tradizionale non in conseguenza
della tesi storica colla quale V.
l'accompagna e che egli stesso poi ebbe a rifiutare, cioè che quella
proposizione risalga a un'ANTICHISSIMA SAPIENZA ITALICA; ma nel senso che essa era comune e quasi intrinseca al
pensiero. Nulla di più familiare, infatti, a un italiano, il quale recita ogni
giorno il suo credo in un dio onnipotente, onnisciente e creatore del cielo e
della terra, dell'affermazione che solo Dio può avere scienza piena delle cose,
perché egli solo ne è l'autore. Il primo vero, ripete V., è in Dio, perché Dio
è il primo fattore; ed è vero infinito
perché egli è fattore delle cose tutte, esattissimo perché rappresenta a lui gl’elementi
cosi esterni come interni delle cose, le quali egli contiene tutte in sé.
Questa medesima proposizione circola nelle scuole, specie, a quanto sembra,
presso scotisti e occamisti, e, nel rinascimento, FICINO l'asseriva nella
Theologia platonica, dicendo che la
natura, opera divina, produce le sue cose con vive ragioni dall'intrinseco,
come la mente del geometra dall'intrinseco fabbrica le sue figure; e CARDANO
ripete che tale è la vera scienza, la scienza divina, quaì res facit, e che di
essa tra le umane rende immagine la sola geometria; e lo scettico Sanchez, nel
Quod nihil scltur, ricorda che non può
perfecte cognoscere quis quaì non creavit, nec Deus creare potuisset nec creata
regere quce non perfecte prcecognovisset; ipse ergo, solus sapientia, cognitio,
intellectus perfectus, omnia penetrai, omnia sapit, omnia cognoscit, omnia
intelligit, quia ipse omnia est et in omnibus, omniaque ipse sunt et in ipso.
Ma il [Si veda per le origini il saggio di CROCE: Le fonti della
gnoseologia di V., cit. nell'append. bibliografica. Sul concetto di Sanchez, Opera
medica, ed. di Tectosagum] richiama l'attenzione Windelband, Gesch. d. Philosophie.]
V. non si restringe ad affermazioni incidentali e, intendendo pel primo la
fecondità del concetto espresso in quella proposizione, dall'elogio dell'infinita potenza e sapienza
di Dio e dal raffronto con quella limitata dell'uomo ricava, contro Cartesio,
il principio gnoseologico universale, che la condizione per conoscere una cosa
è il farla, e il vero è il fatto stesso: verum ipsum factum. Non altro che
codesto si vuol dire, egli chiarisce, quando s’afferma che la scienza è
peiccnisas scire, perché la cagione è
quel che per produrre l'effetto non ha bisogno di cosa estranea, è il genere o
modo d’una cosa: conoscere la cagione è saper mandare ad effetto la cosa,
provare dalla causa è farla. In altri termini, è rifare idealmente quel che si
è fatto e si fa praticamente. La cognizione e l'operazione debbono convertirsi
tra loro, come in Dio intelletto e
volontà si convertono e fanno tutt'uno. Senonché, stabilito nella connessione
del vero e del fatto l'ideale della scienza, e, poiché l'ideale è la vera
realtà, conosciuta la natura vera della scienza, la prima conseguenza che da
questo riconoscimento deve trarsi è quella stessa che ne traevano i platonici e
gli scettici del rinascimento,
l'impossibilità della scienza pell'uomo. Se Dio crea le cose, Dio solo
le conosce per cause, egli solo ne conosce i generi o modi, ed egli solo ne ha
la scienza. Forse che l'uomo ha esso creato il mondo? ha esso creato la propria
anima? All'uomo non è data la scienza, ma la sola coscienza, la quale per
l'appunto volge sulle cose di cui non si può
dimostrare il genere o forma onde si fanno. La verità di coscienza è il
lato umano del sapere divino, e sta a questo come la superficie al solido:
piuttosto che verità, dovrebbe dirsi CERTEZZA – H. P. Grice: objective It is
certain that p; subjective, I am certain that p – Intention and UNcertainty. A
Dio l' ìntelligere, all'uomo il solo cogitare, il pensare, l'andare raccogliendo gl’elementi
delle cose, senza poterli mai raccogliere tutti. A Dio il vero dimostrativo;
all'uomo le notizie non dimostrate e non scientifiche, ma o CERTE PER SEGNI INDUBITATI
O PROBABILI per forza di buoni raziocini o verisimili pel sussidio di potenti
congetture. Il certo, la verità di coscienza, non è scienza, ma non perciò è il falso. E V. si guarda bene
dal chiamare false le dottrine di Cartesio: egli vuole soltanto degradarle da
verità compiute a verità frammentarie, da scienza a coscienza. Tatt'altro che
falso è il cogito ergo sum: il trovarsi finanche sulla bocca del Sosia plautino
è argomento non per rigettarlo, anzi per accettarlo, ma come verità di semplice coscienza. Il pensare, non essendo
causa del mio essere, non induce scienza del mio essere; se l'induce, essendo
l'uomo, secondo che i cartesiani ammettono, mente e corpo, il pensiero sarebbe
causa del corpo; il che ci avvolgerebbe tra tutte le spine e gli sterpi delle
dispute circa l'azione della mente sul corpo e del corpo sulla mente. Il cogito è, dunque, UN MERO SEGNO O INDIZIO del
mio essere: nient'altro. L'idea chiara e distinta non può dare criterio, non
pure delle altre cose ma della mente medesima, perché la mente in quel suo
conoscersi non si fa, e, poiché non si fa, ignora il genere o modo onde si
conosce. Ma l'idea chiara e distinta è quel che solo è concesso allo spirito dell'uomo, e, come unica ricchezza ch'egli
abbia, preziosissima. Anche per V. la metafisica serba il primato fra le
scienze umane, che tutte derivano da lei; ma laddove per Cartesio essa può
procedere con sicuro metodo di dimostrazione pari a quello geometrico, per V.
deve contentarsi del probabile, non essendo scienza per cause ma di cause. E
del probabile si contentò ai suoi bei
tempi, nella Grecia antica, nella ROMA ANTICA DI CICERONE, e nell'Italia del
Rinascimento; e quando volle abbandonare il probabile e si empi la testa dei
fumi di quel detto fastoso: sapientem nihil opinavi, cominciò a turbarsi e a decadere. L'esistenza di Dio è certa, ma non è scientificamente
dimostrabile, e ogni tentativo di
dimostrazione è da considerare documento non tanto di pietà quanto piuttosto
d'empietà, perché, per dimostrare Dio, dovremmo farlo: l'uomo dovrebbe
diventare creatore – GRICE GENITORE -- di
Dio. Parimente bisogna ritenere vero tutto quello che ci è stato
rivelato da Dio, ma non domandare in qual modo sia vero, che è ciò che non potremo mai comprendere. Sulla verità
rivelata e sulla coscienza di Dio s’appoggiano le scienze umane e vi trovano la
loro norma di verità; ma il fondamento stesso è verità di coscienza e non di
scienza. Come V. abbassa le scienze che Cartesio prediligeva e coltiva, la
metafisica, la teologia, la fisica, cosi risolleva le forme di sapere che Cartesio aveva abbassate: la storia,
l'osservazione naturalistica, la cognizione empirica circa l'uomo e la società,
l'eloquenza e la poesia. 0, per meglio dire, non ha bisogno di sollevarle per
rivendicarle: dimostrato che le superbe verità della filosofia condotta con
metodo geometrico si riducono anch'esse a nient'altro che probabilità e
asserzioni aventi valore di seniplice
coscienza, la vendetta delle altre forme del sapere è, nell'atto stesso, bella
e compiuta, perché tutte si ritrovano ormai adeguate alla medesima altezza o
bassezza che si dica. L'idea di una scienza umana perfetta, che respinga da sé
un'altra indegna di questo nome perché fondata non sul ragionamento ma
sull'autorità, è chiarita illusoria.
L'autorità delle proprie e delle altrui osservazioni e credenze, l'opinione
generale, la tradizione, la coscienza del genere umano, vengono restaurate
nell'ufficio che hanno sempre avuto e che ebbero nello stesso Cartesio; il
quale, come suole accadere, disprezza quel che egli possede in gran copia e di
cui si era potentemente giovato, e, uomo
dottissimo, scredita la dottrina e l'erudizione, come chi si è nutrito può darsi il lusso di parlare con
disdegno del cibo che è già sangue nelle sue vene. La polemica di Cartesio
contro l'autorità si era provata, per alcuni rispetti, benefica, avendo scosso
la troppo vile servitù di star sempre sopra l'autorità. Ma che non regni altro
che il proprio individuale giudizio, che
si pretenda rifare da cima a fondo il sapere sulla propria individuale
coscienza, che si giunga, come fa Malebranche, ad augurare perfino di vedere
bruciati tutti i filosofi e di tornare alla nudità di Adamo; è una follia o,
per lo meno, un eccesso, dal quale conviene rifuggire nel giusto mezzo. E il
giusto mezzo è di seguire il proprio
giudizio, ma con qualche riguardo all'autorità; di congiungere insieme,
cattolicamente, la fede colla critica circoscritta dalla fede e giovevole alla
fede stessa: in modo conforme al carattere indelebile di mera probabilità che
ha il sapere o la scienza umana, in modo avverso all'indirizzo della riforma,
pel quale lo spirito interno di ciascuno si
fa divina regola delle cose che si devono credere. C'è, per altro, un
gruppo delle scienze cartesiane al quale par che V. riconosca, come i suoi predecessori del rinascimento, un posto
privilegiato; vale a dire, non di coscienza, ma di vera e propria scienza, non
nella certezza, ma nella verità: le discipline matematiche. Sono queste,
secondo lui, le sole conoscenze possedute dall'uomo in modo del
tutto identico a quello del sapere divino, e cioè perfetto e dimostrativo. E
non già, come Cartesio crede, per effetto del loro carattere d’evidenza.
L'evidenza, usata nelle cose fisiche e nelle agibili, non dà una verità della
stessa forza che nelle matematiche. Né le matematiche sono per sé evidenti:
con quale chiara e distinta idea si
potrebbe concepire che la linea consti di punti che non hanno parti? Ma il
punto impartibile, che non si può concepire nelle cose reali, si può, invece,
definire; e col DEFINIRE CERTI NOMI, l'uomo si crea gli eiementi delle
matematiche, coi postulati li porta all'infinito, con gli assiomi stabilisce
certe verità eterne, e con questi
infiniti e con questa eternità disponendo i loro elementi, egli fa IL VERO
CH’INSEGNA. La forza delle matematiche nasce, dunque, non dal criterio
cartesiano, ma appunto dall'altro enunciato da V.; non dall'evidenza, ma dalla
conversione del conoscere col fare: mathematica demonstramus, quia verum
facimus. L'uomo prende l'uno e lo
moltiplica, PRENDE IL PUNTO E LO DISEGNA, e crea i numeri e le grandezze che
egli conosce perfettamente perché opera sua. Le matematiche –PEANO -- sono
scienze operative, e non solo nei loro problemi, ma negli stessi teoremi, che
volgarmente si stimano cosa di mera contemplazione. Per tal ragione esse sono
anche scienze che dimostrano per cause,
contrariamente all'altra opinione volgare che esclude dalle matematiche il
concetto di causa; sono, anzi, le sole, tra le scienze umane, che davvero
provino per cause. Da questo procedere provengono le loro Verità meravigliose;
e tutto l'arcano del metodo geometrico consiste nel DEFINIRE PRIMA LE VOCI, e
cioè fare i concetti coi quali si abbia
a ragionare; poi stabilire alcune massime comuni, nelle quali colui col quale
si ragiona convenga; finalmente, se bisogna, domandare cosa che per natura si
possa concedere affine di poter dedurre i ragionamenti, i quali senza una
qualche posizione non verrebbero a capo; e con questi principi da verità pili
semplici dimostrate procedere fil filo
alle più composte, e le composte non affermare se prima non s’esaminino una per
una le parti che le compongono. Si
direbbe che V. sia circa il valore delle matematiche affatto d'accordo
con Cartesio, dal quale differisca soltanto nella fondazione di quel valore. E,
posto che la sua fondazione debba considerarsi più profonda, tanto più ne verrebbe rafforzato ed esaltato
l'ideale matematico, prefisso alla scienza da quello. Se l'unica conoscenza
perfetta che lo spirito umano raggiunga è quella matematica, è chiaro che sopra
essa bisogna sorreggersi e alla stregua d’essa modellare o giudicare l’altre. V.,
insomma, si sarebbe mosso per dare torto a Cartesio e gli avrebbe
procurato una migliore ragione che
quegli non sospetta. Ma, quantunque cosi sembri a prima vista, e cosi abbia
pensato qualche interpetre, osservando meglio si scorge che la gran perfezione
che V. attribuisce alle matematiche è più apparente che reale; che la sicurezza
che egli vanta di quel procedere, è, per sua medesima confessione, acquistata a
spese della realtà; e che, insomma, l'accento della
teoria non cade tanto sulla verità di quelle discipline quanto sulla loro
arbitrarietà. E in questo risalto dato al carattere d’arbitrarietà egli
differisce non solo dai ricordati filosofi del rinascimento, ma anche da BONAITUO
GALILEI e dalla sua scuola. L'uomo infatti, egli dice, andando attorno a investigare la natura delle cose, e accorgendosi finalmente
di non poterla in niun modo conseguire, perché non ha dentro di sé gl’elementi
onde sono composte, e, anzi, li ha tutti fuori di sé, è condotto via via a
volgere a profitto questo stesso vizio della sua mente; e con l'astrazione
(non, s'intende, coll'astrazione sulle cose materiali, perché V. NON ASSEGNA origine
empirica alle matematiche, ma coll'astrazione che s’esercita sugli enti
metafisici, si foggia due cose, duo sibi confingit: IL PUNTO DA DISEGNARE, e
l'unità da moltiplicare. Entrambi finzioni, utrumque ftctum, perché IL PUNTO DISEGNATO non è più
punto – Grice: CIRCLE AND CIRCLE IN PLATO -- e l'uno moltiplicato non è più
uno. Indi, da quelle finzioni, di proprio arbitrio, proprio iure – GRICE DEEM -- assume di procedere
all'infinito, sicché le linee si possano condurre nell'immenso, Si veda sulla
storia della gnoseologia delle matematiche fino a V. il
saggio di CROCE cit.] l'uno moltiplicare
pell'innumerabile. A questo modo costruisce per suo uso un mondo di forme e numeri, che egli abbraccia tutto
dentro di sé; e col prolungare, col tagliare, col comporre le linee, coll'aggiungere,
togliere e computare i numeri, fa infinite opere e conosce infiniti veri. Non
può definire le cose e DEFINISCE NOMI – GRICE ROBINSON --; non può attingere gl’elementi reali e si
contenta d’elementi immaginari –IL LATINO SINE FLEXIONE DI GRICE E PEANO –
DEUTERO LATINO SINE FLEXIONE --, dai quali sorgono idee che non ammettono
alcuna controversia. Simile a Dio, ad Del instar >, da nessun sostrato materiale, e quasi
dal niente, crea punto, linea, superficie: il punto che è posto come quello che
non ha parti; la linea come l'escurso del
punto, ossia la lunghezza priva di larghezza e di profondità; la
superficie, come l'incontro di due linee diverse in uno stesso punto, cioè la
lunghezza e la larghezza senza la profondità. Cosi le matematiche purgano il
vizio della scienza umana, di avere sempre le cose fuori di sé e di non aver
essa fatto ciò che vuole conoscere. Quelle fanno ciò che conoscono, hanno in sé medesime i loro
elementi e si configurano, perciò, a somiglianza perfetta della scienza divina
{sdentici divince similes evadunt. A chi legge queste e altrettali descrizioni
e celebrazioni da V. del procedere matematico, par d'avvertire come un'ombra
d'ironia, se non proprio intenzionale, certamente risultante dalle cose
stesse. La fulgida verità delle
matematiche nasce, dunque, dalla disperazione della verità; la loro formidabile
potenza dalla riconosciuta impotenza! La somiglianza dell'uomo matematico con
Dio non è troppo diversa da quella del contraffattore – the black front -- di
un'opera col suo autore: ciò che Dio ò nell'universo della realtà, l'uomo è,
si, nell'universo delle grandezze e dei
numeri, ma questo universo è popolato d’astrazioni e finzioni. La divinità
conferita all'uomo è, quasi, divinità da burla. Per effetto della diversa
genesi che V. ASSEGNA alle matematiche,
anche la loro efficacia viene assai ristretta. Le matematiche non stanno più,
come per Cartesio, al sommo del sapere umano, scienze aristocratiche – ma blue-collar – Grice -- ,
destinate a redimere e a governare le scienze subalterne; ma occupano una
cerchia, per quanto singolare, altrettanto ben circoscritta, fuori della quale
se mai esse si provano a uscire, pèrdono, d'un subito, ogni loro mirabile
virtù. Il potere delle matematiche incontra ostacoli a parte ante e a parte
post: nel loro fondamento e in quel che
a loro volta sono in grado di fondare. Nel loro fondamento, perché se creano i
loro elementi, cioè le finzioni iniziali, non creano la stoffa in cui queste
sono ritagliate, e che a esse, non meno che alle altre scienze umane, è fornita
dalla metafisica, la quale, non potendo dar loro il proprio soggetto, ne dà
certe immagini. Dalla metafisica la
geometria toglie il punto PER DISEGNARLO, cioè,
per annullarlo come
punto; e l'aritmetica l'uno per moltiplicarlo, cioè, per distruggerlo
come uno. E poiché la verità metafisica, per quanto certa appaia alla coscienza,
non è dimostrabile, le matematiche, in ultima analisi, riposano anch'esse
sull'autorità e sul probabile. Ciò basta
a svelare la fallacia d’ogni trattazione matematica che si tenti dalla
Metafisica. V. sembra ammettere una
specie di circolo tra geometria e metafisica, la prima delle quali riceve il
suo vero dalla seconda e, ricevutolo, lo rifonderebbe nella stessa metafisica,
confermando reciprocamente la scienza umana colla divina. Ma questo concetto, che è più
che contestabile e si può dichiarare senz'altro incoerente e contradittorio, richiama,
in ogni caso, l'uso metafisico, o piuttosto L’USO SIMBOLICO – Grice Austin
SYMBOLO -- e poetico che della
matematica fanno Pitagora a CROTONE e altri filosofi antichi e del
Rinascimento, e non ha nulla da vedere con una filosofia trattata
matematicamente al modo dei cartesiani o
Spinoza. La geometria sarebbe, a giudizio di V., l'unica ipotesi pella quale
dalla metafisica sia dato passare alla fisica e la FISIOLOGIA; ma rimarrebbe in
tale accezione un'ipotesi, una probabilità, qualcosa di mezzo tra la fede e la
critica, tra l' immaginazione di WARNOCK e il ragionamento, quale rimane sempre
la metafisica e, in genere, la scienza
umana, secondo il modo di vedere di V. in questa prima forma della sua
gnoseologia. Come non fondano la metafisica dalla quale anzi derivano, cosi le
matematiche – o LA GEOMETRIA e l’ARIMMETICA del quadrivio -- non sono neppure
in grado di fondare le altre scienze, che pure seguono a esse nell'ordine di
derivazione. Tutte le materie, diverse dai numeri e dalle misure, sono affatto
incapaci di metodo geometrico. La fisica – o la FISIOLOGIA -- non è
dimostrabile; se potessimo dimostrare le cose fisiche nella FISIOLOGIA, le
faremmo -- sì physica demonstrare possemus, faceremus. – GRICE ENGINEER E
GENITORE -- Ma non le facciamo e perciò non possiamo darne dimostrazione.
L'introduzione del metodo matematico nella fisica e nella FISIOLOGIA non ha
giovato a questa disciplina, che fa scoperte grandi senza quel metodo, e nessuna né grande né piccola ha
fatta mercé d’esso. La fisica o la FISIOLOGIA somiglia, in verità, a una casa
che gl’antenati hanno riccamente arredata
e di cui gl’eredi non hanno accresciuto la suppellettile, ma si
divertono solamente a cangiarla di posto e a disporla in modi nuovi. È
necessario perciò restaurare e sostenere, in fisica e FISIOLOGIA, l'indirizzo
sperimentale contro quello matematico: l'indirizzo britannico contro quello gallo, il cauto uso che delle
matematiche fa BUONAIUTO GALILEI e la sua scuola contro l'incauto e arrogante
dei cartesiani. A ragione nlla BRITANNIA si proibisce l'insegnamento della
fisica e della fisiologia matematica – il sabato per sperimenti a Oxford – TYE
MALPAS --: cotal metodo non procede se non prima DEFINITI I NOMI – GRICE
ROBINSON --, fermati gli assiomi e convenute –GRICE CONVENTIO -- le domande; ma
in fisica si hanno a definire cose e non nomi, non vi ha convenzione che non
sia contrastata, né si può domandare cosa alcuna alla ritrosa natura. Onde, nel
migliore dei casi, quel metodo si risolve in un puro e innocuo verbalismo – My
neighbour’s three-year old is not adult” --:
si espongono le osservazioni fìsiche
colla dicitura: pella definizione IV, pel postulato II, pelll'assioma III, e si conclude con le
solenni abbreviature: Q. e. d.; ma non si svolge nessuna forza dimostrativa e
la mente resta dipoi in tutta la libertà d’opinare che possede innanzi d’udire
tali metodi strepitosi. V. non sa astenersi, a tal proposito, da paragoni satirici. Il metodo
geometrico, egli dice, quando è nel suo
legittimo dominio, opera senza farsi sentire, e, ove fa strepito, SEGNO è che
non opera – those spots SEGNO E CHE ha masles:
appunto come negl’assalti l'uomo timido grida e non ferisce, l'uomo
d'animo fermato tace e fa colpi mortali. E ancora: il vantatore del metodo
geometrico in cose in cui quel metodo non trae
necessità di consentire, quando pronuncia: questo è assioma o questo è
dimostrato, è simile al pittore che a immagini informi, le quali per sé non si
possano riconoscere, scrive sotto: questo è uomo, questo è satiro, questo è
leone – DENNETT RYLE – GRICE – questo non e gatto, e cane --, e via
discorrendo. Onde accade che col medesimo metodo geometrico Proclo dimostra i
principi della fisica e della fisiologia del LIZIO, Cartesio i suoi, se non
tutti opposti, certamente diversi; eppure furono due geometri, dei quali non si
può dire che non sapessero usare il metodo. Quel che bisogna, se mai,
introdurre nella fisica o fisiologia sarebbe non il metodo ma la dimostrazione
geometrica; ma questa è proprio ciò che
non è dato introdurvi. Meno ancora è possibile nelle altre scienze via via più
corpulente e più concrete: meno che in ogni altra, nelle scienze – sono
scienze? -- morali. E perciò, non potendosi usare la cosa, in cambio s’abusa
tanto del NOME; e, come il titolo di signore, rifiutato un tempo da TIBERIO perché
troppo superbo – mister Grice,
master Grice --, si dà ora a ogni vilissimo uomo, cosi quello di dimostrazione,
applicato a ragioni probabili e talora apertamente false, ha sminuito la
venerazione che si deve alla verità. Per le matematiche stesse V. scorge
pericoli nella sostituzione dei metodi analitici ai geometrici o sintetici. E
dubita che la nuova meccanica sia frutto
davvero dell'analisi, la quale attutisce l'ingegno, ossia la facoltà inventiva,
e, certa nel risultato {opere), è oscura nella via (opera), laddove il metodo
sintetico è tum opere tura opera certissimo. L'analisi adduce le sue ragioni
aspettando se per caso si diano le equazioni che cerca, e sembra un'arte
d'indovinare, o una macchina piuttosto che
un pensiero. Per analoghe
considerazioni V. non tene in alcun pregio le topiche più o meno meccaniche e
le arti lulliane e kircheriane dell'invenzione e della memoria. La simpatia pello
sperimentalismo che, come si è visto, stacca V. dall'indirizzo gallo e
cartesiano e l’avvicina piuttosto a quello ITALIANO o britannico, a BUONAITUO GALILEI e a
Bacone, lo rende altresì nemico del LIZIO e dello scolasticismo.
Esortando egli a cercare i particolari e a valersi del metodo induttivo;
affermando che il genere umano era stato arricchito d’innumerevoli verità dalla
tìsica, la quale, mercé il fuoco, le macchine e gli strumenti, si era fatta
operatrice di cose simili a peculiari opere della natura; raccomandando la
propria metafisica come tale che serve bene, anclllantem, alla fisica o
fisiologia sperimentale; non può non riconoscere ben meritato il discredito in
cui era caduta la fisica del LIZIO, troppo, egli dice, universale. E se a
Cartesio rimprovera l'introduzione delle forme fisiche o FISIOLOGICHE nella
metafisica, e con ciò la tendenza verso
il materialismo, il LIZIO e gli scolastici sono poi da lui accusati dell'errore
opposto, cioè d’aver voluto introdurre le forme metafisiche nella FISIOLOGIA.
Come Bacone, egli stima che il sillogismo e il sorite non producano nulla di
nuovo e ripetano ciò che è già contenuto nelle premesse; e mette in chiaro i
molteplici danni che gl’universali del
LIZIO cagionano in tutte le parti del saper: nella giurisprudenza, in cui le
vuote generalità soffocano il senno legislativo; nella medicina, che bada
piuttosto a tenere in piedi i sistemi che a sanare gl'infermi; nella vita
pratica, nella quale gl’abusatori d’universali sono derisi col nome di
uomini tematici. Dagl’universali
derivano l’omonimie o equivoci –
AEQUI-VOX -- cause d'ogni sorta d’errori. Alla diffidenza verso gl’universali,
intesi qui nel senso di concetti generali o astratti, risponde in V., com'era
stato caso frequente presso gl’anti-LIZIO della Rinascenza, l'esaltazione dell’idee
platoniche, delle forme metafisiche, o, come egli anche le chiama, dei generi,
modelli eterni degl’oggetti e infiniti
per perfezione. Nominalista nelle matematiche, sospettoso del nominalismo –
BETE NOIRE GRICE -- in tutti gl’altri campi del sapere, V. asserisce la realtà
delle forme o dell’idee, e narra e attratto da questa dottrina, INSEGNATAGLI d’un
suo maestro che era scotista e perciò seguace di quella tra le filosofie
scolastiche che più si approssima all’ACCADEMIA.
Considerata nella sua interezza, la prima gnoseologia di V. non è
intellettualistica, non è sensistica e non è veramente speculativa; ma contiene
tutte tre queste tendenze che si compongono in certo modo tra loro, non col
sottomettersi gerarchicamente a una tra esse, ma col sottomettersi tutte alla
riconosciuta incompiutezza della scienza
umana. Il suo intento e di fronteggiare, con un sol movimento tattico,
dominatici DOMMATICI -- Grice underdogma
-- e scettici, contro i primi negando che si possa sapere tutto e contro i
secondi che non si possa sapere cosa alcuna; ma riesce invece a un'affermazione
di scettiicismo o agnosticismo, nella quale non
manca neppure qualche tratto mistico. Il sapere divino è sapere
unitario, quello umano è la frammentazione dell'unità; Dio sa tutte le cose
perché contiene in sé gl’elementi dai quali le compone tutte; l'uomo si studia
di conoscerle col ridurle in pezzi. La scienza umana è una sorta d’anatomia
delle opere di natura, e viene dividendo l'uomo in corpo e anima, e l'anima in intelletto e volontà –
GRICE THE POWER STRUCTURE OF THE SOUL --,
e dal corpo astrae la figura e il moto, e da questi l'ente e l'uno –
GRICE MULTIPLICITY OF BEING --; onde la
metafisica contempla l'ente, l'arimmetica l'uno e la sua moltiplicazione –
MULTIPLICITY --, la geometria la figura
e le sue misure, la meccanica il moto –
LA DINAMICA -- dell'ambito, la fisica o FISIOLOGIA il moto del centro, la
medicina il corpo, la logica la ragione, la morale la volontà. Ma accade di
quest’anatomia come di quella del corpo umano, circa la quale i più acuti
fisiologi dubitano se per effetto della morte e della stessa dissezione sia più
possibile indagare il vero sito,
struttura e uso delle parti. L'ente, l'unità, la figura, il moto, il corpo,
l'intelletto, la volontà sono altro in Dio, nel quale fanno uno, altro
nell'uomo in cui restano divisi: in Dio vivono, nell'uomo periscono. La
percezione chiara e distinta, nonché prova di forza, è prova di debolezza
dell'intendimento umano. Le forme fisiche appaiono evidenti fintanto che non si
mettono al paragone delle metafisiche: il cogito ergo sum è certissimo, quando
l'uomo considera sé stesso, creatura finita, ma addentrandosi in Dio, che è
l'unico e vero ente, egli conosce veramente non essere: con l'estensione e le
sue tre misure crediamo di stabilire verità eterne, ma nel fatto ccelum ipsum
petimus stillatici, perché l’eterne
verità – GRICE HOLY OF HOLLIES, LA CITTA DELL’ETERNA VERITA -- sono solamente
in Dio: eterno ci sembra l'assioma che il tutto è maggiore della parte, ma,
risalendo ai principi, si scorge che è falso e si vede che tanta virtù d’estensione
è nel punto del cerchio quanto in tutta la circonferenza. Perciò, conclude V., in
metafisica colui avrà profittato che nella meditazione di questa scienza
avrà sé stesso perduto. Giudicare, come pur talora è stato fatto, che in queste
proposizioni V. sia nient'altro che un ACCADEMICO o un seguace della
tradizionale filosofia, e negare per conseguenza qualsiasi importanza alla sua
prima gnoseologia, significa attenersi a
quell'erroneo modo di critica e di storia filosofica il quale, guardando
alle conclusioni generali d’un sistema, ne trascura il contenuto particolare,
che solo gli dà la vera fisonomia. S'intende bene che ogni filosofo è sempre,
nelle sue conclusioni finali, o agnostico o mistico o materialista o
spiritualista, e via dicendo; ossia rientra in qualcuna delle perpetue categorie nelle quali s’aggira il
pensiero e la ricerca filosofica. Ma presentare in questo modo unilaterale i
filosofi giova soltanto a favorire il pregiudizio – e la predillezione GRICE -- che la storia del pensiero ripeta di
continuo, sterilmente, sé medesima, passando d’un errore ad un altro -- GRICE PHILOSOPHY REPEATING ITSELF, DEAD --
e abbandonando l'errore vecchio per il nuovo, che poi sarebbe anch'esso un
vecchio rifatto o ritinto giovane. L’ACCADEMIA, agnosticismo o
misticismo di V. è sommamente originale perché tutto contesto di
dottrine che non solo non sono inferiori al livello della filosofia, ma lo
sorpassano d'assai. La prima di queste
dottrine è la teoria del conoscere come
conversione del vero col fatto, sostituita al tautologico criterio della
percezione chiara e distinta. Quantunque per V. quella conversione rappresenti
un ideale inconseguibile dall'uomo, non pertanto con essa viene esattamente
determinata la condizione e la natura della conoscenza, l'identità del pensiero
e dell'essere, senza la quale il
conoscere è inconcepibile. La seconda è la svelata natura delle matematiche,
singolari per la loro origine tra le altre conoscenze umane, rigorose perché
arbitrarie, ammirevoli ma inette a dominare e a trasformare il restante sapere
umano. La terza dottrina, finalmente, è la rivendicazione del mondo
dell'intuizione, dell'esperienza, della
probabilità, dell'autorità, di quelle forme tutte che l'intellettualismo
ignora o nega. In questi punti l'agnostico, l’ACCADEMICO, il mistico V. non e
né agnostico né mistico né ACCADEMICO, e compie un triplice progressos sopra
Cartesio, che, sotto tutti e tre questi aspetti, vene da lui definitivamente
criticato. Dove, invece, Cartesio sopravanza
ancora V. e, per l'appunto, in quel dommatismo di cui V. non voleva a niun conto sapere.
Riuscisse o no, Cartesio tenta una scienza umana perfetta, dedotta dall'interna
coscienza; e V., giudicando troppo superbo il filosofo gallo e disperando del
tentativo, asseriva invece la trascendenza della verità, s’appoggia alla
rivelazione e si restringe a dare una
metafisica humana imbecillitale dignam. La sua e una gnoseologia dell'umiltà –
dell’IMBECILE --, come quella di Cartesio della superbia. Ora, V. non poteva
progredire anche per questo verso se non ismettendo almeno una parte della sua
umiltà e acquistando qualcosa della superbia di Cartesio; introducendo nel suo
spirito cattolico un po' del lievito di
quello spirito protestante che gli sembra cosi pericoloso; provandosi a
concepire una filosofia alquanto meno degna dell'umana debolezza e tanto più
degna dell'uomo, che è debole e forte insieme, è uomo ed è Dio. E questo
progresso è manifesto nella forma successiva del suo pensiero. La volontà di
credere, fortissima in V., e la completa dedizione del suo animo al
cattolicismo del suo tempo e del suo
paese, lo legano saldamente alla gnoseologia e metafisica ACCADEMICA; la quale,
per questi ostacoli psicologici, non poteva sviluppare nella mente di lui le
contradizioni di cui e pregna. L'idea di Dio lo doma e lo sorregge insieme; ed
egli non aveva l'audacia né sente il
bisogno d'investigare a fondo quale
valore sia d’attribuire alla
rivelazione, o se sia concepibile un Dio fuori del mondo, o come l'uomo
possa affermare Dio senza in qualche modo dimostrarlo e perciò crearlo lui. Per
far si che V. aprisse e in parte percorre una nuova via, la quale avrebbe
condotto lo spirito umano al superamento della concezione platonica,
era indispensabile che la provvidenza, per servirci fin d’ora di un
concetto di V., che verrà illustrato più oltre) adoperasse verso di lui un
inganno, e con lungo e tortuoso giro lo menasse all'imboccatura della nuova
via, non lasciandogli sospettare dove questa avrebbe messo capo. Gli scritti,
nei quali V. espose la sua prima gnoseologia, il De ratione studiorum, il De antiquissìma italorum
sapientia, e le polemiche relative, appartengono ad un quadriennio. Nel
decennio che segui, V. fu tratto a darsi sempre più alle ricerche sulla storia
del diritto e della civiltà. Lesse Grozio per prepararsi a scrivere la vita di Carafa,
e s'ingolfò nei dibattiti sul DIRITTO NATURALE; intensificò gli studi sul DIRITTO
ROMANO e sulla scienza del diritto in genere, per rendersi degno, come H. L. A.
Hart, d’una cattedra di giurisprudenza
nella università di NAPOLI; ripensò alle origini delle lingue, delle religioni,
degli Stati, poco soddisfatto delle tesi storiche da lui sostenute nel De
antiquissima, e forse anche intimamente scosso da qualche critica che coglieva giusto, fattagli da un recensente
del Giornale dei letterati, l'INSEGNARE rettorica, che era il suo mestiere, gli
porgeva continua occasione a meditare sulla natura e la storia della poesia e
delle forme del linguaggio. Cosicché, se non è esatto dire che V. fu condotto
al suo nuovo orientamento, culminante
nella Scienza nuova, mercé un processo
non filosofico ma filologico, essendo chiaro che un orientamento filosofico non
può nascere se non d’un processo egualmente filosofico, è indubitabile che il
materiale e lo stimolo pel suo nuovo pensiero gli furono offerti dagli studi
filologici. Attraverso i quali egli ebbe a fare un'esperienza solenne: cioè,
che quella materia di studio non poteva
essere e non era elaborata dal suo pensiero senza l'ajuto di certi principi
necessari, che gli si ripresentavano in ogni parte della storia da lui presa a
meditare. Un tempo gli era sembrato che
le scienze morali, ragguagliate al metodo matematico, occupassero, quanto a
sicurezza, l'infimo posto. Ora, nella quotidiana familiarità con quelle scienze, gli si veniva scoprendo il
contrario: niente di più sicuro del fondamento della FILOSOFIA MORALE. E quella
loro sicurezza non era la semplice evidenza cartesiana, nella quale l'oggetto,
per intrinseco che si dica, rimane estrinseco; ma era una sicurezza davvero
intrinseca, intrinsecamente ottenuta.
Nel ripiegarsi colla mente sui fatti della
storia, V. sentiva d’appropriarsi meglio qualcosa che già gli appartene,
di rientrare in possesso di propri beni. Egli ricostruiva la storia dell'uomo;
e che cosa era la storia dell'uomo se non un prodotto dell'uomo stesso? Chi fa
la storia se non la fa l'uomo, colle sue idee, i suoi sentimenti, le sue
passioni, la sua volontà, la sua azione? E lo spirito umano, che fa la storia, non è quello stesso
che si adopera a pensarla e a conoscerla? La verità dei principi generatori
della storia nasce, dunque, non dalla forza dell'idea chiara e distinta, ma
dalla connessione indissolubile del soggetto coll'oggetto della conoscenza. Il
che importa che la scoperta che V. ora compiva, la verità che egli ora
riconosce alla FILOSOFIA MORALE, era la
visione di un nuovo nesso del principio gnoseologico già da lai formolato nel
periodo precedente della sua speculazione, ossia del criterio della verità
riposto nella conversione del vero col fatto. La ragione da lui addotta, pella
quale l'uomo può avere perfetta scienza del mondo umano, è per l'appunto che il
mondo umano l'ha fatto l'uomo stesso; e
ove avvenga che chi fa le cose esso stesso le narri, ivi non può essere più
certa l'istoria. Con questo riattacco alla precedente teoria l'affermazione
circa la possibilità della FILOSOFIA MORALE non prese, soggettivamente, nello
spirito di V. l'importanza e non portò le conseguenze d’una rivoluzione, che
gli sconvolgesse da cima a fondo
l'assetto delle sue idee e lo costringesse a procurarne uno affatto nuovo.
Quell'affermazione parve a lui, d’una parte, una conferma della sua dottrina,
un esempio aggiunto agli altri che aveva già recati di scienza perfetta, scienza
divina dell'universo e scienza umana del mondo matematico; e dall'altra,
un'estensione del campo conoscitivo, i
cui limiti, perché certi limiti sussistevano sempre, aveva tracciati dapprima
in modo troppo stretto. Prima, aveva circoscritto una breve sfera luminosa in
mezzo a un vasto campo buio o fiocamente illuminato; ora, la sfera luminosa s’amplia
d’un tanto, e d’altrettanto scema la zona tenebrosa. Ampliamento che non lo getta punto in conflitto colle sue convinzioni
religiose, e, anzi, sembra favorirle ed esserne favorito. La religione non INSEGNA
forse la libertà, responsabilità e consapevolezza che l'uomo ha dei propri atti e fatti? V. non senti dunque il bisogno di scrivere un
saggio metafisico, perché gli sembrò che bastasse aggiungere una postilla al
già scritto e ritoccare alquanto le sue
precedenti affermazioni. La sua gnoseologia, tenendo fermo il criterio generale
della verità contrapposto al criterio cartesiano e cioè, che solo chi fa le
cose le conosce, divide le cose tutte nel mondo della natura e nel mondo umano;
e osservando che il mondo della natura è stato fatto da Dio e perciò Dio solo
ne ha la scienza, restringe
l'agnosticismo solamente al mondo fisico, e dichiar, per contrario, che del
mondo umano, come fatto dall'uomo, l'uomo ha la scienza. Eleva cosi le
conoscenze, dapprima meramente INDIZIARIE – “I believe that this frown is a
sign of my disgust” – Grice -- e
probabili, circa le cose dell'uomo al grado di scienza perfetta; ed
esprime maraviglia che i filosofi si
studino con tanto impegno di conseguire la scienza del mondo naturale, chiuso
all'uomo, e trascurino il mondo umano o CIVILE CONVERSAZIONE o delle nazioni, come
anche lo chiama, del quale è possibile conseguire scienza. Di questo erramento
trova la cagione nella facilità che la mente umana, immersa e seppellita nel corpo, prova a sentire le cose del corpo,
e nello sforzo e fatica che le costa d'intendere sé medesima: come l'occhio
corporale vede tutti gl’oggetti fuori di sé e, per vedere sé stesso, ha bisogno
dello specchio. In ogni altra parte, le sue idee restano immutate. Di là dal
mondo umano, il mondo soprannaturale, inaccessibile all'uomo, e il mondo naturale, che era in certo senso anch'esso
soprannaturale; di là dalla scienza perfetta che l'uomo può avere di sé stesso,
la metafisica platonica, adatta alla debolezza, che continua pur sempre ad
affliggere l'uomo. Le discipline naturali venivano considerate sempre come semi-scienze;
le matematiche come una formazione astratta, validissima nell'astratto, priva di forza innanzi al
reale. Il sillogismo del LIZIO, il sorite del PORTICO, il metodo geometrico dèi
cartesiani erano perseguitati dallo stesso odio di prima, e collo stesso amore
celebrata l'induzione che il verulamio, gran filosofo insieme e politico, commenda e
illustrava nel suo Organo, e che i britannici adoperavano con gran frutto della sperimentale filosofia. Un ravvedimento circa l'applicabilità del
metodo geometrico potrebbe sembrare la frequente asserzione di V. che la
scienza delle cose umane sia da lui costruita con uno stretto metodo
geometrico. Ma, anche a lasciar andare che la struttura della Scienza è proprio
l'opposto di quella geometrica, è un fatto che, nel tempo stesso e negli stessi libri, egli non
cessa di mettere in guardia contro l'uso del metodo matematico nelle cose
fisiche e morali, il quale ove non sono figure di linee o di numeri o non porta
necessità, spesso invece di dimostrare il vero può dare apparenza di
dimostrazione al falso; onde il preteso
ravvedimento sarebbe una palmare contradizione,
se non gli si potesse dare un significato che ristabilisce interamente
la coerenza nelle idee di V.. Un significato assai sémplice, perché,
riconosciuta ormai alla FILOSOFIA MORALE
non meno che alla geometria la potenza di convertire il vero col fatto,
esse potevano e dovevano svolgersi con metodo analogo a quello sintetico della
geometria, o con cui da vero si passa a immediato vero, e seguire il mondo
umano dai suoi inizi ideali nei suoi progressi fino alla sua perfezione, sicché
lo studioso non doveva sperare di poter intendere le loro dottrine per salti,
ma dove percorrerle per gradi da capo a piedi, senza recalcitrare alle
conclusioni inaspettate che ne uscissero, come non si recalcitra a quelle della geometria, e attendendo soltanto
a esaminare la saldezza del nesso tra premesse e conseguenze. Era, dunque,
codesto un metodo chiamato geometrico per analogia o PER SINEDDOCHE, ma in
effetti intrinsecamente speculativo, da non confondere coll'applicazione della
matematica alle cose morali, quale ne avevano dati esempì i cartesiani e Spinoza. Né si può concedere
senza riserve il giudizio d’alcuni interpetri: che V. in realtà, coll'ammettere
una scienza dell'uomo d’investigarsi nelle modificazioni stesse della mente
umana, si ravvicinasse e fa seguace di Cartesio; al qual uopo si suole addurre
anche l'altra dichiarazione di lui, che, per pensare la sua Scienza,
convenisse ridursi a uno stato di
somma ignoranza, come né filosofi né filologi né libro alcuno fossero mai stati
al mond. Certamente, V. colla forma della sua gnoseologia entra anche lui nel
soggettivismo della filosofia inaugurato da Cartesio (anzi, vi era già entrato,
in certo modo, colla sua dottrina attivistica della verità come rifacimento del
fatto); e, in questo significato del
tutto generico può dirsi, anche lui, cartesiano. Pure, se a Cartesio rimane
ancora inferiore, perché il suo soggettivismo è principio non della scienza tutta
ma di quella sola del mondo umano, per un altro verso si pone di sopra al
filosofo gallo, in quanto, per lui, la verità meditata nel mondo umano non è STATICA ma DINAMICA, non è trovata ma prodotta, è
scienza e non coscienza. Per quel che concerne poi l'esortazione a far conto
come se non vi fossero mai stati libri al mondo né placiti di filosofi e di
filologi, essa non importa altro se non che bisogni spogliarsi d’ogni
pregiudizio, d’ogni comune invecchiata anticipazione, d’ogni corpulenza
proveniente da fantasia o da memoria,
per ridursi in istato di puro intendimento, informe d’ogni forma particolare,
com'è indispensabile per la scoperta e l'apprendimento d’ogni verità; e tanto
poco qui l'esortazione ha il significato cartesiano e malebranchiano d’un
rifiuto dell’erudizione e dell'autorità, che, per non dir altro, nel medesimo
luogo al quale di sopra si è ALLUSO, si
trova avvertito che la Scienza suppone una grande e varia cosi dottrina come
erudizione, dalle quali prende le verità come già conosciute per valersene da
termini per fare le sue proposizioni. Nella sua gnoseologia V., insomma,
diventa non già più cartesiano ma sempre più vicinano, sempre più lui. Cartesio
non pare gli servisse neppure come
tramite attraverso cui giungere alla persuasione della possibilità di costruire
colla mente la scienza della mente. Il tramite vero fu il criterio stesso di V.
della verità, messo a contatto coll’osservazioni che l'autore venne facendo nel
corso dei suoi studi storici. Che se si volessero cercare precedenti, nella
storia della filosofia, alla forma della
gnoseologia di V., bisognerebbe, circa
la divisione dei due mondi di realtà e delle due sfere di conoscenza, e circa
la preferenza manifestata pelle indagini morali rispetto alle naturali, correre
col pensiero alla posizione assunta da Socrate verso i fisiologi del suo tempo,
al sentimento di religioso mistero onde il filosofo attico arretra innanzi al mondo della natura e si rivolge a indagare
la conformazione dell'animo umano. E, circa la maggiore trasparenza delle
scienze morali in quanto concernono cose che l'uomo stesso ha prodotto, si
potrebbe richiamare la partizione del LIZIO delle scienze in fisiche, che
considerano il movimento estrinseco all'uomo, e in pratiche e poietiche,
che considerano le cose prodotte
dall'uomo. La distinzione era passata nella filosofia delle scuole; e AQUINO parla
della natura come ORDO QUEM RATIO
CONSIDERAT SED NON FACIT, e del mondo dell'attività umana come ORDO QUEM RATIO
CONSIDERANDO FACIT. Ma queste riferenze non sono indicate da V., il quale pure
assai si compiace nel fare omaggio dei
propri pensieri agl’antichi filosofi; e, ammesso anche che avessero qualche
efficacia sopra di lui, è certo che tra esse e la dottrina di V. sulla
conoscibilità del mondo umano corre distanza non minore che tra la proposizione
dell'onniscienza di Dio creatore e il principio gnoseologico che egli sa
ricavarne. Di questo principio, la
dottrina di V. sulle scienze morali è né più né meno che la prima legittima
applicazione; e inesattamente il suo autore, come di solito, poi, gl'interpetri,
ebbe a presentarla quale semplice estensione dell’applicazioni già date, un
secondo caso aggiunto a quello già contemplato delle scienze matematiche. Nel
caso delle scienze matematiche, il
principio della conversione del vero col fatto veniva applicato solo in
apparenza. Originale e vero, quel principio; originale e vera la teoria delle
matematiche; del tutto artificiale e falsa la connessione delle due verità.
Manca, se non c'inganniamo, un effettivo rapporto tra il concetto di Dio che
crea il mondo, e, perché lo crea, lo conosce; e quello di colui che costruisce arbitrariamente un
mondo di astrazioni e, nel fare ciò, non conosce nulla o conosce soltanto, quando
non è più geometra o arimmetico ma filosofo, quando scrive non gl’Elementi d’Euclide
ma le pagine di gnoseologia del De antiquissima, che egli procede
arbitrariamente. Se le discipline matematiche foggiano i concetti a libito, se producono finzioni e non verità,
esse, a dir vero, non sono scienze né conoscenze di sorta, e non c'è
possibilità di porle a riscontro colla scienza divina, che è scienza della
reale realtà. Nelle matematiche, dice V.,
l'uomo, contenendo dentro di sé un immaginato mondo di linee e di numeri, opera
talmente in quello coll'astrazione, come
Dio nell'universo colla realtà.
Il riscontro può riuscire brillante, ma risplende, forse, di luce piuttosto
metaforica che logica. Nella FILOSOFIA MORALE, invece, il riscontro è tanto
logico che deve dirsi senz'altro coincidenza. Il sapere umano è,
qualitativamente, il medesimo del divino, e al pari del pensiero divino conosce
il mondo umano; sebbene, quantitativamente
più ristretto, non si estenda, come
quello, al mondo della natura. Nel campo umano, non più espedienti di
debolezza, non più finzioni, non più falsificazioni: qui si è nella maggiore
concretezza del conoscere. L'uomo crea il mondo umano, lo crea trasformandosi
nelle cose CIVILI – CIVILE CONVERSAZIONE;
e, col pensarlo, ricrea la sua
creazione, ripercorre vie già percorse, la rifa idealmente e perciò conosce con
vera e piena scienza. Questo è davvero un mondo, e l'uomo è per davvero il Dio
di questo mondo. Ci sembra, dunque, incontrastabile che solamente
l'applicazione del verum- factum, quale si effettua nella Scienza, risponda al
criterio stabilito; e che l'altra che ne
era stata anteriormente tentata pelle matematiche, importante per altri
rispetti e validissima a liberare gli spiriti dal pregiudizio matematico, non
si possa considerare vera e propria applicazione. E, forse, V. ebbe talvolta
qualche sentore della differenza tra le due applicazioni, la propria e la
metaforica, che per solito confuse come identiche. La scienza del mondo umano, egli dice, procede appunto come la geometria che,
mentre sopra i suoi elementi il costruisce o'1 contempla, essa stessa si faccia
il mondo delle grandezze; ma con tanto più di realità quanta più ne hanno gl’ordini
d'intorno alle faccende degl’uomini, che non ne hanno punti, linee, superficie
o figure. E un altro indizio della
coscienza che s’accende a tratti in lui d’avere pella prima volta, nella
dottrina circa il mondo umano, ritrovata una conoscenza vera e propria, non una
mera finzione di conoscenza, potrebbe vedersi nell'uso assai più convinto, più
caldo ed entusiastico che egli fa, in questo caso, dell'epiteto divino; ben
diverso da quello freddo, se non
propriamente ironico, dell' ad Dei instar nel De antiquissima. Le prove
della Scienza, dice più d'una volta, con rapimento, sono d'una spezie divina, e
debbono, o leggitore, arrecarti un divin piacere, perocché in Dio il conoscere e il fare è una medesima
cosa! La conversione del vero col fatto nella FILOSOFIA MORALE non poteva non
ripercuotersi nella trattazione del
certo ossia, secondo uno dei parecchi significati, e forse il principale, che V.
attribuisce a questa parola, delle cognizioni storiche, del peculiare, certuni,
contrapposto al commune o veruni; il che forma l'altro tratto importante della
gnoseologia di V. Nella gnoseologia, quelle cognizioni erano legittimate e
protette, come si è visto, col
parificarle a ogni altra sorta di conoscenze tutte egualmente deboli o
egualmente forti, perché tutte fondate sulla probabilità e sull'autorità, sia
dell'individuo, autopsia, sia del genere umano. Ma, redenta dall'autorità e
dalla probabilità la conoscenza dello spirito umano e delle sue leggi, le
cognizioni storiche, quantunque di loro natura
fondate sempre in qualche modo sull'autorità, venivano rischiarate di
nuova luce. Il certo dove entrare in un nuovo rapporto, perché aveva ormai di
fronte non un altro certo, ossia una semplice conoscenza probabile circa lo
spirito umano, ma un vero, una conoscenza filosofica. Questo rapporto è
chiamato altresì da V. il rapporto di filosofia e filologia, la prima delle quali versa circa
necessaria naturai e contempla la ragione onde viene la scienza del vero, la
seconda circa piatita fiumani arbitrii e
osserva l'autorità onde viene la coscienza del
certo. L'una considera l'universale, l'altra l'individuale, l'una, dice Leibniz,
le vérités de raison, l'altra le vérités de fait. Distinzione che non è mantenuta dappertutto, presso V., nella
medesima nettezza; tanto che a volte l'autorità contrapposta alla ragione
diventa, secondo lui, parte della ragione stessa, o si confonde colla
conoscenza dell'arbitrio umano, contrapposta a quella della volontà razionale;
ma di cui è per altro chiarissimo il senso generale. E per filologia V. non
intende solamente lo studio nella via
delle parole – GRICE STUDIES IN THE WAY OF WORDS -- e della loro storia, ma,
poiché alle parole sono annesse le idee delle cose, anzitutto la storia delle
cose; onde i filologi debbono trattare di guerre, paci, alleanze, viaggi,
commerci, di costumi, leggi e monete, di geografia e di cronologia, e d’ogni
altra cosa che s’attenga alla vita
dell'uomo nel mondo. La filologia insomma (nel significato di V. – GRICE
UTTERER’S MEANING -- che è poi il
significato esatto) abbraccia non solamente la storia delle lingue o delle
letterature, ma quella altresì delle idee e dei fatti, della filosofia e della
politica. Certamente, la filologia, le verità di fatto, il certo non sempre
erano stati brutalmente maltrattati come
dai cartesiani. Grozio da esempio di vastissima erudizione storica, messa a
servigio delle sue dottrine sul diritto naturale. GRAVINA (vedasi),
contemporaneo e connazionale di V., richiede come necessarie al giurisperito
non solo la ratiocinandi ars, ma la LATINAE LINGVAE PERITIA e la notitia
temporum. E Leibniz, or ora ricordato, riasseriva l'importanza dell'erudizione
contro i cartesiani e padroneggia da gran signore i più svariati aneddoti
storici, che profonde a piene mani nei suoi libri. Ma V. nota che filosofia e
filologia rimaneno tuttavia estranee l'una all'altra, come erano state quasi
del tutto presso I ROMANI: i tanti luoghi di storici, oratori, filosofi e poeti, che Grozio accumula,
costituivano un puro ornamento; e il medesimo V. avrebbe giudicato forse, se ne
avesse avuto conoscenza e ce n’avesse comunicato il suo giudizio, del largo uso
che Leibniz fa della storia. Leggendo i libri dei filologi, egli prova un tal
senso di vuoto e di fastidio per l'affastellamento inintelligente delle
notizie storiche, che era tratto quasi a
dare ragione, e dovè darla per qualche tempo incondizionatamente, a Cartesio e
Malebranche nel loro odio contro l'erudizione. Senonché, pensa dipoi, quei due
filosofi, in cambio di sprezzare l'erudizione, avrebbero dovuto piuttosto indagare
se non fosse stato possibile richiamare la filologia ai principi della
filosofia; e i filologi, da parte loro,
invece d’arrecare i fatti a pompa d’erudizione, debbono industriarsi d’elaborarli
a fini di scienza. La filologia è da ridurre a scienza: ceco il pensiero di V.
circa i rapporti del certo col vero, della filologia colla filosofia. Che cosa
vuol dire ridurre la filologia, o la storia, che è lo stesso, a scienza o a
filosofia? A rigore, la riduzione non è
possibile, non perché si tratti di cose eterogenee, ma anzi perché quelle sono
omogenee: la storia è già intrinsecamente filosofia; non è possibile proferire
la più piccola proposizione storica senza plasmarla col pensiero, cioè, colla
filosofia. Ma poiché questo presupposto filosofico della filologia allora non
era avvertito, come non fu molto spesso
neppure nei tempi seguenti, e facilmente veniva negato; poiché i più, come
sappiamo, o concepivano un'aristocratica filosofia geometrica, disdegnosa e
aborrente dal profanum vulgus dei casi storici, ovvero, come fa prima V. stesso,
una filosofia e una storia egualmente poco rigorose e meramente opinabili; V.,
mutato il suo punto di vista filosofico,
raggiunta la coscienza del metodo speculativo nella scienza dell'uomo, inteso
più profondamente lo spirito umano, dove scorgere quanto ci fosse da riformare
nella storiografia corrente, sentire il bisogno d’una più perfetta filologia
come conseguenza della sua più perfetta filosofia, e in termini gnoseologici
esprimerlo con quella formola del
richiamare alla filosofia la filologia, ut haec posterior, ut par est, prioris
sit consequentìa. Dove, in altre parole, togliere la storia dalla sua
condizione d'inferiorità, dalla servitù al capriccio, alla vanità, al
moralismo, alla PRECETISTICA (GRICE) o ad altri fini estrinseci, e riconoscerle
il fine proprio e intrinseco di necessario complemento del vero universale. In
pari tempo, la filosofia si sarebbe riempita di storia, affiatata colla storia;
e da questo affiatamento avrebbe acquistato maggiore larghezza e un senso più
vivo della realtà concreta da spiegare. Tale, senza dubbio, è uno dei
significati che ha la formola di V. del congiungimento di filosofia e filologia
e della riduzione della filologia a
scienza. Ma non meno è fuori dubbio che, nel pronunziare quella formola, V. voleva qualcosa di più e, di
solito, intende qualcosa d'altro. Questo qualcos'altro può, nel modo più
diretto, essere chiarito dall'appello che egli fa a Bacone e al suo metodo di
filosofare più accertato: metodo espresso nel titolo del libro baconiano:
Cogitata et visa – GRICE E WARNOCK -- ,
e che V. si propone di trasportare dalle
naturali alle umane cose CIVILI CIVIL CONVERSAZIONE. Esige, insomma, la
costruzione d’una storia tipica delle società umane, cogitare, da riscontrare
poi nei fatti, videre, accertando coi fatti la costruzione ideale e avverando
colla costruzione ideale i fatti, confermando
la ragione coll'autorità e l'autorità colla ragione; d’una scienza che
fosse insieme filosofia dell'umanità e storia universale delle nazioni. Ora
questa costruzione che egli esige, questo qualcosa di mezzo tra il cogitare e
il videre, tra il pensiero e l'esperienza, questo misto dei due processi, è
intrinsecamente diverso dalla unita, di filosofia e filologia in quanto interpetrazione filosofica dei dati
di fatto. Questa interpetrazione è la storia vivente; l'altra non è né
filosofia né storia, ma una scienza empirica dell'uomo e delle società,
materiata di schemi che non sono le extratemporali categorie filosofiche e
neppure gì'individuali fatti storici, benché senza categorie filosofiche e
senza fatti storici non potrebbero mai
costruirsi: una scienza empirica, e perciò né esatta né vera, ma solamente
approssimativa e probabile, e soggetta a verificazione e rettificazione da
parte cosi della filosofia come della storia. Sarebbe impossibile determinare
quale di codesti due significati della filologia ridotta a storia sia quello
proprio di V., perché nel suo pensiero
si trovano tutti e due; o quale prevalga, perché effettivamente prevale
ora l'uno ora l'altro, quantunque il secondo, quello empirico, sia più di
frequente formolato. Anzi si potrebbe dire che, quando V. intitolava Scienza la
sua opera, il principale dei significati che da a questo titolo invidioso si
riferiva appunto a quella scienza empirica: alla scienza cioè che e insieme filosofia e storia dell'umanità, alla storia ideale delle leggi
eterne sopra le quali corrono i fatti d’ogni nazione nel sorgimento, progresso,
stato, decadenza e fine. V., in realtà, non unifica mai, e non poteva, i due
diversi significati, e ne serba la duplicità, la quale, appunto perché non e
distinta chiaramente, prende apparenza
d'identità. Di qui la parziale giustificazione d’entrambe le tendenze
che si sono manifestate tra gl'interpetri, dei quali alcuni vogliono che V.
professa e adopera il metodo speculativo, altri che il suo metodo e, nell'idea
e nell'attuazione, empirico, induttivo e psicologico; gl’uni che egli mira a
dare un sistema di filosofia dell'umanità, gl’altri che si
propones una sociologia o una demopsicologia. Unilaterali entrambi, ma i
secondi più dei primi, perché se in
verità in V. c'è di Bacone e c'è dell’ACCADEMIA,
dell'empirista e del filosofo, quando poi si colga il carattere del suo
ingegno, quando si penetra nell'intimo del suo spirito, e si partecipa ai suoi
dissidi e al suo magnanimo sforzo, si deve
riconoscere che V., checché volesse e credesse, e della stoffa di un ACCADEMICO e non d’un Bacone; che Bacone stesso del quale egli
parla è mezzo immaginato da lui, è un Bacone alquanto ACCADEMICO; e che la
Scienza gli pare, in fondo, cosi non perché e un'empìrica costruzione alla
Bacone, nel quale caso niente di più vecchio, bastando ricordare la Politica del LIZIO e i discorsi
di MACHIAVELLI, ma perché e tutta pregna d’una filosofia, la quale, infatti,
irrompe d’ogni parte, attraverso tutta la sua empiria. La poca chiarezza circa
il rapporto di filosofia e filologia, l'indistinzione dei due modi affatto
diversi di concepire la riduzione della filologia a scienza, sono conseguenza
e cagione insieme dell'oscurità che
regna nel saggio di V. sulla scienza. Col quale nome intendiamo tutto quel
complesso di ricerche e dottrine che V. venne mettendo fuori, e che, elaborato
precipuamente nelle tre opere del De uno universi iuris principio et fine uno e
della Scienza, ha nella redazione definitiva di quest'ultima la sua forma
più sviluppata, alla quale
principalmente giova riferirsi. La scienza, in modo conforme al vario
significato del termine e del rapporto tra filosofia e filologia, consta di tre
ordini di ricerche: filosofiche, storiche ed empiriche; e contiene tutt'insieme
una filosofia dello spirito, una storia, o gruppo di storie, e una scienza
sociale. Alla prima appartengono le
idee, enunciate in alcuni assiomi o DIGNITA e sparse altresì nel corso del
saggio, sulla fantasia, sull'universale fantastico, sull'intelletto e
l'universale logico, sul mito, sulla religione, sul giudizio morale, sulla
forza e il diritto, sul certo e il vero, sulle passioni, sulla provvidenza, e
tutte l’altre determinazioni concernenti il corso o sviluppo necessario della mente ossia dello spirito
umano. Alla seconda, ossia alla storia, l'abbozzo d’una storia universale delle
razze primitive e dell'origine delle varie civiltà; la caratteristica della
società barbarica o societa eroica antica in Grecia e SPECIALMENTE IN ROMA
SOTTO L’ASPETTO della religione, del
costume, del diritto, DELLA LINGUA, della costituzione
politica; l'indagine sulla poesia primitiva, che s’esemplifica poi più
largamente colla determinazione della genesi e del carattere dei poemi omerici;
la storia delle lotte sociali tra PATRIZIATO e plebe e dell'origine della
REPUBBLICA, studiata anch'essa PRINCIPALMENTE IN ROMA; la caratteristica della
barbarie ricorsa, ossia del medioevo,
anch'esso studiato in tutti gl’aspetti della vita e raffrontato colle società
barbariche primitive. Finalmente, alla scienza empirica si richiama il
tentativo di stabilire un corso uniforme in ogni nazione, concernente la
successione cosi delle forme politiche come dell’altre e correlative
manifestazioni teoretiche e pratiche
della vita, e i tanti tipi che V. viene delineando del PATRIZIATO, della
plebe, del feudalesimo, della patria potestà e della famiglia, del diritto
simbolico, del linguaggio metaforico, della scrittura geroglifica, e via
discorrendo. Ora se questi tre ordini di ricerche e dottrine fossero stati
logicamente distinti nella mente di V. e solo letterariamente mescolati e
compressi in un medesimo saggio, questo sarebbe potuto riuscire disordinato,
sproporzionato, disarmonico, e perciò faticoso a chi si fa a leggerlo, ma non veramente
oscuro. Né, del resto, in linea di fatto, può dirsi che la scienza, almeno l'esposizione definitiva che V. offri
del suo pensiero, difetti d’un disegno
generale, abbastanza ben concepito.
L'opera è divisa. La prima parte raccoglie i principi generali, cioè la filosofia. La seconda parte, oltre un
breve cenno sulla storia universale antichissima, descrive la vita delle
società barbariche, e ad esso forma appendice una terza parte sulla discoverta
del vero Omero, e cioè sul più cospicuo esempio della poesia barbarica. Una quarta parte delinea la
scienza empirica del corso che fanno ogni nazione. La quinta ed ultima parte
esemplifica il ricorso col caso particolare del medioevo. E tuttavia, a
dispetto di questa bella architettura, la scienza, com'è la più ricca e
compiuta, cosi è IL PIU OSCURO tra i saggi di V.. Se, d'altra parte, V., pur
avendo ben chiare in mente le sue idee,
adopera una terminologia insueta o una forma troppo concisa d’esposizione
e troppo piena d’allusioni e d'inespressi
presupposti – L’IMPLICATURE DI GRICE! --, e senza dubbio un filosofo difficile, ma,
neppure in questa ipotesi, oscuro. La
quale ipotesi neanche risponde alla realtà, giacché V. è assai parco di termini
scolastici e predilige le espressioni
vive e popolari; è filosofo robusto ma non laconico, e spesso si compiace di
ripetere le sue idee fermandovisi sopra a più riprese e con molta insistenza;
emette in tavola tutte le sue carte, cioè tutto il materiale erudito dal quale
gli sono state suggerite le dottrine. Né, infine, si è detto molto quando si è
detto che a V. manca piena coscienza delle sue scoperte; perché questa
coscienza manca più o meno in ogni filosofo
e in nessuno può essere mai piena. L'oscurità, la vera oscurità, quella che s’avverte in V., e che a
volte avverte egli stesso senza riuscir mai a trovarne la causa, non è
superficiale e non nasce da cagioni estrinseche o accidentali, ma consiste
veramente in oscurità d'idee, nella
deficiente intelligenza di certi nessi e nella sostituzione con nessi fallaci,
nell'elemento arbitrario che perciò s'introduce nel pensiero, o, per dirla nel
modo più semplice, in veri e propri errori. Si potrebbe riscrivere la scienza
rifacendone l'ordine e mutandone o schiarendone la terminologia, chi scrive ha
fatto per suo conto questa prova, e
l'oscurità persiste, anzi si
accresce, perché in siffatta traduzione il saggio, perdendo la forma
originale, perde altresì quella torbida ma possente efficacia che può tenere
luogo talvolta della chiarezza e che, dove non illumina, scuote lo spirito del
lettore e propaga l'onda del pensiero quasi per vibrazioni simpatetiche. Che
cagione dell'oscurità, ossia dell'errore
o degl’errori di V., sia l' indistinzione o confusione già notata nella sua
gnoseologia circa il rapporto tra filosofìa, storia e scienza empirica, e
sussistente non meno nel suo effettivo pensiero intorno ai problemi dello
spirito e della storia umana, risulta dall'osservare come filosofia, storia e
scienza empirica si convertano a volta a volta
presso di lui l'una nell'altra e, danneggiandosi a vicenda, producano
quelle perplessità, equivoci, esagerazioni e temerità, che sogliono turbare il
lettore della scienza. La filosofia dello spirito s’atteggia ora come scienza
empirica ora come storia; la scienza empirica ora come filosofia ora come
storia; e la proposizione storica acquista l'universalità del principio filosofico o la generalità
dello schema empirico. Per esempio, la filosofia dell'umanità assume di
determinare le forme, categorie o momenti ideali dello spirito nella loro
successione necessaria, e bene merita per tal rispetto il titolo o la
definizione di storia ideale eterna sulla quale corrono nel tempo le storie
particolari, non potendosi concepire
nessun frammento, per piccolo che sia, di storia reale, dove non operi quella
storia ideale. Ma poiché storia ideale è anche per V. la determinazione
empirica dell'ordine in cui si succedono le forme delle civiltà, degli stati,
dei LINGUE, degli stili, delle poesie, accade che egli concepisca la serie
empirica come identica alla serie ideale e
fornita delle virtù di questa; onde la pronunzia tale che debba sempre
esattamente riscontrarsi nei fatti, fosse anco che nell'eternità nascessero di
tempo in tempo mondi infiniti; il che è apertamente falso, non essendovi alcuna
ragione che si ripetano in perpetuo, col dovette, deve e dovrà, l’empirica
aristocrazia di ROMA, e la civiltà sorgano o
decadano pell'appunto come sorsero o decaddero quella della ROMA ANTICA.
E nel medesimo atto di questo assolutizzamento del corso empirico, il corso
ideale si vela d’un'ombra empirica, perché, reso identico all'altro, riceve il
carattere empirico dell'altro, e si temporalizza, d’eterno ed extratemporale
che e nella concezione iniziale. Si dica il
medesimo delle singole forme dello spirito, le quali, come ideali ed
extratemporali, sono tutte e sempre in ogni singolo fatto; ma V., confondendole
coi fatti reali e concreti che la scienza empirica fissa nei suoi schemi,
viene, subito dopo averle proposte, ad abbuiarle nella loro ideale forma e
distinzione. È vero che il momento della forza non e quello della giustizia; ma il tipo empirico
della società barbarica fondata sulla forza, appunto perché è una
determinazione rappresentativa e approssimativa, e si riferisce a uno stato di
cose concreto e totale, non contiene solamente forza, si anche giustizia; e
quando quel momento ideale e quel tipo sono scambiati fra loro e presi come
identici, da una parte il concetto
filosofico della forza – il ROMOLO e il neo-TRASIMACO di Grice -- s'intorbida
di quello di giustizia – il neo-Socrate di Grice e REMO -- e, facendosi ibrido e contradittorio e
incoerente, si sforma, dall'altra il tipo empirico della società barbarica
viene esagerato e di troppo irrigidito. La confusione dell'elemento filosofico
e dell'empirico si può dire manifesta
nella DIGNITA che definisce la natura delle cose: Natura di cose altro non è
che nascimento di esse in certi tempi e con certe guise, le quali sempre che
sono tali, indi tali e non altre nascono lo cose; dove appaiono messi insieme
le guise e i tempi, la genesi ideale e la genesi empirica. Similmente, è
verissimo che la storia procede
d'accordo colla filosofìa, e che quello che è filosoficamente ripugnante non
possa essere giammai storicamente accaduto; ma, poiché per V. la filosofia è indistinta dalla
scienza empirica, egli, dove il documento gli manca e perciò nessuna filosofia
è applicabile, si sente tuttavia sicuro della verità, e, riempiendo il vuoto colla congettura che gli fornisce lo schema della
scienza empirica, s'illude di aver fatto ricorso a prove metafisiche. O anche,
trovandosi innanzi a fatti dubbi, anziché attendere che la scoperta ài altri
documenti dissipi le dubbiezze, risolve il dubbio col prenderli, come egli
dice, in conformità delle leggi, cioè sempre dello schema empirico; il che, in
via d'ipotesi, è certamente lecito. Ma
queir ipotesi è, invece, per V., una verità meditata in idea, sicché il
riscontro coi fatti, che egli pure raccomanda per conferma, dove essere
superfluo; o, se i fatti nel riscontro risultassero contrari, il torto dovrebbe
essere dei fatti, cioè dell'apparenza, non mai dell'ipotesi, affermata come
verità indubbia – GRICE MEANING AND VALUE -- perché filosofica. Di qui la
tendenza, che è in V., a fare, come si dice, violenza ai fatti. Bastino questi
esempì a indicare il vizio intimo di struttura che è nella scienza, e a porre
uno dei capisaldi della nostra esposizione e della critica di CROCE del
pensiero di V., nel corso delle quali molti altri esempì ci si faranno spontaneamente innanzi e anche i già dati
saranno meglio schiariti. Ma un altro caposaldo che bisogna bene stabilire è
che quel vizio è il vizio d’un organismo sommamente robusto, e che gl’ordini di
ricerche che vengono da V. confusi sono costituiti d’effettive ricerche di
straordinaria novità, verità e importanza. E, insomma, il vizio medesimo
che s'incontra di frequente presso
gl'ingegni assai originali e inventivi, i quali di rado portano a perfezione
nei particolari le loro scoperte; laddove gl'ingegni meno inventivi sogliono
essere più. esatti e conseguenti – GRICE HARDY --. Profondità e acume non
sempre vanno insieme e con pari vigore; e V., quantunque non fosse molto acuto,
era sempre molto profondo. Luce e
tenebre, verità ed errore che s’alternano e incrociano quasi a ogni punto della
scienza, sono diversamente appresi secondo le diverse anime dei lettori e
critici; anzi, in casi eminenti com'è questo di V., si possono scorgere in modo
più netto tali diversità. Vi sono anime restie e diffidenti, pronte a notare
ogni più piccola contradizione,
inesorabili nell'esigere le prove d’ogni affermazione, vigorose nel maneggiare
le tenaglie dei dilemmi che stritolano senza pietà un povero grand'uomo. Per
costoro l'opera di V., e molte altre
della stessa qualità, è un libro chiuso; e, tutt'al più, offrirà loro
l'argomento per una di quelle cosi dette demolizioni, che essi compiono
con grande facilità e gusto, sebbene con
scarso successo, perché l'uomo da essi ucciso, dopo morto, suole restare più
vivo di prima. Ma vi sono altre anime, che alla prima parola che vada diritta
al loro cuore, al primo raggio di verità che lampeggi ai loro occhi, s’aprono
tutte con desiderio, s’abbandonano con fiducia, s'inebriano d'entusiasmo,
non vogliono sapere di difetti, non
scorgono difficoltà, o le difficoltà appianano subito e i difetti giustificano
nel modo più semplice, e, quando per caso scrivono, le loro scritture si
configurano come apologie – SCHIFFER SU GRICE – I trust Paul will forbear of my
apostasy”. E per costoro è da temere che
la scienza sia un libro troppo aperto – ECO – OPERA APERTA. Certamente, se fra
questi due atteggiamenti opposti non ce ne fosse un terzo, se bisogna
risolversi di necessità pell'uno o pell'altro, sarebbe da preferire il peccato
del troppo vivo amore a quello della gelida indifferenza, la troppa fede, che
pur lascia cogliere qualche aspetto del vero, alla nessuna fede che non ne
lascia vedere alcuno. Ma un terzo
atteggiamento è possibile, ed è doveroso pel critico: quello di non perdere mai
di vista la luce, ma di non dimenticare le oscurità; di giungere allo spirito
passando oltre la lettera, ma di non trascurare la lettera, anzi di ritornarvi
di continuo, procurando di mantenersi interpetre libero ma non fantasioso,
amante fervido ma non cieco. I due
capisaldi stabiliti, il vizio e la virtù che si sono riconosciuti propri della
mente di V., la sua geniale confusione o la sua genialità confusionaria,
impongono perciò come generale canone ermeneutico d’andare separando per
via d'analisi la schietta filosofia che
è in lui dall'empiria e dalla storia colle quali è commista e quasi incorporata,
e altresì queste da
quella, e di notare via via gl’effetti e le cause della commistione. Le
scorie non possono essere considerate inesistenti, congiunte come sono all'oro
nello stato di natura, ma non debbono impedire di riconoscere e purificare
l'oro; o, fuori di metafora, la storia dev'essere storia senza dubbio, ma tale
non è se non è intelligente. Delle forme dello spirito V. studia nella scienza
principalmente, e si potrebbe dire esclusivamente, quelle inferiori o
individualizzanti, che egli designa tutt'insieme col nome di certo: nello
spirito teoretico la fantasia, nello spirito pratico la forza o arbitrio, e
nella scienza empirica corrispondente alla filosofia dello spirito, la civiltà
barbarica o sapienza poetica, la cui
investigazione costituisce, come egli stesso dice, quasi tutto il corpo
dell'opera. Perché e come egli prende cosi forte interesse a codeste forme
inferiori e alle società primitive e storie barbariche che le rappresentavano,
è anche qui, nell'aspetto estrinseco, spiegato dagli studi che V. ebbe a condurre
sul DIRITTO ROMANO e sui tropi e le
figure rettoriche – GRICE, FIGURE OF SPEECH --, dalla tradizione umanistica
ancora viva in Italia, dal culto allora rinvigorito pelle scienze
archeologiche, dalla curiosità che spinge
a indagare L’ANTICHISSIMA CIVILTA ITALIANA, e via enumerando. Ma altri
non pochi, nel suo tempo e nel suo stesso paese, trattarono le medesime materie senza punto acquistare la
predilezione e la penetrazione del fantastico, dell'ingenuo, del violento: cose
delle quali lo stesso V. possede la predilezione, ma non ancora la
penetrazione, quando compone il De
antiquissima. Sicché la ragione piena di queir interessamento si vede
quando si consideri l'origine del V. filosofo e si tenga presente il carattere della sua mente,
antitetica allo spirito cartesiano. Il cartesianismo, tatto rivolto alle forme
universalizzanti e astrattive, trascura le individualizzanti; e tanto più V.
dove essere attirato d’esse come d’un mistero. Il cartesianismo rifuggiva con
orrore dalla selva selvaggia della storia; e V. s'interna bramoso in quella
parte appunto della storia, nella quale,
per cosi dire, è più forte il sentore della storicità: nella storia che è più
lontana e diversa dalla psicologia dell’età colte. Il cartesianismo generalizza
questa psicologia a tutti i tempi e a tutti i popoli, e V. era portato a
indagare nelle loro profonde differenze e opposizioni i modi di sentire e di
pensare delle varie età. Lo sforzo grande che bisogna fare, e che egli stesso fa,
per riprendere, attraverso l'intellettualismo, la coscienza della psicologia
primitiva, è espresso da V., dove parla delle aspre difficultà che gli era
costata la ricerca per discendere da
queste nostre umane nature ingentilite a quelle affatto fiere ed immani, le
quali ci è affatto negato d'imaginare e solamente a gran pena ci è permesso
d'intendere; o, poco diversamente, quando insiste sull'impossibilità ora che le
menti umane sono troppo ritirate dai sensi perfino presso il volgo, adusate ai
tanti vocaboli astratti, assottigliate coll'arte dello scrivere, quasi
spiritualizzate dalla pratica dei numeri d’entrare nella vasta immaginativa dei
primi uomini, le menti dei quali di
nulla sono astratte, di nulla assottigliate – GRICE ONE OFF IMPLICATURE --, di
nulla spiritualizzate, anzi tutte profondate nei sensi, tutte rintuzzate dalle
passioni, tutte seppellite nei corpi, e di formare l'idea, per es., della
natura simpatetica. E quello sforzo, doloroso ma trionfante, che aveva dovuto
compiere, era un'altra delle ragioni pelle
quali egli sente come nuova la scienza. Di questa infatti, ossia della ricerca
sulla forma ideale e sull'epoca storica del certo, manca, egli dice,
tutta la filosofìa. L’ACCADEMIA la
tenta invano nel Cratilo, perché gli era rimasta ignota LA LINGUA dei primi
legislatori, dei poeti eroi, tratto in inganno dalle forinole emendate e
ammodernate che le leggi erano venute
rivestendo via via in Atene. In un errore analogo sono caduti BORDONE (vedasi) Scaligero,
Sanchez e Schopp, che presero a spiegare le lingue coi
principi della logica, e della logica del LIZIO, sorta tanti secoli DOPO le
lingue. E Grozio, Selden, Pufendorf e gl’altri
filosofi del diritto naturale meditarono anch'essi sulla natura – GRICE NATURAL MEANING -- umana
ingentilita dalla religione e dalle leggi, sicché ritrassero il corso storico
cominciando dalla metà in giù; ossia si fermarono sull'intelletto e ignorano la
fantasia, sulla volontà moralmente disciplinata e trascurarono la selvaggia passione. Egli stesso, V., se col prendere a
indagare l'antichissima sapienza ITALIANA
da segno del suo interessamento per quel problema,si era, per altro, sviato
nella ricerca, seguendo l’orme dell'autore del Cratilo. Sotto l'aspetto
filosofico, la scienza, per questa preponderanza che vi ha l'indagine delle
forme individualizzanti e in ispecie della fantasia, la dottrina dei primi
popoli come poeti e del loro pensare per
caratteri poetici è, dice V., la chiave maestra dell'opera, si potrebbe non
troppo paradossalmente definire una filosofia dello spirito con particolare
riguardo alla filosofia della fantasia,
cioè all'Estetica. L'Estetica è da considerare veramente una scoperta di V.:
sia pure colle riserve onde s'intendono sempre circondate tutte le
determinazioni di scoperte e di
scopritori, e quantunque egli non la tratta in un saggio speciale – GRICE
IMPLICATURE --, né le da il nome fortunato col quale doveva battezzarla Baumgarten.
Del resto, giova notare che nella terminologia della scienza nuova s'incontra
un nome simile ad alcuno degl’equivalenti che Baumgarten passa in rassegna pell'Estetica:
quello di Logica poetica. Ma, in fondo,
il nome importa poco, e assai importa la cosa; e la cosa è che V. espone una
idea della poesia, che era a quei tempi, e dove rimanere per un pezzo ancora,
un'ardita e rivoluzionaria novità. Persiste allora la vecchia idea praticistica
o pedagogica, che dalla tarda antichità, attraverso il Medioevo, si era
trapiantata e radicata nel Rinascimento,
della poesia come ingegnoso rivestimento popolare di sublimi concetti
filosofici – METAFORA, IPERBOLE, MEIOSI, SINEDOCCHE -- e teologici – ANALOGIA,
ALLEGORIA; e, accanto a questa, sebbene
in grado minore, l'altra che la considera come prodotto o strumento di svago e
di voluttà -- rettorica e prammatica infernza, non logica – PRATT GRICE
BERKELEY. Queste concezioni avevano alterato perfino il senso originale del
trattato del LIZIO della Poetica, nel quale venivano introdotte e poi lette
come se effettivamente il LIZIO le avesse pensate e scritte. Né il
cartesianismo le rettificò, ma piuttosto, com'era d’aspettare, data la sua
generale tendenza, attenuò e annullò
l'oggetto medesimo di quelle definizioni, come cosa di nessuno o di
trascurabile valore. In un tempo in cui si cerca di ridurre a forma matematica
la metafisica e l'etica, in cui si dispregia l'intuizione del concreto, s’escogitavano
una letteratura e una poesia atte a diffondere la scienza nel volgo o nel bel
mondo, s'iniziano tentativi per foggiare
lingue artificiali – il
deutero-esperanto di Grice -- logiche più perfette di quelle storiche e
viventi, e perfino si tene possibile di stabilire regole per comporre arie
musicali senza essere musicisti e poemi senza essere poeti; in codesto ambiente
distratto, gelido, nemico, beffardo, solo un miracolo sembra potesse
risvegliare una diversa e opposta
coscienza, una coscienza calda e veemente di quel che sia veramente la poesia e
della sua originale funzione; e questo miracolo fa compiuto dallo spirito
tormentato, agitato e scrutatore di V., il quale critica tutt' insieme le tre
dottrine della poesia, come esornatrice e mediatrice di verità intellettuali –
GRICE YOU’RE THE CREAM IN MY COFFEE --, come cosa di mero diletto, e come
esercitazione ingegnosa di cui si possa senza danno far di meno. La poesia non
è sapienza riposta, non presuppone la logica intellettuale, non contiene
filosofemi: i filosofi che ritrovano queste cose nella poesia, ve le hanno
ficcato dentro essi stessi, senza avvedersene. La poesia non è nata per
capriccio di piacere – cf. LORD GRICE
AESTHETIC INSTRUMENTALISM – maximise pleasure --, ma per necessità di natura.
La poesia tanto poco è superflua ed eliminabile che, senza d’essa, non sorge il
pensiero: è la prima operazione della mente umana. L'uomo, prima d’essere in
grado di formare universali, forma fantasmi; prima di riflettere con mente pura, avverte con animo perturbato e
commosso; prima d’articolare, canta; prima di parlare in prosa, parla in versi;
prima d’adoperare termini tecnici, metaforeggia, e il suo parlare per metafore
è tanto proprio quanto quello che si dice proprio – FIGURA DE-FIGURA, RE-FIGURA.
La poesia, non che essere una maniera di divulgare la metafisica, è distinta e opposta alla
metafìsica: l'una purga la mente dai
sensi, l'altra ve la immerge e rovescia dentro; l'una è tanto più
perfetta quanto più s'innalza agl’universali, l'altra quanto più s’appropria
ai particolari, al concreto; l'una
infievolisce la fantasia, l'altra la richiede robusta; quella ci ammonisce di
non fare dello spirito corpo, questa si
diletta di dare corpo allo spirito; le sentenze poetiche sono composte di sensi
e passioni, quelle filosofiche di riflessioni, che, usate nella poesia, la
rendono falsa e fredda: non mai, in tutta la distesa dei tempi, uno stesso uomo
fu insieme grande metafisico e grande
poeta -- LUCREZIO. Poeti e filosofi possono dirsi gli uni il senso, gl’altri l'intelletto dell'umanità; e in tale
significato è da ritenere vero il detto delle scuole che niente è
nell'intelletto che prima non sia nel senso – ma l’intelletto medesimo. Senza il senso, non si
dà intelletto; senza poesia, non si dà filosofia né civiltà alcuna. Quasi più
miracoloso di questa concezione della
poesia è che V. intravedesse la qualità genuina della lingua: problema non meglio risoluto e
assai meno agitato e investigato dalla
filosofia. La lingua si sole, a volta a volta, o confonderlo colla logicità o
abbassarlo a semplice SEGNO estrinseco e convenzionale o, per disperazione,
dichiararlo d’origine divina. V. intende
che l'origine divina è, in questo caso, un rifugio da pigri, e che la lingua
non è né logicità NÉ ARBITRIO, e, al pari della poesia, non è prodotto
né di sapienza riposta NÉ DI PLACITO o convenzione. La lingua sorge NATURALMENTE.
Nella prima forma d’essa, gl’uomini si spiegarono con atti muti, ossia per cenni,
e con corpi aventi naturali rapporti all’idee che vuoleno SIGNIFICARE, ossia
per oggetti simbolici. Ma, anche pella
lingua articolata e la lingua volgare, con troppo di buona fede, cioè con
iscarso accorgimento, è stato ricevuto d’ogni filologo che esse SIGNIFICANO A
PLACITO; laddove, pell’anzidette origini, dovettero SIGNIFICARE NATURALMENTE –
Grice, MEANING NATURAL AND NON-NATURAL --, e ogni parola volgare cominciare certamente d’un singolo individuo –
GRICE IDIOSYNCRASY – d’una nazione e provenire dalla lingua primitiva per cenni
e per oggetti. Nella lingua del LAZIO, come nelle altre, s’osserva che quasi
ogni voce è formata per proprietà naturali o per trasporti; e il maggior corpo d’ogni
lingua, presso ogni nazione, è costituito dalla metafora – Grice YOU’RE THE
CREAM IN MY COFFEE. La diversa opinione deriva dall'ignoranza dei grammatici, i
quali, abbattutisi in gran numero di vocaboli che offrono idee confuse e
indistinte, non sapendone l’origini onde sono un tempo luminose e distinte,
escogitarono, per darsi pace, la dottrina del PLACITO e la convenzione, e vi
trassero il LIZIO e Galeno, armandoli contro l’ACCADEMIA e Giamblico. La grave
difficoltà che si suole mettere innanzi contro l'origine naturale del
linguaggio e in favore della convenzione, la diversità delle lingue volgari
secondo i popoli, si scioglie col considerare che i popoli, pella diversità dei
climi, temperamenti e costumi, guardarono le medesime utilità o necessità della vita sotto aspetti
diversi, e perciò produssero lingue diverse; com'è comprovato altresì dai
proverbi, che sono massime di vita umana sostanzialmente identiche, eppure
spiegate in tanti diversi modi quante sono state e sono le nazioni.
Singolarmente importante è poi l'insistenza onde V. professa d’avere ritrovato
le vere origini delle lingue nei
principi della poesia: con che viene, per una parte, riasserita l'origine
spontanea e fantastica della lingua, e dall'altra, se non per esplicito, certo
per implicito, si tende a sopprimere la dualità di poesia e lingua. Nei quali
principi della poesia V. ritrova non
solamente l'origine della lingua, ma anche quella delle lettere o
scritture, dichiarando errore di
grammatici la separazione fatta tra le due origini, che sono congiunte per
natura e che come tutt'una cosa si presentano nella lingua primitiva mutola,
per cenni e per oggetti. La sapienza riposta e la
convenzione non hanno luogo neppure qui: i geroglifici non sono un ritrovato di
filosofi per nascondervi dentro i misteri delle
loro grandi idee, ma comuni e naturali necessità d’ogni primo popolo; e
solamente le scritture alfabetiche nacquero tra i popoli già inciviliti per
effetto di libera convenzione. In altri termini, V. viene a distinguere, sia
pure in modo confuso, nelle cosi dette scritture quella parte che è
propriamente scrittura e perciò convenzione, dall'altra che è invece DIRETTA ESPRESSIONE – DAVIS GRICE MEANING AND
EXPRESSION – ESTETICA DI CROCE --, e perciò lingua, favola, poesia, pittura.
Caratteristica di queste scritture espressive o lingue è l'inseparabilità del
contenuto dalla forma; la loro ragione poetica è tutta qui: che la favola e L’ESPRESSIONE
sono una cosa stessa, cioè una metafora
comune ai poeti e ai pittori, sicché un mutolo senza espressione verbale
possa dipingerla. V. arreca in esempio d’esse alcuni aneddoti tradizionali,
come le cinque parole reali, la ranocchia, il topo, l'uccello, il dente
d'aratro e l'arco da saettare, che Idantura, re degli sciti, manda in risposta
a Dario che gli aveva intimato guerra; e l'apologo degl’alti papaveri che re TARQUINIO svolge innanzi agl’occhi
dell'ambasciatore di suo tìglio Sesto circa il modo di domare Gabì:
procedimenti ESPRESSIVI non diversi da costumanze che s’osservano ancora presso
popolazioni selvagge e presso i volghi; e poi, altresì, l’imprese, le bandiere,
gl’emblemi delle medaglie e monete. Una frivola favoletta – FAVOLA – FAME --,
che rimpicciolisce e calunnia l'ufficio
vero dell’imprese, narra come esse venissero inventate nei tornei di Germania,
qual costume di galanteria, dai garzoni che gareggiavano per meritare l'amore
delle nobili donzelle. Ma l’imprese, nel Medioevo, sono cosa seria, come a dire
la scrittura geroglifica di quell'età: un parlare – GRICE PARABOLARE -- muto,
che suppliva la povertà dei parlari convenuti o delle scritture alfabetiche; e
solamente più tardi, nei tempi colti, diventarono gioco e diletto, si
convertirono in imprese galanti ed erudite, le quali bisogna animare coi motti,
perché, ora, hanno SIGNIFICAZIONI solamente analoghe, laddove quelle primitive
e naturali sono mutole e tuttavia
parlano senza bisogno d'interpetri – Those spots didn’t mean anything to me,
but to the doctor they meant that he had the measles. In questa schietta
naturalità perdurano nei tempi colti alcune di tali forme espressive; per es.,
le insegne o bandiere, che sono una certa lingua armata, colla quale le
nazioni, come prive di FAVELLA, si fanno intendere tra loro nei maggiori affari
del diritto naturale delle genti, nelle guerre, alleanze e commerci. Cosi, al
lume del concetto estetico pensato da V., poesia, parole, metafore, scritture,
simboli figurati, tutto si rischiara di lampi e dà guizzi di vita: cose grandi
e cose piccole, l'EPOS e l'araldica. La dottrina delle forme fantastiche riceve un avviamento nuovo
affatto nella storia dell’idee; perché se
V. s’oppone coi suoi concetti alle scuole del suo tempo e specie alla
cartesiana, nemmeno poi annoda e ripiglia altra scuola o tradizione più o meno
remota. Egli stesso sente la propria opposizione come diretta non contro una
scuola particolare, ma contro tutte quelle
che, nei secoli, avevano formolato dottrine sull'argomento. Circa la
poesia dice che egli rovescia tutto ciò che se n’è pensato da Platone e poi da
Aristotele via via fino ai recenti Patrizzi, Scaligero BORDONE e Castelvetro
(si veda), i quali si perderono in inezie tali che fa vergogna fin riferirle. Patrizzi
fa nascere la poesia dai canti degl’uccelli
e dal sibilo dei venti! Circa la lingua,
il suo intendimento non è rimasto soddisfatto né da Platone né dai Lazio,
Scaligero BORDONE e Sanchez. Circa le lettere, rifiutata l'origine divina che
era sostenuta da Mallinkrot ed Elingio, o, che vale il medesimo, interpetratala
a suo modo, dà saggio per iscandalo delle vane opinioni, incerte, leggiere,
sconce, boriose e ridevoli, che le
facevano provenire dai goti e per essi d’Adamo e dalla personale comunicazione
di Dio, o più direttamente dal paradiso terrestre, o d’un gotico Mercurio
inventore. Circa l’imprese, infine, osserva che i tanti che n’avevano composto
trattati, non n’avevano inteso nulla, e, solo per caso e indovinando,
lasciavano trapelare un seniore della
verità col chiamarle eroiche. In realtà, sarebbe difficile assegnare veri e
propri precedenti ai concetti estetici di V., e tutt'al più si potrebbero
ritrovarne vaghe suggestioni in certe sparse sentenze che egli raccoglie;
qualche stimolo più prossimo nelle dispute secentesche sulle differenze tra
intelletto e ingegno, ragione e immaginativa,
dialettica e rettorica; e qualche riscontro di particolari estrinseci,
come nei ravvicinamenti fatti da qualche retore di quel tempo, il Tesauro,
delle arguzie rettoriche parlate colle arguzie figurate. Senonché quei
concetti, nati da cosi possente getto d’originalità, non appena dai loro
lineamenti generali si passi alle determinazioni particolari, dall'idea o ispirazione originaria agli svolgimenti
effettivi, si vedono come turbarsi, ondeggiare, barcollare. Lasciamo da parte
le varie successive opinioni che V. tenne, e che si legano al processo storico
del suo spirito, sulla poesia, sulla lingua o sulla metafora, dalle orazioni
accademiche e poi dal De ratione e dal De antiquissima al Diritto universale, e ancora da questo alla prima, e dalla prima alla seconda Scienza
nuova: indagine che potrebbe porgere argomento a un'apposita dissertazione e
che non entra nel quadro della nostra esposizione. Ma, anche nella forma ultima
del suo pensiero estetico, coesistono dottrine contradittorie. Egli non sta
pago a dire, come ha detto, che la forma poetica è la prima
operazione della mente, che essa è
costituita da sensi di passione, è tutta fantastica, priva di concetti e di
riflessioni; ma aggiunge che la poesia, diversamente dalla storia, rappresenta
il vero nella sua idea ottima, e compie perciò quella giustizia e attribuisce
quel premio e quella pena che spetta a ciascuno e che non sempre s’ottiene
nella storia, dominata sovente dal
capriccio, dalla necessità e dalla fortuna. Dice ancora che la poesia ha per
suo fine l'animazione dell'inanimato, essendo il più sublime lavoro d’essa
indirizzato a dare vita e senso alle cose insensate. Dice che la poesia non è
altro che imitazione, e che i fanciulli, i quali valgono assai nell'imitare,
sono poeti, e che i popoli primitivi,
fanciulli del genere umano, furono in Si veda il capo della parte storica della
Estetica di CROCE.] sieme sublimi poeti. Dice che la poesia ha per propria materia l'impossibile credibile, com'è impossibile che i corpi siano menti e pure fu
creduto che il cielo tonante è Giove, onde i poeti non s’esercitarono in altro
maggiormente che nel cantare i prodigi
compiuti dalle maghe per opera d'incantesimi. Dice che la poesia è nata d’inopia,
ossia che è un effetto d'infermità dello spirito; perché l'uomo rozzo e di
debole cervello, non potendo soddisfare il bisogno che prova del generale e
dell'universale, foggia a sostituzione i generi fantastici, gl’universali o
caratteri poetici; e che, per
conseguenza, il vero dei poeti e il vero dei filosofi sono lo stesso,
questo astratto e quello rivestito d'immagini, questo una metafisica ragionata
e quello una metafisica sentita e immaginata, confacente all'intendimento
popolaresco. Parimente d’inopia, cioè dall'incapacità ad articolare, nasce il
canto, e perciò i muti e gli scilinguati escono in suoni che sono canti; e dall'incapacità a SIGNIFICARE
le cose in modo PROPRIO, le metafore – GRICE YOU’RE THE CREAM IN MY COFFEE. Dice, infine, che lo scopo della poesia è d'INSEGNARE
al volgo l'operare virtuosamente. In questi detti sono accennati i più diversi
concetti sulla poesia, alcuni conciliabili colla dottrina fondamentale, ma proposti senza mediazione e perciò
effettivamente non conciliati; altri, affatto inconciliabili. V. potrebbe
essere, a volta a volta, sul fondamento di singoli testi, presentato come
sostenitore dell'estetica moralistica, pedagogica, astratta e tipeggiante,
mitologica, animistica, e via discorrendo. E se non ricasca nelle vecchie
teorie che egli aborre, e se non si
dissipa tra gl’errori nuovi che precorre, si deve al fatto che su tutte quelle
varietà e incoerenze sormonta costante il pensiero che la poesia è la prima
forma della mente, anteriore all'intelletto e libera da riflessione e
raziocini. Come non seppe, valendosi del suo principio capitale, sceverare e
accorciare gl’altri che circa la natura della poesia esistevano nella tradizione scientifica o
erano stati da lui escogitati, cosi non riusci a liberarsi dalla tirannia delle
classificazioni empiriche, vecchie e nuove. In cambio, si sforza di
filosofarle, e tenta di dedurre serialmente le diverse forme della poesia,
epica lirica drammatica; del verso e del metro, spondaico giambico prosastico;
del parlare figurato, metafora metonimia
sineddoche ironia – GRICE LEECH CONVERSATIONAL RHETORIC; delle parti del discorso, onomatopee
interiezioni GRICE OUCH pronomi particelle nomi – Figgo is shaggy -- verbi,
modi e tempi del verbo, al qual proposito richiama perfino un caso d’afasia da
lui osservato in Napoli in persona d’un uomo onesto tócco da grave apoplessia, il quale mentova
nomi e si è dimenticato affatto de’verbi, delle scritture, geroglifiche
simboliche alfabetiche; delle lingue secondo la loro crescente complessità, che
va dalle parole monosillabiche alle composte e dalla prevalenza di vocali e
dittonghi alla prevalenza delle consonanti. In questi tentativi dissemina
dappertutto interpetrazioni nuove e
parzialmente vere di fatti particolari; ma non giunse, e non poteva, a
sistemazione scientifica. E neppure vide chiaro nella relazione della poesia colle
altr’arti, che talora unificò con quella, come quando considera intrinsecamente
identiche pittura e poesia, e viene notando analogie tra la poesia e la pittura
del Medioevo; e, tal'altra, stranamente
separò, come quando pretende che la delicatezza delle arti sia frutto delle
filosofie e che delicatissime siano pittura, scultura, fonderia e intaglio,
perché debbono astrarre le superficie dai corpi che imitano. Queste incoerenze
ed errori, che abbiamo passati in rapida rassegna, se in parte derivano da
scarsa capacità di distinzione e d’elaborazione,
per un'altra e maggiore parte si riportano più direttamente al già chiarito
vizio fondamentale che è nella strattura della Scienza nuova e qui,
propriamente, allo scambio fatto da V. tra il concetto filosofico della forma
poetica dello spirito e il concetto empirico della forma barbarica della
civiltà, talché, egli stesso dichiara, questa prima età del mondo si può dire con verità
tutta occupata d'intorno alla prima operazione della mente. Ma la prima età del
mondo, essendo costituita d’uomini in carne ed ossa e non da categorie
filosofiche, non potè essere occupata intorno a una sola operazione della
mente. Quest'una poteva, come si suol dire, prevalere (e la parola stessa
scopre il carattere quantitativo e
approssimativo del concetto); ma tutte l’altre dovevano essere in atto insieme
con lei, la fantasia e l'intelletto, la percezione e l'astrazione, la volontà e
la moralità, il cantare e il numerare. A siffatta evidenza V. non poteva
sottrarsi, epperò in quella fase di civiltà introdusse non solo il poeta, ma
anche il teologo, il fisico,
l'astronomo, il pater familias, il guerriero, il politico, il
legislatore; senonché l’attività di tutti costoro volle considerare e chiamare
poetiche, con metafora tratta dall'asserita prevalenza della forma fantastica
dello spirito, e il complesso d’esse sapienza poetica. Il carattere metaforico
della denominazione è accusato, o balza agl’occhi, in alcuni luoghi caratteristici; come dove le arti, ossia le arti meccaniche, produttrici
pratiche d’oggetti per gl’usi della vita, sono definite poesie in certo modo
reali, e l'antico DIRITTO ROMANO, per l'abbondanza delle formole e cerimonie
onde si riveste, è detto poema drammatico serio. Ma le metafore sono
pericolose, quando, come nel caso della Scienza
nuova, trovano terreno favorevole alla loro conversione in concetti; e,
infatti, l'età storica, barbarica, metaforeggiata come sapienza poetica, non
tarda a trasformarsi, presso V., nell'età ideale della poesia, conferendo a
quest'ultima tutte le proprie attribuzioni. Colà erano teologi, e la poesia fu
considerata da V. come teologia, sebbene
fantastica; educatori, e fu fatta
educatrice, sebbene di volgo; sapienti di cose fisiche, e fu fatta sapienza,
sebbene di fisica immaginaria. E poiché quei barbari non potevano non pensare
per concetti, rozzi che questi fossero e involti nelle immagini, i fantasmi
della poesia, individuati, singolarizzati, le sentenze d’essa sempre
corpulente, si falsificarono in
universali fantastici, che sarebbero qualcosa di mezzo tra l'intuizione,
che è individualizzante, e il concetto, che universalizza: la poesia, che dove
rappresentare il senso, lo schietto senso, rappresenta invece il senso già
intellettualizzato, e il detto che niente si trova nell'intelletto che non sia
già nel senso, acquistò il significato che l'intelletto è il senso stesso, schiarito, o il senso
l'intelletto stesso, confuso; onde non si ebbe più bisogno dell'aggiunta
cautela: nìsi intellectus ipse. Per converso, la civiltà barbarica divenne come
una mitologia o allegoria dell’ideale età poetica; e i primi popoli furono
trasformati in moltitudini di sublimi poeti; come poeti furono fatti, nella ontogenesi
corrispondente a tale filogenesi, perfino i fanciulli. Il concetto
dell'universale fantastico come anteriore all'universale ragionato concentra in
sé la duplice contradizione della dottrina; perché all'elemento fantastico
dovrebbe essere congiunto in quella formazione mentale l'elemento
dell'universalità, il quale, per sé preso, sarebbe poi un vero e proprio
universale, ragionato e non fantastico: donde una petitio principii, per
la quale la genesi degl’universali ragionati, che dovrebbe essere spiegata,
viene presupposta. E, d'altro canto, se l'universale fantastico s'interpetrasse
come purificato dell'elemento universale e logico, cioè come mero fantasma, la
coerenza si ristabilirebbe certamente nella dottrina estetica; ma la sapienza poetica o civiltà
barbarica verrebbe mutilata d’una parte essenziale del suo organismo, perché
privata d’ogni sorta di concetti, e, per dir cosi, disossata. Per risolvere la
contradizione conveniva dissociare poesia e sapienza poetica; del che, in
verità, s'incontra qualche accenno presso V. Egli confessa talvolta, quasi involontariamente, la non corrispondenza tra
la categoria filosofica e il tipo sociale, e per quest'ultimo è costretto a
ricorrere ai press'a poco, e ai più o meno. Gli accade di dire, per es., che
gli uomini primitivi erano nulla o assai poco ragione e tutti robustissima
fantasia, quasi tutti corpo e quasi niuna riflessione; ovvero, dopo avere
distinte con filosofiche pretese tre
lingue degli dèi, degl’eroi e degl’uomini, osserva che la lingua degli dèi fu
quasi tutta muta e pochissimo
articolata; la lingua degl’eroi mescolata egualmente di articolata e di
muta; la lingua degl’uomini quasi tutta articolata e pochissimo muta. La
favella poetica, ammette ancora,
sopravvive alla sapienza poetica e scorre per
lungo tratto dentro il tempo istorico o età civile, come, dice con
magnifica immagine, i grandi rapidi fiumi si spargono molto dentro il mare e
serbano dolci l'acque portatevi colla violenza del corso. Anche nei tempi
moderni non si può dismettere il parlare fantastico, e per ispiegare i lavori
della mente pura ci han da soccorrere i parlari poetici per trasporti de'sensi. La poesia non sembra che
sia finita colla fine della barbarie, perché pur nei tempi civili sorgono
poeti; e che quelli della prima epoca fossero fantastici per natura, e i nuovi
tali si facciano per arte ed industria, ossia, come V. vuole, collo sforzarsi
di perdere memoria delle parole proprie, di purgarsi delle filosofie, di
riempirsi la mente di pregiudizi
fanciulleschi o volgari, di rimettere la mente in ceppi costringendosi, tra
l'altro, all'uso della rima, queste
restrizioni, del resto facilmente confutabili, s’affaticano invano a sminuire
l'importanza del fatto riconosciuto: che la poesia è di tutti i tempi, e non di
quello solo barbarico; è una categoria ideale e non un fatto storico. Ma le restrizioni anzidette, come la rarità e la
timidezza degl’accenni ricordati, provano che V. non era in grado d’eseguire la
dissociazione tra poesia e sapienza poetica, impeditone dall'ibridismo del
concetto e del metodo stesso della Scienza nuova. Se, per altro, l'idea della
poesia come pura fantasia, nonostante tutte le confusioni e incoerenze
nelle quali s’avvolge, non fosse rimasta
salda nel fondo del pensiero di V., e non avesse operato, per cosi dire, nel
sottosuolo della Scienza nuova, non sarebbe agevole, né forse possibile,
intendere la concezione capitale che domina la sua filosofia dello spirito, e
che è strettamente legata con quell'idea. Diciamo, la concezione dello spirito
come sviluppo, o, per adoperare la terminologia propria di V., come corso o
spiegamento: concezione la quale, pur senza espressa contrapposizione, supera
quella ordinaria, limitantesi quasi esclusivamente a enumerare e classificare
le facoltà dello spirito. La dottrina degl’universali fantastici come spontanee
formazioni mentali, universali rozzi ma forniti d’un motivo di vero, era certamente bastevole come
strumento per debellare l'empirica teoria che fa sorgere le civiltà d’un'alta e
ragionata saggezza ordinatrice, opera personale di Dio o di uomini sapienti,
sorti NON SI SA COME e piovuti NON SI SA DONDE. V. pone chiaro il dilemma delle
due e non più guise di spiegare l'origine della civiltà: o nella riflessione d’uomini sapienti, ovvero in un certo senso e istinto umano d’uomini
bestioni; e si risolve pella seconda ipotesi, per i bestioni che via via s’erano
fatti uomini; cioè pel pensiero che s’evolve dall'universale fantastico a
quello ragionato, per l'assetto sociale che procede via via dalla forza all'EQUITÀ.
Ma era quella concezione bastevole per
fondare la storia ideale o filosofia dello spirito? Nella filosofia dello spirito, essa si
sarebbe tradotta in qualcosa di simile, se non d'identico, alla dottrina che,
per effetto del cartesianismo e anche d’una certa tal quale rinascita che ebbe
la scolastica di Duns Scotus, corre ai tempi di V., e secondo cui la vita dello
spirito s’esplica nei gradi successivi
del concetto oscuro, confuso, chiaro e distinto: Leibniz, com'è noto, fa
argomento di speciale studio le percezioni oscure e confuse, le petltes perceptions. Dottrina nel suo intrinseco intellettualistica, perché i concetti,
confusi e oscuri che fossero, erano pur sempre concetti; e impotente perciò a
dare ragione, nonché della poesia, neppure
delio sviluppo spirituale, che non può intendersi, nella sua dialettica
quando sia costituito di differenze meramente quantitative, le quali, in
realtà, non sono differenze ma identità e perciò immobilità; e, infatti, tutto
quell'indirizzo fa, insieme, antiestetico e statico, privo d’una vera dottrina
della fantasia e d’una vera dottrina dello sviluppo. Il pensiero di V. ò, invece, avverso
all'intellettualismo, simpatico alla fantasia, tutto dinamico ed evolutivo; lo
spirito è, per lui, un eterno dramma; e, poiché il dramma vuole tesi e
antitesi, la sua filosofia della mente è impiantata sull'antinomia, cioè sulla
reale distinzione e opposizione di fantasia e pensiero, poesia e metafisica,
forza ed EQUITÀ, passione e moralità,
per quanto egli sembri talvolta, pelle ragioni già note, disconoscerla o,
piuttosto, per quanto venga talvolta a ingarbugliarla con indagini e dottrine
empiriche e con determinazioni storiche. Anche la dottrina di V. sul mito, se è
non meno originale e profonda di quella circa la poesia, non è del tutto
limpida, perché le relazioni tra poesia
e mito sono cosi strette che l'ombra gettata sull'una deve necessariamente
stendersi in qualche modo sull'altro. Proseguendo a indagare, come abbiamo
fatto sin qui e faremo sempre nel séguito, lo stato delle cognizioni ai tempi di
V. secondo le varie discipline e problemi che egli prese a trattare, ricorderemo
in breve, circa gli studi sulla
mitologia, come tra il Cinque e il Seicento non solamente si mettessero
insieme grandi compilazioni letterarie di miti, delle quali già aveva dato
esempio, nel Trecento, Boccaccio, ma venissero dottamente propugnate le due
teorie esplicative già note all'antichità classica e non ignote del tutto al
Medioevo: la teoria del mito come allegoria di verità filosofiche, morali, politiche, e via
discorrendo, e quella del mito come storia di personaggi effettivamente esistiti
e d’avvenimenti accaduti, adornate dall'immaginazione che divinizza gl’eroi, evemerismo.
L'allegorismo ispira, tra l'altre, l'opera di Conti, MythologicB sive
explanationis fabularum libri decerti e il De sapientia veterum di Bacone; dove, per altro, quel sistema era proposto
non senza qualche dubbio e colla espressa cautela che, se anche non vale come
interpetrazione storica, avrebbe potuto sempre mantenere il suo valore di
moralizzazione, aut antiqultatem illustrabimus aut res ipsas. Il neoevemerismo
era rappresentato autorevolmente da Giovanni Ledere, Clericus, l'erudito ginevrino-olandese verso cui tanta reverenza
e gratitudine ebbe a professare V. per aver degnato d’attenzione il suo Diritto
universale, e del quale fece epoca, in materia mitologica, l'edizione della
Teogonia esiodea; lo segui tra gl’altri Banier, autore di Les fables expllquèes par l'histoire. Un terzo sistema, anch'esso non senza qualche
precedente antico, deriva i miti da
popoli particolari, dagl’egiziani o dagl’ebrei, ovvero dall'opera di singoli
filosofi e poeti inventori; e, quando non si risolve in una pura e semplice
ipotesi storica sulla formazione di alcuni o di tutti i miti trasmessi
dall'antichità o non si riporta alla rivelazione divina, è chiaro che implica
la teoria che il mito sia non già una
forma eterna, ma un contingente prodotto dello spirito, il quale, com'è
nato una volta, cosi possa morire o sia già morto. V. s’oppone risolutamente
alla prima e alla terza scuola, all'allegorismo e alla dottrina della
derivazione storica; e ricorda, perla prima, il trattato di BACONE dal quale tratta
incentivo a meditare sull'argomento, ma ch'egli
giudica più ingegnoso che vero; e per l'altra scuola, considerante i
miti come storie sacre alterate e corrotte dai gentili e in particolare dai
greci, il De theologla gentili di Vossio, la Demonstratio evangelica di Huet, e
il Phaleg et Canaan di Bochart. I miti o favole non contengono sapienza
riposta, cioè concetti ragionati, avvolti consapevolmente nel velo della favola; e perciò non sono allegorie.
L'allegoria – GRICE SCATOLOGIA FILOSOFICA -- importa che s’abbia, d’una parte, il concetto o significato, dall'altra
la favola o involucro, e tra le due cose l'artifizio che le fa stare insieme.
Ma i miti non si possono scindere in questi tre momenti, e neppure in un
significato e un significante: i loro
significati sono univoci. Importa altresì, quella teoria che chi crede
al contenuto non creda alla forma; ma i creatori dei miti dettero ingenua e
piena fede a quelle loro creazioni; e fintasi, per es., la prima favola divina,
la più grande di quante mai se ne finsero in appresso, GIOVE ROMANO re e padre
degli dèi e degl’uomini in atto di fulminante,
essi stessi che se lo finsero lo credettero, e con ispaventose religioni
lo temerono, riverirono e osservarono. Il mito, insomma, non è favola ma
storia, quale possono formarsela gli spiriti primitivi, e da questi è
severamente tenuta come racconto di cose reali. I filosofi che sorsero
posteriormente, servendosi dei miti per esporre in modo allegorico le loro dottrine – cleaning the stables at
Oxford – GRICE --, ovvero illudendosi di ritrovarvele per quel senso di
riverenza che si porta all'antichità tanto più venerabile quanto più oscura,
ovvero stimando comodo di giovarsi di tale espediente per i loro fini politici,
e cosi Platone omerizzando e, nel tratto stesso, platonizzando Omero; resero i
miti favole, quali in origine non erano
e intrinsecamente non sono. Onde è da dire che filosofi e mitologi furono
piuttosto essi i poeti che immaginarono tante strane cose sulle favole, laddove
i poeti o creatori primitivi furono i veri mitologi e intesero narrare cose
vere dei loro tempi. Per la medesima ragione, ossia per essere i miti parte
essenziale della sapienza poetica o
barbarica, e come tale spontanei in tutti i tempi e luoghi, non si può
attribuirli a un singolo popolo che li avrebbe inventati e dal quale si
sarebbero trasmessi agl’altri, quasi ritrovato particolare d’uomini particolari
od oggetto di rivelazione. Codesta dottrina, superante l'allegorìe mò e lo
storici 5 srao, è un altro aspetto della
rivendicazione che V. compi delle forme conoscitive alogiche contro l'
intellettualismo, il quale le nega appunto col presentarle ora come forme
artificiali ora come prodotti accidentali o dovuti a cause soprannaturali. Né
sembra accettabile l'opinione che aggrega
V. all'indirizzo neoevemeristico, da lui in verità non combattuto
espressamente e verso il quale presenta
anche, se si vuole, alcune superficiali somiglianze, ma insieme colle
somiglianze questa radicale diversità: che per lui le favole non sono
alterazioni di storie reali né si riferiscono di necessità a individui reali –
BELLEROPHON RODE PEGASUS GRICE --, ma sono intrinsecamente verità storica,
nella forma che la verità storica suol
prendere nelle menti primitive. Altra più precisa determinazione circa la
natura del mito V. non dà né poteva, appunto perché essendo in lui ondeggiante
il concetto stesso della poesia, egli non era in grado di segnare i limiti tra
le due forme. Parlò, in genere, di poesia e di mito come di cose distinte, ma
non fermò la distinzione. Eppure, V. si
era bene imbattuto nel concetto che porge quel criterio distintivo, e
l'aveva enunciato; senonché, in cambio di valersene pella dottrina del mito, ne
aveva fatto una o alcune delle sue parecchie definizioni della poesia. Quel
carattere poetico, quell'universale fantastico che, introdotto nell'estetica
come principio esplicativo della poesia, dà origine a tante insuperabili difficoltà, è invece, pell'appunto,
la definizione del mito, e come tale fornisce alla scienza della mitologia il
vero principio che le bisogna. Se il concetto del compiere grandi fatiche pel
comune vantaggio non si sa staccare dall'immagine d’un uomo particolare che
abbia compiuto alcuna di quelle fatiche – GRICE THE STABLES OF OXFORD --, quel
concetto diventa il mito, per es., di ERCOLE; ed Ercole è insieme un individuo
che fa azioni individuali e uccide l'idra di Lerna e il leone nemeo o LAVA LE
STALLE D’AUGIA – GRICE RETROSPECTIVE EPILOGUE --, ed è un concetto; come il
concetto dell'operosità utile e gloriosa è un concetto ed è, insieme, Ercole:
è un universale – AND SOURCE OF IDIOMS
-- e un fantasma: un universale fantastico – that every Oxonian learns about,
even if rich. Anche quel sublime lavoro., che V. dice proprio della poesia, di
dare vita alle cose inanimate, spetta non propriamente alla poesia ma al mito –
those spots naturally NATURA DEVS mean measles. Il quale, incorporando i concetti in immagini, ed
essendo l’immagini sempre qualcosa d'individuale, viene ad atteggiarli come
esseri viventi. Cosi gl’uomini primitivi, che non conoscevano la cagione del
fulmine – or of dark clouds -- e perciò non ne possedevano la definizione
fisica fisiologica naturale, erano tratti, miteggiando, a concepire il cielo
come un vasto corpo animato con una
mente che menta – MEAN STEVENSON ‘The barometer ‘means’ that --, che a
somiglianza d’essi medesimi quando erano in preda alle loro violentissime
passioni, urlando, brontolando, fremendo, parlasse e volesse dire qualche cosa.
E del mito e non della poesia si deve riconoscere l'origine nell'inopia, nella
debolezza della mente e nella sua
inadeguazione ai problemi che vuole risolvere, nell’incapacità a pensare per
universali ragionati e a esprimersi con termini propri, onde sorgono gl’universali
fantastici e le metonimie e le sineddoche e ogni sorta di metafore ed
IMPLICATURE -- espresse. Le contradizioni, notate da noi nell'universale
fantastico e che lo rendono inadatto a
fondare la dottrina estetica – GRICE: I EXPRESS MY BELIEF --, stanno
perfettamente a posto nella dottrina del mito; il quale è, pell'appunto, questa
contradizione: un concetto che vuol essere immagine e un'immagine che vuol
essere concetto, e perciò un'inopia, anzi un'impotenza potente, un contrasto e
una transizione spirituale, dove il nero non è ancora e il bianco muore.
Infine, la sapienza poetica, cioè la teologia, fisica, cosmografia, geografia,
astronomia e tutto il complesso delle restanti idee e credenze dei popoli primitivi,
esposte da V., erano effettivamente mito e non, come egli dice, poesia, pella
buona ragione ch'egli stesso adduce che quelle erano le loro storie; e la poesia è poesia e non istoria, neppure più
o meno fantasticata. Poesia, i poemi omerici in quanto esprimevano i sentimenti
e le umane aspirazioni della grecità – I’ve been washing the stables --;
storia, gli stessi poemi omerici, in quanto erano cantati e ascoltati come
racconti di fatti realmente accaduti: due forme di prodotti spirituali che,
se sembrano materialmente raccogliersi
in una stessa opera, non per ciò s'identificano. Tutto questo V. vede e non
vede, o, meglio, ora intravede e ora travede e perciò non si può dire che
riesca a determinare veramente la distinzione e a risolvere il problema dei
rapporti tra mito e poesia. Un altro importante e ancora assai dibattuto
problema della scienza mitologica, se
cioè il mito sia filosofia o storia, potrebbe credersi, invece, da lui risoluto
in modo netto; perché egli ripete molte volte che i miti contengono sensi
storici, e non già filosofici, dei popoli primitivi; ma, in realtà, ove si
faccia bene attenzione, si scorge che egli, nonché risolverlo, non se lo
propone neppure. I sensi storici, che V.
assevera, sono contrapposti non propriamente ai sensi filosofici in
genere, ma ai sensi mistici d’altissima filosofia e ai sensi analogi – GRICE
ANALOGIA COME IMPLICATURA --, che i mitologi da lui criticati vi ritrovavano;
cioè, d’una parte ripetono la critica all'allegorismo e, dall'altra, combattono
quel cattivo modo d'interpetrazione storica
che trasferisce idee e costumi moderni ai popoli antichi. La sua teoria
si concilia, a dir vero, alla pari con quella che avvicina il mito alla filosofia,
e coll'altra che l'avvicina alla storia; coll'eclettica che ammette entrambi gl’elementi,
e colla speculativa, che li ammette altresì entrambi ma perla ragione che
filosofia e storia, cosi in sé medesime come
nel mito, costituiscono, in fondo, una cosa sola e indivisibile. Come
inopia, il mito deve essere superato. La mente umana che agogna naturalmente d’unirsi
a Dio donde ella viene, cioè al vero Uno, e che non potendo per l’esuberante natura sensuale dell'uomo
primitivo esercitare la facoltà, sepolta sotto i loro sensi troppo vigorosi, d’astrarre
dai subietti le proprietà e le forme
universali, s’era finta le unità immaginarie, i generi fantastici o i miti, nel
suo successivo SPIEGARSI – EXPLICATURA -- o esplicarsi risolve via via i generi
fantastici in generi intelligibili, gl’universali poetici in ragionati, e si
libera dai miti. L'errore del mito passa cosi nella verità della filosofia. V.
conosce e adopera un concetto
dell'errore, dell'errore propriamente detto, nascente dalla volontà e non dal
pensiero, il quale quanto a sé non erra mai, mens enim semper a vero urgetur
quia nunquam aspectu amittere possumus Deum; dell'errore che consiste in vuote
parole arbitrariamente combinate, verbo, autem scepissime veri vini voluntate MENTIENTIS
– GRICE MEANING -- eludimi oc mentem deserunt, immo nienti vim faciunt et Dea
obsistunt; dell'errore, insomma, che, per adoperare la sua efficace
descrizione, si ha quando gl’uomini mentre colla bocca dicono, non hanno nulla
in lor mente, perocché la lor mente è dentro il falso, che è nulla. Ma sa anche
che l'errore non è mai del tutto
errore, appunto perché, non potendosi
dare idee false e consistendo il falso soltanto nella sconcia combinazione
delle idee, in esso è sempre il vero, e ogni favola ha qualche motivo di
verità. Perciò, lungi dal disprezzare le favole, ne riconosce il valore quasi d’embrione
del sapere riposto o della filosofia che si svolge poi. I poeti, ossia, nel
nuovo significato che assume in V.
questa parola, i creatori dei miti, sono il senso, cioè, nel nuovo significato, la filosofia rudimentale e
imperfetta – stone-age physics --; e i filosofi sono l'intelletto dell'umanità
(vale a dire, la filosofia più compiuta, che nasce dalla precedente). L'idea di
Dio s’evolve a poco a poco da Dio, che colpi la fantasia dell'uomo isolato,
al Dio delle famiglie, divi parentum, al
Dio della classe sociale o della patria, divi patrii, al Dio delle nazioni,
fino a quel Dio che a tutti è GIOVE, al Dio dell'umanità. Le favole destarono
Platone a intendere le tre pene divine, che gli dèi solamente, e non gl’uomini,
possono infliggere: l'oblio, l'infamia e il rimorso; il passaggio pell’Inferno
gli suggerì il concetto della via
purgativa onde l'anima si purifica dalle passioni, e l'arrivo agl’elisi quello
della via unitiva onde la mente va ad unirsi a Dio per mezzo della
contemplazione delle eterne cose divine. Dalle somiglianze e metafore dei poeti
Esopo trasse gl’esempì e gl’apologi con cui dette i suoi avvisi; e
dall'esempio, che si fonda sopra un caso
solo e soddisfa le menti rozze, si svolge l'induzione, che si vale di
più casi simili, quale l'insegnò Socrate colla dialettica, e successivamente il
sillogismo, che Aristotele scoperse e che non regge senz’un universale. L’etimologie
delle parole svelano le verità intraviste dai primi uomini e deposte nella loro
lingua; per es., -- MEAN GRICE -- ciò che
i filosofi con gravi ragioni hanno dimostrato che i sensi fanno essi le
qualità sensibili, è già adombrato nella parola OLFACERE – GRICE ODOUR SMELL --
della lingua del LAZIO, che implica il pensiero che l'odorato faccia l'odore – GRICE, SOME REMARKS ABOUT
THE SENSES -- V. attribuisce tanta importanza a questa connessione tra universali poetici e universali ragionati,
tra mito e filosofia, d’essere tratto ad affermare che le sentenze dei
filosofi, le quali non trovino precedente e riscontro nella sapienza poetica e
volgare – the lay and the learned --, debbano essere errate. Anzi, è questo un
altro significato che egli assegna talvolta al rapporto tra filosofia e
filologia – THE WAY OF WORDS --: d’una conferma reciproca tra sapienza volgare –
the lay -- e sapienza riposta – the
learned --, conciliate entrambe
nell'idea d’una filosofia perenne dell'umanità. Colla teoria del mito e del
rapporto d’esso colla filosofia V. dato,
tutt'insieme, la sua teoria della religione e del rapporto tra religione e
filosofia. Due pensieri circolano, a
questo proposito, per entro la Scienza nuova: l'uno, che la religione nasca,
nella fase della debolczza e dell'incultura, dal bisogno mentale di dare pace
alla curiosità e d'intendere in qualche modo le cose della natura e dell'uomo. di
spiegare, per es., il fulmine – or the dark clouds meant by Nature --, l'altro,
che la religione s'ingeneri negli animi
pel terrore di colui che minaccia fulminando – those spots are killing us. E si
potrebbero chiamare le due teorie, dell'origine teoretica e dell'origine
pratica della religione; e poiché, conformemente alle dottrine di V., l'uomo è
nient'altro che intelletto e volontà, è chiaro come, fuori di queste due origini,
la religione non possa averne altre.
Ora, lasciando da parte la religione nel significato pratico, della
quale si discorre più innanzi, la religione nel significato teoretico che cosa
è altro se non l'universale fantastico, l'ANIMISMO – spots ‘mean’ measles -- poetico, il mito? A essa si lega
quell'istituto che V. chiama la divinazione, il complesso dei metodi coi quali
si raccoglie e interpetra la lingua di Giove, le parole reali, I SEGNI
ie cenni del Dio, finto nell'universale fantastico e creato dall'immaginazione
animatrice. E come dal mito procede la scienza e la filosofia, cosi, parimente,
dalla divinazione la conoscenza delle
ragioni e cause, la previsione filosofica e scientifica. V., a questo modo, si
libera dal pregiudizio che comincia a
prevalere al suo tempo, si ricordino la storia degl’oracoli antichi di Van
Dale, resa popolare da Fontenelle, e il libro già citato di Banier, e tanta
efficacia ebbe per un secolo ancora, delle religioni come impostura d'altrui,
quando erano invece, egli dice, nate da propria credulità. Colui che non
ammette l'origine artificiale dei miti, non poteva ammetterla neppure delle religioni. Ma come
egli rifiuta altresì l'origine soprannaturale o rivelata dai miti, cosi nello stesso
atto pronunzia né più né meno che l'origine naturale, anzi umana, delle religioni; e, quel che più specialmente è da
notare, la ripone in una forma inadeguata dello spirito, nella forma
semifantastica, che è il mito. Né bisogna
fare caso di qualche suo breve detto incidentale, che sembra in
contrasto con questa teoria; come là dove dice che la religione precede non
solo le filosofie ma la lingua stessa, il quale suppone la coscienza di
qualcosa di comune tra gl’uomini: equivoci derivanti dalla solita perplessità
metodica e d’abito di poca chiarezza. L'identificazione della religione col mito, e l'origine umana delle
religioni, non solo è insistentemente espressa, ma è essenziale a tutto il
sistema di V. Origine umana, che non esclude, nelle parole di lui, un diverso
concetto di religione: la religione rivelata, e perciò d’origine
soprannaturale. Egli, infatti, pone sempre, d’un canto, la teologia poetica,
che è mitologia, e la teologia naturale,
che è metafisica o filosofia; e, dall'altro, la teologia rivelata. Ma
quest'ultimo concetto è ammesso da lui, non perché si leghi ai precedenti e
tutti derivino d’un principio comune, si bene semplicemente perché V. afferma
gl’uni e afferma l'altro. L'origine umana, la teologia poetica, di cui è
séguito la teologia metafisica, è quella
che vale pell'umanità gentilesca, ossia pell'umanità intera, fatta
eccezione del popolo ebreo che è privilegiato dalla rivelazione. Per quali
motivi V. serba questo dualismo, e sopra quali contradizioni pungenti è a
cagione d’esso costretto ad adagiarsi, anche questo si vedrà più oltre, e a suo
luogo. Ma appunto perché quel dualismo rimase in lui senza mediazione, noi dobbiamo, esponendo il suo
pensiero, tenere fermo ciascuno dei due termini del dualismo, e, per ora,
l'origine meramente umana: la religione quale prodotto del bisogno teoretico
dell'uomo giacente in condizioni di relativa povertà mentale. Concetto che ha
rapporti solamente indiretti con quellodi BRUNO della religione come cosa necessaria alla moltitudine rozza e poco
sviluppata, e con quello di CAMPANELLA della religione naturale o perpetua,
eterna filosofia razionale coincidente col cristianesimo spogliato dai suoi
abusi; e che ha rari e deboli riscontri negli scrittori del tempo, i quali,
anche quando v’accennano di passaggio, l'intendono in modo superficiale e
lo presentano senza nessuna coerenza colle
altre loro idee: battono sulla religione in quanto ignoranza e trascurano la
sapienza di quell’ignoranza, la religione come verità. L’altre dottrine di V.
di ragion teoretica, cioè di logica della filosofia, delle scienze fisiche e
matematiche e delle discipline storiche, sono state già esposte nell 'esporre
la sua gnoseologia, e si desumono quasi
tutte dai primi scritti, perché nella Scienza nuova la fase della mente tutta
spiegata appare, più che altro, come un limite della ricerca. Soltanto giova
notare che V. tocca altresì il problema del rapporto tra poesia e storia, ma,
sempre a causa dell' indistinzione tra filosofia e scienza sociale, non gli
riesce di risolverlo pienamente. Sotto
un aspetto, sembra a lui che la storia sia anteriore alla poesia, perché
questa, dice, presuppone la realtà e contiene una imitazione di più; sotto un
altro aspetto, che la poesia costituisca la forma prima, perché presso i popoli
primitivi la loro storia è la loro poesia – la battaglia di Maldon -- e i primi
storici sono i poeti. A ogni modo, egli insiste sull'elemento poetico, intrinseco
alla storia; e d’Erodoto, padre della greca storia, osserva che non solo i
libri di lui sono ripieni la più parte di favole, ma lo stile ritiene
moltissimo dell'omerico, nella qual possessione si sono mantenuti tutti gli
storici che sono venuti appresso, i quali usano una frase mezza tra la poetica
e la volgare: VERBA FERME POSTARVM,
come ripete altrove facendo suo un detto di CICERONE. Né si trovano svolti
particolarmente in V. i rapporti fra teoria e pratica, intelletto GRICE JUDGING
e volontà GRICE WILLING, benché dappertutto egli SUGGERISCA – sub-gest – Grice,
implicate -- il pensiero generale che come in Dio intelletto e volontà coincidono, similmente nell'uomo, immagine di
Dio; onde la mente o spirito non è divisa in un pensiero e in una volontà –
GRICE PSI-ING --, in un pensiero che proceda per un verso e in una volontà che
proceda per un altro, ma pensiero e volontà si compenetrano e formano un tutto
solo: concezione assai superiore a quella della filosofìa del suo tempo, cioè del leibnizianismo, in cui persiste
il concetto dell'arbitrio divino, e perciò dell'irrazionalità. Un altro suo e
singolare pensiero importerebbe invece, per chi concluda frettolosamente, la
precedenza della pratica – GRICE VOLITING DEFINES JUDGING -- sulla teoria;
perché V. dice che i filosofi pervengono ai loro concetti mercé l'esperienza dell’istituzioni sociali e delle
leggi nelle quali gl’uomini s’accordano come in qualcosa d’universale, e che
Socrate e Platone, per es., presuppongono la democrazia e i tribunali ateniesi,
e CARNEADE presuppone CATONE. Ma questa successione delle religioni che
generano la repubblica, della repubblica che genera la legge, della legge che genera l’idee filosofiche, e che
egli chiama una particella della storia della filosofia narrata filosoficament,
è, appunto, teoria d'importanza non filosofica ma sociologica. Per quel che
concerne le dottrine di ragion pratica, delle quali ora entriamo a trattare,
potrebbe parere che V., diversamente che in quelle di ragion teoretica, non sia
in recisa opposizione alle idee del suo
tempo, ma anzi si ricolleghi proprio a un movimento del suo tempo: alla scuola
del diritto naturale. Il capo della scuola, l'iniziatore del movimento, Grozio,
era da lui chiamato uno dei suoi quattro autori – per Grice: due: Quine e Chomsky
--, insieme con Platone, in cui trova appagata la sua brama d’una
filosofia idealistica, con Bacone che
gli fa sorgere in mente l'idea d’una scienza positiva e storica delle società,
e con TACITO, che vedremo più innanzi qual servizio gli rese o V. crede d’averne
ottenuto. E insieme col Grozio ricorda perpetuamente gl’altri principali autori
del diritto naturale, Selden e Pufendorf, trascurando gl'innumerevoli loro
seguaci, che considera, piuttosto che
autori di scienza, semplici adornatori del sistema di GROZIO. Il
ricollegamento, in un certo senso, è evidente e confessato e professato dallo
stesso V.; ma anche è indubitabile che egli non aderì semplicemente a quella
scuola, neppure la continua al modo di chi serbi i concetti generali e
direttivi, e svolga o corregga i
particolari. La continua solamente in significato dialettico, cioè in
quanto ne ebbe a contrastare le tesi capitali o ad accoglierle cangiandole
profondamente. Il diritto naturale gl’offerse non soluzioni ma problemi, e di
questi anche s’alcuni gl’offerse ben determinati, altri, e più gravi, suscita
solamente nel suo spirito: problemi dunque o non risoluti o neppure veduti, che V. si propone e in
parte risolve. Gl’aspetti e le tendenze del diritto naturale erano molteplici,
e conviene preliminarmente distinguerli ed enumerarli. In primo luogo, in
quella scuola, presa nel suo complesso e nei suoi tratti essenziali, s’esprime
il progresso sociale, onde l'Europa, uscendo dal feudalesimo e dalle guerre di religione, si da una nuova coscienza,
spiccatamente borghese e LAICA: si ricordi che la formazione d’essa fu quasi
contemporanea alla nascita dell'anticlericale e borghese istituto della
massoneria. Naturale voleva dire, tra l'altro, non soprannaturale – GRICE ON
MOORE --; e, quindi, ostilità o indifferenza di fronte al soprannaturale e alle
istituzioni che lo rappresentavano e ai conflitti sociali che ingenera. Non a caso
Grozio fu arminiano; Pufendorf ebbe liti con teologi; TOMASIO è rammentato tra
i promotori della libertà di coscienza. Le proteste di reverenza verso la
religione e verso la chiesa, che con molta abbondanza quei pubblicisti solevano
inserire nei loro scritti (i quali ne sono come
soffusi d’un velo di pietà), erano cautele da politici, che procurano di
minare il nemico senza lasciarsi scorgere, di ferire coprendosi. Cautela
lodata, per es., nel Grozio d’uno dei seguaci della scuola, l'autore della
Pauco plenior iuris naturalis historia, che celebra il maestro come
instrumentum divince providentice, quasi Messia venuto a redimere il lumen naturale dalla servitù al super naturale, e fornito perciò di tutta la forza
e di tutta l'abilità occorrenti; talché, esperto delle persecuzioni
scolastiche, caute versabatur ne maius
bilem adversus prudentiam naturalem et rationalem ex latebris productam tara
minis irritaret, e procedendo a separare le leggi umane dalle divine, non
prende di fronte la scuola teologica coll'attaccarne
gli errori fondamentali, anzi perfino la loda nei prolegomeni dell'opera sua.
Naturale significa altresì ciò che è comune agl’individui delle varie nazioni e
stati; onde, sotto l'aspetto pratico, forniva un ottimo motto d'ordine per
riunire in certi desideri, speranze e lotte comuni la borghesia dei vari paesi.
I trattati del diritto naturale furono pella
borghesia quel che il Manifesto dei
comunisti e il grido: Proletari di tutto il mondo, unitevi, tentarono d’essere
pella classe operaia. In quanto quella scuola e quella pubblicistica erano
manifestazione d’un moto pratico, l'interesse filosofico v’aveva parte
subordinata e ufficio sussidiario. Per questa ragione, in secondo luogo, le trattazioni del diritto
naturale, filosoficamente considerate, non si levano di solito sopra un chiaro
e popolare empirismo. I principi, sui quali si appoggiano, non sono
approfonditi e assai spesso neppure estrinsecamente unificati; i concetti, che
adoperano, sono piuttosto rappresentazioni generali; la forma della trattazione
è solo apparentemente sistematica. Qualcuno
di quegli scrittori procura di collegare le sue dottrine giusnaturalisticbe colla
filosofia platonica, del PORTICO o cartesiana, risaliva ad assiomi logici e
metafisici, si giova della deduzione e del metodo matematico. Ma tutto codesto
era accostamento e non fusione, adornamento e non ravvivamento; e, tutt'al più, vale come prova di diligenza e di
serietà d'intenzioni. La filosofia, pell’altro, implicita più o meno nei
trattatisti del diritto naturale ed esplicita nei filosofi che presero a
elaborarlo speculativamente, s’accorda collo spirito del tempo, del quale ci
sono noti i caratteri generali. Cosicché terzo aspetto del giusnaturalismo fu,
in etica, o l'utilitarismo, ora più o
meno larvato ora apertamente dichiarato, e a volta a volta ragionato con
filosofia piuttosto matematizzante o piuttosto sensistica, di tendenze
materialistiche o di tendenze razionalistiche; ovvero, che è quasi il medesimo,
un astratto e intellettualistico moralismo, che minaccia di precipitare a ogni
istante nell'utilitarismo. Dal quale
intellettualismo e utilitarismo, combinati coll'impronta pratica e
rivoluzionaria di quel moto spirituale, che era rivolto piuttosto a un
semplicistico diritto da far trionfare che non a riconoscere quello realmente
svoltosi nella storia e ricco di tante forme e vicende, deriva il quarto
carattere d’esso, cioè la mancanza di senso storico, l'antistoricismo della scuola, la quale stabiliva l'astratto
ideale di’una natura umana fuori della storia umana o non fusa e vivente in
questa. Infine, borghese, anticlericale, utilitario o materialistico com'era,
il giusnaturalismo aveva un quinto e importante carattere, l'avversione alla
trascendenza e la tendenza a una concezione immanentistica dell'uomo e della
società. Carattere poco esplicato e poco ragionato dottrinalmente, ma non pertanto
facilmente riconoscibile nel complesso dei concetti di quella scuola. Ora,
l'ispirazione di V. era genuinamente ed esclusivamente teoretica, punto pratica
o riformistica; altamente speculativo il suo metodo, e disdegnoso
dell'empirismo; idealistico, e perciò antimaterialistico e antiutilitaristico, il suo spirito; la sua
gnoseologia anelante al concreto, al certo, e però storicizzante. Per
conseguenza, la sua dottrina della ragion pratica, pure prendendo le mosse dal
giusnaturalismo, dove uscire diversa, anzi contraria a questo, in tutti i primi
quattro caratteri da noi enunciati. E se in qualcosa coincide, non nella
via per pervenirvi, ma nel risultamento, era appunto dove meno
l'autore avrebbe voluto: nel carattere immanentistico e areligioso. Ma poiché
il nostro proprio tema non è già la critica e modificazione che il diritto
naturale ebbe nel pensiero di V., si bene questo pensiero stesso, sarà
opportuno, ripigliando il filo dell’esposizione, seguire ordine alquanto
diverso da quello tenuto nel ricapitolare
i vari caratteri del giusnaturalismo, e cominciare dal vedere l'opposizione di V.
all'utilitarismo dichiarato o larvato di quella scuola, e la dottrina ch’egli
svolge sul principio dell'etica. I due principali rappresentanti
dell'utilitarismo che V. ha sempre innanzi agl’occhi, sono Hobbes e Spinoza; ma
ricorda insieme con essi Locke e Bayle
e, MACHIAVELLI e, risalendo all'antichità, IL PORTICO ROMANO col suo concetto
del fato, L’ORTO ROMANO con quello del caso, Carneade col suo scessi, e perfino
l'inconsapevole dottrina che è contenuta nel
motto Vce victis, attribuito al Brenno o capo dei Galli invasori di
Roma. Di Hobbes ammira lo sforzo magnanimo nel
cercare d’accrescere la filosofia d’una teoria che l’era mancata nei bei
tempi della Grecia, cioè della teoria dell'uomo considerato in tutta la società
del genere umano; ma dice infelice l'evento, fallito il tentativo, che, come
anche quello di Locke, nel fatto risulta assai prossimo all'ORTO ROMANO. Hobbes
non s’era accorto che egli non si sarebbe
potuto neppure proporre il suo problema del diritto naturale
dell'umanità, s’il motivo non gliene fosse stato fornito pell'appunto dalla
religione cristiana, la quale comanda verso tutto il genere umano, nonché la
giustizia, la carità. Al PORTICO ROMANO invece, al suo fato e al suo
determinismo onde furono incapaci a ragionare adeguatamente di repubblica e di leggi, a codesti spinosisti
dell'antichità, si collega idealmente Spinoza, del cui utilitarismo, diverso di
spiriti tanto dal lockiano quanto dall'hobbesiano, perché Spinoza mente, non
sensu de veris rerum diiudìcat, non isfuggiva a V. la singolarità. Ma, per
singolare che debba dirsi, esso costrinse Spinoza a ragionare di repubblica
in modo poco elevato, come d’una società
che sia di mercadanti. Quelle dottrine utilitarie, calunniose dell'umana
natura, parvero a V. proprie d’uomini disperati, che pella loro viltà non
ebbero mai parte nello stato, o pella loro superbia si stimarono tenuti bassi e
non promossi agl’onori dei quali pella loro boria si credevano degni; e annovera
tra costoro il povero Spinoza, il quale,
non avendo, perché ebreo, niuna repubblica, mosso da livore, si sarebbe dato a
escogitare una metafisica da rovinare tutte le repubbliche del mondo. Severo è
il suo giudizio sulle condizioni dell'etica ai suoi tempi, che era quale poteva
essere sulla base d’una metafisica meccanica e materialistica, senza lume
di finalità. Cartesio fu affatto sterile
in quel campo, perché le poche cose che sparsamente ne lascia scritte non
compongono dottrina e il suo trattato delle Passioni serve piuttosto alla
medicina che alla morale; similmente sterili Malebranche e Nicole, e i Pensieri
di Pascal, solitaria eccezione, sono pur lumi sparsi. Degl’italiani, PALLAVICINO
offri appena un abbozzo d’etica nel suo
trattato Del bene, e MURATORI, nella sua Filosofia morale, fece prova assai
infelice. L' utilità non è principio esplicativo della moralità, perché
proviene dalla parte corporale dell'uomo e, per tale provenienza, è caugevole,
laddove la moralità, l' honestas, è eterna. Derivare la moralità dall'utilità --
THE OUGHT CASHED OUT ON A HIGHER-ORDER WANT – GRICE -- è scambiare l'occasione colla causa, fermarsi
alla superfìcie e non spiegare per nulla i fatti. Nessuno dei vari modi nei
quali il principio utilitario viene atteggiato dai filosofi, la frode o
impostura, la forza, il bisogno, rende conto delle differenziazioni, cioè
dell'organismo sociale. Quale frode
poteva mai sedurre e trarre in inganno i supposti primi semplici e parchi
posseditori di campi, i quali vivevano affatto contenti della sorte loro? Quale
forza, se i ricchi, i pretesi usurpatori, erano pochi, e i poveri, i derubati,
molti? Codeste spiegazioni sono giochetti, indegni del grave problema. Quei
forti, quei potenti erano, in realtà, potenti
d'altro che di sola forza; tanto che si facevano protettori dei deboli e
oppugnatori delle tendenze distruttive e antisociali: la loro legge era, si, di
forza, ma a natura prcestantiori dlctata, cosa che ben era lecito ignorare al
barbaro Brenno, ma non a uomini filosofi. La forza creatrice e organizzatrice
delle prime repubbliche fa tutta umanità generosa, alla quale si debbono richiamare sempre gli
Stati, quantunque acquistati coll'impostura e colla forza, perché reggano e si conservino;
conformemente al detto di MACHIAVELLI di richiamarli all’origini, ma coll'intesa
che l’origini profonde si trovano nella clemenza e nella giustizia. Gl’uomini
sono tenuti insieme da qualcosa di più saldo dell'utilità. Società d'uomini non può incominciare e
durare senza fede scambievole; senza che altri riposino sopra l’altrui promesse
e s’acquetino alle altrui asseverazioni di fatti occulti. Si può forse ottenere
questa fede col rigore delle leggi penali contro la menzogna? Ma le leggi sono
prodotto della società, e, perché sorga società, è necessaria quella fede scambievole. Si dirà, come dice Locke, che si
tratta d’un processo psicologico, pel quale gl’uomini via via s’avvezzano a
credere quando altri loro dica e prometta di narrare la verità? Ma, in questo
caso, quegli uomini già intendono l'idea d’un vero, che basti rivelare per
obbligare altrui a doverlo credere senza niun documento umano; e il
principio psicologico dell'abitudine è
oltrepassato. La causa vera della società umana non è, dunque, l'utilità, la
quale favorisce soltanto, come occasione, l'azione della causa, e fa si che gl’uomini,
per natura sociale deboli e indigenti, e divisi dal vizio d’origine, si
traggano a celebrare la loro natura sociale, REBVS IPSIS DICANTIBVS, secondo la
formola di POMPONIO, che V. ripete con predilezione. Cose, fatti, circostanze
mutano nella moralità che non muta; e di qui l'illusione degl’utilitaristi, che
guardano dall'esterno e si tengono alle apparenze e vedono il mutamento e non
la costanza. L'omicidio è vietato; ma l'approvazione che si dà a colui il
quale, minacciato nella vita, non potendo altrimenti salvarsi, uccide l'ingiusto aggressore, non
importa mutevolezza del criterio morale circa l'omicidio, perché, in quelle
particolari circostanze, non si tratta, in realtà, d’omicidio, ma di pena
capitale che l'ingiustamente aggredito, trovandosi in solitudine, infligge
quasi per tacita delegazione sociale. Il furto è vietato; ma colui che, per
tenersi in vita, prende altrui un pane,
non viola la moralità, perché esercita un diritto fondato sull'equobono. La
sola filosofia che porti con sé una vera etica sembra a V. la platonica,
risalente a un principio metafisico, l'idea eterna che educe da sé e crea la
materia; laddove l'etica aristotelica è fondata sopra una metafisica che
conduce a un principio fisico, alla
materia, dalla quale s’educono le forme particolari facendo di Dio un
vasellaio che lavori le cose fuori di
sé. L'etica dei GIURECONSULTI ROMANI abbonda, senza dubbio, di splendidi
aforismi, ma non è altro che una semplice arte d’equità, insegnata con
innumerabili minuti precetti di giusto naturale, che quelli indagano dentro le
ragioni delle leggi e la volontà del
legislatore; epperò non può considerarsi come filosofia morale, dove fa d'uopo
procedere da pochissime verità eterne, stabilite in metafìsica d’una giustizia
ideale. Per ragioni analoghe V. non poteva appagarsi di Grozio e degli altri
giusnaturalisti; circa i quali nota in genere cosa verissima, cioè che i loro
grossi volumi recano, si, titoli
magnifici, ma poi non contengono nulla più di ciò che è volgarmente risaputo.
Se si pesano i principi del Grozio colla bilancia esatta della critica,
risultano tutti piuttosto probabili e verisimili che necessari e invitti. Nella
questione dell'utilità Grozio non coglie il punto giusto, non distinguendo
l'occasione dalla causa; né inchioda, ossia non
definisce, l'antichissima disputa s’il diritto sia in natura o solo
nelle opinioni degl’uomini, nella quale filosofi e teologi ancora contendono collo
scettico Carneade e coll’ORTO ROMANO; propone l'ipotesi degl’uomini primitivi
che siano semplicioni, ma si dimentica affatto di ragionarla. E poiché quei
suoi semplicioni, accortisi dei danni della
solitudine bestiale, vengono alla vita comune, e questa determinazione è
loro dettata dall'utilità, Grozio scivola anche lui, senza avvedersene,
nell'utilitarismo e nell'ORTO ROMANO. Ma V., invece, alla domanda s’il diritto
sia per natura o per convenzione --
GRICE NATURAL CONVENTIONAL -- risponde colla solenne dignità: Le cose
fuori del loro stato naturale né vi s’adagiano
né vi durano. Alla domanda donde nasca la società risponde richiamando il senso
umano, la coscienza, il bisogno che ha
l'uomo di salvarsi dal nemico interno che gli rode il petto. L'origine è
certamente nel timore, ma nel timore di sé stesso, non della violenza altrui; è
nel rimorso che punge, nel pudore che
tingendo di rosso il volto dei primi uomini fa risplendere pella prima
volta la moralità sulla terra. Dal pudore nascono tutte le virtù, l'onore, la
frugalità, la probità, la fede nelle promesse, la verità nelle parole – GRICE
LE MASSIME CONVERSAZIONALI WARNOCK OBJECT MORALITY --, l'astensione
dall'altrui, la pudicizia. Celebrando la
società, l'uomo celebra la natura umana. Il pudore o coscienza morale –
L’IMMANUELE CONVERSAZIONALE --, tradotto
nella corrispondente scienza empirica,
dà il senso comune degl’uomini d'intorno alle umane necessità o utilità, che è
la fonte del diritto naturale delle genti. Questo senso comune, dice V., è un giudizio senza alcuna riflessione, comunemente sentito da tutto un
ordine, da tutto un popolo, da tutta una nazione e da tutto il genere umano.
Giudizio senza riflessione non è veramente giudizio, dal quale la riflessione è
inseparabile; non è giudizio anche perché sentito e non pensato. Ma non è
neppure – MASSIME – what WE DO FOLLOW that we OUGHT to follow -- quello che poi
si disse sentimento, termine vago, ignoto a V. non meno che alla filosofia
tradizionale. È piuttosto un atteggiamento pratico che, simile a un di presso
negl'individui viventi in condizioni simili, produce i simili costumi dei vari
gruppi sociali, da quelli d’una classe particolare a quelli dell'intera
umanità. Atteggiamento affatto spontaneo,
e, anche per questo definito privo di riflessione, onde i costumi si generano
dall'interno e non dall'esterno, e sono simili senza che siano copiati gl’uni
dagl’altri, senza prendere esempio l'una nazione dall'altra. Attraverso quel
senso comune la coscienza morale s'incorpora in compatti e resistenti istituti;
ed esso accerta l'umano arbitrio, che è
di sua natura incertissimo. Ma il timore interno, il pudore, la coscienza
morale è svegliata negl’uomini dalla religione: il timore è timore di Dio, il
pudore è vergogna innanzi a lui. Gl’uomini primitivi errano pella terra
solitari, selvaggi, feroci, senza lingue articolate, senza concubiti certi, in
preda alle loro disordinate violentissime passioni; piuttosto che uomini, bestioni. Chi li
frenerà? Donde verrà il soccorso che loro impedisca di distruggersi a vicenda?
Non possono indirizzarli uomini sapienti, che non si sa donde o come
s'introdurrebbero in mezzo a loro; non può salvarli l'intervento di Dio: Dio si
è ritirato nel suo popolo eletto e non ha nessun commercio colla restante
umanità, coll'umanità gentilesca. Ma
quei bestioni son pur uomini: Dio, nell'abbandonarli, lascia nel fondo del loro
cuore una favilla dell'esser suo. Ecco: il cielo fulmina, i bestioni
stupiscono, si fermano, temono; s’accende in loro la confusa idea di qualcosa
che li supera, d’una divinità. Ed essi pensano, o piuttosto immaginano, un
primo Dio, un Cielo o un Giove
fulminante; e a quel Dio si rivolgono per placarlo o per invocarlo a soccorso.
Ma per placarlo e averlo soccorritore debbono conformare la propria vita a
questo intento: umiliarsi alla divinità, domare l'orgoglio e la fierezza,
astenersi da certi atti, COMPIERNE altri. Dal pensiero della divinità riceve
forza dunque il conato ossia la libertà, che
è propria della volontà umana, di tenere in freno i moti impressi alla
mente dal corpo per acquetarli o per dare loro altra direzione. E con questi
atti di dominio sopra sé stesso, colla libertà, è nata insieme la moralità: il
timore di Dio ha posto il fondamento alla vita umana. La terra si copre di are;
le grotte dei suoi monti, dove il maschio trascina ora la femmina, vergognoso dei concubiti innanzi
al volto del Cielo o di Dio, assistono ai primi riti nuziali, proteggono le
prime famiglie; il grembo della terra s’apre ad accogliere il pio deposito dei
morti corpi. Le prime e fondamentali istituzioni etiche, culto religioso,
matrimoni, sepolture, sono sorte. Questa potenza etica e sociale dell'idea di
Dio si riafferma nel corso della storia
posteriore; perché, quando i popoli sono infieriti colle armi, e nessun potere
hanno più sopra di loro le umane leggi, l'unico mezzo di ridurli è la
religione. Si riafferma nello svolgimento individuale della vita umana: ai
fanciulli, infatti, non si può altrimenti insegnare la pietà che col timore di
qualche divinità; e, nella disperazione
di tutti i soccorsi della natura, l'uomo desidera un essere superiore che lo
salvi, e questo essere è Dio. Tutte le nazioni credono in una divinità PROVVIDENTE:
popoli che vivano in società senza alcuna coscienza di Dio, per es., in alcuni
luoghi del Brasile, in Cafra, nell’Antille, sono novelle di viaggiatori, che
procurano smaltimento ai loro libri con
mostruosi ragguagli. S’è cosi. e cosi è
certamente, nessuna dottrina è più stolta di quella che pretende concepire
morale e civiltà senza religione. Come delle cose fisiche non si può avere
certa scienza senza la guida delle verità astratte fornite dalle matematiche,
delle cose morali non si può senza la scorta delle verità astratte metafisiche, e perciò senza l'idea di Dio.
Quando si spegne o si oscura la coscienza religiosa, insieme si spegne e s’oscura
il concetto di società e di stato. Ebrei, cristiani, gentili e maomettani
ebbero quel concetto, perché tutti credettero in qualche divinità, sia come
mente infinita libera, sia come più dèi composti di mente e di corpo, sia come
un unico Dio, mente infinita libera in
corpo infinito. Ma non lo ha L’ORTO ROMANO, che attribuisce a Dio il solo corpo
e col corpo il caso; né IL PORTICO Romano, che lo fa soggetto al fato. E
ottimamente CICERONE dice ad ATTICO, DELL’ORTO ROMANO, di non potere istituire
con lui ragionamento intorno alle leggi, se prima non gli concede che vi sia un divino PROVVIDENTE. Hobbes,
che rinnova L’ORTO ROMANO, e Spinoza, rinnovatore del PORTICO ROMANO, si è
visto che non intesero nulla di quel che siano società e stato. Tra gl’empì
uomini primitivi, brutti, irsuti, squallidi, rabbuffati, dovrebbero andarsi a
disperdere quei dotti dalla sfumata
letteratura, e a capo d’essi Bayle, che sostengono che senza religione
possa vivere, e viva di fatto, umana società. La manchevolezza nell'idea di Dio
è altresì il principale argomento della critica che V. muove a due di coloro
che egli altamente onora come principi del diritto naturale, a Grozio e a Pufendorf.
Né l'uno né l'altro, egli dice,
statuisce per primo e proprio principio il
divino PROVVIDENTE. Grozio non già che propriamente la neghi, ma, pello stesso
grande affetto che porta alla verità, per meglio assodare la necessità
razionale dell'umana società, ne vuol prescindere, e professa che il suo
sistema regga, tolta anche ogni cognizione di Dio; onde V. lo taccia di
socinianismo, perché pone la naturale
innocenza in una semplicità di natura umana. Peggio Pufendorf, il quale
addirittura sembra sconoscere il PROVVIDENTE e comincia con un'ipotesi
scandalosa dell’ORTO ROMANO, supponendo 1'uomo gettato in questo mondo senza
niun aiuto e cura di Dio, senza neppure quella scintilla chiusa in petto, che
si dilata in fiamma morale; della
qual cosa essendo stato ripreso, da
Schwartz, cerca di giustificarsi con una particolare dissertazione, l'Apologia,
ma non giunse a scorgere il principio vero che solo rende possibile spiegare la
società. Ora perché mai, essendoci note tutte codeste energiche affermazioni e
polemiche di V. sulla condizionalità religiosa della morale, abbiamo asserito
che il solo punto in cui egli si trovi
veramente d'accordo con Grozio, con Pufendorf, e in genere colla scuola del
diritto naturale, è la concezione affatto immanente dell'etica? Perché, se ben s’osserva, V. non
s’oppone al metodo tenuto dai giusnaturalisti; che anzi anch'egli costruisce la
sua scienza della società umana prescindendo, come Grozio, d’ogni idea di Dio, e, come Pufendorf, ponendo
l'uomo senza aiuto e cura di Dio, cioè prescindendo dalla religione rivelata e
dal Dio d’essa. Come per quei due, materia della sua indagine è il diritto
naturale e non il soprannaturale, il diritto delle genti e non quello del
popolo eletto, il diritto che sorge spontaneo nelle caverne e non quello che
scende giù dal Sinai – MT SINAI PERHAPS
MOISES BROUGHT MORE THAN THE 10 COMMS – GRICE -- L'opposizione di V., da lui esposta colla
consueta confusione e oscurità, s’aggira non sopra codeste affermazioni, ma sul
concetto stesso di religione. La religione, insomma, della quale egli parla,
non è la medesima di cui parlano, o non parlano, Grozio e Pufendorf. Religione,
come già sappiamo, vale per V. non già rivelazione ma concezione della realtà;
o che s’affermi, come nei tempi della mente tutta spiegata, in forma di
metafisica intelligibile, e mova dal pensiero di Dio per schiarire la logica
nei suoi raziocini e discendere a purgare il cuore dell'uomo colla morale; o
che s’affacci, come nei primordi
dell'umanità, in forma di metafisica poetica. Dalla religione rivelata, quando
si ricerchi il fondamento della morale,
si può ben prescindere; ma in qual modo si potrebbe da quella religione
naturale, che è tutt'una cosa colla coscienza della verità? Plutarco,
descrivendo le primitive religioni spaventevoli, pone in problema se, invece di venerare cosi empiamente gli dèi,
non sarebbe stato meglio che non fosse esistita religione alcuna; ma egli
dimentica che da quelle fiere superstizioni si svolsero luminose civiltà e
sull'ateismo non crebbe mai nulla. Senza una religione, mite o feroce,
ragionata o immaginosa, che dia l'idea più o meno determinata e più o meno
elevata di qualcosa che superi gl'individui
e in cui gl’individui tutti si raccolgano, mancherebbe alla volontà morale
l'oggetto del suo volere. E a questo punto si chiarisce quello che abbiamo
distinto come il secondo significato, pratico o etico, della parola religione in
V. Nel qual significato egli rivendica e giustifica il detto degli empì che il
timore fa gli dèi; o, anche, addita la
radice della religione nel desiderio che gl’uomini hanno di vivere eternamente, mossi d’un senso comune
d'immortalità nascosto nel fondo della loro mente. La religione è, in questo
secondo significato, un fatto pratico ossia la moralità stessa, come nel primo
era la verità stessa. Intesa dunque la religione da V. o, nel primo significato, come condizione o, nel secondo, come sinonimo della moralità, è
chiaro che, col censurare Grozio e Pufendorf
pella loro trascuranza di questo importantissimo concetto, egli non fa
altro in sostanza che ribadire la critica all'insipido moralismo e al larvato
utilitarismo di quei due pensatori. E pel medesimo fine ebbe anche altre volte ricorso all'efficace strumento del concetto
di religione. Perché se alla filosofìa attribuì talora l'ufficio di giovare il
genere umano sollevando e reggendo l'uomo caduto, tal'altra giudicò che essa
sia piuttosto adatta a ragionare, e che le massime GRICE ragionate dai
filosofi intorno alla morale servano
solamente all'eloquenza per accendere i sensi a
compiere i doveri della virtù, laddove solo la religione è efficace a
far virtuosamente operare. Nella scienza empirica, poi, che corrisponde a
questa parte della filosofia dello spirito, V., mutate in due epoche storiche
la religione, o metafisica poetica, e la filosofia, fatto della prima il
carattere dell'epoca barbarica e della seconda quello dell'epoca civile, è ovvio che dove sostenere, come
sostenne, che sola fondatrice d’ogni civiltà e della stessa filosofia è la
religione, e rigettare il detto, che egli, non senza ritoccarlo, attribuisce a
Polibio, che, se ci fossero al mondo filosofi, non farebbero uopo religioni.
Come potrebbero sorgere filosofi, egli obietta, se prima non sorgano le
repubbliche ossia le civiltà? e come le
repubbliche potrebbero sorgere, senza l'opera delle religioni? Quel detto si
deve dunque invertire: senza religione,
nessuna filosofia. Fu la religione, fa il divio provvidente, che addimesticò i
figliuoli dei Polifemi e via via li ridusse all'umanità degl’Aristidi e dei SPERATI,
dei Lelì e degli Scipioni Africani. Anche il concetto dello stato ferino, che nei libri dei
giusnaturalisti serve d’ipotesi e d’espediente didascalico, sia per isvolgere
la trattazione indipendentemente dalla teologia mistica senza sollevare troppi
scandali, sia per insinuare le loro teorie utilitaristiche, in V. ricompare con
nuovo ufficio è nuovo contenuto. Cattolico di pure intenzioni, avendo dato pace
al suo animo col separare la religione
rivelata da quella umana, egli è in grado d’assumere lo stato ferino come vera
e propria realtà. Verità ideale, in quanto rappresenta nella dialettica della
coscienza pratica un momento necessario pella genesi della moralità, il momento premorale; realtà
storica ed empirica, come approssimativa condizione di fatto in quei periodi d’anarchia e fermentazione che
precedono il sorgere della civiltà o seguono alle crisi di queste. I
giusnaturalisti fanno ossequio, ora più ora meno, alla dottrina tradizionale
della chiesa, cioè che l'umanità gentilesca, nella dispersione seguita alla
confusione babelica, avesse portato seco un residuo di religione rivelata, un
vago ricordo del vero Dio, donde
l'origine della vita sociale e degli dèi falsi e bugiardi, barlume del Dio
vero; e per questa ragione lo stato ferino veniva proposto nel loro sistema
come astratto e irreale. V. eseguiva sul
serio la distinzione tra ebrei e gentili, e concepiva lo stato ferino come
privo d’ogni aiuto che provenisse dall'anteriore rivelazione: uno stato nel quale l'uomo era, per cosi dire, da solo
a solo colle proprie sconvolte e turbolente passioni. Stato di fatto senza
moralità, ma. diversamente che nell'ipotesi utilitaria, tutto pregno d’esigenze
morali, e dal quale s’esce col farsi esplicito di questo implicito IMPLICATURA
GRICE. Ma si esce naturalmente e non già per effetto della grazia divina: la vera grazia divina è la stessa natura
umana, a cui partecipano i gentili al pari degl’ebrei, tutti irraggiati nel
volto d’un lume divino. L'uomo ha libero arbitrio, ma debole, di fare delle
passioni virtù; e nel suo travaglio verso la virtù è aiutato in modo naturale
dal divino provvidente. Di certo, V. non intende disconoscere l'efficacia
altresì della diretta e personale grazia
divina; ma, col suo solito metodo, la separa del divino provvidente NATURALE,
che solo gì’importa e solo considera. A lui piacque sempre, per quel che
concerne le controversie sulla grazia, di tenersi lontano dai due estremi,
tipicamente rappresentati, secondo lui, dal pelagianismo e dal calvinismo; e studiando
le opere di Ricardo, il gesuita Deschamps, teologo della Sorbona, ne
accetta la dimostrazione circa l'eccellenza della dottrina d’AGOSTINO, appunto
perché media tra quegli estremi. Siffatta temperata dottrina gli sembra propria,
dice, per meditare un principio di diritto naturale delle genti, che spiega
l'origine del DIRITTO ROMANO e d’ogni altro
gentilesco, e per tenersi nel tempo stesso in accordo colla religione
cattolica. Era disposto a concedere che vi sia una nazione privilegiata, l'ebrea; e che l'uomo
cristiano, nella lotta contro le passioni, sia più forte del non cristiano,
perché, dove non giunge la grazia naturale, può essere soccorso dalla
soprannaturale. Ma, infine, il miracolo è miracolo [WAR IS WAR, WOMEN ARE WOMEN
--, e la Scienza nuova non è scienza di miracoli. Che tale non sia, è
confermato dalla critica di V. al terzo dei tre principi del diritto naturale,
a Selden, celebre ai suoi tempi quanto dimenticato poi, autore del De iure
naturali et gentium iuxta disciplinam hebrceoì'um. Diversamente da Grozio, e
avversario di lui anche in altre
questioni, Selden non nega anzi sublima l'efficacia della religione, né
concepiva possibilità alcuna di vita morale e civile pel genere umano, fuori
della rivelazione. La quale, fatta da Dio al popolo ebreo, da questo sarebbe
passata ai gentili per molteplici vie di trasmissione: Pitagora, per es.,
avrebbe avuto per maestro Ezechiele;
Aristotele, al tempo della spedizione d’Alessandro in Asia, si sarebbe
stretto in amicizia con Simone il giusto; a NUMA Pompilio sarebbe giunta
qualche notizia della Bibbia e dei profeti. C'era di che soddisfare ogni animo
di credente, che si ritraesse timoroso dai libri degl’altri giusnaturalisti
avvertendone le tendenze eterodosse. Ma V. non vuol sapere di codesto sistema ultrareligioso. Se
Grozio prescinde del divino PROVVIDENTE e
Pufendorf lo sconosce, Selden aveva il torto, egli dice, di supporlo, di farne cioè un deus ex
machina, senza spiegarla coll’intrinseca natura della mente umana. Contrario
alla filosofia, quel sistema non era meno contrario alla storia sacra, la quale
anche pell’ebrei ammette in certo modo
un diritto non rivelato ma naturale, e solamente perché essi ne persero
coscienza nel tempo della schiavitù d'Egitto, fa intervenire l'opera diretta di
Dio con la legge – il decalogo conversazionale di Grice -- data a Mosé; e non
era conforme, nell'asserita trasfusione di cognizioni e leggi dagl’ebrei nei
gentili, a quel che dice Flavio Giuseppe
degl’ebrei, sempre restii a qualsiasi contatto con popoli stranieri, e a quel
che V. suppone fosse detto anche a questo proposito da Lattanzio, come in
genere era privo di qualsiasi più elementare sussidio di documenti. Cosicché la
conclusione di V. è sempre la medesima: gl’ebrei si giovarono altresì d’un
aiuto straordinario del vero Dio, ma le restanti nazioni s'incivilirono per
opera dei soli lumi ordinari dal divino provvidente. Se poi V. interpetra
esattamente Grozio e Pufendorf ed esattamente ne riferisse le parole, è quesito
per noi di lieve peso, perché non tanto e'importa il modo nel quale V. espose e
giudica gl’altri filosofi, quanto l’idee che egli sostenne pur attraverso i suoi fraintendimenti storici,
che, a dir vero, non sono pochi. Tuttavia, sarà bene indicare di volo, circa le
difficoltà che possono incontrarsi su questo punto, la soluzione che a noi
sembra plausibile. Senza dubbio, chi, dopo aver letto le censure di V., apra il De iure belli et pacis e vi trovi che
Grozio include espressamente fra i suoi tre
principi fondamentali, accanto alla RAGIONE e alla socialità, la volontà
divina, e che quel suo prescindere da Dio suona poco più d’una semplice frase
enfatica a significare la forza della socialità e della ragione, le quali
avrebbero efficacia etiamsi daremus non esse Deum o che Dio non si curi delle
cose umane, quod sine summo scelere davi nequit, chi apra Pufendorf e vi legga il più solenne rifiuto
dell'ipotesi groziana, empia ed assurda, e la dichiarazione che la legge naturale
resta sospesa in aria, priva di forza,
senza la volontà d’un Dio legislatore, può essere tratto a tacciar V. di poca
diligenza o di strana puntigliosità ortodossa nella critica che muove a questi
suoi predecessori. Ma V., in verità, non
sa che cosa farsi d’un Dio messo accanto alle altre fonti della moralità, o
messovi disopra come una superflua fonte della fonte; egli, che cerca Dio nel
cuore dell'uomo, sente e scorge l'abisso che lo separa da coloro che non
l'avevano più nel cuore e appena, per abito o per prudenza, lo serbavano nelle
parole. Più sottilmente si potrebbe
domandare perché mai, se V. era d'accordo coi giusnaturalisti nel
prescindere dalla rivelazione, e s’egli, anziché rigettare, approfondiva la
loro superficiale dottrina immanentistica, s’atteggia a loro risoluto
avversario e fa la voce grossa e insiste presso prelati e pontefici
nell'attribuirsi il vanto d’aver esso pel primo formato un sistema del
diritto naturale, diverso da quello dei
tre autori protestanti e adatto alla chiesa romana. L'ipotesi che opera cosi
per politica cautela la proporremmo, se, invece di lui, avessimo innanzi, per
es., un appassionato e magnanimo ma furbo frate, un CAMPANELLA; ma la candida
personalità di V. l’esclude affatto, e solo si può concedere che, poco chiaro
com'era sempre nelle sue idee, questa
volta s’adagia alquanto nella poca chiarezza e, trasportato dalla sua calda
fede, alimenta le sue illusioni, fino a idoleggiarsi dentro di sé colla veste
di defensor ecclesia nell'atto stesso che soppianta la religione della chiesa
con quella dell'umanità. Da TACITO, insomma, egli avrebbe ricevuto la spinta al
suo gran lavoro, che fu di rendere
concreto l'ideale, e d'inserire, come dice, adattando un detto di CICERONE, la
repubblica di Platone nella feccia di Romolo. Come lo spirito conoscitivo passa
dal sentire senza avvertire all'avvertire con animo perturbato e commosso e
indi al riflettere con mente pura; cosi, analogamente, lo spirito volitivo
passa dalla ferinità al certo pratico e
da questo al vero. Nella correlativa scienza empirica il passaggio è press'a
poco quello dallo stato ferino all'eroico o barbarico e dall'eroico al civile.
Tutte le manifestazioni della vita si conformano a questi tre tipi sociali:
donde tre spezie di nature, tre spezie di costumi, tre spezie di diritti e
quindi di repubbliche, tre spezie di lingue
e di scritture, tre spezie d’autorità, di ragioni, di giudizi, tre sètte
di tempi. Per quanto V. sia confuso e talvolta contradittorio nel determinare i
particolari delle varie corrispondenze, il suo pensiero generale è chiaro. Dove
la riflessione è scarsa e la fantasia gagliarda, sono anche gagliarde le
passioni, violenti i costumi, aristocratici ossia feudali gli stati, sottoposte alla rigida autorità
paterna le famiglie, dure le leggi, simbolici i procedimenti dei negozi
giuridici, metaforiche le lingue, geroglifiche le scritture. Per contrario,
dove la riflessione predomina, la poesia si dilegua o si riempie di filosofia,
i costumi si fanno miti, le passioni regolate, i popoli assumono i governi, i
componenti delle famiglie sono anzitutto
cittadini dello stato, le leggi si compenetrano d’equità, le procedure si
semplificano, la lingua si sfronda della metafora, le scritture diventano
alfabetiche. Forme miste, quali le vagheggiano artificiosamente alcuni
politici, sarebbero mostri; e sebbene s’osservino forme mescolate naturalmente,
ossia ritenenti il vezzo delle primiere,
ciascuna forma pella sua unità si sforza sempre, quanto più può, di scacciare
dal suo subbietto tutte le proprietà d’altre forme. Quale dei vari tipi sociali
sta a fondamento degl’altri e porge il criterio per giudicarli? o quale è il criterio e la misura per
giudicarli tutti quanti? Una siffatta domanda, per V., non ha senso. Ciascuno
di quei tipi ha la propria misura in sé
stesso. I governi, egli dice, debbono
essere conformi alla natura degl’uomini governati: la scuola dei principi è la
morale dei popoli. Si può inorridire innanzi alla guerra, al diritto del più
forte – GRICE NEOTRASIMACO NEOSOCRTE --,
alla riduzione dei vinti a schiavi, cioè a cose che ripugnano ai nostri
costumi ingentiliti; ma la società, che
s’esplica con quei costumi, era necessaria e perciò buona. La divinità della
forza, come si è detto di sopra, teneva il posto e compie l'ufficio del non
ancora possibile impero della ragione. Vengono di poi i tempi della ragione
umana tutta spiegata; e gl’uomini non si stimano più secondo la forza, ma si
riconoscono eguali nella natura
ragionevole, che è la propria ed eterna natura umana. Altri tempi, altri
costumi, e buoni non meno, ma non più,
dei primi. Tanto varrebbe domandare la
misura comune di questi vari tipi sociali, quanto se si domanda quale sia la
vera età della vita individuale, la misura comune della fanciullezza, della
giovinezza, della virilità, della
vecchiaia. Paragone che, pell'appunto, V. stesso mette innanzi. Come i
fanciulli tutto scelgono secondo il capriccio e si comportano con violenza –
GRICE GOLDING --, gl’adolescenti
vigoreggiano pella fantasia, gl’adulti guidano le cose con più pura ragione e i
vecchi con solida prudenza; cosi al genere umano, infermo, solitario e
indigentissimo nelle sue origini,
convenne crescere dapprima in isfrenata libertà, poi ritrovare i necessari, utili
e comodi della vita coll'ingegno e colla fantasia, che fu il secolo dei poeti;
e, infine, coltivare la sapienza colla ragione, che fu il secolo dei filosofi.
Parimente, il diritto naturale nasce dapprima con leggi, per cosi dire, di
giusta libidine e di giusta violenza;
poi fu rivestito con alcune favole di giusta
ragione; infine, si afferma apertamente nella sua schietta ragione e
generosa verità. Con siffatto modo di considerare e giudicare stati, leggi e
costumi, V. respinge un'altra delle dottrine o delle pretese capitali del
giusnaturalismo: quell'astrattismo e antistoricismo, che abbiamo ricordato a
suo luogo, e del quale era conseguenza
la concezione di’un diritto naturale, che stia di sopra al diritto positivo, e
perciò una sorta di codice eterno, una legislazione perfetta, non attuata ancora
pienamente ma d’attuare, i cui lineamenti traspaiono con molta nitidezza nelle
opere dei giusnaturalisti attraverso il tenue velame dottrinale e filosofico.
Codice eterno, che era poi, nella sua parte effettuale, un codice contingente e
transitorio, o almeno la proposta di un codice conforme alle tendenze
riformistiche e rivoluzionarie di quegli scrittori, piuttosto che filosofi,
pubblicisti. V. si spaccia del codice ideale eterno senza averne l'aria:
prontissimo, anzi, a riconoscere che il ius naturale philosophorum ò eterno nella sua idea e severissimamente
stabilito ad rationis mternee libellam. Ma dall'eternità concessagli a parole e
per ossequio alla vecchia filosofia scolastica e tradizionale, della quale qua
e là egli risente l'efficacia, passa a negargli di fatto l'eternità e il
carattere soprastorico, perché, invece di metterlo sopra e fuori la storia, lo
colloca al posto che gli spetta, dentro
la storia. Il diritto della violenza o eroico, cangiatosi nel diritto
incivilito, giunge via via a un certo termine di chiarezza, al quale pella sua
perfezione altro non rimane che alcuna setta di filosofi lo compia e fermi con
massime GRICE ragionate sull'idea d’un giusto eterno; e questo raziocinamento e
sistemazione è il ius naturale philosophorum,
estrema forma dello svolgimento storico del diritto e non già regola perpetua d’esso:
risultamento, non misura. Di qui l'accusa di V. a Grozio GRICEVS GRICEO GRIZEO che,
per avere scambiato il ius naturale philosophorum, il diritto composto di
massime GRICE ragionate da moralisti e teologi e in parte da giuristi, col ius naturale gentium, nella terminologia groziana,
per avere scambiato il diritto naturale con una forma di diritto arbitrario o
positivo), fraintese i giureconsulti romani, i quali intendeno parlare
solamente di questo secondo, e perciò propone correzioni e mosse loro censure i
cui colpi vanno a cadere nel vuoto. Il codice eterno, considerato
intrinsecamente, è un'utopia – un MITO
GRICE --; e poiché la prima e maggiore dell’utopie fu la Repubblica platonica –
H. P. GRICE, PLATO’S REPUBLIC -- , conviene, per meglio determinare il punto di
cui si tratta, osservare il comportamento di V. rispetto alla costruzione
politica platonica. A dare ascolto alle sue parole, la Repubblica platonica
sarebbe stata un altro dei tanti
incentivi e modelli che egli avrebbe avuti a concepire la Scienza nuova. Dallo
studio di Platone incomincia a destarsi in lui, senz'avvertirlo, il pensiero di
meditare un dritto ideale eterno che celebrassesi in una città universale
nell'idea o disegno del provvidente, sopra la quale idea son pure fondate tutte
le repubbliche di tutti i tempi, di
tutte le nazioni: che era quella repubblica ideale, che in conseguenza della
sua metafisica divina dove meditar Platone. Dove, ma non lo potè fare pell'ignoranza,
in cui egli era, del primo uomo caduto; cioè dell'originario stato ferino e
della sapienza, che gli successe, affatto poetica o volgare: ignoranza in cui
fu mantenuto per un errore comune delle
menti umane che misurano da sé le nature non ben conosciute d'altrui, di guisa
che egli innalza le barbare e rozze origini dell'umanità gentilesca allo stato
perfetto delle sue altissime divine cognizioni riposte, e sapientissimi di tal
sapienza riposta immagina quei primi uomini che furono invece, nella realtà,
bestioni tutti stupore e ferocia. In
conseguenza di quest'errore erudito Platone, in cambio di meditare sulla
repubblica eterna e sulle leggi del giusto eterno colle quali il provvidente ordina
il mondo delle nazioni e lo governa colle bisogne comuni del genere umano onde
esse si reggono sul comune senso di tutta l'umana generazione, medita in una
repubblica ideale ed in un pur ideale
giusto – GRICE JUSTICE AS FAIRNESS neosocrates neotrasimaco --, col quale le
nazioni non si conducono punto. E, anzi, se mai, dovrebbero discostarsenc e
purgarsene, perché tra quelle determinazioni di repubblica perfetta se ne
trovano alcune disoneste e d’aborrire, com'è la comunanza delle donne.
Cosicché, V. accetta da Platone l'idea d’una
repubblica eterna, sconvolgendola da cima a fondo con la soggiunta riserva: che
la vera repubblica eterna non è l'astratta platonica, ma il corso storico in
tutti i suoi vari e successivi modi, dai bestioni non esclusi a Platone
compreso. Di codesta, che è la generis Immani respublica, la magna generis
humani civitas, la respublica universa, egli intende studiare formarti,
ordines, societates, negotia, leges, peccata, pcvnas et scientiam in ea
tractandi iuris, e come tutte queste cose si venissero svolgendo a suis usque
primis human itatis originibus, divina providentia – provvidente -- moderante,
moribus gentium ac proinde auctoritate, cioè presso V. può essere, anzi è pell'appunto,
quello della persuasione circa il
provvidente, ossia l'idea che l'uomo ha di Dio, dapprima nella forma del mito,
dipoi in quella pura e ragionata della filosofia. L’antiche nazioni gentili, egli
dice, incominciarono la sapienza poetica metafisica di contemplare Dio pell'attributo
del provvidente, sulla quale furono fondati gl’auspici e la divinazione. Senza
del provvidente, dunque, non si forma nell'uomo la sapienza, che è coscienza
dell'infinito; non sorge la moralità, ch'è timore e riverenza del potere
superiore che governa le cose umane. Ma il provvidente, in tale significato,
non dà luogo a nuovo discorso, dopo di quello già fatto da noi a proposito cosi
del mito come dei rapporti tra morale e religione. Passando, dunque,
senz'altro, al provvidente nel secondo significato, ossia al suo vero e proprio
concetto, ci sembra opportuno prescindere per qualche istante da V. e fornire
alcuni schiarimenti dottrinali. È comune osservazione che altro è produrre un
fatto, altro conoscere il fatto prodotto. La conoscenza di ciò che realmente un
fatto è, s’ottiene talora, nella vita
dell'individuo, dopo parecchi anni, nella vita dell'umanità dopo parecchi
secoli. Coloro medesimi che sono i diretti agenti d’un fatto, non ne hanno di
solito la conoscenza o l'hanno assai imperfetta e fallace; tanto che sono
passate in proverbio le illusioni, che, come si dice, accompagnano l'attività
degl’uomini. Il poeta crede di cantare
la purità ed effettivamente canta la lascivia; crede di cantare la forza e
canta la debolezza; crede d’essere terribilmente pessimista ed è
fanciullescamente ottimista; crede d’essere Satana ed è un brav'uomo
inoffensivo. Non meno s'ingannano i filosofi; e dei loro inganni non dovremo,
in verità, andar lontano a cercare esempì, perché tanti e tanti ce ne viene porgendo proprio il
filosofo che stiamo studiando: uno di coloro che maggiormente s'illusero sulle
reali tendenze dei propri pensieri. E s'inganna l'uomo politico che, assai
spesso, credendo e professando di lottare pella libertà, è semplice aiutatore
di reazione, o credendo di servire alla reazione, incita a ribellarsi e serve
alla libertà. E via discorrendo.
Illusioni spiegabilissime, perché gl'individui e i popoli, nel fervore del
produrre o appena uscenti da quel fervore, possono forse esprimere il loro
stato d'animo, ma non farne quella critica che è il racconto storico; onde,
quando non si rassegnano a tacere e ad aspettare, narrano di sé stessi storie
fantastiche, verità e poesia commiste.
Anzi, in questa dimostrata difficoltà di conoscere l'agire nell'agire è
uno dei motivi della saggia raccomandazione a parlare il meno possibile di sé
medesimi, e della diffidenza che si prova pelle autobiografie e i libri di
memorie, curiosi e anche, se si vuole, importanti, ma che non porgono mai la
schietta verità storica dei fatti narrati. L’opere umane ci giungono, per tal modo, avvolte nei fumi
dell’illusioni che si sollevano dagl'individui. E lo storico superficiale si
ferma all'involucro e prende a raccontare come le cose siano andate, facendosi
portavoce di quelle illusioni. A questo modo la storia della poesia si viene
conformando come il racconto dell’intenzioni, dell’opinioni, dei fini del
poeta o di quelli che gl’attribuirono i
suoi contemporanei; la storia della filosofia, come l'aneddotica dei
sentimenti, delle bizze, e dei fini pratici dei filosofi; quella politica, come
un tessuto d'intrighi, di bassi interessi, di pettegolezzi, di miserie. Ma non
appena un più cauto o diverso ingegno storico s’avvicina a quelle storie, il
primo atto ch'egli compie è di soffiare
sulla nebbia, spazzare via gl'individui e le loro illusioni e guardare
direttamente le cose, quali si sono prodotte nella loro successione oggettiva e
nella loro origine sopraindividuale. La storia vera e reale emerge allora di là
dagl'individui, come un'opera che si compia dietro le loro spalle: opera d’una
forza diversa dagl'individui agenti:
Fato, Caso, Fortuna, Dio. Gl'individui, che prima erano tutto e
riempivano la scena coi loro gesti o coi loro gridi, ora, in questa seconda
guisa di storia, sono meno che nulla, e i loro atti e gridi, destituiti di
seria efficacia, destano riso o pietà – GRICE CAESAR RUBICONE -- Si guarda atterriti il Fato che li domina, si
stupisce alle strane combinazioni del Caso e ai capricci della Fortuna, s’adorano
i disegni imperscrutabili del divino provvidente. Di codeste forze gl'individui
appaiono a volta a volta l'inerte materiale, i leggieri giocattoli, i ciechi
strumenti. Senonché una più profonda considerazione va oltre anche questa
seconda veduta della storia. La pietà che sembrano destare gl'individui,
la comicità che suscitano, in effetti
non è meritata d’essi ma dalle loro immaginazioni, o, piuttosto, da coloro che
le scambiano per verità. La storia reale è fatta dall’opere e non dall’immaginazioni
e illusioni; ma l’opere sono poi compiute dagl'individui, non certamente in
quanto sognanti – il suicidio di CATONE --, ma, appunto, in quanto operanti;
non nella frivolezza del loro opinare, ma nell'ispirazione del genio, nel sacro
furore del vero, nel santo entusiasmo dell'eroismo d’ENEA, TURNO, e ROMOLO.
Fato, Caso, Fortuna, Dio sono spiegazioni che hanno tutto il medesimo difetto,
che è di separare l'individuo (AGENT, DOER) dal suo prodotto (ACT), e, invece
di cacciare via, come si argomentano, il
capriccio o l'arbitrio individuale – GIULIO RUBICONE GRICE -- dalla storia,
inconsapevolmente lo rafforzano e lo moltiplicano. Capriccioso è il cieco Fato,
il Caso stravagante, il tirannico Dio; epperò il Fato passa nel Caso e in Dio,
il Caso in Fato e Dio, e Dio si converte nell'uno e nell'altro, tutti eguali e
tutt'uno. L'idea, che supera e corregge
tanto la visione individualistica della storia quanto quella
sopraindividualistica, è l' idea della razionalità della storia. La storia è
fatta dagl'individui; ma l'individualità è la concretezza stessa dell'universale,
e ogni azione individuale, appunto perché individuale, è sopraindividuale. Non
vi è né l'individuo né l'universale come due
cose distinte, ma l'unico corso storico, i cui aspetti astratti sono
l'individualità priva d’universalità e l'universalità priva d'individualità.
Quest'unico corso storico è coerente nelle sue molteplici determinazioni, al
modo d’un'opera d'arte che è varia e una insieme e nella quale ogni parola s’abbraccia
coll'altra, ogni tono di colore si riferisce agli altri tutti, ogni linea si lega a ogni altra linea.
A tale patto solamente è dato intendere la storia, che altrimenti resta
inintelligibile, come inintelligibili restano un discorso senza significato e
una incoerente azione da folle. La storia dunque non è opera né del Fato né del
Caso, ma di quella necessità che non è fatalità e di quella libertà che non è
caso. E poiché la veduta religiosa che
la storia sia opera di Dio ha, sulle altre, il vantaggio e il merito
d'introdurre una causa della storia che non sia né fato né caso, e perciò
neppure pili propriamente causa ma efficienza creativa e spirito intelligente e
libero, è naturale che, per atto di gratitudine verso questa veduta più alta,
non meno che per opportunità di linguaggio,
si sia tratti a dare alla razionalità della storia il nome di Dio che tutto
regge e governa ed e provvidente. A denominarla cosi, purgando in pari tempo la
denominazione delle sue scorie mitiche, pelle quali Dio provvidente si
corrompevano di nuovo in un fato o in un caso. Onde il provvidente nella storia
ha, in quest'ultima sua forma logica, il
duplice valore d’una critica dell’illusioni individuali, allorché si presentano
come la piena e sola realtà della storia, e d’una critica della trascendenza
del divino. E si può dire che nel punto di vista d’essa si siano collocati e si
collochino sempre, come per istinto, cioè anche senza fare professione d’esplicita
teoria, tutti gì'ingegni naturalmente
forniti di quella particolare attitudine che si chiama senso storico. S’ora,
nel tornare a V., ricerchiamo quale soluzione egli da al problema della forza
che muove la storia, e quale contenuto preciso avesse in lui il concetto del
provvidente nel significato oggettivo, è agevole anzitutto escludere che la sua
fosse quel provvidente trascendente e
miracoloso, che aveva formato il tema dell'eloquente Discours di
Bossuet. Agevole, sia perché egli in tutta la sua filosofia non fa mai altro
che ridurre il trascendente all'immanente, e qui innumeri volte ripete che il
suo provvidente opera per vie naturali o, valendosi della terminologia della
scuola, per cause seconde; sia perché sopra questo punto c'è, si può dire, fra gl'interpetri consenso
generale. Non meno insistente è la sua critica del fato del PORTICO e del caso
DELL’ORTO, o, come talora tripartisce,
della fortuna, del fato e del caso. Egli avverte anche che la dottrina DEL
PORTICO del fato s’aggira in un circolo vizioso, perché la serie eterna delle
cagioni, colla quale esso tiene cinto e
legato il mondo, pende dall'arbitrio di Giove e Giove è insieme soggetto al
fato; onde c'è rischio che IL PORTICO resta avvolti in quella catena di Giove,
colla quale vogliono trascinare le cose umane. Quei tre concetti, ai quali
corrispondono le opportunità se si tratta di cose desiderate—GRICE HE IS A
LUCKY MAN --, l’occasioni se di quelle che avvengono oltre la speranza, e gl’accidenti se di quelle che si presentano
oltre l'opinione, sono distinzioni più che altro dell'apprendimento soggettivo,
perché oggettivamente pertengono a un'unica legge, la quale potrebbe chiamarsi
altresì fortuna, ove con Platone si riconosca per signora delle cose umane
l'opportunità; e tutte tre sono le manifestazioni
e le vie del divino provvidente, che è intelligenza, libertà, necessità. Quello
che fa il mondo delle nazioni fu pur Mente, perché'1 fecero gl’uomini con
intelligenza; non fu Fato, perché'1 fecero con elezione; non Caso, perché con
perpetuità, sempre cosi facendo, escono nelle medesime cose. V. lumeggia nei
modi più immaginosi quella commedia degl’equivoci,
che sono l’illusioni circa i fini dell’azioni che si compiono. Gl’uomini
credettero di salvarsi dalle minacce del cielo fulminante col portare via le
femmine nelle grotte per isfogare la libidine bestiale fuori dello sguardo di
Dio; e, nel tenerle ferme colà dentro,
fondarono i primi concubiti pudici e le prime società; cioè i matrimoni e le famiglie. Si fortificarono
in luoghi adatti col fine di difendere sé stessi e le loro famiglie; e, in
realtà, con quel fortificarsi in certi luoghi, ponevano fine alla vita nomade,
al divagamento ferino, e imparavano la cultura dei campi. I deboli e sregolati,
ridotti alle estreme necessità dalla fame e dalle vicendevoli uccisioni, per
campare la vita corsero a chiedere
riparo in quelle terre fortificate facendosi famoli degl’eroi come ROMOLO; e
cosi, senza sliperlo, vennero ad ampliare le famiglie da famiglie di soli
figliuoli a famiglie anche di famoli e da queste a stati aristocratici e feudali.
Gl’aristocratici o OTTIMATI, feudatari o patrizi, credettero di difendere e
perpetuare il loro dominio quiritario
sulle terre coll'usare la più stretta rigidità verso i famoli o plebi che le
lavoravano; ma a questo modo indussero i famoli, per loro difesa, a unirsi tra
loro, svegliarono in essi la coscienza della propria forza, da plebe ne fecero
uomini, e quanto più fieramente i patrizi ed OTTIMATI si stimarono patrizi e si
sforzarono di mantenersi tali, tanto più
efficacemente concorsero a distruggere lo stato patrizio o OTTIMO e a creare
quello democratico. Cosi, dice V., il mondo delle nazioni esce d’una mente
spesso diversa ed alle volte tutta contraria e sempre superiore ad essi fini
particolari ch'essi uomini s’avevan proposti; de'quali fini ristretti fatti
mezzi per servire a fini più ampi, gli
ha sempre adoperati per conservare l'umana generazione in questa terra.
Ma già da talune di queste parole di V. si potrebbe ritrarre che egli tende
talvolta a concepire gl’uomini come coscienti dei propri fini utilitari e
incoscienti di quelli morali. Il che conduce logicamente a spiegare la vita
sociale con esclusivi principi utilitari, e la moralità come un qualcosa d’accidentale rispetto alla
volontà umana e perciò di non veramente morale: una formazione estrinseca più o
meno potente a tenere insieme gl’uomini, o l'opera nascosta d’un provvidente
extramondano. L'utilitarismo s'insinua – IMPLICATURA -- soprattutto in una
pagina nella quale è detto che l'uomo, pella sua corrotta natura, essendo tiranneggiato dall'amor proprio pel quale
segue principalmente la propria utilità e vuole tutto l'utile per sé e niuna
parte pel compagno e non può porre in conato le passioni per indirizzarle a
giustizia, nello stato bestiale ama solamente la sua salvezza; presa moglie e
generati figliuoli, ama la sua salvezza colla salvezza della famiglia; venuto a
vita civile, ama la sua salvezza colla
salvezza della città di ROMA; distesi gl'imperi sopra più popoli, ama la sua
salvezza colla salvezza della nazione ITALIANA; unite le nazioni in guerre,
paci, alleanze e commerci, ama la sua salvezza colla salvezza di tutto il
genere umano; e in tutte queste circostanze ama principalmente l'utilità
propria. Pella qual ragione, non d’altri
che dal divino provvidente deve essere tenuto dentro tali ordini a celebrare
con giustizia la famigliare, la civile e finalmente l'umana società; per gli
quali ordini, non potendo l'uomo conseguire ciò che vuole, almeno voglia
conseguire ciò che dee dell'utilità, ch'è quel che dicesi giusto. La pubblica VIRTÙ
ROMANA, scrive altrove, non è altro che
un buon uso che il divino provvidente – Giove -- fa di si gravi, laidi e fieri
vizi privati, perché si conservassero la città di ROMA ne'tempi che le menti
degl’uomini, essendo particolarissime, non potevano naturalmente intendere ben
comune. Senonché l'utilitarismo, come sappiamo, è affafto repugnante alla
concezione etica di V., fondata sulla
coscienza morale o sul pudore; e perciò queste sue affermazioni, che
inconsapevolmente vi condurrebbero, non possono spiegarsi se non come effetto
del turbamento che talora produce in lui la sopravvivenza del concetto
trascendente e teologico circa il divino provvidente, e anche della poca
chiarezza di pensiero, pella quale non
gli riusce di tenere ben distinto il concetto dell’illusioni individuali da
quello dei fini individuali e sostituiva talvolta il secondo dove avrebbe
dovuto trattare solamente del primo. S’il divino provvidente, 1'unità della
religione d'una divinità PROVEDENTE, è
l'unità dello spirito ch’informa e dà vita al mondo delle nazioni,
questa religiosità non può starsene al
pensiero dell'inconsapevole indirizzamento dei fini individuali –GOD WHO MADE
THEE MIGHTY -- a effetti universali, ma deve esplicarsi nel dar vita e vigore
ai fini universali direttamente, e l'uomo sarà tutt'insieme utilitario e
morale, oche s'illuda d’essere morale dov'è utilitario o d’esser utilitario
dov'è effettivamente morale – GRICE
MORALITY CASHING OUT ON DESIRE. A ogni
modo, e nonostante queste oscillazioni o piuttosto confusioni, concepire i fini
particolari di GUILIO CESARE o CATONE come veicolo degl’universali e l’illusioni
come accompagnanti e eoo peranti coll'azione importa concepire dialetticamente
il moto della storia e superare – IL NASO DI CLEOPATRA -- il problema del male.
In V., questo problema ha, infatti, pochissimo rilievo, tanto in lui domina
l'idea ch’il divino providente governi tutto; e perciò quel che si chiama male,
non solo gli si mostra voluto dagl’uomini sotto sembianza di bene, falsum sub
veri specie, mala sub bonorum simulaci ìs amplectimur, ma dove logicamente svelarglisi come esso stesso una
forma di bene, a quella guisa che bene è la barbarica forza costitutrice della
prima società. In qualche raro luogo dei suoi primi scritti nel quale gl’accade
d’accennare a tali questioni, V. nota che noi altri uomini, a causa della
nostra iniquità onde nosmetipsos, non hanc rerum universitatem spectamus,
le cose che ci contrariano stimiamo
male, quce tamen, quia in mundi commune conferunt, bona sunt. La concezione
della storia diventa in V. veramente oggettiva, affrancata dall'arbitrio
divino, ma non meno dall'impero delle piccole cause – DECAPITATION WILLED
CHARLES I’S DEATH -- e delle spiegazioni aneddotiche; e acquista coscienza del suo fine intrinseco, che è d'intendere il
nesso dei fatti, la logica degl’avvenimenti, d’essere rifacimento razionale d’un
fatto razionale. Gli studi storici, a quei tempi, non erano tanto danneggiati
dal primo errore, che anzi la concezione teologica, fin dagl’inizi del
Rinascimento ITALIANO, poteva considerarsi decaduta, quanto da quella forma
di storia che appunto allora venne
prendendo nome di PRAMMATICA GROZIANA GRICEIANA, e che restringendosi
all'aspetto personale degl’avvenimenti di GIULIO CESARE e non raggiungendo per
questa via la piena realtà storica, cerca di darsi calore e vita mercé le
riflessioni e gli ammaestramenti politici e morali. Un monumento di storia prammatica sorge nella stessa patria di V.,
contemporaneamente alla sua scienza: la storia civile del regno di Napoli dal
condannato GIANNONE, il quale è veramente l'uomo del suo paese e del suo tempo
e scrive un gran saggio di polemica e anche, per certi rispetti, di storia, ma
tale che, colla sua altezza, dà modo di segnare la tanto maggiore altezza dell'opera di V. Ben altro che
astuzie di papi, vescovi e abati, e semplicità di duchi e imperatori, avrebbe
saputo scoprire V., s’avesse dovuto narrare lui per filo e per segno l’origini
della proprietà e della potenza
ecclesiastica – ecclesiaste -- nel Medioevo. E ben altro, come vedremo, egli
scopri realmente nella storia, tutte le volte che prese a indagarne qualche parte. Nello spirito,
percorsi i suoi stadi di progresso, e dalla sensazione innalzatosi
successivamente all'universale fantastico e poi a quello intelligibile, dalla
violenza all'equità, non può, in conformità della sua eterna natura, se non
ripercorrere il suo corso, ricadere nella violenza e nel senso, e di là
riprendere il moto ascensivo, iniziare
il ricorso. È codesto il significato filosofico del ri-corso di V., ma non è il
modo preciso in cui lo si trova espresso negli scritti di V., dove l'eterno
circolo viene quasi esclusivamente considerato nelle storie dei popoli, come ri-corso
delle cose umane civili. La civiltà va a terminare nella barbarie della
riflessione, peggiore della prima barbarie del senso, che era d’una fierezza
generosa, laddove l'altra è vile, insidiosa e traditrice; e perciò è necessario
che quella malnata sottigliezza d'ingegni maliziosi vada a irrugginire dentro
lunghi secoli di una nuova barbarie del senso. Tuttavia, dai fatti storici e
dallo schema sociologico bisogna estrarre e depurare il concetto del ri-corso,
non solo per rendersi conto
dell'assolutezza ed eternità che V. gl’attribuisce, ma anche per giustificare
la rappresentazione storica e la LEGGE SOCIO-logica che si fondano sopra d’esso
e d’esso principalmente attingono la loro forza. Le legge del ri-corso, che era
stat stabilita dai filosofi e politici romani antichi e da quelli italiani del
Rinascimento, si fondano certamente
anch'esse sopra qualche filosofia, ma assai superficiale; onde assumevano a
loro obietto l’estrinseche e vuote forme politiche, delle quali procuravano di
determinare la successione sopra dati di esperienza o su vaghi raziocini.
Ma V. ha per suo obietto le forme di
cultura, che abbracciano in sé tutti gl’atteggiamenti della vita,
l'economia e il diritto, la religione e
l'arte, la scienza e la lingua; e, riportandole alla loro intima fonte, che è
lo spirito umano, ne stabilisce la successione secondo il ritmo dell’elementari
forme dello spirito. Per questo, tutta l'erudizione che si è spesa per
ravvicinare il ri-corso di V. alle teorie di Platone o di Polibio, di
MACHIAVELLI o di CAMPANELLA, riesce
mediocremente inutile: tanto più che V., il quale, come sappiamo, pure
fraintendendo spesso i suoi predecessori, non si può dire che volesse celarli,
anzi, dove gli pare scorgere riscontri e consensi, se ne pompeggia, non senti
il bisogno di ricordarle o vi accenna con poca stima. L'àvay.óxXtoats di
Polibio, la sua economia della natura secondo la quale si cangiano e tramutano
e al medesimo punto gli stati ritornano, è sembrata quasi un'anticipazione
della storia ideale eterna; pure V. mette Polibio insieme cogl’ altri,
invitando i lettori a considerare quanto, poco, i filosofi abbiano con iscienza
meditato sui principi dei civili governi, e quanto, poco, con verità, Polibio
abbia ragionato sulle loro mutazioni. CAMPANELLA
connette i suoi circoli storici con leggi ASTRO-logiche; e MACHIAVELLI ecco come concepisce la
catastrofe – la congiura contro LORENZO -- che inizia il ri-corso: Quando
l'astuzia e malignità umana è venuta dove la può venire, conviene di
necessità che il mondo si purghi per uno
dei tre modi, peste, fame e inondazione,
oltre quelli umani delle nuove religioni e lingue, acciocché gl’uomini, essendo
divenuti pochi e battuti, vivano più comodamente e divengano migliori. Il solo precedente al quale V.
quasi si gloria di riferirsi, è l'antichissima tradizione egiziana – IL NASO DI
CLEOPATRA -- sulla successione delle tre età degli dèi, degl’eroi e degl’uomini,
che interpetra in guisa tutta sua, alla napoletana, e riempie di contenuto
affatto nuovo. Se la filosofìa, che è nel fondo, conferisce forza alla teoria
sociologica di V. del ri-corso, il materiale storico col quale è, per cosi
dire, impastata, v'introduce qualche debolezza. V. ebbe pratica e predilezione
particolare pella storia specialmente
giuridica di ROMA, donde mossero le sue indagini e alla quale si dedica
per anni; e questa storia, sia perché da lui meglio ricercata, sia pella sua
stessa complessità, GRANDIOSITÀ e
durata, fini per parergli la storia tipica o normale, da servire di
misura tutte l’altre, e gli si confuse colla stessa legge del ri-corso. ROMA
offre V. l'asilo di ROMOLO, cioè il
passaggio dallo stato ferino – UOMINI LUPA LUPI -- all'ordinamento politico; l’aristocrazie
OTTIMO OTTIMATI, monarchiche REGNO dapprima solo in apparenza, e poi neppure
nell'apparenza; la REPUBBLICA, uscente dalla lotta contro gl’OTTIMATI e
terminante nell'effettivo PRINCIPATO, cioè
nella forma più perfetta della vita civile; e di qui, per processo degenerativo,
la barbarie della riflessione ossia della civiltà, che è incomparabilmente
peggiore della prima e generosa barbarie della LUPA D’ALBALONGA, e, conseguenza
d’essa, una seconda condizione di divagamento ferino, SENZA LA LUPA CAPITOLINA,
e la nuova barbarie, la nuova gioventù, il Medioevo. La storia di ROMA, a mala pena generalizzata
e integrata qua e là con quella d’ATENE –the importanc of being Dorian --, si
scorge nelle degnità di V. che formolano le leggi della dinamica sociale. Gl’uomini
prima sentono il necessario, dipoi badano all'utile, appresso avvertiscono il
comodo, più innanzi si dilettano del
piacere, quindi si dissolvono nel
lusso di NERONE, e finalmente impazzano in istrapazzar le sostanze. Ci vogliono
prima uomini immani e goffi come i Polifemi, affinché l'uomo ubbidisca all'uomo
nello stato delle famiglie, e per disporlo a ubbidire alla legge nello stato
futuro delle città. Ci vogliono i magnanimi e gl’orgogliosi come gl’Achilli o
ROMOLO o GIULIO CESARE, determinati a non cedere ai loro pari, affinché sulle
famiglie si costituiscano le repubbliche di forma aristocratica degl’OTTIMATI.
Quindi si richiedono i valorosi e giusti, quali gl’Aristidi e gli Scipioni
Africani – l’inizio della filosofia a ROMA – il circolo degli Scipioni --, per
aprire la strada alla libertà popolare. Più innanzi, personaggi
appariscenti con grandi immagini di
virtù accompagnata da grandi vizi, che presso il volgo fanno strepito di vera
gloria, quali gl’Alessandri e i Cesari, per introdurre le monarchie. Più oltre
ancora, i tristi riflessivi, quali i Tiberi, per istabilirle; e, finalmente, i
furiosi, dissoluti e sfacciati, quali i Caligola, i Neroni, i Domiziani, per
rovesciarle. Per effetto di questo
assottigliamento della storia romana a storia tipica, e insieme della
corpulenza che la storia tipica acquista nella storia di Roma, la legge di V.
del ri-corso è tutta rotta d’eccezioni, assai più frequenti e gravi che la
medesima legge empirica non comporta j talché se il suo schema empirico fosse
tutt'uno, come a lui sembra, colla legge ideale
dello spirito, parrebbe quasi ironia l'affermata costanza d’esso
nell'eternità e nei mondi infiniti. Il disegnato corso delle cose umane, egli scrive, non fecero, nell'antichità,
Cartagine, Capua e Numanzia le tre città che minacciarono di disputare a Roma
l'impero del mondo; perché i cartaginesi furono prevenuti dalla nativa acutezza
africana, che più aguzzarono nei
commerci marittimi; i capuani dalla mollezza del cielo e dall'abbondanza della
Campagna felice; i numantini, perché nel loro primo furore dell'eroismo furono
oppressi dalla potenza romana, comandata d’uno Scipione Africano, vincitore di Cartagine, e assistita
dalle forze del mondo. E dall'antichità saltando ai tempi moderni, gli americani correrebbero ora il corso delle
cose umane, se non fossero stati scoperti dagl’europei; Polonia e Inghilterra
persistono stati aristocratici, tale stima V. la BRITANNIA, perché, non
come la GALLIA, monarchia assoluta, ma
perverranno a perfettissime monarchie, s’il corso naturale delle cose umane
civili non sarà loro impedito da cagioni
straordinarie. Neppur il Medioevo poteva considerarsi, secondo la mente
di V., come un vero e proprio ritorno allo stato ferino – l’eta oscura --, se s’apri collo stabilimento dell’universita
di Bologna e la religione del vero Dio, del cristianesimo; né, a ogni modo,
quel ritorno alla ferinità e alla barbarie sembra che sia la sola via che s’offra
alle nazioni, giunte alla loro tbqiVj,
al loro culmine. C'è l'altra che le nazioni corrotte perdano l'indipendenza e
vengano sotto il dominio d’altre migliori. Né, infine, la decadenza è
inevitabile, se uomini di stato e filosofi, lavorando concordi, possono serbare
la perfezione raggiunta e raffrenare la dissoluzione minacciante, e se difatti,
come egli nota, le poche repubbliche
aristocratiche che sopravvivevano ai suoi tempi quali residui del Medioevo, per es., Venezia, riuscivano a conservarsi con
arti di sopraffina sapienza. I suoi propri tempi V. giudica d’alta civiltà: una
compiuta umanità, egli dice, sembra sparsa, oggi, per tutte le nazioni. Pochi
grandi monarchi reggono il mondo dei popoli, e quelli ancora barbari o durano pella perdurante
sapienza volgare di religioni fantastiche e fiere, o insiememente per effetto
del temperamento naturale dei vari popoli. Le nazioni, infatti, soggette allo
czar di Moscovia sono di mente pigra; quelle del chan di Tartaria, genti molli;
i popoli sui quali regnano il negus d’Etiopia e i re di Fez e di Marocco,
deboli e parchi. Nella zona temperata il
Giappone celebra un'umanità eroica, somigliante alla romana dei tempi delle
guerre cartaginesi, fieri nelle armi, con una lingua ch’arieggia la latina, qui V. fraintende il ragguaglio d’un missionario
gesuita, con una religione feroce di dèi orribili tutti carichi d'armi infeste,
e qui esagera alquanto un passo di BARTOLI; i cinesi, invece, con una religione
mansueta, coltivano le lettere e sono umanissimi; umani ed esercitanti l’arti
della pace, i popoli del gran Mogol; i persiani e i turchi mescolano alla
mollezza dell'Asia la rozza dottrina della loro religione, e i turchi in
ispecie temperano l'orgoglio colla magnificenza, col fasto, colla liberalità e
colla gratitudine. Umanissima per eccellenza l'Europa, composta in grandi
monarchie e dove dappertutto si professa la religione cristiana, la quale
insegna un'idea di Dio infinitamente pura e perfetta e comanda la carità verso
tutto il genere umano. V. ferma l'occhio
sulle confederazioni dei cantoni svizzeri e delle provincie unite d’Olanda, che
gli ricordano le leghe etolie ed achee,
e sul corpo dell'impero germanico, sistema di città libere e di principi
sovrani, che gli sembra quasi saggio d’un grande stato aristocratico, il più
perfetto di tutti – GRICE HEGEL PRUSSIA --, forma ultima degli stati civili,
perché non si può intenderne altra superiore, riproducendo essa la prima,
l'aristocrazia dei patrizi, re sovrani
nelle loro famiglie e uniti in ordini regnanti nelle prime città, ma
riproducendola non più barbarica, anzi sommamente civile. L'Europa sfolgora
dappertutto di tanta umanità, che vi s’abbonda di tutti i beni i quali possono
felicitare l'umana vita non meno pei piaceri della mente e dell'animo che pegli’agi
del corpo; e tutto ciò per virtù della religione cristiana che insegna verità sublimi, servita
dalle più dotte filosofie dei gentili e dalla maggiori lingua del mondo, la
latina, e riunente per tal modo la
sapienza comandata colla ragionata, la più scelta dottrina dei filosofi colla
più colta erudizione dei filologi. Codesta somma civiltà, garantita dal
cristianesimo, sarebbe andata o sta per andare incontro a un nuovo stato ferino? È diffìcile
conoscere quel che veramente V. pensa in proposito. C'è, tra i suoi versi, una
canzone cupamente pessimistica; ma è una effusione e, a ogni modo, piuttosto
che a decadenza sociale, accenna addirittura a un'imminente fine del mondo.
Nelle sue lettere, si fa un triste quadro delle condizioni dell’UNIVERSITA DI
BOLOGNA ai suoi tempi; ma non si spinge lo sguardo fuori di quel campo
ristretto, a considerare la vita sociale e politica. D'altra parte, in un suo
scritto filosofico, nel De mente heroica, volgendosi a quelli che dicevano
tutto essere ormai perfetto e non presentarsi nient'altro da fare, afferma che
s’era nel maggior fervore di progresso: Mundus
iuvenescit adhuc; nani septingentis non ultra ab hinc annis, quorum
tamen quadringentos barbaries percurrit, quot nova inventa? quot novee artesf qnot novee scientice exeogitatee? Ma si potrebbe osservare che il
De mente heroica è un'orazione detta A NAPOLI, e che forse per questo V. vi fa
tacere i suoi dubbi o i suoi intimi convincimenti. In ogni caso, come adattare nella previsione d’una
imminente decadenza il sorgere di quel fatto del PROVIDENTE che era la sua Scienza,
la quale illumina la vita delle nazioni e ne rende possibile la diagnosi e la
cura? Tutto sommato, è probabile che il pensiero di V. circa le sorti della società a lui
contemporanea sia difficile tanto a cogliere perché, in verità, un pensiero determinato su quel
punto a lui manca, essendo il suo animo tratto in qua e in là da diverse e
opposte tendenze e agitato fra timori e speranze. Se non fosse stata turbata dallo schema della
storia di ROMA, la teoria empirica del ri-corso non sarebbe stata costretta ad
accogliere tante e tanto gravi eccezioni, né si sarebbe impigliata in cosi angosciose perplessità, e
avrebbe pili agevolmente allogato l’osservazioni storiche dell'autore, e,
insomma, si sarebbe presentata con tratti più semplici e generali. Essa sarebbe
consistita sopratutto nella determinazione e illustrazione del nesso tra epoche
di prevalenza fantastica ed epoche di prevalenza intellettiva, tra spontanee
e riflesse, onde dalle prime escono le
seconde per potenziamento e dalle seconde, attraverso la degenerazione e la
decomposizione, si torna alle prime. La storia politica mostra di continuo lo
spettacolo d’aristocrazie che, da forti che erano, si fanno vili e spregevoli,
e cedono all'urto di classi meno affinate o addirittura rozze ma moralmente
più energiche, fintanto che queste,
diventate a loro volta raffinate, raggiunta la più alta fioritura delle idee
storiche di cui portano il germe, entrano in un periodo di decadenza e di
fermentazione, dal quale esce una nuova classe dominatrice, giovanilmente
barbara. E la storia della filosofia mostra periodi positivistici e periodi
speculativi, l'irrigidirsi delle
soluzioni filosofiche nelle dottrine scolastiche e nei dommi, il ritorno alla
mera osservazione del fatto singolo, e il rinascente processo speculativo. E la
storia letteraria ci parla anch'essa di periodi realistici e idealistici,
romantici e classicisti, di corruttela classica che è alessandrinismo e decadentismo
d’ANNUNZIO, e di barbarie FUTURISTICA DI MARINETTI romantica che da questo
risorge. Ecco altrettanti casi di vero e proprio ri-corso vie hi ani. Ma poiché
la natura dello spirito, messa a fondamento di questi cicli, è fuori del tempo
ossia è in ogni istante del tempo, non bisogna esagerare la distinzione dei
periodi; e, se quella legge deve avere una certa rigidezza, deve per altro serbare anche una certa elasticità. Non bisogna mai
dimenticare che in ogni epoca, per aristocratica o democratica, romantica o
classica, positiva – GRICE AYER VIENNESE BOMBSHELLS -- o speculativa che si
dica, anzi in ogni individuo e in ogni fatto, è dato notare momenti
aristocratici e democratici, romantici e classici, positivi e speculativi, e
che quelle distinzioni su grande scala
sono quantitative e di comodo: il che non deve portarci né a sostenere quella
legge a tutti i rischi, cadendo nell'artificiosità, né a combatterla a
oltranza, ricusando i servigi che gli schemi generali e approssimativi sogliono
rendere. Perciò, quando sia cosi intesa
e corretta, non solo non' e' è bisogno d'introdurre in essa quelle grosse e stridenti eccezioni che
il modellamento – GRICE MODEL IMPLICATURE -- sulla storia
di ROMA e sulla sua catastrofe finale dai mani di goti fa necessarie, ma
le accuse mosse a V. di troppa
uniformità si dileguano. Cuoco, uno dei primi che prendeno a studiare con
intelligenza l'opera di V., nota, a proposito e contro il concetto
del ri-corso, che la natura non si rassomiglia mai a sé stessa, ed è l'uomo che
per comporre le sue osservazioni forma le classi e i nomi. Verissima sentenza,
ma che si volesse applicare a questo caso, non varrebbe solo contro il ri-corso
di V., ma contro ogni sorta di scienza umana di carattere empirico. Altri
rimprovera a V. d’avere trascurato ordini di cause che hanno importanza grande
nella storia, per es. il clima, le disposizioni naturali delle razze e dei
popoli, gl’avvenimenti straordinari. Ma, lasciando stare che V. fa menzione più
volte di tutte queste cose mettendo in rapporto i caratteri dei popoli e i
climi colle forme e vicende degli Stati e ricordando avvenimenti e circostanze
che affrettano il corso naturale ossia
ordinario delle nazioni, come, tra l'altro, nel discorrere della storia greca,
o l’eruzzione del Vesuvio pella fortuna d’ERCOLANO; il vero è che egli non dove
tenerne conto, o non poteva indugiarvisi, perché il suo assunto concerne le
uniformità e non le differenze, o certe uniformità e non certe altre, che
rispetto alle prime diventavano differenze
trascurabili. Allo stesso modo, e il paragone è calzante ed è più che un
paragone, chi si faccia a notare i caratteri generali delle varie età della
vita, dell’infanzia, della fanciullezza, dell'adolescenza e via dicendo,
trascure di notare gl’acceleramenti o ritardi di sviluppo secondo i vari climi
o le varie razze o i vari accidenti. Nel
medesimo gruppo d’addebiti, veri e inopportuni insieme, rientra che V. nega la
comunicabilità e compenetrazione reciproca delle civiltà col sostenere
insistentemente che la civiltà nasce separatamente presso i popoli senza sapere
nulla gl’uni degl’altri – ROMA ED ATENE, CARNEADE AL CAMPIDOGLIO -- e perciò senza prendere esempio reciproco. Il quale addebito è stato
controbattuto osservando che V. non manca di ricordare casi d’efficacia d’un
popolo sull'altro e di trasmissione delle civiltà e dei loro prodotti – IL
LAOCOONTE DEL BELVEDERE -- per es., della scrittura alfabetica dai caldei ai
fenici e da questi agli egiziani, e che, a ogni modo, la sua legge è non
empirica ma filosofica e si riferisce
alla spontaneità produttrice dello spirito umano. Senonché, ciò che è in
discussione è appunto l'aspetto empirico e non quello filosofico della legge; e
la risposta giusta sembra a noi, come si è già accennato, che V. non potesse e
non dove tenere conto delle altre circostanze, al modo stesso, per ripigliare
l'esempio, che chi nello studiare le
varie fasi della vita descrive le prime manifestazioni del bisogno sessuale nel
vago fantasticare o in altri fatti consimili della pubertà, non tiene conto
dell'iniziazione all'amore che gl’adolescenti meno esperti possono ricevere dai
piti esperti, quando l'assunto della ricerca concerna non le leggi sociali
dell'imitazione ma le leggi fisiologiche
dello sviluppo organico. E colui che affermasse che pur senza iniziazione e
ammaliziamento il bisogno sessuale si risveglia egualmente e si procaccia
soddisfazione, riaffermerebbe, senza dubbio, nient'altro che l'incontrastabile
verità d’un'antichissima novellina orientale che Boccaccio inseri nel
Decamerone, ma pronunzia insieme il più
esatto riscontro alla famosa e tanto contrastata dignità di V. Né il ri-corso di V. s’oppone di necessità,
come spesso s’è creduto, al concetto di progresso sociale. Si opporrebbero, se,
invece d’essere semplicemente uniformi, fossero identici, in conformità
dell'idea, che s’è affacciata nell'antichità e nei giorni nostri a qualche cervello stravagante,
dell'eterno ritorno delle cose singole e individuali. IL RI-PERCORSO DEL CORSO,
il circolo eterno dello spirito, può e deve, sebbene V. non lo dice, pensarsi
non solo diverso nel moto uniforme, ma continuamente arricchentesi e crescente
su sé stesso, in guisa che la nuova epoca del senso è in realtà arricchita di
tutto l'intelletto, di tutto lo
svolgimento precedente, e cosi la nuova epoca della fantasia o quella
della mente spiegata. La barbarie ritornata, il Medioevo, fu per tanti rispetti
uniforme all'antica barbarie ecetto BOLOGNA; ma non per ciò deve considerarsi
identica se contenne in sé BOLOGNA e il cristianesimo che compendia e supera il
pensiero antico romano. Tutt'altra
questione è se in V. è esplicito e rilevato il concetto di progresso. V.
non nega il progresso, vi fa anche, quando parla delle condizioni dei suoi
tempi, qualche accenno come a una realtà di fatto; ma non ne ha il concetto, e
molto meno gli dà rilievo. La sua filosofia, se procura l'alta visione del
processo dello spirito ubbidiente alla sua propria legge, ritiene tuttavia, da questa mancanza di
coscienza circa il progressivo arricchimento del reale, qualcosa di desolato e
di triste. Il carattere individuale degl’uomini e degl’avvenimenti –
L’ASSASSINIO DI GIULIO CESARE -- ò, in V., obliterato: individui e avvenimenti
stanno soltanto come casi particolari d’un aspetto dello spirito o d’una
fase della civiltà; e perciò, sempre,
Aristide con Scipione, Alessandro con Cesare, non mai Aristide come Aristide,
Scipione come Scipione, e Alessandro e Cesare come Alessandro e come Cesare.
Progresso importa ufficio privilegiato di ciascun fatto, di ciascun individuo,
ciascuno mettendo la propria nota, insostituibile, nel poema della storia,
e ciascuno rispondente con maggior voce
al suo predecessore. Ma la ragione pella
quale a V. dove fare difetto l'idea di progresso e la sua ricerca storica dove
riuscire unilaterale, non si può scorgere bene se non quando si sia dato uno
sguardo alla sua metafisica. Per metafisica – GRICE STRAWSON PEARS METAPHYSICS
PEARS THE NATURE OF METAPHYSICS -- intendiamo la concezione che ha V. e
COLLINGWOOD -- della realtà tutta e non del solo mondo umano; e includiamo nel
significato della parola anche l'eventuale conclusione negativa che afferma
l'inconoscibilità o l’imperfetta conoscibilità d’una o più -- KANT E CARNAP CITATI DA GRICE -- sfere del
reale, o di quella suprema in cui le
altre si riuniscono. V. pell'appunto, come ci è noto dalla sua gnoseologia,
segna una profonda linea divisoria tra mondo umano e mondo naturale: il primo
trasparente all'uomo perché fatto dall'uomo – UTTERER’S MEANING, e il secondo
opaco – THOSE SPOTS MEANT NOTHING TO ME, BUT MEASLES TO THE DOCTOR -- perché
Dio, che l'ha fatto, egli ne ha la scienza. E la sua concezione della realtà
totale e ultima, la metafisica da lui esposta tutt'insieme colla sua
gnoseologia, ritiene il solo valore, che questa le concede, d’una probabile ma
inverificabile congettura, la quale si compie nella certezza della teologia
rivelata – NATURE MEANS THAT THOSE SPOTS MEAN MEASLES. Essa rimane perciò senza
possibile congiungimento colla scienza, che procede con metodo sicuro di verità
e prescinde affatto dalla rivelazione. V. non la rifiutò mai; ne discorre nella
sua autobiografia che è contemporanea al sagio sulla scienza; la ricorda con
compiacimento, cioè dopo il saggio sulla scienza, quando la sua vita scientifica era, ed egli
stesso cosi la considera, terminata. Ma, sebbene non la rifiuta, la tenne
sempre come appartata in un angolo della sua mente. Sembrerebbe che, assodato
questo punto, non ci dove essere, circa la metafisica di V., altro da dire
d'importanza filosofica. Pure, non è cosi. E in primo luogo, poiché OGNI PARTE
DELLA FILOSOFIA IMPLICA L’ALTRE – like virtue, it is entire -- e dalla
trattazione d’una delle cosi dette scienze filosofiche particolari – la
filosofia della lingua di CESAROTTI -- si può SEMPRE desumere il carattere del
tutto, è legittimo cercar di determinare, scrutando il saggio sulla scienza,
quale metafisica vi è implicita, ossia quale
complemento filosofico quella scienza LOGICAMENTE sopporta e
richiede. Ora il saggio sulla scienza, che
afferma la conoscibilità piena delle cose umane, e non già nella loro
superficie come in una psicologia, ma nell'intima loro natura; la Scienza, che
raggiunge di là dagl'individui la conoscenza della Mente che informa il mondo
ed è il PROVIDENTE; quella Scienza, che con divino piacere contempla l'eterno
circolo dello Spirto: innalzata che s’era a tale altezza tende necessariamente
all'interpetrazione di tutta la realtà, della natura e di Dio come Mente. Che
questa tendenza fosse oggettiva, della
Scienza, e non soggettiva, di V., nel quale quella scienza, per cosi
dire, s’era pensata, è quasi superfluo
avvertire di nuovo. V., come persona, non solo non la favori, ma anzi la
compresse e represse con tanta energia che non ne lascia apparire traccia nei
suoi saggi. Di nessuna dottrina filosofica ebbe tanto terrore, e contro nessuna
polemizza con tanta frequenza, quanto contro il panteismo animista naturale di
Grice; e forse proprio questa preoccupazione polemica è la sola traccia,
sebbene affatto involontaria, che si possa notare nei suoi saggi, della
tendenza che egli dove sentire in sé. Egli era e voleva restare cristiano e
cattolico: la trascendenza, il Dio personale, la sostanzialità dell'anima, per
quanto la sua scienza non vi conduce, erano bisogni irrefrenabili della
sua coscienza. Ma ciò, come permette a V.
di reprimere soltanto, e non di sopprimere – SVPPRESSIO FALSI VERI -- la logica
e intrinseca tendenza del suo pensiero, cosi dà a noi facoltà di riconoscerla
nella cosa stessa. E a ragione un critico italiano SPAVENTA ha ad affermare che
in V. s’affacci l'esigenza d’una metafisica; e un altro, tedesco e cattolico, defini il sistema di lui un
semipanteismo. Più arrischiato sarebbe forse, col ricordato critico italiano,
spingersi a dire – STONE AGE PHYSICS REGINA SCIENTIARVM -- che V. progredì sul
concetto delle due sostanze cartesiane e dei due attributi spinoziani e della
stessa monade leibniziana, sorpassando il parallelismo e l'armonia prestabilita col distinguere le due PROVIDENTI,
i due attributi, la natura e lo spirito, in modo che uno di essi sia scala
all'altro, e col concepire il punto d’unione e la derivazione del contrario
come spiegamento o sviluppo; onde la natura sarebbe il fenomeno e la base
propria dello spirito, il presupposto che lo spirito fa a sé stesso per
essere veramente spirito, vera unità.
Perché, potendosi dubitare che la distinzione dei due attributi o dei due PROVIDENTI,
la naturale e l'umana, sia ben fondata e ineluttabile conseguenza del concepire
la sostanza come spirito e come mente, non si può dedurre il passaggio
evolutivo dall'una all'altra come tendenza implicita nel concetto di V.
della mente. Per questa seconda e particolare tendenza
occorrono, insomma, prove particolari e documentarie, che s’hanno bensì ma
insufficienti e malsicure, e non nel sistema della Scienza, ma piuttosto in
quello che cronologicamente lo precede. Perché anche la metafisica che V.
delinea non è, com'è sembrato a parecchi e può sembrare a prima vista, priva
di ogni significato e importanza. Essa
dimostra la medesima avversione contro il materialismo e il medesimo amore pell’idealismo – GRICE WHAT
PLATO WAS AFTER -- che anima le
meditazioni della Scienza. La filosofia dell’ORTO ROMANO – del PATER che
Grice amava --, che prende a suo principio il
corpo già formato e diviso in parti
multiformi ultime, composte d'altre parti – IL DUALISMO DI RYLE CHE
GRICE CRITICA -- che per difetto di vuoto interposto si fingono indivisibili,
sembra a lui una filosofia da soddisfare le menti rozze dei fanciulli e le
deboli delle donnicciuole; e con quanto
diletto vede spiegate dall’ORTO ROMANO, ossia
nel poema di Lucrezio, le
forme della natura corporea,
con altrettanto o riso o
compatimento lo vede tratto dalla dura
necessità a perdersi in mille inezie e sciocchezze per ispiegare le guise della
mente. Di falsa posizione, non meno dell dell’ORTO ROMANO, V. accusa la tìsica
cartesiana, che anch'essa ha per principio il corpo già formato, diversa da
quella dell’ORTO ROMANO e LUCREZIO in ciò che l'una ferma la divisibilità del
corpo negl’atomi, l'altra fa i suoi tre elementi divisibili all'infinito; l'una
pone il moto nel vano, l'altra nel pieno; l'una comincia a formare i suoi infiniti
mondi d’una casuale CLINAZIONE E DE-CLINAZIONE d’atomi dal moto in giù
del proprio loro peso e gravità; l'altra, i suoi indefiniti vortici – ABBAGNANO VEDAS – d’un impeto
impresso a un pezzo di materia inerte INORGANICA e quindi non divisa ancora,
che col moto impresso si divide in quadrelli e impedita dalla sua mole mette in
necessità di sforzarsi a movere in moto retto, e, non potendo per il suo pieno, incomincia, divisa nei suoi
quadrelli, a moversi circa il centro di
ciascun quadrello. Cosi se L’ORTO ROMANO commette il mondo al Caso, Cartesio lo
assoggetta al Fato; e invano, per salvarsi dal materialismo, egli sovrappone
alla sua fisica una meta-fisica alla maniera platonica – la res cogitans --,
con cui si studia di stabilire due sostanze, una distesa e l'altra
intelligente, e di far luogo a un agente
immateriale, perché queste due parti – che s’incontrano nella glandola
pineale -- non erano congruenti nel sistema, richiedendo la sua fìsica
meccanica dellle machine animate d’un fantasma -- una metafisica come la
dell’ORTO ROMANO, che stabilisce un sol genere di sostanza corporea operante.
Per simili o analoghe ragioni, V. respinge le
filosofie di GASSENDI, di Spinoza e di Locke; e le fisiche d’altri
autori, quella per es. di Boyle – qualita primaria del BULK --, gli parevano
profittevoli pella medicina e pella spargirica – alla CHURCHLANDS, inutili pella
filosofia. Di BONAIUTO GALILEI giudica che avesse mirato la fisica con occhio
di gran geometra, ma non con tutto il
lume della metafisica. Le sue simpatie si volgevano ai filosofi ch’erano
insieme geometri, e perciò alla fisica pitagorica o TIMAICA, secondo la quale
il mondo consta di numeri; alla metafisica dell’ACCADEMIA che dalla forma della
nostra mente, senz'alcuna ipotesi, stabilisce per principio di tutte le cose
l'idea eterna sulla scienza e coscienza
che abbiamo di certe eterne verità – GRICE THE CITY OF THE ETERNAL TRUTH
-- che sono nella nostra mente e che non possiamo sconoscere o rinnegare; alla
dottrina, che egli attribuiva a Zenone DEL PORTICO, non di VELIA, dei punti
metafisici; e, infine, alla filosofia del Rinascimento italiano, quando
risplendeno i FICINO,
i PICO della Mirandola, gli STEUCO, i NIFO, i MAZZONI, i PICCOLOMINI, gli ACQUAVIVA e i Patrizzi. Il
concetto fondamentale della sua cosmologia era dato dai punti metafisici, nei
quali trova applicazione il rioperamento della matematica sulla metafisica, da
lui ammesso come procedere analogico costruttivo. Al modo stesso che dal
punto geometrico nasce la linea e la
superficie, e il punto che viene definito non aver parti dà la dimostrazione
che le linee altrimenti incommensurabili si tagliano eguali nei loro punti;
cosi è lecito postulare punti non più geometrici ma metafisici, i quali, non
estesi, generino l'estensione. Tra Dio, che è quiete, e il corpo, che è moto,
s'interpone mediatore il punto
metafisico, il cui attributo è il conato, ossia l'indefinita virtù e sforzo
dell'universo a mandar fuori e sostenere le cose particolari tutte. L'esistenza
del corpo non è altro che un'indefinita virtù di mantenerlo disteso, la quale
sta egualmente sotto cose distese quantunque disuguali, ed è insieme indefinita
virtù di muovere che sta sotto ai moti
quanto si voglia disuguali. Sotto un granello d’arena – GRICE BLAKE -- vi
ha tal cosa che, dividendosi quel corpicello, dà e sostiene un'infinita
estensione e grandezza; sicché la mole dell'universo tutto, nel corpo del
granello, se non è in atto, è bene in potenza e in virtù. Questo sforzo
dell'universo, che è sotto ogni piccolissimo corpicciuolo, non è né l'estensione del corpicciuolo né
l'estensione dell'universo; è la mente di Dio, la quale, pura d’ogni
corpolenza, agita e muove il tutto. Ogni particolare determinazione della
realtà s’accorda con questa verità fondamentale. Il tempo si divide, l'eternità
è nell'indiviso; le perturbazioni dell'animo diminuiscono e crescono, la
tranquillità d'animo non conosce gradi;
le cose estese si corrompono, le inestese constano nell'indivisibilità; il
corpo tollera divisione, la mente non la tollera – GRICE THE POWER STRUCTURE OF
THE SOUL; le opportunità sono nel punto, i casi in ogni parte; la scienza non
si divide, l'opinione genera le sètte; la virtù non sta né più in qua né più in
là, il vizio spazia dappertutto; il
retto è uno, le cose prave innumerevoli; in ogni genere di cose, insomma,
l'ottimo viene collocato nell'indivisibile. La sostanza in genere, che sta
sotto e sostiene le cose, si divide nelle due specie della sostanza distesa,
che e quella che sostiene ugualmente estensioni disuguali, e della sostanza
cogitante, che sostiene ugualmente
pensieri disuguali; e siccome una parte dell'estensione è divisa
dall'altra ma indivisa nella sostanza del corpo, cosi una parte della
cogitazione, cioè a dire un determinato pensiero, è divisa dall'altra ed è
indivisa nella sostanza dell'anima. Proprio dell'anima è il conato, ossia la
libertà, negata affatto ai corpi – GRICE FREE FALL --; e Cartesio, che comincia la sua fisica dal conato dei corpi, l’incomincia
veramente da poeta e ricade nelle concezioni antropomorfiche ANIMISTA
NATURALISTA dei popoli primitivi. Quelli che i meccanici dicono conati, forme,
potenze, sono moti insensibili dei corpi, coi quali essi o s'appressano, come
voleva la meccanica antica, ai loro centri di gravità, o, secondo le teorie della meccanica nuova,
s'allontanano CENTRIPETATICAMENTE – STROPICAMENTE, non con entropia CENTRIFUGAMENTE
-- dai loro centri del moto. E, al pari del conato, e inconcepibile nei corpi
la comunicazione del moto o L’ANIMAZIONE,
concedere la quale tanto varrebbe quanto concedere la compenetrazione dei corpi, non essendo altro il moto che il corpo
che si muove: la percossa data a una palla è soltanto occasione perché lo
sforzo dell'universo, il quale era si debole nella palla da far sembrare ch’essa
si mantene quieta, si spieghi di più e cosi ci dia apparenza di più sensibile
moto. Coi cartesiani, per altro, e in ispecie con Malebranche, V. s'accorda
circa l'origine dell’idee, inclinando
alla concezione che Dio le crei in noi volta per volta; coi cartesiani altresì
tene che i bruti – GRICE SQUARREL TOBY -- sono macchine; e con tutta la
filosofia del suo tempo riconosce la soggettività delle qualità sensibili.
Lasciando queste ultime dottrine, alle quali V. accenna appena e che non gli
sono proprie, tutta sua veramente è
quella fondamentale dei punti metafisici; giacché l'attribuzione d’essa a un
fantastico Zenone DEL PORTICO, nella cui persona erano fusi e confusi
l'eleate di VELIA e quello del PORTICO, secondo un errore comune nella
letteratura filosofica del tempo, non può ingannare nessuno, e non inganna il
medesimo V. che, messo alle strette,
spiega come fosse stato condotto a interpetrare a quel modo ciò che di Zenone
riferisce Aristotele e conclude che, se quella dottrina non si voleva ricevere
come zenoniana, la si prende per sua propria e non assistita da nomi grandi.
Né, d'altro canto, si può riportarla alla monadologia leibniziana, che è dubbio
se fosse nota a V., che V. a ogni modo
non mentova, laddove pur mentova, con parole d’alta reverenza, Leibniz, e colla
quale la somiglianza è molto vaga, perché i punti metafisici non
sono monadi. Se mai, qualche efficacia si può affermare che avesse sopra d’essa
la scoperta leibniziana e newtoniana, che allora si comincia a divulgare in
Italia anche per opera di taluni amici
personali di V., del calcolo infinitesimale; i cui termini
d'infiniti massimi, minori, maggiori e
via dicendo, egli dice, stravolge l'umano intendimento, perché l'infinito è
schivo d’ogni moltiplicazione e comparazione, se non soccorre una metafìsica la
quale stabilisca che sotto tutti gl’attuali distesi e attuali movimenti sia una
virtù o potenza di estensione e di moto
sempre uguale a sé stessa, cioè infinita. E più giustamente ancora è stato
indagato il confluire nella concezione di V. delle correnti platoniche, del platonismo
della Rinascenza, e di BONAIUTO
GALILEI, particolarmente di queste ultime; il che, per altro, non ne diminuisce
l'originalità. Originalità, senza dubbio, di’un pensare fantasticheggiante e arbitrario, che per tal
ragione rimane senza possibilità di svolgimento e senza efficacia diretta sulla
restante concezione di V. Al recensente del Giornale dei letterati, che chiama
quella metafisica un abbozzo, l'autore risponde che era affatto compiuta: un ABORTO,
invero, piuttostq ch’un abbozzo, e, COME ABORTO, COMPIUTO. E nella Scienza,
oltre qualche richiamo alla negata attribuzione del conato ai corpi, c'è un
solo fuggevole ma curioso tentativo di connessione con una metafìsica
geometrica o aritmetica sul tipo di quella ora delineata; ed è là dove s’afferma
che sull'ordine delle cose civili corpulente e composte si conviene l'ordine
dei numeri, che sono cose astratte e
purissime, e s’osserva che, infatti, i governi cominciano dall'uno colle
monarchie familiari, passano ai pochi coll’OLIGARCHIA – the many and the wise
few -- le aristocrazie, s'inoltrano ai molti e tutti nelle repubbliche, e
finalmente ritornano all'uno nel principato civile assoluto, sicché l'umanità corre sempre
dall'uno (ROMOLO) all'uno (OTTAVIANO),
dall'assolutismo del paterfamilias a quello de principe illuminato. Ma se si
può e si deve negar valore alla cosmologia di V.; se le contradizioni e l’oscurità
in cui s’avvolge sono manifeste e furono notate dai critici del tempo; è anche
innegabile il carattere ch’essa ha di dinamismo, in opposizione al meccanicismo
della filosofìa contemporanea.
L'escogitazione dei punti metafisici, nella quale Dio appare il gran geometra
che conoscendo fa e facendo conosce le cose dell'universo, è come il simbolo
della necessità di risolvere la natura in termini idealistici. Un V.
teologizzante, un V. agnostico, perfino un
V. immaginoso inventore di romanzi cosmologici e tìsici, si trova qua e là; ma un V. materialista non si
trova in nessuna parte dell'opera sua. Anche questa non ardita metafisica destò
sospetto di panteismo, benché l'autore insiste nella dottrina teologica che il
fare di Dio si converte ab intra col generato e ab extra col fatto, e che
perciò il mondo è creato in tempo; che l'anima umana, la quale, specchio
della divina, pensa l'infinito e l'eterno, non è terminata
da corpo e quindi neppure da tempo, e perciò è immortale; e che in qual modo
l'infinito sia disceso nelle cose finite—IL CIRCOLO DI GRICE -- ciò, se anche
Dio l'insegna, non si potrebbe intendere dall'uomo. Comunque, egli stima
necessario chiudere le risposte ai suoi critici col raccogliere le proposizioni che dimostrano il suo
ortodossismo, e ribadire che essendo Dio altrimente sostanza e altrimente le
creature, e la ragion d'essere – GRICE RATIO ESSENDI -- o l'essenza essendo
propria della sostanza, le sostanze create, anche in quanto all'essenza, sono
diverse e distinte dalla sostanza di
Dio. La trascendenza limita la mente di V. e,
impedendogli di raggiungere l'unità del reale, gì'impede anche la
conoscenza veramente completa di quel mondo umano, ch'egli aveva cosi
potentemente, con opposto principio, rischiarato. Ed ecco ora perché V., senza
negare il progresso, non poteva averne il concetto. E stato osservato che il
concetto di progresso è estraneo al cattolicismo e prende origine dalla riforma protestante, e che
perciò il cattolico V. dove inibirselo. Ma altresì il concetto del providente
immanente è inconciliabile col cattolicismo, e tuttavia V. lo pensa
profondamente. Il che vuol dire che non l'impulso gli manca, ma piuttosto la
possibilità d’andar oltre un certo segno, dove la sua fede sarebbe stata messa
a troppo aperto sbaraglio. Il progresso,
dedotto dal providente immanente e introdotto nella Scienza, accentua la
differenza nell'uniformità, il sorgere del nuovo a ogni istante, il perpetuo arricchimento del corso
a ogni ri-corso; avrebbe cangiato la storia, d’un rassegnato percorrere e ri-percorrere
il solco tracciato da Dio sotto l'occhio di Dio, in un dramma che ha in sé la propria ragion d'essere – GRICE
METIER --; avrebbe trascinato nelle sue spire l'intero cosmo e reso reale il
pensiero dei mondi infiniti. V., all'affacciarsi di questa visione, arretra
pauroso, si ferma ostinato, e il filosofo è sostituito in lui dal credente.
Dalle cose precedentemente discorse è chiaro che la parte storica della Scienza
non poteva configurarsi come una storia
del genere umano, nella quale ai popoli e agl'individui fosse riconosciuto
l'ufficio proprio e singolare che ciascuno d’essi esercita nel corso degl’avvenimenti.
A tal uopo V. avrebbe dovuto chiudere il suo sistema di pensiero, che in un
punto rimane spezzato e aperto alla concezione religiosa; e innalzare la sua divinità PROVIDENTE a
divinità progrediente, determinando il corso ed il ri-corso come il ritmo interno del
progresso. Ovvero, per raggiungere nella
storia, in senso diametralmente opposto, la visione dell'individualità, dove
abbandonare la sua germinale filosofia idealistica, togliere la divisione tra il
PROVIDENTE ordinario e straordinario, darsi
totalmente in braccio alla fede e alla tradizione religiosa, e tracciare
la storia dell'umanità sul disegno che Dio aveva rivelato o permetteva d'
intravvedere. Come credente, egli repugna al primo partito, come filosofo, al
secondo; onde la storia da lui ricostruita non poteva essere, e non fu, storia
universale. Per conseguenza, non fu neppure quello che si chiama filosofia della storia, se a
questa denominazione si rida il significato originario d’una storia universale,
cioè che abbia l'occhio alle maggiori e più nascoste iuncturce rerum, narrata
filosoficamente, vale a dire, più filosoficamente che non si sole dai cronisti,
dagl’aneddotisti e dagli storiografi cortigiani, politici e nazionali. La controversia se a V. o a Herder spetti d’aver fondato la
filosofia della storia, dovrebbe francamente risolversi a favore di Herder,
perché l'opera di costui ha quell'andamento di storia universale che manca alla
Scienza; sebbene, d'altro canto, sia agevole trovare a Herder precursori in
buon numero, a cominciare dai profeti ebraici e dallo schema delle quattro monarchie, che rimase non solo
nel Medioevo ma ben oltre nei tempi moderni lo schema costruttivo della storia
universale. Né sarà fuori luogo soggiungere che la cosi detta filosofia della
storia in quanto storia universale non costituisce una speciale scienza
filosofica o una storia nettamente distinguibile da altre forme di storia, salvo che, per ismania di renderla autonoma, non se
ne faccia il mostro d’una storia astratta o d’una filosofia storicizzata; e
quando a V. o a Herder s’attribuisce il
vanto d’avere creato colla filosofia della storia una scienza, si rivolge loro
un complimento di dubbia lega: il quale, per ciò che in particolare concerne V.,
è stato cagione che non si scorge il
valore vero dall'opera sua. Infatti, la Scienza d'intorno alla comune
natura delle nazioni, intesa come l'equivoca scienza della filosofia della
storia, Philosophie de l'histoire intitola Michelet la sua riduzione galla dell'opera
di V., non ha lasciato vedere la Scienza come nuova filosofia dello spirito e
iniziale metafisica della mente. Il dissidio che era, nella sua concezione generale, tra scienza e
credenza, riappare, nella storiografia di
V., come divisione e opposizione
tra storia degl’ebrei e storia delle genti, tra storia
sacra e storia profana. La storia ebraica non anda soggetta alla legge della
storia della gente, ha un corso tutto proprio – GRICE E HART --, si spiega con
principi affatto particolari, cioè con l'azione diretta di Dio. La Scienza, che
nella sua parte filosofica non ne da i principi esplicativi, non avrebbe dunque
dovuto trattarne altrimenti nella sua parte storica. E tale sarebbe stato, forse,
il desiderio di V. Ma al desiderio s’oppone, senza parlare del bisogno in cui
egli era di premunirsi della taccia d’empietà, che non sarebbe mancata, il suo scrupolo di uomo di fede e di buona
fede, che lo spinge a cercare una qualche armonia tra le due storie, le quali,
per quanto divise egli le pone, ricordando in proposito che anche un autore
gentile, Tacito, chiama gl’ebrei uomini
insocievoli, entrambe si erano svolte sulla terra e avevano avuto
reciproche relazioni, non foss'altro che all'origine dell'umanità e nella sua palingenesi per opera
del cristianesimo. Accadde che V. il quale voleva e dove, per l'indirizzo
stesso della sua mente, evitare il racconto della storia universale, e
attenersi insieme ai soli problemi filosoficamente e filologicamente
trattabili, non potesse esimersi dal rompere talvolta il suo proposito, e dal
tentare un qualche congiungimento tra le
due storie, e in pari tempo una qualche apologia della storia sacra cogl’argomenti
forniti dalla scienza e dalla storia. E questa la parte più infelice ma
altamente significante dell'opera sua. Egli era costretto ad ammettere, in
contrasto a tutte le sue scoperte, con istrazio di tutta la sua mente, che gl’ebrei
avevano goduto il privilegio di serbare
intatte le loro memorie fino dal principio del mondo, della qual cosa le altre
nazioni si vantavano a vuoto, e che perciò l'origine e successione certa della
storia universale dove domandarsi alla storia sacra. E l'esigenza di connettere
i suoi concetti circa le civiltà primitive colla cronologia biblica, coll'anno
che si sole assegnare alla creazione del
mondo, colla tradizione del diluvio universale e con quella dei giganti, di
trovare, com'egli dice, la perpetuità della storia sacra colla profana, lo porta
a immaginare le cose più stravaganti. Imperversato dunque nell'anno 1656 dalla creazione il diluvio, e
separatisi i figli di Noè, mentre gl’ebrei iniziano o proseguono la loro
sacra storia con Abramo e gli altri
patriarchi, e poi colla legge data da Dio a Mosè GRICE, tutti i restanti semiti
e i camiti e giapetici, i primi più tardi e per minor tempo, i secondi e i
terzi più presto e per tempo più lungo, caddero nello stato ferino ed errarono
pella terra, bestioni stupidi e feroci. E laddove gl’ebrei, sottomessi al
governo teocratico, severamente educati
e praticanti le abluzioni, rimasero di giusta statura, i componenti delle altre
razze, senza disciplina né morale né fisica, travolgendosi nel fango, nello
sterco e nell'urina e assorbendo sali nitrici, cosi come di sterco e d’urina la
terra s'ingrassa e diventa feconda, crebbero in corpi mostruosi e giganteschi.
Cento anni pei semiti e dugento per le
altre due razze dura lo stato ferino; fino a quando la terra, che era rimasta a
lungo inzuppata dall'umidore del diluvio universale, asciugandosi manda fuori
esalazioni secche o materie ignite in aria a ingenerare i fulmini. Coi fulmini,
come già sappiamo, e colla mitologia del cielo fulminante che è Giove, si
sveglia nei bestioni la coscienza di Dio
e la coscienza di sé, onde diventano uomini. S’apre cosi l'età degli dèi, che
socialmente è quella di ROMOLO e delle
monarchie familiari dove il padre è re e
sacerdote e nel corso della quale si viene costituendo il sistema delle deità
maggiori, e i giganti mercé le spaventose religioni e l'educazione domestica
che doma la loro carne e sviluppa in
essi l'elemento spirituale, e mercé le lavande, degradano via via alla giusta
corporatura quale hanno gl’uomini che s'incontrailo agl’inizi della susseguente
età eroica. Tale, indicata per sommi capi, come TURNO ED ENEA, E ROMOLO, è la
bizzarra costruzione, fatta da V., dei cominciamenti della storia umana sulla
terra, messi in armonia coi racconti
della storia sacra; e d’essa si sarebbe riso o sorriso meno, se si fosse
guardato al dramma che vi è sotto, alla tormentosa coscienza del credenteche,
lottando col pensatore, cerca rifugio in quelle stravaganze. Colle quali, a
ogni modo, V. valica sopra una serie di sassi vacillanti. il diluvio, i
giganti, le esalazioni secche, la
fiumana della tradizione religiosa e raggiunge il terreno sodo della
storia critica, dove scopre altresì il primo appoggio della sua filosofia dello
spirito, la ferinità. È d’osservare inoltre che il rapporto colla storia
ebraica, la sola che a lui s'impone come storia vera e propria, cioè come un
unicum, sebbene in modo miracoloso, affatto
individuato, gli suggerì i
rari accenni che s' incontrano nei suoi
scritti ad assegnare ai vari popoli uno speciale ufficio o missione; onde gli
parve talvolta che gl’ebrei rappresentassero la mens, i caldei la ratio e i
giapetici la pliantasia. Parallelamente a questa storia fantastica dei
cominciamenti del genere umano sulla terra, corrono i tentativi d’apologetica
biblica. V. non tralascia d’arrecare
prove che dovrebbero profanamente confermare i racconti della storia sacra.
Conferma, per es., del diluvio e dei giganti sarebbero i simiglianti racconti
dei greci e di altri popoli; il governo teocratico, del quale nessuna storia
profana ha notizia precisa e oscuramente vi alludono i poeti nelle loro favole,
si riscontrerebbe nel governo degl’ebrei
innanzi e dopo il diluvio; gl’ebrei avrebbero ignorato la divinazione, perché
vivevano in diretti rapporti col vero Dio, laddove i caldei ebbero la magia o
divinazione secondo i moti degli astri e i popoli d’Europa quella per auspici.
Si sente in tutto ciò, senza dubbio, qualcosa di voluto, un voler vedere o un
voler non vedere, un darsi sulla voce,
un eccitarsi alla persuasione; come è consueto, del resto, in molti credenti
colti e scientificamente educati. V. scrive perfino una volta, nell'esporre la
genesi storica delle forme grammaticali e nell'asserire che i verbi
cominciarono dagl’imperativi – GRICE JUDGING IN TERMS OF VOLITING -- e cioè dai
comandi monosillabici che i padri danno
a mogli, figliuoli e famoli, ES, STA, I, DA, FAC, ecc. – Fido is shaggy, che da
ciò si ricava un'indiretta dimostrazione della verità del cristianesimo, perché
in ebraico la terza persona singola e maschile del perfetto è rappresentata
dalla nuda radice senza alcun segno flessivo: prova evidente che i patriarchi
dovettero dare gl’ordini nelle loro
famiglie a nome di un sol Dio, Deus dixit. Questo, a suo parere, era un fulmine
d’atterrare tutti gli scrittori cheoppinano
gl’ebrei essere stati una colonia uscita da Egitto, quando,
dall'incominciar a formarsi, la lingua ebraica incomincia d’un solo Dio. Sono
fulmini, a dir vero, che invece di fulminare i miscredenti, illuminano la
povertà degl’argomenti sui quali
l'apologetica s’appoggia anche in un uomo come V.; e, oggettivamente
considerando, la divisione introdotta per iscrupolo religioso tra storia sacra
e storia profana, col conseguente trattamento critico di questa e dommatico di
quella, e colle conseguenti strane ipotesi e difese, fa pensare
irresistibilmente che il sottrarsi della
storia sacra alla scienza umana provenga non dall'impotenza della
scienza umana, ma dall'impotenza della storia sacra, cioè, dall'impotenza a
serbarsi inalterata nella scienza; sicché di rado uno scrupolo religioso fu di
tanto pericolo alla causa della religione. Ma V. aveva troppo genuino e
rigoroso senso scientifico da mettersi a fare, e per giunta a contraggenio, Selden o Bossuet; onde
l'armonizzamento colla storia sacra o l'apologetica rimangono in lui episodi,
dai quali si può prescindere. E poiché, d'altra parte, gli era vietato di
profanare del tutto la filosofia e la storia, e di rappresentare il movimento
storico complessivo in base al criterio del progresso, non gli resta se non
guardare i fatti dall'aspetto che la sua
filosofia gli concede libero: quello del re-corso, dell'eterno processo e delle
eterne fasi dello spirito. Qui era la sua forza, qui poteva riconoscere il
carattere specifico, se non propriamente quello individuale, di leggi, costumi,
poesie, favole, d'intere formazioni sociali e culturali che erano state
fraintese dalla storiografia fino ai
suoi tempi. E per questa ragione egli, anziché narrare la storia, dove
restringersi a mettere in luce gl’aspetti comuni di certi gruppi di fatti,
appartenenti a tempi e nazioni varie. Nella Scienza si ha, egli dice, tutta spiegata la storia, non già
particolare ed in tempo delle leggi e dei fatti de’ROMANI, ma sull'identità in
sostanza d'intendere e diversità dei
modi lor di spiegarsi. S’arrecheranno, dice ancora in altra occasione, i fatti
a modo di esempli perché s'intendano in ragion di principi, imperocché vedere
avverati i principi nella quasi innumerabile folla delle conseguenze, egli si
dee aspettare da altre opere che da noi o già se ne son date fuori o già sono
alla mano per uscire alla luce delle stampe.
Ossia, come sappiamo, in quella scienza si ha da una parte una filosofia e
dall'altra una descrittiva empirica, storicamente esemplificata, nella qualeI
ROMANI non stanno COME ROMANI, ma in ciò che hanno di comune con ogni nazione;
la storia di ROMA sotto i re o ai primi tempi della repubblica spiega le sue
affinità con quella dei primi secoli del
Medioevo; e Omero non sta come Omero, ma come esempio della poesia primitiva e,
attraverso i secoli, ritrova e abbraccia il suo fratello, ALIGHIERI. Forza e
limite insieme, perché la storia non consiste di certo, essenzialmente, in
queste somiglianze; ma senza la percezione delle somiglianze come si giungerebbe
a fissare le differenze? ALIGHIERI non è
Omero, i baroni non sono i patres r
l'ateniese Solone non è il romano PUBLILIO FILONE, il feudalismo dell'età
carolingia e in genere medievale non è
la costituzione sociale delle età primitive di Roma; ma certamente, per taluni
rispetti, Alighieri è più vicino a Omero che non al Petrarca, i baroni della
prima epoca più prossimi ai patres che
non alla posteriore nobiltà di corte, Solone somiglia più a un tribuno o a un
dittatore romano che a qualche altro dei sette savi coi quali suole andare
congiunto, il feudalismo medievale si rischiara col ravvicinamento alle società
fondate sull'economia agraria. Notare queste somiglianze significa negare o
rigettare indietro altre più superficiali e aprire la via alla conoscenza
dell'individualità, indicando la regione approssimativa dove si trova la verità
piena. V., piuttosto che narrare e rappresentare, classifica; ma c'è
classificazione e classificazione: quella che si fa a servigio di un pensiero
superficiale e quella che si fa a servigio di un pensiero profondo. E la
parte storica della Scienza è una grande
sostituzione di classificazioni superficiali con classificazioni profonde. In
questo àmbito, dov'è la forza della storiografia di V., le deficienze e gli
errori provengono non dal dì fuori dei limiti tracciati, ma da cagioni operanti dentro quei limiti
stessi. È stato allegato, in discolpa di V., che gran parte dei suoi
errori sono d’attribuire ai materiali
scarsi e insufficienti dei quali egli dispone; ma scarsi e insufficienti
rispetto alla nostra brama di sapere sono, sempre, i materiali di studio, e nel
giudicare uno storico non può essere questione di ciò, si del modo cauto o
incauto nel quale egli adopera i materiali di cui dispone. Ancora è stato detto
che V. ebbe i difetti del suo tempo; e
qui s’è dimenticato che egli nasce nel secolo nel quale s’era svolta la
criticissima filologia di Scaligero BORDONE e di tutta la scuola olandese, e
Che suoi contemporanei sono in Italia Zeno, Maffei e Muratori. Il vero è che la
forma mentale da noi giù, descritta, di V., come turba la pura trattazione
filosofica colle determinazioni della scienza empirica e dei dati storici, cosi
turba la ricerca storica col miscuglio della filosofia e della scienza
empirica. V. è in uno stato come d’ebrezza: confondendo categorie e fatti, si
sente molto spesso sicuro a priori di quel che i fatti gli diceno e non li
lascia parlare e subito mette loro in bocca la sua risposta. Una frequente
illusione gli fa ravvisare rapporti tra
cose che non ne avevano alcuno; gli muta ogni ipotetica combinazione in
certezza; gli fa leggere negl’autori, invece delle parole esistenti, altre non
mai scritte e ch'egli medesimo senz'accorgersene interiormente pronunzia e
proietta negli scritti altrui. L'esattezza gl’è impossibile, e in quella sua
eccitazione ed esaltazione di spirito,
quasi la disprezza; perché, infatti, dieci, venti, cento errori particolari che
cosa avrebbero tolto alla verità sostanziale? L'esattezza, la diligenza, egli
dice, dee perdersi nel lavorare d'intorno ad argomenti e' hanno della
grandezza, perocché ella è una minuta e, perché minuta, anco tarda virtù.
Etimologie immaginose, interpetrazioni mitologiche arrischiate e infondate, scambi di nomi e
tempi, esagerazioni di fatti, citazioni fallaci s'incontrano a ogni passo nelle
sue pagine e molte se ne possono vedere notate nella bella edizione della
Scienza, curata da Nicolini, e qualcuna ne noteremo via via anche noi a mo'di
saggio, ma guardandoci dal dargli di continuo sulla voce, e qualche volta rettificando tacitamente le sue citazioni.
Sicché, come parlando della sua filosofia abbiamo osservato che V. non era
ingegno acuto, cosi, parlando della sua storiografia, dobbiamo ora dire che
egli non era ingegno critico. Ma come, negandogli colà l'acume in piccolo, gli
riconoscevamo quell'acume in grande che e la profondità, cosi anche qui dobbiamo aggiungere che, se V. manca di senso
critico in piccolo, abbonda di quello in grande. Negligente, cervellotico,
affastellato nei particolari; circospetto, logico, penetrativo nei punti
essenziali; scopre il fianco, e talora tutta la persona ai colpi del pili
meschino e meccanico erudito, e intimidisce ed è atto a ispirare reverenza a
ogni critico e storico, per grande che
sia. E se spaziando sempre negli universali e tutto preso dalle sue geniali
scoperte, molte volte non die tempo ài tempo e non die agio e campo alla sua
forza indagatrice e osservatrice di spiegarsi, e invece di storia inventa miti
e intessé romanzi; dove poi lascia che quella forza liberamente si spiega,
compi anche nel campo della storia cose
mirabili, come c'industrieremo di venire mostrando nei capitoli che seguono. Ma
passare a rassegna l’interpetrazioni storiche di V. per confrontarle, come da
molti si è fatto ed è comune vezzo, con quelle della storiografia odierna e
lodarle o censurarle di conseguenza, sarebbe poco concludente; perché, dove c'è
accordo tra i due termini del confronto,
l'accordo potrebbe essere fortuito, e, dove c'ò divergenza, la dottrina recente
potrebbe essere pur tuttavia svolgimento o conseguenza del tentativo antico, e,
a ogni modo, lo stato odierno delle cognizioni storiche non porge in niun caso
una misura assoluta. E, d'altra parte, sarebbe fuori luogo, oltreché superiore
alle nostre forze, ripigliare tutti i
problemi che V. tratta e tocca per esaminare quel che' di vero o di falso fosse
nelle sue conclusioni, perché tanto varrebbe scrivere un’altra Scienza, meglio
conforme ai nostri tempi. A noi spetta indicare soltanto i principali problemi
storici che egli si propone, riassumere le soluzioni che ne da, e avere
l'occhio sempre allo stato della scienza
non già ai tempi nostri ma ai tempi suoi, per determinare quali progressi si
debbano a V. nella storia degli studi storici. Il periodo storiografico che
precede V. è tutt'altro che di credulità e di acrisia – cf CRISIA. Trascorsi d’un
pezzo erano i tempi in cui si compilano le cronache del mondo e s’accoglie ogni
favola e ogni più grossolana
falsificazione come storia: i semi sparsi d’alcuni umanisti portano i loro
frutti negl’eruditi italiani, nella scuola giuridica galla, nella già ricordata
di BORDONE, in tutti i grandi cronologi, epigrafisti, archeologi,topografi e
geografi, ch’ordinano le prime e colossali raccolte critiche di fonti pella
storia dell'antichità romana. Anzi, nel
tempo stesso che i filologi andano correggendo e perfezionando i loro
metodie sfatavano imposture e riempivano lacune, si diffonde, per effetto della
filosofia intellettualistica, lo scetticismo, o pirronismo storico come anche è
chiamato, con Bayle, con Fontenelle, con Saint-Evremond e altri molti,
precursori di quella polemica contro la verità e l'utilità della storia di ROMA, che dove
diventare cosi vivace. Quest'ultimo indirizzo è, piuttosto che critico,
ipercritico, mettendo capo alla distruzione della storia in genere; e poiché lo scetticismo storico
rivesti assai spesso il carattere di paradosso a uso della società elegante e
dei belli spiriti, la sua efficacia sul progresso degli studi è assai scarsa,
o, tutt'al più, valse a provocare vigorose reazioni, d’una delle quali è
rappresentante V., a favore della tradizione e dell'autorità. Giova invece
notare le deficienze del primo e seriamente scientifico indirizzo dei filologi
e antiquari: i quali restituivano testi, svelavano falsificazioni,
ricostruivano serie di sovrani e di magistrati, raddrizzavano la cronologia, contestano perfino alcune
leggende; ma, sia pella mentalità consueta dei puri eruditi e filologi, sia pell'ambiente
generale della cultura, pur vivendo
sempre a contatto dell'antico e del
primitivo, non sentivano punto, e non facevano sentire, l'antico e il
primitivo. Fortissimi nei particolari, erano deboli nelle cose essenziali.
Anche quando alcuno dei più geniali s’accorge,
per es., dell'importanza dei canti
popolari, mezzo di trasmissione storica in tempi in cui manca o era rarissimo
l'uso della scrittura, da queste e simili osservazioni non riceve tale scossa d’esserne
spinto a rinnovare da cima a fondo la sua concezione della vita primitiva, come
accadde invece a V., il quale, quasi a un tempo, intese la forma filosofica
del certo e i due periodi di vita spirituale e sociale, che le corrispondevano
nella storia reale: il periodo oscuro e quello favoloso. Anch'egli moveva d’una
sorta di scetticismo, scetticismo concernente i pregiudizi dei dotti e delle
nazioni circa l'indole e i fatti dell'antichità romana; e statuiva, nel
combatterli, una serie di canoni o
degnità, che paiono ispirati agl’idola di Bacone, di cui offrono come l'analogo nel
campo della ricerca storica. V. mette in guardia in primo luogo contro le
magnifiche opinioni che s’erano avute fino ai suoi tempi intorno alla
lontanissima e sconosciuta antichità romana: ingenua illusione di cui
trova la sorgente in ciò che l'uomo,
allorché si rovescia nell'ignoranza, fa di sé regola dell'universo e qui è più
vicina l'analogia con Bacone, perché tale enunciato somiglia pell'appunto alla
classe degl’idola tribus in cui la mente fa di sé regola delle cose, ex
analogia hominis, non ex analogia universi. Sopra la medesima osservazione si
fonda il detto che fama crescit eundo, e il di Tacito omne ignotum prò
magnifico est. Donde il vezzo d'interpetrare i costumi antichi coll'aspettazione
di trovarli simili o migliori di quelli moderni e civili. Cosi CICERONE, per un
trasporto di fantasia ammira la mansuetudine degl’antichi romani, che chiamano ospite
il nemico di guerra; non avvedendosi che la cosa sta proprio al rovescio e che gl’ospiti sono HOSTES, stranieri e
nemici. Parimente Seneca, per provare che convenga usare umanità verso gli
schiavi, ricorda che i padroni sono detti in antico padri di famiglia: quasi
che i patresfamilias non fossero stati disumanissimi, nonché contro gli schiavi
e famoli, contro i medesimi loro figliuoli, adeguati ai famoli. E pello
stesso pregiudizio Grozio, che veramente
V. scambia qui col suo esegeta Gronovio e di costui fraintende le parole,
volendo dimostrare la mitezza degl’antichi germani, reca un gran numero di
leggi barbariche, nelle quali l'omicidio è punito colla multa di pochi danari:
documento, per contrario, di quanto fosse tenuto a vile il sangue dei poveri
vassalli rustici, che sono pell'appunto
gli homìnes, di cui parlano quelle leggi. In secondo luogo, ammoniva di non
prestare fede alla boria delle nazioni, che, come osserva Diodoro siculo, tutte
sia romane sia barbare, caldei, sciti, egizi, cinesi, si vantarono d’avere,
ciascuna prima delle altre, fondata l'umanità, ritrovati i comodi della vita e
serbate le loro memorie fin dall’origini
del mondo. Ciascuna d’esse, non avendo per molte migliaia d'anni avuto
commercio colle altre onde potesse accomunare le notizie, fu, nel buio della
sua cronologia, simile a un uomo che, dormendo in una stanza piccolissima,
nell'errore delle tenebre la crede certamente molto maggiore di quanto colle
mani la toccherà poi. Chi prenda quei
sognati vanti per notizie sicure, si trova nell'imbarazzo di scegliere fra
tante nazioni e tante memorie, tutte, con pari fondamento, offrentisi a gara
come primitive. Colla boria delle nazioni V. mette la boria dei dotti, i quali
ciò ch’essi sanno vogliono che sia antico quanto il mondo; e perciò si
compiacciono nell'immaginare una
inarrivabile riposta sapienza degl’antichi, che coincide poi pell'appunto,
mirabilmente, colle opinioni professate da ciascuno di quei dotti e d’essi
ammantate d’antichità per imporne pili solennemente l'accettazione. In tale
errore cadde non solo Platone, specialmente nelle ricerche del Cratilo, ma
quasi tutti gli storici, antichi e moderni: v’era caduto lo stesso V., che potè, dunque, studiarlo
assai bene in sé medesimo, quando nel De antiquissima crede di trovare nell’etimologie
dei vocaboli latini le prove d’una METAFISICA ITALIANA perfettamente concorde
con quella sua propria della conversione tra verum e factum e dei punti
metafisici. Ai quali tre pregiudizi, e più strettamente alla boria dei dotti, va di séguito il quarto che ora si
chiama delle fonti o degl’influssi di cultura, e che V. sarcasticamente designa
come quello della successione delle scuole pelle nazioni. Secondo tale
dottrina, Zoroastro, per es., avrebbe istruito Beroso pella Caldea, Beroso a
sua volta Mercurio Trismegisto pell'Egitto, Mercurio Atlante legislatore
dell'Etiopia, Atlante Orfeo missionario
della Tracia, e finalmente Orfeo ferma la sua scuola in Grecia. Lunghi viaggi,
e agevoli, in verità, a quelle prime nazioni
che, appena uscite dallo stato selvaggio, vivevano appollaiate sulle montagne
in siti poco accessibili, sconosciute alle loro medesime confinanti! E questi
lunghi viaggi avrebbero avuto per oggetto di
diffondere invenzioni, che ciascuna nazione poteva fare senz'altro da
sé, e che se poi, conosciutisi tra loro i popoli per guerre e trattati, si
ritrovarono simili, è perché contenevano un motivo comune di vero e nascevano
dalle medesime necessità umane. C'era bisogno di supporre l'efficacia del
diritto ateniese o di quello mosaico sul ROMANO, come usano i pareggiatori delle leggi o
trattatisti del diritto comparato, per ispiegare come si fosse formato il
diritto, riconosciuto in Roma, d’uccidere il ladro di notte? C'era bisogno che
Pitagora anda diffondendo la dottrina della trasmigrazione dell’anime, che si
ritrova perfino in India? Resta il pregiudizio circa gli storici antichi
considerati come informatissimi dei
tempi primitivi, i quali, invece, nel racconto dell’origini, seppero quanto o
meno di noi posteri. Per la storia, V.
legge, o meglio crede di leggere, in Tucidide la confessione che, fino alla
generazione a questo storico precedente, non si conosce nulla della propria
antichità; e osserva altresì che gli storici solo al tempo di Senofonte
cominciarono ad avere qualche notizia precisa delle cose. LA STORIA DI ROMA si
sole principiarla d’ALBA LONGA; ma con Roma certamente non nasce il mondo, la
quale è una città fondata in mezzo a un gran numero di minuti popoli del Lazio;
e per Roma stessa LIVIO dichiara di non entrare mallevadore della verità dei
fatti concernenti il principio di quella storia colla LUPA, e a proposito della
guerra cartaginese, di cui è in grado di scrivere con più verità, ingenuamente
confessa di non sapere da qual parte
Annibale fa il suo grande e memorabile passaggio in Italia, se dall’Alpi eozie
o dall’appennine. Tanto gli storici antichi erano bene informati! Per questi e
altrettali motivi di scetticismo, tutto
quanto si narra dei romani fino alla guerra cartaginese parve a V. TUTTO
INCERTISSIMO: un territorio quasi res nullius, ove si poteva entrare col
diritto del primo occupante. Egli vi entra armato dei canoni positivi che
nascevano accanto, anzi dal grembo di quelli negativi, che abbiamo riferiti.
Perché, se V. nega fede agli storici
lontani dai tempi e luoghi dei fatti che raccontano, se scredita le
vanterie nazionali, se svela l’illusioni e le ciarlatanerie dei dotti, non
rimane pago per altro a quest'opera di distruzione; e al posto del vecchio e
malfido cacciato via bada a sostituire il nuovo di migliore qualità e di
maggiore resistenza, cioè un complesso di metodi mercé i quali era dato procacciarsi nuovi documenti collo
studiare meglio quelli già posseduti. Ogni avanzamento nelle conoscenze
storiche non s’effettua, in verità, in altra guisa che con questo ritorno dal
racconto ricevuto al documento sottostante, col quale solamente è dato
confermare, rettificare e arricchire il racconto. Il primo metodo che V.
addita, la prima fonte che egli schiude
pella conoscenza delle società antichissime, è l'etimologia della lingua del
LAZIO, che si sole esercitare ai suoi tempi in modo affatto arbitrario, col
raffrontare i suoni di qualche sillaba o lettera, e cercare altre superficiali
somiglianze, inferendone la derivazione d’un vocabolo dal latino. Ma affinché
l'etimologizzare sia fruttuoso, bisogna
non dimenticare che la lingua del LAZIO e il testimonio più grave degl’antichi
costumi del popolo del LAZIO, che si celebrarono al tempo in cui si forma essa
lingua; e illuminare perciò, perpetuamente, la lingua del LAZIO coi costumi e i
costumi colla lingua del LAZIO. Cosi l’etimologie d’un vocabolo astratto
(SHAGGINESS) ci porta nel bel mezzo d‘una
società affatto contadinesca, perché 1'INTELLIGERE, per es., richiama il LEGERE
o raccogliere i frutti dei campi, donde LEGUMINA; il DISSERERE, lo spargere semenze;
e la maggior parte dell’espressioni intorno a cose inanimate (those spots
meaning measles) si svelano trasporti dal corpo umano e dalle sue parti e dagl’umani sensi e passioni, come bocca per
ogni apertura, labbro per orlo di vaso, fronte e spalle per avanti e dietro, e simili.
V. vagheggia un etimologico comune a la lingua
del LAZIO, composto di radici monosillabiche e in gran parte onomatopeiche; un altro
delle voci d’origine straniera, introdotte dopo che le nazioni si furono conosciute tra loro; un terzo, universale, pella scienza
del diritto delle genti, dal quale apparisse come gli stessi uomini, fatti o cose,
guardati con diversi aspetti dalle varie nazioni, avessero ricevuto diversi vocaboli;
e, infine, un dizionario di voci mentali, comuni a tutte le nazioni, che, spiegando
le idee uniformi circa le sostanze e le modificazioni diverse che le nazioni ebbero nel pensare intorno alle
stesse necessità umane o utilità comuni a tutte, secondo la diversità dei loro siti,
cieli, nature e costumi, narra l’origini delle diverse lingue vocali, che tutte
convengono in una lingua ideale comune. La seconda fonte, schiusa da V., è
l'interpetrazione dei miti o favole, che, conforme alla sua dottrina, non erano allegorie, invenzioni o imposture, ma la
scienza stessa dei popoli primitivi. Nel Diritto universale V. distinse quattro
sensi pei quali gli dèi passarono: dapprima significando cose naturali – those spots
mean measles --, Giove il cielo, Diana le acque perenni, Dite o Plutone la terra
inferiore, Nettuno il mare, e cosi via; poi, cose umane naturali, per es. Vulcano il fuoco, Cerere il frumento,
Saturno i seminati; in terzo luogo, fatti
sociali; fintanto che, in ultimo, salirono al cielo, furono assunti agli astri,
e le cose terrene e umane vennero divise dalle divine. Ma nelle Scienze mise in
rilievo quasi esclusivamente il terzo significato, quello sociale, che diventò per
lui l'originario; perché, sembra che egli
pensa, le prime nazioni erano troppo intente a sé stesse, troppo immerse nella loro
dura e difficile vita, da speculare astraendo
dalle cose sociali. Cosi nei miti egli trova riflesse l’istituzioni, le scoperte,
le divisioni sociali, le lotte di classe, i viaggi, le guerre, dei popoli primitivi.
Anche pei tempi abbastanza progrediti V. fu alieno dalle interpetrazioni naturalistiche o filosofiche;
e il Conosci te stesso, attribuito all'antico savio, gli parve nient'altro che un
monito alla plebe ateniese perché conoscesse le proprie forze, trasportato dipoi
a sensi metafisici e morali. Oltre questa ermeneutica sociale, un altro principio
assai importante egli stabilisce: vale a dire che i significati galanti, lubrici e osceni delle favole furono tutti intrusi
in tempi tardi e corrotti, che interpetrarono i costumi antichi sui propri o presero
a giustificare le proprie lascivie coll'immaginare che gli dèi ne avessero dato
l'esempio. Onde s’ebbero Giove adultero, Giunone nemica a morte della virtù degl’Ercoli,
la casta Diana che sollecita gl’abbracciamenti degl’addormentati Endimioni,
Apollo che infesta fino alla morte le pudiche donzelle, Marte che come se non basta
commettere adulteri in terra li trasporta fin dentro il mare con Venere, e, peggio
ancora, gl’amori di Giove con GANIMEDE – convito dell’ACCADEMIA -- e dello stesso Giove trasformato in cigno con
Leda: dipinture atte a sciogliere il freno
al vizio, come per l'appunto accadde nel giovinetto Cherea dell'Eunuco di Terenzio.
Ma nella loro forma e significato originari le favole furono tutte severe e austere,
degne di fondatori di nazioni; e, per es., Apollo che insegue Dafne allude agl'indovini
o àuspici delle nozze, che perseguitavano pelle selve le donne ancora in preda ai
concubiti vagabondi e nefarì; Venere, che
si copre le vergogna col cesto, era simbolo pudico di matrimoni solenni; gl’eroi,
figliuoli di Giove, non erano già i frutti degl’adulteri, ma gl’eroi nati da nozze
certe e solenni, celebrate colla volontà di Giove che si rivela negl’auspici. Omnia
intenda mundis et immunda immundis: le selve e i picchi delle montagne non potevano produrre immagini d’alcove e postriboli.
Oltre queste due ricche fonti della lingua del LAZIO e dei miti, V. ne menziona e adopera una terza, che
chiama dei sima real donzella Polissena, della rovinata casa del poc'anzi ricco
e potente Priamo, divenuta misera schiava, non gli venga sacrificata sul sepolcro
e le sue ceneri assetate di vendetta non
bevano l'ultima goccia di quel sangue innocente. E giù. nell'inferno Achille, domandato
d’Ulisse come vi stia volentieri, risponde che vorrebbe essere un vilissimo schiavo,
ma vivo! Questo è l'eroe che Omero, coll'aggiunto
perpetuo d'irreprensibile, àjiójAwv, canta ai popoli in esempio della virtù eroica.
Un siffatto eroe, che pone tutta la ragione
nella punta della lancia, non si può altrimenti intendere se non come un uomo orgoglioso,
il quale ora si direbbe che non si faccia passare la mosca per innanzi alla punta
del naso. Se i più grandi caratteri di Omero sono tanto sconvenevoli alla nostra
natura civile, le comparazioni delle quali egli si vale hanno a lor materia belve
e altre cose selvagge. E se per i costumi
che rappresenta da fanciulli pella leggerezza delle menti, da femmine pella robustezza
della fantasia, da violentissimi giovani pel fervido bollore della collera, e pelle
favole degne di vecchierella che intrattenga bimbi ond'è piena l'Odissea, non si
può attribuire a Omero nessuna sapienza riposta j quel suo cotanto riuscire nelle fiere comparazioni non è certamente
da ingegno addimesticato e incivilito da alcuna filosofia. Né da animo che sia umanato
e impietosito da filosofia potrebbe nascere quella truculenza e fierezza di stile,
onde si descrivono tante e si varie e sanguinose battaglie, tante e si diverse e
tutte in istravaganti guise crudelissime specie di ammazzamenti, che particolarmente formano la sublimità
dell'Ilìade. Ma chi fu, in realtà, Omero? Che cosa di lui dicono gli antichi scrittori,
che cosa si trae dai suoi poemi? A leggere l'Iliade e l'Odissea senza pregiudizi,
a ogni passo ci si avventano agli occhi e ci offendono stravaganze e incoerenze.
Incoerenze di costumi, che trasportano or di qua or di là a tempi lontanissimi tra loro: da una
parte si vede Achille, l'eroe della forza; dall'altra, Ulisse, l'eroe della saggezza;
da una parte, la crudezza, la villania, la ferocia, l'atrocità; dall'altra, i lussi
di Alcinoo, le delizie di Calipso, i piaceri di Circe, i canti delle sirene, i passatempi
dei proci, che tentano anzi assediano le caste Penelopi; da una parte, costumi rustici e ruvidi, dall'altra giuochi,
vesti magnifiche, cibi squisiti e arti d'intagliare in bassorilievo e fondere in
metalli; da una parte, rigida società eroica, dall'altra, perfino, accenni a libertà
popolari. Questi costumi cosi delicati mal si convengono con gli altri tanto selvaggi
e fieri, che nello stesso tempo si narrano dei medesimi eroi, particolarmente nell'Iliade. Messi insieme tutti
a un tempo, riescono incompossibili: dai costumi dell'età troiana si sbalza senza
transizione a quelli del tempo di NUMA; talché, ne placidi s coè'ant inmitia, si
è costretti a pensare che i due poemi furono per più età e da più mani lavorati
e condotti. Incoerenze di allusioni geografiche, che anch'esse trabalzano in ambienti fisici diversi e lontani:
l'Iliade all'oriente della Grecia, verso settentrione; l'Odissea, all'occidente,
verso mezzodì. Incoerenze di linguaggio, sconcezze di favellari, che permangono
nonostante l'emendazione d’Aristarco, e pella quale si sono proposte le più strane
teorie, come quella che Omero sarebbe andato raccogliendo il suo linguaggio da tutte le varie popolazioni.
Dai poemi passando alle tradizioni circa il loro autore, nessuna fede meritano le
vite di Omero scritte da Erodoto, o da chi altri ne sia l'autore, e da Plutarco,
dallo pseudo Plutarco. Intorno a Omero mancano le notizie più elementari:
proprio dove dagli antichi si tratta di questo che fu il maggior lume di Grecia, siamo lasciati affatto al buio. Non si
sa di Omero né il tempo in cui visse né il luogo di nascita: ciascuno dei popoli
di Grecia lo rivendica suo cittadino. Si narra bensì ch'egli fosse povero e cieco;
ma codeste sono di quelle minute particolarità che mettono sospetto, come muove
a riso ciò che dice Longino che Omero componesse l' Iliade e piu tardi l'Odissea. Mirabile che si conoscessero
queste private faccende di un uomo del quale s' ignoravano poi due cose da nulla:
il tempo e il luogo! E la critica deve domandarsi, anzitutto, come mai fosse possibile
che un sol uomo compone due cosi lunghi poemi, in un'età nella quale non esiste
ancora la scrittura; giacché le tre iscrizioni eroiche, una di Anfitrione, l'altra d'Ippocoonte e la terza
di Laomedonte, delle quali con troppo buona fede parla Vossio, sono imposture, simili
alle tante che sogliono eseguire i falsificatori di medaglie antiche. Per tutte
queste considerazioni sorse in V. il sospetto che Omero non fosse, per lo meno in
tutto e per tutto, un personaggio reale, ma anch'esso pella meta uno di quei caratteri poetici ai
quali si erano riportate nell'antichità lunghe serie di azioni, opere e avvenimenti.
Se infatti ci si prova a pensare che i poemi omerici non siano l'invenzione di un
individuo, ma due grandi tesori dei costumi della Grecia antichissima, che contengono
la storia del diritto naturale e dell'età eroica delle genti greche; se invece che a uno o due poeti singoli
si pensa a un popolo intero poetante; invece che a due opere di getto, a una poesia
popolare svoltasi per secoli: tutto si rischiara e si riaccorda. Si spiegano le
stravaganze delle favole, perché la composizione dell' Iliade e dell'Odissea appartiene
alla terza età di quelle, vere e severe presso i poeti teologi, alterate e corrotte presso gli eroici, e ricevute
cosi corrotte nei due poemi. Si spiegano le varietà dei costumi, richiamanti le
varie età della composizione; e altresì l'Omero, simbolo del più antico (Illiade)
e del più recente (Odissea) tempo della Grecia primitiva. Si spiega la varietà
dei luoghi di nascita e di morte, assegnati al loro autore, e le varietà dei suoi linguaggi, perché vari furono i popoli
che produssero quei canti. Si spiega, infine, perché ogni popolo greco volle Omero
suo concittadino, pella ragione cioè che essi popoli pell'appunto furono quest'Omero;
e perché fosse detto cieco e mendico, perché tali erano di solito i cantori che
girano pelle fiere recitando le storie. Bisogna dunque che Omero, perché sia inteso nella sua verità,
venga sperduto dentro la folla dei popoli e considerato come un'idea o carattere
eroico di uomini in quanto narravano cantando le loro storie. Cosi quelle che sono
sconcezze e inverisimiglianze nell'Omero finora creduto, diventano nell'Omero
qui ritrovato tutte convenevolezze e necessità. E, innanzi tutto, gli s’aggiunge una sfolgorantissima lode
d'essere stato il primo storico a noi pervenuto. In Omero si ha il documento della
primitiva identità di storia e poesia, e una conferma di quel che V. crede di leggere
in Strabone, cioè che prima d’Erodoto, anzi
prima d’Ecateo milesio, la storia dei popoli fu scritta dai poeti. Nell'Odissea,
volendosi lodare alcuno per avere ben narrata
una storia, si dice averla raccontata da musico e da cantore. V. non si perde in
poco feconde congetture istituendo indagini più particolari circa il modo di elaborazione
dei poemi omerici. Propende tuttavia per due principali autori poeti, l'uno pell'Iliade,
nativo dell'oriente di Grecia, verso
settentrione, l'altro pell’Odissea, nativo dell'occidente verso mezzodì;
e il nome Omero intende come di compositore e legatore di favole. Ma, d'altro canto,
a causa del significato puramente ideale che per lui ha quel nome, non è da escludere,
forse, l'interpetrazione che i due Omeri
fossero, a loro volta, due correnti poetiche e due gruppi di popoli o di cantori
popolari. Le persone storiche, che egli si
trova innanzi, sono i rapsodi, uomini volgari che paratamente, chi uno chi altro,
andano recitando i canti d'Omero nelle fiere e nelle feste pelle città. Lunga età
corse dalla primitiva composizione fino ai Pisistratidi, i quali fecero dividere
e disporre i canti omerici nei due gruppi dell’Iliade e dell'Odissea, donde si deduce quanto innanzi dovessero essere stati una
confusa congerie di cose, e ordinarono che d'indi in poi fossero cantati dai rapsodi
nelle feste panatenaiche. Comunque, non è
di certo in questa risoluzione materialmente intesa dell'individuo Omero in un mito
o carattere poetico l'importanza, come, forse, non è la verità, della teoria di
V. Dalle incoerenze ch'egli non pel primo
nota, e non sempre con esattezza, la qual cosa, per altro, è di poco rilievo, essendo
agevole compensare le osservazioni inesatte con le molte altre esatte da lui tralasciate,
non c'era rigoroso passaggio logico all'affermazione della non esistenza di un Omero
individuo, principale autore di uno o di entrambi i poemi. Quelle incoerenze valevano a dimostrare che il
poeta o i poeti lavorarono sopra una ricca materia tradizionale, della provenienza
più varia per luoghi e per tempi, e non tanto disposta a strati secondo la provenienza,
che era a un dipresso l'fpotesi messa innanzi da Aubignac, quanto piuttosto in tutti
i suoi strati mescolata e sconvolta. Uno o molti poeti, ovvero molti poeti e un abile collettore
dei loro canti, o una società di abili collettori; queste e altrettali ipotesi si
potevano proporre, come si sono proposte di poi, con pari diritto, e sostenere,
come sono state sostenute, con argomentazioni parimente valide e parimente difettose
perché non documentabili. Ma nel fondo di quella risoluzione di Omero in un carattere poetico, come analogamente
in altre simili risoluzioni fatte o tentate da V., era la scoperta della lunga e
laboriosa genesi storica attraverso cui era passata la materia di quei poemi, che,
in questo senso, ben potevano dirsi prodotto di collaborazione d’un intero popolo. La sostituzione a Omero di un popolo di
Omeri fu, anche questa volta, la mitologia
tessuta da V. sulla propria scoperta: mitologia
che omnes quivìtes tenerent. L'autorità del SENATO ROMANO ne venne ristretta, perché
laddove, precedentemente, di quel che IL POPOLO ROMANO delibera i padri si fanno
auctores, ora i padri sono essi autori al
popolo, che approva la legge secondo la forinola proposta dal SENATO ROMANO, o le antiqua, cioè dichiara
di non volere novità. La plebe ottenne, inoltre, l'ultima magistratura ancora non
comunicata, la CENSVRA. La legge petelia, che segui pochi anni dopo, cancella l'ultimo
vestigio di legame feudale, il nesso, nexus, che rende i plebei, per causa di debiti,
vassalli ligi dei nobili e li costringe sovente
a lavorare tutta la vita nelle private prigioni di costoro. Quando FABIO
MASSIMO alla divisione tra patriziato e plebe, coi corrispondenti comizi curiati
e tributi, ebbe sostituita la divisione secondo i patrimoni dei cittadini, ripartiti
nelle tre classi di senatori, cavalieri e plebei, l'ordine dei nobili venne a sparire
affatto, e senatore e cavaliere non
furono più sinonimi di patrizio, né
plebeo d'ignobile. Ma al senato rimase il dominio sovrano sopra i fondi del
romano imperio, che era già passato nel popolo; e, mercé i cosi detti senatoconsulti
ultimi o ultimce necessitatis, lo mantenne con la forza delle armi finché la romana
fu repubblica popolare; e quante volte il popolo tentò di disporne, tante il senato armò i consoli, i quali dichiararono ribelli e uccisero i tribuni della plebe che avevano
promosso quei tentativi. Il che si spiega con una ragione di feudi sovrani soggetti
a maggiore sovranità, come a V. pare confermato dal detto di Scipione Nasica nell'armare
il popolo CONTRO Tiberio Gracco: Qui rempublicam salvam velit, consulem sequatur. Aperta con le leggi la porta degli onori
alla moltitudine che comanda nelle repubbliche popolari, non resta altro in tempo
di pace che contendere di potenza, non colla legge ma colle armi; e mercé atti di
potenza comandare leggi per arricchire, quali furono le agrarie dei Gracchi, onde
provennero in pari tempo guerre civili in casa e ingiuste fuori. Tutta la società, col trionfo della plebe
e colla mutazione dello stato d’aristocratico in popolare, muta fisonomia. Muta, in primo luogo, la flsonomia
della famiglia: nella quale, durante l'impero del patriziato, per serbare le ricchezze
dentro l'ordine, solo tardi furono ammesse le successioni testamentarie e facilmente
i testamenti venivano annullati; dalla successione paterna era escluso il figliuolo
emancipato; l'emancipazione aveva l'effetto di una pena; le legittimazioni non erano
permesse; è da dubitare che le donne succedessero. Ma nella società democratica,
poiché la plebe pone tutta la sua ricchezza, tutta la sua forza e potenza nella
moltitudine dei figliuoli, si comincia a sentire la tenerezza del sangue, e i pretori ne considerano
i diritti e prendono a fargli ragione con le honorum possessiones e a sanare coi
loro rimedi i vizi o i difetti dei testamenti, agevolando cosi la divulgazione delle
ricchezze, che sole sono ammirate presso il volgo. Muta il significato degli istituti
della proprietà: il dominio civile non è più di ragion pubblica e si disperde per tutti i domini
privati dei cittadini, che formano ora la città popolare; il dominio ottimo non
è più quello fortissimo, non infievolito da niun peso reale, neppure pubblico, e
significa semplicemente quello che sia libero da ogni peso privato: il quiritario
non è più il dominio di cui il nobile era signore feudale e che dove venire a difendere nel caso che ne fosse decaduto il cliente o plebeo, ma è diventato
dominio civile privato, assistito da rivendicazioni, diversamente dal bonitario
che si mantiene col solo possesso. Le forme dei processi, cosi frondose di finzioni,
di forinole solenni, di atti simbolici, sono semplificate e razionalizzate: si comincia
a far uso dell'intelletto, ossia della mente
del legislatore e i cittadini si conformano in un'idea di comune ragionevole utilità,
intesa come spirituale di sua natura. Le caussce, che prima erano forinole cautelate
di proprie e precise parole, diventano affari o negozi, che si solennizzano coi
PATTI convenuti e, nei trasferimenti di dominio, colla tradizione naturale; e solamente
nei CONTRATTI che si dicono compiersi colle parole, nei contratti verbali, cioè
nelle stipulazioni, le cautele rimangono caussce, nell'antica proprietà di questo
termine. Cosi il certo della legge, essendosi la ragione umana spiegata tutta, mette
capo nel vero delle idee, determinate colla ragione delle circostanze dei fatti,
che è una forinola informe di ogni forma
particolare, formula naturai, come dice VARRONE, che a guisa di luce informa di
sé, in tutte le ultime minutissime parti della superficie loro, i corpi opachi dei
fatti sopra i quali ella è diffusa. Nelle repubbliche popolari regna l’cequum bonum, l'equità naturale. Le crudelissime pene,
che si usavano nel tempo delle monarchie familiari e delle società eroiche, le leggi delle dodici
tavole condannavano a essere bruciati vivi coloro che avevano dato fuoco alle biade
altrui, precipitati giù dalla rupe Tarpea i falsi testimoni GRICE MASSIMA, fatti
vivi in brani ì debitori falliti, vengono sostituite da pene benigne, perché la
moltitudine, che è composta di deboli, è di sua natura incline a compassione. La legge, che era nelle aristocrazie unica, ferma e religiosamente osservata, si moltiplica nella
democrazie e si fa cangevole e flessibile. Gli spartani, che serbarono l'aristocrazia,
dicevano che in Atene si scrivevano molte leggi, ma le poche che erano in Isparta
s’osservavano: la plebe romana, a guisa dell'ateniese, comanda tutto dì leggi singolari, e invano Silla, capoparte dei
nobili, cerca di ripararvi alquanto colle questioni perpetue, perché, dopo di lui,
si moltiplicarono di nuovo. Le stesse guerre, crudelissime nelle repubbliche aristocratiche,
che distruggevano le città conquistate e riducevano i vinti in gruppi di giornalieri
sparsi pelle campagne a coltivare a prò dei vincitori, si mitigano nelle repubbliche
popolari, le quali, togliendo ai vinti il diritto delle genti eroiche, lasciano
loro quello naturale delle genti umane. Gl'imperi si dilatano, perché le repubbliche
popolari valgono assai più delle aristocratiche pelle conquiste, e più ancora vi
valgono le monarchie. Eppure, in questo generale umanarsi dei costumi, scema
la sapienza di governo, la virtù politica.
Gli antichi patrizi fanno duramente rispettare la legge; e, avendo privatamente
ciascuno gran parte della pubblica utilità, a questo grande interesse particolare,
che veniva loro conservato dalla repubblica, posponevano gl'interessi privati minori,
e perciò magnanimamente difendevano il bene dello stato e saggiamente consigliano intorno ad esso. Per contrario,
negli stati popolari, e perché i cittadini comandano il bene pubblico che si ripartisce
loro in minutissime parti quanti sono essi i cittadini che compongono il popolo,
e pelle cagioni che producono siffatta forma di stati, che sono affetto d'agi, tenerezza
di figliuoli, amore di donna e desiderio di
vita, gli uomini sono portati ad attendere alle ultime circostanze dei fatti
che promuovono le loro private utilità, e perciò all'equobono, che è ciò solo di
cui le moltitudini sono capaci. A cotal punto balza spontanea, perché di lunga mano
preparata e resa necessaria, la monarchia: quella monarchia che gli ordinari
scrittori di politica facevano venir fuori,
senza il precorso di tante e si varie cagioni che debbono condizionarla, di un tratto,
al bel principio della storia umana, cosi come, dice V., nasce, piovendo l'està,
una ranocchia. E molto meno sorse artificialmente, per effetto della favoleggiata
legge regia dell'ignorante grecuzzo Triboniano, colla quale il popolo romano si
sarebbe spogliato del suo sovrano e libero
imperio per conferirlo a Ottavio Augusto. La legge, che le die vita, fu una legge
naturale, concepita con questa forinola di eterna utilità: che poiché nelle repubbliche
popolari tutti guardano ai loro privati interessi ai quali fanno servire le pubbliche
armi in eccidio della propria nazione, per impedire che le nazioni vadano in rovina debba sorgere un solo, come tra i romani
Augusto, qui »j come scrive Tacito, cuncta beììis civililms fessa nomine principia
su imperium accepit; un solo, che colla forza delle armi richiami a sé tutte le
cure pubbliche e lasci ai soggetti l'attendere alle loro cose private o a quel tanto
delle cose pubbliche che viene loro permesso, e si circondi di pochi sapienti di stato per consultare coll'equità
civile nei gabinetti circa i pubblici affari. Quel solo è invocato alla pari da
nobili e da plebei: dai nobili, che dopo essere stati abbassati e sottomessi al
governo plebeo, abbandonata l'antica aristocratica volontà d'impero, non pensano
se non ad avere salva almeno la vita comoda; e dai plebei, che dopo avere sperimentato l'anarchia o la sfrenata
demagogia, della quale non si dà tirannide peggiore, essendo tanti i tiranni quanti
sono gli audaci e dissoluti delle città, fatti accorti dai propri mali, chiedono
pace e protezione. La monarchia è, dunque,
una nuova forma del governo popolare. Perché un potente diventi sovrano, è necessario
che il popolo parteggi per lui, ed egli
deve governare popolarmente, agguagliare tutti i soggetti, umiliare i grandi per
tenere libera e sicura la moltitudine dalla loro oppressione, mantenere il popolo
soddisfatto e contento circa il sostentamento che gli bisogna pella vita e circa
gli usi della libertà naturale, e adoprare un ben ponderato sistema di concessioni e privilegi o a interi ordini, nel qua! caso si
chiamano privilegi di libertà, o a persone particolari, promovendo fuori d'ordine
uomini di merito straordinario e di virtù eccezionali. Nella monarchia, che è governo
umano al pari della democrazia, prosegue e s'intensifica quel processo di umanamente
o ingentilimento dei costumi e della legge, che le repubbliche popolari iniziano. Si sciolgono sempre
più i rigidi vincoli della famiglia paterna e gentilizia. Gl'imperatori, ai quali
faceva ombra lo splendore della nobiltà,
si diedero a promuovere le ragioni della natura umana, comune a nobili e a plebei;
e Augusto attese a proteggere i fedeco in messi, coi quali nei tempi innanzi, mercé
la puntualità degli eredi gravati, i beni
erano passati agi'incapaci di eredità, e li trasformò in necessità di ragione, costringendo
gli eredi a mandarli ad effetto. Successe una folla di senatoconsulti, coi quali
i cognati entrarono nell'ordine degli agnati; finché Giustiniano tolse le differenze
tra legati e fedecommessi, confuse la quarta falcidia e trebellianica, distinse poco i testamenti dai codicilli e adeguò ab intestato,
in tutto e per tutto, gli agnati e i cognati. Tanto la legge romana ultima si profuse
in favorire i testamenti che, laddove anticamente per ogni leggi ero motivo essi
erano invalidati, poi si dovettero interpetrare nel modo che meglio conduce a mantenerli
saldi. Caduto affatto il diritto ciclopico, che
i padri avevano esercitato sulle persone dei figliuoli, anda cadendo altresì
quello economico sugli acquisti dei figliuoli; onde gl'imperatori introdussero prima
il peculio castrense per attrarre i uomini alla
guerra, poi il quasicastrense per invitarli alla milizia palatina, e finalmente,
per tenere contenti quelli che non erano
né soldati né letterati, il peculio
avventizio. Tolsero l'effetto della patria potestà alle adozioni, le quali non si
contennero più ristrette nella cerchia di pochi congiunti; approvarono universalmente
le arrogazioni, difficili alquanto perché è difficile che un pater familias, un
sui iiiris, si sottometta alla patria potestà d'un estraneo; reputarono le emancipazioni
quali benefizi e dettero alle legittimazioni,
degn.; le cosi dette prove metafisiche di V., i fatti dubbi sono asseriti da V.
in conformità delle leggi e ritenuti da lui verità meditate in
idea; Il certo, Opere, la sapienza
poetica costituisce quasi tutto il corpo della
scienza; le aspre difficultà per discendere dalle nostre nature ingentilite
a quelle degli uomini primitivi e l'idea
della natura simpatetica; una delle ragioni
perché nuova la Scienza di V.; errori di Platone, Giulio Cesare Scaligero,
Sanchez, Schopp; gli errori di Grozio, Selden e Puffendorf; V. confessa l'errore
commesso da lui medesimo nel De antiquissima; la sapienza poetica è la chiave maestra
della Scienza; la Logica poetica; la sapienza
riposta fu intrusa nella poesia dai filosofi;
la poesia è necessità di natura e la prima operazione della mente umana; l'uomo, prima di riflettere, avverte con
animo commosso e, prima di articolare, canta; la poesia è anteriore alla prosa;
il linguaggio proprio e il linguaggio improprio; la poesia e la metafìsica; nessuno
fu insieme gran metafisico e gran poeta; i
poeti sono il senso, i filosofi l'intelletto dell'umanità; il linguaggio per atti muti; le
lingue articolate non sono per convenzione; le origini delle lingue furon trovate
da V. nei principi della poesia; una e medesima
è l'origine del linguaggio e della scrittura; i geroglifici; identità tra favola,
poetica, ed espressione; le cinque parole reali d' Idantura; gli alti papaveri troncati dal re Tarquinio; analoghi procedimenti espressivi presso popolazioni selvagge
e i volghi; le imprese, bandiere, medaglie, monete; la favoletta sull'origine delle
imprese; le improse primitive furon mutole; le insegne e bandiere sono una sorta di lingua armata; le teorie di Platone,
Aristotele, ecc. sulla poesia son rovesciate da
quella di V.; Il De Cristofaro è il
noto matematico e giureconsulto napoletano, pel quale si veda Amodeo, Vita matematica
napoletana, Napoli, Giannini, e fu amico di V..
Altre notizie intorno ALL’ORTO ROMANO di Napoli di quel tempo, in Carducci,
Opere, Lettera, erano mai codesti errori
e debolezze; E quando usci il De universi iurte
tino principio et fine uno, anzi la Sinopsi che ne da il programma, le prime voci avverse, che V. senti
levarsi, erano tinte da una simulata pietà; contro le quali egli trova scudo
e conforto nella religione stessa, cioè nell'assenso di Giacchi, primo lume del
pili severo e più santo ordine de'religiosi. Ma come delle accuse che su questo
punto gli si facevano non ci resta notizia
particolare, cosi dei dubbi religiosi, che poterono travagliarlo, non si ha nemmeno
la generica certezza. Tutti gli scritti di V. mostrano che nel suo animo s’assideva
grave, salda, immota, come colonna adamantina, la religione cattolica: salda e forte
cosi da non essere neppure in piccola parte intaccata dalla critica, che egli inaugura, dei miti. Né soltanto in tutte
le esteriori dimostrazioni V. fu cattolico irreprensibile, e sottomise sempre
ogni parola che mette in istampa alla doppia censura, pubblica e privata, degli
amici ecclesiastici, e fra zimarre sacerdotali e cocolle fratesche, più ancora che
fra toghe di giuristi, menò la sua vita filosofica e letteraria; ma egli giunse perfino allo scrupolo d'intermettere il
commento a Grozio, non sembrandogli dicevole che un cattolico commenta un autore
protestante; ed ebbe cosi delicato punto d'onore cattolico da non accettare nemmeno
la polemica circa i suoi sentimenti religiosi: Questa difficoltà, dice ai critici
del Giornale de'letterati, come quella che mi fate sull'immortalità dell'anima, dove par che premiate
la mano con ben sette argomenti, se non mi
fusser fatte da voi, io giudicherei che andassero più altamente a penetrare in parte
la quale, quantunque si pro i Autob. tegga e sostenga colla vita e coi costumi,
pure s'offende colla stessa difesa. Ma trattiamo le cose! Il suo cattolicesimo
si mostra scevro di materialità e superstizioni,
cosi generali nel costume del tempo, e specie a Napoli dove in ogni avvenimento
della vita privata e pubblica interveniva attore e direttore san Gennaro: era cattolicesimo
di animo e di mente alta, e non di volgo. Ma neppure contro le credenze popolari
e le superstizioni V. assunse le parti di censore; pago di non parlarne, come non si parla delle debolezze di
persone e d'istituzioni che sono oggetto della nostra reverenza. Disposizione d'animo
analoga per più rispetti a quella verso la religione ebbe V. verso la vita politica
e sociale. Non era nulla in, lui dello spirito combattivo da apòstolo, propagandista,
agitatore e congiurato, che fu di alcuni filosofi della Rinascenza; in ispecie di quel Bruno e di quel
Campanella, che egli, benché, e forse PERCHÉ NAPOLETANO non nomina mai. Certo, il
suo tempo e il suo paese non furono luogo e tempo di rivolgimenti e rivoluzioni
e di quegli ardenti contrasti che suscitano grandi azioni e passioni politiche.
Pure, vi s’agitarono partiti politici, il
gallo e l'austriaco,
e si profilò un certo desiderio d'indipendenza nazionale, e sorsero uomini
che dettero l'opera e la vita a questi fini, e furono perseguitati e andarono profughi;
e, segnatamente, giunge in quel tempo al più
alto punto la lotta dello Stato contro la Le cose, cioè, non le obiezioni
religiose, che a lui suonano come offesa personale Risposta al Giornale de' letterati, in Orazioni ecc.,
ed. Gentile-Nicolini. Chiesa, e di
Napoli contro Roma, con Giannone, del quale come di tutto quel movimento tacque
sempre e parve non essersi nemmeno accorto. La vita politica sta alta sopra il suo
capo, come il cielo e le stelle; ed egli non si protese mai nel vano sforzo di attingerla.
Come le controversie religiose, cosi
quelle politiche e sociali furono il limite della sua attività. Era veramente uomo
apolitico. Di che non si può fargli colpa né accagionarlo di fiacchezza, perché
ogni uomo ha il suo limite, e una lotta esclude l'altra, un lavoro esclude gli altri
lavori.Non che egli si ritraesse da ogni contatto colla politica e coi rappresentanti
di essa. Purtroppo, dovette corteggiare assai
di frequente e l'una e gli altri, con istorie, orazioni, versi ed epigrafi, latini
e italiani; i quali basterebbero da soli a ricostruire la serie delle vicende cui
andò soggetta Napoli: il viceregno, la congiura e rivoluzione tentata dagli autonomisti,
la reazione e il rassodato viccrcgno, la conquista austriaca, il viceregno austriaco,
la riconquista e il regno di Carlo Borbone.
Ma egli, molto pei suoi bisogni conversevole, e professore d’eloquenza nella regia
università, dove fornire i componimenti letterari, richiesti dalle solennità del
giorno; cosi come il drappiere lavora, pelle medesime occasioni, le frange, e lo
stuccatore le volute e gli svolazzi. E quali frange e quali svolazzi! Perdura la moda letteraria; e 'ciò basta per gran
parte a spiegare quel che nelle lodi profuse da
V. ci sembra, ed è, iperbolico e barocco. Del suo animo indifferente e innocente
può dare esempio quel In Autob., ecc.. luogo dell'autobiografia, dove, dopo aver
fatto ricordo del Panegyricus Philippo V inscriptus, da lui composto per ordine
dell'ultimo viceré duca di Ascalona, continua,
come se niente fosse, col riattacco di un semplice appresso: Appresso, ricevutosi
questo reame al dominio austriaco, dal signor conte Wirrigo di Daun, allora governatore
delle armi cesaree in questo regno, ebbe l'ordine di comporre le iscrizioni pei
funerali espiatori di Capece e di Sangro; cioè dei due ribelli contro Filippo V,
che il governo precedente aveva MESSI A MORTE nella repressione della congiura
di Macchia, da V. narrata, veridicamente bensì ma con ossequio al governo costituito,
nel De parthenopea coniuratione. Ma non c'è,
in V., bassezza; e, se deve dirsi, in quei suoi scritti, retore e panegirista,
non può dirsi adulatore. L'adulatore, l'uomo
senza coscienza, vilipende e calunnia gli avversari degli uomini da lui adulati,
o colpisce i vinti; e questo è bassezza. V., il quale, pur conoscendo chi fosse
l' italiano, anzi il napoletano, che aveva inviato agli Ada lipslensìa la noterella
contumeliosa contro di lui, e fremendo d'ira, e potendo facilmente rovinarlo, perché
quella noterella era anticattolica, generosamente non volle mai svelare quel nome,
presta, si, i suoi servigi di professore d'eloquenza, ma non traffica cogl’interessi
dei suoi lodati padroni. Della Vita di Carafa, composta per commissione, e col provento
della quale marita una figliuola, dice che la lavorò temprata di onore del subietto,
di riverenza verso i principi e di giustizia che si dee aver pella verità. E, per tornare Autob.,
Lettera; in Autob.,
ecc., Autob.] al caso sopraricordato
di Capece e di Sangro, quando nel De parthenopea conluratione egli narra la morte
di quei due nemici della parte trionfante, mostra anche allora, in taluni particolari,
il suo animo gentile; e di Capece, che non volle arrendersi ai soldati, scrive ostentali s pectus ned eamque infestis armis efflagitans,
inexoratus occubuit, fortissimum mortis genus si causa cohonestasset; e per Sangro,
riferita la voce della grazia fattagli da Luigi XIV e giunta troppo tardi, aggiunge:
unde maior damnati, qui iam poenas persolverat, miserano. Senza dubbio, non poteva
essergli, e non gli era, nascosto che la
più parte degli individui da lui lodati vale ben poco. A leggere i suoi scritti
panegiristici pare che Napoli ha allora una nobiltà splendida di virtù, di cultura,
di dottrina; eppure, informando Vitry che gli aveva chiesto notizie circa le condizioni
degli studi in Napoli, V. non cela la
realtà: i nobili sono addormentati da'piaceri della vita allegra -- ONLY THE POOR LEARN AT OXFORD -- Un suo motto
satirico circa quella nobiltà, spesso pezzente ma sempre fastosa e capace di soffrire
la fame in casa pur di sfoggiare in pubblico con cocchi e altre gale, ci è stato
serbato dal suo scolaro GENOVESI. A proposito del letterato duca di Laurenzano formula
la teoria che gli scrittori nobili non possono
essere se non eccellenti; eppure, tra le sue carte io ho trovato il manoscritto
di un libro di quel signore, riscritto da cima a fondo dallo stesso Opp., ed.
Ferrari, e Croce,
Critica, Autob., ecc., Dice
che molti tiravano le carrozze colle budella! In
Autob., ecc., V. K
Contradizioni e transazioni da pover'uomo, schiacciato dalla miseria e divenuto riguardoso e timido; tanto che riesce difficile
determinare fino a qual punto egli ammira a parole e per compiacenza, e fin a qual
altro il suo sentimento d' inferiorità sociale si muta in effettiva ammirazione
per coloro che avevano e ricchezze e dignità e tutto quello che a lui manca, e che
stavano cosi in alto, ed erano i signori. in
Perché, com'è risaputo, le sue condizioni
economiche sono sempre tristissime. Figliuolo d’un libraiuccio di Napoli, è dapprima costretto a recarsi come precettore
domestico in un borgo selvaggio del Cilento; poi, tornato a Napoli, tenta invano
d’ottenere il posto di segretario della città, e, avuta per concorso la cattedra
di rettorica, rimane in
quell'ufficio collo stipendio annuo di cento ducati, lire 425. Invano tenta di passare a cattedra di maggiore
importanza: fosse sfortuna, fosse inabilità, uomo di poco spirito intorno alle cose
che riguardano l'utilità, si riconosce esso stesso, dove rinunziare a ogni avanzamento universitario. È costretto, dunque, ad aiutarsi
un po'coi lavori letterari del genere detto di
sopra, e più ancora colle lezioni private; e non solamente, oltre quella
nella pubblica università, tene scuola a
casa sua, ma sale e scende le altrui scale come insegnante di grammatica. Non è
fortunato nella famigli. La moglie è analfabeta, senza le virtù delle donne analfabete,
incapacissima di curare le più piccole Antob.] faccende domestiche; cosicché il marito dove farne le parti. Dei figliuoli, una femmina gli muore dopo lunga malattia, e dopo quei lunghi dispendi che inacerbiscono
le malattie dei poveri; un figliuolo maschio gli da grandi dolori ed egli è costretto a invocare l'intervento della
polizia per chiuderlo in una casa di correzione. La sua irrazionale e sublime tenerezza
paterna è tanta, in questa occasione, che
al vedere dalla finestra gl’uffiziali di polizia da lui richiesti i quali venivano
a portar via il figliuolo sciagurato ed amato, corre a costui gridandogli, Figlio mio,
salvati! Ha, invero, animo affettuosissimo: il che si può ritrarre, fra l'altro,
dall'orazione piena di nobiltà e di dolcezza che compone pella morte della sua amica donna Angela Cimini, dagli accenti di pietà
e di sdegno che ha nella Scienza pelle plebi oppresse, di cui investiga la storia,
o pelle dolenti figure di Priamo e di Polissena, di cui risente la poesia; e perfino
da certi sparsi segni stilistici, come, per es., in quella dignità dove ricorda che le streghe, per solennizzare
le loro stregonerie, uccidono
spietatamente e fanno in brani amabilissimi innocenti bambini, e tutto si
turba, in modo inopportuno ma significante, pella sorte di quei piccini, che adorna
nella commossa fantasia di superlativa amabilità! I maggiori conforti domestici
gli vennero dalla figliuola Luisa, colta e poetessa, e dal figliuolo Gennaro, che
lo supplì e poi gli successe nella
cattedra. Quando, nell'elogio della contessa d'Althann, accenna sarcasticamente
ai filosofi che ragionano passeggiando pegl’ameni giardini o sotto i portici dipinti,
non nauseati né afflitti dalle mogli che infantano e dai figliuoli che nei morbi
Villakosa, nelle aggiunte
alVAuloò. languiscono, si sente che parla per diretta esperienza e che lo
pungono ricordi angosciosi della propria
vita familiare. Accade molto spesso, specie ai giorni nostri, di osservare gli uomini
di qualche ingegno emanciparsi da questo o quello dei più umili doveri; e tanto
più bisogna ammirare quest'uomo di genio, che invece li accetta tutti e, per adoperare
una parola che Flaubert disse di sé medesimo, pensando da semidio, visse costantemente da borghese, anzi da popolano.
Egli aveva preso l'abitudine di leggere, scrivere, meditare e comporre i suoi lavori
ragionando con amici e tra lo strepito de'suoi figliuoli. La salute ebbe sempre
malferma; gli amici lo chiamano mastro Tisicuzzo: debole, straziato d’ulceri alla
gola, da dolori alle cosce e alle gambe. Insomma, quel riposo,
quell'ozio, quella tranquillità,
che altri filosofi goderono per tutta la loro vita, o per lunghi tratti di questa, a V. MANCA
SEMPRE. Egli dove fare da Marta e da Maddalena: travagliandosi pelle necessità pratiche
sue e dei suoi; travagliandosi insiememente con sé stesso, per adempiere alla missione
assegnatagli fin dalla nascita e dare
forma concreta al mondo spirituale che gli s’agita dentro. Non c'è bisogno, dunque, di foggiare o desiderare un V.
eroe, cercandolo nella vita religiosa, sociale
e politica, quando il V.
eroe ci sta innanzi, ed è appunto questo: l'eroe della vita filosofica. E
stato notato da altri Opp., ed. Ferrari, Autob., Autob.] che egli ebbe carissima la parola eroe e tutti i derivati di essa, eroismo, eroico, ecc.; e ne fece continuo uso e svariatissime applicazioni.
L'eroismo è, per lui, la forza vergine e strapotente, che appare negli inizi e riappare
nei ri-corsi della storia. Questa forza egli dove sentire in sé medesimo, nel lavorare
pella verità e nell'aprire, abbattendo ostacoli d'ogni sorta, nuove vie alla scienza. Per questa forza, superate le incertezze,
gli smarrimenti, gli avvilimenti, che talvolta lo fecero cadere in un cupo pessimismo
individuale e cosmico, come si vede dalla canzone Affetti d'un disperato, potè sollevarsi
alla sicura professione di metodo scientifico, che enunciò nel De nostri temporis
studiorum ratione, e al suo primo tentativo
di applicazione filosofico-storica, rappresentato dal DE ANTIQUISSIMA
ITALORVM SAPIENTIA, e da questo, poi, disfacendo in parte il suo stesso pensiero
e ritessendo col resto una nuova tela, giungere al De uno universi iuris principio
et fine uno e alla Scienza: dopo anni, egli
dice delle scoperte contenute in questa, di continova ed aspra meditazione. L'opera, menata a termine da quel
povero maestro di grammatica e rettorica, da quel pedagogo che un satirico contemporaneo
raffigura stralunato e smunto, colla ferula in mano, da quel tormentato pater
familias, stupisce e, quasi, spaventa: tanta somma di energia mentale vi è condensata.
È un'opera di reazione e di rivoluzione insieme: reazione al presente per riattaccarsi alla tradizione
dell'antichità e del rinascimento; rivoluzione contro il presente e il passato per
fondare l’avvenire. Nel campo della scienza,
l'umile popolano diventa aristocratico; e quello stile da signori, che egli falsamente
loda nelle misere scritture dei superbi cavalieri e dei pomposi mitrati, era veramente
il suo. Egli aborriva la letteratura galante
e socievole, che comincia a diffondersi dalla Gallia in Italia e negli altri paesi d'Europa, i libri pelle dame. Ma non meno rifuggiva
da quella maniera di trattazioni che si chiamano ora manuali, e in cui s’espongono
per filo e per segno definizioni elementari e cose già da altri accertate: ibri che possono giovare soltanto ai cui per altro V. già abbastanza si
sacrifica nella cerchia della scuola perché dove poi sacrificar loro anche
qualcosa della propria inviolabile vita scientifica. In questa mira ad altro pubblico
che a cavalieri: quando scrive, il suo primo pensiero, la sua prima pratica era: Come riceverebbero le cose da lui
meditate un Platone, un VARRONE, un QVINTO MUZIO SCEVOLA?; e la seconda: Come riceverà queste cose la posterità. Dei contemporanei,
aveva innanzi agli occhi, esclusivamente, la Repubblica letteraria, l'Ordine dei dotti, le Accademie di Europa; un pubblico, a
cui non bisognava ripetere ciòche già era stato trovato e detto nel corso della
storia delle scienze e che esso aveva
bene a mente, ma porgere soltanto pensieri che fossero reale avanzamento
del sapere: non libri voluminosi, ma piccioli libricciuoli, tutti pieni di cose
proprie. Un pubblico ideale, insomma, che
ingenuamente egli confonde talvolta con quello dei dotti di professione e dei critici da riviste letterarie; donde,. la Autob., In
Autob., Ordz., ecc., Scienza,
ed. Nicolini, Oraz.] poi, le frequenti sue delusioni. I libri
brevi, in materia metafisica, sembra a lui che avessero, come infatti hanno, particolare
efficacia, acconciamente paragonata alle meditazioni sacre, che brievemente propongono
pochi punti, le quali fanno molto più profitto nelle cose dello spirito che non
le prediche più eloquenti e più spiegate
da facondissimi predicatori. Per quest'amore alla brevità, fu restio dall'aggravare
di troppi libri la repubblica letteraria, che già non regge sotto il peso; lasciò inedite le orazioni, stampò per dovere
il De ratione, ed ebbe, infine, a manifestare più volte il desiderio che, di tutte
le sue opere, sola gli sopravvive la
Scienza, la quale contene condensate e perfezionate tutte le sue indagini. All'aristocrazia dell'ideale s’accompagnavano
nella sua concezione della vita scientifica il più nobile decoro e la più profonda
lealtà. Dalle sue polemiche si potrebbe ricavare un intero catechismo circa il modo
in cui si debbono condurre le dispute letterarie. Bisogna, egli dice, non mirare
a vincere nella disputa, ma a vincere nella
verità -- EPAGOGE DIAGOGE --; onde voleva che quelle si svolgessero con sedatissima
maniera di ragionare, perché chi ha potenza non minaccia e chi ha ragione non ingiuria;
variate tutt'al più da piacevoli motti, i quali diano a divedere gli animi de'ragionatori
esser placidi e tranquilli, non perturbati e commossi. Agli avversari, che movevano obiezioni vaghe,
face notare: Il giudizio è in termini troppo generali: e gli uomini gravi non hanno
mai di risposta deguato se non le particolari e determinate opposizioni, che loro
sono fatte. Ai medesimi, quando si appellavano alraffinato Oraz., Tra le altre,
nella lettera a Galiani Autob., e il cui
autografo è presso di me. buon gusto del
secolo, il quale ha sbandito, ecc. ecc., risponde sdegnoso: Questa è invero una grande
opposizione, perché opposizione non è; perché, ritirandosi gli avversari al tribunale
del proprio giudizio, con quel dire di codesto che tu dici non ho idea, da avversari
divengono giudici. Alle autorità non intendeva appoggiarsi, ma neppure le disprezza; dovendo l'autorità farci considerati a investigare le cagioni che
mai potessero gli autori, e massimamente gravissimi, indurre a questo o a quello
opinare. E, accusato di avere commesso il medesimo peccato di Aristotele attribuendo
errori ai filosofi per poterli con agevolezza confutare, protesta dignitosamente:
Io mi contento del mio poco sapere ingenuo,
che essere comparato di mal costume ad un gran filosofo. Della sua equanimità può
dare esempio lo splendido elogio che egli fa di Cartesio, contro il quale pure era
rivolto tutto lo sforzo maggiore del suo pensiero. La sua lealtà è attestata dal
pronto riconoscere i propri errori: Confesso, dice, in un punto, ai critici del Giornale dei letterati, che la mia divisione è VIZIOSA.
Né già questo, scrive nella Scienza, dee
sembrare fasto a taluni che noi non contenti de'vantaggiosi giudizi da tali uomini
dati alle nostre opere, dopo le disapproviamo e ne facciamo rifiuto; perché questo
è argomento della somma venerazione e stima che noi facciamo di tali uomini anzi
che no. Imperciocché i rozzi ed orgogliosi
scrittori sostengono le loro opere anche contro le giuste accuse e ragionevoli ammende
d'altrui; altri, che per avventura sono di cuor picciolo, s'empiono de'favorevoli
giudizi dati alle loro, e per quelli stessi non più s'avanzano a perfezionarle;
ma a noi le lodi degli uomini grandi hanno ingrandito l'animo di correggere, sup 1
Si vedano pass,
le Risposte, in
Oraz., ecc.] plire ed anco in miglior
forma di cangiar questa nostra. Vita scientifica proba, come di serio ricercatore
del vero: vita sentimentale commossa e rapita, come di chi giunga a faccia a faccia
col vero a lungo bramato e cercato, ed esulti di poterlo annunziare agli uomini.
Di qui la sua alta poesia, che è non già nei versi, ma nelle prose,
e, segnatamente, nella Scienza. V. è
poeta, scrive Tommaseo: dal fumo dà luce, dalle metafisiche astrazioni trae
imagini vive: raccontando, ragiona e, ragionando, dipinge; e pelle cime de'pensieri
non passeggia, ma vola; onde in un suo periodo sovente è più estro lirico che in
odi assai. Certo, fossero anche tutte immaginazioni
le sue dottrine, quella nascita che egli descrive della società, quella rappresentazione
delle età primitive e delle lotte in cui si travagliano e assurgono, plenderebbe ognora, colle sue gigantesche figure, colle sue robuste passioni, col divino
immanente in quegli aspri petti, come un mirabile poema; e Sanctis vide infatti nella
Scienza l'andamento di un poema, quasi di una nuova
Divina commedia. E, come ALIGHIERI sublime, fu anche più di Dante severo;
e se le labbra del ghibellin fuggiasco pur si mossero talvolta un poco a riso, V.
leva veramente innanzi alla storia un volto che giammai non rise. Del resto, egli
che ha avuto tante censure pel suo stile,
non era scrittore volgare; anzi, studioso della buona forma e della toscanità,
non meno che sottile estimatore, al dire di Capasso, di vocaboli latini Scienza V.
e il suo
secolo, La storia civile nella letteraria,
Torino, Loescher; un giudizio su V.
scrittore. Più ampiamente ora, Nicolini, nella introd. alla sua ediz. della
Scienza Autob., Opp., ed.
Ferrari, Autob. Ma compone male i
suoi libri, perché la sua mente non padroneggia tutta la materia filosofica e storica
che accumula; scrive confusamente, perché con furore e come in preda a un dèmone: donde, le sproporzioni
nelle varie parti dell'opera, nelle
singole pagine, nei singoli periodi. Rende talora immagine di quella bottiglia
di cui parla il poeta, piena d'acqua e capovolta
di botto, nella quale l'umore, che vorrebbe uscire, tanto s'affretta e intrica pella
via angusta, che a goccia a goccia fuori esce a fatica. A fatica o a fiotti, disordinatamente.
Un'idea che egli sta enunciando, gliene richiama un'altra, e questa un fatto, e
il fatto un altro fatto; ed egli vuol dire tutto in una volta, e perciò le parentesi s’aprono nelle parentesd,
con ritmo spesso vorticoso. Ma quei suoi periodi disordinati, come erano materiati
di pensieri originali, cosi sono tutti contesti di frasi possenti, di parole scultorie, di espressioni
commosse, d'immagini pittoresche. Egli scrive male, se cosi piace dire; ma di quello
scriver male, del quale i grandi scrittori portano con sé il segreto. L'eroismo filosofico
di V. non s’afferma soltanto nella lotta interiore con sé stesso pell'elaborazione
della scienza, ma fu sottomesso ad altre e più dure prove. La posizione mentale, da lui raggiunta, avversa al
presente e, sotto specie di reazione, vòlta all'avvenire, lo condanna
necessariamente all'incomprensione. È codesta,
senza dubbio, la sorte di tutti gli
uomini di genio: incompresi intimamente, anche quando la fortuna sociale sembra
secondarli ed essi sollevano entusiasmi e trovano in folla scolari e ripetitori.
Il motto che, secondo la leggenda, Hegel pronunzia sul letto di morte, uno solo
de'miei scolari m’ha inteso, e questi m’ha frainteso, esprime a meraviglia tale necessità storica: chi è perfettamente
inteso nel suo tempo, muore col suo tempo. Pure, di rado o non mai la sproporzione
tra il proprio pensiero e la incomprensione dei contemporanei fu cosi grande come
nel caso di V. Se altre cagioni d'infelicità non l'avessero tormentato, sarebbe
bastata quest'una. Il desio di laude, che è poi negli animi non volgari desio di vedere compartecipato, assentito
e universalizzato negli altri spiriti ciò che a essi sembra vero e buono, rimase
sempre per lui un van desio. Tanto pid l'incomprensione e l'indifferenza lo angosciano,
in quanto, com'è facile supporre, aveva piena coscienza, dell'importanza delle
proprie scoperte. Egli sa che il providete gli aveva affidato una missione altissima; sa di esser nato
pella gloria della sua patria, e in conseguenza dell'Italia, perché quivi nato,
e non in Marrocco, esso riusci letterato. Allorché mandò fuori la Scienza, gli
pare come di avere dato fuoco a una mina, e ne aspetta da un momento all'altro lo
scoppio e il fragore. Non ne segui nulla: la gente non gliene parlava; onde egli scrive a un amico, dopo qualche
giorno: In questa città si io fo conto d’averla mandata al deserto; e sfuggo tutti
i luoghi celebri per non abbattermi in coloro a'quali l'ho mandata, e, se per necessità egli addivenga, di
sfuggita li saluto: nel quale atto non dandomi essi né pure un riscontro di averla
ricevuta, mi confermano l'opinione che io
l'abbia mandata al deserto. Egli aveva creduto, addirittura, a un effetto rapido
e immediato; e sperato di trovare gli animi pronti e gl'intelletti aperti a ricevere
e a fecondare i suoi pensieri, In Aulob., Lettera a Giacchi, in
Anteo., nientemeno che tra i suoi contemporanei e conoscenti di Napoli: tra
i frati occupati a comporre e mandare a
memoria prediche verbose, tra i verseggiatori che rimano sonettuzzi, tra
gli avvocati che scrivevano allegazioni! Trovò, invece, moltissimi scettici e indifferenti,
e non pochi irrisori. Già il libro sul Diritto universale, quando comparve, venne
generalmente ripreso per oscuretto, come c'informa Metastasio; e fu poco letto e
avventatamente censurato pelle stravaganze
che la lettura disattenta e a salti fa trovarvi in ogni punto. Paoli, cui l'autore
ne aveva donato copia, vi scrisse sopra un distico celiando sull'incomprensibilità
dell'opera. Peggio fu pella Scienza: si sa
che Capasso, che pure era dotto uomo e bene affetto verso V., provatosi a leggerla,
credè di avere smarrito ogni scintilla
d'intendimento, e, buffoneggiando, eorse a farsi tastare il polso dal medico
Cirillo. Un erudito senese, nel riferire le impressioni d’una sua visita a V. e della lettura di qualche suo scritto, lo
definì stravagante, privo di criterio e seccatore. Un nobile napoletano, interrogato
a Venezia da Finetti circa quel che si pensa a Napoli di V., disse che, per un certo tempo costui era passato per uomo davvero
dotto, ma che dipoi, pelle strane sue opinioni,
aveva acquistato fama di squilibrato. E quando
die fuori la Scienza? insiste Finetti. Oh, allora, rispose l'altro, era già diventato
affatto pazzo! I maldicenti lo Latterà a Giacchi in Aniob., In
Autob., Lettera di Bandiera ed. da Nicolini
e ristamp. Critica In
Autob.] colpivano perfino nella modesta professione da cui traeva il sostentamento,
dicendolo buono ad insegnare dopo aver fatto tutto il corso de'loro studi, cioè
quando erano stati da essi già resi appagati
del lor sapere; o, più insidiosamente, che egli era adatto non a insegnare, ma a
dar buon indirizzo ad essi maestri; e, cioè,
riconoscevano la sua superiorità soltanto per farsene un argomento da danneggiarlo
nella già cosi stentata sua vita pratica. Né alla generale indifferenza e alla leggerezza
o alla malignità dei critici potevano formare compenso gli amici e lodatori, che
anche a V. non mancano. Come sarebbero potuti mancargli, se egli ne fa una trepida
ed attenta cultura artificiale? Si veda, per es., in qual modo coltiva Giacchi.
Lodava di costui le opere ammirabili, il divinissimo ingegno, la rara sublimità
delle meravigliose e divine idee. Gli annunzia di aver dato a leggere ai letterati
della città l'epistola elogiativa ricevuta da lui, e che tutti ne avevano ammirato
il sublime torno del concepire, eppure
egli proprio, rifaceva in latino d'oro
le iscrizioni che Giacchi compone in un latino fratesco! Gli comunica, altra volta,
che le lodi di un Giacchi avevano destato invidia ed erano state prese da taluni
per adulazioni. Eguali fatiche spende per propiziarsi Gaeta, un vanitoso, tutto
pieno del proprio merito, negli Elogi di Gimma fa perfino lodare la sua avvenenza, e che non sa parlare se non di sé stesso,
autore di un panegirico Autob. Furono pubblicate da CROCE in Napoli nobiliss., e di
ììtftvo in Sscondo
nappi, alla BUA.
deh. di Benedetto XIII, pel quale, lodato e rilodato da V., non si sazia mai, e provoca, anzi chiede espressamente,
nuove lodi. E V. a
inaffiarlo pazientemente della linfa
desiderata: la maravigliosa opera di
V. S. I. ; il suo dire da signore; le digressioni demosteniche;
l'eloquenza, che fu la favella filosofica, colla quale parlano gli antichi accademici,
tra i latini Cicerone, e tra gl'italiani niun altro che V. S. I.! A Solla, che gli era stato scolaro e si era
poi ritirato in provincia, insinua che la sua Scienza aspetta che egli fosse tra i pochissimi forniti d'alto intendimento,
che volessero riceverla con mente sgombra di tutti i pregiudizi circa i principi
dell'umanità. Erano artifizi ingenui, fanciullaggini pietose, colle quali procura
di dare un'illusoria soddisfazione al suo bisogno di riconoscimento e di lode, e
un calmante ai suoi nervi eccitati. Ma anche a questo modo raccoglie frutti assai poveri. Nelle lettere di Giacchi, non è parola
che provi che costui avesse intesa una sola delle dottrine di V. o che almeno le avesse considerate con serio interesse.
Gaeta, dopo molti giri eli frasi, gli confessa di avere più ammirate che intese
le opere di lui; e, certamente, non le aveva neppur lette, tutto occupato ad ammirare la propria prosa. Solla, nel quale V. sembra riporre
tante speranze, giudica l'orazione pella morte di Cimini cosa superiore a tutte
le altre opere dell'autore e alla stessa Scienza. Un simile incauto complimento
rivolge a V. un altro ammiratore, pur caldo e affettuoso, Esteban. Lodi generiche
o banali gli giungevano talvolta, ma più spesso per In Autob. darà vano, ostinati, la trascuranza e il
silenzio, in ricambio di alcuno dei tanti esemplari delle proprie opere, che invia
non solamente ai letterati di Napoli, ma a quelli di Roma, di Pisa, di Padova, anzi
di Germania, di Olanda, d'Inghilterra: ne manda, perfino, a Newton. Egli ottenne,
tutt'al più, di farsi considerare erudito
tra centinaia di eraditi e letterato tra
migliaia di letterati: dotto uomo, insomma; ma niente altro. Senza dubbio, V. ebbe,
tra i modesti, tra gl’oscuri, tra i giovani, schietti ammiratori. Di costoro era
il poeta, poi oratore sacro, Angelis; i già ricordati Solla ed Esteban; Concina
di Padova; e altri pochi. Ma, se il loro affetto era grande, la loro intelligenza
era scarsa. Anche il Concilia confessa, in
mezzo i1 fervore dei suoi entusiasmi, di non intendere troppo bene: I HAVE NO
IDEA WHAT THIS MEANS – I HOPE YOU DO Oh quanti fecondissimi e sublimissimi lumi
vi sono per entro! Cosi avessi io talento da farne uso e da comprendere il fondo
ed il mirabile artificio, che panni alquanto di ravvisare! Il miglior ufficio, che codesti amici potessero adempiere, era di
lenire con parole buone, se non con intima corrispondenza di pensieri, l'animo esacerbato
di V. Cosi fa Esteban, concludendo la lettera
nella quale procura di rimediare a quel che gli era scappato dalla penna a proposito
dell'orazione per Cimini, e ripete frasi che aveva dovuto cogliere sulla bocca del maestro: Vivete sicuro che il providente, per canali da V. S. non
immaginati, farà sorgere a V. S. una fonte perenne di glorie immortali! LodoV.,
autore del distico, che si legge sotto il ritratto di V., ricevuta la Scienza
Autob., In Autob., nuova, manda
all'autore, con pratico senno, un po' di vino della cantina e un po'di pane del
forno della casa della Nunziatella, con una graziosa letterina nella
quale lo prega di accettare codeste cosucce, comeché semplici, quando né pure il
bambino Gesù rifiuta le rozze offerte de'rustici pastorelli. E gli suggeriva di
aggiungere nella simbolica dipintura che precede l'opera, accanto all'alfabeto,
un piccolo nano in atteggiamento di chi ammirando ammuta come il montanaro di Dante, scrivendovi sotto
con significante dieresi il nome: Lodo-V.! Tra i tanti giovani della sua scuola,
erano alcuni, tutti pieni della dottrina di lui, pronti a difendere il maestro a
spada tratta T ma si sa che cosa valgano codesti entusiasmi di giovani. Se quegli
scolari avessero penetrato davvero le dottrine o qualche parte delle dottrine di V., se ne sarebbero vedute le
tracce nella letteratura e nella cultura della generazione che segui a V.; e, invece, non ne fu nulla o quasi. Appena
qualche sentenza, qualche affermazione storica, qualche concetto isolato e superficialmente
inteso fu ripetuto a Venezia da Conti, a Padova da Concina, da Luzàn, il quale aveva
dimorato a Napoli negli anni della pubblicazione della Scienza,
e qualche cosa di più nella patria dell'autore, da Genovesi e particolarmente da
Galiani. GÌ' invidi, i leggieri, i pettegoli,
i calunniatori, gl'inintelligenti eccitavano in V. scoppi di collera violenta. Di
questo suo peccato si confessa nell'autobiografia, dicendo che con maniera troppo
risentita inveiva contro o gli errori d'
ingegno o di dottrina o mal costume dei letterati suoi emuli, che dove con cristiana
carità, e da vero fi i In
Autob., losofo, o dissimulare o compatirgli. Ma, in fondo, quel peccato non
gli spiace: al pari di Dante, vi trova qualche bellezza. L'orazione per Cimini contiene
una specie d'inno alla collera, alla collera eroica, che negli animi generosi co' suoi bollori turbando
e dall'imo confondendo ogni mal nata riflessione della mente, da cui nasce la razza
vile della fraude, dell'inganno, della menzogna, fa ella gli eroi aperti, veritieri
e fidi, e si, interessandoli della verità, li arma forti campioni della ragione
incontro ai torti ed alle offese. Benché nello scrivere si guardasse a tutto potere dal cadere in quella
passione, la collera si sente tumultuare mal repressa nelle lettere private, in
tutte quelle punte contro i dotti cattivi, che amano più l'erudizione che la verità,
contro il comune degli uomini che è tutto memoria e fantasia, e via dicendo. Nella
conversazione poi, era, a quel che sembra, mordacissimo. Quando, Romano pubblica un libro contro la tesi di V.
relativa alle dodici tavole, V., racconta
Romano medesimo, sebbene vi fosse stato trattato coi titoli di dottissimo e di celeberrimo
e con ogni altra dimostrazione di reverenza, ci addenta in maniera che fu di ribrezzo
e di orrore a chiunque vi si trovò presente, vedendo egli di malissima voglia che
un garzone come noi si fusse con lui cimentato.
Ma agli scoppi di collera s’alternavano le ricadute nella più profonda tristezza.
In un sonetto, egli si dice oppresso da quel fato che l'ingiusto odio altrui creò
sovente, onde si era np i Opp-ì
eJ. Ferrari, Autob.,
In Autob., partato dal consorzio umano a vivere solo con sé
stesso. Da quel torpore si riscoteva, talvolta,
per qualche istante: Poi ricaggio in me stesso, e da mie gravi cure sospinto a tornar
là dov'era, di me, non per mia colpa, ho da dolermi. Eppure, fra tanti tormenti
e contrarietà e delusioni, in mezzo a questa tristezza che veniva frequente a ricoprirlo
dei suoi neri veli, V. provò una delle più
alte felicità dell'uomo: quel vivere di
meditazione scevra e pura di passione, che allora senza la compagnia tumultuosa
e grave del corpo vive veramente l'uomo solo; quella vita di sicuro possesso, perché
medesimata coll'anima, sempre presta e presente, che gli dimostra il suo essere
fisso nell'Eterno che tutti i tempi misura, e spaziante nell'infinito che tutte
le finite cose comprende; e si il colma di
una eterna immensa gioia, non in certi luoghi invidiosamente né in certi tempi avaramente
ristretta, ma che senza uggia di emulazione, senza tema di scemamento, per ciò unicamente
in esso lui accrescere si potrebbe se ella
fosse tuttavia a più e più umane HVMANIORES menti comunicata e diffusa. Della verità
raggiunta non dubitò mai, pur continuando
sempre a elaborarla: sopra il sistema presentato nel libro del Diritto universale
la sua mente, egli dice, riposa sodisfatta.
Le fatiche, e gli stessi dolori che aveva cosi acerbamente sofferti, gli erano cari,
perché attraverso di essi era pervenuto alle sue scoperte: In
Autob., Opp., ed. Ferrari, Lettera a
Giacchi in Autob., Benedico ben anni da me spesi nella meditazione
di siffatto argomento, ed in mezzo le avversità della mia fortuna e le remore che
mi facevano gli esempli infelici degl'ingegni, che han tentato delle nuove e gravi
discoverte. Come poteva non benedire quelle fatiche e quei dolori e quelle avversità,
se ogni qual volta si solleva dal tumulto passionale dell'uomo empirico e dalle lotte dell'uomo pratico,
la sua mente gli mostra la necessità ineluttabile e di quanto egli aveva operato
e di quanto aveva sofferto, e l'ima e l'altra necessità strette in modo tra loro
da formarne una sola e indivisibile? La sua
stessa dottrina filosofica gli porge dunque la medicina del male, e promoveva nel
suo animo la catarsi liberatrice: quella
dottrina che aveva per centro l'idea del providente immanente o, come si disse poi,
della necessità storica. Sia pur sempre lodato il providente, che quando agl'infermi
occhi mortali sembra lui tutto severa giustizia, allora più che mai è impiegato
in una somma benignità! Perché da questa opera io mi sento aver vestito un nuovo uomo e provo rintuzzati quegli stimoli
di più lamentarmi della mia avversa fortuna, e di più inveire contro alla corrotta
moda delle lettere che mi ha fatto tal'avversa fortuna; perché questa moda, questa
fortuna mi hanno avvalorato e assistito a lavorare quest'opera. Anzi, non sarà per
avventura egli vero, ma mi piace che fosse vero, quest'opera mi ha informato di un certo spirito eroico, per
lo quale non più mi perturba alcun timore della morte e sperimento l'animo non più
curante di parlare degli emoli. Finalmente, mi ha fermato come sopra un'alta adamantina ròcca il giudizio Lettera a Corsini in Autob., di Dio, il quale fa giustizia alle opere
d'ingegno colla stima dei saggi, degli uomini
cioè di altissimo intendimento, di erudizione tutta propria, generosi e magnanimi, intenti a conferire opere immortali nel comune
delle lettere, che sempre e da per tutto furono pochissimi. Il providente gli mostra,
dunque, la necessità di tutto ciò che gli era accaduto e ancora gli accade
nella vita, e, inculcandogli la rassegnazione, gli promette la Gloria. Cosi l'uomo collerico diventa perfino
tollerante: di quella tolleranza, di quella indulgenza superiore che non è da confondere col volgare tollerantismo. L'Università,
nella quale aveva sperato fare avanzamento e verso cui aveva rivolto il pensiero
nel comporre le prime opere, non aveva voluto sapere di lui; ed egli si era tutto
ritirato in sé stesso a meditare la Scienza. Dunque, dice con sorriso in cui si sente
ancora alcunché d’amaro, questa mia opera io la debbo all'Università, che, riputandomi
immeritevole della cattedra e non volendomi
occupato a trattar paragrafi, mi ha dato l'agio di meditarla: posso io avergliene
più grado di questo? Un amico, il fiorentino Sostegni, in un sonetto a lui indirizzato, usciva in parole di biasimo
contro la città di Napoli, che aveva tenuto in poco conto il suo gran figlio. E V., nella risposta, giustifica con nobili
parole la patria, dura con lui perché molto da lui aspettala e molto aveva voluto
ottenerne: In Autob., Lettera a Giacchi in
Autob..Severa madre non vezzeggia in seno figlio, che ne fia poscia oscura e vile; ma grave in viso ancor l'ode
e rimira. Da questa condizione di spirito nasce l’Autobiografia, opera che è stata
mal giudicata e del tutto fraintesa da Ferrari, il quale vi biasima il teleologismo
dominante e vi lamenta la mancanza di una spiegazione psicologica della vita di
V. Come se V. medesimo non avesse professato che l'aveva scritta da filosofo! E che cosa significa scrivere da filosofo
la vita d’un filosofo, se non intendere l'oggettiva necessità del suo pensiero e
scorgerne gli addentellati anche dove all'autore, nel momento che lo pensò, non
apparivano del tutto chiari? V. medita nelle cagioni cosi naturali come morali,
e nell'occasioni della fortuna; medita nelle
sue ch'ebbe fin da fanciullo o inclinazioni o avversioni più ad altre spezie
di studi che ad altre; medita nell'opportunitadi o nelle traversie onde fece o ritardò
i suoi progressi; medita, finalmente, in certi suoi sforzi di alcuni suoi sensi
diritti, i quali poi avevangli a fruttare le riflessioni, sulle quali lavora
l'ultima sua opera della Scienza, la qual
appruovasse tale e non altra aver dovuto essere la sua vita letteraria. L'
Autobiografia di V. è, insomma, l'applicazione
della Scienza alla biografìa dell'autore, alla storia della propria vita individuale
– H. P. Grice, Prejudices and predilections; which become, The life and
opinions of H P. Grice; e il metodo ne è, quanto originale, altrettanto giusto e vero. Che poi V. riuscisse solo in parte nel
suo assunto, e, cioè, non potesse fare la critica e la storia di sé stesso come sono in In Autob., Nell'introd. Opere. Autob., grado di farla i critici e gli storici
odierni, e altrimenti saranno quelli futuri, è troppo ovvio perché vi si debba insistere.
L'Autobiografia termina anch'essa con una benedizione alle avversità, un
riconoscimento del providente e una certezza di fama e di gloria. Negli ultimi
anni di sua vita V., aggravato dalla vecchiaia, dalle domestiche cure e dalle malattie,
rinunzia affatto agli studi. Da la tremante man cade il mio stile e de'pensier s'è
chiuso il mio tesauro, esclama in due versi, pieni di lacrime, di un sonetto. Prepara
allora, per una possibile ristampa, le aggiunte
e correzioni alla Scienza, e le incorporò nel definitivo manoscritto dell'opera;
pensò per un momento di mettere a stampa l'operetta De cequilibrio corporis animantìs,
composta molti anni prima e che andò poi smarrita; adempiè ancora a qualche obbligo
di uffizio, come, all'orazione pelle nozze di re Carlo Borbone. Il figliuolo cominciat a sostituirlo
nella scuola, e riceve definitivamente la cattedra dalla quale il padre si ritira. Vive V. tra i suoi, come un soldato
exacta militici, nel ricordo delle battaglie combattute, nella coscienza del dovere
compiuto. Il buon figliuolo gli
faceva, Autob., In
Autob., sonetto pellle nozze di Sangro Autob., ed.
cit., Sec. tuppL,
In Aidob.y ogni giorno, qualche ora di lettura dei classici
latini da lui più amati e studiati un tempo. E, in questo suo tramonto, gli fu risparmiato,
almeno, il tormento dei tormenti: quello che straziò negli ultimi anni di vita un
filosofo tanto di lui più fortunato, Kant, ansioso di dare séguito e compimento al suo
sistema filosofico e consumantesi in una
sterile lotta coi pensieri che gli sfuggivano e le parole che non più gli obbedivano.
V. aveva detto tutto ciò che doveva dire, e conobbe da sé stesso, quale grande storico
di sé stesso, il momento in cui il
providente aveva terminato in lui l'opera sua, chiudeva il tesoro dei pensieri che
gli aveva cosi largamente aperto per tanti
anni e gli comanda di deporre la penna.
La narrazione delle vicende alle quali anda soggetta la fama di V. non dev'essere
sostituita o frammischiata all'esposizione e giudizio del pensiero di V., perdendo
di vista la storia della filosofia propriamente detta o turbandola colla storia
della cultura. Ma anche quando poi si passi a questa seconda storia, bisogna guardarsi da un altro genere di errore:
dalla pretesa di giungere a determinare, mercé quella narrazione, se l'opera di
V. fosse o no culturalmente utile, e quanti gradi di utilità le si debbano riconoscere.
Siffatta indagine è priva di significato e la
corrispondente misurazione impossibile
et eseguire; perché, se ben si consideri, un unico discepolo può valere le decine e le centinaia,
un effetto solo prodottosi dopo secoli compensare un'efficacia ritardata per secoli,
un oblio immeritato riuscire altrettanto memorabile e ammonitivo quanto una fama
meritatissima, e una mede Restringo in breve i principali risultati delle ricerche
da CROCE fatte sull'argomento ed esposte nella
Bibliografia di V. e nei annessi Supplementi,
ai quali lavori rimando per maggiori particolari e pella documentazione delle cose
che qui si affermano. sima verità,
scoperta due volte in modo indipendente, da questa stessa duplicazione e apparente
superfluità ricevere come il crisma della sua ineluttabile necessità. L'opera di
V., si è concluso di solito, fu del tutto
inutile, perché apparsa fuori tempo ossia troppo presto, e rimasta sconosciuta o
giunta a notizia quando non poteva insegnare più nulla. E, col dire ciò, si è blasfemato
contro la storia, la quale non ammette nulla d'inutile ed e sempre, in ogni sua
parte, opera, avrebbe detto V., del providente, alle cui ampie utilità non è lecito applicare piccole misure umane, corte di una spanna.
Ebbe V. rinomanza, lettori, intenditori e
seguaci? Si è risposto, con pari risolutezza, no e si; e, a provare la risposta
affermativa, si sono andati raccogliendo con molta diligenza i ricordi che del nome
e delle dottrine di V. si trovano sparsi negli scritti dei filosofi, accumulando sospetti e indizi su tracce inconfessate delle sue idee, che si
scorgerebbero in libri. Ma un pensatore come V. non si può dire propriamente conosciuto
se non quando di lui sia stato còlto il pensiero fondamentale e risentito lo spirito
animatore. Ora la maggior parte dei fatti arrecati a documento dell'efficacia dell'opera
sua concernono dottrine particolari, che, avulse dal complesso, furono accettate o contestate né
più né meno di quelle di qualsiasi altro critico ed erudito o dicitore di paradossi
del tempo suo. Tale è il caso, in primo luogo, della teoria circa l'origine della
legge delle dodici tavole, discussa nella polemica che s’agita fraTanucci e Grandi,
oppugnata da Romano, accolta nella Gallia da Bonamy e rammentata
da Terrasson; delle interpretazioni storiche circa i primi tempi di Roma,
ricordate da Chaslellux, seguite e svolte da Duni e, attraverso costui, sfruttate
da Bignon; delle ipotesi sulla preistoria e sulle origini dell'umanità,
adoperate e alterate da Boulanger nella Gallia e da Pagano in Italia; dei concetti
storici e politici, e di quelli sulla
poesia e sulla lingua del LAZIO che si trovano presso Galiani, Pagano, Cesarotti
e qualche altro. Questione pili sostanziale era quella del metodo di studiare e
giudicare le istituzioni politiche e le leggi; pella qual parte Montesquieu fu messo
a paragone con V. e accusato di essersi valso largamente della Scienza senza citarla.
È ormai accertato che Conti in Venezia consiglia
al futuro autore dell'Esprit des lois, come risulta dai diari di quest'ultimo, di
comprare a Napoli il libro di V.: consiglio
che fu certamente messo in atto quando Montesquieu si reca a Napoli, perché un esemplare della Scienza si serba
ancora nella biblioteca del castello de la Bròde. Ma ingegno troppo diverso rispetto
al V., e troppo meno profondo, era quello
dello scrittore gallo, da trarre vitale nutrimento da un'opera come la Scienza;
e i vestigi d' imitazione, che si è creduto di scorgere nell'Esprit des lois, sono
assai contestabili e, in ogni caso, di scarsa importanza. Deve dirsi, per altro,
che il merito generalmente attribuito al Montesquieu, di avere introdotto l'elemento storico nel diritto positivo, prendendo
per tal modo a considerare in guisa veramente filosofica, come poi scrisse Hegel,
la legislazione, quale momento dipendente di una totalità in rapporto a tutte le
altre determinazioni che formano il carattere di un popolo o di un'epoca;
questo inerito, in ordine cosi di tempo come di eccellenza, spetta invece a
V. Come Montesquieu pella scienza della legislazione, cosi Wolf pella questione
omerica, fu sospettato di essersi giovato tacitamente delle speculazioni di V. Ma
Wolf, quando die fuori i Prolegomena ad Homerum,
ignora, almeno direttamente, la Scienza, che non conobbe se non di nome e poi di
fatto pel dono che di quel libro gli fece
Cesarotti. È da notare per altro che i concetti di V. circa il carattere
barbarico e la mancanza di riposta sapienza nell'epos omerico erano, forse per opera
di Galiani, divulgati dalla Gazette Uttéraire de l'Europe del Suard e d’Arnaud;
e, meglio ancora, che la Scienza era conosciuta e adoperata dal filologo e archeologo
Zoega, il quale la cita in un suo saggio su Omero; e che con Zoega teneva carteggio
Heyne, il quale accusò poi Wolf di avere
attinto alle sue lezioni pella teoria presentata nei Prolegomena – cf GRICE
CAJOLED -- IN THE NEW WORLD -- e, in verità, sin d’anti, manifesta l'idea di una genesi graduale
dei poemi omerici; e, infine, che quelle teorie già si profilavano in Wood e in alcune memorie di Merian. I concetti di V.
con o senza il nome del loro autore – SIDONIO, IMPLICATURA -- erano dunque penetrati
in qualche misura nell'ambiente filologico; e Wolf ne ebbe indubbiamente un certo
sentore indiretto. E, in ogni caso, resta sempre, anche qui, il fatto riconosciuto
da tutti coloro che hanno studiato la questione: che la teoria omerica, cosi come si trova esposta
dal Wolf, dovrebbe dirsi non wolfiana ma vichiana, GRICEIANA perché tale è veramente
in quasi tutti i suoi tratti fondamentali. Del resto, Wolf, filologo di gran lunga
superiore a V. ma anch'esso pensatore assai minore – KRETZMANN ON GRICE --, non
era in grado d'intendere le motivazioni
ideali che avevano condotto il suo predecessore a quella dottrina intorno
a Omero; com'è chiaro dall'articolo, alquanto superficiale, che vi scrisse intorno.
Certamente a Napoli fu in molti una confusa coscienza della grandezza dell'opera
di V.; ma in che propriamente questa grandezza consistesse non si sa determinare,
perché facevano ancora difetto
l'esperienza e la preparazione adeguate. E fuori d'Italia, e in Germania
in particolare – i tedeschi amano gl’italiani --, dove questa preparazione
c'era, o almeno ce n'era assai di più, l'opera di V. rimane generalmente sconosciuta, in parte per
il discredito di NAPOLI in cui erano caduti i libri italiani, in parte pelle difficoltà
che lo stile di V. offre agli stranieri. Quando la Scienza capitò tra le
mani di uomini atti a comprenderla, sembra come se il caso si divertisse a impedirne
loro la seria lettura e l'intelligenza. Hamann si procurò la Scienza da Firenze, in un tempo in cui si occupava di economia
e di fisiocrazia, immaginando che vi si trattassero tali materie; e rimase deluso
quando, nella scorsa che le dette, si avvide
di avere innanzi una selva di ricerche filologiche, eseguite per giunta con scarsa
acribia. Goethe l'ebbe a Napoli, con grandi raccomandazioni, da Filangieri e la
porta seco in Germania e la presta a Jacobi; ma solo per una felice combinazione,
piuttosto che per una vera conoscenza o per un chiaro intuito, avvicinò il nome di V. a quello di Hamann. Herder, che anch'esso
conobbe l'opera di V. non forse mercé l'accenno fattogliene da Hamann nel loro carteggio,
ma piuttosto nel suo viaggio d'Italia, ne discorse in termini affatto generici e
senza avvertire nessuno dei molteplici rapporti che a V. lo stringevano, in ispecie
nelle dottrine sulla lingua del LAZIO e
sulla poesia. I soli che veramente
penetrassero la tendenza fondamentale di V. e, pur senza volerlo, ne riconoscessero
la genuina grandezza, furono, a nuova conferma della salda contestura spirituale
del cattolicesimo, gli avversari cattolici, che egli, allora, ebbe in buon numero:
Romano, Lami, Rogadei, e sopra tutti, Finetti. Videro costoro che V., nonostante i suoi fermi propositi di ortodossia
religiosa, coltiva un' idea del providente affatto difforme da quella della teologia
cristiana, e di Dio fa continua menzione a parole, ma non lo lascia poi operare
effettivamente, come Dio personale, nella
storia; che distacca con taglio cosi netto storia profana e storia sacra
da giungere a una dottrina affatto naturale
e umana delle origini della civiltà, mercé lo stato ferino, e di quelle della religione,
mercé il timore, il pudore e l'universale fantastico, laddove la dottrina tradizionale
cattolica ammette una certa comunicazione tra la storia sacra e la profana, e nella
religione e civiltà pagana riconosce il lievito operante di una qualche notizia,sia
pur vaga, della primitiva verità rivelata; che, pure protestando di accogliere
e rafforzare l'autorità della Bibbia, egli la mina e scrolla in molti punti; che
la sua critica alla tradizione storica profana, condotta con spirito superbo di
ribellione al passato, poteva aprire l'adito a dannosissimi abusi, perché istiga
ad applicare il medesimo spirito e metodo alla
storia sacra, come fece poi Boulanger. Un'invettiva, insomma, nella quale
erano già accuratamente indicate tutte le parti che dovevano dipoi entrare a comporre
il grandioso elogio che s’avrebbe indirizzato a V.. Nacque per tal modo tra gli
uomini di chiesa una certa diffidenza verso questo autore; di che, tra l'altro,
fu effetto più tardi, al tempo della
restaurazione, la polemica anti-V. di Colangelo, preceduta da un giudizio
di Giustiniani, che dice la Scienza: un libro il quale da luogo a segnare un'epoca
molto infelice in Europa. La critica dei cattolici contro V. porse materia a un
libro assai istruttivo di Labanca: più oltre in questo volume. Quasi a contrasto,
tra i filosofi che in Napoli coltivano
con ardore gli studi sociali e politici e s’accingevano all'opera attiva
della imminente rivoluzione, V. comincia a essere considerato come filosofo anticlericale
e anticattolico, e sorse la leggenda che V. avesse di proposito e per accorgimento
reso oscuro il suo libro per salvarsi dalla censura ecclesiastica. Quei filosofi
presero a leggere e a vantare la Scienza;
disegnarono di ristamparla, perché era divenuta rara, colle altre opere dell'autore
e cogli scritti inediti; prepararono
lavori espositivi e critici sul sistema filosofico e storico di V.; taluno, come
Pagano, si prova a rielaborarlo mescolandolo colle idee del sensismo gallo, e tal
altro, come Filangieri, benché molto lo ammirasse, non ne fu distolto dai sogni del più roseo riformismo; il tedesco Gerning, che capita a Napoli, nota questo
fervore di studi intorno a V. e augura una traduzione o almeno un estratto tedesco
della Scienza. E quando la caduta della repubblica napoletana spinse quei filosofi,
quelli, tra essi, che scamparono dalle stragi e dai patiboli della reazione borbonica,
agli esili nell'Italia superiore e specialmente
in Lombardia, la fama di V. ebbe i suoi primi ardenti apostoli e missionari. Cuoco,
Lomonaco, Salii e altri patrioti meridionali fecero conoscere la Scienza a Monti,
che ne toccò nella sua prolusione universitaria di Pavia; a Foscolo, che ne accolse
parecchi pensieri nel carme dei Sepolcri e nei saggi di critica; a Manzoni, che dove poi istituire nel Discorso
sulla storia lombarda un celebre raffronto tra V. e Muratori;
e ad altri minori. Cuoco informò intorno a V. Degérando,
che allora lavor alla sua Histoire comparée des sgstèmes philosophiques; un altro
esule, Angelis, mette la Scienza tra le mani di Michelet; Salti discorre di V. negli articoli della Revue encyclopèdique e in volumi ed opuscoli scritti
in francese. Anche per suggerimento di quei napoletani, fu a Milano ristampata la
Scienza; e altre edizioni e raccolte di opere minori vicinane non tardarono a comparire.
Per tali vicende, V., da reputazione quasi esclusivamente municipale e napoletana,
pervenne a reputazione nazionale e italiana.
Senonché, conforme alle loro personali disposizioni e alle tendenze del tempo, il primo e principale ammaestramento
che i patrioti studiosi di V. trassero dal suo pensiero, fu POLITICO o di filosofia
politica; e cioè, la critica di quel giacobinismo e di quel filo-gallismo che avevano
fatto cosi cattiva prova negli avvenimenti a Napoli. Il pensiero di V. li guida a concetti più concreti, e generò
un'opera di capitale importanza, il Saggio storico sulla rivoluzione napoletana
di Cuoco. Similmente, Ballanche, nei suoi Essais de palingénesie sociale,
scrive che V., se fosse stato noto nell Gallia piu temprano avrebbe esercitato un'azione
moderatrice e benefica sulle rivoluzioni sociali che seguirono. Un altro particolare
aspetto di V., la riforma ch'egli inizia della metodologia storica e della scienza
sociale a servigio della storia, fu avvertito
e lumeggiato da Iannelli nel libro: Sulla natura e necessità della scienza delle
cosa e delle storie umane. Foscolo principalmente, e coloro che da lui presero ispirazione,
fecero penetrare nella critica e storia letteraria qualcosa delle concezioni di
V. sulla interpetrazione storica della poesia. Invece, in Germania, Jacobi, che
aveva letto il De 1 quali V. trasse un opuscolo:
De (Equilibrio corporis animantis, che molti anni dipoi pensa di pubblicare e che
è andato perduto; onde di quelle, come delle sue speculazioni di fisica, che dovevano
costituire il Liber physicus, non si sa altro se non ciò che egli
stesso dice nell'autobiografia. Tralasciando
gli scritti rettorici e per commissione, dei quali il più esteso è il De rebus gestis
Antonii Campitevi, Napoli, Mosca, i nuovi frutti del suo pensiero, che si andò concentrando
sui problemi morali e storici, prima accennati in una prolusione della quale il sommario è nell'autobiografia,
furono condensati da V., in italiano, in un programma a stampa di quattro
pagine fitte a due colonne, noto sotto il nome di Sinopsi del diritto universale,
e svolti nell'ampia trattazione: De universi iuris uno principio et fine uno liber
units, Napoli, Mosca, compiuta l'anno dopo
dal Liber alter qui est de constantia iurisprudentis, e accresciuta
dalle Kotce in dioos libros, ecc., che rappresentano un ulteriore avanzamento;
la quale opera si suole designare nel suo complesso, seguendo l'esempio dello stesso
autore, col nome di Diritto universale. Questo libro, secondo Cantoni rappresenta
il culmine dell'attività scientifica di V.: giudizio non meno inaccettabile del
precedente. L'autore (Opp.) rifiutò il Diritto
universale, perché gli pare che vi perdurassero il pregiudizio e la pretesa di scendere
dalla mente di Platone e degli altri filosofi a quelle degli uomini primitivi, onde
in esso avrebbe errato in alquante materie ma lo disse anche a ragione, abbozzo
della Scienza, qual è veramente. Le idee sulla
poesia vi sono ancora perplesse, Omero
non vi è ancora un mito, i canoni mitologici sono meno unitari di quel che divennero
poi, per l'origine delle XII tavole s’affaccia un'ipotesi ibrida, la teoria del
ri-corso vi è appena debolmente adombrata, e insomma cosi la storia ideale eterna
come la gnoseologia, sulla quale essa si
fonda, sono ancora immature. L'opera è rifusa nelle posteriori, salvo ciò che riguarda la generale
filosofia etica e giuridica, che non è molto originale, e salvo alcuni svolgimenti
storici che nelle opere posteriori ricompaiono solo in accenno. È andato perduto
il manoscritto di un'opera italiana, divisa in due libri, in cui V. espone le sue
dottrine per via negativa, ossia con metodo prevalentemente polemico. In modo positivo,
invece, e in forma concisa, le espose nei Principi di una Scienza intorno alla comune
natura delle nazioni, pella quale sì ritrovano i principi di altro sistema del diritto
naturale delle genti, Napoli, Mosca, che sono coKOsciuti colla denominazione, anche
questa proveniente dall'autore medesimo, di scienza. Nello stesso anno in cui pubblicò la scienza V. narra la storia
dei suoi studi: Vita di V. scritta da sé
medesimo, che fu inserita nella Raccolta di opuscoli scientifici e filologici di
Calogerà, Venezia, Zani. Dei minori scritti di questo periodo sono notevoli altresì
le due orazioni in morte della contessa di Althann e della marchesana della Petrella
Angiola Cimini; il volumetto Vici vindicice,
Napoli, Mosca, contenente una difesa di carattere personale, con un'importante digressione
teorica sul riso, contro una maligna noterella inserita negli Acta lipsiensia intorno
alla Scienza; e alcune lettere bellissime a Giacchi, a Angioli, a Esperti, a Vitry e a Solla, sul contrasto
tra la sua opera e le condizioni degli studi
a quel tempo. Alla scienza V. pensò di aggiungere una lunga serie di Annotazioni,
effettivamente poi scritte ma andate disperse,
in una ristampa che se ne prepara a Venezia. Ma poiché questa non ebbe più effetto
e, d'altro canto, quel libro non lo soddisfaceva se non proprio pelle materie, egli dice, pell'ordine tenuto, Opp., si risolse a dare un'esposizione affatto nuova delle sue dottrine
nei libri de' principi di una Scienza d'intorno alla comune natura delle nazioni,
in questa impressione con più propia maniera condotti e di molto accresciuti, Napoli,
Mosca, che formano la scienza. Quantunque Cantoni consideri quest'opera come una
variazione del pensiero di V., essa è invece il
risultato necessario e la forma perfetta a cui mettono capo i tentativi precedenti;
ed è il libro che, insieme col De antiquissima e coll'autobiografia, basta a fornire
tutto l'essenziale pella conoscenza del pensiero di lai. Nel Diritto universale
e nella Prima scienza nuova si può spigolare soltanto qualche particolare dipoi
tralasciato; ma, pel resto, vi compaiono
le medesime dottrine della scienza in un modo meno profondo e meno sicuro, e, certamente,
meno vichiano. Il confronto particolare tra queste tre opere fu eseguito con diligenza
nei sommarietti apposti da Ferrari alle sue edizioni della scienza; e moltissimi
altri riscontri e più particolareggiati possono vedersi ora nella edizione della Scienza, curata da Nicolini. Anche alla redazione V., senza quasi più mutarne l'ordine
e la sostanza, andò facendo molte variazioni e aggiunte, che poi incorporò per gran
parte nel testo in un manoscritto definitivo, sul quale fu condotta l'edizione dei
Principi di una Scienza d'intorno alla comune natura delle nazioni, uscita dopo
la morte di V.—GRICE STUDIES IN THE WAY, Napoli, nella stamperia muziana. Sono serbati
nella Biblioteca di Napoli gli autografi cosi di questo manoscritto come di altri
anteriori di aggiunte e correzioni, dai quali trassero alcuni brani rimasti inediti
Giordano, Napoli, e Giudice, Napoli, e ora tutti i brani inediti e le varianti ha
estratto Nicolini pella sua
edizione. Dopo la scienza, V. scrisse
pochissime cose notevoli, tra esse, l'orazione De mente heroica, Napoli, l'aggiunta all'autobiografia e alcuni sonetti, nei quali, sebbene composti,
come quasi tutti i suoi versi, per occasione e commissione, risuona, qua e là, una
nota personale. Degli scritti minori di V. si fecero raccolte, una delle sole Latince orationes, a cura di Daniele, Napoli, e l'altra,
ricca di cose inedite ma non esente da raffazzonature dell'editore, degli Opuscoli
italiani e latini, a cura del marchese di
Villarosa, Napoli. Villarosa ebbe tutto ciò che avanza delle carte di V. dal figliuolo di costui, Gennaro; e i preziosi
autografi si serbano ancora a Napoli in casa dei miei cari amici ingegneri Tommaso e incenzo, de Rosa di Villarosa. Delle Opere complete
la prima, e si può dire unica edizione perché riprodotta in tutte le altre, è quella
di Ferrari, Milano, Classici italiani, ristampata con qualche miglionnento. Le Opere
a cura di Corcia, Napoli, tipografia della Sibilla, sono, invece, una scelta; e
le Opere a cura di Preclari, Milano, Bravetta, si arrestano al primo e disordinato
volume. Incompleta e disordinata è anche l'edizione di Napoli, Iovene, che segue
l'edizione di Ferrari, ma pur contiene qualche bazzecola inedita. Materialmente
condotta sulla ferrariana, e poco corretta, è l'edizione napoletana delle Opere
presso la tipografia dei Classici italiani, e Morano; la quale, per altro, e la più completa di tutte,
essendovi unite la Sinopsi, le Istituzioni oratorie e le Orazioni latine edite da
Galasso, che vennero fuori dopo
l'edizioAe Ferrari); vi sono aggiunte
anche versioni italiane del De ratione, del De antiquissima e del Diritto universale,
a cura di Pomodoro. Scritti inediti o sparsi
di V., non compresi in nessuna di tali edizioni, sono raccolti nel Croce, Bibliografìa
vichiana e supplementi,
e ricerche e in un opuscolo di Donati:
si veda più oltre. Una
edizione critica della scienza è stata pubblicata nella Collana dei classici
della filosofia moderna diretta da Croce e Gentile, Bari, Laterza. È dovuta a Nicolini,
che si e valso per essa degli autografi ed ha
arricchito l'edizione Ferrari, che contene solo i brani soppressi, di tutti
i brani delle redazioni intermedie fino al testo; ha, inoltre, riscontrato le citazioni
vichiane e recato in nota i luoghi degli autori classici e moderni ai quali si riferiva
V.; additati i molti errori d'erudizione, procurando sempre che fosse possibile
di mostrarne la genesi; schiariti i
punti oscuri col riferimento alle altre opere di V.; e, finalmente, riforma,
secondo un desiderio più volte espresso anche da autorevoli letterati come Tommaseo,
l'ortografia e la punteggiatura. Dell'edizione ferrariana sono riprodotti in questa
di Nicolini, ma alquanto ritoccati, gli utili sommarietti. In un'ampia introduzione
si studia V. scrittore e si da notizia delle sue cessive redazioni e rimanipolazioni
della Scienza, escursi mostrano come V. giunse
via via alla sua teoria omerica e all'altra analoga sulla Legge delle XII Tavole;
e le ricerche sono agevolate da un minuto indice analitico. Lo stesso Nicolini,
con Croce e con Gentile, attende a una edizione delle Opere complete, che fa parte della raccolta degli Scrittori a Italia del Laterza
e il cui disegno e indice particolareggiato si può leggere nel Croce, Supplemento alla Bibliografia vichiqna. Di questa edizione sono stati pubblicati
Le orazioni inaugurali, il De italorum sapientia e le polemiche, a cura di
Gentile e di Nicolini, e L'autobiografia, il
carteggio e le poesie varie, a cura
di Croce. Le opere latine di V. sono
state più volte tradotte in italiano: il De antiquissima da un anonimo, che forse
fu Monti, e poi da Sarchi; il primo libro del Diritto universale da Corcia, d’Amante,
da Giani e da Sarchi, e tutti i due libri, nonché il De ratione e il De antiquissima,
da Pomodoro. La scienza fu tradotta in gallo,
ma molto abbreviata, da Michelet, col titolo
Principes de la philosophie de l'histoire, Paris, Renouard, e più volte ristampata,
e di nuovo, completa, da un anonimo che si designa come l'auteur de l'Essai sur
la formation du dogme catkolique e che fu la principessa di Belgioioso Cristina
Trivulzi, Paris, Renouard. Completa anche, e fornita di ottime note, è la traduzione tedesca di Weber, Leipzig, Brockhaus, che suggerimenti
e aiuti ebbe da Orelli. In britannico, si ha solo la versione del libro su Omero,
condotta sulla francese di Michelet e inserita nell'opera di Coleridge, Introduction
to the study of the greek classic poets, London, Murray. Michelet traduce alcune
delle operette minori di V., che si accompagnano alla Scienza nell'edizione CEuvres choisies de
V., Paris, Hachette, e in ristampe. Del primo libro del Diritto universale si ha
un compendio in tedesco di Miiller, primo volumetto di una serie non proseguita
di Kleine Schriften di V., Neubrandeburg, Brùnslow. A supplemento dell'autobiografia,
Villarosa raccolse le notizie degli ultimi anni della vita di V., e le mise come continuazione di quello
scritto nella sua edizione degli Opuscoli. Questo supplemento, e tutto ciò che di
poi è venuto fuori di documenti o di ricordi di contemporanei intorno a V., si trovano
raccolti nella edizione delle opere di V., intitolato: L'autobiografia, il carteggio
e le poesie varie, a cura di Croce, Bari, Laterza. Posteriormente, alcune aggiunte,
in Croce, Nuove ricerche, e Nuove curiosità storiche, Napoli, Ricciardi, e nel volumetto
di Donati. Le tre sole monografie intorno
a V., che possano ancora essere lette con frutto, quella di Ferrari, pur cosi benemerito
editore, La mente di V., è degna di essere pietosamente dimenticata, sono: Croce,
La filosofìa di V. Cantoni, V., studi critici e comparativi, Torino, Civelli. Per alcune
riserve Faggi, Rivista filosofica italiana,
e Gentile, Critica, Werner, V. als Philosoph
und gelehrter Forscher, Wien, Braumùller, Zeitschrift far Philosophie und philos.
Kritik, Flint, V. Edinburgh a. Londo. Traduzione italiana di Finocchietti, Firenze. Dei lavori hi'cvi di carattere generale hanno singolare pregio Spaventa,
V., Prolusione e introduzione alle lezioni
di filosofia, Napoli, Vitale: opera ristampata col titolo: La filosofia italiana
nelle sue relazioni colla filosofia europea, a cura di Gentile, Bari, Laterza; Sanctis,
Storia della letteratura italiana, Napoli, Morano; molte ristampe, Fiorentino, Lettere sopra la Scienza, Firenze; ristampate in Scritti vari,
Napoli, Morano, Cauer, V. und seine Stellung zur modernen Wissenscìiaft nel Deutsclies Museum, diretto da Prutz e Woelfsohn, Leipzig, Hinrichs. Pella trattazione più o meno larga di
parti speciali sono da tenere presenti Wolf, V. iiber den Homer nel Museum der Alterthumsicissenschaft, Berlino, Orelli, V. und Nìebuhr nello Scìnceizerisches
Museum di Aarau, Iannelli, Sulla natura e
necessità della scienza delle cose e delle storie umane, Napoli, Porcelli, e Milano,
Fontana, Amari, Critica di una scienza
della legislazione comparata, Genova, Istituto dei sordomuti. Intorno a questo libro
Werner, E. A. in seinem Verhàltniss zu V., Wien; dai Sitzung sberi elite der phil.-histor. Classe
della Accademia imperiale di Vienna, Acri, Teoria di V. intorno alle idee o paradimmi,
Abbozzo di una teoria delle idee,
Palermo, Lao; e con modificazioni nel volume: Vidcbimus in aenigmate, Bologna, Mareggiani, Cenni, esposizione della metafisica
di V., del volume nel quale nessuno la
cercherebbe, perché il titolo suona: Considerazioni sull'Italia ad occasione
del traforo del Gottardo, Firenze, Cellini, Bouvy, De V. Cartesii adversario, Paris, Hachette, Bouvy,
La critique dantesque: Dante et V., Paris,
Leroux, Sorel, Etude sur V. nel Devenir social, Parigi; e si veda, altresì,
dello stesso autore: Le système historique de Renan Paris, Jacques, Labanca, V. e i suoi critici cattolici,
Napoli, Pierro, Rossi, V. nei tempi di V. Rivista filosofica
italiana, Maugain, Etude sur revolution intellectuelle de l'Italie, Paris,
Hachette, Finsler, Homer in der Neuzeit von Dante bis Goethe, Leipzig, Teubner,
Gentile, Studi vichianì, Messina, Principato. Contiene, tra l'altro, un'importante monografia su Lo svolgimento della filosofia di V., Nicolini, Galloni e V., Giorn.
stor. d. leti. Hai., Divagazioni omeriche, Firenze, Ariani, Gemmingen, V., Hamann
und Herder, Inaugural dissertation, Bona-Leipzig, Noske, Scrocca, V. nella critica
di Croce, Napoli, Giannini, dal punto di vista cattolico. Donati, Autografi e documenti
vichiani inediti o dispersi, note pella storia
del pensiero di V., Bologna, Zanichelli. Circa
i lavori di CROCE precedenti su
V., s’avverta che la materia del capitolo sulla dottrina estetica vichiana,
Croce, Estetica, Bari, Laterza, è rielaborata;
lo critto sull'Etica di V., Critica, è
rifuso; e cosi quello sui Lineamenti di storia, letteraria
in V.; gli altri scritti sparsi hanno, in genere, interesse solamente erudito,
filologico o polemico. Posteriormente alla prima ed. di questo libro, Croce pubblica
Le fonti della gnoseologia vichiana, Atti
d. Acc. Pontan.; ristamp. nel voi. Saggio sullo Hegel e altri scritti di storia
della filosofia, Bari, La dottrina del riso e dell'ironia in V., ristamp., e la critica omerica, ristamp.,
Bianchini e V., ristamp. in Conversazioni critiche, Bari, V. e Ferrari. Dell'influsso
di V. sugli studi italiani CROCE tratta ampiamente nella Storia della storiografia
italiana, Bari. Sulla posizione di V. nella storia della critica dantesca, v. La
poesia di Dante, Bari. Del resto, tutta la letteratura vichiana, con estratti dei
libri, opuscoli e articoli più rari e con
documenti inediti, come tutte le più minute notizie sulle edizioni degli scritti
di V., si trovano raccolte nelle tre memorie, alle quali più volte si è fatto riferimento: Croce, Bibliografìa vichiana contenente il catalogo
delle edizioni, traduzioni e manoscritti delle opere di V., quello dei giudizi e lavori storico-critici
intorno a V, lettere inedite di V. e a
V., documenti e altri scritti inediti o rari, e varie appendici illustrative, Napoli;
estratto dagli Atti dell'Accademia pontanianal di Napoli; Supplemento alla Bibliografia
vichiana, estr. dagli Atti cit., e Secondo supplemento, estr. dagli Atti
cit., riunite anche tutte e tre in un sol volume col titolo: Bibliografia
viciliana, raccolta di tre memorie presentate
all'Accademia pontaniana di Napoli, con appendice
di Nicolini,Bari, Laterza. Continuazione di queste memorie sono le Nuove ricerche
sulla vita e le opere di V. e sul vìchismo, Critica. Si veda anche Pella biografia
di V., ora in Nuove curiosità storiche, Napoli, Ricciardi. OPERE COMPLETE DI GENTILE A
CURA DELLA FONDAZIONE GENTILE PER GLI STUDI FILOSOFICI GENTILE OPERE,
GENTILE STUDI VICHIANI, edizione riveduta e accresciuta, cur. BELLEZZA, SANSONI,
FIRENZE Stampato in Italia. All’amico NICOLINI delle opere di V. editore
e illustratore diligentissimo e intelligente. GENTILE aaccolge in questo
volume, rivedendoli e introducendovi ai luoghi opportuni le aggiunte
consigliatemi da studi posteriori da GENTILE ed altrui, alcuni saggi
concernenti la storia del pensiero di V., la sua biografia e la sua
fortuna. Lo studio sullo svolgimento della filosofia di V. inaugura, li
pare a GENTILE, un nuovo genere di ricerche, che da GENTILE sono state
appena iniziate, ma promettono una viva luce intorno all'origine e al
significato proprio delle idee di V. V. è stato studiato pell’innanzi in
relazione col suo tempo e colla filosofia dell crisi e post-crisi, ala
quale egli genialmente drecorse. Ma, se alla cultura di certo non rimase
estraneo, e in essa pertanto bisogna pure che dallo storico sia collocato. V. è anche
e sopra tutto un autodidatta, che molto studia, a suo modo,di antichi
pensatori e filosofi italiani precedenti, alla cui tradizione attinse
taluni de’suoi concetti fondamentali, che elabora bensì e trasforma
profondamente, ma senza riuscire, com’ è naturale, a cancellarne l’
impronta originaria. E questa impronta GENTILE si è studiato di rimettere alla
luce. Palermo. fr. ca De di etnei L’edizione contiene di più e
di meno di quella previa. È un'aggiunta il sagio che forma un capitolo; e
ne è rimasto fuori lo studio sul CUOCO, con relativa appendice, entrato ora a
far parte d'un mio volume dedicato a CUOCO, pubblicato dalla Nuova
Italia, Venezia. Ma gli altri saggi che sono nella prima edizione qui sono
tutti conservati, con correzioni e molte aggiunte rese necessarie da
nuovi studi, specialmente di NICOLINI. Al quale vedrà il lettore quanto gli
studi di GENTILE devono di nuove notizie ed osservazioni sulla biografia e
sulla cronologia vichiana. Roma. Degli scritti raccolti in Studi su V., Il
pensiero italiano nel secolo di V. consta di due recensioni
pubblicate nella Critica del CRCE.La prima fase della filosofia di
V. è la prima volta dato in luce nel vol. di Studi pubblicati in onore di Torraca,
Napoli. La seconda e la terza fase usce dapprima in francese col
titolo La philosophie di V. nella rivista France-Italie, e in tedesco col
titolo V.s Stellung in der Gesch. der europàischen Philosophie, Monatsschrift Jùr
Wissenschaft Kunst u. Technik di Berlino. Dal concetto della grazia a
quello della provvidenza è pubblicato la prima volta nella prima edizione di
questi Studi vichiani. Le varie redazioni della Scienza nel Giorn. Stor. d. letter. ital.; e sul
Figlio di V. nell’Arch. Stor. per le prov. napoletane, Napoli, Pierro. Roma.
L’edizione è accresciuta d’una Appendice, in cui sono raccolti due
discorsi e una relazione. V. nel ciclo delle celebrazioni campane, è tenuto
nell’aula magna della R. Università di Napoli nel ciclo delle
celebrazioni campane promosse dalla Confederazione dei professionisti e degli
artisti, ed è pubblicato in Celebrazioni campane, Urbino, nella
Tiv. Leonardo e a parte nella Biblioteca del Leonardo, Firenze. V. nel
secondo centenario della morte è tenuto all'Accademia d’Italia, in Firenze,
è pubblicato nella Nuova Antologia. La relazione su Cartesio e V. È discussa
alla Reale Accademia Nazionale dei Lincei, Classe di Scienze morali,
storiche e filologiche, e quindi pubblicata negli Atti di quella
Accademia. Roma. IE AS SERIO A PRIZE I POSE I AES ROSI E PE 67
RS IL PENSIERO ITALIANO NEL SECOLO di V. CI ie LL SEO Leopoldo
de’ Medici fonda l'Accademia del Cimento. Per la prima volta, dopo la
condanna di Galileo, scienziati italiani associano i loro sforzi allo
scopo di studiare la natura con ogni indipendenza, e di ripigliare,
contro i ciechi amici della tradizione, la lotta rimasta interrotta nel
1633, quando il maestro era stato condannato e aveva dovuto ritrattare la
dottrina dei Massimi sistemi. Nel 1663 l’esempio degli accademici
toscani è imitato dagli Investiganti di Napoli; e nel ’68 è fondato a
Roma il primo Giornale de’ letterati, organo de’ moderni. Verso lo stesso
tempo vengono in voga in Italia Lucrezio e Gassendi. D'altra
parte, verso la metà del secolo seguente, Galileo ottiene la suprema
riparazione. Nel 1737 i suoi resti sono raccolti nel mausoleo di Santa
Croce; sl fa una pubblicazione autorizzata del Dialogo già
condannato: Il metodo sperimentale trionfa. La filosofia di Locke
si diffonde per tutta la Penisola, che vi resterà fedele per Circa
ottant'anni. Tra il ’42 e il ’50 si spengono gli scrittori più notevoli che l’
Italia aveva avuti in quel secolo: Fagiuoli, V., Giannone, Conti,
Muratori e Zeno. Un valente studioso francese, il Mougain, ha voluto
studiare 1 lo svolgimento intellettuale italiano durante I GABRIEL
MaucaIn, Étude sur l’évolution intellectuelle de 1° Italie de 1657 à 1750
environ, Paris, Hachette. Ted. ALZI
-—-/*/*/%*/(*‘)4*\w*À*+>J,o. Tr da (0...] questo periodo di
fermento e di preparazione, in cui, tolto V., solitario, e dal Maugain, a
dir vero, non abbastanza staccato dallo sfondo del suo quadro, benché non
possa non rilevarne l’opposizione alle idee correnti del tempo, l’ Italia
non produce nulla di originale !. Essa lavora unicamente a riformare la
propria cultura, liberandola dal peso schiacciante della tradizione e
procurando di partecipare alla vita europea. Poiché il centro di questa
vita, rimasto fin allora tra noi, s'era già trasferito, dopo Galileo e dopo
Campanella, in altri paesi. I nomi più insigni che eccellono in questo
secolo, più che alla storia letteraria o alla storia della scienza,
appartengono alla storia della cultura, nel senso che danno i tedeschi a
questa espressione; giacché, tolto sempre V., non creano idee nuove;
ripetono, commentano, difendono, oppugnano, agiscono piuttosto sulla
società che sulla scienza, anche se preparino un nuovo sapere, come
chi, agendo appunto sullo spirito del suo tempo, promuove le
condizioni favorevoli a un nuovo progresso reale dello spirito. Soltanto
la tradizione galileiana vive; ma vive appunto delle idee che aveva messe
in onore Galileo, definendo filosoficamente i nuovi concetti della
scienza naturale e della natura: che furono per lui una nuova
filosofia, anzi la sola filosofia. Ma di vita religiosa, di vita
artistica, di vita filosofica dello spirito, in cui ogni istante è una posizione
nuova e una creazione, in cui insomma lo spirito vive realmente, nessuna
traccia: ossia, nessuna traccia cospicua. Questa atonia
spirituale ci spiega la gran fortuna incontrata al principio di questo periodo
in Italia dal G assendi, del quale attrae l’attenzione soltanto la
concezione I Contro questa tesi vedi ora gli studi che B. Croce
vien pubblicando nella Critica (1926): Il pensiero italiano nel Seicento. I
quali per altro non modificano sostanzialmente il concetto della
filosofia italiana in quel secolo, quantunque mettano giustamente in
rilievo alcuni notevoli movimenti d'idee finora poco noti.] meccanica,
conforme, metafisicamente, al fiorente naturalismo galileiano; e alla fine dal
Locke, di cui si nota e si apprezza principalmente l’empirismo, che
giustifica anch'esso, gnoseologicamente, la scienza sperimentale
della natura, e, come allo spirito dei gretti galileiani importava, questa
sola. Cartesio sul cadere del Sei e nei primi trent'anni del Settecento
suscita entusiasmi e opposizioni tenaci, fiere polemiche, un vivo appassionamento:
ma non sveglia nessuno spirito di filosofo. Gl’Italiani accettano e mettono in
versi la diottrica, la fisica, la fisiologia meccanistica di lui: ne
adottano il metodo, come assunto, meramente formale ed estrinseco, di
libertà di filosofare; assunto, che in Italia era trionfato nella
storia viva dello spirito scientifico fin dal primo affermarsi dell’ Umanismo;
ed era stato celebrato nella scuola del Galilei, e particolarmente
nell'Accademia dei Lincei:, e non aveva quindi bisogno, in realtà, del
nuovo puntello straniero. Ma della metafisica cartesiana appena si
bisbiglia; né se ne vede scosso profondamente nessuno. Son dilettanti,
che fanno della filosofia un passatempo e un argomento di moda nei
salotti (Maugain ricorda Aurelia d’ Este, renatista; e avrebbe potuto
ricordare anche Giuseppa Eleonora Barbapiccola, traduttrice dei
Principii di filosofia»: sono medici, fisici e avvocati, i quali,
compiacendosi degli ultimi portati letterari della filosofia, polemizzano
con gli uomini del mestiere, legati Sempre, anima e corpo, alla
Scolastica; 0 tutt'al più Professori di filosofia, che cambiano autore,
come oggi sì cambia testo nei licei, senza nessuna profonda
ragione 1 Vedi G. GABRIELI,
JI) carteggio scientifico ed accademico fra î primi lincei (1603-1630);
nelle Mem. d. R. Acc. dei Lincei, cl. sc. mor.. serie 68, vol. I, fasc.
2°, 1925. ? B. Croce, Supplem. alla Bibliografia vichiana, Napoli. Incontreremo
la Barbapiccola anche nello scritto sul Figlio di V., cap. I. Sul Concina e sui
suoi rapporti col V., cfr. V., Autobiografia, ed. Croce, indice dei nomi, al
nome. spirituale, e che, per difendere la loro infrazione alle tradizioni
della scuola italiana, scrivono anch'essi qualche libercolo pro e contro.
La metafisica, in realtà, sarebbe dimenticata, se non avesse una cattedra
negli studi pubblici; e Concina, nella sua prolusione a Padova,
ringraziava il governo veneto di non essersi arreso ai consigli di chi tentava
far sopprimere quella cattedra come inutile e indegna d’una sì illustre
università *. Il Maugain, che giustamente ha preso i Giornali
dei letterati, che in questo tempo si pubblicavano in Italia, a
guida delle sue laboriose ricerche, trovandovi l’eco continua delle
questioni che si venivano dibattendo tra le persone colte, avrebbe anche
dovuto seguire la storia dei principali insegnamenti nelle varie
università, i quali coi programmi e le provvisioni delle autorità, i
libri degl’ insegnanti, le loro polemiche e le attinenze rispettive coi
loro avversari, sono anch'essi i centri di riferimento della cultura
temporanea. Pure la fine del sec. XVII e la prima metà del successivo sono
l’epoca del maggior fiorire degli studi storici in Italia. È il tempo in
cui il benedettino Benedetto Bacchini pubblica e illustra il Liber
pontificalis (1708), e col Noia, col Grandi, col Lami e col sommo
Muratori imprende arditamente la critica delle leggende agiografiche; Maffei
distrugge le favolose origini dell'ordine costantiniano e illustra con
vasta erudizione le antichità veronesi; Muratori, dopo avere indagato con
occhio di lince le antichità italiane del Medio Evo, mette insieme con
lena infaticabile e con sagace I MAUGAIN critica la sua monumentale
raccolta: per non dire dello stuolo numeroso dei minori eruditi, che
coadiuvano i maggiori con l'ordinamento delle biblioteche, la
compilazione dei giornali, la raccolta e la critica dei documenti. Come
si spiega questa vivacità d’interesse storico durante la stasi generale
della vita più profonda dello spirito, se nella storia si concentrano le
energie dello spirito, se la storia non è concepibile senza le grandi
passioni e senza quindi le grandi intuizioni della vita ? Oggi noi
pensiamo la storia come la stessa concretezza della filosofia. Il
Maugain, con giusto fiuto della verità, ricollega gli studi storici che
mettono capo al Muratori, e che più propriamente sono studi di erudizione, al
fiorire delle scienze sperimentali: Cette renaissance a lieu durani la
lutte décisive d’où sortent victorieux les Italiens qui n’admettent
sans contròle aucune proposition relative aux phénomènes naturels ou aux
étres organisés. Bien
mieux, plusieurs de ceux qui, à la fin du XVII’ siècle et dans la
première moité du XVIII’, se sont illustrés comme érudits,
connaissaient en détails et admiraient les progrès accomplis depuis
une centaine d’années par le sciences expérimentales. Parfois, ils y avaient
personnellement contribué ». E altrove, non meno giustamente, osserva che
V. si distingue non soltanto dai cartesiani di Napoli ma presso che da
tutti gl’ Italiani contemporanei, quantunque altrove nella Penisola
prosperassero le ricerche storiche che i cartesiani disdegnavano. Mais selon quelle méthode s’y livre-t-on
? On publie avec le plus grand soin des inscriptions, des textes
importanis et devenus rares. On reproduit par le dessin et l’on décrit
minutieusement des statues antiques, des médarlles, des monnaies. On les
examine de près pour fixer quelque point d’érudition jusqu'alors
incertain, on ne va plus loin; on a épuisé toute la curiosité dont on
était capable. I O. c. Tutto questo è
verissimo. Anche di recente abbiamo assistito a questo fenomeno del
decadere della filosofia nel momento stesso in cui risorgevano e
vigoreggiavano gli studi storici; e abbiamo veduto dagli stessi cultori
di questi raccostare spesso il metodo da essi seguîìto al metodo
delle scienze sperimentali, o, come questa volta si diceva, della
filosofia positiva: raccostamento, che aveva un lato di vero in quanto
positivismo e metodo storico, ciascuno a modo suo e nel suo campo, si
proponeva di ricostruire una verità certa: ossia una verità che constasse
al soggetto, con di più il presupposto ingenuo, che questa ricostruzione
possa aver luogo senza che il soggetto — cioè la mente conscia di sé e
quindi capace di render conto di sé — ci metta nulla del proprio,
delle sue leggi e di tutto il suo essere storicamente divenuto.
Allora, come ora (o almeno qualche anno fa), ci erano gli studi storici,
in Italia; mancava la storia, come comprensione dello spirito nella sua
concreta attualità. Allora, la storia era morta col Sarpi e col
Pallavicino, rappresentanti di due grandi, opposte, concezioni della
vita; la prima delle quali tentava risorgere nell’ Istoria civile
del Regno di Napoli del Giannone, ma senz’attinenza intrinseca colle idee
dominanti nella generale cultura italiana, e con radici sprofondate nella
storia economica e politica del Napoletano: anch'essa, come la
Scienza Nuova, staccata dal quadro generale dello spirito italiano
contemporaneo. Non già, beninteso, che negli studi storici
muratoriani non ci sia nulla della storia: perché anch'essi sono
tutti storia; ma storia in germe, immatura, frammentaria, e perciò,
nel suo insieme, estrinseca, meccanica: storia, che non ha raggiunta la
sua forma vera della comprensione comunque determinata del processo
storico, perché non poteva raggiungerla, non animata, com'era, da
nessuna sorta di filosofia. La storia vera, viceversa, come intuizione di
idee che si realizzano nei fatti, non poteva mancare, e non manca in una mente
come quella del V.; e va cercata nella parte più propriamente storica
della Scienza Nuova *. E nessuno meglio di V., nell’orazione De
nostri temporis studiorum ratione, nella lettera a Francesco Solla e nella
stessa opera maggiore, intese questo vuoto spirituale che vaneggiava
negli studi contemporanei. In conchiusione, la storia che con tanto
amore e tanta fatica ha indagata il Maugain, non è una storia che
ci sì possa compiacere di mostrare fuori di casa nostra. È una
storia assai malinconica. Tolta la tradizione galileiana, che è storia di
epigoni, ancorché non pochi insigni, è tutto lavorio di ripercussione, d’
imitazione, di traduzione e adattamento. Sorgono i Giornali de’
letterati, segno, senza dubbio, di una certa vita, espressione d’un
certo bisogno di studi; ma ad imitazione, e il primo quasi edizione
italiana, del Journal des sgavans. Fioriscono, come s’ è detto, gli studi
critici intorno alle fonti della storia; e Muratori è gloria italiana
incontestabile; ma gl’ Italiani e lo stesso Muratori si muovono dietro
le tracce del Mabillon e degli altri famosi benedettini francesi. I
riformatori della letteratura, che levano la bandiera del vero e dell’utile,
riecheggiano l’estetica razionalistica postcartesiana. Prodotto italiano è
l’Arcadia, dei poeti senza poesia; l’arcadia pastorale, come
l’arcadia della scienza ?, espressione significativa dell’
indifferenza degli spiriti verso il loro contenuto; e la stessa
arcadia sacra, che era cominciata, per altro, dai primi del Seicento:
versificazione di testi religiosi, mescolati ai motivi comuni allo stile
poetico del tempo: Les poètes, dice il
Mau I Come ha dimostrato B. Croce, La filosofia di G. B. V., Bari,
Laterza, 1911 (23 ed., 1922), capp. XIII-XVIII. è Studiata da E.
BERTANA nello scritto L'Arcadia della scienza, Parma, Battei, 1890; rist.
nel vol. In
Arcadia, saggi e profili, Napoli, Perrella.gain !, ne songeaient
aucunement à y méditer sur les grands problèmes du catholicisme, non plus
qu'à exprimer leurs émottons religieuses. Ils se bornaient à traduire un
paragraphe de théologie ou à rimer quelque passage de la vie des saints. Malinconica storia, dunque, e
specchio dell’estrema ruina della decadenza italiana. Dopo la metà del
secolo XVIII, da questa morte rinascerà la vita, e si preparerà l’Italia che
accoglierà la Rivoluzione. Essa si riscuoterà tutta, e riprenderà la sua
via in tutte le manifestazioni della vita spirituale, e si aprirà un varco
nella politica de’ grandi Stati, e risorgerà come nazione. Ma devo
pur dire che nel modo, che ha tenuto l’egregio Maugain a rimettercela innanzi,
essa diventa assai più malinconica che forse non sia nel fatto: tutta senza
colore, senza anima, né anche piccola, né anche frammentaria: senza
significato. Ora, una realtà storica così non c' è. Come ha costruito il
suo libro Maugain ? Ce lo dice egli stesso nella prefazione. Spogliò otto
collezioni di giornali pubblicati in Italia tra il 1668 e 1750, dove, se
non sempre l’analisi, trovava per lo meno il titolo preciso di
opere, delle quali ritrovò poi e lesse gran numero a Firenze, Roma,
Bologna, Venezia, Padova, Verona, Bergamo, Milano, Torino e Genova. Scorse
parecchie raccolte importanti di lettere e il Mare magnum della Marucelliana;
cercò e studiò articoli e monografie e libri indicati dal Catalogo
metodico della Camera, dal Giornale storico, dalla Bibliothèque des
éerivains de la Compagnie de Jésus di Backer-Sommervogel. Gli venne così fatto
di raccogliere una gran quantità I O. c.. 2 — (ii —=m_t2t“ zz
ic ‘cir —. II di documenti, che gli parve di poter
classificare in tre parti, secondo che si riferissero alla credulità e
allo spirito critico (conseguenza della condanna di Galileo, movimento
delle scienze sperimentali, contrasti tra antichi e moderni, studi di
critica storica); alle lotte tra spiritualisti e materialisti (fortuna di
Gassendi, Cartesio e Locke in Italia e polemiche dei loro seguaci con gli
scolastici, attacchi di Doria e di V.); al vero e all’utile nelle
lettere (idee intorno alla poesia prevalse dalla Poetica del Gravina in
poi, giudizi e polemiche, come quella BouhoursOrsi, sulla letteratura italiana,
ritorno ai modelli greci e latini, caratteri principali della letteratura
italiana del tempo). Fatta questa classificazione, il Maugain si è
messo, senz'altro, a stendere il suo lavoro, ordinando ed esponendo
secondo legami cronologici, topografici e per soggetti il suo vasto
materiale. Per copia e sistemazione di materiale bibliografico ne è
venuto infatti un lavoro eccellente, fondamentale per chi vorrà tentare
qualunque studio sulla storia dello spirito italiano di questo
periodo: e dobbiamo tutti esser grati a questo studioso dello strumento
prezioso di ricerca apprestatoci. I giudizi generali da lui formulati e
gl’ indirizzi delineati dimostrano pure ottimo criterio e larghezza di
vedute storiche. Ma rimane a chi legge il suo libro, — pur leggendolo con
profitto, un senso profondo d’ insoddisfazione, come di chi assista a uno
spettacolo interessante, ma troppo da lungi per poter udire le parole
degli attori, e seguirne con l'occhio il commento che ne vien facendo in
ciascuno la fisionomia. In uno studio come questo non è possibile, certo,
rappresentare nella loro varietà psicologica i singoli attori, che vi
rientrano, e ritrarre di ciascuno la fisionomia morale. Una storia dello
svolgimento generale dello spirito in un dato tempo e paese dev'essere
per necessità schematica. Ma, d’altro lato, lo stesso schema, divenendo
oggetto di rappresentazione storica, deve assumere una vita sua nella
mente dello storico. Le idee nei loro tratti salienti, vissute da diversi
spiriti, devono venirvi innanzi vive insieme coi motivi che le
sorressero, articolarsi nelle forme in cui si concretarono, riflettere
una situazione storica: avere insomma, anch'esse, quella individualità
che è proprietà necessaria del fatto storico. A ciò i titoli dei
libri, come le designazioni generiche e le etichette estrinseche, è ovvio, non
giovano. Per meschina che sia, poniamo, la filosofia di un cartesiano d’ Italia,
non basterà dire che egli difendeva Cartesio: bisogna mostrare come
lo difendeva, e perché; quale vita il cartesianismo assumeva in lui, quale
propriamente era il suo cartesianismo. Occorreva, se così può
dirsi, che il Maugain esponesse con un po’ più di simpatia storica la
materia del suo dotto studio: perché allora ci saremmo visto
innanzi, non un gran movimento, ma un movimento; non degli spiriti
creatori, ma degli spiriti: quella vita che l’ Italia pensante visse tra
la metà del Sei e la metà del Settecento, l’avremmo pure avuta. Giacché non
bisogna dimenticare che quella stessa che diciamo morte, è tale soltanto
in un senso relativo; non sarà una vita palese, appariscente; sarà una
vita segreta, torpida, e presso che invisibile, e pure condizione e
momento di quella che fu dopo la vita più intensa ed evidente; e senza
intendere l’una, non è possibile giungere all’ intendimento
dell’altra. La stasi del periodo studiato dal Maugain non è il progresso
della creazione, ma è pure progresso, se è preparazione al progresso che
seguirà. Noi infatti non potremmo intendere l’ Italia nuova, nutrita dalla
cultura europea compenetrata con la tradizione nostra, quale la
troviamo p. e. nella poesia del Foscolo e nell’ Italia tutta del tramonto
del secolo XVIII e degli albori del seguente, se la innestassimo
immediatamente all’ Italia tutta italiana, creatrice in filosofia come in arte,
maestra ancora all’ Europa tutta, e vivente di una vita spirituale
sua, del Cinque e del primo Seicento. L’ Italia dal 1657 al
1750 è l’ Italia che accoglie il riflusso della cultura europea, su cui
ha esercitato ella precedentemente un’azione storica rinnovatrice: e in questo
lavoro di riassorbimento, che dev'essere ed è anche di reazione (esempio
solenne V.), è la vita sua nuova rispetto al passato. Il senso di
questa vita nuova, se non m' inganno, non c’ è nel libro di Maugain:
forse perché esso è un semplice saggio », che per diventare una vera
storia avrebbe bisogno di una ricerca e di una ricostruzione più profonda
e più intima in ogni sua parte. Il secolo del V. è stato in Italia
negli ultimi tempi argomento di studio di molti, che variamente
hanno tentato di scuotere la vecchia tesi di Giuseppe Ferrari,
sostanzialmente giusta benché espressa in formula troppo rigida e
contornata da più di un giudizio paradossale, secondo il gusto di quello
scrittore. Tra questi studiosi merita che qui si menzioni, anche come
tipico esempio di quella passione che in ogni tempo suscitò con le
parti stesse misteriose del suo pensiero e della sua vita Giambattista V.
nelle province meridionali, uno scrittore erudito e ingegnoso, quantunque
variamente indulgente alle tendenze di una cultura dilettantesca:
Raffaele Cotugno. Il quale nel 1890 pubblicò un opuscolo su G. 8. V., il
suo secolo e le sue opere. E nel 1914 tornò sul tema in un volume *1,
dove raccolse il miglior frutto de’ suoi lungbi studi. CoTUuGNO, La
sorte di V. e le polemiche scientifiche e letterarie dalla fine del sec. XVII
alla metà del XVIII secolo, Bari, Laterza. Da vari decenni infatti egli
era vissuto col suo autore, non solo come studioso e ammiratore
intelligente, ma quasi come un coetaneo ed amico: raccogliendo libri
e ricordi rari non solo del V., ma di quanti ebbero rapporti con
lui, o appartennero in qualunque modo allo stesso mondo, in cui alla
fantasia rievocatrice del Cotugno piace vedere e amare il suo V.; leggeva
e rileggeva, e godeva, come amico che torna sempre con piacere a
conversare con l’amico; e gli piace rendersi sempre più familiare non solo il
suo spirito attuale, ma i casi passati della sua vita, e tutti i
particolari, in cui può vagheggiarlo con l'immaginazione. Non giudica, non
critica, non esamina. Tutto ciò che può tornare ad onore dell’amico gli è
bene accetto, ancorché contraddica all’ idea ch'egli se n’ è formato. Il
Cotugno plaude di gran cuore al V. del Croce. V. crociano (come ad alcuno
con giudizio affrettato piacque affermare »)? — Ma che! Esso è la
più vasta, profonda, ed il più che sì poteva, completa esposizione delle
dottrine del sublime pensatore la cui anima nessuno seppe più e meglio [del
Croce] comprendere e penetrare ». — E come va allora che il vostro V.
non è quello del Croce ? Come va, per dirne una, che voi fate del
Gravina, in estetica, un precursore del V.; e il Croce invece ha detto
che precursore egli si può dire nel senso che V., riprendendo le
medesime questioni, le risolse in modo perfettamente opposto a
quello del Gravina ? E come non vi siete accorto che, se V. del Croce è
il vero V., per la vostra tesi bisognava cercare nel pensiero contemporaneo e
anteriore idee a cui potessero rannodarsi le dottrine estetiche,
gnoseologiche, metafisiche, etiche e storiche, che sono il V. del Croce ?
— Egli è che il culto del Cotugno pel V. non è un culto critico; e però
nulla di strano che, senza andar pel sottile, si fondano in un’ immagine
sola quel V. che egli è uso a vedere e V. esaltato dallo studio del
Croce, ossia dal maggiore studio che ci sia intorno al pensiero
vichiano. Quest’atteggiamento del Cotugno verso il suo autore
ha evidentemente il suo difetto, ma ha anche il suo pregio: e l’uno è
inseparabile dall’altro. Si vuol dimostrare che G. B. V. non era stato un solitario, un
anacronismo tra i suoi contemporanei (che non lo avevano compreso),
ma sibbene una voce de’ tempi, un genio sublime che aveva sintetizzato il
suo secolo » 1; e l’ultimo capitolo, a cui è indirizzata tutta la
dimostrazione dei tre precedenti (i più importanti del volume), e che è
intitolato, come tutto il libro, La sorte di G. B. V., torna a ribadire
quello che già si sapeva e s’era sempre detto, che V. non passò
inosservato al suo tempo (tutt'altro !), ma non fu punto capito. Fu
dunque un anacronismo, o no ? Se fosse stato la maggior voce del suo
secolo, tutti i pensatori del tempo avrebbero trovato nella Scienza
Nuova la più profonda espressione del loro stesso pensiero, la
soddisfazione più adeguata ai loro maggiori bisogni spirituali. Ciò che
anche il Cotugno documenta che non avvenne. Non solo pertanto egli
dimostra ciò che ormai non ha più bisogno di esser dimostrato; ma pare
creda di dimostrare il contrario. Lo stesso difetto di
critica nel primo capitolo del libro, dove l’autore si rifà dal Medio Evo
e dalle contese d’allora tra Chiesa e Stato e dalla Scolastica, per
venire al risorgimento filosofico e al rinnovamento sperimentale delle
scienze: il tutto per cenni che son troppo e troppo poco agl’ intenti del
libro. Lo stesso difetto nella indeterminatezza di molti giudizi particolari;
ma sopra tutto nella incompiutezza delle citazioni: che sono un
accessorio, ma un accessorio di non piccolo interesse in un libro come
questo. Il quale raccoglie attorno al V. una messe 10. c., p. v.
copiosa di notizie dirette su uomini e libri oscuri e non
facilmente reperibili, né pur nelle biblioteche napoletane, intorno alla
cultura scientifica, filosofica, letteraria, giuridica dell’ambiente in cui V.
formò la sua; e in cui bisogna perciò rivivere col V., chi voglia
intenderne pienamente la concreta mentalità. È il mondo stesso
della sua mirabile Autobiografia, che è già essa una guida attraverso lo
svolgimento progressivo del pensiero vichiano, ma ricercato e rifrugato in tutti
gli angoli, in cui posò o passò la faccia malinconica e meditabonda
del filosofo, concentrato bensì nel suo pensiero, ma non sì, com’ è
naturale, che non si guardasse intorno, e non ne risentisse sempre nuovi
stimoli all’originalità delle sue idee. Malgrado tutto, gli
studiosi si gioveranno molto del nuovo libro del Cotugno, che porta molte
aggiunte e rettifiche all’ opera del Maugain; e gli sapranno anche
grado di un curioso documento inedito di cui, per comunicazione dello stesso
Cotugno, aveva dato notizia il Croce nelle note all’Autobiografia, ma che
dal Cotugno è integralmente pubblicato nell’appendice del suo volume:
contenente una minuta relazione dell'ultima disgrazia toccata al povero V.,
dopo morte, per le strane e villane gelosie della confraternita laica, a
cui era ascritto, e che ne avrebbe dovuto curare perciò il seppellimento;
e invece, dopo aver costretti i professori universitari, recatisi
in forma ufficiale e solenne alle esequie, a ritirarsi, abbandonò il
feretro nel cortile in cui era stato intanto calato, per nuove
contestazioni di prerogative col parroco. La sorte avversa non gli dava
requie né pur dopo morte! Della prima fase di una filosofia si può
parlare, com’ è ovvio, in un senso relativo; perché questa fase, per
prima che sia, suppone un processo già avviato, di cui non sarebbe
possibile assegnare l’ inizio assoluto; né è così chiusa in se stessa, da
potersi nettamente distinguere da quelle che le succederanno; e le succederanno
con una continuità di processo, che costituisce l’unità assoluta, solo
astrattamente divisibile, del sistema nel suo storico svolgimento. Il primo
momento di una filosofia può, dunque, essere soltanto quella forma, nella
quale noi possiamo conoscerla attraverso i documenti più antichi, che di
fatto ne possediamo: forma da studiarsi e definirsi per quello che
possiamo sapere anticipatamente che essa fu: ossia come germe o
avviamento del pensiero ulteriormente svolto nella coerenza maggiore e
quindi nel significato più profondo che l’autore seppe conferire al
sistema delle proprie idee. Ogni germe si conosce infatti dal
frutto. Del V. gli studiosi conoscono soltanto due filosofie,
o due momenti più rilevanti della sua filosofia: il primo dei quali è
rappresentato dalla orazione De nostri temporis Studiorum ratione (18
ottobre 1708), dal libro De antiquissima Italorum sapientia, e dalle due
Risposte che V. oppose alle critiche mosse a questo suo libro dal
Giornale dei letterati d’ Italia: il secondo, iniziato nel 1720 col De
universi iuris uno princidio et fine uno, si spiega nel lungo laborioso
processo della Scienza Nuova, tante volte redatta o rimaneggiata,
come si vedrà, e la cui ultima edizione venne in luce nell’anno stesso
della morte del filosofo. Lo stesso V., ricostruendo nella Autobiografia
lo svolgimento del proprio pensiero, fa cominciare dal 1708,
dall’orazione sul metodo degli studi de’ suoi tempi, la storia della
propria filosofia. Prima sentiva di non aver ritrovato se stesso. Dal 1693 in
poi era venuto pubblicando versi e orazioni rettoriche 1. Dal ’99, come
professore di rettorica, aveva’ letto quasi tutti gli anni
l’orazione inaugurale nell’università di Napoli, usando proporre universali argomenti, scesi
dalla metafisica in uso della civile »°. E nell’Autobiografia, dopo aver
riferito sommariamente gli argomenti di quelle sue orazioni, fino al
1707, dice: Fin dal tempo della prima orazione..., e per quelle e per
tutte l’altre seguenti e più di tutte per queste ultime, apertamente si
vede che V. agitava un qualche argomento e nuovo e grande nell'animo,
che in un principio unisse egli tutto ilsapere umano e divino)»; cioè il
principio di una filosofia ciceronianamente intesa dal nostro professore
di rettorica come rerum divinarum et humanarum scientia; ma tutti
questi da lui trattati ne eran troppo lontani. Ond’egli godé non aver
dato alla luce queste orazioni, perché stimò non doversi gravare di più
libri la repubblica delle lettere, la quale per la tanta lor mole non
regge; e solamente dovervi portare in mezzo libri d’ importanti discoverte e di
utilissimi ritrovati ». I Anzi fin al 1699 egli s'era illuso
d'essere molto più un poeta che non un filosofo. Cfr. F. NicoLINI, Per la
biografia di G. B. V., puntata I, Firenze, 1925 (estr. dall’Arch. stor. ital.),
p. 59. 2 L’Autobiografia, il carteggio e le poesie varie a cura di CROCE,
Bari, Laterza (vol. V delle Opere, a cura di B. Croce, G. Gentile, e F.
Nicolini, nella collezione degli Scrittori d’ Italia. Da quest'Autobiografia,
quando non sia altrimenti avvertito, sono tolti tutti i luoghi e le
parole del V. riferite qui appresso nel testo. Così, nel 1725, V.
rifiutava le sue orazioni scritte tra il 1699 e 1l 1707. Ma sei anni dopo
rifiutava non solo i due libri del Diritto Universale, ma anche, salvo
tre soli capitoli, la prima Scienza Nuova, scrivendo in una
prefazione a una nuova edizione della seconda: Né già questo dee sembrare
falso a taluni, che noi, non contenti de’ vantaggiosi giudizi da tali uomini
[quali Giovanni Le Clerc] dati alle nostre opere, dopo le disappruoviamo e ne
facciamo rifiuto; perché questo è argomento della somma venerazione e
stima che noi facciamo di tali uomini, anzi che no. Imperciocché i rozzi
ed orgogliosi scrittori sostengono le lor opere anche contro le
giuste accuse e ragionevoli ammende d’altrui; altri, che, per
avventura, sono di cuor picciolo, s'tempiono de’ favorevoli giudizi dati alle
loro, e per quelli stessi non più s’avvanzano a perfezionarle. Ma a noi le lodi
degli uomini grandi hanno ingrandito l’ animo di correggere,
supplire ed anco in miglior forma di cangiar questa nostra » *.
V., autodidatta, com’egli si compiaceva di affermarsi *, fu tormentato
tutta la vita dall’assillo dei grandi autodidatti; i quali si trovano
quasi d’un tratto, con la cultura personale e tutta propria raccolta nel
loro cervello, a cozzare con quella dei contemporanei; e mal
riescono ad orientarsi, e con fatica e con pentimenti continui e
smarrimenti penosi s’ incamminano per la propria via. Sempre scontenti di
se medesimi, travagliati da un bisogno incessante di chiarire il proprio
pensiero, porre in termini più netti i loro problemi, trovarne soluzioni
più adeguate: impotenti a guardare con un solo sguardo la realtà, a
volta a volta diversa secondo che la mirano quale essi avevano imparato
per loro conto a vederla, o sì pro Scienza Nuova, ed. Nicolini, p. 10.
bi Va forse con una certa esagerazione: cfr. NICOLINI, Per la bdiografia
di G. B. V., puntata II. DI vano a mirarla qual’ è
per i contemporanei: fluttuanti, quindi, con l'animo tra due mondi, che
gl’ ingegni più vi- gorosi si sforzeranno tutta la vita di unificare. V.
sentì tragicamente questa legge della sua cultura; e ne fu, fino a
un certo punto, la vittima, poiché alla chiarezza delle idee, che
covavano nella sua mente, egli non pervenne mai, benché vi lavorasse, con
eroica costanza, per più di un quarto di secolo, se non tutti gli anni
quarantaquattro, che visse nel sec. XVIII; e si può dire che tutto il
suo pensiero sia rimasto dentro di lui allo stato di gestazione.
Gestazione dolorosa ! Il maggior corso di studi, comegli stesso
ci fa sapere, lo fece da sé nei nove anni (1686-1695) * pas- sati a
Vatolla, in quel di Salerno, piccola terra di poche centinaia d’abitanti,
dove attese alla istruzione dei figli del marchese Domenico Rocca: cioè
dai diciotto ai venti- sette anni di sua vita, lontano, a suo dire?, da
ogni moto di cultura viva, com'era allora quella di Napoli, sotto l’
in- flusso della scuola galileiana, e poi di Gassendi e di De-
scartes. Quando V. ne partì, era avviato per gli studi giuridici; e in
giurisprudenza egli afferma 3 d’aver dovuto istituire i figli del Rocca.
Aveva bensì, ben per tempo, mostrato in che modo di siffatti studi
avrebbe potuto far I Questa la data assegnata ora al soggiorno
vatollese dal NICOLINI, Per la biografia cit., puntata II.
2 A suo dire », giacché ora gli
studi di DONATI (Auto- grafi e documenti vichiani inediti 0 dispersi,
Bologna, Zanichelli, 1921, 38 sgg.), e, ancor più, quelli del NicoLINI
(Per la biografia cit., pun- tata II), hanno mostrato che il così detto
novennio vatollese » fu intramezzato da parecchie e non brevi dimore a
Napoli e a Portici, e che anzi, forse, durante quei nove anni, V. dimorò
più a Napoli che non a Vatolla. 3 Anche quest'altra
affermazione dell’Autobiografia è revocata in dubbio e con buone ragioni,
dal NicoLINI (Per la biografia cit., pun- tata II), secondo il quale
V. sarebbe entrato in casa Rocca come aio; e, soltanto negli ultimi tempi
del suo soggiorno in quella casa, avrebbe data qualche lezione di
giurisprudenza all’ultimo figliuolo del Rocca (Saverio).
pascolo della sua mente: poiché in essi aveva portato un abito
mentale, di analisi e di penetrazione speculativa, che della
giurisprudenza doveva fare semplice materia di ri- flessione filosofica.
Il giovinetto aveva avuto a maestro un gesuita nominalista, il quale lo
aveva spinto allo studio delle Summule di Pietro Ispano e di Paolo
Veneto: e se l'ingegno ancor debole da reggere a quella specie di
logica Crisippea (come rifletteva più tardi lo stesso V.) si
smarrì, si stancò e abbandonò l’ impresa, da quella di- sfatta dovette
restargli una natural ripugnanza a tale ma- niera di filosofare, tutta
astratta, artificiosa e formale, propria dei terministi. E se un qualche
profitto ne ricavò, non poté essere altro che negativo: il senso forse
della va- nità di una filosofia che, staccati i concetti dalla realtà,
e perduto perciò ogni intimo contatto con la verità, si riduce a
giuocare con la combinazione de’ suoi concetti; un senso di scetticismo,
che gli s’ insinuò allora nell'animo, e non poté esserne snidato dagli
studi di filosofia poco stante ri- presi e continuati sotto la guida d’
un altro gesuita, uomo di
acutissimo ingegno, scotista di setta, ma zenonista nel fondo » :.
Presso costui V. ricorda com’egli apprendesse con piacere che le
sostanze astratte hanno più di realtà che i modi del maestro nomi-
nalista. Lo scotista lo trattenne a lungo nella metafisica dell’ente e
della sostanza, e lo invogliò poi a studiarsi da sé le Disputationes
metaphysicae di Suarez, su cui V. passò un intero anno. Perché, posta
pure la realtà delle sostanze astratte, chi assicurerà l’animo invaso
una I Zenonismo è la filosofia dal V. attribuita a
Zenone nel De an- liquissima: specie di monadismo dinamico, qui
attribuito allo sco- tista perché questi doveva spiegare la realtà fisica
con principii meta- fisici. Ma intorno al significato di questo zenonismo » nella filosofia del tempo,
vedi il pregevole studio di GIovaNNI Rossi, V. ne' tempi di V.: La
cosmologia vichiana, nella Rivista filosofica del 1907,015-7. 24
STUDI VICHIANI volta dallo scetticismo, che le nostre idee siano
identiche a quelle astratte sostanze ? Sulla via della speculazione
della sostanza, aperta da Suarez, si misero pure i grandi padri della
filosofia moderna, Cartesio e Spinoza !: e riu- scirono a una metafisica
che è una matematica, ossia a una costruzione della realtà meramente
pensata, o sol- tanto possibile, come cominciò ad avvertire Leibniz;
di contro alla quale Kant trovò giustificabile lo scetticismo di
Hume. Comunque, nutrito di studi siffatti, non poteva il V.
acconciarsi alle lezioni del giurista, dal quale man- dollo poi il padre
?: tutte ripiene di casi della pratica più minuta dell'uno e dell’altro
fòro e dei quali non ve- deva i principii, siccome quello che dalla
metafisica aveva già incominciato a formare la mente universale a
ragio- nar de’ particolari per assiomi o sien massime ». Sì di-
stolse quindi anche da quella scuola, e prese a studiare da sé le
Istituzioni civili del Vulteio e le Canoniche del Canisio. E qui, specie
nel Vulteio, si trovò a suo genio. Sentiva un sommo piacere in due cose:
una in riflettere, nelle somme delle leggi, dagli acuti interpetri
astratti in massime generali di giusto i particolari mo- tivi
dell’equità, ch’avevano i giureconsulti e gli impera- tori avvertiti per
la giustizia delle cause: la qual cosa l’affezionò agl’interpetri
antichi, che poi avvertì e giu- I V. CARL LupEWIG, Die
Substanztheorie bei Cartesius im Zusammenhang mit der scholastischen und neueren
Philosophie, Fulda, 1893; FREUDENTHAL, Spinoza und die Scholastik, in
Philos. Aufsdtze Eduard Zeller gewidmet, Leipzig, 1887 e una recens. in
Zettschr. f. Philos. u. philos. Krit., t. CVI,113-15; L. BRruNSCHVvICcG,
La révolution cartésienne et la notion spinoziste de la substance, in Revue de
métaphys. et de morale, sept. 1904; G. TH. RICHTER, Spinozas philos.
Terminologie historisch u. immanent Rkritisch untersucht, I Abth. Leipzig,
Barth, 1913; e le mie note all’ Etica, Bari, Laterza, 1914. 2 Francesco Verde. Sul quale, sul
suo insegnamento e sul tempo in cui V. frequentò la sua scuola privata
(1684), vedere ora NICOLINI, Per la biografia cit., puntata I,44 Sg8., 54
S88. dicò essere i filosofi dell’equità naturale; l’altra, in
osservare con quanta diligenza i giureconsulti medesimi esaminavano le
parole delle leggi, de’ decreti del Senato e degli editti de’ pretori,
che interpetrano: la qual cosa il conciliò agl’ interpetri eruditi,
che poi avvertì ed estimò essere puri storici del dritto civile romano »
1. Non Vultelo, dunque, e i giureconsulti romani furono il suo nutrimento
spirituale; ma quella filosofia e quella storia o filologia, che egli costruiva
per mezzo di essi; né la nozione giuridica del diritto era materia del
suo sommo piacere, ma quello che egli vedeva o poneva in questo
diritto con la tendenza astrattiva di uno scotista, con la sottigliezza
filologica di un terminista e di un secentista (poiché, secondo l’andazzo
dei tempi, anch'egli era solito spampinare nelle maniere più corrotte del
poetare moderno, che con altro non diletta che coi trascorsi e col falso
» e della poesia s’era fatto un esercizio d’ ingegno in opere di argutezza »).
La giurisprudenza diventava occasione o materia indifferente a trovare nelle
determinazioni dello spirito umano i principii, i concetti fondamentali,
le sostanze reali, in cui per lo scotismo si risolve tutto il reale, e a
tormentare le parole, in cui tutte le determinazioni dello spirito
pigliano corpo, per farne sprizzare fuori l’anima, il senso riposto.
Che era un primo avviamento del problema vichiano della constantia
iurisprudentiae come constantia philosophiae et constantia philologiae, e
della Scienza nuova come scienza a un tratto del vero e del certo.
I Questo il racconto dell’Autobiografia (1728); alla quale
continuo ad attenermi, quantunque il NicoLINI sospetti essa sia, a
siffatto proposito, anacronistica, e cioè che V. (in perfetta buona fede, s'
intende), abbia intruso, in quella che fu l’effettiva forma mentale dei
suoi diciotto anni, parecchio dell’esperienza spirituale di chi aveva già
scritta la prima Scienza Nuova (1725): cfr. Per la biografia cit., puntata I.] Intanto
con questo mondo filosofico, in cui il giovanetto si chiudeva, attraverso lo
studio del diritto si poneva la realtà che doveva essere oggetto della
sua filosofia. Il mondo del diritto è un mondo umano, creato dalla
volontà. Dentro di esso la natura non si vede; né V. poteva
trovarvela. Approfondendone la conoscenza, come fece nei suoi studi di
Vatolla, doveva necessariamente imbattersi nella volontà, nello spirito
come libertà. Profondando, eglici dice, lo studio delle leggi e dei
canoni, al quale lo portava l’obbligazione contratta col Rocca, in
grazia della ragion canonica inoltratosi a studiar de’ dogmi, si ritrovò
poi nel giusto mezzo della dottrina cattolica d’ intorno alla materia
della grazia »; e gli accadde di conoscere e appropriarsi tale
dottrina per l'esposizione di un teologo che faceva vedere la
dottrina di sant'Agostino posta in mezzo, come a due estremi, tra la
calvinistica e la pelagiana e alle altre sentenze che o all’una di queste due o
all’altra sì avvicinano ». Posizione, che servì poi al V., secondo egli
stesso dichiara, a spiegare storicamente (umanamente) le origini del
diritto romano ed ogni altra forma di civiltà gentilesca, senza
contraddire alla sana dottrina della grazia; che fu perciò, possiamo
dire, il primo nucleo del suo concetto della Provvidenza, che è
l’arbitrio umano accertato e determinato dal senso comune *: una volontà, non
immediata, generica, astratta, ma determinata e concreta attraverso la
storia, nel cui corso razionale si realizza una volontà superiore a
quella dell’ individuo, un fine in cui si risolvono i fini particolari
dei singoli uomini: la grazia. Ma questa unità di divino e di umano, se è
un'esigenza della posizione media tra calvinismo e pelagianismo (astratta
posizione della grazia o volontà divina, e quindi negazione della umana;
ed astratta posizione della volontà I S. N., dign.] umana, e quindi
negazione della divina), ha bisogno, com'è facile intendere, di maturare
per divenire un concetto !. Intanto V. non dissocia lo studio
del pensiero da cui discende il diritto, dallo studio delle parole, in
cui il diritto vive. Le Eleganze del Valla lo rimandano a Cicerone.
Studia Virgilio e Orazio; e questi lo disgustano del secentismo, e gli
fan cercare Dante, Boccaccio e Petrarca =. Orazio gli fa osservare che la
suppellettile più ricca alla poesia è fornita dalla lettura dei filosofi
morali. E studia l’etica aristotelica, che gli mostra il fondamento del diritto
romano essere nella ideale giustizia, di cui parla il filosofo,
architetta nel lavoro delle città. Dalla morale così intesa si volge alla
metafisica di Aristotele; ma questa non gli spiega la ragione del giusto
ideale. Perché ? Allora non sapeva rendersene conto. Passò a Platone; e vi
trovò il fatto suo, perché vi ebbe una metafisica, in cui la realtà è
pura idea: che era ciò che egli, l’alunno dello scotista e lettore
di Suarez, andava cercando, per non cadere, rispetto all’ idea della giustizia
o giustizia ideale, nel nominalismo. Nell’Autobiografia spiega
perché alla sua morale trovò il fondamento in Platone e non in Aristotele,
dando delle due dottrine la seguente caratteristica: Perché la metafisica d'Aristotele
conduce a un principio fisico, il quale è materia, dalla quale si educono
le forme particolari, e si fa Iddio un vasellaio che lavori le cose fuori
di sé; ma la metafisica di Platone conduce a un principio metafisico, che
è lor idea eterna, che da sé educe e crea la 1 Vedi in proposito
qui appresso il cap. IV: Dal concetto della grazia a quello della
Provvidenza. 2 Così l’Autobiografia. Ma a determinare il passaggio
del V. dal Secentismo al purismo trecentesco concorse moltissimo, sebbene
egli non lo dica, l'influsso di Leonardo di Capua. Cfr. NicoLINI, Per
la biografia cit., puntata III. materia medesima, come uno
spirito seminale che esso stesso si formi l’uovo ». Dove non è
propriamente definita né la metafisica di Aristotele, né quella di
Platone. L’ Iddio aristotelico che pensa se stesso, è troppo pago di sé
perché possa fare questo mestiere del vasellaio, che tragga le forme
dalla materia. Tutte le forme le ha in sé; e quindi anche quella della
giustizia. D'altra parte, l’ idea, che è l’ente, per Platone, ha fuori di
sé la materia, che è il non-ente, e non può edurla quindi da sé. Questo
platonismo polemizzante con Aristotele non è filosofia platonica, ma posteriore
ad Aristotele, neoplatonica. E più in là, dove V. accenna allo studio
della fisica gassendiana e cartesiana da lui potuto fare in quello stesso
torno di tempo, a Vatolla, su Lucrezio e sui Fundamenta physicae del
Regio, dice esplicitamente che queste fisiche gli erano come divertimenti
dalle meditazioni severe sopra i metafisici platonici » 1. E altrove
ricorda i Marsili Ficino, i Pico della Mirandola, e lamenta che i
letterati napoletani, che dianzi volevano le metafisiche chiuse nei chiostri,
poi per la moda cartesiana avessero preso a tutta voga a coltivarle, non
già sopra i Platoni e i Plotini coi Marsili, onde nel Cinquecento
fruttarono tanti gran letterati, ma sopra le Meditazioni di Renato delle Carte
». I Anche a codesto proposito, l’Autobiografia, secondo il
Nicolini, è anacronistica. Antigassendiano e soprattutto anticartesiano, V.
secondo lui, fu soltanto dal 1710 in poi. Nella sua gioventù,invece,
anch'egli partecipò all'’ammirazione dei suoi amici e concittadini per
Lucrezio (sul quale è da vedere un suo importante giudizio in Opere,
ediz. Ferrari, VI, 138, e cfr. Croce, Filos. di G. B. V.2, p. 203); e, pur
con riserve in fatto di estetica (comuni, del resto, al Caloprese e agli
altri cartesiani napoletani) fu anch’egli per non pochi anni, cartesiano.
Vedere al riguardo NIcOLINI, Per la biografia, puntata III. Aggiungo per
curiosità che le opere di ARISTOTELE furono studiate dal V. in un esemplare
della magnifica edizione giuntina del 1550 sgg., il quale, serbato Oggi
dalla famiglia Ventimiglia di Vatolla, reca ancora l’ex libris del
convento di Santa Maria della Pietà di quella terra. E quell’edizione
reca appunto il gran commento » di Averroè. Cfr. NICOLINI, Per la
biografia, puntata II. L’aristotelismo rifiutato dal giovane V. era
dunque quel dualismo rigido, a cui esso s'era ridotto in Averroè !;
il platonismo da lui abbracciato è il monismo emanatistico di Plotino
così strettamente affine a quello del De la causa di Bruno 2. Lo spirito
seminale è il Xyog otepuatimnòe O tvebpa orsppatixòv: quei spiritalia et
vIvifica semina, onde, secondo il Ficino, l’anima del mondo, emanazione
di Dio e vita vitarum, avviverebbe la natura. Punto di capitale
importanza nella storia del pensiero di Giambattista V.. Dal
neoplatonismo egli dovette ricevere un forte impulso ad approfondire il
concetto agostiniano della grazia come mediazione della volontà umana
I Cfr. Autob., p. 11: La metafisica non lo aveva soccorso per gli
studi della morale, siccome di nulla soccorse ad Averroè....» e p. 19:
Ne’ chiostri.... era stata introdotta fin dal sec. XI la metafisica
d’Aristotile, che quantunque per quello che questo filosofo vi conferì
del suo ella avesse servito innanzi agli empi averroisti....». Qui
risuona l'eco della polemica di Marsilio Ficino contro l’averroismo. Un
ravviÌcinamento del pensiero vichiano a quello del Ficino fece già F. DE
SANCTIS, St. d. letter. ital., ed. Croce. Bari, Laterza, 1912, II, 290-1;
e poi meglio K. WERNER, G. B. V. als Philosoph und gelehrter
Forscher, Wien, Braumiiller, 1881,8-9; per cui cfr. FLINT, V.,
Edimburgh a. London, 1884,74-5, 128-9. In una recensione della prima
edizione di questi studi un critico della Civiltà Cattolica, quaderno del
5 febbraio 1916, osservava che se V. nella pref. al Diritto Universale
dice che Aristoteles in Ethicis
doctrinae civilis principia vecte aut a divina philosophia esse
repetenda: namque haec metaphysices argumenta Philosophi alteram philosophiae
partem statuebant, et ‘ verum divinarum * nomine significabant »: da ciò
appare come V. non avesse nella prima fase de’ suoi studi rifiutato, secondo
vorrebbe il Gentile, l’aristotelismo, quasi dualismo rigido, a cui esso si era
ridotto in Averroè ». Ma io avevo detto: L'aristotelismo rifiutato dal
giovane V. era dunque quel dualismo rigido, a cui esso s'era ridotto in
Averroè ». Dunque, non io avevo affermato che V. avesse respinto l’
aristotelismo: questo lo dice esso V.. Io dicevo invece che, sotto nome
di aristotelismo, V. aveva respinto l’averroismo. Questo è nomato da’
Platonici fabro del mondo [cfr. il fabbro del mondo delle nazioni di V.]....
Plotino lo dice padre e progenitore, ed è il prossimo dispensator de le
forme. Da nol si chiama artefice interno, perché forma la materia e la
figura da dentro, come da dentro del seme o radice manda ed esplica lo
stipe; da dentro lo stipe cacci i rami» ecc. Così G. Bruno, De la causa,
in Opere italiane, ed. Gentile, I2, 179, e cfr. De minimo, I, 3, in Opera
latine conser, I, III, 142. 3 e della divina, e attingere il
primo bisogno dell’immanenza del divino nella natura e nella storia. Una
pagina della Theologia Platonica (IV, I) del Ficino dovette fermare
certamente la sua attenzione, poiché un’eco ne risuona, molti anni dopo, nelle
teorie fondamentali del De antiquissima e della stessa Scienza Nuova; e
merita esser riletta. | Proinde si ars humana nihil est
aliud quam naturae imitatio quaedam, atque haec ars per certas operum
rationes fabricat opera, similiter efficit ipsa natura, et tanto
vivaciore sapientioreque arte, quanto efficit efficacius et efficit pulchriora.
Ac si ars vivas rationes habet, quae opera facit non viventia,
neque principales formas inducit, neque integras, quanto magis putandum
est vivas naturae rationes inesse, quae viventia generat, formasque
principales producit et integras ! Quid est ars humana? Natura quaedam
materiam tractans exstrinsecus [cfr. il vasellaio del V.]. Quid natura ?
Ars intrinsecus materiam temperans, ac si faber lignarius esset in ligno.
Quod si ars humana, quamvis sit extra materiam, tamen usque adeo congruit
et propinquat operi faciundo, ut certa opera certis consummet ideis,
quanto magis ars id naturalis implebit, quae non ita materiae
superficiem per manus aliave instrumenta exteriora tangit, ut
geometrae anima pulverem, quando figuras describit in terra, sed
perinde ut geometrica mens materiam intrinsecus phantasticam fabricat.
Sicut enim geometrae mens, dum figurarum rationes secum ipsa volutat,
format imaginibus figurarum intrinsecus phantasiam, perque hanc spiritum quoque
phantasticum absque labore aliquo vel consilio, ita in naturali arte
divina quaedam sapientia per rationes intellectuales vim ipsam vivificam
et motricem ipsi coniunctam naturalibus seminibus imbuit, perque hanc
materiam quoque facillime format intrinsecus. Quid artificium ? mens
artificis in materia separata. Quid naturae opus ? naturae mens in
coniuncta materia. Tanto igitur huius operis ordo similior est ordini qui
in arte est naturali, quam ordo artificii hominis arti; quanto et materia
propinquior est naturae quam homini, et natura magis quam homo materiae
dominatur. Ergo dubitabis certorum operum certas in natura ponere
rationes ? Imo vero sicut ars humana quia superficiem tangit materiae, et
per contingentes fabricat rationes, formas similiter solum efficit
contingentes, é sic naturalem artem, quia formas
gignit sive eruit substantialis ex materiae fundo, constat funditus
operari per rationes essentiales atque perpetuas !. E si riscontri
quest'altro luogo dello stesso Ficino nel suo Commento al Parmenide
platonico: Cum enim nos per cognitionem non simus authores
rerum, nulla forsan est ratio quare percipiamus eas, nisi proportio
quaedam; cum vero divina scientia sit causa prima rerum, non ideo res
cogniturus est Deus, quia congruat cum natura rerum, sed ideo cognoscit
quoniam ipse est causa rerum. Qui, cognoscendo se ipsum principium
omnium, omnia statim et cognoscit et facit ?. Nella tradizione
platonica italiana questa equazione tra conoscere e fare rimase un punto
fermo, e fu ripetuta talvolta come un luogo comune anche da filosofi che
non fecero poi su questo concetto tanta attenzione da sentire il
bisogno di svilupparlo e connetterlo intimamente con le altre loro
dottrine. Così nel trattato De arcanis aeternitatis di G. Cardano s'incontra
una chiara formulazione della stessa dottrina vichiana, quantunque
lasciata lì senza svolgimento e senza rilievo. Il Cardano dice:
Anima humana in corpore posita substantias rerum attingere non
potest, sed in illarum superficie vagatur sensuum auxilio, scrutando
mensuras, actiones, similitudines ac doctrinas. Scientia vero mentis,
quae res facit, est quasi ipsa res, velut etiam in humanis scientia trigoni,
quod habeat tres angulos duobus rectis aequales, eadem ferme est ipsi
veritati: unde patet naturalem scientiam alterius generis esse a vera
scientia in nobis 3. E non avrà letto V. questa pagina del Cardano
? Egli non cita mai né Bruno, né Campanella. Ma non è Ficino, Opera,
Basilea, 1561, t. I, p. 123. 2? Comm. in Parm., c. 32, in Opera, II,
1149. 3 Tract. de arc. aetern., c. 4. Cfr. FIORENTINO, B. Telesio, I,
212. meraviglia, chi pensi ai suoi profondi scrupoli
religiosi. Che egli tuttavia, con quella sua insaziabile curiosità,
che gli faceva cercare ogni sorta di libri, non leggesse anche di
questi filosofi famosi ancorché esecrati quel che trovava nella
biblioteca del Valletta, a lui, come sappiamo di sicuro, ben nota :, non
è credibile. Ora in quella biblioteca sì conservava (e si conserva tuttavia
nella Biblioteca dei Gerolamini, dove i libri del Valletta passarono)
l’esemplare della Scelta d’alcune poesie filosofiche di Settimontano Squilla
cavate da’ suoi libri detti La Cantica con l’esposizione, stampato l'anno
MDCXXII » che era stato usato e corretto dall'autore medesimo. Ed era
libro che il Valletta non solo possedeva, ma aveva letto? egli
stesso, e poteva perciò aver avuto egli stesso occasione di additare
all'amico filosofo e gran divoratore di libri. In quelle Poesîe V. poté
leggere i seguenti versi: Ma lo Senno Primero che
tutte cose feo tutte è insieme, e fue; né per saperle,
in lor si muta Deo, S’egli era quelle già in esser più vero.
Tu, inventor, l’opre tue sai, non impari; e Dio è primo
ingegniero. I Autob. ed. CROCE,41, 113, 192. È anzi tanto più
sicuro che con la biblioteca Valletta V. avesse familiarità fin dai suoi
primi studi, in quanto il Valletta appunto, ch'egli aveva conosciuto
nella sua puerizia, fu uno dei suoi primi protettori e colui che lo indusse
a porre a stampa le sue prime poesie: cfr. NICOLINI, Per la
biografia cit., puntata I,30 sgg., e puntata III. 2 [Cfr. infatti
L. AMABILE, Il Santo Officio della Inquisizione in Napoli, Città di Castello,
1892, II, 67 n. 1. E come la Scelta di poesie, così il Valletta possedeva
e aveva lette altre opere del Campanella.
Ho ricevuto »,scriveva, per es., in una sua lettera inedita al
Magliabechi, serbata nel magliabechiano segnato VIII, 1090, ho ricevuto l’ Incredulo senza scusa
del p. SEGNERI, dove ho lette molte cose riportate dal padre CAMPANELLA nel suo
Afeismo trionfato....». (Comunicazione di F. NICOLINI)}. Dio
primo ingegniero » è frase che infatti si ritroverà nello stesso V. !. Il
quale, nell'esposizione degli stessi versi, poté trovare che Dio è il primo ingegniere avanti la
Natura; però sa il tutto; l’ insegna e non l’ impara »?. E in altro
luogo3 dell’esposizione: Se l’alma non sa come s’ è fabbricato il corpo,
né come fece tante membra a tanti usi, né come si frena il calore etc., è
segno ch’essa non fece il corpo»n4. Da questa dottrina
neoplatonica non è dubbio che, quando l’avrà covata nel suo cervello e
fecondata di sue osservazioni, V. trarrà l’opposizione scettica
della gnoseologia del De antiquissima tra il sapere divino che è
formazione intrinseca della natura, e il sapere umano che è la formazione
estrinseca e superficiale, di cui parla il Ficino 5; ma trarrà anche la
sua intuizione dinamica o, I De antiquissima, in Opere I, 179, e
Vindiciae, in Opere, ed. Fer. rari, IV, 309-310. ®
CAMPANELLA, Poeste, ed. Gentile, p. 33. 3 O. c.. 4 Niun
dubbio, io credo, che al V. doverono esser note anche altre opere del
Campanella, e che meriti di essere studiato il problema delle suggestioni
che dové riceverne. Alle osservazioni di A. SARNO, (Campanella e V., nel
Giornale critico della filosofia ital., IV, 1924, p. 137) altre
importanti ce ne sarebbero da aggiungere. Cfr. il mio G. Bruno e il
pensiero del Rinascimento?, Firenze, Vallecchi, 1925, p. 276. Aggiungo
qui un riscontro alla dottrina vichiana della Provvidenza relativa alla eterogenia
dei fini. Campanella (nella Città del sole ed. Kvaéala, p. 65) dice: Però gli spagnoli trovaro il resto del
mondo, benché il primo trovatore fu il Colombo nostro genovese, per
unirlo tutto a una legge; e questi filosofi saranno testimoni della verità
eletti da Dio; e si vede che noi non sappiamo quello che facemo, ma siamo
instrumenti di Dio: quelli vanno per avarizia di danari cercando nuovi paesi,
ma Dio intende più alto fine. Il sole cerca struggere la terra, non far piante
e uomini; ma Dio si serve di loro: in questo sia laudato ». Cfr. ed.
Paladino, p. 59. 5 La derivazione neoplatonica di questa dottrina
vichiana è ormai riconosciuta. Vedi Croce, Fonti della gnoseologia
vichiana, in Saggio sullo Hegel seguito da altri scritti ecc., Bari,
Laterza, 1913,250-I. GIAN PaoLo ricorda anche lui questo concetto del
conoscere come fare, attribuendolo agli scolastici: So wie nach den
Scholastikern Gott alles erkennt, weil er es erschafft, so bringht das
Kind nur ins geistige Erschaffen hinein; die Fertigkeit des erkennden
Aufmerkens folgt dann von selber »: Levana, $ 131. Ma si tratta di una
vaga reminiscenza. com’egli, confondendo in uno Zenone d’ Elea con
quello di Cizio, userà dire, zenonistica !: che è vero e proprio
panteismo. E quell’opposizione, se dapprima potrà dar luogo allo
scetticismo della metafisica vichiana, più tardi renderà possibile la
profonda concezione — che è la scoperta di V. — della scienza del mondo umano,
0, com’ è stato detto, della metafisica della mente. Giacché, una
volta ammesso il concetto neoplatonico, svolto anch'esso dal Ficino ?,
che Deus omnia agit et servat, et in omnibus omnia operatur, poiché
causae rerum sequentes Deum nihil agunt absque virtute actioneque divina,
Dio, immanente nell’operare di una natura esterna a noi, sarà fuori di
noi (onde la nostra conoscenza della natura non potrà aver verità);
ma Dio immanente nella volontà umana sarà I Nell’ Autobiografia,
nel De antiquissima, nella Sec. risposta al Giorn. d. letterati V. parla
indifferentemente di Zenone e della sua scuola (de Zenone eiusque secta,
Zenonii) e di Zenone e degli stoici, mostrando perciò di unificare i due
Zenoni. E Znv@vetot in Dio. L., VII, 5 son detti gli stoici. La dottrina
di Zenone, che V. dice malamente riportata e combattuta da Aristotele (nel VI
della Fisica), è la celebre aporia dell’ Eleate intorno alla
molteplicità, dove si arresta la divisione del continuo a quel minimo,
che egli poi dimostra non potersi insieme non concepire come massimo. Ma
la ricostruzione che V. stesso nella Sec. risposta $ 4 dà della sua
interpretazione dei punti metafisici (che parrebbero questi minimi),
risalendo ai numeri zenoniani-pitagorici, è fantastica. Realmente egli
aveva contaminato il concetto dell’ Eleate con la dottrina stoica, ed il
dinamismo del De antiquissima è di origine stoica. Si chiamino punti
metafisici i X6yot orepuatixot, e la metafisica di V. avrà la sua base
nello stoicismo. Con la cui rpévota, quale si ritrova nei neoplatonici,
da Plotino (Enn. III, 2, 3) a Ficino (7A. pI. II, 13), dovrebbe pure
essere messa in relazione la Provvidenza della Scienza Nuova. Ma non mi
par dubbio che al V. lo stoicismo perviene attraverso i neoplatonici. E
mi par degno di nota che la polemica vichiana contro il concetto della divisione
all’ infinito opposto da Aristotele a Zenone (De ant. c. IV, $ 2) si
riscontra puntualmente con quella che contro lo stesso concetto aveva
rivolta fin dal 1591 il Bruno nel De triplici minimo, I, 6-8: in cui può
parere che si ripiglino gli argomenti lucreziani in favore dell’atomo, ma
in realtà, come in V., si trasforma l’atomo in conato, o operazione
dell'anima del mondo (v. GENTILE, G. Bruno e il pensiero del Rinascimento,223-4).
Le radici delle due filosofie, bruniana e vichiana, si toccano e s'
intrecciano. 2 Theol. plat., II, 7. in nol, proprio come
diceva Bruno, più che noi medesimi non siamo dentro a noi (e la
conoscenza del nostro mondo sarà certa) !. A Vatolla
giungevano bensì le novelle di Napoli e delle forme di cultura che colà
venivano in auge. La notizia del nuovo epicureismo, messo in onore
dal Gassendi, fa studiare al V. Lucrezio: la cui dottrina, data già
la sua intuizione metafisica, non poteva non apparirgli quale gli
apparve, o almeno, egli asseriva molti anni più tardi, che gli era
apparsa ?: una filosofia da soddisfare le menti corte de’ fanciulli e le
deboli delle donnicciuole ». Questo studio gli servi di gran motivo
di confermarsi vie più ne’ dogmi di Platone » 3; cioè dei neoplatonici;
pensando 4 essere principio delle
cose tutte una idea eterna, tutta scevera da corpo, che nella sua
cognizione, ove voglia 5, crea tutte le cose in I Cfr. il concetto
vichiano dell’astuzia della Provvidenza, per cui il vero soggetto nostro
trascende neoplatonicamente il nostro soggetto empirico e i suoi fini particolari
e finiti. ® Si veda sopra p. 28 nota 1. Qui si aggiunge che della
voga goduta a Napoli dal poema lucreziano, V., più che da lontano e per
sentito dire, ossia a Vatolla, ebbe notizia molto da vicino e per conoscenza
diretta, vale a dire a Napoli stessa. Cfr. NICOLINI, Per la biografia, puntata
II. 3 Ma non forse, com’ è detto nell’ Autobiografia, durante il
periodo vatollese, bensì alcuni anni più tardi, e forse non troppo prima
del 1708. Cfr. NicoLINI, Per la biografia, puntata III. 4 Autob.,
p. 17. 5 Non operari eum
[Deum] externos effectus per meram intelligentiam, nisi accedat voluntatis
assensus »: Ficino, Th. fI., II, 11; t. I, p. 107. Può parere la dottrina
di S. Tommaso, Summa theol., I, q. XIV, a. 8. Se non che, per Ficino,
come già per Plotino, come per Bruno e per Spinoza, la volontà razionale
di Dio coincide con l'intelligenza, ed è quindi libera in quanto
necessaria. Vedi
Th. pi., II, 12: Si ubi plus est rationis, ibi sortis est minus, in Deo,
qui summa ratio est, vel fons rationis, nihil potest cogitari
fortuitum.... Necessitas autem ipse est Deus.... Et quoniam necessitati
nulla praeest necessitas, ideo ibi est summa libertas.... At in Deo idem
est re ipsa esse, intelligere, velle. Quamobrem ita est per voluntatem
suam intelligentiae essentiaeque suae compos, ut non modo sicut est et
sicut intelligit suapte natura, ita quoque velit, verum etiam sicut vult,
ita intelligat atque existat ». Cfr. PLotINO. Enn.] tempo e le contiene dentro di sé e
contenendole le sostiene » !. A Napoli era salita in pregio la
fisica sperimentale, e si magnificava il nome di Roberto Boyle. V. ne
ebbe sentore; ma egli stesso ci dice di averla voluta da sé
lontana.... perché nulla conferiva alla filosofia dell’uomo.... ed egli
principalmente attendeva allo studio delle leggi romane, i cui principali
fondamenti sono la filosofia degli umani costumi e la scienza della
lingua e del governo romano, che unicamente si apprende sui latini scrittori ».
Il suo spirito graviterà sempre più verso il mondo umano; di un
umanesimo concepito come accade di concepirlo a chi la realtà umana sia
avvezzo a mirare nel diritto positivo, ossia come società. Ond’ è che non gli
parrà mai morale quella degli stoici né quella degli epicurei, siccome quelle che entrambe sono una morale
di solitari ». Poi venne a sapere aver oscurato la fama di tutte
le passate la fisica di Renato delle Carte »; e cercò averne
contezza. Ma già infatti l'aveva studiata e giudicata nell’opera del Regio, e
l'aveva respinta perché meccanica al pari di quella di Epicuro.
Tornò definitivamente a Napoli; e trovò tutta Napoli cartesiana; e
per amor di Cartesio tornata anche alla metafisica 2. Si erano cominciate a coltivare le
Meditazioni metafisiche ». Egli, l’autodidatta, tuttavia immerso
nelle meditazioni severe sopra i
metafisici platonici », non provò per la metafisica cartesiana la stessa
ripugnanza che per la fisica. Vide e non vide il carattere di questa
filosofia: non la trovò coerente, perché
alla sua fisica con I Deus
ideo est in omnibus, quia omnia in eo sunt, quae nisi essent in eo,
essent nusquam, et omnino non essent »: FicIino, op. cit., II, 6; G.
Pico, Heptaplus, V, 6. 2? Naturalmente, nell’affermarsi assai
sorpreso di trovar Napoli affatto diversa da quella ch’egli aveva
lasciata, V. esagera, secondo il Nicolini, giacché, come s’è detto, i
suoi contatti con la sua città natale durante il novennio vatollese erano
stati frequenti e talora abbastanza lunghi.] verrebbe una metafisica che
stabilisse un solo genere di sostanza corporea operante »: e quindi alla
sua metafisica una fisica fondata sui principii spirituali (spiriti
seminali) dei corpi. Ed aveva ragione, come dimostrava in quel
torno, a insaputa di V., il Leibniz, che movendo dal cogito cartesiano,
trasformava il meccanismo nel dinamismo. E in conclusione quello sterile
abbozzo metafisico delle Meditazioni, soffocato dal meccanismo quindi
incapace di svolgimento sistematico, parve al V. niente più che un
brandello del platonismo suo. Più tardi, quando s'acuì il suo senso di
avversione al cartesianismo, scrisse addirittura il Descartes non aver
fatto altro che tracciare alquante prime linee di metafisica alla maniera
di Platone.... per avere un giorno il regno anche tra’ chiostri, dove una
metafisica materialista non sarebbe stata mai accolta ». Ingenuo giudizio
postumo. Quando, intorno al 1695, poté conoscere le Meditazioni dovette
scorgervi tracce luminose di verità, rese più visibili dal contrasto
di esse col giudizio che egli aveva dato della fisica cartesiana e con
l’aspettativa, poi delusa, che questa gli aveva fatto nascere rispetto
alla metafisica. L’ inconseguenza cartesiana dové parergli una felix
culpa, da render degno di stima anche ai suoi occhi il celebrato filosofo
francese; e con l’acrisia ermeneutica, della quale doveva dare
nelle sue opere così curiosa dimostrazione !, dovette in un primo
momento piuttosto esagerare che attenuare il merito del Cartesio,
scorgendovi più platonismo che realmente non vi sia, e che lo stesso V.
più tardi non vi riconoscesse. Il suo neoplatonismo non era la
preparazione più adatta per entrare nello spirito del
cartesianismo, né per quel che è il difetto, né per quel che è il pregio
di esso. Ei rimase chiuso dentro di sé a rimuginare il suo I
V. le note del NicoLinI alla sua edizione della Scienza Nuova.
pensiero; e quel Cartesio che vi ammise, fu un Cartesio
neoplatonico. Giova chiarire brevemente questa situazione. L’
intuizione fondamentale cartesiana (metafisica) è direttamente opposta
alla platonica e neoplatonica: in quanto questa è orientata verso l’ Uno,
o l’ Idea, o Dio, come oggetto o come verità; quella invece verso il
pensiero, come soggetto o certezza. Il problema di Platone è appunto il
concetto della verità, quello di Cartesio il concetto della certezza.
Dentro ciascuno di questi concetti le due filosofie ricomprendono,
naturalmente, e costruiscono tutta la realtà, la quale nell’uno e
nell’altro è diversa soltanto se si considera come contenuto del rispettivo
concetto, in cui si organizza. Lo stesso concetto della certezza, c’ è nel
platonismo, ma come momento del concetto della verità; e questo c’ è nel
cartesianismo, ma come momento del concetto della certezza. La differenza, in
altri termini, è nel punto di partenza, in quanto Platone muove
dalla massima oggettività (le idee come mondo intelligibile), e Cartesio dalla
massima soggettività (1’ idea come attività intelligente). V.,
platoneggiando, muove dalla massima oggettività (quella idea, che egli
dice scevera da corpo): e però in Cartesio, quando vi trova solo
alquante linee di metafisica platonica, non vede il principio, il centro
stesso, intorno a cui tutto gravita: la certezza; o meglio, vi vede questo
concetto, platonicamente, come momento della verità. Le critiche che farà più
tardi a Cartesio attesteranno appunto questo capovolgimento che egli
fa del cartesianismo. Ma queste critiche, com’ è naturale, verranno più
tardi in conseguenza della logica che egli metteva dentro al suo concetto del
cartesianismo. Qui è l'urto dell’autodidatta col pensiero del
tempo suo: poiché col vecchio cervello esercitato sulle opere della
libreria dei Minori Osservanti di Vatolla egli si trova a pensare un
mondo nuovo, prodottosi intanto nella cultura europea. Lo
scetticismo intorno alle scienze naturali, che trovò a Napoli sostenuto da
uomini come Tommaso Cornelio e Leonardo da Capua ', non doveva fargli
specie: anzi veniva incontro a quella opposizione tra sapienza umana e divina,
che egli aveva trovata nei neoplatonici. La filosofia galileiana di un Luca
Antonio Porzio, suo stretto amico ?, dovette parergli una
esemplificazione appunto dell’arte umana incapace d’entrare nell’ interno della
natura. Bacone, conosciuto in quel tempo, non destò per altro la sua
ammirazione, che per avere nel De augmentis esposto l’elenco dei
desiderati della scienza. Quell’altro aspetto della soggettività, a cul
mirava il filosofo inglese nella sua polemica contro la logica aristotelica
e nella rivendicazione del sapere come ricerca della causa reale, non
poteva fermare la sua attenzione. Questa nuova filosofia non poteva
avere un significato per lui, rimasto cogli occhi intenti sulla realtà
platonica, oggetto del pensiero. Eppure il suo cuore non era
in quella realtà. La filosofia egli l'aveva cercata per intendere il mondo
umano. Per questo aveva cercato l’etica aristotelica; per questo ne
aveva schivato la metafisica intesa a mo’ degli averroisti, e s'era volto ai
platonici. Per questo mondo, che è mondo dell’umana volontà, s'era
affacciato alle controversie sulla grazia, e s'era fermato in un concetto
che non negasse l'autonomia del volere umano, ma né pure l'azione
su di esso del volere divino. E facendo sua la metafisica degli zenonisti,
per salvare il suo mondo, era scantonato innanzi alla loro morale. E
perché il suo interesse era tutto in cotesto mondo, non lo aveva attratto
I Autob.,21, 33; e del CORNELIO v. il De ratione philosophandi, in
Progymnasmata physica, Napoli, 1688,66 e sgg. Cfr. ora il citato scritto del
Croce, Fonti della gnoseologia vichiana. 2 Autob., p. 37.
Boyle con la sua fisica da tutti vantata; ed egli poté consentire con
gli scettici della scienza della natura, e, oltre Platone raffigurante
l’uomo quale deve essere, leggere Tacito che lo rappresenta quale è, e in
Bacone ammirare il magnanimo programma della storia umana futura.
Questo umanesimo è dentro lo stesso vecchio cervello del platonico filosofante;
e preme da dentro per rompere la corteccia, o scioglierla, piuttosto, e
riassorbirla nel circolo della sua vita. Poiché V. non resterà di qua da
Cartesio e da Bacone; anzi se li lascerà indietro; ma con quanta fatica,
si sforzerà di procedere, e di dare intera la vita a quell’umanesimo che
gli si agita dentro ! Né dalla contraddizione si libererà mai del
tutto. Quando nel dicembre 1697 si bandisce il concorso per
la cattedra di rettorica dell’universià, qual meraviglia che il nostro
umanista, abituato a cercare il pensiero nelle parole, e nelle parole il
pensiero, lettore assiduo di poeti e di filosofi, a intelligenza del suo
diritto romano, vi slinscriva ? Il 31 gennaio 1699 è nominato
professore di rettorica, alla cattedra di cui si dovrà contentare
per tutta la vita. Ma qual meraviglia se il nuovo professore,
dovendo per l’ ufficio suo recitare nell’annuale inaugurazione degli studi un
discorso d’occasione, trasformerà ogni volta l’ordinaria parenesi
rettorica in una meditazione filosofica ? II. I primi
documenti diretti del pensiero filosofico del V. (poiché finora abbiamo
ragionato dei suoi primi studi vagliando i suoi ricordi, non anteriori al
1725), sono le sei orazioni inaugurali da lui scritte tra l’ottobre 1699
e l'ottobre 1707: la prima e le ultime quattro pubblicate da
Antonio Galasso nel 1867 ! di sul manoscritto, in cui l’autore, non avendole
messe a stampa, le aveva raccolte e donate al suo amico p. Antonio
da Palazzuolo; la seconda acefala, dal Villarosa nel 1823 ?, e
quindi ristampata più volte nelle varie raccolte delle opere vichiane; ma
dal Galasso integrata del principio che si desiderava. Questi scritti,
per altro, da mezzo secolo che sono venuti alla luce, non sono stati mai
studiati con l’attenzione che meritano le prime manifestazioni di
un pensiero così profondamente originale. Quando furono pubblicati, il
Cantoni, che due anni prima aveva pubblicato sul V. un’ampia monografia
(dalla quale, a dir vero, non risulta perché l’autore giudicasse il
filosofo napoletano degno di un così largo studio) 3, se trovò lodevole
l’opera del Galasso 4, non esitò a dire che queste orazioni si aggirano
intorno ai vantaggi del sapere e dello studio, e per verità, meno qualche
considerazione qua e là, esse non escono dai luoghi comuni delle mille
orazioni accademiche che si fecero sopra un tale argomento » 5. Roberto Flint,
che è stato degli studiosi più accurati della filosofia vichiana,
riconobbe che le prime tracce di questa son da cercare in queste
orazioni, vedendo qual conto fosse da fare del giudizio che ne dà nella
sua Vita lo stesso V.; e fece di queste orazioni una succinta
I Cinque orazioni latine inedite di G. B. V. pubbl. da un cod. ms.
della Bibl. naz. [di Napoli] per cura di A. GaLasso, Napoli, Morano,
1869. Una nuova edizione è nel primo volume delle Opere, a cura di
Giovanni Gentile e Fausto Nicolini, e a questa edizione mi riferisco in
questo volume ove cito soltanto: Opere, I. 2 JoH. B. Vici,
Opuscula, Neapoli,191-208. 3 V. le mie Orig. della filos. contemp.
în Italia, 1%,280-85, e A. FacGI, Cantoni e V., nella Riv. filos., IX
(1906),593 S8g8 4 Il Galasso premise alle orazioni un lungo discorso col
titolo Storia intima della Scienza Nuova; il quale gira molto largo, e
non stringe mai da presso la questione del valore storico delle orazioni
pubblicate. 5 C. CANTONI, recensione del vol. del Galasso nella
Nuova Antologia del 1870, vol XIV, p. 392. analisi !,
additando alcuni concetti, che saranno ripresi e svolti nelle opere
posteriori. Ma l’analisi merita di essere ripresa e guidata da un più
pieno concetto storico dello svolgimento di tutto il pensiero
vichiano. Soggetto della prima orazione è la dimostrazione
della sentenza: Suam ipsius cognittonem ad omnem doctrinarum orbem brevi
absolvendum maximo cuique esse incitamento; ossia che la conoscenza dello spirito
contiene in sé i principii di tutto lo scibile, poiché nello
spirito umano si contraggono tutte le forme del reale. Era stato un
concetto eloquentemente svolto dal Pico nel De hkomanis dignitate, e anche
altrove. Dio, secondo il Pico, creato il mondo e fatto Adamo, avrebbe
detto a questo: Nec certam sedem,
nec propriam faciem, nec munus ullum peculiare tibi dedimus, o Adam, ut
quam sedem, quam faciem, quae munera tute optaveris, ea, pro voto, pro
tua sententia, habeas et possideas. Definita caeteris natura intra
praescriptas a nobis leges coèrcetur; tu nullis angustiis coèrcitus, pro tuo
arbitrio, in cuius manu te posui, tibi illam praefinies. Medium te mundi
posui, ut circumspiceres inde commodius quicquid est in mundo. Nec te
coelestem, neque terrenum, neque mortalem, neque immortalem fecimus,
ut tur 1psius quasi arbitrarius honorariusque plastes et fictor, in
quam malueris, tute formam effingas. Poteris in inferiora, quae sunt
bruta, degenerare; poteris in superiora, quae sunt divina, ex tui animi
sententia regenerari ». All’uomo perciò è dato habere quod optat, 1d esse
quod velit. I bruti, da che nascono, portano seco quel che potranno mai
possedere. Gli spiriti supremi (gli angeli) furono fin da principio,
o poco dopo, ciò che saranno in eterno. Nascenti homini omnifaria semina
et omnigenae vitae germina indidit Pater. FLINT, V.,50-58. Un breve cenno,
proporzionato all’ indole del suo libro, ne ha fatto B. Croce, La filosofia di
G. B. V. A seconda di quello che ne avrà coltivato, ognuno crescerà e
fruttificherà. S7 vegetalia, planta fiet; si sensualia, obbrutescet; si
rationalia, coeleste evadet animal; si intellectualia, angelus eritt et Dei
filius. Et si, nulla creaturarum sorte contentus, in unitatis centrum
suae se receperit, unus cum Deo spiritus factus, in solitaria
Patris caligine, qui est super omnia constitutus, omnibus antestabit »*.
E per questa sua onnifaria natura l’uomo si può dire possegga l’ immagine
di Dio. Non la sua natura spirituale, intelligibile, invisibile e
incorporea è il carattere privilegiato che fa ritrovare in lui
un'immagine di Dio. La stessa natura è negli angeli, e più eccellente, e
meno commista alla natura contraria. La proprietà, onde l’uomo si
assomiglia a Dio, è questa, che kominis substantta omnium in se mnaturarum
substantias et totius universitatis plenitudinem re ipsa complectitur ».
Re ipsa: vale a dire, non in quanto le può pensare, ma in quanto
può realizzarle. Con questa sola differenza tra Dio e l’uomo: che il
primo contiene in sé tutto, come principio di tutto; 1l secondo contiene
tutto, come medio tra tutti gli esseri, onde in lui tutti gli esseri
inferiori si nobilitano e i superiori degenerano ?. Ccen questo
panteistico concetto dell’uomo, V. richiama il sacro detto che era scritto a
lettere d’oro sul tempio di Apollo: Tvad. cexvtév: due parole piene
di tanta verità, che dagli antichi, quantunque alcuni le attribuissero a
Pitagora, molti a Talete, altri a Biante, altri a Chione, tutti, per
consentimento generale, vere colonne dell’umana sapienza, si finì col
toglierle a questi stessi sapientissimi uomini, e ascriverle per unanime
consenso all’oracolo pizio. Così parve meraviglioso che, tam pressa
brevitate, questo motto potesse contenere tale ab I Pico, Opera, Basilea,
1601, p. 208. 2 Cfr. Heptapl.] bondanza di significato profondo. Giacché
questo motto non fu escogitato a reprimere la superbia umana, come
pur si crede volgarmente, quasi inculcasse di considerare la scarsezza
delle forze umane; anzi ad eccitare e incorare gli uomini a quanto v’ è
di grande e di sublime, riconoscendone loro la capacità. Difficile
bensì questa piena cognizione di se medesimo. Difficile in ogni tempo: ma
allora poi, a Napoli, difficilissima. V. ricorderà nella sua Vita: che allora,
negli anni estremi del sec. XVII, tra i suoi concittadini ai
quantunque dotti e grandi ingegni, perché si eran prima tutti e lungo
tempo occupati in fisiche corpuscolari, in isperienze ed in macchine »,
le Meditazioni cartesiane riuscivano astrusissime appunto per la difficoltà di
ritrar da’ sensi le menti per meditarvi; onde l'elogio di gran
filosofo era: — Costui intende le Meditazioni di Renato ». Non fisiche
corpuscolari, esperienze e macchine, ma la contemplazione del mondo
intelligibile, in cui si sono esercitati i platonici, occorreva per una
metafisica come la cartesiana. E cartesiano egli, in quanto platonico,
poteva sentirsi nel 1699 dicendo
magnus ingenti conatus est revocare mentem a sensibus et a consuetudine
cogitationem abducere». In una dignità della Scienza Nuova (la LXIII)
dirà che la mente umana è inchinata naturalmente co’ sensi a vedersi
fuori nel corpo, e con molta difficultà per mezzo della riflessione ad
intendere se medesima ». L’ascenso, infatti, pei platonici è arduo,
difficile, e di pochi. Quell’abducere a consuetudine cogitationem innesta
bensì sul vecchio motivo platonico un elemento cartesiano, che è la
critica del sapere ricevuto, della tradizione o della storia positiva. Ma V.
non se n’'accorge, e insiste nel motivo platonico: Af mentis actes, quae omnia invisit, se
ipsam intuens, hebescit. Vel hoc 1 dutob., p. 25.
ipso agnoscis animi iui divinitatem, eumque Dei Opt. Max. simulacrum esse
animadvertis ». Par di riudire Pico. L’animo pel V. è expressissimum
simulacrum di Dio, per la medesima ragione per cui tutti i neoplatonici,
da Plotino fino, si può dire, a Spinoza, concepiscono Dio come uno,
non moltiplicabile per se stesso, e quindi tutto in tutto, e come Dio l’uno:
ossia come sua emanazione, suo modo, ogni unità. Ut enim
Deus per ca, quae facta suni atque hac rerum universitate continentur,
cognoscitur; ita et animus der rationem, qua dpraestat, per sagacitatem +
et motum, per memoriam et ingenium divinus esse percipitur ». La
molteplicità del mondo fa conoscere Dio, come la molteplicità delle
operazioni psichiche fa conoscere l’anima. Ma, come il molteplice fa
conoscere l’ Uno ? Ci sono due modi di passare dal molteplice all’ Uno: uno
dei quali è quello di S. Tommaso (degli argomenti a posteriori
dell'esistenza di Dio), per cui il molteplice è sostanzialmente
differente dall’ Uno: e l’ Uno si può concepire perciò senza il
molteplice, né questo contiene in sé quello; e l’altro è quello di
Spinoza (dell'argomento 4 prior: o ontologico), per cui il molteplice non
è pensabile senza l’ Uno, poiché solo l’ Uno è pensabile; ma 1’ Uno non
si può pensare se non nell’ infinità dei suoi attributi (che ne
costituiscono l'essenza). Il modo di V. è questo di Spinoza, e non
quello di Tommaso: è il panteista. Ut
enim Deus in mundo, ita animus in corpore est. Deus per mundi elementa,
animus per membra corporis humani perfusus; uterque omni concretione
secreti omnique corpore meri I È qui da confrontare questo luogo
di Bruno: Sagacitas facultas distinctiva et apprehensiva circa errores,
qui a deceptoribus fabulosis et impostoribus ingerantur; et consistit in
potentia partim indicativa, partim scrutativa, qua, sicut naribus odorem
percipimus, ita ingenio sophistam et circumventorem »: G. BruNO, Lampas
trig. stat., in Opera, III, 143. 4 purique
agunt». L'uno e l’altro non si confondono (concretione secreti) con la materia,
in cui agiscono. Onde Dio e l’anima senza il mondo e il corpo saranno, ma
non si potranno conoscere. Per ea quae facta sunt cognoscuntur.
Così, se V. dice che mundus vivit quia Deus est; si mundus pereat,
etiam Deus erit, e analogamente corpus sentit quia viget animus; si
corpus occidat, animus tamen est immortalis, egli però premette: Deus
semper actuosus, semper operosus animus; e così pareggia le partite,
perché l’agire lega Dio al mondo e l’anima al corpo, e in generale
l’ Uno al molteplice, o, nel linguaggio cartesiano, la sostanza ali suoi
attributi. Che è cartesianismo rigoroso, come coraggiosamente poi
l’affermò Spinoza; ma è pure il neoplatonismo, assai più antico di
Spinoza e di Cartesio. Par di leggere Giordano Bruno: Er Deus in mundo, et in corpore animus
ubique adest, nec usquam comprehenditur: Deus enim in aethere movet sydera, in
aère i1ntorquet fulmina, in mari procellas ciet, in terra denique cuncta
gignit [quindi anche i pensieri della mente e i decreti della volontà];
mec coelum, nec mare, nec tellus Dei circumscriptae sunt sedes: mens
humana in aure audit, in oculo videt, in stomacho tirascitur, ridet 1n
liene, in corde sapit, in cerebro intelligit, nec in ulla corporis
parte habet finitum larem. Deus combplectitur et regit ommia, et
extra Deum nihil est; animus, ut cum Sallustio loquar, ‘ rector humani
generis, ipse agit atque habet cuncta, neque ipse habetur’ » 3.
I Cfr. G. Bruno, De la causa, dial. II: Se l’anima del mondo e
forma universale [cioè la divinità] se dicono essere per tutto, non s’ intende
corporalmente e dimensionalmente; perché tali non sono; e così non
possono essere in parte alcuna; ma sono tutti per tutto spiritualmente. Come
per esempio, anche rozzo, potreste imaginarvi una voce, la quale è tutta
in una stanza, e in ogni parte di quella; perché da per tutto se intende
tutta »: Opere ital., 12, 195. Cfr. anche 183-4 e Opera lat., III, 41, 57.
L'anima individuale in relazione col corpo ha la stessa individualità,
perché sta all'anima del mondo come il modo alla sostanza spinoziana (v.
GENTILE, G. Bruno e il pens. del [ Non ci vuole molto ad accorgersi che,
per quanto, con tutti 1 neoplatonici da Plotino a Bruno, V. si
sforzi di attenuare l’unità e identità di Dio e dell'anima, chiamando
questo simulacro di quello, o, come dirà altrove 1, riferendosi al
concetto svolto in questa orazione, una specie di divinità, parlando
soltanto, come qui fa, di una divina quaedam vis cogitandi (per
definire la facoltà umana del pensiero), il rapporto in cui lo
spirito umano è posto con Dio, è rapporto d’ identità, poiché alla
distinzione di Deus e animus precede il concetto panteistico ficiniano: Deus
omnia agit. Procedendo su questa strada, V. si trovò più
d'una volta ad essere accusato delle conseguenze pericolose, a cui
la sua filosofia poteva condurre. Il recensore del Giornale de’ letterati
vide profondamente dentro il De antiquissima quando della sostanza
vichiana, punto metafisico (tal quale il minimo di Bruno) inesteso e principio
di estensione, notò che, convenendo cotesti concetti altresì alle
sostanze spirituali e pensanti, se ne potrebbe dedurre che queste ancora sieno
principio di estensione; il che per altro è un manifesto assurdo ». Non
assurdo per V., che per l’appunto, emanatisticamente, superando il corpo
formato, a cui s'arrestava per una falsa posizione la fisica
corpuscolare, intendeva edurre la materia dallo spirito. — V. rispose:
Queste difficultà, come quelle che fate dell’ immortalità dell’anima,
dove par che premete la mano con ben sette argomenti, se non mi fusser
fatte da voi, io giudicherei che andassero più altamente a penetrare in
parte, la quale, quantunque si protegga e sostenga con la vita e col
co Rinascimento, p. 218 sgg.). Per Ficino, v. sopra p. 34, e cfr.
Theol. plat., XV, 5 (I, p. 337):
Anima tota est in qualibet particula corporis ». Cfr. PLotINO,
Enn.. VI, 4, 12; e anche A. StEUCO, De perenni philos. (1540), IX, 5; IX,
14; IX, 23. 1 Autob. stumi, pure s’offende con l’ istessa difesa »
1, E soggiunge, quasi per pura cortesia, un argomento, che schiva
bensì l’assurdo, ma conferma l’ interpretazione monistica
dell'avversario; laddove quella ombrosa sensibilità religiosa, quel
ricoverarsi sotto lo scudo della vita e dei costumi svelano che egli,
come Bruno, assegnava la religione allo spirito pratico, sottraendo la
ricerca speculativa ad ogni preoccupazione religiosa 2. La stessa
contraddizione ingenua di Bruno innanzi ai suoi giudici veneti è in fondo
al lamento, onde V. nel 1720 si doleva oscuramente col p. Giacco di certe
accuse religiose suscitategli contro dalla pubblicazione della Sinopsi
del Diritto universale 3: Le prime
voci che in Napoli ho sentito contro da coloro che han voluto troppo in
fretta accusarmi dal medesimo saggio che ne avea dato, erano tinte di una
simulata pietà, che nel fondo nasconde una crudel voglia
d’opprimermi con quelle arti, con le quali sempre han soluto gli ostinati
delle antiche o piuttosto loro opinioni rovinare coloro che hanno fatto
nuove discoverte nel mondo dei letterati». Onde non sai se per cerimonia
o se per ingenua incapacità di apprezzare accuse di cotesto genere,
si confortava dicendo al suo corrispondente: Però il grande Iddio ha permesso per sua
infinita bontà I Opere, I, 226-7, 266. ? Per Bruno, v.
il mio G. Bruno,160 sgg. 3 Qualcuno a Napoli nel 1720 ricordava
forse ancora qualche debolezza giovanile del V., in fatto di religione. Fausto
Nicolini mi comunica in proposito:
Che V. attraversasse nella sua gioventù un periodo di cupo
pessimismo, è cosa che gli Affetti di un disperato non potrebbero
mostrare in modo più chiaro. Di più, ancora nel 1710, V. dirà (prologo
del De antiquissima) che i suoi amici più cari erano Agostino Ariani,
Nicola Galizia e Giacinto De Cristofaro. E proprio contro l’ultimo fu
intentato nel 1687-1693 un clamorosissimo processo per ateismo dal Sant’
Ufficio: processo di cui discorre a lungo l’AMABILE nel suo libro sul
Sant’ Ufficio a Napoli (ne aveva già parlato il GIANNONE) e del quale
esiste anche uno spezzone inedito nella Biblioteca Nazionale (molte
notizie complementari si trovano anche nei Giornali inediti del CONFUORTO
e soprattutto nei carteggi cifrati del nunzio pontificio a Napoli, serbati
nella Vaticana). Dal pro che la religione istessa mi servisse di scudo, e
che un padre Giacchi, primo lume del più severo e più santo ordine
de’ religiosi, desse tal giudizio, per bontà sua, delle mie debolezze »
!. Comunque, il suo pensiero viveva dentro questo mondo, in
cui tutto è Dio; e questo suo pensiero egli stesso viveva con profondo
sentimento, che ricollega nella storia del nostro pensiero, direttamente, V. a
Bruno, suo forse ignorato precursore; ed è da entrambi chiamato, con
termine neoplatoneggiante, mente eroica, o spirito eroico ?
cesso e dagli atti sussidiari appare che il De Cristofaro faceva gran
propaganda e che affetta da lebbra epicureo-lucreziana-atomistica-ateistica
fosse parte della gioventù studiosa napoletana (compreso il Galizia). Finora il
nome del V. non è venuto fuori (disgraziatamente molti nomi nel processo
sono indicati con segni convenzionali). Ma, tenuto conto di tutte le
circostanze, non sarebbe illegittimo congetturare che anche lui, come tanti
giovani suoi coetanei, avesse una parentesi ateistica o semiateistica. E si
consideri poi una coincidenza per lo meno curiosa. Nel Diritto Universale
e anche nelle due Scienze Nuove V. pone ripetutamente l’equazione filii Dei o filii Jovis = eroi, nobili
». Orbene quest’equazione appunto era addebitata nel 1693, come un forte
capo di accusa, al De Cristofaro e agli altri coaccusati, i quali, al dir
dei denunzianti, ne cavavano la conseguenza che l’attributo di filius Dei» dato a Cristo volesse dire, non
già che egli fosse davvero figlio di Dio, ma, alla stessa guisa degli
eroi dell’antichità pagana, che fosse soltanto un uomo illustre ». Ma lo
stesso Nicolini non crede di esser giunto sopra questa materia a
conclusioni definitive. I Autob., p. 143. 2 V. lett.
del 25 nov. 1725, in Autob., p. 175. Che V. abbia potuto leggere qualcuno
degli scritti del B. è reso probabile dal fatto che questi, a tempo del V.,
dovevano essere familiari tra gli amici stessi del V.. Che Tommaso
Cornelio ne avesse letto qualcuno lo dimostrano i suoi Proginnasmi. Ma quel
Giuseppe Valletta, nella cui biblioteca, come abbiamo visto (p. 32), V. poté
leggere Campanella, aveva pure il De l’ infinito universo e mondi del
Nolano. In un suo libro cominciato a stampate ma rimasto incompiuto (conservato
tra i Mss. della Bibl. Naz. di Napoli, colla segn. 149 Q. 26) Sul
procedimento del Sant’ Uffizio,LKXXIHI e LXxXII, s'incontra la seguente
citazione importantissima per la storia della fortuna che ebbero le opere del
Bruno: Il p. Cantini, non sapendo, o fingendo di non sapere ciò che
disse Sant'Agostino nel libro VII della Città di Dio: Mundus unus est,
et in eo uno omnia sunt, e nel Sermone XII sulle parole
dell’Apostolo: Unum mundum condidisti, ed egualmente nel cap. X del libro
3 Contro gli Accademici, si pose egli ad esplicare la probabilità di sì
fatta sentenza », e audacemente dice.... che noi non dobbiamo condannare
il parere In questo suo mondo V. potrà trovare il principio della
Scienza Nuova (il concetto della provvidenza realizzantesi nella storia).
In questa prima fase del suo filosofare egli ha in mente, ma non vede,
l’unità del divino e dell'umano; e però parla di simulacro, come Pico
della Mirandola. Non la vede, perché non ha ancora viva coscienza della
realtà umana; e la sua realtà vera è an di altri filosofi intorno alla
pluralità de’ Mondi, quasi ripugnante alle Sacre lettere, perché, se
alcun s’applicasse, dic’egli, a considerar la cosa più da presso e più
naturalmente, inveniet cam certe multum habere probabilitatis. Il che
reca non poco di meraviglia in un uomo di tanta autorità quanto egli
certamente si era; e potrebbe, se non altro, dar luogo alla calunnia, di
dire che egli abbia per avventura approvato la dottrina di Giordano
Bruno; la quale avesse piaciuto al Cielo, che fosse rimasta affatto
incenerita nelle giustissime fiamme, in cui arse l’autore e non vivesse
ancora nel suo abbominevole libro scritto della pluralità di Mondi. Questo, con
idea non più intesa, disotterrando le più stravaganti opinioni, già
sepolte de’ Greci, de’ Caldei e degli Egizi, fece un nuovo ed inudito
sistema; dove a pruova risplende l’umano ardimento e la libertà non meno
di pensar tutto ciò, che è possibile, che di scrivere tutto ciò che può
pensarsi. Nî/ mortalibus arduum, coelum ipsum petitur stultitié. Giace,
dice egli, nel mezzo del nostro Mondo immobile il Sole; e la Terra con
perpetue vertigini intorno a quello s’aggira: come in un Madrialetto,
posto nel terzo dialogo: Quanto nel Cielo, e sotto il Ciel si
mira, Non sta, si volge, e gira. Né di ciò contento, vuole
che ogni pianeta sia una terra, e ciascuna stella sia un altro sole; e
che detti pianeti non siano quei pochi, che noì osserviamo, nettampoco le
stelle: ma infiniti ed innumerabili, e quelli e queste sparse nello
spazio infinito dell’ Universo; che, essendo com'’ei dice, immagine dell’
Onnipotenza infinita, non dee riconoscere termine alcuno. E non bastando questo
alla vastità della sua immaginazione, s'avanza a dire che tutti questi infiniti
Mondi sono abitati da sostanze diverse e forse migliori della nostra: e che l’
interminata ampiezza dell’ Universo sia assistita e governata da un'anima
universale, non meno che ciascuno Mondo dalla sua particolare. Alla fine
questo scellerato, prevedendo gli effetti della sua disperata libertà,
così, dopo apportati gli argomenti per la sua opinione, traboccando d’una
in altra empietà, fa parlare nel primo dialogo a I'iloteo: Questi, se non
sono semplici, sono demostrativi sillogismi, tuttavolta che da alcuni
degniì Teologi non se admettano; perché provvidamente considerando, sanno
che gli rozzi popoli ed ignoranti, con questa necessità vegnono a non
posser concipere come possa star la elettione, e dignità, e meriti di
giusticia: onde, confidati o desperati sotto certo fato, sono
necessariamente scelleratissimi. Come talvolta certi correttori di leggi, fede
e religione, volendo parere SI cora per lui, come per
i platonici, quella che fa Dio: la natura, la stessa natura di Ficino, di
Bruno e di Spinoza. E rispetto a questa natura, l’uomo non è dentro, ma
fuori della realtà divina; e può solo intuirla risalendo all’ Uno, cioè come
operazione non propria, ma di questo Uno (che è il dommatismo
spinoziano). Qui si ferma V., restando innanzi al dualismo, e quindi
allo scetticismo, che corrode alla radice la metafisica del De
antiquissima. Concludendo, nella Orazione del 1699, il confronto
tra Dio e lo spirito umano, V. dice:
Tandem Deus naturae artifex; animus artium, fas sit dicere, Deus » 1.
Formola che coincide a capello con quella del Ficino, e anticipa la
gnoseologia del De antiquissima. C'è l’unità e c' è l'opposizione:
l’unità nelle arti (mondo delle nazioni, si dirà nella Scienza Nuova),
dove, se è vero, come V. ha detto, che Dio en terra cuncta gignit,
lo spirito non crea se non in quanto è esso stesso Dio (senza metafora);
l'opposizione nella natura, dove Dio crea, e l’uomo guarda da
fuori. Da questo punto di partenza V. potrà giungere alla
Scienza Nuova, ma non potrà mai superare la posizione del De
antiquissima; perché quella natura, di cui la metafisica può avere un’
intuizione indimostrabile, essendo fuori dello spirito, non potrà mai
risolversi nello spirito *. savii, hanno infettato tanti popoli,
facendoli dovenir più barbari e scellerati che non eran prima, dispregiatori
del ben fare, ed assicuratissimi ad ogni vizio e ribalderia, per le
conclusioni che tirano da simili premisse. Però non tanto il contrario
dire appresso gli sapienti è scandaloso, e detrae alla grandezza ed
eccellenza divina, quanto quel che è vero, è pernicioso alla civile
conversazione e contrario al fine delle leggi, non per esser vero, ma per
esser male inteso, tanto per quei che malignamente il trattano, quanto
per quei che non son capaci de intenderlo, senza jattura de’ costumi ».
(Cfr. BRUNO, Opere ital. ed. Gentile, 1%,339 € 301). Su codesto scritto
del Valletta, e l'occasione a cui si riferisce, v. AMABILE, Il Sant
Offizio, II, 64. I Opere, I, 8. 2 Accenno alla
tesi dello Spaventa circa il concetto della metafisica della mente, di cui la
Scienza Nuova dimostrerebbe per lo meno L'avrebbe superata, se
avesse potuto cangiare il suo mondo, e non essere insomma V.
neoplatonico, riportante tutto a Dio e mirante quindi la natura come
parallela allo spirito nelle manifestazioni di Dio, per concepire non più
questa dualità di natura e artes, ma una natura essa stessa ars di quel
Dio che è animus; e ridurre insomma tutto ad ars. Elementi
corrosivi dell’oggettività platonicamente trascendente del reale, che si
organizzeranno alla meglio a poco a poco per la laboriosa meditazione del
mondo umano del diritto e in generale della storia, nella Scienza
Nuova, ce ne sono, e di grandissima importanza, già in questa
Orazione del 1699. Poiché fin da questo scritto il nostro filosofo ha un
acuto intuito dell’attività creatrice dello spirito. La fantasia, nello
stesso senso della Scienza Nuova, autrice di un suo mondo pieno e
perfetto, contemplato dalla sapienza poetica, fa qui la sua prima
apparizione: Vis vero illa rerum
imagines conformandi, quae dicitur ‘ phantasia ‘, dum novas formas gignit
et procreat, divinitatem profecto originis asserit et confirmat.
Haec finxit maiorum minorumque gentium deos; haec finxit heroas; haec
rerum formas modo vertit, modo componit, modo secernit; haec res maxime
remotissimas ad oculos pontt....». Né questa facoltà di creare gli
dèi è assegnata incidentalmente alla fantasia. Quel luogo d’oro di
Giamblico nel De mysteriis Aegyptiorum, che sarà ricordato nella Scienza
Nuova a riprova della teoria dei caratteri poetici (dign. XLIV), che cioè
gli Egizi tutti 1 ritrovati_r_r-@y666 l'esigenza; e sono d’accordo
col Croce (La filos. di G. B. V., p. 137; 2% ed. p. 141), nel ritenere
che non si possa parlare di unificazione di natura e spirito in V.: il
quale s’arrestò, e doveva arrestarsi, alla dualità degli attributi. Ma è
vero che se egli non sa svolgere l’esigenza implicita nella posizione
della S. N., e deve mantenere la metafisica del De ant., cotesta
esigenza, che noi vediamo nella sua mente, è tale da distruggere la
posizione del De ant. Per la sua esigenza, V. va al di là di Spinoza e di
Leibniz, ed è kantiano prima di Kant. utili alla vita umana
attribuissero a Mercurio Trimegisto, doveva esser noto al V. fin da
quando scriveva nel ’99: Quid vero illa, quae aut singularem
utilitatem, aut summam admirationem hominibus voluptatemve attulerunt,
nonne ethnici homines, suimet ipsorum ignari, sive ad deos quosdam
retulerunt, sive deorum dona esse existimarunt? Leges, quod iis vitae
societas conservetur, deorum donum
» Demosthenes dixit; at eae donum humani animi vestrum similis fuit. Socrates
moralem philosophiam de coelo dictus est devocasse; at is potius animum
in coelum intulit. Medicinam Graecia ad Apollinem retulit, eloquentiam ad
Mercurium; at ii homines, ut quivis vestrum fuere. Orphei lyra, Argus
navis, inter sidera invecta, vestras hominum mentes luculento testimonio
caelestes esse confirmant. Et, ut hanc rem omnem brevi complectar, dii
omnes, quos ob aliquod beneficium in hominum societatem collatum coelo
appinxit antiquitas, vos estis. Razionalismo evemeristico, che si
fonde nel pensiero fondamentale dell’animus artium deus (poiché leggi,
filosofia morale, medicina, eloquenza, musica e poesia son tutte arti); e
dà alla fantasia creatrice degli dèi, propria degli uomini suimet ipsorum
ignari, un posto nella metafisica generale del nostro pensatore. Che poi la
fantasia creatrice di questi, come dirà più tardi V., caratteri
poetici o ritratti ideali, che sono gli dèi degli antichi, non sia pur
fatta creatrice di tutti gli dèi, antichi o moderni — poiché anche la religione
è un’ars — non vorrebbe dir nulla, se V. avesse la forza di rovesciare il
suo mondo sulla propria base, per fondarlo sullo spirito: allora la sua
fantasia, il suo spirito diverrebbe creatore davvero del cielo e della terra.
Per esser tale, infatti, non avrebbe bisogno di saperlo; anzi non
dovrebbe saperlo: suimet ipsius ignarus. V., interrogato, a rigore non
potrebbe non negare. Questa è, e rimarrà, una pura esigenza del suo
pensiero: non far creare misteriosamente l'uomo da Dio, ma,
razionalmente, Dio dall’uomo. Certo, da queste prime formule del suo
pensiero fino alle dignità più solide e definitive di esso, sta per V.
che gli uomini prima sentono senz’avvertire, dappoi avvertiscono con
animo perturbato e commosso, finalmente riflettono con mente pura» (dign.
LIII); e in generale, come per Schelling, prima è il fare e poi il sapere
di aver fatto; verum ipsum fecisse (prima aver fatto); e la Scienza
Nuova può essere una dimostrazione di fatto storico della
Provvidenza, perché dee essere una
storia degli ordini, che quella, senza verun umano scorgimento o
consiglio, e sovente contro essi proponimenti degli uomini, ha dato
a questa gran città del genere umano » ®. È dunque stretta dottrina del V.,
che la piena coscienza del suo pensiero non può esser nel suo pensiero, ma solo
nella riflessione posteriore. Né la fantasia crea soltanto le
religioni. Crea le lingue, con sorprendente rapidità; sì che a due anni, al
più a tre, si sanno omnia verba et res quibus communis vitae usus
continentur; che se si volesse redigerne un vocabolario, vi occorrerebbero di
gran volumi. Così ognuno di noi ha in sé una filosofia, tutto lo scibile:
e non lo sa. Basta attendervi. L’ innatismo platonico si colorisce
di immagini stoiche, dove V. esorta ad eccitare 2/as nobis tot
rerum atque tantarum a prima veritate insitas et quasi consignatas
notiones, quae in animo, tanquam igniculi sepulti, occluduntur; et magnum
cunctae eruditionis incendium excitabimus. Ricorda poi la storia del
Menone platonico, dove lo schiavo ignaro di geometria, accortamente
interrogato, si palesa geometra. Vobiscum sunt, vobiscum scientiae
omnes, adolescentes, si vosmet 1sos recte novenitis,
fortunatissimi. Questo innatismo è un modo della inconsapevolezza
originaria dell’anima, quale va concepita nella dottrina I S. N..
IT. neoplatonica del descenso in contrapposto all’ascenso. Lo
spirito umano è, in quanto è ignaro dei tesori celati nel suo grembo !.
Ne acquista coscienza con la volontà, come richiede il platonismo,
dall’&owg del Convito all'amor Dei intellectualis dell’ Ethica. O insignem
desidiosorum ignominiam, eos sapientes non esse! Cur? quia noluerint;
quando ut sapientes simus, id voluntate maxime constat ». E a persuadere che
questo tesoro è già nell'animo, e che basta quindi volere, che cioè
veramente lo spirito non possiede soltanto quello che sa di
possedere, come Leibniz nei Nuovi Saggi anche V. scende all'osservazione
di quelle che il filosofo di Lipsia dirà piccole percezioni. Quivis vestrum
cottidie tabulas pictas intuetur, sed innumera non videt quae pictores
observant; cottidie symphonias et cantus audit, sed quam multa eum
fugiunt, quae exaudiunt in eo genere exercitatt ! Non vi manca altro,
conchiude V., che l’arte del vedere e dell’udire. Che più ?
La stessa filosofia non è se non una scoperta, che chi vuole fa dentro di sé,
di un mondo che reca in se stesso, anche se non vi rifletta mai su. A
dimostrazione di ciò, neoplatonicamente, V. esemplifica ai suoi uditori
il processo filosofico come un itinerario della mente a Dio: a sui ad Dei
cognitionem ascensto. Ma l’esposizione di questo processo riesce affatto nuova
e sorprendente a chi, familiare col V. delle opere da lui pubblicate, legga per
la prima volta queste orazioni che egli, maturata la sua filosofia,
rifiutò. L’acerbo critico di Cartesio qui ci apparisce cartesiano.
Vediamo. Etsi de omnibus omnino rebus mens humana haereat
dubitetque, nullo usquam pacto ambigere potest quod cogitet, nam id ipsum
ambigere cogitatio est. Cum itaque nequeat se non cogitationis consciam
agnoscere, ab ea cogitandi conscientia conficit primum, quod sit res
quaedam; nam, si nihil esset, qui cogitaret ? Questo è il
cogito ergo sum cartesiano, se anche non esposto con tutta la precisione
desiderabile (poiché con quel nam sî nihil esset la verità della
proposizione cessa di essere quella res per se nota simplici mentis
intuitu che Cartesio voleva). Ma V. prosegue: Deinde sibi infinitae
cuiusdam rei notionem esse insitam sensit; tum adsumit tantundem in
caussa esse oportere quantum in re est, quae ab ea caussa producatur:
hinc denuo colligit, eam infinitae rei notionem a re, quae sit infinita,
provenire. Heic se finitum et imperfectum agnoscit: itaque infert eam
notionem sibi ab infinita quadam re, cuius ipse aliqua sit particula,
obortam esse. Hoc explicato, adsumit: — Quod infinitum est, in se
continet omnia, nec a se quicquam excludit. — Hinc rursus complectitur
eam notionem sibi esse a natura omnium perfectissima ingenitam.
Proponit iterum: — Quod perfectissimum est, id omnibus est
erfectionibus cumulatum. — Colligit denuo: Itaque ab eo nulla secreta est. Ad haec assumit: Perfectio est quid esse. Tandem denique concludit: Est igitur Deus. Cumque Deus sit omnia, est
omni pietate dignus !. È, come ognun vede, uno stringato estratto dalla
terza Meditazione cartesiana. Se non che, in qual modo si deve
intendere questo cartesianismo della prima fase della filosofia di V. ?
L’anticartesianismo è la sola norma legittima della sua interpetrazione. Nel De
antiquissima e nella polemica col Giornale de’ letterati egli svolgerà
una critica della certezza cartesiana, che ha due momenti
inseparabili. I) La certezza del cogito è coscienza,
nonscienza. Scire est tenere genus seu formam, quo res fiat;
conscientia autem est eorum, quorum genus seu formam demonstrare
I Opere.] non possumus!. O altrimenti: la scienza è aver cognizione di
quella causa che per produrre l’effetto non ha bisogno di cosa forestiera?:
onde il criterio di avere scienza di una cosa è il mandarla ad effetto; e
che il pruovare della causa sia il farla; e questo essere assolutamente
vero, perché sì converte col fatto, e la cognizione di esso e la operazione
è una cosa istessa »3. V. avverte che egli non rifiuta perciò
l’analisi con la quale il Cartesio perviene al suo primo vero ». Sarebbe
cioè ancora disposto a farla sua, come nella Orazione del 1699. Io
l’appruovo e l’appruovo tanto, che dico anche i Sosi di Plauto, posti in
dubbio di ogni cosa da Mercurio, come da un genio fallace, acquetarsi a quello
sed quom cogito, equidem sum. Ma dico che quel cogito è segno indubbitato
del mio essere; ma, non essendo cagion del mio essere, non m'’ induce
scienza dell’essere » 4. 2) Il vero processo per V. è quest'altro:
Quid in me cogitat; ergo est: in cogitatione autem nullam corporis
ideam agnosco; id igitur quod in me cogitat, est purissima mens, nempe
Deus. Perciò egli, approvando l’analisi cartesiana, può illustrare il
significato del cogito, dicendo che questo cogito non è ‘causa, ma signum
dell’ esse: Nisi forte mens humana ita sit comparata, ut cum ex
rebus, de quibus omnino dubitare non possit, ad Dei Opt. Max. cognitionem
pervenerit, postquam eum morit, falsa agnoscat vel ca, quae omnino
habebat indubia. Ac proinde ex genere omnes îdeae de rebus creatis prae
idea summi Numinis quodammodo falsae sint, quia de rebus sunt, quae
ad Deum relatae non esse ex vero videntur: de uno I Opere, I,
139. 2 Prima risp., II e III in fine; Sec. risp., $ IV. 3
Sec. risp., $ IV: Opere, I, 258. 4 Prima risp., II; cfr. De ant.] autem
Deo idea vera sit, quia is unus ex vero est » 1. E però V. rimprovera al
Malebranche, che pur platoneggiava, di non essersi accorto che la mente
umana può ricavare la cognizione, non pure del corpo, ma di se
medesima, soltanto da Dio; ita ut nec se quoque cognoscat, nisi in
Deo se cognoscat. È così, completando il processo già esposto: Mens cogitando se exhibet: Deus in me
cogitat: in Deo igitur meam ipsius mentem cognosco ». Sicché
la critica vichiana, se si guarda nel suo primo momento, ha un
significato; nel suo complesso ne ha un altro. A V. sfugge interamente il
valore del cogito cartesiano, perché lo vede sempre in quel mondo, in
cui non è centro il pensiero come pensare (ego cogito), ma il
pensiero come pensato: l’ Idea, l’ Uno, il Dio platonico e neo-platonico.
Il cogito non può essere la causa dell’esse (cogitansì, come pure evidentemente è per chi attribuisce
al cogito il valore e l'autonomia che gli spetta, perché V. non vuol
dimenticare (e Cartesio stesso, per altro lo dimentica fino a un certo
punto) quello che ha appreso dalla vecchia filosofia: che l’esse,
lo stesso esse cogitans, non è causa sui, non è sostanza, ma res creata,
la quale perciò non ha in sé nessuna verità, e va riportata alla sua
causa, che è la sua sostanza. Il punto di vista vichiano contro
Cartesio è panteistico e antispirituale, precisamente come quello di
Spinoza ?, che, persuaso, da buon neoplatonico, che ad essentiam
hominis non pertinet esse substantiae, opponeva la stessa critica a
Cartesio: vulgus philosophicum incipere a creaturis, Cartesium incepisse a
mente, se incipere a Deo 3. Cotesto punto di vista V. non sorpassò mai; e
in I De ant., c. VI; in Opere, I, 173-4. ? V. Epist.
2; la pref. del MEyER ai Princ. philos. Cartes., e Eth., II, prop. X,
sch. 2. 3 Tschirnhaus a Leibniz, in L. STEIN, Leibniz u. Spinoza, Berlin.]
certe aggiunte, poi rifiutate, che faceva nel 1731 alla Scienza Nuova *,
ripeteva con leggiere varianti, la stessa critica, sul principio che gli
addottrinati non debbono ammettere alcun vero in metafisica che non
cominci dal vero ente, ch’ è Dio ». Ricorda quivi e critica anche
Spinoza, sforzandosi (con argomenti che dovevano contentar poco lui
stesso, e più tardi infatti vi rinunziò) di dimostrare una reale distinzione
tra il mio essere e il vero Essere. La questione già gli si
era presentata nel De antiquissima; quando arditamente asseriva: 1n Deo meam
1ipsius mentem cognosco; facendo Dio omnium motuum sive corporum sive
animorum primus Auctor. Gli s'era affacciata negli stessi termini che a
Plotino e a tutti quelli che s’eran messi sulle tracce di lui, finché
Spinoza non trasse col coraggio del genio filosofico la conseguenza
necessaria, che sola poteva chiarire il gran difetto di quel primus
Auctor. Unde mala? V. sente tutta la difficoltà: sed heic
illae syrtes, illi scopuli. Quonam pacto Deus mentis humanae motor, et
tot prava, tot foeda, tot falsa, tot vicia ? ». Cartesio che, appena
raggiunta la sola realtà certa del pensiero, la smarrisce ricascando nel
platonismo della cognizione intellettuale, che è passiva intuizione
delle idee oggettive, spiega del pari platonicamente l'errore con la
volontà: che non si sa poi perché non debba essere della stessa passività
dell’ intelletto, se la sua libertà non importa altro che la possibilità
dell'errore. La soluzione del V. è più profonda. Nessuno, come insegna il
Vangelo di Giovanni, può andare al Padre, misi Pater idem traxerit. E la
volontà ? Quomodo trahit, st volentem trahit? V. aveva accettato e
accetta la dottrina agostiniana come la più conforme alla so I
Pubblicate per la prima volta nell’ed. Nicolini,242-3, ma da lui
anticipate nella Critica, VIII (1910), p. 479. stanza (necessità)
della volontà divina, e alla libertà della nostra; mantiene cioè l’azione
divina, e la volontà umana; o meglio quella in questa. Giacché, spinozianamente,
egli nega l’assolutezza del male, nega il finito come finito, che
non sia modo dell’ infinito. Questo luogo del De antiquissima non è stato mai
ben considerato, ma è di grande importanza per l’ intelligenza del
pensiero vichiano: Hinc fit quod in ipsis erroribus Deum aspectu
non amittimus nostro: nam falsum sub veri specie, mala sub bonorum
simulacris amplectimur: finita videmus, nos finitos sentimus; sed
id ipsum est, quod infinitum cogitamus: motus a corporibus
excitari, a corporibus communicari nobis videre videmur; sed eae ipsae motus
excitationes, eae ipsae communicationes Deum, et Deum mentem, motus
authorem asserunt et confirmant; prava ut recta, multa ut unum, alia ut idem,
inquieta ut quieta cernimus !. Nel De antiquissima quindi
conchiude tornando a dire ambiguamente: Sed cum neque rectum, neque
unum, neque idem, neque quietum sit in natura; falli în his rebus
nihil aliud est, nisi homines vel imprudentes vel falsos de creatis
rebus in ipsis imitamentis Deum Opi. Max. intueri »; come se realmente l’
intelligibilità da lui veduta nel molteplice non fosse l’uno, e nel movimento
la quiete, e così via. Ma il fiore sboccerà nella Scienza Nuova:
dove i bestioni diverranno la prima forma necessaria dello spirito divino
nel corso dell’umanità: e la grazia agostiniana diventerà quindi assoluta
immanenza. Ma torniamo al cartesianismo vichiano del 1699. È
chiaro ormai ch’esso è tutto un cartesianismo platonico, e come dire,
capovolto. Tutti i mistici medievali, da Agostino in poi, movendo da
Plotino, rientrano în ?1nteriore homine, per risalire quindi sopra la mente a
Dio. E V. aveva ragione di dire che quel che c’era di nuovo
I De ant., c. VI: Opere, I, 174; cfr. Opere2, ed. Ferrari, III, LA PRIMA FASE
DELLA FILOSOFIA VICHIANA per lui, in Cartesio, era falso, e il vero era
vecchio: non cartesianismo, ma platonismo. Ecco qui che cosa aveva
egli letto, per esempio, nella Teologia platonica del Ficino *:
Neque audiendi sunt sceptici, si negaverint in animis nostris esse
veritatem, quia videantur de singulis dubitare. Non enim
de omnibus dubitat animus, ut apparuit in omnibus necessariis veritatibus
quas narravimus, et similibus. Hoc mihi candidum videri scio. Hoc mihi iucunde olere
scio. Hoc dulciter gustum attingere scio. Quis nesciat summum bonum esse,
quo nihil praestantius ? Et esse vel in homine, vel extra hominem, et si in
homine, vel in animo, vel in corpore, vel in utroque ? Quis non certo
sciat Deum esse, vel non esse ? et si sit, oportere unum esse, vel
plures, et si plures, aut finitos numero, aut infinitos ? oportere Deum esse
corporeum, vel incorporeum, ac si non sit corporeus, esse necessario
incorporeum ? [Fin qui è benissimo espresso il carattere della vecchia
metafisica scrollata dal cogito cartesiano: tutta concetti senza realtà,
0, se sì vuole, tutta verità senza certezza). Item regulas multas
astrologiae et medicinae certas esse declarat effectus [che è, si badi,
il concetto dell'esperimento, non baconiano, dunque, ma ficiniano di V.]*,
ut arithmeticas et geometricas praetermittam, quibus nihil est certius
[che è pure la dottrina vichiana) 3. Et quod maius
est, si quando animus de re aliqua dubitat, tunc etiam de multis est
certus. Nam se tunc
dubitare non dubitat. ‘Acsi certum habet se esse dubitantem, a
veritate certa id habet certum. Quippe qui se dubitantem intelligit,
verum intelligit, et de hac re quam intelligit, certus est, de vero
igitur est certus. Atque omnis qui utrum sit veritas dubitat, in seipso habet
verum, unde non dubitet. Nec ullum verum nisi veritate verum est. Nonigitur oportet I
Lib. XI, c. 7; ed. cit. I, p. 263. 2 Cfr. De ant., c. I, $ 2:
Opere, I, 136: In physica ea meditata probantur, quorum simile quid
operemur: et ideo praeclarissima habentur de rebus naturalibus cogitata, et
summa omnium consensione excipiuntur, si iis experimenta apponamus,
quibus quid naturae simile faciamus ». 3 Cfr. sopra30-31, e ancora
Theol. plat., VIII, 2 (I, p. 185) e 4 (p. 189), dove il Ficino chiarisce
il carattere soggettivo o mentale delle realtà matematiche. eum de
veritate dubitare, qui potuit undecumque dubitare, ut Augustinus inquit,
praesertim cum non modo se dubitare intelligat, sed quod hoc intelligit
animadvertat, et quod animadvertit agnoscat, ac deinceps in infinitum.
Discernit praeterea dubium animum ab indubio. Nec eum latet quanto satius
foret non dubitare, et quam ardenter cupiat veritatem. Certitudinem
cum dubio comparat, quo fit ut de utrisque sit certus. Est insuper
certus se investigare, sentire, vivere, esse. Siquidem nihil dubitat qui
non est, vivit, sentit, et investigat. Certus quoque est se non esse primam
veritatem, quippe cum ipsa per se non dubitet. Scit eam dubitatione
et errore non implicare Qui il cartesianismo di V. c’ è tutto; ma
a suo posto: la verità trovata dalla mente, in se stessa, è atto
della verità che trascende la mente, e si celebra in un’altra
mente, la quale agisce in noi. Giacché in questa assenza della mente
nostra a se medesima, o in questa passività della mente, in quanto mente
infinita, si fonda neoplatonicamente il concetto della inconsapevolezza
originaria dello spirito come fantasia, quale si vede, per la prima
volta, nella nostra Orazione. Il legame intimo dei due concetti è chiaro
appunto in Ficino, e mi permetto di riportare ancora un lungo passo di
lui per l’ interesse che ha qui il chiarimento di questo punto:
Mens autem, quae supra nos est, quia purus intellectus est, puro
intelligibili pascitur, id est pura fruitur veritate. Eadem nostra mens
assidue vescitur, si epulis superioris mentis accumbit. Nec iniuria
intelligentiam in anima essentialem perpetuamque locamus, quia ex eo est
in anima, quod convenit cum perpetuis eius essentiae causis. Et sicut animae
ingenitus est appetitus boni perpetuus atque essentialis, ita et ipsius
veri naturalis essentialisque intuitus, sive tactus aliquis potius, ut Iamblici
verbis utar. Tactus, inquam, omni cognitione discursuque prior
atque praestantior 1. Eiusmodi sententiam hac insuper ratione
divinus ! Cfr. il celebre luogo del CAMPANELLA, Metaph. I,
proem.: A Deo errantes per
fiagella reducti sumus ad viam salutis et cognitio- [Iamblicus
confirmavit, quod quemadmodum temporalia contingentiaque per temporalem
contingentemque cognitionem attingimus, ita oportet necessaria et aeterna per
essentialem et perpetuam attingere notionem, quae non aliter
inquisitionem nostram antecedit, quam status motum. Temporalis vero
cognitio ita inquisitionem sequitur, ut contingens effectus motum
sequitur ac ‘tempus. Putant autem divinum ipsum mentis actum, qui
quodam intuitu et quasi tactu divinorum fit, propter actiones inferiores
non intermitti quidem in seipso, quamvis quod animadversionem pertinet, in
viribus inferioribus intermittatur, atque actus intellectus rationalis,
vel rationis intellectualis, qui discursione fiunt, propter operationes
inferiores soleant intermitti, atque e converso. Verum cur
non animadvertimus tam mirabile nostrae illius divinae mentis spectaculum
? Forsitan quia propter continuam spectandi consuetudinem admirari et
animadvertere desuevimus. Aut quia mediae vires animae, videlicet ratio
et phantasia, cum sint ut plurimum ad negotia vitae procliviores,
mentis illius opera non clare persentiunt, sicut quando oculus
praesens aliquid aspicit, phantasia tamen, in aliis occupata, quod
oculus videat non agnoscit. Sed, quando mediae vires agunt
ocium, defluunt in eas intellectualis speculationis illius scintillae
velut in speculum. Unde et vera ratiocinatio nascitur ex intelligentia
vera, et humana intelligentia ex divina. Neque mirum est aliquid in mente
illa fieri quod nequaquam persentiamus. Nihil enim animadvertimus nisi
quod in medias transit vires. Ideo licet saepe vis concupiscendi esuriat
atque sitiat, non prius tamen hoc animadvertimus quam in phantasiam
transeat talis passionis intentio. Nonne nutriendi virtus assidue agit ?
Assiduam tamen actionem eius haudquaquam perpendimus, itaque neque
perpetuam mentis intelligentiam. Neque ex hoc est intelligentia illa
debilior, quod intelligere nequaquam nos agnoscamus; imo est potius
vehementior. Saepe enim dum canimus aut currimus, canere nos aut currere
nequaquam excogitamus, atque ex hoc attentius operamur. Animadversio enim
actionis intentionem distrahit animae, ac minuit actionem. Tyrones in
qualibet arte opera eius artis sine attentione non agunt, veterani autem,
etiam nem divinorum, non per syllogismum, qui est quasi sagitta
qua scopum attingimus a longe absque gustu, neque modo per authoritatem,
quod est tangere quasi per manum alienam, sed per tactum intrinsecum in
magna suavitate ». si non attendant, habitu quodam et quasi natura
operantur. Quid prohibet talem esse continuam mentis intelligentiam ?
!. Intuizione, che da Bruno? fino a Schelling, Schopenhauer e
Hartmann avrà grande fortuna, finché non si saprà scorgere la potenza
creatrice dello spirito, e però l’unità di queste che Ficino dice mens e
ratio. Anche per V., da principio, la cognizione originaria, la vera
cognizione, base d'ogni riflessione, è questo tesoro non nostro, e
quest’asinità, come l’aveva detto Bruno, che sarà essere, o sostanza, ma
non è pensiero; onde l'asino, per dirla ancora con Bruno, solo se è
predestinato, può arrivare alla Gerusalemme della beatitudine e
visione aperta della verità divina:
perché gli sopramonta quello, senza il qual sopramontante non è
chi condurvesi vaglia » 3. V. nella Scienza Nuova scoprirà una Gerusalemme
della ragione tutta spiegata, a cui si conduce l'uomo con le sue forze;
ma potrà scoprirla in quanto, profondandosi sempre più nella stessa
intuizione neoplatonica, troverà che le forze dell’uomo sono la stessa
forza divina; e l’asino e il cavaliere bruniani diventeranno a’ suoi occhi un
essere solo. III. Con la seconda Orazione (18 ottobre
1700) si rimane nella cerchia della filosofia neoplatonica; e mal si
potrebbe scorgervi un accento personale e una traccia di elaborazione
originale del pensiero vichiano. Pure il V., quando già aveva tutte
quante scritte queste sei orazioni anteriori al De nostri temporis
studiorum ratione, 1 Theol. plat., libr. XII, c. 4; I, p.
273. * Cabala del cavallo pegaseo. 3 Opp. ital., ed. Gentile, IT,245-6.
questa orazione tra tutte tenne, una volta, degna di veder la luce
per istampa. Poiché una sua dedica del dicembre 1708 a Marcello
Filomarino ! dimostra che almeno allora non era dell’opinione espressa
più tardi nell’ Autobiografia e già da noi ricordata, poiché questa
seconda almeno pensava allora di darla alla repubblica delle
lettere; quantunque il suo disegno non avesse poi esecuzione. La
preferenza dell’autore per questa seconda orazione non può aver altro
significato se non che V. attribuiva uno special valore alle verità quivi
contenute, e le sentiva più vivamente nel suo animo. Profondità e
intimità, che ci viene per altro attestata dalla forte eloquenza con cui
l’autore esprime il suo pensiero in questa orazione, che è tra le pagine
più belle del V.. Egli vi espone principii dell'etica, di cui nella
precedente orazione aveva abbozzata la metafisica. Hostem hosti
infensiorem infestioremque quam stultum sibi esse neminem. Tema, che in
forma più piana può formularsi così: la felicità consiste nella
cognizione del saggio che conosce se stesso (nel senso della prima
Orazione) e, in se stesso, Dio. Il concetto medesimo classicamente
svolto da Spinoza nell’ Etica, sorretto dalla intuizione neoplatonica del
bene come Uno immanente nello stesso molteplice: onde ogni essere tende
all’unità da cui deriva. V. comincia dal contrapposto, che abbiamo
visto in Pico della Mirandola *, tra la natura e l’uomo: la natura,
governata da leggi necessarie, assolutamente inviolabili, per cui ogni
cosa non può essere che se stessa e non può realizzare se non la propria
legge; l’uomo, dotato di una prerogativa, che è il principio di tutti i
suoi mali: la libertà, onde può accogliere in sé le più aspre
contraddizioni. La natura è fatta, l’uomo si fa: o, come dice Opere, ed.
Ferrari, VI, 80-81. ® Vedi anche Ficino, Theol. plat.] V., nella natura
omnia ad aeternum exemplar facta, aeternoque consilio regi; nell'uomo
nedum diversa et contraria, sed a sua communique natura aliena atque
abhorrentia studia, e però, lungo il corso del tempo, un alzum a se atque
alium fieri. È meglio esser fatto o farsi ? Pel V. della Scienza Nuova la
risposta non sarà dubbia, quantunque, come ha nettamente veduto il Croce
1, né anche V. si liberi del tutto della trascendenza in modo da
poter conquistare un pieno concetto del progresso. In questa orazione tentenna,
come Pico, come Ficino, come ogni neoplatonico; e, in fondo, se si va
a vedere, questa che si dice libertà, è servitù, e la vera libertà
è quella per cui si nega la prima, senza conservarla, senza mostrare che
soltanto per la prima si giunge alla seconda. Ad ogni essere
Dio prescrive la sua legge. All’uomo questa, scolpita da V. nello stile
delle XII Tavole: Homo mortali corpore, aeterno animo esto. Ad duas
res, verum et honestum, sive adeo mihi uni, nascitor. Mens verum
falsumque cognoscito. Sensus menti ne imponunto. Ratio vitae auspicium,
ductum imperiumque habeto. Cupiditates rationi ancillantor. Ne mens de rebus ex
opinione, sed sui conscia iudicato; neve animus ex libidine, sed ratione
bonum amplectitor. Bonis animi artibus aeternam sibi nominis claritudinem
parato. Virtute et constantia humanam felicitatem indipiscitor. Si quis
stultus, sive per malam fraudem, sive per luxum, sive per ignaviam,
sive adeo per imprudentiam secus faxit, perduellionis reus sibi 1psi
bellum indicato » 2. La legge dell’uomo, adunque, è un valore che
non è valore; è un dover essere, che è essere; è una volontà,
I La filos. di G. B. V.,143-4; 28 ed.,147-8. 2 Riferita con
qualche variante dal V. nell’Autob., ed. Croce, p. 28.
mere Ade ii LA PRIMA FASE DELLA FILOSOFIA VICHIANA che è
piuttosto natura. Si determina in imperativi che, mentre par sì dirigano
da Dio all'uomo, sono rivolti da Dio a se medesimo. L’essere anima e
corpo, il tendere naturalmente (nascitor) a Dio come verità e come
bene, il conoscer la mente il vero e il falso, sono, e devono
essere, volontà di Dio; non sono, né possono essere, volontà dell’uomo. E se le
altre determinazioni della legge umana fossero dello stesso tenore,
l’uomo non si farebbe da sé quel che è (stultus o sapiens); sarebbe tale
per volere di Dio. V., non occorre dirlo, da questo genere di
determinazioni passò ad altre determinazioni che come libere potessero
essere rimesse alla libertà umana (non sottomettere la ragione ai sensi,
ma dar l'impero alla ragione, e a questa soggiogare gli appetiti, mirando
al fine da essa prescritto, e superando per tal modo la guerra tra
le passioni e le razionali aspirazioni); ma, poiché esse non sono se non
le definizioni della natura umana, quale può esser data dalla cognizione
della propria divinità (onde V. conchiude che lex, quam Deus humano
generi sanxit, sapientia est), poiché questa cognizione non può essere
del senso, ma solo della mente, la quale per natura cognoscit verum et
falsum, ed è quindi incapace di errore, non si vede come la legge
potrebbe esser mai liberamente violata: non si vede cioè come queste
altre determinazioni potrebbero esser leggi per la volontà umana
(leggi morali) e non più per la divina (leggi naturali), se V., come altri
prima di lui, non sottintendesse una volontà, che non è mens né sensus, o
meglio è insieme mens e sensus, e però può farsi questo e tornare ad
essere quella. Il motto, pertanto, di questa prima etica vichiana, è
quello della morale stoica e neoplatonica: seguir la natura: Si
sapientiae studiis animum adiungamus, naturam sequimur: sin ab ea ad
stultitiam traducamur, a nostra declinamus natura, et in cam facimus
legem ». Liberar la propria natura (concepita nella sua originaria divinità
astratta) dall’elemento estraneo sensuale, è il processo morale:
morale, perché eudemonologico, come fu concepito dalla filosofia greca;
eudemonologico, perché intellettualistico, come fu concepito da Socrate,
dalle scuole socratiche e nel neoplatonismo, per cui il supremo
fastigio dello spirito è amor Dei intellectualis. V. comincia dal
ritrarre co’ più foschi colori una truce immagine della guerra: scontro
degli eserciti avversi, e fiammeggiare degli odii sul campo, quando ferve
inesorabile l’ ira e il furore acceca le menti e una prepotente libidine di
strage infierisce negli animi. E i volti efferati minacciano eccidio, e
gli occhi rossi di fiamme cercano nel nemico il punto da ferire, e la
mano assale pugnace, e il ferro passa da parte a parte. Se gli uni
respinti indietreggiano, gli altri incalzano: se questi stan fermi,
quelli fanno impeto; dove si scompiglian le file, penetrano gli
avversari. Quindi, spettacolo miserando, il campo seminato di strage,
dopo la vittoria. E poi gli orrori delle devastazioni, dei saccheggi,
delle desolazioni. Ebbene, assai più terribili sono i mali arrecati
dalla guerra che dentro di sé lo stolto fa a se medesimo: onde si
perde patria, felicità, libertà e ogni fortuna. L’anima è parte
razionale, parte irrazionale. Nell’anima irrazionale, secondo l’ immagine
di Filone, ci sono come due cavalli, maschio e femmina; uno irascibile e
l’altro concupiscibile: uno tutto forza e impeto, l’altro tutto debolezza
e languore. Nato l’appetito di alcun bene apparente (frava cupiditas
alicuius apparentis boni), l’anima è gittata nelle passioni
(perturbationes), di cui la sorgente è l’amore; che è desiderio,
seilbeneè lontano; speranza, se sl può conseguire; gaudio, se presente;
gelosia, se si ritiene così alto, che uno solo ne possa godere; e quindi
emulazione, invidia se altri .ne ha molto, e noi poco. Ma, ottenuto lo
scopo e strappata la maschera, resta la cosa, e il bene diventa male, l’amore
diventa odio, e se il male è assente, ne viene l’avversione (abominatio
et fuga); se presente, la tristezza e il dolore. Edecco riscuotersi
l’altro cavallo, il maschio, l'ira; che si fa audacia, se può
vincere il male; se dispera della vittoria, rinasce l'appetito (della
parte concupiscibile): e se il male è tollerabile, ne viene la noia (faedium);
se trasmoda, lo sbalordimento (stupor). Le gioie s’alternano
perpetuamente ai dolori; ma quanto fugaci le gioie, e come fallaci tutte
le promesse a cui si arrende l'appetito ! Gli stolti che gli si
danno in balìa, veggono talvolta Il soave diletto di un Archimede
occupato, durante il saccheggio di Siracusa, nelle sue dimostrazioni
geometriche; di uno Scipione che, mal compensato da Roma della
distruzione di Cartagine, si ritira tranquillo in una villetta a studiare
e, chiuso nella sua virtù, godere delle meditazioni della filosofia e del
ricordo delle sue grandi gesta. Ma che perciò ? Basta forse la bellezza
della virtù, a metterli, destando il desiderio di sé, sulla via che
sola conduce a quella dolce gioia che non è premio della virtù, ma
la virtù stessa ? La virtù è scienza: scienza del giusto mezzo o di quei
termini, per dirla del poeta, Quos ultra citraque nequit
consistere rectum; è coerenza logica, per cui non si può lodare la
virtù e Seguire il vizio; è ragionevolezza, per cui l'uomo si
sottrae all’insania delle gioie vane e delle tormentose cupidigie.
Stulti vita semper ingrata, semper trepida est, semperque is sibi dissidet,
secumque pugnat: semper fastidio sui Llaborat, suique taedet ac poenitet.
Nunquam ei velle ac nolle decretum est ». Lo stolto, dice V., semper
foris est; nunquam secum habitat. Sconfitto nella guerra con
se stesso, egli vien cacciato dalla sua patria. Dalla patria del
sapiente: non dalla piccola città che un muro e una fossa serra,
ma dalla grande, cui circondano i flammantia moenia del poeta; non
dalla terra, che è governata dalla mente dell’uomo con umano diritto; sì
dal mondo, che aeterno regitur iure: dalla città, in cui con Dio abitano
i saggi: il mondo divino, che è la natura degli stoici e dei neoplatonici,
panteisticamente intuita nella sua divinità: etenim ius, quo haec maxima
civitas fundata est, divina ratio est toti mundo et partibus eius
inserta, quae omnia permeans mundum continet et tuetur ». Quella ragione,
che è in Dio, e costituisce la sapienza divina, è conosciuta dall’uomo, e
costituisce la sapienza umana (ma già dev’essere, com’ è detto nella
prima Orazione, anche nell'uomo, perché questi non la conosce se non in
se stesso); quella ferfecta ratio, come V. dice pure esplicitamente, qua Deus cuncta operatur, sapiens
cuncta intelligit ». Cuncta: anche le passioni, la cui conoscenza viene
ad essere perciò sapientia, quindi superamento della stultitia, e però
libertà virtù, felicità: tal quale in Spinoza. La quale virtù, appunto
come in Spinoza, allo stringer dei nodi, poiché Dio operando tutto, deve
pur operare quell’ intelligenza onde noi intelligimus omnia, cioè siamo
virtuosi, non è operazione dell’uomo, ma dello stesso Dio. A V. infatti
par troppo superbo il pensiero degli stoici, che la virtù (dell’uomo)
faccia il sapiente simile a Dio; e gli par più vero e più profondo dire:
una re nos Deus sur similes reddit, virtute, qua nedum humanae, sed cum
caelestibus etiam aeternae nos compotes facit felicitatis ». L'amore
intellettuale della mente verso Dio, aveva detto Spinoza, col quale V. era portato necessariamente
ad incontrarsi spesso dalla logica del suo pensiero 1, è lo stesso amore di I Sarebbe
tema degno di studio speciale quello dei rapporti ideali di V. con
Spinoza. Intorno ad alcuno dei probabili rapporti storici v. B. CROCE, La
filosofia di G. B. V., p. 198; 28 ed., p. 204. I riscontri della
metafisica vichiana con quella dello Spinoza notati da Dio:
l’amore cioè con cui Dio ama se medesimo, non in quanto è infinito, ma in
quanto si può esplicare per l’essenza della mente umana considerata sub specie
aeternitatis; o in altri termini, l’amore intellettuale della mente
CARLO SARCHI, Della dottrina di B. Sp. e di G. B. V., Milano,
Bortolotti, 1877,103-7, 195-6, additano certamente rassomiglianze non
trascurabili, quantunque qualcuna di esse sia inesatta; ma non dimostrano
nessun rapporto né storico, né ideale; perché non concernono nessun
concetto specifico dello spinozismo. Ecco invece alcune coincidenze
significative che potranno fornire materia a una speciale indagine.
Spinoza (Età. III, def. 1) distingue due specie di causa: Causam
adaequatam appello eam, cuius effectus potest clare et distincie per
eandem percipi. Inadaequatam autem seu partialem illam voco, cuius
effectus per ipsam solam intelligi non potest». E V. nella Prima risp. al
Giorn. d. Letter. (Opere, I, 221) avverte: Per vera cagione intendo
quella che per produrre l’effetto non ha di altra bisogno », 0, come
spiega nella Sec. risp. (I, 257), non ha di cosa forestiera bisogno »:
quella causa insomma nella cognizion della quale la scienza consiste, poiché il
criterio di avere scienza di una cosa, è il mandarla ad effetto ». Tutta
spinoziana, più che cartesiana, è la dottrina della sostanza e degli
attributi propugnata nel De antiq., e così riassunta nella Sec. risp. (I,
267): Sostanza in genere dico esser ciò che sta sotto e sostiene le cose,
indivisibile in sé, divisa nelle cose ch’ella sostiene; e sotto le divise
cose, quantunque disuguali, vi sta egualmente. Dividiamola nelle sue
spezie:sostanza distesa è quella che sostiene estensioni disuguali
egualmente; s o stanza cogitante è quella che sostiene pensieri disuguali
egualmente; e siccome una parte dell’estensione è divisa dall'altra, ma
indivisa nella sostanza del corpo, così una parte della cogitazione, cioè
a dire un pensiero, è divisa dall’altra, cioè da altro pensiero, ed è
indivisa nella sostanza dell’anima ». Cfr. De uno, lemm. I (Opp.?, ed.
Ferrari, III, 16). V., De antiq., c. IV,
$ 2 (Opere, I, 156-7), riproduce anche la distinzione spinoziana di
attributum e modus. Spinoziano è pure quel che V. dice nella Sec.
risposta (I, 268) intorno all’errore: Io non mai ho inteso dire false le
apprensioni nell’esser loro; perché i sensi, anche allorquando ingannano,
fanno fedelmente l'ufficio loro; ed ogni idea, quantunque falsa, porta
seco qualche realità, essendo il falso, perché nulla, impercettibile. Ma
le ho dette false, in quanto sono urti e spinte al precipizio della
mente in giudizii falsi ». Cfr. SPINozA, Eth., II, prop. 17 sch., prop.
35 etc. Per Spinoza (E#h., II, pr.
7) ordo et connexio idearum idem est ac ordo et connexio rerum; e per V.
egualmente: L'ordine dell’ idee dee procedere secondo l’ordine delle cose
» e le dottrine debbono cominciare da quando cominciano le materie che
trattano »: due dignità (LXIV e CVI) che, intese alquanto meglio che non
suonino le parole, si riferiscono allo stesso ordo di Spinoza. Per Spinoza è un corollario della cit.
proposizione quod Dei cogitandi potentia aequalis est ipsius actualì
agendi potentiae; hoc est, quicquid ex infinita Det DI
verso Dio è parte dell’ infinito amore onde Dio ama se stesso
!. Lo stolto, vinto dalle passioni, ci rimette la propria
felicità: perché la virtù, come dice Spinoza, è premio a natura
sequitur formaliter, id omne ex Dei idea eodem ordine eademque connexione
sequitur in Deo obiective»: che è il verum factum convertuntur rispetto a
Dio, di V.. Per Spinoza (E#à., I,
app.) il concetto delle cause finali è antropomorfico (quod scilicet
communtiter supponant homines, omnes res naturales ut ipsum propter finem
agere) e l’interrompere la ricerca delle cause meccaniche ricorrendo ad
Dei voluntatem è un ad ignorantiae asylum confugere. E V.: Gli uomini ignoranti delle naturali
cagioni che producon le cose, ove non le possono spiegare nemmeno per
cose simili, essi dànno alle cose la loro propria natura.... », e La
fisica degli ignoranti è una volgar metafisica, con la quale rendon le
cagioni delle cose ch’ ignorano alla volontà di Dio, senza considerare i
mezzi de’ quali la volontà divina si serve » (dign. XXXII e XXXIII). E altri riscontri si possono aggiungere
come i seguenti: Primum verum
metaphysicum et primum verum logicum unum idemque esse »: V., Notae al
Diritto Universale, in Opere?, ed. Ferrari, III, 21 (Scienza Nuova?, dign. CVI:
Le dottrine debbono cominciare da quando cominciano le materie che
trattano »; cfr. pure dign. LXIV). Cfr. Spinoza, Eth., I, 10 sch. La
fantasia tanto è più robusta quanto è più debole il raziocinio » (Sc.
N.2, dign. XXXVI; e cfr. oltre,84 sgg.). Cfr. Spinoza, Tract. Theol.pol., c.
2: Nam qui maxime imaginatione pollent,
minus apti sunt ad res pure intelligendum, et contra, qui intellectu
magis pollent, eumque maxime colunt, potentiam imaginandi magis
temperatam, magisque sub potestatem habent et quasi freno tenent, ne cum
intellectu confundatur ». Anche per lo
Spinoza (Etàh., IV, 37 sch. I e 68 sch. e le note mie all’Ethica, Bari,
Laterza, 1914, parte IV, nn. 40, 80) la religione è, come pel V., il
principio della vita civile dell’umanità. A Spinoza manca certamente la profonda teoria
vichiana del certo (v. oltre,120 sgg.); ma un accenno a questo concetto
è nella sua dottrina del valore probativo dei fatti storici (a
proposito delle profezie) nel Trattato teologico-politico. Notevole
questo luogo delle Annot. in Tract. th.-pol., VIII, in Opera, Vloten-Land,
II, 177: Per res perceptibiles non
illas tantum intelligo, quae legitime demonstrantur, sed etiam illas, quae
morali certitudine amplecti et sine admiratione audire solemus, tametsi
demonstrare nequaquam possunt. Euclidis demonstrationes a quovis
percipiuntur priusquam demonstrantur. Sic etiam historias rerum tam futurarum
quam praeteritarum, quae humanam fidem non excedunt, ut etiam jura,
instituta et mores, perceptibiles voco et claros, tametsi nequeunt
mathematice demonstrari. Caeterum hieroglyphica et historias, quae fidem
omnem excedere videntur, imperceptibiles dico.... ». I Eth.,
V, prop. 36. Era dottrina neoplatonica. Mi piace citare qui un luogo di
un nostro neoplatonico, di cui subì l’ influsso anche Spinoza, Leone Ebreo; il
quale nei Dialoghi di amore (1516) dice che se stessa: la virtù,
che è rerum scientia, certa scire, quindi mente adire Deum, che è il
sommo bene. Il saggio, ritraendosi con la mente dentro se stesso, riacquista la
perduta libertà (quella libertà che sarebbe stato meglio non avesse
mai compromessa e smarrita per il libero arbitrio !): poiché egli agnoscit quae in nobis sunt, natura sua
libera et propria esse: extra autem postta, serva et alieni iuris
». Lo stolto infine, sconfitto e fatto prigioniero di se medesimo,
è gittato nel carcere del corpo:
Tenebricosus carcer esì corpus; triumviri, opinio, falsitas,
error; custodes, sensus, qui in pueris acerrimi, in senibus hebetes, et
in omni vita pravis affectionibus corruptissimi ». Il nosce
te ipsum della prima Orazione diviene nella seconda: sequere naturam. Ma
è sempre lo stesso pro ]» amor divino non solamente ha
dell’onesto, ma contiene in sé l’onestà di tutte le cose e di tutto l’amor di
quelle, come che sia: perché la divinità è principio, mezzo e fine di
tutti gli atti onesti.... È principio, perché dalla divinità depende
l’anima intellettiva agente di tutte l’onestà umane, la quale non è altro
che un piccolo raggio dell’ infinita chiarezza di Dio appropriato
all'uomo per farlo razionale, immortale e felice. E ancora questafanima
intellettiva, per venire a fare le cose oneste, bisogna che partecipi del lume
divino: perché, non ostante che quella sia prodotta chiara, come raggio
della luce divina, per l’ intendimento della colligazione che tiene col
corpo, e per essere offuscata dalla tenebrosità della materia, non può
pervenire all’ illustri abiti de la virtù e lucidi concetti della
sapienzia, se non ralluminata dalla luce divina in tali atti e
condizioni, che così come l’occhio, se ben da sé è chiaro, non è capace
di vedere i colori, le figure e altre cose visibili, senza esser
illuminato dalla luce del sole, la quale, distribuita nel proprio occhio
e nell'oggetto che si vede e nella distanzia, che è fra l’uno e l’altro,
causa la visione oculare attualmente, così il nostro intelletto, se ben è
chiaro da sé, è di tal sorte impedito negli atti onesti e sapienti dalla
compagnia del rozzo corpo e così offuscato, che gli è di bisogno essere
illuminato dalla luce divina....»; ed. Venezia, D. Giglio, 1558, p. 19.
Pei rapporti di Leone con Spinoza vedi E. SoLMI, B. S. e Leone Ebreo,
Modena, Vincenzi, 1903; e GENTILE, Studi sul Rinascimento, Firenze,
Vallecchi, 1923, p. 96 sgg. Dopo, un importante lavoro su Leone fu pubblicato
da Ernst AppPEL, Leone Medicos Lehre vom Weltall u. ihv Verhdltniss zu
griech. u. zeitgenòssichen Anschauungen, notevole per la illustrazione
delle fonti di Leone (Plotino, Ficino): in Arch. f. Gesch. d. Philos., XX
(1907), 287-403, 456-96. Vedi ora gli studi del SAITTA nel Giorn. Crit.
d. filos. ital., 1924-25; e H. PFLAUM, Die Idee der Liebe, Leone Ebreo,
Tiibingen, Mohr, 1926. cesso: onde la metafisica diviene un'etica,
ma un'etica che è una metafisica: un'etica naturalistica, come
quella di Bruno e di Spinoza, dove l’uomo non può trovare la sua
libertà perché è un modo della sostanza. Se V. fosse rimasto a questo
punto, in cui Deus operaur e l’uomo non può se non intelligere quel che
fa Dio, al concetto della storia, di un mondo creato dall'uomo, non
sarebbe mai pervenuto. Ma egli ora va ricercando come l’ intelligere
umano possa essere un operari di Dio; unità di contrari, senza di cui la
storia della Scienza Nuova non sarebbe nata nemmeno ?. La terza
Orazione (che V. dice recitata il 18 ottobre 1701, che è, a dir vero, dell’anno
successivo) = riprende la concezione dell’etica adombrata nella
precedente, mantenendo l’opposizione dualistica di natura e uomo,
ragione e senso, virtù e passioni, e quindi il concetto della libertà
come prerogativa fatale dell’uomo, prima origine di tutti i suoi vizi;
onde tutto il male che fa l’uomo, lo fa lui, e tutto il bene, in fondo,
lo fa Dio. È rafforzata l'opposizione tra la necessità naturale e la
libertà umana coi colori presso a poco di cui s’era servito, come s'
è 1 Pel tema di questa Orazione cfr. il De uno, c. XXX, e la nota
del Ferrari a q. 1. in Opere2, III, 25. I concetti stoici dell’ Orazione
ricompaiono nello stesso De uno, cc. XII-XXXVIII. 2 [Infatti nel
1701, causa la così detta rivoluzione del principe di Macchia, lo Studio
napoletano si riaprì, non secondo la tradizione, il giorno di San Luca
(18 ottobre), bensì, senza alcuna cerimonia inaugurale, il ro novembre. Inoltre
in certi Giornali inediti di ANTONIO BuLIFON (amico del V.), alla data
del 18 ottobre 1702, è detto che, nella riapertura degli Studi avvenuta
in quel giorno, il signore Giovanni de V. fe’ una erudita orazione come lettore
di rettorica » (Comunicazione di F. NicoLINI, al cui lavoro rimando per una più
precisa documentazione)]. veduto, il Pico. Ma esplicitamente
deplorata, a differenza del Pico, la sua prerogativa. At utinam Deus fecisset immortalis
naturam humanam sibi itidem, ut reliquae, mancipatam ! ». Se non
che, nell’etica di quest'anno spunta un elemento nuovo, che rompe l’ascetismo
dell’ Orazione precedente. L'uomo, tornando in se stesso, per seguire la
propria natura, vi trova una legge che lo riporta fuori di se stesso: Maxima quidem et potentissima illa vis est
in hominum animis insita, quae alium alii consociat et comungit ». Pel V.
la filosofia è ancora una naturae vestigatio; ma in questa natura comincia ad
esserci veramente qualche cosa, che non è la natura fatta da Dio, e che
non è male: ed è la soctetas. Questa realtà non è più l’ Uno astratto del
neoplatonico, perché si realizza nella molteplicità; talché la stessa
sapientia, che prima era quel dio che l’ individuo trovava nel fondo
della propria essenza, ora essa stessa è un legame, una comunità,
di cui compartecipano i filosofi. È il mondo del diritto, che
comincia a premere in V. sul neoplatonismo: un empirismo contro una filosofia,
ma che ha su questa il vantaggio di affermare il valore di quel mondo umano,
vario, diverso, non raggomitolato nel pensiero immutabile dell’immutabile
verità, ma spiegantesi attraverso l’amore e l'odio per trionfarne.
Legge della società è che il socio aut rem aut operam conferat in
commune; e V. in questa Orazione svolge pedagogicamente la necessità che
i soci di quella società che è costituita dai letterati, dagli scienziati
e dai filosofi adempiano in buona fede secondo il monito del giureconsulto romano
(inter bonos bene agier) cotesta
legge. Scarsa l’ importanza scientifica dei singoli precetti di questa
morale letteraria esposta nel séguito dell’orazione; ma nelle esemplificazioni
e nella deduzione di essi V. ha occasione di darci notizie assai
interessanti per la storia del suo pensiero filosofico, e indizi
manifesti di una crisi che in lui vien maturando. Dove
riprende i filosofastri che contravvengono alla buona legge della
repubblica letteraria non recandovi il contributo di opere proprie, ma
badando a lacerare le altrui, reca ad esempio le ingiurie che si sogliono
scagliare contro Platone, anilium fabellarum auctorem; contro Zenone,
vanum mirabilium promissorem, magnificum, suderbum et fastus plenum; contro
Democrito ed Epicuro, carneos homines; contro Cartesio, naturae
pottastrum, € contro Aristotele, al quale non se ne risparmia
nessuna. Lo studioso di buona fede deve, invece, lodare in ogni
scrittore quel che c’è da lodare; e attribuire gli errori all’umana
debolezza. Si te philosophiae dedidisti, audi Platonem, quae
disserat de animorum immortalitate, de divinarum aeterna et infatigabili
vi idearum, quae de geniis, quae de Deo summo bono, quae de amore a
libidine defoecato; et eum divini cognomentum lure promeruisse cognosces.
Audi
Stoicos, quam graviter et severe sapientis constantiam doceant; et tute
rigidos ac torvos virtutis custodes dixeris. Audi Aristotelem,
quanto acumine facultatem dissertatricem universam complexus sit: cui
nihil hactenus aliud, nisi quam explicationem, rationem, et aliquod
utilius exemplum addiderunt: quo corde de re oratoria et poética praecepta
tradat; absolutissimum illud de morum philosophia systema perlege;
et ingeniorum miraculum ultro fateberis. Audi Democritum, quam
verisimillima de principiis rerum, de corpusculorum effluvio, de sensibus
contempletur; et Naturae praelucem appellabis. Audi Carthesium,
quae de corporum motu, de passionibus animi, de sensu videndi nova et
admiranda investigarit, quae de primo vero sit meditatus; ut geometricam
methodum in physicam doctrinam invexit; et philosophum dices non ad
aliorum exemplar factum. Dove, se non m’ inganno, è un
documento assai notevole delle opinioni filosofiche di V. al 1702.
Platone coi rimaneggiamenti neoplatonici (caratteristici il de
geniis e il de Deo summo bono) è sempre, com'era da aspettarsi, il
fondamento: su cui si accettano degli stoici la morale (cfr. Orazione
precedente); di Aristotele la logica, la rettorica, la poetica e l’etica
(fusa con la stoica); e, quel che è più interessante, si fa buon viso non
solo a Cartesio, di cui già la prima Orazione accettava la teoria del
primo vero, che il De antiquissima combatterà, e il metodo
geometrico, che sarà sempre, più o meno, vagheggiato come l’ ideale della
dimostrazione scientifica in tutte le opere, fino alla Scienza Nuova; ma,
quel che non ci saremmo davvero aspettati, anche a Democrito, anche
a quella fisica corpuscolare democrito-epicurea e cartesiana, che
dal De antiquissima in poi V. avverserà vigorosamente dallo stesso punto di
vista dal quale contemporaneamente, e per analoghe ispirazioni, la scalzava il
Leibniz. La dottrina dei punti metafisici non era ancor nata; ma è
lecito anche sospettare che per allora V. non vedesse nettamente l’
irriconciliabile contrasto che c’è tra il meccanismo della fisica
corpuscolare e il dinamismo della sua metafisica platonica. Non è per
altro da trascurare che fin d’allora V. non riconosceva valore di verità,
ma soltanto una certa verisimiglianza a quella dottrina fisica, come probabilmente
alla teoria democritea, che poco prima aveva rinnovato il Locke, della
soggettività delle qualità secondarie (cui forse si allude col de
sensibus). Poiché in questa stessa Orazione spuntano quelle riserve, che egli
farà più tardi esplicitamente circa la portata dimostrativa del metodo
geometrico, su cui il razionalismo cartesiano faceva troppo
assegnamento; e s’affaccia quello scetticismo rispetto alla scienza della natura che sarà svolto poi nel De antiquissima,
quando V. acquisterà la chiara coscienza (una trentina d’anni prima
di D. Hume) che la scienza della natura ci è vietata dall’ impossibilità
di conoscer le cause reali; e affermerà esplicitamente che il
razionalismo dei filosofi dal fastoso placito sapientem nihil opinari,
genera l’ordine tutto opposto degli scettici: e opporrà al vero dei
matematici i probabile dei filosofi!. Nella fisica corpuscolare doveva vedere
nel 1702 una verisimiglianza equivalente alla probabilità propria della
metafisica del De antiquissima. E insomma di fronte a quella fisica
è da credere che rimanesse in atto di non irriverente scetticismo;
secondo una tendenza ovvia del suo neoplatonismo (e se ne è colta l’espressione
nel Ficino), che contrappone l’operare di Dio nella natura all’operare
della mente nell'animo: dualismo, per questo lato non diverso da
quello onde l’empirismo inglese doveva minare la scienza razionalistica
cartesiana. Tra gli altri precetti di buona fede scientifica V.
appunto raccomanda di non finger di sapere quello che s’ ignora. E nella
illustrazione di questo precetto fermenta certo lievito di scetticismo,
indice di studi nuovi e di nuovi bisogni mentali. Esempio di
ignoranza dissimulata sotto la maschera della scienza: l’antipatia. La si
definisce: una facoltà che non ne soffre un’altra. Ma che Dio ti benedica, spiègami in che
cosa è riposta questa facoltà. In
certa facoltà occulta. Ma appunto
di questo ti prego: spiegami questa facoltà occulta. E zitto. Perché non dire piuttosto fin
da principio: non so ? ?. Fin qui è la polemica cartesiana contro
le entità metafisiche e le qualità occulte degli aristotelici. Poi segue
un altro esempio, che è la satira di un'applicazione car I Sec. visp., in
Opere, I, 273-4. 2 Nel De antiq., c. IV, $ 2 e nella Sec. risposta,
$ IV in Opere, I, 261, V. poi diede torto così agli aristotelici, che
guardano le cose fisiche con aspetto di metafisici per potenze e virtù, e
così credono esser luce quelle cose che sono opache »; come ai
cartesiani, che con l'aspetto di
fisici guardano le metafisiche cose, per atti e forme finite, cioè non
credono esser luce se non dove ella riflette ». tesiana del metodo
geometrico in fisica. Donde apparisce che fin da principio V. doveva in
quella sorta di fisica incontrare insormontabili difficoltà, e si scorge
una certa anticipazione di una arguta censura mossa più tardi
all'abuso di certi metodi strepitosi: S' immagina che un cartesiano,
movendo dalle sue regole, definizioni e postulati, voglia dimostrare che
i corpi lanciati sien portati non dalla gravità, bensì dalla circumpulsione
dell’aria, con la pretesa di dare alla dimostrazione la stessa evidenza
di quella, che gli angoli di un triangolo sono eguali a due retti.
V. non la vede così chiara. Ma tu hai concesso i principil. SÌ, perché sono molto verisimili. E allora? Ma, chi sa? Qualcuna di queste
regole del moto di Cartesio potrebbe anche esser falsa. Ossia, potrebbe!
Forse che il Malebranche ne ha scoperta falsa una sola? In conclusione: Quid simulamus et
geometricas demonstrationes homini sanae mentis obtrudimus, quas non
assequatur ? Sarebbe come chi ha buona vista, è sveglio, e non vede la
luce del sole. Ma confessiamo qualche volta la debolezza della
nostra natura: :n hoc studia valeant, ut hoc sciamus vel nescire,
vel admodum pauca scire. La differenza tra l’ ignorante e il dotto, si
sa, è che il primo crede di sapere, e il secondo sa d’ ignorare. Nella
quarta Orazione (che dall’autore è attribuita al 18 ottobre 1704)? V.
illustra un concetto ancor più alieno dal mero ascetismo: che i maggiori
vantaggi che sì possono ritrarre dagli studi sono quelli che
coincidono Sec. risp., $ IV: Opere, I 272. 2 Vedi Nota più avanti,92
sgg. So coi fini morali propri degli studi stessi indirizzati a
pro della comunità civile. Egli s’allontana sempre più dalla
concezione mistica dello spirito, attratto dal vivo senso della realtà
storica della natura umana: onde finirà col vedere il vero e il certo
dello spirito soltanto nel senso comune degli uomini. Il sommo bene non è
più soltanto Dio (il Dio immediato, astratto); ma è anche la vita
comune, la realtà storica (Dio concreto, mediato). Non è cangiato il
punto di vista; ma la legge morale si riempie di un contenuto, al quale
lo spirito prima era indifferente, e che accentua il motivo dell’ immanenza, di
contro a quello della trascendenza del panteismo acosmico dei
neoplatonici. La sapienza o cognizione di Dio si orienta verso la realtà
umana; pur rimanendo mera cognizione, ed un'etica, perciò, eudemonistica.
V. sente il bisogno di spezzare una lancia in favore dell’ intellettualismo
socratico, combattuto da Aristotele, pigliandosela con coloro che omnium
primi hanc humanae societati perniciosissimam invexerunt horum verborum
‘utilis honestique’ distinctionem; et quod natura unum idemque est,
falsis opinionibus distraxerunt ». Per V., come per Spinoza! e per
tutti i platonizzanti, la felicità, consistendo nella cognizione, che è
pure la virtù, non può scompagnarsi da questa, anzi coincide con
questa. V., per altro, introduce di suo una distinzione notevole: distingue
beni fisici e beni spirituali, tralasciando di dimostrare (ma non
negando) nei primi la identità socratica dell’utile e dell’onesto; e
restringendosi ai secondi. Officia, egli
nota, quae a mentis opibus animique proveniunt, non sunt ciusmodi, ut vita,
fundus, aedes, quas qui insumit non utitur, qui utitur non insumit; sed
res eius miri generis sunt, ut qui eas tenent, non habeant; qui donant,
hoc ipso quod donani, conser t Eth., IV, prop. 24. LA PRIMA FASE
DELLA FILOSOFIA VICHIANA vent; et argute ac vere carum avaros înopes, liberales
dixeris copiosos. Et vero caussarum patrocinia, morborum
curationes, agendorum fugiendorumque consilia uter în suis
rationibus referat îs, qui accepit has res, an qui dederit ? Quod si
ita se res habet, necessario illud conficitur: quo quis eiusmodi
officiorum finem sibi ampliorem proponit, uberius eorum facere compendium
mnecesse est. Quis autem amplior finis, quam velle iuvare quam plurimos,
quo uno homines, alius alio proprior ad Deum Opt. Max. accedit, cuius ea
est natura, iuvare omnes ? >. Qui abbiamo, mi pare, un
nuovo orientamento, non per l’ indirizzo etico, che rimane immutato, ma
pel concetto fondamentale dello spirito. L’accessio ad Deum, in cui si continua
sempre a risolvere il processo dello spirito, non è veduta come un
ritrarsi dello spirito dalla molteplicità (della natura corporea) nella propria
unità; anzi come un uscire dalla propria astratta unità e
realizzarsi nella molteplicità (dello stesso spirito, come comunità
sociale). V. non guarda più alla natura, in cui non ha trovato mai il suo
mondo, e da cui si sforzava di raccogliersi in sé; ma comincia a guardare alla
storia, dove ha ritrovato sempre se stesso, studiando il diritto.
Onde il processo spirituale gli si rovescia, e se prima era un
ascenso a ritroso del descenso divino, ora comincia ad apparirgli un
descenso anch’esso parallelo al divino; e con questo di vantaggio, che il
descenso divino del neoplatonico è decremento di realtà, e il descenso dello
spirito è un incremento di realtà, e quindi piuttosto un ascenso.
Lo spirito si realizza nella comunicazione; non si diffonde perciò, ma si
concentra. Non si tratta più di cieco emanatismo, ma di veramente
provvidenziale, finalistico, processo teogonico. V.
intravvede già oscuramente la via sua, e comincia a staccarsi dalla
vecchia filosofia. E sulla nuova via risolutamente s’avanza nella successiva
Orazione (18 ottobre 1705) *, che, proponendosi di provare
respublicas tum maxime belli gloria inclytas et rerum imperio
potentes, cum maxime literis florueruni, ha occasione di svolgere
il concetto dialettico dello spirito che è spuntato nell’ Orazione dell’anno
innanzi. Poiché essa si aggira intorno al concetto della guerra, che
riapparisce in aspetto affatto diverso da quello, in cui era stata
rappresentata nell’ Orazione del 1700. Lì la guerra era dell’uomo in
balìa del senso, accecato dalle passioni, artefice di male agli
altri e a se stesso, errante fuori della sua razionale natura, nella cui
immoltiplicabile unità non può nascere conflitto di sorta. Nata
dall’errore, essa non poteva non esser deplorata come l’errore: effetto
di una libertà malaugurata, non manifestava la divinità, anzi la miseria
dell’uomo alienatosi dalla sua divina origine. Qui invece l’errore
stesso comincia ad apparire all'uomo, che ha meditato sul mondo umano,
qualche cosa di necessario: ut ad quod verum vecta pergere nati sumus,
non nisi per viarum amfractus circumducamur. Che è ben altra cosa da
quella facile impresa che pareva una volta la filosofia a V. (Oraz.
I), per cui ognun che volesse non aveva che a guardar il tesoro di divina
sapienza recatosi in seno dalla nascita. Qui la filosofia è un’ impresa
non meno virile ed ardua della gesta guerriera. Le forze dello spirito si
sublimano ai suoi occhi; non per la loro natura od origine, ma pel loro
valore e destino. An ignoramus,
quanta sit animi vis, quamque admirabilis?... Qui sapientiam
ociosam putant, non plane norunt. Ea enim est hominis emendatio.
Nam mens et animus homo: mens autem erroribus obrupta, animus
cupiditatibus depravatus. Sapientia utrique medetur malo, et mentem veritate, animum
virtute format. Virtus instar ignis actuosa semper.... ». Qui tutto è
capovolto. La stessa mens, contro cui lo stolto della seconda I Se
questa data assegnata dal V. è esatta.] Orazione si metterebbe arrendendosi
agli appetiti, non è verità, ma errore anch'essa. Il punto di partenza
(la natura umana) non è più il bene, ma il male. L'uomo comincia ad
apparire originariamente non più l’Adamo dell’ Eden, ma il bestione
postdiluviano. La ragione tutta spiegata non è a principio, ma alla fine;
e il processo non è un tornare indietro dopo vani erramenti, ma un
andare avanti, sempre avanti, dall’errore alla verità. I conflitti,
quindi, che la guerra deve risolvere, non sono più accidentali, ma
naturali e necessari; e le guerre stesse quo res componanit vengon
dichiarate necessarie al genere umano !. Quid enim sibi volunt graves ex
eo 1ure conceptae formulae, nisi bona pace iniurias ad iuris hostimentum
revocari; sin per pacem non liceat, ut armata vi vindicare inferendas,
ulcisci acceptas ius sit: et fas nationum supremamque iuris gentium legem,
conservationem humanae societatis, quam sapientes volunt, omnium
officiorum moderatricem, armatos milites asserere ac vindicare? ». Le guerre,
secondo V., si devono definire turis 1udicia; la scienza della guerra
humani iuris prudentia, giurisprudenza internazionale; e, perché tale, atta a
nutrirsi, come è dimostrato anche dallo studio della storia, di
tutta la ricchezza spirituale che in uno Stato è tesorizzata dal
fiorire d'ogni cultura letteraria, scientifica, filosofica, 0, in genere,
dello spirito. Sì comincia così ad intravvedere un vero certo,
un razionale provato dalla realtà, un diritto prodotto dai fatti;
un bene che sfavilla dal cozzare dei mali; una sapienza, a cui collabora
il genere umano, in una fatica che non è più vana. V. distingue due
specie di guerre, bella generis inferioris e bella generis superioris; le
guerre di Attila, devastatrici e barbariche, e le guerre di Senofonte,
civili ed edificatrici di civiltà. Inutile qui rilevare il carattere
empirico della distinzione. V. ha distratto il suo sguardo
dal mondo intelligibile dei filosofi platonici; è concentrato nella
contemplazione dell’uomo. Nella sesta Orazione (18 ottobre 1707) ®
affronta, come farà più ampiamente nell’orazione notissima dell’anno
dopo, il problema dello svolgimento pieno e graduale dello spirito dal
lato che interessa la pedagogia: Corruptae hominum naturae cognitio ad
universum ingenuarum artium scientiarumque orbem absolvendum invitat, ac
rectum, facilem ac perpetuum in tis addiscendis ordinem exponit. È il
problema stesso della prima Orazione, dove il nosce te ipsum non faceva
scoprire altro che l’astratta natura divina dello spirito umano, e
qui invece mette innanzi tutto un processo di sviluppo di questo spirito,
dalla sua natura corrotta alla scienza. Sviluppo, che non è niente
di accidentale, ma la realizzazione dello spirito; e a cui perciò il
pedagogista si appella contro l’usanza di avviare i giovani allo studio
di questa o quella determinata scienza o arte, filiorum ingenio ad
quaenam id factum natumque sit inexplorato, et eorumdem naturae viribus
inexpensis, ex sua animi libidine.... vel invita quam sacpissime Minerva
2. V. comincia dal descrivere al vivo gli effetti del peccato
originale, oltre il quale la sua mente più tardi non risalirà a
vagheggiare lo stato originario dell’uomo perfetto. Di qua da esso l’uomo
non ha più nella lingua lo strumento di espressione adeguato del proprio
pensiero; nella mente non ha più lo strumento del vero; e quindi si
travaglia tra le apparenze fallaci e le mutevoli opinioni; e, quel che
più lo affligge, l'animo non gli serve 1 Vedi Nota più avanti,92
sgg. 2 Cfr. S. Nuova, Dign. VIII: Le cose fuori del loro stato
naturale né vi si adagiano né vi durano.] più se non a gettarlo in preda
alla tempesta delle passioni. L'emendazione dello spirito consisterà
pertanto nell’eloquenza, nella scienza e nella virtù. Il fine dell’uomo,
si può dire, è quello di farsi uomo: certo scire, recte agere, digne
loqui. Uomini divini son quelli che stimolano efficacemente gli uomini al
raggiungimento di cotesto fine. Nec sane alio fictis fabulis poètae
sapientissimi Orpheum lyra mulxisse feras, Amphionem cantu movisse saxa,
t1sque sese sponte sua ad symphoniam congerentibus, Thebas moenisse
muris; et ob ea merita illius lyram, delphinum huius in coelum invectum
astrisque appictum esse finxerunt. Saxa illa, illa robora, illae ferae
homines stulti sunt: Orpheus, Amphion sapientes, qui divinarum scientiam
huma-. narumque prudentiam cum eloquentia coniunzeruni, erusque
fleramina vi homines a solitudine ad coetus, hoc est a suo ipsorum amore
ad humanitatem colendam, ab inertia ad industriam, ab effrena libertate
ad legum obsequia traducuni ; et viribus feroces cum imbecillis rationis
aequabilitate consociant ». Orfeo e Anfione diverranno per V., più tardi,
ritratti ideali e fantastici universali della prudenza incivilitrice dell’uomo:
ma qui appariscono come i rappresentanti della forza plasmatrice (flexamina
vis) tutta propria della spiritualità umana: per cui gli uomini da se medesimi
escon di solitudine, celebrano l’umanità loro nelle città, nel lavoro,
costringono la libertà sotto il freno delle leggi, consociano le loro
forze selvagge al mite governo della ragione: quello insomma che si dirà
il mondo delle nazioni. Is perpetuo est horum studiorum
verissimus, amplissimus et praeclarissimus finis. Siamo ben lontani dal non
doversi altrove il fine degli studi riporre che in coltivare una specie
di divinità nell'animo nostro, come sosteneva la prima Orazione !
A dichiarazione del metodo proposto come l’unico da seguire per il
raggiungimento del fine proprio degli studì, V. premette un disegno
dell’enciclopedia (:9sam sapientiae suppellectilem omnem
instrumentumque). Disegno, che dà luogo a due osservazioni. La scienza
delle cose divine è distinta in scienza delle cose naturali, quarum
Deus natura est, e scienza delle cose divine propriamente dette, quarum
natura Deus est. Distinzione, come si vede, neoplatonica, fondata sulla
distinzione di un Deus-natura e un Deus supra naturam, com’ è in
Bruno. Le scienze naturali sono: la matematica, di cui è
un’applicazione, operaria appendix, la meccanica; e la fisica, a cui van
riportate l’anatomia, studio della fabbrica del corpo umano, e la
medicina, fisica del corpo umano ammalato, e corollario pratico
dell’anatomia. Di queste due scienze naturali qui per la prima
volta sì presenta esplicito il concetto, che sarà sostenuto tra
breve nel De antiquissima, dove prenderà corpo lo scetticismo prenunciato nell’
Orazione terza: Naturalium rerum contemplamur vel ca, de quibus tam inter
homines conventt et constat, formas et numeros, de quibus mathesis suas
conficit apodixes ; vel caussas, de quibus maxime inter doctissimos homines
disceptatur, quas explicat physice ». E più innanzi dello studio delle
matematiche si dice: Eo facto
adolescentes in rebus, de quibus iam inter homines conventi, ex dato vero
verum conficere assuefiunt; ut in physicis, de quibus maxime contenditur,
idem praestare possint ». Il nucleo centrale di quella che è stata detta
prima forma della gnoseologia vichiana è già formato. L’ex dato
vero accenna già all’artificiosità delle matematiche, di queste verità,
che son tali per noi perché fatte da noi. Il verum conficere prelude da
vicino al verum factum. L'applicazione della matematica alla fisica è già
dichiarata impotente a conferire a questa la certezza di quella.
Ma, come or ora vedremo, V. non ha raggiunto ancora la chiara
coscienza della esigenza di una fisica dinamistica contenuta nella sua
metafisica. Enumerate tutte le discipline, fa osservare che, salvo
le matematiche, la logica e la metafisica, a causa della somma
astrattezza dei loro oggetti, tutte le altre hanno non soltanto una parte
teorica (le instituttones quae rerum genera prosequuntur), ma anche una
parte storica; che, nel pensiero del V., non è propriamente la storia
delle singole discipline, ma la concretezza del loro contenuto,
l'applicazione delle teorie ai particolari, l’esemplificazione dei
concetti generali nelle specie. Giacché altro è studiare, poniamo,
la lingua latina, in astratto, altro studiarla nei suoi ottimi scrittori;
altro studiare la rettorica, altro gli oratori; e lo studio della
poetica si compie e integra con quello dei poeti. La fisica non deve né
anch’essa contentarsi di generalità; ma descrivere i fenomeni
particolari. I diari clinici con la nota dei così detti rimedi specifici
sono la storia della medicina. La teologia si storicizza nei libri sacri,
nei dommi e nella tradizione perpetua dell’ insegnamento e della
disciplina della Chiesa. La giurisprudenza ha la sua storia nelle singole
leggi, nelle interpretazioni singole dei giureconsulti, nei vari esempi
delle cose giudicate. La dottrina dell’uomo e del cittadino (moralis et
civilis), non occorre dirlo, hanno la loro storia in quella che è la
storia per antonomasia, le memorie e gli annali degli uomini grandi e i
pubblici monumenti. Concetto, di cui non c’ è bisogno di rilevare
la grande importanza e le attinenze intime con quell’unità del vero
col certo, della filosofia con la filologia, che sarà una delle
intuizioni principali, la principale, della Scienza Nuova.
Definito quindi il disegno di una compiuta istruzione onde lo
spirito può instaurare la propria natura, V. trae il suo criterio
metodico dalla norma già altra volta invocata a instaurazione dello
spirito etico: in guisa che, per stabilire l’ordine degli studi, naturam,
egli dice, se 88 DI quamur ducem. E infatti la deduzione del
suo metodo è una filosofia dello spirito, di cui in questa ultima
delle sue Orazioni inedite egli segna alcune linee definitive. Le
quali saranno riprese nell’ Orazione dell’anno appresso De nostri
temporis studiorum ratione, e non saranno più cancellate nella ulteriore
elaborazione del pensiero vichiano. La prima proposizione, in cui
culmina un pensiero già incontrato nella prima Orazione, d'origine
neoplatonica, suona: Nullum sane
dubium est, quin pueritia, quantum ratione infirma aetas est, tantum
memoria valeat »; la quale poco più oltre vien integrata con l’altra: n
ephoebis phantasia plurimum pollet.... nil autem rationi magis,
quam phantasia adversatur », sicché, a suo tempo, phantasia attenuanda est, ut per cam ipsam
ratio invalescat » *. Che saranno due delle più famose dignità della Scienza
Nuova: La fantasia tanto più è robusta quanto è più debole il raziocinio
» 2; e ne’ fanciulli è vigorosissima
la memoria; quindi vivida all'eccesso la fantasia, ch'altro non è
che memoria dilatata o composta»: e tutte insieme uno dei concetti più
importanti e suggestivi della filosofia del V.. Che la memoria sia
potente nei fanciulli vien confermato dall’osservazione, già fatta nella
prima Orazione, circa il ricchissimo patrimonio linguistico che i
fanciulli son capaci di accumulare nei primi tre anni; e dall'altra, che V.
dimenticherà nel De antiquissima, ma rinnoverà più tardi, facendone uno
dei canoni capitali della Scienza Nuova: che cioè la lingua non è
creazione della ragione, ma della memoria (o fantasia), perché pro
en I Nella Orazione IV già aveva detto: Atque ea omnia quae memorari facienda sunt ab
adolescentibus, qua aetate et sensus maxime vigent et phantasia plurimum
pollet, et mens, quia tum primum materiae vinculis relaxetur,
angustissima sit; et ratio, cum in summa versetur ignoratione rerum, sit
ad vicium usque curiosa »: Opere, I, 37. ? Dign.] dotto popolare, e
non frutto di sapienza riposta *. Il corollario pedagogico è, che le
lingue sono gli studi più adatti alla prima età. Superata la quale,
spunta la ragione. Ma lo sviluppo di questa è impedito dal fluttuare
delle opinioni, ‘dal prepotere "della ‘fantasia. Chi non sa
che, quando questa ci ha fatto immaginare da giovinetti città e
regioni lontane e mai viste, a stento col progredire degli anni riusciamo
a formarci un'idea diversa ? Tam alte prior caelata est, ut complanari,
et alia super ca induci non posstt. E dell'opposizione tra fantasia e
ragione si fa esperienza nelle donne; le quali, appunto perché ci
superano nella fantasia, fanno meno uso della ragione: onde più degli
uomini soggiacciono alle passioni. L’attenuazione della fantasia è, come siè
accennato, il miglior modo di favorire il vigore della ragione: e però 1
giovani, dopo le lingue, devono studiare la matematica, che è tutto un
esercizio d’ immaginazione, la quale deve spiegare tutte le sue forze per
tener dietro a lunghissime serie di figure e di numeri e cogliere quindi
la verità delle dimostrazioni. Intanto la fantasia in cosiffatto
esercizio (per una specie di eterogenia di fini, onde si gioverà tanto
la Scienza Nuova a intendere lo sviluppo dello spirito), vien rimettendo
ogni crassezza e corpulenza (crassitie et corpulentia): la fantasia, si
direbbe, nega se stessa nella considerazione dei punti e delle linee: la
mente umana si liquefà, comincia a purgarsi, e dal senso passa al
pensiero. Giacché, dopo le matematiche, si può volgere alla fisica, ossia
agli oggetti che non sono più sensibili, e pur sono corpi; atque ex rebus, quae sensu percipiuntur, par
est, quae omnem sensum effugiuni colligere, adhuc corpora tamen »; appunto
mercé la fisica, che studia « insensibilia Nulla doctrina ratione minus,
magis memoria constat, quam sermonis, nam eius ratio consensus et usus
populi est: quem penes arbitrium est, et ius, et norma loquendi»: Opere,
I, 63-4. corpora corumque insensibiles et figuras et motus,
quae sunt naturalum rerum principia et caussae ». (Siamo, come si vede, ancora
alla fisica corpuscolare, che sarà detta poi di falsa posizione in quanto
non trascende i corpi per ispiegarli). Così la mente, fer gradus,
attraverso 1 dati della matematica e i dubbi della fisica, si vien
depurando, e liberando dal senso, e può elevarsi allo studio delle cose
spirituali, e conoscere con intelletto puro (la mente pura della Dign.
LIII) se stessa, e per se stessa Dio. Scoperta quindi la regola del vero
e del falso, si potrà studiar la logica; e, conosciuto Dio,
volgersi alla teologia; e quindi all’etica, che consegue dall’
intera scienza delle cose divine ed umane. Ma poco importano 1
particolari del ciclo, onde si conchiude lo sviluppo dello spirito: molto
la legge di questo sviluppo, che è quella a cui s’'atterrà il pensiero
vichiano; e, liberatosi nel De antiquissima dalla intuizione neoplatonica
del mondo, in cui aveva, per così dire, impegnati i suoi occhi
(mondo della natura, da cui si risale a Dio, ma da cui non si può
salire all'uomo), se ne farà una fiaccola, nel Diritto Universale e nella
sua opera maggiore, che è poi la vera sua opera, per penetrare in
quell’oscuro mondo dell’uomo, in cui l’uomo crea se stesso: il mondo, che
era affatto ignorato da tutta la filosofia precedente. Conchiudendo:
la prima fase del pensiero vichiano si distingue dalla seconda e dalla
terza come l’unità ancora indistinta di entrambe; quell’unità, a cui
bisognerà guardare per intendere le due fasi consecutive, ciascuna delle
quali la porterà tuttavia oscuramente in se stessa. In questa fase c’ è
la metafisica antica dell’essere, in cui la mente è in quanto cessa di
esser mente, il molteplice nega la sua molteplicità, lo sviluppo si
contrae nel suo punto di partenza, e il mondo, come mondo, non ha valore,
e rappresenta un decadimento e una diminuzione di realtà. È la
metafisica antica, platonica per antonomasia; verità senza certezza;
oggetto senza spirito: e quindi trascendenza e scetticismo: il dommatismo di
Spinoza e lo scetticismo di Hume. Ma c’è anche un’altra metafisica, che
non è dell’essere, bensì dello spirito, il cui essere non è se non in
quanto si fa (spiritualmente), attraverso contrasti, sempre composti e
sempre rinascenti, in cui si svolge con incremento continuo la realtà,
che non è più concetto astratto (genera, gli universali della logica
aristotelica), ma storia, particolari, onde si realizza
l’universale: individuo. La prima metafisica è svolta nel De
antiquissima. La seconda nelle opere con cui, dieci anni dopo, dal
Diritto Universale in poi, il filosofo riprese la sua attività letteraria. Ma,
come il conato della prima metafisica porta l’ Uno a moltiplicarsi e lo
spirito a farsi natura, la natura umana della seconda è naturalmente
portata a dilettarsi dell'uniforme (Dign. XLVII); ossia un nuovo conato: spinge
il molteplice a unificarsi, la natura (la natura dello spirito, il
sentire senza avvertire) a farsi spirito (riflessione con mente pura),
che, come senso comune (Dign. XII), supera ogni arbitrio dello spirito
finito, ed è la stessa Provvidenza divina, Dio 2. Ora, come il
primo conato lega Dio al mondo, e quindi la metafisica a una storia
che, per non esser nostra, non può esser conosciuta da noi; il secondo
lega il mondo come umanità a Dio, e quindi fa della storia la nostra vera
metafisica. Ma V. 1 Scienza Nuova?, ed. Nicolini,183, 238. .,* E
questo istesso è argomento che tali pruove [della S. N.] sieno d'una
Specie divina e che debbano, o leggitore, arrecarti un divin piacere.] ha
perfettamente ragione nella Scienza Nuova di ripetere quel che è lo
scetticismo del De antiquissima, e però di conservare la metafisica che
non è nostra (di quel mondo naturale, di cui Dio solo ha la
scienza)! insieme con la nostra metafisica. Le due vedute, le due
opere vichiane,"s’ integrano a vicenda. Il che vuol dire che a
fondamento del processo dalla natura a Dio della Scienza Nuova rimane
sempre pel V. un processo da Dio alla natura, un descenso platonico, che
spiega così la tendenza vichiana al panteismo e all’ immanenza e
però al soggettivismo e alla metafisica della mente, come la tendenza,
anch’essa incontestabilmente vichiana, al teismo e alla trascendenza, e
però al platonismo e alla metafisica dell’essere. La luce è anche in V.
cinta da un emisfero di tenebre. NOTA Un
valente studioso, DONATI pubblica (negli Annali della Fac. di Giurispr. della
Univ. di Perugia, vol. XXX) un’ importante memoria sui Prolegomeni
della filosofia giuridica del V. attraverso le Orazioni inaugurali dal
1699 al 1708. Dove è indagato con molta sagacia lo svolgimento del pensiero
vichiano attraverso le Orazioni inaugurali, compresa quella del 1708 De
nostri temporis studiorum ratione; e ciò in relazione col Diritto
Universale. E si vuol mostrare come a grado a grado si venissero
svolgendo i germi che giunsero a dare i loro frutti maturi nel De uno. E
non si può non congratularsi di questa nuova analisi dei primi scritti
del V., che fino a pochi anni fa solevano passare quasi inosservati:
poiché il Donati mette nella più chiara luce gli addentellati che in essi
hanno taluni dei concetti principali del periodo posteriore della speculazione
vichiana, T- -» I
Dee recar meraviglia come tutti i filosofi seriosamente si studiarono di
conseguire la scienza di questo mondo naturale, del quale perché Iddio
egli il fece, esso solo ne ha la scienza.] spiegando ottimamente perché le
prime sei Orazioni V. non avesse più pubblicate, e in qual senso
rifiutasse tutte le opere anteriori alla Scienza Nuova seconda;
quantunque troppo forse egli si giovi delle tardive illustrazioni e
dichiarazioni dell’Awutobiografia per accertare l’originario significato dei
primissimi scritti. Tutte le sette Orazioni inaugurali sono
considerate strettamente connesse tra loro e tutte destinate a preparare la
trattazione del De uno con la discussione di tutti i problemi critici 0
introduttivi: e andrebbero divise in tre gruppi, distribuendo le prime
sei dal V. lasciate inedite in due trilogie (come le vuol denominate il
Donati): l’una sul fondamento della sapienza, e l’altra sulla
destinazione di questa. Alle quali trilogie seguirebbe da ultimo, a modo
di conclusione, l’ Orazione sul metodo. E poiché il fondamento della
sapienza, ossia dello svolgimento dell’attività razionale conoscitiva
dello spirito, consiste nella natura dello spirito considerata dal V. non
come astratta unità isolata, ma, unità del molteplice, e quindi
individualità che ha la sua concretezza nella storia, nelle attinenze sociali e
nella vita comune, dalla prima trilogia è ovvio il passaggio logico alla
seconda, destinata a illustrare i fini della scienza desunti dalla vita, e a
mostrare nella scienza stessa uno strumento per l’azione e il principio
della retta volontà. Onde entrambe le trilogie si possono a ragione
considerare una preparazione analitica di quella sintesi, che è
rappresentata dall’ Orazione sul metodo del 1708, e che V. nella sua
Autobiografia dice come un abbozzo
dell’opera che poi lavorò: De universi iuris uno principio ecc., di cui è
appendice l’altra De constantia iurisprudentis ». La
esposizione che ne fa il Donati in correlazione col De uno è meritevole
d’ogni lode: precisa, netta, chiara e rigorosa, in modo da riuscire una
illustrazione efficacissima dell’ordine di pensieri adombrati dal
filosofo napoletano nella forma alquanto rettorica di quegli antichi suoi
tentativi. Ma, né mi pare che ne venga un risultato nuovo per gli studi
intorno alla formazione della filosofia vichiana; né che riesca
sufficientemente dimostrata la tesi finale dell’autore, circa l'autonomia
del Diritto Universale, come trattazione speciale di filosofia del
diritto, e conclusiva d'un periodo d’indagini filosofico-giuridiche,
dalla Scienza Nuova, come quadro più vasto, a cui il problema del diritto
si sarebbe esteso dopo il De uno. In un punto il Donati
accenna ad una interpretazione della Orazione del 1699 diversa da quella
data da me. Egli ritiene che le dichiarazioni del V. in quella Orazione
circa la potenza crea 7 904 STUDI VICHIANI
trice dello spirito nel mondo umano bastino a salvare l’autonomia dell’uomo; né
quindi si potrebbe convenire con me per l’ identità che io vidi in quello
scritto tra l’uomo e Dio. Ma nello stesso luogo io richiamai altri
pensieri analoghi di scrittori del nostro Rinascimento (v. sopra p. 46; e
ora lo studio intorno al Concetto dell’uomo nel Rinascimento, nel mio
volume G. Bruno e il pensiero del Rinascimento); pensieri i quali mettono
fuor di dubbio che questa celebrazione dell’uomo era un motivo
tradizionale, caro sopra tutto agli scrittori neoplatonici, ignari ancora
d’ogni vero principio di distinzione dello spirito umano dal divino, e
insufficiente quindi da sola a quella coscienza dell’assoluta libertà
dell’uomo, alla quale più tardi tenderà con tanto ardore V.. E sta
logicamente che, se già nel 1699 V. avesse raggiunto questa nozione
dell'autonomia dell’uomo, non avrebbe potuto, undici anni dopo, incorrere
nello scetticismo del De antiquissima. E quanto ai rapporti del De
uno con la Scienza Nuova, sono essi da considerare o no, come due
redazioni diverse e successive della stessa opera ? Va da sé che
l’accentuazione dello speciale problema del diritto dal V. non ravvisato mai nella sua
caratteristica differenziale che
l’autore può aver fatto nel De uno per ragioni estrinseche, come quelle
de’ suoi interessi accademici, non può aver peso per decidere se,
sostanzialmente, il tema in cui si travaglia in entrambe le opere la
mente del V. sia sostanzialmente il medesimo. E tra tutti i rilievi fatti
in proposito dal Donati, quello che, secondo lui, dovrebbe togliere
perplessità ed equivoci (p. 81), si riduce a chiarire, secondo lo stesso
autore, che quando il proposito del V. nel De uno ritorna per dar materia
alla Scienza Nuova, si allarga nella sua estensione, si precisa nel suo
significato » (ivi). Il che non costituisce certamente una differenza
sostanziale, per la quale s’abbia a conferire al problema del diritto
nella filosofia vichiana quell’ importanza specifica che esso non ha:
almeno fino a che il Donati non ci abbia dato una dimostrazione più
conclusiva di questa, con cui si chiude il suo bello opuscolo.
Un'altra serie di studi molto importanti, di carattere biografico e
cronologico, ma che potrebbero avere conseguenze di gran rilievo rispetto
alla storia intellettuale del V., sono quelli che vien conducendo
sull’Autobiografia il NicoLINI. Il quale dagli errori cronologici
commessi dal V. nella ricostruzione della sua vita e del suo pensiero e
fors’anche nella datazione delle sue vecchie Orazioni inedite, è
indotto a dubitare se per avventura non solo l’anticartesianismo ma
fors’anche lo stesso neoplatonismo di questa prima fase del pensiero vichiano
non sia, almeno in parte, una coloritura tardiva che l’autore medesimo
fece del proprio pensiero. Codesti suoi dubbi il Nicolini mi ha
amichevolmente comunicati. E sebbene a me sembrino eccessivi, sopra tutto
se si tien presente la logica dello stesso sviluppo del pensiero vichiano, non
voglio qui tralasciare di riferire talune sue osservazioni, delle quali
bisogna tener conto ancorché non bastino a suffragare le conclusioni che il
Nicolini tende a ricavarne. Prima di tutto a proposito del cenno
autobiografico sul Di Capua da me richiamato a p. 39: Non ho
fatte ancora ricerche speciali sulle derivazioni del V. da Tommaso
Cornelio. Ma quanto a Lionardo di Capua (che abitava a Napoli a pochi
passi dalla casuccia del V., a San Biagio dei Librai), posso affermare di
sicuro che V. nella sua gioventù fu un fervente ‘ capuista ’, e che il
giudizio non favorevole dato nell’Autobiografia sullo scetticismo del Di
Capua è, al solito, anacronistico; e cioè rappresenta lo stato d'animo
del V. nel 1728, non nel 1695. Tutto ciò è mostrato nella terza
puntata del mio lavoro Per la biografia, ove, tra altri argomenti,
son messi in rilievo questi: a) la prosa giovanile del V.
(periodo, costruzione, terminologia e giro di frase) è modellata esattamente su
quella di Lionardo di Capua; b) ancora nel 1715-17 V. era
(almeno letterariamente) così capuista, da ricalcare la sua Vita di
Antonio Carafa sulla Vita di Andrea Cantelmo del Di Capua (fu già
osservato anche dal CROocE nel suo scritto sulla Vita di Antonio
Carafa); c) nella famosa disputa tra il Di Capua e l’Aulisio, che
per anni tenne divisa la Napoli dotta in due partiti avversissimi,
che polemizzarono tra loro nel modo più violento, V., insieme con
altri suoi amici capuisti, si schierò risolutamente accanto al Di Capua;
tanto che per parecchi anni l’Aulisio gli serbò il broncio e gli perdonò
soltanto nel 1709, dopo che V. ebbe pubblicato il De studiorum ratione
(cfr. Autobiografia, p. 33). Insomma, qui come in molti altri punti
dell’ Autobiografia, V., nel discorrere dei suoi studi giovanili,
trasportò alla sua forma mentis giovanile quella dei suoi sessant'anni:
da che la conseguenza che, per la ricostruzione della primissima fase
del suo pensiero, l’Autobiografia è una fonte assai infida.
Diverso, naturalmente, dovrebb’essere il caso per la ricostruzione
del pensiero vichiano dal 1699 in poi, perché di esso si dovrebbero
pure avere documenti contemporanei nelle Orazioni inaugurali. Senonché,
queste, nel testo in cui ci son pervenute, ci offrono l'effettivo e successivo
svolgimento della mente del V. dal 1699 al 1707 ? Questa la questione.
Che il codice della Biblioteca Nazionale di Napoli, donde prima il
Galasso, poi tu e io pubblicammo quelle Orazioni, ne contenga non la
prima stesura (quella recitata via via all’ Università) e nemmeno la seconda
(di cui restan soltanto alcune Emendationes), ma soltanto una terza
stesura, dimostrai già nella Nota
bibliografica di quel nostro volume vichiano. Resta ora a vedere:
I) in qual tempo V. allestì codesta terza stesura; 2) se
nell’allestirla, egli v’introdusse soltanto correzioni di forma, o non
anche mutamenti filosofici più o meno profondi e correlativi al grado di
maggiore maturità raggiunto dal suo pensiero. Quanto al primo
punto, è cosa più che certa che la terza stesura delle Orazioni può esser
bensì posteriore, non mai anteriore al 1708. Basti dire che nel codice che ce
l’ ha serbata (tutto di pugno di Giuseppe V. con correzioni autografe di
Giambattista), le sei Orazioni inaugurali formano un sol corpo col De
studiorum ratione (recitato il 18 ottobre 1708), e tutte sette s'
intitolano complessivamente: De studiorum finibus naturae humanae convenientibus.
Anzi, poiché da alcuni raffronti che ho iniziati, la redazione del De
studiorum ratione contenuta dal codice anzidetto comincia a sembrarmi non
anteriore ma posteriore al testo a stampa (pubblicato nell'aprile 1709),
la data dell’ intero codice potrebbe anche esser fissata tra la fine del 1709
e 1 principii del 1710. Se poi nell’allestire codesta stesura
definitiva V. introducesse anche nelle prime sei Orazioni mutamenti correlativi
alla sua forma mentale del 1709-10, è impossibile naturalmente dimostrare
con una prova documentaria, perché manca il meglio: il testo primitivo su
cui compiere il raffronto. Tuttavia alcune circostanze, che ti verrò
enumerando, rendono, a mio vedere, la cosa altamente probabile.
1) Il pensiero del V., come tu ben sai, non fu mai statico, ma
sempre ultradinamico. Per citare un esempio solo tra cento, dalla
pubblicazione del De constantia iurisprudentis (1721) a quella delle Note
al Diritto universale (1722) corrono appena pochi mesi: eppur nelle Note V.
svolse, sopra tutto in fatto di mitologia, di estetica e di critica
letteraria, ‘canoni ’ affatto diversi e talora diametralmente opposti a
quelli ch’egli medesimo aveva posti pochi mesi prima. Per contrario, le
Orazioni inaugurali, sebben tra la prima e la sesta intercedano ben otto
anni (1699-1707), esibiscono non un pensiero in continua gestazione
e dall’una all’altra Orazione sempre più progredito, ma un pensiero già bell’e
formato e, sia pur provvisoriamente, consolidato. L’una illustra l’altra;
tutte si compiono a vicenda; nella sesta si riprende, con altri sviluppi,
ma senza alcun mutamento fonda mentale, il motivo centrale della prima: tutte
sei, insomma, col De studiorum ratione, che dell’edificio è il magnifico
coro namento, formano, come V. voleva che formassero, un blocco solo, un
tutto armonico. Salvo dunque a supporre che il dinamicissimo V. del 1720-44
fosse invece nel 1699-1709 il più statico dei filosofi e degli scrittori,
è da ritenere che, allorché nel 1709 o nel 1710 egli si risolse a riunire
tutte le sette Orazioni (De studiorum ratione compreso) nel De siudiorum
finibus naturae hum anae convenientibus, introducesse, sopra tutto nelle più
antiche, mutamenti così profondi da farle sembrar tutte scritte in
un momento solo. O, per dir la medesima cosa con altre parole, le
sette Orazioni non sono sette documenti di sette momenti diversi del
pensiero del V., ma un documento unico d’un momento solo, naturalmente,
l’ultimo (1709 o 1710). 2) Non mancano indizi che V. allestisse il
testo definitivo delle Orazioni inaugurali, non voglio dire senza guardar
nem meno la stesura primitiva, ma tenendo di questa un conto molto
relativo. Nel testo recitato via via all’ Università (1699, 1700, ecc.
ecc.) era materialmente impossibile che V. sbagliasse le date delle
singole Orazioni. Invece curiosissimi errori del genere si trovano nella
stesura definitiva e nel riassunto che V. stesso ne die’ poi
nell’Autobiografia. Ho già fatto osservare che la terza Orazione (‘terza
’, sempre che le Orazioni furono recitate effettivamente nell'ordine dal V. e
questi non introdusse anche, nella stesura definitiva, qualche inversione),
che la terza Orazione, dicevo, fu pronunziata il 18 ottobre, non del 1701,
secondo afferma V., ma del 1702. E molto maggiori, e più aggrovigliate,
sono le incongruenze cronologiche che si osservano nella quarta Orazione,
alla quale, così nel testo definitivo come nell’Autobiografia, V. assegna la
data del 18 ottobre 1704. a) A principio di essa si dice che, nei
due precedenti anni scolastici, non c’era stata all’ Università alcuna
Orazione inaugurale. E, nemmeno a farlo apposta, ce n’era stata una all’
inizio dell’anno scolastico 1703-4, e l’ aveva recitata l’ amico e
collega del V. Giovanni Chiaiese, nominato il 28 luglio 1703 lettore
di Istituzioni di diritto civile (Praelectio ad initium legis ecc.
ecc. a D. JOHANNE CHIAIESIO, în inclyta Academia Neapolitana habita,
Neapoli, 1703); e un’altra, a principio dell’anno scolastico 1702-3,
l'aveva recitata proprio Giambattista V. ! b) V. soggiunge che
causa del suo supposto silenzio nei due anni precedenti (1702 e 1703) era
stata la preparazione della riforma dell’ Università napoletana compiuta
dal cappellano maggiore Diego Vincenzo Vidania per incarico del viceré
marchese di Villena. Ma codesta riforma (dalla quale il filosofo ricavò
il beneficio che la sua cattedra di rettorica, da quadriennale, divenisse
perpetua) era stata già bell’e compiuta venti mesi prima dell’ottobre
1704 mercé la nota prammatica del 28 febbraio 1703. c)
Nell’Autobiografia, infine, V. aggiunge che dopo che, il 18 ottobre 1704,
aveva recitata ‘ metà’ di questa quarta Orazione, entrò nell’aula ‘il signor
don Felice Lanzina Ulloa, presidente del Sacro Real Consiglio, in onor di cui
egli con molto spirito diede altro torno e più breve al già detto, e
attaccollo con ciò che restava a dire’. E il 18 ottobre 1704 don Felice
Lanzina Ulloa era già morto da diciotto mesi, giacché la Gazzetta di
Napoli reca il suo decesso (e proprio di lui, presidente del Sacro Real
Consiglio) nel numero del 20 marzo 1703. 3) Alla sesta Orazione V.
assegna, così nella stesura definitiva come nell’ Autobiografia, la data del 18
ottobre 1707. Ma tre mesi prima le truppe austriache erano entrate a
Napoli; al due volte secolare viceregno spagnuolo era sottentrato il
viceregno austriaco; e come loro re i napoletani non avevan più Filippo V di
Spagna, ma Carlo d’Austria. È mai possibile che, in una solenne
prolusione universitaria, in un discorso ufficiale tenuto appena tre mesi
dopo avvenimenti così clamorosi, non si trovi nessun accenno a essi, non
una parola sola di omaggio al nuovo dinasta ? e che non vi accennasse
proprio V., i cui scritti ufficiali, come dice argutamente il Croce,
‘basterebbero da soli a ricostruire la serie delle vicende cui andò
soggetta Napoli dalla fine del secolo decimosettimo alla metà del
decimottavo ’ ? il qual V., anzi, l’ 11 ottobre 1707 (sei giorni prima
dell’ Orazione) aveva avuto incarico ufficiale dal nuovo governo di
preparare una solenne commemorazione dei martiri della congiura di
Macchia ? Allora una delle due: o l’ Orazione fu recitata in anno diverso
dal 1707, oppure nella stesura definitiva V. soppresse qualsiasi
accenno politico. E, nell’un caso o nell’altro, si giunge sempre al
risultato, che la stesura definitiva è diversa dal testo primitivo.
Comprendo io pel primo che questi dati di fatto sono ancor troppo
poca cosa perché possan già far configurare diversamente la cronologia
(che in questo caso è storia) del pensiero vichiano. E non mancherò certo,
nelle mie future postille all’Autobiografia, di allargare e approfondire
l’ indagine. Ma, in fin dei conti, nessuno potrà sconvenire che la sicurezza,
che finora avevamo tutti, che al neoplatonismo V. passasse per lo meno
fin dal 1699 (data della prima Orazione) comincia a essere alquanto
scossa. E correlativamente comincia a delinearsi la possibilità che
codesto passaggio, almeno in forma decisiva, avvenisse soltanto nel
1708 O 1709, cioè quasi alla vigilia del giorno in cui, col De
antiquissima (1710), V. spiegherà risolutamente la bandiera anticarte-
siana. Neoplatonismo e anticartesianismo, insomma, potrebbero nel V.
esser coevi o quasi: come quasi coevi, del resto, li dice
l’Autobiografia, salvo ad anticipare al 1686-95, e ad asserir già bell'e
compiuto nel 1695, un atteggiamento spirituale, che forse in lui non
cominciò a prender consistenza se non molti anni dopo. Che se poi questi
miei dubbi assurgessero un giorno a certezza, sarebbe molto interessante
indagare se e in qual misura il neo- platonismo del V. venisse
determinato dalle sue lunghe e appas- sionate conversazioni filosofiche
con Paolo Mattia Doria, ricor- date dal V. medesimo nel prologo del De
antiquissima e nel- l’Autobiografia ». LA SECONDA E LA TERZA
FASE DELLA FILOSOFIA VICHIANA La filosofia di G. B. V., se si può
da una parte con- siderare come una delle forme più eminenti dello
schietto spirito italiano e una delle maggiori forze autoctone svi-
luppatesi dalla storia particolare d’ Italia, apparisce, dall'altra, a
chi ne investighi accuratamente i più profondi motivi ideali, quasi uno
specchio dei principii fonda- mentali della moderna filosofia europea:
francese, inglese e tedesca. Essa, insomma, come le affermazioni più
vigo- rose dello spirito, unisce in sé e concilia in un solo atto
di vita la più larga universalità ideale con la più con- creta
determinatezza storica. E l’aver guardato per solito all'una o all'altra
faccia del pensiero vichiano ha reso molto difficile la piena
intelligenza della sua storica indi- vidualità, mentre ha prodotto, come
conseguenza né- cessaria, quella strana storia della fortuna dello
scrittore, che non so se abbia riscontro in altro scrittore di
qual- Stasi letteratura: quella storia anch'essa a doppia faccia di
un illustre ignoto »: di un grande, anzi
grandissimo filosofo per gl’ Italiani, che da un secolo e mezzo non
né Tipetono il nome senza sentirsi vivamente compresi di
ammirazione mista a riverenza come innanzi a uno de’ genti maggiori della
loro stirpe, di quelli che la coscienza d o popolo consacra nel tempio
de’ suoi spiriti tutelari; e d'un filosofo, d’altra parte, ignorato come
tale, malgrado sporadici omaggi di simpatie, di lodi, e di plagi,
nel mondo della cultura internazionale *, Contrasto tanto più
significativo, se sl considera che l'ammirazione universale e sconfinata
degli Italiani per V. non aveva punto radici in sentimenti e
tempera- menti spirituali di geloso nazionalismo, poiché V. sorge
in mezzo a una cultura impregnata d'’ influssi stranieri, segnatamente
francesi, e la sua fama postuma vive e grandeggia attraverso tutto quel
secolo XIX, in cui l’ Italia non lavora che ad affiatarsi con la
filosofia stra- niera, dal Galluppi, che meditò tutta la vita la
filosofia francese e la tedesca di Kant, fino a Bertrando Spaventa
hegeliano o a Roberto Ardigò riecheggiante in Italia il positivismo
francese e inglese; e si pon mente, d'altro canto, che gli stranieri, se
disconoscevano il valore d’un filosofo della forza del V., non
indugiavano a scorgere ‘ e pregiare in giusta misura altri dei maggiori
rappre- sentanti della genialità italiana. Basti per tutti
ricordare il Goethe, di cui invano Gaetano Filangieri richiamò
l’attenzione sulla Scienza Nuova, e che ebbe invece animo così pronto a
intendere e gustare Giordano Bruno, p. es., e il Manzoni. Onde è chiaro
che non, per così dire, la generica italianità di V. fu ostacolo all’
intelligenza del suo pensiero fuori d’ Italia, ma la sua italianità
parti- colare, riuscita oscura agli stessi Italiani preoccupati
delle forme, in cui gli stessi problemi vichiani si erano pre-
sentati nella filosofia straniera: ossia appunto in quella filosofia che
era stata il maggior pascolo delle loro menti. Uno dei caratteri
più appariscenti della italianità del V. è il suo atteggiamento negativo
e polemico verso I Tutti i documenti di questa singolare storia
sono stati con grande amore raccolti da B. Croce, Bibliografia vichiana,
Napoli, 1904 (negli Atti dell’Accademia Pontaniana) col Supplemento del
1907, il Secondo supplemento del 1910 (negli stessi Atti) e nuove
aggiunte nella Cri- tica.] la cultura del suo tempo, quando lo spirito
italiano era tributario della cultura straniera, e accoglieva passivo
le idee dominanti oltre Alpi, sopra tutto in Francia: in filosofia,
nelle due forme dell’atomismo gassendista e del matematicismo cartesiano.
E V. alla intuizione mate- rialistica e naturalistica dell’atomismo
contrappone la concezione idealistica e umanistica della storia, e
all'astratta contemplazione delle idee chiare e distinte, oggetto di
intuizione e deduzione matematica, il processo autogenetico della
umanità, che vien creando il suo mondo, e nel suo mondo se stessa. La
storia dell’umanità, prima del V. e attorno al V., in Italia e fuori d'’
Italia, era erudizione (o filologia, per usare la parola dello
stesso V.): rivolta più a raccogliere i documenti esterni dell’attività
dello spirito umano, che a penetrarvi dentro e giovarsene a intendere l’
intimo sviluppo di quest’attività medesima. Movimento, di certo,
tutt’altro che trascurabile, anzi di grandissima importanza nella
storia dello spirito italiano, nella quale LudoV. Antonio Muratori occupa
un posto cospicuo: ma che aveva nondimeno nel suo presupposto speculativo quel
difetto che V. avvertì: di vedere il solo aspetto esterno di quella
realtà, che è il processo storico: quel difetto, di cui lo stesso V.
additò profondamente la correzione nella sua unità di filologia e
filosofia. E anche per questa parte è ormai noto che le menti italiane
entravano in una corrente che moveva dalla Francia *. Contro questa
cultura in voga, di cui notava accortamente le origini forestiere, V. si
vantava di essere autodidascalo » e di far parte per se stesso
riannodandosi alla tradizione italiana dei filosofi del Quattro e del
Cinquecento: ai Ficino, ai Pico, ai Patrizzi, ai Mazzoni, 1 Vedi
G. Maucain, Étude sur l’évolution intellectuelle de 1° Italie de 1657 à
1750 environ,93 sgg.; agli Steuco. E in realtà la mentalità del V. si
spiega meglio nel suo svolgimento se si ricollega col pensiero italiano
del Rinascimento, anzi che con quello de’ suoi contemporanei. Non
s'intenderebbe mai, per dirne una, perché V. affermi con tanta insistenza
di essere un platonico, egli che è pure l’autore di una delle
filosofie più avverse al platonismo, senza considerare le tracce di
platonismo rimaste nel suo pensiero dallo studio dei filosofi italiani neoplatonici
e neoplatonizzanti del sec. XV e del XVI *. Ma fuori di
questa intima parentela italica della mente vichiana non s’' intenderebbe
neppure un’altra delle caratteristiche più speciali della sua filosofia, che
non è stata tra le minori cause della sua scarsa fortuna nella
storia internazionale del pensiero speculativo: voglio dire la sua forma,
affatto impropria, per cui non c’è uno scritto del V., che si possa
additare come esposizione adeguata o approssimativa della sua dottrina, a
quel modo che si fa per Cartesio, per Spinoza, per Leibniz, per
Locke, per Hume e per tanti altri filosofi del periodo stesso, a
cui V. appartiene. Questi, invece, non sì propone mai chiaramente e
direttamente la trattazione del problema, che agita realmente il suo pensiero,
e vi riceve infatti una soluzione. Il suo pensiero filosofico
fondamentale, per motivi estranei alla sua interna struttura logica, ci è
presentato in una forma più atta a deviare l’attenzione da esso che non a
fermarvela sopra e concentrarvela: in una forma impostagli violentemente
dall’autore, più sollecito, apparentemente, d’accentuare questa forma
estrinseca arbitraria che non la sostanza vera ed originale del suo pensiero.
Le opere capitali del V. son due: il De antiquissima Italorum sapientia
ex linguae latinac originibus eruenda (1710) e 1 Principii d'una scienza
nuova d’ intorno alla comune natura delle nazioni (1725, 2% edizione 1730
e ’44). Nella prima l’autore, come attesta lo stesso titolo, si propone
per l’appunto di dimostrare quale sia la filosofia che può e deve
ricavarsi dalle origini della lingua latina, come quella dottrina che una
volta dové esser professata da’ più antichi saggi d’Italia; e nella
seconda come argomento principale della ricerca viene annunziata una
scienza nuova intorno alla natura della società umana (come si vien
realizzando attraverso la storia). Ora la critica ha dimostrato che i
problemi, intorno ai quali si travaglia la mente del V. in queste
due opere, non sono né l’uno né l’altro di questi qui enunciati, nei quali è
pure innegabile che egli abbia impegnato di proposito copiose riserve di
dottrina e d’ ingegno, segnatamente nella Scienza Nuova. Chi voglia intendere
il De antiquissima, non deve tenere nessun conto del suo titolo e
del proemio, e di tutte le vane investigazioni che qua e là vi ricorrono,
dei riposti concetti, che, secondo 1l V., supporrebbero talune voci
latine, ma limitarsi a considerare in se stessa questa dottrina che egli
pretende rimettere in luce dal più vetusto tesoro della mente italica, e
che non è altro che una dottrina modernissima, quale poteva essere
costruita da esso V. nel 1710. E chi voglia parimenti penetrare nel
pensiero nuovo, che è il nocciolo sostanziale della Scienza Nuova, non
deve arrestarsi agli sforzi faticosi, con cui V. si argomenta di
dimostrare come infatti l’umanità civile percorra e ripercorra nel tempo una
storia ideale eterna, ossia come il processo storico obbedisca a una
legge costante immanente alla natura dello spirito umano (che sarebbe soltanto
l’assunto di quel contestabile problema filosofico, che si disse poi
di filosofia della storia »); ma
guardare più addentro, per mirare a quella profonda speculazione (su cui
pur costantemente s’aggira il pensiero vichiano) intorno alla
natura dello spirito umano. Della quale egli scopre in 108 STUDI
VICHIANI fatti una scienza nuova, ma che non è altro che una
nuova filosofia, un nuovo sistema filosofico. Il pensiero vichiano perciò
è un nocciolo chiuso dentro un forte guscio; e chi non è in grado di
rompere il guscio, non può gustare quel pensiero. Ora questo
guscio, come dicevo, non si spiegherebbe senza la cultura speciale del V.:
cultura anacronistica, certamente, ma italiana. Quella inutile fatica che
si dà l’autore del De antiquissima di sforzare il significato di
talune voci latine per farne altrettanti documenti di un pensiero
italiano antichissimo, da farsi risalire, secondo probabili congetture,
fino alla filosofia degli egiziani !, richiama bensì il Cratzlo di Platone 2,
ma si riconnette ben più da presso al metodo dei neoplatonici italiani
del Rinascimento, che aveva, a sua volta, la sua buona ragion d'essere nel sec.
XV e nel XVI, ma diventa una semplice maniera » letteraria nel XVIII;
quantunque qualche suggerimento o incoraggiamento ad usarne possa V.
aver ricevuto dagli stessi scrittori contemporanei 3. Il neoplatonismo
italiano del Quattrocento risaliva anch'esso, per la trafila di Platone,
Filolao, Pitagora, Aglaofemo, Orfeo, Mercurio Trimegisto, fino all’arcana
e favolosa sapienza egiziana 4: ed era uso comune a tutti i filosofi
platonizzanti di esporre il proprio pensiero come dottrina de’ più famosi
ed antichi, ancorché non mai esistiti, filosofi e sapienti. Tipico per questo
rispetto il sincretismo del De perenni philosophia di Agostino Steuco
(1540), dal V. menzionato tra gli autori da lui tenuti in maggior
considerazione. I V., Seconda risposta al Giorn. dei letterati, $
1; Opp., I, 242-8. 2 Ricordato dallo stesso V. nel Proemio.
3 GIOVANNI RossI, V. nei tempi di V.: La cosmologia vichiana, nella
Rivista filosofica, vol. X (1907),602 sgg. 4 Ficino, Argomento
premesso alla sua trad. del Pimandro. LA II E LA II FASE DELLA FILOSOFIA
VICHIANA Quanto alla Scienza Nuova, non parmi possibile spieGare la genesi del
problema, nella forma in cui vi è proPosto, senza rifarsi da Platone, dal V.
così lungamente meditato in compagnia de’ suoi filosofi del
Rinascimento, € tenuto poi sempre per la maggior guida al vero
filoSofare, quantunque la concezione filosofica incarnatasi nella Scienza
Nuova sia, com’ho accennato, diametralmente contraria ai principii del
platonismo. Che altro, infatti, è la Repubblica platonica se non una
sorta di storia ideale eterna del corso delle nazioni, dedotta in qualche
modo dalla speculazione della natura dello spirito umano; storia,
in cui campeggia una forma di Stato ideale, punto di partenza ideale e ideal
punto di arrivo dei singoli periodi ciclici della perpetua vicenda del mondo,
ma che anch'essa non può, nel suo divenire, spiegarsi se non pel
natural moto dei sentimenti e delle idee umane ? Nella prima
edizione della Scienza Nuova, dove discorre della estrema difficoltà, in
cui si trova chi indaghi le prime origini ideali dell'umanità, a ridursi
in quello stato di somma ignotanza », libero dalle comuni invecchiate anticipazioni
», in cui è pur necessario collocarsi per assistere al primo
Svegliarsi d’ogni senso d’umanità », V. dice:
Tutte Queste dubbiezze, insieme unite, non ci possono in
niun conto porre in dubbio questa unica verità, la qual dee esser
la prima di sì fatta scienza; poiché in cotal lunga e densa notte di
tenebre quest’una sola luce barluma: che ’1 mondo delle gentili nazioni
egli è stato Pur certamente fatto dagli uomini; in conseguenza
della quale per sì fatto immenso oceano di dubbiezze, appare questa sola
picciola terra, dove si possa fermare il piede; che i di lui principii
si debbono ritruovare dentro la natura della nostra mente umana, e
nella forza del nostro intendere». E Platone aveva detto che quante sono le forme degli Stati, altrettante
rischiandi essere le forme dell’anima »: cinque quelle, cinque queste !;
essendo chiaro, come dice altrove ?, che non dal rovere e dal macigno
procedono le forme politiche, sì dai costumi dei popoli che nel loro
mutare trascinan seco tutto il resto. La differenza tra la ricerca
platonica e la vichiana è certo grandissima per la diversa
concezione da cui muovono, della storia o dell'umanità: ma,
senza dire delle analogie particolari, qui si vuole fermar l’attenzione
sul loro comune carattere di speculazione ambigua intorno alla storia,
ora intesa come storia ideale, e ora come storia empirica e
cronologica. E così nella Scienza Nuova come nella Repubblica
questa impostazione della ricerca è una superfetazione, che deve superare
chi voglia scoprire la sostanza di pensiero filosofico viva nelle due opere. La
teoria delle idee e l'etica della Repubblica infatti non ha che vedere
con le fiacche speculazioni politiche sovrappostevi dall’autore;
come le dottrine intorno al mondo dello spirito svolte dal V. nella
Scienza Nuova non hanno intrinseco legame con la filosofia storica dei
corsi e dei ricorsi. E come il filosofo antico, in quella sua indagine
della ideale successione delle forme di reggimento politico, ritenne
3 più opportuno, perché più evidente, @c vapyfotepov, indurre dall’
indole degli Stati l’ indole degli uomini che li creano anziché quella
dedurre da questa, e cioè contemplare la natura dello spirito non in se
medesima, nei suoi eterni caratteri, ma nella sua manifestazione storica
; così il moderno si svia dietro uno sforzo improbo di rielaborazione
logica (e però incongrua) della materia storica, per farne sprizzare
quell’organismo di categorie spirituali, che sono il proprio oggetto
della sua speculazione. I Rep.] Di qui un errore capitale della
sua costruzione, che sì ripeterà nella filosofia della storia di Hegel, e
che si può definire come quel riflesso del dualismo, per cui si
pone fuori dell’eterno il temporaneo, e si persegue pertanto il riscontro del
primo nel secondo. Giacché V. è tratto dal suo pensiero verso la storia
ideale eterna, la quale, per essere eterna, non può avere fuor di sé
il tempo, e non deve quindi né applicarsi, né verificarsi in
riscontri assurdi. L’eterno è la risoluzione del tempo; e però realtà
eterna è quella che, se essa è, non può esser altro che essa. E se, dopo
aver concepito una realtà eterna, ne concepiamo ancora una
temporanea, egli è che noi mettiamo da parte la prima per concepire
la seconda. La violenta mescolanza che il V., dualisticamente, è indotto
a fare, sulle orme di Platone, della considerazione speculativa (sub specie
aeterni) della storia con la considerazione empirica (sub specie
temdoris), ha fatto della Scienza Nuova una filosofia della storia,
laddove essa avrebbe dovuto esser nella forma, come è nella sostanza e in
ciò che costituisce il suo valore, una filosofia dello spirito, cioè una
metafisica della realtà intesa come spirito. E come filosofo
della storia bisogna dire che V. è stato conosciuto piuttosto largamente,
anche fuori d' Italia. Se non che, come tale, egli, salvo particolari
fortunati, come la sua celebre teoria omerica (non fortunati, per
altro, per le profonde radici che essi avevano in tutta la speculazione
vichiana) non poteva conquistare uno di quei Primi posti, a cui egli
senza dubbio ha diritto, nella storia generale della filosofia. Il
guscio, assai duro a rompersi, celava il nocciolo prezioso.
Ma quando, intorno al 1860, la sua opera maggiore fu riletta
attentamente da un pensatore italiano espertissimo nell’ intendimento dei
più vivi pensieri attraverso i quali si è venuta costituendo la filosofia
moderna, Bertrando Spaventa, uno dei più forti pensatori che abbia
avuto l’ Italia, poco noto anche lui fuori d’ Italia per la cagione
stessa del V., cioè per la sua intensa italianità, il guscio fu infranto
:; e dentro al filosofo della storia si cominciò a vedere il filosofo
originalissimo. Del quale un'analisi e ricostruzione ampia e sistematica
diede per primo Benedetto Croce =, mettendo in luce in modo magistrale
quelle che si possono dire le scoperte del celebre pensatore napoletano,
ed eloquentemente dimostrando le ragioni dell'alta valutazione che di esso deve
farsi nella storia universale. II. Ora, invece che
l'originalità del V., io vorrei qui brevemente rilevare la larga
risonanza che hanno in Europa i pensieri fondamentali della sua filosofia nella
seconda e nella terza ed ultima fase del suo svolgimento e dimostrare
così che essa non è un frutto fuor di stagione, sì uno dei fuochi più
potenti in cui si concentrò la speculazione umana nel sec. XVIII, in guisa da
non pure raccogliere la più ricca eredità del passato, ma da anticipare
altresì le più valide conquiste dell’avvenire. La filosofia
vichiana, superata la sua prima fase di preparazione e di orientamento,
in cui rimane sotto l’ influsso del neoplatonismo e si sforza di conquistare il
proprio punto di vista, e affermatasi quindi nella sua autonomia,
si svolge per due principali gradi, nettamente distinti, quan I Da
vedere tra i suoi Scritti filosofici (ed. Gentile, Napoli, Morano, 1900)
la prolusione Carattere e sviluppo della filosofia italiana dal sec. XVI,
sino al nostro tempo (1860), la lettera Paolottismo, positivismo, razionalismo
(1868), e La Filosofia ital. nelle sue rela. con la filos. europea
(1861), lez. VI, ed. Gentile, Bari, Laterza, 1908; 2% edizione
1926. è La filosofia di G. B. V., cit. tunque il
secondo sia evidentemente lo svolgimento del primo. L’uno è rappresentato
dall’ Orazione De nostri temporis studiorum ratione (1708) e dal De
antiquissima (1710); l’altro dal Diritto Universale © (1720-21) e
dalla Scienza Nuova. In quello si hanno 1 lineamenti di una
filosofia kantiana insieme con taluni dei motivi fondamentali della filosofia,
da cui Kant prese le mosse; in questo sono affermati i principii stessi
della filosofia postkantiana, cioè dell’ idealismo tedesco. Dall’uno
all’altro c’ è infatti un passaggio analogo a quello per cui l’idealismo
soggettivo della Critica della ragion pura = diventa in Hegel un
idealismo assoluto. Come nella filosofia kantiana confluiscono la
metafisica del razionalismo leibniziano e lo scetticismo dell’empirismo
inglese, così nella prima filosofia vichiana il principio kantiano della
sintesi costruttiva del sapere umano si presenta come l’accordo di uno
scetticismo che ha molti punti di contatto con quello, posteriore di
trent'anni, di David Hume, e di una metafisica che ha strane somiglianze
con quella di Leibniz, da cui è storicamente indipendente. V.
infatti segue questi stessi indirizzi, in cui sì moveva da una parte
l’empirismo inglese e dall'altra il razionalismo francese e tedesco; ma
stringendoli insieme, e riuscendo perciò a cavarne conseguenze che
precorrono di almeno sessant’anni le più profonde vedute del criticismo.
| Egli scorge con Bacone, e più acutamente, il valore
dell'esperimento, onde il fisico sa della natura quel che n E _ I Come si suole designare,
sull'esempio dell’autore, il suo trattato De universi iuris uno principio
et fine uno (1720), compiuto l’anno dopo con un secondo libro: De
constantia îurisprudentis. è Il primo a notare il riscontro della
dottrina gnoseologica del De antiquissima col criticismo kantiano fu F.
H. JacoBr nel 1811 nel suo scritto Von den gottlichen Dingen u. ihrer
Offenbarung (Werke.] riesce a rifarne (utpote 1d pro vero in natura
habeamus, cuius quid simile per experimenta facimus) :: restando
negli stessi limiti della dottrina baconiana che, ferma nel supposto
empirista della opposizione della natura allo spirito, non può
riconoscere all’attività di questo una produttività reale: sicché
l’esperimento riesce non a far la natura, ma soltanto a rifarla, oa farne
un quid simile. La teoria vichiana dell'esperimento, del pari
che in Bacone e in Galileo, presuppone la teoria dell’esperienza
sensibile come solo mezzo di conoscenza diretta della realtà naturale.
Ma, con più coerenza di Galileo, V. si sottrae alla illusione dell’oggettività
della geometria o della matematicità della natura, e combatte il metodo
geometrico di Cartesio e dei cartesiani, e in generale la concezione
razionalistica del reale con un nominalismo empirico, che è scala allo
storicismo della sua seconda filosofia. E viene perciò ad incontrarsi con
Hume, che separerà la conoscenza della natura dalla conoscenza
matematica, contrapponendole l'una all’altra in quanto l’una ha per oggetto
verità di fatto e l’altra mere relazioni ideali; e assegnando quindi alla prima
un compito, che non si potrebbe ragionevolmente ascrivere alla seconda,
quantunque neppure alla prima riesca di assolverlo: la scoperta della
causa, non quale antecedente empirico dell'effetto, ma quale potere o
forza produttiva, per cui solo è possibile, I De antiq., concl.
Cfr. cap. II, p. 144-5: Genus humanum
innumeris novis veris ditarunt ignis et machina, istrumenta, quibus utitur
recens physica, rerum, quae sint similes peculiarium naturae operum,
operatrix », e Vici Vindiciae (in Opere*, ed. Ferrari, IV, 309): Utinam philosophiae opera daretur cum
Verulamii Organo, ut quod philosophi meditarentur, id ii verum esse
experimentis ipsis demonstrarent.... Nam, si ita physicae incumberetur, non
solum non pluris fierent a Socrate sutores quam sophistae, cum illi tamen
aliquod faciant opus humano generi utile, hi vero nullum omnino; sed in
eo sane Deo Opt. Max. quodammodo similes fierent, cuius intelligentia
et opus unum idemque sunt». LA II E LA III FASE DELLA FILOSOFIA
VICHIANA secondo che nota Hume, concepire il rapporto causale come
connessione necessaria. La ragione per la quale Hume nega alla matematica
la facoltà di conferire alla fisica il carattere necessario proprio di
essa come scienza razionale e a priori, coincide con quella del V.: ed è
l'assoluta opposizione della mente alla natura, il cui processo è
un processo interno, diverso e remoto da quello della mente, che
nell’esperienza può seguire soltanto le semplici apparenze sensibili nel loro
contingente succedersi. La realtà, in questa seconda forma della
filosofia vichiana, è esterna alla mente. E però V. si schiera contro la
Scolastica e la logica del sillogismo, e contro l’ innatismo e l’astrattismo
razionalistico di Cartesio. Condanna Aristotele, che metaphysicam recta
in physicam intult ; quare de rebus physicis metaphysico genere disserit.
per virtutes et facultates »; convinto che naturae iam exstantis phaenomena non virtute
et potestate explicare par est», e vedendo con soddisfazione che tam
meliorum virtute Pphysicorum illud disserendi genus per studia et
averstonesnaturae, per arcana eiusdem constlia, quas qualitates occultas
vocani, tam, inquam, sunt e physicis scholis eliminata » *. Loda il
Descartes ?, che volle il proprio
sentimento regola del vero; perché era servitù troppo vile star tutto
sopra l'autorità »; e volle
l’ordine nel pensare; perché già sì pensava troppo disordinatamente con
quelli tanti e tanto sciolti tra loro obiicies primo, obiicies secundo ».
Sta con Bacone contro Il sillogismo e quella deduzione analitica del
Descartes, che egli paragona al sorite stoico, e combatte con la
tenacia stessa e gli stessi motivi con cui contro la logica di Crisippo
stettero in campo nell’antichità gli Accademici 1 De antig., c. IV, $$ 2 e
3: Opp., I, 158, 161: cfr. Sec. risp., $ IV: Opere, I, 261-63. Cfr.83-85.
2 Sec. risp., in Opere, I, 274-5. (al V. familiari per le
Accademiche di Cicerone, da lui espressamente citate, e per le [fotipost
di Sesto Empirico, che deve pure avere studiate, se non altro,
attraverso l’ Examen vanitatis doctrinae gentium et veritatis
Christianae disciplinae di Giovan Francesco Pico della Mirandola)
*. DI Il metodo deduttivo anche per V. è sterile:
presuppone la scienza, non la costituisce: non tam utilis est ut nova
inveniamus, quam ut ordine disponamus inventa. Così egli paragona i
fisici contemporanei, tutti soddisfatti della loro fisica razionale,
chiusa in un sistema statico di idee ben ordinate, ma senza alcun
rapporto vivo con l’esperienza mutevole, a coloro, quibus aedes a parentibus
relictae sunt, ubi nihil ad magnificentiam et usum desideretur, ut iis tantum
amplam supellectilem mutare loco, aut aliquo tenui opere ad seculi morem
exornare relinquatur ». Costoro, nota V. profondamente, scambiano la
natura con la loro fisica (pongono infatti le loro idee chiare e distinte
come la stessa realtà, o verità, da cono 1 Per Cicerone v. la Sec.
rîisp., $ IV, p. 272 (dove appunto si riferisce ad Acad., II, 16, 49). Per
Sesto cfr. De antiq., Il, p. 146 (argomento degli aequivoca) con Hyp. Pirr. II,
23; De antig., I, 3 (dottrina dei segni) con H. P., II, 10. Per la
critica del sillogismo e del sorite v. De nostri temp., VI, in Opere, I,
89-90, De antig., VII, 5 (Opere, I, 183-4) e Scienza Nuova?, ed.
Nicolini,358-9; e non occorre ricordare la famosa e perentoria critica
del sillogismo di Sesto, H. P., II, 14. Pel Pico v. per ora F. STROWSKI,
Montaigne (nella Collezione dei Grands philosophes), Paris, Alcan, 1906,125-30.
Un primo accenno allo scetticismo accademico prevalso in questa seconda
fase della filosofia vichiana si può scorgere in questo luogo della
Orazione III (1701), in Opere, I, 36:
Te iactas, philosophe, principia rerum et caussas assecutum. In quo te
iactas ? in quo animos effers, ubi adversae sectae alius te putat errare
? Addiscamus igitur verum studiorum usum; et sciamus, vetitam primi
parentis curiositatem in nobis esse vera rerum cognitione mulctatam. Hoc
disciplinae doctos a vulgo distinguat. Utrique nesciunt: sed vulgus se scire
putat, eruditus ignorare se noscit. Ita sapiens in omnibus verat; si
omnia cum illa exceptione affirmet: ‘ Aio, ni rectius, aut verisimilius
obstet’. Ita nunquam falletur, nec unquam fallet; ita nunquam ullam
stultorum profert vocem: ‘ Aliter putabam ’ ». Cfr. il De mostri
temporis, in Opere, I, 83:
Academici antiqui, Socratem secuti, qui nihil se scire,
practerquam nescire affirmabat, abundantes et ornatissimi ».
scere); sicché sarebbero quasi da ringraziare perché con la loro scienza
ci tolgono l’ incomodo di più oltre studiare la natura: nos tanto negotio
naturae ultra contemplandae liberarunt ®. Che è la più efficace critica
che possa farsi del vecchio apriorismo in nome dei diritti
dell'esperienza. L’empirismo, come ho accennato, trae V.
alle. sue conseguenze nominalistiche, dov’ è il fondamento ultimo della
critica del razionalismo astratto. Combatte infatti nel De nostri temporis
l'applicazione del sorite (metodo deduttivo) alla medicina, avvertendo che
nella deduzione non si procede da una verità antica a una verità nuova,
ma si rende esplicito l’ implicito, cioè si rimane nel vero già
posseduto. Afqui morbi semper novi sunt
et alri, ut semper alia sunt aegrotantes. Neque enim ego idem nunc
sum, qui modo fui, dum aegrotantes proloquerer: innumera namque temporis
momenta tam actatis meae praeterieruni, et innumeri motus, quibus ad
summum diem impellor, tam facti sunt». E nel De antiquissima poco
dopo dirà: ‘ Rectum’ et ‘idem’ res metaphysicae sunt. Idem ipse mihi
videor; sed perenni accessu et decessu rerun, quae me intrani, a me
exeunt, quoquo temporis momento sum alius». E ancora: Haec est vita
rerum, fluminis nempe instar, quod idem videtur, et semper alia
atque alia aqua proflut » 2. I De mostri temp., $ IV. ? De
nostri temp., c. VI e De antigq., c. 1V, $$ 4-5; in Opere, I, 102, 164.
Cfr. per la VI Orazione qui sopra86-87. V. così fa sua la dottrina, che
PLATONE (Teeteto 154 A) combatteva, o meglio dalla quale egli, che moveva
dall’eraclitismo, cercava liberarsi. E prima del V. l'aveva fatta sua in
Italia Tommaso Campanella, a cui V. qui sì rannoda. Basta leggerne questo
curioso brano che ha così vivo sapore di modernità: Però gran stoltizia è credere, che la scienza
consista nel sapere gli universali: che saprò io, se intendo che Pietro è
uomo animale razionale, mentre non intendo le sue qualità e proprietà minutamente
? Vero è che, essendo impossibile cognoscere tutti gl’ individui, per
mancamento fu bisogno imparare le scienze in universali e in confuso; ma
Dio sa le minutissime particolarità d’ogni cosa; e questa è vera, certa
sapienza. Ma la medicina per il bisogno si avvisa, che non basta sapere [Così
nel De studiorum ratione conclude che la definizione del concetto generico non
coglie quel che vi è di proprio nei singoli casi; e però miglior partito
sarà guardare al concreto (ut particularia consectemur), e attenersi alla
induzione. Che febra è questa, ma quando, come assale, e la
complessione dell’ infermo particolare, e del morbo, e del medicamento; non in
communi, cioè del reubarbaro, ma di questo reubarbaro, che se ha da dare
sino alla tale ora »: Del senso delle cose, ed. Bruers, II, 22 (Bari,
Laterza, 1925, p. 106). Cfr. CAMPANELLA, Metaph., V, 2, a. 2: Itaque
principia scientiarum sunt nobis historiae »; e in proposito, RITTER,
Gesch. d. Phil., X, p. 26. BACONE, letto e ammirato da V., dei difetti
della medicina del suo tempo aveva detto nel De augm. scient., IV, 2,
(ed. Ellis-Spedding?, I, 590):
Solent autem homines naturam tanquam ex praealta turri et a longe
despicere, et circa generalia nimium occupari; quando si descendere placuerit,
et ad particularia accedere, resque ipsas attentius et diligentius
inspicere, magis vera et utilis fieret comprehensio. Itaque huius incommodi
remedium non in eo solum est, ut organum ipsum vel acuant vel roborent,
sed simul ut ad objectum propius accedant. Ideoque dubitandum non est
quin si medici, missis paulisper istis generalibus, naturae obviam ire
vellent, compotes ejus fierent, de quo ait poéta [Ovid., Rem. am.
525]: Et quoniam variant morbi, variabimus artes; Mille mali
species, mille salutis erunt ». E tra i desiderata per i progressi
della medicina aveva osservato (ivi, I,591-2): Primum est, intermissio diligentiae illius
Hippocratis, utilis admodum et accuratae, cui moris erat narrativam componere
casuum circa aegrotos specialium; referendo qualis fuisset morbi natura,
qualis medicatio, qualis eventus. Atque hujus rei nactis nobis jam
exemplum tam proprium atque insigne, in eo scilicet viro qui tanquam
parens artis habitus est, minime opus erit exemplum aliquod forinsecum ab
alienis artibus petere; veluti a prudentia jurisconsultorum, quibus nihil
antiquius quam illustriores casus et novas decisiones scriptis mandare,
quo melius se ad futuros casus muniant et instruant ». Ma più degno
di considerazione, per le sue probabili relazioni col pensiero del V. è
forse un brano della Dissertatio logica (1681) del medico napoletano Luca
ANTONIO Porzio ultimo filosofo italiano
della scuola di Galileo » (come lo chiama V. nell’Autob., p. 37,
ricordando la stretta amicizia e gli spessi ragionamenti avuti con lui). In
questo brano, dopo aver accennata la dottrina platonica e cartesiana delle idee
innate, è detto: Coeterum licet
haec majori ex parte verissima censeri possint; homini tamen, ut satis
excultus animo sit, non sufficere existimo, universalia et communia scientiarum
principia. Oportet enim non raro ad particularia descendere, et singularem
alicujus rei nobis scientiam comparare. Quod non fit nisi assumpto etiam
peculiari et proprio aliquo quaesitae rei principio. Sed non inficiabor,
ingenium excolendi et exercendi gratia, posse Qual'è, si domanda
altrove :, la causa del gran discredito in cui è caduta oggi la fisica
aristotelica ? È troppo universale, laddove gli esperimenti della fisica
moderna riproducono fenomeni peculiari determinati. Così nella
giurisprudenza l’arte non consiste nel possedere summum et generale
regularum, ma nel vedere le circostanze prossime, alle quali non sempre si
possono applicare le disposizioni generali della legge. Ottimi oratori non sono
quelli che discorrono per luoghi comuni, ma quelli che, per dirla
con Cicerone, haerent in propriis. Né gli storici possono contentarsi di
narrare i fatti all’ ingrosso, assegnandone cause generiche. Né la sapienza
della vita si giova di massime astratte, poiché il sapiente dev’esser
tale Caso per caso, e non affidarsi ai sistemi, come fanno 1 dottrinari
(fhematici), poiché la realtà è sempre nuova: e nova, mira, inopinata
universalibus illis generibus non providentur. Così, nel discorso, ogni
parola conviene sia propria e adatta a ciò che a volta a volta si vuol
dire; nos arbitratu nostro quaecumque velimus determinare, et
cuiuscunque speculationis, quod lubet statuere principium, atque inde
quaenam investigare. Quod si ea quae inveniuntur, consona fuerint tum ei,
quod sumpsimus, hypothesi scilicet prius factae, tum scientiarum
dignitatibus, hoc est propositionibus per se notis, et communibus hominum
Opinionibus, tunc affirmare poterimus, recte nos fuisse speculatus. Si
quid vero consequatur, quod vel repugnet axiomati alicui, vel sit contra
hypothesim, tunc certi esse possumus de fallacia aliqua nostrarum
cogitationum.... Quamobrem si non idcirco philosophamur, ut ingenium
tantummodo exerceamus, verum etiam ut speculationum et inventionum nostrarum
aliquis sit usus, deducendae illae sunt tum ab universalibus scientiarum principiis
et communibus hominum opinionibus, tum ex peculiari non ficto principio,
non ficta hypothesi; sed quae sit secundum rei naturam, quam indagandam
suscepimus. Atque ideo meo quidem iudicio summe custodienda atque
promovenda est rerum omnium historia sive civilium sive bellicarum, sive
physicarum sive aliarum, quarumcunque rerum, utcunque observatarum.
Etenim cum vel ipsa natura universalia non edoceat, observatarum rerum
historia particularia nobis praebet principia unicuique scientiae propria,
quibus adjuti pleraque, quae nobis occulta erant, dignoscere valeamus »:
Opera omnia medica, philosophica et mathematica, Neapoli, Mosca,
MDCCXXXVI, t. 1,379-80. 1 De antiq., c. II, in Opere, I, 144.
giacché loqui universalibus verbis infantium est aut barbarorum.
Ed ecco spuntare una dottrina, che avrà un grande valore nella terza
forma della filosofia vichiana: la dottrina del certo.
IIIl Il certo nel pensiero del V. è il determinato, il
positivo, l’effettuale o il concreto, fuori del quale non v’ ha realtà,
ma astrazione: dottrina, che si collega da una parte con la teoria dell’
induzione e dall’altra con quella della percezione. In molti luoghi del
De nostri temporis studiorum ratione e del De antiquissima Italorum
sapientia, nonché della polemica a cui questo libro diede luogo, V.
raccomanda l’ induzione baconiana, come l'organo proprio della scienza,
che vuol costruire il vero sulla base del certo 1. Ma in un paragrafo del
De antiquissima ?, svolge una teoria della conoscenza che va assai più in
là di Bacone. Attribuisce alla mente tre operazioni:
percezione, giudizio e raziocinio ; donde provengono le tre arti
della to pica, o arte di trovare, della critica, o arte di giudicare, e
del metodo,o arte di ordinare razionalmente le materie: ma fondamentali
sono la topica e la critica, ossia le funzioni del percepire e del
giudicare. E tra le due quella che costituisce ed estende il
dominio del sapere, la propria sciendi facultas, è la funzione del
percepire, che V. ama chiamare ingegno?3: che è qualche cosa di analogo,
ma anche qualche cosa di supe I E il concetto ritorna nella Scienza
Nuova*, ed. Nic.,358-9. 2? Cap. VII, $ 5. 3 Oltre il De
antig., vedi le Vicî vindiciae, Nota q, in Opere, ed. Ferrari, IV,
309. riore alla esperienza o intuizione sensibile di Kant.
Alla celebre proposizione di questo, che l’ intuizione è cieca
senza il concetto, e il concetto vuoto senza l’ intuizione, 11 V. prelude
nel suo linguaggio dicendo: Neque
inventio sine tudicio, neque tudicium sine inventione certum esse potest
». E il gi udizio vichiano è proprio quello che è il concetto puro
kantiano, se fuso con l’invenzione o percezione: laddove si muta in un’
idea a priori, in una prolessi dommatica a mo’ degli stoici, o in
un' idea innata a mo’ di Cartesio, se diviso dalla percezione. La quale, come
operazione propria dell’ ingegno, non è soltanto l’ intuizione del dato
(come l’ intuizione di Kant), ma ogni intuizione del certo, ossia del
nuovo, del proprio o singolo, del reale, onde si estende la sfera
del conoscere, e però propriamente si sa. Di guisa che l’ ingegno è la
forza dello scopritore di regioni per l’ innanzi inesplorate nel dominio
della natura, ma è anche la forza del poeta nella sua originale
creazione, e dello scienziato che scopre rapporti ideali non più veduti:
onde la dottrina vichiana dell’ ingegno supera il concetto dell’
intuizione kantiana, e accenna alla dottrina del genio dei romantici
tedeschi. La percezione è insomma non tanto la esperienza passiva di Kant, base
alla funzione attiva dello Spirito, quanto la stessa pura attività
mentale, creatrice e costruttiva, con cui non si rielabora un contenuto
già acquisito, ma si acquista o si pone il contenuto stesso; e non si
rimane perciò nel già noto, ma si procede di là dal suoi confini: non
analytica via, sed sinthetica, per usare le stesse parole del V., che
anticipa con esse la famosa distinzione della Critica della ragion
pura. Academici toti în arte inveniendi, în illa iudicandi
toti Stoici fuerunt: utrique prave »: e gli Accademici erano per V.
i filosofi che non avevano costruito con la ragione sull'esperienza, ma s’eran
limitati a raccogliere le apparenze sensibili e i dati di fatto, senza né pur
giudicarli per affermarli o negarli; i puri empirici, insomma; laddove gli
Stoici, contro cui gli Accademici avevan battagliato, s'erano sbizzarriti a
dommatizzare con la loro presunta scienza naturale della natura; cioè i
razionalisti. Correggere perciò gli opposti difetti degli uni e
degli altri vuol essere pel V. lo stesso programma annunziato nelle
prime parole della Critica di Kant: Non
c’ è dubbio che ogni nostra conoscenza comincia con l’esperienza.... ma non per
questo tutta la nostra conoscenza deriva dalla esperienza »: il
superamento e la conciliazione del pretto empirismo e della metafisica
razionalistica. Ma, come Kant na tuttavia una manifesta
propensione per gli empiristi contro i metafisici, si direbbe pure che
il V. abbia una particolar simpatia per i suoi Accademici. Egli
serba tutti i suoi strali per gli Stoici (leggi Cartesio '*), come Kant
intitola Critica della ragion pura la sua opera, che avrebbe pur potuto
capovolgere e intitolare Critica
della pura esperienza ». Per questa simpatia verso gli Accademici V.
accentua da una parte lo scetticismo della sua tesi empirica, e, risentendo,
assai più che tra qualche decennio David Hume, anch'egli, com’ è
noto, tornato ad ispirarsi alla filosofia accademica ?, il motivo
umanistico-socratico di questa, s’apre la via dallo scetticismo del De antiquissima
alla filosofia positiva della Scienza Nuova. Al dommatismo
cartesiano, che, agli occhi del V., rinnovava quello degli Stoici, egli
contrappose il pro b a bilismo di Carneade 3, salvandone, come Hume, le
matematiche. Le quali sono scienze del vero; ma di un I ....
Stoicis, quibus recentiores respondere videntur »: De nostri temp. in
Opere, I, 97; Cfr. De antiquissima, ivi,138-9. 2? Hume, An enquiry
concerning human understanding, sect. V, part. I in princ., e sect.
XII. 3 Cfr. la critica di Descartes nel De antig., I, 3 e la Sec.
risp., in Opere. Vero senza certezza; come il certo del probabile è
senza verità. Lo stesso cogîto cartesiano agli occhi del V. diventa quel
che è agli occhi di ogni empirista e di ogni scettico: un fatto, un
certo, com’egli dice; un probabile, come avrebbero detto gli Accademici:
qualche cosa che è oggetto di coscienza, non di scienza; quindi
privo della certezza, nel senso cartesiano di esclusione del dubbio.
L’essere dell’ I o che pensa, per esser vero, e non semplicemente
probabile, dovrebbe potersi dimostrare come l'eguaglianza degli angoli di
un triangolo a due retti. Ma in che consiste la dimostrazione del
matematico? o, in altri termini, in che consiste la verità del suo sapere
? Se la scienza della natura è offuscata dall’ ignoranza ineliminabile
dell’ intimo processo della natura, onde la causalità cessa di essere una connessione
necessaria, e uno schema d'’ intelligibilità sistematica dei fatti
naturali, nella matematica ci dev'essere quel che manca alla fisica:
la conoscenza del processo per cui si generano i numeri e le figure
(che son la realtà del matematico); e come quel processo pei fatti
naturali è inattingibile, perché la natura è una realtà opposta allo
spirito che la conosce, così il processo generatore della realtà
matematica dovrà, per essere conoscibile, coincidere col processo
conoscitivo; e la causazione essere la stessa conoscenza. Di qui la
or: mula vichiana: verum et factum convertuntur. A questo
concetto della matematica in opposizione al concetto della fisica, che
del resto serpeggiava, ancora immaturo, in Galileo e nella sua scuola, V.
fu spinto e dallo studio dei Neoplatonici (poiché nel Ficino egli
aveva letto qualche cosa di simile) 1, e dal confluire nel suo spirito
della nuova gnoseologia delle matematiche, dell’empirismo della sua
scepsi accademizzante e dei vecchi concetti platonici e scolastici intorno al
rapporto di ! Cfr. la dimostrazione precedente,30 sgg. e
più avanti139588. Dio col mondo. Posto il carattere di verità delle
matematiche, riconosciuto da tutta la filosofia, dal Rinascimento in poi;
posto lo scetticismo come negazione della conoscenza causale della natura come
realtà estramentale; posta la naturaco me realizzazione del pensiero
divino (quale la concepiscono tutti gli scolastici e quei neoplatonici, a
cui V. amava rannodarsi); il dommatismo matematico doveva apparire il
rovescio del ricamo dello scetticismo fisico. E così V. fu condotto a
scoprire il suo grande principio del verum factum, per cui la
scienza è solo di ciò che si fa: che è lo stesso concetto con cui
Kant doveva, molto più tardi, giustificare il valore della scienza, quale
cognizione, non di un oggetto che si porga bello e costituito alla mente
umana, anzi di un oggetto costruito appunto dall’atto stesso del
conoscere. La scienza, rispetto alla quale sorge nel De
antiquissima la nuova gnoseologia vichiana, è bensì una scienza puramente
formale: piena di verità, ma vuota di certezza. Vuota di certezza, perché
la realtà pel V., nel De antiquissima, resta la natura (l’opera di Dio): la
natura stessa degli empiristi, ma neoplatonicamente o (che, qui, è
lo stesso) spinozisticamente considerata, cioè superata: non però
nel monismo meccanico del filosofo di Amsterdam, sì in una specie di
pluralismo dinamico, che richiama quello di Leibniz. Come
Spinoza, V. pone una natura estesa irriducibile al pensiero: ma, pel suo
scetticismo, supera Spinoza, come lo supera Hume; giacché non iscambia la
causalità razionale (che è l’intelligibilità della matematica, o
della verità senza certezza) con la causalità reale della natura, e
tiene ben distinto l’ordine delle verità di fatto dall’ordine delle verità di
ragione. Spinoza risolve la sua natura corporea o la molteplicità
infinita dei modi dell'estensione nell’unità della sostanza estesa, la
quale nella sua unità è la negazione del corpo e del moto; ma la sostanza
per LA II E LA III FASE DELLA FILOSOFIA VICHIANA Spinoza non si sveste mai
né può svestirsi dell’estensione, che è attributo irriducibile ad altri
attributi. Per V., invece, come per Leibniz, l’esteso ha il suo principio
nello inesteso, talché la sostanza degli stessi modi corporei è
inestesa 1. Né il movimento si risolve nel meccanismo dell’ impulso che un
corpo esercita sopra un altro corpo, come nel determinismo spinoziano;
bensì nel conato stesso della sostanza, che è a base del corpo.
L'’inesteso è il punto metafisico, che nella metafisica vichiana ora
par molti, ora uno, con un'esitazione che non è in Leibniz, ma che
può dimostrare una vista più acuta di quella di Leibniz: perché la
molteplicità è uno dei caratteri fantastici della monade leibniziana, la quale,
come principio del composto, ossia del molteplice, dovrebb'essere
esclusione assoluta della molteplicità. La scienza del punto
metafisico viene ad essere pel V. una sorta di geometria del divino, per
la quale non si penetrerà già nell’attualità o nel certo della
natura (oggetto della fisica), destinato a rimanere un libro chiuso
con sette suggelli; al punto che, se Dio volesse insegnarci egli stesso
come l’ infinito (la sostanza) sia sceso in questi finiti (i modi), noi
non potremmo, dice risolutamente il V., comprenderlo: perché cotesta è
propria scienza di Dio, che fa dell’ infinito il finito. Si ricordi la
dotta ignoranza, o cognizione negativa del Cusano, che V. non pare abbia
conosciuto, ma alle cui fonti dirette o indirette s'’abbeverò anche lui.
Senza trascendere tuttavia la sfera della conoscenza formale concessa
all'uomo, una metafisica è possibile in un senso analogo a quello
per cui Kant può, senza sconfinare dai limiti segnati dalla
t In mundo, quem Deus condidit, est quaedam individua virtus extensionis,
quae, quia individua est, iniquis exstensis ex aequo sternitur » (De antig.,
IV, 2; Opp., I, 156). Per le relazioni di questa dottrina con quelle
affini di Bruno, di Spinoza e di Hegel, v. B. SPAVENTA, Saggi di critica,
Napoli, Ghio.] Critica, indagare i Principii metafisici della scienza
della natura; una metafisica che, conforme allo spirito d’umile
agnosticismo della religione 1, stia nei termini della geometria 2; e sia una
geometria che renda pensabili i dati dell'esperienza, procurando di
spiegare il mondo che è fuori della mente con quello che è dentro di
essa, come pure avran pensato di fare i Pitagorici 3, quando dei numeri
fecero il principio di tutte le cose. La fisica infatti ci dà corpi e
moto. Ora, pensare quelli e questo non è possibile senza trascenderli:
ché l’essenza del corpo, ciò che noi pensiamo dicendo corpo, non è
niente di esteso e divisibile, come i corpi, bensì un che d'’ inesteso e
indivisibile. Né l’essenza del movimento si muove; e dev'essere perciò
posta di là dal moto. Ma, se il corpo realizza la propria essenza, questo
è un inesteso che si estende; e se il moto realizza la sua essenza,
questa non è neppure l’assoluta quiete, ma il principio del movimento in
fieri. L’inesteso, essenza dell’esteso, è il punto, concuiinfatti la
geometria costruisce le linee, le figure e, in generale, l’esteso; e se
l’esteso si muove, il suo principio sarà principio di movimento, oltre
che di estensione: conato. Il punto metafisico (che è lo stesso
concetto del punto geometrico, non come definizione nominale, ma reale) e il
conato sono i due concetti che, secondo V., rendono intelligibile la
fisica quale apparisce alla mente umana. Ma la metafisica non
può andar oltre, e dire come e perché la sostanza inestesa, unica,
infinita col suo sforzo IChristianae fidei commoda m»: De antig.,
concl. 2 Et ea ratione geometria a metaphysica suum
verum accipit, et acceptum in ipsam metaphysicam refundit »: De antig.,
IV, 2, in Opere Nec.... cum
de naturae rebus per numeros disseruerunt, naturam vere ex numeris
constare arbitrati sunt: sed mundum, extra quem essent, explicare per
mundum, quem intra se continerent, studuerunt »: O. c., in Opere.] si
estenda, si moltiplichi, si determini, si muova e dia luogo alla natura.
La quale è opera di Dio, e perciò è conosciuta soltanto da lui. Pure quel
semplice sguardo negativo gettato dentro al segreto della natura basta
a farci apparire tutta la meccanica del determinismo una apparenza
seco stessa contradittoria. Come Leibniz, V. non sa più concepire quiete
assoluta, né comunicazione di movimento. Accetta da Malebranche
l’occasionalismo 1, e con lui ascrive a Dio ogni attività: Lo sforzo dell’universo, che sostiene ogni piccolissimo
corpicciuolo,... non è né l’estensione del corpicciuolo, né l’estensione
dell'universo. Questa è la mente di Dio, pura d'ogni corpolenza, che agita e
muove il tutto » 2. E quel che Dio è al corpi, è anche alle menti, in cui
V., traendo audacemente alla massima coerenza l’ intuizione neoplatonica
del Malebranche 3, non ammette se non quello che vi pensa Dio, omnium
motuum, sive corporum sive animorum, primus auctor. Sicché il
dinamismo vichiano del De antiquissima rispecchia quella critica interna del
meccanismo cartesiano che, attraverso Geulincx e Malebranche, perviene in
Leibniz al superamento della fisica come scienza dei fenomeni (dei corpi
formati, come dice V.) nella speculazione dei punti metafisici, che
caratterizza, come tutti sanno, la prima fase della filosofia
leibniziana; ma non raggiunge il concetto della monade. Giacché,
per quanto si sforzi V. d’ introdurre e affermare nella sua stessa
intuizione emanatistica il concetto della libertà dello spirito (che è la
nota più profonda della monade), I Dunque la percossa non serve ad
altro che di occasione che lo sforzo dell’universo, il quale era sì
debole nella palla, che sembrava star queta, alla percossa si spieghi
più, e, più spiegandosi, ci dia apparenza di più sensibile moto »: Sec. risposta,
in Opere, I, 265. * Prima risp., $ III, Opere, I, 218.
3 Cfr. De antiq., cap. VI. questo concetto rimane affatto estraneo
al suo pensiero; e il suo punto metafisico, come conato, ondeggia
sempre tra il concetto dell’unica mente di Dio (che è il solo
centro reale di questo mondo) e il concetto dei molti centri individuali
di forza. IV. Ma il concetto della spiritualità e
della libertà del reale nello sviluppo ulteriore del pensiero vichiano fu
affermato ben più validamente che nella monadologia leibniziana. Lo
sguardo gettato sulla metafisica della natura, nel suo significato
negativo, è una tappa nella speculazione del V.. Tappa, in cui V. si è
sbarazzato del meccanismo, e si è raffermato nella sua intuizione giovanile
dell’ immanenza di Dio nel reale, e quindi nella mente umana. Della quale
intanto aveva scoperta la legge intrinseca: che è quella di creare il
mondo che è suo, e non poter penetrare nella costituzione di un mondo
derivante da un principio diverso. Questa scoperta, a cui la
meditazione dell’antico scetticismo lo aveva condotto, era suscettibile di un
grandioso ampliamento, pur che V. avesse volto l'animo a un altro
importante suggerimento implicito in uno dei motivi principali dello
scetticismo accademico: voglio dire nel concetto socratico della conversione
della ricerca speculativa dalle cose naturali o divine alle umane:
concetto centrale nella filosofia accademica, considerata perciò da
taluno de’ suoi seguaci e de’ suoi storici quasi un ritorno al
punto di partenza originario della filosofia platonica, a Socrate.
Ora dall’ Orazione De mostri temporis studiorum ratione: come dalla
Seconda risposta al Giornale de’ letterati* si vede chiaramente quanto ben
disposto fosse l'animo del V. ad accogliere quel suggerimento e a
fecondarlo dentro di sé, già fin dal tempo della sua metafisica negativa. Nel
primo scritto infatti lamenta, come grave danno arrecato dal metodo
dommatico e scientifico prevalente nella cultura contemporanea, quel
chiudersi negli studi delle scienze naturali, considerando la
natura solo oggetto possibile di scienza, cioè di cognizione universale e
necessaria, e trascurare ogni dottrina morale perché hominum natura est
ab arbitrio incertissima. Certamente, il metodo aprioristico della scienza
fallisce nelle cose umane, dove il variare delle occasioni e la scelta
generano l’ imprevedibile. Ma il senno pratico (frudentia civilis vitae) non si
giova della ricerca del vero (dell’astratto), né i fatti umani possono
valutarsi ex ista mentis regula, quae rigida est; anzi debbono
misurarsi con quella flessibile regola lesbia, che non adatta a sé
i corpi, ma essa si adatta ai corpi; con una specie pertanto di
cognizione, che non guardi alle vette della scienza, sì alle infime
particolarità delle cose individuali, e segua la realtà (il certo) in
tutti i suoi mutevoli accidenti mercé il senso comune, che, in luogo del
vero, si contenta e si giova del verisimile. E nello scritto
polemico, contro il matematicismo cartesiano V. asserisce che la
repubblica delle lettere fu così da prima fondata, che 1 filosofi si
contentassero del probabile, esi lasciasse a’ matematici trattare il
vero. Mentre si conservaron questi ordini al mondo, del quale avem
notizia, diede la Grecia tutti i principii delle scienze e delle
arti, e quei felicissimi secoli furono ricchi di inimitabili repubbliche,
imprese, lavori e detti e fatti grandi; e godé l’umana società, da’ greci
incivilita, tutti i commodi e tutti 1 piaceri della vita sopra de’ barbari.
Sorse la setta stoica, I $ IV. Questa Sec. risp. è del 1712.
e, ambiziosa, volle confonder gli ordini, e occupar il luogo de’
matematici con quel fastoso placito: Sapientem nihil opinari; e la
repubblica non fruttò alcuna cosa migliore ». Dove chi abbia qualche
notizia della dottrina di Carneade non può non riconoscere il suo probabilismo
in servizio della gpévnotc, che è la stessa prudenza vichiana; come non è
possibile disconoscere la parentela della critica vichiana della morale
stoica e giansenista ! con la polemica anticrisippea di Carneade.
Per V., dunque, come per Carneade e per tutta la tradizione
accademica, l’ ideale del filosofo tornò ad essere Socrate, che anche lui
parve primus a rebus occultis et ab ipsa natura involutis, in quibus
omnes ante eum philosophi occupati fuerunt, avocavisse philosophiam et ad
vitam communem adduxisse, ut de virtutibus et vitiis, omninoque de bonis rebus
et malis quaereret »*. Socrate, che
sconsigliava dallo speculare sulle cose celesti e sul come la
divinità produca ciascuno di quei fenomeni » per non dare in
vaneggiamenti non meno assurdi di quelli in cui era venuto Anassagora;
quell’Anassagora, che si era dato così gran vanto di sapere spiegare gli
artifizi messi in opera dagli dei » 3. Socrate, che, tutto raccolto per
la parte sua nello studio dell’uomo,
domandava se, a quella guisa che gli studiosi delle cose umane si
credono in grado di effettuare.... quello che avranno imparato, così
parimente gli indagatori delle cose divine credono, scoperte che abbiano
le cause di ciascun fenomeno, di poterlo produrre quando vogliano, e formare, a
un bisogno, i venti, le pioggie, le stagioni e ogni altra cosa di simil
genere » 4. Parole, di cui par di sentire un'eco lontana in quelle
con cui V. enuncia insieme ed illustra la sua più matura I
CROCE, 0. C.,97-8; e cfr. qui appresso, p. 143 Sgg. ? CIcER., Ac., I,
15. 3 SENOFONTE, Memor., IV, 7, 6 (tr. Bertini). 40.
c., I. 1, 15. LA Il E LA III FASE DELLA FILOSOFIA VICHIANA concezione del
problema della scienza: Questo mondo
civile egli certamente è stato fatto dagli uomini, onde se ne possono,
perché se ne debbono, ritruovare i principii dentro le modificazioni della
nostra medesima mente umana. Lo che, a chiunque vi rifletta, dee recar
meraviglia come tutti i filosofi seriosamente si studiarono di conseguire
la scienza di questo mondo naturale, del quale, perché Iddio egli il
fece, esso solo ne ha la scienza; e trascurarono di meditare su questo
mondo delle nazioni, o sia mondo civile, del quale, perché l’avevano
fatto gli uomini, ne potevano conseguire la scienza gli uomini »
*®. Non occorre dire che questo concetto della filosofia, se
ha attinenze storiche, di cui non è possibile non tener conto, con idee
della filosofia socratica e accademica, è, nel suo proprio significato,
assolutamente originale; come lo scetticismo del De antiquissima,
malgrado le sue manifeste ispirazioni accademiche, è, col suo concetto kantiano
delle scienze formali matematiche, più moderno dello stesso scetticismo
di D. Hume. Ora, se nel De antiquissima V. anticipava Kant, qui, nella Scienza
Nuova egli precorre a dirittura Hegel. Lì la mente umana era
considerata creatrice di un mondo astratto, avente perciò esclusivamente
valore pel soggetto che lo costruisce, mentre ha fuori di sé la realtà, opera
di Dio. E lo spirito geometrico era dio di un mondo di figure, come Dio
poteva dirsi il geometra di un mondo reale =. Qui invece lo spirito
appare creatore di un mondo saldo, in sé perfetto, qual è il mondo delle
nazioni, la civiltà, la storia. La profonda meditazione di quella realtà
umana, a cui il suo scetticismo lo richiamava, ha fatto scoprire in
questa I Scienza Nuova, ed. Nicolini,172-3. 2 Geometra
in illo suo figurarum mundo est quidam Deus, uti Deus Opt. Max. in hoc
mundo animorum et corporum est quidam geometra». Così ripete ancora nel
1729 V. nelle Vindiciae: Opere, ed. Ferrari.] realtà un essere ignoto
all’autore del De antiquissima, tutto preso dalla vista dell’essere
naturale posto da Dio. Il conato cieco dei punti metafisici, che si
risolve nello sforzo dell’universo, e quindi in Dio, di cui è atto, diventa
ora il conato, il qual è proprio dell’umana volontà, di tener in freno i
moti impressi alla mente dal corpo, effetto della libertà dell'umano arbitrio,
e sì della libera volontà, la qual’è domicilio e stanza di tutte le virtù
» 1. Il punto metafisico quindi diventa monade; ma anche ben più
che monade. Perché nel concetto della monade leibniziana rimane qualche cosa
del concetto dell’estensione, che vuol superare; giacché ogni monade,
come elemento costitutivo del composto, ha accanto a sé tante altre
monadi; sicché è sì spirito, ma limitato e particolare; è individuo, ma
di una individualità che non contiene ancora in sé l'universalità; quella
universalità interna, senza la quale non ci è spirito. La monade vichiana
invece è la trasformazione del punto metafisico, quale lo concepiva
V., tendente a identificarsi con Dio stesso: l’unico spirito, unità che non ha
altre unità fuori di sé, ed è perciò vera, assoluta unità. L’umano
arbitrio (che è il conato della Scienza Nuova) è determinato (accertato,
nel linguaggio vichiano) dal senso comune degli uomini; e questo ‘
senso comune vien definito un giudizio senz’alcuna riflessione, comunemente
sentito da tutto un ordine, da tutto un popolo, da tutta una nazione o da
tutto il genere umano »: il gran criterio insegnato alle nazioni dalla
Provvedenza divina per diffinire il certo d’ intorno al diritto natural
delle genti » 2, onde s’ intesse tutta la trama della storia. In guisa
che lo spirito non è più concepito né come individuale, che abbia fuori di sé
l’uni -_& I S. N, ed. Nic., p. 183. 2
S. N.2, Dign.] versale, né come universale che abbia fuori di sé l’
individuale: anzi individuale, in quanto universale, secondo il concetto
che V. era venuto maturando del certo, già accennato nella dottrina
dell’unità della percezione e del giudizio. Il certo delle
leggi », dice ora 1, è un’oscurezza della ragione unicamente sostenuta
dall’autorità, che le ci fa sperimentare dure nel praticarle, e siamo
necessitati praticarle per lo di lor certo, che in buon latino
significa particolarizzato o, come le scuole dicono, individuato; nel qual
senso certum e commune, con troppo latina eleganza, sono opposti tra loro
». Troppo, perché, secondo V., il comune nel certo può essere
oscuro, come quando si vede nel diritto il solo lato positivo o della
forza; ma non può mancare. E in un’altra tesi fondamentale 2: La filosofia contempla la ragione, onde
viene la scienza del vero; la filologia osserva l’autorità dell'umano arbitrio,
onde viene la coscienza del certo ». La scienza del vero è la scienza
stoica, cartesiana; la scienza delle verità di ragione di Hume: il
dommatismo dell’universale astratto. La co scienza del certo è l’attualità del
fenomeno, che V. nella già accennata critica di Cartesio ha detto
non esser negata neppur dagli scettici: è la verità di fatto di
Hume. Alla matematica del De antiquissima mancava la coscienza del
certo: come alla fisica mancava la scienza del vero. Qui la Scienza Nuova
supera l’astrattezza di quelle due scienze, mercé il concetto della
storia, in cui appunto vero e certo coincidono. E però dopo le
parole testé riferite V. soggiungeva, che quella sentenza dimostrava,
aver mancato per metà così i filosofi che non I Dign. CXI. *
Dign. X. accertarono le loro ragioni con l’autorità de’
filologi, come i filologi che non curarono d’avverare le loro
autorità con la ragion de’ filosofi; lo che se avessero fatto,...
ci avrebber prevenuto nel meditar questa scienza »; la quale si
propone di essere l’unità della filologia e della filosofia. Il vero
accertato o il vero certo è unità di ragione e di fatto, perché è la
stessa ragione che si attua nella volontà (l'umano arbitrio). Non è pura
speculazione sul fatto altrui, ma verum-factum, la realizzazione
stessa dello spirito. La realtà dunque della Scienza Nuova
non solo è mente, ma mente come autocoscienza: non astratta
universalità, quale apparisce a se stessa la mente considerata come
oggetto di sé (idea, mondo intelligibile, Dio trascendente), ma quella
concreta universalità che è il soggetto che si pone per sé, e si attua
raccogliendosi nella coscienza di sé. È insomma la mente quale si
realizza nella storia. Infatti natura di cose altro non è che
nascimento di esse in certi tempi e con certe guise » 1; e la mente
vien manifestando, anzi costituendo, la sua attraverso il processo
storico. Che è il concetto dello spirito o dell’ idea assoluta, come si
sforzerà di pensarlo Hegel. Non è possibile indagare qui fino a che
punto V. sia riuscito a svolgere un tal concetto. Il suo maggior
difetto consiste nel non essersi liberato del tutto dalla trascendenza e
dal dualismo; aver lasciato accanto alla nuova realtà da lui scoperta
(che non tollera compagnia) quella del De antiquissima, ossia la natura
opera di Dio; e aver concepito poi la storia, oggetto della Scienza
Nuova, come qualche cosa per sé stante (un’altra specie di natura) di
rimpetto alla scienza, quasi storia che debba esser rifatta dallo
storiografo: dualismo del tutto analogo a quello con cui V. si
rappresentava nel I Dign.] l'esperimento l’opera del fisico rispetto
all’opera indipendente della natura. Ma questi gravi residui della
concezione dualistica antica permangono anche nell’idealismo assoluto
hegeliano, come ora si viene chiarendo: e l’opera del V. precede di poco meno
che un secolo quella di Hegel. NOTA Riproduco
qui appresso un brano d’una mia risposta (pubbl. nella Critica del 1916)
a una recensione che della prima edizione di questo libro fu fatta nella
Civiltà Cattolica del 5 febbraio di quell’anno. Il punto
principale dove io e altri (Jacobi, Spaventa, Croce) avremmo preso un
grosso abbaglio, e lo scrittore della Civiltà Cattolica pretende
rimettere le cose a posto, è quel che riguarda la celebre dottrina
gnoseologica del De antiquissima, da me raccostata, per la sua parte negativa,
allo scetticismo di Hume, e per la parte positiva intesa, come dagli
altri maggiori interpreti, quale dottrina analoga alla kantiana, e
raffrontata a certe osservazioni del Ficino. Qui, mi dispiace dirlo, il
recensore non ha capito proprio di che si tratta. La
distinzione », egli dice, onde V.
separava la geometria e l’aritmetica dalle altre scienze, si fonda sul
supposto che quelle due sono fatte dall’uomo, e le altre no. Né si
accorgeva il bravo uomo che non diversa è la posizione del nostro
intelletto davanti alla matematica di quel che sia di fronte a qualunque
altro 0ggetto delle cose; e anche il punto, la linea, la superficie e la
matematica, che diceva dall'uomo creati ad Dei instar ex nulla re
substrata, tanquam ex mnihilo, erano accolti nella mente per una
astrazione, alta quanto si voglia, dalla materia delle cose corpulente, giacché
gli spiriti non hanno né punti né linee né superficie » (p. 340).
Gran brav’uomo davvero quel V.! In primo luogo, è da fermar bene
che non le scienze matematiche diceva egli esser fatte dall'uomo: ché
questo era carattere comune (da tutti am messo) a ogni scienza, la
teologia esclusa; ma la differenza specifica del sapere matematico, per la
quale questo sapere si salva dallo scetticismo, è pel V. questa, che cioè
anche il suo o0ggetto è fatto da noi. In secondo luogo, non è possibile stare
a ripetere che la matematica è scienza d’astrazione (ossia
empirica) senza lasciarsi sfuggire tutto il significato della dottrina
vichiana; la quale non si riferisce alle relazioni matematiche che il
recensore dice già esistenti e fatte nelle cose e negli oggetti della
nostra contemplazione scientifica », ma a quelle altre, onde l’uomo
mundum quemdam formarum et numerorum sibi condidit, quem intra se
universum combplecteretur: l’oggetto delle matematiche pure, che è in sé
compiuto e perfetto, senza nessun rapporto con gli oggetti
dell’esperienza. Quanto poi agli elementi di cotesto universo interno
alla mente, il punto e l’unità, s’accomodi pure il recensore se crede che
già ineriscano alla materia delle cose corpulente. Noi amiamo stare col
brav’uomo: Atqui utrumque fictumi
punctum enim, si designes, puncium non est; unum si multiplices, non est
amplius unum » (De ant., I, $ 2). Questo, ad ogni modo, sarà
apprezzamento, non accertamento del pensiero vichiano. Ma, dove si tratta
di definire il senso di esso, ecco lo storico della Civiltà Cattolica
saltar su a confondere e cancellare i tratti essenziali della dottrina di
cui si vuol discutere 1: Va però
osservato, a non esagerare di troppo la tendenza scettica della norma vichiana,
esser cioè veri criterium et regulam ipsum fecisse, che V., quando
afferma la minor certezza delle altre scienze rimpetto alle matematiche, non
diceva cosa nuova, e ripeteva ciò che in parte aveva già letto nella
metafisica di Suarez, e forse nel commento dell’Aquinate, le cui parole
non sembrano sconosciute al V.. Non pare pertanto che, come afferma il
Gentile, proprio dalla schietta dottrina neoplatonica V. deducesse la sua
gnoseologia.... » (p. 341). Malgrado l’abilità dello stile (che vuol dire
e non dire), qui evidentemente si afferma che almeno un addentellato alla
gnoseologia del verum-factum (senza il colorito scettico che assume nel
V.) può trovarsi in Suarez I Del resto, a proposito di un’
interpretazione arbitraria che io avrei fatta di alcune parole di V., la
Civiltà Cattolica ci addita una novissima e mai sospettata
interpretazione del verum-factum, scrivendo: Se, secondo V.,il vero si
converte col fatto, occorre]affermare che nel fatto (!) delle sue parole
sia la verità (!) della sua mente quale intese farcela conoscere » (p. 345). In
verità, non si può essere interpreti più fedeli del pensiero d’un
filosofo ! einS. let. 3, Ma (2.0
Re laphysi Mathen Talibus fecta
superio Modo esse te i haec ulteriu Parter
Plicite Quod Per ns0 di condert pol
di la tele gin È of cer”
dicev* Jla DE i paso! -r.] e in S.
Tommaso. Del primo dei quali si cita Metaph., Disp. I, lect. 5, n. 26; e
del secondo Comm. alla metaf., lib. I, lect. 2. Ma ecco integralmente il
luogo del Suarez: Respondetur ! ergo primo fortasse in aliquo
statu posse Metaphysicam humanam esse perfectiorem et certiorem quam sint
Mathematicae: nam, licet acquirendo hanc scientiam solis natu- ralibus
viribus et ordinario modo humano non possit tam per- fecta obtineri, si
tamen noster intellectus iuvetur ab aliqua superiori causa in ipsomet
discursu naturali, vel si ipsa scientia modo supernaturali fiat, licet
res ipsa sit naturalis, potest forte esse tam clara et evidens ut
Mathematicas superet. Quia vero haec responsio magis est theologica quam
philosophica, addo ulterius, quamvis Metaphysica in nobis semper sit,
quoad hanc partem, inferior Mathematica in certitudine, nihilominus
sim- pliciter et essentialiter esse nobiliorem: ad quod multum
refert quod sit secundum se et ex parte obiecti certior: nam
dignitas obiecti maxime spectat ad dignitatem scientiae et illa est
quae per se redundat in scientiam: imperfectiones autem quae ex
parte nostra miscentur, sunt magis per accidens: et ad hoc tendit
definitio data, in quo sensu nullam involvit repugnantiam». Dove,
per aguzzare che si faccia la vista, non si vede nulla della dottrina
vichiana. E S. Tommaso, commentando quel testo della Metafisica
aristotelica, che dice più certe (propriamente, più esatte,
&xprBéotepar) le scienze aventi oggetti più semplici e più
elementari, come l’aritmetica rispetto alla geometria, che richiede
qualche dato di più (I, 2, p. 982 a 25-28), dice: I Al n. 23, a
proposito del luogo di ARIST., Metaph., II, 3, p. 995 a, 14-16, s'era
proposta la distinzione tra la metafisica in noi che ha minor certezza
della matematica, e la metafisica in sé, a cui la matematica stessa è
subordinata, e dal cui valore perciò dipende, poiché res illae de quibus
Mathematicae tractant, includunt communia et trascendentia praedicata de
quibus Metaphysica disserit ». Alla qual difesa della metafi- sica, nel
numero 25 si opponeva: Haec scientia
[sc. Metaph.], prout in nobis est, semper est minus certa in hac parte,
quam Mathematica: ergo simpliciter est minus certa, quia Metaphysica de
qua agimus non est alia nîsì humana: haec tantum in nobis est. Quid ergo
vefert ad nobili- tatem Metaphysicae, quod secundum se sit angelica ?
illud enim erit verum de Metaph. angelica, non de nostra. Unde tractando
de mostra, videtur involvi repugnantia in illa distinctione secundum se
et prout in nobis. Haec enim optime quadrat et ita est illa
usus saepe Arist.in 1° Poster. etin principio Phys. et Metaph. At vero
acconimodata actibus vel habitibus nostris nullo modo videtur posse
habere locum ». Quanto aliquae scientiae sunt priores naturaliter,
tanto sunt certiores: quod ex hoc patet, quia illae scientiae, quae
dicuntur ex additione ad alias, sunt minus certae scientiis, quae
pauciora in sua consideratione comprehendunt, ut Arithmetica certior
est Geometria; nam ea, quae sunt in Geometria, sunt ex additione ad
ea quae sunt in Arithmetica. Quod patet, si consideremus id quod utraque
scientia considerat in primum principium, scic. unitatem et punctum.
Punctus enim addit super unitatem situm. Nam ens indivisibile
rationem unitatis constituit; et haec, secundum quod habet rationem
mensurae, fit principium numeri. Punctus autem supra hoc addit situm. Sed
scientiae particulares sunt posteriores secundum naturam universalibus
scientiis, quia subiecta earum addunt ad subiecta scientiarum
universalium, sicut patet quod ens mo- bile, de quo est naturalis
philosophia addit supra ens sim- pliciter, de quo est Metaphysica, et
supra ens quantum, de quo est Mathematica: ergo scientia illa, quae est
de ente et maxime universalibus, est certissima. Nec illud est
contrarium, quod dicitur esse ex paucioribus, cum supra dictum sit quod
sciat omnia. Nam universale quidem compre- hendit pauciora in actu, sed
plura in potentia. Et
tanto aliqua scientia est certior, quanto ad sui subiecti considerationem
pau- ciora actu consideranda requiruntur. Unde scientiae operativae
sunt incertissimae, quia oportet quod considerent multas singu- larium
operabilium circumstantias ». La certezza di cui parla qui Tommaso
d’Aquino, l’&xptBoXoyla di Aristotele, non ha nulla da vedere con la
certezza di cui parla V., la certitude cartesiana, che è il problema di
Hume, di Kant e di tutta la filosofia moderna. Quella è, si può dire, una
certezza oggettiva, e corrisponde all’ idea chiara di Descartes;
questa invece è la certezza soggettiva, o presenza del soggetto
nell’og- getto, del cui significato storico il mio recensore avrebbe
potuto rendersi conto già per quel poco che io pure ebbi occasione
di dirne nel mio studio. Senza dire poi che per Aristotele e per
Tom- maso d’Aquino, di questa certezza, è sì più certa l’aritmetica
della geometria, e tutte due della fisica; ma più certa ancora
dell’aritmetica è la metafisica. E senza dire che il concetto di questa
qualsiasi certezza non ha (com’ è naturale) nessun punto di contatto con
la dottrina del verum-factum. Sicché, non volendo dire che lo scrittore
della Civiltà Cattolica abbia citato i due luoghi di Suarez e di S.
Tommaso per gettar polvere negli occhi, bisogna pensare che non si sia
fatto ancora una chiara idea di quel che significhi la dottrina del V..
I riscontri invece tra il concetto del V. e la dottrina del Ficino,
seguitata dal Campanella, di cui ho pure additato luoghi molto
significativi, sono così evidenti, che bisogna proprio voler tenere gli
occhi ben chiusi per non vederli. Il mio recensore vi sorvola per notare
poi che sulla identità del vero col
fatto, dal Gentile e dal Croce meglio si poteva citare ciò che il Ficino
dice della verità divina, ove afferma che Dio è veritas, quia
producendo esse dat omnibus (Opera, ed. 1561, I, 97)» e in un altro
luogo dove l’arte umana è paragonata alla divina, e quindi si
distingue una veritas operis humani, adaequatio eius ad hominis
mentem e una veritas operis naturalis, quod est divinae mentis opus,
adaequatio ad divinam mentem. Ma egli stesso poi deve affrettarsi a
soggiungere: In ciò il filosofo cristiano platonico non diceva nulla di
nuovo né di diverso dagli scolastici e dall’Aquinate » (p. 342). O allora ? Se
per trovare l’origine del concetto vichiano che lo stesso recensore è costretto a
riconoscere come diverso dal concetto scolastico si deve cercare in un concetto analogo,
è inutile cercare in quelle pagine del Ficino, dove questi non si
allontana dagli scolastici; ma bisogna rivolgersi a quegli altri punti, sui
quali si fermò la mia attenzione, e che il recensore si guarda bene dal
considerare. Ai quali mi piace qui aggiungerne un altro, che sempre più
conferma che il concetto vichiano della verità non è nel filosofo fiorentino
un’osservazione fortuita e senza radici nel suo pensiero. Nella stessa
Theologia platonica, XIII, 3, leggiamo: Unum est illud in primis
animadvertendum, quod artificis solertis opus artificiose constructum non
potest quilibet qua ratione quove modo sit constructum discernere, sed
solum qui eodem pollet artis ingenio. Nemo enim discerneret qua via
Archimedes sphaeras constituit aeneas, eisque motus motibus caelestibus similes
tradidit, nisi simili esset ingenio praeditus. Et qui propter ingenii
similitudinem discernit, is certe posset easdem constituere, postquam agnovit,
modo non deesset materia. Cum igitur homo caelorum ordinem, unde moveantur, quo
progrediantur, et quibus mensuris, quidve pariant, viderit, quis neget
eum esse ingenio, ut ita loquar, pene eodem quo et author ille caelorum
? ac posse quodammodo caelos facere, si instrumenta nactus fuerit,
materiamque caelestem postquam facit eos nunc, licet ex alia materia,
tamen persimiles ordine ? Nel suo Commentario al Parmenide poi, cap. si trova
un’osservazione, che fu già da noi riferita a p. 31, dove il Ficino dice
che la cognizione umana delle cose materiali, poiché noi non siamo gli
autori delle cose non è altro che una proportio quaedam, laddove Dio le
conosce veramente, perché ne è la causa. Che se qui pare
dubitativamente concedere potersi la cognizione umana intendere forse come
proporzione al conosciuto, ossia come adequazione del soggetto
all’oggetto, più oltre, e nella pagina stessa, dimostrando perché la
cognizione divina non importi congruenza dell’ intelletto divino con le
cose materiali e transeunti, mette bene in chiaro la natura affatto
soggettiva d'ogni conoscenza, l’umana compresa: Multo minus actio in
agente manens, id est cognitio, adducit agentem, id est cognoscentem, pro
ipso cognoscendorum modo cognoscere: quod omne cognoscens non simpliciter
pro rei cognitae qualitate, sed pro ipsa cognitivae virtutis natura,
forma et dignitate, cognoscat et iudicet, hinc apparet, quia
hominem nobis obiectum aliter quidem sensus exterior, aliter autem
imaginatio viderat, aliter item ratio, aliter intellectus. Sensus enim
solam rem praesentem percipit et accidentia sola; imaginatio et absentem
repetit et quodammodo substantiam suspicatur, componit, dividit, sola summatim
conficit quae singulatim quinque sensus; ratio vero et haec efficit
omnia, et praeterea ad universalem speciem incorporeamque naturam argumentando
se transfert; intellectus denique simul quodam intuitu conspicit, quae
ratio multifariam argumentando circumspicit, quemadmodum visus obiectum
globum semet percipit ut rotundum, tactus autem saepius attingendo....
Neque rerum cognitarum conditiones, sed naturam ipsam suam sequitur [sc.
întellectus] cognoscendo: naturam inquam uniformem, indivisibilem, immutabilem
». Dottrina tra le più atte a confermare la tendenza della
gnoseologia del verum-factum: tendenza scettica, finché non si risolva il
dualismo del soggetto e dell’oggetto. Dal Ficino, e in generale dal
platonismo, ho sostenuto che il V. fosse anche indirizzato verso quella
intuizione panteistica, che è, suo malgrado, nel fondo di tutto il suo
pensiero filosofico. Sono affatto inutili e fuor di luogo le osservazioni
che si tornano a fare ancora una volta circa l’avversione del V. al
panteismo. Nessuno ha mai dubitato di ciò, e la questione non è questa.
Il punto ora contestato è che dal Ficino il filosofo napoletano potesse
ricevere suggestioni panteistiche. Contestato, LA II E LA III FASE DELLA
FILOSOFIA VICHIANA bensi, col solito dire e disdire: perché prima si assicura
che se V. lesse e studiò le opere
del Ficino e dei Platonici, non ne bevve però gli errori dommatici »: il
che vorrebbe dire che questi errori intanto nel Ficino ci sono; poi si
garentisce che quel letterato [cioè, il Ficino appunto] era assai ben
ferrato in teologia cattolica » e che la sua Theologia platonica altro
non è che una teologia cristiana » e che è assai difficile
ammettere che il F. e dopo di lui V. accogliessero il panteismo » (341-2).
Che diamine ! Bruno sì: egli, tra il Ficino e V., egli accolse il
panteismo, perciò incorse nelle condanne della Chiesa ». Ma sta a vedere
chei sognatori alemanni e i nuovi hegeliani napoletani hanno scoperto
essi che il buon canonico di Santa Maria del Fiore accolse l’emanatismo
plotiniano, pure sforzandosi di accomodarlo coi dommi cristiani. Io
confesso di non conoscere storico della filosofia degno di questo nome,
che lo metta in dubbio; e mi pare che potrebbe bastare per tutti il Vacherot,
autore di una Histoire critique de l’école d’Alexandrie, che è della metà
del secolo passato, ma che non è stata ancora sostituita. Il quale, dopo
dimostrato che nella stessa Theologia il Ficino espose la dottrina di
Plotino avec un ordre, une clarté, une précision qu'on ne retrouve point
dans les Ennéades, osserva: En
devenani Alexandrin, Ficin voudrait rester orthodoxe. Mais il est
facile de s’apercevoir qu’ il ne conserve guère que la langage de la
théologie chrétienne. Il préte è Dieu tous les attributs Psychologiques
dont le dépouillait l’ idéalisme néoplatonicien.... mais il les détruit
pour les définitions et les explications tout Alexandrines qu’ il en donne....
La psychologie de Ficin est encore Plus compléiement alexandrine que sa
théologie», ecc. (t. III, 180-1).
Sicché questa almeno del panteismo ficiniano non è poi la grande eresia
alemanna o napoletana ! DAL CONCETTO DELLA GRAZIA A QUELLO DELLA
PROVVIDENZA La quistione della grazia, come s’ è veduto, fu studiata dal V.
negli anni passati a Vatolla (1686-95). In grazia della ragion canonica
», racconta di sé nell’Autobiografia, inoltratosi a studiar de’ dogmi, sì
ritruovò poi nel giusto mezzo della dottrina cattolica d’intorno alla
materia della grazia, particolarmente con la lezion del Ricardo, teologo
sorbonico, che per fortuna si aveva seco portato dalla libreria di suo
padre ». E la dottrina di questo teologo V. stesso riassume dicendo
che costui con un metodo geometrico fa vedere la dottrina di sant'Agostino
posta in mezzo come a due estremi tra la calvinistica e la pelagiana e
alle altre sentenze che all'una di queste due o all’altra si avvicinano;
la qual disposizione riuscì a lui efficace a meditar poi un principio di
dritto natural delle genti, il quale e fosse comodo a spiegar le origini
del dritto romano ed ogni altro civile gentilesco per quel che riguarda
la storia, e fosse conforme alla sana dottrina della grazia per quel che
ne riguarda la morale filosofica ». Dove c’è un’interpretazione del
Ricardo e una genealogia della propria dottrina, per così dire, postuma:
data dal V. più di trent'anni dacché aveva letto il teologo sorbonico, e
dopo che il suo pensiero (almeno su questo punto) aveva fatto molto cammino.
Non è quindi privo d’ interesse ricordare quanto del V. ci sia nell’
interpretazione del Ricardo, e quanto del Ricardo nella genesi del
pensiero vichiano. Ne deriverà qualche nuovo chiarimento intorno a un
punto essenziale di questa filosofia. Il Ricardo, a cui V. si
riferisce, è il gesuita francese Stefano Dechamps (1613-1701), professore
della Sorbona, confessore del principe di Condé, autore di vari
scritti polemici di teologia, pubblicati anonimi o sotto lo pseudonimo di
Antonius Richardus *. Gran diffusione ebbero, nel fervore della lotta tra
giansenisti e gesuiti, la sua Disputatio theologica de libero arbitrio,
qua defenditur censura sacrae Facultatis Theol. Parisiensis lata 27 iunii
r560, et plures novi dogmatis propositiones ab eadem merito
proscribi et S. Augustini aliorum Patrum ac veterum theologorum doctrinae
adversari demonstratur (1645); di cui una quarta edizione fu pubblicata a
Parigi nel 1646, e una quinta a Colonia nel 1653; e il grosso ?n-folio,
al quale V. certamente allude, De haeresi Janseniana ab apostolica sedes
merito proscripta, in tre libri, la cui prima edizione, incompleta, è del
1645, e la seconda del ‘54. A documentare la posizione tenuta dal
Dechamps meglio di ogni esposizione possono giovare alcune citazioni
testuali. Basterà limitarsi ai punti più importanti. Contro
l’accusa di pelagianismo, che Martino Chemnitz aveva mossa ai gesuiti, il
Dechamps riferisce la risposta datagli dal gesuita Andradio, che fu de’
teologi del Concilio di Trento:
Et sane, inquiunt, quamvis nos a divina misericordia pendeamus; quamvis
nihil boni operetur fidelis, quod in illo non efficiat Deus; quamvis non
solum gratia conferatur ut converti possimus, sed etiam ut convertamur;
etsi gratia haec, quae ad operandum necessaria est et velle facit, non
sit quaecumque inspiratio aut cogitatio sancta, sed efficax Dei operatio:
quamvis I BACKER-SOMMERVOGEL, Biblioth. d. écriv. de la Comp. de
Jésus, part. I, t. II, coli. 1863-9. V. anche SoMMERVvOGEL, Dictionn. des
our. anonymes et pseudon.., Paris, 1884, s. Richardus. 2
Citerò quest’ultima, Lutetiae Paris, Cramoisy.] haec omnia vere admittamus,
homini tamen semper liberum relinquitur divinae operationi praebere
impedimentum, eamque vel amplecti, vel etiam repudiare ». Haeccine verba,
Chemniti, sunt liberum arbitrium a divina gratia segregantium !...
Haec est Coloniensium patrum Societatis Iesu sententia, quam Pelagianismi
insimulare numquam desinis !, Per Giansenio non c’è termine medio
tra grazia e libero arbitrio; quel libero arbitrio, che i pelagiani
avrebbero preso dalla filosofia profana, e introdotto in teologia ad
extenuandam Christi gratiam. Né vale richiedere, oltre al libero
arbitrio, la grazia: qui semel liberum hominis lapsi arbitrium
indifferentem ad utrumlibet facultatem esse definienit, etsi postea
gratiam ad bene agendum necessariam esse fateatur, abire tamen non
potest, quin, S. Augustino iudice, in Pelagir haeresim incidat ».
Tutte calunnie, secondo il Dechamps. Il quale contesta che non si
possa conciliare il concetto della libertà con quello della grazia, e che
Agostino abbia condannato come pelagiano qualsiasi concetto della
libertà, secondo che Giansenio pretende. In primo luogo bisogna osservare
che il libero arbitrio può esser considerato in due modi,
Primo, pro naturali facultate secundum se sumpta quae pro libito potest
alterutrum e duobus eligere, sive quae, positis omnibus ad agendum requisitis,
agere potest et non agere. Secundo, pro facultate omnibus ad bene agendum
viribus instructa. Quae duo quantum inter se distent, hoc exemplo
intelligetur. Aliud est oculum posito lumine videre posse, aliud habere
lumen ad videndum. Nam qui caecus non est, etsi tenebroso claudatur specu
et nulla collustretur luce, oculos tamen habet, quibus, cum lux adfuerit,
videre poterit. Ita aliud est hominis voluntatem esse eiusmodi, ut,
positis omnibus ad agendum praerequisitis, agere possit et non agere;
aliud ea omnia ad bene agendum praerequisita habere. Primum ad libertatem
naturae spectat; secundum Lib, I, disp. III, ad libertatem gratiae, sive
ad laudabilem illum liberi arbitrii statum, ad quem divina gratia
evehimur. Prima libertas deleri peccato non potest. Nam, etsi voluntas
necessariis ad bene agendum praesidiis spolietur, et, infami daemonis servituti
mancipata, ne levissimum quidem melioris vitae votum de se concipere
possit, talis est tamen semper, ut, cum aliunde necessaria ad bene
agendum subsidia adfuerint et caelestis gratiae aura afflaverit, agere
possit et non agere. Secunda, primi parentis culpa periit. Nam tum
omnibus gratiae praesidiis destituti, cam in miseriam incidimus, ut non
simus sufficientes cogitare aliquid ex nobis, tanquam ex nobis. Qui cum
Calvino aliisque superioris aevi haereticis congressi sunt Catholici, hanc
utriusque libertatis distinctionem diligenter observaverunt; quod ex illa
totius de libero arbitrio controversiae disceptatio penderet. Hinc
Bartholomaeus contra Calvinum scribens (lib. I de lid. arbit., cap. 3);
Ignoras», inquit, aliud esse
hominem libertatem arbitrii habere, hoc est potentiam consentiendi vel
dissentiendi, ut dixi: quod naturae liberum dicitur arbitrium; aliud vero
libertatem meritorie operandi iustitiam: quod liberatum liberum dicitur
arbitrium»!. In secondo luogo, poi, è da notare che non pensa
diversamente sant’Agostino: il quale, quando nega contro Pelagio il
libero arbitrio, intende di questa libertà liberata, principio attivo di bene;
ma non nega mai in conseguenza del peccato di Adamo il libero arbitrio,
anche come principio di male.
Fides Catholica, egli dice, neque liberum arbitrium negat, neque
tantum eci tribuit, ut sine gratia valeat aliquid ». E altrove più
chiaramente: Peccato Adae liberum
arbitrium de hominum natura periisse non dicimus, sed ad peccandum valere
in hominibus subditis diabolo ; ad bene autem vivendum non valere, nisi
ipsa voluntas hominis Dei gratia fuerit liberata, et ad omne bonum
actionis, cogitationis, sermonis adiuta ». I Lib. III, disp. II,
cap. 18. Questo concetto insufficiente della libertà negativa s'
è già incontrato nel V., nell’ Orazione del 1700 *. Ma in quella
stessa Orazione abbiamo visto com'’egli sentisse pure il bisogno di
qualche cosa di meglio. Certo, nel suo teologo non trovava un libero
arbitrio che senza l’estrinseco aiuto della divina grazia bastasse a bene
operare; quantunque dovesse, senz’alcun dubbio, esser più soddisfatto da
questa dottrina che un’ombra almeno di libertà lasciava all'uomo;
all’ucmo di quella che egli chiamerà umanità gentilesca, artefice
anch'egli del mondo delle nazioni. E non poteva egualmente non
propendere alla sentenza della teologia sorbonica nella questione famosa
della grazia efficace, che è l’altro mcmento della negazione della
libertà nel giansenismo: per cui, l’uomo non è libero prima d'esser
redento dalla grazia, perché, per effetto del peccato, è in potere del
diavolo; e non è libero né anche dopo, perché l’efficacia della grazia
redentrice consiste nella necessità della redenzione. Prima la sua
volontà è principio del male, e soltanto del male; poi, del bene, e
soltanto del bene. E non vien concepita mai come principio degli opposti,
quale dev'essere, per esser libera. Anche qui il gesuita distingue; e se
la distinzione tra grazia sufficiente che non è sufficiente e grazia
efficace provocherà il sorriso del Pascal, essa però ha una profonda
ragion d'essere, e mira a salvare insieme con la grazia la libertà, senza
la quale la grazia edificherebbe la distruzione. Il Ricardo riferisce in
proposito un luogo del De spiritu et littera (c. 33) di Agostino, che
egli dice un compendio di tutti i libri scritti dal Santo contro i
nemici della grazia e del libero arbitrio: un muro di bronzo contro
pelagiani, manichei, luterani, calvinisti e simili pesti.
1 Vedi sopra65 sgg.. Attendat et videat non ideo tantum istam
voluntatem divino muneri tribuendam, quia ex libero arbitrio est, quod
nobis naturaliter concreatum est; verum etiam quod visorum suasionibus
agit Deus ut velimus et ut credamus: sive extrinsecus per Evangelicas
exhortationes, ubi et mandata legis aliquid agunt, si ad hoc admonent
hominem infirmitatis suae, ut ad gratiam iustificantem credendo confugiat; sive
intrinsecus, ubi nemo habet in potestate quid ei veniat in mentem; sed
consentire vel dissentire propriae voluntatis est. His ergo modis
quando Deus agit cum anima rationali, ut ei credat; neque enim credere
potest quolibet libero arbitrio, si nulla sit suasio vel vocatio, cui
credat; profecto et ipsum bonum velle Deus operatur in homine, et in
omnibus misericordia eius praevenit nos: consentire vocationi Dei, vel ab
ea dissentire, sicut dixi, propriae voluntatis est!. Anche il
Concilio di Trentc ?, ispirandosi a questa dottrina di Agostino,
sentenziò lhominem praevenienti gratiae posse dissentiri. Basta perciò
questa grazia a salvar l’uomo, nel senso che non gli occorre altro, se
egli vuole salvarsi. Ma egli deve volere. La grazia risana la
volontà (e si dice perciò medicinale). Ma all'uomo già di sana volontà
Agostino 3 afferma Deum permisisse atque dimisisse facere quod vellet, e
però gratiam in eius arbitrio reliquisse. E qui c'è un punto, che dové
fermare l’attenzione del V. 4: Insignis est in hanc sententiam
planeque divinus locus ille, quo S. Augustinus Petilianum Donatistarum
episcopum sic affatur: Si tibi proponam quaestionem, quomodo Deus Pater
attrahat ad filium homines, quos in libero dimisit arbitrio, fortasse eam
difficile soluturus ess Quomodo enim attrahit, si dimittit ut quis quod
vo I Lib. III,
disp. III, cap. 1. 2 Sess. 6, can. 4. 3 De corrept. et
gratia, c. 12. CONCETTO DELLA GRAZIA E
DELLA PROVVIDENZA ISI luerit eligat? Et tamen utrumque verum est,
sed intellectu hoc penetrare pauci valent. Si ergo fieri potest, ut quos
in libero dimisit arbitrio attrahat tamen ad Filium Pater, sic fieri
potest, ut ea quae legum coércitionibus admonentur, non auferant liberum
arbitrium ». Haec S. Augustinus scribit ad Donatistarum querelas
retundendas, qui cum propositis suppliciis ab haeresi sua deterrebantur,
de Catholicis graviter expostulabant in haec verba: Cur vos non liberum arbitrium unicuique
sequi permittitis, cum ipse tamen Dominus Deus liberum arbitrium
dederit hominibus ? ». Respondet S. Augustinus liberum arbitrium legum
coéèrcitionibus non eripi, quemadmodum divina per gratiam tractione non
violatur. Unde concludit: Nemo
ergo vobis aufert liberum arbitrium, sed vos diligenter attendite
quid potius eligatis: utrum correcti vivere in pace, an in malitia
perseverantes falsi martirii nomine vera supplicia sustinere ». Qua ex
disputatione certissime conficitur quod pugnamus. Primo, quia clarissime
et expressis verbis de gratia medicinali S. Augustinus affirmat, quod
gratiae nullam agendi necessitatem inferentis argumentum esse Jansenius
profitetur: nempe Deum per gratiam homines trabhere: et tamen in
libero dimittere arbitrio, ut quis quod voluerit eligat. Secundo,
quia inepta esset illa comparatio, et contra S. Augustini mentem, si
divina ratio sequendi necessitatem imponeret; nam ex illa Petilianus continuo
colligeret, quod unum contendebat: nimirum intentata a legibus supplicio
necessitatem parendi imponere, adeoque libertatem illam, quae necessitati
est inimica, hominibus adimere. V. riferisce ed accetta,
come abbiamo visto !, nel De antiquissima questa soluzione agostiniana
del problema che nasce dal versetto del Vangelo di Giovanni (VI, 44): Nemo
potest venire ad me, nisi Pater, qui misit me, traxerit eum ». V.
condensa la soluzione nel motto: Non solum volentem, sed et lubentem
trahit, et voluptate trahit »?; e nel De constantia iurisprudentis (1721)
dirà: Ex divini sacrificiù meritis divina gratia ita trahit
- +À# I Pagg. 59-60. * De an., in Opere, I, 174.
ad Deum homines, ut, quemadmodum appositissime D. Augustinus * ex
Poeta docet: .... trahit sua quemque voluptas ». Intorno
a questa voluftas 1 Dechamps disputa molto sottilmente ?, a proposito
della grazia a perseverare concessa da Dio agli angeli e all'uomo prima del
peccato. Per la quale osserva che Agostino non adopera mai nessuno dei
termini da lui usati per esprimere i moti della volontà, sia come impulsi
di essa, sia come aiuti attuali inerenti a lei stessa. E nota ben dodici
di questi termini; sel che si riconducono all’amor indeliberatus (come
spiritus charitatis, inspiratio charitatis, ecc.); e sei che hanno
per tipo la delectatto, ma suonano anche: suavitas, dulcedo,
condelectatio, incunditas, voluptas 3. Tutti proprii dell’uomo beneficato dalla
grazia dopo il peccato, ed esprimenti tutti, perciò, non l’unità primitiva, in
cui la natura ha in se stessa la grazia, ma un'unità che presuppone
l'opposizione. Cum igitur S. Augustinus eiusque discipuli, de
statu innocentiae disputantes, his nominibus natura, naturalis
possibilitas, liberum arbitrium, non solam voluntatem sine vitio, sed
ipsam quoque habitualem gratiam, quae completam bene agendi potestatem
illi conferebat, plerumque intelligant, quid mirum si bona status illius opera
vel libero arbitrio adscribant, vel naturae opera appellent, vel,
quod durius videtur, naturaliter fieri contendant ? Audi S. Augustinum de
bono opere disputantem: Hoc opus est
gratiae, non naturae: opus est, inquam, gratiae, quam nobis attulit
secundus Adam; non naturae, quam totam perdidit in semetipso primus Adam,
etc. Non est igitur gratia in natura liberi arbitrii, quia liberum
arbitrium ad diligendum Deum primi peccati gran 1 V. rimanda qui al
Tract. XXII in Iohannem. Correggi: XXVI, 4. 2 Lib. III, disp. III, c. 16.
| 3 E per la voluptas cita appunto il luogo del Tract. XXVI in Iohann.] ditate
perdidimus ». Quibus verbis manifeste significat opus bonum, quod iam
gratiae tribuit, si Adam non peccasset, fore opus naturae; sed huius rei
caussam inde repetit, quod ante primum peccatum gratia Dei esset in
natura liberi arbitrii: gratia, inquam, illa, quae ad bene agendum
ex parte voluntatis requiritur !. Questa natura liberi
arbitrit, in cui, prima del peccato, era immanente la gratta, dopo del
peccato è perduta; e per quanta voluptas Dio ci faccia sentire
nell’assenso al suo divino suggerimento, essa non può considerarsi
una espressione della stessa umana natura: come la sua voluptas del poeta
latino. E quando perciò V. nel De constantia iurisprudentis raccosta la
voluptas agostiniana a quella virgiliana (e il raccostamento è già
implicito nel lubentem del De antiquissima), egli mette in Agostino
e nel Ricardo un po’, anzi molto del suo pensiero, che tende a
risolvere il dualismo insuperabile del domma della grazia in una
fondamentale unità. Ma, tanto nel De antiquissima quanto nel
Diritto Universale V., pure accennando con questa interpretazione sforzata
della dottrina agostiniana a superare il concetto trascendente della
grazia, crede tuttavia di doversi arrestare. E mantiene la necessità
della grazia per spiegare il processo dello spirito. Nella seconda delle
due opere testé menzionate si propone esplicitamente il problema.
Contrapposta la stoltezza dell’uomo caduto alla eroica sapienza di Adamo
anteriore al peccato, concepisce la vita umana come un processo di
realizzazione dell’ infinito, ossia dello spirito. Dio è fosse, nosse,
velle infimitum; l’uomo, poiché è corpo, oltre che spirito, e poiché il
corpo è limitato, è mosse velle posse finitum quod tendit ad infinitum.
L’uomo aspira a unirsi con Dio, che è il suo principio; e questa
aspirazione può compiere ! Lib. III, disp.] soltanto conformandosi
all’ordine della natura, nel quale sovrasta per la ragione a tutti gli
animali; ossia sommettendo la volontà alla ragione. Sommissione, in cui
consistette la natura hominis integra, conferita da Dio ad Adamo, ut nullo
sensuum tumultu agitaretur, sed et in sensus ed in cupiditates liberum
pacatumque exerceret imperium. Questa natura integra dell’ucmo, conforme
all’ordine delle cose, è la mnaturalis honestas integra. Ma questa
rettitudine naturale dell’uomo venne corrotta per colpa dell’uomo: in che
modo ? Ut voluntas rationi dominaretur. Donde nasce la passione (cupiditas),
che non è altro che amor sui ipsius, e l’errore, ossia quella
iudicii temeritas, qua de rebus 1udicamus, antequam eas habeamus
plane exploratas. Or, come riconquistare la verità, e ristaurare il processo
divino dell’ uomo ? Com? nel De antiquissima *, V. sente la necessità di
ammettere un minin.o di umanità a capo dell’umanità. Sed
homo Deum aspectu amittere omnino non potest suo; quia a Deo sunt omnia;
et quod a Deo non est, nihil est; nam Dei lumen in omnibus rebus, nisi
reflexu, saltem radiorum refractu cernere cuique datur. Quare homo falli
nequit, nisi sub aliqua veritatis imagine; vel peccare nequit, nisi sub
aliqua boni specie 2. Ma queste immagini della verità,
questi semi di bene non bastano ancora pel V. a spiegare l’umanità.
Hinc aeterni veri semina in homine corrupto non prorsus extincta;
quae, gratia Dei adiuta, conantur contra naturae corruptionem.
Conato, che è l’effetto della provvidenza e della grazia divina, come una
cosa sola. Giacché, se qui parla di gra I Vedi sopra59-60. 2 Opere,
ed. Ferrari, III, p. 26. zia, poco prima ha detto provvidenza »; dove, definendo gli
attributi di Dio, ne fa consistere la bontà in ciò, quod omnibus rebus a
se creatis quemdam conatum, quoddam 1ngenium indit se conservandi. Così, quando
per corporeae naturae vitia, quibus dividitur, atteritur et corrumpitur,
singula quaeque in sua specie conservari non possunt, divina Bonitas per
ipsarum vitia rerum erumpit, et conservati în suo quaeque genere cuncia.
Di guisa che questa bontà non ha funzione diversa dalla sapienza divina;
la quale, quatenus suo quaeque tempore cuncia promat, Divina Providentia
appellatur. Quella divina Provvidenza, le cui vie sono le opportunità, le
occasioni, gli accidenti, attraverso ai quali erompe la divina
Bontà, e fa nascere la virtù, com? virtù dianoetica o sapienza, e
virtù etica, infrenatrice degli affetti, imperfetta nei gentili, o
perfetta, qual’ è soltanto la virtù cristiana, che, reprimendo la
filautia, piega l’uomo all’umiltà:. La virtù si può bensì distinguere in
prudenza, temperanza e fortezza; ma a patto che vadano tutte insiem=
congiunte perché la virtù è una, e non dell’uomo. Sed Dei virtus est,
divina gratia, quae suo lumine Christianis perspicue recta vitae agenda
demonstrat: et efficit ut uno genere assensionis et rebus contembplandis et
rebus in vita agendis assentiamur. Uno genere assensionis, perché
spinozianamente o, com'’egli preferisce dire, socraticamente, V. tiene a
confermare quel che ha stabilito nel lemma 4° (Prolog.), che cioè la
volontà libera o razionale coincide con l’ intelletto (voluntas et
intellectus unum et idem sunt, aveva detto SPINOZA, Eth., II, prop. 49 sch.): Unum esse genus assensionis, et quo
rebus contemplandis, et quo rebus in vita agendis, perspicue, ut tamen
utrarumque fert natura, demonstratis assentimur. Nam qui officio faciendo
non assentitur, is perturbatione aliqua animi id perspicue faciendum non
cernit: quare ubi perturbatio sedata sit, et animus ea sit defoecatus,
hominem poenitet prave facti: quod quia in geometricis rebus ex. gr. non
evenit, quia linearum nulla sunt studia sive affectus nulli, quibus
perturbari homines possint, idcirco in iis ac in vitae officiis faciendis
diversum assensionis genus esse videtur »: V., Op.2, ed. Ferrari, III, 17; cfr.42-43.
La virtù concreta è adunque virtù divina; o almeno quel lume della
divina grazia, che rende possibile il volere umano instauratore
dell’ordine morale. Che è pel V. un ordine naturale, ossia ideale, eterno
di giustizia: immutabile come fato, quasi sanctio et veluti vox divinae
mentis, al dire di Agostino. E l’uomo vien instaurando questa
eterna giustizia secondo le occasioni di utilità e di necessità, che la
Provvidenza gli vien presentando affinché esso affini e svolga la sua
natura primitiva. Homo erat factus ad Deum contemplandum
colendumque et ad caeteros homines ex Dei pietate complectendos, quae
erat honestas integra: bonae igitur occasiones fuere usus et
necessitas, quibus Divina Providentia rebus ipsis dictantibus », ut
eleganter ait Pomponius, hoc est ipsarum sponte rerum, homines originis
vitio dissociatos, non ex honestate integra, quae ex animo tota erat,
prae Dei pietate, quia non integros, sed ex aliqua honestatis parte, nempe
ex corporis utilitatum aequalitate, quae magna et bona parte corruptos ad
colendam societatem retraheret. Uti corpus non est causa, sed occasio,
ut in hominum mente excitetur idea veri, ita utilitas corporis non
est causa sed occasio, ut excitetur in animo voluntas iusti !.
Qui, evidentemente, la Provvidenza, senza la quale non ci sarebbe
giustizia, e quindi non ci sarebbe società, è identica con la grazia: la
quale opera sulla volontà umana illuminandola e traendola a Dio con
quell’azione che vien definita dalla sana teologia agostiniana.
Onde nella seconda parte del Diritto Universale (De const.
iurisprud.) V. crederà di poter dire che i suoi tur:s principia sunt
maxime conformia santiori de gratia doctrinae. Ratio enim
naturalis est, qua gentes ipsae sibi sunt lex: eaque est lumen divini
vultus super omnes signatum »; et immutabiliter tuetur libertatem humani
arbitrii, ut possimus, I Pagg. 30-31. si volumus,
subsistere motus cupiditatis. Sed gentes vel Christianae ipsae, exsortes
divinae gratiae, aliis cupiditatibus, ut humana gloria, non tam
subsistunt, quam deflectant motus cupiditatis, unde edunt imperfectae virtutis
facinora: sola Christi gratia victrix praestat, quam diximus esse verae
virtutis notam !. In una lettera del 1726 all’ab. Esperti V. accennava
alla morale giansenistica, deplorando che in odio della probabile s’
irrigidisse in Francia la cristiana morale » ?. Morale da stoici, secondo
lui, «i quali vogliono l’ammortimento de’ sensi » e «negano la Provvidenza,
facendosi strascinare dal fato, ignari che la filosofia, per giovar al
genere umano, dee sollevar a reggere l’uomo caduto e debole, non
convellergli la natura »; ignari «che si dia Provvidenza divina » e « che
si debbano moderare l’umane passioni con la giustizia e da quella sì
moderate farne umane virtù » 3. Tutte determinazioni che nella
Scienza Nuova V. riferisce bensì agli stoici, ma a quegli stoici,
coi quali si confondevano nella sua mente i razionalisti cartesiani, e
quella sorta di razionalisti, che col loro fatalismo e rigorismo erano pure, ai
suoi occhi, i giansenisti 4. Il rigorismo, conseguenza necessaria del
carattere trascendente della dottrina giansenistica della grazia, era pel
V. un lato solo della verità, che egli certamente, nel suo platonismo,
non voleva disconoscere. E nel Diritto Universale, stabilita l’eternità
come nota propria del diritto naturale, ossia della morale, soggiunge: «
Indidem ruris naturalis immutabilitatem, quam meliores moralis
Christianae auctores rigorem appellant, aeternam in I Pagg. 220-1.
* Opere, V, 186. 3 S. N, ed. Nic., p. 118 (secondo il testo
1730). Cfr. S. N.! in Opere, ed. Ferr., p. 14. 4 Egli
conosceva e ammirava, pur dichiarandoli «lumi sparsi» e semplici
tentativi, i Pensieri di Pascal e i Saggi di Nicole: Opere2, ed. Ferr.,
VI, 127, e Opere, V, 19, 238. telligis »; e nota che di qui viene
l’ immutabilità dello stesso giusto volontario: Quod fateri
verum omnes necesse est, qui de divina gratia cum moelioribus sentiunt
post D. Augustinum, qui saepe docet « Deum suo immutabili decreto nostram
arbitrii libertatem tueri »; atque hac ratione iurisprudentiae
Christianae propria principia docerent !. E qui interviene
il concetto della sintesi del vero e del certo, ossia della ragione e
dell’autorità o volontà. Nella Scienza Nuova del 1725 della grazia
non si parla, e V. si contenta di speculare su quella Provvidenza
scoperta nel Diritto Universale, che qui dice «l’architetta di questo
mondo delle nazioni » mediante la sapienza del genere umano: «mente
eterna ed infinita, che penetra tutto e presentisce tutto; la quale, per
sua infinita bontà, in quanto appartiene a questo argomento, ciò che
gli uomini o popoli particolari ordinano a’ particolari loro fini,
per li quali principalmente proposti essi anderebbero a perdersi, ella
fuori e bene spesso contro ogni loro proposito dispone a un fine universale;
per lo quale, usando ella per mezzi quegli stessi particolari fini, li
conserva » *. E nelle successive rielaborazioni dell’opera si
profonda sempre più nella speculazione di questa razionalità
positiva del giusto, della civiltà, del processo storico, insomma,
dello spirito umano. Onde, condensando nelle dignità della seconda
Scienza Nuova tutta la filosofia delle sue indagini, finirà con
l’accorgersi che la sua Provvidenza prescinde affatto dall’opera del
Cristo, e perciò non ha Opere, ed. Ferr., V, p. 52. Per Sant'Agostino V.
qui cita dell'edizione dei Maurini (Parigi, 1679-1700): De civ. Dei, V, 10,
VII, 30 (to. VII): De 7r._ nit., III, 4, e De corrept. et gr., c. 8,
n. 14 (to. X).Il Ferrari
riproduce la nota con qualche inesattezza. 2 Opere, ed. Ferrari,
IV, 39-40, 41. CONCETTO DELLA GRAZIA E DELLA PROVVIDENZA più niente che
fare con la grazia. Laddove la filosofia, secondo la Dign. VI, considera
l’uomo quale deve essere, la legislazione considera l’uomo qual è per
farne buoni usi nell’umana società; come della ferocia,
dell’avarizia, dell'ambizione, che sono gli tre vizi che portano a
traverso tutto il gener umano, ne fa la milizia, la mercatanzia e la corte, e,
sì, la fortezza, l’opulenza e la sapienza delle repubbliche; e di questi tre
grandi vizi, i quali certamente distruggerebbero l’umana
generazione sopra la terra, ne fa la civile felicità ». Donde il
corollario: Questa Degnità pruova
esservi Provvedenza divina, e che ella sia una divina mente legislatrice,
la quale delle passioni degli uomini tutti attenuti alle loro
private utilità, ne fa la giustizia, con la quale si conservi umanamente
la generazione degli uomini, che si chiama gener umano ». La Provvidenza
qui, evidentemente, è la stessa logica onde si rende intelligibile lo stesso
fatto storico dell'umanità. Il quale basta, per V., nella successiva
Dignità, a provare che c’è un diritto di natura o, che è lo stesso, che
l’umana natura è socievole, poiché
il gener umano da che si ha memoria del mondo ha vivuto e vive
comportevolmente in società », e le cose fuori del loro stato naturale né
vi si adagiano né vi durano ». E tutto ciò! prova che l’uomo abbia libero
arbitrio, però debole, di fare delle passioni virtù; ma che da Dio
è aiutato, naturalmente con la divina Provvedenza e,
soprannaturalmente, dalla divina grazia». Ed ecco esplicitamente
messa da parte la grazia, e ricondotta alla sola Provvidenza come
razionalità immanente ogni spiegazione della realtà umana, o di quella
natura comune delle nazioni » che V. chiama
sub & I Dign.] bietto adeguato » della propria
scienza 1. La grazia non è negata, di certo, ma dichiarata estranea alla
ricerca vichiana. Se non che, e questa è l’importanza delle
riflessioni spese dal V. nella questione della grazia, il suo concetto
della Provvidenza, nato da quello della grazia e spiccatosi da esso
quando V. sentì il bisogno d’una grazia immanente, conserva sempre la
primitiva impronta della dottrina della grazia, quale è propugnata
dal Dechamps. In un corollario infatti della Dign. CIV (la consuetudine è
simile al re.... ») che conferma l’ VIII, l’autore torna a dedurne che
l’uomo non è ingiusto per natura assolutamente, ma per natura caduta e
debole ». E soggiunge: E ’n conseguenza [questa Degnità]
dimostra il primo principio della cristiana religione, ch’ è Adamo
intiero, qual dovette nell’ idea ottima essere stato criato da Dio. E quindi
dimostra i catolici principii della grazia: che ella operi nell'uomo,
ch’abbia la privazione, non la niegazione delle buone opere, e sì, ne
abbia una potenza inefficace, e perciò sia efficace la grazia; che
perciò non può stare senza il principio dell’arbitrio libero, il quale
naturalmente è da Dio aiutato con la di lui Provvedenza.... sulla quale
la cristiana conviene con tutte l’altre religioni 2. Dove la
dottrina della grazia coincide perfettamente con quella che abbiamo vista
difesa dal Ricardo, se si bada a quel principio dell’arbitrio libero, la
cui necessità si tiene ad affermare accanto alla grazia efficace; ma
dalla grazia si distingue la Provvidenza, non propria del Cristianesimo,
bensì comune a tutte le religioni, e dal V. concepita come la legge
stessa di quel processo dal finito all’ infinito, che è per lui la vita
dello spirito come unità 1 Mi attengo qui al testo del 1730, che è
più affine al pensiero del Diritto Universale, ponendo la giustizia
termine medio tra Dio e l’arbitrio umano. 2 S. N.*, ed.
Nicolini CONCETTO DELLA GRAZIA E DELLA PROVVIDENZA I6I di questi
due opposti. Sicché, terminando la Scienza Nuova, ei potrà dire che
quella mente che fece il mondo delle Nazioni, è bensì una sovrumana
sapienza, ma che opera senza forza di leggi, anzi facendo uso degli stessi costumi degli
uomini, de’ quali le costumanze sono tanto libere d’ogni forza,
quanto lo è agli uomini celebrare la lor natura»: E la grazia
veniva quindi per lui ad identificarsi, per quanto oscuramente, con la
stessa natura. I S. N, ed. Nicolini LE VARIE REDAZIONI DELLA
SCIENZA NUOVA » E LA SUA ULTIMA EDIZIONE Digitized by
Google Non spetta a me di lodare Fausto Nicolini del lavoro
faticoso e difficile da lui condotto a termine nei tre magnifici volumi della
sua edizione della Scienza Nuova 3; quantunque io sia dei pochissimi che
possano personalmente attestare l’amore, l'entusiasmo che ha sorretto per
sei anni o sette questa tempra fortissima di studioso sagace,
instancabile e geniale attraverso la lunghissima via percorsa per rifare parola
per parola la composizione, così singolare anche per gli sforzi
tormentosi costati all'autore, di quest’'oscuro e vasto monumento del
pensiero italiano che è l’opera maggiore del V.. L’amore, l'entusiasmo
del Nicolini non ha bisogno d’altri testimoni, oltre il suo libro. Il
quale si apre con una lucidissima introduzione, che illustra acutamente
le complicate difficoltà in cui rimase fatalmente avvolto il pensiero vichiano,
e 1 molteplici tentativi ond’esso si venne a grado a grado accostando alla
sua espressione finale nell'ultima I GIAMBATTISTA V., La Scienza
Nuova giusta l’edizione del 1744, con le varianti dell’edizione del 1730
e di due redazioni intermedie inedite e corredata di note storiche, a
cura di FAUSTO NICOLINI (nei Classici della Filosofia moderna, n. XIV),
Bari, Laterza, 1911, 1913 e 1916 (8°, un vol. in tre parti diLXXXxIV-1274,
con ritratto). Del volume uscì contemporaneamente un'edizione di lusso in
cento esemplari numerati, di carta a mano, formato 8° grande. Dell'opera il
N. ha ora in corso di stampa, negli Scrittori d’ Italia, una nuova
edizione in due volumi. Nel primo sarà dato il testo e una scelta delle
varianti di maggiore interesse. Nel secondo saranno condensate, in
un'’esposizione continua, le note, arricchite di molte giunte.
forma della Scienza Nuova, per rifare quindi la storia dei manoscritti e
delle stampe; e dimostra così l'opportunità dei criteri a cui s’ è
inspirata la nuova edizione. Si conchiude con un ricchissimo indice analitico,
dove tutti gli elementi sparsi nel contenuto del difficile libro sono
ad uno ad uno disarticolati e classificati e ordinati alfabeticamente. E
tutte le mille e dugento pagine mostrano il valente editore vigile
scrutatore d'ogni parola, d’ogni sillaba, d'ogni virgola del suo testo, a
ricostruire e, qua e là, perfino a emendare, ma con molta discrezione, l’
intricata né sempre corretta sintassi dell'autore, a indagare le fonti e
le inesattezze e gli equivoci delle citazioni e dei richiami affollantisi
dietro alle deduzioni vichiane, e schiarire oscurità, e illustrare
argomentazioni, e rannodare pensieri; e non posar mai, insomma, finché
non abbia accompagnato il suo gran V. al termine del suo viaggio.
Il nome di V. non potrà più disgiungersi da quello del Nicolini; perché
nessuno più studierà la Scienza Nuova senza servirsi di questa edizione e
attingere al tesoro di erudizione, ammassatovi nelle note a dichiarazione
degli accenni e riferimenti onde è sempre complicato il pensiero
vichiano. E questo è il maggior premio e la lode più bella che il
Nicolini potesse ambire. Singolare opera la Scienza Nuova per la sua
struttura ! Merito capitale della edizione del Nicolini è appunto
il darci fedelmente il processo di questa struttura, per ciò
beninteso che si riferisce a quella che l’autore stesso battezzò Scienza
Nuova seconda. Giacché, dopo il De antiquissima Italorum sapientia
(1710), che contiene per alcune
parti una dottrina in diretta antitesi con quella della Scienza Nuova, ma
contiene pure il principio filosofico più profondo, che animerà l’opera
maggiore, V. tutti gli altri
trentaquattro anni della sua vita li visse nella meditazione dei
problemi, che sono argomento della Scienza Nuova. Intorno al ’19 1 suoi
pensieri avevano preso già corpo. Ma da quell’anno fino al ’35 o ‘36,
quando si può ritenere abbia data l’ultima forma al libro cui
intendeva affidare il suo nome, lavorò a ben quattro esposizioni diverse
del suo pensiero. La prima volta gli die’ forma nei due libri De universi
iuris uno principio et fine uno (1720) e De constantia turisprudentis
(1721): due parti di una stessa opera, che V. stesso dice del
Diritto Universale. Il De constantia comprendeva alla sua volta due
parti: una, molto breve, De constantia philosophiae, esposizione dei
principii filosofici che illuminano tutta la storia del diritto nella sua
concreta realtà, che è tutta la vita spirituale dell’uomo, ossia la
civiltà; e l’altra, assai ampia, De constantia fhilologiae, ricostruzione
dei fatti dalle testimonianze rimasteci, interpretate al lume di quei
principii. E qui era un capitolo: Nova scientia tentatur; donde » (come dirà V.
stesso nella sua Autobiografia) s’ incomincia la filologia a ridurre a
principii di scienza, e.... sopra tal sistema vi si facevano molte ed
importanti scoverte di cose tutte nuove e tutte lontane dall’oppinione di
tutti i dotti di tutti i tempi »!. I Autobiografia ed.
Croce,41-2. Sui rapporti fra Dir. Universale e Scienza Nuova, v. ora
anche NIcoOLINI, Vita di G.B. V., nel Giorn. crit. di filos. ital., 1925.
Ma quanto alla data assegnata dal V. alla Scienza Nuova in forma
negativa, il NICOLINI stesso mi comunica ora qualche suo dubbio: Par difficile che alla Scienza Nuova in
forma negativa V. cominciasse a lavorare fin dal 1722. Basta pensare
che nel 1722 V. lavorava intorno alle Note al Diritto Universale, le
quali furon finite di stampare non prima dell’agosto 1722. Pertanto,
malgrado l'affermazione dell’Autobiografia, credo che alla Scienza Nuova
negativa V. si accingesse non prima ma do po la disavventura
universitaria dell’aprile 1723. Essa era già a buon punto nell’ottobre
1723, giacché il 30 di quel mese Anton Francesco Maria Marmi, informato
da [A questa prima forma ne seguì ben presto un'altra, che non fu
più stampata, quantunque già pronta per la stampa, e già riveduta e
approvata dal censore ecclesiastico. La quale è andata smarrita. Essa dovette
essere scritta nel '22 o nel ’23; perché nella Autobiografia il V.,
dopo aver narrato la disavventura toccatagli nel concorso alla cattedra
mattutina di leggi (che ebbe luogo tra il gennaio e l’aprile del ’23),
soggiunge che per ciò egli non si ritrasse punto di lavorare altre opere;
come in effetto ne aveva già lavorata una divisa in due libri,
ch'avrebbono occupato due giusti volumi in quarto; nel primo de’ quali
andava a ritrovare I princip del diritto naturale delle genti dentro quegli
dell’umanità delle nazioni per via d’ inverisimiglianze, sconcezze ed
impossibilità di tutto ciò che ne avevano gli altri innanzi più imaginato
che raggionato; in conseguenza del quale, nel secondo, egli spiegava la
Generazione de’ costumi umani con una certa cronologia raggionata di
tempi oscuro e favoloso de’ greci »*: la Scienza Nuova, insomma,
«in forma negativa ». Questo manoscritto non poté essere
stampato perché troppo voluminoso; e al povero V. falli la speranza
riposta nel card. Lorenzo Corsini (poi Clemente XII) di averne le spese
della stampa in contraccambio della dedica offertagli. Ed ecco quindi la
necessità (di cui parve qualche suo corrispondente napoletano,
informava a sua volta il Muratori che V. «lavorava sopra un’opera che
voleva intitolare Dubbi e desidèri intorno alla teologia de’ gentili ».
Quasi compiuta l’opera era già nel novembre 1724, e cioè quando V. mandò
al Corsini, per mezzo del Monti, la minuta della dedica (divenuta poi
dedica della Scienza Nuova prima). Ma pronto per la stampa il ms. non
fu se non nel maggio 1725: tempo in cui V. lo dié al canonico Torno
per la revisione. Il titolo definitivo che V. voleva dare a codesta
Scienza Nuova în forma negativa, era, come ha dimostrato il DONATI
(Autografi e documenti vichiani,153 Sgg.): Scienza nuova dintorno aì
principii dell'umanità ». 1 Autobiografia] al V. dover esser grato alla
Provvidenza) di riscrivere la sua opera in forma più stretta e, come a
lui parve, anche più stringente: abbandonando quel metodo negativo
che procedeva « per via di dubbi e desiderii; maniera la qual fa più
tosto forza che soddisfa la mente umana »; e facendo un’altra opera « più
picciola in vero » (scriveva V. stesso, un mese dopo stampatala, il 20
nov. 1725), «ma, se non vado errato, di gran lunga più efficace;
nella quale per mezzo di tre verità positive, sperimentate
dall’universale delle nazioni, che si prendono per principli, e per un gran
séguito di rilevantissime discoverte, dando altro ordine e più breve e
più spedito a quelle medesime cose che si dubitavan e si ricercavano
nella prima, si truovano tali principii convincere di fatto e 1
filosofi obbesiani e i filologi baileani », ecc. *. Ed ecco la Scienza
Nuova in forma positiva, che è quella che, col titolo di Principit di una
Scienza Nuova intorno alla natura delle nazioni, per la quale si
ritruovano i principii di altro sistema del diritto naturale delle genti,
venne in luce nel ’25; e che divenne più tardi, pel V. e per gli
studiosi, la prima Scienza Nuova. Ad essa seguì nel ’30 una nuova
edizione, che, cominciata come un’ illustrazione della prima, riuscì poi
una seconda Scienza Nuova, modificata in alcuni particolari, ma
sostanzialmente conservata, nella terza ed ultima edizione, pubblicata
postuma nel ’44. Sicché le redazioni principali dell’opera son quattro:
il Diritto Universale e tre Scienze Nuove, la prima delle quali, in forma
negativa, non ci è pervenuta, e le altre due sono a stampa. Ma
queste sono soltanto le principali! Già la quarta forma non ebbe, alla
sua volta, meno di quattro redazioni: due rappresentate dalle edizioni
ricordate del ’30 e del ‘44; e due, rimaste inedite, e soltanto ora note
per t Lettera a L. Corsini, in A utobiogr. l’accuratissimo
spoglio fattone dal Nicolini dai rispettivi autografi conservati nella
Biblioteca Nazionale di Napoli; e sono due forme intermedie, dove più
compendiose dove più ampie della Scienza Nuova terza, l’una del 1731
e l’altra del ’34 circa. Dal Diritto Universale alla Scienza Nuova
del ’44 ben sette redazioni dunque: attraverso le quali gli stessi
problemi vengono risoluti e ripresi complicandosi con nuovi problemi per essere
tornati a risolvere in forma sempre più adeguata, finché sulle tormentate carte
non cadde la stanca mano: da la tremante man cade lo stile e
de’ pensier si è chiuso il mio tesauro; come lo stesso V. dice nel
suo sonetto a Gaetano Brancone, nel 1735 !. Né basta. Le due
redazioni intermedie suddette, rimaste inedite, sono entrambe intitolate
Correzioni, miglioramenti ed aggiunte perché destinate ad essere
incorporate all'opera nella ristampa della Scienza Nuova” seconda
», come V. soggiunge al titolo di quelle del 1731. In realtà, più
che una revisione del testo del ’30, ne sono, le une e le altre, un
rifacimento: come quel testo, a sua volta, era riuscito un rifacimento
affatto nuovo del testo anteriore del ’25, quantunque V. credesse prima
di poterlo intitolare: Trascelto delle annotazioni e dell’opera
dintorno alla natura comune delle nazioni, in una maniera eminente
ristretto ed unito, e principalmente ordinato alla discoverta del vero
Omero =. Il titolo si spiega con l’origine di queste ulteriori redazioni,
le quali, quasi per generazione spontanea, nascevano a volta a volta accanto
al testo anteriore per l’ insoddisfazione che V. provava, I
Autobiografia.] appena data forma concreta e determinata al proprio
pensiero. Sicché cominciava da prima a riempire di postille i margini de’ suoi
libri, e poi a stendersi in annotazioni ordinate con rinvii ai vari luoghi che
gli parevano bisognosi d'ampliamenti e schiarimenti; e poi finiva
col rifarsi da capo per dare sistema e unità alle stesse annotazioni, sì
da farne un’opera nuova. Così fece col Diritto Universale, di cui
prima tempestò di postille marginali alcuni esemplari; ma, dopo
quello con particolar cura annotato pel principe Eugenio di Savoia,
sentì di dover fare seguire le Notae în duos libros alterum De uno
universi etc., alterum De constantia t1urisprudentis (1722): note tanto
importanti da contenere p. e. per la prima volta la teoria vichiana
intorno al vero Omero. Così fece per la Scienza Nuova del ’25, che,
appena pubblicata, gli die’ materia a scrivere un commento di 600
pagine, che nel ’28 egli, a richiesta del p. Lodoli e di Antonio Conti,
mandava a stampare a Venezia; e se ne iniziava infatti la stampa colà,
poi interrotta per dissidii sorti con l’editore, e non più proseguita !.
E il manoscritto, richiamato dal V. a Napoli, fu da cima a fondo
rifatto tra il 25 dicembre 1729 e il 9 aprile del ’30, con un estro quasi
fatale », al dire dello stesso V.: e fu la Scienza Nuova del ’30. Ma non
aveva ancor finito la stampa del Trascelto, ed eran già cominciate le
prime Correzioni, miglioramenti e giunte (CMA*), che l’autore
faceva in tempo ad aggiungere a guisa di Errata, in I [Così, fin
ora, hanno affermato i biografi, compreso il Nicolini. Il quale, per
altro, per ragioni che sarebbe troppo lungo riassumere, è giunto ora alla
conclusione che le parole dell’Autobiografia:
ma, dopo essersi stampato più della metà di detta opera, avvenne
un fatto », ecc. (ediz. Croce, p. 72), si riferiscano non alle
Annotazioni alla Scienza Nuova prima, di cui anzi non fu stampata nemmeno
una riga, ma alla Scienza Nuova seconda, ossia all'edizione del 1730. V.,
insomma, riebbe da Venezia il ms. delle Annotazioni, dopo che già aveva
stampata a Napoli più della metà della Scienza Nuova seconda, e cioè
circa a metà del 1730). fondo al volume. E divulgate appena
le prime copie della nuova edizione, ecco V., quasi felice che un
errore provvidenziale notatogli dal principe di Scalea gli dia occasione
di pubblicare una Lettera, a cui può aggiungere una nuova serie d’
importanti giunte, tra le quali un nuovo capitolo: Dell’origine de’
comizi curiati (CMA?). Ma queste prime revisioni rapidissime avevan
dato luogo soltanto ad aggiunte relative ad alcuni luoghi particolari. In
dodici paginette del Trascelto (pp. 46578) sono le CMA: e nelle dodici
paginette della Lettera al Principe di Scalea sono comprese, oltre questa
lettera, le CMA=?. Dalla continuazione dello stesso lavoro di revisione,
in modo più riposato e in forma più larga, nascono le CMA:3, che è un
manoscritto di duecento pagine fittissime, nel corso del quale V. s’accorge di
fare opera che sta già a sé, ben diversa dalla Scienza Nuova prima
(1725): anzi finisce da ultimo col rifiutarla, salvo tre capitoli come
rifiuta il Diritto Universale, salvando anche di questo due capitoli
soli, di cui era tuttavia contento. E quando, due o tre anni dopo, rifà
nelle CMA4 questo nuovo lavoro in un altro grosso manoscritto di
centoquaranta pagine, toglie ancora e aggiunge, e mostra di non essere
per anco soddisfatto a pieno della forma raggiunta dal proprio pensiero. Che
infatti tornerà a rielaborare in quella che sarà la Scienza Nuova terza,
ossia la definitiva forma della Scienza Nuova seconda, ch'egli non
poté vedere stampata, e che ci rappresenta l’ultimo sforzo fatto
dall’autore per svolgere con ordine e con sistema tutto il vasto
materiale che gli si avvolgeva dentro la mente, solcato in tutti i sensi,
ma non mai illuminato in pieno, dai lampi del suo genio
speculativo. Sicché, al trar dei conti, e non contando, per la brevità
loro, le CMA: e le CMA?, il Nicolini ha potuto dirci, che ben nove sono
state le redazioni (più o men diverse tra loro) della Scienza
Nuova: I. Diritto Universale ; 2. Note al Diritto
Universale ; 3. Scienza Nuova in forma negativa (smarrita);
4. Scienza Nuova prima (1725); 5. Scienza Nuova veneta
(ossia, Scienza Nuova prima con Annotazioni e commenti, andati anch'essi
smarriti); 6. Scienza Nuova seconda (1730); 7. CMA3;
8. CMA4; o. Scienza Nuova terza (1744; ma scritta tra il ’35
e il '36 e continuamente corretta fino al 1743). E pure il
conto non si può dire rigorosissimo. Se sl contano le Note al Diritto
Universale, si potrebbe pure contare il saggio » del D. U. che iì V. pubblicò
nel ’20, la Sinopsi del D. U.; quantunque questa supponga forse già
scritto, almeno in gran parte, il D. U. Ma certamente al Diritto
Universale bisogna far precedere una prima redazione, a noi non giunta:
per cui la somma complessiva delle redazioni della Scienza Nuova deve salire a
dieci. Il Nicolini stesso ricorda un documento, sul quale
aveva fermato la sua attenzione il Croce, unico frammento di un’opera
vichiana che non possediamo, e che nel 1837 fu pubblicato dal Ferrari (in
appendice alla sua Mente di V.) come prefazione al perduto Commento a
Grozio del V. 1. Il Croce osservò ?, che quella pagina I. non è una
prefazione, ma la nota finale di un’opera (in operis calce, ecc.); 2. non
si riferisce ad annotazioni, ma a una opera originale (sî hos legeris
libros); 3. non si riferisce a un commento a Grozio, perché, nel citare
l’opera di questo, se ne dà il titolo per disteso e s’ invita a
metterla a raffronto con quella di esso V....; 4. si riferisce,
invece, I Nelle Opere del V., vol. I,280-1; nella 28
ed., vol. I,250-I. 2 Secondo Supplemento alla Bibliografia vichiana,3-4.
12 a un’opera del V. in più libri (n tertia universae
nostrae tractationis parte). L'opera trattava de metaphysica, de
philologia, de re morali ac civili, de lingua, historia et iurisprudentia
romana..., de ture naturali gentium; V. sì preoccupava di essere in essa
riuscito oscuro; vi aveva esposto cose ‘inaudite’; nella terza parte si
dimostrava falso il labefactare inconditis rationibus et distractis
auctorum locis, quamquam numero plurimis, et magis memoria quam
mente. Che questa nota finale non possa concernere il secondo e terzo
libro del De antiquissima, è certo, perché quei due libri non furono mai
scritti. Essa dunque o appartiene al disegno di un’opera che fu la prima idea
del Diritto Universale; o (il che ci sembra più probabile) era
destinata a questa opera stessa; la quale, benché divisa in due libri,
essendo il secondo di questi bipartito, si può considerare come composta
di tre parti». Il Nicolini prende le mosse da quest’acuta analisi del
Croce, e ne trae una conclusione alquanto diversa: che cioè il
lavoro, di cui, dunque, ci sarebbe rimasto il commiato, dev'essere
ritenuto un lavoro originale, il quale non può essere se non un primo (o
secondo, o terzo, o quarto) getto dell’opera capitale del V. » (p. XXVI).
Che si tratti della materia stessa del Diritto Universale è
indubbio. Non solo le parole rilevate dal Croce, ma altre anche più
precise c’ informano con certezza del contenuto dell’opera, là dove
l’autore invita l’equanime lettore che volesse criticarla a metterglisi
contro faribus armis; e a vedere an ex aliis tam paucis, quam sunt numero
sepiem vera, ci tam simplicibus, quantum sunt metaphysica, quae ut agnoscas
vera, hominem esse sat est, alia faciliori et feliciori methodo plura
quam nos, in universa historia profana, re poetica, grammatica, morali,
civilique doctrina ad Christianam iurisprudentiam omnia accomodate in
unum systema componas, et sic efficies, ui nostrum sua sponte corruerit.
Tutte queste materie rientrano appunto nel programma del D. U. Ma né la pagina
di cui si tratta, può attribuirsi proprio al D. U., né credo, a ben
riflettervi, si possa parlare di due, e tanto meno di tre o quattro getti
di cotesta opera. Che non sia propriamente il Diritto Universale, quale fu
pubblicato nel 1720-21, risulta da questa sfida lanciata dall’autore
al suo immaginario critico, di fare quanto aveva fatto lui nel suo
libro, componendo un ugual numero di scoperte di storia profana
universale, di poetica, di grammatica, di dottrina morale e civile, in un
sistema di cristiana giurisprudenza; deducendo il tutto da non più che
sette principii metafisici, ricavati dalla stessa natura della
mente umana (quae ut agnoscas vera, hominem esse sat est). Numero sette,
che non vedo dove si possa rintracciare nel Diritto Universale, o che si cerchi
nei principii del De uno, o che si cerchi in quelli del De constantia
philosophiae. Questi sette principii o verità (vera), così come sono
definiti, parrebbero aver riscontro nei tre elementi d’ogni erudizione divina e
umana (mosse, velle, posse), che nel Diritto Universale sono messi a base
di tutto, come quelli quae tam existere, et nostra esse, quam nos
vivere, certo scimus (Ferrari?, p. 14): ma non sono questi tre elementi.
I quali pure erano stati annunziati come principio di unificazione d’ogni
sapere, nell’Orazione inau LI gurale del 1719, che non ci è
stata conservata, ma di I Nel De Uno questa triade veramente è
Posse, nosse, velle (Ferr.?, p. 21). E V. citando, al solito, a memoria,
dice ut D. Augustinus in
Confessionibus definit ». Ma Sant'Agostino (nelle Confess. XIII, 11) dà
invece quest'altra triade: (Esse, nosse, velle). Nell’ Orazione del 1719
(Autob., p. 40) egli stesso aveva data la sua con diverso ordine: Nosse,
velle, posse. Ma, in un modo o nell’altro, il concetto vichiano non credo
risalga direttamente ad Agostino; bensì forse piuttosto al Campanella (che V.,
per ovvie ragioni, non ama nominare) che tanto nella Metafisica e nelle
Poesie aveva insistito sulla sua dottrina delle primalità, o della monotriade »: Posse, nosse, velle. Cfr.
(anche per luoghi della Metafisica) Poesie filosofiche, ed. Gentile,31,
44, 133. E per i rapporti tra V. e Campanella, vedi sopra31-33.cui V. ci
riferisce nella Autobiografia l'argomento, poi ripetuto testualmente nel
Proloquium del Diritto Universale. E si badi alla partizione che fin d'allora
faceva dell'argomento: Quod quo
facilius facitamus, hanc tractationem universam divido in partes tres: in
quarum prima omnia scientiarum principia a Deo esse; in secunda, divinum
lumen sive acternum verum per haec tria quae proposuimus elementa omnes
scientias permeare, casque omnes una arctissima complexione colligatas
alias in alias dirigere et cunctas ad Deum ipsarum principium revocare;
in tertia, quicquid usquam de divinae ac humanae eruditionis principiis
scriptum dictumve sit quod cum his principiis congruerit, verumy quod
dissenserit, falsum esse demonstremus. Atque adeo de
divinarum atque humanarum rerum notitia haec agam tria: de origine, de
circulo, de constantia.... » ®. Partizione precisamente identica a quella
presupposta dal commiato dell’opera di cui si tratta, dove l’autore
dice al suo critico: .... Sin postules inconditis rationibus, et
distractis auctorum locis, quamquam numero plurimis, et magis memoria,
quam mente, hanc nostram doctrinam labefactare, ignosce, quaeso, si tibi nihil
respondeam: nam silentum non mihi adrogantia, res ipsa faciet, quod ea
illa ipsa fuerint, quae in tertia nostrae universae tractationis
parte, hoc ipso, quod cum nostris principiis non congruerini, falsa esse
demonstravimus ». Dove l’accenno al contenuto della terza parte diventa
chiarissimo quando si riscontri con l'argomento dell’ Orazione del ’19,
messo poi a capo anche del Diritto Universale. Conviene
osservare altresì che le tre parti De uno, Constantia philosophiae e
Constantia philologiae non sono propriamente quelle che l’autore distinse
nella sua succinta trattazione del ’19, né quindi quelle in cui era
distinta l’opera smarrita: giacché nell’Autobiografia egli, t
Autobiogr., p. 40; cfr. D. U. Ferrari?, p. 14. LE VARIE REDAZIONI DELLA
SCIENZA NUOVA per indicare come nel Diritto Universale mantenesse le
superbe promesse dell’ Orazione del ’19, dice esplicitamente che nel De uno
pruova la prima e la seconda parte della dissertazione » (cioè, de
origine, de circulo); e nel De constantia turisprudentis più a minuto sì pruova la terza parte
della dissertazione, la quale in questo libro si divide in due parti, una
De constantia philosophiae, altra De constantia philologiae » *.
Dunque, il Diritto Universale fu scritto dopo la dissertazione del ’19 (e
quando nel ’20 V. pubblicò soltanto il primo libro, De uno, certo egli
aveva ancora da scrivere il secondo, De constantia), la quale
altrimenti avrebbe rispecchiato l’organamento dell’opera, di cui sarebbe
venuta ad essere un riassunto. E poiché essa invece rispecchia la
sistemazione che la materia aveva nell'opera perduta, questa piuttosto
deve ritenersi anteriore alla dissertazione del ‘19. E per questa
ragione, come per la discrepanza avvertita circa i principii tra l’opera
perduta e il Diritto Universale, bisogna conchiudere che piima di
questa opera (scritta tra il ’19 e il ’21), prima dell’ Orazione inaugurale del
’19, V. dové scrivere un’opera che possiamo dire la prima forma così del
Diritto Universale come della Scienza Nuova, e di cui ci è giunto
il solo commiato. Quando la scrisse ? Certamente dopo la Vita di
Antonio Carafa (1716), perché nell’apparecchiarsi a scrivere questa vita,
ll V. si vide in obbligo di leggere Ugon Grozio, De iure belli et
pacis », che fu il suo quarto auttore »
=; aggiuntosi allora a Platone, Tacito e Bacone: Ugone Grozio, che
pone in sistema di un dritto universale tutta la filosofia e la teologia
in entrambe le parti di questa ultima, sì della storia delle cose o
favolosa o certa, sì della storia I O. c., p. 4I. 2
Autobiogr.] delle tre lingue, ebrea, greca e latina, che sono le tre
lingue dotte antiche che ci son pervenute per mano della cristiana
religione »1. Quando scrisse l’opera perduta, egli non solo aveva letto
il De rure delli et pacis (da cui si può dire, in certo senso, che
togliesse il problema), ma lo avea, come ora si direbbe, superato,
potendo enunciare hactenus inaudita. Ciò che suppone qualche inter- vallo
tra il ’16 e la nascita della detta opera, nel quale cade un altro lavoro
vichiano; perché nell’Autobdiografia si legge che V. molto più poi si fe’
addentro in quest'opera del Grozio, quando, avendo ella a ristampare, fu
richiesto che vi scrivesse alcune note, che ’1 V. cominciò a scrivere,
più che al Grozio, in riprensione di quelle che vi aveva scritte il
Gronovio...; e già ne aveva scorso il primo libro e la metà del
secondo; delle quali poi si rimase, sulla riflessione che non conveniva
ad uom cattolico adornare di note opera di auttore eretico » 2. Si
rimase, sopra tutto, è da credere, perché dal lavorio delle note, dall’
intensa meditazione del problema dovette cominciare a sorgergli nella mente e
a prender forma e figura quel systema che doveva esser suo. Con questi studi », continua infatti V., con queste cognizioni, con questi
quattro autori che egli ammirava sopra tutt’altri, con desiderio di
piegarli in uso della cattolica religione, finalmente V. intese
[tra il ’17 e il 18] non esservi ancora nel mondo delle lettere un
sistema, in cui accordasse la miglior filosofia, qual’ è la platonica
subordinata alla cristiana religione, con una filologia che portasse
necessità di scienza in entrambe le sue parti, che sono le due storie,
una delle lingue, l’altra delle cose.... Ed in questo intendimento
egli tutto spiccossi dalla mente del V. quello che egli era ito nella
mente cercando nelle prime orazioni augurali ed aveva dirozzato pur
grossolanamente nella dissertazione De nostri temporis studiorum ratione
e, con un poco più di raffinamento, nella Metafisica. Ed in una
apertura di studi pubblica solenne dell’anno 1719 propose questo
argomento ». Che è quello che conosciamo: e che egli poté proporre,
perché già s’era spiccato dalla sua mente il sistema che fin dalle prime
Orazioni (dal 1699) era andato cercando: e che dev’essere appunto
quell’opera anteriore al Diritto Universale, primissimo incunabulo
della Scienza Nuova. Della quale, per concludere queste osservazioni, si
può dire con tutta verità che sono state ben dieci le redazioni distinte
e da considerare come altrettante stazioni attraverso le quali venne
posando e passando il pensiero vichiano. Di queste dieci
redazioni tre, dunque, sono per noi perdute: questa del ’17 o ’18; la
Scienza Nuova in forma negativa, e la Scienza Nuova veneta. Delle sette
rimaste, due, Diritto Universale e Note al Diritto Universale,
possono pure riguardarsi come un’opera sola, e fondersi insieme,
come fece il Ferrari; quantunque, dato il diverso momento che esse
rappresentano nello svolgimento della dottrina, meglio forse sarebbe
aggiunger le Note a guisa di appendice, all’opera cui si riconnettono.
Resta a sé la Scienza Nuova: del ’25; e fanno corpo insieme le
altre quattro redazioni: Scienza Nuova?, CM A3, CM A4, Scienza
Nuova: con le migliori aggiunte CMA*-:, già a stampa. III.
Il Nicolini, facendo l’edizione di questa terza Scienza Nuova, è
partito dal metodo già adottato parzialmente dal Ferrari. Il quale,
giustamente, non credette di accontentarsi della sola lezione del 1744, e notò
tutte le varianti delle edizioni del 1730 e tutte le aggiunte
inserite in quella del 1744 »; cosicché ogni lettore potesse,
diceva, assistere allo spettacolo delle
ultime idee di V., vedere in qual modo egli stesso si avvedesse di avere
qualche volta naufragato contro la realtà istorica; e.... conoscere
le intime esitazioni delle idee e dell’orgoglio di V. dinanzi all’ indifferenza
de’ suoi contemporanei » :. Ma ha esteso questo metodo a CMA:, CMA?, CMA3
e CMA4, in guisa da darci prospetticamente, per intero, tutto il
processo di formazione della Scienza Nuova dalla seconda alla terza
edizione fattane dallo stesso autore. Quanta fatica debba esser
costata al Nicolini questo riscontro e raccordo, può vedere ognuno che
scorra con l'occhio la varia provenienza delle varianti che accompagnano
in serie perpetua il testo, contrassegnate ciascuna dalla sigla della
rispettiva redazione a cui appartiene. Ed è questa forse la parte del suo
lavoro, per cui il Nicolini ha più bene meritato degli studi vichiani, ove
si consideri che mercé sua non solo sono cronologicamente distinti
tutti gli elementi di questo tormentoso processo di pensiero che in
cinque o sei anni fece e rifece tante volte con erculei sforzi l’elaborazione
d’un vastissimo materiale di fatti e di idee, ma sono anche portati a
nostra cognizione molteplici documenti o frammenti finora ignorati di
questo pensiero, che con le sue stesse angosclose oscurità esercita tanto
fascino e desta tanto interesse in noi, che vogliamo leggervi fino al
fondo. Di CMA4 due brani aveva pubblicati il bibliotecario
della Biblioteca Borbonica (ora Nazionale) di Napoli, il can. Antonio
Giordano nel 1818 ?. E messo sulle tracce di questi dimenticati
manoscritti vichiani, ora tutti I Opere, ed. Ferrariz, V, p.
XXIII. 2 Lettera ed altri pezzi inediti del ch. G. B. V. tratti da un
ms., ecc., Napoli, Giovannitti LE VARIE REDAZIONI DELLA SCIENZA NUOVA raccolti,
come si è accennato, in quella Nazionale, altri pochi brani, tra i più
significativi, dalle stesse CMA4 e da CMA3 aveva potuti pubblicare, ma
poco correttamente, Giuseppe Del Giudice nel 1862 !; poscia riprodotti nel vol.
VII delle Ofere vichiane (1865) nella ingloriosa ma tutt’altro che spregevole
edizione napoletana curata da Francesco Saverio Pomodoro. Ma questi
brani staccati non apparivano nella loro importanza; e ora ci
tornano innanzi accompagnati da tutto lo spoglio dei manoscritti a cui
spettano, nel sistema compiuto di tutto lo svolgimento del pensiero
vichiano: ora forma imperfetta di quello che V. sentì poi di poter
esprimere più efficacemente, o più pienamente, o con maggior concisione;
ora elementi espunti più tardi, probabilmente perché sembrati accessori o
discordi dal filo del pensiero principale, o non più soddisfacenti a quel
poderoso intelletto così vigorosamente autocritico: ma che in ogni caso
riescono, qual più qual meno, documenti di alto interesse per lo studioso.
Segnatamente la redazione del ’'31 (CMA3) meritava di essere così
tutta accuratamente analizzata e messa in luce. Redazione quasi del tutto inedita », avverte
il Nicolini, e pure di singolare interesse per lo svolgimento delle
idee vichiane », giacché l'edizione del
1730 formava (almeno nella mente del V.) tutt'uno con la Scienza
Nuova prima, la quale appunto perciò vi è sempre citata, non con questo
nome, ma con l’altro generico di ‘ opera ’ o di ‘ Scienza Nuova’,
senz'altro. Invece nella nuova redazione, l’edizione del 1725 non solo non è
più presupposta (e quindi V. comincia a citarla col nome, che è poi
restato, di Scienza Nuova prima), ma, tranne tre capitoli, rifiutata. E
rifiutati altresì sono i due libri del I Scritti inediti di G. B.
V. tratti da un autografo dell’A., Napoli, Stamp. R. Università,
1862. Diritto Universale, e la Scienza Nuova in forma
negativa e tutto ciò che V. aveva fino allora scritto di
filosofico. Basta ciò a mostrare quanto di nuovo si debba trovare
in questa.... redazione, in cui V. aveva voluto raccogliere quel che del suo
pensiero credeva degno di essere trasmesso alla posterità. Delle quattro
redazioni della seconda Scienza Nuova, questa senza dubbio è la più
piena: più piena anche dell’edizione del 1744. Di fronte a quella del
1730, essa, oltre che molti e lunghi brani intercalati qua e là, presenta
ben quindici capitoli in più », ecc. E si badi che di questi capitoli
soltanto sette rimangono in CMA4. Ebbene, degli altri otto
solo una parte rientrarono nel testo del ’44; e 1 rimanenti e i molti
singoli brani soppressi delle stesse CM 43 come delle CM A* era
necessario pure far conoscere. E il Nicolini è stato colpito dalla
importanza di questo nuovo materiale, rimasto fuori dalla redazione
definitiva; e dove ha potuto, ossia dove trattavasi di capitoli interi, l’ ha
incorporato senz'altro nel testo, avvertendone bensì sempre la
provenienza. Risoluzione certamente arbitraria, quantunque scusata dal
carattere di questa edizione, che vuol essere pure una storia
illustrativa di tutto il testo vichiano; e che per altro non crederei più
giustificata in un’edizione che, pur fornendo notizia delle varianti (se
pure ciò sarà più necessario dopo questa monumentale fatica, che non
sarà più da rifare), ci mettesse innanzi in forma criticamente
corretta quella che per l’autore fu, comunque, la forma definitiva del
suo pensiero 1. Tutti i capitoli, adunque, soppressi dopo CM A3, sono dal
Nicolini restituiti al testo; e con essi una sorta di prefazione, che in
quella redazione l’autore aveva scritta col titolo Occasione di
meditarsi I E infatti, nella nuova edizione che va ora preparando,
lo stesso Nicolini ha relegati tutti codesti capitoli soppressi nelle
varianti.] quest'opera, e un'appendice, in cui intendeva, oltre due
Ragionamenti, uno dintorno alla legge delle XII tavole venuta da fuori in
Roma, e l’altro dintorno alla legge regia di Triboniano, rifacimenti e
riadattamenti di alcune pagine del Diritto Universale, riprodurre tre luoghi
della Scienza Nuova prima, come tutto ciò che all’autore pareva nel
31 di dover conservare di quei primi abbozzi della sua opera, che erano
stati Diritto Universale e Scienza Nuova *. Di questi brani e
interi capitoli restituiti al testo della Scienza Nuova o soggiunti a
pie’ di esso tra le ‘varianti, buona parte era già nota, benché
scorrettamente pubblicata dal Del Giudice insieme con quella prefazione e
l’appendice. Ma due capitoli compaiono ora come affatto nuovi nella
edizione del Nicolini (pp. 238-44), senza dire delle moltissime varianti,
alcune lunghe, e altre brevi, ma assai significative. E benissimo ha
fatto il Nicolini a darceli col resto dell’opera, benché bisogna pur dirlo a onore del V., che
lavorò con gli occhi aperti attorno a queste sue numerose redazioni, e
non soppresse, credo, mai nulla a caso, ragionevolmente fossero stati soppressi
dall’autore nell’ulteriore revisione del libro. Dei due infatti (lib. II,
sez. 1, capp. 3 e 4) il primo, Come da questa debbano tutte l’altre
scienze prender i loro principii, ripete concetti qua e là accennati, e
spesso meglio chiariti, in tutto il corso dell’opera. E il secondo ?,
Riprensione delle metafisiche di Renato delle Carte, di Benedetto Spinosa
e di Giovanni Locke, è un documento notabilissimo della posizione
intellettuale del V., ma non colpisce nessuno dei tre pensatori, presi a
bersaglio; o perché mira più alto, o perché mira più basso, e mai al
segno giusto. E V. forse sentì che la sua critica contro il soggettivismo
cartesiano era stata fatta per l'appunto da Spinoza (infatti I
Pagg. XXXVII-IX. ? Venne già anticipato nella Critica egli dice che cotal maniera di filosofare diede lo
scandalo a B. Spinosa »)! e andava a finire nello spinozismo; e non
gli consentiva quindi più la critica alla quale egli subito passa dello
Spinoza. In sostanza V., faccia a faccia col panteismo, che era nel fondo
del suo pensiero, doveva dare addietro, e sopprimere il suo pericoloso
saggio di critica. Quanto al Locke, che V. non doveva aver letto, e
che giunge a riguardare come un materialista, egli non poteva non aver
qualche dubbio a dirlo costretto a dar
un Dio tutto corpo operante a caso »; né quindi poteva fermarsi a credere
veramente efficace contro l’empirismo del filosofo inglese il
concetto del vero Essere »
anteriore ad ogni esperienza, compresa quella che il soggetto fa di se
stesso. In generale credo sl possa dire (occorrerebbe un’analisi molto
minuta e lunga per dimostrarlo) che l’autore fu bene avvisato, come
sarebbe già da presumere a friori, nei tagli e nelle modificazioni che
venne via via apportando al suo lavoro. Che, del resto, non diede poi
subito al tipografo, poi che l’'ebbe condotto a termine: anzi lo
trattenne parecchi anni presso di sé, e per quanto la luce della sua
intelligenza s'andasse in quegli ultimi anni della sua vita affievolendo, egli
certamente avrebbe avuto tempo e forze per prendere dalle precedenti
redazioni e restituire nell’ultima pezzi già pronti, di cui potesse dirsi
soddisfatto. E quando non lo fece, avrà avuto le sue ragioni.
Il Nicolini bensi ha preferito abbondare, una volta avviato il lavoro;
e ha profuso fatiche e notizie e commenti, dotti, arguti, inattesi, e sempre
luminosi, nel ricchissimo commento, allargatosi da ultimo per
alcuni punti sostanziali in excursus e note illustrative che sono
vere e proprie memorie; come quella, la più lunga, mi I Cfr. SPINoZzA,
Eth., ed. Gentile, note 33 alla parte I e 23 alla parte II.
V. LE VARIE REDAZIONI DELLA SCIENZA NUOVA » 135 rabile di
lucidità, intorno alla teoria vichiana sulla legge delle XII Tavole:
nota premessa al primo dei già ricordati Ragionamenti dell’Appendice. Ma
l’erudizione del Nicolini, ancorché laboriosa e densa, è agile sempre
e quasi festosa, perché sorretta e animata da un gioioso spirito
indagatore, che è più contento della difficoltà che delle vie piane ed
aperte, per l'occasione che ne ha a cercare, a scrutare, ad esercitare il
suo acume e il suo fiuto di segugio valente, e stare attorno al suo V.
a fargli lume e rendergli l’omaggio, profondamente sentito, bleno
corde, della propria infinita devozione. Giacché il Nicolini ha vivamente
amato il suo V.; e chi dava di quando in quando un'occhiata amichevole e
confortatrice alle stampe del suo lavoro, se da principio tentò
arginare e frenare, come non del tutto necessaria, quella foga e
quell’ impeto di copiosa vena irrompente in questo commento, fatto di ingegno,
di dottrina e di amore, ha dovuto a poco a poco ceder egli stesso terreno, e
tòrsi di mezzo, e lasciar fare: e ora non può che plaudire a una
somma di lavoro così difficile, così utile, così disinteressato, e così
degno in tutto del gran V., che aspettava da quasi due secoli questo
studio rivendicatore. Entrare, a questo punto, nell’analisi di
questo commento, aggiungere, discutere, esaminare a parte a parte,
informare di tutto, è impossibile: o per lo meno, questa recensione
dovrebbe quintuplicarsi; e resterebbe sempre da invitare il lettore della
recensione a prendere in mano 1 tre volumi del Nicolini, e studiarseli, e
studiarsi V., ora che lo studio è tanto agevolato; e quindi a scrutare
anche lui, la sua parte, dentro ai pensieri di questo grande spirito e
alle tante congetture che lo strenuo commentatore ha dovuto pur fare assai
spesso per illustrarlo. Io preferisco perciò fermarmi qui, solo citando
un luogo, dei più curiosi, e singolarmente caratteristico del fare
vichiano e degli enigmi che la sua forma presenta non 186 STUDI
VICHIANI di rado all’annotatore: esempio tipico delle difficoltà,
in cui l’annotatore s’ è dovuto dibattere. Latona, dice il V. nell’
Iconomica poetica, partorì i suoi figliuoli, Apollo e Diana, presso
l’acque delle fontane perenni, ch’abbiamo detto; al cui parto gli uomini
diventaron ranocchie, le quali nelle piogge d’està nascono dalla terra,
la qual fu detta ‘ madre de’ giganti ’, che sono propriamente della
Terra figliuoli » (p. 431). Ranocchie ?
Non sappiamo », scappò qui a protestare certo pedante dei tanti
abbattutisi in V., non sappiamo in
nessun modo intendere come l’autore si facesse a mandar fuori che al
parto di Latona gli uomini diventassero ranocchie, dappoiché questa
circostanza non è punto un mito e solo si rinviene nell’alterata fantasia
dell’autore ». Ma, assai probabilmente », nota il Nicolini, V. aveva in
mente quelle che più sopra ha chiamate ‘ ranocchie di Epicuro ’ »;
che sono (p. 181) gli uomini allo stato di pura natura, prima che
incominciassero, come dice V., a umanamente pensare ». E perché poi ranocchie ?
e dove ne ha parlato Epicuro ? L'immagine avrebbe potuto essere
illustrata da quel luogo di Censorino, De die nat., 4, 9, che ci serba
notizia della dottrina epicurea intorno all'origine naturale dell’uomo: Democrito Abderitae ex aqua limoque
primum visum esse homines procreatos. Nec longe secus Epicurus: is enim
credidit limo calefacto uteros nescio quos radicibus terrae cohaerentes
primum increvisse et infantibus ex se editis ingenitum lactis umorem
natura ministrante praebuisse, quos ita educatos et adultos genus
propagasse » (Usener, Epicurea,225-6) *1. Questi uteri I [Ora, il
Nicolini mi comunica di essere riuscito a trovare il mito a cui
precisamente voleva alludere V. e la fonte a cui, pur con°qualche
libertà, egli attinse. Si tratta del passo delle Metamorfosi ovidiane
(VI, 313 sgg.) ov’ è detto che Latona, dopo aver partorito, nell’ isola
Ortigia, Diana e Apollo ed essere stata cacciata di là da Giunone, giunse
coi due neonati in Licia, presso un piccolo lago, e poiché alcuni villani
volevano impedirle di dissetarsi, ella li maledisse e li trasformò in
rane]. LE VARIE REDAZIONI DELLA SCIENZA NUOVA nella fantasia
corpulentissima del V. diventano quelle ranocchie che nella credenza
popolare nelle piogge d’està
nascono dalla terra ». Non dunque ranocchie, ma uomini, e grossi
uomini goffi e fieri », giganti, i
Polifemi di Omero, primi padri del genere umano, per V. come già
per Platone. Le ranocchie son simbolo dei primi uomini, che il mito
fa nascere dalla terra: dalla terra e dall’acqua, come dice Epicuro, e
come si può leggere in fondo al mito di Latona che partorisce presso alle
fonti: mito, secondo il quale V. dice perciò che gli uomini diventaron
ranocchie, cioè si rappresentarono alla fantasia quasi, al pari dei
batraci, sorti ex aqua limoque. Enigmi come questi brulicano in tutta la
mitologia vichiana; e trovan la maggior parte il loro Edipo nel
bravo Nicolini, che ne toglie spesso materia a note argutissime, come quella
sullo scudo » funebre napoletano di p. 420. Ma ho detto di non volermi
dilungare in questa materia. E basta anche cogli esempi; e faccio punto
!. I A proposito di quel che ho detto nelle174 sgg., Fausto
Nicolini mi comunica le seguenti osservazioni: Quando, a proposito
dell’opera di incerto titolo, ho parlato di un primo getto dell’opera
capitale del V., volevo alludere alla Scienza Nuova nel senso largo della
parola, e cioè intesa come quel complesso di problemi a cui V. die’ poi
il titolo di Scienza Nuova. Primo getto dunque del Diritto Universale. E
a confermarmi nella mia opinione mi conforta proprio ciò che in codeste
tue pagine è detto dei contatti evidentissimi tra quest’opera di titolo
incerto e la prolusione del 1719. Insomma la cosa più ovvia sembra a me che V.
scrivesse prima la prolusione del 1719; indi la sviluppasse ai principii
del 1720 in un’opera di poco più ampia e divisa in tre libri (l’opera d’
incerto titolo); e per ultimo, non più contento di questo lavoro ancor
troppo ristretto, si desse a scrivere, sempre nel 1720, la prima parte
del Diritto Universale. Che l’opera d’ incerto titolo sia anteriore al Diritto
Universale è evidente; ma che essa sia anteriore anche alla prolusione del
1719, mi sembra non solo non evidente (e a ogni modo non provato), ma
anche pochissimo verisimile. Aggiungo, a sostegno della mia
opinione, proprio la sfida all’ immaginario critico che tu adduci. Critico che
non è tanto immaginario. Narra infatti V. nell’Autobiografia (p. 40) che,
dopo aver recitata la prolusione del 1719, ‘ sembrò a taluni l'argomento,
particolarmente per la terza parte, più magnifico che efficace, dicendo
che non di tanto si era compromesso Pico della Mirandola quando propose
sostenere conclusiones de omni scibili’, ecc. A questi critici appunto, tra i
quali par che fossero il Capasso e altri professori universitari
capassiani, è rivolta la sfida. Inoltre, nel prol/oquium del Diritto
Universale V. dice che fu consigliato da Gaetano Argento a svolgere
ampiamente il tema della prolusione da oratore, filosofo e giureconsulto (cioè
in tre parti), e poi dal nipote dell’Argento, Francesco Ventura, a
ricavare tutte le innumerabili conseguenze derivanti dai principii posti nell’
Orazione del 1719; il che, a giudicarne dal commiato superstite, par che
egli facesse o volesse fare nell’opera d’incerto titolo (che poté anche
non essere scritta, ma soltanto abbozzata). Pertanto la
Scienza Nuova avrebbe avute le seguenti redazioni: I. Commento a Grozio
(1717-8); 2. Orazione del 1719; 3. Opera d° incerto titolo (sviluppo
dell’ Orazione) (1720); 4. Sinopsi del Diritto Universale (1720); 5.
Diritto Universale (1720-21); 6. Note al Diritto Universale (1722); 7.
Scienza Nuova negativa (1723-25); 8. Scienza Nuova prima (1725); 9.
Scienza Nuova veneta; 10. Scienza Nuova seconda (1729-30); 11. Corr.
migl. e agg. terze (1731); 12. Corr. migl. e agg. quarte (1732 o 1733);
13. Scienza Nuova terza (1734-1744). Ciò senza calcolare alcuni
riassunti totali o parziali, come per es. la Giunone in danza (1721); una
conferenza (forse soltanto detta e non mai scritta) tenuta dal V. in casa
del suo antico discepolo Giambattista Filomarino della Rocca (1721 o
1722); la lettera a Monsignor Monti del 18 novembre 1724; l’ampio
riassunto della Scienza Nuova prima recato nell’Autobiografia (1728),
ecc. ecc. ». IL FIGLIO DI V. E GL INIZI DELL INSEGNAMENTO DELLA
FILOSOFIA ITALIANA A NAPOLI. LA FAMIGLIA DEL V. Di figli,
veramente, G. B. V. ne ebbe più d'uno. E se Angelo Fabroni gli aveva
attribuito binos libderos, nel 1818 il marchese di Villarosa corresse
l'affermazione del biografo pisano, portando quel numero a sei. E
sarebbero stati: Luisa, Ignazio, Teresa, un primo Gennaro, morto in
tenera età, un altro Gennaro e Filippo 1. Ma la famiglia del V. fu anche
più numerosa, come dimostrano i registri parrocchiali del Duomo di
Napoli. Egli si ammogliò il 12 dicembre 1699 =. Il 17
settembre 1700 ebbe la prima figlia, a cui furono imposti i nomi di
Luisa Gaetana 3. Il 17 luglio 1703, ebbe una seconda figlia, non
ricordata dal Villarosa, e che fu chiamata Carmelia Nicoletta 4. Il 31
dicembre 1704, una terza figlia, Filippa Anna Silvestra 5, ignorata
anch'essa dal Villarosa. Ma entrambe queste bambine devono essere
morte ben presto e aver lasciato poca memoria di sé I Opuscoli di
G. B. V., racc. e pubbl. da C. A. DE Rosa, march. di ViLLarosa, Napoli,
Porcelli, 1818-23, I, 228. 2 VILLAROSA, Opuscoli, I, 208.
3 Loisa Caetana, secondo l’atto di battesimo, in data 21 settembre 1700
(Parrocchia del Duomo, Battesimi, lib. XI, fol. 87). Ringrazio l’amico cav.
Lorenzo Salazar della cortesia con cui volle ricercarmi queste notizie nella
parrocchia del Duomo. 4 Atto di battesimo addì 19 luglio 1703,
nello stesso libro XI, fol. 109. È Atto di battesimo addì 1°
gennaio 1705, nello stesso lib. XI, fol. 121. nella famiglia
:. Il quarto figlio, finalmente, fu un maschio; nacque il 31 luglio 1706, e si
chiamò Ignazio Nicolò Gaetano Geronimo: fu tenuto al fonte battesimale
da donna Teresa Stiammone de’ duchi di Salza =. Dopo, un’altra
femmina, che non ebbe nome Teresa, come dice il Villarosa, ma Angiola 3,
nata nel luglio 1709. Il primo Gennaro vide la luce il 19 luglio 1712; ma
non visse fino al dicembre 1715, quando nacque il secondo Gennaro,
che ebbe altri due nomi: Emanuele e Filippo. Nel febbraio 1720 infine chiuse la
serie l'ottavo figlio: Filippo Antonio Francesco Gaetano 4.
Di tutti questi figli due soli sembra siano sopravvissuti al padre 5.
Giacché Niccolò Solla 6, autore di una Vita del V., e amico e scolaro del
V. stesso, onorato », come egli dice, di
tutta la sua confidenza ed amore », scrive: Rimasero di lui due figliuoli: il prime
de’ quali gli è stato anche successore nella cattedra di I [E
infatti dai Libri dei defunti della parrocchia del Duomo appare che Carmelia
Nicoletta morì il 27 luglio 1703, e Filippa Anna Silvestra il 28 luglio
1705 (Comunicazione di Fausto NICOLINI, che darà la documentazione delle
sue giunte e correzioni, qui inserite, in un suo studio su G. B. V. nella
vita domestica))]. 2 Atto di battesimo dell’ 8 agosto 1706: lib.
XII (Battesimi dal 17006 al 1739), fol. 4. 1 3 [Più esattamante:
al fonte battesimale ricevè i nomi di Angela Teresa Ippolita, ma in
famiglia solevan chiamarla Teresa (Comunicazione di F. NICOLINI)].
4 Tenne al fonte Angiola donna Ippolita Cantelmi, duchessa di
Bruzzano (le cui nozze V. aveva cantate nel 1696 nella canzone
D'’amaranti immortali ornai la fronte: v. Opere, V, 105: e diede il parere per
la stampa di certe Stanze di lei scritte nel 1729, ristampato dal
NICOLINI, in B. Croce, Sec. supplem., p. 81), il 23 luglio 1709 (lib. XII
dei Battesimi cit., fol. 21). Il primo Gennaro fu battezzato il 24 luglio
1712 (ivi, fol. 41); il secondo, il 26 decembre 1715 (ivi, fol. 64);
Filippo, il 18 febbraio 1720 (ivi, fol. 84). 5 [Veramente, quattro:
Gennaro II, Filippo, Luisa e Angiola Teresa. Il Solla, com= si vede, non tenne
conto delle femmine (Comunicazione di F. NicoLINI)]. Erano ridotti a cinque nel
1729, com’ è attestato da un luogo delle Vindiciae: CROCE nelle note
all'Autobd., p. 123. 6 B. Croc£, Bibliografia vichiana, Napoli,
1904,45-06. eloquenza » 1; cioè, come si vedrà, Gennaro: e
l’altro, ce lo dice il Villarosa
=, Filippo, morì impiegato nella
Regia Dogana di Napoli 3. Di un figliuolo, il cui nome non gli
piacque di ricordare, il Villarosa stesso 4, che ebbe modo d’esserne
informato, ci fa sapere che amareggiò assai il padre per la sua
cattiva indole. Cresciuto questi
in età, lungi di dar opera agli studi ed alle oneste discipline, diessi
interamente in preda ad una vita molle ed oziosa, ed in processo di tempo
a’ vizi di ogni maniera, in guisa che il disonore divenne dell’
intera famiglia ». Riuscite vane le ammonizioni e le minacce del padre e
di autorevoli amici, il povero V. fu, suo malgrado, costretto a ricorrere
alla giustizia per farlo imprigionare.
Ma nel momento che ciò si eseguiva, avvedendosi che i birri già
montavan le scale della casa di lui, e l'oggetto sapendone, trasportato
dal paterno amore, corse dal disgraziato figlio, e tremando gli
disse: Figlio, salvati. Ma un tal passo di paterna tenerezza non
impedì, che la giustizia avesse il corso dovuto, poiché il figlio
condotto venne in prigione, ove dimorò lunga pezza, finché non diede
chiari segni di esser veramente ne’ costumi mutato » 5. Fu costui Filippo
o Ignazio ? I Vita di G. B. V., nel Giornale arcadico del 1830, t.
XLVIII, 97-8. % Opuscoli, I, 228. 3 [Chi, di
sicuro, morì impiegato nella Dogana napoletana fu, veramente, Ignazio. Ma
potrebbe anche darsi che Filippo, dopo il 1744, avesse un posto simile a
quello del suo maggior fratello (Comunicazione di F. NICOLINI)]. 4
Opuscoli, I, 161-2; cfr. ora Opere, V, 79. 5 [Il racconto del
Villarosa, che non è al certo inverisimile e sarà magari vero, non ha
trovato alcuna conferma nei documenti contemporanei venuti finora alla luce. I
quali, per altro, dicono che l’ 8 febbraio 1730 Ignazio V. sposò la ventenne
Caterina Tomaselli senza che i genitori di lui, a differenza che per gli
altri loro figliuoli, intervenissero al matrimonio (da che parrebbe che non lo
volessero); e che al matrimonio stesso fu fatto inutile impedimento canonico
da una Grazia Maddalena Pascale, con la quale sembra che Ignazio avesse
una relazione intima (Comunicazione di F. NicoLINI)]. 194
STUDI VICHIANI Un documento rintracciato tra le carte vichiane,
conservate tuttavia dagli eredi del marchese Villarosa 1, mi fa
propendere a vedere piuttosto l’ultimo dei due ora nominati nello
sciagurato figlio, che addolorò tanto l’animo paterno. È una Breve nota
di ragioni per D. Giov. Battista di V. contro la magnifica Caterina
Tomaselli, in una causa che fu trattata, non è detto quando, ma certo
negli anni più tardi della vita del V. ?, innanzi al Sacro Real
Consiglio. Era morto Ignazio V., lasciando una figlia, a nome Candida; e
la vedova, Caterina Tomaselli, sosteneva che spettasse a lei l'educazione della
bambina, e dovesse esserne escluso l’avo paterno, richiamandosi a
decisioni analoghe del magistrato 3. L’avvocato del V. risponde non
essere applicabili tali decisioni al caso presente; perché, in una di esse,
s'era considerato che il padre della pupilla era emancipato, e quindi
poteva far testamento e lasciare per tutrice la madre; e s'era
anche avuto riguardo al fatto che la madre era persona prudente ed
onestissima, mentre l’avo paterno odiava la pupilla. Di un’altra
decisione la ragione era stata che I Rendo qui le più vive grazie
ai signori ing. Tommaso e Vincenzo De Rosa dei marchesi di Villarosa, i
quali hanno gentilmente messe a mia disposizione le preziose carte
vichiane, che già furono del loro bisavolo C. A. De Rosa marchese di
Villarosa, benemerito editore degli Opuscoli di V.. Un catalogo di queste
carte pubblicò poi il NICOLINI in B. CROocE, Secondo supplemento,35-43.
2 [Infatti la causa ebbe inizio negli ultimi giorni del luglio 1737
(Comunicazione di F. NICOLINI)]. 3 (Ignazio, che con la moglie e la
figliuola Candida (nata il 5 aprile 1731) conviveva col padre, morì il 10
maggio 1737, lasciando, in un testamento commoventissimo, la tutela della
figlia, coniunctim et non divisim, al V. e alla Tomaselli, alla quale
impose di continuare a vivere coi suoceri e di prestar loro obbedienza e
rispetto. Ma, appena un paio di mesi dopo (26 luglio 1737), il filosofo
fu costretto a cacciar di casa la nuora. Da che la lite, terminata o
sospesa in un primo momento col trionfo del V. che riuscì, fino alla sua
morte, a tener con sé la nipote; la quale, peraltro, nel giugno 1744,
mercé nuovo intervento della giustizia, fu dalla nonna consegnata alla madre
(Comunicazione di F. NICOLINI)]. VI. l’avo era un dissipatore. Di
una terza, che l’avo non era persona di buona fama e condizione.
Nella specie della presente causa, concorre tutto l'opposto;
poiché D. Gio. Battista di V., avo paterno, è persona di somma prudenza,
virtù et integrità, come a tutti è noto; ed all’ incontro detta Caterina
Tomaselli persona stravagante ed imprudente e di non retti costumi, come
ben consta. Onde per ogni ragione e giustizia la tutela ed educazione di
detta pupilla deve deferirsi al predetto D. Gio. Battista di V. avo
paterno. Anco perché detto Ignazio di V., padre di detta pupilla, era
figlio di famiglia, e come tale, oltre non poter fare testamento, ma
nemmeno lasciare tutore alla sua figlia.... Detto D. Gio. Battista deve
a sue proprie spese mantenere et alimentare detta pupilla per la
tenuità del peculio di suo padre, che, come profettizio, sarebbe d’esso
Gio. Battista. Se il figlio innominato, di cui parla il Villarosa,
non fosse quest’ Ignazio, bisognerebbe dire che non uno, ma due
figli fossero stati il tormento di Giambattista V. *. Egli amava 1
suol con eccesso di tenerezza; contento piuttosto di una rispettosa
amicizia, che d’un servile Nella commedia in quattro atti di GruLio
GENOINO, Giovan Battista V., Napoli, Stamp. della Società Filematica, 1824, il
figliuolo cattivo sarebbe Filippo. Se non che il Genoino cita tutte le
sue fonti (gli Opuscoli di V. a cura del Villarosa); né accenna a
tradizioni orali. Questa del Genoino dovette essere la commedia dal
titolo G. B. Vizo, che il Programina giornaliero degli spettacoli di
Napoli annunziò per la sera del 7 settembre 1850 e poi per quella del 26
ottobre 1854 al Teatro dei Fiorentini, senza indicare il nome
dell'autore. C’ è bensì nell’elenco dei personaggi un Don Vincenzo » che non compare nella commedia
del Genoino. Ma può trattarsi d’una leggera modifica della scena 38, atto IV
del Genoino, dov’ è descritto l’ incontro di Don Vincenzo Milesio,
suocero di Filippo V., con costui e col padre suo Giambattista. Nessuna
delle raccolte delle commedie del bar. Gio. Carlo Cosenza conservate
nelle Biblioteche di Napoli, compresa la Lucchesi-Palli, ne contiene una su G.
B. V.; e sospetto che la citazione trovatane dal CrocE, Supplem., p. 7,
possa esser nata da uno scambio col Genoino. Un dramma Giambattista V.
pubblicò nel 1845 DomENIco BureFA (Torino, presso Carlo Schiepati): e
anche qui, come ricavo da una recensione di un tal Pier MURANI
(Giornale Euganeo, a. III, quad. 5, maggio 1864, Padova), comunicatami
da B. CROCE, ci sono pure alcune scene
in cui l’autore ci mostra V. in 196 STUDI VICHIANI
timore » 1. La moglie Caterina Destito 2, analfabeta e meno che
mediocre massaia, costrinse lui a pensare a provvedere non solo a’
vestimen*i, ma di quanto altro i piccoli suoi figliuoli avean di bisogno
» 3. Attese alla loro educazione ed istruzione da se medesimo; ed è
bello pensare che, tra un pensiero e un altro della sua alta
speculazione, egli rivolgesse l’animo a coltivare l’ intelligenza delle sue
figliuole predilette: Luisa e Angiola. Furono la sua più cara
consolazione. Al p. Benedetto Laudati, cassinese, quello stesso che, nel
gennaio 1716, diede per la censura ecclesiastica il parere sulla Vita
di Antonio Carafa, trovando un giorno il filosofo a scherzare tra
le figliuole, spianata la fronte e un sorriso spensierato su quella faccia per
solito meditabonda, tornarono sulle labbra quei versi del Tasso:
Mirasi qui fra le meonie ancelle Favoleggiar con la conocchia
Alcide. E V. ne rise. La Luisa era il suo orgoglio. Dotata
di raro ingegno, aveva largamente corrisposto alle cure paterne, ed era
capace di scrivere de’ versi non inferiori famiglia, amato e
venerato da pochi buoni e dai figli suoi, tranne da un Filippo, giovane
sventato più che malvagio, il quale lo amareggia con gherminelle
insolenti e poco drammatiche ». Il Buffa probabilmente avrà avuto la
prima idea del suo dramma dal Genoino. 1 SOLLA, Vita, p. 97. 2
Figlia di uno scrivano fiscale di Vicaria; nata il 26 novembre 1678:
VILLAROSA, Opuscoli, I, 208. Sopravvisse di quindici anni al marito,
risultando dal necrologio della chiesa dei Padri dell’ Oratorio, detta
dei Gerolamini, che fu ivi sepolta il 3 giugno 1759. Cfr. G. TaGLIALATELA,
Commemorazione di A. Galasso, p. 26, in Atti dell’Acc. Pontaniana, vol.
XXII. 3 [Così il Villarosa. E la cosa potrà anche esser vera. I
documenti contemporanei, per altro, dicon soltanto che V. aveva
conosciuta la Caterina da bimbetta (eran vicini di casa), che la sposò
per amore, e che ancora dopo trent'anni di matrimonio parlava di lei con
grande affetto e riconoscenza. S’aggiunga inoltre che la Destito era non
figlia, ma sorella di Pietro, scrivano fiscale di Vicaria (Comunicazione
del NICOLINI)]. a quelli che scrivevano tutte le persone
colte, i dotti, come allora si diceva, della società in cui V. sl
aggirava. I versi di lei, il suo canto dovevano scendere al cuore del
padre, che tante amarezze ebbe nella sua vita affaticata.
Perché aveva quell’ornamento in casa 1, egli che ebbe sempre
abitazioni così modeste, poteva accogliere presso di sé uomini insigni e
gentildonne dell’alta società napoletana; e certo doveva condurla seco negli
intellettuali ritrovi presso le nobili dame da lui frequentate con
Paolo Doria e gli altri letterati del tempo: fino al 1727 ordinariamente
presso Angiola Cimini, marchesa della Petrella. Oh il rimpianto pel
salotto di questa marchesa, quando, quell’anno, donna Angiola morì! Chi
non conosce l'elogio magnifico che V. ne scrisse e premise a una raccolta
di scritti di tutti i frequentatori di quel salotto, da lui curata
ed ornata del ritratto della marchesa e di molti finissimi fregi? La
raccolta, che allora fece molto rumore in Napoli, e tanto se ne parlò che
una mala lingua ne fece una satira ?. In quell’ Orazione, V.,
celebrando la grazia di questa novella Aspasia, anche lei poetessa e
curiosa di sapere e di entrare in questioni filosofiche, ricorda: Ippolita Cantelmi-Stuarta, principessa
della Roccella, donna che con la maestà che le corona la fronte,
coll'augusto aspetto e colle sovrane maniere, congiunte alla singolare
altezza I [La Luisa, per altro, cessò di convivere col padre fin
dal settembre 1717, tempo in cui sposò un Antonio Servillo, e prese a dimorare
col marito presso la chiesa della Pietrasanta (Comunicazione di F.
NICOLINI)]. 2 FRANcEscO VESPOLI, il cui nome s'incontra non di rado
nelle raccolte poetiche di quel tempo, a proposito degli Ultimi onori di
letterati amici in morte di A. Cimini (Napoli, Mosca, 1727) e di uno speciale
libro di versi pubblicato in quell'occasione stessa da Gherardo De
Angelis, scrisse una satira in ternari, non priva di spirito, tuttora
inedita, che pubblico in appendice (v.343-53) come documento della
società a cui V. appartenne. 198 STUDI VICHIANI
dell’animo, alla grandezza de’ suoi pensieri ed allo splendore delle sue
azioni, non che tra le nazioni ingentilite, tra’ barbari stessi dell’
Africa o della Zembla non potrebbe dissimulare e nascondere d’essere
degno generoso rampollo del ceppo reale di Scozia, per una volta sola che
nella nostra casa conobbela, ne concepì tanta ammirazione ed amore!
...». E chi sa quante altre delle gentildonne celebrate dai
versi del V., oltre la Cantelmi (che era, s'è veduto, sua comare),
frequentavano la sua casa! Letterati, scolari del V., come il De Angelis
2, professori, frati, predicatori, tutto il circolo degli amici ed
ammiratori di lui, doveva spesso adunarsi nella modesta dimora del Largo
dei Gerolamini al n. 12 (dove V. abitò dal 1704 al ’18), o, più tardi, in
quella nel V. delle Grotte della Marra, e poi nel V. delle Zite, e dal
1741 a San Giovanni a Carbonara, e per ultimo ai Giardini dei Santi
Apostoli 3. V’intervenne per qualche tempo anche Pietro Metastasio,
giovanissimo, che improvvisava 4. Si leggevano versi: e Luisa 5
leggeva +rr__rm I Opere, ed. Ferrari, VI, 265.
2 Su Gherardo De Angelis o degli Angioli v. ora lo scritto di
ENRICO PERITO, G. D. A., in Scritti di storia, di filologia e d’arte
(Nozze Fedele-De Fabritiis), Napoli, Ricciardi, 1908,249-54, nonché
LuIci PAPA, G. D. A., Verona, 1914. 3 Vedi l’art. del
MANDARINI, // centenario di V., ne La Carità, riv. relig. scientif.
letter., a. III, quad. VI, 1868; la nota del CORRERA, in Arch. stor.
nap., IV (1879), 407-8; e ora F. NICOLINI, Per la biografia cit., punt.
I,181. 4 F. NUNZIANTE, Metastasio a Napoli, nella Nuova Antologia
del 15 agosto 1895, p. 722, e A. SALZA, in Giorn. stor. letter. ital.,
LX, p. 206, n. 2. Nella Vita del signor abate Pietro Metastasio poeta
cesareo, aggiuntevî le massime e sentenze estratte dalle sue opere, Roma, 1786,
a spesa di Gioacchino Puccinelli, p. 98, si asserisce che la
canzonetta Grazie agl’ inganni tuoi fu scritta dal Metastasio in
Napoli nella sua verde età per la
figlia del celebre letterato G. B. V. », col quale spesso trattava, onde
non seppe difendersi di non esser preso da’ vezzi di lei». Ma questo vago
accenno, avverte un accuratissimo studioso della biografia del M. (SALZA,
l. c.), non è confermato. D'altronde, come s’ è detto, Luisa era maritata
fin dal 1717. 5 Il Villarosa diceva di avere presso di sé molte
poesie mss. di VI. IL FIGLIO DI G. B. V. I99 i suoi.
Spesso anche cantava. Ecco come ce la presenta uno dei frequentatori di
quel circolo nel 1727: Il mover dolce di costei mi suole
Fermar i sensi, e gli occhi, e lo ’ntelletto Al vago riso intenti, e al
vestir schietto, E più alle saggie oneste alme parole ! Ma,
quando scioglier l’angelico vuole Suo canto dal gentil candido
petto, Lo mio spirto volar sovra è costretto A’ giri eterni, oltra
le vie del sole, Sciolto nuotando in que’ diletti immensi;
Tal che il ritorno obblia, né sa l’ incanto, Se alcun poi nol richiama, e
riconsiglia. E ben mi spiace il farmi desto intanto, Dicendo
all’alma: Or dove star mai pensi ?
Tu ascolti del tuo gran Mastro la figlia!. In un altro sonetto, lo
stesso poeta si rivolge a Luisa: O figliuola di Lui, che °l tutto intese,
e le augura serenità di spirito e animo di attendere alla poesia:
Né amare indegne di Fortuna offese, Né d’aspri mali tempestoso
verno Turbin mai lo bel tuo lucido interno Spirto, che a saper
nuovo il cammin prese. Che se in te vedi, hai potestate
accolta Di spezzar l’armi a’ minaccevoli astri, Luisa,
trovate tra le carte del padre, oltre quelle che sono sparse per le tante
raccolte stampate del tempo: Opuscoli, I, 228. 1 Rime scelte di
GHER. DE ANGELIS, Firenze, MDCCXXX (con pref. di G. B. V.), p. 185. Ma il
3° libro di queste Rime, a cui questo e l’altro sonetto, che sarà citato,
appartengono, era stato stampato integralmente la prima volta nel 1727. Ad
aprir siegui or tua limpida e colta Vena, che sazia i più superbi mastri:
O forte e saggia, quanto adorna e bella !. Ma erano augurii
meramente rettorici. Luisa ebbe marito; e certamente a lei Giambattista V.
diede i mille ducati, guadagnati con la Vita di A. Carafa, che gli
servirono, come raccontava Gherardo De Angelis, per mandare a marito una
sua figliuola » =. Ed ebbe figli, o almeno una figlia, che, nella
qualesima del 1729, era gravemente ammalata, e si temeva che morisse. E
se Luisa era la figlia prediletta, s'immagini il dolore dell’avo. In
quella quaresima, venne a predicare in Duomo il p. Michelangelo da
Reggio, cappuccino eloquentissimo; e contrasse amicizia con parecchi
uomini di lettere e col V., che lo ascoltarono con ammirazione.
Frequentò anche lui la casa del filosofo, allora centro di una vera
e propria scuola letteraria, non ancora ben nota, e degna di essere
studiata 3; e confortò la giovane madre palpitante per la salute della
figliuola. Di che V. credé quasi di aversi a sdebitare, promovendo una
raccolta in lode del cappuccino, pubblicata infatti quell’anno stesso con
una dedica del V., che divotamente consacra un rinfuso vago fascetto
di fiori colti in Parnaso », cioè di componimenti poetici scritti in onore di
p. Michelangelo da alquanti gentili
spiriti » 4. I Rime scelte, p. 1Io. ® VILLAROSA,
Opuscoli, I, 225. 3 Da vedere per ora A. Fusco, Nella Colonia
Sebezia, Benevento, tip. Forche Caudine, 1901, e M. Bruno, G. B. V.
poeta, saggio critico con un'appendice di sonetti inediti e rari,
Catanzaro, tip. G. Caliò, 1910. 4 Componimenti in lode del P.
Michelangelo da Reggio di Lombardia cappuccino predicatore nel duomo di Napoli
nella quaresima dell’anno MDCCXXIX. Napoli, Mosca, s. a. La dedica del V.
è ristampata dal ViLLaROosA, Opuscoli, II, 284-5. Ma non è riprodotta né
dal Ferrari, né dagli altri editori posteriori. Ora è ristampata dal
NICOLINI, Sec. supplem.,74-5. VI. IL FIGLIO DI G. B. V.
20I Vi sono distici latini e sonetti italiani di parecchi
letterati del solito circolo vichiano; uno, che giova rilevare, di
Gaetano Maria Brancone 1, personaggio di grand'’affare, che presto
incontreremo in un momento importante della biografia ael V.. Ve ne sono,
naturalmente, anche di questo ?. Dopo un sonetto di una
giovane donna, il cui nome ri- corre sovente anch'esso nelle raccolte
contemporanee, e che era amica a Luisa V., e cultrice di studi filosofici
3, oltre che di poesia, Giuseppa Lionora Barbapiccola, ce n'è uno
della nostra Luisa, che ha un accento personale e I Ap. 13.
* Ve ne sono due, ristampati dal ViLLarosa, Opusc., III, 11-12. Ma
il primo di essi, che nell’ediz. Villarosa comincia: Alma mia, che
perdesti il bel candore, nella raccolta del ’29 cominciava: Alma mia
tutta al di fuore. E non saprei dire di chi sia la correzione. Noto anche
che il 3° dei sonetti, che, nell’ediz. del Ferrari (VI, 416) e nelle
successive (ed. Pomodoro, p. 318), è dato come in lode di p. Mich. da
Reggio, non si trova in cotesta raccolta del 1729; e nella racc. del Villarosa
(p. 53) reca per titolo solo: In lode di un Sacro Oratore. Comincia: Ammirdro
già un tempo Atene e Roma. Il Villarosa lo trasse dall'autografo: v. NICOLINI,
Sec. supplem., p. 52. 3 In un sonetto dello stesso lib. III delle
Rime (1727), il DE ANGELIS, rivolgendosi alla Barbapiccola, dice:
Questa è colei, che aggiunse altro splendore Al gran RENATO, del
ver tanto amico; E "1 monte aspro di gloria, ov’ i0 m’
implico, Vinse, pascendo d’onestate il core. Vieni a mirarla,
o tu Francia superba, Che sì le tue donne al cielo înnalzi e
canti; Qui scrive ancora in sua stagione acerba. Più d’essa
non la greca Aspasia vanti Ciascuna età, che le più degne serba
... La Barbapiccola, ricorda uno scrittore napoletano, per saggio di aver coltivate le moderne
dottrine, produsse in italiano una versione della filosofia di Cartesio »
(NAPOLI-SIGNORELLI, Vicende della coltura, vol. V. Napoli, 1786, p. 497).
Vedi infatti I principii della filosofia di Renato Des-cartes, tradotti
dal francese, col confronto del latino in cui l’Autore gli scrisse, da
GIUSEPPA-ELEONORA BARBAPICCOLA tra gli arcadi MiRISTA, Torino, Mairesse,
1722. Un vol. in 4° di40 + 350 + 18 con figure intercalate. Vedi pure F.
AMoDEO, Dai fratelli Di Martino a Vito Caravelli, negli Atti dell’Accad.
Pontan., XXXII, 1902, p. 15 N, e CRocg, Suppl. alla Bibl. vich., Napoli o
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tata y KEÉ N Nt Sap to tnt POL IL FIGLIO DI V. Due
anni appresso, in una raccolta nuziale, che reca anche un sonetto di
Pietro Metastasio (Vanne, sposa leggiadra, ove sospira), Luisa rispose
con un sonetto a rime obbligate all’amica Barbapiccola, che le
diceva: O tu, che forte incontro a rei martiri Donna saggia
ne vai, lucido esempio Di quel valor che signoreggia l’empio Fato,
e in alto ten posi, e al vero aspiri; Vieni, e tu aita i giusti miei
desiri De la gran coppia a dir ciò, ch’ io contempio ecc. E
Luisa di rimando: Poic’ ho sì l’alma carca di martiri Fatta
degl’ infelici un raro esempio, A cui turba e confonde il rio
Fat'empio Ogni voglia leggiadra, ov’ella aspiri, Com’ornar posso i
tuoi giusti desiri Per l’alta coppia, in cui miro e contempio Mille
belle speranze entro il gran tempio Che virtù alzossi in su gli eterni
giri ? Lionora, tu colla tua fronte lieta Chiama Imeneo, a cui,
madre d’eroi, Partenope gentil applaude e gode. E tessi al chiaro
innesto or degna lode Fra dotti cigni co’ be’ carmi tuoi, Ch’ io
non oso toccar tant’alta meta !. Meno male che donna Luisa, in
fine, aveva questa distrazione della letteratura !?. I Vari
componimenti per le felicissime nozze degli eccellentissimi signori D.
Tomaso Caracciolo marchese di Casalbore, principe di Torrenova [...] e D.
Ippolita di Dura de' duchi d’ Erce raccolti da PARRINO, e dedicati all’ Ecc.mo
signor D. Orazio di Dura duca d’ Erce [...], in Firenze. Il son. del
Metastasio è a p. 64. Ve n’ è uno di Francesco Vespoli (p. 37), e uno (a
p. 25) di G. B. V., che non è stato mai ristampato: Benché io mi veggia
da quel fato oppresso. Credo opportuno ristamparlo in appendice. [Poi fu
ristampato anche dal NICOLINI, 0. C., p. 57]. 2 Un altro
sonetto di Luisa V. fu ristampato da G. FERRARI, nelle Opere, IV, 419.
Comincia: Poiché della mortal terrestre spoglia, ed . PRIMI ANNI DI
GENNARO V. CORSINI E LA PRIMA SCIENZA NUOVA Ma tra tutti i figli, quello
che a lungo sopravvisse al padre, attese, e seriamente, agli studi stessi
di lui, continuò il suo insegnamento universitario e quasi la tradizione
domestica; quello che confortò del suo affetto filiale gli estremi anni
infelici del vecchio filosofo, e ne proseguì poi con pietoso culto la
memoria; quel figlio del V., insomma, che tutti gli studiosi conobbero,
in Napoli, durante tutto il sec. XVIII, e al quale fecero spesso
capo per notizie sul padre, è Gennaro, nato nel dicembre 1715. E di
lui ho creduto opportuno raccogliere le notizie che ci rimangono, perché
ne può derivar qualche luce sulla stessa biografia di Giambattista e
sulla sua fama postuma. E già il grande filosofo fu così tenero de’ suoi
figliuoli e così poco avventurato, che può quasi parere un debito di
riconoscenza verso di lui adunare attorno al suo nome le fronde sparte
delle sue memorie domestiche. La prima volta che vien ricordato
Gennaro nella vita del padre, è nel suo carteggio col card. Lorenzo
Corsini, a proposito della prima Scienza Nuova *: carteggio, le cui
date non sono scevre di qualche incertezza. Già il Croce notò che non si
comprende come la risposta negativa del Corsini alla istanza del V. per
le spese di stampa era stato pubblicato nella Raccolta în morte di
D. Giuseppe Alliata Paruta Colonna principe di Villafranca, 1729, per cui G. B.
V. scrisse il sonetto Morte, o d’ invidia vil ministra e fera.
I Un accenno veramente a questo figliuolo aveva già fatto V. stesso
nel De const. iurisprud., II, c, XII, $ 12, in Opere2, ed. Ferrari, III, 270;
ed è stato rilevato da ANTONIO SARNO (Origini dell’ incivilimento, Napoli,
1926). della prima Scienza Nuova sia, com’è data dal Villarosa
1, del luglio 1726, quando la prima Scienza Nuova era stata già
pubblicata nell’ottobre 1725 ?. La stessa avvertenza doveva aver fatta il
Ferrari, che corresse senz'altro la data di quella lettera in 20 luglio
1725 3. Correzione, secondo me, indispensabile (ed è confermata da quanto
dirò in seguito). E, se si accetta questa correzione, si rifletta
un po’ alla conseguenza che ne deriva, e che non è priva
d'interesse. Nella sua Vita, Giambattista V., dopo avere accennato
alla primitiva redazione dell’opera sua (che avrebbe occupato due giusti
volumi in-4°»), della quale ci rimane solo il disegno esposto
dall’autore, nella lettera del 19 novembre 1724, a mons. Filippo M. Monti
4, continua dicendo: Già l’opera
era stata riveduta dal signor don Giulio Torno, dottissimo teologo della
chiesa napoletana, quando esso [V.], riflettendo che tal maniera
negativa di dimostrare [seguìta nella primitiva redazione], quanto
fa di strepito nella fantasia, tanto è insuave all’intendimento, poiché con
essa nulla più si spiega la mente umana; ed altronde per un colpo di
avversa fortuna, essendo stato messo in una necessità di non
poterla dare alle stampe, e perché pur troppo obbligato dal proprio
punto di darla fuori, r itrovandosi aver promesso di pubblicarla, restrinse
tutto il suo spirito in un’aspra meditazione per ritro I Opuscoli,
II, 254. Ho riscontrato l’autografo servito alla stampa del Villarosa, ed
esso concorda, per la data, con la stampa. È, tranne la firma, di mano
del segretario del Corsini. * Bibliogr. cit., p. 97, n. 2.
3 Cfr. anche la ristampa delle Opere, Napoli, Jovene, 1840, IV,
134, e quella Pomodoro, 1860, VI, 80. w 4 CROCE, Bibliografia
vichiana,96-7; e ora Carteggio, in Opere, s 167. 14
varne un metodo positivo, e sì più stretto, e quindi più ancora
efficacep»!; che fu il metodo della edizione uscita in luce
precisamente nel novembre 1725. Il colpo di avversa tortuna, non c'è
dubbio, è la delusione inflittagli dal Corsini, a cui la promessa, qui
accennata, di pubblicare l’opera, doveva essere stata fatta con lettera
del maggio 1725; la lettera, con la quale V. aveva dovuto
accompagnare al cardinale l’invio della sua dedicatoria, che ha per
l’appunto la data dell’8 maggio 1725. Si ricordi infatti la celebre
postilla fatta dal povero V. alla sconfortante risposta del Corsini 2; Lettera di S. E. Corsini, che non ha
facultà di somministrare la spesa della stampa dell’opera precedente alla
Scienza Nuova [cioè, della redazione primitiva 3], onde fui messo in
necessità di pensar a questa della mia povertà, che restrinse il
mio spirito [dopo la risposta del cardinale, cioè dopo il luglio] a
stamparne quel libricciuolo, traendomi un anello che avea, ove era un
diamante di cinque grani di purissima acqua, col cui prezzo potei pagarne
la stampa e la legatura degli esemplari del libro, il quale, perché me ’1
trovava promesso a divulgarlo, dedicai ad esso signor Cardinale »
4. Si badi: il parere del revisore ecclesiastico don Giulio
Torno, che è in fondo al libricciuolo, con la data del 15 luglio 1725,
non può essere se non lo stesso parere ricordato dal V. nella sua Vita
come già scritto dal Torno per la prima redazione. È vero che vi si dice
il libro mole exiguum; ciò che non si sarebbe potuto dire della
prima forma; ma questa dev'essere stata una mutazione forse la sola, introdotta nella stampa del parere,
I Opere, V, 48. 2 Postilla che ho riletta sull’autografo, in
un margine esterno. 3 Lo ha notato anche il CROCE, op. e loc.
cit. 4 Stamp. la prima volta dal ViLLarosa, Opuscoli, II, 255 n.;
ora in Opere, V, 77. perché richiesta dalla mutata mole del
libro, rimasto d’altronde sostanzialmente il medesimo, e non
sottoposto quindi a una nuova revisione ecclesiastica. Il parere,
invece, del censore civile, Giovanni Chiajese, è scritto dietro ordine
del 3 ottobre, e seguito dall’approvazione per l’imprimatur del 12
ottobre. Sicché devesi riferire alla redazione pubblicata e già allora
certamente tutta stampata, poiché il 18 novembre successivo ! l’autore
poté mandare un certo numero di esemplari del libro, belli e
legati, a Roma 2. E uno di essi andò, naturalmente, al Corsini 3.
Al quale V., scrivendo due giorni dopo, era costretto a spiegare
anche perché l’opera, per metodo e per estensione, non fosse più quella
che gli aveva propriamente offerta nel maggio innanzi. Non si rileggono
senza pietà queste parole:
Riflettendo io al mio sommo onore, che Vostra Eminenza mi aveva
già compartito per mezzo di monsignor Monti, di aver ricevuta nella
vostra alta protezione l’opera da me scritta in due libri, nella quale
per via di dubbi e desiderii, maniera la qual fa più tosto forza che
soddisfa la mente umana, si andavano ritrovando i principii dell'umanità
delle nazioni, e quindi quei del diritto natural delle genti, 1a qual
opera già era alla mano I Cfr. le importanti lettere del V. all’
Esperti e al Corsini del 18 e 20 novembre 1725, pubblicate dal CROCE,
Bibliogr.,98-100; e ora Opere, V, 172, 173. Anche la lettera precedente a
Celestino Galiani è del 18 novembre (non ottobre: l’autografo, ora
posseduto dal Croce, potrebbe leggersi in un modo e nell’altro).
® [Anzi, fin dal 25 ottobre 1725, dopo averne già donati alcuni esemplari
ad amici e conoscenti napoletani, V. ne inviava ad Arienzo un altro a suo
p. Giacchi; e fin dal 3 novembre una cassetta con altri esemplari partiva
da Napoli per Livorno, diretta al letterato ebreo Giuseppe Athias
(Comunicazione di F. NICOLINI)]. 3 [Era magnificamente rilegato in
marocchino e oro: rilegatura che costò, certamente, al povero V. un’altra
cavata di sangue. Ma il Corsini, senza neppur leggerlo, lo die’ prima a
esaminare, e poi lo donò (decembre 1725) al marchese Alessandro Gregorio
Capponi, che, alla sua morte (1746), lo lasciò, con la restante sua
biblioteca, alla Vaticana, ove tuttora si serba (Comunicazione di F.
NICOLINI)]. per istamparsi; e considerando altresì la mia avanzata e
cagionevole età; mi determinai finalmente affatto abbandonar quella, e
consacrare a Vostra Eminenza quest'opera, più picciola in vero, ma, se non
vado errato, di gran lunga più efficace della prima » !.
Questa seconda opera, dunque, nei mesi che corsero dal luglio al
settembre dello stesso anno 1725, ossia non più che in due mesi, obbligò V.,
impegnato ormai alla pubblicazione nonché alla dedica già annunziate al
cardinale, diventatone poi immeritevole, a restringere, com'egli ci
racconta, tutto il suo spirito in un’aspra meditazione, per ritrovare il
metodo positivo e più stretto ».
Soprattutto più stretto, povero V.!uSì fatta opera », scrive egli al
Corsini, nella stessa lettera del 30 novembre, aveva io destinato dare
alla luce qualche anno dopo, come per soluzione della prima, quasi
d’un problema innanzi proposto ». Non solo però dare alla luce, ma
scrivere anche: benché l'animo gentile vieti al V. di far intendere al
cardinale la pena che questi gli ha cagionata. Il lavoro
vagheggiato quale riposato lavoro di qualche anno, come avrà affaticato, in
quei due mesi, il grande spirito! Aspra meditazione la disse egli
stesso; e la brevità del tempo e il tormento della promessa fatta a
un principe di Santa Chiesa, non devono pure tenersi in conto, per
intendere le ragioni dell’oscurità maggiore della prima Scienza Nuova, e
del bisogno che V. sentì di mutare e rimutare le espressioni di essa, e
con le postille sui margini di tanti esemplari donati agli amici 2, e
con l'edizione del 1730, nonché poscia, del rifacimento radicale
della edizione del ’44 ? CROCE, Bibliogr., 99; V., Opere, V., 173. 2
Vedi, per gli esemplari postillati, CROCE, Bibliogr.,25-6. Altre
difficoltà cronologiche sorgono dalla lettura della seguente bozza d’una
lettera del V. al Corsini, di cui ho trovato l’autografo inedito tra le
solite carte del Villarosa !: Con l’umiliazione più ossequiosa
m'inchino a professar a Vostra Eminenza gl’ infiniti obblighi per
l’altezza dell’animo, onde ha Ella degnato con sensi sì generosi, e
proprj della Vostra Grandezza di gradire una mia umile, e riverente
offerta, che io non avendo l’ardire da me stesso, m’avvanzai
d’umiliargliela per mezzo del sig. D. Francesco Buoncuore?. Talché
benedico tutte le mie lunghe e penose fatighe che per lo spazio di tanti
anni ho speso nella meditazione di questa mia Opera che sta per
uscire alla luce, ed in mezzo le avversità della mia Fortuna abbia menato
tant’oltre la Vita che portassi a compimento questo lavoro, che mi ha
prodotto il merito, 0 per meglio dire la buona ventura di compiacersene
un principe di S. Chiesa di tanta Sapienza, e grandezza, di quanta la
Fama da per tutto con immortali laudi la celebra. Onde per non
perdere una tanto per me onorevole occasione, con l’istessa umiltà di spirito
mi fo ardito di dare a V.ra Em.za una piena testimonianza
dell’animo mio grato e riverente, di annunciarle propizio questo giorno
tanto nella Chiesa segnalato, e memorabile.... Di questa bozza
tutta la parte che non è in carattere spaziato si ritrova nella lettera
pubblicata dal Villarosa, Ora è stampata nel Carteggio a cura di B. CROCE,
Opere, V,168-9, lett. n. XXVII. ® Per Francesco Buonocore (o
Boncore), Philippi V Hispaniarum
regis medico clinico, Caroli Borbonii regis utriusque Siciliae archiatro
et in Regno Neapolitano medicamentariis universis praefecto », V.
scrisse, nel 1738, un’ iscrizione pubblicata dal FERRARI (Operez, VI,
309). V. nel 1721 lo aveva pur ricordato nella Giunone in danza:
Opere, V, p. 288. Questa notizia della parte avuta anche dal Buonocore
nella offerta del V. al Corsini è nuova. Sullo stesso Buonocore v. SCHIPA,
Il Regno di Napoli al tempo di Carlo di Borbone, Napoli, Pierro, 1904,
72, 94. 260, 268, 545. 778, 779. con la data del 15 dicembre
1725 *. E l’autografo corrispondente reca infatti questa data. Ora si può
domandare: come mai nella prima bozza di questa lettera del 15 dicembre, V.
poteva dire della Scienza Nuova sta per uscire alla luce », se da un mese
egli ne aveva mandato al Corsini, come s'è visto, alcuni esemplari, e se
fin dall’ 8 dicembre ? il cardinale lo aveva ringraziato del dono
ricevuto ? Inoltre: che cosa offrì V. per mezzo del protomedico
Buonocore ? Non certo l’opera stampata, che V. fece consegnare al Corsini
nel novembre, per mano del signor
abate Giuseppe Luigi Esperti»3. La dedica? Ma, nella stessa lettera del
novembre al Corsini, V. ricorda il sommo onore, che Sua Eminenza gli
aveva già compartito per mezzo di monsignor Monti, di aver ricevuto
nella sua alta protezione l’opera » nella primitiva redazione 4.
Infine: in un'altra bozza di lettera (che trovasi nella stessa
pagina della precedente, e, a riscontro di essa, reca il testo originale,
pure autografo e senza data, della lettera del V. al Corsini, stampata dal
Villarosa 5 con la data del 26 dicembre 1725), è detto, che l’onore, onde
il cardinale l’aveva colmato, compiacendosi di gradire l'umile ed
ossequioso disiderio, di consegnare sotto l'alto e potente patrocinio del
Cardinale un debol parto del suo scarso ingegno, che era per uscire alla
luce, gli dava ora lo spirito di non perdere una tanto per lui onorevole
occasione, di dare a S. E. una piena testimonianza del suo animo umile e
riverente, di annunciarle propizio I Opuscoli, II, 171-2 (lett.
XXXVI nella racc. del CROCE). 2 Vedi questa lettera in VILLAROSA,
II, 251-2, ristampata poi dal Ferrari e dagli editori posteriori.
3 V. la lett. del 20 novembre 1725 al Corsini. 4 Cfr. anche
la lettera del 18 novembre 1724 allo stesso Monti, in CROCE, Bibliogr.,96-7;
ora in Opere, V, 167. 5 Opuscoli, II, 173-4. questo
giorno tanto per noi segnalato e memorabile, augurandoglielo con que’ più
fervidi voti, che l’animo mio può concepire, continuato da una
lunghissima serie d’anni », ecc. Parole che si riscontrano tutte nella
stampa. Sicché, ancora il 26 dicembre 1725, l’opera stava per
uscire alla luce, e V. introduceva in questa lettera le parole d’augurio
già inserite nella bozza della prima, di dieci giorni innanzi, e poi
soppresse. Non una sola difficoltà, come si vede, sorge da
questi documenti, se non si ammette che, scrivendo a un principe
della Cristiana Repubblica », V. non
abbia voluto nella data segnare questa volta l’anno ab
incarnatione, anzi che l’anno comune: trasportando così le due
lettere al 1724 !. E questa soluzione vien suggerita dallo stesso
stato delle due minute. V., dopo aver tentato, nel novembre 1724, la via
di monsignor Monti (al quale tornò nel maggio successivo), aveva indi a
poco trovato più speditivo l'intervento del medico Buonocore, per
I E questa dev'essere anche la spiegazione della data 20 luglio
1726 della lett. del Corsini, di cui sopra si disse. È noto che Innocenzo
XII (Pontefice dal 1691 al 1700) tolse l’uso di far cominciare l’anno,
nelle date delle bolle, dal 25 marzo. Vedi L’art de vérifier les dates,
Paris, Desprez, 1770, p. 324. E, nei volumi della corrispondenza di
monsignor Celestino Galiani, donati da Fausto Nicolini alla Biblioteca
della Società Storica Napoletana, si hanno lettere di Alessandro Rinuccini
al Galiani, del tempo in cui questi dimorò a Roma per le trattative
del concordato, con la doppia data 1738-9 e 1739-40 (Corrispond., vol.
VI, carte 119 sgg., 169 sgg.). Ciò che prova come anche allora durasse
l’uso di far cominciare l’anno ab incarnatione, scrivendo da Roma o a
Roma. [Le correzioni qui sopra proposte alla cronologia del carteggio
del V. col card. Corsini sono state accettate dal CRrocE nella sua
ed. delle lettere vichiane, salvo che per la lett. XXXVI, pubbl. dal Villarosa
e mantenuta anche dal Croce con la data del 15 dic. 1725: per la quale il
Croce osserva: Anche per questa lettera
sarebbe da accettare la data proposta dal Gentile del 1724, se essa non
fosse scritta sullo stesso foglio che contiene la lettera del Corsini
dell’ 8 dicembre 1725, esprimente i ringraziamenti per gli esemplari ricevuti
della Scienza Nuova. È, dunque, effettivamente del 15 dicembre 1725; e
quanto alla sua relazione con l’altra del dicembre 1724 (n. XXVII), è da
ritenere che V., serbando tra le sue carte l’abbozzo di una lettera
officiosa non spedita, si valesse di alcune frasi di essa l’anno dopo »:
p. 341). aprire al Corsini il suo desiderio di dedicargli
l’opera, che presto avrebbe data alla luce. Ottenuto così il consenso, il
15 dicembre dello stesso anno 1724, se non prima, dové scrivere la minuta
d’una lettera di ringraziamento e d’augurii pel prossimo Natale. Ma dopo,
sembrandogli che fino al 25 avrebbe indugiata troppo questa sua
azione di grazie, la quale, nel suo pensiero, doveva amicargli
ancor più l’animo del cardinale (prima di accennargli la sua speranza del
sussidio per la stampa), rimandò gli augurii a un altro giorno, e scrisse
la lettera, che spedì subito, e che è quella a stampa con la data del 15
dicembre 1725. Ma conservò la prima minuta, quasi per ricordarsi degli augurii
che aveva poi da inviare: e, a fianco di essa, dieci giorni dopo, scrisse
infatti l’altra lettera, che spedi senza altri mutamenti, riprendendo per
gli augurii quasi i termini stessi già preparati. Nel maggio
poi, si fe’ animo, e chiese. Ma, dopo più di un mese, il Corsini, di
ritorno dalla visita allora fatta alla sua diocesi di Frascati, in cui
gli occorse di metter mano a molte esorbitanti spese », gli confidava
di non aver modo di secondare la sua istanza. E V. non rifiatò.
Stampare un libro di 500 fogli, di due volumi in-4°, con lo stipendio che
aveva dall’università, di 100 ducati annui! Ma era corsa la promessa a un
sì gran signore: e bisognò restringersi, e dare come i risultati
dell’opera, e così stampare, dedicare e mandare al cardinale il libro,
che era costato tanto pensiero, tanta gioia e tanta amarezza.
Un raggio di speranza gli rimise in cuore la lettera con cui il
Corsini, l’ 8 dicembre :, lo ringraziò; e, protestando la propria riconoscenza,
lo esortò a ripromettersene altresì i
proporzionati effetti », pur che gli avesse indicato le convenevoli
aperture d’impiegarlo in cose VILLAROSA, Opusc, II, 251-2. Ristampata
nelle edizioni posteriori. IL FIGLIO DI V. di suo servigio ».. Che
aperture ? Al povero uomo, che aveva allora 57 anni, cresceva costumato e
promettente quel suo figliuolino, Gennaro, di così diversa indole
da Ignazio. Aveva dieci anni: era il penultimo ‘dei figli, come s'è
veduto. Ed egli l’amava tanto ! È per
natura », rifletteva nell’ Orazione per la Cimini, che gli ultimi
parti soglionci esser più cari per questi due occulti sensi di umanità:
tra perché essi sono li più innocenti, e per conseguenza, che ci hanno
recato maggior piacere, meno disgusti; e perché essi han bisogno di più
lunga difesa, la quale i padri credono, per la loro avanzata età, poter
a quelli al maggior uopo mancare »!. Se il cardinale
procacciasse a Gennaro un benefizio per farlo chiericare ? La lettera che
gli deve avere scritta, non l’abbiamo. Ma abbiamo la risposta del
Corsini, del IQ gennaio 1726 :. Era stato pronto a rifarsi d’animo
il V., e a ritentare. E gli toccò un’altra delusione. Il cardinale gli
ridava sì buone parole, ma nessuna promessa, nessuna speranza; e
accampava di quelle difficoltà, che svelano il poco buon volere: Nel particolare poi del far conseguire
qualche benefizio a cotesto suo signor figliuolo, lo v’incontro delle
difficoltà; imperciocché, oltre all’età tenera di esso figliuolo, che può
fare non piccolo ostacolo, vi è da considerare ancora, che si trovano in
oggi nel palazzo apostolico tante persone di Regno, che non sì
tosto vaca qualche cosa, che già prima assai della vacanza sentesi la
provista ». Vana fatica, dunque, battere a questa porta. E V.,
come soleva, scrisse malinconicamente sul dorso del foglio del cardinale:
Lettera di S. E. Corsini, con cui dice non poter proccurarmi un beneficio
da potersi ordinare 1 Opuscoli, ed. Villarosa, I, 250-1; Opere,
ed. Ferrari, VI, 258. * In VILLAROSA, II, 252 e nelle edizioni
posteriori. un mio figliuolo » *. Nel foglio stesso, dopo un mese,
lo sconsolato filosofo, il 20 febbraio 1726, trovò la forza per
offrire le sue più umili grazie, e dichiararsi convinto che il differimento
dell’effetto egli nasca dall’impossibile ». E mitigava frattanto la sua
avversa fortuna con la speranza, anzi fiducia di vivere sotto la
potente protezione » di Sua Eminenza ?. Gennaro non si chiericò
più; e, quando, quattro anni dopo, il padre ristampò, sempre a sue spese,
la Scienza Nuova, la dedicò un’altra volta al Corsini, già divenuto
Clemente XII: Al quale », racconta nelle
aggiunte postume alla Vita, da Gennaro date a pubblicare certo più di
mezzo secolo dopo che papa Corsini era morto anche lui, al quale era
stata la prima [edizione] essendo cardinale, dedicata, e si dovette a Sua
Santità anche questa dedicarsi » ! 3. E il cardinal Neri Corsini, nipote
a Lorenzo, gli dava, il 6 gennaio 1731, la consolazione della
notizia, che questa seconda edizione aveva
incontrato nel clementissimo animo di Sua Santità tutto il
gradimento ». Nient'altro. Allora, colmato V. di tanto onore », è V.
che parla, non ebbe cosa al mondo più da
sperare: onde per l'avanzata età, logora da tante fatiche, afflitta
da tante domestiche cure, e tormentata da spasimosi dolori nelle
cosce e nelle gambe, e da uno stravagante male, che gli avea divorato
quasi tutto ciò, ch'è al di dentro tra l’osso inferior della testa e ’1
palato, rinunziò affatto agli studi ». 1 Dall’autografo. Ora
in Opere, V, p. 1809 n. 2 La lettera fu pubblicata anch'essa dal
VILLAROSA, II, 172-3; ora V., Opere, V, 192. In questa lettera, è detto
che il figliuolo, che si sarebbe dovuto ordinare, era Gennaro.
3 Opere, V, 74, dov'è pure la lettera di N. Corsini.
PASSAGGIO DELLA CATTEDRA DEL V. AL FIGLIO E MORTE DEL FILOSOFO
Il buon Gennaro continuò con amore gli studi sotto la direzione
paterna !, e pensò a farsi la sua strada col lavoro. E ne aveva bisogno. Al
padre, con l’età, cominciava a pesare indicibilmente quella scuola eterna che
era costretto a tenere in casa, per ingrossare un po’ il sottile
soldo universitario. Quando partirono quelle sanguisughe degli austriaci,
e venne a Napoli Carlo di Borbone, incorato forse dal cappellano maggiore
Celestino Galiani, V. si fece innanzi, chiedendo la carica di regio
istoriografo ?, nel giugno 1734. L'’infante don Carlo, si ricordi,
non era entrato in Napoli che il 10 maggio ! Le strettezze del V.
dovevano essere grandi. L’animo amico del Galiani si scorge da
questa consulta, ancora inedita, mandata al Montealegre:
Illustrissimo Signore, Con riveritissimo biglietto di V. S. Illma
dei 30 del caduto mese ho ricevuto i supremi veneratissimi comandi di S.
M., che Iddio guardi, di riferire sopra un memoriale presentato alla M.
S. da Gio. Battista V., lettore di Rettorica in questa Regia Università;
in cui, dopo avere esposte le sue dotte fatiche letterarie, I Vedi
VILLAROSA, Ritratti poetici, ed. 1842,61-62. 2 La supplica del V. è
passata nella Raccolta degli autografi di scienziati ed artisti, esposta
nel Museo dell'Archivio di Stato di Napoli, insieme con la relazione
inedita del Galiani, che io pubblico. Una copia di entrambe è nel vol.
XIV, incartamento 13, delle Scritture diverse raccolte dalle Segreterie
di Stato di Acton. La supplica del V. fu pubblicata, il 19 aprile 1885,
nella Napoli letteraria, giornale della domenica, a. II, n. 16. Devo alla
cortesia dell’egregio prof. N. BARONE se ho potuto rintracciare nell'Archivio
di Stato i documenti inediti su G. B. e Gennaro V., di cui mi servo in
questo lavoro. supplica S. M. della carica di suo Istoriografo;
acciocché possa coronar i suoi studj col mandare alla posterità le
gloriosissime gesta della M. S. Su di ciò con tutto il
maggiore ossequio debbo riferire a V. S. Ill.ma, esser più che vero
quanto il suddetto V. espone delle sue opere date alla luce. Egli è
certamente uno de’ primi letterati d’ Italia, e singolarissimo ornamento di
questa Regia Università, a cui colle sue dotte fatiche è stato di
grand’onore. Î: pur vero, ch'egli sia il decoro di tutt’i lettori
della medesima Università, ed insieme poverissimo, non rendendogli più la
sua cattedra, dopo il lungo corso di tanti anni che serve il pubblico,
che cento ducati l’anno, oltre a pochi altri ducati, che ricava dalle
fedi, che fa per gli studenti che dagli studi di lettere umane passano a
quei delle leggi; e trovandosi carico di famiglia, trovasi certamente in
grande miseria, dalla quale recargli qualche sollievo in questi ultimi
periodi della sua vita sarebbe cosa degnissima della somma regal clemenza e
carità della M. S. Qui finora non vi è stato l’impiego d’
Istoriografo. Ma ora che ’1 Signore Iddio ha fatto a questo Regno il
tanto desiderato beneficio di concedergli un proprio Re, che qui risegga,
nella maniera che praticasi negli altri stati ben regolati, un tal
impiego vi vorrebbe; e il detto V. certamente sarebbe abilissimo ad
esercitarlo con tutto il maggior decoro ed applauso che potesse
desiderarsi 1, E sottoponendo tutto all’alta comprensione della M.
S., con tutta osservanza resto Di V. S. IllLlma
Napoli, 5 luglio 1734 Dev.mo ed obl.mo servidore C.
Arcivescovo di Tessalonica Cappellano Maggiore. I Nella
minuta di questa consulta (Arch. Sta. Napoli, Relaz. del Cappellano
Magg., vol. 6°, dal giugno 1732 all'agosto 1735) sono, dopo questo punto,
cancellate le parole seguenti: Quando
poi piacesse al Regal animo di S. M. onorare e consolare un vecchio di
tanto merito, coll'appoggiargli la suddetta carica di suo Istoriografo,
per assegnargli una mercede che non fusse di peso al Regio Erario, gli si
potrebbe assegnar una pensione ecclesiastica di quella quantità che alla
M. S. più piacesse, sopra qualche Vescovato di regia prelazione allora
quando ve ne sarà l’apertura ». Ma Carlo ebbe da pensare ad
altro, allora, che alla nomina del suo istoriografo. Solo il 2 luglio
dell’anno seguente, il Montealegre annunziava al Galiani che il re
si era degnato onorare G. B. V. del titolo ed impiego di suo
istoriografo. E fu notizia
applauditissima » in Napoli, secondo riscriveva il cappellano maggiore,
pronto, il 17 di quello stesso mese, a sollecitare il decreto nei termini
più onorevoli per il vecchio V. 1. E il 22 luglio, finalmente, quel
ministro comunicava al filosofo la sua nomina, e l’assegno di otros cien
ducados =. Meschino soldo anche questo. Comunque, aggiunto a
quello che V. percepiva da 38 anni, lo raddoppiava. Né qui si arrestarono
le premure di Celestino Galiani. Il 26 luglio, cioè dopo quattro giorni
che V. ebbe notizia del raddoppiamento del suo soldo, fu nominata
una commissione, già sollecitata dal Galiani stesso, incaricata di
proporre le riforme possibili per un migliore assetto dell'organico dell’
Università. La commissione, a capo della quale fu il Galiani,
si riunì alla presenza del segretario di Stato, marchese di
Montealegre, e del Tanucci; e il 9 ottobre 1735 presentò la sua
Relazione per la riforma dell’ Università. In essa, la cattedra del V.
non era dimenticata: Dell’ Eloquenza
latina col soldo di ducati 100. Si esercita dal dottor Giambattista V.,
Istoriografo della M. V.; secondo la nuova pianta, avrà di dote ducati
200 ». Il 2 novembre successivo, il re approvava questa parte delle
proposte; la quale era stata particolarmente raccomandata da
Bernardo Tanucci, nel suo parere sui lavori della commis I Questo doc.,
da una copia esistente nella biblioteca della Società nap. di storia
patria, è stato pubblicato da M. ScHIPA, Carlo di Borbone,739-40; e dal Croce,
Bibliogr., p. 85-6. è Pubblicata la prima volta dal VILLAROSA,
nelle sue aggiunte alla Vita del V., Opuscoli, I, 163: quindi ristampata
in tutte le edizioni della Vita. sione del 17 ottobre *. Il
Tanucci anzi avrebbe voluto che, in riguardo della persona por el merito, por la necesidad y
honrra de istorico R.° que tiene Juan B.à de V...... a lo menos se le
deviesen asignar otros cientos » ?. Non si volle confuso il valore della
cattedra con quello del cattedratico ! Ad ogni modo, erano altri 100
ducati: non aveva mai sperato tanto V. dalla sua misera cattedra
quadriennale. Ma don Giambattista non reggeva più alla fatica dell’
insegnamento. Gennaro, non saprei dire se dottorato in legge, frequentava
la Vicaria, e cercava anche lui di fare un po’ di quattrini, come
avvocato. E il padre, che gli aveva insegnato con tanta cura il latino, e
fatto leggere gli scrittori, cominciò anche a farsi aiutare da lui;
dapprima, forse, nel solo insegnamento privato. Giacché, com’ ho
accennato, V. aveva sempre tenuto in casa una scuola di eloquenza e
lettere latine 3, frequentata dai figli dei più scelti gentiluomini
della Capitale ». E uno scolaro del V. ci dice che egli in casa
abbassavasi fino a spiegar Plauto, Terenzio e Tacito. Conservava
nondimeno in questa stessa sua umiliazione tutta la grandezza del proprio
carattere. Erano da lui, come di passaggio, avvertiti i mezzi della
lingua, le or gini e proprietà delle voci, la bellezza e signoria delle
espressioni. Ma, nell’affacciarsi alla sua mente le immagini delle nostre
passioni, a miracolo dipinte in Plauto e Terenzio, I Vedi detta
Relazione, £.0 196: Arch. Sta. Nap., Scritture diverse della cappellania
maggiore, vol. 34. Di questa relazione e dell'esito che ebbe, rese conto
sommario il prof. F. AMoDbEO, Le riforme universitarie di Carlo III e
Ferd. IV Borbone, negli Atti dell’Acc. Pont., serie 22, vol. VII, 1902,Ir
sgg. 2 Al soldo della cattedra si riferisce infatti l'estratto di
questa relaz. del Tanucci, copiato, a quel che pare, da F. Daniele e
pubbl. dallo ScHIPA, Carlo di Borbone, p. 740, n. 3 e dal CROCE, Bibl.,
p. 86. I doscientos ducados », che
sembravan focos al Tanucci, erano proprio quelli proposti per la cattedra di
eloquenza. VILLAROSA, nelle sue Aggiunte alla Vita del V..
penetrando egli ne’ più segreti recessi del nostro cuore, intrattenevasi
lungamente a scoprire le sorgenti delle umane azioni: e quindi, scorrendo
di dovere in dovere, secondo le varie relazioni che noi abbiamo con Dio,
con noi medesimi e cogli altri uomini, passava a descrivere le
prime linee della moral filosofia e del diritto universal delle genti,
condotte poscia a maggior lume e dimostrate in pratica sulle acutissime
riflessioni di Tacito » !. In questa scuola privata, Gennaro
dovette fare le sue prime prove d’insegnante, sotto la guida del padre.
Ma le condizioni di questo s’aggravavano sempre più; e già non si
sentiva la forza di trascinarsi fino all’università, per le sue lezioni
ordinarie. Il 1° settembre 1736, un suo entusiasta
ammiratore, professore di metafisica a Padova, il domenicano Nicola
Concina, per notizie avute allora da Napoli (forse da suo fratello
Daniele, amico anch'egli del V. ?), e per quello che doveva avergli detto
di sé V. stesso, gli scriveva:
Ella si faccia coraggio, e si governi; ed io non mancherò di
pregare il Signore che la conservi, e l’invigorisca per suo, e mio, e
comune vantaggio del mondo letterato. Mi riverisca quel suo figliuolo,
che intendo di essere di una grande espettazione, per cui sento un
ardentissimo amore, e gli bramo ogni miglior fortuna » 3. E V. gli
rispondeva, il 16 dello stesso mese: La
lode del profitto, che Gennaro mio figliuolo, che umilmente vi inchina,
fa negli I SOLLA, Vita di G. B. V., in Giorn. arc., 1830, t.
XLVIII, p. 95. Per questa scuola privata devono essere state scritte le
Ammnotazioni sopra gli Annali di C. Tacito, pubblicate nel 1840,
nell’ediz. Jovene delle Opere, IV, 409-418. Ad essa devono anche appartenere
la maggior parte dei mss. vichiani posseduti dal sig. Raffaele
Mottola, sui quali v. la Rassegna critica d. lett. it, del prof. Pércopo,
II, 95; e NICOLINI, Sec. supplem.,42, 85-93. 2 Cfr. il brano
di lett. di Nicola a Daniele, pubbl. da B. CROCE, Bibl., 107-8; e ora in
Opere, V, 218-3. 3 In VILLAROSA, II, 274, e nelle raccolte
posteriori. studi migliori, la qual scrive esserle con piacere
giunta all’orecchia, e l’amore che gentilmente perciò gli portate,
gli sono forti stimoli a più vigorosamente correre la strada della virtù
» !. Questa voce giunta fino a Venezia, dove, in quei mesi,
trovavasi il Concina, doveva esser nata dall’approvazione generalmente
incontrata da Gennaro quell’anno, per aver cominciato a sostituire
felicemente il padre nella cattedra di rettorica, con gran compiacimento
di quanti stimavano e amavano V., e gli desideravano pace all’età
stanca. Gennaro, quell’anno, cominciò infatti il suo insegnamento
universitario, come sostituto del padre; e divenne poi il titolare della
cattedra, che conservò, vedremo, fino al 1805. Ma ecco come, in una
supplica indirizzata a Ferdinando IV, al principio del 1797, lo stesso Gennaro
ricordava da vecchio l’ inizio del suo insegnamento. Nelle sue parole
trema ancora la commozione che il giovane provò, nel ’36, a prendere il
posto del padre e maestro venerato: S. R. M.
Signore, Gennaro V., pubblico professor di rettorica nella
Vostra Regia Università de’ studj di Napoli, prostrato a’ piedi del
Vostro Real Trono, umilmente l’espone, come finora ha avuta la gloria
d’aver servito la M. V. ben sessant’anni, lungo corso della vita d’un
uomo, che è quanto dire fin da che la M. V. era nel seno dell’ Eternità;
onde ora è il Decano dell’ Università. Poiché Gio. Battista V., suo
padre, mancando di giorno in giorno per le sofferte lunghe fatighe del
tavolino, tarlo potentissimo a rodere insensibilmente la salute del
corpo; al che si aggiungeva, che a misura che le forze del corpo gli s’
indebolivano, del pari l'abbandonava il vigor della mente, logorata dalle
continue profonde meditazioni, il supplicante, mal soffrendo di vederlo
con tanto stento trascinarsi per andar a far lezione, d’ inverno,
in I In VILLAROSA, II, 210, e nelle raccolte posteriori.
tanta distanza, gliene dimezzò la fatiga con incaricarsi prima
della dettatura, perché, quando poteva, venisse Egli a farne la spiega.
Un giorno, mentre dettava, vennegli talento, per liberarnelo intieramente, di
avventurarne anche la spiegazione; Dio sa con qual ribrezzo e
palpitazione; e Dio gliela benedisse. Bastogli questo primo cimento, che
gli era stato il più difficile e pericoloso, che tornato in casa disse a
suo padre, che avesse pensato solamente a tirar avanti la sua vita, e a
non più imbarazzarsi della lezione; narrandogli il tentativo fatto, e
quanto gli era riuscito felice. Andò a darne parte a Monsignor
Galiani, allora Cappellano Maggiore, il quale dimostronne sommo
piacere, e d'allora cominciò, forse per ciò che disegnava, a non far
passar quasi settimana che non venisse a sentirlo per la spiega in
latino, com’ è costume: e per maggiormente esporlo, gli diede l’
incarico di far l’Orazione per l’apertura de’ studj. Finalmente,
dopo d’aver servito per quattro anni da sostituto di suo padre, ne
umiliò supplica all’Augustissimo Vostro Genitore di gloriosissima
memoria, ed ottenne dalla di Lui Real Clemenza, in virtù di
favorevolissima consulta del Cappellano Maggiore, la Cattedra in
proprietà nell’anno 1740; la quale di padre in figlio già n’ è scorso un
secolo, che per Sovrana Munificenza gode sua casa, avendola detto suo
padre ottenuta nel 1696 !. Lasciando passare quest’ultima data,
che, in una supplica di poco posteriore, lo stesso Gennaro corregge in
1697 (e avrebbe dovuto correggere in 1699), per l’esattezza storica
bisogna avvertire due /afsus memoriae, ne’ quali incorre il più che
ottuagenario V. secondo; uno, che la Orazione per l'apertura degli studi,
la sua prima Orazione, fu letta da lui non prima, ma nello stesso anno in
cui ebbe la cattedra in proprietà; e l’altro, che la cattedra ei non l’ebbe nel
1740, ma nel gennaio 1741. Ne abbiamo i documenti. Vista la
buona prova fatta per quattro anni da Gennaro, e preoccupandosi dello
stato di Giambattista, l'ottimo = .rr__ I Arch. Sta.
Napoli, Espedienti di Consiglio, fascio 837, I, 12 dicembre 1797. Questo non’ è
se non un brano, da principio, della istanza, il cui séguito darò innanzi.]
Galiani volle, al principio dell’anno accademico 17401741, regolare e
assicurare la condizione del primo nell’ Università. Dové esortare il vecchio
filosofo a presentare al sovrano la seguente supplica, che ci rimane,
autografa, nell’incartamento del relativo espediente di Consiglio:
e che io pubblico per la prima volta. È il pietoso testamento del V.,
che chiede di lasciare al figliuolo quella cattedra, che, bene o male,
era servita a sostertare la sua famiglia. S. R. M.
Signore, Gio. Battista V., Historiografo regio, e Professor d’
Eloquenza ne’ Regj studj, prostrato a’ piedi della M. V., umilmente
supplicandola, l’espone come esso da quaranta e più anni ha servito e
serve in questa regia Università nella cattedra di Rettorica, col tenue soldo
di cento ducati annui!, co’quali miseramente ha dovuto sostentar sé, e la sua povera
famiglia; e perché ora è giunto in un’età assai avanzata, ed è aggravato,
e quasi oppresso da tutti que’ mali, che gli anni, e le continue
fatighe sofferte soglion seco portare; e sopra tutto è stretto dalle
angustie domestiche, e dalli strapazzi dell’avversa fortuna, da’
quali sempre, ed ora più che mai, troppo crudelmente viene
malmenato; quali mali del corpo, accompagnati ed uniti ai più potenti,
quali sono quelli dell’animo, l’ hanno reso in uno stato affatto
inabile per la vita, non potendo più trascinare il corpo già stanco, e
quasi cadente; di maniera che miseramente vive quasi inchiodato in
un letto: per la qual cosa si è venuto nella necessità di sostituire in
suo luogo interinamente nella Cattedra della Rettorica un suo figliuolo,
per nome Gennaro, il quale da più anni s’ ha indossato il peso di questa
carica, ed in essa se ne disimpegna con qualche soddisfazione del
pubblico, e della gioventù; del che ne può essere bastante pruova il
mantenersi l’ istessa udienza, e l’ istesso concorso di giovani, che esso
supplicante soleva avere; e perché esso già si vede in età cadente, e
dall’angustie presenti nelle quali esso ed i suoi vivono, ne considera e
prevede le mag cm. I V.
qui ricorda lo stipendio goduto per 38 dei suoi 43 ann di servizio.
giori, nelle quali la sua povera famiglia dovrà cadere cessando
esso di vivere: laonde supplica umilmente la Vostra Real Clemenza a volersi
degnare con suo real ordine di conferire la futura sostituzione
proprietaria della mentovata Cattedra di Rettorica in persona di detto
suo figliuolo, acciocché la sua famiglia, dopo la sua mancanza, possa
almeno avere un qualche ricovero, donde in qualche maniera tener da sé
lontana una brutta e vergognosa povertà, nella quale certamente andrà a
cadere; e lo riceverà dalla Vostra Real Munificenza a grazia ut Deus
4. Dal 1737 ministro dell’ecclesiastico era quel Gaetano Maria
Brancone, persona dottissima, al dire dei contemporanei 2, che già abbiamo
incontrato in relazioni letterarie col V.. Il quale, nel 1735, nella raccolta
per le nozze di don Raimondo de Sangro, principe di Sansevero, con
donna Carlotta Gaetani di Laurenzana, indirizzò a lui un sonetto, in cui
malinconicamente gli diceva: Né corone, né ostro, o gemme ed
auro Giamai mi ponno, o mio Brancon gentile, Rimenare il mio già
caduto aprile; Né qual serpe di nuovo al sol m’ innauro;
Da la tremante man cade lo stile, E de’ pensier si è chiuso
il mio tesauro 3. Il Brancone conosceva, dunque da vicino lo stato
del V.. E appena avuta la supplica. si affrettò a trasmetterla, per la
consulta, al Galiani con questo decreto 4: Ill.mo Signore,
Haviendo recurrido al Rey con el memorial incluso Juan Bap.ta de V.
haciendo instancia que en remuneracién de sus I Arch. Sta. Napoli.
R. segreteria dell’ecclesiastico. Espedienti di Consiglio, gennaio 1741,
fascio 42: Cautelas de la semana de 8 por todo los 14 de Enero de
1741. ? ScHIPA, Carlo di Borbone, p. 360. 3 Opere, V,
326. 4 Dispacci dell’ Ecclesiastico.] largos y sefialados servicios
se digne conferir 4 Genaro su hijo la Cathedra de Rectoria (sic) que està
exerciendo con la aprobaci6n que es notoria por la indisposiciòén del
suplicante, me ha ordenado S. M. remitirlo à Usted para que informe con
lo que se le ofreciere y pareciere; D. G. Nap. a 31 de dic.re 1740.
G. M. B. Galiani
intanto era dovuto tornare a Roma per le trattative del Concordato, che
indi a poco si conchiuse. Ma, dopo soli sei giorni dal decreto del
Brancone, scriveva e spediva la seguente consulta, nobilissima per le
cose che dice, e pel modo: S. R. M. Si è
servita V. M. con lettera della Segreteria di Stato per gli affari
ecclesiastici dei 31 del caduto mese rimettermi un memoriale di Giambattista di
V., regio istoriografo, e professor d’eloquenza ne’ regj studj: nel quale, dopo
aver esposto il suo lungo servizio renduto a’ regj studj per lo spazio di
quaranta anni coll’annuo soldo di soli cento ducati, fin a tanto che la
sovrana clemenza di V. M. gliel'accrebbe fino a dugento; e le
angustie della sua povera famiglia, ch’egli prevede assai maggiori
colla sua morte non molto lontana, attesa la sua età troppo
avanzata, e le malattie del corpo, che soffrisce; supplica la M. V. che
con suo regal chirografo voglia degnarsi conferire in proprietà a
Gennaro suo figliuolo la cattedra d’eloquenza, che egli, facendo le veci
d’esso supplicante, esercita da qualche anno a questa parte. . Non vi è
dubbio, S. M., che il supplicante Giambattista di V. è benemerito della
Regia Università degli Studj, alla quale egli colle sue dotte fatiche ha
fatto molto onore; e perciò richiede la pubblica gratitudine, che gli si
abbia qualche riguardo. Il suddetto suo figliuolo Gennaro è giovine d’abilità,
e nell’esercizio della detta cattedra incontra certamente tutto
l'applauso. Solo mi dà fastidio, ch’egli nell’ istesso tempo pensi
applicarsi al foro, perché il dover frequentare la Vicaria, che richiede
certamente tutto l’uomo, e fare il professore in una cattedra
d’eloquenza, che richiede profondo studio degli autori greci e latini de’
migliori tempi; sono due mestieri, che insieme non possono star bene, e
per necessità conviene trapazzare o l’uno o l’altro, o pure
cn mt = ur € ev _ pr ne amendue. Quindi sarei di
parere, quando non sembri altrimenti al purgatissimo giudizio della M.
V., che potesse il supplicante Tendersi consolato, ogni qualunque volta
però si fusse certo, che il suo figliuolo, lasciate da parte le
occupazioni forensi, fusse Per voltar tutto l’animo suo agli studj di
eloquenza, ed a quei, Che sono necessarj per riuscir eccellente in tal
non facile e stimatissima professione. Che è quanto su di ciò ho
stimato dover sottoporre alla sovrana comprensione della M. V. La Sagra
Regal Persona il Sig.r Iddio sempre più prosperìi e conservi.
Roma, 6 gennaio 1741. Umilissimo Vassallo e
Cappellano C. Galliano Arciv.o di Tessalonica 1. Non era
giunta da Roma questa consulta, che il Brancone portò, il 12 gennaio, la
supplica del V. col parere del Galiani in Consiglio di Stato. E, in quel
giorno, sollecitò da Carlo il seguente decreto, che si legge a fianco
della relazione della segreteria di Stato al re =: A 12 gennaio
1741. Nel Consiglio di Stato:
Essendo il supplicante benemerito della R. Università degli Studj,
alla quale egli colle sue dotte fatiche ha fatto molto onore, ed essendo
il suo figliuolo Gennaro giovine di abilità, e nell’esercizio della suddetta
Cattedra avendo incontrato tutto l'applauso, S. M. si è degnato conferire
in proprietà a Gennaro la suddetta Cattedra di Eloquenza, la quale egli
ha esercitata facendo le veci di suo Padre da qualche anno a questa
parte. Si vede che 11 Brancone non credette necessario
assicurarsi, prima, che Gennaro averebbe abbandonato il foro. E, quel
giorno stesso, poteva far riporre tutto l’incartamento I Nell’
incartamento cit. degli Espedienti di Consiglio: Cautelas de semana 8-14,
I, 1741. La minuta di questa consulta è nel vol. 4° delle Relazioni del
Cappellano maggiore, dal 6 gennaio al 26 maggio I74I (mandate da Roma
alla corte di Napoli). 2 Vedi questa relazione in Appendice I.] con
la nota apposta sotto il decreto ora riferito: ex.do en dicho dia a la
sec.ria de Hazienda y al M. Capellan M vy. Infatti recano la stessa
data, del 12 gennaio, i due seguenti dispacci del Brancone al segretario
dell'azienda Giovanni Brancaccio, e all’obispo de Puzol, cioè a
Nicola de Rosa, vescovo di Pozzuoli e cappellano maggiore interino,
nell’assenza del Galiani. A Brancaccio, Decreto:
Precedente suplica que ha hecho al Rey don Juan Bap.ta de V.
Historiografo Regio para que se confiera 4 su hijo Don Genaro la Cathedra de
Eloquencia en la Universidad de Estudios que posee y presentemente la
està exerciendo el mismo, respecto 4 que por le edad muy adelantada en
que se halla, y por los muchos achaques que le han sobrevenido, no puede
continuar 4 desempefiarla, como por lo pasado, ha venido S. M. en
atenci6n 4 ser el suplicante benemerito de la Universidad de los
Estudios, 4 la qual con sus doctas obras ha hecho honor, y par
consiguiente es capaz de publica gratitud, y assimismo et que su hijo
Genaro es de mucha habilidad como lo ha manifestado de algunos
afios 4 esta parte en el exercicio de la mencionada Cathedra
supliendo las veces de su Padre, en conferir en propiedad por gracia
especial al dicho D. Genaro de V. la citada Cathedra de Eloquencia,
con el sueldo que 4 la misma està sefialado, en remuneraci6n de las
circunstancias expresadas. Y de Real orden lo prevengo 4 Usted por que
por la Secretaria 4 su cargo se dé lo conveniente 4 la Contadoria
principal, por que execute el asiento y libramento de dicha cathedra y sueldo,
4 favor del citado Genaro de V., y que se la satisfaxa, como y quando et los
demés cathedràticos. D. G. Pal. à 12 de
Enero 1741. G. M. B.!. Al Obispo de Puzol: Ill.mo
Sig. Atendiendo el Rey 4 la supplica que le ha hecho D.n Juan
Bap.ta de V. Historiografo Regio, y Cathedratico de la Eloquencia
1 Dispacci dell’ Ecclesiastico, vol. 36 (novembre 1740-gennaio
1741), carte 131-132 £. VI. IL FIGLIO DI G. B. V. 227
en la Universidad de los Estudios, paraque en resguardo à la edad
adelantada que tiene, y a los muchos achaques que le han Sobrevenido, y
le impiden de poder continuar 4 esercer la dicha cathedra, como lo ha
executado por lo passado con mucho beNeficio de la misma Universidad y de los
Estudiantes, se dignase Conferirla a D.n Genaro su hijo, que la està
presentemente desempefiando con publica satisfaciòn; i teniendo su Mag.d al
mismo tiempo consideracibn 4 que el suplicante es benemerito de la
Universidad de los Estudios, 4 la qual con sus doctas obras ha hecho
mucho honor, por lo que es capaz de una publica gratitud, y assimismo et que
su hijo Don Genaro es de mucha havilidad, como lo ha manifestado de
algunos afios à esta parte en el exercicio de la mencionada Cathedra, supliendo
las vezes de su Padre, se ha dignado por gracia especial conferir en
propiedad al referido D.n Genaro de V. la enunciada cathedra de
Eloquencia, con el sueldo que està sefialado 4 la misma en remuneracién
de las circunstancias expressadas; i de orden de su Mag.d lo
prevengo a Usted, 4 fin que en esta inteligencia disponga su
complimiento, pues ya se ha dado lo conveniente 4 la contaduria principal
para el asiento de la Cathedra y libramento del sueldo. Dios
guarde. Palo 4 12 de Enero 1741 Ill.mo Sig.r Don Gaetano M.a Brancone
!. Questi documenti
rettificano le inesattezze in cui incorse il Villarosa, nel suo racconto di
questo passaggio della cattedra dal V. padre al V. figlio; dove
attribuisce al proprio congiunto Nicola de Rosa ? il merito di
quest’ultimo omaggio reso dallo Stato di Napoli alla gloriosa vecchiezza di G.
B. V.. Dev’essere poi del Brancaccio questo altro dispaccio,
di cui ho trovato copia a capo dei pagamenti del soldo di ducati 200, per
rate quadrimestrali, a Gennaro V. dal 1752 in poi, in un Ordinario della
Scrivania di razione: 1 Dispacci dell’ Ecclesiastico, vol. cit.,
cc. 128 b-129 bd. 2 Nelle Aggiunte alla vita del V., Opusc., I, 164
(ora Opere, V, 81) e nella Prefaz. allo stesso vol. p. xv. Secondo il
VILLAROSA, il vescovo di Pozzuoli avrebbe riferito al re sull’ istanza
del V. padre. Su
Magestad con Real orden 4 12 de Henero de 1741, compa- decido de los
muchos achaques y aîios que tiene Don Juan Bap.ta de V. Historiografo
Regio, por cuyos motivos suplicé a su Real piedad se dignase conferir à
Don Genaro de V. su hijo la citada cathedra de la Universidad de los
estudios que sirve de algunos afios 4 esta parte por sus indisposiciones,
vino en conceder por gracia especial la mencionada Cathedra 4 Don Genaro
de V., en atencion 4 su abilidad, y al mucho honor y credito con
que la desempena y a los particulares meritos de su Padre y mandé
se le considerasse y pagasse el sueldo que le correspondia desde el mismo
dia 12 de Henero de 1741, en adelante al mismo tiempo que 4 los demas
cathedraticos. Nell’ Ordinario segue la nota: cuya gracia fué
con- firmada con otra Real Orden de S.M. de 18 de sept.re de 1745
*; cioè, dopo la morte del padre, e in perpetuo. Quando si diffuse la notizia, nel
gennaio 1741, fu anch'essa
applauditissima » per Napoli. Francesco Serao scrisse al venerando
filosofo, congratulandosi vivamente che fosse toccato a un napoletano la
lode di aver promosso sì nobile e liberale provvedimento, qual era la
promozione di Gennaro iuvenis doctrinae probitatisque laude
florentis- simi: e pensava che fosse dovuta al Vescovo di Pozzuoli
o al Brancaccio, o ad entrambi. Ego,
soggiungeva, qui unus e multis, sed minime vulgari aut tralaticio animo,
familiae tuae decora atque commoda prosequor, nullum finem faciam plausu
ac praedicatione tam illustre facinus concelebrandi : tum animus est
collegas lectissimos exci- tandi, ut de gratiarum actione, tamquam pro
publico 1 Scrivania di vazione. Ordinario I: Lettori pubblici
1754-1805, vol. 32, c. 23. In questa carta e nella successiva sono
segnati tutti i pagamenti fatti a Gennaro V. dal 1° dic. 1752 al 5 aprile
1783. A c. 134, ricomincia la nota dei pagamenti al medesimo dal 6
giugno 1783 al 2 giugno 1797. A pie’ del doc. riferito nel testo, è
avvertito che il real ordine del 1741 acompafia el Pliego de la fué
Contadoria Principal del mismo (G. V.); e la conferma del 1745 acompaòia
el Pliego de D.n Blas Troise, ossia il Dispaccio del 18 settembre
1745 firmato dal Brancone, che ricorderò più innanzi.] ‘ngentique
beneficio, ad supremos aulae proceres habenda, cogutent. Nihil profecto
aequius ; nihil universae scholae honorificentius fortasse et fructuosius
fuerit » 3. Tra le carte di Gennaro si trova anche l’orazione
che egli lesse nell’occasione dell'apertura degli studi, il primo
anno che ebbe da titolare la cattedra che era stata del padre. Trattò
questo tema: Sola efficax voluntas littera- rum studiosam iuventutem
perquam doctissimam efficere dotest. Giova qui riferirne l’esordio: Cum
ego die multumque mecum animo volutassem quam difficile sit ex hoc loco
ad dicendum amplissimo verba facere, in quem nihil nisi ingenio
elaboratum et industria perfectum et perpolitum adferri oportere
comperio; dicendum est enim in hoc tam frequenti consessu tot doctissimis
Antecessoribus, am- plissimis patribus, lectissimisgue Auditoribus
referto et constipato, magis magisque huius diei subeundum periculum
animus de- spondebat, cum me et dicendi rudem et rerum omnium impe-
ritum ac pene hospitem, et meas infirmas vires huic tanto oneri, quod
suscipiendum aggredior, omnino impares reputarem; nam cum id diu
usquequaque versassem, humeros meos prorsus per- ferre non posse
intelligebam: ad haec et summus timor, pudorque meus et vestra dignitas
me quoque ab incoepto deterrebat. His tot tantisque difficultatibus
jactato, quae me ab hoc optatissimo laudis aditu prohibebant, occurrebat
pietatis erga optime de me meritum patrem officium; quum eum conspicerem
senio malisque pene absumptum, curis confectum, et adversa fortuna
usque vexatum et nunc quam maxime saeviente, corpus vix ac ne vix
quidem trahere, aequum esse duxi me labentem iam aetatem ejus aliqua ex
parte substentare; atque ita quodammodo in animum induxi meum ejus vices,
quamquam deterrima comparatione, explere; etenim erga patrem officium
praetendendo, me facile temeritatis vitium effugere posse, eaque pietatis
professione, si non aliqua laude, at certe excusatione dignum fore
arbitratus sum. Cum tandem aliquando me recreavit refecitque
Munificentissimi et Sapientissimi Regis nostri consilium, quo me in
ordinarium 1 Lett. pubbl. da B. Croce, nella Bib/., p. 109; e poi
in Opere, V, 256-7. Antecessorum numero referri placuit 1;
cum enim me hoc tanto tamque praeclaro munere, nullo ingenii mei periculo
facto, di- gnum et parem censuisset, ejus sacratissimam mentem, qua
hoc pene immensum civile corpus informat et inspirat, et cuncta
ratione et consilio recte atque ordine regit et moderatur, plus vidisse,
et meas ingenii vires, quas ego in me non sentirem melius perlustrasse et
penitius introspexisse putavi; quapropter auctus animo, Augustissimi
Principis praesertim judicio, quod mihi maximum adversus obtrectatores
propugnaculum esse poterit, hoc mihi impositum onus alacri animo
suscipiendum potius, quam deponendum censui. Il manoscritto
fu riveduto dal padre, che segnò qua e là, in margine, qualche parola da
aggiungere. Così, a un certo punto, Gennaro diceva: Nulla animi affectio homi- nis tam
propria, quam curiositas, quae mihil aliud est, quam veri quaedam
investigandi cupiditas, qua cuncti rerum caussas rimando veram rerum
scientiam prosequun- tur ». E il padre aggiungeva al margine un fiore
poetico: unde, Felix qui potuit rerum cognoscere caussas ! ».
E già, col consiglio del padre e sulle orme di consimili orazioni
di lui, Gennaro aveva dovuto scrivere questa sua. Si scoprono, in fatti,
in più luoghi i soliti pensieri, i soliti movimenti oratorii di Giambattista.
Gennaro dice ai giovani: Ne
desides et inertes supina vota concipiatis, ut vobis in sinu de coleo
decidat sapientia .... Neve imperitum hominum vulgus imitemini, qui ventri et
somno dediti, et rei familiari solum intenti, id tantum ab hac
publica sapientia mutuari oportere arbitrantur, quantum rebus bene în
vita gerendis sufficere possit ». E il padre, I Queste parole non
potevano essere scritte prima del 12 gennaio 1741. Ma l’ Orazione doveva già
essere preparata dalla metà di dicembre, perché in un angolo dell’ultima
pagina (che fa da copertina al ms.), si legge, della mano stessa di
Gennaro, una fede di studi in data
Neap. Il che significa che il Brancone e il Galiani avevano già
assicurato l'esito della supplica al V..] nella solenne Orazione De mente
heroica aveva detto, con ispirazione bensì molto più alta: Ne supina vota concipiatis, ut
dormientibus vobis in sinum de coelo cadat sapientia, eius efficaci
desiderio commoveamini, improbo, invictoque labore facite vestri
pericula, quid possitis .... vestras mentes excutite; et incalescite Deo,
quo Dleni estis ». Gennaro, dunque, consolò gli anni estremi
del padre, che morì il 23! gennaio 1744. Ma Gennaro solo nel
1789 ? poté fargli murare nella chiesa dei Gerolamini, in cui era stato
seppellito, una modesta lapide, che rammenta con quello del padre
il nome della madre coniuge
lectissima. Buon figliuolo ! 1 Per la data del giorno v. Croce, in
V., Opere, V, 124. 2 Non 1799, come dice, credo erroneamente, A.
RANIERI, Scritti vari, Napoli, Morano, 1879, I, 144; cfr. VIiLLAROSA,
Aggiunte, in Opusc., I, 167-8. Tra le lettere di P. Napoli-Signorelli
pubblicate da C. G. MININNI nel suo vol. P. N.-S., vita, opere, tempi,
amici, con lett. e docc., Città di Castello, Lapi, 1914, ce n’è una (p.
456) ad Agostino Gervasio, al quale il N.-S. invia due iscrizioni di Gennaro V. per suo Padre
» che aveva trovate tra le proprie carte. LA CARRIERA
ACCADEMICA DI GENNARO V. Il padre morì, come è pur noto, nella casa sui
Gradini a Santi Apostoli. E qui ancora abitava Gennaro nel 1768 1.
Qui continuò egli la quieta vita del padre, tra l’università, gli studi,
la conversazione dei signori e dei dotti. Gennaro non si elevò mai alle
speculazioni di Giambattista, ma seguì l’indirizzo umanistico e rettorico
degli studi paterni. Continuò, insomma, la men difficile tradizione domestica.
Non scrisse versi; ma compose più epigrafi del padre e studiò con pari
amore le più leggiadre eleganze della lingua latina. Dev’essere stato un
ottimo insegnante della sua materia; e le idee didattiche accennate nelle
sue Orazioni inaugurali, che ci sono giunte, confermano tale
giudizio. Ebbe anche dottrina classica e acume non volgari: ma fu
modestissimo, e il suo titolo maggiore restò sempre quello di essere
figliuolo di Gian Battista V.. Né egli avrebbe ambito di più, conscio,
benché confusamente, della paterna grandezza. Nel 1756, lesse
per l'apertura degli studi un’ Orazione sul tema: Dissidium linguae ab
animo factum praecipuum corruptae eloquentiae causam fuisse. E, sul
principio di questa, accenna a un’altra Orazione, letta fere multis
abhinc annis, nella quale aveva indagato quidnam esset, quod plures
omnibus in artibus, quam in dicendo admairabiles extitissent. Ma questa non si
trova tra le sue carte. Una quarta volta, a nostra notizia, gli
spettò di leggere l’ Orazione inaugurale, e fu al principio dell’anno
I In una copia d’una Orazione per le nozze di Ferdinando IV (1768)
trovo segnato l’ indirizzo di Gennaro così:
A S. Apostolo il Signor D. Gennaro V.. Attaccato alla porteria ».
scolastico 1774, il 13 novembre; e trattò un tema molto affine a quello
della prima Orazione: Optima studendi ratio ab ipso studio petenda. Ma,
qualche anno prima, il 5 novembre 1768, ebbe a parlare in occasione più
solenne alla gioventù studiosa: In regiis Ferdinandi IV Neap. ac Sicil.
Regis et Mariae Carolinae Austriae nupius. E queste due Orazioni die’
alle stampe in un nitido volumetto nel 1775, amicis summo opere adnitentibus,
siccome attesta, nel suo parere, il revisore civile 1, E veramente
in quelle occasioni il buon Gennaro sì fece onore. Lo stesso revisore
ricorda che le due Orazioni erano state lette tota ltteratorum plaudente
cavea ; e, per conto suo, era un
professore di teologia, ne giudicava
così: In e:s tantum nitoris ac
dignitatis, totque Latialis eloquir veneres ubique emicant, ut cas
numquam satis laudare quiverim, mihi si linguae centum sint, oraque
centum. Sane parentem ejus doctissimum, Jo. Baptistam Vicum, immortalis
memoriae virum, latine loquentem audire jam videor. Adeo verum plerumque
illud est : Fortes creantur
fortibus et bonis » 2. Il Decreto reale, già ricordato, del 18
settembre 1745, aveva stabilito la dotazione fissa di ciascuna
cattedra, lasciando quella di eloquenza latina con 200 ducati 3.
I L'opuscolo ha questo frontespizio: In regiis Ferdinandi IV.
Neap. ac Sicil. regis et Mariae Carolinae Austriae oratio a JANUARIO V.
Regio Eloquentiae Professore, ad studiosam Juventutem in R.
Neapolitana Academia solemniter habita Non. Ma l’ Orazione per le
regie nozze va da p. WI a p. LI; e da p. LI a p. LXXXII segue l’ Optima
studendi ratio ab ipso studio petenda, ad studiosam juventutem habita. La
data di pubblicazione risulta dall'ordine dell’ imprimatur (p. LxxxIv),
in data 29 settembre 1775. i 2 Il parere di questo revisore,
p. Felice Cappiello, reca la data del 30 agosto 1775. 3 Vedi
il Dispaccio del Brancone nel Cod. delle leggi del Regno di Napoli di AL.
DE SaRIS, Napoli, 1796, lib. X, tit. IV,41-42. Ma Ma, nel 1777, il
marchese della Sambuca elevò la dotazione complessiva dell’ Università da
‘7000, qual’era rimasta fin dal ’45, a duc. 12613,99. Si accrebbero
quindi gli stipendi dei professori. E della cattedra di Gennaro,
chiamata ora di Rettorica e poetica, nel nuovo piano che 11 marchese
della Sambuca comunicò al ministro dell’ecclesiastico con dispaccio del 26
settembre 1777 !, è detto: Questa Cattedra nella Università gode ora
ducati 200, insegnando sette mesi dell’anno la sola Rettorica. Si
accresce fino a ducati 300, con l'obbligo però d’insegnare per tutto
l’anno, a riserva del mese di ottobre, anche la Poetica » =. Fu duro a
Gennaro V., passati i 62 anni, restare a insegnare tutta l’estate,
rinunziando per quell'aumento di soldo, a tre mesi di vacanza 3! Ce lo
farà dire egli stesso, tra poco, in una relazione del Cappellano
maggiore su certa sua istanza al re, che riporteremo più innanzi. Ma ad
alleggerirgli il peso, nel giugno successivo (1778), quando appunto, negli anni
precedenti, soleva smettere le sue lezioni, venne a incorarlo un altro
segno della regia benevolenza. È noto il dispaccio del
marchese della Sambuca del 22 giugno 1778 4, per cui fu creata la RR.
Accademia delle il testo originale di esso è tra i Dispacci del
GATTA, parte II, t. III, 449-55. Vi sono stabiliti tutti gli stipendi dei
singoli insegnanti, a cominciare da quello di Biagio Troisi di duc. 800. Ivi a p.
454: Eloquencia latina que se lee por le
Dotor Don Gennaro V., dos cientos ducados ». I Vedilo in DE SARIIs, lib. X, tit.
IV,51-3. Cfr. anche AMoDEO (Rif. universitarie,25, 55) il quale ignora
che questi docc. erano stati pubblicati dal De Sariis, fin dal
1796. 2 Il DE SARIS, ha per isbaglio: Pratica. 3 Fino
al 1777 il Calendario di Corte chiama la cattedra di G. V.: Rettorica. In
quello del 1777 (p. 68) si comincia a dire: Rettorica e poetica. Non è
esatto quel che dice sul proposito l’AMODEO, Riforme,24-5 4 Ristampato dal
Minieri Riccio, Cenno stor. delle Acc. fiorite nella città di Napoli, in
Arch. stor. nap., V (1880), 586-7; ma già pubblicato dal DE SARIIS, lib. X,
tit. VI, p. 55 e insieme cogli Statut dell'Accademia nel t. XIII della
Nuova Collez. delle Prammatiche del Regno di Napoli del GiusTINIANI
(Napoli, Stamp. Simoniana, 1805), scienze e belle lettere. L’
Accademia veniva compartita in quattro classi: due per le scienze,
Matematica e Fisica, e due per le lettere: Storia ed erudizione antica e
Storia ed erudizione dei mezzi tempi. Si nominava il presidente, il
vice-presidente e un segretario per ciascuno dei due rami dell’
Accademia; infine, quattro accademici pensionari ( coll’assegnamento ad
ognuno di essi di annui ducati sessanta »), uno per classe: per la Storia ed erudizione antica, don
Gennaro V. ». Presidente, vice-presidente segretari e questi primi
quattro accademici dovevano riunirsi per formare il piano e le regole
dell’ Accademia », proporre il
numerc degli accademici pensionari e onorari, e i soggetti per occuparne
le piazze, con riferirsi tutto al Re per la sovrana approvazione ».
L’annunzio si dice destasse in Napoli grande entusiasmo, e nessuno pare
sì meravigliasse dell’onore segnalato che riceveva Gennaro V..
Certo, egli doveva essere ben veduto dalla Corte; ma, tra per i suoi
meriti personali, e tra per un certo riflesso della gloria paterna, che
veniva affermandosi ogni giorno più saldamente, doveva essere stimato
ed amato anche dagli studiosi. Gli statuti, a cui lo stesso Gennaro
collaborò, furono approvati dal Re con dispaccio del Beccadelli del 30
settembre di quello stesso anno. 57 S8gg.: pubblicazioni sfuggite,
tutte e due al BELTRANI, nella sua memoria, del resto assai diligente, La
R. Acc. di Scienze e belle lettere fond. in Napoli nel 1778, negli Atti
dell’Accademia Pontaniana vol. XXX. Napoli, 1900; dov’ è detto (p. 62)
che il Minieri-Riccio pubblicò il dispaccio 22 giugno 1778. E dalla
pubblicazione del MinieriRiccio il Beltrani non poté intendere il vero
carattere del doc., che egli prende per una semplice /ettera del marchese
della Sambuca al principe di Francavilla, maggiordomo reale (p. 3); laddove si
tratta d’un regolare dispaccio di segreteria, ossia della ordinaria forma
ufficiale onde erano annunziate tutte le determinazioni reali. Su
quell’accademia vedere anche F. NICOLINI, in GALIANI, Dialetto
napoletano, Napoli, Ricciardi, 1923, Introd., $$ 2, 3. I Sono
pubbl., oltre che nel Del de Regimine Studiorum (N. Collez. ecc., t.
XIII,58 sgg.), nel vol. rarissimo: Statuti della R. Acc. delle scienze e
delle belle lettere, eretta in Napoli dalla Sovrana Munificenza, Stamp.
Reale, 1780. Ivi è anche il lungo elenco dei soci. Facevasi obbligo agli
accademici pensionari d’intervenire a
tutte le private e pubbliche assemblee », e di non allontanarsi dalla capitale, senza averne
prima ottenuto in iscritto l'autentica permissione del presidente ».
Infine, si stabiliva: Ogni accademico pensionario sarà nell’obbligo
indispensabile di comporre in ogni anno una memoria su quell’argomento, che
egli, a propria elezione, scerrà dalla serie degli argomenti dei lavori
scientifici annuali ». Giacché non era riconosciuto ai singoli soci il
diritto di scrivere su qualunque soggetto; ma sì di presentare ogni anno in iscritto un breve parere sul metodo,
sugli argomenti e sulla qualità de’ lavori letterari e scientifici, che
potrebbero per tutto il resto dell’anno in ogni Classe eseguirsi ». Tutti
i pareri poi dovevano essere esaminati da una Deputazione di uomini savi e
intelligenti », nominata, per ciascuna classe, dal presidente, che,
com'era stato ordinato nel dispaccio del 22 giugno, sarebbe stato sempre
il maggiordomo maggiore di S. M. Gennaro fu messo a capo della classe di Erudizione
e storia antica, che, nel dispaccio posteriore del 19 gennaio 1783, fu
detta di Alta antichità *. | Nel 1788, uscì il primo ed unico
volume degli Atti di quest’ Accademia, contenente gli atti dalla
fondazione sino all'anno 1787 =. Non vi è nessuna memoria del V. 3;
ma il segretario, Pietro Napoli-Signorelli, nel Discorso istorico
preliminare, esponendo i lavori eseguiti dall’ Acca- [In questo dispaccio
(MINIERI-Riccio, in Arch. Stor. Nap., V. 587), si ordinava ai pensionari
di non astenersi senza il real permesso dal presentare ogni anno una
memoria. Non potendo, si domandasse la grazia di passare tra gli onorari.
2 Atti della R. Acc. delle scienze e belle lettere di Napoli,
Napoli, Don. Campo, 1788, diXCVIII-374 in -4°, con 18 tavole.
3 Né di altri soci del ramo letterario, salvo una di Dom. Diodati
(della 4® classe, Mezzana Antichità), letta nel 1784 e nel 1786: Illustrazione
delle monete che si mominano nelle Costituzioni delle Due Sicili.
(pp. 313-370). demia in quel primo decennio, ricorda anche la
parte di Gennaro: L'eruditissimo accademico pensionario
della III classe don Gennaro V., degno figliuolo dell’ immortale autore dei
Principit di una Scienza Nuova e suo successore nella cattedra di
Eloquenza nel Liceo Napolitano, prese in una dissertazione con piena
erudizione e fina critica ad illustrar Pompei, celebre città della Campania,
sepolta da diciassette secoli dalle ceneri del Vesuvio. Non ebbe per
oggetto di adornar alcune delle discoperte parti di essa, ma di
considerarla col solo lume degli antichi scrittori e di rilevarne le vicende.
Saggio e modesto quanto sagace osservatore, lontano da ogni ambizione di
produrre cosa nuova in un argomento venerabile per la sua antichità, egli
conseguì la rara lode di saper raccogliere con giudizio e disporre e
combinare insieme con discernimento e dottrina que’ languidi e dispersi
barlumi lasciatici dai greci e dai latini intorno a sì famosa città, e di
apportar somma luce e dar sembianza di novità alle sue erudite ricerche
!. E ne riporta un largo sunto ?, compilato con le parole
stesse dell’autore, come risulta dal confronto con l’originale manoscritto,
conservato tra le carte Villarosa. Codesta memoria il Signorelli assegna
agli anni anteriori al 1783, anno dei terremoti delle Calabrie e di
Messina, che diedero occasione a speciali indagini e studi dell’
Accademia 3. Un'altra memoria del V. ricorda poi, letta nel 1787,
sull’antica repubblica di Locri»; e dice che di essa si attendeva la
continuazione, per pubblicarla nel volume seguente, che non venne più.
Questa memoria era stata preparata da Gennaro con grandissima cura, come
apparisce da molti appunti, che sono tra le sue carte. Dove pure si trova
un buon tratto della medesima, col titolo: Dissertazione sull’ origine,
dominio, legislazione, governo, AttiLXII sgg. ® Pagg.
LXIII-LXX. 3 Vedi su ciò la cit. memoria del BELTRANI. ed
uomini illustri della Repubblica di Locri nella Magna Grecia di G. V. Parte I: Dell’origine della Repubblica
di Locri ®. Ma altro dové scrivere per l'Accademia, anche
dopo il 1787; e lo stesso Napoli-Signoi:elli, lodando altrove il
medico Silvestro Finamore di Lanciano d'una memoria sulle antichità
lancianesi mandata all'Accademia in forma d’una serie di questioni,
accenna ai dottissimi giudizi portati su di essa da due nostri valorosi
accademici, il giureconsulto Domenico Diodati ed il regio professor
di eloquenza Gennaro V. »; il quale prende per mano tutti i punti
additati nella memoria, e ne illustra buona parte in quanto gli permette
quel periodo tenebroso; e certamente il di lui esame merita (se pure
torni un tempo che ci si conceda ?) che si renda di pubblica ragione
» 3. Quel tempo non tornò più: ma della relazione del V. sulla
memoria del Finamore ci resta una copia di mano del marchese di
Villarosa, insieme con una lettera del 22 giugno 1804 del Finamore, che,
avuto sentore, per la notizia del Napoli-Signorelli, di quella relazione,
e non sperando di vederla presto pubblicata, prega Gennaro V., con
cui era entrato in relazione epistolare, di volergliela comunicare manoscritta
*. E altro fors’'anco scrisse, di cui non ci resta notizia, per
l'Accademia. Certo, quest'occasione a lavori di erudizione
storica troppo tardi sorse nella vita di Gennaro, perché egli fosse
ancora in tempo di produrre molti e notevoli frutti. Il suo genere erano
sempre state, come vedremo, ora I Non resta una copia completa, né anche
della parte I; invece, della Dissertazione sulla città di Pompei ci sono
tre esemplari, fra cui due autografi. ? Per le angustie
finanziarie in cui si trovò l'Accademia, vedi BELTRANI, La RR. Acc. ecc.
3 P. NAPOLI-SIGNORELLI, Regno di Ferdinando IV adombrato în tre
volumi, t. I, Napoli, Migliaccio, 1798, p. 381. I Vedila in
Appendice I] zioni ed epigrafi: il suo ideale letterario, l’elegante
espressione, la frase classica pura: non era andato più oltre. Il suo
mondo, sempre, quel circolo chiuso de’ professori e degli eruditi. Tra i
ricordi della sua lunga vita neppure un alito di affetti domestici. Si
trae un largo respiro, svolgendo le sue carte muffite, quando,
finalmente, s'incontra la seguente lettera, che ci dà al viso quasi
un soffio d’aria fresca. Una villeggiatura di don Gennaro, forse
per una cortesia usatagli dal marchese di Campolattaro. Dalla cui villa
immagino Gennaro scrivesse alla marchesa: Godo immensamente
in sentirvi tutti bene: et infinitamente ringrazio V. S., il Marchesino e
don Andrea della memoria, che avete di me; e le dico che desidererei
poter meglio meritare le cortesie che ricevo. Quelle pere che
le mandai, furono da me raccolte per terra, e come che alla giornata
cadono immature, essendone io ora incaricato, voglio che V. E. ed il
Marchesino le vedano; ed intanto le mandai, perché le avesse riposte,
avendomi detto Giovanni che, accadendo l’ istesso alle sue, egli le
ripone perché col tempo vengono alla maturità, sapendo bene che queste
pere d’ inverno anche si colgono immature, e si ripongono. Io sempre mi
dichiaro non solo pronto, ma anche ambizioso di ricevere l’onore di
tutte l’ EE. VV., ma sempre con quella condizione; e desidererei che
il Marchesino non misurasse me alla sua misura, e che si facesse
carico della gran disparità della condizione e dello stato suo e mio, ed
ancora della mia corte compendiosissima; perché una brieve anticipazione
porta, che, se non posso far quel che devo, almeno fo quel che posso.
Onde tanto Lui quanto V. E. faccino conto di tener qui un fattore di
campagna: basta che si diano la pena di mandarmi l’ordine, per far
conoscere il piacere di eseguirlo. Poiché state colla falsa
prevenzione che, favorendomi con anticipazione, io mi metta in cerimonie
(veramente vi feci truovar archi e trofei!) per toglier ogni briga, e per
aver l’onore [dei] vostri favori, fo una solenne dichiarazione, col
contentarmi che la medesima sia anche ridotta in forma di pubblico
istromento da potermi esser liquidato in ogni corte e foro, rinunciando
ex nunc pro hinc ad ogni eccezione, così dilatoria come perentoria e
declinatoria di foro, la quale è del tenore seguente, videlicet: Dichiaro
e mi obbligo etiam cum juramento quatenus opus, che, anticipandomi
l’avviso de’ vostri favori, io sia tenuto farvi truovare non più né meno né
altro di quello che è mio ordinario mangiare, intendendosi
d’anticipazione a solo fine che non restiamo tutti digiuni !.
Intorno al 1790, a cagione di grave infermità sopravvenutagli, Gennaro V.
fu costretto a smettere il suo insegnamento. Non potendo più leggere la
memoria d’obbligo all'Accademia, perdette, non saprei dir quando, anche
quel posto. E si preparò al triste tramonto. Dissi sopra * che, nel 1797,
rivolse una supplica a Ferdinando IV, per esporgli il suo misero stato, e
chiedere un sussidio. Dopo il tratto già riferito, il vecchio V.
continuava a raccontare di sé: Anni addietro essendoglisi
aperto un gran tumor cistico, che da tanti anni aveva alla gola, con un
fiume perenne di sangue, che per cinque mesi lo tenne inchiodato in un
fondo di letto, disperato da’ medici, il fu don Nicola Frongillo,
degnissimo Lettore dell’ Università, lo curò, ed espressamente gli proibì, che
non avesse pensato più a montar sulla Cattedra, perché avrebbe
corso evidente pericolo di discenderne morto. Il quale ancor tiene
I La lettera nella minuta, da cui la pubblico, non ha né data né
intestazione; ma nello stesso foglio, a riscontro della minuta della
lettera, sono due abbozzi, pure di mano di Gennaro, della seguente
epigrafe: Villam hanc suburbanam breve otii negotiique
confinium atîris salubritate laxiorisque amoenitate
prospectus facile principem N. Blanch Campilactaris Marchio
sibi emptam sibi auctam atque ad ingeniosissimam
elegantiam compositam instructamque genio suo
comparavit. Mi par ovvio che la epigrafe sia stata composta dove fu
scritta la lettera, cioè nella villa Blanch, ora Famiglietti, a Mojarello
(Capodimonte).] aperto. Nel principio del suo male, per non far mancanza,
stabilì per suo Sostituto il Sacerdote secolare don Ignazio Falconieri
1, conosciuto per le sue opere. Lo partecipò tosto a monsignor Cappellano
Maggiore, per averne il permesso, il quale molto ne commendò la scelta; sempre
però che la M. V. si degni di confermarla. Ed il medesimo ha continuato
con soddisfazione, dovendolo il supplicante mantenere a suo costo, con
detrarlo dalle angustissime sue finanze, non avendo il suo sostentamento altro
appoggio, che quello della Vostra Real Munificenza. Continuava,
rammentando i favori già ottenuti da’ Borboni, e confidava implorando un
generoso sussidio dalla munificenza reale. Ma pare che la supplica
rimanesse dapprima senza risposta ?. Gli toccò infatti di rinnovare
l’istanza, abbre 1 La Rettorica del Falconieri, pubblicata la prima volta
nel 1786, si studiava ancora a tempo del De Sanctis; ne ho visto
un'edizione del 1835, e il D’Ayala ne cita la ventisettesima! Vedi La
giovinezza di F. de Sanctis, Napoli, Morano, 1899, p. 7. Ignazio
Falconieri, fu, com’ è noto, afforcato il 31 ottobre 1799. Era gran patriota, molto impiegato e
stimato nella Repubblica, buon uomo, dotto scrittore di Retorica ». Così
D. MARINELLI, Giornali, ed. Fiordelisi, I, 107, dov’è pur riferito il
sonetto scritto dal Falconieri pochi giorni prima della sua morte. Nei
Calendari di corte, da me veduti, degli anni 1758-1793, 1795-1797. non
compare mai il nome del Falconieri come sostituto del V.. Questi vi
figura sempre come insegnante. Doveva perciò essere una sostituzione
affatto privata. E chi sa che il modo, in cui fu messo fuori dall’
insegnamento universitario, non sia stato pel Falconieri un motivo
personale per fare quel che fece nel 1799, e che è ricordato nella
sentenza della Giunta di Stato, pubblicata da A. SANSONE, Gli avvenimenti del
1799 melle Due Sicilie, Nuovi Docc., Palermo, 1901 (Docc. per servire
alla Storia di Sicilia, 48 serie, vol. VII), p. 260. Tra le altre colpe
addebitategli dalla Giunta vi è anche quella di aver educato i giovani
per la Repubblica ». Fu infatti maestro di Vincenzo Russo: v. B. Croce,
La Rivoluzione napoletana del 1799, Bari, Laterza, 1912, p. 87. Commissario per
l’organizzazione repubblicana del Volturno, ebbe segretario Vincenzo
Cuoco: SANSONE, p. 356 e RucGIERI, Vincenzo Cuoco, studio storico-critico,
Rocca S. Casciano, 1903, p. 17. Del Falconieri vedi la vita scritta da M.
D’AvALA, Vite degli italiani benemeriti della libertà e della patria
uccisi dal carnefice, Roma, 1883,264-67. Era nato a Lecce nel 1755. Oltre
la Rettorica, pubblicò altre opere letterarie, che sono indicate dal
D’Ayala. 2 Nell’ incartamento trovasi unito a questa supplica un
breve rapporto della Segreteria, con cui la supplica doveva esser
sottomessa nel Consiglio di Stato all’esame reale, e su cui avrebbe
dovuto esser segnata la risoluzione del re. Ma di questa non v'è
traccia. 242 STUDI VICHIANI viando tutta la parte
della prima supplica, che abbiamo riferita: e conservando, nel resto, i
termini stessi, che sono i seguenti: Ora, essendo giunto all’età di
82 anni, indebolito da tutti que’ mali, che ne sono l’ indispensabile
conseguenza; ed ammirando alla giornata la somma Munificenza della M. V.
verso di tutti, per cui tanto si assomiglia al Beneficentissimo Dio,
di cui ne sostiene in terra le veci; poiché non v’è chi per qualche
suo onesto desiderio venga a ricorrere al Vostro Trono, Fonte inesausto
di Beneficenze, che non se ne torni pienamente dissetato; anzi la M. V. è
talmente trasportata da quest’ammirabile Virtù, che spesso ne previene li
voti, e ne risparmia le preghiere: come infatti esso supplicante ben due
volte l’ ha sperimentato nella sua persona: quando la M. V. instituì la
Real Accademia delle Scienze, si degnò destinarlo per direttore dell’Alta
Antichità, Greca e Romana, che è uno de’ quattro rami, ne’ quali la
Reale Accademia è divisa: dovendo far la scelta de’ Maestri per
istruir nelle scienze S. A. R. il principe Ereditario, senza che esso
neppur osasse tant’alto, si degnò d’eleggerlo per precettore ne’
studi delle Lettere Umane: il qual invidiabilissimo onore per l’eccezione
della sua cagionevole salute, per cui doveva spesso, e lungo tempo
mancare, non poté conseguire. Or, se cotesto Sacro Fonte basta che sappia
su di chi debba diffondersi, che da sé si apre, ed a larga mano versa le
sue Beneficenze, come l’ ha ben due volte sperimentato in se stesso, in
quanta maggior copia deve spargerlo su di chi vi ricorre portando in mano
la chiave delle preghiere ? Due volte, o Sire, in tutta la sua vita esso
vi è ricorso: la prima al Trono del Vostro Augustissimo Genitore, e
ritornossene supra vota pienissimamente soddisfatto; questa è la seconda,
al Trono di V. M., che ne siegue gloriosissimamente le tracce, ed implora
un generoso sussidio dalla Vostra Real Munificenza, acciocché nella sua
cadente età, in cui ha bisogno preciso di qualche comodo maggiore, non
abbia da sempre luttare coll’ indigenza, e colle difficoltà di soddisfarla; e
l’avrà a grazia, ut Deus. I In questa seconda istanza corregge
l’anno 1696, in cui, la prima volta, aveva detto essere stata conferita
la cattedra al padre, in 1697. Questo e gli altri docc. qui appresso
riferiti, ove non sia avvertito altrimenti, sono tolti dagli Espedienti
di Consiglio, fascio 287, I, 12 dicembre 1797 (Arch. Sta. Napoli).
In cima alla nuova supplica dalla Segreteria dell’eccleslastico fu apposta
(forse, in seguito ad ordine reale) la nota seguente: 25 febbraio 1797. Informi, e manifesti
il suo parere ». E, con questa nota, la supplica stessa dové esser
trasmessa al cappellano maggiore. Il quale, nella sua consulta, che tardò
più mesi, riassunta l’istanza del V., aggiungeva: Poiché la
M. V. con Real Carta del dì 25 dello scorso Febbraio mi ha comandato, che
informi, e manifesti il mio parere, debbo rassegnare alla M. V. che sono
veri e noti i lunghissimi servizi prestati per lo corso di un secolo
consecutivamente dal padre don Gio. Battista V., illustre letterato, e
dal figlio supplicante don Gennaro, che ha caminato nelle orme del padre,
a questa Regia Università degli Studi, con decoro della medesima, e
con profitto della studiosa gioventù. Sono ancora vere le
circostanze della cagionevole salute dello stesso supplicante don
Gennaro nell’età di anni 82, a cui è giunto, fatigando per lo corso di
circa anni 60 in beneficio dello Stato; onde io stimo che merita un
tal soggetto gli effetti della Real Munificenza, per i quali possa
provvedere ai bisogni della vita; e che a tale oggetto possa degnarsi V. M.
conferirgli una pensione o sulle rendite delle chiese vacanti, o su di
altro fondo che stimi più proprio. Il signore Iddio conservi
lungamente e sempre prosperi la vostra Real Persona = di V. M. = Napoli 6
Maggio 1697 = Umilissimo Vassallo = L. Arciv. di Colosso Capp. M.
Il ritardo della consulta derivò dal ritiro, accaduto nel corso dell’anno
1797, del cappellano maggiore, monsignor Alberto Capobianco, arcivescovo
di Reggio; il quale morì, più che nonagenario, nel febbraio 1798. Il
successore nella cappellania maggiore, del quale si ha notizia, è
mons. Agostino Gervasio, arcivescovo di Capua, nominato nel
dicembre 1797! Interinalmente dovette esserci questo arcivescovo di
Colosso, dal maggio, forse, al dicembre. ! Vedi il Catalogo de’
Cappellani Maggiori del Regno di Napoli c de’ confessori delle persone
reali [del P. Luici Guarini], Napoli, Coda, Il 23 maggio, la
supplica, con la relazione del cappellano, fu presentata al re, che era a
Foggia, e dispose che gli si
proponga questo espediente al suo felice ritorno ». Avvenuto il quale,
gli fu riproposto, il 12 luglio. E sulla pratica fu scritto:
Il Re vuole, che il C. M. indichi gli esempi delle pensioni accordate a’
lettori emeriti dell’ Università degli Studi, e quale sia il soldo, che
gode il ricorrente. Questi ordini furono trasmessi al cappellano
maggiore, con dispaccio dell’ecclesiastico del 22 luglio 1797. Qual
differenza dalla sollecitudine usata nel ’40 e nel ’4I per provvedere
alla vecchiaia di Giambattista V. ! L’arcivescovo rispose, il 12
agosto, con quest'altra relazione al Re: Signore, In
adempimento del Real comando, le fo presente, riguardo alla prima parte,
che la Cattedra di Rettorica è isolata e non ha ascenso alcuno, come
alcune delle altre facoltà, che di grado in grado giungono alle primarie.
Non vi è esempio di Lettore emerito a cui sieno state accordate pensioni;
ma non vi è esempio altresì di Lettore, il quale abbia servito 60 anni,
che fa il corso di una lunga vita, con potersi anche considerare, che già
sia scorso un secolo che dal padre e dal figlio sia stata occupata senza
interruzione la Cattedra di Rettorica nella Regia Università.
Riguardo alla seconda parte, debbo rassegnarle che il padre del
supplicante don Gio. Battista V., il quale illustrò questa Regia
Università, sostenne la stessa Cattedra col soldo di soli docati cento:
che l’Augusto fu Genitore della M. V. l’accrebbe a docati duecento, e
così esso supplicante l’ ha sostenuta, finché la M. V. ordinò che l’
Università degli Studi pubblici passasse 1819, p. 63. Cfr. anche
Sulla origine e giurisdizione del Capp. Magg. Cenni di GIR. pi Marzo,
Palermo, Morello, 1840, p. 24. Ma questo elenco si arresta a mons.
Capobianco. I Dispacci dell’ Ecclesiastico, vol. 532, fol. 145
(Arch. Sta. Napoli). al Salvadore; nel qual passaggio, essendo la
sua Cattedra entrata nel ruolo di quelle, che debbono leggere fino alli
28 di Settembre, per tale accrescimento di fatighe gli furono aggiunti
altri cento docati. Adunque egli, dopo aver già servito quarant’anni, per
avere il soldo di docati trecento che godono anche i lettori più moderni,
fu costretto tirare avanti le sue lezioni, in tutta l’està, quando per
l’antico piano gli Studi finivano a’ 15 di giugno, ed a dover formare le
Istituzioni poetiche, che nel corso dell’està andassero di séguito
all’oratorie. Nella istituzione dell’Accademia Reale delle scienze
V. M. si degnò eleggere il supplicante per direttore del Ramo
dell'Alta antichità colla pensione di docati sessanta, e questa gli è
mancata: altri piccioli emolumenti dice di essergli minorati: ed a
queste detrazioni si aggiunge che per la sua cadente età dovrà
pagare docati 30 annui per lo mantenimento del Sostituto. Quindi
egli, per particolari circostanze de’ suoi lunghi servigi, della sua età
e della sua salute cagionevole, implora sussidio per lo sostentamento
della vita, facendo il conto di essergli mancati da cento venti docati
annui. Il signor Iddio conservi lungamente e sempre prosperi la
Vostra Sacra R.* Persona. Di V. M. = Napoli 12 agosto 1797 = Umilissimo
Vassallo = L. Arc. di Colosso Capp. M. Portata di nuovo la pratica
nel Consiglio, il 26 agosto 1797, da Belvedere, il re ordinò che a Gennaro V.
sì desse la giubilazione coll’intiero soldo in pensione ed emolumenti,
che ha perduti». E il 9 settembre furono spediti da Ferdinando Corradini,
segretario dell’ecclesiastico, i relativi dispacci al cappellano maggiore e al
principe d’ Ischitella, segretario dell’ azienda. Giubilato V., si
ordinò tosto il concorso per la cattedra di rettorica. Ma, per allora,
non ebbe effetto. Ecco in proposito una relazione del cappellano
maggiore, curioso documento di quel che fosse allora un concorso
universitario: ue usata ! Vedili in Appendice
I. Il Sig.r...Nella Università de’ regi Studi è vacata la cattedra
di Rettorica per la giubilazione da V. M. accordata al vecchio professore
don Gennaro di V., e si è pure dalla M. V. ordinato di tenersi il
concorso per la provvista di tale Cattedra, con doversi prima riferire i
nomi, cognomi e patria di coloro, che dopo l’editto si ascrivono per
detto concorso. Si è di già affisso l’editto a norma de’ Sovrani
ordini; ma, frattanto che non si diverrà all’elezione del proprietario
professore, manca nella R.® Università la lezione di Rettorica, la quale
è necessaria nel corso degli studj, e per la quale mi si fa premura
dalla gioventù studiosa. Un de’ concorrenti a detta Cattedra è il
Sacerdote don Nicola Ciampitti, napoletano, professore di eloquenza nel
Seminario arcivescovile, il quale coll’acclusa supplica si è offerto d’
insegnare le Istituzioni Oratorie come sostituto della cattedra medesima
sin tanto che si eseguirà l’ordinato concorso, senza pretendere soldo o
riconoscenza veruna, ma soltanto per amore del ben pubblico. Ho trovato sode
ragioni di accettare questa offerta, perché il Sac. Ciampitti è riputato
non solo per l'abilità nella materia, in grado già di Professore, ma
è noto eziandio pel costume irreprensibile, e pe’ puri sentimenti
morali e di attaccamento al Regio Trono: e perché, senza alcun
pregiudizio e interesse della R.8 Università, si provvede al bene
pubblico, col non far mancare né anche per brieve tempo una lezione
necessaria alla gioventù studiosa. Tutto ciò sommetto alla intelligenza
di V. M.; affinché, se altrimenti non istimi, possa degnarsi approvare
che il Sac. don Niccola Ciampitti insegni le Istituzioni Oratorie nella
Cattedra di Rettorica della Università dei Regi studi, sin a che non sia
provvista del professore in esito dell’ordinato concorso, in qualità di
sostituto, e senza poter pretendere né soldo, né riconoscenza veruna. Il
Sig.r.... 18 novembre 1797 !. A Gennaro V. però dispiacque la
giubilazione, e più una notevole perdita che l'abbandono della cattedra
e la trasformazione del soldo in pensione gli avrebbe arrecata. Presentò
nell'ottobre un altro ricorso. Il quale, I Relazioni del
Cappellano maggiore.] deferito al re, non ebbe se non questa dura
risposta, segnata in margine alla pratica: Da Portici li 21
ottobre 1797. Il re è fermo nella presa risoluzione. Ma V. non si
perdé d’animo, e rinnovò il ricorso, con lievi mutamenti di forma.
Riferisco questo secondo: Ss. R. M. Signore, Gennaro V.,
pubblico professor di KRettorica nella Vostra Regia Università de’ Studi,
prostrato a’ piedi del Real Trono della M. V., umilmente le rappresenta,
che essendosi per sua Real Munificenza degnata, con sua real Carta de’ 9
del caduto, ordinare che gli si dia la giubilazione coll’intiero soldo in
pensione, e gli emolumenti che ha perduti: esso supplicante si dà lo
spirito di umilmente esporle, che il soldo è immune da ogni peso, e
la pensione è sottoposta alla decima, la quale gli scema il pieno
godimento del soldo intiero, che la M. V. si è degnata concederli: onde
la supplica a volersi compiacere di accordargli l’ intiero soldo, siccome
finora l’ ha goduto, secondando in questo la generosa inclinazione del Real
Animo Vostro di beneficarlo. Alla cattedra di Rettorica è privatamente
annesso l’emolumento delle fedi di Rettorica !; e questo gli si è
dimezzato; ma ne ritiene ed esige l’altra mettà. Egli si augura che la
mente di V. M. sia, I L’esame di Rettorica era una specie di
baccellierato. La Prammatica del conte di Lemos del 1616, parte III, tit. II,
art. I dice: Ordiniamo e comandiamo che
niuno studente grammatico possa passare ad intendere niuna facoltà o
scienza, senza prima essere stato esaminato per lo cattedratico, seu lettore di
Rettorica, il quale a quello che approverà per sufficiente ed abile, darà
una fede firmata di sua mano, nella quale dichiarerà averlo trovato
idoneo, per poter passare alla facoltà che domanda; e lo Studente che
sarà passato in qualsivoglia altro modo, non guadagnerà il corso in
quella facoltà, che passò infin a tanto che non sarà esaminato ». L'art.
4 stabilisce che per questo esame lo studente, sia approvato o sia
riprovato, paghi all’esaminatore mezzo carlino ». Cfr. ora N. CORTESE in Storia
della Università di Napoli, Napoli, Ricciardi.] che su quel che ritiene
gli si dia il compenso di ciò che ha perduto; dovendosi intender l’
istesso sul soprasoldo, che godeva di duc. 47, solito distribuirsi alli
Lettori più emeriti, dimenticato nella sua prima supplica; e questo anche
è decimato, esigendone duc. 38. Il che fa crescere la somma del compenso
accordatogli dalla Vostra Real Clemenza a duc. 130, inclusivi li duc. 60
dell'Accademia. Quindi ricorre a’ piedi della M. V., che è quanto dire al
Sacro Fonte inesausto delle Beneficenze, ed umilmente la supplica, a
volersi degnare fargli godere l’intiero soldo immune da decima, siccome
l’ ha goduto finora; com’ancora esentarne il compenso accordatogli di
ciò, che ha perduto negli emolumenti annessi alla cattedra, con degnarsi
indicargli da qual fondo debba ripeterlo. Qualora poi V. M. voglia
togliergli anche quel che ritiene ed esige in essi emolumenti, il
compenso di duc. 130 ascenderebbe a duc. 200, che, uniti alli duc. 300 di
soldo, formerebbero duc. 500: nel qual caso potrebbe la M. V. degnarsi
ordinare, che gli si corrispondano duc. 500 annui, immuni ed esenti da
decima, e da ogn’altro peso, essendogli sensibile ogni qualunque
detrazione nella sua cadente età, in cui ha bisogno di qualche comodo
maggiore: confidando di tutto conseguire dall’ammirabile generosità del
Real Animo Vostro in considerazione di un povero suo suddito, che ha la gloria
d’averlo sessant'anni servito; e tutto riceverà a grazia, ut Deus. Gennaro
V. supplica come sopra. Ritornata così l’istanza al re,
questi diede l’ordine seguente, eseguito il 18 novembre ‘97: Il C. M. s’incarichi di questo e
riferisca speditamente, tenendo presente l’antecedente sua relazione,
volendo S. M. che si riesamini ». Il cappellano maggiore rispose, questa volta
con una lunga relazione, in cui premette la storia della lunga
pratica; e prosegue: In oggi lo stesso don Gennaro V., con ricorso
umiliato nelle vostre Reali mani, espone, che il soldo è immune da ogni
peso, e la pensione è sottoposta alla decima, e chiede che gli si
faccia godere il soldo intero senza alcun peso. Espone inoltre che
alla Cattedra di Rettorica è privativamente annesso l’emolumento
delle fedi di Rettorica, e questo gli si è dimezzato: che anche il
soprasoldo che godea di annui D.ti 47, si è minorato ad annui D.ti 38,
onde fa ascendere il compenso da V. M. ordinatogli a D.ti 130 annui; e,
qualora dovesse lasciare i detti emolumenti, il fa scendere a D.ti 200,
che, uniti al soldo di detti D.ti 300, formano la somma di D.ti 500; e
quindi implora la grazia di ordinarsi, che gli si corrispondano gli annui D.ti
500 immuni ed esenti da decima e da ogni altro peso, essendogli sensibile
ogni qualunque altra detrazione nella sua età cadente, in cui ha bisogno
di qualche comodo maggiore. Debbo inoltre aggiungere, che lo
stesso don Gennaro V., essendosi a me presentato, mi ha fatto conoscere,
che avrebbe desiderato il solo domandato sussidio senza la giubilazione;
affinché gli fosse continuato l’onore di pubblico Regio Professore fino
alla morte. Quindi sommetto io alla sovrana intelligenza, che l’emolumento
delle fedi di Rettorica non si è dimezzato al supplicante don Gennaro V.,
se non che per la condizione de’ tempi, in cui è minore il numero di
coloro che si prendono la laurea dottorale; e quando la Cattedra di Rettorica
sia provveduta di novello Professore, a costui dovrà appartenere la
formazione di tali fedi, giacché il giubilato de V. non potrebbe
attestare ciò che non potrebbe sapere, che per altrui relazioni. Se il
Professore don Gennaro V. continuasse a leggere nella Cattedra di
Rettorica colla pensione di annui D.ti 120 sulle rendite delle Chiese
vacanti, avrebbe con queste un giusto compenso per la mancanza dei
D.ti 60 che godeva come Direttore dell’Alta antichità dell’ Accademia Reale, e
per la minoranza sofferta ne’ soprasoldi e negli emolumenti delle fedi. E
potrebbe anche esentarsi dal peso di annui D.ti 30 per lo mantenimento
del Sostituto, qualora avesse per sostituto il Sacerdote don Nicola
Ciampitti napoletano, il quale si è offerto di leggere in tale qualità
senza pretendere soldo o riconoscenza veruna; ed io già l’ ho proposto
alla M. V. per la sostituzione nella stessa Cattedra sotto il dì 18 del
corrente, sino a che non fosse provvista di proprietario in esito del
concorso ordinato; essendo detto Ciampitti riputato non solo per l’abilità
in grado di Professore, ma noto eziandio per lo costume irreprensibile, e pe’
suoi sentimenti morali e di attaccamento al Regio Trono. La
giubilazione, o Signore, del ricorrente don Gennaro V., non vi ha dubbio,
che sia stato un effetto della vostra Sovrana Clemenza e paterno amore
verso i vostri sudditi, considerando il lungo servizio ed età di lui
avanzata: ma, siccome egli ama di proseguire per quanto può nel
servigio, e morire coll’onore di Cattedratico, desiderando solo il
compenso per ciò che ha perduto, così sarà effetto della stessa Sovrana
Clemenza e paterno amore il risolvere, che gli si dia la pensione de’
suddetti D.ti 120, e continui ad essere il Professore nella Cattedra di
Rettorica, accordandogli per sostituto il Sacerdote don Nicola
Ciampitti senza soldo o riconoscenza alcuna, come esso Ciampitti si è
offerto. Il Signore Iddio lungamente conservi e sempre prosperi
la vostra Sagra Real Persona. = Di V. M. = Napoli 25 novembre 1797 = L.
Arciv. di Colosso. Allora, il 12 dicembre 1797, il re prese la
seguente decisione: Il Re, prendendo in considerazione le
circostanze del vecchio pubblico Lettore di Rettorica don Gennaro V.,
permette, che lo stesso rimanga nella Cattedra valendosi di un sostituto;
e nel tempo stesso, per dare al medesimo un segno di sua sovrana
beneficenza, gli accorda l’annua pensione di ducati 120 sul Monte
Frumentario, soggetta però al peso della decima. Nel comunicarsi al
Cappellano Maggiore, si dica, che, rispetto al sostituto nominato, la M.
S. li comunicherà appresso i suoi R.li ordini. Resti
accordato per sostituto il proposto don Nicola Ciampitti, qualora la Giunta di
Stato non l’abbia notato, e perciò se gli faccia la domanda.
C[orradini]. es.° a 19. Nell'ultimo inciso si sente che
sono avvenuti i processi del 1794, e che tutta la cultura è venuta in
sospetto a’ Borboni. Il Corradini, adunque, dové prima assumere le
informazioni politiche relative al Ciampitti; che gli vennero con questa
lettera del principe di Castelcicala: Dalla consulta della Suprema
particolare Giunta delegata di Stato de’ 7 del corrente Dicembre, avendo
rilevato il Re che nelle carte della materia di Stato nonvi è alcuna nota
o indicazione contro il Sacerdote don Nicola Ciampitti proposto dal
Cappellano Maggiore per Sostituto alla vacante cattedra di rettorica
ne’ Regj Studj: nel Real nome, la Real Segreteria di Stato,
Affari esteri, Marina e Commercio lo rescrive a V. S. Illma per sua
intelligenza, in risposta del viglietto de’ 2 del suddetto Dicembre. = Palazzo
16 dicembre 1797 = Il Principe di Castelcicala Sig. Marchese
Corradini, E quindi, il 18 dicembre, il Corradini poté dare
questo ultimo ordine ', eseguito il dì seguente: Si comunichi al
Cappellano maggiore la real risoluzione, affinché lo stesso l’esegua,
accordando al Ciampitti la sostituzione della cattedra di Rettorica
». Ed ecco, infine il decreto, in data 19 dicembre 1797, con
cui si chiuse questo piato lungo e pietoso: Il Re, prendendo in
considerazione le circostanze del vecchio pubblico Lettore di Rettorica
don Gennaro V., permette che lo stesso rimanga nella cattedra, valendosi
del Sacerdote don Nicola Ciampitti per sostituto. E nel tempo stesso, per
dare la M. S. al medesimo un segno di sua Sovrana beneficenza, è
venuta ad accordargli l’annua pensione di ducati centoventi sul
Monte Frumentario, soggetta però al peso della decima. Lo prevengo
di Real Ordine a V. S. Ill ma, acciò ne disponga l'adempimento, nella
prevenzione di essersi dati gli ordini alla Camera, per la pensione al
Monte Frumentario. Palazzo, 19 dicembre 1797 = Saverio Simonetti = Sig.
Principe d’ Ischitella 2. Così nel Calendario di Corte del 1798,
per la cattedra di Rettorica e Poetica, accanto al nome di Gennaro V.
sì trova quello di don Nicola Ciampitti, professore I Segnato in
margine alla lett. precedente del Princ. di Castelcicala. 2 In
vigore del sud. R. Ordine a 25 gennaio 1798 si spedì lib. a D. Gennaro V.
Lettore della Cattedra di Rettorica doc.ti sessantasei, e s. 66 2-3» ecc.
ecc. Ordinario 32: Scrivania di razione. Lettori pubblici, c. 135
a. Seguono ivi i pagamenti delle rate fatti al V. fino al 21 marzo 1805
(c. 135 d). A c. 168 d sono segnati i due ultimi pagamenti del 6 giugno e 5
dicembre 1805. In pari data era comunicato lo stesso Decreto al
Cappellano maggiore. Dispacci dell’ Ecclesiastico, 534, fol. 3 db. Anche
nell’ Ord. 125, della Scrivania di razione: R. Studj Pompei, fol. 38, sono segnati dei pagamenti di
soldo fatti a Gennaro V. sostituto. Ma, disgraziatamente, non ci
restano 1 Calendari degli anni 1799-1804. Per quanti anni insegnò
Ciampitti? I suoi biografi ci farebbero pensare che fino alla morte di
Gennaro V. egli continuasse a sostituirlo: Prescelto venne nel 1798 », dice uno di essi,
ad occupar la cattedra di Eloquenza nella R. Università degli Studi, che
per la decrepita età di Gennaro V. era stata dal medesimo abbandonata.
Nella qual palestra, avendo egli mostrato non volgar valore, come
ordinario professore, nel 1806 meritò di ottenerla » 1. Ma, nel
Calendario del 1805, vediamo sostituto di Gennaro V., don Nicola
Rossi, che forse era sottentrato al Ciampitti nella cattedra del liceo
arcivescovile 2. Quell’anno, il 18 gennaio, le lezioni universitarie
furono inaugurate nel chiostro di Monteoliveto 3 (donde l’ Università
tornò al Gesù Vecchio, il 31 ottobre di quell’anno stesso 4). Abbiamo l’
Oratio Nicolai Rossi in Regio Neapolitano Archigymnasio Rhetor. et
Poetic. Prof. subst. habita in aedibus Montis Oliveti in prima solemni
studiorum instauratione An. MDCCCV 5. dal 21 ottobre 1799 al 5
dicembre 1805, tre volte all'anno; e ivi a fol. 12 leggesi anche una
serie di pagamenti al medesimo, per gli anni precedenti. I Elogio
di N. Ciampitti del march. di VILLAROSA, in Ultimi uffizi alla memoria
del Can. N. Ciampitti, Napoli, Porcelli, 1833, p. 16. (Vi si parla anche
del metodo d’ insegnare del Ciampitti). Dello stesso VILLAROSA, Ritratti
poetici, Napoli, 1842, p. 118. G. CASTALDI (Elogio stor. di N. Ciampitti,
pron. nell’ad. gen. della R. Soc. Borb. il 30 genn. 1833, 7-8) parla anche
lui della nomina di sostituto nel 1798, della decrepitezza del V., e della
nomina d’ordinario nel 1806 per
proposta fattane da Monsignor Capobianco Capp. Magg. ». Cfr. anche
RovER, Elogio di N. C., Napoli, 1834, p. 18; e gli E/ogi dell’ab.
SERAFINO GATTI, Napoli, Fibreno, 1832-3, II, 2009 e le note a p.
224. 2 C'è infatti un Januarii Caroli Borboni de Vita
Commentariolus auctore NicoLAo Rossio in Archiepiscopali Licaeo Humanarum
Lùiterarum professore; s. a. 3 L. DeL Pozzo, Cron. civ. e milit.
delle Due Sicilie sotto la dinastia Borbonica, Napoli, 1857, p.
213. 4 DEL Pozzo, sotto questa data. 5 Ut quisque
literatissimus, ita civis optimus. Neapoli, ap. Vinc. Ursinum, di32, s.
a. VI. IL FIGLIO DI V. Nell’esordio, il Rossi, accennando le
ragioni della sua peritanza per la solennità dell’occasione, dice fra
l’altro: Moveor etiam 1ipsius loci
insolentia, qui ut prope suo jure a me repetit, ne quid in occursu primo
ominosum vitio meo ‘intercidat ; ita sua non assueta facies, nescio
quam offensionem habet in dicendo » *. Queste parole non fanno
pensare che il luogo, non la cattedra, era nuovo al Rossi ? In tal caso,
il Rossi avrebbe sostituito V. anche prima del 1805. Questi
percepì l’ultima rata del suo stipendio il 5 dicembre 1805 =. Il pagamento
successivo sarebbe toccato nel marzo 1806. Nel qual anno Gennaro morì 3.
Un decreto del 31 ottobre 1806, di Giuseppe Bonaparte, riordinava, come
vedremo, gli studi dell’ Università; sopprimeva varie cattedre fra cui quella
di Rettorica »; e disponeva: Tutti 1 professori proprietari delle
cattedre soppresse avranno la metà del loro antico soldo per giubilazione
» 4. Infatti un decreto degli 11 dicembre 1806 accordava la giubilazione
a ventidue professori universitari, fra i quali sono 1 titolari delle cattedre
soppresse 5. Ma Gennaro non c’è. Il decreto dell’ottobre istituiva
bensì, come vedremo, una cattedra di
Eloquenza antica e moderna ». Ma appunto a questa un decreto del 14
novembre ° nominava il canonico Nicola Ciampitti. V., adunque, morì
poco dopo compiuti i novant'anni 7. I Pag. 6. * Vedi
sopra p. 251 n. 2. 3 IT NICOLINI ha ora trovato il testamento di
Gennaro, che fu pubblicato il 19 agosto 1806. Gennaro doveva esser morto uno o due
giorni prima. 4 V. Collez. degli editti, determinazioni, decreti e
leggi di S. M. da' 15 febbr. a’ 31 dic. 1806, Napoli, Stamp. Simoniana,384,
385. Lo stesso Decreto è nella Collez. delle leggi, de’ decr. e di altri
atti riguardante la P. S. promulgati nel già Reame di Napoli dall’a.
18c6 in poi, Napoli, 1861-63, I, 6 sgg. 5 Collez. degli
editti cit., 465-6. 6 Ivi, 424-5 7 Il march. di ViLLarosa, nel
suo art. biografico su G. V., nei Ritratti poetici, ed. 1842 (nell’ed.
1834 non c’ è il Ritratto » di V.),
GLI SCRITTI DI GENNARO V. E IL SUO INSEGNAMENTO Quando Gennaro V.
lesse nell’ Accademia la sua memoria sull’ Origine della repubblica di
Locri, tra gli accademici che l’ascoltarono, era l’abate Filippo De
Martino (1702-1794), l'elegante traduttore in esametri latini del Tempio
di Cnido del Montesquieu (1786), l’autore dell’anonimo Hirpini poétae in
Germanum Penthecatosticon contro l’ Archenholz (1789), e di varie opere
erudite, come i commentari Ad sex primorum Caesarum genealogicam arborem,
pubblicati appunto quell’anno, 1787. L’ab. De Martino, che sapeva
comporre esametri e distici per ogni occasione ?, salsus attice doctissimus eloquio lepidissimus colloquio 3, fu ispirato dalla
sua facile musa a indirizzare a Gennaro V. i seguenti versi, che
rimangono tra le carte di questo, nella pressoché illeggibile scrittura 4
dell’autore: non indica nessuna data; o meglio dà, sì, quella del
1° vol. degli Opuscoli di V. da lui pubblicati, ma sbaglia indicando il
1816 invece del 1818. Dice che Gennaro finì di vivere nell’età di anni 78.
Ma è un errore, come hanno dimostrato i nostri docc. E così erronea
è l'indicazione di una Oratio ibid. (sc. in R. Neapolit. Acad.) în solemni
studior. instauratione, An. 1768; che è l’ Orazione Optima studendi ratio del
1774, pubblicata con quella In Regiis Nuptiis del 1768. I Vedi su
di lui e i suoi scritti VILLAROSA, Ritratti poetici, 1209-31. * Una
raccolta di Carmina del De MARTINO fu pubblicata a Napoli, 1778,
in-49. 3 Vedi l’epigrafe scritta per lui nel Sepulcretum amicabile
di E. CAMPOLONGO (Napoli, 1781-2), I, 18. Il NAPOLI-SIGNORELLI, nel Supplemento
alle Vic. d. colt. delle Due Sic., Parte I, Napoli, Flauto, 1792, p. 190:
« E tuttavia risuona fra noi la cetra armoniosa dell’ab. Filippo Martini, il
quale presso a compiere il sedicesimo lustro di sua età serba in vecchie
membra giovanile vigore e fecondità e facilità pari alla vena ovidiana
». 4 Anche il VILLAROSA, del cui padre il De Martino sarebbe
stato age AL = _ E Ri © n n onice ci i ce a = ZA Ad J.
Vicum Hexastichon. Haeredem quis te virtutis jam paternae,
Fortunaeque simul pauperis esse neget ? Ambo fortuna digni meliore,
sed ambo Sprevistis caecam. Gloria parta satis: Trans
Apenninos, Alpes gelidamque Pyrenem, Trans mare, trans Calpem fama
perennis erit. Ad eundem pro Dissertatione de Pompejis.
Eruis e tenebris Pompejos, pene sepultos, Et nitido praefers
lumine jam facem. Hesperia ! reducis magnis hinc bobus abactis
Amphitryoniadis maxima pompa fuit. Et terrae motum ?, quo corruit
Vrbe theatrum, Pompej, Alcidis moenia celsa, notas, Dum
caneret Nero, dum, tristi sed corde, severus Cum Seneca Burrhus plauderet
ore, manu. Aurigam foedum vidit quoque Roma Neronem: Et
mirata suum turpis arena Pium 3 Arrosos ungues scalptum caput, osque
columnae Innixum nobis nobile monstrat opus. Ad eundem pro
Dissertatione de Locris Dodecastichon alterum. Hoc ingens
etiam studium, vigilemque lucernam Ad galli cantum, nocte silente,
sapit. Italiae regio Graecis dominata colonis Quum fuerit
priscis Graecia Magna fuit. Hic Locros memoras, Trojani ab tempore
belli Et varios casus innumerasque vices, « amicissimo »,
diceva (l. c.) di possedere moltissimi versi del medesimo scritti col di
lui poco intelligibil carattere ». I Cioè dalla Spagna. Allusione
alla leggenda menzionata anche nella Dissertazione del V., e che si trova
in SoLIno (II, 5); la quale spiega il nome di Pompei quia [Ercole,
fondatore di Pompei] pompam boum duxerat ». % Il terremoto
dell’anno 63 d. C. 3 Commodum gladiatorem (Postilla del De
M.). Hinc mutas etiam, vocales inde cicadas!, At de Thebano
Vitigatore nihil. Collibus haud Thuscis, heic primam fixit
Bacchus Sedem; mentitur Musa diserta Rhedi 3; Expeti an
ignoras totum Locrensem orbem ? Siccavit vates pocula mane duo.
Ride et vale, meque tui amantissimum tibique addictissimum, quod
sponte talis, amare perge. PH. TUUS. Del resto anche
nell’invettiva contro il dotto tedesco aveva esaltato Gennaro V. insieme
col padre glorioso: En Vicum ante alios, cui fasces ipse
Leybnitz Submittit, nullo per loca trita solo Pergentem;
sequitur, patriae non degener artis, Par animo natus, moribus, ingenio. E
l'alto elogio era ingrandito dalla enumerazione degli altri maggiori
discepoli del V., a capo dei quali pel De Martino stava Gennaro patriae artis callentissimus » come
egli stesso commentava nelle note, aggiungendo: Multas etiam edidit
orationes ac dissertationes, easque eruditissimas, inque nostro Atheneo
latinam eloquentram meritissimus patris successor docet ». Multas, no:
DI ma l’iperbole è indizio dell’animo 3. I
Accenna al curioso fenomeno, su cui s’ intrattiene a lungo V. nella sua
Dissertazione su Locri, accennato da Strabone, Plinio e altri scrittori
antichi, che le cicale oltre il fiume Alece, dalla parte di Reggio,
fossero mute, e al di qua, dalla parte di Locri, cantassero. Uno studioso del
luogo, al quale Gennaro V. per mezzo dell’Accademia si era rivolto per
ottenere certe informazioni topografiche su questo fatto delle cicale,
per sapere se notavasi ancora il curioso fenomeno, rispondeva: Quel che si dice delle cicale mutole e vocali
non è punto vero, perché da per tutto assordano le orecchie di questi
abitatori ! ». 2 In ditirambo Bacco în Toscana (Postilla del De
M.). 3 Hyrpini potètae in Germanum Penthecatosticon, Neapoli, typ.
Simoniana, 1789, 17 e 48; cfr. CRocE, Nuove ric. sulla vita e le opere
del V. e sul vichianismo, in Critica. E col De Martino un altro poeta, Giovanni
Fantoni, Labindo, che allora era a Napoli e stretto in amicizia a
Gennaro, dovette plaudire in prosa, se non in versi, alla sua dotta
dissertazione. In versi elegiaci gli si rivolse quattro anni più tardi,
quando già s'era allontanato da Napoli, nella primavera del 1791, in
occasione della morte del loro comune amico il duca di Belforte Antonio
di Gennaro, tra gli arcadi Licofonte Trezenio: Iannuario V.,
eruditissimo viro ac amico suavissimo, in obitu Lycophontis :
Desine, Vice, meum lacrimis urgere dolorum: Iam satis in nostro pectore
regnat amor. Regnat, et assiduis late loca questibus implet Et
frustra surdis dis Lycophonta petit. Flebilis ille bonis, decus et spes
magna Sebethi Occidit heu! nulli quam mihi flebilior; e così
via per altri undici distici *. Quanta fosse la modestia di Gennaro
si può vedere dalla risposta in prosa che egli fece ai distici del De
Martino, e che non vale certo meno di essi. In questa lettera c'è tutto
lui: Philippo De Martino Januarius Vicus S. D.
Accepi una cum elegantissima Elegia, mihi inscripta, et quasi comite
adjuncta, nitidissimum tuum, Clarissimi Viri, Stephani I L’elegia
fu pubblicata la prima volta nel 1791 nel vol. Omaggio poetico in morte
di D. Antonio di Gennaro Duca di Belforte e Cantalupo Principe di S. Martino
Marchese di S. Massimo, ecc., tra gli Arcadi Licofonte Trezenio, in -4°
(s.a.); ma è stata riprodotta da un ms. orig. nella edizione delle
Poesie, a cura di Gerolamo Lazzeri, Bari, Laterza, 1913, p. 436. A una
cortese comunicazione dello stesso prof. Lazzeri devo la precisa
determinazione del tempo in cui l’elegia fu scritta.
Patritii! Elogium; dignum sane argumentum, in quo laudata virtus cum
compta laudantis facundia ita certare videtur, ut nescias utrum plus
decoris dignitatis splendori accesserit, an ingenii ubertati. Quod sane a
me ipso quasi abductus ea inexplebili aviditate voravi, ut veritus sim, ne tot
tantarumque venustatum ingluvies stomacho nimis pigro et inerti, qua
molestissima valetudine maxime laboro, aliquam pareret cruditatem:sed
longe absunt ea, quibus corpora, ab iis, quibus aluntur ingenia: illa
enim tempore egent, ut conficiantur; haec facillime concoquuntur, ac
statim in vires et sanguinem transeunt. Quapropter cum res tuas legendas,
imo potius admirandas suscipio, in quibus cum sententiarum splendorem, tum,
velut in vermiculato emblemate, sic structa verba videas; tantum abest,
ut in iis Aristarchum agere audeam, ea jucunditate et quasi nectare
animus perfunditur, ut, audacter dicam, quod sentio, ipse mihi quodam
modo videor, epulis accumbere Divim Tuo lautissimo exceptus
convivio, repletusque dapibus tuis, ne mihi, ne tibi desim, te vicissim
ad me invitare cogor; nam saepe fit, ut quedam officia vel cum aliquo
periculo praestanda sint. Fortasse inquies, quid agis ? Satin’
sanus es? qui me postules ad te vocare ? Vide ne quid temere facias! Visne
tuum pusillum censum absumere ? audio: ineptus, profusus, impudens
videar, quidvis, potius, dum ne sim inofficiosus. Quare mitto Tibi cum
hac deprecatrice epistola duas Oratiunculas ?, quae si rei amplitudinem
existimas, si quis eam commode et pro dignitate tractasset, haud longe
abeunt ab iis, quas coeci per compita canentes stipem emendicant. Quanto sane mihi satius
fuisset, exiguam illam de me opinionem, quaecumque ea esset, retinere,
nullo typis edito experimento: quis modo recipiat, etiam levi illa
existimatione me non esse revocatum ? Grave quidem et anceps, toties
judicium subire, quot sunt ii, quorum in manus incidas: cum praesertim in
rebus, in quibus non utilitas quaeritur necessaria, sed libera quaedam
animi oblectatio, sciam quam sint I Su Stefano Patrizi
(1715-1797), magistrato, professore di diritto feudale nell’ Università,
dotto giureconsulto, autore anche di una Dissertazione sul Teatro (inedita),
che è lodata dal Metastasio, vedi ViLLAROSA, Ritratti, 55-57. 2 Le
due Orazioni stampate nel 1775: In Regiis Nuptiis e Optima studendi
ratio. homines morosi et difficiles ut nodum in scirpo quaerant. Haec
eo dico, ne me putes laureolam in mustaceo quaerere voluisse: quod
vel ex eo patet, quod tam diu in publicum edere cessaverim; magnum sane
nolentis indicium; sed ne diutius eorum, qui apud me plurimum possunt,
voluntatem negligere viderer; ac proinde rogari er negare desinerem. Nunc
tecum mihi res est: obliviscere parumper divitiarum atque opum tuarum:
pone, quaeso, munditias, pone lautitias tuas; illam denique eruditissimi
palatus tui, cuncta minus exquisita aspernantis, elegantiam pone: da te
mihi vicissim; et finge te iter facientem in quandam miseram atque
omnium egenam cauponam divertisse, quod saepe usuvenire solet; atque in
coena panem atrum, asperrimum vinum, coepas, allium, palustres mullos
frictos et silvestria poma esse apposita; quid ageres ? nonne tempori
servires ? Quidni amici tempori inservias? et siquid ei exciderit, quod tibi
minus probetur (id vero pro meo jure postulem) transverso calamo signes ?
Utinam ne cuncta: atque ejus causam suscipias ? Equidem liquido jurare
possum; et tu fortasse iuxta mecum sentis: tantum iis dignationis
accessurum, quantum tu tua auctoritate tribueris. Male
factum: aegre est. Te propter M. Antonii, fratris amantissimi et
sanctissimae monialium, sororis tuae, obitum, adhuc in moerore et luctu
versari !. Quid ? visne solus
ignorare, vulgo quod dici solet, nihil facilius, quam lacrymas,
inarescere ? Credis id Manes curare sepultos ?
ac demum, quid jam ridentes, et coelo receptos luges ? Vale.
Una lettera, come si
vede, di chi non ha molto da fare: un componimento letterario, freddo, ma
irreprensibile, e non privo di certa grazia. Dell’intenzione letteraria
di chi lo scrisse ci assicura la doppia copia ?, che se ne trova
tra le carte di Gennaro, e ci fa pensare che questi la dové dare a
leggere a qualche amico. Certo, già questa lettera I Della sorella
Maria Gabriella, che riedificò il monastero delle Cappuccine di Aversa, e
morì in odore di santità, fu scritta la vita, che è ricordata dal
VILLAROSA, Ritratti, p. 131. 2 Ne abbiamo riprodotta una, senza
tener conto delle varianti di poco conto che l’altra presenta.] dimostra
una conoscenza profonda e un uso sapiente del latino classico.
Ma s’ingannerebbe chi pensasse che per Gennaro la frase o la forma
fosse tutto. Non era stato questo l’insegnamento paterno. Chi non ha letta
l’orazione di G. B. V. De nostri temporis studiorum ratione (1708) ? In
essa 1l professore di rettorica si permetteva di criticare l’indirizzo di
tutti gli studi del tempo suo, e di additare a tutti un’altra via. Onde
sulla fine sospettava che altri potesse ammonirlo: Quid tua, inquiet,
ejusmodi argumenta, quae omnia sapiunt, disserenda suscipere ? » e
rispondeva: Nihil mea Ioh. Baptistae a V.; at mea multum eloquentiae
professoris ; quando sapientissimi matores nostri, qui hanc studiorum
universitatem fundarunt, eloquentiae professorem omnes scientias artesque
doctum esse oportere satis suo instituto significarunt .... Nec temere
ter maximus ille vir Franciscus Verulamius illud Iacobo Angliae
regi dat de ordinanda studiorum universitate consilium, ut
adolescentes, non omni doctrinarum orbe circumacto, ab eloquentiae
studiis prohibeantur. Nam quid aliud est eloquentia nist sapientia, quae ornate
copioseque et ad sensum communem accommodate loquatur?»:. E, nelle
Institutiones oratoriae, che V. dettò a’ suoi scolari nel I7I1 2, la
filosofia è detta rhetoricae instrumentum maxime necessarnum. E, nelle aggiunte
postume alla propria Vita, parlando del suo insegnamento di rettorica, ci
fa sapere che egli non ragionò mai delle cose dell’eloquenza, se
non in séguito della sapienza, dicendo che la eloquenza altro non è, che
la sapienza che parla, e perciò la sua cattedra esser quella che doveva
indirizzare gl’ingegni e fargli universali, e che l’altre attendevano
alle parti, 1 Opere, I, 119-20. 2 V. CROCE, Bibliogr. IL
FIGLIO DI V. questa doveva insegnare l’intiero sapere, per cui le parti
ben sl corrispondan nel tutto » '. Insegnamento, dunque, più di cose che
di parole. E che non dissimile, mutatis mutandis, debba
essere stato anche quello del figlio, basta ad attestarcelo
l’inedita orazione del 1756: Dissidium linguae ab animo ecc., della
quale giova dare particolare notizia, come documento dell’indirizzo
mentale di Gennaro. Perché, egli si chiede, ci siamo tanto allontanati
dall’eloquenza degli antichi, ut vix, ac ne vix quidem, species ejus quae
beatissimis illis saeculis floruit, sit relicta ? E fa la curiosa e
giusta osservazione, che nell’antichità ci furono tanti grandi oratori
prima che s’inventasse la rettorica; laddove il decadimento dell’oratoria
incomincia proprio dalla invenzione di questa. E già anche il
padre, nelle Istituzioni, aveva detto:
Sine natura, sine exercitatone, ars misera dicendi officina est. Omnes
enim ingenue educti rethoricam artem didiceruni ; at quotus quisque
evasit eloquens, sive adeo disertus ? Itaque praestare putarim hanc artem
praeceptionibus parce parcam, optimorum vero exemplorum tradere adolescentibus
maxime copiosam. Neque sane pictores, qui excellere in arte student, diu
in eius subtili disputatione immorantur»?. Già il padre dunque aveva scosso la
fede nei precetti rettorici. Sì senta ora il figlio: Etenim jam
constat quod, inventa arte, adductis praeceptis, adhibitis magistris, hoc
dicendi studium tantum fecerit jacturam, ut singulis aetatibus vix
singuli mediocres oratores extiterint ! Quid enim ad rem tam immensam,
tam longe latedue dissitam definiendam magis aptum excogitari potuit,
quam eam in arte redigere, quae nonnisi cognitis penitusque perspectis,
et nunquam pallentibus rebus continetur ? Nonne nobis facillime actu
videatur, quod quae observata sunt in usu et ratione dicendi, haec ab homi
I Opere, V, 75. ? V., Instituz. orat. e scritti inediti, Napoli, Morano,
1865, p. 9. nibus acutissimis animadversa, notata, verbis
designata, generibus illustrata, partibus sint distributa, ut quod illi
sive natura, sive improbo labore effecissent, nos eadem suadente natura,
atque aliena industria assequeremur ?... Hoc mirabilius videri
debet, quod quibus adjumentis ceterae cunctae disciplinae, quae
fere reconditis atque abditis fontibus hauriuntur, tantum incrementum
sunt adeptae, iis haec dicendi ratio, quae in communi hominum more et
sermone versatur, tantum accepit detrimentum, ut difficile dijudicari
possit, utrum artis inventio profuerit magis an funditus everterit hanc
liberalissimam facultatem. Si addurrà che manchi ai moderni
l’intelligenza degli antichi? Sarebbe ridicolo, essendo innegabile anzi,
che gli ingegni moderni abbiano superato gli antichi. Anche Gennaro fu
figlio del sec. XVIII! Nobis gloriari licet, hanc nostram aetatem
tot novis inventis, novis artibus, novisque scientiis ab antiquis aut
ingenii vitio non animadversis aut voto tantum expetitis auctam esse et
locupletatam, ut nihil fortasse quicquam quod ad humanos usus pertineat amplius
excogitandum, nihilque in re literaria desiderandum nobis relinquatur. La
vera ragione sta proprio, secondo Gennaro, nell'insegnamento della rettorica;
non, di certo, per colpa della stessa disciplina, bensì per i falsi
criteri di chi l’in segna: Non enim tam infestum animum in artem
gero, ut putem eam nullius bonae frugis esse; nec ignoro multa adjumenta
atque ornamenta huic dicendi studio ab arte esse subministrata; at
rursum fateor quam plurima imo maxima in eloquentia existere, quae nec
arte tradi, nec praeceptis contineri possunt: habet ea quaedam quasi ad
commonendum oratorem quo quidque referat, et quo intuens, ab eo quod sibi
proposuerit, minus aberret; at ex adverso petendo haec omnia ad excolendum
oratorem non ad fingendum esse instituta: non abnuo artem quaedam limare
posse, et quae bona sunt fieri meliora doctrina, et quae non optima,
aliquo tamen modo acui posse et corrigi: at contra sic sentio, nisi
subsit materia, in qua versetur, nihil quicquam proficere posse. Verum,
seposita arte, cum ista artificum intemperie mihi res est, qui, omissis
illis utilissimis sapientiae studiis, sine quibus eloquentia consistere
nequit, in lingua tantum exercenda occupati, ex hujus artificii exilibus
jejunisque praeceptionibus, tanquam e maximo dicendi emporio, omnes
divitias et ornamenta eloquentiae petenda esse contendunt; eaque falsa
persuasione imperitam juventutem, rerum omnium egenam, in eam fraudem
inducunt, ut fere omnes credant se, ea percepta, omnibus laboribus jam
esse perfunctos, atque in iis quae ad dicendum pertinent, nihil
omnino aliud sibi addiscendum superesse.... Hoc maximum fuit incommodum,
haec gravissima pernicies fuit eloquentiae, quod dum in hac seclusa
verborum aquula juventutem haerere patiuntur, ab uberrimo et perenni
sapientiae fonte, a quo solida omnis et generosa dicendi virtus promanavit,
avertere atque abducere conantur. Hic factum est ut nostrorum temporum
diserti sapientiae studia reformident; in paucissimos sensus, in inanem
verborum sonitum, nulla re subjecta, in angustas sententias detrudant
eloquentiam velut expulsam regno suo atque in pistrinum aliquod
dejectam. Insomma, studiate l’eloquenza; ma non ut ducem,
verum ut comitem cam adhibeamini. Al tempo del maggior fiorire
dell’eloquenza greca, questa non proveniva se non dai penetrali della
filosofia; iidemque erant et dicendi et morum praecedtores:
at postquam isti verborum nugatores extitere, qui eloquentiam a
sapientia, quae natura ipsa conjunctae erant, dissociarunt, et facto
quodam linguae a corde divortio, quo alii nos sapere, alii dicere
docerent, dum linguam in quaestu ponunt, animum desidia et socordia
tabescere patiuntur, uberrimus fons eloquentiae prorsus exharuit.
Gennaro V. si fa banditore della più sana teoria estetica, sostenendo che
la vera eloquenza è quella che scaturisce dal pieno possesso
dell’argomento. E lo dice molto bene: Sane dicendi virtus
quiddam majus est, quam isti opinantur, atque ex pluribus artibus
studiisgue collectum: quae, etiamsi in dicendo se non proferant, nec
effundant, vim tamen occultam suggerunt, et tacite quoque
sentiuntur. Ipsa enim multarum artium scientia etiam aliud agentes nos
ornat, atque ubi minime credas, eminet atque excellit: atque adeo si,
quod isti ipsi celeri lingua et exercitata operarii fatentur, verum est, quod
persapienter Socrates dicere solebat, omnes in eo quod sciunt, satis esse
eloquentes; ex eorum scilicet inanibus futilibusque praeceptiunculis
scientia illa rerum plurimarum maximarumque, sine qua verborum volubilitas
inanis est atque irridenda, colligetur ? Rerum enim copia verborum copiam
gignit: quonam pacto oratori in hoc tanto tamque immenso campo libere
vagari liceat, atque ubicumque constiterit, consistere in suo, nisi ei qui
dicit, ea de quibus dicit perspecta sint? Qui poterit quandoque insurgere
et ab angustis ejus cancellis, quod optimum est dicendi genus, in amplissimum
generum campum causam educere, nisi res subsit ab oratore percepta penitusque
cognita ? V., quindi, si fermava a provare partitamente come
i fini principali dell’oratoria presuppongano la conoscenza delle parti
principali della filosofia, per conchiudere anche lui, come già il padre:
eloquentiam nihil aliud esse, nisi copiose loquentem sapientiam. Ma quale
filosofia ? E s’insegnava allor nell’ Università di Napoli una filosofia
capace di far risorgere l’eloquenza ? G. B. V., nel 1711, aveva
detto: Per ciò che riguarda la
filosofia; come anticamente né la dottrina degli epicurei, né degli
stoici era utile all’eloquenza (quando gli epicurei della nuda e semplice
esposizione delle cose si contentavano, e gli stoici col troppo affettare
sublimità, ciò che nell’orazione e nello stesso spirito ha di generoso,
infrangeano e cincischiavano, e tolto ogni succo ne denudavan le ossa
disciolte per soprappiù di lor giunture); così oggi né la cartesiana, né
l’aristotelica del nostro tempo fa gran prò alle cose oratorie: questi
perché disadorni e rozzi; quegli perché digiuni, secchi ed aridi in
tanto, che io stimo l’eloquenza dei nostri tempi (quando la lingua
latina pur coltivasi diligentissimamente) prender vizio dalle cose
istesse; ed essersi principalmente corrotta perché le cose
filosofiche senza splendore alcuno, senza ornamento e ricchezza
s’insegnano » 1. Nel 1756 insegnava filosofia, già dal ’41, nello
Studio di Napoli Antonio Genovesi. Pure Gennaro, da buon figliuolo
di Giambattista, dice vichianamente al suo uditorio accademico:
Audacter dicam quod sentio: nostrorum temporum philosophi nullum
emolumentum eloquentiae afferre possunt, quippe nos non ut ad hanc
civilem lucem natos, sed tanquam ab hominum societate sejunctos vitam
acturos in sapientiae studiis instituunt; etenim dum nimis curiose
naturae secreta rimari conantur, moralem penitus neglexerunt, eamque potissimam
partem, quae de humani generis ingenio, ejusque affectibus, de propriis
virtutum et vitiorum notis, deque illa decori arte omnium difficillima
disserit: atque adeo praestantissima de republica doctrina nobis deserta et
inculta jacet; cumque hodie unus studiorum finis sit veritas, vestigamus
rerum naturam, quae certa est, hominum naturam non vestigamus, quae ab
arbitrio est incertissima. Anche nelle ultime parole pare di
scorgere una reminiscenza degli scritti paterni. Si ricordi il celebre
luogo della seconda Scienza Nuova:
A chiunque vi rifletta, dee recar maraviglia, come tutti i
filosofi seriosamente sì studiarono di conseguire la scienza di questo mondo
naturale; del quale, perché Iddio egli il fece, esso solo ne ha la
scienza; e trascurarono di meditare su questo mondo delle nazioni, o sia
mondo civile, del quale, perché l’avevano fatto gli uomini, ne potevano
conseguire la scienza gli uomini ». Non più che una reminiscenza: già lo
spirito è diverso. Quapropter ad antiquos confugiendum! Ma a
quali antichi ? Anche in ciò Gennaro segue da presso il padre.
I Institut. orat., 7-8. Ho citato la trad. del Parchetti, pel suo
sapore vichiano. Epicurus, etsi eum in sapientum numero! censeo, nuda
ac simplici rerum expositione contentus dimittebat. Pyrrhoni vero
quas in hoc opere partes habere potuisset, qui judices essent, apud quos verba
faciat, reum pro quo loquatur, Senatum, in quo sit dicenda sententia, non
liquebat. Zenonem, utpote ab hoc, quem instituimus, oratore abhorrentem,
puto ejiciendum; nam cum illud in votum habuisset, suum sapientem liberum
ac beatum esse, atque eos, qui sapientes non sint, servos, hostes,
insanos, absurdum sane fuisset concionem ei aut senatum, aut ullum
hominum coetum committere, cui nemo illorum qui adsunt, sanus, nemo
civis, nemo liber videatur. Accedit etiam quod, nimia subtilitatis
affectatione, quidquid erat in oratione generosius, frangebat,
concidebatque 2. Quare factum est ut Stoici, qui fere omnes prudentissimi
fuere in disserendo, traducti a disputando in dicendum, steriles et
inopes reperti sint. Aristoteles studiose quodam oratorio (?) non immerito
laetat, et sane ejus disserendi ratio utilis quidem esset, nisi hodie in
vermiculatis illis quaestionibus, verbis utar Verulamii,
versaretur. Anche per Gennaro il porto, che offre un sicuro
rifugio, è quello della filosofia platonica, în qua disserendi ratio
conjungitur cum suavitate et copia dicendi: e della quale Gennaro si
compiace specialmente di ricordare la dialettica, come mirabilmente atta
ad acuire le menti con quel suo procedere quo adolescentes ex seipsis
vera invenire conarentur, secondo il principio socratico: neque
scientias, neque virtutes doceri, sed auditorum mentibus atque animis
educi 3. Pensieri e ricordi in tutto degni del padre. Nel
dicembre dell’anno innanzi, Carlo di Borbone aveva istituita l’ Accademia
Ercolanese. E Gennaro, sulla fine del suo discorso, incitando i giovani
agli studi, non I Quel che segue nel ms. è di mano del Villarosa;
ed è alquanto scorretto. 2 Sono le parole stesse del padre,
nel l. c. 3 Gennaro confonde il metodo socratico con la dialettica
platonica. Ma, raccomandando lo studio della filosofia platonica, egli
pensa ai dialoghi di Platone. tralascia di richiamare alla loro
mente i premi che riservava ai dotti l’ottimo principe; il quale
tanta cura et sedulitate doctissimos ex universa civitate viros nuper
delegit, novamque Academiam constituit ad situm illis venerandae
antiquitatis ruderibus obductum detergendum, quae ex obruto Herculano
continue eruuntur, ne in lucem prolata in iisdem tenebris maneant quibus
tot saeculorum intervallo circumfusa jacuerunt. Di Carlo di Borbone,
in verità, Gennaro non aveva se non a lodarsi; e non si lasciò sfuggire
occasione di tesserne le lodi. Quando, nel 1759, si seppe in Napoli che
Carlo sarebbe passato al trono di Spagna, egli ebbe occasione di
scrivere la seguente lettera, che credo indirizzata a quel padre don
Giuseppe Bolafios (o Burafios), arcivescovo di Nisibe, che fu confessore
di re Carlo :: Januarius Vicus Ex quo mihi sorte
quadam datum est tibi, Vir Amplissime, innotescere, igniculum quendam
animo injecisti, quonam pacto ei humanitati, qua me semper excipere
soles, responderem cum tandem, quo majorem tuae erga me benevolentiae
documentum praeberes, libellum mihi dono dedisti a te elucubratum....
(sic) mole quidem exiguum, fructu autem, quem ex eo quisque pro sua
aeterna salute collegere potest, maximum; unguenta enim quo pretiosiora,
eo angustioribus vasculis continentur: quem cum maxima utilitate quotidie
versare non desino. Ex eo enim facile mihi intelligere datur optimo sane
et sapientissimo consilio factum, Carolum Regem nostrum tibi viro
religiosissimis moribus praedito tradere, ut ex te pene ab incunabulis
veram pietatem, solidiora I ScHIPA, Carlo di Borbone, p. 464 n. e
il Catalogo de’ cappellani maggiori e de’ confessori delle persone reali
(del P. Luigi Guarini), Napoli, Coda, 1819, p. 123. La data della lettera
risulta in modo certo dal contenuto. Nella Pianta della Famiglia della Regina (Maria
Amalia) » del febbraio 1738 (in SCHIPA, o. c., p. 260), è dato come
confessore (della regina) il frate Giuseppe da Madrid, teologo e predicatore del re o Era egli
il Bolafios ? A lei potrebbe essere scritta questa lettera del V..
nostrae religionis praecepta, omniumque Christianarum virtutum
disciplinam acciperet; ut non mirum si apud omnes gentes verum Christiani
Principis exemplar habeatur!: pro quibus maximis immortalibusque
beneficiis quas Deo O. M. gratias agere quasque habere oportet? Quibus
vocibus, quibusque laudibus te efferre, qui tantam ejus curam suscepisti,
egregiamque alioquin indolem ad veram Christiani Principis imaginem
conformare studuisti, ut eo tamquam coelo demisso 2 perfruamur ? At quid
nunc dico ? Quo animus excurrit ? Nobis jam eo aegrius curandum est,
quocum hic praesentem usque adhuc vidimus tanta humanitate tantaque
mansuetudine ut merito parens omnium haberetur. Invida enim tantae
felicitati Hispania (eheu, quem dono datum nobis putabamus, commodatum
aegre intelligimus!) rursus repetit, et suo jure quodammodo sibi
vindicat: ea est rerum humanarum vicissitudo. Verum enimvero ut Magni
Alexandri animo terrarum orbis vix sufficere videbatur, ita haec tanta
virtus nimis angustis hujus regni finibus circumsepta, alias terras nec
Europae terminis, nec Oceano contentas, sed, fas sit dicere, ad fiammantia
moenia mundi usque procurrentes exposcebat, quo libere spatiari
posset. Quoniamque necessitas ita proloqui cogit, nec sine lacrimis
proferre audeo, grassetur in via virtutis, capessat potentissimum
universae Europae imperium, et impleat Orbem gloria nominis sui magna ex
parte in tuam laudem, Praesul Amplissime, redun- datura: non enim
conaptissimis votis Ejus ac Regiae Sobolis incolumitatem expetemus,
faustissimis ominibus ejus iter hinc prosequemur. Hoc tantum omnibus
praecibus ab eo petimus 3, ut aliquem ex suis augustissimis liberis apud
nos relinquat, quem tanquam ejus imaginem in sinu foveamus, quem utpote
ex se natum, haud sui dissimilem fore speramus. Haec sint grati et
observantis animi mei testimonia. Vale. I Sulla
religiosità di Carlo vedi l’ Elogio estemporaneo per la gloriosa memoria di
Carlo III (Napoli, Perger, 1789) del prete dell’ Oratorio FRANCESCO D’ ONOFRIJ,
XXII sgg. 2 Nella minuta: demissum. 3 Questo desiderio
non poteva formarsi dopo il 6 ottobre 1759, quando si celebrò la solenne
cessione del trono di Napoli da Carlo a Ferdinando IV. Né gli auguri pel
buon viaggio possono essere anteriori al 10 agosto 1759, giorno della morte di
Ferdinando VI di Spagna. La lettera, quindi, fu scritta tra l’agosto e
l’ottobre 1759. Questi medesimi sentimenti espresse con
maggior larghezza nove anni dopo, nella solenne orazione letta,
come già ricordai, nell’ Università, Per le nozze di Ferdinando IV con Maria
Carolina (1768), giusto trent'anni dacché il padre vi aveva celebrato con
una sua Orazione le nozze di Carlo e di Maria Amalia; giacché Gennaro
a magnificare i nuovi destini di Napoli sotto il secondo Borbone
trasse gli auspicî dalla memoria di tutto che di grande e di utile era
stato compiuto dal primo. Sicché una buona parte del discorso è
consacrata a re Carlo; e non è un elogio volgare, ma una breve ed
efficace storia in iscorcio del regno di lui, narrata nel più puro latino
e in classico stile. Storia, che, pur compendiosa, non va per le
generali, ma, senza colorire, accenna tutte le linee principali e
qualcuna anche delle secondarie di quel regno, rilevandone ogni carattere;
in modo che ne risulta un concetto abbastanza compiuto di quel periodo
così importante della storia napoletana. Comincia dal rilevare la
nota storica fondamentale, della costituzione del regno indipendente, per
opera del Borbone: si Quisnam enim unquam in animum sibi
inducere potuisset, Regnum hoc trecentos fere abhinc annos, tot tantasque
rerum passum vicissitudines, semper exterarum gentium imperio subjectum,
sui tandem juris factum, in suam ditionem perventurum, Neapolitanorumque
cervices diuturno externae dominationis servitio suetas suavissimum proprii
Principis subituras ? !. Quindi, pensando alle contingenze
storiche (specialmente al matrimonio di Filippo V con Elisabetta
Farnese), a cui si dové la indipendenza del Reame di Napoli, non
può a meno di rammentare un principio della Scienza Nuova, che non saprei
peraltro quanto da lui esattamente compreso: Abeant hinc, et facessant,
qui stultissime putant humana ratione fieri, quae Divino tantum
consilio eveniunt, aut fateantur caelesti Numine rectores terris
dari ! ». Accenna poscia con tocchi liviani le giovanili
imprese militari di Carlo, le sue doti guerresche, l’amore guadagnatosi
dei soldati, i costumi castissimi continentissimique Ducis, che eran d’esempio
all’esercito; e la conquista del Regno, la vittoria di Bitonto, e poi il
rapido acquisto della Sicilia (quam tanta celeritate in suam vredegit
potestatem, ut haud quisquam cursu cam, quam victoria
peragraverit), nonché il trionfale ingresso in Napoli. Della città
ricorda la singolare tranquillità con queste efficaci parole:
Testes denique [della grandezza delle sue gesta] sumus nosmetipsi, qui
velut in Theatro sedentes, tamquam de aliis fabula, non de nobis res
ageretur, belli malis damnisque expertes, securi et oscitantes, in summo
otto, in maxima rerum omnium copia sacvientis Martis furorem spectabamus
». Menzionata anche la guerra di Velletri, tanto per compiere il
ricordo dei fatti militari di Carlo, torna con la memoria al giorno in
cui l’infante don Carlo fece la sua prima entrata nella capitale (Io
maggio 1734); e ricorda il giubilo della città in quell’occasione 1.
Detto poi delle virtù pubbliche e private del re, accenna le
principali riforme da lui promosse, a capo delle quali il riordinamento
della magistratura, e poi la restituzione della Università nel Palazzo degli
Studi, il cui riattamento era stato già celebrato con un'epigrafe da G.
B. V. =; infine I Lo ScHIPA per la menzione che fa anche lui di
quelle feste (op. cit., p. 125) avrebbe trovato nell’opuscolo del V. un
documento interessante; IX-x. Vedi pure (pp. xv-xVviI) il ricordo delle feste
di Napoli pel matrimonio di Carlo con Maria Amalia. 2 Inter
praecipua pacis ornamenta, quae jam animo volutaverat, nihil ei antiquius
visum (utpote non ignaro bonarum artium disciplinas rerum humanarum esse
moderatrices) quam Musis, regno suo passa ad enumerare le opere
pubbliche, le imprese d’arte e di storia, cui provvide Carlo di Borbone.
Questa la parte più curiosa e caratteristica dell’orazione; e merita
d’esser conosciuta. Ecco come accenna alla costruzione del S. Carlo:
Praeterea, ne videretur otium virtute partum sibi tantum
comparasse, neve populus expers esset honestissimarum voluptatum, quae pacis et
tranquillitatis sociae in Rep. aluntur bene constituta, Theatrum totius
ferme Europae magnificentissimum tanto temporis spatio excitavit, quantum vix
ad opus designandum tignumque comparandum satis esset. Dei
lavori per la Strada Nuova verso Porta del Carmine, eseguiti nel 1749, e del
ponte presso al Castello del Carmine, pel quale fu composta un'iscrizione
dal Mazzocchi 2, Gennaro dice: Quid dicam prohibitum a muris, quos
autem alluebat, mare, strata civium commoditati urbisque ornamento
publica via, quae mari intermittit, pontibus continuata, quodque
antea cymbis ratibusque aptum, curribus nunc equisque pervium
factum esse ? pomoeriumque prius e remis expertum nunc rotas pati,
perque subterlabentes undas nedum tuto incedi, sed plaustra etiam duci
videmus ? Quid
jactis molibus super contractum mare productae civium inambulationes, et
tutissimum navium receptui portum effectum, quo antea carebamus ?
E della istituzione del
Real Albergo dei poveri, cominciata nel 1751 3: quasi expulsis,
nulla certa stabilique sede errabundis, vixque precario hospitio [a S.
Domenico] exceptis, pristinum domicilium nitidius elegantiusque restituere »
(pp. XVI-XVII). Per la parte di G. B. V. nel ripristino dell’ Università
nel Palazzo degli Studi vedi l’ importante articolo di GiusePPE CECI, Il
palazzo degli Studi, nella Napoli nobilissima, vol. XIII, 1904, 182-3.
I Vedi in proposito, D’ ONOFRI, Elogio, p. cxxx; CROCE, I teatri di
Napoli, Napoli, Giannini, 1891,pp. 322 sgg.; SCHIPA, o. c., p. 28I.
è Cfr. D’ ONOFRI, Elogio, p. CXxVI. 3 D' ONOFRJ, p. CvII.
Cfr. SCHIPA.] Exhauriendae sentinae Urbis amplissimum Ptochotrophium
coeptum, quo compellerentur imae plebis purgamenta, ne nobis molestiae,
et civitati dehonestamento essent. E delle ville acquistate e
abbellite da Carlo :: Quid tot villas ad urbium instar
aedificatas, Bacchi, Florae Pomonaeque certamina, amplitudine, elegantia,
amoenitate adeo admirabiles, ut cum Romanis ipsis de operum magnitudine
jure contendere audeamus. E della cascata di Caserta:
Praeterea quasi terrae ac maria sibi satis non essent, per vetitum
ruens, caelum ipsum tentare ausus est. Quis unquam fando audivit per
aérem volitantia sua natura reptantia filumina ? altissimis
jugis profundissimae aequatae valles, perfossi montes, ‘amnisque
longissime arcessitus, ac Regiae Villae sublimis invectus. Jactet quamvis
Romana magnitudo sua immania opera, templa, theatra, basilicas, villas
denique suas, magna quidem admirandaque, quorum rudera adhuc extantia animos
omnium stupore defigunt, rerum tamen naturam non est supergressa; at
rerum ordinem invertere, naturae vim facere, ni caelum ipsum
moliri, nobis concedere cogatur. E gli arazzi di Parma e le
porcellane di Capodimonte 3 famose. Gennaro ha un accenno anche per
queste arti fiorite in quel felice periodo della storia napoletana:
Quid de artibus aut inventis, aut advectis, aut perfectis dicam ?
Nonne, ut Attalica peripetasmata et cetera cuncta consulto praeteream,
scimus figulinam ab eo institutam, summoque studio Myrrhina pocula
perfecta adeo, ut levitate, candore, perspicuitate cum Sinensibus Saxonicisque,
quae tanto pretio antea comparabantur, facile contenderent ?
I D’'ONOFRJ, p. CKXXVIII, e SCHIPA 0. c. 287 sgg. ? Cfr. SCHIPA, 0.
c., p. 286. 3 Vedi D' ONOFR], p. Cxx, e L. DE LA VILLE, La r.
fabbrica di porcellane in Capodimonte durante il regno di Carlo Borbone, e La
v. fabbrica di porcellane in Napoli durante 1l regno di Ferdinando IV, in
Nap. nobiliss., III (1894), 131-8, 182-7. Degli scavi di
Ercolano lo scrittore, eccitato dall’estro encomiastico, afferma che la
gloria di averla scoperta non fu per Carlo maggiore che non fosse per la
città quella di essere scoperta da Carlo; e che certo essa aveva
desiderato di starsene diciassette secoli sotterra per aspettare tanto
scopritore ! Res natura occultas et latentes indagare quoque et
inquirere curiosissime aggreditur; ausisque adeo affuit Fortuna, ut,
terrae viscera rimando, Herculanum Vesuvii incendio haustum patefecerit,
quod tamdiu fortasse obrutum jacere optavit, ut a regum Clarissimo detegeretur,
ne prolatum minus a Principis gloria lucis acciperet, quam decoris ejus
fortunae tribuere videretur. Poi, com'era da aspettarsi, vien la volta
dell’ Accademia, e in fine anche del Museo Ercolanese: cunctis
gentibus, nedum earum rerum studiosis, tanquam antiquitatis miraculum
spectandum contemplandumque. E Pompei? Perché Carlo non s’è accinto
anche agli scavi di Pompei? Fortasse factum puto vi risponde Gennaro con classica
reminiscenza, che poteva anche essere sprone ed ammonimento, ut ejus gloriae, quam maximam jam
sibi comparaverat, materram Ferdinando filio, regi nostro amabilissimo,
relinqueret. Che più ? Né anche l’ordine di S. Gennaro,
istituito dal Borbone nel 1738 !, è dimenticato: Postremo,
quo munia bene obita, pericula fortiter suscepta rependeret, amplissimum
Divi Januarii Ordinem instituit, maximorum praemium meritorum ?.
Dopo quello di Carlo viene, naturalmente, l'elogio di Ferdinando.
! Vedi SCHIPA, o. c., p. 325, e D’ ONOFRIJ, p. CCXxXIv. 2 Per
tutti questi passi che ho citati, vedi In regiis, XVI-XX. 274
STUDI VICHIANI È vero che per costui almeno si sarebbe dovuto
attendere. E infatti, Gennaro dapprima preferisce insistere sull'esempio
da imitare che Carlo aveva lasciato al figlio. Ma poi s’interrompe: At
quorsum abeo ? fortes degenerem nunquam gignunt aquilae columbam! E si
rivolge allo stesso Ferdinando con parole affettuose: Cogita
Te non advenam, sed indigenam esse; non traducem peregre accersitum, sed heic
satum; non aliis, at nobis autem natum esse: easdem nobiscum auras spirare
coepisse; eodem caelo tectum; eadem moenia suo te complexu nobiscum
continere; idem solum, patriam, patrios Divos communes habere nobiscum;
nostris moribus institutisque imbutum; atque adeo civem nostrum esse!,
etc. Si ricordi: Ferdinando aveva allora 17 anni; ma, come
si vede, s'avviava a diventare il Re Lazzarone! Di Maria Carolina è
lodata la bellezza, la serenità della fronte, la tranquillità
dell’aspetto, la grazia, il sorriso. Tacitus enim ei inest lepos,
qui vultus, oris, oculorum alit augetque quodammodo venustatem, in quibus
charites, tribus velut arcibus insidentes, excubare videntur, ad omnium
animos te intuentium alliciendos 2. Che avrà detto il buon
Gennaro de’ suoi amabili principi nel ’99, quando gl’impiccarono anche il suo
Falconieri? In quell’occasione delle nozze di Ferdinando, compose anche
quest’iscrizione, che forse fu apposta alla porta dell’ Università il
giorno stesso, in cui fu letta l’ Orazione: Carolo III Borbonio
Hispaniarum Regi Potentissimo semper Augusto in communi omnium
plausu pro firmata auspicatissimis Ferdinandi IV et Mariae
Carolinae Austriae nuptiis Neapolitanarum felicitate vel ipse
Musarum Numen Apollo e suis excitus adytis Laeta omina futura
canens tanquam praesentissimo Numini pro tanto beneficio
aucturo Caelitum numerum supplicationes ac pulvinaria decernendo
respondit. Del re Carlo, quando morì (14 dicembre 1788) non
so se Gennaro V. abbia avuto l’incarico di leggere l’elogio. Tra le
sue carte non ci resta se non un frammento di minuta di un’ Orazione in
lode di questo re. Ma sono a stampa le quattro iscrizioni latine da lui
composte pel funerale celebrato in onore di Carlo III dalla Real
Compa gnia de’ Bianchi ', il 12 febbraio 1789. L'ultima di esse
dice: Si tuis precibus pronae Dei aures sì votîs
invocari incipis pro ea în quam nos vecepisti
fide te prolixe obsecramus ut Ferdinando et Mariae Carolinae
DD. NN. Augustaeque proli 1 Solennità funebre
all’eterna memoria di Carlo III, celebrata nella Real Compagnia de’
Bianchi della Carità sotto l’invocazione di Santa Sofia e Capuano di
Napoli, s. a. In questo opuscolo, dopo descritto il mausoleo, è
detto: Vi si leggevano delle nobili
Iscrizioni composte dal regio prof. della Università don Gennaro V. » (p.
3). L’elogio fu So dal sacerdote don Bartolomeo De Cesare,
professore di S. Teoogia.] semper propitius adsis cum in eorum
incolumitate securitas et felicitas nostra contineantur.
Gennaro V. non fu regio istoriografo come il padre: ma, fosse obbligo, in
certo modo, della sua cattedra di rettorica, fosse gratitudine per i
benefici ricevuti dalla dinastia, fu panegirista ed epigrafista del re.
Così nel 1781, quando tutta Napoli si profuse in dimostrazioni di lutto
per la morte di Maria Teresa (27 novembre 1780) 1, Gennaro diede
anche lui in luce un elogio dell’imperatrice, che non risulta, per altro,
scritto per incarico ufficiale 2. Ma il suo genere era l’epigrafe, in cui
gareggiava col collega, professore di lingua latina e antichità romane, don
Emanuele Campolongo, le cui iscrizioni furono raccolte in due volumi,
intitolati Sefulcretum amicabile (1781-2). Infatti, quando il 28 giugno
1790 furono celebrati i funerali d’un professore dell’ Università, il
valente naturalista Gaetano. De Bottis, le iscrizioni attorno al mausoleo
furono composte dal Campolongo, e una, la più importante, da collocare sotto il
ritratto dell’estinto, scritta dal V.:
che in tale genere », dice il narratore di quei funerali, han presso di noi raggiunto lo schietto
ed aureo genio dell’antichità » 3. I Vedi le due raccolte
miscellanee di prose e versi in morte di Maria Teresa nella Bibl. naz. di
Napoli ai segni 156, L 3 e 155, K 16. Vi è anche un’ Orazione del sac.
MARCELLO Eus. ScoTTI pei funerali celebrati in Procida il 19 febbraio 1781:
Napoli, Stamp. Simoniana, s. a. Anche un martire del ’99! 2?
Elogium Mariae Teresae Augustae a JANUARIO V. inscriptum; Neapoli, ex
tip. Bernardi Perger Vindobonensis [s. a.], di 7 più I inn. in-4°. Stampa
di lusso. 3 Solenne funerale di D. Gaet. De Bottis prof. [...]
celebrato nella Torre del Greco sua patria, Napoli, MDCCXC, Stamp.
Migliaccio, p. 6. L’epigrafe di G. V. che contiene tutta la biografia del morto
è a p. 7. V’è anche (pp. 34-9) una canzone dell’ab. don Antonio
Jerocades. Tra le carte di Gennaro sono quattro abbozzi
d’una epigrafe per una principessina reale, morta nel luglio 1783.
L'ultimo, al quale pare l’autore si fermasse, è questo: Regia
Infantula Ferd. IV et Mariae Carolinae Austriae filia
infelicissima quasi esset parum ab omnibus naturae et summae
Fortunae bonis ejici luce orba utraque carens nomine a
suorun columbario etiam prohibita ad hoc tantum mata ui omnium
expers esset | heic condita®. Nel 1787 morì, ancora in
tenerissima età, un altro figliuolo della feconda Maria Carolina; e
Gennaro scrisse quest'altra epigrafe: Have Animula
innocentissima Caroli Titi dulcissima Augustae Domus
Regnique primula nec dum quadrimula spes e 3 Ferdinandi IV et
Mariae Carolinae Austriae moerentissimorum Parentum sinu et
complexu acerbissimo funere erepta amarissimo cunctis relicto desiderio
tui. Vixit annis III. mens. XI dieb. XIII Coelo recepta Ter
I à I A 2 i Questo verso nel primo abbozzo
segue: X/V. Kal. Sextil. e ® Ve n'ha tra le carte di Gennaro anche
un’altra bozza. Dai funerali alle nozze. In occasione del matrimonio
di Francesco Borbone il mancato
discepolo di Gennaro V. con Maria
Clementina d’ Austria, i fratelli Terres presentarono ai principi una
tavola di marmo, in cui erano insieme rappresentate le due effigie
regali; e vi scrisse la dedica Gennaro: Faustissimo
Francisci Borboni et Mariae Clementinae Austriae conjugio
dulcissimae spei ac nostrae posteritatis praesidio comperientis !
nostram felicitatem ex pene tisdem quibus ad nos fontibus ad seipsam
promanare hac marmorea tabula novo picturae genere dedita opera
expresso ut quae corporum conjunctio în speciem oculis subjicitur
eadem animorum, dissecto marmore, penitus inveniatur F. T. pronti et
venerabundi D. D. D. 1 Pare si accenni propriamente al 1790,
quando si celebrò il matrimonio di Maria Teresa e Luigia Amelia di Borbone con
Francesco d'Austria e Ferdinando granduca di Toscana, e si formò, come
dice il COLLETTA (lib. II, c. II, $ 34), a Vienna il terzo matrimonio tra
le due case di Napoli e di Vienna: questo di Francesco con Maria
Clementina. ? L’anno innanzi, o quell’anno stesso, una tavola
simile, con l’effigie di S. Domenico, fu mandata dai fratelli Terres a
Ferdinando duca di Parma. E pel regalo onde il duca compensò i fratelli
Terres, Gennaro scrisse la seguente epigrafe, la cui minuta è sul retro d’una
lettera in data 12 marzo 1789: Ferdinando Parmae Placentiaeque Duci Qui praeclarum Borbonidarum munificentiae cum Farnesiorum in fovendis alendisque pacis artibus singulari studio fida societate conjunxit marmoream tabellam cum Divi Dominici ei praecipuo cultu habiti
effigie indelebili quodam picturae genere marmovi coalescente haud pridem invento atque anaglyptico opere exornatam - cujus
libenter accepta vel maximum
proemium fuisset manus munere sive potius cultum culto rependens suam imaginem maximo aureo numismate graphice expressam colendam misiît cuius pars aversa drammaticae Poéèseos coronatio ut omnes cognoscerent Parmensem ditionem uti pridem, ita modo
etiam Musarum esse domicillum atque optimarum artium culiricem pro quo summo beneficio Fratres Terres Neapolitani Bibliopolae proni et venerabundi cum gratia agunt tum maximas habent et immortales.
Pare che i Terres stampassero anche un’incisione della medaglia
ricevuta, con un’altra iscrizione del V. che comincia: En cur honor
VI. IL FIGLIO DI G. B. V. 279 Ferdinando IV fa ricostruire
un ponte sul Garigliano; e Gennaro detta l’epigrafe che ne tramandi il
ricordo ai posteri®. Nasce a Ferdinando un altro figlio; e V.
raccoglie in un’epigrafe a S. Gennaro i ringraziamenti del
popolo: St antea Dive Januari hanc sacerdotum
sacra fronde redimitorum solemnem pompam caste celebravimus
nunc vero solido gaudio perfusi ingentes tibi gratias agimus
quod Maria Carolina felice foecunditate Ferdinandum
alio dulcissimo praesidio auxit quo Augusta Domus pluribus
munimentis insisteret nostraque felicitas stabilius
firmaretur. Si celebra la solita festa a S. Gennaro, e sono del V.
le quattro iscrizioni che si leggono quel giorno nel Duomo; in una delle
quali si prega il santo di voler rappresentare, in suo liquenti cruore »,
Ferdinando et Carolinae DD. NN. Totique Domui Augustae perpetuam incolumitatem felicitatemque ac proinde nostram securitatem.
alit artes en cos ingeniorum en effigies Parmae et Placentiae Ducis; e accenna
anch'essa alla tavola di S. Domenico ignoto pingendi genere et nova diaglyphice nulla ferri ope eleganter exornata. I Vedi questa
e altre epigrafi in Appendice I, scelte tra le molte che restano tra le
carte di Gennaro, per lo più sepolcrali. Con le lodi di Carlo III
e di Ferdinando IV si apre anche la Dissertazione sulla città di Pompei :
del primo, per gli scavi di Ercolano e per l’ Accademia Ercolanese,
che veniva certo in proposito di ricordare in uno scritto con cui
s’inauguravano i lavori della classe d’ Alta Antichità nella nuova Accademia; e
del secondo, pel nuovo impulso dato ai medesimi studi con la nuova
istituzione. Per adempiere [continua l’autore modestissimo] per
quanto la scarsezza de’ miei talenti e la cortissima estensione delle
mie cognizioni mi permettono, l’incarico superiore di gran lunga a
me stesso impostomi dalla Sovrana Munificenza, prendo per oggetto delle
mie ricerche la città di Pompei, non già sull’ idea di adornar alcuna
delle discoperte parti di quel tutto, che ancor giace sepolto; ma di
considerarlo al solo lume degli antichi scrittori; e coll’autorità dei greci e
de’ latini, tra i di cui confini alla mia Classe è stato circoscritto il
commercio, di tutti il più ricco, e ’1 più nobile, perché di tutto da
essi abbiam ricevuto il sapere; rilevarne, per quanto mi sia possibile,
le di lei vicende. Né sulla lusinga di produrre cosa nuova in un
argomento, il qual solamente è venerabile per la sua antichità:
quantunque il raccogliere, disporre e combinar insieme que’ languidi e
dispersi barlumi, lasciatici dagli antichi, potrebbe conciliarsi una
qualche sembianza di novità, se fossero da più dotta e più maestra mano
stati ordinati e composti. Ma sulla speranza che siccome que’ venerabili
avanzi di antichità, che da Ercolano si estrassero, furon cagione, che s’
instituisse l’Accademia Ercolanense, così a vicenda questa real Accademia
istituita potesse cominciar li suoi fasti dall'epoca gloriosissima del
risorgimento di Pompei, dopo essere stata per l’ immemorabil corso di ben
XVII secoli sepolta: poiché.... se que’ rottami ercolanensi svelti ed
infranti, rivestiti di sì dotta ed erudita luce da tanti chiarissimi
ingegni, che vi travagliarono, si son resi non meno ammirabili per il
buon lume ricevuto, che per la loro antichità; onde il Museo Ercolanense
è divenuto nell’ Europa cotanto celebre, che può dirsi essere una delle
cagioni del frequente concorso in questa città, per se stessa
luminosissima, di tante culte nazioni: quanta, e quanta maggior
confluenza ne attirerebbe, se mai potesse vedersi una nobilissima città, unico
esempio nella storia di tutti i tempi, intieramente esposta alla luce del
sole, e quindi all’ammirazione dell'universo ? Gli scavi di
Pompei, com'è noto, furono intrapresi nell'aprile 1748 !; ma rimasero presto
interrotti; e s’è visto che Gennaro ne faceva un'eredità di gloria
lasciata da re Carlo a Ferdinando. Certo, il nome del figliuolo del V.
va ricordato tra coloro che incitarono efficacemente a quest'opera
importantissima. E, come già altri ha notato ?, a torto è dimenticata la
sua monografia su Pompei, la cui parte più notevole è, come si disse,
riferita dal NapoliSignorelli nella sua Storia dell’ Accademia delle scienze
e belle lettere. In questa monografia è innegabile profonda
conoscenza e acuta critica delle fonti letterarie. Chi vorrà
studiare il bel tema degli studi d’erudizione antica in Napoli durante il
sec. XVIII, non potrà trascurare questo scritto del V., e il frammento che ci
resta dell’altro su Locri. Ma non è qui il luogo di farne particolare
esame. Dirò soltanto che ci si vede l’erudito, ma non l’antiquario di
professione. Rifiutate le leggende, non subentra lo sforzo di spremere
dalle scarse testimonianze superstiti quello che esse non possono darci;
e il buon senso mette in guardia contro le sottigliezze e gli artifizi
congetturali, che facilmente attraggono lo studioso dell’antichità. Ciò è
particolarmente notevole nella relazione sulla memoria del Finamore
intorno alle origini di Lanciano; dove, nonostante la cadente età » e la languidezza dello
spirito », accusate sul principio dall'autore, spunta qua e là anche il
bonario sorriso del buon senso contro certi arzigogoli del Finamore, per
ottenere che l’ Accademia riconoscesse nell’antica Lanciano un municipio
anzi che una colonia romana. Dopo un minuto esame delle epigrafi
lancianesi mandate dallo stesso Finamore all’ Accademia, I
FIORELLI, Descriz. di Pompei, Napoli, 1875, p. 22; o Pomp. antiq.
historia, Neapoli, 1860, dov’ è la storia degli scavi. ® BELTRANI,
La R. Acc. di scienze e belle lett., p. 37. Il lavoro del V. non è
citato, nota lo stesso Beltrani, p. 88, nella Bibliografia di Pompei,
Ercolano e Stabia di FRIEDRICH FURCHEIM, Napoli, 1901. il buon V.
viene a questa conclusione, che mi piace riferire: Avrei
bramato soddisfare il dotto ed erudito sig. Finamore, se li monumenti me
ne avessero somministrati i mezzi. Ed in questa occasione sperimento pur
troppo vera la natura dell’ambizione, che non respiciîit, che non si volta mai
indietro; la quale, quantunque vizio, quando però si propone per oggetto
la virtù ed il sapere, deve riputarsi ambizione lodevolissima:
siccome Quintiliano dice: quamquam ipsa sit vitium, frequenter
tamen causa viriutum est: e l'ambizioso più si duole di un solo, che
abbia innanzi, che l’attraversi il conseguimento del suo fine, che
goda di tanti meno felici, che gli vengono appresso; e le passioni
più commendabili devono essere regolate sempre da quel ne quid
nimis; perché Virtus est medium vitiorum et utrimque reductum.
Avrebbe desiderato il dotto ed erudito cittadino assiem col suo
collega il sacerdote don Uomobuono de’ Buchachi!, con cui est studiorum
societate conjunctus, che Lanciano fosse stato dichiarato municipio, la quale
quasi già non lo è; e non si volge dietro a considerare tant’altre città
di condizione meno ragguardevole che Lanciano, che le vengono appresso.
Mi lusingava di dover fare da avvocato del sig. Finamore in questa sua
onestissima causa; e, mio malgrado, devo farvi la comparsa da fiscale,
perché l'autorità e li monumenti l’oppugnano, e quelli stessi, che egli
ha prodotti, punto non lo suffragano: ma non per questo può dirsi,
che egli abbia intieramente perduta la sua causa: perché quod petit intus
habet. Non sente essersi talmente confusi li diritti, e le prerogative
de’ municipi con quelle delle colonie, e questi in quelli trasfusi in
guisa, che gli uni dagli altri non sì distinguevano ? Non sente da Gellio
il nome di municipio già dileguato obscura et obliterata suni municipiorum
jura, quibus uti per innotitiam non queunt ? Non ha inteso, che li
municipi pretesero di cangiar la loro condizione in quella delle colonie,
e non vede le istesse città I È lo stesso BOocHAcHE, autore del
Saggio storico-critico della città di Lanciano, che si conserva ms. nella
Biblioteca del Ginnasio di Lanciano ? Un brano ne pubblicò il prof. L.
GAMBERALE, Notizie sui fatti di Agnone nel 1799 tratte dall’appendice al
Saggio ecc. Campobasso, Colitti, 1900. essersi appellate colonie e
municipi ? Non ha inteso li distinti cittadini municipali in sì poco conto
presso li romani ? Non conosce quindi, che il tutto si riduce alla
distinzione del nome ? Perché Struggersi per investir la sua patria di un
pregio, che, in tempo che valeva, era in sì poco conto, ed ora si riduce
a un nome vano, in guisa che, se allora municipium e colonia eran
riputati lo stesso, ora questo istesso è divenuto un nulla ? !.
In questa dotta relazione, dove l’ immortal Muratori » è
vichianamente detto, con ammirazione, ingordo voracissimo rivolgitor di
biblioteche », è pur degna di nota, in mezzo all’erudizione archeologica,
una disgressione filosofica, o disgressione in astratto », come dice
l’autore; e che egli chiede di poter fare, giudicandola non capricciosa, perché avvalorata
dall’autorità; se poi applicabile alla nostra ricerca, lo sottopongo al
giudizio de’ dotti ». Da quale autorità, Gennaro non dice; ma basta
sentirne il principio per indovinare l’allusione: È costante
che le lingue sieno indici, che ci scoprono li costumi delle nazioni; e perché
fide interpreti dell'animo, dovettero nascere aspre, dure, orride,
esprimendo la rozzezza e la ferocia delle nazioni, che le parlavano; a
misura poi che li costumi a poco a poco s'ingentilirono colle arti dell’
umanità, si raddolcirono anche le lingue: del che ce ne somministra una
testimonianza la lingua latina, la quale tale la scorgiamo in que’
frammenti delle leggi delle XII Tavole; e pure cominciava il quarto secolo
della fondazione di Roma. Tal dovette essere, e fu la lingua di
Lucilio, di Pacuvio, di Livio Andronico, di Ennio; e Plauto, che ci
è restato, e provenne assai più tardi, essendo morto nel consolato
di Fublio Claudio Pulcro e di L. Porzio Licinio, cioè nel 570 di Roma, di
quante ruvidezze e racidumi è pieno ! Come, per esempio, nel Prologo
dell’Anfitrione: I Di questa relazione rimane una copia di mano
del marchese di Villarosa. Anche all'Accademia credo sia stata letta una
breve Relazione intorno a certe dissertazioni su Virgilio di A. DE SANCTIS,
che resta tra le carte di Gennaro, curioso documento della sua
bonarietà, contraria a ogni ipercritica, e un po’ anche alla stessa
critica. Ut vos în vostris voltis mercimoniis Emundis
vendundisque. Uno scrittore del secolo d’oro avrebbe detto:
Ut vos in vestris vultis mercimoniis Emendis vendendisque.
Or l’ istesso dovette accadere in tutte le lingue delle altre nazioni:
che, a proporzione che colle arti dell’ umanità depressa [fu] la ferocia
de’ costumi, così le lingue la loro asprezza, e quel rumoroso strepito di
voci [perderono]. L’ istesso vediamo esser avvenuto nella ricorsa
barbarie in tutti i dialetti della lingua italiana, che fu una corruzione
della latina: le lingue, le quali ora parliamo, quanto sono differenti da
quelle di tre o quattro secoli addietro ! Si ricordi la
Dignità XVII della seconda Scienza Nuova: I parlari volgari debbon esser
i testimoni più gravi degli antichi costumi de’ popoli, che si
celebrarono nel tempo, ch’essi si formaron le lingue ». Ma tutto il
pensiero e le espressioni di questo brano sono di (G. B. V.. Le cui
opere Gennaro dové custodire sempre come cosa sacra, e leggere e
rileggere, benché non avesse intelletto pari alle speculazioni paterne; ma per
compiacersi in ammirar i monumenti della grandezza del padre, alla
cui ombra svolgevasi la sua vita tranquilla. Custodiva gelosamente quei
libri. Dev’essere un suo parente chi gli scriveva, nel 1780, la seguente
lettera: Casa, 27 luglio 1789. Veneratissimo mio Sig.r don
Gennaro, Il Sig.r don Francesco Esperti 1, a che (sîc) molto devo,
desidera la prima edizione della Scienza Nuova solamente per incon I
L’avv. Franc. Sav. Esperti, nipote di mons. Esperti, corrispondente di G. B. V..
Nel 1792 pubblicò in un opuscoletto la lettera del V. allo zio, relativa
appunto alla 18 Scienza Nuova. Vedi VILLAROSA, Opuscoli, 368-9, e CROCE,
Bibliogr.] trare (sic) certo passo, e restituirvela. Spero dunque che
l’abbiate, e me la favorite, che sarà mia cura di restituirla; e sicuro
de’ vostri favori, resto pieno di stima dicendomi Vostro
devot.mo servitore obbl.mo Nicolò Santaniello 1. Non pare
che egli abbia avuto nessuna parte nel preparar la raccolta delle Latinae
orationes del padre, pubblicata nel 1767 da Francesco Daniele 2. Ma questi
dové più tardi rivolgere nell’animo il proposito di raccogliere
tutti gli scritti sparsi del V.. E allora certo ricorse a Gennaro 3. Se
non che il Daniele in fine non ne fece nulla; e Gennaro per un momento
poté sperare di far lui la desiderata edizione delle opere paterne. È.
ormai I Il ViLLarosa, Opuscoli, III, p. v, parla della casa de’
signori Santaniello, ultimi eredi del V., sita nella strada dei Mannesi
»; e dice che in essa conservavasi il ritratto di G. B. V. dipinto dal
Solimena, che fu distrutto con la casa stessa da un incendio intorno al
1819 (v. anche Croce, Bibdl., p. 116). [Filippo Santaniello (mi comunica il
Nicolini), sposò Candida V., figlia di Ignazio, e due figli, Mercurio e Carlo,
nati da questo matrimonio, son nominati nel testamento di Gennaro V., in
data 2 settembre 1805). 2 Nella dedica del libro al Targiani, il
Daniele dice d’aver raccolto da sé e da molto tempo quelle Orazioni. Cfr.
CROCE, Bibl., p. 30. 3 Nel 1804 faceva ricerca di scritti del V. e
di sue lettere, scrivendone ad amici a Roma e altrove. Il Croce (Bib/., p. 30)
ha richiamato l’attenzione su due lettere del card. Borgia (del 1804) al
Daniele, che sono nel carteggio inedito di costui, conservato dalla Soc.
storica napoletana. Importante è anche il seguente brano d’una lettera
allo stesso Daniele, scritta da Jacopo Morelli (l’erudito bibliotecario
veneziano, a cui il Villarosa dedicò il 1° volume degli Opuscoli), da Venezia
1I febbraio 1804: Ho fatto ricerche per le Lettere del V.
richieste, e nulla si è trovato. Per quelle all’ab. Conti ho fatto
esaminare le casse di lui, già possedute in Padova dal professore Toaldo,
ed ora dal Cheminello. Per quelle al Lodoli non vi sono ricerche da fare,
essendo perite le casse di lui in uno dei Pubblici Archivi, dove erano
trasportate dopo la morte di lui; perché vi si trovavano scritture di
affari di Stato mescolate, e si fece un’asporto (sic) totale senza discrezione.
Per quelle al Porcìa ho fatto cercare in Udine presso li discendenti del
corrispondente col V., e nulla si è trovato. Sicché null’altro mi resta da fare
» (Carteggio di F. Daniele, vol. III, c. 305; Soc. stor. nap.).
Le relazioni del V. coll’abate Conti e col Lodoli il Daniele non
poté conoscerle se non dalle aggiunte, allora inedite, alla Vita del
19 nota la minuta della prefazione ! che egli già aveva preparata
pel primo volume, che avrebbe dovuto contenere la Scienza Nuova del
1744. Tandem tot flagitatoribus, tot obtrectatoribus mihi
tanquam parum officioso exprobantibus morem gero, a quibus quasi
obsessus quotidie oppugnabar; tandem rogari, atque invitus negare desino,
cum non mea me voluntas, sed rationes meae ab incepto prohiberent: fidem
meam absolvo, dato fidejussore satis superque locuplete, honestissimo
Neapolitano Michaele Stasio, qui onus in se suscepit: tandem Patris mei
(cujus etsìi eundem muneris ordinem adeptus, utinam eodem dignitatis gradu
explessem !) opera omnia.... in unum corpus collecta, in lucem prodeunt.
Accennando alla diuturna meditazione in cui s'era maturata la
Scienza Nuova, Gennaro dice che è questa la ragione principale della
pretesa oscurità trovata in quell’opera da taluni, qui, ne de grege imperitae multitudinis
habeantur, quae ca magis admiratur quae minus intelligit, prorsus damnant
quod non intelligunt ». Aliud est, dice Gennaro, e nelle sue parole
bisogna vedere un pochino lo stato d’animo di lui stesso quando
leggeva la Scienza Nuova ; aliud est
dicere, non intellago, aliud, non intelligitur : illud modestiae,
et suae cujusque conscientiae potius tribuendum; hoc autem summae arrogantiae
indicium, quod firmissimum supinae ignorantiae argumentum; nam quid est
aliud, quam se supra omnes extollere ac postulare, quod ipse non
intelligit, e nemine intelligi posse ? Nam vere docti quantum sibi desit,
sciunt. V., che erano presso Gennaro, se già questi non le aveva
date al march. di Villarosa. A quell’anno, infatti, devono pur risalire le
avvertenze del Daniele comunicate al Villarosa per una ristampa della
Vita del V. (cfr. Croce, Bibl., p. 110); dalle quali apparisce e la
conoscenza delle carte vichiane possedute da Gennaro V., e la familiarità del
Daniele con quest’ultimo, già decrepito. Potrebbe anche pensarsi che
queste ricerche pel Borgia e pel Morelli ei cominciasse a farle per
compiacere al marchesino Villarosa
». I Fu pubblicata dal Croce, Bibl., 112-13. Non credo poi
Gennaro tanto modesto da non credersi uno di questi vere doctt! Egli ben
sentiva per sua esperienza che la Scienza Nuova non est ex eo
librorum genere, saeculi commoditati obsecundantium, quos sagina graves, in
lecto strati, supini et oscitantes, aut fallendi temporis aut somni
conciliandi gratia in manus sumuntur, in quibus omnia extant omnium
oculis exposita. Si iterum legas, leges eundem, ut animum despondens
tertio legendi; aurum autem natura occultum et latens, indagatione ex
terrae visceribus, in quibus jacet, patefaciendum eruendumque.
Oh l’animo intento e la commozione di Gennaro, quando rileggeva
per la ventesima o trentesima volta (non aveva letto 35 volte il suo
Tacito il padre, scoprendovi sempre qualche cosa di nuovo ?) la maggiore
opera paterna, con la testa fra le mani, e la memoria che correva
indietro a rivedere il vecchio Giambattista, languente in un angolo
tristo della casa, dove Gennaro rimase! E qual dolore non dové essere per
lui che l'edizione non si facesse più! Negli anni più tardi vi fu chi gli
rifece nascere la speranza di veder ristampati in un corpo gli scritti
paterni. Sollecitava l'edizione un giovane di grande ingegno, che
studiava profondamente V. ed era capace d’intenderlc. A Gennaro forse fu
presentato dal suo sostituto Ignazio Falconieri, che con quel giovane
aveva dimestichezza, e doveva di lì a poco metterlo a grave repentaglio,
traendolo seco segretario nell’organizzazione repubblicana d’un
dipartimento della repubblica del ’99. Questo giovane era Vincenzo Cuoco.
Il quale però, pochi anni più tardi, nel 1804, scrivendo da Milano
all’ideologo De Gérando, ricordava:
Una buona edizione di V. [...] forse si sarebbe fatta in Napoli, ed
eransi a tal fine preparati molti materiali. Si era invitato il figlio,
allora ancor vivo !, a ! Al Cuoco, da cinque
anni lontano da Napoli, pareva impossibile che il vecchio Gennaro vivesse
tuttavia ! somministrare i manoscritti del padre. Si eran
raccolte molte cose ancor inedite. Una parte di ciò che erasi preparato
trovavasi in casa mia; un’altra in casa di quel mio amico che voleva far
l’edizione: ed ambedue le case furono nel saccheggio
anglo-russo-turco-napoletano saccheggiate. Ed addio edizione di V. »!.
Intorno al 1804, infine, per lo stesso motivo, Gennaro vecchissimo
fu visitato dal marchese Villarosa. Il quale, nella prefazione al primo
volume degli Opuscoli =, non pubblicato, per altro, prima del 1818,
quando Gennaro era morto da tredici anni, racconta che nell’accingersi
alla sua raccolta, si diresse al figlio di Gio. Battista, uomo di
antichissimi costumi, per informarlo del suo proposito e pregarlo che
volesse fargli dono di quegli opuscoli del padre, che aveva presso di sé.
Il buon vecchio, gravato dagli anni, e più da’ malori, quasi pianse della
letizia per un tale avviso ». E gli diede infatti i pochi manoscritti
rimastigli, e un abbozzo delle aggiunte alla Vita pubblicata dal
Calogerà. Anche i libri del padre a uno a uno gli erano stati portati via
dagli amici; ma conservava un
Tacito tutto dal padre nel margine postillato e qualche altro latino libro ».
Qualche ferro, insomma, del mestiere ! Giacché anche gli
storici il professore di rettorica doveva leggere e illustrare. Delle
origini di questa cattedra si sa poco, come in generale delle origini di
tutti gl’insegnamenti dello Studio di Napoli. Pare sia sorta per le
esigenze umanistiche del Rinascimento napoletano, sotto gli Aragonesi. Il
maestro del Sannazzaro, Giuniano Maio, l’autore del De Matestate, e di un
dizionario latino De priscorum proprietate verborum, il precettore d’
Isabella I RUGGERI, V. Cuoco, 191-92; e cfr. ora Cuoco, Scritti
vari, ed. Cortese-Nicolini, I, 314-15. 2? Opusc., I, XIV-XV.
d’ Aragona, lesse nello Studio (riaperto nel 1451 da Alfonso I)
dal 1465 al 1488 rettorica, poesia o arte oratoria, col soldo di trenta o
quaranta ducati 1. E nello stesso anno 1465, re Ferdinando creava per
Costantino Lascaris, venuto da Milano al séguito di Ippolita Sforza, di cui era
stato maestro, una cattedra di eloquenza, ma ad lecturam Graecorum
auctorum, poétarum scilicet et oratorum *. Non risulta, del resto, che
il Lascaris v’insegnasse più d'un anno; e alla sua partenza la
cattedra dové cadere. Non così quella di rettorica latina, detta poi
anche di umanità, che ebbe maestri di fama, come Pomponio Gàurico, il
quale v’insegnò sempre con la provvisione di 40 ducati dal 1512 al 15193,
e l’amico del Pontano, Pietro Summonte, dal 1520 al ’26 4. Ma questa,
come le altre cattedre dello Studio, ebbe un assetto stabile dalla
prammatica del 1616, che (parte II, tit. I) ordinò una cattedra di rettorica
con I00 ducati di salario 5 l’anno: ha da leggere i precetti di essa, o
per Aristotile, o per Quintiliano, o per il libro Ad Herennium, et parte
dell’anno alcun oratore, o istoriografo per poter esemplificare detti precetti
» 6. In questo programma, d'altronde, bisogna scorgere la
conseguenza I Pércopo, Nuovi docc. sugli scrittori e gli artisti
dei tempi aragonesi, in Arch. stor. nap., XIX, 740-1; e introd. alle Rime
del Cariteo, Napoli, 1892, p. CCXVIII; e CANNAVALE, Lo Studio di Napoli nel Rinascimento,
Napoli, Tocco, 1895, docc. cit. nell’ Indice dei nomi, s. Mayo de Juliano ». %
CANNAVALE, doc. 13, p. XXI. 3 Pércopo, L’umanista Pomponio Gàurico
e Luca Gàurico ultimo degli astrologi, Napoli, Pierro, 1895, 69 e
173-7. 4 PÉRCOPO, od. cit. 69 e 177-9. Per altri nomi oscuri vedi
oltre il Pércopo, l. c., il CANNAVALE, p. 87. 5 Dai documenti
pubblicati dal Cannavale risulta (p. 63) che il soldo era salito a 60
duc. nell’anno 1532-33. Ridisceso a 50 duc. nel 1568-69 (p. 70), risalì a
60 nel 1574-75 (p. 72); e vi si mantenne fino al 1580 (p. 74), ultimo
anno per cui si abbia notizia d’un lettore d’humanità: e forse fino al 1616.
Per maggiori particolari sulla cattedra si veda ora il cit. vol. miscellaneo
sulla Storia della Università di Napoli. 6 V. Nuova Coll. delle
Pramm. del Regno, t. XIII, p. 17. dello stesso sviluppo storico di
quell’insegnamento, che in esso ebbe quasi la sua codificazione. Quando,
nel 1711, G. B. V. dettò di suo le Institutiones oratoriae, in
fondo non fece uno strappo al programma, perché la sostanza era
sempre quella tradizionale. E Gennaro non fece di certo lui la
rivoluzione. Fino al ‘77 insegnò la solita rettorica; dopo gli toccò anche di
formare » le Istituzioni poetiche. Era sempre l’insegnamento greco e
romano, rinnovato dagli umanisti e perpetuatosi dal Quattrocento in
poi, col perdurare del generale indirizzo strettamente classico della
cultura e della letteratura. Vedremo tra poco come timidamente, durante
la vita stessa del nostro Gennaro, farà capolino nello Studio un
insegnamento letterario moderno; e quanta fatica durerà ad
affermarsi con carattere e spirito veramente nuovo e indipendente
da questo vecchio istituto umanistico. A Gennaro, che, per altro,
non fu l’ultimo dei maestri di rettorica latina, bisogna render merito
dei sani criteri, che, per ispirazioni paterne, seppe mantenere nella
sua disciplina, insistendo sempre sull'importanza del contenuto,
combattendo il puro studio della forma vuota, le virtuosità stilistiche e
sofistiche, le minuzie grammaticali :, ed incitando i giovani agli studi seri e
profondi. Nell’ Orazione inaugurale del 1774: Optima studendi ratio
ab ipso studio petenda, tornando sul tema già trattato nel 1741?, fatta
una dipintura satirica delle abituali occupazioni della gioventù
effeminata del tempo, affermava questo bisogno degli studi coltivati con
ardore d’animo e vigoria di volere: aeque naturalis et facilis est vobis
sapientiae adipiscendae ratio, quae est vestramet ipsa voluntas 3.
I Sono degni d’esser letti gli Avvertimenti per l’ insegnamento del
latino, da lui dati, pare, per l'istruzione di qualche figliuolo di
signori, e che io sono costretto a rimandare all’Appendice I.
? Vi sono ripetuti anche de’ periodi. 3 Pag. LXIv.
La volontà vince anche i difetti della natura. Non c’è difficoltà
che non si superi col buon volere. Ma il fine degli studi non è da
riporre nel guadagno. Sordida haec et vilia sunt litterarum
pretia, quae vobis contemnentibus ultro abunde suppetent. Qui studio flagrat
cognitionis et scientiae, is nullo emolumento ad eas res impellitur: quin
etiam qui ingenuis studiis delectantur, eos videmus nec valetudinis
nec rei familiaris habere rationem; omnia perpeti ipsa cognitione
et scientia captos: cum maximis laboribus compensare eam, Rara in
discendo capiunt voluptatem. Di che adduceva ad esempi Anassagora,
Carneade, Archimede, Pitagora, Demostene: e meglio avrebbe potuto
ricordare il padre, se non l'avesse trattenuto certo pudore domestico,
che mai non gli fece pronunciare quel sacro nome, quando sulla sua bocca
potesse suonare lattanza. LA CATTEDRA DI LETTERATURA
ITALIANA DALLA SUA ORIGINE ALLA RIFORMA DEL 31811 Da uno
sdoppiamento della vecchia cattedra di rettorica, nell’ Università di Napoli,
trasse origine l’insegnamento di letteratura italiana. Quello stesso marchese
della Sambuca, che nel 1778, per porre in attività il genio della
nazione e il talento dei sudditi»! di Sua Maestà, die’ vita, come s’è
visto, all’ Accademia delle scienze e belle lettere, in. quel torno
stesso, tentò anche un ammodernamento dell’ Università con la riforma del 26
settembre 1777, che qualche modificazione importò anche alla cattedra di
Gennaro V.. Nel dispaccio con cui comunicava a Carlo Demarco, ministro
del culto (da cui la pubblica istruzione dipendeva), il nuovo piano
dell’ Università, scriveva: La pubblica educazione, che è stata
sempre tra le cure principali di ogni ben regolato governo, per la
influenza, che ha sul costume de’ popoli e su la floridezza dello Stato,
con la cognizione e con l’esercizio delle scienze e delle arti liberali e
meccaniche, necessarie non meno alla cultura ed alla politezza delle
nazioni, che alla sua ricchezza e potenza, col promuoverne e sostenerne
il com‘mercio, avea già richiamata l’attenzione del Re ». Si sente
il linguaggio del tempo dei lumi. Sono quindi ricordate le precedenti
cure di Ferdinando IV per l’istruzione.
Dopo queste sue prime sovrane disposizioni, ha il Re voluto
rivolgere ancora il suo pensiero all’ Università degli studi .... Ed
avendo S. M. veduto, che siccome nelle I Disp. cit. del 22 giugno
1778. pubbliche scuole stabilite nella R. Casa del Salvatore
vi erano alcune lezioni, che anche nell’ Università degli studi
faceansi; e così in questa e in quelle ne mancavano poi molte, che le
nuove scoverte fatte nelle scienze e nelle arti rendevano interessanti:
ha perciò disposto che si combinassero insieme; e, togliendo per una
parte quel che vi fosse di superfluo, e aggiungendo quel che
mancasse per l’altra, e alcuni soldi, ch’'erano nelle scuole,
sopprimendo, ed altri, che nell’ Università eran troppo. tenui,
aumentando, si formasse un corpo intero e compiuto di tutto ciò, ch’ è
necessario alla perfetta istituzione della gioventù, cominciando da’
primi elementi fin alla Facoltà delle scienze più sublimi » 1. Affinché
tutto questo corpo completo di studi fosse raccolto in un sol edificio,
l’ Università passò allora nella casa del Salvatore, dov'era già il
convitto. Né qui si sono arrestate le
paterne cure del Re. Ha determinato di più, e disposto, che si formino,
oltre all’ Accademia della pittura, scultura ed architettura ....
altre due Accademie, una per le scienze e l’altra per le belle lettere,
con avere stabilite le pensioni corrispondenti ‘agli accademici ed ai
segretari dell'una e dell’altra, che saranno a suo tempo dalla M. S.
dichiarati, col presidente delle medesime. E siccome queste Accademie si
terranno nell’edifizio, ove sin ora è stata l’ Università degli studi
2, ha disposto ancora S. M. che nel medesimo si situino le
magnifiche due regali Biblioteche, Farnesiana e Palatina, destinandole
all’uso del pubblico. Ed oltre ciò, vi saranno trasportati li due
ricchissimi suoi regali Musei, Farnesiano ed Ercolanese, per lo stesso uso ».
E, perché I Arch. Sta. Nap., Scritture diverse della cappellania
maggiore, vol. 34, f.° 230 sgg. Ma il dispaccio è pubblicato nel DE
SARIIS, Cod. di leggi del Regno di Napoli, lib. X, tit. IV, Napoli,
Orsini, 1796, 47 S8g 2 Il Palazzo degli Studi. Sbaglia perciò il COLLETTA
(Storîa, lib. II, cap. II, $ 13) ponendo tutti quest’ istituti insieme
con l’ Università al Salvatore. nulla mancasse alla
perfezione di que sta grande opera, ed alla compiuta istruzione della
gioventù, si disponeva l'istituzione di una cattedra di storia naturale,
di un orto botanico, di un laboratorio chimico, e che vi sieno
tutte le macchine per fare le esperienze, e le altre operazioni corrispondenti
». Tutto ciò nel Palazzo degli Studi. Si ordinava altresì all’ Ospedale
degli Incurabili una cattedra di ostetricia e la formazione di un teatro
anatomico. Infine, si era annunziato l’ordinamento di un Osservatorio
astronomico nella casa del Salvatore. In questa, che si può dire la
riforma universitaria dell’illuminismo, tra le cattedre nuove comprese
nel piano dell’ Università, troviamo appunto quella di Eloquenza
italiana. Si dee provvedere», è detto nel Piano, anch'esso del 26
settembre 1777, col soldo di
ducati 300 » ®. E a questa, come alle altre cattedre nuove, si doveva
provvedere per concorso: Solamente »,
diceva il marchese della Sambuca al Demarco nel suo dispaccio, solamente, per questa prima volta li maestri
delle nuove cattedre si proporranno al Re da V. S. Ill. ma con la
mia intelligenza, per combinarsi colla Riforma fatta ». Non
passarono infatti tre mesi, che il ministro Carlo Demarco spediva al
cappellano maggiore del tempo, don Matteo Gennaro Testa Piccolomini,
arcivescovo di Cartagine, il seguente dispaccio: Essendosi
fatta presente al Re la rappresentanza di V. S. I. de’ 19 dello scorso
novembre, contenente le terne de’ soggetti proposti per le nuove cattedre
aggiunte all’ Università dei Regi Studi, S. M. ha scelto per l’Eloquenza
italiana don Luigi Serio; per la meccanica, p. Nicola Cavallo; per
l’Arte Critica e Diplomatica, il p. don Emanuele Caputo Cassinese;
per la Storia sagra e profana il prete don Francesco Conforto; I
Arch. Sta. Nap., Scritture cit., vol. 34, f.° 252 db; DE SARIIS, p. 52.
VI. IL FIGLIO DI G. B. V. 295 per l'Agricoltura don Nicola
d’Andria; per l’Architettura Civile e Geometria pratica il Canonico
Taralli; per la Geografia e Nautica il p. don LodoV. Marrano;
coll’obbligo però, che debbano tutti tali lettori di persona far le
lezioni, senz'ammettersi sostituti in loro vece nelle cennate rispettive
cattedre nuovamente aggiunte. Rispetto poi alla cattedra di Logica e
Metafisica, S. M. si ha riservato di risolvere in appresso, ed allora a suo
tempo comunicherò a V. S. I. la Real risoluzione. Nel Real
nome pertanto comunico a V. S. I. tal’elezioni de’ cennati lettori, fatte
dalla M. S. perché ne disponga il possesso e l'adempimento; siccome ne ho
dato l’avviso a’ medesimi per loro intelligenza. Palazzo, 10 dicembre 1777 !. Chi
era don Luigi Serio ? Nato nel 1744 a V. Equense, esercitava in Napoli la
professione d’avvocato; ma già intorno al ’65 era diventato una celebrità
come improvvisatore. A differenza dei soliti poeti estemporanei, il Serio
aveva solida cultura letteraria e scientifica. Né era privo di buon
gusto, come dimostrano alcune sue polemiche letterarie. La fraseologia dei novatori, della
gente alla moda, gallicizzante ed anglizzante, delle anime sensibili, dei
filosofanti, era un suo odio particolare. Contro costoro scrisse, tra
l’altro, un opuscoletto, pubblicato anonimo, col titolo: Cose e non
parole, mettendo in caricatura gli obblighi filosofici e utilitari, che si
volevano addossare alla poesia. Ma non pare che questo suo odio
fosse effetto di un pensiero profondo »?. Le sue Rime, del resto,
raccolte in due volumi nel 1772 e 1775, hanno I Dispacci dell’
Ecclesiastico, vol. 426 (novembre 1777 a gennaio 1778), ff. 140-141;
nonché tra le Scritture diverse della Cappellania Maggiore, vol. 34, i
ff. 228-229. Parzialmente lo stesso dispaccio fu pubblicato dal prof. N.
BARONE, Breve memoria intorno ai proff. di diplom. e paleografia nell’ Univ. e
nel G. Archivio, Valle di Pompei, 1888, 7 sgg. 2 B. CROCE, L.
Serio, nel vol.: Aversa a D. Cimarosa, Napoli, Giannini, 1900; e poi nel volume
dello stesso Croce, Aneddoti e profili settecenteschi, Palermo, Sandron, 1914.
Sul Serio scrisse più tardi uno studio il prof. M. Bruno, L. S. letterato e
patriota napoletano del Settecento, negli Studi di letteratura italiana,
pubblicati da E. Pércopo, vol. VI, fasc. 1-2. 290 STUDI
VICHIANI scarsissimo valore. Nel 1771 die’ in luce alcuni
Pensieri sulla poesta*, dedicati all'abate Galiani: al quale diceva
(salvo, nove anni dopo, nel Vernacchio, a colmarlo di vituperii): Voi siete un letterato di vivacissimo
spirito, di sublime ingegno, e di vasta erudizione .... Vedete
dunque, se io senta qualche cosa avanti nella ragion poetica, ed il
vostro giudizio mi servirà di perpetua norma ». Ma più che a questi
Pensieri, in cui pure non mancano buone osservazioni sul mutare degli
ideali artistici col mutare dei secoli, e sui difetti della vuota poesia
del tempo, il Serio dové la cattedra di Eloquenza italiana alla stima
guadagnatasi in Corte con le sue ammirate improvvisazioni, che già
quell’anno, 1777, gli avevano procacciato la nomina di poeta di Corte,
nonché l’incarico di rivedere le opere teatrali e provvedere ai bisogni
poetici del S. Carlo*. . Delle ragioni che indussero all’istituzione
della nuova cattedra letteraria, il Napoli-Signorelli, facendone
risalire il merito fino a Ferdinando IV, scriveva nel 1798: Vide il nostro Re che la gioventù
dedita alla greca e latina eloquenza od a svolgere Demostene, Pindaro ed Omero,
o Tullio, Orazio e Virgilio, riusciva così rozzamente a disviluppare i
propri concetti nella materna lingua volgare, come si ravvisa
singolarmente negl’immensi mucchi I Di cui non conosciamo altro
che le prime 12 conservate in una Miscellanea (III st., XV, F., 25) della
Società storica napoletana. 2 Intorno alle lotte che dové
sostenere, come revisore teatrale, per la riforma del melodramma, vedi B.
Croce, I teatri di Napoli, Napoli, Pierro, 1891, 575 Sgg., 592 Sgg., 624 Sgg.,
733 sgg. P. Calà
ULLOA, che non era privo di gusto, né di buon senso scrive: On peut reconnaître encore dans
quelques pages de Luigi Serio, plus éloquantes et plus spécieuses que
raisonnables, des pensées neuves, et des images heureuses à còté des
traits les plus hasardés. Il eut le torte de semer dans l’arène du palais
les fleurs et les ornements de la poésie. Ses discours portaient
l’empreint d’une éloquence factice et d’un goùt passager; il avait plus
d’imagination que de force d’exprit ». Altri, d’ ingegno anche inferiore,
se laissaient aller, comme Serio, à inonder leur auditoire de fleurs
d’une déclamation académique »: Pensées et souvenirs sur la littérature
contemporaine du Royaume de Naples, Genève, 1859-60, I, 33-4. d’allegazioni
ed altre scritte forensi; ed accorse ad ovviare a tale inconveniente col
fondare una cattedra di Elo quenza italiana, e fece sì che la lingua di
Dante, del Petrarca e del Boccaccio e de’ tersi scrittori del
secolo decimosesto s’intendesse, s’imparasse per principii e si
pregiasse ». Il pensiero risale certo ad A. Genovesi, che fu il
primo, com'è noto, a insegnare nell’ Università in italiano, quando
iniziò le sue lezioni di Economia civile. E quando, dopo la cacciata de’
gesuiti, nel 1767, ebbe incarico dal Tanucci di formare un piano di
scuole che poi non poté essere
adottato, almeno interamente propose
anche una scuola di lingua, di
eloquenza e di poesia toscana ; perciocché, mirando già tutte le nazioni di
Europa a rendere volgari e comuni le regole delle arti e delle scienze,
parve all'abate Genovesi necessario che i giovani si avvezzassero
di buon’ora a sapere parlare e scrivere con nettezza ed eleganza la
propria lingua ». Ma questo studio sì necessario
», concludeva il biografo del Genovesi, nel 1770 *, è intanto il più
negletto nella nostra educazione ». Importante è quello che lo
stesso Napoli-Signorelli, dopo avere accennato alle altre cattedre
moderne stabilite con la riforma del 1777, ci dice della impressione che
di quelle novità ebbero i contemporanei:
Chi crederebbe », egli esclama, che queste gloriose novità
dovessero sembrare innovazioni inutili a certi vecchioni che non hanno
mai inteso più oltre delle istituzioni mediche, legali e teologiche, della
fisica di Aristotele o di Cartesio, e della nuda pedanteria (ma non
altro) delle lingue dotte ? E pure odonsi alcune sparute larve, ignoranti
dell'importanza di tali stabilimenti, mormorarne e torcere il muso: Quali cattedre ! (van dicendo) lingua
italiana, agricoltura, chi I G. M. GALANTI, Elogio stor. del sig. ab. A.
Genovesi, 33 ed., Firenze, 1781, 7I, 9I1-3, 109. mica, commercio,
diplomatica, storia naturale, geografia fisica ! Fa mestieri di un
pubblico professore per istudiar la lingua volgare che parliamo dalle
fasce .... Così favellano certi noti
annosi maestri, che non mai seppero passare oltre dei confini della
pedanteria e cacciar da sé prisci vestigia ruris. Ma il gran Ferdinando
che d’ingegno e di cognizioni, come di grandezza d’animo, di possanza e
di maestà tutti sorpassa, ad onta di codesti idioti eruditi alla vecchia
maniera, ha fondate queste nuove scuole importantissime per rimuovere
la gioventù da’ rancidumi, onde non più comparisca inceppata e coperta di
timidezza da collegio a fronte di chi bevve in migliori fonti » 1.
Tra cotesti vecchioni, eruditi alla vecchia maniera, vi sarà stato
anche Gennaro V. ? Non parrà improbabile, se si considera che realmente,
così come nacque, l’insegnamento della letteratura italiana fu una
duplicazione della vecchia rettorica, che s’insegnava nell’ Università
di Napoli dalla metà del Cinquecento; e se si ripensa alle sue
lamentele del 1797 per la sorte toccatagli, di raggiungere dopo 40 anni
d’insegnamento quello stipendio di 300 ducati, che altri aveva ottenuto tanto
più presto: p. es. don Luigi Serio ! Che cosa abbia
precisamente insegnato il Serio sì può argomentare da un interessante
documento rimastoci ?: cioè dal manifesto, con cui. dopo 14 anni
d'insegnamento, annunziò la pubblicazione delle sue Istituzioni, che
non sembra vedessero poi la luce. Esso reca la data di Napoli,
16 maggio 179I: Agli amatori della bella letteratura:
I P. NAPOLI-SIGNORELLI, Regno di Ferdinando IV, Napoli, Migliac
cio, 1798, 242, 244-5. 2 Misc. XV, F. 25, nella Bibl. della Soc. stor.
napoletana. Dalla stamperia di Vincenzo Flauto usciranno alla
pubblica luce le istituzioni dell’eloquenza e della poesia italiana
dell’avv. Luigi Serio, regio cattedratico. Quest'opera sarà divisa in
quattro tomi: il primo conterrà le più importanti questioni intorno
all'origine, all’ indole ed al carattere della lingua; e in esso si
tratterà eziandio di tutto ciò, che principalmente alla grammatica
appartiene, ma con animo di veder come esser possa una delle fonti
dell’eloquenza. Nel secondo e nel terzo tomo va l’autore ritrovando i mezzi,
onde si pervenga alla perfezion del gusto, e crede di esservi riuscito,
facendo le seguenti ricerche: I. In che consiste l’artifizio delle metafore, e
quale utilità se ne ricava ? II. Perché le figure, che si addimandan retoriche,
facciano mirabili effetti in qualunque specie di scrittura e di discorso ? E se
ne additerà la cagione nelle passioni, di cui esse sono, e devono esser
il linguaggio. III. Che cosa sono i pensieri ingegnosi e i
concetti, e perché rapiscono ed incantano gli animi altrui, o riescon
freddi e puerili ? IV. Coloro che declaman tanto contro il periodo,
hanno pur ragione di farlo ? E qui si farà un’ analisi diciò che forma
l'armonia del discorso in generale, e della lingua italiana in particolare. V.
L’eleganza e l’elocuzione son voci, che esprimono idee distinte o confuse
? e possono esser soggette a un maggiore schiarimento ? VI. Che cosa è stile ?
E qui, abbracciandosi l’antica divisione di stile semplice, temperato e
sublime, se ne dimostreranno i caratteri, e con questa occasione si faranno per
lo stile semplice molte osservazioni sulle lettere familiari, su’
dialoghi, sulle materie didascaliche o sieno instruttive, e sulla
istoria; e per lo stile sublime si andrà esaminando in che consista il
merito di que’ fortunati pensieri, che in prosa o in verso riempiscono
gli animi de’ lettori in un medesimo tempo di gioia, di maraviglia e di
nobile ardimento. VII. Si faranno finalmente opportune riflessioni
sull’eloquenza del pulpito e del foro. Il quarto tomo è destinato alla
poesia italiana, e conterrà questi sei trattati, cioè l'origine della
nostra poesia, il metro e le rime; l'armonia del verso, e come possa
servire all’ imitazione; la locuzione poetica e il dar persona alle idee;
la lirica poesia in generale, e le sue diverse specie; e i principii
della poesia drammatica, e dell’epica.... Addio. L'insegnamento
del Serio era, come si vede, il pendant della rettorica e della poetica
insegnata da Gennaro V.. Questi esemplificava i suoi precetti con la
lettura dei classici latini; il Serio con quella degli scrittori
italiani. A’ suoi commenti danteschi accenna il marchese di
Villarosa, quando in uno di quei suoi sciagurati Ritratti poetici fa dire
al Serio: Dell’ itala eloquenza, in Dante oscura, Talora i
pregi di svelarne avviso. Gli stessi precetti e le teoriche
dovevano spesso dar luogo ad esemplificazioni, e quindi a letture di
classici, secondo era richiesto già dall’antico programma di Rettorica.
Lo stesso Villarosa ci dice che, esercitando il suo ufficio, il Serio ne
riscosse non mentite lodi, perciocché le sue lezioni, pronunziate con
brio e piacevolezza, eran ripiene di recondito sapere, le bellezze
additando dell’idioma gentil sonante e puro». Ma la pagina più
bella, scritta dal Serio, fu quella della sua morte » 3. È noto il
racconto commovente del Colletta. Il 13 giugno 1790, il Serio si trasse
dietro i nipoti a combattere contro le schiere di Ruffo, che
assaltavano Napoli: Il vecchio, per grande animo e natural difetto
agli occhi, non vedendo il pericolo, procedeva combattendo con le armi e
con la voce. Morì su le sponde del Sebeto: nome onorato da lui, quando
visse, con le muse gentili dell'ingegno, ed in morte col sangue » 4. Il
borbonico Villarosa nota amaramente che le Muse non furono capaci a
salvarlo, ed illagrimato non poté evitar la taccia di arrogante ed
ingrato ». E per lo sdegno, forse, contro questa ingratitudine
dei poeti, Ferdinando IV per un pezzo non volle più saperne di
professori di Eloquenza italiana. Nell’ Almanacco di Corte del 1805 la
cattedra si dà ancora per vacante 5. Ed. cit., p.
21. O. c., p. 84. B. CROcE, Aneddoti, p. 298. 4
COLLETTA, Storia, lib. IV, c. III, $ 32. 5 Calendario e notiziario
della Corte per l’anno 1805, 122-3 (Napoli, 1805). Venuto Giuseppe
Bonaparte, il 31 ottobre 1806 emanò un decreto, come fu sopra accennato,
per riorganizzare gli studi universitari sopprimendo parecchie cattedre,
anche di quelle stabilite nel 1777, e alcune istituendone nuove *.
Tra le soppresse con quelle di Diritto di natura, Testo d' Ippocrate,
Etica, Teologia primaria, Testo di S. Tommaso, Storia de’ concili, ecc., v'è
anche, come dissi già, la Rettorica: la cattedra di V. 2. L’ Università
fu divisa in cinque Facoltà: Diritto, Teologia, Medicina, Filosofia
3 e Scienze naturali. Ma alle Facoltà erano aggiunte sei cattedre
diverse : Commercio; Critica e diplomatica; Eloquenza antica e moderna; Lingua
greca; Lingua ebraica; Lingue orientali. Nell’ Eloquenza antica e
moderna pare s’intendesse fondere i due insegnamenti di Gennaro V. e di L.
Serio; e vi fu nominato 1l già sostituto di Gennaro, il can. Nicola
Ciampitti (decreto 31 dicembre 1806); il quale conservò la cattedra con
quel titolo fino al 1811. Ma non passarono due anni, che un decreto
del 20 gennaio 1808 erigeva nell’ Università una cattedra di Letteratura
antica e moderna, nominandone titolare (col soldo di professore di 3*
classe, come tutti gli altri delle
cattedre diverse ») certo Angelo Marinelli. Ci è arrivata la
Prolusione che il Marinelli lesse quell'anno stesso în occasione dell'apertura
della nuova cattedra di letteratura antica e moderna eretta nella R.
Università degli studi di Napoli ; ed essa accenna alle ragioni, per
cui la coltissima » Accademia di
storia e d’antichità, fondata I Vedi questo Decreto nella Collez.
degli editti, determinaz., decreti e leggi di S. M. da’ 15 febbr. ai 31
dic. 1806 (Napoli, Stamp. Simoniana), 384 Sgg., nonché nell’altra
Collezione (pressoché ignota e pure importantissima) delle leggi, de’ decreti e
di altri atti riguardanti la P. I. promulgati nel già Reame di Napoli
dall’anno 1806 in poi, Napoli, Fibreno, 1861-3 (3 voll.), I, 6-7.
2 Allora (per l’art. 58 di questo decreto) l’ Università, che nel
1805 era passata a Monteoliveto, tornò al
palazzo detto del Gesù vecchio ». 3 In questa Facoltà furono
comprese 6 cattedre: 1) logica e metafisica; 2) matematica semplice; 3)
matematica trascendentale; 4) meccanica; 5) fisica sperimentale; 6)
astronomia. l’anno innanzi da Giuseppe !, aveva proposta e garantita » al governo l'istituzione
della nuova cattedra. E ci dà insieme un'idea di quello che tale
insegnamento doveva essere. Non era un uomo volgare questo
Marinelli. Fratello primogenito di Diomede, autore dei noti Giornali, ora
in parte pubblicati, così utili allo storico degli avvenimenti napoletani
dal 1794 al 1820 ?, egli, sebbene sacerdote, fu, come il fratello, caldo
fautore della repubblica del 1799. Ma più del fratello dové
compromettersi, se, appena caduta la repubblica, il 14 giugno venne
arrestato e condotto al Ponte della Maddalena, quartier generale del
Ruffo, poscia su un bastimento 3. Ne scese il 14 agosto; ed ha sofferto
molto dalla vil plebe », notava quel giorno il fratello 4, come gli
altri; e tra l’altro, gli ponevano in bocca ogni lordura, che trovavano
in terra ». Il 27 settembre il fratello notava ancora 5: Quest’oggi mio fratello Angelo Marinelli mi
ha mandato a dire, ch'è stato condannato ad esser deportato fuori il
territorio napole I Con decreto del 17 marzo 1807: vedi la Col/ez. ora
citata, I, 30-32. Questa Accademia fu poi, com'è noto (COLLETTA, Storia,
lib. VI, c. III, $ 29; MINIERI Riccio, Arch. Stor. Nap., V, 1880, 595-7)
incorporata nella Società reale di Napoli, istituita da Giuseppe con
decreto 20 maggio 1808 (Co/l. cit., I, 53-56), diventata nel 1817 Società
Borbonica. Nei Giornali del Marinelli, t. XII, 80-82, è riferito il
decreto di costituzione dell’Accademia del 1807; e segue questo
ricordo: Per decreto di S. M. sono
nominati Accademici dell’Accademia Reale d’ Istoria e di Antichità i
signori p. Andrés, cav. Arditi, arcivescovo Capecelatro, abbate Gaetano
Carcani, Domenico Cotugno, Francesco Carelli, abbate Nicola Ciampitti,
Francesco Daniele, consigliere di Stato Delfico, professore Gargiulo,
abbate Donato Gigli, abbate Gaetano Greco, vescovo Lupoli, abbate Girolamo
Marano, generale Parisi, abbate Bartolomeo Pezzetti, vescovo Bosini,
canonico Francesco Rossi, cav. Villa-Rosa ». 2 Vedi la nota su D.
Marinelli in B. Croce, La Rivoluzione napoletana del 17993, Bari, Laterza,
1912, 187-88; e la cit. pubblicazione della I parte dei Giornali di D. M.
a cura di A. FIORDELISI. 3 Giornali di D. M., ed. Fiordelisi, 81-2.
4 Ivi, p. 88. 5 Ivi p. 96. tano, e portato in
Marsiglia ». E il 19 novembre, infatti, Angelo, in Sant’ Elmo, firmava
l'obbligo di andare in esilio sua vita durante » *. Onde il 14 dicembre
Diomede poteva registrare con piacere che nella notte il fratello
era stato imbarcato per Marsiglia: Sto
contento », scriveva, temendo di peggio » =. Non ne seppe altro fino al
giugno dell’anno dopo, quando Angelo, dopo sei mesi, gli diede finalmente
notizie di sé da Marsiglia 3. Ma non doveva rivederlo che nel 1807 la
sera del 12 ottobre, dopo otto anni d'esilio ! 4. Questi
meriti patriottici del Marinelli, che, per altro, aveva esercitato sempre
la professione dell’insegnamento, ne fecero un professore dell’
Università, con cattedra istituita per lui, sotto Giuseppe
Bonaparte. La sua reputazione », dice l’
Ulloa 5, e una vita esente da rimproveri furono forse le vere cause della sua
riuscita e del favore pubblico ». Oh! l’animo di Diomede, quando il
giovedì 28 aprile 1808 poté scrivere nel suo diario ©: Questa mattina
Angelo mio fratello ha principiato le lezioni della nuova cattedra, ne’
Regi Studi, di letteratura antica e moderna !» Ma non convissero quindi
che pochi anni. Ecco la necrologia di Angelo inserita nei Giornali
7: Angelo Marinelli, mio fratello germano, nato nel 17658, è
passato a miglior vita nella notte a sei ore venendo il sabato di marzo
del 1813. Mi è avvenuta questa disgrazia dopo una tediosa malattia di
quasi tre mesi con idropisia, e poi è terminata con cangrena nella verga.
È stato seppellito il sabato a sera nella I Ivi, p. 112.
2 Ivi, p. 117. 3 Ivi, p. 130. 4 Sotto questa data
nel ms. t. XI, p. 708: Questa sera verso le ore 3 è giunto Angelo mio
fratello dopo l’esilio di otto anni ». 5 Pensées cit., I,
114. 6 Ms. t. XI, p. 723. 7 Dal ms. cit. XI, p.
733. 8 Nacque probabilmente a Longano nel Molise.
Congregazione di S. Caterina a Formello. Esso mio fratello era sacerdote,
e professore dell’ Università di Napoli. Gli primi studi gli fece nel
seminario d’ Isernia, e vi fu lettore e rettore per pochi anni. Nel 1795
venne in Napoli per studiare maggiormente, e aprì scuola privata. Nel
1799 fu arrestato dalla populazione della nota rivoluzione, e fu sbarcato
a Marsiglia, e poco vi si trattenne essendo passato in Italia poco dopo.
Fu professore nel Liceo di Alessandria e di Casal Monferrato. Finalmente
nel dì 12 ottobre del 1807 si ritirò in mia casa, e poco dopo fu fatto
professore nell’ Università, e confirmato dell’organizzazione seguìta a
dì 18 gennaio 1811. Era uomo portato all’ ipocondria, sentenzioso e
grave. Studioso all'eccesso ed era il suo idolo la gloria ed onore nelle
scienze. Giusto nelle sue deliberazioni, e non capace di offendere niuno in
fatti, sebbene in parole spacciasse che la vendetta era il nettare di Giove.
Amava la gioventù e principalmente i suoi allievi. È stato pianto da
tutti quei che lo conobbero, non che da me. È passato a miglior vita
monìto con tutt’i sagramenti, ch’ ha eseguiti, con edificazione degli astanti
1. Ma torniamo alla Prolustone. Il Marinelli dice che la
nuova cattedra ha di mira particolarmente l’analisi critica e ragionata de’
classici antichi e moderni » per formare di una maniera facile e breve » il
gusto dei giovani, e abituarli ad apprezzare e leggere gli autori
con discernimento, pronunziare sul loro merito il proprio giudizio
con sicurezza, e, proponendoseli per modelli, lavorare componimenti
solidi e degni dell'immortalità ». I classici da leggere sono i grandi
scrittori di queste quattro epoche: la Grecia di Pericle e di Alessandro,
la Roma di Cesare e di Augusto, l’ Italia di Leone X e dei Medici,
la Francia di Luigi XIV. Da essi trar
bisogna l’abbondanza e la ricchezza de’ termini, la varietà delle figure,
la maniera di comporre, le immagini, i movimenti, l’armonia e tutto ciò che
evvi di bello, di grande e di squisito I Un nipote di Angelo
Marinelli affermava nel 1887 che un’opera dello zio su la Fisonomia
dell’uomo si conservava manoscritta presso l'arciprete di Longano (Croce,
O. c., p. 187): ma non se ne sa altro. VI. IL FIGLIO DI G. B. V.
305 nel carattere del loro ingegno e del loro stile ».
Dunque, lettura ed analisi di Omero, Sofocle, Euripide, Pindaro,
Tucidide, Virgilio, Orazio, Sallustio, Petrarca !, Tasso, Ariosto,
Corneille, Racine, Fénelon. Studio importantissimo ai tempi nostri, dice il
Marinelli, perché oggi più che mai
si trascurano i grandi originali, che soli formar possono il nostro
spirito ». Del resto, il novello insegnante non intendeva presentare
questi classici per modelli perfetti all’ammirazione cieca degli scolari.
Anzi annunziava una critica severa »,
che, rilevando le imperfezioni, avrebbe fatto meglio risplendere il
merito, come il fuoco dà un nuovo
lustro alla purezza dell’oro ». La censura non fece forse migliori i
cittadini di Roma? Bisogna distinguere le buone guide dalle pericolose. Chi non sa che Seneca, Lucano e Marino
hanno in diverse epoche contribuito a corrompere il gusto della gioventù
? ». Ricordarsi poi che negli autori migliori non tutto è egualmente
buono, né tutto ciò che è buono, conviene egualmente in tutti i tempi e
luoghi. Chi oserebbe imitare
oggidì le noiose enumerazioni d’ Omero e le similitudini ch'egli prende
da cose basse e triviali; i dettagli minutissimi d’ Ovidio; lo stil concettoso
del Marino; le leggi drammatiche tante volte trascurate dal gran
Corneille ? ». Questa dev'essere scuola di critica e di buon gusto
». E quando questa novella cattedra », dice il Marinelli a’ suoi
uditori, non servisse ad altro ch’ a distruggere quel resto d’amore pe’
concetti e per le arguzie, che regna in quegli spiriti, il di cui gusto
non è ancora depurato, a far amare da coloro che si piccano di comporre,
quella saggia sobrietà che forma la solidità dello stile; a mostrare che
nelle cose piuttosto che ne’ termini bisogna I Dante non c'entra:
forse perché non si poteva tirare come il Petrarca (per via degl’
imitatori), al secolo di Leone X. Del resto il Marinelli conchiude: Questi ed altri scrittori celeberrimi.] cercare
la nobiltà dell’espressione; ad evitare ne’ discorsi quella grandiosità
affettata, la quale egualmente che la semplicità triviale, è contraria
alla dignità della dizione; insomma a scrivere sensatamente, ciò bastar
dovrebbe a convincervi della sua utilità ». Siamo, come sì
vede, a un livello molto più alto che col Serio. Il fondo
dell’insegnamento è ancora la rettorica: ma che rivoluzione ! Tutta la
precettistica, tutto il convenzionalismo, e il formalismo classico e pedantesco
sono iti: Marinelli è uno schietto romantico; e in qualche accento ti
parrebbe di sentir già il De Sanctis, se non stonasse, tra tanto buon
senso e indipendenza di giudizio, qualche accenno a quel filosofismo, di
cui il Marinelli doveva essersi imbevuto già prima del ’99, e anche
più nelle sue peregrinazioni in Francia e nella Cisalpina.
Terminando il suo discorso, esponeva brevemente il metodo che
avrebbe seguito. In primo luogo si sarebbe studiato di sviluppare le
cagioni fisiche (sc) e morali, che hanno contribuito alla nascita,
all'incremento ed allo splendore di ciascuna letteratura ». Avrebbe
cercato perché essa, come una pianta, in alcuni climi si è veduta
nascere e fiorire spontaneamente; perché, esotica altrove, non ha
prodotto dei frutti che a forza di cultura, o perché selvatica ha
resistito alle cure che si son prese di ccltivarla ». Avrebbe indagato il
perché della mirabile fioritura delle quattro epoche letterarie. Compiuto
questo quadro filosofico delle vicende e della storia letteraria
de’ quattro secoli », sarebbe venuto quindi all’esame dei classici. Ma
bisogna sentire quanto nei criteri qui enunciati per tale esame questo
Marinelli, rimasto finora quasi interamente ignorato, s’avvicini a principii
e metodi molto recenti: Di quelli che col lor sapere e
coll’opera loro si renderon più illustri, parlerò più ampiamente; più
brevemente di quelli che non furon per equal modo famosi. Della
vita de’ più rinomati scrittori accennerò in iscorcio le cose le più importanti,
e quelle particolarmente che contribuir possono a dar lume e risalto maggiore
alle lor produzioni; più diffusamente ragionerò di ciò che
appartiene al loro carattere, al loro sapere, al loro stile. Rileverò i
pregi e le bellezze che sfolgoreggiano nelle opere loro, per
promuoverne l’ imitazione. Non passerò sotto silenzio i difetti che
intrusi vi sono, affinché s’evitino. E se parlar dovrassi di due o più
scrittori, che si saranno nello stesso genere segnalati, non tralascerò
di farne il parallelo e di mostrare in che l’ uno sull’altro
primeggi. Infine il Marinelli credeva di conchiudere, che
questo insegnamento avrebbe istruita la gioventù senza obbligarla al
meccanismo de’ precetti, e senza ingolfarla nelle minuzie grammaticali,
che sono per lo più disgradevoli alle persone di già avanzate negli studi
». Ben presto però il carattere speculativo di un tale insegnamento
dovette prevalere sulla sua parte storica, e la materia trasformarsi in una
filosofia dell’eloquenza. Filosofia dell’eloquenza s'intitola infatti il
libro pubblicato dal Marinelli nel 1811, e dedicato (in data di
Napoli, I La filosofia dell’eloquenza di AnGELO MARINELLI,
professore di letteratura classica nella Regia Università di Napoli, e socio
di varie Accademie italiane e straniere. In Napoli, 1811, presso Angelo
Trani; di VI-103, in-8°. A_pp. 68 sgg., è un cenno di quello che l’Autore
avrà svolto nel suo corso: ossia intorno alle cause del fiorire delle
lettere nei quattro secoli accennati nella Prolusione del 1808. Una Filosofia dell’eloquenza o sia
l’eloquenza della ragione aveva pubblicata nel 1783 in due grossi volumi
in-16° (in Napoli, presso Vincenzo Orsini) l'avv. FRANC. ANT. ASTORE, uno
de’ martiri del ’99, nato a Casarano, in Puglia, nel 1742, autore nel
1799 d’un Catechismo repubblicano e d’una trad. dei Diritti e doveri del
cittadino del MaBLY. Vedi su di lui una notizia di N. MORELLI, in
Biografia degli uomini illustri del Regno di Napoli del Gervasi, vol IX,
Napoli, 1822; D’AvALA, Vite degli italiani benemeriti ecc., Roma, 1883, 34-41,
e B. Croce nell'Albo della vivoluz. napol. del 1799, p. 28. Per la sua
condanna v. SANSONE, Glîì avvenimenti del 1799 nelle Due Sicilie, p.
cxcI, Palermo, 1901; e per la sua fine Croce, La Rivol. napoletana, 151,
152. La Filosofia dell’eloquenza ebbe una ristampa a Venezia, e fu
tradotta in francese dall’ Yverdun; ed è certamente opera notevole per la
profonda conoscenza che dimostra della letteratura estetica straniera, specie
francese ed inglese, e per lo strano miscuglio che, come ne’ Saggi
politici pubblicati quel 2 di luglio 1811) al conte Giuseppe Zurlo, capo
della pubblica istruzione, versando sulla riforma dello studio
dell’eloquenza ». Scopo del libro era quello di mostrare che, più degli
aridi precetti de’ retori, una felice disposizione della natura, il
genio, l'entusiasmo, la conoscenza del mondo ed un ricco corredo di
cognizioni filosofiche formano l’uomo eloquente ». Questa, dice il Marinelli
nella sua dedica, è una teoria da me già dimostrata ad evidenza ». (Dove
dimostrata, se non nelle sue lezioni ?) Pure a giudizio di alcuni essa
sembra ancora un problema ». Da qui parrebbe che il suo insegnamento
avesse suscitato qualche critica e forse anche un certo scandalo.
Che insegnava egli dunque ? Un cenno di
questo libro non si riterrà fuor di luogo, se si tien conto delle
felici osservazioni che vi abbondano e la grande rarità di esso.
l’anno stesso dal Pagano, vi si fa, delle idee del V. con quelle
dei sensisti. La menziona il CROcE nelle sue Varietà di storia
dell’estetica, nella Rassegna crit. di lett. ital. del Pércopo, VII
(1902) p. 5 (poi in Probl. di estetica e contributi alla storia
dell’estetica italiana, Bari, 1910, p. 385), ma merita uno studio
particolare. In quest'opera però la rettorica è elaborata filosoficamente, ma
non è criticata. Il libro non ha altro che il titolo in comune con la
Filosofia del Marinelli. Un lavoro sull’A. fu pubblicato nel 1905
dal prof. F. DE SIMONE BroUWER, Franc. Ant. Astore, patriota napoletano,
nei Rend. dei Lincei, Sc. mor., serie 58, vol. XIV, 299-315. L’Astore fu
in amicizia con Gennaro V., com'è dimostrato da una sua letterina pubblicata
dal DE SiMONE, p. 303, dov’ è detto: Vi
acchiudo due esemplari di certe bagattelle poetiche.... di un vostro
amico.... il quale.... ve ne presenta un esemplare per vostro uso....
L'altro esemplare al nostro signor V. ». Insieme coi libri del
Marinelli e dell’Astore può esser ricordato il Saggio filosofico
sull’eloguenza dell’ab. GrusEPPE GENTILE (Siracusa, Pulejo, 1795, 2 voll.). Ne
ho potuto vedere soltanto il 2° volume, dove l'A. si dimostra un
sensista, e si riferisce più d’una volta all’Astore. Questo saggio », dice D. ScINÀ
(Prospetto della storia letteraria di Sicilia nel secolo XVIII, Palermo, 1824-27,
III, 440-4I), è modellato sul
Batteux, e su quelli francesi, che scrivono di eloquenza più colla
teorica, che col sentimento, e più colla metafisica che col gusto; e come
manca di quel senso delicato, vero e naturale che ci fa il bello sentire;
così avviene che di sugose osservazioni scarseggi, e venga nella scelta
degli esempii non di rado a fallare. Cioè non di meno, se il Gentile non
è atto a formare degli oratori o pur de’ poeti, ha il pregio di tener lontani i
giovani dalla pedanteria ». È diviso in due parti, una
negativa, Del vero carattere dell’eloquenza, in cui l’autore critica la
vecchia rettorica; e una positiva, Vedute filosofiche intorno alla
scienza del comporre, che espone le dottrine critiche del
Marinelli. L'esposizione procede per considerazioni aforistiche ed
epigrammatiche; ed è più una serie di appunti, che una trattazione vera e
propria. Rilevata l’importanza del linguaggio nello sviluppo
dello spirito, accennati gli effetti per esso conseguibili quando tocchi
il grado dell’eloquenza, l’autore afferma che questi effetti annunciano la forza ed il potere di
un’anima che signoreggia sulle anime mercé l'ascendente della parola » +.
E nota subito: Quel che evvi però di
singolare si è, che alcuni hanno creduto supplire colle regole ad
un talento sì raro. Ciò sarebbe, a parer mio, lo stesso che il
ridurre, se si potesse, il genio a precetti. E colui che ha preteso il
primo, che gli uomini eloquenti si debbano all’arte, o 11 dono della
parola certamente non possedeva, o era molto sconoscente ed ingrato verso
la natura ». La natura sola fa l’uomo eloquente. Gli ornamenti studiati
delle rettoriche hanno rispetto all’eloquenza il valore” della scolastica
di fronte alla vera filosofia. Qual cosa, infatti, più triviale
quanto il professare e mettere in pratica un’eloquenza sì ridicola ?
Figure ammonticchiate, grandi parole, che non dicono nulla di grande,
movimenti imprestati, che non partono dal cuore, e che per conseguenza non
vi giungono giammai, non suppongono al certo nell’autore e nel
maestro alcuna elevazione di spirito, alcuna sensibilità. Ma la vera
eloquenza essendo l'emanazione di un’anima ad un tempo semplice, forte, grande
e sensibile, bisogna in sé concentrare tutte I L’ULLOA (Pensées,
1, 114), il quale dice anche lui, che
questa Filosofia dell’eloquenza ne manquait pas d’apergus nouveaux et
intéressants » (1, 116), a proposito dei
discorsi letti dal Marinelli nella Pontaniana nota che in quel tempo la
conduite des écrivains était inégale et incorrecte. À ce défaut
près, l’auteur a de la méthode, de l’érudition et du jugement.] queste qualità per dar precetti ed eseguirli. Poiché,
diciamolo pur con franchezza, chi è penetrato vivamente dal bello, dal
sorprendente, dal sublime, lungi non è dall’esprimerlo !. I
precetti non hanno prodotto mai nessun capolavoro. Infatti i grandi
scrittori sono d’accordo nel dire che
gli squarci più sorprendenti delle loro opere hanno quasi sempre
loro costato minor fatica, perché sono stati ad essi come ispirati,
producendoli. L’eloquenza è nata avanti le regole della rettorica. Cmero
sparso avea di tratti sublimi e magnifici i suoi poemi divini, ed il
teatro greco vantava un Eschilo, un Sofocle ed un Euripide, prima che lo
stile sublime fosse stato definito da Demetrio Falereo, ed il
filosofo di Stagira prescritto avesse regole sulla tragedia ». La
rettorica v’insegna l’uso della figura: ma il popolo stesso usa il
linguaggio figurato, e nulla più frequente dei tropi sulla sua
bocca. Come nelle leggi la lettera uccide e lo spirito
vivifica, così le teorie rettoriche sono diventate altrettante gravi
catene, di cui si è caricato il genio. Le istituzioni dei retori moderni,
modellate su quelle degli antichi,
rigurgitano di definizioni, di regole e di particolarità,
necessarie forse per leggere con profitto gli oratori latini, ma
assolutamente inutili e contrarie anche al genere di eloquenza, che si
professa ai giorni nostri ». Questi retori, « fanatici per l’antichità
che si millantavano di conoscere, ci dettero per modelli tutto ciò
ch'essa ci ha lasciato, e posero, senza discernimento, l’esempio, e
l’autorità al luogo del sentimento e della ragione ». Leggi ce ne saranno, ma
bisogna ricavarle dagli stessi
principii delle cose », dallo studio degli uomini, della natura e
delle arti medesime. Non devono essere regole, a cui il genio abbia da
sottomettersi servilmente, senza il diritto di scostarsene ogni volta
che ZII gli siano di peso e d’imbarazzo. Abbia egli la regola
per far bene, ma anche la libertà, per far meglio. Il Gravina
avrebbe voluto che il Metastasio radesse
il suolo, schiavo della regola, quando era fornito di penne per tentare
un volo di Dedalo, ed apprendesse le leggi del teatro dalle usanze
de’ greci, quando, per ispirazione di Melpomene, st leggeva l’arte dentro
il suo cuore ». Fortuna che la natura la vinse sull’autorità del maestro!
La scuola lo rese autor del Giustino; il genio ne fece un classico
». Sicché le opere artistiche bisogna giudicarle non dalle
imperfezioni e dalle quisquilie che vi si rinvengono, ma dalle bellezze
che vi brillano ». Detto profondo e, almeno per l’ Italia, novissimo. Il
De Sanctis ne farà un principio fondamentale della sua critica. Il poema di Klopstock », dice il nostro
Marinelli, è forse meglio condotto della Eneide; ma venti bei versi di
Virgilio sopraffanno tutta la regolarità della Messiade. I drammi di
Shakespeare e la Divina Commedia di Dante hanno delle imperfezioni
barbare e disgustevoli; ma a traverso di quella densa caligine
folgoreggiano quei tratti di genio che eglino soli potevano avventurare
». Lasciate libera da ogni freno l’immaginazione; lasciate saltellare e
correre a suo bell’agio quel destrier generoso; esso non è giammai
sì bello quanto ne’ suoi traviamenti .... Abbandonato a se stesso,
alle volte cadrà certamente; ma che ? anche nella sua caduta conserverà
quella fierezza e quell’audacia che perderebbe colla libertà.
La turba dei retori definisce l’eloquenza: l’arte di ben dire
acconciamente per persuadere ». Meglio il D’ Alembert: il talento di far
passare con rapidità, ed imprimere con forza nell’anima altrui il
sentimento profondo di cui siamo penetrati ». In tutte le lingue vi sono
I Pagg. squarci eloquentissimi, che non provano nulla, e quindi
non si può dire che siano atti a persuadere; eloquenti sono perché
scuotono potentemente chi legge od ascolta. Quando Andromaca fa a Cesira
il quadro dell’esterminio di Troia, o le rammemora il congedo che da lei
prese Ettore sul punto di andare a battersi con Achille, non ha
certamente disegno di persuaderla. Ella geme e, piena del dolore che la
desola, cerca di aprire agli altri il suo cuore esulcerato ». C'è
l’'eloquenza poetica e l’eloquenza prosaica, non tanto diverse, che,
attingendo le loro ricchezze nella medesima sorgente, non si
ravvicinino qualche volta, non si tocchino, non si confondano ».
La distinzione tra poesia e prosa è propriamente distinzione tra arte e
scienza: delle cui attinenze il Marinelli ha un concetto prettamente
vichiano. I poeti classici precedono sempre i prosatori; ed è agevol cosa a trovarne la ragione. La
poesia non è che l’opera della fantasia e del sentimento. Or i popoli che
sortono dalla barbarie, avendo idee ristrette e limitate, sono per
conseguenza sommamente immaginosi. Ciò osservasi di leggieri nei
fanciulli che un simulacro sono de’ popoli selvaggi. Al contrario,
la prosa richiede intelletto e spirito di osservazione. Quindi negli
uomini sviluppandosi più presto quelle prime facoltà, che i talenti, i
quali suppongono la maturezza del giudizio, è avvenuto che l’eloquenza
pcetica ha sempre fiorito prima della prosastica in tutte l’epoche della
letteratura ». Dopo di che fa veramente meraviglia che il
Marinelli si affanni a dimostrare che la filosofia, lungi dal
nuocere, giova anzi moltissimo alle produzioni del genio », e che
il più bello squarcio di eloquenza, se manca del fondo di verità che vien
compartito dallo spirito filosofico, rassomiglia a quel fiorellino, che,
pompeggiando in mezzo al prato, sorprende i primi sguardi, ma, appena
colto, langue e si scolora ». Miscuglio di falso e di vero, in
cui senti l’influenza della filosofia di moda, come là dove Dio non
è altrimenti nominato che Ente supremo »
da questo curioso prete della rivoluzione, il quale si dice amasse
vestire sempre da laico *. Pure, un fondo di verità, per dirla con
lo stesso Marinelli, nel suo pensiero c’è; e si scopre subito, quando
l’autore soggiunge che per sentire il
pregio dell’espressione, bisogna, come i Platoni, i Montaigne, i Baconi
da Verulamio, i Montesquieu e i Filangieri, unire l’arte di
scrivere all’arte di ben pensare ». Non si respira qui l’aria
romantica ? Da anteporre a tutti gli studi dei libri, il più utile e 11
più necessario, lo studio degli uomini e della vita. Volete
conoscere gli uomini ? Vedeteli da vicino, ascoltateli, osservateli
continuamente: Una parola, un colpo
d'occhio, un atteggiamento, un gesto ed il silenzio stesso è alle fiate
quel che dà la vita, l’espressione » ?. Non sta negli ornamenti
estrinseci il vero pregio di un’opera d’arte: il capolavoro, spogliato di
essi, conserva tutto il suo interesse. Vuole lo scrittore rendersi
interessante ? S’investa bene della parte sua, ed esamini a fondo le
cagioni e gli effetti degli avvenimenti. Quando una volta si è renduto
padrone della sua materia; quando si è investito del carattere che dee
rappresentare; quando la sua anima si è riscaldata, per così dire, ai
riverberi della sua immaginazione; quando essa è montata al livello
del soggetto e delle circostanze, la sua eloquenza è tale quale convien
che sia. Ella si esprime con nettezza. Il valore del sentimento interiore si
spande su tutto il suo discorso ». Sobrietà, sopra tutto, e naturalezza.
Se un sol I CROCE, La Rivol. napol.] tratto ha espresso una
passione violenta, ogni aggiunta non fa che guastare. Romantica è anche
l’idea del Marinelli, che bisogna essere originali, ma che, se avete
disegno di depredare le idee altrui, siano almeno quelle, che non alla
vostra, ma all'estere nazioni si appartengono .... Trasporterete tra
i vostri nazionali un nuovo fondo di dottrine, e dilaterete così la
sfera delle loro cognizioni ». C'è ancora in questo libretto,
certamente, molto vecchiume rettorico; ma c’è pure una tendenza, che ha
una importanza storica notevole; e qua e là lampeggia un ingegno
critico non comune. I A questo proposito il Marinelli fa una
critica del Laocoonte di Virgilio, la quale dimostra buon gusto, acume e
libertà di giudizio (PP. 73-4). Aggiungerò qui in nota che
negli Atti della Società Pontaniana (alla quale il Marinelli appartenne
come socio residente), vol. I, Stamp. Reale, 1810, 93-120, e 213-39, sono
due memorie del Marinelli: Cagioni dei progressi straordinari dei greci
nella letter. e nelle belle arti, letta ai 20 dicembre 1808; e Origine e
progressi della letter. e delle belle arti presso 1 Romani, letta nella
sed. de’ 30 maggio 1809. La prima è una dimostrazione di quell'amore
della bellezza che i greci portarono in tutte le forme della loro
attività. Curioso questo brano in cui si vuol spiegare la semplicità
greca: I greci erano semplicissimi, per la ragione ch’essendo repubblicani,
esser dovevano più liberi e generalmente popolari. Sì, quella libertà ch’eleva l’animo dei
cittadini, fu la prima cagione che contribuì allo sviluppo di quel popolo
classico, poiché la forma del governo influisce essenzialmente sulle arti
e sulle scienze di tutte le nazioni. I sovrani che, rispettando il codice
eterno della natura, lasciano ai sudditi la porzione della libertà ch'è
loro necessaria per illuminarsi, bisogno non hanno di minacce e di catene
per tenerli a freno, né innalzar debbono baluardi sulle frontiere per garentire
lo stato dagli insulti stranieri. Il genio, il valore, i lumi e la virtù
sono i figli della libertà ». La seconda memoria è un abbozzo di
storia letteraria romana. A p. 215 n., l’A., a proposito dell’origine
greca delle leggi delle XII tavole, dice:
Non s’ignora che Giambattista V. nella sua Scienza Nuova intorno
alla natura delle cose (sic) ha messo in forse questo fatto; ma il dotto
avvocato Antonio Terrasson in una delle sue memorie inserita negli atti
dell’Accademia delle Iscrizioni, tomo XII, l’ ha difeso in modo, che
sembra non potersene più dubitare ». Pur
citando il Terrasson (Sulle leggi delle XII tavole), il Cuoco, invece,
nel suo Platone, $ LXIV, aveva sostenuto con acume e con brio la
tesi vichiana. DALLA RIFORMA DEL ALLA FINE DEL REGNO. Una Filosofia
dell’eloquenza aveva proposta nel 1809 un altro molisano d’ingegno, intelletto veramente superiore, nel piano degli studi universitari, al
luogo della cattedra del Ciampitti (Eloquenza antica e moderna)e di
quella del Marinelli, il cui titolo era propriamente, come s’è veduto:
Letteratura antica e moderna. Il Rapporto e progetto di legge
presentato nel 1809 a G. Murat dalla Commissione straordinaria pel
riordinamento della pubblica istruzione nel Regno di Napoli, di cui fece
parte quello spirito illuminato di Melchiorre Delfico, ma fu relatore e vero
autore Vincenzo Cuoco, è il documento pedagogico e scientifico più
notevole, in cui ci sia accaduto d’incontrarci in questa nostra ricerca.
Questa scrittura del potente scrittore di Civitacampomarano, insieme col
Saggio storico sulla rivoluzione napoletana, è anzi, vorrei dire, ciò che di
più notevole produsse il pensiero napoletano in quegli anni agitati
tra il 'gge il ’20. Tra i letterati e professori del suo tempo il Cuoco
grandeggia in questo Rapporto come un alto spirito solitario, giacché
egli si rannoda direttamente al pensiero d’un grande morto, rimasto nome
sacro ma incompreso per tutto il periodo che abbiamo qui addietro
percorso, e per cui si distese la vita presso che vuota di Gennaro V.. Il
nome del padre di costui ricorre in questo scritto più d’una volta. Sono
esplicitamente richiamate alcune delle idee più geniali dell’ Orazione De
nostri femporis studiorum ratione*. Ma quando gli accade di
I V. Cuoco, Scritti pedagogici ined. o rari racc. e pubbl. con note e
appendice di docc. da G. GENTILE, Roma, Albrighi, Segati menzionare la Scienza
Nuova, l’autore esce a dire di essa:
Una delle opere le più ardite che lo spirito umano abbia tentate;
e se quell’opera non ha prodotto ancora tutto quello effetto che dovea produrre,
ciò è solo perché era superiore di mezzo secolo all’età in cui fu
scritta. Ma è degno di osservazione, che le idee di V. vanno
sbocciando nelle menti altrui, a misura che la filosofia
dell’erudizione progredisce; e si spacciano da per tutto molte teorie
come novità, mentre non sono altro che semplicissimi corollari
della dottrina di V.. Noi non ne facciamo l’enumerazione, perché forse potrebbe
dispiacere a molti, i quali saranno inventori di quelle cose, delle quali
potrebbero esser creduti plagiari:, se mai le opere di V. fossero
tanto note, quanto meriterebbero di esserlo. Quello però che possiam dire
con sicurezza si è, che la dottrina di V. è nota e adottata quasi tutta
intera nelle sue applicazioni; ma n’è rimasta oscura la teoria generale, da
cui tali applicazioni dipendono, e da cui sl possono rendere più
ampie e più certe » ?. Il Cuoco non è certo un plagiario del V., né
anche in questo Rapporto 3: dal V. trae ispirazioni e germi fecondi
di pensiero nuovo. Un esame dell'intero scritto p. 98. Lo scritto
del Cuoco nella cit. Collez. delle leggi e decr. della P.I. (dove fu
ristampato nel vol. I) è riferito al 1811. Il RUGGIERI, o. c., p. 61, lo
riferisce al 1812. Ma documenti inediti dell'Archivio di Stato di Napoli
(da me pubblicati nel volume Scritti pedagogici inediti o rari, 251-6) ci
attestano che il Rapporto e il Progetto risalgono al 1809. Si vegga ora
in Scritti varii del Cuoco, II, 1 sgg. I Il Cuoco non prende questo
termine nel senso ora corrente: ma vuol dire ripetitori, non originali.
Intorno a questa fortuna delle idee vichiane si può vedere del Cuoco
l’Abbozzo di lettera al De Gérando, pubblicato dal RUGGERI, 186-99 (cfr.
sopra, 287-88), e una sua Pagina inedita data in luce da M. Romano nel
vol. Scritti di storia, di filologia e d’arte (Nozze Fedele-De
Fabritiis), Napoli, Ricciardi, 1908, 181-92. 2 O. c., 132-3.
3 Sui rapporti del Cuoco col V. si può anche vedere quel che ne ho
detto nella Critica del 20 gennaio 1904, III, 39 sgg.; nel mio Saggio su
V. C. pedagogista, che sarà prossimamente ristampato con la mia
Commemorazione di V. C., 1924 [ora in V. Cuoco?, vol. XXII delle Opere di
G. GENTILE, Firenze, Sansoni, 1964 (n. dell’ed.)]. sarebbe qui fuor di
luogo. Tuttavia non è possibile, prima di vedere il disegno che il Cuoco
propone e propugna per l'insegnamento letterario dell’ Università, non
dare anche uno sguardo alle sue profonde osservazioni sull’insegnamento letterario
nella scuola media. Il Cuoco inizia per questa una riforma capitale,
mettendo a capo di tutte le materie da insegnarvi la lingua italiana,
della quale nelle scuole mezzane non s’era pensato ancora a far
oggetto di studio speciale 1. E bisogna sentire come ragiona la sua proposta.
Il linguaggio », egli dice, non è solamente la veste delle nostre idee,
siccome i grammatici dicono, ma n’è anche l’istrumento. La prima
lingua che noi dobbiamo sapere, è la propria. L'educazione de’
nostri collegi dava troppo, ed inutilmente, allo studio grammaticale
delle lingue morte. Le lingue non sì possono 1 Dopo la cacciata
dei gesuiti, la riforma fatta nel 1770 dal Tanucci, che ordinò in Napoli
il collegio del Salvatore e altri reali collegi in Aquila, Bari, Capua, Catanzaro,
Chieti, Cosenza, Lecce, Matera e Salerno, restrinse ancora tutto l’
insegnamento letterario al latino e al greco. Vedi il Regolamento degli
studi del Collegio napoletano del SS. Salvatore e de’ Collegi
Provinciali, in DE SARIIS, lib. X, tit. VI, (pp. 53-54) e nelle
Prammatiche De reg. studiorum (pp. 42-50). Vedi pure le Istruzioni per le
scuole del Salvatore e delle Provincie, anche del Tanucci (1771), nelle
stesse collezioni. Solo per i convittori del convitto in queste
istruzioni si stabili un'ora al giorno di scuola particolare perlostudio
delle lingue italiana, francese e spagnuola, in due soli anni del corso, che
era di otto; fuori, dunque, del programma comune. Nell’ istituzione dei
collegi il Tanucci fu detto seguisse i consigli di Ferdinando Galiani.
Vedi la Vita dell’ab. F. Galiani di L. DiopaTI, Napoli, Orsino, 1788, 35-6.
Nelle Lettere di F. Galiani a B. Tanucci, Napoli, Pierro, 1914,
pubblicate da NICOLINI ce n’ è infatti una da Parigi, 4 gennaio 1768,
riguardante gli istituti d’ istruzione che si dovevano fondare dopo
l’espulsione dei gesuiti. Rispetto al metodo, l’ab. Galiani dice solo che si
potrà dar la cura di distenderne il piano ai più valenti professori dell’
Università; ma intanto che si faccia, si potrà senza esitazione servirsi
di que’ regolamenti distesi dal sig. E. Ferdinando di Leon, Commissario di
Campagna per il nuovo Collegio di Sora, messo sotto la sua cura. Kegolamenti,
che fan conoscere non meno l’adequatezza e acume della mente, che le
profonde cognizioni di questo Magistrato. Tutti gli altri regolamenti dal
medesimo pensati per il vitto, vestito, distribuzioni di ore ecc. di quel
Collegio, meritano d'esser a parer mio con applauso adottati. apprendere
bene per via di grammatiche e di vocabolari; lo avverte benissimo il
proverbio: alzud est grammatice, aliud est latine loqui; e l’esperienza
giornaliera lo conferma. I precetti della grammatica in ogni lingua sono
pochi e semplici; e tra le grammatiche la più breve è sempre la
migliore. Lo studio della lingua, e non già della grammatica, deve esser lungo;
ma ogni studio soverchio, che si dà alla grammatica, è tolto al vero
studio della lingua, la quale non si apprende se non colla lettura e
retta imitazione de’ classici ». Tanto buon senso non dico
che precorre il tempo del Cuoco; perché troppi ancora non ne sono capaci.
Certo, meglio del Cuoco oggi non si potrebbe dire su questo punto. Noi diremo anche di più », continua il
Cuoco: rende più facile lo studio delle lingue morte il saper bene
la propria e vivente. Tutte le lingue hanno un meccanismo comune, il quale
dipende dalla natura comune delle menti umane ». Da questo principio
vichiano il Cuoco desume che quella che occorre studiare è, a proposito
della lingua nostra, una grammatica generale, una grammatica con metodo
filosofico, che faciliti l'apprendimento delle altre lingue. Allo studio
dell’italiana vuole unito quello delle lingue classiche, perché quando esse si potessero senza danno e
senza vergogna ignorare dagli altri popoli, non si debbono ignorare da noi ».
Ma con lo studio delle lingue (tra cui non crede trascurabili le moderne,
sopra tutto la francese) il Cuoco intende che vada di pari passo la
lettura dei classici, così latini e greci come italiani: E questa continuerà per tutto il tempo
delle scuole; e perché non per tutta la vita ? Sarà cura della Direzione ?
il fare una I Il Cuoco doveva avere in mente la Grammatica
generale del Du Marsais, che cita infatti poco dopo a proposito dei
tropi. 2? Avrebbe dovuto essere (Progetto di Decreto, art. 4) un
ufficio preposto a tutta la P. I., alla dipendenza del Ministero dell’
Interno. ripartizione dei nostri classici; onde ve ne siano degli
adattati alla diversa età e capacità dei giovanetti: sarà cura de’
professori manodurli in questa lettura, più utile di qualunque lezione;
renderla più utile ancora colle imitazioni, colle versioni, e con tutti quegli
altri generi di esercizi scolastici, de’ quali, siccome notissimi, non
occorre parlare ». Il concetto, come ognun vede, giu-tissimo,
del Marinelli. Ma dove si nota anche più la modernità del Cuoco, è nei
colpi che dà alla vecchia carcassa della poetica e della rettorica.
Bisogna riferir questo luogo, che è un documento storico di molto
valore: Noi non parliamo particolarmente della poetica e della
rettorica. Nella prima il meccanismo della versificazione è tanto facile
ad apprendersi, che bastano quattro o cinque lezioni nel finir della
grammatica, seguendo il metodo degli antichi, che tali lezioni alla
grammatica solevano unire. Ma quanta distanza vi è fra il conoscere il
meccanismo della versificazione, ed il saper fare de’ bei versi ? E
quanta ancora dal far dei bei versi al fare un bel poema? Tutto ciò non
si fa, se non a forza di genio e di bene intesa imitazione de’ grandi
esemplari. Lo stesso dicasi per la rettorica. Che s’ insegna colle
rettoriche ordinarie ? L’invenzione, quasi che l’inventare consistesse in
altro, che nel paragonar due idee, che già si hanno, per farne sorgere
una terza, che non si ha ancora; e quasi potesse inventare chi non ha idee, e
non ha acquistato, a forza di esercizi matematici e logici, quella
versatilità, che è necessaria per farne più rapidamente i paragoni! La
disposizione, quasi che il disporre abbia altra ragione, che quella di
ordinar le idee ed i sentimenti in modo, che producano il massimo effetto
possibile; e quasi che questo non sia l’ultimo risultato della più
profonda cognizione del cuore e dell’ intelletto umano!
L’elocuzione, quasi che la forza intrinseca, principale dello stile, non
dipenda dalla varia associazione e coordinazione delle idee! Che
rimane dunque in quella, che chiamasi rettorica? L'esposizione
delle figure delle parole, o sia de’ t ro pi, la cognizione de’ quali
appartiene alla grammatica, ed è di sua natura tanto facile, che il più
grande forse, e certamente il più filosofo degli scrittori, che ne
han trattato (Du Marsais), ha dimostrato, che que’ modi, che noi sogliam
chiamar figurati, sono i modi più naturali di esprimerci !. Che altro
finalmente ? La nomenclatura delle varie parti di un nostro discorso:
nomenclatura, chesi può apprendere, e si apprende benissimo, anche senza
maestro; perché si richiede ben poco a sapere, che quando taluno
racconta, fauna narrazione, quando descrive fa unadescrizione. È
tutto questo materia sufficiente per un corso particolare di lezioni
? AI risorgere delle lettere ci ha nociuto la mala intesa
imitazione degli antichi: abbiam ritrovati di essi alcuni trattati
particolari sopra talune parti della rettorica, sull'invenzione,
sui tropi, sull’elocuzione..: gli abbiamo compendiati, gli abbiamo
riuniti, e ne abbiam formato un corpo di scienza, che abbiam destinata
pe’ giovinetti. Avean destinati ai giovinetti i loro libri anche gli
antichi ? Aristotele non parla di rettorica al suo grande allievo, se non
dopo i più profondi studi di morale e di politica; e l’opera rettorica,
che di lui abbiamo, ben dimostra che non poteva esser diversamente: essa
non potrebbe intendersi da un giovine di collegio. Tutta la scuola
platonica credeva non esservi, propriamente parlando, alcun’arte
rettorica; e che il saper bene parlare non altro fosse, che il saper ben
pensare e vivamente sentire. Ed alla scuola platonica non si può per
certo rimproverare di disprezzare ciò che non sapeva. Cicerone ha voluto
difendere contro Platone la sua arte; ed ha voluto dimostrare, che
l’oratore ha bisogno di qualche altra cosa, oltre del sapere. La disputa
forse non è ancora decisa; ma lo stesso Cicerone non ha potuto
negare, che all’oratore il sapere era indispensabile.... Perché invertiamo
l'ordine della natura, e vogliamo insegnare a parlare a coloro che non
ancora sanno pensare ? Onde poi ne avviene, che i giovani de’ nostri
collegj sanno tutto Cygne ? e tutto De Colonia, e non sanno scrivere un
biglietto? Perché turbiamo la classificazione delle scienze, e riuniamo
alla rettorica ciò che deve esser il risultato di altri studi, i quali
sono egualmente necessari ? Perché finalmente non imitiamo i grandi esempi ?
Presso gli antichi, lo studio dell’eloquenza era l’ultimo di tutti; e
Cicerone aveva compiuti tutti suoi studi, quando si esercitava sotto
Molone. Cfr. CROCE, Estetica 3, 502-3. 2 Cioè l’Ars rethorica (1659)
tante volte ristampata, di CYGNE, gesuita. Il libro del De Colonia è più
noto. Vedremo subito quale sia questa eloquenza che il Cuoco rimanda
a studi superiori. Ora voglio notare soltanto, che questo assalto alla
rettorica non è mosso da quello spirito, per cui certamente l’avrà
approvato M. Delfico, da quel filosofismo astratto che era al fondo della
cultura di costui, ma era solo una verniciatura di quella del Cuoco, e
che dichiarò anch’esso guerra alle regole, alle tradizioni, alle
pedanterie. Il Cuoco era altra tempra intellettuale: il suo libro è la
Scienza Nuova. Basterebbe leggere, per accertarsene, ciò che dice con
profondità da cui rimangono ancora assai lontani i compilatori di certi
non ancor dimenticati programmi e pedagogisti della scuola media. Basta
anche notare questa sua osservazione: La storia deve esser collezione di
fatti, e non di riflessioni: quindi non sono del tutto lodevoli quelle
tante istituzioni di storie che coi titoli pomposi di filosofiche, si
sono pubblicate in questi ultimi tempi, per uso de’ giovinetti. Se
fate che le riflessioni precedano i fatti, voi non date più storia,
ma riflessioni: e siccome la storia tiene nelle cose morali il luogo
dell’esperienza, voi rassomigliate ad un maestro di fisica, il quale in
vece di esperienza dia sistemi, in vece di dati dia conseguenze». Questo
era genuino pensiero vichiano; era la buona tradizione paesana.
Prima che queste idee del Cuoco nella scuola trionfino, passeranno
ancora diecine d’anni. Bisognerà aspettare F. De Sanctis che dia mano, nella
scuola di V. Bisi, alle lezioni sulla rettorica, o piuttosto
sull’anti-rettorica »; per insegnare allora per la prima volta a una gioventù
che ascolterà plaudente come alla rivelazione della verità che la rettorica ha per base l’arte del
ben pensare, e perciò non può insegnarsi che ai già provetti nelle discipline
filosofiche »; che essa fu una
invenzione e quasi un gioco dei sofisti» e produsse l’indifferenza verso il
contenuto e il disprezzo della verità »; che le regole rettoriche non
hanno la loro verità che nelle forme del pensiero, materia della logica.
Ma, come la rettorica non ti dà il ben dire, così neppure la logica ti dà
il ben pensare, essendo le sue forme staccate da quel centro di vita
che si chiama lo spirito »!: che la parola non manca a chi ha innanzi
viva e schietta la cosa », e che bisogna perciò studiare le cose con
serietà e libertà d’intelletto. E così rinnovare la critica delle figure
rettoriche e conchiudere proprio
come il Cuoco nel 1809 che la
rettorica svia da’ forti studi, guasta l’intelletto e il cuore », e che
bisogna buttare al fuoco tutte le rettoriche, e che ci vuole il verbum
factum caro, la parola fatta cosa » =. Il De Sanctis rifarà da sé il
cammino: ma l’indirizzo di pensiero, da cui trarrà i motivi della sua
critica, sarà pure una continuazione di quello del Cuoco, a lui per
questo rispetto rimasto ignoto. Ma tutto il pensiero del Cuoco si
compie in ciò che egli dice dell’insegnamento universitario. Egli propone
era la prima volta la
costituzione d’una speciale Facoltà di Belle lettere e filosofia;ela
vuole anzia capo di tutte (lasciando le altre cinque del 1806, ma
in un ordine diverso 3). In essa, oltre l’ideologia e l’etica, o
teoria de’ sentimenti morali (nell'ordinamento del 1806, l’etica
religiosa e filosofica » era stata aggregata alla Facoltà di teologia, e
nella Facoltà di filosofia s’era istituita una cattedra di logica e
metafisica, rimasta immutata fino al 1860), chiede una disciplina
filosofica del tutto nuova: quella dell’eloquenza, I Per imparare a ragionare », aveva detto il
Cuoco nel Rapporto (Scritti, p. 94), è necessità aver ragionato ». La
logica non insegna a ragionare, ma a riflettere sulle operazioni logiche
dello spirito. ? Vedi per tutto ciò La giovinezza di F. De Sanctis,
cap. 25, 252-3, 254, 250-7. 3 Cioè: 2) scienze matematiche e
fisiche; 3) medicina; 4) giurisprudenza; 5) teologia. A quest’ultima, oltre
l’esegesi e la storia, non lasciava che la
teologia dogmatica e morale evangelica ». Vedi il Prog. di
Decreto, artt. 46-59; negli Scritti, 197-200. o, per meglio dire, della
filosofia dell’eloquenza, la quale chiamar si potrebbe il complemento
della filosofia istrumentale ». Contro la sua proposta il
Cuoco prevede due sorta opposte di avversari:
Alcuni troveranno questa cattedra inutile, perché contraria agli
antichi metodi d’insegnare la rettorica; altri, perché per mezzo di essa
non si faranno mai degli uomini eloquenti ». Ma ai primi la risposta
è facile. È da qualche tempo, che la filosofia si è impadronita
delle materie dell’eloquenza. Questa che i pedanti vorrebero far credere
un’usurpazione, non è che una legittima rivindica di ciò che la filosofia
possedeva nei tempi antichi ». E accenna quindi compendiosamente quanta luce
la filosofia avesse fatta sulla vecchia materia empirica della
rettorica. Ritorna col Du Marsais (ma un Du Marsais cuochiano, o vichiano
che si voglia dire) a rilevare gli errori degli antichi teorici. E dopo
aver disegnato a grandi tratti il quadro di tutto ciò che la filosofia ha
operato sull’eloquenza », entra in un ordine di considerazioni più
fondamentale e più opportuno : Diremo che tutto ciò non sia che
visione ed errore ? Questo sarebbe duro a dirsi, durissimo a credersi;
ma, quando anche si dicesse e si credesse, non basterebbe. Quando anche
tutte le osservazioni finora fatte fossero false, non ne verrebbe perciò, che
non se ne dovessero fare delle vere; perché non ne verrebbe mai che
i precetti potessero rimaner senza ragioni. E se queste ragioni si
debbono ricercare, poiché esse non altronde si possono trarre che dalla
natura dell’uomo, ne verrà sempre che, abbandonate le officine de’
retori, siccome diceva Cicerone, si debba ritornare alle accademie de’
filosofi. È vero, i pedanti perderanno il diritto di censurare il Tasso,
perché avea messo il canto al principio del verso, mentre Virgilio l’avea
messo nel mezzo; i sonettisti, imitatori del gran Petrarca, non
spingeranno la servile imitazione fino al punto di comporre lo stesso
numero di sonetti, di canzoni, di sestine, di ballate, o d’ innamorarsi
anche essi di venerdì santo; i precetti cesseranno di esser esempi, il
che è sempre o servile, se non vi discostate dall’originale, o
pericoloso, se volete al tempo istesso e discostarvene ed imitarlo; il
genio avrà un campo più libero a correre, ed avrà sempre la ragione per
guida. Ecco la differenza tra la rettorica ordinaria e quella che da noi
si propone. Non è un’affermazione netta: ma chi non vede che
cosa avrebbe dovuto essere questa teoria razionale dell’arte,
questa filosofia ? La critica filosofica della rettorica conduceva dove doveva
condurre: all’estetica. Il Cuoco conviene cogli altri oppositori,
che questa sua rettorica non formerà mai l’uomo eloquente. E quale
altra mai lo potrebbe ? Non vi è eloquenza, ove non vi è ricca vena di
pensieri e di affetti ». Ma non è questo il fine di tale insegnamento. La
gioventù ne’ suoi primi anni non si esercita che a sentire le bellezze
dei grandi modelli e ad imitarle: quando avrà già molto sentito,
incomincerà a riflettere sulle proprie sensazioni; e questa
riflessione, lungi dall’infievolire o distruggere le prime sensazioni,
le conserva e le rinvigorisce. I giovani si arresteranno a
riflettere sul bello ». Saranno
eloquenti, se la natura gli avrà fatti tali; e se la natura tali non gli
avrà fatti, almeno non saranno né stentati, né affettati, per imitare le
parole, i perlodi, lo stile di un antico, che esponeva idee ed
affetti diversi dai loro; saranno semplici ed originali, il che è
grandissima parte di bello ». Insomma, non doveva essere una
precettistica, ma una teoria: cioè, per l'appunto, l’estetica. Lo studio
degli scrittori, a cui, non i soli letterati, ma tutte le persone
colte devono essere iniziate, nei ginnasi; e nell’ Università questo studio profondo della teoria dell’eloquenza
restituito alla filosofia ». Il Marinelli, conterraneo del Cuoco,
liberale moderato come il Cuoco, suo compagno d’esilio a Marsiglia 1,
quando I Anche il Cuoco, com’ è noto, fu esiliato dalla Giunta di
Stato nell'aprile 1800, e dové partire per Marsiglia, dove nel marzo
l’aveva nel luglio 1811 pubblicava la sua Filosofia dell’eloquenza,
si può credere che non ne avesse già a lungo discorso con l’autore del
Rapporto ? Il libro pare pubblicato col fine di ottenere la nuova
cattedra, qualora le idee del Cuoco fossero trionfate. A ogni modo, le
attinenze del pensiero del Cuoco col libro del Marinelli, dopo tutto
ciò che si è detto, sono innegabili. La sola parte che un
programma di studi moderno desidererebbe, e non sì trova nel piano del
Cuoco, è la storia della letteratura; forse perché egli intendeva
che questo studio dovesse, con l’esame degli scrittori, farsi nei
ginnasi e nei licei. Quanto infatti sapesse pregiare il sapere storico si
scorge in questo stesso Rafporto da quel che dice con acume e larghezza
mirabili delle due cattedre, che propone, di filologia latina e filologia
greca +1: alle quali voleva congiunto l'insegnamento della
Paleografia e della Critica diplomatica (in una sola cattedra); e
congiunta anche ardimento veramente
notabilissimo ! una cattedra di filologia universale, ossia della
scienza speciale del V.. Anche la
filologia », dice il Cuoco, ha le sue idee astratte, ha la sua parte
filosofica; perché ha le sue regole universali applicabili ai fatti di
tutte le nazioni. Dalla filologia appunto dei particolari popoli il
nostro V. trasse i principii, che poscia espose nella Scienza Nuova ». E,
fatto l’elogio, che s’è visto, di questo libro, continua: Noi abbiam creduto e glorioso ed utile
per la nostra nazione stabilire una cattedra, nella quale tal filologia
universale s’insegnasse ». Filologia, per cui l’erudizione diventa
filosofia, e quello che sappiamo dei preceduto l’altro molisano,
cugino suo, Gabriele Pepe. Vedi RUGGIERI, O. C., 24-25 e M. Romano,
Ricerche su V. Cuoco, Isernia, 1904, p. 23. _* Questa
filologia è intesa, alla maniera del Boeckh, come arte di conoscere e
intendere tutti i monumenti, che a noi sono pervenuti dall’antichità greci
e dei romani diventa utile a intendere ciò che ignoriamo o conosciamo molto
imperfettamente della filologia delle altre nazioni. La stessa filologia
greca e romana si illuminano di una luce tutta nuova; come ha
dimostrato V. nel De antiquissima Italorum sapientia e nel De uno
universi juris principio et fine uno. Le parole e i miti sono considerati
conseguenza certa della intrinseca natura della mente umana », e soggetti
a regole costanti. La cattedra proposta, conchiude il Cuoco, è
forse unica in Europa. Ma che
importa ? Esiste o non esiste questa scienza ? Ciò non si può negare, né
anche da coloro che non conoscono V.. Essa esiste tanto, che il solo
spirito filosofico del secolo ne ha fatte sviluppare molte varietà
di dettaglio nella testa di molti: perché dunque non insegnarne l’insieme ? ».
E chi l’avrebbe insegnata ? Non credo che il Cuoco ci avesse pensato, e
molto meno che vi si sarebbe potuto o voluto provare. Certo, non altri
che lui allora ne sarebbe stato capace !. Ma, se su questo
punto imbarazzo ebbe il consigliere Cuoco, ci fu chi ne lo cavò subito.
Gabriele Pepe, che era in grado d'esser bene informato, nella Necrologia
di V. Cuoco, ci fa sapere che il progetto di questo non fu
accettato da re Gioacchino per le opposizioni di un altro molisano (di
Baranello), Giuseppe Zurlo, ministro dell’ Interno (da cui dipendeva l’
Istruzione); il quale ne aveva già presentato uno suo, che naturalmente
pre 1 Nel 1792 era stata istituita nell’ Università una cattedra di
storia della filologia, e data ad Antonio Jerocades, di cui ci rimane la
prolusione: Orazione intorno alla concordia della filosofia e della
filologia, s. l. e a., e l'opuscolo Bacone e V., ossia Disegno delle
parti della filosofia corrispondenti alle parti della filologia secondo
il piano di Bacone e dì V. (Napoli, 1792]; cfr. CRocE, Varietà cit., 6-7, e
ora Probl. di estetica, 385-6. La biblioteca della Società storica per
le province napoletane possiede anche un quaderno delle lezioni del
Jerocades, scritte da un suo scolaro, l’ insigne giureconsulto Nicola Nicolini.
Ma presentano assai scarso interesse. Sul Jerocades vedi G. CaPASSO. Un abate
massone nel sec. XVIII, Parma, valse :. Ed è quello promulgato col decreto 20
novembre 1811. Il quale, per ciò che concerne l’insegnamento letterario,
tornò allo statu quo: la lingua italiana nei licei non ci entrò; la
Facoltà di lettere e filosofia fu bensì costituita, ma con le cattedre
antecedenti alla riforma del 1806: Eloquenza italiana, Eloquenza e poesia
latina. Nessuna novità degna di nota. Alla Lingua greca si aggiunse
la Letteratura; si introdussero l’ Archeologia greco-latina, la Cronologia
e l’ Arabo. Ma, rispetto alla Letteratura italiana, si tornò indietro. Si
tornò all’erudizione pura e alla vecchia rettorica: V. e la filosofia
furono sconfitti. Cuoco era andato troppo oltre; e si ripiombò nel sec.
XVIII. Marinelli, perduta la cattedra ili letteratura antica e moderna,
non ebbe 1’ Eloquenza italiana, malgrado la sua Filosofia dell’eloquenza
dedicata a don Giuseppe Zurlo. Gli toccò di passare, credo nel
1812, alla Cronologia, e l’ Eloquenza italiana fu data un’altra
volta al poeta di Corte, più propriamente bibliotecario 1 Vedi lo
stesso Romano, o. c., p. 39. Oggi, grazie alle ricerche del Nicolini,
sappiamo più precisamente come andarono le cose. Il Progetto primitivo del
Cuoco fu approvato dalla Commissione dell’ Istruzione. Ma la Commissione
stessa, vista la resistenza del Consiglio di Stato (Sezione Interno)
compilò un secondo progetto modificato (ottobre 1809). Progetto modificato che
fu rinviato al Consiglio di Stato (1° novembre 1809) perché lo approvasse in
seduta plenaria. Ma lo Zurlo, ch’era divenuto frattanto (1 o 2 novembre)
ministro dell’ Interno, lo fece bocciare (3 novembre). Nel settembre 1811
lo Zurlo compilò (o meglio fece compilare da Matteo Galdi) un terzo
progetto, che pare fosse bocciato dalla Sezione dell’ Interno del
Consiglio di Stato. Il Murat allora nominò una seconda Commissione di
quattro ministri, che, con l’ intervento palese di Melchiorre Delfico e
quello clandestino del Cuoco, compilò un quarto progetto, che finalmente
fu approvato (29 novembre 1811) dal Consiglio di Stato e divenne legge il
13 dicembre 1811. E quest’ultimo progetto s’accosta più al progetto Cuoco
che non al progetto Zurlo. Cfr. NICOLINI, in Cuoco, Scritti vari, II, 4IO
SQg. ? Collezione cit., I, 230-240. Non è esatto, dunque, ciò che si dice
nelle Notizie intorno alla origine, formazione e stato presente della R.
Università di Napoli per l’ Esposizione nazionale di Torino nel 1884:
rettore G. Capuano, Napoli, 1884, p. 48, intorno alla sorte del progetto
Cuoco. del re e più tardi lettore della regina, Angelo Maria Ricci,
che si apprestava a cantare i Fasti di Gioacchino Murat, ma aveva
cominciato già a tesserne le lodi fin dal 18009 con le ottave La Pace e
nel 1810 ne aveva cantato il felice ritorno nell’ode La Verità*. Con lo
spirito leggiero e vuoto del Ricci, si riebbe l'insegnamento del Seric. E
lo studio della letteratura italiana non si rialzò più fino al
1860. In una breve notizia biografica sul poeta di
Monopolino, sfuggita ai due recenti studiosi che si sono occupati di
lui, il marchese di Villarosa ? dice che il Ricci ottenne per lasua intemerata condotta
intempo della militare occupazione alcuni letterari impieghi, e fra questi
di esser professore di Eloquenza italiana nella regia Università degli
studi, impiego che conservò anche nel ritorno di re Ferdinando. Dovette
tal onorevole carica rinunziare per motivi di salute, e ritornare ne’
patrii lari». Il che accadde sul finire del 18173. Il suo insegnamento
non I Vedi G. B. FicoRILLI, A. M. Ricci: la sua vita e le sue
opere, Città di Castello, Lapi, 1899, p. 21, e A. SACCHETTI-SASSETTI, La
vita e le opere di A. M. Ricci, Rieti, 1898, 22-23. Il 29 ott. 1901
dalla città di Rieti fu pubbl. un Numero unico A! poeta A. M. Ricci,
Città di Castello, Lapi, 20; contenente ritratti, autografi ecc., con una
notizia biografica del prof. Sacchetti-Sassetti. Non si trova nella raccolta degli Almanacchi
di corte posseduta dalla Soc. storica napoletana (la più ricca che si
abbia) quello del 1812. Nell’Almanacco del 1811, p. 369, Ciampitti
insegna ancora Eloquenza antica e moderna e Marinelli Letteratura antica e
moderna. Nell’Alm. del 1813, p. 320, Ciampitti è all’Eloquenza e
poesia latina, Ricci all’Eloquenza e poesia italiana, e Marinelli
alla Cronologia. 2 In nota alle Lettere indiritte al marchese di
Villarosa da diversi uomini illustri racc. e pubbl. da M. TARSIA, con
note biografiche dello stesso Villarosa, Napoli, 1844, 337-39. Una
biografia del Ricci aveva il VILLAROSA inserita già nelle Notizie di
alcuni cavalieri del Sacro Ordine Gerosolimitano, Napoli, Fibreno, 1841; ed è
citata dal SACCHETTISASSETTI, p. X. 3 FICORILLI, 0. c., p. 26. Il
lavoro del Ficorilli è molto accurato e attendibile, per le molte carte e
corrispondenze dell’Archivio di casa Ricci, di cui l’A. poté
servirsi. VI. IL FIGLIO DIG. B. V. 329 durò, dunque,
più di sei anni. E il Villarosa ricorda appunto di essersi procurata
l'amicizia di lui udendo spesso le lezioni di Eloquenza italiana, che
allor dettava nella regia Università degli studi, e che spesso terminava
con la recita di qualche suo poetico componimento ». Della qual
parte d’insegnamento si possono cercare i documenti nelle molte centinaia
di poesie da lui pubblicate, raccolte in parte nelle Poesie varie, date
in luce in Rieti in sei volumi dal 1828 al 1830. I documenti del resto li
diede egli pubblicando nel 1813 Della vulgare eloquenza libri due
*, indirizzati, come già le lezioni del Serio, Agli amatori delle lettere
italiane. Nulla di nuovo, e pochissimo
del mio offro al pubblico », dice l’autore. Tentai per ardito esperimento di essere
oratore e vate ancor io .... Conobbi nell’arduo cammino quali fossero le
regole di véto lusso magistrale, e quali quelle che contengono teorie
fondamentali, appoggiate al buon senso. Quindi, come ape, mi proposi di
sceglier da tutte il più bel fiore ». Ecco la materia che vi è
trattata, poiché la semplice indicazione di essa può bastare a provarci
che siamo ricascati nelle vecchie teorie trite, false od inutili.
Nel lb. I: Origine delle lingue volgari: lingua italiana Eloquenza
italiana Del sublime Del bello Del gusto: modo di acquistarlo e di
perfezionarlo: modelli che corrispondono al gusto universale Del genio Degli ornamenti del discorso, ossia
delle figure Dello stile, e sue qualità
generiche Stile epistolare Stile di dialoghi Stile didascalico Stile istorico Stile oratorio Stile di novelle, e romanzi. Nel
lb. II: Della poesia Della poesia
descrittiva Della poesia pastorale
Della poesia lirica Della poesia didascalica 1 Non m’
è riuscito di vedere se non l’edizione del 1819, fatta a Napoli, Stamp. del
Giornale delle Due Sicilie (di vVII-199 in-16°), e non ne conobbe una
anteriore il Sacchetti-Sassetti. Ma quella del 1813 è nota al FICORILLI
(pp. 21 e 168), il quale cita una lunga recensione che dell’opera fu
fatta nel Nuovo Giornale dei Letterati. Della poesia epica Della poesia drammatica Della tragedia Della commedia Del dramma musicale: della favola
pastorale: del dramma sentimentale. Quanto alla materia », dice un
recente critico, in gran parte non sì tratta che dei soliti precetti
letterarii; ma tuttavia è notevole nell’autore la erudizione vasta e
la cognizione sicura che mostra d’avere di tutti i capolavori
dell’arte antica e moderna, nostrana e in parte straniera » 1. Curioso quello
che soggiunge lo stesso critico: Se, come vasta la erudizione, avesse
avuto egli profondo il giudizio, corretto il gusto e squisito il
sentimento artistico, avrebbe potuto far opera eccellente ». Se cioè non
l’avesse scritta il Ricci, ma un altro, l’opera poteva anche essere
eccellente. Disgraziatamente però, la scrisse il Ricci; il Ricci,
disgraziatamente, diede l’avviata a questo nuovo lungo inglorioso periodo
dell’insegnamento della letteratura nella Università.
L’opera, pur troppo» (è sempre lo stesso critico) contiene
osservazioni, precetti e regole che sono, come ho detto, le solite » =.
Dopo il Marinelli, si torna un’altra volta a dire, p. es.: Che sia negletta la trina unità drammatica,
colla quale si pretende che in teatro una sia l’azione, uno sia il luogo,
uno il protagonista ecc., non sì può concedere senza smentire l’arte e
offendere la verisimiglianza ». Quando era professore di
eloquenza a Napoli », scrive un altro critico recente, il quale ha fatto
una lunga analisi I Questa cognizione è specialmente dimostrata
nella 3* edizione del libro, Rieti, 1828, in 2 volumi, dove i precetti
sono accompagnati da copiosi esempi di classici. E a questa 3® ediz. è
aggiunto qualche nuovo capitolo; ma non ha più che fare con la storia di
cui ci occupiamo, dell’ insegnamento della letteratura nell’
Università. 2 FICORILLI, p. 168. di questa Vulgare
Eloquenza*, il Ricci comprese bene di non poter mai adempiere il suo
debito che seguendo le tracce degli antichi maestri, e in ispecie di
Aristotele ». Peccato che non l’avessero compreso, né bene né male,
né il Marinelli né il Cuoco! Partito che fu il Ricci, alla
cattedra si dové provvedere per concorso. Fu il primo che si facesse per
questa disciplina. Il 12 marzo 1816 furono pubblicati i nuovi Statut: per
la R. Università degli Studi del Regno di Napoli?, rimasti immutati fino
alla fine del Regno. Questi statuti mantennero la Facoltà di filosofia e
letteratura»yeinessa la cattedra di Eloquenza e poesia latina,
aggiungendovi, in una cattedra sola, la letteratura; all’ Eloquenza
italiana del 1811 sostituirono la Lette ratura italiana3. Ma fu solo un
cambiamento di nomi; la sostanza rimase quella. Gli statuti prescrivevano
il concorso per l’elezione dei professori (art. 50). Si ricordi come
seccò la cosa al Galluppi, quando nel 1831 volle entrare
nell’insegnamento universitario 4. Il concorso sl faceva nella stessa
Università, sotto la sorveglianza del presidente della commissione della
P.I. o del rettore dell’ Università. Da un trattato delle materie sulle
quali versava l’insegnamento, a cui si voleva provvedere, si
prendeva a caso, o si ricavava un quesito, che uno dei professori della
Facoltà, delegato dal decano, avrebbe proposto a’ concorrenti; i quali
dovevano tutti 1 SACCHETTI-SASSETTI, 31-40. Questi addirittura
conclude che l’opera si poteva considerare come un eccellente Corso
elementare di letter. italiana ». ? Collez. cit., I, 424
Sg8& 3 Novità notabile fu l’ istituzione di una cattedra di Principii generali della Storia », la quale
però non fu subito coperta. Il titolare G. Mazzarella non v’insegnò
niente che avesse valore. Vedi le sue Lezioni Sulla scienza della storia,
Napoli, 1854; e quello che di lui e del libro ho detto nelle mie ricerche
Dal Genovesi al Galluppi, Napoli, ed. della Critica, 1903, 307-8 in
nota. 4 Dal Genovesi al Galluppi.] commentare e risolvere lo stesso
punto o quesito in latino: raccolti tutti in una sala, col permesso di
consultare i libri che avessero portato seco. Di che dovevasi fare
particolare e distinta menzione negli atti del concorso (art. 51-53).
| Del concorso, che sulla fine del 1817 o al principio del
’18 si fece per la letteratura italiana, chi lo vinse, il canonico
Michele Bianchi, che dal 1832 al ’35 ebbe tra i suoi scolari L.
Settembrini, raccontava, dopo tanti anni, com'era andato; e il
Settembrini nelle Ricordanze ne ha lasciato memoria: Prima del 1820 quando s’ebbe a fare 11
professore di letteratura italiana nell’ Università, si presentarono al
concorso parecchi, fra i quali il Puoti e il poeta Gabriele Rossetti. Il
tema fu: scrivere un comento itallano ad un sonetto del Petrarca, ed una
dissertazione latina sopra non so qual secolo della nostra
letteratura. La benedetta dissertazione latina decise il merito. Il
Bianchi, professore in un collegio, avendo abito e facilità di scrivere in
latino, poté dire agevolmente tutto quello che sapeva, dove che gli
altri, più o meno impacciati dalla lingua, dissero meno di quello che
sapevano: onde, giudicati imparzialmente su gli scritti, il Bianchi
ebbe il primo luogo, e l’ultimo toccò al povero Rossetti, che fece
qualche errore di grammatica, tutto che avesse quell’ingegno e quella
beata vena di poesia »*. Al canonico Ciampitti, che tirò innanzi nella Elo quenza, poesia e
letteratura latina fino al 1832, anno della sua morte ? si venne, dunque, ad 1
Ricordanze, Napoli, Morano, 1881, I, 79-80. ® La sua cattedra fu
coperta da un altro canonico, don Nicola Lucignano, nel 1835. L'Almanacco del
1834 la dà ancora come vacante. Del concorso, a cui prese parte anche
Carlo De Sanctis, zio di Francesco, sono ricordati nella Giovinezza di F. De
Sanctis, 66-70, alcuni gustosi particolari. accompagnare il
canonico Bianchi ', Al quale toccò subito di comparire in una
pubblicazione ufficiale dei professori dell’ Università. Giacché sulla
fine del 1818, Ferdinando I ammalò mortalmente, e il Colletta, non
sospetto, ci dice che palpitarono
a quel pericolo i napoletani più accorti, per sospetto che il figlio
mutasse in peggio gli ordini civili ; giacché, tenuto proclive al male,
avverso alle blandizie di governo, intimo amico del Canosa .... Ma quei
guarì, ed ebbe feste sacre e civiche, dove 1 migliori ingegni
rappresentarono l’universale contento con rime e prose, in grosso volume
raccolte » 2. In questo volume Pro recuperata valetudine Ferdinandi I utriusque
Sic. Regis Archigymnasti Neapolitani officium3, miscellanea di scritti
gratulatori ed elogiativi in italiano, in latino, in greco e in
ebraico, come il Ciampitti mise un’orazione latina, e B. Quaranta,
professore di archeologia e letteratura greca, un Aébyog (seguito bensì
dalla relativa traduzione), il Bianchi inserì una Orazione italiana,
oltre un Carmen latino, un Epigramma greco e alcuni altri distici latini.
Orazione notevole, perché non è una filza di vuote adulazioni; ma un buon
riassunto di tutto il bene realmente fatto da Ferdinando. Degno ancora di esser
letto è quello che vi si dice dei provvedimenti e delle riforme relative
alla pubblica istruzione, durante il regno di Ferdinando. Tutte le
Orazioni di questo tempo, a giudizio dell’ Ulloa, che fu scolaro, credo, del
Bianchi, rappresentano un periodo di transizione dalla licenza precedente
alla tirannia del purismo; ed egli reca ad esempio questa del
Bianchi où d’incontestables mérites couvrent quelques défauts, et
Il primo Almanacco di Corte, tra quelli da me potuti vedere, che porti il
nome del Bianchi, come titolare della cattedra di letteratura italiana, è
quello del 1820 Storia, lib. VIII, cap.
II, $ 40. FF 3 Pridie Id. Januarii An. MDCCCXIX, Typis Josephi M.
Porcelli, di carte 57 (num. nel solo recto) in-fo. Pubblicazione
di lusso. font de l’oraison entière une ocuvre remarquable. Le
style est clair, rapide, parfois incisive, et entraîne le lecteur.
Comment n’étre pas frappé des observations et des faits qu'il
présente rapidement, attestani l’étroite relation de la criminabité
et de l’ignorance ? IL a su toucher avec convenance, avec retenue, à
toutes les phases historiques de l’époque précédente, qui sous la plume d’un
autre écrivain auraieni du étre difficilement traitées » 3. Dei difetti di stile notati in
questo discorso, il Bianchi si sarebbe liberato nelle sue Istituzioni,
dove all’ Ulloa pare di scorgere uno stile più puro, più paziente e
più elaborato, e teorie di buon critico. E altrove ?, dopo aver
ricordati gli Elementi di belle lettere di Cristoforo Mazzogatti, e l’
Arte del dire di Vito Fornari: Mais, soggiunge, c'est l’ouvrage du
chanoine Michele Bianchi qui dépasse tous ceux qui écrivent dans le
but ordinaire de dicter des lecons de rhétorique ». Il Bianchi era stato uno
dei letterati la cui stima e benevolenza avevano incoraggiati i lavori
della sua prima giovinezza, e l’ Ulloa lo trovava tel qu'il était dans
son ouvrage » 3. Giacché, come insegnante dell’ Università, aveva
quasi un obbligo di pubblicare le sue istituzioni 4, nel 1832 egli
die’ in luce le Lezioni di belle lettere ad uso de’ giovanetti 5, di cui
così rende ragione nella prefazione: Da che presi a dettare le mie
lezioni nella cattedra di Lingua e letteratura italiana fui sovente
richiesto d’ indicare l’opera di 1 Pensées, I, 322 e 323. L’ Ulloa
riferisce anche un tratto dell’ Orazione. 2 Pensées, I, 335.
3
Notava tuttavia che, anche nelle Lezioni, les mots ne sont souvent que des
clous rivés à téte d’or ». 4 L'art. 70 degli Statuti del 1816 diceva: Ogni professore, quando non abbia
ancora stampato le sue istituzioni o trattati, dovrà fare un elenco delle
materie che insegnerà, il quale al principio dell’anno scolastico dovrà
affiggere alla sua cattedra, acciò il sostituto, o l’aggiunto, e gli
scolari possano esser preparati pe’ rispettivi esercizi ». 3 Vol.
I. Napoli, Criscuolo, 1832. Nel 1833 uscì il 2° volumetto. IL FIGLIO DI G.
B. V. cui mi giovavo all’uopo. E poiché fu da me risposto, avermi io compilato
che che mi occorreva per l’affidato insegnamento, si chiese e s’
insistette, anche da persone autorevoli, che divulgassi per le stampe
que’ divisamenti riputati adatti e buoni a formare il gusto letterario de’
giovanetti studiosi. Lasciai nondimeno trascorrere molti anni prima che
m'’ inducessi a secondare simili desiderii e premure. Ma infine il
pensiero che avrei potuto recare alcun utile agli alunni delle lettere
vinse il mio ritegno. E così dalle lezioni scritte per la cattedra mi
feci a tòrre quel tanto, che nel corso di un anno o poco più potesse
nelle scuole insegnarsi. Più che lezioni, sono brevi
dissertazioni, non molto strettamente connesse tra loro. La prima
Sull’origine e sulle vicende della lingua italiana è una breve storia
della lingua dalle origini fino alle polemiche contemporanee tra 1
puristi e gli antipuristi, e combatte così le affettazioni arcaiche degli
uni, come le esagerazioni e la scioperataggine degli altri. Il Bianchi, uomo di
non grande levatura, ma di buon senso, preferisce attenersi al giusto
mezzo. Segue un Cenno sul bello e sulle varie sue forme, che non contiene
altro che vacue trivialità sul povero Bello, distinto, per conto della
natura » in sensibile, intelligibile e morale, e per conto degli oggetti » in generale,
particolare e convenzionale. L’Orator e il De oratore di Cicerone fanno
le spese dell’erudizione estetica del Bianchi. Quindi, dopo un
capitoletto sul Sublime, seguono queste altre dissertazioncelle, di cui
basterà il titolo: Influenza delle lettere nella civiltà e nella morale
dei popoli. Analisi delle qualità necessarie ad ogni parlare colto.
Rettorica ragionata per le varie sue parti e Poetica ragionata per li suor rami
diversi. Queste ultime tre parti sono la materia del secondo
volumetto. Su per giù, la stessa materia della Vulgare
eloquenza del Ricci, trattata con minor calore e minore sfoggio di
dottrina, ma con modestia e buon senso. Aurea mediocritas : molto
mediocre e poco aurea! A che, del resto, affannarsi a salire in regioni
più elevate per quello scarso uditorio che aveva il canonico Bianchi
? Eravamo ascoltatori soliti », ricorda
il Settembrini, un quattro o cinque giovani .... Il Bianchi ragionava con noi,
come con amici, e soltanto quando ci capitava qualche sconosciuto faceva un po’
di diceria distesa. Non usava come gli altri professori, che come
scoccava la mezz’ora rompevano a mezzo il discorso, ma s’intratteneva con
noi lungamente, e ci diceva molte belle cose, e finita la lezione lo
accompagnavamo per buon tratto di via, e seguitavamo a ragionare. Quando
era io solo con lui, egli usciva alla politica, parlava de’ tempi
trascorsi, di molti uomini, di molti avvenimenti, e ne giudicava
con senno severo: e se parlava di quella che egli chiamava casta
pretesca, non sapeva frenare lo sdegno, e diceva: È nemica di Dio e di
Cesare: fu, è, e sarà principale cagione della servitù d’ Italia. Credete
a me che conosco quali visi si nascondono sotto quelle maschere »
!. Insomma era egli», come soggiunge il Settembrini stesso,
un uomo che bisognava guardare da vicino, e allora lo stimavi e lo amavi.
Poco eloquente, di maniere modeste, un po’ pedante, ma dotto assai,
liberi sensi, gran bontà di animo ». Il Settembrini ci dice che ogni
volta 1 Ricordanze, I, 77. Sarà stato come dice il Settembrini un
prete liberale, ma alla Gioberti: perché teneva alle glorie e
benemerenze della Chiesa, e quando nel 1825 pronunziò la sua Oratio in
solemnt studiorum instauratione (a MicHAELE BIANCHI Palatinae Ecclesiae
Canonico et Litteraturae Italicae Professore in R. Archigymnasio Neapolitano
habita, s. d., di 24 in-4°) tolse a discorrere
quam bene de humanitate vel ideo meruit catholica religio, quod ad
excolendos a barbarie per Europam bonis artibus animos plurimum contulit
» (p. 5). Un'altra Orazione inaugurale lesse nel dicembre 1843: De
litterarum efficientia în animis mentibusque egregie formandis, Neapoli,
Cuomo, MDCCCXLIII, di 20, in-4°. Il discorso è tutto nel titolo. Di lui è pure a stampa l’opuscolo Alla
Consulta de’ Reali dominii di qua dal Faro ragguaglio della Memoria
umiliata al Re mostro signore per la reintegrazione del Vescovo di
Cajazzo, Napoli, Criscuolo, 1831 (di 24 in-4°): ma non ha interesse
letterario. IL FIGLIO DI G. B. V. che si partiva dal Bianchi, egli aveva
imparato qualche cosa; e che però la sua memoria gli era cara e
onorata. Egli fu, che, letti con piacere e lodati due dei primi
scritti del Settembrini, li fece vedere a monsignor Colangelo, pregando
costui di proporlo come professore in un collegio. E poiché il Colangelo
rispose che quelle cattedre si davano per esame, fu il Bianchi a spronare
il Settembrini all'esame, e fece, quindi, di lui un professore. Non
avesse fatto altro, per amore del Settembrini, destinato a salire quella
cattedra stessa di letteratura italiana, il buon canonico meriterebbe il
nostro ricordo e la nostra simpatia. Ma la vera e viva scuola di letteratura
a Napoli allora non era nell’ Università. Lo stesso Settembrini
rammenta che mentre nell’ Univer
ità il Bianchi leggeva agli scanni e a quattro studenti, il marchese
Basilio Puoti aveva in casa sua una fiorita scuola di lettere italiane,
dove convenivano oltre dugento giovani » 1. E dagli eccitamenti del Puoti
a uno studio amorosc degli scrittori, ma sopra tutto dal potente lievito
degli studi filosofici promossi dal Galluppi e dal Colecchi con l’esposizione e
la critica delle moderne dottrine germaniche, e quindi da quel fervore
di pensiero, che dagli scritti dell’eclettismo francese, da Hegel,
da V. attingeva materia di speculazioni non più tentate e motivo a una
trasformazione filosofica degli stessi studi letterari, eromperà la prima
scuola di F. De Sanctis, quale ci è rappresentata nel libro della sua
Giovinezza. Il movimento, iniziato da Marinelli e da Cuoco, e
subito arrestatosi, sarà ripreso per virtù di una mente geniale,
che creerà la critica e la storia della letteratura italiana: il
contenuto più razionale dell’insegnamento, di cui ho narrato i timidi
inizi e il primo incerto svolgimento. 1 Ricordanze Bianchi insegnò
fino al 1853. Nell’ Almanacco di Corte dell’anno seguente comparisce
professore emerito; e per la cattedra rimasta vacante di Letteratura
italiana non c’è che un sostituto: Stefano Lombardi. Il quale nel 1831
aveva pubblicate alcune Od: di Q. Orazio Flacco recate in versi italiani
* (20 odi scelte dai quattro libri e 2 epodi): lavoro rapido e incompleto
», dice l’ Ulloa, ma che rivela
nel traduttore un bel talento di traduttore » 2. Nel 1854 appunto die’
alle stampe una canzone Alla Maestà di Ferdinando II. _ Nel
1850 il 6 marzo era stato pubblicato un nuovo Decreto col quale st
modificava l'organico della R. Università degli Studi di Napoli 3. L’
Università, divise le scienze fisiche dalle matematiche, veniva a
scomporsi in sei Facoltà, anzi che in cinque, come nel 1816, e nella
Facoltà di Belle lettere e filosofia, l’Archeologia e letteratura greca
di prima si mutava in Lingua e archeologia greca, l’Eloquenza, poesia e
letteratura latina in Eloquenza, poesia ed archeologia latina. Le
due letterature classiche così eran bandite: né rimasero più 1 Principii
generali della storia. Ma la Letteratura italiana rimase intatta.
Stefano Lombardi è ancora sostituto nel 1855. Nel 1856 o 1857 il
Bianchi dev'essere morto. Perché nell’ Almanacco del 1857 non c’è più il
suo nome come di professore emerito. E la sua cattedra ha per titolare don
Geremia Ro I Napoli, tip. del Sebeto, 1831, 79, in-16°. Nella prefazione
l’A. dice: Dette Odi non andarono
esenti di applausi, cosicché mi son reso ardito a farne dono al pubblico
colle stampe. Che se, ora che al giudizio degli occhi fedeli son elleno
sottoposte, pari applausi, benché del pari infruttuosi, mi arrecheranno,
io mi reputerò fortunato ». Dové aspettare un quarto di secolo a cogliere
il frutto ? ® Pensées, II, 172. 3 Collez. cît., IV,
25-8. mano, sostituto sempre il Lombardi. Doveva esser morto anche
il Lucignano, a cui successe don Gennaro Seguino. Il Romano credo
-ia stato l’ultimo professore di letteratura italiana dell’antico regime. Chi
era costui? Un Carneade, come il Lombardi: e la sua oscurità non è
senza significato in questo tramonto della vecchia cattedra con
l'ordinamento che la sorreggeva. Fi lui non ho trovato se non alcune
osservazioni Sopra un pezzo d'avorio dorato esistinte nel R. Museo
borbonico in Napoli (dove si dà appunto per regio professore) pubblicate
nel 1858 :: memorietta archeologica bene scritta, con erudizione e
non senza spirito. Ricorderò infine il primo ordinamento che, dopo
la caduta dei Borboni, fu dato all’ Università con decreto del
prodittatore G. Pallavicino, dal ministro R. Conforti, 11 16 febbario
1861. Alla Facoltà di filosofia e lettere, oltre la Letteratura italiana,
la latina, la greca, fu data una Storia della letteratura. A questa
venne sostituita, nella successiva legge di P. E. Imbriani del 16
febbreio 1861, la cattedra di Letteratura comparata. Chi dopo il 1861
abbia insegnato dalle due cattedre di Letteratura italiana e Letteratura
comparata, e che cosa sia stato insegnato, è noto a tutti. Luigi Settembrini
fu nominato alla prima il 24 ottobre 1861 *. Alla seconda il De Sanctis
nel 1863; ma la coprì solo per quattro anni, dopo che ve l’ebbe
richiamato un decreto del 15 ottobre 1871 3. I Stamperia del
Fibreno, di 16 in-169. Misc. 180, I della Bibl. Naz. di Napoli.
® Sul Settembrini v. TORRACA, L. S., Notizia, Napoli, Morano. CROCE,
pref. al vol. F. DE SANCTIS, La letter. ital. nel sec. XIX, Napoli,
Morano, 1897; e TORRACA, F. De S. e la sua seconda scuola, nel periodico
La Settimana del 7 dicembre 1902; e poi nel vol. Per F. De S., Napoli,
Perrella L’ ANGIOLA Capitolo serio-burlesco di VESPOLI !.
Donn’Angiola Cimina era una donna, ì Ch’eccetto quando stava
ignuda in letto, Come ogni altra portò sempre la gonna. Sol
piacevale andar col busto stretto, 4 Onde poi vogliono i
contemplativi, Che le venisse l'asma e ’1 mal di petto.
Benché da certi cicisbei corrivi, 7 Che fur della buon’anima
divoti, Ma d'ogni di lei grazia e favor privi; Dico di certi
poetuzzi ignoti, 10 Pieni di boria e di presunzione, Senza creanza
e di scienza vuoti, I Da una copia esistente in un volume
miscellaneo ms. posseduto dalla Soc. nap. di st. patria (XXII, c. 12) da
carta 10 a c. 21. Nello stesso volume precede un Capitolo di D. Francesco
Vespoli sopra il Genio alemanno, anch'esso in terzine; diretto contro il
partito degli austriacanti rimasto in Napoli dopo la conquista borbonica.
L’Angiola consta di 300 versi. Ne pubblico la parte che ha più interesse
per la conoscenza della società vichiana. I versi del Vespoli furono già
indicati dallo ScHIPA, Il regno di Napoli.] I quali entro l’Angelica
magione Andavan sol per essere stimati Uomini savi e
d’erudizione: Benché da certi cotali accennati Si dica, che
patì Sua Signoria La Marchesana il mal de’ letterati, Cioè
d’ostruzione e d’eticìa: Mal, che vien per lo studio e ’l meditare:
O maledetta, o brutta malattia ! Dico adunque così
primieramente: È certo, che le donne per natura Son tutte sceme e
deboli di mente; Sembiano nell’estrinseca figura Più
perfette dell’uomo, e più capaci, Non che più vaghe, e belle di
fattura; Ma con ragioni chiare ed efficaci Il contrario si
prova dagli antichi E moderni filosofi veraci. E, senza che
in recarle m'’affatichi, L'esperienza, mastra delle cose, Te ’1 fa
vedere, e par che te lo dichi: Paion le donne a noi
meravigliose In bellezza, in savere ed in valore, E tutte l’opre
lor miracolose; Quando c’entra per esse un po’ d'amore,
Questo è quel che ci fa poi travedere, Quest’ è cagione d’ogni nostro
errore. Né mi stia a dir Platone l’ ideate Specie dell’amor suo; ché da
lui quelle Per ingannare il vulgo fur trovate. Virtude e amore,
uomini e donne belle, Che star possano insieme, e senza alcuna
Malizia praticar elli con elle, Aristotile il nega, ed a quest’'una
Opinion del suo maestro assegna Il concavo profondo della luna.
67 Sapea, che il senso la ragion disdegna, 70 E che,
venendo insieme a competenza, La ragione va fuori, e ’l senso
regna. Io non intendo entrar nell’altrui messe, 26 Ma dico
sol, che non mi meraviglio Di certe decantate poetesse. E
senza che ad alcuna io dia di piglio, 79 Si sa, ch’ogni lor parto o fu
supposto, O vi pose qualch’uom parte e consiglio; Che che
intenda provare a tutto costo ss Il nobil Doria in un volume intero
Sebben la giunta strugga il fin proposto !. I Accenna ai
Ragionamenti tre, ne’ quali si dimostra la donna în quasi che tutte le
virtù più grandi non essere all’uomo inferiore, pubbl. da P. M. Dorta nel
1716. Dal Doria e dal V. (come narra questi in Opere, ed. Ferrari, VI,
264) la Cimini fu iniziata alla filosofia. E di P. M. Doria c’è pure un
sonetto per la morte della Cimini, nella raccolta qui appresso citata (p. 129);
come molte poesie a lui indirizzate sono tra le Rime scelte di GH. DE
ANGELIS (con pref. del V.), Firenze. Intanto V. stralunato e smunto Colla
ferola in mano e ’1 Passerazio 1 N’appella, e vuol ch'io torni al primo
assunto. 118 Ei, che suol porre alle parole il dazio,
131 Nella Raccolta fatta a onore e gloria Della signora ha posto un
gran prefazio? x Lo qual non so s’ è calendario o
storia, isà Se avvisi 3, o pur relazione nova, Se carta scritta per
farne baldoria, Ivi il Soave-Austero4 si ritrova Laù Ch’ è
l’acro-dolce, che sa fare un cuoco, O l’irco-cervo, ch’in sua mente
cova. V’ è dell’arte rettorica ogni loco; 130 E ’l tanto a
lui diletto paradosso: Chi più ne legge, più n’ intende poco ».
1 Jean Passerat, maestro d’umanità, autore de’ Commentariù in Catullum,
Tibullum et Propertium (Parisiis, 1608), gran repertorio di erudizione
filologica latina; nonché di altre opere di minore importanza. 2 L’
Orazione în morte di Angiola Cimini marchesana della Petrella, che V. inserì
nel vol. Ultimi onori di letterati amici in morte di A. C. ecc., Napoli,
Mosca. Cfr. CROCE, Bibliogr., p. 17. Citerò la ristampa che è negli
Opuscoli della ed. Ferrari? (vol. VI delle Opere). Ma noto qui l'errore
commesso dal VILLAROSA, nella sua edizione degli Opuscoli, e ripetuto
dagli editori successivi (v. ed. Ferrari, p. 261) per non aver capito (il
Villarosa se ne dovette accorgere troppo tardi) che la nota fatta dal V.
a un certo punto dell’ Orazione, doveva nella ristampa incorporarsi nel
testo, essendo essa una correzione e un’aggiunta. Vedila tra le Correzioni » innanzi al volume Ultimi
onori. 3 Vecchie gazzette. 4 Sul principio della sua
Orazione, V. ne accennava quasi il tema, dicendo che la Cimini a tutti i
saggi uomini che ebbero la sorte di conoscerla e riverirla, fece
intendere i tempi più colti della gentilissima Atene; siccome quella che
fu loro il grande esempio della rara difficil tempra onde si mesce e
confonde il soave austero della virtù » (p. 249). Con identiche parole
l’Orazione si chiude; e il soave austero vi ricorre spesso nel mezzo.
Ivi vuol comparir da gran colosso, Ma vi si scuopre un piedestallo
basso E reo s’accusa, allor che fa il Minosso. Orazion la chiama il
babbuasso, ia Ma è lunga e sciocca sì, che non la puoi Leggere,
senza dir più volte: ahi lasso! Com’ è possibil ch’egli non
t’annoi sn Con quel proemio vecchio e riscaldato, E colle cose che
seguon dappoi ? Precise quando del di lei casato ses Fa la
descrizione, ed a minuto Narra la vita e ’1l transito beato ?
Quando ci fa veder l’applauso muto, ia Ch'essa facea sporgendo il
petto in fuori O con un giro d’occhi il bel rifiutot? Quando
la di lei collera egli onora 148 Col titolo d’eroica, e dietro a
lei Cesare allega, ed Alessandro ancora?? I V. racconta che,
nei trattenimenti letterari soliti in casa della Cimini, ella, al dirsi
le cose degne di applauso, applaudivale o con un leggiadro movimento del
dilicato corpo, il casto petto sporgendo in atto come di chi incomincia a
levarsi da sedere, o con un soave giro de’ suoi bellissimi occhi inverso
il cielo;... a’ quali atti i riguardanti ammiravano in lei e l’acutezza dello
’ngegno e la gravità del giudizio, e sopra tutto la somma modestia, con
la quale si guardava di parere intendente col non professando d’
intendere, o vero di sembrar saggia col non diffinitivamente approvare » (p.
266). 2? Parlando del temperamento collerico di Angiola, V.
avverte che la sua era collera
ragionevole e generosa e quale appunto a donna di eroica virtù
convenivasi.... Fin dalla sua più tenera età questa nobil fanciulla diede
pur troppo gravi segni di tal collera eroica ». E diede saggio insieme di
eroica virtù, di quella specie onde lasciarono di sé tanto mondano romore
i Cesari e gli Alessandri. Quando abortir la fa ne’ mesi sei, ini E
piagne gli campioni iti sotterra Ch’eran, Dio buono! tutti maschi, e
bei? Quando la fa veder distesa in terra ie Battere il capo
al duro pavimento ?: O ‘1 gran fatto! o ’1 malanno che l’afferra !
E questo detto sia per compimento iui Di tutta l’opra di
sopr’accennata Di questo arcipedante pien di vento. Ond' io
non so capir, dove appoggiata sea Sia la gran lode, che ne fa il
Sostegni, Con che, se non è burla, è una frittata 3. Cesare
Augusto, ch’ebbe tanti regni, 163 Che piantarvi i confini gli
convenne E porvi ancor del non plus ultra i segni; 1 La
Cimini morì a 27 anni, per male cagionatole da parto prematuro; ché la collera
virile », dice V., di che ella abbondava, depredando l’umidore che
facevale mestieri per nmudrire i feti già fatti grandi, fece per mala
sorte che tutti nel sesto mese, funesto da’ medici giudicato, ella
facessegli aborti» (p. 270). E l’ultimo le fu fatale. Ma V. non parla dei
« campioni » della satira. 2 V., facendo la storia della collera
eroica della Cimini, ricorda pure, che bambina «ove mai non era ella
compiaciuta di un qualche suo fanciullesco talento, si crucciava a tal
segno, che, gittatasi lunga a terra, tutta vi si affliggeva, fino a
percuotersi sul duro pavimento il tenero capo » (p. 254). 3
Nella Introduzione di Roberto Luigi Sostegni, canonico regolare
lateranense, agli Ultimi onori, si dice (p. 10) l’ Orazione del V. «
sublimissima », e che per essa «si scorge, poter l’Italiana Eloquenza
ascendere a quell’altezza a cui la Grecia e la Romana pervenne, qualora
l’istessa morale, e civil sapienza.... l’invigorisca e sostengala ». Un
sonetto del Sostegni al V. (Opere2, VI, 410) finisce: O chiaro V., o sol
pari a te stesso. Nello stesso vol., p. 80, un sonetto del De Angelis
dice: E basta poi per simulacro eterno Di sue virtudi, e
d'altri pregi eletti, La prosa del divin V. e Roberto! Nipote al
zio, che vinse, vide, e venne, 1% Pur quando si partì per l’altra
vita, Tal onor da’ vassalli non ottenne, Qual Donn’Angiola
nostra, poiché gita 19 AI ciel se n’è, da’ Letterati Amici! Ha per
tributo, come lor favorita. E siccome gli Orfei per l’ Euridici
ATA Si mostrar grati, ed i Petrarchi e i Danti Per le loro Laurette
e Beatrici, Così per lei si veggon tanti e tanti in Nostri
partenopei cigni canori, Che non v’ ha qui de’ frati zoccolanti.
Vi son poeti, medici e dottori, 178 Plebei, civili, dame, e
cavalieri, E laici, e cherci, anco predicatori; E congiunti,
e paesani, e forestieri, lei E buoni, e tristi, ed ottimi, e
mezzani, La maggior parte innamorati veri. Non altramenti
che al carname i cani, Sono accorsi costoro a tal impresa; E Dio il
voglia, non vengano alle mani. 184 Nacque da
precedenza la contesa Tra quei che furo ammessi alla Raccolta. Ma
poi tra lor s’ è nova briga accesa: Cosa, che ha posto la città in
rivolta, Talché hinc inde vi son forti partiti, E se non sai il
perché, di grazia, ascolta. 190 I V. nella
perorazione della sua Orazione: «Letterati amici, che con uguale ossequio
la onoraste e la riveriste » ecc. (p. 272). Ma la frase è già nel
frontispizio della Raccolta. Un tal Gerardo, ch'ora gli eruditi
Della scuola d’ Ulloa 1 scrivon Gherardo. Giovine d’anni ventidue compiti
2, Piccolo di statura, ma gagliardo, Di bocca grande e di
naso canino, D'occhi che ti spaventan collo sguardo: Di viso
magro, giallo e saturnino, Col mento fesso e un poi rivolto in
suso, Bello come la statua di Pasquino, Veste di negro di
paglietta all’uso, Cammina alla carlona, e sempre astratto, Parla
da vecchio 3, e scrive assai confuso, Vogliono alcuni che sia
mezzo matto; Io credo che sia tutto; e testimonio N° è
quanto ha scritto, ed anche il suo ritratto. Or egli, che al
comporre è un gran demonio, Vo’ dir che spaccia versi anche
dormendo, Per grazia special di Sant'Antonio, Improvvisante
più del reverendo Quondam Fanelli e del siciliano, Ch’or ha nel
molo un concorso stupendo, L'avv. Niccolò Ulloa-Severino, che scrisse una
canzone per la Cimini (Ultimi onori, p. 122) e al quale è indirizzato un
sonetto nel Quarto libro delle Rime del DE ANGELIS, p. 50. Chi legge la
canzone di quest’ Ulloa per la Cimini, tutta affettature arcaizzanti,
intende la punta satirica del Vespoli. N. ULLOA-SEVERINO pubblicò un
volume di Lettere erudite, Napoli, 1699. ? Infatti Gherardo
De Angelis era nato ad Eboli (prov. di Salerno) il 16 dicembre
1705. 3 Visi potrebbe vedere un’allusione contro l’epigramma, che
nel 1725 il p. Sostegni aveva apposto al ritratto del De Angelis, nel 1°
volume delle sue Rime toscane: Adspicis hunc quarto vix dum
pubescere lustro ? Perlege; dispeream ni tibi Nestor erit.
APPENDICE I 35I L’ ha fatta alli compagni suoi di mano, sà
Col libro, c' ha stampato in questo mese: Azion veramente da villano
! Azion, che non ha scuse o difese, 217 Azion di lui degna e
di suoi pari, Azion da scriverla al paese, Dove i nobili
sono i bufalari, Paese di mal’aria e mal costume, Buono bensì per
pascervi i somari. N’era Priapo il protettore e ’1 nume; das
Or Eboli si vanta aver costui, Che ’n istampa gli ha dato onore e
lume. Ma ritorniamo all’azion di lui, ciù Ch’ io non vorrei,
col troppo andar vagando, Tirarmi addosso la censura altrui.
Il fatto è come siegue. Allora quando sii Nella Raccolta dagli amici
s'era Di Lei detto il più bello e ’1 più ammirando; Anzi
Gerardo in mezzo a quella schiera ass Contribuito avea la maggior parte
1, La qual potea passar per lode intera; Volle egli solo poi
farla da Marte. 235 Ed ecco, presto presto, ha dato in luce Su lo
stesso soggetto un libro a parte. Per Quarto di sue Rime lo
produce ass Senza il Terzo d’avanti; e, ad ingrandirlo, Rime
vecchie per entro vi riduce ?. ! Del DE ANGELIS infatti ci sono una
canzone e tredici sonetti (Pp. 75-91). l 2 Angiola Cimina
Marchesana della Petrella defunta, poesia (sic) d’ANGELIS, Firenze, 1728. A p.
9: Inco- [Leggilo, e dimmi poi se
puoi capirlo, E se a me ne dimandi, io ti rispondo, Che ’n leggerlo
mi venne il capogirlo. Gran cose vi vedrai dell’altro mondo,
E ridicoli conti puerili, E fatti inverisimili in abbondo;
Un gran mescuglio di contrari stili, Improprietà di voci, oscuri
sensi, Componimenti rozzi e pensier vili; E barbarismi, e
solecismi immensi, Ed atti di superbia e di dispregio, E dati ad
altri ed a se stesso incensi. E queste cose, che sarian di
sfregio In altri, non che error sommi e notabili, Sono oggigiorno
in lui di stima e pregio ! Ma presso chi ? presso cervelli
instabili, O presso pochi, che l’adulan solo Per farlo
andare in tutto agl’ Incurabili *. Gli dicon, che sua fama ha
fatto un volo Sì strepitoso ed alto, che già s’ode Il nome suo
dall’uno all’altro polo. ]mincia il quarto libro de le giovanili rime di
Gh. De A., J. C.» ecc. Nella dedica a donna Emmanuela Pignatelli Silva
Aragona, l’A. dice: Sendosi partita da questa terra l’anima benedetta di
A. C., santa, e saggia nobile Donna, come a V. E. e per l’ Italia si è
già noto, dopo aver pubblicata in laude sua la sublimissima Orazione il
gran Giambattista V. maestro mio, e molti altri elevati ingegni che la
conobbero, prose e rime, le quali un libro compongono, io, fra tutti gli
amici suoi e per l’età e per consiglio minore, ho voluto in onor di sì
alta memoria, agli uomini che verranno queste poesie tramandare ».
! Famoso Spedale di Napoli. Né s’accorge il meschino, che tal lode
Ha dato al suo profitto un tal tracollo, Per non aver le basi vere e
sode. Io son pronto a giurare, e a porvi il collo, Ch’ancor
costui non sa dov’ è Parnaso, Né che son tra lor le Muse e Apollo;
265 Che se sapesse onde pisciò il Pegaso, Tante carte
sporcato non avrebbe, Né de’ classici autor parlato a caso. Infatti,
colmé suole, ei non direbbe, Che ’1 Bembo, il Casa ed il Petrarca ha
vinto, E che il gran Tasso buono stil non ebbe. 271
O dove sei, gran papa Sisto quinto ! E pur quel tuo poeta una
parola, Per forza della rima a dir fu spinto. 274
Ma il vizio, che s’'apprende in detta scuola, sn Quest’ è, di
morder gli altri, e assiem grattarsi, Quando cavano fuor qualche lor
fola. Procura bensì ognun di segnalarsi 280 In far meglio
dell’altro l’antiquario, Con voci malagevoli a spiegarsi;
Anzi il lor mastro ! un nuovo dizionario i S°' ha fatto di vocaboli a
capriccio, Che non mai registrò il vocabolario. Quindi è
che, s’egli scrive, fa un pasticcio ade Pieno di fracidume; e, se
discorre, Fa l’alto-basso che suol fare il miccio. V.. PER LE
NOZZE DI TOMMASO CARACCIOLO E DONNA IPPOLITA DE DURA Sonetto
di G. B. V.!. Bench’ io mi veggia da quel fato oppresso, Che
l’ ingiust'odio altrui creò sovente, E affatto lungi dalla molta
gente Viva, che appena me trovi in me stesso; Poiché il raro
valor dal Ciel concesso A voi, bell’alme, unisce Amor possente, Al
pubblico piacer mio spirto sente Disio di riveder l’alto Permesso,
E cantar lieto in dilettosa schiera Vostro nodo real, gli onor
degli avi, E svelar que’ futuri invitti germi. Poi ricaggio
in me stesso, e da mie gravi Cure sospinto a tornar là dov'era, Di
me, non per mia colpa, ho da dolermi. I Dalla raccolta: Vari
componimenti per le felicissime nozze degli eccellentissimi signori D.
Tommaso Caracciolo marchese di Casalbore, principe di Torrenova [...] e
D. Ippolita di Dura de’ Duchì d’ Erce, raccolti da GENNARO PARRINO, e
dedicati all’ Ecc.mo signor D. Orazio di Dura duca d’ Erce, Firenze. Di
questa rarissima raccolta si conserva copia nella Biblioteca Villarosa.
RELAZIONE DELLA SEGRETERIA DI STATO AL RE SULLA SUPPLICA DJ G. B. V. PEL
CONFERIMENTO DELLA SUA CATTEDRA AL FIGLIO. Sefior,
Exponiendo 4 V. M. Juan Bapt.ta de V., Historiografo Regio y
Profesor de eloquencia en la Universidad de Estudios, son ya mas de quarenta
afios, que ha servido y sirve en dicha Universidad la Cathedra de
Rectorica, col en tenue sueldo de cien Ducados annuales, que le ha servido
para el mantenimiento de su pobre familia, hallandose ya en edad
muy adelantada agravado y oprimido de muchos achaques, y con especialidad
de las angustias domesticas, y de la contraria fortuna, por lo que se ha visto
obligado et substituir en su lugar interinamente en el servicio de dicha
Cathedra 4 su hijo Genaro, mozo de habilidad, y que asta aora ha
sabido cumplir con publica satisfaciòn, suplica 4 V. M. se digne conferir
la propiedad de dicha Cathedra al mismo Genaro, para que despues del
fallecimiento del mismo, pueda su pobre familia quedar con algun
apoio. El Capellan Maior representa a V. M. que el sobredicho
Juan Bap.ta de V. es benemerito de la Regia Universidad de Estudios, 4 la
qual con sus doctos trabajos ha hecho mucho onor; por lo que requiere la
publica gratitud, que se le atienda; que siendo el expresado su hijo mozo
de habilidad, y portandose ciertamente en el exercicio de su Ca 358 STUDI
VICHIANI thedra con todo aplauso, solo puede ser de algun reparo
que la aplicazion del mismo et los tribunales, pueda serle de embarazo,
requiriendo una y otra aplicacion, cadauna por si, todo un hombre, y la
Cathedra de Eloquencia un profundo estudio en los Autores Griegos y
Latinos; por lo que le parezze puede V. M. consolar al suplicante; quando
haya la certidumbre de que dicho su hijo, dejando la aplicacion 4
los tribunales, vuelva todo su animo à los estudios de la eloquencia, y 4
los demàs que son necessarios para ser excelente en tal profesion no facil, y
éstimadissima. DISPACCI
PER LA GIUBILAZIONE DI V, I. Al Cappellano maggiore.
Informato il Re da quanto V. S. I. ha rappresentato con l’ultima sua
consulta del 12 del caduto agosto, che al Lettore emerito di Rettorica nella R.
Università degli Studi D. Gennaro V. siano mancati ducati 120 l’anno,
cioè ducati 60, che godea come direttore dell’Alta antichità nell’Accademia
Regale, ducati 30 pel sostituto che dee mantenere, e per altri emolumenti
che gli sono minorati; ha S. M. con suoi sacri caratteri risoluto che gli
si dia la giubilazione con l’intero soldo in pensione, e gli emolumenti
che ha perduto. Nel real nome lo partecipo a V. S. I. per
intelligenza sua e del ricorrente, e per l'adempimento.
Palazzo, 9 settembre Alla Segreteria dell’ Azienda.
Informato il Re da quanto gli ha consultato il Cappellan maggiore, che al
Lettore benemerito di Rettorica nella Regia I Arch. Sta. Napoli:
Dispacci dell’ Ecclesiastico. Università degli Studi D. Gennaro Vigo (sîc)
siano mancati docati centoventi l’anno, cioè docati sessanta che godeva come
Direttore del Ramo dell’Alta antichità nell’Accademia Reale, docati trenta per
il Sostituto che deve mantenere, e per altri emolumenti che gli sono minorati,
ha S.M. con suoi sacri caratteri risoluto, che gli si dia la
giubilazione coll’ intero soldo in pensione, e gli emolumenti che ha
perduti. Lo partecipo di suo real ordine a V. S. Ill.ma, affinché da
codesta Scrivania di razione se ne disponga l'adempimento. Palazzo,
‘a 9 settembre 1797 = Ferd. Corradini = Sig. Principe d’ Ischitella. Arch.
Sta. Napoli: Ordinario 82: Scrivania di razione, Lettori pubblici. EPIGRAFI
DI V.: I, Lirim Saepe
robora cautesque Et quicquid sibi obstet
Nedum fluitantem scafam Secum în praeceps abridientem Ac proinde moriem trajicientibus Minitabundum Ferdinandus IV Bonc Reip. natus Optimo censilio Firmissimi pontis Quadrato lapide extructi Patientem
effecit ut qui antea multos dies in ripis haerere Cogebantur In posterum Ejus furorem Despectantes Tuto et continuo itinere Transtirent ?. Utinam Pie VI Pontifex O. M. Isthaec tua marmorea effigies Tuorum in Catholicum Orbem menitorum
Memoria non vinceretur. Deus vere Averrunce Si Per
te clades Per te calamitates Avertuntur Uno ore tuam fidem imploramus 1
Traggo dagli autografi posseduti dai sigg. Villarosa queste altre quattro
epigrafi di Gennaro V. per l’ interesse storico che esse possono avere,
lasciando ad altri di ricercare le occasioni per cui vennero
scritte. » Di questa iscrizione si trovano tra le carte di Gennaro
altre varianti, ma di poca importanza. Adsis dexter adsis praesens semper
propitius adsis Et cuncta nobis
merito ingruentia mala Prohibeas In Vesuvit Jam propinqui hostis Cladem Subjectis longinquisque Semper minitantis Iram cohibes Qui anno superiore Annum integrum et plus eo Quasi ratione et consilio Sensim ignem in alvo concepit = Paulatim
egessit Eoque levi lapsu In rivos
deductum Doctus iter melius
Innocuus devolvit Forsitan uti metu
antea tuo nutui semper parut Posthac consuetudine tuae voluntati votisque
nostris obsecundare assuescet. Regium hoc Templum Maximum Cavense Sanctae Dei Genttricis Elisabetham invisentis Nomine, et tu tela augustum A. D. N. Ferdinando IV Rege Jure Patronatus sibr vindicatum Erigi a
solo coeptum An. MDVII Tum mole
fatiscens sua refectum Consecratum
vero VI Non. Majas Terrae dehinc motibus. Labefactum et restitutum Quum adhuc ultimam manum expeciaret Ordo Populusq. Cavensis Eadem pecunia publica, quae illud
evexit, refecitque Collata ut alias a
suis Pontificibus In opus symbola Absolutum tandem sublaqueavit Omnique ex parte prisco squalore deterso Picturis opereque albario exornatum In novam hanc splendidioremque formam Redigendum curavit I Credo accenni al gran miracolo, operato [da S. Gennaro il 22
di ottobre del 1767], quando nel comparir sul Ponte [della Maddalena]
la statua d’argento del Santo, cessò di botto l'eruzione » del Vesuvio
(D’OnoFRJ, Elogio, p. LXxIH). Onde fu collocata sul Ponte stesso la statua
del Santo, con la destra levata verso il vulcano. AVVERTIMENTI
! PER L’ INSEGNAMENTO DEL LATINO di V. Essendo il ragazzo,
siccome si scrive, di talento, e che promette di sé liete speranze, sia
cura del dotto ed avveduto maestro non immergerlo troppo ne’ rudimenti di
grammatica, li quali poi dovrà dediscere; ma sopratutto esercitarlo nelle
coniugazioni e declinazioni, e nei principali precetti della sintassi; e
tutto il di più farglielo apprendere dall’ interpretazione de’ scrittori
latini, essendo grandissima la distanza del parlare de’ grammatici dal parlare
de’ latini. Questo basti: che nello spiegare lo scrittore latino gli facci
fare in ogni membro una minuta analisi delle parti che lo compongono, e
non lasci passare neppur la menoma particella senza spiegargliene la
proprietà e la significazione; e nella ripetizione farsene render conto.
Di poi quel tratto che ha spiegato, obbligarlo a riportarlo in iscritto
tradotto, acciocché il fanciullo di buon’ora si avvezzi a ben concepire,
a nobilmente spiegare le idee, non essendoci esercizio più profittevole
per la gioventù quanto quello delle traduzioni; poiché, avendo il giovane [da]
trasportare da lingua in lingua, ed avendo ciascuna lingua un genio
particolare di concepire, e quindi spiegare le idee, egli è costretto di
riflettere I Dall’autografo esistente tra le carte Villarosa.] ed
esaminare la maniera propria con cui lo scrittore latino ha concepito, e
quindi spiegato quel pensiero, per poi studiarsi di concepirlo e di
spiegarlo secondo il gusto particolare della sua lingua natìa. E questo è
quello che si chiama spirito di lingua, che rende l’acquisto di una
lingua tanto difficile, che vi bisogna la vita di un uomo, per poterla
conseguire; dovendosi la diversità de’ termini e dei vocaboli riputare
più tosto un giuochetto di memoria. Quindi si rileva quanto
vantaggio rechi ad un giovane il continuo esercizio delle versioni, che,
oltre al conseguire lo spirito della lingua da cui trasporta, senza
accorgersene, acquista e la norma di saper con naturalezza ordinare li
pensieri, e quindi saperli con felicità concepire, e quindi con nobiltà e
chiarezza spiegarli, consistendo tutta la difficoltà nel concepire. Un pensiero
felicemente concepito, sarà sempre facilmente spiegato: Verba
provisam rem non invita sequuntur. Onde Cicerone disse: Oplimus
dicendi magister stylus. Sento che sia esercitato nel tradurre
Cornelio Nipote e Virgilio. Perché due scrittori così vicini per l’età in
cui fiorirono, e così lontani per il genere in cui scrissero ?_ Non
istimo proprio ad un ragazzo, che appena sta imparando il volgar latino,
metter in mano Virgilio, che, come poeta, studia di allontanarsene quanto più
può, secondo quel detto di Cicerone, poétae alia lingua loquuntur. È
l’istesso che se, per far apprendere ad un oltramontano la nostra volgare
lingua italiana, si mettesse in mano Petrarca, Tasso, Ariosto. Li poeti,
perché alia lingua loquuntur, devono riserbarsi all’ultimo. Il giusto metodo
d'’ istituire la gioventù nello studio della lingua latina sarebbe farle
prima apprendere la lingua volgare e familiare latina, e per questa
dovrebbesi ricorrere alli purissimi due fonti inesausti di essa, Plauto e
Terenzio, essendo gli argomenti delle comedie avvenimenti che sì
raggirano nell’uso della vita privata; ma non si deve, per far apprendere
la purità della volgar lingua, esporre la gioventù al pericolo di
corrompere la purità de’ costumi, che è quel che più deve interessare. Si
eviti questo scoglio e si sostituiscano l’ Epistole familiari di Cicerone, li
di cui argomenti sì versano presso a poco sull’ istesso: ed ecco che il
giovane acquista il sermone volgar latino. Spedito che sia il
giovane nell'acquisto della lingua volgare privata, mettergl’ in mano gli
elegantissimi Commentari di Giulio Cesare, ne’ quali acquisterà la lingua
pubblica, tanto necessaria per le arti della pace e della guerra; ed in
essi la conseguirà nella sua somma purità e chiarezza, e tale e
tanta, che ne riportò il grande elogio di Cicerone, che, parlando de’
Commentari di Cesare, dice che egli li lasciò, perché poi ci fosse stato chi
potesse scriverne l’ istoria: ma poi soggiunge: stultis gratum facere
potuit, perché gli uomini dotti ed avveduti disperarono poterne scrivere
una storia con quella limpidezza e eleganza, con cui Cesare scrisse li
suoi Commentari. | E Virgilio fu il solo tra i latini che non
solamente sostenne, ma ancora rivendicò la gloria del nome romano contro la
superbia de’ disprezzanti greci, che solevan distinguersi da tutte le
altre nazioni; e ciò con qualche ragione in rapporto alla felicità della lor
lingua. Il qual pregio li romani stessi, che chiamavano barbara la
maestosa lingua latina quante volte volevano metterla al confronto della
greca, con somma ingenuità confessarono; come, fra gli altri
attestati, ve n'è quello di Plauto nella comedia intitolata
Asinara, ove fa dire al Prologo, che l’autore di quella comedia era
stato Demofilo, poeta greco, e che M. Accio Plauto l’aveva tradotta in
latino: Demophilus scripsit, Marcus vortit barbare, cioè latine. Così, al
contrario, di rimbalzo, li romani poterono rivendicare la gloria del loro
nome con opporre a tutta la Grecia il solo Virgilio, ché tutta la Grecia
non aveva prodotto un ingegno così stupendo e quasi divino, il
quale feliciter audax era riuscito egualmente ammirabile in tutti
tre li caratteri del dire, nel tenue ed umile nelle sue Bucoliche, nel florido
ed ornato nelle Georgiche, nel grande e sublime nell’ Eneide: e Torquato
Tasso ardì d’imitarlo e riuscì felice in due solamente: essendo costante
in tutti li scrittori di qualunque genere sieno, che chi è riuscito in
una delle tre note, non è riuscito nelle altre due; e così a
vicenda: ed in fatti nella pittura, la quale è sorella della poesia:
Poéma est pictura loquens, mutum pictura poéma. li principi delle
tre famose scuole che fecero risorgere tanto felicemente la pittura in
Italia, Raffaello d’ Urbino nel carattere tenue e delicato, Tiziano nel
complesso e carnuto, Michelangelo Buonarota nel robusto e lacertoso,
ciascuno non uscì fuori dei confini che si aveva prescritti.
Non dico poi di Orazio, il quale nelle sue liriche non solo tentò
di gareggiare con Pindaro; ma si foggiò una forma di dire tutta nuova e
tutta di conio suo così inimitabile, che dopo di lui fiorirono tra i latini
molti nobili poeti, ma niuno osò scrivere in quel genere di poesia, in
cui Orazio summum tetigerat; così inimitabile che può dirsi, che egli fu
il primo e l’unico che vi fosse riuscito. Finalmente, per
ritornare all’ intento, e render la ragione perché li poeti debbano
riserbarsi all’ultimo, essendo la loro locuzione lontanissima dalla
volgare, intendendo di escludere in rapporto della locuzione li poeti
comici, li quali solamente sono poeti riguardo all’ invenzione della
favola; imperciocché, per quel che s’appartiene alla locuzione, devono
usare una locuzione affatto volgare, come sopra si è detto.
Poi farlo passare alla lezione di chi cerca di elevarsi un poco al
di sopra del sermon volgare; ed a questo primo grado subentia la
locuzione oratoria, la quale, quantunque deve conformarsi al senso
comune, nulla di meno deve usare una maniera di ragionare più culta e più
elaborata, in guisa però che facciasi intendere dall’uom volgare; quindi
passare alla lezione delle Orazioni di Cicerone. Spedito che
sarà il giovane degli oratori, passi alla storia; la quale usa una
locuzione posta in mezzo tra la locuzione oratoria e la locuzione
poetica, perché lo storico ha da far due parti in comedia, le parti di
oratore, nelle allocuzioni, che fanno generali all’eserciti, magistrati a
popoli, come sono ammirabili quelle di Livio; ed ha da sostener le
parti di poeta nelle descrizioni di battaglie, di assedi, di espugnazioni di
città; onde Cicerone dice, che in historia funduntur verba prope pottarum: non
assolutamente poetiche; ma prope pottarum. Finalmente far passare il
giovane alla lezione de’ poeti; la di cui locuzione è lontanissima dalla
volgare, perché, siccome devono dilettare colla novità delle favole, così
ancora colle novità della locuzione, dall’ammirazione delle quali novità nasce
il diletto: usano nuove forme di dire che inebbriano l’anima di piacere;
richiamano in uso voci antiche e disusate, le quali, perché disusate,
chiamate in uso, sembrano nuove; adoperare voci straniere, le
quali, come le mode straniere, sogliono dilettare; e ciascuno si foggia
un nuovo genere di dire: ed ecco quel di Cicerone, 04tae alia lingua loquuntur.
E questo sarebbe il metodo profittevole alla gioventù nella lezione de’
scrittori latini. LETTERA DI FINAMORE A V, Ill.mo Signore, Signore e
Padrone Col.mo, Contestando la vostra favoritissima de’ 12 andante
con quella semplicità di espressioni e veracità di sentimenti che
inspira la fama de’ vostri rari talenti e della vostra [mo]destia 1; mi fo un
dovere di ringraziarvi distintament[e delle] gentilissime espressioni,
onde, ad onta del mio de[bole ingegno ?], mi onorate. Quindi protesto le mie
indelebili.... zioni alla vostra generosità che si compiacque.... non
solo di compatire una mia memoria sullfe antichi]tà di questa mia patria,
rimessavi dalla R. A[ccademia, ma] anche di considerarmi non indegno di esservi
aggregato. Allora io non seppi qual ne fosse stato il degno censore,
mentre ne ottenni la patente di socio nazionale; ma, colla pubblicazione
che nel 1798 fece il dotto segretario Napoli-Signorelli del primo
tomo del Regno di Ferdinando IV, p. 381, dove rilevai che vi compiaceste
fare alla stessa memoria vari commenti e proporre alcuni dubi da
sciogliersi da me medesimo, mi cadde il pensiero di leggere le vostre
erudite riflessioni ed approfittarmene pria che si pubblicassero negli
atti della R. A. Questo medesimo desiderio, anziché mancare, mi si
avanza di più in più, dopocché ho acquistata la vostra pa 1 Supplisco,
quanto è possibile, quel che manca per uno strappo dell’autografo.] dronanza,
e vi prego quanto so e posso di rimettermene una copia, giacché non
sappiamo quando si potranno riaprire le adunanze accademiche. Son sicuro che vi
compiacerete di soddisfare queste mie premure, e compatirete il mio
ardimento con quella urbanità che è propria d’un animo grande.
Veramente da una medaglia urbica disotterrata qui anni a dietro,
del peso di una libra di bronzo, coll’epigrafe greca ANZANON e nel
rovescio ®P, si conosce che il nome poi latinizzato di Anxanum, sempre
identico a questa città, sia di origine greca; ma non saprei donde derivi
la sua vera etimologia. Fatemi grazia d’illuminarmi su tal particolare,
scusando sempre la mia impertinenza. Ai maestri di filosofia si dee
sempre ricorrere in simile rincontro. Volendomi onorare di vostri
graditissimi comandi non meno de’ vostri caratteri, vi prego di
diriggermi le vostre lettere per la posta, e di significarmi se per la
stessa possa diriggervi a dirittura le mie. Sono intanto con
la più perfetta stima e divozione di V. S. Illma
Lanciano, li 22 giugno 1804. Div. obblig.mo Serv.
Vostro FINAMORE !. I Dall’autografo esistente tra le carte
Villarosa. Se Giambattista V. redivivo vedesse questa Italia senza
né Spagnuoli né Austriaci, padrona di sé, grande tra le grandi nazioni di
Europa direttrici della civiltà, conscia della sua dignità, fiera della
gloria de’ suoi figli maggiori, che anche nei secoli più bui e più duri
della divisione politica e della servitù la fecero con l’altezza dell’
ingegno celebrata e ricercata da tutte le genti più culte, potente
collaboratrice, maestra privilegiata d’ogni arte più splendida e d’ogni
più originale scienza: la vedesse questa Italia tutta qui convenuta in
ispirito a rendergli onore in questa aula magnifica della sua rinnovata
università; Giambattista V. sarebbe, non sorpreso, ma sbigottito di così
insigne riconoscimento, che egli non avrebbe mai sperato. Ma
poiché, per alta che fosse la sua intelligenza, l’animo era ingenuo come
di fanciullo e sensibile alla lusinga della lode, lo sbigottimento
facilmente cederebbe il luogo alla schietta commozione, con la quale tornerebbe
a ringraziare ancora una volta la Provvidenza delle traversie d'ogni
genere sofferte durante tutta la sua grama esistenza; poiché queste
traversie infine erano state la causa per cui egli si ritirasse e
concentrasse sempre più nella sua solitaria meditazione e facesse le sue
scoperte, e scrivesse il suo capolavoro, la Scienza Nuova; e fosse,
insomma, Giambattista V.. Aveva pubblicato da poche settimane, anzi da pochi
giorni, il suo gran libro; e con quanta trepidazione ne aspettasse
i primi giudizi dei concittadini nessuno dei quali (egli pur lo
sapeva !) era propriamente preparato a rendersi conto dei profondi
concetti animatori della sua opera, si può vedere dalla lettera che
scriveva a un amico. Lettera dolente e superba, ma tutta piena di alta
fede religiosa: In questa città sì io fo conto di averla mandata
al diserto, e sfuggo tutti i luoghi celebri per non abbattermi in coloro
a’ quali l’ ho io mandata; che, se per necessità egli addivenga, di
sfuggita li saluto: nel quale atto non dandomi essi né pure un
riscontro di averla ricevuta, mi confermano l’oppenione di averla io
mandata al diserto. Io poi devo tutte le altre mie deboli opere d’ ingegno a me
medesimo, perché le ho lavorate per mie utilità propostemi affine di meritare
alcun luogo decoroso nella mia città: ma poiché questa università me ne
ha riputato immeritevole, io certamente debbo questa sola opera tutta a
questa università, la quale, non avendomi voluto occupato a legger
paragrafi, mi ha dato l’agio di meditarla ». (Dove si accenna alla
gravissima delusione toccatagli nel concorso alla importante cattedra di
Diritto civile della mattina, alla quale aspirava e si veniva preparando da
molto tempo). Sia per sempre lodata la
Provedenza, che, quando agli infermi occhi mortali sembra ella tutta rigor
di giustizia, allora più che mai è impiegata in una somma benignità ! Perché da
quest’opera io mi sento avere vestito un nuovo uomo, e pruovo rintuzzati
quegli stimoli di più lamentarmi della mia avversa fortuna, e di più
inveire contro alla corrotta moda delle lettere, che mi ha fatto tale avversa
fortuna, perché questa moda, questa fortuna mi hanno avvalorato ed
assistito a lavorare quest'opera. Anzi (non sarà per avventura egli vero,
ma mi piace stimarlo vero) quest'opera mi ha informato d'un certo spirito
eroico, per lo quale non più mi perturba alcuno timore della morte e
sperimento l’animo non più curante di parlare degli emoli. Finalmente mi
ha fermato, come sopra un’alta adamantina ròcca, il giudizio di Dio, il
quale fa giustizia alle opere d’ ingegno con la stima de’ saggi, i quali,
sempre e da per tutto, furono pochissimi » !. Lett. del 25 ott. 1725 al p.
Giacco, in V., L’Autob., il Carteggio e le poesie varie, ed.
Croce-Nicolini. V. nacque il 23 giugno 1668 in uno stambugio sopra la
botteguccia del padre, in via San Biagio dei Librai, n 3I. Giacché il
padre era libraio, figlio d’un contadino di Maddaloni: modestissimo libraio,
sposato a una povera donna, figliuola, a sua volta, d’un carrozziere.
Famiglia numerosa: otto figli. Ambiente povero, buio, triste: dove, anche
senza la tremenda caduta da una scala per cui il fanciullo settenne si
ruppe il cranio e perdette molto sangue ed ebbe bisogno di tre anni di
cure per riaversi o muore, prediceva il
cerusico, o sopravvive idiota! era
impossibile che non crescesse gracile, malinconico, infermiccio, come
restò tutta la vita. Dal n. 31 il padre si trasferì nel 1685 al n.
23, di rimpetto al Banco della Pietà !: anche qui bottega e mezzanino
soprastante. Poca aria e poca luce, e povertà. Quando perciò il fanciullo
a dieci anni poté tornare a scuola, l’anda1e e il venire erano boccate
d’aria vivificanti; quantunque non ci fossero giuochi né spassi per lui
studiosissimo, cresciuto tra i libri, impaziente della necessaria
lentezza e gradualità dello studiare in comune con coetanei men veloci
nell’apprendere. E per la sua malinconia e precocità, ombroso,
puntiglioso. Abbreviò il corso elementare de’ suoi studî, fin d'allora
autodidatta; e iscrittosi poi nel Collegio dei Gesuiti (al Gesù Vecchio) alla
seconda classe di grammatica, se ne ritrasse però prima della fine
dell’anno scolastico per un torto fattogli dai maestri in una gara in cui
aveva vinto i primi della classe. Si chiuse nella libreria paterna e nel
mezzanino di sopra. E giorno e notte sui libri. Da sé quindi, a furia,
compì gli studî di grammatica e di umanità: tutta la sua istituzione
letteraria. Scoraggiato, per la filosofia, da una astrusissima logica,
che gli era stata consigliata, si svogliò e distrasse. Tentò più
tardi tornare dai Gesuiti; ma quantunque il maestro quivi gli desse
! Per tutte le abitazioni del V. cfr. Note all’Autobiografia, dove
sono i risultati delle molteplici sagaci esaurienti ricerche del Nicolini.] il
gusto d’una metafisica che andò a genio al giovinetto allora forse quindicenne,
gli parve che troppo costui andasse per le lunghe con le sue scolastiche
distinzioni e sottodistinzioni; e si ritrasse pertanto da capo a studio
privato, e da sé condusse a termine, con grande applicazione, il corso di
filosofia; dal quale si accedeva alla Università. In questa, dopo avere
fatto da sé, solo frequentando per un paio di mesi lo studio d’un
canonico vicino di casa, insegnante di diritto di molta fama, s'
immatricolò nel 1688 alla facoltà di Leggi; e vi fu iscritto per quattro
anni. Ma non vi mise mai piede, dividendo il suo tempo tra gli studî
giuridici, i lette1arî e i filosofici, pei quali allora come sempre qui a
Napoli grande era l’ interesse delle persone colte. Una volta tentò i
tribunali, in una causa civile, in difesa del padre. E la fortuna gli
arrise; ma sentì egli che non era nato per la carriera forense. Accettò
l'offerta di recarsi a Vatolla, nel Cilento, precettore privato in casa di certi
signori. E lì rinvigorì la salute, che tia gli stenti di Napoli era
minacciata da tisi; e lontano dalle angustie familiari ebbe per nove anni
ozio e serenità d’animo e agio per compiere il maggior corso, com'’egli
più tardi ricordava, de’ suoi studî. III. Non aveva
peraltro trovato la sua via. Le letture dei libri recenti di cui nelle
sue gite a Napoli si provvedeva, non erano ordinate. Ma ogni autore
metteva in movimento lo spirito del giovane, lo faceva pensare. E quelle
meditazioni assidue erano più feconde d’ogni più metodica lettura. Ci
rimane di quel tempo una canzone Affetti di un disperato, documento
del pessimismo a cui di tratto in tratto lo spingevano l’
incertezza dell'avvenire, il pensiero della famiglia lontana
miserabile, e sopra tutto il bisogno inappagato di trovare, in quella
sua indole raccolta e meditabonda, una soluzione a certi problemi
angosciosi. Erano i problemi che letture e forse ricordi di conversazioni
avute a Napoli coi letterati inclini all’ateismo venuto di moda tra gli
spiriti forti, gli avevan fatto intravvedere prima confusamente, poi scorgere
in maniera sempre più chiara e paurosa per la sua anima severamente
educata nella fede religiosa e di tempra profondamente mistica. Ma
anche i dubbî, gli errori, che più tardi ricorderà !, degli anni
giovanili, erano pungolo a scrutare più addentro nel proprio pensiero;
finché non gli parve di trovare in Platone e nei Platonici sopra tutto del
Rinascimento italiano il fondamento speculativo incrollabile alle sue
sante credenze. Il periodo del ritiro cilentano ebbe termine; e V. tornò
a Napoli. Aveva ventisette anni; il padre vecchio; sui fratelli non era
da fare assegnamento. Bisognava provvedere alla famiglia, oltre che alla
propria persona. Ricerca affannosa di un’occupazione stabile, anche
umile. E intanto ripetizioni, anche elementari, mal retribuite e
difficili a trovare. Lavori letterari d'occasione (orazioni, sonetti,
canzoni) procuravano bensì qualche magra soddisfazione alla ambizione del
giovane ormai maturo, a cui invano autorevoli personaggi cercavano
onorato collocamento. Un d'essi non seppe far di meglio che consigliargli
di farsi frate. Nel ’97 chiese la carica di segretario del Municipio, che
era ufficio, allora, da letterato, poiché si carteggiava in lingua
latina. Ma la domanda non fu accolta. Due anni dopo, finalmente, concorse alla
cattedra universitaria di Eloquenza; e l'ottenne. Lo stipendio però era
di 100 ducati l’anno, poco più di 35 lire al mese, oltre gli emolumenti
non cospicui provenienti dai certificati che l'insegnante di quella
cattedra rilasciava per l’immatricolazione degli studenti alle
varie facoltà. E di cento ducati rimase lo stipendio di V., finché
nel 1735 una riforma di tutto l’ordinamento universitario I Lett.
al p. Giacco del 12 ottobre 1720. Per questi errori giovanili del V. v. CROCE,
La filos. di G. B. V.3, p. 286 e Intr. a FINETTI, Difesa dell’autorità
della S. Scrittura contro G. B. V., Bari, 1936; NICOLINI, La giovinezza di G.
B. V., Bari, 1932, p. 127; A. Corsano, Umanesimo e religione in G. B. V.,
Bari, 1935, 17-22. non glielo raddoppiò; nello stesso anno che il nuovo re
Carlo di Borbone, seguendo il suggerimento del suo cappellano maggiore,
uomo di larga mente e dottrina, molto benevolo estimatore di V., lo nominò
istoriografo regio con altri cento ducati di assegno. Ma nel 1735 V. era
già presso che al termine della sua carriera; e se fin allora, pur tra disagi,
rinunzie e sacrifizi inenarrabili aveva potuto trascinare avanti
l’esistenza, s'era dovuto aiutare con i proventi d’uno studio privato di
rettorica, aperto in una sua casetta in V.lo dei Giganti, mutata cinque
anni dopo in altra alquanto più ampia al largo dei Gerolamini, dove
rimase fino al 1733. Cambiò casa ancora tre volte; e finalmente nel ’43
andò ad abitare ai Gradini dei Santi Apostoli, dove morrà nella notte dal
22 al 23 gennaio dell'anno dopo. Appena ottenuta la cattedra
universitaria, V. non perdette tempo: sposò una povera donna analfabeta e, quel
che è più, inetta al governo della casa; e ne ebbe via via otto
figli, cinque dei quali sopravvissero; e due procurarono al padre grandi
gioie, ma uno altresì dolori acerbissimi. Com’egli vivesse in mezzo ad
essi fanciulli, lo dice egli stesso nell’accenno che reiteratamente ! fa
ne’ suoi scritti al costume suo di meditare e scrivere in mezzo alle
conversazioni dei familiari e allo strepito de’ figliuoli. Altro che la
quiete e il silenzio di cui sente il bisogno ogni scrittore ! Ma la
stessa cattedra modesta avuta in sorte gli procurava almeno una volta
l’anno una segnalata soddisfazione; poiché al professore di Eloquenza
spettava di leggere, nel giorno dell’ inaugurazione degli studî, un’orazione
latina, sopra argomento d’ interesse generale e filosofico, alla presenza di
tutti 1 colleghi e degl’illustri personaggi che erano invitati
allora come oggi a tale solenne cerimonia. V. ne aveva occasione
I Autob.] ad esporre nel latino aureo, di cui la familiarità quotidiana
con gli scrittori classici lo aveva reso maestro, i più alti
concetti che nelle sue meditazioni veniva maturando intorno alla natura
dello spirito umano, alla società, a Dio. In nuce oggi possiamo scorgere
in quei concetti quasi tutta la filosofia posteriore. E V. doveva in
quelle occasioni cominciare ad assaporare il gusto del pensiero, che,
levandosi sovrano sopra tutte le cose e tutte le idee, acquista la
coscienza di non so che divino, che è la sua forza e la sorgente della
sua superiore certezza. Onde a lui veniva fatto di dire, non potersi il
fine degli studî altrove collocare che nel proposito di coltivare
una specie di divinità dell'animo nostro ». La sua filosofia
platonizzante lo confermò poi sempre in questa intuizione della divina
essenza delle idee, che l’uomo scopre con la riflessione dentro il
proprio animo, e quindi di questa natura eroica, come già diceva Platone, ossia
partecipe del divino, che è propria dello spirito umano che venga
in possesso della verità. Intuizione, che fu sempre l'’ ispirazione più
profonda del carattere religioso del suo pensiero e di quella lirica commozione
che scuote ognora più vigorosamente la sua filosofia. Scrive infatti
vivendo il suo pensiero come una demoniaca rivelazione interiore, che
lo eleva al di sopra di sé e gli dà quella certezza che il pensiero
umano attribuisce alla mente divina. Comporre quelle orazioni, leggerle a
quegli uditori d’eccezione, in cui si raccoglieva il fiore dell’
intelligenza e della cultura napoletana, e poi per giorni e giorni
serbare le impressioni provate in quell’ora solenne, e illudersi magari
sul valore degli applausi di cui, sì sa, raramente l’uditorio è avaro
all’oratore che finisce di parlare, era pure un motivo di compiacimento.
In parte era anche appagamento dell’amor proprio di letterato, a
cui V., come i suoi coetanei spasimanti per gli ozî, le parate e i
mutui incensi delle accademie era sensibile (e forse in modo anche
superiore all’ordinario, in ragione del candore dell’uomo vissuto per lo
più fuori del mondo); ma in parte era la gioia che prova ogni nobile
spirito al cospetto della verità o di quella che innanzi gli splende come
tale. Lampi di luce che rischiaravano a un tratto la penombra faticosa e
triste a cui il povero filosofo abitualmente era condannato. Ma
l’animo ne era spinto a innalzarsi dalle miserie della vita quotidiana
al puro cielo dei grandi pensieri luminosi e rinfiancato a durare nella fatica
e nella meditazione. Lezioni pazienti e umili, prosaiche cure domestiche,
e letture di grandi scrittori antichi e moderni che lo traevano in su,
alle cose serene e immortali. Quelle orazioni, salvo qualche
riecheggiamento di filosofia cartesiana, allora diffusa a Napoli come
l’ultimo figurino di Francia, si aggirano tra le idee platoniche.
Ondeggiano pertanto tra la raffigurazione di un divino mondo
trascendente, di là da questo della vita nostra mista di luce e di
tenebre, di dolori e di gioie, di essere e di non essere, e un acuto senso
dell’unità profonda del divino e dell'umano, e però della grandezza e
potenza creatrice dell’uomo considerato in quella sua spirituale essenza, dove
l’alta vena del divino preme a scorgere l’uomo alla cognizione del vero e
alla volontà del bene e ad ogni arte che conferisce ai mortali il dominio
delle loro passioni e delle forze stesse della natura. Ma cogli anni
l’orizzonte di V. si allargava e arricchiva. Leggeva Bacone, che con la
sua critica dell’antico sapere, fondato su presupposti razionali e
costruito per deduzione raziocinativa, col suo vigoroso appello
all’esperienza, al particolare, al mondo che non è nel pensiero, ma di fronte
ad esso, non conosciuto a priori, ma da conoscere, da studiar
sempre perché non mai abbastanza conosciuto, con l’alto suo grido
dell’ instauratio magna ab imis fundamentis a cui la scienza moderna
doveva accingersi, gli aprì quasi gli occhi ad una seconda vista.
Cogttata et visa (titolo di uno scritto baconiano) divenne uno de’ motti
prediletti di V.. Pensare, analizzare i pensieri, criticare le opinioni
ricevute nell’animo, sì; ma prima vedere, percepire, aprire l’animo al
nuovo, con cui la vigile esperienza ad ora ad ora lo investe, lo scuote,
lo trasforma. Cartesio a lui platonico aveva già mostrato chiaramente
il carattere tutto moderno di quel pensiero a cui il filosofo francese
richiamava; e che non era più pensiero in sé, la verità divina a cui lo
spirito umano aspira, ma il pensare dell’uomo che ha coscienza di sé, del
fatto in cui esso consiste. Fatto umano, ma certo. Coscienza, non
propriamente scienza. Fatto che è lì nello spirito umano, nella coscienza
che questo ha di sé; non più. Ma, come tal fatto, investito d’un valore
che è discutibile che possa attribuirsi alla verità, quale il
pensiero, analizzando e deducendo, ce la pone innanzi. Si tratta di
quel valore di certezza, che è il primo postulato del pensiero moderno,
stanco d'ogni dommatismo e di ogni affermazione, per logica che sia,
della quale naturalmente si possa dubitare. Altro il vero, altro il
certo. E la sete di certezza, ossia di una verità che non sia
passivamente ricevuta, ma acquistata come la verità che consti, e sia
nostra verità, della quale non si possa dubitare senza rinunziare al
pensare, e che perciò regga a ogni critica, e sia da accogliere non
perché si abbia la fortuna o sfortuna di appartenere a una chiesa, a una
scuola, a una gente, ma perché si è uomini dotati di ragione; questa
è l’ inquietudine salutare che muove il pensiero moderno: nella
filosofia, come nella religione, nella politica e in ogni forma della
cultura. Inquietudine non di spiriti scettici, rassegnati alla propria
ignoranza, anzi di spiriti positivi, costruttori, che han bisogno di possedere
saldamente la realtà. E questa inquietudine riempie l’animo di V.
quando nel 1708, riprendendo l’abitudine da un biennio intermessa
delle orazioni inaugurali, scrisse il discorso De nostri temporis
studiorum ratione, pubblicato con aggiunte l’anno dopo. È una polemica
contro l’ imperante cartesianismo, contro quel filosofare superbo,
sprezzante di ogni erudizione storica od esperienza o poesia, o forma, in
genere, della vita spirituale che non sia puro pensiero o astratta
ragione: filosofare sordo alla storia, alla vita sociale, ai sensi, alle
passioni, d’un astratto spirito tutto ragione, senza né memoria, né
fantasia, né percezione sensibile, chiuso in sé e lavorante nel vuoto.
Rivendicazione quindi del concreto, del particolare, dello storicamente
determinato; di quello che non si deduce, ma si apprende, direttamente,
materia di topica», come V. ama dire nel linguaggio della retorica
tradizionale, prima che di
critica». Filologia, non filosofia. Ma affermazione insieme della
necessità della critica, della filosofia a complemento e intelligenza
d'ogni sapore filologico o comunque di fatto. Certo e insieme vero. Su
questo punto si concentrò l’attenzione del filosofo, che l’anno appresso
si trovava ad aver delineato nella mente tutto un sistema di filosofia,
di cui pubblicò nel 1710 la prima parte contenente la metafisica; tre
anni dopo abbozzò, in un opuscolo, stampato postumo verso la fine del secolo in
una rivista napoletana finora irreperibile, la parte seconda relativa
alla fisica; e tralasciò la terza, la morale, poiché la materia di
essa venne assorbita nelle maggiori opere posteriori. Questo De
antiquissima Italorum sapientia diede fama all'autore, facendolo conoscere
fuori di Napoli, specialmente per l’ importante polemica che ne seguì tra gli
scrittori del Giornale de’ Letterati d' Italia, che si pubblicava a
Venezia, e V.. Ma quel che attrasse l’attenzione fu piuttosto la cornice
che il quadro: non la dottrina espostavi, in cui era l'originalità
e l’importanza storica, notevolissima, dell’operetta, ma l’ ipotesì
artificiosa e falsa con cui questa dottrina era presentata come dottrina
antichissima degli Italiani, attestata dalle etimologie di alcune voci della
lingua latina interpretate col metodo arbitrario usato da Platone nel
Cratilo. Ipotesi di cui il primo a fare più tardi la critica perentoria
sarà esso V., quando dimostrerà l’assurdo dei dotti, che da Platone
in poli avevano attribuito ai primitivi una sapienza riposta, ossia una
vera e propria filosofia. Ma la cornice, come accade, compromise il
quadro, poiché gli uomini guardano più alla forma che alla sostanza; e la
sostanza, che era una scoperta da fare epoca, passò inosservata. Era la
soluzione del problema della moderna filosofia, dell’unità, come dirà V.
stesso, del vero col certo, del pensiero con l’esperienza, delle
idee con i fatti, o, secondo una formula prediletta da V., della
filosofia con la filologia. Giacché in questa prima parte del De
antiquissima V. premetteva alla stringata esposizione della sua
metafisica una sorta di dinamismo
spiritualistico analogo alla contemporanea monadologia leibniziana, che
ben servirà di sfondo alla filosofia che V. svolgerà poi nella
Scienza Nuova un cenno di teoria del
conoscere che ha una strana somiglianza, pur essendone differentissima,
con la celeberrima teoria che sarebbe stata esposta settant'anni dopo da
Kant nella Critica della ragion pura. Dove tutti gli storici della
filosofia asseriscono aver ricevuto del pari soddisfazione, ed essere
stati quindi conciliati, gli opposti indirizzi filosofici precedenti
dell’età moderna: quello empiristico che comincia con Bacone e giunge
allo scetticismo di D. Hume e quello razionalistico che da Cartesio
arriva alla metafisica di Leibniz. Ma la conciliazione era stata fatta qui a
Napoli settant'anni prima in questo modestissimo libricciolo vichiano con
la teoria fermata in un motto di conio scolastico diventato poi
quasi proverbiale: verum et factum convertuntur; ossia, il vero consiste
nel fatto, poiché chi sa è chi fa, e della natura non fatta da noi, noi
non possiamo osservare perciò e conoscere se non le apparenze, o i
fenomeni, come aveva pur detto Galileo; e del perché, della essenza dell’operare
che a noi si manifesta in forme fenomeniche, non ci è dato fare altro che
una scienza per congettura, probabile e soddisfacente per la
ragione, ma priva di quella certezza, che è carattere specifico del
sapere scientifico. Con certezza noi possiamo sapere quel tanto di
cui noi siamo autori. Poco, secondo le prime riflessioni suggerite
a V. dalla sua scoperta: ossia le grandezze matematiche, che sono innanzi
a noi ed esistono, in quanto noi le costruiamo (numerando o tracciando
triangoli e quadrati). Così anche per V. in questa prima forma della sua
gnoseologia, le matematiche, come per Galileo e per la massima parte dei
pensatori contemporanei, rimangono il tipo della scienza perfetta.
Non impoita per altro qui vedere quali scienze V. conceda alla mente
umana; importa invece il carattere che egli attribuisce alla scienza: questo
carattere costruttivo della realtà che ne è l'oggetto. Concetto che
evidentemente nega la preesistenza dell’oggetto alla mente che lo conosce, e conferisce
a questa un’attività creatrice di quel mondo che essa è in grado di
conoscere; sicché la certezza del fatto viene a coincidere con questa intimità
della mente al mondo di cui è artefice. È la certezza del poeta che è il
creatore de’ suoi fantasmi, come Dio crea gli uomini vivi; ed è perciò
dentro di essi, e ne conosce tutti i segreti. La verità è, sì, pensiero
(evidenza delle idee alla mente), come voleva Cartesio; ma il
pensiero non è spettatore di quel che si rappresenta, bensì
produttore. Il fatto di cui perciò siamo certi, non è quello di cui siamo
testimoni; ma quello invece di cui noi siamo gli attori (costruendolo o
ricostruendolo). Si vedrà poi se noi siamo costruttori e creatori
di astratti numeri e di astratte entità geometriche, o di qualche
cosa di più saldo e reale; e cioè di quanto il nostro potere s’assomiglia
a quello che attribuiamo a Dio. Intanto la via è aperta. E V.
procederà. VIII. Procederà speculando, chiuso nel suo
cervello, anche nei colloqui amichevoli e tra gli strepiti domestici. I
coetanei non sospetteranno questo nuovo mondo che egli viene
tentando e scrutando con trepidazione. Quelle sue pretese
etimologie delle parole più filosofiche della lingua latina lo avevan
fatto apparire agli occhi dei letterati piuttosto un pedante che un
pensatore: lo avevan screditato cervello balzano e incline ad abusare
della dottrina, anziché dimostrare l’elevatezza eccezionale del suo ingegno
filosofico. Un lavoro storico scritto tra il 1714 e il '16 per
commissione, la Vita di Antonio Carafa, gli diede occasione di leggere il De
iure belli et pacis di Ugo Grozio; e questo poi gli fece cercare gli
altri autori famosi di diritto naturale, Giovanni Selden e Samuele
Pufendorf; e gli spiegò innanzi al pensiero più vasto e concreto
orizzonte che non fosse quello degli astratti concetti ricavabili o no da
poche etimologie latine: il mondo della storia al suo primo uscire dalla
barbarie alla civiltà mediante il formarsi del diritto. Tutta una storia
da ricostruire solo in piccola parte filologicamente, e nel suo
complesso invece per congetture e argomenti di ragione appoggiata a
considerazioni filosofiche intorno alla natura umana. Il problema dell’origine
storica e ideale del diritto gli si affacciò subito come il problema
dell’origine e della natura dell’umanità, o della civiltà (poesia e religione,
istituzioni sociali e giuridiche, scienze e filosofia): tutto l'insieme
delle cose umane, dipendenti comunque dalla volontà o dalla intelligenza
dell’uomo: quello che più tardi V. stesso dirà
mondo delle nazioni ». Problema di preistoria, che era poi un
problema di storia, ma sopra tutto un problema di filosofia. Poiché
le origini non si prestavano a essere ricostruite e interpretate se
non al lume della stessa natura operante nel processo storico del diritto
e in genere della civiltà; e quindi in base al concetto di questa natura
onde si rende intelligibile ogni punto del processo storico. Il grande
posto che occupava nella cultura e nell'ordinamento universitario il
Diritto romano veniva per tal via ad illuminarsi agli occhi del V. di
nuova luce. Quelle antiche fonti della giurisprudenza romana, che agli
occhi suoi erano state fin allora argomento di osservazioni
filologiche, a un tratto si innalzarono a sorgenti della più
veneranda sapienza; le parole diventarono cose, la filologia si
trasfigurò in filosofia. Donde una più intensa applicazione
del V. al diritto. Quindi l’idea di non più tentate ricostruzioni del
diritto romano e di tutta la storia che nel diritto converge; e nel
1720-2I la pubblicazione del Diritto Universale, ossia di due
volumi, uno De universi juris uno principio et fine uno e l’altro
De constantia iurisprudentis, preceduti nel 1719 dalla Sinopsti del
diritto universale (foglio volante che anticipava l’ idea dell’opera) e
seguito nel ’22 dalle Notae, contenenti aggiunte e correzioni. Quindi la
speranza per qualche anno accarezzata e finita nella dolorosissima delusione
che s'è veduta, di poter aspirare alla grande cattedra mattutina di Jus civile
(che gli avrebbe sestuplicato il troppo magro stipendio). Ma, sopra
tutto, il primo scontro, per così dire, in campo aperto, di V., studioso,
filosofo, scopritore di nuove idee e grande riformatore della scienza del
suo tempo, coi rappresentanti di questa, che erano poi gli uomini con cui egli
doveva vivere e fare 1 conti. Il largo giro delle questioni abbracciate
nel Diritto Universale, non pure giuridiche e filosofiche, ma religiose,
storiche e letterarie, interessanti ogni genere di studiosi di
scienze morali, e l'originalità delle tesi che in ogni campo l’autore
vi propugnava, in un primo abbozzo di quella che pochi anni dopo
sarà la Scienza Nuova (pubblicata dall'autore la prima volta nel '25, la
seconda nel ’30 e l’ultima nel ’44) non poteva non mettere in qualche modo il
campo a rumore. Ma la sorte del Diritto Universale fu subito quella che
sarà più tardi la sorte dell’opera maggiore e più matura. La forma del
pensiero vichiano era così paradossale e, in apparenza, così intenzionalmente
rivoluzionaria rispetto alle opinioni tradizionali, così ostentata, col
solito candore del filosofo, la propria originalità, così frammentarie e
affrettate le prove filologiche dove ne occorressero, così pregnanti e
sommarie quelle filosofiche a cui più spesso si faceva ricorso, così rapida e
pure involuta e contorta l'andatura del pensatore, tutto rapito
nella gioia delle sue intuizioni e nulla curante del pubblico a cui pur
s' indirizzava, da procurare al V. la taccia di oscurità, che pesò a lungo, in
vita e dopo, sulla opinione che si ebbe di lui e impedì l’ intelligenza e
la fortuna del suo pensiero, e gli diede mala voce tra i contemporanei.
Gli venne la fama di spirito malinconico, bizzarro, senza criterio, privo
di buon senso, stravagante, cervello imbrogliato e fantastico; e
anche peggio. Amici, o malevoli, tutti celieranno sulla oscurità
del filosofo. Era ripreso comunemente per oscuretto, scrisse con la sua
mite bonomia il Metastasio. L’acre Giannone dava ragione a quel dotto
napoletano che si stomacava in
vedere che i compilatori degli Att# di Lipsia tanto si travagliano
per intendere le fantastiche ed impercettibili idee del V., quando, per
non torcersi il cervello, non dovrebbero nemmeno fiutare i suoi
librettini »; e quando vide l’autobiografia vichiana, non si peritò di
battezzarla la cosa più sciapita e trasonica insieme che si potesse mai
leggere ». Di certe composizioni letterarie del filosofo, come di
quell’orazione che egli scrisse con magnificenza di stile per la morte
d’una culta gentildonna, che lo aveva degnato della sua benevola
amicizia, Angiola Cimini marchesana della Petrella, si rideva; e un
letterato di buon umore ne fece strazio in una satira bernesca, che
girò per Napoli manoscritta, rappresentando il filosofo maestro di scuola.
V. stranulato e smunto Colla ferola in mano e ’l Passerazio
(che era un commentario ai poeti elegiaci romani). Della orazione per
un’altra dama, che V. stesso mostrava a un letterato senese venuto a
fargli visita nel 1726, questi scriveva a un amico le stranezze notatevi,
aggiungendo: Il bello che vi ha in
questo discorso è che nella prima sola facciata vi sono due periodi, nel
primo dei quali tra ’1 nome agente ed il verbo ci corrono undici versi e
nel secondo quattordici ». Il lucchese Sebastiano Paoli, sopra un
esemplare della Scienza Nuova inviatogli dall'autore annotò un suo
distico: Culpa mea est, solus si non capio tua dicta; Culpa
tua est, nemo si tua dicta capit. E certamente era in buona parte
colpa del V. se nessuno, proprio nessuno, lo capiva. Vero quello che egli
sentenzia in una sua bellissima lettera del ’29, quasi a propria
discolpa: So bene che ’1 comune degli uomini è tutto memoria e fantasia:
e perciò hanno sparlato tanto della Nuova scienza, perché quella rovescia
tutto ciò che essi con errore si ricordavano e si avevano immaginato de’
principî di tutta la divina ed umana erudizione. Pochissimi sono mente »
1. Vero altresì quel che egli dice nella stessa lettera e altrove della
cultura contemporanea, tutta dietro ai metodi, per se stessi vuoti
I Autob.] e infecondi, e all’analisi laddove l’ ingegno è sintesi, e
alla critica, che genera lo scetticismo, sempre a caccia del
facile, del chiaro, ignorando che la facilità così fiacca ed
avvelena gl’ ingegni siccome la difficoltà gl’ invigorisce ed avviva
»; e quel correr dietro ai compendî, ai manuali, ai dizionari, che
sono il cimitero delle scienze. Tutto verissimo; ma restava che egli,
fisso nelle idee che sgorgavano con vena abbondante e impetuosa dalla sua
potente ispirazione, ne era trascinato come da un estro, da un furore
eroico, e non sentiva più il freno dell’arte; non era più in grado di
mettersi avanti il suo pensiero per introdurvi quell’ordine, che si
richiede a dare unità così a un periodo, come ad un libro o a tutto
un sistema di idee. Ma coloro che favoleggiano di tragedia
vichiana, di una lotta trilustre incessante del V. con la sua
materia, ribelle ad ogni regola, ad ogni lavoro che la riducesse a
lucidus ordo, a forma efficace e persuasiva, e la rendesse prima di
tutto ben chiara e distinta allo stesso V., non distinguono in
questa famosa questione della oscurità di V. due cose differentissime.
C'è l'oscurità oggettiva, per dir così, e c’ è l'oscurità soggettiva.
L'una propria del pensiero non logicamente configurato, quale dev’essere perché
possa valere in sé, essere comunicato altrui ed inteso da chi ascolta
come da chi parla, da chi legge come da chi scrive. L’altra è l’oscurità
sentita dallo stesso autore, che vede e non vede, ma sospetta le lacune
che non sa colmare nel suo pensiero, e non possiede insomma la verità che
gli brilla da lungi davanti, che egli si sforza di raggiungere ma non vi
riesce. La proclamazione frequente che s’ incontra in V. delle proprie
scoperte dimostra una coscienza fermissima d’essere in possesso del vero;
e lo stesso stile poetico, tutto fantasia corpulenta ed espressioni scultoree
che si scolpiscono infatti nella fantasia del lettore e non si
dimenticano più, sprezzante di ogni cura didascalica, tutto vibrante di
passione e infuso di trionfante eloquenza che si spande con l’empito d’una
forza di natura tutte qualità che sono caratteristiche della prosa
vichiana e ne costituiscono la grande attrattiva, e stavo per dire l’
incanto dimostrano che egli è convinto
bensì di trattare cose molto difficili, e che richiedono lunga e aspra
meditazione ad essere intese; ma è convinto altresì che gli altri, per
difetto loro, trovano oscuro quel che splende alla sua mente di
luce abbagliante. Non è un maestro esemplare perché, sotto la
spinta del dèmone che lo possiede, non pensa più agli scolari che stanno
ad ascoltarlo; e si chiude in un soliloquio, che non deve servire se non
per lui stesso. Così, perché il V. si affida sempre alla memoria, che
troppo spesso l’ inganna e lascia correre ne’ suoi libri tante citazioni
sbagliate ? Perché non s' è presa la cura di controllare i ricordi delle
sue letture e magari corredare le sue affermazioni con note esatte
che confortassero e alutassero il lettore al riscontro delle fonti
di cui egli si serviva ? È lo stesso motivo che fa sdegnare a ogni
schietto poeta il commento della sua poesia, quantunque un buon commento
storico e filologico riesca sempre utilissimo alla piena intelligenza del
lavoro poetico. Ma il poeta, in quanto tale, è assorto in un suo mondo,
dove non sono né lettori né ascoltatori: ed è solo, l’unico, infinito,
come Dio. V., quantunque sia tornato nove o dieci volte sul tema suo dal
primo abbozzo del Diritto Universale all'ultima forma della Scienza
Nuova e fino all’estremo della vita, si può dire, abbia sempre tenuto
presente l’opera sua, postillando, aggiungendo, correggendo, in essa,
sottraendosi alle angustie della vita terrena, domestica e sociale, fu
assorto, felice. E in quel continuo sforzo di revisione e ritocco è
l’artista che accarezza la sua creatura, e rinnova il calore e il dolce
gusto della creazione. Bisogna sentire questo calore, questo vigore
poetico dello scrittore per rendersi conto di siffatti caratteri dello
stesso pensiero vichiano. Mi permetterò quindi di leggere una pagina
presa a caso dalla seconda Scienza Nuova; una pagina dove si assiste al
primo apparire dei sensi di umanità tra gli uomini, ancora fieri
bestioni: Con tali nature [ossia, con nature di fanciulli pronti a
crear le cose con la fantasia] si dovettero ritruovar i primi autori
dell'umanità gentilesca quando dugento
anni dopo il diluvio per lo resto del mondo e cento nella Mesopotamia....
(perché tanto di tempo v’abbisognò per ridursi la terra nello stato che,
disseccata dall’umidore dell’universale innondazione, mandasse
esalazioni secche, o sieno materie ignite, nell’aria ad ingenerarvisi i
fulmini) il cielo finalmente folgorò, tuonò con folgori e tuoni
spaventosissimi, come dovett’avvenire per introdursi nell’aria la prima
volta un’ impressione sì violenta. Quivi pochi giganti, che
dovetter esser gli più robusti, ch’erano dispersi per gli boschi
sull’alture de’ monti, siccome le fiere più robuste ivi hanno i loro
covili, eglino, spaventati ed attoniti dal grand’effetto di che non
sapevano la cagione, alzarono gli occhi ed avvertirono il cielo. E perché
in tal caso la natura della mente umana porta ch’ella attribuisca
all’effetto la sua natura.... e la natura loro era in tale stato,
d’uomini tutti robuste forze di corpo, che, urlando, brontolando,
spiegavano le loro violentissime passioni; si finsero il cielo esser un
gran corpo animato, che per tal aspetto chiamarono Giove, il primo dio
delle genti dette maggiori, che col fischio de’ fulmini e col fragore de’
tuoni volesse loro dir qualche cosa.... In tal guisa i primi poeti
teologi si finsero la prima favola divina, la più grande di quante mai se
ne finsero appresso, cioè Giove, re e padre degli uomini e degli dèi, ed
in atto di fulminante; si popolare, perturbante ed insegnativa, ch’essi
stessi che sel finsero, sel credettero, e con ispaventose religioni il
temettero, il riverirono e l’osservarono ! AI centro del quadro, dunque,
la religione. Essa crea e mantiene, secondo V., la civiltà, stringe gli uomini
a una legge, è fondamento e forza dello Stato, perché primo principio
e radice di tutta la vita dello spirito. Il quale con l’idea, 10zza
da principio e tutta materiale, d'un Dio che vede l’uomo, gli parla e può
correggerlo con la sua forza strapotente, dà inizio alla sua vita e
dispiega i germi segreti che sono nella sua natura, passando dalla venere
vaga al matrimonio e ai primi nuclei sociali, dal nomadismo errabondo
alle sedi fisse, all'occupazione della terra, all'agricoltura, e a tutte le
forme della vita civile. E quando le società decadono, dalla religione
debbono rifarsi, e però da quello stato tutto fantasia in cui l’uomo crea
la sua fede e ne è investito, sorretto, animato, S. N. 1744 ed. Nicolini
(Bari, Laterza, 1928) capoverso 377. e irrompe perciò nella più potente
poesia, tutta passione ed estro. Ma la religione di V.
scopritore della scienza nuova non è propriamente quella di V. cattolico
sincero e fervente: non è quella che interviene dall’alto nella vita
umana naturale per salvarla con una forza superiore di cui l’uomo non
potrebbe venire mai in possesso da se medesimo. Egli distingue infatti il
popolo eletto, privilegiato della grazia divina, dalle nazioni gentili,
o tutte perdute » 1, come dice una
volta; la cui storia si propone di spiegare con rigoroso senso
scientifico per vie affatto naturali; in quanto ogni uomo, come uomo, è
creatore del suo mondo. E la nuova scienza è appunto quella del mondo
umano storico, che, a differenza del mondo naturale, è conoscibile perché
prodotto della mente umana, e intelligibile secondo la logica di questa
mente; e dà luogo perciò a questa nuova scienza che non è, come una
volta si diceva, la filosofia della storia, ma, al dire dello stesso V.,
la metafisica della mente » 2. E questa
non può ammettere, per la sua natura filosofica, presupposto di sorta;
neanche religioso. Come Cartesio partiva dal dubbio universale (de
omnibus dubitandum) per assistere allo svolgimento di una scienza che
potesse dedursi da un principio certo, V. a capo della sua ricerca
insiste sulla necessità di vestire per alquanto, non senza una vtolentissima
forza, la natura degli uomini primitivi che andarono tratto tratto a
disimparare la lingua d’Adamo, e, senza lingua e non con altre idee che
di soddisfare alla fame, alla sete e al fomento della libidine, giunsero
a stordire ogni senso d’umanittà 3. Perciò, ridurci in uno stato di una
somma ignoranza di tutta l’umana e divina erudizione.... poiché in cotal
lunga e densa notte di tenebre quest’una sola luce barluma: che ’1 mondo
delle gentili nazioni egli è stato pur certamente fatto dagli uomini». In
mezzo a un oceano di dubbiezze su queste remote origini
dell'umanità, I S. N. ed. Nic. cv. 47. ? S. N.! ed.
Nic. cv. 40 e passim. Questa metafisica è filosofia dell’Umanità per la serie
delle cagioni »; filosofia dell’Autorità o storia universale delle
nazioni per lo séguito degli effetti ».
S. N.! cv. . 3 S. NI ed. Nic. cv. cit. non ricorrere alla
rivelazione (domma sacrosanto della nostra fede, ma pel quale non est hic
locus) appare questa sola picciola
terra dove si possa fermare il piede: che i di lui principii sì debbono
ritruovare dentro la natura della nostra mente umana e nella forza del
nostro intendere » 1. Infatti quella Provvidenza che per V. illumina la
mente dell’uomo, genera il conato ? della sua volontà, promuove il libero
volere a operare in quel modo per cui si viene a grado a grado tessendo
questa tela del mondo delle nazioni, tutto provvidenziale, logico, indirizzato
al dispiegarsi dell’umana natura ossia all’arricchimento progressivo
dell'umanità di questo mondo, non è la Provvidenza trascendente o
soprannaturale, che faccia agire gli uomini quasi inconsapevoli strumenti
di fini superiori. L'uomo ha libero arbitrio, osserva V., per
quanto debole; arbitrio di fare delle passioni virtù; arbitrio che da Dio
è aiutato naturalmente con la divina provvidenza, e soprannaturalmente dalla
divina giazia ». Questo aluto soprannaturale della grazia V. non
nega; è ben lontano dal dubitarne; ma non entra nel suo quadro,
dove campeggia l’azione naturale della Provvidenza. Essa è l’architetta
di questo mondo delle nazioni. E perché ? Perché, nota V., non possono gli uomini in umana società
convenire, se non convengono in un senso umano che vi sia una divinità la
quale vede nel fondo del cuor degli uomini » 3. È questo senso umano, che
fa il miracolo: quello che V. I Da tener presente il classico
luogo della seconda Scienza Nuova:
Ma, in tal densa notte di tenebre ond’ è coverta la prima da noi
lontanissima antichità, apparisce questo lume eterno, che non tramonta,
di questa verità, la quale non si può a patto alcuno chiamar in dubbio: che
questo mondo civile egli certamente è stato fatto dagli uomini, onde se
ne possono, perché se ne debbono ritruovare i principî dentro le
modificazioni della nostra medesima mente umana. Lo che, a chiunque vi
rifletta, dee recar maraviglia come tutti i filosofi seriosamente si
studiarono di conseguire la scienza di questo mondo naturale, del quale,
perché Iddio egli il fece, esso solo ne ha la scienza; e trascurarono di
meditare su questo mondo delle nazioni, o sia mondo civile, del quale,
perché l’avevano fatto gli uomini, ne potevano conseguire la scienza gli
uomini » (S. N. 1744 ed. Nic. cv. ). 2 Sul conato, che è libertà v.
S. N. 1744 cv. 340; cfr. cv. 504, 689. 3 S. NU ed. Nic. cv.
45. dice senso comune, anch'esso definito da lui fabbro di questo mondo delle nazioni»:
quello che a tutti i più antichi sapienti delle nazioni gentili fa temere
spaventosamente gli déi ch'essi stessi si avevano finti. E coincide
perciò come unità della religione
d’una divinità provvedente» con l’ unità dello spirito, che informa e dà
vita a questo mondo di nazioni » 1, Questa Provvidenza è anche platonicamente
definita una mente eterna ed infinita, che penetra tutto e
presentisce tutto, la quale.... ciò che gli uomini o popoli particolari
ordinano a’ particolari loro fini, per gli quali.... essi anderebbero a
perdersi,... fuori e bene spesso contro ogni loro proposito, dispone a un
fine universale » 2. Opera essa con la regola della sapienza volgare, la
quale è un senso comune di ciascun popolo o nazione, che regola la nostra
vita socievole in tutte le nostre umane azioni così che facciano
acconcezza in ciò che ne sentono comunemente tutti di quel popolo o
nazione ». Ogni nazione ha il suo senso comune; ma tutti i sensi comuni
convengono e concorrono nella sapienza del genere umano » 3.
Giacché questo senso comune che fa tutto, non va confuso con lo spirito
individuale del singolo uomo. Opera tante volte attraverso il singolo,
come s'è visto, contro il proposito e l’ intendimento di lui. Perché pur gli
uomini», conferma V. a conclusione della sua opera nell’edizione
definitiva, hanno essi fatto questo mondo di nazioni...: ma egli è
questo mondo, senza dubbio uscito da una mente spesso diversa ed
alle volte tutta contraria e sempre superiore ad essi fini particolari ch’essi
uomini si avevan proposti; quelli fini ristretti, fatti mezzi per servire
a fini più ampi, gli ha sempre adoperati per conservare l’umana
generazione in questa terra. Imperciocché vogliono gli uomini usar la libidine
bestiale e disperdere i loro parti, e ne fanno la castità de’ matrimoni,
onde surgono le famiglie; vogliono i padri esercitare smoderatamente gl’
imperi paterni sopra i clienti, e gli assoggettiscono I S. N. 1744
ed. Nic. cv. 9I6 e 915. 2 S. N.! ed. Nic.] agl’ imperi civili, onde
surgono le città; vogliono gli ordini regnanti ne’ nobili abusare la
libertà signorile sopra i plebei, e vanno in servitù delle leggi, che
fanno la libertà popolare; vogliono i popoli liberi sciogliersi dal freno
delle lor leggi, e vanno nella soggezion de monarchi; vogliono i monarchi
in tutti i vizi della dissolutezza, che gli assicuri, invilire i
loro sudditi, e gli dispongono a sopportare la schiavitù di nazioni
più forti; vogliono le nazioni disperdere se medesime, e vanno a salvarne
gli avanzi dentro le solitudini, donde, qual fenice, nuovamente risurgono
». Ebbene: Questo che fece tutto
ciò, fu pur mente, perché ’1 fecero gli uomini con intelligenza;
non fu fato, perché ’1 fecero con elezione; non caso, perché con
perpetuità, sempre così faccendo, escono nelle medesime cose » !.
La storia è prodotto della libertà dello spirito; il quale ha la
sua logica universale, divina, provvidenziale, consistente nella legge dello
stesso sviluppo spirituale. Questo attraversa tre gradi: senso, ancora
inconsapevole; avvertimento di questo senso; ragione o mente tutta spiegata ». E tutta la
storia con ritmo costante passa eternamente per tre stati, divino, eroico
ed umano, correndo e ricorrendo questo libero processo dello spirito, e
informando a volta a volta tutte le forme della propria vita alla legge
del grado di sviluppo in cui lo spirito viene a trovarsi: ora vedendo da
per tutto la divinità e tutto attribuendo alla sua forza eccedente ogni
umano potere; ora sentendo in sé la divina natura e fidando nell’ invitta
forza del proprio eroico volere; ora riconoscendo l'universalità della
natura umana e placando perciò l’ impeto e la fierezza del più forte per
piegarlo al diritto della ragione eguale per tutti. Dalla religione e
quindi dalla poesia alla scienza, alla filosofia, alla riflessione che
doma il costume violento e la forza immoderata della giovinezza, e la
raggentilisce. Ma pur finisce per fiaccare la fibra vigorosa che è
necessaria alla sanità degl’ individui e delle nazioni. Onde queste
decadono, ma per risorgere, poiché la dissoluzione della civiltà, che si
è tutta piegata nella struttura giuridica e morale dello Stato, è
ri I S. N. 1744, ed. Nic.] torno alla barbarie primitiva; ossia al
provvidenziale principio da cui la civiltà trae la sua origine. L'uomo infatti
allo stato primitivo non è cosa inerte che debba essere messa in
moto da una forza estranea; ha in sé, nei semt eterni di vero che,
secondo V., giacciono sepolti in noi, in quella sorta di mens anim di cui
parlavano i Latini, il principio del movimento. Lo spirito è autonomo,
non aspetta né prende nulla da fuori: né arte né scienza né leggi né
1eligione. Uno dei corollari più celebri di questa dottrina, la negazione
vichiana della origine greca delle Leggi delle XII tavole. E la
legge dei corsi e ricorsi, per cui le nazioni risorgono tornando ai
principii, se giova a spiegare il Medio Evo come una barbarie ricorsa
dopo la decadenza del mondo classico e a scoprire la sorgente della
civiltà moderna; se ci fa intendere la grandezza di Dante che per il primo V. giudica, con altezza
di criterio estetico, come un nuovo Omero, il toscano Omero » 3 è pure e prima di tutto la legge eterna
della mente umana. La quale non aspetta secoli e millennii per tornare ai
suoi principii. Torna e ritorna con eterno moto circolare in ogni ideale
momento della sua vita. È il ritmo della sua costante, immanente natura.
Giacché se può dirsi che l’ individuo abbia, nel corso irreversibile
della sua vita naturale, come tre età distinte e successive, una
fanciullezza divina e tutta poetica, una giovinezza eroica e una
maturità fatta di riflessione, la vita tutta dello spirito si
mantiene per uno sviluppo che è acquisto di forme nuove e conservazione
delle precedenti. L’uomo sano, finché non infermi e discenda per la china
degli anni, non perde né la divina ingenua fanciullezza, né l’eroica animosa giovinezza
dello spirito. Soltanto così è possibile la poesia dell’artista provetto,
e l’operare risoluto e magnanimo dell’uomo esperto delle leggi della
vita. E ben fa ogni uomo anche avanti negli anni a invocare la divina
giovinezza che torni a rinsaldare il suo braccio e I S. N. ed. Nic. cv.
49. 2 S. N. 1744, ed. Nic., cv. 696. 3 S. N. 1744, ed.
Nic. cv. 786. Cfr. S.N. cv. 312; Lett.
26 dic. 1725, in Autob., p. 195; e il Giudizio sopra Dante, in Opere ed.
Ferrari.] a fermare il suo cuore; anzi a tener vivo nel suo segreto il
fanciullino pascoliano, senza di cui la stessa natura s’ inaridisce e il
mondo, spopolato dei nostri fantasmi, diviene un deserto. V. non attribuì
mai a’ suoi corsi e ricorsi quella rigidità meccanica, che altri ha
creduto. Quanta luce egli con tal suo concetto dello spirito
umano e della storia in cui questo si specchia abbia gettato sul
mondo dell’arte, sulla morale, sul diritto; quante intuizioni felici
e divinatrici abbia quindi avute nell’ interpretazione e ricostruzione
dei tempi oscuri e favolosi, segnatamente per i primi secoli della storia
romana, anticipando Niebuhr e Mommsen, ancorché costoro abbiano preferito
tacere e misconoscere il precursore geniale; come egli abbia creato del pari
la moderna critica omerica, non è possibile dire con la necessaria
chiarezza in quest'ora. Né v’ è modo qui di illustrare il carattere
preromantico del pensiero vichiano, cioè il suo antirazionalismo e la sua
accentuazione dei momenti prelogici dello spirito: nonché il suo profondo
concetto della storicità della realtà spirituale che si fa gradualmente
quello che è, senza salti né arbitrii. Onde è stato detto che tutto il
secolo decimonono è già nella Scienza Nuova. Certo, essa fu
il libro oscuro, ma singolarmente suggestivo, che i patrioti napoletani
del ’99 studiarono, anche senza intenderlo tutto, come il libro sacro delle
nuove generazioni. Il libro che Cuoco, quando, fallita la rivoluzione
giacobina, il problema dell’ Italia una e indipendente cominciò a porsi
con una profonda coscienza storica, realistica e veramente politica,
esaltò come il vangelo dell’avvenire. E gli esuli napoletani lo additavano a
Milano al principio del secolo, quando l’ Italia si svegliava: e Monti,
Foscolo e Manzoni sentivano la potente originalità delle dottrine
vichiane e ne traevano suggestioni e idee ispiratrici; e V. diventava il
filosofo italiano. E se dal Cuoco Mazzini attinse o fu confortato
ad accogliere l’ ideale dell’unità e la convinzione che l’ Italia
non potesse esser fatta se non dagl’ Italiani; se Rosmini e Gioberti,
lavorando a dare agli Italiani una coscienza filosofica che li riscattasse da
ogni servaggio spirituale, che non è mai altro che un aspetto del
servaggio politico, ebbero un nome, un grande nome a cui appellarsi, di
filosofo che altamente rappresentasse l’ ingegno speculativo italiano; l’
Italia moderna, ricordando V., deve sentire che da lui comincia la
sua nuova storia. È Lo storico che prenda a studiare le relazioni del V.
con Caitesio, si trova innanzi a due problemi distinti e diversi.
Uno è quello dei giudizi del filosofo italiano sul francese; l’altro
delle reali attinenze storiche tra i problemi della filosofia vichiana e quelli
venuti su per opera di Cartesio. Il problema dei giudizi, sui quali
preferiscono insistere gli studiosi del V., e in Italia negli ultimi
quaranta anni ne abbiamo avuti di veramente insigni basta nominare B. Croce e F. Nicolini,
che hanno fatto ogni possibile luce sugli angoli più oscuri della vita,
degli scritti, dei tempi e della fortuna del V. è un problema che appartiene più alla
biografia che alla storia della filosofia, quantunque non sia possibile
staccare del tutto il pensiero dalla personalità del filosofo, né si possa
prescindere dai motivi che a volta a volta egli ebbe per assumere questi
o quegli atteggiamenti verso i rappresentanti tipici di certe dottrine,
senza rischiare di togliere al pensiero di un filosofo tutto il suo colorito e
il suo significato storico. D'altra parte, nella biografia d’un
filosofo la sua filosofia non è un elemento secondario o da
collocarsi sullo stesso piano con altri elementi che possono sembrare
di pari importanza. Perché infine la sostanza della personalità
ideale o storica d’ un filosofo è nel pensiero, anzi nella logica del pensiero
in cui vennero assorbiti tutti gl’interessi della sua vita. Di guisa che
se i particolari biografici d’un pensatore rischiarano la sua mente e le sue
dottrine, di quei particolari stessi non è possibile intelligente
valutazione e rappresentazione efficace e concludente, a chi non li
sappia scorgere nella luce del pensiero in cui essi storicamente ebbero
il principio vivente di quel tanto di realtà che spetta loro
storicamente. Si potrà dire che in una rappresentazione compiuta e
coerente della realtà storica d’un filosofo elementi biografici e
speculativi debbono richiamarsi reciprocamente e costituire tutti insieme
un sistema unico e compatto. Ma bisogna soggiungere che l’anima di questo
sistema sarà evidentemente la logica delle dottrine che lo
dominarono. Sostanziale dunque e preliminare il secondo problema,
relativo alle attinenze storiche obbiettive tra filosofia vichiana e
filosofia cartesiana. Attinenze che non è facile fissare, a mio parere,
se non si distinguono nella prima tre fasi diverse, tutte connesse
intrinsecamente tra loro in guisa da costituire un unico processo di
svolgimento, ma nettamente distinte l’una dall'altra in maniera da
spiegare per quali vie il pensiero del V. sia pervenuto alla sua forma
più matura, quale si trova nella Scienza Nuova, anzi nella seconda
edizione di questa. Queste tre fasi sono: La fase
neoplatonizzante, rappresentata dalle giovanili Orazioni inaugurali, da V.
riordinate e ritoccate nel 1708-09, ma non giudicate mai degne di
venire alla luce, e pubblicate infatti solo nel secolo XIX.
2) La fase critico-empirizzante rappresentata principalmente dal De
nostri temporis studiorum ratione, dal De antiquissima Italorum sapientia e
dalle polemiche che tennero dietro a quest’operetta col Giornale dei
letterati. 3) La fase metafisica in cui si disegnò la nuova
filosofia della storia, come filosofia della mente, abbozzata da
prima nel Diritto Universale e svolta quindi nella prima e seconda
Scienza Nuova. La prima fase contiene i germi della seconda e della
terza, ma non ancora distinti e non fecondati dal vivo soffio dei
problemi a cui la mente del V. si aprì per effetto dell’ intensa
meditazione dei motivi della filosofia moderna, di cui son documento
evidente i nuovi atteggiamenti speculativi da lui assunti nella seconda
fase. Sicché la chiave di volta di tutta la sua filosofia è in questa
seconda fase, quando da Cartesio, da Bacone, dalle correnti prevalse
anche per opera del Galilei nel pensiero moderno, V., per dirla
kantianamente, si svegliò dal sonno dommatico della vecchia metafisica,
in cui la lettura e l'ammirazione dei nostri grandi Platonici del
Rinascimento l'avevano già immerso. Con Cartesio egli comincia a
sen- tire il problema della certezza; con Bacone scorge la
sterilità del procedere deduttivo astratto della pura ragione, caro
alla Scolastica medievale e contemporanea, e di quel metodo. geo-
metrico che con i Cartesiani eta venuto in grande onore tra i facili
filosofanti alla moda della seconda metà del Seicento; e la necessità del
fatto, del nuovo, del concreto, dell’esperienza e dell'esperimento: ma
sente pure la fenomenalità del sapere scientifico intorno ai fatti della
natura, tra i quali ogni nesso causale interno è impossibile allo spirito
umano che la natura sì rappresenta dualisticamente come esterna ed
estranea allo spirito. Quel dubbio, che Cartesio, dopo averlo energicamente
svegliato, sopisce col dommatismo dell’ idea di Dio, e che attraverso
l’empirismo dovrà necessariamente sboccare allo scetticismo di Hume, è il
potente lievito della speculazione vichiana, tutta rivolta nel secondo e
nel terzo periodo a risol- vere il problema d’un sapere che unisca il
certo dell’empirismo col vero della ragione, della logica, del pensiero
puro. Problema che egli potrà risolvere quando, in luogo della natura,
assumerà ad oggetto del pensiero lo stesso pensiero o quello che il
pen- siero nel suo sviluppo crea. Ma il dubbio, ossia la profonda
coscienza dell'autonomia del soggetto nella sua assoluta posizione di
puro soggetto che si stacca
dall'oggetto, e deve uscire da questa sua astratta e vuota soggettività
per ricon- quistare l’oggetto, dov’ è la sua vita, questo dubbio affatto cartesiano e punto
platonico, che non s’ è impossessato an- cora del V. nelle giovanili
Orazioni inaugurali (nella prima delle quali l’autore cartesianeggia, ma
ripetendo Cartesio senza metterne in rilievo l’originalità, anzi
mettendolo sullo stesso piano di Agostino e Ficino); questo dubbio che
nel De antiquissima V. sente anche più profondamente del filosofo
francese, con la sua distinzione tra scientia e conscientia, la sua
teoria tutta fenomenistica e scettica del signum che non è causa; esso è
il punto di partenza della più significativa teoria di V. da lui
formulata col celebre motto: verum et factum convertuntur. Che sarà il
tema della Scienza Nuova. Quando V. intende e fa suo il problema
cartesiano della certezza egli
diventa il primo vero cartesiano nella folla dei cartesiani di Napoli
della fine secolo XVII; ma un carte- siano che già combatte Cartesio;
perché non si contenta più del carattere intuitivo e immediato del cogito
ergo sum che non è, ai suoi occhi,
se non semplice accorgimento, constata- zione, coscienza di un fatto; non
è spiegazione e quindi reale possesso o scienza della verità che per tale
coscienza si viene a intuire. La certezza sì è il più urgente bisogno del
nuovo sa- pele: ma la certezza non è coscienza o intuito dell’essere
che il pensiero non può non trovare nella sua propria esperienza di
essere pensante; è bensì scienza, deduzione, costruzione (tenere formam
seu genus quo res fiat) di questo essere. Il quale, cioè, allora
veramente si conosce e si apprende e di- venta saldo scoglio in mezzo a
quell’oceano di dubbiezze in cui lo spirito è gittato dalla critica
cartesiana, quando s' in- tenda quale esso è: non essere immediato, ma
essere che è sviluppo, spiegamento, attuazione e conquista di se
medesimo. Quindi non idee chiare e distinte come essenza dello
spirito; non innatismo; non razionalismo (quel razionalismo che
sarà poi un secolo più tardi illuminismo); ma graduale passaggio
dello spirito dall’ ignoranza al sapere, dalla fantasia corpu- lenta,
anzi dal senso oscuro, alla ragione tutta spiegata; e restituito il suo
valore alla memoria e alla cognizione del passato, e alle lingue e alla
filologia; e la religione anch'essa non lasciata in disparte e come espulsa
dal processo razionale dello spirito, salvo ad essere invocata da ultimo
a comple- mento e puntello della vita morale e sociale dell’uomo,
ma rimessa al suo posto, alle origini della vita spirituale, dove
essa anticipa, consacra e rinsalda la fede dello spirito nel prodotto
della sua creatrice potenza. Insomma, quando co- mincia ad essere
cartesiano, V. è già anticartesiano, e non risparmia più gli strali della
sua ben munita faretra contro Cartesio e cartesiani, contro metodi e
dottrine del proprio tempo. E pai che rimandi sempre dal nuovo
all’antico, da Cartesio a Platone e seguaci, laddove il motivo della
sua insistente polemica è più moderno ancora di tutti i motivi
della filosofia contemporanea: è un cartesianismo approfon- dito e
affrancato dalle catene del dommatismo vecchio stile con cui Cartesio
s'era da se medesimo tornato a incatenare. V. ebbe un senso acuto della
novità e originalità assoluta del suo filosofare. Basti rammentare il
titolo della sua opera maggiore, preannunziata in modo solenne nel
Diritto Universale (nova scientia tentatur !) +. E chi si lascia prendere
a’ suoi con- tinui appelli a Platone, e si sforza di confondere la sua
dottrina con quella di Agostino, non ha occhi per vedere la luce
del sole. V., senza dubbio, ha incertezze? e ambiguità di espressione. Ce
ne sono in tutti i filosofi. E nessuno che abbia familiarità con la storia del
pensiero umano, si può meravigliare delle professioni di fede e delle
personali proteste in cui egli De const. iurispr. Caratteristica, a mio
avviso, quella che V. ebbe nella serie di Correzioni, miglioramenti e
aggiunte alla Scienza Nuova seconda, scritte nel 1731, e che il NicoLINI
nella sua edizione del 1911 inserì a suo luogo nel testo lib. II, cap. 4
(I, 242-44) ma giustamente relegò in appendice nella nuova edizione, dal
titolo Riprensione delle metafisiche di Renato delle Carte, di Benedetto
Spinoza e di Locke. Preparata per una futura ristampa della seconda
S. N., l’autore invece non l’accolse nella ristampa del 1744. Perché ?
Pel sapore panteistico di essa, come è stato creduto ? Certo il rimesce di
frequente nel trepidante ma schietto candore delle convinzioni che gli
sono confitte più addentro nell’animo, poiché l’uomo, nella sua
formazione mentale, fu naturalmente investito da poderose correnti di
cultura tradizionale e costretto quindi, in un faticoso travaglio tre e quattro
volte decennale, a lottare contro la sua vecchia anima per
liberarsi da ogni scoria che gl’ impedisse di veder chiaro co’
propri occhi e fare del froprio sentimento regola del vero, giusta
il monito cartesiano, che V. accetta e apprezza nel suo giusto
valore (Sec. risp., in Opere, ed. Laterza). Quello che V. riesce a dire di nuovo, di suo,
quella verità nella cui coscienza egli si esalta e sente la propria vita
immortale, non è platonico, né baconiano, né cartesiano, né lockiano, né
tanto meno conforme alla dottrina tradizionale dei Padri o dei dottori della
Chiesa. È la sua scoperta. La quale contrappone il mondo delle nazioni, o
della storia, o della mente (com’egli pur dice), al mondo della natura,
per attuare rispetto al primo quel che solo rispetto al primo è possibile,
un ideale di scienza non più tentata mai nel passato: dove Dio opera nella sua
razionalità o provvidenza attraverso il senso comune degli uomini: ossia
mediante lo stesso pensiero umano nel suo universale cammino dal
senso alla ragione, dalla schiavitù alla libertà: un cammino il cui
ritmo è intelligibile perché divino insieme ed umano, anzi divino
veramente in quanto umano. E il dualismo è superato, perché per intendere
e sapere il pensiero può rinunziare all’ inutile conato di uscir da sé, anzi
deve profondarsi in se medesimo. Rispetto a questo umanismo, o
spiritualismo che si dica, o
piuttosto, se mi sì consente, rispetto a questo idealismo provero
che vi si muove a Cartesio, rinverga con quello analogo di Spinoza, che
cioè il filosofo francese abbia cominciato dal pensiero dell’uomo anziché da
un’ idea semplicissima quale è quella di Dio, eterno, infinito, libero.
Ma il vero è che questo modo di filosofare, spinoziano o no, per cui si
comincia da un'idea e si procede more geometrico, era di quel genere metafisico
(tutto verità senza certezza) a cui V. aveva voltato le spalle e che non
poteva rientrare più nel quadro del suo sistema. della Scienza
Nuova, il mondo di Cartesio, con le sue
tre sostanze, una primaria (Dio) e due secondarie (pensiero ed
estensione) è un’anticaglia da relegare per sempre in soffitta. La
filosofia cessa di essere quella vuota metafisica, che sarà condannata da
Kant, e di cui il pensiero moderno, malgrado tutti gli sforzi che si
fanno sempre per galvanizzare i morti, non vuol proprio più sapere. Non è
più metafisica, perché diventa tutt'uno, come inculca V., con la
filologia: con la scienza del certo, del fatto, che è fatto per noi che
se ne ha esperienza, ed è perciò nostro fatto, immediata posizione
del soggetto nel suo mondo. E quindi il vero della filosofia, l’
idea, oggetto una volta di pura speculazione, o meglio costruzione
di un astratto pensiero dommatico, senza base nell’ intimo
dell'esperienza, che è lo stesso sentire, o il soggetto, è tiamontato.
Il cogito cartesiano che nel tempo stesso che V. cominciava a filosofare
aveva incontrato l’ irriducibile opposizione del sentire di Locke, veniva
per tal modo da V., anche più risolutamente che non sarà da Kant mezzo
secolo dopo, risoluto e inverato nella sintesi dei due termini
opposti. Il 23 gennaio di quest'anno si compiva il secondo centenario
della morte di Giambattista V.. E se le contingenze presenti non
consentono che la data sia celebrata come la grandezza dell’uomo
meriterebbe, e come infatti ci si preparava a celebrarla quando non erano
ancora prevedibili i luttuosi avvenimenti degli ultimi mesi; non è
possibile che l'Accademia la lasci passare sotto silenzio. Che se il
rimbombo dei cannoni potesse infatti coprire la voce d’Italia, che
suona tra le genti Dante, Michelangelo, V. e dice Roma, Firenze,
Napoli, allora veramente dovremmo credere che la barbarica forza della
civiltà meccanica possa prevalere sulle forze immortali dello spirito. E se le
ansie dell’ora ci costringono a limitare a breve ed austera cerimonia la
commemorazione di V., questa tuttavia deve significare il sentimento
profondo religioso con cui il popolo italiano intende custodire i
ricordi sacri delle sue origini e dei fondatori della sua realtà
morale. Potranno gli stranieri non conoscere l’altezza spirituale
di V., come si può dire s’ inchinino tutti universalmente innanzi a Dante
o Michelangelo; come certamente non riescono ad ostentare un fiero
disprezzo per i valori che si compendiano nei nomi di Roma e di Firenze, città
privilegiate di più vasta orma dello spirito creatore dell’uomo, senza
una segreta trepidazione come per un atto di sacrilega infamia. Per
molto tempo gli stessi Italiani ignorarono le ragioni della grandezza di V.;
di lui avevano piuttosto un sentore che un chiaro concetto; a lui
s'accostavano con la sacra reverenza con cui gli uomini s’accostano a un
Nume, tanto più esaltato nell'animo, quanto più misterioso, e cioè men
conosciuto ed inteso. Grande il fascino esercitato dallo scrittore, e
avidamente cercate per un secolo dalla sua morte le sue opere, di cui le
edizioni si moltiplicavano, principalmente a Napoli e a Milano, ed eran
citate in ogni sorta di libri; e tracce della lettura di quelle opere
sono frequenti presso che in tutti gli scrittori italiani degli ultimi
decenni del Settecento e dei primi del secolo seguente: molte le
monografie e le ricerche intorno ad alcune delle più celebrate dottrine
del filosofo. Il quale per altro, anche dopo la doppia edizione delle
sue opere complete dovuta a Giuseppe Ferrari, alla vigilia e all'indomani
del ’48, doveva aspettare chi lo scoprisse e ne svelasse criticamente il
pensiero: ciò che fecero due insigni storici napoletani, Bertrando
Spaventa e Francesco De Sanctis. Paragonabile anche per questo rispetto a
Dante, che, sia detto subito, V. fu il primo a scoprire nella sua
schietta sostanza poetica guardata per la prima volta e intesa
dall'alto punto di vista estetico a cui V. con la sua filosofia si
sollevò. A Dante per più secoli segno di sconfinata ammirazione,
consacrato col titolo di divino », ma stretto dentro una folta selva di
letteratura dotta, più o meno filosofica o mistica, ed erudita e ingegnosa
ed anche astrusa, ma aliena dalla poesia dantesca; e tutta esteriore:
commenti e discussioni e lezioni accademiche sull’ interpretazione
dell’allegoria, sulla struttura dei tre regni, sul sistema morale e
punitivo dell’Alighieri, e illustrazioni filologiche e polemiche. Storia
lunga copiosa accidentata della fortuna esterna del Poeta, da farne
una biblioteca; la quale può dimostrare come si possa infinitamente amare un
genio come un uomo qualsiasi, dell'uno o dell’altro sesso, senza
intenderlo. La stessa sorte toccata a V. nel primo secolo dalla sua
morte. Ma non accade altrettanto agli uomini grandi anche nella vita quotidiana
? Una folla di mediocri li riverisce e si dà attorno per provar
loro una sconfinata devozione: ombre che li seguono per tutto dove
possono, e fan corteo pompeggiandosi dell'onore che è per loro la familiarità
con quegli uomini illustri. E in verità la costoro intelligenza, per
modesta che sia, non è del tutto chiusa a una certa vaga ma insistente e
ferma intuizione di ciò che è grande; ed è causa infatti che i grandi si
rassegnino e non sentano fastidio di siffatti corteggiamenti e
persecuzioni da sottrarvisi a forza; giacché, sia pure in forma banale
e stucchevole, una testimonianza è loro tributata da siffatta
compagnia: la testimonianza ingenua e perciò immediata, schietta, sincera
di un consenso che è conforto ambito dal genio: la conferma del valore
della sua opera che nell’approvazione ed ammirazione degl’ incolti e dei
semplici può avere anche maggior peso del giudizio dei dotti fondato su
ragioni sempre discusse e sempre discutibili. Che se l’uomo grande
sente dentro di sé la voce che l’approva e l’assicura, quando questa voce
interna riecheggia da altre anime plaudenti, acquista solennità, come di
voce di popolo che è voce di Dio. Dentro perciò la fortuna esterna
corre un filo d’oro, più o meno consapevole, di critica interna e di
serio e obbiettivo giudizio, quasi di progressiva conquista che il genio
fa gradatamente degli spiriti di un popolo, attraverso i quali si viene
rivelando e si attua in tutta l’energia della sua potenza ispiratrice e
formativa anche al di là dei limiti segnati alla coscienza dell’ individuo
dalla sua esistenza mortale. Tanto è difficile dire ciò che della realtà
storica è opera di un individuo determinato, e ciò che dei suoi fantasmi
e de’ suoi pensieri è svolgimento e maturazione dovuta alla
collaborazione delle menti, in cui la vita di quello si perpetua e più
compiutamente si realizza. La fortuna esterna di V. culmina nelle
ricordate edizioni delle sue opere a cura di Giuseppe Ferrari, che
sciolse il voto ardente dei patrioti napoletani del ’99, specialmente
di Vincenzo Cuoco, raccoglitore sui primi del secolo degli scritti
vichiani dispersi, propagatore assiduo di alcuni de’ concetti più
originali di V. nella Milano di Monti, Foscolo e Manzoni e propugnatore
appunto di una edizione completa delle opere. I lavori illustrativi e
critici di Ferrari sono ancora parziali e talvolta unilaterali intuizioni
di quella mente di V., che lo
scrittore milanese fece tema di molte esercitazioni storiche e filosofiche
tra l’erudito e il brillante. Ma hanno valore di gran lunga inferiore
delle sparse osservazioni in cui, poco meno di mezzo secolo innanzi,
aveva spaziato l’alto intelletto di Cuoco, storico e pensatore politico
di razza. La vera scoperta di V. fu resa possibile dopo Ferrari,
quando la storia del pensiero italiano si rinnovò e trasfigurò
sotto l'influsso dei movimenti spirituali d’oltralpe del periodo
romantico. Comunque, nei decenni della lunga vigilia V. fu
presente e operò nel pensiero italiano. Quello che ne apprese Cuoco
e trasfuse nel suo Saggio sulla rivoluzione napoletana e nel suo
romanzo Platone in Italia, s' è dimostrato in tutta la sua importanza
quando codeste opere negli ultimi decenni le abbiamo potute a nostra
volta rileggere e vedere nello spirito che le animava e che più chiaro ed
organico era manifesto negli articoli anonimi che Cuoco nei primi anni
del secolo pubblicò a Milano nel Giornale Italiano. Articoli per più
di un secolo dimenticati; ma avevano fecondato le menti dei lettori
contemporanei, e più tardi fermata l’attenzione di Mazzini giovane; il
quale ne trascrisse qualcuno ne’ suoi Zibaldoni, traendone ispirazione
alla politica unitaria e costruttiva di cui doveva essere l’apostolo. Quella
politica che insegnò agl’ Italiani, ed è da augurarsi che possa
tuttavia insegnare, che la libertà e quindi l’unità e l’ indipendenza d’un
popolo non può essere un grazioso dono degli altri, ma una conquista a
prezzo di sacrifici e di piena dedizione. Che era concetto vichiano: non
esserci valore spirituale che possa provenire d’altronde che dallo
spontaneo sviluppo della stessa attività dello spirito. E non
basta il binomio Cuoco-Mazzini a provare la grande importanza storica
dell’azione esercitata dal V. in questo periodo in cui si può dire che
egli ancora si cerchi e non si trovi? Ma giova pure avvertire che tutto
vichiano, quasi nello stesso tempo, è il concetto dell’uomo, e quindi
dell’ Italiano, di Vittorio Alfieri: vichiana l’anticipazione ch'egli pur
fa della conquista ulteriore di uno degli elementi più cospicui dell’
italianità quale prese forma e splendore nella coscienza della nuova
Italia: voglio dire del giudizio su Dante, che prima V. e poi l’Alfieri
cominciano a vedere nella sua reale grandezza poetica. E da V. e da
Alfieri il giudizio passa in Foscolo, Mazzini e Gioberti, massime in
questo, e diventa uno dei cardini della coscienza nazionale
esaltata nel Primato. Non è possibile asserire che Alfieri
abbia letto V.. Ma, oltre il giudizio su Dante, un altro punto ravvicina
Alfieri a V.: il suo misogallismo, che in V. è critica di Cartesio
e del suo astratto razionalismo; critica che diverrà uno dei motivi
dominanti della filosofia giobertiana, ossia una delle forme principali
della mentalità italiana del secolo decimonono, come fu in V. un
precorrimento del Romanticismo. Con Rosmini poi e con Gioberti,
segnatamente con Gioberti, dei nostri pensatori del Risorgimento il più
affine a V. pel carattere realistico, storicistico e spiccatamente
religioso della sua filosofia, V. comincia a campeggiare nel quadro
del pensiero italiano; e la sua figura giganteggia, erma colossale
nel cammino del nuovo popolo che s’avanza sulla scena della storia
europea. Tutti gli altri nostri filosofi, dopo il Rinascimento, parteciparono
al lavoro speculativo degli altri paesi, s’ interessarono a problemi
sorti fuori d’ Italia, echeggiarono idee maturate altrove; si tennero al
corrente, ma non ebbero una propria fisonomia. V. fu solo, in disparte,
in alto, con una potente originalità di pensiero, tanto connesso all’
intima storia della mente italiana, quanto difforme e divergente da
ogni filosofia esotica, e perciò poco accessibile e poco apprezzato dagli stranieri.
Filosofo italiano per eccellenza, espressione profonda del genio della
stirpe; il quale veniva incontro a questa nel momento in cui questa
sentiva più vivo il bisogno di sentire indipendente e originale e
possente la propria personalità nazionale. Italianissimo V.; vichiana la
nuova Italia, che, riconquistando energica coscienza di sé, sentiva
maturare in se stessa il suo nuovo destino. Una delle guide
spirituali dell’ Italia del Risorgimento, come tutti sanno, Alessandro
Manzoni. Di Manzoni, che in gioventù fu amico di Cuoco e sentì la sua
influenza anche per l'apprezzamento di V., sono celebri quelle pagine
del Discorso sopra alcuni punti della storia Longobardica in cui
412 STUDI VICHIANI si paragona Muratori a V., e si esalta
il secondo come complemento essenziale della storia tutta fatti e
documenti. Giudizio schiettamente vichiano anch’esso, poiché fu V.
a indicare, com’egli diceva, l’unità della filologia e della
filosofia come l’ ideale del sapere storico. Ma chi volesse scrutare
gli elementi vichiani della mentalità manzoniana, non si dovrebbe
arrestare a quelle pagine. E a me piace ravvisare uno degli effetti di
non minore significato dell’azione di V. su Manzoni in uno dei caratteri
fondamentali della personalità manzoniana. Il grande scrittore
lombardo è sì arguto, sorridente, ironico; ma s’ingannerebbe a partito
chi, guardando a questo suo aspetto, si lasciasse sfuggire la serietà
profonda, la religiosa austerità, quasi giansenistica, che è alla base
della filosofia con cui egli vede la vita in grande e in piccolo, nel tragico
de’ suoi eventi maggiori e anche nel comico dei piccoli fatti e individui
che vi concorrono. Serietà per cui tutto, anche le cose più umili e
banali, hanno il loro peso, e di tutto bisogna render conto a Dio, poiché nulla
vi è nella giornata di futile, né in alcun momento la vità può togliersi
come un passatempo, un giuoco, per cui sia dato scherzare e agire a
capriccio. Ogni cosa al suo posto è retta dalla Provvidenza e ha una sua
legge divina, che l’uomo deve sapere scorgere e rispettare. E non solo
fuero magna debetur reverentia, ma anche all'uomo e al vecchio, e ai
morti come ai vivi; e tutto si deve prendere sul serio. Quando l’ Italia
cominciò a svegliarsi, Manzoni le insegnò quest’arte che è necessaria
alla vita; e che, ahimè, non si può dire che tutti gli Italiani abbiano
bene appresa. Quanto avessero bisogno di tale insegnamento sanno quanti pongono
mente al boccaccesco, al bernesco, o burchiellesco, e a quanto di
letterario, e accademico, e arcadico l’Italia barocca ereditò dal Rinascimento,
quando l’arte e la letteratura fecero divorzio dalla vita e dalla
religione a cui la vita necessariamente s’ informa. Di tal vedere
tutta la vita in questa serietà che pone l’uomo sempre in faccia a Dio a
rendergli conto d’ogni sua azione, d’ogni suo pensiero, d’ogni suo
sentimento, grande maestro agl’ Italiani prima di Manzoni era stato
Alfieri. Che scrive sì anche lui satire e commedie; ma è poeta tragico e
nelle sue più belle rime d’amore s’ispira a una musa malinconica. Egli
non ride, non sa più ridere. E Mazzini e Gioberti? Chi ne conosce 1
ritratti non sa sospettare su quelle vaste fronti un contrarsi anche
fugace e atteggiarsi a riso giocondo. Sul loro volto, come su quello del
padre Alfieri, quale fu visto dal Foscolo a Firenze, errare dov’Arno è
più deserto, :/ pallor della morte e la speranza. Ma il primo esemplare
di questa serietà agli Italiani, che avevano tanto riso di tante cose,
era stato V., che i contemporanei di Napoli poterono povero V. vissuto sempre in angustie
domestiche, in umiltà di stato, tra disagi dolorosi, in malferma salute,
costretto a mendicare come il pane quotidiano accattato a frustoa frusto
con lezioni private poiché lo stipendio universitario era oltremodo
magro, così il sorriso dei potenti e la stima dei coetanei poterono, dico, raffigurare
satiricamente come un malinconico disgraziato; e che ne’ suoi scritti non
abbandona mai il tono solenne e sacerdotale del maestro di verità, se non
per qualche raro sfogo di polemica amara, ché nessuna facezia, nessun
tratto di spirito riesce mai a liberare lo scrittore dalla stretta
che lo avvince al suo argomento. Anche nel suo volto severo il
pallore della morte. Pregio ? difetto ? Il riso, che è pure uno dei
segni superiori dell'umana intelligenza, è sempre difetto se prima non
sia passato, come passa in Manzoni, attraverso il tragico, che è
sempre nella vita per l’uomo che senta Dio o il suo destino. E finché
questo tirocinio non sia compiuto, finché non si sia gustato del calice
amaro della vita sperimentata come duro sforzo di abnegazione etica, il
riso è fatuità insana e corruttrice. Da V. a Manzoni è un tono affatto nuovo
nella letteratura e cioè nell’anima italiana. Il tono di quegl’ Italiani
seri che giuravano di credere ora e sempre, e sentivano la santità del
giuramento; degli Italiani pronti a morire per la loro fede, che fu la
sostanza della loro Patria. V. per altro non si lega strettamente
alla storia del pensiero italiano come un precursore di idee e di
caratteristiche vitali del pensiero italiano posteriore. Egli una volta
apparve un’oasi nel deserto, un miracolo nel secolo dei razionalisti
e dei matematici: singolare nel tempo suo, staccato dal suo prossimo
passato come dal tempo che lo seguì; e tardi gli storici si accorsero di
dover ritornare a lui per continuarlo. Ma la verità è che come da V.
procede, dapprima in modo oscuro e poi con coscienza più chiara e
critica, l’ Italia moderna, egli non si stacca dal fondo del glorioso
Rinascimento, quando l’ Italia toccò le più alte cime della sua genialità
creatrice. Gli studi recenti hanno dimostrato che egli, quando leva
al cielo Platone, ha la mente piuttosto ai Platonici italiani del
Quattro e del Cinquecento, massime al Ficino e al Pico; e che a molti
segni è dato argomentare che del movimento platonizzante italiano che doveva pure esercitare un forte
influsso in Inghilterra da Bacone in poi orientata verso la scienza
italiana, come già verso la nostra letteratura — V. dové conoscere anche
i rappresentanti più maturi, se pur la pietà religiosa gli vietò di
nominarli, Bruno e Campanella; e opere di loro, molto rare, poté leggere
nella Biblioteca Valletta (passata poi ai Padri dell’Oratorio); e tracce del
loro pensiero si trovano infatti non infrequenti nei suoi scritti;
e partecipò al moto spirituale suscitato dal rinnovamento scientifico di
Galileo: anche lui legato al movimento filosofico dei platonici
fiorentini. Lo studio dei primi scritti e di alcune delle idee maestre di
V. ha messo in chiara luce questi suoi rapporti con la filosofia italiana
del Rinascimento. Della quale è traccia anche in certe forme antiquate
del suo pensiero — questioni che si propone, autori che amò citare,
ormai, al suo tempo, generalmente dimenticati, e modi di dire che
talora paiono sue invenzioni e hanno anch'essi una storia. E la dottrina
di Giambattista V. può per molti rispetti esser considerata la
conclusione di quella filosofia. Talché in lui si annodano e si saldano
la filosofia italiana dei nuovi tempi — che torna a partecipare con sue
proprie esigenze e una sua nota originale al comune lavoro speculativo
dell’ Europa — e la filosofia italiana del Rinascimento, che aveva fatto
epoca, e attirato l’attenzione universale; e di fronte alla Riforma e
alla Controriforma aveva rappresentato un indirizzo di pensiero libero
da’ più angusti preconcetti delle parti opposte, e quindi capace di
conciliare le avverse ragioni degli uni e degli altri in una
concezione realistica dell'unità insopprimibile dell’ individuo e della
obiettiva realtà storica; in quella che il Gioberti dirà la dialettica
della libertà e della autorità. In V. dunque il centro di
tutto il pensiero italiano. Riassume egli il passato e, approfondendo i
principii, anticipa l'avvenire. E quando nel secolo del Risorgimento si
alza nell'animo degli Italiani come il Maestro, in lui, ancorché
oscuramente, essi sentono rivivere tutti i grandi pensieri per cui
l’Italia del Rinascimento è un faro di luce a tutto il mondo: ed è
l’Italia che eleva l’uomo nella coscienza delle sue divine prerogative e della
potenza creatrice del suo pensiero, esploratore e dominatore della
natura, scopritore e inventore, instauratore del regno dello spirito nel
mondo, Cristoforo Colombo e Leonardo da Vinci; l’uomo conscio della
miracolosa arte che possiede nel pensiero, e che fa di lui un secondo Dio
continuatore del primo; e gli fa toccare il fondo della verità cristiana, per
cui Dio s’ incarna nell'uomo; dell’uomo peccatore, ma che deve redimersi
anche sulla croce per salvarsi e tornare a Dio; e su questa via di
redenzione è naturaliter Christianus, perché attua la sua vera natura;
portato perciò a creare un suo mondo: mente che non è solo mente umana,
ma umana insieme e divina. Grande fiducia perciò dell’uomo in se medesimo;
ma fondata sulla fede che è la sua vita, che nel suo pensiero si adempia
il pensiero di Dio, e che perciò questi sia presente a noi, più che
noi non si sia a noi medesimi. E sarà la gran fede cristiana di Manzoni;
ma sarà anche il grande insegnamento religioso (ahi non sempre compreso
!) del motto mazziniano: Dio e Popolo; come sarà il significato della
doppia formola (l'Ente crea l'esistente e l'esistente torna all’ Ente)
che il Gioberti metterà a base d’ogni scienza e della sua stessa dottrina
politica. Sono pensieri vichiani; ma V. li estrasse dalla filosofia
del nostro Rinascimento. E ne fece la sua forza di resistenza a
dottrine straniere in voga come il germe del suo pensiero vitale.
In Europa allora tenevano il campo il razionalismo francese di
Cartesio e l’empirismo inglese di Locke. Da Cartesio era venuto Spinoza
col suo monismo panteistico; e si era aperta la via all’illuminismo. Da
Locke cominciava a dilagare il sensismo, il materialismo e ogni dottrina
negativa della libertà e della sostanzialità dello spirito; nonché lo
scetticismo scrollatore di ogni fede nell’attività costruttiva dell’
intelligenza. A questi movimenti in vario modo metafisici e dommatici
o distruttivi del valore del sapere scientifico, e tutti in fine
avversi alle credenze morali e religiose che sono a fondamento della sana
vita spirituale dell’uomo, si opporrà nell’ultimo ventennio del secolo
XVIII la filosofia critica di Kant; la quale finirà col battere in
breccia empirismo e razionalismo e col restaurare il concetto della
scienza e della libertà umana, operando una radicale rivoluzione nel
punto di vista fondamentale d’ogni pensiero. Osservò Kant infatti che il
mondo che noi dobbiamo conoscere e in cui ci spetta di operare, non
è concepibile se non in funzione dell’attività costruttiva dello spirito;
attività che è perciò condizione dell’esperienza e non può essere un suo
prodotto. Soggettivo quindi il sapere, ma di una soggettività che non
infirma il valore del pensiero, una volta che si cessi dal cercare
cotesto valore in un impossibile ragguaglio del pensiero con una realtà in sé
irraggiungibile e puramente fantastica. Purché si apra gli occhi per
riconoscere che la realtà da conoscere è la realtà che lo Stesso pensiero
costruisce col suo potere creatore universalmente valido, derivante, di là
dall’esperienza, da un principio trascendentale, da cui l’esperienza
stessa è resa possibile; e che insomma è l’uomo in quanto è al centro
attivo del mondo. Concetto che, una volta enunciato dal grande filosofo
germanico, ha svegliato nell'uomo la coscienza e la responsabilità di
questa sua posizione centrale nell'universo. E da questa coscienza
trassero origine le più grandi filosofie del secolo scorso e tutto un
nuovo modo di concepire la vita in ogni ramo delle scienze morali e
storiche: donde, nei primi decenni del secolo, quel romanticismo che fu
sì principalmente un movimento letterario, ma fu pure una vasta riforma
di tutta la vita dello spirito e dell’atteggiamento dell’uomo nel mondo.
Poiché allora l’uomo si sentì il protagonista non pure di quel ristretto
settore della realtà che contrapponendosi alla natura è governato dalla
libertà; ma dell’universa realtà, la natura compresa, che l’uomo anima
della sua propria vita interiore, pervadendola del suo sentire e di tutta
la forza del suo spirito, traendola con l’ impeto della sua passione e con
l’energia del suo pensiero dentro alla sua stessa vita, partecipe
della sconfinata e possente attività che nella coscienza si svela a
Se stessa e si compone e indirizza in assoluta libertà verso 1 fini
trascendenti dello spirito. Questo romanticismo è la forma più cospicua
della mentalità del secolo XIX nel periodo creatore, che è della prima
metà del secolo; creatore del Risorgimento italiano e di tutte le
rivoluzioni da cui sorse la nuova Europa. Nella filosofia kantiana esso ebbe la
sua forma classica, come posizione di problemi radicalmente nuovi e avviamento
a un concetto della realtà; il quale poté offendere le intelligenze pigre
e adagiate nella comune e immediata concezione del mondo, e suscitare
quindi ribellioni e reazioni tenaci e fierissime a guisa di una santa
battaglia in difesa del senso comune; ma non perdé più terreno, e
s’insinuò anche negli avversari, e divenne a poco per volta come la
seconda vista del pensiero umano, sempre più convinto della verità
elementare, che questo mondo, in cui viviamo e moriamo, per cui batte il
nostro cuore nella scienza e nella vita, è certamente il mondo dell’uomo:
il nostro mondo. Di questo romanticismo il precursore è V., critico
di Cartesio e di Locke, nemico di ogni filosofare meccanizzante e
matematizzante, consapevole dell’originalità dello spirito e della
sterilità di un sapere tutto deduttivo e analitico; sensibilissimo alla
profonda differenza tra la realtà umana, che è sintesi, creazione, libertà
e conoscenza di sé, e la pretesa natura che l’uomo si trova davanti come
creata da Dio senza il suo intervento e concorso; tutto rivolto quindi a
quello che egli chiamava mondo
delle nazioni », la storia, creazione dell’uomo, prodotto della umana mente ». Dentro il
quale la mente perciò sl ritrova, si orienta e opera sicura senza
uscire da sé: e opera non pure come ragione con la scienza e la
filosofia, ma opera già come senso e fantasia, già con l'animo ancora perturbato e commosso ». E questo non
ha bisogno di aspettare il sorgere della ragione tutta spiegata per
credere nella divinità, scoprire la propria immortalità e farsi un
sistema di concetti universali, sebbene fantastici. Fantastici, ma già
veri, pregni di sapienza poetica, che ha la sua logica, e precede quella
dei filosofi. E lo spirito è sempre tutto, ogni sapere e ogni virtù,
anche nella sua infanzia; un eterno sviluppo, un continuo progresso, onde
l’uomo è sempre lo stesso uomo e un uomo sempre diverso, attraverso
tutte le età della vita individuale e tutte le epoche che si possono
distinguere nella storia: un uscir d'infanzia e procedere dalla fanciullezza
all’età matura per tornare poi alle origini, in un perpetuo ritmo di
corsi e ricorsi, dalla barbarie alla civiltà della ragione tutta spiegata
». Questo ritmo rende possibile un Medio Evo barbarico dopo le età
luminose di Grecia e di Roma, ma non va preso, s’ intende, alla
lettera, poiché a base del processo temporale in cui le epoche si
succedono V. vede una storia ideale eterna, in cui la successione è contratta
nell’ immanente vita dello spirito, dove l’ infanzia e la fanciullezza
son dentro allo stesso adulto; come l’adulto è nel bambino; e la poesia
non è cacciata di nido dalla filosofia, ma ne è come l’anima interna e la
scaturigine segreta. Mai filosofo aveva visto così addentro nei
recessi dello spirito, e compreso come V. la serietà della poesia,
cioè della forma più ingenua e primitiva dello spirito; che i
filosofi, da Platone a Cartesio, tendevano piuttosto a disprezzare,
quasi che la ragione con le idee innate
di Platone, e le idee chiare e distinte di Cartesio fosse una subitanea
e immediata rivelazione, una luce trascendente che potesse a un
tratto folgorare e distruggere, come inadeguati e vani tentativi, le
forme inferiori dello spirito. Per V. nel piccolo c’ è il grande;
nella poesia la serietà e il significato della più illuminata sapienza:
ogni forma, completa coscienza nell'uomo della sua interiore
divinità. E questa fin da principio presente nella religione, madre
d’ogni umanità, e però d'ogni civiltà: anch’essa destinata a purificarsi
e ad elevarsi dalle concezioni materiali a quelle più astratte e ideali:
ma palese sempre in ogni forma anche in apparenza più ripugnante al
sentimento raffinato della cultura; poiché la Provvidenza, come scopre V., fa
degli umani vizi virtù. La Provvidenza è quel comune senso » che fa
uomo l’uomo, quel pensiero profondo dalla logica infallibile che muove e
dirige tutte le azioni degli uomini, vicini a Dio e sotto la sua guida
anche quando ne sembrano più lontani. E tanto più l’uomo si profonda in
se stesso, tanto più si coltiva ed impara, e tanto più sente e scopre il
divino nell’animo proprio. E si accerta della verità del principio
kantiano, da V., settanta anni prima della Critica della ragion pura, scolpito
nel motto famoso: verum et factum convertuntur, che diverrà la
chiave di volta della sua Scienza Nuova: che cioè la verità non è
scoperta da noi, ma fatta; ossia che il vero mondo non è un antecedente
dello spirito ma il mondo che egli crea come regno dello spirito: l’arte,
la religione, la scienza, lo Stato, tutta la storia, che diventa
intelligibile se viene intesa come opera dell’uomo. Diventa
intelligibile, si giustifica e riempie il cuore dell’uomo del nobile
orgoglio della sua potenza e insieme del più umile sentimento di religiosità:
poiché egli non può non sentire in sé autore del mondo una potenza
superiore che trascende la sua limitata personalità e attua all’ infinito
la sua virtù creatrice. Idee oscure, che sono però convinzioni
piantate nel più profondo dell'animo. Come V. le volle trovare e
additare nel mondo del diritto prima e poi in tutta la storia,
splendenti di subitanei bagliori che illuminano di luce vivissima
aspetti vari e diversi della vita degli individui e delle nazioni
più familiari alla cultura classica e moderna di V.. Semina
flammae, pensieri suggestivi, verità improvvise e lampeggianti, tanto più
accolte con meraviglia e con gioia, quanto più largamente profuse a piene mani
in mezzo ad astruse osservazioni quasi secentescamente ingegnose e ad un’erudizione
classica e moderna non di rado indigesta e mista di fantasie favolose.
Molti motti pregnanti di V., come tanti versi di Dante, son divenuti
proverbiali; e molti egli perciò ne sigillò col nome di degnità», come a dire
assiomi; e sono spesso il distillato della più meditata filosofia. In
queste luci, che nella maggiore opera vichiana, che fu poi l’opera di
tutta la sua vita, abbozzata prima e poi ripresa più volte, e
ritoccata sempre fino alla morte con innumeri postille e
annotazioni, brillano come stelle splendenti in un firmamento
caliginoso, è la bellezza, l’attrattiva, il fascino di V.. In queste
luci il maggior motivo che, anche al lettore intricato nelle mille
difficoltà che in menti inesperte suscita la lettura dello scrittore
napoletano, fa amare questo libro difficile, aspro, duro; che tuttavia
non si può deporre senza che rinasca la brama di riprenderlo e ritornare
a leggerlo con la speranza di capirci prima o poi qualche cosa di
particolarmente importante e di scoprire una paglia d’oro in mezzo al
terreno sabbioso. Qui l’ incanto della Scienza Nuova, in cui gl’
Italiani vedranno sempre l’estratto della più riposta sapienza dei loro
padri e la sorgente inesausta della verità a cui s’abbevera il pensiero moderno:
il segreto della. filosofia che concilia l’uomo con Dio, gl’infonde la
fede nella vita, e gli fa sentire dentro non so che divino che lo eleva
al di là di tutti i limiti dell’umano e di tutte le miserie terrene, senza
farlo cedere perciò alla tentazione del maligno, anzi raumiliandolo ad
ora ad ora nel sentimento del nulla che l’uomo è appena si
allontani da Dio. Fu cattolico o immanentista ? Questione
spesso dibattuta quasi per dividere gli animi concordi nel sentire la
grandezza di V.: questione di scarso interesse storico e che si
risolve negando che per V. ci potesse essere tra i due termini
l’opposizione inconciliabile che c’è per chi si domanda se egli fu
cattolico o immanentista. Nessun dubbio che egli si sarebbe ribellato a
chi lo avesse voluto tirare da una parte o dall’altra. E nessun dubbio,
perciò, che l’ insegnamento di V. non è fatto per dividere gl’ Italiani;
i quali vogliono una filosofia dell’ immanenza, che concentri nella
libertà dello spirito l’ infinito universo, ma vogliono pure vivere della
fede della loro tradizione vittoriosa. Esso li inviterà sempre a
cercare in se medesimi il principio in cui le parti avverse
potranno conciliarsi superando gli esclusivismi che han sempre del
paradosso e del fazioso. Da V. impareranno sempre gl’ Italiani a disdegnare le
fazioni. Dedica Nota bibliografica Il pensiero italiano nel secolo del V.
La prima fase della filosofia vichiana La seconda e la terza fase della
filosofia vichiana Dal concetto della ‘grazia’ a quello della ‘provvidenza’ Le
varie redazioni della Scienza Nuova e la sua ultima edizione Il figlio di
V. e gl’inizi dell’ insegnamento di letteratura italiana nella Università
di Napoli La famiglia di V. Primi anni di Gennaro V.. Il card. Corsini e
la prima Scienza Nuova Passaggio della cattedra del V. al figlio e morte del
Filosofo 4. La carriera accademica di
Gennaro V. Gli scritti di V. e il suo insegnamento. La cattedra di letteratura
italiana dalla sua origine alla riforma. Dalla riforma alla fine del
Regno L'Angiola. Capitolo serio-burlesco di VESPOLI. II. Per le nozze di
Caracciolo e Donna Ippolita De Dura. Sonetto di V. Relazione della Segreteria di Stato al Re
sulla supplica di V. pel conferimento della sua cattedra al figlio. Dispacci
per la giubilazione di V. Epigrafi di V. Avvertimenti per l’ insegnamento del
latino di V. Lettera di Finamore a V. V. nel ciclo delle celebrazioni
campane. Cartesio e V. V.nell’anniversario della morte. OPERE COMPLETE DI
GENTILE OPERE SISTEMATICHE Sommario di pedagogia. Vol. I:
Pedagogia generale; vol. II: Didattica. Teoria generale dello spirito come
atto puro. I fondamenti della filosofia del diritto. Sistema
di logica come teoria del conoscere. La riforma dell’educazione. La
filosofia dell’arte. Genesi e struttura della società. OPERE
STORICHE Storia della filosofia (dalle origini a Platone:
inedita). Storia della filosofia italiana (fino a Valla). I problemi della
Scolastica e il pensiero italiano. Studi su ALIGHIERI. Il
pensiero italiano del Rinascimento. Studi sul Rinascimento. Studi
vichiani (V.). L'eredità d’Alfieni. Storia della filosofia italiana
dal Genovesi al Galluppi. Albori della nuova Italia. Cuoco.Capponi e la
cultura toscana. Manzoni e Leopardi. Rosmini e
Gioberti. I profeti del Risorgimento italiano. La riforma della
dialettica hegeliana. La filosofia di Marx. Spaventa. Il
tramonto della cultura siciliana. Le origini della filosofia
contemporanea in Italia Il modernismo e 1 rapporti tra religione e
filosofia. OPERE VARIE Introduzione alla filosofia. Discorsi di
religione. Difesa della filosofia. Educazione e scuola laica. La
nuova scuola media. La riforma della scuola în Italia. Preliminari
allo studio del fanciullo. Guerra e fede. Dopo la
vittoria. Politica e cultura FRAMMENTI Frammenti di
estetica e di teoria della storia. Frammenti di critica e storia letteraria. Frammenti
di filosofia. Frammenti di storia della filosofia. EPISTOLARIO Carteggio
Gentile-Jaja Carteggio Gentile-Maturi. Carteggi vari.Civelli Via
Faenza, Firenze. Giovanni Battista Vico. Giambattista Vico. Keywords: Vico. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Vico” “Vico e Grice,” Villa Grice, for H. P. Grice’s
Play-Group, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza. Vico.
Luigi Speranza --
Grice e Vieri: la ragione conversazionale della filiale fiorentina dell’accademia
– la scuola d Firenze – filosofia fiorentina – filosofia toscana -- filosofia
italiana – By Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The
Swimming-Pool Library (Firenze). Filosofo fiorentino. Filosofo
toscano. Filosofo italiano. Firenze, Toscana.Essential Italian philosopher.
Filosofo italiano. Di famiglia nobile. Insegna a Pisa. Dell’ACCADEMIA, molto
attivo. E contestato dai colleghi per il suo vagheggiare un nuovo circolo dei filosofi
dell’Accademia, improntato su PICO. Suo principale avversario e BORRI. Saggi:
“Liber in quo a calumniis detractorum PHILOSOPHIA defenditur et eius
praestantia demonstrator” (Roma). Grice: “The term ‘accademia’ is mostly misused, as in
The British Accademy – strictly, it is Hekademos, and so, anything connected
with Plato, as in V.’s case! But V. is what I call a co-philosopher. Without
BORRI, or PICO, no V. – and his essay on his ‘demonstration’ of the excellence
of philosophy against her detractors is hardly a best-seller!” Crusca. LEZZIOne
DI M. FRANCESCO DE' VIERI
FIORENTINO, detto il Verino Secondo Per recitarla netf ^4 ce ademi a fiorentina,
nel Confo! afe di M. Federigo
StxoYz} DOVE SI RAGIONA DELL’IDEE
E Delle Bellezze. Dedicdtd all' illu fri (? ty Eccellenti^, signor Conte VL1sSE
Bcntitiogli . IN FIORENZA,
Appretto Giorgio Marcfcottt.
Con licenzi di*
ì»*trÌ4ri. ALL'ILLVSTRISSIMO ED ECCELLENTISS. Signore, llSì?. [onte OLISSE
Hmmglì Mto Sig.oJJeruandifìmo L
desiderio mio era in quella itate con leggere di nuouo all'Accademia di Firenze
fa tisfare in qualche parte a molti e molti obIighi, che io tengo col
Magnifico e prudentifTimo Signor Confblo, e col letteratiflimo e graziofiflìmo
fuo fratello M. Giouambatilfca Strozzi; ed in oltre fé il mio difeorfo era da
querti, & da molti altri così
intendenti, come gentili spiriti approuato e giudicato degno d’cflere vdito e Ietto
da grandi, e da A 2
nonobili, mandarlo in luce Cotto il pregiato nome di V. Ecc.
Ill. la quale (per quello, che mi ha riferito M. Alessandro Catani, uomo così
amatore del vero, come eccellenti^,
nell'arte della Medicina) non meno è fèmpre difpo-ila a difendere e
fauorire le lettere, & le virtù, et i loro profeflbri, che ella fi fia nata
nobiIe, Sc con nobiliffime perfbne di nuouo congiunta, quello dico era
tutto il difideno mio Uluftrifs. &c
Eccellentifs. mio Signore: ma l'infermiti mia, et alcuni negozi] di grandiflima
importanza, m'hanno in guifa impedito, che non (blamente io non ho potuta
leggere quella mia Lezzione, ma ne pure nuederla, & ripulirla, & nondimeno
io non poffo, ne debbo mancare di tetitiare m
qualche modo a eentiliffimi Strozzi, et alli altri gencihfii'mi fpintij & quella mia fatica difiderà
fiderà la protezzione di V. Ecc. III. ElIa dunque l'accetti con pronto, &c grato
animo, come io prontamente, e con ardentifsimo difìderio gnene offero, e
raccomando, & come io fpero, cKe ella fia per fare. Le bacio le mani,
&c le difidero da Dio non meno ogni
felice contento, che io mi difideri, che ella tenga memoria di me, et di
chiunque rama, &: la nuerifce delli
amatori delle virtù, &c delle
lettere, fènza le quali il mondo altro non {àrebbe, che vn foi tifsimo bofco di
tenebre per Tignoranza, & vna fèlua (pauenteuole, &c brutta, mercè di vna
infinita di vizij, che ci (ì ritrouerrebbero. Dt V e. I.& molto
Mag, e gentile Senatore afFezzionatifsimo Francesco de Vieri detti il
ferino Secondo % 1]V
qual parte del del, in qualided
Lra l efempio, onde natura tot fé Quel bel Info leggiadra: in
ch'ella ^rolfe Afoffrar quaggiù, quanto
la sùpotea? Qual Ninfa in fonti, mfelue mai qual Dee chiome d'oro fi fino jc Laura fctolfe: Quand'^n cor tante in fé lurtute accolfe f Benché lafomma e di mia morte rea? Per diurna
bellezza m damo mira f chi gl’occhi
di cosieigiamai non ~>tde. Come soauemente ellagligira, iVon sa come ^morfana, cr come
ancide; chi non sa come dolce ella filtra 0 M orni dolce farla, e dolce ride
LEZZIONE DI M.
FRANCESCO DE' V. detto il Verino Secondo: Votte si ragiona
delle Idee, e delle 'Bellezza . IL
PROEMIÒ. É quefto sì honorato luogo, nel
quale lòno ftati per tanti e tanti anni
infiniti spiriti gentili, e vi hanno
Magnifico Sig.Confolo, & nobilisfimi Accademici, et Vditori, con i loro leggiadriflìmi dilcorfi
con no minore contentezza, che con iftupore trattenuti. Se quefto luogo dico è
ordinato prima dalla feliciflìma memoria del prudentiflìmo, e magnanimo Gran Duca il
G. D. Cosimo de’ Medici, e poi mantenuto dal Sercniflìmo G.D. Francefco luo figliuolo a quefto fine
lòia mente, che molti colla
diligenza del dire bene, & co
ornamento di parole diuenghino ottimi ambafeiadori, e gentilifiìmi poeti, a
vtilita, grandezza, e diletto di quefìi ftati e di loro S. A. come alcuni fi
penfano; al Filologo dunque, il quale più della verità delle cole fpecolabili,
&deli'az7Ìonihumane tien conto che del graziolo ragionamento, non
apparterrà falire in quefto fteflb luogo: ma fi bene à quelli, i quali
fanno profeflìone di Oratori e di
Poeti. Se più oltre l'Accademia
fia ancora inftituitai fine che in quefta lingua fi eiprima da ogni perfona
letterata ogni maniera di concetto^ onde fi gioui A 4
à 8 Lezzione a quelli, i quali non hanno potuto con altra
lingua intcndere £liarnhzij degl’oratori,
e de Poeti, e gl’alti co certi Filolòfici. quelli Ioli deono qui l'altre de
letterari, e de Filoiolantiji quali da ogni altro penfiero hf.no l'animo
libero, et non io, prudemiflìir:i, & giudiziofìrTimi Ac cademici
Se Vditori, il quale negli ftudij
di Ariitotele e di Platone iò no tutto occupato à publica vtilità e nella cura
di tanta mia famiglia, ricercandoli alla
fpècolazione delle cole et al dire acconciamente ozio, e tranquillità d'animo,
con tutto ciò io fon tanto obliato al Magnifico Sig. Confolo, et à M. Giouambatiitaiuo fratello, che io non ho
potuto mancare di non nlalire dopo molti e molti anni in quello cosi degno
luogo per fatisfare per quanto io potrò a loro Signorie, et a voi altri
norbili: ìimi, et gentikiliiru accademici, et Vditori>& perche io non
pollo piacerai con la grazia del dire per non ne fare io proiezione, ne colla
fufHzienza della dottrina pelle molte Se molte occupa/ ioni, et perturbazioni,
ho pen-iamo di compiacerui colla nobiltà, e grandezza del loggetto, del quale
io ragionerò, che tiranno l'Idee delle cole, che (I contengono nella mente
di Dio, et le grazie, et le bellezze di
M. Laura: onde infìeme s'harà più
pròfonda, et più chiara intelligenza di quel dottiiìirno, et gra-2iofilfimo sonetto
del noiiro Petrarca, il cui principio e queito. in qualparte del Cielo, in qual
idea 0J Era l'esempio, onde natura tolfe 0, Quel bel yifo leggiadro: in cWella
x>lfe 3J Mostrar quaggiù, quanto lifiùpotea t Preconi
Magnanimo Sig. Cordolo, e voi nobili/Timi Accademici et Vditori, che vi degnate predarmi grata ydienza più perche
cosi conuiene alla dignità del ioggetto, che è nobilifiìmo, &:allo iplendore
dell’animo volito, che è di gradire le cole alte e diuine, che per alcuna mia
iurfizienza di dottrina, et che per alcuna mia grazia di parole. Per precedere
con più facilità, et con più ordinc,io
Huiderò tutto quello mio ragionamento in tre parti; nella nrima delle
quali fi disputerà, et determinerà delle
Idee, poiché in quello Sonetto il Poeta cene dà occafionemeila feconda pella
medefima ragione decorrerò delle bellerze di M. Laura; quanto pero fa
all'intelligenza di quello Sonetto; nella terza et vltima (urline che tutto
quello, che da me fi farà detto delle Idee, & della bellezza di queib donna
fi conofea elfere, non folo di parere de'più gran Filolòfi, quali fono flati Platone, et Aristotile: ma ancora
di eiYo Petrarcaa del qua le voi fiate cotanto ftudiofi, et il quale cotanto vi
e grato quanto ei merita per il ilio graziofiiìimo poema di eifere letto et vdito
) 10efporrò alcune parole deltcfìo, & moflrerrò l'arti^ io, che quefto
Poeta tiene in ragionare deH'Ic[ee, & della bellezza della (uà donna, et muouerò, et feiorrò alcune
dubita'/ ioni col faucre dunque di
colui; il quale è la vera iàpicn:?a,& la prima verità darò hora mai
principio à quanto io ho propoflo di dire. Intorno al primo punto deiridee, toccheròbre
ementc tre capi, il primo farà lo efporre con efempi quello, che fi unifichino
qtieiìe voci Idee, efempi, fpezie, et vnmerfali, che precedono la moltitudine
de particolari. il fiondo le lì danno l'Idee, ò nò; poiché Ariflotile in tanti luoghi cerca di leuarle via, et Platone
le concerìe quafi in ogni libro delle lue opere, et queito noiiro Poeca. lMtimo
capo farà di quante et quali cole fi ritrouinoi'jdee: da quali tre punti farà
facil cola raccorrc quelle ch'elle fi
Mano. Quanto al ^r imo la cognizione d'vna cofa in quanto ella Terne per
immagine e farne vn'altra, ò à giudicare fé è ben tarta; & ad intenderla à
punto, fi domanda elèmpio e modello ed Idea,
come quel ritratto, che ha nella mente vn'irtcfice d'vno artihzioio, e mirabile
palagio glifer ne à Hrne cosi bene vno, e molti e molti: et à giudicare i hUXi
ic iòno con tutte le regole
dell'arte fabbricati ò nò, io Lezzione
nò, et quanto e'vi fi accollino: quefti medcfimi efèmpl in quanto e1
rapprefentono le forme, che danno lo effcre fpeziale al foggetto, nel quale le fi riceuono, come le
forme nella materia fenfibile e corporale si chiamano spezie e forme. quefti
fteiTì modelli, e quefte fteffe notizie delle colè in quato le Tono vniuerfàli
di più cofe particolari, & di nature vniuerfàli, che ne particolari fi
ritro nano, et fono come cagioni di quefte precedédole di precedenza di natura,
come dell'eterne fecondo i Filofofi, ò ancora di tempo, come delle cofe temporali, et nuoue»
anzi l'Idee, et di precedenza di natura, e di tempo fon prima di qua! fi voglia
creatura, attefo che quelle fon sémpiterne, & ciò che è fuori della diuina
effenza di buono è flato creato di nuouo quado cominciò il tempo, & in que
ila maniera le fi domadono da Greci uniuerfàli innanzi a molti particolari,
come il modello nell'animo dello Scultore
d' vna ftatua, ad efempio del
qual ritratto molte e molte fimiglianti ftatue fi poflbn fare. E ben vero, che
il modello delh artefici, ò vero Idea, e quello, che da Platone, & d’Ariftotile
fi concede in Dio, et in vn certo modo
ancora nel Cielo, fono tra loro differenti; perche l'Idea dello artefice è
prima prela dalle cofe ben fatte da altri, come ancorar idea, & l'immagine, che riluce nello specchio, mercè della cofa, che glie dauanti.
ma l'ldea> che è in Dio et nel Ciclo precede alle cofe, & è caulà delle
cofe, che d fanno: dipoi l'ldea, che è nello arteficemon è fempiterna non
durando fempre l'artefice, ma fi bene quella, che é in Dio et nel Cielo
foftanze incorrottibili éc eterne. finalmente
l'Idea, ò notizia, che ha l'artefice Iella cofa ha due modi d'eflère, vno
vniuerfale nell'ime!letto poffibile, e
l'altroparticolare nel sènso di dentro: il Pittore efempigrazia ha
nell'intelletto l'Idea in vniuerlàle di donna graziofiflima, e nella fantafia
di rieletta, di Laura, ò di qualche
altra limile: il Filofofo naturale ha qucfto concetto dell'Intorno
nell'intelletto, che fa animale ragioneuole e mortale quanto al corpo, e lo
info Inferiori potenze, et immortale quanto alta mente, © vero ragione, e nel senso di dentro, quando
epji applica quefto concetto à Socrate, ò a Platone, ò à qualcun'uitro
particolare: come (ì caua d’Ariftotile nel terzo dell'anima, et nel principio del
primo libro dell'aite del dimoftrare. fecondo l'ordine di natura le notme
vniueriàli precedono le particolarità fecondo l'ordine dei noftro imparare fi
fono ritrouate l'arti, Se le fcicn7C dalla cognizione de'particolari di qui
peruenendo alla cognizione vniuerfale: come c'infegna il Filolòfo nel primo
libro della Metafifica, ò vero lì può
dire, che i concetti vniuerTali precedono i particolari in chi impara l'artì, e
le feien re da altri, che di elfe è perito, & f ciéziato: et poi gli efpe rimenta nelle
cofe particolari, le quali formano di loro fteife ne'sensi i particolari
concetti: Ma rifpcrto àgli inuentori
dell'arti, e delle feienze, prima nafeono i concerti particolari ne’sensi, che
gli’apprendono dalle cole come particolari, poi fene fanno gl’vniuerfali per
opera dell'intelletto agente, i quali rapprefentano le nature vniuerlali, che
ne’particolari fono nafeofte. Ma ritornando alla terza differenza, che è tra
l'Idee, che lono in Dio, e quelle che fono nell'animo dell’artefici, et de’Filofofi, e delli feienziati: quelle hanno
in Dio vn modo di effere, che non è ne vniuerfale ne (ingoiare, come in noi,
non vniuerfale, perche colla notizia vniuerlale delle colè ftà l'ignoranza
de'particolari. può efempigrazia {tare ch'io fappia vniuerlàlmente, che ognuno
degl’uomini è atto a ridere, et infierire non fappia di quelli, che fono
lontani come in Francia, ò in Ilpagna, ò al Perù, ò altroue fé fono atti à ridere, perche io
non so fé fono uomini non gl’auendo mai veduti,
ne vditi, come bene dice ancora Ariftotile nel primo capo dell'arte del
moftrare; ma in Dio non é lecito porre ignoranza, ò imperfezziotie alcuna, non
vi fono ancora i concetti particolari: perche quefti fono del Iònio, che e
virtù materiale, e corruttibile, et egli è immateriale et eterno j come
confck sono 1 nolln Theologi, e come fi
di morirà dal Filofofo nell'ottauo de’principi). reità dunque cheridec, &
con certi delle colè (lana in Dio in vn terzo modo più perretto, e tanto
eccellente che in noi, che dall'intelletto noterò non fi può comprendere, ne
con voce alcuna efplicare ad altri: (è noi potcffimo intendere come Dio intenda le cole, l'intelletto noftro
farebbe di tanta perfezione di quanta è
l'intelletto di Dio, come beniflìmo dif fé il gran Comentatore Auerroe nelle
lue difputazioni contro ad Algazcle: (blamente fi può dare ad intendere
ofciramente con alcuni efempi, vno de quali è queilojfe il fuoco, che è caldo
fecondo i Filolorì naturali in otto gradi i\
intenderle, intenderebbe inficine iè clfere participato fecondo tutti
quelli otto gradi da chi fecondo vn grado
folojcomc l'acqua tiepida, da chi fecondo due gradi, & cosi
decorrendo: Cosi Dio intendendo fé, intende ancora che la (ùa natura è
partecipata da tutte le creature^ più e meno, come confeflbno le cole ftelfe, et
Aristotile nel prime del Cielo al 1.1 00. & ALIGHIERI nel principio del primo
canto del Paradifo cosi dicédo La gloria di colu'h che tutto mttoue, Ver l\nit*erfo penetra et njhlende
it In >na parte più, armeno
altrove. E quefto è Tefempio del gran Comentatore Auerroe. Tn'altro efempio e
de' Greci. quelli volendo farci comprendere, come Dio, il quale e vna natura
intellettuale indiuifibile intenda infieme le cofe fimilmente indiuifibili, come
lòn gli Angioli, Si le diuilìbili e corporali, come fono 1 corpi celeih, e tutte
l'altre di quaggiù, fuori che l'huomo >
Se cflò huomo ancora che delfvna, e dell'altra natura participa, per vn
mei/.o iòio, che e' la ileifo natura lua impartitale, ci danno lo elèni pio del
punto di mezzo del cerchio, il quale è vaio et indiuifibile, e da ef io denuano infinite linee, et infiniti punti,
che le terminano. Se quello punto ò vero centro fulfc vna natura in* tcUcuuaie, & fi ia:eiideiTe, mtcadereubc fimUmente le
ef ter caufà di tutte le lince, che da elio
deriuano, & de punti che le terminano: cosi Dio a guifa di quello punto
intendendo fc ftefio, donde deriuano
tutte le creature così diuifibili come indiuifibili, & noi iteflì, che
participiamo della condizione e di quefre e di quelle, tutte le intende e
conolce, e cosi noi fteiTì ; è
ben vero, che il punto è colla quantità, et hi fito, ma Dio è foftanza e
leparato dal (ito e da luogo, (e bene e per tutto come
fino a più eccellenti Filoiòh" confeflono come prima vnità, donde è nata
ogni moltitudine, e quefto fi caua da Platone nel Par. come prima forma, vltimo
fine, e primo principio produmuo del tutto, e tutto quello ancora ccnfefta il
medefimo Fiìofofo, parte nel Timeo, e parte nelle lue letcere, & Ariftotelc
ancora nel primo del Cielo, nell'otta 110
de'principij,S: nel 12 della Metafifìca j ancora Dio è per tutto come
ottimo Rè dell'Vnii.erfo, il quale regge
et gouerna col marauielioio ordine, che egli ha di tutte le cole dentro di fé.
E qui è daauuertire, che le bene Dio fi aììbmiglia al punto del circulo, donde
deriuano tutte le creature vgualmenre et immediatamente: non pero tutte lono di
vguaie bontà, et perfettione dotate, ma
quali più e quali meno ne participano, affine che fra loro fufle cosi
marauigliolo ordine, che fa allo ctfere, & alla bellezza dell' Vniuer(o, & iteftimonianza della Diuina
Sapienza, l'vfizio della quale è
dare ordine, e mifura a tutte le cole, et ferue per il cala ad alzare colla
cognizione il noftro intelletto di grado in grado fino a quelli, il quale e
l'alta cagion prima, et cosi coll'amore . dal
qual amore, ne furge in noi ogni atto piufto e retto concorrendoci però
la Diuina grazia infieme colla fede colla Speranza e colla carità, e coll'altre
virtù, e doni: cosi ancora non efiendo tutte le creature vgualmente buone, non
fono ancora con vguaie amore in vn certo modo amate, e dico in vn certo modo:
perche quanto allo atto dell'amare. cosi come Dio è in£nito, così co
infinito amore tutte l'ama: ma
quato a beni che vuole e che dà à eia- fami Lezzione fcuna non già; ma à qual più, et a qual meno ò men degni: fecondo che le cóuiene
loro, & parlando degl’uomini giufti, & che (ì faluano, qucfti
nell'altra vita tutti faranno felici e beati in Dio, tra gl’angioli, et in sempiterno,
ma non con vgtial mifura intenderanno, e goderanno la Diuina Verità, e Bontà,
ma quegli più, che più di qua haranno
offeruato ifuoi fanti comandamenti con fauore della grazia e quegli meno, che
meno, come fi couiene alla Diuina giuftitia, e quefte fono quei molti luoghi
ò> molte manfìoni, che fono nella cafa del celcfte pa-3re, come dirle il
vero Maeftro della verità Chrifto Giesù infìeme Dio ed uomo, e quello ci SIGNIFICA PAOLO Apostolo quando ei diflc, che
fi come le ftelle in cielo fon
differenti di chiarezza, e di fplendore, cosi faranno i giufti in cielo. Più
oltre ancora è da fàpere che tutte le creature quatto furon prodotte per
creatione di niente, furon fatte da Dio folo, et immediate: ma poi quelle di
quaggiù si conferuano per fuccefTione di nuoui particolari, concorrendoci
ancora i cieli, & le cagioni di quaggiù, perche la D. Bontà, come ha
farte partecipi le creature del bene, e dello edere, così ha volfuto,
che ancora elle habbmo virtù di dare lo eflere, & qualche perfezzione ad
altri, perche ci feopriffe il suo amore et i fuoi tanti benefizij,6^fuf fimo tanto più tenuti d’amarlo, e di
riuerirlo fòpra ogni altra poteftà: potrebbe Dio egli folo produrre ogni di
delle creature, e conlèruar le fpezie lènza l'aiuto delle caule feconde, come ci le creò; ma pelle cagioni dette non
volle: ne per quefto alcuna mutazione ònouitàfì pone in Dio: perche egli le
creò quando ab eterno ei propofè di crearle, c cosiauuerrebbe fè'ne creafle
di nuouo, & come accade dell'anime
umane. Platonc, & Aristotile pongano la creazione deH'Vniueriò, ma ab
eterno, come Simplicio ed AQUINO (si
veda) attribuirono loro; et come è forza di dire volendo parlare conforme ad alluce
loro autorità, come altrouc io ho dimoftro.il terz» et vltìmo efempio è de’Latini, i quali hano voluto efpor ci
l'vnità dell'Idea, e la fomma Tua
eccellenza inficme, et il loro efempio è d'vno feudo d'oro, e di vna gioia di
grà valutar quefto fcudo, poniamo per cafò,
vale cèto era zie, et la ^ioia vn
milione di feudi, fé quefto feudo s'intenderle intenderebbe infìeme fé valere
cento crazic: e così le intenderebbe per mezzo della fua natura, e non per
concetti d’argento, e di crazie: così fé la gioia fé conofcefle, conofcerebbe
quel milione di feudi: ma non pella natura dell'oro, ò dell'argéto, ne pella figura delli leu di, ò
delle crazie, ò d'altra moneta. Iddio è
vno feudo ò vna gioia che racchiude in
fé lo eflere, & la perfezzione di
tutte le creature e più in infinito, ma fotto natura di Deità, e così le
intende, e cosi in vn modo quanto allo effere di infinità, quanto allo
intelletto creato è incomprenfibile, e quanto al SIGNIFICARLO AD ALTRI è ineffabile: perche
come fi può dare ad intendere ad altri quello che per noi non polliamo capire, e quello che è infinito come infinito è incomprenfibile dall'intelletto creato, et finito, & Dio
poiché produce ogni cofa di niente (cosi come infinita è la proporzione tra il
niente e quello ch’è attualmente) cosi è d'infinita poteftà, non folo quanto al
durar fempre: ma ancora in vigore. Sino a qui penfcrò, che da voi gentiliflìmi
(piriti fi fia intelo benifs. quello, che SIGNIFICHINO qfte voci Idea,
vniucrfale innanzi a molti particolari, et eséplari, fegue hora che io vi proui breuemente che l'Idee, et efemplari
delle cofe fiano nella mente di Dio; la qual verità non iolamente è confefTata
da noftri Theologi, che non poflbno errare cauandola dalle diurne fcritture,
doue fi dice che Dio è sàpientiiTimo, ottimo, omnipotentiffimo, e che intende
fino i lègreti del cuore: ma ancora fi concede da Platone, e d’Ariftotile
Principi dell’umana fapienza
Platone nel Parmenide pone nell'vno, & nel primo
ente l'Idee, le quali participate ed imitate, fono cagioni
dello cflerc y et delia moltitudine delle cole: nel Timeo pone due mondi, il mondo efèmplare, che iòlo colla mente fi
comprende da noi: et poi il senfibile, che fi conofee ancora col
fenfò. Nel Conuito due Venere vna intellettuale, che é
?ordine, & la grazia, che
refulta dalla moltitudine delle Idee, l'altra celefte, che
confitte nell'ordine di tutte le creature del Cielo, e deirVniuerìo. Cosi
Ariftotile nel primo della Metafifica dice, che la fapienza é vna cognizione di
tutte le cofe pelle prime cagioni, la quale principalmente è in Dio, e di Dio:
adunque lècondo il maeftro ancora di coloro, chc fanno, e che lòno dotti nell’umana
Filofòfia le Idee, ò notizie cji tutte le cofe fono in efio Dio Principe deirVniuerib; nel decimo
delfEthica dimoftra come à Dio ci aflòmigliamo propriamente nell'atto
dell'intendere le cole diuine, et ipecolabilii come ancora quefto medefimo ci
proua Aleffandro Tuo eipofitore nel proemio Jbpra il primo libro della Priora, ò vero de Sillogi(mi; e nel duodecimo
della Metafifica ci infognano Ariftotile, & AleiTandro, che il bene defl'vniuerio è di due maniere, come ancora
il bene dell'elercito de' foldati, l'vno e
elio Capitano degli eferciti, nel
quale ftà principalmente il fine, che è la vittoria, l'altro è l'ordine
fenfibile delle file de'foldati, che pende dall'ordine, che quel Generale hi
nell'animo: coki Dio è bene dell'Vniuerfo in quato è quel ente, et quel bene,
che è amato e desiderato (òpra ogni coià, &
di più l'ordine intelligibile, che è nella mente di Dio di tutte le creami e, dal
quale pende l'ordine ienfibile di elle: Ecco che fecondo Ariftotiie ancora fa
di biiògno concedere l'Idee: come ancora con ragione fi può dimoflrarc,e prima fé a Dio fi niega l'atto dell'intendere
atto nobiliflimo, che operazione più nobile le gli può attribuire? certo ninna et
così fari in tutto oziolo: come bene argomentò quello gran Filoiòfo nel decimo
libro dell'Etnica^ vero de'coltami, e fé egli non intende tutte le codina folo
le ilcifojò le più nobili, adunque egli làprà me di noi, che se incendiamo di
molte et moke, come argomenta
Ariitotile contro ad Empedocle di GIRGENTI, che voleua che Dio non
intendere la difcordia, e le cole diicordanti: ma folo l'amicizia, e le colè
concordi, oltre che le fi concede, che
Dio intenda fc ftcflb, fa di bilògno ancora che egli intenda ih eflère caufa
dogri altra cola da elfo caufata, & dipendente, e la curia, e cioche pende
da eim fa, è oppofto per relazione; in guila che chi ne intende vno, intende
ancora l'altro. Adunque Dio intendendo le fteflò (come confeflbno Annotile, e il
fuo gran Cementatore Auerroe nel duodecimo della iua Metafifica altefto ?i
) s'intende come caufa vniuerlàle di tutte le cofe che da eflò
procedono: e cosi intende ancor quelle, &
quefte notizie ibno l'iftefle Idee, et ritratti delle cofe. Finalmente fé le
cofe delTvniuerfo Iòn ben goucrnate e per i debiti mezzi al loro debito fine
condotte, come si vede, e la natura non intende; adunque e retta eia chi le
intédc, & quelli ò è Dio, ò colà fuperiore à Dio, il che non fi può pure colll'animo fingere, e
penfàrc. La D. M. dunque intendendo le
cofe, & il bene di ciafeuna, & d quello indinzzandolc, come il làettatore la làetta alberzaglio non
conofeiuto da lei, le intende ancora, e le conosce benifiimo; di qui portiamo
intendere comc (b no molto più arroganti quei Filolòfi; i quali colle loro
fofifliche argomentazioni, e perche e' non
iànno rilòluere alcune obiezioni,
ardifcano di dire, che Dio non intende (è non fé ltefib, e che ei regge e
gouerna tutte le altre colè come la natura senza intenderle: di qui dico
polliamo conofeere che quefti tali fono molto più arrogacene non furono quelli
huomini così grandi et di corpò e d'animo, che ardirono mettendo monte (opra
monte di prendere il Cielo: però che
quefti così facendo fi penfàuano
arriuare à celefti corpi: ma quelli più su penlandò di peruenire fino à
Dio, lo priuono dell'intelligenza delle colè. Chi dunque bene e fottilmcnte
confiderà le autorità, & le ragioni non folo di Platone, ma ancora
quclle,che fi cauano da AriAoulc, è forzato di confcffare, u 8 Lezzione Tare, che le Idee e notizie
delle cofe fiano veramente in Dio: et ie bene cucilo filofofo in tanti e tanti luoghi, Se della Logica, e dell'Ethica, e della
Filosbfia naturale, e della Metafisica s'ingegna di leuarle via, inoltrando che
le non fanno ne alla produzione delle cole in alcun genere di caule, ne alla cognizione, e nel duodecimo della Metafifica fi dice che Dio non intende fé non
le itefTò: perche la liia faenza farebbe vile, (e ancora fi cftendeife
all'altre cole, le quali rilpetto a lui fon
molto vili, et imperfette: oltre che fé tante, e tante notizie follerò
nel ilio intelletto, come le fono nel noftro, e non farebbe firnpliciffuno atto
ne pura foftanza, ma vn comporto d'intelletto e di forme intelligibili, e cosi
non farebbe vgualmente perfettiflìmo,
perche la natura intellettuale in lui harebbe ragione di potenza, e le forme di
atti, & perfez.7Ìoni: accioche non legnino cotah incouenienti per non dire impietà, et à fine
(ì parli conforme ad Ariliotele, chc
-vuole 3 che in Dio fia laiapienza, e feienza del tutto, fi dee dire chc
quando egli niega l'Idee, le mega nel
fenso cattino et falso: nel quale l'erano intelc da molti: come bene di ciò
ciauuertilcono i Greci efpofitori: ma quelli dunque i quali penlano, che l'Idee
fiano agenti immediati urincipali, &
fuori delFeifenza diuina, s'ingannono non eifendo congiunte con
materia, nella quale lì fondano le qualità fenfibili, colle quali gl’agenti
naturali alterano 1 pazienti: ma bene l'Idee in Dio fono agenti che indirizzono
le cagioni naturali al bene, e rettamente adoperare; cosi chi penfa che l'Idee
eiìendo forme ieparate fiano Felfenza formale intrinseca delle colè> che
fono fuori di Dio prende grande errore:
ma non già quelli, il quale crede che quelle forme che hanno vno efiere formale
diftinto e multiplice, dipenda da quelle che hanno l'eHerc vnito nella diuina
Eifenza, e che fiano multiplicate folo virtualmente, come di fopra da me fi è
efpoito. E' ancora falfo il penfare che l'Idee fiano cagioni finali che
terminino le generazioni delle colè: attefo 1, 9 attefò che cotali fini s'acquiftono di nuouo, e no precedono la
generazione, ma fon fini per cóformità in quanto i fini, à quali terminano le
generazioni fi confermano con quelli del
mondo ideale, et intelligibil. in vltimo quando fi diccua che l’idee non
feruono a conolcerc, ed intendere le cofe, perche noi le intendiamo, apprendendo
le fimilitudini da effe per via de'ièntimcnti, e dello intelletto. fi dee dire, che quefto argomento folo conchiude che nel
noftro intelletto porTibile nò fiano le notizie delle cole, dì maniera che il
noftro fàpere fia vn ricordarfi come
penfauano i Platonici, percioche l'anime noftre fono come tauole non iicritte –
TAVOLA RASA – Locke – Grice – the bete noire of Empiricism -- e libri no
ilcritti, doue'ii può scriuere ogni cognizione, perche fiamo nello flato doue
fi va dall’imperfezzione alla perfezzione, come dal non potere generare al
potere, dal non làpere al fapere: ma il primo huomo Adamo cosi come ei fu
creato perfetto quanto al corpo, che poteua lubito generare delh altri, così fu
creato perfetto quanto all'anima, e gli furono
infufe da Dio le notizie e le fpetie di tutte le colè quanto baftaua,
acciò potetfe ammaestrare gli altri, & perciò potette porre il nome conveniente
ancora à tutte, come fi dice da Mosé nel Genefi, et tutto quefto conlèntono i
Theologi, come AQUINO nella prima parte delia Somma alla dift.^.art^ . Non lì niega dunque che le idee non fiano in
qualche modo in Dio: anzi è neceifario
che le vi fiano: come da me fi è
dimoftro, e fé in Dio è la làpienza, e cognizione delle colè per la notizia di
fé fteifo, che è la prima cagionc, come Ariftotile confeifa nel primo della
Metafifica, & altroue Platone nel Timeo, & in molti altri luoghi. E qua
do i peripatetici opponendoli à quefta fermiiììma et importatiilìma verità
dicono che Dio fi auuilirebbe fé egli ìntendelie altro che le ftcilo. fi dee rifponderc chc Ariftotile per quefto
argomento nò niega in tutto et per tutto la cognizione dell'altre cole da Dio,
come li è prouato, ma la niega in quel modo che ella è in noi e che la hz
pòtrebbe concernere in Dio qualche imperfezzionCjCO* me auuerrebbe feUio nello intendere
dipcndelfc dalle cof., che fono fuori di lui, e da effe apprenderle le notizie
ci oselle, à guifa che facciamo noi 3
anzi la Icienza di Dio, tra Faltrc differenze ha ancora quella per la quale
ella fi diftingue dalla noìtra: perche
la iiia è caufa delle cofe, e la noitra da elle è cagionata come beniifimo ci
in'ccnail gran Comentatorc nel duodecimo libro della Mctarifica j ci quella altiflìma verità non
meno è conforme alla condizione dell'intelletto diuino, che ella (I fìa ad
Àriftptile, et à Piatene, i quali tra
tutti i filosofanti tengono il preircìpatò: e dico conforme alla condizione di
Dio l'intendere per vn mezzo interno che è la fua diluna efTenza, perche al
primo, e diuino intelletto, come atto puriffimo, e mafTimamcnte non (è gli
conuicne rice i-er le fpcv-ìc da akri,ne
auerle in fé fteife multiplicate: ma all'intelletto noftro come pura potenza, et
come congiunto à materia corporale a
ragione conaicne l'intendei per le fpezie e fimiglianze, riceuute da diuerfe
cole, e riformate dall'intelletto agente cosi ancora l'intendono quégli due
gran Fìiofofì, come di (opra fi è dipioftrato di Dio, e come del modo del
noftro intendere £ d.J chiara e fi tocca da Platone nel Filebo, doue ei dice che
l'anima npfìra è come vn libro non ifcritto, & che GLI SCRITTORI SONO I
CINQUE SENSI, e nel fettimo della republica coll’elèmpio di collii che è legato
in vna fpelonca in guiia che non vede (è non le fimilitudini, e l'ombre delle
colè, et noi fiiiolto le feorge chiariiTimamente, ci monVa co ipe 1 miprrip
dalla notivia delle colè di quaggiù s'alzi alla cognizione delie cofe diuine, et
d’Ariitotile nel ter-io dell'anima: deueper viade'fenfi, et rer virtù dell’ intellètto agente li efpone
come noi intendiamo tutte le cofe e nel icttimo della Metallica fi rende
ragione per rodotte, come determinano beniflìmo i Theolo-- i,& tré'
B j ° gli Lezzione tefo che per
quello che è diritto et retto fi giudica del
torto, & nó al cótrario, come dice Arift. nel 1. dell'anima. Più
oltre molti e molti affermano che in Dio ncn
fo- no i ritratti degli effetti carnali e fortuiti: perche cfuefti non procedono le non da cagioni
indcterminate, & di ra lo, e la
feienza è di quelle cole che dipendono dalle lo ro proprie cagioni et tèmpre; e
fé ciò è vero della faenza noftra quanto più della feienza diuina. Ma quefti fi
ingannano prefupponendo in pnma che rifpetto a Dio G. dia la fortuna ed il caso,
e gl’effetti fortuiti: attefo che Pio intende ogni colà, e rilpetto a lui quefti effetti procedono da cagioni certe, ma
R bene a noi incerte ed occulte, $c fon
«épre nelle loro caufe, come Jccliffe
del Sole, Del Verino. 2$
le;& della Luna nelle loro.
Si penlàno ancora molti de’Platonici che nella
D. Sapiéza nò (ìano i modelli di quelle colè che naicono di
putrcfaz.ione, comc efèmpiprazia de’vermi, si perch'eglino no pelano che in Dio
{ìano i ritratti delle colè vili, si
ancora perche e'fi dano ad intédere che cosi fatte cole nò fi riduchino fotto
l'ordine elsé-tiale delle creature: e nódimeno più dalla produzzione di cosi
fatte cole per virtù de'lumi, e del calore celefte proporzionato ììamo indotti
à venire in quella credè? a, che in Dio fiano Y Idee, che pell'altre cole,
perche elio folo sa quitti gradi di calore bilògna alla loro generazione
formazione, nò altramente che
l'eccellente fabbro sàquato caldo dee elfere il ferro per introdurui qualche
forma, & per farne qualche colà, come confella il grà Co mét. Auerroe: &
pili oltre participàdo quelle colè di qual che forma, e la forma è vn certo
bene e certa perfezzione della materia, con1e
C\ dice nel i.lib. de' princ. all'Si.t.
e mercè di lei la materia diuenta qualche cola lpeziale; per qfte cagioni io mi pélo che le bene le lìano vili
qua-to alla materia che le siano però di
qualche perfezzionc quato alla forma, e pche
fon buone a qualche colà, no ci' sedo da Dio, e dalla natura fatta colà alcuna
i damo, ma à qualche fine, & a qualche vtilità: E fé pur alcun voglia te
nerc che ciò che fi genera p putrefazione non fia dell'ordine efséziale delle
colè deH'vniuerib, ne di elle fiano le
Idee in Dio, nò perciò legue, che nò l'intenda per l'Idee di'qlle fpezie più
rimili, e che fono dell'ordine elséziale del Modo, quale di quefte due rifpoile
fia nò lòio più co forme alla dottrina de'più eccell. Filoforanti, ma ancora
(& qfto impòrta all'onore della
D.M.& alla làlute nra) io mene rimetto in quello, ed in ogni altra
cola da me pé fata, detta, ò fcntta, à più
giudiziofi, e lbpra tutto à quello che netiene e determina la
S.M. Chiela Cat. Ap. & Rom. Più oltre della materia prima non e dicono
alcuni Idea non eiìèndo ella forma, ne di lùa natura colà formata, mi; Dio
intendédo le forine, infieme intende il loro foggetto. B 4 t'iwls Lezziome finalmente de’generi delle
cofe non fi pone diftinta idea confiderata come elèmpio dall'Idea delle fpczie:
non fi ritrouando mai i generi fuori
delle loro fpezie. Da tutto cjuello che da me C\ è ragionato dell'Idee fi può raccorre quello
che le fiano, dicendo che le non iòno altro che la ilella divina efienza non
alfolutamettte, ma in quanto le fono fimilitudini, ò ragioni delie Tue creature,
e come quella che è partecipata da efle lotto diuerfi gradi di più, ò meno perfezione, mercè ancora delle
quali di tutte le cole ne ha ottima
prouidenza. Puoflì ancora quella dirHnizione dell'Idee con quella ragione
procedente per diuifione cosi ritronare, & confermare, argomentando in
quella maniera. O Dio intende le cole, che fono fuori della lua diuina
eilen7a,ò nò. non fi può dire che non
l'intenda, perche egli intende le ilef lo, e cosi fc eifere caula d'ogni cola, adunquc
egli intende ancora ciò che è fuori
di lui . il dire che non intenda
aflblutamente farebbe non folo fomma impietà ma ancora vna delle maggiori bugie
che fi poteife dire, perche qual più eccellente operazione Te gli può
attribuire, che lo intendere? più oltre le Dio produce le cofe bene, Se bene le
regge, & gouerna; adunque ancora l'intende, altramente d’n'intelletto
liiperiore iàrebbe retto e guidato, come gli linimenti dallo artefice che sà, & incende quello ch'ei
fa con eifi, & eglino nò: e dunque colà chiara et fermiilìma verità, che
Dio intende, e non lolamuc le fteflb, ma ancora l'altre cofe ch'egh produce, e gouerna,
e di più quelle che nò ha prodotte, & polche Dio l'in fède, e conofce, ò e'
fa quello p vn mezzo che fia fuori di le fteflo, ò che fia in lui. fé fuori di
le follò, ò le fono forme colla materia,
parlando delle cole matenali, ò le lòno fpezie, & fimilitudini
attratte dalla materia, no è ragione noie dire che in alcuno di qfti modi Dio
le intéda si per che'I Tuo lapere
dipéderebbe dalle cole come il noflro, 6c no farebbe in tutto perfetto, si
ancora poi in particolare, perche le egli incédeife le forme, come difterici
nella ma «cri* 2f tenia ad ette voltandola, no farebbe
proportione tra il fuo irttelletto, che è atto puro, & le
forme materiali. noi ancora non conofciamo le cole fé non per mezzo delle
fpezie attratte dalla materia e fpiritali, come fono i Icnfi, & molto piti l'intelletto,
fi.vilmente non lì dee credercene Dio intenda le forme materiali per le fpczie
attratte dalla materia, e dalle fiic condizioni, perche ò le lòno tali per
opera dell'intelletto adente, e cosi
lopra Diobiì ò- gnerebbe porre vn piu nobile intelletto che lo reduceffe
dalla potenza dello intendere e del lapere allo atto, e la dia fcicn7a non
farebbe fempiterna, ma nuoua, ò veramente quefte forme aitratte, 5: fuori di Dio, fòno di loro
natura tari,: cosi Dio nello intendere dependerebbe d’altri, e non farebbe
perfetti/fimo: in niun modo adunque Dio intende le cole per il mezzo che fia
fuori di lui. Kefta che lì vegga come ei
le conofea per vn mezzo che fia dentro di lui; dico adunque che ò que^e ìono le
forme, & le fyezie delle cole, ò elfa diuina elfcnza, fé le fpczie delle
colè, ò colla materia, e cosi egli farebbe materiale, Se non in tu ito ottimo, e
pur: filmo atto, ò lènza materia come l’immagini
fono nello specchio, il quale fé fulfe natura intelligente per effe
intenderebbe le cole, che iono fuori di lui; m quello modo ancora
non è da dire che Dio intenda le creature: però che egli non farebbe atto
purilTimo, ma vn comporto della natura intellettuale, come potenza e d’effe
forme, come atti, fìmilmente non farebbe in tutto ottimo, e perfettiilìmo:
perciò fi dee conchiudere che Dio intenda tutte ie cofè che lbno fuori di lui
per la fùa diuina clfenza, & non pereffa come infmìta: perche cosi intende le iìefio, il
quale è inrmito, fic le creature fono finite; e quale più e quai1 meno
participa dell’efferc e della perfezzione: adunque l'Idee in Dio non fono altro
che eflà diuina ellènza, come rappresentatrici al D. intelletto delle creature, e secondo che
ne partecipano più ò meno. AgoiHno Santo nelli%ro dcÙ'otcStatre ouiitioni alla quiitione
46 le
dirHnifcf CQH LEZZIONE cosi
dicendo che le fono certe fornicò rigioni ftabili, & v fempiterne, e no fono formate, & fi
contengono nella di ulna intelligenza, e che le h di ino lo prona cosi, perche
il Creatore [cf. Grice, the creatures] con retta ragione fa le cofe, &
co altra
l'uo-mo, & coll’altra il cauallo: e che le non pollino effer fuori
del Creatore è manifefto, dice, perche fuori di lui ei non cótéplaua cofa alcuna. AQUINO (si veda), la cui dottrina è
cotanto reale, sicura, e santa, ancor egli nella prima parte della Soma alla q. 15. tiene che
glie ncceflario porre l'Idee nella méte diuina: che le fono più, e che le non
fono altro che ella Diuina cifenz.a non allolutamente confiderata ma in quanto
è efempio et ragione delle cole create da Dio > 6 che pòtrebbe creare. Speditomi nella prima parte dal ragionamento dell'Idee,
leguita hora che in quella feconda io difeorra alquanto delle bellezze di M.
Laura, quanto però appartiene all'intelligenza di quefto Sonetto, doue fa di
bifogno primieramente intendere quello che fi fia la bellezfca, dipoi di quante
fpezie, & terzo in quello che le conuenghino tra loro e in quello che le
fiano differenti. Quanto al primo punto la
bellezza non è altro che vna certa proporzione e grazia che reliilta da
più cofe, onde per il contrario le colè brutte fon tutte quelle che fono
fproporzionate nelle loro parti, &
condizioni, & fenza alcuna grazia.-quetta difHnizione è più prelto
pre(a da principij interni iolamente, de quali ella è compofta, che altramente,
come fono in cambio di forma proporzione e grazia, e in cabio di materia più parti, ò più condizioni: legno di
ciò che vna colà fola, come vn'elemento non fi domanda bello. Puollì
ancora difKnire la bellezza più
perfettamente dicendo ch’ella è vn fiore, ed vna grazia, ò fplendpre. di più bontà, & perfezzioni vnite che è arde
tifììmaméte disiderata. dicesi fiore, grazia,
e splédore per 4i^inguerl4 dal iuo eontiario,, chc. e la bruttezza composta di
più perfezzioni defettiuc vnitc, ma
{proporzionate e discordanti. Più oltre
fi aggiugnc in più bontà, perche come fi é detto vna colà in tutto femplice, &
come fcmplice confiderata non fi domanda
bella, ancora che come partecipe della forma Tua iemplice fia buona, come
fi è'dato l'efempio d'vno elemento.
Terzo ho detto ardentiflìmamente disidcrata, perche cosi ancora la bellezza
Ci diilingue dal bene come bene, che
none cotanto amato e disiderato, e quando pure alcuna forte di bene fia troppo
amato, co . roc dagl’avari fono le
ricchezze, dagl’ambiziofi gl’onori, dal vulgo i piaceri del senso, e che Ci dice e' ne fono innamorati, quefto
auuiene per certa fimilitudine di ecceiliuo amore di qui fi poflbn cauare le
ragioni di alcune òccultilìime verità. Tvnaè, che la materia prima perche e lòftanza femplice, e non
è buona, non eflendo forma, ma lbggetto
atto à riccuere le forme non è bella ne brutta, e fi dee dire propriamente non
bella, & nò buona, & quella medefima cófideratacome informata di tutte
le forme séz’ordine e proporzione è buona: ma bruìta, e come informata delle
forme con ordine e propor.7ione é beila e buona. l'altra nafeoià verità è che Dio perche è Comma bontà e perche
con iòmma ed infinita proporzione et grazia
le contiene tutte in vn modo perfettiflimo, perciò è la fomma ed infinita bellezza, & merita d’eflere amato con ardentifììmo ed infinito
amore, 6 Ce gl’amanti delle terrene e create
bellezze sentono marauigliofi diletti senza alcuno difpiacere quando le ri
mirano come e3 vogliono: quanto più senza coinparatione ne sentono delimcreata, &
diurna bellezza gli An gipli sii in Cielo, e l'anime beate in eflètto, e quaggiù ì giufti et gl’eletti per
ifperanza. In vltimo fi può aggiugnere
alla predetta difhnizione e dire della bellezza veduta: perciochc fino à tanto
che la cofà bella no è veduta, ò con l'occhio corporale, ò eoo quello
dell'anima, eh e la mente,
niuno iène innamora. Onde il noftro Petrarca quando le bellezze della ina donna
gli danno di!piacere, fi doleua d'auerla
guardata dicendo. Occhi pianate accompagnate il core, Jt Che
divoftiofalltr morte foftiene. E Cavalcanti
nella lua così dotta, come ofeura Canzone dell'amore dice che viene da veduta
forma che s'intende. Quanto al fecondo punto, che era delle fpezie dell'ai more
quante et quali le fìano. fé vogliamo
feguire il parere di FICINO, il quale più copioiamente, e più fottilmente
chealcun'altro de'Platonici, ragiona
d'Amore fopra Famorofo Convito di Platone fi dee dire che le fono di tre
maniere, vna dell'animo, qhe fi conoicc
colla mente, l'altra del corpo, che fi feorge
colla vissa, ed vna delle voci, la quale fi comprende co l'vdito, ma
fé fi riguarda à quello che fi è detto dell'Idee e della
bellezza con Platone e con
Ariftotele di fopra, ed alle parti principali dell'uomo, pare che le
bellezze fiero folo di due maniere, vna del corpo, che si conofee col senfo
della vista & coll'occhio corporale; e l'altra dell’animOjche fi contempla coll'occhio dell'anima, che è la
méte. É volendo difendere il nota M.
Marfilio {pudore apprellb di noi Latini
della Platonica Filofofia fi può dire
che la diuifione di Platone nelle due Venere, cioè nell’intelligibile, &
nella sènfibile, e le quali in quanto (ì
confiderono ncll'Vniuerfò, iòno da Ariitot'ile
chiamate ordine delle cofe intelligibili in Dio, ed ordine ienfibile
nelle ipezie del mondo fuori di Dio, fi può dico dire che quclta diuifione è
prefa dalle oppoite bellézze, atte(o che vna è immateriale ed in Dio,
raltrafcnfib;1e, & tuo ri della diiiina eiìenza, cos'i è preia da due diuerie potente che fono in
noi, e queite (òno l'intelletto ed il senfo.
Ma Ficino via la diuifione, et ibeto diuifione infieme volendo dire cosi
che iàbellezza, et mafiìmamente con- Édérata
neU'iiuomo>ò nella donna, è
ò dell'animo folo, del corpo lòlo, ò dciranimo, & del corpo infìeme: quale è
la bellezza e la grazia delle voci et
de1 gentili ragionamenti; perciochc in
quanto concionano all'orecchio & all'vdito corporale, & con moto
corporale dell'aria, é bellezza corporale, ma in quanto a' gentili concetti, c
nobili affezzioni, Se disij, che le SIGNIFICANO, che fono nell'animo, e
bellezza interna e dell'animo. Puofli ancora dire che le bellezze eflenziah del
mondo grande e del piccolo che e lhuomo, fono di due maniere vna intelligibile^ l'altra senfibile 5 delle
quali quefta cosi è fcala e mezzo à quella, come il senso ierue nelle
cófiderazioni all'intelletto. ma per accidente poi, perche all'intelletto in
noi non iolo ièruc la vifta, ma ancora
rvdito, perciò ancora ci fu di bilbgno della bellezza e grazia delle
voci 5 E le alcuno dicerie fefonoeuenzialmente di due forti di bellezze, ò di Venere vna intclligibile, & l'altra senfibile: donde nafce che alcuni de’maggiori
Platonici pongono tre sorti d'Amori, vno bestiale, che è IL DESIDERIO grande,
che moki hanno di goder la bellezza sensibile co diletto carnale del tatto. L’altro
umano col quale dama la medefima bellezza con honeftà, ò per dir meglio con
minore errore fermandoli in efla; et il terzo amore è intellettuale e diuino e
perfetto, perche termina alle diurne bellezze, le quali iole co le tre diuine perfòne fono il vero
oggetto fruibile, parea ragioneuole che quanti io no gli amori tante fiano le
Venere, ò vero le bellezze eiiendo queite cagioni dell'amore più oltre fi può
cercare da qualche bello ipirito, perche la bellezza fi chiami madre dell'amore,
e non padre? e perche la fi chiami col nome di femmina, fendo cola perfetta, et l'amore col nome di maftio, che è
imperfetto, & cógiunto colla pouertà ò mancamento. Al primo dubbio fi dee
riipondcre chc fecondo i duoi oggetti dell'amore eflenziali, che fono la
bellezza sensibile e l'intelligibile, fono ancora due amori foli il sensibile, & l'intelligibile; ma per accidente poi; perche alcune ni hanno dell'animale e del bruto feguédo i
piaceri del Ieri lo: diquìé che l'amor
loro è sensuale e brutale insieme. Al secondo dico ( rimettendomene a più
lottili, & à più intelligenti) che
la bellezza fi domanda madre e non padre, e con nome di femmina, & non di
maftio, perche la bellezza senza l'amante atto a innamorarli, e senza il
dilcorrerui intorno è cagione imperfetta dell'amore, come la femmina senza il
maftio non può ancor ella generare ne le ftelle
fenza il Iole, Venendo hora al
terzo capo dico che la bellezza intelligibile e la senfibile conuengono
primieramente in più condizioni, poiché tutte e due lbn grazie, fiori, e fplendori,
tutte e due fono di più perfezzioni, & in pili forme, ò beni fi
fondano, & noninvnfolo. Terzo tutte
e due iòno oggetti di potenze cognoicitrici, e quarto fono difiderate di amoro{b, et vehementilfimo difiderio. Sono lecondariamente uuette due Venere ò bellezze
tra loro differenti primieramente perche vna è di cofe Ipiritali, l'altra corporali: dipoi vna fi comprende con
l'intelletto, Faitra col fènfo. Terzo vna ne guida Tempre al bene operare, che
è l'intelIettuale bellezza, l'altra talhora ne fa cadere in rei diade
rij,& in più fozzi fatti per
difetto però di noi, et queita è la senfibile. quarto l'intelligibile non fi conofee da noi per
fé fterTa, & chiaramente,
che le fi vedelfe chiaramente, molto più ci accenderebbe d’amoroso desiderio,
che ella non fi, il vederli chiaraméte tocca folo alla bellezza del corpose
però ella lòia ardentimmaméte da noi è amata: come ne moitra l'eiperienza in
ogni fecolo, come ne fanno ampiflìma
tede i'Iftorie, & Petrarca nel Trionfo d'Amore, et come
bene dice il Diuino Platone nel Fedro & la cagione perche la
bellezza fia lommamente amata e difiderata e perche il bene è colà amabile e difidcrabilc, più beni molto più, et le vi
è la grazia ancora in fommo, &
ardentifiìmamentc. In quella vltinia parte di quclto mio difeorfo fi dee
da me lpiegare il raara-iglielò ordine, che uenc in questo Sonetto Petrarca in
celebrare le bellezze della dia Madonna
Laura, et 'fi dcono efporre alcune voci
deltefro: accioche et l'artifizio, e tutto
quello che qui dal poeta è detto della Tua donna, s'intenda chiariflimamente, e fi deono muouere Se
iiciorre alcune dubitazioni per difefa di quello che fi farà detto.
Quanto all'artifizio, ò vero ordine io
ci auuertifco tre -cole la prima che il Poeta primieramente nel
primo quadernario ragiona delle cagioni
delle bellezze della tua M. Laura e poi nell'altro quadernario. ne due terzetti parla delle bellezze, ieguendo
in ciò l'ordine di natura, fecondo il quale le cagioni precedono i loro
effetti. La seconda cola che io ci noto è, che queflo Poeta lodando le gmzie di
lei compitamente dalle loro più prediate cagionile celebra
prima dalle cagioni
antecedenti, che fono l'ideale
bellezza, il cielo, e la natura, dipoi dalla ca^ione che
accompagna quella suà donna, che è il iiio viiòcon legge e maeftria
fatto dalla natura: e terzo da quella, che fegue che è il fine che fegue
all'opera beila,& e per moitrar
quaggiù in terra
quàto lafsù potea.
Vedete,vedete vi prego
giudiziofiflimi Accademici, come
compitamente, et con
ordine efàlti le
bellezze della lui
amata : conforme
al compimento di
ciafcuna cofa, il
quale ftà nello
hauer tre parti
il principio, il
mezzo, et il
fine, come con tre
prcue ci dimoftra
Ariftotile nel primo del
Cielo, cioè dell'autorità
di grandinimi Filofo»
fanti, quali furono
i Pitagorici, dai
numero che fi via
in ogni religione
di honorare il divino, che é il
numero ternario, e dal perfetto modo di parlare de’greci al quale gli induce la
natura delle cose. La terza ed ultima cosa che si dee avertire intorno
all'ordine, che tiene M. Francesco in questo e leggiadria ed aitifìziofifs.
Sonetto in celebrare le maravigliose bellezze della sua donna è, che egli
procede nel fecondo quadernario e ne’due ternari. In questa maniera te- ff
Lezzione facendosi in prima dalla bellezza del corpo più alta, quale e
quella delle chiome corrispondenti a quella del sole di cielo, dipoi segue di
dire della occulta, conforme in qualche parte à quella del sole diurno e mutabile,
e terzo discende alle bellezze delle parti più basse, e prima alla bellezza, e
leggiadria degl’occhi, che con la vissa si comprende, et poi della bocca dividendola in tre. Una, che ancide per
pietade, et confitte nel dolce sospirare. L’altra nel dolce esprimere de’concetti.
L'altra nel ridere dolcemente. E tutte e tre appartengono alla bocca polla; di
lòtto a gl’occhi, e quelli Iorio nel
mez mezzo tra quella, e il capo, donde
efeono i capelli. Da tutto quello che io ho detto, potete ingegnosissìmi accademici
conoscere che quello nostro poeta non
con minore ordine ed artifìzio che con grazia, Sgmaeflà celebra ed ammira le
bellezze e le grazie del bel viso di M.
Laura, e insieme di qui si può da voi sapere come cosi le bellezze, come
ogn'altro bene, s'ha dal divino fonte d'ogni bontà, e d'ogni bellezza per mezzo
de celesti lumi, e della divina ed ideale bellezza. Quanto all’esposizione
delle voci più ofeurc la prima è quella qllo, che il poeta nitida [per parte
del cielo;] alcuni dellielpofitori di Petrarca per parte del Cielo dicono che
egli intende le stelle parti più dense de’celesti corpi, come i nocchi in un
legno, e che egli parla come accademico, tenendo che l'anime nostre sono tutte
create ad vn tratto, e ciascuna furie alìegnata alla sua stella; come racconta L’ACCADEMIA
nel TIMEO (vedasi) ma a me piace di
cfporre per parte del Cielo, tutta quella parte ò flellata, ò non
iftellata, la quale con debito modo riguarda il luogo dove è ingenerata – H. P.
Grice, GENITOR -- , e dove nasce quella si bella donna j
attelb che dalla debita situazionc delle stelle in cotal parte, come da
cause uniuersali nasceno le grazie di lei: come vogliono gli’astrologi, e cosi
piace ancora a quello nostro poeta, come si
può vedere in quella £iuzone, il
cui principio è queilo. MJ Tdctr D£L VERTNO. j| 0>
Tacer non pcffo, e temo non adopre o, contrario effetto la mia Imgua al
core l dove nella quinta stanza ei dice
1/ dì che coftei nasce sono
UJlelle, Che prodvcon fra voi feliii effetti j, 1/7 luoghi altt er eletti uvna
ver l'altra con amor converse. In questa parte del Cielo: come in cagione
efficiente, mediante il lume et il moto è
il bel viio di M. Laura, e nell'idea come in eiempio [onde natura tolge.] Puoi si per natura
intendere la forma degl’agenti naturali i quali prendono il modello dell'operare bene dal divino, in
quanto da esso sono bene indirizzati fé bene non intendono. O vero per natura si
dee esporre il divino itesso, donde dipende tutta la natura, nel qual SIGNIFICATO
– H. P. Grice, NATURAL MEANING -ancora Tintele il LIZIO quando nel primo del Cielo
ei dice che fa natura fece bene a lpogliare il corpo celedte d’ogni
contrarietà, da che douea elìere eterno, secondo che e^lì lì pensa, piìi pretto guidato da ragioni
uumane che dall’infallibili verità – 2 + 2 = 4 -- , che altramente ci mostrano.
Più oltre leguitando [ per vn cuore dove sono unte virtudi
accolte] Petrarca intende non il cuore, che è parte corporale prima
dell'altre: ma o L’ANIMO, che rifiecie
nel cuore, nel qual ientimento vfìamo di
dire io ho in bocca cioche io ho nel cuore, o vero per l'uno e l'altro: anelò
che formalmente il cuore èl'iiteifo appetito sensitivo, del quale la virtù é
moderatrice, e delle parti materiali gli spiriti sono il soggetto delle spezie
di esse virtà come conofeiute, come
d'ogni altra cosa che si conosce. Quanto alle dubitazioni qui dirà qualche
ingegnoso spirito come può cilere, che il leggiadro viso di M. Laura fulge in
qualche parte del Cielo, e in qualche idea ì atteso che il bel viso di lei è cosa
particolare, e il Cielo, e l'Idea sono
cagioni universali. Dipoi come celebrali Petrarca la bellezza della sua donna, e
dice che la somma e di sua morte rea;
attclà C cht LEZZION E che fé le grazie
dell'ANIMO, e quelle del corpo di lei sono congiurate contro di lui, ed aspirano
a darli morte, sono crudeli, ed unto più fi deono biafimare che lodare quanto
la morte è cosa rea e la vita cosa buona. E finalmente come può Ilare che il
dolce riso di lei, i dolci sospiri, e il
dolce parlare, sono cagioni che amori
iani,e anci da, che
iòno effetti contranj, e douerrebbero nascere da contrarie cagioni, di
maniera che SE i dolci sospiri, il dolce parlare, e il dolce riso danno
all'amante la sanità e la vita; L’amaro sospirare,
RAGIONARE e ridere lo fanno infermare e lo
conduceno à morte. Al primo dubbio e primieramente quanto al cielo di co, che
egli si può considerare in due modi. In uno da per le lenza le cagioni particolari di quaggiù e senza la particolare materia e in un'altro inficine
con quelli agenti e con quella materia
jnel primo modo è vero che il cielo no può eiTerc causa delle cose particolari, come di
particolari leoni, cani, ed uomini, altramente in damo farebbe data dal divinio
la virtù del GENERARE – H. P. Grice GENITOR -- à questi inferiori agenti, nel secondo
modo è ben vero: atteso che ogni movimento di quaggiù fino all'alterazione, per
la quale lì dsipone la materia, e si
generano le cose pende dal movimento e da
lumi dei celesti corpi, come ne mostra cosi l’esperienza, come IL LIZIO ancora nel sècondo della GENERAZIONE – H. P.
Grice, GENITOR -- e della corruzzione e nel
primo della Metheora, oltre che la ragione il medesimo ci
confermalero che SE i cieli con il loro
moto, e con il loro lume non cor correderò gl’agéti di quaggiù alla produzzione
delle coae generali, non conosceremo come il divino è la prima ed uniceraale
cagione di tutte le cose, ed al cielo che interne coll'intelligenze participa
molto più della bontà, che le creature di quello mondo inferiore, farebbe
negata la virtù di comunicarla ad altri, ed all'altre creature mcn buone
conceduta, & l'vno et l'altro farebbe non meno inconveniente
che falso. Secondariamente quanto all'idee,
le quali sono nel divino dico che fé bene le fono cagioni vniuerfali delli
effetti in if pezic da per loro confidente, nondimeno con gli agenti
particolari, et con la particolare materia, fono ancora cagioni particolari.
Puoflì ancora dire che l'Idee, fé fi considerano come forme in Dio che è caufa vniuerfale, in quefta
maniera, ioti caule delli effetti Ipeciali, ed uniuerfali ma fé le fi
contemplano in Dio come cofa che è maftimamente in atto come ancora i
particolarità quella maniera Dio intende più prefto in particolare, che in
vniuerfale, et cosi ancora ne è cagione più oltre che cofà non iòlo fallà, &
empia, ma ancora ridicola farebbe quella de’ Fiiofòfanti, fé credeflero che Dio ch'e l'ottima,
Scleccellentifs. cagione, e che le foftanze particolari, fono più pertette che
Tvniuer(ali, come fi dimoftra d’Ariftotile nel capitolo della foftanza e
nondimeno più prefto fi penlàifero che Dio producefTe rvniuerfali cheleparticolaii,
& che più prefto di quelle che di quefteteneffe cura, perciò vfizio è di
huomo fàuio, pio, et amatore del vero, tenere, che Dio et in vniuerfale, ed in particolare fìa
autore delle cole, et tanto più in particolare, che in vniuerfale: quanto così
fono più perfette che in quel modo e cosi deono credere dello intendere di Dio
e chi non sa rifoluere le argomentazioni più forti che in contrario fono itate
ritrovate da fottili ingegni, dee più prefto in ciò confeffare lz fiia
ignoranza che per non fare quefro che farebbe fegno di modeftia incorrere in quelli tre
grandiflìmi vizij di stoltizia, di menzogna, e d'impietà. Alla terza ed vkima
difficultà fi può rifpódere che gli effetti contrarij poifon nafeere da vn
medefìmo agente ò da due agenti contrarij'. da vn medefìmo in più modi, ò
perche egli fìa diversamente dispotto, ò i fuoi finimenti, o la materia, ò
perche in diuerfit é piafpirià diuerfì fini può vn medefìmo agente effere diuerfamente difpofto &
così cagionare diuerfì eftetti come il gouernatore e maeftro di naue con
la fuà prefenza e coll’arte fùa faiua la
iauc dalle fortune del mare e de'corlali e colla suà C a alfe*
;£ Le 2 z ione fllTcn?!, ò non fapendo ben farti, è caufa
del contrario umilmente fé vn medelìmo agente fi lèrua di linimenti diuerfi,
farà diuerfe operazioni e contrarie, colle
tana- glie esépi grazia vn legnaiuolo caua gli aguti d'vn legno e col
martello ve gii ficca, vn'eccell. pittore le ha buon pennellij & buon
colori fa vna bella figura, le altramente brutta. Che più oltre vn'iftelfo
agente, mercè della divertita della
materia faccia contrarij effetti, è chiaro di qui perche il Sole indurifee la
terra, che e tenera per efiere mefcolata coll'acqua, ed intenerire la
cera. aelFaz.zioni umane vn'iftelfo capitano
delli elèrciti Ce ha per fine la
vittoria per quella rcpubl. pella quale e5 combatte la può conlèguire. fé la
perdita e la rovina ancora di cotanto male può eifere caufa; e cosi la
diuerfità de’fini è caufa ancora, che d’vna medemna cagione effettrice nafehino
diuerfi effetti, in vltimo, che duoi contrarij, contrarij effetti preduchino è
chiaro, il bene accende in noi desiderio
di le il eifo, & di qui è che ci muouiamo per acquiftarlo, il male cagiona
l'odio, ed il fuggirlo dalla fanità procedono le operazioni naturali Se buone, dairinfermità
fono impediti, e fatte imperfette, da queita diftinzione è manifefto come il
dolce sòspirare, parlare, e ridere dell'amata dia la làmta all'amante, fendo li
ella con quefte gra7ie prefente, e l'infermi, e dia morte con la fua ai-lènza, poi come contrarie cagioni
il dolce sòspirare, parlare e ridere, el fare tutto que :o con afprezza et sgarbatamente,
ne lègue ò la sanità e la vita o la malattia, 8c la morte nello amante, effetti
contrarij da contrarie cagioni procedenti. Da tutto quefto mio ragionamento può
ciafeuno di voi gentiliduni, et accortitììrni Accademici, e Vditori haucre comprelò,
chcilnoltro M. Petrarca non con minore
altezza ni concetti, ne con manco beilo ordine hi celebrate le bellezze et le
gra? ie delia suà M. Laura che con maeità e grazia di parole,
ateeiò che egli «el primo quadernario di quello sonetto l'eiàlta da tut- Del Verino.%f te le principali più degne cagioni come tra
le irrumentali è il Cielo con 1 fuoi più benigni lumi, i quali in luoghi alci ed
eletti si ridonarono il di che cortei nacque,
tra l'elemplari l'idea d'vna
graviofilTima donna, tra le agenti la natura prima, ò vero eifa prima, ed
iuprema cagione d'ogni cosa buona, et d'ogni rara bellezza, tra le formali più
notabilità grazia e la Ieggiadna, & tra le ma renali il vifo di queita iva
donna. Confederando più oltre che quello e dotto e gentil poeta nel lecondo
quadernario lèguita, ma più particolarmente
ài renderci ma rauigliofele bellezze di M. Laura, celebrandole fuechio
me, con agguagliarle al finiiììmo ore nel colore, e nello splendore e
preponendole alle chiome fparie all'aura di qual lì voglia ninfa, che (ì
ritroui ne' fonti, & di qual fi voglia
dea habitatrice delle lelue, e credo io, che à più eleuati ingegni
intenia di lodarla di carità attribuì» ta alle ninfe, le quali l'ardore delle
carnali dilettazioni eitinguono con
queita angelica virtù, non altraméte che il fuoco iìa eitinto dall'acqua cosi
voglia Ibpra modo significarci che ella ha in se raccolte le virtù in
eccellenza, il che e colà rara e solitaria come quelli che per attendere alle
diuine specolazioni, fuggono le conversazioni, Se li riducono ad abitare ne’dolchi,
e nelle felue nelmedefimo quadernario magnifica le virtù di queita dia donna dal gran numero che ella n'ha raccolte nel suo animo quasi volendo
dire che doue nell'altre belle ne è vna, e óuq, ò poche più in lei iòn tutte cosi
dalleilremo poterebbe l'hanno in lui, che è di condurlo à morte per l'infinite,
e grandiilune pailìoni, eoa le quali tutta la fuà vita è mole-Hata, e quello
perche egli non teneua modo, ne anfora in amarle, onde ella molte volte le gli moitraua disdegnofa, ed adirata; e questo
li reca infiniti tormenti, come pel contrario le benigne accoglierne vq
contento, vn allegrézza lenza termine Tcn#
$8 Lezzione Terzo ed vltimo più
in particolare ci efprimc le grafie e la forza d’alcune parti di
queftabelliiTima, e le?- giadriflìmà donna:
le quali grazie dico iono di alcune parti del corpo, come degl’occhi, del
cuore, e della bocca, e ci annunziano vna maggiore grazia che è quella del suo
bell'animo, quella degl’occhi è divina, e confifbe più che in altro nel
girargli con suavità, e perche per gl’occhi
molto si lcuoprono altrui, le qualità dell'animo: come i più dotti de Fisìonomi
ci dimostrano, & refperienzaftefla: di quìè che dal mouimento fòaue e gentile
degl’occhi si può prendere fpedito argomento del fuo bell'animo dal sòfpirare similmente con soavità,
si conosce vn'animo appaflìonatOi ma con certa moderanza comeauuicne in chi
modera gl’affetti col freno e colla legge della retta ragione. Le grazie
finalmente della bocca Tono il dolce parlare che ci dinota vna moderanza
nell'appetito iralabile che ci ìùole pella bellezza ò per qualche bene che
è m noi più che in altri inluperbire ed il dolce riio dolcezza e piaceuolezza nel
conversare, O Dio immortale con quanta arte
ci fai tu quaggiù in terra ed inquefta materia vedere la tua bontà e le tue
bellezze e con quanto ftupore cosi
dottamente e con tanta leggiadria di parole quefto poeta ce le ha
cfprefTe e cantate in quefto sonetto: perche non ho io potuto con quell'altezza
di concetti, con quel marauigliofo ordine, e con quella maeftà di parole, che fi conuenne, e che
io più defidcrauo difeorrerne digniilfimi accademici, ed uditori? perche dico
non ho io potuto così celebrarle alla presenza vostra? mercè credo io
della debolezza del mio intelletto, e della
rozzezza del mio dire, colle quali imperfezzioni è piaciuto alla diuina prouidenza che io fia, acciò più
illuftre e chiare apparifehino le perfezzioni e le
grazie di molti altri, & atfine che io comprenda, che tanto più fi Del Verino. 0 ri fono obbligato della
grata vdienza, che come corte fiiTimi mi auete data, quanto meno mi II conucniua, e perciò con tutto l’affetto
del cuore ve ne ringrazio. IO HO DETTO. Il Fini. Francesco Vieri. Keywords: Pico,
Accademia. Refs.: The H. P. Grice Papers, Bancroft; Luigi Speranza, “Grice e
Vieri: la dialettica fiorentina”, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza,
Liguria. Vieri.
Luigi Speranza --
Grice e Vigellio: la ragione conversazionale al portico romano – filosofia
italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The
Swimming-Pool Library (Roma).
Filosofo
italiano. Amico ed allievo di Panezio. Stoic philosopher. A friend and pupil of
PANEZIO (vedasi), with whom he also lives. He is noted by CICERONE in “De
Oratore” to have also been a friend of Lucio Licinio CRASSIO (vide), the
greatest Roman orator prior to CICERONE. All other information has been
lost. See also List of Stoic philosophers. References: Blits, “The Heart
of Rome: Ancient Rome’s Political Culture”; CICERONE. The first Stoic
philosopher in Rome is the famous Panezio, who joins The Scipionic Circle, lives
for a while in SCIPIONE’s home and travels with him for more than a year on a
public embassy to the East. Besides SCIPIONE, consul, and censor, at least six *other* consuls study under Panaetius. They
include LELIO and L. FURIO, both of whom, along with SCIPIONE and Polibio, hear
the three Greek philosophers at Rome; FANNIO; Q. Elio TUBERONE, suffect consul,
Q. Mucio SCEVOLA, and Rutilio RUFO. In addition, Spurio Mummio, one of the
legates sent to settle Greek affairs is trained in the doctrine of il PORTICO (Cicero,
“Bruto”). V., friend of CRASSIO, consul, is Panezio’s friend and pupil, and
lives with him (CICERONE, “De oratore”); and Sesto POMPEO, son of the governor
of Macedonia, brother of a consul, and uncle of POMPEO maggiore, withdraws from
politics in order to devote himself to the philosophy of the Portico (CICERONE,
Bruto, De oratore). Portico. Pupil of Panezio. Marco Vigellio. Marcus
Vigellius. Luigi Speranza for H. P. Grice’s Play-Group, The Swimming-Pool
Library, Villa Speranza.
Luigi Speranza --
Grice e Vigna: FILOSOFIA SICILIANA, NON ITALIANA -- all’isola -- la ragione
conversazionale e la regola d’oro conversazionale – la scuola di Rosolini –
filosofia siciliana -- filosofia italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco
di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Rosolini). Filosofo siciliano. Filosofo italiano.
Rosolini, Siracusa, Sicilia. Essential Italian philosopher. Filosofo italiano. Studia
filosofia a Milano, legandosi in special modo all'insegnamento di BONTADINI
(vide) e SEVERINO (vide). Con SEVERINO si laurea con la tesi, ‘La logica
dell'astratto – generale -- e la logica del concreto – particolare’”. Insegna filosofia
a Milano e Venezia. Presidente della Società italiana di filosofia morale. Si occupa
della filosofia del lizio, o peripato, e di neo-idealismo italiano. Si
concentra in maniera speciale sull'ontologia, proponendo una ‘semantizzazione’
del concetto di ‘essere’ capace di risolvere la aporia del “parmenidismo” (vide
VELIA) di SEVERINO, che in qualche modo grava anche sulla speculazione di BONTADINI.
Questa ‘semantizzazione’ permette di leggere nel ‘divenire’ (“x divenne y”), non
l'annullamento dell'ESSERE (“x e y”), ma piuttosto l’annullamento di UN ENTE.
La differenza fondamentale è proprio quella che passa tra l’essere ‘assoluto’
che *non* diviene, e UN ente finito che comincia e cessa di essere – cfr.
Grice, relative identity in Geach and Myro, and his schema on becoming after
von Wrigt in “Actions and events.” Questa impostazione ha consentito di
raffinare ulteriormente il tema della mediazione metafisica che sfrutta e
compone la posizione necessaria della totalità di un essere con la posizione
della totalità molteplice e mutabile dell'esperienza. Insieme all’analisi
di ontologia, si sono svolte quelle di etica (bio-etica). L'etica è intesa
fondamentalmente come un’annalisi del desiderio o volere, il quale, a sua
volta, è fondamentalmente desiderio di un altro desiderio (“meta-desiderio”),
cioè poi di un altro essere umano – il co-conversazionalista B -- che ci
desideri e ci riconosca. L'etica e così ri-condotta alle dinamiche di una
relazione inter-soggettiva, che si puo descrivere secondo tre modelli basilari.
Il primo modello è il modello griceiano – ariskantiano -- quello regolativo per
l'etica. E quello in cui le soggettività si riconoscono reciprocamente come
delle soggettività, e cioè come delle persone o degl’esseri che pensano e
desiderano in modo trascendentale. Il secondo modello, piu primitive, è quello
trasgressivo della ragione istrumentale. Quello in cui le soggettività
confliggono e cercano di dominare il soggetto che hanno di fronte, trattandolo
come un oggetto o istrumento -- o una cosa manipolabile a loro piacimento. Il
terzo modello, che si colloca a mezza strada fra i due precedenti, è
quello che V. definisce come modello griceiano ‘oblativo,’ in cui, mentre una
delle due soggettività riconosce l'altra e si dispone a trattare l'altra
secondo la cura e il rispetto che le convengono, l'altra soggettività non offre
nessun riconoscimento e cerca di imporsi sulla soggettività riconoscente come
soggettività dominante. Questa impostazione onto-etica si caratterizza per
il tentativo di fondare la regolatività etica del modello ariskantiano di Grice
su argomentazioni che partono dal rilievo irrefutabile della trascendentalità
della persona, la quale si trova invece contraddetta in tutte le situazioni di
rapporto inter-soggettivo ri-conducibili agl’altri due modelli (razionalita
istrumentale – Modelo II --, e razionalita di oppression – Modelo III). L’indagini
di antropologia trascendentale completano e chiudono questo percorso, ponendosi
come il termine medio che stringe e salda l'ontologia all'etica. Il concetto di
‘persona’ viene inteso alla Grice e Strawson come sinergia del concetto di
‘sostanza’ e di quello di relazione (la categoria della relazione di
Aristotele, la relati, o il ‘pros ti’. Sostanza (ousia,
sub-stantia, essential) è classicamente quello che permane e sta in
sé. La relazione, invece, è qui il rapporto intenzionale ad altro da sé. La
persona è una sinergia di sostanza e relazione perché è sia rapporto a se
stesso sia rapporto all'altro da sé, in quanto è essenzialmente una
intenzionalità trascendentale, ovverosia un orizzonte consistente di relazione
all'altro da sé, secondo il corso illimitato del desiderio che lo abita. Saggi:
“La dialettica di GENTILE” in “Giornale critico della filosofia italiana”, “La
religione nella filosofia di GENTILE”, “Giornale critico della filosofia
italiana”, “GENTILE, interprete di Marx”, in Enciclopedia. La
filosofia di GENTILE, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma, “Ragione e
religione”(CELUC, Milano); “Filosofia e marxismo” (CELUC, Milano); “Le origini
del marxismo teorico in Italia: il dibattito tra LABRIOLA, CROCE, GENTILE, e
Sorel sui rapporti tra marxismo e filosofia (Città Nuova, Roma); “GRAMSCI: il
pensiero teorico e politico e la questione leninista” (Città Nuova, Roma);
“Invito al pensiero di Aristotele” (Mursia, Milano), “Sostanza e relazione: una
aporetica della persona,” in L'idea di persona, Melchiorre (Vita e Pensiero,
Milano); “L'enigma del desiderio” (San Paolo, Cinisello Balsamo); “La politica
e la speranza” (Lavoro, Roma); “Il frammento e l'intero: -- il toto e la parte
-- indagini sul concetto di essere e sulla stabilità del sapere” (Orthotes, Napoli);
“Sul trascendentale come inter-soggettività originaria”, in “Le avventure del
trascendentale,” Rigobello (Rosenberg, Torino); “Sulla verità e sul bene”
(Petite Plaisance, Pistoia); “Etica del desiderio come etica del
riconoscimento” (Orthotes, Napoli); “Sostanza e relazione: indagini di
struttura sull'umano che ci è comune” (Napoli); “Studi su GENTILE” (Orthotes,
Napoli); “Studi su Marx” (Orthotes, Napoli); “Studi su Aristotele” (Orthotes,
Napoli); “La ragione e la dialettica: studi su Marx e VOLPE” (Marsilio,
Venezia); “Teorie della felicità” (Francisci, Abano Terme); “La qualità
dell'uomo: filosofi e psicologi a confronto” (Angeli, Milano); “Dio e la
ragione” (Marietti, Genova); “L'etica e il suo altro” (Angeli, Milano);
“Strutture del sapere filosofico” (Cardo, Venezia); “La libertà del bene” (Vita
e Pensiero, Milano); “Essere giusti con l'altro” (Rosenberg, Torino); ‘Introduzione
all'etica” (Vita e Pensiero, Milano); “Etica trascendentale e intersoggettività”
(Vita e Pensiero, Milano); “Multi-culturalismo e identità” (Vita e Pensiero,
Milano); “La persona e i nomi dell'essere: sritti di filosofia in onore di MELCHIORRE”
(Vita e Pensiero, Milano); “Libertà, giustizia e bene in una società plurale” (Vita
e Pensiero, Milano); “Etiche e politiche della post-modernità” (Milano, Vita e
Pensiero); “Etica del plurale: giustizia, riconoscimento, responsabilità” (Vita
e Pensiero, Milano); “Affetti e legami” (Vita e Pensiero, Milano); “La REGOLA
D’ORO come etica universale (Vita e Pensiero, Milano); “BONTADINI e la
metafisica” (Vita e Pensiero, Milano); “Metafisica e violenza” (Vita e
Pensiero, Milano); “Etica di frontiera: nuove forme del bene e del male” (Vita
e Pensiero, Milano); “Di un altro genere: etica al femminile” (Vita e Pensiero,
Milano); Pira. Un san Francesco nel Novecento (AVE, Roma); “Multi-culturalismo
e inter-culturalità: l'etica in questione” (Vita e Pensiero, Milano); “La vita
spettacolare: questioni di etica” (Orthotes, Napoli); “Etica dell'economia: idee
per una critica del riduzionismo economico (Orthotes, Napoli); “Differenza di
genere e differenza sessuale: un problema di etica di frontiera” (Orthotes,
Napoli); “Il dovere dell'ospitalità (Orthotes, Napoli). Dell'interpretazione di
GENTILE offerta da V. discutono, fra gl’altri, Berlanda, “GENTILE e l'ipoteca
kantiana. Linee di formazione del primo attualismo” (Vita e Pensiero, Milano); Bettineschi,
“Critica della prassi assoluta: analisi dell'idealismo di GENTILE” (Orthotes,
Napoli). Si vedano anche “Studi GENTILIANI” (Orthotes, Napoli). Cfr. “Studi
marxiani” (Orthotes, Napoli). Cfr. gli scritti raccolti in V., Studi
aristotelici” (Orthotes, Napoli); Saccardi, Semantizzazione dell'essere e
inferenza metempirica, in Pagani, “Debili postille. Lettere a V.” (Orthotes,
Napoli). Cfr. anche Messinese, “L'apparire del mondo: dialogo con SEVERINO
sulla ‘struttura originaria’ del sapere” (Mimesis, Milano). “V., invece, che
pur si è formato alla scuola di BONTADINI e di SEVERINO, non segue più i suoi
maestri, perché ormai ritiene che, se si accetta la “semantizzazione
parmenidea” (vide VELIA) dell’essere, non si può evitare di estendere gl’attributi
dell'essere assoluto all’ente, come precisamente è avvenuto nello svolgimento
della filosofia di SEVERINO. L'errore, però, prosegue V., sta proprio in questo
“aver trattato la questione dell'essere come una questione di ESSENZA.” L'errore
viene eliminato convincendosi che la “semantizzazione” dell'essere coincide con
la relazione d’essenza ed esistenza': questo è il 'tratto comune' tra tutti gl’enti". Cfr.
V., “Il frammento e l'intero, Sulla semantizzazione dell'essere.
L'eredità speculativa di BONTADINI, in “BONTADINI e la metafisica.” Si veda
inoltre SOLLIANI, “Dell'essere come essenza: per una rivisitazione del problema
a partire d'AQUINO” in Debili postille, Il frammento e l'Intero, Cfr. anche Pagani,
“Una rivisitazione della via del divenire e Peratoner, Intorno alla
conoscibilità di Dio, la ragione, la fede, in Debili postille, Si veda
poi Barzaghi, Percorsi di rigorizzazione della teologia naturale nella
filosofia neo-classica milanese”, “Rivista di filosofia neo-scolastica”. Cfr.
Vigna, Etica del desiderio umano (in nuce), in Introduzione all'etica,
Aporetica dei rapporti intersoggettivi e sua risoluzione, in Etica
trascendentale e inter-soggettività, Si veda anche il saggio di
Fanciullacci, “Dell'inter-soggettività e del riconoscimento, in Debili
postille, Cfr. V., Sul trascendentale come inter-soggettività originaria. Venuti,
La cura dell’altro come REGOLA D’ORO. Lettera aperta a V., e Zanardo, Sul dono
della differenza, in Debili postille, Per una discussione complessiva del
pensiero di V. si vedano i saggi contenuti in Pagani Debili
postille. Lettere a V.” (Orthotes, Napoli); “Sostanza e relazione: una
aporetica della persona.” Si può vedere anche Bettineschi, Finità e infinità
della soggettività. Lettera aperta a V., in Bettineschi, “Intenzionalità e
riconoscimento: scritti di etica e antropologia trascendentale” (Orthotes,
Napoli). Bergamo festival: l'intuizione, su you tube. Malato o persona?, su you
tube. L'etica, you tube.com. Treccani. Intervista a V.: la filosofia morale,
you tube. Tugnoli, V.: il desiderio come orizzonte trascendentale, su mondo-domani.
Venezia, su unive Bollettino della Società filosofica italiana, Centro di etica
generale ed applicata, su centro di etica. Centro inter-universitario per gli studi
sull’etica, su venus unive. Società italiana di filosofia morale, Intervento su
La Pira, su avvenire. Attualismo, problematicismo, metafisica, su filosofia. La
politica e il sacro, su in schibboleth. Bisognerebbe oggi parlare
piuttosto di metafisica del male comune… Siamo infatti dinanzi ad un
certo tramonto del politico, almeno nell’Occidente post-industriale: lo
siamo nel senso che la società civile, negli ultimi decenni, ha assorbito
in sé ciò che una volta era, almeno in parte, contenuto della sfera
politica; ma lo siamo soprattutto nel senso che il compito politico
sembra troppo difficile da eseguire ed è in effetti non di rado tradito da
coloro che ne sono in prima battuta responsabili. Ad una sorta di processo di
disseminazione di progettualità creativa in seno alla società civile sembra
corrispondere una sorta di discredito e di scetticismo quanto alla sfera
politica. La sfera politica sembra non riuscire più ad occuparsi della
cosa comune ed essere diventata, piuttosto, il luogo di una distribuzione
corporativa delle risorse. Quando non si giunge, come ad esempio in Italia (ma
certo non soltanto in Italia), a forme molto gravi di corruzione e di
spreco. Il cittadino medio tende perciò a ritrarsi dalla politica o
semplicemente cerca di profittarne. Di fronte all’ingestibilità della
progettualità politica, e pure di fronte al discredito della politica, si
capisce perché vi sia un generale movimento di conversione dai fini ai
fondamenti della comune convivenza. Ma questa conversione a me pare, in
realtà, non tanto una conversione dalla progettualità politica
all’amministrazione della società civile, quanto una qualche conversione
dalla politica all’etica. Ci si è convertiti all’etica, quasi per
esaurimento della sfera politica: questo ho appena suggerito. Ma l’etica
non pare offrire uno spettacolo diverso dalla politica, nonostante oggi
la si chiami fuori, l’etica, per dirimere, quasi giudice supremo, i conflitti
tra il politico, il sociale e il privato; anche l’etica, infatti, ha i suoi
problemi, né suscita consensi facili, quando si va a determinare caso per
caso che cosa può dirsi garantito dall’etica. Sono note ad es. le polemiche
sulla bioetica, tanto per citare uno dei temi oggi forse più rilevanti, anche
per le sue immediate ripercussioni in ambito politico. Dobbiamo dunque
mettere sul conto della nostra quotidianità una eclisse anche
dell’accordo sulle convinzioni etiche? Così pare. E il multiculturalismo
spinge nello stesso senso. Fino a qualche decennio fa la trasgressione
prendeva di mira la legge politica (si ricordi la temperie sessantottina); oggi
quel tipo di trasgressione sembra rientrata e sembra, appunto, presa di
mira anche l’etica. Cito solo un sintomo, ma vistoso: ciò che si discute
con sempre maggiore frequenza è la possibilità di stabilire regole per
tutti che siano regole puramente convenzionali o formalistiche, anche sul
piano etico. L’area anglosassone, più sperimentata in fatto di
multiculturalismo, ha avanzato non poche proposte in tal senso. Ma
bisogna pur dire che ogni formalismo convenzionalistico contiene in sé il
difetto radicale di valere tanto per le cose buone quanto per quelle
malvagie (anche una organizzazione mafiosa rispetta una serie di
convenzioni...), sicché serve solo a scansare il problema fondamentale,
anzi che a risolverlo. Ed è qui che il bisogno di stare al sostanziale
tende alla compensazione dell’etica, lmeno nel senso di ricorrere ad
elementi o frammenti di rimandi all’etica, per ottenere coesione e
consenso. Una certa fiducia nell’universale rispetto dell’essere umano e
un certo rimando ad una fede paiono non di rado un collante più potente di
qualsiasi considerazione ideologica, visto anche il discredito su larga
scala patito dalle ideologie novecentesche. Eppure, dell’etica e della
politica, in realtà, nessuno può fare a meno. L’etica e la politica, come
tutte le cose “necessarie” per la vita degli uomini, si raccomandano da
sole. Come tutte le cose necessarie, l’etica e la politica ricompaiono e
persino dominano anche là dove le si vuole a tutti i costi esorcizzare.
Solo che tutte queste cose prendono vesti diverse da quelle di una volta:
tendono a frantumarsi in molti rivoli o assumono andamenti carsici. Per
esempio, l’etica e la politica diventano oggi cura del mondo della natura
o riscatto del femminile, lotta per l’integrazione delle etnie o sostegno
per gli emigranti e gli emarginati. Comunque, quando e a misura che
appaiono onorate, queste dimensioni del senso della vita umana sembrano
rendere possibile la convivenza, perché esse si presentano come custodi di ciò
che accomuna gli esseri umani nel profondo. Più di quanto accada alla
semplice fattualità dell’ethos. L’etica e la politica sembrano qualcosa di
infinitamente più prezioso dell’ethos. Sono in effetti il giudizio
sull’ethos a partire dalla verità del desiderio umano, se intendiamo per ethos
ciò che appare come la realizzazione storico-fattuale di tale
desiderio. 5. Abbiamo evocato la “verità” a proposito del desiderio
umano. In realtà, l’etica e la politica, sono solitamente intese come il
luogo del riferimento all’”oggettività” normativa. Ma l’”oggettività” qui
che cos’è, se non la “verità” di quel che il desiderio del singolo o
della collettività desidera? Una certa eclisse dell’etica e della politica, in
particolare, sembra l’eclisse della consapevolezza di questo legame originario
con la verità dell’esistenza. E allora? Come far fronte a questa “sfida”
paradossale del nostro tempo, che vorrebbe fare a meno dell’universale
verità, proprio mentre la invoca per governare la frammentazione delle
esperienze dei singoli e dei molti? Semplificando non poco, io azzarderei questo
tipo di risposta. Un codice universale di natura semplicemente teorica,
cioè veritativa, sembra diventato di fatto improponibile. Questo non
significa che sia impossibile. Significa semplicemente che la cultura
dominante, incline al relativismo e allo scetticismo, non lo cerca e non
lo vuole. In fondo, ne dispera. Eppure, tenta di rimediare a questo fallimento
epocale mediante la ricerca di un codice pratico. È degna di rilievo la
circostanza che gli “ultimi fuochi” della “fondazione” di qualcosa siano, nel
pensiero filosofico occidentale, di tipo eticopratico (cfr. ad es. le proposte
di Apel). Ma anche la fondazione dell’eticità, purtroppo, è un che di teorico.
Perciò non funziona più di tanto. Ossia: anche l’etica e la filosofia
della politica dividono. Sembra che unisca, piuttosto, la pratica tout
court, forse perché nella pratica ci si deve necessariamente determinare
così e così. La pratica è “reale”, si pensa, o è almeno la riconduzione
del pensiero alla realtà (laddove la teoria è la riconduzione della
realtà al pensiero e quindi sembra offrire un margine maggiore alla variazione
soggettiva). Per una metafisica del bene comune Ma non ci si illude
anche da questa parte? È possibile. E tuttavia la pratica, come alternativo
terreno di intesa, sembra più efficace della teoria, perché si orienta al
reale, e il reale tendenzialmente unifica, se e quando ci è dinanzi
(almeno in qualche modo), più di quanto non accada alla teoria, che
soffre degli equivoci insuperabili della comunicazione. Ma una maggiore
approssimazione al nostro obbiettivo richiede una manovra aggiuntiva. Noi
dobbiamo cercare ciò in cui gli esseri umani possono praticamente
convenire, ossia ciò che li può praticamente accomunare. Orbene, ciò che
tutti desideriamo è almeno questo: d’essere riconosciuti e onorati nella
nostra umana soggettività. Detto in altri termini, ogni soggettività umana
chiede d’essere riconosciuta come un orizzonte di senso inoltrepassabile,
cioè intenzionalmente infinito, perché tale essa è per via del logos che
la informa. Ma le soggettività sono molte. E come è possibile che più
orizzonti intenzionalmente infiniti coesistano? Non si riesce facilmente a
capire proprio questo. Sulle prime, più infinità, per quanto
semplicemente intenzionali, sembrano incompossibili. L’una sembra
togliere all’altra proprio tale carattere (Sartre). Di qui l’impulso al
conflitto e quindi alla potenziale esterminazione dell’altro. E in effetti
l’esito è inevitabile, se ogni soggettività viene innanzi esigendo,
anzitutto, dall’altra il riconoscimento della propria trascendentalità.
Cioè imponendolo. L’altra, per lo più, farà lo stesso con la prima. Così
entrambe le soggettività finiranno per lottare per la vita e per la
morte. Non così, se ogni soggetto, anziché esigere d’essere riconosciuto
nella sua trascendentalità, viene innanzi offrendo, anzitutto, il proprio
riconoscimento della trascendentalità dell’altro. Non così, se l’altro,
riconosciuto, viene innanzi riconoscendo a sua volta la trascendentalità del
primo. Poiché la trascendentalità in tal caso non è predata, ma
reciprocamente offerta, accade che ognuna delle due coscienze sia
riconosciuta dall’altra. E poiché ognuna liberamente riconosce, resta nella
propria trascendentalità anche quando lascia essere l’altra allo stesso modo.
Due trascendentalità, così chiasmaticamente incrociate, non sono più
incompossibili, anzi si sostengono e si alimentano a vicenda. L’inciampo
dell’ostilità reciproca è qui tolto in via di principio. Il primo codice
universale e il più efficace è dunque il principio del reciproco
riconoscimento. In effetti, il principio del reciproco riconoscimento è il
codice universale più praticabile: un gesto di riconoscimento può esser
fatto da chiunque lo voglia. La sequenza che ho sinora esposto si può riassumere
così: possiamo tornare alla politica solo se transitiamo per un’etica del
riconoscimento reciproco. Ma il riconoscimento reciproco implica
inevitabilmente trattare ogni essere umano come fine in sé. Cioè come
qualcosa di inoltrepassabile. Cioè come libero dall’ambiguità delle relazioni
di dominio. La vita umana non può che abitare questo luogo, se andiamo
alla sua regola secondo verità. Ma come in concreto si struttura la
salvaguardia della vita umana nella società civile? Credo che si possa
agevolmente rispondere a questa domanda riproponendo nel giusto ordine
tre grandi convinzioni che da tempo immemorabile gli esseri umani hanno
tentato in un modo o nell’altro di onorare: la libertà del gesto, che fa
dell’azione una azione umana nella sua dignità, la mira del bene, che
riscatta la libertà da possibili ambiguità, la giustizia del gesto che fa
della mira del bene una questione non solo della vita del singolo, ma anche
della vita di tutti. Vediamo partitamente queste tre convinzioni, che rendono
possibile l’umana convivenza come società civile e che devono essere
protette dall’umana convivenza come società politica. Il primo breve
discorso che vorrei fare è quello sul bene1, perché sono convinto del
fatto che dal bene cominci propriamente la possibilità di una determinazione
equilibrata delle altre due parole: la libertà e la giustizia e perché il
bene custodisce in sommo grado la natura sacro-santa della vita umana. La
vulgata precedenza della libertà sul bene e sulla giustizia è in realtà
un capovolgimento della vera sequenza teorica. Dobbiamo tale errata
precedenza alla modernità. Essa compare con solennità epocale per la prima
volta nelle parole d’ordine della rivoluzione francese: libertà,
eguaglianza, fraternità. Da allora in poi ha fatto, purtroppo, molta
strada. Dico “purtroppo”, perché sono dell’avviso che, cominciando dalla
libertà si onora un essere umano, ma solo cominciando dal bene lo si
orienta in modo conveniente nei suoi propositi di vita, singolare o
collettiva. E un essere umano è libero soprattutto per questo, per
confrontarsi col bene. Il bene è infatti il fine d’ogni azione e nella
vita pratica tutto prende senso dal fine. Ma lasciamo i discorsi formali
e veniamo a qualche considerazione un po’ più contenutistica. Chiediamoci, anzitutto,
perché nel corso della modernità il bene è stato gradualmente messo da parte
(il grande discrimine è il Kant della Critica della ragion pratica). La
risposta a questo interrogativo è nota ai metafisici solo la richiamo ed è duplice. Prima parte: il tema del
bene è stato accantonato, perché strettamente legato all’ontologia
metafisica, da Kant in poi (v. Critica della ragion pura), per comune convinzione,
considerata impossibile. L’ontologia metafisica, veicolata, specialmente
da Wolff in avanti, come un sapere sistematico, con l’aura
dell’assolutezza, era simbolicamente accostata, in termini politici, a
qualcosa come la monarchia assoluta e/o il papato. Ma questo, in molti
spiriti liberi, significava inevitabilmente dispotismo, autoritarismo,
inquisizione e simili. La modernità è rappresentabile, da questo punto di
vista, come la rivolta della soggettività contro un simile apparato, in
nome d’un nuovo fondamento di senso: la soggettività medesima, cui
appartiene essenzialmente l’attributo trascendentale della libertà. Il cogito
cartesiano inaugura questa stagione, anche se l’emergenza della figura
della libertà è da addebitare alla stagione illuministica. Ma
vediamo l’altra parte. Nella modernità il riferimento al divino, cui il bene
era da molti secoli, in ultima istanza, rapportato, si attenua fortemente
e gradualmente; dall’Umanesimo in avanti, viene innanzi, e anche occupa per
intero lo scenario, l’essere umano con il suo mondo. Il contenuto del
bene diventa proprio questo. Non è, il bene, sparito dalla circolazione
delle idee: ha solo mutato nome. E del resto non poteva sparire, perché fa
parte del modo in cui necessariamente viviamo. Dunque, il bene della
soggettività moderna in rivolta è la soggettività medesima: in versione
singolare o in versione comunitaria. Troviamo l’espressione più netta della
rotazione di senso nella prima e nella terza parola della sequenza della
1 Mi permetto rimandare al vol. da me curato, La libertà del bene, Vita e
Pensiero, Milano e spec. al mio saggio su Bene e male. Una
riconsiderazione. Per una metafisica del bene comune rivoluzione
francese: la libertà e la fraternità. A seconda che si propenda per il
primato dell’una o dell’altra parola, si avrà nel seguito il liberalismo o
il collettivismo. Da allora, a mio avviso, non è cambiato molto su questo
terreno. Tutti i pensatori etico-politici moderni e molti dei pensatori
contemporanei si schierano tendenzialmente da una parte o
dall’altra. Direi che questa vulgata ha per ora pochi avversari. Ma a
breve le cose potrebbero cambiare. Timidamente si fa innanzi presso
alcuni post-moderni (ad es. Foucault) e presso alcuni esponenti radicali
del pensiero verde (v. Bateson, ad es.) l’oltrepassamento della centralità del
soggetto e dei soggetti, in direzione di un paganesimo cosmicizzante.
Nietzsche è il piccolo padre anche di questa nuova ondata. La cosa era
forse in certo modo prevedibile. Una volta eliminato il Dio della
metafisica e della religione, il piccone della critica si è andato esercitando,
anzi si è andato accanendo sulla portata trascendentale della soggettività,
e ne ha decretato la fine. E allora, cosa può diventare riferimento
ultimo del senso, messo da parte Dio e l’uomo, se non il cosmo, che è poi
la terza della grandi parole della metafisica, ancora presenti nella
critica kantiana come indicazioni sistematiche ideali? Questa recente
direzione di marcia lavora sulla fine della soggettività trascendentale
forse anche a partire da un certo fascino indotto dalla vita materiale: la durezza
delle dinamiche economiche, apparentemente incontrollabili; il trionfo della
tecnologia, dilatabile, si opina, senza limiti; il fascino della
biosfera, che fa sognare una sorta di unità mistica quanto alle forme di
vita, compresa la vita umana; la rete mediatica che influisce potentemente sui
costumi e produce condotte eteronome di massa, l’enorme flusso
migratorio, che relativizza tutto ciò che la soggettività singola ha
costruito come propria storia. La soggettività moderna, insomma, ne
sembra schiacciata. Marx pensava ancora di mettere innanzi la grandezza
della specie umana per governare la storia. I contemporanei si sono
arresi, quando anche questa variante consolatoria è fallita. Le voci che fanno
dell’umanità un giocattolo in balia di mani più forti, come sono quelle
della tecnologia o quelle delle forze naturali, sono sempre più
ascoltate. Personalmente, resto scettico di fronte ai tentativi di
oltrepassamento dell’orizzonte della soggettività in una neutra oggettività.
Neutra, poi, non proprio, perché si colora subito di irrazionalità,
arbitrarietà, crudeltà e cinismo. Nietzsche ancora una volta ha già
predetto l’essenziale, cioè ha visto in anticipo la deriva di ciò che segue
alla morte di Dio. Egli voleva reagire a questa deriva, con un rinnovato
umanesimo. E noi siamo forse ancora al punto in cui egli si era fermato;
dobbiamo, cioè, capire che fare quanto al nostro destino di umani, ora
che cominciamo a nutrire seri dubbi sulla capacità nostra di governare la
terra. Chiedersi da che parte andare è lo stesso che chiedersi qual è il
nostro bene, il bene per noi post-moderni. S’intende: trattandosi del
nostro bene, si tratta del bene non solo di un singolo, ma anche dei
molti e in una società pluralistica. Si tratta del bene comune
dell’intera umanità. A guardare le cose un po’ dall’alto, vien da dire che oggi
bisognerebbe decidere quale delle tre grandi parole della metafisica
prima citate può interessare una società pluralistica come riferimento di
senso. Dico “può interessare”. Faccio, in altri termini, un discorso di
“persuasività”, non un discorso di stretta “verità”. Se dovessi fare un
discorso di stretta verità, dovrei molto semplicemente affermare che il primo
e, in certo senso, l’unico oggetto degno dell’attenzione originaria di un
essere umano è l’assoluto. Cioè, solo Dio è degno, in ultima istanza, dei
nostri desideri e dei nostri pensieri. Nessun altro e nient’altro. La
stragrande parte degli uomini, in modo più o meno rozzo o più o meno
sofisticato, pensa spontaneamente così e in qualche modo cerca di onorare
questo modo di pensare. L’enorme impatto sulla faccia della terra delle
convinzioni religiose è lì a testimoniarlo. Solo una sparuta minoranza, in
realtà, per lo più abitante dell’Occidente opulento e post-industriale,
si permette, a questo riguardo, forme insistite o incistate di
scetticismo a trecentosessanta gradi. Se si vuol fare, tuttavia, un
discorso di persuasività etico-politica, cioè un discorso che si fonda su
una serie di evidenze abbastanza facili da percepire per i più, allora il
discorso sul bene in una società pluralistica non può che essere centrato
sugli esseri umani. Non certo sulla natura, la quale deve essere, sì,
oggetto di cura, perché è il nostro “grande corpo organico”, ma, appunto, di
una cura subordinata alla cura degli umani; non, purtroppo, su un Dio
trascendente, perché non tutti lo riconoscono, perché di Lui, comunque,
nulla possiamo sapere in linea puri intellectus, eccetto l’esistenza sua, e
quel che ne diciamo quanto alla sua essenza, ci divide più di qualsiasi
altra cosa. Insomma, resta l’uomo come fine. In termini etico-politici,
cioè di pragmatica possibilità di stringere accordi potenzialmente
universali, una impostazione come quella ad es. di Hans Jonas potrebbe
essere accettabile. Ma studiosi come Rawls o Habermas – cf. Habermas on Grice –
Thomson, Reading Habermas reading Grice – Speranza -- propongono strategie
simili. Del resto, se questo primato antropologico venisse perseguito a
fondo, sarebbe più facile per molti sentire in cuor proprio il bisogno di
volgersi all’origine ontologico-metafisica della buona qualità dei rapporti tra
noi, anche perché una parte, almeno, dell’umanità sicuramente continuerà
a testimoniare il nesso tra la pratica della fraternità e il rimando
inevitabile ad una suprema e universale Paternità. Lì abita in ultima
istanza il sacro-santo della vita. Ma qui devo lasciare in sospeso il
tema, perché andrebbe nel senso della teologia politica, su cui è bene
che sia altri a dire. Ora andiamo al tema della giustizia. Come è noto,
l’etica pubblica si divide tra i sostenitori del primato della giustizia come
elemento procedurale e formale dell’architettura della convivenza umana e
i sostenitori del primato del bene o dei beni come
acquisizione sostantiva. Lo abbiamo accennato prima. Io credo, invece, che
si tratti di due “cifre”, la giustizia e il bene, per nulla alternative,
anche perché entrambe “originarie”. Se ben si riflette, appare
sufficientemente chiaro che il giusto è un certo rapporto, mentre il bene è il
termine di un rapporto. Giusto, poi è il rapporto buono, mentre il bene non
si risolve semplicemente nel rapporto giusto. Il rapporto giusto è solo
uno dei beni possibili. I due significati, dunque, non sono propriamente
equivalenti (il bene, ad evidentiam, ha una estensione maggiore), anche
se l’uso linguistico tende a trattarli quasi in modo sinonimico. È vero,
piuttosto, che essi in qualche modo si determinano a vicenda, perché il bene
non È anche evidente che l’oggetto cui ci si rapporta è più importante
del rapporto. Il rapporto è una realtà intenzionale, mentre il bene è una
realtà ontologica. Naturalmente, anche la realtà intenzionale è in qualche
modo Per una metafisica del bene comune può prescindere da un certo
rapporto e il giusto non può fare a meno del riferimento al bene. E
tuttavia, se è vero che il bene non può fare a meno d’essere un rapporto, ciò
che nel determinare il bene importa è, in primo luogo, la natura
dell’oggetto cui ci si rapporta; parimenti, se il giusto non può fare a
meno di una relazione ai beni (questo è specialmente evidente nella
giustizia di tipo distributivo, ma poi appare anche in quella di tipo
commutativo), la natura del bene è per il giusto relativamente indifferente. Si
può stare nel giusto con beni piccoli o con grandi beni. Conta, appunto
la natura del rapporto, cioè che si tratti di un rapporto in cui non
manchi l’uguaglianza (commutativa o distributiva che sia). Che ne è della
giustizia in una società veramente civile? La domanda importa che si
trovi un rapporto giusto per tutti, indipendentemente da una certa identità
culturale. Ora, che cosa è anzitutto giusto per qualsiasi essere umano?
Ossia: quale rapporto un essere umano giudica come tale che non viola le
proprie attese originarie di giustizia? La risposta obbligata mi par
questa: per un essere umano è anzitutto giusto o ingiusto ciò che
concerne l’immediato rapporto suo con gli altri esseri umani. E il
rapporto giusto è il rapporto che rispetta, anzi onora e quindi si prende
cura della soggettività nella sua trascendentalità; è il rapporto che
lascia essere gli esseri umani come tali, cioè non li riduce a oggetti
manipolabili; è il rapporto, per dirla kantianamente, che tratta un essere
umano sempre anche come fine e mai come semplice mezzo. Abbiamo già detto
che questo, universalmente praticato, è proprio solo del rapporto di
riconoscimento reciproco, perché solo nel riconoscimento reciproco le due o più
soggettività si lasciano essere come tali. Bene e giustizia, dunque, qui
convengono. Soltanto qui. E questo per il fatto che l’essenza di un essere
umano è d’essere un rapporto. Egli è, dunque il bene del rapporto e, nel
contempo, il rapporto del bene, se si rapporta riconoscendo. S’intende,
secondo le forme della finitudine. Non ho inteso, con ciò, dimenticare la
complessità e la difficoltà di trovare criteri appropriati per la giusta
distribuzione dei beni della terra. Non v’è dubbio che il concetto di giustizia
passa, innanzi tutto e per lo più, per questa pratica quotidiana. Ma la
giusta distribuzione dei beni non è che l’effetto, in parte, e in parte
l’individuazione simbolica del giusto rapporto tra noi, che è, appunto,
il rapporto di riconoscimento reciproco. Giustizia dunque come
riconoscimento della dignità di un essere umano, delle sue opportunità
d’ingresso alla vita e del suo onesto disegno di fioritura. È a questo punto
che può cominciare l’istruzione del tema della libertà. La libertà non
può che essere l’ultima delle tre parole, e non la prima. Questo non
significa che essa non sia altrettanto originaria delle altre due.
Significa solo che è ordinata alle altre due, mentre non è vera
l’affermazione reciproca. Lo smarrimento di quest’ordine, che direi
onto-etico, è forse una delle più grandi sciagura della modernità. E noi
viviamo ancora sull’onda di quella deriva. I moderni hanno fatto della libertà
una magica parola, cui tutto dovrebbe essere sottomesso; ma la libertà,
come prima ho ricordato, fa la dignità del gesto di un essere umano, non ne fa,
da sola, la bontà, anche per il fatto incontestabile che esistono, e
come!, gesti di libertà cattivi. qualcosa e quindi ha una valenza
ontologica, ma l’ha di seconda battuta. Un po’ come accade alla verità
rispetto all’essere. Una società veramente civile è possibile
pensarla, solo se si oltrepassa la convinzione moderna del primato
assoluto e incondizionato della libertà e si accede al primato assoluto e
incondizionato del bene di e per ogni essere umano (che comprende di certo
anche la sua condizione di libero, ma non si riduce a quella). Né basta
dire che la mia libertà finisce, quando comincia la libertà dell’altro,
che è lo slogan più noto della tradizione liberale. Non basta, anzitutto,
perché questo slogan confligge teoricamente con l’idea del primato
incondizionato della libertà. La libertà dell’altro invocata come limitante è,
infatti, un bene dell’altro; quindi la libertà è limitata, come
dev’essere, dal bene e non è affatto incondizionata. Solo il bene lo è. Non basta
poi perché, riducendo il bene dell’altro alla libertà dell’altro, si tace di
tanti altri beni dell’altro che devono costituire, anch’essi, un limite alla
mia libertà. Non è sufficiente, infatti, che l’altro sia libero. Se
l’altro è libero di morire di fame, e io sono libero di mangiare a
crepapelle, la mia libertà è la maschera penosa e vigliacca di un
delitto. Io mi approprio in esclusiva dei beni della terra che sono comuni e di
fatto escludo l’altro che ne ha gli stessi diritti. Così lo lascio morire. C’è
un senso, tuttavia, secondo cui la libertà può esser concepita come
incondizionata, ma non è il senso difeso dalla tradizione teorica liberale: io
la chiamo: la libertà del bene, cioè la libertà di fare il bene. Qui la
libertà è incondizionata, perché gode, per una sorta di simbiosi,
dell’incondizionatezza del bene. Poiché in una società veramente civile, la
libertà come arbitrio non può avere solo l’altrui libertà come limite, ma
deve avere come limite tutti i diritti dell’altro, compreso certo anche
quello della sua libertà, per questo l’umana libertà deve farsi carico di
tutto ciò che la giustizia invoca per l’altro. È questa la ragione per
cui le società liberali sono incapaci di essere veramente civili, nonostante
l’abbondanza delle dichiarazioni in contrario. Esse dimenticano
facilmente, o meglio, occultano il lato della cura e della giusta
promozione dell’altro e così proteggono di fatto le situazioni discriminanti,
che sono poi la radice permanente della conflittualità endemica. La situazione
nordamericana è un esempio per molti versi eclatante. Sotto il manto della
libertà, messicani, asiatici e neri praticano in massa gli umili mestieri che
consentono ai bianchi una vita agiata. Sono liberi d’esser poveri… Più o
meno come accade in Italia per la fascia degli immigrati
extracomunitari. Se la libertà del bene guida l’azione, allora la mira è
il bene dell’altro, cioè l’altro come bene. È anche il mio bene, ma di me
come l’altro di un altro. Solo così io posso conseguire, storicamente
parlando, il massimo bene. Sulle prime, questa affermazione può parere
per- sino patetica: l’invocazione del “buon cuore” come regola di
condotta in un mondo che il pluralismo tende piuttosto ad indurire. Una
riflessione accorta però è in grado di far vedere che il mio bene, cioè poi la
mia fioritura di vita, può avere senso solo se il movimento del desiderio
verso l’oggetto a lui conveniente, il bene, appunto, compie il giro della
referenza immediata all’alterità e di quella all’identità in modo mediato.
Mediato, appunto dall’alterità. Rimando di nuovo al vol. La libertà del
bene, cit., e stavolta spec. alla mia Introduzione Per una metafisica del
bene comune. Provo a tirare in breve le fila del mio discorso. Posso anche far
presto, perché tutte le fila conducono, come si è di certo inteso, allo
stesso punto: alla cifra del riconoscimento come forma regolativa
dell’esistenza degli esseri umani. Una società veramente civile infatti è
possibile, se i molti si onorano reciprocamente, cioè appunto, reciprocamente
si riconoscono. È questo il senso primo (primo per noi) del bene comune.
Nel reciproco riconoscimento, ognuno è signore dell’altro (in quanto
riconosciuto nella propria trascendentalità, quindi come oriz- zonte
inoltrepassabile di senso) e ognuno è servo dell’altro (in quanto riconosce
nell’altro la signoria del senso). Le forme democratiche di vita politica
tendono ad approssimarsi a queste dinamiche più d’ogni altra forma. Nella
democrazia infatti l’autorità del cittadi- no su un altro cittadino è o
dovrebbe essere semplicemente di tipo funzionale. Tutti sono eguali, cioè
tutti sono signori, ma fatti signori gli uni dagli altri, mai da se
stessi. All’interno della cifra del riconoscimento, come regola
universale, prendono un sen- so determinato, come si è detto, tanto il
bene, quanto la giustizia e la libertà come realiz- zazione e, insieme,
protezione del bene comune. Bene significa voler ciò che consente la mia
fioritura di vita; bene è dunque volermi bene, volendo bene altri come quegli
che tale fioritura in me rende possibile. Altri, naturalmente, solo che
lo si voglia o, meglio, solo che lo si creda, può essere scritto –
dovrebbe anche essere scritto – con la maiuscola (la dinamica relazionale
è la stessa). Il bene comune in una società veramente civile è questo,
essenzialmente. Giustizia significa rendere ad ognuno ciò che gli spetta
(unicuique suum). Ma ciò che spetta ad ognu- no è anzitutto d’essere
trattato come una soggettività (trascendentale). Cioè come un essere umano
in totalità. La reciprocità riconoscente è dunque il luogo della massima
giustizia per ognuno di noi. Libertà significa non arbitrio
incondizionato, bensì libertà di fare il bene. E poiché il primo bene,
storicamente parlando, è l’esserci d’altri per me, libertà del bene vuol
dire di nuovo libertà di riconoscere l’altro come il mio bene. Come il bene che
tutti accomuna. Carmelo Vigna. Keywords: bein, essence, essenza, essere,
intersoggetivo, tre tipi di intersoggetivo: trascendentale, oppressivo,
istrumentale, being and becoming. Refs.: H. P. Grice Papers, Bancroft MS. Luigi
Speranza, “Grice e Vigna: la regola d’oro conversazionale” – The Swimming-Pool
Library, Villa Speranza, Liguria. Vigna.
Luigi Speranza -- Grice e Vignoli: la ragione
conversazionale della etologia filosofica – della legge fondamentale
dell’intelligenza nel regno animale – la scuola di Rosignano Marittimo –
filosofia toscana -- filosofia italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco
di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Rosignano Marittimo). Filosofo toscano. Rosignano
Marittimo, Livorno, Toscana. Essential Italian philosopher. Filosofo italiano. Grice: “I spent quite some
time observing a species of pirot: the squarrel – mainly I was in search of
what Vignoli calls ‘la legge fondamentale dell’intelligenza nel regno animale”
– his ‘saggio,’ he says, is in ‘psicologia comparata,’ but since it is vintage,
I might just as well refer to is as being one in ‘philosophical ethology’!” --
Si trasfere a Milano. Insegna antropologia
presso la Reale Accademia di Scienze e Lettere. Direttore del Museo di storia
naturale. I suoi saggi apparisceno sul Politecnico e la Rivista di filosofia
scientifica. Due sue saggi hanno risonanza: Della legge fondamentale
dell'intelligenza nel regno animale: saggio di psicologia comparata” -- e “Mito
e scienza”. Io termino il mio saggio
iniiorno ad una Dottrina razionale del Progresso, inserito con una serie di
articoli nel Politecnico a Milano, diretto da Cattaneo, e ristampato a parte,
con queste parole e in queste sentenze,
risultato di tutti gli studi e argomenti
anteriori. Quésta libertà del pensiero cresce terello, soqo antiche e>
costanti nella mia mente. Onde due anni
or sono termina la mia prolusione ad un
corso d’antropologia generale gratuito
nella R. Accademia scientifico-letteraria di Milano, al quale venni invitato d’ASCOLI
(si veda), gloria della glottologia
italiana — allora Preside di quel chiaro istituto. Siamo nuovi ancora si può
dire nei moderni studi, se volgiamo lo sguardo alle altre nazioni che ci superarono, ma i ri«
sultati ottenuti e che si vanno conqui« stando, sono augurio che sapremo perve«
nire a quella gloria che un giorno sì chiaramente ci segnalò tra le genti. Ma
molti RBPAZioini e per rispetto del pubblico ; e che infine
fui sempre consentaneo con i miei
principi, come tutti possono toccare con
mano dalla lettura dei brani sopra
trascritti, e stesi a lunghi intervalli
e dal presente mio opùscolo stesso. Che
se V ingegno è tapino, e il sapere non
così vasto come vorrei, e come dovrebbe essere, la colpa non è mia, né
della mia volontà : poiché tra i tanti difetti, che in me possono annidare, l'ozio certo, e l'ignavia
non vi si trovano:, perchè li sfuggii
sempre, come la peste più oscena, brut a
e nefanda di tutte, e la più dannosa ai
privati ed alle nazioni. Milano. Sitixa;25Ìoiie« Posta la nostra società odierna tra due sette
temerarie e procaccianti) diverse d'origine, ma identiche di propositi nefandi
e distruttori, i retrivi clericali, e i demagoghi incendiarli, non mai
soverchia riuscirà la solerzia, la
virtù, la virilità di atti e di concetti
ad allontanare e vincere i mali, sociali, morali e materiali a cui esse mirano
con tenacità formidabile. Che se Tuna vorrebbe ridotto il mondo a un cenobio e a una triste tebaide, l'altra
procaccia che gli uomini ritornino alla selvatichezza
preistorica, e alla squisitezza sociale
delle caverne. Certamente le magnanime
speranze di questi tristi non si avvereranno, poiché la mentalità umana, la
libertà civile e le suppellettili
industriali tanto cresciute e potenti
non lo concedono, e in Italia specialmente, ove l'indole, gl'istinti, il
senno proprio della razza, e le necessità storielle assolutamente vi si
oppongono ; ma tuttavìa è d'uopo
avvisare ai pericoli^ e alle sciagure
parziali^ addottrinati dall'esempio miserando di altre nazioni. I retrìvi e demagoghi sono gli
estremi faziosi e a cosi dire l'oscena e perversa caricatura dei due legittimi fattori della vita civile dei
popoli, e del loro intrinseco progresso,
i conservatori cioè e gl'innovatori, necessarii entrambi al perfetto e mobile
equilibrio delle forze, e al loro dinamico esplicamento : in quella guisa che nella compagine oi^anica,
e nell'esercizio delle sue funzioni, trovansi nervi moderatori, e stimolanti,
onde resulti quella armonia di effetti che vita si appella. Imperocché come in
questa si arresterebbe immoto il circolo
animatore se l'energia del freno prevalesse, e tanto si accelererebbe da distruggere sé medésimo quando quella
contraria eccedesse : parimente una nazione perirebbe, se V uno l'altro dei fattori accennati rimanesse
vincitore nella lotta, che l'uno la
renderebbe mummia o cristallo^ mentre il
secondo la dileguerebbe in vapore. La sa^
pienza e la scienza civile consistono quindi nel provvedere che un equo
temperamento intervenga fra le due forze
rivali, o a disporre le cose in guisa che
l'una a vicenda con l'altra serva all'incremento del bene sociale, e al sempre più largo, e
sincero esercizio della libertà civile e politica Ma a raggiungere questo arduo e nobile scopo
l'intenzione e il desiderio non bastano: vuoisi non solò perizia grande d'uomini e di negozj, animo
pronto, profonda conoscenza dei fatti e
leggi "Bociali, risolutezza impavida nelle difficili prove, onestà
costante di mezzi, magnanimo sprezzo
d'insulti e guerre volgari; ma rìohiedesi altresì vasta e chiara dottrina
sto* rica, e quel senso sicuro dei
bisogni^ dell'indole^ delle ^piraadoni
legittime. del popolo^ e limpida intuizione
Clelia legge che regola i moti delle genti europee in generale; e di quella italiana in
particolare* Or qui in Italia ì, caduti
principati lasciarono copiosa eredità di
elementi conservatori e retrivi, fatti più rabbiosi •dal prevalere delle istituzioni ed istinti
democratici^ a^vviticchiàntisi con
disperato amplesso al papato, che i loro
rammarichi, ire, convinzioni, speranze rese domina religioso, ultimo strumento
alla assoluta sua signoria vacillante ; méntre d'altra parte le inveterate abitudini cospiratrici, l'intempestive brame
di utopie facilmente nascenti in popoli
non assuefati a libertà, gli antagonismi
regionali superstiti alla unificazione dei
varii Stati, le bieche e torbide imitazioni demagogiche d'altri paesi, e
l'arruffio anche di tristi, tengono la
nazione incerta, rinfocolano odii di parte, e la spingono soverchiamente nelle
avventure : e quindi tanto più difficile
riesce l'impemare stabilmente lo Stato, e
condurlo sapientemente. Tra
queste due forze rivali, ostacolo al retto andamento della cosa pubblica,
rimane poderósa zavorra, la maggioranza della nazione, la quale, aliena in parte dai mutamenti radicali, intenta alle
private faccende, e guidata dal senso
positivo delle cose, e dagli interessi
domestici, mantiene a cosi dire un meccanico equilibrio nelle loro lotte, e
fece si che sino ad ora né l'una, ne
l'altra prevalesse : e la nazione perciò
stette, e vinse prove che sbalordirono il mondo, e procacciò ai reggitori una gloria, che in
fondo e in parte derivava dalla sua
consapevole inerzia. Né si creda che io voglia, concludere non aver ben meritato della patria coloro^ che per vari v
anni stettero al timone della Bua nave.^ e che questa se noa pericolò e. si sommerse nelle tempeste ove fu
più di lina fiata travolta^ debba
soltanto la propria salute alla
indifferenza^ o agli istinti conservatori delle moltitudini : imperocché i
fatti mi sbugiarderebbero, e non
conoscerei affatto, o confusamente la nostra storia contemporanea. Certamente Visconti-
Venosta che a più riprese diresse e in condizioni sovente ardue e perigliose i
nostri rapporti con gli stranieri, seppe schivare con tatto fino, e con
squisitezza^ di modi, non disgiunti da
dignitosa fermezza, i rischi che ci
minacciarono, sia di lusinghe subdole, di altere brame, o di tenebrose
cospirazioni del Vaticano. E potrei pure
ricordare con encomio altri, che con
zelo ed onestà, si adoperarono a prò della nazione. Né si vuole poi dimenticare il grande partito
liberale, erede degli intendimenti di Camillo CavQur, il quale nei giornali, dalle cattedre, nelle
concioni, nel parlamento con costanza
segui in parte quelle caute e forti
norme, che ci condussero sino ai tempi presenti. Ma tutti questi saggi consigli
e propositi, edi fatti che vi
corrisposero, non avrebbero certamente
salvato dai perigli la nazione, se la maggioranza degli italiani col suo
contegno fermo, l'indole non eccitabile, e col veto, a cosi dire, della
passività, non avesse resi vani i
proponimenti, sventate le trame
sotterranee, e lasciati in secco gli apostoli del disordine e del
dispotismo : che anzi il più delle volte
scossa da evidente rischio, segnò col desiderio espresso virilmente in mille guise, la via da tenersi
dai reggitoli, e si può dire in un certo modo, che Ella fu che governò il paese, con senno suo proprio,
e con quegli spiriti liberali che
seppero infonderle molti valenti predecessori, e il grande intelletto del più
grande ministro del secolo. E CAVOUR (si
veda) potè essere concreatore di un
popolo,, perchè nella vasta mente raunò a cosi dire tutti i pensieri, le idee, i concetti, e
nell'animo i desiderii, i sentimenti, gl'istinti magnanimi di tutta la nazione che in lui si confidò : associandosi
senza tema, o gelosa inquietudine, in
momenti solenni, nell'impresa unificatrice
a GARIBALDI, che, quale soldato della
libertà, fu a cosi dire la popolare poesia del
nostro riscatto : egli fu grande perchè conscio dell'indole moderna dei
popoli non si argomentò di rendere
libera e indipendente la patria con mezzi termini, con sussidii di una o altra casta e fazione
esclusiva, ma si armonizzando in un solo pensiero, e ad un solo e generoso scopo tutti i ceti, tutti
i partiti, tutte le forze vive della nazione, non pauroso di sette, o queste trasformando in leve
poderose ad inalzare dal servaggio l'
Italia : insomma ei fu grande e riusci,
perchè senti tutti gl'influssi, vasti e potenti
di un popolo intero: che sarà sempre, come per il passato r«/n hoc signo mnces!^ di coloro, che
fecero e faranno opere generose ed
immortali nel mondo. Morto Cavour
rimase al governo il partito che avevalo
ajutato in gran parte nell'opra santissima della redenzione della
patria, il quale si propose e si argomentò
di seguire quella via, che dischiuse la mente e l'operosità del grande
uomo, onde si compissero i fati della
nazione, e si raggiungesse il fine desiderato. Ma se il concetto politico e
Tindìrizzo del maestro fu compreso, e seguito all'ingrosso dai successori, e la
nazione si dispose ad effettuare i suoi disegni, nessuno però dei reggitori ebbe l'ingegno l'animo e
lo spirito del sommo cittadino, e
comecché mandassimo ad effetto difficili imprese, e si conseguisse il massimo
scopo della indipendenza e unità della
patria, pure alla lunga si manifestò a
poco a poco nel governo, e nel vasto
partito, d'onde visceralmente egli usciva, il difetto di comprensione potente ed intera, e di quel
senso generoso di libertà piena ed operosa, ove si mostrò l'eccellenza del
primo. Ne io* offendo l'amor proprio di
alcuno di quelli che mano mano vennero impugnando le redini dello Stato, con l'asserire che non
raggiunse l'ingegno, la perizia e
l'animo suo, poiché è cosa evidente di per sé stessa, e l'esemplare troppo noto
e cospicuo. Ed in vero uno degli uomini
che maggiormente fecero parlare di sé più frequentemente e sedette in scranna al governo dello Stato, e si segnalò
per varie vicende, è Minghetti,
conosciuto moltissimo eziandio dagli
stranieri. Or bene, chi non scorge a
prima vista quanto ei sia inferiore per molti versi a CAVOUR (si veda)?
Per quanto io possa avere dei contraddittori
non mi perito dire che il Minghetti è un mediocre uomo di Stato, in quanto gli manca ogni nota
che distingue coloro che nacquero a
tanto ufficio. Mente lucida e
simmetrica, ma non acuta e profonda; bel
parlatore, ma più facondo che eloquente, animo più ostinato, che tenace, scrittore sensato e
forbito, ma privo di nerbo e di vena
inventrice ; ambizioso, certo
nobilmente, d'aura popolare, ma incapace a raggiungerla : ondeggiante
tra le diverse parti, non abile 3f
dominarle: non q;ristocraticp per proposito o arte di governo, ma inclinato a riceverne di
riverbero \^ fosforescenza : e non
facile a sentire i fecondi in? flussi
del popolo. Che se per ora pronunziò raggiun^iQ
il pareggio, e gli fu attribuito come cosa sua, quando non una legge di finanza gli è propria, e la
longanimità e sofferenza invece del popolo italiano ne è il più grande fattore, la freddezza e
indifferenza con che accolse il paese
questa notizia, che pure doveva
riempirlo di fervida letizia, è la miglior prova di quanto riserbo si senta per le cose sue
nell'animo degli italiani, e come egli
non abbia veramente radici nella fede
delle moltitudini. Si badi però che io parlando
si schiettamente del Minghetti, come Ministro e scrittore, solo
sindacabili in paese libero e dalla stampa
onesta, faccio e rendo omaggio alla sua vita priv^)t^, a.lla nobiltà dell'animo e delFingegno e in
altra occasione ne feci testimonianza e al disinteresse personale, che spiccò
sempre anche posto al governo della
cratica, osservata e giudicata con occhio scevro da prevenzioni, e con animo non travolto da
passioni o dA interessi parziali. Né
facciano illusione all^ intelletto alcune singole pretese, o desiderii in paesi
ove da poco la legge livellatrice civile tolse i privilegi d'ordini vecchi: imperocché tali avanzi
archeologici di tempi irremissibilmente
passati^ sono a cosi dire piante morte,
alle quali s' inaridiscono le radici, e
che fra i nuovi còlti, e rampolli rimangono in piedi senza vita e finitti, sinché cadano per
intrinseco e naturale sfacelo. Nella sola Inghilterra, e meno altrove, alcuni privilegi territoriaU o ereditarii
mantengono un ordine nello Stato, ma già
ne vennero scrollate le basi, e tra non
molto anche colà, se ne sono veduti i
sintomi, e i desiderii legalmente espressi testé, si dilegueranno del tutto. Quando nelle nazioni
Tegualità civile dei ceti si ottenne, e tutti vengono rappresentati in
parlamenti elettivi, e la stampa è libera,
la necessità della democrazia è già posta, e non può tardare a vincere in un avvenire più o meno
prossimo, a seconda dell'indole, dei costumi, e delle ragioni storiche delle
nazioni. GHi ordini nelle società una
volta spenti, o trasformati non si restaurano, e mal si oppongono coloro che carezzano Tidea
di un ritorno al passato in ogni genere
di istituzioni privilegiate ; solo provano che non sanno la storia, né
comprendono i itempi che corrono, né antivedono quelli avvenire. Che se nella caduta del romano
imperio e per le invasioni delleif.orde
settentrionali, il sorgere poi del
feudalismo si considera come un ritorno ad
un patriziato ereditario, oltreché il paragone non regge, poiché nella storia non si ripetono mai
esattamente le vicende e gli istituti
d'altra età, or sarebbe anche quel fatto
assolutamente impossibile, dacché mancano
inteme ed esteme condizioni ad awerarlo^E chi supponesse che a ciò
potesse bastare Tinflìisso in^retto^ o
la invasipne dei Russi; solo popolo che si accampi formidabile di fronte all'Europa mediana e
occidentale, non conoscerebbe affatto le condizioni civili in cui versa la Russia. Imperocché per
l'autocrazia di per sé stessa sempre
livellatrice, lo Czar attuale anche per
intendimenti di civiltà tolse in gran parte i resti di privilegi con Temancipazione, e la franchigia
dei servi, eguagliando) le persone dinanzi
alla legge, e quindi rese impossibili
una aristocrazia dominatrice. I Russi se invadesserc una parte d'Europa
limitrofa al vasto impero, recherebbero
per costumi e idee piuttosto principj comunistici, propri in alcune parti del
loro organamento municipale, ampliati e
resi più forti per le sette che
formiolano nel suo seno, e che la rodono con manifesto danno. Onde é
vano sperare anche stando ai calcili
meramente empirici, e all'osservazione superficiae, che in Europa possa
avvenire una restaurazioiB del patriziato, come ordine distinto per dritti dal resto della nazione. E ducimi che qua e
là in Itala ed altrove in special modo
tra giovani rampoli dejle vecchie, o più moderne famiglie gentilizie, riesca in alcuni un certo spasimo e languore
perle anicaglie, e si tenti quasi con
amminìl^i araldici, dJricostituire un
ceto a parte, separandosi con ridicio anacronismo dal resto del popolo. La
quale ubbia aguisce una ignoranza
profonda della epoca nostra, ci una
nullità prodigiosa nei nuovi, cxdtori dei caselli in rovina : Ut nomine
Toagnifieo segne otium tlaret! per dirla
con Tacito. Lungi da me il peniero di menomare il lustro, il decoro, la fama
di tÉinte famiglie storiche nostre :
sono anzi il primo a riverire un lungo
ordine di discendenti che ai segnalarono con la mente, o con le armi: questo è
patrimonio privato inviolabile } quanto altra mai pròprietà, e fanno bene a tenersi
care e onorate le memorie d'avi
illustri, quando furono veramente illustri, e vorrei che un tal culto fosse
sprone ad emularli nella eccellenza delle opere. Né la querela può venire oramai da invidia, e da astio, quatdo
ordini distinti non esistono più, e
tanto vale di &ccia alla legge e
alla nazione rispetto ai diritti, un ciabattino che un principe. Onde la gara
tra patrizj e plebei non può più rinascere, in quanto tutti aono popolo: e se
si parla di volgo, il volgo adesso può trovarsi in tutti i ceti, unica norma
alla stima sociale, essendo, la Dio
mercè, il valore personale. Parlo soltanto di quelli, e certamente son pochi,
che invece di adoperare le loro forze, i
loro ozj, le loro ricclezze ad egregio
scopo sia nelle arti, nella scienza, ielle
armi, in ogni argomento di progresso civile, si trastullano con le
ferraglie del medio-evo, sciupano tenpo
e decoro, e si preparano una vita squallida, vana funerea di mezzo a
quella fervida che già erompe dslle
viscere della nazione, che farà cerna dei forti e nu)vi rampolli, disperdendo, non col ferro, col
sangue, o altre nequizie, come gridano a squarciagola i pusilanimi gli astuti,
ma con la ferrea necessità di latura e della sua legge di selezione, i
neghittosi, e caboU di mente e di volontà. E tanto più desta meur viglia questa vanagloria di festuche
blasoniche in 4cuni, in quanto la eletta parte del patriziato italian die largo tributo di sussidj, di sapere, di
sangue A, nostro risorgimento, e si
segnalò per generosa cariti di patria:
ed anche oggi molti tra essi onorano TIt^a e gli avi loro con operose virtù
cittadine, e qual*cheduno con gU scritti e l'ingegno. Si ricordi che i tre più grandi poeti della nostra epoca,
animati da fieri e virili spiriti di
libertà, ALFIERI (vedasi), NICCOLINI (vedasi) e LEOPARDI (vedasi) uscirono
dalle loro fila; e del loro ceto fu pure
il più grande, e liberale Ministro della età nostra (!). Altri
s'immagina che la democrazia sia irrazionale
mente livellatrice, e la confondono con le utopie comunistiche,
impossibili ad effettuarsi, e non mai effettuate : onde rimpiangono i tempi
passati, ove tutto era ordine e casta
distinta, e già mirano le genti* europee in un non lontano avvenire, o
mummificate ed immote in una sterile
eguaglianza assoluta; ovverà scatenate
in passioni furibonde spargere dappertutto
fiamme, mine, stragi, ed avverarsi il finimondo. Tali piagnoai, o gufi di cattivo augurio, provano
una cosa sola, ehe non intendono nulla;
prendono l'accidente per li legge, il
particolare pel generale, il deviare di
una jetta pel costume dell'universale, e i loro sogni per i&altà. Certamente se questi
conservatori dirigessero le sirti dei
popoli, le tristi scene e nefarie che non a 11 patrizio Piola, seguendo l’esempio
della egr^ia e chiara famiglia, dio alla
luce neirannò scorso un libro di
eeoDmia, che certamente merita di essere segnalato. Che se alcuil non
potrà condividere tutte le idee, o ascriversi assolutamente ai luoi principj, trovansi nel suo trattato
cose ottime, e ricerche fate con lungo
studio ed amore : e fanno onore a chi le scrisse. Or be^e nessuno intraprese a parlarne, eziandio
criticandolo. Questo sibilo non é buon segno: l’esempio è eccellente anche per
Torifiée e il ceto dello scrittore: nò doveva trascurarsene ropportunità^ .nche civile. guari inorriditi vedemmo in
altri paesi; inevitabilmente accadrebbero, e con sempre più frequente ripetizione;
ma governandoci con altri intendimenti e
con più larghi e generosi propositi, quei mali diverranno sempre più
rari, e impossibili. Del resto a nessuno che abbia fior di senno verrà in mente
mai, o crederà, che nelle cose umane possa affatto il male evitarsi, quando lo
scopo a cui deve intendere ognuno, si è
il procacciare di sminuirlo con costante operosità. L'età d'oro e di ogni bene, i miti e i poeti
la posero al principio, o alla fine del
mondo; e ragionevolmente, perchè dell'una non ci ricordiamo,^ all'altra
non siamo ancora pervenuti. La
democrazia, intesa come vedremo, tra poco,
mentre suscita tutte le forze vive della nazione, pone in moto tutti i valori, fa con rapidità
ricircolare nel corpo sociale i beni
avvivatori, e tiene desta la mente di
tutti nella universale concorrenza a vantag^o poi di tutti, non livella matematicamente le
rjmsse, come con eleganza di eloquio, e
con dignità cristiana chiamano il popolo : poiché nella libera attività di i
ciascuno, sorge una disuguaglianza proporzionale, 6 l'aristocrazia legittima,
cioè dell'ingegno e del valor personale ; ed appunto perchè personale non la
perpetua con violenza alla verità e alla
giustizia, nei successori. Onde i timidi del livello si rassicurino ; se
lunno mente, vigore, volontà possono
saUre nelle società democratiche, con più decoro, al sommo della glorii, o del legittimo potere, quanto ai tempi dei
paladin: di Carlo Magno. Se una cosa
hanno da temere, temtno di quelle
dottrine, che frapponendo violenti ostacoU
alla libera esplicazione delle potenze e attività uman^^ raccolgono
legna agli incendii futuri, e preparano le
bufere sanguinose delle rivoluzioni delle plebi maneggiate allora dagli
arruffoni e dai demagoghi. La vittoria della democrazia, e il suo regno duraturo
nelle nazioni civili, dipende dalla natura medesima del principio che la
informa, che è un portato necessario della evoluzione sociale, e la distingue
dalle democrazie antiche, e da quelle che susseguirono al rinascimento dei
comuni nella età media di Europa. La
democrazia moderna è l'effetto di leggi
non solamente sociali, morali, economiche ìiella significazione loro
ordinaria, ma di leggi antropologiche,
che s'innestano, e s'immedesimano a quelle naturali, che governano l'evoluzione intera delle cose
che sono. £ questo nesso, questa
identità analogica della esplicazione delle razze e istituzioni umane, con le
leggi che signoreggiano la dinamica
universale degU esseri fii da tempo
avvertita, e nella Grran Bretagna, Germania, Francia, Russia stessa ed America
ha validi campioni che la sostengono, e
sarà certo la scienza sociale avvenire.
Coloro, che adesso sequestrano e dividono i fatti sociali, morali, storici
dalla generale forma evolutiva dei varii
fenomeni, nei quali, a dirla col grande poeta,
si squaderna la vita dell'universo, come se consistessero impomati in sé
medesimi, e separati dal mondo, non se ne intendono; e mal comprendono l'alto e
nuovo valore della scienza attuale, e
vìvono ancora della vita postuma dei nostri arcavoli^ E si badi che io non
ripongo tra i cultori dei nuovi metodi
storici, e della nuova scuola dinamica,
i vaporosi filosofi egeliani, od affini, che sbalordirono per poco il
mondo con le loro teoriche sperticaie e temerarie^ e lo stomacarono poi negli
stessi paesi ove nacque : teoriche si
disformi dall'indole delle menti
italiane^ e piuttosto delirii,. che scienza; ma si bene io intendo parlare di quelli, che
mediante norme osservatrici e
sperimentali, e con la sovrana leva dell'induzione, virilmente applicati
(secondo gli esempii ed i canoni del
divino BONAITUI (si veda), che primo nei moderni tempi ruppe non solo nelle scienze fisiche,
ma per analogia in quelle organiche e
morali stesse, i claustri e i ceppi scolastici del pensiero, e le arbitrarie quisquilie a priori) seppero, io dissi,
ricondurre la mente alla realtà delle
cose in ogni ordine della scienza, e
dare base solida alla enciclopedia, che deve essere l'interprete, e lo specchio sincero, e
intellettivo della jiatura. E certo
alcuno non sarà si tracotante da negare gli
splendidi effetti e le portentose applicazioni che tali metodi in ogni
ramo d'arte, di industrie, di scienze produssero, e quanto se ne
avvantaggiarono eziandio quelle discipline che sembrano agli uomini
superficiali maggiormente aliene à^ quei procedimenti : poiché tutto il
bene materiale e morale e la stessa
vittoria della libertà civile e politica nei presenti tempi, è dovuta per chi
ha fior di senno, a questo sovrano e
indipendente indirizzo della ragione. Io so che molti, che si dicono con sorridente compiacenza di sé medesimi,
positivi e fanno professione di arguto realismo, e
canzonano coloro che non partecipano alla loro innata divinazione, trattano quasi da allucinati, e di spiriti
perduti nel vano delle sottili
astrazioni, quelli che dai fatti risalgono alle leggi, dalla norma sensata
degli atti sociali ai principii che ne governano l'esplicamento, daUa esperienza giomaUera dei negozii
privati e pub^ blici, alle profonde
ragioni che li rendono inevitabili. Ma
di tali Tersiti della scienza^ la scienza ha fatto giustizia^ e non ne possono certamente
arrestare il corso trionfale. Quando ci
mostreranno che la scienza^ qualunque
sia il proprio obbietto, è una raccolta inorganica di fatterelli, e di qualche
regoluccia metodica : che le varie
discipline non abbiano tra loro alcun
rapporto, e sieno disposte una dopo Taltra, senza intrinseco legame,
come le pietre migliari, avranno ragione : e allora confesserò contrito che il
manuale che accatasta, equilibrandoli,
sciolti materiali, ne sa più di
Archimede e di Newton. Ma ritornando al nostro argomento della natura della democrazia moderna, ripeto che ella si
disforma da quelle che con tal nome si
ebbero pel passato. Nell'antichità
stavano in generale di fronte due ordini di cittadini, ordini più o meno
distinti, gli ottimati e le plebi: e il valore di queste si argomentava nella
lotta contro i primi, che resistevano ad una
eguaglianza di diritti in parte civili, in parte pubblici, ereditarli
nella loro classe per lungo corso di
tempo: e, condizione sociale rilevantissima, viveva al di sotto di esse, un immane numero di
schiavi, i quali attendevano, mere
macchine animah, alla produzione delle cose necessarie, utili e superflue, ed
anche alle arti, e agli uffici indispensabili alla civile convivenza. Nella età media le lotte dei
borghesi e dei castellani sotto altra
forma è vero, ma lotte di potenza,
eguaglianza e sopreminenza politica si rin.novarono, e se schiavi nel
significato antico non c'erano, rimanevano però i vassalU e i servi della
gleba: ed U lavoro stesso nelle città libere veniva in ogni maniera vincolato dalle maestranze e dalle
corporazioni artificiali dei travagliatori. In tali società certamente non
esisteva esplicito un principio che involgesse la necessità di una vittoria
definitiva della democrazia^ e dì una
forma civile di evoluzione della
operosità di tutti^ e dello Stato medesimo. Non vi ha dubbio che fin da quelle epoche lontane il
principio generatore della democrazia
moderna non operasse; e le condizioni
intermedie non fossero per cosi dire
anelli e spire per le quali andasse svolgendosi con irresistibile moto. Or quasi dappertutto in
Europa quelle condizioni cambiarono: gli
ordini distinti si ruppero, e si fusero
in quello unico dello Stato: le arti, le
professioni divennero libere e comuni: il patriziato perdette i suoi privilegi,
come fu costretto a svestirsene il
clero, ed una uguaglianza perfetta e virtuale dinanzi alla legge si estese dai
sommi agli imi, dal ricco al povero, dal
dotto all'ignorante, dal manuale sino ai maggiori uffizii di Stato. Quindi
nessun ordine di cittadini potendo
consistere e perpetuarsi per via di
privilegi, e tutti dovendo personalmente
bastare a se stessi, privi di appoggio artificiale che in qualunque evento ne garantisse il possesso,
rimane che runico principio che informa
e mantiene la società moderna nella eguaglianza legale assoluta dei cittadini, è il lavoro nella indefinita
molteplicità delle sue forme: il lavoro,
etemo generatore di tutte le cose,
spirito vivificatore del mondo, arte divina che
tutte le cose produce, e produsse, e le spinge, le evolve a sempre nuovi e splendidi effetti: il
lavoro, il quale elevò alla loro altezza
morale e intellettuale Tuomo e la
società, e li redense: conforto e premio
nel tempo stesso; causa ed effetto della democrazia moderna, e garanzia perpetua della sua
durata, e dei suoi progressi. Le lotte contro gli ordini- privilegiati,
del popolo, e delle plebi serve con
Teguaglianza civile cessate, a poter
vivere e durare rimane a tutti e inevitabile il lavoro: e poiché questo è libero, chi non vede, che
per la inesorabile legge della selezione
naturale, il neghittoso dee alla lunga scomparire, anche per la radicale divisione dei beni tra i figli, e lasciare il
posto agli operosi : provvidenziale
magisterio del mondo, che una legge
fisica e organica, si trasmuti socialmente in una giustizia morale! La democrazia moderna è
invincibile per questo appunto che tutta quanta s' impema e vive nel lavoro, reso formidabile e
irresistibile nei suoi effetti dalla
eguaglianza di tutte le classi; onde
ogni specifica distinzione anteriore delle diverse forme di Stati nel loro interno componimento
sparisce, e rimane splendida per tutti, chiara e nobilissima quella di popolo, che tutti comprende, tutti inalza,
tutti redime in un alto e dignitoso nome : in quella guisa. che uno pure ne resta il principio vivificatore,
premio ai buoni, minaccia ai tristi e
agli ignavi che lo dispregiano, il lavoro. A questa conclusione di fatti e
di ragioni storiche e sociali provenne
la razza nostra per una lenta evoluzione
delle sue potenze, governata da leggi
fisse organiche e morali, che poi tutte in una
si convertono, nella costante esplicazione delle forze in ogni ordine di fenomeni dalla genesi
siderale sino alla costituzione della
città moderna. Or vedasi quanto fanno
mostra di avvedimento, di senno, di sapere coloro che si argomentano e sperano
di ricondurre le società presenti alla
forma di quelle passate, sia vagheggiando le antiche repubbliche, o più tristi
le miserande anticaglie del medio evo. Arrestare il corso dei firmamenti, la
produttività della natura, mutar le sue
leggi, sembra a tutti impossibile, e concetto di mente stravolta: orbene, altrettanto impossibile ò
il far retrócedere la umana società, e rifare il cammino percorso, e ritornare
don^de partimQio. La legge del moto
sociale è invitta ed etema ; Tonda trasformatrice della vita passa e non rinverte Spingete, o retrogradi, pure rocchio d'intorno : nessuna orda
selva^a, o popolo rozzo, che possa, invadendo, ripristinare le squisitezze
feudali: all'interno con F eguaglianza assoluta
e col lavoro che la nutre e la difende, nessun modo di elevarsi a casta dominatrice : poichà se >
lo tentassero, sarebbero dispersi in
pochi giorni dal genio libero e
insofferente di privilegi moderno : genio non sorto da condizioni speciali o da particolari
necessità in un breve giro di mura, di
provincia, di popolo, ma effetto e compimento di una legge eterna, in tutta la
razza nostra. Quindi sono vaghe lusinghe,
sperpero di fantasia, sogno sterile, e che uccide miseramente il sognatore ;
poiché mentre ei si travaglia in un lavoro improduttivo e chimerico, altri si
inalza con quello maschio e fecondo, e
rovescia chi perdeva il tempo a insidiarlo.
Alcuno potrà credere forse che in altri paesi d'Europa la legge che noi
abbiamo formulato non valga, o sia
lontana ancora dal compimento come da noi
latine nazioni, avvenne più o meno perfettamente. S'inganna! Della più lontana jRussia
parlammo, e vedemmo che ivi pure oramai
l'eguaglianza si effettuava, e con la eman \U 4à'"fe. iSX I Ideet dello stato.
Definita liella sua natura^ nel suo valore storico y e per la sua genesi la moderna demoera^a^ e
fatti certi ohe ella consiste e si fonda
sulla eguaglianza assoluta dei diritti
ciyili « politici di tuttì^ e sul lavoro libero, indipendente e affatto
personde, vediamo quale sia la forma genkulna e necessaria dello stato che visceralmente ne germo^a, e quale
l'idea che del medesimo se ne svolga, e
si disegni. Trala pevsonate egualmente.
Quindi il diritto di proprietà è ìmplicitameiite contenuto, e identificato a
cosi dire nel diritto al libero
esercizio delle personali potenze,
poiché il lavoro, che è la condizione assoluta della vita e della libertà delle società moderne,
non si consuma soltanto nel suo atto presente, ma si continua negli effetti suoi, giacché in essi restarono
scolpiti inerenti, consustanziati gli
atti successivi via via delle potenze
che li produssero. Imperocché se prodotto un
oggetto, od attuato un fatto qualunque economico, materiale o intellettivo, cessa il lavoro
della facoltà, e dell'arte nostra a
produrlo, egli è perciò ancora una
emanazione della nostra persona, fa parte della medesima, nò potrebbe
essermi tolto gratuitamente, e di forza,
senza che venga io stesso violato in una appartenenza della mia propria persona
: ed è appunto per questo che
TeguagUanza vera, e la condizione sua, il lavoro, fattori della libertà privata e pubblica,
presuppongono la proprietà, e la proprietà
dei prodotti: onde nel lavoro libero, abbiamo non solo un principio
economico, ma giuridico. Ed in vero se
la proprietà, prodotto del lavoro, o la
possibilità di possedere stabilmente
secondo i canoni della legge di eguaglianza, non fosse un fatto, un diritto d'ogni singolo,
eguaglianza e lavoro sarebbero nomi vani, e la proprietà come fu durante secoli
molti un privilegio di pochi, e di caste.
Quindi i comunisti e socialisti che distruggono o violano per arbitrarie
teoriche il diritto pieno di proprietà, distruggono a un tempo eguaglianza,
libertà e lavoro, annichilando gU
effetti della evoluzione generale della società umana, *e spegnerebbero
ogni progresso. Ma l'uomo vive di
libertà, e a libertà si muovono le
genti, e con la libertà alla dignità morale e intellettiva: senza eguaglianza
di diritto^ che piresuppone lavoro, e
virtualmente proprietà, libertà e
benessere non sussistono: il principio loro quindi riinane sempre economico, in cui
implicitamente è contenuto e connaturato
il giuridico. Le attitudini umane sono svariatissime e molte> plici:'le indoli diverse, dissimiU i
desiderii, le aspirazioni, gli scopi, come distinte le condizioni economiclie
di ciascheduno ; onde nasce e pullula una infi*nita varietà di lavori, di atti,
di esercizio, di prodòtti, di gara che
avvivano, rimutano, conunovono e corroborano la società, ove lìberamente
possono effettuarsi. Ma per la ragione
appunto per cui tutte queste attitudini e facoltà debbono pel libero lavoro
esplicarsi^ ed operare in una società
d'uomini eguali virtualmente in ogni diritto fra loro, sorge la necessità
di rispettare reciprocamente il lavoro,
e il suo prodotto in ciascheduno: il che
implica nel diritto il dovere^ e la
ragione reciproca loro. Imperocché sarebbe affatto vana illusione
l'eguaglianza^ e con essa la libertà del
lavoro, e la proprietà dei prodotti, che
indi risultano, se a tutti vicendevolmente si concedesse di violare
Tesercizio degli ^ altri ; ed- illusione
sarebbe pure l'effetto della legge di evoluzione storica, che in quella
eguaglianza di diritti si conchiudeva, e sciaguratamente inutili tanti
sacrificj, tanto sangue, tante violenze
sofferte € superate dai derelitti lungo i secoli, per conquistarla. Quindi come
nel fette economico del lavoro, era
implicito, inchiuso, consustanziato
quello giuridico, cosi c'è pure involuto fu la forza, 3 o e l'UTILITA IMMEDIATA
RECIPROCA (Grice). E si badi che io sono
lontano dall'affermare e come npl sarei,
se il sipposto è ridicolo? che questa
forza, questa utiltà, causa e tutela
delle prime aggregazioni, foss3 voluta per deliberato proposito e
cosciente degli sciani rozzi a
selvatichi : che nulla nelle origini umaae avviene per esplicito divisamente,
ma tutto pet spontanea evoluzione delle
potenze nostre nella coitorrenza e
operosità loro, secondo ragioni di
luogo, di tempo, di razza. Verità che non dee mai dimenticarsi, e canone storico da non mai
trascurare da tutti,!che desiderano
raggiungere con certezza le reali ori(ini
d'ogni umana istituzione e credenza.
Quandoinvero le intelligenze dei singoli uomini primitivi fano si umili,
e sì nel senso implicate, e le
volontèrsì poco esplicite per razionale valutazione di motivi e mentre le necessità di natura,
d'altra parte, appar^nen ti tutte alla
conservazione individuale gli spingv^a
ad aggregarsi, nessun altro stimolo, oltre la
legg legame che quello della forza sia di uno o di più a norma dei varii
modi di ordinarsi valeva a tenerne stretta la convivenza. In quel primo
stadio, in quella prima forma se possa
cosi chiamarsi, di stato, nessun
principio teocratico, mitico, simbolico
era sorto, dappoiché le intelligeme erano ancora troppo chiuse, e involute e non pote-^ano
sollevarsi a quelle idee, proprie
d'altre età, e coniizioni psicologiche successive. In questo stadio gF Stinti
animali prevalevano, e la mente
sordamente in quando tra essi sorgono ingegni che o per senso di umanità^ o per ambizione personale, o sete
di gloria si fanno campioni di più giuste leggi^ e preparano i rirolgimenti sociali. Al di sotto di questi
ordini superiori^ altri minori stanno sinché si giunga alle plebi, le quaU benché non serve, pure non
usufruiscono di tutti i diritti dei
primi, e per ultimo vive una moltitudine di servi, cose e non uomini. Or tutto
questo immenso numero di meno
privilegiati, e di servi, mentre è materia infiammabile per chi nacque in alto,
e vuole per buono o malvagio fine
adoprarla, essa stessa é spontanea
artefice d' insurrezioni o rivoluzioni sociali, che conducono in ultimo alla
eguaglianza delle persone e dei cet^. E
ciascuno sa, come sempre in un modo
nell' altro, continuamente ciò avvenne, per
lungo corso di Secoli : fatti che predispongono ed avviano lo stato alla
terza sua forma, la simbolica. In questa novella forma in cui si risolve
l'idea dello Stato antecedente, i
diversi ordini e poteri, comecché permangano ancora nominalmente, cangiono però d'origine e d'indole propria per la
comune eguaglianza che quasi si raggiunse, sancita dai nuovi codici e dagli statuti.
L'investitura divina del supremo potere,
la quale a sua volta istituiva ordini, e delegava uffici in virtù di questa
sublime prerogativa cessò quasi,
rimanendo ancora, qualunque sia il nome
del governo, soltanto come fede pubblica, nella elezione continua ed
ereditaria delle famiglie regnanti non
solo per volontà nazionale, ma si per la divina
grazia. Il quale presupposto teologico però per l'incremento della
mentalità, ed il progresso intellettivo
della cittadinanza, ed un sentimento implicito nelle classi inferiori della
' eguaglianza civilei anche quando e
dove non si rese universale, divenne piuttosto un simbolo sociale che una fede positiva ad un fatto religioso
come per il passato. In qualunque confessione
religiosa tra i popoli civili, l'adagio che ogni potere viene da Dio, come ogni evento è
signoreggiato dal medesimo, resta nella
fede e nella abitudine generale degli spiriti
eziandio allora che il pensiero tanto si
aflfòrzò, ed emancipò da dileguare ogni mitica rappresentazione, -e
valutare più razionalmente le leggi della
natura e quelle che reggono i moti del mondo sociale, dove veracemente il principio etemo si
matdfesta. Onde Tidea di un influsso
divino, e di un regime provvidenziale
immediato negli ordini politici perdura
nel nuovo concetto della vita dei popoli, e cinge per cosi dire di una aureola religiosa le persone
che esercitano le più alte funzioni dello Stato: benché a queste non presiedano
più, tranne la famiglia dominatrice, classi privilegiate, che ne ereditano gli
ufficii. La quale discrepanza tra le
idee e le cose, tra gU ufficii e le
persone, tra la costituzione razionale, a
dir così, dello Stato, e le abitùdini degli spiriti nel supporlo preordinazioni divine, dà vita
appunto alla forma simbolica, di cui
discorriamo. Le leggi razionalmente sono discusse e ordinate, i poteri dello
Stato si esercitano in forza di queste
leggi, le persone che gli rappresentano
non sono più identificate con I medesimi, il sentimento della libertà umana è
profondo, e quello della eguaglianza dei
cittadini dinanzi alla legge, diviene
una verità sempre più chiara, amata e
voluta; ma pure ogni grado pel quale sì ascende
dalle funzioni infime alle supreme, è vivificato da una rappresentazione
simbolica ^ ove continua sotto una certa
forma fantastica e incoscente, la mitica e teecratica natura dei poteri della
fase anteriore. Cosi la grazia divina
pei principi, Temanazione della giustizia persoi^ale, la permanenza legale, se
non privilegiato, dell'ordine patrizio, e la facoltà di aggiungere membri al medesimo con titoli vecchi, la
costituzione dei diversi poteri come
entità sostanziali, e via discorrendo, sono tutti simboli sociali a cui si
attribuisce un valore pubblico, mentre
in sostanza le condizioni civili e
intellettuali del popolo ripugnano a queste
credenze. Questa forma simbolica
della idea dello Stato perchè si effettui e si manifesti, è d'uopo che
l'eguaglianza dei cittadini nel giure civile, se non in quello politico, sia raggiunta: poiché il simbolo
sottentra appunto alla personificazióne effettiva di una emanazione o
delegazione divina neUe famiglie, o ceti preposti al potere, e con esso quindi
identificate : perchè il sentimento
della eguaglianza comune già esplicito
nelle moltitudini, e legittimamente stabilito nei rispetti civili, scassina, abbatte, ruina l'idolo
teocratico che dianzi regnava: onde la
forma simbolica dello Stato è propria di
quelle nazioni civili che avanzarono nella
democrazia, e preposero agli ordini e ai moti sociali del medesimo un principio affatto razionale:
come si vede, a modo di esempio, in
quasi tutti gli odierni Stati d'Europa.
E quindi mentre gl'intendimenti più
esplicitamente manifesti, verso l'eguaglianza, là libertà la
rappresentanza nazionale prevalgono nel governo
della cosa pubblica, e nella formazione delle leggi, contemporaneamente perdurano formolo, fatti,
istituti che con quelli intendimenti sono in contraddizione^ e che solo hanno ragione transitoria di vita,
in quanto sono meri simboli di più
antiche credenze, dommi, costumi. Cosi
molte formule di diritto e di procedura,
d'investitura agli ufficii, e via discorrendo, come creazione di nobiltà
nuova, distribuzione di titoli, ordini
cavallereschi, le quali cose tutte non avendo oramai alcun valore reale e positivo, restano come
meri simboli nella costituzione dello Stato. Se, come dimostreremo, cagione e
fonte di questa terza forma, fu il
principio di eguaglianza civile, ed un sentimento più esplicito della libertà morale e
giuridica, che distruggevano gli antichi idoli, egli è un vero progresso di fronte alle forme antecedenti, ed una
ultima preparazione alla forma pura e razionale deUa democrazia futura, o a
quella che i^oi appellammo funzione: e
già ne delineammo per sommi capi la natura, e
l'organamento. In questa ultima forma che è quella verso cui corrono le società moderne, per
adagiarvisi completamente, effettuandone
in ogni singola parte il principio
generatore, i simboli cadono, come cadde la
forza, ed il mito, e la saldezza dello Stato dipende e rampolla da una legge naturale di
esplicamento necessario delle società umane, intrecciantesi con tutte le altre che armonicamente compongono e
reggono r ordine universale. La quale
legge riassumendo in sé stessa tutto il
valore morale, giuridico, economico
della operosità singolare dell'uomo consociato in politico e civile
ordinaùiento, possiede di fronte alla ragione particolare e sociale quella
assoluta autorità, che per l'innanzi
fondavasi in finzioni legali, o nella
forza. Imperocché nella democrazia moderna ogni potere emana
legittimamente dal popolo, chiamato nei
suoi liberi comizi, come ogni delegazione di nfficii deriva da lui direttamente o indirettamente:
quindi nella quarta forma dello Stato,
ogni potere rampollando dal fette concreto del suflfragio comune, ed ogni delegazione agli ufficii per essere legittima
ed autorevole per diretto o indiretto fecendosi dal medesimo ; e i varii ufficii costituendo le funzioni che
via via s'ingradano a sempre più alto valore, a comporre nell'insieme loro il vivo
organamento della nazione, non vi ha più
luogo a qualsiasi finzione, e cade pure la pericolosa nozione dello Stato, come
astrazione legale : la quale fu più
volte cagione d'errori, di sventure, di
tirannide mostruosa. Imperocché rese possibile Tincamazione dello Stato in una
persona, secondo la vana e stolta
sentenza del più fastoso e pernicioso dei despoti francesi; e die e dà
occasione alle teoriche e conati
impossibili e micidiali della civiltà, dei comunisti e socialisti di tutte le
epoche storiche. Or se riflettasi e s'indaghi quale sia stato il principio
trasformatore della costituzione dello Stato per il lungo corso della storia in queste quattro
forme che assunse, vedremo di nuovo
mostrarsi il sentimento, il concetto, la vittoria mano mano della eguaglianza
morale, civile e politica tra gli uomini, che a
poco a poco ridussero e spensero la prevalenza della forza, distrussero gli ordini e i poteri
privilegiati, dissipano i simboli che ancor rimangono ad offuscare la pura razionalità civile, e preparano la
vittoria della libertà e della legge in
tutte le classi dei cittadini. Onde,
abbattuta ogni finzione, autorità arbitraria, mito, simbolo, privilegio, resta a sussidio unico
di esistenza. IDBA. DELLO STATO di progresso economico, intellettivo, e di
libertà, il lavoro libero, che come provammo fin da principio, è il cardine e lo spirito creatore delle
società moderne: e quindi seguendo il
corso della evoluaione storica dello
Stato in Europa, e nelle razze che la popolano,
e che via via si allargano a vivificare le altre parti del mondo, si pervenne alla medesima
conclusione, cioè che il sentimento
del^a eguaglianza che ha per strumento
il lavoro fisico-intellettuale, e la sua estrinsecazione in un fatto giuridico,
è il resultato, come è il fattore di
tutta la storia antecedente: e la democrazia, forma attuale e necessaria delle
società moderne, è l'effetto per una parte, e il principio per l'altra, del generale incivilimento. Noi
dicemmo che le nazioni moderne riposano
tutte sopra un fatto e un principio economico,
poiché riposano inevitabilmente e s'impemano nel lavoro, ed in questo si
risolve tutto quanto il valore e l'ordine della attuale iTOLo ni metterebbe l’atto della più violenta
tirannide, e la democrazia civile non
sarebbe phe una turpe copia di quei
sistemi d'intolleranza, cui ella combatte da
secoli. Quindi ove l'eguaglianza giuridica del cittadino è un fatto, e
la democrazia prevalse, la libertà di coscienza, o la inviolabilità del foro
interiore, è una condizione della sua legge, è la sua essenza medesima. Noi abbiamo adunque in Italia nemico alla
unità nostra, alla indipendenza, alla
libertà, il Papato, che da pertutto
d'altronde si pone come tale di fronte
alle nazioni, e al pensiero : e poiché il Papato è una istituzione rehgiosa, la forma di un sistema
spirituale di credenze, una fede, così
per lo Stato importa, come sentimento
individuale, una inviolabilità assoluta pel
principio della libertà di coscienza, condizione impreteribile della vera
democrazia. Quindi a combatterlo
abbisognano armi adeguate alla smisurata potenza, e che non oflFendano i diritti dei cittadini.
L'unico strumento, l'unico modo di lottare, e di vincere, è la.divisione
assoluta, ma veramente assoluta dello Stato
dalla Chiesa: non ce n'è altro, né vi può essere, che tutti si romperebbero dinanzi alla sua forza.
Le persecuzioni, le minaccie, l'intromettersi ad ogni ora nelle cose attinenti strettamente alla
Chiesa, non lo debilita, lo invigorisce,
perchè la fede della maggioranza ingigantisce nella fantasia il castigo, e lo
trasforma in martirio, e tronca i nervi allo Stato. Ogni ingerenza di questo sia a favorire una parte
del clero, per abbatterne un' altra, è
seme di futuro danno, è un intricarsi in
un dedalo senza uscita, è un appoggio indiretto alla istituzione che vuoisi
conibattere. Lo Stato nella democrazia moderna, appunto perchè sorto e informato da questa, dovendo
tutelare con forza e scrupolo la libertà
di coscienza, dee essere indifferente alle varie forme di fede, di culto: tutte sono eguali dinanzi a lui: e la sua
operosità e ingerenza in queste materie
dee solo versare nelr impedire che i varii culti con fatti si cozzino, e
si osteggino, ed offendano cosi la
generale libertà di coscienza. GHi ordini e gli atti religiosi e civili possono
nello Stato moderno vivere insieme, ma assolutamente distinti, senza mai
confondersi, senza mai, come erroneamente
si crede, a vicenda rafforzarsi; essi sono indipendenti l'uno dall'altro. La
vita civile è una cosa, quella religiosa
un'altra: la loro confusione è dispotismo inevitabile,, e il più tristo e il
più feroce. H matrimonio civile, i riti
funebri estrinseci, r insegnamento,
l'educazione, la libera espressione del
pensiero, la costituzione delle leggi, il governo della cosa pubbKca, sono diritti propri dello Stato
e della società laicale: né si dee
permettere che tra queste facoltà, e le
correlative religiose vi sia mischianza, e
confusione mai: quantunque sia lecito alla diverse confessioni religiose risguardare quegl'atti
dal proprio e spirituale punto di vista,
ed ai cittadini il conformarvisi, quando non ledano l'ordine pubblico. La chiesa
nell'esercizio dei suoi riti, del suo culto, nelr insegnamento religioso, in
tutto ciò, in una parola, che spetta
alla sua indole interna spirituale, è libera,
e deve essere, dall'intromissione dello Stato, quando non assalga apertamente le sue istituzioni, e
non offenda i suoi diritti: ma l'insegnamento pubbKco dei cittadini, popolare, secondario, superiore,
tutto, dee ni essere esclusivamente per quanto concerne i gradi^ i diplomi, i diritti che ne provengono di
pertinenza assoluta dello Stato, e sotto la di lai unica e sola direzione. Come
tutti i cittadini sono eguali dinanzi
alla legge, tutte le istituzioni civili dallo Stato dipendono: e quindi
il clero in quanto alle persone fa parte
del diritto comune: nessun privilegio sostenendolo ove egli infranga le leggi :
il codice e la procedura penale colpiscono il sacerdote, come il laico sia nelle transazioni civili, come in quelle
d'ordine pubblico. La giustizia perfetta richiederebbe che lo Stato non s' ingerisse affatto nelle rendite dei
diversi culti, ne spendesse una lira a
mantenerli : poiché in un popolo essendo diverse le confessioni, se lo stato
ne sussidii una sola, ne sc'ende la
mostruosa consegueìiza che taluni, come
contribuenti, paghino pel culto non
proprio, e che anzi ripudiano. Ogni culto dovrebbe sostenersi "dalla libera concorrenza e
cooperazione dei propri credenti, e lo
Stato non avrebbe sulla proprietà di ciascuno altro sindacato che la tutela
delle medesime, sciolte da qualunque
vincolo arbitrario, sottoposte alle
medesime leggi, e agli stessi tributi.
Questa condizione civile dei culti è V unica giusta, e lo Stato dee intendere ad affrettarne il
compimento. La divisione della Chiesa dallo Stato nei termini accennati è necessaria al vercJ progresso
delle nazioni, ed è l'unico modo della
sconfitta del papato, come ostacolo alla
libertà civile dei popoli. H fondamento
alla secolarizzazione dello Stato consiste principalmente nella
direzione esclusiva delle scuole, nelle
quali non dovrebbero immischiarsi legalmente i chierici, né compartirvi
nelle medesime alcun insegnamento positivo delle religioni, essendo tutte
queste fuori della cerchia delle
attribuzioni dirette del governo. Poiché se fosse concessa l'istruzione intomo
ad una sola nelle scuole, sia pure la
più prevalente, i cittadini che
appartengono ad altre religioni verrebbero lesi nei loro diritti, in quanto e
difetterebbero di uno speciale insegnamento,
pel quale pure pagano il loro tributo, o
sarebbero costretti ad assistere a
definizioni dommatiche che non approvano ; onde verrebbe in parte lesa
quella eguaglianza che è l'anima d'ogni
Stato che voglia essere civile. L'insegnamento
religioso poi affidato a laici non può riuscire che vano, e incompleto, destituito pel fatto stesso
delle persone, di autorità, e di
competenza: quindi si rischia, tenuto
conto delle varie opinioni dei docenti, che riesca più di danno che di profitto. La dottrina
elementare dommatìca meglio si imparte nel seno delle famiglie, l'autorità patema e* materna essendo più viva
e sentita che quella di estranei ; e più propriamente nella Chiesa, per bocca di coloro che a ciò sono
superiormente ordinati; ove Uberamente e con efficacia si professa. Nelle scuole dovrebbesi diffondere,
rinforzare ad ogni occasione quel
sentimento di civile onestà, ove
consiste ogni dignità morale, comune a tutti gli nomini, a qualunque fede appartengano. Che
se, come altri notò, il rimuovere dalle scuole
l'insegnamento religioso per mezzo dei
chierici, o il toglierlo affatto, temesi
occasione di allontanamento dalle medesime di
grande copia di alunni, è questo uno dei soliti timori, prodotti da fatti particolari innalzati dalle
fantasie e dagli interessi di vario
genere, a legge, e che producono inevitabilmente questo effetto solo, cioè di
non osare mai avanzare, avendo paura della propria ombra. Quando a nessuna
professione, a nessun tirocinio, a nessuno utile esercizio sociale non si
potesse pervenire, od essere legalmente
abilitato a goderne i vantaggi, se non
frequentando le scuole dello Stato,
sottomesso ai loro esami, e ai diritti che ne rampollano,
Tallontanamento non sarebbe di lunga durata, e dopo qualche oscillazione, o
ricalcitranza, tutti volentieri e senza
ombra di scrupolo vi interveprrebbero. Ben poco conosce gli uomini e.i
tempi nostri colui che dubiterebbe di
una tal verità: gli esempi che la
testimoniano in altri ordini di fajtti,
non m^cano tutti i giorni. Certamente, e questa è la condizione assoluta della riuscita, il
governo dee curare con assidua e
scrupolosa attenzione, e ferma volontà
che le scuole dello Stato sieno le migliori di
tutte quelle che sotto altro nome possano sorgere, e quindi i maestri dai gradi infimi ai supremi
sieno degi^ dell'alto magisterio a cui
si consacrano senza cerna partigiana, e
che gli stipendi si accrescano, onde
onestamente possano vivere e con quejla dignità
e decoro atti ad infondere eziandio per sé stessi nelle giovani menti il sentimento di autorità:
poiché pur troppo lo squallore, la miseria,
gli stenti palesi, degni di altissimo rispetto, quando sieno virtuosamente sopportati, non sempre accrescono per la
fralezza e vanità umana, merito in chi
ne è vittima immeritevole. Finché risolutamente non si porrà mano ad un tale riordinamento radicale dell'insegnamento,
e non verrà divisa la Chiesa dallo Stato
nelle pertinenze civili, vano é lo
sperare di vincere grinflussi faziosi
clericali, e la continua intromittenza loro nelle facende laicali* Non
oso sperare^ tanta e la nostra fiacchezza^ un si gran bene^ e si necessario^
prontamente, benché sia Tunieo modo di
vincere. Ma quello di cbe sono
certissimo; si è che dovrà farsi^ quando che sia, perchè è Funico argomento per combattere il
pertinace iiiimico. Alcuni sottilmente sillogizzando potrebbero
opporre a queste nostre dottrine
l'obiezione, dimandando il perchè lo
Stato solo e nella democrazia prevalente,
può foggiare la forma interna di sé medesimo, secondo il canone del giure civile esclusivamente,
negando questa facoltà a quello
ecclesiastico, che si radica parimente nella inviolabilità personale dei cittadini.
Alla quale speciosa obiezione facile è
la risposta : poiché Fattuazione
organica delle funzioni e delle leggi onde
risulta poi la nazione legalmente costituita, dipende e si evolve da quelle facoltà e potenze
individuali che spettano all'esercizio
d'atti esteriori, di fatti econonùci, di procedure eflfettive, riguardano fini
essenzialmente terreni ed eudemonici, i di cui profitti e utiUtà sono per sé
medesimi così definiti e certi che
acquistano spontaneamente l'assenso dell'universale : mentre il sentimento religioso, e le formolo
onde obiettivamente si veste, variando da persona a persona, e riguardando interessi, e speranze che
effettivamente qui BuUa terra non hanno
compimento, se dovessero dar forma a
così dire civile, ed estrinsecarsi in un
ordine pubblico di popolo, recherebbero confusione e anarchia, o prevalendo il più forte,
ritornerebbe a galla lo stato
teocratico, che è la più bieca e turpe
tirannide. Quindi mentre il sentimento religioso che nella democrazia
vera dee risolversi nella assoluta liberta di coscienza viene tutelato come DIRITTO
INALIENABILE [cf. Grice on Locke on the inalienable right to make a word stand
for a idea] dallo Stato, non può^ come il fatto meramente giuridico, assumersi a principio organatore
della società medesima, come qualunque altro sentimento dell'animo umano. Ma
alcuno, e ce ne sono molti, più
appassionato amatore,, che fidente nei benefici effetti della libertà, insorgerà a ripetere ciò, che
si andò ripetendo dai dottori in
politica soventi volte, che^ concessa
questa separazione dello Stato in tutti i suoi ordini dalla chiesa, basterà poi
a contrapporsi vittoriosamente al gigante che ci sovrasta, e agli influssi perniciosi del medesimo verso la civiltà in
generale, e la libertà della nazione in
particolare? Una potenza cosi
formidabile verrà poi sconfitta, in quanto agli
effetti civili, con un tale metodo, e non userà invece della libertà sconfinata che le concediamo, a
schiacciarci più prontamente? Vane paure! Se il papato conta una vita di diciotto secoli, se la sua
efficacia penetra da per tutto, se sotto
gli ordini suoi milita una moltiforme
schiera di sudditi operosi e ubbidienti,
e formolo adesso nel sillabo la teorica^ del dispotismo teocratico, l'umanità e la razza nostra
europea numera d'altra parte, ben più secoli di vita: crebbe e si emancipò con lotte continue e pertinaci
d'onde uscivano più vive scintille di
luce intellettiva, prorompevano più fervidi desiderii di libertà ; si
rafforzarono propositi più civili di vittorie futurp, che andavano animando
mille e mille e poi milioni di adepti,
che poi si dilatavano baldi e procaci su tutta la terra^ recandovi non solo germi di verità e libertà,
ma istituzioni imperiture, Ed ora non solamente nel suo vasto e onnipotente
pensiero agita tutte le genti europeo; ma ravviva metà del nuovo mondo j fascia
le bollenti terre dell'Africa,
signoreggia l'Asia, ripopola l'Oceania,
e stende la mano minacciosa già sul Giappone e la China, che eccita a nuovi
fati, o li trasforma a sua immagine :£ già nell'animo e nell'intelligenza sua
stanno indelebili, consustanziati, e immoriali l'eguaglianza civile, politica e
la libertà del pensiero : tre libertà che non si spengono, tre soli che non vedranno tramonto, e che bastano di per
sé col tempo a sconfiggere qualunque
potenza. Al sillabo noi opponiamo il
codice del libero esame, e l'immenso
jcumulo delle conquiste della natura, che sono strumenti poderosi non di
servitù, ma di libertà, ed emanjcipazione: al servaggio delle menti, la vittoria
vivi£catrice della scienza moderna, al mito il vero, alle jsquallide e lugubri letane dei mistici, lo
splendido e stridente carro
dell'incivilimento. Chi dubita della
finale vittoria, chi crede di fronte alla civiltà moderna ultrapotente il Papato, non intese la storia,
o non comprese la legge indefettibile
della nostra intrinseca evoluzione, e
non sentì nell'anima quella voce divina
che grida alla nostra umanità. Sorgi e cammina ! Che se vuoisi opporre all'esito favorevole della
lotta, anche la enorme virtù della unità del Papato, come forza direttrice, tenacemente nelle sue
compagini costituita, e presente per tutto, si pensi che adèsso la nostra razza omogenea e identica nei tratti
suoi principali, e animata degli stessi sentimenti, è parimente diffusa e organizzata nel mondo, e che la sua
unità morale si va compiendo ogni
giorno. Perchè per i trovati meravigliosi della scienza e dell'arte, che
assoggettarono alla volontà umana le potenti energie della natura^ il pensiero
che da prima esemplò sé stesso e^ scolpì
nelle pietre; nei bronzi^ nelle pergamene dei
popoli separati^ o inimici^ or non solo con la stampa si moltiplicò con la velocità quasi del
concepimento in innumerevoli copie, ma
identificandosi con l'immane rapidità
deirelettrico in un istante, e in un punto
raccoglie tutto ciò che avviene su tutta la superficie del mondo: e le
merci, gli uomini, le dottrine, travalicano con l'impeto della ijieteora nejla
espansione del vapore, immensi spazi di
terre, perforano montagne, e sorvolano emulando i venti, gli oceani,
aeoumunando prodotti materiali e intellettivi in breve giro di giorni: onde, per la originaria
parentela e indole della stirpe or
dominatrice, tutte insieme le forze
domate della natura, van componendo l'unità di
pensiero^ di scopo, di istituzioni per ogni dove : contrapponendo ai
concili! jeratici, le splendide e provvide mostre dell'industria e del sapere
universale. La quale unità, perchè
effetto della spontanea e nativa
evoluzione della specie, non meccanico sistema di artificiale organismo,
è assai più potente di quella pontificale: ed ha nella legge che la governa, e
negli effetti che naturalmente ne
rampollano, la necessità d'infuturarsi,
e la inevitabilità della vittoria. Di fronte
alla cattolicità dommatica e ufficiale, la cattolicità deliastirpe, del
pensiero, delle istituzioni, della Civiltà va
costituendosi, e poderosa si accampa, libera signora di sé medesima. Pongasi mente a questo fatto
innegabile, e veggasi se le paure soverchie di chi nulla osa tentare, sieno giustificate dalle
condizioni generali del mondo. Ma si
rassicurino i timorati e i timorosi,, il
sentimento ingenuo e nobile religioso non verrk
Spento ma non verrà spenta neppure quella luce purìssima di verità, quel
calore di bene, quel fuoco di libertà
che crebbero, e trionfarono a costo di lacriimè, di sangue, di stragi, di roghi infami e
scellerati. Sia libera la chiesa, ma
libero lo stato e autonomo in ogni
ordine di sé medesimo, e sieno libere tutte le
religioni che in esso convivono : non temete, il resultato finale non è
dubbio, trionfo della libertà da una
parte, ed epurazione dall’altra. Altri forse può dubitare, pur
riconoscendo l'impossibilità della vittoria del sillabo nel mondo, che
parzialmente i popoli rischino secondo le proprie condizioni civili diverse, soccombere, ed in ispecie Y
Italia ove il papato ha la visibile sede, e regna il pontefice. Vero è che non
tutte le nazioni avanzarono siffattamente da superare e non temere gl'influssi
perniciosi del Papato, e sarebbe follia
il negarlo. Ma oltre gli aiuti che
vengono loro dal di fuori per la continua
efficacia del generale incivilimento, che da per tutto penetra e si diffonde, ciascuno di questi
popoli, appunto perchè affine alla comune razza europea, ha in sé medesimo la necessità della emancipazione,
la quale può parzialmente ritardare ad
effettuarsi, ma deve in ultimo avverarsi
per le ragioni discorse. In quanto poi
all' Italia in particolare, non conosce l' indole del popolo nostro chi crede alla sua etema e
congenita servilità religiosa
tramutantesi in quella civile; chi crede
che a questa posponga i suoi affetti e i suoi
interessi; che rinunzi alla terra ed ai suoi leciti godimenti; voglia, parlo
dell'universale, porre in non cale la
nazione, rinunziare all' indipendenza ed alla
libertà per vivere una squallida vita di chiostro, e salire per lugubre
scala al paradiso. L'italiano è conservativo, non retrivo, per indole, e non
inerte nel pensiero; e altrettanto
rapido' ad afferrare il lato giusto, positivo delle dottrine, valutare con
abilità ingenita gli avvenimenti e considerare ed estimare le sue condizioni; aperta una via, sorto un
barlume di vero alla sua mente, vi
s'innoltra con prudenza si^ ma
virilmente, e con tenacità la segue. Conosco, grazie al cielo, il mio paese, e
a palmo a palmo io posso dire; conversai
con tutti i ceti, in tutte le parti della
penisola, ed ho una chiara idea delle loro condizioni morali; e certamente in alcune provincie tali
condizioni non sono liete e normali, e richiedono tutta la sollecitudine provvida e saggia dei
governanti; ma non si illuda
l'osservatore superficiale, anche fra loro,
come dappertutto, l'agitazione operosa nazionale sotto mille forme si propagò; l'idea del riscatto
politico, il sentimento di libertà, una
forma migliore e più degna di vita,
traversarono, mossero quelle menti e quegli
animi, ed all'occorrenza saprebbe deludere le cieche mene dei retrogradi e dei demagoghi. Cosi
dunque non temasi in Italia della libertà concessa alla chiesa e alle chiese, e
si proceda con risolutezza; si armi dei suoi diritti naturali lo Stato, e si lasci il clero esercitare il suo ufficio,
e di fare e disfare in casa propria in
quelle cose che strettamente si
attengono al suo ministerio. Contro la fazione clericale, non v'ha altra
politica possibile; ogni aggressione è vana, ogni minaccia non rintuzza ma
fortifica l'avversario, ed ogni
ingerenza dello Stato nelle cose interne
delle chiese, riesce poi di danno a sé stesso.
I clericali, e parlo della fazione politica loro, ben sanno del resto^ (gli abili e che hanno il
mestolo in mano) che senza lo Stato e il
suo appoggio, le loro forze sono monche
e sfatate ; imperocché il giorno nel
quale in Italia^ per una ipotesi impossibile avessimo un parlamento del loro colore e spirito, e
quindi un governo uscito dalle loro
viscere, sarebbe l'ultima ora della loro fazione, poiché nessun popolo di
Europa vorrebbe e potrebbe mantenere rapporti col nero e funesto governo,
mentre una riscossa di tutte le gradazioni dei partiti liberali della penisola
fora inevitabile o spaventosa. Questa i clericali sanno, e quindi non tentano, né tenteranno l'ultima prova, e
solo procacceranno di tenere Ymo zampino ed un addentellato nel giure pubblico della nazione, perché lo
Stato da sé medesimo, per gli errori
servili o erroneamente aggressivi, si
procuri una certa rovina. Quindi, qualunque sia il governo che resti al timone
della nostra patria, non devii dalle norme che ora tracciammo; ogni altra politica sarebbe funesta; con
l'apparenza della forza e della libertà troncherebbe i nervi a sé stesso. Adoperandoci di questa guisa, noi
renderemo a Cesare quel che è di Cesare,
a Dio quel che é di Pia, secondo il
detto profonda del Nazzareno ; e mentre daremo saldi fondamenti alla libertà ed
al suo incrementa, faremo un bene
eziandio alla chiesa, poiché, toltole ogni speranza d' ingerenza nelle cose
civili, e richiamata al suo morale
ministerio, abbraccerà nella carità
religiosa anche la patria ; come sanno molti
buoni fra loro, i quali sentono che per conquistare, secondo la loro fede, la'^patria celeste,
bisogna amare e difendere quella
terrena. L'altra fazione che tenta e vorrebbe sconvolgere l’attuale ordine di
cose civili, quali vennero prodotte dal
lento moto della evoluzione sociale, è la demagogia anarchica e selva^ia,
avente gradazioni diverse, come diversi
propositi, diffusa da per tutto,^e stretta
da vincoli, patti, associazioni, e guidate da uomini risoluti. E da prima è d'uopo, per giusta ed
equa estimazione d'uomini e di cose,
distinguere ed assolutamente separare da una tale fazione il partito
repubblicano che si agita anch'esso da per tutto, e che in varie parti del mondo ha vita effettiva e
legale riconoscimento. Vero è che una
tale distinzione sarebbe superflua e stolta, se pur troppo lo zelo improvvido o
l'ignoranza, non spingesse molti a confondere cose insociabili, e a far tutto
un mazzo, sieno buoni o rei, di quelli
che a puntino non partecipano al grado
presente del loro liberalismo. Il partito repubblicano, quando come in generale
si mostra, segue la legge sana della
democrazia moderna, riposa sui medesimi
fondamenti giuridici e éivili dei popoli retti
a monarchia rappresentativa; mantiene saldi i principj di proprietà, di
famiglia, d'ordine, senza cui convivenza umana non è possibile, ed è una
naturale e necessaria evoluzione sociale. Quindi è d'uopo non fraintendersi, né recare violentemente e con
palese ingiustizia le colpe, i danni, i pericoli alla forma repubblicana, che
sono propri esclusivamente della demagogia.
Dispregiare con puerile sussiego questa torbida fazione, è follia; la
fidanza di sterminarla con le sole armi,
è concetto che non può capire che in un cervello da Don Chisciotte ;
combatterFa con palliativi o discorsi, è
troppo ingenua bredulità. A mali morali,
profondi, tenaci, universali come quelli di cui trattìatnO; si può
ovviare soltanto con serii e virili propositi, e Còli rimedi adeguati alla
forza che li produce IEj prima condizione a sapersi schermire da un tale nemico, è quella al solito di non farsi
illusione alcuna intorno alla sua
potenza, indagarne l'origine, e non
attenuarne il pericolo. E questo si farà per noi il più brevemente possibile, onde premunirsi in
Italia anticipatamente dagli influssi e danni di questo malanno, perchè la libertà sana e la civiltà non ne
soffrano detrimento. La demagogia o
l'insurrezione anarchica delle classi
povere e proletarie non è nuova, e si può dire che i germi sbocciarono col costituirsi delle
società primitive; imperocché di fronte ai più potenti, ai più agiati e felici, stettero sempre i derelitti
dalla fortuna, i deboli, i miseri, qualunque ne fossero le cagioni. Ma se il
sentimento, il mobile, lo scopo si
mantenne identico di mezzo alle trasformazioni sociali, la forma della demagogia cambiò, e i suoi
seguaci e proseliti crebbero
spaventosamente di numero. Quindi
nell'età nostra, per quanto si estende la civiltà europea sopra la
terra, assunse una forma consuonante con
quella naturale del progresso sociale, delle condizioni economiche presenti, e
con l'immenso accrescimento della popolazione. Or noi si vide che il
fondamento, il fatto che costituiva l'indole propria della società moderna e dell'incivilimento stesso,
è un fatto economico, il lavoro, reso
libero, scevro di qualsiasi privilegio
od ostacolo, e sostegno unico dei singoli
associati, nella moltiforme sua natura, e nella immensa varietà dei suoi atti, dal rozzo manuale al
più alto intelletto, il sentimento di
questa feconda e santa mT-erità, pel naturale svolgimento che in tutti lo
produsse e lo suscitò; nacque nell'animo di tutte le classi vagamente le eccitò, spingendole di un salto
con Timmaginativa agli effetti ultimi e salutari di questo principio, valicandone i necessari intervalli
per ignoranza da una parte, e per impeto di bisogno dall'altra. Indi la foga
pertinace, perseverante, ma più calma, o
Torrido assalto subitaneo di selvaggie ire
contro quei medesimi sostegni, quelle istituzioni che Bono anzi i mezzi di giungete gradatamente ad
una condizione migliore di tutti. Cosi
nacquero per un verso le associazioni
della cosi detta intemazionale, o le
improvvise ruine della comune. Ma nel tempo
stesso che noi dobbiamo combattere le funeste teoriche di queste sette,
e soffocarne con pronta energia i
delirii nefandi, non bisogna, lo ripeto, fanciullescamente cullarsi nella idea,
che fatti cosi universali, e che in un
modo o nell'altro si mostrano per quanto
fii stende il campo civile delle nazioni, sia un mero capriccio
momentaneo d' ebbre moltitudini, vapore di
idioti, e fenomeno che non abbia fondamento di sorta nella storia; né in se, in mezzo al profondo
errore che l'offusca, e lo insozza, un
raggio e un filo di vero. E noi vedemmo
già che la demagogia ha la sua storia, antica quanto il mondo, e svolgentesi e
sgomitolandosi con i secoli parallela alla trasformazione fiociale della nostra stirpe. Ed il vero, che
questa fazione nelle sue teòriche micidiali racchiude è questo: che ad ogni uomo, ad ogni cittadino, sia
qualunque la nascita, l'economica
condizione, incombe egualmente l'obbligo
salutare del lavoro, ed è compartecipe di
tutti i doveri che stringono autorevolmente tutti i consociati a prò di
tatti con reoiprocft operosità; imperocché l'ozio infecondo, e soltanto
consumatore et cormttore, è oramai agli
occhi di tutti il più tristo, squallido
e vituperevole vizio sociale, la causa e il
fomite di ogni disordine e, d' (^ni ruina. Ma questo vero, che or comincia, rispetto al suo valore
sociale, a risplendere alle menti di
tutti, e che mano mano che la società
progredisce, sempre più palese si farà,
e che dee divenire la fede comune, nelle sette demagogiche si trasformò
in ribellione ad ogni sano principio, e
divenne piuttosto sorgente di miserie e
di lutti, che fonte di prosperità per gli stessi che si Intano in suo nome. Quindi la fallacia nella
credenza di poter sterminare ogni sentimento religioso come quello che secondo essi sostiene i perni
della società attuale; la puerile fidanza del condividere i beni fra tutti, e ritornare, per essere
felici e mirabili, alle delizie
animalesche delle prime orde umane. II
sentimento religioso in sé, astraendo dalle forme dommatiche che può rivestire, è in quella
vece sì connaturato all'uomo, appena gli
balenò un ra^io di intelligente attività
nella mente, è un. bisogno cosi
profondo, che il supporlo nell'universale temporario periturio, riesce un errore sì madornale,
quanto il credere che possa miù cessare
il sentimento del bello, del buono,
dell'utile, e così via discorrendo. Un tal
sentimento muterà forma, materia, simbolo, a sempre più puro e razionale aere s'innalzerà, ma
rimarrà e quando anche in tutti si trasmutasse in effettiva intellezione dell'ordine infinito del mondo,
e dell'eterna energia che lo vivifica, e continua, avrà sempre una efficacia
potente negli animi umani, e una autorità suprema nei loro atti. Quindi,
sicc^ome è vano l'assunto, è assurdo il
crederlo effettuabile ; e di questo si
persuadano coloro che eccitano a simili fantaami le moltitudini. In quanto poi alla proprietà e
alla famiglia, sarebbe con esse distrutto l'ordine civile, ogni speranza di
miglioramento, ogni libertà. Poiché l'ultimo
fatto sociale a cui" pervenne il moto evolutivo umano è Tuniversale libero lavoro, questo senza la
proprietà non può sussistere, in quanto
mancherebbe di sussidi, e dei giusti
stimoli ad esercitarsi. Che se il lavoro è
un dovere, un godimento, una dignità, la sola nobiltà possibile oramai nel mondo, oltre avere un
effetto che giova alla generale
convivenza nella reciprocanza di ragioni
e d'influssi che l'anima, è pure un modo di
rendere più lieta, agiata e amabile la vita; poiché colui che vuole rendere l'uomo misticamente
perfetto, e che tutto versi e si
travagli nella carità, e non senta e non
provi gli onesti piaceri, e rinunzi ai comodi, agli agi, agli utili personali,
non solo disconosce la umana natura, ma
annienta la storia. Laonde la proprietà
ed in conseguenza la famiglia, sono condizioni indispensabili del lavoro, e con
esso della civiltà tutta quanta, e della
libertà che a tutti è si cara, e
desiderata. Questi sono i veri contro cui infuriano i propositi dell'intemazionale, i quali se
venissero ad effetto, ogni bene sarebbe
distrutto; sono errori in cui cadono e
caddero non una sola volta, quelli che, vivificati da un sentimento giusto e da
un vero che balena incerto e confuso
nelle loro menti, credono raggiungere la
meta sterminando gli argomenti che vi
conducono. Egli è certo però che tali
sette sono or formidabili e sparse da per tutto: hanno associazioni, pecunia,
giornali, conventicole e cattedre: e gl'iniziati si mescolano in tutti gli ordini della vita, e
gli arruffoni ne sfruttano la credulità, o ne inveleniscono, rinfuocano le ire:
pericolo tanto più tremendo, quanto più
è avvalorato da un sentimento giusto di una verità male intesa. Or che
contrapporrete a questa fiumana? La Forza? è tentato, ma l'idra rinasce: oltre,
che la forza contro il sentimento e il numero non prevale, e senza un principio
che la sostenga, è vano amminicolo.
Combatterlo con principii contrarii? si sperimentò, risorse, e sempre più
sì estende. Con gl'influssi religiosi?
Ma ella imperversò maggiormente ove le genti erano guidate e ispirate dal clero, e si agita nei paesi, ove
la fede è più viva, poniamo che non sia
la cattolica, tralasciando anche che
alcune tendenze, ire, dispetti clericali sono
fomite a queste sette, e piuttosto che attutarle, le attizzano. Forse pej: mezzo delle
esortazioni, le per« suasioni, i libri,
e i giornali? Certamente questi modi, e
argomenii quando sieno bene appropriati e
condotti, hanno un grande valore, e maggior della forza, e degli influssi religiosi, perchè
vanno a poco a poco componendo una
opinione favorevole ai suoi principj, e
l'opinione oggi è regina, e può molto: ma
la sua efficacia è in parte frustrata dai giornali, dalle associazioni della setta, onde è lento e
stentato il benefico risultamento. Dunque non hawi rimedio? I rimedii
opportuni, i soli efficaci, e che, spero, saranno riconosciuti tali a poco a
poco da tutti, se vogliamo salvare la civiltà, sono di due sorta, privati
e pubblici: e ne discorreremo
partitamente le loro ragioni. Odesi tutto giorno dalle persone di ogni ordine
e d'ogni ceto, tra quelli più agiati^
lamenti e querimonie rispetto ai
pericoli che ci sovrastano da parte della
demagogia universale^ e si paventa^ si trema^ s'impreca^ o si pronostica
il finimondo. Ma sciaguratamente tutto
questo tumulto dì sgomenti^ predizioni^ spasimi
si risolve in parole, in chiacchere, in vaniloquio effervescente, e
nessuno, parlo in generale, fa nulla, o
aspetta da un arcangelo la spada salvatrice, o grida contro il governo e i governi che non
uccidono a soffocano nella culla il
mostro divoratore. E mi fanno la figura
di chi, appreso lentamente il fuoco in un
canto della propria casa, corra in piazza a gemere^ a piangere la imminente ruina delle sue mura,
imprecando perchè il sindaco non distrugga i zolfanelli, causa immediata del danno, invece di
provvedere tosto e virilmente al pericolo, tenue da principio, con la propria persona, o con gli ajuti che ai
forti e volonterosi non mancano mai. Cosi presso a poco va la faccenda per tutti coloro, e sono
innumerevoli, che presentendo l'avvento
della cosi detta questione sociale, credono rimediare al male col vociferare
ai quattro venti il prossimo diluvio, o
volendo che altri gli soccorra con modi,
che neppure essi sanno in che veramente
consistono. Ma in tale maniera l'acqua arriva
alla gola, e senza rimedio, perchè il neghittoso è spiacevole a tutti,
utile a nessuno. Egli è oramai tempo di
mutare registro, e se veramente stanno a cuore
gli averi, i diritti, la giustizia, non fosse che rispetta ai privati vantaggi, bisogna persuadersi,
perdio! che il tempo è venuto, ove chi
non opera, e fortemente vuole e lavora,
verrà travolto non solo dalla fiumana
impura ch^ paventano^ ma dalla indole della civiltà presìHite, nella quale il volontarìp
infingardo nozi può trovare modo
durevole di vita. E innanzi tutto la so- *
cietà è solidale d'ogni bene^ d'ogni male, e chi non sente q^uesto alto dovere, è indegno di
chiamarsi uomo civile: e quindi ognuno è
strettamente tenuto a co-operare [cf. Grice, PRINCIPLE OF CONVERSATIONAL
HELPFULNESS] al maggior benessere possibile della nazione. E si badi che questa, di cui parlo, non è
mica una carità estrinseca e
contingente, che possa a volontà con
minore o maggiore zelo esercitarsi, come avviene in altri fatti di pubblica o privata
beneficenza, ma è una necessità
intrinseca, senza la quale la società
minerebbe. La quale cosa si fa a tutti palese anche materialmente, se riflettono ajla
solidarietà, sempre più stretta e
generale che nasce fra tutti gì' interessi,
sia per associazioni a scopi diversi di utilità personale, o di
prodotti, sia per la dipendenza d'ogni ordine di fatti economici fra loro, sia
nel più vasto e universale credito dello
Stsito, da cui dipendono una immensa
varietà di fortune particolari. Quindi il lavoro libero, ma co-operativo [GRICE,
PRINCIPLE OF CONVERSATIONAL HELPFULNESS] dei singoli, onde si conservino
intatte e abbondanti le fonti .di ricchezza e
di sussistenza nazionale, anche per questo lato, è lavoro necessario:
che se egli allentasse, svigorisse., o
venisse meno, il popolo perirebbe senza rimedio. Adunque tra i rimedii privati che possono
contrastare all' ampliarsi delle sette demagogiche a danno di tutti, è l'operosità di tutti, e in specie
di quelli che più avrebbero a perdere, e
nei quali quanto è più grande la
ricchezza e l'agio, tanto più cresce e
ingigantisce il dovere dell'opera. Si persuadano che nelle moltitudini adesso il prestigio solo
delle ricchezze, o del nome; o del fasto è scemato, e va scemando, grazie al
cielo, rapidamente, e invano si atteggerk a pavone, chi sotto le splendide
penne, e r iridiscente folgore delle
piume, cela miseramente una cornacchia.
D popolo non dispregia- né nomi, né
fasto, quando coloro che li portano, o V esercitano senza jattanza, sono degni della civiltà
nostra, la quale consiste tutta nel
lavoro, utile e generoso. Bisogna adunque che coloro a là
crescente onda delle mene demagogidie, è una necessità delle stesse
condizioni civili deUe nazioni moderne, un diritto e un dovere. ' Dichiarati brevemente i rimedi privati,
consideriamo quali sieno,o possano essere quelU pubblici, o di pertinenza dello Stato, e del suo governo.
Questi a divisarli compiutamente si
disbrancano in lare ordini, e possono essere quindi di tre specie:
mo^?ali, amministrativi e poUtìci. . Un
grande rimedio aU'errore, al vizio e alle miserie, è certamente V
istruzione diffusa, e più tra quelle
classi che di per sé mal saprebbero provvedervi, e alle quali manc^ lo
stimolo proprio ad avanzare, vale a dire
alle plebi della città e delle campagne.
Che questo sia precipuo ed assoluto dovere di ogni governo civile, è chiaro, e
sarebbe anche più chiaro, se non fossero
ancora alcuni, e non. son pochi, nei
quali si mantiene la dignitosa e generosa ctedenza, che l’ignoranza delle
moltitudini lavoratrici, è un ingrediente e un sussidio nòbilissimo di governo, e s’affidano nella loro maravigliosa
attitudine, di contrastare ad ogni male, puntellati all'arte provvida di pochi,
e all'uni vergfale e servile asinaggine. E tatLto più stupore arreca una tale
saggia sentenza, in qitanto di preferenza è sostenuta da quelli non parlo certamente di tutti che bazzicano
frequentemente per le chiese, e fanno pompa di cristiana pietà. Brutta e
ridicola contraddizione, la quale se
ingenuamente* professata, indica in essi una ignoranza proporzionata al
grottesco proposito; se ad afte pensata,
è iniqua e degna deff universale dispregia.
Jn ciasctm uomo come sono eguali potenzialmente i diritti e i doveri, sono eguali i bisogni e
la necessità deiihi dignità della vita;
ora in tutti in quella guisa dello
stato, e migliorare le loro condizioni economiche; ma parlandosi di suffragio fermarsi alle
porte del salterio e dell'abbaco, è tale stravaganza che la maggiore non si può immaginare; si crede d'essere' del
nostro' secolo, e viviamo delle idee dei
bisarcavoli! CICERONE (si veda)
assennatamente dicera essere gF ignoranti
capaci di verità^ poiché T ignoranza ^ cioè la mente primitiva^ non ingombra da sfumature; e il
più delle volte arruffata da un sapere
rachitico, entrato a spruzzi anarchici
nel celabro, è tutt'altro che chiusa alle verità pratiche della vita ; che anzi
quando queste vertono intomo a positive questioni d' interessi generali, ma consuonanti o influenti con e su quelli
particolari della famiglia, del comune,
della provincia, sono pronte a colpirne
il nocciolo principale, e a scegliere le persone più idonee a risolverle
secondo le necessità del momento. Se non
fosse così, se noi attendessimo ad
allargare il diritto di suff'ragio che virtualmente è di tutti, quando tutti fossero dotti, ed uomini
di stato almeno in cacchioni, io credo
che si aspetterebbe indarno quel giorno, e si aprirebbero le universali
urne dei trapassati allo squillo finale
dell'arcangelo, più presto che quelle
generali del popolo pel comune sufeagio. Ma ribadiscono gli oppositori : voi
desiderate estendere il diritto di suffragio mentre ^ nessuno, o da pochi si chiede : attendete che il desiderio
nasca, si diffonda, giunga legalmente al
parlamento, e allora si aprirà la mano,
ma sempre con prudente riserva. E cosi,
soggiungerò io, noi liberi cittadini di libero stato, e un governo che dalla
libertà è sorto, e a questa deve intendere con tenaci propositi, saremo
meno generosi, meno magnanimi dei
governi dispotici ? In questi sovente, e
la storia anche contemporanea è piena di
esempj, il governo costringe spontaneamente
le moltitudini riluttanti a incivilirsi, e con violenta mano le sforza ad accettare .riforme civili,
amministratìve, economiofae : noi BEtremo il contrario: in nome delia libertà, teleremo lontani dalle riforme
utili e necessarie quelle moltitudini chC; secondo il ^iblime concetto,
persistono nella ignoranza, o nella indifferenza politica. Un governo onesto di
libero popola dee spingere al meglio di
proprio impulso le genti confidate al
suo senno: nò dee nelle leggi fondamentali attendere che altri domandi, ma
generosamente anticipare opportune
riforme. Ma se del resto tuUi non
chiedono o vogliono il diritto di suffragio, questi è sorto nella coscienza dei più, emana
spontanearmente dal nostro giure pubblico, è una necessità dei tempi, è un dovere civile. Che se un tale
dovere, per ipotesi impossibile, non si
sentisse, o si dissimulasse, p^r durare
in un certo grado matematicamente misurato, e fisso di libertà, a prò di
minoranze qua quando anche, per ipotesi,
ciò avvenisse, Teffetto sólo che produrrebbe, fora certamente una'^pìù grande e
viva operosità nei partiti liberali, e una agitazione legale più intensa, le quali riuscirebbero in fine a
risolvere più presto e ricisamente una
tale questione interna, e scongiurare
più virilmente i pericoli, onde è gravida
per la nazione. Altro benefizio che recherebbe seco la partecipazione, larga del popolo al
Suffragio, sarebbe quello di stimolare, (essendo più vasto il sindacato, e le
possibili peripezie del voto), e costringere i- deputati ad intervenire
scrupolosamente al parlamento^ e smettere il brutto sciopero in cui sono caduti
molti ripetutamente, e in modo da far credere
cronico il morbo pernicioso, che gl'infesta, e li rende colpevoli dinanzi alla nazione. Più e più
volte gli atti e le discussioni del
parlamento, d'importanza capitale per la prosperità e ordine del paese, non
poterono aver termine necessario, o sanzione legale, per Io scarso numero degli intervenuti, e ancKe
quando giungevano alla cifra
prestabilita, di fronte alla totalità dei rappresentanti, erano si può dire al
disotto del decoro del parlamento. Se
coloro che pur brigano, e fauno chiasso
per essei'c assunti al grave incarico, e rappresentano ciò che v'ha di più vivo
nella na ssioney e la funzione più
eccelsa di un popolo, che è quella
4'essere il legislatore di sa medesimo^ danno
un si tristo esempio di trascuranza agli alti doveri, e di abbandono alla alacrità civile della vita
pubblica, B0^ è da atupire, se gli aitai
alla base imitano nel laìiguote, nella
cascarne, nella dimenticanza dei diritti e doveri civili, i loro rappresentanti
; e «'ingeneri nella na2doDe quell'ozio politico, che è la lue più deleteria, e corruttrice delle viscere
della medesima; sintomo, se i rimedii non intervengono pronti ed energici, di inevitabile morte. O non
cercare, desiderare r^lezioùe e intromettersi in ogni maniera per ottenerla, o ottenuta, attendere con lealtà e
perseveranza al proprio mandato, ^d esercitarlo costantemente, risparmiando cosi un malo esempio al popolò \
intero, un acerbo e giusto rimprovero a
sé medesimi; lasciando aperto il corso ai più degni, e più operosi, e non ocisasionando cosi la morale decadenza
dell'autorità del parlamento, come pur troppo fra noi già per moltissimi accadeva : e che io dica il vero
faccio appello alla stampa quotidiana di tutti i colori piena sovente di acuti,
e meritati riinbrotti ai neghittosi legislatori. Bispetto al pericolo del
cesarismo, che secondo altri sarebbe il
mostro che uscirebbe dal voto generale,
come quei fantocci deformi e strani, che scattano all’improwiso dalla
scatola magica, a stupose e terrore dei
nostri fanciulli, temerlo da senno in Italia, è cosa che non Val la pena di confutare. Il
cesarismo è solo possibile in un paese,
sconvolto ^à, sconquas' fiato,
disordinato a più riprese, e dove la furia delle fazioni anaik^hicbe^ o le gare
di pretendenti più meno apocrifi, tanto
scrollarono le fondamenta d'ogni ordine, e tanto impaurirono le maggiorante,
che, conservatrici sempre, si appigliano
di iiecessità all'unico modo di salvezza che si presenta, sia pute Tautonta
irra:dónaie della sciabola, o la potenza moi'ale di un nome: poiché ove è questione di
anarchia di forze brute tenzonanti, il
popolo si rivolge a quella che ha maggiore
probabilità di vittoria, e di ristabilire quindi la pace, e la cancordia nel
caos informe sociale. Ma un tal
voto," quando è generale, se manifestasi sostenitore di una forma
dittatoriale in un dato momento ove egli
è necessario, apparisce anche come
fondatore di repubblica, quando una tal forma
di reggimento ad un dato momento, sia Tunica arra di durevole ordine, come intervenne in
Francia : nella quale, nonostante la
lunga cospirazione della caduta
assemblea, e del suo governo, retrogrado e monarchico, e tutto rìmmienso
arrabbattarsi dei clericali, e dei
funzionari governativi, sorse testé la repubblica da quelle Urne rurali^ che secondo i giusti
estimatori del senno delle moltitudiiii,
dovevano imporre alla Francia il
-^èsaitfismo na^Kileonico^ o il lugubre spettro della rameica tirannide legittimista. Che se invece
avvenne il contrario della comune
aspettativa, si deve solo a ciò, che tra
i varii e funesti pretendenti al trono francese, e delle loro ingenerose e tristi fazioni, il
popolo senti, che runico governo
d'ordine, era il rejpubblicano, che tagliava a tutti la cresta, e li poneva
fuori dell'astioso e cupido
combattimento, e per la repubblica votò. In Italia non vi sono affatto elementi per un cesarismo
possibile, e mancano condizioni antecedenti per un tal rini Bultato; qui non
sfacelo, qui non anarchia^ qui non odii;
rancori^ ambizioni^ rafforzati dal sangue sparso da vendette nefande, da
rappresaglie inique ; qui nessun bisogno di salvatore, o d'incoronare col
servaggio del popolo, un fortunato vincitore di eroiche battaglie. Da noi le
istituzioni, grazie al cielo, possono
per poco affievolirsi, o venire in meglio modificate, ma legalmente operano, e sono fisse nella
coscienza pubblica, né alcuno anche dei
partiti possibili più risoluti, e
accentuati, pensa a rovesciarle, perchè in
Italia c'è senso in tutti della realtà, né ci si scapriccia in utopie
senza pratico costrutto: in Italia la
dinastia regnante è politicamente insigne pel rispetto alle leggi, né vi
attenta, né vi corrìe rischio, (quando
esercita il suo mandato, come ora fa) di v^enire rejetta, e inimicata dalla
nazione^ e F esercito nostro, quanto
valoroso, fedele^ onesto, e nel quale in
bella armonia si fusero tutti gli elementi fortf della nazione, sia patrizi, sia popolani, se
è tutela delle leggi, dell'ordine, della
integrità della patria, non è una
accolta di pretoriani, e conosce a prova quali sieno i suoi doveri di soldato leale e devoto e
quelli di cittadino. Indi il timore e lo
spauracchio di Cesari possibili in
Italia è affatto chimerico, e non conosce
certo il popolo nostro, né le nostre condizioni civili interno in tutti i loro elementi, chi paventa
di un tale babau, E dico adunque che si dee proporre
legalmente e stabilire una tal forma di
suffragio, senza indugio^ poiché la
libertà lo richiede, la dignità della nazione
lo esige, la prudenza Io consiglia. Le moltitudini eleggono, non
governano; immenso ' divario ; ed esse in
media secondo tempi, luoghi, e coadisiom sociali soelgono' seeipmi pia
opportuni ai bisogni presenti. Io 80 a
rn^AA dito tatto quello che poseono rispondere,
e obiettAi^é coloro ohe sono di contrario avviso : e m'invitératino ad
inchieste del come si fanno e si fecero
le elezioni' in varie provincie della penisola, sia per brogli, tàsir per persone e mi sopraffaranno
di una quai^tità enorme di fatti, e' di
aneddoti; ma queste cose^ e questi
riposti archivi!,li conosciamo: ed è appunto perchè U conosciamo, che
invochiamo la riforma del voto. Poiché il ragionamento dì alcuni fra gli awersarii consiste a dire: il voto, nella
guisa che ora si esercita, è vero, non
dà buoni restdtati, dunque Voi attendete
una conclusione necessaria: ohibò! la
logica loro è più stupènda: dunque conserviamolo! Altri potrebbe opporre : concesso che la
moltitudine, la gt»nde maggioranza delle
nazioni sieno di fatto e sempre
conservatrici, perchè allora prevalsero via via, e vinsero le rivoluzioni, effettuando ad onta
di quel freno costante, mutamenti
radicali nel costume e nelle idee dei
popoli? La ragione e la spiegazione di un
tale fette è ovvia a trovarsi; poiché per una parte le moltitudini, perchè conservatrici, e
lontane e aborrenti per le loro faccende, dal moto e dall'agitazione delle minoranze, che vivono in special modo
di pensieiV)^ e di abitudini innovatrici, nulla iniziano spontaneamente, e
rimangono estranee agli influssi delle
novelle idee; e dall'altra non chiamate a manifestare legalmente i loro sentimenti, non possono
arrestare, moderare o piegare il corso
degli avvenimenti, o modificame i resultamenti sociali. Le moltitudini
vivono m sciolte y guardando ciascuno ai propri
negozii^ e non possono congregarsi
facilmente in assemblee, in comitati, in conventicole, come è facile alle
minoranze appunto perchè minoranze. Ma una tale inerzia, una tale paziente annegazione, non rimane senza
effetto col tempo; inquanto se le minoranze si spinsero oltre certi confini morali e civili e vollero
trionfanti principii che offendono il sentimento ereditario della moltitudine,
cadono poi in seguito le loro esagerazioni
stesse, non nutrite e sostenute dall'universale, e solo resta il progresso possibile, pratico, buono,
il quale, comechè nuovo, pure non
perturbando le coscienze e abitudini
della maggioranza nazionale, viene a poco
a poco a consustanziarsi con le medesime: e cosi i popoli camminano e
vanno perfezionandosi. E che ciò sia
vero, oltre la testimonianza palese di tutte le storie, basta fermarsi a
considerare il corso delle rivoluzioni moderne di tutti gli Stati, perchè la
realità della dottrina nostra salti agli
occhi ai più miopi. Affine dunque che le moltitudini non per lunga e sempre faticosa efficacia, come freni conservativi,
operanti spontaneamente e fuori del giure positivo, riescano immediatamente
salutari all'equabile e fruttuoso
progresso dei popoli civili, è d'uopo renderle partecipi della vita pubblica, chiamandole alla
elezione di coloro che sono poi i legislatori della nazione, è debbono guidarla
alla libertà e ai beni che essa racchiude^
con ordine e operosità. Così facendo, con quei temperamenti richiesti
dalla moralità e dignità stessa del
voto, si otterrà una maggiore attività politica ; la nazione non sonnecchierà
mai, né ristagnerà; i partiti che
pervengono al governo dello Stato, nella vicenda continua di nuovi biefogni^
non crìstalUzzeranno^ e riposeranno in una beata e grassa quiete^ ringipvaniti e stimolati sempre dal voto popolare^ donde
tutto nelle democrazie fluisce e sorge ^
e viene legittimato; si avrà sempre una
benefica remora alle intemperanze delle
fazioni, e quello che più importa, un ostacolo,
e, si radichi bene nella mente, l’unico ostacolo all' imperversare della
furibonda demagogia. Io non aspiro alla
divina prerogativa della infallibilità, e
lascio ad altri senza rammarico questa modesta ed umile virtù ; ma per quello che io valgo a
discernere dopo lungo studio e lungo
amore pel pubblico bene, crèdo
fermamente alla efficacia, necessità, utilità delle mie proposte, come sono certo che quadrano a
capello con le norme positive di una
scienza sociale, veramente degna di questo nome. Tali sono le proposte, che
coscienziosamente e dopo maturo e
scrupoloso esame, e modestia, venni svolgendo in questo mio scritto ; tali le
riforme che credo indispensabili per la
durata, la esplicazione naturale e la
salute delle nostre istituzioni, e pel decoro e la prosperità della patria. Certamente non si
possono tutte e subito attuare, e Roma
non fii fatta in un giorno; ma
necessario è che gli uomini a qualunque
partito nazionale appartengano, proposti al governo della cosa pubblica, vi si accingano con
tenace proposito, e vi aspirino costantemente. Un sentimento di malessere indefinito occasionò la crisi
presente, e la nazione sta raccolta
attendendo che i diversi ordini dello
Stato meglio rispondano all'indole loro e dei
tempi, e si ritemperi a vita più robusta e libera la fibra dei cittadini; e tale è il compito di
coloro che ora salirono; è giudicheremo dai fatti se sono da tanto. Quelli che caddero ^ il partito cioè che fino
ad o^ resse i destini d' Italia^ operò
cèrto molte cose buotie e condusse a
termine, stimolato però dalla piÙL viva
e impaziente parte della nazione e laicamente eoa; diuvato da questa, Tunità territoriale e
politica della patria^ protetto da
fortuna propizia e da eventi insperati, trasmutanti in vittoria eziandio la
sconfitta; ma a poco a poco, ritirandosi
in sé medesimo e chiuso troppo forse
agli influssi sempre salutari della maggioranza del popolo, si aflSevoll ed
obbliò le origini sue, e la natura
essenzialmente democratica degli Stati
moderni. L'Italia oramai è giunta a quel temperamento civile ehe esclude la
violenza e T illegale intromissione di
fazioni perturbatrici, ma vuole ed esige
che si avanzi e che si cammini di pari alle nazioni più civili; che gli uomini
che la capitaneggiano si governino con
le idee nuove, e si lascino i metodi
troppo curialeschi e scolastici nell' indirizzo della cosa pubblica. Or non è più tempo, e tra poco lo
vedranno anche i più restii e ostinati,
di grette abilità e di piccoli e scuciti mezzi, giorno per giorno, di reggere
gli Stati ; tutte le questioni sono
larghe e grandi, e non si risolvono che
con intendimenti e principj larghi e
generosi; in ogni vertenza è conflata, a cosi dire, la vita di tutto un popolo, anche per i rapporti
che essa ha o può avere con tutte le
nazioni civili. Isolarsi, fetcendo i suoi affari alla guisa di un agente
di fattoria, è impossibile, dannoso e
indecoroso; la necessità presente spinge i popoli europa all'unità morale della
razza loro, ed all'equilibrio econoiiiicO civile e politico di tutte le membra ; ciò che non
importa ima yi^ota cosmopQlitia alla maniera dei politici mistici: m ogoji
inombro e nazione vive della sua vita
particolare; ma in conserto di vincoli si stretti, e una reciprocità di r^oni che costringono tutti ad
avanz^ure perire ; poiché la selezione naturale governa anche 1a vita dei pppoli. Né valga il dire,
come da molti si ripete che il governo
è, od era assai più liberale della
na:pione, e quindi ogni spinta o riforma
riuscire inutile, o inopportuna; poiché, oltre essere questo in generale vero per tutti i governi,
in quanto sono al di sopra del sapere e
del civile temperamento delle
moltitudini, suscita spontaneamente questo dilemma: o il governo, in uno Stato
libero, possiede minori spiriti liberi
del popolo, e quindi dee, in virtù della
legge fondamentale di un libero stato, ritirarsi, perchè violatore moralmente della medesima; o
si confessa più liberale del paese, e
allora piuttosto che ristarsi e mantenere
il grado fisso del valore civile del
medesimo, dee spingerlo innanzi e trasformarlo
alla sua immagine; che se sta, non procacciando di eccitarlo alla riforma, è indegno dell'alto
loco che occupa. Queste teoriche di accomodamenti pratici non sono più d'uso, e solo argomentano una
profonda imperizia del come si dirigano le società moderne, e dei doveri effettivi dei governanti. Sciolto da
qualunque legame di disciplina, come dicesi, di partiti, perchè uomo affatto
privato ed oscuro, e al di sopra di
questi, come debbo essere lo scrittore imparziale, non consigliandomi con altre
norme che con quella che io credo il
giusto, scevro da qualunque ambizione personale, né stimolato da ire o passioni
di parte, liberamente dissi, comecché
sempre con rispetto in olle persone, ciò
che stimava opportuno ed utile, devoto
in tutta la mia vita ad una cosa sola, ma quella grandissima e santa, la
verità. Se altri mi provi che io mi
ingannai, sarò ancora felice quando il contrario di ciò che credetti, profitti alla mia patria. In
ogni modo, nel piccolo giro delle mie
facoltà, avrò soddisfatto all'obbligo di cittadino ; ciascuno dovendo servire
la patria in quel modo che gli è concesso. Solo una cosa detesto in questo ordine di fatti: la
petulante vanità dei neghittosi. Altri
saggi: S^Uo ai ierehi: DELLK CONDIZIONI INTELLETTUALI D.' ITALIA ITm preparmziùHe ì SELLA LEGGE FONDAMENTALE
DELLA INTELLIGENZA ffCL RC6II0 ANIMALC S
t'Udii di Psicologia compartita. Se- rv;.ft-
Tito Vignoli. Vignoli. Keywords: squirrel, squarrel, psicologia comparata,
etologica filosofica, una legge della intelligenza degl’animali – mito e
scienza – mitos e logos – animale, legge, legge della psicologia, psicologia
comparata, etologia comparata, evoluzione. Refs.: The H. P. Grice Papers,
Bancroft MS, Luigi Speranza, “Grice e Vignoli” – “La etologia filosofica di
Grice e Vignoli” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria. Vignoli.
Luigi Speranza -- Grice e Vinadio: la ragione
conversazionale della prassi e del valore – la scuola di Torino – filosofia
torinese – filosofia piemontese -- filosofia italiana – Luigi Speranza, pel
Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Torino). Filosofo torinese. Filosofo piemontese. Filosofo
italiano. Torino, Piemonte. Grice: “Of course, Vinadio is bound to be a good
dialectician, since Italian neo-idealists take Hegel’s Dialektik – or colloquenza,
as the count prefers – much more seriously than the most Hegelian of Oxonians!
(And I don’t mean Bradley!”) -- Grice:
“I like Vinadio; but then I’m English and we like an earl!” – “My favourite of
his tracts is the one about dialettica which he understood just as Plato did,
only better!” -- Felice Balbo di Venadio, conte di Venadio, vide, “Il conte di
Vinadio” --. Considerato una delle voci più
significative della filosofia italiana e un intellettuale impegnato in un vasto
progetto di ri-fondazione della filosofia politica nell'immediato secondo
dopoguerra. Figlio di Enrico Balbo di V., naque in via Bogino, nel palazzo che
e del conte Cesare Balbo di V., ministro di casa Savoia. Dopo la laurea,
partecipa alla seconda guerra mondiale, prima come sottufficiale degll’apini,
poi come membro della resistenza. Come consulente d’Einaudi cura una collana di
filosofia. Insegna filosofia a Roma. Si raccolge attorno a lui un gruppo di
filosofi per discutere sulla crisi dei valori nella società e sui modi di
superarla mediante l'impegno sociale. Il suo impegno trova espressione inoltre
con i contributi alle riviste “Cultura e realtà” e “Terza generazione”. Vicino
all’organizzazioni della sinistra e al partito comunista, comprende come il
mutamento centrale della società e avvenuto nel rapporto tra lavoro umano e
tecnica. Assunto all'IRI presso il Servizio problemi del lavoro. Si interessa di
formazione del personale. Direttore del Centro IRI per lo studio delle funzioni
direttive aziendali. Saggi: “L'uomo senza miti”; “Il laboratorio dell'uomo”; “Studi
in memoria di SOLARI [vide] dei discepoli” (Torino, Ramella); “La sfida storica
del comunismo al cristianesimo e le sue conseguenze filosofiche” (Mulino); “Idee
per una filosofia dello sviluppo umano” (Torino, Boringhieri); “Opere” (Torino,
Boringhieri)’ “Essere e progresso”; “Lezioni di etica” (Roma, Lavoro); “Lettere
a Ludovica”; Archinto. Boringhieri, “Per un umanesimo scientifico. Storia di
libri, di mio padre e di noi” (Torino, Einaudi); Cavalieri, “Scienza economica
e umanesimo positivo. la critica della ragione economica” (Milano, Angeli); Tassani,
“La Terza Generazione: tra stato e rivoluzione” (Roma, Lavoro); Tassani, “Lezioni
di etica” (Roma, Lavoro); Invitto, “Una filosofia pragmatica dello sviluppo” (Mulino,
Bologna); Invitto, “Di fronte a fenomenologia ed esistenzialismo” (Salentina, Lecce);
Invitto, “Una questione aperta, "Italia contemporanea", Dizionario
storico del movimento cattolico in Italia: i protagonisti” (Marietti, Torino); Grotti
(Boringhieri, Torino); Grotti, “Un altro futuro è possible” (Egeria); Possenti,
“La filosofia dell'essere” (Vita e Pensiero, Milano); “Tra filosofia e società”
(Angeli, Milano); Invitto, “Il superamento delle ideologie” (Roma, Studium); Ricci,
“Cattolici e marxismo: filosofia e politica” (Milano, Angeli); Dal marxismo ad
economia umana” (Brescia, Morcelliana); “La prassi e il valore: la filosofia
dell'essere” (Roma, Aracne); “Il cristianesimo nella sfida della “modernità” su
storia e futuro” -Dizionario biografico degl’italiani, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, Filosofi italiani Insegnanti italiani Professore. INVITTO
Le idee di V. Una filosofia pragmatica dello sviluppo, IL MULINO, L'istanza
manageriale. L'uscita dal PCI non determina l'ingresso di V. in schieramenti
alternativi, ma lo porta ad assumere una azione di fiancheggiamento, di
compagno di strada per alcune forze interne allo schieramento cattolico, in
chiara antitesi alla linea degasperiana 1. Nel '51 è Dossetti ad avvicinarsi a
Balbo e a subire la sua in fluenza e nel senso della visione della «
catastrofe del sistema e nel rifiuto
delle tesi maritainiane, fino ad allora costante ideologica degli intellettuali
cattolici di sinistra 2. L'accostamento Dossetti-V. è stato importante in
quanto, nel momento della dissoluzione del gruppo dossettiano, il suo leader,
ma solo per una breve stagione, ha pensato di poter avere nel pensiero balbiano
una integrazione teorica. Ben presto t Non ritengo di condividere nella sostanza
quanto afferma Giura Longo. V., invece di Rodano, segui altre strade, giungendo
a farsi ispiratore di un gruppo di intellettuali democristiani, attraverso la
rivista Terza generazione 'che ha dato qualche contributo (si pensi ad un
Morlino) sul piano dell'impegno politico dell'attuale gruppo dirigente
democristiano (La sinistra cattolica in Italia. Dal dopoguerra al Referendum
Storia documentaria, cur. Giura Longo, Bari). teli sembra che sia, piuttosto,
un gruppo di intellettuali cattolici, anche impegnati nella D.C., ad
interessarsi al pensiero di Balbo (che allora era ad una chiara svolta) ed a
tentare di annetterlo e di mutuarlo. G. Baget-Bozzo. Nel convegno di Merano dei
giovani democristiani, la mediazione del pensiero di Balbo, portata da
Baget-Bozzo, consenti di ristabilire
alla dirigenza giovanile DC quell'unità di linguaggio che lo scioglimento del
dossettismo aveva posto in crisi. La presenza in politica dei cattolici ` in
quanto tali ' era giustificata dal fatto che la Chiesa aveva conservato la
filosofia perenne e, quindi, il principio della ripresa culturale e civile . Si
ebbe, cosí, il superamento del maritainismo portato da Lazzati. 3 Se Cronache Sociali si era interessata a Balbo (cfr. A. Romanò,
op. cit.; S. Lombardini scrive che Dossetti
personalmente ancora nel 1945 ebbe occasione di esprimere [a Padre
Stefano Bianchi] simpatie per la sinistra cristiana) anche i
cattolici-comunisti si erano 139 Dalla rivoluzione alla collaborazione
inventiva Dossetti si accorge che il tentativo di filtrare i suoi motivi
attraverso quelli balbiani non può avvenire per una nainteressati alla rivista
di Dossetti (Pombeni, Le Cronache
Sociali di Dossetti, cit., 161, 225,
231). Anzi possiamo dire che, soprattutto con La Pira, c'erano stati
accostamenti (A. Ossicini, a nome del gruppo Roma-Sud di Azione Cattolica,
aveva evidenziato a La Pira l'urgenza di
un impegno diretto nell'azione politica, e La Pira ammise che questo era
necessario, anche se le forme di esso era difficile prevederle e prospettarle.
Rispose esplicitamente: ` Fate; comunque, qualcosa uscirà ' ; A. Cuccchiari).
Il futuro sindaco di Firenze prenderà le distanze ideologiche
necessarie, criticando i cattolici-comunisti, perché, secondo lui, il
materialismo dialettico è causa del materialismo storico: Ora l'effetto non è mai separabile dalla
causa (G. La Pira, Premesse della
politica, Firenze; riportato da L. Fiorillo, Il fondamenti teorici dell'impegno
politico di Giorgio La Pira, in Novecento minore). Anche su Cultura e realtà era stato un dibattito sul dossettismo,
attraverso un intervento di F. Rodano (l'articolo, Laicismo e Azione cattolica
in Italia, è però firmato da Novacco) e una risposta di Baget-Bonzo (cfr. G.
Baget-Bozzo). Secondo Possenti la diversità fra V. e Dossetti è costituita dal
fatto che, mentre il torinese manteneva
aperta la possibilità di una azione civile sulla base di una cultura rinnovata
, Dossetti si stava volgendo verso la tesi della estraneità del cristiano al
civile e verso una visione panmonastica.
Mi sembra, invece, che anche la concezione di Dossetti monaco recuperi il
civile in una sfera più alta. Infine, ricordo a titolo di testimonianza che
Giuseppe Dossetti, in uno scambio di battute avute con me a Bologna, mi diceva
che a V. era stato legato da profondo affetto e che V. era stato molto importante in un certo
periodo de lla sua vita . Ciò non toglie la differenza di temperamento, di
cultura, di problematica tra i due; differenze che sembrano determinanti a chi
ha avuto lunga consuetudine con entrambi (mi riferisco a quanto mi dicevano
Marcella e Giuseppe Glisenti). 4 Due storici della sinistra cattolica italiana,
pur partendo da presupposti storiografici diversissimi, hanno notato che
l'accostamento fra Dossetti e Balbo (che avrebbero avuto come comune preoccupazione apologetica quella di inserire la Chiesa fra le masse
operaie, anche se proponendo vie alternative; cfr. L. Bedeschi, La sinistra
cristiana ecc.) non è casuale nelle motivazioni, né nel tempo in cui é
avvenuto. Scrive Campanini: Infatti,
sembra consumarsi l'illusione, comune e insieme diversa, di V. e di Dossetti.
La prima, quella di condizionare dall'interno il partito comunista italiano e
di potere operare in esso come cattolici; la seconda, quella di condizionare
dall'interno la Democrazia Cristiana e di spostarla nel suo complesso a
sinistra. L'uscita di V. dal PC e di Dossetti dalla DC appaiono cosí in un
certo senso il segno emblematico de lla conclusione di questa vicenda (Campanini, Fede e politica). Lo stesso
Campanini ricorda che nel '51 (al congresso dell'UCIIM tenuto a Camaldoli
nel-140 tura diversa dei due pensieri: da una parte Balbo ribadisce il
primato della tecnica filosofica, dall'altra Dossetti è fermo al primato della
prassi, mistica o politica 5.In questa forma di gramscismo balbiano (gli
intellettuali forza trainante nella prassi politica) è da ritrovare una chiara
eredità della corrente Politecnico ,
relativa al concetto di eccedenza della cultura sulla politica 6. All'interno
della cultura cattolica la posizione di Balbo era di assoluta novità non tanto perché
si contrapponeva ai due integralismi in auge: quello di destra geddiano, quello
di sinistra, dossettiano, come è stato molto
schematicamente definito '. La
novità è costituita da lla pregnanza filo-l'agosto), Dossetti svolse una
relazione che si può considerare il suo
testamento politico . In essa, parlò del fascismo come autobiografia della nazione e
sbocco inevitabile del liberalismo , evidenziando l'accostamento ad
alcune tesi portate avanti in quegli stessi anni da V. Da testimonianze
indirette, si sa che l'ultimo Dossetti, per intenderci il.monaco che vive a
Gerico, insiste nelle sue prediche sulla situazione di catastrofe
della civiltà occidentale. Anche questo concetto, tipicamente balbiano,
può essere stato acquisito da Dossetti nel periodo del loro avvicinamento. È
utile aggiungere, però, che già nel gruppo dossettiano era presente il tema
dell' apocalittica dell'ora decisiva
(che Pombeni riconduce a un clima generale nell'Europa post-bellica;
cfr. Il dossettismo). Il tentativo di
Dossetti avvenne. Sul fallimento di questa mossa, scrive Baget-Bozzo: Probabilmente le tesi di V. gli [a Dossetti]
apparvero troppo esclusivamente filosofiche ed intellettuali: una causalità
assoluta e primaria della filosofia sullo sviluppo storico non era facile da
accettarsi per una persona cosí legata alla concretezza dell'agire. Aveva
scritto vittorini a Togliatti che la cultura che si adegua alle masse è
politica, ed è cultura quella che si impegna nella ricerca: Ma se tutta la cultura diventa politica, e si
ferma su tutta la linea, e non vi è pii ricerca da nessuna parte, addio (Politica e cultura, cit.).7 L'accusa di integralismo
di sinistra a Dossetti è di A. Del Noce (Genesi e significato ecc.) ed è
confutata da G. Baget-Bozzo con argomenti definitivi. Anche Pombeni prende
chiara posizione contro l'ipotetico integralismo di Dossetti, aggiungendo che
quasi sempre il termine si usa in maniera imprecisa e generica (Il dossettismo ). A proposito del termine integralismo , spesso usato phi per evitare
un giudizio che non per esprimerlo in concreto, mi viene in mente ciò che V. ha
scritto sul termine borghese e sul suo uso. Oggi si chiama da alcuni `
borghese ' tutto quello che si vuol respingere. Borghese ha soltanto piú un
significato negativo, è un segno non posto di fronte a un qualunque sostantivo,
e quindi privo totalmente di contenuto (V., Politica e cultura, Torino. L'istanza
manageriale141 Dalla rivoluzione alla collaborazione inventivasofica della
proposta di V., che non si limita ad operare all'interno delle masse cattoliche
organizzate, ma, delineando un profilo della crisi umana del Novecento,
ripropone un ribaltamento anzitutto del progetto filosofico, come ritorno al
senso comune e, quindi, l'opzione per una via pragmatica ed anti-utopica allo
sviluppo.In questa rifondazione filosofica ci si è chiesto quale sia stata la
prospettiva dominante: se quella di Maritain o quella di Mounier. Del Noce dice
che la sinistra cristiana dimostra la sua simpatia prima per Maritain, poi per
Teilhard de Chardin, ma aggiunge che il vero iniziatore della sinistra
cristiana è stato Mounier (che sta a Maritain, come Gobetti sta a Croce) s. Ora
bisogna dire che per Noce, Mounier è di molto inferiore a Maritain, e V.
avrebbe di fatto incoraggiato la diffusione del suo pensiero in Italia 9.
Questo è vero solo in parte in quanto il pensiero di Mounier, assolutamente
assente dagli scritti di V., è invece reperibile in esperienze culturali
diverse da Il Politecnico a
Cronache sociali. Comunque l'accostamento alla cattolicità ufficiale
vede da parte di questa un tentativo di
catturare V. e di aiutarlo
finanziariamente per un programma di elaborazione di una scienza dello sviluppo. Il programma, che
impegnerà V. è basato su un gruppo di
ricercatori di filosofia e di scienze sociali 1`. La suddiCfr. Noce, Pensiero
cristiano e comunismo ecc. L'interesse [fu] portato sul tanto inferiore
Mounier, in cui tutto c`, veramente esplicito, senza germe alcuno che abbia
bisogno di maturare; col che non intendo dire che V. abbia incoraggiato
volontariamente la fortuna italiana di Mounier, ma che contribuí, per
l'abbandono dell'aspetto filosofico-politico del pensiero di Maritain, allo
spostamento di interesse verso la sua opera
(Noce, Genesi e significato ecc.). Su
Il Politecnico appare un articolo
di E. Mounier, Agonia del Cristianesimo (il termine agonia è preso d’Unamuno), con presentazione di
Fortini (Fr. F.). Su Cronache
Sociali c'è una intervista a Mounier;
nel 1951 appaiono due articoli di Scoppola, uno sul filosofo francese ed uno
su Esprit (n. 9). Questa linea si affianca a quella
maritainiana di Lazzati.11 C. Leonarcli dice che tramite per il finanziamento
fu L. Gedda La suddivisione fatta da V. era in cinque settori che
corrisponvisione rappresenta i settori nei quali la crisi è avvenuta in maniera
globale, e attraverso i quali una ripresa
rivoluzionaria può avvenire. Non
è, però, assolutamente il caso di gonfiare l'espediente dei gruppi (che era piú
una metodologia) a sistema. Il pensiero, l'impegno di V. non si risolvono
nei quintetti . La crisi è per lui
caduta di un rapporto di funzioni nell'ambito del sistema sociale globale: il
sistema teoretico deve svolgere funzione di rinnovamento, il sistema etico ha
funzione di sviluppo, quello economico la funzione di innovazione, quello
politico la funzione di movimento, í1 sistema giuridico-statuale la funzione di
conservazione 13. Sulla base di questi schemi ideali (che qualcuno definirà
utopici) si svilupperà una nuova iniziativa-esperienza-tentativo cui partecipa V.: Terza generazione . Il gruppo balbiano cerca
di conservare una propria rilevanza
pubblica inserendosi nell'ideazione di
questa rivista mensile. Si è parlato molto, ma si è scritto un po' di meno
su Terza generazione . Anzitutto c'è da
definire il rapporto con il degasperismo nell'indirizzo della rivista. Sappiamo
già come il distacco tra V. e il PCI non colmi la diffidenza e il rifiuto di
Balbo nei confronti de lle tesi degasperiane. D'altra parte è appurato l'aiuto
finanziario dato da De Gasperi a lla rivista, ma meno noto è il disinteresse
pratico dello statista per Terza
generazione. La nascita della rivista non fu ritenuta underebbero a cinque
scienze autonome: diritto, economia, sociologia, morale e politica.
Responsabili dei gruppi erano: C. Napoleoni, M. Motta, G. Sebregondi, U.
Scassellati, N. Novacco (cfr. Leonardi, e le Note biografiche in V., Opere). Baget-Bozzo.
Confrontando lo schema proposto da Leonardi e quello proposto da Baget-Bozzo,
troviamo l'assimilazione tra momento sociologico e momento teoretico (cfr.
Leonardi).14 Cfr. anche G. Baget-Bozzo Leonardi, che fu redattore nella rivista
nella seconda fase, in una conversazione con chi scrive, nel novembre 1975,
diceva che De Gasperi finanziò la rivista, ma che probabilmente non l'ha mai
letta. L'interesse di Gasperi per l'iniziativa era stato sollecitato da padre
Delbono ( Leonardi; l'autore riprende L. Garruccio (pseud. di L. Incisa di
Camcrana), La politica era tuttoL'istanza manageriale Dalla rivoluzione
collaborazione inventivafatte r, strutturale
ma una iniziativa congiunturale ,
derivata dalle elezioni, per lo meno a quanto dice uno dei suoi responsabili ',
ma ebbe ambizioni strutturali e di rifondazione ideologica. Ciccardini, nel
ricostruirsi le fonti, integra le nutrici balbiane de Il Politecnico con alcuni autori cattolici i-`, ma riafferma
la congiuntura catastrofica della realtà 's. V., nell'unico suo scritto sulla
rivista, puntualizza il senso della crisi come crisi del modello di autosufficienza
dell'individuo che andava dalla Grecia a Mara ', e il riconoscimento del
fallimento di tutta la storia 0. La via che Balbo e Terza generazione cercano di perseguire e però una via
assolutamente nuova rispetto a quelle tentate da lle altre forzepolitiche,
culturali, economiche: la proposta di una diversa classe manageriale.La nuova
dirigenza, scrive V. a Ciccardini, deve reggersi sul piano dell'invenzione e
non su quello dello sfruttamento delle doti naturali; dirigenze sociali di nuovo tipo faranno salvi gli indici
intellettuali, morali e tecnici dell'intera soviet ì 2t. La dirigenza sociale
proposta(Cronache d’una generazione), in
L'Europa). to Cfr. Lelnardi. Eleggemmo a nostri maestri Maritain e
Ferrero, Mounier, Dorso, Sturzo, Giobetti e Gramsci : Ciccardini, L.: politica:
era tutto, in Terza generazione , num.
di presentazione, V. Scrive. Dobbiamo rifarci essenzialmente ai nomi di Gobetti
e di Dorso e di Gramsci (Cultura anti-fascista). is Se non appare unsi soluzione. 1a nostri so
ìer ì si :ivvi:i :alla disgregazione ed alla catastrofe (Ciecirdini).t^ Cfr. F. Balbo, Le soluzioni
stanno ogi davanti a noi, in Terza
generazione , num. di presentazione; ora in Opere. V. scrivcral in seguito:
Comprendendo la verit:t di Mari si viene a riconoscere la fine dell'epoca
moderna e il fallimento di tutta la storia fino ad oggi se non si origini uno
nuovi storta a livello superiore ; in Per la rilevazione e l,: critica delle:
scoperta essenziale d MMfart, in Studi in memoria di Solari, Torino; orsin
Opere. Cfr. Le soluzioni stanno oggi davanti a noi. Questi originale
identificazione trai imprenditore cd intellettualeun° degli spunti pití
interessanti della proposta bailbiana. intatti, anche questo il periodo in cui V.
tentava a Torino il Centro dì
relazionc c sperimentava in Irpinia.
assieme ad altri ricercatori, tipi cui Achille Ardigò, un nuovo modo di
impostare l'iniziativa agri olai. Quel144 da V. è qualcosa di diverso
dall'operatore privato e dall'operatore pubblico, in tal senso è qualcosa di
pii dell'imprenditore di tipo gobettiano, che è sempre l'operatore privato
anche . se aperto all'uso sociale dei suoi beni 2. Ciò che sollecita questa proposta
ultimativa è, ancora una volta, la coscienza di una crisi finale
del sistema storico-sociale dominante, cioè quello
illuministicodemocratico o individualistico che ha incluso e raggiunto ogni
altro sistema. E come sistema individualistico, V. pone anche quello comunista
per la sua originaria e íneliminabile
ispirazione anarchica. In questo senso,
Ter-za generazione nasce dal crollo
della generazione precedente, quella resistenziale e antifascista. C'è
l'illusione nei giovani redattori de lla rivista di superare la generazione
che aveva dato vita al Politecnico a
Cronache Sociali ad Iniziativa Socialista. Invece, per certi versi, esiste una
palese continuità tra questi fatti culturali e, addirittura, alcune
impostazioni redazionali di Terza
generazione ricordano esplicitamente la
rivista vittoriniana. L'ambiguità unanimistica del nuovo tentativo è
chia-periodo é ricordato come quello dei
pomodori .Tutto ciò ci dice la fondatezza delle motivazioni di chi ha
respintoun appiattimento teoreticistico del pensiero balbiano (P. Pratesi,
Lafilosofia di F. Balbo, in L'Avvenire
d'Italia, contro l'in-terpretazione di Del Noce).È anche questo il caso di
Penati che, però, critica il ridimensiona-mento balbiano della teoresi (cfr.
Penati, rec. Idee, in Rivista di Fil.
neoscolastica Gobetti parla di imprenditori nuovi ( i soli che abbiano diritto
a chiamarsi borghesi nel senso economico della parola ) all'interno di un
sistema capitalistico del quale però sia possibile un esito socialista ( Il
socialismo è conquista da parte del proletariato di una relativa indispensabile
autonomia economica e l'aspirazione delle masse ad affermarsi nella storia.
Anche il nostro liberalismo è socialista se si accetta il bilancio del marxismo
e del socialismo da noi offerto pii volte. Basta che si accetti il principio
che tutte le libertà sono solidali ). I brani sono presi, rispettivamente, da
Storia dei comunisti torinesi scritta da un liberale, in La Rivoluzione Liberale; ora in Gobetti,
Scritti politici; e da Liberalismo socialista, in La Rivoluzione Liberale, nota non firmata a
un articolo di C. Rosselli; ora in Scritti politici. Sull'ultimo brano, v. pure
L. Valiani, Gobetti, uno dei nostri, in
L'Espresso. Le soluzioni stanno oggi davanti a noi. u B. Ciccardini. L'istanza
manageriale145 Dalla rivoluzione alla collaborazione inventivaramente enunciato
da Leonardi quando parla di richiami per la sinistra e per la destra (per la
prima era determinante il carattere
utopico della proposta di V., per
la seconda il superamento di fascismo e antifascismoribadito da Scassellati).
Naturalmente la critica successiva ha privilegiato una categoria o l'altra.
Comunque non dovrebbe esser messa più in discussione la leadersbip
di V. sul gruppo 27, anche se si tratta di un primato p1625 Leonardi.
Alla discussione intorno alla ipotesi di una sostanziale utopia del pensiero
balbiano è dedicato il quinto capitolo di questa seconda parte. Leonardi ci
presenta la storia delle interpretazioni di Terza generazione come fatto di
destra. Ricorda gli articoli di Panorama (Cinque per cinque; J profeti armati)
dove si parla del gruppo di Terza generazione come di un gruppo che stava
preparando una svolta totalitaria di destra in Italia . Ricorda pure un
articolo su Astrolabio , a cui risponde A. Paci, con la lettera Un discepolo di
V., ioi. Anche Parri risponde su Astrolabio. Se Lotta Continua definisce V. un
cretino (cfr. Leonardi), Giura Longa ba visto nella rivista inquinamenti di
carattere reazionario Giura Longo. Pregiudizi partitici? Autosuggestioni? di
si, se un intellettuale come N. Bobbio ha parlato di Terza generazione come di
un gruppo avanzato che ha gli occhi sulle cose del nostro paese (Cultura ueccbia e politica nuova, in II
Mulino; ora in V., Politica e cultura). un giornalista-scrittore, che ha la
destra politica ineccess,ivJ 'lU!]'alla, ha scritto di V.: in Francia o in o
anche income un rivoluzionario culturale in sensoNonscrittodoveconosce (G. F. in
alcune sociali e dice che le Einaudi) .i fosse vissuto, poniamo, sarebbe oggi
riconosciuto un paese cattolico. odierno che V. non abbia affrontato: chiunque
abbiaultimi trent'anni, pertra la società politica, se non rio improvvisa fa
cadere l'autore i cattolici comunisti con i cristianodi V. sono state
pubblicate dastoriche. È sempre Leonardi a riportare la critica. Lo stesso
Ciugni, che dala prospettiva umanistica che costituiscebalbiano (Giugnì dice
che deveduttivo ma l'iniziativaun ordine capace di garantiresioni ; in J m i t
i in cui abbiamone , num. di present.). Inè presentata in maniera piti
scopertaper l'organizzazione della cultura, in
Terza generazione , I, n. 2, no-146 del punto (op. cit., socialista,
assume nodale del discorso non solo il lavoro proI'invcnzione creativa umana in
tutte le sue dimenii Terza generazio-l'Ipotesi balbiana immediata (cfr Paci,
Appunti di fatto, che non per decisione esplicita,L'ipotesi chiave è la
situazione di zero alla partenza , a cui esser fedeli senza guardare il
passato, sicuri che non tutto è politica, come afferma V. 28, e come dice
Cìccardini nell'editoriale di presentazione 29, Ma la situazione di zero alla partenza e il rifiuto del totus
politicus erano già de Il Politecnico ,
sulla linea, anche in ciò, di un involontario crocianesimo, La rivista entra,
però, in serie contraddizioni. La esperienza di Scassellati alla direzione
mette in crisi lo stesso V. perché, secondo Leonardi, aveva dimostrato il
carattere utopico di fondo del suo pensiero che era in grado di mobilitare
delle forze, ma non di soddisfarle, Con l'avvento della linea di Claudio
Leonardi, abbiamo una ulteriore contraddizione formale ed esplicita con lo
schema balbiano, in quanto il neo responsabile privilegia il momento morale,
rispetto alle altre tecniche 32, Se V. non accetta la posizione politica
divernbre. Chi, tra gli altri, ha sostenuto la tesi della egemonia culturale di
V. su Terza generazione è stata la Buongiorno Veroi che afferma essere stato V.
il vero animatore della rivista (cfr. T. Buongiorno Veroi, Terza generazione , in
Il Veltro , La stessa fa dipendere la fine della rivista da una autonoma
decisione di V., dopo una riunione ristretta in cui il filosofo avrebbe fatto
l'autocritica per l'errore pelagiano in cui si era caduti. Cfr. Le soluzioni
stanno oggi davanti a noi, Ciccardini, op. cit., tra l'altro dice: Ma la
politica era tutto: morale e rivoluzione, speranze e novità d'esperienze,
conservazione e poesia. Era un fatto molto vitale in cui ciascuno cercava la
sua parte e vi si trovava a suo agio, La polemica di Vittorini con Togliatti
era basata, come si è già ricordato, sul rifiuto di una concezione della
cultura come realtà totale. Poco prima della polemica in questione, Croce scrive
a Togliatti: lo ripugno a diventare toius politicus come (e non la invidio
perché talvolta penso che debba soffrirne) è Lei in ogni Suo gesto e parola (la
lettera è pubblicata in Rinascita Garin, nel commentare il brano, aggiunge che,
però, Croce è semper politicus (cfr.
Intellettuali italiani). Leonardi. È dunque il fatto stesso di porci il
problema dello sviluppo che ci obbliga immediatamente a porre il problema della
moralità ; Leonardi, La questione prcgiudiziale, in Terza generazione Dalla rivoluzione alla collaborazione
inventivaScassellati, non accetta neanche quella di Baget o di nardi, che vede
legati a prospettive integralistiche 33. Cosi muore questo tentativo culturale,
lasciando però, anche qui, qualche eredità balbiana. L'uomo cerca una sua
collocazione precisa, degli strumenti adeguati alla realizzazione delle sue
intuizioni speculative, un modo nuovo di essere intellettuale, o meglio, di
essere un filosofo non intellettuale. Si presentano, su questa linea, due
avvenimenti-svolta nell'esistenza di V.: gli ultimi significativi fatti che,
rappresentando dei momenti di professionalità, sono anche due nuovi modi di
dimostrare una nuova figura di filosofo. Mi riferisco alla assunzione di Balbo
presso l'IRI, per il settore Problemi
del lavoro e all'incarico di Filosofia Morale avuto al Magistero di Roma.
Comincia cosi a lavorare come l'altra
gente 35. Se l'insegnamento universitario gli permet-33 Per il filosofo torinese, infatti, la
dimensione ecclesiale era una condizione personale del ricercatore, che non
poteva mai intervenire direttamente nel discorso storico ; Baget-Bozzo. Se
l'inizio di Terza generazione era stato possibile anche grazie al sostegno
economico di De Gasperi, la fine della rivista si ebbe un mese dopo la morte
dello statista (con il n. 12, del settembre 1954). Ma neanche qui esiste un
rapporto di causalità fra i due fatti. La rivista fu chiusa dopo varie riunioni
indette da Balbo e dal suo gruppo rivoluzionario (cfr. Leonardi, Terza
generazione ecc.); il filosofo torinese accusò il gruppo redazionale di
eresia semi-pelagiana (con un termine dossettiano); Lconardi,
invece, vede nel fallimento della rivista il limite dell'esperienza
pluri-idcologica di V.; la velleità di partire da zero ingenerava componenti
moralistiche e attivistiche [Leonardi intuisce, senza il nucleo pragmatico del
pensiero di Balbo?], e dunque nuove. Una eredità di questa esperienza rimane
anche in Baget-Bozzo, che in essa rappresentava di fatto l'alternativa teorica
all'impostazione di V.. Dice il teologo genovese che nel periodo della
rivista L'Ordine civile egli risente
delle posizioni culturali che lo hanno influenzato: il dossettisrno, Terza
generazione V.( la nozione della crisi della civiltà e della necessità di nuove
forme di pensiero e di azione autonome dallo Stato come condizione per la
stessa ripresa dell'azione dello Stato; Baget-Bozzo, I l partito cristiano e
l'apertura a sinistra La DC di Fanfani e di Moro, Firenze Scrive Ginzburg: V.
andò a vivere a Roma, e lasciò la casa editrice. Poi annaspò per anni fra
progetti assurdi ed errori. Infine ebbe un vero lavoro. Imparò a lavorare come
l'altra gente te di approfondire alcune tematiche interne ai suoi interessi
etico-politici, l'impegno all'IRI, accettato per necessità, lo porta a non
considerarsi un intellettuale in senso classico in quanto rifiuta, come nota
Baget, un compito legato solo alla parola, che è strumento di mistificazione
38, Nel frattempo il suo discorso tende a mettere in luce, ancora una volta,
sotto prospettive diverse, la novità di Marx, ma anche i suoi sotismi. La
premessa metodologica che Balbo ritiene indispensabile è riconoscere come
imprescindibile necessità teorica e pratica quella di un integrale ricominciamento storico dalla
filosofia alle istituzioni 39, Sempre sulla linea di un marxismo italiano che
privilegia i Manoscritti (vedi Volpe), il pen[Argomenti dei corsi universitari
di V. sono quelli della urnanizzazione dell'uomo nella moderna civiltà
industriale, della proprietà privata e del bene comune, del problema
dell'utopia di K. Mannheim e S. Weil, il problema del diritto naturale in L.
Strauss, la crisi dei valori in M. Scheler (cfr. Note biografiche). Il metodo
d'insegnamento seguito da V. consisteva nel prendere spunto da fatti realmente
accaduti e da questi risalire a considerazioni teoriche.37 Il dover lavorare
alle dipendenze dello Stato non fu una scelta di comodo per V., ma, come
testimoniano le persone a lui più vicine, gli fu imposto dalla necessità di
dover vivere (problema che prima non si era mai posto in termini concreti).
Pertanto ci sembrano OlLllJLLUX:, su tale argomento, le critiche teoreticistiche di Lconardi a intoppo esistenziale del
filosofo ( Il sistema obiettivamente moralmente più forte. Ci pare che la
presenza di V. nell'Llc.L, che iniziò poco dopo, come la sua ultima produzione
siano lemeno significative della sua attività, e rappresentinovistoso del suo
limite laicistico ; Terza generazione
ecc"). Più aderente alla realtà, nei suoi toni l'intuizionechi
afferma che V. spari nel gorgo, e diversi anni pni tardi morf, ingoiato da una
professione di prestigio certote accettato con la rassegnazione implicita in
casi (G. F.). Mi piace ripetere ora una affermazione di Pombeni: l~ malsano
tentare interpretazioni del dossetìisrno traendo spunto dalle tuali vicende dei
suoi personaggi (Il dossettismo ecc.), È un invito a non mescolare le carte e i
piani del discorso ed è premessa indispensabile per ogni metodologia
corretta,38 Cfr. G. Baget-Bozzo, Il partito cristiano al potere, Per la
rilevazione e la critica ecc. su'questo tema Duso, Il nodo Hegel-Marx nel
dibattitodel '48, in Gli intellettuali in trincea. Pavese ci parla di orrore di
Balbo e del gruppo romano, quandoin una riunione della Einaudi, egli aveva
proposto la pubblicazione delL'istanza manaueriaie Dalla rivoluzione alla
collaborazione inventivasatore torinese coglie la verità filosofica fondamentale
del marxismo-leninismo nel vedere come le idee, i comportamenti e le
manifestazioni dell'uomo, in quanto prodotti,41.Mediando certi temi del
marxismo con le istanze della43,Il limite del marxismo, limite teorico-pratico,
è individuabile nel concetto di sintesi, come fine o soppressione semplice
della proprietà privata. In questo modo non si arriva, secondo V., al
superamento ma alla disgregazione; un reale processo dialettico non dovrebbe
comportare una oppressione positiva della proprietà privata, ma una forma
superiore del sistema di appropriazione,
deve essere la nascita di istituzioni superanti (ossia superiori
sistematicamente) il nostro attuale sistema istituzionale 45.Capitale,
estravagante , in una collana assieme alla Bibbia e a Mille Volevano
linciarmi (lettera ad Einaudi eunanote:,
in Lettere). Cfr. Per la rilevazione e la critica ecc.. Balbo affermache la
contraddizione del marxismo è stata centrata da Della Volpe, Del Noce e Löwith.
Aggiunge che si rimane nell'apologia del marxismo anche in casi di altissimo livello culturale , come in Gramsci
e Lukàcs. É evidente che V. sta rivedendo il suo giudizio su Gramsci. La forza-lavoro o pratica attività sensibile è
indubbiamente il presupposto reale attivo (causa efficiente) della produzione
come tale cosí come la natura ne è il presupposto reale passivo (causa
materiale). Ma altrettanto indubbiamente non sono e non possono essere i
presupposti reali di ogni ` modo particolare ' della produzione , escludendo
cosí la peculiarità dell'uomo, cioè la produzione razionale come specifica. Si
ricorda su ciò una polemica con Rodano. V. sarebbe, invece, piú vicino alla
visione dell'antropologia culturale, secondo la quale ogni forma
storico-culturale è un prodotto umano. Cfr. S. Moravia, La ragione nascosta
ecc. Per la rilevazione e la critica ecc., sottostanno alle leggi della
produzioneper V. costituisce il sofisma marxiano è il far coincidere ogni forma
di produzione (anche quella razionale) con la attività pratica-sensibile,
cadendo nel materialismo dialettico 42.antropologia culturalesuo complesso ciò
che include tutta la storia umana, e ciò che misura la realizzazione della
natura umana: Dove c'è produzione c'è
storia e realizzazione umana, dove non c'è produzione non c'è storia né
realizzazione umana 44.150 V. vede nella
produzione nelCiò che, invece, Infatti, l'eliminazione di uno dei termini
dialettici non risolve la contraddizione e rappresenta, invece, elemento di
corruzione della storia esistente, in quanto conserva all'infinito la
contraddizione invece di superarla ` 6. Non si tratta piú di sopprimere
istituzioni, ma di crearne altre nel quadro di una espansione organica totale.
Quindi non si parla di fine dello Stato, ma
della nascita di nuove dirigenze dello sviluppo continuo della
società (l'istanza manageriale), non di
fine della filosofia nella rivoluzione, ma di definitiva acquisizione della
indispensabilità della47.filosofia come funzione socialequesta fase del suo
pensiero, V. ha ormai raggiunto alcune linee abbastanza precise e nei confronti
del marxismo (che non si tratta piú di integrare, ma di correggere), e anche
nei confronti di un quadro globale delle istituzioni sociali: riaffermazione
della proprietà privata, trasferita su un piano di solidarietà umana non
adeguatamente definita, ripresa della proposta manageriale, corroborata da una
nuova figura di filosofo. L'errore essenziale di Marx sarebbe di aver voluto
impostare una problematica48, aristotelica
(o realistica) in termini hegelianirore che si accompagna alla verità
delle domande poste da Marx, domande per le quali non esiste ancora, a livello
storico, una filosofia adeguata. V. comunque dice che la via per rispondere
esiste ed è l'assumere la posizione filosofica di Aristotele e di san Tommaso
(non la loro filosofia, ma il loro punto di vista sul reale).In sostanza da Marx in avanti, resta tutto da fare in
teoria e in pratica. Marx, affossatore e vittima della dialettica hegeliana,
annulla la dimensione creativa di V. afferma che Marx demistifica la dialettica
hegeliana, manon la rifiuta; perciò il rovesciamento della prassi riduce il
marxismo a empirismo praticistico
collettivistico . Sotto questo aspetto, gli ultimi scritti di Stalin
(probabilmente il filosofo si riferisce alle trad. it. apparsc in quegli anni
di Questioni di leninismo, Roma, e di Problemi economici del socialismo
nell'URSS, Roma) rappresenterebbero il
tentativo di una specie di ' revisionismo pratico ' interno alL'istanza
manageriale Come si può notare, inun erDalla rivoluzione alla collaborazione
inventival'uomo; anche a certe interpretazioni pii disponibili per l'uomo non
si può dar credito perché non sono conformi alla norma base
della verità del sistema S 1. Una ripresa delle tesi umanistiche non può
avvenire che come ripresa filosofica: una storia priva di filosofia a livello storico è quella storia disumana e catastrofica, dice
V., che il marxismo ci ha svelato. Se prima la filosofia ha solo conosciuto o
solo mutato la storia, ora si deve contemporaneamente conoscerla e mutarla
S2.Il filosofo che deve conoscere e mutare il mondo non è in questo
autosufficiente, ma deve strumentare i suoi interventi attraverso organismi
intermedi. Quello su cui la riflessione e la funzione organizzativa di Balbo si
appuntano maggiormente è il gruppo di
lavoro . Ogni elaborazione specifica è sempre inquadrata in una visione pití
ampia e piú fondata teoricamente. V. afferma che il problema primario
dell'ontogenesi sociale non è quello dello Stato o dell'assetto
giuridico-economico della proprietà (come dice Marx), ma è quello della giusta
forma so-ciale dei lavoro, cioè il
trascendimento effettivo del sistema sociale da parte della persona, senza
evasione , cosa che Marx addirittura nega, sostanzializzando la realtà
collettiva S3. Alla istanza etica di recupero dell'uomo va, pertanto,
affiancata una tecnica adeguata, al pari di quan-marxismo e tendente ad
impedire, o almeno a ritardare, le conseguenze ultime,
tecnocratico-burocratiche, dell'essere teoretico tipico del marxismo ; (Per la
rilevazione e la critica ecc.. V. si riferisce a Lenin e a Gramsci come
elaboratori delle tesi sull'umanità
dell'uomo all'interno del marxismo. Cfr.
Il piccolo gruppo di lavoro e la sua funzione nella grande organizzazione, in
Termine e concetto di Costume, Atti del Convegnolaboratorio del Centro Intern.
delle Arti e dei Costume, Venezia (Brescia); ripubblicato in Rivista di
Organizzazione aziendale; ora in V., Opere. Petrilli ricorda alcuni passi di V.
relativi a lla pianificazione e al lavoro come ritrovamento dell'ordine (Petrilli, Dal progresso alla crescita,
in Civiltà delle macchine).St L'etica senza tecnica adeguata non vive,
infatti, nella societ ì umana. Vive in alcuni momenti della vita degli
individui, può risorgere continuamente e come intenzione pura. Ma, poichi. gli
uomini non sono to è avvenuto in America (come fenomeno secondario e non
primario). Infatti 11 vi è stata la scoperta
dell'umanità dell'uomo da parte della società industriale: è stata una
scoperta empirica e sperimentale della non riducibilità dell'uomo a fattore economico , attraverso nuovi modi di
gestione del lavoro nell'industria S5. In questo orizzonte, ci deve essere una
chiara collaborazione fra metodo sperimentale e metodo filosofico: ciò che si
ottiene con l'uno, non si ottiene con l'altro, e viceversa. Il piccolo gruppo
di lavoro diventa quindi il risultato di unaconvergenza tra istanze
filosofiche, morali, manageriali: Il
piccolo gruppo umano e in particolare il piccolo gruppo di lavoro viene
considerato oggi dagli scienziati, tecnologi ed educatori come una unità
sociale primaria, avente realtà, proprietà e caratteri distinti da quelli dei
singoli individui, che lo compongono S'.
Se il tecnicismo può essere liberato dai suoi vizi e dai suoi mali, questo,
affermaangeli, non può esistere socialmente senza tecnica corrispondente e a
livello tecnico dell'ambiente. Peggio, l'intenzione etica retta pub
congiungersi con una porzione di ambiente tecnico opposto e determinare delle
vere e proprie mostruosità sociali di cui la nostra epoca è ricca. V. si
riferisce all'esperimento di Mayo alla Western Electric. L'esperimento in
questione va con il nome di Hawthorne, perché ebbe luogo negli stabilimenti
Hawthorne della Western Electric C., che si trovano a Cicero, alla periferia di
Chicago. La sostanza dell'esperimento consiste nel tentativo di scoprire il
rapporto tra il rendimento dell'operaio e le condizioni umane
del lavoro. Il resoconto phi ampio di questo esperimento è nel vol. dei
diretti esecutori Roethlisberger e Dickson, Management and the Worker, Boston;
Cambridge, Mass. Si leggano pure
Mayo, The human problems of an industrial civilization, New York; una sec. ed.
è The social problems of an industrial civilization, Boston. Una buona esposizione è in Madge, Lo sviluppo dei
metodi di ricerca empirica in sociologia, Bologna -è una bibliografia de lla critica alla
scuola di Mayo. Sugli stessi temi, ritornano gli scritti di Zaleznik,
Christensen, Roethisberger, Motivazioni, produttività e soddisfazione nel
lavoro, Bologna. Per un rifiuto globale delle human relations, e delle comunità
di fabbrica come trappola ormai logora , Illuminati, Lavoro e
rivoluzione, Milano. In particolare, dove l'autore vede Mayo inglobato nel
taylorismo. Cfr. Il piccolo gruppo di lavoro ecc.. S7 l bick, L'istanza
manageriale Dalla rivoluzione alla collaborazione inventiva V., può
avvenire attraverso il piccolo gruppo di lavoro, diventato generatore delle
norme etiche e tecniche della grande organizzazione, che può soltanto
applicarle ".È un po' la critica allo Stato etico, ribaltata a livello di
impresa industriale: a V. interessa tanto la umanità del lavoro, quanto la
produttività dello stesso, privilegiando il primo momento rispetto al secondo
che, invece, poteva essere pii presente nell'esperimento di Hawthorne. Quella
balbiana è una ricerca di soluzione all'interno delle strutture malate: si
tratta non di modificare il sistema, ma di giungere a forme pii umane di lavoro
e quindi a una maggiore produttività. V. sembra essersi rassegnato al sistema
capitalistico, non prospetta alternative strutturali, ma solo terapie per
l'individuo e vede nel piccolo gruppo la nuova cellula in cui ogni realtà, ogni
fatto della vita del gruppo, ogni elemento del suo lavoro può essere a portata
diretta dei sensi, dell'intelligenza e del fare di ogni singolo componente E 0.
In questo quadro si colloca il riemergere, nella filosofia di V., delle istanze
antropologiche, il riesame delle possibilità storiche dell'uomo e una definizione
ottimistica della vita terrena. Se si è parlato di pessimismo cristiano è stato
per l'esperienza dello scarto tra la condizione umana di peccato .e il
presentimento del possibile essere, mentre il pessimismo pagano è irreversibile
in quanto parte dallo stato di decadenza e dalle perdite definitive dell'età
dell'oro. II discorso di V. sembra riecheggiare il clima de Il Politecnico , quando nota una reciproca
universale necessità di ogni uomo per ogni uomo, in quanto in ogni uomo si
sostanzia l'essere urnaV. afferma che la vita terrena è incoativa, quella
ultraterrenaé perfettiva; ma aggiunge che questo non comporta una
concezione attesista e una svalutazione della vita terrena (cfr.
Il futuro e l'al di là, Note di ricerca metafisica sull'uomo, Archivio di
Filosofia, Metafisica ed esperienza religiosa; poi in Idee per una filosofia
dello sviluppo umano, I1 motivo dell'io umano onni-esistenziale è unodei pii complessi all'interno del
pensiero di V., inquanto ha matrici non bene definite o, al limite, può es-sere
il minimo comune denominatore di fonti diverse,talvolta opposte. Analizzando la mia esistenza intendodunque
analizzare l'essere umano che è in me come inogni altro che ha la mia stessa
natura: dalle letterepaoline, a Croce e Gentile, si trova tutto in questa
defi-nizione, ma l'ancoraggio è costituito da una solida filosofia65.ritrovata
mediante la ricerca e la dimostrazione razionale, mentre la nozione religiosa è
dogmatica 6. Alla fine non possono, però, divergere e V. definisce l'uomo come
o il poter essere sussistente dal punto
di vista dinamico, dell'azione pratica, della produttività. Una ripresa, ancora
una volta puramente lessicale, di termini marceliani troviamo quando il
pensatore torinese enuclea le categorie antropologiche e dice che l'uomo ha
bisogno di essere, di avere e di dare; ma la categoria dell'avere è quella
maggiormente rilevante, per una continuità ed integrazione anche a livello
ontico. Direttamente legato I1 riferimento a lla rivista è, in questo caso,
molto mediato. Infatti su Il
Politecnico appare il brano di J. Donne,
premesso ai romanzo di Hemingway, Per chi suona la campana, Milano. Sulla
rivista di Vittorini è pubblicata la trad. a puntate, a cura di L. Foà e B.
Zevi, con il titolo Per chi suonano le campane. Il brano di Donne è questo. Nessun
uomo è un'Isola in sé compiuta; ogni uomo è un frammento del Continente, una
parte del tutto; se il Mare inghiotte una zolla di terra, l'Europa ne è
diminuita, come se quella zolla fosse un Promontorio, o la Casa dei tuoi amici
o la tua propria; la morte di ogni uomo diminuisce me, perché io sono parte
dell'Umanità. E cosí non mandar mai a chiedere per chi suonano le campane:
suonano per te (trad. de Il Politecnico ). Idee per una filosofia
dello sviluppo umano. Ferrarotti scrive. V. passa dall'io trascendentale de lla
filosofia moderna all'io umano onni-esistenziale de lla filosofia dell'essere
che in assoluta libertà di spirito, al di là degli schemi consueti del tomismo
e della scolastica, si apprestava ad elaborare: una filosofia come attività. Cfr.
Il futuro e l' al di la. L'uomo ha
bisogno di avere per affermare ed espandere l'esseredell'essere L'antropologia
di V., a questo punto, è critica eL'istanza manageriale155 Dalla
rivoluzione alla collaborazione inventivaa questa categoria antropologica è il
lavoro, fatto metafisicamente costitutivo dell'uomo, tanto nella fase
terrena incoativa quanto nella fase ultraterrena perfettiva ; ma del lavoro
necessario pure nella vita ultraterrena non possiamo dire niente se non
per rivelazione divina. Attraverso il lavoro si attua quella integrazione con
gli altri che è sintesi nuova e non somma di elementi; perciò V. dice che
questa sintesi nuova è un dato reale cherende essenziale l'integrazione nella
ricerca dell'umanità. È facile riscontrare in queste affermazioni, accanto alla
teorizzazione dei molteplici gruppi costituiti nelle varie esperienze culturali
di V., la sua nuova ipotesi di una filosofia costruibile in gruppo; cosí come,
dal punto di vista manageriale, si può vedere una riproposta del piccologruppo
come cellula nuova dell'organismo industriale da ristrutturare.Alla base di
questa speculazione è oramai chiaramente individuabile l'impronta di una
ontologia leggibile in termini aristotelico-tornisti, ma V.
ricorda che i termini non glieli suggerisce la tradizione filosofica bensí la fortissima vergine evidenza della
verità cui cerca di corrispondere Aveva
detto la stessa cosa AQUINO a proposito de lle sue fonti Nell'ammettere un
imporsi della verità attraverso la evidenza dei principi è ilche è secondo le
potenze ad esso proprie. Ha bisogno di avere per continuare ad essere ciò che è
e non morire. Ha anche bisogno di avere per essere ciò che non è ancora, ma che
può essere La ripresa filosofica di V. è citata in questo senso anche da C.
Napoleoni (cfr. L'enigma del valore, in
Rinascita , AQUINO (si veda) ha pii volte ripetuto che l'argomento
dell'autorità è il pii debole (Summa Theol.; In Phys.); che la sapienza non
procede propter auctoritatem dicentium, bensí propter rationem dictorum (Sup. I3oët. de Trinit.). Infine scrive.
Studium philosophiæ non est ad hoc quod sciatur quid homines senserint, sect
qualiter se habeat veritas rerum (De Coelo). Erroneamente SERTILLANGES (si veda) (La filosofia d’AQUINO (si veda), Roma)
traduce il qualiter con di sapere quello che han detto di vero, inquinando le
intenzioni e il testo tomistici che eliminano la mediazione dei filosofi e
dicono che occorre conoscere in che modo si abbia la veritil. tomismo di V., o,
come preferisce dire il filosofo, il punto dove anche AQUINO (si veda) tocca la
verità. Quindi tale AQUINISMO consiste, ora, nel tema della evidenza dei
principi primi pratici, incorruttibile garanzia morale del potere dell'uomo sul
futuro. Anzi V. rilegge la sua prima produzione proprio sotto il tema della
sinderesi. Lo sguardo appuntato sulla funzione dell'uomo di cultura ci mostra
ancora un Balbo in parte legato all'immagine dell'intellettuale che esce da lla
Resistenza. Parla, infatti, di un intellettuale che non deve appartenere a coloro che decidono, o
che muovono le masse, ma a coloro che propongono, che sollecitano, che ideano e
aprono nuove vie, che portano a verità l'opinione confusa e contraddittoria,
che scoprono ed enunciano nuovi bisogni, nuovi doveri, che determinano, in una
parola, il primo atto in ogni processo di umanizzazione degli uomini. L'autonomia,
o distinzione dell'intellettuale nei confronti del
politico, comporta un eroismo di preveggenza 7S, una priorità di mansioni (che
nello sviluppo della speculazione balbiana si riaccostano sempre piú a
tematiche crociane a livello di’auto-coscienza), e rischia di isolarlo in una
casta, quando Balbo parla della necessità della vocazione, aggiungendo, però,
che con questo Cfr. Il futuro e l'al di là. Nella nota V. afferma che L'uomo
senza miti, malgrado le insufficienze e le oscillazioni, verte, in fondo, tutto
sulla tematica della sinderesi . Come ho già chiarito prima, non è corretto
parlare, a proposito del primo libro di V., di tomismo, inteso come ripresa
diretta di teorie torniste, quanto piuttosto di una confluenza teorica tra la
visione balbiana di un ripristino della evidenza e quella tomistica della
sinderesi, cui solo dopo V. si avvicina chiaramente. La funzione
dell'intellettuale L'intellettuale, per V., non deve avere il coraggio fisico
delle armi, ma l'eroismo dei momenti non eroici: La vedetta ha il suo momento eroico nel
resistere al sonno delI'alba, quando gli altri dormono, e non nel darsi da fare
con gli altri quando la nave è finita tra gli scogli. a Intellettuale [non è
uno status sociologico], mi pare, è chi esprime con la parola, o manifesta con
l'esempio dei valori universali nel tnomento storico, e cioè chi produce
l'autocoscienza storica del suo tempo. L'istanza managcriale Dalla rivoluzione
alla collaborazione inventivatermine non vuole indicare altro che una
particolare capacità alla funzione, al compito intellettuale n. E che
l'intellettuale abbia un primato nei confronti del politico è, per Balbo,
evidenziato dal fatto che non è mai una struttura organizzativa a dare la
giustizia sociale, ma l'ethos trasformato e sviluppato n.Il nodo che gli
intellettuali italiani, ed europei in generale, si trovano a dover affrontare e
risolvere, dopo la destalinizzazione in Russia, è quello di un possibile
dilemma tra le istanze dell'individualismo liberale e que lle di un
collettivismo che ha annullato tutta la sua potenzialità positiva nelle forme
radicali del regime sovietico. V. afferma che il dilemma tra individualismo e
collettivismo non si risolve scegliendo uno dei termini, ma superando la
contraddizione in una nuova realtà che
include ciò che tutti i contrari includono e ciò che la loro contrarietà
esclude ". Questo tema del superamento e del rifiuto di una logica
dicotomica, inteso come somma dei valori positivi inclusi nelle tesi,
ridimensiona il tema marxiano della lotta di classe che, se è vista come
principio, può dare origine a una evasione permanente, o a una centralizzazione
di tutto il potere in una classe, o in un gruppo, o in un individuo B0. Il
rifiuto della lotta rivela nelle tesi di V. una sfiducia progressiva verso la
dialettica politico-economica, ridefinisce la lotta come mezzo e non come
principio perché in tal caso non dà origine
ad altra realtà che la lotta stessa. Questa Cfr. Note filosofiche sul
problema della giustizia sociale, conf. tenuta a lla Fac. di Magistero di Roma,
in u Atti della SOCIETÀ FILOSOFICA ROMANA; poi in Tesi filosofiche per lo
sviluppo sociale, dispense redatte da V. o sul corso tenuto da lui alla Fac. di
Magistero di Roma; ora in Opere. Il futuro e l'al di là. sa Cfr. Note
filosofiche sul problema della giustizia sociale Ibidem. La teoria statuale di V.
è ripresa in un convegno organizzato a Lucca dalla Democrazia Cristiana. In
quella sede, G. De Rosa ricordò V., come un
profondo filosofo della nostra età
(cfr. Orfci, L'occupazione del potere, Milano, e G. Galli, Storia della
Democrazia Cristiana, Bari polemica
strisciante con le teorizzazioni
marxiste della società borghese, come società essenzialmente conflittuale, è
interna a tutta la revisione che Balbo ha operato della sua lettura del
marxismo; revisione il cui punto centrale è costituito dallo spostamento di
giudizio sulla ateologicit à che diventa ateismo e anti-religione marxista. Il
pensatore torinese non rinunzia, però, ancora a rintracciare, oltre l'ateismo
dichiarato, un'orma di Dio nel desiderio di giustizia presente nel
marxismo s3Da una angolazione piú chiaramente po litica, l'ideologo della
Sinistra Cristiana, che aveva fondato la scelta di classe anche per i
cattolici, ora propone la collaborazione di classe come risultato di una certa
lotta che miri appunto all'equilibrio
per integrazione di soggetti autentici di interessi e di poteri: si può
considerare cioè che esista una lotta di classe che non cerca di sopprimere uno
dei termini della lotta, che cerca anzi l'equilibrio effettivo dei termini e
che quindi coincide con la collaborazione di classe. L'interclassismo era stato
uno dei motivi teorici per cui non si era realizzata la fusione tra la Sinistra giovanile cattolica e il partito degasperiano nel '43Galli
critica come ovvietà
tardoilluministiche il concetto balbiano
di Stato rappresentativo, gestito dai piú forti o dall'equilibrio dei gruppi
phi forti: è questa, chiaramente, una banalizzazione del pensiero di V. sul
superamento della lotta di classe). La stampa vedrà proprio nella riscoperta di
Balbo l'aspetto phi interessante di quel convegno (cfr. M. Scarano, Affrontare
la sfida, Il giorno). Cfr. Il futuro e l'al di la. Chiamo il desiderio di
giustizia presupposto reale e non principale del COMMUNISMO, perché, mentre il COMMUNISMO
non lo riconosce come elemento del proprio sistema teorico e pratico, esso è
d'altra parte la forza senza la quale il COMMUNISMO stesso non avrebbe corso
storico. Il COMMUNISMO a mio avviso rica la sua forza storica piú profonda dal
fatto di apparire come il realizzatore della desiderata giustizia, vera ed
effettiva, e come il giustiziere della morale e del diritto astratti. Note
filosofiche sul problema della giustizia sociale Cfr. Casula, Il Movimento dei
comunisti e la Resistenza a Roma, I1 movimento di liberazione in Italia; poi in
Casula, Comunisti ecc.. Per il programma interclassista della DC i documenti
fondamentali sono Il programma di Milano e le Idee ricostruttive della
Democrazia Cristiana, che possono essere letti nella stesura originaria in
Rossi, Dal Partito Popolare alla Democrazia Cristiana, L'istanza manageriale Dalla
rivoluzione alla collaborazione inventiva emerge ora una proposta inter-classista
avanzata da un V. che abbandona i programmi massimalistici per un riformismo
non ipocrita, ma comunque ambiguo ed eterogeneo al quadro della sua
speculazione anteriore. Infatti ora il filosofo teorizza la tesi per cui è
necessario che gl’interessi e le classi sussistano e non si sopprimano con
violenza diretta o indiretta. Né riteniamo di poter accostare questo inter-classismo
ai temi di GOBETTI (si veda) nei quali il termine di “classe” è pura astrazione.
Quindi ci puo essere annullamento delle classi, ma non loro collaborazione.
Invece, per V. si deve instaurare un equilibrio dinamico fra le classi, ossia
un equilibrio che si fondi su di un'autonoma, effettiva e adeguata, sostanzialmente
e non solo quantitativamente, partecipazione al potere in tutte le sue forme da
parte di ogni classe, di ogni interesse, singolo e collettivo. Il che sarebbe
appunto la giustizia sociale. Questo inter-classismo ha motivazioni
antropologiche ed etiche che per certi versi richiamano temi dell'anarchismo di
Sartre, ma solo perché convergono nell'identificare la libertà nella
liberazione, e la integrazione creativa nel movimento. Bologna, Scoppola parla,
pure, delle difficoltà interne alla DC, che non riusciva ad esprimere
compiutamente la proposta inter-classista di cui la società italiana ha bisogno
(cfr. Scoppola, La proposta politica di Gasperi, Bologna; esamina acutamente e
attraverso documenti spesso inediti l'atteggiamento di Gasperi nei confronti
della Sinistra e il suo incunearsi tra essa e il Vaticano. Una collaborazione
di classe che non riconosca i termini dei contrasti fondamentali e particolari
di classe, che non riconosca la esistenza, la natura e le ragioni dei
contrastanti interessi sociali e delle lotte aperte o nascoste che conseguono a
tali contrasti, non è una collaborazione di classe, ma la maschera ipocrita del
dispotico dominio, o tentativo di dominio, di una classe sull'altra, di un
interesse sull'altro (Note filosofiche sul problema della giustizia sociale). Scrive
GOBETTI (si veda). Nella concreta realtà dell'atto spirituale gli schemi
perdono la validità loro. Le classi diventano meri fantasmi (Definizioni: la
Borghesia, La Rivoluzione Liberale, ora in Scritti politici, Note filosofiche
sul problema della giustizia sociale. Gl’uomini non sono liberi ed eguali in
senso rigoroso se non nella loro integrazione creativa per lo sviluppo umano,
per la giustizia prospettiva riformistica, in chiave inter-classista, non può
che realizzarsi tornando agli incroci tra privato e pubblico, tra momento di
analisi e momento di sintesi deliberativa. Cosi V., che cerca di correggere la
struttura industriale intervenendo sui piccoli gruppi di lavoro, ritiene che il
problema centrale della democrazia sia nelle erme ï collettive, dove di tatto è
il potere e il controllo delle masse. Quelle entità sono diventate, dopo la
Resistenza, delle macchine, senza spazi reali per le decisioni di base. Il
filosofo scrive che solo con un'azione individuale e collettiva, teorica e
pratica, centrale, non centralistica, e periferica d’invenzione si può
realizzare un equilibrio dinamico di interessi e si può realizzare l giustizia
sociale, cioè un crescente influsso di collettività di persone sulla proprietà,
sull'uso, sulla destinazione dei mezzi di produzione. L'ipotesi balbiana è
quella di intervenire sugl’organismi intermedi come strutture portanti di un
regime democratico. Il discorso dei rapporti economici diventa, quindi, un tema
consequenziale e derivato. t un ridare il primato alla politica, ma, come tiene
a specificare il filosofo, non il primato al pensiero politico. Il pensiero è
solo la premessa statica dei partiti, una premessa generica e spesso
mistificatrice presa in prestito e non creata dalla loro attività, strumento di
persuasione o momento subordinato dell'organizzazione. Ciò che sociale. Sartre
dice che il superamento della dialettica tra soggetto e oggetto è il gruppo,
per la sua impresa e per quel suo movimento costante d'integrazione che tende a
farne una praxis pura e a sopprimere in esso tutte le forme d'inerzia (Critica;
della ragione dialettica, Teoria degli insiemi pratici, Milano, Cfr. Note
filosofiche sui problema della giustizia sociale, Vita cita e illustra la
teoria balbiana del piccolo gruppo, nel suo saggio Piccoli gruppi e società in
trasformazione, Milano. Note filosofiche sul problema della giustizia sociale,
La sfida storica del comunismo al Cristianesimo e le sue consegueuze
filosofico-sociali, in Il Mulino; unito a Ancora su Cristianesimo, comunismo e
azione politica, L'istanza manageriale Dalla rivoluzione alla collaborazione
inventiva costituisce realmente i partiti (clic Balbo ritiene le arterie della
democrazia) è l'essere strumenti di organizzazione della volontà e degli
interessi politici. È rilevante sottolineare che questo tema del partito
politico come struttura portante è una ulteriore caratterizzazione ciel
pensiero filosofico di V. che lo pone a metà strada tra la concezione del
materialismo storico e quelle, estranee ma parallele, dello storicismo crociano
(CROCE (si veda)) e della storia cone storia filosofica di NOCE (si veda). C'è
quindi, nell'autore di L'uomo senza miti, questa esigenza esasperata di
sceverare nelle sue esperienze teoriche una linea di unificazione, anche se la
sua filosofia della storia propende
verso una accentuazione dei motivi di
materialità (o nel senso delle
istituzioni, o nel senso del bisogno economico), rispetto alle urgenze
puramente ideali.L'operare dall'interno del sistema, pid che rassegnazione alla
sconfitta, è caparbietà pragmatica e machiavellica nel voler trasformare le
cose e frenare la catastrofe. Non sempre la proposta speculativa di V. è, però,
adeguata alle sue istanze, è ora in Opere, con il titolo Comunismo e
Cristianesimo. Cfr. ibidem.as Riguardo a questo dissenso, Del Noce afferma che
fu tra le cause clic gli vietarono di aderire alle trii di Balbo, nel periodo
della Sinistra Cristiana. Da ciò il sorgere tra lui e Balbo a di una
discussione, che per l'uno e per l'altro era piuttosto un monologo che un
dialoga; non certosensodl una sordia, ma anzi in quello di una fusione
masatma,nel,per cui ognuno combatteva nell'altro una posizione che ritenevadl
aver Avissuto '(e non soltanto obiettivam ente pensato) e oltrepas atrt^ r (Ge
netle significato ecc). Felice Balbo Vinadio, conte di Vinadio. Felice Balbo Vinadio.
Keywords. Refs.: H. P. Grice Papers, Bancroft MS – Luigi Speranza, “Grice e Vinadio:
being, value – and colloquenza!” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza,
Liguria. Vinadio.
Luigi Speranza -- Grice e Vio: AQUINISTI
SPECULATIVI -- la ragione conversazionale e le categorie del lizio – un senso,
un’analogia – la scuola di Gaeta – filosofia lazia -- filosofia italiana –
Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Gaeta). Filosofo Lazio. Filosofo italiano.
Gaeta, Latina, Lazio. Essential Italian philosopher. Grice:
“While the typical Englishman is more interested in the fact that Vio never
thought that Henry VIII did divorce Aragon, I prefer his commentary on the
‘prae-dicamentum’ of Aristotle, via ‘Porfirio’!” -- Grice was irritated that
when ‘Vio’ became a saint, the Italians list him under ‘c’. O. P. cardinale di Santa Romana Chiesa. V. riceve
Lutero, Template-Cardinal. Incarichi ricoperti. Maestro generale dell'ordine
dei predicatori, cardinale presbitero di San Sisto, arcivescovo metropolita di
Palermo, arcivescovo-vescovo di Gaeta, cardinale presbitero di Santa Prassede. Ordinato
presbitero, nominato arcivescovo da Leone X, consacrato arci-vescovo da Fieschi,
creato cardinale da Leone X. Religioso domenicano, generale dell'ordine: filosofo,
teologo e diplomatico pontificio. Incontro tra V. e Lutero in una stampa
d'epoca. Entra tra i frati domenicani del monastero di Gaeta, e prosegue i suoi
studi in filosofia a Napoli, Bologna e Padova. Insegna filosofia a Pavia e
Roma. Acquisce una considerevole fama in seguito ad un pubblico dibattito con PICO
a Ferrara. Generale dell'ordine e consigliere dei papi, dimostra grande zelo
nel difendere il diritto del papa contro il concilio di Pisa, polemizzando
contro Almain in una serie di articoli messe al bando dalla Sorbona e bruciati per
ordine di Luigi XII. Leone X crea V. cardinale, e fatto arci-vescovo di Palermo.
Arci-vescovo di Gaeta, inviato in Germania come legato apostolico per
partecipare alla dieta di Augusta, si adopera con profitto per l'elezione di
Carlo V d'Asburgo ad imperatore del sacro romano impero -- prevalendo
sull'altro concorrente Francesco I -- e lì cerca di arginare la nascente riforma
protestante di Lutero. Fa rientro in Roma senza essere riuscito a convincere Lutero
ad abbandonare i suoi propositi di riforma. Aiuta il papa nell'estensione della
bolla “Exsurge domine” rivolta a contrastare il dilagare della riforma di
Lutero. Oganizza la resistenza contro i turchi. Venne fatto prigioniero
durante il sacco di Roma dai Lanzichenecchi, inviati da Carlo V per punire
Clemente VII per il tradimento della parola datagli. Pronuncia la sentenza
definitiva di validità del matrimonio di Enrico VIII e Caterina d'Aragona,
rifiutando il divorzio al sovrano inglese. Accanto alla produzione filosofica
e di teologia filosofica, secondo la linee della scuola d’AQUINO, V. si distinque
come esegeta. Ignora attamente l’ebraico, ma consulta esperti rabbinici e
grazie alla sua familiarità con il testo greco, ubblica un commentario dei
libri sacri di giuidei e galilei. L’enfasi alla Grice di V. sulla ricerca del SIGNIFICATO
letterario o LITERALE dell’Eneide o altri testi pone V. alle origini della tradizione
esegetica del cattolicismo contro le sette delle differenti nazioni. Saggi:
“Summula Caietani”; “Opuscula omnia” (Giunta); “Commentaria super tractatum de
ente et essentia [di Aquino]”; “De nominum analogia”; “Commentaria in III
libros Aristotelis de anima”; “Auctoritas pape et concilii sive ecclesie
comparata” (Silber); “Oratio in secunda sessione concilii lateranensis” (Berlin);
“Apologia de comparata auctoritate pape et ecclesie”; “De divina institutione pontificatus
romani pontificis”; “Jentacula Nuovo Testamento, expositio LITERALIS sexaginta
quatuor notabilium sententiarum Novi Testamenti” (Roma). Francesco senese De
Franceschi; “In Porphyrii Isagogen ad Prædicamenta Aristotelis”; “Opera omnia”;
“Scripta philosophica”; “De conceptu entis”; “De comparatione auctoritatis papæ”;
“Apologia”. Allaria, V.: cardinale -- Roma; Treccani, Enciclopedie, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, Dizionario biografico degl’italiani, Conferenza
Episcopale Italiana. ALCUIN,
Università di Ratisbona. V. philosophised
extensively on free will, and had a colourful dispute with, of all people, Luther,
well represented in a painting that Grice adored. Shropshire borrowed
his proof for the immortality of the soul from V. Prelate and theologian. Born
in Gæta from which he take his name, he enters the Dominican order and studies
philosophy at Naples, Bologna, and Padua. He becomes a cardinal, and travels to
Germany, where he engages in a theological controversy with Luther. His major
work is a Commentary Aquino’s Summa Theologiæ, which promotes a renewal of
interest in scholastic and ‘Thomistic’ philosophy. In agreement with Aquino, V.
places the source of knowledge in sense perception. In contrast with Aquino, V.
*denies* that the immortality of the soul and the existence of the divine as
our creator may be proved. V.’s work in logic is based on the traditional
syllogistic logic that he called ‘dal Lizio,’ but is original in its discussion
of the notion of “analogy”. V. distinguishes *three* types of analogy: analogy
of inequality, analogy of attribution, and analogy of proportion. Whereas he rejects
“analogy of inequality” and “analogy of attribution” as improper, fallacious, and
invalid, V. regards the analogy of proportion as valid and basic and appeals to it in explaining how humans may come to
know propositions about the divine and
how analogical reasoning, applied to both the divine, and the divine’s creatures,
may avoid being æqui-vocal. DE NOMINUM ANALOGIA. QUOTUPLEX SIT ANALOGIA, CUM
DECLARATIONE PRIMI MODI Invitatus et ab
ipsius rei obscuritate, et a nostri æui flebili profundarum litterarum penuria,
de nominuin analogia in his uacationibus tractatum edere intendo. Est siquidem eius notitia necessaria adeo, ut sine
illa non possit metaphysicam quispiam discere, et multi in aliis scientiis ex
eius ignorantia errores procedant. Quod si ullo usquam tempore accidit, hac ætate
id euenire clara luce uidemus, dum analogiam, uel indisiunctionis, uel ordinis,
uel conceptus præcisi unitate, cum inæqualis participatione constituunt. Ex
dicendis namque patebit, opiniones huiusmodi a ueritate, quae ultro se
offerebat, per abrupta deuiasse. 2.
Analogiae igitur uocabulum proportionem siue proportionalitatem (ut a Graecis
accepimus) in proposito sonat. Adeo tamen extensum distinctumque est, ut multa
nomina analoga abusiue dicamus; et multarum distinctionum adunatio si fieret,
confusionem pareret. Ne tamen rectum obliqui iudicio priuetur, et singularitas
in loquendo accusetur, unica distinctione trimembri omnia comprehendemus, et a
minus proprie analogis ad uere analoga procedemus. 3. Ad tres ergo modos analogiae omnia analoga
reducuntur: scilicet ad analogiam inaequalitatis, et analogiam attributionis,
et analogiam proportionalitatis. Quamuis secundum ueram uocabuli proprietatem
et usum Aristotelis, ultimus modus tantum analogiam constituat, primus autem
alienus ab analogia omnino sit. 4.
Analoga secundum inaequalitatem uocantur, quorum nomen est commune, et ratio
secundum illud nomen est omnino eadem, inaequaliter tamen participata. Et
loquimur de inaequalitate perfectionis: ut corpus nomen commune est corporibus
inferioribus et superioribus, et ratio omnium corporum (in quantum corpora
sunt) eadem est. Quaerenti enim quid est ignis in quantum corpus, dicetur:
substantia trinae dimensioni subiecta. Et similiter quaerenti: quid est caelum in quantum
corpus, etc. Non tamen secundum aequalem perfectionem ratio corporeitatis est
in inferioribus et superioribus corporibus.
5. Huiusmodi autem analoga Logicus uniuoca appellat, Philosophus uero
aequiuoca, eo quod ille intentiones considerat nominum, iste autem naturas.
Unde et in X Metaph., text. ultim. Aristoteles dicit quod corruptibili et
incorruptibili nihil est commune uniuocum, despiciens unitatem rationis seu
conceptus tantum. Et in VII Physic., text. 13 dicitur iuxta genus latere
aequiuocationes; quia huiusmodi analogia cum unitate conceptus non dicit unam
naturam simpliciter, sed multas compatitur sub se naturas, ordinem inter se
habentes, ut patet inter species cuiuslibet generis, specialissimas et
subalternas magis. Omne enim genus analogum hoc modo appellari potest, (licet
non multum consueuerint nisi generalissima et his propinqua sic uocari), ut
patet de quantitate et qualitate in praedicamentis, et corpore, etc. 6.
Hanc analogiam S. Thomas, in I Sent., dist. 19 uocat analogiam secundum esse
tantum, eo quod analogata parificantur in ratione significata per illud nomen
commune, sed non parificantur in esse illius rationis. Perfectius enim esse
habet in uno, quam in alio, cuiuscumque generis ratio, ut in Metaphysica
pluries patet. Non solum enim planta est nobilior minera; sed corporeitas in
planta est nobilior corporeitate in minera: et sic de aliis. 7. Perhibet quoque huic analogiae testimonium Auerroes
in XII Metaph., text. 2 dicens, cum unitate generis stare prioritatem et
posterioritatem eorum, quae sub genere sunt. Haec pro tanto analoga uocantur,
quia considerata inaequali perfectione inferiorum, per prius et posterius
ordine perfectionis de illis dicitur illud nomen commune. Et iam in usum uenit,
ut quasi synonime dicamus aliquid dici analogice et dici per prius et
posterius. Abusio tamen uocabulorum haec est; quoniam dici per prius et
posterius, superius est ad dici analogice. In huius modi autem analogis,
quomodo inueniantur unitas, abstractio, praedicatio, comparatio, demonstratio
et alia huiusmodi, non oportet determinare; quoniam uniuoca sunt secundum
ueritatem, et uniuocorum canones in eis seruandi sunt. ANALOGIA ATTRIBUTIONIS QUID SIT, ET QUOT MODIS FIAT, ET
QUAE EIUS CONDITIONES. Analoga autem secundum attributionem sunt, quorum nomen
commune est, ratio autem secundum illud nomen est eadem secundum terminum, et
diuersa secundum habitudines ad illum: ut sanum commune nomen est medicinae,
urinae et animali; et ratio omnium in quantum sana sunt, ad unum terminum
(sanitatem scilicet), diuersas dicit habitudines. Si quis enim assignet quid est animal in quantum
sanum, subiectum dicet sanitatis; urinam uero in quantum sanam, signum
sanitatis; medicinam autem in quantum sanam, causam sanitatis proferet. Ubi
clare patet, rationem sani esse nec omnino eamdem, nec omnino diuersam; sed
eamdem secundum quid, et diuersam secundum quid. Est enim diuersitas
habitudinum, et identitas termini illarum habitudinum. 9. Quadrupliciter autem fieri potest
huiusmodi analogia, secundum quatuor genera causarum (uocando pro nunc causam
exemplarem causam formalem). Contingit siquidem multa ad unum finem, et ad unum
efficiens, et ad unum exemplar, et ad unum subiectum, secundum aliquam unam
denominationem et attributionem diuersimode habere: ut patet ex exemplis
Aristotelis, IV Metaph., text. 2. Ad causam enim finalem pertinet exemplum de
sano in III Metaph., text. 2, ad efficientem uero exemplum de medicinali ibidem
positum; ad materialem autem analogia entis ibidem subiuncta; ad exemplarem
demum analogia boni, posita in I Ethic., cap. 7. 10. Attribuuntur autem huic analogiae multae
conditiones, ordinate se consequentes: scilicet quod analogia ista sit secundum
denominationem extrinsecam tantum; ita quod primum analogatorum tantum est tale
formaliter, caetera autem denominantur talia extrinsece. Sanum enim ipsum
animal formaliter est; urina uero, medicina et alia huiusmodi, sana
denominantur, non a sanitate eis inhaerente, sed extrinsece, ab illa animalis
sanitate, significatiue uel causaliter, uel alio modo. Et similiter idem est de
medicatiuo et de substantia, quae sunt formaliter in primo; in caeteris uero
denominatiua significatione denominantur et extrinsece. Boni quoque ratio in
bono per essentiam saluata, quo exemplariter caetera denominantur bona, in solo
primo bono formaliter inuenitur; reliqua uero extrinseca denominatione,
secundum illud bonum, bona dicuntur. 11.
Sed diligenter aduertendum est, quod hæc huiusmodi analogiæ conditio, scilicet
quod non sit secundum genus causæ formalis inhærentis, sed semper secundum
aliquid extrinsecum, est formaliter intelligenda et non materialiter: idest non
est intelligendum per hoc, quod omne nomen quod est analogum per attributionem,
sit commune analogatis sic, quod primo tantum conueniat formaliter, cæteris
autem extrinseca denominatione, ut de sano et medicinali accidit; ista enim
uniuersalis est falsa, ut patet de ente et bono; nec potest haberi ex dictis,
nisi materialiter intellectis. Sed est ex hoc intelligendum, quod omne nomen
analogum per attributionem ut sic, uel in quantum sic analogum, commune est
analogatis sic, quod primo conuenit formaliter, reliquis autem extrinseca
denominatione. Hoc siquidem uerum
est, ex formali intellectu præcedentium; ex eisque manifeste sequitur. Ens enim
quamuis formaliter conueniat omnibus substantiis et accidentibus etc., in
quantum tamen entia, omnia dicuntur ab ente subiectiue ut sic, sola substantia
est ens formaliter; cætera autem entia dicuntur, quia entis passiones uel
generationes etc. sunt; licet entia formaliter alia ratione dici possint. Et
simile est de bono. Licet enim omnia entia bona sint, bonitatibus sibi
formaliter inhærentibus, in quantum tamen bona dicuntur, bonitate prima
effectiue aut finaliter aut exemplariter, omnia alia nonnisi extrinseca
denominatione bona dicuntur: illamet bonitate, qua Deus ipse bonus formaliter
in se est. Et ex hac conditione statim
infertur alia: scilicet quod illud unum, ad quod diuersæ habitudines
terminantur in huiusmodi analogis, est unum non solum ratione, sed numero. Quod
dupliciter intelligi potest, secundum quod analogata dupliciter sumi possunt:
scilicet uniuersaliter et particulariter.
Si enim sumantur analogata particulariter, illud unum necessario est
unum numero uere et positiue. Si
autem sumantur uniuersaliter, illud unum necessario est unum numero negatiue,
idest non numeratur in illis analogatis ut sic, quamuis in se sit uniuersale
quoddam, et non unum numero. Verbi gratia, si sumantur hæc urina sana, hæc
medicina sana, et hoc animal sanum: hæc omnia dicuntur sana a sanitate quæ est
in hoc animali, quam constat unam numero uere esse. Sortes enim dicitur sanus,
quia habet hanc sanitatem; medicina, quia illam facit; urina, quia eamdem
significat, etc. Si uero sumantur animal sanum in communi, et urina sana in
communi et medicina sana in communi: sic, formaliter loquendo, sanitas a qua
huiusmodi sana dicuntur, non est una numero in se: eo quod causæ uniuersales
effectibus uniuersalibus comparandæ sunt, ut II Phys., text. 39 dicitur. Et simile est de
signis, et instrumentis, et conseruatiuis, et aliis huiusmodi; sed est una
numero in istis analogatis negatiue. Non
enim numeratur sanitas in animali, urina et diæta; quoniam non est alia sanitas
in urina, et alia in animali, et alia in diæta.
13. Et sequitur conditio ista ex præcedenti: quoniam commune secundum
denominationem extrinsecam non numerat id a quo denominatio sumitur in
denominatis, sicut uniuocum multiplicatur in suis uniuocatis; et propter hoc
dicitur unum ratione tantum, et non unum numero in suis uniuocatis. Alia est enim animalitas
hominis, et alia equi, et alia bouis, animalis nomine adunatæ in una
ratione. 14. Ex hac autem conditione
infertur alia, quod scilicet primum analogatum ponitur in definitione cæterorum,
secundum illud nomen analogum; quoniam cætera non suscipiunt illud nomen, nisi
per attributionem ad primum, in quo formaliter saluatur eius ratio. Cadit
siquidem in ratione medicinæ, et diætæ, et urinæ etc., in quantum sanæ sunt,
animalis sanitas: sine qua intelligi cætera sana non possunt. Et simile est de
aliis iudicium. 15. Ex hoc autem
sequitur ulterius, quod nomen sic analogum, unum certum significatum commune
omnibus partialibus eius modis, seu omnibus analogatis, non habet. Et
consequenter, quod nec conceptum obiectiuum, nec conceptum formalem
abstrahentem a conceptibus analogatorum habet; sed sola uox cum identitate
termini diuersimode respecti communis est: ita quod cum in hac analogia sint
tria: uox scilicet, terminus et respectus diuersi ad illum; nomen analogum
terminum quidem distincte significat, ut sanum sanitatem; respectus autem
diuersos ita indeterminate et confuse importat, ut primum distincte uel quasi
distincte ostendat, cæteros autem confuse, et per reductionem ad primum. Sanum
enim respectus multos ad sanitatem, puta habentis, significantis, causantis,
etc., sic in una uoce sanitatem distincte importante confundit, ut respectum
primum scilicet habentis seu subiecti, distincte significet (Sanum enim
absolute dicimus sanitatem habentem, ut subiectum); cæteros autem respectus
indeterminate importat et per attributionem ad primum, sicut patet ex
dictis. 16. Et propter hoc tria de
huiusmodi analogo dicuntur: scilicet quod commune est omnibus analogatis non
secundum uocem tantum; - et quod simpliciter prolatum stat pro primo; - et quod
non est prius primo analogato, in quo tota sua ratio formaliter saluatur.
Primum quidem peculiarius significat, et super omnia analogata superius
significatum non habet. 17. Diuiditur
autem a sancto Thoma analogia hæc in analogiam duorum ad tertium, ut urinæ et
medicinæ ad animal sanum; et in analogiam unius ad alterum, ut urinæ uel
medicinæ ad animal sanum 18. Nec habet
ista diuisio alia membra a supradictis: quoniam hæc circuit analogiam secundum
omnia genera causarum. Sed ad hoc facta est, ut ostendatur differenter suscipi
nomen analogum, quando ponitur primum analogatum ex una parte, et cætera ex
altera parte; et quando secundorum analogatorum unum hinc et alterum inde
ponitur, secundum quodcumque genus causæ analogia fiat. Primo enim et cæteris
sic commune est analogum, ut nihil eis prius ponat aut significet: et propterea
uocatur analogia unius ad alterum, ponendo omnia alia a primo, loco unius.
Secundis autem analogatis sic commune est nomen analogum, ut aliquid omnibus
eis prius ponat: primum scilicet ad quod omnia secunda attribuuntur. Et uocatur analogia duorum ad tertium, uel multorum
ad unum: quia non inter se est attributio, sed ad primum. Appellantur autem hæc analoga a Logico æquiuoca,
ut in principio Prædicamentorum patet, ubi animal æquiuocum dicitur ad animal
uerum et animal pictum. Animal enim pictum non pure æquiuoce, sed per
attributionem ad animal uerum, animal dicitur; et in ratione eius in quantum
animal manifeste patet animal uerum accipi. Quærenti enim: quid est animal
pictum in eo quod animal? respondebitur: imago animalis ueri. 20. A philosophis uero Græcis, nomina ex uno,
uel ad unum, aut in uno, et media inter æquiuoca et uniuoca dicuntur, ut
pluries in Metaphysica patet; et expresse in I Ethic. huiusmodi nomina contra
analoga distinguuntur, ut infra amplius dicetur. A Latinis autem uocantur
analoga uel æquiuoca a consilio. 21.
Hanc analogiam S. Thomas in I Sent., dist. 19, q. 5 a. 2 ad 1 uocat analogiam
secundum intentionem, et non secundum esse: eo quod, nomen analogum non sit hic
commune secundum esse, idest formaliter; sed secundum intentionem, idest
secundum denominationem. Ut enim ex dictis patet, in hac analogia nomen commune
non saluatur formaliter nisi in primo; de cæteris autem extrinseca
denominatione dicitur. Hæc ideo apud Latinos analoga dicuntur: quia
proportiones diuersas ad unum dicunt, extenso proportionis nomine ad omnem
habitudinem. Abusiua tamen locutio hæc est, quamuis longe minor quam
prima. 22. Quomodo autem de huiusmodi
analogis sit scientia, et contradictiones et demonstrationes, et consequentiæ
et alia huiusmodi de eis fiant, ex dictis, et consuetudine Aristotelis patet.
Oportet enim significationes diuersas prius distinguere (propter quod ambigua
apud Arabes hæc dicuntur), et deinde a primo ad alia procedere, sicut a centro
ad circumferentiam diuersis proceditur uiis. DE ANALOGIA PROPORTIONALITATIS:
QUID SIT ET QUOTUPLEX SIT, ET QUOD SOLA PROPRIE ANALOGIA VOCETUR 23. Ex abusiue igitur analogis ad proprie
analogiam ascendendo, dicimus: analoga secundum proportionalitatem dici, quorum
nomen est commune, et ratio secundum illud nomen est proportionaliter eadem.
Vel sic: Analoga secundum proportionalitatem dicuntur, quorum nomen commune
est, et ratio secundum illud nomen est similis secundum proportionem: ut uidere
corporali uisione, et uidere intellectualiter, communi nomine uocantur uidere;
quia sicut intelligere, rem animæ offert, ita uidere corpori animato. Quamuis
autem proportio uocetur certa habitudo unius quantitatis ad aliam, secundum
quod dicimus quatuor duplam proportionem habere ad duo; et proportionalitas
dicatur similitudo duarum proportionum, secundum quod dicimus ita se habere
octo ad quatuor quemadmodum sex ad tria: utrobique enim dupla proportio est,
etc.; transtulerunt tamen Philosophi proportionis nomen ad omnem habitudinem
conformitatis, commensurationis, capacitatis, etc. Et consequenter
proportionalitatem extenderunt ad omnem similitudinem habitudinum. Et sic in
proposito uocabulis istis utimur. 25.
Fit autem duobus modis analogia hæc: scilicet metaphorice et proprie.
Metaphorice quidem, quando nomen illud commune absolute unam habet rationem
formalem, quæ in uno analogatorum saluatur, et per metaphoram de alio dicitur:
ut ridere unam secundum se rationem habet, analogum tamen metaphorice est uero
risui, et prato uirenti, aut fortunæ successui; sic enim significamus hæc se
habere, quemadmodum homo ridens. Et huiusmodi analogia sacra Scriptura plena
est, de Deo metaphorice notitiam tradens. Proprie uero fit, quando nomen illud
commune in utroque analogatorum absque metaphoris dicitur: ut principium in corde
respectu animalis, et in fundamento respectu domus saluatur. Quod, ut Auerroes
in comm. septimo I Ethic. ait, proportionaliter de eis dicitur. 27. Præponitur autem analogia hæc cæteris
antedictis dignitate et nomine. Dignitate quidem, quia hæc fit secundum genus
causæ formalis inhærentis: quoniam prædicat ea, quæ singulis inhærent. Altera
uero secundum extrinsecam denominationem fit.
28. Nomine autem, quia analoga nomina apud Græcos (a quibus uocabulum
habuimus) hæc tantum dicuntur; ut ex Aristotele etiam colligitur, qui in
Metaphysica nomina quæ dicimus analoga per attributionem, ex uno, uel ad unum,
uel in uno uocat: ut patet in principio IV et in VII, text. 15. In V autem
Metaphysicæ, cap. de uno, text. 12, definiens unum secundum analogiam, ut
synonimis utitur unum analogia et unum proportione; et definit ea esse, « quæcumque
se habent ut aliud ad aliud »: aperte insinuans illam esse proprie analogatorum
definitionem, quam diximus. Quod tamen clarius habetur in Arabica translatione,
ubi dicitur: « Illa quæ sunt unum secundum æqualitatem, scilicet
proportionalem, sunt quorum proportio est una, sicut proportio alicuius rei ad
aliam rem ». Ubi Auerroes exponens ait: « Et illa dicuntur unum, quæ sunt unum
secundum proportionalitatem; sicut dicitur, quod proportio rectoris ad
ciuitatem et gubernatoris ad nauem, est una ». In secundo quoque Posteriorum, cap. XIII huiusmodi
nomina proportionalia, analoga uocat. Et quod plus est, in I Ethic., cap. 7
distinguit supradicta nomina ad unum aut ex uno, contra analoga; dum, loquens
de communitate boni ad ea quæ bona dicuntur, ait: « Non assimilantur a casu æquiuocis;
sed certe ei, quod est ab uno esse, uel ad unum omnia contendere, uel magis
secundum analogiam ». Et subdens exemplum analogiæ dicit: « Sicut enim in
corpore uisus, in anima intellectus ». In quibus uerbis diligenti lectori, non
solum nomen analogiæ hoc, quod diximus, sonare docuit; sed præferendam esse in
prædicationibus metaphysicis hanc insinuauit analogiam (in ly magis), ut S.
Thomas ibidem propter supradictam rationem optime exponit. 29. Scimus quidem secundum hanc analogiam
rerum intrinsecas entitates, bonitates, ueritates etc., quod ex priori analogia
non scitur. Unde sine huius analogiæ notitia, processus metaphysicales absque
arte dicuntur. Acciditque huiusmodi ignorantibus, quod antiquis nescientibus
logicam, ut in II Elenchorum dicitur. Nec fuit forte ab Aristotelis tempore tam
periculosus casus iste, sicut modo apud nos est; quoniam blasphemare fere
uidetur, qui metaphysicales terminos analogos dicens, secundum
proportionalitatem communes exponit. Cum tamen Auerroes dicat super prædicto textu: « Et
dignius his tribus modis est, ut sit nomen boni dictum de eis secundum uiam, quæ
dicitur de proportionalibus ». Vocatur
quoque a Sancto Thoma in I Sent., dist. 19, ubi supra, analogia secundum esse
et secundum intentionem; eo quod analogata ista, nec in ratione communis
nominis, nec in esse illius rationis parificantur, et tamen tam in ratione
illius nominis, quam in esse eiusdem, proportionaliter, conueniunt. Sed
quoniam, ut dictum est, obscura et necessaria ualde res hæc est, accurate
distincteque dilucidanda est per plura capitula. QUOMODO ANALOGUM AB ANALOGATIS DISTINGUATUR. Quoniam
autem analogia media est inter æquiuocationem puram et uniuocationem, ex
extremis natura medii declaranda est. Et quia in nominibus tria inueniuntur,
scilicet uox, conceptus in anima, et res extra, seu conceptus obiectiuus: ideo
singula perlustrando, dicendum est, quomodo analogum ab analogatis
distinguatur 32. Et a rebus incipiendo,
quia priores conceptibus et nominibus sunt, dicimus quod, nomine æquiuoco ita
diuersæ res significantur, quod ut sic non nisi uoce adunantur. Uniuoco uero
diuersæ res ita significantur, quod, ut sic, ad rem in se simpliciter unam
abstractam et præcisam in esse cognito ab eis, adunantur. Analogo autem nomine
res diuersæ ita significantur, quod ut sic ad res diuersas secundum
proportionem unam uniuntur. Vocatur autem in proposito res, non solum natura
aliqua, sed quicumque gradus, quæcumque realitas, et quodcumque reale in rebus
inuentum. Unde inter uniuocationem et analogiam hæc est differentia: quod res
fundantes uniuocationem sunt sic ad inuicem similes, quod fundamentum
similitudinis in una est eiusdem rationis omnino cum fundamento similitudinis
in alia: ita quod nihil claudit in se unius ratio, quod non claudat alterius
ratio. Ac per hoc fundamentum uniuocæ similitudinis, in utroque extremorum æque
abstrahit ab ipsis extremis. Res autem fundantes analogiam, sic sunt similes,
quod fundamentum similitudinis in una, diuersæ est rationis simpliciter a
fundamento illius in alia: ita quod unius ratio non claudit id quod claudit
ratio alterius. Ac per hoc fundamentum analogæ similitudinis, in neutro
extremorum oportet esse abstractum ab ipsis extremis; sed remanent fundamenta
distincta, similia tamen secundum proportionem; propter quod eadem
proportionaliter uel analogice dicuntur.
34. Et ut possint omnibus prædicta patere, declarantur exemplariter in
uniuocatione huius nominis animal, et analogia huius nominis ens. Homo, bos,
leo et cætera animalia, quia habent in se singulas naturas sensitiuas, seu
proprias animalitates, quas constat diuersas secundum rem esse, et mutuo
similes: sic quod in quocumque extremo, puta homine aut leone, consideretur
secundum se animalitas, quæ est similitudinis fundamentum, inuenitur æqualiter
abstrahens ab eo in quo est, et nihil includens in uno quod non in alio. Ideo
et in rerum natura fundant secundum suas animalitates similitudinem uniuocam,
quæ identitas generica uocatur; et in esse cognito adunantur non ad duas uel
tres animalitates, sed unam tantum, quæ animalis nomine in concreto per se
primo significatur, et uniuoce uocatur communi nomine animal. Omnium siquidem
eorum, secundum quod naturas sensitiuas habent, indistincta omnino est ratio ab
omnibus abstracta, quæ illius rei, quam animalitatem uocauimus, adæquata est
definitio. Substantia autem quantitas, qualitas etc., quia non habent in suis
quidditatibus aliquid prædicto modo abstrahibile, puta entitatem, (quoniam
supra substantialitatem nihil amplius restat), ideo nullam substantialem
uniuocationem inter se compatiuntur. 35.
Et quia cum hoc, quod non solum eorum quidditates sunt diuersæ, sed etiam primo
diuersæ; retinent similitudinem in hoc, quod unumquodque eorum secundum suam
proportionem habet esse; ideo et in rerum natura non secundum aliquam eiusdem
rationis in extremis sed secundum proprias quidditates, ut commensuratas his
propriis esse fundant analogam idest proportionalem similitudinem. Et in
intellectu adunantur ad tot res, quot sunt fundamenta, proportionis
similitudine unitas, significatas (propter illam similitudinem) entis nomine,
et analogice communi nomine uocantur ens. Differenter ergo res adunantur sub
nomine Analogo et Uniuoco. 36. Conceptus
quoque mentalis non eodem modo inuenitur in uniuocis et analogis: quoniam nomen
uniuocum et omnia uniuocata ut sic, unum tantum conceptum in mente habent
perfecte et adæquate eis correspondentem; quia fundamentum uniuocæ
similitudinis (quod significatum formale est nominis uniuoci), unius omnino
rationis est in omnibus uniuocatis; ac per hoc in uno repræsentato, omnia repræsentari
necesse est. In analogis uero, quoniam fundamenta analogæ similitudinis
diuersarum rationum sunt simpliciter, et eiusdem secundum quid, idest secundum
proportionem: oportet duplicem analogi mentalem conceptum distinguere,
perfectum et imperfectum; et dicere quod analogo et suis analogatis respondet
unus conceptus mentalis imperfectus, et tot perfecti, quot sunt analogata. Quia
enim unum analogatorum ut sic, simile est alteri: consequens est, quod
conceptus repræsentans unum, repræsentet alterum, iuxta illam maximam: Quidquid
assimilatur simili ut sic, assimilatur etiam illi, cui illud tale est
simile. Quia uero talis similitudo
secundum proportionem tantum est, quæ diuersam rationem in altero fundamento
habet: conceptus perfecte repræsentans unum analogatorum, a perfecta repræsentatione
alterius deficit; et per consequens oportet alterius analogati alterum adæquatum
conceptum esse. Unde et analogum unum habere mentalem conceptum, et plures
habere conceptus mentales: uerum est diuersimode; quamuis simpliciter loquendo,
magis debeat dici, analogi esse plures conceptus; nisi loquendi occasio aliud
exigat. Dico autem hoc: quoniam cum secundum
dicentes, analoga omnino carere uno conceptu mentali, sermo est; unum eorum
conceptum absolute dicere non est reprehendendum. Propter quod oportet solerti
discretione lectorem uti quando inuenitur scriptum, quod analogata conueniunt
in una ratione, et quando inuenitur dictum alibi, quod analogata non conueniunt
in una ratione. Est ergo differentia
inter analogiam et uniuocationem quoad conceptum mentalem, ita quod uniuoci et
uniuocatorum ut sic, unus est conceptus perfecte et adæquate eis respondens, ut
de conceptu animalis patet. Analogi uero et analogatorum ut sic, plures
necessario sunt conceptus perfecte ea repræsentantes, et unus est conceptus
imperfecte repræsentans. Non tamen ita quod sit unus conceptus adæquate
respondens nomini analogo, et inadæquate analogatis: quoniam secundum ueritatem
nomen illud uniuocum esset; sed ita quod conceptus unus repræsentans perfecte
alterurn analogatum ut sic, imperfecte repræsentat reliquum. Quoad uocem autem,
non est inter analoga et uniuoca differentia.
39. His autem prælibatis, intentum facile patere potest: quomodo
scilicet disfinguitur analogum, puta ens, ab analogatis, puta substantia,
quantitate et qualitate. Uniuocum enim, puta animal, distinguitur ab
uniuocatis, puta homine et leone, quoad rem significatam seu conceptum
obiectiuum, et quoad conceptum mentalem, sicut unum simpliciter abstractum
etc., a multis simpliciter etc. Analogum uero, quoad rem, seu conceptum
obiectiuum, distinguitur sicut unum proportione a multis simpliciter; uel (et
idem est) sicut multa ut similia secundum proportiones a multis absolute. Verbi
gratia, ens distinguitur a substantia et quantitate, non quia significat rem
quamdam eis communem; sed quia substantia quidditatem tantum substantiæ
importat, et similiter quantitas quidditatem quantitatis absolute significat;
ens autem significat ambas quidditates, ut similes secundum proportiones ad sua
esse; et hoc est dicere ut easdem proportionaliter. 40. Quoad conceptum autem mentalem adæquatum,
hoc quoque eodem omnino modo distinguitur. Secundum uero conceptum mentalem
imperfectum, quamuis distinguatur sicut unum simpliciter a multis simpliciter;
non tamen sicut unum abstrahens in repræsentando ab illis multis, quemadmodum
in uniuocis contingit. Quoniam, ut ex dictis patet, conceptus ille, puta
qualitatis, in quantum ens, alterius analogati, idest ipsius qualitatis,
secundum quod se habet ad suum esse, est adæquate repræsentatiuus, et a
qualitatis quidditate non abstrahens; cæterorum uero, puta quantitatis et
substantiæ, imperfecte tantum est repræsentatiuus, in quantum eis similis est
proportionaliter. QUALIS SIT ABSTRACTIO ANALOGI AB ANALOGATIS. Oportet autem ex
præmissis ostendere, qualiter analogum abstrahat ab his, quibus commune
secundum analogiam dicitur, puta qualiter ens abstrahat a substantia et
quantitate. Insurgit siquidem difficultas quædam in re hac, et ex parte rerum,
et ex parte conceptus. Ex parte siquidem rerum, quia uidetur analogi nominis
res significata, eodem abstrahibilis et abstracta modo, quo res uniuoco nomine
significata. Quoniam cum, ut in V Metaph. dicitur, unum in qualitate faciat
simile, nulla apparet ratio, cur a quibusdam similibus sit una res
abstrahibilis, et a quibusdam non; licet euidens ratio sit, cur ab his
similibus, puta Sorte et Platone, abstrahibilis sit res magis una, et ab illis,
puta homine et lapide, minus una. Unde si substantia et quantitas assimilantur
in hoc, quod utraque est ens, et consequenter in eis est aliquid unum, quod est
fundamentum illius similitudinis: quid uetat ab eis abstrahi rem unam utrique
communem? Ex parte uero conceptus, quia
uidetur eodem modo conceptus analogi abstrahere ab analogatis, sicut uniuocum
ab uniuocatis: eo quod analogum nomen importat in confuso singulas proportiones
analogatorum, et distincte non significat nisi proportionem in communi. Verbi
gratia, ens non significat habens se ad esse sic uel sic, puta ut substantia,
aut ut quantitas; sed si proportionale nomen est, significare uidetur, habens
se ad esse secundum aliquam proportionem, quæcumque illa sit. Hoc autem constat
esse æque abstractum a substantia et a quantitate; et consequenter per modum
uniuoci in analogis abstractio conceptus apparet. 43. Ut autem euidens fiat huius ambiguitatis
determinatio, sciendum est, quod licet abstrahere diuersa significet, cum
dicimus intellectum abstrahere animal ab homine et equo, et cum dicimus animal
abstrahere ab homine et equo: eo quod tunc significat ipsam intellectus operationem
attingentem in eis unum et non alia; nunc uero significat extrinsecam
denominationem ab illa intellectus operatione, qua res cognita abstracta
denominatur: in unum tamen et idem semper tendit, quoniam semper sonat
intelligi unum, non intellecto altero.
44. Ideoque nihil aliud est agere de abstractione analogi ab analogatis
quam inquirere et determinare, quomodo res significata analogo nomine intelligi
possit, non cointellectis analogatis; et quomodo conceptus illius habeatur,
absque conceptibus istorum. 45. Cum
igitur ex supradictis, et ex ipso analogiæ uocabulo pateat, quod analogo nomine
non simpliciter una res, sed res proportione una significatur, talis autem idem
est quod res diuersæ, ut similes proportionaliter: facile deduci potest, quod
res analoga potest quidem intelligi, non cointellectis analogatis, et
consequenter abstrahere ab eis. 46. Sed
non sicut in uniuocis res una, (puta natura sensitiua, seu animal intelligitur,
non cointellectis omnino natura humana et equina ut sic), sed sicut duæ res ut
proportionaliter similes intelliguntur, non cointellectis ipsismet duabus rebus
secundum suas proprias naturas absolute. Ita quod analogi abstractio non
consistit in cognitione unius et non cognitione alterius; sed in unius et
eiusdem intellectione ut sic, et non intellectione absolute. Verbi gratia,
entis abstractio non consistit in hoc, quod entitas apprehenditur, et
substantia aut quantitas non; sed in hoc: quod substantia aut quantitas
apprehenditur ut sic se habens ad proprium esse; (in hoc enim similitudo
proportionalis attenditur) et non apprehenditur substantia, aut quantitas
absolute. Et simile est de aliis rebus analogis, quales sunt fere omnes
metaphysicales. 47. Unde concedi potest,
rem analogam abstrahere, et non abstrahere ab analogatis diuersimode. Abstrahit
quidem, pro quanto abstrahit ab eis, quemadmodum res ut sic, idest ut res
similis alteri proportionaliter abstrahit a se absolute sumpta. Non abstrahit uero, pro quanto res ut sic accepta
seipsam necessario includit, et absque seipsa intelligi non potest. Quod de uniuocis dici non
potest: quia res uniuoca, absque aliis quibus est uniuoce communis,
intelligitur sic, quod res in suo intellectu nullo modo actualiter includit ea
quibus est comm unis, ut patet de animali
48. Obiectioni autem in oppositum adductæ, ex analogæ similitudinis
natura facile satisfit, dicendo, quod cum unum multipliciter dicatur, non
oportet omnem similitudinem attendi secundum unum simpliciter; sed quandoque
sufficit, quod unum secundum proportionem faciat simile. Unum autem
proportionaliter non est simpliciter unum; sed multa similia secundum
proportiones, a quibus ideo non potest abstrahi res una simpliciter: quia
similitudo ipsa proportionalis tantum est, et fundamentum non est unum nisi
proportionaliter 49. De ratione siquidem
unius proportionaliter est habere quatuor terminos (ut in V Ethicorum dicitur).
Quoniam proportionalitas qua similitudo proportionum fit, inter quatuor ad
minus, (quæ duarum proportionum extrema sunt), necessario est; et consequenter
unum proportione non unificatur simpliciter, sed distinctionem retinens, unum
pro tanto est et dicitur, pro quanto proportionibus dissimilibus diuisum non
est. Unde sicut non est alia ratio quare unum proportionaliter non est unum
absolute, nisi quia ista est eius ratio formalis; ita non est quærenda alia
ratio, cur a similibus proportionaliter non potest abstrahi res una; hoc enim
ideo est, quia similitudo proportionalis talem in sua ratione diuersitatem
includit. Et accidit ulterius procedentibus, ut quærant id, quod sub quæstione
non cadit: ut quare homo est animal rationale, etc. De abstractione quoque conceptus, eodem modo
est dicendum: abstrahit enim conceptus analogi nominis non sicut unum
simpliciter, sed sicut unum proportione, seu simile secundum proportiones a
multis absolute. Sed quia in obiciendo
tangitur de abstractione conceptus analogi a specialibus conceptibus illius
analogiæ, et abusiue analogata ibidem uocantur partiales analogi rationes; ideo
diligenter cauendum est, ne apparentia in obiectione tacta in illum errorem
ducat, qui ibi tangitur. Sciendum siquidem est, quod licet in analogis secundum
attributionem in hoc omnia analogata conueniant, quod eamdem formam omnino
respiciunt, ita quod non solum conueniunt in uno termino, sed in hoc, quod est
respicere illum: erroneum tamen est, analogo per attributionem conceptum unum
respectus in communi ad illum terminum, per abstractionem a tali et tali
respectu, attribuere. Verbi gratia: animal in quantum sanum, urina in quantum
sana, et medicina in quantum sana, licet conueniant et in sanitate tamquam
termino: cuius animal est subiectum, urina signum, et medicina causa; et
conueniant in hoc, quod est respicere sanitatem (quodlibet enim eorum sanitatem
respicit, licet diuersimode); ab his tamen specialibus respectibus non
abstrahitur respectus in communi ad sanitatem, importatus nomine sani, in cuius
conceptu omnes speciales respectus ad sanitatem, confuse et in potentia
clauduntur. 52. Falsum enim est, quod
sanum significet hoc quod dico, respiciens uel aliqualiter se habens ad
sanitatem. Tum quia sic sani nomen uniuocum uere esset ad urinam et animal
etc., ut patet ex uniuocorum definitione. Tum quia hoc est contra intentionem
dicentium, urinam aut diætam sanam. Percunctantibus siquidem, quid est urina in
quantum sana, non respondetur: respiciens sanitatem; sed omnes respectum illum
specificant respondentes: signum sanitatis; et similiter de diæta respondetur,
quod est conseruatiua sanitatis, etc. Tum quia contra omnes Philosophos et Logicos
(hucusque a me uisos) hoc est. Sicut
autem in prædictis analogis prædictus cauendus est error, ita in analogis
secundum proportionem (quæ sola simpliciter analoga sunt) similis cauendus est
error, ex simili causa apparentiæ firmitatem trahens. Quia enim analogata
conueniunt in hoc, quod unumquodque eorum commensuratum seu proportionatum est
(licet diuersimode), credi potest quod ab his specialibus proportionibus
abstrahatur proportionatum in communi, et nomine analogo significetur. Ac per
hoc analogum habeat conceptum unum, in quo confuse et in potentia claudantur
omnes speciales proportiones analogatorum; uerbi gratia, ut quia substantia
proportionata est suo esse, et similiter quantitas et qualitas (licet
diuersimode) ideo a substantia et quantitate et qualitate etc., diuersimode
proportionatis suis esse, abstrahatur res seu quidditas proportionem habens ad
esse, qualiscumque sit illa proportio, et hoc sit entis primarium significatum,
in quo omnes speciales proportiones substantiæ quantitatis et qualitatis etc.,
ad sua esse confuse claudantur et in potentia.
54. Sed hoc falsissimum est. Tum quia hoc quod dicitur, scilicet res
proportionata ad hoc quod sit, non est res una simpliciter etiam in esse
obiectiuo, nisi chimerice. Tum quia proportionalia nomina uniuoca essent (ut
patet ex uniuocorum definitione), et consequenter periret proportionalitatis
ratio, quæ extrema unum simpliciter esse non compatitur; et sic essent
proportionalia et non proportionalia: quod intellectus capere nullo modo
potest. Tum quia contra Aristotelis auctoritatem, in II Poster. inferius
adducendam, et adductam ex I Ethic., et S. Doctorem et Auerroem et Albertum
expresse est. Unde confusio, qua analogum tam secundum attributionem quam
secundum proportionem, importat speciales habitudines aut proportiones: non est
confusio plurium conceptuum in uno communi conceptu; sed est confusio
significationum in una uoce, licet difformiter. Quoniam in analogia
attributionis uox analoga primum distincte significat, cætera autem confuse. In
analogia uero proportionis, nomen analogum ad omnes suas significationes
indistincte se habere permittitur. Cautum tamen et attentum oportet hic esse;
quia cum analogi rationes dupliciter sumi possint: scilicet secundum se, et ut
eædem et ipsæ ut eædem propter identitatis proportionalis naturam non
abstrahant a seipsis, et tamen aliquid conuenit eis ratione identitatis, seu in
quantum eædem sunt, quod non conuenit eis ratione diuersitatis, ut patet de
communibus eis: uidetur quod duo incompossibilia secundum apparentiam, analogi
rationibus conueniant; scilicet quod ipsæ ut eædem non abstrahant a seipsis, et
quod ipsæ ut eædem aliquid causent et habeant, quod non ut diuersæ;
reduplicarique possint ut eædem, non reduplicatis ut diuersæ sunt. Hæc enim non
solum compossibiliter, sed necessario sibi simul uindicat identitas
proportionalis; quoniam et extrema uniri omnino non patiens, ab eis abstrahi
omnino non permittit; et extrema aliqualiter indiuisa et eadem ponens, ut eadem
ea considerabilia et reduplicabilia exigit.
56. Sicque fit, ut in analogo secundum identitatem in se clausam, ad
diuersitatem rationum in se quoque clausam comparato, abstractio quædam, quæ
non tam abstractio quam quidam abstractionis modus est inueniatur; propter quam
non solum ab analogatis (puta substantia et quantitate), analogum (puta ens),
abstrahere dicitur, ut supra diximus; sed ab ipsis eius rationibus, seu a
diuersitate ipsarum rationum eius: puta rationis entis in substantia, et
rationis entis in quantitate. Non quia quamdam rationem eis communem dicat:
quia hoc est fatuum; nec quia illæ rationes sint omnino eædem, aut eas omnino
uniat: quia sic non esset analogum, sed uniuocum; sed quia eas proportionaliter
adunans, et ut easdem proportionaliter significans, ut easdem considerandas
offert: annexa inseparabiliter, diuersitate quasi seclusa; et identitate proportionali
unit, et confundit quodammodo diuersitatem rationum. Sicque non sola
significationum in uoce confusio, analogo conuenit, sed confusio quædam
conceptuum, seu rationum fit in identitate eorum proportionali, sic tamen ut
non tam conceptus, quam eorum diuersitas confundatur. Et quoniam analogum talem
identitatem præcipue importat, et tali confusione frequenter utimur; analoga
nomina ab omni rationum eius diuersitate abstrahere dicentes, dum confuse pro
omnibus supponere ipsum pluries exponimus, ideo non mediocri opus est
uigilantia, ne in uniuocationem labi contingat.
Abstrahit ergo analogum a suis analogatis, puta ens a substantia et
quantitate, sicut unum proportione a multis; seu sicut similia proportionaliter
a seipsis absolute, tam quoad conceptum obiectiuum, quam mentalem, siue sit
sermo de abstractione totali siue de formali. Hæ enim abstractiones non
differunt in eodem, nisi secundum præcisionem et non præcisionem, ut alibi
declarauimus. Unde nihil aliud est dicere ens abstractum a naturis prædicamentorum
abstractione formali, quam dicere naturas prædicamentales proportionales ad sua
esse ut sic præcise; a specialibus autem seu singulis analogiæ rationibus
extremis, non tertio conceptu simplici, sed uoce communi et identitate
proportionali earumdem, quodammodo abstrahit.
QUALIS SIT PRÆDICATIO ANALOGI DE SUIS ANALOGATIS Videbitur autem forte
alicui ex his, quod prædicatio analogi de suis analogatis, puta entis de
substantia et quantitate, aut formæ de anima et albedine etc., sit sicut prædicatio
æquiuoci de suis æquiuocatis; ita quod non sit prædicatio superioris de suis
inferioribus, nec communioris de minus communi, nisi sola uoce; sed eiusdem de
seipso. Non est enim analogo una res significata, quæ in utroque analogatorum
saluetur; absque hoc autem prædicatio communioris aut superioris non inuenitur
secundum intrinsecam denominationem, seu inexsistentiam. Sic enim analogum
secundum proportionalitatem commune esse dictum est. 60. Fouere quoque potest non parum opinionem
hanc processus iuxta I Topicorum. Aut scilicet analogum est prædicatum
conuertibile, aut inconuertibile, seclusa uocis communitate. Et cum constet non
esse inconuertibile, - quoniam substantia ut sic se habens ad suum esse, quod
ens de substantia dictum prædicat, conuertitur cum substantia: et similiter
quantitas sic commensurata suo esse, cum quantitate conuertitur, et sic de
aliis, - consequens est, quod analogum tamquam superius, de analogatis prædicari
non possit. Superioris enim intentionem suscipere non
potest, quod conuertibile esse comprobatur.
61. Et quoniam secundum ueritatem analogum ut superius prædicatur de
analogatis, et non sola uoce commune est eis, sed conceptu unico
proportionaliter: cuius unitas ad hoc, quod prædicatum aliquod superioris
rationem habeat, sufficit: quia superius nihil aliud sonat, quam unum prædicatum
ad plura se extendens; unum autem non per accidens, neque aggregatione, sicut
aceruum lapidum; sed per se, constat esse etiam unum proportione: ideo ad huius
ueritatis claritatem ex extremis procedendo, sciendum est, quod quia analogum
medium est inter uniuocum et pure æquiuocum: consequens est, quod analogum
aliquo modo idem, et non idem aliquo modo de suis prædicet analogatis. Et quia
prædicat aliquid abstrahens aliquo modo a suis analogatis, ut ex præmisso patet
capite; consequens est, quod comparetur ad sua analogata ut maius ad minora,
seu ut superius ad inferiora; licet non omnino unum secundum rationem sit, quod
imponit. Quod ut clarius pateat,
figuraliter declaratur sic: Tam in uniuocis, quam in æquiuocis, quam in
analogis quatuor inueniuntur, scilicet duæ res ad minus, æquiuocatæ, uniuocatæ,
aut analogatæ; et duæ res, seu rerum rationes, æquiuocationem, uniuocationem
aut analogiam fundantes. Verbi gratia: In æquiuocatione canis inueniuntur hæc
quatuor: scilicet canis marinus, et canis terrestris, et ratio illius, et ratio
istius secundum canis nomen. In uniuocatione quoque animalis inueniuntur quatuor:
scilicet homo, et bos, et natura sensitiua hominis et natura sensitiua bouis,
quæ animalis uniuocationem fundant. In analogia similiter entis quatuor sunt:
scilicet substantia et quantitas, et substantia in quantum commensurata suo
esse, et quantitas secundum quod suo esse proportionatur. Et licet prima duo,
scilicet æquiuocata et analogata, eodem modo quantum ad propositum spectat in
omnibus his distinguantur, quia ubilibet ex opposito condistincta sunt; altera
tamen duo uniuocationem, æquiuocationem et analogiam fundantia, diuersimode
unita aut distincta sunt. In æquiuocis namque rationes illæ, puta canis marini
et terrestris, sunt omnino diuersæ secundum rationem; et propter hoc id quod prædicat
canis de marino cane, nullo modo prædicat de terrestri, et e conuerso; et ideo
sola uoce communius aut maius æquiuocatis dicitur et est. 64. In uniuocis uero res illæ, puta
animalitatis in boue et animalitatis in leone, licet et numero et specie diuersæ
sint, ratione tamen omnino eædem sunt; ratio enim unius est omnino eadem quod
ratio alterius, et, e conuerso; et propter hoc id quidem quod prædicat animal
de homine, idem prædicat omnino de boue, et uniuocum dicitur et superius
homine, leone boueque. In analogis autem res analogiam fundantes (puta
quantitas ut sic se habens ad esse, et substantia ut sic se habens ad esse),
licet diuersæ sint et numero et specie et genere; ratione tamen eædem sunt non
omnino, sed proportionaliter; quoniam unius ratio proportionaliter eadem est
alteri. 66. Et propterea, id quod prædicat
analogum, puta ens de quantitate, illud idem proportionaliter prædicat de
substantia, et e conuerso; est enim illudmet proportionaliter id quod in
substantia ponit, et e conuerso. Et propter hoc analogum, puta ens, non sola
uoce communius, maius aut superius analogatis est; sed conceptu, ut dictum est,
proportionaliter uno. Ita quod analogum et uniuocum conueniunt in hoc, quod
utrumque communioris et superioris rationem habet. Differunt autem in hoc, quod
illud est superius analogice seu proportionaliter, hoc uero uniuoce. 67. Et merito, quia fundamentum
superioritatis utrobique saluatur, uniuocationis autem non. Fundatur enim
superioritas super identitate rationis rei significatæ, idest super hoc quod
res significata inuenitur non in hoc tantum, sed illamet non numero sed ratione
inuenitur in alio. Uniuocatio autem supra modo identitatis omnimodæ scilicet
identitate rationis rei significatæ, idest super hoc quod ratio rei significatæ
in illo et in isto est eadem omnino. 68.
Quamuis enim in analogis hic identitatis modus non inueniatur, quem in uniuocis
inueniri pluries dictum est, identitas tamen ipsa rationum inuenitur. Est
namque identitas proportionalis, identitas quædam. Et ideo non minus analogum
(puta ens) est prædicatum superius, quam uniuocum (puta animal), sed alio modo:
analogum enim est superius proportionaliter, quia fundatur supra identitate
proportionali rationis rei significatæ; uniuocum autem præcise et simpliciter,
quia supra omnimoda identitate rationis rei significatæ eius superioritas
fundatur. Propter quod S. Thomas, superioritatis fundamentum aspiciens, in V
Metaph. dicit, quod ens est superius ad omnia, sicut animal ad hominem et
bouem. 69. Unde obiectiones ad oppositum
adductæ in hoc peccant, quod inter identitatem et modum identitatis non
distinguunt. Fatendum enim est, quod ad hoc, quod aliquis terminus denominetur
superior aut communior, oportet ut rem unam et eamdem in utroque ponat; sed
sophisma consequentis committitur inferendo ex hoc: ergo oportet quod dicat rem
unam et eamdem omnino. Et est semper sermo de identitate secundum rationem, seu
definitionem. Identitas enim et unitas continent sub se non solum unitatem et
identitatem omnimodam, sed proportionalem, quæ in analogi nominis ratione
saluatur. Negandum est igitur quod in analogis non prædicetur idem de uno et de
alio analogato: quoniam unum et idem proportionaliter de omnibus analogatis
dicitur; et propterea inter prædicata non conuertibilia numerandum est.
Quantitas enim licet adæquet ens de quantitate uerificatum secundum rationem
omnino eamdem, non tamen secundum rationem illam proportionaliter: quoniam
entis ratio non alia proportionaliter ad substantiam et quantitatem se
extendit. Verum quia analogum sonat identitatem proportionalem, ideo huiusmodi
rationibus formaliter respondendo, nullo pacto concedendum est conuerti
analogum cum analogato aliquo. Ad materiam tamen descendendo, potest intrepide
dici, quod quia analogum rationem unam tantum proportionaliter prædicat, et
unum proportionaliter plura esse proportionibus similia manifestum est;
dupliciter potest secundum singulas rationes ad analogata comparari. Uno modo
absolute: et sic secundum singulas rationes cum singulis analogatis conuertitur;
quia nulla omnino una analogi ratio in duobus analogatis inuenitur. Alio modo
secundum identitatem proportionalem, quam habet una cum altera: et sic cum
nullo analogato conuertitur, quoniam omnes analogi rationes indiuisæ sunt
proportionaliter, et una est altera proportionaliter. Et quia, ut dictum est,
analogum hanc sonat identitatem, ideo formaliter et simpliciter loquendo,
analogum inconuertibile et communius prædicatum, concedendum est esse. Non
tamen genus, aut species, aut proprium, aut definitio, aut differentia, aut
accidens uniuersaliter est. Nec propterea Aristoteles diminutus fuit aut
Porphyrius, quoniam prædicabile, quod unum est simpliciter, edocebant; ac per
hoc inter æquiuoca, analoga numerarunt. Ex prædictis autem manifeste patet,
quod analogum non conceptum disiunctum, nec unum præcisum inæqualiter
participatum, nec unum ordine; sed conceptum unum proportione dicit et prædicat.
De ordine tamen in analogis incluso inferius tractabitur. Unde cum dicitur de
homine, aut albedine, aut quocumque alio, quod est ens: non est sensus, quod
sit substantia, uel accidens; sed sic se habens ad esse. 72. Utor autem ly sic, quoniam de propriis
nominibus proportionum ad esse in actu exercito eas importantibus, disputare
nolo ad præsens; quoniam Metaphysici negotii opus hoc est, et exemplariter hic
de ente loquimur. Simile siquidem est de actu, potentia, forma, materia,
principio, causa, et aliis huiusmodi, indicium.
QUALIS SIT ANALOGATORUM SECUNDUM ANALOGI NOMEN DEFINITIO. Apparere quoque alicui poterit, quod in ratione unius
analogati, (puta qualitatis) secundum analogi (puta entis) nomen, alterius
analogati, puta substantiæ, uel quantitatis ratio secundum idem nomen analogi
cadere debeat, sicut in analogia attributionis contingere dictum est. Fundamentum
autem inde apparentia hæc sumit: quia ratio unius analogati ut eadem
proportionaliter est alteri, absque illa altera exprimi nequit complete. Dictum
est autem, quod analogo nomine rationes hæ importantur, ut eadem
proportionaliter sunt. 74. Et confirmat
hoc expositio ipsa analogiæ ab Aristotele, Auerroe et S. Thoma in I Ethic.
posita. Exponunt enim quod bonum, seu perfectio, analogice dicitur de uisu et
intellectu, quia sicut uisus in corpore, ita intellectus in anima perfectio
est. Constat autem, quod non est intelligibile hoc se habere sicut illud, nisi
utrumque extremorum percipiatur. Necessario igitur uidetur, unum analogatorum
secundum analogi nomen per aliud definiendum esse. 75. Ut autem liqueat huius ambiguitatis solutio,
recolendum est analoga hæc dupliciter inueniri, scilicet proprie et
metaphorice. Diuersimode enim hæc se habent ad propositam quæstionem. In
analogia siquidem secundum metaphoram, oportet unum in alterius ratione poni,
non indifferenter; sed proprie sumptum, in ratione sui metaphorice sumpti
claudi necesse est; quoniam impossibile est intelligere quid sit aliquid
secundum metaphoricum nomen, nisi cognito illo, ad cuius metaphoram dicitur.
Neque enim fieri potest, ut intelligam quid sit pratum in eo quod ridens, nisi
sciam quid significet risus nomen proprie sumptum, ad cuius similitudinem
dicitur pratum ridere. 76. Est autem
huius ratio radicalis, quia analogum metaphorice sumptum, nihil aliud prædicat,
quam hoc se habere ad similitudinem illius, quod absque altero extremo
intelligi nequit. Et propter hoc huiusmodi analoga prius dicuntur de his, in
quibus proprie saluantur, et posterius de his, in quibus metaphorice
inueniuntur et habent in hoc affinitatem cum analogis secundum attributionem,
ut patet. 77. In analogia uero, in qua nominis saluatur
proprietas, nullum analogi membrum per alterum definiri oportet, nisi forte
gratia materiæ, ut S. Thomas in qq. de Verit., q. 2, a. 11 docuit. Sunt enim
analogatorum rationes secundum analogi nomen quodammodo mediæ inter analoga secundum
attributionem, et uniuoca. In analogis enim secundum attributionem, primum
definit reliqua. In uniuocis uero neutrum alterum definit, sed unius definitio
est completa alterius definitio, et e conuerso. In analogis autem neutrum
alterum definit; sed unius definitio est proportionaliter alterius definitio.
Et loquimur semper de ratione secundum nomen commune. Verbi gratia, in
definitione cordis, secundum quod principium animalis, non ponitur fundamentum
secundum quod principium domus, nec e conuerso; sed eadem proportionaliter est
principii ratio utrobique, ut Commentator ubi supra dicit. Duabus autem opus
est distinctionibus uti in hac re: ea scilicet, quæ in logica, traditur de actu
signato et exercito; et ea quæ a metaphysico ut plurimum tractatur, de ordine
rerum sub uno nomine ex parte rei, et ex parte impositionis nominis. 79. Ex prima siquidem distinctione scimus
duo. Primo, quod sicut animal dictum de homine et de equo importans
uniuocationem in actu exercito, non prædicat de homine totum hoc, scilicet
naturam sensitiuam eamdem omnino secundum rationem naturæ sensitiuæ equi et
bouis, sed naturam sensitiuam simpliciter; quam tamen ad hoc, quod uniuoca sit
prædicatio, oportet omnino esse eamdem secundum rationem naturæ sensitiuæ equi
et bouis, - ita ens importans proportionalitatem in actu exercito, non prædicat
de quantitate totum hoc, scilicet habens se ad esse sic proportionaliter sicut
substantia, aut qualitas ad suum esse; sed habens se ad esse sic absque alia
additione; quod tamen oportet, ad hoc quod analoga sit prædicatio, idem
proportionaliter esse cum altero, sic se habere ad esse quod de substantia aut
qualitate ens prædicat. 80. Secundo,
quod sicut ex declaratione, qua manifestatur animal esse uniuocum, quia dicit
unam et eamdem omnino rationem in omnibus, non fallimur, nec confundimur, nec
uagamur circa hominis et bouis secundum animalis nomen rationem; sed
quiescimus, intuentes quod animal exercet, quod uniuocorum definitio et
expositio significat: - ita ex hoc, quod declaratur ens aut bonum, aut
quodcumque aliud esse analogum, quia dicit rationes plures easdem
proportionaliter, et importat hoc se habere quemadmodum proportionaliter illud
se habet ad esse uel appetitum etc., non debemus turbari et inquirere in
analogi nominis (puta boni) ratione significationem istam; sed sat sit,
distinguendo inter actum signatum et exercitum, inspicere quod analogi nominis
ratio id exercet, quod analogi ratio et declaratio significat. 81. Ex his autem duobus patere iam potest
intentum, quod scilicet non oportet unum analogiæ membrum per alterum definire,
ex eo quod analogum significat ea esse eadem proportionaliter, quoniam hæc in
actu exercito significat. 82. Ex secunda
uero distinctione scimus, non solum - quod præposterus est ordo rerum et
significationum quandoque sub nomine analogo, ita quod prior secundum rem
ratio, posterior interdum significatione est (ut de ente et bono et aliis
huiusmodi communibus Deo et creaturis accidit: ratio enim quam in Deo quodlibet
horum ponit, significatione quidem posterior, re autem prior est); et quod
propter alterum horum dicitur analogum prædicari de suis analogatis secundum
prius et posterius ipsam analogi rationem. - Sed etiam scimus, quod quando
ratio, quam ponit analogum in uno, ex ratione quam in altero ponit, exponitur:
non ideo fit, quia unum in alterius ratione cadat; sed quia unius ratio
posterior altera est significatione; et per priorem, utpote notiorem
declaratur: ut S. Thomas in I p., q. XIII, art. 2 fecit: declarans quod,
dicendo: Deus est bonus: sensus est, id quod bonitatem in creaturis dicimus, præexsistit
in Deo proportionaliter etc. Et eadem intelligendum est ratione fieri, si
posterior secundum rem per priorem declaretur. Non definit ergo analogum
secundum unam rationem, seipsum secundum alteram, licet exponat et declaret. 83. Obiectionibus autem in oppositum, quamuis
ex dictis satisfactum sit, formaliter responderi potest, quod cognosci aliqua
ut eadem proportionaliter, seu hoc se habere sicut illud, dupliciter contingit.
Uno modo formaliter,
idest quoad relationem identitatis et similitudinis, et sic absque extremis
cognitio hæc haberi non potest. Alio modo fundamentaliter, et sic in ratione
unius non cadit reliquum; sed ratio unius est ratio alterius omnino, uel
proportionaliter. Constat autem quod analogum nomen, puta ens aut bonum, non
relationem identitatis aut similitudinis significat, sed fundamentum; et ideo
obiectiones quæ iuxta primum sensum procedunt, nihil concludunt contra
intentum. Patet autem facillime, hæc esse uera exempla de uniuocis, ponendo et
applicando ad identitatem uniuocationis. Significat namque nomen uniuocum
plura, in quantum eadem sunt uniuoce, seu secundum rationem omnino. Et
identitatis relatio in nullo extremorum absque altero intelligibilis est.
QUALIS SIT IN ANALOGO COMPARATIO. Difficultas etiam non parua, quæ multos
inuasit ac superauit, de comparatione in analogo, dilucidanda est. Creditum
enim est a quibusdam, quod non posset, analogia posita, sermo ille nisi extorte
exponi, quo unum analogatum magis aut perfectius tale secundum analogi nomen
diceretur. Verbi gratia: substantia est magis, aut perfectius ens quam
quantitas. Moti sunt autem ex eo, quod comparatio in
uno communi, utrinque facienda est, etiam secundum grammaticos; quod in analogo
non inueniri uidetur. Et potest formari ratio pro eis talis: Aut comparantur
analogata in una communi eis ratione, aut in suis rationibus. Non in ratione
communi: quia illa analogum caret; nec in rationibus propriis: quia tunc falsum
est, substantiam magis esse ens quam quantitatem. Non enim minus aut imperfectius
quantitas est sua ratio, quam ens in ea ponit, quam substantia sua etc. Nullo igitur modo uidetur comparationem cum analogia
saluari posse. 86. Succumbitur autem
difficultati huic, quia proprium comparationis fundamentum non consideratur.
Fundatur enim super identitate seu unitate rei, in qua fit comparatio, et non
super modo identitatis aut unitatis; sicut de intentione superioritatis prædictum
est. Unde cum analogum ex dictis constet rem unam, licet proportionaliter,
dicere; nihil prohibet in ipso comparari analogata, licet non eo modo, quo
uniuoca fit comparatio. Ad comparationem siquidem cum requirantur et sufficiant hæc tria: scilicet
distinctio extremorum, et identitas eius, in quo fit comparatio, et modus
essendi illius in extremis, scilicet eaque, uel magis aut minus perfecte; sub
identitate autem seu unitate, proportionalis unitas seu identitas contineatur,
consequens est, quod si in diuersis idem proportionaliter eaque uel magis aut
minus perfecte esse habet, comparatio secundum illud proportionale fieri
possit, comparatione non uniuoca, sed analoga.
88. Sicut enim, quia natura sensitiua est in boue, et illamet omnino
secundum rationem est in homine, et perfectius esse habet in homine quam in
boue: homo perfectius animal boue dicitur, uniuoca comparatione; sic quia sic
se habere ad esse est in substantia, et hoc idem proportionaliter est in
quantitate, et imperfectius esse habet in quantitate quam in substantia:
dicitur substantia magis seu perfectius ens, quam quantitas, analoga
comparatione. Unde S. Thomas in art. 7, quæst. VII de
Potentia Dei, tripliciter comparationem fieri docens, duos modos analogicæ
comparationis ponit: aperte ex hoc insinuans, comparationem non solum super
identitate numerali, specifica aut generica fundari, sed etiam proportionali. 89. Modi autem comparationis ibidem traditi
sunt, hi scilicet secundum solam quantitatem rei participatæ: et sic unum album
dicitur altero albius. Vel extendendo, propter præsens propositum, hunc modum
ad omnem comparationem uniuocam, dicatur quod primus attenditur secundum
quantitatem rei participatæ, eiusdem omnino secundum rationem, siue illa ratio
sit specifica, siue generica: ut calidum magis calidum altero dicitur, et homo
perfectius animal leone est. 90.
Secundus uero modus attenditur secundum quod res aliqua in uno inuenitur
participatiue, in altero uero est per essentiam: quemadmodum homo Platonicus
longe perfectior homo esset nobis. Et abstractione intellectus utendo, quemadmodum bonitas
longe melior est quocumque bono, quod participatiue bonum dicitur. 91. Tertius autem modus attenditur secundum
quod res aliqua in uno inuenitur formaliter et secundum se, in altero autem
uirtualiter et eleuatum ad rem superioris ordinis. Quemadmodum dicitur quod sol
est magis calidus quam ignis; uel quod calor perfectius esse habet in sole,
quam in igne. Nec est dubium hos duos
modos uniuocam comparationem impedire, ut S. Thomas ibidem dicit, et
Aristoteles in I Ethic. de primo modo testatur: ubi bonum commune non uniuoce,
sed secundum proportionalitatem dicendum docet, bonitati separatæ et bonis cæteris
per participationem. Patet igitur ex
his, eadem proportionaliter ut sic esse comparabilia; quamuis, physice
loquendo, in sola specie aut genere comparatio fiat. 93. Ad obiectionem autem in oppositum,
dicitur quod utroque modo in analogis comparatio fit. Comparantur siquidem
analogata, puta substantia et quantitas, in ratione una et communi
proportionaliter, quam analogi nomen, puta ens, dicit, et addit supra
analogata, ut ex dictis patet. Et comparantur secundum suas rationes, secundum
tamen analogi nomen, quæ earum sit perfectior, secundum quod dicimus
substantiam esse perfectius ens quantitate; quia ratio entis in substantia
perfectior est ratione entis in quantitate. Ita quod iuxta istam comparationem
est sensus: Substantia habet, secundum entis nomen, perfectiorem rationem quam
quantitas; et non quod substantia est magis aut perfectius substantia quam
quantitas sit quantitas, ut quidam somniare uidentur. 94. Unde comparatio ista extenditur usque ad
analoga secundum attributionem, licet in tali analogia non nisi abusiue
comparatio fieri possit. Dicimus enim quod ens reale est magis et perfectius ens
ente rationis, quod per attributionem ad illud ens dicitur in IV Metaph. text.
com. II; quia ens reale habet, secundum entis nomen, perfectiorem rationem.
Iuxta quem modum, si usus admitteret, diceremus: animal est magis sanum urina;
quia perfectiorem secundum sani nomen rationem habet. QUALIS SIT ANALOGI DIVISIO ET RESOLUTIO 95. Qualiter autem analogum diuidendum sit,
ex dicendis manifestum est. Potest
siquidem trifariam analogi diuisio intelligi. Primo, ut diuidatur uox in suas
significationes. Dictum est enim,
quod analogum plures rationes significat immediate, et hæc diuisio conuenit
sibi, in quantum æquiuocum quoddam est. Secundo, ut diuidatur significatum eius in quasi
membra eius: eo modo quo eius, quod proportionaliter unum est, sic et sic
proportionatum, membra dici possunt. Dictum est enim, quod analogum non ita diuersas rationes
significat, quin significet unam rationem proportionaliter. Omnes namque
rationes analogo nomine immediate significatæ eædem proportionaliter sunt.
Ratio autem una proportionaliter, cum constituatur ex pluribus rationibus
proportionalibus, in eas secari potest. Hæc autem non est diuisio analogi in
sua analogata: quoniam rationes hæ in ipsius analogi ratione intrinsece
clauduntur, et analogata ea sunt, in quibus rationes illæ saluantur, et non ipsæ
rationes. Entis enim analogata sunt substantia et quantitas, et non rationes
entis in substantia et quantitate. Rationes enim ut dictum est, analogæ
sunt. 97. Unde tertio modo potest diuidi
analogum, diuidendo significatum eius in sua analogata per diuersos modos,
quibus analogi rationem proportionalem analogata ipsa diuersimode suscipiunt:
ita quod diuisum est significatum unum proportionaliter, diuidentia sunt modi
fundantes et facientes in analogatis proprias proportiones, secundum quas fit
analogia; constituta autem per diuisionem, ut partes subiectiuæ, sunt analogata
ipsa. Verbi gratia: quando ens diuiditur in substantiam et quantitatem, diuisum
est ratio entis nomine significata, quæ omnes in se entis nomine significatas
rationes claudit, utpote una proportionaliter; diuidentia sunt substantiuum et
mensuratiuum, seu per se et in alio, sicut ex quibus substantia et quantitas
habent quod diuersas entis rationes subintrent; partes autem subiectiuæ sunt
substantia et quantitas, quæ in entis ratione analogantur. Et quia hæc est
propria analogi diuisio, idcirco distincte explicandum est, quomodo differat
diuisio hæc ad uniuoca. Tripliciter siquidem differunt. Primo ex parte diuisi: quia diuisione uniuoca unum
omnino secundum rationem secatur; hic autem unum proportionaliter. 99. Secundo ex parte diuidentium: quia
differentiæ secantes genus, extra genus sunt; modi autem secantes analogum, in
ipsius analogi ratione clauduntur, quemadmodum ipsa analogata (ut in capitulo
de abstractione declaratum est); propter quod in III Metaph. text. comm. X ens
genus esse negatur. 100. Tertio ex parte
ipsarum partium subiectiuarum, quæ per diuisionem fiunt: quia partes diuisionis
uniuocæ, licet ordinem habeant secundum se, et originis: ut dualitas est prior
trinitate; et perfectionis: ut albedo est perfectior nigredine; tamen secundum
diuisi rationem, puta numeri, aut coloris, neutra altera prior, aut posterior
est; sed omnes æqualiter in diuisi ratione communicant. Analogata uero, quæ
analoga diuisione constituuntur, non solum secundum se, sed etiam in ipsius
analogi quod diuiditur ratione ordinem habent; et aliud prius aliud posterius
est; adeo ut in uno eorum, tota ratio diuisi saluari dicatur; in alio autem
imperfecte et secundum quid. Quod non est sic intelligendum quasi analogum
habeat unam rationem, quæ tota saluetur in uno, et pars eius saluetur in alio.
Sed cum totum idem sit quod perfectum, et analogo nomine multæ importentur
rationes, quarum una simpliciter et perfecte constituit tale secundum illud
nomen, et aliæ imperfecte et secundum quid: ideo dicitur, quod analogum sic
diuiditur, quod non tota ratio eius in omnibus analogatis saluatur, nec æqualiter
participant analogi rationem, sed secundum prius et posterius. 101. Cum grano tamen salis accipiendum est,
analogum simpliciter saluari in uno et secundum quid in alio. Sufficit enim hoc
uerificari: uel absolute, ut patet in diuisione entis in substantiam et
accidens; (illa enim absolute loquendo dicitur ens simpliciter, hoc autem
secundum quid); uel in respectu, ut patet in diuisione entis in Deum et
creaturam. Utrumque enim licet
ens simpliciter sit et dicatur, absolute loquendo; creatura tamen in respectu
ad Deum, ens secundum quid, et quasi non ens est et dicitur. 102. Circa resolutionem autem analogatorum,
sciendum est: quod cum uniuersaliter, primum in compositione sit ultimum in
resolutione, et per diuisionem in ea, quæ actu in aliquo sunt resolutio fiat:
eodem modo resoluenda sunt analogata in suum analogum, quo cætera resoluuntur,
scilicet utendo diuisione prædicta (quæ uocatur diuisio in partes essentiæ uel
rationis), et a posterioribus secundum consequentiam ad priora procedendo, si
longa esset resolutio facienda. Ad rationem autem analogi cum deuentum fuerit,
singulis analogatis in suas rationes secundum analogi nomen resolutis: cum illa
analogi ratio ex multis constituatur rationibus, ordinem inter se et
proportionalem similitudinem habentibus: uel ordinate ad primam resolutio fiat,
ueniendo semper ad similius et propinquius primæ, et id, in quo dissimilitudo
est, relinquendo. Vel si non sic ordinatas inter se
contingit esse rationes illas, ad primam omnes modo prædicto reducendæ sunt.
Ordinem enim ad primam nulla subterfugere potest. Nec refert in proposito, an
fiat resolutio ad rationem primam, significatione, uel secundum rem.
Intelligenda enim sunt hæc in suo ordine, scilicet, significationum aut rerum. QUALITER DE ANALOGO SIT
SCIENTIA . Visum est autem quibusdam de
analogo scientiam esse non posse, nisi quemadmodum de æquiuocis scientia
habetur: eo quod plures rationes dicit licet similes. Imo fallaciam æquiuocationis
committi in syllogismis, in quibus, analogo pro medio sumpto, certum analogatum
subsumitur, (nisi forte gratia materiæ bonus esset processus) astruunt ex eadem
ratione. Nec posse ex unius analogati ratione,
secundum analogi nomen, concludi alterum analogatum tale formaliter esse; sed
semper prædictum incidere uitium, ratione prædicta, confirmant. Verbi gratia:
si ponamus sapientiam esse analogice communem Deo et homini, ex hoc quod
sapientia, in homine inuenta, secundum formalem rationem præcise sumpta, dicit
perfectionem simpliciter: non potest concludi: ergo Deus est formaliter
sapiens, sic arguendo: Omnis perfectio simpliciter est in Deo; sapientia est
perfectio simpliciter; ergo etc. Minor enim distinguenda est: et si ly
sapientia pro ratione sapientiæ, quæ est in homine stat, argumentum est ex
quatuor terminis: quia in conclusione, sapientia stat pro ratione sapientiæ
quam ponit in Deo, cum concluditur: ergo sapientia est in Deo. Si autem pro
ratione sapientiæ in Deo, stat in minore; non concluditur, ex perfectione sapientiæ
creatæ, Deum esse sapientem; cuius oppositum et philosophi et theologi omnes
clamant. 106. Decipiuntur autem isti,
Scotum (cuius est ratio hæc I Sent., dist. 3, q. I) sequentes: quia in analogo
diuersitatem rationum inspicientes, id quod in eo unitatis et identitatis
latet, non considerant. Rationes enim analogi (ut superius etiam diximus)
possunt dupliciter accipi: Uno modo secundum se, in quantum ab inuicem
distinguuntur, et ea quæ conueniunt eis ut sic, seu ex hoc. Alio modo in
quantum eadem sunt proportional iter. Primo modo acceptæ, uitium æquiuocationis
inducerent, si quis eis uteretur, ut patet. Secundo autem modo eis utendo,
peccatum nullum incurritur: eo quod quidquid conuenit uni, conuenit et alteri
proportionaliter; et quidquid negatur de una, et de altera negatur
proportionaliter: quia quidquid conuenit simili, in eo quod simile, conuenit
etiam illi, cui est simile, proportionalitate semper seruata. Unde si ex immaterialitate animæ, concluditur
eam esse intellectualem; ex immaterialitate proportionaliter posita in Deo
optime concluderetur, Deum esse intellectualem proportionaliter: ut quantum
immaterialitas illa excedit istam, tantum intellectualitas illa excedit istam
etc. Propter quod S. Thomas in quæstione II De Potentia Dei, art. 5, analogata
omnia sub una analogi distributione cadere dixit. Et merito, quia unitas analogiæ
non esset in coordinatione unitatum numeranda, nisi unum proportionaliter, unum
esset affirmabile et negabile, et consequenter distribuibile et scibile, ut
subiectum, et medium, et passio. Unde ad obiecta in oppositum dicitur, quod quia, ut
in II Elenchorum cap. X dicitur, æquiuocatio latens in huiusmodi
proportionalibus peritissimos etiam latet: ideo oportet, huiusmodi analogis
nominibus utendo ex parte unitatis, semper modum proportionalitatis
subintelligi; aliter in uniuocationem lapsus fieret. Nisi enim præ oculis
haberetur proportionalitas, cum dicitur immateriale omne esse intellectuale,
tamquam uniuoce dictum acciperetur, et latens æquiuocatio non uisa
obreperet. 109. Proportionalitate autem
seruata, de analogis scientiam esse: et diui Thomæ processus de bono et uero et
aliis huiusmodi, et quotidianum conuincit exercitium. Testatur quoque
demonstratiuæ artis pater Aristoteles, in II Poster., cap. XIII incipiente: Ut
habeamus autem proposita (uel problemata) analogum causam adæquatam esse
alicuius passionis, et in medium oportere quandoque a demonstratore assumi, dum
uenationem propter quid docens, inquit: « Amplius alius modus est secundum
analogiam eligere. Unum enim idem non est accipere quod oportet uocare sepion,
et spinam, et os. Sunt autem quæ sequuntur et hoc, tamquam natura una huiusmodi
exsistente ». Et sequenti cap. ait: « Secundum autem analogiam eiusdem, et
medium se habet secundum analogiam ». In quibus uerbis non solum docuit,
analogum ut medium assumi quandoque in demonstrationibus; sed etiam ipsum non
esse unum in se expressit, et cum hoc habere passionem adæquatam, ac si unius
esset naturæ. 110. Nec impedit analogia
hæc processum formalem ad concludendum de Deo et creaturis prædicatum aliquod
eis commune: quoniam accepta sapientiæ ratione, et segregatis ab ea per
intellectum eis, quæ sunt imperfectionis, ex hoc quod id, quod est sibi
proprium formaliter sumptum, perfectionem absque imperfectione claudit,
concluditur ergo sapientiæ ratio non omnino alia, nec omnino hæc, sed hæc
proportionaliter est in Deo: quia similitudo inter Deum et creaturam non est
uniuoca, sed analoga. Nec pari ratione
potest concludi, Deum esse lapidem proportionaliter: quia ratio lapidis
formaliter sumpta, quantumcumque expoliata, imperfectionem aliquam claudit, quæ
prohibet tam ipsam secundum se, quam ipsam proportionaliter in Deo reperiri,
nisi metaphorice: quemadmodum dictum est: Petra autem erat Christus. Unde, cum
fit huiusmodi processus: Omnis perfectio simpliciter est in Deo; sapientia est
perfectio simpliciter; ergo etc.; in minore ly sapientia non stat pro hac uel
illa ratione sapientiæ, sed pro sapientia una proportionaliter, idest, pro
utraque ratione sapientiæ non coniunctim uel disiunctim; sed in quantum sunt
indiuisæ proportionaliter, et una est altera proportionaliter, et ambæ unam
proportionaliter constituunt rationem
Significantur enim analogo nomine in quantum eædem sunt; unde non
oportet analogum distinguere, ad hoc quod contradictionem fundet, et
enuntiationis subiectum, aut prædicatum fiat; sed ratione identitatis
preportionalis in se clausæ, et quam principaliter dicit, ex se ad hoc
sufficit. Contradictio enim dicitur consistere in affirmatione et negatione
eiusdem de eodem etc., et non in affirmatione et negatione uniuoci de eodem
uniuoco. Identitas siquidem tam rerum quam rationum, ut pluries replicatum est,
ad identitatem proportionalem se extendit.
Ex hoc autem apparet, Scotum in I Sent., dist. 3, q. I, uel male
exposuisse conceptum uniuocum uel sibi ipsi contradicere: dum, uolens
uniuocationem entis fingere, alt: « Conceptum uniuocum uoco, qui ita est unus,
quod eius unitas sufficit ad contradictionem, affirmando et negando ipsum de
eodem ». Et sic uniuocum uult esse ens. Si enim identitas sufficiens ad
contradictionem, uniuocatio dicitur; constat quod, ponendo ens esse analogum,
et secundum proportionalitatem tantum unum, satisfiet uniuocationi: quod scoticæ
doctrinæ aduersatur, tenenti ens habere conceptum unum simpliciter, et omnino
indiuisum, (ut de uniuocis diximus). Si autem non omnis talis identitas
sufficit ad uniuocationem, non recte igitur uniuocatio conceptus declarata est
esse eam, quæ ad contradictionem sufficit, quasi proportionalis identitas ad
hoc non sufficiat. DE CAUTELIS NECESSARIIS CIRCA ANALOGORUM NOMINUM INTELLECTUM
ET USUM. Quia uero Aristoteles in prædicta ex Elenchis auctoritate, doctissimos
uiros circa horum nominum conceptus errare dicit, ob latentem eorum unitatis
modum: idcirco necessarium fore duximus, in fine huius tractatus cautelas
quasdam tradere, quibus possit se quis ab errore multiplici in re hac præseruare. Cauendum est igitur in primis, ne ex
uniuocatione ipsius nominis analogi respectu quorumdam, credamus simpliciter
ipsum esse uniuocum: omnia enim fere analoga proprie, prius fuerunt uniuoca, et
deinde extensione, analoga communia proportionaliter illis quibus sunt uniuoca
et aliis uel alii, facta sunt. Sapientiæ enim nomen primo impositum est humanæ
sapientiæ, et uniuocum omnium hominum sapientiis erat. Deinde, ad diuinæ naturæ
cognitionem ascendentes, proportionalemque similitudinem inter nos ut sapientes
et Deum contemplantes, sapientiæ nomen extenderunt ad id in Deo significandum,
cui nostra sapientia proportionalis est; sicque uniuocum nobis, analogum factum
est nobis et Deo. Et similiter de aliis accidit. Falli autem contingit faciliter ex hoc, quia
illa ratio prior, utpote notior et familiarior et prior quoad nos, semper profertur
ab illustribus uiris, et ab eorum sequacibus, cum analogi significatio quæritur;
et dicitur esse tota analogi ratio, pro qua simpliciter prolatum stat, et omnia
analogata illam participare: ut patet cum sapientiæ ratio redditur. Assignatur
enim differentialis eius conceptus pro ratione, secundum quam communis ponitur
Deo et creaturis. Et similiter est in aliis. Creditur enim ex hoc, quod illa
sit ipsa analogi ratio, et incaute uniuocatio acceptatur: non enim illa ratio
est ratio analogi, sed eius origo quoad nos; quoniam non illa, sed illa
proportionaliter in altero analogato inuenitur, ut ex dictis patet. Cauendum
secundo est, ne nominis unitas, aut diuersitas rationum, analogam unitatem
obnubilet; hoc enim tamquam quoddam accidens, in re hac suscipiendum est. Nihil
enim minus analogice idem sunt sepion, os, et spina, unum non habentia nomen,
quam si unum nomen haberent. Nec magis idem essent, si unum nomen haberent, et
tamen si communi nomine ossa uocarentur, ita quod defectu uocabulorum, uel rerum
proportionali similitudine ossis nomen ad cætera extensum esset, crederemus
eiusdem esse naturæ et rationis, ossa, sepion, et spinas. Præsertim quia, ut
dictum fuit, ad ea quæ sunt proportionaliter eadem, consequuntur passiones
tamquam si eorum esset natura una. Cauendum tertio est, ne uocalis unitas
rationis analogi nominis mentem inuoluat. Ex eo namque uerbi gratia, quod
principium dicitur esse id ex quo res fit, aut est, aut cognoscitur; et hæc
ratio in omnibus quæ principia dicuntur, saluatur: principii nomen uniuocum
creditur. Erratur autem, quia ratio ipsa non est una simpliciter, sed
proportione et uoce. Vocabula enim, ex quibus integratur, analoga sunt, ut
patet; neque enim fieri, neque esse, neque cognosci, neque ly ex unius omnino
est rationis, sed proportionalis saluatur. Et propterea ratio illa in omnibus
utpote proportionalis saluatur: sicut et principii nomen proportionaliter
commune dicitur. 119. Cauendum demum
est, ne diuersa doctorum dicta de analogis nos perturbent. Considerandum quippe
est quod, quia analogum medium inter uniuocum et æquiuocum est, et medium
extremorum naturam sapiens: ad alterum comparatum, alterum induit; adeo ut
quando medio, secundum id quod de uno extremo habet, utimur, illius extremi
conditiones ei attribuamus, ut in V Physic., text. comm. 6 et 52 patet. Ideo plerumque
doctores utentes analogo ex parte unitatis, quam ex uniuocis participat,
uniuocorum non solum conditiones, puta abstractionem, indistinctionem, etc. sed
etiam nomen ei attribuunt. Utentes uero analogo ex parte diuersitatis, quam ex æquiuocis
trahit, conditiones quoque supradictis oppositas, et nomen illi imponunt æquiuoci. 120. Et ut de multis pauca dicantur,
Aristoteles in II Metaph., text. comm. 4, ens et uerum uniuoca uocat; quia ex
parte identitatis illis utitur, ut processus suus aperte ostendit. S. Thomas
quoque pluries dicit, in ratione alicuius analogi, puta paternitatis communis
diuinæ et humanæ paternitati, omnia contenta esse indiuisa et indistincta; et
quod paternitas, uerbi gratia, abstrahit a paternitate humana et diuina: quia
utitur analogo ex parte identitatis.
121. Nec tamen falsæ sunt aut abusiuæ prædictæ utriusque locutiones et
similes; sed amplæ potius et largæ, quemadmodum pallidum nigro contrarium est
et dicitur. Saluatur siquidem in analogis identitas nominis et rationis, in qua
(ut ex dictis patet) non solum analogata, sed etiam singulæ analogi rationes
uniuntur, et quodammodo confunduntur, utpote abstrahentes aliqualiter ab earum
diuersitate. Rursus pater Aristoteles in
I Physic., ex parte diuersitatis ente utens contra Parmenidem et Melissum,
multiplex seu æquiuocum, (ut ipsemet illum textum sic exponendum specialiter in
II Elenchorum tradit) uocauit. Unde et Porphyrius, Aristotelem dicere ens esse æquiuocum
accepisse uidetur, utens ente ex parte diuersitatis. Quod tamen Scotus, in I
Sent., dist. 3, q. 3, in Logica Aristotelis non inueniri ideo dixit: quia prædictos
textus non coniugauit. Propter quod, ibidem quoque contra textum, glossauit
principium Aristotelis contra Parmenidem in I Physic., text. comm. 13, ut in
Elenchis (ut dictum est) clare patet. Thomas etiam, ens prius non esse primo
analogato, nihilque Deo prius secundum intellectum esse, dicit pluries: utens
analogo ex parte diuersitatis rationum eius. Quælibet siquidem eius ratio
secundum se, quia proprium analogatum in se claudit, et in sui abstractione
illud secum trahens, cum illo conuertitur, ut supra diximus: ideo prior
secundum consequentiam, aut abstractior suo analogato negatur. Ac per hoc,
primo analogato et Deo nihil est prius: quia eius ratio secundum analogi nomen,
quæ ipso prior secundum se non est, sed conuertitur, cæteris prior est
rationibus. Cum his tamen stat, quod ratio illa in Deo ut eadem est
proportionaliter alteri rationi, secundum idem nomen superior, et secundum
consequentiam prior logice loquendo sit, ut ex dictis patet. Dico autem logice:
quia physice loquendo, analogum nec est prius secundum consequentiam omnibus
analogatis (quia ab eorum propriis abstrahere non potest, quamuis ut saluatur
in uno sit prius altero), nec potest esse sine primo analogato, ubi analogata
consequenter se habent. 125. Unde si
quis falli non uult, solerter sermonis causam coniectet, et extremorum
conditiones medio applicaturum se recolat; sic enim facile erit omnia sane
exponere, et ueritatem assequi, quæ a prima est Veritate. Cuius cognitio ex hoc
exaltetur et firmetur Opusculo. Completo
in conuentu S. Apollinaris, Papiæ suburbio, EXPLICIT TRACTATUS DE NOMINUM
ANALOGIA. Gætano. V.. Caietanus Vio. Cajetano Vio. Cætano Vio. Gætano Vio. Al
secolo: Giacomo De Vio. Jacopo De Vio. Tommaso De Vio. Cardinal Cætano. Cardinal Gætano. Tommaso De Vio da Gæta,
detto il Gætano. COMMENTARIO di V. Sulla INTERPRETAZIONE del LIZIO. THOMÆ DE
VIO CAIETANI ORDINIS PRÆDICATORUM S. R.
IN E. CARDINALIS COMMENTARIA
RELIQUUM LIBRI SECUNDI PERI HERMENDE INTERPRETATIONE EIAS AD LECTOREM
Humano: capiti cervicem. nitor. equinam
Addere: da veniam, si nova monstra iuvant. —H—
LECTIO (Cano. CarrTANt lect.
1). DE NUMERO ET HABITUDINE
ENUNCIATIONUM IN QUIBUS PRÆDICATUR VERBUM EST
ET SUBIICITUR NOMEN FINITUM UNIVERSALITER SUMPTUM, VEL NOMEN INFINITUM,
ET IN QUIBUS PRÆDICATUR VERBUM:
ADIECTIVUM Ὁμοίως δὲ ἔχει κἂν καθόλου τοῦ ὀνόματος ἦ ἡ κατάφάσις"
olov, πᾶς ἐστὶν ἄνθρωπος δίκαιος: ἀπόφασις τούτου, οὐ πᾶς ἐστὶν ἄνθρωπος δίκαιος: πᾶς ἔστιν ἄνθρωπος οὐ δίκαιος, οὐ πᾶς ἐστὶν ἄνθρωπος οὐ δίχαιὸς. Πλὴν οὐχ ὁμοίως τὰς κατοὸ διάμετρον ἐνδέχεται συναληθεύειν: ἐνδέχεται δὲ ποτέ. Αὗται μὲν οὖν δύο ἀντίκεινται, ἴλλλαι δὲ δύο πρὸς τὸ οὐχ ἄνθρωπος, ὡς ὑποκείμενόν τι προστεθέν- ἔστι δίκαιος οὐκ ἄνθρωπος, οὐχ ἔστι δίχαιος οὐχ ἄνθρωπος" ἔστιν οὐ δίκαιος οὐχ ἄνθρωπος, οὐχ ἐστιν οὐ δίκαιος οὐχ ἄνθρωπος. ' Πλείους δὲ τούτων οὐχ ἔσονται ἀντιθέσεις. Αὗται δὲ χωρὶς ἐκείνων αὐταὶ καθ᾽ ἑαυτὰς ἔσονται, ὡς ὀνόματι τῷ οὐχ ἄνθρωπος χρώμεναι.
"Eg ὅσων δὲ τὸ ἔστι pod ἁρμόττει, olov ἐπὶ τοῦ ὑγιαίνει καὶ βαδίζει, ἐπὶ τούτων τὸ αὐτὸ ποιεῖ οὕτω. τιθέμενον, ὡς ἂν εἰ τὸ ἔστι προσήπτετο;
olov, ὑγιαίνει à πᾶς ἄνθρωπος; οὐχ ὑγιαίνει πᾶς ἄνθρωπος, ὑγιαίγει πᾶς οὐχ ἄνθρωπος, οὐχ ὑγιαίνει πᾶς οὐκ ἄνθρωπος. Οὐ γάρ ἐστι τὸ οὐ πᾶς ἄνθρωπος λεχτέον' ἀλλὰ τὸ οὔ, τὴν ἀπόφασιν, τῷ ἄνθρωπος προσθετέον" τὸ γὰρ πᾶς οὐ τὸ καθόλου σημαίνει, ἀλλ᾽ ὅτι καθόλου. ᾿ Δῆλον δὲ ἐκ τοῦδε, ὑγιαίνει ἄνθρωπος, οὐχ ὑγιαίνει ἄνθρωπος"
ὑγιαίνει οὐχ ἄνθρωπος, οὐχ ὑγιαίνει οὐχ ἄνθρωπος. Ταῦτα γὰρ ἐχείνων διαφέρει τῷ μὴ καθόλου εἶναι. Ὥστε τὸ πᾶς, ἢ οὐδείς, οὐδὲν ἄλλο προσσημαίνει;
ἢ ὅτι χαθόλου τοῦ ὀνόματος ἢ κατάφασιν
7) ἀπόφασιν. : Τὰ δὲ ἄλλα τὰ αὐτὰ δεῖ προστιθέναι" *
Similiter autem se habent, et si universalis nominis sit affirmatio; ut est,
omnis homo iustus est; negatio huius,
non omnis est homo iustus, omnis est homo non iustus, non omnis est homo non iustus. Sed non similiter angulares contingit veras esse;
contingit autem aliquando. Hæ igitur duæ oppositæ sunt. Aliæ
autem duæ ad id quod est, non homo, quasi ad subiectum aliquod additum; ut, est iustus non
homo, non est iustus non homo; est non
iustus non homo, non est non iustus non homo. Plures autem his non erunt oppositæ. Hæ autem extra illas, ipsæ secundum se erunt,
ut nomine utentes eo, quod est non
homo. In his vero, in quibus, est, non
convenit ut in eo. quod est valere vel
ambulare, idem faciunt sic positum, ac
si, est, adderetur, ut, sanus est omnis homo, non sanus est
nus omnis homo; sanus est omnis
non homo, non sæst omnis non homo. Non enim dicendum est, non omnis homo; sed,
non, negationem ad id quod est homo addendum est; omnis enim non universalem significat, sed quoniam
universaliter. Manifestum est autem ex
eo quod est, valet homo, non valet homo;
valet non homo, non valet non homo. Hæc
enim ab illis differunt, eo quod universaliter non sunt. Quare omnis vel nullus nihil
significant aliud, nisi quoniam
universaliter de nomine, vel affirmant vel
negant. Ergo et cætera eadem
oportet apponi. * Seq. cap. x. II ostquam Philosophus α distinxit enunciationes in
quibus subiicitur nomen infinitum non
universaliter sumptum, hic S * Ed.
c: indefinitas. * * Num.
4. Num. 8. intendit
distinguere enunciationes, in
)quibus subiicitur nomen finitum univerCsaliter sumptum. Et circa hoc
tria facit: primo, ponit similitudinem
istarum enunciationum ad infinitas * supra positas; secundo, ostendit dissimilitudinem earumdem; ibi: Sed non
similiter * etc. ; tertio, concludit
numerum oppositionum inter dictas enunciationes; ibi: Hæ duæ igitur 2.
* Lib. II, lect. ui, n. 5.
Ammonius. Porphyrius. *
Lect. xi, n. 5, seq. * Ed.
c: quam sura posuimus. orphyrius.
et * etc. Dicit ergo primo
quod: similes sunt enunciationes, in
quibus est nominis universaliter sumpti affirmatio. Quoad primum notandum est quod in
enunciationibus indefinitis supra positis * erant duæ oppositiones et quatuor enunciationes, et affirmativæ
inferebant negativas, et non inferebantur ab eis, ut patet tam in expositione
Ammonii, quam Porphyrii. Ita in enunciationibus
in quibus subiicitur nomen finitum universaliter sumptum inveniuntur duæ oppositiones et quatuor
enunciationes: affirmativæ inferunt
negativas et non e contra. Unde
similiter se habent enunciationes supradictæ, sj nominis in subiecto sumpti fiat affirmatio
universaliter. Fierit enim tunc quatuor
enunciationes: duæ de prædicato finito,
scilicet omnis bomo est iustus, et eius negatio quæ est, non ommis bomo est iustus; et duæ de prædicato
infinito, scilicet omnis bomo. est non iustus, et eius negatio quæ est, non omnis bomo est non iustus. Et quia
quælibet affirmatio cum sua negatione unam integrat oppositionem, duæ efficiuntur oppositiones, sicut et de
indefinitis dictum est. Nec obstat quod de enunciationibus universalibus loquens particulares inseruit; quoniam sicut
supra de
indefinitis et suis
negationibus sermonem fecit, ita
nunc de afhrmationibus universalibus sermonem faciens de earum negationibus est coactus loqui.
Negatio siquidem universalis affirmativæ non est universalis negativa, sed particularis negativa, ut in I libro
habitum est * 3. Quod autem similis sit
consequentia in istis et supradictis indefinitis patet exemplariter. Et ne multa loquendo
res clara prolixitate
obtenebretur, formetur primo figura de
indefinitis, quæ supta posita est * in expositione Porphyrii, scilicet ex una
parte ponatur affirmativa finita, et sub
ea negativa infinita, et sub ista negativa privativa. Ex altera parte primo negativa finita, et sub
ea affirmativa infinita, et sub ea affirmativa privativa. Deinde sub illa figura formetur alia figura similis illi
universaliter: ponatur scilicet ex una parte universalis affirmativa de prædicato
finito, et sub ea particularis negativa de prædicato infinito, et ad complementum similitudinis
sub ista particularis negativa de prædicato privativo; ex altera vero
parte ponatur primo particularis
negativa de prædicato infinito, Quibus
ita dispositis, exerceatur consequentia semper in ista proxima figura, sicut supra in
indefinitis exercita est: sive sequendo
expositionem: Ammonii, ut infinitæ se habeant ad finitas, sicut privativæ se
habent ad ipsas finitas ; finitæ autem
non se habeant ad infinitas medias, sicut privativæ se habent ad ipsas
infinitas: sive sectando expositionem Porphyrii, ut affirmativæ inferant
negativas, et non e contra. Utrique enim expositioni
suprascriptæ deserviunt figuræ, ut patet diligenter indaganti. Similiter ergo
se habent enunciationes istæ universales ad indefinitas in tribus, scilicet in
numero propositionum, et numero oppositionum, et modo consequentiæ. 4. Deinde cum dicit: Sed non similiter
angulares etc., ponit. ctas dissimilitudinem inter istas universales et
supradiindefinitas, in hoc quod angulares non similiter contingit veras esse.
Quæ verba primo exponenda sunt secundum eam, quam credimus esse ad mentem
Aristotelis, expositionem; deinde secundum alios. Angulares ex
enunciationes in utraque figura suprascripta vocat eas quæ sunt diametraliter oppositæ, scilicet
affirmativam finitam uno
angulo, et affirmativam infinitam sive
privativam ex alio angulo: et similiter negativam finitam ex uno angulo,
et negativam infinitam vel privativam ex alio angulo. 5. Enunciationes ergo in qualitate similes
angulares vocatæ, eo quod angulares,
idest diametraliter distant, dissimilis
veritatis sunt apud indefinitas et universales.
Angulares enim indefinitae tam in diametro affirmationum, quam in
diametro negationum possunt esse simul
verae, ut patet in suprascripta figura indefinitarum. Et hoc intellige in materia contingenti.
Angulares vero in figura universalium
non sic se habent, quoniam angulares secundum diametrum affirmationum
impossibile est esse simul veras in quacumque materia. Angulares
autem secundum diametrum negationum quandoque possunt esse simul veræ, quando
scilicet fiunt im materia contingenti :
in materia enim necessaria et remota * impossibile est esse ambas veras. Hæc
est Boethii, quam veram credimus,
expositio. 6. Herminus * autem, Boethio
referente, aliter exponit. Licet enim ponat similitudinem inter universales
et indefinitas quoad numerum
enunciationum: et. oppositionum, oppositiones. tàmen aliter accipit in
universalibus et aliter in indefinitis. Oppositiones siquidem.
indefinitarum infinitas numerat sicut et nos numeravimus, alteram
scilicet inter finitas affrmativanr et negativam, et alteram inter
affirmativam et negativam, quemadmodum nos fecimus. Universalium vero
non sic numerat oppositiones, sed alteram sumit inter universalem affirmativam finitam et particularem
negativam finitam, scilicet. Ammonius.
Porphyrius. * Cf. lib. 1, lect. xut, n. 3.
Boethius. *Edd. Hermenius, Cf. lib. IL, lect. n, not. 0. . omnis bomo est iustus, hon omnis bomo est
iustus, et sub ea universalis affirmativa de prædicato
finito, et,Sub ista universalis affirmativa de prædicáto privativo, LI hoc
modo: Figura indefinitarum Homo est iustus Homo non est non iustus Homo non ést iniustus Homo non est iustus Homo est non iustüs Homo est iniustus Figura universalium Omnis homo est iustus Non omnis homo est non iustus Non omnis homo est non iustus — Omnis homo
est iüstus Nón omfis homo est iniustus.
— — 'Ornnis homo est iniustus a)
Postquam Philosophus. Hoc supplementum ad commentaria s.Thomæ in secundum
librum Peri hermeneias, quod Caietanus complevit anno
1496, impressum est eodem anno in ed. Veneta c Peri hermeneias et
Posteriorum analyticorum. Quocirca dd istam exegimus præet alteram inter eamdem universalem affirmativam
fini«tam et universalem affirmativam infinitam, scilicet omnis bomo est iustus, omnis bomo est non iustus. Inter has enim
est contrarietàs, inter illas vero contradictio. - Dissimilitudinem
etiam universalium ad indefinitas aliter ponit. Non enim nobiscum fundat dissimilitudinem inter
angulares universalium et indefinitarum
supra differentia quæ est inter
angulares universalium affirmativas et negativas, sed supra differentia quæ est inter ipsas
universalium angulares inter se ex utraque parte. Format namque talem figuram, in qua ex una parte sub universali
affirmativa finita, universalis
affirmativa infinita est; et ex alia parte
cipue hanc nostram eiusdem supplementi editionem. — Editio præfata
c incipit: « Deinde cum dicit: Similiter
autem se habent etc., intendit » distinguere enunciationes in quibus
subiicitur nomen finitum univer» saliter
sumptum, οἵ circa hoc tria facit » etc. CAP. X, LECT. III sub particulari negativa finita, particularis
negativa infinita ponitur; sicque angulares sunt disparis qualitatis, et similiter indefinitarum figuram format hoc
modo: ut
89 ly bæ demonstret enunciationes
finitas et infinitas quoad prædicatum
sive universales sive indefinitas, et
tunc est sensus, quod hæ enunciationes supradictæ habent duas
oppositiones, alteram inter affirmationem fiOmnis homo est iustus
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Quibus ita dispositis, ait in hoc stare dissimilitudinem, quod angulares indefinitarum mutuo se invicem
compellunt ad veritatis sequelam, ita quod unius angularis veritas suæ
angularis veritatem infert undecumque incipias.
Universalium vero angulares non se mutuo compellunt ad *Par.
fo et Ven.1557: *
1557 Edd. Ven. c et
1526 omitt. nom, sed
erronee. —. Herminus. IT
ante EXPERS, Mrd
ope UR Me
RN EE NRI
EET Rer METCUNERE
veritatem, sed ex altera parte
necessitas deficit illationis. * Si enim
incipias ab aliquo universalium et ad suam angularem procedas, veritas
universalis non * ita potest esse simul
cum veritate angularis, quod compellit eam ad veritatem: quia si universalis
est vera, sua universalis contraria erit falsa: non enim possunt esse simul veræ.
Et si ista universalis contraria est
falsa, sua contradictoria particularis,
quæ est angularis primæ universalis assumptæ, erit necessario vera: impossibile
est enim contradictorias esse simul falsas. Si autem incipias e converso
ab aliqua. particularium et ad suam
angularem procedas, veritas particularis ita potest stare cum veritate suæ
angularis, quod tamen non necessario infert eius veritatem: quia licet sequatur: Particularis est vera;
ergo sua universalis. contradictoria est falsa; non tamen sequitur ultra : Ista. universalis contradictoria est falsa;
ergo sua universalis contraria, quæ est angularis particularis assumpti, est vera. Possunt enim contrariæ esse simul
falsæ. 7. Sed. videtur expositio ista deficere ab
Aristotelis mente quoad modum sumendi
oppositiones. Non enim intendit
hic loqui de oppositione quæ est inter finitas et infinitas, sed de ea quæ est
inter finitas inter se, et infinitas
inter se. Si enim de utroque modo oppositionis exponere yolumus, iam. non duas, sed tres oppositiones
invenie-, mus; primam inter finitas,
secundam inter infinitas, tertiam .quam ipse Herminus dixit inter finitam et
infinitam. Figura etiam quam formavit, conformis non est ei, quam Aristoteles in fine I Priorum formavit,
ad quam nos remisit, cum dixit: Hæc
igitur quemadmodum in. Resoluloris dictum. est, sic sunt. disposita. In.
Aristotelis namque figura, angulares
sunt affirmativæ aflirmativis, et negativæ negativis. 8. Deinde cum dicit: Hæ igitur duæ etc.,
concludit numerum propositionum. Et potest dupliciter exponi; primo, ut ly bæ
demonstret universales, et sic est sensus,
quod. hæ universales finitæ et infinitæ habent duas oppositiones, quas
supra declaravimus; secundo, potest exponi
Opp. D. Tnuowar T. I. nitam et
eius negationem, alteram inter
affirmationem infinitam et eius
negationem. Placet autem mihi magis
secunda expositio, quoniam brevitas cui Aristoteles studebat,
replicationem non exigebat, sed potius quia enunciationes finitas et infinitas
quoad prædicatum secundum diversas
quantitates enumeraverat, ad duas oppositiones
omnes reducere, terminando earum tractatum, voluit. 9. Deinde cum dicit: Aliæ autem ad id quod
est etc., intendit declarare
diversitatem enunciationum de tertio
adiacente, in quibus subiicitur nomen infinitum. Et circa hoc tria facit: primo, proponit et distinguit
eas; secundo, ostendit quod non dantur
plures supradictis; ibi: Magis autem *
etc.; tertio, ostendit habitudinem istarum ad alias ; ibi: Hæ autem extra* etc. Ad. evidentiam
primi advertendum est tres esse species enunciationum de inesse, in quibus
explicite ponitur hoc verbum est.- Quædam sunt, quæ subiecto sive finito sive infinito nihil
habent additum ultra verbum, ut, homo
est, non bomo est.- Quædam vero sunt quæ
subiecto finito habent, præter verbum, aliquid additum sive finitum sive
infinitum, ut, bomo est iustus, bomo est
non iustus.- Quædam autem sunt quæ subiecto
infinito, præter verbum, habent aliquid additum sive finitum sive infinitum,
ut, non bomo est iustus, non bomo est
non iustus. Et quia de primis iam determinatum est, ideo de ultimis tractare volens, ait: Aliæ autem
sunt, quæ habent aliquid, scilicet prædicatum,
additum supra verbum est, ad id quod est, mon bomo, quasi ad subiectum, idest ad subiectum infinitum. Dixit autem quasi, quia sicut nomen infinitum deficit
a ratione nominis *, ita deficit a
ratione subiecti. Significatum siquidem nominis infiniti non
proprie substernitur compositioni cum prædicato quam importat, esf, tertium adiacens.
Enumerat quoque quatuor enunciationes et
duas oppositiones in hoc ordine, sicut
et in superioribus fecit. Distinguit etiam istas ex
finitate vel infinitate prædicata. Unde primo, ponit oppositiones inter affirmativam et negativam
habentes subiectum infinitum et prædicatum
finitum, dicens: Ut, non bomo est
iustus, non bomo non est iustus. Secundo, ponit
oppositionem alteram inter affirmativam et negativam, habentes subiectum
infinitum: et prædicatum infinitum, dicens : Ut, non bomo est non iustus, non
bomo non est non iustus. το. Deinde cum dicit: Magis autem.
plures etc., ostendit quod non dantur plures oppositiones enunciationum supradictis. Ubi notandum est quod
enunciationes de inesse, in quibus explicite ponitur hoc verbum «est, sive secundum,
sive tertium adiacens, de quibus loquimur, non
possunt esse plures quam duodecim supra positæ; et consequenter
oppositiones earum secundum affirmationem
et negationem non. sunt nisi sex.
Cum enim in tres ordines divisæ sint enunciationes, scilicet in illas de
secundo adiacente, in illas de tertio. subiecti finiti, et in illas de tertio subiecti infiniti, et in
quolibet ordine sint quatuor enunciationes;
fiunt omnes enunciationes duode| cim, et
oppositiones sex. Et quoniam subiectum earum
in quolibet ordine potest quadrupliciter quantificari, scilicet
universalitate, particularitate, et singularitate, et indefinitione; ideo istæ
duodecim multiplicantur in quadraginta octo. Quater enim duodecim quadraginta
octo faciunt. Nec possibile est plures
his imaginari. Et licet Aristoteles
nonnisi viginti harum expresserit, octo in primo ordine, octo in secundo, et quatuor in
tertio, attamen per eas reliquas voluit intelligi. Sunt autem sic enumerandæ et ordinandæ secundum singulos ordines, ut
affirmationi negatio prima ex opposito
situetur, ut oppositionis ini2 * * *
* Num. seq. Infra num. Π. Cf. lib.I. lect.iv, n. 13.
SPEO 9o tentum clarius videatur. Et sic contra
universalem afhrmativam non est ordinanda universalis negativa, sed
particularis negativa, quæ est illius negatio; et e converso, contra particularem affirmativam non est
ordinanda particularis negativa, sed universalis negativa quæ est eius II negatio. Ad clarius autem intuendum numerum,
coordinandæ sunt omnes, quæ sunt similis quantitatis, simul in recta linea, distinctis tamen ordinibus
tribus supradictis. Quod ut clarius elucescat, in
hac subscripta videatur figura: Primus
Socrates est Quidam homo .est Homo est
Omnis homo est Socrates non est
Quidam homo non est Homo non
est Omnis homo non est e
Ordo Non Socrates est Quidam non homo est Non homo est
Omnis non homo est Secundus Ordo Socrates est iustus Quidam homo est iustus Homo. est iustus Omnis homo est iustus Socrates non est
iustus Quidam homo non est iustus Homo non est iustus Socrates est non iustus Non Socrates non est Quidam non homo non est Non homo non est Omnis non homo non est Socrates non est non iustus Quidam homo est non iustus Quidam homo non est non iustus Homo est non iustus —
Omnis homo non est iustus Non
Socrates est iustus Quidam non homo est
iustus Non homo est iustus Omnis non homo est iustus - Non Socrates non
est iustus Quidam non homo non est
iustus Non homo non est iustus -
Tertius Omnis homo est non iustus Ordo
Non Socrates est non iustus
Homo non est non iustus Omnis
homo non est non iustus Non Socrates non
est non iustus Quidam non homo est non
iustus — Quidam non homo non est non iustus
Non homo est non iustus Omnis
non homo non est iustus Quod autem
plures his non sint, ex eo patet quod non
contingit pluribus modis variari subiectum et prædicatum penes finitum
et infinitum, nec pluribus modis variantur finitum et infinitum subiectum.
Nulla enim enunciatio de secundo adiacente potest variari penes prædicatum
finitum vel infinitum, sed tantum penes subiectum quod sufficienter factum apparet.
Enunciationes autem de tertio adiacente
quadrupliciter variari possunt, quia aut
sunt subiecti et prædicati finiti, aut utriusque infiniti, aut subiecti finiti et prædicati infiniti,
aut subiecti infiniti et prædicati finiti. Quarum nullam prætermissam esse superior docet figura. 11. Deinde cum dicit: Hæ autem extra illas
etc., ostendit habitudinem harum quas in tertio ordine numeravimus ad illas, quæ
in secundo sitæ sunt ordine, et dicit
quod istæ sunt extra illas, quia non sequuntur ad illas, nec e converso. Et rationem assignans subdit:
Ut momine ulenles 60 quod est non bomo,
idest ideo istæ sunt extra illas, quia
istæ utuntur nomine infinito loco nominis,
dum omnes habent subiectum infinitum. Notanter autem dixit enunciationes subiecti infiniti uti ut
nomine, infinito nomine, quia cum subiici in enunciatione proprium sit nominis, prædicari autem commune nomini
et verbo, omne subiectum enunciationis
ut nomen subiicitur. Deinde cum dicit:
In bis vero in quibus est etc.,
determinat de enunciationibus in quibus ponuntur verba adiectiva. Et circa hoc tria facit: primo,
distinguit eas; se Num. 13. Num.
16. cundo, respondet cuidam tacitæ quæstioni
; ibi: Non enim dicendum est * etc.;
tertio, concludit earum conditiones; ibi:
Ergo et cætera eadem * etc. Ad evidentiam primi resumendum est, quod inter enunciationes in quibus
ponitur es? secundum adiacens, et eas in quibus ponitur es! tertium adiacens
talis est differentia quod in illis, quæ sunt de secundo adiacente, simpliciter
fiunt oppositiones; scilicet ex parte
subiecti tantum variati per finitum et infinitum; in his vero, quæ habent est tertium. adiacens
dupliciter fiunt oppositiones, scilicet et ex parte prædicati et ex parte
subiecti, quia utrumque variari potest per finitum et infinitum. Unde unum
ordinem tantum enunciationum de secundo
adiacente fecimus, habentem quatuor enunciationes diversimode quantificatas et
duas oppositiones. Enunciationes autem de tertio adiacente oportuit partiri in
duos ordines, quia sunt in eis quatuor
oppositiones et octo enunciationes, ut
supra dictum est.- Considerandum quoque est quod enunciationes, in quibus
ponuntur verba adiectiva, quoad
significatum æquivalent enunciationibus
Non homo non est non iustus Omnis
non homo est non iustus — Omnis non homo non est non iustus de tertio adiacente, resoluto verbo adiectivo
in proprium participium et es/, quod
semper fieri licet, quia in omni verbo
adiectivo clauditur verbum substantivum. Unde idem significant ista, omnis bomo currit, quod
ista, omnis bomo est currens. Propter quod Boethius vocat
enunciationes cum verbo adiectivo de
secundo adiacente secundum vocem, de tertio autem secundum potestatem, quia
potest resolvi in tertium adiacens, cui æquivalet.
Quoad numerum autem enunciationum et oppositionum, enunciationes : verbi adiectivi formaliter sumptæ non æquivalent
illis de tertio adiacente, sed æquivalent
enunciationibus, in quibus ponitur esf
secundum adiacens. Non possunt enim fieri
oppositiones dupliciter in enunciationibus adiectivis, scilicet ex parte
subiecti et prædicati, sicut fiebant in substantivis de tertio adiacente, quia
verbum, quod prædicatur in adiectivis,
infinitari non potest. Sed oppositiones adiectivarum fiunt simpliciter,
scilicet ex parte subiecti tantum variati per infinitum et finitum diversimode
quantificati, sicut fieri didicimus supra in enunciationibus substantivis de
secundo adiacente, eadem ducti ratione, quia
præter verbum nulla est affirmatio vel negatio *, sicut præter nomen
esse potest. Quia autem in præsenti tractatu non de significalionibus, sed de
mumero enunciationum et oppositionum sermo intenditur, ideo
Aristoteles determinat diversificandas esse enunciationes adiectivas secundum
modum, quo distinctæ sunt enunciationes in
quibus ponitur es? secundum adiacens. Et ait quod in his enunciationibus, in quibus non contingit poni
hoc verbum est formaliter, sed aliquod aliud, ut, currit, vel, ambulat, idest
in enunciationibus adiectivis, idem faciunt quoad numerum oppositionum et
enunciationum sic posita, scilicet nomen
et verbum, ac si est secundum adiacens subiecto nomini adderetur. Habent enim
et istæ adiectivæ, sicut illæ, in quibus
ponitur es/, duas oppositiones tantum,
alteram inter finitas, ut, omnis bomo currit, omnis bomo mon currit, alteram inter infinitas quoad
subiectum, ut, omnis non bomo currit,
omnis non bomo mon currit. ip 13. Deinde cum dicit: Non enim dicendum est
etc., respondet tacitæ quæstioni. Et circa hoc facit duo: primo, ponit solutionem quæstionis; deinde, probat
eam; ibi: Manifestum est autem* etc. Est
ergo quæstio talis: Cur negatio infinitans numquam addita est supra signo
universali aut particulari, ut puta, cum vellemus infinitare istam, omnis bomo currit, cur non sic infinitata
est, om omnis bomo currit, sed sic,
omnis non bomo currit? Huic namque quæstioni respondet, dicens quod quia nomen
infi* Cf. lib. I, lect. vit, n. 9.
* Num. 44. CAP. X, LECT. IIl nitabile debet significare aliquid
universale, vel singulare; omnis autem et similia signa non significant
aliquid universale aut singulare, sed
quoniam. universaliter aut
particulariter; ideo non est dicendum, mom ommis bomo, si infinitare volumus (licet debeat dici, si
negare quantitatem enunciationis quærimus), sed negatio infinitans ad ly homo, quod significat aliquid
universale, addenda est, et dicendum,
omnis non bomo. 14. Deinde cum dicit:
Manifestum est autem. ex eo quod est εἴς.» probat hoc quod dictum est,
scilicet quod omnis et similia non
significant aliquod universale, sed quoniam
universaliter tali ratione. Illud, in quo differunt enunciationes præcise
differentes per habere *et non habere ly
omnis, est non universale aliquod, sed quoniam umi91 particularitatis absolute, sed applicatum
termino distributo. Cum enim dico, omnis bomo, ly omnis denotat universitatem
applicari illi termino /omo, ita quod Aristoteles dicens quod omnis significat
quoniam universaliter, per ly quoniam
insinuavit applicationem universalitatis
importatam in ly ommis in actu exercito, sicut et in T per
Posteriorum, in. definitione scire applicationem causæ notavit illud verbum quoniam, dicens: Scire est
rem per causam cognoscere, et quoniam.
illius est causa.- Ratio autem
versaliter; sed illud in quo differunt enunciationes præcise differentes per habere et non habere ly
ommis, est significatum per ly omnis;
ergo significatum per ly ommis est non
aliquid universale, sed quoniam universaliter. Minor huius rationis, tacita in
textu, ex se clara est. Id enim in quo,
cæteris paribus, habentia a non habentibus aliquem terminum differunt,
significatum est illius termini. Maior vero in littera exemplariter declaratur
sic. Illæ οὐ τὸ. νιν. OG REIR
RN enunciationes, bomo currit, et
omnis bomo currit, præcise differunt ex
hoc, quod in una est ly omnis, et in
altera non. Tamen non ita differunt ex hoc, quod
una sit universalis, alia non
universalis. Utraque enim habet
subiectum universale, scilicet ly bomo, sed differunt, quia in ea, ubi ponitur ly omnis, enunciatur de
subiecto universaliter, in altero autem. non universaliter. Cum enim dico, bomo currit, cursum attribuo homini
universali, sive communi, sed non pro
tota humana universitate; cum autem
dico, ommis bomo currit, cursum inesse homini
pro omnibus inferioribus significo.- Simili modo declarari potest de
tribus aliis, quæ in textu adducuntur,
Scilicet, bomo non currit, respectu suæ universalis universaliter, omnis
bomo mon currit: et sic de aliis. Relinquitur ergo, quod, omnis et nullus et
similia signa nullum universale
significant, sed tantummodo significant, quoniam universaliter de homine
affirmant vel negant. I$. Notato hic
duo: primum est quod non dixit omnis et
nullus significat universaliter, sed quoniam universaliter; secundum est, quod
addit, de homine affrmant vel negant.- Primi
ratio est, quia signum distributivum non significat modum ipsum universalitatis
aut secundi insinuat differentiam inter
terminos categorematicos et syncategorematicos. Illi siquidem ponunt significata supra terminos absolute; isti
autem ponunt ' significata sua supra
terminos in ordine ad prædicata. Cum
enim dicitur, bomo albus, ly albus denominat hominem in seipso absque respectu ad aliquod sibi
addendum. Cum vero dicitur, ommis bomo, ly omnis etsi hominem
distribuat, non tamen distributio intellectum firmat, nisi in ordine ad aliquod prædicatum intelligatur.
Cuius signum est, quia, cum dicimus,
omnis bomo currit, non intendimus
distribuere hominem pro tota sua universitate absolute, sed in ordine ad cursum. Cum autem dicimus,
albus bomo currit, determinamus hominem
in seipso esse album et non in ordine ad
cursum. Quia ergo ommis et nullus, sicut
et alia syncategoremata, nil aliud in enunciatione faciunt, nisi quia determinant subiectum in
ordine ad prædicatum, et hoc sine affirmatione et negatione fieri nequit; ideo dixit quod nil aliud significant, nisi
quoniam universaliter de nomine, idest de subiecto, affirmant vel negant, idest affirmationem vel negationem
fieri determinant, ac per hoc a categorematicis ea separavit. Potest etiam referri hoc quod dixit, affirmant vel
negant, ad ipsa signa, scilicet omnis et
nullus, quorum alterum positive
distribuit, alterum removendo. 16. Deinde cum dicit: Ergo et cætera
eadem etc., concludit adiectivarum enunciationum conditiones. Dixerat enim quod adiectivæ enunciationes idem faciunt
quoad oppositionum numerum, quod substantivæ de secundo adiacente; et hoc
declaraverat, oppositionum numero exemplariter
subiuncto. Et quia ad hanc convenientiam sequitur convenientia quoad
finitationem prædicatorum, et quoad diversam subiectorum quantitatem, et earum
multiplicationem ex ductu quaternarii in seipsum, et si qua sunt huiusmodi
enumerata; ideo concludit: Ergo et cætera, quæ in illis servanda erant, eadem, idest similia istis
apponenda sunt. II LECTIO
(Can. CarkTANI lect. 11). NONNULLÆ
CIRCA EA QUÆ DICTA SUNT DUBITATIONES MOVENTUR AC SOLVUNTUR ᾿Επεὶ δὲ ἐναντία ἀπόφασίς ἐστι τῇ, ἅπαν. ἐστὶ ζῷον δίκαιον, ἡ σημαίνουσα ὅτι οὐδέν ἐστι ζῷον δίκαιον, αὗται μὲν φανερὸν ὅτι οὐδέποτε ἔσονται οὔτε ἀληθεῖς ἅμα οὔτε ἐπὶ τοῦ αὐτοῦ, αἱ δὲ ἀντικείμεναι ταύταις ἔσονταί ποτε, οἷον, οὐ πᾶν ζῷον δίκαιον, xai ἔστι τι ζῷον δίχαιον. ᾽᾿Ακολουθοῦσι δὲ αὑται, τῇ μὲν πᾶς ἄνθρωπος οὐ δίχαιός ἐστιν, ἡ, οὐδείς ἐστιν ἄνθρωπος δίκαιος: τῇ δὲ ἔστι
τις
ἄνηρωπος δίκαιος, ἡ ἀντιχειμένη, ὅτι οὐ πᾶς
ἄνθρωπος ἐστὶν οὐ δίκαιος" ἀνάγκη γὰρ εἶναί τινα. Φανερὸν δὲ καὶ ὅτι ἐπὶ μὲν τῶν καθ᾽ ἕχοστον εἰ ἀληθές ἐρωτηθέντα ἀποφῆσαι, ὅτι καὶ χαταφῆσαι ἀληθές" οἷον, ἄρά γε Σωχράτης σοφός; οὔ. Σωχράτης ἄρα οὐ
σοφός. ᾿Επὶ δὲ τῶν καθόλου οὐχ ἀληθὴς ἡ ὁμοίως
λεγομένη: ἀληθὴς δὲ ἡ ἀπόφασις, οἷον, ἀρά γε πᾶς
ἄνθρωπος σοφός; οὔ: πᾶς ἄρα ἄνθρωπος οὐ σοφός" τοῦτο γὰρ ψεῦδος: ἀλλὰ τὸ, οὐ πᾶς ἄρα, ἄνθρωπος
σοφός, ἀληθές" αὕτη δέ ἐστιν ἡ ἀντικειμένη, ἐχείνη
δὲ ἡ ἐναντία. Αἱ δὲ χατὰ τὰ ἀόριστα ἀντιχείμεναι ὀνόματα καὶ ῥήματα, ὥσπερ
οἷον ἐπὶ τοῦ μὴ ἄνθρῳπος καὶ μὴ δίκαιος, ἀποφάσεις ἄνευ ὀνόματος χαὶ ῥήματος δόξειαν ἂν εἶναι" οὐχ εἰσὶ δέ. " Acl 12e ἀληθεύειν ἀν ἄγχη ἢ
ψεύδεσθαι τὴν ἀπόφασιν’ ὁ δ᾽ εἰπὼν, οὐκ ἄνθρωπος, οὐδὲν μᾶλλον τοῦ εἰπόντος, ἄνθρωπος, ἀλλὰ καὶ
ἧττον ἠλήθευχέ τι ἢ ἔψευσται, ἐὰν μή τι προστεθῇ. Σημαίνει δὲ τὸ, ἔστι πᾶς οὐχ ἄνθρωπος δίκαιος, οὐδεμιᾷ ἐκείνων ταὐτόν’ οὐδὲ ἡ ἀντιχειμένη ταύτῃ, ἡ) οὐχ ἔστι πᾶς οὐκ ἄνθρωπος δίκαιος" τὸ δὲ, πᾶς οὐ δίκαιος οὐχ ἄνθρωπος, τῷ, οὐδεὶς δίκαιος
οὐχ ἄνθρωπος, ταὐτὸν σημαίνει. Μετατιθέμενα δὲ τὰ ὀνόματα καὶ τὸ ῥήματα ταὐτὸν Εἰ
σημαίνει, olov, ἔστι λευχὸς ἄνθρωπος, ἔστιν ἄνθρωπος
λευχός. γὰρ Xj τοῦτό ἐστι, τοῦ αὐτοῦ πλείους ἔσονται ἀποφάσεις" ἀλλ᾽ ἐδέδεικτο, ὅτι μία μιᾶς" τοῦ μὲν γάρ; ἔστι λευκὸς ἄνθρωπος, ἀπόφασις τὸ οὐχ ἔστι λευχὸς
ἄνθρωπος" τοῦ δὲ ἔστιν ἄνθρωπος Acuxóc, εἰ μηὴ ἡ αὐτή ἐστι τῇ, ἔστι λευκὸς ἄνθρωπος, ἔσται ἀπόφασις ἤτοι τὸ οὐχ ἔστιν οὐχ ἄνθρωπος λευχός, ἢ τό, οὐχ ἔστιν
φασις
ἄνγηρωπος λευκός. ᾿Αλλ’ ἡ ἑτέρα
μέν ἐστιν ἀπότοῦ, ἔστιν οὐχ ἄνθρωπος λευχός" ἡ ἑτέρα δὲ
τοῦ, ἔστι λευχὸς ἄνθρωπος" ὥστε ἔσονται δύο μιᾶς. Ὅτιμεὲν οὖν μετατιθεμένου τοῦ ὀνόματος καὶ τοῦ ῥήματος ἡ αὐτὴ γίνεται κατάφασις καὶ ἀπόφασις, δῆλον. enunciationum,
hic intendit removere quædam dubia circa prædicta. Et circa hoc 2facit sex secundum numerum. dubiorum, quæ suis patebunt locis. Quia ergo supra dixerat quod. in universalibus non similiter
contingit angulares esse simul veras, quia affirmativæ angulares non possunt esse simul veræ, negativæ autem sic;
poterat quispiam dubitare, quæ est causa
huius diversitatis. Ideo nunc illius
dicti causam intendit assignare talem, quia,
scilicet, * Cf. lib. I, lect.ix, n. s et lect. xt, n. 6. *Cflib.Llec.x, angulares affirmativæ sunt contrariæ inter
se; contrarias autem in nulla materia
contingit esse simul veras *. Angulares
autem negativæ sunt subcontrariæ illis
oppositæ; subcontrarias autem contingit esse simul veras *. Et circa hæc duo facit: primo,
declarat condin. P: CU*C-3- tones contrariarum et subcontrariarum ; secundo,
quod angulares affirmativæ sint contrariæ
et quod angulares * Quoniam vero contraria est negatio ei quæ
est, omne animal est iustum, illa quæ
significat quoniam, nullum animal est
iustum; hæ quidem manifestum est quoniam
nunquam erunt, neque veræ simul, neque in eodem ipso; his vero oppositæ erunt aliquando: ut,
non omne animal iustum est, et, aliquod
animal iustum est. Sequuntur vero eam quæ
est, omnis homo est non iustus, illa quæ est, nullus homo est iustus; illam
vero quæ est, aliquis homo iustus est,
opposita, quoniam, non omnis est homo non iustus. Necesse est enim
aliquem esse. Manifestum est autem
etiam, quod in singularibus si est verum interrogatum negare, quoniam et
affirmare verum est. Ut, putasne
Socrates sapiens est? non. Socrates igitur
non sapiens est. In universalibus vero non est vera, quæ similiter dicitur: vera autem negativa
est. Ut, putasne omnis
homo sapiens est? non; omnis igitur homo
non sapiens est: hoc enim falsum
est: sed, non igitur omnis homo sapiens
est, vera est. Hæc enim opposita est; illa vero contraria. Illæ vero secundum infinita contraiacentes
sunt nomina vel verba, ut in eo quod
est, non homo, vel, non iustus, quasi
negationes sine nomine et verbo esse videbuntur. Sed non sunt. Semper enim vel veram esse vel
falsam necesse est negationem; qui vero
dixit, non homo, nihil magis quam qui
dicit, homo, sed etiam minus verus vel
falsus fuit, si non aliquid addatur.
Significat autem, est omnis non homo iustus, nulli illarum idem; nec huic opposita ea quæ est, non est
omnis non homo iustus: illa vero, quæ est, omnis non iustus non homo
est, illi quæ est, nullus est iustus non
homo, idem significat. Transposita vero nomina et verba
idem significant, ut, est albus homo,
et, est homo albus. Nam si hoc non est,
eiusdem multæ erunt negationes; sed
ostensum est, quod una unius est: eius enim quæ
est, est albus homo, negatio est, non est albus homo: eius vero quæ est, est homo albus, si non
eadem est ei quæ est, est albus homo, erit negatio, vel ea
quæ est, non est non homo albus, vel ea
quæ est, non est homo albus. Sed altera
quidem est negatio eius, quæ est, est
non homo albus; altera vero eius quæ est, est
homo albus. Quare erunt duæ unius. Quod igitur transposito nomine vel verbo, eadem sit
affirmatio vel negatio, manifestum
est. negativæ sint subcontrariæ; ibi:
Sequuntur vero * etc.Dicit ergo resumendo: quoniam in Primo dictum est
quod enunciatio negativa contraria illi
affirmativæ universali, scilicet, omne
animal estiustum, est ista, nullum animal est
iustum ; manifestum est quod istæ non possunt simul, idest in eodem tempore, meque im eodem ipso,
idest de eodem subiecto esse veræ. His
vero oppositæ, idest subcontrariæ inter
se, possunt esse simul veræ aliquando,
scilicet in materia contingenti, ut, quoddam animal
est iustum, non omne animal est iustum
*. 2. Deinde cum dicit: Sequuntur vero
etc., declarat quod angulares affirmativæ
supra positæ sint contrariæ, negativæ vero subcontrariæ. - Et primum quidem ex
eo quod universalis affirmativa infinita
et universalis negativa simplex æquipollent; et consequenter utraque earum est
contraria universali affirmativæ simplici, quæ est altera angularis. Unde dicit quod hanc universalem nega* * Seq.
c. x. Num. seq. Cf. lib. I, lect *
citt. CAP., LECT. tivam finitam, wullus bomo est iustus,
sequitur æquipollenter illa universalis affirmativa infinita, omnis bomo est
non iustus. Secundum vero declarat ex eo quod
particularis affirmativa finita et
particularis negativa infinita æquipollent. Et consequenter utraque earum est
subcontraria particulari negativæ simplici, quæ est altera angularis, ut
in figura supra posita inspicere potes.
Unde subdit quod illam párticularem affirmativam finitam, aliquis bomo est iustus, opposita sequitur æquipollenter
(opposita intellige non istius particularis, sed illius universalis affirmativæ
infinitæ), mom ommis bomo est mom iustus. Hæc
enim est contradictoria eius. Ut autem clare videatur quomodo supra dictæ enunciationes sint æquipollentes, formetur figura quadrata, in cuius uno angulo
ponatur universalis negativa finita, et
sub ea contradictoria particularis affirmativa finita; ex alia vero parte locetur
universalis affirmativa infinita, et sub ea contradictoria particularis negativa infinita, noteturque contradictio
inter angulares et collaterales inter
se, hoc modo: Nullus homo T»
"poil . est iustus
e Ξ 2
E E d
25 o Quidam homo
i est lustus Omnis homo
Æquivalentes e o
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E o Non omnis homo "
est non iustus His siquidem sic
dispositis, patet primo ipsarum universalium mutua consequentia in veritate et
falsitate, quia si altera earum est
vera, sua angularis contradictoria est
falsa; et si ista est falsa, sua collateralis contradictoria, quæ est altera universalis, erit vera, et
similiter procedit quoad falsitatem
particularium. Deinde eodem modo manifestatur mutua sequela. Si enim altera
earum est vera, sua angularis
contradictoria est falsa, ista autem existente
falsa, sua contradictoria collateralis, quæ est altera particularis erit
vera; simili quoque modo procedendum est
quoad falsitatem. 3. Sed est hic
unum dubium. In I enim Priorum, in fine,
Aristoteles ex proposito determinat non esse idem iudicium de universali negativa et universali
affirmativa infinita. Et superius in hoc
Secundo *, super illo verbo: Quarum duæ
se babent secundum consequentiam, duæ vero
minime, Ammonius, Porphyrius, Boethius et sanctus Thomas dixerunt quod negativa simplex sequitur
affirmativam infinitam, sed non e converso.
Ad hoc dicendum est, secundum
Albertum, quod negativam finitam
sequitur affirmativa infinita subiecto
constante; negativa vero simplex sequitur affirmativam absolute.
Unde utrumque dictum
verificatur, et quod inter eas est mutua
consequentia cum subiecti constantia,
et SS. Thomas. *
Nempe in primo modo primæ gue eros» syllogisquod inter eas non est mutua
consequentia absolute. Potest dici
secundo, quod supra locuti sumus de infinita
enunciatione quoad suum totalem significatum ad formam prædicati reductum; et secundum hoc, quia
negativa finita est superior affirmativa infinita, ideo non erat mutua consequentia: hic autem loquimur de ipsa
infinita formaliter sumpta. Unde s. Thomas tunc adducendo Ammonii expositionem dixit, secundum hunc modum
loquendi: negativa simplex, in plus est
quam affirmativa infinita. 'Textus vero
I Priorum ultra prædicta loquitur de
finita et infinita in ordine ad syllogismum. Manifestum est autem quod universalis affirmativa sive
finita sive infinita non concluditur
nisi in primo primæ *. Univer93 salis
autem negativa quæcumque concluditur et in secundo primæ, et primo et secundo
secundæ. 4. Deinde cum dicit: Manifestum
est autem. etc., movet secundum dubium de vario situ negationis, an
scilicet quoad veritatem et falsitatem
differat præponere et postponere
negationem. Oritur autem hæc dubitatio,
quia dictum est nunc quod non refert quoad veritatem si dicatur, ommis bomo est non iustus, aut si
dicatur, omis bomo non est iustus; et
tamen in altera postponitur negatio, in altera præponitur, licet multum referat
quoad affirmationem et negationem.
Hanc, inquam, dubitationem solvere intendens cum distinctione, respondet quod
in singularibus enunciationibus eiusdem
veritatis sunt singularis negatio et infinita affirmatio eiusdem, in
universalibus autem non est sic. Si enim
est vera negatio ipsius universalis non oportet
quod sit vera infinita affirmatio universalis. Negatio enim universalis est particularis contradictoria,
qua existente vera, non est necesse suam
subalternam, quæ est contraria suæ contradictoriæ esse veram. Possunt enim duæ contrariæ esse simul falsæ. Unde dicit quod
in singularibus enunciationibus manifestum est quod, si est verum negare interrogatum, idest, si est vera
negatio enunciationis singularis, de qua facta est interrogatio, verum etiam est affirmare, idest, vera erit affirmatio
infinita eiusdem singularis. Verbi gratia:
putasne Socrates estsapiens ? Si vera
est ista responsio, z/.9 ; - Socrates igitur non sapiens est,
idest, vera erit ista affirmatio
infinita, Socrates est non sapiens. In
universalibus vero non est vera, quæ similiter dicitur, idest, ex veritate negationis universalis
affirmativæ in| terrogatæ non sequitur
vera universalis affirmativa infinita, quæ similis est quoad quantitatem et
qualitatem enunciationi quæsitæ; vera
aulem est eius negatio, idest, sed ex
veritate responsionis negativæ sequitur veram esse eius, scilicet universalis quæsitæ
negationem, idest, particularem negativam. Verbi gratia: putasne omnis bomo
est sapiens? Si vera est ista responsio,
non; - affirmativa similis interrogatæ quam quis ex hac responsione
inferre intentaret est illa: igitur
omnis bomo est non sapiens. Hæc autem
non sequitur ex illa negatione. Falsum est enim
hoc, scilicet quod sequitur ex illa responsione; sed. inferendum est,
igitur non ommis bomo sapiens est.- Et ratio utriusque
est, quia hæc particularis ultimo illata est opposita, idest contradictoria
illi universali interrogatæ quam
respondens falsificavit; et ideo oportet quod sit vera. Contradictoriarum enim si una est falsa, reliqua est
vera. Illa vero, scilicet universalis
affirmativa infinita primo illata,
est contraria illi eidem
universali interrogatæ. Non est autem opus quod si
universalium altera sit falsa, quod
reliqua sit vera. In promptu est autem causa huius diversitatis inter
singulares et universales. In singularibus enim
varius negationis situs non variat quantitatem enunciationis; in
universalibus autem variat, ut patet. Ideo fit ut de se patet.
non sit eadem veritas negantium
universalem in quarum altera præponitur,
in altera autem postponitur negatio,
ut 5. Deinde cum dicit: ΠΙᾺ vero secundum. infinita. etc., solvit tertiam dubitationem, an infinita
nomina vel verba sint negationes. Insurgit autem hoc dubium, quia
dietum est quod æquipollent negativa et infinita. Et rursus dictum est nunc quod non refert in
singularibus præponere et postponere negationem: si enim infinitum nomen est
negatio, tunc enunciatio, habens subiectum infinitum vel prædicatum, erit
negativa et non afhrmativa. Hanc dubitationem solvit per interpretationem, probando quod nec nomina nec verba infinita
sint negationes, licet videantur. Unde duo circa hoc facit: primo, pro: ponit solutionem dicens: Illæ vero, scilicet
dictiones, conPCT 94 II iraiacenies: verbi gratia: mom bomo, et, bomo
non iustus et iustus. Vel sic: Illæ vero, scilicet dictiones,
secundum infinita, idest secundum infinitorum naturam, iacentes contra nomina et verba. (utpote quæ removentes
quidem nomina et verba significant, ut
som bomo et mon iustus et mon currit, quæ
opponuntur contra ly bomo, ly iustus et ly
currit), illæ, inquam, dictiones infinitæ videbuntur prima facie
esse quasi negationes sine nomine
et verbo ex eo quod comparatæ nominibus
et verbis contra quæ iacent, ea removent, sed non sunt secundum veritatem. Dixit sine nomine et verbo quia nomen infinitum,
nominis natura caret, et verbum infinitum verbi natura non possidet. Dixit
quasi, quia nec nomen infinitum a nominis ratione, nec verbum infinitum a verbi proprietate
omnino semota sunt. Unde, si negationés apparent, videbuntur sine
nomine et verbo non omnino sed quasi.
Deinde probat distinctiones infinitas non esse negationes tali ratione.
Semper est necesse negationem esse veram vel falsam, quia negatio est enunciatio
alicuius ab aliquo; nomen autem
infinitum non dicit verum vel fal sum;
igitur dictio infinita non est negatio. - Minorem declarat, quia. qui dixit, mom bomo, nihil
magis de homine dixit quam qui dixit, bomo. Et quoad significatum quidem clarissimum est: non bomo, namque,
nihil addit supra hominem, imo removet
hominem. Quoad veritatis vero vel falsitatis
conceptum, nihil magis profuit qui
dixit, non bomo, quam qui dixit, bomo, si aliquid aliud non
addatur, imo minus verus vel falsus fuit, idest magis remotus a veritate et falsitate, qui
dixit, wom bomo, quam qui dixit, homo:
quia tam veritas quam falsitas in compositione consistit; compositioni autem
vicinior est dictio finita, quæ aliquid ponit, quam dictio
infinita, quæ nec ponit, nec componit,
idest nec positionem nec compositionem
importat. 6. Deinde cum dicit:
Significat autem. etc., respondet quartæ
dubitationi, quomodo scilicet intelligatur illud verbum supradictum de enunciationibus
habentibus subiectum infinitum: Hæ autem. extra. illas, ipsæ secundum se
erunt. Et ait quod intelligitur quantum ad significati consequentiam, et non solum quantum ad ipsas
enunciationes formaliter. Unde duas habentes subiectum infinitum, universalem
scilicet affirmativam et universalem negativam adducens, ait quod neutra earum
significat idem alicui illarum, scilicet
habentium subiectum finitum. Hæc
enim universalis affirmativa, omnis nom bomo est iustus, nulli habenti subiectum finitum significat
idem: non enim significat idem quod
ista, omnis bomo est iustus ; neque quod
ista, omnis bomo est non iustus. Similiter opposita negatio et universalis negativa habens subiectum
infinitum, quæ est contrarie opposita
supradictæ, scilicet omnis non bomo non
est iustus, nulli illarum de subiecto finito significat idem. Et hoc clarum est ex diversitate subiecti in
istis et in illis. Deinde cum dicit: Illa vero quæ est etc., respondet quintæ
quæstioni, an scilicet inter enunciationes de
subiecto infinito sit aliqua consequentia. Oritur autem dubitatio hæc ex eo, quod superius est inter
eas ad invicem assignata consequentia. Ait ergo quod etiam inter istas
est consequentia. Nam universalis
affirmativa de subiecto et prædicato
infinitis et, universalis negativa de
subiecto infinito, prædicato vero finito, æquipollent. Ista namque, omnis non bomo est mon iustus, idem
significat illi; cium
nullus non. bomo est iustus. Idem autem est iudide particularibus
indefinitis et singularibus similibus supradictis. Cuiuscunque enim quantitatis
sint, semper affirmativa de utroque extremo infinita et negativa subiecti quidem infiniti, prædicati autem
finiti, æquipollent, ut facile potes exemplis videre. Unde Aristoteles
universales exprimens, cæteras ex illis intelligi voluit. 8. Deinde cum dicit: Transposita vero nomina.
etc., solvit sextam dubitationem, an
propter nominum vel verborum transpositionem varietur enunciationis
significatio. Oritur autem hæc quæstio
ex eo, quod docuit transpositionem negationis variare enunciationis
significationem. Aliud enim dixit
significare, ommis bomo mon est iustus,
et aliud, non omnis bomo est
iustus. Ex hoc, inquam, dubitatur, an. similiter contingat circa nominum
transpositionem, quod ipsa transposita enunciationem varient, sicut negatio transposita. Et circa hoc duo
facit: primo, ponit solutionem dicens,
quod transposita nomina et verba idem
significant: verbi gratia, idem significat, est
albus homo, et, est bomo albus, ubi est transpositio nominum. Similiter
transposita verba idem significant, ut, est
albus bomo, et, bomo albus est. 9.
Deinde cum dicit: Nam si boc mon est etc., probat prædictam solutionem ex numero negationum
contradictoriarum ducendo ad impossibile, tali ratione. Si hoc non est, idest si nomina transposita
diversificant enunciationem, eiusdem affirmationis erunt duæ negationes;
sed ostensum est in I libro *, quod una
tantum est negatio unius affirmationis; ergo a destructione consequentis ad destructionem antecedentis transposita
nomina non variant enunciationem. Ad
probationis autem consequentiæ claritatem formetur figura, ubi ex uno latere
locentur ex ambæ suprapositæ affirmationes, transpositis
nominibus ; et altero contraponantur duæ negativæ, similes
illis quoad terminos et eorum
positiones. Deinde, aliquantulo
interiecto spatio, sub affirmativis ponatur affirmatio infiniti
subiecti, et sub negativis illius negatio. Et notetur contradictio inter primam affirmationem et
duas negationes primas, et inter secundam aflirmationem et omnes tres
negationes, ita tamen quod inter ipsam et infimam negationem notetur contradictio non vera, sed
imaginaria. Notetur quoque contradictio inter tertiam affirmationem et tertiam
negationem inter se. Hoc modo: Est
albus homo Est homo
albus Est non homo albus
His ita dispositis, probat consequentiam Aristoteles sic. Illius affirmationis, est albus bomo, negatio
est, mom est albus bomo ; ilius autem
secundæ affirmationis, quæ est, est bomo
albus, si ista affirmatio non est eadem illi
. supradictæ affirmationi,
scilicet, est albus bomo, propter Non
est albus - Coníradictoriæ — e o
C o cn —"
s * nalf
e bi 7.
dde Kn Gontradictoriæ EN “Ὁ
36 b" Contradictoriæ homo Non est homo
albus Non est non homo albus
Lect. xir. CAP. X, nominum transpositionem, negatio erit altera
istarum, scilicet aut, non est non bomo
albus, aut, non est bomo albus. Sed utraque habet affirmationem oppositam alia
ab illa assignatam, scilicet, est bomo
albus. Nam altera quidem dictarum negationum, scilicet, nom est mon bomo albus,
negatio est illius quæ dicit, est mom bomo albus; alia vero, scilicet, »on est bomo albus,
negatio est eius affirmationis, quæ
dicit, est albus bomo, quæ fuit prima
affirmatio. Ergo quæcunque dictarum negationum afferatur contradictoria
illi mediæ, sequitur quod sint duæ
unius, idest quod unius negationis sint duæ affirmationes, et quod unius
affirmationis sint duæ negationes: quod
est impossibile. Et hoc, ut dictum est, sequitur stante hypothesi erronea, quod illæ affBrmationes
sint propter nominum transpositionem
diversæ. 10. Adverte hic primo quod Aristoteles per illas
duas negationes, non est non bomo albus,
et, non est bomo albus, sub disiunctione sumptas ad inveniendam
negationem | *
Lect. xi, n. 5 "seq. e ΤΡ) DOR
illius affirmationis, est bomo albus, cæteras intellexit, quasi diceret: Aut negatio talis affirmationis
acceptabitur illa uæ est vere eius
negatio, aut quæcunque extranea negatio ponetur; et quodlibet dicatur, semper,
stante hypothesi, sequitur unius
affirmationis esse plures negationes, unam
veræ quæ est contradictoria suæ comparis habentis nomina transposita, et
alteram quam tu ut distinctam acceptas, vel falso imaginaris; et e contra
multarum affirmationum esse unicam negationem, ut patet in apposita figura, Ex quacunque enim illarum quatuor
incipias, duas sibi oppositas aspicis.
Unde notanter concludit indeterminate: Quare erunt duæ unius. 11.
Nota secundo quod Aristoteles contempsit probare quod contradictoria
primæ affirmationis sit contradictoria secundæ, et similiter quod
contradictoria secundæ affirmationis sit contradictoria primæ. Hoc enim accepit tamquam per se notum, ex eo quod non
possunt simul esse veræ neque simul falsæ,
ut manifeste patet præposito sibi
termino singulari. Non stant enim simul aliquo modo istæ
duæ, Socrates est albus bomo, Socrates non
est bomo albus. Nec turberis quod eas non singulares proposuit. Noverat
enim supra dictum esse in Primo * quæ
LECT. IV 95 affirmatio et negatio sint contradictoriæ et
quæ non, et ideo non fuit sollicitus de
exemplorum claritate. Liquet ergo ex eo
quod negationes affirmationum de
nominibus transpositis non sunt diversæ quod nec ipsæ affirmationes sunt diversæ et sic nomina et
verba transposita idem significant.
I2. Occurrit autem dubium circa
hoc, quia non videtur verum quod nominibus transpositis eadem sit affirmatio.
Non enim valet: omnis bomo est animal; ergo
omne animal est bomo. Similiter, transposito verbo, non valet: bomo est amimal rationale; ergo bomo
animal rationale est, de secundo adiacente. Licet enim nugatio committatur,
tamen non sequitur primam. Ad hoc est
dicendum quod sicut in rebus naturalibus
est duplex transmutatio, scilicet
localis, scilicet de loco ad locum, et
formalis de forma ad foit? ita in enunciationibus est duplex transmutatio,
situalis scilicet, quando terminus præpositus
postponitur, et e converso, et formalis, quando terminus, qui erat prædicatum
efficitur subiectum, et e converso vel
quomodolibet, simpliciter etc.- Et sicut quandoque fit in naturalibus
transmutatio pure localis, puta quando
res transfertur de loco ad locum, nulla
alia variatione facta; quandoque autem
fit transmutatio secundum locum, non pura sed cum variatione formali, sicut quando transit
de'loco frigido ad locum calidum: ita in enunciátionibus
quandoque fit transmutatio pure
situalis, quando scilicet nomen vel
verbum solo situ vocali variatur; quandoque autem fit transmutatio situalis et formalis simul,
sicut contingit cum prædicatum fit subiectum, vel cum verbum
tertium adiacens fit secundum. - Et quoniam hic intendit Aristoteles de
transmutatione nominum et verborum pure situali, ut transpositionis vocabulum
præsefert, ideo dixit quod transposita
nomina et verba idem significant, insinuare volens quod, si nihil aliud præter
transpositionem nominis vel verbi
accidat in enunciatione, eadem manet
oratio.- Unde patet responsio ad instantias. Manifestum est namque quod in utraque non sola
transpositio fit, sed transmutatio de
subiecto in prædicatum, vel de tertio adiacente in secundum. Et per hoc patet
responsio ad similia. LECTIO Cann.
CargraNr lect, ui). DE MULTIPLICITATE
ENUNCIATIONUM IUXTA QUOSDAM MODOS, QUIBUS NON UNAM, SED PLURES ESSE CONTINGIT UNAM
ENUNCIATIONEM. ^" B Té δὲ ἕν κατὰ πολλῶν ἢ πολλὰ καθ᾽ ἑνὸς χαταφάναι
ἢ ἀποφάναι, ἐὰν uw ἕν τι ἡ τὸ ἐκ τῶν πολλῶν δηλούμενον, οὐχ ἔστι κατάφασις μία οὐδὲ ἀπόφασις. Λέγω δὲ ἕν οὐχ ἐὰν ὄνομα ἕν ἢ κείμενον, pm ἦ δὲ ἕν
τι
ἐξ ἐχείνων, olov, ὁ ἄνθρωπος ἴσως ἐστὶ καὶ ζῷον καὶ δίπουν καὶ ἥμερον, ἀλλὰ x«l ἕν τι γίνεται ἐκ τούτων’ Ex δὲ τοῦ λευχοῦ, xai τοῦ ἀνθρώπου, καὶ τοῦ βαδίζειν, οὐχ ἕν: ὥστε οὔτε ἐὰν ἕν τι x&v. τούτων καταφήσῃ τις; μία κατάφασις, ἀλλὰ φωνὴ μὲν μία, καταφάσεις δὲ πολλαί: οὔτε ἐὰν καθ’ ἑνὸς
ταῦτα, ἀλλ᾽ ὁμοίως πολλαί. Εἰ οὖν ἡ ἐρώτησις ἡ διαλεχτιχὴ ἀποχρίσεώς ἐστιν αἴτησις) ἢ τῆς προτάσεως, ἢ θατέρου μορίου τῆς ἀντι' φάσεως; ἡ δὲ πρότασις ἀντιφάσεως μιᾶς μόριον, οὐκ
ἂν εἴη ἀπόχρισις μία πρὸς ταῦτα" οὐδὲ γὰρ ἡ ἐρώτῆσις
μία, οὐδὲ ἐὰν ἡ ἀληθής" εἴρηται δὲ ἐν τοῖς Τοπικοῖς περὶ αὐτῶν. "Apa δὲ δῆλον
ὅτι οὐδὲ τὸ τί ἐστιν ἐρώτησίς ἐστι διαλεκτική, Δεῖ
dp δεδόσθαι ix τῆς ἐρωτήσεως ἑλέσθαι, ὁπότερον βούλεται τῆς ἀντιφάσεως μόριον ἀποφήνασθαι. ᾿Αλλὰ εἴ
τὸν
ἐρωτῶντα προσδιορίσασθαι, πότερον τόδε ἐστὶν ὁ ἄνθρωπος, ἢ οὐ τοῦτο. jtem
enunciationis unius provenientem ex
additione negationis infinitatis, hic intendit D determinare quid accidat enunciationi ex
hoc quod additur aliquid subiecto vel prædicato
tollens eius unitatem. Et circa hoc duo facit: quia *
* * Lect. seq.
Num. 4. Lect. vri, n. 12 seq.
Porphyrius. primo, determinat
diversitatem earum ; secundo, consequentias earum; ibi: Quoniam vero bæc quidem
* etc. Circa primum duo facit: primo,
ponit earum diversitatem; secundo,
probat omnes enunciationes esse plures; ibi:
Si ergo dialectica * etc.- Dicit ergo quoad primum, resumendo quod in Primo dictum fuerat *, quod affirmare
vel negare unum de pluribus, vel plura
de uno, si ex illis pluribus: non fit
unum, non est enunciatio una affirmativa vel negativa. Et declarando quomodo intelligatur unum debere esse subiectum aut prædicatum, subdit quod
unum dico non si nomen unum impositum
sit, idest ex unitate nominis, sed ex
unitate significati. Cum enim plura conveniunt
in uno nomine, ita quod ex eis non fiat unum illius nominis significatum, tunc solum vocis unitas
est. Cum autem unum nomen pluribus impositum est, sive
partibus subiectivis, sive integralibus, ut eadem significatione concludat, tunc et vocis et significati
unitas est, et enunciationis unitas non impeditur. 2.
Secundum quod subiungit: Ut bomo est fortasse animal et mansuelum et
bipes obscuritate non caret. Potest enim
intelligi ut sit exemplem ab opposito, quasi diceret: unum dico non ex unitate nominis impositi pluribus
ex quibus non fit tale unum, quemadmodum
homo est unum quoddam ex animali et mansueto et bipede, partibus suæ
definitionis. Et ne quis crederet quod hæ essent veræ definitionis nominis
partes, interposuit, fortasse. Porphyrius
autem, Boethio referente et approbante, separat has textus particulas, dicens quod Aristoteles hucusque
declaravit enunciationem illam esse
plures, in qua plura subiicerentur uni, vel de uno prædicarentur plura, ex
quibus non fit unum. In istis autem
verbis: Ut bomo est fortasse etc.,
* At vero unum de pluribus, vel
plura de uno affirmare, vel negare, si
non sit unum aliquid quod ex pluribus
significatur, non est affirmatio neque negatio una. Dico autem unum, non si unum nomen positum sit,
non sit autem unum aliquid ex illis, ut
homo est fortasse et animal et bipes et mansuetum, sed ex his unum fit, ex albo autem et homine et ambulare, non est unum;
quare nec si unum aliquid de his affirmet aliquis, erit
affirmatio una: sed vox quidem una, affirmationes vero multæ, nec si de uno ista, sed similiter
plures, Si ergo dialectica interrogatio
responsionis est petitio vel
propositionis vel alterius partis contradictionis, propositio vero unius
contradictionis est pars, non erit una
responsio ad hæc. Neque enim interrogatio una, nec si sit
vera. Dictum est autem de his in
Topicis. Simul autem manifestum est, quod nec hoc ipsum, quid est, dialectica
interrogatio est. Oportet enim datum esse ex interrogatione eligere, utram velit contradictionis partem
enunciare: sed oportet interrogantem
determinare utrum hoc sit homo, an non hoc.
intendit declarare enunciationem aliquam esse plures, in qua plura ex quibus fit unum subiiciuntur vel
prædicantur; sicut cum dicitur, bomo est animal et mansuetum.| et bipes, copula interiecta, vel morula, ut
oratores faciunt. Ideo autem addidisse aiunt, fortasse, ut insinuaret
hoc contingere posse, necessarium autem
non esse. 3. Possumus in eamdem
Porphyrii, Boethii et AIberti sententiam incidentes subtilius textum
introducere, ut quatuor hic faciat. Bs Et
primo quidem, resumit quæ sit enunciatio in communi dicens: Enunciatio plures
est, in. qua unum de pluribus, vel plura
de uno. enunciantur. Si tamen ex illis pluribus non fit
unum, ut in Primo * dictum et expositum fuit.
Deinde dilucidat illum terminum de uno, sive unum, dicens: Dico autem unum, idest, unum nomen
voco, non propter unitatem vocis, sed
significationis, ut supradictum est.
Deinde tertio, dividendo declarat, et declarando dividit, quot modis
contingit unum nomen imponi pluribus ex
quibus non fit unum, ut ex hoc diversitatem enunciationis multiplicis insinuet.
Et ponit duos modos, quorum prior est,
quando unum nomen imponitur pluribus ex
quibus fit unum, non tamen in quantum ex eis fit unum. Tunc enim, licet materialiter et per accidens
loquendo nomen imponatur pluribus ex
quibus fit unum, formaliter tamen et per
se loquendo nomen unum imponitur pluribus, ex quibus non fit unum: quia imponitur
eis non in quantum ex eis est unum, ut
fortasse est hoc nomen, bomo, impositum
ad significandum animal et mansuetum et
bipes, idest, partes suæ definitionis, non in quantum adunantur in unam hominis naturam per modum
actus et
potentiæ, sed ut distinctæ sint inter se actualitates. Et insinuavit quod accipit partes
definitionis ut distinctas per illam
coniunctionem, et per illud quoque * adversative additum: Sed si ex bis unum fit, quasi
diceret, cum hoc tamen stat quod ex eis
unum fit. Addidit autem, fortasse, quia
hoc nomen, bomo, non est impositum ad signifi Cap. xr. Porphyrius.
Boethius. Albertus. . Lect. cit.
Ed. quoque. c
omittit candum partes sui
definitivas, ut distinctæ sunt. Sed si
impositum esset aut imponeretur, esset unum nomen pluribus impositum ex quibus non fit unum. Et
quia idem iudicium est de tali nomine,
et illis pluribus; ideo similiter illæ
plures partes definitivæ possunt dupliciter
accipi. Uno modo, per modum actualis et possibilis, et sic unum faciunt; et sic formaliter loquendo
vocantur plura, ex quibus fit unum, et
pronunciandæ sunt continuata oratione, et faciunt enunciationem unam
dicendo, animal rationale mortale
currit. Est enim ista una sicut et ista, bomo currit. Alio modo, accipiuntur prædictæ definitionis partes ut distinctæ sunt inter
se actualitates, et sic non faciunt unum: ex duobus enim actibus ut
sic, non fit unum, ut dicitur VII Metaphysicæ ; et sic faciunt enunciationes plures et
pronunciandæ sunt vel cum pausa, vel
coniunctione interposita, dicendo, bomo
est animal et mansuetum. οἱ bipes ; sive, bomo est animal, mansuetum, bipes, rethorico more. Quælibet
enim istarum est enunciatio multiplex.
Et similiter ista, Socrates est bomo, si homo est impositum ad illa, ut
distinctæ — *
* Pm E WC acm οὐ
ORI οτὔὖὦο
UPS δ... δου, Lect. xit, n.
9. Num. 8. RESP
actualitates sunt, significandum. Secundus autem modus, quo unum nomen impositum est pluribus
ex quibus non fit unum, subiungitur, cum dicit: Ex albo autem et bomine. et
ambulante etc., idest, alio modo hoc fit,
quando unum nomen imponitur pluribus, ex quibus non potest fieri unum, qualia sunt: bomo, album,
et ambulans. Cum enim ex his nullo modo possit fieri aliqua una natura, sicut poterat fieri ex partibus definitivis,
clare liquet quod nomen aliquod si eis
imponeretur, esset nomen non unum significans, ut in Primo dictum fuit *
de hoc nomine, íumica, imposita homini
et equo. 4. Habemus ergo enunciationis
pluris seu multiplicis duos modos,
quorum, quia uterque fit dupliciter, efficiuntur quatuor modi. Primus est,
quando subiicitur vel prædicatur unum
nomen impositum pluribus, ex quibus fit
unum, non in quantum sunt unum; secundus est,
quando ipsa plura ex quibus fit unum, in quantum sunt distinctæ actualitates, subiiciuntur vel prædicantur;
tertius est, quando ibi est unum nomen impositum pluribus ex quibus non fit unum; quartus est, quando
ista plura ex quibus non fit unum,
subiiciuntur vel prædicantur. Et notato
quod cum enunciatio secundum membra divisionis
ilius, qua divisa est, in unam et plures, quadrupliciter variari poss't, scilicet cum unum de uno prædicatur,
vel unum de pluribus, vel plura de uno,
vel plura de pluribus; postremum sub silentio præterivit, quia vel eius pluralitas de se clara est, vel quia, ut
inquit Albertus, non intendebat nisi de
enunciatione, quæ aliquo modo una est,
tractare. Demum concludit totam sententiam,
dicens: Quare nec si aliquis affirmet unum. de bis pluribus, erit affirmatio una secundum. rem: sed
vocaliter quidem erit una, significative
autem non una, sed multæ fient affirmaliones. Nec si e converso de uno ista plura. affrmabuntur,
fiet affirmatio una. Ista namque, bomo est albus,
ambulans et musicus, importat tres
affirmationes, scilicet, bomo est albus et est ambulans et est musicus, ut
patet ex illius contradictione. Triplex
enim negatio ili opponitur correspondens triplici affirmationi positæ. 5. Deinde cum dicit: Si ergo dialectica etc.,
probat a posteriori supradictas
enunciationes esse plures. Circa quod
duo facit: primo, ponit rationem ipsam ad hoc probandum per modum consequentiæ;
deinde probat antecedens dictæ consequentiæ; ibi: Dictum est autem de his* etc. Quoad primum talem rationem
inducit. Si interrogatio dialectica est petitio responsionis, quæ sit
propositio vel altera pars contradictionis, nulli enunciationum supradictarum interrogative formatæ erit
responsio una; ergo nec ipsa
interrogatio est una, sed plures. Cuius raOpp. D. Tnowas T. I. 9y
tionis primo ponit antecedens: Si ergo etc. Ad huius intelligendos
terminos nota quod idem sonant enunciatio, interrogatio et responsio. Cum enim
dicitur, cælum est animatum, in quantum
enunciat prædicatum de subiecto,
enunciatio vocatur; in quantum autem quærendo proponitur, interrogatio;
ut vero quæsito redditur, responsio appellatur. Idem ergo erit probare non esse
responsionem unam, et interrogationem
non esse unam, et enunciationem non esse unam. Adverte secundo interrogationem esse
duplicem. Quædam enim est
utram partem contradictionis eligendam proponens; et hæc vocatur
dialectica, quia dialecticus habet viam
ex probabilibus ad utramque
contradictionis partem probandam. Altera
vero determinatam ad unum responsionem exoptat; et hæc est interrogatio
demonstrativa, eo quod demonstrator in unum
determinate tendit. Considera ulterius quod interrogationi dialecticæ dupliciter responderi potest. Uno
modo, consentiendo interrogationi, sive affirmative sive negative; ut si
quis petat, cælum est animatum? et respondeatur, est; vel, Deus non movelur? et respondeatur,
mon: talis responsio vocatur propositio.
Alio modo, potest responderi interimendo; ut si quis petat, cælum est
animatum, et respondeatur, non; vel Deus non movetur? et
respondeatur, movetur: talis responsio vocatur contradictionis altera pars, eo quod affirmationi negatio
redditur et negationi affirmatio. Interrogatio ergo dialectica est petitio annuentis responsionis, quæ est propositio,
vel contradicentis, quæ est altera pars contradictionis secundum supradictam
Boethii expositionem. 6. Deinde subdit probationem
consequentiæ, cum ait: Propositio vero
unius contradictionis est etc. Ubi notandum
est quod si responsio dialectica
posset esse plures, non sequeretur quod
responsio enunciationis multiplicis non
posset esse dialectica; sed si responsio dialectica non potest esse nisi una enunciatio, tunc recte
sequitur quod responsio enunciationis
pluris, non est responsio dialectica, quæ una est. Notandum etiam quod si
enunciatio aliqua plurium contradictionum
pars est, una non esse comprobatur: una
enim uni tantum contradicit. Si autem
unius solum contradictionis pars est, una est eadem ratione, quia
scilicet unius affirmationis unica est negatio,
et e converso. Probat ergo Aristoteles consequentiam ex eo quod propositio, idest responsio
dialectica unius contradictionis est, idest una enunciatio est affirmativa
vel negativa. Ex hoc enim, ut iam dictum
est, sequitur quod nullius enunciationis
multiplicis sit responsio dialectica,
et consequenter nec una responsio
sit. Nec prætereas quod cum
propositionem, vel alteram partem contradictionis, responsionemque præposuerit
dialecticæ interrogationis, de sola propositione subiunxit, quod est una; quod ideo fecit, quia illius alterius
vocabulum ipsum unitatem præferebat. Cum
enim alteram contradictionis partem
audis, unam affirmationem vel negationem statim
intelligis. Adiunxit autem
antecedenti ly ergo, vel insinuans hoc
esse aliunde sumptum, ut
postmodum in speciali explicabit, vel, permutato situ, notam consequentiæ huius
inter antecedens et consequens locandam, antecedenti præposuit; sicut si
diceretur, si ergo Socrates currit, movetur ;
pro eo quod dici deberet, si Socrates currit, ergo. movetur. Sequitur deinde consequens: Nom erit una
responsio ad boc ; et infert principalem
conclusionem subdens, Quod neque una
erit interrogatio etc. Si
enim responsio non potest esse una, nec
interrogatio ipsa una erit. Quod autem
addidit: Nec si sit vera, eiusmodi est.
Posset aliquis credere, quod licet interrogationi pluri non possit dari responsio una, quando id de quo
quæstio fit non potest de omnibus illis
pluribus affirmari vel neBoethius.
13* TAS 98
gari (ut cum quæritur, canis est animal? quia non potest vere de omnibus responderi, est, propter cæleste
sidus, nec vere de omnibus responderi,
som est, propter canem latrabilem, nulla
possit dari responsio una); attamen quando id quod sub interrogatione cadit
potest vere de omnibus affirmari aut
negari, tunc potest dari responsio una; ut
si II nec ipsa quæstio quid est, est interrogatio
dialectica: verbi gratia; si quis quærat,
quid est amimal? talis non quærit
dialectice. Deinde subiungit probationem assumpti, scilicet quod ipsum quid
est, non est quæstio dialectica; et intendit quod quia interrogatio dialectica
optionem respondenti offerre debet, utram velit contradictionis quæratur, camis est substantia? quia potest
vere de omnibus responderi, esí, quia
esse substantiam omnibus canibus convenit, unica responsio dari possit.
Hanc erroneam existimationem removet
dicens: Nec si sit vera, idest, et dato
quod responsio data enunciationi multiplici
de omnibus verificetur, nihilominus non est una, quia unum non significat, nec unius
contradictionis est pars, sed plures responsio
illa habet contradictorias, ut de se patet.
8. Deinde cum dicit: Dictum est autem de bis in Topicis etc., probat
antecedens dupliciter: primo, auctoritate
eorum quæ dicta sunt in Topicis; secundo, a signo. Et circa hoc duo facit. Primo, ponit ipsum
signum, dicens: Quod similiter etc., cum
auctoritate Topicorum, manifestum est,
scilicet, antecedens assumptum, scilicet quod dialectica interrogatio est petitio responsionis
affirmativæ vel neQuoniam nec ipsum quid est, idest ex eo quod gativæ.
partem, et ipsa quæstio quid est talem libertatem non proponit (quia cum dicimus, quid est animal?
respondentem ad definitionis assignationem coarctamus, quæ non solum ad unum determinata est, sed etiam omni
parte contradictionis caret, cum nec
esse, nec non esse dicat); ideo ipsa quæstio quid est, non est dialectica
interrogatio. Unde dicit: Oportet enim ex data, idest ex proposita
interrogatione dialectica, hunc respondentem eligere posse utram velit contradictionis partem,
quam contradictionis utramque partem interrogantem oportet determinare, idest
determinate proponere, hoc modo: Utrum. boc
animal sit bomo an mon: ubi evidenter apparet optionem respondenti offerri. Habes ergo pro signo cum
quæstio dialectica petat responsionem
propositionis, vel alterius
contradictionis partem, elongationem quæstionis quid est a quæstionibus
dialecticis. CAP. , LECT. LECTIO
(Canp. CargTANr lect. 1v) EX.
ALIQUIBUS DIVISIM. PRÆDICATIS DE SUBIECTO SEQUITUR ENUNCIATIO. DE EISDEM CONIUNCTIM IN EODEM SUBIECTO, EX ALIQUIBUS
AUTEM NON SEQUITUR "Excel δὲ τὰ μὲν κατηγορεῖται συντιθέμενα, ὡς ἕν τὸ πᾶν
κατηγόρημα τῶν χορὶς κατηγορουμένων; τὰ δ᾽ οὔ: τίς ἡ διαφορά; κατὰ γὰρ τοῦ ἀνθρώπου ἀληθὲς εἰπεῖν καὶ χωρὶς ζῷον, καὶ χωρὶς δίπουν, καὶ ταῦτα ὡς fv καὶ
ἄνθρωπον, καὶ λευκόν, καὶ ταῦθ᾽ ὡς ἕν. * 99
Quoniam vero hæc quidem prædicantur composita, ut ' Seq. c. x. unum omne prædicatum fiat eorum quæ extra prædicantur,
alia vero non; quæ differentia est? De homine enim verum est dicere, εἴ extra animal, et extra bipes; et hæc ut unum: et, hominem, et,
album; et 'AXX οὐχί; εἰ ὀκυτεὺς καὶ ἀγαθός, xal σκυτεὺς ἀγαθός. Εἰ γάρ, ὅτι ἑκάτερον ἀληθές, εἶναι δεῖ καὶ τὸ συνάμφω, πολλὰ καὶ ἄτοπα ἔσται. Κατὰ γὰρ τοῦ ᾿ἀνθρώπου καὶ τὸ ἄνθρωπος ἀληθὲς καὶ τὸ λευχόν- ὥστε xal τὸ «muy. Πάλιν, εἰ τὸ λευκὸν αὐτό, καὶ τὸ ἅπαν, στε ἔσται ἄνθρωπος λευχὸς λευχός, καὶ τοῦτο εἰς ἄπειgov. Καὶ πάλιν μουσικός, λευχός, βαδίζων" καὶ ταῦτα πολλάκις πεπλεγμένα εἰς ἄπειρον. "Ect, εἰ ὁ Zoxpdτῆς τῆς Σωχράτης καὶ ἄνθρωπος, καὶ Σωχράτης Σωχράἄνθρωπος.
Καὶ εἰ ἄνθρωπος, καὶ δίπους" καὶ ἄνθρωπος ἄνθρωπος δίπους"
Ὅτι μὲν οὖν, εἴ τις ἁπλῶς φήσει τὰς συμπλοχοὶς γίνεσθαι, πολλὰ συμβαίνει λέεἰν Τῶν ἄτοπα, δῆλον. Ὅπως δὲ θετέον, λέγωμεν νῦν. αὐτοῦ δὴ κατηγορουμένων καὶ ἐφ᾽ οἷς χατηγορεῖσθται συμβαίνει, ὅσα μὲν λέγεται κατὰ συμβεβηκὸς ἢ κατὰ τοῦ ἢ θάτερον xavd
θατέρου, ταῦτα οὐχ ἔσται ἕν, οἷον ἄνθρωπος λευχός ἐστι xxl μουσιχός., ἀλλ᾽ οὐχ ἕν τὸ λευκὸν καὶ τὸ μουσικόν"
συμβεβηκότα γὰρ ἄμφω τῷ αὐτῷ. Οὐδ᾽ εἰ τὸ λευκὸν μουσικὸν ἀληθὲς εἰπεῖν, ὅμως οὐχ ἔσται τὸ μουσικὸν λευκὸν ἕν cv χατὸὰ συμβεβηκὸς γὰρ τὸ μουσικὸν λευχόν"
ὥστε οὐκ ἔσται τὸ λευχὸν μουσικὸν ἕν τι. Διὸ οὐδ᾽ ὁ σχυτεὺς ἁπλῶς ἀγαθὸς, ἀλλὰ ζῷον δίπουν. οὐ γὰρ κατὰ συμβεβηκός. Ἔτι οὐδ᾽ ὅσα ἐνυπάρχει ἐν τῷ ἑτέρῳ. Διὸ οὔτε τὸ λευκὸν πολλάχις, οὔτε ὁ ἄνθρωπος ἄνθρωπος ξῷόν ἐστιν ἢ δίπουν"
ἐνυπάρχει γὰρ ἐν τῷ ἀνθρώπῳ τὸ ζῷον καὶ τὸ δίπουν.
vá aJ yostquam declaravit diversitatem
multiplicis enunciationis, intendit
determinare de earum consequentiis. Et
circa hoc duo facit, secundum duas dubitationes quas solvit. Secunda incipit; ibi: Verum autem est dicere * etc.
Circa primum tria facit: primo, proponit
quæstionem; secundo ostendit rationabilitatem
quæstionis; ibi: Si enim quoniam * etc.; tertio, solvit eam ; ibi: Eorum igitur
** etc. Est ergo dubitatio prima: Quare
ex aliquibus divisim prædicatis de uno sequitur enunciatio, in qua illamet unitæ prædicantur de eodem, et ex aliquibus non. Unde hæc diversitas oritur? Verbi gratia; ex istis,
Socrates est amimal et est bipes ; sequitur, ergo Socrates est. animal. bipes
; et similiter ex istis, Socrates est
bomo et est albus; sequitur, ergo
Socrates est bomo albus. Ex illis vero, Socrates est bonus, et.
est. citbaroedus ; non sequitur,
ergo est bonus citbaroedus. Unde
proponens quæstionem inquit: Quoniam vero bæc,
scilicet prædicta, ita prædicantur composita, idest coniuncta, ut unum
sit prædicamentum quæ extra prædicantur, idest, ut ex eis extra prædicatis
unite fiat prædicatio, alia vero prædicata non sunt talia, quæ est inter differentia; unde talis innascitur
diversitas? Et subdit exempla iam adducta, et ad propositum applicata:
quorum primum continet prædicata ex
quibus fit unum per se, hæc est
ut et unum.
Sed non si citharoedus (coriarius) bonus, etiam citharoedus ('coriarius)
bonus. Si enim quoniam utrunque, verum,
esse oportet et simul utrunque multa
inconvenientia erunt. De homine enim
verum est et hominem, et album dicere; quare et omne. Rursus si album, et omne. Quare erit
homo albus albus; et hoc in infinitum.
Et rursus musicus albus ambulans; et hæc
eadem frequenter implicita in infinitum.
Amplius si Socrates, Socrates est, et homo;
et Socrates Socrates homo; et si
homo et bipes, erit homo homo bipes.
Quod igitur si quis simpliciter dicat
complexiones fieri, plurima inconvenientia contingere manifestum est. Quemadmodum ponendum est
nunc dicimus. Eorum igitur quæ prædicantur, et de quibus prædicari accidit quæcumque secundum accidens dicuntur,
vel de eodem, vel alterum de altero, hæc
non erunt unum; ut, homo albus est et
musicus; sed non est unum album et musicum; accidentia enim sunt utraque eidem.
Nec, si album, musicum verum est dicere,
tamen non erit musicum album unum
aliquid: secundum accidens enim album
musicum dicetur; quare non erit album musicum unum aliquid. Quocirca nec citharoedus (coriarius) bonus
simpliciter; sed animal bipes: non enim
sunt secundum accidens. Amplius nec quæcunque
insunt in alio. Quare neque album frequenter dictum, neque homo homo animal
est, vel bipes; insunt enim in homine
animal et bipes. scilicet, animal et
bipes, genus et differentia; secundum
autem prædicata ex quibus fit unum per accidens, scilicet, bomo albus;
tertium vero prædicata ex quibus neque
unum per se neque unum per accidens inter se fieri sequitur; ut,
cilbaroedus et bonus, ut declarabitur.
2. Deinde cum dicit: Si enim
quoniam etc., declarat veritatem
diversitatis positæ, ex qua rationabilis redditur quæstio: si namque inter prædicata non esset
talis diversitas, irrationabilis esset dubitatio. Ostendit autem hoc ratione ducente ad inconveniens, nugationem
scilicet. Et quia nugatio duobus modis
committitur, scilicet explicite et implicite;
ideo primo deducit ad nugationem explicitam,
secundo ad implicitam; ibi: Amplius, si Socrates etc. Ait ergo quod si nulla est inter quæcumque prædicata
differentia, sed de quolibet indifferenter censetur quod quia alterutrum separatum dicitur, quod utrumque
coniunctim dicatur, multa inconvenientia
sequentur. De aliquo enim homine, puta
Socrate, verum est separatim dicere quod,
homo est, et albus est; quare et omne, idest et coniunctim dicetur,
Socrates est homo albus. Rursus et de eodem
Socrate potest dici separatim quod, est homo albus, et quod, est albus; quare et omne, idest, igitur
coniunctim dicetur, Socrates est homo
albus albus: ubi manifesta est nugatio.
Rursus si de eodem Socrate iterum dicas sepa100
ratim quod, est homo albus albus, verum dices et congrue quod est albus, et secundum hoc, si iterum
hoc repetes separatim, a veritate simili
non discedes, et sic in infinitum sequetur, Socrates est homo albus, albus,
albus in infinitum. Simile quod ostenditur in alio exemplo. Si quis de Socrate dicat quod, est musicus, albus,
ambulans, cum possit et separatim dicere
quod, est musicus, et quod, est II accidens enumerasset, unico tamen exemplo
utrumque membrum explanavit, ut
insinuaret quod distinctio illa non erat
in diversa prædicata per accidens, sed in eadem
diversimode comparata. Album enim et musicum, comparata ad hominem, sub
primo cadunt membro; comalbus, et quod, est ambulans; sequetur, Socrates
est musicus, albus, ambulans, musicus,
albus, ambulans. Et
quia pluries separatim, in eodem tamen tempore, enunciari potest,
procedit nugatio sine fine. Deinde
deducit ad implicitam nugationem, dicens,
cum de Socrate vere dici possit separatim quod,
est homo, et quod, est bipes, si
coniunctim inferre licet, sequetur quod,
Socrates sit homo bipes. Ubi est implicita nugatio. Bipes enim circumloquens
differentiam hominis actu et intellectu clauditur in hominis ratione. Unde ponendo loco hominis suam rationem (quod
fieri licet, ut docet Aristoteles II Topicorum), apparebit
manifeste nugatio. Dicetur enim:
Socrates est homo, idest, animal bipes,
bipes. Quoniam ergo plurima inconvenientia sequuntur si quis ponat
complexiones, idest, adunationes prædicatorum
fieri simpliciter, idest, absque diversitate
aliqua, manifestum est ex dictis. Quomodo autem faciendum est, nunc,
idest, in sequentibus dicemus. Et nota
quod iste textus non habetur uniformiter apud omnes quoad verba, sed quia sententia non discrepat,
legat quicunque ut vult. 3. Deinde cum
dicit: Eorum igitur etc., solvit propositam quæstionem. Et circa hoc duo facit:
primo, respon* *" Num. 11.
Num. 7. det instantiis in ipsa propositione
quæstionis adductis; secundo, satisfacit
instantis in probatione positis; ibi:
Amplius nec quæcumque * etc. Circa
primum duo facit: primo namque, declarat
veritatem ; secundo, applicat ad
propositas instantias; ibi: Quocirca * etc. Determinat ergo dubitationem tali distinctione. Prædicatorum
sive subiectorum plurium duo sunt genera: quædam sunt per accidens, quædam per
se. Si per accidens, hoc dupliciter
contingit, vel quia ambo dicuntur per accidens de uno tertio, vel quia alterum de altero mutuo per
accidens prædicatur. Quando illa plura
divisim prædicata sunt per accidens
quovis modo, ex eis non sequitur coniunctim prædicatum; quando autem sunt per
se, tum ex eis sequitur coniuncte prædicatum.
Unde continuando se de ad
præcedentia ait: Eorum. igitur quæ prædicantur, et quibus prædicantur, idest subiectorum, quæcumque dicuntur secundum accidens (et per hoc innuit
oppositum membrum, scilicet per se), vel
de eodem, idest accidentaliter
concurrunt ad unius tertii denominationem, vel. alterutrum. de altero, idest accidentaliter mutuo se
denominant (et per hoc ponit membra duplicis divisionis), ba:c, scilicet plura per accidens, mom erunt
unum, idest non inferent prædicationem
coniunctam. 4. Et explanat utrumque
horum exemplariter. Et primo, primum,
quando scilicet illa plura per accidens dicuntur de tertio, dicens: Ut si bomo albus est et
musicus. divisim. Sed non est idem,
idest non sequitur adunatim, ergo bomo
est musicus albus. Utraque enim
sunt accidentia eidem tertio. Deinde explanat secundum, quando solum
illa plura per accidens de se mutuo prædicantur,
subdens: Nec si album. musicum. verum
est dicere, idest, et etiamsi de se
invicem ista prædicantur per accidens ratione subiecti in quo uniuntur, ut
dicatur, bomo est albus, et est musicus,
el album est musicum, non tamen sequitur quod
album musicum unite prædicetur, dicendo, ergo bomo est albus musicus. Et causam assignat, quia album
dicitur de musico per accidens, et e
converso. $. Notandum est hic quod cum
duo membra per parata autem inter se,
sub secundo. Diversitatenr ergo
comparationis pluralitate membrorum, identitatem autem prædicatorum unitate exempli astruxit. 6. Advertendum est ulterius, ad evidentiam
divisionis factæ in littera, quod,
secundum accidens, potest dupliciter accipi. - Uno modo, ut distinguitur contra
perseitatem posterioristicam, et sic non sumitur hic: quoniam cum dicitur plura prædicata secundum
accidens, - aut ly secundum accidens
determinaret coniunctionem inter se,
et ma sic manifeste esset falsa regula; quoniam
inter priprædicata, animal bipes, seu, animal rationale, est prædicatio secundum accidens hoc modo
(differentia enim in nullo modo
perseitatis prædicatur de genere, et
tamen Aristoteles in textu dicit ea non esse prædicata per accidens, et asserit quod est optima
illatio, est amimal et bipes, ergo est
animal bipes); - aut determinaret coniunctionem illarum ad subiectum, et sic
etiam inveniretur falsitas in regula: bene namque dicitur, paries est
coloratus, et est visibilis, et tamen
coloratum visibile non per se inest parieti. - Alio modo, accipitur ly secundum
accidens, ut distinguitur contra hoc quod dico, ratione sui, seu, non
propter aliud, et sic idem sonat, quod,
per aliud: et hoc modo accipitur hic. Quæcunque
enim sunt talis naturæ quod non ratione
sui iunguntur, sed propter aliud, ab illatione
coniuncta deficere necesse est, ex eo quod coniuncta illatio unum alteri substernit, et ratione
sui ea adunata denotat ut potentiam et actum. - Est ergo sensus
divisionis, quod prædicatorum plurium,
quædam sunt per accidens, quædam per se,
idest, quædam adunantur inter se ratione
sui, quædam propter aliud. Ea quæ per se uniuntur inferunt coniunctum, ea autem quæ propter
aliud, nequaquam. 7. Deinde cum dicit:
Quocirca nec. citbaroedus etc., applicat declaratam veritatem ad partes quæstionis.
Et primo, ad secundam partem, quia sclicet non sequitur: est bonus et est citharoedus; ergo est bonus
citharoedus, dicens: Quocirca nec citbaroedus bonus etc.; secundo, ad aliam partem quæstionis, quare sequebatur: est
animal et est bipes; ergo est animal
bipes: et ait: Sed animal bipes etc. Et
subiungit huius ultimi dicti causam, quia, animal bipes, non sunt prædicata secundum accidens
coniuncta inter se rum
aut in tertio, sed per se. Et per hoc explanavit altemembrum primæ
divisionis, quod adhuc positum non
fuerat explicite. Adverte quod Aristoteles, eamdem tenens
sententiam de citharoedo et bono et musico et albo, conclusit quod album et musicum non
inferunt coniunctum prædicatum; ideo nec
citharoedus et bonus inferunt
citharoedus bonus simpliciter, idest coniuncte.
Est autem ratio dicti, quia licet musica et albedo dissimiles sint
bonitati et arti citharisticæ in hoc, quod bonitas nata est denominare et
subiectum tertium, puta hominem et ipsam artem citharisticam (propter quod
falsitas manifeste cernitur, quando
dicitur: est bonus et citharoedus; ergo bonus citharoedus ), musica vero et
albedo subiectum tertium natæ sunt denominare tantum, et non se invicem (propter quod latentior est casus cum
proceditur: est albus et est musicus;
ergo est musicus albus), licet, inquam,
in hoc sint dissimiles, et propter istam
dissimilitudinem processus Aristotelis minus sufficiens videatur;
attamen similes sunt in hoc quod, si servetur
identitas omnimoda prædicatorum quam servari oportet, si illamet divisa debent inferri coniunctim,
sicut musica non denominat albedinem,
neque contra, ita nec bonitas, de qua
fit sermo, cum dicitur, bomo est bonus, denominat artem citharisticam, neque e converso. Cum
enim bonum sit æquivocum, licet a consilio, alia ratione dicitur de perfectione citharoedi, et alia de
perfectione hominis. Quando namque
dicimus, Socrates est bonus, intelligimus
bonitatem moralem, quæ est hominis bonitas simpliciter (analogum siquidem simpliciter positum
sumitur pro potiori); cum autem infertur, citharoedus bonus, non boni101 9. Nec obstat quod album faciat unum per
accideüs cum homine: non enim dictum est
quod unitas per accidens aliquorum impedit ex diversis inferre coniunctum, sed quod unitas per acccidens aliquorum
ratione tertii tantum est illa quæ
impedit. Talia enim quæ non sunt unum
per accidens nisi ratione tertii, inter se nullam hatatem moris sed artis prædicas:
unde terminorum identitas non salvatur. Sufficienter igitur et subtiliter
Aristoteles eamdem de utrisque protulit sententiam, quia eadem est hæc, et ibi ratio etc. 8. Nec prætereundum est quod, cum tres
consequentias adduxit quæstionem
proponendo, scilicet; est animal et
bipes; ergo est animal bipes: et, est homo et albus; ergo est
homo albus: et, est citharoedus et bonus; ergo est bonus citharoedus; et duas primas posuerat
esse bonas, tertiam vero non ; huius
diversitatis causam inquirere volens, cur solvendo quæstionem nullo modo
meminerit secundæ consequentiæ, sed
tantum primæ et tertiæ. Indiscussum
namque reliquit an illa consequentia sit bona
—-an ve, SUB -w
mala. - Et ad hoc videtur mihi dicendum quod ex his paucis verbis etiam illius consequentiæ
naturam insinuavit. Profundioris enim sensus textus capax apparet cum dixit quod, non sunt unum album et
musicum etc., ut scilicet non tantum
indicet quod expositum est, sed etiam
eius causam, ex qua natura secundæ consequentiæ elucescit. Causa namque
quare album et musicum non inferunt coniunctam, prædicationem est, quia in prædicatione
coniuncta oportet alteram partem alteri supponi, ut
potentiam actui, ad hoc ut ex eis fiat aliquo. modo unum, et altera a reliqua denominetur (hoc
enim vis coniunctæ prædicationis
requirit, ut supra diximus de partibus
definitionis); album autem et musicum secundum
se non faciunt unum per se, ut
patet, neque unum per accidens. Licet
enim ipsa ut adunantur in subiecto uno
sint unum subiecto per accidens, tamen ipsamet quæ adunantur in uno, tertio subiecto, non
faciunt inter se unum per accidens: tum
quia neutrum informat alterum (quod
requiritur ad unitatem per accidens aliquorum inter se, licet non in tertio); tum quia non
considerata subiecti unitate, quæ est
extra eorum rationes, nulla remanet inter
ea unitatis causa. Dicens ergo
quod album et musicum non sunt unum,
scilicet inter se, aliquo modo, causam
expressit quare coniunctim non infertur ex eis prædicatum. Et quia
oppositorum eadem est disciplina, insinuavit
per illamet verba bonitatem illius consequentiæ. Ex eo enim quod homo et albus se habent sicut
potentia et actus, (et ita albedo informet,
denominet atque unum faciat cum homine
ratione sui), sequitur quod ex divisis potest inferri coniuncta prædicatio; ut dicatur: est bomo et
albus; ergo δὲ bomo albus. Sicut per oppositum
dicebatur quod ideo musicum et album non
inferunt coniunctum prædicatum quia
neutrum alterum informabat. bent
unitatem; et propterea non potest inferri coniunctum, ut dictum est, quod
unitatem importat. Illa vero quæ sunt
unum per accidens ratione sui, seu inter se, ut, bomo albus, cum coniuncta accipiuntur,
unitate necessaria non carent, quia
inter se unitatem habent. Notanter autem
apposui ly tantum : quoniam si aliqua duo sunt unum per accidens, ratione tertii subiecti scilicet,
sed non tantum ex hoc habent unitatem,
sed etiam ratione sui,ex hoc quod
alterum reliquum informat, ex istis divisis non prohibetur inferri coniunctum. Verbi gratia, optime
dicitur: est quantum et est coloratum; ergo est quantum coloratum: quia color informat quantitatem. IO.
Potes autem credere quod secunda
illa consequentia, quam non explicite confirmavit Aristoteles respondendo, sit
bona et ex eo quod ipse proponendo quæstionem
asseruit bonam, et ex eo quod nulla istantia
reperitur. Insinuavit autem et Aristoteles quod sola talis unitas impedit illationem coniunctam, quando
dixit quæcunque secundum. accidens dicuntur vel de eodem vel alterutrum. de
altero. Cum enim dixit, secundum. accidens de eodem, unitatem eorum ex sola
adunatione in tertio posuit (sola enim hæc
per accidens prædicantur de eodem,
ut dictum est); cum autem
addidit, vel alterutrum de altero, mutuam accidentalitatem ponens, ex nulla
parte inter se unitatem reliquit. Utraque ergo per accidens adducta prædicata,
in tertio scilicet vel alterutrum, quæ impediant illationem coniunctam, nonnisi
in tertio unitatem habent. 11. Deinde cum dicit: Amplius nec etc.,
satisfacit instantiis in probatione adductis, et in illis in quibus
explicita committebatur nugatio, et in
illis in quibus implicita; et ait quod
non solum inferre ex divisis coniunctum non
licet quando prædicata illa sunt per accidens, sed mec etiam quæcunque insunt im alio: idest, sed
nec hoc licet quando prædicata includunt
se, ita quod unum includatur in significato formali alterius intrinsece, sive
explicite, ut album in albo, sive implicite, ut animal et
bipes in homine. Quare neque album
frequenter dictum divisim infert coniunctum, neque bomo divisim ab animali
vel bipede enunciatum, animal bipes *,
coniunctum cum homine infert; ut dicatur, ergo Socrates est bomo bipes, vel
animal bomo. Insunt enim in hominis ratione, animal et bipes actu et
intellectu, licet implicite. Stat ergo solutio
quæstionis in hoc, quod unitas plurium per accidens in tertio tantum et nugatio, impediunt ex
divisis inferri coniunctum ; et consequenter, ubi neutrum horum inven'tur, licebit inferre coniunctum. divisis
ex quando divisæ sunt simul veræ
de eodem etc. Et hoc
intellige * vel bipes.
Ed. c: animal 102 ᾿ II LECTIO (Can. CargTAN: lect. v) AN EX ENUNCIATIONE HABENTE PLURA PRÆDICATA
CONIUNCTIM INFERRE LICEAT ENUNCIATIONEM
QUÆ EADEM PRÆDICATA DIVISIM CONTINET ᾿Αληθὲς δέ ἐστιν εἰπεῖν χατὰ τοῦ τινὸς χαὶ ἁπλῶς, οἷον τὸν τινὰ ἄνθρωπον ἄνθρωπον, 5 τὸν τινὰ λευχὸν ἀνθρωπον ἄνθρωπον. λευκόν: οὐχ ἀεὶ δέ. ᾽Αλλ᾽ ὅταν μὲν ἐν τῷ προσχειμένῳ τῶν ἀντιχειμένων τι ἐνυπάρχῃ; ᾧ ἕπε ται ἀντίφασις, οὐχ ἀληθές, ἀλλὰ y: 930oc, οἷον τὸν τεθνεῶτα ἄνθρωπον ἄνθρωπον εἰπεῖν" ὅταν δὲ Un ἐνυπάρχῃ; ἀληθές. "H ὅταν μὲν ἐνυπάρχῃ, ἀεὶ οὐκ ἀληθές: ὅταν δὲ μὴ ἐνυπάρχῃ, οὐκ ἀεὶ ἀληθές, ὥσπερ, Ὅμηρός ἐ ἐστί τι, οἷον
ποιητής" ἄρ᾽ οὖν καὶ ἔστιν, ἢ 00; χατὰ cup ps βηχὸς γὰρ “κατηγορεῖται τοῦ Ὁμήρου τὸ
ἔστι" ὅτι 12e ποιητής ἐστιν, ἀλλ᾽ οὐ καθ᾽ αὐτὸ κατηγορε εἴται χατὰ τοῦ Ὁμήρου τὸ ἔστιν. Ὥστε ἐν ὅσαις κατηγορίαις μήτε ἐναντιότης ἔνε στιν, Hu λόγοι ἀντ᾽ ὀνομάτων λέγονται; καὶ xa ἑαυτὸ χατηγορῆται; χαὶ μὴ κατὰ “συμβεβηκός, ἐπὶ τούτων τὸ τὶ χαὶ ἁπλῶς ἀληθὲς ἔσται εἰπεῖν. "
Τὸ δὲ μὴ ὄν, ὅτι δοξαστόν, οὐχ ἀληθὲς εἰπεῖν ὄν τι’ δόξα γὰρ αὐτοῦ οὐχ ἔστιν, ὅτι ἔστιν, ἀλλ᾽ ὅτι οὐκ
i» ὩΣ secundam dubitationem. Et circa
hoc tria fa* * *
Num.seq. Num. 17. Num. 8.
Ξ
ys do solvit eam; ibi: Sed quando in adiecto * etc., tertio, ex hoc excludit quemdam errorem;
ibi: Quod autem non est* etc. Est ergo
quæstio: an ex enunciatione habente prædicatum coniunctum, liceat inferre
enunciationes dividentes illud coniunctum; et est quæstio: contraria superiori.
Ibi enim quæsitum est an ex divisis inferatur coniunctum; hic autem quæritur an
ex coniuncto sequantur divisa. Unde
movendo quæstionem dicit: erum aulem.
aliquando est dicere de aliquo et. simpliciter, idest divisim, quod scilicet
prius dicebatur coniunctim, ΜῈ quemdam
hominemalbum esse bominem, aut quoddam album hominem. album esse, idest ut ex
ista, Socrates est. bomo albus, sequitur
divisim, ergo Socrates est bomo, ergo Socrates est albus. Non autem. semper, idest aliquando autem ex
coniuncto non inferri potest divisim;
non enim sequitur, Socrates est bonus
citbaroedus, ergo est bonus. Unde hæc est differentia, quod quandoque licet et quandoque non. Et
adverte quod notanter adduxit
exemplum de homine albo, inferendo
utramque partem divisim, ut insinuaret quod intentio quæstionis est investigare quando ex
coniuncto potest utraque pars divisim
inferri, et non quando altera tantum. 2.
Deinde cum dicit: Sed quando in adiecto etc., solvit quæstionem. Et duo facit: primo, respondet
parti negativæ quæstionis, quando
scilicet non licet; secundo, ibi: Quare
in quantiscumque * etc., respondet parti affirmativæ, quando scilicet licet. Circa primum
considerandum quod quia dupliciter
contingit fieri prædicatum coniunctum, uno
modo ex oppositis, alio modo ex non oppositis, ideo duo facit: primo, ostendit quod numquam ex prædicato
coniuncto ex oppositis possunt inferri eius partes divisim; secundo, quod nec hoc licet universaliter in
prædicato coniuncto ex non oppositis,
ibi: Pel etiam quando etc. Ait ergo quod
quando in termino adiecto inest aliquid de
numero oppositorum, ad quæ sequitur contradictio inter * Verum autem est dicere de aliquo et
simpliciter; ut aliquem ' Sea. c. xr. hominem hominem, aut aliquem
album hominem, hohominem album: non autem semper. Sed quando in adiecto aliquid quidem
oppositorum insit, quod consequitur
contradictio, non verum sed falsum est;
ut, hominem mortuum, hominem dicere: quando
autem non insit, verum est. Aut quando insit quidem, semper
non verum est: quando vero non insit,
non semper verum est; ut, Homerus
est aliquid, ut poeta: utrum
igitur est, an ergo etiam est; non? Secundum accidens enim prædicatur, est, de
Homero; (quoniam est enim poeta), sed
non secundum se prædicatur de Homero ipsum est.
Quare in quantiscunque prædicationibus neque contrarietas, [aliqua aut nulla oppositio] inest, si
definitiones pro nominibus dicantur, et secundum se prædicantur et non secundum
accidens, in his aliquid et simpliciter verum
erit dicere. Quod autem non est,
quoniam opinabile est, non est verum
dicere esse aliquid: opinio enim eius non est, quoniam est, sed quoniam non est. ipsos terminos, »on verum. est, scilicet
inferre divisim, sed falsum. Verbi
gratia cum dicitur, Cæsar est bomo mortuus,
non sequitur, ergo est bomo: quia ly mortuus, adiacens homini,
oppositionem habet ad hominem, quam. sequitur
contradictio inter hominem et mortuum: si enim est homo, non est mortuus, quia .non est corpus
inanimatum; et si est mortuus, non est
homo, quia mortuum est corpus inanimatum.
Quando autem mon inest, scilicet talis. oppositio, verum est, scilicet inferre
divisim. Ratio autem quare, quando est oppositio in adiecto, non
sequitur illatio divisa est, quia alter terminus ex adiecti oppositione corrumpitur in ipsa enunciatione coniuncta.
Corruptum autem seipsum absque
corruptione non infert, quod illatio divisa sonaret. 3. Dubitatur hic primo circa id quod
supponitur, quomodo possit vere dici, Cæsar
est bomo mortuus, cum enunciatio non
possit esse vera, in qua duo contradictoria
simul de aliquo prædicantur. Hoc enim est primum principium. Zomo autem
et mortuus, ut in littera dicitur,
contradictoriam oppositionem includunt, quia in
homine includitur vita, in mortuo non vita. - Dubitatur secundo circa ipsam consequentiam, quam
reprobat Aristoteles: videtur enim . optima. Cum enim ex enunciatione prædicante
duo contradictoria possit utrumque inferri (quia æquivalet copulativæ), aut
neutrum, (quia destruit seipsam), et
enunciatio supradicta terminos oppositos contradictorie prædicet, videtur sequi
utraque pars, quia falsum est neutram
sequi. 4. Ad hoc simul dicitur quod
aliud est loqui de duobus terminis secundum se, et aliud de eis ut unum
stat sub determinatione alterius. Primo
namque modo, bomo et moriuus, contradictionem inter se habent, et
impossibile est quod simul in eodem inveniantur. Secundo autem modo, bomo et
mortuus, non opponuntur, quia homo
transmutatus iam per determinationem corruptivam importatam in ly
mortuus, non stat pro suo significato secundum se, sed secundum exigentiam
termini additi, a CAP. , quo suum significatum distractum est. Ad
utrunque autem insinuandum Aristoteles duo dixit, et quod habent oppositionem quam sequitur contradictio,
attendens significata eorum secundum se, et quod etiam ex eis formatur una vera
enunciatio cum dicitur, Socrates est bomo moriuus, attendens coniunctionem eorum alterius
corruptivam. Unde patet quid dicendum sit ad dubitationes. Ad utramque siquidem dicitur, quod non
enunciantur duo contradictoria simul de
eodem, sed terminus ut stat sub
distractione *, seu transmutatione alterius,cui secundum se * Ed.
c: distinclione. esset
contradictorius. 5. Dubitatur quoque
circa id quod ait: /mest aliquid
oppositorum quæ consequitur contradictio; superflue enim videtur addi
illa particula, quæ consequitur contradictio. Omnia enim opposita consequitur contradictio, ut
patet discurrendo in singulis; pater enim est non filius, et album non nigrum,
et videns non cæcum etc. Et ad hoc dicendum est quod opposita possunt
dupliciter accipi: uno modo formaliter, idest secundum sua significata; alio modo denominative, seu
subiective. Verbi gratia, pater et
filius possunt accipi pro paternitate et
filiatione, et possunt accipi pro eo qui denominatur pater vel filius. Rursus cum omnis distinctio fiat
oppositione aliqua, ut dicitur in X
Metapbysicæ, supponatur omnino distincta
esse opposita. Dicendum ergo est quod, licet ad
omnia opposita seu distincta contradictio sequatur inter se
formaliter sumpta, non tamen ad omnia opposita sequitur contradictio
inter ipsa denominative sumpta. Quamvis enim pater et filius mutuam sui negationem
inferant inter se formaliter, quia
paternitas est non filiatio, et filiatio
est non paternitas; in relatione tamen ad denominatum, contradictionem
non necessario inferunt. Non enim sequitur,
Socrates est pater; ergo mon est filius; nec e
converso. Ut persuaderet igitur Aristoteles quod non quæcunque opposita
colligata impediunt divisam illationem
(quia non illa quæ habent contradictionem annexam formaliter tantum, sed
illa quæ,habent contradictionem et
formaliter et secundum rem denominatam), addidit: quæ consequitur contradictio, in tertio scilicet
denominato. Et usus est satis congrue
vocabulo, scilicet, consequitur : contradictio enim ista in tertio est
quodammodo extra ipsa opposita. 6. Deinde cum dicit: Vel etiam quando est
etc., declarat quod ex non oppositis in tertio coniunctis secundum unum prædicatum,
non universaliter possunt inferri partes divisim. Et primo, hoc proponit quasi
emendans quod immediate dixerat, subiungens: Vel etiam quando est, scilicet
oppositio inter terminos coniunctos, falsum
est semper, scilicet inferre divisim ; quasi diceret : dixi quod quando inest oppositio, non verum sed falsum
est inferre divisim; quando autem non
inest talis oppositio, verum est inferre
divisim. Vel etiam ut melius dicatur, quod
quando est oppositio, falsum est semper, quando autem non inest talis oppositio, non semper verum
est. Et sic modificavit supradicta
addendo ly semper, et, nom semper. Et
subdens exemplum quod non semper ex non oppositis sequatur divisio, ait: Ut,
Homerus est aliquid ut poeta; ergo
eliam. est? Non. Ex hoc coniuncto, est poeta, de Homero enunciato, altera pars,
ergo Homerus est, non sequitur; et tamen clarum est quod istæ duæ partes
colligatæ, est et poeta, non. habent oppositionem, ad quam sequitur contradictio. Igitur non semper ex
non oppositis coniunctis illatio divisa tenet etc. . 7.
Deinde cum dicit: Secundum. accidens etc., probat hoc, quod modo dictum est, ex eo quod altera
pars istius compositi, scilicet, est, in
antecedente coniuncto prædicatur de Homero secundum accidens, idest ratione
alterius, quoniam, scilicet poeta, prædicatur de Homero, et LECT.
non prædicatur secundum se ly est de Homero; quod tamen infertur, cum concluditur: ergo Homerus est.
- Considerandum est hic quod ad solvendam illam conclusionem negativam, scilicet, - non semper ex non
oppositis coniunctis infertur divisim, -
sufficit unam instantiam suæ oppositæ
universali affirmativæ afferre. Et hoc fecit Aristoteles adducendo illud genus
enunciationum, in quo altera pars
coniuncti est aliquid pertinens ad actum animæ.
Loquimur enim modo de Homero vivente in poematibus suis in mentibus
hominum. In his siquidem enunciationibus
partes coniunctæ non sunt oppositæ in
tertio, et tamen non licet inferre utramque partem divisim. Committitur
enim fallacia secundum quid ad simpliciter. Non enim valet, Cæsar est laudatus,
ergo. est: et simile est de
esse in effectu dependente in conservari.
Quomodo autem intelligenda sit ratio ad
hoc adducta ab Aristotele in sequenti
particula dicetur. 8. Deinde cum dicit:
Quare in quantiscunque etc., respondet parti affirmativæ quæstionis, quando
scilicet ex coniunctis licet inferre
divisim. Et ponit duas conditiones
oppositas supradictis debere convenire in unum, ad hoc ut possit fieri talis consequentia;
scilicet, quod nulla inter partes
coniuncti oppositio sit, et quod secundum
se prædicentur. Unde dicit
inferendo ex dictis: Quare in
quantiscunque prædicamentis, idest prædicatis ordine quodam adunatis,
meque contrarietas aliqua, in cuius ratione
ponitur contradictio in tertio (contraria enim sunt quæ mutuo se ab eodem expellunt), aut
universaliter nulla oppositio inest, ex qua scilicet sequatur contradictio in
tertio, si. definitiones pro. nominibus sumantur. Dixit hoc, quia licet in quibusdam non appareat oppositio,
solis nominibus positis, sicut, bomo mortuus, et in quibusdam appareat, ut,
vivum mortuum; hoc tamen non obstante,
si, positis nominum definitionibus loco nominum, oppositio appareat,
inter opposita collocamus. Sicut, verbi gra.tia, bomo mortuus, licet
oppositionem non præseferat, tamen si
loco hominis et mortui eorum definitionibus
utamur, videbitur contradictio. Dicemus enim corpus animatum rationale,
corpus inanimatum irrationale. In quantiscunque, inquam, coniunctis nulla est
oppositio, ef secundum se, et non secundum | accidens. prædicantur, in.
bis verum. erit. dicere et. simpliciter,
idest divisim quod fuerat coniunctim
enunciatum. 9. Ad evidentiam secundæ
conditionis hic positæ, nota quod ly
secumdum se potest dupliciter accipi: uno
modo positive, et sic dicit perseitatem primi, secundi, universaliter, quarti modi; alio modo
negative, et sic idem sonat quod non per
aliud. - Rursus considerandum est quod cum Aristoteles dixit de prædicato coniuncto quod, secundum se prædicetur, ly secundum. se
potest ad tria referri, scilicet, ad
partes coniuncti inter se, ad totum
coniunctum respectu subiecti, et ad partes coniuncti respectu subiecti.
Si ergo accipiatur ly secumdum se positive, licet non falsus, extraneus tamen a
mente Aristotelis reperitur sensus ad quodcunque illorum trium referatur. Licet enim valeat,
est bomo risibilis, ergo. est bomo et
est risibilis, et, est animal rationale, ergo est animal et est rationale;
tamen his oppositæ inferunt similes
consequentias. Dicimus enim, est albus musicus, ergo est musicus et est. albus: ubi nulla est
perseitas, sed est coniunctio per accidens, tam inter partes inter se, quam
inter totum et subiectum, quam etiam
inter partes et subiectum. Liquet igitur quod non accipit Aristoteles ly
secundum se positive, ex eo quod vana fuisset talis additio, quæ ab oppositis non facit in hoc differentiam.
Ad quid enim addidit, secundum se, et
non, secundum accidens, si tam illæ quæ
sunt secundum se, modo exposito, quam illæ
quæ sunt secundum accidens ex
coniuncto, inferunt di104 II visum? - Si
vero accipiatur secundum se, negative, idest,
non per aliud, et referatur ad partes coniuncti inter se, falsa invenitur regula. Nam non licet dicere,
est bonus cilbaroedus ; ergo est. bonus
et citlbaroedus ; et tamen ars
citharizandi et bonitas eius sine medio coniunguntur. Et similiter contingit, si referatur ad totum
coniunctum respectu subiecti, ut in
eodem exemplo apparet. Totum enim hoc,
citbaroedus bonus, non propter aliud convenit
homini; et tamen non infert, ut dictum est, divisionem. Superest ergo ut ad partem coniuncti respectu
subiecti referatur, et sit sensus:
quando aliqua coniunctim prædicata, secundum se, idest, non per aliud, prædicantur,
idest, quod utraque pars prædicatur de
subiecto non propter alteram, sed
propter seipsam et subiectum, tunc ex conAverroes. Boethius. * Ed. c: idest, negative. * Ed.
c: opinionem. iuncto infertur divisa prædicatio. το. Et hoc modo exponunt Averroes et Boethius; et vera invenitur regula, ut inductive facile
manifestari potest, et ratio ipsa suadet. Si enim partes alicuius
coniuncti prædicati ita inhærent
subiecto quod neutra propter alteram insit, earum separatio nihil habet quod
veritatem impediat divisarum. Est et
verbis Aristotelis consonus sensus iste.
Quoniam et per hoc distinguit inter enunciationes ex
quibus coniunctum infert divisam prædicationem, et eas quibus hæc non
inest consequentia. Istæ siquidem ultra
habentes oppositiones in adiecto, sunt
habentes prædicatum coniunctum, cuius una partium alterius est ita
determinatio, quod nonnisi per illam subiectum respicit, sicut apparet in
exemplo ab Aristotele adducto, Homerus est poeta. Est siquidem ibi non
respicit Homerum ratione ipsius Homeri,
sed præcise ratione poesis relictæ; et
ideo non licet inferre, ergo Homerus
est. Et simile est in negativis. Si quis enim dicat, Socrates non
est paries, non licet inferre,
ergo Socrates mon est, eadem ratione,
quia esse non est negatum de Socrate,
sed de pariete in Socrate. 11. Et
per hoc patet qualiter sit intelligenda ratio in textu superiore adducta. Accipitur enim ibi,
secundum se negative *, modo hic
exposito, et secundum accidens, idest
propter aliud. In eadem ergo significatione est usus ly secundum. accidens, solvendo hanc et præcedentem
quæstionem: utrobique enim intellexit secundum accidens, idest, propter aliud, coniuncta, sed ad
diversa retulit. Ibi namque ly secundum.
accidens determinabat coniunctionem
duorum prædicatorum inter se; hic vero determinat partem coniuncti prædicati
in ordine ad subiectum. Unde ibi, album
et musicum, inter ea quæ secundum accidens
sunt, numerabantur; hic autem non.
12. Sed occurrit circa hanc expositionem * dubitatio non parva. Si enim ideo non licet ex coniuncto
inferre divisim, quia altera pars
coniuncti non respicit subiectum propter
se, sed propter alteram partem (ut dixit Aristoteles de ista enunciatione, Homerus est poeta),
sequetur quod numquam a tertio adiacente ad secundum erit bona consequentia:
quia in omni enunciatione de tertio adiacente, est respicit subiectum propter
prædicatum et non propter se etc. 13. Ad
huius difficultatis evidentiam, nota primo hanc
distinctionem. Aliud est tractare regulam, quando ex tertio adiacente
infertur secundum et quando non,
et aliud quando ex coniuncto fit illatio
divisa et quando non. Illa siquidem est
extra propositum, istam autem venamur.
Illa compatitur varietatem terminorum, ista non. Si namque unus terminorum,
qui est altera pars coniuncti, secundum significationem seu suppositionem
varietur in separatione, non infertur ex
coniuncto prædicato illudmet divisim, sed aliud. - Nota secundo hanc
propositionem: Cum ex tertio adiacente infertur secundum, non servatur identitas terminorum. Liquet ista
quoad illum terminum, es/. Dictum
siquidem fuit supra a sancto Thoma *, quod aliud importat est secundum
adiacens, et aliud est tertium adiacens.
Illud namque importat actum essendi
simpliciter, hoc autem habitudinem inhærentiæ vel identitatis prædicati ad subiectum. Fit ergo varietas
unius termini cum ex tertio adiacente
infertur secundum, et consequenter non
fit illatio divisi ex coniuncto. - Unde
prælucet responsio ad obiectionem, quod, licet ex tertio adiacente quandoque possit inferri secundum,
numquam tamen ex tertio adiacente licet
inferri secundum tamquam ex coniuncto divisum, quia inferri non potest
divisim, cuius altera pars ipsa
divisione perit. Negetur ergo consequentia obiectionis et ad probationem
dicatur quod, optime concludit quod
talis illatio est illicita infra limites
illationum, quæ ex coniuncto divisionem inducunt, de quibus hic Aristoteles loquitur. I4. Sed contra hoc instatur. Quia etiam
tanquam ex per
coniuncto divisa fit illatio, Socrates est albus, ergo est, locum a parte in modo ad suum totum, ubi
non fit varietas terminorum. - Et ad hoc
dicitur quod licet homo albus sit pars
in modo hominis (quia nihil minuit de
hominis ratione albedo, sed ponit hominem simpliciter), tamen est album non est
pars in modo ipsius est, eo quod pars in
modo est universale cum conditione non
minuente, ponente illud simpliciter. Clarum est autem quod album minuit rationem ipsius esf, et non
ponit ipsum simpliciter: contrahit enim
ad esse secundum quid. Unde apud
philosophos, cum fit aliquid album, non dicitur generari, sed generari secundum
quid. 15. Sed instatur adhuc quia
secundum hoc, dicendo, est animal, ergo
est, fit illatio divisa per eumdem locum.
Animal enim non minuit rationem ipsius est. - Ad hoc est
dicendum quod ly est, si dicat veritatem propositionis, manifeste
peccatur a secundum quid ad simpliciter.
Si autem dicat actum essendi, illatio est bona, sed non est de
tertio, sed de secundo adiacente. 16.
Potest ulterius dubitari circa principale: quia sequitur, est quantum
coloratum, ergo est quantum, et, est. coloratum ; et tamen coloratum respicit
subiectum mediante quantitate: ergo non
videtur recta expositio supra adducta. - Ad hoc et similia dicendum est quod
coloratum non ita inest subiecto per
quantitatem quod sit eius determinatio et ratione talis determinationis
subiectum denominet, sicut bonitas artem citharisticam determinat ; cum
di-citur, est citbaroedus bonus; sed potius subiectum ipsum primo coloratum denominatur, quantum vero
secundario coloratum. dicitur, licet
color media quantitate suscipiatur. Unde notanter supra diximus, quod tunc
altera pars coniuncti prædicatur per
accidens, quando præcise denominat subiectum, quia denominat alteram partem.
Quod nec in hac, nec in similibus
instantiis invenitur 17. Deinde cum
dicit: Quod autem non est etc., excludit quorumdam errorem qui, quod "on
est, esse tali syl- logismo concludere
satagebant: Quod est, opinabile est. Quod
non est, est opinabile. Ergo quod non est, est. - Hunc siquidem processum elidit Aristeteles
destruendo primam propositionem, quæ
partem coniuncti in subiecto divisim prædicat,
ac si diceret: est opinabile, ergo est. Unde as- sumendo subiectum conclusionis illorum ait:
Quod autem non est; et addit medium
eorum, quoniam opinabile est; et subdit
maiorem extremitatem, »om est verum dicere, esse aliquid. Et causam assignat, quia talis
opinatio non pro- pterea est, quia illud
sit, sed potius quia non est. pere * et
im. Lib. II, lect. 1 LECTIO
(Canp. CareTANt lect. v1) DE
PROPOSITIONIBUS MODALIBUS EARUMQUE INTER SE OPPOSITIONE Τούτων δὲ διωρισμένων, σχεπτέον ὅπως ἔχουσιν αἱ ἀπο- φάσεις χαὶ χαταφάσεις πρὸς ἀλλήλας, αἱ τοῦ δυνα- τὸν εἶναι καὶ μὴ δυνατόν, χαὶ ἐνδεχόμενον καὶ μὴ ἐνδεχόμενον, καὶ περὶ τοῦ ἀδυνάτου τε καὶ ἀναγκα- (ou* ἔχει γὰρ ἀπορίας τινάς. Εἰ γὰρ τῶν συμπλεκομένων αὗται ἀλλήλαις ἀντίχεινται ἀντιφάσεις, ὅσαι χατὰ τὸ εἶναι καὶ μὴ εἶναι τάτ- : His
vero determinatis, considerandum est quemadmodum se se habent negationes et affirmationes ad
se invicem; quæ sunt de possibili esse
et non possibili, et de con- tingenti,
et de impossibili, et necessario; habent enim
aliquas dubitationes. Nam si
eorum, quæ corpplectuntur, illæ sunt sibi invicem oppositæ contradictiones, quæcunque secundum
esse τονται, οἷον τοῦ εἶναι ἄνθρωπον ἀπόφασις τὸ μὴ
εἶναι ἄνθρωπον, οὐ τὸ εἶναι μιὴ ἄνθρωπον, καὶ τοῦ
εἶναι λευκὸν ἄνθρωπον, τὸ, p εἶναι λευκὸν ἄνθρω- πον, ἀλλ᾽ οὐ τὸ εἶναι μὴ λευχὸν ἄνθρωπον" εἰ γὰρ — χατὰ παντὸς ἡ κατάφασις ἢ ἡ ἀπόφασις, τὸ ξύλον
ἔσται ἀληθὲς εἰπεῖν εἶναι μιὴ λευκὸν ἄνθρωπον εἰ δὲ
τοῦτο οὕτως, καὶ ὅσοις τὸ εἶναι μὴ προστίθεται, τὸ
αὐτὸ ποιήσει τὸ ἀντὶ τοῦ εἶναι λεγόμενον, οἷον τοῦ, ἄνθρωπος βαδίζει, οὐ τὸ οὐχ ἄνθρωπος βαδίζει, ἀπό- φάσις ἔσται, ἀλλὰ «0, οὐ βαδίζει ἄνθρωπος- οὐδὲν
dg διαφέρει εἰπεῖν, ἄνθρωπον βαδίζειν, ἢ ἄνθρωπον
ζαλζοντα εἶναι. Ὥστε, εἰ οὕτως πανταχοῦ, καὶ τοῦ υνατὸν εἶναι ἀπόφασις ἔσται τὸ δυνατὸν μὴ εἶναι, ἀλλ᾽
οὐ τὸ μὴ δυνατὸν εἶναι. Δοχεῖ δὲ τὸ αὐτὸ δύνασθαι χαὶ εἶναι καὶ μὴ εἶναι: πᾶν do τὸ δυνατὸν τέμνεσθαι ἢ βαδίζειν, καὶ μὴ βα- ίζειν xa μὴ τέμνεσϑαι δυνατόν: λόγος δέ, ὅτι ἅπαν
τὸ οὕτω δυνατὸν οὐχ ἀεὶ ἐνεργεῖ, ὥστε ὑπάρξει αὐτῷ
'χαὶ ἡ ἀπόφασις: δύναται γὰρ καὶ μὴ βαδίζειν τὸ
βαδιστικόν, καὶ μὴ ὁρᾶσθαι τὸ ὁρατόν. ᾿Αλλὰ μιὴν ἀδύνατον χατὸὺ τοῦ αὐτοῦ ἀληθεύεσθαι τας ἄντι- χειμένας φάσεις. Οὐχ ἄρα τοῦ δυνατὸν εἶναι ἀπό- ασίς ἐστι τὸ, δυνατὸν μὴ εἶναι. Συμβαίνει γὰρ ἐκ τούτων ἢ τὸ αὐτὸ φάναι xal ἀποφάναι
ἅμα κατὰ τοῦ αὐτοῦ, ἢ μὴ κατὰ τὸ εἶναι καὶ μὴ
εἶναι τὰ προστιθέμενα γίνεσθαι φάσεις καὶ ἀποφά- σεις. Εἰ οὖν ἐχεῖνο ἀδύνατον, τοῦτ᾽ ἂν εἴη αἱρετόν. gj ostquam determinatum est de
enunciationi- Sybus, quarum partibus
aliud additur tam rema- MZ'nente quam
variata unitate, hic intendit de-
clarare quid accidat enunciationi, ex eo quod. aliquid additur, non suis partibus, sed
com- positioni eius. Et circa hoc duo
facit: primo, determinat de E"
Eest. x. . Num. 7. *Ed. c: et
sibili. oppositione earum ;
secundo, de consequentiis; ibi: Conse-
quentiæ vero* etc. Circa primum duo facit: primo, proponit quod intendit; secundo, exequitur; ibi: Nam
si eorum * etc. Proponit ergo quod iam
perspiciendum est, quomodo se pos- i habeant affirmationes et negationes
enunciationum de * possibili et non
possibili etc. Et causam subdit: Habent enim
multas dubitationes speciales. - Sed antequam ulterius pro- cedatur, quoniam de enunciationibus, quæ
modales vo- cantur, sermo inchoatur, prælibandum
est esse quasdam modales enunciationes,
et qui et quot sunt modi reddentes:
propositiones modales; et quid earum sit subiectum et quid prædicatum ; et quid sit ipsa enunciatio
modalis ; quisque sit ordo earum ad præcedentes;
et quæ necessi- tas sit specialem
faciendi tractatum de his. Quia ergo possumus dupliciter de rebus loqui; uno modo, componendo rem unam cum alia, alio
modo, compositionem factam declarando
qualis sit, insurgunt duo enunciationum
genera; quædam scilicet enunciantes Opp.
D. Tgowaz T. I. » et non
esse disponuntur, ut eius quæ est, esse hominem, negatio est, non esse hominem,
non autem ea quæ est, esse non hominem: et eius, quæ est,
esse album hominem, ea quæ est, non esse
album hominem, sed non ea quæ est, esse
non album hominem (5i énim de omni aut affirmatio aut negatio est, lignum
erit verum dicere esse non album
hominem): quod si hoc modo et in
quibuscunque esse non additur, idem faciet quod pro esse dicitur; ut eius, quæ
est, homo ambulat, non hæc, ambulat non
homo, negatio erit, sed hæc, non ambulat
homo. Nihil enim differt dicere hominem ambulare, vel hominem ambulantem esse.
Qua're si hoc modo ubique, et eius, quæ est, possibile esse, negatio erit possibile non esse, sed non ea
quæ est, non possibile esse. Videtur autem idem posse et esse et non esse.
Omne enim quod est possibile dividi, vel
ambulare, et non ambulare, et non dividi possibile est. Ratio autem est, quoniam
omne quod sic possibile est, non semper in actu
est; quare inerit ipsi etiam negatio: potest enim et non ambulare quod est ambulativum, et non videri
quod est visibile. At vero impossibile
est de eodem oppositas veras esse affirmationes et negationes. Non igitur eius
quæ est, possibile esse, negatio est hæc,
possibile non esse. Contingit autem ex
his, aut idem affirmare et negare simul
de eodem, aut non secundum esse vel non esse, quæ opponuntur, fieri affirmationes et
negationes. Si ergo illud impossibile
est, hoc erit magis eligendum. aliquid
inesse vel non inesse alteri, et hæ vocantur de
inesse, de quibus superius habitus est sermo; quædam vero enunciantes modum compositionis prædicati
cum subiecto, et hæ vocantur modales, a
principaliori parte sua, modo scilicet. Cum
enim dicitur, Socratem currere est
possibile, non enunciatur cursus de Socrate, sed qualis sit compositio cursus cum Socrate ἢ, scilicet possibilis. Signanter
autem dixi modum compositionis, quoniam modus in enunciatione positus duplex est. Quidam enim
determinat verbum, vel ratione significati
ipsius verbi, ut Socrates currit
velociter, vel ratione temporis consignificati, ut Socrates currit hodie; quidam autem
determinat compositionem ipsam prædicati cum subiecto; sicut cum dicitur, Socratem. currere est possibile. In illis
namque determinatur qualis cursus insit
Socrati, vel quando; in hac autem, qualis
sit coniunctio cursus cum Socrate. Modi ergo non illi qui rem verbi, sed qui compositionem determinant,
modales enunciationes reddunt, eo quod
compositio veluti forma totius totam
enunciationem continet. 3. Sunt autem
huiusmodi modi quatuor proprie loquendo, scilicet possibile et impossibile,
necessarium et contingens.-Verum namque
et falsum, licet supra compositionem cadant cum dicitur, Socratem currere est
uerum, vel hominem. esse quadrupedem
est. falsum, attamen modificare Cap.
xit. Ed. c: de Socrate. *
Ed. c et 1526. promitur. II facit: primo, movendo quæstionem arguit ad
partes; seproprie non videntur compositionem ipsam. Quia modificari proprie dicitur al'quid, quanlo
redditur aliuale, non quando fit
secundum suam substantiam. Compositio autem quando dicitur vera, non aliqualis
propon'tur *, sed quod est: nihil enim
aliud est dicere, Socratzm currere. est
erum, quam quod compos:tio cursus cum Socrate est. Et similiter
quando est falsa,
nihil aliud dicitur, quam quod
non est: nam nihil aliud est dicere, Socratzm currere est falsum, quam quod
compositio cursus cum Socrate non est. Quando vero compositio dicitur
possibilis aut contingens, iam non ipsam
esse, sed ipsam al'qualem esse dicimus: cum s'quidem dicitur, Socratzm
currere est possibile, non
substantificamus compositionem cursus cum
Socrate, sed qual'ficamus, asserentes illam esse possibilem. Unde Aristoteles hic modos proponens, veri et
falsi nullo modo meminit, licet infra
verum et non verum inferat, propter causam ibi assignandam. 4. Et quia enunciatio modalis duas in se
continet compositiones, alteram inter partes dicti, alteram inter dictum et
modum, intelligendum est eam compositionem
modificari, idest, quæ est inter partes dicti, non eam quæ est
inter modum et dictum. Quod sic perpendi potest. Huius enunciat'on's modalis, Socratzm esse
album est. possibile, duæ sunt partes ; altera est, Socratzm esse album,
altera est, possibile. Prima dictum
vocatur, eo.quod est id quod dicitur per
eius indicativam, scilicet, Socrates est a!bus: qui enim profert hanc, Socratzs est albus, nihil
aliud dicit nisi Socratem esse album:
secunda vocatur modus, eo quod modi
adiectio est. Prima compositionem quandam in se
continet ex Socrate et albo; secunda pars primæ opposita, compos'tionem aliquam sonat ex dicti
compos:tione et modo. Prima rursus pars,
licet omnia habeat propria, subiectum scilicet, et prædicatum, copulam et
compositionem, tota tamen subiectum est modalis enunciationis; secunda autem
est prædicatum. Dicti ergo compositio subiicitur et modificatur in enunciatione
modali. Qui enim dicit, Socratem esse
album est possibile, non significat qualis
est se, coniunctio possibilitatis cum hoc dicto,
Socrat»m esse album, sed insinuat qualis
sit compositio partium dicti inter scilicet
albi cum Socrate, scilicet quod
est compositio possibilis. Non dicit igitur enunciatio modalis aliquid inesse, vel non inesse, sed dicti
potius modum enunciat. Nec proprie
componit secundum significatum, quia
compositionis non est compositio, sed rerum compositioni modum apponit. Unde
nihil aliud est enunciatio modalis, quam enunciatio dicti modificativa. 5. Nec propterea censenda est enunciatio plures modalis,
quia omnia duplicata habeat: quoniam unum modum de unica compositione enunciat,
licet illius compositionis plures sint partes. Plura enim illa ad dicti
compositionem concurrentia, veluti plura ex quibus fit unum subiectum concurrunt, de quibus dictum est
supra quod enunciationis unitatem non
impediunt. Sicut nec cum dicitur, domus est: alba, est enunciatio multiplex,
licet domus ex multis consurgat
partibus. 6. Merito autem est, post
enunciationes de inesse, de modalibus
tractandum, quia partes naturaliter sunt toto
priores, et cognitio totius ex partium cognitione dependet; et specialis sermo de his est habendus, quia
proprias habet difficultates. Notavit
quoque Aristoteles in textu multa. Horum
ordinem scilicet, cum dixit: His vero determinatis etc. modos qui et quot sunt, cum eos expressit et
inseruit; variationem eiusdem modi, per
affirmationem et negationem, cum dixit: Possibile et non possibile, contingens
et non
conlingens; necessitatem cum addidit: Habent enim multas dubitationzs proprias etc. 7. Deinde cum dicit: Nam si eorum etc.,
exequitur tractatum de oppositione
modalium, Et circa hoc duo cundo,
determinat veritatem ; ibi: Contingit autzm * etc. Est autem
dubitatio: an in enunciationibus modalibus fiat contradictio negatione apposita
ad verbum dicti, quod dicit rem; an non,
sed potius negatione apposita ad modum qui
qualificat. Et primo, arguit ad partem affirmativam, quod scilicet addenda sit negatio ad verbum ;
secundo, ad partem negativam, quod non
apponenda sit negatio ipsi verbo; ibi:
Vid»tur autzm * etc. 8. Intendit ergo
primo tale argumentum; si complexorum contradictiones attenduntur penes esse et
non esse (ut patet inductive in
enunciationibus substantivis de secundo adiacente et de tertio, et in
adiectivis), contradictionesque omnium hoc modo sumendæ sunt,
contradictoria huius, possibile esse,
erit, possibile mon esse, et non illa, non
possibile esse. Et consequenter apponenda est negatio verbo, ad sumendam
oppositionem in modalibus. Patet consequentia, quia cum dicitur, possibile
esse, et, possibile non esse, negatio
cadit supra esse. Unde dicit: Nam si
eorum, qua» complectuntur, idest complexorum, illæ sibi invicom. sunt
oppositæ contradictionzs, quæ secundum esse vel
non esse disponuntur, idest in quarum una affirmatur esse, et in altera negatur. 9. Et
subdit inductionem, inchoans. a secundo adiacente: ut, eius enunciationis quæ
est, esse hominem, idest, bomo est,
negatio est, non esse hominem, ubi verbum negatur, idest, bomo non est; et non
est eius negatio ea quæ est, esse non
hominem, idest, non bomo est: hæc enim
non est quæ
negativa, sed affrmativa de subiecto infinito, simul est vera cum illa prima, scilicet, homo
est. ro. Deinde prosequitur inductionem
in substantivis de tertio adiacente: ut,
eius quæ est, esse album hominem, idest,
ut, illius enunciationis, homo est albus, negatio est, non esse album hominem, ubi verbum
negatur, idest, homo non est albus; et
non est negatio illius ea, quæ est,
esse;non album hominem, idest, homo est non albus. Hæc enim non est. negativa,
sed affirmativa de prædicato infinito. - Et quia istæ duæ affirmativæ de prædicato
finito et infinito non possunt de eodem verificari, propterea quia sunt de prædicatis oppositis,
posset aliquis credere quod sint contradictoriæ; et ideo ad hunc errorem tollendum interponit rationem
probantem quod hæ duæ non sunt
contradictoriæ. Est autem ratio talis. Contradictoriorum talis est natura quod de
omnibus aut dictio, idest affirmatio aut
negatio verificatur. Inter
contradictoria siquidem nullum potest inveniri medium; sed hæ duæ enunciationes, scilicet, est bomo
albus, et, est bomo mon albus, sunt
contradictoriæ per se; ergo sunt talis
naturæ quod de omnibus altera verificatur. Et sic, cum de ligno sit falsum dicere, est homo
albus, erit verum dicere de eo, scilicet
ligno, esse non album hom'nem, idest, lignum est homo non albus. Quod est
manifeste falsum: lignum enim neque est homo albus, neque est
homo non albus. Restat ergo ex quo utraque est simul falsa de eodem, quod non sit inter eas
contradictio: Sed contradictio fit
quando negatio apponitur verbo. 1r. Deinde prosequitur inductionem in
enunciationibus adiectivi verbi, dicens: Quod si boc modo, scilicet supradicto, accipitur contradictio, et.
im quantiscunque enuncialionibus esse non ponitur explicite,
idem faciet! quoad oppositionem sumendam, id quod pro esse ;dicitur (idest verbum adiectivum, quod locum ipsius esse
tenet, pro quanto, propter eius
veritatem in se inclusam, copulæ officium facit), ut eius enunciationis quæ
est, bomo ambulat, negatio est, non ea
quæ dicit, mom bomo ambulat (hæc enim est affirmativa de subiecto infinito),
sed negatio illius est, bomo non ambulat
; sicut et in illis. de verbo
substantivo, negatio verbo addenda erat. Nihil enim *
* Num. 14. Num. 13.
differt dicere verbo adiectivo, homo ambulat, vel substantivo, homo est
ambulans. Deinde ponit secundam partem
inductionis dicens: Et si boc modo in
omnibus sumenda est contradictio, scilicet; apponendo negationem ad esse,
concluditur quod et eius enunciationis, quæ dicit, possibile
esse, negatio est, possibile non esse,
et non illa quæ dicit, non possibile esse. Patet conclusionis sequela: quia in illa,
possibile non esse, negatio apponitur
verbo; in ista autem non. Dixit autem in principio huius rationis: Eorum quæ complectuntur, idest complexorum,
contradictiones fiunt secundum esse et
non esse, ad differentiam incomplexorum quorum oppositio non fit negatione
dicente mon 107 non semper actu est, sequitur quod sit
possibile non esse. Quod enim non semper est, potest
non esse. Bene ergo intulit Aristoteles ex his duobus: Quare inerit 'etiam
negatio possibilis et non solum
affirmatio; potest igitur et non. ambulare, quod est ambulabile, et non.
videri, quod est visibile. Maior vero
subiungitur, cum ait: 4t vero impossibile est. de eodem. veras esse
contradictiones. Infertur quoque ultimo conclusio: Nom est igitur ista
(scilicet, possibile non esse) negatio ilius, quæ dicit, possibile esse: quia sunt simul veræ de eodem. - Caveto autem
ne ex isto textu putes possibile, ut est
modus, debere semper accipi pro
possibili ad utrumlibet: quoniam hoc infra declarabitur esse falsum; sed
considera quod satis fuit intenesse, sed
ipsi incomplexo apposita, ut, homo, et, non bomo, legit, et, non legit. 153.
Deinde cum dicit: Videtur autem. idem. etc., arguit ad quæstionis partem negativam (scilicet quod
ad sumendam contradictionem in modalibus non addenda est negatio verbo), tali
ratione. Impossibile est duas contradictorias esse simul veras de eodem; sed
supradictæ, scilicet, possibile esse, et, possibile non esse, simul
verificantur de eodem; ergo istæ non
sunt contradictoriæ: igitur contradictio modalium non attenditur penes verbi
negationem. Huius rationis primo ponitur in littera
minor cum sua probatione; secundo maior;
tertio conclusio. Minor quidem cum
dicit: Videtur autem. idem. possibile
esse, el, non possibile esse. Sicut verbi gratia, omne quod est possibile dividi est etiam possibile non
dividi, et quod est possibile ambulare
est etiam possibile non ambulare. Ratio autem. huius minoris est, quoniam omne quod sic
possibile est (sicut, scilicet, est possibile ambulare et dividi), non semper actu esi: non enim semper
actualiter ambulat, qui ambulare potest;
nec semper actu dividitur, quod dividi
potest. Quare inerit etiam negatio possibilis, idest, ergo non solum possibilis est affirmatio, sed
etiam negatio eiusdem. - Adverte quod
quia possibile est multiplex, ut infra
dicetur, ideo notanter Aristoteles addidit ly sic, assumens, quod sic possibile
est, nom semper actu est. Non enim de omni possibili verum est dicere quod
non semper UTE. TNT ΞΜ
D — »w
actu est, sed de aliquo, eo
scilicet quod est sic * possibile, quemadmodum ambulare et dividi. Nota
ulterius quod quia tale possibile habet duas conditiones,
scilicet quod potest actu esse et quod
non semper actu est, sequitur necessario quod de eo simul est verum
dicere, possibile esse, et, non esse. Ex eo enim quod potest actu esse, sequitur quod sit possibile esse; ex eo
vero quod denti declarare quod in
modalibus non sumitur contradictio ex verbi negatione, afferre instantiam in
una modali, quæ continetur sub modalibus de possibili. 14. Deinde cum dicit: Contingit autem unum ex
bis εἴς.» determinat
veritatem huius dubitationis. Et quia duo
petebat, scilicet, an contradictio modalium ex negatione verbi fiat an non, et, an potius ex negatione
modi; ideo primo, determinat veritatem
primæ petitionis, quod scilicet contradictio harum non fit negatione verbi;
secundo, determinat veritatem secundæ
petitionis, quod scilicet fiat modalium
contradictio ex negatione modi; ibi: Est ergo
negatio * etc. - Dicit ergo quod propter supradictas rationes evenit unum ex his duobus, quæ conclusimus
determinare, aut idem ipsum, idest, unum et idem dicere, idest affirmare et
negare simul de eodem: idest, aut quod duo
contradictoria simul verificantur de eodem, ut prima ratio conclusit; aut affirmationes vel negationes
modalium, quæ opponuntur contradictorie,
fieri nom secundum. esse vel non 6556,
idest, aut contradictio modalium non fiat ex negatione verbi, ut secunda ratio
conclusit. Si ergo illud est
impossibile, scilicet quod duo contradictoria possunt simul esse
vera de eodem, boc, scilicet quod contradictio modalium non fiat secundum
verbi negationem, erit magis eligendum.
Impossibilia enim semper vitanda sunt. Ex ipso
autem modo loquendi innuit quod utrique earum aliquid obstat.
Sed quia primo obstat impossibilitas quæ acceptari non potest, secundo
autem nihil aliud obstat nisi quod
negatio supra enunciationis copulam cadere debet, si negativa fieri debet enunciatio, et hoc
aliter fieri potest quam negando dicti
verbum, ut infra declarabitur; ideo hoc
secundum, scilicet quod contradictio modalium
non fiat secundum negationem verbi, eligendum est: primum vero est
omnino abiiciendum. * Lect. seq.
II LECTIO (Canp.. CargrANr lect. vi) DE NEGATIONE APPONENDA NON VERBO SED MODIS IN
CONTRADICTIONIBUS PROPOSITIONUM MODALIUM Ἔστιν ἄρα ἀπόφασις τοῦ δυνατὸν εἶναι τὸ μὴ δυνατὸν εἶναι. Ὁ χαὶ δ᾽ αὐτὸς λόγος καὶ περὶ τοῦ ἐνδεχόμενον εἶναι" καὶ 13e τούτου ἀπόφασις τὸ μὴ ἐνδεχόμενον εἶναι, ἐπὶ τῶν ἄλλων δὲ ὁμοιοτρόπως, οἷον ἀναγκαίου τε καὶ ἀδυνάτου. Γίνεται γάρ, ὥσπερ ἐπ᾽ ἐκείνων τὸ εἶναι καὶ τὸ μὴ εἶναι προσθέσεις,) τὰ δ᾽ ὑποχείμενα πράγματα, τὸ μὲν λευχόν, τὸ δὲ ἄνθρωπος: οὕτως ἐνταῦθα τὸ μὲν εἶναι
xai μὴ εἶναι, ὡς ὑποχείμενον γίνεται, τὸ δὲ δύνασθαι καὶ τὸ ἐνδέχεσθαι, προσθέσεις διορίζουσαι, ὥσπερ ἐπ᾽ ἐχείνων τὸ εἶναι καὶ μὴ εἶναι, τὸ ἀληθὲς xa τὸ ψεῦδος, ὁμοίως αὖται ἐπὶ τοῦ εἶναι δυνατὸν χαὶ εἶναι οὐ δυνατόν. Τοῦ δὲ δυνατὸν μὴ εἶναι ἀπόφασις οὐ τὸ οὐ δυνατὸν εἶναι, ἀλλὰ τὸ οὐ δυνατὸν μὴ εἶναι, καὶ τοῦ δυνατὸν εἶναι οὐ τὸ δυνατὸν μὴ εἶναι, ἀλλὰ τὸ μιὴ δυνατὸν εἶναι. Διὸ καὶ Hs
Pp μὰ ἂν δόξειαν ἀλλήλαις αἱ τοῦ δυνατὸν εἶναι χαὶ δυνατὸν μὴ εἶναι’ τὸ γὰρ αὐτὸ δυνατὸν εἶναι καὶ μὴ εἶναι" οὐ γὰρ ἀντιφάσεις ἀλλήλων αἱ τοιαῦται, τὸ δυνατὸν εἶναι καὶ δυνατὸν μὴ εἶναι"
* Est ergo negatio eius quæ est, possibile esse, ea quæ est ' Seq. cap.
xir. non possibile esse. Eadem quoque
ratio est et in eo quod est contingens
esse: etenim negatio eius est, non
contingens esse; et in aliis quoque simili modo, ut in necessario et impossibili. Fiunt enim quemadmodum in illis, esse et non
esse, appositiones, subiectæ vero res, hoc quidem album, illud vero homo: eodem quoque modo hoc in loco,
esse quidem et non esse, ut subiectum fit, posse vero et conüngere appositiones
sunt, determinantes (quemadmodum in illis esse et non esse) veritatem et
falsitatem, similiter hæ in eo quod est,
esse possibile et esse non
possibile. Eius vero, quæ est,
possibile non esse, negatio est non ea
quæ est, non esse, sed ea quæ est, non possibile; et eius quæ est, possibile esse, non ea quæ est,
possibile non esse,
sed ea quæ est, non possibile esse.
Quare et sequi sese invicem videbuntur, possibile esse et
possibile non esse. Idem enim possibile esse et non esse. ἀλλὰ τὸ δυνατὸν εἶναι χαὶ μὴ δυνατὸν εἶναι οὐδέποτε ἐπὶ τοῦ αὐτοῦ ἅμα ἀληθεύονται" ἀντίκεινται Te, οὐδέ γε τὸ δυνατὸν μὴ εἶναι χαὶ οὐ δυνατὸν
pen εἶναι οὐδέποτε ἅμα ἐπὶ τοῦ αὐτοῦ ἀληθεύονται. Ὁμοίως δὲ xài τοῦ ἀναγκαῖον εἶναι ἀπόφασις οὐ τὸ ἀναγκαῖον μὴ εἶναι, ἀλλὰ τὸ μὴ ἀναγκαῖον εἶναι"
τοῦ δὲ ἀναγχαῖον μὴ εἶναι, τὸ per ἀναγκαῖον μὴ εἶναι. Καὶ τοῦ al θελα εἶναι οὐ τὸ ἀδύνατον μὴ εἶναι, ἀλλὰ τὸ μὴ ἀδύνατον εἶναι: τοῦ δὲ ἀδύνατον μὴ εἶναι τὸ οὐκ ἀδύνατον μὴ εἶναί. Καὶ καθόλου 3£, ὥσπερ εἴρηται, τὸ μὲν εἶναι καὶ μὴ εἶναι δεῖ τιθέναι, ὡς τὰ ὑποκείμενα, κατάφασιν δὲ Non enim
contradictiones sunt sibi invicem huiusmodi, possibile esse et possibile non
esse; sed possibile esse et non possibile esse, nunquam simul sunt in eodem veræ sunt: opponuntur enim : neque
ea quæ . est, possibile non esse et non
possibile non esse, nunquam simul in eodem veræ sunt. Similiter autem et eius. quæ est, necessarium est, negatio non
est quæ est, necessarium non esse, sed
ea quæ est, non necessarium esse; eius vero quæ est, necessarium non esse, ea quæ est, non necessarium non esse.
Et eius quæ est, impossibile esse, non
ea quæ est, impossibile non esse, sed hæc,
non impossibile esse; eius vero quæ est,
impossibile non esse, ea quæ est, non impossibile non esse. A
Universaliter vero, quemadmodum dictum est, esse quidam et xal ἀπόφασιν ταῦτα ποιοῦντα πρὸς τὸ εἶναι καὶ μὴ εἶναι συντάττειν. Καὶ ταύτας οἴεσθαι χρὴ εἶναι τὰς ἀντικειμένας φάσεις" δυνατόν, οὐ δυνατόν" ἐνδεχόμενον; οὐχ ἐνδεχόμενον: ἀδύνατον, οὐχ ἀδύνατον, ἀναγκαῖον, οὐχ ἀναγκαῖον"
ἀληθές, οὐχ ἀληθές. qpeterminat ubi ponenda sit negatio ad
assumenΞΔ dam modalium
contradictionem. Et circa hoc (ἡ [quatuor
facit: primo, determinat veritatem I.
summarie; secundo, assignat determinatæ veritatis rationem, quæ dicitur rationi
ad oppo Num. seq. Num. 4.
Num. 5. Ed. c: et verba non addenda in ea
declar. situm inductæ; ibi: Fiunt
enim * etc.; tertio, explanat eamdem veritatem in omnibus modalibus; ibi: Eius
vero * etc.; quarto, universalem regulam
concludit; ibi: Universaliter vero *
etc. Quia igitur negatio aut verbo aut modo apponenda est, et quod verbo non
addenda est *, declaratum est per locum
a divisione; concludendo determinat: Es!
ergo negatio eius quæ est possibile esse, ea quæ est non possibile esse,
in qua negatur modus. Et eadem est ratio in
enunciationibus de contingenti. Huius enim, quæ est, contingens esse, negatio est, non contingens
esse. Et in alis, scilicet de mecesse et
impossibile idem est iudicium. 2. liones
Deinde etc., cum
subdit dicit: Fiust
enim in illis apposihuius veritatis rationem talem. Ad sumendam contradictionem inter aliquas
enunciationes et non esse oportet ponere quemadmodum subiecta, negationem vero et affirmationem hæc
facientem, ad esse non esse apponere. Et has oportet putare esse oppositas dictiones: possibile non possibile;
contingens non contingens; impossibile non impossibile;
necessarium non necessarium; verum non verum.
oportet ponere negationem super appositione, idest coniunctione prædicati
cum subiecto; sed in modalibus appositiones sunt modi; ergo in modalibus
negatio apponenda est modo, ut fiat contradictio. Huius rationis, maiore subintellecta, minor ponitur in
littera per secundam similitudinem ad illas de inesse. Et dicitur quod quemadmodum in illis enunciationibus de
imesse appositiones, idest prædicationes,
sunt esse et non esse, idest verba
significativa esse vel non esse (verbum enim
semper est nota eorum quæ de altero prædicantur), subiective vero
appositionibus res sunt, quibus esse vel non
esse apponitur, ut album, cum
dicitur, album est, vel homo, cum dicitur,
homo est; eodem modo hoc in loco in
modalibus accidit: esse quidem subiectum fit, idest dictum sunt.
significans esse vel non esse subiecti locum tenet ; contingere vero et posse oppositiones, idest
modi, prædicationes Et quemadmodum in
illis de inesse penes esse et non esse
veritatem vel falsitatem determinavimus, ita
in istis modalibus penes modos. Hoc est enim quod subCAP. , LECT. dit, determinantes, scilicet, fiunt ipsi
modi veritatem, quemadmodum in illis esse et non esse, eam * determinat. 109 negatio, possibile non esse, sit illa, non
possibile non esse: : Mu
præced. 3. Et sic patet responsio ad
argumentum in oppositum primo adductum *, concludens quod negatio verbo apponenda sit, sicut illis de inesse. Dicitur
enim quod cum modalis enunciet modum de
dicto sicut enunciatio de inesse, esse
vel esse tale, puta esse album de subiecto,
eumdem locum tenet modus hic, quem ibi verbum; et consequenter super idem proportionaliter
cadit negatio hic et ibi. Eadem enim, ut
dictum est, proportio est modi ad
dictum, quæ est verbi ad subiectum. - Rursus cum veritas et falsitas
afhrmationem et negationem sequantur,
penes idem. attendenda est affirmatio vel negatio enunciationis, et
veritas vel falsitas eiusdem. Sicut autem in
enunciationibus de igesse veritas vel falsitas esse vel non esse consequitur, ita in modalibus modum.
Illa namque modalis est vera quæ sic
modificat dictum sicut dicti compositio
patitur, sicut illa de imesse est vera, quæ sic
significat esse sicut est. Est ergo negatio modo hic apponenda, sicut
ibi verbo, cum sit eadem utriusque vis
quoad veritatem et falsitatem enunciationis. 7 Adverte quod modos, appositiones, idest, prædicationes
vocavit, sicut esse in illis de inesse, intelligens per modum totum prædicatum enunciationis modalis,
puta, est possibile. In cuius signum
modos ipsos verbaliter protulit dicens: Contingere vero et posse appositiones
sunt. Contingit enim et potest, totum prædicatum modalis continent. 4. Deinde cum dicit: Eius vero quod est
possibile est non esse etc., explanat
determinatam veritatem in omnibus
modalibus, scilicet de possibili, et necessario, et impossibili. Contingens
convertitur cum possibili. Et quia quilibet modus facit duas modales
affirmativas, alteram habentem dictum affirmatum *, et alteram habentem
dictum negatum; ideo explanat in
singulis modis quæ cuiusque
affirmationis negatio sit. Et primo in illis de possibili. Et quia primæ affirmativæ de possibili (quæ
scilicet habet dictum affirmatum)
scilicet possibile esse, negatio assignata fuit, non possibile esse; ideo ad
reliquam affirmativam de possibili transiens ait: Eius vero, quæ est possibile
non esse (ubi dictum negatur) megatio est mom possibile non esse. Et hoc
consequenter probat per hoc quod
contradictoria huius, possibile non esse, aut est, possibile esse, aut
illa, quam diximus, scilicet, non possibile
non esse. Sed illa, scilicet, possibile esse, non est eius contradictoria. Non enim sunt sibi invicem
contradicentes, possibile esse, et,
possibile non esse, quia possunt simul esse
veræ. Unde et sequi sese invicem putabuntur: quoniam, ut supra dictum fuit, idem est - possibile
esse, et - non esse, et consequenter
sicut ad, posse esse, sequitur, posse
non esse, ita e contra ad, posse non esse, sequitur, posse esse.
Sed contradictoria illius, possibile esse, quæ non potest simul esse vera est, non possibile
esse: hæ enim, ut dictum est,
opponuntur. Remanet ergo quod huius
neret. hæ namque simul nunquam
sunt veræ vel falsæ. Dixit quod
possibile esse et non esse sequi se invicem putabuntur, et non dixit quod se
invicem consequuntur: quia secundum
veritatem universaliter non sequuntur se, sed
particulariter tantum, ut infra dicetur; propter quod putabitur quod
simpliciter se invicem sequantur. Deinde decarat hoc idem in illis de
necessario. Et primo, in affirmativa habente dictum affirmatum, dicens: Similiter
eius quæ est, necessarium. esse, megatio
non est ea, quæ dicit necessarium. mon
esse, ubi modus non negatur, sed ea quæ
est, non necessarium. esse. Deinde subdit de affirmativa de necessario habente dictum negatum, et ait:
Eius vero, quæ est, necessarium. mom esse, megatio est ea, quæ
dicit, mon necessarium. mon.
esse. Deinde transit ad illas de
impossibili, eumdem ordinem servans, et inquit: Et eius, quæ dicit, impossibile esse, negatio non est ea
quæ dicit, impossibile non esse, sed, non impossibile esse: ubi idm modus
negatur. Alterius vero afhrmativæ, quæ est,
impossibile non es$e, negatio est ea quæ dicit, won impossibile non
esse. Et sic semper modo negatio addenda
cst. 5. Deinde cum dicit: Unmiversaliter
vero etc., concludit regulam universalem
dicens quod, quemadmodum dictum est,
dicta importantia esse et non esse oportet ponere in modalibus ut subiecta, negationem vero et
affirmationem hoc, idest contradictionis
oppositionem, facientem, oportet apponere tantummodo ad suum eumdem modum,
non ad diversos modos. Debet namque illemet modus
negari, qui prius affirmabatur, si
contradictio esse debet. Et exemplariter: explanans quomodo hoc fiat, subdit:
Et oportet putare bas esse oppositas
dictiones, idest affirmationes et
negationes in modalibus, possibile et non possibile, contingens et mon
contingens. Item cum dixit negationem alio
tantum modo ad modum apponi debere, non exclusit modi copulam, sed dictum. Hoc enim est
singulare in modalibus quod eamdem
oppositionem facit, negatio modo addita, et eius verbo. Contradictorie enim
opponitur huic, possibile est esse, non
solum illa, non possibile est esse, sed
ista, possibile non est esse. Meminit autem
modi potius, et propter hoc quod nunc diximus, ut scilicet insinuaret
quod negatio verbo modi postposita, modo
autem præposita, idem facit ac si modali verbo præponeretur, et quia,
cum modo numquam caret modalis
enunciatio, semper negatio supra modum poni potest. Non autem sic de eius verbo: verbo enim modi
carere contingit modalem, ut cum
dicitur, Socrates currit necessario; et ideo semper verbo negatio aptari
potest. - Quod autem in fine addidit,
verum et non verum, insinuat, præter
quatuor prædictos modos, alios inveniri, qui etiam compositionem enunciationis determinant,
puta, verum et non verum, falsum et non
falsum: quos tamen inter modos supra non
posuit, quia, ut declaratum fuit, non
proprie modificant. II
LECTIO (Canp. CareTANI lect.
vir) DE PROPOSITIONUM MODALIUM CONSEQUENTIIS Καὶ αἱ ἀκολουθήσεις δὲ κατὰ λόγον γίνονται οὕτω τιθεμένοις: τῷ μὲν γὰρ δυνατὸν εἶναι τὸ ἐνδέχεσθαι
εἶναι, καὶ τοῦτο ἐχείνῳ ἀντιστρέφει, καὶ τὸ μὴ ἀδύνατον εἶναι χαὶ τὸ Un ἀναγκαῖον εἰναι" τῷ δὲ δυνατὸν μὴ εἶναι χαὶ ἐνδεχόμενον μὴ εἶναι τὸ μὴ ἀναγκαῖον μὴ εἶναι καὶ τὸ οὐκ ἀδύνατον μὴ εἶναι, τῷ δὲ
μὴ δυνατὸν εἶναι καὶ y ἐνδεχόμενον εἶναι τὸ ἀναγχαῖον νὴ Ξἶναι xa τὸ ἀδύνατον εἰναι; τῷ δὲ μὴ δυγατὸν
μὴ εἶναι, xal μὴ ἐνδεχόμενον [um εἰναι τὸ ἀναγκαῖον εἶναι καὶ τὸ ἀδύνατον μὴ εἶναι. Θεωρείσθω δὲ ἐκ ἧς ὑπογραφῆς ὡς λέγομεν, LN ΄ δυνατὸν εἶναι, ἐνδεχόμενον εἶναι; οὐκ ἀδύνατον εἶναι, οὐκ ἀναγκαῖον εἶναι; δυνατὸν μὴ εἶναι, ἐνδεχόμενον μὴ εἶναι; οὐχ
αδυνατον μὴ εἰναι» οὐχ ἀναγκαῖον μὴ εἶναι, οὐ δυνατὸν εἶναι. οὐκ ἐνδεχόμενον εἶναι. ἀδύνατον εἶναι. ἀναγκαῖον μὴ εἶναι. οὐ δυνατὸν μὴ εἶναι. οὐχ ἐνδεχόμενον μὴ εἶναι. ἀδύνατον Un εἶναι. ἀναγκαῖον εἰναι. *
Consequentiæ vero secundum rationem fiunt cum ita 'Cap.xm. ponuntur illam enim quæ est, possibile esse,
sequitur illa quæ est, contingit esse,
et hæc illi convertitur, et, non impossibile esse et non necessarium esse;
illam vero non quæ
est, possibile non esse, et, contingens non
esse, ea quæ est, non necesse non esse, et, non impossibile esse:
illam autem quæ est, non possibile
esse, et, non contingens esse, ea quæ est, necessarium non
esse, et impossibile esse: illam vero quæ est, non possibile non esse, et, non contingens non
esse, ea quæ est, necesse est esse, et,
impossibile non esse. Consideretur autem ex subscriptione quemadmodum
dicimus: Possibile est esse, Contingens est esse, Non impossibile est esse, Non necessarium est esse, Possibile est non esse, Contingens est non esse, Non impossibile est non esse, Non possibile est esse. Non contingens est esse. Impossibile est esse. Necessarium est non esse. Non possibile est non esse. Non contingens est non esse. Impossibile est non esse. Non necessarium est non esse, Necessarium est
esse. Τὸ μὲν οὖν ἀδύνατον καὶ οὐκ ἀδύνατον τῷ ἐνδεχομένῳ χαὶ δυνατῷ καὶ οὐχ ἐνδεχομένῳ καὶ μὴ δυνατῷ ἀχολουθεῖ μὲν ἀντιφατικῶς, ἀντεστραμμένως δέ: τῷ μὲν
γὰρ δυνατὸν εἶναι ἡ ἀπόφασις τοῦ ἀδυνάτου ἀκολουθεῖ, τῇ δὲ ἀποφάσει ἡ κατάφασις. Τῷ γὰρ οὐ δυνατὸν εἶναι τὸ ἀδύνατον εἶναι: κατάφασις γὰρ τὸ ἀδύνατον εἶναι, τὸ δ᾽ οὐκ ἀδύνατον εἶναι ἀπόφασις. δ" δ᾽ ἀναγκαῖον πῶς, ὀπτέον. Φανερὸν δὴ ὅτι οὐχ οὕ-, ε:ὰ e H, τως
σεις
γάρ, ἔχει, ἀλλ᾽
χωρίς" ἐστιν » αἱ, ἐναντίαι ἕπονται" αἱ δ᾽ ἀντιφά- kJ ἀπόφασις τοῦ ἀνάγχη μὴ εἶναι τὸ οὐχ
ἀνάγκη εἶναι: ἐνδέχεται γὰρ ἀληθεύεσθαι ἐπὶ τοῦ
M] 5,, ὁ
Ζ
» IB,, 5 αὐτοῦ ἀμφοτέρας" τὸ qup ἀναγκαῖον μη εἶναι οὐχ ἀναγκαῖον εἶναι. ὅτι
Αἴτιον δὲ τοῦ μὴ ἀκολουθεῖν τὸ ἀναγκαῖον ὁμοίως τοῖς
ἑτέροις, ἐναντίως τὸ ἀδύνατον τῷ ἀναγκαίῳ ἀποδίδοται, τὸ αὐτὸ δυνάμενον. Εἰ γὰρ ἀδύνατον
εἶναι, ἀναγκαῖον τοῦτο οὐχ εἶναι, ἀλλὰ μὴ εἶναι" εἰ δὲ ἀδύνατον μὴ εἶναι, τοῦτο ἀνάγχη εἶναι: ὥστε
εἰ
ἐχεῖνα ὁμοίως τῷ δυνατῷ καὶ μή, ταῦτα ἐξ ἐναντίας, ἐπεὶ οὐ σημαίνει γε ταὐτὸν τό τε ἀναγκαῖον
xai τὸ ἀδύνατον, ἀλλ᾽ ὥσπερ εἴρηται, ἀντεστραμμένως. ᾿
ἀδύνατον οὕτως κεῖσθαι τὰς τοῦ ἀναγκαίου ἀντιφάPS ; Ξ
σεις; τὸ μὲν γὰρ ἀναγκαῖον εἶναι δυνατὸν εἶναι" εἰ N γὰρ μή; ἡ ἀπόφασις ἀκολουθήσει: ἀνάγκη γὰρ ἢ φάναι
ἢ ἀποφάναι: ὥστ᾽ εἰ μὴ δυνατὸν εἶναι, ἀδύνατον εἶναι: ἀδύνατον ἄρα εἶναι τὸ ἀναγκαῖον εἶναι, ὅπε ἄτοπον. ᾿Αλλὰ μὴν τῷ γε δυνατὸν εἶναι τὸ οὐχ ἀδύνατον εἶναι ἀκολουθεῖ, τούτῳ δὲ τὸ μὴ ἀναγκαῖον
εἶναι: docs συμβαίνει τὸ ἀναγχαῖον εἶναι μὴ ἀναγxatov εἶναι, ὅπερ ἄτοπον. ᾿Αλλὰ μὴν οὐδὲ τὸ ἀναγκαῖον εἶναι ἀχολουθεῖ τῷ δυνατὸν εἶναι. οὐδὲ τὸ ἀναγχαῖον μὴ εἶναι: τῷ μὲν γὰρ
duo. ἐνδέχεται συμβαίνειν, τούτων δὲ ὁπότερον ἂν ἀληθὲς ἥ, οὐκέτι ἔσται ἐκεῖνα ἀληθῆ. "Apa γὰρ δυγατὸν εἶναι καὶ μὴ εἶναι" εἰ δ᾽ ἀνάγκη εἶναι 7) μὴ
Hæ igitur, impossibile, et, non impossibile, eam quæ est, contingens, et possibile, et non contingens,
et non possibile sequuntur quidem contradictorie, sed conversim. Eam
enim quæ est, possibile esse, negatio impossibilis sequitur, quæ est, non impossibile esse:
negationem vero affirmatio. Illam enim,
non possibile esse, ea quæ est,
impossibile esse: affirmatio enim est, impossibile esse; non impossibile vero, negatio. Necessarium autem quemadmodum se habeat, considerandum
est. Manifestum est autem quod non eodem modo
se habet, sed contrariæ sequuntur,
contradictoriæ autem sunt extra. Non
enim est negatio. eius, quæ est, necesse non esse, ea quæ
est, non necesse esse: contingit enim veras esse utrasque in eodem: quod enim est necessarium
non esse, non est necessarium esse. Causa autem huius est, cur non sequitur
necessarium cæteris similiter: quoniam contrarie, impossibile esse, necessario
redditur idem valens. Nam quod impossibile
esse, necesse hoc non quidem esse, sed potius non esse: quod vero impossibile non esse, hoc
necessarium esse. Quare si illa
similiter sequuntur possibile, et, non
possibile: hæc ex opposito: quoniam non significant idem necessarium et impossibile; sed (ut
dictum est) conversim. Aut certe impossibile est sic poni necessarii
contradictiones. Nam quod necessarium
est esse, possibile est esse: nam si
non, negatio consequetur: necesse est enim aut affirmare, aut negare. Quare si
non possibile est esse, impossibile est esse. Igitur impossibile est esse quod
necesse est esse: quod est inconveniens. At vero illam quæ est, possibile esse, non impossibile
esse, sequitur: hanc vero, ea quæ est,
non necessarium est esse; quare
contingit quod necessarium esse, non necessarium esse: quod est inconveniens. At
vero neque necessarium esse,
sequitur eam quæ est, possibile esse,
neque ea quæ est, necessarium non esse.
Illi enim utraque contingit accidere: harum autem utralibet vera fuerit,
non erunt illa vera: simul enim possibile esse, et, non esse. Si vero necesse
esse, vel non esse, CAP. XIII, εἶναι, οὐκ ἔσται δυνατὸν ἄμφω. Λείπεται τοίνυν τὸ οὐχ ἀναγκαῖον μὴ εἶναι ἀκολουθεῖν τῷ δυνατὸν εἶναι. Τοῦτο γὰρ ἀχηθὲς xxl
xxcvd τοῦ ἀναγκαῖον εἶναι. Καὶ qde αὕτη γίνεται ἀντίφασις τῇ ἑπομένῃ τῷ οὐ δυνατὸν εἰναι"
ἐχείνῳ vp ἀχολουθεῖ τὸ ἀδύνατον εἶνα!:
xal ἀναγκαῖον μὴ εἶναι, οὐ ἡ ἀπόφασις τὸ οὐχ ἀναγκαῖον μὴ εἶναι. ᾿Ακολουθοῦσί τε ἄρα xal αὐται αἱ ἀντιφάσεις χατὰ τὸν εἰρημένον τρόπον, καὶ οὐδὲν ἀδύνατον συμβαίνει τιθεμένων οὕτως.
I. y ERN S
(Q9 ; Jo lium, hic determinare intendit de
consequenD^ tradit veritatem; secundo, movet quandam dubitationem circa determinata; ibi:
Dubita* * *
Lect. seq. Num. 5. dun
bit autem * etc. Circa primum duo facit: primo, ponit consequentias
earum secundum opinionem aliorum; secundo,
examinando et corrigendo dictam opinionem, determinat veritatem ; ibi: Ergo impossibile * etc. 2. Quoad primum considerandum est quod cum quiliLect. præced.
bet modus faciat duas affirmationes, ut dictum fuit *, et un
' *Lect. xi. * Ed. c τος quabus-affirmationibus
opponantur duæ negationes, ut etiam
dictum fuit in Primo * ; secundum quemlibet modum fient quatuor enunciationes, duæ scilicet
affirmativæ et duæ negativæ. Cum autem
modi sint quatuor, effcientur sexdecim modales: quaternarius enim in seipsum
ductus sexdecim constituit. Et quoniam apud omnes, quælibet cuiusque modi,
undecumque incipias, habet unam tantum
cuiusque modi se consequentem, ideo ad assignandas consequentias modalium,
singulas ex singulis modis accipere
oportet et ad consequentiæ ordinem inter se adunare. 3. Et hoc modo fecerunt antiqui, de quibus
inquit Aristoteles: Consequentiæ vero.
fiunt secundum infrascriptum ordinem,
antiquis ita. ponentibus. Formaverunt enim quaomittit se.
Averroes. tuor ordines modalium,
in quorum quolibet omnes quæ se *
consequuntur collocaverunt. - Ut autem confusio vitetur, vocetur, cum Averroe,
de cætero, in quolibet modo, affirmativa
de De et modo, affirmativa simplex ; afhrmativa autem de
modo et negativa de dicto, affirmativa
declinata; negativa vero de modo et non dicto, negativa simplex; negativa autem de utroque, megativa
d:clinata: ita quod modi affirmationem
vel negationem simplicitas, dicti vero
declinatio denominet. - Dixerunt ergo antiqui
quod affirmationem simplicem de possibili, scilicet, possibile est esse,
sequitur affirmativa simplex de contingenti,
Scilicet, contingens est esse (contingens enim convertitur cum possibili); et negativa simplex de
impossibili, scilicet, non impossibile esse; et similiter negativa
simplex de necessario, scilicet, non
necesse est esse. Et hic est primus ordo modalium consequentium se. - In
secundo au3 QE ecaftema- feih dixerunt quod affirmativas * declinatas de
possibili et contingenti, scilicet,
possibile non esse, et, contingens non
esse, sequuntur negativæ declinatæ de necessario et impossibili, scilicet, non necessarium non
esse, et, non impossibile non esse.- In
tertio vero ordine dixerunt quod negativas
simplices de possibili et contingenti, scilicet, non possibile esse, non
contingens esse, sequuntur afBrmativa
declinata de necessario, scilicet, necesse non
esse, et affirmativa simplex de impossibili, scilicet, impossibile esse.
- In quarto demum ordine dixerunt quod
negativas declinatas de possibili et contingenti, scilicet, non possibile non esse, et, non contingens non
esse, sequuntur affirmativa simplex de necessario, scilicet, necesse esse, et affirmativa declinata de
impossibili, scilicet, impossibile est non esse. 4. Consideretur autem ex subscriptione appositæ
figuræ, quemadmodum dicimus, ut clarius elucescat depictum. non
erit possibile utrunque. Relinquitur ergo non necessarium non esse, sequi eam
quæ est, possibile est esse. Hæc enim vera est, et de necesse
esse. Hæc enim fit contradictio eius, quæ sequitur illam quæ est, non possibile
esse: illam enim sequitur ea quæ est, impossibile esse,
cesse et, necesse non esse, cuius negatio est, non
nenon esse. Sequuntur igitur et hæ
contradictiones secundum prædictum modum: et nihil impossibile contingit sic
positis. CONSEQUENTIÆ ENUNCIATIONUM
MODALIUM SECUNDUM QUATUOR ORDINES AB
ANTIQUIS POSITÆ ET ORDINATÆ Primus Ordo
Possibile est esse Contingens est
esse Non impossibile est esse Non necessarium est esse Tertius Ordo
Non possibile est esse Non
contingens est esse Impossibile est esse Necessarium est non esse Secundus Ordo
Possibile est non esse
Contingzens est non esse Non
impossibile est non esse Non necessarium
est non esse Quartus Ordo Non possibile est non esse Non contingens est non esse Impossibile est non esse Necesse est esse 5. Deinde
cum dicit: Ergo impossibile et non impossibile etc., examinando dictam op'nionem, determinat
veritatem. Et circa hoc duo facit: quia
primo examinat consequentias earum de
impossibili; secundo, illarum de necessario; ibi: Necessarium. autem * etc. Unde ex præmissa
op' nione concludens et approbans, dicit: Ergo ista, scilicet,
impossibile, et, non impossibile,
sequuntur illas, scilicet, contingens et
possibile, non contingens, et, non possibile, sequuntur, inquam,
coniradictoriz, idest ita ut contradictoriæ de impossibili contradictorias de
possibili et contingenti consequantur, sed comversim, idest, sed non ita quod
affirmatio affirmationem et negatio
negationem sequatur, sed conversim, scilicet, quod affirmationem negatio et
negationem affirmatio. Et explanans hoc
ait: lllud enim quod est possibile esse, idest affirmationem possibilis negatio
sequitur impossibilis, idest, non
impossibile esse; negationem vero
possibilis affirmatio sequitur impossibilis. Illud enim quod est, non possibile esse, sequitur ista,
impossibile est esse ; hæc autem,
scilicet, impossibile esse, affirmatio est; illa vero, scilicet, non possibile esse, negatio
est; hic s'quidem modus negatur; ibi, non. Bene igitur dixerunt antiqui in
quolibet ordine quoad consequentias illarum de
impossibili, quia, ut in suprascripta figura apparet, semper ex
affirmatione possibilis negationem impossibilis, et ex negatione possibilis affirmationem
impossibilis inferunt. .6. Deinde cum
dicit: Necessarium autem. etc., intendit
examinando determinare consequentias de necessario. Et circa hoc duo facit: primo examinat dicta
antiquorum ; secundo, determinat
veritatem intentam; ibi: 4t vero neque
necessarium * etc. Circa primum quatuor facit. Primo, declarat quid bene
et quid male dictum sit ab antiquis in hac
re. - Ubi attendendum est quod cum quatuor sint enunciationes de
necessario, ut dictum est, differentes inter se
sécundum quantitatem et qualitatem, adeo ut unam integrent figuram
oppositionis iuxta morem illarum de ine$$£; duæ earum sunt contrariæ inter se,
duæ autem illis contrariis contradictoriæ,
ut patet in hac figura. Necesse esse
Non necesse non esse Necesse
Contrariæ e 2
$3, € S S [2
«9 o x
o *o "v.
Subcontrariæ non esse e
e δ Non
fiecesse esse * * Num.
seq. Num. 1. 112 Il
Quia ergo antiqui universales contrarias bene intulerunt ex aliis,
contradictorias autem earum, scilicet particulares, male intulerunt; ideo dicit
quod considerandum restat de his, quæ
sunt de necessario, qualiter se habeant
in consequendo illas de possibili et non possibili. Manifestum est autem
ex dicendis quod non eodem modo istæ de
necessario illas de possibili consequuntur, quo easdem sequuntur illæ de impossibili. Nam omnes enunciationes de impossibili recte illatæ sunt ab antiquis.
Enunciationes autem de necessario non
omnes recte inferuntur: sed duæ earum,
quæ sunt contrariæ, scilicet, necessé est esse, et, necesse est nom esse, sequuntur, idest recta
consequentia * Cf. supra, n. 4. Boethius.
Averroes. deducuntur ab antiquis,
in tertio scilicet et quarto ordine *;
reliquæ autem duæ de necessario, scilicet, non necesse non esse, et, non necesse esse, quæ sunt
contradictoriæ supradictis, sunt extra
consequentias illarum, in secundo
scilicet et primo ordine. Unde
antiqui in tertio et quarto ordine omnia
recte fecerunt; in primo autem et in secundo peccaverunt, non quoad omnia, sed
quoad enunciationes de necessario tantum.
7. Secundo cum dicit: Non enim est negatio eius etc., respondet cuidam tacitæ obiectioni, qua
defendi posset consequentia
enunciationis de necessario in primo ordine
ab antiquis. facta. Est autem obiectio tacita talis. Non possibile esse, et, necesse non esse,
convertibiliter se sequuntur in tertio
ordine iam approbato; ergo, possibile
esse, et, non necesse esse, invicem se sequi debent in primo ordine.
Tenet consequentia: quia duorum convertibiliter se sequentium contradictoria
mutuo se sequuntur; sed illæ duæ tertii
ordinis convertibiliter se sequuntur, et
istæ duæ primi ordinis sunt earum contradictoriæ; ergo istæ primi ordinis, scilicet, possibile esse,
et, non necesse esse, mutuo se
sequuntur. - Huic, inquam, obiectioni respondet Aristoteles hic interimendo
minorem quoad hoc quod assumit, quod
scilicet necessaria primi ordinis et
necessaria tertii ordinis sunt contradictoriæ. Unde dicit: Non enim est negatio eius quod est, necesse
mon esse (quæ erat esse,
in tertio ordine), illa quæ dicit, mom mecesse est quæ sita erat in primo ordine. Et causam subdit, quia contingit utrasque simul esse veras in
eodem; quod contradictoriis repugnat.
Illud enim idem, quod est necessarium non esse, non est necessarium esse.
Necessarium siquidem est hominem non
esse lignum et non necessarium est hominem esse lignum. Adverte quod, ut
infra patebit, istæ duæ de necessario,
quas posuerunt antiqui. in primo et
tertio ordine, sunt subalternæ (et ideo sunt
simul veræ), et deberent esse contradictoriæ; et ideo erraverunt antiqui. 8. Boethius autem et Averroes non
reprehensive legunt tam hanc, quam præcedentem textus particulam, sed narrative utranque simul iungentes.
Narrare enim aiunt Aristotelem
qualitatem suprascriptæ figuræ quoad
consequentiam illarum de necessario, postquam narravit quo modo se habuerint illæ de impossibili, et
dicere quod secundum præscriptam figuram
non eodem modo sequuntur illas de
possibili illæ de necessario, quo sequuntur illæ de impossibili. Nam contradictorias de possibili contradictoriæ de
impossibili sequuntur, licet conversim; contradictoriæ autem de necessario non
dicuntur sequi illas contradictorias de
possibili, sed potius eas sequi dicuntur
contrariæ de necessario: non inter se
contrariæ, sed hoc modo, quod affirmationem possibilis negatio de necessario sequi dicitur,
negationem vero possibilis non affirmatio de necessario sequi ponitur, quæ
sit contradictoria illi negativæ quæ
ponebatur sequi ad possibilem, sed talis affirmationis de necessario contrario.
Et quod hoc ita fiat in illa figura ut dicimus, patet ex primo et tertio ordine, quorum capita sunt
negatio et affirmatio possibilis, et extrema sunt, non necesse esse, et, necesse non esse. Hæ siquidem non sunt
contradictoriæ. Non enim est negatio
eius, quæ est, necesse non esse, non
necesse esse (quoniam contingit eas simul verificari de eodem), sed illa
scilicet, necesse non esse, est
contraria contradictoriæ huius, scilicet, non necesse esse, quæ est, necesse est esse. Sed quia sequenti litteræ magis consona est
introductio nostra, quæ etiam Alberto consentit, et extorte videtur ab aliis
exponi ly contrariæ, ideo prima, iudicio
meo, acceptanda est expositio et ad antiquorum reprehensionem referendus
est textus. 9. Tertio cum dicit: Causa
autem cur etc., manifestat id quod præmiserat,
scilicet, quod non simili modo ad illas
de possibili sequuntur illæ de impossibili et illæ de necessario. Antiquorum enim hoc peccatum
fuit tam in primo quam in secundo ordine, et quod simili
modo intulerunt illas de impossibili et
necessario. In primo siquidem ordine, sicut posuerunt negativam simplicem
de impossibili, ita posuerunt negativam
simplicem de necessario, et similiter in secundo ordine utranque negativam declinatam * locaverunt. Hoc ergo quare
peccatum sit, et causa autem quare necessarium som sequitur
possibile, similiter, idest, eodem modo cum cæteris, scilicet, de
impossibili, est, quoniam impossibile redditur idem valens necessario, idest, æquivalet
necessario, comtrarie, idest, contrario modo sumptum, et non eodem modo. Nam
si, hoc esse est
impossibile, non inferemus, ergo hoc esse est necesse, sed, hoc non esse est necesse. Quia
ergo impossibile et necesse mutuo se sequuntur, quando dicta eorum contrario
modo sumuntur, et non quando dicta eorum simili modo sumuntur, sequitur quod
non eodem modo ad possibile se habeant
impossibile et necessarium, sed
contrario modo. Nam ad id possibile quod sequitur dictum affirmatum de impossibili, sequitur
dictum negatum de necessario; et e contrario. Quare autem hoc accidit infra
dicetur. Erraverunt igitur antiqui quod similes
enunciationes de impossibili et necessario in primo et in secundo ordine locaverunt. ro.
Hinc apparet quod supra posita nostra expositio conformior est Aristoteli. Cum enim hunc
textum induxerit ad manifestandum illa verba: Manifestum. est autem. quoniam non eodem modo, etc., eo accipiendo
sunt sensu illa verba, quo hic per
causam manifestantur. Liquet autem quod hic redditur causa dissimilitudinis veræ
inter necessarias et impossibiles in
consequendo possibiles, et non
dissimilitudinis falso opinatæ ab antiquis: quoniam ex
vera causa nonnisi verum concluditur. Ergo reprehendendo
antiquos, veram dissimilitudinem inter necessarias, et impossibiles in
consequendo possibiles, quam non
servaverunt illi, proposuisse tunc intelligendum est, et nunc
eam manifestasse. Quod autem dissimilitudo illa, quam antiqui posuerunt inter necessarias et
impossibiles, sit falso posita, ex infra
dicendis patebit. Ostendetur enim quod
contradictorias de possibili contradictoriæ de necessario sequuntur conversim;
et quod in hoc non differunt ab his quæ
sunt de impossibili, sed differunt in hoc quod
modo diximus, quod possibilium et impossibilium se consequentium dictum
est similiter, possibilium autem et necessariorum, se invicem consequentium
dictum est contrarium, ut infra clara luce videbitur. 11. Quarto cum dicit: Aut certe impossibile
est etc., manifestat aliud quod proposuerat, scilicet, quod contradictoriæ de
necessario male situatæ sint secundum consequentiam ab antiquis, qui
contradictiones necessarii ita
ordinaverunt. In primo ordine posuerunt contradictoriam negationem, necesse esse, idest, non necesse
esse; et in secundo contradictoriam negationem, necesse non esse, idest, Albertus.
* Ν Cf. supra, n..3. CAP.,
non necesse non
esse. Et probat hunc consequentiæ modum esse malum in primo ordine. Cognita
enim malitia primi, facile est secundi ordinis agnoscere defectum. Probat autem hoc tali ratione ducente ad
impossibile. Ad necessarium esse
sequitur possibile esse: aliter sequeretur non possibile esse, quod manifeste
implicat; ad possibile esse sequitur non impossibile esse, ut patet; ad
non impossibile esse, secundum antiquos,
sequitur in primo ordine non necessarium
esse; ergo de primo ad ultimum, ad
necessarium esse sequitur non necessarium esse: quod est
inconveniens, quia est manifesta implicatio contradictionis. Relinquitur
ergo quod male dictum sit, quod non
necessarium esse consequatur in primo ordine. Ait ergo et
certe impossibile est poni sic
secundum consequentiam, ut antiqui posuerunt, necessarii contradictiones, idest
illas duas enunciationes de necessario, quæ sunt negationes contradictoriæ
aliarum duarum de necessario. Nam ad id
quod est, necessarium esse, sequitur, possibile
est esse: nam si non, idest quoniam si hanc negaveris consequentiam, negatio possibilis sequitur
illam, scilicet, necesse esse. Necesse
est enim de necessario aut dicere, idest
affirmare possibile, aut negare possibile: de quolibet enim est affirmatio vel
negatio vera. Quare si dicas quod, ad
necesse esse, non sequitur, possibile esse, sed, non possibile est esse; cum hæc æquivaleat illi
quæ dicit, impossibile est esse, relinquitur quod ad, necesse esse, sequitur,
impossibile esse, et idem erit, necesse esse et impossibile esse: quod est
inconveniens. Bona ergo erat prima
illatio, scilicet, necesse est esse, ergo possibile est esse. Tunc ultra. Illud quod est, possibile esse,
sequitur, non impossibile esse, ut patet
in primo ordine. Ad hoc vero, scilicet,
non impossibile esse, secundum antiquos eodem
primo ordine, sequitur, non necesse est esse (quare contingit de primo
ad ultimum); ad id quod est, necessarium
esse, sequitur, non necessarium esse: quod est inconveniens, immo
impossibile. 12. Dubitatur hic: quia in
I Priorum dicitur quod ad possibile
sequitur non necessarium, hic autem dicitur
oppositum. Ad hoc est dicendum quod possibile sumitur dupliciter. Uno
modo in communi, et sic est quoddam superius ad necessarium et contingens ad
utrunque, sicut animal ad hominem et bovem; et sic ad possibile non sequitur
non necessarium, sicut ad animal non
sequitur non homo. Alio modo sumitur possibile pro una parte possibilis in communi, idest pro
possibili seu contingenti, scilicet ad
utrunque, scilicet quod potest esse
et non esse; et sic ad possibile
sequitur non necessarium. Quod enim potest esse et non
esse, non necessarium est esse, et
similiter non necessarium est non esse. Loquimur
ergo hic de possibili in communi, ibi vero in speciali. 13. Deinde cum dicit: 4f vero neque
necessarium etc., determinat veritatem
intentam. Et circa hoc tria facit: primo, determinat quæ enunciatio de
necessario sequatur ad possibile;
secundo, ordinat consequentias omnium modalium; ibi: Sequuntur enim etc. Quoad primum, sicut duabus viis reprehendit antiquos, ita ex illis
duobus motivis intentum probat. Et
intendit quod, ad possibile esse, sequitur,
non necesse non esse. - Primum motivum est per locum a divisione. Ad, possibile esse, non sequitur
(ut probatum est), non necesse esse, at
vero neque, necesse esse, neque, necesse
non esse. Reliquum est ergo ut sequatur ad eam,
non necesse non esse: non enim dantur plures enunciationes de necessario.
Huius communis divisionis primo proponit
reliqua duo membra excludenda, dicens: At vero
neque necessarium. esse, neque necessarium. nom esse, sequitur ad, possibile non esse ; secundo probat hoc
sic. Nullum formale consequens minuit suum antecedens: tunc enim oppositum
consequentis staret cum antecedente; sed utrunOpp. D. Tnuowar T. I. LECT.
que horum, scilicet, necesse esse, et, necesse non esse, minuit
possibile esse; ergo, etc. Unde, tacita maiore, ponit minoris probationem dicens: Illi enim,
scilicet, possibile esse, utraque,
scilicet,esse et non esse, contingit accidere;
horum autem, scilicet, necesse esse et necesse non esse, utrumlibet verum fuerit, non erunt illa duo,
scilicet, esse et non esse, vera simul in potentia. Et primum horum explanans ait: cum dico, possibile esse,
simul est possibile esse et non esse.
Quoad secundum vero subdit. Si vero
dicas, necesse esse vel necesse non esse, non remanet utrunque, scilicet, esse et non esse,
possibile: si enim necesse est esse, possibilitas ad non esse excluditur; et
si necesse est
non esse, possibilitas ad esse removetur. Utrunque ergo istorum minuit illud
antecedens, possibile esse, quoniam ad
esse et non esse se extendit, etc. Tertio
subdit conclusionem: relinquitur ergo quod, non necessarium non esse,
comes est ei quæ dicit, possibile esse;
et consequenter hæc ponenda erit
in primo ordine. 14. Occurrit in hac parte dubium circa hoc quod
dicit quod, ad possibile non sequitur
necessarium, cum superius dixerit quod
ad ipsum non sequitur non necessarium. Cum
enim necessarium et non necessarium sint contradictoria opposita, et de quolibet sit affirmatio vel
negatio vera, non videtur posse evadi
quin ad possibile sequatur necessarium,
vel, non necessarium. Et cum non sequatur necessarium, sequetur non necessarium, ut dicebant
antiqui. - Augetur et dubitatio ex eo
quod Aristoteles nunc * usus est tali
argumentationis modo, volens probare quod ad necessarium sequatur possibile. Dixit enim: Nam si non
negatio possibilis consequatur. Necesse
est enim aut dicere aut negare. 15. Pro
solutione huius, oportet reminisci habitudinis quæ est inter possibile et
necessarium, quod scilicet possibile est
superius ad necessarium, et attendere quod
superius potestate continet suum inferius et eius oppositum, ita quod
neutrum eorum actualiter sibi vindicat, sed
utrunque potest sibi contingere; sicut animali potest accidere homo et
non homo: et consequenter inspicere debes quod, eadem est proportio superioris
ad. habendum affirmationem et negationem
unius inferioris, quæ est alicuius subiecti ad affirmativam et negativam futuri
contingentis. Utrobique enim neutrum habetur, et salvatur potentia ad
utrumlibet. Unde, sicut in futuris contingentibus nec affirmatio nec fiegatio est determinate
vera, sed sub disiunctione altera est
necessario vera, ut in fine Primi *
conclusum est; ita nec affirmatio nec negatio inferioris sequitur determinate affirmationem vel
negationem superioris, sed sub disiunctione altera sequitur necessario. Unde non valet, est animal, ergo est homo, neque,
ergo non est homo, sed, ergo est homo
vel non est homo. Quia ergo possibile superius est ad
necessarium, ideo optime determinavit
Aristoteles neutram contradictionis
partem de necessario determinate sequi ad possibile. Non tamen dixit quod sub disiunctione neutra
sequatur; hoc enim est contra illud
primum principium: de quolibet est
affirmatio vera vel falsa. Ad id
autem quod additur, ex eadem trahitur radice
responsio. Quia enim necessarium inferius est ad possibile, et
inferius non in potentia sed in actu includit suum superius, necesse est ad inferius determinate
sequi suum superius: aliter determinate
sequetur eius contradictorium. Unde per dissimilem habitudinem, quæ est
inter necessarium et possibile et non
possibile, ex una parte, et inter possibile et necessarium et non
necessarium, ex altera parte, ibi
optimus fuit processus ad alteram contradictionis partem determinate, et hic
optimus ad neutram determinate. 16. Oritur quoque alia dubitatiuncula.
Videtur enim quod Aristoteles
difformiter accipiat ly possibile in praepy) *
"ES ἃ: nunc. *
Lect. xin. nunc 114 II
cedenti textu et in isto. Ibi enim accipit ipsum in communi, ut sequitur
ad necessarium; hic videtur accipere
ipsum specialiter pro possibili ad utrumlibet, quia dicit quod possibile est simul potens esse et non
esse. Et ad hoc dicendum est quod
uniformiter usus est possibili. Nec eius
verba obstant: quoniam et de possibili
in communi verum est dicere quod potest sibi utrunque accidere,
scilicet, esse et non esse: tum quia quidquid verificatur de suo inferiori,
verificatur etiam de suo superiori,
licet non eodem modo; tum quia possibile in
communi neutram contradictionis partem sibi determinat, et consequenter utranque sibi advenire
compatitur, licet non asserat potentiam
ad utranque partem, quemadmodum possibile ad utrunque. 17. Secundum motivum ad idem, correspondens
tacitæ obiectioni antiquorum quam supra
exclusit, addit cum subdit: Hoc enim verum est etc. Ubi notandum quod
Aristoteles sub illa maiore adducta pro
antiquis (scilicet, convertibiliter se consequentium contradictoria se mutuo
consequuntur), subsumit minorem: sed horum convertibiliter se sequentium in tertio ordine (scilicet, non
possibile esse et necesse non esse),
contradictoria sunt, possibile esse et non
necesse non esse (quoniam modi negatione eis opponunquuntur, scilicet,
possibile esse, et, non necesse non esse, .
tamquam contradictoria duorum se mutuo consequentium. 18. Deinde cum dicit: Sequuntur enim. etc.,
ordinat omnes consequentias modalium secundum opinionem propriam; et ait quod, hæ contradictiones,
scilicet, de necessario, sequuntur illas de possibili, secundum modum prædictum et approbatum illarum de
impossibili. Sicut enim contradictorias
de possibili contradictoriæ de impossibili sequuntur, licet conversim; ita
contradictorias de possibili contradictoriæ de necessario sequuntur
conversim: licet in hoc, ut dictum est,
dissimilitudo sit quod, contradictoriarum de possibili et impossibili similiter
est dictum, contradictoriarum autem de possibili et necessario contrarium est dictum, ut in sequenti videtur
figura: CONSEQUENTIÆ ENUNCIATIONUM
MODALIUM SECUNDUM QUATUOR ORDINES AB
ARISTOTELE POSITÆ ET ORDINATÆ. Primus
Ordo Possibile est esse Contingens est esse Non impossibile est esse Non necesse est non esse .
Secundus Ordo Possibile est non
esse Contingens est non esse Non impossibile est non esse. Non necesse est esse tur); ergo istæ duæ (scilicet, possibile esse
et non necesse non esse) se consequuntur
et in primo locandæ sunt ordine. Unde motivum tangens ait: Hoc enim, quod
dictum est, verum est, idest verum esse
ostenditur, et de necesse non esse,
idest, et ex illius, scilicet, non necesse non esse, opposita, quæ est, necesse
non esse. Vel, boc enim, scilicet, non
necesse non esse, verum est, scilicet, contradictorium illius de necesse non esse. Et minorem subdens ait:
Hæc enim, scilicet, non necesse non
esse, fit contradictio eius, quæ
convertibiliter sequitur, non possibile esse. Et explanans hoc in terminis subdit. Illud enim, non
possibile esse, quod est caput tertii
ordinis, sequitur hoc de impossibili,
scilicet, impossibile esse, et hæc de necessario, scilicet, necesse non
esse, cuius negatio seu contradictoria est, non
necesse non esse. Et quia, cæteris paribus, modus negatur, et illa, possibile esse, est (subauditur)
contradictoria illius, scilicet, non
possibile; igitur ista duo mutuo se conseTertius Ordo Non possibile est esse Non contingens est esse Impossibile est esse Necesse est non esse Quartus Ordo
Non possibile est non esse Non
contingens est non esse Impossibile est
non esse Necesse est esse Ubi vides quod nulla est inter Aristotelem et
antiquos differentia, nisi in duobus primis ordinibus quoad illas
de necessario. Præpostero
namque situ usi sunt antiqui, eam de
necessario, quæ locanda erat in primo
ordine, in secundo ponentes, et eam quæ in secundo ponenda erat, in
primo locantes. Et aspice quoque quod
convertibiliter se consequentium semper contradictoria se consequi ordinavit. Singulis enim tertii
ordinis singulæ primi ordinis
contradictoriæ sunt; et similiter singulæ
quarti ordinis singulis, quæ in secundo sunt, contradictoriæ sunt. Quod antiqui non
observarunt. CAP. LECT. LECTIO
(Canp. CarerANr lect. 1x) AN AD
ILLUD QUOD EST, NECESSARIUM ESSE, SEQUATUR ID QUOD EST, POSSIBILE ESSE? ᾽Απορήσειε δ᾽ ἄν τις εἰ τῷ ἀναγκαῖον εἶναι τὸ δυνατὸν
εἶναι
ἕπεται. Εἴ τε γὰρ μὴ ἕπεται, ἡ ἀντίφχοσις ἀχολουθήσει, τὸ μὴ δυνατὸν εἶναι" καὶ εἴ τις ταύτην μὴ φήσειεν εἶναι ἀντίφασιν, ἀνάγκη λέγειν τὸ δυνατὸν μὴ εἶναι: ἅπερ ἄμφω ψευδῇ κατὰ τοῦ ἀναγκαῖον 115 * Dubitabit
autem aliquis, si ad illud quod est, necessarium esse, illud quod est, possibile esse,
sequatur. Nam si εἶναι. ᾿Αλλὰ μὴν πάλιν τὸ αὐτὸ εἶναι δοχεῖ δυνατὸν τέμνεσθαι καὶ μὴ τέμνεσθαι, καὶ εἶναι καὶ μιὴ εἶναι, ὥστε ἔσται τὸ ἀναγκαῖον εἶναι ἐνδεχόμενον po εἶναι: τοῦτο δὲ
ψεῦδος. 3 ἢ
ε
Φανερὸν δὴ ὅτι οὐ πᾶν τὸ δυνατὸν ἢ εἶναι ἢ βαδίζειν
xxi τὰ ἀντικείμενα δύναται, ἀλλ᾽ ἔστιν ἐφ᾽ ὧν οὐκ ος͵ ἀληθές" πρῶτον μὲν ἐπὶ τῶν μὴ κατα λόγον δυνατῶν, οἷον τὸ πῦρ θερμαντικὸν καὶ ἔχει δύναμιν ἄλογον. Αἱ μὲν οὖν μετὰ λόγου δυνάμεις αἱ αὐταὶ πλειόνων καὶ τῶν ἐναντίων, αἱ δ᾽ ἄλογοι οὐ πᾶσαι, ἀλλ᾿ ὥσπερ εἴρηται, τὸ πῦρ οὐ δυνατὸν θερμαίνειν καὶ μή, οὐδ᾽
ὅσα ἄλλα ἐνεργεῖ ἀεί. "ἔνια μέντοι δύναται xal τῶν χατὰ τὰς ἀλόγους δυνάμεις ἅμα τὰ ἀντιχείμενα δέἕξασται. ᾿λλλὰ τοῦτο μὲν τούτου χάριν εἴρηται, ὅτι οὐ πᾶσα δύναμις τῶν ἀντικειμένων, οὐδ᾽ ὅσαι λέγονται χατὸὰ τὸ αὐτὸ εἴδος. mew [TAS
TA necesse. Et duo facit: quia
primo dubitationem absolvit; secundo, ex determinata quæstione alium or* *
Wr ed Ὁ TE ϑ, να MPPT T
Lect. seq. Num. 5. dinem earumdem consequentiarum modalibus
statuit ; ibi: Et est fortasse * etc. Circa primum duo facit: primo, movet quæstionem; secundo, determinat eam; ibi:
Manifestum est * etc. Movet ergo quæstionem:
primo dicens: Dubitabit autem. aliquis
si ad id quod est. necesse esse sequatur. possibile &5$£; et secundo, arguit ad partem
affirmativam subdens: Nam si non
sequatur, contradictoria eius. sequetur, scilicet non possibile esse, ut supra deductum est:
quia de quolibet est affirmatio vel negatio vera. Et si quis dicat
hanc, scilicet, non possibile esse, non esse contradictoriam illius, scilicet, possibile esse, et propterea
subterfugiendum velit argumentum, et
dicere quod neutra harum sequitur ad
necesse esse; talis licet falsum dicat, tamen concedatur sibi, quoniam necesse erit ipsum dicere
illius contradictoriam fore, possibile non esse. Oportet namque aut non possibile esse aut possibile non esse,
esse contradictoriam, possibile esse; et tunc in eumdem redibit errorem, quoniam utræque, scilicet, non possibile esse
et possibile non esse, falsæ sunt de eo
quod est, necesse esse. Et consequenter
ad ipsum neutra sequi potest. Nulla enim
enunciatio sequitur ad ilam, cuius veritatem destruit. Relinquitur ergo quod, ad necesse esse
sequitur possibile esse. Tertio, arguit
ad partem negativam cum subdit: 4 vero
rursus etc., et intendit talem rationem. Si ad necesse esse
sequitur possibile esse, cum ad possibile sequatur possibile non esse (per conversionem in
oppositam qua"litatem, ut dicitur in I Priorum, quia idem est
possibile esse et non
6556), sequetur de primo ad ultimum quod
necesse esse est possibile non esse: quod est falsum manifeste. Unde oppositionis hypothesim subdit: 44:
vero non sequatur, contradictio
sequetur, quæ est, non possibile esse: et si quis hanc non dicat esse
contradictionem, necesse est dicere, possibile non esse: quæ utræque falsæ sunt
de necesse esse. At vero rursus idem
videtur esse possibile aliquid incidi et
non incidi, et esse et non esse: quare erit necesse esse, contingens non esse. Hoc autem falsum est. Manifestum est autem quod non omne possibile,
vel esse, vel ambulare, etiam opposita
potest; sed est in qu:bus non sit verum.
Primum quidem in his quæ non secundum rationem possunt; ut ignis calefactibilis
est, et habet vim irrationalem. Quæ igitur secundum rationem potestates
sunt, eædem plurium etiam
contrariorum sunt. Irrationales vero non
omnes: sed (quemadmodum dictum est)
ignem non esse possibile calefacere et non;
neque quæcunque alia semper agunt. Alia vero possunt, et
secundum irrationales potestates simul opposita suscipere. Sed hoc huius
gratia: dictum est, quoniam non omnis
potestas oppositorum susceptiva est, neque quæcunque secundum eamdem speciem
dicuntur. rursus videtur idem possibile
esse et non esse, ut domus, et possibile
incidi et. non. incidi, ut vestis. Quare
de primo ad ultimum necesse esse, erit
contingens non esse. Hoc autem est
falsum. Ergo hypothesis illa, scilicet, quod possibile sequatur ad necesse, est
falsa. 3. Deinde cum dicit: Manifestum.
est. autem. etc., respondet dubitationi. Et primo, declarat veritatem
simpliciter; secundo, applicat ad. propositum; ibi: Hoc igitur possibile*
etc. Proponit ergo primo ipsam veritatem declarandam, dicens: Manifestum
est autem, ex dicendis, quod non omne
possibile esse vel ambulare, idest operari: idest, non omne possibile secundum actum primum vel
secundum ad opposita valet, idest ad
opposita viam habet, sed est invenire
aliqua possibilia, in quibus non sit verum dicere quod possunt in opposita. Deinde, quia
possibile a potentia nascitur, manifestat qualiter se
habeat potentia ipsa ad opposita: ex hoc
enim clarum erit quomodo possibile se liabeat ad opposita. Et circa hoc duo
facit: primo manifestat hoc in potentiis
eiusdem rationis; secundo, in his quæ æquivoce
dicuntur potentiæ; ibi: Quasdam vero
potentiæ * etc. Circa primum tria facit: quia primo manifestat qualiter potentia irrationalis se
habeat ad opposita; et ait quod potentia irrationalis non potest in opposita.
4. Ubi notandum est quod, sicut dicitur IX Metapbys., potentia activa, cum nihil aliud sit quam
principium quo in aliud agimus, dividitur
in potentiam rationalem et irrationalem. Potentia rationalis est, quæ cum
ratione et electione operatur; sicut ars
medicinæ, qua medicus cognoscens quid sanando expediat infirmo, et volens
applicat remedia. Potentia autem
irrationalis vocatur illa, quæ non ex
ratione et libertate operatur, sed ex naturali sua dispositione; sicut calor
ignis potentia irrationalis est, quia
calefacit, non ut cognoscit et vult, sed ut natura sua exigit. Assignatur autem ibidem duplex
differentia proposito deserviens inter istas potentias.- Prima est quod activa potentia irrationalis non potest duo
opposita, sed * *
* Seq. c. xut. Lect. seq.
Lect. seq. RN" 116
est II determinata ad unum
oppositorum, sive sumatur oppositum contradictorie sive contrarie. Verbi
gratia: calor non potest calefacere et
non calefacere, quæ sunt contradictorie opposita, reque potest calefacere et
frigefacere, quæ sunt contraria, sed ad
calefactionem determinatus est. Et hoc intellige per se, quia per accidens
calor frigefacere potest, vel resolvendo materiam caloris, humidum scilicet, vel per antiperistasin contrarii.
Et similiter potest non calefacere per
accidens, scilicet si calefactibile deest.
Potentia autem rationalis potest in opposita et contradictorie et
contrarie. Arte siquidem medicinæ potest medicus adhibere remedia et non adhibere, quæ
sunt contradictoria; et adhibere remedia
sana et nociva, quæ sunt contraria. - Secunda differentia est quod
potentia activa irrationalis, præsente
passo, necessario operatur, deductis
impedimentis: calor enim calefactibile sibi præsens calefacit necessario, si
nihil impediat; potentia autem
rationalis, passo præsente, non necessario operatur: præ-: sente
siquidem. infirmo, non cogitur medicus remedia adhibere.
É 5. Dimittantur autem
metaphysico harum differentiarum rationes et ad textum redeamus. Ubi narrans
quomodo se habeat potentia irrationalis ad oppositum, ait: Et primum quidem, scilicet, non est verum
dicere quod sit potentia ad opposita in
his quæ. possunt non secundum rationem,
idest, in his quorum posse est per potentias
irrationales; ut ignis calefactivus est, idest, potens calefacere, et babet vim, idest, potentiam istam
irrationalem. Ignis siquidem non potest frigefacere; neque in eius
potestate est calefacere et non
calefacere. Quod autem dixit primum
ordinem, nota, ad secundum genus possibilis infra dicendum, in quo etiam
non invenitur potentia ad opposita. 6.
Secundo, manifestat quomodo potentia rationalis
se habeat ad opposita, intendens quod potentia rationalis potest in opposita. Unde subdit: Ergo
potestates secundum rationem, idest
rationales, ipsæ eædem sunt contrariorum,
a non solum duorum, sed etiam
plurimorum, ut arte medicinæ medicus plurima iuga contrariorum adhibere
potest, et multarum operationum contradictionibus
abstinere potest. Præposuit autem ly
ergo, ut hoc consequi ex dictis
insinuaret: cum enim oppositorum oppositæ sint proprietates, et potentia
irrationalis ex eo quod irrationalis ad
opposita non se extendat; oportet potentiam rationalem ad opposita viam habere, eo quod rationalis
sit. 7. Tertio, explanat id quod dixit
de potentiis irrationalibus, propter causam infra assignandam ab ipso; et intendit quod illud quod dixit de potentia
irrationali, scilicet quod non potest in
opposita, non est verum universaliter, sed particulariter. - Ubi nota quod
potentia irrationalis dividitur in
potentiam activam, quæ est principium faciendi, et potentiam passivam, quæ est
principium patiendi: verbi gratia, potentia ad calorem dividitur in posse calefacere, et in posse calefieri. In potentiis activis
irrationalibus verum est quod non possunt in opposita, .ut declaratum est; in potentiis autem
passivis non est verum. Illud enim quod potest
calefieri, potest etiam frigefieri, quia eadem est materia, seu potentia
passiva contrariorum, ut dicitur in II De cælo et mundo, et potest non calefieri, quia idem est subiectum
privationis et formæ, ut dicitur in I Physic. Et propter hoc ergo explanando,
ait: Irralionales vero potentiæ mom omnes a posse in opposita excludi intelligendæ sunt, sed
illæ quæ sunt quemadmodum potentia ignis
calefactiva (ignem enim non posse non
calefacere manifestum est), et universaliter, quæcunque alia sunt talis potentiæ,
quod semper agunt, idest quod quantum
est ex se non possunt non agere, sed ad
semper agendum ex sua forma necessitantur. Huiusmodi autem sunt, ut
declaravimus, omnes potentiæ activæ
irrationales. Alia vero sunt talis conditionis
quod etiam secundum irrationales potentias, scilicet passivas, simul possunt in quædam
opposita, ut ær potest calefieri et frigefieri. Quod vero ait, simul, cadit supra ly possunt,
et non supra ly opposita; et est sensus,
quod simul aliquid habet potentiam
passivam ad utrunque oppositorum, et non
quod habeat potentiam passivam ad utrunque oppositorum simul habendum.
Opposita namque impossibile est haberi
simul. Unde et dici solet et bene, quod in huiusmodi est simultas potentiæ, non
potentia simultatis. Irrationalis igitur potentia non secundum totum suum
ambitum a posse in opposita excluditur, sed secundum partem eius, secundum potentias scilicet
activas. 8. Quia autem videbatur
superflue addidisse differentias inter activas et passivas irrationales, quia
sat erat proposito ostendisse quod non omnis potentia oppositorum est; ideo subdit quod hoc idcirco dictum est,
ut notum fiat quoniam nedum non omnis
potestas oppositorum est, loquendo de
potentia communissime, sed neque quæcunque potentiæ dicuntur secundum eamdem
speciem ad opposita possunt. Potentiæ
siquidem irrationales omnes sub una
specie irrationalis potentiæ concluduntur, et tamen non omnes in opposita
possunt, sed passive tantum. Non supervacanea ergo fuit differentia inter passivas
et activas irrationales, sed necessaria
ad declarandum quod non omnes potentiæ
eiusdem speciei possunt in opposita. Potest etly boc demonstrare
utranque differentiam, scilicet, inter
rationales et irrationales,et inter irrationales activas et. passivas inter se; et tunc est sensus, quod
hoc ideo fecimus, ut ostenderemus quod
non omnis potestas, quæ scilicet
secundum eamdem rationem potentiæ physicæ dicitur, quia scilicet potest in aliquid ut rationalis
et irrationalis, neque etiam omnis
potestas, quæ sub eadem specie continetur, ut irrationalis activa et passiva
sub specie irrationalis, ad opposita potest.
CAP. LECT. LECTIO (Canp. CargrANI
lect. x) DECLARATIS POTENTIIS QUÆ ÆQUIVOCÆ
DICUNTUR, SUMITUR RATIO ZMPOSSIBILIS AD
DETERMINANDUM QUODNAM EX POSSIBILIBUS AD NECESSARIUM SEQUATUR ' *, Ν b Ἔνιαι δὲ δυνάμεις ὁμώνυμοί εἰσι. Τὸ γὰρ δυνατὸν οὐχ ἁπλῶς λέγεται, ἀλλὰ τὸ μὲν ὅτι ἀληθὲς ὡς ἐνεργείᾳ
* 117, Quædam vero potestates æquivocæ sunt. Possibile enim * Sea. c. xu. : non
L4 ὄν, 1
olov ^ à
* L] δυνατὸν e
f. δίζε e
(Q δίζε ^ ὶ e NI ῥαδίζειν ὅτι βαδίζει, καὶ ὅλως δυ-,
"^, νατὸν εἶναι ὅτι ἤδη ἔστι xav ἐνέργειαν ὃ λέγεται
E ^ εἰ, i εἶναι δυνατόν, τὸ δὲ ὅτι ἐνεργήσειεν ἄν, οἷον δυνα[i * τὸν εἶναι βαδίζειν ὅτι βαδίσειεν ἄν. Καὶ αὕτη μὲν ἐπὶ τοῖς κινητοῖς ἐστὶ μόνοις ἡ δύναμις, ἐκείνη δὲ καὶ ἐπὶ τοῖς ἀχινήτοις, Γλμφω δὲ ἀληθὲς εἰπεῖν τὸ μὴ ἀδύνατον εἶναι βαδίζειν ἢ εἶναι, xai
τὸ βαδίζον ἤδη καὶ ἐνεργοῦν καὶ τὸ βαδιστιχόν. Τὸ μὲν οὖν οὕτω δυνατὸν οὐχ ἀληθὲς χατο τοῦ ἀναγχαίου ἁπλῶς εἰπεῖν, θάτερον δὲ ἀληθές. “Ὥστε ἐπεὶ 7 τῷ ἐν μέρει τὸ καγόλου ἕπεται, τῷ ἐξ ἀνάγχης ὄντι ἕπεται τὸ δύνασθαι εἶναι, οὐ μέντοι πᾶν. Καὶ ἔστι δὴ ἀρχὴ ἴσως τὸ ἀναγκαῖον καὶ μὴ ἀνάγκαϊον πάντων ἢ εἶναι ἢ μιὴ εἶναι, καὶ τἄλλα ὡς τούτοις ἀχολουθοῦντα ἐπισκοπεῖν δεῖ. Φανερὸν δὴ ix τῶν εἰρημένων. ὅτι τὸ ἐξ ἀνάγκης ὃν χατ᾽ ἐνέργειάν ἐδτιν, ὥστε εἰ πρότερα τὰ ἀίδια, καὶ ἡ ἐνέργεια δυνάμεως προτέρα. οὐσίαι, τὰ Καὶ τὰ μὲν ἄνευ δυνάμεως ἐνέργειαί εἰσιν, olov αἱ πρῶται δὲ μετὰ δυνάμεως, ἃ τῇ μὲν φύσει πρότερα, τῷ δὲ χρόνῳ ὕστερα, vd δὲ οὐδέποτε ἐνέργειαί εἰσιν, ἀλλὰ δυνάμεις μόνον. 3
ntendit declarare quomodo illæ quæ æquiUP vocæ dicuntur potentiæ, se
habeant ad oppoE. sita. Et circa hoc duo facit: primo, declarat £j)
* Num. 3. naturam talis potentiæ; secundo, ponit
differentiam et convenientiam inter ipsas et supradictas, ibi: Et bæc quidem*
etc. Ad evidentiam primi advertendum est quod V et TX Metapbys., Aristoteles
dividit potentiam in potentias, quæ eadem ratione potentiæ dicuntur, et in potentias, quæ non ea ratione qua prædictæ
potentiæ nomen habent, sed alia. Et has appellat æquivoce
potentias. Sub primo membro comprehenduntur omnes potentiæ activæ, et passivæ, et rationales,
et irrationales. Quæcunque enim posse
dicuntur per potentiam activam vel
passivam quam habeant, eadem ratione potentiæ sunt, quia scilicet est in eis vis principiata
alicuius activæ vel passivæ. Sub secundo
autem membro comprehenduntur potentiæ
mathematicales et logicales. Mathematica potentia est, qua lineam posse dicimus
in quadratum, et eo quod in semetipsam
ducta quadratum constituit. Logica potentia est, qua duo termini coniungi absque
contradictione in enunciatione possunt. Sub logica quoque potentia continetur
quæ ea ratione potentia dicitur, quia est.
Hæ vero merito æquivoce a primis potentiæ dicuntur, eo quod istæ nullam virtutem activam vel
passivam prædicant; et quod possibile istis modis dicitur, non ea ratione possibile appellatur quia aliquis habeat
virtutem ad hoc agendum vel patiendum,
sicut in primis. Unde cum potentiæ habentes se ad opposita sint activæ vel
passivæ, istæ quæ æquivocæ potestates
dicuntur ad opposita non se habent. De his ergo loquens ait: Quædam
vero potestates æquivocæ sunt, et ideo ad opposita non se habent. 2. Deinde declarans qualis sit ista potestas æquivoce dicta, subdit divisionem usitatam possibilis
per quam hoc simpliciter dicitur: sed
hoc quidem, quoniam verum est, quod in actu est; ut possibile ambulare, quoniam
ambulat iam, et omnino possibile esse, quoniam
iam est in actu, quod dicitur esse possibile: illud vero, quoniam actu esse posset; ut possibile
ambulare, quoniam ambulabit. in Et hæc quidem in mobilibus solis est
potestas, illa vero et immobilibus. Utrunque vero verum est
dicere, non impossibile esse ambulare
vel esse, et quod iam ambulat et agit,
et ambulativum. Hoc igitur possibile non
est verum de necessario dicere
simpliciter, alterum autem verum est. Quare quoniam partem universale sequitur, illud quod ex
necessitate est, consequitur posse esse, sed non omne. Et est fortasse quidem principium, quod
necessarium est, et quod non necessarium est, omnium vel esse,
vel non esse: et
oportet. alia, veluti horum
consequentia, considerare Manifestum est
autem ex his quæ dicta sunt, quod id
quod ex necessitate est, secundum actum est: quare si priora sunt sempiterna, et quæ actu sunt
potestate priora sunt. Et hæc quidem sine potestate actus sunt, ut primæ
substantiæ: alia vero cum potestate, quæ natura quidem priora sunt, tempore vero posteriora. Alia
vero numquam actus sunt, sed potestates tantum.
scitur, dicens: possibile enim non uno modo dicitur, sed duobus. Et uno quidem modo dicitur
possibile eo quod verum est ut in actu,
idest ut actualiter est; ut, possibile
est ambulare, quando ambulat iam: et omnino, idest universaliter possibile
est esse, quoniam est actu iam quod
possibile dicitur. Secundo modo autem possibile dicitur aliquid non ea ratione quia est actualiter,
sed quia forsitan aget, idest quia
potest agere; ut possibile est ambulare,
quoniam ambulabit. Ubi advertendum est quod ex divisione bimembri
possibilis divisionem supra positam potentiæ declaravit a posteriori. Possibile
enim a potentia dicitur: sub primo
siquidem membro possibilis innuit potentias æquivoce; sub secundo autem
potentias univoce, activas scilicet et passivas. Intendebat ergo quod
quia possibile dupliciter dicitur, quod
etiam potestas duplex est. Declaravit
autem potestates æquivocas ex uno earum
membro tantum, scilicet ex his quæ dicuntur possibilia quia sunt, quia hoc sat erat suo
proposito. 3. Deinde cum dicit: Et bæc
quidem etc., assignat differentiam inter utranque potentiam, et ait quod
potentia hæc ultimo dicta physica, est
in solis illis rebus, quæ sunt mobiles ; illa autem est et in rebus
mobilibus et immobilibus. Possibile
siquidem a potentia dictum eo quod
possit agere, non tamen agit, inveniri non potest absque mutabilitate eius, quod sic posse
dicitur. Si enim nunc potest agere et non
agit,si agere debet, oportet quod
mutetur de otio ad operationem. Id autem quod possibile dicitur eo quod
est, nullam mutabilitatem exigit in
eo quod sic possibile dicitur.
Esse namque in actu, quod talem
possibilitatem fundat, invenitur et in rebus necessariis, et in immutabilibus,
et in rebus mobilibus. Possibile ergo hoc, quod logicum vocatur, communius est
illo quod physicum appellari solet. 4. Deinde subdit convenientiam inter
utrunque possibile, dicens quod in utrisque potestatibus et possibilibus verum est non impossibile esse, scilicet,
ipsum ambulare, quod iam actu ambulat seu
agit, et quod iam ambulabile est; idest,
in hoc conveniunt quod, sive dicatur possibile
ex II CONSEQUENTIÆ ENUNCIATIONUM
MODALIUM SECUNDUM QUATUOR ORDINES ALIO
CONVENIENTI SITU AB ARISTOTELE POSITÆ ET
ORDINATÆ: Primus Ordo eo
* Cf. lect. præc. n.
5. quod actu est, sive ex eo quod potest
esse, de utroque verificatur non
impossibile; et consequenter necessario verificatur possibile, quoniam ad non
impossibile sequitur possibile. Hoc est
secundum genus possibilis, respectu cuius Aristoteles supra dixit: Et primum
quidem * etc., in quo non invenitur via
ad utrunque oppositorum, hoc, inquam,
est possibile quod iam actu est. Quod enim tali
ratione possibile dicitur, iam determinatum est ex eo quod actu esse suppositum est. Non ergo
possibile omne ad utrunque possibile
est, sive loquamur de possibili physice, sive logice. 5. Deinde cum dicit : Sic igitur possibile
etc., applicat determinatam veritatem ad propositum. Et primo, concludendo ex
dictis, declarat habitudinem utriusque possibilis ad necessarium, dicens quod hoc ergo
possibile, scilicet physicum quod est in
solis mobilibus, non est verum dicere
Necesse est esse Non possibile
est non esse Non contingens est non
esse Impossibile est non esse Tertius Ordo
Non. necesse est esse Possibile
est non esse Contingens est non
esse Non impossibile est non esse Secundus Ordo
Necesse est non esse Non
possibile est esse Non contingens est
esse Impossibile est esse Quartus Ordo
Non necesse est non esse
Possibile est esse Contingens est
esse Non impossibile est esse Vides autem hic nihil immutatum, nisi quod
necessariæ quæ ultimum locum tenebant, primum sortitæ sunt. Quod vero dixit fortasse, non
dubitantis, sed absque determinata
ratione rem proponentis est. et prædicare de necessario simpliciter: quia
quod simpliciter necessarium est, non potest aliter esse. Possibile autem physicum potest sic et aliter esse, ut
dictum est. Addit autem ly simpliciter,
quoniam necessarium est multiplex. Quoddam enim est ad bene esse, quoddam ex suppositione: de quibus non est nostrum
tractare, sed solummodo id insinuare.
Quod ut præservaret se ab illis modis
necessarii qui non perfecte et omnino habent necessarii rationem, apposuit ly
simpliciter. De tali enim necessario possibile physicum non
verificatur. Alterum autem possibile
logicum, quod in rebus immobilibus invenitur, verum est de illo enunciare,
quoniam nihil neces* c *
Lect. præced. a Cf. lect. præc. n. I.
* Num. seq. sitatis adimit. Et per hoc solvitur ratio
inducta * ad partem negativam quæstionis. Peccabat siquidem in hoc, -quod ex
necessario inferebat possibile ad utrunque quod
convertitur in oppositam qualitatem.
6. Deinde respondet quæstioni formaliter intendens quod affirmativa pars * quæstionis tenenda
sit, quod scilicet ad necessarium sequitur possibile; et assignat causam. Quia ad partem subiectivam sequitur
constructive suum totum universale; sed
necessarium est pars subiectiva possibilis: quia possibile dividitur in logicum
et physicum, et sub logico
comprehenditur necessarium ; ergo ad
necessarium sequitur possibile. Unde dicit: Quare, quoniam partem, scilicet subiectivam, suum
totum universale sequitur, illud quod ex necessitate est, idest necessarium,
tamquam partem subiectivam, consequitur posse
esse, idest possibile, tamquam totum universale. Sed mon omnino, idest sed non ita quod omnis species
possibilis sequatur; sicut ad hominem
sequitur animal, sed non omnino, idest
non secundum omnes suas partes subiectivas sequitur ad hominem: non enim valet:
est homo, ergo est animal irrationale.
Et per hoc confirmata ratione adducta ad partem affirmativam, expressius solvit
rationem adductam ad partem negativam,
quæ peccabat secundum fallaciam
consequentis, inferens ex necessario possibile,
descendendo ad unam possibilis speciem, ut de se patet. 7. Deinde cum dicit: Et est fortasse quidem
etc., ordinat easdem modalium
consequentias alio situ, præponendo
necessarium omnibus aliis modis. Et circa hoc duo facit: primo, proponit quod intendit; secundo,
assignat causam dicti ordinis; ibi:
Manifestum est autem* etc. Dicit ergo: Et
est fortasse principium omnium enunciationum modalium vel esse vel non esse, idest, affirmativarum vel
negativarum, necessarium et non necessarium. Et oportet considerare alia,
scilicet, possibile contingere et impossibile esse, sicut borum, scilicet, necessarii et non necessarii,
consequentia, hoc modo: 8. Deinde cum dicit: Manifestum est
autem. etc., intendit assignare causam dicti ordinis. Et primo, assignat
causam, quare præposuerit necessarium possibili tali ratione.
Sempiternum est prius temporali; sed necessarium dicit sempiternitatem (quia dicit esse in
actu, excludendo omnem mutabilitatem, et
consequenter temporalitatem, quæ sine
motu non est imaginabilis), possibile autem
dicit temporalitatem (quia non excludit quin possit esse et non
esse); ergo necesse merito prius ponitur quam
possibile. Unde dicit, proponendo minorem: Manifestum est autem ex bis quæ dicta sunt etc.,
tractando de necessario: quoniam id quod
ex necessitate est, secundum actum est
totaliter, scilicet quia omnem excludit mutabilitatem et potentiam ad oppositum: si enim mutari posset
in oppositum aliquo modo, iam non esset necessarium. - Deinde subdit maiorem per modum antecedentis
conditionalis : Quare si priora sunt
sempiterna temporalibus etc. - Ultimo
ponit conclusionem: et quæ actu sunt omnino, scilicet necessaria, priora sunt potestate, idest
possibilibus, quæ omnino actu esse non
ponunt, licet compatiantur. 9. Deinde cum dicit: Et bæ
quidem etc., assignat causam totius ordinis a se inter modales statuti, tali
ratione. Universi triplex est gradus. Quædam
sunt actu sine poteillæ state, idest
sine admixta potentia, ut primæ substantiæ, non
quas in præsenti diximus primas, eo quod
principaliter et maxime substent, sed illæ quæ sunt primæ, quia omnium
rerum sunt causæ, Intelligentiæ scilicet. - Alia sunt actu cum possibilitate,
ut omnia mobilia, quæ secundum id quod habent de actu sunt priora natura seipsis secundum id quod habent de
potentia, licet e contra sit, aspiciendo ordinem temporis. Sunt enim secundum id quod habent de potentia priora
tempore seipsis secundum id quod habent
de actu. Verbi gratia, Socrates prius
secundum tempus poterat esse philosophus, deinde fuit actualiter philosophus. Potentia ergo
præcedit actum secundum ordinem temporis in Socrate, ordine autem naturæ, perfectionis et
dignitatis e converso contingit. Prior
enim secundum dignitatem, idest dignior
et perfectior habebatur Socrates cum philosophus actualiter erat, quam cum philosophus esse
poterat. Præposterus est igitur ordo potentiæ et actus in unomet, utroque ordine, scilicet, naturæ et temporis
attento, - Alia vero nunquam sunt actu
sed potestate tantum, ut motus, tempus,
infinita divisio magnitudinis, et infinita augmentatio numeri. Hæc enim, ut IX
Metapbys. dicitur, nunquam exeunt in
actum, quoniam eorum rationi repugnat. Nunquam enim aliquid horum ita est quin aliquid eius
expectetur, et consequenter nunquam esse potest nisi in potentia. Sed de his
alio tractandum est loco. Nunc hæc ideo
dicta sint ut, inspecto ordine universi, appareat quod illum imitati sumus in
nostro ordine. Posuimus siquidem primo
necessarium, quod sonat actu esse sine
potestate seu mutabilitate, imitando primum
gradum universi. - Locavimus secundo loco possibile et contingens, quorum utrunque sonat actum cum
possibilitate, et sic servatur conformitas ad secundum gradum universi. - Præposuimus autem possibile et
non contingens, quia possibile respicit actum, contingens autem secundum vim nominis respicit defectum causæ,
qui ad potentiam pertinet: defectus enim
potentiam sequitur; et ex hoc conforme
est secundæ parti universi, in qua actus
est prior potentia secundum naturam, licet non secundum tempus.- Ultimum autem locum impossibili
reservavimus, eo quod sonat nunquam fore, sicut et ultima
universi pars dicta est illa, quæ
nunquam actu est. Pulcherrimus igitur
ordo statutus est, quando divinus est observatus. IO. Quia autem suppositæ modalium consequentiæ nil aliud sunt quam æquipollentiæ earum, quæ
ob varium negationis situm, qualitatem, vel quantitatem, vel utranque mutantis, fiunt; ideo ad completam
notitiam consequentium se modalium, de
earum qualitate et quantitate pauca admodum necessaria dicenda sunt. Quoniam igitur natura totius ex partium naturis
consurgit, sciendum est quod subiectum enunciationis modalis et dicit esse vel non esse, et est dictum unicum, et
continet in se subiectum dicti; prædicatum
autem modalis enunciationis, modus scilicet, et totale prædicatum est (
quia explicite vel implicite verbum
continet, quod est semper nota eorum quæ
de altero prædicantur: propter quod
Aristoteles dixit quod modus est ipsa appositio), et continet in se vim
distributivam secundum partes temporis.
Necessarium enim et impossibile distribuunt in omne tempus vel
simpliciter vel tale; possibile autem et contingens pro aliquo tempore in communi. 11. Nascitur autem ex his quinque
conditionibus duplex in qualibet modali qualitas, et triplex quantitas. - Ex eo
enim quod tam subiectum quam prædicatum modalis verbum in se habet,
duplex qualitas fit, quarum altera
vocatur qualitas dicti, altera qualitas modi. Unde et supra dictum est* aliquam esse: affirmativam de
modo et non de dicto, et e converso. -
Ex eo vero quod subiectum modalis
continet in se subiectum dicti, una quantitas
consurgit, quæ vocatur quantitas subiecti dicti: et hæc distinguitur in universalem, particularem et
singularem, Sicut et quàántitas illarum
de inesse. Possumus enim dicere, Socratem, quemdam hominem, vel omnem hominem,
vel nullum hominem, possibile est currere. Ex eo autem quod subiectum unius
modalis dictum unum * Ed. c: scilicet omne dictum cu tusque E
isttus modalis re,
est universalis, scilicet dictum
. est, consurgit alia quantitas, vocata
quantitas dicti; et hæc unica est
singularitas: secundum * omne enim dictum cuiusque modalis singulare est istius
universalis, scilicet dictum. Quod ex eo liquet quod cum dicimus, hominem esse album est possibile, exponitur
sic, hoc dictum, hominem esse album, est
possibile. Hoc dictum autem singulare
est, sicut et, hic homo. Propterea et dicitur quod omnis modalis est singularis
quoad dictum, licet quoad subiectum
dicti sit universalis vel particularis. - Ex
eo autem quod prædicatum modalis, modus scilicet, vim distributivam habet, alia quantitas consurgit
vocata quantitas modi seu modalis; et hæc distinguitur in universalem et
particularem. 12. Ubi diligenter: duo
attendenda sunt. Primum est quod hoc est
singulare in modalibus, quod prædicatum
simpliciter quantificat propositionem modalem, sicut et simpliciter qualificat. Sicut enim illa est
simpliciter affirmativa, in qua modus affirmatur, et illa negativa, in qua modus negatur; ita illa est simpliciter
universalis cuius modus est universalis,
et illa particularis cuius modus est
particularis. Et hoc quia modalis modi naturam sequitur. 119
Secundum attendendum (quod est causa istius primi ) est, quod prædicatum modalis, scilicet modus,
non habet solam habitudinem prædicati
respectu sui subiecti, scilicet esse et non esse, sed habitudinem
syncategorematis distributivi, sed non secundum quantitatem partium subiectivarum ipsius subiecti, sed secundum
quantitatem partium temporis eiusdem. Et
merito. Sicut enim quia subiecti
enunciationis de inesse propria quantitas est penes divisionem vel indivisionem ipsius subiecti
(quia est nomen quod significat per
modum substantiæ, cuius quantitas est
per divisionem continui: ideo signum quantificans in illis distribuit secundum
partes subiectivas), ita quia subiecti
enunciationis modalis propria quantitas est
tempus (quia est verbum quod significat per modum motus, cuius propria quantitas est tempus),
ideo modus quantificans distribuit ipsum
suum subiectum, scilicet, esse vel non
esse, secundum partes temporis. Unde subtiliter
inspicienti apparebit quod quantitas ista modalis proprii subiecti modalis enunciationis quantitas est,
scilicet, ipsius esse vel non esse. Ita
quod illa modalis est simpliciter
universalis, cuius proprium subiectum distribuitur pro omni tempore: vel simpliciter, ut, hominem
esse animal est necessarium vel
impossibile; vel accepto, ut, hominem
currere hodie, vel, dum currit, est necessarium vel impossibile. Illa
vero est particularis, in qua non pro omni,
sed aliquo tempore distributio fit in communi tantum; ut, hominem esse animal, est possibile vel
contingens. Est ergo et ista modalis
quantitas subiecti sui passio (sicut et
universaliter quantitas se tenet ex parte materiæ), sed derivatur a modo, non
in quantum prædicatum est (quod, ut sic,
tenetur formaliter), sed in quantum syncategorematis officio fungitur, quod habet ex eo quod
proprie modus est. 13. Sunt igitur
modalium (de propria earum quantitate loquendo) aliæ universales affirmativæ,
ut illæ de necessario, quia distribuunt
ad semper esse; aliæ universales negativæ, ut illæ de impossibili, quia
distribuunt ad nunquam esse; aliæ
particulares affirmativæ, ut illæ de
possibili et contingenti, quia distribuunt utrunque ad aliquando esse; aliæ particulares negativæ,
ut illæ de non necesse et non
impossibili, quia distribuunt ad aliquando non esse:sicut in illis de inesse,
omnis, nullus, quidam, non omnis, non
nullus, similem faciunt diversitatem. Et quia, ut dictum est, hæc quantitas
modalium est inquantum modales sunt, et de his,
inquantum huiusmodi, præsens tractatus
fit ab Aristotele; idcirco æquipollentiæ,
seu consequentiæ earum, ordinatæ sunt
negationis vario situ, quemadmodum æquipollentiæ illarum de inesse: ut
scilicet, negatio præposita modo faciat æquipollere
suæ contradictoriæ; negatio autem modo
postposita, posita autem dicti verbo, suæ æquipollere contrariæ facit; præposita vero et postposita
suæ subalternæ, ut videre potes in consequentiarum figura ultimo ab Aristotele formata. In qua, tali præformata
oppositionum figura, clare videbis omnes se mutuo consequentes, secundum alteram trium regularum æquipollere,
et consequenter, totum primum ordinem secundo contrarium, tertio contradictorium, quarto vero
subalternum. Necesse
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Possibile esse Impossibile e
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120 II LECTIO DECIMATERTIA (Cann. CargTANI lect. xi) CONTRARIETAS IN ANIMI OPINIONIBUS
CONSTITUITUR EX ALIQUA VERI FALSIQUE
OPPOSITIONE. Πότερον δὲ ἐναντία ἐστὶν ἡ κατάφασις τῇ ἀποφάσει ἢ ἡ κατάφασις τῇ χαταφάσει, καὶ ὁ λόγος τῷ λόγῳ; ὁ λέγων ὅτι πᾶς ἄνθρωπος δίκαιος τῷ οὐδεὶς ἄνθρωπος δίκαιος ἢ τὸ πᾶς ἄνθρωπος δίκαιος τῷ πᾶς ἄνθρωπος ἄδικος, οἷον ἔστι Καλλίας δίκαιος, οὐχ ἔστι Καλλίας δίκαιος, Καλλίας ἄδιχός ἐστι" ποτέρα δὴ Εἰ ἐναντία τούτων ;
γὰρ τὰ μὲν ἐν τῇ φωνῇ ἀχολουθεῖ τοῖς ἐν τῇ διανοίᾳ, ἐκεῖ δὲ ἐναντία δόξα ἡ τοῦ ἐναντίου, οἷον ὅτι πᾶς ἄνθρωπος δίκαιος τῇ πᾶς ἄνθρωπος ἄδικος, καὶ ἐπὶ τῶν ἐν τῇ φωνῇ καταφάσεων ἀνάγχη ὁμοίως ἔχειν. Εἰ δὲ ped ἐχεῖ ἡ τοῦ ἐναντίου δόξα ἐναντία ἐστίν, οὐδὲ ἡ κατάφασις τῇ καταφάσει ἔσται ἐνανvla, ἀλλ᾽ ἡ εἰρημένη ἀπόφασις. Ὥστε σχεπτέον ποία δόξα ἀληθὴς ψευδεῖ δόξη ἐναντία. πότερον ἡ τῆς ἀποφάσεος ἢ ἡ τὸ ἐναντίον εἶναι δοξάζουσα. Λέγω δὲ ὧδε. Ἔστι τις δόξα ἀληθὴς τοῦ ἀγαθοῦ ὅτι ἀγαθόν, ἄλλη δὲ ὅτι οὐκ ἀγαθὸν ψευδής, ἑτέρα δὲ ὅτι χακόν. Ποτέρα δὴ τούτων ἐναντία τῇ ἀληθεῖ; xal εἰ ἔστι μία, x40
' ὁποτέραν ἡ ἐναντία: μὲν δὴ τούτῳ οἴεσθαι τὰς ἐναντίας δόξας ὡρίσθαι, τῷ τῶν ἐναντίων εἶναι, ψεῦδος" τοῦ γὰρ ἀγαθοῦ ὅτι ἀγαθὸν καὶ τοῦ καχοῦ ὅτι κακὸν ἡ αὐτὴ ἴσως καὶ ἀληθὴς ἔσται εἴτε πλείους εἴτε μία ἐστίν. ᾿Εναντία δὲ ταῦτα. ÀAXA' οὐ τῷ ἐναντίων εἶναι ἐναντία, ἀλλὰ μᾶλλον τῷ ἐναντίως. Εἰ δὴ ἔστι μὲν τοῦ ἀγαθοῦ ὅτι ἐστὶν ἀγαθὸν δόξα, ἄλλη δ᾽ ὅτι οὐχ ἀγαθόν, ἔστι δὲ ἄλλο τι ὃ οὐχ ὑπάρχει οὐδ᾽ οἷόντε ὑπάρξαι, τῶν μὲν δὴ ἄλλων οὐδεμίαν θετέον, οὔτε ὅσαι ὑπάρχειν τὸ μιὴ ὑπάρχον δοξαάζουσιν, οὔθ᾽ ὅσαι μὴ ὑπάρχειν τὸ ὑπάρχον (ἄπειροι γὰρ ἀμφότεραι, καὶ ὅσαι ὑπάρχειν δοξάζουσι τὸ μὴ ὑπάρyov, καὶ ὅσαι μὴ ὑπάρχειν τὸ ὑπάρχον);
SEN ene ostquam determinatum est
de enunciatione se(Q5) (oy cundum quod diversificatur tam ex additione facta ad terminos, quam ad compositionem S. Thomas.
* * * Num.
5. Num. 8. Lect. seq.
J7 eius, hic secundum divisionem
a s. Thoma in principio huius Secundi
factam, intendit Aristoteles tractare quandam quæstionem circa
oppositiones enunciationum provenientes
ex eo quod additur aliquid simplici enunciationi. Et circa hoc quatuor facit:
primo, movet quæstionem; secundo, declarat
quod hæc quæstio dependet ab una alia quæstione prætractanda; ibi: Nam si ea,
quæ sunt in voce * etc.; tertio,
determinat illam aliam quæstionem; ibi: Nam arbitrari * etc.; quarto, redit ad
respondendum quæstioni primo motæ; ibi: Quare si in opinione* etc. Quæstio quam movere intendit est: utrum
affirmativæ enunciationi contraria sit
negatio eiusdem prædicati, an affirmatio de prædicato contrario seu
privativo? Unde dicit: Utrum contraria
est affirmatio. negationi. contradictoriæ, scilicet, et universaliter oratio
affirmativa orationi negativæ; ut, affirmativa oratio quæ dicit, omnis bomo est iustus, illi contraria sit orationi
negativæ, nullus bomo est iustus, aut
illi, omnis bomo est iniustus, quæ est
affirmativa de prædicato privativo? Et similiter ista
affirmatio, Callias est iustus, est ne contraria illi contradictoriæ
negationi, Callias non est iustus, aut illi, Callias est iniustus, quæ est affirmativa de prædicato
privativo? * Utrum autem contraria est affirmatio negationi,
aut affirmatio affirmationi et oratio orationi, quæ dicit, quod omnis homo iustus est, ei quæ est, nullus
homo iustus est; aut, omnis homo iustus
est, ei quæ est, omnis homo iniustus
est; ut, Callias iustus est, Callias iustus
non est, Callias iniustus est;
utra harum contraria est? Nam s. a, quæ
suntin voce, sequuntur ea, quæ sunt in
intellectu, illic autem contraria est opinio contrarii, ut
quod, omnis homo iustus est, ei quæ est, omnis homo iniustus est, et etiam in his, quæ,sunt
in voce, affirmationibus, necesse est
similiter se se habere. Quod si neque illic contrarii opinatio contraria
est, nec affirmatio affirmationi contraria erit; sed ea quæ dicta est negatio. Quare considerandum est quæ opinio vera opinioni falsæ contraria est, utrum
negationis, an ea, quæ contrarium esse
opinatur. Dico autem hoc modo. Est quædam
opinatio vera boni, quod bonum est ;: alia
vero, quod non bonum, est falsa; alia vero, quod malum: utra harum
contraria veræ? et si est una, secundum quamnam contraria est? Nam arbitrari contrarias opiniones definiri,
eo quod contrariorum sunt, falsum est: boni enim, quod bonum est, et mali, quod malum est, eadem fortasse
opinio est et vera, sive plures,sive una
sit. Sunt autem ista contraria. Sed non eo quod contrariorum sint contraria
:sunt sed magis eo quod contrarie. Si ergo est boni quidem, quod est bonum,
opinio, alia autem quod non est bonum: est vero aliquid aliud quod non est, neque potest esse: aliarum quidem
nulia ponenda est, neque quæcunque esse, quod non est, opinantur, neque quæcunque
non esse quod est (infinitæ enim utræque
sunt, et quæ esse opinantur quod non est, et quæ non esse quod est). 2. Ad evidentiam tituli huius quæstionis,
quia hactenus indiscusse ab aliis est relictus, considerare oportet quod cum in enunciatione sint duo, scilicet
ipsa enunciatio seu significatio et
modus enunciandi seu significandi, duplex inter enunciationes fieri potest
oppositio, una ratione ipsius
enunciationis, altera ratione modi enunciandi. Si modos enunciandi attendimus, duas species
oppositionis in latitudine enunciationum
inveniemus, contrarietatem scilicet et
contradictionem. Divisæ enim superius sunt
enunciationes oppositæ in contrarias et contradictorias. Contradictio inter enunciationes ratione modi
enunciandi est quando idem prædicatur de
eodem subiecto contradictorio modo enunciandi; ut sicut unum
contradictorium nil ponit, sed alterum
tantum destruit, ita una enunciatio nil
asserit, sed id tantum quod altera enunciabat destruit. Huiusmodi autem sunt omnes quæ contradictoriæ vocantur,
scilicet, omnis bomo est iustus, non omnis bomo est iustus, Socrates est iustus, Socrates nom est
iustus, ut de se patet. Et ex hoc
provenit quod non possunt simul veræ aut
falsæ esse, sicut nec duo contradictoria. Contrarietas vero inter enunciationes ratione modi
enunciandi est quando idem prædicatur de eodem subiecto contrario modo enunciandi; ut sicut unum contrariorum ponit
materiam sibi et reliquo communem in
extrema distantia sub illo | genere, ut patet de albo et nigro, ita una
enunciatio ponit * Y Cap.
xiv. CAP. XIV,
subiectum commune sibi et suæ oppositæ in extrema distantia sub illo prædicato. Huiusmodi
quoque sunt omnes illæ quæ contrariæ in
figura appellantur, scilicet, omnis bomo est iustus, omnis bomo non. est
iustus. Hæ enim faciunt subiectum,
scilicet hominem, maxime distare sub
iustitia, dum illa enunciat iustitiam inesse homini, non quocunque modo, sed universaliter; ista
autem enunciat iustitiam abesse homini, non qualitercunque, sed universaliter.
Maior enim distantia esse non potest quam ea,
quæ est inter totam universitatem habere aliquid et nullum de
universitate habere illud. Et ex hoc provenit quod non possunt esse simul veræ, sicut nec
contraria possunt eidem simul inesse; et quod possunt esse simul falsæ, sicut et contraria simul non inesse
eidem possunt. * Ed. c: posita
sunt. Si vero ipsam enunciationem
sive eius significationem attendamus
secundum unam tantum oppositionis speciem,
in tota latitudine enunciationum reperiemus contrarietatem, scilicet
secundum veritatem et falsitatem: quia duarum enunciationum significationes
entia positiva * sunt, ac per hoc neque contradictorie neque privative
opponi possunt, quia utriusque
oppositionis alterum extremum est
formaliter non ens. Et cum nec relative opponantur, ut
clarum est, restat ut nonnisi contrarie opponi possunt. 3.
Consistit autem ista contrarietas in hoc quod duarum enunciationum altera
alteram non compatitur vel in veritate
vel in falsitate, præsuppositis semper conditionibus contrariorum, scilicet
quod fiant circa idem et in eodem
tempore. Patere quoque potest talem oppositionem esse contrarietatem ex natura
conceptionum animæ componentis et
dividentis, quarum singulæ sunt enunciationes. Conceptiones siquidem animæ adæquatæ
nullo alio modo opponuntur
conceptionibus inadæquatis nisi
contrarie, et ipsæ conceptiones inadæquatæ, si se mutuo expellunt, contrariæ quoque dicuntur. Unde
verum et falsum, contrarie opponi
probatur a s. Thoma in I parte, qu. xvii
*. Sicut ergo hic, ita et in enunciationibus ipsæ significationes adæquatæ contrarie opponuntur
inædequatis, idest veræ falsis; et ipsæ inadæquatæ, idest falsæ, contrarie
quoque opponuntur inter se, si contingat
quod se non compatiantur, salvis semper contrariorum conditionibus. Est igitur in enunciationibus
duplex contrarietas, una ratione modi, altera ratione significationis, et unica contradictio, scilicet ratione modi.
Et, ut confusio vitetur, prima contrarietas vocetur contrarietas modalis,
secunda contrarietas formalis. Contradictio autem non ad confusionis vitationem quia unica est,
sed ad proprietatis expressionem contradictio modalis vocari potest. Invenitur autem contrarietas formalis enunciationum
inter omnes contradictorias, quia
contradictoriarum altera alteram semper excludit; et inter omnes contrarias
modaliter quoad veritatem, quia non possunt esse simul veræ, licet non inveniatur inter omnes quoad
falsitatem, quia possunt esse simul falsæ. 4. Quia igitur Aristoteles in hac quæstione
loquitur de contrafietate enunciationum
quæ se extendit ad contrarias modaliter, et contradictorias, ut patet in
principio et in fine quæstionis (in
principio quidem, quia proponit utrasque
contradictorias dicens: Affirmatio negationi etc.; et contrarias modaliter dicens: Ef oratio
orationi etc., unde et exempla
utrarunque statim subdit, ut patet in littera.
In fine vero, quia ibi expresse quam conclusit esse contrariam
affirmativæ universali veræ dividit, in contrariam modaliter universalem negativam, scilicet, et
contradictoriam: quæ divisio falsitate non careret, nisi conclusisset contrariam formaliter, ut de se patet), quia,
inquam, sic accipit contrarietatem, ideo
de contrarietate formali enunciationum quæstio intelligenda est. Et est quæstio
valde subtilis, necessaria et adhuc
nullo modo superius tacta. Opp. D.
Tuowaz T. I. LECT. XIII 121
Est igitur titulus. quæstionis; utrum affirmativæ veræ contraria formaliter sit negativa falsa
eiusdem prædicati, aut affirmativa falsa de prædicato privativo, vel contrario? Et sic patet quis sit sensus
tituli, et quare non movet quæstionem de
quacunque alia oppositione enunciationum (quia scilicet nulla alia in eis
formaliter invenitur), et quod accipit contrarietatem proprie et strictissime,
licet talis contrarietas inveniatur inter contradictorias modaliter et
contrarias modaliter. Ὁ Dictum vero
fuit a s. Thoma * provenire hanc dubitationem ex eo quod additur aliquid
simplici enunciationi, quia si tantum
simplices, idest, de secundo adiacente
enunciationes attendantur, non habet hæc quæstio radicem. Quia autem
simplici enunciationi, idest subiecto et
verbo substantivo, additur aliquid, scilicet práedicatum, nascitur dubitatio circa oppositionem, an
illud additum' in contrariis debeat esse
illudmet prædicatum, negatione apposita
verbo, an debeat esse prædicatum contrarium
seu privativum, absque negatione
præposita verbo. 5. Deinde cum dicit:
Nam siea etc., declarat unde sumenda sit
decisio huius quæstionis. Et duo facit: quia
primo declarat quod hæc quæstio dependet ex una alia quæstione, ex illa scilicet: utrum opinio,
idest conceptio animæ, in secunda
operatione intellectus, vera, contraria
sit opinioni falsæ negativæ eiusdem prædicati, an falsæ afürmativæ contrarii sive privativi. Et assignat causam, quare illa quæstio dependet ex ista, quia
scilicet enunciationes vocales sequuntur mentales, ut effectus adæquati causas
proprias, et ut significata signa * adæquata,
et consequenter similis est in hoc utraque natura. Unde inchoans ab hac causa ait: Nam si ea quæ sunt
in voce sequuntur ed, quæ sunt in anima,
ut dictum est in principio I libri, et illic, idest in anima, opinio
contrarii prædicati circa idem subiectum
est contraria illi alteri, quæ affirmat
reliquum contrarium de eodem (cuiusmodi
sunt istæ mentales enunciationes, omnis bomo est iustus, omnis bomo est iniustus); si ita inquam est,
etiam et in his affrmationibus quæ sunt
in voce, idest vocaliter sumptis, necesse est similiter se habere, ut scilicet
sint contrariæ duæ affirmativæ de eodem subiecto et prædicatis contrariis. Quod si neque illic, idest in anima, opinatio contrarii prædicati, contrarietatem inter
mentales enunciationes constituit, nec affirmatio vocalis affirmationi vocali
contraria erit de contrario prædicato, sed magis affirmationi contraria erit
negatio eiusdem prædicati. 6. Dependet
ergo mota quæstio ex ista alia sicut effectus ex causa. Propterea et
concludendo addit secundum, quod
scilicet de hac quæstione prius tractandum est, ut ex
causa cognita effectus innotescat dicens: Quare considerandum est,
opinio vera cui opinioni falsæ contraria est: utrum negationi falsæ am certe ei affirmationi falsæ,
quæ contrarium esse opinatur. Et ut exemplariter proponatur, dico hoc modo: Sunt tres opiniones de bono, puta
vita: quædam enim est ipsius boni opinio vera, quoniam bonum est, puta, quod vita sit bona; alia vero
falsa negativa, scilicet, quoniam bonum
non est, puta, quod vita non sit bona;
alia item falsa affirmativa contrarii, scilicet, quoniam malum est, puta, quod vita sit mala. Quæritur
ergo quæ harum falsarum contraria est
veræ? 7. Quod autem subdidit: Et si est
una, secundum quam contraria est,
tripliciter legi potest. Primo, dubitative, ut
Sit pars quæstionis; et tunc est sensus: quæritur quæ harum falsarum contraria est veræ: et simul
quæritur, si est tantum una harum
falsarum secundum quam fiat contraria
ipsi veræ: quia cum unum uni sit contrarium,
ut dicitur in X Metaphysicæ, quærendo
quæ harum sit contraria, quæremus etiam
an una earum sit contraria. Alio modo, potest legi adversative, ut sit sensus:
quæ16 * * Supra lect. 1, n. I.
* Ed. c: singula. 122 II
ritur quæ harum sit contraria; quamquam sciamus quod non utraque sed una earum est secundum quam
fit contrarietas. - Tertio modo, potest legi dividendo hanc particulam, Et si
est una, ab illa sequenti, secundum quam
contraria est; et tunc prima pars expressive, secunda vero Boethius.
dubitative legitur; et est sensus: quæritur quæ harum falsarum contraria est veræ, non solum si istæ
duæ falsæ inter se differunt in
consequendo, sed etiam si utraque est
una, idest alteri indivisibiliter unita, quæritur secundum quam fit contrarietas. Et hoc modo
exponit Boethius, dicens quod
Aristoteles apposuit hæc verba propter
contraria immediata, in quibus non differt contrarium a privativo. Inter
contraria enim mediata et immediata hæc est differentia, quod immediatis a
prwativo contrarium non infertur. Non enim valet, corpus
colorabile est non album, ergo est
nigrum: potest enim esse rubrum. In
immediatis autem valet; verbi gratia: amimal est mon sanum, ergo infirmum ; numerus est non par,
ergo impar. Voluit ergo Aristoteles
exprimere quod nunc, cum quærimus quæ harum falsarum, scilicet negativæ et
affirmativæ contrarii, sit contraria affirmativæ veræ, quærimus universaliter sive illæ duæ falsæ
indivisibiliter se sequantur, sive non.
8. Deinde cum dicit: Nam arbitrari, prosequitur hanc secundam quæstionem. Et circa hoc quatuor
facit. Primo, declarat quod contrarietas
opinionum non attenditur penes contrarietatem
materiæ, circa quam versantur, sed potius
penes oppositionem veri vel falsi; secundo, declarat quod non penes quæcunque opposita secundum
veritatem et falsitatem est contrarietas
opinionum; ibi: Si ergo boni etc.;
tertio, determinat quod contrarietas opinionum attenditur penes per se primo opposita secundum
veritatem et falsitatem tribus rationibus; ibi: Sed im quibus primo falla- cia etc.; quarto, declarat hanc
determinationem inveniri in omnibus
veram; ibi: Manifestum. est igitur etc.
Dicit ergo proponens intentam conclusionem, quod falsum est arbitrari opiniones definiri seu
determinari de- bere contrarias ex eo
quod contrariorum obiectorum sunt. Et
adducit ad hoc duplicem tationem. Prima est: opiniones contrariæ non sunt eadem
opinio; sed contrariorum eadem est fortasse opinio; ergo opiniones non
sunt contrariæ ex hoc quod contrariorum
sunt. - Secunda est: opiniones contrariæ
non sunt simul veræ; sed opiniones
contrariorum, sive plures, sive una, sunt simul veræ quandoque; ergo opiniones non sunt contrariæ
ex hoc quod contrariorum sunt.- Harum
rationum, suppositis maioribus, ponit
utriusque minoris declarationem simul,
dicens: Boni enim, quoniam bonum est, et mali, quoniam malum est, eadem forlasse opinio est, quoad
primam. Et subdit esse vera, sive plures
sive una sit, quoad secundam. Utitur
autem dubitativo adverbio et disiunctione,
quia non est determinandi locus an contrariorum eadem sit opinio, et quia aliquo modo est eadem et
aliquo modo non. Si enim loquamur de
habituali opinione, sic eadem est; Si
autem de actuali, sic non eadem est. Alia siquidem mentalis compositio
actualiter fit, concipiendo bonum esse bonum, et alia concipiendo malum esse
malum, licet eodem habitu utrunque
cognoscamus, illud per se primo, et hoc
secundario, ut dicitur IX Metaphysicæ. Deinde subdit quod ista quæ ad
declarationem minorum sumpta sunt, scilicet bonum et malum, contraria sunt
ac etiam contrarietate sumpta stricte in
moralibus, per hoc congrua usi sumus
declaratione. Ultimo inducit conclusionem. Sed non in eo quod contrariorum opiniones sunt, contrariæ sunt, sed magis in
eo quod contrariæ, idest, sed potius
censendæ sunt opiniones contrariæ ex eo
quod contrarie adverbialiter, scilicet contrario modo, idest vere et false
enunciant. Et sic patet primum. 9. Si ergo boni etc. Quia dixerat quod
contrarietas opinionum accipitur secundum oppositionem veritatis et falsitatis
earum, declarat modo quod non quæcunque secundum veritatem et falsitatem
oppositæ opiniones sunt contrariæ, tali
ratione. De bono, puta, de iustitia, quatuor
possunt opiniones haberi, scilicet quod iustitia est bona, et quod non est bona, et quod est fugibilis,
et quod est non appetibilis. Quarum
prima est vera, reliquæ sunt falsæ.
Inter quas hæc est diversitas quod, prima negat
idem prædicatum quod vera affirmabat ; [secunda affirmat aliquid aliud quod bono non inest; tertia
negat id quod bono inest, non tamen
illud quod vera affirmabat. Tunc
sic. Si omnes opiniones secundum
veritatem et falsitatem sunt contrariæ, tunc uni, scilicet veræ opinioni
non solum multa sunt contraria, sed
etiam infinita: quod est impossibile,
quia unum uni est contrarium. Tenet consequentia, quia possunt infinitæ
imaginari opiniones falsæ de una re,
similes ultimis falsis opinionibus adductis,
affirmantes, scilicet ea quæ non insunt illi, et negantes ea quæ
illi quocunque modo coniuncta sunt: utraque
namque indeterminata esse et absque numero constat. Possumus* enim opinari quod iustitia est
quantitas, quod est relatio, quod est
hoc et illud; et similiter opinari quod
iustitia non sit qualitas, non sit appetibilis, non sit habitus. Unde ex supradictis in propositione quæstionis, inferens pluralitatem falsarum contra unam
veram, ait: Si ergo est opinatio vera
boni, puta iustitiæ, quoniam est bonum;
et si est etiam falsa opinatio negans idem, scilicet, quoniam mon est quid
bonum; est vero et tertia opinatio falsa quoque, affirmans aliquid aliud inesse
illi, quod non inest nec inesse potest,
puta, quod iustitia sit fugibilis, quod sit illicita; et hinc intelligitur
quarta falsa quoque, quæ scilicet negat
aliquid aliud ab eo quod vera opinio
affirmat inesse iustitiæ, quod tamen inest, ut puta quod non sit qualitas, quod non sit virtus;
si ita inquam est, nulla aliarum
falsarum ponenda est contraria opinioni
veræ. Et exponens quid demonstret per ly aliarum, subdit: Neque quæcumque
opinio opinatur esse quod mom est, ut
tertii ordinis opiniones faciunt: meque quæcumque opiEt nio opinatur non. esse quod est, ut quarti
ordinis opiniones significant. causam subdit: Infimitæ enim utræque sunt, el quæ esse opinantur quod mom est, el
quæ mon esse quod est, ut supra
declaratum fuit. Non ergo quæcunque opiniones oppositæ
secundum veritatem et falsitatem contrariæ sunt. Et sic patet secundum. d. c et :
po ssum LECTIO
(Cann. CarkrANI lect. xi1) ILLA
VERI FALSIQUE OPPOSITIO, QUÆ OPINIONUM CONTRARIETATEM CONSTITUIT, EST OPPOSITIO SECUNDUM AFFIRMATIONEM ET
NEGATIONEM EIUSDEM DE EODEM. ἀλλ᾽ ἐν ὅσαις ἐστὶν ἡ ἀπάτη. Αὐται δέ εἰσιν ἐξ ὧν αἱ αἱ
t, γενέσεις" ἐκ τῶν ἀντικειμένων δὲ αἱ γενέσεις, ὥστε χαὶ, ^,
* E ἀπάται. Ei οὖν τὸ ἀγαθὸν xal ἀγαθὸν xal οὐ χαχόν ἐστι; xad τὸ μὲν καθ᾽ ἑαυτό, τὸ δὲ χατὰ συμβεβηκός (συμβέβηκε γὰρ αὐτῷ οὐ καχῷ εἶναι), μᾶλλον δὲ ἑκάστου, Sed in quibuscunque fallacia est. Hæ autem
sunt ex his * Seq.c.xiv. ex quibus sunt
generationes: ex oppositis vero generationes sunt: quare etiam fallacia. Si ergo quod bonum est, et bonum, et non
malum est; et ἀληθὴς ἡ καθ᾽ ἑαυτό, καὶ ψευδής, εἴπερ καὶ ἀληθής. Ἡ μὲν οὖν ὅτι οὐχ ἀγαθὸν τὸ ἀγαθὸν τοῦ καθ᾽ ἑαυτὸ
ὑπάρχοντος, ψευδής, ἡ δὲ τοῦ ὅτι χακὸν τοῦ κατὰ
συμβεβηκός. “Ὥστε μᾶλλον ἂν εἴη ψευδής τοῦ ἀγαθοῦ
ἡ τῆς ἀποφάσεως, ἢ ἡ τοῦ ἐναντίου δόξα. Διέψευσται δὲ μάλιστα περὶ ἕκαστον ὁ τὴν ἐναντίαν ἔχων. δόξαν: τὰ γὰρ ἐναντία τῶν πλεῖστον διαφερόντων περὶ τὸ αὐτό. Εἰ οὖν ἐναντία μὲν τούτων ἡ ἑτέρα; ἐναντιωτέρα δὲ ἡ τῆς ἀποφάσεως, δῆλον ὅτι αὑτὴ ἂν εἴη ἐναντία. Ἢ δὲ τοῦ ὅτι κακὸν τὸ ἀγαθὸν συμ.πεπλεγμένη ἐστί: xol γὰρ ὅτι οὐχ ἀγαθὸν ἀνάγχη
ἴσως ὑπολαμβάνειν τὸν αὐτόν. hoc quidem
secundum se, illud vero secundum accidens (accidit enim ei non malum esse);
magis autem in unoquoque vera est, quæ
secundum se est etiam falsa, est falsa
siquidem et vera. Ergo ea quæ est, quoniam non bonum quod bonum est, eius, quæ secundum
se est;
eius, quæ illa
vero quæ est,
quoniam malum est, est secundum
accidens. Quare magis erit falsa de bono
ea, quæ est negationis opinio, quam ea,
quæ est contrarii. Falsus autem est maxime circa singula, qui habet contrariam opinionem:
contraria enim sunt eorum, quæ plurimum
circa idem differunt. Si igitur harum
contraria est altera, magis vero negationis
est contraria; manifestum est
quoniam hæc erit contraria. Illa vero quæ
est, quoniam malum est, quod bonum est,
implicita est. Etenim quoniam non bonum Ἔτι δέ, εἰ καὶ ἐπὶ τῶν ἄλλων ὁμοίως δεῖ ἔχειν, καὶ
ταύτῃ ἂν δόξειε καλῶς concava ἢ γὰρ πανταχοῦ τὸ τῆς ἀποφάσεως ἢ οὐδαμοῦ. Ὅσοις δὲ μή ἐστιν
ἐναντία, περὶ τούτων ἔστι μὲν ψευδὴς ἡ τῇ ἀληθεῖ
ἀντικειμένη, οἷον ὁ τὸν ἄνθρωπον οὐχ ἄνθρωπον οἰόμενος ον
Ei οὖν ἄλλαι αἱ τῆς ἀποφάσεως. αὗται ἐναντίαι. xal αἱ : Ἔτι ὁμοίως ἔχει ἡ τοῦ ἀγαθοῦ ὅτι ἀγαθὸν καὶ ἡ τοῦ
^, μὴ ἀγαθοῦ ὅτι οὐχ ἀγαθόν, xad πρὸς ταύταις ἡ τοῦ
ἀγαθοῦ ὅτι οὐκ ἀγαθόν, καὶ ἡ τοῦ μὴ ἀγαθοῦ ὅτι ἀγαθόν. Τῇ οὖν τοῦ μηὴ ἀγαθοῦ ὅτι οὐχ ἁ αθὸν ἀληθεῖ οὔσῃ δόξῃ τίς ἂν εἴη ἡ ἐναντία ; οὐ γὰρ δ᾽ὴ ἡ λέγουσα ὅτι Xa dv ἅμα γὰρ ἄν ποτε εἴη ἀληθής, s? hail δὲ ἀληθὴς ἀληθεῖ ἐναντία. Ἔστι γάρ τι μὴ ἀγαθὸν χακόν, ὥστε ἐνδέχεται ἅμα ἀληθεῖς εἶναι. Οὐδ᾽ αὖ ἡ ὅτι οὐ κακόν: ἀληθὴς γὰρ καὶ αὕτη" ἅμα γὰρ καὶ ταῦτα ἂν εἴη. Λείπεται οὖν τῇ τοῦ μὴ
ἀγαθοῦ ὅτι οὐχ ἀγαθὸν ἐναντία ἡ τοῦ μὴ ἀγαθοῦ
ὅτι ἀγαθόν" ψευδὴς γὰρ αὕτη. Ὥστε χαὶ ἡ τοῦ ἀγαθοῦ ὅτι οὐκ ἀγαθὸν τῇ τοῦ ἀγαθοῦ ὅτι ἀγαθόν. V Φανερὸν δὲ ὅτι οὐδὲν διοίσει οὐδ᾽ ἂν καθόλου τιθῶμεν
τὴν κατάφασιν: ἡ γὰρ καθόλου ἀπόφασις ἐναντία
ἔσται, οἷον τῇ δόξῃ τῇ Sobakoóon, ὅτι πᾶν ὃ ἂν dj ἀγαθὸν ἀγαθόν ἐστιν, ἡ ὅτι οὐδὲν τῶν ἀγαθῶν ἀγα0óv: Ἢ γὰρ τοῦ ἀγαθοῦ ὅτι ἁ αθόν, εἰ χαθόλου τὸ ἀγαθόν, ἡ αὐτή ἐστι τῇ ὅτι ὃ ἂν ἡ ἀγαθὸν δοξαζούσῃ
ὅτι ἀγαθόν" τοῦτο δὲ οὐδὲν διαφέρει τοῦ ὅτι πᾶν ὃ
ἂν fj ἀγαθὸν ἀγαθόν ἐστι. 'Ομοίως $: xal ἐπὶ τοῦ μὴ
ἀγαθοῦ. “Ὥστε εἴπερ ἐπὶ δόξης οὕτως ἔχει; εἰσὶ δὲ αἱ ἐν τῇ φωνῇ
καταφάσεις καὶ ἀποφάσεις σύμβολα τῶν ἐν τῇ ψυχῇ, δῇλον ὅτι χαὶ καταφάσει ἐναντία μὲν ἀπόφασις ἡ περὶ τοῦ αὐτοῦ χαθόλου, οἷον, τῇ ὅτι πᾶν ἀγαθὸν
ἀγαθόν, ἢ ὅτι πᾶς ἄνθρωπος ἀγαθός, ἡ ὅτι οὐθὲν
ἢ οὐδείς, ἀντιφατικῶς $n ἢ οὐ πᾶν ἢ οὐ πᾶς. est, necesse est
forte idem ipsum opinari. Amplius si
etiam in aliis similiter oportet se habere, et
hoc modo videbitur bene esse dictum. Aut enim ubique ea, quæ est contradictionis, aut nusquam.
Quibus vero non est contrarium, de his
quidem est falsa ea, quæ est veræ
opposita; ut qui hominem non putat esse hominem, falsus est. Si ergo hæ contrariæ sunt, etiam aliæ quæ sunt contradictiones. Amplius similiter se habet opinio boni, quoniam
bonum est, et non boni, quoniam non
bonum est. Et præter has boni, quoniam
non bonum est, et non boni quoniam bonum est. Illi ergo quæ est, non boni
quoniam non bonum est; veræ opinationi
quænam est contraria? non enim ea, quæ dicit quoniam malum est: simul enim
aliquando veræ erunt. Nunquam autem vera
veræ est contraria: est enim quidquam non bonum malum. Quare contingit simul esse veras. At
vero nec illa, quæ est, quod non malum:
vera enim et, hæc: simul enim et hæc erunt. Relinquitur ergo, ei, quæ est non-bonum, quoniam non bonum est, contraria
ea, quæ est, non boni, quoniam bonum
est. Falsa enim hæc. Quare et ea, quæ
est boni, quoniam non bonum est, ei, quæ
est boni, quoniam est bonum. Manifestum
est autem quoniam nihil interest nec si universaliter ponamus affirmationem.
Universalis enim negatio contraria erit; ut opinioni, quæ opinatur, quoniam
omne .quod est bonum, bonum est, ea quæ est,
quoniam nihil horum quæ bona sunt, bonum est. Nam ea quæ
est boni quoniam bonum est, si universaliter
sit bonum, eadem est ei quæ opinatur, quod quidquid bonum est, quoniam bonum est. Hoc autem nihil
differt ab eo quod est, quod omne quod est bonum, bonum est. Similiter autem et
in non bono. Quare si in opinione sic se
habet; sunt autem hæ quæ sunt in voce
affirmationes et negationes notæ eorum
quæ sunt in anima; manifestum est quoniam affirmationi contraria quidem
negatio est, quæ de eodem universaliter; ut ei, quæ est, quoniam omne bonum
bonum est, vel quoniam omnis homo bonus, ea quæ est, quoniam nullum vel nullus: contradictorie
autem quæ est, quod non omne aut non
omnis. 124 II Φανερὸν δὲ ὅτι καὶ ἀληθῇ ἀληθεῖ οὐχ ἐνδέχεται ἐναντίαν εἶναι οὔτε δόξαν οὔτε ἀπόφασιν. ᾿Εναντίαι μὲν
γὰρ αἱ περὶ τὰ ἀντικειμενα περὶ ταῦτα δὲ ἐνδέχεται
τὸν
ἀληθεύειν
αὐτόν: x s οὐχ ἐνδέχεται τὰ ἐναντία ὑπαάρχειντῷ αὐτῷ. uia subtili indagatione ostendit quod nec
materiæ contrarietas, nec veri falsique qualisτῷ hcunque oppositio
contrarietatem opinionum ZA constituit,
sed quod aliqua veri falsique oppo77
sitio id facit, ideo nunc determinare intendit qualis sit illa veri falsique oppositio, quæ
opinionum contrarietatem constituit. Ex hoc enim directe quæstioni satisfit. Et
intendit quod sola oppositio opinionum secundum
affirmationem et negationem eiusdem de eodem etc. constituit
contrarietatem earum. Unde intendit probare istam conclusionem per quam ad quæsitum respondet:
Opiniones oppositæ secundum affirmationem et negationem eiusdem de eodem sunt contrariæ; et
consequenter illæ, quæ sunt oppositæ
secundum aflirmationem contrariorum prædicatorum de eodem, non sunt contrariæ,
quia Manifestum est autem, quoniam et
veram veræ non contingit esse contrariam, nec opinionem nec contradictionem.
Contrariæ enim, quæ circa opposita sunt; circa
eadem autem contingit verum dicere eumdem; simul autem non contingit eidem inesse
contraria. et illi inter quos est primo fallacia, quia
utrobique termini sunt affirmatio et negatio.
ἡ
4. Deinde cum dicit: Si ergo quod bonum est etc., intendit probare
maiorem principalis rationis. Et quia iam
declaravit quod ea, in quibus primo est fallacia, sunt affirmatio et negatio, ideo utitur, loco
maioris probandæ, scilicet, opiniones in quibus primo est fallacia,
sunt contrariæ, sua conclusione,
scilicet, opiniones. oppositæ secundum
affirmationem et negationem eiusdem sunt
contrariæ. Æquivalere enim iam
declaratum est. Fecit autem hoc consuetæ
brevitati studens, quoniam sic procedendo, et probat maiorem, et respondet
directe quæstioni, et applicat ad propositum simul. Probat ergo loco maioris conclusionem principaliter intentam
quæstionis, hanc, scilicet: Opiniones
oppositæ secundum affirmasic affirmativa vera haberet duas contrarias, quod
est impossibile. Unum enim uni est
contrarium. 2. Probat autem istam conclusionem tribus
rationibus. -Prima est: opiniones in quibus primo est fallacia sunt contrariæ; opiniones oppositæ secundum
affirmationem et negationem eiusdem de eodem sunt in quibus primo est fallacia; ergo opiniones oppositæ
secundum affirmationem et negationem
eiusdem de eodem sunt contrariæ. - Sensus maioris est: opiniones quæ primo
ordine naturæ sunt termini fallaciæ,
idest deceptionis seu erroris, sunt contrariæ: sunt enim, cum quis fallitur seu
errat, duo termini, scilicet a quo
declinat, et ad quem labitur. Huius rationis in littera primo ponitur maior,
cum dicitur: Sed in. quibus primo fallacia est ; adversative enim continuans
sermonem supra dictis, insinuavit non tot enumeratas opiniones esse contrarias,
sed eas in quibus primo fallacia est
modo exposito. Deinde subdit probationem
minoris talem: eadem proportionaliter sunt, ex quibus sunt generationes et ex quibus sunt fallaciæ;
sed generationes sunt ex oppositis secundum affirmationem et negationem; ergo
et fallaciæ sunt ex oppositis secundum affirmationem et negationem. Quod erat
assumptum in minore. Unde ponens maiorem huius prosyllogismi, ait: Hæc autem, scilicet fallacia, est ex bis,
scilicet terminis, proportionaliter tamen, ex quibus sunt et generationes. Et
subsumit minorem: Ex oppositis vero,
scilicet secundum affirmationem et negationem, et generationes fiunt. Et demum
concludit: Quare etiam fallacia, scilicet, est ex oppositis secundum
affirmationem et negationem eiusdem de eodem.
3. Ad evidentiam huius probationis scito quod idem faciunt in processu intellectus cognitio et
fallacia seu error, quod in processu
naturæ generatio et corruptio. Sicut
namque perfectiones naturales generationibus acquiruntur, corruptionibus
desinunt; ita cognitione perfectiones intellectuales acquiruntur, erroribus
autem seu deceptionibus amittuntur. Et ideo, sicut tam generatio quam corruptio est inter affirmationem et
negationem, ut proprios terminos, ut dicitur V Pbysic.; ita tam cognoscere aliquid, quam falli circa illud, est inter
affirmationem et negationem, ut proprios terminos: ita quod id ad quod primo attingit cognoscens aliquid
in secunda operatione intellectus est
veritatis affirmatio, et quod per
se primo abiicitur est illius
negatio. Et similiter quod per se primo
perdit qui fallitur est veritatis affirmatio, et quod primo incurrit est veritatis negatio.
Recte ergo dixit quod iidem sunt termini
inter quos primo est generatio,
tionem et negationem eiusdem sunt contrariæ; et
non illæ, quæ sunt oppositæ secundum
contrariorum affrmationem de eodem. Et intendit talem rationem. Opinio vera et
eius magis falsa sunt contrariæ opiniones;
'oppositæ secundum affirmationem et negationem sunt vera
et eius magis falsa; ergo opiniones oppositæ secundum
affirmationem et negationem sunt contrariæ.
Maior probatur ex eo quod, quæ plurimum distant circa idem sunt contraria; vera autem et eius magis
falsa plurimum distant circa idem, ut
patet. Minor vero probaturex eo quod opposita secundum negationem eiusdem de
eodem est per se falsa respectu suæ affirmationis veræ. Opinio autem per se falsa magis falsa
est quacunque alia. Unumquodque enim quod est per se tale, magis tale est quolibet quod est per aliud
tale. 5. Unde ad suprapositas opiniones
in propositione quæstionis rediens, ut
ex illis exemplariter clarius intentum ostendat, a probatione minoris inchoat
tali modo. Sint quatuor opiniones, duæ
veraé, scilicet, bonum est bonum, bonum
non est malum, et duæ falsæ, scilicet,
bonum non est bonum, et, bonum est malum. Clarum est autem quod prima vera est ratione sui,
secunda autem est vera secundum accidens,
idest, ratione alterius, quia scilicet non esse malum est coniunctum ipsi bono:
ideo enim ista est vera, bonum non est
malum, quia bonum est bonum, et non e
contra; ergo prima quæ est secundum
se vera, ést magis vera quam
sécunda: quia in unoquoque genere quæ secundum se est vera est magis vera.
sunt, Illæ autem duæ falsæ eodem modo censendæ quod scilicet magis falsa est, quæ secundum
se est falsa. Unde quia prima earum,
scilicet, bonum non est bonum, quæ est
negativa, est per se et non ratione alterius falsa, relata ad illam
affirmativam, bonum est bonum; et secunda, scilicet, bonum est malum, quæ
est affirmativa contrarii, ad eamdem
relata est falsa per accidens, idest ratione alterius (ista enim, scilicet,
bonum est malum, non immediate
falsificatur ab illa vera, scilicet
bonum est bonum, sed mediante illa alia falsa, scilicet, bonum non est bonum); idcirco magis falsa
respectu affirmationis veræ est negatio eiusdem quam affirmatio contrarii. Quod
erat assumptum in minore. 6. Unde
rediens ad supra positas (ut dictum est) opiniones, infert primas duas veras
opiniones dicens: Si ergo quod bonum.
est et bonum est et. mon. est malum; et hoc quidem, scilicet quod dicit prima
opinio, est verum secundum se, idest ratione sui; illud vero, scilicet quod dicit CAP. XIV,
ecunda opinio, est verum secundum accidens, quia acci: it, idest, coniunctum est ei, scilicet bono,
malum non esse. In unoquoque autem
ordine magis vera est illa quæ secundum
se est vera. Etiam igitur falsa magis est quæ
secundum se falsa est: siquidem et vera huius est naturæ, ut declaratum
est, quod scilicet magis vera est, quæ
secundum se est vera. Ergo illarum duarum opinionum falsarum in quæstione propositarum, scilicet,
bonum non est bonum, et, bonum est
malum, ea quæ est dicens, quoniam non
est bonum quod bonum est, idest negativa,
scilicet, bonum non est bonum, est consistens falsa secundum se, idest,
ratione sui continet in seipsa falsitatem;
illa vero reliqua falsa opinio, quæ est dicens, quoniam malum est, idest, affirmativa contraria,
scilicet, bonum est malum, eius, quæ
est, idest, illius affirmationis dijd. *
Ed. e et
CTS "ENT AQUINO.
TRENT ἀπ᾿ :
j centis, bonum est bonum,
secundum accidens, idest, ratione alterius falsa est. Deinde
subdit ipsam minorem: Quare erit magis falsa
de bono, opinio negationis, quam contrarii. Deinde ponit maiorem dicens
quod, semper magis falsus circa singula est ille qui babet contrariam opinionem, ac si
dixisset, veræ opinioni magis falsa-est
contraria. Quod assumptum erat in maiore.
Et eius probationem subdit, quia contrarium est de num?ro eorum. quæ. circa idem. plurimum differunt.
Nihil enim plus differt a vera opinione
quam magis falsa circa illam *. 7.
Ultimo directe applicat ad quæstionem dicens:
Quod si (pro, quia) barum falsarum, scilicet, negationi eiusdem et affirmationis contrarii, altera
est contraria veræ affirmationi, opinio vero contradictionis, idest, negationis
eiuslem de eodem, magis est contraria secundum
falsitatem, idest, magis est falsa, manifestum est quoniam hæc, scilicet opinio falsa negationis, erit
contraria affirmationi veræ, et e contra. Illa vero opinio quæ est dicens,
quoniam malum est quod bonum est, idest, affirmatio contrarii, non contraria
sed implicita est, idest, sed implicans
in se veræ contrariam, scilicet, bonum non est
bonum. Etenim necesse est ipsum opinantem affirmationem contrarii
opinari, quoniam idem de quo affirmat
contrarium non est bonum. Oportet siquidem si quis opinatur quod vita est mala, quod opinetur
quod vita non sit bona. Hoc enim
necessario sequitur ad illud, et non e
converso; et ideo affirmatio contrarii implicita dicitur. Negatio autem eiusdem
de eodem implicita non est.- Et sic
finitur prima ratio. . 8. Notandum est hic primo quod ista regula
generalis tradita hic ab Aristotele de
contrarietate opinionum, quod Scilicet
contrariæ opiniones sunt quæ opponuntur secundum affirmationem et negationem
eiusdem de eodem, et in se et in
assumptis ad eius probationem propositionibus scrupulosa est. Unde multa hic
insurgunt dubia.Primum est quia cum oppositio secundum affirmationem et negationem non constituat contrarietatem
sed contradictionem apud omnes philosophos, quomodo Aristoteles opiniones oppositas secundum affirmationem et
negationem ex hoc contrarias ponat. Augetur et dubitatio quia dixit quod ea in quibus primo est fallacia
sunt contraria, et tamen subdit quod sunt oppositæ sicut termini
generationis, quos constat contradictorie opponi. Nec dubitatione caret quomodo
sit verum id quod supra diximus ex intentione s. Thomæ, quod nullæ duæ
opiniones opponantur contradictorie; cum
hic expresse dicitur aliquas opponi secundum affirmatiónem et negationem. Dubium secundo insurgit circa id quod
assumpsit, quod contraria cuiusque veræ
est per se falsa. Hoc enim non videtur verum. Nam contraria istius veræ,
Socrates est albus, est ista, Socrates
non. est albus, secundum determinata;
et tamen non est per se falsa. Sicut
namque sua opposita affirmatio est per
accidens vera, ita ista est LECT. per accidens falsa. Accidit enim isti
enunciationi falsitas. Potest enim
mutari in veram, quia est in materia
contingenti. Dubium est tertio circa id quod
dixit: Magis vero contradictionis est contraria. Ex hoc enim videtur velle
quod utraque, scilicet, opinio
negationis et contrarii, sit contraria veræ affirmationi; et consequenter vel
uni duo ponit contraria, vel non
loquitur de contrarietate proprie
sumpta: cuius oppositum supra ostendimus. 9. Ad evidentiam omnium, quæ primo loco
adducuntur, sciendum quod opiniones seu conceptiones intellectuales, in secunda
operatione de quibus loquimur, possunt tripliciter accipi: uno modo, secundum
id quod sunt absolute; alio modo,
secundum ea quæ repræsentant absolute;
tertio, secundum ea quæ repræsentant, ut sunt
in ipsis opinionibus. Primo membro omisso, quia non est præsentis
speculationis, scito quod si accipiantur secundo modo secundum repræsentata,
sic invenitur inter eas et
contradictionis, et privationis, et contrarietatis oppositio. Ista siquidem
mentalis enunciatio, Socrates est
videns, secundum id quod repræsentat opponitur illi, Socrates non est
videns, contradictorie; privative autem illi,
Socrales est cæcus; contrarie autem illi, Socrates est luscus ; si accipiantur secundum repræsentata. Ut enim
dicitur ἴῃ Postprædicamentis,
non solum cæcitas est privatio visus,
sed etiam cæcum esse est privatio huius quod est esse videntem, et sic de aliis. - Si vero
accipiantur opiniones tertio modo, scilicet, prout repræsentata per eas sunt in ipsis, sic nulla oppositio inter eas
invenitur nisi contrarietas: quoniam
sive opposita contradictorie sive privative
sive contrarie repræsententur, ut sunt in opinionibus, illius tantum
oppositionis capaces sunt, quæ inter duo
entia realia inveniri potest. Opiniones namque
realia entia sunt. Regulare enim est quod quidquid convenit alicui
secundum esse quod habet in alio, secundum
modum et naturam illius in quo est sibi convenit, et non secundum quod exigeret natura propria.Inter
entia autem realia contrarietas sola
formaliter reperitur. Taceo nunc de
oppositione relativa. Opiniones ergo hoc modo sumptæ, si oppositæ sunt, contrarietatem sapiunt, sed
non omnes proprie contrariæ sunt, sed
illæ quæ plurimum differunt circa idem
veritate et falsitate. Has autem probavit Aristoteles esse opiniones affirmationis
et negationis eiusdem de eodem. Istæ
igitur veræ contrariæ sunt. Reliquæ vero
per reductionem ad has contrariæ dicuntur. IO. Ex his patet quid ad obiecta dicendum
sit. Fatemur enim quod affirmatio et negatio in seipsis contradictionem
constituunt; in opinionibus vero existentes contrarietatem inter illas causant
propter extremam distantiam, quam ponunt inter entia realia, opinionem
scilicet veram et opinionem falsam circa
idem. Stantque ista duo simul quod ea,
in quibus primo est fallacia, sint opposita
ut termini generationis, et tamen
sint contraria utendo supradicta
distinctione: sunt enim opposita contradictorie
ut termini generationis secundum repræsentata ; sunt autem contraria,
secundum quod habent in seipsis illa contradictoria. Unde plurimum differunt. - Liquet quoque ex hoc quod nulla est dissentio inter dicta
Aristotelis et s. Thomae, quia opiniones
aliquas opponi secundum affirmationem et negationem verum esse confitemur, si
ad repraesentata nos convertimus, ut hic
dicitur. 1I. Tu autem qui perspicacioris ac provectioris
ingenii es compos, hinc habeto quod inter ipsas opiniones oppositas quidam tantum motus est, eo quod de
affrmato in affirmatum mutatio fit: inter ipsas vero secundum repraesentata, similitudo quaedam
generationis et corruptionis invenitur, dum inter affirmationem et
negationem mutatio clauditur. Unde et
fallacia sive error quandoque S. Thomas. RI ERIS
126 et motus et mutationis
rationem habet diversa respiciendo,
quando scilicet ex vera in per se falsam, vel e converso, II Secundum autem dictum simpliciter verum est,
quoniam quis mutat opinionem ; quandoque
autem solam mutationem imitatur, quando scilicet absque praeopinata veritate
ipsam falsam offendit quis opinionem; quandoque
vero motus undique rationem possidet, quando scilicet ex vera affirmatione in falsam circa idem
contrarii affirmationem transit. Quia tamen prima ut quis fallatur radix est oppositio affirmationis et negationis, merito
ea in quibus primo est fallacia, sicut
generationis terminos opponi dixit. 12. Ad dubium secundo loco adductum dico quod peccatur ibi secundum aequivocationem illius
termini per se falsa, seu per se vera.
Opinio enim et similiter enunciatio potest dici dupliciter per se vera seu falsa.
Uno modo, in seipsa, sicut sunt omnes
verae secundum illos modos perseitatis
qui enumerantur I Posteriorum, et similiter
falsae secundum illosmet modos, ut, bomo non est animal. Et hoc modo non accipitur in hac regula de
contrarietate opinionum et enunciationum
opinio per se vera aut falsa, ut
efficaciter obiectio adducta concludit. Si enim ad contrarietatem opinionum hoc exigeretur non
possent esse opiniones contrariae in
materia contingenti: quod est
falsissimum. Alio modo potest dici opinio sive enunciatio per se vera aut falsa respectu suae
oppositae. Per se vera quidem respectu
suae falsae, et per se falsa respectu suae
verae. Et tunc nihil aliud est dicere, est per se vera respectu illius,
nisi quod ratione sui et non alterius verificatur ex falsitate illius. Et similiter cum
dicitur, est per se falsa respectu
illius, intenditur quod ratione sui et non alterius falsificatur
ex illius veritate. Verbi gratia; istius verae, Socrates currit, non est per se falsa,
Socrates sedet, quia falsitas eius non
immediate sequitur ex illa, sed mediante
ista alia falsa, Socrates non
currit, quae est per se illius falsa,
quia ratione sui et non per aliquod medium ex illius veritate falsificatur, ut patet. Et similiter
istius falsae, Socrates est. quadrupes, non est per se vera ista, Socrates est
bipes, quia non per seipsam veritas istius illam falsificat, sed
mediante ista, Socrales mon est quadrupes,
quae est per se vera respectu illius: propter seipsam enim falsitate istius verificatur, ut de se patet.
Et hoc secundo modo utimur istis
terminis tradentes regulam de contrarietate opinionum et enunciationum.
Invenitur siquidem sic universaliter vera in omni materia regula dicens quod, vera et eius per se falsa, et falsa et
eius per se vera, sunt contrariae. Unde
patet responsio ad obiectionem, quia
procedit accipiendo ly per se vera, et per se falsa primo modo.
13. Ad ultimum dubium dicitur quod, quia inter opiniones ad se invicem
pertinentes nulla alia est oppositio
nisi contrarietas, coactus fuit Aristoteles (volens terminis specialibus
uti) dicere quod una est magis contraria
quam altera, insinuans quidem quod utraque contrarietatis. oppositionem habet respectu illius verae.
Determinat tamen immediate quod tantum una earum, scilicet negationis opinio,
contraria est affirmationi verae. Subdit enim: Manifestum est quoniam. baec
contraria erit. Duo ergo dixit, et quod
utraque, tam scilicet negatio eiusdem
quam affirmatio contrarii, contrariatur affirmationi verae, et quod una tantum earum, negatio scilicet,
est contraria. Et utrunque est verum.
Illud quidem, quia, ut dictum est, ambae
contrarietates oppositione contra affirmationem moliuntur; sed difformiter,
quia opinio negationis primo et per se
contrariatur, affirmationis vero contrarii
opinio secundario et per accidens, idest per aliud, ratione scilicet
negativae opinionis, ut declaratum est: sicut
etiam in naturalibus albo contrariantur et nigrum et rubrum, sed illud
primo, hoc reductive, ut reducitur scilicet ad nigrum illud inducendo, ut
dicitur V Pbysicor. simpliciter
contraria non sunt nisi extrema unius latitudinis, quae maxime distant; extrema
autem unius distantiae non sunt nisi duo. Et ideo cum inter pertinentes ad se invicem opiniones unum extremum teneat
affirmatio vera, reliquum uni tantum
falsae dandum est, illi scilicet quae
maxime a vera distat. Hanc autem negativam opinionem esse probatum est. Haec igitur una tantum
contraria est illi, simpliciter
loquendo. Caeterae enim
oppositae ratione istius contrariantur,
ut de mediis dictum est. Non ergo uni
plura contraria posuit, nec de contrarietate large loquutus est, ut obiiciendo
dicebatur. 14. Deinde cum dicit: Amplius
si etiam etc., probat idem, scilicet
quod affirmationi contraria est negatio eiusdem, et non
affirmatio contrarii secunda ratione, dicens: Si in aliis materiis oportet opiniones se habere
similiter, idest, eodem modo, ita quod
contrariae in aliis materiis sunt
affirmatio et negatio eiusdem; et hoc, scilicet quod diximus de boni et
mali opinionibus, videtur esse bene dictum,
quod scilicet contraria affirmationi boni non est affirmatio mali, sed
negatio boni. Et probat hanc consequentiam subdens: Aut enim ubique, idest, in
omni materia, ea quae est contradictionis altera pars censenda
est contraria suae affirmationi, aut nusquam, idest, aut in nulla materia. Si enim est una ars generalis accipiendi contrariam
opinionem, oportet quod ubique et in omni materia uno et eodem modo accipiatur contraria
opinio. Et consequenter, si in aliqua materia negatio eiusdem de eodem
affirmationi est contraria, in omni materia negatio eiusdem de eodem contraria erit affirmationi.
Deinde intendens concludere a positione antecedentis, affirmat antecedens ex
sua causa, dicens quod illae materiæ quibus
non inest contrarium, ut substantia et quantitas,
quibus, ut in Prædicamentis dicitur, nihil est contrarium. De his quidem est pér se falsa ea, quæ est
opinioni veræ opposita contradictorie,
ut qui putat hominem, puta Socratem non esse hominem, per se falsus est
respectu putantis, Socratem esse hominem. Deinde affirmando ipsum antecedens formaliter, directe concludit
intentum a positione antecedentis ad positionem consequentis dicens: Si ergo bæ, scilicet, affirmatio et negatio in
materia carente contrario, sunt contrariæ,
et omnes aliæ contradictiones contrariæ
censendæ sunt. Deinde cum dicit: Amplius similiter etc., probat idem tertia ratione, quæ talis est: Sic se habent
istæ duæ opiniones de bono, scilicet, bonum est bonum, et, bonum non est bonum, sicut se habent istæ duæ de non
bono, scilicet, non bonum non est bonum, et, non bonum est bonum. Utrobique
enim salvatur oppositio contradictionis.
Et primæ utriusque combinationis sunt veræ, secundæ autem falsæ. Unde proponens hanc maiorem
quoad primas veras utriusque combinationis ait: Similiter se babet opinio boni, quoniam bonum est, et non boni
quoniam mon est bonum. Et subdit quoad
secundas utriusque falsas: Et super bas
opinio bomi quoniam mon est bonum, et. non boni
quoniam .est bonum. Hæc est maior. Sed illi veræ opinioni de non
bono,scilicet, non bonum non est bonum,
contraria non est, non bonum est malum, nec bonum non est malum, quæ sunt de prædicato
contrario, sed illa, non bonum est
bonum, quæ est eius contradictoria ;
ergo et illi veræ opinioni de bono, scilicet, bonum est bonum, contraria erit sua contradictoria,
scilicet, bonum non est bonum, et non
affirmatio contrarii, scilicet, bonum est malum. Unde subdit minorem
supradictam dicens: Illi ergo veræ opinioni non boni, quæ est dicens quoniam
scilicet non bonum non est bonum, quæ est. contraria. Non enim est sibi contraria ea opinio, quæ
dicit affirmativæ prædicatum contrarium, scilicet, quod non bonum CAP. , LECT.
est malum: quia istæ duæ aliquando erunt simul veræ. Nunquam autem vera opinio veræ contraria est.
Quod autem istæ duæ aliquando simul sint
veræ, patet ex hoc quod quoddam non
bonum malum est: iniustitia enim quoddam
non bonum est, et malum. Quare contingeret contrarias esse simul veras: quod
est impossibile. At vero nec supradictæ veræ opinioni contraria est illa opinio, quæ est dicens prædicatum
contrarium negativæ, scilicet, non bonum non est malum, eadem ratione, quia
simul et hæ erunt veræ. Chimæra enim est
quoddam non bonum, de qua verum est simul dicere quod non est bona, et quod non est mala.
Relinquitur ergo tertia pars minoris
quod ei opinioni veræ quæ, est dicens
quoniam non bonum non est bonum, contraria est ea opinio. non boni, quæ est
dicens quod est bonum, quæ est
contradictoria ilius. Deinde subdit
127 mativæ quæ est, omne bonum
est bonum, vel, omnis homo est bonus,
contraria est universalis negativa, ea
scilicet, nullum bonum est bonum, vel, nullus homo est bonus: singula singulis referendo.
Contradictoria autem negatio, contraria
illi universali affirmationi est, aut, non
omnis homo est bonus, aut, non omne bonum est bonum, singulis singula similiter referendo. - Et
sic posuit utrunque divisionis membrum, et declaravit. 18. Sed est hic dubitatio non dissimulanda.
Si enim affirmationi universali
contraria est duplex negatio, universalis scilicet et contradictoria, vel uni
duo sunt contraria, vel contrarietate large utitur Aristoteles:
cuius oppositum supra declaravimus. --
Augetur et dubitatio: quia in præcedenti
textu dixit Aristoteles quod, nihil
interest si universalem negationem faciamus ita contrariam universali
affBrmationi, sicut singularem singulari.
conclusionem intentam: Quare et ei
opinioni boni, quæ dicit bonum est
bonum, contraria est ea boni opinio, quæ
dicit quod bonum non est bonum, idest, sua contradictoria. Contradictiones ergo
contrariæ in omni materia censendæ sunt.
16. Deinde cum dicit: Manifestum est igitur etc., declarat determinatam
veritatem extendi ad cuiusque quantitatis opiniones. Et quia de indefinitis, et
particularibus, et singularibus iam
dictum est, eo quod idem evidenter
apparet de eis in hac re iudicium (indefinitæ enim et particulares nisi pro eisdem supponant sicut singulares, per modum affirmationis et negationis non
opponuntur, quia simul veræ sunt); ideo
ad eas, quæ universalis quantitatis sunt
se transfert, dicens, manifestum esse quod
nihil interest quoad propositam quæstionem, si universaliter ponamus
affirmationes. Huic enim, scilicet, universali affirmationi, contraria est
universalis negatio, et non universalis
affirmatio de contrario; ut opinioni quæ opinatur, quoniam omne bonum est
bonum, contraria est, nihil horum, quæ
bona sunt, idest, nullum bonum est
bonum. Et declarat hoc ex quid nominis universalis affirmativæ, dicens:
Nam eius quæ est boni, quoniam bonum
est, si universaliter sit bonum : idest, istius opinionis universalis,
omne bonum est bonum, eadem est, idest, æquivalens, illa quæ opinatur, quidquid
est bonum est bonum; et consequenter sua
negatio contraria est illa quam dixi,
nihil horum quæ bona sunt bonum est, idest, nullum bonum est bonum.
Similiter autem se habet in non bono:
quia affirmationi universali de non bono reddenda est negatio universalis eiusdem, sicut de bono
dictum est. 17. Deinde cum dicit: Quare
si in opinione sic se ba/-* Cf. lect. præced. n. 1, 5 seqq. *
* Num. 2r. Cf. lect. præced. n. 5, seqq. æe Ὑ I eu
ER CP πο INCUBE
FRE bet etc., revertitur ad
respondendum quæstioni primo motæ *,
terminata iam secunda, ex qua illa dependet. Et
circa hoc duo facit: quia primo respondet quæstioni; secundo, declarat
quoddam dictum in præcedenti solutione; ibi: Manifestum est autem quoniam *
etc. Circa primum duo facit. Primo, directe respondet quæstioni, dicens: Quare si in opinione sic se' babet
contrarietas, ut dictum est; et
affirmationes et negationes quæ sunt in
voce, notæ sunt eorum, idest, affirmationum et negationum quæ sunt in
anima; manifestum. est. quoniam. affirmationi, idest, enunciationi affirmativæ,
contraria erit negatio circa idem,
idest, enunciatio negativa eiusdem de
eodem, et non enunciatio affirmativa contrarii. Et sic patet responsio ad primam quæstionem, qua quærebatur,
an enunciationi affirmativæ contraria
sit sua negativa, an affirmativa
contraria ἢ. Responsum est enim quod negativa est
contraria. Secundo, dividit negationem
contrariam affirmationi, idest,
negationem universalem et contradictoriam, dicens: Universalis, scilicet, negatio, affirmationi
contraria est etc. Ut exemplariter
dicatur, ei enunciationi universali affirEt ita declinari non potest quin
affirmationi universali duæ sint
negationes contrariæ, eo modo quo hic loquitur
de contrarietate Aristoteles. I9.
Ad huius evidentiam notandum est quod, aliud est loqui de contrarietate quæ est inter
negationem alicuius universalis
affirmativæ in ordine ad affirmationem contrarii de eodem, et aliud est loqui de illamet
universali negativa in ordine ad negationem eiusdem affrmativæ
contradictoriam. Verbi gratia: sint
quatuor enunciationes, quarum nunc
meminimus, scilicet, universalis affirmativa,
contradictoria, universalis negativa, et universalis affirmatio
contrarii, sic dispositæ in eadem linea recta: Omnis bomo est iustus, non omnis bomo est iustus,
omnis bomo non est iustus, omnis bomo
est iniustus: et intuere quod licet primæ
omnes reliquæ aliquo modo contrarientur, magna
tamen differentia est
inter primæ et cuiusque earum
contrarietatem. Ultima enim, scilicet affirmatio contrarii, primæ contrariatur ratione universalis
negationis, quæ ante ipsam sita est:
quia non per se sed ratione illius falsa
est, ut probavit Aristoteles, quia implicita est*. Tertia autem, idest universalis negatio, non per se
sed ratione secundæ, scilicet negationis
contradictoriæ, contrariatur primæ eadem
ratione, quia, scilicet, non est per se falsa
illius affirmationis veritate, sed implicita: continet enim negationem contradictoriam, scilicet, nom
ommis bomo est iustus, mediante qua
falsificatur ab affirmationis veritate,
quia simpliciter et prior est falsitas negationis contradictoriæ
falsitate negationis universalis:
totum namque compositius et posterius est partibus. Est
ergo inter has tres falsas ordo, ita
quod affirmationi veræ contradictoria
negdtio simpliciter sola est contraria, quia est simpliciter respectu illius per se falsa; affirmativa
autem contrarii est per accidens contraria, quia est per accidens
falsa; universalis vero negatio, tamquam
medium sapiens utriusque extremi naturam, relata ad contrarii affirmationem est
per se contraria et per se falsa, relata autem ad negationem
contradictoriam est per accidens falsa et contraria. Sicut rubrum ad nigrum est
album, et ad album est nigrum, ut
dicitur in V Physicorum. Aliud igitur est
loqui de negatione universali in ordine ad affirmationem contrarii, et aliud in ordine ad negationem
contradictoriam. Si enim primo modo loquamur, sic negatio
universalis per se contraria et per se falsa est; si autem secundo modo, non est per se falsa, nec
contraria affirmationi. 20. Quia ergo agitur ab Aristotele nunc quæstio, inter affirmationem contrarii et negationem
quæ earum contraria sit affirmationi veræ,
et non agitur quæstio ipsarum negationum
inter se, quæ, scilicet, earum contraria sit illi afhrmationi, ut patet in toto
processu quæstionis; ideo Aristoteles indistincte dixit quod
utraque negatio est contraria
affirmationi veræ, et non affirmatio
* Cf.supra n. 4, seqq.
E 128 contrarii. Intendens per hoc declarare
diversitatem quæ IIl, CAP., LECT.:
est inter affirmationem contrarii ét negationem in
hoc quod veræ aífirmationi
contrariantur, et non intendens dicere
quod utraque negatio est simpliciter contraria. Hoc enim in dubitatione non est quæsitum, sed
illud tantum.- Et similiter dixit quod nihil interest si quis ponat negationem universalem: nihil enim interest
quoad hoc, quod affirmatio contrarii
ostendatur non contraria affirmationi veræ, quod inquirimus. Plurimum autem
interesset, si negationes ipsas inter se discutere vellemus quæ earum esset affirmationi contraria.- Sic
ergo patet quod subtilissime Aristoteles
locutus de vera contrarietate enunciationum, unam uni contrariam posuit in
omni materia et quantitate, dum
simpliciter contrarias contradictiones asseruit. Deinde cum dicit: Manifestum est autem etc.,
resumit quoddam dictum ut probet illud, dicens: Manifestum est autem. ex dicendis quod mom contingit
veram. veræ contrariam esse, nec in opinione mentali, mec in contradictione, idest, vocali enunciatione. Et causam subdit:
quia contraria sunt quæ circa idem opposita sunt; et consequenter enunciationes et opiniones veræ circa diversa
contrariæ esse non possunt. Circa idem autem contingit simul omnes veras enunciationes et opiniones
verificari, sicut et significata vel
repræsentata earum simul illi insunt: aliter veræ tunc non sunt. Et
consequenter omnes veræ enunciationes et
opiniones circa idem contrariæ non sunt,
quia contraria non contingit eidem simul inesse. Nullum ergo verum sive sit circa idem, sive
sit circa aliud, est alteri vero
contrarium. Et sic finitur expositio
huius libri Perihermenias. Anno Nativitatis Dominicæ 1496, in Festo Divi Thomæ Aquinatis. Cui sit honor et gloria, eo quod
dederit opus a se inceptum, tanto tempore incompletum, perfici. III. 1 Postquam
philosophus distinxit enunciationes in quibus subiicitur nomen infinitum non
universaliter sumptum, hic intendit distinguere enunciationes, in quibus
subiicitur nomen finitum universaliter sumptum. Et circa hoc tria facit: primo,
ponit similitudinem istarum enunciationum ad infinitas supra positas; secundo,
ostendit dissimilitudinem earumdem; ibi: sed non similiter etc.; tertio,
concludit numerum oppositionum inter dictas enunciationes; ibi: hæ duæ igitur
et cetera. Dicit ergo primo
quod similes sunt enunciationes, in quibus est nominis universaliter sumpti
affirmatio. Having distinguished enunciations in which the subject is an
infinite name not taken universally, Aristotle now distinguishes enunciations
in which the subject is a finite name taken universally. He first proposes a
similarity between these enunciations and the infinite enunciations already
discussed, and then shows their difference where he says, But it is not
possible, in the same way as in the former case, that those on the diagonal
both be true, etc. Finally, he concludes with the number of oppositions there
are between these enunciations where he says, These two pairs, then, are
opposed, etc. He says first, then, that enunciations in which the affirmation
is of a name taken universally are similar to those already discussed. 2 Quoad
primum notandum est quod in enunciationibus indefinitis supra positis erant duæ
oppositiones et quatuor enunciationes, et affirmativæ inferebant negativas, et
non inferebantur ab eis, ut patet tam in expositione Ammonii, quam Porphyrii.
Ita in enunciationibus in quibus subiicitur nomen finitum universaliter sumptum
inveniuntur duæ oppositiones et quatuor enunciationes: et affirmativæ inferunt
negativas et non e contra. Unde similiter se habent enunciationes supradictæ,
si nominis in subiecto sumpti fiat affirmatio universaliter. Fient enim tunc
quatuor enunciationes: duæ de prædicato finito, scilicet omnis homo est iustus,
et eius negatio quæ est non omnis homo est iustus; et duæ de prædicato
infinito, scilicet omnis homo est non iustus, et eius negatio quæ est, non
omnis homo est non iustus. Et quia quælibet affirmatio cum sua negatione unam
integrat oppositionem, duæ efficiuntur oppositiones, sicut et de indefinitis
dictum est. Nec obstat quod de enunciationibus universalibus loquens
particulares inseruit; quoniam sicut supra de indefinitis et suis negationibus
sermonem fecit, ita nunc de affirmationibus universalibus sermonem faciens de
earum negationibus est coactus loqui. Negatio siquidem universalis affirmativæ non est
universalis negativa, sed particularis negativa, ut in I libro habitum est. It
is to be noted in relation to Aristotle’s first point that in indefinite
enunciations there were two oppositions and four enunciations, the affirmatives
inferring the negatives and not being inferred by them, as is clear in the
exposition of Ammonius as well as of Porphyry. In enunciations in which the
finite name universally taken is the subject there are also two oppositions and
four eminciations, the affirmatives inferring the negatives and not the
contrary. Hence, enunciations are related in a similar way if the affirmation
is made universally of the name taken as the subject. For again, four enunciations
will be made, two with a finite predicate-"Every man is just,” and its
negation, "Not every man is just”-and two with an infinite
predicate-"Every man is non-just” and its negation, "Not every man is
non-just.” And since any affirmation together with its negation makes one whole
opposition, two oppositions are made, as was also said of indefinite
enunciations. There might seem to be an objection to his use of particulars
when speaking of universal enunciations, but this cannot be objected to, for
just as in dealing with indefinite enunciations he spoke of their negations, so
now in dealing with universal affirmatives be is forced to speak of their
negations. The negation of the universal affirmative, however, is not the do
universal but the particular negative as was stated in the first book. V. lib. 2 l. 3 n. 3Quod autem
similis sit consequentia in istis et supradictis indefinitis patet
exemplariter. Et ne multa loquendo res clara
prolixitate obtenebretur, formetur primo figura de indefinitis, quæ supra posita
est in expositione Porphyrii, scilicet ex una parte ponatur affirmativa finita,
et sub ea negativa infinita, et sub ista negativa privativa. Ex altera parte
primo negativa finita, et sub ea affirmativa infinita, et sub ea affirmativa
privativa. Deinde sub illa figura formetur alia figura similis illi
universaliter: ponatur scilicet ex una parte universalis affirmativa de
prædicato finito, et sub ea particularis negativa de prædicato infinito, et ad
complementum similitudinis sub ista particularis negativa de prædicato
privativo; ex altera vero parte ponatur primo particularis negativa de
prædicato infinito, et sub ea universalis affirmativa de prædicato finito, et
sub ista universalis affirmativa de prædicato privativo, hoc modo: (Figura).
Quibus ita dispositis, exerceatur consequentia semper in ista proxima figura,
sicut supra in indefinitis exercita est: sive sequendo expositionem Ammonii, ut
infinitæ se habeant ad finitas, sicut privativæ se habent ad ipsas finitas;
finitæ autem non se habeant ad infinitas medias, sicut privativæ se habent ad
ipsas infinitas: sive sectando expositionem Porphyrii, ut affirmativæ inferant
negativas, et non e contra. Utrique enim expositioni suprascriptæ deserviunt figuræ,
ut patet diligenter indaganti. Similiter
ergo se habent enunciationes istæ universales ad indefinitas in tribus,
scilicet in numero propositionum, et numero oppositionum, et modo consequentiæ.
A table will make
it evident that the consequence is similar in these and in indefinite
eminciations. And lest what is clear be made obscure by prolixity let us first
make a diagram of the indefinites posited in the last lesson, based upon the
exposition of Porphyry. Place the finite affirmative on one side and under it
the infinite negative, and under this the privative negative. On the other side
put the finite negative first, under it the infinite affirmative, and under
this the privative affirmative. Then under this diagram make another similar to
it but of universals. On one side put the universal affirmative of the finite
predicate, under it the particular negative of the infinite predicate, and to
complete the parallel put the particular negative of the privative predicate
under this. On the other side, first put the particular negative of the
infinite predicate, under it the universal affirmative of the finite
predicate,” and under this the universal affirmative of the privative
predicate. Thus: DIAGRAM OF THE INDEFINITES Man is just Man is not just Man is
not non-just Man is non-just Man is not unjust Man is unjust DIAGRAM OF THE
UNIVERSALS Every man is just Not every man is just. Not every man is non-just
Every man is non-just Not every man is unjust Every man is unjust In this
disposition of enunciations, the consequence always follows in the second
diagram just as it followed in regard to indefinites in the first diagram. This
is true if we follow the exposition of Ammonius in which infinites are related
to finites as privatives are related to the same finites, and the finites not
related to the infinite middle enunciatious as privatives are related to those
infinites. It is equally true if we follow the exposition of Porphyry, in which
affirmatives infer negatives and not vice versa. That the tables serve both
expositions will be clear to one studying them. These universal enunciations,
therefore, are related in like manner to indefinite entinciations in three
things: the number of propositions, the number of oppositions, and the mode of
consequence. 4 Deinde cum dicit: sed non similiter angulares etc., ponit
dissimilitudinem inter istas universales et supradictas indefinitas, in hoc
quod angulares non similiter contingit veras esse. Quæ verba primo exponenda
sunt secundum eam, quam credimus esse ad mentem Aristotelis, expositionem;
deinde secundum alios. Angulares enunciationes in utraque figura suprascripta
vocat eas quæ sunt diametraliter oppositæ, scilicet affirmativam finitam ex uno
angulo, et affirmativam infinitam sive privativam ex alio angulo: et similiter
negativam finitam ex uno angulo, et negativam infinitam vel privativam ex alio
angulo. When he says, But it is not possible, in the same way as in the former
case, that those on the diagonal both be true, etc., he proposes a difference
between the universals and the indefinites, i.e., that it is not possible for
the diagonals to be true in the case of universals. First we will explain these
words according to the exposition we believe Aristotle had in mind, then
according to the opinion of others. Aristotle means by diagonal eminciations
those that are diametrically opposed in the diagram above, i.e., the finite
affirmative in one corner and the infinite affirmative or the privative in the
other; and the finite negative in one corner and the, infinite negative or
privative in the other. 5 Enunciationes ergo in qualitate similes angulares
vocatæ, eo quod angulares, idest diametraliter distant, dissimilis veritatis
sunt apud indefinitas et universales. Angulares
enim indefinitæ tam in diametro affirmationum, quam in diametro negationum
possunt esse simul veræ, ut patet in suprascripta figura indefinitarum. Et hoc
intellige in materia contingenti. Angulares vero in figura universalium non sic
se habent, quoniam angulares secundum diametrum affirmationum impossibile est
esse simul veras in quacumque materia. Angulares autem secundum diametrum
negationum quandoque possunt esse simul veræ, quando scilicet fiunt in materia
contingenti: in materia enim necessaria et remota impossibile est esse ambas
veras. Hæc est Boethii,
quam veram credimus, expositio. Enunciations that are similar in quality, and
called diagonal because diametrically distant, are dissimilar in truth, tben,
in the case of indefinites and universals. The indefinites on the corners, both
oil the diagonal of affirmations and the diagonal of negations can be
simultaneously true, as is evident in the table of the indefinite
entinciations. This is to be understood in regard to contingent matter. But
diagonals of universals are not so related, for angtilars on the diagonal of
affirmations cannot be simultaneously true in any matter. Those on the diagonal
of negations, however, can sometimes be true simultaneously, i.e., when they
are in contingerlt matter. In necessary and rernote matter it is impossible for
both of these to be true. This is the exposition of Boethitis, which we believe
to be the true one. 6 Herminus autem, Boethio referente, aliter exponit. Licet enim ponat similitudinem
inter universales et indefinitas quoad numerum enunciationum et oppositionum,
oppositiones tamen aliter accipit in universalibus et aliter in indefinitis.
Oppositiones siquidem indefinitarum numerat sicut et nos numeravimus, alteram
scilicet inter finitas affirmativam et negativam, et alteram inter infinitas
affirmativam et negativam, quemadmodum nos fecimus. Universalium vero non sic
numerat oppositiones, sed alteram sumit inter universalem affirmativam finitam
et particularem negativam finitam, scilicet omnis homo est iustus, non omnis
homo est iustus, et alteram inter eamdem universalem affirmativam finitam et
universalem affirmativam infinitam, scilicet omnis homo est iustus, omnis homo
est non iustus. Inter has enim est contrarietas, inter illas vero contradictio.
Dissimilitudinem etiam universalium ad indefinitas aliter ponit. Non enim
nobiscum fundat dissimilitudinem inter angulares universalium et indefinitarum
supra differentiam quæ est inter angulares universalium affirmativas et
negativas, sed supra differentiam quæ est inter ipsas universalium angulares
inter se ex utraque parte. Format
namque talem figuram, in qua ex una parte sub universali affirmativa finita,
universalis affirmativa infinita est; et ex alia parte sub particulari negativa
finita, particularis negativa infinita ponitur; sicque angulares sunt disparis
qualitatis, et similiter indefinitarum figuram format hoc modo: (Figura).
Quibus ita dispositis, ait in hoc stare dissimilitudinem, quod angulares
indefinitarum mutuo se invicem compellunt ad veritatis sequelam, ita quod unius
angularis veritas suæ angularis veritatem infert undecumque incipias. Universalium
vero angulares non se mutuo compellunt ad veritatem, sed ex altera parte
necessitas deficit illationis. Si enim incipias ab aliquo universalium et ad
suam angularem procedas, veritas universalis non ita potest esse simul cum
veritate angularis, quod compellit eam ad veritatem: quia si universalis est
vera, sua universalis contraria erit falsa: non enim possunt esse simul veræ.
Et si ista universalis contraria est falsa, sua contradictoria particularis,
quæ est angularis primæ universalis assumptæ, erit necessario vera: impossibile
est enim contradictorias esse simul falsas. Si autem incipias e converso ab
aliqua particularium et ad suam angularem procedas, veritas particularis ita
potest stare cum veritate suæ angularis, quod tamen non necessario infert eius
veritatem: quia licet sequatur: particularis est vera; ergo sua universalis
contradictoria est falsa; non tamen sequitur ultra: ista universalis
contradictoria est falsa; ergo sua universalis contraria, quæ est angularis
particularis assumpti, est vera. Possunt enim contrariæ esse simul falsæ. Herminus,
however, according to Boethius, explains this in another way. He takes the
oppositions in one way in universals and in another in indefinites, although he
holds that there is a likeness between universals and indefinites with respect
to the n timber of enunciations and of oppositions. He arrives at the
oppositions of indefinites we have, i.e., one between the affirmative and
negative finites, and the other between the affirmative and negative infinites.
But he disposes the oppositions of universals in another way, taking one
between the finite universal affirmative and finite particular negative,
"Every man is just” and "Not every man is just,” and the other
between the same finite universal affirmative and the infinite universal
affirmative, "Every man is just” and "Every man is non-just.” Between
the latter there is contrariety, between the former contradiction. He also
proposes the dissimilarity between universals and indefinites in another way.
He does not base the dissimilarity between diagonals of universals and
indefinites on the difference between affirinative and negative diagonals of
universals, as we do, but on the difference between the diagonals of universals
on both sides among themselves. Hence he forms his diagram in this way: under
the finite universal affirmative be places the infinite universal affirmative,
and on the other side, under the finite particular negative the infinite
particular negative. Thus the diagonals are of different quality. He also
diagrams the indefinites in this way. Every man is just? contradictories? Not
every man is just contraries subcontraries Every man is non-just?
contradictories? Not every man is non-just Man is just Man is non-just Man is
not just Man is not non-just With enunciations disposed in this way he says
their difference is this: that in indefinite enunciations, one on the diagonal
is true as a necessary consequence of the truth of the other, so that the truth
of one enunciation infers the truth of its diagonal from wherever you begin But
there is no such mutual necessary consequence in universals—from the truth of
one on a diagonal to the other—since the necessity of inference fails in part.
If you begin from any of the universals and proceed to its diagonal, the truth
of the universal cannot be simultaneous with the truth of its diagonal so as to
compel it to truth. For if the universal is true its universal contrary will be
false, since they cannot be at once true; and if this universal contrary is
false, its particular contradictory, which is the diagonal of the first
universal assumed, will necessarily be true, since it is impossible for
contradictories to be at once false; but if, conversely, you begin with a
particular enunciation and proceed to its diagonal, the truth of the particular
can so stand with the truth of its diagonal that it does not infer its truth
necessarily. For this follows: the particular is true, therefore its universal
contradictory is false. But this does not follow: this universal contradictory
is false, therefore its universal contrary, which is the diagonal of the
particular assumed, is true. For contraries can be at once false. 7 Sed videtur
expositio ista deficere ab Aristotelis mente quoad modum sumendi oppositiones. Non enim intendit hic loqui de
oppositione quæ est inter finitas et infinitas, sed de ea quæ est inter finitas
inter se, et infinitas inter se. Si enim de utroque modo oppositionis exponere
volumus, iam non duas, sed tres oppositiones inveniemus: primam inter finitas,
secundam inter infinitas, tertiam quam ipse herminus dixit inter finitam et
infinitam. Figura etiam quam formavit, conformis non est ei, quam Aristoteles
in fine I priorum formavit, ad quam nos remisit, cum dixit: hæc igitur
quemadmodum in resolutoriis dictum est, sic sunt disposita. In Aristotelis namque figura,
angulares sunt affirmativæ affirmativis, et negativæ negativis. But the way in
which oppositions are taken in this exposition does not seem to be what
Aristotle had in mind. He did not intend to speak here of the opposition
between finites and infinites, but of the opposition between finites themselves
and infinites themselves. For if we meant to explain each mode of opposition,
there would not be two but three oppositions: first, between finites; second,
between infinites; and third, the one Herminus states between finite and
infinite. Even the diagram Herminus makes is not like the one Aristotle makes
at the end of I Priorum, to which Aristotle himself referred us in the last
lesson when he said, This, then, is the way these are arranged, as we have said
in the Analytics; for in Aristotle’s diagram affirmatives are diagonal to
affirmatives and negatives to negatives. 8 Deinde cum dicit: hæ igitur duæ etc., concludit numerum
propositionum. Et potest dupliciter exponi; primo, ut ly hæ demonstret
universales, et sic est sensus, quod hæ universales finitæ et infinitæ habent
duas oppositiones, quas supra declaravimus; secundo, potest exponi ut ly hæ
demonstret enunciationes finitas et infinitas quoad prædicatum sive universales
sive indefinitas, et tunc est sensus, quod hæ enunciationes supradictæ habent
duas oppositiones, alteram inter affirmationem finitam et eius negationem,
alteram inter affirmationem infinitam et eius negationem. Placet autem mihi
magis secunda expositio, quoniam brevitas cui Aristoteles studebat,
replicationem non exigebat, sed potius quia enunciationes finitas et infinitas
quoad prædicatum secundum diversas quantitates enumeraverat, ad duas
oppositiones omnes reducere, terminando earum tractatum, voluit. Then Aristotle says, These
two pairs, then, are opposed, etc. Here he concludes to the number of
propositions. What he says here can be interpreted in two ways. In the first
way, "these” designates universals, and thus the meaning is that the
finite and infinite universals have two oppositions, which we have explained
above. In the second, "these” designates enunciations which are finite and
infinite with respect to the predicate, whether universal or indefinite, and
then the meaning is that these enunciations have two oppositions, one between
the finite affirmation and its negation and the other between the infinite
affirmation and its negation. The second exposition seems more satisfactory to
me, for the brevity for which, Aristotle strove allows for no repetition;
hence, in terminating his treatment of the enunciations he had enumerated—those
with a finite and infinite predicate according to diverse quantities—he meant
to reduce all the oppositions to two. 9
Deinde cum dicit: aliæ autem ad id quod est etc., intendit declarare
diversitatem enunciationum de tertio adiacente, in quibus subiicitur nomen
infinitum. Et circa hoc tria facit: primo, proponit et distinguit eas; secundo,
ostendit quod non dantur plures supradictis; ibi: magis autem etc.; tertio,
ostendit habitudinem istarum ad alias; ibi: hæ autem extra et cetera. Ad
evidentiam primi advertendum est tres esse species enunciationum de inesse, in
quibus explicite ponitur hoc verbum est. Quædam sunt, quæ subiecto sive finito
sive infinito nihil habent additum ultra verbum, ut, homo est, non homo est.
Quædam vero sunt quæ subiecto finito habent, præter verbum, aliquid additum
sive finitum sive infinitum, ut, homo est iustus, homo est non iustus. Quædam
autem sunt quæ subiecto infinito, præter verbum, habent aliquid additum sive
finitum sive infinitum, ut, non homo est iustus, non homo est non iustus. Et
quia de primis iam determinatum est, ideo de ultimis tractare volens, ait: aliæ
autem sunt, quæ habent aliquid, scilicet prædicatum, additum supra verbum est,
ad id quod est, non homo, quasi ad subiectum, idest ad subiectum infinitum. Dixit autem quasi, quia sicut nomen infinitum deficit
a ratione nominis, ita deficit a ratione subiecti. Significatum siquidem
nominis infiniti non proprie substernitur compositioni cum prædicato quam
importat, est, tertium adiacens. Enumerat quoque quatuor enunciationes et duas
oppositiones in hoc ordine, sicut in superioribus fecit. Distinguit etiam istas
ex finitate vel infinitate prædicata. Unde primo, ponit oppositiones inter
affirmativam et negativam habentes subiectum infinitum et prædicatum finitum,
dicens: ut, non homo est iustus, non homo non est iustus. Secundo, ponit oppositionem
alteram inter affirmativam et negativam, habentes subiectum infinitum et
prædicatum infinitum, dicens: ut, non homo est non iustus, non homo non est non
iustus. When he says, and
there, are two other pairs if something is added to "non-man” as a
subject, etc., he shows the diversity of enunciations when "is” is added
as a third element and the subject is an infinite name. First, he proposes and
distinguishes them; secondly, he shows that there are no more opposites than
these where he says, There will be no more opposites than these; thirdly, he
shows the relationship of these to the others where he says, The latter,
however, are separate from the former and distinct from them, etc. With respect
to the first point, it should be noted that there are three species of absolute
[de inesse] enunciations in which the verb "is” is posited explicitly.
Some have nothing added to the subject—which can be either finite or
infinite—beyond the verb, as in "Man is,” "Non-man is.” Some have,
besides the verb, something either finite or infinite added to a finite
subject, as in "Man is just,” "Man is non-just.” Finally, some have,
besides the verb, something either finite or infinite added to an infinite
subject, as in "Non-man is just,” "Non-man is non-just.” He has
already treated the first two and now intends to take tip the last ones. And
there are two other pairs, he says, that have something, namely a predicate.
added beside the verb "is” to "non-man” as if to a subject, i.e., to
an infinite subject. He says "as if” because the infinite name falls short
of the notion of a subject insofar as it falls short of the notion of a name.
Indeed, the signification of an infinite name is not properly submitted to
composition with the predicate, which "is,” the third element added,
introduces. Aristotle enumerates four enunciations and two oppositions in this
order as he did in the former. In addition he distinguishes these from the
former finiteness and infinity. First, he posits the opposition between
affirmative and negative enunciations with an infinite subject and a finite
predicate, "Non-man is just,” "Non-man is not just.” Then he posits
another opposition between those with an infinite subject and an infinite
predicate, "Non-man is non-just,” "Non-man is not non-just. 10 Deinde cum dicit: magis autem
plures etc., ostendit quod non dantur plures oppositiones enunciationum
supradictis. Ubi notandum est quod enunciationes de inesse, in quibus explicite
ponitur hoc verbum est, sive secundum, sive tertium adiacens, de quibus
loquimur, non possunt esse plures quam duodecim supra positæ; et consequenter
oppositiones earum secundum affirmationem et negationem non sunt nisi sex. Cum
enim in tres ordines divisæ sint enunciationes, scilicet in illas de secundo
adiacente, in illas de tertio subiecti finiti, et in illas de tertio subiecti
infiniti, et in quolibet ordine sint quatuor enunciationes; fiunt omnes
enunciationes duodecim, et oppositiones sex. Et quoniam subiectum earum in
quolibet ordine potest quadrupliciter quantificari, scilicet universalitate,
particularitate, et singularitate et indefinitione; ideo istæ duodecim
multiplicantur in quadraginta octo. Quater enim duodecim quadraginta octo
faciunt. Nec possibile est plures his imaginari. Et licet Aristoteles nonnisi
viginti harum expresserit, octo in primo ordine, octo in secundo, et quatuor in
tertio, attamen per eas reliquas voluit intelligi. Sunt autem sic enumerandæ et
ordinandæ secundum singulos ordines, ut affirmationi negatio prima ex opposito
situetur, ut oppositionis intentum clarius videatur. Et sic contra universalem
affirmativam non est ordinanda universalis negativa, sed particularis negativa,
quæ est illius negatio; et e converso, contra particularem affirmativam non est
ordinanda particularis negativa, sed universalis negativa quæ est eius negatio.
Ad clarius autem intuendum numerum, coordinandæ sunt omnes, quæ sunt similis
quantitatis, simul in recta linea, distinctis tamen ordinibus tribus
supradictis. Quod ut clarius
elucescat, in hac subscripta videatur figura: (Figura). Quod autem plures his non sint,
ex eo patet quod non contingit pluribus modis variari subiectum et prædicatum
penes finitum et infinitum, nec pluribus modis variantur finitum et infinitum
subiectum. Nulla enim enunciatio de secundo adiacente potest variari penes
prædicatum finitum vel infinitum, sed tantum penes subiectum quod sufficienter
factum apparet. Enunciationes autem de tertio adiacente quadrupliciter variari
possunt, quia aut sunt subiecti et prædicati finiti, aut utriusque infiniti,
aut subiecti finiti et prædicati infiniti, aut subiecti infiniti et prædicati
finiti. Quarum nullam
prætermissam esse superior docet figura. Then he says, There will be no more
opposites than these. Here he points out that there are no more oppositions of
enunciations than the ones be has already given. We should note, then, that
simple [or absolute] enunciations—of which we have been speaking—in which the
verb "is” is explicitly posited whether it is the second or third element
added, cannot be more than the twelve posited. Consequently, their oppositions
according to affirmation and negation are only six. For enunciations are
divided into three orders: those with the second element added, those with the
third element added to a finite subject, and those with the third element added
to an infinite subject; and in any order there are four enunciations. And since
their subject in any order can be quantified in four ways, i.e., by
universality, particularity, singularity, and indefiniteness, these twelve will
be increased to fortyeight (four twelves being forty-eight). Nor is it possible
to imagine more than these. Aristotle has only expressed twenty of these, eight
in the first order, eight in the second, and four in the third, but through
them be intended the rest to be understood. They are to be enumerated and
disposed according to each order so that the primary negation is placed
opposite an affirmation in order to make the relation of opposition more
evident. Thus, the universal negative should not be ordered as opposite to the
universal affirmative, but the particular negative, which is its negation.
Conversely, the particular negative should not be ordered as opposite to the
particular affirmative, but the universal negative, which is its negation. For
a clearer look at their number all those of similar quantity should be
co-ordered in a straight line and in the three distinct orders given above. The
following diagram will make this clear. FIRST ORDER Socrates is Socrates is not
Non-Socrates is Non-Socrates is not Some man is Some man is not Some non-man is
Some non-man is not Man is Man is not Non-man is Non-man is not Every man is No
man is Every non-man is No non-man is SECOND ORDER Socrates is just Socrates is
not just Socrates is non-just Socrates is not non-just Some man is just Some
man is not just Some man is non-just Some man is not non-just Man is just Man
is not just Man is non-just Man is not non-just Every man is just No man is
just Every man is non-just No man is non-just THIRD ORDER Non-Socrates is just
Non-Socrates is not just Non-Socrates is non-just Non-Socrates is not non-just
Some non-man is just Some non-man is not just Some non-man is non-just Some
non-man is not non-just Non-man is just Non-man is not just Non-man is non-just
Non-man is not non-just Every non-man is just No non-man is just Every non-man
is non-just No non-man is non-just It is evident that there are no more than
these, for the subject and the predicate cannot be varied in any other way with
respect to finite and infinite. Nor can the finite and infinite subject be
varied in any other way, for the enunciation with a second adjoining element
cannot be varied with a finite and infinite predicate but only in respect to
the subject. This is clear enough. But enunciations with a third adjoining
element can be varied in four ways: they may have either a finite subject and
predicate, or an infinite subject and predicate, or a finite subject and
infinite predicate, or an infinite subject and finite predicate. These
variations are all evident in the above table. 11 Deinde cum dicit: hæ autem
extra illas etc., ostendit habitudinem harum quas in tertio ordine numeravimus
ad illas, quæ in secundo sitæ sunt ordine, et dicit quod istæ sunt extra illas,
quia non sequuntur ad illas, nec e converso. Et rationem assignans subdit: ut
nomine utentes eo quod est non homo, idest ideo istæ sunt extra illas, quia
istæ utuntur nomine infinito loco nominis, dum omnes habent subiectum
infinitum. Notanter autem dixit enunciationes subiecti infiniti uti ut nomine,
infinito nomine, quia cum subiici in enunciatione proprium sit nominis,
prædicari autem commune nomini et verbo, omne subiectum enunciationis ut nomen
subiicitur. Then when he says, The latter, however, are separate from the
former and distinct from them, etc., he shows the relationship of those we have
put in the third order to those in the second order. The former, he says, are
distinct from the latter because they do not follow upon the latter, nor
conversely. He assigns the reason when he adds: because of the use of
"non-man” as a name, i.e., the former are separate from the latter because
the former use an infinite name in place of a name, since they all have an
infinite subject. It should be noted that he says enunciations of an infinite
subject use an infinite name as a name; for to be subjected in an enunciation
is proper to a name, to be predicated common to a name and a verb, and
therefore every subject of an enunciation is subjected as a name. 12 Deinde cum
dicit: in his vero in quibus est etc., determinat de enunciationibus in quibus
ponuntur verba adiectiva. Et circa hoc tria facit: primo, distinguit eas;
secundo, respondet cuidam tacitæ quæstioni; ibi: non enim dicendum est etc.;
tertio, concludit earum conditiones; ibi: ergo et cætera eadem et cetera. Ad
evidentiam primi resumendum est, quod inter enunciationes in quibus ponitur est
secundum adiacens, et eas in quibus ponitur est tertium adiacens talis est
differentia quod in illis, quæ sunt de secundo adiacente, simpliciter fiunt
oppositiones, scilicet ex parte subiecti tantum variati per finitum et
infinitum; in his vero, quæ habent est tertium adiacens dupliciter fiunt
oppositiones, scilicet et ex parte prædicati et ex parte subiecti, quia
utrumque variari potest per finitum et infinitum. Unde unum ordinem tantum
enunciationum de secundo adiacente fecimus, habentem quatuor enunciationes
diversimode quantificatas et duas oppositiones. Enunciationes autem de tertio
adiacente oportuit partiri in duos ordines, quia sunt in eis quatuor
oppositiones et octo enunciationes, ut supra dictum est. Considerandum quoque
est quod enunciationes, in quibus ponuntur verba adiectiva, quoad significatum
æquivalent enunciationibus de tertio adiacente, resoluto verbo adiectivo in
proprium participium et est, quod semper fieri licet, quia in omni verbo
adiectivo clauditur verbum substantivum. Unde idem significant ista, omnis homo
currit, quod ista, omnis homo est currens. Propter quod Boethius vocat
enunciationes cum verbo adiectivo de secundo adiacente secundum vocem, de tertio
autem secundum potestatem, quia potest resolvi in tertium adiacens, cui
æquivalet. Quoad numerum autem enunciationum et oppositionum, enunciationes
verbi adiectivi formaliter sumptæ non æquivalent illis de tertio adiacente, sed
æquivalent enunciationibus, in quibus ponitur est secundum adiacens. Non
possunt enim fieri oppositiones dupliciter in enunciationibus adiectivis,
scilicet ex parte subiecti et prædicati, sicut fiebant in substantivis de
tertio adiacente, quia verbum, quod prædicatur in adiectivis, infinitari non
potest. Sed oppositiones adiectivarum fiunt simpliciter, scilicet ex parte
subiecti tantum variati per infinitum et finitum diversimode quantificati,
sicut fieri didicimus supra in enunciationibus substantivis de secundo
adiacente, eadem ducti ratione, quia præter verbum nulla est affirmatio vel
negatio, sicut præter nomen esse potest. Quia autem in præsenti tractatu non de
significationibus, sed de numero enunciationum et oppositionum sermo
intenditur, ideo Aristoteles determinat diversificandas esse enunciationes
adiectivas secundum modum, quo distinctæ sunt enunciationes in quibus ponitur
est secundum adiacens. Et ait quod in his enunciationibus, in quibus non
contingit poni hoc verbum est formaliter, sed aliquod aliud, ut, currit, vel,
ambulat, idest in enunciationibus adiectivis, idem faciunt quoad numerum
oppositionum et enunciationum sic posita, scilicet nomen et verbum, ac si est
secundum adiacens subiecto nomini adderetur. Habent enim et istæ adiectivæ,
sicut illæ, in quibus ponitur est, duas oppositiones tantum, alteram inter
finitas, ut, omnis homo currit, omnis homo non currit, alteram inter infinitas
quoad subiectum, ut, omnis non homo currit, omnis non homo non currit. Next he
takes up enunciations in which adjective verbs are posited, when he says, In
enunciations in which "is” does not join the predicate to the subject,
etc. First, he distinguishes these adjective verbs; secondly, he answers an
implied question where he says, We must not say "non-every man,” etc.;
thirdly, he concludes with their conditions where he says, All else in the
enunciations in which "is” does not join the predicate to the subject will
be the same, etc. It is necessary to note here that there is a difference
between enunciations in which "is” is posited as a second adjoining
element and those in which it is posited as a third element. In those with
"is” as a second element oppositions are simple, i.e., varied only on the
part of the subject by finite and infinite. In those having "is” as a
third element oppositions are made in two ways—on the part of the predicate and
on the part of the subject—for both can be varied by finite and infinite. Hence
we made only one order of enunciations with "is” as the second element. It
had four enunciations quantified in diverse ways, and two oppositions. But
enunciations with "is” as a third element must be divided into two orders,
because in them there are four oppositions and eight enunciations, as we said
above. Enunciations with adjective verbs are made equivalent in signification
to enunciations with "is” as the third element by resolving the adjective
verb into its proper participle and "is,” which may always be done because
a substantive verb is contained in every adjective verb. For example, "Every
man runs” signifies the same thing as "Every man is running.” Because of
this Boethius calls enunciations having an adjective verb "eminciations of
the second adjoining element according to vocal sound, but of the third
adjoining element according to power.” He designates them in this manner
because they can be resolved into enunciations with a third adjoining element
to which they are equivalent. With respect to the number and oppositions of
enunciations, those with an adjective verb, formally taken, are not equivalent
to those with a third adjoining element but to those in which "is” is
posited as the second element. For oppositions cannot be made in two ways in
adjectival enunciations as they are in the case of substantival enunciations
with a third adjoining element, namely, on the part of the subject and
predicate, because the verb which is predicated in adjectival enunciations
cannot be made infinite. Hence oppositions of adjectival enunciations are made
simply, i.e., only by the subject quantified in diverse ways being varied by
finite and infinite, as was done above in substantival enunciations with a
second adjoining element, and for the same reason, i.e., there can be no
affirmation or negation without a verb but there can be without a name. Since
the present treatment is not of significations but of the number of
enunciations and oppositions, Aristotle determines that adjectival enunciations
are to be diversified according to the mode in which enunciations with
"is” as the second adjoining element are distinguished. And he says that
in enunciations in which the verb "is” is not posited formally, but some
other verb, such as "matures” or "walks,” i.e., in adjectival
enunciations, the name and verb form the same scheme with respect to the number
of oppositions and enunciations as when is as a second adjoining element is
added to the name as a subject. For these adjectival enunciations, like the
ones in which "is” is posited, have only two oppositions, one between the
finites, as in "Every man runs,” "Not every man runs,” the other
between the infinites with respect to subject, as in "Every non-man runs,”
"Not every non-man runs.” 13 Deinde cum dicit: non enim dicendum est etc.,
respondet tacitæ quæstioni. Et circa hoc facit duo: primo, ponit solutionem
quæstionis; deinde, probat eam; ibi: manifestum est autem et cetera. Est ergo
quæstio talis: cur negatio infinitans numquam addita est supra signo universali
aut particulari, ut puta, cum vellemus infinitare istam, omnis homo currit, cur
non sic infinitata est, non omnis homo currit, sed sic, omnis non homo currit?
Huic namque quæstioni respondet, dicens quod quia nomen infinitabile debet
significare aliquid universale, vel singulare; omnis autem et similia signa non
significant aliquid universale aut singulare, sed quoniam universaliter aut
particulariter; ideo non est dicendum, non omnis homo, si infinitare volumus
(licet debeat dici, si negare quantitatem enunciationis quærimus), sed negatio
infinitans ad ly homo, quod significat aliquid universale, addenda est, et dicendum,
omnis non homo. Then he answers
an implied question when he says, We, must not say "non-every man” but
must add the negation to man, etc. First he states the solution of the
question, then he proves it where he says, This is evident from the following,
etc. The question is this: Why is the negation that makes a word infinite never
added to the universal or particular sign? For example, when we wish to make
"Every man runs” infinite, why do we do it in this way "Every non-man
runs,” and not in this, "Non-every man runs.” He answers the question by
saying that to be capable of being made infinite a name has to signify
something universal or singular. "Every” and similar signs, however, do
not signify something universal or singular, but that something is taken
universally or particularly. Therefore, we should not say "non-every man”
if we wish to infinitize (although it may be used if we wish to deny the
quantity of an enunciation), but must add the infinitizing negation to
"man,” which signifies something universal, and say "every non-man.” 14 Deinde cum dicit: manifestum
est autem ex eo quod est etc., probat hoc quod dictum est, scilicet quod omnis
et similia non significant aliquod universale, sed quoniam universaliter tali
ratione. Illud, in quo differunt enunciationes præcise differentes per habere
et non habere ly omnis, est non universale aliquod, sed quoniam universaliter;
sed illud in quo differunt enunciationes præcise differentes per habere et non
habere ly omnis, est significatum per ly omnis; ergo significatum per ly omnis
est non aliquid universale, sed quoniam universaliter. Minor huius rationis,
tacita in textu, ex se clara est. Id enim in quo, cæteris paribus, habentia a
non habentibus aliquem terminum differunt, significatum est illius termini.
Maior vero in littera exemplariter declaratur sic. Illæ enunciationes homo
currit, et omnis homo currit, præcise differunt ex hoc, quod in una est ly
omnis, et in altera non. Tamen
non ita differunt ex hoc, quod una sit universalis, alia non universalis.
Utraque enim habet subiectum universale, scilicet ly homo, sed differunt, quia
in ea, ubi ponitur ly omnis, enunciatur de subiecto universaliter, in altera
autem non universaliter. Cum enim dico, homo currit, cursum attribuo homini
universali, sive communi, sed non pro tota humana universitate; cum autem dico,
omnis homo currit, cursum inesse homini pro omnibus inferioribus significo. Simili modo declarari potest de
tribus aliis, quæ in textu adducuntur, scilicet, homo non currit, respectu suæ
universalis universaliter, omnis homo non currit: et sic de aliis. Relinquitur
ergo, quod, omnis et nullus et similia signa nullum universale significant, sed
tantummodo significant, quoniam universaliter de homine affirmant vel negant. Where he says, This is evident
from the following, etc., he proves that "every” and similar words do not
signify a universal but that a universal is taken universally. His argument is
the following: That by which enunciations having or not having the "every”
differ is not the universal; rather, they differ in that the universal is taken
universally. But that by which enunciations having and not having the
"every” differ is signified by the "every.” Therefore, that which is
signified by the "every” is not a universal but that the universal is
taken universally. The minor of the argument is evident, though not explicitly
given in the text: that in which the having of some term differs from the not
having of it, other things being equal, is the signification of that term. The
major is made evident by examples. The enunciations "Man matures” and
"Every man matures” differ precisely by the fact that in one there is an
"every,” in the other not. However, they do not differ in such a way by
this that one is universal, the other not universal, for both have the
universal subject, "man”; they differ because in the one in which
"every” is posited, the enunciation is of the subject universally, but in
the other not universally. For when I say, "Man matures,” I attribute
maturing to "man” as universal or common but not to man as to the whole
human race; when I say, "Every man matures,” however, I signify maturing
to be present to man according to all the inferiors. This is evident, too, in
the three other examples of enunciations in Aristotle’s text. For example,
"Non-man matures” when its universal is taken universally becomes
"Every non-man matures,” and so of the others. It follows, therefore, that
"every” and "no” and similar signs do not signify a universal but
only signify that they affirm or deny of man universally. 15 Notato hic duo: primum est
quod non dixit omnis et nullus significat universaliter, sed quoniam
universaliter; secundum est, quod addit, de homine affirmant vel negant. Primi
ratio est, quia signum distributivum non significat modum ipsum universalitatis
aut particularitatis absolute, sed applicatum termino distributo. Cum enim
dico, omnis homo, ly omnis denotat universitatem applicari illi termino homo,
ita quod Aristoteles dicens quod omnis significat quoniam universaliter, per ly
quoniam insinuavit applicationem universalitatis importatam in ly omnis in actu
exercito, sicut et in I posteriorum, in definitione scire applicationem causæ
notavit per illud verbum quoniam, dicens: scire est rem per causam cognoscere,
et quoniam illius est causa. Ratio
autem secundi insinuat differentiam inter terminos categorematicos et
syncategorematicos. Illi siquidem ponunt significata supra terminos absolute;
isti autem ponunt significata sua supra terminos in ordine ad prædicata. Cum enim dicitur, homo albus,
ly albus denominat hominem in seipso absque respectu ad aliquod sibi addendum. Cum vero dicitur, omnis homo, ly omnis etsi hominem
distribuat, non tamen distributio intellectum firmat, nisi in ordine ad aliquod
prædicatum intelligatur. Cuius signum est, quia, cum dicimus, omnis homo
currit, non intendimus distribuere hominem pro tota sua universitate absolute,
sed in ordine ad cursum. Cum autem dicimus, albus homo currit, determinamus
hominem in seipso esse album et non in ordine ad cursum. Quia ergo omnis et
nullus, sicut et alia syncategoremata, nil aliud in enunciatione faciunt, nisi
quia determinant subiectum in ordine ad prædicatum, et hoc sine affirmatione et
negatione fieri nequit; ideo dixit quod nil aliud significant, nisi quoniam universaliter
de nomine, idest de subiecto, affirmant vel negant, idest affirmationem vel
negationem fieri determinant, ac per hoc a categorematicis ea separavit. Potest
etiam referri hoc quod dixit, affirmant vel negant, ad ipsa signa, scilicet
omnis et nullus, quorum alterum positive distribuit, alterum removendo. Two things should be noted
here: first, that Aristotle does not say "every” and "no” signify
universally, but that the universal is taken universally; secondly, that he
adds, they affirm or deny of man. The reason for the first is that the
distributive sign does not signify the mode of universality or of particularity
absolutely, but the mode applied to a distributed term. When I say, "every
man” the "every” denotes that universality is applied to the term
"man.” Hence, when Aristotle says "every” signifies that a universal
is taken universally, by the "that” he conveys the application in actual
exercise of the universality denoted by the "every,” just as in I Posteriorum
[2: 71b 10] in the definition of "to know,” namely, To know scientifically
is to know a thing through its cause and that this is its cause, he signifies
by the word "that” the application of the cause. The reason for the second
is to imply the difference between categorematic and syneategorematic terms.
The former apply what is signified to the terms absolutely; the latter apply
what they signify to the terms in relation to the predicates. For example, in
"white man” the "white” denominates man in himself apart from any
regard to something to be added; but in "every man,” although the
"every” distributes man,” the distribution does not confirm the intellect
unless it is under stood in relation to some predicate. A sign of this is that
when we say "Every man runs” we do not intend to distribute "man” in
its whole universality absolutely, but only in relation to "running.” When
we say "White man runs,” on the other hand, we designate man in himself as
"white” and not in relation to "running.” Therefore, since
"every” and "no” and the other syncategorematic terms do nothing
except determine the subject in relation to the predicate in the enunciation,
and this cannot be done without affirmation and negation, Aristotle says that
they only signify that the affirmation or negation is of a name, i.e., of a
subject, universally, i.e., they prescribe the affirmation or negation that is
being formed, and by this he separates them from categorematic terms. They
affirm, or deny can also be referred to the signs themselves i.e., "every”
and "no,” one of which distributes positively, the other distributes by
removing. 16 Deinde cum dicit:
ergo et cætera eadem etc., concludit adiectivarum enunciationum conditiones.
Dixerat enim quod adiectivæ enunciationes idem faciunt quoad oppositionum
numerum, quod substantivæ de secundo adiacente; et hoc declaraverat,
oppositionum numero exemplariter subiuncto. Et quia ad hanc convenientiam
sequitur convenientia quoad finitationem prædicatorum, et quoad diversam
subiectorum quantitatem, et earum multiplicationem ex ductu quaternarii in
seipsum, et si qua sunt huiusmodi enumerata; ideo concludit: ergo et cætera,
quæ in illis servanda erant, eadem, idest similia istis apponenda sunt. When he says All else in
enunciations in which "is”does not join the predicate to the subject,
etc., he concludes the treatment of the conditions of adjectival enunciations.
He has already stated that adjectival enunciations are the same with respect to
the number of oppositions as substantival enunciations with "is” as the
second element, and has clarified this by a table showing the number of
oppositions. Now, since upon this conformity follows conformity both with
respect to finiteness of predicates and with respect to the diverse quantity of
subjects, and also-if any enunciations of this kind are enumerated—their
multiplication in sets of four, he concludes, Therefore also the other things,
which are to be observed in them, are to be considered the same, i.e., similar
to these. IV. 1. Postquam determinatum est de diversitate enunciationum, hic
intendit removere quædam dubia circa prædicta. Et circa hoc facit sex secundum
numerum dubiorum, quæ suis patebunt locis. Quia ergo supra dixerat quod in
universalibus non similiter contingit angulares esse simul veras, quia
affirmativæ angulares non possunt esse simul veræ, negativæ autem sic; poterat
quispiam dubitare, quæ est causa huius diversitatis. Ideo nunc illius dicti
causam intendit assignare talem, quia, scilicet, angulares affirmativæ sunt
contrariæ inter se; contrarias autem in nulla materia contingit esse simul
veras. Angulares autem negativæ sunt subcontrariæ illis oppositæ; subcontrarias
autem contingit esse simul veras. Et circa hæc duo facit: primo, declarat
conditiones contrariarum et subcontrariarum; secundo, quod angulares affirmativæ
sint contrariæ et quod angulares negativæ sint subcontrariæ; ibi: sequuntur
vero et cetera. Dicit ergo resumendo: quoniam in primo dictum est quod
enunciatio negativa contraria illi affirmativæ universali, scilicet, omne
animal est iustum, est ista, nullum animal est iustum; manifestum est quod istæ
non possunt simul, idest in eodem tempore, neque in eodem ipso, idest de eodem
subiecto esse veræ. His vero oppositæ, idest subcontrariæ inter se, possunt
esse simul veræ aliquando, scilicet in materia contingenti, ut, quoddam animal
est iustum, non omne animal est iustum. Having treated the diversity of
enunciations Aristotle now answers certain questions about them. He takes up
six points related to the number of difficulties. These will become evident as
we come to them. Since he has said that in universal enunciations the diagonals
in one case cannot be at once true but can be in another, for the diagonal
affirmatives cannot be at once true but the negatives can,” someone might raise
a question as to the cause of this diversity. Therefore, it is his intention
now to assign the cause of this: namely, that the diagonal affirmatives are
contrary to each other, and contraries cannot be at once true in any matter;
but the diagonal negatives are subcontraries opposed to these and can be at
once true. In relation to this he first states the conditions for contraries
and subcontraries. Then he shows that diagonal affirmatives are contraries and
that diagonal negatives are subcontraries where he says, Now the enunciation
"No man is just” follows upon the enunciation "Every man is nonjust,”
etc. By way of resumé, therefore, he says that in the first book it was said
that the negative enunciation contrary to the universal affirmative "Every
animal is just” is "No animal is just.” It is evident that these cannot be
at once true, i.e., at the same time, nor of the same thing, i.e., of the same
subject. But the opposites of these, i.e., the subcontraries, can sometimes be
at once true, i.e., in contingent matter, as in "Some animal is just” and
"Not every animal is just.” 2 Deinde cum dicit: sequuntur vero etc.,
declarat quod angulares affirmativæ supra positæ sint contrariæ, negativæ vero
subcontrariæ. Et primum quidem ex eo quod universalis affirmativa infinita et
universalis negativa simplex æquipollent; et consequenter utraque earum est
contraria universali affirmativæ simplici, quæ est altera angularis. Unde dicit
quod hanc universalem negativam finitam, nullus homo est iustus, sequitur
æquipollenter illa universalis affirmativa infinita, omnis homo est non iustus.
Secundum vero declarat ex eo quod particularis affirmativa finita et
particularis negativa infinita æquipollent. Et consequenter utraque earum est
subcontraria particulari negativæ simplici, quæ est altera angularis, ut in
figura supra posita inspicere potes. Unde subdit quod illam particularem
affirmativam finitam, aliquis homo est iustus, opposita sequitur æquipollenter
(opposita intellige non istius particularis, sed illius universalis affirmativæ
infinitæ), non omnis homo est non iustus. Hæc enim est contradictoria eius. Ut
autem clare videatur quomodo supra dictæ enunciationes sint æquipollentes,
formetur figura quadrata, in cuius uno angulo ponatur universalis negativa
finita, et sub ea contradictoria particularis affirmativa finita; ex alia vero
parte locetur universalis affirmativa infinita, et sub ea contradictoria
particularis negativa infinita, noteturque contradictio inter angulares et
collaterales inter se, hoc modo: (Figura). His siquidem sic dispositis, patet
primo ipsarum universalium mutua consequentia in veritate et falsitate, quia si
altera earum est vera, sua angularis contradictoria est falsa; et si ista est
falsa, sua collateralis contradictoria, quæ est altera universalis, erit vera,
et similiter procedit quoad falsitatem particularium. Deinde eodem modo manifestatur mutua sequela. Si enim
altera earum est vera, sua angularis contradictoria est falsa, ista autem
existente falsa, sua contradictoria collateralis, quæ est altera particularis
erit vera; simili quoque modo procedendum est quoad falsitatem. When he says, Now the
enunciation, "No man is just” follows upon the enunciation "Every man
is nonjust,” etc., he shows that the diagonal affirmatives previously posited
are contraries, the negatives subcontraries. First he manifests this from the
fact that the infinite universal affirmative and the simple universal negative
are equal in meaning, and consequently each of them is contrary to the simple
universal affirmative, which is the other diagonal. Hence, he says that the
infinite universal affirmative "Every man is non-just” follows upon the
finite universal negative "No man is just,” equivalently. Secondly he
shows this from the fact that the finite particular affirmative and the infinite
particular negative are equal in meaning, and consequently each of these is
subcontrary to the simple particular negative, which is the other diagonal.
This you can see in the previous diagram. He says, then, that the opposite
"Not every man is non-just” follows upon the finite particular "Some
man is just” equivalently (understand "the opposite” not of this
particular but of the infinite universal affirmative, for this is its
contradictory). In order to see clearly how these enunciations are equivalent,
make a four-sided figure, putting the finite universal negative in one corner
and under it the contradictory, the finite particular affirmative. On the other
side, put the infinite universal affirmative and under it the contradictory,
the infinite particular negative. Now indicate the contradiction between
diagonals and the contradiction between collaterals. No man is just equivalents
Every man is non-just contradictories contradictories Some man is just
equivalents Not every man is non-just This arrangement makes the mutual
consequence of the universals in truth and falsity evident, for if one of them
is true, its diagonal contradictory is false; and if this is false, its
collateral contradictory, which is the other universal, will be true. With
respect to the falsity of the particulars the procedure is the same. Their
mutual consequence is made evident in the same way, for if one of them is true,
its diagonal contradictory is false, and if this is false, its contradictory
collateral, which is the other particular, will be true; the procedure is the
same with respect to falsity. 3 Sed est hic unum dubium. In I enim priorum, in
fine, Aristoteles ex proposito determinat non esse idem iudicium de universali
negativa et universali affirmativa infinita; et superius in hoc secundo, super
illo verbo: quarum duæ se habent secundum consequentiam, duæ vero minime,
Ammonius, Porphyrius, Boethius et sanctus Thomas dixerunt quod negativa simplex
sequitur affirmativam infinitam, sed non e converso. Ad hoc dicendum est, secundum Albertum, quod
negativam finitam sequitur affirmativa infinita subiecto constante; negativa
vero simplex sequitur affirmativam absolute. Unde utrumque dictum verificatur,
et quod inter eas est mutua consequentia cum subiecti constantia, et quod inter
eas non est mutua consequentia absolute. Potest dici secundo, quod supra locuti
sumus de infinita enunciatione quoad suum totalem significatum ad formam
prædicati reductum; et secundum hoc, quia negativa finita est superior
affirmativa infinita, ideo non erat mutua consequentia: hic autem loquimur de
ipsa infinita formaliter sumpta. Unde s. Thomas tunc adducendo Ammonii
expositionem dixit, secundum hunc modum loquendi: negativa simplex, in plus est
quam affirmativa infinita. Textus vero I priorum ultra prædicta loquitur de
finita et infinita in ordine ad syllogismum. Manifestum est autem quod
universalis affirmativa sive finita sive infinita non concluditur nisi in primo
primæ. Universalis autem
negativa quæcumque concluditur et in secundo primæ, et primo et secundo secundæ.
However, a question arises with respect to this. At the end of I Priorum [46:
51b 5], Aristotle determines from what he has proposed that the judgment of the
universal negative and the infinite universal affirmative is not the same.
Furthermore, in the second book of the present work, in relation to the phrase
Of which two are related according to consequence, two are not. Ammonius,
Porphyry, Boethius, and St. Thomas say that the simple negative follows upon
the infinite affirmative and not conversely.” Albert answers this latter
difficulty by pointing out that the infinite affirmative follows upon the
finite negative when the subject is constant, but the simple negative follows
upon the affirmative absolutely. Hence both positions are verified, for with a
constant subject there is a mutual consequence between them, but there is not a
mutual consequence between them absolutely. We could also answer this
difficulty in this way. In Book II, Lesson 2 we were speaking of the infinite
enunciation with the whole of what it signified reduced to the form of the
predicate, and according to this there was not a mutual consequence, since the
finite negative is superior to the infinite affirmative. But here we are
speaking of the infinite itself formally taken. Hence St. Thomas, when he
introduced the exposition of Ammonius in his commentary on the above passage,
said that according to this mode of speaking the simple negative is wider than
the infinite affirmative. In the above mentioned text in I Priorum [46: 52a
36], Aristotle is speaking of finite and infinite enunciations in relation to
the syllogism. It is evident, however, that the universal affirmative, whether
finite or infinite is only inferred in the first mode of the first figure,
while any universal negative whatever is inferred in the second mode of the
first figure and in the first and second modes of the second figure. 4 Deinde
cum dicit: manifestum est autem etc., movet secundum dubium de vario situ
negationis, an scilicet quoad veritatem et falsitatem differat præponere et
postponere negationem. Oritur autem hæc dubitatio, quia dictum est nunc quod
non refert quoad veritatem si dicatur, omnis homo est non iustus, aut si
dicatur, omnis homo non est iustus; et tamen in altera postponitur negatio, in altera
præponitur, licet multum referat quoad affirmationem et negationem. Hanc,
inquam, dubitationem solvere intendens cum distinctione, respondet quod in
singularibus enunciationibus eiusdem veritatis sunt singularis negatio et
infinita affirmatio eiusdem, in universalibus autem non est sic. Si enim est
vera negatio ipsius universalis non oportet quod sit vera infinita affirmatio
universalis. Negatio enim universalis est particularis contradictoria, qua
existente vera, non est necesse suam subalternam, quæ est contraria suæ
contradictoriæ esse veram. Possunt enim duæ contrariæ esse simul falsæ. Unde
dicit quod in singularibus enunciationibus manifestum est quod, si est verum
negare interrogatum, idest, si est vera negatio enunciationis singularis, de
qua facta est interrogatio, verum etiam est affirmare, idest, vera erit
affirmatio infinita eiusdem singularis. Verbi gratia: putasne Socrates est
sapiens? Si vera est ista responsio, non; Socrates igitur non sapiens est,
idest, vera erit ista affirmatio infinita, Socrates est non sapiens. In
universalibus vero non est vera, quæ similiter dicitur, idest, ex veritate
negationis universalis affirmativæ interrogatæ non sequitur vera universalis
affirmativa infinita, quæ similis est quoad quantitatem et qualitatem enunciationi
quæsitæ; vera autem est eius negatio, idest, sed ex veritate responsionis
negativæ sequitur veram esse eius, scilicet universalis quæsitæ negationem,
idest, particularem negativam. Verbi gratia: putasne omnis homo est sapiens? Si
vera est ista responsio, non; affirmativa similis interrogatæ quam quis ex hac
responsione inferre intentaret est illa: igitur omnis homo est non sapiens. Hæc
autem non sequitur ex illa negatione. Falsum est enim hoc, scilicet quod
sequitur ex illa responsione; sed inferendum est, igitur non omnis homo sapiens
est. Et ratio utriusque
est, quia hæc particularis ultimo illata est opposita, idest contradictoria
illi universali interrogatæ quam respondens falsificavit; et ideo oportet quod
sit vera. Contradictoriarum enim si una est falsa,
reliqua est vera. Illa vero, scilicet universalis affirmativa infinita primo
illata, est contraria illi eidem universali interrogatæ. Non est autem opus quod si
universalium altera sit falsa, quod reliqua sit vera. In promptu est autem
causa huius diversitatis inter singulares et universales. In singularibus enim
varius negationis situs non variat quantitatem enunciationis; in universalibus
autem variat, ut patet. Ideo fit ut non sit eadem veritas negantium universalem
in quarum altera præponitur, in altera autem postponitur negatio, ut de se
patet. When he says, And
it is also clear with respect to the singular that if a question is asked and a
negative answer is the true one, there is also a true affirmation, etc., he
presents a difficulty relating to the varying position of the negation, i.e.,
whether there is a difference as to truth and falsity when the negation is a
part of the predicate or a part of the verb. This difficulty arises from what
he has just said, namely, that it is of no consequence as to truth or falsity
whether you say, "Every man is non-just” or "Every man is not just”;
yet in one case the negation is a part of the predicate, in the other part of
the copula, and this makes a great deal of difference with respect to affirmation
and negation. To solve this problem Aristotle makes a distinction: in singular
enunciations, the singular negation and infinite affirmation of the same
subject are of the same truth, but in universals this is not so. For if the
negation of the universal is true it is not necessary that the infinite
affirmation of the universal is true. The negation of the universal is the
contradictory particular, but if it is true [i.e., the contradictory
particular] it is not necessary that the subaltern, which is the contrary of
the contradictory, be true, for two contraries can be at once false. Hence he
says that in singular enunciations it is evident that if it is true to deny the
thing asked, i.e., if the negation of a singular enunciation, which has been
made into an interrogation, is true, there will also be a true affirmation,
i.e., the infinite affirmation of the same singular will be true. For example,
if the question "Do you think Socrates is wise?” has "No” as a true
response, then "Socrates is non-wise,” i.e., the infinite affirmation
"Socrates is non-wise” will be true. But in the case of universals the
affirmative inference is not true, i.e., from the truth of a negation to a
universal affirmative question, the truth of the infinite universal affirmative
(which is similar in quantity and quality to the enunciation asked) does not
follow. But the negation is true, i.e., from the truth of the negative response
it follows that its negation is true, i.e., the negation of the universal
asked, which is the particular negative. Consider, for example, the question
"Do you think every man is wise?” If the response "No” is true, one
would be tempted to infer the affirmative similar to the question asked, i.e.,
then "Every man is non-wise.” This, however, does not follow from the
negation, for this is false as it follows from that response. Rather, what must
be inferred is "Then not every man is wise.” And the reason for both is
that the particular enunciation inferred last is the opposite, i.e., the
contradictory of the universal question, which, being falsified by the negative
response, makes the contradictory of the universal affirmative true, for of
contradictories, if one is false the other is true. The infinite universal
affirmative first inferred, however, is contrary to the same universal
question. Should it not also be true? No, because it is not necessary in the
case of universals that if one is false the other is true. The cause of the
diversity between singulars and universals is now clear. In singulars the varying
position of the negation does not vary the quantity of the enunciation ‘ but in
universals it does. Therefore there is not the same truth in enunciations
denying a universal when in one the negation is a part of the predicate and in
the other a part of the verb. V.
lib. 2 l. 4 n. 5Deinde cum dicit: illæ vero secundum infinitætc., solvit
tertiam dubitationem, an infinita nomina vel verba sint negationes. Insurgit autem hoc dubium, quia
dictum est quod æquipollent negativa et infinita. Et rursus dictum est nunc
quod non refert in singularibus præponere et postponere negationem: si enim
infinitum nomen est negatio, tunc enunciatio, habens subiectum infinitum vel
prædicatum, erit negativa et non affirmativa. Hanc dubitationem solvit per interpretationem,
probando quod nec nomina nec verba infinita sint negationes, licet videantur.
Unde duo circa hoc facit: primo, proponit solutionem dicens: illæ vero,
scilicet dictiones, contraiacentes: verbi gratia: non homo, et, homo non iustus
et iustus. Vel sic: illæ vero, scilicet dictiones, secundum infinita, idest
secundum infinitorum naturam, iacentes contra nomina et verba (utpote quæ
removentes quidem nomina et verba significant, ut non homo et non iustus et non
currit, quæ opponuntur contra ly homo ly iustus et ly currit), illæ, inquam,
dictiones infinitæ videbuntur prima facie esse quasi negationes sine nomine et
verbo ex eo quod comparatæ nominibus et verbis contra quæ iacent, ea removent,
sed non sunt secundum veritatem. Dixit sine nomine et verbo quia nomen infinitum, nominis
natura caret, et verbum infinitum verbi natura non possidet. Dixit quasi, quia nec nomen infinitum a nominis
ratione, nec verbum infinitum a verbi proprietate omnino semota sunt. Unde, si
negationes apparent, videbuntur sine nomine et verbo non omnino sed quasi.
Deinde probat distinctiones infinitas non esse negationes tali ratione. Semper
est necesse negationem esse veram vel falsam, quia negatio est enunciatio
alicuius ab aliquo; nomen autem infinitum non dicit verum vel falsum; igitur
dictio infinita non est negatio. Minorem declarat, quia qui dixit, non homo, nihil magis
de homine dixit quam qui dixit, homo. Et quoad significatum quidem clarissimum
est: non homo, namque, nihil addit supra hominem, imo removet hominem. Quoad
veritatis vero vel falsitatis conceptum, nihil magis profuit qui dixit, non
homo, quam qui dixit, homo, si aliquid aliud non addatur, imo minus verus vel
falsus fuit, idest magis remotus a veritate et falsitate, qui dixit, non homo,
quam qui dixit, homo: quia tam veritas quam falsitas in compositione consistit;
compositioni autem vicinior est dictio finita, quæ aliquid ponit, quam dictio
infinita, quæ nec ponit, nec componit, idest nec positionem nec compositionem
importat. Then he says, The
antitheses in infinite names and verbs, as in " non-man” and
"nonjust,” might seem to be negations without a name or a verb, etc. Here
he raises the third difficulty, i.e., whether infinite names or verbs are
negations. This question arises from his having said that the negative and infinite
are equivalent and from having just said that in singular enunciations it makes
no difference whether the negative is a part of the predicate or a part of the
verb. For if the infinite name is a negation, then the enunciation having an
infinite subject or predicate will be negative and not affirmative. He resolves
this question by an interpretation which proves that neither infinite names nor
verbs are negations although they seem to be. First he proposes the solution
saying, The antitheses in infinite names and verbs, i.e., words contraposed,
e.g., "non-man,” and "non-just man” and "just man”; or this may
be read as, Those (namely, words) corresponding to infinites, i.e.,
corresponding to the nature of infinites, placed in opposition to names or
verbs (namely, removing what the names and verbs signify, as in "non-man,”
"non-just,” and "non-runs,” which are opposed to "man,”
"just” and "runs”), would seem at first sight to be quasi-negations
without Dame and verb, because, as related to the names and verbs before which
they are placed, they remove them; they are not truly negations however. He
says without a name or a verb because the infinite name lacks the nature of a
name and the infinite verb does not have the nature of a verb. He says quasi
because the infinite name does not fall short of the notion of the name in
every way, nor the infinite verb of the nature of the verb. Hence, if it is
thought that they are negations, they will be regarded as without a name or a
verb, not in every way but as though they were without a name or a verb. He
proves that infinitizing signs of separation are not negations by pointing out
that it is always necessary for the negation to be true or false since a
negation is an enunciation of something separated from something. The infinite
name, however, does not assert what is true or false. Therefore the infinite
word is not a negation. He manifests the minor when he says that the one who
says "non-man” says nothing more of man than the one who says "man.”
Clearly this is so with respect to what is signified, for "non-man” adds
nothing beyond "man”; rather, it removes "man.” Moreover, with
respect to a conception of truth or falsity, it is of no more use to say
"non-man” than to say "man” if something else is not added; rather,
it is less true or false, i.e., one who says non-man is more removed from truth
and falsity than one who says man,” for both truth and falsity depend on
composition, and the finite word which posits something is closer to
composition than the infinite word, which neither posits nor composes, i.e., it
implies neither positing nor composition. 6 Deinde cum dicit: significat autem
etc., respondet quartæ dubitationi, quomodo scilicet intelligatur illud verbum
supradictum de enunciationibus habentibus subiectum infinitum: hæ autem extra
illas, ipsæ secundum se erunt. Et ait quod intelligitur quantum ad significati
consequentiam, et non solum quantum ad ipsas enunciationes formaliter. Unde
duas habentes subiectum infinitum, universalem scilicet affirmativam et
universalem negativam adducens, ait quod neutra earum significat idem alicui
illarum, scilicet habentium subiectum finitum. Hæc enim universalis
affirmativa, omnis non homo est iustus, nulli habenti subiectum finitum
significat idem: non enim significat idem quod ista, omnis homo est iustus;
neque quod ista, omnis homo est non iustus. Similiter opposita negatio et
universalis negativa habens subiectum infinitum, quæ est contrarie opposita
supradictæ, scilicet omnis non homo non est iustus, nulli illarum de subiecto
finito significat idem. Et hoc clarum est ex diversitate subiecti in istis et in illis. When he says, Moreover,
"Every non-man is just does not signify the same thing as any of the other
enunciations, etc., he answers a fourth difficulty, i.e., how the earlier
statement concerning enunciations having an infinite subject is to be understood.
The statement was that these stand by themselves and are distinct from the
former [in consequence of using the name "non-man”]. This is to be
understood not just with respect to the enunciations themselves formally, but
with respect to the consequence of what is signified. Hence, giving two
examples of enunciations with an infinite subject, the universal affirmative
and universal negative,” he says that neither of these signifies the same thing
as any of those, namely of those having a finite subject. The universal
affirmative "Every non-man is just” does not signify the same thing as any
of the enunciations with a finite subject; for it does not signify "Every
man is just” nor "Every man is non-just.” Nor do the opposite negation, or
the universal negative having an infinite subject which is contrarily opposed
to the universal affirmative, signify the same thing as enunciations with a
finite subject; i.e., "Not every non-man is just” and "No non-man is
just,” do not signify the same thing as any of those with a finite subject.
This is evident from the diversity of subject in the latter and the former. V.
lib. 2 l. 4 n. 7Deinde cum dicit: illa vero quæ est etc., respondet quintæ
quæstioni, an scilicet inter enunciationes de subiecto infinito sit aliqua
consequentia. Oritur autem dubitatio hæc ex eo, quod superius est inter eas ad
invicem assignata consequentia. Ait ergo quod etiam inter istas est
consequentia. Nam universalis affirmativa de subiecto, et prædicato infinitis
et universalis negativa de subiecto infinito, prædicato vero finito,
æquipollent. Ista namque, omnis non homo est non iustus, idem significat illi,
nullus non homo est iustus. Idem autem est iudicium de particularibus indefinitis et
singularibus similibus supradictis. Cuiuscunque enim quantitatis sint, semper
affirmativa de utroque extremo infinita et negativa subiecti quidem infiniti,
prædicati autem finiti, æquipollent, ut facile potes exemplis videre. Unde Aristoteles universales
exprimens, cæteras ex illis intelligi voluit. When he says, But "Every
non-man is non-just” signifies the same thing as "No non-man is just,” he
answers a fifth difficulty, i.e., is there a consequence among enunciations
with an infinite subject? This question arises from the fact that consequences
were assigned among them earlier.” He says, therefore, that there is a
consequence even among these, for the universal affirmative with an infinite
subject and predicate and the universal negative with an infinite subject but a
finite predicate are equivalent, i.e., "Every non-man is non-just”
signifies the same thing as "No non-man is just.” This is also the case in
particular infinites and singulars which are similar to the foresaid, for no
matter what their quantity, the affirmative with both extremes infinite and the
negative with an infinite subject and a finite predicate are always equivalent,
as may be easily seen by examples. Hence, Aristotle in giving the universals intends
the others to be understood from these. V. lib. 2 l. 4 n. 8Deinde cum dicit:
transposita vero nomina etc., solvit sextam dubitationem, an propter nominum
vel verborum transpositionem varietur enunciationis significatio. Oritur autem
hæc quæstio ex eo, quod docuit transpositionem negationis variare enunciationis
significationem. Aliud enim dixit significare, omnis homo non est iustus, et
aliud, non omnis homo est iustus. Ex hoc, inquam, dubitatur, an similiter
contingat circa nominum transpositionem, quod ipsa transposita enunciationem
varient, sicut negatio transposita. Et circa hoc duo facit: primo, ponit
solutionem dicens, quod transposita nomina et verba idem significant: verbi
gratia, idem significat, est albus homo, et, est homo albus, ubi est transpositio
nominum. Similiter
transposita verba idem significant, ut, est albus homo, et, homo albus est. When he says, When the names
and verbs are transposed, the enunciations signify the same thing, etc., he
resolves a sixth difficulty: whether the signification of the enunciation is
varied because of the transposition of names or verbs. This question arises
from his having shown that the transposition of the negation varies the
signification of the enunciation. "Every man is non-just,” he said, does
not signify the same thing as "Not every man is just.” This raises the
question as to whether a similar thing happens when we transpose names. Would
this vary the enunciation as the transposed negation does? First he states the
solution, saying that transposed names and verbs signify the same thing, e.g.,
"Man is white” signifies the same thing as "White is man.” Transposed
verbs also signify the same thing, as in "Man is white” and "Man
white is.” V. lib. 2 l. 4 n. 9Deinde cum dicit: nam
si hoc non est etc., probat prædictam solutionem ex numero negationum
contradictoriarum ducendo ad impossibile, tali ratione. Si hoc non est, idest
si nomina transposita diversificant enunciationem, eiusdem affirmationis erunt
duæ negationes; sed ostensum est in I libro, quod una tantum est negatio unius
affirmationis; ergo a destructione consequentis ad destructionem antecedentis
transposita nomina non variant enunciationem. Ad probationis autem consequentiæ
claritatem formetur figura, ubi ex uno latere locentur ambæ suprapositæ
affirmationes, transpositis nominibus; et ex altero contraponantur duæ
negativæ, similes illis quoad terminos et eorum positiones. Deinde, aliquantulo
interiecto spatio, sub affirmativis ponatur affirmatio infiniti subiecti, et
sub negativis illius negatio. Et notetur contradictio inter primam
affirmationem et duas negationes primas, et inter secundam affirmationem et
omnes tres negationes, ita tamen quod inter ipsam et infimam negationem notetur
contradictio non vera, sed imaginaria. Notetur quoque contradictio inter
tertiam affirmationem et tertiam negationem inter se. Hoc modo: (Figura). His
ita dispositis, probat consequentiam Aristoteles sic. Illius affirmationis, est albus
homo, negatio est, non est albus homo; illius autem secundæ affirmationis, quæ
est, est homo albus, si ista affirmatio non est eadem illi supradictæ
affirmationi, scilicet, est albus homo, propter nominum transpositionem, negatio
erit altera istarum, scilicet aut, non est non homo albus, aut, non est homo
albus. Sed utraque habet affirmationem oppositam alia ab illa assignatam,
scilicet, est homo albus. Nam altera quidem dictarum negationum, scilicet, non
est non homo albus, negatio est illius quæ dicit, est non homo albus; alia
vero, scilicet, non est homo albus, negatio est eius affirmationis, quæ dicit,
est albus homo, quæ fuit prima affirmatio. Ergo quæcunque dictarum negationum
afferatur contradictoria illi mediæ, sequitur quod sint duæ unius, idest quod
unius negationis sint duæ affirmationes, et quod unius affirmationis sint duæ
negationes: quod est impossibile. Et hoc, ut dictum est, sequitur stante
hypothesi erronea, quod illæ affirmationes sint propter nominum transpositionem
diversæ. Then he proves
the solution from the number of contradictory negations when he says, For if
this is not the case there will be more than one negation of the same
enunciation, etc. He does this by a reduction to the impossible and his
reasoning is as follows. If this is not so, i.e., if transposed names diversify
enunciations, there will be two negations of the same affirmation. But in the
first book it was shown that there is only one negation of one affirmation.
Going, then, from the destruction of the consequent to the destruction of the
antecedent, transposed names do not vary the enunciation. To clarify the proof
of the consequent, make a figure in which both of the affirmations posited
above, with the names transposed are located on one side. Put the two negatives
similar to them in respect to terms and position on the opposite side. Then leaving
a little space, under the affirmatives put the affirmation with an infinite
subject and under the negatives the negation of it. Mark the contradiction
between the first affirmation and the first two negations and between the
second affirmation and all three negations, but in the latter case mark the
contradiction between it and the lowest negation as not true but imaginary.
Mark, also, the contradiction between the third affirmation and negation. (1)
Man is white - contradictories - Man is not white (2) White is man –
contradictories - White is not man (3) Non-man is white - contradictories -
Non-man is not white Now we can see how Aristotle proves the consequent. The
negation of the affirmation "Man is white” is "Man is not white.” But
if the second affirmation, "White is man,” is not the same as "Man is
white,” because of the transposition of the names, its negation, [i.e., of
"White is man”] will be either of these two: "Non-man is not white,”
or "White is not man.” But each of these has another opposed affirmation
than that assigned, namely, than "White is man.” For one of the negations,
namely, "Non-man is not white,” is the negation of "Non-man is
white”; the other, "White is not man” is the negation of the affirmation
"Man is white,” which was the first affirmation. Therefore whatever
negation is given as contradictory to the middle enunciation, it follows that
there are two of one, i.e., two affirmations of one negation, and two negations
of one affirmation, which is impossible. And this, as has been said, follows
upon an erroneously set up hypothesis, i.e., that these affirmations are
diverse because of the transposition of names. 10 Adverte hic primo quod
Aristoteles per illas duas negationes, non est non homo albus, et, non est homo
albus, sub disiunctione sumptas ad inveniendam negationem illius affirmationis,
est homo albus, cæteras intellexit, quasi diceret: aut negatio talis
affirmationis acceptabitur illa quæ est vere eius negatio, aut quæcunque
extranea negatio ponetur; et quodlibet dicatur, semper, stante hypothesi,
sequitur unius affirmationis esse plures negationes, unam veram quæ est
contradictoria suæ comparis habentis nomina transposita, et alteram quam tu ut
distinctam acceptas, vel falso imaginaris; et e contra multarum affirmationum esse
unicam negationem, ut patet in opposita figura. Ex quacunque enim illarum
quatuor incipias, duas sibi oppositas aspicis. Unde notanter concludit
indeterminate: quare erunt duæ unius. Notice first that Aristotle through these
two negations, "Non-man is not white” and "White is not man,” taken
under disjunction to find the negation of the affirmation "Man is white,”
has comprehended other things. It is as though he said: The negation which will
be taken will either be the true negation of such an affirmation or some
extraneous negation; and whichever is taken, it always follows, given the
hypothesis, that there are many negations of one affirmation—one which is the
contradictory of it, having equal truth with the one having its name transposed,
and the other which you accept as distinct, or you imagine falsely. And
conversely, there is a single negation of many affirmations, as is clear in the
diagram. Hence, from whichever of these four you begin, you see two opposed to
it. It is significant, therefore, that Aristotle concludes indeterminately:
Therefore, there will be two [negations] of one [affirmation]. 11 Nota secundo
quod Aristoteles contempsit probare quod contradictoria primæ affirmationis sit
contradictoria secundæ, et similiter quod contradictoria secundæ affirmationis
sit contradictoria primæ. Hoc
enim accepit tamquam per se notum, ex eo quod non possunt simul esse veræ neque
simul falsæ, ut manifeste patet præposito sibi termino singulari. Non stant enim simul aliquo modo
istæ duæ, Socrates est albus homo, Socrates non est homo albus. Nec turberis
quod eas non singulares proposuit. Noverat enim supra dictum esse in primo quæ
affirmatio et negatio sint contradictoriæ et quæ non, et ideo non fuit
sollicitus de exemplorum claritate. Liquet ergo ex eo quod negationes
affirmationum de nominibus transpositis non sunt diversæ quod nec ipsæ
affirmationes sunt diversæ et sic nomina et verba transposita idem significant.
Note secondly
that Aristotle does not consider it important to prove that the contradictory
of the first affirmation is the contradictory of the second, and similarly that
the contradictory of the second affirmation is the contradictory of the first.
This he accepts as self-evident since they can neither be true at the same time
nor false at the same time. This is manifestly clear when a singular term is
placed first, for "Socrates is a white man” and "Socrates is not a
white man” cannot be maintained at the same time in any mode. You should not be
disturbed by the fact that he does not propose these singulars here, for he was
undoubtedly aware that he had already stated in the first book which
affirmation and negation are contradictories and which not and for this reason
felt that a careful elaboration of the examples was not necessary here. It is
therefore evident that since negations of affirmations with transposed names
are not diverse the affirmations themselves are not diverse, and hence
transposed names and verbs signify the same thing. 12 Occurrit autem dubium
circa hoc, quia non videtur verum quod nominibus transpositis eadem sit
affirmatio. Non enim valet:
omnis homo est animal; ergo omne animal est homo. Similiter, transposito verbo,
non valet: homo est animal rationale; ergo homo animal rationale est, de
secundo adiacente. Licet enim nugatio committatur, tamen non sequitur primam.
Ad hoc est dicendum quod sicut in rebus naturalibus est duplex transmutatio,
scilicet localis, scilicet de loco ad locum, et formalis de forma ad formam;
ita in enunciationibus est duplex transmutatio, situalis scilicet, quando
terminus præpositus postponitur, et e converso, et formalis, quando terminus,
qui erat prædicatum efficitur subiectum, et e converso vel quomodolibet,
simpliciter et cetera. Et sicut quandoque fit in naturalibus transmutatio pure
localis, puta quando res transfertur de loco ad locum, nulla alia variatione
facta; quandoque autem fit transmutatio secundum locum, non pura sed cum
variatione formali, sicut quando transit de loco frigido ad locum calidum: ita
in enunciationibus quandoque fit transmutatio pure situalis, quando scilicet
nomen vel verbum solo situ vocali variatur; quandoque autem fit transmutatio
situalis et formalis simul, sicut contingit cum prædicatum fit subiectum, vel
cum verbum tertium adiacens fit secundum. Et quoniam hic intendit Aristoteles
de transmutatione nominum et verborum pure situali, ut transpositionis
vocabulum præsefert, ideo dixit quod transposita nomina et verba idem
significant, insinuare volens quod, si nihil aliud præter transpositionem
nominis vel verbi accidat in enunciatione, eadem manet oratio. Unde patet
responsio ad instantias. Manifestum est namque quod in utraque non sola
transpositio fit, sed transmutatio de subiecto in prædicatum, vel de tertio
adiacente in secundum. Et per hoc patet
responsio ad similia. A doubt does arise, however, about the point Aristotle is
making here, for it does not seem true that with transposed names the
affirmation is the same. This, for example, is not valid: "Every man is an
animal”; therefore, "Every animal is a man.” Nor is the following example
with a transposed verb valid: "Man is a rational animal and (taking
"is” as the second element), therefore "Man animal rational is”; for
although it is nugatory as a whole combination, nevertheless it does not follow
upon the first. The answer to this is as follows. just as there is a twofold
transmutation in natural things, i.e., local, from place to place, and formal,
from form to form, so in enunciations there is a twofold transmutation: a
positional transmutation when a term placed before is placed after, and
conversely, and a formal transmutation when a term that was a predicate is made
a subject, and conversely, or in whatever mode, simply, etc. And just as in
natural things sometimes a purely local transmutation is made (for instance,
when a thing is transferred from place to place, with no other variation made)
and sometimes a transmutation is made according to place—not simply but with a
formal variation (as when a thing passes from a cold place to a hot place), so
in enunciations a transmutation is sometimes made which is purely positional,
i.e., when the name and verb are varied only in vocal position, and sometimes a
transmutation is made which is at once formal and positional, as when the
predicate becomes the subject, or the verb which is the third element added
becomes the second. Aristotle’s purpose here was to treat of the purely
positional transmutation of names and verbs, as the vocabulary of the
transposition indicates; when he says, then, that transposed names and verbs
signify the same thing, he intends to imply that if nothing other than the
transposition of name and verb takes place in the enunciation, what is said
remains the same. Hence, the response to the present objection is clear, for in
both examples there is not only a transposition but a transmutation of subject
to predicate in one case, and from an enunciation with a third element to one
with a second element in the other. The response to similar questions is
evident from this. V. 1. Postquam Aristoteles determinavit diversitatem
enunciationis unius provenientem ex additione negationis infinitatis, hic
intendit determinare quid accidat enunciationi ex hoc quod additur aliquid
subiecto vel prædicato tollens eius unitatem. Et circa hoc duo facit: quia primo,
determinat diversitatem earum; secundo, consequentias earum; ibi: quoniam vero
hæc quidem et cetera. Circa primum duo facit: primo, ponit earum diversitatem;
secundo, probat omnes enunciationes esse plures; ibi: si ergo dialectica et
cetera. Dicit ergo quoad primum, resumendo quod
in primo dictum fuerat, quod affirmare vel negare unum de pluribus, vel plura
de uno, si ex illis pluribus non fit unum, non est enunciatio una affirmativa
vel negativa. Et declarando quomodo intelligatur unum debere esse subiectum aut
prædicatum, subdit quod unum dico non si nomen unum impositum sit, idest ex
unitate nominis, sed ex unitate significati. Cum enim plura conveniunt in uno
nomine, ita quod ex eis non fiat unum illius nominis significatum, tunc solum vocis
unitas est. Cum autem unum nomen
pluribus impositum est, sive partibus subiectivis, sive integralibus, ut eadem
significatione concludat, tunc et vocis et significati unitas est, et
enunciationis unitas non impeditur. After the Philosopher has treated the diversity in an
enunciation arising from the addition of the infinite negation, he explains
what happens to an enunciation when something is added to the subject or
predicate which takes away its unity. He first determines their diversity, and
then proves that all the enunciations are many where he says, In fact, if
dialectical interrogation is a request for an answer, etc. Secondly, he
determines their consequences, where he says, Some things predicated separately
are such that they unite to form one predicate, etc. He begins by taking up
something he said in the first book: there is not one affirmative enunciation
nor one negative enunciation when one thing is affirmed or denied of many or
many of one, if one thing is not constituted from the many. Then he explains
what he means by the subject or predicate having to be one where he says, I do
not use "one” of those things which, although one name may be imposed, do
not constitute something one, i.e., a subject or predicate is one, not from the
unity of the name, but from the unity of what is signified. For when many
things are brought together under one name in such a way that what is signified
by that name is not one, then the unity is only one of vocal sound. But when
one name has been imposed for many, whether for subjective or for integral
parts, so that it encloses them in the same signification, then there is unity
both of vocal sound and what is signified. In the latter case, unity of the
enunciation is not impeded. 2 Secundum quod subiungit: ut homo est fortasse animal et
mansuetum et bipes obscuritate non caret. Potest enim intelligi ut sit exemplum
ab opposito, quasi diceret: unum dico non ex unitate nominis impositi pluribus
ex quibus non fit tale unum, quemadmodum homo est unum quoddam ex animali et
mansueto et bipede, partibus suæ definitionis. Et ne quis crederet quod hæ
essent veræ definitionis nominis partes, interposuit, fortasse. Porphyrius
autem, Boethio referente et approbante, separat has textus particulas, dicens
quod Aristoteles hucusque declaravit enunciationem illam esse plures, in qua
plura subiicerentur uni, vel de uno prædicarentur plura, ex quibus non fit
unum. In istis autem verbis: ut homo est fortasse etc., intendit declarare
enunciationem aliquam esse plures, in qua plura ex quibus fit unum subiiciuntur
vel prædicantur; sicut cum dicitur, homo est animal et mansuetum et bipes,
copula interiecta, vel morula, ut oratores faciunt. Ideo autem addidisse aiunt, fortasse, ut insinuaret
hoc contingere posse, necessarium autem non esse. Then he adds, For example,
man probably is an animal and biped and civilized. This, however, is obscure,
for it can be understood as all example of the opposite, as if he were saying,
"I do not mean by ‘one’ such a ‘one’ as the unity of the name imposed upon
many from which one thing is not constituted, for instance, ‘man’ as ‘one’ from
the parts of the definition, animal and civilized and biped.” And to prevent
anyone from thinking these are true parts of the definition of the name he
interposes perhaps. Porphyry, however, referred to with approval by Boethius,
separates these parts of the text. He says Aristotle first states that that
enunciation is many in which many are subjected to one, or many are predicated
of one, when one thing is not constituted from these. And when he says, For
example, man perhaps is, etc., he intends to show that an enunciation is many
when many from which one thing is constituted are subjected or predicated, as
in the example "Man is an animal and civilized and biped,” with copulas
interjected or a pause such as orators make. He added perhaps, they say, to
imply that this could happen, but it need not. 3 Possumus in eamdem Porphyrii,
Boethii et Alberti sententiam incidentes subtilius textum introducere, ut
quatuor hic faciat. Et primo quidem, resumit quæ sit enunciatio in communi
dicens: enunciatio plures est, in qua unum de pluribus, vel plura de uno
enunciantur. Si tamen ex illis
pluribus non fit unum, ut in primo dictum et expositum fuit. Deinde dilucidat
illum terminum de uno, sive unum, dicens: dico autem unum, idest, unum nomen
voco, non propter unitatem vocis, sed significationis, ut supra dictum est.
Deinde tertio, dividendo declarat, et declarando dividit, quot modis contingit
unum nomen imponi pluribus ex quibus non fit unum, ut ex hoc diversitatem
enunciationis multiplicis insinuet. Et ponit duos modos, quorum prior est,
quando unum nomen imponitur pluribus ex quibus fit unum, non tamen in quantum
ex eis fit unum. Tunc enim, licet materialiter et per accidens loquendo nomen
imponatur pluribus ex quibus fit unum, formaliter tamen et per se loquendo
nomen unum imponitur pluribus, ex quibus non fit unum: quia imponitur eis non
in quantum ex eis est unum, ut fortasse est hoc nomen, homo, impositum ad
significandum animal et mansuetum et bipes, idest, partes suæ definitionis, non
in quantum adunantur in unam hominis naturam per modum actus et potentiæ, sed
ut distinctæ sint inter se actualitates. Et insinuavit quod accipit partes
definitionis ut distinctas per illam coniunctionem, et per illud quoque
adversative additum: sed si ex his unum fit, quasi diceret, cum hoc tamen stat
quod ex eis unum fit. Addidit autem, fortasse, quia hoc nomen, homo, non est
impositum ad significandum partes sui definitivas, ut distinctæ sunt. Sed si impositum
esset aut imponeretur, esset unum nomen pluribus impositum ex quibus non fit
unum. Et quia idem iudicium est de tali nomine, et illis pluribus; ideo
similiter illæ plures partes definitivæ possunt dupliciter accipi. Uno modo,
per modum actualis et possibilis, et sic unum faciunt; et sic formaliter
loquendo vocantur plura, ex quibus fit unum, et pronunciandæ sunt continuata
oratione, et faciunt enunciationem unam dicendo, animal rationale mortale
currit. Est enim ista una sicut et ista, homo currit. Alio modo, accipiuntur
prædictæ definitionis partes ut distinctæ sunt inter se actualitates, et sic
non faciunt unum: ex duobus enim actibus ut sic, non fit unum, ut dicitur VII
metaphysicæ; et sic faciunt enunciationes plures et pronunciandæ sunt vel cum
pausa, vel coniunctione interposita, dicendo, homo est animal et mansuetum et
bipes; sive, homo est animal, mansuetum, bipes, rhetorico more. Quælibet enim
istarum est enunciatio multiplex. Et similiter ista, Socrates est homo, si homo
est impositum ad illa, ut distinctæ actualitates sunt, significandum. Secundus
autem modus, quo unum nomen impositum est pluribus ex quibus non fit unum,
subiungitur, cum dicit: ex albo autem et homine et ambulante etc., idest, alio
modo hoc fit, quando unum nomen imponitur pluribus, ex quibus non potest fieri
unum, qualia sunt: homo, album, et ambulans. Cum enim ex his nullo modo possit
fieri aliqua una natura, sicut poterat fieri ex partibus definitivis, clare
liquet quod nomen aliquod si eis imponeretur, esset nomen non unum significans,
ut in primo dictum fuit de hoc nomine, tunica, imposito homini et equo. While agreeing with the
opinion of Porphyry, Boethius, and Albert, we think a more subtle construction
can be made of the text. According to it Aristotle makes four points here.
First, he reviews what an enunciation is in general when he says, The enunciation
is many in which one is enunciated of many or many of one, unless from the many
something one is constituted... as he stated and explained in the first book.
Secondly, he clarifies the term "one,” when he says, I do not use
"one” of those things, etc., i.e., I call a name one, not by reason of the
unity of vocal sound, but of signification, as was said above. Thirdly, he
manifests (by dividing) and divides (by manifesting) the number of ways in
which one name may be imposed on many things from which one thing is not
constituted. From this he implies the diversity of the multiple enunciation.
And he posits two ways in which one name may be imposed on many things from which
one thing is not constituted: first, when one name is imposed upon many things
from which one thing is constituted but not as one thing is constituted from
them. In this case, materially and accidentally speaking, the name is imposed
on many from which one thing is constituted, but it is formally and per se
imposed on many from which one thing is not constituted; for it is not imposed
upon them in the respect in which they constitute one thing; as perhaps the
name "man” is imposed to signify animal and civilized and biped (i.e.,
parts of its definition) not as they are united in the one nature of man in the
mode of act and potency, but as they are themselves distinct actualities.
Aristotle implies that he is taking these parts of the definition as distinct
by the conjunctions and by also adding adversatively, but if there is something
one formed from these, Neither the Greek nor the Latin text of Aristotle has
the "if” that Cajetan puts into this phrase.The correct reading is
"...but there is something one formed from these.” Close as if to say,
"when however it holds that one thing is constituted from these.” He adds
perhaps because the name "man” is not imposed to signify its definitive
parts as they are distinct. But if it had been so imposed or were imposed, it
would be one name imposed on many things from which no one thing is
constituted. And since the judgment with respect to such a name and those many
things is the same, the many definitive parts can also be taken in two ways:
first, in the mode of the actual and possible, and thus they constitute one
thing, and formally speaking are called many from which one thing is
constituted, and they are to be pronounced in continuous speech and they make
one enunciation, for example, "A mortal rational animal is running.” For
this is one enunciation, just as is "Man is running.” In the second way,
the foresaid parts of the definition are taken as they are distinct
actualities, and thus they do not constitute one thing, for one thing is not
constituted from two acts as such, as Aristotle says in VII Metaphysicæ [13:
1039a 5]. In this case they constitute many enunciations and are pronounced
either with conjunctions interposed or with a pause in the rhetorical manner,
for example, "Man is an animal and civilized and biped” or "Man is an
animal–civilized–biped.” Each of these is a multiple enunciation. And so is the
enunciation, "Socrates is a man” if "man” is imposed to signify
animal, civilized, and biped as they are distinct actualities. Aristotle takes
up the second way in which one name is imposed on many from which one thing is
not constituted where he says, whereas from "white” and "man” and
"walking” there is not [something one formed]. Since in no way can any one
nature be constituted from "man,” white,” and "walking” (as there can
be from the definitive parts), it is evident that if a name were imposed on
these it would be a name that does not signify one thing, as was said in the
first book of the name "cloak” imposed for man and horse. 4 Habemus ergo enunciationis
pluris seu multiplicis duos modos, quorum, quia uterque fit dupliciter,
efficiuntur quatuor modi. Primus est, quando subiicitur vel prædicatur unum
nomen impositum pluribus, ex quibus fit unum, non in quantum sunt unum;
secundus est, quando ipsa plura ex quibus fit unum, in quantum sunt distinctæ
actualitates, subiiciuntur vel prædicantur; tertius est, quando ibi est unum
nomen impositum pluribus ex quibus non fit unum; quartus est, quando ista plura
ex quibus non fit unum, subiiciuntur vel prædicantur. Et notato quod cum
enunciatio secundum membra divisionis illius, qua divisa est, in unam et
plures, quadrupliciter variari possit, scilicet cum unum de uno prædicatur, vel
unum de pluribus, vel plura de uno, vel plura de pluribus; postremum sub silentio
præterivit, quia vel eius pluralitas de se clara est, vel quia, ut inquit
Albertus, non intendebat nisi de enunciatione, quæ aliquo modo una est,
tractare. Demum concludit totam sententiam, dicens: quare nec si aliquis
affirmet unum de his pluribus, erit affirmatio una secundum rem: sed vocaliter
quidem erit una, significative autem non una, sed multæ fient affirmationes. Nec si e converso de uno ista plura affirmabuntur,
fiet affirmatio una. Ista namque, homo est albus, ambulans et musicus, importat tres
affirmationes, scilicet, homo est albus et est ambulans et est musicus, ut
patet ex illius contradictione. Triplex enim negatio illi opponitur correspondens triplici affirmationi
positæ. We have, therefore, two modes of the many (i.e., the multiple enunciation)
and since both are constituted in two ways, there will be four modes: first,
when one name imposed on many from which one thing is constituted is subjected
or predicated as though the name stands for many; the second, when the many
from one which one thing is constituted are subjected or predicated as distinct
actualities; the third, when one name is imposed for a many from which nothing
one is constituted; the fourth, when many which do not constitute one thing are
subjected or predicated. Note that the enunciation, according to the members of
the division by which it has been divided into one and many, can be varied in
four ways, i.e., one is predicated of one, one of many, many of one, and many
of many. Aristotle has not spoken of the last one, either because its plurality
is clear enough or because, as Albert says, he only intends to treat of the
enunciation which is one in some way. Finally [fourthly], he concludes with
this summary: Consequently, if someone affirms something one of these latter
there will not be one affirmation according to the thing: vocally it will be
one; significatively, it will not be one, but many. And conversely, if the many
are affirmed of one subject, there will not be one affirmation. For example,
"Man is white, walking, and musical” implies three affirmations, i.e.,
"Man is white” and "is walking” and "is musical,” as is clear
from its contradiction, for a threefold negation is opposed to it,
corresponding to the threefold affirmation. 5 Deinde cum dicit: si ergo dialectica
etc., probat a posteriori supradictas enunciationes esse plures. Circa quod duo
facit: primo, ponit rationem ipsam ad hoc probandum per modum consequentiæ;
deinde probat antecedens dictæ consequentiæ; ibi: dictum est autem de his et
cetera. Quoad primum talem rationem inducit. Si interrogatio dialectica est
petitio responsionis, quæ sit propositio vel altera pars contradictionis, nulli
enunciationum supradictarum interrogative formatæ erit responsio una; ergo nec
ipsa interrogatio est una, sed plures. Cuius rationis primo ponit antecedens:
si ergo et cetera. Ad huius intelligendos terminos nota quod idem sonant
enunciatio, interrogatio et responsio. Cum
enim dicitur, cælum est animatum, in quantum enunciat prædicatum de subiecto,
enunciatio vocatur; in quantum autem quærendo proponitur, interrogatio; ut vero
quæsito redditur, responsio appellatur. Idem ergo erit probare non esse
responsionem unam, et interrogationem non esse unam, et enunciationem non esse
unam. Adverte secundo interrogationem esse duplicem. Quædam enim est utram partem
contradictionis eligendam proponens; et hæc vocatur dialectica, quia
dialecticus habet viam ex probabilibus ad utramque contradictionis partem
probandam. Altera vero determinatam ad unum
responsionem exoptat; et hæc est interrogatio demonstrativa, eo quod
demonstrator in unum determinate tendit. Considera ulterius quod interrogationi
dialecticæ dupliciter responderi potest. Uno modo, consentiendo interrogationi,
sive affirmative sive negative; ut si quis petat, cælum est animatum? Et respondeatur, est; vel, Deus
non movetur? Et respondeatur, non: talis responsio vocatur propositio. Alio modo, potest responderi interimendo; ut si quis
petat, cælum est animatum? Et respondeatur, non; vel Deus non movetur? Et
respondeatur, movetur: talis responsio vocatur contradictionis altera pars, eo
quod affirmationi negatio redditur et negationi affirmatio. Interrogatio ergo
dialectica est petitio annuentis responsionis, quæ est propositio, vel
contradicentis, quæ est altera pars contradictionis secundum supradictam
Boethii expositionem. Then when he
says, In fact, if dialectical interrogation is a request for an answer, etc.,
he proves a posteriori that the foresaid enunciations are many. First he states
an argument to prove this by way of the consequent; then he proves the
antecedent of the given consequent where he says, But we have spoken about
these things in the Topics, etc. Now if dialectical questioning is a request
for an answer, either a proposition or one part of a contradiction, none of the
foresaid enunciations, put in the form of a question, will have one answer.
Therefore, the question is not one, but many. Aristotle first states the
antecedent of the argument, if dialectical interrogation is a request for an
answer, etc. To understand this it should be noted that an enunciation, a
question, and an answer sound the same. For when we say, "The region of
heaven is animated,” we call it an enunciation inasmuch as it enunciates a
predicate of a subject, but when it is proposed to obtain an answer we call it
an interrogation, and as applied to what was asked we call it a response.
Therefore, to prove that there is not one response or one question or one
enunciation will be the same thing. It should also be noted that interrogation
is twofold. One proposes either of the two parts of a contradiction to choose
from. This is called dialectical interrogation because the dialectician knows
the way to prove either part of a contradiction from probable positions. The
other kind of interrogation seeks one determinate response. This is the
demonstrative interrogation, for the demonstrator proceeds determinately toward
a single alternative. Note, finally, that it is possible to reply to a
dialectical question in two ways. We may consent to the question, either
affirmatively or negatively; for example, when someone asks, "Is the
region of heaven animated,” we may respond, "It is,” or to the question
"Is not God moved,” we may say, "No.” Such a response is called a
proposition. The second way of replying is by destroying; for example, when
someone asks "Is the region of heaven animated?” and we respond,
"No,” or to the question, "Is not God moved?” we respond, "He is
moved.” Such a response is called the other part of a contradiction, because a
negation is given to an affirmation and an affirmation to a negation.
Dialectical interrogation, then, according to the exposition just given, which
is that of Boethius, is a request for the admission of a response which is a
proposition, or which is one part of a contradiction. 6 Deinde subdit probationem
consequentiæ, cum ait: propositio vero unius contradictionis est et cetera. Ubi
notandum est quod si responsio dialectica posset esse plures, non sequeretur
quod responsio enunciationis multiplicis non posset esse dialectica; sed si
responsio dialectica non potest esse nisi una enunciatio, tunc recte sequitur
quod responsio enunciationis pluris, non est responsio dialectica, quæ una est.
Notandum etiam quod si enunciatio aliqua plurium contradictionum pars est, una
non esse comprobatur: una enim uni tantum contradicit. Si autem unius solum
contradictionis pars est, una est eadem ratione, quia scilicet unius
affirmationis unica est negatio, et e converso. Probat ergo Aristoteles
consequentiam ex eo quod propositio, idest responsio dialectica unius
contradictionis est, idest una enunciatio est affirmativa vel negativa. Ex hoc
enim, ut iam dictum est, sequitur quod nullius enunciationis multiplicis sit
responsio dialectica, et consequenter nec una responsio sit. Nec prætereas quod
cum propositionem, vel alteram partem contradictionis, responsionemque
præposuerit dialecticæ interrogationis, de sola propositione subiunxit, quod
est una; quod ideo fecit, quia illius alterius vocabulum ipsum unitatem
præferebat. Cum enim alteram contradictionis partem audis, unam affirmationem
vel negationem statim intelligis. Adiunxit autem antecedenti ly ergo, vel
insinuans hoc esse aliunde sumptum, ut postmodum in speciali explicabit, vel,
permutato situ, notam consequentiæ huius inter antecedens et consequens
locandam, antecedenti præposuit; sicut si diceretur, si ergo Socrates currit,
movetur; pro eo quod dici deberet, si Socrates currit, ergo movetur. Sequitur
deinde consequens: non erit una responsio ad hoc; et infert principalem
conclusionem subdens, quod neque una erit interrogatio et cetera. Si enim responsio non potest esse una, nec
interrogatio ipsa una erit. He adds the proof of the consequent when he says, and a proposition is a
part of one contradiction. In relation to this it should be noted that if a
dialectical response could be many, it would not follow that a response to a
multiple enunciation would not be dialectical. However, if the dialectical
response can only be one enunciation then it follows that a response to a
plural enunciation is not a dialectical response, for it is one [i.e., it
inclines to one part of a contradiction at a time]. It should also be noted
that if an enunciation is a part of many contradictions, it is thereby proven
not to be one, for one contradicts only one. But if an enunciation is a part of
only one contradiction, it is one by the same reasoning, i.e., because there is
only one negation of one affirmation, and conversely. Hence Aristotle proves
the consequent from the fact that the proposition, i.e., the dialectical
response, is a part of one contradiction, i.e., it is one affirmative or one
negative enunciation. It follows from this, as has been said, that there is no
dialectical response of a multiple enunciation, and consequently not one response.
It should not be overlooked that when he designates a proposition or one part
of a contradiction as the response to a dialectical interrogation, it is only
of the proposition that he adds that it is one, because the very wording shows
the unity of the other. For when you hear one part of a contradiction, you
immediately understand one affirmation or negation. He puts the
"therefore” with the antecedent, either implying that this is taken from
another place and he will explain in particular afterward, or having changed
the structure, he places the sign of the consequent, which should be between
the antecedent and consequent before the antecedent, as when one says,
"Therefore if Socrates runs, he is moved,” for "If Socrates runs,
therefore he is moved.” Then the consequent follows: there will not be one
answer to this, etc.; and the inference of the principal conclusion, for there
would not be a single question. For if the response cannot be one, the question
will not be one. 7 Quod autem addidit: nec si sit vera, eiusmodi est. Posset
aliquis credere, quod licet interrogationi pluri non possit dari responsio una,
quando id de quo quæstio fit non potest de omnibus illis pluribus affirmari vel
negari (ut cum quæritur, canis est animal? Quia non potest vere de omnibus
responderi, est, propter cæleste sidus, nec vere de omnibus responderi, non
est, propter canem latrabilem, nulla possit dari responsio una); attamen quando
id quod sub interrogatione cadit potest vere de omnibus affirmari aut negari,
tunc potest dari responsio una; ut si quæratur, canis est substantia? Quia
potest vere de omnibus responderi, est, quia esse substantiam omnibus canibus
convenit, unica responsio dari possit. Hanc erroneam existimationem removet
dicens: nec si sit vera, idest, et dato quod responsio data enunciationi
multiplici de omnibus verificetur, nihilominus non est una, quia unum non
significat, nec unius contradictionis est pars, sed plures responsio illa habet
contradictorias, ut de se patet. He adds, even if there is a true answer,
because someone might think that although one response cannot be given to a
plural interrogation when the question concerns something that cannot be
affirmed or denied of all of the many (for example, when someone asks, "Is
a dog an animal?” no one response can be given, for we cannot truly say of
every dog that it is an animal because of the star by that name; nor can we
truly say of every dog that it is not an animal, because of the barking dog),
nevertheless one response could be given when that which falls tinder the
interrogation can be truly said of all. For example, when someone asks,
"Is a dog a substance?” a single response can be given because it can
truly he said of every dog that it is a substance, for to be a substance
belongs to all dogs. Aristotle adds the phrase, even if there is a true answer,
to remove such an erroneous judgment. For even if the response to the multiple
enunciation is verified of all, it is nonetheless not one, since it does not
signify one thing, nor is it a part of one contradiction. Rather, as is
evident, this response has many contradictories. 8 Deinde cum dicit: dictum est
autem de his in Topicis etc., probat antecedens dupliciter: primo, auctoritate
eorum quæ dicta sunt in Topicis; secundo, a signo. Et circa hoc duo facit.
Primo, ponit ipsum signum, dicens: quod similiter etc., cum auctoritate
topicorum, manifestum est, scilicet, antecedens assumptum, scilicet quod
dialectica interrogatio est petitio responsionis affirmativæ vel negativæ. Quoniam nec ipsum quid est,
idest ex eo quod nec ipsa quæstio quid est, est interrogatio dialectica: verbi
gratia; si quis quærat, quid est animal? Talis non quærit dialectice. Deinde
subiungit probationem assumpti, scilicet quod ipsum quid est, non est quæstio
dialectica; et intendit quod quia interrogatio dialectica optionem respondenti
offerre debet, utram velit contradictionis partem, et ipsa quæstio quid est
talem libertatem non proponit (quia cum dicimus, quid est animal? Respondentem
ad definitionis assignationem coarctamus, quæ non solum ad unum determinata
est, sed etiam omni parte contradictionis caret, cum nec esse, nec non esse
dicat); ideo ipsa quæstio quid est, non est dialectica interrogatio. Unde
dicit: oportet enim ex data, idest ex proposita interrogatione dialectica, hunc
respondentem eligere posse utram velit contradictionis partem, quam
contradictionis utramque partem interrogantem oportet determinare, idest
determinate proponere, hoc modo: utrum hoc animal sit homo an non: ubi
evidenter apparet optionem respondenti offerri. Habes ergo pro signo cum
quæstio dialectica petat responsionem propositionis, vel alterius
contradictionis partem, elongationem quæstionis quid est a quæstionibus
dialecticis. Where he says,
But we have spoken about these things in the Topics, etc., he proves the
antecedent in two ways. First, he proves it on the basis of what was said in
the Topics; secondly, by a sign. The sign is given first where he says,
Similarly it is clear that the question "What is it?” is not a dialectical
one, etc. That is, given the doctrine in the Topics, it is clear (i.e.,
assuming the antecedent that the dialectical interrogation is a request for an
affirmative or negative response) that the question "What is it?” is not a
dialectical interrogation, e.g., when someone asks, "What is an animal?”
he does not interrogate dialectically. Secondly, he gives the proof of what was
assumed, namely, that the question "What is it?” is not a dialectical
question. He states that a dialectical interrogation must offer to the one
responding the option of whichever part of the contradiction he wishes. The
question "What is it?” does not offer such liberty, for in saying
"What is an animal?” the one responding is forced to assign a definition,
and a definition is not only determined to one but is also entirely devoid of
contradiction, since it affirms neither being nor non-being. Therefore, the
question "What is it?” is not a dialectical interrogation. Whence he says,
For the dialectical interrogation must provide, i.e., from the proposed
dialectical interrogation the one responding must be able to choose whichever
part of the contradiction he wishes, which parts of the contradiction the
interrogator must specify, i.e., he must propose the question in this way:
"Is this animal man or not?” wherein the wording of the question clearly
offers an option to the one answering. Therefore, you have as a sign that a
dialectical question is seeking a response of a proposition or of one part of a
contradiction, the setting apart of the question "What is it?” from
dialectical questions. VI. 1 Postquam declaravit diversitatem multiplicis
enunciationis, intendit determinare de earum consequentiis. Et circa hoc duo
facit, secundum duas dubitationes quas solvit. Secunda incipit; ibi: verum autem
est dicere et cetera. Circa primum tria facit: primo, proponit quæstionem;
secundo, ostendit rationabilitatem quæstionis; ibi: si enim quoniam etc.;
tertio, solvit eam; ibi: eorum igitur et cetera. Est ergo dubitatio prima:
quare ex aliquibus divisim prædicatis de uno sequitur enunciatio, in qua
illamet unita prædicantur de eodem, et ex aliquibus non. Unde hæc diversitas oritur?
Verbi gratia; ex istis, Socrates est animal et est bipes; sequitur, ergo
Socrates est animal bipes; et similiter ex istis, Socrates est homo et est
albus; sequitur, ergo Socrates est homo albus. Ex illis vero, Socrates est bonus,
et est citharoedus; non sequitur, ergo est bonus citharoedus. Unde proponens
quæstionem inquit: quoniam vero hæc, scilicet prædicta, ita prædicantur
composita, idest coniuncta, ut unum sit prædicamentum quæ extra prædicantur,
idest, ut ex eis extra prædicatis unite fiat prædicatio, alia vero prædicata
non sunt talia, quæ est inter differentia; unde talis innascitur diversitas? Et
subdit exempla iam adducta, et ad propositum applicata: quorum primum continet
prædicata ex quibus fit unum per se, scilicet, animal et bipes, genus et
differentia; secundum autem prædicata ex quibus fit unum per accidens,
scilicet, homo albus; tertium vero prædicata ex quibus neque unum per se neque
unum per accidens inter se fieri sequitur; ut, citharoedus et bonus, ut
declarabitur. Having explained
the diversity of the multiple enunciation Aristotle now proposes to determine
the consequences of this. He treats this in relation to two questions which he
solves. The second begins where he says, On the other hand, it is also true to
say predicates of something singly, etc. With respect to the other question,
first he proposes it, then he shows that the question is a reasonable one where
he says, For if we hold that whenever each is truly said of a subject, both
together must also be true, many absurdities will follow, etc. Finally, he
solves it where he says, Those things that are predicated—taken in relation to
that to which they are joined in predication, etc. The first question is this:
Why is it that from some things predicated divisively of a subject an
enunciation follows in which they are predicated of the same subject unitedly,
and from others not? What is the reason for this diversity? For example, from
"Socrates is an animal and he is biped” follows, "Therefore, Socrates
is a biped animal”; and similarly, from "Socrates is a man and he is
white” follows, "Therefore, Socrates is a white man.” But from "Socrates
is good and he is a lute player,” the enunciation, "Therefore, he is a
good lute player” does not follow. Hence in proposing the question Aristotle
says, Some things, i.e., predicates, are so predicated when combined, that
there is one predicate from what is predicated separately, i.e., from some
things that are predicated separately, a united predication is made but from
others this is riot so. What is the difference between these; whence does such
a diversity arise? He adds the examples which we have already cited and applied
to the question. Of these examples, the first contains predicates from which
something one per se is formed, i.e., "animal” and "biped,” a genus
and difference; the second contains predicates from which something
accidentally one is formed, namely, "white man”; the third contains
predicates from which neither one per se nor one accidentally is formed,
"lute player” and "good,” as will be explained. V. lib. 2 l. 6 n.
2Deinde cum dicit: si enim quoniam etc., declarat veritatem diversitatis
positæ, ex qua rationabilis redditur quæstio: si namque inter prædicata non
esset talis diversitas, irrationabilis esset dubitatio. Ostendit autem hoc
ratione ducente ad inconveniens, nugationem scilicet. Et quia nugatio duobus
modis committitur, scilicet explicite et implicite; ideo primo deducit ad
nugationem explicitam, secundo ad implicitam; ibi: amplius, si Socrateset
cetera. Ait ergo quod si nulla est inter quæcumque prædicata differentia, sed
de quolibet indifferenter censetur quod quia alterutrum separatum dicitur, quod
utrumque coniunctim dicatur, multa inconvenientia sequentur. De aliquo enim homine, puta
Socrate, verum est separatim dicere quod, homo est, et albus est; quare et
omne, idest et coniunctim dicetur, Socrates est homo albus. Rursus et de eodem
Socrate potest dici separatim quod, est homo albus, et quod, est albus; quare
et omne, idest, igitur coniunctim dicetur, Socrates est homo albus albus: ubi
manifesta est nugatio. Rursus si de eodem Socrate iterum dicas separatim quod,
est homo albus albus, verum dices et congrue quod est albus, et secundum hoc,
si iterum hoc repetes separatim, a veritate simili non discedes, et sic in
infinitum sequetur, Socrates est homo albus, albus, albus in infinitum. Simile
quod ostenditur in alio exemplo. Si quis de Socrate dicat quod, est musicus,
albus, ambulans, cum possit et separatim dicere quod, est musicus, et quod, est
albus, et quod, est ambulans; sequetur, Socrates est musicus, albus, ambulans,
musicus, albus, ambulans. Et
quia pluries separatim, in eodem tamen tempore, enunciari potest, procedit
nugatio sine fine. Deinde deducit ad implicitam nugationem, dicens, cum de
Socrate vere dici possit separatim quod, est homo, et quod, est bipes, si
coniunctim inferre licet, sequetur quod, Socrates sit homo bipes. Ubi est implicita nugatio. Bipes
enim circumloquens differentiam hominis actu et intellectu clauditur in hominis
ratione. Unde ponendo loco hominis suam rationem (quod fieri licet, ut docet
Aristoteles II topicorum), apparebit manifeste nugatio. Dicetur enim: Socrates
est homo, idest, animal bipes, bipes. Quoniam ergo plurima inconvenientia
sequuntur si quis ponat complexiones, idest, adunationes prædicatorum fieri
simpliciter, idest, absque diversitate aliqua, manifestum est ex dictis;
quomodo autem faciendum est, nunc, idest, in sequentibus dicemus. Et nota quod
iste textus non habetur uniformiter apud omnes quoad verba, sed quia sententia
non discrepat, legat quicunque ut vult. When he says, For if we hold that whenever each is
truly said of a subject, both together must also be true, etc., he shows that
there truly is such a diversity among predicates and in so doing renders the
question reasonable, for if there were not such a diversity among predicates
the question would be pointless. He shows this by reasoning lead-ing to an
absurdity, i.e., to something nugatory. Now, something nugatory is effected in
two ways, explicitly and implicitly. Therefore, he first makes a deduction to
the explicitly nugatory, secondly to the implicitly, where he says,
Furthermore, if Socrates is Socrates and a man, Socrates is a Socrates man,
etc. If, he says, there is no difference between predicates, and it is supposed
of any of them indifferently that because both are said separately both may he
said conjointly, many absurdities will follow. For of some man, say Socrates,
it is true to say separately that he is a man and he is white; therefore both
-together, i.e., we may also say conjointly, "Socrates is a white man.”
Again, of the same Socrates we can say separately that he is a white man and
that he is white, and both together, i.e., therefore conjointly, "Socrates
is a white white man.” Here the nugatory expression is evident. Further, if of
the same Socrates that you again say separately is a white white man it will be
true and consistent to say that he is white, and according to this, if again
repeating this separately, you will not deviate from a similar truth, and this
will follow to infinity, then Socrates is a white white white man to infinity.
The same thing can be shown by another example, If someone says of Socrates
that he is musical, white, and walking, since it is also possible to say
separately that he is musical, and that he is white, and that he is walking, it
will follow that Socrates is musical, white, walking, musical, white, walking.
And since these can be enunciated many times separately, yet at the same time,
the nugatory statement proceeds without end. Then he makes a deduction to the
implicitly nugatory. Since it can be truly said of Socrates separately that he
is man and that he is biped, it will follow that Socrates is a biped man, if it
is licit to infer conjointly. This is implicitly nugatory because the
"biped,” which indirectly expresses the difference of man in act and in
understanding, is included in the notion of man. Hence, if we posit the
definition of man in place of "man” (which it is licit to do, as Aristotle
teaches in II Topicorum [2: 110a 5]) the nugatory character of the enunciation
will be evident, for when we say "Socrates is a biped man,” we are saying
"Socrates is a biped biped animal.” From what has been said it is evident
that many absurdities follow if anyone proposes that combinations, i.e., unions
of predicates, be made simply, i.e., without any distinction. Now, i.e., in what
follows, we will state how this must be settled. This particular text is not
uniformly worded in the manuscripts, but since no discrepancy of thought is
involved one may read it as he wishes. 3 Deinde cum dicit: eorum igitur etc.,
solvit propositam quæstionem. Et circa hoc duo facit: primo, respondet
instantiis in ipsa propositione quæstionis adductis; secundo, satisfacit
instantiis in probatione positis; ibi: amplius nec quæcumqueet cetera. Circa primum duo facit: primo namque, declarat
veritatem; secundo, applicat ad propositas instantias; ibi: quocirca et cetera.
Determinat ergo dubitationem tali distinctione. Prædicatorum sive subiectorum
plurium duo sunt genera: quædam sunt per accidens, quædam per se. Si per
accidens, hoc dupliciter contingit, vel quia ambo dicuntur per accidens de uno
tertio, vel quia alterum de altero mutuo per accidens prædicatur. Quando illa
plura divisim prædicata sunt per accidens quovis modo, ex eis non sequitur
coniunctim prædicatum; quando autem sunt per se, tum ex eis sequitur coniuncte
prædicatum. Unde continuando se ad præcedentia ait: eorum igitur quæ
prædicantur, et de quibus prædicantur, idest subiectorum, quæcumque dicuntur
secundum accidens (et per hoc innuit oppositum membrum, scilicet per se), vel
de eodem, idest accidentaliter concurrunt ad unius tertii denominationem, vel
alterutrum de altero, idest accidentaliter mutuo se denominant (et per hoc
ponit membra duplicis divisionis), hæc, scilicet plura per accidens, non erunt
unum, idest non inferent prædicationem coniunctam. When he says, Those things
that are predicated—taken in relation to that to which they are joined in
predication, etc., he solves the proposed question. First he makes an answer
with respect to the instances cited in proposing the question; secondly, he
solves the problem as related to the instances posited in his proof where he
says, Furthermore, predicates that are present in one another cannot be
combined simply. In relation to the first answer, he states the true position
first and then applies it to the instances where he says, This is the reason
"good” and "shoemaker” cannot be combined simply, etc. He settles the
question with this distinction: there are two kinds of multiple predicates and
subjects. Some are accidental, some per se. If they are accidental this occurs
in two ways, either because both are said accidentally of a third thing or
because they are predicated of each other accidentally. Now when the many
predicated divisively are in any way accidental, a conjoined predicate does not
follow from them; but when they are per se, a conjoined predicate does follow
from them. In answering the question, therefore, Aristotle connects what he is
saying with what has gone before: Of those things that are predicated and those
of which they are predicated, i.e., subjects, whichever are said accidentally
(by which he intimates the opposite member, i.e., per se), either of the same
subject, i.e., they unite accidentally for the denomination of one third thing,
or of one another, i.e., they denominate each other accidentally (and by this
he posits the members of a two-fold division), these (i.e., these many
accidentally) will not be one, i.e., do not produce a conjoined predication. 4 Et explanat utrumque horum
exemplariter. Et primo, primum, quando scilicet illa plura per accidens
dicuntur de tertio, dicens: ut si homo albus est et musicus divisim. Sed non
est idem, idest non sequitur adunatim, ergo homo est musicus albus. Utraque enim
sunt accidentia eidem tertio. Deinde explanat secundum, quando solum illa plura
per accidens de se mutuo prædicantur, subdens: nec si album musicum verum est
dicere, idest, et etiamsi de se invicem ista prædicantur per accidens ratione
subiecti in quo uniuntur, ut dicatur, homo est albus, et est musicus, et album
est musicum, non tamen sequitur quod album musicum unite prædicetur, dicendo,
ergo homo est albus musicus. Et causam assignat, quia album dicitur de musico per accidens, et e
converso. He explains both of these by examples. First, the many said
accidentally of a third; for example, man is white and musical divisively. But
they are not the same, i.e., it does not follow unitedly that "Man is
musical white” for both are accidental to the same third thing. Then he
explains the second member by an example. In it the many are predicated only of
one another. Even if it were true to say white is musical, i.e., even if these
are predicated accidentally of each other by reason of the subject in which
they are united, so that we may say "Man is white and he is musical, and
white is musical,” it still does not follow that "musical white” is
predicated as a unity when we say, "Therefore, man is musical white.” He
gives as the cause of this that "white” is said of "musical”
accidentally and conversely. 5 Notandum est hic quod cum duo membra per
accidens enumerasset, unico tamen exemplo utrumque membrum explanavit, ut
insinuaret quod distinctio illa non erat in diversa prædicata per accidens, sed
in eadem diversimode comparata; album enim et musicum, comparata ad hominem, sub
primo cadunt membro; comparata autem inter se, sub secundo. Diversitatem ergo
comparationis pluralitate membrorum, identitatem autem prædicatorum unitate
exempli astruxit. It must be noted here that although he has enumerated two
accidental members, he explains both members by this single example so as to
imply that the distinction is not one of different accidental predicates, but
of the same predicates compared in different ways. "White” and
"musical” compared to "man” fall under the first member, but compared
with each other, under the second. Hence he has provided diversity of
comparison by the plurality of the members, but identity of predicates by the
unity of the example. 6 Advertendum est ulterius, ad evidentiam divisionis
factæ in littera, quod, secundum accidens, potest dupliciter accipi. Uno modo,
ut distinguitur contra perseitatem posterioristicam, et sic non sumitur hic:
quoniam cum dicitur plura prædicata secundum accidens, aut ly secundum accidens
determinaret coniunctionem inter se, et sic manifeste esset falsa regula;
quoniam inter prima prædicata, animal bipes, seu, animal rationale, est
prædicatio secundum accidens hoc modo (differentia enim in nullo modo
perseitatis prædicatur de genere, et tamen Aristoteles in textu dicit ea non
esse prædicata per accidens, et asserit quod est optima illatio, est animal et
bipes, ergo est animal bipes); aut determinaret coniunctionem illarum ad
subiectum, et sic etiam inveniretur falsitas in regula: bene namque dicitur,
paries est coloratus, et est visibilis, et tamen coloratum visibile non per se
inest parieti. Alio modo, accipitur ly secundum accidens, ut distinguitur
contra hoc quod dico, ratione sui, seu, non propter aliud, et sic idem sonat,
quod, per aliud: et hoc modo accipitur hic. Quæcunque enim sunt talis naturæ
quod non ratione sui iunguntur, sed propter aliud, ab illatione coniuncta
deficere necesse est, ex eo quod coniuncta illatio unum alteri substernit, et
ratione sui ea adunata denotat ut potentiam et actum. Est ergo sensus
divisionis, quod prædicatorum plurium, quædam sunt per accidens, quædam per se,
idest, quædam adunantur inter se ratione sui, quædam propter aliud. Ea quæ per
se uniuntur inferunt coniunctum, ea autem quæ propter aliud, nequaquam. To make
this division evident it must also be noted that accidentally can be taken in
two ways. It may be taken as it is distinguished from "posterioristic
perseity.” This is not the way it is taken here, for "many predicates
accidentally” would then mean that the "accidentally” determines a
conjunction between predicates, and thus the rule would clearly be false, for
the first predicates he gave as examples are predicated accidentally in this
way, namely, "biped animal,” or "rational animal” (for a difference
is not predicated of a genus in any mode of perseity, and yet Aristotle says in
the text that these are not predicated accidentally, and has asserted that
"He is an animal and biped, therefore he is a biped animal” is a good
inference). Or it would mean that the "accidentally” determines a conjunction
of the predicates with the subject, and thus also the rule would be false, for
it is valid to say, "The wall is colored and it is visible,” yet visible
colored is not per se in the wall. Accidentally” taken in the second way is
distinguished from what I call "on its own account,” i.e., not because of
something else; "accidentally” then means "through another.” This is
the way it is taken here, for whatever are of such a nature that they are
joined because of something else, and not on their own account, do not admit of
conjoined inference, because a conjoined inference subjects one to the other,
and denotes the things united on their own account as potency and act.
Therefore, the sense of the division is this: of many predicates, some are
accidental, some per se, i.e., some are united among themselves on their own
account, some on account of another. Those that are per se united infer
conjointly; those that are united on account of another do not infer conjointly
in any way. 7 Deinde cum dicit: quocirca nec citharoedusetc., applicat
declaratam veritatem ad partes quæstionis. Et primo, ad secundam partem, quia
scilicet non sequitur: est bonus et est citharoedus; ergo est bonus
citharoedus, dicens: quocirca nec citharoedus bonus etc.; secundo, ad aliam
partem quæstionis, quare sequebatur: est animal et est bipes; ergo est animal
bipes: et ait: sed animal bipes et cetera. Et subiungit huius ultimi dicti
causam, quia, animal bipes, non sunt prædicata secundum accidens coniuncta
inter se aut in tertio, sed per se. Et per hoc explanavit alterum membrum primæ divisionis,
quod adhuc positum non fuerat explicite. Adverte quod Aristoteles, eamdem
tenens sententiam de citharoedo et bono et musico et albo, conclusit quod album
et musicum non inferunt coniunctum prædicatum; ideo nec citharoedus et bonus
inferunt citharoedus bonus simpliciter, idest coniuncte. Est autem ratio dicti,
quia licet musica et albedo dissimiles sint bonitati et arti citharisticæ in
hoc, quod bonitas nata est denominare et subiectum tertium, puta hominem et ipsam
artem citharisticam (propter quod falsitas manifeste cernitur, quando dicitur:
est bonus et citharoedus; ergo bonus citharoedus), musica vero et albedo
subiectum tertium natæ sunt denominare tantum, et non se invicem (propter quod
latentior est casus cum proceditur: est albus et est musicus; ergo est musicus
albus), licet, inquam, in hoc sint dissimiles, et propter istam
dissimilitudinem processus Aristotelis minus sufficiens videatur; attamen
similes sunt in hoc quod, si servetur identitas omnimoda prædicatorum quam
servari oportet, si illamet divisa debent inferri coniunctim, sicut musica non
denominat albedinem, neque contra, ita nec bonitas, de qua fit sermo, cum
dicitur, homo est bonus, denominat artem citharisticam, neque e converso. Cum
enim bonum sit æquivocum, licet a consilio, alia ratione dicitur de perfectione
citharoedi, et alia de perfectione hominis. Quando namque dicimus, Socrates est
bonus, intelligimus bonitatem moralem, quæ est hominis bonitas simpliciter
(analogum siquidem simpliciter positum sumitur pro potiori); cum autem
infertur, citharoedus bonus, non bonitatem moris sed artis prædicas: unde
terminorum identitas non salvatur; sufficienter igitur et subtiliter
Aristoteles eamdem de utrisque protulit sententiam, quia eadem est hæc, et ibi
ratio et cetera. When he says,
This is the reason "good” and "shoemaker” cannot be combined simply,
etc., he applies the truth he has stated to the parts of the question. He
applies it first to the second part, i.e., why this does not follow: "He
is good and he is a shoemaker, therefore he is a good shoemaker.” Then he
applies it to the other part of the question, i.e., why this follows: "He
is an animal and he is biped, therefore he is a biped animal.” He adds the
reason in the case of the latter: "biped” and "animal” are not
predicates accidentally conjoined among themselves, nor in a third thing, but
per se. This also explains the other member of the first division which has not
yet been explicitly posited. Notice that he maintains the same judgment is to
be made about lute player and good, and musical and white. He has concluded
that "white” and "musical” do not infer a conjoined predicate; hence
neither do "lute player” and "good” infer "good lute player”
simply, i.e., conjointly. There is a reason for saying this. For although there
is a difference between musical and white, and goodness and the art of
luteplaying, they are also similar. Let us consider their difference first.
Goodness is of such a nature that it denominates both a third subject, namely,
man, and the art of lute-playing. This is the reason the falsity is clearly
discernible when we say "He is good and a lute player, therefore he is a
good lute player.” Musical and whiteness, on the other band, are of such a
nature that they denominate only a third subject, and not each other, and
hence, the error is less obvious in "He is white and be is musical,
therefore he is musical white.” Now it is this difference that makes
Aristotle’s process of reasoning appear somewhat inconclusive. However, they
are similar. For if identity of predicates is kept in every way that is
required for the same things divided to be inferred conjointly, then, just as
"musical” does not denominate "whiteness,” nor the contrary, so
neither does "goodness,” of which we are speaking when we say "Man is
good,” denominate the art of lute-playing,,nor conversely. For "good” is
equivocal—by choice though—and therefore is said of the perfection of the lute
player by means of one notion and of the perfection of man by means of another.
For example, when we say, "Socrates is good” we understand moral goodness,
which is the goodness of man absolutely (for the analogous term posited simply,
stands for what is mainly so); but when good lute player is inferred, it is not
the goodness of morality that is predicated but the goodness of art; whence
identity of the terms is not saved. Therefore, Aristotle has adequately and
subtly expressed the same judgment about both, i.e., "white” and
"musical,” and "good” and "lute player,” for the reason here is
the same as there. Nec prætereundum est quod, cum tres consequentias adduxit
quæstionem proponendo, scilicet; est animal et bipes; ergo est animal bipes:
et, est homo et albus; ergo est homo albus: et, est citharoedus et bonus; ergo
est homo albus: et, est citharoedus et bonus; ergo est bonus citharoedus; et
duas primas posuerat esse bonas, tertiam vero non; huius diversitatis causam
inquirere volens, cur solvendo quæstionem nullo modo meminerit secundæ
consequentiæ, sed tantum primæ et tertiæ. Indiscussum namque reliquit an illa
consequentia sit bona an mala. Et ad hoc videtur mihi dicendum quod ex his
paucis verbis etiam illius consequentiæ naturam insinuavit. Profundioris enim
sensus textus capax apparet cum dixit quod, non sunt unum album et musicum
etc., ut scilicet non tantum indicet quod expositum est, sed etiam eius causam,
ex qua natura secundæ consequentiæ elucescit. Causa namque quare album et
musicum non inferunt coniunctam prædicationem est, quia in prædicatione
coniuncta oportet alteram partem alteri supponi, ut potentiam actui, ad hoc ut
ex eis fiat aliquo modo unum, et altera a reliqua denominetur (hoc enim vis
coniunctæ prædicationis requirit, ut supra diximus de partibus definitionis);
album autem et musicum secundum se non faciunt unum per se, ut patet, neque
unum per accidens. Licet enim ipsa ut adunantur in subiecto uno sint unum
subiecto per accidens, tamen ipsamet quæ adunantur in uno, tertio subiecto, non
faciunt inter se unum per accidens: tum quia neutrum informat alterum (quod
requiritur ad unitatem per accidens aliquorum inter se, licet non in tertio);
tum quia non considerata subiecti unitate, quæ est extra eorum rationes, nulla
remanet inter ea unitatis causa. Dicens ergo quod album et musicum non sunt
unum, scilicet inter se, aliquo modo, causam expressit quare coniunctim non
infertur ex eis prædicatum. Et quia oppositorum eadem est disciplina,
insinuavit per illamet verba bonitatem illius consequentiæ. Ex eo enim quod
homo et albus se habent sicut potentia et actus (et ita albedo informet,
denominet atque unum faciat cum homine ratione sui), sequitur quod ex divisis
potest inferri coniuncta prædicatio; ut dicatur: est homo et albus; ergo est
homo albus. Sicut per oppositum dicebatur quod ideo musicum et album non
inferunt coniunctum prædicatum quia neutrum alterum informabat. There is
another point that must be mentioned. Aristotle in proposing the question draws
three consequences: "He is an animal and biped, therefore he is a biped
animal” and "He is a man and white, therefore he is a white man” and
"He is a lute player and good, therefore he is a good lute player.” Then
he states that the first two consequences are good, the third not. His
intention was to inquire into the cause of this diversity, but in solving the
question he mentions only the first and third consequences, leaving the
goodness or badness of the second consequence undiscussed. Why is this? I would
say in answer to this that in these few words he has also implied the nature of
the second consequence, for there is a more profound meaning to the statement
in the text that whiteness and being musical is not one. It is a meaning that
not only indicates what has already been explained but also its cause, and from
this the nature of the second consequence is apparent. For the reason
"white” and "musical” do not infer a conjoined predication is that in
conjoined predication one part must be subjected to the other as potency to act
such that in some way one thing is formed from them and one is denominated from
the other (for the force of the conjoined predication requires this, as we have
said above concerning the parts of the definition). "White” and
"musical,” however, do not in themselves form one thing per se, as is
evident, nor do they form one thing accidentally. For while it is true that as
united in a subject they are one in subject accidentally, nevertheless things
that are united in one third subject do not form one thing accidentally among
themselves: first, because neither informs the other (which is required for
accidental unity of things among themselves, although not in a third thing);
secondly, because, considered apart from the unity of a subject, which is
outside of their notions, there is no cause of unity between them. Therefore,
when Aristotle says that whiteness and being musical are not one, i.e., among
themselves, in some measure he expresses the reason why a predicate is not
conjointly inferred from them. And since the same discipline extends to
opposites, the goodness of the second consequence is implied by these words.
That is, man and white are related as potency and act (and so, on its own
account whiteness informs, denominates, and forms one thing with ‘man’);
therefore from these taken divisively a conjoined predication can be inferred,
i.e., "He is man and white, therefore be is a white man”; just as, in the
opposite case, it was said that "musical” and "white” do not infer a
conjoined predicate because neither informs the other. 9 Nec obstat quod album
faciat unum per accidens cum homine: non enim dictum est quod unitas per
accidens aliquorum impedit ex diversis inferre coniunctum, sed quod unitas per
accidens aliquorum ratione tertii tantum est illa quæ impedit. Talia enim quæ
non sunt unum per accidens nisi ratione tertii, inter se nullam habent
unitatem; et propterea non potest inferri coniunctum, ut dictum est, quod
unitatem importat. Illa vero quæ
sunt unum per accidens ratione sui, seu inter se, ut, homo albus, cum coniuncta
accipiuntur, unitate necessaria non carent, quia inter se unitatem habent.
Notanter autem apposui ly tantum: quoniam si aliqua duo sunt unum per accidens,
ratione tertii subiecti scilicet, sed non tantum ex hoc habent unitatem, sed
etiam ratione sui, ex hoc quod alterum reliquum informat, ex istis divisis non
prohibetur inferri coniunctum. Verbi gratia, optime dicitur: est quantum et est
coloratum; ergo est quantum coloratum: quia color informat quantitatem. There is no opposition
between the position just stated and the fact that white forms an accidental
unity with man. For we did not say that accidental unity of certain things
impedes inferring a conjunction from divided things,” but that accidental unity
of certain things only by reason of a third thing is the one that impedes.
Things that are one accidentally only by reason of a third thing have no unity
among them selves; and for this reason a conjunction, which implies unity,
cannot be inferred, as we have said. But things that are one accidentally on
their own account, i.e., among themselves, as for example, "white man,”
when taken conjointly, have the necessary unity because they have unity among
themselves. Notice that I have added "only.” The reason is that if any two
C are one accidentally, namely, by reason of a third subject, and they not only
have unity from this but also on their own account (because one informs the
other), then from these taken divisively a conjoined inference can be made. For
example, we can infer, "It is a quantity and it is colored, therefore it
is a colored quantity,” because color informs quantity. V. lib. 2 l. 6 n.
10Potes autem credere quod secunda illa consequentia, quam non explicite
confirmavit Aristoteles respondendo, sit bona et ex eo quod ipse proponendo
quæstionem asseruit bonam, et ex eo quod nulla instantia reperitur. Insinuavit
autem et Aristoteles quod sola talis unitas impedit illationem coniunctam,
quando dixit quæcumque secundum accidens dicuntur vel de eodem vel alterutrum
de altero. Cum enim dixit, secundum accidens de eodem, unitatem eorum ex sola
adunatione in tertio posuit (sola enim hæc per accidens prædicantur de eodem,
ut dictum est); cum autem addidit, vel alterutrum de altero, mutuam
accidentalitatem ponens, ex nulla parte inter se unitatem reliquit. Utraque
ergo per accidens adducta prædicata, in tertio scilicet vel alterutrum, quæ
impediant illationem coniunctam, nonnisi in tertio unitatem habent. You can
hold as true that this second consequence is good even though Aristotle has not
explicitly confirmed it by returning to it, both from the fact that in proposing
the question he has claimed it as good and also because there is no instance
opposed to it. Moreover, Aristotle has implied that it is only such unity that
impedes the conjoined inference where he says: which are said accidentally,
either of the same subject or of one another. By accidentally of the same
subject, he posits their unity to be only from union in a third thing (for only
these are predicated accidentally of the same subject, as was said). When he
adds, or of one another—positing mutual accidentality—no unity at all is left
between them. Therefore, both kinds of accidental predicates, namely, in a
third thing or in one another, that impede a conjoined inference have unity
only in a third thing. 11 Deinde cum dicit: amplius nec etc., satisfacit
instantiis in probatione adductis, et in illis in quibus explicita
committebatur nugatio, et in illis in quibus implicita; et ait quod non solum
inferre ex divisis coniunctum non licet quando prædicata illa sunt per
accidens, sed nec etiam quæcunque insunt in alio: idest, sed nec hoc licet
quando prædicata includunt se, ita quod unum includatur in significato formali
alterius intrinsece, sive explicite, ut album in albo, sive implicite, ut
animal et bipes in homine. Quare neque album frequenter dictum divisim infert
coniunctum, neque homo divisim ab animali vel bipede enunciatum, animal bipes,
coniunctum cum homine infert; ut dicatur, ergo Socrates est homo bipes, vel
animal homo. Insunt enim in
hominis ratione, animal et bipes actu et intellectu, licet implicite. Stat ergo
solutio quæstionis in hoc, quod unitas plurium per accidens in tertio tantum et
nugatio, impediunt ex divisis inferri coniunctum; et consequenter, ubi neutrum
horum invenitur, ex divisis licebit inferre coniunctum. Et hoc intellige quando
divisæ sunt simul veræ de eodem et cetera. Then when he says, Furthermore, predicates that are
present in one another cannot be combined simply, etc., he gives the solution
for the instances (both the explicitly nugatory and the implicitly nugatory)
cited in the proof. It is not only not licit, he says, to infer a union from
divided predicates when these are accidental, but it is not licit when the
predicates are present in one another. That is, it is not licit to infer a
conjoined predicate from divided predicates when the predicates include one
another in such a way that one is included in the formal signification of
another intrinsically, or explicitly, as "white” in white,” or implicitly,
as "animal” and "biped” in "man.” Therefore, white” said repeatedly
and divisively does not infer a conjoined predication, nor does "man”
divisively enunciated from "animal” or "biped” infer "biped” or
"animal” conjoined with man, such that we could say, "Therefore,
Socrates is a biped-man” or "animal-man.” For animal and biped are
included in the notion of man in act and in understanding, although implicitly.
The solution of the question, then, is this: the inferring of a conjunction
from divided predicates is impeded when there is unity of the many accidentally
only in a third thing and when there is a nugatory result. Consequently, where
neither of these is found it will be licit to infer a conjunction from divided
predicates. It is to be understood that this applies when the divided
predicates are at once true of the same subject. VII. 1. Postquam expedita est
prima dubitatio, tractat secundam dubitationem. Et circa hoc tria facit: primo,
movet ipsam quæstionem; secundo, solvit eam; ibi: sed quando in adiecto etc.,
tertio, ex hoc excludit quemdam errorem; ibi: quod autem non est et cetera. Est
ergo quæstio: an ex enunciatione habente prædicatum coniunctum, liceat inferre
enunciationes dividentes illud coniunctum; et est quæstio contraria superiori. Ibi enim quæsitum est an ex
divisis inferatur coniunctum; hic autem quæritur an ex coniuncto sequantur
divisa. Unde movendo quæstionem dicit: verum autemaliquando est dicere de
aliquo et simpliciter, idest divisim, quod scilicet prius dicebatur coniunctim,
ut quemdam hominem album esse hominem, aut quoddam album hominem album esse,
idest ut ex ista, Socrates est homo albus, sequitur divisim, ergo Socrates est
homo, ergo Socrates est albus. Non autem semper, idest aliquando autem ex
coniuncto non inferri potest divisim; non enim sequitur, Socrates est bonus
citharoedus, ergo est bonus. Unde hæc est differentia, quod quandoque licet et
quandoque non. Et adverte quod notanter adduxit exemplum de homine albo,
inferendo utramque partem divisim, ut insinuaret quod intentio quæstionis est
investigare quando ex coniuncto potest utraque pars divisim inferri, et non
quando altera tantum. Aristotle now
takes up the second question in relation to multiple enunciations. He first
presents it, and then solves it where he says, When something opposed is
present in the adjunct, from which a contradiction follows, it will not be true
to predicate them singly, but false, etc. Finally, he excludes an error where
he says, In the case of non-being, however, it is not true to say that because
it is a matter of opinion, it is something, etc. The second question is this:
Is it licit to infer from an enunciation having a conjoined predication,
enunciations dividing that conjunction? This question is the contrary of the
first question. The first asked whether a conjoined predicate could be inferred
from divided predicates; the present one asks whether divided predicates follow
from conjoined predicates. When he presents the question he says, on the other
hand, it is also true to say predicates of something singly, i.e., what was
previously said conjointly may be said divisively; for example, that some white
man is a man, or that some white man is white. That is, from "Socrates is
a white man,” follows divisively, "Therefore Socrates is a man,”
"There fore Socrates is white.” However, this is not always the case,
i.e., some times it is not possible to infer divisively from conjoined
predicates, for this does not follow: "Socrates is a good lute player,
therefore he is good.” Hence, sometimes it is licit, sometimes not. Note that
in inferring each part divisively he takes as an ex ample "white man.”
This is significant, for by it he means to imply that his intention is to
investigate when each part can be inferred divisively from a conjoined
predicate, and not when only one of the two can be inferred. 2 Deinde cum
dicit: sed quando in adiecto etc., solvit quæstionem. Et duo facit: primo,
respondet parti negativæ quæstionis, quando scilicet non licet; secundo, ibi:
quare in quantiscumque etc., respondet parti affirmativæ, quando scilicet
licet. Circa primum considerandum quod quia dupliciter contingit fieri
prædicatum coniunctum, uno modo ex oppositis, alio modo ex non oppositis, ideo
duo facit: primo, ostendit quod numquam ex prædicato coniuncto ex oppositis
possunt inferri eius partes divisim; secundo, quod nec hoc licet universaliter
in prædicato coniuncto ex non oppositis, ibi: vel etiam quando et cetera. Ait ergo quod quando in termino adiecto inest aliquid
de numero oppositorum, ad quæ sequitur contradictio inter ipsos terminos, non
verum est, scilicet inferre divisim, sed falsum. Verbi gratia cum dicitur,
Cæsar est homo mortuus, non sequitur, ergo est homo: quia ly mortuus, adiacens
homini, oppositionem habet ad hominem, quam sequitur contradictio inter hominem
et mortuum: si enim est homo, non est mortuus, quia non est corpus inanimatum;
et si est mortuus, non est homo, quia mortuum est corpus inanimatum. Quando autem non inest, scilicet
talis oppositio, verum est, scilicet inferre divisim. Ratio autem quare, quando est oppositio in adiecto,
non sequitur illatio divisa est, quia alter terminus ex adiecti oppositione
corrumpitur in ipsa enunciatione coniuncta. Corruptum autem seipsum absque corruptione non infert,
quod illatio divisa sonaret. When he says, When something opposed is present in
the adjunct, etc., he solves the question, first by responding to the negative
part of the question, i.e., when it is not licit; secondly, to the affirmative
part, i.e., when it is licit, where he says, Therefore, in whatever
predications no contrariety is present when definitions are put in place of the
names, and wherein predicates are predicated per se and not accidentally, etc.
It should be noted, in relation to the negative part of the question, that a
conjoined predicate may be formed in two ways: from opposites and from
non-opposites. Therefore, he shows first that the parts in a conjoined
predicate of opposites can never be inferred divisively. Secondly, he shows
that this is not licit universally in a conjoined predicate of non-opposites,
where he says, Or, rather, when something opposed is present in it, it is never
true; but when something opposed is not present, it is not always true.
Aristotle says, then, that when something that is an opposite is contained in
the adjacent term, which results in a contradiction between the terms
themselves, it is not true, namely, to infer divisively, but false. For
example, when we say, "Cæsar is a dead man,” it does not follow,
"Therefore he is a man,” because the contradiction between 11 man” and
"dead” which results from adding the "dead” to "man” is opposed
to man, for if he is a man he is not dead, because he is not an inanimate body;
and if he is dead he is not a man, because as dead he is an inanimate body.
When something opposed is not present, i.e., there is no such opposition, it is
true, i.e., it is true to infer divisively. The reason a divided inference does
not follow when there is opposition in the added term is that in a conjoined
enunciation the other term is destroyed by the opposition of the added term.
But that which has been destroyed is not inferred apart from the destruction,
which is what the divided inference would signify. V. lib. 2 l. 7 n. 3Dubitatur hic primo circa id quod
supponitur, quomodo possit vere dici, Cæsar est homo mortuus, cum enunciatio
non possit esse vera, in qua duo contradictoria simul de aliquo prædicantur. Hoc
enim est primum principium. Homo autem et mortuus, ut in littera dicitur,
contradictoriam oppositionem includunt, quia in homine includitur vita, in
mortuo non vita. Dubitatur secundo circa ipsam consequentiam, quam reprobat
Aristoteles: videtur enim optima. Cum enim ex enunciatione prædicante duo
contradictoria possit utrumque inferri (quia æquivalet copulativæ), aut neutrum
(quia destruit seipsam), et enunciatio supradicta terminos oppositos
contradictorie prædicet, videtur sequi utraque pars, quia falsum est neutram
sequi. Two questions
arise at this point. The first concerns something assumed here: how can it ever
be true to make such a statement as "Cæsar is a dead man,” since an
enunciation cannot be true in which two contradictories are predicated at the
same time of something (for this is a first principle). But "man” and
"dead,” as is said in the text, include contradictory opposition, for in
man is included life, and in dead, non-life. The second question concerns the
consequent that Aristotle rejects, which appears to be good. The enunciation
given as an example predicates terms that are opposed contradictorily. But from
an enunciation predicating two contradictory terms, either both can be inferred
(because it is equivalent to a copulative enunciation), or neither (because it
destroys itself); therefore both parts seem to follow, since it is false that
neither follows. V. lib. 2 l. 7 n.
4Ad hoc simul dicitur quod aliud est loqui de duobus terminis secundum se, et
aliud de eis ut unum stat sub determinatione alterius. Primo namque modo, homo
et mortuus, contradictionem inter se habent, et impossibile est quod simul in
eodem inveniantur. Secundo autem modo, homo et mortuus, non opponuntur, quia
homo transmutatus iam per determinationem corruptivam importatam in ly mortuus,
non stat pro suo significato secundum se, sed secundum exigentiam termini
additi, a quo suum significatum distractum est. Ad utrunque autem insinuandum
Aristoteles duo dixit, et quod habent oppositionem quam sequitur contradictio,
attendens significata eorum secundum se, et quod etiam ex eis formatur una vera
enunciatio cum dicitur, Socrates est homo mortuus, attendens coniunctionem
eorum alterius corruptivam. Unde patet quid dicendum sit ad dubitationes. Ad
utramque siquidem dicitur, quod non enunciantur duo contradictoria simul de
eodem, sed terminus ut stat sub distractione, seu transmutatione alterius, cui
secundum se esset contradictorius. These two questions can be answered simultaneously. It
is one thing to speak of two terms in themselves, and another to speak of them
as one stands under the determination of another. Taken in the first way,
"man” and "dead” have a contradiction between them and it is
impossible that they be found in the same thing at the same time. In the second
way, however, "man” and "dead” are not opposed, since "man,”
changed by the destructive element introduced by "dead,” no longer stands
for what it signifies as such, but as determined by the term added, by which
what is signified is removed. Aristotle, in order to imply both, says two
things: that they have the opposition upon which contradiction follows if you
regard what they signify in themselves; and, that one true enunciation is
formed from them as in "Socrates is a dead man,” if you regard their
conjunction as destructive of one of them. Accordingly, the answer to the two
questions is evident. In a case such as this two contradictories are not
enunciated of the same thing at the same time, but one term as it stands under
dissolution or transmutation from the other, to which by itself it would be
contradictory. V. lib. 2 l. 7 n. 5Dubitatur quoque circa id quod ait: inest
aliquid oppositorum quæ consequitur contradictio; superflue enim videtur addi
illa particula, quæ consequitur contradictio. Omnia enim opposita consequitur
contradictio, ut patet discurrendo in singulis; pater enim est non filius, et
album non nigrum, et videns non cæcum et cetera. Et ad hoc dicendum est quod opposita possunt
dupliciter accipi: uno modo formaliter, idest secundum sua significata; alio
modo denominative, seu subiective. Verbi gratia, pater et filius possunt accipi
pro paternitate et filiatione, et possunt accipi pro eo qui denominatur pater
vel filius. Rursus cum omnis distinctio fiat oppositione aliqua, ut dicitur in
X metaphysicæ, supponatur omnino distincta esse opposita. Dicendum ergo est
quod, licet ad omnia opposita seu distincta contradictio sequatur inter se
formaliter sumpta, non tamen ad omnia opposita sequitur contradictio inter ipsa
denominative sumpta. Quamvis enim pater et filius mutuam sui negationem
inferant inter se formaliter, quia paternitas est non filiatio, et filiatio est
non paternitas; in relatione tamen ad denominatum, contradictionem non
necessario inferunt. Non enim sequitur, Socrates est pater; ergo non est
filius; nec e converso. Ut persuaderet igitur Aristoteles quod non quæcunque
opposita colligata impediunt divisam illationem (quia non illa quæ habent
contradictionem annexam formaliter tantum, sed illa quæ habent contradictionem
et formaliter et secundum rem denominatam), addidit: quæ consequitur
contradictio, in tertio scilicet denominato. Et usus est satis congrue vocabulo, scilicet,
consequitur: contradictio enim ista in tertio est quodammodo extra ipsa
opposita. There is also a question about something else that Aristotle says,
namely, something opposed is present... from which a contradiction follows. The
phrase from which a contradiction follows seems to be superfluous, for
contradiction follows upon all opposites, as is evident in discoursing about
singulars; for a father is not a son, and white is not black, and one seeing is
not blind, etc. Opposites, however, can be taken in two ways: formally, i.e.,
according to what they signify, and denominatively, or subjectively. For
example, father and son can be taken for paternity and filiation, or they can
be taken for the one who is denominated a father or a son. But, again, since
every distinction is made by some opposition, as is said in X Metaphysicæ [3:
1054a 20], it could be supposed that opposites are wholly distinct. It must be
pointed out, therefore, that although contradiction follows between all
opposites or distinct things formally taken, nevertheless, contradiction does
not follow upon all opposites denominatively taken. Father and son formally
taken infer a mutual negation of one another, for paternity is not filiation
and filiation is not paternity, but in respect to what is denominated they do
not necessarily infer a contradiction. It does not follow, for example, that
"Socrates is a father; therefore he is not a son,” nor conversely.
Aristotle, therefore, in order to establish that not all combined opposites
prevent a divided inference (since those having a contradiction applying only
formally do not prevent a divided inference, but those having a contradiction
both formally and according to the thing denominated do prevent a divided
inference) adds, from which a contradiction follows, namely, in the third thing
denominated. And appropriately enough he uses the word follows, for the
contradiction in " the third thing denominated is in a certain way outside
of the opposites themselves. V. lib. 2 l. 7 n. 6Deinde cum dicit: vel etiam
quando est etc., declarat quod ex non oppositis in tertio coniunctis secundum
unum prædicatum, non universaliter possunt inferri partes divisim. Et primo,
hoc proponit quasi emendans quod immediate dixerat, subiungens: vel etiam
quando est, scilicet oppositio inter terminos coniunctos, falsum est semper,
scilicet inferre divisim; quasi diceret: dixi quod quando inest oppositio, non
verum sed falsum est inferre divisim; quando autem non inest talis oppositio,
verum est inferre divisim. Vel etiam ut melius dicatur, quod quando est
oppositio, falsum est semper, quando autem non inest talis oppositio, non
semper verum est. Et sic modificavit
supradicta addendo ly semper, et, non semper. Et subdens exemplum quod non
semper ex non oppositis sequatur divisio, ait: ut, Homerus est aliquid ut
poeta; ergo etiam est? Non. Ex hoc coniuncto, est poeta, de Homero enunciato,
altera pars, ergo Homerus est, non sequitur; et tamen clarum est quod istæ duæ
partes colligatæ, est et poeta, non habent oppositionem, ad quam sequitur
contradictio. Igitur non semper ex non oppositis coniunctis illatio divisa
tenet et cetera. When he says, Or,
rather, when something opposed is present in it, it is never true, etc., he
explains that the parts cannot universally be inferred divisively in the case
of a conjoined predicate in which there is a non-opposite as the third thing
denominated. He proposes this—Or, rather, when something opposed is contained
in it, i.e., opposition between the terms conjoined—as if amending what he has
just said, namely, it is always false, i.e., to infer divisively. What he is
saying, then, is this: I have said that when there is inherent opposition it is
not true but false to infer divisively; but when there is not such opposition
it is true to infer divisively; or, even better, when there is opposition it is
always false but when there is not such opposition it is not always true. That is,
he modifies what he first said by the addition of "always” and "not
always.” Then he adds an example to show that division does not always follow
from non-opposites: For example, Homer is something, say, a poet. Is it
therefore true to say also that Homer "is,” or not? From the conjoined
predicate, is a poet, enunciated of Homer, one part, Therefore Homer is, does
not follow; yet it is evident that these two conjoined parts, "is” and
"poet,” do not have the opposition upon which contradiction follows. Therefore,
in the case of conjoined non-opposites a divided inference does not always
hold. V. lib. 2 l. 7 n. 7Deinde cum dicit: secundum accidens etc., probat hoc,
quod modo dictum est, ex eo quod altera pars istius compositi, scilicet, est,
in antecedente coniuncto prædicatur de Homero secundum accidens, idest ratione
alterius, quoniam, scilicet poeta, prædicatur de Homero, et non prædicatur
secundum se ly est de Homero; quod tamen infertur, cum concluditur: ergo
Homerus est. Considerandum est hic quod ad solvendam illam conclusionem
negativam, scilicet,- non semper ex non oppositis coniunctis infertur divisim,-
sufficit unam instantiam suæ oppositæ universali affirmativæ afferre. Et hoc
fecit Aristoteles adducendo illud genus enunciationum, in quo altera pars
coniuncti est aliquid pertinens ad actum animæ. Loquimur enim modo de Homero
vivente in poematibus suis in mentibus hominum. In his siquidem enunciationibus
partes coniunctæ non sunt oppositæ in tertio, et tamen non licet inferre
utramque partem divisim. Committitur enim fallacia secundum quid ad
simpliciter. Non enim valet,
Cæsar est laudatus, ergo est: et simile est de esse in effectu dependente in
conservari. Quomodo autem intelligenda sit ratio ad
hoc adducta ab Aristotele in sequenti particula dicetur. When he says, The "is”
here is predicated accidentally of Homer, he proves what he has said. One part
of this composite, namely, "is,” is predicated of Homer in the antecedent
conjunction accidentally, i.e., by reason of another, namely, with regard to
the "poet” which is predicated of Homer; it is not predicated as such of
Homer. Nevertheless, this is what is inferred when one concludes
"Therefore Homer is.” To validate his negative conclusion, namely, that it
is not always true to infer divisively from conjoined non-opposites, it was
sufficient to give one instance of the opposite of the universal affirmative.
To do this Aristotle introduces that genus of enunciation in which one part of
the conjunction is something pertaining to an act of the mind (for we are
speaking only of Homer living in his poems in the minds of men). In such
enunciations the parts conjoined are not opposed in the third thing
denominated; nevertheless it is not licit to infer each part divisively, for
the fallacy of going from the relative to the absolute will be committed. For
example, it is not valid to say, "Cæsar is praiseworthy, therefore he is,”
which is a parallel case, i.e., of an effect whose existence requires
maintenance. Aristotle will explain in the following sections of the text how
the reasoning in the above text is to be understood. V. lib. 2 l. 7 n. 8Deinde
cum dicit: quare in quantiscunque etc., respondet parti affirmativæ quæstionis,
quando scilicet ex coniunctis licet inferre divisim. Et ponit duas conditiones
oppositas supradictis debere convenire in unum, ad hoc ut possit fieri talis
consequentia; scilicet, quod nulla inter partes coniuncti oppositio sit, et
quod secundum se prædicentur. Unde
dicit inferendo ex dictis: quare in quantiscunque prædicamentis, idest
prædicatis ordine quodam adunatis, neque contrarietas aliqua, in cuius ratione
ponitur contradictio in tertio (contraria enim sunt quæ mutuo se ab eodem
expellunt), aut universaliter nulla oppositio inest, ex qua scilicet sequatur
contradictio in tertio, si definitiones pro nominibus sumantur. Dixit hoc, quia
licet in quibusdam non appareat oppositio, solis nominibus positis, sicut, homo
mortuus, et in quibusdam appareat, ut, vivum mortuum; hoc tamen non obstante,
si, positis nominum definitionibus loco nominum, oppositio appareat, inter
opposita collocamus. Sicut, verbi gratia, homo mortuus, licet oppositionem non
præseferat, tamen si loco hominis et mortui eorum definitionibus utamur,
videbitur contradictio. Dicemus enim corpus animatum rationale, corpus
inanimatum irrationale. In quantiscunque, inquam, coniunctis nulla est
oppositio, et secundum se, et non secundum accidens prædicantur, in his verum
erit dicere et simpliciter, idest divisim quod fuerat coniunctim enunciatum. When he says, Therefore, in whatever
predications no contrariety is present when definitions are put in place of the
names, etc., he replies to the affirmative part of the question, i.e., when it
is licit to infer divisively from conjoined predicates. He maintains that two
conditions—opposed to what has been said earlier in this portion of the
text—must combine in one enunciation in order that such a consequence be
effected: there must be no opposition between the parts conjoined, and they
must be predicated per se. He says, then, inferring from what has been said:
Therefore, in whatever predicaments, i.e., predicates joined in a certain
order, no contrariety, in virtue of which contradiction is posited in the third
thing denominated (for contraries mutually remove each other from the same
thing), is present, or universally, no opposition is present, i.e., upon which
a contradiction follows in the third thing denominated, when definitions are
taken in place of the names.... He says this because it may be the case that
the opposition is not apparent from the names alone, as in "dead man,” and
again it may be, as in "living dead,” but whether apparent or not it will
be evident that we are putting together opposites if we posit the definitions
of the names in place of the names. For example, in the case of "dead
man,” if we replace "man” and "dead,” with their definitions, the
contradiction will be evident, for what we are saying is "rational animate
body, irrational inanimate body.” In whatever conjoined predicates, then, there
is no opposition, and wherein predicates are predicated per se and not
accidentally, in these it will also be true to predicate them singly, i.e., say
divisively what had been enunciated conjointly. V. lib. 2 l. 7 n. 9Ad evidentiam secundæ conditionis
hic positæ, nota quod ly secundum se potest dupliciter accipi: uno modo
positive, et sic dicit perseitatem primi, secundi, universaliter, quarti modi;
alio modo negative, et sic idem sonat quod non per aliud. Rursus considerandum
est quod cum Aristoteles dixit de prædicato coniuncto quod, secundum se
prædicetur, ly secundum se potest ad tria referri, scilicet, ad partes
coniuncti inter se, ad totum coniunctum respectu subiecti, et ad partes
coniuncti respectu subiecti. Si ergo accipiatur ly secundum se positive, licet
non falsus, extraneus tamen a mente Aristotelis reperitur sensus ad quodcunque
illorum trium referatur. Licet enim valeat, est homo risibilis, ergo est homo et
est risibilis, et, est animal rationale, ergo est animal et est rationale;
tamen his oppositæ inferunt similes consequentias. Dicimus enim, est albus
musicus, ergo est musicus et est albus: ubi nulla est perseitas, sed est
coniunctio per accidens, tam inter partes inter se, quam inter totum et
subiectum, quam etiam inter partes et subiectum. Liquet igitur quod non accipit
Aristoteles ly secundum se positive, ex eo quod vana fuisset talis additio, quæ
ab oppositis non facit in hoc differentiam. Ad quid enim addidit, secundum se,
et non, secundum accidens, si tam illæ quæ sunt secundum se, modo exposito, quam
illæ quæ sunt secundum accidens ex coniuncto, inferunt divisum? Si vero accipiatur secundum se, negative, idest, non
per aliud, et referatur ad partes coniuncti inter se, falsa invenitur regula.
Nam non licet dicere, est bonus citharoedus; ergo est bonus et citharoedus; et
tamen ars citharizandi et bonitas eius sine medio coniunguntur. Et similiter
contingit, si referatur ad totum coniunctum respectu subiecti, ut in eodem
exemplo apparet. Totum enim hoc, citharoedus bonus, non propter aliud convenit
homini; et tamen non infert, ut dictum est, divisionem. Superest ergo ut ad
partem coniuncti respectu subiecti referatur, et sit sensus: quando aliqua
coniunctim prædicata, secundum se, idest, non per aliud, prædicantur, idest,
quod utraque pars prædicatur de subiecto non propter alteram, sed propter
seipsam et subiectum, tunc ex coniuncto infertur divisa prædicatio. In order to make this second
condition clear, it should be noted that "per se” can be taken in two
ways: positively, and thus it refers to "perseity” of the first, of the
second, and of the fourth mode universally; or negatively, and thus it means
the same as not through something else. It should also be noted that when
Aristotle says of a conjoined predicate that it is predicated "per se,” the
"per se” can be referred to three things: to the parts of the conjunction
among themselves, to the whole conjunction with respect to the subject, and to
the parts of the conjoined predicate with respect to the subject. Now if
"per se” is taken positively, although it will not be false, nevertheless
in reference to any of these three the meaning will be found to be foreign to
the mind of Aristotle. For, although these are valid: "He is a risible
man, therefore he is man and he is risible” and "He is a rational animal,
therefore he is animal and he is rational,” nevertheless the opposite kind of
predication infers consequences in a similar way. For example, there is no 11
perseity” in "He is a white musician, therefore he is white and he is a
musician”; rather, there is an accidental conjunction, not only between the
parts among themselves and between the whole and the subject, but even between
the parts and the subject. It is evident, therefore, that Aristotle is not
taking "per se” positively, for an addition that does not differentiate
this kind of predication from the opposed kind of predication would be useless.
Why add "per se and not accidentally,” if both those that are per se in
the way explained and those that are conjoined accidentally infer divisively?
If "per se” is taken negatively, i.e., as not through another, and is
referred to the parts of the conjoined predicate among themselves, the rule is
found to be false. It is not licit, for example, to say, "He is a good
lute player, therefore he is good and a lute player”; yet the art of
lute-playing and its goodness are conjoined without anything as a medium. And
the case is the same if it is referred to the whole conjoined predicate with
respect to the subject, as is clear in the same example, for the whole,
"good lute player,” does not belong to man on account of another, and yet
it does not infer the division, as has already been said. Therefore, "per
se” is referred to the parts of the conjoined predicate with respect to the
subject and the meaning is: when the predicates are conjointly predicated per
se, i.e., not through another, i.e., each part is predicated of the subject,
not on account of another but on account of itself and the subject, then a
divided predication is inferred from the conjoined predication. 10 Et hoc modo exponunt Averroes
et Boethius; et vera invenitur regula, ut inductive facile manifestari potest,
et ratio ipsa suadet. Si enim partes alicuius coniuncti prædicati ita inhærent
subiecto quod neutra propter alteram insit, earum separatio nihil habet quod
veritatem impediat divisarum. Est et verbis Aristotelis consonus sensus iste.
Quoniam et per hoc distinguit inter enunciationes ex quibus coniunctum infert
divisam prædicationem, et eas quibus hæc non inest consequentia. Istæ siquidem
ultra habentes oppositiones in adiecto, sunt habentes prædicatum coniunctum,
cuius una partium alterius est ita determinatio, quod nonnisi per illam
subiectum respicit, sicut apparet in exemplo ab Aristotele adducto, Homerus est
poeta. Est siquidem ibi non respicit Homerum ratione ipsius Homeri, sed præcise
ratione poesis relictæ; et ideo non licet inferre, ergo Homerus est. Et simile
est in negativis. Si quis enim dicat, Socrates non est paries, non licet
inferre, ergo Socrates non est, eadem ratione, quia esse non est negatum de
Socrate, sed de pariete in Socrate. This is the way in which Averroes and Boethius explain
this and, explained in this way, a true rule is found, as can easily be
manifested inductively; moreover, the reasoning is compelling. For, if the
parts of some conjoined predicate so inhere in the subject that neither is in
it on account of another, their separation produces nothing that could impede
the truth of the divided predicates. And this meaning is consonant with the
words of Aristotle, for by this he also distinguishes between enunciations in
which the conjoined predicate infers a divided predicate, and those in which
this consequence is not inherent. For besides the predicates having opposition
in the additional determining element, there are those with a conjoined
predicate wherein one part is a determination of the other in such a way that
only through it does it regard the subject, as is evident in Aristotle’s
example, "Homer is a poet.” The "is” does not regard Homer by reason
of Homer himself, but precisely by reason of the poetry he left. Hence it is
not licit to infer, "Therefore Homer is.” The same is true with respect to
negative enunciations of this type, for it is not licit to infer from
"Socrates is not a wall,” "Therefore Socrates is not.” And the reason
is the same: "to be” is not denied of Socrates, but of "wallness” in
Socrates. 11 Et per hoc patet qualiter sit intelligenda ratio in textu
superiore adducta. Accipitur enim ibi, secundum se negative, modo hic exposito,
et secundum accidens, idest propter aliud. In eadem ergo significatione est
usus ly secundum accidens, solvendo hanc et præcedentem quæstionem: utrobique
enim intellexit secundum accidens, idest, propter aliud, coniuncta, sed ad
diversa retulit. Ibi namque ly secundum accidens determinabat coniunctionem
duorum prædicatorum inter se; hic vero determinat partem coniuncti prædicati in
ordine ad subiectum. Unde ibi, album et musicum, inter ea quæ secundum accidens
sunt, numerabantur; hic autem non. Accordingly, it is evident how the reasoning
in the text above is to be understood. "Per se” is taken negatively in the
way explained here, and "accidentally” as "on account of another.”
The "accidentally” is used with the same signification in solving this and
the preceding question. In both he understands "accidentally” to mean
conjoined on account of another, but it is referred to diverse things. In the
preceding question "accidentally” determines the way in which two
predicates are conjoined among themselves; in the latter question it determines
the way in which the part of the conjoined predicate is ordered to the subject.
Hence, in the former, "white” and "musician” are numbered among the
things that are accidental, but in the latter they are not. 12 Sed occurrit
circa hanc expositionem dubitatio non parva. Si enim ideo non licet ex
coniuncto inferre divisim, quia altera pars coniuncti non respicit subiectum
propter se, sed propter alteram partem (ut dixit Aristoteles de ista
enunciatione, Homerus est poeta), sequetur quod numquam a tertio adiacente ad
secundum erit bona consequentia: quia in omni enunciatione de tertio adiacente,
est respicit subiectum propter prædicatum et non propter se et cetera. This
exposition seems a bit dubious, however. For if it is not licit to infer
divisively from a conjoined predicate because one part of the conjoined
predicate does not regard the subject on account of itself but on account of
another part (as Aristotle says of the enunciation, "Homer is a poet”), it
will follow that there will never be a good consequence from the third
determinant to the second, since in every enunciation with a third determinant,
"is” regards the subject on account of the predicate and not on account of
itself. 13 Ad huius difficultatis evidentiam, nota primo hanc distinctionem.
Aliud est tractare regulam, quando ex tertio adiacente infertur secundum et
quando non, et aliud quando ex coniuncto fit illatio divisa et quando non. Illa
siquidem est extra propositum, istam autem venamur. Illa compatitur varietatem
terminorum, ista non. Si namque unus terminorum, qui est altera pars coniuncti,
secundum significationem seu suppositionem varietur in separatione, non
infertur ex coniuncto prædicato illudmet divisim, sed aliud. Nota secundo hanc
propositionem: cum ex tertio adiacente infertur secundum, non servatur
identitas terminorum. Liquet ista quoad illum terminum, est. Dictum siquidem
fuit supra a sancto Thoma, quod aliud importat est secundum adiacens, et aliud
est tertium adiacens. Illud namque importat actum essendi simpliciter, hoc
autem habitudinem inhærentiæ vel identitatis prædicati ad subiectum. Fit ergo
varietas unius termini cum ex tertio adiacente infertur secundum, et
consequenter non fit illatio divisi ex coniuncto. Unde prælucet responsio ad
obiectionem, quod, licet ex tertio adiacente quandoque possit inferri secundum,
numquam tamen ex tertio adiacente licet inferri secundum tamquam ex coniuncto
divisum, quia inferri non potest divisim, cuius altera pars ipsa divisione
perit. Negetur ergo consequentia obiectionis et ad probationem dicatur quod,
optime concludit quod talis illatio est illicita infra limites illationum, quæ
ex coniuncto divisionem inducunt, de quibus hic Aristoteles loquitur. To make
this difficulty clear, we must first note a distinction. It is one thing to
treat of the rule when inferring a second determinant from a third determinant,
and when not; it is quite another thing when a divided inference is made from a
conjoined predicate, and when not. The former is an additional point; the latter
is the question we have been inquiring about. The former is compatible with
variety of the terms, the latter not. For if one of the terms which is one part
of a conjoined predicate will be varied according to signification, or
supposition when taken separately, it is not inferred divisively from the
conjoined predicate, but the other is. Secondly, note this proposition: when a
second determinant is inferred from a third, identity of the terms is not kept.
This is evident with respect to the term "is.” Indeed, St. Thomas said
above that "is” as the second determinant implies one thing and "is”
as the third determinant another. The former implies the act of being simply,
the latter implies the relationship of inherence, or identity of the predicate
with the subject. Therefore, when the second determinant is inferred from the
third, one term is varied and consequently an inference is not made of the
divided from the conjoined. Accordingly, the response to the objection is
clear, for although the second determinant can sometimes be inferred from the
third, it is never licit for the second to be inferred from the third as
divided from conjoined, because you cannot infer divisively when one part is
destroyed by that very division. Therefore, let the consequence of the
objection be denied and for proof let it be said that the conclusion that such
an inference is illicit under the limits of inferences which induce division
from a conjoined predicate-is good, for this is what Aristotle is speaking of
here. 14 Sed contra hoc instatur. Quia etiam tanquam ex coniuncto divisa fit
illatio, Socrates est albus, ergo est, per locum a parte in modo ad suum totum,
ubi non fit varietas terminorum. Et ad hoc dicitur quod licet homo albus sit
pars in modo hominis (quia nihil minuit de hominis ratione albedo, sed ponit
hominem simpliciter), tamen est album non est pars in modo ipsius est, eo quod
pars in modo est universale cum conditione non minuente, ponente illud
simpliciter. Clarum est autem
quod album minuit rationem ipsius est, et non ponit ipsum simpliciter:
contrahit enim ad esse secundum quid. Unde apud philosophos, cum fit aliquid album, non
dicitur generari, sed generari secundum quid. But the objection is raised
against this that in the case of "Socrates is white, therefore be is,” a
divided inference can be made as from a conjoined predicate, in virtue of the
argument that we can go from what is in the mode of part to its whole as long
as the terms remain the same. The answer to this is as follows. It is true that
white man is a part in the mode of man (because white diminishes nothing of the
notion of man but posits man simply); is white, however, is not a part in the
mode of is, because a part in the mode of its whole is a universal, the
condition not diminishing the positing of it simply. But it is evident that
white diminishes the notion of is, and does not posit it simply, for it
contracts it to relative being. Whence when something becomes white,
philosophers do not say that it is generated, but generated relatively. 15 Sed
instatur adhuc quia secundum hoc, dicendo, est animal, ergo est, fit illatio
divisa per eumdem locum. Animal enim non minuit rationem ipsius est. Ad hoc est
dicendum quod ly est, si dicat veritatem propositionis, manifeste peccatur a
secundum quid ad simpliciter. Si autem dicat actum essendi, illatio est bona,
sed non est de tertio, sed de secundo adiacente. In accordance with this, the
objection is raised that in saying "It is an animal, therefore it is,” a
divided inference is made in virtue of the same argument; for animal does not
diminish the notion of is itself. The answer to this is that if the is asserts
the truth of a proposition, the fallacy is committed of going from the relative
to the absolute; if the is asserts the act of being, the inference is good, but
it is of the second determinant, not of the third. 16 Potest ulterius dubitari
circa principale: quia sequitur, est quantum coloratum, ergo est quantum, et,
est coloratum; et tamen coloratum respicit subiectum mediante quantitate: ergo
non videtur recta expositio supra adducta. Ad hoc et similia dicendum est quod
coloratum non ita inest subiecto per quantitatem quod sit eius determinatio et
ratione talis determinationis subiectum denominet, sicut bonitas artem
citharisticam determinat; cum dicitur, est citharoedus bonus; sed potius
subiectum ipsum primo coloratum denominatur, quantum vero secundario coloratum
dicitur, licet color media quantitate suscipiatur. Unde notanter supra diximus,
quod tunc altera pars coniuncti prædicatur per accidens, quando præcise
denominat subiectum, quia denominat alteram partem. Quod nec in similibus
instantiis invenitur. There is another doubt, this time about the principle in
the exposition; for this follows, "It is a colored quantity, therefore it
is a quantity and it is colored”; but "colored” regards the subject
through the medium of quantity; therefore the exposition given above does not
seem to be correct. The answer to this and to similar objections is that
"colored” is not so present in a subject by means of quantity that it is
its determination, and by reason of such a determination denominates the
subject; as goodness,” for instance, determines the art of lute-playing when we
say "He is a good lute player.” Rather, the subject itself is first
denominated "colored” and quantity is called "colored” secondarily,
although color is received through the medium of quantity. Hence, we made a
point of saying earlier that one part of a conjoined predicate is predicated
accidentally when it denominates the subject precisely because it denominates
the other part.93 This is not the case here nor in similar instances. 17 Deinde cum dicit: quod autem
non est etc., excludit quorumdam errorem qui, quod non est, esse tali
syllogismo concludere satagebant: quod est, opinabile est. Quod non est, est
opinabile. Ergo quod non est, est. Hunc siquidem processum elidit Aristoteles
destruendo primam propositionem, quæ partem coniuncti in subiecto divisim
prædicat, ac si diceret: est opinabile, ergo est. Unde assumendo subiectum
conclusionis illorum ait: quod autem non est; et addit medium eorum, quoniam
opinabile est; et subdit maiorem extremitatem, non est verum dicere, esse
aliquid. Et causam assignat, quia talis opinatio non propterea est, quia illud
sit, sed potius quia non est. When he says, In the case of non-being, however, it is not true to say
that it is something, etc., he excludes the error of those who were satisfied
to conclude that what is not, is. This is the syllogism they use: "That
which is, is ‘opinionable’; that which is not, is ‘opinionable’; therefore what
is not, is.” Aristotle destroys this process of reasoning by destroying the
first proposition, which predicates divisively a part of what is conjoined in
the subject, as if it said "It is ‘opinionable,’ therefore it is.” Hence,
assuming the subject of their conclusion, he says, In the case of that which is
not, however; and he adds their middle term, because it is a matter of opinion;
then he adds the major extreme, it is not true to say that it is something. He
then assigns the cause: it is not because it is but rather because it is not,
that there is such opinion. VIII. 1 Postquam determinatum est de
enunciationibus, quarum partibus aliud additur tam remanente quam variata
unitate, hic intendit declarare quid accidat enunciationi, ex eo quod aliquid
additur, non suis partibus, sed compositioni eius. Et circa hoc duo facit:
primo, determinat de oppositione earum; secundo, de consequentiis; ibi:
consequentiæ vero et cetera. Circa primum duo facit: primo, proponit quod
intendit; secundo, exequitur; ibi: nam si eorum et cetera. Proponit ergo quod iam
perspiciendum est, quomodo se habeant affirmationes et negationes enunciationum
de possibili et non possibili et cetera. Et causam subdit: habent enim multas
dubitationes speciales. Sed antequam ulterius procedatur, quoniam de enunciationibus,
quæ modales vocantur, sermo inchoatur, prælibandum est esse quasdam modales
enunciationes, et qui et quot sunt modi reddentes propositiones modales; et
quid earum sit subiectum et quid prædicatum; et quid sit ipsa enunciatio
modalis; quisque sit ordo earum ad præcedentes; et quæ necessitas sit specialem
faciendi tractatum de his. Now that he has treated enunciations in which something added to the
parts leaves the unity intact on the one hand, and varies it on the other,
Aristotle begins to explain what happens to the enunciation when something is
added, not to its parts, but to its composition. First, he explains their
opposition; secondly, he treats of the consequences of their opposition where
he says, Logical sequences result from modals ordered thus, etc. With respect
to the first point, he proposes the question he intends to consider and then
begins his consideration where he says, Let us grant that of mutually related
enunciations, contradictories are those opposed to each other, etc. He proposes
that we must now investigate the way in which affirmations and negations of the
possible and not possible are related. He gives the reason when he adds, for
the question has many special difficulties. However, before we proceed with the
consideration of enunciations that are called modal, we must first see that
there are such things as modal enunciations, and which and how many modes
render propositions modal; we must also know what their subject is and their
predicate, what the modal enunciation itself is, what the order is between
modal enunciations and the enunciations already treated, and finally, why a
special treatment of them is necessary. 2 Quia ergo possumus dupliciter de rebus
loqui; uno modo, componendo rem unam cum alia, alio modo, compositionem factam
declarando qualis sit, insurgunt duo enunciationum genera; quædam scilicet
enunciantes aliquid inesse vel non inesse alteri, et hæ vocantur de inesse, de
quibus superius habitus est sermo; quædam vero enunciantes modum compositionis
prædicati cum subiecto, et hæ vocantur modales, a principaliori parte sua, modo
scilicet. Cum enim dicitur, Socratem currere est possibile, non enunciatur
cursus de Socrate, sed qualis sit compositio cursus cum Socrate, scilicet
possibilis. Signanter autem dixi
modum compositionis, quoniam modus in enunciatione positus duplex est. Quidam
enim determinat verbum, vel ratione significati ipsius verbi ut Socrates currit
velociter, vel ratione temporis consignificati, ut Socrates currit hodie; quidam
autem determinat compositionem ipsam prædicati cum subiecto; sicut cum dicitur,
Socratem currere est possibile. In illis namque determinatur qualis cursus
insit Socrati, vel quando; in hac autem, qualis sit coniunctio cursus cum
Socrate. Modi ergo non illi qui rem verbi, sed qui compositionem determinant,
modales enunciationes reddunt, eo quod compositio veluti forma totius totam
enunciationem continet. We can speak
about things in two ways: in one, composing one thing with another; in the
other, declaring the kind of composition that exists between the two things. To
signify these two ways of speaking about things we form two kinds of
enunciations. One kind enunciates that something belongs or does not belong to
something. These are called absolute [de inesse] enunciations; these we have
already discussed. The other enunciates the mode of composition of the
predicate with the subject. These are called modal, from their principal part,
the mode. For when we say, "That Socrates run is possible,” it is not the
running of Socrates that is enunciated but the kind of composition there is
between running and Socrates-in this case, possible. I have said "mode of
composition” expressly, for there are two kinds of mode posited in the
enunciation. One modifies the verb, either with respect to what it signifies,
as in "Socrates runs swiftly,” or with respect to the time signified along
with the verb, as in "Socrates runs today.” The other kind modifies the
very composition of the predicate with the subject, as in the example,
"That Socrates run is possible.” The former determines how or when running
is in Socrates; the latter determines the kind of conjunction there is between
running and Socrates. The former, which affects the actuality of the verb, does
not make a modal enunciation. Only the modes that affect the composition make a
modal enunciation, the reason being that the composition, as the form of the
whole, contains the whole enunciation. 3 Sunt autem huiusmodi modi quatuor
proprie loquendo, scilicet possibile et impossibile, necessarium et contingens.
Verum namque et falsum, licet supra compositionem cadant cum dicitur, Socratem
currere est verum, vel hominem esse quadrupedem est falsum, attamen modificare
proprie non videntur compositionem ipsam. Quia modificari proprie dicitur aliquid, quando
redditur aliquale, non quando fit secundum suam substantiam. Compositio autem
quando dicitur vera, non aliqualis proponitur, sed quod est: nihil enim aliud
est dicere, Socratem currere est verum, quam quod compositio cursus cum Socrate
est. Et similiter quando
est falsa, nihil aliud dicitur, quam quod non est: nam nihil aliud est dicere,
Socratem currere est falsum, quam quod compositio cursus cum Socrate non est.
Quando vero compositio dicitur possibilis aut contingens, iam non ipsam esse,
sed ipsam aliqualem esse dicimus: cum siquidem dicitur, Socratem currere est
possibile, non substantificamus compositionem cursus cum Socrate, sed
qualificamus, asserentes illam esse possibilem. Unde Aristoteles hic modos
proponens, veri et falsi nullo modo meminit, licet infra verum et non verum
inferat, propter causam ibi assignandam. This kind of mode, properly speaking, is fourfold:
possible, impossible, necessary, and contingent. True and false are not
included because, strictly speaking, they do not seem to modify the composition
even though they fall upon the composition itself, as is evident in "That
Socrates runs is true,” and "That man is four-footed is false.” For
something is said to be modified in the proper sense of the term when it is
caused to be in a certain way, not when it comes to be according to its
substance. Now, when a composition is said to be true it is not proposed that
it is in a certain way, but that it is. To say, "That Socrates runs is
true,” for example, is to say that the composition of running with Socrates is.
The case is similar when it is false, for what is said is that it is not; for
example, to say, "That Socrates runs is false” is to say that the composition
of running with Socrates is not. On the other hand, when the composition is
said to be possible or contingent, we are not saying that it is but that it is
in a certain way. For example, when we say, "That Socrates run is
possible,” we do not make the composition of running with Socrates substantial,
but we qualify it, asserting that it is possible. Consequently, Aristotle in
proposing the modes, does not mention the true and false at all, although later
on he infers the true and the not true, and assigns the reason for it where he
does this. 4 Et quia enunciatio
modalis duas in se continet compositiones, alteram inter partes dicti, alteram
inter dictum et modum, intelligendum est eam compositionem modificari, idest,
quæ est inter partes dicti, non eam quæ est inter modum et dictum. Quod sic
perpendi potest. Huius enunciationis modalis, Socratem esse album est
possibile, duæ sunt partes; altera est, Socratem esse album, altera est,
possibile. Prima dictum vocatur, eo quod est id quod dicitur per eius indicativam,
scilicet, Socrates est albus: qui enim profert hanc, Socrates est albus, nihil
aliud dicit nisi Socratem esse album: secunda vocatur modus, eo quod modi
adiectio est. Prima compositionem quandam in se continet ex Socrate et albo;
secunda pars primæ opposita compositionem aliquam sonat ex dicti compositione
et modo. Prima rursus pars, licet omnia habeat propria, subiectum scilicet, et
prædicatum, copulam et compositionem, tota tamen subiectum est modalis
enunciationis; secunda autem est prædicatum. Dicti ergo compositio subiicitur
et modificatur in enunciatione modali. Qui enim dicit, Socratem esse album est
possibile, non significat qualis est coniunctio possibilitatis cum hoc dicto,
Socratem esse album, sed insinuat qualis sit compositio partium dicti inter se,
scilicet albi cum Socrate, scilicet quod est compositio possibilis. Non dicit igitur enunciatio modalis aliquid inesse,
vel non inesse, sed dicti potius modum enunciat. Nec proprie componit secundum
significatum, quia compositionis non est compositio, sed rerum compositioni
modum apponit. Unde nihil aliud est enunciatio modalis, quam enunciatio dicti
modificativa. Since the modal
enunciation contains two compositions, one between the parts of what is said,
the other between what is said and the mode, it must be understood that it is
the former composition that is modified, i.e., the composition between the
parts of what is said, not the composition between what is said and the mode.
This can be seen in an example. In the modal enunciation, "That Socrates
be white is possible,” there are two parts: one, "That Socrates be white,”
the other, "is possible.” The first is called the dictum because it is
that which is asserted by the indicative, namely, "Socrates is white”; for
in saying "Socrates is white” we are simply saying, "That Socrates be
white.” The second part is called the mode because it is the addition of a
restriction. The first part of the modal enunciation consists of a certain
composition of Socrates and white; the second part, opposed to the first, 4
indicates a composition from the composition of dictum and mode. Again, the
first part, although it has all the properties of an enunciation—subject,
predicate, copula, and composition—is, in its entirety, the subject of the
modal enunciation; the second part, the mode, is the predicate. In a modal
enunciation, therefore, the composition of the dictum is subjected and
modified; for when we say, "That Socrates be white is possible,” it does
not signify the kind of conjunction of possibility there is with the dictum
"That Socrates be white,” but it implies the kind of composition there is
of the parts of the dictum among themselves, i.e., of white with Socrates,
namely, that it is a possible composition. The modal enunciation, therefore,
does not say that something is present in or not present in a subject, but
rather, it enunciates a mode of the dictum. Nor properly speaking does it
compose according to what is signified, since it is not a composition of the
composition; rather, it adds a mode to the composition of the things. Hence the
modal enunciation is simply an enunciation in which the dictum is modified. 5 Nec propterea censenda est
enunciatio plures modalis, quia omnia duplicata habeat: quoniam unum modum de
unica compositione enunciat, licet illius compositionis plures sint partes.
Plura enim illa ad dicti compositionem concurrentia, veluti plura ex quibus fit
unum subiectum concurrunt, de quibus dictum est supra quod enunciationis
unitatem non impediunt. Sicut nec cum dicitur, domus est alba, est enunciatio
multiplex, licet domus ex multis consurgat partibus. Because the modal enunciation
has everything duplicated, it must not on that account be thought to be many.
It enunciates one mode of only one composition, although there are many parts
of that composition. The many concurring for the composition of the dictum are
like the many that concur to make one subject, of which it was said above that
it does not impede the unity of the enunciation.” The enunciation, "The
house is white,” is also a case in point, for it is not multiple, although a
house is built of many parts. 6 Merito autem est, post enunciationes de inesse, de
modalibus tractandum, quia partes naturaliter sunt toto priores, et cognitio
totius ex partium cognitione dependet; et specialis sermo de his est habendus,
quia proprias habet difficultates. Notavit quoque Aristoteles in textu multa.
Horum ordinem scilicet, cum dixit: his vero determinatis etc.; modos qui et
quot sunt, cum eos expressit et inseruit; variationem eiusdem modi, per
affirmationem et negationem, cum dixit: possibile et non possibile, contingens
et non contingens; necessitatem cum addidit: habent enim multas dubitationes
proprias et cetera. Modal
enunciations are rightly treated after the absolute enunciation, for parts are
naturally prior to the whole, and knowledge of the whole depends on knowledge
of the parts. Moreover, a special discussion of them was necessary because the
modal enunciation has its own peculiar difficulties. Aristotle indicates in his
text many of the things we have taken up here: the order of modal enunciations,
when he says, Having determined these things, etc.; what and how many modes
there are when he expresses and lists them, the variation of the same mode by
affirmation and negation when he says, the possible and not possible,
contingent and not contingent; the necessity of treating them, when he adds,
for they have many difficulties of their own. 7 Deinde cum dicit: nam si eorum
etc., exequitur tractatum de oppositione modalium. Et circa hoc duo facit:
primo, movendo quæstionem arguit ad partes; secundo, determinat veritatem; ibi:
contingit autem et cetera. Est autem dubitatio: an in enunciationibus modalibus
fiat contradictio negatione apposita ad verbum dicti, quod dicit rem; an non,
sed potius negatione apposita ad modum qui qualificat. Et primo, arguit ad
partem affirmativam, quod scilicet addenda sit negatio ad verbum; secundo, ad
partem negativam, quod non apponenda sit negatio ipsi verbo; ibi: videtur autem
et cetera. Then he investigates the opposition of modal enunciations, where he
says, Let us grant that of those things that are combined, contradictories are
those opposed to each other by being related in a certain way according to
"to be” and "not to be,” etc. First, he presents the question and in
so doing gives arguments for the parts; secondly, he determines the truth,
where he says, For it follows from what we have said, either that the same
thing is asserted and denied at once of the same subject, etc. The question
with respect to the opposition of modals is this: Is a contradiction made in modal
enunciations by a negation added to the verb of the dictum, which expresses
what is; or is it not, but rather by a negation added to the mode which
qualifies? Aristotle first argues for the affirmative part, that the negation
must be added to the verb; then he argues for the negative part, that the
negation must not be added to the verb, where he says, However it seems that
the same thing is possible to be and possible not to be, etc. 8 Intendit ergo
primo tale argumentum; si complexorum contradictiones attenduntur penes esse et
non esse (ut patet inductive in enunciationibus substantivis de secundo
adiacente et de tertio, et in adiectivis), contradictionesque omnium hoc modo
sumendæ sunt, contradictoria huius, possibile esse, erit, possibile non esse,
et non illa, non possibile esse. Et
consequenter apponenda est negatio verbo, ad sumendam oppositionem in
modalibus. Patet consequentia, quia cum dicitur, possibile esse, et, possibile
non esse, negatio cadit supra esse. Unde dicit: nam si eorum, quæ
complectuntur, idest complexorum, illæ sibi invicem sunt oppositæ
contradictiones, quæ secundum esse vel non esse disponuntur, idest in quarum
una affirmatur esse, et in altera negatur. His first argument is this. If of combined things,
contradictions are those related according to "to be” and "not to be”
(as is clear inductively in substantive enunciations with a second determinant,
in those with a third determinant, and in adjectival enunciations) and all
contradictions must be obtained in this way, the contradictory of "possible
to be” will be "possible not to be,” and not, "not possible to be.”
Consequently, the negation must be added to the verb to get opposition in modal
enunciations. The consequence is clear, for when we say "possible to be”
and possible not to be” the negation falls on "to be.” Accordingly, he
says, Let us grant that of those things that are combined, i.e., of complex
things, contradictions are those opposed to each other which are disposed
according to "to be” and "not to be,” i.e., in one of which "to be”
is affirmed and in the other denied. Et subdit inductionem, inchoans a secundo
adiacente: ut, eius enunciationis quæ est, esse hominem, idest, homo est,
negatio est, non esse hominem, ubi verbum negatur, idest, homo non est; et non
est eius negatio ea quæ est, esse non hominem, idest, non homo est: hæc enim
non est negativa, sed affirmativa de subiecto infinito, quæ simul est vera cum
illa prima, scilicet, homo est. He goes on to give an induction, beginning with
an enunciation having a second determinant. The negation of "Man is,” is,
"Man is not,” in which the verb is negated. The negation of "Man is,”
is not, "Non-man is,” for this is not the negative but the affirmative of
the infinite subject, which is true at the same time as the first enunciation,
"Man is.” V. lib. 2 l. 8 n. 10Deinde prosequitur inductionem in
substantivis de tertio adiacente: ut, eius quæ est, esse album hominem idest,
ut illius enunciationis, homo est albus, negatio est, non esse album hominem,
ubi verbum negatur, idest, homo non est albus; et non est negatio illius ea,
quæ est, esse non album hominem, idest, homo est non albus. Hæc enim non est negativa, sed affirmativa de
prædicato infinito. Et quia istæ duæ affirmativæ de prædicato finito et
infinito non possunt de eodem verificari, propterea quia sunt de prædicatis
oppositis, posset aliquis credere quod sint contradictoriæ; et ideo ad hunc
errorem tollendum interponit rationem probantem quod hæ duæ non sunt
contradictoriæ. Est autem ratio
talis. Contradictoriorum talis est natura quod de omnibus aut dictio, idest
affirmatio aut negatio verificatur. Inter contradictoria siquidem nullum potest
inveniri medium; sed hæ duæ enunciationes, scilicet, est homo albus, et, est
homo non albus, sunt contradictoriæ per se; ergo sunt talis naturæ quod de
omnibus altera verificatur. Et sic, cum de ligno sit falsum dicere, est homo
albus, erit verum dicere de eo, scilicet ligno, esse non album hominem, idest,
lignum est homo non albus. Quod est manifeste falsum: lignum enim neque est
homo albus, neque est homo non albus. Restat ergo ex quo utraque est simul
falsa de eodem, quod non sit inter eas contradictio. Sed contradictio fit quando
negatio apponitur verbo. He continues the induction with substantive
enunciations having a third determinant. The negation of the enunciation
"Man is white” is "Man is not white,” in which the verb is negated.
The negation is not "Man is nonwhite,” for this is not the negative, but
the affirmative of the infinite predicate. Now it might be thought that the
affirmatives of the finite and infinite predicates are contradictories since
they cannot be verified of the same thing because of their opposed predicates.
To obviate this error, Aristotle interposes an argument proving that these two
are not contradictories. The nature of contradictories, he reasons, is such
that either the assertion, i.e., the affirmation, or the negation, is verified
of anything, for between contradictories no middle is possible. Now the two
enunciations, that something "is white man” and "is nonwhite man” are
per se contradictories. Therefore, they are of such a nature that one of them
is verified of anything. For example, it is false to say "is white man” of
wood; hence "is nonwhite man” will be true to say of it, namely of wood,
i.e., "Wood is nonwhite man.” This is manifestly false, for wood is
neither white man nor nonwhite man. Consequently, there is not a contradiction
in the case in which each is at once false of the same subject. Therefore,
contradiction is effected when the negation is added to the verb. 11 Deinde
prosequitur inductionem in enunciationibus adiectivi verbi, dicens: quod si hoc
modo, scilicet supradicto, accipitur contradictio, et in quantiscunque
enunciationibus esse non ponitur explicite, idem faciet quoad oppositionem sumendam,
id quod pro esse dicitur (idest verbum adiectivum, quod locum ipsius esse
tenet, pro quanto, propter eius veritatem in se inclusam, copulæ officium
facit), ut eius enunciationis quæ est, homo ambulat, negatio est, non ea quæ
dicit, non homo ambulat (hæc enim est affirmativa de subiecto infinito), sed
negatio illius est, homo non ambulat; sicut et in illis de verbo substantivo,
negatio verbo addenda erat. Nihil enim differt dicere verbo adiectivo, homo ambulat,
vel substantivo, homo est ambulans. He continues his induction with enunciations having an
adjective verb: Now if the case is as we have stated it, i.e., contradiction is
taken as said above, then in enunciations in which "to be” is not the
determining word added (explicitly), that which is said in place of "to
be” will effect the same thing with respect to the opposition obtained (i.e.,
the adjective verb that occupies the place of "to be,” inasmuch as the
truth of "to be” is included in it, effects the function of the copula).
For example, the negation of the enunciation "Man walks” is not,
"Non-man walks” (for this is the affirmative of the infinite subject) but
"Man is not walking.” In this case, as in that of the substantive verb,
the negation must be added to the verb, for there is no difference between
using the adjective verb, as in "Man walks,” and using the substantive
verb, as in "Man is walking.” 12 Deinde ponit secundam partem inductionis
dicens: et si hoc modo in omnibus sumenda est contradictio, scilicet, apponendo
negationem ad esse, concluditur quod et eius enunciationis, quæ dicit,
possibile esse, negatio est, possibile non esse, et non illa quæ dicit, non
possibile esse. Patet conclusionis sequela: quia in illa,
possibile non esse, negatio apponitur verbo; in ista autem non. Dixit autem in
principio huius rationis: eorum quæ complectuntur, idest complexorum,
contradictiones fiunt secundum esse et non esse, ad differentiam incomplexorum
quorum oppositio non fit negatione dicente non esse, sed ipsi incomplexo
apposita, ut, homo, et, non homo, legit, et non legit. Then he posits the second
part of the induction: And if this is always the case, i.e., that contradiction
must be gotten by adding the negation to "to be,” we must conclude that
the negation of the enunciation that asserts "Possible to be” is
"possible not to be,” and not, "not possible to be.” The consequent
of the conclusion is evident, for in "possible not to be” the negation is
added to the verb, in "not possible to be,” it is not. At the beginning of
this argument, Aristotle said, Of those things that are combined, i.e., complex
things, the contradictions are effected according to "to be” and "not
to be.” He said this in reference to the difference between complex and
incomplex things, for opposition in the latter is not made by the negation
expressing "not to be,” but by adding the negative to the incomplex thing
itself, as in "man” and "non-man,” "reads” and "non-reads.”
V. lib. 2 l. 8 n. 13Deinde cum dicit: videtur autem idem etc., arguit ad
quæstionis partem negativam (scilicet quod ad sumendam contradictionem in
modalibus non addenda est negatio verbo), tali ratione. Impossibile est duas
contradictorias esse simul veras de eodem; sed supradictæ, scilicet, possibile
esse, et, possibile non esse, simul verificantur de eodem; ergo istæ non sunt
contradictoriæ: igitur contradictio modalium non attenditur penes verbi
negationem. Huius rationis primo ponitur in littera
minor cum sua probatione; secundo maior; tertio conclusio. Minor quidem cum dicit: videtur
autem idem possibile esse, et, non possibile esse. Sicut verbi gratia, omne
quod est possibile dividi est etiam possibile non dividi, et quod est possibile
ambulare est etiam possibile non ambulare. Ratio autem huius minoris est,
quoniam omne quod sic possibile est (sicut, scilicet, est possibile ambulare et
dividi), non semper actu est: non enim semper actualiter ambulat, qui ambulare
potest; nec semper actu dividitur, quod dividi potest. Quare inerit etiam negatio possibilis, idest, ergo
non solum possibilis est affirmatio, sed etiam negatio eiusdem. Adverte quod quia possibile est
multiplex, ut infra dicetur, ideo notanter Aristoteles addidit ly sic,
assumens, quod sic possibile est, non semper actu est. Non enim de omni
possibili verum est dicere quod non semper actu est, sed de aliquo, eo scilicet
quod est sic possibile, quemadmodum ambulare et dividi. Nota ulterius quod quia
tale possibile habet duas conditiones, scilicet quod potest actu esse et quod
non semper actu est, sequitur necessario quod de eo simul est verum dicere,
possibile esse, et, non esse. Ex eo enim quod potest actu esse, sequitur quod
sit possibile esse; ex eo vero quod non semper actu est, sequitur quod sit
possibile non esse. Quod enim non semper est, potest non esse. Bene ergo
intulit Aristoteles ex his duobus: quare inerit etiam negatio possibilis et non
solum affirmatio; potest igitur et non ambulare, quod est ambulabile, et non
videri, quod est visibile. Maior vero subiungitur, cum ait: at vero impossibile
est de eodem veras esse contradictiones. Infertur quoque ultimo conclusio: non
est igitur ista (scilicet, possibile non esse) negatio illius, quæ dicit,
possibile esse: quia sunt simul veræ de eodem. Caveto autem ne ex isto textu putes possibile, ut est
modus, debere semper accipi pro possibili ad utrumlibet: quoniam hoc infra
declarabitur esse falsum; sed considera quod satis fuit intendenti declarare
quod in modalibus non sumitur contradictio ex verbi negatione, afferre
instantiam in una modali, quæ continetur sub modalibus de possibili. When he says, However, it
seems that the same thing is possible to be and possible not to be, etc., he
argues for the negative part of the question, namely, to get a contradiction in
modals the negation should not be added to the verb. His reasoning is the
following: It is impossible for two contradictories to be true at once of the
same subject; but "possible to be” and "possible not to be” are
verified at once of the same thing; therefore, these are not contradictories.
Consequently, contradiction of the modals is not obtained by negation of the
verb. In this reasoning, the minor is posited first, with its proof; secondly,
the major; finally, the conclusion. The minor is: However, it seems that the
same thing is possible to be and possible not to be. For instance, everything
that has the possibility of being divided also has the possibility of not being
divided, and that which has the possibility of walking also has the possibility
of not walking. The proof of this minor is that everything that is possible in
this way (as are possible to walk and to be divided) is not always in act; for
he who is able to walk is not always actually walking, nor is that which can be
divided always divided. And so the negation of the possible will also be
inherent in it, i.e., therefore not only is the affirmation possible but also
the negation. Notice that since the possible is manifold, as will be said
further on, Aristotle explicitly adds "in this way” when he assumes here
that that which is possible is not always in act. For it is not true to say of
every possible that it is not always in act, but only of some, namely, those
that are possible in the way in which to walk and to be divided are possible.
Note also that "possible in this way” has two conditions: that it is able
to be in act, and that it is not always in act. It follows necessarily, then,
that it is true to say of it simultaneously that it is both possible to be and
possible not to be. From the fact that it can be in act it follows that it is
possible to be; from the fact that it is not always in act it follows that it
is possible not to be, for that which not always is, is able not to be.
Aristotle, then, rightly infers from these two: and so the negation of the
possible will also be inherent in it; and not just the affirmation, for that
which could walk could also not walk and that which could be seen not be seen.
The major is: But it is impossible that contradictions in respect to the same
thing be true. The final conclusion inferred is: Therefore, the negation of "possible
to be” is not, "possible not to be” because they are true at once of the
same thing. In relation to this part of the text, be careful not to suppose
that possible as it is a mode, is always to be taken for possible to either of
two alternatives, for this will be shown to be false later on. If you consider
the matter carefully you will see that it was enough for his intention to give
as an instance one modal contained under the modals of the possible in order to
show that contradiction in modals is not obtained by negation of the verb. 14 Deinde cum dicit: contingit
autem unum ex his etc., determinat veritatem huius dubitationis. Et quia duo
petebat, scilicet, an contradictio modalium ex negatione verbi fiat an non, et,
an potius ex negatione modi; ideo primo, determinat veritatem primæ petitionis,
quod scilicet contradictio harum non fit negatione verbi; secundo determinat
veritatem secundæ petitionis, quod scilicet fiat modalium contradictio ex
negatione modi; ibi: est ergo negatioet cetera. Dicit ergo quod propter
supradictas rationes evenit unum ex his duobus, quæ conclusimus determinare,
aut idem ipsum, idest, unum et idem dicere, idest affirmare et negare simul de
eodem: idest, aut quod duo contradictoria simul verificantur de eodem, ut prima
ratio conclusit; aut affirmationes vel negationes modalium, quæ opponuntur
contradictorie, fieri non secundum esse vel non esse, idest, aut contradictio
modalium non fiat ex negatione verbi, ut secunda ratio conclusit. Si ergo illud
est impossibile, scilicet quod duo contradictoria possunt simul esse vera de
eodem, hoc, scilicet quod contradictio modalium non fiat secundum verbi
negationem, erit magis eligendum. Impossibilia enim semper vitanda sunt. Ex
ipso autem modo loquendi innuit quod utrique earum aliquid obstat. Sed quia
primo obstat impossibilitas quæ acceptari non potest, secundo autem nihil aliud
obstat nisi quod negatio supra enunciationis copulam cadere debet, si negativa
fieri debet enunciatio, et hoc aliter fieri potest quam negando dicti verbum,
ut infra declarabitur; ideo hoc secundum, scilicet quod contradictio modalium
non fiat secundum negationem verbi, eligendum est: primum vero est omnino
abiiciendum. Aristotle
establishes the truth with respect to this difficulty where he says, For it
follows from what we have said, either that the same thing is asserted and
denied at once of the same subject, etc. Since he is investigating two things,
i.e., whether contradiction of modals is made by the negation of the verb or
not; and, whether it is not rather by negation of the mode, he first determines
the truth in relation to the first question, namely, that contradiction of
modals is not made by negation of the verb; then he determines the truth in
relation to the second, namely, that contradiction of modals is made by
negation of the mode, where he says, Therefore, the negation of "possible
to be” is "not possible to be,” etc. Hence he says that because of the
foresaid reasoning one of these two follows: first, that either the same thing,
i.e., one and the same thing is said, i.e., is asserted and denied at once of
the same subject, i.e., either two contradictories are verified at once of the
same thing, as the first argument concluded; or secondly, that assertions and
denials of modals, which are opposed contradictorily are not made by the
addition of "to be” or "not to be,” i.e., contradiction of modals is
not made by the negation of the verb, as the second argument concluded. If the
former alternative is impossible, namely, that two contradictories can be true
of the same thing at once, the latter, that contradiction of modals is not made
according to negation of the verb, must obtain, for impossible things must
always be avoided. His mode of speaking here indicates that there is some
obstacle to each alternative. But since in the first the obstacle is an
impossibility that cannot be accepted, while in the second the only obstacle is
that the negation must fall upon the copula of the enunciation if a negative
enunciation is to be formed, and this can be done otherwise than by denying the
verb of the dictum, as will be shown later on, then the second alternative must
be chosen, i.e., that the contradiction of modals is not made according to
negation of the verb, and the first alternative is to be rejected. IX. 1.
Determinat ubi ponenda sit negatio ad assumendam modalium contradictionem. Et
circa hoc quatuor facit: primo, determinat veritatem summarie; secundo,
assignat determinatæ veritatis rationem, quæ dicitur rationi ad oppositum
inductæ; ibi: fiunt enim etc.; tertio, explanat eamdem veritatem in omnibus
modalibus; ibi: eius veroetc.; quarto, universalem regulam concludit; ibi:
universaliter vero et cetera. Quia igitur negatio aut verbo aut modo apponenda
est, et quod verbo non addenda est, declaratum est per locum a divisione;
concludendo determinat: est ergo negatio eius quæ est possibile esse, ea quæ
est non possibile esse, in qua negatur modus. Et eadem est ratio in
enunciationibus de contingenti. Huius enim, quæ est, contingens esse, negatio
est, non contingens esse. Et in aliis, scilicet de necesse et impossibile idem
est iudicium. Aristotle now
determines where the negation must be placed in order to obtain contradiction
in modals. He first determines the truth summarily; secondly, he presents the
argument for the truth of the position, which is also the answer to the
reasoning induced for the opposite position, where he says, For just as
"to be” and "not to be” are the determining additions in the former,
and the things subjected are "white” and "man,” etc.; thirdly, he
makes this truth evident in all the modals, where he says, The negation, then,
of "possible not to be” is "not possible not to be,” etc.; fourthly,
he arrives at a universal rule where he says, And universally, as has been
said, "to be” and "not to be must be posited as the subject, etc.
Since the negation must be added either to the verb or to the mode and it was
shown above in virtue of an argument from division that it is not to be added
to the verb, he concludes: Therefore, the negation of "possible to be” is
"not possible to be”, that is, the mode is negated. The reasoning is the
same with respect to enunciations of the contingent, for the negation of
"contingent to be” is "not contingent to be.” And the judgment is the
same in the others, i.e., the necessary and the impossible. V. lib. 2 l. 9 n. 2Deinde cum
dicit: fiunt enim in illis appositiones etc., subdit huius veritatis rationem
talem. Ad sumendam contradictionem inter aliquas enunciationes oportet ponere
negationem super appositione, idest coniunctione prædicati cum subiecto; sed in
modalibus appositiones sunt modi; ergo in modalibus negatio apponenda est modo,
ut fiat contradictio. Huius rationis, maiore subintellecta, minor ponitur in
littera per secundam similitudinem ad illas de inesse. Et dicitur quod
quemadmodum in illis enunciationibus de inesse appositiones, idest
prædicationes, sunt esse et non esse, idest verba significativa esse vel non
esse (verbum enim semper est nota eorum quæ de altero prædicantur), subiective
vero appositionibus res sunt, quibus esse vel non esse apponitur, ut album, cum
dicitur, album est, vel homo, cum dicitur, homo est; eodem modo hoc in loco in
modalibus accidit: esse quidem subiectum fit, idest dictum significans esse vel
non esse subiecti locum tenet; contingere vero et posse oppositiones, idest
modi, prædicationes sunt. Et quemadmodum in illis de inesse penes esse et non
esse veritatem vel falsitatem determinavimus, ita in istis modalibus penes
modos. Hoc est enim quod subdit, determinantes, scilicet, fiunt ipsi modi
veritatem, quemadmodum in illis esse et non esse, eam determinat. When he says, For just as
"to be” and "not to be” are the determining additions in the former,
and the things subjected are "white” and "man,” etc., he gives the
argument for the truth of his position. To obtain contradiction among any
enunciations the negation must be applied to the determining addition, i.e., to
the word that joins the predicate with the subject; but in modals the
determining additions are the modes; therefore, to get a contradiction in
modals, the negation must be added to the mode. The major of the argument is
subsumed; the minor is stated in Aristotle’s wording by a further similitude to
absolute enunciations. In absolute enunciations the determining additions,
i.e., the predications, are "to be” and "not to be,” i.e., the verb
signifying "to be” or "not to be” (for the verb is always a sign of
those things that are predicated of another). The things subjected to the
determining additions, i.e., to which to be” and "not to be” are applied,
are "white,” in "White is, "or man,” in "Man is.” This
happens in modals in the same way but in a manner appropriate to them. "To
be” is as the subject, i.e., the dictum signifying "to be” or "not to
be” holds the place of the subject; "is possible” and "is
contingent,” i.e., the modes, are the predicates. And just as in absolute
enunciations we determine truth or falsity with "to be” and "not to
be,” so in modals with the modes. He makes this point when he says, determining
additions, i.e., these modes effect truth just as "to be” and "not to
be” determine truth and falsity in the others. 3. Et sic patet responsio ad
argumentum in oppositum primo adductum, concludens quod negatio verbo apponenda
sit, sicut illis de inesse. Dicitur enim quod cum modalis enunciet modum de
dicto sicut enunciatio de inesse, esse vel esse tale, puta esse album de
subiecto, eumdem locum tenet modus hic, quem ibi verbum; et consequenter super
idem proportionaliter cadit negatio hic et ibi. Eadem enim, ut dictum est,
proportio est modi ad dictum, quæ est verbi ad subiectum. Rursus cum veritas et
falsitas affirmationem et negationem sequantur, penes idem attendenda est
affirmatio vel negatio enunciationis, et veritas vel falsitas eiusdem; sicut autem
in enunciationibus de inesse veritas vel falsitas esse vel non esse
consequitur, ita in modalibus modum. Illa namque modalis est vera quæ sic
modificat dictum sicut dicti compositio patitur, sicut illa de inesse est vera,
quæ sic significat esse sicut est. Est ergo negatio modo hic apponenda, sicut
ibi verbo, cum sit eadem utriusque vis quoad veritatem et falsitatem
enunciationis. Adverte quod modos, appositiones, idest, prædicationes vocavit,
sicut esse in illis de inesse, intelligens per modum totum prædicatum
enunciationis modalis, puta, est possibile. In cuius signum modos ipsos
verbaliter protulit dicens: contingere vero et posse appositiones sunt.
Contingit enim et potest, totum prædicatum modalis continent. Thus the response to the
argument for the opposite position, which he gave first, is evident. That
argument concluded that the negation should be added to the verb as it is in
absolute enunciations. But since the modal enunciates a mode of a dictum—as the
absolute enunciation enunciates "to be” or "not to be” such, for
instance, "to be white” of a subject—the mode holds the same place here
that the verb does there. Consequently, the negation falls upon the same thing
proportionally here and there, for the proportion of mode to dictum is the same
as the proportion of verb to subject. Again, since truth and falsity follow
upon affirmation and negation, the affirmation and negation of an enunciation
and its truth and falsity must be controlled by the same thing. In absolute
enunciations truth and falsity follow upon "to be” or "not to be,”
hence in the modals they follow upon the mode; for that modal is true which
modifies the dictum as the composition of the dictum permits, just as that
absolute enunciation is true which signifies that something is as it is.
Therefore, negation is added here to the mode just as it is added there to the
verb, since the power of each is the same with respect to the truth and falsity
of an enunciation. Notice that he calls the modes "determining additions,”
i.e., predications—as "to be” is in absolute enunciations—understanding by
the mode the whole predicate of the modal enunciation, for example, "is
possible.” As a sign of this he expresses the modes themselves verbally when he
says, "is possible” and "is contingent” are determining additions.
For "is contingent” and "is possible” comprise the whole predicate of
the modal enunciation. V. lib. 2 l. 9 n. 4Deinde cum dicit: eius vero quod est
possibile est non esse etc., explanat determinatam veritatem in omnibus
modalibus, scilicet de possibili, et necessario, et impossibili. Contingens
convertitur cum possibili. Et quia quilibet modus facit duas modales
affirmativas, alteram habentem dictum affirmatum, et alteram habentem dictum
negatum; ideo explanat in singulis modis quæ cuiusque affirmationis negatio
sit. Et primo in illis de possibili. Et quia primæ affirmativæ de possibili
(quæ scilicet habet dictum affirmatum) scilicet possibile esse, negatio
assignata fuit, non possibile esse; ideo ad reliquam affirmativam de possibili
transiens ait: eius vero, quæ est possibile non esse (ubi dictum negatur)
negatio est non possibile non esse. Et hoc consequenter probat per hoc quod contradictoria
huius, possibile non esse, aut est, possibile esse, aut illa, quam diximus,
scilicet, non possibile non esse. Sed illa, scilicet, possibile esse, non est
eius contradictoria. Non enim sunt sibi invicem contradicentes, possibile esse,
et, possibile non esse, quia possunt simul esse veræ. Unde et sequi sese
invicem putabuntur: quoniam, ut supra dictum fuit, idem est, possibile esse,
et, non esse, et consequenter sicut ad, posse esse, sequitur, posse non esse,
ita e contra ad, posse non esse, sequitur, posse esse; sed contradictoria
illius, possibile esse, quæ non potest simul esse vera est, non possibile esse:
hæ enim, ut dictum est, opponuntur. Remanet
ergo quod huius negatio, possibile non esse, sit illa, non possibile non esse:
hæ namque simul nunquam sunt veræ vel falsæ. Dixit quod possibile esse et non
esse sequi se invicem putabuntur, et non dixit quod se invicem consequuntur:
quia secundum veritatem universaliter non sequuntur se, sed particulariter
tantum, ut infra dicetur; propter quod putabitur quod simpliciter se invicem
sequantur. Deinde declarat hoc idem in illis de necessario. Et primo, in
affirmativa habente dictum affirmatum, dicens: similiter eius quæ est,
necessarium esse, negatio non est ea, quæ dicit necessarium non esse, ubi modus
non negatur, sed ea quæ est, non necessarium esse. Deinde subdit de affirmativa
de necessario habente dictum negatum, et ait: eius vero, quæ est, necessarium
non esse, negatio est ea, quæ dicit, non necessarium non esse. Deinde transit
ad illas de impossibili, eumdem ordinem servans, et inquit: et eius, quæ dicit,
impossibile esse, negatio non est ea quæ dicit, impossibile non esse, sed, non
impossibile esse: ubi iam modus negatur. Alterius vero affirmativæ, quæ est,
impossibile non esse, negatio est ea quæ dicit non impossibile non esse. Et sic semper modo negatio
addenda est. When he says, The negation, then, of "possible not to be” is
[not, "not possible to be” but] "not possible not to be,” etc., he
makes this truth evident in all the modals, i.e., the possible, the necessary,
and the impossible (the contingent being convertible with the possible). And
since any mode makes two modal affirmatives, one having an affirmed dictum and
the other having a negated dictum, he shows what the negation of each
affirmation is in each mode. First he takes those of the possible. The negation
of the first affirmative of the possible (the one with an affirmed dictum),
i.e., "possible to be,” was assigned as "not possible to be.” Hence,
going on to the remaining affirmative of the possible he says, The negation,
then, of "possible not to be” [wherein the dictum is negated] is,
"not possible not to be.” Then he a proves this. The contradictory of
"possible not to be” is either "Possible to be” or "not possible
not to be.” But the former, i.e., "possible to be,” is not the contradictory
of "possible not to be,” for they can be at once true. Hence they are also
thought to follow upon each other, for, as was said above, the same thing is
possible to be and not to be. Consequently, just as "possible not to be”
follows upon "possible to be,” so conversely "possible to be” follows
upon "possible not to be.” But the contradictory of "possible to be,”
which cannot be true at the same time, is "not possible to be,” for these,
as has been said, are opposed. Therefore, the negation of "possible not to
be” is, "not possible not to be,” for these are never at once true or
false. Note that he says, Wherefore "possible to be” and "possible
not to be” would appear to be consequent to each other, and not that they do
follow upon each other, for it is not true that they follow upon each other
universally, but only particularly (as will be said later); this is the reason
they appear to follow upon each other simply. Then he manifests the same thing
in the modals of the necessary, and first in the affirmative with an affirmed
dictum: The case is the same with respect to the necessary. The negation of
"necessary to be” is not, "necessary not to be” (in which the mode is
not negated) but, "not necessary to be.” Next he adds the affirmative of
the necessary with a negated dictum: and the negation of "necessary not to
be is "not necessary not to be.” Next, he takes up the impossible, keeping
the same order. The negation of "impossible to be” is not,
"impossible not to be” but, "not impossible to be,” in which the mode
is negated. The negation of the other affirmative, "impossible not to be”
is "not impossible not to be.” The negation, therefore, is always added to
the mode. V. lib. 2 l. 9 n. 5Deinde cum dicit: universaliter vero etc.,
concludit regulam universalem dicens quod, quemadmodum dictum est, dicta
importantia esse et non esse oportet ponere in modalibus ut subiecta,
negationem vero et affirmationem hoc, idest contradictionis oppositionem,
facientem, oportet apponere tantummodo ad suum eumdem modum, non ad diversos
modos. Debet namque illemet
modus negari, qui prius affirmabatur, si contradictio esse debet. Et
exemplariter explanans quomodo hoc fiat, subdit: et oportet putare has esse
oppositas dictiones, idest affirmationes et negationes in modalibus, possibile
et non possibile, contingens et non contingens. Item cum dixit negationem alio
tantum modo ad modum apponi debere, non exclusit modi copulam, sed dictum. Hoc
enim est singulare in modalibus quod eamdem oppositionem facit, negatio modo
addita, et eius verbo. Contradictorie enim opponitur huic, possibile est esse,
non solum illa, non possibile est esse, sed ista, possibile non est esse;
meminit autem modi potius, et propter hoc quod nunc diximus, ut scilicet
insinuaret quod negatio verbo modi postposita, modo autem præposita, idem facit
ac si modali verbo præponeretur, et quia, cum modo numquam caret modalis
enunciatio, semper negatio supra modum poni potest. Non autem sic de eius
verbo: verbo enim modi carere contingit modalem, ut cum dicitur, Socrates
currit necessario; et ideo semper verbo negatio aptari potest. Quod autem in
fine addidit, verum et non verum, insinuat, præter quatuor prædictos modos,
alios inveniri, qui etiam compositionem enunciationis determinant, puta, verum
et non verum, falsum et non falsum: quos tamen inter modos supra non posuit,
quia, ut declaratum fuit, non proprie modificant. Then he says, And
universally, as has been said, "to be”and "not to be” must be posited
as the subject, and those that produce affirmation and negation must be joined
to "to be” and "not to be,” etc. Here he concludes with the universal
rule. As has been said, the dictums denoting "to be” and "not to be”
must be posited in the modals as subjects, and the one making this an
affirmation and negation, i.e., the opposition of contradiction, must be added
only to the selfsame mode, not to diverse modes, for the selfsame mode which
was previously affirmed must be denied if there is to be a contradiction. He
gives examples of how this is to be done when he adds, And these are the words
that are to be considered opposed, i.e., affirmations and negations in modals,
possible–not possible, contingent–not contingent. Moreover, when he said
elsewhere but in another way that the negation must be applied only to the
mode, he did not exclude the copula of the mode, but the copula of the dictum.
For it is unique to modals that the same opposition is made by adding a
negation to the mode and to its verb. The contradictory of "is possible to
be,” for instance, is not only "is not possible to be,” but also "not
is possible to be.” There are two reasons, however, for his mentioning the mode
rather than the verb: first, for the reason we have just given, namely, so as
to imply that the negation placed after the verb of the mode, the mode having
been put first, accomplishes the same thing as if it were placed before the
modal verb; and secondly, because the modal enunciation is never without a
mode; hence the negation can always be put on the mode. However, it cannot
always be put on the verb of a mode, for the modal enunciation may lack the
verb of a mode as for example in "Socrates runs necessarily,” in which
case the negation can always be adapted to the verb. In adding "true” and
"not true” at the end he implies that besides the four modes mentioned previously
there are others that also determine the composition of the enunciation, for
example, "true” and "not true,” "false” and "not false”;
nevertheless he did not posit these among the modes first given because, as was
shown, they do not properly modify. Postquam determinavit de oppositione
modalium, hic determinare intendit de consequentiis earum. Et circa hoc duo
facit: primo, tradit veritatem; secundo, movet quandam dubitationem circa
determinata; ibi: dubitabit autem et cetera. Circa primum duo facit: primo,
ponit consequentias earum secundum opinionem aliorum; secundo, examinando et
corrigendo dictam opinionem, determinat veritatem; ibi: ergo impossibile et
cetera. Having established the opposition of modals, Aristotle now intends to
determine their consequents. He first presents the true doctrine; then, he
raises a difficulty where he says, But it may be questioned whether
"Possible to be follows upon "necessary to be,” etc. In presenting
the true doctrine, he first posits the consequents of the opposition of modals
according to the opinion of others; secondly, he determines the truth by
examining and correcting their opinion, where he says, Now the impossible and
the not impossible follow contradictorily upon the contingent and the possible
and the not contingent and the not possible, but inversely, etc. 2 Quoad primum
considerandum est quod cum quilibet modus faciat duas affirmationes, ut dictum
fuit, et duabus affirmationibus opponantur duæ negationes, ut etiam dictum fuit
in primo; secundum quemlibet modum fient quatuor enunciationes, duæ scilicet
affirmativæ et duæ negativæ. Cum autem modi sint quatuor, efficientur sexdecim
modales: quaternarius enim in seipsum ductus sexdecim constituit. Et quoniam
apud omnes, quælibet cuiusque modi, undecumque incipias, habet unam tantum
cuiusque modi se consequentem, ideo ad assignandas consequentias modalium,
singulas ex singulis modis accipere oportet et ad consequentiæ ordinem inter se
adunare. Before we consider these consequents according to the opinion of
others, we must first note that since any mode makes two affirmations and there
are two negations opposed to these, there will be four enunciations according
to any one mode, two affirmatives and two negatives. And since there are four
modes, there will be sixteen modals. Among these sixteen, anyone of each mode,
from wherever you begin, has only one of each mode following upon it. Hence, to
assign the consequents of the modals, we have to take one from each mode and
arrange them among themselves to form an order of consequents. V. lib. 2 l. 10
n. 3Et hoc modo fecerunt antiqui, de quibus inquit Aristoteles: consequentiæ
vero fiunt secundum infrascriptum ordinem, antiquis ita ponentibus. Formaverunt
enim quatuor ordines modalium, in quorum quolibet omnes quæ se consequuntur collocaverunt.
Ut autem confusio vitetur, vocetur, cum
Averroe, de cætero, in quolibet modo, affirmativa de dicto, et modo,
affirmativa simplex; affirmativa autem de modo et negativa de dicto,
affirmativa declinata; negativa vero de modo et non dicto, negativa simplex;
negativa autem de utroque, negativa declinata: ita quod modi affirmationem vel
negationem simplicitas, dicti vero declinatio denominet. Dixerunt ergo antiqui
quod affirmationem simplicem de possibili, scilicet, possibile est esse,
sequitur affirmativa simplex de contingenti, scilicet, contingens est esse
(contingens enim convertitur cum possibili); et negativa simplex de
impossibili, scilicet, non impossibile esse; et similiter negativa simplex de
necessario, scilicet, non necesse est esse. Et hic est primus ordo modalium
consequentium se. In secundo autem dixerunt quod affirmativas declinatas de
possibili et contingenti, scilicet, possibile non esse, et, contingens non
esse, sequuntur negativæ declinatæ de necessario et impossibili, scilicet, non
necessarium non esse, et, non impossibile non esse. In tertio vero ordine
dixerunt quod negativas simplices de possibili et contingenti, scilicet, non
possibile esse, non contingens esse, sequuntur affirmativa declinata de
necessario, scilicet, necesse non esse, et affirmativa simplex de impossibili,
scilicet, impossibile esse. In quarto demum ordine dixerunt quod negativas
declinatas de possibili et contingenti, scilicet, non possibile non esse, et,
non contingens non esse, sequuntur affirmativa simplex de necessario, scilicet,
necesse esse, et affirmativa declinata de impossibili, scilicet, impossibile
est non esse. The modals were
ordered in this way by the ancients. They disposed them in four orders placing
together in each order those that were a consequent to each other. Aristotle
speaks of this order when he says, Logical consequents follow according to the
order in the table below, which is the way in which the ancients posited them.
Henceforth, however, to avoid confusion let us call the affirmative of dictum
and mode in any one mode, the simple affirmative, as it is by Averroes, among
others; affirmative of mode and negative of dictum, the declined affirmative;
negative of mode and not of dictum, the simple negative; negative of both mode
and dictum, the declined negative. Hence, simplicity of mode designates
affirmation or negation, and so, too, does declination of dictum. The ancients
said, then, that simple affirmation of the contingent, i.e., "contingent
to be” follows upon simple affirmation of the possible, i.e., "Possible to
be” (for the contingent is converted with the possible); the simple negative of
the impossible also follows upon this, i.e., "not impossible to be”; and
the simple negative of the necessary, i.e., "not necessary to be.” This is
the first order of modal consequents. In the second order they said that the
declined negatives of the necessary and impossible, i.e., "not necessary
not to be” and "not impossible not to be,” follow upon the declined affirmative
of the possible and the contingent, i.e., "possible not to be” and
"contingent not to be.” In the third order, according to them, the
declined affirmative of the necessary, i.e., "necessary not to be,” and
the simple affirmative of of the impossible, i.e., "impossible to be,”
follow upon the simple negatives of the possible and the contingent, i.e.,
"not possible to be” and not contingent to be.” Finally, in the fourth
order, the simple affirmative of the necessary, i.e., "necessary to be,” and
the declined affirmative of the impossible, i.e., "impossible not to be,”
follow upon the declined negatives of the possible and the contingent, i.e.,
"not possible not to be” and "not contingent not to be.” 4
Consideretur autem ex subscriptione appositæ figuræ, quemadmodum dicimus, ut
clarius elucescat depictum. Consequentiæ enunciationum modalium secundum
quatuor ordines ab antiquis positæ et ordinatæ. (Figura). To make this ordering
more evident, let us consider it with the help of the following table.
CONSEQUENTS OF MODAL ENUNCIATIONS IN THE FOUR ORDERS POSITED AND ORDERED BY THE
ANCIENTS FIRST ORDER It is possible to be It is contingent to be It is not
impossible to be It is not necessary to be SECOND ORDER It is possible not to
be It is contingent not to be It is not impossible not to be It is not
necessary not to be It is not possible to be It is not contingent to be It is
impossible to be It is necessary not to be FOURTH ORDER It is not possible not
to be It is not contingent not to be It is impossible not to be It is necessary
to be V. lib. 2 l. 10 n. 5Deinde cum dicit: ergo impossibile et non impossibile
etc., examinando dictam opinionem, determinat veritatem. Et circa hoc duo
facit: quia primo examinat consequentias earum de impossibili; secundo, illarum
de necessario; ibi: necessarium autem et cetera. Unde ex præmissa opinione
concludens et approbans, dicit: ergo istæ, scilicet, impossibile, et, non
impossibile, sequuntur illas, scilicet, contingens et possibile, non
contingens, et, non possibile, sequuntur, inquam, contradictorie, idest ita ut
contradictoriæ de impossibili contradictorias de possibili et contingenti
consequantur, sed conversim, idest, sed non ita quod affirmatio affirmationem
et negatio negationem sequatur, sed conversim, scilicet, quod affirmationem
negatio et negationem affirmatio. Et explanans hoc ait: illud enim quod est
possibile esse, idest affirmationem possibilis negatio sequitur impossibilis,
idest, non impossibile esse; negationem vero possibilis affirmatio sequitur
impossibilis. Illud enim quod est, non possibile esse, sequitur ista,
impossibile est esse; hæc autem, scilicet, impossibile esse, affirmatio est;
illa vero, scilicet, non possibile esse, negatio est: hic siquidem modus
negatur; ibi, non. Bene igitur dixerunt antiqui in quolibet ordine quoad
consequentias illarum de impossibili, quia, ut in suprascripta figura apparet,
semper ex affirmatione possibilis negationem impossibilis, et ex negatione
possibilis affirmationem impossibilis inferunt.When he says, Now the impossible
and the not impossible follow contradictorily upon the contingent and the
possible and the not contingent and the not possible, but inversely, etc., he
determines the truth by examining the foresaid opinion. First, he examines the
consequents of enunciations predicating impossibility; secondly, those
predicating necessity, where he says, Now we must consider how enunciations
predicating necessity are related to these, etc. From the opinion advanced,
then, he concludes with approval that the impossible and the not impossible follow
upon the contingent and the possible and the not contingent and the not
possible, contradictorily, i.e., the contradictories of the impossible follow
upon the contradictories of the possible and the contingent, but inversely,
i.e., not so that affirmation follows upon affirmation and negation upon
negation, but inversely, i.e., negation follows upon affirmation and
affirmation upon negation. He explains this when he says, The negation of
"impossible to be” follows upon "possible to be,” i.e., the negation
of the impossible, i.e., "not impossible to be,” follows upon the
affirmation of the possible, and the affirmation of the impossible follows upon
the negation of the possible. For the affirmation, "impossible to be”
follows upon the negation, "not possible to be.” In the latter the mode is
negated, in the former it is not. Therefore, the ancients were right in saying
that in any order, the consequences of enunciations predicating impossibility
are as follows: from affirmation of the possible, negation of the impossible is
inferred; and from negation of the possible, affirmation of the impossible is
inferred. This is apparent in the diagram. V. lib. 2 l. 10 n. 6Deinde cum
dicit: necessarium autem etc., intendit examinando determinare consequentias de
necessario. Et circa hoc duo facit: primo examinat dicta antiquorum; secundo,
determinat veritatem intentam; ibi: at vero neque necessarium et cetera. Circa
primum quatuor facit. Primo, declarat quid bene et quid male dictum sit ab
antiquis in hac re. Ubi attendendum est quod cum quatuor sint enunciationes de
necessario, ut dictum est, differentes inter se secundum quantitatem et
qualitatem, adeo ut unam integrent figuram oppositionis iuxta morem illarum de
inesse; duæ earum sunt contrariæ inter se, duæ autem illis contrariis
contradictoriæ, ut patet in hac figura. (Figura). Quia ergo antiqui universales
contrarias bene intulerunt ex aliis, contradictorias autem earum, scilicet
particulares, male intulerunt; ideo dicit quod considerandum restat de his, quæ
sunt de necessario, qualiter se habeant in consequendo illas de possibili et
non possibili. Manifestum est autem ex dicendis quod non
eodem modo istæ de necessario illas de possibili consequuntur, quo easdem
sequuntur illæ de impossibili. Nam omnes enunciationes de impossibili recte illatæ sunt
ab antiquis. Enunciationes autem de necessario non omnes recte inferuntur: sed
duæ earum, quæ sunt contrariæ, scilicet, necesse est esse, et, necesse est non
esse, sequuntur, idest recta consequentia deducuntur ab antiquis, in tertio
scilicet et quarto ordine; reliquæ autem duæ de necessario, scilicet, non
necesse non esse, et, non necesse esse, quæ sunt contradictoriæ supradictis,
sunt extra consequentias illarum, in secundo scilicet et primo ordine. Unde antiqui in tertio et quarto ordine omnia recte
fecerunt; in primo autem et in secundo peccaverunt, non quoad omnia, sed quoad
enunciationes de necessario tantum. When he says, Now we must consider how enunciations
predicating necessity are related to these, etc., he proposes an examination of
the consequents of enunciations predicating necessity in order to determine the
truth about them. First he examines what was said by the ancients; secondly, he
determines the truth, where he says, But in fact neither " necessary to
be” nor "necessary not to be” follow upon "possible to be,” etc. In
his examination of the ancients, Aristotle makes four points. First, he shows
what was well said by the ancients and what was badly said. It must be noted in
regard to this that, as we have said, there are four enunciations predicating
necessity, which differ among themselves in quantity and quality, and hence
they make up a diagram of opposition in the manner of the absolute
enunciations. Two of them are contrary to each other, and two are contradictory
to these contraries, as is clear in the diagram below. necessary to be
contraries necessary not to be not necessary not to be subcontraries not
necessary to be Now the ancients correctly inferred the universal contraries
from the possibles, contingents, and impossibles, but incorrectly inferred
their contradictories, namely, particulars. This is the reason Aristotle says
that it remains to be considered how enunciations predicating necessity are
related consequentially to the possible and not possible. From what Aristotle
says, it is clear that those predicating necessity do not follow upon the
possibles in the same way as those predicating impossibility follow upon the
possibles, for all of the enunciations predicating impossibility were correctly
inferred by the ancients, but those predicating necessity were not. Two of
them, the contraries, "necessary to be” and "necessary not to be,”
follow, i.e., correct consequents were deduced by the ancients in the third and
fourth orders; the remaining two, "not necessary not to be” and "not
necessary to be,” which are contradictories of the contraries, are outside of
the consequents of these, i.e., in the second and first orders. Hence, the
ancients represented everything correctly in the third and fourth orders, but
in the first and second they erred, not with respect to all things, but only
with respect to enunciations predicating necessity. V. lib. Secundo cum dicit:
non enim est negatio eius etc., respondet cuidam tacitæ obiectioni, qua defendi
posset consequentia enunciationis de necessario in primo ordine ab antiquis
facta. Est autem obiectio tacita talis. Non
possibile esse, et, necesse non esse, convertibiliter se sequuntur in tertio
ordine iam approbato; ergo, possibile esse, et, non necesse esse, invicem se
sequi debent in primo ordine. Tenet consequentia: quia duorum convertibiliter
se sequentium contradictoria mutuo se sequuntur; sed illæ duæ tertii ordinis
convertibiliter se sequuntur, et istæ duæ primi ordinis sunt earum
contradictoriæ; ergo istæ primi ordinis, scilicet, possibile esse, et, non
necesse esse, mutuo se sequuntur. Huic, inquam, obiectioni respondet
Aristoteles hic interimendo minorem quoad hoc quod assumit, quod scilicet
necessaria primi ordinis et necessaria tertii ordinis sunt contradictoriæ. Unde
dicit: non enim est negatio eius quod est, necesse non esse (quæ erat in tertio
ordine), illa quæ dicit, non necesse est esse, quæ sita erat in primo ordine. Et causam subdit, quia contingit
utrasque simul esse veras in eodem; quod contradictoriis repugnat. Illud enim
idem, quod est necessarium non esse, non est necessarium esse. Necessarium
siquidem est hominem non esse lignum et non necessarium est hominem esse
lignum. Adverte quod, ut infra patebit, istæ duæ de necessario, quas posuerunt
antiqui in primo et tertio ordine, sunt subalternæ (et ideo sunt simul veræ),
et deberent esse contradictoriæ; et ideo erraverunt antiqui. Secondly, he says, For the
negation of "necessary not to be” is not "not necessary to be,” since
both may be true of the same subject, etc. Here he replies to a tacit
objection. This reply could be used to defend the consequent of the enunciation
of the necessary made by the ancients in the first order. The tacit objection
is this: "not possible to be” and "necessary not to be” follow
convertibly in the third order which has already been shown to be correct;
therefore, "possible to be” and "not necessary to be” ought to follow
upon each other in the first order. The consequent holds; for the
contradictories of two that convertibly follow upon each other, mutually follow
upon each other; but those two follow upon each other convertibly in the third
order and these two in the first order are their contradictories; therefore,
those of the first order, i.e., "possible to be” and "not necessary
to be,” mutually follow upon each other. Aristotle replies here to this
objection by destroying what was assumed in the minor, i.e., that the necessary
of the first order and the necessary of the third order are contradictories. He
says, For the negation of "necessary not to be” (which is in the third
order) is not "not necessary to be” (which has been placed in the first
order). He also gives the reason: it is possible for both to be true at once of
the same subject, which is repugnant to contradictories. For the same thing
which is necessary not to be, is not necessary to be; for example, it is
necessary that man not be wood and it is not necessary that man be wood.
Notice, as will be clear later, that these two which the ancients posited in
the first and third orders, are subalterns and therefore are at once true,
whereas they should be contradictories; hence the ancients were in error. V.
lib. 2 l. 10 n. 8Boethius autem et Averroes non reprehensive legunt tam hanc,
quam præcedentem textus particulam, sed narrative utramque simul iungentes.
Narrare enim aiunt Aristotelem qualitatem suprascriptæ figuræ quoad
consequentiam illarum de necessario, postquam narravit quo modo se habuerint
illæ de impossibili, et dicere quod secundum præscriptam figuram non eodem modo
sequuntur illas de possibili illæ de necessario, quo sequuntur illæ de
impossibili. Nam contradictorias de possibili
contradictoriæ de impossibili sequuntur, licet conversim; contradictoriæ autem
de necessario non dicuntur sequi illas contradictorias de possibili, sed potius
eas sequi dicuntur contrariæ de necessario: non inter se contrariæ, sed hoc
modo, quod affirmationem possibilis negatio de necessario sequi dicitur,
negationem vero possibilis non affirmatio de necessario sequi ponitur, quæ sit
contradictoria illi negativæ quæ ponebatur sequi ad possibilem, sed talis
affirmationis de necessario contrario. Et quod hoc ita fiat in illa figura ut
dicimus, patet ex primo et tertio ordine, quorum capita sunt negatio et
affirmatio possibilis, et extrema sunt, non necesse esse, et, necesse non esse.
Hæ siquidem non sunt contradictoriæ. Non enim est negatio eius, quæ est,
necesse non esse, non necesse esse (quoniam contingit eas simul verificari de
eodem), sed illa scilicet, necesse non esse, est contraria contradictoriæ
huius, scilicet, non necesse esse, quæ est, necesse est esse. Sed quia sequenti
litteræ magis consona est introductio nostra, quæ etiam Alberto consentit, et
extorte videtur ab aliis exponi ly contrariæ, ideo prima, iudicio meo,
acceptanda est expositio et ad antiquorum reprehensionem referendus est textus.
Boethius and
Averroes read both this and the preceding part of the text, not reprovingly,
but as explanatorily joined together. They say Aristotle explains the quality
of the above table with respect to the consequents of enunciations predicating
necessity after he has explained in what way those predicating impossibility
are related. What Aristotle is saying, then, is that those of the necessary do
not follow those of the possible in the same way as those of the impossible
follow upon the possible. For contradictories of the impossible follow upon
contradictories of the possible, although inversely; but contradictories of the
necessary are not said to follow the contradictories of the possible, but
rather the contraries of the necessary follow upon them. It is not the
contraries among themselves that follow, but contraries in this way: the
negation of the necessary is said to follow upon the affirmation of the
possible; but what follows on the negation of this possible is not the
affirmation of the necessary contradictory to that negative of the necessary
following upon the possible, but the contrary of such an affirmation of the
necessary. That this is the case is evident in the first and third orders. The
sources are negation and affirmation of the possible, and the extremes are
"not necessary to be” and "necessary not to be.” But these are not
contradictories, for the negation of "necessary not to be” is not
"not necessary to be,” for it is possible for them to be at once true of
the same thing. "Necessary not to be” is the contrary of the contradictory
of "not necessary to be,” which contradictory is "necessary to be.”
In my judgment, however, the first exposition should be accepted and this
portion of the text taken as a reproof of the ancients, because the contraries
seem to be explained in a forced way by others, whereas our introduction is
more in accord with what follows in the next part of the text; in addition, it
agrees with Albert’s interpretation. V. lib. 2 l. 10 n. 9Tertio cum dicit:
causa autem cur etc., manifestat id quod præmiserat, scilicet, quod non simili
modo ad illas de possibili sequuntur illæ de impossibili et illæ de necessario.
Antiquorum enim hoc peccatum fuit tam in
primo quam in secundo ordine, et quod simili modo intulerunt illas de
impossibili et necessario. In primo siquidem ordine, sicut posuerunt negativam
simplicem de impossibili, ita posuerunt negativam simplicem de necessario, et
similiter in secundo ordine utranque negativam declinatam locaverunt. Hoc ergo
quare peccatum sit, et causa autem quare necessarium non sequitur possibile,
similiter, idest, eodem modo cum cæteris, scilicet, de impossibili, est,
quoniam impossibile redditur idem valens necessario, idest, æquivalet
necessario, contrarie, idest, contrario modo sumptum, et non eodem modo. Nam
si, hoc esse est impossibile, non inferemus, ergo hoc esse est necesse, sed,
hoc non esse est necesse. Quia ergo impossibile et necesse mutuo se sequuntur,
quando dicta eorum contrario modo sumuntur, et non quando dicta eorum simili
modo sumuntur, sequitur quod non eodem modo ad possibile se habeant impossibile
et necessarium, sed contrario modo. Nam ad id possibile quod sequitur dictum
affirmatum de impossibili, sequitur dictum negatum de necessario; et e
contrario. Quare autem hoc accidit infra dicetur. Erraverunt igitur antiqui
quod similes enunciationes de impossibili et necessario in primo et in secundo
ordine locaverunt. Thirdly, he says,
Now the reason why enunciations predicating necessity do not follow in the same
way as the others, etc. Here Aristotle shows why enunciations predicating
impossibility and necessity do not follow in a similar way upon those
predicating possibility. This was the error made by the ancients in both the
first and second orders, for in the first order they posited the simple
negative of the impossible, and in a similar way the simple negative of the
necessary, and in the second order their declined negatives, the reason being
that they inferred those predicating impossibility and necessity in a similar
way. The cause of this error, then, and the reason why enunciations predicating
necessity do not follow the possible in the same way, i.e., in a similar mode,
as the others, i.e., as the impossibles, is that the impossible expresses the
same meaning as the necessary, i.e., is equivalent to the necessary,
contrarily, i.e., taken in a contrary mode, and not in the same mode. For if
something is impossible to be, we do not infer, therefore it is necessary to
be, but it is necessary not to be. Since, therefore, the impossible and
necessary mutually follow each other when their dictums are taken in a contrary
mode—and not when their dictums are taken in a similar mode — it follows that
the impossible and necessary are not related in the same way to the possible,
but in a contrary way. For the negated dictum of the necessary follows upon
that possible which follows the affirmed dictum of the impossible, and
contrarily. Why this is so will be explained later. Therefore, the ancients
erred when they located similar enunciations of the impossible and necessary in
the first and in the second orders. V. lib. 2 l. 10 n. 10 Hinc apparet quod
supra posita nostra expositio conformior est Aristoteli. Cum enim hunc textum
induxerit ad manifestandum illa verba: manifestum est autem quoniam non eodem
modo, etc., eo accipiendo sunt sensu illa verba, quo hic per causam
manifestantur. Liquet autem quod hic redditur causa dissimilitudinis veræ inter
necessarias et impossibiles in consequendo possibiles, et non dissimilitudinis
falso opinatæ ab antiquis: quoniam ex vera causa nonnisi verum concluditur.
Ergo reprehendendo antiquos, veram dissimilitudinem inter necessarias, et
impossibiles in consequendo possibiles, quam non servaverunt illi, proposuisse
tunc intelligendum est, et nunc eam manifestasse. Quod autem dissimilitudo
illa, quam antiqui posuerunt inter necessarias et impossibiles, sit falso
posita, ex infra dicendis patebit. Ostendetur enim quod contradictorias de
possibili contradictoriæ de necessario sequuntur conversim; et quod in hoc non
differunt ab his quæ sunt de impossibili, sed differunt in hoc quod modo
diximus, quod possibilium et impossibilium se consequentium dictum est
similiter, possibilium autem et necessariorum, se invicem consequentium dictum
est contrarium, ut infra clara luce videbitur. Hence it appears that our
exposition is more in conformity with Aristotle. For he introduced this text to
manifest these words: It is evident that the case here is not the same, etc. By
taking this meaning, then, these words are made clear through the cause.
Moreover, it is evident that here the cause is given of a true dissimilitude
between necessaries and impossibles in following the possibles, and not of a
dissimilitude falsely held by the ancients, for from a true cause only the
truth is concluded. Therefore in reproving the ancients it must be understood
that a true dissimilitude between the necessary and impossible in following the
possible, which they did not beed, has been proposed, and now has been made
manifest. It will be clear from what will be said later that the dissimilitude
posited by the ancients between the necessary and impossible is falsely
posited, for it will be shown that contradictories of the necessary follow
contradictories of the possible inversely, and that in this they do not differ
from enunciations predicating impossibility. They do differ, however, in the
way we have indicated, i.e., the dictum of the possibles and of the impossibles
following on them is similar, but the dictum of the possibles and of the
necessaries following on them is contrary, as will be seen clearly later. V.
lib. 2 l. 10 n. 11 Quarto cum dicit: aut certe impossibile est etc., manifestat
aliud quod proposuerat, scilicet, quod contradictoriæ de necessario male
situatæ sint secundum consequentiam ab antiquis, qui contradictiones necessarii
ita ordinaverunt. In primo ordine posuerunt contradictoriam
negationem, necesse esse, idest, non necesse esse; et in secundo
contradictoriam negationem, necesse non esse, idest, non necesse non esse. Et
probat hunc consequentiæ modum esse malum in primo ordine. Cognita enim malitia
primi, facile est secundi ordinis agnoscere defectum. Probat autem hoc tali
ratione ducente ad impossibile. Ad necessarium esse sequitur possibile esse:
aliter sequeretur non possibile esse, quod manifeste implicat; ad possibile
esse sequitur non impossibile esse, ut patet; ad non impossibile esse, secundum
antiquos, sequitur in primo ordine non necessarium esse; ergo de primo ad
ultimum, ad necessarium esse sequitur non necessarium esse: quod est
inconveniens, quia est manifesta implicatio contradictionis. Relinquitur ergo
quod male dictum sit, quod non necessarium esse consequatur in primo ordine.
Ait ergo et certe impossibile est poni sic secundum consequentiam, ut antiqui
posuerunt, necessarii contradictiones, idest illas duas enunciationes de necessario,
quæ sunt negationes contradictoriæ aliarum duarum de necessario. Nam ad id quod
est, necessarium esse, sequitur, possibile est esse: nam si non, idest quoniam
si hanc negaveris consequentiam, negatio possibilis sequitur illam, scilicet,
necesse esse. Necesse est enim de necessario aut dicere, idest affirmare
possibile, aut negare possibile: de quolibet enim est affirmatio vel negatio
vera. Quare si dicas quod, ad necesse esse, non sequitur, possibile esse, sed,
non possibile est esse; cum hæc æquivaleat illi quæ dicit, impossibile est
esse, relinquitur quod ad, necesse esse, sequitur, impossibile esse, et idem
erit, necesse esse et impossibile esse: quod est inconveniens. Bona ergo erat
prima illatio, scilicet, necesse est esse, ergo possibile est esse. Tunc ultra.
Illud quod est, possibile esse, sequitur, non impossibile esse, ut patet in
primo ordine. Ad hoc vero, scilicet, non impossibile esse, secundum antiquos
eodem primo ordine, sequitur, non necesse est esse (quare contingit de primo ad
ultimum); ad id quod est, necessarium esse, sequitur, non necessarium esse:
quod est inconveniens, immo impossibile. Fourthly, when he says, Or is it impossible to arrange
the contradictions of enunciations predicating necessity in this way? he
manifests another point he had proposed, namely, that contradictories of
enunciations predicating necessity were badly placed according to consequence
by the ancients when they ordered them thus: the contradictory negation to
"necessary to be,” i.e., "not necessary to be,” in the first order,
and the contradictory negation to "necessary not to be,” i.e., "not
necessary not to be,” in the second. Aristotle only proves that this mode of
consequence is incorrect in the first order, for when this is known the mistake
in the second order is readily seen. He does this by an argument leading to an
impossibility. "Possible to be” follows upon "necessary to be”;
otherwise "not possible to be” would follow, which it manifestly implies.
"Not impossible to be” follows upon "possible to be” as is evident,
and, according to the ancients, in the first order, "not necessary to be”
follows upon "not impossible to be.” Therefore, from first to last,
"not necessary to be” follows upon "necessary to be,” which is
inadmissible because there is an obvious implication of contradiction.
Therefore, it is erroneous to say that "not necessary to be” follows in
the first order. He says, then, that in fact it is impossible to posit
contradictions of the necessary according to consequence as the ancients
posited them, i.e., in the first order the contradictory negation of
"necessary to be,” i.e., "not necessary to be” and in the second the
contradictory negation of "necessary not to be,” i.e., "not necessary
not to be.” For "possible to be” follows upon "necessary to be”; if
not, i.e., if you deny this consequence, the negation of the possible follows
upon "necessary to be,” since the possible must either be asserted of the
necessary or denied, the reason being that of anything there is a true
affirmation or a true negation. Therefore, if you say that "possible to
be” does not follow upon "necessary to be,” but "not possible to be”
does follow, then, since the latter is equivalent to the former, i.e.,
"not possible to be” to "impossible to be,” "impossible to be”
follows upon "necessary to be” and the same thing will be "necessary
to be” and "impossible to be,” which cannot be admitted. Consequently, the
first inference was good, i.e., "It is necessary to be, therefore it is
possible to be.” But again, "possible to be” follows upon "not
impossible to be,” as is evident in the first order, and according to the
ancients, "not necessary to be” follows upon "not impossible to be”
in the same first order. Therefore, from first to last we arrive at this:
"not necessary to be” follows upon "necessary to be,” which is
unlikely, not to say impossible. 12
Dubitatur hic: quia in I priorum dicitur quod ad possibile sequitur non
necessarium, hic autem dicitur oppositum. Ad hoc est dicendum quod possibile
sumitur dupliciter. Uno modo in communi, et sic est quoddam superius ad
necessarium et contingens ad utrunque, sicut animal ad hominem et bovem; et sic
ad possibile non sequitur non necessarium, sicut ad animal non sequitur non
homo. Alio modo sumitur possibile pro una parte possibilis in communi, idest
pro possibili seu contingenti, scilicet ad utrunque, scilicet quod potest esse
et non esse; et sic ad possibile sequitur non necessarium. Quod enim potest esse et non
esse, non necessarium est esse, et similiter non necessarium est non esse. Loquimur ergo hic de possibili in communi, ibi vero
in speciali. There is a doubt
about this, for in I Priorum, it is said that the not necessary follows upon
the possible, while here the opposite is said. The possible, however, is taken
in two ways: commonly, and thus it is superior to the necessary and the
contingent to either of two alternatives, as is the case with animal in
relation to man and cow; taken in this way, the not necessary does not follow
upon the possible, just as not-man does not follow upon animal. In another way
the possible is taken for one part of the possible commonly, i.e., for the
possible or contingent to either of two alternatives, namely, for what can be
and not be. The not necessary follows upon the possible taken in this way, for
what can be and not be is not necessary to be, and likewise is not necessary
not to be. In the Prior Analytics, then, Aristotle is speaking of the possible
in particular; here of the possible commonly. Deinde cum dicit: at vero neque
necessarium etc., determinat veritatem intentam. Et circa hoc tria facit:
primo, determinat quæ enunciatio de necessario sequatur ad possibile; secundo,
ordinat consequentias omnium modalium; ibi: sequuntur enim et cetera. Quoad primum, sicut duabus viis
reprehendit antiquos, ita ex illis duobus motivis intentum probat. Et intendit quod, ad possibile esse, sequitur, non
necesse non esse. Primum motivum est per locum a divisione. Ad, possibile esse,
non sequitur (ut probatum est), non necesse esse, at vero neque, necesse esse,
neque, necesse non esse. Reliquum est ergo ut sequatur ad eam, non necesse non
esse: non enim dantur plures enunciationes de necessario. Huius communis
divisionis primo proponit reliqua duo membra excludenda, dicens: at vero neque
necessarium esse, neque necessarium non esse, sequitur ad possibile non esse;
secundo probat hoc sic. Nullum formale consequens minuit suum antecedens: tunc
enim oppositum consequentis staret cum antecedente; sed utrumque horum,
scilicet, necesse esse, et, necesse non esse, minuit possibile esse; ergo, et
cetera. Unde, tacita maiore, ponit minoris probationem dicens: illi enim,
scilicet, possibile esse, utraque, scilicet, esse et non esse, contingit
accidere; horum autem, scilicet, necesse esse et necesse non esse, utrumlibet
verum fuerit, non erunt illa duo, scilicet, esse et non esse, vera simul in
potentia. Et primum horum
explanans ait: cum dico, possibile esse, simul est possibile esse et non esse.
Quoad secundum vero subdit. Si vero dicas, necesse esse vel necesse non esse,
non remanet utrumque, scilicet, esse et non esse, possibile: si enim necesse
est esse, possibilitas ad non esse excluditur; et si necesse est non esse,
possibilitas ad esse removetur. Utrumque ergo istorum minuit illud antecedens,
possibile esse, quoniam ad esse et non esse se extendit, et cetera. Tertio
subdit conclusionem: relinquitur ergo quod, non necessarium non esse, comes est
ei quæ dicit, possibile esse; et consequenter hæc ponenda erit in primo ordine.
When he says, But
in fact neither "necessary to be” nor "necessary not to be” follow
upon "possible to be,” etc., he determines the truth. First he determines
which enunciation of the necessary follows upon the possible; secondly, he
orders the consequents of all of the modals, where he says, Thus, these
contradictions also follow in the way indicated, etc. Aristotle has reproved
the ancients in two ways; on the basis of these two he now proves which
enunciation of the necessary follows upon the possible. What he intends to show
is that "not necessary not to be” follows upon "possible to be.” The
first argument is taken from a locus of division. "Not necessary to be”
does not follow upon possible to be” (as has been proved), but neither does
"necessary to be” nor "necessary not to be.” Therefore, "not
necessary not to be” follows upon "possible to be,” since there are no
more enunciations of the necessary. He first proposes the remaining two members
that are to be excluded from this common division: But in fact neither
"necessary to be” nor "necessary not to be” follow upon
"possible to be.” Then he proves this: no formal consequent diminishes its
antecedent, for if it did, the opposite of the consequent would stand with the
antecedent; but both of these, namely, "necessary to be” and "necessary
not to be,” diminish possible to be”; therefore, etc. The major is therefore
implied and he gives the proof of the minor when he says that "possible to
be” admits of two possibilities, namely, "to be” and "not to be”; but
of these, namely, "necessary to be” and "necessary not to be”
(whichever should be true), these two, "to be” and "not to be,” will
not be true at the same time in potency. He explains the first point thus: when
I say "possible to be” it is at once possible to be and not to be. With
respect to the second, he adds: if you should say, "necessary to be” or
"necessary not to be,” both do not remain, i.e., possible to be and not to
be do not remain, for if a thing is necessary to be, possibility not to be is
excluded, and if it is necessary not to be, possibility to be is removed. Both
of these, then, diminish the antecedent, possible to be, for it is extended to
"to be” and "not to be,” etc. Thirdly, he concludes: it remains,
therefore, that "not necessary not to be” accompanies "possible to be,”
and consequently will have to be placed in the first order. V. lib. 2 l. 10 n. 14 Occurrit in hac parte dubium
circa hoc quod dicit quod, ad possibile non sequitur necessarium, cum superius
dixerit quod ad ipsum non sequitur non necessarium. Cum enim necessarium et non
necessarium sint contradictoria opposita, et de quolibet sit affirmatio vel
negatio vera, non videtur posse evadi quin ad possibile sequatur necessarium,
vel, non necessarium. Et cum non sequatur necessarium, sequetur non necessarium,
ut dicebant antiqui. Augetur et dubitatio ex eo quod Aristoteles nunc usus est
tali argumentationis modo, volens probare quod ad necessarium sequatur
possibile. Dixit enim: nam
si non negatio possibilis consequatur. Necesse est enim aut dicere aut negare.
A difficulty arises at this point with respect to his saying that the necessary
does not follow upon the possible, since he has also said that the not necessary
does not follow upon it. For the necessary and the not necessary are opposed
contradictorily, and since of anything there is a true affirmation or negation,
it seems impossible to avoid the conclusion that either the necessary or the
not necessary follows upon the possible; and since the necessary does not
follow, the not necessary must follow, as the ancients said. Furthermore, the
difficulty is augmented by the fact that Aristotle just used such a mode of
argumentation when, to prove that the possible follows upon the necessary, he
said, for if not, the negation will follow; for it is necessary either to
affirm or deny. 15. Pro solutione huius, oportet reminisci habitudinis quæ est
inter possibile et necessarium, quod scilicet possibile est superius ad
necessarium, et attendere quod superius potestate continet suum inferius et
eius oppositum, ita quod neutrum eorum actualiter sibi vindicat, sed utrunque
potest sibi contingere; sicut animali potest accidere homo et non homo: et
consequenter inspicere debes quod, eadem est proportio superioris ad habendum
affirmationem et negationem unius inferioris, quæ est alicuius subiecti ad
affirmativam et negativam futuri contingentis. Utrobique enim neutrum habetur,
et salvatur potentia ad utrumlibet. Unde, sicut in futuris contingentibus nec
affirmatio nec negatio est determinate vera, sed sub disiunctione altera est
necessario vera, ut in fine primi conclusum est; ita nec affirmatio nec negatio
inferioris sequitur determinate affirmationem vel negationem superioris, sed
sub disiunctione altera sequitur necessario. Unde non valet, est animal, ergo
est homo, neque, ergo non est homo, sed, ergo est homo vel non est homo. Quia ergo possibile superius est ad necessarium, ideo
optime determinavit Aristoteles neutram contradictionis partem de necessario
determinate sequi ad possibile. Non tamen dixit quod sub disiunctione neutra
sequatur; hoc enim est contra illud primum principium: de quolibet est
affirmatio vera vel falsa. Ad id autem quod additur, ex eadem trahitur radice
responsio. Quia enim necessarium inferius est ad possibile, et inferius non in
potentia sed in actu includit suum superius, necesse est ad inferius
determinate sequi suum superius: aliter determinate sequetur eius
contradictorium. Unde per dissimilem habitudinem, quæ est inter necessarium et
possibile et non possibile, ex una parte, et inter possibile et necessarium et
non necessarium, ex altera parte, ibi optimus fuit processus ad alteram
contradictionis partem determinate, et hic optimus ad neutram determinate. In order to resolve this, we
must recall the relationship between the possible and the necessary, namely,
that the possible is superior to the necessary. Now the superior potentially
contains its own inferior and the opposite of it in such a way that neither of
them is actually appropriated by the superior, but each is possible to it; as
in the case of man and not-man in relation to animal. We must also consider
that the proportion of the superior as related to the affirmation and negation
of one inferior is the same (which is the proportion of some subject to the
affirmative and negative of a future contingent), for it is had by neither of
the two, and the potency to either is kept. Accordingly, as in future
contingents neither the affirmation nor the negation is determinately true, but
under disjunction one is necessarily true (as was concluded at the end of the
first book), so neither the affirmation nor negation of the inferior follows
upon the affirmation or negation of the superior determinately, but under
disjunction one follows necessarily. This, for instance, is not valid: "It
is animal, therefore it is man,” nor is "therefore it is not man” valid,
but, "therefore it is man or it is not man.” Since, then, the possible is
superior to the necessary, Aristotle has correctly determined that neither part
of the contradiction of the necessary determinately follows upon the possible.
However, he has not said that under disjunction neither follows; for this would
be opposed to the first principle, that of anything there is a true or false
affirmation. The response to what was added, beginning with "Furthermore,
the difficulty is augmented,” etc., is based upon the same point. Since the
necessary is inferior to the possible, and the inferior does not include its
superior in potency but in act, the superior must follow determinately upon the
inferior; otherwise the contradiction of it would follow determinately. Hence,
because of the dissimilar relationship between the necessary and the possible
and not possible on the one hand, and between the possible and the necessary
and not necessary on the other, the movement of the earlier argument to one
part of the contradiction determinately was quite right, and the movement here
to neither determinately was quite right. 16. Oritur quoque alia dubitatiuncula. Videtur enim
quod Aristoteles difformiter accipiat ly possibile in præcedenti textu et in
isto. Ibi enim accipit ipsum in communi, ut sequitur ad necessarium; hic
videtur accipere ipsum specialiter pro possibili ad utrumlibet, quia dicit quod
possibile est simul potens esse et non esse. Et ad hoc dicendum est quod
uniformiter usus est possibili. Nec eius verba obstant: quoniam et de possibili
in communi verum est dicere quod potest sibi utrunque accidere, scilicet, esse
et non esse: tum quia quidquid verificatur de suo inferiori, verificatur etiam
de suo superiori, licet non eodem modo; tum quia possibile in communi neutram
contradictionis partem sibi determinat, et consequenter utranque sibi advenire
compatitur, licet non asserat potentiam ad utranque partem, quemadmodum
possibile ad utrunque. There is another
slight difficulty, for it seems that Aristotle takes the possible in a
different way in the preceding text and in this. There he takes it commonly as
it follows upon the necessary; here he seems to take it specifically for the
possible that is indifferent to alternatives, since he says that the possible
is at once possible to be and not to be. But in fact Aristotle has used the
possible uniformly. Nor are his words at variance, for it is also true to say
of the possible as common that it admits of both possibilities, i.e., of
"to be” and "not to be”; first, because whatever is verified of its
inferior is verified also of its superior, although not in the same mode;
secondly, because the possible as common determines neither part of the
contradiction to itself and consequently admits of either happening, although
it does not affirm a potency to each part, as does the possible to either of
two alternatives. Secundum motivum ad idem, correspondens tacitæ obiectioni
antiquorum quam supra exclusit, addit cum subdit: hoc enim verum est et cetera.
Ubi notandum quod Aristoteles sub illa
maiore adducta pro antiquis (scilicet, convertibiliter se consequentium
contradictoria se mutuo consequuntur), subsumit minorem: sed horum
convertibiliter se sequentium in tertio ordine (scilicet, non possibile esse et
necesse non esse), contradictoria sunt, possibile esse et non necesse non esse
(quoniam modi negatione eis opponuntur); ergo istæ duæ (scilicet, possibile
esse et non necesse non esse) se consequuntur et in primo locandæ sunt ordine. Unde motivum tangens ait: hoc
enim, quod dictum est, verum est, idest verum esse ostenditur, et de necesse
non esse, idest, et ex illius, scilicet, non necesse non esse, opposita, quæ
est, necesse non esse. Vel, hoc enim, scilicet, non necesse non esse, verum
est, scilicet, contradictorium illius de necesse non esse. Et minorem subdens
ait: hæc enim, scilicet, non necesse non esse, fit contradictio eius, quæ
convertibiliter sequitur, non possibile esse. Et explanans hoc in terminis
subdit. Illud enim, non possibile esse, quod est caput tertii ordinis, sequitur
hoc de impossibili, scilicet, impossibile esse, et hæc de necessario, scilicet,
necesse non esse, cuius negatio seu contradictoria est, non necesse non esse.
Et quia, cæteris paribus, modus negatur, et illa, possibile esse, est
(subauditur) contradictoria illius, scilicet, non possibile; igitur ista duo
mutuo se consequuntur, scilicet, possibile esse, et, non necesse non esse,
tamquam contradictoria duorum se mutuo consequentium. The second grounds for
proving the same thing corresponds to the tacit objection of the ancients he
excluded above: For this, he says, is true also with respect to "necessary
to be,” etc. It should be noted here that Aristotle subsumes under the major
cited as a proof for the position of the ancients (namely, contradictories of
consequences convertibly following each other mutually follow upon each other)
this minor: but the contradictories of those following upon each other
convertibly in the third order (i.e., of "not possible to be” and
"necessary not to be”) are "possible to be” and "not necessary
not to be” (for they are opposed to them by negation of mode); therefore, these
two (i.e., "possible to be” and "not necessary not to be”) follow
upon each other and are to be placed in the first order. Hence, with respect to
the basis of the above argument, he says, For this, i.e., what has been said,
is true, i.e., is shown to be true, also with respect to "necessary not to
be,” i.e., of the opposite of "not necessary not to be,” i.e.,
"necessary not to be.” Or, For this, namely, not necessary not to be,” is
true, namely, is the true contradictory of necessary not to be.” He gives the
minor when he says, For "not necessary not to be” is the contradictory of what
follows upon "not possible to be.” Then he states this explicitly: for
"not possible to be,” which is the source of the third order is followed
by this impossible, namely, "impossible to be,” and by this one of the
necessary, namely, "necessary not to be,” of which the negation or
contradictory is "not necessary not to be.” And since, other things being
equal, the mode is negated, and, "possible to be” is (it is understood)
the contradictory of "not possible to be,” therefore, these two mutually follow
upon each other, namely, "possible to be” and "not necessary not to
be,” as contradictories of the two mutually following upon each other. V. lib.
Deinde cum dicit: sequuntur enim etc., ordinat omnes consequentias modalium
secundum opinionem propriam; et ait quod, hæ contradictiones, scilicet, de
necessario, sequuntur illas de possibili, secundum modum prædictum et
approbatum illarum de impossibili. Sicut enim contradictorias de possibili
contradictoriæ de impossibili sequuntur, licet conversim; ita contradictorias de
possibili contradictoriæ de necessario sequuntur conversim: licet in hoc, ut
dictum est, dissimilitudo sit quod, contradictoriarum de possibili et
impossibili similiter est dictum, contradictoriarum autem de possibili et
necessario contrarium est dictum, ut in sequenti videtur figura: consequentiæ
enunciationum modalium secundum quatuor ordines ab Aristotele positæ et
ordinatæ. (Figura). Ubi vides quod nulla est inter Aristotelem et antiquos
differentia, nisi in duobus primis ordinibus quoad illas de necessario. Præpostero namque situ usi sunt antiqui, eam de
necessario, quæ locanda erat in primo ordine, in secundo ponentes, et eam quæ
in secundo ponenda erat, in primo locantes. Et aspice quoque quod
convertibiliter se consequentium semper contradictoria se consequi ordinavit.
Singulis enim tertii ordinis singulæ primi ordinis contradictoriæ sunt; et
similiter singulæ quarti ordinis singulis, quæ in secundo sunt, contradictoriæ
sunt. Quod antiqui non
observarunt. When he says, Thus, these contradictions also follow in the way
indicated, etc., he orders all of the consequents of modals according to his
own opinion. He says, then, that these contradictions, namely, of the
necessary, follow those of the possible, according to the foresaid and approved
mode of those of the impossible. For just as contradictories of the impossible
follow upon contradictories of the possible, although inversely, so
contradictories of the necessary follow contradictories of the possible
inversely. In the latter, however, as has been said, there is a dissimilarity
in that the dictum of the contradictories of the possible and impossible is
similar, but the dictum of the contradictories of the possible and necessary is
contrary. This can be seen in the following table. CONSEQUENTS OF MODAL
ENUNCIATIONS POSITED AND ORDERED BY ARISTOTLE ACCORDING TO FOUR ORDERS FIRST
ORDER It is possible to be It is contingent to be It is not impossible to be It
is not necessary to be SECOND ORDER It is possible not to be It is contingent
not to be It is not impossible not to be It is not necessary not to be It is
not possible to be It is not contingent to be It is impossible to be It is
necessary not to be FOURTH ORDER It is not possible not to be It is not
contingent not to be It is impossible not to be It is necessary to be Here you
see that there is no difference between Aristotle and the ancients except in
the first two orders with respect to those of the necessary. The ancients
inverted the position of these, placing the necessary that should have been
placed in the first order in the second order, and the one that should have
been in the second in the first. Notice, too, that he has ordered them in such
a way that the contradictories of those following upon each other convertibly,
always follow each other, for each one in the first order is the contradictory
of each one in the third order, and similarly, each of the fourth order the
contradictory of each in the second. This the ancients did not observe.
Postquam Aristoteles declaravit modalium consequentias, hic movet quandam
dubitationem circa unum eorum quæ determinata sunt, scilicet quod possibile
sequitur ad necesse. Et duo facit: quia primo dubitationem absolvit; secundo,
ex determinata quæstione alium ordinem earumdem consequentiarum modalibus statuit;
ibi: et est fortasse et cetera. Circa primum duo facit: primo, movet
quæstionem; secundo, determinat eam; ibi: manifestum est et cetera. Movet ergo
quæstionem: primo dicens: dubitabit autem aliquis si ad id quod est necesse
esse sequatur possibile esse; et secundo, arguit ad partem affirmativam
subdens: nam si non sequatur, contradictoria eius sequetur, scilicet non
possibile esse, ut supra deductum est: quia de quolibet est affirmatio vel
negatio vera. Et si quis dicat hanc, scilicet, non possibile esse, non esse
contradictoriam illius, scilicet, possibile esse, et propterea subterfugiendum
velit argumentum, et dicere quod neutra harum sequitur ad necesse esse; talis
licet falsum dicat, tamen concedatur sibi, quoniam necesse erit ipsum dicere
illius contradictoriam fore, possibile non esse. Oportet namque aut non
possibile esse aut possibile non esse, esse contradictoriam, possibile esse; et
tunc in eumdem redibit errorem, quoniam utræque, scilicet, non possibile esse
et possibile non esse, falsæ sunt de eo quod est, necesse esse. Et consequenter ad ipsum neutra sequi potest. Nulla
enim enunciatio sequitur ad illam, cuius veritatem destruit. Relinquitur ergo quod, ad
necesse esse sequitur possibile esse. Now that he has explained the consequents
of modals, Aristotle raises a question about one of the points that has already
been determined, namely, that the possible follows upon the necessary. He first
raises the question and then settles it where he says, It is evident by now
that not every possibility of being or walking is one that admits of opposites,
etc. Secondly, he establishes another order of the same consequents from the
determination of the present question, where he says Indeed the necessary and
not necessary may well be the principle of all that is or is not, etc. First,
then, he raises the question: But it may be questioned whether "Possible
to be follows upon "necessary to be.” Secondly, he argues to the
affirmative part: Yet if not, the contradictory, "not possible to be,” would
have to follow, as was deduced earlier, for either the affirmation or the
negation is true of anything. And if someone should say "not possible to
be” is not the contradictory of "possible to be,” because he wants to
avoid the conclusion by saying that neither of these follows upon
"necessary to be,” this may be conceded, although what he says is false.
But then he will have to say that the contradictory of "possible to be” is
"possible not to be,” for the contradictory of "possible to be” has
to be either "not possible to be” or "possible not to be.” But if he
says this, he will fall into another error, for it is false to say it is not
possible to be of that which is necessary to be, and it is false to say it is
possible not to be. Consequently, neither follows upon it, for no enunciation
follows upon an enunciation whose truth it destroys. Therefore, "possible
to be” follows upon "necessary to be.” 2. Tertio, arguit ad partem
negativam cum subdit: at vero rursus etc., et intendit talem rationem. Si ad necesse esse sequitur possibile esse, cum ad
possibile sequatur possibile non esse (per conversionem in oppositam
qualitatem, ut dicitur in I priorum, quia idem est possibile esse et non esse),
sequetur de primo ad ultimum quod necesse est possibile non esse: quod est falsum
manifeste. Unde oppositionis hypothesim subdit: at vero rursus videtur idem
possibile esse et non esse, ut domus, et possibile incidi et non incidi, ut
vestis. Quare de primo ad ultimum necesse esse, erit contingens non esse. Hoc autem est falsum. Ergo hypothesis
illa, scilicet, quod possibile sequatur ad necesse, est falsa. Thirdly, he
argues to the negative part where he says, On the other hand, it seems possible
for the same thing to be cut and not to be cut, etc. His argument is as
follows: If "possible to be” follows upon "necessary to be,” then,
since "possible not to be” follows upon the possible (through conversion
to the opposite quality, as is said in I Priorum, for the same thing is
possible to be and not to be), from first to last it will follow that the
necessary is possible not to be, which is clearly false. In this argument,
Aristotle supplies a hypothesis opposed to the position that possible to be
follows upon necessary to be: On the other hand, it seems possible for the same
thing to be cut and not to be cut, for instance a garment, and to be and not to
be, for instance a house. Therefore, from first to last, necessary to be will
be possible not to be. But this is false. Therefore, the hypothesis that the
possible follows upon the necessary is false. 3. Deinde cum dicit: manifestum
est autemetc., respondet dubitationi. Et primo, declarat veritatem simpliciter;
secundo, applicat ad propositum; ibi: hoc igitur possibile et cetera. Proponit ergo primo ipsam veritatem declarandam,
dicens: manifestum est autem, ex dicendis, quod non omne possibile esse vel
ambulare, idest operari: idest, non omne possibile secundum actum primum vel
secundum ad opposita valet, idest ad opposita viam habet, sed est invenire
aliqua possibilia, in quibus non sit verum dicere quod possunt in opposita.
Deinde, quia possibile a potentia nascitur, manifestat qualiter se habeat
potentia ipsa ad opposita: ex hoc enim clarum erit quomodo possibile se habeat
ad opposita. Et circa hoc duo facit: primo manifestat hoc in potentiis eiusdem
rationis; secundo, in his quæ æquivoce dicuntur potentiæ; ibi: quædam vero
potentiæ et cetera. Circa primum tria facit: quia primo manifestat qualiter
potentia irrationalis se habeat ad opposita; et ait quod potentia irrationalis
non potest in opposita. When he says, It
is evident by now that not every possibility of being or walking, etc., he
answers the question he proposed. First, he manifests the truth simply, then
applies it to the question where he says, So it is not true to say the latter
possible of what is necessary simply, etc. First, then, he proposes the truth
he is going to explain: It is evident by now that not every possibility of
being or walking, i.e., of operating; that is, not everything possible
according to first or second act admits of opposites, i.e., has access to
opposites; there are some possibles of which it is not true to say that they
are capable of opposites. Then, since the possible arises from potency, he
manifests how potency is related to opposites; for it will be clear from this
bow the possible is related to opposites. First he manifests this in potencies
having the same notion; secondly, in those that are called potencies
equivocally where he says, But some are called potentialities equivocally, etc.
With respect to the way in which potencies of the same specific notion are
related to opposites, he does three things. First of all he manifests how an
irrational potency is related to opposites; an irrational potency, he says, is
not a potency that is capable of opposites. V. lib. 2 l. 11 n. 4Ubi notandum
est quod, sicut dicitur IX Metaphys., potentia activa, cum nihil aliud sit quam
principium quo in aliud agimus, dividitur in potentiam rationalem et
irrationalem. Potentia rationalis est, quæ cum ratione et electione operatur;
sicut ars medicinæ, qua medicus cognoscens quid sanando expediat infirmo, et
volens applicat remedia. Potentia autem irrationalis vocatur illa, quæ non ex
ratione et libertate operatur, sed ex naturali sua dispositione; sicut calor
ignis potentia irrationalis est, quia calefacit, non ut cognoscit et vult, sed
ut natura sua exigit. Assignatur autem
ibidem duplex differentia proposito deserviens inter istas potentias. Prima est
quod activa potentia irrationalis non potest duo opposita, sed est determinata
ad unum oppositorum, sive sumatur oppositum contradictorie sive contrarie.
Verbi gratia: calor non potest calefacere et non calefacere, quæ sunt
contradictorie opposita, neque potest calefacere et frigefacere, quæ sunt
contraria, sed ad calefactionem determinatus est. Et hoc intellige per se, quia
per accidens calor frigefacere potest, vel resolvendo materiam caloris, humidum
scilicet, vel per antiperistasin contrarii. Et similiter potest non calefacere
per accidens, scilicet si calefactibile deest. Potentia autem rationalis potest
in opposita et contradictorie et contrarie. Arte siquidem medicinæ potest
medicus adhibere remedia et non adhibere, quæ sunt contradictoria; et adhibere
remedia sana et nociva, quæ sunt contraria. Secunda differentia est quod
potentia activa irrationalis, præsente passo, necessario operatur, deductis
impedimentis: calor enim calefactibile sibi præsens calefacit necessario, si
nihil impediat; potentia autem rationalis, passo præsente, non necessario
operatur: præsente siquidem infirmo, non cogitur medicus remedia adhibere. It must be noted in this
connection that active potency, since it is the principle by which we act on
something else, is divided into rational and irrational potency, as is said in
IX Metaphysicæ [2: 1046a 36]. Rational potency operates in connection with
reason and choice; for example, the art of medicine by which the physician,
knowing and willing what is expedient in healing an illness, applies a remedy.
Irrational potency operates according to its own natural disposition, not
according to reason and liberty; for example, the heat of fire is an irrational
potency, because it heats, not as it knows and wills, but as its nature
requires. In the Metaphysics, a twofold difference between these potencies is
assigned which is relevant here. The first is that an irrational active potency
is not capable of two opposites, but is determined to one opposite, whether
"opposite” is taken contradictorily or contrarily; e.g., heat cannot heat
and not heat, which are opposed contradictorily; nor can it heat and cool,
which are contraries, but is deter mined to heating. Understand this per se,
for heat can cool accidentally, either by destroying the matter of heat,
namely, the humid, or through alternation of the contrary. It also has the
potentiality not to heat accidentally, if that which can be heated is lacking.
A rational potency, on the other hand, is capable of opposites, both
contradictorily and contrarily; for by the art of medicine the physician can
employ a remedy and not employ it, which are contradictories, and employ
healing and harmful remedies, which are contraries. The second difference is
that an irrational active potency necessarily operates when a subject is
present and impediments are with drawn; for heat necessarily heats when a
subject that can be heated is present, and nothing impedes it. A rational
potency, however, does not necessarily operate when a subject is present; e.g.,
when a sick man is present the physician is not forced to employ a remedy. 5. Dimittantur
autem metaphysico harum differentiarum rationes et ad textum redeamus. Ubi
narrans quomodo se habeat potentia irrationalis ad oppositum, ait: et primum
quidem, scilicet, non est verum dicere quod sit potentia ad opposita in his quæ
possunt non secundum rationem, idest, in his quorum posse est per potentias
irrationales; ut ignis calefactivus est, idest, potens calefacere, et habet
vim, idest, potentiam istam irrationalem. Ignis siquidem non potest frigefacere; neque in eius
potestate est calefacere et non calefacere. Quod autem dixit primum ordinem,
nota, ad secundum genus possibilis infra dicendum, in quo etiam non invenitur
potentia ad opposita. The reasons for
these differences are given in the Metaphysics, but let us return to the text.
Explaining bow an irrational potency is related to opposites, he says, First of
all, this is not true, i.e., it is not true to say that there is a potency to opposites
in those which are not according to reason, i.e., whose power is through
irrational potencies; as fire which is calefactive, i.e., capable of heating,
has this power, i.e., this irrational potentiality, since it is not able to
cool, nor is it in its power 4 to heat and not to heat. Note that he speaks
here of a first kind. This is in relation to a second genus of the possible
which he will speak of later, in which there is not a potency to opposites
either. 6. Secundo, manifestat quomodo potentia
rationalis se habeat ad opposita, intendens quod potentia rationalis potest in
opposita. Unde subdit: ergo potestates secundum rationem, idest rationales,
ipsæ eædem sunt contrariorum, non solum duorum, sed etiam plurimorum, ut arte
medicinæ medicus plurima iuga contrariorum adhibere potest, et a multarum
operationum contradictionibus abstinere potest. Præposuit autem ly ergo, ut hoc
consequi ex dictis insinuaret: cum enim oppositorum oppositæ sint proprietates,
et potentia irrationalis ex eo quod irrationalis ad opposita non se extendat;
oportet potentiam rationalem ad opposita viam habere, eo quod rationalis sit. Secondly, he shows how a
rational potency is related to opposites, i.e., it is capable of opposites:
Therefore potentialities that are in conjunction with reason, i.e., rational
potencies, are capable of contraries, not only of two, but even of many; for
example, a physician by the art of medicine can employ many pairs of contraries
and he can abstain from doing or not doing many things. He begins with
"therefore” so as to imply that this follows from what has been said.”’
The argument would be: properties of opposites are opposites; an irrational
potency, because it is irrational, does not extend itself to opposites;
therefore a rational potency, because it is rational, has access to opposites. V. lib. Tertio, explanat id quod
dixit de potentiis irrationalibus, propter causam infra assignandam ab ipso; et
intendit quod illud quod dixit de potentia irrationali, scilicet quod non
potest in opposita, non est verum universaliter, sed particulariter. Ubi nota quod potentia irrationalis dividitur in
potentiam activam, quæ est principium faciendi, et potentiam passivam, quæ est
principium patiendi: verbi gratia, potentia ad calorem dividitur in posse
calefacere, et in posse calefieri. In potentiis activis irrationalibus verum est quod non
possunt in opposita, ut declaratum est; in potentiis autem passivis non est
verum. Illud enim quod potest calefieri, potest etiam frigefieri, quia eadem
est materia, seu potentia passiva contrariorum, ut dicitur in II de cælo et
mundo, et potest non calefieri, quia idem est subiectum privationis et formæ,
ut dicitur in I Physic. Et propter hoc ergo explanando, ait: irrationales vero
potentiæ non omnes a posse in opposita excludi intelligendæ sunt, sed illæ quæ
sunt quemadmodum potentia ignis calefactiva (ignem enim non posse non
calefacere manifestum est), et universaliter, quæcunque alia sunt talis
potentiæ, quod semper agunt, idest quod quantum est ex se non possunt non
agere, sed ad semper agendum ex sua forma necessitantur. Huiusmodi autem sunt,
ut declaravimus, omnes potentiæ activæ irrationales. Alia vero sunt talis
conditionis quod etiam secundum irrationales potentias, scilicet passivas,
simul possunt in quædam opposita, ut ær potest calefieri et frigefieri. Quod
vero ait, simul, cadit supra ly possunt, et non supra ly opposita; et est
sensus, quod simul aliquid habet potentiam passivam ad utrunque oppositorum, et
non quod habeat potentiam passivam ad utrunque oppositorum simul habendum.
Opposita namque impossibile est haberi simul. Unde et dici solet et bene, quod
in huiusmodi est simultas potentiæ, non potentia simultatis. Irrationalis
igitur potentia non secundum totum suum ambitum a posse in opposita excluditur,
sed secundum partem eius, secundum potentias scilicet activas. Thirdly, he explains what he
has said about irrational potencies. He will assign the reason for doing this
later. He makes the point that what he has said about irrational potentiality,
i.e., that it is not capable of opposites, is not true universally, but
particularly. It should be noted here that irrational potency is divided into
active potency, which is the principle of acting, and passive potency, which is
the principle of being acted upon; e.g., potency to heat is divided into
potentiality to heat and potentiality to be heated. Now it is true that active
irrational potencies are not capable of opposites, as was explained. This is
not true, however, of passive potencies, for what can be heated can also be
cooled, because the mat ter is the same, i.e., the passive potency of
contraries, as is said in II De cælo et mundo [7: 286a 23]. It can also not be
heated, since the subject of privation and of form is the same, as is said in I
Physic [7: 189b 32]. Therefore, in explaining about irrational potencies, he
says, But not all irrational potentialities should be understood to be excluded
from the capacity of opposites. Those like the potentiality of fire to heat are
to be excluded (for it is evident that fire cannot not heat) I and universally,
whatever others are potencies of such a kind that they always act, i.e., the
ones that of themselves cannot not act, but are necessitated by their form
always to act. All active irrational potencies are of this kind, as we have
explained. There are others, however, of such a condition that even though they
are irrational potencies (i.e., passive) are simultaneously capable of certain
opposites; for example, air can be heated and cooled. "Simultaneously”
modifies "are capable” and not "opposites.” What he means is that the
thing simultaneously has a passive potency to each opposite, and not that it
has a passive potency to have both opposites simultaneously, for it is
impossible to have opposites at one and the same time. Hence it is customary
and correct to say that in these there is simultaneity of potency, not potency
of simultaneity. Therefore, irrational potency is excluded from the capacity of
opposites, not completely, but according to its part, namely, according to
active potencies. Quia autem videbatur superflue addidisse differentias inter
activas et passivas irrationales, quia sat erat proposito ostendisse quod non
omnis potentia oppositorum est; ideo subdit quod hoc idcirco dictum est, ut
notum fiat quoniam nedum non omnis potestas oppositorum est, loquendo de
potentia communissime, sed neque quæcunque potentiæ dicuntur secundum eamdem
speciem ad opposita possunt. Potentiæ siquidem irrationales omnes sub una
specie irrationalis potentiæ concluduntur, et tamen non omnes in opposita
possunt, sed passive tantum. Non
supervacanea ergo fuit differentia inter passivas et activas irrationales, sed
necessaria ad declarandum quod non omnes potentiæ eiusdem speciei possunt in
opposita. Potest et ly hoc
demonstrare utranque differentiam, scilicet, inter rationales et irrationales,
et inter irrationales activas et passivas inter se; et tunc est sensus, quod
hoc ideo fecimus, ut ostenderemus quod non omnis potestas, quæ scilicet
secundum eamdem rationem potentiæ physicæ dicitur, quia scilicet potest in
aliquid ut rationalis et irrationalis, neque etiam omnis potestas, quæ sub
eadem specie continetur, ut irrationalis activa et passiva sub specie
irrationalis, ad opposita potest. Because it might seem superfluous to have added the
differences between active and passive irrational potencies, since enough had
already been said to show that not every potency is of opposites, Aristotle
gives the reason for this. It was not only to make it known that not every
potency is of opposites, speaking of potency most commonly, but also that not
all that are called potencies according to the same species are capable of
opposites. For all irrational potencies are included under one species of
irrational potency, and yet not all are capable of opposites, but only the
passive potencies. It was not superfluous, therefore, to point out the difference
between passive and active irrational potencies, since this was necessary in
order to show that not all potencies of the same species are capable of
opposites. " This” in the phrase "this has been said” could designate
each difference, the one between rational and irrational potencies, and the one
between active and passive irrational potencies. The meaning is, then, that we
have said this to show that not every potentiality which is said according to
the same notion of physical power—namely, because it can be in something as
rational and irrational—not even every potentiality which is contained under
the same species, as active and passive under the species irrational, is
capable of opposites. Intendit
declarare quomodo illæ quæ æquivocæ dicuntur potentiæ, se habeant ad opposita.
Et circa hoc duo facit: primo, declarat naturam talis potentiæ; secundo, ponit
differentiam et convenientiam inter ipsas et supradictas, ibi: et hæc quidem et
cetera. Ad evidentiam primi advertendum est quod V et IX Metaphys., Aristoteles
dividit potentiam in potentias, quæ eadem ratione potentiæ dicuntur, et in
potentias, quæ non ea ratione qua prædictæ potentiæ nomen habent, sed alia. Et has appellat æquivoce
potentias. Sub primo membro comprehenduntur omnes potentiæ activæ, et passivæ,
et rationales, et irrationales. Quæcunque enim posse dicuntur per potentiam
activam vel passivam quam habeant, eadem ratione potentiæ sunt, quia scilicet
est in eis vis principiata alicuius activæ vel passivæ. Sub secundo autem
membro comprehenduntur potentiæ mathematicales et logicales. Mathematica
potentia est, qua lineam posse dicimus in quadratum, et eo quod in semetipsam
ducta quadratum constituit. Logica
potentia est, qua duo termini coniungi absque contradictione in enunciatione
possunt. Sub logica quoque potentia continetur quæ ea ratione potentia dicitur,
quia est. Hæ vero merito æquivoce a primis potentiæ dicuntur, eo quod istæ
nullam virtutem activam vel passivam prædicant; et quod possibile istis modis
dicitur, non ea ratione possibile appellatur quia aliquis habeat virtutem ad
hoc agendum vel patiendum, sicut in primis. Unde cum potentiæ habentes se ad
opposita sint activæ vel passivæ, istæ quæ æquivocæ potestates dicuntur ad
opposita non se habent. De his ergo loquens ait: quædam vero potestates æquivocæ sunt, et ideo ad
opposita non se habent. Aristotle now
proposes to show in what way potencies that are called equivocal are related to
opposites. He first explains the nature of this kind of potency, and then gives
the difference and agreement all between these and the foresaid, where he says,
This latter potentiality is only in that which is movable, but the former is
also in the immovable, etc. In V and IX Metaphysicæ [V, 12: 1019a 15; 12, 1:
1046a 4], Aristotle divides potency into those that are called potencies for
the same reason, and those that have the name potency for another reason than
the aforesaid potencies. The latter are named "potencies” equivocally.
Under the first member are included all active and passive, rational and
irrational potencies, for whatever are said to be possible through the active
or passive potency they have, are potencies for the same reason, i.e., because
there is in them the originative force of something active or passive.
Mathematical and logical potencies are included under the second member of this
division. That by which a line can lead to a square we call a mathematical
potency, for a line constitutes a square when protracted back to itself. That
by which two terms can be joined in an enunciation without contradiction is a
logical potency. Logical potency also comprises that which is called
"potency” because it is. The latter [mathematical and logical potencies]
are named from the former equivocally because they predicate no active or
passive capacity; and what is said to be possible in these ways is not termed
possible in virtue of having the capacity to do or undergo as in the first
case. Hence, since the potencies related to opposites are active or passive,
the ones that are called potentialities equivocally are not related to
opposites. These, then, are the potencies he speaks of when he says But some
are called potentialities equivocally, and therefore they are not related to
opposites. V. lib. 2 l. 12 n. 2Deinde declarans
qualis sit ista potestas æquivoce dicta, subdit divisionem usitatam possibilis
per quam hoc scitur, dicens: possibile enim non uno modo dicitur, sed duobus. Et uno quidem modo dicitur
possibile eo quod verum est ut in actu, idest ut actualiter est; ut, possibile
est ambulare, quando ambulat iam: et omnino, idest universaliter possibile est
esse, quoniam est actu iam quod possibile dicitur. Secundo modo autem possibile
dicitur aliquid non ea ratione quia est actualiter, sed quia forsitan aget,
idest quia potest agere; ut possibile est ambulare, quoniam ambulabit. Ubi
advertendum est quod ex divisione bimembri possibilis divisionem supra positam
potentiæ declaravit a posteriori. Possibile enim a potentia dicitur: sub primo
siquidem membro possibilis innuit potentias æquivoce; sub secundo autem
potentias univoce, activas scilicet et passivas. Intendebat ergo quod quia
possibile dupliciter dicitur, quod etiam potestas duplex est. Declaravit autem
potestates æquivocas ex uno earum membro tantum, scilicet ex his quæ dicuntur
possibilia quia sunt, quia hoc sat erat suo proposito. To clarify the kind of
potency that is called equivocal, he gives the usual division of the possible
through which this is known. "Possible,” he says, is not said in one way,
but in two. Something is said to be possible because it is true as in act,
i.e., inasmuch as it actually is; for example, it is possible to walk when one
is already walking, and in gene eral, i.e., universally, that is said to be
possible which is possible to be because it is already in act. Something is
said to be possible in the second way, not because it actually is, but because
it is about to act, i.e., because it can act; for instance, it is possible for
someone to walk because be is about to walk. Notice here that by this
two-membered division of the possible he makes the division of potency posited
above evident a posteriori, for the possible is named from potency. Under the
first member of the possible he signifies potencies equivocally; under the
second, potencies univocally, i.e., active and passive potencies. He means to
show, then, that since possible is said in two ways, potentiality is also
twofold. He explains equivocal potentialities in terms of only one member,
namely, those that are called possible because they are, since this was
sufficient for his purpose. V. lib. Deinde cum dicit: et hæc quidem etc., assignat
differentiam inter utranque potentiam, et ait quod potentia hæc ultimo dicta
physica, est in solis illis rebus, quæ sunt mobiles; illa autem est et in rebus
mobilibus et immobilibus. Possibile siquidem a potentia dictum eo quod possit
agere, non tamen agit, inveniri non potest absque mutabilitate eius, quod sic
posse dicitur. Si enim nunc potest agere et non agit, si agere debet, oportet
quod mPombaur de otio ad operationem. Id autem quod possibile dicitur eo quod
est, nullam mutabilitatem exigit in eo quod sic possibile dicitur. Esse namque
in actu, quod talem possibilitatem fundat, invenitur et in rebus necessariis,
et in immutabilibus, et in rebus mobilibus. Possibile ergo hoc, quod logicum vocatur, communius
est illo quod physicum appellari solet. When he says, This latter potentiality
is only in that which is movable, but the former is also in the immovable,
etc., he specifies the difference between each potency. This last potency, he
says, [possible because it can be] which is called physical potency, is only in
things that are movable; but the former is in movable and immovable things. The
possible that is named from the potency which can act, but is not yet acting,
cannot be found without the mutability of that which is said to be possible in
this way. For if that which can act now and is not acting, should act, it is
necessary that it be changed from rest to operation. On the other hand, that
which is called possible because it is, requires no mutability in that which is
said to be possible in this way, for to be in act, which is the basis of such a
possibility, is found in necessary things, in immutable things, and in mobile
things. Therefore, the possible which is called logical, is more common than
the one we customarily call physical. V. lib. Deinde subdit convenientiam inter
utrunque possibile, dicens quod in utrisque potestatibus et possibilibus verum
est non impossibile esse, scilicet, ipsum ambulare, quod iam actu ambulat seu
agit, et quod iam ambulabile est; idest, in hoc conveniunt quod, sive dicatur
possibile ex eo quod actu est, sive ex eo quod potest esse, de utroque
verificatur non impossibile; et consequenter necessario verificatur possibile,
quoniam ad non impossibile sequitur possibile. Hoc est secundum genus
possibilis, respectu cuius Aristoteles supra dixit: et primum quidem etc., in
quo non invenitur via ad utrunque oppositorum, hoc, inquam, est possibile quod
iam actu est. Quod enim tali ratione possibile dicitur, iam determinatum est ex
eo quod actu esse suppositum est. Non ergo possibile omne ad utrunque possibile
est, sive loquamur de possibili physice, sive logice.Then he shows that there
is a correspondence between these possibles when he adds that not impossible to
be is true of both of these potentialities and possibles, e.g., to walk is not
impossible for that which is already walking in act, i.e., acting, and it is
not impossible for that which could now walk; that is, they agree in that not
impossible is verified of both—of either what is said to be possible from the
fact that it is in act or of what is said to be possible from the fact that it
could be. Consequently, the necessary is verified as possible, for possible
follows upon not impossible. The possible that is already in act is the second
genus of the possible in which access is not found to both opposites, of which
Aristotle spoke when he said, First of all this is not true of the
potentialities which are not according to reason, etc. For that which is said
to be possible because it is already in act is already determined, since it is
supposed as being in act. Therefore, not every possible is the possible of
alternatives, whether we speak of the physical possible or the logical. V. lib. Deinde cum dicit: sic igitur possibile etc.,
applicat determinatam veritatem ad propositum. Et primo, concludendo ex dictis,
declarat habitudinem utriusque possibilis ad necessarium, dicens quod hoc ergo
possibile, scilicet physicum quod est in solis mobilibus, non est verum dicere
et prædicare de necessario simpliciter: quia quod simpliciter necessarium est,
non potest aliter esse. Possibile autem physicum potest sic et aliter esse, ut dictum est. Addit
autem ly simpliciter, quoniam necessarium est multiplex. Quoddam enim est ad
bene esse, quoddam ex suppositione: de quibus non est nostrum tractare, sed
solummodo id insinuare. Quod ut præservaret se ab illis modis necessarii qui
non perfecte et omnino habent necessarii rationem, apposuit ly simpliciter. De tali enim necessario possibile physicum non
verificatur. Alterum autem possibile logicum, quod in rebus immobilibus
invenitur, verum est de illo enunciare, quoniam nihil necessitatis adimit. Et
per hoc solvitur ratio inducta ad partem negativam quæstionis. Peccabat
siquidem in hoc, quod ex necessario inferebat possibile ad utrunque quod
convertitur in oppositam qualitatem. When he says, So it is not true to say the latter
possible of what is necessary simply, etc., he applies the truth he has
determined to what has been proposed. First, by way of a conclusion from what
has been said, he shows the relationship of each possible to the necessary. So,
he says, it is not true to say and predicate this possible, namely physical,
which is only in mobile things, of the necessary simply, because what is
necessary simply cannot be otherwise. The physical possible, however, can be
thus and otherwise, as has been said. He adds "simply” because the
necessary is manifold. There is the necessary for well-being and there is also
the necessary from supposition, but it is not our business to treat these, only
to indicate them. In order, then, to avoid the modes of the necessary that do
not have the notion of the necessary perfectly and in every way, he adds
"simply.” Now the physical possible is not verified of this kind of
necessary [i.e., of the necessary simply], but it is true to enunciate the
logical possible, the one found in immovable things, of the necessary, since it
takes away nothing of the necessity. The argument introduced for the negative
part of this question”’ is destroyed by this. The error in that argument was
the inference—by way of conversion into the opposite quality—of the possible to
both alternatives from the necessary. V. lib. Deinde respondet quæstioni
formaliter intendens quod affirmativa pars quæstionis tenenda sit, quod
scilicet ad necessarium sequitur possibile; et assignat causam. Quia ad partem
subiectivam sequitur constructive suum totum universale; sed necessarium est
pars subiectiva possibilis: quia possibile dividitur in logicum et physicum, et
sub logico comprehenditur necessarium; ergo ad necessarium sequitur possibile.
Unde dicit: quare, quoniam partem, scilicet subiectivam, suum totum universale
sequitur, illud quod ex necessitate est, idest necessarium, tamquam partem
subiectivam, consequitur posse esse, idest possibile, tamquam totum universale.
Sed non omnino, idest sed non ita quod omnis species possibilis sequatur; sicut
ad hominem sequitur animal, sed non omnino, idest non secundum omnes suas
partes subiectivas sequitur ad hominem: non enim valet: est homo, ergo est
animal irrationale. Et per hoc confirmata ratione adducta ad partem affirmativam,
expressius solvit rationem adductam ad partem negativam, quæ peccabat secundum
fallaciam consequentis, inferens ex necessario possibile, descendendo ad unam
possibilis speciem, ut de se patet. Then he replies to the question formally.
He states that the affirmative part of the question must be held, namely, that
the possible follows upon the necessary. Next, he assigns the cause. The whole
universal follows constructively upon its subjective part; but the necessary is
a subjective part of the possible, because the possible is divided into logical
and physical and under the logical is comprehended the necessary; therefore,
the possible follows upon the necessary. Hence he says, Therefore, since the
universal follows upon the part, i.e., since the whole universal follows upon
its subjective part, to be possible to be, i.e., possible, as the whole
universal, follows upon that which necessarily is, i.e., necessary, as a
subjective part. He adds: though not every kind of possible does, i.e., not
every species of the possible follows; just as animal follows upon man, but not
in every way, i.e., it does not follow upon man according to all its subjective
parts, for it is not valid to say, "He is a man, therefore he is an
irrational animal.” By this proof of the validity of the affirmative part,
Aristotle has explicitly destroyed the reasoning adduced for the negative part,
which, as is evident, erred according to the fallacy of the consequent in
inferring the possible from the necessary by descending to one species of the
possible. V. lib. Deinde cum dicit: et est fortasse quidem etc., ordinat easdem
modalium consequentias alio situ, præponendo necessarium omnibus aliis modis. Et circa hoc duo facit: primo,
proponit quod intendit; secundo, assignat causam dicti ordinis; ibi: manifestum
est autem et cetera. Dicit ergo: et est fortasse principium omnium
enunciationum modalium vel esse vel non esse, idest, affirmativarum vel negativarum,
necessarium et non necessarium. Et
oportet considerare alia, scilicet, possibile contingere et impossibile esse,
sicut horum, scilicet, necessarii et non necessarii, consequentia, hoc modo:
consequentiæ enunciationum modalium secundum quatuor ordines alio convenienti
situ ab Aristotele positæ et ordinatæ: (Figura). Vides autem hic nihil
immutatum, nisi quod necessariæ quæ ultimum locum tenebant, primum sortitæ
sunt. Quod vero dixit
fortasse, non dubitantis, sed absque determinata ratione rem proponentis est.
When he says, Indeed the necessary and not necessary may well be the principle
of all that is or is not, etc., he disposes the same consequences of modals in
another arrangement, placing the necessary before all the other modes. First he
proposes the order of modals and then assigns the cause of the order where he
says, It is evident, then, from what has been said that that which necessarily
is, actually is, etc. Indeed, he says, the necessary and not necessary may well
be the principle of the "to be” or "not to be” of all modal
enunciations, i.e., the necessary and not necessary is the principle of
affirmatives or negatives. And the others, i.e., the possible, contingent, and
impossible to be must be considered as consequent to these, i.e., to the
necessary and not necessary. THE CONSEQUENTS OF MODAL ENUNCIATIONS ACCORDING TO
THE FOUR ORDERS, POSITED AND DISPOSED BY ARISTOTLE IN ANOTHER APPROPRIATE
ARRANGEMENT FIRST ORDER It is necessary to be It is not possible not to be It
is not contingent not to be It is impossible not to be SECOND ORDER It is
necessary not to be It is not possible to be It is not contingent to be It is
impossible to be It is not necessary to be It is possible not to be It is
contingent not to be It is not impossible not to be FOURTH ORDER It is not
necessary not to be It is possible to be It is contingent to be It is not
impossible to be Nothing is changed here except the enunciations predicating
necessity. They have been allotted the first place, whereas in the former table
they were placed last. When he says "may well be,” it is not because he is
in any doubt, but because he is proposing this here without a determinate
proof. 8. Deinde cum dicit: manifestum est autemetc., intendit assignare causam
dicti ordinis. Et primo, assignat causam, quare præposuerit necessarium
possibili tali ratione. Sempiternum est prius temporali; sed necessarium dicit
sempiternitatem (quia dicit esse in actu, excludendo omnem mutabilitatem, et
consequenter temporalitatem, quæ sine motu non est imaginabilis), possibile
autem dicit temporalitatem (quia non excludit quin possit esse et non esse);
ergo necesse merito prius ponitur quam possibile. Unde dicit, proponendo
minorem: manifestum est autem ex his quæ dicta sunt etc., tractando de
necessario: quoniam id quod ex necessitate est, secundum actum est totaliter,
scilicet quia omnem excludit mutabilitatem et potentiam ad oppositum: si enim
mutari posset in oppositum aliquo modo, iam non esset necessarium. Deinde
subdit maiorem per modum antecedentis conditionalis: quare si priora sunt
sempiterna temporalibus et cetera. Ultimo ponit conclusionem: et quæ actu sunt
omnino, scilicet necessaria, priora sunt potestate, idest possibilibus, quæ
omnino actu esse non possunt, licet compatiantur. When he says, It is evident,
then, from what has been said that that which necessarily is, actually is,
etc., he gives the cause of this order. First he gives the reason for placing
the necessary before the possible: the sempiternal is prior to the temporal;
but "necessary” signifies sempiternal (because it signifies "to be in
act,” excluding all mutability and consequently temporality, which is not
imaginable without movement) and the possible signifies temporality (since it
does not exclude the possibility of being and not being); therefore, the
necessary is rightly placed before the possible. He proposes the minor of this
argument when he says, It is evident, then, from what has been said in treating
the necessary, that that which necessarily is, is totally in act, since it
excludes all mutability and potency to the opposite—for if it could be changed
into the opposite in any way, then it would not be necessary. Next he gives the
major, which is in the mode of an antecedent conditional: and if eternal things
are prior to temporal, etc. Finally, he posits the conclusion: those that are
wholly in act in every way, namely necessary, are prior to the potential, i.e.,
to possibles, which do not have being in act wholly although they are
compatible with it. V. lib. 2 l. 12 n. 9Deinde cum dicit: et hæ quidem etc., assignat causam
totius ordinis a se inter modales statuti, tali ratione. Universi triplex est
gradus. Quædam sunt actu sine potestate, idest sine admixta potentia, ut primæ
substantiæ, non illæ quas in præsenti diximus primas, eo quod principaliter et
maxime substent, sed illæ quæ sunt primæ, quia omnium rerum sunt causæ,
intelligentiæ scilicet. Alia sunt actu cum possibilitate, ut omnia mobilia, quæ
secundum id quod habent de actu sunt priora natura seipsis secundum id quod
habent de potentia, licet e contra sit, aspiciendo ordinem temporis. Sunt enim
secundum id quod habent de potentia priora tempore seipsis secundum id quod
habent de actu. Verbi gratia, Socrates prius secundum tempus poterat esse
philosophus, deinde fuit actualiter philosophus. Potentia ergo præcedit actum secundum ordinem
temporis in Socrate, ordine autem naturæ, perfectionis et dignitatis e converso
contingit. Prior enim secundum dignitatem, idest dignior et perfectior
habebatur Socrates cum philosophus actualiter erat, quam cum philosophus esse
poterat. Præposterus est igitur ordo potentiæ et actus in unomet, utroque
ordine, scilicet, naturæ et temporis attento. Alia vero nunquam sunt actu sed
potestate tantum, ut motus, tempus, infinita divisio magnitudinis, et infinita
augmentatio numeri. Hæc enim, ut IX Metaphys. dicitur, nunquam exeunt in actum,
quoniam eorum rationi repugnat. Nunquam enim aliquid horum ita est quin aliquid eius
expectetur, et consequenter nunquam esse potest nisi in potentia. Sed de his alio tractandum
est loco. Then he says, Some things are actualities without potentiality,
namely, the primary substances, etc. Here he assigns the cause of the whole
order established among modals. The grades of the universe are threefold. Some
things are in act without potentiality, i.e., not combined with potency. These
are the primary substances—not those we have called "first” in the present
work because they principally and especially sustain—but those that are first
because they are the causes of all things, namely, the Intelligences. In
others, act is accompanied with possibility, as is the case with all mobile
things, which, according to what they have of act, are prior in nature to
themselves according to what they have of potency, although the contrary is the
case in regard to the order of time. According to what they have of potency
they are prior in time to themselves according to what they have of act. For
example, according to time, Socrates first was able to be a philosopher, then
he actually was a philosopher. In Socrates therefore, potency precedes act
according to the order of time. The converse is the case, however, in the order
of nature, perfection, and dignity, for when he actually was a philosopher,
Socrates was regarded as prior according to dignity, i.e., more worthy and more
perfect than when he was potentially a philosopher. Hence, when we consider
each order, i.e., nature and time, in one and the same thing, the order of
potency and act is reversed. Others never are in act but are only in potency,
e.g., motion, time, the infinite division of magnitude, and the infinite augmentation
of number. These, as is said in IX Metaphysicæ, never terminate in act, for it
is repugnant to their nature. None of them is ever such that something of it is
not expected, and consequently they can only be in potency. These, however,
must be treated in another place. V. lib. Nunc hæc ideo dicta sint ut, inspecto ordine
universi, appareat quod illum imitati sumus in nostro ordine. Posuimus siquidem
primo necessarium, quod sonat actu esse sine potestate seu mutabilitate,
imitando primum gradum universi. Locavimus secundo loco possibile et
contingens, quorum utrunque sonat actum cum possibilitate, et sic servatur
conformitas ad secundum gradum universi. Præposuimus autem possibile et non
contingens, quia possibile respicit actum, contingens autem secundum vim
nominis respicit defectum causæ, qui ad potentiam pertinet: defectus enim
potentiam sequitur; et ex hoc conforme est secundæ parti universi, in qua actus
est prior potentia secundum naturam, licet non secundum tempus. Ultimum autem
locum impossibili reservavimus, eo quod sonat nunquam fore, sicut et ultima
universi pars dicta est illa, quæ nunquam actu est. Pulcherrimus igitur ordo
statutus est, quando divinus est observatus. This has been said so that once
the order of the universe has been seen it should appear that we were imitating
it in our present ordering. The necessary, which signifies "to be in act”
without potentiality or mutability, has been placed first, in imitation of the
first grade of the universe. We have put the possible and contingent, both of
which signify act with possibility, in second place in conformity with the
second grade of the universe. The possible has been Placed before the
contingent because the possible relates to act whereas the contingent, as the
force of the name suggests, relates to the defect of a cause-which pertains to
potency, for defect follows upon potency. The order of these is similar to the
order in the second part of the universe, where act is prior to potency
according to nature, though not according to time. We have reserved the last
place for the impossible because it signifies what never will be, just as the
last part of the universe is said to be that which is never in act. Thus, a
beautifully proportioned order is established when the divine is observed. V.
lib. Quia autem suppositæ modalium consequentiæ nil aliud sunt quam
æquipollentiæ earum, quæ ob varium negationis situm, qualitatem, vel
quantitatem, vel utranque mutantis, fiunt; ideo ad completam notitiam
consequentium se modalium, de earum qualitate et quantitate pauca admodum
necessaria dicenda sunt. Quoniam igitur natura totius ex partium naturis
consurgit, sciendum est quod subiectum enunciationis modalis et dicit esse vel
non esse, et est dictum unicum, et continet in se subiectum dicti; prædicatum
autem modalis enunciationis, modus scilicet, et totale prædicatum est (quia
explicite vel implicite verbum continet, quod est semper nota eorum quæ de
altero prædicantur: propter quod Aristoteles dixit quod modus est ipsa
appositio), et continet in se vim distributivam secundum partes temporis.
Necessarium enim et impossibile distribuunt in omne tempus vel simpliciter vel
tale; possibile autem et contingens pro aliquo tempore in communi. Since the consequents of
modals, i.e., those placed under each other, are their equivalents in meaning,
and these are produced by the varying position of the negation changing the
quality or quantity or both, a few things must be said about their quality and
quantity to complete our knowledge of them. The nature of the whole arises from
the parts, and therefore we should note the following things about the parts of
the modal enunciation. The subject of the modal enunciation asserts to be or
not to be, and is a singular dictum, and contains in itself the subject of the
dictum. The predicate of a modal enunciation, namely, the mode, is the total
predicate (since it explicitly or implicitly contains the verb, which is always
a sign of something predicated of another, for which reason Aristotle says that
the mode is a determining addition) and contains in itself distributive force
according to the parts of time. The necessary and impossible distribute in all
time either simply or in a limited way; the possible and contingent distribute
according to some time commonly. V. lib. Nascitur autem ex his quinque conditionibus
duplex in qualibet modali qualitas, et triplex quantitas. Ex eo enim quod tam
subiectum quam prædicatum modalis verbum in se habet, duplex qualitas fit,
quarum altera vocatur qualitas dicti, altera qualitas modi. Unde et supra
dictum est aliquam esse affirmativam de modo et non de dicto, et e converso. Ex
eo vero quod subiectum modalis continet in se subiectum dicti, una quantitas
consurgit, quæ vocatur quantitas subiecti dicti: et hæc distinguitur in universalem,
particularem et singularem, sicut et quantitas illarum de inesse. Possumus enim
dicere, Socratem, quemdam hominem, vel omnem hominem, vel nullum hominem,
possibile est currere. Ex eo autem quod subiectum unius modalis dictum unum
est, consurgit alia quantitas, vocata quantitas dicti; et hæc unica est
singularitas: secundum omne enim dictum cuiusque modalis singulare est istius
universalis, scilicet dictum. Quod ex eo liquet quod cum dicimus, hominem esse
album est possibile, exponitur sic, hoc dictum, hominem esse album, est
possibile. Hoc dictum autem singulare est, sicut et, hic homo. Propterea et
dicitur quod omnis modalis est singularis quoad dictum, licet quoad subiectum
dicti sit universalis vel particularis. Ex eo autem quod prædicatum modalis, modus
scilicet, vim distributivam habet, alia quantitas consurgit vocata quantitas
modi seu modalis; et hæc distinguitur in universalem et particularem. As a consequence of these
five conditions there is a twofold quality and a threefold quantity in any
modal. The twofold quality results from the fact that both the subject and the
predicate of a modal have a verb in them. One of these is called the quality of
the dictum, the other the quality of the mode. This is why it was said above
that there is an enunciation which is affirmative of mode and not of dictum,
and conversely. Of the threefold quantity of a modal enunciation, one arises
from the fact that the subject of the modal contains in it the subject of the
dictum. This is called the quantity of the subject of the dictum, and is
distinguished into universal, particular, and singular, as in the case of the
quantity of an absolute enunciation. For we can say: "That ‘Socrates,’
‘some man,’ ‘every man,”’ or "‘no man,’ run is possible’ " The second
quantity is that of the dictum, which arises from the fact that the subject of
one modal is one dictum. This is a unique singularity, for every dictum of a
modal is the singular of that universal, i.e.,dictum. "That man be white
is possible” means "This dictum, ‘that man be white,’ is possible.”
"This dictum” is singular in quantity, just as "this man” is. Hence,
every modal is singular with respect to dictum, although with respect to the
subject of the dictum it is universal or particular. The third quantity is that
of the mode, or modal quantity, which arises from the fact that the predicate
of the modal, i.e., the mode, has distributive force. This is distinguished
into universal and particular. V. lib. Ubi diligenter duo attendenda sunt. Primum est quod hoc est
singulare in modalibus, quod prædicatum simpliciter quantificat propositionem
modalem, sicut et simpliciter qualificat. Sicut enim illa est simpliciter
affirmativa, in qua modus affirmatur, et illa negativa, in qua modus negatur; ita
illa est simpliciter universalis cuius modus est universalis, et illa
particularis cuius modus est particularis. Et hoc quia modalis modi naturam
sequitur. Secundum attendendum (quod est causa istius primi) est, quod
prædicatum modalis, scilicet modus, non habet solam habitudinem prædicati
respectu sui subiecti, scilicet esse et non esse, sed habitudinem
syncategorematis distributivi, sed non secundum quantitatem partium
subiectivarum ipsius subiecti, sed secundum quantitatem partium temporis
eiusdem. Et merito. Sicut enim quia subiecti enunciationis de inesse propria
quantitas est penes divisionem vel indivisionem ipsius subiecti (quia est nomen
quod significat per modum substantiæ, cuius quantitas est per divisionem
continui: ideo signum quantificans in illis distribuit secundum partes
subiectivas), ita quia subiecti enunciationis modalis propria quantitas est
tempus (quia est verbum quod significat per modum motus, cuius propria
quantitas est tempus), ideo modus quantificans distribuit ipsum suum subiectum,
scilicet, esse vel non esse, secundum partes temporis. Unde subtiliter
inspicienti apparebit quod quantitas ista modalis proprii subiecti modalis
enunciationis quantitas est, scilicet, ipsius esse vel non esse. Ita quod illa
modalis est simpliciter universalis, cuius proprium subiectum distribuitur pro
omni tempore: vel simpliciter, ut, hominem esse animal est necessarium vel
impossibile; vel accepto, ut, hominem currere hodie, vel, dum currit, est
necessarium vel impossibile. Illa vero est particularis, in qua non pro omni,
sed aliquo tempore distributio fit in communi tantum; ut, hominem esse animal,
est possibile vel contingens. Est ergo et ista modalis quantitas subiecti sui
passio (sicut et universaliter quantitas se tenet ex parte materiæ), sed
derivatur a modo, non in quantum prædicatum est (quod, ut sic, tenetur
formaliter), sed in quantum syncategorematis officio fungitur, quod habet ex eo
quod proprie modus est. Now, there are
two things about modal enunciations that must be carefully noted. The
first—which is peculiar to modals—is that the predicate quantifies the modal
proposition simply, as it also qualifies it simply. For just as the modal
enunciation in which the mode is affirmed is affirmative simply, and negative
when the mode is negated, so the modal enunciation in which the mode is
universal is universal simply and particular in which the mode is particular.
The reason for this is that the modal follows the nature of the mode. The
second thing to be noted (which is the cause of the first) is that the
predicate of a modal, i.e., the mode, not only has the relationship of a
predicate to its subject (i.e., to "to be” and "not to be”), but also
has the relationship to the subject, of a distributive syncategorematic term,
which has the effect of distributing the subject, not according to the quantity
of its subjective parts, but according to the quantity of the parts of its
time. And rightly so, for just as the proper quantity of the subject of an
absolute enunciation varies according to the division or lack of division of
its subject (since the subject is a name which signifies in the mode of
substance, whose quantity is from the division of the continuous, and therefore
the quantifying sign distributes according to the subjective parts), so,
because the proper quantity of the subject of a modal enunciation is time
(since the subject is a verb, which signifies in the mode of movement, whose
proper quantity is time), the quantifying mode distributes the subject, i.e.,
"to be” or "not to be” according to the parts of time. Hence, we
arrive at the subtle point that the quantity of the modal is the quantity of
the proper subject of the modal enunciation, namely, of "to be” or
"not to be.” Therefore, a modal enunciation is universal simply when the
proper subject is distributed throughout all time, either simply, as in
"That man is an animal is necessary or impossible,” or taken in a limited
way, as in "That man is running today,” or "while he is running, is
necessary or impossible.” A modal enunciation is particular in which "to
be” or "not to be” is distributed, not throughout all time, but commonly
throughout some time, as in "That man is an animal is possible or
contingent.” This modal quantity is therefore also a property of its subject
(in that, universally, quantity comes from the matter) but is derived from the
mode, not insofar as it is a predicate (because, as such, it is understood
formally), but insofar as it performs a syncategorematic function, which it has
in virtue of the fact that it is properly a mode. V. lib. Sunt igitur modalium
(de propria earum quantitate loquendo) aliæ universales affirmativæ, ut illæ de
necessario, quia distribuunt ad semper esse; aliæ universales negativæ, ut illæ
de impossibili, quia distribuunt ad nunquam esse; aliæ particulares affirmativæ,
ut illæ de possibili et contingenti, quia distribuunt utrunque ad aliquando
esse; aliæ particulares negativæ, ut illæ de non necesse et non impossibili,
quia distribuunt ad aliquando non esse: sicut in illis de inesse, omnis,
nullus, quidam, non omnis, non nullus, similem faciunt diversitatem. Et quia,
ut dictum est, hæc quantitas modalium est inquantum modales sunt, et de his,
inquantum huiusmodi, præsens tractatus fit ab Aristotele; idcirco
æquipollentiæ, seu consequentiæ earum, ordinatæ sunt negationis vario situ,
quemadmodum æquipollentiæ illarum de inesse: ut scilicet, negatio præposita
modo faciat æquipollere suæ contradictoriæ; negatio autem modo postposita,
posita autem dicti verbo, suæ æquipollere contrariæ facit; præposita vero et
postposita suæ subalternæ, ut videre potes in consequentiarum figura ultimo ab
Aristotele formata. In qua, tali præformata oppositionum figura, clare videbis
omnes se mutuo consequentes, secundum alteram trium regularum æquipollere, et
consequenter, totum primum ordinem secundo contrarium, tertio contradictorium,
quarto vero subalternum. (Figura). Therefore, with respect to their proper
quantity, some modals are universal affirmatives, i.e., those of the necessary
because they distribute "to be” to all time. Others are universal
negatives, i.e., those of the impossible because they distribute "to be”
to no time. Still others are particular affirmatives, i.e., those signifying
the possible and contingent, for both of these distribute "to be” to some
time. Finally, there are particular negatives, i.e., those of the not necessary
and not impossible, for they distribute "not to be” to some time. This is
similar to the diversity in absolute enunciations from the use of "every,”
"no” "some,” not all,” and "not none.” Now, since this quantity
belongs to modals insofar as they are modals, as has been said, and since
Aristotle is now considering them in this particular respect, the modal
enunciations that are equivalent, i.e., their consequents, are ordered by the
different location of the negation, as is the case with absolute enunciations
that are equivalent. A negative placed before the mode makes an enunciation
equivalent to its contradictory; placed after the mode, i.e., with the verb of
the dictum, makes it equivalent to its contrary; placed before and after the
mode makes it equivalent to its subaltern, as you can see in the last table of
consequents given by Aristotle. In that table of oppositions, you see all the
mutual consequents, according to one of the three rules for making enunciations
equivalent. Consequently, the whole first order of equivalent enunciations is
contrary to the second, contradictory to the third, and the fourth is
subalternated to it. Necessary to be - contraries - Impossible to be subalterns
subalterns Possible to be - subcontraries - Contingent not to be TABLE OF
OPPOSITION OF EQUIPOLLENT MODALS This table is not V.’s but is a full
arrangement of the orders of modal enunciations asdeveloped in this lesson.
Close I Universal Affirmatives It is necessary to be It is not possible not to
be It is not contingent not to be It is impossible not to be contraries II
Universal Negatives It is necessary not to be It is not possible to be It is
not contingent to be It is impossible to be subalterns subalterns IV Particular
Affirmatives It is not necessary not to be It is possible to be It is
contingent to be It is not impossible to be subcontraries III Particular
Negatives It is not necessary to be It is possible not to be It is contingent
not to be It is not impossible not to be. XIII. 1 Postquam determinatum est de
enunciatione secundum quod diversificatur tam ex additione facta ad terminos,
quam ad compositionem eius, hic secundum divisionem a s. Thoma in principio
huius secundi factam, intendit Aristoteles tractare quandam quæstionem circa
oppositiones enunciationum provenientes ex eo quod additur aliquid simplici
enunciationi. Et circa hoc quatuor facit: primo, movet quæstionem secundo,
declarat quod hæc quæstio dependet ab una alia quæstione prætractanda; ibi: nam
si ea, quæ sunt in voce etc.; tertio, determinat illam aliam quæstionem; ibi:
nam arbitrari etc.; quarto, redit ad respondendum quæstioni primo motæ; ibi:
quare si in opinione et cetera. Quæstio
quam movere intendit est: utrum affirmativæ enunciationi contraria sit negatio
eiusdem prædicati, an affirmatio de prædicato contrario seu privativo? Unde
dicit: utrum contraria est affirmatio negationi contradictoriæ, scilicet, et
universaliter oratio affirmativa orationi negativæ; ut, affirmativa oratio quæ
dicit, omnis homo est iustus, illi contraria sit orationi negativæ, nullus homo
est iustus, aut illi, omnis homo est iniustus, quæ est affirmativa de prædicato
privativo? Et similiter ista
affirmatio, Callias est iustus, est ne contraria illi contradictoriæ negationi,
Callias non est iustus, aut illi, Callias est iniustus, quæ est affirmativa de
prædicato privativo? Now that he has
treated the enunciation as it is diversified by an addition made to the terms
and by an addition made to its composition (which is the division of the text
made by St. Thomas at the beginning of the second book), Aristotle takes up
another question about oppositions of enunciations. This question concerns the
oppositions that result from something added to the simple enunciation. First
he asks the question; secondly, he shows that this question depends upon
another, which must be treated first, where he says, For if those things that
are in vocal sound are determined by those in the intellect, etc.; third, he
settles the latter question where he says, It is false, course, to suppose that
opinions are to be defined as contrary because they are about contraries, etc.;
finally, he replies to the first question where he says, If, therefore, this is
the case with respect to opinion, and affirmations and negations in vocal sound
are signs of those in the soul, etc. The first question he raises is this: is the
contrary of an affirmative enunciation the negation of the same predicate or
the affirmation of a contrary or privative predicate? Hence he says, There is a
question as to whether the contrary of an affirmation is the contradictory
negation, and universally, whether affirmative speech is contrary to negative
speech. For instance, is affirmative speech which says "Every man is
just,” contrary to negative speech which says "No man is just,” or to the
affirmative of the privative predicate, "Every man is unjust”? And
similarly, is the affirmation "Callias is just” contrary to the
contradictory negation, "Callias is not just” or is it contrary to
"Callias is unjust,” the affirmative of the privative predicate? V. lib.
Ad evidentiam tituli huius quæstionis, quia hactenus indiscusse ab aliis est
relictus, considerare oportet quod cum in enunciatione sint duo, scilicet ipsa
enunciatio seu significatio et modus enunciandi seu significandi, duplex inter
enunciationes fieri potest oppositio, una ratione ipsius enunciationis, altera
ratione modi enunciandi. Si modos enunciandi attendimus, duas species
oppositionis in latitudine enunciationum inveniemus, contrarietatem scilicet et
contradictionem. Divisæ enim superius sunt enunciationes oppositæ in contrarias
et contradictorias. Contradictio inter enunciationes ratione modi enunciandi
est quando idem prædicatur de eodem subiecto contradictorio modo enunciandi; ut
sicut unum contradictorium nil ponit, sed alterum tantum destruit, ita una
enunciatio nil asserit, sed id tantum quod altera enunciabat destruit. Huiusmodi autem sunt omnes quæ
contradictoriæ vocantur, scilicet, omnis homo est iustus, non omnis homo est
iustus, Socrates est iustus, Socrates non est iustus, ut de se patet. Et ex hoc
provenit quod non possunt simul veræ aut falsæ esse, sicut nec duo
contradictoria. Contrarietas vero inter enunciationes ratione modi enunciandi
est quando idem prædicatur de eodem subiecto contrario modo enunciandi; ut
sicut unum contrariorum ponit materiam sibi et reliquo communem in extrema
distantia sub illo genere, ut patet de albo et nigro, ita una enunciatio ponit
subiectum commune sibi et suæ oppositæ in extrema distantia sub illo prædicato.
Huiusmodi quoque sunt omnes illæ quæ contrariæ in figura appellantur, scilicet,
omnis homo est iustus, omnis homo non est iustus. Hæ enim faciunt subiectum, scilicet hominem, maxime
distare sub iustitia, dum illa enunciat iustitiam inesse homini, non quocunque
modo, sed universaliter; ista autem enunciat iustitiam abesse homini, non
qualitercunque, sed universaliter. Maior enim distantia esse non potest quam
ea, quæ est inter totam universitatem habere aliquid et nullum de universitate
habere illud. Et ex hoc provenit quod non possunt esse simul veræ, sicut nec
contraria possunt eidem simul inesse; et quod possunt esse simul falsæ, sicut
et contraria simul non inesse eidem possunt. Si vero ipsam enunciationem sive
eius significationem attendamus secundum unam tantum oppositionis speciem, in
tota latitudine enunciationum reperiemus contrarietatem, scilicet secundum
veritatem et falsitatem: quia duarum enunciationum significationes entia
positiva sunt, ac per hoc neque contradictorie neque privative opponi possunt,
quia utriusque oppositionis alterum extremum est formaliter non ens. Et cum nec relative opponantur,
ut clarum est, restat ut nonnisi contrarie opponi possunt. Since this question has not
been discussed by others, we must begin by noting that there are two things in
an enunciation, namely, the enunciation itself, i.e., the signification, and
the mode of enunciating or signifying. Hence, a twofold opposition can be made
between enunciations, one by reason of the enunciation itself, the other by
reason of the mode of enunciating. If we consider the modes of enunciating, we
find two species of opposition among enunciations, namely, contrariety and
contradiction. This point was made earlier when opposed enunciations were
divided into contraries and contradictories. There is contradiction by reason
of mode of enunciating when the same thing is predicated of the same subject in
a contradictory mode; so that just as one of a pair of contradictories posits
nothing but only destroys the other, so one enunciation 4 asserts nothing, but
only destroys what the other was enunciating. All enunciations that are called
contradictories are of this kind; e.g., "Every man is just,” "Not
every man is just”; "Socrates is just,” "Socrates is not just.” It
follows from this that they cannot be at once true or false, just as two
contradictories cannot be at once. There is contrariety between enunciations by
reason of mode of enunciating when the same thing is predicated of the same
subject in a contrary mode of enunciating; so that just as one of a pair of
contraries posits matter common to itself and to the other which is at the
extreme distance under that genus—as is evident for instance in white and
black—so one enunciation posits a subject common to itself and its opposite at
the extreme distance under that predicate. All the enunciations in the diagram
that are called contrary are of this kind, for example, "Every man is
just,” "No man is just.” These make the subject "man” distant to the
greatest degree possible under justice, one enunciating justice to be in man,
not in any way, but universally, the other enunciating justice to be absent
from man, not in any way, but universally. For no distance can be greater than
the distance between the total number of things having something and none of
the total number of things having that thing. It follows that contrary enunciations
cannot be at once true, just as contraries cannot be in the same thing at once.
They can, however, be false at the same time, just as it is possible that
contraries not be in the same thing at the same time. If we consider the
enunciation itself (viz., its signification) according to only one species of
opposition, we will find in the whole range of enunciations an opposition of
contrariety, i.e., an opposition according to truth and falsity. The reason for
this is that the significations of two enunciations are positive, and
accordingly cannot be opposed either contradictorily or privatively because the
other extreme of both of these oppositions is formally non-being. And since
significations are not opposed relatively, as is evident, the only way they can
be opposed is contrarily. V. lib. 2 l. 13 n. 3Consistit autem ista contrarietas
in hoc quod duarum enunciationum altera alteram non compatitur vel in veritate
vel in falsitate, præsuppositis semper conditionibus contrariorum, scilicet
quod fiant circa idem et in eodem tempore. Patere quoque potest talem
oppositionem esse contrarietatem ex natura conceptionum animæ componentis et
dividentis, quarum singulæ sunt enunciationes. Conceptiones siquidem animæ
adæquatæ nullo alio modo opponuntur conceptionibus inadæquatis nisi contrarie,
et ipsæ conceptiones inadæquatæ, si se mutuo expellunt, contrariæ quoque
dicuntur. Unde verum et falsum, contrarie opponi
probatur a s. Thoma in I parte, qu. 17. Sicut ergo hic, ita et in
enunciationibus ipsæ significationes adæquatæ contrarie opponuntur inadæquatis,
idest veræ falsis; et ipsæ inadæquatæ, idest falsæ, contrarie quoque opponuntur
inter se, si contingat quod se non compatiantur, salvis semper contrariorum
conditionibus. Est igitur in enunciationibus duplex contrarietas, una ratione
modi, altera ratione significationis, et unica contradictio, scilicet ratione
modi. Et, ut confusio vitetur, prima contrarietas vocetur contrarietas modalis,
secunda contrarietas formalis. Contradictio autem non ad confusionis vitationem
quia unica est, sed ad proprietatis expressionem contradictio modalis vocari
potest. Invenitur autem contrarietas formalis enunciationum inter omnes
contradictorias, quia contradictoriarum altera alteram semper excludit; et
inter omnes contrarias modaliter quoad veritatem, quia non possunt esse simul
veræ, licet non inveniatur inter omnes quoad falsitatem, quia possunt esse
simul falsæ. The contrariety
spoken of here consists in this: of two enunciations one is not compatible with
the other either in truth or falsity—presupposing always the conditions for
contraries, that they are about the same thing and at once. It can be shown
that such opposition is contrariety from the nature of the conceptions of the
soul when composing and dividing, each of which is an enunciation. Adequate
conceptions of the soul are opposed to inadequate conceptions only contrarily,
and inadequate conceptions, if each cancels the other, are also called
contraries. It is from this that St. Thomas proves, in [Summa theologiæ] part
I, question 17, that the true and false are contrarily opposed. Therefore, as
in the conceptions of the soul, so in enunciations, adequate significations are
contrarily opposed to inadequate, i.e., true to false; and the inadequate,
i.e., the false, are also contrarily opposed among themselves if it happens
that they are not compatible, supposing always the conditions for contraries.
There is, therefore, in enunciations a twofold contrariety, one by reason of
mode, the other by reason of signification, and only one contradiction, that by
reason of mode. To avoid confusion, let us call the first contrariety modal and
the second formal. We may call contradiction modal—not to avoid confusion since
it is unique—but for propriety of expression. Formal contrariety is found
between all contradictory enunciations, since one contradictory always excludes
the other. It is also found between all modally contrary enunciations in regard
to truth, since they cannot be at once true. However it is not found between the
latter in regard to falsity, since they can be at once false. V. lib. Quia
igitur Aristoteles in hac quæstione loquitur de contrarietate enunciationum quæ
se extendit ad contrarias modaliter, et contradictorias, ut patet in principio
et in fine quæstionis (in principio quidem, quia proponit utrasque
contradictorias dicens: affirmatio negationi etc.; et contrarias modaliter
dicens: et oratio orationi etc., unde et exempla utrarunque statim subdit, ut
patet in littera. In fine vero, quia ibi expresse quam conclusit
esse contrariam affirmativæ universali veræ dividit, in contrariam modaliter
universalem negativam, scilicet, et contradictoriam: quæ divisio falsitate non
careret, nisi conclusisset contrariam formaliter, ut de se patet), quia,
inquam, sic accipit contrarietatem, ideo de contrarietate formali enunciationum
quæstio intelligenda est. Et est quæstio valde subtilis, necessaria et adhuc
nullo modo superius tacta. Est igitur titulus quæstionis; utrum affirmativæ
veræ contraria formaliter sit negativa falsa eiusdem prædicati, aut affirmativa
falsa de prædicato, vel contrario? Et sic patet quis sit sensus tituli, et
quare non movet quæstionem de quacunque alia oppositione enunciationum (quia
scilicet nulla alia in eis formaliter invenitur), et quod accipit
contrarietatem proprie et strictissime, licet talis contrarietas inveniatur
inter contradictorias modaliter et contrarias modaliter. Dictum vero fuit a s.
Thoma provenire hanc dubitationem ex eo quod additur aliquid simplici
enunciationi, quia si tantum simplices, idest, de secundo adiacente
enunciationes attendantur, non habet hæc quæstio radicem. Quia autem simplici
enunciationi, idest subiecto et verbo substantivo, additur aliquid, scilicet
prædicatum, nascitur dubitatio circa oppositionem, an illud additum in
contrariis debeat esse illudmet prædicatum, negatione apposita verbo, an debeat
esse prædicatum contrarium seu privativum, absque negatione præposita verbo. Aristotle in this question is
speaking of the contrariety of enunciations that extends to contraries modally
and to contradictories. This is evident from what he says in the beginning and
at the end of the question. In the beginning, he proposes both contradictories
when he says, an affirmation... to a negation, etc.; and contraries modally,
when he says, and in the case of speech whether the one saying... is opposed to
the one saying... etc. It is evident, too, from the examples immediately added.
At the end, he explicitly divides what he has concluded to be contrary to a
true universal affirmative, into the modally contrary universal negative and
the contradictory. It is clear at once that this division would be false unless
it comprised the contrary formally. Since he takes contrariety in this way the
question must be understood with respect to formal contrariety of enunciations.
This is a very subtle question and one that has to be treated and has not been
thus far. The question, therefore, is this: whether the formal contrary of the
true affirmative is the false negative of the same predicate or the false
affirmative of the privative predicate, i.e., of the contrary. The meaning of
the question is now clear, and it is evident why he does not ask about any
other oppositions of enunciations-no other opposition is found in them
formally. It is also evident that he is taking contrariety properly and
strictly, notwithstanding the fact that such contrariety is found among
contradictories modally and contraries modally. St. Thomas has already pointed
out that this question arises from the fact that something is added to the
simple enunciation, for as it far as simple enunciations are concerned, i.e.,
those with only a second determinant, there is no occasion for the question.
When, however, something is added, namely a predicate, to the simple enunciation,
i.e., to the subject and the substantive verb, the question arises as to
whether what ought to be added in contrary enunciations is the selfsame
predicate with a negation added to the verb or a contrary, i.e., privative,
predicate without a negation added to the verb. 5. Deinde cum dicit: nam siea
etc., declarat unde sumenda sit decisio huius quæstionis. Et duo facit: quia
primo declarat quod hæc quæstio dependet ex una alia quæstione, ex illa
scilicet: utrum opinio, idest conceptio animæ, in secunda operatione
intellectus, vera, contraria sit opinioni falsæ negativæ eiusdem prædicati, an
falsæ affirmativæ contrarii sive privativi. Et assignat causam, quare illa
quæstio dependet ex ista, quia scilicet enunciationes vocales sequuntur
mentales, ut effectus adæquati causas proprias, et ut significata signa
adæquata, et consequenter similis est in hoc utraque natura. Unde inchoans ab
hac causa ait: nam si ea quæ sunt in voce sequuntur ea, quæ sunt in anima, ut
dictum est in principio I libri, et illic, idest in anima, opinio contrarii
prædicati circa idem subiectum est contraria illi alteri, quæ affirmat reliquum
contrarium de eodem (cuiusmodi sunt istæ mentales enunciationes, omnis homo est
iustus, omnis homo est iniustus); si ita inquam est, etiam et in his affirmationibus
quæ sunt in voce, idest vocaliter sumptis, necesse est similiter se habere, ut
scilicet sint contrariæ duæ affirmativæ de eodem subiecto et prædicatis
contrariis. Quod si neque illic, idest in anima,
opinatio contrarii prædicati, contrarietatem inter mentales enunciationes
constituit, nec affirmatio vocalis affirmationi vocali contraria erit de
contrario prædicato, sed magis affirmationi contraria erit negatio eiusdem
prædicati. When Aristotle
says, For if those things that are in vocal sound are determined by those in
the intellect, etc.; he shows where we have to begin in order to settle this
question. First he shows that the question depends on another question, namely,
whether a true opinion (i.e., a conception of the soul in the second operation
of the intellect) is contrary to a false negative opinion of the same
predicate, or to a false affirmative of the contrary, i.e., privative,
predicate. Then he gives the reason why the former question depends on this.
Vocal enunciations follow upon mental as adequate effects upon proper causes
and as the signified upon adequate signs. So, in this the nature of each is
similar. He begins, then, with the reason for this dependence: For if those
things that are in vocal sound are determined by those in the intellect (as was
said in the beginning of the first book) and if in the soul, those opinions are
contrary which affirm contrary predicates about the same subject, (for example,
the mental enunciations, "Every man is just, "Every man is unjust”),
then in affirmations that are in vocal sound, the case must be the same. The
contraries will be two affirmatives about the same subject with contrary
predicates. But if in the soul this is not the case, i.e., that opinions with
contrary predicates constitute contrariety in mental enunciations, then the
contrary of a vocal affirmation will not be a vocal affirmation with a contrary
predicate. Rather, the contrary of an affirmation will be the negation of the
same predicate. V. lib. Dependet ergo mota quæstio ex ista alia sicut effectus
ex causa. Propterea et concludendo addit secundum, quod scilicet de hac
quæstione prius tractandum est, ut ex causa cognita effectus innotescat dicens:
quare considerandum est, opinio vera cui opinioni falsæ contraria est: utrum negationi
falsæ an certe ei affirmationi falsæ, quæ contrarium esse opinatur. Et ut
exemplariter proponatur, dico hoc modo: sunt tres opiniones de bono, puta vita:
quædam enim est ipsius boni opinio vera, quoniam bonum est, puta, quod vita sit
bona; alia vero falsa negativa, scilicet, quoniam bonum non est, puta, quod
vita non sit bona; alia item falsa affirmativa contrarii, scilicet, quoniam
malum est, puta, quod vita sit mala. Quæritur ergo quæ harum falsarum contraria
est veræ? The first question, then, depends on this question as an effect upon
its cause. For this reason, and by way of a conclusion to what he has just been
saying, he adds the second question, which must be treated first so that once
the cause is known the effect will be known: We must therefore consider to
which false opinion the true opinion is contrary, whether it is to the false
negation or to the false affirmation that it is to be judged contrary. Then in
order to propose the question by examples he says: what I mean is this; there
are three opinions of a good, for instance, of life. One is a true opinion,
that it is good, for instance, that life is good. The other is a false
negative, that it is not good, for instance, that life is not good. Still
another, likewise false, is the affirmative of the contrary, that it is evil,
for instance, that life is evil. The question is, then, which of these false
opinions is contrary to the true one. V. lib. Quod autem subdidit: et si est
una, secundum quam contraria est, tripliciter legi potest. Primo, dubitative,
ut sit pars quæstionis; et tunc est sensus: quæritur quæ harum falsarum
contraria est veræ: et simul quæritur, si est tantum una harum falsarum
secundum quam fiat contraria ipsi veræ: quia cum unum uni sit contrarium, ut
dicitur in X metaphysicæ, quærendo quæ harum sit contraria, quæremus etiam an
una earum sit contraria. Alio modo, potest legi adversative, ut sit sensus:
quæritur quæ harum sit contraria; quamquam sciamus quod non utraque sed una
earum est secundum quam fit contrarietas. Tertio modo, potest legi dividendo
hanc particulam, et si est una, ab illa sequenti, secundum quam contraria est;
et tunc prima pars expressive, secunda vero dubitative legitur; et est sensus:
quæritur quæ harum falsarum contraria est veræ, non solum si istæ duæ falsæ
inter se differunt in consequendo, sed etiam si utraque est una, idest alteri
indivisibiliter unita, quæritur secundum quam fit contrarietas. Et hoc modo
exponit Boethius, dicens quod Aristoteles apposuit hæc verba propter contraria
immediata, in quibus non differt contrarium a privativo. Inter contraria enim mediata et immediata hæc est
differentia, quod in immediatis a privativo contrarium non infertur. Non enim valet, corpus
colorabile est non album, ergo est nigrum: potest enim esse rubrum. In immediatis
autem valet; verbi gratia: animal est non sanum, ergo infirmum; numerus est non
par, ergo impar. Voluit ergo Aristoteles exprimere quod nunc, cum quærimus quæ
harum falsarum, scilicet negativæ et affirmativæ contrarii, sit contraria
affirmativæ veræ, quærimus universaliter sive illæ duæ falsæ indivisibiliter se
sequantur, sive non. Then he adds, the
question, and if there is one, is either one the contrary. This passage can be
read in three ways. It can be read inquiringly so that it is a part of the
question, and then the meaning is: which of these false opinions is contrary to
the true opinion, and, is there one of these by which the contrary to the true
one is effected? For since one is contrary to one other, as is said in X
Metaphysicæ, in asking which of these is the contrary we are also asking
whether one of them is the contrary. This can also be read adversatively, and
then the meaning is: which of these is the contrary, given that we know it is
not both but one by which the contrariety is effected? This can be read in a
third way by dividing the first clause, "and if it is one” from the second
clause, "is either one the contrary.” The first part is then read
assertively, the second inquiringly, and the meaning is: which of these two
false opinions is contrary to the true opinion if the two false opinions differ
as to consequence, and also if both are one, i.e., united to each other
indivisibly? BOEZIO explains this passage in the last way. He says that
Aristotle adds these words because of immediate contraries in which the
contrary does not differ from the privative. For the difference between mediate
and immediate contraries is that in the former the contrary is not inferred
from the privative. For example, this is not valid: "A colored body is not
white, therefore it is black”—for it could be red. In immediate contraries, on
the other hand, it is valid to infer the contrary from the privative; e.g.,
"An animal is not healthy, therefore it is number is not even, therefore
it is odd.” Therefore, Aristotle intends to show here that when we ask which of
these false opinions, i.e., negative and affirmative contraries, is contrary to
the true affirmative, we are asking universally whether these two false
opinions follow each other indivisibly or not. 8. Deinde cum dicit: nam
arbitrari, prosequitur hanc secundam quæstionem. Et circa hoc quatuor facit.
Primo, declarat quod contrarietas opinionum non attenditur penes contrarietatem
materiæ, circa quam versantur, sed potius penes oppositionem veri vel falsi;
secundo, declarat quod non penes quæcunque opposita secundum veritatem et
falsitatem est contrarietas opinionum; ibi: si ergo boni etc.; tertio,
determinat quod contrarietas opinionum attenditur penes per se primo opposita
secundum veritatem et falsitatem tribus rationibus; ibi: sed in quibus primo
fallacia etc.; quarto declarat hanc determinationem inveniri in omnibus veram;
ibi: manifestum est igitur et cetera. Dicit ergo proponens intentam
conclusionem, quod falsum est arbitrari opiniones definiri seu determinari
debere contrarias ex eo quod contrariorum obiectorum sunt. Et adducit ad hoc
duplicem rationem. Prima est: opiniones contrariæ non sunt eadem opinio; sed
contrariorum eadem est fortasse opinio; ergo opiniones non sunt contrariæ ex
hoc quod contrariorum sunt. Secunda est: opiniones contrariæ non sunt simul
veræ; sed opiniones contrariorum, sive plures, sive una, sunt simul veræ
quandoque; ergo opiniones non sunt contrariæ ex hoc quod contrariorum sunt.
Harum rationum, suppositis maioribus, ponit utriusque minoris declarationem
simul, dicens: boni enim, quoniam bonum est, et mali, quoniam malum est, eadem
fortasse opinio est, quoad primam. Et subdit esse vera, sive plures sive una sit, quoad
secundam. Utitur autem dubitativo adverbio et disiunctione, quia non est
determinandi locus an contrariorum eadem sit opinio, et quia aliquo modo est
eadem et aliquo modo non. Si enim loquamur de habituali opinione, sic eadem
est; si autem de actuali, sic non eadem est. Alia siquidem mentalis compositio
actualiter fit, concipiendo bonum esse bonum, et alia concipiendo malum esse
malum, licet eodem habitu utrunque cognoscamus, illud per se primo, et hoc
secundario, ut dicitur IX metaphysicæ. Deinde subdit quod ista quæ ad
declarationem minorum sumpta sunt, scilicet bonum et malum, contraria sunt
etiam contrarietate sumpta stricte in moralibus, ac per hoc congrua usi sumus
declaratione. Ultimo inducit conclusionem. Sed non in eo quod contrariorum
opiniones sunt, contrariæ sunt, sed magis in eo quod contrariæ, idest, sed
potius censendæ sunt opiniones contrariæ ex eo quod contrariæ adverbialiter,
scilicet contrario modo, idest vere et false enunciant. Et sic patet primum. When he
says, It is false, of course, to suppose that opinions are to be defined as
contrary because they are about contraries, etc., he proceeds with the second
question. First he shows that contrariety of opinions is not determined by the
contrariety of the matter involved, but rather by the opposition of true and
false; secondly, he shows that there is not contrariety of opinions in just any
opposites according to truth and falsity, where he says, Now if there is the
opinion of that which is good, that it is good, and the opinion that it is not
good, etc.; third, he determines that contrariety of opinions is concerned with
the per se first opposites; according to truth and falsity, for three reasons,
where he says, Rather, those opinions in which there is fallacy must be posited
as contrary to true opinions, etc.; finally, he shows that this determination
is true of all, where he says, It is evident that it will make no difference if
we posit the affirmation universally, for the universal negation will be the
contrary, etc. Aristotle says, then, proposing the conclusion he intends to
prove, that it is false to suppose that opinions are to be defined or
determined as contrary because they are about contrary objects. He gives two
arguments for this. Contrary opinions are not the same opinion; but opinions
about contraries are probably the same opinion; therefore, opinions are not
contrary from the fact that they are about contraries. And, contrary opinions
are not simultaneously true; but opinions about contraries, whether many or
one, are sometimes true simultaneously; therefore, opinions are not contraries
because they are about contraries. Having supposed the majors of these
arguments, he posits a manifestation of each minor at the same time. In
relation to the first argument, he says, for the opinion of that which is good,
that it is good, and of that which is evil, that it is evil are probably the
same. In relation to the second argument he adds: and, whether many or one, are
true. He uses "probably,” an adverb expressing doubt and disjunction,
because this is not the place to determine whether the opinion of contraries is
the same opinion, and, because in some way the opinion is the same and in some
way not. In the case of habitual opinion, the opinion of contraries is the
same, but in the case of an actual opinion it is not. One mental composition is
actually made in conceiving that a good is good and another in conceiving that
an evil is evil, although we know both by the same habit, the former per se and
first, the latter secondarily, as is said in IX Metaphysicæ [4: 1051a 4]. Then
he adds that good and evil—which are used for the manifestation of the
minor—are contraries even when the contrariety is taken strictly in moral
matters; and so in using this our exposition is apposite. Finally, he draws the
conclusion: however, opinions are not contraries because they are about
contraries, but rather because they are contraries, i.e., opinions are to be
considered as contrary from the fact that they enunciate contrarily,
adverbially, i.e., in a contrary mode, i.e., they enunciate truly and falsely.
Thus the first argument is clear. V. lib. Si ergo boni et cetera. Quia dixerat
quod contrarietas opinionum accipitur secundum oppositionem veritatis et
falsitatis earum, declarat modo quod non quæcunque secundum veritatem et
falsitatem oppositæ opiniones sunt contrariæ, tali ratione. De bono, puta, de iustitia,
quatuor possunt opiniones haberi, scilicet quod iustitia est bona, et quod non
est bona, et quod est fugibilis, et quod est non appetibilis. Quarum prima est
vera, reliquæ sunt falsæ. Inter quas hæc est diversitas quod, prima negat idem
prædicatum quod vera affirmabat; secunda affirmat aliquid aliud quod bono non
inest; tertia negat id quod bono inest, non tamen illud quod vera affirmabat.
Tunc sic. Si omnes opiniones secundum veritatem et falsitatem sunt contrariæ,
tunc uni, scilicet veræ opinioni non solum multa sunt contraria, sed etiam
infinita: quod est impossibile, quia unum uni est contrarium. Tenet
consequentia, quia possunt infinitæ imaginari opiniones falsæ de una re similes
ultimis falsis opinionibus adductis, affirmantes, scilicet ea quæ non insunt
illi, et negantes ea quæ illi quocunque modo coniuncta sunt: utraque namque
indeterminata esse et absque numero constat. Possumus enim opinari quod
iustitia est quantitas, quod est relatio, quod est hoc et illud; et similiter
opinari quod iustitia non sit qualitas, non sit appetibilis, non sit habitus.
Unde ex supradictis in propositione quæstionis, inferens pluralitatem falsarum
contra unam veram, ait: si ergo est opinatio vera boni, puta iustitiæ, quoniam
est bonum; et si est etiam falsa opinatio negans idem, scilicet, quoniam non
est quid bonum; est vero et tertia opinatio falsa quoque, affirmans aliquid
aliud inesse illi, quod non inest nec inesse potest, puta, quod iustitia sit
fugibilis, quod sit illicita; et hinc intelligitur quarta falsa quoque, quæ
scilicet negat aliquid aliud ab eo quod vera opinio affirmat inesse iustitiæ,
quod tamen inest, ut puta quod non sit qualitas, quod non sit virtus; si ita
inquam est, nulla aliarum falsarum ponenda est contraria opinioni veræ. Et
exponens quid demonstret per ly aliarum, subdit: neque quæcunque opinio
opinatur esse quod non est, ut tertii ordinis opiniones faciunt: neque
quæcunque opinio opinatur non esse quod est, ut quarti ordinis opiniones
significant. Et causam subdit: infinitæ enim utræque sunt, et quæ esse
opinantur quod non est, et quæ non esse quod est, ut supra declaratum fuit. Non ergo quæcunque opiniones oppositæ secundum
veritatem et falsitatem contrariæ sunt. Et sic patet secundum.When he says, Now, if there is
the opinion of that which is good, that it is good, and the opinion that it is
not good, etc., he takes up the second point. Since he has just said that
contrariety of opinions is taken according to their opposition of truth and
falsity, he goes on to show that not just any opposites according to truth and
falsity are contraries. This is his argument. Four opinions can be held about a
good, for instance justice: that justice is good, that it is not good, that it
is avoidable, that it is not desirable. Of these, the first is true, the rest
false. The three false ones are diverse. The first denies the same predicate
the true one affirmed; the second affirms something which does not belong to
the good; the third denies what belongs to the good, but something other than
the true one affirmed. Now if all opinions opposed as to truth and falsity are
contraries, then not only are there many contraries to one true opinion, but an
infinite number. But this is impossible, for one is contrary to one other. The
consequence holds because infinite false opinions about one thing, similar to
those cited, can be imagined; such opinions would affirm of it what does not
belong to it and deny what is joined to it in some way. Both kinds are
indeterminate and without number. We can think, for instance, that justice is a
quantity, that it is a relation, that it is this and that; and likewise we can
think that it is not a quality, is not desirable, is not a habit. Hence, from
what was said above in proposing the question, Aristotle infers a plurality of
false opinions opposed to one true opinion: Now if there is the opinion of that
which is good, for instance justice, that it is good, and there is a false
opinion denying the same thing, namely, that it is not good, and besides these
a third opinion, false also, affirming that some other thing belongs to justice
that does not belong and cannot belong to it (for instance, that justice is
avoidable, that it is illicit) and a fourth opinion, also false, that denies
something other than the true opinion affirms, something, however, which does
belong to justice (for instance, that it is not a quality, that it is not a
virtue), none of these other false enunciations are to be posited as the
contrary of the true opinion. To explain what he is designating by "of
these others,” he adds, neither those purporting that what is not, is, as
opinions of the third order do, nor those purporting that what is, is not, as
opinions of the fourth order signify. Then he adds the reason these cannot be
posited as the contrary of the true opinion: for both the opinions that that is
which is not, and that which is not, is, are infinite, as was shown above.
Therefore, not just any opinions opposed according to truth and falsity are
contraries. Thus the second argument is clear. V. lib. Quia subtili indagatione
ostendit quod nec materiæ contrarietas, nec veri falsique qualiscunque
oppositio contrarietatem opinionum constituit, sed quod aliqua veri falsique
oppositio id facit, ideo nunc determinare intendit qualis sit illa veri falsique
oppositio, quæ opinionum contrarietatem constituit. Ex hoc enim directe
quæstioni satisfit. Et intendit quod sola oppositio opinionum secundum
affirmationem et negationem eiusdem de eodem etc. constituit contrarietatem
earum. Unde intendit probare istam conclusionem per quam ad quæsitum respondet:
opiniones oppositæ secundum affirmationem et negationem eiusdem de eodem sunt
contrariæ; et consequenter illæ, quæ sunt oppositæ secundum affirmationem
contrariorum prædicatorum de eodem, non sunt contrariæ, quia sic affirmativa
vera haberet duas contrarias, quod est impossibile. Unum enim uni est
contrarium.Aristotle has just completed a subtle investigation in which he has
shown that contrariety of matter does not constitute contrariety of opinion,
nor does just any kind of opposition of true and false, but some opposition of
true and false does. Now he intends to determine what kind of opposition of
true and false it is that constitutes contrariety of opinions, for this will
answer the question directly. He maintains that only opposition of opinions
according to affirmation and negation of the same thing of the same thing,
etc., constitutes their contrariety. Accordingly, as the response to the
question, he intends to prove the following conclusion: opinions opposed
according to affirmation and negation of the same thing of the same thing are
contraries; and consequently, opinions opposed according to affirmation of
contrary predicates of the same subject are not contraries, for if these were
contraries, the true affirmative would have two contraries, which is
impossible, since one is contrary to one other. V. lib. Probat autem istam
conclusionem tribus rationibus. Prima est: opiniones in quibus primo est
fallacia sunt contrariæ; opiniones oppositæ secundum affirmationem et
negationem eiusdem de eodem sunt in quibus primo est fallacia; ergo opiniones
oppositæ secundum affirmationem et negationem eiusdem de eodem sunt contrariæ.
Sensus maioris est: opiniones quæ primo ordine naturæ sunt termini fallaciæ,
idest deceptionis seu erroris, sunt contrariæ: sunt enim, cum quis fallitur seu
errat, duo termini, scilicet a quo declinat, et ad quem labitur. Huius rationis
in littera primo ponitur maior, cum dicitur: sed in quibus primo fallacia est;
adversative enim continuans sermonem supradictis, insinuavit non tot enumeratas
opiniones esse contrarias, sed eas in quibus primo fallacia est modo exposito.
Deinde subdit probationem minoris talem: eadem proportionaliter sunt, ex quibus
sunt generationes et ex quibus sunt fallaciæ; sed generationes sunt ex
oppositis secundum affirmationem et negationem; ergo et fallaciæ sunt ex
oppositis secundum affirmationem et negationem. Quod erat assumptum in minore.
Unde ponens maiorem huius prosyllogismi, ait: hæc autem, scilicet fallacia, est
ex his, scilicet terminis, proportionaliter tamen, ex quibus sunt et
generationes. Et subsumit minorem:
ex oppositis vero, scilicet secundum affirmationem et negationem, et
generationes fiunt. Et demum concludit: quare etiam fallacia, scilicet, est ex
oppositis secundum affirmationem et negationem eiusdem de eodem. Aristotle uses three
arguments to prove this conclusion. The first one is as follows: Those opinions
in which there is fallacy first are contraries. Opinions opposed according to
affirmation and negation of the same predicate of the same subject are those in
which there is fallacy first. Therefore, these are contraries. The sense of the
major is this: Opinions which first in the order of nature are the limits of
fallacy, i.e., of deception or error, are contraries; for when someone is
deceived or errs, there are two limits, the one from which he turns away and
the one toward which he turns. In the text the major of the argument is posited
first: Rather, those opinions in which there is fallacy must be posited as
contrary to true opinions. By uniting this part of the text adversatively with
what was said previously, Aristotle implies that not just any of the number of
opinions enumerated are contraries, but those in which there is fallacy first
in the manner we have explained. Then he gives this proof of the minor: those
things from which generations are and from which fallacies are, are the same
proportionally; generations are from opposites according to affirmation and
negation; therefore fallacies, too, are from opposites according to affirmation
and negation (which was assumed in the minor). Hence he posits the major of
this prosyllogism: Now the things from which fallacies arise, namely, limits,
are the things from which generations arise—proportionally however. Under it he
posits the minor: but generations are from opposites, i.e., according to
affirmation and negation. Finally, he concludes, therefore also fallacies,
i.e., they are from opposites according to affirmation and negation of the same
thing of the same thing. V. lib. Ad evidentiam huius probationis scito quod
idem faciunt in processu intellectus cognitio et fallacia seu error, quod in
processu naturæ generatio et corruptio. Sicut namque perfectiones naturales
generationibus acquiruntur, corruptionibus desinunt; ita cognitione
perfectiones intellectuales acquiruntur, erroribus autem seu deceptionibus
amittuntur. Et ideo, sicut tam generatio quam corruptio est inter affirmationem
et negationem, ut proprios terminos, ut dicit V Physic.; ita tam cognoscere
aliquid, quam falli circa illud, est inter affirmationem et negationem, ut
proprios terminos: ita quod id ad quod primo attingit cognoscens aliquid in
secunda operatione intellectus est veritatis affirmatio, et quod per se primo
abiicitur est illius negatio. Et similiter quod per se primo perdit qui fallitur est
veritatis affirmatio, et quod primo incurrit est veritatis negatio. Recte ergo
dixit quod iidem sunt termini inter quos primo est generatio, et illi inter
quos est primo fallacia, quia utrobique termini sunt affirmatio et negatio. This proof will be more
evident from the following: Knowledge and fallacy, or error, bring about the
same thing in the intellect’s progression as generation and corruption do in
nature’s progression. For just as natural perfections are acquired by generations
and perish by corruptions, so intellectual perfections are acquired by
knowledge and lost by errors or deceptions. Accordingly, just as generation and
corruption are between affirmation and negation as proper terms, as is said in Physicæ
so both to know something and to be deceived about it is between affirmation
and negation as proper terms. Consequently, what one who knows attains first in
the second operation of the intellect is affirmation of the truth, and what he
rejects per se and first is the negation of it. In like manner, what he who is
deceived loses per se and first is affirmation of the truth, and acquires first
is negation of the truth. Therefore Aristotle is correct in maintaining that
the terms between which there is generation first and between which there is
fallacy first are the same, because with respect to both, the terms are
affirmation and negation. V. lib. Deinde cum dicit: si ergo quod bonum est etc.,
intendit probare maiorem principalis rationis. Et quia iam declaravit quod ea,
in quibus primo est fallacia, sunt affirmatio et negatio, ideo utitur, loco
maioris probandæ, scilicet, opiniones in quibus primo est fallacia, sunt
contrariæ, sua conclusione, scilicet, opiniones oppositæ secundum affirmationem
et negationem eiusdem sunt contrariæ. Æquivalere enim iam declaratum est. Fecit
autem hoc consuetæ brevitati studens, quoniam sic procedendo, et probat
maiorem, et respondet directe quæstioni, et applicat ad propositum simul.
Probat ergo loco maioris conclusionem principaliter intentam quæstionis, hanc,
scilicet: opiniones oppositæ secundum affirmationem et negationem eiusdem sunt
contrariæ; et non illæ, quæ sunt oppositæ secundum contrariorum affirmationem
de eodem. Et intendit talem rationem. Opinio vera et eius magis falsa sunt
contrariæ opiniones; oppositæ secundum affirmationem et negationem sunt vera et
eius magis falsa; ergo opiniones oppositæ secundum affirmationem et negationem
sunt contrariæ. Maior probatur ex eo quod, quæ plurimum distant circa idem sunt
contraria; vera autem et eius magis falsa plurimum distant circa idem, ut
patet. Minor vero probatur ex eo quod opposita secundum negationem eiusdem de
eodem est per se falsa respectu suæ affirmationis veræ. Opinio autem per se falsa magis falsa est quacunque
alia. Unumquodque enim
quod est per se tale, magis tale est quolibet quod est per aliud tale. When he
says, Now, if that which is good is both good and not evil, the former per se,
the latter accidentally, etc., he intends to prove the major of the principal argument.
He has already shown that the opinions in which there is fallacy first are
affirmation and negation, and therefore in place of the major to be proved
(i.e., opinions in which it there is fallacy first are contraries) he uses his
conclusion—which has already been shown to be equivalent—that opinions opposed
according to affirmation and negation of the same thing are contraries. Thus
with his customary brevity he at once proves the major, responds directly to
the question, and applies it to what he has proposed. In place of the major,
then, he proves the conclusion principally intended, i.e., that opinions
opposed according to affirmation and negation of the same thing are contraries,
and not those opposed according to affirmation of contraries about the same
thing. His argument is as follows: A true opinion and the opinion that is more
false in respect to it are contrary opinions, but opinions opposed according to
affirmation and negation are the true opinion and the opinion that is more
false in respect to it; therefore, opinions opposed according to affirmation
and negation are contraries. The major is proved thus: those things that are
most distant in respect to the same thing are contraries; but the true and the
more false are most distant in respect to the same thing, as is clear. The
proof of the minor is that the opposite according to negation of the same thing
of the same thing is per se false in relation to the true affirmation of it.
But a per se false opinion is more false than any other, since each thing that
is per se such is more such than anything that is such by reason of something
else. V. lib. Unde ad suprapositas opiniones in propositione quæstionis
rediens, ut ex illis exemplariter clarius intentum ostendat, a probatione
minoris inchoat tali modo. Sint quatuor opiniones, duæ veræ, scilicet, bonum est
bonum, bonum non est malum, et duæ falsæ, scilicet, bonum non est bonum, et,
bonum est malum. Clarum est autem quod prima vera est ratione sui, secunda
autem est vera secundum accidens, idest, ratione alterius, quia scilicet non
esse malum est coniunctum ipsi bono: ideo enim ista est vera, bonum non est
malum, quia bonum est bonum, et non e contra; ergo prima quæ est secundum se
vera, est magis vera quam secunda: quia in unoquoque genere quæ secundum se est
vera est magis vera. Illæ autem duæ falsæ eodem modo censendæ sunt, quod
scilicet magis falsa est, quæ secundum se est falsa. Unde quia prima earum,
scilicet, bonum non est bonum, quæ est negativa, est per se et non ratione
alterius falsa, relata ad illam affirmativam, bonum est bonum; et secunda,
scilicet, bonum est malum, quæ est affirmativa contrarii, ad eamdem relata est
falsa per accidens, idest ratione alterius (ista enim, scilicet, bonum est
malum, non immediate falsificatur ab illa vera, scilicet bonum est bonum, sed
mediante illa alia falsa, scilicet, bonum non est bonum); idcirco magis falsa
respectu affirmationis veræ est negatio eiusdem quam affirmatio contrarii. Quod erat assumptum in
minore. Accordingly, returning to the opinions already given in proposing the
question so as to show his intention more clearly by example, he begins with
the proof of the minor. There are four opinions, of which two are true, "A
good is good,” "A good is not evil”; two are false, "A good is not
good” and "A good is evil.” It is evident that the first is true by reason
of itself, the second accidentally, i.e., by reason of another, for not to be
evil is added to that which is good. Hence, "A good is not evil” is true
because a good is good, and not contrarily. Therefore, the first of these
opinions, which is per se true, is more true than the second, for in each genus
that which per se is true is more true. The two false opinions are to be judged
in the same way. The more false is the one that is per se false. The first of
them, the negative, "A good is not good,” in relation to the affirmative,
"A good is good,” is per se false, not false by reason of another. The
second, the affirmative of the contrary, "A good is evil,” in relation to
the same opinion, is false accidentally, i.e., by reason of another (for
"A good is evil” is not immediately falsified by the true opinion, "A
good is good,” but mediately through the other false opinion "A good is
not good”). Therefore, the negation of the same thing is more false in respect
to a trite affirmation than the affirmation of a contrary. This was assumed in
the minor. V. lib. 2 l. 14 n. 6Unde rediens ad supra positas (ut dictum est)
opiniones, infert primas duas veras opiniones dicens: si ergo quod bonum est et
bonum est et non est malum, et hoc quidem, scilicet quod dicit prima opinio,
est verum secundum se, idest ratione sui; illud vero, scilicet quod dicit
secunda opinio, est verum secundum accidens, quia accidit, idest, coniunctum
est ei, scilicet bono, malum non esse. In unoquoque autem ordine magis vera est
illa quæ secundum se est vera. Etiam igitur falsa magis est quæ secundum se
falsa est: siquidem et vera huius est naturæ, ut declaratum est, quod scilicet
magis vera est, quæ secundum se est vera. Ergo illarum duarum opinionum
falsarum in quæstione propositarum, scilicet, bonum non est bonum, et, bonum
est malum, ea quæ est dicens, quoniam non est bonum quod bonum est, idest negativa;
scilicet, bonum non est bonum, est consistens falsa secundum se, idest, ratione
sui continet in seipsa falsitatem; illa vero reliqua falsa opinio, quæ est
dicens, quoniam malum est, idest, affirmativa contraria, scilicet, bonum est
malum, eius, quæ est, idest, illius affirmationis dicentis, bonum est bonum,
secundum accidens, idest, ratione alterius falsa est. Deinde subdit ipsam minorem: quare erit magis falsa
de bono, opinio negationis, quam contrarii. Deinde ponit maiorem dicens quod,
semper magis falsus circa singula est ille qui habet contrariam opinionem, ac
si dixisset, veræ opinioni magis falsa est contraria. Quod assumptum erat in
maiore. Et eius probationem subdit, quia contrarium est de numero eorum quæ
circa idem plurimum differunt. Nihil enim plus differt a vera opinione quam
magis falsa circa illam. As was pointed
out above, Aristotle returns to the opinions already posited, and infers the
first two true opinions: Now if that which is good is both good and not evil,
and if what the first opinion says is true per se, i.e., by reason of itself,
and what the second opinion says is trite accidentally (since it is accidental
to it, i.e., added to it, that is, to the good, not to be evil) and if in each
order that which is per se true is more true, then that which is per se false
is more false, since, as has been shown, the true also is of this nature,
namely, that the more true is that which per se is true. Therefore, of the two
false opinions proposed in the question, namely, "A good is not good,” and
"A good is evil,” the one saying that what is good is not good, namely,
the negative, is an opinion positing what is per se false, i.e., by reason of
itself it contains falsity in it. The other false opinion, the one saying it is
evil, namely, the affirmative contrary in respect to it, i.e., in respect to
the affirmation saying that a good is good, is false accidentally, i.e., by
reason of another. Then he gives the minor: Therefore, the opinion of the
negation of the good will be more false than the opinion affirming a contrary.
Next, he posits the major, the one who holds the contrary judgment about each
thing is most mistaken, i.e., in relation to the true judgment the contrary is
more false. This was assumed in the major. He gives as the proof of this, for
contraries are those that differ most with respect to the same thing, for
nothing differs more from a true opinion than the more false opinion in respect
to it. V. lib. 2 l. 14 n. 7Ultimo directe applicat ad quæstionem dicens: quod
si (pro, quia) harum falsarum, scilicet, negationis eiusdem et affirmationis
contrarii, altera est contraria veræ affirmationi, opinio vero contradictionis,
idest, negationis eiusdem de eodem, magis est contraria secundum falsitatem,
idest, magis est falsa, manifestum est quoniam hæc, scilicet opinio falsa
negationis, erit contraria affirmationi veræ, et e contra. Illa vero opinio quæ
est dicens, quoniam malum est quod bonum est, idest, affirmatio contrarii, non
contraria sed implicita est, idest, sed implicans in se veræ contrariam,
scilicet, bonum non est bonum. Etenim necesse est ipsum opinantem affirmationem
contrarii opinari, quoniam idem de quo affirmat contrarium non est bonum.
Oportet siquidem si quis opinatur quod vita est mala, quod opinetur quod vita
non sit bona. Hoc enim necessario sequitur ad illud, et
non e converso; et ideo affirmatio contrarii implicita dicitur. Negatio autem eiusdem de
eodem implicita non est. Et sic finitur prima ratio. Finally, he directly
approaches the question. If (for "since”), then, of two opinions (namely,
false opinions—the negation of the same thing and the affirmation of a contrary),
one is the contrary of the true affirmation, and, the contradictory opinion,
i.e., the negation of the same thing of the same thing, is more contrary
according to falsity, i.e., is more false, it is evident that the false opinion
of negation will be contrary to the true affirmation, and conversely. The
opinion saying that what is good is evil, i.e., the affirmation of a contrary,
is not the contrary but implies it, i.e., it implies in itself the opinion
contrary to the true opinion, i.e., "A good is not good.” The reason for
this is that the one conceiving the affirmation of a contrary must conceive
that the same thing of which he affirms the contrary, is not good. If, for
example, someone conceives that life is evil, he must conceive that life is not
good, for the former necessarily follows upon the latter and not conversely.
Hence, affirmation of a contrary is said to be implicative, but negation of the
same thing of the same thing is not implicative. This concludes the first
argument. V. lib. Notandum est hic primo quod ista regula generalis tradita hic
ab Aristotele de contrarietate opinionum, quod scilicet contrariæ opiniones
sunt quæ opponuntur secundum affirmationem et negationem eiusdem de eodem, et
in se et in assumptis ad eius probationem propositionibus scrupulosa est. Unde
multa hic insurgunt dubia. Primum est quia cum oppositio secundum affirmationem
et negationem non constituat contrarietatem sed contradictionem apud omnes
philosophos, quomodo Aristoteles opiniones oppositas secundum affirmationem et
negationem ex hoc contrarias ponat. Augetur et dubitatio quia dixit quod ea in
quibus primo est fallacia sunt contraria, et tamen subdit quod sunt oppositæ
sicut termini generationis, quos constat contradictorie opponi. Nec dubitatione
caret quomodo sit verum id quod supra diximus ex intentione s. Thomæ, quod
nullæ duæ opiniones opponantur contradictorie, cum hic expresse dicitur aliquas
opponi secundum affirmationem et negationem. Dubium secundo insurgit circa id quod assumpsit, quod
contraria cuiusque veræ est per se falsa. Hoc enim non videtur verum. Nam
contraria istius veræ, Socrates est albus, est ista, Socrates non est albus,
secundum determinata; et tamen non est per se falsa. Sicut namque sua opposita affirmatio est per accidens
vera, ita ista est per accidens falsa. Accidit enim isti enunciationi falsitas.
Potest enim mutari in veram, quia est in materia contingenti. Dubium est tertio circa id quod
dixit: magis vero contradictionis est contraria. Ex hoc enim videtur velle quod
utraque, scilicet, opinio negationis et contrarii, sit contraria veræ
affirmationi; et consequenter vel uni duo ponit contraria, vel non loquitur de
contrarietate proprie sumpta: cuius oppositum supra ostendimus. The general rule about the
contrariety of opinions that Aristotle has given here (namely, that contrary
opinions are those opposed according to affirmation and negation of the same
thing of the same thing) is accurate both in itself and in the propositions
assumed for its proof. Many questions may arise, however, as a consequence of
this doctrine and its proof. First of all, all philosophers hold that
opposition according to affirmation and negation constitutes contradiction, not
contrariety. How, then, can Aristotle maintain that opinions opposed in this
way are contraries? The difficulty is augmented by the fact that he has said
that those opinions in which there is fallacy first are contraries, yet he adds
that they are opposed as the terms of generation are, which he establishes to
be opposed contradictorily. In addition, there is a difficulty as to the way in
which the assertion of St. Thomas, which we used above, is true, namely, that
no two opinions are opposed contradictorily, since here it is explicitly said
that some are opposed according to affirmation and negation. The second uestion
involves his assumption that the contrary of each true opinion is per se false.
This does not seem to be true, for according to what was determined previously,
the contrary of the true opinion "Socrates is white” is "Socrates is
not white.” But this is not per se false, for the opposed affirmation is true
accidentally, and hence its negation is false accidentally. Falsity is
accidental to such an enunciation because, being in contingent matter, it can
be changed into a true one. A third difficulty arises from the fact that
Aristotle says the contradictory opinion is nwre contrary. He seems to be
proposing, according to this, that both the opinion of the negation and of a
contrary are contrary to a true affirmation. Consequently, he is either
positing two opinions contrary to one or he is not taking contrariety strictly,
although we showed above that he was taking contrariety properly and strictly. V.
lib. Ad evidentiam omnium, quæ primo loco adducuntur, sciendum quod opiniones
seu conceptiones intellectuales, in secunda operatione de quibus loquimur,
possunt tripliciter accipi: uno modo, secundum id quod sunt absolute; alio
modo, secundum ea quæ repræsentant absolute; tertio, secundum ea quæ
repræsentant, ut sunt in ipsis opinionibus. Primo membro omisso, quia non est
præsentis speculationis, scito quod si accipiantur secundo modo secundum
repræsentata, sic invenitur inter eas et contradictionis, et privationis, et
contrarietatis oppositio. Ista siquidem mentalis enunciatio, Socrates est videns,
secundum id quod repræsentat opponitur illi, Socrates non est videns,
contradictorie; privative autem illi, Socrates est cæcus; contrarie autem illi,
Socrates est luscus; si accipiantur secundum repræsentata. Ut enim dicitur in
postprædicamentis, non solum cæcitas est privatio visus, sed etiam cæcum esse
est privatio huius quod est esse videntem, et sic de aliis. Si vero accipiantur
opiniones tertio modo, scilicet, prout repræsentata per eas sunt in ipsis, sic
nulla oppositio inter eas invenitur nisi contrarietas: quoniam sive opposita
contradictorie sive privative sive contrarie repræsententur, ut sunt in
opinionibus, illius tantum oppositionis capaces sunt, quæ inter duo entia
realia inveniri potest. Opiniones namque realia entia sunt. Regulare enim est
quod quidquid convenit alicui secundum esse quod habet in alio, secundum modum
et naturam illius in quo est sibi convenit, et non secundum quod exigeret
natura propria. Inter entia autem realia contrarietas sola formaliter
reperitur. Taceo nunc de oppositione relativa. Opiniones ergo hoc modo sumptæ,
si oppositæ sunt, contrarietatem sapiunt, sed non omnes proprie contrariæ sunt,
sed illæ quæ plurimum differunt circa idem veritate et falsitate. Has autem
probavit Aristoteles esse opiniones affirmationis et negationis eiusdem de
eodem. Istæ igitur veræ contrariæ sunt. Reliquæ vero per reductionem ad has
contrariæ dicuntur. In order to
answer all of the difficulties in regard to the first argument it must be noted
that opinions, or intellectual conceptions in the second operation, can be
taken in three ways: according to what they are absolutely; (2) according to
the things they represent absolutely, according to the things they represent,
as they are in opinions. We will omit the first since it does not belong to the
present consideration. If they are taken in the second way, i.e., according to
the things represented, there can be opposition of contradiction, of privation,
and of contrariety among them. The mental enunciation "Socrates sees,”
according to what it represents, is opposed contradictorily to. Socrates does
not see”; privatively to "Socrates is blind”; contrarily to "Socrates
is purblind.” Aristotle points out the reason for this in the Postpredicamenta
[Categ.]: not only is blindness privation of sight but to be blind is also a
privation of to be seeing, and so of others. Opinions taken in the third way,
i.e., as the things represented through opinions are in the opinions, have no
opposition except contrariety; for opposites as they are in opinions, whether
represented contradictorily or privatively or contrarily, only admit of the
opposition that can be found between two real beings, for opinions are real
beings. The rule is that whatever belongs to something according to the being
which it has in another, belongs to it according to the mode and nature of that
in which it is, and not according to what its own nature would require. Now,
between real beings only contrariety is found formally. (I am omitting here the
consideration of relative opposition.) Therefore, opinions taken in this mode,
if they are opposed, represent contrariety, although not all are contraries
properly. Only those differing most in respect to truth and falsity about the
same thing are contraries properly. Now Aristotle proved that these are -
judgments affirming and denying the same thing of the same thing. Therefore,
these are the true contraries. The rest are called contraries by reduction to
these. V. lib. Ex his patet quid ad obiecta
dicendum sit. Fatemur enim quod affirmatio et negatio in seipsis
contradictionem constituunt; in opinionibus vero existentes contrarietatem
inter illas causant propter extremam distantiam, quam ponunt inter entia
realia, opinionem scilicet veram et opinionem falsam circa idem. Stantque ista
duo simul quod ea, in quibus primo est fallacia, sint opposita ut termini
generationis, et tamen sint contraria utendo supradicta distinctione: sunt enim
opposita contradictorie ut termini generationis secundum repræsentata; sunt
autem contraria, secundum quod habent in seipsis illa contradictoria. Unde
plurimum differunt. Liquet quoque ex hoc quod nulla est dissentio inter dicta
Aristotelis et s. Thomæ, quia opiniones aliquas opponi secundum affirmationem et
negationem verum esse confitemur, si ad repræsentata nos convertimus, ut hic
dicitur. From this the
answer to the objections is clear. We grant that affirmation and negation in
themselves constitute contradiction. In actual judgments,”’ affirmation and negation
cause contrariety between opinions because of the extreme distance they posit
between real beings, namely, true opinion and false opinion in respect to the
same thing. And these two stand at the same time: those in which there is
fallacy first are opposed as the terms of generation are and yet they are
contraries by the use of the foresaid distinction—for they are opposed
contradictorily as terms of generation according to the things represented, but
they are contraries insofar as they have in themselves those contradictories
and hence differ most. It is also evident that there is no disagreement between
Aristotle and St. Thomas, for we have shown that it is true that some opinions
are opposed according to affirmation and negation if we consider the things
represented, as is said here. 11. Tu autem qui perspicacioris ac provectioris
ingenii es compos, hinc habeto quod inter ipsas opiniones oppositas quidam
tantum motus est, eo quod de affirmato in affirmatum mutatio fit: inter ipsas
vero secundum repræsentata, similitudo quædam generationis et corruptionis
invenitur, dum inter affirmationem et negationem mutatio clauditur. Unde et
fallacia sive error quandoque et motus et mutationis rationem habet diversa
respiciendo, quando scilicet ex vera in per se falsam, vel e converso, quis
mutat opinionem; quandoque autem solam mutationem imitatur, quando scilicet
absque præopinata veritate ipsam falsam offendit quis opinionem; quandoque vero
motus undique rationem possidet, quando scilicet ex vera affirmatione in falsam
circa idem contrarii affirmationem transit. Quia tamen prima ut quis fallatur
radix est oppositio affirmationis et negationis, merito ea in quibus primo est
fallacia, sicut generationis terminos opponi dixit. It will be noted, however,
by those of you who are more penetrating and advanced in your thinking, that
between opposite opinions there is something of true motion when a change is
made from the affirmed to the affirmed; but according to the order of
representation there is a certain similitude to generation and corruption so
long as the change is bounded by affirmation and negation. Consequently,
fallacy or error may be regarded in different ways. Sometimes it has the aspect
of both movement and change. This is the case when someone changes his opinion
from a true one to one that is per se false, or conversely. Sometimes change
alone is imitated. This happens when someone arrives at a false opinion apart
from a former true opinion. Sometimes, however, there is movement in every
respect. This is the case when reason passes from the true affirmation to the
false affirmation of a contrary about the same thing. However, since the first
root of being in error is the opposition of affirmation and negation, Aristotle
is correct in saying that those in which there is fallacy first are opposed as
are the terms of generation. 12.
Ad dubium secundo loco adductum dico quod peccatur ibi secundum æquivocationem
illius termini per se falsa, seu per se vera. Opinio enim et similiter
enunciatio potest dici dupliciter per se vera seu falsa. Uno modo, in seipsa,
sicut sunt omnes veræ secundum illos modos perseitatis qui enumerantur I
posteriorum, et similiter falsæ secundum illosmet modos, ut, homo non est
animal. Et hoc modo non accipitur in hac regula de contrarietate opinionum et
enunciationum opinio per se vera aut falsa, ut efficaciter obiectio adducta
concludit. Si enim ad contrarietatem opinionum hoc exigeretur non possent esse
opiniones contrariæ in materia contingenti: quod est falsissimum. Alio modo
potest dici opinio sive enunciatio per se vera aut falsa respectu suæ oppositæ.
Per se vera quidem respectu suæ falsæ, et per se falsa respectu suæ veræ. Et
tunc nihil aliud est dicere, est per se vera respectu illius, nisi quod ratione
sui et non alterius verificatur ex falsitate illius. Et similiter cum dicitur,
est per se falsa respectu illius, intenditur quod ratione sui et non alterius
falsificatur ex illius veritate. Verbi gratia; istius veræ, Socrates currit,
non est per se falsa, Socrates sedet, quia falsitas eius non immediate sequitur
ex illa, sed mediante ista alia falsa, Socrates non currit, quæ est per se
illius falsa, quia ratione sui et non per aliquod medium ex illius veritate
falsificatur, ut patet. Et similiter istius falsæ, Socrates est quadrupes, non
est per se vera ista, Socrates est bipes, quia non per seipsam veritas istius
illam falsificat, sed mediante ista, Socrates non est quadrupes, quæ est per se
vera respectu illius: propter seipsam enim falsitate istius verificatur, ut de
se patet. Et hoc secundo modo utimur istis terminis tradentes regulam de
contrarietate opinionum et enunciationum. Invenitur siquidem sic universaliter
vera in omni materia regula dicens quod, vera et eius per se falsa, et falsa et
eius per se vera, sunt contrariæ. Unde patet responsio ad obiectionem, quia
procedit accipiendo ly per se vera, et per se falsa primo modo. With respect to the second
question, I say that there is an equivocation of the term "per se false”
and "per se true” in the objection. Opinion, as well as enunciation, can
be called per se true or false in two ways. It can be called per se true in
itself. This is the case in respect to all opinions and enunciations that are
in accordance with the modes of perseity enumerated in I Posteriorum.
Similarly, they can be said to be per se false according to the same modes. An
example of this would be "Man is not an animal.” Per se true or false is
not taken in this mode in the rule about contrariety of opinions and
enunciations, as the objection concludes. For if this were needed for
contrariety of opinions there could not be contrary opinions in contingent
matter, which is false. Secondly, an opinion or enunciation can be said to be
per se true or false in respect to its opposite: per se true with respect to its
opposite false opinion, and per se false with respect to its opposite true
opinion. Accordingly, to say that an opinion is per se true in respect to its
opposite is to say that on its own account and not on account of another it is
verified by the falsity of its opposite. Similarly, to say that an opinion is
per se false in respect to its opposite means that on its own account and not
on account of another it is falsified by the truth of the opposite. For
example, the opinion that is per se false in respect to the true opinion
"Socrates is running "is not, "Socrates is sitting,” since the
falsity of the latter does not immediately follow from the former, but
mediately from the false opinion, "Socrates is not running.” It is the
latter opinion that is per se false in relation to "Socrates is running,”
since it is falsified on its own account by the truth of the opinion
"Socrates is running,” and not through an intermediary. Similarly, the per
se true opinion in respect to the false opinion "Socrates is four-footed”
is not, "Socrates is two-footed,” for the truth of the latter does not by
itself make the former false; rather, it is through "Socrates is not
four-footed” as a medium, which is per se true in respect to "Socrates is
four-footed”; for "Socrates is not four-footed” is verified on its own
account by the falsity of "Socrates is four-footed,” as is evident. We are
using "per se true” and "per se false” in this second mode in
propounding the rule concerning contrariety of opinions and enunciations. Thus
the rule that the true opinion and the per se false opinion in relation to it
and the false opinion and the per se true in relation to it are contraries, is
universally true in all matter. Consequently, the response to the objection is
clear, for it results from taking "per se true” and "per se false” in
the first mode. Ad ultimum dubium dicitur quod, quia inter opiniones ad se
invicem pertinentes nulla alia est oppositio nisi contrarietas, coactus fuit
Aristoteles (volens terminis specialibus uti) dicere quod una est magis
contraria quam altera, insinuans quidem quod utraque contrarietatis
oppositionem habet respectu illius veræ. Determinat
tamen immediate quod tantum una earum, scilicet negationis opinio, contraria
est affirmationi veræ. Subdit enim: manifestum est quoniam hæc contraria erit.
Duo ergo dixit, et quod utraque, tam scilicet negatio eiusdem quam affirmatio
contrarii, contrariatur affirmationi veræ, et quod una tantum earum, negatio
scilicet, est contraria. Et utrunque est verum. Illud quidem, quia, ut dictum
est, ambæ contrarietates oppositione contra affirmationem moliuntur; sed
difformiter, quia opinio negationis primo et per se contrariatur, affirmationis
vero contrarii opinio secundario et per accidens, idest per aliud, ratione
scilicet negativæ opinionis, ut declaratum est: sicut etiam in naturalibus albo
contrariantur et nigrum et rubrum, sed illud primo, hoc reductive, ut reducitur
scilicet ad nigrum illud inducendo, ut dicitur V Physic. Secundum autem dictum
simpliciter verum est, quoniam simpliciter contraria non sunt nisi extrema
unius latitudinis, quæ maxime distant; extrema autem unius distantiæ non sunt
nisi duo. Et ideo cum inter pertinentes ad se invicem opiniones unum extremum
teneat affirmatio vera, reliquum uni tantum falsæ dandum est, illi scilicet quæ
maxime a vera distat. Hanc autem negativam opinionem esse probatum est. Hæc
igitur una tantum contraria est illi, simpliciter loquendo. Cæteræ enim oppositæ ratione
istius contrariantur, ut de mediis dictum est. Non ergo uni plura contraria posuit, nec de
contrarietate large loquutus est, ut obiiciendo dicebatur. The answer to the
third difficulty is the following. Since there is no other opposition but
contrariety between opinions pertaining to each other, Aristotle (since he
chose to use limited terms) has been forced to say that one is more contrary
than another, which implies that both have opposition of contrariety in respect
to a true opinion. However, he determines immediately that only one of them,
the negative opinion, is contrary to a true affirmation, when he adds, it is
evident that it must be the contrary. What he says, then, is that each, i.e.,
both negation of the same thing and affirmation of a contrary, is contrary to a
true affirmation, and that only one of them, i.e., the negation, is contrary.
Both of these statements are true, for both contrarieties are caused by an
opposition contrary to the affirmation, as was said, but not uniformly. The
opinion of negation is contrary first and per se, the opinion of affirmation of
a contrary, secondarily and accidentally, i.e., through another, namely, by
reason of the negative opinion, as has already been shown. There is a parallel
to this in natural things: both black and red are contrary to white, the former
first, the latter reductively, i.e., inasmuch as red is reduced to black in a
motion from white to red, as is said in V Physicorum. However, the second
statement, i.e., that only one of them, the negation, is contrary, is true
simply, for the most distant extremes of one extent are contraries absolutely.
Nov,, there are only two extremes of one distance and since between opinions
pertaining to each other true affirmation is at one extreme, the remaining
extreme must be granted to only one false opinion, i.e., to the one that is
most distant from the true opinion. This has been proved to be the negative
opinion. Only this one, then, is contrary to that absolutely speaking. Other
opposites are contrary by reason of this one, as was said of those in between.
Therefore, Aristotle has not posited many opinions contrary to one, nor used
contrariety in a broad sense, both of which were maintained by the objector. V.
lib. Deinde cum dicit: amplius si etiam etc., probat idem, scilicet quod
affirmationi contraria est negatio eiusdem, et non affirmatio contrarii secunda
ratione, dicens: si in aliis materiis oportet opiniones se habere similiter,
idest, eodem modo, ita quod contrariæ in aliis materiis sunt affirmatio et
negatio eiusdem; et hoc, scilicet quod diximus de boni et mali opinionibus,
videtur esse bene dictum, quod scilicet contraria affirmationi boni non est
affirmatio mali, sed negatio boni. Et probat hanc consequentiam subdens: aut enim ubique,
idest, in omni materia, ea quæ est contradictionis altera pars censenda est
contraria suæ affirmationi, aut nusquam, idest, aut in nulla materia. Si enim est una ars generalis accipiendi contrariam
opinionem, oportet quod ubique et in omni materia uno et eodem modo accipiatur
contraria opinio. Et consequenter, si in aliqua materia negatio eiusdem de
eodem affirmationi est contraria, in omni materia negatio eiusdem de eodem
contraria erit affirmationi. Deinde intendens concludere a positione
antecedentis, affirmat antecedens ex sua causa, dicens quod illæ materiæ quibus
non inest contrarium, ut substantia et quantitas, quibus, ut in prædicamentis
dicitur, nihil est contrarium. De his quidem est per se falsa ea, quæ est opinioni veræ
opposita contradictorie, ut qui putat hominem, puta Socratem non esse hominem,
per se falsus est respectu putantis, Socratem esse hominem. Deinde affirmando
ipsum antecedens formaliter, directe concludit intentum a positione
antecedentis ad positionem consequentis dicens: si ergo hæ, scilicet,
affirmatio et negatio in materia carente contrario, sunt contrariæ, et omnes
aliæ contradictiones contrariæ censendæ sunt. When Aristotle says, Further, if this necessarily
holds in a similar way in till other cases it would seen that what we have said
is correct, etc., he gives the second argument to prove that the negation of
the same thing is contrary to the affirmation, and not the affirmation of a
contrary. If opinions are necessarily related in a similar way, i.e., in the
same way, in other matter, that is, in such a way that affirmation and negation
of the same thing are contraries in other matter, it would seem that what we
have said about the opinions of that which is good and that which is evil is
correct, i.e., that the contrary of the affirmation of that which is good is
not the affirmation of evil but the negation of good. He proves this
consequence when he adds: for the opposition of contradiction either holds
everywhere or nowhere, i.e., in every matter one part of a contradiction must
be judged contrary to its affirmation—or never, i.e., in no matter. For if there
is a general art which deals with contrary opinions, contrary Opinions must be
taken everywhere and in every matter in one and the same mode. Consequently, if
in any matter, negation of the same thing of the same thin- is the contrary of
the affirmation, then in all matter negation of the same thing of the same
thing will be the contrary of the affirmation. Since he intends in his proof to
conclude from the position of the antecedent, Aristotle affirms the antecedent
through its cause: in matter in which there is not a contrary, such as
substance and quantity, which have no contraries, as is said in the
Predicamcnta [Categ.], the one contradictorily opposed to the true opinion is
per se false. For example, he who thinks that man, for instance Socrates, is
not man, is per se mistaken with regard to one who thinks that Socrates is man.
Then he affirms the antecedent formally and concludes directly from the
position of the antecedent to the position of the consequent. If then these,
namely, affirmation and negation in matter which lacks a contrary, are
contraries, all other contradictions must be judged to be contraries. Deinde cum dicit: amplius
similiter etc., probat idem tertia ratione, quæ talis est: sic se habent istæ
duæ opiniones de bono, scilicet, bonum est bonum, et, bonum non est bonum,
sicut se habent istæ duæ de non bono, scilicet, non bonum non est bonum, et,
non bonum est bonum. Utrobique enim salvatur oppositio contradictionis. Et
primæ utriusque combinationis sunt veræ, secundæ autem falsæ. Unde proponens
hanc maiorem quoad primas veras utriusque combinationis ait: similiter se habet
opinio boni, quoniam bonum est, et non boni quoniam non est bonum. Et subdit
quoad secundas utriusque falsas: et super has opinio boni quoniam non est
bonum, et non boni quoniam est bonum. Hæc est maior. Sed illi veræ opinioni de
non bono, scilicet, non bonum non est bonum, contraria non est, non bonum est
malum, nec bonum non est malum, quæ sunt de prædicato contrario, sed illa, non
bonum est bonum, quæ est eius contradictoria; ergo et illi veræ opinioni de
bono, scilicet, bonum est bonum, contraria erit sua contradictoria, scilicet,
bonum non est bonum, et non affirmatio contrarii, scilicet, bonum est malum.
Unde subdit minorem supradictam dicens: illi ergo veræ opinioni non boni, quæ
est dicens quoniam scilicet non bonum non est bonum, quæ est contraria. Non
enim est sibi contraria ea opinio, quæ dicit affirmativæ prædicatum contrarium,
scilicet, quod non bonum est malum: quia istæ duæ aliquando erunt simul veræ. Nunquam
autem vera opinio veræ contraria est. Quod autem istæ duæ aliquando simul sint
veræ, patet ex hoc quod quoddam non bonum malum est: iniustitia enim quoddam
non bonum est, et malum. Quare contingeret contrarias esse simul veras: quod
est impossibile. At vero nec supradictæ veræ opinioni contraria est illa
opinio, quæ est dicens prædicatum contrarium negativæ, scilicet, non bonum non
est malum, eadem ratione, quia simul et hæ erunt veræ. Chimæra enim est quoddam
non bonum, de qua verum est simul dicere quod non est bona, et quod non est
mala. Relinquitur ergo tertia pars minoris quod ei opinioni veræ quæ, est
dicens quoniam non bonum non est bonum, contraria est ea opinio non boni, quæ
est dicens quod est bonum, quæ est contradictoria illius. Deinde subdit
conclusionem intentam: quare et ei opinioni boni, quæ dicit bonum est bonum,
contraria est ea boni opinio, quæ dicit quod bonum non est bonum, idest, sua
contradictoria. Contradictiones
ergo contrariæ in omni materia censendæ sunt. Then he says, Again, the opinions
of that which is good, that it is good and of that which is not good, that it
is not good, are parallel. This begins the third argument to prove the same
thing. The two opinions of that which is good, that it is good, and that it is
not good, are related in the same way as the two opinions of that which is not
good, that it is not good and that it is good; i.e., the opposition of
contradiction is kept in both. The first opinion of each combination is true,
the second false. Hence with respect to the first true opinions of each
combination he proposes this major: Again, the opinions of that which is good,
that it is good, and of that which is not good, that it is not good, are
parallel. With respect to the second false judgment of each combination he
adds: so also are the opinions of that which is good, that it is not good, and
of that which is not good, that it is good. This is the major. But the contrary
of the true opinion of that which is not good, namely, the true opinion
"That which is not good is not good,” is not, "That which is not good
is evil,” nor "That which is not good is not evil,” which have a contrary
predicate, but the opinion that that which is not good is good, which is its
contradictory. Therefore, the contrary of the true opinion of that which is
good, namely, the true opinion "That which is good is good,” will also be
its contradictory, "That which is good is not good,” and not the
affirmation of the contrary "That which is good is evil.” Hence he adds
the minor which we have already stated: What, then, would be the contrary of
the true opinion asserting that that which is not good is not good? The
contrary of it is not the opinion which asserts the contrary predicate
affirmatively, "That which is not good is evil,” because these two are
sometimes at once true. But a true opinion is never contrary to a true opinion.
That these two are sometimes at once true is evident from the fact that some
things that are not good are evil. Take injustice; it is something not good,
and it is evil. Therefore, contraries would be true at one and the same time,
which is impossible. But neither is the contrary of the above true opinion the
one asserting the contrary predicate negatively, "That which is not good
is not evil,” and for the same reason. These will also be true at the same
time. For example, a chimera is something not good, and it is true to say of it
simultaneously that it is not good and that it is not evil. There remains the
third part of the minor: the contrary of the true opinion that that which is
not good is not good is the opinion that it is good, which is the contradictory
of it. Then he concludes as he intended: the opinion that a good is not good is
contrary to the opinion that a good is good, i.e., its contradictory. Therefore,
it must be judged that contradictions are contraries in every matter. 16.
Deinde cum dicit: manifestum est igitur etc., declarat determinatam veritatem
extendi ad cuiusque quantitatis opiniones. Et quia de indefinitis, et
particularibus, et singularibus iam dictum est, eo quod idem evidenter apparet
de eis in hac re iudicium (indefinitæ enim et particulares nisi pro eisdem
supponant sicut singulares, per modum affirmationis et negationis non
opponuntur, quia simul veræ sunt); ideo ad eas, quæ universalis quantitatis
sunt se transfert, dicens, manifestum esse quod nihil interest quoad propositam
quæstionem, si universaliter ponamus affirmationes. Huic enim, scilicet,
universali affirmationi, contraria est universalis negatio, et non universalis
affirmatio de contrario; ut opinioni quæ opinatur, quoniam omne bonum est
bonum, contraria est, nihil horum, quæ bona sunt, idest, nullum bonum est
bonum. Et declarat hoc ex quid nominis universalis affirmativæ, dicens: nam
eius quæ est boni, quoniam bonum est, si universaliter sit bonum: idest, istius
opinionis universalis, omne bonum est bonum, eadem est, idest, æquivalens, illa
quæ opinatur, quidquid est bonum est bonum; et consequenter sua negatio
contraria est illa quam dixi, nihil horum quæ bona sunt bonum est, idest,
nullum bonum est bonum. Similiter autem se habet in non bono: quia affirmationi
universali de non bono reddenda est negatio universalis eiusdem, sicut de bono
dictum est. He then says, It is evident that it will make no difference if we
posit the affirmation universally, etc. Here he shows that the truth he has
determined is extended to opinions of every quantity. The case has already been
stated in respect to indefinites, particulars, and singulars. On this point
their status is alike, for indefinites and particulars, unless they stand for
the same thing, as is the case in singulars, are not opposed by way of
affirmation and negation, since they are at once true. Therefore he turns his
attention to those of universal quantity. It is evident, he says, that it will
make no difference with respect to the proposed question if we posit the
affirmations universally, for the contrary of the universal affirmative is the
universal negative, and not the universal affirmation of a contrary. For
example, the contrary of the opinion that everything that is good is good is
the opinion that nothing that is good (i.e., no good) is good. He manifests
this by the nominal definition of universal affirmative: for the opinion that
that which is good is good, if the good is universal, i.e., the universal
opinion "Every good is good,” is the same, i.e., is equivalent to the
opinion that whatever is good is good. Consequently, its negation is the
contrary I have stated, "Nothing which is good is good,” i.e., "No
good is good.” The case is similar with respect to the not good. The universal
negation of the not good is opposed to the universal affirmation of the not
good, as we have stated with respect to the good. Deinde cum dicit: quare si in opinione sic se habet
etc., revertitur ad respondendum quæstioni primo motæ, terminata iam secunda,
ex qua illa dependet. Et circa hoc duo facit: quia primo respondet quæstioni;
secundo, declarat quoddam dictum in præcedenti solutione; ibi: manifestum est
autem quoniam et cetera. Circa primum duo facit. Primo, directe respondet
quæstioni, dicens: quare si in opinione sic se habet contrarietas, ut dictum
est; et affirmationes et negationes quæ sunt in voce, notæ sunt eorum, idest,
affirmationum et negationum quæ sunt in anima; manifestum est quoniam
affirmationi, idest, enunciationi affirmativæ, contraria erit negatio circa
idem, idest, enunciatio negativa eiusdem de eodem, et non enunciatio
affirmativa contrarii. Et sic patet responsio ad primam quæstionem, qua
quærebatur, an enunciationi affirmativæ contraria sit sua negativa, an
affirmativa contraria. Responsum est enim quod negativa est contraria. Secundo,
dividit negationem contrariam affirmationi, idest, negationem universalem et
contradictoriam, dicens: universalis, scilicet, negatio, affirmationi contraria
est et cetera. Ut exemplariter dicatur, ei enunciationi universali affirmativæ
quæ est, omne bonum est bonum, vel, omnis homo est bonus, contraria est
universalis negativa, ea scilicet, nullum bonum est bonum, vel, nullus homo est
bonus: singula singulis referendo. Contradictoria autem negatio, contraria illi
universali affirmationi est, aut, non omnis homo est bonus, aut, non omne bonum
est bonum, singulis singula similiter referendo. Et sic posuit utrunque divisionis membrum, et
declaravit. Then he says, If, therefore, this is the case with respect to
opinion, and. affirmations and negations in vocal sound are signs of those in
the soul, etc. With this he returns to the question first advanced, to reply to
it, for he has now completed the second on which the first depends. He first
replies to the question, then manifests a point in the solution of a preceding
difficulty where he says, It is evident, too, that true cannot be contrary to
true, either in opinion or in contradiction, etc. First, then, he replies
directly to the question: If, therefore, contrariety is such in the case of
opinions, and affirmations and negations in vocal sound are signs of
affirmations and negations in the soul, it is evident that the contrary of the
affirmation, i.e., of the affirmative, enunciation, is the negation of the same
subject. In other words, the negative enunciation of the same predicate of the
same subject will be the contrary, and not the affirmative enunciation of a
contrary. Thus the response to the first question—whether the contrary of the
affirmative enunciation is its negative or the contrary affirmative—is clear.
The answer is that the negative is the contrary. Next, he divides negation as
it is contrary to affirmation, i.e., into the universal negation, and the
contradictory: The universal, i.e., negation, is contrary to the affirmation,
etc. In order to state this division by way of example he relates one
enunciation to one enunciation: the contrary of the universal affirmative
enunciation "Every good is’ good” or "Every man is good,” is the
universal negative "No good is good” or "No man is good.” Again,
relating one to one, he says that the contradictory negation contrary to the
universal affirmation is "Not every man is good” or "Not everything
good is good.” Thus he posits both members of the division and makes the
division evident. V. lib. Sed est hic dubitatio non dissimulanda. Si enim
affirmationi universali contraria est duplex negatio, universalis scilicet et
contradictoria, vel uni duo sunt contraria, vel contrarietate large utitur
Aristoteles: cuius oppositum supra declaravimus. Augetur et dubitatio: quia in
præcedenti textu dixit Aristoteles quod, nihil interest si universalem
negationem faciamus ita contrariam universali affirmationi, sicut singularem
singulari. Et ita declinari non potest quin
affirmationi universali duæ sint negationes contrariæ, eo modo quo hic loquitur
de contrarietate Aristoteles. A difficulty arises at this point which we cannot disregard. If the
contrary of the universal affirmative is a twofold negation, namely, the
universal and the contradictory, either there are two contraries to one
affirmation or Aristotle is using contrariety in a broad sense, although we
showed that this was not the case apropos of an earlier passage of the text.
The difficulty is augmented by the fact that Aristotle said in the passage
immediately preceding that it makes no difference if we take the universal
negation as contrary to the universal affirmation, i.e., as one of its negations.
Hence, the conclusion cannot be avoided that in the mode in which Aristotle
speaks of contrariety here, there are two contrary negations to the universal
affirmative. C. lib. Ad huius evidentiam notandum est quod, aliud est loqui de
contrarietate quæ est inter negationem alicuius universalis affirmativæ in
ordine ad affirmationem contrarii de eodem, et aliud est loqui de illamet
universali negativa in ordine ad negationem eiusdem affirmativæ
contradictoriam. Verbi gratia: sint quatuor enunciationes, quarum nunc
meminimus, scilicet, universalis affirmativa, contradictoria, universalis
negativa, et universalis affirmatio contrarii, sic dispositæ in eadem linea
recta: omnis homo est iustus, non omnis homo est iustus, omnis homo non est
iustus, omnis homo est iniustus: et intuere quod licet primæ omnes reliquæ
aliquo modo contrarientur, magna tamen differentia est inter primæ et cuiusque
earum contrarietatem. Ultima enim, scilicet affirmatio contrarii, primæ
contrariatur ratione universalis negationis, quæ ante ipsam sita est: quia non
per se sed ratione illius falsa est, ut probavit Aristoteles, quia implicita
est. Tertia autem, idest universalis negatio, non per se sed ratione secundæ,
scilicet negationis contradictoriæ, contrariatur primæ eadem ratione, quia,
scilicet, non est per se falsa illius affirmationis veritate, sed implicita:
continet enim negationem contradictoriam, scilicet, non omnis homo est iustus,
mediante qua falsificatur ab affirmationis veritate, quia simpliciter et prior
est falsitas negationis contradictoriæ falsitate negationis universalis: totum
namque compositius et posterius est partibus. Est ergo inter has tres falsas ordo, ita quod
affirmationi veræ contradictoria negatio simpliciter sola est contraria, quia
est simpliciter respectu illius per se falsa; affirmativa autem contrarii est
per accidens contraria, quia est per accidens falsa; universalis vero negatio,
tamquam medium sapiens utriusque extremi naturam, relata ad contrarii
affirmationem est per se contraria et per se falsa, relata autem ad negationem
contradictoriam est per accidens falsa et contraria. Sicut rubrum ad nigrum est
album, et ad album est nigrum, ut dicitur in V physicorum. Aliud igitur est
loqui de negatione universali in ordine ad affirmationem contrarii, et aliud in
ordine ad negationem contradictoriam. Si enim primo modo loquamur, sic negatio
universalis per se contraria et per se falsa est; si autem secundo modo, non
est per se falsa, nec contraria affirmationi. To clear up this difficulty we must note that it is
one thing to speak of the contrariety there is between the negation of some
universal affirmative in relation to the affirmation of a contrary, and another
to speak of that same universal negative in relation to the negation
contradictory to the same affirmative. For example, the four enunciations of
which we are now speaking are the universal affirmative, the contradictory, the
universal negative, and the universal affirmation of a contrary: "Every
man is just,” "Not every man is just,” "No man is just,” "Every
man is unjust.” Notice that although all the rest are contrary to the first in
some way, there is a great difference between the contrariety of each to the
first. The last one, the affirmation of a contrary, is contrary to the first by
reason of the preceding universal negation, for it is false, not per se but by
reason of that negation, i.e., it is implicative, as Aristotle has already
proved. The third, the universal negation, is not per se contrary to the first
either. It is contrary by reason of the second, the contradictory negation, and
for the same reason, i.e., it is not per se false in respect to the truth of
the affirmation but is implicative, for it contains the contradictory negation
"Not every man is just,” by means of which it is made false in respect to
the truth of the affirmation. The reason for this is that the falsity of the
contradictory negation is prior absolutely to the falsity of the universal
negation, for the whole is more composite and posterior as compared to its
parts. There is, therefore, an order among these three false enunciations. Only
the contradictory negation is simply contrary to the true affirmation, for it
is per se false simply in respect to the affirmation; the affirmative of the
contrary is per accidens contrary, since it is per accidens false; the
universal negation, which is a medium partaking of the nature of each extreme,
is per se contrary and per se false as related to the affirmation of a
contrary, but is per accidens false and per accidens contrary as related to the
contradictory negation; just as red in a motion from red to black takes the
place of white, and in a motion from red to white takes the place of black, as
is said in V Physicorum. Therefore, it is one thing to speak of the universal
negation in relation to affirmation of a contrary and another to speak of it in
relation to the contradictory negation. If we are speaking of it in the first
way, the universal negation is per se contrary and per se false; if in the
second, it is not per se false or contrary to the affirmation. Quia ergo agitur
ab Aristotele nunc quæstio, inter affirmationem contrarii et negationem quæ
earum contraria sit affirmationi veræ, et non agitur quæstio ipsarum negationum
inter se, quæ, scilicet, earum contraria sit illi affirmationi, ut patet in
toto processu quæstionis; ideo Aristoteles indistincte dixit quod utraque
negatio est contraria affirmationi veræ, et non affirmatio contrarii. Intendens
per hoc declarare diversitatem quæ est inter affirmationem contrarii et negationem
in hoc quod veræ affirmationi contrariantur, et non intendens dicere quod
utraque negatio est simpliciter contraria. Hoc enim in dubitatione non est quæsitum, sed illud
tantum. Et similiter dixit quod nihil interest si quis ponat negationem
universalem: nihil enim interest quoad hoc, quod affirmatio contrarii
ostendatur non contraria affirmationi veræ, quod inquirimus. Plurimum autem
interesset, si negationes ipsas inter se discutere vellemus quæ earum esset
affirmationi contraria. Sic ergo patet quod subtilissime Aristoteles locutus de
vera contrarietate enunciationum, unam uni contrariam posuit in omni materia et
quantitate, dum simpliciter contrarias contradictiones asseruit. Since Aristotle is now
treating the question as to which is the contrary of a true affirmation,
affirmation of a contrary or the negation, and not the question as to which of
the negations is contrary to a true affirmation—as is clear in the whole
progression of the question—bis answer is that both negations are contrary to
the true affirmation without distinction, and that affirmation of a contrary is
not. His intention is to manifest the diversity between the negation, and the
affirmation of a contrary, inasmuch as they are contrary to a true affirmation.
He does not intend to say that both negations are contrary simply, for this is
not the difficulty in question here, but the former is. With respect to his
saying that it makes no difference if we posit the universal negation, the same
point applies, for in regard to showing that affirmation of a contrary is not
contrary to a true affirmation, which is the question at issue here, it makes
no difference which negation is posited. It would make a great deal of
difference, however, if we wished to discuss which negation was contrary to a
true affirmation. It is evident, then, that Aristotle’s discussion of the true
contrariety of enunciations is very subtle, for he has posited one to one
contraries in every matter and quantity, and affirmed that contradictions are
contraries simply. 21. Deinde cum dicit: manifestum est autem etc., resumit
quoddam dictum ut probet illud, dicens manifestum est autem ex dicendis quod
non contingit veram veræ contrariam esse, nec in opinione mentali, nec in
contradictione, idest, vocali enunciatione. Et causam subdit: quia contraria
sunt quæ circa idem opposita sunt; et consequenter enunciationes et opiniones
veræ circa diversa contrariæ esse non possunt. Circa idem autem contingit simul
omnes veras enunciationes et opiniones verificari, sicut et significata vel
repræsentata earum simul illi insunt: aliter veræ tunc non sunt. Et
consequenter omnes veræ enunciationes et opiniones circa idem contrariæ non
sunt, quia contraria non contingit eidem simul inesse. Nullum ergo verum sive
sit circa idem, sive sit circa aliud, est alteri vero contrarium. Et sic
finitur expositio huius libri perihermenias. When he says, It is evident,
too, that true cannot be contrary to true, either in opinion or in
contradiction, etc., he returns to a statement he has already made in order to
prove it. It is evident, too, from what has been said, that true cannot be contrary
to true, either in opinion or in contradiction, i.e., in vocal enunciation. He
gives as the cause of this that contraries are opposites about the same thing;
consequently, true enunciations and opinions about diverse things cannot be
contraries. However, it is possible for all true enunciations and opinions
about the same thing to be verified at the same time, inasmuch as the things
signified or represented by them belong to the same thing at the same time;
otherwise they are not true. Consequently, not all true enunciations and
opinions about the same thing are contraries, for it is not possible for
contraries to be in the same thing at the same time. Therefore, no true opinion
or enunciation, whether it is about the same thing or is about another is
contrary to another. VIO ORDINIS
PRÆDICATORUM S. R. IN E. CARDINALIS COMMENTARIA
RELIQUUM LIBRI SECUNDI PERI HERMENEIAS AD LECTOREM Humano: capiti
cervicem. nitor. equinam Addere: da veniam, si nova monstra iuvant.
—H— LECTIO (Cano. CarrTANt lect. 1). ^ DE NUMERO ET
HABITUDINE ENUNCIATIONUM IN QUIBUS PRÆDICATUR VERBUM EST ET SUBIICITUR
NOMEN FINITUM UNIVERSALITER SUMPTUM, VEL NOMEN INFINITUM, ET IN QUIBUS
PRÆDICATUR VERBUM: ADIECTIVUM Ὁμοίως δὲ ἔχει κἂν καθόλου τοῦ ὀνόματος ἦ ἡ
κατάφάσις" olov, πᾶς ἐστὶν ἄνθρωπος δίκαιος: ἀπόφασις τούτου, οὐ πᾶς
ἐστὶν ἄνθρωπος δίκαιος: πᾶς ἔστιν ἄνθρωπος οὐ δίκαιος, οὐ πᾶς ἐστὶν ἄνθρωπος
οὐ δίχαιὸς. Πλὴν οὐχ ὁμοίως τὰς κατοὸ διάμετρον ἐνδέχεται συναληθεύειν: ἐνδέχεται
δὲ ποτέ. Αὗται μὲν οὖν δύο ἀντίκεινται, ἴλλλαι δὲ δύο πρὸς τὸ οὐχ ἄνθρωπος,
ὡς ὑποκείμενόν τι προστεθέν- ἔστι δίκαιος οὐκ ἄνθρωπος, οὐχ ἔστι
δίχαιος οὐχ ἄνθρωπος" ἔστιν οὐ δίκαιος οὐχ ἄνθρωπος, οὐχ ἐστιν οὐ δίκαιος
οὐχ ἄνθρωπος. ' Πλείους δὲ τούτων οὐχ ἔσονται ἀντιθέσεις. Αὗται δὲ
χωρὶς ἐκείνων αὐταὶ καθ᾽ ἑαυτὰς ἔσονται, ὡς ὀνόματι τῷ οὐχ ἄνθρωπος
χρώμεναι. "Eg ὅσων δὲ τὸ ἔστι pod ἁρμόττει, olov ἐπὶ τοῦ ὑγιαίνει
καὶ βαδίζει, ἐπὶ τούτων τὸ αὐτὸ ποιεῖ οὕτω. τιθέμενον, ὡς ἂν εἰ τὸ ἔστι
προσήπτετο; olov, ὑγιαίνει à πᾶς ἄνθρωπος; οὐχ ὑγιαίνει πᾶς ἄνθρωπος,
ὑγιαίγει πᾶς οὐχ ἄνθρωπος, οὐχ ὑγιαίνει πᾶς οὐκ ἄνθρωπος. Οὐ γάρ ἐστι
τὸ οὐ πᾶς ἄνθρωπος λεχτέον' ἀλλὰ τὸ οὔ, τὴν ἀπόφασιν, τῷ ἄνθρωπος
προσθετέον" τὸ γὰρ πᾶς οὐ τὸ καθόλου σημαίνει, ἀλλ᾽ ὅτι
καθόλου. ᾿ Δῆλον δὲ ἐκ τοῦδε, ὑγιαίνει ἄνθρωπος, οὐχ ὑγιαίνει ἄνθρωπος"
ὑγιαίνει οὐχ ἄνθρωπος, οὐχ ὑγιαίνει οὐχ ἄνθρωπος. Ταῦτα γὰρ ἐχείνων διαφέρει τῷ
μὴ καθόλου εἶναι. Ὥστε τὸ πᾶς, ἢ οὐδείς, οὐδὲν ἄλλο προσσημαίνει; ἢ ὅτι
χαθόλου τοῦ ὀνόματος ἢ κατάφασιν 7) ἀπόφασιν: Τὰ δὲ ἄλλα τὰ αὐτὰ δεῖ
προστιθέναι" Similiter autem se habent, et si universalis nominis
sit affirmatio; ut est, omnis homo iustus est; negatio huius, non omnis
est homo iustus, omnis est homo non iustus, non omnis est homo non
iustus. Sed non similiter
angulares contingit veras esse; contingit autem aliquando. Hæ
igitur duæ oppositæ sunt. Aliæ autem duæ ad id quod est, non homo,
quasi ad subiectum aliquod additum; ut, est iustus non homo, non
est iustus non homo; est non iustus non homo, non est non iustus
non homo. Plures autem his non erunt oppositæ. Hæ autem extra
illas, ipsæ secundum se erunt, ut nomine utentes eo, quod est non
homo. In his vero, in quibus, est, non convenit ut in eo. quod est
valere vel ambulare, idem faciunt sic positum, ac si, est, adderetur, ut,
sanus est omnis homo, non sanus est nus omnis homo; sanus est
omnis non homo, non sæst omnis non homo. Non enim dicendum est, non
omnis homo; sed, non, negationem ad id quod est homo addendum est; omnis
enim non universalem significat, sed quoniam universaliter. Manifestum
est autem ex eo quod est, valet homo, non valet homo; valet non homo, non
valet non homo. Hæc enim ab illis differunt, eo quod universaliter
non sunt. Quare omnis vel nullus nihil significant aliud, nisi
quoniam universaliter de nomine, vel affirmant vel negant. Ergo et
cætera eadem oportet apponi. Seq.
cap. x. II ostquam Philosophus α distinxit enunciationes in quibus subiicitur nomen
infinitum non universaliter sumptum, hic S Ed. c: indefinitas. Num.
4. Num. 8. intendit distinguere enunciationes, in
)quibus subiicitur nomen finitum univerCsaliter sumptum. Et circa hoc tria
facit: primo, ponit similitudinem istarum enunciationum ad infinitas
supra positas; secundo, ostendit dissimilitudinem earumdem; ibi: Sed non
similiter etc. ; tertio, concludit numerum oppositionum inter dictas
enunciationes; ibi: Hæ duæ igitur 2. Lib. II, lect. ui, n.
5. Ammonius. Porphyrius.
Lect. xi, n. 5, seq.
Ed. c: quam sura posuimus. orphyrius. et etc.
Dicit ergo primo quod: similes sunt enunciationes, in quibus est nominis
universaliter sumpti affirmatio. Quoad primum notandum est quod in
enunciationibus indefinitis supra positis erant duæ oppositiones et
quatuor enunciationes, et affirmativæ inferebant negativas, et non inferebantur
ab eis, ut patet tam in expositione Ammonii, quam Porphyrii. Ita in
enunciationibus in quibus subiicitur nomen finitum universaliter
sumptum inveniuntur duæ oppositiones et quatuor enunciationes:
affirmativæ inferunt negativas et non e contra. Unde similiter se habent
enunciationes supradictæ, sj nominis in subiecto sumpti fiat affirmatio
universaliter. Fierit enim tunc quatuor enunciationes: duæ de prædicato
finito, scilicet omnis bomo est iustus, et eius negatio quæ est,
non ommis bomo est iustus; et duæ de prædicato infinito, scilicet omnis bomo.
est non iustus, et eius negatio quæ est, non omnis bomo est non iustus.
Et quia quælibet affirmatio cum sua negatione unam integrat oppositionem,
duæ efficiuntur oppositiones, sicut et de indefinitis dictum est. Nec obstat
quod de enunciationibus universalibus loquens particulares inseruit;
quoniam sicut supra de indefinitis et suis
negationibus sermonem fecit, ita nunc de afhrmationibus universalibus
sermonem faciens de earum negationibus est coactus loqui. Negatio
siquidem universalis affirmativæ non est universalis negativa, sed
particularis negativa, ut in I libro habitum est 3. Quod autem similis sit consequentia in
istis et supradictis indefinitis patet exemplariter. Et ne multa loquendo res clara
prolixitate obtenebretur, formetur primo figura de indefinitis, quæ supta
posita est in expositione Porphyrii, scilicet ex una parte ponatur affirmativa
finita, et sub ea negativa infinita, et sub ista negativa
privativa. Ex altera parte primo negativa finita, et sub ea affirmativa
infinita, et sub ea affirmativa privativa. Deinde sub illa figura
formetur alia figura similis illi universaliter: ponatur scilicet ex una parte
universalis affirmativa de prædicato finito, et sub ea particularis negativa de
prædicato infinito, et ad complementum similitudinis sub ista
particularis negativa de prædicato privativo; ex altera vero parte
ponatur primo particularis negativa de prædicato infinito, Quibus ita
dispositis, exerceatur consequentia semper in ista proxima figura, sicut
supra in indefinitis exercita est: sive sequendo expositionem: Ammonii,
ut infinitæ se habeant ad finitas, sicut privativæ se habent ad ipsas finitas
; finitæ autem non se habeant ad infinitas medias, sicut privativæ se
habent ad ipsas infinitas: sive sectando expositionem Porphyrii, ut affirmativæ
inferant negativas, et non e contra. Utrique enim expositioni
suprascriptæ deserviunt figuræ, ut patet diligenter indaganti. Similiter ergo se habent enunciationes istæ universales
ad indefinitas in tribus, scilicet in numero propositionum, et numero
oppositionum, et modo consequentiæ. 4. Deinde cum dicit: Sed non
similiter angulares etc., ponit. ctas dissimilitudinem inter istas
universales et supradiindefinitas, in hoc quod angulares non similiter
contingit veras esse. Quæ verba primo exponenda sunt secundum eam, quam
credimus esse ad mentem Aristotelis, expositionem; deinde secundum alios.
Angulares ex enunciationes in utraque figura suprascripta vocat
eas quæ sunt diametraliter oppositæ, scilicet affirmativam
finitam uno angulo, et affirmativam infinitam sive privativam
ex alio angulo: et similiter negativam finitam ex uno angulo, et negativam
infinitam vel privativam ex alio angulo. 5. Enunciationes ergo in
qualitate similes angulares vocatæ, eo quod angulares, idest
diametraliter distant, dissimilis veritatis sunt apud indefinitas et
universales. Angulares enim indefinitæ tam in diametro affirmationum,
quam in diametro negationum possunt esse simul veræ, ut patet in
suprascripta figura indefinitarum. Et hoc intellige in materia
contingenti. Angulares vero in figura universalium non sic se habent,
quoniam angulares secundum diametrum affirmationum impossibile est
esse simul veras in quacumque materia. Angulares autem secundum diametrum
negationum quandoque possunt esse simul veræ, quando scilicet fiunt im
materia contingenti : in materia enim necessaria et remota impossibile
est esse ambas veras. Hæc est Boethii, quam veram credimus,
expositio. 6. Herminus autem, Boethio referente, aliter exponit. Licet
enim ponat similitudinem inter universales et indefinitas quoad numerum
enunciationum: et. oppositionum, oppositiones. tàmen aliter accipit in
universalibus et aliter in indefinitis. Oppositiones siquidem.
indefinitarum infinitas numerat sicut et nos numeravimus, alteram
scilicet inter finitas affrmativanr et negativam, et alteram inter
affirmativam et negativam, quemadmodum nos fecimus. Universalium vero non sic
numerat oppositiones, sed alteram sumit inter universalem affirmativam
finitam et particularem negativam finitam, scilicet.
Ammonius. Porphyrius. Cf. lib. 1, lect. xut,
n. 3. Boethius. *Edd. Hermenius, Cf. lib. IL, lect. n,
not. 0. . omnis bomo est iustus, hon omnis bomo est iustus,
et sub ea universalis affirmativa de prædicato finito, et,Sub ista universalis
affirmativa de prædicáto privativo, LI hoc modo: Figura
indefinitarum Homo est iustus Homo non est non iustus Homo
non ést iniustus Homo non est iustus Homo est non iustüs Homo
est iniustus Figura universalium Omnis homo est iustus Non omnis homo est non iustus Non omnis
homo est non iustus Omnis homo est iüstus Nón omfis homo est iniustus. —
'Ornnis homo est iniustus a) Postquam Philosophus. Hoc supplementum ad
commentaria s.Thomæ in secundum librum Peri hermeneias, quod Caietanus
complevit anno 1496, impressum est eodem anno in ed. Veneta c Peri
hermeneias et Posteriorum analyticorum. Quocirca dd istam exegimus præet
alteram inter eamdem universalem affirmativam fini«tam et universalem
affirmativam infinitam, scilicet omnis bomo est iustus, omnis bomo est
non iustus. Inter has enim est contrarietàs,
inter illas vero contradictio. - Dissimilitudinem etiam universalium ad
indefinitas aliter ponit. Non enim nobiscum fundat dissimilitudinem inter
angulares universalium et indefinitarum supra differentia quæ est
inter angulares universalium affirmativas et negativas, sed supra
differentia quæ est inter ipsas universalium angulares inter se ex utraque parte.
Format namque talem figuram, in qua ex una parte sub universali
affirmativa finita, universalis affirmativa infinita est; et ex alia
parte cipue hanc nostram eiusdem supplementi editionem. Editio præfata
c incipit: « Deinde cum dicit: Similiter autem se habent etc.,
intendit » distinguere enunciationes in quibus subiicitur nomen
finitum univer» saliter sumptum, οἵ circa hoc tria facit » etc.
CAP., LECT. sub particulari negativa finita, particularis negativa
infinita ponitur; sicque angulares sunt disparis qualitatis, et similiter
indefinitarum figuram format hoc modo: ut 89 ly bæ demonstret
enunciationes finitas et infinitas quoad prædicatum sive universales sive
indefinitas, et tunc est sensus, quod hæ enunciationes supradictæ habent
duas oppositiones, alteram inter affirmationem fiOmnis homo est
iustus 1 o E S Ξ 8 o 1
Omnis homo est non iustus Homo est justus ESSEEE ENS:
Homo est non iustus Non omnis homo » Contradictoriæ e
fe s 4? 9, $ «Ὁ 9 ἢ *, 9
οι ἊΨ Contradictoriæ $9 ὸ .* EM ?, Ὁ
IX x : ? e ^e,
] est iustus [ o A H E δ
s F1 ys r Non omnis homo ἴ est non iustus
Homo non est justus Homo non est non iustus Quibus ita
dispositis, ait in hoc stare dissimilitudinem, quod angulares
indefinitarum mutuo se invicem compellunt ad veritatis sequelam, ita quod unius
angularis veritas suæ angularis veritatem infert undecumque incipias.
Universalium vero angulares non se mutuo compellunt ad *Par.
fo et Ven.: Edd.
Ven. c et 1526 omitt. nom, sed erronee. .
Herminus. IT ante EXPERS, Mrd ope UR
Me RN EE NRI EET Rer METCUNERE
veritatem, sed ex altera parte necessitas deficit illationis. Si enim incipias ab aliquo universalium et ad
suam angularem procedas, veritas universalis non ita potest esse simul
cum veritate angularis, quod compellit eam ad veritatem: quia si universalis
est vera, sua universalis contraria erit falsa: non enim possunt esse simul
veræ. Et si ista universalis contraria est falsa, sua contradictoria
particularis, quæ est angularis primæ universalis assumptæ, erit necessario
vera: impossibile est enim contradictorias esse simul falsas. Si autem incipias
e converso ab aliqua. particularium et ad suam angularem procedas,
veritas particularis ita potest stare cum veritate suæ angularis, quod tamen
non necessario infert eius veritatem: quia licet sequatur: Particularis
est vera; ergo sua universalis. contradictoria est falsa; non tamen sequitur
ultra : Ista. universalis contradictoria est falsa; ergo sua universalis
contraria, quæ est angularis particularis assumpti, est vera. Possunt
enim contrariæ esse simul falsæ. 7. Sed. videtur expositio ista
deficere ab Aristotelis mente quoad modum sumendi oppositiones. Non enim intendit hic loqui de
oppositione quæ est inter finitas et infinitas, sed de ea quæ est inter finitas
inter se, et infinitas inter se. Si enim de utroque modo oppositionis
exponere yolumus, iam. non duas, sed tres oppositiones invenie-,
mus; primam inter finitas, secundam inter infinitas, tertiam .quam ipse
Herminus dixit inter finitam et infinitam. Figura etiam quam formavit,
conformis non est ei, quam Aristoteles in fine I Priorum formavit, ad
quam nos remisit, cum dixit: Hæc igitur quemadmodum in. Resoluloris
dictum. est, sic sunt. disposita. In. Aristotelis namque figura,
angulares sunt affirmativæ aflirmativis, et negativæ negativis. 8. Deinde
cum dicit: Hæ igitur duæ etc., concludit numerum propositionum. Et potest
dupliciter exponi; primo, ut ly bæ demonstret universales, et sic est
sensus, quod. hæ universales finitæ et infinitæ habent duas oppositiones,
quas supra declaravimus; secundo, potest exponi Opp. D. Tnuowar T.
I. nitam et eius negationem, alteram inter
affirmationem infinitam et eius negationem. Placet autem mihi magis
secunda expositio, quoniam brevitas cui Aristoteles studebat, replicationem non
exigebat, sed potius quia enunciationes finitas et infinitas quoad prædicatum
secundum diversas quantitates enumeraverat, ad duas oppositiones
omnes reducere, terminando earum tractatum, voluit. 9. Deinde cum dicit:
Aliæ autem ad id quod est etc., intendit declarare diversitatem
enunciationum de tertio adiacente, in quibus subiicitur nomen infinitum.
Et circa hoc tria facit: primo, proponit et distinguit eas;
secundo, ostendit quod non dantur plures supradictis; ibi: Magis
autem etc.; tertio, ostendit habitudinem istarum ad alias ; ibi: Hæ autem
extra* etc. Ad. evidentiam primi advertendum est tres esse species
enunciationum de inesse, in quibus explicite ponitur hoc verbum est.- Quædam
sunt, quæ subiecto sive finito sive infinito nihil habent additum
ultra verbum, ut, homo est, non bomo est.- Quædam vero sunt quæ
subiecto finito habent, præter verbum, aliquid additum sive finitum sive
infinitum, ut, bomo est iustus, bomo est non iustus.- Quædam autem sunt
quæ subiecto infinito, præter verbum, habent aliquid additum sive finitum
sive infinitum, ut, non bomo est iustus, non bomo est non iustus. Et quia
de primis iam determinatum est, ideo de ultimis tractare volens, ait:
Aliæ autem sunt, quæ habent aliquid, scilicet prædicatum, additum supra
verbum est, ad id quod est, mon bomo, quasi ad subiectum, idest ad
subiectum infinitum. Dixit autem
quasi, quia sicut nomen infinitum deficit a ratione nominis *, ita
deficit a ratione subiecti. Significatum siquidem nominis infiniti
non proprie substernitur compositioni cum prædicato quam importat,
esf, tertium adiacens. Enumerat quoque quatuor enunciationes et duas
oppositiones in hoc ordine, sicut et in superioribus fecit. Distinguit
etiam istas ex finitate vel infinitate prædicata. Unde primo,
ponit oppositiones inter affirmativam et negativam habentes
subiectum infinitum et prædicatum finitum, dicens: Ut, non bomo est
iustus, non bomo non est iustus. Secundo, ponit oppositionem alteram
inter affirmativam et negativam, habentes subiectum infinitum: et prædicatum
infinitum, dicens : Ut, non bomo est non iustus, non bomo non est non
iustus. το. Deinde cum dicit:
Magis autem. plures etc., ostendit quod non dantur plures oppositiones
enunciationum supradictis. Ubi notandum est quod enunciationes de inesse,
in quibus explicite ponitur hoc verbum «est, sive secundum, sive tertium
adiacens, de quibus loquimur, non possunt esse plures quam duodecim supra
positæ; et consequenter oppositiones earum secundum affirmationem
et negationem non. sunt nisi sex. Cum enim in tres ordines divisæ sint
enunciationes, scilicet in illas de secundo adiacente, in illas de tertio.
subiecti finiti, et in illas de tertio subiecti infiniti, et in quolibet
ordine sint quatuor enunciationes; fiunt omnes enunciationes duode|
cim, et oppositiones sex. Et quoniam subiectum earum in quolibet ordine
potest quadrupliciter quantificari, scilicet universalitate, particularitate,
et singularitate, et indefinitione; ideo istæ duodecim multiplicantur in
quadraginta octo. Quater enim duodecim quadraginta octo faciunt. Nec
possibile est plures his imaginari. Et licet Aristoteles nonnisi viginti
harum expresserit, octo in primo ordine, octo in secundo, et quatuor in
tertio, attamen per eas reliquas voluit intelligi. Sunt autem sic enumerandæ et ordinandæ secundum
singulos ordines, ut affirmationi negatio prima ex opposito situetur, ut
oppositionis ini2 Num. seq. Infra num. Π. Cf. lib.I. lect.iv,
n. 13. SPEO 9o tentum clarius videatur. Et sic contra
universalem afhrmativam non est ordinanda universalis negativa, sed
particularis negativa, quæ est illius negatio; et e converso, contra
particularem affirmativam non est ordinanda particularis negativa, sed universalis
negativa quæ est eius negatio. Ad clarius autem intuendum numerum,
coordinandæ sunt omnes, quæ sunt similis quantitatis, simul in recta
linea, distinctis tamen ordinibus tribus supradictis. Quod ut clarius elucescat, in
hac subscripta videatur figura: Primus Socrates est
Quidam homo .est Homo est Omnis homo est
—. Socrates non est Quidam homo non est Homo non
est Omnis homo non est e Ordo Non Socrates
est Quidam non homo est Non homo est Omnis non homo est
Secundus Ordo Socrates est iustus Quidam homo est iustus
Homo. est iustus Omnis homo est iustus - Socrates non est iustus
Quidam homo non est iustus Homo non est iustus -Socrates est non iustus Non Socrates
non est Quidam non homo non est Non homo non est Omnis non
homo non est Socrates non est non iustus Quidam homo est non iustus
— Quidam homo non est non iustus Homo est non iustus Omnis homo non est iustus Non Socrates
est iustus Quidam non homo est iustus Non homo est iustus
Omnis non homo est iustus - Non Socrates non est iustus Quidam non homo
non est iustus Non homo non est iustus Tertius Omnis homo est non
iustus Ordo Non Socrates est non iustus Homo non est non iustus Omnis homo non
est non iustus Non Socrates non est non iustus Quidam non homo est
non iustus Quidam non homo non est non iustus Non homo est non
iustus Omnis non homo non est iustus Quod autem plures his non sint, ex eo patet
quod non contingit pluribus modis variari subiectum et prædicatum penes
finitum et infinitum, nec pluribus modis variantur finitum et infinitum
subiectum. Nulla enim enunciatio de secundo adiacente potest variari penes
prædicatum finitum vel infinitum, sed tantum penes subiectum quod
sufficienter factum apparet. Enunciationes autem de tertio adiacente
quadrupliciter variari possunt, quia aut sunt subiecti et prædicati
finiti, aut utriusque infiniti, aut subiecti finiti et prædicati
infiniti, aut subiecti infiniti et prædicati finiti. Quarum nullam
prætermissam esse superior docet figura. 11. Deinde cum dicit: Hæ
autem extra illas etc., ostendit habitudinem harum quas in tertio ordine
numeravimus ad illas, quæ in secundo sitæ sunt ordine, et dicit quod istæ
sunt extra illas, quia non sequuntur ad illas, nec e converso. Et rationem
assignans subdit: Ut momine ulenles 60 quod est non bomo, idest ideo istæ
sunt extra illas, quia istæ utuntur nomine infinito loco nominis,
dum omnes habent subiectum infinitum. Notanter autem dixit enunciationes
subiecti infiniti uti ut nomine, infinito nomine, quia cum subiici in
enunciatione proprium sit nominis, prædicari autem commune nomini et
verbo, omne subiectum enunciationis ut nomen subiicitur. 12. Deinde
cum dicit: In bis vero in quibus est etc., determinat de enunciationibus
in quibus ponuntur verba adiectiva. Et circa hoc tria facit: primo,
distinguit eas; se Num. 13. Num. 16. cundo, respondet cuidam
tacitæ quæstioni ; ibi: Non enim dicendum est etc.; tertio, concludit
earum conditiones; ibi: Ergo et cætera eadem etc. Ad evidentiam primi resumendum
est, quod inter enunciationes in quibus ponitur es? secundum adiacens, et eas
in quibus ponitur es! tertium adiacens talis est differentia quod in illis, quæ
sunt de secundo adiacente, simpliciter fiunt oppositiones; scilicet ex
parte subiecti tantum variati per finitum et infinitum; in his vero, quæ
habent est tertium. adiacens dupliciter fiunt oppositiones, scilicet et ex
parte prædicati et ex parte subiecti, quia utrumque variari potest per finitum
et infinitum. Unde unum ordinem tantum enunciationum de secundo adiacente
fecimus, habentem quatuor enunciationes diversimode quantificatas et duas
oppositiones. Enunciationes autem de tertio adiacente oportuit partiri in
duos ordines, quia sunt in eis quatuor oppositiones et octo
enunciationes, ut supra dictum est.- Considerandum quoque est quod
enunciationes, in quibus ponuntur verba adiectiva, quoad significatum
æquivalent enunciationibus Non homo non est non iustus Omnis non
homo est non iustus Omnis non homo non est non iustus de tertio adiacente,
resoluto verbo adiectivo in proprium participium et es/, quod semper
fieri licet, quia in omni verbo adiectivo clauditur verbum substantivum.
Unde idem significant ista, omnis bomo currit, quod ista, omnis
bomo est currens. Propter quod Boethius vocat enunciationes
cum verbo adiectivo de secundo adiacente secundum vocem, de tertio autem
secundum potestatem, quia potest resolvi in tertium adiacens, cui
æquivalet. Quoad numerum autem enunciationum et oppositionum, enunciationes
: verbi adiectivi formaliter sumptæ non æquivalent illis de tertio
adiacente, sed æquivalent enunciationibus, in quibus ponitur esf secundum
adiacens. Non possunt enim fieri oppositiones dupliciter in
enunciationibus adiectivis, scilicet ex parte subiecti et prædicati, sicut
fiebant in substantivis de tertio adiacente, quia verbum, quod prædicatur
in adiectivis, infinitari non potest. Sed oppositiones adiectivarum fiunt
simpliciter, scilicet ex parte subiecti tantum variati per infinitum et finitum
diversimode quantificati, sicut fieri didicimus supra in enunciationibus
substantivis de secundo adiacente, eadem ducti ratione, quia præter
verbum nulla est affirmatio vel negatio *, sicut præter nomen esse potest. Quia
autem in præsenti tractatu non de significalionibus, sed de mumero
enunciationum et oppositionum sermo intenditur, ideo Aristoteles
determinat diversificandas esse enunciationes adiectivas secundum modum, quo
distinctæ sunt enunciationes in quibus ponitur es? secundum adiacens. Et
ait quod in his enunciationibus, in quibus non contingit poni hoc verbum
est formaliter, sed aliquod aliud, ut, currit, vel, ambulat, idest in
enunciationibus adiectivis, idem faciunt quoad numerum oppositionum et
enunciationum sic posita, scilicet nomen et verbum, ac si est secundum
adiacens subiecto nomini adderetur. Habent enim et istæ adiectivæ, sicut
illæ, in quibus ponitur es/, duas oppositiones tantum, alteram inter
finitas, ut, omnis bomo currit, omnis bomo mon currit, alteram inter
infinitas quoad subiectum, ut, omnis non bomo currit, omnis non bomo mon
currit. Deinde cum dicit: Non enim dicendum est etc., respondet tacitæ
quæstioni. Et circa hoc facit duo: primo, ponit solutionem quæstionis;
deinde, probat eam; ibi: Manifestum est autem* etc. Est ergo quæstio
talis: Cur negatio infinitans numquam addita est supra signo universali aut
particulari, ut puta, cum vellemus infinitare istam, omnis bomo currit,
cur non sic infinitata est, om omnis bomo currit, sed sic, omnis non bomo
currit? Huic namque quæstioni respondet, dicens quod quia nomen infi* Cf.
lib. I, lect. vit, n. 9. Num. 44. CAP., LECT. nitabile
debet significare aliquid universale, vel singulare; omnis autem et similia
signa non significant aliquid universale aut singulare, sed quoniam.
universaliter aut particulariter; ideo non est dicendum, mom ommis
bomo, si infinitare volumus (licet debeat dici, si negare quantitatem
enunciationis quærimus), sed negatio infinitans ad ly homo, quod
significat aliquid universale, addenda est, et dicendum, omnis non
bomo. 14. Deinde cum dicit: Manifestum est autem. ex eo quod est εἴς.» probat hoc quod dictum est, scilicet quod omnis
et similia non significant aliquod universale, sed quoniam universaliter
tali ratione. Illud, in quo differunt enunciationes præcise differentes per
habere *et non habere ly omnis, est non universale aliquod, sed quoniam
umi91 particularitatis absolute, sed applicatum termino distributo. Cum
enim dico, omnis bomo, ly omnis denotat universitatem applicari illi termino
/omo, ita quod Aristoteles dicens quod omnis significat quoniam
universaliter, per ly quoniam insinuavit applicationem
universalitatis importatam in ly ommis in actu exercito, sicut et in
T per Posteriorum, in. definitione scire applicationem causæ
notavit illud verbum quoniam, dicens: Scire est rem per causam
cognoscere, et quoniam. illius est causa.- Ratio autem versaliter; sed
illud in quo differunt enunciationes præcise differentes per habere et
non habere ly ommis, est significatum per ly omnis; ergo significatum per
ly ommis est non aliquid universale, sed quoniam universaliter. Minor
huius rationis, tacita in textu, ex se clara est. Id enim in quo, cæteris
paribus, habentia a non habentibus aliquem terminum differunt, significatum est
illius termini. Maior vero in
littera exemplariter declaratur sic. Illæ οὐ τὸ. νιν. OG REIR
RN enunciationes, bomo currit, et omnis bomo currit, præcise
differunt ex hoc, quod in una est ly omnis, et in altera non. Tamen non ita differunt ex hoc, quod una sit
universalis, alia non universalis. Utraque enim habet subiectum
universale, scilicet ly bomo, sed differunt, quia in ea, ubi ponitur ly
omnis, enunciatur de subiecto universaliter, in altero autem. non
universaliter. Cum enim dico, bomo currit, cursum attribuo homini
universali, sive communi, sed non pro tota humana universitate; cum
autem dico, ommis bomo currit, cursum inesse homini pro omnibus
inferioribus significo.- Simili modo declarari potest de tribus aliis, quæ in
textu adducuntur, Scilicet, bomo non currit, respectu suæ universalis
universaliter, omnis bomo mon currit: et sic de aliis. Relinquitur ergo, quod,
omnis et nullus et similia signa nullum universale significant, sed
tantummodo significant, quoniam universaliter de homine affirmant vel
negant. I$. Notato hic duo: primum est quod non dixit omnis et
nullus significat universaliter, sed quoniam universaliter; secundum est, quod
addit, de homine affrmant vel negant.- Primi
ratio est, quia signum distributivum non significat modum ipsum universalitatis
aut secundi insinuat differentiam inter terminos categorematicos et
syncategorematicos. Illi siquidem ponunt significata supra terminos
absolute; isti autem ponunt ' significata sua supra terminos in ordine ad
prædicata. Cum enim dicitur, bomo albus, ly albus denominat hominem
in seipso absque respectu ad aliquod sibi addendum. Cum vero
dicitur, ommis bomo, ly omnis etsi hominem distribuat, non tamen distributio
intellectum firmat, nisi in ordine ad aliquod prædicatum intelligatur.
Cuius signum est, quia, cum dicimus, omnis bomo currit, non
intendimus distribuere hominem pro tota sua universitate absolute,
sed in ordine ad cursum. Cum autem dicimus, albus bomo currit,
determinamus hominem in seipso esse album et non in ordine ad cursum.
Quia ergo ommis et nullus, sicut et alia syncategoremata, nil aliud in
enunciatione faciunt, nisi quia determinant subiectum in ordine ad
prædicatum, et hoc sine affirmatione et negatione fieri nequit; ideo
dixit quod nil aliud significant, nisi quoniam universaliter de
nomine, idest de subiecto, affirmant vel negant, idest affirmationem vel
negationem fieri determinant, ac per hoc a categorematicis ea separavit.
Potest etiam referri hoc quod dixit, affirmant vel negant, ad ipsa
signa, scilicet omnis et nullus, quorum alterum positive distribuit,
alterum removendo. 16. Deinde cum dicit: Ergo et cætera eadem etc.,
concludit adiectivarum enunciationum conditiones. Dixerat enim quod
adiectivæ enunciationes idem faciunt quoad oppositionum numerum, quod
substantivæ de secundo adiacente; et hoc declaraverat, oppositionum
numero exemplariter subiuncto. Et quia ad hanc convenientiam sequitur
convenientia quoad finitationem prædicatorum, et quoad diversam subiectorum
quantitatem, et earum multiplicationem ex ductu quaternarii in seipsum, et si
qua sunt huiusmodi enumerata; ideo concludit: Ergo et cætera, quæ in
illis servanda erant, eadem, idest similia istis apponenda sunt.
(Can. CarkTANI lect.). NONNULLÆ CIRCA EA QUÆ DICTA SUNT DUBITATIONES
MOVENTUR AC SOLVUNTUR ᾿Επεὶ δὲ ἐναντία ἀπόφασίς ἐστι τῇ, ἅπαν. ἐστὶ ζῷον δίκαιον, ἡ σημαίνουσα ὅτι οὐδέν ἐστι ζῷον δίκαιον, αὗται μὲν φανερὸν ὅτι οὐδέποτε ἔσονται οὔτε ἀληθεῖς ἅμα οὔτε ἐπὶ τοῦ αὐτοῦ, αἱ δὲ ἀντικείμεναι ταύταις ἔσονταί ποτε, οἷον, οὐ πᾶν ζῷον δίκαιον, xai ἔστι τι ζῷον δίχαιον. ᾽᾿Ακολουθοῦσι δὲ αὑται, τῇ μὲν πᾶς ἄνθρωπος οὐ δίχαιός ἐστιν, ἡ, οὐδείς ἐστιν ἄνθρωπος δίκαιος: τῇ δὲ ἔστι τις ἄνηρωπος δίκαιος, ἡ ἀντιχειμένη, ὅτι οὐ πᾶς ἄνθρωπος ἐστὶν οὐ δίκαιος" ἀνάγκη γὰρ εἶναί τινα. Φανερὸν δὲ καὶ ὅτι ἐπὶ μὲν τῶν καθ᾽ ἕχοστον εἰ ἀληθές ἐρωτηθέντα ἀποφῆσαι, ὅτι καὶ χαταφῆσαι ἀληθές" οἷον, ἄρά γε Σωχράτης σοφός; οὔ. Σωχράτης ἄρα οὐ σοφός. ᾿Επὶ δὲ τῶν καθόλου οὐχ ἀληθὴς ἡ ὁμοίως λεγομένη: ἀληθὴς δὲ ἡ ἀπόφασις, οἷον, ἀρά γε πᾶς ἄνθρωπος σοφός; οὔ: πᾶς ἄρα ἄνθρωπος οὐ σοφός" τοῦτο γὰρ ψεῦδος: ἀλλὰ τὸ, οὐ πᾶς ἄρα, ἄνθρωπος σοφός, ἀληθές" αὕτη δέ ἐστιν ἡ ἀντικειμένη, ἐχείνη δὲ ἡ ἐναντία. Αἱ δὲ χατὰ τὰ ἀόριστα ἀντιχείμεναι ὀνόματα καὶ ῥήματα, ὥσπερ οἷον ἐπὶ τοῦ μὴ ἄνθρῳπος καὶ μὴ δίκαιος, ἀποφάσεις ἄνευ ὀνόματος χαὶ ῥήματος δόξειαν ἂν εἶναι" οὐχ εἰσὶ δέ. " Acl 12e ἀληθεύειν ἀν ἄγχη ἢ ψεύδεσθαι τὴν ἀπόφασιν’ ὁ δ᾽ εἰπὼν, οὐκ ἄνθρωπος, οὐδὲν μᾶλλον τοῦ εἰπόντος, ἄνθρωπος, ἀλλὰ καὶ ἧττον ἠλήθευχέ τι ἢ ἔψευσται, ἐὰν μή τι προστεθῇ. Σημαίνει δὲ τὸ, ἔστι πᾶς οὐχ ἄνθρωπος δίκαιος, οὐδεμιᾷ ἐκείνων ταὐτόν’ οὐδὲ ἡ ἀντιχειμένη ταύτῃ, ἡ) οὐχ ἔστι πᾶς οὐκ ἄνθρωπος δίκαιος" τὸ δὲ, πᾶς οὐ δίκαιος οὐχ ἄνθρωπος, τῷ, οὐδεὶς δίκαιος οὐχ ἄνθρωπος, ταὐτὸν σημαίνει. Μετατιθέμενα δὲ τὰ ὀνόματα καὶ τὸ ῥήματα ταὐτὸν Εἰ σημαίνει, olov, ἔστι λευχὸς ἄνθρωπος, ἔστιν ἄνθρωπος λευχός. γὰρ Xj τοῦτό ἐστι, τοῦ αὐτοῦ πλείους ἔσονται ἀποφάσεις" ἀλλ᾽ ἐδέδεικτο, ὅτι μία μιᾶς" τοῦ μὲν γάρ; ἔστι λευκὸς ἄνθρωπος, ἀπόφασις τὸ οὐχ ἔστι λευχὸς ἄνθρωπος" τοῦ δὲ ἔστιν ἄνθρωπος Acuxóc, εἰ μηὴ ἡ αὐτή ἐστι τῇ, ἔστι λευκὸς ἄνθρωπος, ἔσται ἀπόφασις ἤτοι τὸ οὐχ ἔστιν οὐχ ἄνθρωπος λευχός, ἢ τό, οὐχ ἔστιν φασις ἄνγηρωπος λευκός. ᾿Αλλ’ ἡ ἑτέρα μέν ἐστιν ἀπότοῦ, ἔστιν οὐχ ἄνθρωπος λευχός" ἡ ἑτέρα δὲ τοῦ, ἔστι λευχὸς ἄνθρωπος" ὥστε ἔσονται δύο μιᾶς. Ὅτιμεὲν οὖν μετατιθεμένου τοῦ ὀνόματος καὶ τοῦ ῥήματος ἡ αὐτὴ γίνεται κατάφασις καὶ ἀπόφασις, δῆλον. enunciationum, hic intendit removere quædam dubia
circa prædicta. Et circa hoc 2facit sex secundum numerum. dubiorum,
quæ suis patebunt locis. Quia ergo supra dixerat quod. in universalibus
non similiter contingit angulares esse simul veras, quia affirmativæ angulares
non possunt esse simul veræ, negativæ autem sic; poterat quispiam
dubitare, quæ est causa huius diversitatis. Ideo nunc illius dicti causam
intendit assignare talem, quia, scilicet, Cf. lib. I, lect.ix, n. s et lect.
xt, n. 6. Cflib.Llec.x, angulares affirmativæ sunt
contrariæ inter se; contrarias autem in nulla materia contingit esse
simul veras *. Angulares autem negativæ sunt subcontrariæ illis
oppositæ; subcontrarias autem contingit esse simul veras *. Et circa hæc
duo facit: primo, declarat condin. P: CU*C-3- tones contrariarum et
subcontrariarum ; secundo, quod angulares affirmativæ sint contrariæ et
quod angulares Quoniam vero
contraria est negatio ei quæ est, omne animal est iustum, illa quæ
significat quoniam, nullum animal est iustum; hæ quidem manifestum est
quoniam nunquam erunt, neque veræ simul, neque in eodem ipso; his
vero oppositæ erunt aliquando: ut, non omne animal iustum est, et,
aliquod animal iustum est. Sequuntur vero eam quæ est, omnis homo est non
iustus, illa quæ est, nullus homo est iustus; illam vero quæ est, aliquis
homo iustus est, opposita, quoniam, non omnis est homo non iustus.
Necesse est enim aliquem esse. Manifestum est autem etiam, quod in
singularibus si est verum interrogatum negare, quoniam et affirmare verum
est. Ut, putasne Socrates sapiens est? non. Socrates igitur non
sapiens est. In universalibus vero non est vera,
quæ similiter dicitur: vera autem negativa est. Ut, putasne omnis homo sapiens
est? non; omnis igitur homo non sapiens est: hoc enim falsum est:
sed, non igitur omnis homo sapiens est, vera est. Hæc enim opposita est; illa vero
contraria. Illæ vero secundum infinita contraiacentes sunt nomina
vel verba, ut in eo quod est, non homo, vel, non iustus, quasi
negationes sine nomine et verbo esse videbuntur. Sed non sunt. Semper
enim vel veram esse vel falsam necesse est negationem; qui vero dixit,
non homo, nihil magis quam qui dicit, homo, sed etiam minus verus
vel falsus fuit, si non aliquid addatur. Significat autem, est
omnis non homo iustus, nulli illarum idem; nec huic opposita ea quæ est,
non est omnis non homo iustus: illa vero, quæ est, omnis non iustus
non homo est, illi quæ est, nullus est iustus non homo, idem
significat. Transposita vero
nomina et verba idem significant, ut, est albus homo, et, est homo
albus. Nam si hoc non est, eiusdem multæ erunt negationes; sed
ostensum est, quod una unius est: eius enim quæ est, est albus homo,
negatio est, non est albus homo: eius vero quæ est, est homo albus, si
non eadem est ei quæ est, est albus homo, erit negatio, vel ea quæ
est, non est non homo albus, vel ea quæ est, non est homo albus. Sed
altera quidem est negatio eius, quæ est, est non homo albus; altera vero
eius quæ est, est homo albus. Quare erunt duæ unius. Quod igitur
transposito nomine vel verbo, eadem sit affirmatio vel negatio,
manifestum est. negativae sint subcontrariæ; ibi: Sequuntur vero
etc.Dicit ergo resumendo: quoniam in Primo dictum est quod enunciatio
negativa contraria illi affirmativæ universali, scilicet, omne animal
estiustum, est ista, nullum animal est iustum ; manifestum est quod istæ
non possunt simul, idest in eodem tempore, meque im eodem ipso, idest
de eodem subiecto esse veræ. His vero oppositæ, idest subcontrariæ
inter se, possunt esse simul veræ aliquando, scilicet in
materia contingenti, ut, quoddam animal est iustum, non omne animal est
iustum *. 2. Deinde cum dicit: Sequuntur vero etc., declarat quod
angulares affirmativæ supra positæ sint contrariæ, negativæ vero subcontrariæ.
- Et primum quidem ex eo quod universalis affirmativa infinita et
universalis negativa simplex æquipollent; et consequenter utraque earum
est contraria universali affirmativæ simplici, quæ est altera angularis.
Unde dicit quod hanc universalem
nega Seq. c. x. Num. seq. Cf. lib. I, lect citt. CAP. X, LECT. IV tivam finitam,
wullus bomo est iustus, sequitur æquipollenter illa universalis affirmativa
infinita, omnis bomo est non iustus. Secundum vero declarat ex eo
quod particularis affirmativa finita et particularis negativa infinita
æquipollent. Et consequenter utraque earum est subcontraria particulari
negativæ simplici, quæ est altera angularis, ut in figura supra posita
inspicere potes. Unde subdit quod illam párticularem
affirmativam finitam, aliquis bomo est iustus, opposita sequitur
æquipollenter (opposita intellige non istius particularis, sed illius
universalis affirmativæ infinitæ), mom ommis bomo est mom iustus. Hæc
enim est contradictoria eius. Ut autem clare videatur quomodo supra dictæ
enunciationes sint æquipollentes, formetur figura quadrata, in cuius uno
angulo ponatur universalis negativa finita, et sub ea contradictoria
particularis affirmativa finita; ex alia vero parte locetur universalis
affirmativa infinita, et sub ea contradictoria particularis negativa
infinita, noteturque contradictio inter angulares et collaterales inter
se, hoc modo: Nullus homo T» "poil . est
iustus e Ξ 2 E E d 25 o
Quidam homo i est lustus Omnis homo Æquivalentes
e o C o ΝᾺ . SU o “πᾶ ὁ
S ow [73 Æquivalentes t est non justus
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E o Non omnis homo est non iustus His siquidem sic
dispositis, patet primo ipsarum universalium mutua consequentia in veritate et
falsitate, quia si altera earum est vera, sua angularis contradictoria
est falsa; et si ista est falsa, sua collateralis contradictoria,
quæ est altera universalis, erit vera, et similiter procedit quoad
falsitatem particularium. Deinde eodem modo manifestatur mutua sequela. Si enim
altera earum est vera, sua angularis contradictoria est falsa, ista autem
existente falsa, sua contradictoria collateralis, quæ est altera
particularis erit vera; simili quoque modo procedendum est quoad falsitatem.
3. Sed est hic unum dubium. In I enim Priorum, in fine, Aristoteles ex
proposito determinat non esse idem iudicium de universali negativa et
universali affirmativa infinita. Et superius in hoc Secundo *, super illo
verbo: Quarum duæ se babent secundum consequentiam, duæ vero
minime, Ammonius, Porphyrius, Boethius et sanctus Thomas dixerunt quod
negativa simplex sequitur affirmativam infinitam, sed non e converso.
Ad hoc dicendum est, secundum Albertum, quod negativam finitam
sequitur affirmativa infinita subiecto constante; negativa vero simplex
sequitur affirmativam absolute. Unde utrumque dictum
verificatur, et quod inter eas est mutua consequentia cum subiecti
constantia, et SS. Thomas.
Nempe in primo modo primæ gue eros» syllogisquod inter eas non est
mutua consequentia absolute. Potest dici secundo, quod supra locuti sumus
de infinita enunciatione quoad suum totalem significatum ad formam
prædicati reductum; et secundum hoc, quia negativa finita est superior
affirmativa infinita, ideo non erat mutua consequentia: hic autem
loquimur de ipsa infinita formaliter sumpta. Unde s. Thomas tunc adducendo
Ammonii expositionem dixit, secundum hunc modum loquendi: negativa
simplex, in plus est quam affirmativa infinita. 'Textus vero I Priorum
ultra prædicta loquitur de finita et infinita in ordine ad syllogismum.
Manifestum est autem quod universalis affirmativa sive finita sive
infinita non concluditur nisi in primo primæ. Universalis autem negativa
quæcumque concluditur et in secundo primæ, et primo et secundo secundæ.
4. Deinde cum dicit: Manifestum est autem. etc., movet secundum dubium de vario
situ negationis, an scilicet quoad veritatem et falsitatem differat
præponere et postponere negationem. Oritur autem hæc dubitatio,
quia dictum est nunc quod non refert quoad veritatem si dicatur, ommis
bomo est non iustus, aut si dicatur, omis bomo non est iustus; et tamen
in altera postponitur negatio, in altera præponitur, licet multum referat quoad
affirmationem et negationem. Hanc, inquam, dubitationem
solvere intendens cum distinctione, respondet quod in singularibus
enunciationibus eiusdem veritatis sunt singularis negatio et infinita
affirmatio eiusdem, in universalibus autem non est sic. Si enim est vera
negatio ipsius universalis non oportet quod sit vera infinita affirmatio
universalis. Negatio enim universalis est particularis contradictoria,
qua existente vera, non est necesse suam subalternam, quæ est contraria
suæ contradictoriæ esse veram. Possunt enim duæ contrariæ esse simul
falsæ. Unde dicit quod in singularibus enunciationibus manifestum est quod, si
est verum negare interrogatum, idest, si est vera negatio enunciationis
singularis, de qua facta est interrogatio, verum etiam est affirmare, idest,
vera erit affirmatio infinita eiusdem singularis. Verbi gratia: putasne
Socrates estsapiens ? Si vera est ista responsio, z/.9 ; - Socrates
igitur non sapiens est, idest, vera erit ista affirmatio infinita,
Socrates est non sapiens. In universalibus vero non est vera, quæ
similiter dicitur, idest, ex veritate negationis universalis affirmativæ
in| terrogatæ non sequitur vera universalis affirmativa infinita, quæ
similis est quoad quantitatem et qualitatem enunciationi quæsitæ; vera
aulem est eius negatio, idest, sed ex veritate responsionis negativæ
sequitur veram esse eius, scilicet universalis quæsitæ negationem, idest,
particularem negativam. Verbi gratia: putasne omnis bomo est sapiens? Si
vera est ista responsio, non; - affirmativa similis interrogatæ quam quis ex
hac responsione inferre intentaret est illa: igitur omnis bomo est non
sapiens. Hæc autem non sequitur ex illa negatione. Falsum est enim
hoc, scilicet quod sequitur ex illa responsione; sed. inferendum est, igitur
non ommis bomo sapiens est.- Et ratio utriusque est, quia hæc particularis
ultimo illata est opposita, idest contradictoria illi universali interrogatæ
quam respondens falsificavit; et ideo oportet quod sit vera. Contradictoriarum enim si una est falsa, reliqua est
vera. Illa vero, scilicet universalis affirmativa infinita primo
illata, est contraria illi eidem universali interrogatæ. Non est autem opus quod si
universalium altera sit falsa, quod reliqua sit vera. In promptu est
autem causa huius diversitatis inter singulares et universales. In singularibus
enim varius negationis situs non variat quantitatem enunciationis; in
universalibus autem variat, ut patet. Ideo fit ut de se patet. non sit eadem veritas negantium universalem in
quarum altera præponitur, in altera autem postponitur negatio,
ut 5. Deinde cum dicit: ΠΙᾺ vero secundum. infinita. etc., solvit
tertiam dubitationem, an infinita nomina vel verba sint negationes. Insurgit autem hoc dubium, quia
dietum est quod æquipollent negativa et infinita. Et rursus dictum est
nunc quod non refert in singularibus præponere et postponere negationem: si
enim infinitum nomen est negatio, tunc enunciatio, habens subiectum infinitum
vel prædicatum, erit negativa et non afhrmativa. Hanc dubitationem solvit per interpretationem,
probando quod nec nomina nec verba infinita sint negationes, licet videantur.
Unde duo circa hoc facit: primo, pro: ponit solutionem dicens: Illæ vero,
scilicet dictiones, conPCT iraiacenies: verbi gratia: mom bomo, et, bomo
non iustus et iustus. Vel sic: Illæ vero, scilicet dictiones,
secundum infinita, idest secundum infinitorum naturam, iacentes contra
nomina et verba. (utpote quæ removentes quidem nomina et verba
significant, ut som bomo et mon iustus et mon currit, quæ opponuntur contra
ly bomo, ly iustus et ly currit), illæ, inquam, dictiones infinitæ
videbuntur prima facie esse quasi negationes sine nomine et
verbo ex eo quod comparatæ nominibus et verbis contra quæ iacent,
ea removent, sed non sunt secundum veritatem. Dixit sine nomine et verbo
quia nomen infinitum, nominis natura caret, et verbum infinitum verbi natura
non possidet. Dixit quasi, quia
nec nomen infinitum a nominis ratione, nec verbum infinitum a verbi
proprietate omnino semota sunt. Unde, si negationés apparent,
videbuntur sine nomine et verbo non omnino sed quasi. Deinde probat
distinctiones infinitas non esse negationes tali ratione. Semper est necesse
negationem esse veram vel falsam, quia negatio est enunciatio alicuius ab
aliquo; nomen autem infinitum non dicit verum vel fal sum; igitur dictio
infinita non est negatio. - Minorem declarat, quia. qui dixit, mom bomo,
nihil magis de homine dixit quam qui dixit, bomo. Et quoad significatum
quidem clarissimum est: non bomo, namque, nihil addit supra hominem, imo
removet hominem. Quoad veritatis vero vel falsitatis conceptum, nihil
magis profuit qui dixit, non bomo, quam qui dixit, bomo, si aliquid
aliud non addatur, imo minus verus vel falsus fuit, idest
magis remotus a veritate et falsitate, qui dixit, wom bomo, quam qui
dixit, homo: quia tam veritas quam falsitas in compositione
consistit; compositioni autem vicinior est dictio finita, quæ
aliquid ponit, quam dictio infinita, quæ nec ponit, nec componit, idest
nec positionem nec compositionem importat. 6. Deinde cum dicit:
Significat autem. etc., respondet quartæ dubitationi, quomodo scilicet
intelligatur illud verbum supradictum de enunciationibus habentibus
subiectum infinitum: Hæ autem. extra. illas, ipsæ secundum se
erunt. Et ait quod intelligitur quantum ad significati consequentiam, et
non solum quantum ad ipsas enunciationes formaliter. Unde duas habentes
subiectum infinitum, universalem scilicet affirmativam et universalem negativam
adducens, ait quod neutra earum significat idem alicui illarum, scilicet
habentium subiectum finitum. Hæc enim universalis
affirmativa, omnis nom bomo est iustus, nulli habenti subiectum finitum
significat idem: non enim significat idem quod ista, omnis bomo est iustus
; neque quod ista, omnis bomo est non iustus. Similiter opposita negatio
et universalis negativa habens subiectum infinitum, quæ est
contrarie opposita supradictæ, scilicet omnis non bomo non est iustus,
nulli illarum de subiecto finito significat idem. Et hoc clarum est ex diversitate
subiecti in istis et in illis. 7. Deinde cum dicit: Illa vero quæ est
etc., respondet quintæ quæstioni, an scilicet inter enunciationes de
subiecto infinito sit aliqua consequentia. Oritur autem dubitatio hæc ex
eo, quod superius est inter eas ad invicem assignata consequentia. Ait ergo
quod etiam inter istas est consequentia. Nam universalis
affirmativa de subiecto et prædicato infinitis et, universalis negativa
de subiecto infinito, prædicato vero finito, æquipollent. Ista
namque, omnis non bomo est mon iustus, idem significat illi;
cium nullus non. bomo est iustus. Idem autem est iudide particularibus
indefinitis et singularibus similibus supradictis. Cuiuscunque enim quantitatis
sint, semper affirmativa de utroque extremo infinita et negativa subiecti
quidem infiniti, prædicati autem finiti, æquipollent, ut facile potes exemplis
videre. Unde Aristoteles universales exprimens, cæteras ex illis intelligi
voluit. 8. Deinde cum dicit: Transposita vero nomina. etc., solvit
sextam dubitationem, an propter nominum vel verborum transpositionem varietur
enunciationis significatio. Oritur autem hæc quæstio ex eo, quod docuit
transpositionem negationis variare enunciationis significationem. Aliud
enim dixit significare, ommis bomo mon est iustus, et aliud, non
omnis bomo est iustus. Ex hoc, inquam, dubitatur, an. similiter contingat circa
nominum transpositionem, quod ipsa transposita enunciationem varient,
sicut negatio transposita. Et circa hoc duo facit: primo, ponit
solutionem dicens, quod transposita nomina et verba idem significant:
verbi gratia, idem significat, est albus homo, et, est bomo albus, ubi
est transpositio nominum. Similiter transposita verba idem significant, ut,
est albus bomo, et, bomo albus est. 9. Deinde cum dicit: Nam si boc
mon est etc., probat prædictam solutionem ex numero negationum
contradictoriarum ducendo ad impossibile, tali ratione. Si hoc non est,
idest si nomina transposita diversificant enunciationem, eiusdem affirmationis
erunt duæ negationes; sed ostensum est in I libro *, quod una tantum est
negatio unius affirmationis; ergo a destructione consequentis ad
destructionem antecedentis transposita nomina non variant enunciationem.
Ad probationis autem consequentiæ claritatem formetur figura, ubi ex uno latere
locentur ex ambæ suprapositæ affirmationes, transpositis nominibus
; et altero contraponantur duæ negativæ, similes illis quoad
terminos et eorum positiones. Deinde, aliquantulo interiecto spatio, sub
affirmativis ponatur affirmatio infiniti subiecti, et sub negativis illius
negatio. Et notetur contradictio inter primam affirmationem et duas
negationes primas, et inter secundam aflirmationem et omnes tres
negationes, ita tamen quod inter ipsam et infimam negationem notetur
contradictio non vera, sed imaginaria. Notetur quoque contradictio inter
tertiam affirmationem et tertiam negationem inter se. Hoc modo: Est
albus homo Est homo albus Est non homo
albus His ita dispositis, probat consequentiam Aristoteles sic. Illius
affirmationis, est albus bomo, negatio est, mom est albus bomo ; ilius
autem secundæ affirmationis, quæ est, est bomo albus, si ista affirmatio
non est eadem illi . supradictæ affirmationi, scilicet, est albus
bomo, propter Non est albus -
Coníradictoriæ e o C o
cn " s nalf
e bi 7. dde Kn Gontradictoriæ EN “Ὁ 36 b" Contradictoriæ homo
Non est homo albus Non est non homo albus Lect.
xir. CAP., nominum transpositionem, negatio erit altera
istarum, scilicet aut, non est non bomo albus, aut, non est bomo albus.
Sed utraque habet affirmationem oppositam alia ab illa assignatam,
scilicet, est bomo albus. Nam altera quidem dictarum negationum, scilicet, nom
est mon bomo albus, negatio est illius quæ dicit, est mom bomo albus; alia
vero, scilicet, »on est bomo albus, negatio est eius affirmationis, quæ
dicit, est albus bomo, quæ fuit prima affirmatio. Ergo quæcunque dictarum
negationum afferatur contradictoria illi mediæ, sequitur quod sint duæ
unius, idest quod unius negationis sint duæ affirmationes, et quod unius
affirmationis sint duæ negationes: quod est impossibile. Et hoc, ut
dictum est, sequitur stante hypothesi erronea, quod illæ affBrmationes
sint propter nominum transpositionem diversæ. 10. Adverte hic
primo quod Aristoteles per illas duas negationes, non est non bomo albus,
et, non est bomo albus, sub disiunctione sumptas ad inveniendam
negationem | Lect. xi, n.
5 "seq. e ΤΡ) DOR illius
affirmationis, est bomo albus, cæteras intellexit, quasi diceret: Aut
negatio talis affirmationis acceptabitur illa uæ est vere eius negatio,
aut quæcunque extranea negatio ponetur; et quodlibet dicatur, semper, stante
hypothesi, sequitur unius affirmationis esse plures negationes,
unam veræ quæ est contradictoria suæ comparis habentis nomina
transposita, et alteram quam tu ut distinctam acceptas, vel falso imaginaris;
et e contra multarum affirmationum esse unicam negationem, ut patet in
apposita figura, Ex quacunque enim illarum quatuor incipias, duas
sibi oppositas aspicis. Unde notanter concludit indeterminate: Quare erunt duæ
unius. Nota secundo quod Aristoteles contempsit probare quod
contradictoria primæ affirmationis sit contradictoria secundæ, et similiter
quod contradictoria secundæ affirmationis sit contradictoria primæ. Hoc enim accepit tamquam per se notum, ex eo quod non
possunt simul esse veræ neque simul falsæ, ut manifeste patet præposito
sibi termino singulari. Non stant enim simul aliquo modo istæ duæ, Socrates est albus bomo,
Socrates non est bomo albus. Nec turberis quod eas non singulares
proposuit. Noverat enim supra dictum esse in Primo quæ LECT.
affirmatio et negatio sint contradictoriæ et quæ non, et ideo non fuit
sollicitus de exemplorum claritate. Liquet ergo ex eo quod negationes
affirmationum de nominibus transpositis non sunt diversæ quod nec ipsæ
affirmationes sunt diversæ et sic nomina et verba transposita idem
significant. I2. Occurrit autem dubium circa hoc, quia non videtur
verum quod nominibus transpositis eadem sit affirmatio. Non enim valet: omnis
bomo est animal; ergo omne animal est bomo. Similiter, transposito verbo,
non valet: bomo est amimal rationale; ergo bomo animal rationale est, de
secundo adiacente. Licet enim nugatio committatur, tamen non sequitur primam.
Ad hoc est dicendum quod sicut in rebus naturalibus est duplex
transmutatio, scilicet localis, scilicet de loco ad locum, et formalis de
forma ad foit? ita in enunciationibus est duplex transmutatio, situalis
scilicet, quando terminus præpositus postponitur, et e converso, et
formalis, quando terminus, qui erat prædicatum efficitur subiectum, et e
converso vel quomodolibet, simpliciter etc.- Et sicut quandoque fit in
naturalibus transmutatio pure localis, puta quando res transfertur de
loco ad locum, nulla alia variatione facta; quandoque autem fit
transmutatio secundum locum, non pura sed cum variatione formali, sicut
quando transit de'loco frigido ad locum calidum: ita in
enunciátionibus quandoque fit transmutatio pure situalis, quando scilicet
nomen vel verbum solo situ vocali variatur; quandoque autem fit
transmutatio situalis et formalis simul, sicut contingit cum prædicatum
fit subiectum, vel cum verbum tertium adiacens fit secundum. - Et quoniam hic
intendit Aristoteles de transmutatione nominum et verborum pure situali, ut
transpositionis vocabulum præsefert, ideo dixit quod transposita nomina
et verba idem significant, insinuare volens quod, si nihil aliud præter
transpositionem nominis vel verbi accidat in enunciatione, eadem
manet oratio.- Unde patet responsio ad instantias. Manifestum est
namque quod in utraque non sola transpositio fit, sed transmutatio de
subiecto in prædicatum, vel de tertio adiacente in secundum. Et per hoc patet
responsio ad similia. TIUS (Cann. CargraNr lect, ui). DE
MULTIPLICITATE ENUNCIATIONUM IUXTA QUOSDAM MODOS, QUIBUS NON UNAM, SED
PLURES ESSE CONTINGIT UNAM ENUNCIATIONEM. ^" B Té δὲ ἕν κατὰ πολλῶν ἢ πολλὰ καθ᾽ ἑνὸς χαταφάναι ἢ ἀποφάναι, ἐὰν uw ἕν τι ἡ τὸ ἐκ τῶν πολλῶν δηλούμενον, οὐχ ἔστι κατάφασις μία οὐδὲ ἀπόφασις. Λέγω δὲ ἕν οὐχ ἐὰν ὄνομα ἕν ἢ κείμενον, pm ἦ δὲ ἕν τι ἐξ ἐχείνων, olov, ὁ ἄνθρωπος ἴσως ἐστὶ καὶ ζῷον καὶ δίπουν καὶ ἥμερον, ἀλλὰ x«l ἕν τι γίνεται ἐκ τούτων’ Ex δὲ τοῦ λευχοῦ, xai τοῦ ἀνθρώπου, καὶ τοῦ βαδίζειν, οὐχ ἕν: ὥστε οὔτε ἐὰν ἕν τι x&v. τούτων καταφήσῃ τις; μία κατάφασις, ἀλλὰ φωνὴ μὲν μία, καταφάσεις δὲ πολλαί: οὔτε ἐὰν καθ’ ἑνὸς ταῦτα, ἀλλ᾽ ὁμοίως πολλαί. Εἰ οὖν ἡ ἐρώτησις ἡ διαλεχτιχὴ ἀποχρίσεώς ἐστιν αἴτησις) ἢ τῆς προτάσεως, ἢ θατέρου μορίου τῆς ἀντι' φάσεως; ἡ δὲ πρότασις ἀντιφάσεως μιᾶς μόριον, οὐκ ἂν εἴη ἀπόχρισις μία πρὸς ταῦτα" οὐδὲ γὰρ ἡ ἐρώτῆσις μία, οὐδὲ ἐὰν ἡ ἀληθής" εἴρηται δὲ ἐν τοῖς Τοπικοῖς περὶ αὐτῶν. "Apa δὲ δῆλον ὅτι οὐδὲ τὸ τί ἐστιν ἐρώτησίς ἐστι διαλεκτική, Δεῖ dp δεδόσθαι ix τῆς ἐρωτήσεως ἑλέσθαι, ὁπότερον βούλεται τῆς ἀντιφάσεως μόριον ἀποφήνασθαι. ᾿Αλλὰ εἴ τὸν ἐρωτῶντα προσδιορίσασθαι, πότερον τόδε ἐστὶν ὁ ἄνθρωπος, ἢ οὐ τοῦτο. jtem enunciationis unius provenientem ex
additione negationis infinitatis, hic intendit D determinare quid accidat
enunciationi ex hoc quod additur aliquid subiecto vel prædicato tollens
eius unitatem. Et circa hoc duo facit: quia Lect. seq. Num.. Lect. vri, n.
12 seq. Porphyrius. primo, determinat diversitatem earum ;
secundo, consequentias earum; ibi: Quoniam vero bæc quidem etc. Circa
primum duo facit: primo, ponit earum diversitatem; secundo, probat omnes
enunciationes esse plures; ibi: Si ergo dialectica etc.- Dicit ergo quoad
primum, resumendo quod in Primo dictum fuerat *, quod affirmare vel
negare unum de pluribus, vel plura de uno, si ex illis pluribus:
non fit unum, non est enunciatio una affirmativa vel negativa. Et declarando quomodo intelligatur unum debere
esse subiectum aut prædicatum, subdit quod unum dico non si nomen unum
impositum sit, idest ex unitate nominis, sed ex unitate significati. Cum
enim plura conveniunt in uno nomine, ita quod ex eis non fiat unum
illius nominis significatum, tunc solum vocis unitas est. Cum autem unum nomen
pluribus impositum est, sive partibus subiectivis, sive integralibus, ut eadem
significatione concludat, tunc et vocis et significati unitas est, et
enunciationis unitas non impeditur. 2. Secundum quod subiungit: Ut
bomo est fortasse animal et mansuelum et bipes obscuritate non caret. Potest
enim intelligi ut sit exemplem ab opposito, quasi diceret: unum
dico non ex unitate nominis impositi pluribus ex quibus non fit tale
unum, quemadmodum homo est unum quoddam ex animali et mansueto et bipede,
partibus suæ definitionis. Et ne quis crederet quod hæ essent veræ definitionis
nominis partes, interposuit, fortasse. Porphyrius autem, Boethio
referente et approbante, separat has textus particulas, dicens quod
Aristoteles hucusque declaravit enunciationem illam esse plures, in qua
plura subiicerentur uni, vel de uno prædicarentur plura, ex quibus non
fit unum. In istis autem verbis: Ut bomo est fortasse etc., At vero unum de pluribus, vel plura de uno
affirmare, vel negare, si non sit unum aliquid quod ex pluribus
significatur, non est affirmatio neque negatio una. Dico autem unum, non
si unum nomen positum sit, non sit autem unum aliquid ex illis, ut homo
est fortasse et animal et bipes et mansuetum, sed ex his unum fit, ex
albo autem et homine et ambulare, non est unum; quare nec si unum
aliquid de his affirmet aliquis, erit affirmatio una: sed vox quidem una,
affirmationes vero multæ, nec si de uno ista, sed similiter plures,
Si ergo dialectica interrogatio responsionis est petitio vel
propositionis vel alterius partis contradictionis, propositio vero unius
contradictionis est pars, non erit una responsio ad hæc. Neque enim
interrogatio una, nec si sit vera. Dictum est autem de his in
Topicis. Simul autem manifestum est, quod nec hoc ipsum, quid est, dialectica
interrogatio est. Oportet enim datum esse ex interrogatione eligere,
utram velit contradictionis partem enunciare: sed oportet interrogantem
determinare utrum hoc sit homo, an non hoc. intendit
declarare enunciationem aliquam esse plures, in qua plura ex quibus fit
unum subiiciuntur vel prædicantur; sicut cum dicitur, bomo est animal et
mansuetum.| et bipes, copula interiecta, vel morula, ut oratores
faciunt. Ideo autem addidisse aiunt, fortasse, ut
insinuaret hoc contingere posse, necessarium autem non esse. 3.
Possumus in eamdem Porphyrii, Boethii et AIberti sententiam incidentes
subtilius textum introducere, ut quatuor hic faciat. Bs
Et primo quidem, resumit quæ sit enunciatio in communi dicens: Enunciatio
plures est, in. qua unum de pluribus, vel plura de uno. enunciantur. Si tamen ex illis pluribus
non fit unum, ut in Primo dictum et expositum fuit. Deinde
dilucidat illum terminum de uno, sive unum, dicens: Dico autem unum,
idest, unum nomen voco, non propter unitatem vocis, sed significationis,
ut supradictum est. Deinde tertio, dividendo declarat, et declarando
dividit, quot modis contingit unum nomen imponi pluribus ex quibus non
fit unum, ut ex hoc diversitatem enunciationis multiplicis insinuet. Et ponit
duos modos, quorum prior est, quando unum nomen imponitur pluribus ex
quibus fit unum, non tamen in quantum ex eis fit unum. Tunc enim, licet
materialiter et per accidens loquendo nomen imponatur pluribus ex quibus
fit unum, formaliter tamen et per se loquendo nomen unum imponitur
pluribus, ex quibus non fit unum: quia imponitur eis non in quantum ex
eis est unum, ut fortasse est hoc nomen, bomo, impositum ad significandum
animal et mansuetum et bipes, idest, partes suæ definitionis, non in
quantum adunantur in unam hominis naturam per modum actus et
potentiæ, sed ut distinctæ sint inter se actualitates. Et insinuavit quod
accipit partes definitionis ut distinctas per illam coniunctionem, et per
illud quoque adversative additum: Sed si ex bis unum fit, quasi diceret,
cum hoc tamen stat quod ex eis unum fit. Addidit autem, fortasse,
quia hoc nomen, bomo, non est impositum ad signifi* Cap. xr.
Porphyrius. Boethius. Albertus. Lect. cit. Ed.
quoque. c omittit CAP. XI, LECT. V candum partes sui
definitivas, ut distinctæ sunt. Sed si impositum esset aut imponeretur,
esset unum nomen pluribus impositum ex quibus non fit unum. Et quia
idem iudicium est de tali nomine, et illis pluribus; ideo similiter illæ
plures partes definitivæ possunt dupliciter accipi. Uno modo, per modum
actualis et possibilis, et sic unum faciunt; et sic formaliter loquendo
vocantur plura, ex quibus fit unum, et pronunciandæ sunt continuata
oratione, et faciunt enunciationem unam dicendo, animal rationale mortale
currit. Est enim ista una sicut et ista, bomo currit. Alio modo,
accipiuntur prædictæ definitionis partes ut distinctæ sunt inter se
actualitates, et sic non faciunt unum: ex duobus enim actibus ut
sic, non fit unum, ut dicitur VII Metaphysicæ ; et sic faciunt
enunciationes plures et pronunciandæ sunt vel cum pausa, vel coniunctione
interposita, dicendo, bomo est animal et mansuetum. οἱ bipes ; sive, bomo est animal, mansuetum, bipes,
rethorico more. Quælibet enim istarum est enunciatio multiplex. Et
similiter ista, Socrates est bomo, si homo est impositum ad illa, ut
distinctæ Pm E WC acm οὐ ORI οτὔὖὦο UPS δ... δου, Lect. xit, n. 9.
Num. 8. RESP actualitates sunt, significandum. Secundus autem
modus, quo unum nomen impositum est pluribus ex quibus non fit unum,
subiungitur, cum dicit: Ex albo autem et bomine. et ambulante etc., idest, alio
modo hoc fit, quando unum nomen imponitur pluribus, ex quibus non
potest fieri unum, qualia sunt: bomo, album, et ambulans. Cum enim ex his nullo
modo possit fieri aliqua una natura, sicut poterat fieri ex partibus
definitivis, clare liquet quod nomen aliquod si eis imponeretur, esset
nomen non unum significans, ut in Primo dictum fuit de hoc nomine,
íumica, imposita homini et equo. 4. Habemus ergo enunciationis pluris seu
multiplicis duos modos, quorum, quia uterque fit dupliciter, efficiuntur
quatuor modi. Primus est, quando subiicitur vel prædicatur unum nomen
impositum pluribus, ex quibus fit unum, non in quantum sunt unum;
secundus est, quando ipsa plura ex quibus fit unum, in quantum sunt
distinctæ actualitates, subiiciuntur vel prædicantur; tertius est, quando ibi
est unum nomen impositum pluribus ex quibus non fit unum; quartus est,
quando ista plura ex quibus non fit unum, subiiciuntur vel prædicantur.
Et notato quod cum enunciatio secundum membra divisionis ilius, qua
divisa est, in unam et plures, quadrupliciter variari poss't, scilicet
cum unum de uno prædicatur, vel unum de pluribus, vel plura de uno, vel
plura de pluribus; postremum sub silentio præterivit, quia vel eius
pluralitas de se clara est, vel quia, ut inquit Albertus, non intendebat
nisi de enunciatione, quæ aliquo modo una est, tractare. Demum concludit
totam sententiam, dicens: Quare nec si aliquis affirmet unum. de bis
pluribus, erit affirmatio una secundum. rem: sed vocaliter quidem erit
una, significative autem non una, sed multæ fient affirmaliones. Nec si e converso de uno ista plura. affrmabuntur,
fiet affirmatio una. Ista namque, bomo est albus, ambulans et musicus,
importat tres affirmationes, scilicet, bomo est albus et est ambulans et est
musicus, ut patet ex illius contradictione. Triplex enim negatio ili
opponitur correspondens triplici affirmationi positæ. 5. Deinde cum
dicit: Si ergo dialectica etc., probat a posteriori supradictas
enunciationes esse plures. Circa quod duo facit: primo, ponit rationem
ipsam ad hoc probandum per modum consequentiæ; deinde probat antecedens dictæ
consequentiæ; ibi: Dictum est autem de his* etc. Quoad primum talem
rationem inducit. Si interrogatio dialectica est petitio responsionis, quæ sit
propositio vel altera pars contradictionis, nulli enunciationum
supradictarum interrogative formatæ erit responsio una; ergo nec ipsa
interrogatio est una, sed plures. Cuius raOpp. D. Tnowas T. I. 9y tionis primo
ponit antecedens: Si ergo etc. Ad huius intelligendos terminos nota quod idem
sonant enunciatio, interrogatio et responsio. Cum enim dicitur, cælum est
animatum, in quantum enunciat prædicatum de subiecto, enunciatio vocatur;
in quantum autem quærendo proponitur, interrogatio; ut vero quæsito redditur,
responsio appellatur. Idem ergo erit probare non esse responsionem unam,
et interrogationem non esse unam, et enunciationem non esse unam. Adverte
secundo interrogationem esse duplicem. Quædam enim est utram partem
contradictionis eligendam proponens; et hæc vocatur dialectica, quia
dialecticus habet viam ex probabilibus ad utramque contradictionis partem
probandam. Altera vero determinatam ad unum
responsionem exoptat; et hæc est interrogatio demonstrativa, eo quod
demonstrator in unum determinate tendit. Considera ulterius quod
interrogationi dialecticæ dupliciter responderi potest. Uno modo,
consentiendo interrogationi, sive affirmative sive negative; ut si
quis petat, cælum est animatum? et respondeatur, est; vel, Deus non
movelur? et respondeatur, mon: talis responsio vocatur propositio. Alio
modo, potest responderi interimendo; ut si quis petat, cælum est
animatum, et respondeatur, non; vel Deus non movetur? et
respondeatur, movetur: talis responsio vocatur contradictionis altera
pars, eo quod affirmationi negatio redditur et negationi affirmatio.
Interrogatio ergo dialectica est petitio annuentis responsionis, quæ est
propositio, vel contradicentis, quæ est altera pars contradictionis secundum
supradictam BOEZIO (vedasi) expositionem. 6. Deinde subdit probationem
consequentiæ, cum ait: Propositio vero unius contradictionis est etc. Ubi
notandum est quod si responsio dialectica posset esse plures,
non sequeretur quod responsio enunciationis multiplicis non posset
esse dialectica; sed si responsio dialectica non potest esse nisi una
enunciatio, tunc recte sequitur quod responsio enunciationis pluris, non
est responsio dialectica, quæ una est. Notandum etiam quod si enunciatio
aliqua plurium contradictionum pars est, una non esse comprobatur: una
enim uni tantum contradicit. Si autem unius solum contradictionis pars
est, una est eadem ratione, quia scilicet unius affirmationis unica est
negatio, et e converso. Probat ergo Aristoteles consequentiam ex eo
quod propositio, idest responsio dialectica unius contradictionis est, idest
una enunciatio est affirmativa vel negativa. Ex hoc enim, ut iam dictum
est, sequitur quod nullius enunciationis multiplicis sit responsio
dialectica, et consequenter nec una responsio sit. Nec
prætereas quod cum propositionem, vel alteram partem contradictionis,
responsionemque præposuerit dialecticæ interrogationis, de sola propositione
subiunxit, quod est una; quod ideo fecit, quia illius alterius vocabulum
ipsum unitatem præferebat. Cum enim alteram contradictionis partem
audis, unam affirmationem vel negationem statim intelligis.
Adiunxit autem antecedenti ly ergo, vel insinuans hoc esse aliunde
sumptum, ut postmodum in speciali explicabit, vel, permutato situ, notam consequentiæ
huius inter antecedens et consequens locandam, antecedenti præposuit; sicut si
diceretur, si ergo Socrates currit, movetur ; pro eo quod dici deberet,
si Socrates currit, ergo. movetur. Sequitur deinde consequens: Nom erit
una responsio ad boc ; et infert principalem conclusionem subdens,
Quod neque una erit interrogatio etc. Si enim responsio non potest esse una, nec
interrogatio ipsa una erit. 7. Quod autem addidit: Nec si sit vera,
eiusmodi est. Posset aliquis credere, quod licet interrogationi pluri
non possit dari responsio una, quando id de quo quæstio fit non
potest de omnibus illis pluribus affirmari vel neBoethius. *
TAS gari (ut cum quæritur, canis est animal? quia non potest
vere de omnibus responderi, est, propter cæleste sidus, nec vere de
omnibus responderi, som est, propter canem latrabilem, nulla possit dari
responsio una); attamen quando id quod sub interrogatione cadit potest vere de
omnibus affirmari aut negari, tunc potest dari responsio una; ut
si II nec ipsa quæstio quid est, est interrogatio
dialectica: verbi gratia; si quis quærat, quid est amimal? talis
non quærit dialectice. Deinde subiungit probationem assumpti, scilicet
quod ipsum quid est, non est quæstio dialectica; et intendit quod quia
interrogatio dialectica optionem respondenti offerre debet, utram velit
contradictionis quæratur, camis est substantia? quia potest vere de
omnibus responderi, esí, quia esse substantiam omnibus canibus convenit, unica
responsio dari possit. Hanc erroneam existimationem removet dicens: Nec
si sit vera, idest, et dato quod responsio data enunciationi
multiplici de omnibus verificetur, nihilominus non est una, quia
unum non significat, nec unius contradictionis est pars, sed plures
responsio illa habet contradictorias, ut de se patet. 8. Deinde cum
dicit: Dictum est autem de bis in Topicis etc., probat antecedens dupliciter:
primo, auctoritate eorum quæ dicta sunt in Topicis; secundo, a signo.
Et circa hoc duo facit. Primo, ponit ipsum signum, dicens: Quod
similiter etc., cum auctoritate Topicorum, manifestum est, scilicet,
antecedens assumptum, scilicet quod dialectica interrogatio est petitio
responsionis affirmativæ vel neQuoniam nec ipsum quid est, idest ex eo
quod gativæ. partem, et ipsa quæstio quid est talem libertatem
non proponit (quia cum dicimus, quid est animal? respondentem ad
definitionis assignationem coarctamus, quæ non solum ad unum determinata
est, sed etiam omni parte contradictionis caret, cum nec esse, nec non
esse dicat); ideo ipsa quæstio quid est, non est dialectica
interrogatio. Unde dicit: Oportet enim ex data, idest ex proposita
interrogatione dialectica, hunc respondentem eligere posse utram velit
contradictionis partem, quam contradictionis utramque partem interrogantem
oportet determinare, idest determinate proponere, hoc modo: Utrum. boc
animal sit bomo an mon: ubi evidenter apparet optionem respondenti
offerri. Habes ergo pro signo cum quæstio dialectica petat responsionem propositionis,
vel alterius contradictionis partem, elongationem quæstionis quid
est a quæstionibus dialecticis. (Canp. CargTANr lect.
1v) EX. ALIQUIBUS DIVISIM. PRÆDICATIS DE SUBIECTO SEQUITUR ENUNCIATIO. DE
EISDEM CONIUNCTIM IN EODEM SUBIECTO, EX ALIQUIBUS AUTEM NON
SEQUITUR "Excel δὲ τὰ μὲν κατηγορεῖται συντιθέμενα, ὡς ἕν τὸ πᾶν
κατηγόρημα τῶν χορὶς κατηγορουμένων; τὰ δ᾽ οὔ: τίς ἡ διαφορά; κατὰ γὰρ τοῦ
ἀνθρώπου ἀληθὲς εἰπεῖν καὶ χωρὶς ζῷον, καὶ χωρὶς δίπουν, καὶ ταῦτα ὡς fv καὶ
ἄνθρωπον, καὶ λευκόν, καὶ ταῦθ᾽ ὡς ἕν. 99 Quoniam vero hæc quidem prædicantur
composita, ut ' Seq. c. x. unum omne prædicatum fiat eorum quæ extra
prædicantur, alia vero non; quæ differentia est? De homine enim verum est
dicere, εἴ extra animal, et extra bipes; et hæc ut unum: et, hominem, et,
album; et 'AXX οὐχί; εἰ ὀκυτεὺς καὶ ἀγαθός, xal σκυτεὺς ἀγαθός.
Εἰ γάρ, ὅτι ἑκάτερον ἀληθές, εἶναι δεῖ καὶ τὸ συνάμφω, πολλὰ καὶ ἄτοπα ἔσται.
Κατὰ γὰρ τοῦ ᾿ἀνθρώπου καὶ τὸ ἄνθρωπος ἀληθὲς καὶ τὸ λευχόν- ὥστε xal τὸ
«muy. Πάλιν, εἰ τὸ λευκὸν αὐτό, καὶ τὸ ἅπαν, στε ἔσται ἄνθρωπος λευχὸς
λευχός, καὶ τοῦτο εἰς ἄπειgov. Καὶ πάλιν μουσικός, λευχός, βαδίζων" καὶ ταῦτα
πολλάκις πεπλεγμένα εἰς ἄπειρον. "Ect, εἰ ὁ Zoxpdτῆς τῆς
Σωχράτης καὶ ἄνθρωπος, καὶ Σωχράτης Σωχράἄνθρωπος. Καὶ εἰ ἄνθρωπος, καὶ
δίπους" καὶ ἄνθρωπος ἄνθρωπος δίπους" Ὅτι μὲν οὖν, εἴ τις ἁπλῶς
φήσει τὰς συμπλοχοὶς γίνεσθαι, πολλὰ συμβαίνει λέεἰν Τῶν ἄτοπα, δῆλον.
Ὅπως δὲ θετέον, λέγωμεν νῦν. αὐτοῦ δὴ κατηγορουμένων καὶ ἐφ᾽ οἷς
χατηγορεῖσθται συμβαίνει, ὅσα μὲν λέγεται κατὰ συμβεβηκὸς ἢ κατὰ τοῦ
ἢ θάτερον xavd θατέρου, ταῦτα οὐχ ἔσται ἕν, οἷον ἄνθρωπος λευχός ἐστι
xxl μουσιχός., ἀλλ᾽ οὐχ ἕν τὸ λευκὸν καὶ τὸ μουσικόν"
συμβεβηκότα γὰρ ἄμφω τῷ αὐτῷ. Οὐδ᾽ εἰ τὸ λευκὸν μουσικὸν ἀληθὲς εἰπεῖν,
ὅμως οὐχ ἔσται τὸ μουσικὸν λευκὸν ἕν cv χατὸὰ συμβεβηκὸς γὰρ
τὸ μουσικὸν λευχόν" ὥστε οὐκ ἔσται τὸ λευχὸν μουσικὸν ἕν τι.
Διὸ οὐδ᾽ ὁ σχυτεὺς ἁπλῶς ἀγαθὸς, ἀλλὰ ζῷον δίπουν. οὐ γὰρ κατὰ
συμβεβηκός. Ἔτι οὐδ᾽ ὅσα ἐνυπάρχει ἐν τῷ ἑτέρῳ. Διὸ οὔτε τὸ λευκὸν
πολλάχις, οὔτε ὁ ἄνθρωπος ἄνθρωπος ξῷόν ἐστιν ἢ δίπουν" ἐνυπάρχει γὰρ
ἐν τῷ ἀνθρώπῳ τὸ ζῷον καὶ τὸ δίπουν. vá aJ yostquam
declaravit diversitatem multiplicis enunciationis, intendit determinare
de earum consequentiis. Et circa hoc duo facit, secundum duas
dubitationes quas solvit. Secunda incipit; ibi: Verum autem est dicere
etc. Circa primum tria facit: primo, proponit quæstionem; secundo
ostendit rationabilitatem quæstionis; ibi: Si enim quoniam etc.; tertio, solvit
eam ; ibi: Eorum igitur ** etc. Est ergo dubitatio prima: Quare ex aliquibus
divisim prædicatis de uno sequitur enunciatio, in qua illamet unitæ
prædicantur de eodem, et ex aliquibus non. Unde hæc diversitas
oritur? Verbi gratia; ex istis, Socrates est amimal et est bipes ; sequitur,
ergo Socrates est. animal. bipes ; et similiter ex istis, Socrates est
bomo et est albus; sequitur, ergo Socrates est bomo albus. Ex illis vero,
Socrates est bonus, et. est. citbaroedus ; non sequitur, ergo
est bonus citbaroedus. Unde proponens quæstionem inquit: Quoniam vero
bæc, scilicet prædicta, ita prædicantur composita, idest coniuncta, ut
unum sit prædicamentum quæ extra prædicantur, idest, ut ex eis extra prædicatis
unite fiat prædicatio, alia vero prædicata non sunt talia, quæ est inter
differentia; unde talis innascitur diversitas? Et subdit exempla iam adducta,
et ad propositum applicata: quorum primum continet prædicata ex quibus
fit unum per se, hæc est ut et unum. Sed
non si citharoedus (coriarius) bonus, etiam citharoedus
('coriarius) bonus. Si enim quoniam utrunque, verum, esse oportet et
simul utrunque multa inconvenientia erunt. De homine enim verum est
et hominem, et album dicere; quare et omne. Rursus si album, et omne.
Quare erit homo albus albus; et hoc in infinitum. Et rursus musicus
albus ambulans; et hæc eadem frequenter implicita in infinitum. Amplius
si Socrates, Socrates est, et homo; et Socrates Socrates homo; et
si homo et bipes, erit homo homo bipes. Quod igitur si quis simpliciter
dicat complexiones fieri, plurima inconvenientia contingere
manifestum est. Quemadmodum ponendum est nunc dicimus. Eorum igitur
quæ prædicantur, et de quibus prædicari accidit quæcumque secundum
accidens dicuntur, vel de eodem, vel alterum de altero, hæc non erunt
unum; ut, homo albus est et musicus; sed non est unum album
et musicum; accidentia enim sunt utraque eidem. Nec, si album,
musicum verum est dicere, tamen non erit musicum album unum aliquid:
secundum accidens enim album musicum dicetur; quare non erit album
musicum unum aliquid. Quocirca nec citharoedus (coriarius) bonus
simpliciter; sed animal bipes: non enim sunt secundum accidens.
Amplius nec quæcunque insunt in alio. Quare neque album frequenter dictum,
neque homo homo animal est, vel bipes; insunt enim in homine animal et
bipes. scilicet, animal et bipes, genus et differentia; secundum
autem prædicata ex quibus fit unum per accidens, scilicet, bomo albus; tertium
vero prædicata ex quibus neque unum per se neque unum per accidens inter
se fieri sequitur; ut, cilbaroedus et bonus, ut declarabitur. 2.
Deinde cum dicit: Si enim quoniam etc., declarat veritatem diversitatis
positæ, ex qua rationabilis redditur quæstio: si namque inter prædicata
non esset talis diversitas, irrationabilis esset dubitatio. Ostendit autem
hoc ratione ducente ad inconveniens, nugationem scilicet. Et quia
nugatio duobus modis committitur, scilicet explicite et implicite; ideo
primo deducit ad nugationem explicitam, secundo ad implicitam; ibi:
Amplius, si Socrates etc. Ait ergo quod si nulla est inter quæcumque
prædicata differentia, sed de quolibet indifferenter censetur quod quia
alterutrum separatum dicitur, quod utrumque coniunctim dicatur, multa
inconvenientia sequentur. De aliquo enim homine, puta Socrate, verum est
separatim dicere quod, homo est, et albus est; quare et omne, idest et
coniunctim dicetur, Socrates est homo albus. Rursus et de eodem Socrate
potest dici separatim quod, est homo albus, et quod, est albus; quare et
omne, idest, igitur coniunctim dicetur, Socrates est homo albus albus:
ubi manifesta est nugatio. Rursus si de eodem Socrate iterum dicas
sepa100 ratim quod, est homo albus albus, verum dices et congrue
quod est albus, et secundum hoc, si iterum hoc repetes separatim, a
veritate simili non discedes, et sic in infinitum sequetur, Socrates est homo
albus, albus, albus in infinitum. Simile quod ostenditur in alio exemplo. Si
quis de Socrate dicat quod, est musicus, albus, ambulans, cum
possit et separatim dicere quod, est musicus, et quod, est accidens
enumerasset, unico tamen exemplo utrumque membrum explanavit, ut
insinuaret quod distinctio illa non erat in diversa prædicata per
accidens, sed in eadem diversimode comparata. Album enim et musicum,
comparata ad hominem, sub primo cadunt membro; comalbus, et quod, est ambulans;
sequetur, Socrates est musicus, albus, ambulans, musicus, albus,
ambulans. Et quia pluries separatim, in eodem
tamen tempore, enunciari potest, procedit nugatio sine fine. Deinde
deducit ad implicitam nugationem, dicens, cum de Socrate vere
dici possit separatim quod, est homo, et quod, est bipes, si coniunctim
inferre licet, sequetur quod, Socrates sit homo bipes. Ubi est implicita nugatio. Bipes
enim circumloquens differentiam hominis actu et intellectu clauditur in hominis
ratione. Unde ponendo loco hominis suam rationem (quod fieri licet,
ut docet Aristoteles II Topicorum), apparebit manifeste nugatio.
Dicetur enim: Socrates est homo, idest, animal bipes, bipes. Quoniam ergo
plurima inconvenientia sequuntur si quis ponat complexiones, idest,
adunationes prædicatorum fieri simpliciter, idest, absque
diversitate aliqua, manifestum est ex dictis. Quomodo autem faciendum
est, nunc, idest, in sequentibus dicemus. Et nota quod iste textus non habetur
uniformiter apud omnes quoad verba, sed quia sententia non discrepat,
legat quicunque ut vult. 3. Deinde cum dicit: Eorum igitur etc., solvit
propositam quæstionem. Et circa hoc duo facit: primo, respon" Num.
11. Num. 7. det instantiis in ipsa propositione quæstionis
adductis; secundo, satisfacit instantis in probatione positis; ibi:
Amplius nec quæcumque etc. Circa
primum duo facit: primo namque, declarat veritatem ; secundo, applicat
ad propositas instantias; ibi: Quocirca etc. Determinat ergo
dubitationem tali distinctione. Prædicatorum sive subiectorum plurium duo sunt
genera: quædam sunt per accidens, quædam per se. Si per accidens, hoc
dupliciter contingit, vel quia ambo dicuntur per accidens de uno
tertio, vel quia alterum de altero mutuo per accidens prædicatur. Quando
illa plura divisim prædicata sunt per accidens quovis modo, ex eis non
sequitur coniunctim prædicatum; quando autem sunt per se, tum ex eis
sequitur coniuncte prædicatum. Unde continuando se de ad
præcedentia ait: Eorum. igitur quæ prædicantur, et quibus prædicantur,
idest subiectorum, quæcumque dicuntur secundum accidens (et per hoc
innuit oppositum membrum, scilicet per se), vel de eodem, idest
accidentaliter concurrunt ad unius tertii denominationem, vel. alterutrum. de altero, idest
accidentaliter mutuo se denominant (et per hoc ponit membra duplicis
divisionis), ba:c, scilicet plura per accidens, mom erunt unum,
idest non inferent prædicationem coniunctam. 4. Et explanat
utrumque horum exemplariter. Et primo, primum, quando scilicet illa plura
per accidens dicuntur de tertio, dicens: Ut si bomo albus est et musicus.
divisim. Sed non est idem, idest non sequitur adunatim, ergo bomo est
musicus albus. Utraque enim sunt accidentia eidem tertio. Deinde
explanat secundum, quando solum illa plura per accidens de se mutuo
prædicantur, subdens: Nec si album. musicum. verum est dicere, idest, et
etiamsi de se invicem ista prædicantur per accidens ratione subiecti in
quo uniuntur, ut dicatur, bomo est albus, et est musicus, el album est
musicum, non tamen sequitur quod album musicum unite prædicetur, dicendo,
ergo bomo est albus musicus. Et causam assignat, quia album dicitur
de musico per accidens, et e converso. $. Notandum est hic quod cum
duo membra per parata autem inter se, sub secundo. Diversitatenr
ergo comparationis pluralitate membrorum, identitatem autem
prædicatorum unitate exempli astruxit. 6. Advertendum est ulterius, ad
evidentiam divisionis factæ in littera, quod, secundum accidens, potest
dupliciter accipi. - Uno modo, ut distinguitur contra perseitatem
posterioristicam, et sic non sumitur hic: quoniam cum dicitur plura
prædicata secundum accidens, - aut ly secundum accidens determinaret
coniunctionem inter se, et ma sic manifeste esset falsa
regula; quoniam inter priprædicata, animal bipes, seu, animal rationale,
est prædicatio secundum accidens hoc modo (differentia enim in
nullo modo perseitatis prædicatur de genere, et tamen Aristoteles in
textu dicit ea non esse prædicata per accidens, et asserit quod est
optima illatio, est amimal et bipes, ergo est animal bipes); - aut
determinaret coniunctionem illarum ad subiectum, et sic etiam inveniretur
falsitas in regula: bene namque dicitur, paries est coloratus, et est
visibilis, et tamen coloratum visibile non per se inest parieti. - Alio modo,
accipitur ly secundum accidens, ut distinguitur contra hoc quod dico, ratione
sui, seu, non propter aliud, et sic idem sonat, quod, per aliud: et hoc
modo accipitur hic. Quæcunque enim sunt talis naturæ quod non
ratione sui iunguntur, sed propter aliud, ab illatione coniuncta deficere
necesse est, ex eo quod coniuncta illatio unum alteri substernit, et
ratione sui ea adunata denotat ut potentiam et actum. - Est ergo sensus
divisionis, quod prædicatorum plurium, quædam sunt per accidens,
quædam per se, idest, quædam adunantur inter se ratione sui, quædam
propter aliud. Ea quæ per se uniuntur inferunt coniunctum, ea autem quæ
propter aliud, nequaquam. 7. Deinde cum dicit: Quocirca nec. citbaroedus
etc., applicat declaratam veritatem ad partes quæstionis. Et primo, ad secundam
partem, quia sclicet non sequitur: est bonus et est citharoedus; ergo est
bonus citharoedus, dicens: Quocirca nec citbaroedus bonus etc.; secundo, ad
aliam partem quæstionis, quare sequebatur: est animal et est bipes;
ergo est animal bipes: et ait: Sed animal bipes etc. Et subiungit huius
ultimi dicti causam, quia, animal bipes, non sunt prædicata secundum
accidens coniuncta inter se rum aut in tertio, sed per se. Et
per hoc explanavit altemembrum primæ divisionis, quod adhuc positum non
fuerat explicite. Adverte quod Aristoteles, eamdem tenens
sententiam de citharoedo et bono et musico et albo, conclusit quod album
et musicum non inferunt coniunctum prædicatum; ideo nec citharoedus et
bonus inferunt citharoedus bonus simpliciter, idest coniuncte. Est
autem ratio dicti, quia licet musica et albedo dissimiles sint bonitati et arti
citharisticæ in hoc, quod bonitas nata est denominare et subiectum tertium,
puta hominem et ipsam artem citharisticam (propter quod falsitas
manifeste cernitur, quando dicitur: est bonus et citharoedus; ergo bonus
citharoedus ), musica vero et albedo subiectum tertium natæ sunt denominare
tantum, et non se invicem (propter quod latentior est casus cum
proceditur: est albus et est musicus; ergo est musicus albus),
licet, inquam, in hoc sint dissimiles, et propter istam dissimilitudinem
processus Aristotelis minus sufficiens videatur; attamen similes sunt in hoc
quod, si servetur identitas omnimoda prædicatorum quam servari
oportet, si illamet divisa debent inferri coniunctim, sicut musica
non denominat albedinem, neque contra, ita nec bonitas, de qua fit sermo,
cum dicitur, bomo est bonus, denominat artem citharisticam, neque e converso.
Cum enim bonum sit æquivocum, licet a consilio, alia ratione dicitur de
perfectione citharoedi, et alia de perfectione hominis. Quando namque
dicimus, Socrates est bonus, intelligimus bonitatem moralem, quæ est
hominis bonitas simpliciter (analogum siquidem simpliciter positum
sumitur pro potiori); cum autem infertur, citharoedus bonus, non boni101
9. Nec obstat quod album faciat unum per accideüs cum homine: non enim
dictum est quod unitas per accidens aliquorum impedit ex diversis inferre coniunctum,
sed quod unitas per acccidens aliquorum ratione tertii tantum est illa
quæ impedit. Talia enim quæ non sunt unum per accidens nisi ratione
tertii, inter se nullam hatatem moris sed artis prædicas: unde terminorum
identitas non salvatur. Sufficienter igitur et subtiliter Aristoteles eamdem de
utrisque protulit sententiam, quia eadem est hæc, et ibi ratio etc.
8. Nec prætereundum est quod, cum tres consequentias adduxit quæstionem
proponendo, scilicet; est animal et bipes; ergo est animal bipes: et, est
homo et albus; ergo est homo albus: et, est citharoedus et bonus;
ergo est bonus citharoedus; et duas primas posuerat esse bonas,
tertiam vero non ; huius diversitatis causam inquirere volens, cur solvendo
quæstionem nullo modo meminerit secundæ consequentiæ, sed tantum primæ et
tertiæ. Indiscussum namque reliquit an illa consequentia sit
bona -an ve, SUB -w mala. - Et ad hoc videtur mihi
dicendum quod ex his paucis verbis etiam illius consequentiæ naturam
insinuavit. Profundioris enim sensus textus capax apparet cum dixit quod,
non sunt unum album et musicum etc., ut scilicet non tantum indicet quod
expositum est, sed etiam eius causam, ex qua natura secundæ consequentiæ
elucescit. Causa namque quare album et musicum non inferunt coniunctam,
prædicationem est, quia in prædicatione coniuncta oportet alteram partem alteri
supponi, ut potentiam actui, ad hoc ut ex eis fiat aliquo.
modo unum, et altera a reliqua denominetur (hoc enim vis coniunctæ
prædicationis requirit, ut supra diximus de partibus definitionis); album
autem et musicum secundum se non faciunt unum per se, ut patet,
neque unum per accidens. Licet enim ipsa ut adunantur in subiecto
uno sint unum subiecto per accidens, tamen ipsamet quæ adunantur in
uno, tertio subiecto, non faciunt inter se unum per accidens: tum quia
neutrum informat alterum (quod requiritur ad unitatem per accidens
aliquorum inter se, licet non in tertio); tum quia non considerata
subiecti unitate, quæ est extra eorum rationes, nulla remanet inter
ea unitatis causa. Dicens ergo quod album et musicum non sunt unum,
scilicet inter se, aliquo modo, causam expressit quare coniunctim non
infertur ex eis prædicatum. Et quia oppositorum eadem est disciplina,
insinuavit per illamet verba bonitatem illius consequentiæ. Ex eo
enim quod homo et albus se habent sicut potentia et actus, (et ita albedo
informet, denominet atque unum faciat cum homine ratione sui), sequitur
quod ex divisis potest inferri coniuncta prædicatio; ut dicatur: est bomo
et albus; ergo δὲ bomo albus. Sicut per oppositum
dicebatur quod ideo musicum et album non inferunt coniunctum
prædicatum quia neutrum alterum informabat. bent unitatem; et
propterea non potest inferri coniunctum, ut dictum est, quod unitatem importat.
Illa vero quæ sunt unum per accidens ratione sui, seu inter se, ut,
bomo albus, cum coniuncta accipiuntur, unitate necessaria non carent,
quia inter se unitatem habent. Notanter autem apposui ly tantum : quoniam
si aliqua duo sunt unum per accidens, ratione tertii subiecti scilicet,
sed non tantum ex hoc habent unitatem, sed etiam ratione sui,ex hoc
quod alterum reliquum informat, ex istis divisis non prohibetur
inferri coniunctum. Verbi gratia, optime dicitur: est quantum et est coloratum;
ergo est quantum coloratum: quia color informat quantitatem. IO.
Potes autem credere quod secunda illa consequentia, quam non explicite
confirmavit Aristoteles respondendo, sit bona et ex eo quod ipse
proponendo quæstionem asseruit bonam, et ex eo quod nulla istantia
reperitur. Insinuavit autem et Aristoteles quod sola talis unitas impedit
illationem coniunctam, quando dixit quæcunque secundum. accidens dicuntur vel
de eodem vel alterutrum. de altero. Cum enim dixit, secundum. accidens de
eodem, unitatem eorum ex sola adunatione in tertio posuit (sola enim hæc
per accidens prædicantur de eodem, ut dictum est); cum autem
addidit, vel alterutrum de altero, mutuam accidentalitatem ponens, ex nulla
parte inter se unitatem reliquit. Utraque ergo per accidens adducta prædicata,
in tertio scilicet vel alterutrum, quæ impediant illationem coniunctam, nonnisi
in tertio unitatem habent. Deinde cum dicit: Amplius nec etc., satisfacit
instantiis in probatione adductis, et in illis in quibus explicita
committebatur nugatio, et in illis in quibus implicita; et ait quod non
solum inferre ex divisis coniunctum non licet quando prædicata illa sunt
per accidens, sed mec etiam quæcunque insunt im alio: idest, sed nec hoc
licet quando prædicata includunt se, ita quod unum includatur in
significato formali alterius intrinsece, sive explicite, ut album
in albo, sive implicite, ut animal et bipes in homine. Quare neque album
frequenter dictum divisim infert coniunctum, neque bomo divisim ab
animali vel bipede enunciatum, animal bipes, coniunctum cum homine
infert; ut dicatur, ergo Socrates est bomo bipes, vel animal bomo. Insunt enim
in hominis ratione, animal et bipes actu et intellectu, licet implicite. Stat
ergo solutio quæstionis in hoc, quod unitas plurium per accidens in
tertio tantum et nugatio, impediunt ex divisis inferri coniunctum ; et
consequenter, ubi neutrum horum inven'tur, licebit inferre
coniunctum. divisis ex quando divisæ sunt simul veræ de eodem
etc. Et hoc intellige
vel bipes. Ed. c: animal (Can. CargTAN: lect. v)
AN EX ENUNCIATIONE HABENTE PLURA PRÆDICATA CONIUNCTIM INFERRE LICEAT
ENUNCIATIONEM QUÆ EADEM PRÆDICATA DIVISIM CONTINET ᾿Αληθὲς δέ ἐστιν εἰπεῖν χατὰ τοῦ τινὸς χαὶ ἁπλῶς, οἷον τὸν τινὰ ἄνθρωπον ἄνθρωπον, 5 τὸν τινὰ λευχὸν ἀνθρωπον ἄνθρωπον. λευκόν: οὐχ ἀεὶ δέ. ᾽Αλλ᾽ ὅταν μὲν ἐν τῷ προσχειμένῳ τῶν ἀντιχειμένων τι ἐνυπάρχῃ; ᾧ ἕπε ται ἀντίφασις, οὐχ ἀληθές, ἀλλὰ y: 930oc, οἷον τὸν τεθνεῶτα ἄνθρωπον ἄνθρωπον εἰπεῖν" ὅταν δὲ Un ἐνυπάρχῃ; ἀληθές. "H ὅταν μὲν ἐνυπάρχῃ, ἀεὶ οὐκ ἀληθές: ὅταν δὲ μὴ ἐνυπάρχῃ, οὐκ ἀεὶ ἀληθές, ὥσπερ, Ὅμηρός ἐ ἐστί τι, οἷον ποιητής" ἄρ᾽ οὖν καὶ ἔστιν, ἢ 00; χατὰ cup ps βηχὸς γὰρ “κατηγορεῖται τοῦ Ὁμήρου τὸ ἔστι" ὅτι 12e ποιητής ἐστιν, ἀλλ᾽ οὐ καθ᾽ αὐτὸ κατηγορε εἴται χατὰ τοῦ Ὁμήρου τὸ ἔστιν. Ὥστε ἐν ὅσαις κατηγορίαις μήτε ἐναντιότης ἔνε στιν, Hu λόγοι ἀντ᾽ ὀνομάτων λέγονται; καὶ xa ἑαυτὸ χατηγορῆται; χαὶ μὴ κατὰ “συμβεβηκός, ἐπὶ τούτων τὸ τὶ χαὶ ἁπλῶς ἀληθὲς ἔσται εἰπεῖν. " Τὸ δὲ μὴ ὄν, ὅτι δοξαστόν, οὐχ ἀληθὲς εἰπεῖν ὄν τι’ δόξα γὰρ αὐτοῦ οὐχ ἔστιν, ὅτι ἔστιν, ἀλλ᾽ ὅτι οὐκ i» ὩΣ secundam dubitationem. Et circa
hoc tria fa Num.seq. Num.
. Num. Ξ ys do solvit eam; ibi:
Sed quando in adiecto etc., tertio, ex hoc excludit quemdam errorem;
ibi: Quod autem non est* etc. Est ergo quæstio: an ex enunciatione
habente prædicatum coniunctum, liceat inferre enunciationes dividentes illud
coniunctum; et est quæstio: contraria superiori. Ibi enim quæsitum est an ex
divisis inferatur coniunctum; hic autem quæritur an ex coniuncto sequantur
divisa. Unde movendo quæstionem dicit: erum aulem. aliquando est dicere
de aliquo et. simpliciter, idest divisim, quod scilicet prius dicebatur
coniunctim, ΜῈ quemdam hominemalbum esse bominem, aut quoddam album
hominem. album esse, idest ut ex ista, Socrates est. bomo albus, sequitur
divisim, ergo Socrates est bomo, ergo Socrates est albus. Non autem.
semper, idest aliquando autem ex coniuncto non inferri potest divisim;
non enim sequitur, Socrates est bonus citbaroedus, ergo est bonus. Unde hæc
est differentia, quod quandoque licet et quandoque non. Et adverte
quod notanter adduxit exemplum de homine albo,
inferendo utramque partem divisim, ut insinuaret quod intentio
quæstionis est investigare quando ex coniuncto potest utraque pars
divisim inferri, et non quando altera tantum. 2. Deinde cum dicit: Sed
quando in adiecto etc., solvit quæstionem. Et duo facit: primo, respondet
parti negativæ quæstionis, quando scilicet non licet; secundo, ibi:
Quare in quantiscumque etc., respondet parti affirmativæ, quando scilicet
licet. Circa primum considerandum quod quia dupliciter contingit fieri
prædicatum coniunctum, uno modo ex oppositis, alio modo ex non oppositis,
ideo duo facit: primo, ostendit quod numquam ex prædicato coniuncto ex
oppositis possunt inferri eius partes divisim; secundo, quod nec hoc
licet universaliter in prædicato coniuncto ex non oppositis, ibi: Pel
etiam quando etc. Ait ergo quod quando in termino adiecto inest aliquid
de numero oppositorum, ad quæ sequitur contradictio inter Verum
autem est dicere de aliquo et simpliciter; ut aliquem ' Sea. c. xr. hominem hominem, aut aliquem
album hominem, hohominem album: non autem semper. Sed quando in adiecto
aliquid quidem oppositorum insit, quod consequitur contradictio, non
verum sed falsum est; ut, hominem mortuum, hominem dicere: quando
autem non insit, verum est. Aut quando insit quidem, semper non verum est:
quando vero non insit, non semper verum est; ut, Homerus est
aliquid, ut poeta: utrum igitur est, an ergo etiam est; non?
Secundum accidens enim prædicatur, est, de Homero; (quoniam est enim
poeta), sed non secundum se prædicatur de Homero ipsum est. Quare in
quantiscunque prædicationibus neque contrarietas, [aliqua aut nulla
oppositio] inest, si definitiones pro nominibus dicantur, et secundum se prædicantur
et non secundum accidens, in his aliquid et simpliciter verum erit
dicere. Quod autem non est, quoniam opinabile est, non est verum
dicere esse aliquid: opinio enim eius non est, quoniam est, sed quoniam
non est. ipsos terminos, »on verum. est, scilicet inferre divisim,
sed falsum. Verbi gratia cum dicitur, Cæsar est bomo mortuus, non
sequitur, ergo est bomo: quia ly mortuus, adiacens homini, oppositionem habet
ad hominem, quam. sequitur contradictio inter hominem et
mortuum: si enim est homo, non est mortuus, quia .non est corpus
inanimatum; et si est mortuus, non est homo, quia mortuum est
corpus inanimatum. Quando autem mon inest, scilicet talis. oppositio,
verum est, scilicet inferre divisim. Ratio
autem quare, quando est oppositio in adiecto, non sequitur illatio divisa
est, quia alter terminus ex adiecti oppositione corrumpitur in ipsa
enunciatione coniuncta. Corruptum autem seipsum absque corruptione non
infert, quod illatio divisa sonaret. 3. Dubitatur hic primo circa id quod
supponitur, quomodo possit vere dici, Cæsar est bomo mortuus, cum
enunciatio non possit esse vera, in qua duo contradictoria simul de
aliquo prædicantur. Hoc enim est primum principium. Zomo autem et mortuus, ut
in littera dicitur, contradictoriam oppositionem includunt, quia in
homine includitur vita, in mortuo non vita. - Dubitatur secundo circa
ipsam consequentiam, quam reprobat Aristoteles: videtur enim . optima. Cum enim
ex enunciatione prædicante duo contradictoria possit utrumque inferri (quia æquivalet
copulativæ), aut neutrum, (quia destruit seipsam), et enunciatio
supradicta terminos oppositos contradictorie prædicet, videtur sequi
utraque pars, quia falsum est neutram sequi. 4. Ad hoc simul dicitur quod
aliud est loqui de duobus terminis secundum se, et aliud de eis ut unum
stat sub determinatione alterius. Primo namque modo, bomo et
moriuus, contradictionem inter se habent, et impossibile est quod simul in
eodem inveniantur. Secundo autem modo, bomo et mortuus, non opponuntur, quia
homo transmutatus iam per determinationem corruptivam importatam in ly
mortuus, non stat pro suo significato secundum se, sed secundum exigentiam
termini additi, a CAP. , quo suum significatum distractum est. Ad
utrunque autem insinuandum Aristoteles duo dixit, et quod habent
oppositionem quam sequitur contradictio, attendens significata eorum secundum
se, et quod etiam ex eis formatur una vera enunciatio cum dicitur, Socrates est
bomo moriuus, attendens coniunctionem eorum alterius corruptivam. Unde
patet quid dicendum sit ad dubitationes. Ad utramque siquidem dicitur,
quod non enunciantur duo contradictoria simul de eodem, sed terminus ut
stat sub distractione *, seu transmutatione alterius,cui secundum
se Ed. c: distinclione.
esset contradictorius. 5. Dubitatur quoque circa id quod ait: /mest
aliquid oppositorum quæ consequitur contradictio; superflue enim videtur
addi illa particula, quæ consequitur contradictio. Omnia enim opposita
consequitur contradictio, ut patet discurrendo in singulis; pater enim est non
filius, et album non nigrum, et videns non cæcum etc. Et ad hoc dicendum est quod opposita possunt
dupliciter accipi: uno modo formaliter, idest secundum sua significata;
alio modo denominative, seu subiective. Verbi gratia, pater et filius
possunt accipi pro paternitate et filiatione, et possunt accipi pro eo
qui denominatur pater vel filius. Rursus cum omnis distinctio fiat
oppositione aliqua, ut dicitur in X Metapbysicæ, supponatur omnino
distincta esse opposita. Dicendum ergo est quod, licet ad omnia opposita
seu distincta contradictio sequatur inter se formaliter sumpta, non
tamen ad omnia opposita sequitur contradictio inter ipsa denominative sumpta.
Quamvis enim pater et filius mutuam sui negationem inferant inter se
formaliter, quia paternitas est non filiatio, et filiatio est non
paternitas; in relatione tamen ad denominatum, contradictionem non necessario
inferunt. Non enim
sequitur, Socrates est pater; ergo mon est filius; nec e converso. Ut
persuaderet igitur Aristoteles quod non quæcunque opposita colligata impediunt
divisam illationem (quia non illa quæ habent contradictionem annexam
formaliter tantum, sed illa quæ,habent contradictionem et formaliter et
secundum rem denominatam), addidit: quæ consequitur contradictio, in
tertio scilicet denominato. Et usus est satis congrue vocabulo, scilicet,
consequitur : contradictio enim ista in tertio est quodammodo extra ipsa
opposita. 6. Deinde cum dicit: Vel etiam quando est etc., declarat quod
ex non oppositis in tertio coniunctis secundum unum prædicatum, non
universaliter possunt inferri partes divisim. Et primo, hoc proponit quasi
emendans quod immediate dixerat, subiungens: Vel etiam quando est, scilicet
oppositio inter terminos coniunctos, falsum est semper, scilicet inferre
divisim ; quasi diceret : dixi quod quando inest oppositio, non verum sed
falsum est inferre divisim; quando autem non inest talis oppositio,
verum est inferre divisim. Vel etiam ut melius dicatur, quod quando
est oppositio, falsum est semper, quando autem non inest talis oppositio,
non semper verum est. Et sic modificavit supradicta addendo ly semper,
et, nom semper. Et subdens exemplum quod non semper ex non oppositis
sequatur divisio, ait: Ut, Homerus est aliquid ut poeta; ergo eliam. est?
Non. Ex hoc coniuncto, est poeta, de Homero enunciato, altera pars, ergo
Homerus est, non sequitur; et tamen clarum est quod istæ duæ partes colligatæ,
est et poeta, non. habent oppositionem, ad quam sequitur contradictio.
Igitur non semper ex non oppositis coniunctis illatio divisa tenet
etc. Deinde cum dicit: Secundum. accidens etc., probat hoc, quod
modo dictum est, ex eo quod altera pars istius compositi, scilicet, est,
in antecedente coniuncto prædicatur de Homero secundum accidens,
idest ratione alterius, quoniam, scilicet poeta, prædicatur de Homero, et
non prædicatur secundum se ly est de Homero; quod tamen infertur, cum
concluditur: ergo Homerus est. - Considerandum est hic quod ad solvendam illam
conclusionem negativam, scilicet, - non semper ex non oppositis
coniunctis infertur divisim, - sufficit unam instantiam suæ
oppositæ universali affirmativæ afferre. Et hoc fecit Aristoteles adducendo
illud genus enunciationum, in quo altera pars coniuncti est aliquid
pertinens ad actum animæ. Loquimur enim modo de Homero vivente in
poematibus suis in mentibus hominum. In his siquidem enunciationibus
partes coniunctæ non sunt oppositæ in tertio, et tamen non licet inferre
utramque partem divisim. Committitur enim fallacia secundum quid ad
simpliciter. Non enim valet, Cæsar est laudatus, ergo. est: et
simile est de esse in effectu dependente in conservari. Quomodo autem intelligenda sit ratio ad hoc
adducta ab Aristotele in sequenti particula dicetur. Deinde cum
dicit: Quare in quantiscunque etc., respondet parti affirmativæ quæstionis,
quando scilicet ex coniunctis licet inferre divisim. Et ponit duas
conditiones oppositas supradictis debere convenire in unum, ad hoc
ut possit fieri talis consequentia; scilicet, quod nulla inter partes
coniuncti oppositio sit, et quod secundum se prædicentur. Unde
dicit inferendo ex dictis: Quare in quantiscunque prædicamentis, idest
prædicatis ordine quodam adunatis, meque contrarietas aliqua, in cuius
ratione ponitur contradictio in tertio (contraria enim sunt quæ
mutuo se ab eodem expellunt), aut universaliter nulla oppositio inest, ex qua
scilicet sequatur contradictio in tertio, si. definitiones pro. nominibus
sumantur. Dixit hoc, quia licet in quibusdam non appareat oppositio,
solis nominibus positis, sicut, bomo mortuus, et in quibusdam appareat, ut,
vivum mortuum; hoc tamen non obstante, si, positis nominum definitionibus
loco nominum, oppositio appareat, inter opposita collocamus. Sicut, verbi
gra.tia, bomo mortuus, licet oppositionem non præseferat, tamen si loco
hominis et mortui eorum definitionibus utamur, videbitur contradictio.
Dicemus enim corpus animatum rationale, corpus inanimatum irrationale. In
quantiscunque, inquam, coniunctis nulla est oppositio, ef secundum se, et non
secundum | accidens. prædicantur, in. bis verum. erit. dicere et.
simpliciter, idest divisim quod fuerat coniunctim enunciatum. 9. Ad
evidentiam secundæ conditionis hic positæ, nota quod ly secumdum se
potest dupliciter accipi: uno modo positive, et sic dicit perseitatem
primi, secundi, universaliter, quarti modi; alio modo negative, et
sic idem sonat quod non per aliud. - Rursus considerandum est
quod cum Aristoteles dixit de prædicato coniuncto quod, secundum se
prædicetur, ly secundum. se potest ad tria referri, scilicet, ad partes
coniuncti inter se, ad totum coniunctum respectu subiecti, et ad partes
coniuncti respectu subiecti. Si ergo accipiatur ly secumdum se positive, licet
non falsus, extraneus tamen a mente Aristotelis reperitur sensus ad quodcunque
illorum trium referatur. Licet enim valeat, est bomo risibilis, ergo.
est bomo et est risibilis, et, est animal rationale, ergo est animal et
est rationale; tamen his oppositæ inferunt similes consequentias. Dicimus
enim, est albus musicus, ergo est musicus et est. albus: ubi nulla est
perseitas, sed est coniunctio per accidens, tam inter partes inter se, quam
inter totum et subiectum, quam etiam inter partes et subiectum. Liquet
igitur quod non accipit Aristoteles ly secundum se positive, ex eo quod vana
fuisset talis additio, quæ ab oppositis non facit in hoc differentiam. Ad
quid enim addidit, secundum se, et non, secundum accidens, si tam
illæ quæ sunt secundum se, modo exposito, quam illæ quæ sunt
secundum accidens ex coniuncto, inferunt di104 visum? - Si vero
accipiatur secundum se, negative, idest, non per aliud, et referatur ad
partes coniuncti inter se, falsa invenitur regula. Nam non licet dicere,
est bonus cilbaroedus ; ergo est. bonus et citlbaroedus ; et tamen
ars citharizandi et bonitas eius sine medio coniunguntur. Et
similiter contingit, si referatur ad totum coniunctum respectu subiecti,
ut in eodem exemplo apparet. Totum enim hoc, citbaroedus bonus, non
propter aliud convenit homini; et tamen non infert, ut dictum est,
divisionem. Superest ergo ut ad partem coniuncti respectu subiecti
referatur, et sit sensus: quando aliqua coniunctim prædicata, secundum se,
idest, non per aliud, prædicantur, idest, quod utraque pars prædicatur de
subiecto non propter alteram, sed propter seipsam et subiectum, tunc ex
conAverroes. Boethius.
Ed. c: idest, negative. Ed. c:
opinionem. iuncto infertur divisa prædicatio. το. Et hoc modo exponunt Averroes
et Boethius; et vera invenitur regula, ut inductive facile manifestari
potest, et ratio ipsa suadet. Si enim partes alicuius coniuncti prædicati
ita inhærent subiecto quod neutra propter alteram insit, earum separatio nihil
habet quod veritatem impediat divisarum. Est et verbis Aristotelis
consonus sensus iste. Quoniam et per hoc distinguit inter
enunciationes ex quibus coniunctum infert divisam prædicationem, et
eas quibus hæc non inest consequentia. Istæ siquidem ultra habentes
oppositiones in adiecto, sunt habentes prædicatum coniunctum, cuius una
partium alterius est ita determinatio, quod nonnisi per illam subiectum
respicit, sicut apparet in exemplo ab Aristotele adducto, Homerus est poeta.
Est siquidem ibi non respicit Homerum ratione ipsius Homeri, sed præcise
ratione poesis relictæ; et ideo non licet inferre, ergo Homerus
est. Et simile est in negativis. Si quis enim dicat, Socrates non
est paries, non licet inferre, ergo Socrates mon est, eadem
ratione, quia esse non est negatum de Socrate, sed de pariete in
Socrate. 11. Et per hoc patet qualiter sit intelligenda ratio in
textu superiore adducta. Accipitur enim ibi, secundum se negative *, modo
hic exposito, et secundum accidens, idest propter aliud. In eadem ergo
significatione est usus ly secundum. accidens, solvendo hanc et
præcedentem quæstionem: utrobique enim intellexit secundum accidens,
idest, propter aliud, coniuncta, sed ad diversa retulit. Ibi namque ly
secundum. accidens determinabat coniunctionem duorum prædicatorum inter
se; hic vero determinat partem coniuncti prædicati in ordine ad subiectum.
Unde ibi, album et musicum, inter ea quæ secundum accidens sunt,
numerabantur; hic autem non. 12. Sed occurrit circa hanc expositionem
dubitatio non parva. Si enim ideo non licet ex coniuncto inferre
divisim, quia altera pars coniuncti non respicit subiectum propter
se, sed propter alteram partem (ut dixit Aristoteles de ista
enunciatione, Homerus est poeta), sequetur quod numquam a tertio adiacente ad
secundum erit bona consequentia: quia in omni enunciatione de tertio adiacente,
est respicit subiectum propter prædicatum et non propter se etc. 13. Ad
huius difficultatis evidentiam, nota primo hanc distinctionem. Aliud est
tractare regulam, quando ex tertio adiacente infertur secundum
et quando non, et aliud quando ex coniuncto fit illatio divisa et quando
non. Illa siquidem est extra propositum, istam autem venamur. Illa
compatitur varietatem terminorum, ista non. Si namque unus terminorum, qui est
altera pars coniuncti, secundum significationem seu suppositionem varietur
in separatione, non infertur ex coniuncto prædicato illudmet divisim, sed
aliud. - Nota secundo hanc propositionem: Cum ex tertio adiacente infertur
secundum, non servatur identitas terminorum. Liquet ista quoad
illum terminum, es/. Dictum siquidem fuit supra a sancto Thoma *, quod
aliud importat est secundum adiacens, et aliud est tertium adiacens.
Illud namque importat actum essendi simpliciter, hoc autem habitudinem
inhærentiæ vel identitatis prædicati ad subiectum. Fit ergo varietas
unius termini cum ex tertio adiacente infertur secundum, et
consequenter non fit illatio divisi ex coniuncto. Unde prælucet responsio
ad obiectionem, quod, licet ex tertio adiacente quandoque possit inferri
secundum, numquam tamen ex tertio adiacente licet inferri secundum
tamquam ex coniuncto divisum, quia inferri non potest
divisim, cuius altera pars ipsa divisione perit. Negetur ergo
consequentia obiectionis et ad probationem dicatur quod, optime concludit
quod talis illatio est illicita infra limites illationum, quæ ex
coniuncto divisionem inducunt, de quibus hic Aristoteles loquitur. I4. Sed contra hoc instatur. Quia etiam tanquam
ex per coniuncto divisa fit illatio, Socrates est albus, ergo
est, locum a parte in modo ad suum totum, ubi non fit varietas
terminorum. Et ad hoc dicitur quod licet homo albus sit pars in modo
hominis (quia nihil minuit de hominis ratione albedo, sed ponit hominem
simpliciter), tamen est album non est pars in modo ipsius est, eo quod
pars in modo est universale cum conditione non minuente, ponente illud
simpliciter. Clarum est
autem quod album minuit rationem ipsius esf, et non ponit ipsum
simpliciter: contrahit enim ad esse secundum quid. Unde apud philosophos,
cum fit aliquid album, non dicitur generari, sed generari secundum quid.
15. Sed instatur adhuc quia secundum hoc, dicendo, est animal, ergo est,
fit illatio divisa per eumdem locum. Animal enim non minuit rationem
ipsius est. - Ad hoc est dicendum quod ly est, si dicat veritatem
propositionis, manifeste peccatur a secundum quid ad simpliciter. Si
autem dicat actum essendi, illatio est bona, sed non est de tertio,
sed de secundo adiacente. 16. Potest ulterius dubitari circa principale:
quia sequitur, est quantum coloratum, ergo est quantum, et, est. coloratum ; et
tamen coloratum respicit subiectum mediante quantitate: ergo non videtur
recta expositio supra adducta. - Ad hoc et similia dicendum est quod coloratum
non ita inest subiecto per quantitatem quod sit eius determinatio et
ratione talis determinationis subiectum denominet, sicut bonitas artem
citharisticam determinat ; cum di-citur, est citbaroedus bonus; sed potius
subiectum ipsum primo coloratum denominatur, quantum vero secundario
coloratum. dicitur, licet color media quantitate suscipiatur. Unde notanter
supra diximus, quod tunc altera pars coniuncti prædicatur per accidens,
quando præcise denominat subiectum, quia denominat alteram partem. Quod
nec in hac, nec in similibus instantiis invenitur 17. Deinde cum dicit:
Quod autem non est etc., excludit quorumdam errorem qui, quod "on est,
esse tali syllogismo concludere satagebant: Quod est, opinabile est. Quod
non est, est opinabile. Ergo quod non est, est. - Hunc siquidem processum
elidit Aristeteles destruendo primam propositionem, quæ partem coniuncti
in subiecto divisim prædicat, ac si diceret: est opinabile, ergo est.
Unde assumendo subiectum conclusionis illorum ait: Quod autem non est; et
addit medium eorum, quoniam opinabile est; et subdit maiorem
extremitatem, »om est verum dicere, esse aliquid. Et causam assignat,
quia talis opinatio non propterea est, quia illud sit, sed potius quia non
est. pere et im. Lib. II, lect. 1 (Canp. CareTANt lect.
v1) DE PROPOSITIONIBUS MODALIBUS EARUMQUE INTER SE OPPOSITIONE Τούτων δὲ διωρισμένων, σχεπτέον ὅπως ἔχουσιν αἱ ἀποφάσεις χαὶ χαταφάσεις πρὸς ἀλλήλας, αἱ τοῦ δυνατὸν εἶναι καὶ μὴ δυνατόν, χαὶ ἐνδεχόμενον καὶ μὴ ἐνδεχόμενον, καὶ περὶ τοῦ ἀδυνάτου τε καὶ ἀναγκα(ou* ἔχει γὰρ ἀπορίας τινάς. Εἰ γὰρ τῶν συμπλεκομένων αὗται ἀλλήλαις ἀντίχεινται ἀντιφάσεις, ὅσαι χατὰ τὸ εἶναι καὶ μὴ εἶναι τάτ* 105 : His vero determinatis,
considerandum est quemadmodum se se habent negationes et affirmationes ad
se invicem; quæ sunt de possibili esse et non possibili, et de
contingenti, et de impossibili, et necessario; habent enim aliquas
dubitationes. Nam si eorum, quæ corpplectuntur, illæ sunt sibi
invicem oppositæ contradictiones, quæcunque secundum esse τονται, οἷον τοῦ εἶναι ἄνθρωπον ἀπόφασις τὸ μὴ εἶναι ἄνθρωπον, οὐ τὸ εἶναι μιὴ ἄνθρωπον, καὶ τοῦ εἶναι λευκὸν ἄνθρωπον, τὸ, p εἶναι λευκὸν ἄνθρωπον, ἀλλ᾽ οὐ τὸ εἶναι μὴ λευχὸν ἄνθρωπον" εἰ γὰρ χατὰ παντὸς ἡ κατάφασις ἢ ἡ ἀπόφασις, τὸ ξύλον ἔσται ἀληθὲς εἰπεῖν εἶναι μιὴ λευκὸν ἄνθρωπον εἰ δὲ τοῦτο οὕτως, καὶ ὅσοις τὸ εἶναι μὴ προστίθεται, τὸ αὐτὸ ποιήσει τὸ ἀντὶ τοῦ εἶναι λεγόμενον, οἷον τοῦ, ἄνθρωπος βαδίζει, οὐ τὸ οὐχ ἄνθρωπος βαδίζει, ἀπόφάσις ἔσται, ἀλλὰ «0, οὐ βαδίζει ἄνθρωπος- οὐδὲν dg διαφέρει εἰπεῖν, ἄνθρωπον βαδίζειν, ἢ ἄνθρωπον ζαλζοντα εἶναι. Ὥστε, εἰ οὕτως πανταχοῦ, καὶ τοῦ υνατὸν εἶναι ἀπόφασις ἔσται τὸ δυνατὸν μὴ εἶναι, ἀλλ᾽ οὐ τὸ μὴ δυνατὸν εἶναι. Δοχεῖ δὲ τὸ αὐτὸ δύνασθαι χαὶ εἶναι καὶ μὴ εἶναι: πᾶν do τὸ δυνατὸν τέμνεσθαι ἢ βαδίζειν, καὶ μὴ βαίζειν xa μὴ τέμνεσϑαι δυνατόν: λόγος δέ, ὅτι ἅπαν τὸ οὕτω δυνατὸν οὐχ ἀεὶ ἐνεργεῖ, ὥστε ὑπάρξει αὐτῷ 'χαὶ ἡ ἀπόφασις: δύναται γὰρ καὶ μὴ βαδίζειν τὸ βαδιστικόν, καὶ μὴ ὁρᾶσθαι τὸ ὁρατόν. ᾿Αλλὰ μιὴν ἀδύνατον χατὸὺ τοῦ αὐτοῦ ἀληθεύεσθαι τας ἄντιχειμένας φάσεις. Οὐχ ἄρα τοῦ δυνατὸν εἶναι ἀπόασίς ἐστι τὸ, δυνατὸν μὴ εἶναι. Συμβαίνει γὰρ ἐκ τούτων ἢ τὸ αὐτὸ φάναι xal ἀποφάναι ἅμα κατὰ τοῦ αὐτοῦ, ἢ μὴ κατὰ τὸ εἶναι καὶ μὴ εἶναι τὰ προστιθέμενα γίνεσθαι φάσεις καὶ ἀποφάσεις. Εἰ οὖν ἐχεῖνο ἀδύνατον, τοῦτ᾽ ἂν εἴη αἱρετόν. gj ostquam determinatum est de
enunciationiSybus, quarum partibus aliud additur tam remaMZ'nente quam variata
unitate, hic intendit declarare quid accidat enunciationi, ex eo quod.
aliquid additur, non suis partibus, sed compositioni eius. Et circa hoc duo
facit: primo, determinat de E" Eest. x. . Num. 7. Ed. c: et sibili. oppositione earum ;
secundo, de consequentiis; ibi: Consequentiæ vero etc. Circa primum duo facit:
primo, proponit quod intendit; secundo, exequitur; ibi: Nam si eorum
etc. Proponit ergo quod iam perspiciendum est, quomodo se
posi habeant affirmationes et negationes enunciationum de possibili et non possibili etc. Et causam
subdit: Habent enim multas dubitationes speciales. - Sed antequam
ulterius procedatur, quoniam de enunciationibus, quæ modales vocantur, sermo inchoatur,
prælibandum est esse quasdam modales enunciationes, et qui et quot sunt
modi reddentes: propositiones modales; et quid earum sit subiectum
et quid prædicatum ; et quid sit ipsa enunciatio modalis ; quisque
sit ordo earum ad præcedentes; et quæ necessitas sit specialem faciendi
tractatum de his. Quia ergo possumus dupliciter de rebus loqui; uno
modo, componendo rem unam cum alia, alio modo, compositionem factam
declarando qualis sit, insurgunt duo enunciationum genera; quædam
scilicet enunciantes Opp. D. Tgowaz T. I. » et non esse
disponuntur, ut eius quæ est, esse hominem, negatio est, non esse hominem, non
autem ea quæ est, esse non hominem: et eius, quæ est, esse
album hominem, ea quæ est, non esse album hominem, sed non ea quæ est,
esse non album hominem (5i énim de omni aut affirmatio aut negatio
est, lignum erit verum dicere esse non album hominem): quod si hoc
modo et in quibuscunque esse non additur, idem faciet quod pro esse dicitur; ut
eius, quæ est, homo ambulat, non hæc, ambulat non homo, negatio erit,
sed hæc, non ambulat homo. Nihil enim differt dicere hominem ambulare,
vel hominem ambulantem esse. Qua're si hoc modo ubique, et eius, quæ est,
possibile esse, negatio erit possibile non esse, sed non ea quæ est,
non possibile esse. Videtur autem idem posse et esse et non esse. Omne
enim quod est possibile dividi, vel ambulare, et non ambulare, et non
dividi possibile est. Ratio autem est, quoniam omne quod sic possibile est, non
semper in actu est; quare inerit ipsi etiam negatio: potest enim et non
ambulare quod est ambulativum, et non videri quod est visibile. At vero
impossibile est de eodem oppositas veras esse affirmationes et
negationes. Non igitur eius quæ est, possibile esse, negatio est hæc,
possibile non esse. Contingit autem ex his, aut idem affirmare et negare
simul de eodem, aut non secundum esse vel non esse, quæ opponuntur,
fieri affirmationes et negationes. Si ergo illud impossibile est, hoc
erit magis eligendum. aliquid inesse vel non inesse alteri, et hæ vocantur
de inesse, de quibus superius habitus est sermo; quædam vero
enunciantes modum compositionis prædicati cum subiecto, et hæ vocantur
modales, a principaliori parte sua, modo scilicet. Cum enim dicitur,
Socratem currere est possibile, non enunciatur cursus de Socrate, sed qualis
sit compositio cursus cum Socrate ἢ, scilicet possibilis. Signanter
autem dixi modum compositionis, quoniam modus in enunciatione positus
duplex est. Quidam enim determinat verbum, vel ratione significati ipsius
verbi, ut Socrates currit velociter, vel ratione temporis consignificati,
ut Socrates currit hodie; quidam autem determinat compositionem ipsam prædicati
cum subiecto; sicut cum dicitur, Socratem. currere est possibile. In
illis namque determinatur qualis cursus insit Socrati, vel quando; in hac
autem, qualis sit coniunctio cursus cum Socrate. Modi ergo non illi
qui rem verbi, sed qui compositionem determinant, modales
enunciationes reddunt, eo quod compositio veluti forma totius totam
enunciationem continet. 3. Sunt autem huiusmodi modi quatuor proprie
loquendo, scilicet possibile et impossibile, necessarium et
contingens.-Verum namque et falsum, licet supra compositionem cadant cum
dicitur, Socratem currere est uerum, vel hominem. esse quadrupedem est.
falsum, attamen modificare
Cap. Ed. c: de Socrate. Ed. c et . promitur.
facit: primo, movendo quæstionem arguit ad partes; seproprie non videntur
compositionem ipsam. Quia modificari
proprie dicitur al'quid, quanlo redditur aliuale, non quando fit secundum
suam substantiam. Compositio autem quando dicitur vera, non aliqualis
propon'tur *, sed quod est: nihil enim aliud est dicere, Socratzm
currere. est erum, quam quod compos:tio cursus cum Socrate est. Et similiter
quando est falsa, nihil aliud dicitur, quam quod non
est: nam nihil aliud est dicere, Socratzm currere est falsum, quam quod
compositio cursus cum Socrate non est. Quando vero compositio
dicitur possibilis aut contingens, iam non ipsam esse, sed ipsam
al'qualem esse dicimus: cum s'quidem dicitur, Socratzm currere
est possibile, non substantificamus compositionem cursus cum
Socrate, sed qual'ficamus, asserentes illam esse possibilem. Unde
Aristoteles hic modos proponens, veri et falsi nullo modo meminit, licet
infra verum et non verum inferat, propter causam ibi assignandam. 4. Et
quia enunciatio modalis duas in se continet compositiones, alteram inter partes
dicti, alteram inter dictum et modum, intelligendum est eam compositionem
modificari, idest, quæ est inter partes dicti, non eam quæ est
inter modum et dictum. Quod sic perpendi potest. Huius enunciat'on's
modalis, Socratzm esse album est. possibile, duæ sunt partes ; altera est,
Socratzm esse album, altera est, possibile. Prima dictum vocatur, eo.quod
est id quod dicitur per eius indicativam, scilicet, Socrates est a!bus:
qui enim profert hanc, Socratzs est albus, nihil aliud dicit nisi
Socratem esse album: secunda vocatur modus, eo quod modi adiectio est.
Prima compositionem quandam in se continet ex Socrate et albo; secunda
pars primæ opposita, compos'tionem aliquam sonat ex dicti compos:tione
et modo. Prima rursus pars, licet omnia habeat propria, subiectum
scilicet, et prædicatum, copulam et compositionem, tota tamen subiectum est
modalis enunciationis; secunda autem est prædicatum. Dicti ergo compositio
subiicitur et modificatur in enunciatione modali. Qui enim dicit,
Socratem esse album est possibile, non significat qualis est
se, coniunctio possibilitatis cum hoc dicto, Socrat»m esse album,
sed insinuat qualis sit compositio partium dicti inter
scilicet albi cum Socrate, scilicet quod est compositio
possibilis. Non dicit igitur enunciatio modalis
aliquid inesse, vel non inesse, sed dicti potius modum enunciat. Nec
proprie componit secundum significatum, quia compositionis non est
compositio, sed rerum compositioni modum apponit. Unde nihil aliud est
enunciatio modalis, quam enunciatio dicti modificativa. 5. Nec propterea censenda est
enunciatio plures modalis, quia omnia duplicata habeat: quoniam unum modum de
unica compositione enunciat, licet illius compositionis plures sint partes.
Plura enim illa ad dicti compositionem concurrentia, veluti plura ex quibus fit
unum subiectum concurrunt, de quibus dictum est supra quod
enunciationis unitatem non impediunt. Sicut nec cum dicitur, domus
est: alba, est enunciatio multiplex, licet domus ex multis consurgat
partibus. 6. Merito autem est, post enunciationes de inesse, de
modalibus tractandum, quia partes naturaliter sunt toto priores, et
cognitio totius ex partium cognitione dependet; et specialis sermo de his
est habendus, quia proprias habet difficultates. Notavit quoque
Aristoteles in textu multa. Horum ordinem scilicet, cum dixit: His vero
determinatis etc. modos qui et quot sunt, cum eos expressit et inseruit;
variationem eiusdem modi, per affirmationem et negationem, cum dixit: Possibile
et non possibile, contingens et non conlingens; necessitatem cum
addidit: Habent enim multas dubitationzs proprias etc. 7. Deinde
cum dicit: Nam si eorum etc., exequitur tractatum de oppositione
modalium, Et circa hoc duo cundo, determinat veritatem ; ibi: Contingit
autzm etc. Est autem dubitatio: an in
enunciationibus modalibus fiat contradictio negatione apposita ad verbum dicti,
quod dicit rem; an non, sed potius negatione apposita ad modum qui
qualificat. Et primo, arguit ad partem affirmativam, quod scilicet
addenda sit negatio ad verbum ; secundo, ad partem negativam, quod non
apponenda sit negatio ipsi verbo; ibi: Vid»tur autzm etc. 8.
Intendit ergo primo tale argumentum; si complexorum contradictiones attenduntur
penes esse et non esse (ut patet inductive in enunciationibus
substantivis de secundo adiacente et de tertio, et in adiectivis),
contradictionesque omnium hoc modo sumendæ sunt, contradictoria huius,
possibile esse, erit, possibile mon esse, et non illa, non possibile
esse. Et consequenter apponenda est negatio verbo, ad sumendam oppositionem in
modalibus. Patet consequentia, quia cum dicitur, possibile esse, et,
possibile non esse, negatio cadit supra esse. Unde dicit: Nam si
eorum, qua» complectuntur, idest complexorum, illæ sibi invicom. sunt oppositæ
contradictionzs, quæ secundum esse vel non esse disponuntur, idest in
quarum una affirmatur esse, et in altera negatur. 9. Et
subdit inductionem, inchoans. a secundo adiacente: ut, eius enunciationis quæ
est, esse hominem, idest, bomo est, negatio est, non esse hominem, ubi
verbum negatur, idest, bomo non est; et non est eius negatio ea quæ est,
esse non hominem, idest, non bomo est: hæc enim non est
quæ negativa, sed affrmativa de subiecto infinito, simul est vera
cum illa prima, scilicet, homo est. ro. Deinde prosequitur inductionem in
substantivis de tertio adiacente: ut, eius quæ est, esse album
hominem, idest, ut, illius enunciationis, homo est albus, negatio
est, non esse album hominem, ubi verbum negatur, idest, homo non est
albus; et non est negatio illius ea, quæ est, esse;non album hominem,
idest, homo est non albus. Hæc enim non est. negativa, sed affirmativa de
prædicato infinito. - Et quia istæ duæ affirmativæ de prædicato finito et
infinito non possunt de eodem verificari, propterea quia sunt de
prædicatis oppositis, posset aliquis credere quod sint contradictoriæ; et ideo
ad hunc errorem tollendum interponit rationem probantem quod hæ duæ
non sunt contradictoriæ. Est autem ratio talis. Contradictoriorum talis est
natura quod de omnibus aut dictio, idest affirmatio aut negatio
verificatur. Inter contradictoria siquidem nullum potest inveniri
medium; sed hæ duæ enunciationes, scilicet, est bomo albus, et, est
bomo mon albus, sunt contradictoriæ per se; ergo sunt talis naturæ quod
de omnibus altera verificatur. Et sic, cum de ligno sit falsum dicere,
est homo albus, erit verum dicere de eo, scilicet ligno, esse non album
hom'nem, idest, lignum est homo non albus. Quod est manifeste falsum: lignum
enim neque est homo albus, neque est homo non albus. Restat ergo ex
quo utraque est simul falsa de eodem, quod non sit inter eas
contradictio: Sed contradictio fit quando negatio apponitur verbo.
1r. Deinde prosequitur inductionem in enunciationibus adiectivi verbi,
dicens: Quod si boc modo, scilicet supradicto, accipitur contradictio,
et. im quantiscunque enuncialionibus esse non ponitur
explicite, idem faciet! quoad oppositionem sumendam, id quod pro esse ;dicitur
(idest verbum adiectivum, quod locum ipsius esse tenet, pro quanto,
propter eius veritatem in se inclusam, copulæ officium facit), ut eius
enunciationis quæ est, bomo ambulat, negatio est, non ea quæ dicit, mom
bomo ambulat (hæc enim est affirmativa de subiecto infinito), sed negatio
illius est, bomo non ambulat ; sicut et in illis. de verbo substantivo,
negatio verbo addenda erat. Nihil enim Num. 14. Num.
13. CAP. XII, LECT. VIII differt dicere verbo adiectivo, homo
ambulat, vel substantivo, homo est ambulans. 12. Deinde ponit secundam
partem inductionis dicens: Et si boc modo in omnibus sumenda est
contradictio, scilicet; apponendo negationem ad esse, concluditur quod et
eius enunciationis, quæ dicit, possibile esse, negatio est, possibile non
esse, et non illa quæ dicit, non possibile esse. Patet conclusionis sequela: quia in illa,
possibile non esse, negatio apponitur verbo; in ista autem non.
Dixit autem in principio huius rationis: Eorum quæ complectuntur,
idest complexorum, contradictiones fiunt secundum esse et non esse, ad
differentiam incomplexorum quorum oppositio non fit negatione dicente mon
107 non semper actu est, sequitur quod sit possibile non esse. Quod enim non semper est, potest
non esse. Bene ergo intulit Aristoteles ex his duobus: Quare inerit 'etiam
negatio possibilis et non solum affirmatio; potest igitur et non.
ambulare, quod est ambulabile, et non. videri, quod est visibile. Maior
vero subiungitur, cum ait: 4t vero impossibile est. de eodem. veras esse
contradictiones. Infertur quoque ultimo conclusio: Nom est igitur ista
(scilicet, possibile non esse) negatio ilius, quæ dicit, possibile esse:
quia sunt simul veræ de eodem. - Caveto autem ne ex isto textu putes
possibile, ut est modus, debere semper accipi pro possibili ad
utrumlibet: quoniam hoc infra declarabitur esse falsum; sed considera quod
satis fuit intenesse, sed ipsi incomplexo apposita, ut, homo, et, non
bomo, legit, et, non legit. 153. Deinde cum dicit: Videtur
autem. idem. etc., arguit ad quæstionis partem negativam (scilicet quod
ad sumendam contradictionem in modalibus non addenda est negatio verbo), tali
ratione. Impossibile est duas contradictorias esse simul veras de eodem; sed
supradictæ, scilicet, possibile esse, et, possibile non esse, simul
verificantur de eodem; ergo istæ non sunt contradictoriæ: igitur
contradictio modalium non attenditur penes verbi negationem. Huius rationis primo ponitur in littera minor
cum sua probatione; secundo maior; tertio conclusio. Minor quidem
cum dicit: Videtur autem. idem. possibile esse, el, non possibile esse.
Sicut verbi gratia, omne quod est possibile dividi est etiam possibile
non dividi, et quod est possibile ambulare est etiam possibile non
ambulare. Ratio autem. huius
minoris est, quoniam omne quod sic possibile est (sicut, scilicet, est
possibile ambulare et dividi), non semper actu esi: non enim semper
actualiter ambulat, qui ambulare potest; nec semper actu dividitur,
quod dividi potest. Quare inerit etiam negatio possibilis, idest,
ergo non solum possibilis est affirmatio, sed etiam negatio
eiusdem. - Adverte quod quia possibile est multiplex, ut infra dicetur,
ideo notanter Aristoteles addidit ly sic, assumens, quod sic possibile est, nom
semper actu est. Non enim de omni possibili verum
est dicere quod non semper UTE. TNT ΞΜ D
»w actu est, sed de aliquo, eo scilicet quod est sic
possibile, quemadmodum ambulare et dividi. Nota ulterius quod quia tale
possibile habet duas conditiones, scilicet quod potest actu esse et quod
non semper actu est, sequitur necessario quod de eo simul est verum
dicere, possibile esse, et, non esse. Ex eo enim quod potest actu esse, sequitur quod
sit possibile esse; ex eo vero quod denti declarare quod in modalibus non
sumitur contradictio ex verbi negatione, afferre instantiam in una modali, quæ
continetur sub modalibus de possibili. 14. Deinde cum dicit: Contingit
autem unum ex bis εἴς.» determinat veritatem huius dubitationis. Et quia
duo petebat, scilicet, an contradictio modalium ex negatione verbi
fiat an non, et, an potius ex negatione modi; ideo primo, determinat
veritatem primæ petitionis, quod scilicet contradictio harum non fit negatione
verbi; secundo, determinat veritatem secundæ petitionis, quod scilicet
fiat modalium contradictio ex negatione modi; ibi: Est ergo negatio
etc. - Dicit ergo quod propter supradictas rationes evenit unum ex his
duobus, quæ conclusimus determinare, aut idem ipsum, idest, unum et idem dicere,
idest affirmare et negare simul de eodem: idest, aut quod duo
contradictoria simul verificantur de eodem, ut prima ratio conclusit; aut
affirmationes vel negationes modalium, quæ opponuntur contradictorie,
fieri nom secundum. esse vel non 6556, idest, aut contradictio modalium
non fiat ex negatione verbi, ut secunda ratio conclusit. Si ergo illud
est impossibile, scilicet quod duo contradictoria possunt simul
esse vera de eodem, boc, scilicet quod contradictio modalium non fiat
secundum verbi negationem, erit magis eligendum. Impossibilia enim semper
vitanda sunt. Ex ipso autem modo loquendi innuit quod utrique earum
aliquid obstat. Sed quia primo obstat impossibilitas quæ acceptari
non potest, secundo autem nihil aliud obstat nisi quod negatio supra
enunciationis copulam cadere debet, si negativa fieri debet enunciatio,
et hoc aliter fieri potest quam negando dicti verbum, ut infra
declarabitur; ideo hoc secundum, scilicet quod contradictio modalium
non fiat secundum negationem verbi, eligendum est: primum vero est omnino
abiiciendum. Lect. seq.
(Canp.. CargrANr lect. vi) DE NEGATIONE APPONENDA NON VERBO SED MODIS IN
CONTRADICTIONIBUS PROPOSITIONUM MODALIUM . ' Ἔστιν ἄρα ἀπόφασις
τοῦ δυνατὸν εἶναι τὸ μὴ δυνατὸν εἶναι. Ὁ χαὶ δ᾽ αὐτὸς
λόγος καὶ περὶ τοῦ ἐνδεχόμενον εἶναι" καὶ 13e τούτου ἀπόφασις τὸ μὴ ἐνδεχόμενον
εἶναι, ἐπὶ τῶν ἄλλων δὲ ὁμοιοτρόπως, οἷον ἀναγκαίου
τε καὶ ἀδυνάτου. Γίνεται γάρ, ὥσπερ ἐπ᾽ ἐκείνων τὸ εἶναι καὶ τὸ μὴ εἶναι
προσθέσεις,) τὰ δ᾽ ὑποχείμενα πράγματα, τὸ μὲν λευχόν, τὸ δὲ ἄνθρωπος:
οὕτως ἐνταῦθα τὸ μὲν εἶναι xai μὴ εἶναι, ὡς ὑποχείμενον γίνεται, τὸ δὲ
δύνασθαι καὶ τὸ ἐνδέχεσθαι, προσθέσεις διορίζουσαι, ὥσπερ ἐπ᾽ ἐχείνων
τὸ εἶναι καὶ μὴ εἶναι, τὸ ἀληθὲς xa τὸ ψεῦδος, ὁμοίως αὖται ἐπὶ τοῦ εἶναι
δυνατὸν χαὶ εἶναι οὐ δυνατόν. Τοῦ δὲ δυνατὸν μὴ εἶναι ἀπόφασις οὐ τὸ
οὐ δυνατὸν εἶναι, ἀλλὰ τὸ οὐ δυνατὸν μὴ εἶναι, καὶ τοῦ δυνατὸν εἶναι
οὐ τὸ δυνατὸν μὴ εἶναι, ἀλλὰ τὸ μιὴ δυνατὸν εἶναι. Διὸ καὶ Hs
Pp μὰ ἂν δόξειαν ἀλλήλαις αἱ τοῦ δυνατὸν εἶναι χαὶ δυνατὸν μὴ εἶναι’ τὸ γὰρ
αὐτὸ δυνατὸν εἶναι καὶ μὴ εἶναι" οὐ γὰρ ἀντιφάσεις ἀλλήλων αἱ τοιαῦται,
τὸ δυνατὸν εἶναι καὶ δυνατὸν μὴ εἶναι" Est ergo negatio eius quæ
est, possibile esse, ea quæ est ' Seq. cap. xir. non possibile esse.
Eadem quoque ratio est et in eo quod est contingens esse: etenim negatio
eius est, non contingens esse; et in aliis quoque simili modo, ut
in necessario et impossibili. Fiunt enim quemadmodum in illis, esse
et non esse, appositiones, subiectæ vero res, hoc quidem album, illud
vero homo: eodem quoque modo hoc in loco, esse quidem et non esse, ut subiectum
fit, posse vero et conüngere appositiones sunt, determinantes (quemadmodum in
illis esse et non esse) veritatem et falsitatem, similiter hæ in eo quod
est, esse possibile et esse non possibile. Eius vero, quæ est,
possibile non esse, negatio est non ea quæ est, non esse, sed ea quæ est,
non possibile; et eius quæ est, possibile esse, non ea quæ est,
possibile non esse, sed ea quæ est, non possibile esse.
Quare et sequi sese invicem videbuntur, possibile esse et possibile
non esse. Idem enim possibile esse et non esse. ἀλλὰ τὸ δυνατὸν εἶναι
χαὶ μὴ δυνατὸν εἶναι οὐδέποτε ἐπὶ τοῦ αὐτοῦ ἅμα ἀληθεύονται" ἀντίκεινται
Te, οὐδέ γε τὸ δυνατὸν μὴ εἶναι χαὶ οὐ δυνατὸν pen εἶναι οὐδέποτε ἅμα ἐπὶ
τοῦ αὐτοῦ ἀληθεύονται. Ὁμοίως δὲ xài τοῦ ἀναγκαῖον εἶναι ἀπόφασις οὐ τὸ
ἀναγκαῖον μὴ εἶναι, ἀλλὰ τὸ μὴ ἀναγκαῖον εἶναι" τοῦ δὲ ἀναγχαῖον μὴ
εἶναι, τὸ per ἀναγκαῖον μὴ εἶναι. Καὶ τοῦ al θελα εἶναι οὐ τὸ ἀδύνατον μὴ
εἶναι, ἀλλὰ τὸ μὴ ἀδύνατον εἶναι: τοῦ δὲ ἀδύνατον μὴ εἶναι τὸ οὐκ ἀδύνατον
μὴ εἶναί. Καὶ καθόλου 3£, ὥσπερ εἴρηται, τὸ μὲν εἶναι καὶ μὴ εἶναι
δεῖ τιθέναι, ὡς τὰ ὑποκείμενα, κατάφασιν δὲ Non enim contradictiones sunt
sibi invicem huiusmodi, possibile esse et possibile non esse; sed possibile
esse et non possibile esse, nunquam simul sunt in eodem veræ sunt:
opponuntur enim : neque ea quæ . est, possibile non esse et non possibile
non esse, nunquam simul in eodem veræ sunt. Similiter autem et eius. quæ
est, necessarium est, negatio non est quæ est, necessarium non esse, sed
ea quæ est, non necessarium esse; eius vero quæ est, necessarium non
esse, ea quæ est, non necessarium non esse. Et eius quæ est, impossibile
esse, non ea quæ est, impossibile non esse, sed hæc, non impossibile
esse; eius vero quæ est, impossibile non esse, ea quæ est, non
impossibile non esse. A Universaliter vero, quemadmodum dictum est,
esse quidam et xal ἀπόφασιν ταῦτα ποιοῦντα πρὸς τὸ εἶναι καὶ
μὴ εἶναι συντάττειν. Καὶ ταύτας οἴεσθαι χρὴ εἶναι τὰς ἀντικειμένας
φάσεις" δυνατόν, οὐ δυνατόν" ἐνδεχόμενον; οὐχ ἐνδεχόμενον: ἀδύνατον,
οὐχ ἀδύνατον, ἀναγκαῖον, οὐχ ἀναγκαῖον" ἀληθές, οὐχ ἀληθές.
qpeterminat ubi ponenda sit negatio ad assumenΞΔ dam modalium
contradictionem. Et circa hoc (ἡ [quatuor facit: primo, determinat
veritatem I. summarie; secundo, assignat determinatæ veritatis rationem,
quæ dicitur rationi ad oppo Num. seq. Num. . Num.
. Ed. c: et verba non addenda in ea declar. situm
inductæ; ibi: Fiunt enim etc.; tertio, explanat eamdem veritatem in omnibus
modalibus; ibi: Eius vero etc.; quarto, universalem regulam concludit;
ibi: Universaliter vero etc. Quia igitur negatio aut verbo aut modo
apponenda est, et quod verbo non addenda est, declaratum est per locum a
divisione; concludendo determinat: Es! ergo negatio eius quæ est
possibile esse, ea quæ est non possibile esse, in qua negatur modus. Et eadem est ratio in
enunciationibus de contingenti. Huius enim, quæ est, contingens esse,
negatio est, non contingens esse. Et in alis, scilicet de mecesse et
impossibile idem est iudicium. liones Deinde
etc., cum subdit dicit: Fiust enim in illis
apposihuius veritatis rationem talem. Ad sumendam contradictionem inter
aliquas enunciationes et non esse oportet ponere quemadmodum
subiecta, negationem vero et affirmationem hæc facientem, ad
esse non esse apponere. Et
has oportet putare esse oppositas dictiones: possibile non possibile;
contingens non contingens; impossibile non impossibile; necessarium
non necessarium; verum non verum. oportet ponere negationem super
appositione, idest coniunctione prædicati cum subiecto; sed in modalibus
appositiones sunt modi; ergo in modalibus negatio apponenda est modo, ut fiat
contradictio. Huius rationis, maiore subintellecta, minor ponitur in
littera per secundam similitudinem ad illas de inesse. Et dicitur quod
quemadmodum in illis enunciationibus de imesse appositiones, idest
prædicationes, sunt esse et non esse, idest verba significativa esse vel
non esse (verbum enim semper est nota eorum quæ de altero prædicantur),
subiective vero appositionibus res sunt, quibus esse vel non esse
apponitur, ut album, cum dicitur, album est, vel homo, cum dicitur, homo
est; eodem modo hoc in loco in modalibus accidit: esse quidem subiectum
fit, idest dictum sunt. significans esse vel non esse subiecti
locum tenet ; contingere vero et posse oppositiones, idest modi,
prædicationes Et quemadmodum in illis de inesse penes esse et non
esse veritatem vel falsitatem determinavimus, ita in istis modalibus
penes modos. Hoc est enim quod
subCAP. XII, LECT. IX dit, determinantes, scilicet, fiunt ipsi modi
veritatem, quemadmodum in illis esse et non esse, eam determinat. 109 negatio, possibile non esse, sit illa, non
possibile non esse: : Mu præced. 3. Et sic patet responsio ad argumentum in
oppositum primo adductum *, concludens quod negatio verbo apponenda sit,
sicut illis de inesse. Dicitur enim quod cum modalis enunciet modum de
dicto sicut enunciatio de inesse, esse vel esse tale, puta esse album de
subiecto, eumdem locum tenet modus hic, quem ibi verbum; et
consequenter super idem proportionaliter cadit negatio hic et ibi. Eadem
enim, ut dictum est, proportio est modi ad dictum, quæ est verbi ad
subiectum. - Rursus cum veritas et falsitas afhrmationem et negationem
sequantur, penes idem. attendenda est affirmatio vel negatio
enunciationis, et veritas vel falsitas eiusdem. Sicut autem in
enunciationibus de igesse veritas vel falsitas esse vel non esse
consequitur, ita in modalibus modum. Illa namque modalis est vera quæ sic
modificat dictum sicut dicti compositio patitur, sicut illa de imesse est
vera, quæ sic significat esse sicut est. Est ergo negatio modo hic
apponenda, sicut ibi verbo, cum sit eadem utriusque vis quoad veritatem
et falsitatem enunciationis. Adverte quod modos, appositiones, idest, prædicationes
vocavit, sicut esse in illis de inesse, intelligens per modum totum
prædicatum enunciationis modalis, puta, est possibile. In cuius signum
modos ipsos verbaliter protulit dicens: Contingere vero et posse appositiones
sunt. Contingit enim et potest, totum prædicatum modalis continent. 4.
Deinde cum dicit: Eius vero quod est possibile est non esse etc.,
explanat determinatam veritatem in omnibus modalibus, scilicet de
possibili, et necessario, et impossibili. Contingens convertitur cum possibili.
Et quia quilibet modus facit duas modales affirmativas, alteram habentem dictum
affirmatum *, et alteram habentem dictum negatum; ideo explanat in
singulis modis quæ cuiusque affirmationis negatio sit. Et primo in illis
de possibili. Et quia primæ affirmativæ de possibili (quæ scilicet
habet dictum affirmatum) scilicet possibile esse, negatio assignata fuit,
non possibile esse; ideo ad reliquam affirmativam de possibili transiens ait:
Eius vero, quæ est possibile non esse (ubi dictum negatur) megatio est mom
possibile non esse. Et hoc consequenter probat per hoc quod
contradictoria huius, possibile non esse, aut est, possibile esse, aut illa,
quam diximus, scilicet, non possibile non esse. Sed illa, scilicet,
possibile esse, non est eius contradictoria. Non enim sunt sibi invicem
contradicentes, possibile esse, et, possibile non esse, quia possunt
simul esse veræ. Unde et sequi sese invicem putabuntur: quoniam, ut
supra dictum fuit, idem est - possibile esse, et - non esse, et
consequenter sicut ad, posse esse, sequitur, posse non esse, ita e contra
ad, posse non esse, sequitur, posse esse. Sed contradictoria
illius, possibile esse, quæ non potest simul esse vera est, non possibile
esse: hæ enim, ut dictum est, opponuntur. Remanet ergo quod huius
neret. hæ namque simul nunquam sunt veræ vel falsæ. Dixit quod
possibile esse et non esse sequi se invicem putabuntur, et non dixit quod se
invicem consequuntur: quia secundum veritatem universaliter non sequuntur
se, sed particulariter tantum, ut infra dicetur; propter quod putabitur
quod simpliciter se invicem sequantur. Deinde decarat hoc idem in illis de
necessario. Et primo, in affirmativa habente dictum affirmatum, dicens:
Similiter eius quæ est, necessarium. esse, megatio non est ea, quæ
dicit necessarium. mon esse, ubi modus non negatur, sed ea quæ est,
non necessarium. esse. Deinde subdit de affirmativa de necessario habente
dictum negatum, et ait: Eius vero, quæ est, necessarium. mom esse,
megatio est ea, quæ dicit, mon necessarium. mon. esse.
Deinde transit ad illas de impossibili, eumdem ordinem servans, et inquit: Et
eius, quæ dicit, impossibile esse, negatio non est ea quæ dicit,
impossibile non esse, sed, non impossibile esse: ubi idm modus negatur. Alterius vero afhrmativæ, quæ est, impossibile
non es$e, negatio est ea quæ dicit, won impossibile non esse.
Et sic semper modo negatio addenda cst. 5. Deinde cum dicit:
Unmiversaliter vero etc., concludit regulam universalem dicens quod,
quemadmodum dictum est, dicta importantia esse et non esse oportet ponere
in modalibus ut subiecta, negationem vero et affirmationem hoc,
idest contradictionis oppositionem, facientem, oportet apponere tantummodo ad
suum eumdem modum, non ad diversos modos. Debet namque illemet modus
negari, qui prius affirmabatur, si contradictio esse debet. Et
exemplariter: explanans quomodo hoc fiat, subdit: Et oportet putare bas
esse oppositas dictiones, idest affirmationes et negationes in modalibus,
possibile et non possibile, contingens et mon contingens. Item cum dixit
negationem alio tantum modo ad modum apponi debere, non exclusit
modi copulam, sed dictum. Hoc enim est singulare in modalibus quod eamdem
oppositionem facit, negatio modo addita, et eius verbo. Contradictorie enim
opponitur huic, possibile est esse, non solum illa, non possibile
est esse, sed ista, possibile non est esse. Meminit autem modi potius,
et propter hoc quod nunc diximus, ut scilicet insinuaret quod negatio verbo
modi postposita, modo autem præposita, idem facit ac si modali verbo
præponeretur, et quia, cum modo numquam caret modalis enunciatio, semper
negatio supra modum poni potest. Non autem sic de eius verbo: verbo enim
modi carere contingit modalem, ut cum dicitur, Socrates currit
necessario; et ideo semper verbo negatio aptari potest. - Quod autem in
fine addidit, verum et non verum, insinuat, præter quatuor prædictos
modos, alios inveniri, qui etiam compositionem enunciationis determinant,
puta, verum et non verum, falsum et non falsum: quos tamen inter
modos supra non posuit, quia, ut declaratum fuit, non proprie
modificant. (Canp. CareTANI lect. vir) DE PROPOSITIONUM MODALIUM
CONSEQUENTIIS Καὶ αἱ ἀκολουθήσεις δὲ κατὰ λόγον γίνονται οὕτω τιθεμένοις: τῷ μὲν γὰρ δυνατὸν εἶναι τὸ ἐνδέχεσθαι εἶναι, καὶ τοῦτο ἐχείνῳ ἀντιστρέφει, καὶ τὸ μὴ ἀδύνατον εἶναι χαὶ τὸ Un ἀναγκαῖον εἰναι" τῷ δὲ δυνατὸν μὴ εἶναι χαὶ ἐνδεχόμενον μὴ εἶναι τὸ μὴ ἀναγκαῖον μὴ εἶναι καὶ τὸ οὐκ ἀδύνατον μὴ εἶναι, τῷ δὲ μὴ δυνατὸν εἶναι καὶ y ἐνδεχόμενον εἶναι τὸ ἀναγχαῖον νὴ Ξἶναι xa τὸ ἀδύνατον εἰναι; τῷ δὲ μὴ δυγατὸν μὴ εἶναι, xal μὴ ἐνδεχόμενον [um εἰναι τὸ ἀναγκαῖον εἶναι καὶ τὸ ἀδύνατον μὴ εἶναι. Θεωρείσθω δὲ ἐκ ἧς ὑπογραφῆς ὡς λέγομεν, LN δυνατὸν εἶναι, ἐνδεχόμενον εἶναι; οὐκ ἀδύνατον εἶναι, οὐκ ἀναγκαῖον εἶναι; δυνατὸν μὴ εἶναι, ἐνδεχόμενον μὴ εἶναι; οὐχ αδυνατον μὴ εἰναι» οὐχ ἀναγκαῖον μὴ εἶναι, οὐ δυνατὸν εἶναι. οὐκ ἐνδεχόμενον εἶναι. ἀδύνατον εἶναι. ἀναγκαῖον μὴ εἶναι. οὐ δυνατὸν μὴ εἶναι. οὐχ ἐνδεχόμενον μὴ εἶναι. ἀδύνατον Un εἶναι. ἀναγκαῖον εἰναι.
Consequentiæ vero secundum rationem fiunt cum ita 'Cap.xm.
ponuntur illam enim quæ est, possibile esse, sequitur illa quæ est,
contingit esse, et hæc illi convertitur, et, non impossibile esse
et non necessarium esse; illam vero non quæ est, possibile
non esse, et, contingens non esse, ea quæ est, non necesse non esse, et,
non impossibile esse: illam autem quæ est, non possibile
esse, et, non contingens esse, ea quæ est, necessarium non esse, et
impossibile esse: illam vero quæ est, non possibile non esse, et, non
contingens non esse, ea quæ est, necesse est esse, et, impossibile non
esse. Consideretur autem ex subscriptione quemadmodum dicimus: Possibile
est esse, Contingens est esse, Non impossibile est esse, Non
necessarium est esse, Possibile est non esse, Contingens est non
esse, Non impossibile est non esse, Non possibile est esse.
Non contingens est esse. Impossibile est esse. Necessarium est non
esse. Non possibile est non esse. Non contingens est non
esse. Impossibile est non esse. Non necessarium est non esse,
Necessarium est esse. Τὸ μὲν οὖν ἀδύνατον καὶ οὐκ ἀδύνατον τῷ ἐνδεχομένῳ χαὶ δυνατῷ καὶ οὐχ ἐνδεχομένῳ καὶ μὴ δυνατῷ ἀχολουθεῖ μὲν ἀντιφατικῶς, ἀντεστραμμένως δέ: τῷ μὲν γὰρ δυνατὸν εἶναι ἡ ἀπόφασις τοῦ ἀδυνάτου ἀκολουθεῖ, τῇ δὲ ἀποφάσει ἡ κατάφασις. Τῷ γὰρ οὐ δυνατὸν εἶναι τὸ ἀδύνατον εἶναι: κατάφασις γὰρ τὸ ἀδύνατον εἶναι, τὸ δ᾽ οὐκ ἀδύνατον εἶναι ἀπόφασις. δ" δ᾽ ἀναγκαῖον πῶς, ὀπτέον. Φανερὸν δὴ ὅτι οὐχ οὕ-, ε:ὰ e H, τως σεις γάρ, ἔχει, ἀλλ᾽ χωρίς" ἐστιν » αἱ, ἐναντίαι ἕπονται" αἱ δ᾽ ἀντιφά- kJ ἀπόφασις τοῦ ἀνάγχη μὴ εἶναι τὸ οὐχ ἀνάγκη εἶναι: ἐνδέχεται γὰρ ἀληθεύεσθαι ἐπὶ τοῦ M] 5,, ὁ Ζ » IB,,
5 αὐτοῦ ἀμφοτέρας" τὸ qup ἀναγκαῖον μη εἶναι οὐχ ἀναγκαῖον εἶναι. ὅτι Αἴτιον δὲ τοῦ μὴ ἀκολουθεῖν τὸ ἀναγκαῖον ὁμοίως τοῖς ἑτέροις, ἐναντίως τὸ ἀδύνατον τῷ ἀναγκαίῳ ἀποδίδοται, τὸ αὐτὸ δυνάμενον. Εἰ γὰρ ἀδύνατον εἶναι, ἀναγκαῖον τοῦτο οὐχ εἶναι, ἀλλὰ μὴ εἶναι" εἰ δὲ ἀδύνατον μὴ εἶναι, τοῦτο ἀνάγχη εἶναι: ὥστε εἰ ἐχεῖνα ὁμοίως τῷ δυνατῷ καὶ μή, ταῦτα ἐξ ἐναντίας, ἐπεὶ οὐ σημαίνει γε ταὐτὸν τό τε ἀναγκαῖον xai τὸ ἀδύνατον, ἀλλ᾽ ὥσπερ εἴρηται, ἀντεστραμμένως. ᾿ἀδύνατον οὕτως κεῖσθαι τὰς τοῦ ἀναγκαίου ἀντιφάPS ; Ξ σεις; τὸ μὲν γὰρ ἀναγκαῖον εἶναι δυνατὸν εἶναι" εἰ N γὰρ μή; ἡ ἀπόφασις ἀκολουθήσει: ἀνάγκη γὰρ ἢ φάναι ἢ ἀποφάναι: ὥστ᾽ εἰ μὴ δυνατὸν εἶναι, ἀδύνατον εἶναι: ἀδύνατον ἄρα εἶναι τὸ ἀναγκαῖον εἶναι, ὅπε ἄτοπον. ᾿Αλλὰ μὴν τῷ γε δυνατὸν εἶναι τὸ οὐχ ἀδύνατον εἶναι ἀκολουθεῖ, τούτῳ δὲ τὸ μὴ ἀναγκαῖον εἶναι: docs συμβαίνει τὸ ἀναγχαῖον εἶναι μὴ ἀναγxatov εἶναι, ὅπερ ἄτοπον. ᾿Αλλὰ μὴν οὐδὲ τὸ ἀναγκαῖον εἶναι ἀχολουθεῖ τῷ δυνατὸν εἶναι. οὐδὲ τὸ ἀναγχαῖον μὴ εἶναι: τῷ μὲν γὰρ duo. ἐνδέχεται συμβαίνειν, τούτων δὲ ὁπότερον ἂν ἀληθὲς ἥ, οὐκέτι ἔσται ἐκεῖνα ἀληθῆ. "Apa γὰρ δυγατὸν εἶναι καὶ μὴ εἶναι" εἰ δ᾽ ἀνάγκη εἶναι 7) μὴ Hæ igitur, impossibile,
et, non impossibile, eam quæ est, contingens, et possibile, et non
contingens, et non possibile sequuntur quidem contradictorie, sed
conversim. Eam enim quæ est, possibile esse, negatio
impossibilis sequitur, quæ est, non impossibile esse: negationem
vero affirmatio. Illam enim, non possibile esse, ea quæ est, impossibile
esse: affirmatio enim est, impossibile esse; non impossibile vero,
negatio. Necessarium autem quemadmodum se habeat, considerandum est.
Manifestum est autem quod non eodem modo se habet, sed contrariæ
sequuntur, contradictoriæ autem sunt extra. Non enim est negatio. eius,
quæ est, necesse non esse, ea quæ est, non necesse esse: contingit
enim veras esse utrasque in eodem: quod enim est necessarium non
esse, non est necessarium esse. Causa autem huius est, cur non sequitur
necessarium cæteris similiter: quoniam contrarie, impossibile esse, necessario
redditur idem valens. Nam quod impossibile esse, necesse hoc non quidem
esse, sed potius non esse: quod vero impossibile non esse, hoc
necessarium esse. Quare si illa similiter sequuntur possibile, et,
non possibile: hæc ex opposito: quoniam non significant idem
necessarium et impossibile; sed (ut dictum est) conversim. Aut
certe impossibile est sic poni necessarii contradictiones. Nam quod
necessarium est esse, possibile est esse: nam si non, negatio
consequetur: necesse est enim aut affirmare, aut negare. Quare si non possibile
est esse, impossibile est esse. Igitur impossibile est esse quod necesse est
esse: quod est inconveniens. At vero illam quæ est, possibile esse, non
impossibile esse, sequitur: hanc vero, ea quæ est, non necessarium est
esse; quare contingit quod necessarium esse, non necessarium esse:
quod est inconveniens. At vero neque necessarium esse,
sequitur eam quæ est, possibile esse, neque ea quæ est, necessarium non
esse. Illi enim utraque contingit accidere: harum autem utralibet vera
fuerit, non erunt illa vera: simul enim possibile esse, et, non esse. Si vero
necesse esse, vel non esse, CAP. XIII, εἶναι, οὐκ ἔσται δυνατὸν ἄμφω.
Λείπεται τοίνυν τὸ οὐχ ἀναγκαῖον μὴ εἶναι ἀκολουθεῖν τῷ δυνατὸν εἶναι.
Τοῦτο γὰρ ἀχηθὲς xxl xxcvd τοῦ ἀναγκαῖον εἶναι. Καὶ qde αὕτη γίνεται ἀντίφασις
τῇ ἑπομένῃ τῷ οὐ δυνατὸν εἰναι" ἐχείνῳ vp ἀχολουθεῖ τὸ ἀδύνατον εἶνα!:
xal ἀναγκαῖον μὴ εἶναι, οὐ ἡ ἀπόφασις τὸ οὐχ ἀναγκαῖον μὴ εἶναι. ᾿Ακολουθοῦσί
τε ἄρα xal αὐται αἱ ἀντιφάσεις χατὰ τὸν εἰρημένον τρόπον, καὶ οὐδὲν ἀδύνατον
συμβαίνει τιθεμένων οὕτως. I. y ERN S (Q9 ;
Jo lium, hic determinare intendit de consequenD^ tradit veritatem; secundo,
movet quandam dubitationem circa determinata; ibi: Dubita Lect. seq. Num. 5. dun bit
autem etc. Circa primum duo facit: primo, ponit consequentias earum secundum
opinionem aliorum; secundo, examinando et corrigendo dictam opinionem,
determinat veritatem ; ibi: Ergo impossibile etc. 2. Quoad primum considerandum
est quod cum quiliLect. præced. bet modus faciat duas affirmationes, ut dictum
fuit *, et un ' *Lect. xi. Ed. c τος quabus-affirmationibus opponantur duæ negationes,
ut etiam dictum fuit in Primo ; secundum quemlibet modum fient
quatuor enunciationes, duæ scilicet affirmativæ et duæ negativæ. Cum
autem modi sint quatuor, effcientur sexdecim modales: quaternarius enim in
seipsum ductus sexdecim constituit. Et quoniam apud omnes, quælibet cuiusque
modi, undecumque incipias, habet unam tantum cuiusque modi se
consequentem, ideo ad assignandas consequentias modalium, singulas ex
singulis modis accipere oportet et ad consequentiæ ordinem inter se
adunare. 3. Et hoc modo fecerunt antiqui, de quibus inquit
Aristoteles: Consequentiæ vero. fiunt secundum infrascriptum ordinem,
antiquis ita. ponentibus. Formaverunt enim quaomittit se.
Averroes. tuor ordines modalium, in quorum quolibet omnes quæ se
consequuntur collocaverunt. - Ut autem confusio vitetur, vocetur, cum Averroe,
de cætero, in quolibet modo, affirmativa de De et modo, affirmativa
simplex ; afhrmativa autem de modo et negativa de dicto,
affirmativa declinata; negativa vero de modo et non dicto, negativa
simplex; negativa autem de utroque, megativa d:clinata: ita quod modi
affirmationem vel negationem simplicitas, dicti vero declinatio
denominet. - Dixerunt ergo antiqui quod affirmationem simplicem de
possibili, scilicet, possibile est esse, sequitur affirmativa simplex de
contingenti, Scilicet, contingens est esse (contingens enim
convertitur cum possibili); et negativa simplex de impossibili,
scilicet, non impossibile esse; et similiter negativa simplex
de necessario, scilicet, non necesse est esse. Et hic est primus ordo
modalium consequentium se. - In secundo au3 QE ecaftema- feih dixerunt quod
affirmativas declinatas de possibili et contingenti, scilicet, possibile
non esse, et, contingens non esse, sequuntur negativæ declinatæ de
necessario et impossibili, scilicet, non necessarium non esse, et,
non impossibile non esse.- In tertio vero ordine dixerunt quod
negativas simplices de possibili et contingenti, scilicet, non possibile esse,
non contingens esse, sequuntur afBrmativa declinata de necessario,
scilicet, necesse non esse, et affirmativa simplex de impossibili,
scilicet, impossibile esse. - In quarto demum ordine dixerunt quod
negativas declinatas de possibili et contingenti, scilicet, non possibile
non esse, et, non contingens non esse, sequuntur affirmativa simplex de
necessario, scilicet, necesse esse, et affirmativa declinata de
impossibili, scilicet, impossibile est non esse. 4. Consideretur autem ex
subscriptione appositæ figuræ, quemadmodum dicimus, ut clarius elucescat
depictum. non erit possibile utrunque. Relinquitur ergo non necessarium
non esse, sequi eam quæ est, possibile est esse. Hæc enim vera est, et de
necesse esse. Hæc enim fit contradictio eius, quæ sequitur illam quæ est, non
possibile esse: illam enim sequitur ea quæ est, impossibile esse,
cesse et, necesse non esse, cuius negatio est, non nenon
esse. Sequuntur igitur et hæ contradictiones secundum prædictum modum: et
nihil impossibile contingit sic positis. CONSEQUENTIÆ ENUNCIATIONUM
MODALIUM SECUNDUM QUATUOR ORDINES AB ANTIQUIS POSITÆ ET ORDINATÆ
Primus Ordo Possibile est esse Contingens est esse Non
impossibile est esse Non necessarium est esse Tertius Ordo
Non possibile est esse Non contingens est esse Impossibile est
esse Necessarium est non esse Secundus Ordo Possibile est non
esse Contingzens est non esse Non impossibile est non esse
Non necessarium est non esse Quartus Ordo Non possibile est non
esse Non contingens est non esse Impossibile est non esse
Necesse est esse Deinde cum dicit: Ergo impossibile et non impossibile
etc., examinando dictam op'nionem, determinat veritatem. Et circa hoc duo facit: quia primo examinat
consequentias earum de impossibili; secundo, illarum de necessario;
ibi: Necessarium. autem etc. Unde ex præmissa op' nione concludens et
approbans, dicit: Ergo ista, scilicet, impossibile, et, non impossibile,
sequuntur illas, scilicet, contingens et possibile, non contingens, et,
non possibile, sequuntur, inquam, coniradictoriz, idest ita ut contradictoriæ
de impossibili contradictorias de possibili et contingenti consequantur, sed
comversim, idest, sed non ita quod affirmatio affirmationem et negatio
negationem sequatur, sed conversim, scilicet, quod affirmationem negatio et
negationem affirmatio. Et explanans hoc ait: lllud enim quod est
possibile esse, idest affirmationem possibilis negatio sequitur
impossibilis, idest, non impossibile esse; negationem vero possibilis
affirmatio sequitur impossibilis. Illud enim quod est, non possibile
esse, sequitur ista, impossibile est esse ; hæc autem, scilicet,
impossibile esse, affirmatio est; illa vero, scilicet, non possibile
esse, negatio est; hic s'quidem modus negatur; ibi, non. Bene igitur dixerunt
antiqui in quolibet ordine quoad consequentias illarum de impossibili,
quia, ut in suprascripta figura apparet, semper ex affirmatione
possibilis negationem impossibilis, et ex negatione possibilis
affirmationem impossibilis inferunt. Deinde cum dicit: Necessarium autem.
etc., intendit examinando determinare consequentias de necessario.
Et circa hoc duo facit: primo examinat dicta antiquorum ; secundo,
determinat veritatem intentam; ibi: 4t vero neque necessarium etc. Circa
primum quatuor facit. Primo, declarat quid bene et quid male dictum sit ab
antiquis in hac re. - Ubi attendendum est quod cum quatuor sint
enunciationes de necessario, ut dictum est, differentes inter se sécundum
quantitatem et qualitatem, adeo ut unam integrent figuram oppositionis iuxta morem
illarum de ine$$£; duæ earum sunt contrariæ inter se, duæ autem illis
contrariis contradictoriæ, ut patet in hac figura. Necesse
esse Non necesse non esse Necesse Contrariæ
e 2 $3, € S S [2 «9 o
x o *o "v. Subcontrariæ non esse
e e δ Non fiecesse esse Num. seq.
Num. 1. Quia ergo antiqui universales contrarias bene intulerunt ex
aliis, contradictorias autem earum, scilicet particulares, male intulerunt;
ideo dicit quod considerandum restat de his, quæ sunt de necessario, qualiter
se habeant in consequendo illas de possibili et non possibili. Manifestum
est autem ex dicendis quod non eodem modo istæ de necessario illas de
possibili consequuntur, quo easdem sequuntur illæ de impossibili. Nam omnes enunciationes de
impossibili recte illatæ sunt ab antiquis. Enunciationes autem de
necessario non omnes recte inferuntur: sed duæ earum, quæ sunt contrariæ,
scilicet, necessé est esse, et, necesse est nom esse, sequuntur, idest
recta consequentia Cf. supra, n.
4. Boethius. Averroes. deducuntur ab antiquis, in tertio
scilicet et quarto ordine *; reliquæ autem duæ de necessario, scilicet,
non necesse non esse, et, non necesse esse, quæ sunt contradictoriæ
supradictis, sunt extra consequentias illarum, in secundo scilicet et
primo ordine. Unde antiqui in tertio et quarto
ordine omnia recte fecerunt; in primo autem et in secundo peccaverunt, non
quoad omnia, sed quoad enunciationes de necessario tantum. 7. Secundo cum
dicit: Non enim est negatio eius etc., respondet cuidam tacitæ
obiectioni, qua defendi posset consequentia enunciationis de necessario
in primo ordine ab antiquis. facta. Est autem obiectio tacita talis.
Non possibile esse, et, necesse non esse, convertibiliter se
sequuntur in tertio ordine iam approbato; ergo, possibile esse, et, non
necesse esse, invicem se sequi debent in primo ordine. Tenet consequentia: quia
duorum convertibiliter se sequentium contradictoria mutuo se sequuntur;
sed illæ duæ tertii ordinis convertibiliter se sequuntur, et istæ
duæ primi ordinis sunt earum contradictoriæ; ergo istæ primi ordinis,
scilicet, possibile esse, et, non necesse esse, mutuo se sequuntur. -
Huic, inquam, obiectioni respondet Aristoteles hic interimendo minorem quoad
hoc quod assumit, quod scilicet necessaria primi ordinis et
necessaria tertii ordinis sunt contradictoriæ. Unde dicit: Non enim est
negatio eius quod est, necesse mon esse (quæ erat esse,
in tertio ordine), illa quæ dicit, mom mecesse est quæ sita
erat in primo ordine. Et causam subdit, quia contingit utrasque simul esse veras in eodem;
quod contradictoriis repugnat. Illud enim idem, quod est necessarium non
esse, non est necessarium esse. Necessarium siquidem est hominem non esse
lignum et non necessarium est hominem esse lignum. Adverte quod, ut infra
patebit, istæ duæ de necessario, quas posuerunt antiqui. in primo et
tertio ordine, sunt subalternæ (et ideo sunt simul veræ), et deberent
esse contradictoriæ; et ideo erraverunt antiqui. 8. Boethius autem
et Averroes non reprehensive legunt tam hanc, quam præcedentem textus
particulam, sed narrative utranque simul iungentes. Narrare enim
aiunt Aristotelem qualitatem suprascriptæ figuræ quoad consequentiam
illarum de necessario, postquam narravit quo modo se habuerint illæ de
impossibili, et dicere quod secundum præscriptam figuram non eodem
modo sequuntur illas de possibili illæ de necessario, quo sequuntur illæ
de impossibili. Nam contradictorias de possibili
contradictoriæ de impossibili sequuntur, licet conversim; contradictoriæ autem
de necessario non dicuntur sequi illas contradictorias de possibili, sed
potius eas sequi dicuntur contrariæ de necessario: non inter se
contrariæ, sed hoc modo, quod affirmationem possibilis negatio de
necessario sequi dicitur, negationem vero possibilis non affirmatio de
necessario sequi ponitur, quæ sit contradictoria illi negativæ quæ
ponebatur sequi ad possibilem, sed talis affirmationis de necessario contrario.
Et quod hoc ita fiat in illa figura ut dicimus, patet ex primo et tertio
ordine, quorum capita sunt negatio et affirmatio possibilis, et extrema sunt,
non necesse esse, et, necesse non esse. Hæ siquidem non sunt
contradictoriæ. Non enim est negatio eius, quæ est, necesse non
esse, non necesse esse (quoniam contingit eas simul verificari de eodem), sed
illa scilicet, necesse non esse, est contraria contradictoriæ huius,
scilicet, non necesse esse, quæ est, necesse est esse. Sed quia
sequenti litteræ magis consona est introductio nostra, quæ etiam Alberto
consentit, et extorte videtur ab aliis exponi ly contrariæ, ideo prima,
iudicio meo, acceptanda est expositio et ad antiquorum reprehensionem
referendus est textus. 9. Tertio cum dicit: Causa autem cur etc.,
manifestat id quod præmiserat, scilicet, quod non simili modo ad
illas de possibili sequuntur illæ de impossibili et illæ de necessario.
Antiquorum enim hoc peccatum fuit tam in primo quam in secundo
ordine, et quod simili modo intulerunt illas de impossibili et necessario.
In primo siquidem ordine, sicut posuerunt negativam simplicem de
impossibili, ita posuerunt negativam simplicem de necessario, et similiter in
secundo ordine utranque negativam declinatam locaverunt. Hoc ergo quare
peccatum sit, et causa autem quare necessarium som sequitur
possibile, similiter, idest, eodem modo cum cæteris, scilicet, de
impossibili, est, quoniam impossibile redditur idem valens necessario, idest,
æquivalet necessario, comtrarie, idest, contrario modo sumptum, et non eodem
modo. Nam si, hoc esse est impossibile, non inferemus, ergo
hoc esse est necesse, sed, hoc non esse est necesse. Quia ergo
impossibile et necesse mutuo se sequuntur, quando dicta eorum contrario modo
sumuntur, et non quando dicta eorum simili modo sumuntur, sequitur quod non
eodem modo ad possibile se habeant impossibile et necessarium, sed
contrario modo. Nam ad id possibile quod sequitur dictum affirmatum de
impossibili, sequitur dictum negatum de necessario; et e contrario. Quare autem
hoc accidit infra dicetur. Erraverunt igitur antiqui quod similes
enunciationes de impossibili et necessario in primo et in secundo ordine
locaverunt. ro. Hinc apparet quod supra posita nostra
expositio conformior est Aristoteli. Cum enim hunc textum induxerit ad
manifestandum illa verba: Manifestum. est autem. quoniam non eodem modo,
etc., eo accipiendo sunt sensu illa verba, quo hic per causam
manifestantur. Liquet autem quod hic redditur causa dissimilitudinis veræ
inter necessarias et impossibiles in consequendo possibiles, et non
dissimilitudinis falso opinatæ ab antiquis: quoniam ex vera
causa nonnisi verum concluditur. Ergo reprehendendo antiquos, veram
dissimilitudinem inter necessarias, et impossibiles in consequendo possibiles,
quam non servaverunt illi, proposuisse tunc intelligendum est, et
nunc eam manifestasse. Quod autem dissimilitudo illa, quam antiqui
posuerunt inter necessarias et impossibiles, sit falso posita, ex infra
dicendis patebit. Ostendetur enim quod contradictorias de possibili
contradictoriæ de necessario sequuntur conversim; et quod in hoc non
differunt ab his quæ sunt de impossibili, sed differunt in hoc quod
modo diximus, quod possibilium et impossibilium se consequentium dictum est
similiter, possibilium autem et necessariorum, se invicem consequentium dictum
est contrarium, ut infra clara luce videbitur. 11. Quarto cum dicit: Aut
certe impossibile est etc., manifestat aliud quod proposuerat, scilicet, quod
contradictoriæ de necessario male situatæ sint secundum consequentiam ab
antiquis, qui contradictiones necessarii ita ordinaverunt. In primo
ordine posuerunt contradictoriam negationem, necesse esse, idest, non
necesse esse; et in secundo contradictoriam negationem, necesse non esse,
idest, Albertus. Ν Cf.
supra, n..3. CAP. XIII, non necesse non
esse. Et probat hunc consequentiæ modum esse malum in primo ordine.
Cognita enim malitia primi, facile est secundi ordinis agnoscere
defectum. Probat autem hoc tali ratione ducente ad impossibile. Ad
necessarium esse sequitur possibile esse: aliter sequeretur non possibile esse,
quod manifeste implicat; ad possibile esse sequitur non impossibile esse, ut
patet; ad non impossibile esse, secundum antiquos, sequitur in
primo ordine non necessarium esse; ergo de primo ad ultimum, ad
necessarium esse sequitur non necessarium esse: quod est
inconveniens, quia est manifesta implicatio contradictionis. Relinquitur ergo
quod male dictum sit, quod non necessarium esse consequatur in primo
ordine. Ait ergo et certe impossibile est poni sic secundum
consequentiam, ut antiqui posuerunt, necessarii contradictiones, idest illas
duas enunciationes de necessario, quæ sunt negationes contradictoriæ aliarum
duarum de necessario. Nam ad id quod est, necessarium esse, sequitur,
possibile est esse: nam si non, idest quoniam si hanc negaveris
consequentiam, negatio possibilis sequitur illam, scilicet, necesse esse.
Necesse est enim de necessario aut dicere, idest affirmare possibile, aut
negare possibile: de quolibet enim est affirmatio vel negatio vera. Quare si
dicas quod, ad necesse esse, non sequitur, possibile esse, sed, non
possibile est esse; cum hæc æquivaleat illi quæ dicit, impossibile est esse,
relinquitur quod ad, necesse esse, sequitur, impossibile esse, et idem erit,
necesse esse et impossibile esse: quod est inconveniens. Bona ergo erat
prima illatio, scilicet, necesse est esse, ergo possibile est esse.
Tunc ultra. Illud quod est, possibile esse, sequitur, non impossibile
esse, ut patet in primo ordine. Ad hoc vero, scilicet, non impossibile
esse, secundum antiquos eodem primo ordine, sequitur, non necesse est
esse (quare contingit de primo ad ultimum); ad id quod est, necessarium
esse, sequitur, non necessarium esse: quod est inconveniens, immo
impossibile. 12. Dubitatur hic: quia in I Priorum dicitur quod ad
possibile sequitur non necessarium, hic autem dicitur oppositum. Ad hoc
est dicendum quod possibile sumitur dupliciter. Uno modo in communi, et sic est
quoddam superius ad necessarium et contingens ad utrunque, sicut animal ad
hominem et bovem; et sic ad possibile non sequitur non necessarium, sicut ad
animal non sequitur non homo. Alio modo sumitur possibile pro una
parte possibilis in communi, idest pro possibili seu contingenti,
scilicet ad utrunque, scilicet quod potest esse et non esse; et sic
ad possibile sequitur non necessarium. Quod enim potest esse et non
esse, non necessarium est esse, et similiter non necessarium est non
esse. Loquimur ergo hic de possibili in
communi, ibi vero in speciali. 13. Deinde cum dicit: 4f vero neque necessarium
etc., determinat veritatem intentam. Et circa hoc tria facit: primo,
determinat quæ enunciatio de necessario sequatur ad possibile; secundo,
ordinat consequentias omnium modalium; ibi: Sequuntur enim etc. Quoad primum, sicut duabus
viis reprehendit antiquos, ita ex illis duobus motivis intentum probat. Et intendit quod, ad possibile esse, sequitur,
non necesse non esse. - Primum motivum est per locum a divisione. Ad,
possibile esse, non sequitur (ut probatum est), non necesse esse, at vero
neque, necesse esse, neque, necesse non esse. Reliquum est ergo ut
sequatur ad eam, non necesse non esse: non enim dantur plures
enunciationes de necessario. Huius communis divisionis primo proponit
reliqua duo membra excludenda, dicens: At vero neque necessarium. esse,
neque necessarium. nom esse, sequitur ad, possibile non esse ; secundo
probat hoc sic. Nullum formale consequens minuit suum antecedens: tunc enim
oppositum consequentis staret cum antecedente; sed utrunOpp. D. Tnuowar T.
I. LECT. que horum, scilicet, necesse esse, et, necesse non esse,
minuit possibile esse; ergo, etc. Unde, tacita maiore, ponit minoris
probationem dicens: Illi enim, scilicet, possibile esse, utraque,
scilicet,esse et non esse, contingit accidere; horum autem, scilicet,
necesse esse et necesse non esse, utrumlibet verum fuerit, non erunt illa
duo, scilicet, esse et non esse, vera simul in potentia. Et primum horum explanans
ait: cum dico, possibile esse, simul est possibile esse et non esse.
Quoad secundum vero subdit. Si vero dicas, necesse esse vel necesse non
esse, non remanet utrunque, scilicet, esse et non esse, possibile: si
enim necesse est esse, possibilitas ad non esse excluditur; et si
necesse est non esse, possibilitas ad esse
removetur. Utrunque ergo istorum minuit illud antecedens, possibile
esse, quoniam ad esse et non esse se extendit, etc. Tertio subdit
conclusionem: relinquitur ergo quod, non necessarium non esse, comes est ei quæ
dicit, possibile esse; et consequenter hæc ponenda erit in primo
ordine. 14. Occurrit in hac parte dubium circa
hoc quod dicit quod, ad possibile non sequitur necessarium, cum
superius dixerit quod ad ipsum non sequitur non necessarium. Cum
enim necessarium et non necessarium sint contradictoria opposita, et de
quolibet sit affirmatio vel negatio vera, non videtur posse evadi quin ad
possibile sequatur necessarium, vel, non necessarium. Et cum non sequatur
necessarium, sequetur non necessarium, ut dicebant antiqui. - Augetur
et dubitatio ex eo quod Aristoteles nunc usus est tali
argumentationis modo, volens probare quod ad necessarium sequatur
possibile. Dixit enim: Nam si non negatio possibilis consequatur. Necesse
est enim aut dicere aut negare. Pro solutione huius, oportet reminisci
habitudinis quæ est inter possibile et necessarium, quod scilicet
possibile est superius ad necessarium, et attendere quod superius
potestate continet suum inferius et eius oppositum, ita quod neutrum eorum
actualiter sibi vindicat, sed utrunque potest sibi contingere; sicut
animali potest accidere homo et non homo: et consequenter inspicere debes quod,
eadem est proportio superioris ad. habendum affirmationem et negationem
unius inferioris, quæ est alicuius subiecti ad affirmativam et negativam futuri
contingentis. Utrobique enim neutrum habetur, et salvatur potentia ad
utrumlibet. Unde, sicut in futuris contingentibus nec affirmatio nec
fiegatio est determinate vera, sed sub disiunctione altera est necessario
vera, ut in fine Primi conclusum est;
ita nec affirmatio nec negatio inferioris sequitur determinate
affirmationem vel negationem superioris, sed sub disiunctione altera sequitur
necessario. Unde non valet, est
animal, ergo est homo, neque, ergo non est homo, sed, ergo est homo vel
non est homo. Quia ergo possibile superius est ad
necessarium, ideo optime determinavit Aristoteles neutram
contradictionis partem de necessario determinate sequi ad possibile.
Non tamen dixit quod sub disiunctione neutra sequatur; hoc enim est
contra illud primum principium: de quolibet est affirmatio vera vel
falsa. Ad id autem quod additur, ex eadem trahitur radice
responsio. Quia enim necessarium inferius est ad possibile, et
inferius non in potentia sed in actu includit suum superius, necesse est
ad inferius determinate sequi suum superius: aliter determinate sequetur
eius contradictorium. Unde per dissimilem habitudinem, quæ est inter
necessarium et possibile et non possibile, ex una parte, et inter
possibile et necessarium et non necessarium, ex altera parte, ibi optimus
fuit processus ad alteram contradictionis partem determinate, et hic optimus ad
neutram determinate. 16. Oritur quoque alia dubitatiuncula. Videtur
enim quod Aristoteles difformiter accipiat ly possibile in præpy) "ES ἃ: nunc. Lect. xin. nunc cedenti textu et
in isto. Ibi enim accipit ipsum in communi, ut sequitur ad necessarium; hic
videtur accipere ipsum specialiter pro possibili ad utrumlibet, quia
dicit quod possibile est simul potens esse et non esse. Et ad hoc dicendum est quod
uniformiter usus est possibili. Nec eius verba obstant: quoniam et de
possibili in communi verum est dicere quod potest sibi utrunque accidere,
scilicet, esse et non esse: tum quia quidquid verificatur de suo inferiori,
verificatur etiam de suo superiori, licet non eodem modo; tum quia
possibile in communi neutram contradictionis partem sibi
determinat, et consequenter utranque sibi advenire compatitur,
licet non asserat potentiam ad utranque partem, quemadmodum possibile ad
utrunque. 17. Secundum motivum ad idem, correspondens tacitæ
obiectioni antiquorum quam supra exclusit, addit cum subdit: Hoc enim verum est
etc. Ubi notandum quod Aristoteles sub illa maiore adducta pro antiquis
(scilicet, convertibiliter se consequentium contradictoria se mutuo
consequuntur), subsumit minorem: sed horum convertibiliter se sequentium
in tertio ordine (scilicet, non possibile esse et necesse non esse),
contradictoria sunt, possibile esse et non necesse non esse (quoniam modi
negatione eis opponunquuntur, scilicet, possibile esse, et, non necesse non
esse, . tamquam contradictoria duorum se mutuo consequentium.
Deinde cum dicit: Sequuntur enim. etc., ordinat omnes consequentias
modalium secundum opinionem propriam; et ait quod, hæ contradictiones,
scilicet, de necessario, sequuntur illas de possibili, secundum modum
prædictum et approbatum illarum de impossibili. Sicut enim
contradictorias de possibili contradictoriæ de impossibili sequuntur, licet
conversim; ita contradictorias de possibili contradictoriæ de necessario
sequuntur conversim: licet in hoc, ut dictum est, dissimilitudo sit quod,
contradictoriarum de possibili et impossibili similiter est dictum,
contradictoriarum autem de possibili et necessario contrarium est dictum,
ut in sequenti videtur figura: CONSEQUENTIÆ ENUNCIATIONUM MODALIUM
SECUNDUM QUATUOR ORDINES AB ARISTOTELE POSITÆ ET ORDINATÆ. Primus
Ordo Possibile est esse Contingens est esse Non impossibile
est esse Non necesse est non esse . Secundus Ordo
Possibile est non esse Contingens est non esse Non impossibile est
non esse. Non necesse est esse tur); ergo istæ duæ (scilicet,
possibile esse et non necesse non esse) se consequuntur et in primo
locandæ sunt ordine. Unde motivum tangens ait: Hoc enim, quod dictum est,
verum est, idest verum esse ostenditur, et de necesse non esse, idest, et
ex illius, scilicet, non necesse non esse, opposita, quæ est, necesse non esse.
Vel, boc enim, scilicet, non necesse non esse, verum est, scilicet,
contradictorium illius de necesse non esse. Et minorem subdens ait: Hæc
enim, scilicet, non necesse non esse, fit contradictio eius, quæ
convertibiliter sequitur, non possibile esse. Et explanans hoc in
terminis subdit. Illud enim, non possibile esse, quod est caput tertii
ordinis, sequitur hoc de impossibili, scilicet, impossibile esse, et hæc
de necessario, scilicet, necesse non esse, cuius negatio seu contradictoria
est, non necesse non esse. Et quia, cæteris paribus, modus negatur,
et illa, possibile esse, est (subauditur) contradictoria illius,
scilicet, non possibile; igitur ista duo mutuo se conseTertius Ordo Non
possibile est esse Non contingens est esse Impossibile est
esse Necesse est non esse Quartus Ordo Non possibile est non
esse Non contingens est non esse Impossibile est non esse
Necesse est esse Ubi vides quod nulla est inter Aristotelem et antiquos
differentia, nisi in duobus primis ordinibus quoad illas de
necessario. Præpostero namque situ usi sunt
antiqui, eam de necessario, quæ locanda erat in primo ordine, in secundo
ponentes, et eam quæ in secundo ponenda erat, in primo locantes. Et aspice
quoque quod convertibiliter se consequentium semper contradictoria
se consequi ordinavit. Singulis enim tertii ordinis singulæ primi ordinis
contradictoriæ sunt; et similiter singulæ quarti ordinis singulis, quæ in
secundo sunt, contradictoriæ sunt. Quod antiqui non observarunt. LECTIO (Canp. CarerANr
lect. 1x) AN AD ILLUD QUOD EST, NECESSARIUM ESSE, SEQUATUR ID QUOD EST,
POSSIBILE ESSE? ᾽Απορήσειε δ᾽ ἄν τις εἰ τῷ ἀναγκαῖον εἶναι τὸ δυνατὸν εἶναι ἕπεται. Εἴ τε γὰρ μὴ ἕπεται, ἡ ἀντίφχοσις ἀχολουθήσει, τὸ μὴ δυνατὸν εἶναι" καὶ εἴ τις ταύτην μὴ φήσειεν εἶναι ἀντίφασιν, ἀνάγκη λέγειν τὸ δυνατὸν μὴ εἶναι: ἅπερ ἄμφω ψευδῇ κατὰ τοῦ ἀναγκαῖον 115 Dubitabit autem aliquis, si ad illud quod est,
necessarium esse, illud quod est, possibile esse, sequatur. Nam si εἶναι. ᾿Αλλὰ μὴν πάλιν τὸ αὐτὸ εἶναι δοχεῖ δυνατὸν τέμνεσθαι καὶ μὴ τέμνεσθαι, καὶ εἶναι καὶ μιὴ εἶναι, ὥστε ἔσται τὸ ἀναγκαῖον εἶναι ἐνδεχόμενον po εἶναι: τοῦτο δὲ ψεῦδος. 3 ἢ ε Φανερὸν δὴ ὅτι οὐ πᾶν τὸ δυνατὸν ἢ εἶναι ἢ βαδίζειν xxi τὰ ἀντικείμενα δύναται, ἀλλ᾽ ἔστιν ἐφ᾽ ὧν οὐκ ος͵ ἀληθές" πρῶτον μὲν ἐπὶ τῶν μὴ κατα λόγον δυνατῶν, οἷον τὸ πῦρ θερμαντικὸν καὶ ἔχει δύναμιν ἄλογον. Αἱ μὲν οὖν μετὰ λόγου δυνάμεις αἱ αὐταὶ πλειόνων καὶ τῶν ἐναντίων, αἱ δ᾽ ἄλογοι οὐ πᾶσαι, ἀλλ᾿ ὥσπερ εἴρηται, τὸ πῦρ οὐ δυνατὸν θερμαίνειν καὶ μή, οὐδ᾽ ὅσα ἄλλα ἐνεργεῖ ἀεί. "ἔνια μέντοι δύναται xal τῶν χατὰ τὰς ἀλόγους δυνάμεις ἅμα τὰ ἀντιχείμενα δέἕξασται. ᾿λλλὰ τοῦτο μὲν τούτου χάριν εἴρηται, ὅτι οὐ πᾶσα δύναμις τῶν ἀντικειμένων, οὐδ᾽ ὅσαι λέγονται χατὸὰ τὸ αὐτὸ εἴδος. mew [TAS
TA necesse. Et duo facit: quia primo dubitationem absolvit; secundo, ex
determinata quæstione alium or Wr ed Ὁ TE ϑ, να MPPT T Lect. seq. Num. 5.
dinem earumdem consequentiarum modalibus statuit ; ibi: Et est fortasse
etc. Circa primum duo facit: primo,
movet quæstionem; secundo, determinat eam; ibi: Manifestum est etc.
Movet ergo quæstionem: primo dicens: Dubitabit autem. aliquis si ad id
quod est. necesse esse sequatur. possibile &5$£; et secundo, arguit
ad partem affirmativam subdens: Nam si non sequatur, contradictoria eius.
sequetur, scilicet non possibile esse, ut supra deductum est: quia de
quolibet est affirmatio vel negatio vera. Et si quis dicat hanc,
scilicet, non possibile esse, non esse contradictoriam illius, scilicet,
possibile esse, et propterea subterfugiendum velit argumentum, et dicere
quod neutra harum sequitur ad necesse esse; talis licet falsum dicat,
tamen concedatur sibi, quoniam necesse erit ipsum dicere illius
contradictoriam fore, possibile non esse. Oportet namque aut non
possibile esse aut possibile non esse, esse contradictoriam, possibile esse; et
tunc in eumdem redibit errorem, quoniam utræque, scilicet, non possibile
esse et possibile non esse, falsæ sunt de eo quod est, necesse esse.
Et consequenter ad ipsum neutra sequi potest. Nulla enim enunciatio
sequitur ad ilam, cuius veritatem destruit. Relinquitur ergo quod, ad
necesse esse sequitur possibile esse. Tertio, arguit ad partem negativam
cum subdit: vero rursus etc., et intendit talem rationem. Si ad
necesse esse sequitur possibile esse, cum ad possibile
sequatur possibile non esse (per conversionem in oppositam
qua"litatem, ut dicitur in I Priorum, quia idem est possibile
esse et non 6556), sequetur de primo ad ultimum quod necesse
esse est possibile non esse: quod est falsum manifeste. Unde oppositionis
hypothesim subdit: : vero non sequatur, contradictio sequetur, quæ est,
non possibile esse: et si quis hanc non dicat esse contradictionem, necesse est
dicere, possibile non esse: quæ utræque falsæ sunt de necesse esse. At
vero rursus idem videtur esse possibile aliquid incidi et non incidi, et
esse et non esse: quare erit necesse esse, contingens non esse. Hoc autem falsum est.
Manifestum est autem quod non omne possibile, vel esse, vel ambulare,
etiam opposita potest; sed est in qu:bus non sit verum. Primum quidem in
his quæ non secundum rationem possunt; ut ignis calefactibilis est, et habet
vim irrationalem. Quæ igitur secundum rationem potestates
sunt, eædem plurium etiam contrariorum sunt. Irrationales vero non
omnes: sed (quemadmodum dictum est) ignem non esse possibile calefacere
et non; neque quæcunque alia semper agunt. Alia vero possunt,
et secundum irrationales potestates simul opposita suscipere. Sed hoc
huius gratia: dictum est, quoniam non omnis potestas oppositorum
susceptiva est, neque quæcunque secundum eamdem speciem dicuntur. rursus
videtur idem possibile esse et non esse, ut domus, et possibile incidi
et. non. incidi, ut vestis. Quare
de primo ad ultimum necesse esse, erit contingens non esse. Hoc
autem est falsum. Ergo hypothesis illa, scilicet, quod possibile sequatur ad
necesse, est falsa. 3. Deinde cum dicit: Manifestum. est. autem. etc.,
respondet dubitationi. Et primo, declarat veritatem simpliciter; secundo,
applicat ad. propositum; ibi: Hoc igitur possibile* etc. Proponit
ergo primo ipsam veritatem declarandam, dicens: Manifestum est autem, ex
dicendis, quod non omne possibile esse vel ambulare, idest operari:
idest, non omne possibile secundum actum primum vel secundum ad
opposita valet, idest ad opposita viam habet, sed est invenire aliqua
possibilia, in quibus non sit verum dicere quod possunt in opposita.
Deinde, quia possibile a potentia nascitur, manifestat qualiter se
habeat potentia ipsa ad opposita: ex hoc enim clarum erit quomodo
possibile se liabeat ad opposita. Et circa hoc duo facit: primo
manifestat hoc in potentiis eiusdem rationis; secundo, in his quæ æquivoce
dicuntur potentiæ; ibi: Quasdam vero potentiæ * etc. Circa primum tria
facit: quia primo manifestat qualiter potentia irrationalis se habeat ad
opposita; et ait quod potentia irrationalis non potest in opposita. Ubi
notandum est quod, sicut dicitur IX Metapbys., potentia activa, cum nihil
aliud sit quam principium quo in aliud agimus, dividitur in potentiam
rationalem et irrationalem. Potentia rationalis est, quæ cum ratione et
electione operatur; sicut ars medicinæ, qua medicus cognoscens quid sanando
expediat infirmo, et volens applicat remedia. Potentia autem irrationalis
vocatur illa, quæ non ex ratione et libertate operatur, sed ex naturali
sua dispositione; sicut calor ignis potentia irrationalis est, quia
calefacit, non ut cognoscit et vult, sed ut natura sua exigit. Assignatur
autem ibidem duplex differentia proposito deserviens inter istas potentias.-
Prima est quod activa potentia irrationalis non potest duo opposita, sed Seq.
c. xut. Lect. seq. Lect. seq. RN est determinata ad
unum oppositorum, sive sumatur oppositum contradictorie sive contrarie. Verbi
gratia: calor non potest calefacere et non calefacere, quæ sunt
contradictorie opposita, reque potest calefacere et frigefacere, quæ sunt
contraria, sed ad calefactionem determinatus est. Et hoc intellige
per se, quia per accidens calor frigefacere potest, vel resolvendo materiam
caloris, humidum scilicet, vel per antiperistasin contrarii. Et similiter
potest non calefacere per accidens, scilicet si calefactibile
deest. Potentia autem rationalis potest in opposita et contradictorie
et contrarie. Arte siquidem medicinæ potest medicus
adhibere remedia et non adhibere, quæ sunt contradictoria; et adhibere
remedia sana et nociva, quæ sunt contraria. - Secunda differentia
est quod potentia activa irrationalis, præsente passo, necessario
operatur, deductis impedimentis: calor enim calefactibile sibi præsens
calefacit necessario, si nihil impediat; potentia autem rationalis, passo
præsente, non necessario operatur: præ-: sente siquidem. infirmo,
non cogitur medicus remedia adhibere. É 5. Dimittantur autem
metaphysico harum differentiarum rationes et ad textum redeamus. Ubi narrans
quomodo se habeat potentia irrationalis ad oppositum, ait: Et primum
quidem, scilicet, non est verum dicere quod sit potentia ad opposita in
his quæ. possunt non secundum rationem, idest, in his quorum posse est
per potentias irrationales; ut ignis calefactivus est, idest, potens
calefacere, et babet vim, idest, potentiam istam irrationalem. Ignis
siquidem non potest frigefacere; neque in eius potestate est calefacere
et non calefacere. Quod autem dixit primum ordinem, nota, ad secundum
genus possibilis infra dicendum, in quo etiam non invenitur potentia ad
opposita. 6. Secundo, manifestat quomodo potentia rationalis se
habeat ad opposita, intendens quod potentia rationalis potest in
opposita. Unde subdit: Ergo potestates secundum rationem, idest
rationales, ipsæ eædem sunt contrariorum, a non solum duorum, sed
etiam plurimorum, ut arte medicinæ medicus plurima iuga contrariorum adhibere
potest, et multarum operationum contradictionibus abstinere
potest. Præposuit autem ly ergo, ut hoc consequi ex dictis insinuaret:
cum enim oppositorum oppositæ sint proprietates, et potentia irrationalis ex eo
quod irrationalis ad opposita non se extendat; oportet potentiam
rationalem ad opposita viam habere, eo quod rationalis sit. Tertio, explanat id quod dixit
de potentiis irrationalibus, propter causam infra assignandam ab ipso; et
intendit quod illud quod dixit de potentia irrationali, scilicet quod non
potest in opposita, non est verum universaliter, sed particulariter. Ubi nota quod potentia irrationalis dividitur
in potentiam activam, quæ est principium faciendi, et potentiam passivam, quæ
est principium patiendi: verbi gratia, potentia ad calorem dividitur in
posse calefacere, et in posse calefieri. In potentiis activis irrationalibus verum est quod non
possunt in opposita, .ut declaratum est; in potentiis autem passivis non
est verum. Illud enim quod potest calefieri, potest etiam frigefieri,
quia eadem est materia, seu potentia passiva contrariorum, ut dicitur in II De
cælo et mundo, et potest non calefieri, quia idem est subiectum
privationis et formæ, ut dicitur in I Physic. Et propter hoc ergo explanando,
ait: Irralionales vero potentiæ mom omnes a posse in opposita excludi
intelligendæ sunt, sed illæ quæ sunt quemadmodum potentia ignis
calefactiva (ignem enim non posse non calefacere manifestum est), et
universaliter, quæcunque alia sunt talis potentiæ, quod semper agunt,
idest quod quantum est ex se non possunt non agere, sed ad semper agendum
ex sua forma necessitantur. Huiusmodi autem sunt, ut declaravimus, omnes
potentiæ activæ irrationales. Alia vero sunt talis conditionis quod
etiam secundum irrationales potentias, scilicet passivas, simul
possunt in quædam opposita, ut ær potest calefieri et
frigefieri. Quod vero ait, simul, cadit supra ly possunt, et non
supra ly opposita; et est sensus, quod simul aliquid habet potentiam
passivam ad utrunque oppositorum, et non quod habeat potentiam passivam
ad utrunque oppositorum simul habendum. Opposita namque impossibile est
haberi simul. Unde et dici solet et bene, quod in huiusmodi est simultas
potentiæ, non potentia simultatis. Irrationalis igitur potentia non secundum
totum suum ambitum a posse in opposita excluditur, sed secundum partem
eius, secundum potentias scilicet activas. Quia autem videbatur superflue
addidisse differentias inter activas et passivas irrationales, quia sat erat
proposito ostendisse quod non omnis potentia oppositorum est; ideo subdit
quod hoc idcirco dictum est, ut notum fiat quoniam nedum non omnis
potestas oppositorum est, loquendo de potentia communissime, sed neque
quæcunque potentiæ dicuntur secundum eamdem speciem ad opposita possunt.
Potentiæ siquidem irrationales omnes sub una specie irrationalis potentiæ
concluduntur, et tamen non omnes in opposita possunt, sed passive tantum.
Non supervacanea ergo fuit differentia
inter passivas et activas irrationales, sed necessaria ad declarandum
quod non omnes potentiæ eiusdem speciei possunt in opposita. Potest etly boc demonstrare
utranque differentiam, scilicet, inter rationales et irrationales,et
inter irrationales activas et. passivas inter se; et tunc est sensus,
quod hoc ideo fecimus, ut ostenderemus quod non omnis potestas, quæ scilicet
secundum eamdem rationem potentiæ physicæ dicitur, quia scilicet potest
in aliquid ut rationalis et irrationalis, neque etiam omnis potestas, quæ
sub eadem specie continetur, ut irrationalis activa et passiva sub specie
irrationalis, ad opposita potest. Canp. CargrANI lect.DECLARATIS POTENTIIS
QUÆ ÆQUIVOCÆ DICUNTUR, SUMITUR RATIO ZMPOSSIBILIS AD DETERMINANDUM
QUODNAM EX POSSIBILIBUS AD NECESSARIUM SEQUATUR Ν b Ἔνιαι δὲ δυνάμεις ὁμώνυμοί εἰσι. Τὸ γὰρ δυνατὸν οὐχ ἁπλῶς λέγεται, ἀλλὰ τὸ μὲν ὅτι ἀληθὲς ὡς ἐνεργείᾳ, Quædam vero potestates æquivocæ sunt. Possibile enim Sea. c. xu. : non L4
ὄν, 1 olov ^ à
L] δυνατὸν e f. δίζε e (Q
δίζε ^ ὶ e NI ῥαδίζειν ὅτι βαδίζει, καὶ ὅλως δυνατὸν εἶναι
ὅτι ἤδη ἔστι xav ἐνέργειαν ὃ λέγεται E εἰ, i εἶναι
δυνατόν, τὸ δὲ ὅτι ἐνεργήσειεν ἄν, οἷον δυνα[i τὸν εἶναι βαδίζειν ὅτι βαδίσειεν ἄν. Καὶ
αὕτη μὲν ἐπὶ τοῖς κινητοῖς ἐστὶ μόνοις ἡ δύναμις, ἐκείνη δὲ καὶ ἐπὶ τοῖς ἀχινήτοις,
Γλμφω δὲ ἀληθὲς εἰπεῖν τὸ μὴ ἀδύνατον εἶναι βαδίζειν ἢ εἶναι, xai τὸ
βαδίζον ἤδη καὶ ἐνεργοῦν καὶ τὸ βαδιστιχόν. Τὸ μὲν οὖν οὕτω δυνατὸν
οὐχ ἀληθὲς χατο τοῦ ἀναγχαίου ἁπλῶς εἰπεῖν, θάτερον δὲ ἀληθές. “Ὥστε ἐπεὶ
7 τῷ ἐν μέρει τὸ καγόλου ἕπεται, τῷ ἐξ ἀνάγχης ὄντι ἕπεται τὸ δύνασθαι εἶναι,
οὐ μέντοι πᾶν. Καὶ ἔστι δὴ ἀρχὴ ἴσως τὸ ἀναγκαῖον καὶ μὴ ἀνάγκαϊον
πάντων ἢ εἶναι ἢ μιὴ εἶναι, καὶ τἄλλα ὡς τούτοις ἀχολουθοῦντα ἐπισκοπεῖν
δεῖ. Φανερὸν δὴ ix τῶν εἰρημένων. ὅτι τὸ ἐξ ἀνάγκης ὃν χατ᾽ ἐνέργειάν
ἐδτιν, ὥστε εἰ πρότερα τὰ ἀίδια, καὶ ἡ ἐνέργεια δυνάμεως προτέρα. οὐσίαι,
τὰ Καὶ τὰ μὲν ἄνευ δυνάμεως ἐνέργειαί εἰσιν, olov αἱ πρῶται δὲ μετὰ
δυνάμεως, ἃ τῇ μὲν φύσει πρότερα, τῷ δὲ χρόνῳ ὕστερα, vd δὲ οὐδέποτε ἐνέργειαί
εἰσιν, ἀλλὰ δυνάμεις μόνον. 3 ntendit declarare quomodo illæ quæ
æquiUP vocæ dicuntur potentiæ, se habeant ad oppoE. sita. Et circa hoc duo
facit: primo, declarat £j)
Num. 3. naturam talis potentiæ; secundo, ponit differentiam et
convenientiam inter ipsas et supradictas, ibi: Et bæc quidem* etc. Ad
evidentiam primi advertendum est quod V et TX Metapbys., Aristoteles dividit
potentiam in potentias, quæ eadem ratione potentiæ dicuntur, et in
potentias, quæ non ea ratione qua prædictæ potentiæ nomen habent, sed alia. Et has appellat æquivoce
potentias. Sub primo membro comprehenduntur omnes potentiæ activæ, et
passivæ, et rationales, et irrationales. Quæcunque enim posse dicuntur
per potentiam activam vel passivam quam habeant, eadem ratione potentiæ
sunt, quia scilicet est in eis vis principiata alicuius activæ vel
passivæ. Sub secundo autem membro comprehenduntur potentiæ mathematicales
et logicales. Mathematica potentia est, qua lineam posse dicimus in quadratum,
et eo quod in semetipsam ducta quadratum constituit. Logica potentia est, qua duo termini coniungi
absque contradictione in enunciatione possunt. Sub logica quoque potentia
continetur quæ ea ratione potentia dicitur, quia est. Hæ vero merito
æquivoce a primis potentiæ dicuntur, eo quod istæ nullam virtutem activam
vel passivam prædicant; et quod possibile istis modis dicitur, non ea
ratione possibile appellatur quia aliquis habeat virtutem ad hoc
agendum vel patiendum, sicut in primis. Unde cum potentiæ habentes se ad
opposita sint activæ vel passivæ, istæ quæ æquivocæ potestates dicuntur
ad opposita non se habent. De his ergo loquens ait: Quædam vero potestates æquivocæ
sunt, et ideo ad opposita non se habent. Deinde declarans qualis sit ista
potestas æquivoce dicta, subdit divisionem usitatam possibilis per quam
hoc simpliciter dicitur: sed hoc quidem, quoniam verum est, quod in actu
est; ut possibile ambulare, quoniam ambulat iam, et omnino possibile esse,
quoniam iam est in actu, quod dicitur esse possibile: illud vero,
quoniam actu esse posset; ut possibile ambulare, quoniam ambulabit.
in Et hæc quidem in mobilibus solis est potestas, illa vero et
immobilibus. Utrunque vero verum est dicere, non impossibile esse
ambulare vel esse, et quod iam ambulat et agit, et ambulativum. Hoc
igitur possibile non est verum de necessario dicere simpliciter, alterum
autem verum est. Quare quoniam partem universale sequitur, illud quod ex
necessitate est, consequitur posse esse, sed non omne. Et est
fortasse quidem principium, quod necessarium est, et quod non
necessarium est, omnium vel esse, vel non esse: et
oportet. alia, veluti horum consequentia, considerare Manifestum
est autem ex his quæ dicta sunt, quod id quod ex necessitate est,
secundum actum est: quare si priora sunt sempiterna, et quæ actu sunt
potestate priora sunt. Et
hæc quidem sine potestate actus sunt, ut primæ substantiæ: alia vero cum
potestate, quæ natura quidem priora sunt, tempore vero posteriora. Alia
vero numquam actus sunt, sed potestates tantum. scitur, dicens: possibile
enim non uno modo dicitur, sed duobus. Et uno quidem modo dicitur
possibile eo quod verum est ut in actu, idest ut actualiter est; ut,
possibile est ambulare, quando ambulat iam: et omnino, idest
universaliter possibile est esse, quoniam est actu iam quod possibile
dicitur. Secundo modo autem possibile dicitur aliquid non ea ratione quia
est actualiter, sed quia forsitan aget, idest quia potest agere; ut
possibile est ambulare, quoniam ambulabit. Ubi advertendum est quod ex
divisione bimembri possibilis divisionem supra positam potentiæ declaravit a
posteriori. Possibile enim a potentia dicitur: sub primo siquidem membro
possibilis innuit potentias æquivoce; sub secundo autem potentias univoce,
activas scilicet et passivas. Intendebat ergo quod quia possibile
dupliciter dicitur, quod etiam potestas duplex est. Declaravit autem
potestates æquivocas ex uno earum membro tantum, scilicet ex his quæ
dicuntur possibilia quia sunt, quia hoc sat erat suo proposito. 3.
Deinde cum dicit: Et bæc quidem etc., assignat differentiam inter utranque
potentiam, et ait quod potentia hæc ultimo dicta physica, est in solis
illis rebus, quæ sunt mobiles ; illa autem est et in rebus
mobilibus et immobilibus. Possibile siquidem a potentia dictum eo
quod possit agere, non tamen agit, inveniri non potest absque
mutabilitate eius, quod sic posse dicitur. Si enim nunc potest agere et
non agit,si agere debet, oportet quod mutetur de otio ad operationem. Id
autem quod possibile dicitur eo quod est, nullam mutabilitatem exigit in
eo quod sic possibile dicitur. Esse namque in actu, quod talem
possibilitatem fundat, invenitur et in rebus necessariis, et in immutabilibus,
et in rebus mobilibus. Possibile ergo hoc, quod logicum vocatur, communius est
illo quod physicum appellari solet. ' 118 4. Deinde
subdit convenientiam inter utrunque possibile, dicens quod in utrisque
potestatibus et possibilibus verum est non impossibile esse, scilicet,
ipsum ambulare, quod iam actu ambulat seu agit, et quod iam
ambulabile est; idest, in hoc conveniunt quod, sive dicatur
possibile ex CONSEQUENTIÆ ENUNCIATIONUM MODALIUM SECUNDUM
QUATUOR ORDINES ALIO CONVENIENTI SITU AB ARISTOTELE POSITÆ ET
ORDINATÆ: Primus Ordo eo
Cf. lect. præc. n.
5. quod actu est, sive ex eo quod potest esse, de utroque
verificatur non impossibile; et consequenter necessario verificatur possibile,
quoniam ad non impossibile sequitur possibile. Hoc est secundum genus
possibilis, respectu cuius Aristoteles supra dixit: Et primum quidem
etc., in quo non invenitur via ad utrunque oppositorum, hoc,
inquam, est possibile quod iam actu est. Quod enim tali ratione possibile
dicitur, iam determinatum est ex eo quod actu esse suppositum est. Non
ergo possibile omne ad utrunque possibile est, sive loquamur de possibili
physice, sive logice. 5. Deinde cum dicit : Sic igitur possibile etc., applicat
determinatam veritatem ad propositum. Et primo, concludendo ex dictis, declarat
habitudinem utriusque possibilis ad necessarium, dicens quod hoc ergo
possibile, scilicet physicum quod est in solis mobilibus, non est verum
dicere Necesse est esse Non possibile est non esse Non
contingens est non esse Impossibile est non esse Tertius Ordo
Non. necesse est esse Possibile est non esse Contingens est non
esse Non impossibile est non esse Secundus Ordo Necesse est
non esse Non possibile est esse Non contingens est esse
Impossibile est esse Quartus Ordo Non necesse est non esse
Possibile est esse Contingens est esse Non impossibile est
esse Vides autem hic nihil immutatum, nisi quod necessariæ quæ ultimum
locum tenebant, primum sortitæ sunt. Quod vero dixit fortasse, non
dubitantis, sed absque determinata ratione rem proponentis est.
et prædicare de necessario simpliciter: quia quod simpliciter necessarium
est, non potest aliter esse. Possibile autem physicum potest sic et aliter esse,
ut dictum est. Addit autem ly simpliciter, quoniam necessarium est
multiplex. Quoddam enim est ad bene esse, quoddam ex suppositione: de
quibus non est nostrum tractare, sed solummodo id insinuare. Quod ut
præservaret se ab illis modis necessarii qui non perfecte et omnino
habent necessarii rationem, apposuit ly simpliciter. De tali enim necessario possibile physicum non
verificatur. Alterum autem possibile logicum, quod in rebus immobilibus
invenitur, verum est de illo enunciare, quoniam nihil neces* c Lect. præced. a Cf. lect. præc.
n. I. Num. seq. sitatis
adimit. Et per hoc solvitur ratio inducta ad partem negativam quæstionis.
Peccabat siquidem in hoc, -quod ex necessario inferebat possibile ad utrunque
quod convertitur in oppositam qualitatem. 6. Deinde respondet
quæstioni formaliter intendens quod affirmativa pars quæstionis tenenda
sit, quod scilicet ad necessarium sequitur possibile; et assignat causam.
Quia ad partem subiectivam sequitur constructive suum totum universale;
sed necessarium est pars subiectiva possibilis: quia possibile dividitur in
logicum et physicum, et sub logico comprehenditur necessarium ;
ergo ad necessarium sequitur possibile. Unde dicit: Quare, quoniam
partem, scilicet subiectivam, suum totum universale sequitur, illud quod ex
necessitate est, idest necessarium, tamquam partem subiectivam, consequitur
posse esse, idest possibile, tamquam totum universale. Sed mon
omnino, idest sed non ita quod omnis species possibilis sequatur; sicut
ad hominem sequitur animal, sed non omnino, idest non secundum omnes suas
partes subiectivas sequitur ad hominem: non enim valet: est homo, ergo
est animal irrationale. Et per hoc confirmata ratione adducta ad partem
affirmativam, expressius solvit rationem adductam ad partem negativam,
quæ peccabat secundum fallaciam consequentis, inferens ex necessario
possibile, descendendo ad unam possibilis speciem, ut de se patet.
7. Deinde cum dicit: Et est fortasse quidem etc., ordinat easdem modalium
consequentias alio situ, præponendo necessarium omnibus aliis modis. Et
circa hoc duo facit: primo, proponit quod intendit; secundo, assignat
causam dicti ordinis; ibi: Manifestum est autem* etc. Dicit ergo:
Et est fortasse principium omnium enunciationum modalium vel esse
vel non esse, idest, affirmativarum vel negativarum, necessarium et non
necessarium. Et oportet considerare alia, scilicet, possibile contingere et
impossibile esse, sicut borum, scilicet, necessarii et non necessarii,
consequentia, hoc modo: 8. Deinde cum dicit: Manifestum est autem. etc., intendit
assignare causam dicti ordinis. Et
primo, assignat causam, quare præposuerit necessarium possibili tali
ratione. Sempiternum est prius temporali; sed necessarium dicit
sempiternitatem (quia dicit esse in actu, excludendo omnem mutabilitatem,
et consequenter temporalitatem, quæ sine motu non est imaginabilis),
possibile autem dicit temporalitatem (quia non excludit quin possit
esse et non esse); ergo necesse merito prius ponitur quam
possibile. Unde dicit, proponendo minorem: Manifestum est autem ex bis
quæ dicta sunt etc., tractando de necessario: quoniam id quod ex
necessitate est, secundum actum est totaliter, scilicet quia omnem
excludit mutabilitatem et potentiam ad oppositum: si enim mutari posset
in oppositum aliquo modo, iam non esset necessarium. - Deinde subdit
maiorem per modum antecedentis conditionalis : Quare si priora sunt
sempiterna temporalibus etc. - Ultimo ponit conclusionem: et quæ actu
sunt omnino, scilicet necessaria, priora sunt potestate, idest
possibilibus, quæ omnino actu esse non ponunt, licet compatiantur. 9. Deinde cum dicit: Et bæ
quidem etc., assignat causam totius ordinis a se inter modales statuti, tali
ratione. Universi triplex est gradus. Quædam sunt actu sine
poteillæ state, idest sine admixta potentia, ut primæ substantiæ,
non quas in præsenti diximus primas, eo quod principaliter et
maxime substent, sed illæ quæ sunt primæ, quia omnium rerum sunt causæ,
Intelligentiæ scilicet. - Alia sunt actu cum possibilitate, ut omnia mobilia,
quæ secundum id quod habent de actu sunt priora natura seipsis secundum
id quod habent de potentia, licet e contra sit, aspiciendo ordinem temporis.
Sunt enim secundum id quod habent de potentia priora tempore
seipsis secundum id quod habent de actu. Verbi gratia, Socrates prius
secundum tempus poterat esse philosophus, deinde fuit actualiter philosophus. Potentia ergo præcedit actum secundum ordinem
temporis in Socrate, ordine autem naturæ, perfectionis et dignitatis e
converso contingit. Prior enim secundum dignitatem, idest dignior
et perfectior habebatur Socrates cum philosophus actualiter erat, quam
cum philosophus esse poterat. Præposterus est igitur ordo potentiæ et actus in
unomet, utroque ordine, scilicet, naturæ et temporis attento, -
Alia vero nunquam sunt actu sed potestate tantum, ut motus, tempus,
infinita divisio magnitudinis, et infinita augmentatio numeri. Hæc enim, ut IX
Metapbys. dicitur, nunquam exeunt in actum, quoniam eorum rationi
repugnat. Nunquam enim aliquid
horum ita est quin aliquid eius expectetur, et consequenter nunquam esse potest
nisi in potentia. Sed de his alio tractandum est loco. 9. Nunc hæc ideo
dicta sint ut, inspecto ordine universi, appareat quod illum imitati sumus in
nostro ordine. Posuimus siquidem primo necessarium, quod sonat actu
esse sine potestate seu mutabilitate, imitando primum gradum universi. -
Locavimus secundo loco possibile et contingens, quorum utrunque sonat
actum cum possibilitate, et sic servatur conformitas ad secundum gradum
universi. - Præposuimus autem possibile et non contingens, quia possibile
respicit actum, contingens autem secundum vim nominis respicit defectum
causæ, qui ad potentiam pertinet: defectus enim potentiam sequitur;
et ex hoc conforme est secundæ parti universi, in qua actus est
prior potentia secundum naturam, licet non secundum tempus.- Ultimum
autem locum impossibili reservavimus, eo quod sonat nunquam fore,
sicut et ultima universi pars dicta est illa, quæ nunquam actu est.
Pulcherrimus igitur ordo statutus est, quando divinus est
observatus. IO. Quia autem suppositæ modalium consequentiæ nil
aliud sunt quam æquipollentiæ earum, quæ ob varium negationis situm,
qualitatem, vel quantitatem, vel utranque mutantis, fiunt; ideo ad
completam notitiam consequentium se modalium, de earum qualitate et
quantitate pauca admodum necessaria dicenda sunt. Quoniam igitur natura
totius ex partium naturis consurgit, sciendum est quod subiectum enunciationis
modalis et dicit esse vel non esse, et est dictum unicum, et continet in
se subiectum dicti; prædicatum autem modalis enunciationis, modus scilicet, et
totale prædicatum est ( quia explicite vel implicite verbum continet,
quod est semper nota eorum quæ de altero prædicantur: propter quod
Aristoteles dixit quod modus est ipsa appositio), et continet in se vim
distributivam secundum partes temporis. Necessarium enim et impossibile
distribuunt in omne tempus vel simpliciter vel tale; possibile autem et
contingens pro aliquo tempore in communi. Nascitur autem ex his quinque
conditionibus duplex in qualibet modali qualitas, et triplex quantitas. -
Ex eo enim quod tam subiectum quam prædicatum modalis verbum in se
habet, duplex qualitas fit, quarum altera vocatur qualitas dicti, altera
qualitas modi. Unde et supra dictum est* aliquam esse: affirmativam de
modo et non de dicto, et e converso. - Ex eo vero quod subiectum
modalis continet in se subiectum dicti, una quantitas consurgit, quæ
vocatur quantitas subiecti dicti: et hæc distinguitur in universalem,
particularem et singularem, Sicut et quàántitas illarum de inesse. Possumus
enim dicere, Socratem, quemdam hominem, vel omnem hominem, vel nullum hominem,
possibile est currere. Ex eo autem quod subiectum unius modalis dictum
unum Ed. c: scilicet omne
dictum cutusque E isttus modalis re, est
universalis, scilicet dictum . est, consurgit alia quantitas, vocata
quantitas dicti; et hæc unica est singularitas: secundum omne enim dictum
cuiusque modalis singulare est istius universalis, scilicet dictum.
Quod ex eo liquet quod cum dicimus, hominem esse album est possibile,
exponitur sic, hoc dictum, hominem esse album, est possibile. Hoc
dictum autem singulare est, sicut et, hic homo. Propterea et dicitur quod
omnis modalis est singularis quoad dictum, licet quoad subiectum dicti
sit universalis vel particularis. Ex eo autem quod prædicatum modalis,
modus scilicet, vim distributivam habet, alia quantitas consurgit vocata
quantitas modi seu modalis; et hæc distinguitur in universalem et particularem.
Ubi diligenter: duo attendenda sunt. Primum est quod hoc est singulare in
modalibus, quod prædicatum simpliciter quantificat propositionem modalem,
sicut et simpliciter qualificat. Sicut enim illa est simpliciter
affirmativa, in qua modus affirmatur, et illa negativa, in qua modus
negatur; ita illa est simpliciter universalis cuius modus est
universalis, et illa particularis cuius modus est particularis. Et hoc
quia modalis modi naturam sequitur. Secundum attendendum (quod est causa
istius primi ) est, quod prædicatum modalis, scilicet modus, non
habet solam habitudinem prædicati respectu sui subiecti, scilicet esse et
non esse, sed habitudinem syncategorematis distributivi, sed non secundum
quantitatem partium subiectivarum ipsius subiecti, sed secundum
quantitatem partium temporis eiusdem. Et merito. Sicut enim quia
subiecti enunciationis de inesse propria quantitas est penes divisionem
vel indivisionem ipsius subiecti (quia est nomen quod significat per
modum substantiæ, cuius quantitas est per divisionem continui: ideo
signum quantificans in illis distribuit secundum partes subiectivas), ita
quia subiecti enunciationis modalis propria quantitas est tempus (quia
est verbum quod significat per modum motus, cuius propria quantitas est
tempus), ideo modus quantificans distribuit ipsum suum subiectum,
scilicet, esse vel non esse, secundum partes temporis. Unde
subtiliter inspicienti apparebit quod quantitas ista modalis
proprii subiecti modalis enunciationis quantitas est, scilicet,
ipsius esse vel non esse. Ita quod illa modalis est simpliciter
universalis, cuius proprium subiectum distribuitur pro omni tempore: vel
simpliciter, ut, hominem esse animal est necessarium vel impossibile; vel
accepto, ut, hominem currere hodie, vel, dum currit, est necessarium vel
impossibile. Illa vero est particularis, in qua non pro omni, sed aliquo
tempore distributio fit in communi tantum; ut, hominem esse animal, est
possibile vel contingens. Est ergo et ista modalis quantitas subiecti sui
passio (sicut et universaliter quantitas se tenet ex parte materiæ), sed
derivatur a modo, non in quantum prædicatum est (quod, ut sic, tenetur
formaliter), sed in quantum syncategorematis officio fungitur, quod habet
ex eo quod proprie modus est. Sunt igitur modalium (de propria earum
quantitate loquendo) aliæ universales affirmativæ, ut illæ de necessario,
quia distribuunt ad semper esse; aliæ universales negativæ, ut illæ de
impossibili, quia distribuunt ad nunquam esse; aliæ particulares
affirmativæ, ut illæ de possibili et contingenti, quia distribuunt
utrunque ad aliquando esse; aliæ particulares negativæ, ut illæ de
non necesse et non impossibili, quia distribuunt ad aliquando non esse:sicut in
illis de inesse, omnis, nullus, quidam, non omnis, non nullus, similem
faciunt diversitatem. Et quia, ut dictum est, hæc quantitas modalium
est inquantum modales sunt, et de his, inquantum huiusmodi, præsens
tractatus fit ab Aristotele; idcirco æquipollentiæ, seu consequentiæ earum,
ordinatæ sunt negationis vario situ, quemadmodum æquipollentiæ illarum de
inesse: ut scilicet, negatio præposita modo faciat æquipollere suæ
contradictoriæ; negatio autem modo postposita, posita autem dicti verbo,
suæ æquipollere contrariæ facit; præposita vero et postposita suæ
subalternæ, ut videre potes in consequentiarum figura ultimo ab Aristotele
formata. In qua, tali præformata oppositionum figura, clare videbis omnes se
mutuo consequentes, secundum alteram trium regularum æquipollere, et
consequenter, totum primum ordinem secundo contrarium, tertio
contradictorium, quarto vero subalternum. Necesse esse o qd Ε
S s E ὦ ri Possibile esse Impossibile
e Contrariæ eo E δα ES x ο x9
? . [d x Se, ἢ ᾿ς 6 Subcontrariæ
esse uU g& z E $ B
E Contingens non essc vtt (Cann. CargTANI lect.
xi) CONTRARIETAS IN ANIMI OPINIONIBUS CONSTITUITUR EX ALIQUA VERI
FALSIQUE OPPOSITIONE. Πότερον δὲ ἐναντία ἐστὶν ἡ κατάφασις τῇ ἀποφάσει ἢ
ἡ κατάφασις τῇ χαταφάσει, καὶ ὁ λόγος τῷ λόγῳ; ὁ λέγων ὅτι πᾶς ἄνθρωπος
δίκαιος τῷ οὐδεὶς ἄνθρωπος δίκαιος ἢ τὸ πᾶς ἄνθρωπος δίκαιος τῷ πᾶς ἄνθρωπος ἄδικος,
οἷον ἔστι Καλλίας δίκαιος, οὐχ ἔστι Καλλίας δίκαιος, Καλλίας ἄδιχός ἐστι"
ποτέρα δὴ Εἰ ἐναντία τούτων ; γὰρ τὰ μὲν ἐν τῇ φωνῇ ἀχολουθεῖ
τοῖς ἐν τῇ διανοίᾳ, ἐκεῖ δὲ ἐναντία δόξα ἡ τοῦ ἐναντίου, οἷον ὅτι πᾶς ἄνθρωπος
δίκαιος τῇ πᾶς ἄνθρωπος ἄδικος, καὶ ἐπὶ τῶν ἐν τῇ φωνῇ
καταφάσεων ἀνάγχη ὁμοίως ἔχειν. Εἰ δὲ ped ἐχεῖ ἡ τοῦ ἐναντίου δόξα ἐναντία
ἐστίν, οὐδὲ ἡ κατάφασις τῇ καταφάσει ἔσται ἐνανvla, ἀλλ᾽ ἡ εἰρημένη ἀπόφασις. Ὥστε
σχεπτέον ποία δόξα ἀληθὴς ψευδεῖ δόξη ἐναντία. πότερον ἡ τῆς ἀποφάσεος
ἢ ἡ τὸ ἐναντίον εἶναι δοξάζουσα. Λέγω δὲ ὧδε. Ἔστι τις δόξα ἀληθὴς τοῦ ἀγαθοῦ
ὅτι ἀγαθόν, ἄλλη δὲ ὅτι οὐκ ἀγαθὸν ψευδής, ἑτέρα δὲ ὅτι χακόν. Ποτέρα δὴ
τούτων ἐναντία τῇ ἀληθεῖ; xal εἰ ἔστι μία, x40 ' ὁποτέραν ἡ ἐναντία:
μὲν δὴ τούτῳ οἴεσθαι τὰς ἐναντίας δόξας ὡρίσθαι, τῷ τῶν ἐναντίων εἶναι,
ψεῦδος" τοῦ γὰρ ἀγαθοῦ ὅτι ἀγαθὸν καὶ τοῦ καχοῦ ὅτι κακὸν ἡ αὐτὴ ἴσως
καὶ ἀληθὴς ἔσται εἴτε πλείους εἴτε μία ἐστίν. ᾿Εναντία δὲ ταῦτα.
ÀAXA' οὐ τῷ ἐναντίων εἶναι ἐναντία, ἀλλὰ μᾶλλον τῷ ἐναντίως. Εἰ δὴ ἔστι
μὲν τοῦ ἀγαθοῦ ὅτι ἐστὶν ἀγαθὸν δόξα, ἄλλη δ᾽ ὅτι οὐχ ἀγαθόν, ἔστι δὲ ἄλλο
τι ὃ οὐχ ὑπάρχει οὐδ᾽ οἷόντε ὑπάρξαι, τῶν μὲν δὴ ἄλλων οὐδεμίαν
θετέον, οὔτε ὅσαι ὑπάρχειν τὸ μιὴ ὑπάρχον δοξαάζουσιν, οὔθ᾽ ὅσαι μὴ
ὑπάρχειν τὸ ὑπάρχον (ἄπειροι γὰρ ἀμφότεραι, καὶ ὅσαι ὑπάρχειν δοξάζουσι τὸ
μὴ ὑπάρyov, καὶ ὅσαι μὴ ὑπάρχειν τὸ ὑπάρχον); SEN ene ostquam
determinatum est de enunciatione se(Q) (oy cundum quod diversificatur tam ex
additione facta ad terminos, quam ad compositionem AQUINO Num.
. Num. . Lect. seq. J7 eius, hic secundum divisionem a
s. Thoma in principio huius Secundi factam, intendit Aristoteles tractare
quandam quæstionem circa oppositiones enunciationum provenientes ex eo
quod additur aliquid simplici enunciationi. Et circa hoc quatuor facit: primo,
movet quæstionem; secundo, declarat quod hæc quæstio dependet ab una alia
quæstione prætractanda; ibi: Nam si ea, quæ sunt in voce etc.; tertio,
determinat illam aliam quæstionem; ibi: Nam arbitrari etc.; quarto, redit ad
respondendum quæstioni primo motæ; ibi: Quare si in opinione etc. Quæstio
quam movere intendit est: utrum affirmativæ enunciationi contraria sit
negatio eiusdem prædicati, an affirmatio de prædicato contrario seu
privativo? Unde dicit: Utrum contraria est affirmatio. negationi.
contradictoriæ, scilicet, et universaliter oratio affirmativa orationi
negativæ; ut, affirmativa oratio quæ dicit, omnis bomo est iustus, illi
contraria sit orationi negativæ, nullus bomo est iustus, aut illi, omnis
bomo est iniustus, quæ est affirmativa de prædicato privativo? Et similiter ista
affirmatio, Callias est iustus, est ne contraria illi contradictoriæ negationi,
Callias non est iustus, aut illi, Callias est iniustus, quæ est
affirmativa de prædicato privativo?
Utrum autem contraria est affirmatio negationi, aut affirmatio
affirmationi et oratio orationi, quæ dicit, quod omnis homo iustus est,
ei quæ est, nullus homo iustus est; aut, omnis homo iustus est, ei quæ
est, omnis homo iniustus est; ut, Callias iustus est, Callias
iustus non est, Callias iniustus est; utra harum contraria
est? Nam s. a, quæ suntin voce, sequuntur ea, quæ sunt in
intellectu, illic autem contraria est opinio contrarii, ut quod,
omnis homo iustus est, ei quæ est, omnis homo iniustus est, et etiam in
his, quæ,sunt in voce, affirmationibus, necesse est similiter se se
habere. Quod si neque illic contrarii
opinatio contraria est, nec affirmatio affirmationi contraria erit; sed ea quæ
dicta est negatio. Quare considerandum est quæ opinio vera
opinioni falsæ contraria est, utrum negationis, an ea, quæ contrarium
esse opinatur. Dico autem hoc modo. Est quædam opinatio vera boni, quod
bonum est ;: alia vero, quod non bonum, est falsa; alia vero, quod malum:
utra harum contraria veræ? et si est una, secundum quamnam contraria est?
Nam arbitrari contrarias opiniones definiri, eo quod contrariorum sunt, falsum
est: boni enim, quod bonum est, et mali, quod malum est, eadem fortasse opinio
est et vera, sive plures,sive una sit. Sunt autem ista contraria. Sed non
eo quod contrariorum sint contraria :sunt sed magis eo quod
contrarie. Si ergo est boni quidem, quod est bonum, opinio, alia autem
quod non est bonum: est vero aliquid aliud quod non est, neque potest
esse: aliarum quidem nulia ponenda est, neque quæcunque esse, quod non est,
opinantur, neque quæcunque non esse quod est (infinitæ enim utræque sunt,
et quæ esse opinantur quod non est, et quæ non esse quod est). 2. Ad
evidentiam tituli huius quæstionis, quia hactenus indiscusse ab aliis est
relictus, considerare oportet quod cum in enunciatione sint duo, scilicet
ipsa enunciatio seu significatio et modus enunciandi seu significandi,
duplex inter enunciationes fieri potest oppositio, una ratione ipsius
enunciationis, altera ratione modi enunciandi. Si modos enunciandi
attendimus, duas species oppositionis in latitudine enunciationum
inveniemus, contrarietatem scilicet et contradictionem. Divisæ enim
superius sunt enunciationes oppositæ in contrarias et
contradictorias. Contradictio inter enunciationes ratione modi
enunciandi est quando idem prædicatur de eodem subiecto contradictorio
modo enunciandi; ut sicut unum contradictorium nil ponit, sed alterum tantum
destruit, ita una enunciatio nil asserit, sed id tantum quod altera
enunciabat destruit. Huiusmodi autem sunt omnes quæ contradictoriæ vocantur,
scilicet, omnis bomo est iustus, non omnis bomo est iustus, Socrates est
iustus, Socrates nom est iustus, ut de se patet. Et ex hoc provenit quod
non possunt simul veræ aut falsæ esse, sicut nec duo contradictoria.
Contrarietas vero inter enunciationes ratione modi enunciandi est quando
idem prædicatur de eodem subiecto contrario modo enunciandi; ut sicut
unum contrariorum ponit materiam sibi et reliquo communem in extrema
distantia sub illo | genere, ut patet de albo et nigro, ita una
enunciatio ponit Y Cap. . CAP. , subiectum commune sibi et suæ oppositæ
in extrema distantia sub illo prædicato. Huiusmodi quoque sunt
omnes illæ quæ contrariæ in figura appellantur, scilicet, omnis bomo est
iustus, omnis bomo non. est iustus. Hæ enim faciunt subiectum, scilicet
hominem, maxime distare sub iustitia, dum illa enunciat iustitiam inesse
homini, non quocunque modo, sed universaliter; ista autem enunciat
iustitiam abesse homini, non qualitercunque, sed universaliter. Maior enim
distantia esse non potest quam ea, quæ est inter totam universitatem
habere aliquid et nullum de universitate habere illud. Et ex hoc provenit
quod non possunt esse simul veræ, sicut nec contraria possunt eidem simul
inesse; et quod possunt esse simul falsæ, sicut et contraria simul non
inesse eidem possunt. Ed. c: posita sunt. Si vero ipsam
enunciationem sive eius significationem attendamus secundum unam tantum
oppositionis speciem, in tota latitudine enunciationum reperiemus
contrarietatem, scilicet secundum veritatem et falsitatem: quia duarum
enunciationum significationes entia positiva sunt, ac per hoc neque
contradictorie neque privative opponi possunt, quia utriusque
oppositionis alterum extremum est formaliter non ens. Et cum nec relative
opponantur, ut clarum est, restat ut nonnisi contrarie opponi
possunt. 3. Consistit autem ista contrarietas in
hoc quod duarum enunciationum altera alteram non compatitur vel in
veritate vel in falsitate, præsuppositis semper conditionibus contrariorum,
scilicet quod fiant circa idem et in eodem tempore. Patere quoque potest
talem oppositionem esse contrarietatem ex natura conceptionum animæ
componentis et dividentis, quarum singulæ sunt enunciationes. Conceptiones
siquidem animæ adæquatæ nullo alio modo opponuntur conceptionibus
inadæquatis nisi contrarie, et ipsæ conceptiones inadæquatæ, si se
mutuo expellunt, contrariæ quoque dicuntur. Unde verum et falsum,
contrarie opponi probatur ad AQUINO (vedasi) in I parte, qu. xvii. Sicut
ergo hic, ita et in enunciationibus ipsæ significationes adæquatæ
contrarie opponuntur inædequatis, idest veræ falsis; et ipsæ inadæquatæ, idest
falsæ, contrarie quoque opponuntur inter se, si contingat quod se non
compatiantur, salvis semper contrariorum conditionibus. Est igitur in
enunciationibus duplex contrarietas, una ratione modi, altera ratione
significationis, et unica contradictio, scilicet ratione modi. Et, ut
confusio vitetur, prima contrarietas vocetur contrarietas modalis, secunda
contrarietas formalis. Contradictio autem non ad confusionis vitationem
quia unica est, sed ad proprietatis expressionem contradictio modalis vocari
potest. Invenitur autem contrarietas formalis enunciationum inter
omnes contradictorias, quia contradictoriarum altera alteram semper excludit;
et inter omnes contrarias modaliter quoad veritatem, quia non possunt esse
simul veræ, licet non inveniatur inter omnes quoad falsitatem, quia
possunt esse simul falsæ. 4. Quia igitur Aristoteles in hac quæstione
loquitur de contrafietate enunciationum quæ se extendit ad contrarias
modaliter, et contradictorias, ut patet in principio et in fine
quæstionis (in principio quidem, quia proponit utrasque contradictorias
dicens: Affirmatio negationi etc.; et contrarias modaliter dicens: Ef
oratio orationi etc., unde et exempla utrarunque statim subdit, ut patet
in littera. In fine vero, quia ibi expresse quam conclusit esse
contrariam affirmativæ universali veræ dividit, in contrariam modaliter
universalem negativam, scilicet, et contradictoriam: quæ divisio falsitate non
careret, nisi conclusisset contrariam formaliter, ut de se patet), quia,
inquam, sic accipit contrarietatem, ideo de contrarietate formali
enunciationum quæstio intelligenda est. Et est quæstio valde subtilis,
necessaria et adhuc nullo modo superius tacta. Opp. D. Tuowaz
LECT. Est igitur titulus. quæstionis; utrum affirmativæ veræ
contraria formaliter sit negativa falsa eiusdem prædicati, aut affirmativa
falsa de prædicato privativo, vel contrario? Et sic patet quis sit sensus
tituli, et quare non movet quæstionem de quacunque alia oppositione
enunciationum (quia scilicet nulla alia in eis formaliter invenitur), et quod
accipit contrarietatem proprie et strictissime, licet talis contrarietas inveniatur
inter contradictorias modaliter et contrarias modaliter. Ὁ Dictum
vero fuit a s. Thoma provenire hanc dubitationem ex eo quod additur aliquid
simplici enunciationi, quia si tantum simplices, idest, de secundo
adiacente enunciationes attendantur, non habet hæc quæstio radicem. Quia
autem simplici enunciationi, idest subiecto et verbo substantivo, additur
aliquid, scilicet práedicatum, nascitur dubitatio circa oppositionem, an
illud additum' in contrariis debeat esse illudmet prædicatum,
negatione apposita verbo, an debeat esse prædicatum contrarium
seu privativum, absque negatione præposita verbo. 5. Deinde cum
dicit: Nam siea etc., declarat unde sumenda sit decisio huius quæstionis.
Et duo facit: quia primo declarat quod hæc quæstio dependet ex una
alia quæstione, ex illa scilicet: utrum opinio, idest conceptio
animæ, in secunda operatione intellectus, vera, contraria sit opinioni
falsæ negativæ eiusdem prædicati, an falsæ afürmativæ contrarii sive
privativi. Et assignat
causam, quare illa quæstio dependet ex ista, quia scilicet enunciationes
vocales sequuntur mentales, ut effectus adæquati causas proprias, et ut
significata signa adæquata, et consequenter similis est in hoc utraque
natura. Unde inchoans ab hac causa ait: Nam si ea quæ sunt in voce
sequuntur ed, quæ sunt in anima, ut dictum est in principio I libri, et illic,
idest in anima, opinio contrarii prædicati circa idem subiectum est
contraria illi alteri, quæ affirmat reliquum contrarium de eodem
(cuiusmodi sunt istæ mentales enunciationes, omnis bomo est
iustus, omnis bomo est iniustus); si ita inquam est, etiam et in his
affrmationibus quæ sunt in voce, idest vocaliter sumptis, necesse est similiter
se habere, ut scilicet sint contrariæ duæ affirmativæ de eodem subiecto et
prædicatis contrariis. Quod
si neque illic, idest in anima, opinatio contrarii prædicati,
contrarietatem inter mentales enunciationes constituit, nec affirmatio vocalis
affirmationi vocali contraria erit de contrario prædicato, sed magis
affirmationi contraria erit negatio eiusdem prædicati. Dependet ergo mota
quæstio ex ista alia sicut effectus ex causa. Propterea et concludendo addit
secundum, quod scilicet de hac quæstione prius tractandum est, ut
ex causa cognita effectus innotescat dicens: Quare considerandum est,
opinio vera cui opinioni falsæ contraria est: utrum negationi falsæ am
certe ei affirmationi falsæ, quæ contrarium esse opinatur. Et ut exemplariter
proponatur, dico hoc modo: Sunt tres opiniones de bono, puta vita: quædam
enim est ipsius boni opinio vera, quoniam bonum est, puta, quod vita sit
bona; alia vero falsa negativa, scilicet, quoniam bonum non est, puta,
quod vita non sit bona; alia item falsa affirmativa contrarii, scilicet,
quoniam malum est, puta, quod vita sit mala. Quæritur ergo quæ
harum falsarum contraria est veræ? Quod autem subdidit: Et si est una,
secundum quam contraria est, tripliciter legi potest. Primo, dubitative,
ut Sit pars quæstionis; et tunc est sensus: quæritur quæ harum
falsarum contraria est veræ: et simul quæritur, si est tantum una harum
falsarum secundum quam fiat contraria ipsi veræ: quia cum unum uni sit
contrarium, ut dicitur in X Metaphysicæ, quærendo quæ harum
sit contraria, quæremus etiam an una earum sit contraria. Alio modo,
potest legi adversative, ut sit sensus: quæ16 Supra lect. 1, n.
I. Ed. c: singula. ritur quæ harum sit contraria; quamquam sciamus
quod non utraque sed una earum est secundum quam fit contrarietas. -
Tertio modo, potest legi dividendo hanc particulam, Et si est una, ab illa
sequenti, secundum quam contraria est; et tunc prima pars expressive,
secunda vero Boethius. dubitative legitur; et est sensus: quæritur
quæ harum falsarum contraria est veræ, non solum si istæ duæ falsæ
inter se differunt in consequendo, sed etiam si utraque est una, idest
alteri indivisibiliter unita, quæritur secundum quam fit contrarietas. Et
hoc modo exponit Boethius, dicens quod Aristoteles apposuit hæc
verba propter contraria immediata, in quibus non differt contrarium a
privativo. Inter contraria enim mediata et immediata hæc est differentia, quod
immediatis a prwativo contrarium non infertur. Non enim valet, corpus
colorabile est non album, ergo est nigrum: potest enim esse rubrum.
In immediatis autem valet; verbi gratia: amimal est mon sanum, ergo
infirmum ; numerus est non par, ergo impar. Voluit ergo Aristoteles
exprimere quod nunc, cum quærimus quæ harum falsarum, scilicet negativæ et
affirmativæ contrarii, sit contraria affirmativæ veræ, quærimus
universaliter sive illæ duæ falsæ indivisibiliter se sequantur, sive non.
8. Deinde cum dicit: Nam arbitrari, prosequitur hanc secundam quæstionem.
Et circa hoc quatuor facit. Primo, declarat quod contrarietas opinionum
non attenditur penes contrarietatem materiæ, circa quam versantur, sed
potius penes oppositionem veri vel falsi; secundo, declarat quod
non penes quæcunque opposita secundum veritatem et falsitatem est
contrarietas opinionum; ibi: Si ergo boni etc.; tertio, determinat quod
contrarietas opinionum attenditur penes per se primo opposita secundum
veritatem et falsitatem tribus rationibus; ibi: Sed im quibus primo fallacia
etc.; quarto, declarat hanc determinationem inveniri in omnibus veram;
ibi: Manifestum. est igitur etc. Dicit ergo proponens intentam
conclusionem, quod falsum est arbitrari opiniones definiri seu
determinari debere contrarias ex eo quod contrariorum obiectorum sunt. Et
adducit ad hoc duplicem tationem. Prima est: opiniones contrariæ non sunt eadem
opinio; sed contrariorum eadem est fortasse opinio; ergo opiniones non
sunt contrariæ ex hoc quod contrariorum sunt. - Secunda est:
opiniones contrariæ non sunt simul veræ; sed opiniones contrariorum, sive
plures, sive una, sunt simul veræ quandoque; ergo opiniones non sunt
contrariæ ex hoc quod contrariorum sunt.- Harum rationum,
suppositis maioribus, ponit utriusque minoris declarationem simul,
dicens: Boni enim, quoniam bonum est, et mali, quoniam malum est, eadem
forlasse opinio est, quoad primam. Et subdit esse vera, sive plures sive
una sit, quoad secundam. Utitur autem dubitativo adverbio et
disiunctione, quia non est determinandi locus an contrariorum eadem
sit opinio, et quia aliquo modo est eadem et aliquo modo non. Si enim
loquamur de habituali opinione, sic eadem est; Si autem de actuali, sic
non eadem est. Alia siquidem mentalis compositio actualiter fit, concipiendo
bonum esse bonum, et alia concipiendo malum esse malum, licet eodem
habitu utrunque cognoscamus, illud per se primo, et hoc secundario, ut
dicitur IX Metaphysicæ. Deinde subdit quod ista quæ ad declarationem minorum
sumpta sunt, scilicet bonum et malum, contraria sunt ac
etiam contrarietate sumpta stricte in moralibus, per hoc congrua
usi sumus declaratione. Ultimo inducit conclusionem. Sed non in eo quod
contrariorum opiniones sunt, contrariæ sunt, sed magis in eo quod
contrariæ, idest, sed potius censendæ sunt opiniones contrariæ ex eo quod
contrarie adverbialiter, scilicet contrario modo, idest vere et false
enunciant. Et sic patet primum. 9. Si ergo boni etc. Quia dixerat
quod contrarietas opinionum accipitur secundum oppositionem veritatis et
falsitatis earum, declarat modo quod non quæcunque secundum veritatem et
falsitatem oppositæ opiniones sunt contrariæ, tali ratione. De bono,
puta, de iustitia, quatuor possunt opiniones haberi, scilicet quod
iustitia est bona, et quod non est bona, et quod est fugibilis, et quod
est non appetibilis. Quarum prima est vera, reliquæ sunt falsæ. Inter
quas hæc est diversitas quod, prima negat idem prædicatum quod vera
affirmabat secunda affirmat aliquid aliud quod bono non inest; tertia
negat id quod bono inest, non tamen illud quod vera affirmabat.
Tunc sic. Si omnes opiniones secundum veritatem et falsitatem sunt
contrariæ, tunc uni, scilicet veræ opinioni non solum multa sunt
contraria, sed etiam infinita: quod est impossibile, quia unum uni est
contrarium. Tenet consequentia, quia possunt infinitæ imaginari opiniones
falsæ de una re, similes ultimis falsis opinionibus adductis,
affirmantes, scilicet ea quæ non insunt illi, et negantes ea quæ
illi quocunque modo coniuncta sunt: utraque namque indeterminata esse et
absque numero constat. Possumus* enim opinari quod iustitia est
quantitas, quod est relatio, quod est hoc et illud; et similiter opinari
quod iustitia non sit qualitas, non sit appetibilis, non sit
habitus. Unde ex supradictis in propositione quæstionis, inferens
pluralitatem falsarum contra unam veram, ait: Si ergo est opinatio vera
boni, puta iustitiæ, quoniam est bonum; et si est etiam falsa opinatio
negans idem, scilicet, quoniam mon est quid bonum; est vero et tertia opinatio
falsa quoque, affirmans aliquid aliud inesse illi, quod non inest nec
inesse potest, puta, quod iustitia sit fugibilis, quod sit illicita; et hinc
intelligitur quarta falsa quoque, quæ scilicet negat aliquid aliud ab eo
quod vera opinio affirmat inesse iustitiæ, quod tamen inest, ut
puta quod non sit qualitas, quod non sit virtus; si ita inquam est,
nulla aliarum falsarum ponenda est contraria opinioni veræ. Et exponens
quid demonstret per ly aliarum, subdit: Neque quæcumque opinio opinatur esse
quod mom est, ut tertii ordinis opiniones faciunt: meque quæcumque
opiEt nio opinatur non. esse quod est, ut quarti ordinis opiniones
significant. causam subdit: Infimitæ enim utræque sunt, el quæ esse
opinantur quod mom est, el quæ mon esse quod est, ut supra declaratum
fuit. Non ergo quæcunque opiniones oppositæ
secundum veritatem et falsitatem contrariæ sunt. Et sic patet secundum.
d. c et: possum (Cann. CarkrANI lect. xi1) ILLA VERI FALSIQUE
OPPOSITIO, QUÆ OPINIONUM CONTRARIETATEM CONSTITUIT, EST OPPOSITIO
SECUNDUM AFFIRMATIONEM ET NEGATIONEM EIUSDEM DE EODEM. ἀλλ᾽ ἐν ὅσαις ἐστὶν
ἡ ἀπάτη. Αὐται δέ εἰσιν ἐξ ὧν αἱ αἱ t, γενέσεις" ἐκ τῶν ἀντικειμένων
δὲ αἱ γενέσεις, ὥστε χαὶ, ^,
E ἀπάται. Ei οὖν τὸ ἀγαθὸν xal ἀγαθὸν xal οὐ χαχόν ἐστι;
xad τὸ μὲν καθ᾽ ἑαυτό, τὸ δὲ χατὰ συμβεβηκός (συμβέβηκε γὰρ αὐτῷ οὐ καχῷ εἶναι),
μᾶλλον δὲ ἑκάστου, Sed in quibuscunque fallacia est. Hæ autem sunt ex his
Seq.c.xiv. ex quibus sunt generationes: ex oppositis vero generationes
sunt: quare etiam fallacia. Si ergo quod bonum est, et bonum, et non
malum est; et ἀληθὴς ἡ καθ᾽ ἑαυτό, καὶ ψευδής, εἴπερ καὶ ἀληθής.
Ἡ μὲν οὖν ὅτι οὐχ ἀγαθὸν τὸ ἀγαθὸν τοῦ καθ᾽ ἑαυτὸ ὑπάρχοντος, ψευδής, ἡ δὲ
τοῦ ὅτι χακὸν τοῦ κατὰ συμβεβηκός. “Ὥστε μᾶλλον ἂν εἴη ψευδής τοῦ ἀγαθοῦ
ἡ τῆς ἀποφάσεως, ἢ ἡ τοῦ ἐναντίου δόξα. Διέψευσται δὲ μάλιστα περὶ ἕκαστον ὁ τὴν
ἐναντίαν ἔχων. δόξαν: τὰ γὰρ ἐναντία τῶν πλεῖστον διαφερόντων περὶ τὸ
αὐτό. Εἰ οὖν ἐναντία μὲν τούτων ἡ ἑτέρα; ἐναντιωτέρα δὲ ἡ τῆς ἀποφάσεως, δῆλον
ὅτι αὑτὴ ἂν εἴη ἐναντία. Ἢ δὲ τοῦ ὅτι κακὸν τὸ ἀγαθὸν συμ.πεπλεγμένη ἐστί:
xol γὰρ ὅτι οὐχ ἀγαθὸν ἀνάγχη ἴσως ὑπολαμβάνειν τὸν αὐτόν. hoc
quidem secundum se, illud vero secundum accidens (accidit enim ei non malum
esse); magis autem in unoquoque vera est, quæ secundum se est etiam
falsa, est falsa siquidem et vera. Ergo ea quæ est, quoniam
non bonum quod bonum est, eius, quæ secundum se est;
eius, quæ illa vero quæ est, quoniam malum
est, est secundum accidens. Quare magis erit falsa de bono ea, quæ
est negationis opinio, quam ea, quæ est contrarii. Falsus autem est
maxime circa singula, qui habet contrariam opinionem: contraria
enim sunt eorum, quæ plurimum circa idem differunt. Si igitur harum
contraria est altera, magis vero negationis est contraria;
manifestum est quoniam hæc erit contraria. Illa vero quæ est, quoniam
malum est, quod bonum est, implicita est. Etenim quoniam non bonum Ἔτι
δέ, εἰ καὶ ἐπὶ τῶν ἄλλων ὁμοίως δεῖ ἔχειν, καὶ ταύτῃ ἂν δόξειε καλῶς
concava ἢ γὰρ πανταχοῦ τὸ τῆς ἀποφάσεως ἢ οὐδαμοῦ. Ὅσοις δὲ μή ἐστιν
ἐναντία, περὶ τούτων ἔστι μὲν ψευδὴς ἡ τῇ ἀληθεῖ ἀντικειμένη, οἷον ὁ τὸν ἄνθρωπον
οὐχ ἄνθρωπον οἰόμενος ον Ei οὖν ἄλλαι αἱ τῆς ἀποφάσεως.
αὗται ἐναντίαι. xal αἱ: Ἔτι ὁμοίως ἔχει ἡ τοῦ ἀγαθοῦ ὅτι ἀγαθὸν καὶ ἡ τοῦ
^, μὴ ἀγαθοῦ ὅτι οὐχ ἀγαθόν, xad πρὸς ταύταις ἡ τοῦ ἀγαθοῦ ὅτι οὐκ ἀγαθόν,
καὶ ἡ τοῦ μὴ ἀγαθοῦ ὅτι ἀγαθόν. Τῇ οὖν τοῦ μηὴ ἀγαθοῦ ὅτι οὐχ ἁ αθὸν
ἀληθεῖ οὔσῃ δόξῃ τίς ἂν εἴη ἡ ἐναντία ; οὐ γὰρ δ᾽ὴ ἡ λέγουσα ὅτι Xa dv ἅμα
γὰρ ἄν ποτε εἴη ἀληθής, s? hail δὲ ἀληθὴς ἀληθεῖ ἐναντία. Ἔστι γάρ τι
μὴ ἀγαθὸν χακόν, ὥστε ἐνδέχεται ἅμα ἀληθεῖς εἶναι. Οὐδ᾽ αὖ ἡ ὅτι οὐ κακόν:
ἀληθὴς γὰρ καὶ αὕτη" ἅμα γὰρ καὶ ταῦτα ἂν εἴη. Λείπεται οὖν τῇ τοῦ μὴ
ἀγαθοῦ ὅτι οὐχ ἀγαθὸν ἐναντία ἡ τοῦ μὴ ἀγαθοῦ ὅτι ἀγαθόν" ψευδὴς γὰρ
αὕτη. Ὥστε χαὶ ἡ τοῦ ἀγαθοῦ ὅτι οὐκ ἀγαθὸν τῇ τοῦ ἀγαθοῦ ὅτι ἀγαθόν.
V Φανερὸν δὲ ὅτι οὐδὲν διοίσει οὐδ᾽ ἂν καθόλου τιθῶμεν τὴν κατάφασιν:
ἡ γὰρ καθόλου ἀπόφασις ἐναντία ἔσται, οἷον τῇ δόξῃ τῇ Sobakoóon, ὅτι πᾶν ὃ
ἂν dj ἀγαθὸν ἀγαθόν ἐστιν, ἡ ὅτι οὐδὲν τῶν ἀγαθῶν ἀγα0óv: Ἢ γὰρ τοῦ ἀγαθοῦ
ὅτι ἁ αθόν, εἰ χαθόλου τὸ ἀγαθόν, ἡ αὐτή ἐστι τῇ ὅτι ὃ ἂν ἡ ἀγαθὸν δοξαζούσῃ
ὅτι ἀγαθόν" τοῦτο δὲ οὐδὲν διαφέρει τοῦ ὅτι πᾶν ὃ ἂν fj ἀγαθὸν ἀγαθόν
ἐστι. 'Ομοίως $: xal ἐπὶ τοῦ μὴ ἀγαθοῦ. “Ὥστε εἴπερ ἐπὶ δόξης οὕτως
ἔχει; εἰσὶ δὲ αἱ ἐν τῇ φωνῇ καταφάσεις καὶ ἀποφάσεις σύμβολα τῶν ἐν τῇ ψυχῇ,
δῇλον ὅτι χαὶ καταφάσει ἐναντία μὲν ἀπόφασις ἡ περὶ τοῦ αὐτοῦ χαθόλου, οἷον,
τῇ ὅτι πᾶν ἀγαθὸν ἀγαθόν, ἢ ὅτι πᾶς ἄνθρωπος ἀγαθός, ἡ ὅτι οὐθὲν ἢ οὐδείς,
ἀντιφατικῶς $n ἢ οὐ πᾶν ἢ οὐ πᾶς. est, necesse est forte idem ipsum
opinari. Amplius si etiam in aliis similiter oportet se habere, et
hoc modo videbitur bene esse dictum. Aut enim ubique ea, quæ est contradictionis, aut
nusquam. Quibus vero non est contrarium, de his quidem est falsa ea,
quæ est veræ opposita; ut qui hominem non putat esse hominem, falsus est.
Si ergo hæ contrariæ sunt, etiam
aliæ quæ sunt contradictiones. Amplius similiter se habet
opinio boni, quoniam bonum est, et non boni, quoniam non bonum est. Et
præter has boni, quoniam non bonum est, et non boni quoniam bonum est.
Illi ergo quæ est, non boni quoniam non bonum est; veræ opinationi quænam
est contraria? non enim ea, quæ dicit quoniam malum est: simul enim aliquando
veræ erunt. Nunquam autem vera veræ est contraria: est enim
quidquam non bonum malum. Quare contingit simul esse veras. At vero
nec illa, quæ est, quod non malum: vera enim et, hæc: simul enim et hæc
erunt. Relinquitur ergo, ei, quæ est non-bonum, quoniam non bonum est,
contraria ea, quæ est, non boni, quoniam bonum est. Falsa enim hæc.
Quare et ea, quæ est boni, quoniam non bonum est, ei, quæ est boni,
quoniam est bonum. Manifestum est autem quoniam nihil interest nec si
universaliter ponamus affirmationem. Universalis enim negatio contraria erit;
ut opinioni, quæ opinatur, quoniam omne .quod est bonum, bonum est, ea quæ
est, quoniam nihil horum quæ bona sunt, bonum est. Nam ea quæ
est boni quoniam bonum est, si universaliter sit bonum, eadem est ei quæ
opinatur, quod quidquid bonum est, quoniam bonum est. Hoc autem nihil
differt ab eo quod est, quod omne quod est bonum, bonum est. Similiter autem et
in non bono. Quare si in opinione sic se habet; sunt autem hæ quæ
sunt in voce affirmationes et negationes notæ eorum quæ sunt in anima;
manifestum est quoniam affirmationi contraria quidem negatio est, quæ de eodem
universaliter; ut ei, quæ est, quoniam omne bonum bonum est, vel quoniam omnis
homo bonus, ea quæ est, quoniam nullum vel nullus: contradictorie autem
quæ est, quod non omne aut non omnis. Φανερὸν δὲ ὅτι καὶ ἀληθῇ ἀληθεῖ οὐχ ἐνδέχεται ἐναντίαν εἶναι οὔτε δόξαν οὔτε ἀπόφασιν. ᾿Εναντίαι μὲν γὰρ αἱ περὶ τὰ ἀντικειμενα περὶ ταῦτα δὲ ἐνδέχεται τὸν ἀληθεύειν αὐτόν: x s οὐχ ἐνδέχεται τὰ ἐναντία ὑπαάρχειντῷ αὐτῷ. uia subtili indagatione
ostendit quod nec materiæ contrarietas, nec veri falsique qualisτῷ hcunque oppositio contrarietatem opinionum
ZA constituit, sed quod aliqua veri falsique oppositio id facit, ideo nunc
determinare intendit qualis sit illa veri falsique oppositio, quæ
opinionum contrarietatem constituit. Ex hoc enim directe quæstioni satisfit. Et
intendit quod sola oppositio opinionum secundum affirmationem et
negationem eiusdem de eodem etc. constituit contrarietatem earum. Unde intendit
probare istam conclusionem per quam ad quæsitum respondet: Opiniones
oppositæ secundum affirmationem et negationem eiusdem de eodem sunt
contrariæ; et consequenter illæ, quæ sunt oppositæ secundum aflirmationem
contrariorum prædicatorum de eodem, non sunt contrariæ, quia Manifestum
est autem, quoniam et veram veræ non contingit esse contrariam, nec opinionem
nec contradictionem. Contrariæ enim, quæ circa opposita sunt; circa eadem
autem contingit verum dicere eumdem; simul autem non contingit eidem
inesse contraria. et illi inter quos est primo fallacia, quia
utrobique termini sunt affirmatio et negatio. ἡ Deinde cum dicit: Si ergo quod bonum est etc.,
intendit probare maiorem principalis rationis. Et quia iam declaravit
quod ea, in quibus primo est fallacia, sunt affirmatio et negatio, ideo
utitur, loco maioris probandæ, scilicet, opiniones in quibus primo
est fallacia, sunt contrariæ, sua conclusione, scilicet, opiniones.
oppositæ secundum affirmationem et negationem eiusdem sunt
contrariæ. Æquivalere enim iam declaratum est. Fecit autem hoc
consuetæ brevitati studens, quoniam sic procedendo, et probat maiorem, et
respondet directe quæstioni, et applicat ad propositum simul. Probat ergo
loco maioris conclusionem principaliter intentam quæstionis, hanc,
scilicet: Opiniones oppositæ secundum affirmasic affirmativa vera haberet duas
contrarias, quod est impossibile. Unum enim uni est
contrarium. Probat autem istam conclusionem tribus rationibus. -Prima est:
opiniones in quibus primo est fallacia sunt contrariæ; opiniones oppositæ
secundum affirmationem et negationem eiusdem de eodem sunt in quibus
primo est fallacia; ergo opiniones oppositæ secundum affirmationem et
negationem eiusdem de eodem sunt contrariæ. - Sensus maioris est: opiniones quæ
primo ordine naturæ sunt termini fallaciæ, idest deceptionis seu erroris,
sunt contrariæ: sunt enim, cum quis fallitur seu errat, duo termini,
scilicet a quo declinat, et ad quem labitur. Huius rationis in littera primo
ponitur maior, cum dicitur: Sed in. quibus primo fallacia est ; adversative
enim continuans sermonem supra dictis, insinuavit non tot enumeratas opiniones
esse contrarias, sed eas in quibus primo fallacia est modo
exposito. Deinde subdit probationem minoris talem: eadem proportionaliter
sunt, ex quibus sunt generationes et ex quibus sunt fallaciæ; sed
generationes sunt ex oppositis secundum affirmationem et negationem; ergo et
fallaciæ sunt ex oppositis secundum affirmationem et negationem. Quod erat
assumptum in minore. Unde ponens maiorem huius prosyllogismi, ait: Hæc
autem, scilicet fallacia, est ex bis, scilicet terminis, proportionaliter
tamen, ex quibus sunt et generationes. Et subsumit minorem: Ex oppositis
vero, scilicet secundum affirmationem et negationem, et generationes fiunt. Et
demum concludit: Quare etiam fallacia, scilicet, est ex oppositis secundum
affirmationem et negationem eiusdem de eodem. 3. Ad evidentiam huius
probationis scito quod idem faciunt in processu intellectus cognitio et
fallacia seu error, quod in processu naturæ generatio et corruptio.
Sicut namque perfectiones naturales generationibus acquiruntur, corruptionibus
desinunt; ita cognitione perfectiones intellectuales acquiruntur, erroribus
autem seu deceptionibus amittuntur. Et ideo, sicut tam generatio quam
corruptio est inter affirmationem et negationem, ut proprios terminos, ut
dicitur V Pbysic.; ita tam cognoscere aliquid, quam falli circa illud,
est inter affirmationem et negationem, ut proprios terminos: ita quod id
ad quod primo attingit cognoscens aliquid in secunda operatione
intellectus est veritatis affirmatio, et quod per se primo
abiicitur est illius negatio. Et similiter quod per se primo perdit qui
fallitur est veritatis affirmatio, et quod primo incurrit est veritatis
negatio. Recte ergo dixit quod iidem sunt termini inter quos primo est
generatio, tionem et negationem eiusdem sunt contrariæ; et
non illæ, quæ sunt oppositæ secundum contrariorum affrmationem de eodem.
Et intendit talem rationem. Opinio vera et eius magis falsa sunt contrariæ
opiniones; 'oppositæ secundum affirmationem et negationem sunt
vera et eius magis falsa; ergo opiniones oppositæ secundum
affirmationem et negationem sunt contrariæ. Maior probatur ex eo quod,
quæ plurimum distant circa idem sunt contraria; vera autem et eius magis
falsa plurimum distant circa idem, ut patet. Minor vero probaturex eo
quod opposita secundum negationem eiusdem de eodem est per se falsa
respectu suæ affirmationis veræ. Opinio autem per se falsa magis falsa
est quacunque alia. Unumquodque enim quod est per se tale, magis tale est
quolibet quod est per aliud tale. 5. Unde ad suprapositas opiniones in
propositione quæstionis rediens, ut ex illis exemplariter clarius
intentum ostendat, a probatione minoris inchoat tali modo. Sint quatuor
opiniones, duæ veraé, scilicet, bonum est bonum, bonum non est malum, et
duæ falsæ, scilicet, bonum non est bonum, et, bonum est malum. Clarum
est autem quod prima vera est ratione sui, secunda autem est vera
secundum accidens, idest, ratione alterius, quia scilicet non esse malum est
coniunctum ipsi bono: ideo enim ista est vera, bonum non est malum, quia
bonum est bonum, et non e contra; ergo prima quæ est secundum
se vera, ést magis vera quam sécunda: quia in unoquoque genere quæ
secundum se est vera est magis vera. sunt, Illæ autem
duæ falsæ eodem modo censendæ quod scilicet magis falsa est, quæ secundum
se est falsa. Unde quia prima earum, scilicet, bonum non est bonum,
quæ est negativa, est per se et non ratione alterius falsa, relata ad illam
affirmativam, bonum est bonum; et secunda, scilicet, bonum est malum, quæ
est affirmativa contrarii, ad eamdem relata est falsa per accidens, idest
ratione alterius (ista enim, scilicet, bonum est malum, non immediate falsificatur
ab illa vera, scilicet bonum est bonum, sed mediante illa alia falsa,
scilicet, bonum non est bonum); idcirco magis falsa respectu
affirmationis veræ est negatio eiusdem quam affirmatio contrarii. Quod erat
assumptum in minore. 6. Unde rediens ad supra positas (ut dictum est)
opiniones, infert primas duas veras opiniones dicens: Si ergo quod bonum.
est et bonum est et. mon. est malum; et hoc quidem, scilicet quod dicit prima
opinio, est verum secundum se, idest ratione sui; illud vero, scilicet quod
dicit, ecunda opinio, est verum secundum accidens, quia acci: it,
idest, coniunctum est ei, scilicet bono, malum non esse. In unoquoque
autem ordine magis vera est illa quæ secundum se est vera. Etiam igitur
falsa magis est quæ secundum se falsa est: siquidem et vera huius est
naturæ, ut declaratum est, quod scilicet magis vera est, quæ secundum se
est vera. Ergo illarum duarum opinionum falsarum in quæstione
propositarum, scilicet, bonum non est bonum, et, bonum est malum, ea quæ
est dicens, quoniam non est bonum quod bonum est, idest negativa,
scilicet, bonum non est bonum, est consistens falsa secundum se, idest, ratione
sui continet in seipsa falsitatem; illa vero reliqua falsa opinio, quæ
est dicens, quoniam malum est, idest, affirmativa contraria, scilicet,
bonum est malum, eius, quæ est, idest, illius affirmationis dijd.
Ed. e et CTS ENT AQUINO TRENT ἀπ᾿ : j centis, bonum est bonum, secundum
accidens, idest, ratione alterius falsa est. Deinde subdit ipsam minorem: Quare erit magis
falsa de bono, opinio negationis, quam contrarii. Deinde ponit maiorem
dicens quod, semper magis falsus circa singula est ille qui babet
contrariam opinionem, ac si dixisset, veræ opinioni magis falsa-est
contraria. Quod assumptum erat in maiore. Et eius probationem subdit,
quia contrarium est de num?ro eorum. quæ. circa idem. plurimum differunt.
Nihil enim plus differt a vera opinione quam magis falsa circa
illam. Ultimo directe applicat ad quæstionem dicens: Quod si (pro,
quia) barum falsarum, scilicet, negationi eiusdem et affirmationis
contrarii, altera est contraria veræ affirmationi, opinio vero contradictionis,
idest, negationis eiuslem de eodem, magis est contraria secundum
falsitatem, idest, magis est falsa, manifestum est quoniam hæc, scilicet
opinio falsa negationis, erit contraria affirmationi veræ, et e contra. Illa
vero opinio quæ est dicens, quoniam malum est quod bonum est, idest, affirmatio
contrarii, non contraria sed implicita est, idest, sed implicans in se
veræ contrariam, scilicet, bonum non est bonum. Etenim necesse est ipsum
opinantem affirmationem contrarii opinari, quoniam idem de quo affirmat
contrarium non est bonum. Oportet siquidem si quis opinatur quod vita est
mala, quod opinetur quod vita non sit bona. Hoc enim necessario sequitur
ad illud, et non e converso; et ideo affirmatio contrarii implicita
dicitur. Negatio autem eiusdem de eodem implicita non est.- Et sic
finitur prima ratio. Notandum est hic primo quod ista regula
generalis tradita hic ab Aristotele de contrarietate opinionum,
quod Scilicet contrariæ opiniones sunt quæ opponuntur secundum
affirmationem et negationem eiusdem de eodem, et in se et in assumptis ad
eius probationem propositionibus scrupulosa est. Unde multa hic insurgunt
dubia.Primum est quia cum oppositio secundum affirmationem et negationem
non constituat contrarietatem sed contradictionem apud omnes philosophos,
quomodo Aristoteles opiniones oppositas secundum affirmationem et
negationem ex hoc contrarias ponat. Augetur et dubitatio quia dixit quod
ea in quibus primo est fallacia sunt contraria, et tamen subdit
quod sunt oppositæ sicut termini generationis, quos constat contradictorie
opponi. Nec dubitatione caret quomodo sit verum id quod supra diximus ex intentione
AQUINO (vedasi), quod nullæ duæ opiniones opponantur contradictorie; cum
hic expresse dicitur aliquas opponi secundum affirmatiónem et negationem.
Dubium secundo insurgit circa id quod assumpsit, quod contraria cuiusque
veræ est per se falsa. Hoc enim non videtur verum. Nam contraria istius veræ, Socrates
est albus, est ista, Socrates non. est albus, secundum
determinata; et tamen non est per se falsa. Sicut namque sua opposita affirmatio est per
accidens vera, ita ista est per accidens falsa. Accidit enim isti enunciationi
falsitas. Potest enim mutari in veram, quia est in materia
contingenti. Dubium est tertio circa id quod dixit: Magis vero contradictionis est
contraria. Ex hoc enim videtur velle quod utraque, scilicet, opinio
negationis et contrarii, sit contraria veræ affirmationi; et consequenter vel
uni duo ponit contraria, vel non loquitur de contrarietate proprie
sumpta: cuius oppositum supra ostendimus. 9. Ad evidentiam omnium, quæ
primo loco adducuntur, sciendum quod opiniones seu conceptiones intellectuales,
in secunda operatione de quibus loquimur, possunt tripliciter accipi: uno modo,
secundum id quod sunt absolute; alio modo, secundum ea quæ
repræsentant absolute; tertio, secundum ea quæ repræsentant, ut
sunt in ipsis opinionibus. Primo membro omisso, quia non est
præsentis speculationis, scito quod si accipiantur secundo modo secundum
repræsentata, sic invenitur inter eas et contradictionis, et privationis,
et contrarietatis oppositio. Ista siquidem mentalis enunciatio, Socrates
est videns, secundum id quod repræsentat opponitur illi, Socrates non est
videns, contradictorie; privative autem illi, Socrales est cæcus;
contrarie autem illi, Socrates est luscus; si accipiantur secundum
repræsentata. Ut enim dicitur ἴῃ Postprædicamentis, non
solum cæcitas est privatio visus, sed etiam cæcum esse est privatio huius
quod est esse videntem, et sic de aliis. Si vero accipiantur opiniones
tertio modo, scilicet, prout repræsentata per eas sunt in ipsis, sic
nulla oppositio inter eas invenitur nisi contrarietas: quoniam sive
opposita contradictorie sive privative sive contrarie repræsententur, ut
sunt in opinionibus, illius tantum oppositionis capaces sunt, quæ inter
duo entia realia inveniri potest. Opiniones namque realia entia sunt.
Regulare enim est quod quidquid convenit alicui secundum esse quod habet in
alio, secundum modum et naturam illius in quo est sibi convenit, et
non secundum quod exigeret natura propria.Inter entia autem realia
contrarietas sola formaliter reperitur. Taceo nunc de oppositione
relativa. Opiniones ergo hoc modo sumptæ, si oppositæ sunt,
contrarietatem sapiunt, sed non omnes proprie contrariæ sunt, sed illæ
quæ plurimum differunt circa idem veritate et falsitate. Has autem
probavit Aristoteles esse opiniones affirmationis et negationis eiusdem
de eodem. Istæ igitur veræ contrariæ sunt. Reliquæ vero per reductionem
ad has contrariæ dicuntur. IO. Ex his patet quid ad obiecta dicendum sit.
Fatemur enim quod affirmatio et negatio in seipsis contradictionem constituunt;
in opinionibus vero existentes contrarietatem inter illas causant propter
extremam distantiam, quam ponunt inter entia realia, opinionem scilicet
veram et opinionem falsam circa idem. Stantque ista duo simul quod ea, in
quibus primo est fallacia, sint opposita ut termini generationis,
et tamen sint contraria utendo supradicta distinctione: sunt enim
opposita contradictorie ut termini generationis secundum repræsentata ;
sunt autem contraria, secundum quod habent in seipsis illa
contradictoria. Unde plurimum differunt. - Liquet quoque ex hoc
quod nulla est dissentio inter dicta Aristotelis et s. Thomæ, quia
opiniones aliquas opponi secundum affirmationem et negationem verum esse
confitemur, si ad repræsentata nos convertimus, ut hic dicitur. Tu autem
qui perspicacioris ac provectioris ingenii es compos, hinc habeto quod inter
ipsas opiniones oppositas quidam tantum motus est, eo quod de affrmato in
affirmatum mutatio fit: inter ipsas vero secundum repræsentata, similitudo
quædam generationis et corruptionis invenitur, dum inter affirmationem et
negationem mutatio clauditur. Unde et fallacia sive error quandoque
et motus et mutationis rationem habet diversa respiciendo, quando
scilicet ex vera in per se falsam, vel e converso, Secundum autem dictum
simpliciter verum est, quoniam quis mutat opinionem ; quandoque autem
solam mutationem imitatur, quando scilicet absque præopinata veritate ipsam
falsam offendit quis opinionem; quandoque vero motus undique rationem
possidet, quando scilicet ex vera affirmatione in falsam circa idem
contrarii affirmationem transit. Quia tamen prima ut quis fallatur radix
est oppositio affirmationis et negationis, merito ea in quibus
primo est fallacia, sicut generationis terminos opponi dixit. Ad dubium secundo loco adductum dico quod
peccatur ibi secundum æquivocationem illius termini per se falsa, seu per
se vera. Opinio enim et similiter enunciatio potest dici dupliciter per se vera
seu falsa. Uno modo, in seipsa, sicut sunt omnes veræ secundum illos modos
perseitatis qui enumerantur I Posteriorum, et similiter falsæ secundum
illosmet modos, ut, bomo non est animal. Et hoc modo non accipitur in hac
regula de contrarietate opinionum et enunciationum opinio per se vera
aut falsa, ut efficaciter obiectio adducta concludit. Si enim ad
contrarietatem opinionum hoc exigeretur non possent esse opiniones
contrariæ in materia contingenti: quod est falsissimum. Alio modo potest
dici opinio sive enunciatio per se vera aut falsa respectu suæ oppositæ.
Per se vera quidem respectu suæ falsæ, et per se falsa respectu suæ
veræ. Et tunc nihil aliud est dicere, est per se vera respectu illius, nisi
quod ratione sui et non alterius verificatur ex falsitate illius. Et
similiter cum dicitur, est per se falsa respectu illius, intenditur quod
ratione sui et non alterius falsificatur ex illius
veritate. Verbi gratia; istius veræ, Socrates currit, non est per se
falsa, Socrates sedet, quia falsitas eius non immediate sequitur ex illa,
sed mediante ista alia falsa, Socrates non currit, quæ est per se
illius falsa, quia ratione sui et non per aliquod medium ex illius
veritate falsificatur, ut patet. Et similiter istius falsæ, Socrates est.
quadrupes, non est per se vera ista, Socrates est bipes, quia non
per seipsam veritas istius illam falsificat, sed mediante ista, Socrales mon
est quadrupes, quæ est per se vera respectu illius: propter seipsam
enim falsitate istius verificatur, ut de se patet. Et hoc secundo
modo utimur istis terminis tradentes regulam de contrarietate opinionum et
enunciationum. Invenitur siquidem sic universaliter vera in omni materia regula
dicens quod, vera et eius per se falsa, et falsa et eius per se
vera, sunt contrariæ. Unde patet responsio ad obiectionem, quia procedit
accipiendo ly per se vera, et per se falsa primo modo. Ad ultimum
dubium dicitur quod, quia inter opiniones ad se invicem pertinentes nulla alia
est oppositio nisi contrarietas, coactus fuit Aristoteles (volens
terminis specialibus uti) dicere quod una est magis contraria quam
altera, insinuans quidem quod utraque contrarietatis. oppositionem habet
respectu illius veræ. Determinat tamen immediate quod tantum una earum,
scilicet negationis opinio, contraria est affirmationi veræ. Subdit enim:
Manifestum est quoniam. bæc contraria erit. Duo ergo dixit, et quod
utraque, tam scilicet negatio eiusdem quam affirmatio contrarii,
contrariatur affirmationi veræ, et quod una tantum earum, negatio
scilicet, est contraria. Et utrunque est verum. Illud quidem, quia, ut dictum
est, ambæ contrarietates oppositione contra affirmationem moliuntur; sed
difformiter, quia opinio negationis primo et per se contrariatur,
affirmationis vero contrarii opinio secundario et per accidens, idest per
aliud, ratione scilicet negativæ opinionis, ut declaratum est: sicut
etiam in naturalibus albo contrariantur et nigrum et rubrum, sed illud primo,
hoc reductive, ut reducitur scilicet ad nigrum illud inducendo, ut dicitur
Pbysicor. simpliciter contraria non sunt nisi extrema unius latitudinis,
quæ maxime distant; extrema autem unius distantiæ non sunt nisi duo. Et ideo
cum inter pertinentes ad se invicem opiniones unum extremum teneat
affirmatio vera, reliquum uni tantum falsæ dandum est, illi scilicet
quæ maxime a vera distat. Hanc autem negativam opinionem esse
probatum est. Hæc igitur una tantum contraria est illi, simpliciter
loquendo. Cæteræ enim oppositæ
ratione istius contrariantur, ut de mediis dictum est. Non ergo uni
plura contraria posuit, nec de contrarietate large loquutus est, ut obiiciendo
dicebatur. Deinde cum dicit: Amplius si etiam etc., probat idem,
scilicet quod affirmationi contraria est negatio eiusdem, et non
affirmatio contrarii secunda ratione, dicens: Si in aliis materiis oportet
opiniones se habere similiter, idest, eodem modo, ita quod contrariæ in
aliis materiis sunt affirmatio et negatio eiusdem; et hoc, scilicet quod
diximus de boni et mali opinionibus, videtur esse bene dictum, quod
scilicet contraria affirmationi boni non est affirmatio mali, sed negatio boni.
Et probat hanc consequentiam subdens: Aut enim ubique, idest, in omni
materia, ea quæ est contradictionis altera pars censenda est
contraria suæ affirmationi, aut nusquam, idest, aut in nulla materia. Si enim est una ars generalis accipiendi contrariam
opinionem, oportet quod ubique et in omni materia uno et eodem modo
accipiatur contraria opinio. Et consequenter, si in aliqua materia negatio
eiusdem de eodem affirmationi est contraria, in omni materia negatio
eiusdem de eodem contraria erit affirmationi. Deinde intendens concludere a
positione antecedentis, affirmat antecedens ex sua causa, dicens quod illæ
materiæ quibus non inest contrarium, ut substantia et
quantitas, quibus, ut in Prædicamentis dicitur, nihil est contrarium. De his quidem est pér se
falsa ea, quæ est opinioni veræ opposita contradictorie, ut qui putat
hominem, puta Socratem non esse hominem, per se falsus est respectu putantis,
Socratem esse hominem. Deinde affirmando ipsum antecedens formaliter,
directe concludit intentum a positione antecedentis ad positionem consequentis
dicens: Si ergo bæ, scilicet, affirmatio et negatio in materia
carente contrario, sunt contrariæ, et omnes aliæ contradictiones
contrariæ censendæ sunt. Deinde cum dicit: Amplius similiter etc., probat
idem tertia ratione, quæ talis est: Sic se habent istæ duæ opiniones de
bono, scilicet, bonum est bonum, et, bonum non est bonum, sicut se habent
istæ duæ de non bono, scilicet, non bonum non est bonum, et, non bonum est
bonum. Utrobique enim salvatur oppositio contradictionis. Et primæ
utriusque combinationis sunt veræ, secundæ autem falsæ. Unde proponens
hanc maiorem quoad primas veras utriusque combinationis ait: Similiter se
babet opinio boni, quoniam bonum est, et non boni quoniam mon est
bonum. Et subdit quoad secundas utriusque falsas: Et super bas opinio
bomi quoniam mon est bonum, et. non boni quoniam .est bonum. Hæc est
maior. Sed illi veræ opinioni de non bono,scilicet, non bonum non est bonum,
contraria non est, non bonum est malum, nec bonum non est malum, quæ sunt
de prædicato contrario, sed illa, non bonum est bonum, quæ est eius
contradictoria ; ergo et illi veræ opinioni de bono, scilicet, bonum
est bonum, contraria erit sua contradictoria, scilicet, bonum non
est bonum, et non affirmatio contrarii, scilicet, bonum est malum. Unde subdit
minorem supradictam dicens: Illi ergo veræ opinioni non boni, quæ est dicens
quoniam scilicet non bonum non est bonum, quæ est. contraria. Non enim est
sibi contraria ea opinio, quæ dicit affirmativæ prædicatum contrarium,
scilicet, quod non bonum est malum: quia istæ duæ aliquando erunt simul
veræ. Nunquam autem vera opinio veræ contraria est. Quod autem istæ
duæ aliquando simul sint veræ, patet ex hoc quod quoddam non bonum malum
est: iniustitia enim quoddam non bonum est, et malum. Quare contingeret
contrarias esse simul veras: quod est impossibile. At vero nec supradictæ veræ
opinioni contraria est illa opinio, quæ est dicens prædicatum contrarium
negativæ, scilicet, non bonum non est malum, eadem ratione, quia simul et hæ
erunt veræ. Chimæra enim est quoddam non bonum, de qua verum est simul
dicere quod non est bona, et quod non est mala. Relinquitur ergo
tertia pars minoris quod ei opinioni veræ quæ, est dicens quoniam non
bonum non est bonum, contraria est ea opinio. non boni, quæ est dicens quod
est bonum, quæ est contradictoria ilius. Deinde subdit mativæ quæ
est, omne bonum est bonum, vel, omnis homo est bonus, contraria est
universalis negativa, ea scilicet, nullum bonum est bonum, vel, nullus
homo est bonus: singula singulis referendo. Contradictoria autem
negatio, contraria illi universali affirmationi est, aut, non omnis homo
est bonus, aut, non omne bonum est bonum, singulis singula similiter
referendo. - Et sic posuit utrunque divisionis membrum, et declaravit.
18. Sed est hic dubitatio non dissimulanda. Si enim affirmationi
universali contraria est duplex negatio, universalis scilicet et
contradictoria, vel uni duo sunt contraria, vel contrarietate large
utitur Aristoteles: cuius oppositum supra declaravimus. Augetur et
dubitatio: quia in præcedenti textu dixit Aristoteles quod, nihil
interest si universalem negationem faciamus ita contrariam universali
affBrmationi, sicut singularem singulari. conclusionem intentam: Quare et
ei opinioni boni, quæ dicit bonum est bonum, contraria est ea boni
opinio, quæ dicit quod bonum non est bonum, idest, sua contradictoria.
Contradictiones ergo contrariæ in omni materia censendæ sunt. Deinde cum
dicit: Manifestum est igitur etc., declarat determinatam veritatem extendi ad
cuiusque quantitatis opiniones. Et quia de indefinitis, et particularibus,
et singularibus iam dictum est, eo quod idem evidenter apparet de
eis in hac re iudicium (indefinitæ enim et particulares nisi pro eisdem
supponant sicut singulares, per modum affirmationis et negationis non
opponuntur, quia simul veræ sunt); ideo ad eas, quæ universalis
quantitatis sunt se transfert, dicens, manifestum esse quod nihil
interest quoad propositam quæstionem, si universaliter ponamus affirmationes.
Huic enim, scilicet, universali affirmationi, contraria est universalis
negatio, et non universalis affirmatio de contrario; ut opinioni quæ
opinatur, quoniam omne bonum est bonum, contraria est, nihil horum, quæ
bona sunt, idest, nullum bonum est bonum. Et declarat hoc ex quid nominis
universalis affirmativæ, dicens: Nam eius quæ est boni, quoniam bonum
est, si universaliter sit bonum : idest, istius opinionis universalis, omne
bonum est bonum, eadem est, idest, æquivalens, illa quæ opinatur, quidquid est
bonum est bonum; et consequenter sua negatio contraria est illa quam
dixi, nihil horum quæ bona sunt bonum est, idest, nullum bonum est bonum.
Similiter autem se habet in non bono: quia affirmationi universali de non
bono reddenda est negatio universalis eiusdem, sicut de bono dictum
est. Deinde cum dicit: Quare si in opinione
sic se ba/- Cf. lect. præced. n. 1, 5 seqq. Num. 2r. Cf.
lect. præced. n. 5, seqq. æe Ὑ I eu ER
CP πο INCUBE FRE bet etc., revertitur ad respondendum
quæstioni primo motæ, terminata iam secunda, ex qua illa dependet.
Et circa hoc duo facit: quia primo respondet quæstioni; secundo, declarat
quoddam dictum in præcedenti solutione; ibi: Manifestum est autem quoniam etc.
Circa primum duo facit. Primo, directe respondet quæstioni, dicens: Quare
si in opinione sic se' babet contrarietas, ut dictum est; et
affirmationes et negationes quæ sunt in voce, notæ sunt eorum, idest, affirmationum
et negationum quæ sunt in anima; manifestum. est. quoniam. affirmationi, idest,
enunciationi affirmativæ, contraria erit negatio circa idem, idest,
enunciatio negativa eiusdem de eodem, et non enunciatio affirmativa
contrarii. Et sic patet responsio ad primam quæstionem, qua quærebatur,
an enunciationi affirmativæ contraria sit sua negativa, an
affirmativa contraria ἢ. Responsum est enim quod negativa est contraria.
Secundo, dividit negationem contrariam affirmationi, idest, negationem universalem
et contradictoriam, dicens: Universalis, scilicet, negatio, affirmationi
contraria est etc. Ut exemplariter dicatur, ei enunciationi universali
affirEt ita declinari non potest quin affirmationi universali duæ sint
negationes contrariæ, eo modo quo hic loquitur de contrarietate
Aristoteles. Ad huius evidentiam notandum est quod, aliud est loqui
de contrarietate quæ est inter negationem alicuius universalis affirmativæ
in ordine ad affirmationem contrarii de eodem, et aliud est loqui de illamet
universali negativa in ordine ad negationem eiusdem affrmativæ
contradictoriam. Verbi gratia: sint quatuor enunciationes, quarum
nunc meminimus, scilicet, universalis affirmativa, contradictoria,
universalis negativa, et universalis affirmatio contrarii, sic dispositæ in
eadem linea recta: Omnis bomo est iustus, non omnis bomo est iustus,
omnis bomo non est iustus, omnis bomo est iniustus: et intuere quod
licet primæ omnes reliquæ aliquo modo contrarientur, magna
tamen differentia est inter primæ et cuiusque earum
contrarietatem. Ultima enim, scilicet affirmatio contrarii, primæ
contrariatur ratione universalis negationis, quæ ante ipsam sita est:
quia non per se sed ratione illius falsa est, ut probavit Aristoteles,
quia implicita est*. Tertia autem, idest universalis negatio, non per se
sed ratione secundæ, scilicet negationis contradictoriæ,
contrariatur primæ eadem ratione, quia, scilicet, non est per se
falsa illius affirmationis veritate, sed implicita: continet enim
negationem contradictoriam, scilicet, nom ommis bomo est iustus, mediante
qua falsificatur ab affirmationis veritate, quia simpliciter et prior est
falsitas negationis contradictoriæ falsitate negationis universalis:
totum namque compositius et posterius est partibus. Est ergo inter
has tres falsas ordo, ita quod affirmationi veræ contradictoria
negdtio simpliciter sola est contraria, quia est simpliciter respectu
illius per se falsa; affirmativa autem contrarii est per accidens
contraria, quia est per accidens falsa; universalis vero negatio, tamquam
medium sapiens utriusque extremi naturam, relata ad contrarii
affirmationem est per se contraria et per se falsa, relata autem ad
negationem contradictoriam est per accidens falsa et contraria. Sicut rubrum ad
nigrum est album, et ad album est nigrum, ut dicitur in V Physicorum.
Aliud igitur est loqui de negatione universali in ordine ad affirmationem
contrarii, et aliud in ordine ad negationem contradictoriam. Si
enim primo modo loquamur, sic negatio universalis per se contraria et per se
falsa est; si autem secundo modo, non est per se falsa, nec contraria
affirmationi. Quia ergo agitur ab Aristotele nunc quæstio, inter
affirmationem contrarii et negationem quæ earum contraria sit
affirmationi veræ, et non agitur quæstio ipsarum negationum inter se, quæ,
scilicet, earum contraria sit illi afhrmationi, ut patet in toto processu quæstionis;
ideo Aristoteles indistincte dixit quod utraque negatio est
contraria affirmationi veræ, et non affirmatio Cf.supra n. 4,
seqq. E contrarii. Intendens per hoc declarare diversitatem
quæ st inter affirmationem contrarii ét negationem in
hoc quod veræ aífirmationi contrariantur, et non intendens dicere
quod utraque negatio est simpliciter contraria. Hoc enim in dubitatione
non est quæsitum, sed illud tantum.- Et similiter dixit quod nihil interest si
quis ponat negationem universalem: nihil enim interest quoad hoc,
quod affirmatio contrarii ostendatur non contraria affirmationi veræ, quod
inquirimus. Plurimum autem interesset, si negationes ipsas inter se discutere
vellemus quæ earum esset affirmationi contraria.- Sic ergo patet
quod subtilissime Aristoteles locutus de vera contrarietate enunciationum, unam
uni contrariam posuit in omni materia et quantitate, dum simpliciter
contrarias contradictiones asseruit. Deinde cum dicit: Manifestum est
autem etc., resumit quoddam dictum ut probet illud, dicens: Manifestum
est autem. ex dicendis quod mom contingit veram. veræ contrariam esse, nec in
opinione mentali, mec in contradictione, idest, vocali enunciatione. Et
causam subdit: quia contraria sunt quæ circa idem opposita sunt; et
consequenter enunciationes et opiniones veræ circa diversa contrariæ esse
non possunt. Circa idem autem contingit simul omnes veras enunciationes
et opiniones verificari, sicut et significata vel repræsentata earum
simul illi insunt: aliter veræ tunc non sunt. Et consequenter omnes veræ
enunciationes et opiniones circa idem contrariæ non sunt, quia contraria
non contingit eidem simul inesse. Nullum ergo verum sive sit circa idem,
sive sit circa aliud, est alteri vero contrarium. Et sic finitur
expositio huius libri Perihermenias. Anno Nativitatis Dominicæ 1496, in Festo
Divi Thomae Aquinatis. Cui sit honor et gloria, eo quod dederit opus a se
inceptum, tanto tempore incompletum, perfici. Vio. Keywords: analogia,
commentary on Porphyry on Aristotle’s categories, the example of ‘healthy’[sanus,
corpore, medicina, excrementum], analogy in philosophical eschatology, analogy
of proportion, aequivocality, Grice, “focal unity”, “Aristotle on the
multiplicity of ‘being’” – ‘healthy’ – an animal is healthy – various types of
analogy. Unfortunately, the Germans focus more on his, the saint’s, fight with
Luther!” Seminar by Grice and Austin on DE INTERPRETATIONE – the Vio
commentary. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e de Vio” – Luigi Speranza, “Grice e Vio: Le categorie” -- The
Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia. VIO.
Luigi Speranza --
Grice e Virgilio: la ragione conversazionale e la leggenda d’Enea a Roma – la
scuola d’Andes -- filosofia italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di
H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Pietola). Filosofo romano. Filosofo italiano.
Pietole, Borgo Virgilio, Andes, Mantova. Publio Virgilio Marone Voce
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Disambiguazione – "Virgilio" rimanda qui. Se stai cercando altri
significati, vedi Virgilio (disambigua). Publio Virgilio Marone Publio
Virgilio Marone, noto semplicemente come Virgilio o Vergilio (in latino:
Publius Vergilius Maro, pronuncia classica o restituta: [ˈpuːblɪ.ʊs wɛrˈɡɪlɪ.ʊs
ˈmaroː]; Andes – Brindisi), è stato un poeta romano, autore di tre opere, tra
le più famose e influenti della letteratura latina: le Bucoliche[2][4]
(Bucolica), le Georgiche (Georgica), e l'Eneide (Aeneis). Al poeta viene
attribuita anche una serie di componimenti giovanili, la cui autenticità è
oggetto di discussioni accademiche, che si è soliti indicare nel complesso come
Appendix Vergiliana (Appendice Virgiliana).[1] V., per il senso sublime
dell'arte e per l'influenza che esercitò nei secoli, viene considerato il
massimo poeta di Roma,[1] nonché l'interprete più completo del grandioso
momento storico che, dalla morte di Giulio Cesare, conduce alla fondazione del
Principato e dell'Impero ad opera di Augusto.[1] L'opera di V., presa a
modello e studiata fin dall'antichità, ha avuto una profondissima influenza
sulla letteratura e sugli autori occidentali, in particolare su Dante Alighieri
e la sua Divina Commedia, nella quale V. funge anche da guida dell'Inferno e
del Purgatorio.[2] Biografia Immagine giovanile del poeta V., di
profilo e con la corona di alloro, di autore ignoto. A differenza di altri
poeti latini, sono molte le notizie giunte fino a noi, da fonti dirette o da
testimonianze indirette, in merito alla biografia di V.. La nascita
Casalpoglio, zona di Castel Goffredo, possibile luogo di nascita di V. Il poeta
nacque ad Andes, un piccolo villaggio sito nei pressi dell'antica città di
Mantua (odierna Mantova), nella Gallia Cisalpina (abolita ed annessa all'Italia
proprio durante la sua vita), il 15 ottobre del 70 a.C. da una benestante famiglia
di coloni romani, figlio di Marone Figulo, un piccolo proprietario terriero,
arricchitosi considerevolmente con l'apicoltura, l'allevamento e l'artigianato,
e di Màgia Polla, figlia a sua volta d'un facoltoso mercante, Magio, al cui
servizio aveva lavorato il padre del poeta in passato. Andes (dalla radice
etimologica and- che indica il cammino ad anse di un corso fluviale) era il
nome celtico del borgo sulla riva destra del fiume Mincio ove nacque il Sommo
Poeta, borgo che, rientrato nel feudo dei Canossa che ivi costruirono
l'importante pieve, nel medioevo mutò il nome in Pletule. Suo padre, a quanto
riferito, apparteneva alla gens Vergilia - di scarsa attestazione all'infuori
di sole quattro iscrizioni rinvenute nei pressi di Verona (3) e dell'odierna
Calvisano (1), che suggerirebbero pure una sua parentela con la gens Munatia[6]
-, mentre sua madre alla gens Magia, d'origine campana. Il biografo Foca lo
definisce "vates Etruscus" e le origini etrusche vengono confermate
dallo stesso poeta nell'Eneide: " Mantua dives avis....ipsa caput populis:
Tusco de sanguine vires" (E. X, 201 ss.). Il nome Marone (in latino
Maro) deriverebbe dalla carica politica etrusca di maru.[8] L'ubicazione
esatta del borgo natio del Vate è stata oggetto di controversie; tuttavia,
stando all'identificazione più accreditata facente capo agli studi dei più
eminenti filologi classici e studiosi della tradizione virgiliana[senza fonte],
esso corrisponderebbe al borgo di Pietole, in prossimità delle acque del
Mincio, nelle vicinanze di Mantova, nome assunto nel corso del Medioevo,
divenuto poi, in tempi recenti, "Pietole Vecchia" per distinguerlo da
"Pietole Nuova" venuta a formarsi tra Sette e Ottocento in prossimità
della strada Romana, a due chilometri dall'antico borgo natale sito in prossimità
del fiume; il borgo natio del Poeta ha ripreso alcuni anni fa l'antico nome
celtico Andes ed è divenuto, nel 2014, con la fusione dei comuni di V. e
Borgoforte, una frazione del comune di Borgo V.. L'attuale Pietole corrisponde
dunque a Pietole Nuova. La fama dell'antica Pietole come luogo di
pellegrinaggio e venerazione, poiché fu considerato sin dai primi secoli dopo
la morte il borgo natale del vate e "profeta di Cristo", è testimoniata
da Dante Alighieri nella Divina Commedia (Purgatorio, XVIII 83) e dalle opere
di Giovanni Boccaccio e di altri scrittori[Chi?]. Altri studi[5] sostengono
invece che il corrispettivo odierno dell'antica Andes vada ricercato nella zona
di Casalpoglio, frazione di Castel Goffredo, così come anche per il comune di
Calvisano è stata avanzata l'ipotesi d'una sua identificazione col luogo di
nascita del poeta, sulla base anche di un'iscrizione recante il nome della gens
paterna nei suoi pressi[13][14] (si vedano in tal senso gli studi e le ricerche
effettuate dal filologo ed accademico inglese Conway). Secondo altri[chi?],
corrisponderebbe all'odierno Redondesco, comune situato a ovest di Mantova,
lungo l'antica strada romana Postumia. Analisi sul toponimo sembrano confermare
questa ipotesi[senza fonte]. La formazione e l'avvicinamento all'epicureismo
V. frequenta la scuola di grammatica a Cremona, poi la scuola di filosofia a
Milano, dove si avvicina alla corrente filosofica epicureista grazie a Sirone e
infine la scuola di retorica a Roma. Qui conobbe molti poeti e uomini di
cultura e si dedicò alla composizione delle sue opere. Inoltre nella capitale
portò a termine la propria formazione oratoria studiando eloquenza alla scuola
di Epidio, un maestro importante di quell'epoca. Lo studio dell'eloquenza
doveva fare di lui un avvocato e aprirgli la via per la conquista delle varie
cariche politiche. L'oratoria di Epidio non era certo congeniale alla natura
del mite V., riservato e timido, e dunque quantomai inadatto a parlare in
pubblico. Infatti, nella sua prima causa come avvocato non riuscì nemmeno a
parlare. In seguito a ciò V. entrò in una crisi esistenziale che lo portò, non
ancora trentenne, a spostarsi dopo il 42 a.C. a Napoli, per recarsi alla scuola
dei filosofi Filodemo di Gadara e Sirone per apprendere i precetti di
Epicuro. La crisi e la confisca dei possedimenti agricoli Le
colonne terminali della via Appia nei pressi della casa dove, secondo la
tradizione, V. morì. Gli anni in cui V. si trova a vivere sono anni di grandi
sconvolgimenti a causa delle guerre civili: prima lo scontro tra Cesare e
Pompeo, culminato con la sconfitta di quest'ultimo a Farsalo, poi l'uccisione
di Cesare in una congiura, e lo scontro tra Ottaviano e Marco Antonio da una
parte e i cesaricidi (Bruto e Cassio) dall'altra, culminato con la battaglia di
Filippi (42 a.C.). Egli fu toccato direttamente da queste tragedie come
testimoniano le sue opere: infatti la distribuzione delle terre ai veterani
dopo la battaglia di Filippi mise in grave pericolo le sue proprietà nel
mantovano ma sembra che, grazie all'intercessione di personaggi influenti
(Pollione, Varo, Gallo, Alfeno, Mecenate e dunque lo stesso Augusto), V. sia
riuscito (almeno in un primo tempo) ad evitare la confisca. Si spostò poi
a Napoli con la famiglia e in seguito, nel 38 a.C., si fece assegnare da
Mecenate un podere in Campania come risarcimento per le proprietà perdute ad
Andes. In Campania avrebbe terminato le Bucoliche e composto le Georgiche,
dedicate all'amico Mecenate, che V. frequentava. V. entrò dunque nel
circolo del "primo ministro imperiale", che raccoglieva molti
letterati famosi dell'epoca. L'avvicinamento ad Augusto Il poeta
frequentava le tenute terriere di Mecenate, che egli possedeva in Campania nei
pressi di Atella e in Sicilia. Attraverso Mecenate, V. conobbe meglio Augusto.
Divenne il maggiore poeta di Roma e dell'Impero e le sue opere poetiche furono
introdotte nell'insegnamento scolastico da Quinto Cecilio Epirota ancor prima
della sua morte, verso il 26 a.C. Dopo il 29 a.C. il poeta iniziò la
stesura dell'Eneide, e tra il 27 a.C. e il 25 a.C., l'imperatore Augusto
richiese a V. degli estratti del poema in corso di stesura. Il poeta lesse ad
Augusto alcune parti dell'Eneide, tra cui quasi sicuramente, il celebre VI
libro[20][21]. L'ultimo viaggio in Grecia e la morte La Tomba di V.
a Napoli V. morì a Brindisi il 21 settembre del 19 a.C. (calendario giuliano),
di ritorno da un importante viaggio in Grecia, forse per ricevere alcuni pareri
tecnici sull'Eneide[21]. Secondo alcuni biografi fatali furono le conseguenze
di un colpo di sole, ma non è l'unica ipotesi accreditata. Prima di
morire, V. raccomandò ai suoi compagni di studio Plozio Tucca e Vario Rufo di
distruggere il manoscritto dell'Eneide, perché, per quanto l'avesse quasi
terminata, non aveva fatto in tempo a rivederla[22]: i due però consegnarono il
manoscritto all'imperatore, cosicché l'Eneide, pur recando tuttora qua e là
evidenti tracce di incompiutezza, divenne in breve il poema nazionale
romano.[23] I resti del grande poeta furono poi trasportati a Napoli,
dove sono custoditi in un tumulo tuttora visibile, nel quartiere di
Piedigrotta. L'urna che conteneva i suoi resti andò dispersa nel Medioevo.
Sulla tomba fu posto il celebre epitaffio: (LA) «Mantua me genuit,
Calabri rapuere, tenet nunc Parthenope; cecini pascua rura duces» (IT)
«Mi ha generato Mantova, il Salento mi rapì la vita, ora Napoli mi conserva;
cantai pascoli [le Bucoliche], campagne [le Georgiche], comandanti
[l'Eneide][24]» Opere Appendix Vergiliana Lo stesso argomento in
dettaglio: Appendix Vergiliana e Storia della letteratura latina (31 a.C. - 14
d.C.). Un primo gruppo di opere, la cui autenticità e la partenità restano
ancora oggi oggetto di dubbi, vengono generalmente indicate con l'appellativo
di Appendix Vergiliana; tale appellativo è stato coniato per la prima volta
dall'umanista Giuseppe Scaligero. Alla spicciolata (Catalepton); La
focaccia (Moretum); Epigrammi (Epigrammata): che comprendono le Rose (Rosae),
Sì e no (Est et non), Uomo buono (Vir bonus), Elegiae in Maecenatis obitu, Hortulus,
Il vino e Venere (De vino et Venere), Il livore (De livore), Il canto delle
Sirene (De cantu Sirenarum), Il compleanno (De die natali), La fortuna (De
fortuna), Orfeo (De Orpheo), Su sé stesso (De se ipso), Le età degli animali
(De aetatibus animalium), Il gioco (De ludo), De Musarum inventis, Lo specchio
(De speculo), Mira Vergilii experientia, Le quattro stagioni (De quattuor
temporibus anni), La nascita del sole (De ortu solis), Le fatiche di Ercole (De
Herculis laboribus), La lettera Y (De littera Y), ed I segni celesti (De signis
caelestibus). L'ostessa (Copa) (solo secondo il biografo Servio); Maledizioni
(Dirae); L'airone (Ciris); La zanzara (Culex); L'Etna (Aetna); Storia romana
(Res romanae), opera solo progettata e poi abbandonata. Opere autentiche
Lo stesso argomento in dettaglio: Bucoliche, Georgiche, Eneide e Storia della
letteratura latina (31 a.C. - 14 d.C.). Bucolica, 1481 Queste tre opere
si distinguono dalle precedenti, in quanto composte sicuramente dal poeta
latino[20]. Bucoliche (Bucolica): composte tra il 42 e il 39 a.C. a
Napoli, sono una raccolta di dieci componimenti detti "ecloghe" o
"egloghe" di stile perlopiù bucolico e che seguono il modello del
poeta siciliano Teocrito.[26] Le Bucoliche, che significa canti dei bovari,
sono dunque costituite da dieci egloghe: la prima è un dialogo tra due
contadini, Titiro e Melibeo. Melibeo è costretto ad abbandonare la sua casa e i
campi, che diverranno la ricompensa di un soldato romano. Titiro invece può
restare grazie all'influenza di un potente (forse Ottaviano, o un nobile della
sua cerchia, come Asinio Pollione); la seconda egloga contiene il lamento
d'amore del pastore Coridone, che si strugge per il giovane Alessi; la terza
egloga è una tenzone poetica fra due pastori, svolta in canti alternati detti
amebèi; la quarta egloga è dedicata a Pollione ed è la celebre profezia circa
la nascita di un puer il cui avvento rigenererà l'umanità; la quinta è il
lamento per la morte di Dafni, il "principe dei pastori" (Elio
Donato); nella sesta il vecchio Sileno canta l'origine del mondo; nella settima
Melibeo racconta la gara di canto tra due pastori; l'ottava egloga contiene due
canti d'amore ed è dedicata ad Asinio Pollione; la nona egloga è molto simile
alla prima, ma vi si canta un esproprio di terre definitivo (i due protagonisti
sono Lìcida e Meri) e la decima è dedicata a Gallo e ne celebra gli amori
infelici. Varo, Gallo e Pollione furono tre potenti governatori della provincia
Cisalpina presso cui il poeta aveva forse sperato di trovare favore per
rientrare in possesso delle proprie terre perdute durante l'esproprio.
Georgiche (Georgica): composte a Napoli. È un poema didascalico sul lavoro dei
campi, sull'arboricoltura (in particolare della vite e dell'olivo),
sull'allevamento e sull'apicoltura come metafora di un'ideale società
umana.[27] Ciascun libro presenta una digressione: il primo le guerre civili,
il secondo la lode della vita agreste, il terzo la peste degli animali nel
Norico, il quarto libro si conclude con la storia di Aristeo e delle sue api
(questa digressione contiene la famosa favola di Orfeo e Euridice). Secondo il
grammatico tardoantico Servio, nella prima stesura delle Georgiche, la
conclusione del IV libro era dedicata a Cornelio Gallo ma, caduto questi in
disgrazia presso Augusto, V. avrebbe concluso l'opera in modo diverso. L'opera
fu dedicata a Mecenate. Si tratta sicuramente di uno dei più grandi capolavori
della letteratura latina e l'espressione più alta dell'autentica e vera poesia
virgiliana. I modelli qui seguiti sono Esiodo e Varrone. Eneide (Aeneis): poema
epico composto forse fra Napoli e Roma, in dieci anni (tra il 29 a.C. e il 19
a.C.) e suddiviso in dodici libri. Opera monumentale, considerata dai
contemporanei alla stregua di un'Iliade latina, fu il libro ufficiale sacro
all'ideologia del regime di Augusto sancendo l'origine e la natura divina del
potere imperiale. Naturalmente il modello fu Omero. Essa narra la storia di
Enea, esule da Ilio e fondatore della divina gens Iulia. Il poema rimase privo
di revisione, e nonostante V. prima di partire per l'Oriente ne avesse chiesto
la distruzione e ne avesse vietato la diffusione in caso di sua morte, esso fu
pubblicato per volere dell'imperatore.[28] Nel XV secolo il poeta Maffeo Vegio
compose in esametri il Supplementum Aeneidos, cioè il tredicesimo libro a
completare la vicenda narrata nel poema virgiliano. V. nella cultura
successiva Monumento a V. Piazza Virgiliana, Mantova. Mantova,
Piazza Broletto, statua di V. in cattedra[29] La fama del vate dopo la morte fu
tale che egli fu considerato una divinità degna di ricevere onori, lodi,
preghiere, e riti sacri. Già Silio Italico (appena un secolo dopo), che
acquistò la villa e la tomba di V., istituì una celebrazione in memoria del
Mantovano nel suo giorno di nascita (le Idi di ottobre). In tal modo questa
celebrazione si tramandò anno per anno nei primi secoli dell'era volgare,
diventando un punto di riferimento importante soprattutto per il popolo
napoletano che vide in V. ("Vergilius") il suo secondo patrono e
spirito protettore della città di Napoli, dopo la vergine Partenope. Ai suoi
resti (cenere e ossa), conservati nel sepolcro da lui stesso concepito secondo
forme e proporzioni pitagoriche, fu attribuito il potere di proteggere la città
dalle invasioni e dalle calamità. Nonostante le divinità pagane venissero
dimenticate, di V. si mantenne comunque intatto il ricordo, e le sue opere
furono interpretate cristianamente. Egli divenne in particolare un
simbolo dell'identità e della libertà politica di Napoli: fu per questo che nel
XII secolo i conquistatori normanni, col consenso interessato della Chiesa di
Roma, consentirono ad un filosofo e negromante inglese di nome Ludowicus di
profanare il sepolcro di V. con lo scopo di rimuovere e asportare il vaso con
le sue ossa, al fine di indebolire e sottomettere Napoli al potere normanno
distruggendo l'oggetto di culto che era la base simbolica della sua autonomia.
I resti di V. furono salvati dalla popolazione che li trasferì all'interno di
Castel dell'Ovo, ma in seguito vennero qui sotterrati e nascosti per sempre ad
opera dei Normanni. Da allora i napoletani ritennero che il potere protettivo
del Poeta verso la città fosse vanificato. Il ricordo di V. però,
soprattutto nel popolo napoletano, rimase sempre vivo. Alla fama di sapiente
per la tradizione colta, con il tempo si affiancò quella di mago nella
tradizione popolare, inteso come uomo che conosce i segreti della natura e ne
fa uso a fin di bene. Di tale interpretazione ci resta un corpus
basso-medievale di leggende che hanno come sfondo soprattutto le città di Roma
e Napoli: ad esempio, tanto per citarne una, quella che lo vede costruttore del
Castel dell'Ovo magicamente edificato sopra il guscio di un uovo magico di
struzzo che si sarebbe rotto solo quando la fortezza fosse stata
definitivamente espugnata, oppure quella che riguarda la creazione e
l'occultamento sotterraneo di una specie di palladio (una riproduzione in
miniatura della città di Napoli contenuta in una bottiglia vitrea dal collo
finissimo) che per magia protesse la città dalle sciagure e dalle invasioni
finché non fu trovato e distrutto da Corrado di Querfurt, cancelliere
dell'imperatore Enrico VI inviato nel XII secolo a conquistare il Regno di
Sicilia (che allora comprendeva anche la città di Napoli). Durante l'Alto
Medioevo V. fu letto con ammirazione, il che permise alle sue opere di essere
tramandate completamente. L'interpretazione dell'opera virgiliana utilizzò
largamente lo strumento dell'allegoria: al poeta fu infatti attribuito un ruolo
di profeta di Cristo, sulla base di un brano delle Bucoliche (la IV ecloga)
annunciante la venuta di un bambino che avrebbe riportato l'età dell'oro e
identificato per questo con Gesù. V. venne quindi rappresentato come
vate, maestro e profeta nella Divina Commedia (Purgatorio, canto XXII, vv.
67-72) da Dante Alighieri, il quale ne fece la propria guida attraverso i
gironi dell'Inferno e del Purgatorio. «O de li altri poeti onore e lume,
vagliami 'l lungo studio e 'l grande amore che m' ha fatto cercar lo tuo volume.»
(Inferno) Da Dante al Rinascimento Georgica, Libro IV, 497.
Illustrazione di François Gérard in un'edizione del 1798 La presenza di V. è
costante nello svolgimento della letteratura italiana. L'eco della sua poesia
risuona sovente nelle opere dei nostri più grandi scrittori. Per Dante
Alighieri, l'Eneide diviene modello di alta poesia, fonte di ispirazione di
tanti suoi versi. È vero, egli avverte il fascino anche di altri grandi autori
del passato, di "Omero, poeta sovrano" di " Orazio satiro",
"Ovidio", "Lucano", e poi "Tullio e Lino e Seneca
morale" (Inferno, 4, 102 e passim) ma è V. la sua guida, V.
"l'altissimo poeta" (ibid.,80). Dante riconosce la grandezza morale,
il peso del pensiero antico e nella sua opera fa confluire insieme i valori
dell'umanesimo classico e quelli cristiani. Si può considerare pertanto il
primo umanista della nostra letteratura: un discepolo di V., al di là del
pensiero medievale.[30] Dalla lettura delle sue opere apprese il senso di
partecipazione al dolore universale, la pietas, intesa quest'ultima nel senso
morale di adesione al cielo sì, ma anche di attenzione ai valori della terra.
Egli si accosta al mantovano non solo per capire "come l'uom
s'eterna", ma anche per perfezionare lingua e stile. Con diversa e
più moderna sensibilità si avvicina a V. un cultore degli studia humanitatis
come Francesco Petrarca. Il dolore umano alla scuola del poeta antico trova
innumerevoli rivoli per elevarsi in una poesia soavemente malinconica. Da lui
deriva l'amore per le belle lettere, la nobiltà dei sentimenti e del pensiero,
da lui l'arte della perfezione stilistica. La lingua italiana diviene, come
vuole de Sanctis, "la dolcissima delle lingue".[31] Intuisce e
tramanda ai posteri i più alti segreti della poesia del mantovano. Virgiliano
nell'anima, vive a lui unito nello spirito, gli dedica epistole. Petrarca venne
salutato come il nuovo V., modello di poeta, elegante, raffinato: si colloca
tra i più grandi lirici di tutti i tempi. Nell'Umanesimo è ancora V.,
unitamente a Cicerone, l'autore più amato, più ricercato come guida di maestria
linguistica. Con il ritorno al mondo classico nasce la nuova civiltà in cui
confluisce l'antica e, nel contempo, una nuova visione della vita e del
mondo. La lingua latina per tutta la prima metà del Quattrocento domina
incontrastata nella nostra letteratura, ed è una letteratura elegante, che
raggiunge come per miracolo forme umanissime. Si pensi alle Neniae, le celebri
ninne-nanne che il Pontano scrive per il suo bambino; alle Sylvae del Poliziano,
ben due dedicate a V.: Manto, carica di suggestioni e risonanze dell'antica
bucolica in cui si celebra la poesia pastorale, e il Rusticus, che si ispira
invece alle Georgiche, ricolma di immagini e di echi virgiliani. Il Poliziano,
complice V., viene ritenuto il lirico più elegante che abbia scritto in
latino. Della riscoperta del mondo antico non solo la lingua latina viene
a giovarsi, ma anche la lingua volgare quando si torna a prediligerla. Jacopo
Sannazaro, considerato il "V. cristiano" per il suo De Partu
Virginis, nell'Arcadia riproduce la classica bucolica in una lingua armoniosa,
piena di fluidità e di malinconia. Non si può non parlare della Fabula di Orfeo
del Poliziano: Orfeo ed Euridice come nelle Georgiche rivivono il loro dramma
d'amore in un canto accorato, di estrema eleganza. Riporta altresì a V. quella
sorta di immersione nell'universo e nella natura presente nella favola del
giovane Julio nelle Stanze, così come la Giostra richiama la mente al senso di
vaga malinconia delle ombre virgiliane della sera.[32] Ancor più
determinante è l'influsso di V. nel Rinascimento. Il volgare, assurto a piena
dignità letteraria, affronta temi alti, impegnativi e viene adottato dai grandi
scrittori del tempo. Il riferimento è all'Ariosto e al Tasso.
L'Incoronazione di V., parte di un ciclo di affreschi settecenteschi
sull'Eneide a Palazzo Pianetti, Jesi L'Eneide non poco contribuisce a portare
l'Orlando Furioso alle più alte vette della poesia rinascimentale e l'Ariosto
tra i più grandi artisti del tempo. Qui Cloridano e Medoro ritrovano il
fascino, l'umanità di Eurialo e Niso a rappresentare un sentimento alto come
l'amicizia, nobile come la fedeltà; e molte analogie si possono trovare nella
caratterizzazione dei guerrieri uccisi nel sonno dalle due coppie. Angelica
vive all'unisono con la natura che la circonda, ama le cose semplici e umili,
effonde intorno un sentimento virgiliano di pace, di serenità, appena velato di
malinconia. Per non riferire di altri temi comuni ai due poeti: l'amore, la
giovinezza, l'eroismo, la religione della vita, la rappresentazione dell'animo
umano in tutte le sue variazioni. E si arriva a Torquato Tasso, che da V.
eredita finezza e musicalità del dire. Le ingenue parole di Aminta, allorché
descrive il primo sbocciare di un amore nuovo nella favola pastorale che da lui
prende il nome (atto I, scena II), riportano insistentemente al mondo idillico
popolato di prati, ninfe, pastori, boschi, nel quale regna una lieve, sospesa
virgiliana malinconia. Il candore di Galatea torna a risplendere nella delicata
figura di Erminia, che si desta al "garrir" degli uccelli tra alberi
e fiori mentre "scherzan" con l'onda al suon di "pastorali
accenti" (Gerusalemme liberata, VII, 5 e 6, passim). Al pari di Didone,
Armida, creatura piena di mistero riscopre l'umanità nel dolore e nell'amore.
Come l'eroica Camilla, desta commozione la fiera Clorinda. Nell'opera tutta
aleggia quel senso di tristezza per il quale molti hanno ritenuto la Liberata
il poema italiano forse più vicino all'Eneide[33], già a partire dall'incipit
(il verso canto l'armi pietose e il capitano richiama immediatamente il
virgiliano arma virumque cano). Al sommo poeta latino sono intitolate
l'Accademia Nazionale Virgiliana e il Liceo Classico di Mantova. Il Liceo,
fondato nel 1584, è tuttora considerato uno dei più prestigiosi licei classici
d'Italia. La leggenda virgiliana Come stretto amico di personaggi di
potere e di grandissima influenza come l'imperatore Augusto, del governatore
provinciale Gaio Asinio Pollione e del ricco Gaio Cilnio Mecenate, secondo
leggende medioevali di scarsa o nessuna attendibilità, il grande poeta avrebbe
potuto beneficare in molti modi la città di Napoli in cui tanto amava
risiedere. I suoi biografi medioevali infatti ci narrano che fu V. a
proporre all'imperatore di costruire un acquedotto (proveniente dalle sorgenti
nei pressi di Serino, nell'Irpinia) che servisse questa e anche altre città,
come Nola, Avella, Pozzuoli e Baia. Inoltre avrebbe esortato Augusto a
creare per Napoli una rete di pozzi e fontane per l'approvvigionamento idrico,
un sistema fognario di cloache e complessi termali terapeutici a Baia e
Pozzuoli, per cui fu anche necessario scavare un traforo nella collina di
Posillipo, l'odierna "Grotta di Posillipo", nota per tale motivo fino
al XIV secolo come "Grotta di V.". Infine, V., essendo
grandemente appassionato di divinazione e del mondo della religione in generale
(come si nota dalle sue opere letterarie), avrebbe fatto installare due
sculture di teste umane in marmo, una maschile e allegra, l'altra femminile e
triste, sulle mura della città e precisamente ai lati della porta di Forcella
al fine di fornire un presagio casuale fausto o infausto (una sorta di innocua
cefalomanzia minerale) per i cittadini di passaggio. Con le modifiche
fatte in epoca aragonese, le teste furono trasferite nella lussuosa villa reale
di Poggioreale, ma andarono poi perdute a causa della distruzione del
complesso. Come riportano i suoi più antichi biografi, V. aderì al
neopitagorismo, corrente filosofica e magica allora molto diffusa nelle colonie
della Magna Grecia, in particolare a Neapolis, una delle poche poleis
magnogreche che dopo la conquista romana aveva conservato la sua vita culturale
genuinamente ellenica. In quanto filosofo neopitagorico e mago gli sono
attribuite diverse immagini magiche e talismani volti alla protezione della
città di Napoli che tanto amò, secondo alcuni biografi medievali e
rinascimentali. Omaggi A V. sono intitolate le Virgil Fossae sulla
superficie di Plutone[34] e il Museo Virgiliano a Borgo V..[35]
Letteratura Le ultime ore di vita del poeta sono raccontate da Hermann Broch
nel romanzo La morte di V., dove il protagonista, sentendosi prossimo alla
morte, avrebbe voluto bruciare l'Eneide non perdonandosi di averla lasciata
incompiuta. V. è uno dei protagonisti di Un infinito numero, romanzo di
Sebastiano Vassalli. Lo stesso autore ha reso il poeta protagonista di uno dei
racconti che compongono la raccolta Amore Lontano. Nel romanzo del 2024 I
demoni di Pausilypon di Pino Imperatore V. agisce nelle vesti di detective.
Videogiochi Nella serie Devil May Cry, si trova un chiaro riferimento a V.:
Vergil, fratello del protagonista Dante e antagonista principale della saga.
Note V., in Enciclopedia Italiana, Roma, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. URL consultato il 21 marzo 2018. V. Marone, Publio, in
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fu discepolo (Verg., Catal. 5, 9 et 8, 1), V. figura citato in diversi papiri
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"+ Mantua me genuit, Calabri rapuere, tenet nunc Partenope. Cecini pascua,
rura, duces" e "+ Millenis lapsis annis D(omi)niq(ue) ducentis /
bisq(ue) decem iunctis septemq(ue) sequentibus illos / uir constans a(n)i(m)o
fortis sapiensq(ue) benignus / Laudarengus honestis moribus undiq(ue) plenus /
hanc fieri, lector, fecit qua(m) conspicis ede(m). / Tunc aderant secu(m)
ciuili iure periti / Brixia quem genuit Bonacursius alter eorum, / Iacobus
alter erat, Bononia quem tulit alta." ^ Augustin Renaudet, Dante
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Einaudi, 1967; Luca Canali, Milano, Fondazione Lorenzo Valla - Mondadori,
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opere, bibliografie, mappe e gruppi di discussione. Accademia Nazionale
Virgiliana di Scienza, Lettere, Arti Sito ufficiale dell'Accademia mantovana.
(EN) Vita di V. di Donato Traduzione in lingua inglese di una delle più antiche
biografie di V.. Essa deriva dalla perduta biografia di Svetonio. (LA) Testo
originale delle Bucoliche, delle Georgiche e dell'Eneide da The Latin Library
(LA) IntraText Digital Library Testi originali dei Catalepton, delle Bucoliche,
delle Georgiche e dell'Eneide con concordanze e liste di frequenza (da
Intratext) (LA) Bibliotheca Augustana Estratti di alcuni codici antichi
dell'Università tedesca di Augusta. Marcovalerio.it Traduzione in lingua
italiana delle Ecloghe Bucoliche. (EN) IntraText Digital Library Traduzione in
lingua inglese dell'Eneide. Classici Italiani Archiviato il 7 novembre 2009 in
Internet Archive. "V. nel Medioevo" di Domenico Comparetti . Napoli
on the road Interessante articolo sull'interpretazione magica di V. nel
Medioevo. Virgil Murder Sito di uno
studioso francese, Maleuvre, che presenta le ipotesi sull'assassinio di V. da
parte dell'imperatore Augusto. Parco della Tomba di V. Sito della
Soprintendenza per il Patrimonio Storico-artistico dedicato al Parco della
Tomba di V.. Parco della Tomba di V. in Internet Archive. Sito sul Parco della
Tomba di V. all'interno della Rete dei Musei Napoletani. Scolii delle opere di V.:
Marco Valerio Probo, In Vergilii bucolica et georgica commentarius, accedunt
scholiorum veronensium et aspri quaestionum vergilianarum fragmenta, Henricus
Keil (ed.), Halis sumptibus Eduardi Anton,. Mauro Servio Onorato, Servii
grammatici qui feruntur in Vergilii carmina commentarii, Georius Thilo,
Hermannus Hagen (ed.), 3 voll., Lipsiae in aedibus B. G. Teubneri Gli scolii
veronesi a V., Claudio Baschera (a cura di), Casa Editrice Mazziana, giugno
1999. Ettore Paratore, La santità di V. in un mondo disorientato Archiviato in
Internet Archive., Il Tempo. Opere di Virgílio presso la Biblioteca Nazionale
del Portogallo V · D · M Publio V. Marone V · D · M Circolo di Mecenate V · D ·
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(Paradiso)CasalpoglioAforisti romaniNeopitagorici[altre]Influssi lucreziani, e,
quindi, della filosofia dell’orto. Nato presso Mantova, muore a Brindisi.
Studia la filosofia dell’orto sotto SIRONE. In “Catal.” prende congedo dalle
muse per volgersi verso la scuola di SIRONE affinchè la filosofia gl’insegni a
liberare la sua vita dalle passioni. Esprime il proponimento di dedicare alla
filosofia il resto dell’esistenza. Nel “Ciris,” esaltando di nuovo
l'insegnamento dei filosofi dell’ORTO, manifesta l'intenzione di filosofare sui
fenomeni celesti. L’influsso dell’orto è esplicito nelle “Georgiche.” L' “Eneide",
invece, nella escatologia, dipende dalle correnti orfica e pitagorica – di
CROTONE --, mediata, si erede, da Posidonio, dal quale si fa derivare le
rappresentazioni dell’età dell'oro e dello sviluppo della civiltà umana e
alcune teorie d’impronta del PORTICO. Agl'interessi di psicologia
filosofica si collegano quelli naturalistici. In una ecloga, Sileno espone
una cosmogonia. Nelle "Georgiche" prega le muse d’interpretargli una
serie di fenomeni naturali. Nell’ “Eneide” Iopas tratta di problemi
naturalistici. Fa parte dell' “Appendix Vergiliana” il poemetto
"Aetna" sullo cause e gl’effetti di queso volcano -- del quale sono
incerte la paternità e la data. Fra i filosofi ai quali è stato attribuito
il "Aetna", trovano adesioni soprattutto V. e LUCILIO, l’amico di SENECA. Per
le teorie scientifiche particolari, l’autore dell'"Aetna" si serve
principalmente di Posidonio e ciò spiega l’affinità dell'"Aetna" con
le "Questioni Naturali" di Seneca che provengono dalla stessa
fonte. Per la filosofia, V. mescola ecletticamente elementi svariati e non
fusi, perchè espone dottrine del portico, dell’orto-lucreziane e inoltre
eraclitei, democritei, ecc. Grice: “It is interesting to study Virgil as the
author of what at Oxford we call “Beowulf,” an heroic narrative of origin. But in the history of
philosophy, -- and the history of Roman philosophy under the principate,
specifically, it was the exegesis of “Eneide” that we only have with Beowulf
when it comes to Tolkien and the monsters! On the other hand, the Roman aristocrats find
in “Eneide” a fabulous source for their even more fabulous philosophisings! My
favourite is Macrobio’s “Saturnalia” – it fits a gentleman’s pocket – but there
are others. The idea is to produce a didaskalia, i. e. a way to deal with
conceptual notions or philosophical concepts as we study one line or other from
“Eneide” as we did at Clifton! However false, the philosophy behind V. comprises
not only a physical theory (natural philosophy) – the theory of the three ages
– but a full moral theory – and one of philosophical psychology. The
Eurialo/Niso episode is an interesting one as a re-creation of the old
Achilles-Patroclus topos that has fascinated even Plato and the author of
“Maurice,” i. e. E. M. Forster. Usually, you won’t find Virgil listed in any
manual on Roman philosophy, but you should. It is fascinating also to trace the
influence, via Alighieri in “Commedia” down to Mussolini, where there were few
exhibitions of the Mostra della Revoluzione Fascista that would fail to quote
from Enea. Note that the iconography – and I don’t mix the effeminate one by
Flaxman, but the fascist one – helped!”. Publio V. Marone – He spent some time
in fellowship with a Garden community in Naples headed by Siro. He appears to
have been a particular favourite of Siro, inheriting the villa upon his death.
The extent to which the Garden influenced his poetry has long been debated. Approdato a Cuma, Enca consulta la Sibilla nell'antro
presso il tempio di Apollo e la prega di guidarlo negli Inferi. La Sibilla
accetta, ma l'eroe deve prima procurarsi il ramo d'oro da offrire in dono a
Proserpina e dare sepoltura a un compagno morto durante la sua assenza dalle
nasi. Dunque, Enea porta alla Sibilla il ramo d'oro, trovato nel bosco grazie
all'aiuto di Venere, e celebra i funerali di Miseno. Giunta la notte, e
compiuto il sacrificio propiziatorio alle divinità infernali, inizia il viaggio
verso gli Inferi, e l'eroe varca, con la Sibilla, la soglia dell'Averno. Essi
attraversano il vestibolo, pieno di mostri e simulacri di mali e malattie, e
arrivano alla riva del fiume Acheronte, dove appare Caronte, il traghettatore
infernale.tra i quali spicca la figura di Marcello. Infine, Enea e la Sibilla
varcano la porta d'avorio e ritornano alla luce.libro 6 dell'Encide: la Sibilla
cumana e la discesa agli inferiEneide: analisi Libro 6 Cuma e la Sibilla nel
Libro 6 dell'Eneide Lapio po de i praga da pala, le da di ad ge di and in al
pre fite di Oli, nd e alce e esca cabr sua discendenza. In questa parte si
distinguono le fasi di un vero e proprio percorso iniziatico: rispettare gli
ordini di un sacerdote, la Sibilla dare prova della pietas celebrando i riti
trovare il ramo d'oro da donare a Proserpina, per poter entrare negli Inferi.
Enea viene assistito dalla madre nel recupero del ramo, mentre la Sibilla lo
aiuta nel viaggio verso gli Inferi. La catabasi è preceduta da due rituali: le
esequie di Miseno, e il rito propiziatorio agli dei inferi. Questi riti
sottolineano la sacralità dell'impresa. La differenza fra la catabasi di
Odisseo e quella di Enca sta nel fatto che quella di Odisseo non è altro che
l'ennesima avventura ai confini della realtà, mentre l'eroe virgiliano
intraprende un viaggio religioso per assecondare i voleri del Fato.Gli Inferi
nel Libro 6 dell'Eneide Celebrati i rituali, Enea e la Sibilla entrano nel
regno dei morti. Predominano le descrizioni dell'Aldilà, ma l'attenzione si
sposta sull'eroe nel momento in cui entrano in scena personaggi a lui
collegati. Per esempio, gli incontri con Palinuro e Didone permettono al poeta
di dare spazio ad Enca e alla sua umanità. Il passo delinea la concezione
virgilianadell'Oltretomba: un luogo in cui le ombre si aggirano rimpiangendo la
vita perduta, e in cui i giudici infernali, Minosse e Radamanto, assegnano la
dimora definitiva nel Tartaro alle anime malvagie, nei Campi Elisi ai beati.Dal
Tartaro ai Campi Elisi nel Libro 6 dell'Encide un bivio: a sinistra la Sibilla
mostra ad Enca il Tartaro, dove sono puniti gli empi, e poi lo conduce a
destra, verso la città di Dite. Dopo essersi purificato, Enea afligge sulla
porta delle case di Plutone il ramo d'oro, come dono a Proserpina. Poi prosegue
con la Sibilla verso i Campi Elisi. giovane Marcello, il giovane adottato da
Augusto ma morto precocemente, rappresenta un omaggio alla casa di Augusto, ma
nello stesso tempo sfuma in immagini di morte la visione trionfalistica del
destino di Roma. pitagorismo, l'orfismo, lo stoicismo. Nella parte finale del
libro, in ogni caso, domina l'esaltazione delle glorie romane, del periodo
augusteo e della missione civilizzatrice e ordinatrice di Roma. L'orgoglio di
appartenere a un popolo vincitore non impedisce a V. di condannare la guerra e
di celebrare i valori della pace della concordia. Completata l'analisi e il
riassunto del libro 6 dell'Eneide, ti potrebbero interessare altri
approfondimenti dei poemi epici di V. e Omero. UUPI^ HI Bott.
Ccdare 'Ranjoli MI m Ili DI V.
PADOVA R. Stilb. Tipo-Litografico P.
Prosperini J^y/f,SOÌ.Ì ^-i:t--Cant ; il qunle verso ci è rischiarato
di queste parole del commento di Servio t" Aìiiùinì Jooìs sìgnxim
lapide m s ilice m put(werunt esse ». Tuttavia, anche dopo T invasione dell'
antropomorfismo greco, gli dèi romani conservamno questo loro carattere vago ed
astratto ; essi non riuscirono mai ad assumere a^ìì occhi dei loro
adoratori una individualità vera e propria, una ]»ersonalità ben definita,
cosicché ad ogni preghiera ed invocazione si fai^evano i>recedere formole
ambigue come : sire Deus sive Dea, sin* fetiuna :i^':-, ^ q*.::i: es-ere
essenzialmente un male: e T anima dal princi;^1: '" l'ù:, -d •?-^>^re
perei'» es>enzialmente un Wne È naturale che, rri. s:~-i.:::. or line
di idee, la religione consistesse nella i ktrì/ìc/izìone iell'iz :..i
j::e»i:inte !a mortificazione del corpo. — In seguito, in uno -'^:o :^:•
:;;±lc p.ù avanzato, nel .juale si verificò che un capo puniva, in rune
iella giiisii/ia, l'infrazione volontaria della legge, il dolore apparve
=r::'VL.e :I «nisiijo dovuto alla legge violata. E allora si potè formare
il e: ::•>;:•: della divinità giusta, che vt^n-ìica la colpa,
inrliggendo una animecii rnr-jrzlonata, ossia un dolore E la religione consistè
nel ^vx/d^ '-*//v all^i inesrrabile esiirenza di ui.ì tale
pers^-^nifioazione oltremondjkLA iella giustizia. In pari tempo, per la
osser>'a2ione, che il «lolore, ossia la punizione, si veritlcava anche
nei n«^n c»:»lpevoli, si dovette, affine di lib-erarr* in qualeKe
m'>io il conceno religioso fondamentale dalla contrai iizione, rl.orrere
allo spediente, suuigerito anch' ^l-S'-*^ da una osservaziorie di fatto, del
peccato originale. — 1 ni ultimo, avendo il progresso d»rLl'
incivilimento reso più mite l'animo e fat:o preiiominare il sentimento
della benevolenza e del perdono, la carità divenuta coscienza dell' uomo,
fu da tf^>so fH-rtata in dio : e insieme alla carità, la re«lenzione e U
perd:no, invece della riprovazione e del casii^ro senza scampo E ne venne
la religione, non totalmente servile, ma in parte figliale, drlla
conversione per mezzo del jr:n'r,r'r:,t'o inspirato dall'amore del bene,
e dimostrato colla so:ye^^'nza pas-iva rassegnata dei patimenti, e coli'
applicazione vo1 anuria di essi d, TalL al.'r»ra:.'ìati in utia
sintesi grand: sa che soio la mente del tìh>- :.» p::'« avvi>are. i
«juiutro gradini penarsi attraverso i seioli del senti ini^nt.» reli*n>so. I
e irutteri dt-l primo periodo sono evidentissimi nelle pn..;itive
reli-rivoi italiche, e nella relii:iv»ue rv»mana, la quale non perdette mai il
eamtt-re cup*.> e tenebroso che aveva in oriirine A differenza de! {-
p Io i:re« o, cLe ciclo e terra aveva s;iputo accornuuiire nella sua b ti
i \ e ri itrnte fantasia, il popolo romano non eMn? mai alcuna familiarità coi
propri d- i. che per lui fun^no sempre un oi:getto di sp;ìvento. ai •{i
vii Tu -in • n- lì pu'» avvicinarsi cbe tnMiiatido. : alla «uiale fa eoo
il detto •li Servio '.*"/«/if- .*'/ e\«'./i .s-'.tf : / ./' et
f>\(:!0 -» ta Non diverso concetto della religione doveva avere
il più grande degli epici latini, il quale, amiamo ripeterlo, per natura,
per abitudini, per sentimenti era portato ad essere l' interprete più fedele
e più sincero della religio patrum. Per fermo, nel sentimento religioso
che circola attraverso i poemi virgiliani, si possono anche riscontrare
diversi caratteri propri di uno stadio più evoluto della religiosità:
tale il concetto di una sanzione oltremondana dell' operare umano, svolto
ampiamente nel canto sesto dell' Eneide ; tale ancora il dualismo tra V anima,
considerata come il principio del bene, e il corpo, considerato invece come
principio del male, che si appalesa pure nel canto sesto, e che noi
esamineremo a suo luogo, studiando le manilestazioni del pensiero
platonico in V.. Ma questi elementi nuovi non informano di sé stessi il
sentimento religioso dominante, non fanno parte della convinzione intima del
poeta, e sono dovuti più che altro all'influsso di nuove idee, venute da
paesi stranieri. (ili dèi di V. hanno una potenza illimitata, della
quale usano ed abusano a loro piacere. Tutto quanto avviene nel mondo,
non è che un eftetto della loro volontà. Essi presiedono a tutti i
fenomeni naturali (4) e a tutte le azioni umane (5) ; essi possono
rivolgere il corso delle leggi ordinarie di natura, e scatenare i venti
(6), suscitare le tempeste e i terremoti (8;, cambiare gli uomini in
virgulti (9), mutare una intera flotta in tante Nereidi oceanine (10),
fornire ai mortali armi intangibili
accrescere o togliere loro la forza e il coraggio (12), predire il
futuro direttamente , o per mezzo di profeti (14, o per mezzo dei Penati
e dei morti o per mezzo dei più vari
portenti (16). Del modo onde impiegano la loro potenza, essi non devono
render conto ad alcuno : « sic placitum » dice Giove nel narrare a Venere
i futuri destini di Enea (17); ìì Coelestium vis magna iubet)) dice
Aletto a Turno per costringerlo e ripigUare la guerra (18) t me jussa
Deàm cogunt », « sic Dii
votuistis » « ubi primum anntierint
superi t, dice ad ogni tratto
Enea, e in codeste frasi secche e recise è sintetizzato tutto il cieco
dispotismo degli dèi. L' uomo è lo schiavo della divinità, e nulhi
può fare, nulla può tentare se gli dèi non lo assistono : « Hea nihil invitis —
esclama Enea — fas quetnqitatn fidere Diois (22)». Non solo, ma allorché
essi si rivelanocontrari è empio e sacrilego ogni tentativo di resistenza:
Infelix, quae tanta animum denientia coepit ? Non vires alias,
conversaque numina sentis? Cede Deo. È questo V ammonimento
che Enea rivolge al forte Darete, atterrato e vinto dal vecchio Entello,
cui gli dèi avevano ispirato un ardore sovrumano. Quando la divinità ha
mostrato con segni non dubbi di essere / ostile, unico
scampo è la morte ; tal pensiero è espresso nel lamento di Anchise,
colpito dai tristi presagì di Giove : Facilis jaotura
sepulcri. Jampridem invisus
Divis, et inutilis aonos Demoror, ex quo me Divùm pater atque hominum
rex Fulminis afilavit ventis, et contìgìt igni (24). Né la potenza illimitata di cui godono codeste
divinità è sempre rivolta a fin di bene ; tutt' altro. Crudeli, vendicative,
gelosissime delle proprie prerogative, esse non si piegano alle preghiere e
alle implorazioni, ma perseguitano senza posa e in tutti i modi gli
infelici che si attirarono i loro sdegni ingiustificati. Contro V ira dei
celesti non v'ha scampo, non V* ha speranza, non giova la purificazione
dell' anima mediante la mortificazione del corpo, non la soddisfazione ad
un concetto astratto di giustizia, che essi sono ancor lungi dal
personificare, non il pentimento che essi non sono capaci né di
comprendere né di inspirare. Con questi detti risponde la Sibilla alle
preghiere dell'infelice Palimiro, cui era impedito di traghettare
l'Acheronte, perché privo, senza sua colpa, di sepoltura : « donde, o
Palimìro, tanto funesto desiderio? Tu insepolto vedrai le acque Stigie e
il tremendo fiume delle Eumeneidi ? e contro il divieto ne varcherai la riva ?
Cessa di lusingarti che i voleri degli dèi si pieghino pregando », E così grida il re Latino al valoroso
Turno, che per difendere il patrio suolo dall' invasore troiano aveva iniziata
una guerra sacrilega contra omina e contra fata Deàm : Ipsi has
sacrilego pendetis sanguine poenas miseri. Te, Turno, nefas, te triste
manebit Supplicium; votisque Deos venerabere seris (26). E la
vendetta venne pe '1 misero Turno, terribile e senza scampo ; che, mentre
teneva testa da vero eroe ad Enea, cui lo scudo di Vulcano rendeva intangibile,
sente scemare ad un tratto l'usato vigore, i tristi presagi di Giove lo
colpiscono, gli vacillano sotto le ginocchia; e ad Enea, che imbaldanzito
lo incalza, gitta in faccia quel grido tanto naturale e straziante: e non
mi atterriscono le tue feroci parole, o uomo crudele; gli Dei mi
atterriscono, e Giove che mi è nemico . Ac velut in somnis, oculoa
ubi languida pressit Nocte quies, nequidquam avidos extendere
cursus Velie videmur, et in mediis conatibus aegri Succidimus: non
lingua valet, non corpore notae Sufficiunt vires, nec vox, aut verba
sequuntur : Sic Turno, quaqumque viam virtute petivit Successum Dea
dira negat . Spossato, atterrito, implorando salva la vita nel nome del
vecchio padre, il re dei Rutoli cade sotto i colpi ingenerosi del pio
Enea: Ast illi solvuotar frigore membra Vitaque cum gemitu
fugìt indignata sub umbras (29). Questi esempi credo possano essere
sufficienti per dare un' idea esatta del modo onde nei poemi virgiliani è
concepita e descritta l'azione della divinità; molti altri potremmo
citarne, come quello di Palinuro sacrificato dagli dèi per sfogare su un
capo almeno Tira concepita su molti (30); e la spaventosa descrizione
delle Arpie, delle loro ire e delle loro feroci imprecazioni (31); e il
racconto di Diomede intorno ai castighi inflitti dagli dèi a quanti
avevano combattuto sotto le mura di Troia (32); e le tremende profezie
svelate dal veggente Proteo ad Aristeo perseguitato dairira di un nume ;
e la tetra descrizione della peste cagionata da Tisifone (34). Ma
l'esempio più convincente e caratteristico della ferocia degli dèi ci è
otìerto da Giunone, il cui odio per la nazione troiana in genere, e per
Enea in ispecie, costituisce tutta la macchina che muove VEneide. In che
cosa consiste infatti l'intreccio del poema? Nei dissidio tra Venere e
Giunone, la prima deile quali protegge il figlio Enea in ogni sua impresa,
mentre la seconda cerca di impedire ch'egli venga in Italia a compiere il
volere dei fati. Dopo un sèguito di favolose avventure, nelle quali cosi
Tuna che T altra delle due dee mettono in azione tutti i mezzi che sono
in loro potere per riuscire nel proprio intento, la vittoria definitiva rimane
alla dea dell' amore, e cosi finisce il poema che è tutto compenetrato del
sovrumano, e in cui gli uomini non figurano che come deboli stromenti nelle
mani degli dèi. Ma quaP è la causa dell'odio di Giunone? Ce lo dice il poeta
stesso nel principio del suo racconto: Nec dum etiam causae irarum,
saevictue dolores Exciderant animo; manet alta mente repostum
ludicium Paridis, spraetaeque injuria formae, Et genus in visura, et
rapti Ganimedìs honores (35). Ma se tanto puerile e tanto meschina
è la causa, terribili però ne sono gli eff'etti; poiché, come dicemmo, lo
sdegno di Giunone non ha limiti. Uatrox Juno (36), aeternum servans sub
pectore vulnics (37), la Juno saevissima (38) Quam nec longa
dies, pietas nec mitigat ulla (39) col suscitare spaventose
tempeste, col favorire da prima l'amore, poi gli sdegni disperati di
Didone, coir eccitare le dame troiane a bruciare le navi, col mandare la
terribile Aletto a suscitare la discordia e la guerra fra i Latini, coirorcitare
Turno a far impeto sui Troiani mentre Enea è lonlano dal campo, col far
rompere al re dei Rutoli gli accordi del prossimo duello, non si stanca di
frainiorre ostacoli e procurar danni al discendente di quel Priamo che sprezzò
la sua bellezza, al concittadino di quel Ganimede che In da Gìoa'c
prrferito alla figlia sua Ebe. Terribili specialmente sono le
imprecazioni che V ira insoddisfatta le fa uscire dall' animo: i|nando, ad
esempio, vide Enea che lieto cominciava a fabbricarsi le case sulle
sponde sicule « stette, pimta da acerbo dolore; poi, scrollando il capo,
versa fuori dal j>etto tali parole: Ahi! razza abominata, e destini dei
Frigi contrari ai nostri! Forse che poterono soccombere nelle campagne Sigee?
forse Troia ^\ì avvolse nelle sue fiamme? essi trovarono una via
ili scampo fi-ammezzo agli incendi e agli eserciti nemici. Ma io eredo
4'he la mia divinità, stanca aitine soggiaccia, ovvero io. satura di odi.
mi acc|ui(1ai *> (40). Poiché air odio suo irla forte rontro
Enea, si aggiunge anche la gelosia della propria potenza, il timore di
iliminuire nella venerazione degli uomini, la rabbia di vedersi vinta — essa,
la moglie di (jiove — non solo da una imniiirtale. Venere, ma anche da un
semplice mortale che Venere protegge. Cosi, quando vede Enea approdare in
Sicilia, esclama: ViiU'or ab Aenea. Quoti si mea numina non
sunt Magna satis^ duliiteia liaud ei iniziano i htdi noren^ftiale-s
indetti da Enea per onorare il padre. Cloanto riesce ad ottenere la
vittoria facendo questo vóto alle divinità del mare : e^o hoc
candtntem in litore taurum Constituam ante aras, voti reus, extaqiie
sals«iS Porriciam in fluctns. et vina lùiuentia fundam S\l
Qui non si tratta che di una semplice promes>a : ma poco più
innanzi, narrando il poeta la partenza della flotta troiana alla volta
d'Italia, cosi descrive il sacrificio col quale Enea cerca propiziarsi
gli dèi del mare : opoIo romano era chiamato a compiere nella
storia del mondo: l'autorità religiosa doveva ben guardarsi dall' intralciarla.
Questo concetto è espresso chiaramente nei versi — an«'or oggi pi eni di
significato per il popolo italiano — coi quali Turno rimprovera la
vecchia Calibe, sa«Nrdotessa di Giunone, che voleva spingerlo alla
guerra: Cura tibi, Divùin eflìgies et tempia tiieri:
Bella viri pacein^ue re-^ant, quìs bella merenda ^. — Se gli antichi
commentatori, rnn le loro interpretazioni allegoriche dell' E/ieif le. avevano
fatto dire a V. una infinità di corbellerie, che non gli eran mai {»as>ate
per la mente, non s'erano perO> ingannati nel ritenere che il poeta avesse
voluto dare un significato allegorico alla sua narrazione della venuta di
Enea in Italia. Infatti è facile comprendere — per «juanto compreso da pochi
che il viaggio fatale dell' eroe troiano dalle coste dell'Asia Minore alle
terre italiche, altro non significa che V introduzione nel Lazio di nuovi
culti e di nuove diNinità venute dallOriente: fatto importantissimo,
avvenuto in tempi assai lontani, e per il quale l'antica religione romana era
rimasta profondamente trasformata. Quest'allegoria traspare evidentissima
da tutta V Eneide, e semhra che il poeta n^niesimo, con accenni
frequenti, abbia voluto togliere ogni possibile dubbio intorno ad essa, (iià
dal primo libro egli ha cura dì farci sapere che l' impresa di Enea è
voluta dai destini 1). e che il compito dell'eroe è di trasportare i
propri dèi nel Lazio r2) : nel secóndo è il morto Ettore che c (:»v.
preparandosi alla fuga dalla patria, il primo pensiero di Enea è quello di
affidare alle pure mani di Anchise le cose sacre ed i patri numi (4);
giunto a Creta, sono le slesse ef'pges sacrae diimm ed i PJirigii penales
che gli compaiono durante il sonno e lo scongiurano a non fermarsi oltre su
quelle spiaggie. ed a procedere arditamente verso l'Esperia, dove saranno
le loro sedi (5, Durante tutto il fatidico suo viaggio Enea — che
somiglia più un sacerdote che un guerriero — non si mostra tanto preoccupato di
conquistare un regno, quanto dì ottenere un asilo per i propri dèi: u io
non domando altro che un posticino {sedem exiguam) per ripom i miei
Penati » dice egli al re del Lazio ((>) ; e quando è giunto al
conspetto della Sibilla, si alìVetta a farle conoscere che non è venuto a
chiedere regni non dovutigli, ma soltanto un luogo sicuro per i suoi numi
erranti: da, non indebita posco Regna nieis fatis, Latio
considero Tencros, Errantesque Deos agitataque numlna Trojae ^7).
Ma Tallegoria ci sembra tanto evidente, che crederemmo inutile insistervi
oltre. Fin qui il nostro studio è stato unicamente rivolto a porre
in lue(^ quei caratteri della religione di V. che corrispondono
all'indole dell' antica religione romana ; per rendere compiuto il nostro
quadro dohhiamo dunque esaminare anche questi elementi nuovi, che
s'infiltrarono assai presto in essa, e, pur lasciandole un fondo tutto
proprio e particolare, l'accostarono sensibilmente alle altre religioni dei
popoli antichi, e specialmente dei Greci. LMntroduzione del
culto e degli dèi greci in Roma ha cause diverse, prima delle quali Y uso
di ricorrere ai Libri sibillini, che provenivano da Gergis (rèpytc, ed
erano stati portati a Roma sotto Tarquinio il Superbo (8). La
conservazione e l'interpretazione di codesti libri fu affidata ad \\n
collegio speciale di sacerdoti, i (juali, da due che erano all' epoca dei
re, ' s'accrebbero a poco a poco fino a raggiungere sotto l'impero
il numero di quindici, e furon detti perciò Quindiceminri sacris
faciundis. Quando avvenivano fenomeni straordinari, come pestilenze, terremoti,
inoncL^zioni, ecc., o prodigi affatto nuovi, non contemplati nei libri
pontificali, lo Stato ricorreva solennemente al consiglio di codesti
sacerdoti, i quali, dopo aver consultato i libri loro affidati,
prescrivevano le relative cennio nie di preghiera e di purificazione.
Siccome poi i libri sibillini raccomandavano il culto degli dèi del
lon* paese d'origine, così d'allora in poi accanto al Romanus ritus si
eblie il Graecus ritus, e accanto agli antichi dèi italici le divinità
dell' Olimpo greco, che finirono col sovrapporsi quasi completamente ai
primi. Questa mescolanza di riti e di divinità possiamo
agevolmente riscon trarla anche nella religione del massimo fra gli epici
latini. Insieme ai .*. dii patrii indAyetea^ appartenenti
all'antichissimo ciclo degli dèi romano f sabini, quali Giano, Pico,
Vesta, Pilumno, Romolo, Fauno, Silvano, il suo '; Olimpo contiene
anche quegli dèi che, per contrapposto, eran detti dii ^,
peregriìii o novemsédes ; vale a dire divinità greche ed orientali come
» Febo, Apollo, Cibele, Bellona, Latona, Mercurio. Vulcano, Venere,
(giunone -' Cerere, Proserpina, Plutone, Esculapio (9); e infine
divinità greche identi ficatesi poi con divinità italiche, quali Saturno,
Nettuno, Artemide (= Diana in Aventino) ed Ercole (= Hercules domesticus
o Mars). Il culto che nei L poemi virgiliani è reso a tutte queste
divinità, varia naturalmente col va \ riare dell'origine loro ; cosi,
mentre gli dèi greci sono onorati secondo le (; norme del rito
greco, agli dèi patri è serbato l'antico rito romano. I primi hanno
auree statue, pompe solenni e templi di marmo dalle colonne di : bronzo e
dalle porte istoriate in oro ed avorio (10), i secondi conservano
invece la primitiva agreste semplicità : Vesta non ha altra imagine
che " il sacro fuoco, alla cui conservazione vegliano assiduamente
le vergini sacerdotesse ; Fauno è ancora rappresentato da un
semplice t oleaster foliis amaris », al quale i marinai salvati dalle
onde solevano atta(rcare i loro doni e le spoglie votive (11); il dio
Tevere è adorato nella sacra quercia, al cui tronco i guerrieri appendono
le armi e le exuriae (spoglie) dei nemici uccisi \V2).
Insieme agli dèi ed ai riti, anche Tantropomorfismo greco è penetrato
largamente nella religione virgiliana, togliendole, o, a dir meglio,
attenuandole (luel carattere incerto e nebuloso che vedemmo provenirle dalla
astrattezza propria delle antiche divinità italiche. Né poteva essere
altrimenti; prima di tutto perchè in Roma Tantropomorfismo s' era imposto
alla imaginazione di tutti fino dal tempo dei Taniuinj, poi perchè il poeta
non avrebbe potuto rinunziare al grande vantaggio, clie gli proveniva dal
valersi di divinità dotate di forma e passioni umane. Per tal modo, gli
dèi che V. fa soprassedere agli avvenimenti svolgentisi nelFEneide,
sono, in fondo in fondo, gli stessi di cui Omero s' era servito
nell'Iliade e nelr Odissea. Essi hanno un corpo simile in tutto e per tutto a
quello dei semplici mortali, con le identiche qualità e bisogni ad esso
inerenti : vi è la sola differenza che tali qualità sono portate ad un
grado sovrumano, cosicché anche quando gli dèi scendono in terra- e
cercano nascondersi sotto spoglie mortali, il suono della loro voce, il
loro portamento, la loro statura, la loro bellezza, il scintillare degli
occhi, ne svelano agevolmente Torigine divina. Quando Iride, deposto
Tabito e l'aspetto di dea, cerca persuadere le donne troiane a bruciare
la flotta che doveva condurle in Italia, la vecchia Pirgo, nutrice di
Priamo, si accorge subito che sotto -- l'apparenza della matrona Beroe
era nascosta una dea, e grida alle compagne : Non Beroe
vobis, nou haec rhaeteia, matres, Est Dorycii coniux. Divini signa
decoris, Ardentesque notate oculos; qui spiritiis illi, Qui vultus,
voeisve sonus, vel gressus eunti E quando la dea Venere appare ad Enea
sotto V aspetto e V armi di vergine cacciatrice spartana, e gii chiede
con mentita voce se avesse veduta alcuna delle sue sorelle, V eroe
troiano risponde senza esitazione : Nulla tuarum audita railii,
neque visa sororum (quam te raemorem ?) virgo: namque hand tibi
vultus Mortalis, nec vox hominem sonat. dea certe : An
Phoebi soror? an nimpharuin sanguinis uua? (14) Ed è curioso notare
come, nei poemi di V., V antropomorfismo non si restringa agli dèi venuti
dalla Grecia, ma si sia esteso persino a quelle antiche divinità romane,
le quali, nella loro originaria astrattezza ed immaterialità, sembravano le più
restie ad assumere forma umana. Il deus Tiberinus era uno dei numi più
vetusti e rispettati fra il popolo romano, che lo considerava come il
protettore naturale del patrio suolo, il genius loci simbolizzante in sé
stesso l' origine, le vicende e la gloria di Roma : suo unico simulacro
era, come vedemmo, T umile quercia, alla quale i soldati vincitori
appendevano divotamente le spoglie dei vinti nemici. Or bene, anche il dio
Tevere ha assunto neir Eneide veste, forma voce umana, che lo fa
rassomigliare in tutto ad un dio dell'Olimpo greco : uscendo di tra i
pioppi dell' amena sua corrente, egli si presenta ad Enea in sembianza di
vecchio, e eum tennis glauco velabat amictu Carbasus, et
crines umbrosa tegebat arundo ; Tum sic affari, et curas bis demere
dictis (15'. Come per le qualità fisiche, così anche per le qualità
morali gli dèi somigliano in tutto e per tutto agli uomini : essi nutrono
nel loro animo passioni, desideri e sentimenti al pari di ogni mortale,
ma con una forza ed una intensità di gran lunga superiore a quella umana.
I loro odi, i loro amori, le loro gelosie, le loro vendette, che hanno
tanta parte negli avvenimenti umani, sono riprodotte da V. sulla
falsariga di Omero, (lai quale il poeta mantovano ha mutuato tutto il
macchinismo mitologico. Ciò è tanto evidente, per chi abbia una certa
conoscenza dei poemi virgiliani che sarebbe affatto inutile ci
dilungassimo a mostrarlo. Noteremo soltanto che esagerarono quei critici i
quali vollero scorgere nella mitologia virgiliana una serietà ed una
moralità di molto superiori a quella omerica
4»' Ch*:? Li ma-gior rispetto del i)4)polo latino
verso gli dèi, la sua inatrj:- r»- izrtivirà, e il pn»}j:r^^>so stesso
compiuto dalla ragione umana in otto s^ci I: di riflessione, «li >tudi
e di ricerche, «ìovesJ^ero spingere il nostro j toeta a d^ire una
ve>te più severa e più casti^jata alle antiche favole > • .
«n-ire sul >uolo ell»-nni«*o. è cosa naturale, confermata anche
dall'esame •i-i p» «-uJ iVià nr-i tempi di poct) anterit>ri al poeta,
codeste favole sem! /.iVAi... :i: più sfa«NÌate, assurde, immorali, e contro di
esse protestava - .rrjicaiiit-ritt- il più trrande dejrli oratori romani:
u nec enim multo aì)-:!:•' :. r:i — es^Uma ej:li, «lopo aver esposto i giudizi
dei tilosofi sulla divi:.:-^ — >unt ea, quae poetarum vocibus fusa ipsa
suavitate nocuerunt,,'iì et ira inrI:ìmiiiatos et libidine furentis induxeruut
deos feceruntque. r.: ri:r;m hèUa. pro«-lìa, pugnas, vulnera videremus,
odia praeterea. dis-i.a. -i:^ or.iia.s, ortu>. iiiteritus. «|uerellas.
lamentationes. effusas in •:n.::: intrriiiprrantia libidines. aduUeria,
vincula, cum humano genere con^ r\i lvd> iiiortaii'[Uè ex iLimurtali procrea
tos » 17). Ma. come abbiam ve I :r . C:- eri'iie non aveva la natura
timida e profondamente religiosa di Vìrjil:?. né s'era accinto come
lui ad un poema epico il cui fine era di r. :.r. iurre i Romani ali"
aritica religiosità, e la cui materia si trovava già :r: -è -ie tu'ù
.libine divina: lo stesso pn»tagonista del poema è figlio di una dea,
jr Vrrnere, ol.e s«..ntratasi con Anchise sulle falde dell'Ida,
s'era congiunta P e n lui: Latino padr»- dì Lavinia e re del Lazio,
è figlio del dio Fauno S tr iella n:r*f:i Mari, a (IS). Ma questa
semidivinità di Enea e di Lavinia. % »^: ->:.•" nifi
n«^'lia tradizione, era necessaria al poeta non solo per aver
5 n. io i; L':;>t:n. are le favolose imprese del primo e l'aiuto che a
lui con ^ c-rÌLO jl. dèL lua aiii'he per dimosti*are ai Fiomani derivati
dal matri • !..?:.!• 'l-l prÌMio **olIa sfonda, la loro origine
divina, e con ciò in ^ iiirli ad es.>ere più religiosi. Fra i
guerrieri italici che scendono in guerra 1^ *.» re-enit» troiano, i
più devono la loro nascita al connubio di un « Iemale con rialclie
divinità : Turno ha per avo il dio Pilumno e per nia ^ dre li dea
Venilia li») Messapo è tìglio di Nettuno (2l>), Cecolo fu gene \ rat •
da Vulcano tra le greggi e trovato nel fuoco -21), Ebaio da Telone
i è dil!a iiinra Seb»'tidr' ;.^2) : il leggiadro Aventino è tìglio del
dio Ercole e i -Il.i >^acerd-te>*>a Rea. la quale
Furtivum parta sul» luiuìnis edìlit aurati, Mivta l>n»
imilior ; 41 ed anche in questo caso il
nostro poeta non fa che servirsi di una tradìzione antichissima, colla quale
può giustificare la prima sconfitta ecc. ecc. Sulle condizioni
della religione romana verso il finire della repubblica e sulle cause
della sua decadenza, vedi G. Boissier - La Belìgìon Bomaine, Paris, 1884,
Voi. I, pag. 37-63.
Joachin Marquardt - Le eulte chez les Bomains, Paris, 1889, Voi. I, pagg.
69-87. C. Schmidt - Essai hìstorique sur la Società civile dans le monde Bomain
et sur sa transformation par le Christianisme, Strasbourg, Havet - Lo Chrhtìanisme
et ses orìgines, Paris, Livio - Ab urbe condita- L. VI, 42; X, 6-9. La prima legge per la quale anche al popolo fu
aperta la via al sacerdozio, fu la lex Licinia (389-367); vennero poi la
lex Ogulnia (454—300) e infine la lex Domitia (650=104). (6) Zeller - Beligion und
Phìlosophie bei den Bomern. Berlin, 1872 (Vortrage und Abhandlungen,
Asìnaria, II, 1, 11. Persa,
Iecc. CICERONE (vedasi) De Divinatione, II, 50; 1, 58. Ennius - Telamo
(Ribbeck, pag. 44) (9) Com' è noto, la notizia della
traduzione, ora perduta, fatta da Ennio della Storia sacra di Evemero, ci
è data da Cicerone nel De nat. deoi\ 1. I, C. 42 « gwae ratio maxime
tractata ab Euhemeì'o est, quem noster et interpretatus et secutus est
praeter ceteros Ennius 9, Dei brani della storia di Evemero sono riportati
da Lattanzio, Justit, 1, 11, 17 e seg.; le maggiori notizie su di lui si
trovano in R. de Block - Euhèmère son Ihrre et sa doctrine, Bruxelles,
1876. Quanto al poema di Epicarmo, esso è citato da Varrone nel De lingua
latina V, 65. (10) Una prova, fra le tante, degli eilettì prodotti
in Roma dal diffondersi della Storia sacra di Evemero, ci è data da
questo passo di Cicerone, De nat. deor. Ili, 19: « An Amphtaraus erit
deus et Trophonins ? Nostri quidem publicnni, cum essent agri in tìoeotia
deorum immortalium excepti legi" censoria, negabant immortali^ esse
ullus, qui aliquando homines fuissent*. (11) Varrone, che consacrò
il suo libro sulle Antichità divine a ia,r conoscere gli antichi riti^
all'ignoranza dei quali attribuiva la decadenza della religione romana,
chiamava poi assurde le favole che si raccontavano sugli dei, e confesssava che
il culto romano era mal fatto^ e che non sarebbe più tale se egli potesse
rifarlo; cfr. S. Agostino, De civitate dei, IV, 31. Per Lucilio, vedasi il modo
con cui egli giudica le religioni popolari nelle sue satire XV, 2; ed. Miìller,
Lipsia Com' è noto, Cicerone era augure, ed a tale suo officio teneva
moltissimo, facendo feilelmente la guardia alla porta dei templi. Con
tutto questo egli non si fa scrupoli di combattere recisamente, nel suo
trattato sulla divinazione, l'opinione di coloro che credevano possibile
una scienza dell'avvenire, ne vuol permettere che la superstizione sia
posta sotto la protezione della filosofia. Nel trattato sulla Natura
degli Dèi si mostra titubante, incerto, né sa giungere ad una conclusione
recisa; tantoché non a torto vi fu chi ai nostri giorni credette sorprendere,
in codesta assenza di conclusioni formali, una prova di ateismo (Cfr.
Boissier, Op. cit.. Voi. I, pag. 56). Nelle lettere familiari, che ce lo
mostrano nella vita privata, di religione non ia quasi mai parola. I
discorsi politici e giudiziari sono per contro tutti compenetrati di
religiosità, e ne vedremo più avanti la ragione. In questa esagerazione cadono
quasi tutti gli autori sopra citati, specie il Marquadt (loc. cit, op,
cit) (14) Epist. ad famil., V, 16. (15) Ad. Att,, ì,
3. (16j Cicero. Act, in C Ve7rem, IV, 35.
51 (47) Cfr. Havet, op. cU., pag. 77 e segg. (18)
Vedcsi specialmente la Pro lege manilia, (quelle In Catilinam, ([uelle
contro Verre, già ricordate, ecc. ecc. (19) Plutarco — Le
vite degli uomini illustri, trad. G. Pompei, Cremona, Ab urbe cond.Vedi fram.
del 1. XXXII. (22) De rer. nat. III, v. 7. (23)
Lentulo, il complice di Catilina, credeva agli oracoli della Sibilla; cfr.
Cicero In L' Calilinam orat^ ieri., 5. Siila, che aveva rubato i tesori del
tempio di Delfo, portava sempre con se una piccola ima'^ine di Apollo che
baciava di tempo in tempo; cfr. Plutarco, Siila, Voi. VI, pa?. 490, Mario
eonduceva sempre con sé la profetessa Marta^ nella quale aveva grande
fiducia e dietro ordine della quale sacrificava; cfr. in Plutarco la vita di
Mario. Vatinio, che affettava incredulità per gli auspici, e\ oca va
segretamente i morti e immolava loro dei fanciulli; cfr. Cicerone, In
Vatin,, 6. Quando apparo qualche meteora, quando qualche statua divina ha
sudato, quando qualche rumore misterioso s*è fatto sentire sotto terra o
nel cielo, il terrore invade tutti, e per ordine del Senato si consultano
ì libri della Sibilla e gli auspici; CICERONE (vedasi), De Divinatione Le
superstizioni funebri dominano specialmente tra gli sventurati. Lucrezio ce li
fa vedere, nelle ansie e nelle sofferenze (leiresi^lio, affrettarsi a
sacrificare ai mani e immolare pecore nere là ove il caso li ha condotti;
cfr. De rer^ nat- III, n. 8. Quanto a Cicerone, vedemmo già com'egli
attribuisse la propria guarigione agli dèi e incaricasse la moglie di
ringraziarli. Per verità, al tempo di Cesare e di Cicerone, le
matematiche pure ed applic^itct la fisica, la scienza musicale, la meccanica,
l'astronomia, la geografia, la storia naturale ecc. si trovano ormai ad
uno stato soddisfacente di sviluppo. Ma oltreché molto delle verità più
alte, come ad esempio il movimento della terra intorno al sole, erano
ancora al puro stato di ipotesi non dimostrate, s'aggiungeva anche che
coloro che nella loro gioventù avevano potuto compiere una buona
educazione scientifica, dimenticavano poi ogni cosa; cfr. a tal proposito
Polibio, IX, 24, e Cicerone De Republica I, 40, e Academica II, 39. Per convincersi
poi a qual punto di imperfezione era ancora la cosmologia e l'astronomia,
basta leggere le considerazioni di Lucrezio .sugli antipodi, le
dimensioni del sole, la durata dei giorni e dello notti, le fasi della
luna ecc.; cfr. De rer. nat. I, 4056, V 563, V 694, e 730. (25) Che
Ottaviano fosse grandemente superstizioso, è cosa risaputa (cfr. Svetonio, Ang.
90, 94); ma ciò non implica che fosse anche religioso nel vero e proprio
senso della parola. Antonio lo acculò di aver parodiato in modo così turpe
durante un banchetto l'Olimpo degli dèi, che Giove aveva abbandonato il
Campidoglio per sottrarsi a quella vista. Lo stesso Svetonio narra che,
avendogli una tempesta distrutta Tarmata navale, adirato cacciò Nettuno dal
tempio (Ang, 46, 70). (26) Kpist. 1. I, IV. LIVIO, M.
Georg. Georg. En. En. Sulla religione romana, vedasi, oltre le opere a;ià
citate del Boissier, del Marquardt, dello Sehmidt, dello Zeller e dell'
Ha vet, anche Bouché — Leclerecq, Les Ponti fes de rancieìine Rome. Paris, 1871; e, dello stesso, il
Manuel des ìnsliiU' tlons romaines. Paris, 1866. Preller, !.£s dkicv de
/' ancienne Rome, Paris. 1855;
Friedlaender — DarsCellungen nus der Sittengeschìchle Roms, Leipzig, 3
voi.; Inscriplìonum iMinarum amplissima collectio pubblicato a Zurigo dall'
Creili pei due primi volumi e dall' Hcrzen per il terzo; le Inscriptiones
regni Neapoletani pubblicate a Zurigo dal Mommsen ; io mi sono anche
servito di uno splendido e comprensivo riassunto della religione romana,
fatto dal Boissier in Remie de V histoire des religions, En. Hinc
Augustns agens Italos in poelia Caesar Cum patribus, populoque, penatibus
et magnis dis, Stans celsa in puppi : geminas cui tempora flammas
Laeta vomunt patriuinqne apei-itur vertice sidus. tll) Georg.
Properzio III, 22-20; Zeller, op. di. p. 6: Preller Hamisvke Mythologie,
Diogini d'Aliearnasso PcojiatxYj 'ApxatoXoyia, I En. Quando gli Arvali
sacrificavano due pecore alla divinità protettrice del luogo,
pronunciavano queste parole . Infatti, mentre i primi indirizzavano i
loro inni a Giunone, a Minerva, a Giano^ a Lucetins (Giove,; i secondi
non cantavano che le imprese di Ercole; ora il canto che V. pone in
tM>ccg^. : li Massarani — yei parentali di V., Mantova, 1883, paicg.
i9 e seguenti. Nai. Deor, En. Eh. En En. En. IV, 912 Giunone è detta cara Jovis coniux ;
cfr. iinclic En. XII, 806 uUerius
tentare veto. (27) En. Eru En. En. En. En C Uiad. XIV, 346-351.
Y] pOL xal àyxàg Ijiapxs Kpóvou nal^ if^v Tiapixomv Totoi 8' uno
x^à)v Sìa qpiiev vsoOijXéa «oIt}v, Xa)xóv ^'IpoVìevxa t8è xpóxov vj8'
ftàxivO-ov Ttoxvòv xal {iaXaxóv, Sg ìtcò x^C &'+io' èspYsv. xqi
ivt Xegaoi'hjv ènl 8è vscyéXr^v Sooavxo xaXrjv xpuoeCrjv. (38) A'n. Per tutte queste notizie cl'r. A.
Gabrielli. Sulla IV egloga di V.. Mantova, 1883. (40) 1.
II. l41) 1. II. (42) V. Ogereaii. Easai sur le système
philosophique des Sloicìens — Paris Gabrielli, op. cit.; i>er vedere quale
diffusione avesse codesta leggenda in Italia, cfr. Ccnsorinus, De die
natali, 17. Sugli anni e i //ja^^ne /wt'fwe* dell'eglog, IV cfr. De
Romanorum anno saec ad Very. eclg. IV nc^li Archivi di Filologia dell'
Henghelmann. En. Riguardo ai carmi sibillini cfr. le opere già
citate. (49) Completo magno anno, omnia si/dera in ortus suos
redire et referri rursus eodem motu. Quod si est idem st/derum motus,
necesse est ut omnia qiiae fueiunt habeant iteratiorwm. (50)
Cfr. Compareti, op. ci/., C. VII; ed ancora Schickedanz: Unde
VirgiUus argumentum quartae eclogae hauseriU Servest. 1761 ; Frcj'mullcr:
Die messianische Weùsagung in Vergils Edoga IV, McUeii, 1852. (51)
Sì confrontino i vorsi 10-45 con (lucsto frammento del carme dclhi
2»ibilla cumana. Cum Deus ab alto llegem dimittet
Olympo Junc terra omniparens friictas mortalibus aegris Reddet
inexaustos frumenti, vini, oleÌQUc; Dulcia tunc mellis diffundent pocula
coeli, Et niveo latices erumpent lacte suaves. Oppida piena bonis,
et pinguia eulta vigebunt, Nec gladios metuet, nec belli Terra
tumultus, Verum pax terris florebit omnibus alta. Cumque lapis Agni
per montes gramina carpent. Permistique simul Pardi pascentur, et Hoedi
; Gum Vitulis Ursi degent, Armenta sequentes Carnivorusque leo
praesepia carpct uti bos: Cum pueris capient somnos in noctc Dracones,
Nec laedent, quoniam Domini manus obteget illois. (52) Si
confrontino ancora i versi 10-45 dell'egl. IV, con queste parole di Isaia
(C. XI) * Ei erit justUia cingulum lumborum e.jus ; ei fides cinclorìum
renum ejus. liabitablt lupits cum agno, et pardus cum hoedo occubabil et
leu et ovis simul morahantur, et parvulm mbiabit eos. VltuliLS et ursus pascentur :
s'unuI requiescent catuli eorum ; et leo quasi bos comedet paleas. Et
delectabilur infaìia ab ubere supeì' foramine aspidis ; et in caverna
regulì, qui ablactatus fuerit. manuin sua mittet. Non nocebunt et non
occident in universo monte sancto meo; quia repleta est terra scientia
Domini, sicut aqtuie maris aperientes ». (53) Cfr. Comparetti, op. cit. C. VII; Evangelicher
Kalender. 1862, pan- i7-5o. Vedasi il saggio veramente geniale di G. Negri
« I Ricordi di Marco Aurei in eie Confessioni di S- Agostino» in
Meditazioni vagabomie, Milano. riiica fra le sètte filosofiche
deirantirhitii. la scuola di Epicuro esclude nel modo i)iù assoluto la
religione, nega ogni sorta di miracoli, e bandisce il sovrannaturah* che
l'ignoranza e la paura avevano cui loi^ato nel seno dei fenomeni. La
strana dottrina psicologica della i^pO-rfyy;,, nhe pure ha un fondo
indiscutibile di verità, aveva bensì costretto il (ilosofo d'Abdera ad
ammettere un Olimpo di dèi immortali, ma essi non hanno alcun potere sul
mondo e sugli uomini, sono formati da una semplice successione di imagini
prive affatto di consistenza, e vivono riligati negli spazi intercosmici
{intermundia). dai quali non potrebbero uscire per la diversa natura
degli atomi che li compongono. Quindi riiomo min ha nulla da temere e
nulla da sperare da codeste vane ombre senza cor|)0, che non possono
togliergli (jnello che l'epicureo considera il massimo dei beni: la libertà
dello spirito. In modo ben diverso intendeviino razione divina le altre
scuole, che si disputavano nel mondo rintien la direzione degli animi. La
dottrina del Portico, ad esempio, era venuta, col suo mal definito
panteismo, a giustificare ogni più volgare superstizione, e ad ammettere nel
mondo una incessante azione divina, una rnntinua provvidenza, un perpetuo
miracolo ; lo stoico, al pari di ogni altro pagano, credeva alla
fatalità, alla predestinazione e persino agli oracoli e alla scienza
augurale. Lo stesso può dirsi della filosofia platonica, la quale,
mistica ed ascetica già neirorigine. aveva accentuato aiici^r più
questi suoi caratteri passando attraverso la speculazione degli
Alessandrini, ed era giunta al punto di accettare non solo, ma di giustificare
col ragionamento filosofico l'ermetica e la magia. L'epicureismo soltanto
era recisamente nemico di ogni religione, qualunque essa fosse : poiché
ogni religione deve, dal più al meno, poggiare su quelle idee di
provvidenza, di creazione, di miracolo, di solidarietà fra il mondo e
dio, che il seguace d' Epicuro esclude nel modo più assoluto, u Ce n' est
donc pas sans raison — diremo anche noi col Guyau — que le nom d'epicurien
devint rapidement synonyme d'incredule et d'irréligieux ».
Dato questo carattere della filosofia epicurea, era possibile che il
mite V., iJ cantore del pius Aeneas, il ristauratore dell'antica
religione romana, il poeta religioso per eccellenza, accordasse il
proprio assentimento alle dottrine di Epicuro? Assolutamente no; a meno
che non si voglia ammettere che nell' animo suo fosse tale il distacco
tra i principi filosofici e le credenze religiose, da poter negare in
filosofia ciò che credeva in religione. Ma questa ipotesi sarebbe assurda e
priva di ogni fondamento. Tutta la storia del pensiero umano ci dimostra
che uno strettissimo legame ha sempre unito la religione e la filosofia; ed
anche al giorni nostri, se nel campo teorico i loro domìni sono stati divisi,
nel campo pratico delle coscienze individuali esse continuano a rimanere
strettamente, invincibilmente unite. Questo legame che unisce la
religione e la filosofia è al tempo stesso positivo e negativo : è
positivo in quanto Tana e l'altra soddisfano al bisogno imprescindibile
dell'anima umana di possedere la realtà superiore, l' unità suprema delle
cose ; negativo, o, dirò meglio, di esclusione, in quanto la seconda
sostituisce a poco a poco la prima nella esplicazione delle verità
superiori. Ed infatti, considerata storicamente, la religione non è
altro, secondo la definisce il Réville, che « la determinazione della vita
umana, per il sentimento di un legame che unisce lo spirito umano allo spirito
misterioso, di cui egli riconosce la dominazione sul mondo e sopra sé
stesso, ed al quale ama sentirsi unito » ; la filosofia invece,
considerata pure sul terreno strettamente storico, è la ricerca libera della
verità superiore nel mondo e nell'uomo sulla base delle conoscenze acquisite in
generale e deir osservazione della natura umana. La religione deriva dal
sentimento spontaneo che l' uomo ne ha, e che egli interpreta senza
rifiessione e senza metodo, sotto la direzione preponderante delle facoltà
imaginative ; la filosofia deriva dal bisogno che l'uomo prova di
correggere con formule razionali le ispirazioni del sentimento :i). Dove
la prima pone il piede, la seconda deve ritirarsi ; ed è soltanto quando
la filosofia si acconcia alle forme ed ai simboli della tradizione
religiosa, traducendo nel linguaggio tradizionale le sue idee e le sue speculazioni,
che l'una e l'altra possono trovarsi d'accoido sul medesimo terreno. Ciò
avvenne infatti nel pitagoreismo, nel platonismo, nello stoicismo, nel
giudaismo alessandrino ; ma non, come vedemmo nella dottrina d* Epicuro. Quindi
per noi la questione dell' epicureismo di V. è già a priori risolta:
essendo profondamente religioso, il nostro poeta non poteva essere al
tempo stesso epicureo. Ma non cosi l' intendono tutti coloro che, nei
tempi antichi e nei moderni, si occuparono in qualche modo delle opinioni dei
grande mantovano. « Se fra tante verità stoiche non avessi errato
con qualche principio epicureo, non sarei pagano ». Queste parole, che
Fabio Pianciade Fulgenzio pone in bocca allo stesso V. nel suo De continentia
Virgiliana, riassumono, si può dire, l'opinione generale dei grammatici e
dei commentatori antichi e moderni intorno ai principi filosofici professati
dal nostro poeta. Non tutti codesti illustratori sono certamente d'
accordo nel considerare le dottrine stoiche come il fondamento della filosofia
virgiliana ; anzi a questo riguardo le divergenze sono parecchie,
inclinando alcuni per lo stoicismo, altri per il platonismo, altri per il
neo - pitagorismo, altri infine, e con maggior ragione, per l'eclettismo
stoico - platonizzante. Ma si trovano poi tutti meravigliosamente uniti
nelP affermare che Virgilio, tra il candore immacolato delle sue dottrine
spiritualistiche, non seppe andar esente da qualche piccola macchia di
queir epicureismo che fu sempre la filosofia degli spiriti ribelli.
Questa, ripeto, è Y opinione generale degli illustratori di V. ; ma
ben più recisa è a tal proposito l'opinione volgare. Come osserva lo
stesso Heyne nel suo celebrato commento, « vulgo prò Epicureo haheri
solet Virgilius » (2). E cosi è infatti. Oggi ancora i più credono che il
nostro poeta abbia non solo accordato spesse volte facile «orecchio alle
ttjntazioni delle dottrine epicuree, ma che sia stato un epicureo vero e
proprio, un seguace convinto e deciso, sebben mite, del grande pensatore
d'Abdera. Scevri da ogni idea preconcetta e da qualsiasi
preoccupazione filosofica e religiosa, che turberebbe la necessaria serenità
della ricerca, noi ora dobbiamo domandarci : quali sono le origini
storiche ed i fondamenti reali di questa, che non chiameremo la leggenda
dell' epicureismo virgiliano ? Lasciando completamente da parte Y opinione
volgare, che non potrebbe avere la più lontana giustificazione nei
documenti storici e letterari che ci sono rimasti, io credo che l'origine prima
dell'opinione dei commentatori risieda in quel noto paragrafo della P.
Virgilii Maronis ri/a di Tiberio Claudio Donato, nel quale si parla
appunto degli studi e delle opinioni filosofiche di V.. Il paragrafo dice
precisamente cosi: « Audivit a Syrone praecepta Epicuri : cuius doctrinae
socium habuit Varium. Quamvis diversorum Philosophorum opiniones libris suis
inseruisse de animo maxime videatur, ipse tamen fuit Academicus : nam
Platonis sententias omnibus aliis praetulit » (3). L' antichità medesima
del passo, r autorità sempre concessa al suo autore, non potevano in
certo qual modo non suggestionare critici e commentatori, così da
convincerli che à qualche traccia degli insegnamenti di
Sirene doveva necessariamente trovarsi nelle opere virgiliane, prima
ancora di averne ricavato la prova dall'esame spassionato di esse. Non
c'è quanto mettersi a studiare un autore con idee preconcette, per creder
poi di vedere confermate ad ogni momento e nel modo più indiscutibile
quelle medesime idee! Ma ci sono veramente, o nelle Bucoliche, o
nelle Georgiche o nelV Eneide degli elementi filosofici di indole tale da poter
giustificare in modo positivo questa opinione tanto universalmente
diffusa? Vediamolo. 11 primo luogo
che quasi tutti i commentatori sono concordi nel chiamare prettamente
epicureo, è l'egloga sesta, nella quale il mitico Sileno canta T origino degli
uomini e delle cose. Ed è tanta la loro sicurezza intorno alla natura di
questo passo, che molti fra essi, ed anche dei modernissimi, non dubitano
di veder raffigurato in Sileno Tepicureo maestro di V., Sirene, e nei due
fanciulli V. stesso e il suo condiscepolo Varo (1). Non v'ha dubbio che i
concetti espressi in quest'egloga, e la melodia soavissima dei verei che
li accompagna, e la pittura giocondamente serena colla quale incomincia,
possono spiegare sufficientemente l'illusione in cui sono caduti i
commentatori. Il vecchio padre di Bacco, gonfie le vene pe'l gran vino
bevuto, seria procul capiti delapsa, se ne giace dormendo in un antro. Lo
vedono due fanciulli, che il vegliardo avea spesso lusingato colla
speranza di rallegra^-li con un canto, ed unitisi ad Egle, Naiadum
pulcherrima, lo legano coi serti, gli impiastricciano la fronte e le
tempie di sanguigne more e lo costringono a cantare. Ed egli, dolum ridens^ fra
l'esultanza dei Fauni, delle piante e delle fiere, incomincia il suo
canto narrando : uti magnum per inane coacta Semina
terrarumque animaeque marisquc fnissent, Et liquidi simul ignis; ut liis
exordia primis Omnia, et ipse tener mundi concreverit orbis; Tum
durare sohnn, et discludere Nerea ponto Coeperit, et rerum paullatim
sumere formas; Jamque novum terrac stupeant lucescere solem Altius
at) e specialmente dal Trezza (7), che disvelò la profonda moralità inerente
air epicureismo, mostrandone Y eccellenza fra di tutti i sistemi filosofici
antichi, io credo affatto inutile sfatare un' accusa che ormai può solo
essere accettata dalla credulitii stolta dei volghi. (Hi è certo che fra
i seguaci di Epicuro vi furono molti che si fecero schermo delle sue
dottrine per condurre una vita scioperata ed immorale; ma oltreché non bisogna
mai chieder conto ad una dottrina dalle conseguenze illegittime che le
passioni umane possono dedurne (8), e' eran pure tra gli epicurei uomini forti
ed eletti, che. ispirati ad un alto ideale di dignità umana, liberi dalle
umilianti tirannie celesti, sapean trarre una vita virilmente austera
nella serena contemplazione del vero. Ma a completare
l'illusione, vengono infine i primi versi del canto di Sileno, che più
sopra abbiamo riportato. L' origine del mondo, il suo lento progressivo
conformarsi, Y iniziarsi dei fenomeni tellurici, il sorgere delle piante
e degli animali, tutto è narrato in cotesti versi senza il benché minimo
accenno ed una azione qualsiasi della divinità, senza la più piccola
allusione al sovrannaturale : ogni cosa ha principio dai semina^ ogni
cosa che esiste non è che 1' eftetto del loro accozzamento magnun per
inane. Ora non é questa appunto la dottrina d'Epicuro, secondo il quale
tutto nasce, si forma e muore per un puro aggregarsi e dissolversi di
atomi nel seno del vuoto infinito, senza che gli dèi, relegati negli
spazi intercosmici, quasi famiglia di monarchi spodestati, possano mai
interrompere l'addentellato delle leggi immanenti ed eterne di natura?
Sembra evidentissimo ; anzi, ad avvalorare sempre più questa opinione, si
aggiunge anche la circostanza che nei versi sopra citati apparisce manifesta ed
innegabile Y imitazione del massimo fra gii epicurei romani. Lucrezio. È
proprio infatti d(»ir orazione lucreziana quel semina del verso :V2, che
Lucrezio usa tanto spesso per significare gli atomi, quel liquidus ignis
del verso ;53, queir anima che é adoperata nel verso 32 in luogo di aer^
e che ci ricorda subito come per Lucrezio l'anima umana sia composta
degli stessi atomi levigati e sottili che compongono l'anima (9): è
decisamente lucreziano quel maguiim per inane del verso 31
m che ci richiama tosto la concezione atomistica delV
estensione pura, del vuoto entità reale, inteso cioè come il luogo dove i
corpi materiali, e quindi estesi, possono trovar posto (10); bia di
epicureismo. ( onìineiani il no.stro poeta non avesse creduto di aggiungerne
altri che distruggono completamente il significato dei primi, avrebbe
dimostrato, almeno in questa parte, di seguire in tutto le idee già
espresse dal grande poeta e filosofo latino. Ma sembra che V. si sia
proposto, nelle opere sue, di togliere con una mano ciò che con l'altra
concedeva; sembra che abbia voluto, con (juesto continuo ondeggiare fra i
due poli opposti della filosofia, far perdere ai lettori ogni traccia del
modello cui s'inspirava, e dissipare non solo ogni giustificato sospetto
di professare dottrine men che ortodosse, ma anche di condividere una
qualunque teoria filosofica determinata. Questo vedemmo già, e vedremo
meglio proseguendo nella nostra ricerca; per ora possiamo averne una
prova indubbia nei versi che stiamo esaminando. Egli infatti prosegue il
suo racconto così : Prinius ab aetherio venit Saturnus Olympo Arma
lovis fugiens, et res^nis exiil ademtis. Is gcnus indocile ac dispersimi
montibiis altis Conposuit, legesque dedit, Latiumque vocari Maluit,
his quoniam hUuissot tutus in oris. Aurea quae perhibent, ilio sub rtge
fecerunt Saecula: sic placida in^pulo^ in pace regebat. Qui
la tradizione ha ripij^liato il sopravvento, imponendosi alla scienza ed
alla ragione che prima sombravano prevalere : il poeta, quasi spaventato del
soverchio suo ardire, rìtv>rna ad adagiai-si nelle braccia morbide del
mito, e canta il regno paradisiaco di Saturno, che fuggito air Olimpo
viene in Italia, ed accolto iv^pitalmente da Giano, ammaestra il popolo
noir agricoltura, ne corregge il vivere selvaggio, trasfonde in esso abitudini
di ordine, di moralità e di lavoro, iniziando cosi il periodo felice deir
età dell' oro. Tali ci»se narrava la leggenda, assai diffusa nel popolo
tra i tilosofi e i letterati (^J'i); tali, e non diverse, sono per V. le
prime storie della terra ancor giovane. Ce lo dice in modo egualmente
esplicito in un altro punto delle sue opere, e cioè sul finire della
seconda Georgica (23), ove descivendo con frasi idilliche la vita beatrma
i poemi virgiliani, credo possa esser tale da indurci a rispondere negativaviieiite
a una simile domanda. Non v' ha dubbio: dove il soprannaturale si
mescola ed incombe con tanta forza sul mondo, dove le potenze
dispoticb.vì d:::j»^:-i- >i «^zzarla a sua po-ìta. ivi non può ♦---ere
uè ^l'iiiio -si'» il»^ in uu moiAo «o-ì s-^j-^:: • airinij»erió di
volontà oliraniondane. ^ la -«i^-nz;! '\^V.\ «livin tzioriM e d»:'i riti:
studiarsi di penetrare nel pen>i»ro r:jcere all'ii^m'.» ii.^n«Mchiato
e treuiani^r s-.tt»> la verga inesorabile del di«j. K tale ir.faiti.
Lis-:iando da [«arte gli inse-juanienu contenuti nelle Georgiche, che >ono
più che altro una meo»: Ila di precetti pratici comuni a pirito
super>tizio>o di cui è imlHrvuto, egli manifesta di quando in
«{uando certe, sia jiur vaghe, a^jirazi^.ni a conoscere la vera natura delle
cse. e specialmente i m»ti dt i coi-pi cele>ti. le ecli-,^i del sole e
le fasi della luna, le inondazioni, i terremoti, i fulnn'ni ed altri simili
fenomeni naturali, che colpendo i»er la loro apparente irregolarità o per
la lon» grandio>ità le menti incolte degli uomini primitivi, dovevano
maggiormente giustificare la credenza dell'intervento divino nella
produzione loro. Di questa cres, lunaenue labores: Uride trcmor terris:
qua vi maria alta tumescant Obijcìlma ruptis, rur^iisque in se ipsa
residant: Quid tantum Oceana i^roperent se tingere soles Hìberni;
vel ti tre versi, pure delle Georgiche, che riassumono, quasi direi,
commentano e giustificano i versi antecedenti: Felix, qui [mtuit rerunj
cognoscere causas, Attiue metiis omnes, éì inesorabile fatum
Subiecit pedibus, strepi tu mine Acheroiitis avari I (iO) Non v* ha
commentatore che, cfiuiìto a questi due luoghi, non si faccia un dovere
di avvertire ctie in essi è contenuta Teco distinta degli insegnamenti di
Sirene, citando anche a maggior conferma i versi lucreziani dai quali il
secondo è palesemente imitato (11); non v'ha critico che si rispetti, il
quale, trattando così ù\ passaggio delle opinioni filosofiche di V., non
citi questi due luoghi come una prova indiscutibile delle sue
tenden>:e epicuree. Ora tali conclusioni sarebbero giustissime,
ed io per primo le sottoscriverei a piene mani, riconoscendo che almeno in
questi due passi le traccìe delle dottrine epicuree sono di una
innegabile evidenza, se non vi si opponesse un ostacolo addirittura
insormontabile : vale a dire gli stessi versi che seguono roi^i il primo
come il secondo dei due luoghi, versi che non solo ne infirmano il
primitivo valore, ma conferiscono loro un significato camplctamente,
recisamente contrario. Infatti, al primo dei due passaggi citati seguono
immediatamente questi versi : Sin, Ims ne pomm natm-ae accedere
partes, Ffigidiis obstiterit circum praecordia sanguis; Rura mìhi,
et ridili placeant in vallibus amnes; FI amina ameni silvasqiie
ìn'^iorius! 0, ubi campi, 85 Spercheosque, et
virginibus bacchata lacaenis, Taygetal o, qui me gelidìs in vallibus
Haemi Sistat, et ingenti ramorum protegat umbra! {ììk Al
secondo seguono immediatamente questi : Fortunatus et ille, Deos qui
novit agrestes, Panaque, Silvanumque senem, Nymphasque sorores! lllum non populi fasces, non
purpura regum Flexit, et infidos agitans discordia fratres Aut
coniuratio ecc. ecc. (i3)
Veda ora il lettore spassionato come la citazione integrale dei
passi virgiliani, indispensabile per riprodurre con tutta fedeltà il
pensiero del poeta, muti di punto in bianco Y aspetto della cosa ; veda
ora con quanto fondamento i versi sopra citati, uniti a questi ohe ne
sono il sèguito naturale, possano essere interpretati come un'aspirazione
a conoscere la vera natura delle cose, a liberarsi dalle visioni torbide
delPoltretomba e dal timore degli dei ! Poiché, alla fin fine,
qual'è il significato dei versi che stiamo esaminando? che cosa intese di
esprimere con essi il nostro poeta? Semplicemente il contrario di quanto
intendono i commentatori. È certamente una bella cosa, dice V., penetrare
i segreti della natura, conoscere le cause dei fenomeni che atteriscono
la nostra imaginazione, apprendere le leggi che regolano i movimenti
degli astri, i terremoti, le inondazioni ; ma io non mi sento da tanto.
Io preferisco trascorrere la mia vita nella beata ingenuità del povero
agricoltore, sotto la santa protezione dei vecchi iddii trasmessimi in
sacro deposito dagli avi, ammirando le eterne bellezze della natura esteriore,
senza guastarmi la pace dell'animo e la tranquillità della coscienza con
ricerche pericolose e con verità inquietanti. Tuttavia, anche
intesi in questo modo, si potrebbe sempre obiettare che il nostro poeta
non nasconde la propria ammirazione per coloro che, con lo studio della
natura, avevano saputo liberarsi dai gioghi celesti, e giustifica la
preferenza data alla religione soltanto colla mancanza del suo coraggio e
la tardezza del suo ingegno {/rigidus circum pr^aecordia sangxiis\ e che
quindi può ritenersi ugualmente verace Topinione comune intorno
alPepicuroismo dei due passi. L' obiezione sarebbe giustissima nella
prima parte, ma assolutamente falsa nella conclusione ; e per dimostrarlo sarà
duopo fare alcune considerazioni sul sentimento religioso degli antichi,
che ci riveleranno la vera ed intima natura dei versi virgiliani.
Come abbiamo ripetutamente osservato^ le religioni antiche e la religione
romana più d'ogni altra, hanno un carattere triste e cupo, che
86 induce facilmente neir animo del divoto tutti i terrori
della più cieca superstizione. Quelle mille potenze sovrannaturali
disseminate per la natura, quella schiavitù continua al loro capriccioso
dominio, quella cura incessante di antivederne il volere, quella
attenzione sempre desta di scongiurarne le ire, dovevano rendere piena di
ansie e quasi insopportabile la vita. « EJisognerebbe conoscere - dice il Guyau
- tutti i pensieri che assalgono a' nostri giorni ancora un' anima
superstiziosa, per comprendere quale poteva essere la vita dei superstiziosi d'
altri tempi, allora che la superstizione era garantita ed incoraggiata dalla
religione stessa, faceva parte delle credenze dello stato, e che Cicerone
stesso brigava per ottenere il titolo di augure (13). Ora, a tal riguardo, noi
al>biamo per fortuna un documento assai importante di quei temi>i, vale
a dire il trattato di Plutarco sulla Superstizione. Plutarco, testimonio
non sospetto e degno di fede, ci fa un quadro assai fosco delle ansie e
dei terrori suscitati negli animi dalla superstizione, che egli chiama «
malattia ripiena di passioni » « viltà servile » « piaga delle coscienze » «
fuoco che divora T anima » e definisce cosi : « quale sia la natura della
superstizione ci dimostra la voce greca «siotdaiiiovfa che altro non significa
clie aver paura degli dei, ed è una affannosa opinione, e imaginazione
che impaurisce, atterra e consuma T uomo, il quale ben crede che esistono
gli Dei, ma dispensatori di dolore e di sventure ». Per tal modo, mentre
chi non solca il mare non teme le tempeste, chi non è soldato la guerra,
chi non esce di casa i ladri, ecc. * cohii invece che ha paura degli dèi
teme tutte le cose, la terra, il mare, Taria, il cielo, le tenebre, la
luce, la fama, il silenzio, i sogni i ; mentre ciascuno può sfuggire ai
propri affanni, il superstizioso non può sottrarsi alla sua paura né di
giorno, né di notte, e neppure colla morte; e mentre l'empio, caduto in
disgrazia o in malattia, ricerca le cause del suo male e vi pone rimedio, il
superstizioso, credendosi castigato dagli Dei, si spaventa, si dispera, e
non vuol nemmeno provvedere a sé stesso per non disobbedire alla volontìi
divina. Che più *? (c Cagione di gran gioia sogliono essere agli uomini
le solennità delle feste e i sacri conviti, che si celebrano nei templi,
Tessere ammesso alla religione, le misteriose cerimonie dei sacrifizi, le
preghiere, le adorazioni.... Ma il superstizioso ben vorrà, ma non può star
lieto... Tutto pallido e smorto nel volto pur si corona, sacrifica
insieme e trema di paura, e con voce tremante porge preghi a Dio, e con
la mano mal ferma sparge fumi e incensi. Insomma, mostra esser vano il
detto di Pitagora, che noi diventiamo migliori quando andiamo a Dio;
perchè non mai i superstiziosi sono più in pessimo stato e
malavventuroso, che quando entrano nei templi degli Dei, come se fossero
covi di orsi, ripostigli di serpenti o caverne di mostri marini ». In
questo modo, continua Plutarco, avviene che molti supei-stiziosi, mirando
la quiete e la libertà di spirito di cui godono gli empi, non solo li
invidiano e desiderano poter ridersi m
come loro dei terrori religiosi, ma giungano persino a farsi
deliberatcìmente increduli ». (14) Questa eloquente e vivace
pittura degli effetti della superstizione nella società greco-romana,
getta un fascio di luce sui v*.tsì che stiamo esaminando ; nei (inali
diremmo quasi di sentire — se !ion temessimo di cadere in un enorme
anacronismo — Teco distinta dellu ultime parole di Plutarco. Vi è la sola
dilTerenza che, mentre lo storico e moraliata arreco descrive gli effetti
dalla superstizione sull'animo degli altri, il poeta latino esprime gli
effetti che essa produce sul proprio ; e mentre il primo ci parla di
superstiziosi che si davano addirittura in brar-cio alla inrredulità, il
secondo si limita a manifestare la propria ammirazione per gli spiriti
forti che sanno affrontare la luce del vero, e gìttarsi sotto i piedi i
timori religiosi, il fato inesorabile, gli strepiti dell'avaro Acjieronte ;
ma aggiunge subito che egli non si sente capace di fare altrettanto. Che
poi la religione di V. fosse una vera e propria superstizione, nel
senso che Plutarco dà a questa parola, l'abbiamo a lungo dimastnito: come
pure mostreremo a suo luogo quanto fosse viva nel nostro poeta la
(mura della morte e la preoccupazione della vita futura. Ben diverso dal
vero è adunque il significato che si dà universalmente a ^piesti
famosissìnii versi; i quali, in fondo in fondo, non diversificano mollo
per la loro natura da quelle subitanee ribellioni alla tirannia degli (U'i, che
stndirimmo più indietro (15). Soltantochè in questo caso ci troviamo
dinanzi mi uno stato d' animo assai più complesso ed interessante ; là
non si trattava che di Sfratti vivaci e quasi incoscienti, tosto
repressi; qui invece la ribellione è meno fugace e più meditata ; quelli erano
sempliri moti passionali, questi invece racchiudono un vero e proprio
raere sue: le Bucoliche rappresenterebbero il primitivo indirizzo
epicureo, VKneide Y indirizzo mistico platonico e quasi cristiano, le Georgiche
il ponte di passaggio tra Y una o Y altra dottrina. In uno
studio sul sentimento poetico in relazione con Tarte, l'Aloardi descrive
col suo stile imaginoso e fiorito questo preteso mutan«ento avvenuto nelle
opinioni filosofiche di V. : « invaghitosi da giovane della I filosofìa
d' Epicuro, la cantò nella ammirabile Egloga di Sileno. anchV^di
ricalcando con pie gentile le franche orme di Lucrezio : poscia
guardando con più delicato studio la natura, si tolse da quella
agitazione vertiginosa degli atomi, si accostò a Platone, si rivolse a
quel non so che di più spirituale, che gli fece cantare nella Eneide lo
stupendo canto dei Morti e dei Nascituri, nel quale si rivela una confusa
idea della immortalità dell' anima. Respirò gli effluvi balsamici che una
corrente arcana rei ava neir aria del nascente Impero, e prestando
orecchio airantico carme delle Sibille vaticinò un nuovo ordine di cose
più apertamente dei Profitti di Giuda ; e forse fece tesoro dei concetti
Bacchici, che innestati negli drtiei, nelle feste di Eleusi e nei
Baccanali, ivano sviluppando e purificando r idea di Dio e della seconda
vita » (2). Il Boissier è ancora più pi eriso nel descrivere questi
diversi atteggiamenti dell'anima di V.. Egli esamina successivamente i
tre poemi virgiliani, e trova nelle Bucoiiclie la spensieratezza, 1'
assenza di patriottismo e di religione propria dei seguaci di Epicuro, nelle
Georgiche le incertezze di un' anima che sta per abbandonare, non senza
qualche rammarico, le dottrine fino allora seguite, nelYEneide tutti i
caratteri del poeta che milita senza esitazioni sotto le bandiere della
filosofia platoneggiante (:3). Questa nuova versione, oltre schivare gli
scogli della logica, può anche sembrare a tutta prima abbastanza
seducente, e non del tutto priva di sicuro fondamento. Piace raffigurarci
il nostro poeta, già tanto assorto negli artifizi della forma e nelle cure
dello stile, approfondirsi anche negli alti problemi della scienza
filosofica, e rivolgerli ed agitarli incessantemente nell' animo suo, cosi
da abbandonare dopo lunghi dubbi V opinione da prima formatasi per
abbracciarne poi in modo definitivo un' altra che gli sembrava più vera e
più giusta. E d' altro canto, 1' aver egli avuto per primo maestro di
scienza filosofica r epicureo Sirone, V aver frequentato nella sua
gioventù la compagnia di Cornelio Gallo e di Asinio PoUione; Tessersi più tardi
staccato da essi e stretto invece di più intima amicizia con Cesare
Ottaviano, di cui interpretò d'allora in poi le idee di restaurazione
religiosa e morale: l'aver infine passata la seconda parte della sua vita nella
solitudine campestre, paiono rendere sempre più valida questa ipotesi. Ma
la prova più convincente, secondo i critici, ci sarebbe data come vedremo
dall'indole stessa intrinsecamente assai diversa dei tre poemi ; che nella
gaia amabilità delle Bucoliche, nell' assenza di ogni preoccupazione
politica e religiosa, nelle pitture soavemente idilliche che le
infiorano, sembra quasi riflesso quel sentimento epicureo della natura,
che nasce dalla contemplazione serena di essa, non turbata dalla visione
dolorosa di un ideale impossibile a raggiungersi; nella severa mestizia
delle Georgiche, nel lieve sotho di religiosità che le attraversa, negli
accenni frequenti alla incredulità da una parte e alla fede dall'altra, sembra
vedere rappresentato r uomo che tentenna ancora fra due dottrine
radicalmente opposte, ma accenna già a piegare per una di esse ; mentre
infine nel freddo misticismo che pervade da un capo all' altro il poema d'
Enea, tu vedi un animo ormai tutto compenetrato della potenza infinita
degli dèi, tutto dedito a conoscerne i voleri e piamente obbedirli.
Ora, questa supposta prova è tanto convincente quanto si vuol far
credere dai commentatori ? Io per fermo non vorrò escludere la esistenza
dei caratteri che distinguono fra loro i poemi virgiliani; credo però di
appormi al vero affermando che tali caratteri difierenziali non derivano
da una diversità fondameatale di concetti filosofici, e tanto meno accennano ad
una evoluzione successiva del nostro poeta dal campo dell* epicureismo a quello
dello spiritualismo stoico, platonico e pitagoreo, ma sono un eff'etto
necessario della natura diversa dei componimenti poetici, e del diverso
scopo propostosi dal poeta per ciascuno di essi e infine della diversità
del modello seguito. Cantando nelle Bucoliche — dietro r ispirazione
della ridente musa teocritea, e col solo intendimento di sperimentare le
proprie forze giovanili nel più tenue dei componimenti poetivi — la vita
primitiva, tranquilla, spensierata dei pastori e dei loro armenti, il nostro
poeta non poteva, senza contraddire alle leggi più elementari dell'arte, usare
quella maggiore gravità di stile e di argomenti che adopera nelle
Georgiche, componimento didattico e scientifico per eccellenza, intessuto degli
insegnamenti di Esiodo, di Democrito, di Senofonte, di Aristotile, di Teofrasto
e di Catone il censore, e composto, dietro il consiglio di Mecenate, col
proposito di richiamare i suoi ccmcìttadini alla sana vita dei campi e
alle pratiche della romana religione^ da cui s'erano venuti allontanando
: e così nelle bucoliche come nelle TTeorgiche non avrebbe potuto
introdurre quel soffio di gelido misticismo, 4Ut^llH continua
preoccupazione del divino, quella tetraggine farisaica di riti t? di
formule — per usare una espressione del Trezza — che vedemmo essere
caratteristica dell' Eneide; poiché questo è poema religioso nel [ùù puro
senso della parola, composto sulla guida di Omero con triplice seoiJO
politico religioso e morale, per narrare ai Romani rimmi^rrazione delle
nuove divinità elleniche ed il loro assorbimento da parte delle
itiiliebe, per ricordare a' suoi poco di voti concittadini la loro
origine divina ed il modo con cui dovevano comportarsi rispetto agli
dèi. Dimostrata per tal modo la insufficienza di questa prova, cade
anche il valore delle altre più sopra ricordate, le quali, se ben si
guardi, poggiavano più che altro sulla validità di quella or ora esaminata.
CosicchfV pure ammettendo che col crescere degli anni e col maturarsi
della riflessione s'aumentasse nel nostro poeta quella sua naturai
disposi/Joiir allo spiritualismo, rimane però esluso nel modo più
categorico che durante la sua gioventù abbia militato sotto le bandiere
di Epicuro. Ripojtandoci dunque alla conclusione esposta nel principio di
(jnesto paragrafo, «noi siamo autorizzati a conchiudere che in nessun
luogo delh? sue opere il poeta mantovano manifestò principi di carattere
epicureo, e che quindi, per quanto si può dedurre da questi soli
documenti rimasti, egli non appartenne, né poco né molto, alla scuola d'Epicuro.
Reville - Prolégomènes de V hìst. des relig, - Paris. Il solo ALIGHIERII
(vedasi), che pure conosce tanto bene le opere vir^iliaDo, mostra di
andare esente dall'errore comune. Ciò prova prima di tutto col non aver
collocato V. nel sesto cerchio dell' Inferno, ove sono « Con Epicuro
tutti i suoi seguavi Che r anima col corpo morta fanno » (C X.) ; in
secondo luogo, ed h prova ben più importante, col pigliarlo a guida per
quella prima parte dell' allei^órìco suo viaggio, in cui l'anima, pur
rimanendo in ragione umana, purifica se stessa e d rende degna della
visione beatificante. Il Comparetti, nella sua splendida opera su V. nel
medio evo (V. I, p. 293>l crede ciò dipenda dal fatto che Dante conosceva
assai poco la dottrina epicurea, come appare dal C. IV, del Conviio, e
come si può desumere dal fatto che egli non conosceva il De Natura
Deorum^ unico libro dal quale avrebbe potuto averne notizie sicure.
Lasciando pur da parte i molti argomenti che si potrebbero opporre a questa
opinione, io osservo soltanto che ii Comparetti stesso, nella pagina
precedente, aveva notato che Dante doveva avere pure conoscenza delle
diffusissime leggende medioevali intorno all'epicureismo viri^iliano,
«Poiché - dice il Comparetti - c'era bensì nel medio evo l'idea che il grande
poeta latino si fosse grandemente accostato ai princìpi cristiani, ma
c'era anche nuella che egli come pagano fosse caduto in più d' un errore,
singolarmente epicureo. Questo si accordava con la sua biografia che lo
presenta come discepolo di un epicureo, e anche col fatto, perchè
realmente princìpi di indole epicurea, com'è naturale in im poeta lii
quella età in cui l'epicureismo era tanto in favore presso i Romani, non
uianeano nelle sue opere >. Dunque, io dico, se anche allora come oggi
V. passava agli occhi di tutti per un semi-epicureo, Dante dovè avere un
qualche motivo più forte ftie non la sua ignoranza dell'epicureismo per
allontanarsi in modo cosi indubbio dal sentimento universale. Sia come si
sia, le ultime righe del passo citato ci provai uo se non altro come
uomini dottissimi possano essere trascinati dalle creilenze comuni ad
errori grossolani, che un esame oculato delle fonti varrebbe a ^orreggere^
Come vedremo più innanzi. Gotti. Heyne - P. Virgilim Maro varietale
lectionis et perpetua adito* tallone illustratus - Ed. tertia – Lipsiae Tib.
Claudii Donati - De P. Virgilii Maronis vita. C. XIX, 79 : in Heyne, voi.
I. . (I) Cfr. ad es. il commento di Giuseppe
Arcangeli. Riferendomi alle considerazioni che verrò facendo più avanti, le
quali sfatano completamente questa assurda interpretazione, osservo per
ora che assai difficilmente V. avrebbe potuto decidersi a raffigurare in un
vecchio eternamente ubriaco, per quanto semidio, il suo antioo maestro, che
Cicerone ci fa conoscere come ottimo uomo ed amicissimo suo,1 f. Ihf fin, II,
35, e Div. VI, II). là) V. 3Ì-40. (3) Vedi aggiunta
alle Note. k\) Constant Martha - Le poème de Liccrèce Paris La morale d' i.piciire – Paris Studi
Increzioni – Torino Lìici'ezìo - Firenze
i870; e Epicuro e V epicureismo – Firenze Lo dice anche il Manzoni, nella
Morale Cattolica, C. VII. i9) De rer. nat, 1, III. 131 e seg.; VI,
451-494; V, 715, ecc. Id. I.
349-417. anche Cfr. la dotta dissertazione del Giussani intorno alla
questione dell* inane, spatium, locus, vacuum secondo Lucrezio, in Studi
lucreziani De rer. nat. e la lunga nota del Giussani V,V. 416-498 la lunga
nota del Giussani dissimilis formas varìasque figuras. la nota del
Giussani. La plastica descrizione
del coniectus material. (18) Univers. 5: Inter ignem et terram aquam Deus
animamque posuit. Anche Tmc. V,
1-19. (19) Cfr., per avere una idea dal modo erroneo con cui è
intesa, Schaper, Die sechste Ecloge des Vergilius, In lahrbh f, class,
PhiloL, Zeller - La philosophie des Grecs (trad. Boutroux) Paris Cfr. Zeller. Die Philosophie der Griechen -
Leipzig. , dice così riguardo a Posidenier : Posidenius, von seinen Vorgàngern
abwekherJ nur so viel leeren Bauni au^ser der Welt annehmen wolte, als
die Welt bei ihrer Auflosung durch die Ekpyrosis nóthig habe, E riguardo
agli altri Stoici loc. cit, p. 1897-188. Atielten dieStoiker ein Leeres
ausser der Welt schon desshalb fùr nóthig, wcil die Welt sonst bei der
Weltvcrbrennung Keinen Raum bàtte, in den sie sich iiuflosen konnte, und
sie glaubten dasselbe unbegrenzt setzen zu mùssen, weil deni Unkorperlichcn
und Nichtseienden weder cine Greuze, nodi sonst eine Bestimmtheit
;iukommen konne. (22) Ogereau F. Le sisteme philosophique des Stoiciens.
Paris, 1885 C, IC. L. V, En. Lucr. En. Lucr; En. e Lucr. Georg. Ili, 242-45,
Lucr. . e anche Arìst. Ifktor. Anien. VI, 18; e Lucci EpisL I, II, Per
tutte queste ed altre notizie, cfr. Max Muller - Nouvelles études (k
MythoLogìe - Paris, Zeller. Igino
- Fabularum lìber, Basilea Georg,; En Georg, II, 343-45(19' V, 922 e
segg. (20) Giussani, op. cìt. Voi. I, pagg. 268-284. E' un commento
a Lucr. V, 1026, ovi? è narrata appunto l'origine del linguaggio. L'A. fa
un confronto fra le teorie di Platone ed Epicuro intorno a questo problema, e
pone in luce come quest'ultimo abbia divinato concetti e teorie
scientifiche modernissime. Macrobio Sai. I; P. Vitt. De orìg. gent. Bom, I
ecc. VL 1088 - fine. (25) VI, 58-66; 71-81 ecc. Nel V
combatte invece coloro che vedono un segno della mente e della volontà
divina nel sistematico coordinamento delle parti del mondo, nella
regolarità delle leggi che lo governano, nella razionalità dello sviluppo
delFumano incivilimento. Georg. En. Lucrezio, Milano De rer. nat, Diog. L. X, 82. A
proposito degli dèi volgari, Epicuro diceva: 'Aaspfjg fi'oOy. 6
Toùg T(3v 7coXX(5v Bsoùg àvapffiv, àXX'6 xàg tc5v tioXXcSv 5óS*C ^«ofC
wpoodicxov (D- L.). GIAMBELLI
(vedasi) DelC Epicureismo di V. (in Album Virgiliano Per vedere quanto sia
diffusa la credenza nell'epicureismo di V., cfr. il Trezza {V Epicuro e
il Lucrezio) e il Giussani, Ea. Eglog. Heyne, En, VI, 850-51. (9)
Georg. III, Et metus ille foras praeceps
Acherontis agendus - Punditus humanam vitam qui turbat ab imo - Omnia
suffundens mortis nigrere, negus ullam Esse voluptatem puram liquidamque
relinquit (12) Georg. II, 483-489. (13) Id. 493 e segg.
(14) Guyau Plutarco - Della Superstizione, in Opuscoli Morali, trad.
Marcello Adriani, Firenze C. I, . Anche CICERONE (vedasi) De Fin I, 60, e
Guyau, op. cit. p. 63 e s^g. ì 5. Guyau Nella rivista
La filosofia delle scuole italiane, anno I, disp. I. Boissier Racconta
Cicerone, nel De Legibus (1), che un certo Gellio, proconsole romano nella
Grecia, trovandosi ad Atene, rimase stordito e meravigliato delle lunghe
discussioni dei filosofi intorno alla questione del sommo bene: e credette
suo dovere riunirli tutti, eccitandoli a finirla una buona volta con
codeste interminabili dispute, ed assicurandoli che, qualora non si fossero
mostrati ostinati e decisi ad azzuffarsi per tutta la vita, la cosa si
sarebbe potuta facilmente combinare ; egli poi, da parto sua, prometteva
di fare del suo meglio perchè V accomodamento riuscisse. Lo scrittore
latino aggiunge maliziosamente che l'ingenuità del proconsole suscitò il
riso universale. E non torto; tuttavia codesto grazioso aneddoto può
farci conoscere, meglio di qualunque trattato, la poca attitudine dei
Romani alle sottili astrazioni, e il modo onde essi intendevano la filosofia.
Propensi più al fare che al dire, e ad apprezzare ogni cosa secondo la
sua pratica utilità, codesta scienza era rimasta loro per lungo tempo
affatto sconosciuta, ne, per vero, ne avevan mai sentita la mancanza: e
soltanto al principio del secolo 111 A. C, quando la dominazione romana
si estese sulle colonie greche dell' Italia meridionale, cominciarono a
penetrare in Roma, insieme alle favole e alle rappresentazioni
drammatiche, gli insegnamenti della sapienza greca. Più tardi, anche i
filosofi greci %\^ la quale è solo privilegio degli uomini (Xoytxà
;;(T)a) e degli dèi (f)). V. non mostra di essersi scostato nemmeno per
questa parte dalla dottrina degli stoici; cosicché, sebbene anch' egli
creda ch(? i bruti siano dotati di anima al pari degli uomini, come ci
manifesta nell'episodio dei vitelli che muoiono nei lieti prati : Et
dulces anìmas piena praesepia reddunt (iO). e come ci fa conoscere
molte volte parlando delle api, e dei loro ìnotm aniiìiorum (11) dei loro
contusos animos (12), e tnstabiles animos{ìd); e dei loro re i
quali Ingentes animos angusto in pectore versant (14) ;
e del modo con cui quando pungono tanùnas in vulnere po7iuntn if));
sebbene anch' egli conceda agli animali sentimenti e passioni al pari
degli uomini, come prova la descrizione che egli fa dell' ira delle api
(16) e dello spavento da cui sono prese alcune di esse durante i
combattimenti (17) e dell' allegria dei bestiami dopo la pioggia (18) ; sebbene
in fine ammetta che gli animali possano compiere azioni tali che
sembrano suggerite dalla intelligenza, come nel commovente episodio del
cervo addomesticato di Silvia, che, ferito da Ascanio, nota intra
tecta refugit Successitque gemens stabulìs, questuque cruentus
Atque imploranti similis tectum omne replevit (19); tuttavia egli
si dà cura di avvertirci che non si tratta né di ragione né di
intelligenza, ma solamente di istinti, di t ìiaiuras qitas Tuppiter ipse
addidìt » (20). Col qual vocabolo « natuì^as » egli traduce esattamente
il xi Tipffixa xaxà cpóaiv (21) con cui gli stoici solevano indicare le
tendenze primitive proprie degli animali. E trattando nel primo delle
(jeorgiche in qual modo l' agricoltore possa presagire ex imbri sole et
aperta serena, gli insegna la maniera con cui gh alcioni, i ciacchi, i falchi,
le civette e i corvi manifestano V approssimarsi del bel tempo ; ed
aggiunge di non credere affatto che ciò derivi dal possedere tuli animali
una intelligenza superiore a quella assegnata alla loro specie :
Haud eguideni credo, quia sit divinltus illis Ingenium, aut rerum
fato prudentia maior (2i), ma solamente, seguendo anche in ciò una
credenza assai conmne tra i pitagorici i platonici e gli stoici (23),
dalla diversa densità degli elementi, dell' aria in special modo, che
muta gli istinti dei loro animi : Verum, ubi tempestas, et coeli
mobilia huinor Mutavere vias, et Jupiter uvidus Austris DenJ^et,
erant quae rara modo, et quae densa, relaxat: Vertuntur speries animorum,
et pcctora motus Nun alios, alios, dum nubila ventus agebat,
J Concipiunt: liinc ille aviiim conceotus in agris, ^
Et laetae pecudes, et ovantes gutture corvi (24). ^ Vi è però
un punto nel quale sembra che il nostro poeta si scoEti '[ alquanto
dall'opinione fin qui seguita, ed inclini a concedere ai bruti quella
intelligenza che prima aveva negata ; ed è sul finire del canto de- \
cimo, ove Mezenzio, dopo aver fatto prodigi di valore ed essere stato
già- j Temente ferito ad una coscia, vedendosi portare innanzi il
cadavere esangue ì deir unico figlio, si rianima di novello ardore
e preparandosi a combattere ; rivolge al preferito cavai di
battaglia quella splendida apostrofe, che non j possiamo
trattenerci dal citare integralmente : Rlioebe, diu, res si qua diu
mortalibus ulla est, i Viximus: aut hodie Victor spolia illa
cruenta, i Et caput Aeneae referes, Lausique doloruni ;i
Ultor eris mecum : aut, aperit si nulla viam vis, Occumbes
pariter : neque enim, fortissime, credo, lussa aliena pati, et
doniinos dignabere Teucros i
Questo discorso, che presupporrebbe in chi l'ascolta una intelligenza
j simile a quella di chi lo profl'erisce, ha fatto arricciare il
naso ai soliti commentatori (2()), per i quali Tirragionevolezza
degli animali è un dogmii su cui non è nemmeno permessa la
discussione ; e lo stesso Heyne ha ^ cura di avvertirci a questo
punto che « displicuit haec ad equam suuni | Mezentii ovatto
venustioribus nostra aetate » (27). Tanto più che nel j canto
seguente V. sembra confermare questa sua nuova opinione,
descrivendoci il cavallo Aethon, che segue piangendo il cadavere di Pai-
* laute, suo signore: Post bellator equus, positis
insignibus, Aetlion It lacrimans, guttisque humeetat 8:randìbus ora
(28) Che realmente il nostro poeta, dopo aver negato T intelligenza
a tutti gli animali, anche a quelli che, come le api, sembrano possederla
nel I modo più indubbio, voglia ora concederla soltanto ai cavalli
? I due passi' ora citati non sono tali per fermo da autorizzarci ad
ammetterlo. Poiché il discorrere dei guerrieri ai loro cavalli è cosa che
occorre assai fre- ] quente cosi negli antichi poemi eroici come
nei più moderni poemi cavallereschi; senza che con questo i loro autori abbiano
avuto nemmeno la lontana idea di atferniare la ragionevolezza degli
animali. Quanto al nostro poeta, egli dovè manifestamente ispirarsi all'
Iliade d' Omero, ove spesse volte così Ettore come Achille rivolgono la
parola ai loro destrieri (29); ed è pure una seiiiplice imitazione omerica quel
pianto del cavallo di Palhinte, che ci richiama subito alla mente i cavalli di
Achille piangenti la morte di Patroclo (30 . Ma, oltre a tutto ciò, non è
forse naturale e comune anche fra noi questo amare e rivolgere la parola a
bruti e perfino a cose inanimate cui ci sentiamo fortemente affezionati ?
Possiamo dunque concludere senza tema di errare che V., seguendo la
opinione degli stoici, non ammetteva la ragionevolezza in nessuna sorta
di animali. L'esposizione ohe nel sesto canto dell'Eneide (31) fa
Anchise della dottrina stoica dell' anima del mondo, è ancora più
ordinata e precisa di (luella che vedemmo nelle Georgiche. Il vecchio
padre di Enea, comincia prima di tutto col rivelare al fìgliuol suo T
esistenza di quel fuoco etereo universale, che compenetra ed informa il
cielo e la terra, la luna e gli astri : Principio coelum ac
terras, camposqiie liquentes, Lucentemquc globuin Lunae Titaniaque
astra, Spiritus intiis alit; Poscia gli insegna come quest'
anima ugualmente diffusa sia il « principio di universale attività )> (xò
tioioùv), per rapporto al quale tutto non è che passivo, e il principio
dirigente (f^rej^ovtxóv) che domina e governa tutti gli esseri :
totamque infusa per artus Mens ai^it it molem, et nìa'^no se
corpore miscet. Viene quindi a ricordargli come questo fuoco divino
non sia soltanto un semplice pensiero ragionante, che si limita a
combinare e comparare delle nozioni ; esso non è né l' idea delle idee,
né il pensiero dei pensieri, ma piuttosto un i ragione seminale, uno auspnaTixòv
Xó^ov Svia toO tlóoiìou (:t2): Inde hominuni pecudumqiie genus,
vitaeqiie volantum Et quae marmoreo fert nionstra sub aequore
pontus Per questo modo adunque gli esseri animati dovranno
contenere in sé stessi una scintilla dell' ignea essenza divina :
Igneus est ollis vigor et coelestis origo Semini busCerto
che, per quanto sufficientemente definita, questa esposizione della
dottrina stoica non ha quella determinatezza che pur sarebbe necessaria per
rendere in tutta la sua interezza il pensiero dei filosofi dello Sfoci .
Qui non é fatta menzione né dei due principi attivo e passivo, cioè
qualità e materia, né degli elementi e della loro uguale divisione in attivi e
passivi, né dei modi onde gli elementi attivi combinandosi lulLi massa
sostanziale le danno unità, qualità, vita e movimento; ne insointnu di
tutti gli altri presupposti teorici da cui gli stoici facevano
disceiiilere per deduzione logica la loro dottrina, concatenandola in un
tutto fortemente organico e vitale. Ma, come vedemmo, è carattere proprio
lirllo stoicismo romano di rifuggire da tutte le astrattezze della
metafìsica, da tutte le minuzie della dialettica, per ritenere di una
data concezione filosofica soltanto quello che poteva esservi di veramente importante
e di pratico. Poiché i Romani non avevano ricercato nello studio della
filosofia un divertimento dello spirito o la soddisfazione di una oziosa
curiosità, ma le avevano chiesto dei princìpi di condotta, delle regole
per vivere e per morire, delle norme sul modo di contenersi rispetto a sé
stessi, ai propri simili, alla divinità. Ora, le linee assai generali e
sintetiche — oltre le quali io non credo si estendesse molto la
cognizione di nessuno dei Romani che seguivano le dottrine del Portico —
colle quali Vir^^àlio ci riproduce la dottrina dell' anima del mondo,
sono più che sufficienti per cavarne quelle conseguenze morali, che sono
per lui come per i suoi compatriotti tutto ciò che vi ha di veramente
serio nella filosofia. (JtuiU sono adunque queste conseguenze morali?
L'amore versoi propri simili, r austerità verso sé stessi. Che la
dottrina panteistica degli stoici dovesse persuadere ^^H uomini ad amarsi
ed aiutarsi a vicenda, ad osservare nei loro mutui la]»porti i precetti della giustizia,
della carità, della benevolenza, a considerarsi tutti come uguali e fratelli
anche oltre gli artificiali confini della città delki nazione, è cosa
che, sebbene negata da certi storici della filosofia, a nessuno potrà
sembrare strana, e che fu infatti da essi professata fino ab antiquo, prima
ancora che gli Esseni, Filone ebreo * itosela il cristianesimo 1' adottassero e
la bandissero, con si scarso frutto, alle genti. Quella essenza divina
uniformemente trasfusa per il mondo, dalla quale ogni essere è derivato;
(juel «legame interno i> (sips^io^) che unisce fra loro tutti gli
esseri particolari e fa dell' universo, ad ogni ma-* mento della sua
esistenza, un tutto coerente e simpatico, un insieme le cui parti
cospirano neir azione reciproca universale, doveva necessariamente spingerli a
proclamare per primi, e con tanta energia, l' universale fraternità ed
uguaglianza degli uomini. E mentre Platone, nel quinto libro della sua
Repubblica, ammette soltanto la fratellanza di tutti i Oreci,
escludendone i Barbari, Plutarco, riferendo le dottrine di Zenone, dirà
più tardi : « Noi non siamo divisi per nazioni e per città, aventi
ciascuna la sua giustizia particolare ; noi siamo l)ensì tutti
compatriotti e concittadini, viventi una medesima vita sotto una medesima
legge, come un greggie immenso retto da un solo governo
>> (•2). Il mondo è per gli stoici una città universale, governata
dalla diritta ragione, e in cui tutti pos sono venire ammessi ; nò
importa V essere greco o barbaro, uscito di stirpe reale o nato in
condizione servile, ma basta essere un uomo. « Umis omnium parens — dice
Seneca — mundus est, sive libertini hahentur, sive servi, sive exterarum
/lomines * (8). Tutti
questi generosi sentimenti, che si possono riassumere in due sole parole
« umanità » e « cosmopolitismo » e che ci riempiono di ammirazione per i
seguaci di Zenone di Cizio, possono anche riscontrarsi, profusi nella più larga
misura, nelle opere del grande poeta mantovano, già inclinato ad essi per
la natura mite, gentile, affettuosa deir animo suo. Nessuno di quei
sentimenti altruistici che nobilitano il cuore umano, e costituiscono il
fondamento primo della moralità sociale, manca di trovare un* eco sincera
nelT animo di V.. Sensibile a tutte le miserie che affliggono la umana
famiglia, per ogni dolore ha una lacrima, per ogni sventura una parola di
conforto ; sembra che egli abbia assunto per sua impresa quel noto verso
dì Monandro, tradotto da Terenzio : Homo sum, humani nil a me
alienum puto (4] ; sono uomo, e quante cose nobili e belle ha il
pensiero e Y opera umana prodotte, quante affezioni dolorose o liete ha
la natura umana in sé accolte, in quelle io consento. Enea,
sbalzato dalla tempesta sulle spiagge di Libia, e venuto al tempio di
Cartagine, scorge dipinte sulla mura di esso le battaglie Iliache, che la fama
aveva già divulgate per il mondo intero. Colpito e commosso dalla pietà di quei
ricordi, si volge al fido Acato, e : Quis jam locus, inquit,
Adiate, Quae regio'in terris nostri non piena laboris? En Priamus !
Sunt liic etiam sua praemla laudi ; Sunt lacrimae rerum, et mentem
mortalia tangunt. Solve metus : feret haec aliquam tibi fama salutem
(5). In questi versi, mirabili per arte e per affetto, è espressa
la compassione che piange sulle umane miserie, da qualunque parte esse
vengano, qualunque sia il popolo che le subisce. Ed alla commiserazione
segue poi un altro sentimento umanissimo, la misericordia. Poiché la
soave Elisa, la quale pure ha tanto amato e tanto sofferto, sopraggiunge
a soccorrere gli sventurati, ricordando che i dolori sofferti le
insegnano ad aiutare gli infelici : Quare agite, o tectis,
juvenes, succedite nostris. Me quoque per multos similis fortuna
labores Jactatam, hac demum voluit consistere terra. Non ignara
mali miseris succurrere disco (G). In questi due
versi, dei quali come dice il Canna —
uno è un gemito, r altro una consolazione : Sunt lacrimae
rerum, et mentem mortalia tangunt, Non ignara mali miseris suocurrcre
disco, in questi due versi sono espressi due dei più nobili
sentimenti che legano l'uomo al proprio simile. Del quale vincolo che deve
affratellare il mondo in una sola immensa famiglia, sono espressione più
evidente questi versi di Ilioneo, che racconta g^ Didone le traversie dei
profughi troiani : Quod genus hoc Iio.ninum ? quaeve hunc tam
barbara morelli Permittìt patria? hospitio prohibimur arenaci Bella
cient, primaqiie vetant consistere terra. Si genus humanum et mortalia
temnitis arma; At sperate Deos, memores fanJi aUjue nefandi (8).
Nella dolorosa meraviglia, nella profonda indignazione con cui
Ilioneo narra questo fatto di uomini che non ospitano ed aiutano altri
uamini colpiti dalla sventura, per quanto stranieri, poveri e
sconosriuli, unzi li respingono brutalmente dalle loro spiagge, il
cosmopolitismo degli stoici, il sentimento della universale fratellanza
umana sono espressi nel modo più chiaro, e sembrano poi sintetizzati iu
quel verso della regina dei Cartaginesi : Tros Tyriusque mihi
nullo discrimine agetur (9). Ma una delle più belle manifestazioni
della umanità di V., è r avversione profonda, decisa, assoluta che egli,
appartenente' al popolo più bellicoso del mondo antico, nutre per V arte
omicida della guerra. Noi esamineremo con una certa larghezza questa
avversione di V. per la scclerata insania belli, coni' egli la chiama
(9), pei'chè con ciò il nostro poeta seppe non soltanto farsi interprete
del vero ispirilo della filosofia del Portico, ma anche preannunziare in
certo modo la posi/ione che qualche secolo più tardi lo stoicismo doveva
prendere contro la guerra ed i suoi ministri. Già prima di V.,
Dicearco aveva scritto un libro sulla Distruzione degli uomini, nel quale si
dimostrava come la guerra recidesse maggior numero di esistenze di tutti
gli altri fiagelli presi insieme (in). Lo stesso Cicerone, quantunque
cerchi di giustificarla, non sempre riesce a comprimere quei sentimenti
umanitari e civili, che lo studio della sapienza greca avevano sviluppato neli'
animo suo ; ed allora, posta da canto ogni esitazione, condanna
severamente come filosofo ciò ch+^ aveva prìina ^usiitìoato
come cittadino romano e come uomo politico. A tutti sono noti 1 ^;ioi
sdegni generosi per la barbara distruzione di Corinto, che furono rviiardati
come rammenda onorevole di Roma alla Grecia, maestra del ^lUi-re umano
('21 ). Nelle sue orazioni contro Verre, egli si commuove >jK'Sso per
le crudeltà commesse dai soldati nelle battaglie. • Il popolo ivmano non
può più resistere )> — esclama a«l un certo punto — non dirò ai
sollevamenti, e alle resistenze armate, ma ai pianti, alle lacrime, ai gemiti
delle popolazioni » {V2). Ma tutte queste erano proteste assai timide,
olle non potevano scuotere alcuno. Soltanto verso la fine del secolo d'Augusto
e sotto il regno di Tiberio e di Nerone, lo stoicismo sorgerà coraggiosamente,
in nome della fratellanza umana, contro le guerre e le carne(ìoìne. Seneca il
retore, nelle sue Controcersiae, ha contro la guerra delle lungiìe
invettive, nelle quali il suo stile, di solito cosi artificioso e imbellettato,
ac(iuista un calore ed una vivacità insolita. La guerra è per luL una
cosa crudele e riprovevole, la cui origine si deve sempre ricercare nelle
più bieche passioni umane: «ecco due eserciti di fronte; dai due lati le
colline si coi)rono di cavalieri, il terreno è seminato di corpi, e sparisce
sotto la moltitudine dei cadaveri e di coloro che li spogliano. Se si
domanda (juaF è la causa che spinge in tal modo V uomo contro l'uomo (poiché
gli animali non si fanno tra loro la guerra; e anche se la facessero,
tali costumi non converrebbero alla specie umana, che è fatta per la pace
e si accosta alla natura divina) e quale malattia crudele, quale furore,
([uale traviamento spinge voi, che siete una sola famiglia e un solo
sangue, a versare il sangue gli uni sugli altri; quale fatalità o quale
caso funesto ha messo in voi un simile delirio, si dovrà dire che è per
innalzare delle tavole ove segga un popolo intero? o perchè la casa rifulga
d'oro? e tutto ciò può valere dunque tali fratricidi » (18).
Seneca il filosofo segue a questo riguardo le orme del padre ; egli
ha in orrore la guerra, e la persegue con tutti i suoi anatemi ; ad
Alessandro, che nelle scuole era preso come il modello del genio della
conquista e della forza distruttiva, ei contrappone Ercole, V ideale
stoico, il dio della forza che fa il bene (14,. t Se l'umanità ascoltasse
la voce del sapiente — esclama — comprenderebbe che essa non ha affatto
bisogno di sol[ dati » (15). Queste ultime parole di Seneca sembrano preludiare
a quel il dissidio allora latente, ma che di necessità doveva
scoppiare più tardi, tra [ i filosofi da un lato e gli ufficiali
deir esercito dall' altro. Di questo dis l sidio ò rimasta un'eco nelle
Satire di Persio, Tallievo di Anneo Cornuto, f- e il più
rigidamente stoico dei poeti latini. Egli cerca di sfogare il proprio
i disprezzo per gli uomini di spada, che in quel governo essenzialmente
mi { litare rappresentavano la classe più numerosa, più forte e più
temuta, ac cusandoli di puzzare di caprone :
t. r Hic aliquis de gente hircosa centurionum (ìé)
tu e di avere le varici : Dixeris haec iiiter
varieosos centuriones (17). I centurioni, dal canto loro, si
facevan beffe di codesti Arcesilai dalle barbe lunghe incolte, dai visi
pallidi e dagli abiti a brandelli, che cumini navano per le vie di Roma
mormorando sentenze. Ma la querela fini miìlamente per i filosofi; poiché
Domiziano, comprendendo quanto pericolo potesse venire da codesti uomini,
che screditavano il mestiere deli^' anni e predicavano la virtù, la pace,
la fratellanza, ordinò fossero cacciati tutti da Roma (18). V.
non condanna la triste belliim, la larrinvìbile belium, come spesso la
chiama (19), in virtù di astratte considerazioni filosofiche o politiche, uè
per i danni materiali che le ultime guerre disastrose, e particolarmente le
guerre civili, avevano arrecato alla patria. No: è la delicatezza deir animo
suo che lo spinge a commoversi tutto ed indignarsi \h\^ vanti allo
spettacolo delle bestiali passioni che le horrida bella scatenano, delle
stragi umane che arrecano, delle tante vite che recidono sul fiore, dei
dolori e delle ansie che portano ai padri, alle madri, ai figli dei combattenti.
Le dottrine largamente umanitarie dello stoicismo non avevano fatto che
rendere ancora più vibrante e sijuisita codesta innata sensibilità d'
animo. Cosicché, prima di accingersi a narrare una guerra o a descrive! e una
battaglia, quando t bello dal signum ranca cruentum òueCina • (20), il suo
pensiero corre sùbito trepidante ai dolori e alle eaiiieficine imminenti:
Dicam horrida bella; Dicam acies, actosque animis in funera
rec:es Tyrrhenamque maiium, totamque sub arnia coacta llesperiam
i21j ; e a quel pensiero increscioso si sente commuovere di pietà,
anclir per i nemici: «Ahi, quante stragi sovrastano ai miseri Laurenti!
padre Tevere» quanti scudi e cimieri e corpi di prodi travolgerai sotto
le tue onde {t})^ >» Poiché sembra che egli stesso sperimenti nel
proprio animo le anguseie dei miseri genitori, i cui figli stanno per
esporsi ai tremendi pericoli della battaglia; e ci rappresenta le madri,
che ai primi rumori di guerra Vota metu duplicant propriusque
periclo It timor, et major Marti jam appan^t imago. E
(juando la guerra é già decisa, e la colonna dei combattenti, avvolta nella
polvere e lampeggiante d' acciaio, s' allontana giù giù in fondo alla
pianura, egli non le dimentica quelle povere madri, che, ferme sulle
mura deserte della patria, seguono con gli occhi, forse per
Tultima volta, i figli allontanantìsi : Stant pavidae in
muris matres, oculisque sequuntur Pulveream nubem, et fulgentes aere
catervas (2i). Ed è col richiamargli al pensiero la vecchia madre,
quella madre che non vive che per V unico suo figlio, che Niso tenta
sconsigliare V amico Eurialo dal seguirlo in quella generosa e temeraria
impresa, che doveva costare la vita a tutt' e due : Neil
inatri miserae tanti sim causa doloris; Quae te sola, puer, luuitis e
matribus ausa Prosequitur, magni nec moenia curat Acestae (25).
Preso da una brama ardentissima di lodi, Eurialo non si lascia smuovere da
questa esortazione dell' amico, e vuole a tutti i costi essergli compagno. Ma
prima di accingersi a partire, è il pensiero della vecchia madre che gli
si affaccia angoscioso alla mente; ed a lulo, che gli andava proI mettendo ogni
sorta di premi, egli risponde che di un dono solo lo pre gava : consolasse
la derelitta madre sua, che egli lasciava di tutto ignara i I e senza
addio, perchè non avrebbe potuto sostenerne le lacrime; ed è I I
tanto spontaneo il suo discorso, tanto pieno del più tenero affetto
filiale. '^ j che giustifica pienamente la commozione di lulo e il
pianto dei Dardani 1 .^ ; ascoltanti. ' j : Ma dove V.
raggiunge veramente la perfezione, dove l'animo suo ' j t aperto a
tutti i i)iù nobili sentimenti, dove la delicatezza del suo sentire
» i i e la soavità dell' arte sua ci si rivelano sotto la luce più viva e
più bella, j. '. ' è nei discorsi die egli pone in bocca ai padri e
alle madri dei combat I ! tenti. Tra questi discorsi, è per me addirittura
insuperabile il commovente j ; addio di Evandro a Pallante, che
parte con Enea per la guerra. Il vecchio ; ; * re, inexpletnm
Idcrìinnns, e baciando convulsamente la destra dell'unico .! :
figlio, dopo aver sospirato T antica gagliardia che gli avrebbe permesso
di * i non staccarsi mai da quel dolce abbraccio e di essere a
fianco del figlio : anche fra i travagli della guerra, con frasi
brevi, rotte, in cui si sente quasi direi Tansimare del suo petto agitato,
rivolge agli Dei quella splen ; \ dida sua invocazione, riboccante
d' amor paterno : si numina vestra Incoluiiiem
Pallanta inihi, si fata reservant, Si visurus eum vivo, et vcnturus in
unum, Vitam oro: patiar quemvis durare laborcra. Sin aliquem
infandum casuin, fortuna, minaris, Nunc, nunc liceat crudelcm obrumpere
vitam, Dum curae ambi^uae, duin spes incerta futuri, Duin te, care
puer^ mea sera et sola voluptas, Complexu teneo: gravior ne nuncius
aures Vulneret. Quando finalnaente, accese dair insani Martis
amore (28j, le schiere nemiche si urtano, e la battaglia incomincia,
sembra che qualche volta l'animo del poeta si lasci trascinare dalle
reminiscenze omeriche air entusiasmo de' bei colpi dati e ricevuti, delle morti
eroiche, dei discoi-si feroci; ma è cosa che dura poco, poiché il cuore
ripiglia subito il suo sopravvento sulla rettorica, ed il vero, il miserando
spettacolo del campo di battaglia gli si para innanzi in tutta la sua
cruda realtà, et gemitus morientum, et sanguine in alto
Armaque, corporaque, et permixti caede virorum Semianimes volvuntur equi
(29); e non può trattenere le lacrime: (a al iter, qaiin
•l«rlia corrente, ma si renda d^no con Tiissiiluo lavoro di quelli
tVlioiui ohe s* ac«ompa«:na sempre alla virtù; poiché : labùr
omnia vìneit laiprobus, et Juris urgens in rebus egcstas 13 Ma
jjiuuto r inverno, può finalmente godere il frutto delle sue lunghe
fatiche in onorato riposo; allora celebra i giorni festivi, liba a Bacco
steso neir erba attorno a un gran fuoco, si esercita nella ginnastica e
nel ^^^m^ bersaglio, mentre : dulces pendent circum oscula
nati: Casta pndi'-ìtiain servat dotnus 'U. Ria.ssumendo, T
agricoltore rappresentatoci da V. nelle Georgiche ha più che evidenti in sé
stesso tutti i caratteri del sapiente degli stoici : impassibilità alle
passioni, disprezzo per gli onori, le ricchezze, le lodi, venerazione per
gli dèi. austerità nei costumi, assiduità al lavoro, frugalità, amore
p«'i figli e per la famiglia. Attribuendo all' agricoltore tutte queste
qualità, il nostro poeta si è certamente scostato dal vero; ma se ciò può
costituire un difetto agli occhi del critico letterario, per noi non è
che una prova novella degli intenti educativi che animavano il poeta, e
del ti/xj ideale che gli servi di guida nella descrizione. 11 vero
sapiente, dice anche Orazio, « è colui che passa davanti ai mucchi
d'oro senza volgere gli occhi » tl5); colui che, il giorno in cui la
^ fortuna s' invola. « restituisce senza rammarico ciò che essa aveva
coii fc.. cesso, e avviluppandosi nella propria virtù, sposa volentieri,
senza dote, |r la povertà onesta » (!(>;. Ma non è
soltanto nella pittura della vita agreste che il nostro poeta ci appalesa
il suo entusiasmo e la sua adesione ai princìpi morali dello stoicismo;
poiché, come dicemmo, della rigidità stoica sono tutte compenetrate cosi le
(leorgiche come V Eneide. Quindi — lasciando da parte per il momento lo
studio dello spirito misogino profuso nei homo est qiiem graphics
Terentianus exprimit Chremes: homo sum ec€. »* Cfr. G. Canna, Della
umanità di V., Torino En. M. ) hi 574. (9) Eìh VU, 4i)t
(10) Cict^ro, l>e Ofnai.^. U, ù iììì Cfr. Havet, op. di., Voi- II,
p. 113 e segg.; e CICERONE (vedasi), De Officiis, Or, Controvm'sme, De,
lìfiicfìvìis, l 13; e ancbu f.ucano, X, 20. (15) EpiMoip, Xi\ 15^ Firenze,
1"17. aa) Salirae Nisard, Kludes de moeurs et de critique sur les
poè'tes latins de la décadence, Paris En. VEn. En. En En. En. En, En. En. En. En. En. En En. En
En. ; è degno di nota il fatto che questi versi si trovano proprio al
principio del poema, nel quale poi si narreranno tante battaglie.
(1) Per non dilungarmi troppo in un argomento (ihe non è l'oggetto di
questo studio, ho qui dovuto riassumere in poche parole e assai
imperfettamente una delle dottrino più complicate e sottili dello
stoicismo. L'uomo nasce buono per natura, dicono gli stoici ; ma come avviene
dunque che la maggior parte degli uomini non sono virtuosi ? Perchè,
rispondono essi, la società li deprava. Questa risposta non fa che
portare indietro il problema; infatti, se la società deprava l'individuo, è
apparentemente perchè essa stessa è malvagia, ma in realtà la società non può
esser tale che perchè gli individui che la compongono sono essi stessi
malvagi. La contraddizione è evidente, e gli stoici cercarono di
toglierla invocando un' altra nigione : le tendenze naturali, essi
dicono, sono sane e dirette verso il bene, ma la loro intensità non ha, prima
dell'esercizio, quella giusta misura e quella perfetta sicurezza che la
virtù esige. Il giovine ha ricevuto dalla natura un ardore che lo porta
ad affrontare il pericolo, ma la sua inesperienza fa sì che egli non
misuri con sicurezza la natura del pericolo ohe egli affronta, che il suo
slancio impetuoso lo trasporti alla collera e alla temerità. All'Ogereau
(op. cit- p. 111-18) pare che così la questione sia risolta; ma io non sono
dello stesso avviso. Poiché, questa debolezza \\e\Y assentimento
128 che precede V atto, e questo eccesso nello sviluppo della
tendenza, costituiscono per gli stoici la passione, il cui complesso dà
il vizio; quindi sì verrebbe a concludere che r uomo nasce malvagio,
contrariamente a quanto gli stoici stessi ammettevano. (2)
Epistole, passim. (3) Georg, II, 458-474 i\ 495 fine.
(4) Secondo gli stoici, Tuomo perfetto è un saggio che s'ignora XeXt|d^€
oó(fO€. Seneca però, molto tempo più tardi, comprendendo come assai
difficilmente si avrebbe potuto capire che un uomo possa essere felice
senza sentire di esserlo, modificò la dottrina primitiva dicendo che non
è il saggio stesso che s'ignora, ma solo colui eh' è sul punto di divenir
saggio {Epist. Georg. Georg.
Georg. Georg Georg. II, Carmina li, Id.
in, III ecc. En. Georg.
En. Epist. Georg. En. L'Epicureismo En. En ICfr. le Controversiae Vi si
trova, ad esempio, questa sentenza : « I ricchi hanno molti vizi, il più grande
dei quali è di non amare » ; e più avanti : « povertà, come tu sei poco
compresa! > ; vYj)^
l'altra la restringe (pena-Xo'JiiTi). En. En. En. En.
En. En. Il nostro poeta,
per la natura stessa dell' animo suo e per i suoi propositi di riforma morale e
religiosa, sentivasi spinto irresistibilmente verso quello spiritualismo
mistico, che era allora rappresentato dalla filosofìa del Portico.
Dicemmo ancora che nel suo passaggio dal mondo greco al mondo romano lo
stoicismo aveva subite profonde modificazioni, dovute in parte alla
diversità dell' ambiente, in parte al mutato spirito dei tempi, in parte
all'indole stessa dei filosofi che l'avevano primi insegnato in Roma.
Cosicché, durante i suoi cinque secoli di vita attiva e rigogliosa tale
dottrina ha attraversato tre diversi periodi nettamente distinti l' uno
dall' altro : il primo è rappresentato da Zenone di Cizio, Cleante
d'Assos, Crisippo di Soli, Zenone di Tarso, Diogene di Seleucia e
Antipatro di Tarso, ed ha il suo centro esclusivo in Atene; il secondo da
Panezio di Rodi e Posidonio d'Apanea, che ebbero ambidue lunghe e frequenti
relazioni con la società romana; il terzo da Seneca, Cornuto, Musonio
Rufo, Epitteto, Marco Aurelio, ed ha la sua sede principale in Roma. Di
questo terzo periodo, che si designa più propriamente col nome di
stoicismo platonizzaute, V. può essere considerato come l'antesignano e il
precursore. Qual' è adunque il carattere che distingue dalle
precedenti Y ultima fase dello stoicismo ? Ce lo dice chiaramente il nome
stesso col quale suol essere designato : una maggiore
immistione di quegli elementi platonici che avevano già cominciato ad
infiltrarvisi per opera di Panezio e di Posidonio, e che si trovano
tutti, più o meno sviluppati, nelle opere del massimo fra gli oratori
latini. Poiché la storia della filosofia romana - chi ben la
osservi - presenta questo particolarissimo carattere : che cioè, tolto il
breve periodo in cui le dottrine di Epicuro sembrano prevalere, essa segue
fedehnente nel suo svolgersi il primo impulso datole da un uomo solo.
Cicerone ; le cui opere formano, a cosi dire, il perno su cui s' aggira
tutta la filosofia posteriore, da Sestio a Marco Aurelio, da Fabiano ad
Apuleio. Ciò è dovuto, secondo me, non soltanto al fatto che Cicerone fu
il primo a scrivere dei veri e propri trattati di filosofia, creando un
linguaggio filosofico che non esisteva, ma anche all'essersi la filosofia
romana ristretta sempre più nel campo della morale pratica. Ora, se nelle
questioni teoriche le divergenze tra le diverse scuole erano grandi,
nelle applicazioni morali il loro accordo era quasi completo ; perchè,
come sempre avviene, mentre nelle prime poteva sbizzarirsi liberamente il genio
speculativo dei filosofi, nelle seconde esso doveva di necessità
conformarsi alle norme generali imposte dal sentimento popolare. Il quale
sentimento andava appunto orientandosi sempre più verso quello
spiritualismo dualistico che preparava la vittoria definitiva del
cristianesimo, e che Cicerone aveva attinto dalle opere del sommo filosofo
greco. Non è, per fermo, difficile impresa il separare dall'
organismo - poco solido invero? - della filosofia ciceroniana, quei germi
platonici che poi dovevano prendere tanto sviluppo nel primo e secondo
secolo dell'era volgare. Secondo Cicerone, dio ha composto l'uomo di due
principi assolutamente opposti r uno air altro : e cioè di un corpo caduco e di
una anima incorruttibile ed eterna ; « se l' anima - egli dice - è il
cuore o il sangue o il cervello, postochè così è corpo, perini col
rimanente del corpo : se è fuo%\\ si estìnguerà : se è armonia si
dissolverò Nulla è nell' a ninia di misto e di concreto e neanche di
umido, di aereo, di igneo : come non v'è nulla, nella natura di
queste cose, che abbia potenza di memoria, d* intelletto, di pensiero, o
che ritenga il passato, prevegga il futuro, e possa abbracciare il presente: le
quali sono facoltà divino. Xè si troverà mai donde possano derivare le
anime se non da dio. Per la qual cosa, checché sia ciò che sente, che sa.
che vuole, che vive, è celeste e divino, e deve di necessità essere
eterno. E dio stesso, quale da noi s' intende, non può concepirsi in
altro uumìo. se non come una mente libera sciolta, segre^rata da ogni
concretezza mortale, tutto senziente e movente, e dotata di moto sempiterno «
(1) Il coi-po rappresenta dunque il principio del male, il carcere
tenebroso nel quale T anima - principio del bone - è im])rigionata
; quindi V uomo deve studiarsi di tenere separata il più possibile V
anima dal corpo, e considerare la morte non come una sorte temibile, non
come la fine della vita, ma come una liberazione, come il cominciamento
della vera esistenza. « Separare il corpo dair anima non è altro che
imparare a morire. Per cui, credi a me, pensiamo il più che si può a
dividerci dai corpi ; vale a dire, avvezziamoci a morire. Questo, anche durante
la vita terrena, sarà qualche cosa di simile alla vita celeste ; e
quando, sciolti da questi lacci, saremo trasportati colà, verrà meno ritardato
il corso agli animi. Poiché quelli che si lasciarono sempre soggiogare
dai lacci del corpo, anche quando si trovan disciolti vi giungono più
tardi; come avviene di coloro che stettero molti anni in catene. E quando poi
giungeremo colà, allora si che finalmente vivremo. Poiché questa vita è
pur troppo una morte; ed io avrei, se volessi, di che lagnarmene >
(2). Ma quale sarà la condizione di queste anime dopo il loro distacco
dal corpo? Conserverà ciascuna la propria individualità distinta, o
torneranno a confondersi con l' anima universale ? Imprenderanno anch'
esse il loro viaggio attraverso i regni mitologici di Acheronte, o
voleranno nella sfera del fuoco purissimo per attendervi Tecpirosi
? Su questo punto anche Cicerone come tutti gli antichi, da
Socrate a Epitteto, si mostra incerto e dubbioso. Tuttavia, se la
saggezza aristocratica degli stoici sembra attrarlo qualche volta,
raffigurandogli una specie di senato ultramondano ove soltanto le anime
elette dei sapienti possono trovar luogo, assai più spesso egli sembra
prestar orecchio a quei racconti favolosi, che il grande filosofo greco aveva
primo raccolti dalle labbra del popolo e ridotti a dogma nel Fedone. Neir
ultima parte del De Senectute, egli mostra di non credere che V immortalità sia
privilegio di pochi eletti, come pretendeva Crisippo, ma destino di tutti
gli uomini : « perchè il saggio muore con tanta serenità, e gli altri con
tanto terrore ? Perchè colui che vede più distintamente e più lontano,
conosce di andare ad una vita migliore, mentre l' altro ha la vista
troppo corta e nulla scorge al di là . . . Io ho messo il corpo di mio figlio
sul rogo funebre; egli avrebbe dovuto riporvi me; ma il suo spirito non m' ha
abbandonato, s' è soltanto ritirato in un soggiorno nel quale sapeva che
io T avrei raggiunto. È sen}brato che io sopportassi la mia sventura con
fermezza; invece sofi*ersi molto, ma mi consolai pensando che la separazione
non sarebbe stata lunga tra noi due » (3). Queste parole, nelle quali
parrebbe d'intendere .gli insegnamenti di un Padre della Chiesa, non sono
le sole che accennino alle dottrine platoniche della seconda vita. Nel
Sogno di Scipione, ad esempio, troviamo espressa in questo modo la
dottrina della purificazione delle anime : « l' anima si involerà tanto
più presto verso la dimora ond' era discesa, quanto più essa si sarà
elevata al di sopra del corpo nella vita terrena, e quanto più se ne sarà
staccata contemplando le cose celesti. Ma le anime che si sono date ai
piaceri del corpo facendosene schiave, e che, trasportate
134 dalle passioni, ministre della voluttà, violarono le
leggi degli dèi e degli uomini, quando siano sfuggite dal corpo errano
miserabilmente intorno alla terra, e non ritornano al cielo che dopo
lunghe espiazioni » (4). Potremmo continuare ancora nelle
citazioni, ma sarebbe affatto inutile, perchè nei brani che siam venuti
riportando è più che evidente l'impronta di quel dualismo platonico, che
vedremo poi dispiegarsi con tanto vigore nelle opere degli stoici delP
ultimo periodo. Certo che in Cicerone, natura scettica e positiva se
altra mai, codeste corse nei campi nebulosi dello spiritualismo voglion
essere giudicate in un modo tutto particolare. Esse non sono che
atFermazioni teoriche, tesi brillanti che V autore sembra aver scelto per
esercizio di eloquenza ; mentre invece sulle labbra di Seneca, di
Epitteto, di Marco Aurelio acquistano una vivacità, un calore di convinzione,
che ci rivelano come non siano più semplici esercitazioni rettoriche, ma
debbano aver avuto non poca efficacia nella pratica della vita. Ed è questa
forse la ragione per cui essi possono sembrare agli occhi dei più veri e propri
innovatori, piuttosto che continuatori di un indirizzo già esìstente nella
filosofia romana. Questo strettissimo legame che unisce i filosofi
romani come tanti anelli di una medesima catena, ci era necessario
rilevarlo per poter meglio comprendere quale posto occupi in essa il Mantovano,
e quale fosse, a cosi dire, il clima filosofico che lo circondava.
Vissuto quando era ancor viva nella più eletta società romana
Tammirazione per i libri del nobilis Panaeti, come Orazio stesso lo
chiama (5), e per le dotte e brillanti dissertazioni dell' oratore arpìnate,
morto poco prima che vedesse la luce uno dei più attivi, dei più
popolari, dei più geniali tra i filosofi romani, Lucio Anneo Seneca, il
nostro poeta si ricollega per un lato allo stoicismo eclettico del
secondo periodo, e per l'altro preannunzia il sorgere di quell'indirizzo
spiritualistico i cui germi s'andavano già maturando nell'animo delle
popolazioni. Non è a credere però che V. si conformi in tutto e per tutto
agli impulsi che gli venivano dall' ambiente. La sua fibra delicatissima
d'artista, l'ingenua e sincera religiosità che domina in ogni suo pensiero, la
solitudine stessa in cui trascorse gran parte della sua vita, dovevano
scostarlo tal poco dall' indirizzo filosofico dei suoi contemporanei e
successori. Per prepararci a cogliere questo lato originale del pensier.
di V., vediamo quale fosse il carattere predominante dei due sistemi
filosofici, che da Cicerone a Marco Aurelio tendono a stringersi sempre
più in intimo accordo. Per quanto i Romani fossero portati di lor
natura aireclettismo, per quanto sul terreno delle applicazioni morali
divenisse più agevole un accordo tra le diverse tendenze del pensiero,
pure il combinare tra loro due sistemi originariamente così opposti come
lo stoicismo e il platonismo, era tale impresa che nemmeno un filosofo romano
poteva acciiigervisi senza correre il pericolo di inceppare ad ogni piò
sospinto nelle più stridenti contraddizioni. Poiché - chi ben guardi - la
scuola del Portico è nel suo fondo una delle più rigidamente materialistiche e
razionalistiche che la storia della filosofia ricordi : dio, la ragione, V
anima umana, l'anima del mondo, le qualità delle cose, le passioni, il
vizio, la sapienza, il sommo bene, tutto insomma ciò che esiste ed agisce
è materia. « Et qiiocl fu et quod facit corpus e.s7» dice Seneca (6); ed a
tal grado di ridicola esagerazione era giunto il materialismo degli
stoici, che sostenevano pei*sino essere gli anni, i mesi, i giorni tante
entità materiali. Se adunque nulla esiste fuori della materia, se tutto avviene
per una semplice trasformazione di essa, se la divinità stessa è
materiale e compenetrata nel mondo, ne viene di conseguenza che la vita
terrena è sola e vera vita, che non esiste un « al di là » dove la virtù
ed il vizio abbiano una sanzione divina, e che Y uomo può giungere per
propria volontà a rendersi uguale a dio. Tali infatti sono le norme ed i
princìpi fondamentali dello stoicismo; e con essi la natura era ristaurata
nella multiforme unità delle sue leggi immanenti ed eterne, era tolto
ogni antagonismo che smezzasse il mondo fra i sensi e le idee, fra la
materia e lo spirito, fra T esperienza e la trascendenza.
Questa falsa dualità della vita era invece propria e caratteristica
della filosofia platonica, che Gaetano Trezza ha magistralmente
sintetizzato in queste poche parole : « Platone spostò il mito dalla
fantasia nella ragione; le idee fattrici, universali, eterne,
costituivano la realtà verace; la vita era reminiscenza d' uno stato
uranico anteriore agli organi del corpo, una perenne ascensione verso le
idee ; V uomo dee slegarsi dai sensi come da catena dolorosa, per tornare
alla piena libertà delle idee. Il corpo è una tomba, il mondo prigione
delle anime piovute, per desiderio improvvido di peccato, a macularsi
quaggiù, abbandonando le convivenze serene della Psiche cosmica; il
termine della vita è fuor della vita, il presente un lungo gemito di sepolti
che tentano di spezzare le custodie del tempo e sottrarsi all'ignominia
dei sensi • (7). Fra lo stoicismo e il platonismo Topposizione era
dunque assoluta, e un accordo non sarebbe stato possibile, se non qualora
Y una o Y altra delle due scuole avesse volontariamente sacrificato alle
esigenze della logica la massima parte delle proprie dottrine. Questo non
avvenne. I filosofi romani, troppo intenti per un lato nel conformare alle
mutevoli circostanze i loro precetti di morale pratica, e poco esperti dalP altro
nelle sottigliezze della dialettica, non sembrano accorgersi nemmeno
della disparatezza dei due sistemi, e si servono indilTerentemente ora dell'
uno ora dell'altro, riuscendo così al più babelico dei sincretismi.
Nessuno degli stoici del terzo periodo ne va esente ; nemmeno Y anima
delicata e pensierosa di Marco Aurelio (8). Ma quello che più d'ogni altro
incespica nelle contraddizioni, quello in cui il dire e disdire sembra
diventato, quasi 186 direi, un male organico è
appunto l'iniziatore di codesto nuovo indirizzo dello stoicismo, Lucio
Anneo Seneca. Questa continua contraddizione ci si appalesa persino
nelle cose più insignificanti. Seneca disprezza quei filosofi della
cattedra {cathedrarii philosophi (9):, i quali nella vita pratica smentiscono
le belle massime che insegnano agli altri con tanta eloquenza ; ma poi,
dal canto suo, non si comporta diversamente. Egli possedeva trecento
milioni di sesterzi (sessanta milioni di lire), che pare avesse
ammucchiato coli' usura e coi denari dei proscritti, e dei quali sapeva
valersi assai bene, circondandosi di tutti gli agi della vita, arredando
le proprie ville cultius quam natiiralis icsus desiderat, e invitando gli amici
a sontuosi banchetti, nei quali si beveva del vino piìi vecchio di lui
(10); contuttociò egli non si fa scrupolo di predicare continuamente 1' amore
alla vita povera ed austera, lo sprezzo per le ricchezze, le voluttà, gli
onori, e di rimproverare i ricchi per la loro ambizione e ghiottoneria
(11). La dottrina stoica dell' uguaglianza di tutti gli uomini, doveva
spingerlo a cercare seguaci in ogni classe di persone; invece, per quanto
egli proclami che non v'ha distinzione fra schiavi liberi e cavalieri, e che la
virtù si trova più facilmente nella capanna del povero, e che tutti possono
aspirare alla sapienza [V2, ha cura di sciegliere i suoi discepoli fra i
giovani della più ricca nobiltà, fra i letterati e i cittadini più
potenti. Coi quali poi sa essere di una larghezza, di una indulgenza
davvero meravigliosa, trovando modo di giustificare non pure le
ricchezze, il lusso, V ambizione, ma persino V ubriachezza (14). E se qualcuno
gli rinfaccia di essere incoerente, allora risponde con invidiabile
disinvoltura : « hoc, malignissìma capita et optimo cuique inimicissima^
Platoni obiectum est, óbì'ectum Epicuro, obiectum Zenoni-, omnes enim
isti dicebant non quemadmodum ipsi viverent, sed quemadmodum esset ipsis
vicendum. De virtute, non de me loquor, et cum vitiis convicium facio, in
primis ìueis facio : cum potuero^ vivam quomodo oportet (15). È proprio
il ragionameto di padre Zappata t Del resto, se tutto ciò può
rivelarci la natura intima dell' uomo, non ci scuopre ancora quello
stridente contrasto di princìpi filosofici di cui più sopra parlavamo.
Per ricercarlo dobbiam portarci sul terreno stesso della discordia, al
cospetto di quei problemi che stoici e platonici consideravano e risolvevano in
modo affatto opposto. E qui sembra proprio che neir animo di Seneca
esistano due distinte personalità, continuamente in lotta tra di loro
(16). Alcune volte è il materialismo degli stoici che prevale nell'animo
suo; ed egli ne espone i princìpi con una rigidezza e una precisione di
formule, che non possono lasciare alcun dubbio intorno al suo pensiero :
« totum hoc, quo continemur, et unum, est et deus: et sodi sumus eius et
membra » (17) ; « omne hoc quod vides, quo divina atque hiimana conclusa
simt, unum est: membra sumus corporis "inagrii. Né egli
s'arresta davanti alle estreme conse^ruenze di tale dottrina: siccome
tutto ciò che esiste è materia, così per lin sono materiali anche il tempo, la
virtù, la benevolenza, l' amore, V ira, V invidili, la malvagità (10).
Perfino il bene è un corpo, e lo dimostra con nueslo la* gionamento : «
placet noslris, quod bonum est, corpus essf\ quìi f/utnl honum est,
facil, qaidquid facit, corpus est; quod bonum est, prof test, faciat
autem aliquid oportet, ut prosit; si facit, corpus est ^ (20). Altre
volte, per contro, è lo spiritualismo dualistico del filosofo att^niese
che s' impadronisce del suo pensiero ; allora divide la filosofia
njUurciìe in due parti, una che tratta delle cose materiali, T altra
delle spirituali (21). e con lo stesso calore di convinzione con cui
altrove aveva diniostnito che il tempo, la sapienza, le virtù, i vizi
sono entità corporee, nra invece si sforza di provare che non possono
essere se non iniorporee. Anche riguardo alla natura della divinità, in
cui erano tanto discordi la teologia stoica e quella platonica, il nostro
filosofo dà prova del wuo sincretismo. Talora, seguendo rigorosamente il
panteismo di ZtMn>ne e di Cleante, identifica la divinità col mondo,
colla natura, colla ragione, col destino e colla provvidenza; ìì quid est
deus? Quod vides lotum e
quod non rides totum^^ ; quid est deus ? Dioina ratio; mens Hìiityersi: animus ac
spiritus mundio (24). Questa divinità, non essendo che una pura
astrazione, è impersonale e indefinita; quindi T nomo rum deve né
temerla, né amarla, né rivolgerle preghiere, né otfrirle sacrifizi (25),
Ma quando il freddo razionalismo de' suoi maestri non può più servirgli
per consolare gli afflitti o dar ammaestramenti agli amici, allora
abbandona il dio rotondo della scuola per appigliarsi al dio personale di
Platone : e questo dio egli descrive come padre e creatore, che vede ogni
nostro aito, che assiste ad ogni nostra impresa, che nell'infinita sua
bontii ascolta ed esaudisce le preghiere degli uomini (20). Del resto, a
lui sembra importar poco che questa divinità sia personale o impersonale,
ragiono cosmica destino comune ; Seneca é a tal riguardo un indifferente, e
lo mostra presentando tutte le diverse ipotesi, senza sapersi dt/cidere
per alcuna : « id actum est, mihi crede, ab ilio quisquis formaior
universi fuit, sive ille deus et potens omnium, sive incorporalis ratio
ii/f/entium operum artifex, sice dicinus spiritus per omnia maxima
aequali inlentione difffcsus, sice fatum et immutabilis causarum inter .se
cohaerentium series. Ma dove l'incoerenza di Seneca e dei suoi
seguaci raggiungo rastremo limite dell'assurdo, è nella questione della vita
futura VA iniatti su questo punto i princìpi fondamentali delle due
scuole conducevano a conchiusioni affatto opposte e irreconciliabili. Poiché
se V anima è materiale, come sostenevano i primi stoici, essa dovrà puie
assogettiirsi alle condizioni della materia e perire insieme col corpo ;
se invece è spirituale, come insegnava Platone, essa sarà incorruttibile ed
eterna. Ora, gli stoici roinaoì ammettono beosi che l’anima rappresenti
un qualche cosa di divei-ìso dal corpo, anzi di opposto al corpo, ma
quando si tratta di decidere se essa è mortale o immortale e di
determinare quali siano le condizioni della seconda vita, si mostrano indecisi,
irresoluti, e ora ani mettono V inuaortalità ora hi negano, ora sembrano
accettare i dogmi incerti dì Crisippo, ora i favolosi racconti di
Platone. In questo punto V., pur cadendo nel resto in alcuna di
quelle contradLlizioiii die lino ad ora abbiamo rilevato in Seneca, si
mostra assai più coerente dei suoi succetison, e si stacca anche dai
filosofi che l' avevano preceduto. Avendo ai-cettato il principio platonico
della spiritualità deiranima, egli arcetta anche la dottrina
dell'immortalità e le leggende ruitolo^iclie suir oltretomba ; a
descrivere la quale ha consacrato uno dei canti ^^ più belli e più
drammatici del suo divino poema. Noi faremo oggetto di lunt^o esame
questa parte tanto interessante del pensiero di V., che i commentatori
hanno intorbidato con ogni sorta di ipotesi ìissurde. Prima però dobbiamo
vedere con quali caratteri ed in qual misura il pensiero platonico si sia
trasfuso in V., e per che modo il nostro poeta si rieoUeglii agli stoici
platonizzanti delF ultimo periodo. I V*. Come abbiamo
veduto, la filosofia di Platone spostando V interesse umano dal di qua al di là
della tomba, induceva a considerare il uiòudo e resistenza come un
qualche cosa di provvisorio e di sfuggevole, conìc un breve e doloroso
intervallo che corre dalla nascita alla morte, e jireludia alla vera
vita, la vila eterna. «Tutto questo tempo - dice Socrate - che trascorre (ìalF
inFanxia alla vecchiezza, non è ben piccolo in eimlronto del
tcnii>o lutto intiero? E non credi tu che tutto ciò che è
immortale debba preoccui>arsi non di questa corta misura di tempo, ma
di tutta la durata?» (Ij. (Questo senso della provvisorietà, se mi
si permette il vocabolo, della vita umana, era affatto estraneo non soltanto
al vero spirito pagano, tutto inteso a^di interessi iminein'f^. Stolto,
dunque, colui che in questa condizione si gonfia, si travaglia e si
lamenta, dimenticando come sia piccolo il tempo in cui deve soffrire i> .
Le cose del mondo girano continuamente, e su e giù, di eternità in eternità.,..
Già la terra ci cuoprirà tutti ; e poi anche la terra si trasformerà ; e
poi anche quello in cui si sarà così trasformata si trasformerà air
influito. Ma chi pensi air incalzante ondeggiamento di queste
trai^irormazioni e mutazioni e alla loro rapidità, disprezzerà davvero
of^ni cosa mortale, Il sentimento di amarezza sconsolata che tras]»are da
queste riflessioni di Marco Aurelio, la soave Musa virgiliana V aveva già espt
esso due secoli prima e con non minore intensità. Alcune volte sono semplici
e fugaci accenni, che sembrano nubi passeggiere noir animo sereno
del poeta : « o Rebo, siam vissuti lungamente, se può dirsi che alcuna
cosa duri lungamente tra i mortali I » ; « Tutte le cose per volere dei
destini cadono in peggio, e cadute ritornano indietro » (4), ecc. Ma più
spesso sono vere e proprie esclamazioni di scoraggiamento, che ci
rivelano in qual conto V. tenesse la vita umana e le cose terrene:
Insere, Daphni, piros ; carpent tua poma nepotes. Omnia fert aetas,
animum quoque : saepc ego lunps Cantando puerum memini me condere
soles. lam fugit ipsa: lupi Moerim videre priores (S). Tutto
adunque si porta T età, pei^sino la memoria, persino la voce: e mentre
noi ci aggiriamo in questo mondo di parvenze, l'ug^^e Irrepabile il
tempo: Sed fugit interea, fugit irreparabile terapus Singula
dum capti circumvectamur amore (fi) : e a questi velasi sembrano
far eco le parole di Seneca, rhe in modo non diverso concepiva la vita
umana : t labunt fiumana ac {ìuunt, neque ulla pars vitae nostrae tam
obnoxia aut tenera est, quam quae mnxinie placet » (1). Fugge adunque il tempo,
e nel l'uggire si trasporta i seco ogni giorno un brandello delle
nostre illusioni, e ci avvicina sempre più agli acciacchi della triste vecchiezza
e alla morte inesorabile : Optima quaeque dies niiseris mortalibus
aevi Prima fugit: subeunt morbi, tristisque senectus Et labor et
durae rapit inclementìa mortis (8). Seneca, che fra tutti i poeti
romani mostra una specialissima predilezione per V., al quale sentivasi
maggiormente vicino per idee, aspirazioni e sentimenti, riporta nel suo
trattato sulla brevità della vita questi versi del Mantovano, e li
commenta poco più avanti cosi « Praesens tempus brevissi'mus esl, adeo
qmdeni, utquìbusdam nullum videatxir; in cursu enim semper est fluii et
praecipilatur ; ante desinit esse quam venit, nec niagis moram patitur
quam mundus aut sidera, quorum inrequieta semper agitatio numfiuam in eodem
vestigio nianet » (9). Ma tale, ad ogni modo, è il volere di dio, che
determina a ciascuno dei mortali le durata del soggiorno in questo
carcere terreno, e fissa il giorno della morte. Così infatti dice Giove
al tìglio Alcide : (/ Stat sua j^uique dies: breve et irreparabile
tempus Omnibus est vitae : sed famam extendere factis. Hoc virtutis
opus. Troiae sub moenibus allis Tot nati cecidere deum ; quin occidit
una Sarpedon, mea progenies. Etiam sua Turnum Fata vocant, metasque
dati pervenit ad aevi. Non altrimenti Socrate, nel proemio del
Fedone, spiega ai suoi discepoli che r uomo è lo schiavo degli dèi, e che egli
deve quindi rima' nere come a guardia in questo mondo, per tutto il tempo che
gli im ) mortali hanno stabilito di lasciarvelo. l La vita
corporea, la vita dei sensi non è adunque la vera vita, ma \
piuttosto un doloroso periodo di espiazione e di castigo, in cui la scin I
tilla di essenza divina, che costituisce T anima dell' uomo, si trova per
" così dire oppressa, contaminata dalFinvolucro corporeo che la
imprigiona, j Stretta in questo carcere, l'anima nostra non può
giungere al possesso ^' di quelle realtà assolute che sono le idee
divine, le quali, possedute in una vita beata anteriore, le sono
rimast * impresse soltanto come un vago e lontano ricordo. Essa quindi
deve accontentarsi di conoscere quelle apparenze o fenomeni che offre la
sensazione : fra queste ombre, proiettate nel fondo della caverna terrestre dal
sole che illumina le realtà invisibili, trascorre la vita umana, lusingata di
conoscere il vero, e agitata dalle passioni che le derivano dal' contatto
col corpo: Igneus est olii
vigor et coelestis ori^^o Seininibus, quantum non noxia corpora
tardant, Terrenique hebetant artus moribundaque membrii. ^
Hic metuunt cupiuntque; dolent gaudentque: ne^iuc auriis
Despiciunt clausae teuebris et carcere cocco (11)^ j Lo
spiritualismo ascetico di Platone c'è tutto i questi versi, e Tniitagonismo
esistente fra 1' anima e il corpo, tra lo spirito e la materia è,
espresso nel modo più chiaro. Anche per Platone il corpo i? un cieco
carcere (12), che impedisce all'anima di conoscere la veritu: «sino a che
noi abbiamo il corpo e V anima nostra è commista con sitfatto malanno
(TotdoTou xaxoD), uon c' è verso che si venga mai in adeguato possesso di
quello che desideriamo, eh' è, aftermiamo, il vero; perche cisiscun piacere e
dolore, come fornito d'un chiodo, la inchioda al rorpo e la conficca e la fa
corporea, inducendola a credere che quelle cose siano verti che il corpo
dice tali » (13). Né questo disprezzo per tutto ciò che ò senso e
materia, è meno evidente in Seneca, in Epitteto. in ^lareu Aurelio, e, in
generale, negli ultimi stoici ; i quali usano spesso, riferendosi al corpo, le
medesime espressioni - cieco carceie, tenebri!, membra corruttibili - qui
adoperate da V.. Si considerino, ad est^mpio, queste parole che Seneca
rivolge alla sconsolata madre di Metilio : a ftaec quae vides ossa cìrcum
nobis, nervos et obduciam culetn ruUuìnque et ministras nianus et cetera
quibus involuti sunius, vinnUa miimorum tenebraeque sicnt; obruitur Jiis
animus^ effocatur, injhitar, ttrcetnr a reris et suis in f(dsa coniectus
; omne itti cum hac carne grave certamen esl^ ne abstrahatur et sidat ; nititur
ilio, tende dimìssus est: ibi illum aeterna requies inanet e confusis
crassisque pura ac liqtuda nsentem w (14). Data adunque questa
netta separazione tra il principio spirituale^ divino, immutabile, e il
principio materiale, umano, caduco, diss^olubile, la morte non può essere
se non ciò che la definisce Socrate, vale a dire « la liberazione
dell'anima dal corpo, e l'esser morto..., il fai-si da parte il corpo di
per sé liberato^ dall'anima, e lo stare a partt* T anima, liberata dal corpo,
di per sé * (15). Infatti, anche per V. la morte è separazione dell' anima dal
corpo ; e con ciò egli si contrappone risolutamente ad una delle credenze più
diffuse e più tenaci fra il popolo l'omano, il cui persistere - anche dopo il
diffondersi della filosoJia - ci ò rivelato dalle cerimonie dei funerali
: e cioè la credenzn che nelle tombe sopravvivesse insieme coir anima
anche il corpo. Quando Didone vede Enea fuggente sulle navi, così
impreca: Scquar atris ignibus absens; Et, quum frigida mors
anima seduxerit artus, Omnibus umbra locis adero (16).
Quando la sorella di Giove, addolorata dalla lun^a e straziante
agonia della infelice regina di Cartagine, vuol liberarla da quelle pene,
spedisce Iride, Quae luctantem animain nexosque resolveret artus
(17). Quando V invidioso Drance insulta il re dei Rutoli, questi
gli risponde cosi : Nunquam animain talem dextra hac - absiste
moveri Amittes; habitet tecum, et sit pectore in isto. E qui mi
fermo con gli esempi, perchè sarebbe affatto inutile continuare nella
dimostrazione di una cosa che traspira evidentissima da tutti i poemi
virgiliani. Cerchiamo piuttosto di vedere quali conseguenze traesse seco questo
dualismo assoluto tra Y anima e il corpo. Siccome F anima è considerata come un
principio essenzialmente buono, perchè di origine divina, e il corpo come
principio cattivo, perchè di origine umana, è naturale che la vita
terrestre, la quale risulta dal connubio delP una coir altro debba essere
considerato come un male, e infelicissimo il giorno della nascita e
felice quello della morte., e che Marco Aurelio, con accento quasi
cristiano, sconsiglierà più tardi con queste parole: «è proprio dell'uomo
amare coloro che lo ofleiiduno; ciò farai se ti verrà in mente che sono
tuoi simili e che fanno il male per ignoranza e senza volerlo, o che, fra
breve, e tu ed essi morrete >> (2H;. Lo stesso avviene nel
drammatico episodio che occupa tutto lo splendido libro quarto. Anche ivi
sembra che il suo cuore si sia riscalduto della più umana delle passioni,
per quella dolce e appassionata li^^ura di donna che è la regina di
Cartagine; ma è un /a//o passeggiero. Al primo avvertimento che gli
giunge dagli dèi, egli dimentica come per incanto tutti i giuramenti
d'amore, tutti i benefizi ricfìvuti, tutte le gioie provate, e se ne va
freddo, impassibile, indifTerente ai richiami disperati di Didone, la cui
sventura riusciva a commuovere non soltanto gli dèi pagani (29), ma
strappava le lacrime tanti secoli più tardi persino ad uno dei santi
maggiori della Chiesa, Agostino (30). I critici letterari hanno giudicalo
con severità questa glaciale freddezza di Enea, rimproverando a V. di
essere per tal guisa rimasto inferiore a tutti i poeti che descrissero in
qualche modo le passioni amorose, da Omero ad Apollonio, da CatuUu ad
Ovidio. dall'Ariosto al Tasso, dal Racine al Voltaire. E non a torto:
davanti air onda calda e generosa di passione che erompe dal cuon^ della
regina fenicia, davanti ai benefìci ed alle gentilezze ond' essa avea
ricolmo r uomo che amava. Enea ci appare non soltanto un indifTerente. ma
anche un ingrato. V. avrebbe potuto fare di lui un personaggio più vivo,
più simpatico, più umano, pur conservandolo rispettoso verso gli dèi e
obbediente ai loro comandi: la pietà non esclude T amore, i doveri della
religione e della patria non escludono i doveri della riconoscetis'.a
verso chi ci ha beneficato. Quando Mercurio, mandato da Giove, investìsre
(invadit) Enea con i suoi aspri rimproveri, imponendogli di partire
Immediatamente per l'Italia, il duca troiano non ha un pentimento, non
mia ribellione, non un rimorso : 1 s
aspectu obmatuit amens, Àrrectauque horrore comae, et vox faiicibus
haesit Ardet abire fuga, dulcesque relinquere terras, AttODÌtus
tanto monìtu imperioque deorum (3i); e subito decide di partire,
appigliandosi al meno nobile degli spedienti : la dissimulazione e la
Tuga segreta. Ma T innamorata regina presente la sventura che sta per
colpirla {quis f altere i)Ossit aniantemì), e correndo forsennata tome
Baccante per la città, rivolge ad Enea quella sua lunga apostrofe^ che è
un \-\.^vo gioiello di spontaneità e di verità, un capolavoro di
eloquenza caldu e sentita, in cui tutti i moti di un cuore innamorato si
succedono nel modo più naturale. Ci basti riferirne una parte: Me
ne fugisf Per ego has lacriiuas dextramque tuam te, (Quando aJiud
mihi jam miserae nihil ìpsa reliqui Per cuniiiibia nostra, per
inceptos hymenaeos, Sì bene uuid de te merui, fuit aut tibi
(luidquaoi Diilci,' meiim : miserere domus labentis^ et istam,
Oru, ai qiiis adhuc precibus locus, exne mentem. Ttì proptur
Libycae gentes Nomadumque tyranni Odere: inftinsi Tyrii; te propter
eundem Exstìnctuà pudor, et, qua sola sidera adibam,
Fama priur; cui me moribundara deseris, hospes? Hoc solurn
noiiiea quoniam de conjuge restat. Quid moror^ im mea Pygmalion dum
moenia frater Deitniat, aut (-aptam ducat Gaetulus Jarbas?
Saltelli sì '|ua mihi de te suscepta fuisset Ante fu^am
^itboles; sì quis mihi parvulus aula Luderel Aeiieas, qui te tameu
ore referret, Nun eqiudein oiunino capta ac deserta viderer
(33). L'arte sublime di V. ci si rivela tutta in questo squarcio
imniortak^ di pousìa, che. ;dla distanza di due millenni, ha ancora la
virtù di commuovere (luaisiasi animo gentile. Ma non si commuove Enea:
ei tiene iitiiiioto lo sfjuardo sugli avvisi di Giove, e terminate le
fervide parole di Elisa, ris|»onde con glaciale fredde/za, dicendosi memore dei
benetìzi rici'vuti, nejj^ando dì aver mai pensato di partire furtivamente
(questa è una bugia!) e di lU'er mai fatto promesse di matrimonio : « se
il destino sofferisso che io vive.ssi secondo il mio talento - egli
aggiunge - e compiessi ì miei destini di piena volontà, innanzi tutto onorerei
la città di Troia e le amate ceneri de' miei : le alte case di Priamo
rimarrebbero, e con le mie mani avrei fondata ai vinti troiani una
Pergamo risorta. Ma ora il Grineo Apollo mi nomando di dirigermi alla
grande Italia; le sorti di Licia mi comandarono di pensare all' Italia.
Ivi è l'amor mio, ivi la mia t47 patria {hic
amor^ liaec patria est). 8e I*> rocche ili Càrtsigine tratfen^ront^ te
Fenicia, e V aspetto di una dttii di Libiti ha per te va\ihe7//A\. ptTchè
dunque tu hai invidia che i Teucri fenriìno le loro sedi sulle fniìtrade
d'Ausonia? Anche a noi è permesso di proracciaroi regni stranieri..,.,
uniscila adunque di conturbare me e te con le tue querimonie: non a mia
voglia vado in traccia d'Italia» (84). V., dt^bbiatu confessarlo, avrebbe
potuto facilmente raddolcire V asprezza eccessiva di queste parole, pur
mostrando il suo eroe incrollabile noi proposito di andarsene: l'arte sua
se ne sarebbe di molto avvantairtriatu. Poiché non v'ha una parola, in
tutta la risposta di Knea, cfie non sia un irisulto ai più delicati
sentimenti d'amore: quel rinfacciare a Didone di non aver mai fatta una
promessa di matrimonio; quel ringraziarla freddamente e quasi a malincuore dei
benefizi ricevuti; quel ricordarle che, anche ove gli dei non avessero
comandato altrimenti, egli non si sarebbe fei-mato a Cartagine; la mal
celata ironia di quell' accenno alla diversità della loro schiatta e dei
loro gusti; e, infine, la dura imperiosità delle ultime parale, ^embrano tante
lame di acciaio con cui il nostro eroe si diverta a trafij^gere il cuore della
sventurata regina. Tuttociò getta sul protagonistfi dell' Knetde
una luce supremamente antipatica, che s' accresce durante 11 seguito
dell' episodio, e raggiunge addirittura il disgusto nell' ultima parte di
eii^so. La fiotta troiana, staccatasi nottetempo dalla spia;j^'ia, naviga a
piene vele nel mezzo del golfo, fendendo le onde agitate dall'Aquilone.
Dalla riva un bagliore sinistro si proietta sulle navi fuggenti: è il
rogo sul quale abbrucia T infelice rp^ gina di Cartagine. Ma quelle
fiamme non dicono nulla al cuore di Enea : egli non ne imagina nemmeno la
causa, e j)rosegue injpassihìle il suo viaggio, senza che mai un pensiero
delT amante abbandonata ven^a a commovergli l'animo. È bella, è
verosimile, è umaiia questa inditrerenzat No; e di essa fu fatto giustriinrtue
rimprovero al iio.stro poeta. «Non si concepisce affatto - dice il Tissut
- la freddezza di Enea ; egli ha inteso le iìnprecazioni di Bidone, egli
ha assistito alla sua disperazione, e le fiamme del rogo non lo avvertono
che la regina di Cartagine sN"' data la morte. Lungi dall' avere i
presentimenti profetici delle passioni^ egli non sospetta nemmeno ciò che
gli animi più indifierenti divinano senza fatica. Che V. non abbia fatto
parlare Enea fìavanti a' suoi compagni in questa circostanza, la
riflessione mi spiega questa riserva necessaria : ma che Enea rimanga
inseuBibile allo spettacolo che colpisce i suoi sguardi, non si riesce a
spiegare tanta imlilTerenza. Teme egli per av ventura di offendere gli
dèi iisioltando la voce della pietà t Confessiamolo senza sotterfugi: il
principio di questo libro lascia molto a desiderare, V. poteva conciliare
facihnenti^ il rispetto delle convenienze, gli artifici dovuti al carattere
delTeroe, con la pittura dei movimenti naturali. Euripide, Racine o
Fénélon avrebbero detto a un dipresso. - La cansa di io
148 ceduto incendio è sconosciuta ai Troiani, ma il
loro duce comprende anr*he troppo il fatale mistero; le fiamme che
rischiarano l'orizzonte sono quelle del rogo della regina, egli lo sa, e
distoglie da esse il suo sguardo con un dolore misto di spavento.
Tuttavia, dominando se stesso, rimane silenzioso davanti ai suoi
compagni; egli non sembra occupato che degli ordini di Giove. Ma il suo
cuore soffre uno strazio crudele; malgrado i comandi del re dell' Olimpo,
egli si rimprovera la morte di Dìdone : e, rivolgendo dal profondo dell'
animo un addio alla %ittima dell' amore, implora per lei a Venere il soggiorno
dei Campi Elisi. Ah, Bidone! se tu avessi potuto leggere nella sua anima prima
di ascendere l'altare del sacrificio, forse avresti consentito a vivere,
almeno non saresti discesa senza qualche consolazione nel regno delle
ombre. - Con queste precauzioni così semplici, si sarebbe anche evitato
di lasciar vagare su Enea dei sospetti che contraddicono all'idea che il poeti
ha voluto darci del suo eroe» (ilo). Ma queste lacune e
questi difetti del carattere di Enea, per quanto giustamente rimproverati
dalla crìtica, sono tante prove che avvalorano il nostro asserto. Se V.,
poeta vero e grande, artefice insuperabile di tipi profondamente umani,
pittore efficacissimo di sentimenti e di passioni, ha creduto conferire al
protagonista del suo maggior poema codesto carattere ascetico e contemplativo,
contrario alle esigenze dell'arte, ciò significa che esso corrisponde ad
una particolare ed intima disposizione dell'animo suo. Poiché del personaggio
di Enea egli non aveva inteso di fare una semplice creazione artistica,
ma un modello di uomo virtuoso e perfetto, nel quale fossero rispecchiate
tutte quelle virtù che i suoi concittadini avrebbero dovuto studiarsi di
imitare. Sarebbe inutile seguire Enea in tutte le vicende del suo
viaggio fatale. Solo negli ultimi canti del poema, che sì svolgono sulle
terre italiche, e^li accenna ad acquistare maggior vita ed energia; ma
il fondo del suo carattere rimane sempre il medesimo. Poiché, non è
proprio caratteristico tutto quel suo battagliare e cospargere il Lazio
di stragi e di rovine, e impadronirsi delle terre altrui, per rapire il
fidanzato a quella povera Lavinia, che non aveva mai né vista né
conosciuta, e alla quale non rivolge mai né una parola nò un pensiero?
Anche a questo riguardo furon mossi molti rimproveri a V.. Il Voltaire,
dopo aver rilevato come Turno raccolga tutte le simpatie del lettore, a
danno del protagonista, giungeva persino a proporre un rimaneggiamento
del poema, in cui la situazione dei personaggi è affatto mutata, ed Enea,
in luogo di essere il rapitore di Lavinia, né diveiUa il vendicatore
(36). Ciò r avrebbe roso iiidubbianiente più umano e naturale. Questa
scialba figura di asceta più che di soldato, questo spirito contemplativo
che non ama, non s' adira, non si vendica, sembra vivere in un altro
mondo ove tacciano le passioni e lo spirito può liberarsi in tutta la sua
purezza; ma la vita terrena egli la disprezza, e la subisce come
un pesante fardello, e anela staccarsene il più presto possibile : «Quale si
iiin [augurata vaghezza di veder la luce hanno quelle sciaurate?» domanda
attonito^ vedendo la schiera delle anime che dovranno ritornare nei corpi
mortali: e, questa domanda, in cui si sente alitare un soffio gelido di
ascetismo, ci richiama tosto, alla mente le parole che un altro
personaggio platonico e troppo virtuoso, il Goffredo del Tasso, rivolge
ad Ugone, che ^ì\ mostra, fra le sedi dei pii guerrieri, la sua: Quando
ciò Ha .. il mortai laccio Sciolgasi ormai, se al restar qui m*è
impaccio. E veniamo ora al secondo punto, al disprezzo di V. per
Taniore sensuale e la donna. Che V ascetismo, condannando tutto ciò che
avvìnce r anima al corpo e distrae lo spirito dalla contemplazione delle
cose divine, inspirasse agli uomini T orrore più profondo per l'amore dei
seirsì. è cosa che certamente non potrà sembrare strana. Se v' ha una
passione che più affetti il senso, la materia, la carne, e quasi le
simholi/ggi in sé stessa, questa è certamente la passione d' amore,
contro coi gli asceti antichi e moderni lanciarono i fulmini più infocati
della loro eloquenza. Tra questi è naturalmente il 6ommo filosofo
ateniese. Egli condanna severamente la voluttà, e dice che essa non pure è
malvagia per i mali che può trar seco, ma è anche riprovevole in sé
stessa, ■ perchè ci fa malamente godere». Egli consiglia a tutti la più
rigida castità, e predica una purezza di costumi che a quei tempi e in
quella societtt doveva sembrare, egli stesso lo sente, cosa strana ed
impossibile. Tutto ciò si trova anche nelle opere di V., cominciando
dalle stesse BucoHclie, il cui genere poetico può sembrare per verità il
meno adatto alla espressione di tal sorta di dottrine. Nelle Bucoliche V amore
è descritto dai lamenti degli innamorati come una passione cui non è
postiibile re sistere: Omnia vincit umor, et nos cedanios amori
(39), come triste divinità generata nelle più selvaggie contrade,
tra le più barbare genti : Nane scio, quid sit Amor; duris in ootibus
illum Aut Tmaros, aut Rhodope, aut cxtromi Garamantes Nec generis
nostri puerum nec sanguinis edunt, Esso sconvolge iV un
sùbito V animo e la mente degli uomini, trascinandoli al delirio ed
all'errore: Ut vidi, ut perii, ut me inalus abstulit error
(41), facendo loro provare le pene più crudeli e riducendoli l^en
tosto a completa rovina: r .Ileu, heu, quam pingui macer est milii
taurus in arvo! Idem amor exitium pecori pecorisquo magistro (42),
f spingendoli da ultimo ai più nefandi delitti, e inducendo
persino le madri a macchiarsi le mani nel sangue dei figli :
Saevus amor docuit gnatorum sanguine matrem Commaculare manus:
crudelis tu quoque mater; Crudelis mater mai^is, au puor improbus iile?
tesso Bahellieo porco corre precipitoso, ed aguzzò i denti, e scava col
piode la terra, frega le coste ad un albero, e qua e là indura gli omeri
alle ferite» (lf>). Lo stesso dicasi delle puledre, del 9. gennai acre
lupò^ti/n atqae cfinuììi*, delle filynces Bacchi rariao^ dei paurosi
cervi, e, intìne, del toro, che l'agricoltore dovrà tener lontano dalla
giovenca, perchè Carpit... vires paulatim, urit^ue videndo
Femina, nec uemorum patitur mcininissc, n&. herbae. Ma
tutta questa esagerata descrizione degli t^tletti dell'amore sui bruti,
non serve al nostro poeta che come pret*'S4to pt r vt air poscia a
dipingere coi più neri colori le tristi conseguenze die e^sio ha sugli uomini.
E infatti, saltando rapidamente dal sabeUica:^ a^m alla i^perìe uLiiana,
egli si domanda : Quid juveuis, magnurn cui vorsat in ossibas
\%m\\\ Durus amor? La descrizione che precede lascia
agevolmente iinsigitmre quale duhba essere la risposta :
Ncinpo abruptis turbat^i iiroj^llis . Nocte natat cacca sorui
freta; iiucm super ìn^en* Porta tonat coeli» et scopulia illi^a
rcclanuuìt Aequora; noe aiiscri possunt revocare par^iut^^a, % Nec
nioritura super crudeli fuaere virgo Ctti). Né Virglio s'è
accontentato di descrivere in una maui*!ra cosi gene rale e, (]uasi
diremmo, teorica, i mali e le sciagure cIjl' trae sero l'ardore della carne.
Egli ha anclie voluto porre sotto gli occhi de* suoi concittadini un esempio
concreto, che servisse loro ^ Ipse ante alios pulcherrimus ouines
Infert se socium Aeneas, atquc agmina jun^it : Qiuilis ubi
bibernain Lyciain Xanthique fluenta Deserit, ac Delum' maternaui invisìt
Apollo, Instaiiratque clioros, mixtiquc alturia cìrcum Crctcsque
Dryopesque fremunt pictique Agathyrai ; Ipse jugis Cynthi graditur,
molliquo fluentom Fronde premit crioem fingens, atque implicat
auro; Tela sonant humeris Haud ilio segnior ibat Aeneas ; tantum
egregio decus enitet ore (50). Del resto, V. ci fa conoscere lo
scopo che lo muove in un'altra maniera, e cioè coi rimproveri che ora
questo ora quello dei personaggi rivolgono ad Enea per la sua
effemminatezza. Così Mercurio, il dio alato, lo chiama da prima servitore
di femmine^ poi addirittura pazzo (51); larba, nella sua preghiera a
Giove, lo dipinge come un Paride con corteggio di eunuchi, mitrato alla Meonia
il mento e profumata la chioma; e la fama va descrivendo ai popoli i due
innamorati in questo modo : Nunc hiemem Inter se luxu, quam
longa, fovere, 1^ KegQorum immeniores turpique cupidine captos
(53). Ma in Enea, come abbiam veduto, codesto amore è una cosa
affatto superficiale e passeggiera, che sparisce come per incanto al
primo avvertimento degli dèi. È in Bidone che esso è causa di irreparabili sciagure.
i ^Plllipi —., u|j.iiiju|,|ij,,j|jppaj||pppp trascinandola
prima all'abbandono dei suoi doveri di regina, poi al disonore, e infine al
suicidio. Avanti della venuta di Enea, essa ed H suo popolo non avevano
altra cura che la prosperità della nuova patria, e V. si sofferma di
proposito - per far risaltare il contrasto - a d. La stessa Didone «
lieta s' aggirava tra i suoi sudditi, incoraggiando le opere e il futuro
seggio del regno ;.... dava ordini e leggi, distribuiva il lavoro in
giuste parti, e traeva a sorte le fatiche e le opere • (54). Ma al [giungere di
Enea sembra che un vento di sventura si riversi sopra cotk-sto popolo
laboVioso e felice. Innamoratasi follemente del duce troiano, Tm/'elix Dido non
pensa più che a soddisfare la propria passione ; cosicché i Cartaginesi,
sviati dalle continue feste, privi di direzione e di consiglio,
abbandonano l'impresa iniziata con tanto entusiasmo, e anneghittisroiio
neirozio. Frattanto i nemici rumoreggiano minacciosi ai confini, ed i re
\ affricani, delusi nelle loro speranze, si preparano alla
vendetta. i Tutte le pene, tutti i sussulti, tutte le ansie che
possono far palpitare \ un cuore di donna follemente innamorata,
tutte le febbri che possono scori- \ volgere i suoi sensi eccitati,
sono descritte nello splendido libro quarto con una evidenza e una
precisione, che ci rilevano ancora* una voHa in V. il psicologo
finissimo, oltreché l'artista insuperabile; ma le tinte alquanto cupe ed
esagerate ond'egli colorisce la sua descrizione, la catastrofe con la quale
finisce, il sèguito fosco che essa ha nei iuycnteìi campi (campi del
pianto), ove la miserrima Dido si dispera ancora tra quegli
infelici quos durus amor crudeli tabe peredit (55),
tutto ciò ne rivela, sotto l'artista e lo psicologo, Tasceta che vuol
ammonire l'umanità a fuggire le lusinghe della carne, descrivendone al vivo
i mali ed i pericoli, il moralista severo che condanna l'amore quando
è pura febbre dei sensi, non patto sancito dalle leggi e dalla
religione. «Prima del matrimonio tu devi serbarti puro il più possibile
dai piaceri corporali i dirà più tardi Epitteto (56) ; e molti secoli
prima Platone, riformando nelle sue Leggi la legge reale, condannava il marito
che teneva in sua casa una concubina, «anche quando questa concubina è
una schiavai. Didone non è moglie, ma soltanto amante, e
amante doppiamente colpevole in quanto ha rotto il pegno di fedeltà
giurato al defunto .Sicheo. É questo il suo unico, il suo imperdonabile
errore; ed è appunto il rimorso di violare la giurata fedeltà coniugale, che le
dà forza di resistere fino all'ultimo agli assalti disperati delF
amore. Agnosoo veteris vestigia flainmae. Sed mibì vel tellus
optein prius ima dehiscat, Vel Pater omnipotens adigat me fulmine ad
umbras, Pallentes umbras Èrebi, noctemque profundam, Ante, pudor,
quam te violo, aut tua jura resolvo (58)* Ma r impeto della
passione e il malanimo di una nemica divinità la travolgono alfine :
nella spelonca ove s' era rifugiata, sola con Enea, per ripararsi dal
temporale suscitato da Giunone, il gran delitto si compie : lUc
dies primus leti primusque malorum Causa fuit (59); ed
allora, quasi per nascondere ai propri occhi la vergogna dell' aver violato le
leggi del pudore, essa cerca di illudere sé stessa, di diminuire U
propria colpa chiamando u matrimonio » il nodo che la unisce ad En^i:
Cooiugium vocat: hoc praetexit uomine culpam fCO)/ Ma questo
non è che un inganno di peccatrice conscia di tutta l'enormità del proprio
peccato, e da questo momento V. Y ha già giuIflicata e condannata. Solo da
ultimo sembra che ei voglia perdonare V infelice regina; ed è precisamente
quando ce la descrive nel regno delle ombre, insensibile ai lamenti e
alle proteste di Enea, tutta assorta nel ricambiare l'amore dello sposo:
Tandeiu corripuit sese, at(iue inimica refugit Ili nemus
umbrìferum; coniux ubi pristinus illi Rcspondct curis, aequatque
Sycliaeus aiiiorem. (Juesta
arcigna severità, questo austero disprezzo per le lusinghe della carne e dei
sensi, doveva generare inevitabilmente un sentimento di odio e di avversione
per colei che dell'amore è la partecipe necessaria e la ministra
principale: la donna. Lo spirito misogino è infatti una delle
caratteristiche più spiccate della età di maggiore ascetismo;
— w,«-i--r-^ 155 dove trovai'e, ad esempio,
maggior violenza di invettive contro la donna che nei Padri della Chiesa
e in tutta la letteratura sacra e profana dell' età di mezfo ? Eppure Cristo
aveva cercato di dittbndere tra ì suui seguaci un più alto concetto della
dignità femminile, e la religione cristiana, sebbene accusasse Eva del
primo peccato, venerava in Maria la salvatrice del genere umano. Ma era
inevitabile che la morale ascetica del cristianesimo, contraddicendo alle
stesse sue massime di fratellanza e dì amore, dovesse condurre all'odio
più intransigente contro la donna: «chi predicava - dice il Frati - il distacco
assoluto dello spirito umano dalie vanità terrene, trovava nella donna il
più forte ostacolo; poiché in essa sono rappresentati tAti i più potenti
vincoli che legano Tuomo alla vita, e per essa r uomo commette i maggiori
peccati. Chi non conosce la lunga e roboante apostrofe contro la donna di
Giovanni Boccadoro t «i nel yesto secolo, si discusse a lungo e con tutta
serietà se la donna aveva o non aveva un'anima (4)! Lo stesso
misoginismo noi possiamo trovarlo in quei filosofi pagani^ le cui
dottrine spiritualistiche ed ascetiche prepararono nel mondo antico la
vittoria del cristianesimo. Platone mostra di avere della femmina un
concetto non molto diverso da quello dei Padri della Chiesa : vedendo nu
giorno alcune donne che piangevano una loro compagna defunta, esclamò; u
il male s'attrista perchè il male è partito» (5); e nella sua
Repntibiica, volendo tracciare il quadro di un^ scapigliata società
denÉOcruiica, ci mostra, come supremo assurdo, lo schiavo che rifiuta
obbedienza al padrone e la moglie che pretende d'essere uguale al marito
(tJ). Gli stoici romani dell'ultimo periodo sono anch'essi molto severi
verso la gentile compagna dell' uomo, e non le risparmiano i più acri
rimproveri, u Tania qmmlam demcnlia lenel - dice Seneca - ul sibi
conlumeliu/ìi (ieri puleni ponine a tnuliere; quid re/eri quam fiabeaìil,
quod leclicarim habeniem, quam oneralas aures, qua?n laxani sellami aeque
impiruiìen^ aìiimal est^ et^ nisi scienfia accessil ac malia erudilio,
f'eimm^ CHpidifatujìi tnvimliutviò-» (7). Quanto a V., egli si ricongiunge
anche per questo lato a (luelhi corrente ascetica che, originatasi in
Grecia coji Socrate e Platone, passando attraverso alle scuole d'Alessandria e
allo stoicismo platonizzante dell'impero romano, sbocca da ultimo nel gran mare
del misticismo cristiano. La sua avversione per i piaceri della carne e per
tutto ciò che vincola in qualche modo T anima al corpo, non poteva non
condurlo al misoginismo; e se in lui cercheremmo invano le apostrofi violenti
degli asceti cristiani o l'altero disprezzo di Platone e (Ji Seneca, trovare mo
però, e specialmente nell' Eneide, un' inimicizia decisa per colei che
induce l'uomo al peccato. Dello spirito misogino di V. abbiamo già
avuti alcuni recentissimi esempi: vedemmo come egli, mirando ad un fine più
alto, ammonisca r agricoltore a tener lontani i tori dalle giovenche,
«poiché la femmina consuma loro a poco a poco le forze, e li strugge al
solo mostrai*si »; vedtimmo come i due soli suicidj che avvengono nell'Eneide
siano di donne. Aggiungiamo ora che così Amata come Bidone sono ^inte al
suicidio per aver sacrilegamente posto ostacolo alle imprese di Enea,
volute ed aiutate dagli dèi; che tanto l'una (jome T altra si uccidono
dopo aver dnto spettacolo di furori spaventevoli, che il poeta ha cura di
indicarci come propri soltanto della donna, chiamandoli wue feniìneae (8)
e dimostrando furens quid f emina possit; e che infine, trasgredendo alla
verità storica, egli ha voluto far morire la moglie di Latino d' una
morte pili infame di quella che la tradizione narrava; poiché, secondo
Fabio Pittore, Amata sarebbe morta non col laccio ma d'inedia (10). Altra
circostanza che ci pone sotto gli occhi il misoginismo virgiliano, è il
fatto che di tutte le traversie, di tutte le sventure subite dal
condottiero dei Teucri nella sua lunga e dolorosa odissea, è causa
diretta o indiretta la doimii. La leggenda omerica aveva già indicato una
femmina, Elena, come Foiigine prima della rovina di Troia. Seguendo
accuratamente la via segnata da questa tradizione, V. fa risalire a femminili
ambizioni insoddisfatte Todio implacabile di Giunone, causa di tutte le
sventure di Enea: Nec dum etiain causae irarum^ saevique
dolores Exciderant animo; manet alte mente repostum Judicium Paridis,
spraetaeque injuria formae (H); di più, è una femmina quella Bidone
che, avvincendo Enea nelle sottili ujaglìe d'amore, mette in perìcolo
l'impresa d'Italia voluta dai fati; sono femmine quelle matrone troiane
che, eccitate da Iride, urlando e schiamazzando incendiano con tizzoni ardenti
la flotta di Enea per impedirgli di partire dalle contrade sicule:
At matres attonitac iiionstris, actaeque furore Conclamant,
rapiuntqiie focis penetralibus ignem: Pars spoliant aras, frondcm ac
virgulta, faces(iue Conjiciunt: furit immissis Vulcanus habenis
Transtra per, et remos et pietas abiete puppes (12);
v^^if^Z7;^r^'^r^ ^rr -^^-^ -,-^^y.--^yr^?-T.-> l -» i ^M.y,^..v^.v. i
H^ » iuyy4. ' j ! ^gtPU ' «. 157 ed è ancora per colpa
di una donna, 1^ fìglia di Latino, che tutto il Lazio è sconvolto da
quella lunga e sanguinosa guerra che occupa tutti i sei ultimi canti del
poema: Gau8a mali tanti coniux iteram, liospita Teucris,
Externique iteruiu thalami (i3). Ma vi è un ultimo episodio, assai
caratteristico, che ci mostra nel modo più evidente quale concetto e
quale stima avesse il nostro poeta del ^sso gentile. È T episodio della
vergine guerriera Camilla, che armata di tutto punto, combatte con virile
coraggio per la difesa del proprio paese (14). Nata fra le orride balze e
i dumi dei monti solitari, nudrita con lacte ferino, educata fin da
bambina ai più rudi esercizi maschili, a maneggiare il giavellotto e la fionda,
ad inseguire le fiere per le selve, la figlia di Metabo serba l'animo
insensibile alle dolci lusinghe dell'amore; « invano molte madri tirrene
agognarono averla per nuora», perchè Camilla sola contenta
Diana Àeternum telorum et virgiaitas amorem intemerata colit
Ma V. non si lascia convincere da questa apparente virilità di
Camilla. Antifemminista deciso - come oggi si direbbe - egli vuol anzi
dimostrarci che, per quanto virilmente educata, la donna rimane sempre
donna, vale a dire un essere volubile, leggero, amante delle frivolezze e
delle vanità. Poiché è questo il concetto che egU ha della donna, e ce lo
esprime chiarameiile e seccamente in quella breve sentenza: Varium
et mutabile semper Femina (15), « la femmina è un essere
vario sempre e mutabile »; la qual sentenza ci appare tanto più
ingiustificata e brutale inquantochè è riferita a quelPappassionata Bidone che
dimostrò coll'esempio di essere ben più ferma nel proprio amore dell'
uomo che l' avea sedotta. Tornando dunque all' episodio di Camilla, s'aggirava
tra le file troiane un tal Cloreo, la cui splendida armatura frigia luccicava
da lungi; aveva le gambiere alla barbarica, la veste purpurea, l'arco e
l'elmo d'oro, e teneva annodato con aureo fermaglio il croceo manto e la
giubba di lino. Lo splendore di questo acconciamento - che il poeta
descrive con una ironica minuziosità e uno sfoggio malizioso di
yezzeggiativi che non sfuggi nemmeno ai più antichi commentatori (16) -
attira l'attenzione di Camilla, la quale, quantunque abituata dal padre a
sprezzare i vani adornamenti e a coprirsi di una 1
semplice pelle di tigre, sente iicciMulorsi tutta dal capriccio donnesco,
dalla feraniiuile vjighezza {/emàfeo atnore) di adornarsi di quell'auree
vestimenta. Ma fio fu causa duihi sua rovina: che, mentre era tutta intenta
ad inseguire Cloreo, non cunmflosi che di lui e delle sue belle vesti,
Anmte, còlto il destro, le vibra V asta sotto la scoperta mammella e la
ferisce a morte: Labi tur exanguis; laEniatur frigida leto
Lumina; lairptirous qnùndam color ora reliquit. Vitrtque mm gemitìi
fui^lt indignata sub umijras (i7). Ci si potrebbe obbiettare che il
misoginismo virgiliano non è affatto una coiise^Lieoza dei principi
morali del poeta, perchè nella società romana la donna ora sempre stata
coiisidei'ata come un essere inferiore, e tenuta quasi in Ktato di
schiavitù. Ma questo non è se non uno dei tanti pregiudizi che pesano sul
popolo romano, e traggono origine da una imperfettissima conoscenza delle sue
abitudini, dei suoi costumi, della sua educazione. Chi si limltaase a prendere
in esame la legislazione romana, sarebbe indotto realmente a credere che
la condizione della donna doveva essere assai ini elice; ma cbij
lasciando i testi delle leggi, si facesse a studiarne la vita, si accorgerebbe
che nella società romana la donna occupava un posto eguale, se non superiore, a
quello da essa occupato nella società tnodenia. lu nessun popolo antico,
e meno di tutti nel greco, la madre di famiglia fu tenuta in maggior
stima, più circondata di riguardo e di venerazione delia matrona romana.
Tra le pareti domestiche essa è veranieute regina, rispettata dal marito,
venerata dagli schiavi, dai clienti e dai iìgli; ba parte
neiramunnistrazione del p^atrimonio*e nel governo della casa, compie i
sacrifizi, custodisce l'altare dei lari, le imagini degli antenati e il
tesoro domestieo. Fuori della casa il potere delle donne si va estendendo
sempre più; esse avevano il diritto di riunirsi in associazione, e sotto
Eliugaliab giunsero pei^ino a formare un niccolo' senato (senacidum) con
attribuzioni speciuli. È nota a tatti la grande influenza che esse esercì
tiu^ono durante tutto T impero: bastava entrare nelle grazie di qualche
donna delFainstocrazia per essere sicuri di fare una brillante carriera;
Seneca stesso ottenne la questm^a per gli intrighi di una sua zia (18).
Ma la corjsuguenza tli gran lunga più importante che trae seco
l'opposizione tra r anima e il corpo, tra il princìpio spirituale e il
principio materiale, è la continua preoccupazione della vita futura. Ed
è, del resto cohseguenza naturalissima. Se la vera esistenza non è quella
che si conduce quaggiù, ma quella che si vive nelle regioni del sovrasensibile,
se la vita terrena non è che un transito doloroso preliijliante la vita
eterna deiroltretomìKU ove rauiiuti (ìcvt^^ purificarsi di tutte le
macchie contratte neirimmoiidu connubiu dei curpuj l'uomo deve sentirsi
continuamente i5d oppresso dal pensiero di
codesta esistenza oltremondana di dolere o di beatitudine, e dal
desiderio di squarciare i veli che la nascondono :il suo sguardo. Platone
ci offre per primo l'esempio più caratteristico di qnL^sUi preocoupazione
dell'oltretomba^ che trasfusasi molti secoli più tnnlì nel cristianesimo,
alimentò le tetre e spaventose visioni degli asceti delT cU\ di mezzo. In
ben quattro luoghi delle opere platoniche il probabili^ st;ìto delle
anime dopo la morte del corpo offre argomento di lunghe rirmbe al sommo
filosofo greco; e in tutti quattro questi luoghi la desrrì/inne della
vita futura, ormeggiando pur sempre le credenze popolari e filosi illclir
più diffuse, è fatta in modo sensibilmente diverso. Il che ci provn am
quale inquieta sollecitudine, con quale ansia non mai soddisfai hi lu
sguardo di Platone cercasse di penetrare i paurosi misteri dolln vita futura.
I Romani, popolo grave e riflessivo per natura, avevano coni
infoiato assai presto a prestar fede alla persistenza della vita dopo la
morto: ti- I cerone, nelle sue Tusculane, si compiace di constatare
che questa crrdenza aveva origini antichissime nella storia di Roma (19).
Tuttavìa, sic come essi credevano da principio che nella tomba
persistesse Fani ma in sìenie col corpo, e che i morti fossero tutti
buoni e felici {manes=\*\ìnin), così il problema della seconda vita non
li preoccupava gran fatto. Mm do poche, per i continui rapporti con
l'Egitto, con la Grecia e con FElrurìa, penetrarono anche in Roma le
fosche visioni della fantasia orientale v h' tragedie di Sofocle e di
Euripide da un lato, i testi di Platone dallaltro, ebbero diffuso le
leggende greche del Tartaro e dell'Eliso, la paura rupei*stiziosa degli inferni
cominciò a turbare la mente dei Romani. I tnisì come io le ho esposte,
non s'addice ad uomo di mente; ma però rhe o questo' ó qualcosa di simile
succeda delle anime nostre e delle loro di inni e, poiché mostra che
l'anima nostra sia immortale, ciò, mi sembra, s'addire; e vale il pregio
d'arrischiarsi a crederlo; poiché é bello il risiilo,^1 deve con simili
credenze fare come l'incantesimo a sé medesimi»,^i) Questi terrori
divennero alla fine tanto intollerabili, che La(i*e/ja cercò liberarne i
suoi concittadini, dimostrando loro che l'anima iinri e incorruttibile,
ma si spegne insieme col corpo, e che quindi niilla ah
160 biamo a temere dopo la morte. Ma se la calda parola del
poeta della natura potè avere, come vedemmo, larga eco nelle anime delle
persone cólte sul finire della repubblica, perdette ogni efficacia collo
stabilirsi deir impero. I tempi di più in più tristi favorivano V
ascetismo, religioso, e la preoccupazione della vita futura tornò ad agitare la
cupa fantasia di quel popolo di oppressi. Plutarco, che pure aveva
combattuto con tanta copia di argomentazioni la dottrina epicurea sulP
annientamento dopo la morte (22), ci ha lasciato una preziosissima testimonianza
degli spaventi superstiziosi che suscitava l'oltretomba in quei primi due
secoli deir èra volgare. « La morte - egli dice - è la fine della vita di
tutti gli uomini, della superstizione non già ; ma passa oltre a' termini
del vivere, facendo più lunga la paura che la vita, e congiungendo c/>n
la morte una imaginazione di mali estremi; ed allorché viene al riposo,
si persuade che ricomincino altri travagli da non aver mai fine. S'
aprono le profondte porte di non so che Plutone dio dell' inferno, e
vanno discorrendo fiumi di fuoco, e si distende insieme la corrente, e profonda
riviera di Stige, s'ammassano d'ogni intorno tenebre ripiene di mille e
mille apparizioni dì spiriti, ed anime rappresentatrici di imagini
orrende alla vista, e voci pietose a udirsi, e sonvi molti giudici, e
tormentatori e profondi abissi, e caverne colme d'infiniti mali. E cosi la
miserabile superstizione che scampò in vita il castigo d' Iddio, non se ne
accorgendo si fabbrica aspettazione di mali inevitabili di morte, ninno
dei quali si ritrova nell'empietà» (23}. Questa preoccupazione dei
mali inevitabili di morte, questa triste fantasia di tormenti e di
tormentati, di profondi abissi e di spiriti gementi, ci è facile riscontrarla
nei poemi virgiliani, e più di tutto nel canto sesto dell'Eneide. Noi
studieremo nel paragrafo successivo la configurazione deir inferno virgiliano,
la distribuzione che vi è fatta dei premi e dei castighi, l'intento che
mosse il poeta a comporre codesto tragico canto della morte, il modello
che gli servi di guida; per ora ci basti trarre in luce - a prova del
nostro asserto - il carattere fosco e terribile che domina in tutta
codesta descrizione. E invero, V. non è rimasto inferiore al
filosofo ateniese ed ai tragici greci nel descrivere coi più oscuri
colori le domos Ditis vacuas et inanta regna (24) ; e noi non dobbiamo
stupirci se il libro sesto dell'Eneide, letto avidamente dai Romani, ebbe per
primo effetto di spingerli a preoccuparsi sempre più dello stato delle
anime dopo la morte e servi più tardi ai Padri della Chiesa per
rieccitare nei fedeli il timore dell'inferno (25). Fino dai primi versi, prima
ancora che il suo eroe discenda negli abissi, il nostro poeta comincia ad
assumere quel tono cupo che lo accompagnerà durante tutta la descrizione.
Siamo alle grotte del lago d'Averne, non lungi da Pozzuoli in Campania,
in cui la fantasia dei popoli italici riponeva da tempo l'apertura dei regni
infernali. Questa ere li] J Wypm! il ^W ^|>|y)||y^^B^>^
161 denza era diffusissima e durò fino alla completa
caduta del paganesimo, per quanto Lucrezio avesse cercato con ogni sforzo
di distruggerla (26). II luogo è bello e ridente, ma V. lo dipinge in
modo ben diverso : Spelunca alta fuit, vastoque immanis
hiatu, Scrupea, tuta lacii nigro nemorumque tenebris: Quam super
iiaud ullae poterant impune volantes Tendere iter pennis: talìs sese
halitus atris Faucibus effundens supera ad convexa ferebat (27).
Enea e la sibilla, fatti allontanare i profani, s'inoltrano nella paurosa
caverna, non senza che prima la sacerdotessa abbia esortato il compagno a
munirsi di tutto il suo coraggio, e che il poeta non si sia rivolto agli
dèi « delle tacite ombre e dei luoghi dove vastamente regna la silenziosa notte
», per ottenere il permesso « di palesare le cose sepolte nel profondo
della terra e involte nella caligine ». Giunti sulla soglia deirinferno, i più
orrendi mostri si avventano contro i due sotterranei pellegrini: il primo è
Orcus, il dio personificante la morte stessa, il dio che più d'ogni altro
empieva di terrori la mente dei Romani. Esso era rappresentato in tutte le
forme più spaventose : ora appariva come guerriero armato che dà al
morente il colpo di grazia; ora gira silenziosamente per i luoghi
abitati, picchiando a tutte poj^e ; ora volteggia per Tarla, demone notturno,
librandosi sulle immense ali nere (28). Dopo Orcus vengono le personificazioni
di tutti gli altri flagelli umani : i pallidi morbi, la triste
vecchiezza, Io spavento, la fame, la povertà, lerribiles oisu farmae; poi la morte,
la fatica, le voluttà, le furie, la guerra, e infine la Discordia
demens, Vipereum orinem vittis innexa cruentis. E non basta
ancora; accanto a queste figure allegoriche, prodotto di una età più
evoluta, V. pone a guardia dell' inferno tutti i mostri deir antica
mitologia omerica, come i Centauri, i Titani, le Gorgoni, le Ai-pie, r
idra di Lerno, horrendwn strìdéns, contro cui invano si slancia Enea, per
trapassarla con la spada. Frattanto sono giunti al tremendo fiume, al
tartareo Acheronte, « simbolo - dice il Preller - di tutti i terrori e di tutte
le paure che inspira il mondo sotterraneo, tantoché gli Etruschi diedero
il nome di Acherontica a tutta quella parte della loro letteratura
sacerdotale che tratta delle anime dei morti e del loro culto » (29). Li
trasporta all'altra riva Caronte, il terribile nocchiero noto a tutti i
popoli antichi, spaventosamente pallido ed irsuto : Portitor lias
orreodus aquas et flumina servat Terribili squalore Charon: cui plurima
monto Canities inculta jacet; stant lumina flamma; Sordìdu» ex
humeris nodo dependet amictus, ";^f^rjP^-»F!^j ^cuor
della notte, in forme sempre strane, gigantesche, paurose : cosi Tornbra
di Creusa appare innanzi agli occhi del marito maggiore della nota figura
(nota major imago); quella dì Sicheo è ingigantita in modo meraviglioso
nel pallido aspetto {ora modis atloltens pallida miris); quella di Ettore
è in forma ancor più paurosa^ e par di sentire un fremito di raccapriccio nella
de^s^Tìzione che ne fa Enea : « Eni l' ora in cui la prima quiete
comincia ]>er gli stunclil mortali, e gratissima serpeggia per dono
degli dèi. Quand' ecco il mestissimo Ettore parve mi apparisse dinanzi, e
spargesse largo piantn, stra.scinato come un tempo dai carri, e lordo di
polvere sangui nule uta, e traforato dalle correggi e i piedi rigonfi. Ahimè,
com'era ridotto! quanto cangiato da queir Ettore che tornò vestito delle
spoglie d* Achille, o dopo lanciale le Frìgie fiamme sulle navi dei Greci!
Aveva squallida la barba, e i capelli raggrumati nel sangue, e coperto di
ijuelle ferite che innumerevoh ricevette sotto le paterne mura». Altre
volte le Lar%a- dei defunti assumono formo di lugubri uccelli, che vagando nel
cupo della notle perseguitano coi loro urli lamentevoli i miseri mortali.
È questo il destino dei morti Etoli, che riempiono di terrore le ni
(4:J). Poiché sarebbe inconcepitale che una qualsiasi divinità del mare,
del fuoco, della terra o del cielo, fosse pure Hiove o Saturno, avesse T
audacia di rompere un giuratjientu l'atto sulla testìnmnianza degli dèi delr
inferno : Cocyti stagna alta vides, Slydamque pahideni, Di
cuius jurare tiiiieat et fallerc niuneii ili di tutte le altre divinità,
poiché il loro cuore è incapace di alcun hentimento di perdono
: I ^1 IJi i pPH manesque regemque tremendiim, Nessciaque
humanis precibiis. mansuescere corda. Una delle [n\x
terribili tra le divinità infernali che ci sono ricordate nei poemi virgiliani,
è la pallida Tisipfione^ la maggiore delle tre Furie. Essa risiede
ordinariamente nella parte più profonda dell'inferno, in quel recìnto
circondato da tre girbni di mura e dal Flegetonte, in cui scontano le
loro pene i più scellerati tra i peccatori. Ivi, « impugnando un
flagello, con una mano percuote i rei schernendoli, e con la sinistra
aiTUotfindo orridi serpenti, chiama il feroce stuolo delle sorelle »
(46). Perù questa officio è ben lungi dal bastarle ; a quando a quando
essa abbandona i morti regni per precipitarsi sulla terra, a portarvi lo
spavento e il dolore: ila squallida Tisifone, sortita alla luce dalle
tenebre dello Stìge. incrudelisce ; essa conduce davanti a sé i morbi e
la paura, i e ogni giorno più alto sorgendo, leva T ingordo capo » (47).
Altra terribile \ divinità infernale è quella che Giove manda a
Giuturna, la dea delle sorgenti e dei fìuniij per annunziarle la
morte imminente del fratello : « dicesi essere diu' maledizioni chiamate
Dirne, che la orrida Notte generò ad un parto con la Tartarea Megera, e V
avvinse con uguali serpenti, e Fanno di ali sventolanti. Queste appaiono
innanzi al trono di Giove e ' ^ sulla soglia de! re tremendo, e incutono
spavento ai poveri mortali, se ' talora il re de^di dèi minaccia
morte orribile, e malattie, ed atterrisce • con guerra cittìi
colpevoli » (48). All' apparire dell' orrendo mostro, Giuturna comprende che la
propria potenza di dea è resa ormai inutile, e * Turno noti tt^nta
più nemmeno di difendersi dagli assalti di Enea: Tlle membra
novus solvit formidine torpor; Arrectaeque horrore comae, et vox faucibus
haesit. Ma di gran lunga più terribile e spaventosa di tutte è la
pestis aupera Aleelo^ le cui geste occupano buona parte del libro settimo
(49). Essa am:i y le tristi guerre, le ire, le insidie, i notevoli
delitti > ; ed è tanto orrenda che non soltanto la temono i mortali,
ma « tino lo stesso padre Plutone la odia, fino le sue Tartaree sorelle
odiano un tal mostro: in tanti aspetti si trasmuta, tanto ne è orribile
la figura, tanti serpenti spaventOfsaraente le pullulano intorno ». Il
suo genio malefico non ha contini, e Giunone, che s'è rivolta a lei per
far insorgere il Lazio contro Enea, le enumera con compiacenza tutte le arti
infernali di cui può disporre : ; per scendere « fra le ombre
crudeli », a « soffrirvi i inali estremi » (52) ? Aveva ben ragione
il severo poeta della Natura : gli uomini, imagìnando una continuazione della
vita oltre la vita, s'erano illusi di risolvere il tormentoso problema della*
morte ; ma non avean lat to che rendere ancora più paurosa quella che è la fine
naturale ed inevitabile di ogni organismo vivente. Se noi ci
facciamo a considerare la catena degli avvenimenti che costituiscono il
poema di Enea, potremo accorgerci facilmente che il libro sesto non ne rappresenta
un anello necessario ; la discesa del condottiero troiano neir inferno non è
per nulla indispensabile allo svolgimento dell' azione, né la fa procedere di
un passo. Anche T episodio dell' amore di Bidone, ad esempio, può sembrare a
tutta prima affatto inutile alla trama del poema; ma esso era invece
indispensabile per dar modo al poeta di esporre in forma drammatica e
succinta, secondo i più savi criteri dell'arte, gli antefatti
dell'azione. Eppure, il libro sesto è per avventura uno dei più belli,
dei più succosi, dei più finiti che la musa virgiliana abbia dettato; e
lo stesso poeta mostrò di esserne pienamente soddisfatto, leggendolo come
saggio e come primizia all'imperatore ed a' suoi famigliari, che
l'ascoltarono ammirati e commossi. Quale intento speciale persuase
.dunque V. ad innestare al suo poema codesto splendido canto dei morti e
dei nascituri ? Furon molte le ipotesi e le interpretazioni avanzate a
tal proposito dai commentatori d'ogni età e d' ogni paese, e noi fra
breve sottoporremo ad esame alcuna di quelle che hanno ancora maggior
sèguito e possono sembrare più fondate. Prima però sarà necessario
esponiamo brevemente V ipotesi nostra, per dimostrare poi, al confronto dì
essa, qujinto abbiano le altre di erroneo o d' incompleto.
IVr quanto la credenza nella vita futura fosse assai antica e
diffusa tra ì Romani, pur tuttavia essa n^n riuscì ad assumere per
codesto popolo - come, in generale, per tutti i popoli antichi - una forma
chiara e ben determinata, se non dopo la vittoria definitiva del
cristianesimo. Prima di questo tempo, le leggende sulla seconda vita
avevano un carattere rtuttuante eii incerto, evi assumevano aspetti speciali di
età in età, da individuo ad indivìduo Da principio i Romani credevano che
nella tomba continuassero a vìvere insieme f anima ed il corpo ; e questa
credenza, rivelataci dalle cerimonie funebri e dalle iscrizioni delle
tombe, persìstette tino a quando tiiron distìnti neir uomo due elementi
opposti, la cui separazione dà luogo alla morte. Sì credette allora che
soprav\ivesse soltanto una parte del corpo, la parte più pura più leggera ed
imuiatMÙale. vale a dire T anima, e che tutte le anime si riunissero
insieme nel cenine dt Ha torni. Fino a questo punto, si ora sempre
creduto che i in rei f'^ssoro buoni e puri ('(#t\N' e ttì-ittcs): ma
dopAohè. per le vicende p.V.ìtìche, si feoero più intimi i IciTìnii che
univano Roma alFEtruria, i R^:!ii:ii v'Miìiluciaroiio a cre^lelv al pari
do^li Etruschi che i morti fosSfr-> oru ìeli, ma!erì/ì, amatiti dol sui::;ie
e delle stragi. Una iscrizione lar'.riu n.va .i::;e più aiì:>ii.\
reo.i qa-.^stt frase significativa « iiìortum E n:*n è a credete
c':ie, a ii.ar.o a man • ciu- ju-.-ste nuove credenze a: : ivi:: ^
r.up^:i-::i Isi. le ai.ti.^he sc^iìuwrissvr^ : per quanto assoluta
Ite mm^^^^T" ' ™i»i"*""^^WHm»wp
"n « inerite con t radei ito ri e,
essa con ti mi aro no del pari a vivere le une a e evinto alle altre,
generando non poca incertezza e confasione. Cosi acL'auto ai mane^* si
ebbero le tarme etl ì lemure^\ spiriti malici, mostruosi, vendicativi, a
placare i rtnali si cele])ravui>o, durante le notti del nove, undici e
tredici maggio, speciali «'eriinonie teriebro^^e, descritteci mi untamente da
Ovidio (2), Si continuò a versare tazza di sangue tepido e vi* sceri di
animali uccìsi sulle tombe dei morti, ci'ede!ido li amassero, ed a
compiere tutte le altre cerimoiue funebri, clje tlinotavano il persistere
delle primitive superstizioni. Si continuò pnre a cistruire nel centro delle
c*tà il mMndiis, oiifrlnato dalla credenza che le anime dei defunti si I
riunissero nel centro della terra. Era esso una fossa circolare a forma
di cielo rovesciato, il cui fondo era chiuso da una grossa pietra
{lapis maj naiis), che si riteneva la porla del regno sutlerraneo. Questa
pietra ve niva tolta tre giorni ogni anno (^H a^josto, 5 ottobre e 8
novembre) affin* che gli spiriti potessero uscire ìiberamentie e vagare
per la terra ; quindi codesti tre giorni eran passati in religiosa
contemplazione ed era interrotto j qualsiasi affare importante di
fiimiglia e di Stato (:])* Quandi» alla fine co ' minciaroim a dit!bn
Cicerone, come vedemmo, sembra inclinare per la soluzione platonica,
sebbene qualche volta si sottermi con compiacenza sui dogmi aristocratici
di Crisippo; Marco Aurelio è tutto compenetrato dal concetto materiali-, stico
del continuo disciogliersi e trasformarsi degli elementi, quantunque
egli pure accenni talvolta ad una esistenza posteriore alla morte
(5); Epitteto non si mostra meno incerto, ora parlando con convinzione
della vita futura e dell'inferno, ora burlandosi delle leggende popolari
sul Oocito e l'Acheronte (li). Ma quello che più d' ogni altro appare incerto
e titubante fra le due ipotesi contrarie è, anche in questo caso, Lucio
Anneo Seneca, il cui eclettismo molti tra gli storici della filosofia
ancora si ostinano a negare. Seneca è il più prossimo ai tempi di V.,
giacche nacque circa due decenni dopo la morte del poeta ; vai quindi la
pena di esaminare un poco più partitamente quale fosse il pensiero,
..dato che riusciamo a scuoprirlo) di codesto filosofo intorno alla
immortalità deir anima. Chi, aprendo a caso il libro Della
consolazione a Marcia, s'imbattesse a leggere il capitolo XIX, crederebbe senza
dubbio di aver a che fare con un filosofo rigidamente epicureo. Ecco
infatti con quali esortazioni e con quali ragionamenti Seneca cerca di
consolare la madre del defunto Metilio : « E che mai, dunque, ti commove
o Marcia? fc^se che tuo figlio sia morto, o che non sia vissuto più a
lungo? Se ti addolori perchè è morto, avresti dovuto dolerti sempre,
poiché sapevi sempre che doveva morire. Pensa che un morto non è afflitto
da alcun male; clie 171 tutte quelle cose che ci
rendono spaventoso V inforno ^ono una fiaba ; che ai morti non sovrastano
né tenebre, né carcere, ne fiumi ardenti di ' fuoco, né acque d'oblio, né
tribunali e peccatori, né nuovi tiranni in quella libertà tanto larga.
Con tali favole i poeti si burlarono di noi t? ei turbarono l'animo con
vani terrori. La morte é lo svolt^iniento e la fine di tutti 1 dolori,
più in là della quale i nostri mali non vanno: essa ci pone in quella
tranquillità nella quale giacevamo prima di naiàcere. Se alcuno sente compassione
dei morti, la senta pure di chi non e nato. La morte non é né un bene né
un male, poiché può essere ben.' o male soltanto ciò che è qualche cosa, ma ciò
che non é nulla, ed o^'ni cosa riduce al nulla, non può sottoporci ad
alcuna sventura. Intatti 1 mali ed i beni vertono intorno a qualche
materia ; non può essere trattenuto dalla fortuna ciò che venne rilasciato
dalla natura, né pUit es^en^ intolice colui che non è niente. Tuo figlio
valicò i confini dentro i quali V uomo serve ; lo accolse una profonda ed
eterna pace ; egli non è più assalito dalla paura della povertà, nò dalla
cura delle ricchezze, ne dygli eeriiamecjti della libidine, che prende
gli animi all' esca del piacere : non è toccato dalla invidia della
felicità altrui, né oppresso dalla sua ; uè le sue pudiche orecchie vengono
straziate da parole villane; non vede alcuna sventura, né pubblica né
privata; non pende atfannoso dair evento del futuro, che sempre inclina
al peggio. Infine, egli si fermò là dove nulla lo scaccia, dove nulla lo
spaventa». Ma chi volesse da fiuestu brajio eloquente trarre la
conseguenza che Seneca non credeva atTatLo nella vita futura, e
condivideva a tal riguardo le dottrine scettiche di Epicuro, si
ingannerebbe a partito ; basti infatti considerare fiueste parole che,
con uguale calore di convinzione, egli rivolge all'amint Lucilio: «
t'rnne il ventre di nostra madre ci tiene nove mesi, apparei-chìandoci
non a sé ma al luogo nel quale slam dati alla luce, quando siamo
preparati e capaci di trarre il respiro e crescere, cosi per tutti >
il tempo cite corre dalla fanciullezza alla vecchiaia noi siamo come nel
ventre della natura. Altro nascimento, altro stato ci aspetta : noi non
possiamo ancora sofferire il cielo, se non dalla lunga. Tu devi attendere con
sicurezza V ora in cui r anima partirà dal corpo, perocché é l' ultima
del corpo non dell' anima Quel giorno che tu temi come ultimo, è nascita e
comincia* mento di vita perpetua. Abbandona dunque l'errore che ti
opprime, e non dubitare » (7). L'opposizione tra questi due brani è tanto
grande, che maggiore non si potrebbe imaginare: ciò che il primo nega, il
secondo afferma. E questo si può riscontrare ad ogni pie sospinto nelle
opere del tragico e filosofo latino, dalle epistole alle consolazioni,
dalle operette morali alle questioni di natura. Io credo che nessnn
filosofo, da Talete ai nostri giorni, si sia mostrato più titubante e più
indiù semplice colla interpretazione che jj noi abbiali! data. L'
ingtigno paradossale del Warburton si è acconten ttato di accumulare analogie
su analogie, alcune delle quali molto stentate, senza teoer conto delle
cundizioni del tempo e dell' ambiente, e senza nemmeno soffermarsi
davanti ad una obbiezione, che pur doveva r presentargijsi facile alla
mente. 1 misteri erano spettacoli religiosi che si I» compievano
nel più assoluto segreto ; a pochissimi era permesso 1' assi stervi, ed
anche questi pochi dovevano assogettarsi a lunghe prove preK» p:iratorie e
promettere di non rivolar mai nulla di quanto avevano veduto. Ohi avesse osato violare
il se2reto dei sacri misteri era ritenuto empio, e punito mi piti
tremendi castighi (11). Noi conosciamo già abbastanza la profondità e la
sincerità del sentimento religioso di V., il suo rispetto per i voleri
degli dèi, la sua scrupolosa timidezza nelF obbedire a tutti i più minuti
precetti della religione, per negare reìcisamente che egli avesse pensato a
trasgredirli in modo così palese; e questa obbiezione avrebtie ilovuto avere
tanto maggior valore per il Warhurlon^ in quanto, secondo la sua stessa
interpretazione, V. ha collocato Teseo e Piritoo n^\ più profondo del Tartaro
appunto perchè colpevoli di fòsserei hitrusi nei niislen e di averne violato il
segreto. Se il libro quarto dell' Eneide è uno dei più drammatici
canti dell' amore che la letteratura antica abbia lasciato, il libro sesto,
considerato come Oliera letteraria, è senza dubbio il più bel canto della
morte che sia uscite da fantasia di poeta avanti V immortale visione di
Dante ^ Alighieri. I mistici racconti della Nekya omerica, gli esametri
artifìiiosi dì Apollonio, le pitture esagerate dei^oeti latini
della decadenza, non possono certo competere con la splendida descrizione
virgiliana del viaggio sotterraneo di Enea, Ma il lìt)ro sesto non vuol
essere guardato soltanto sotto il rispetto artistica : come il poeta
intese con es6o di indicare lo stato delle anime nella vita d'oltretomba e di
far opera più di moralista e di credente che di letterato, così si deve
giudicarlo innanzi tutto quale complesso di opinioni e di dottrine, quale
opera filosofica e religiosa. E sotto questo riguardo il suo pregio
appare molto minore. Già gli antichi commentatori avevano osservato che T
inferno virgiliano, pur rivelando la profonda sapienza del poeta, appare
molto oscuro, confuso, non condotto sopra un piano ben detìnito; e Servio
ci ricorda che molti eruditi avevano composto trattati speciali, oggi
'perduti, intesi a chiarirne le difììcoltà e spiegarne le contraddizioni
(12). La critica moderna ha i mi wi,m. posto maggiormente in luce
questi difetti, giustificandoli col fatto chf? a V. mancò il tempo di
completare e limane il stio poema. Io non credo che questa sia Y
unica causa delle oscurità e delle contraddizioni che si notano nel libro
sesto. Se anche il poeta avesse avuto la ventura di poter dare l'ultima
mano airripera sxhì, codesto incertezze sarebbero ugualmente esistite, poiché
tragtrono origine più che tutto dalla diversità dei materiali su cui il
libro se.sto ì* costruito. Assai diversamente da Dante — cui la religione
offriva un coniples-so di dogmi precisi, già entrati nel consentimento
univei-snle V. non poteva attingere con sicurezza né alle credenze dei
contemporanei, uè ai dogmi' della religione nazionale: dacché, come
vedemmo, le prime enmo molto incerte, e la seconda, se pur conosceva gli
dei dell' inferno, Orcus, DisPater, Larunda, Mania ecc., non ammetteva in
origine una sanzione oltremondana dell'operare umano. E neppure avrei ibo
potuto aflìdarsi completamente alla descrizione del regno delle ombre, quale si
trovava nel libro undecimo del poema di Ulisse. Troppo primitivo, troppo
semplice, troppo rimoto dal sentimento dei contemporanei eia T inferno
omerico, per poter servire ad un poeta latino dell'ultimo secolo avanti
("risto. Himanevano le rappresentazioni mitiche della vita futuni che
Platone aveva esposto con tanto splendore di forma nel Gorgia, nel Fedro,
nella Ilepubblica e nel Fedone : ma la loro estrema complica'^ione e Je
profonde vedute filosofiche sulle quali erano intessute, obbligavano il
poeta a servirsene con molta cautela e soltanto in parte. V.
si vide quindi costretto a mod(^llare il proprio inferno su tutti questi
elementi di origine e di natura diversa, togliendo dalla religione nazionale
taluna delle antiche divinità sotterranee, dalla Nekya omerica alcuni
episodi e molti personaggi mitoUf^^^iri, e dai dialoghi platonici la
distribuzione generale dell'inferno, il concetto della purìHca/Jone e
della metempsicosi; conformando poi il tutto a quelle idee più generali del
Tartaro, dell'Acheronte e dell'Eliso che il teatro e ìa filosofia greca
avevano rese ormai comuni trft i suoi eoncìttatlini. Dobbìanio ora
meravigliarci se il pensiero del poeta non appare sempre limpido, sempre
coerente a sé stesso, e se la descrizione i^roef^de alquanto dilagata ed
incerta? Codesti difetti erano una conseguenza naturale del modo onde il
libro sesto era composto ; nò V. avrebbe potuto evitarli, per ;!
quanta cura ed attenzione avesse posto nell' unificare quei disparati
materiali. Tuttavia, le incoerenze e le contraddizioni sono più dei
particolari che della disposizione generale, poiché ben definito, corno
i'rn. Ijreve vedremo, era il concetto che dirigeva il poeta nel distribuire i
premi e le pene. L'inferno virgiliano si divide in tre regioni: i!
Tartaro, F Eliso, e una regione che per ora chiameremo intermedia, non
j^er il luogo che essa occupa, ma per la condizione delle anime ivi
raccolte. Esso è posto -i^k?:' nelle viscere della
terra, e circondato nove volte dall' Acheronte o Stige (et novi'es Styx
interfasa coèrcet (13) ), il quale a sua volta si getta nel Cocito (omnem
Cocyto eructat arena (14) ). L' Eliso poi è trascorso dal fiume Eridano,
e il Tartaro è circondato dal Piriflegetonte, o semplicemente Flegetonte, fiume
di fuoco : rapidus flainmis ambìt torrentibus amois Tartareus
Phlegethon, torquetqae sonantia saxa. Come si vede, T idrografia
dell' inferno virgiliano, pur ispirandosi a quelle di Omero e di Platone,
è assai diversa da esse e conforme alle idee non molto definite che se ne
aveva ai tempi del poeta. Per Omero il soggiorno dei morti è posto agli
estremi confini del mondo, vale a dire sulla spiaggia occidentale
dell'Oceano, il gran fiume che lambisce tutt"* intorno il disco della terra:
fjépt xal veqpéJLig x8xaX'j|X|iévoi ' où5é zox' aÙTOùg yjéXtoc
cfaéOtov xaxaSépxsxat axxiveoffiv, oOd-' ÒTióx' àv oxsixTÌ^^ '^pòc
oùpavòv daxspóevxa, oOy 5x' òtv à;^ i%i y*^*^ *'^' oOpaviO-ev
iipoxpduTjxat, dXX' irJ. vOg àXof^ xixaxai fistXorot ^poxorotv;
« in quel luogo è la sede del popolo dei Cinimerj, nascosti nel buio e
nella nebbia. Giammai il sole splendente li guarda dall'alto co' suoi
raggi, né quando trascorre pe'l cielo stellato, nò quando si volge dal
cielo vei'so la terra, ma una triste notte circonda sempre questi popoli
infelici». Su codeste spiaggie si alza una rupe smisurata, ai piedi della quale
si urtano tra loro, per gettarsi insieme nell'Acheronte, due fiumi: il
Cocito, che è un ramo dello Stige, e il Piriflegetonte. Il sistema
idrografico di Platone è assai più complesso: al disopra della cavità
coperta di nebbie nella quale vivono gli uomini, si stende una regione di
meravigliosa bellezza e splendente di luce purissima; al di sotto di tale
cavità si aprono baratri immensi e laghi e stagni percorsi e collegati tra loro
da quattro fiumi, Y Oceano, l'Acheronte, lo Stige e il 4Mriflege tonte, i quali
si gettano con foce distinta in un gran foro che trapassa da parte a
parte la terra, detto il Tartaro, quindi, come per un sistema di pompe,
risalgono alla superficie, formando tre di essi i fiumi terrestri, e il
quarto, il Flegetonte, le correnti di lava (17). . V., staccandosi
da Omero e da Platone, ha collocato l'apertura dei regni infernali nelle
grotte del lago d'Averne, in Campania; e conciò ha voluto seguire una
credenza assai antica e diffusa tra i popoli italici, credenza che
originatasi dai fenomeni vulcanici frequenti in codesto paese.
persistette lìuo oltre il «luarto secolo deirèra vol^^are (18). In fondo
a codeste grotte è il vestibolo di-ir inferno, difeso da vari mostri
mitologici, quali le Seille, le Gorgoni, le Arpie, i Centauri ecc., e da
altri mostri tulti alla tragedia, i (inali non sono se non allegorie o
fantasmi dei mali che precodoiio o segnouo la morte: la vecchiezza, la
fatica, la povertà, le malattie, i piaceri illeciti^ hi guerra, la
discordia, lo spavento e il pianto, Nel mezzo del vestibolo stende i suoi
rami e le annose braccia un olmo smisurato, al quale s'attaccano i vani
sogni. Oltre la soglia s'apre la vìa che conduce al varco d'Acheronte,
sulla cui sponda s' accalcano, numerose come le fo«jflìe che cadono
d'autunno, le anime dei defunti: u madri e sposi, e salme di magnanimi
croi, che hanno compiuta la loro vita: faneinlll, vergini innuptae e
giovani posti sui roglii sotto gli occhi dei padri ». Nocchiero è il mitìi'o
Caronte, ancora sconosciuto ad Omero, ma che più tardi divenne assai
popolare in Grecia, in Etruria (il C/'Oriui dei sarcolaghi etruschi), e quindi
in tutta Italia {19). V. ce Io rappresenta come un vecchio orribilmente
squallido, seti cruda rirùfìsque senectus, dalla liarba foltn, bianca ed
irsut^ì, coperto da un lurido manto annoi lato sulle spalle. Egli
accoglie nella su;t nera barca, per trasportarli nlT ultra riva soltanto
coloro che ebbero sepoltura, respingendo irosumente coi remo le anime
degli insepolti^ che devono attendere cent" anni prima dì essere
accolte. Dall'altra parte dello Stige comincia il vero inferno, che si divide»
come sopra vedemmo, in tre distinte regioni; su codesta spiaggia, tutta
fangosa e coperta di canne, sta sdraiato un altro mostro mitologico,
figlio di Tifaone ed Echidna: Cerbero, il cane dalle tre teste e dalla
coda di drago, che fa rintronare co' suoi latrati il baratro
infernale. La prima delle tre regioni che s'incontra appena varcato
io Stige è quella che denominammo intermedia, e che ora possiamo chiamare
sen* se* altro il limbo, su! principio del quale Minosse giudica le anime
dei defunti, determinando a ciascuna il luogo di ^,spia/jone. K qui ci si
rivela sùbito r Intento che mosse V. a descrivere la vita d'oltre
sepolcro; egli si atlretta ad avvertire che in codesta seconda vita i
dolori e le gioie non sontJ distribuite a caso, ma secondo un rigoroso
criterio di giustizia: .rossima allo Htige, é occupata dai
bamlnni « cui T immatura moi-te staccr> dal seno della madre e dalia dolce
vita», da quelli che furono ingiustamente condannati [ler talso delitto e
dai suicidi. La seconda è tutta contornata e nascosta da una folta siepe
di mirtfj, e si chiama CamiJO delle Lacrime, nel quale s'aggirano
silenziosamente *H|uelU »,).l py l . l l^.. che un amore
infelice con cruda morte consunse; gli affanni non li abbandonano nella stessa
morte ». Fra costoro, oltre a molti personaggi mitologici, il nostro poeta ci
mostra anche T infelice regina di Cartagine, che davanti alle lacrime di
Enea rimane « più insensibile della dura selce o di un Marpesio macigno».
Nell'ultima parte hanno loro sede guerrieri famosi, che palleggiano ancora
le armi e salgono sui carri di battaglia: Enea vi scorge le ombre dei
compagni morti in difesa della patria, dei Greci uccisi sotto le mura di
Troia, e infine lo straziato simulacro di Deifobo, il cui episodio è assai più
commovente di quello di Elpenore descritto da Omero (21). Tutte queste ànime
che V. ha radunate nella prima parte del suo inferno, non sono sottoposte
a pena alcuna; tuttavia esse traggono una esistenza supremamente lugubre
e monotona in codeste tristi abitazioni, prive di sole e di luce.
Donde ha tolto V. codesto suo concetto di una regione intermedia fra il
Tartaro e l'Eliso, tra l'inferno e 1 beati regni? •Questa è la domanda
che si son sempre posta dinanzi i commentatori, senza che alcuno sia mai
riuscito a darle una risposta soddisfacente. Delle ipotesi ne furono
avanzate molte. Il Warburton, ad esempio, afferma che Virgiho non ha
inteso descrivere se non la prima parte dei misteri di Eleusi, nella
quale si facevano appunto comparire le anime dei neonati; ma noi vedemmo già
quale valore possa ragionevolmente attribuirsi a codesta interpretazione.
11 Boissier crede invece che il poeta siasi ispirato a quella frase della
descrizione platonica dell'inferno: t Di coloro che appena nati morirono,
o vissero sol breve tempo, altre cose ne riferì, che ora non è il caso di
ricordare» (t>2): ma a noi sembra molto dubbio il vedere in codesto
rapido e breve accenno T origine del complesso limbo virgiliano. Ad
ogni modo, la questione è di tanta importanza teologica e storica che
merita di essere attentamente considerata. Com'è noto, i teologi cattolici
designano colla parola « limbo » la prima parte del regno d' oltretomba, nella
quale hanno sede le anime di quei defunti che sono escluse dalle }?ioie
del cielo senza essere condannate ai tormenti dell' inferno; esso si
divide in limbus Patram nel quale si trovano i giusti pagani, e in
ligiìlìits inlanihon nel (juale sono posti i fiinciuUi morti senza aver
ricevuto il battesimo. Quanto al limbo dantesco, anch'esso è popolato d'2/ifanti.
dì Icmttìine ^ ài n'n\ e posto sul lembo superiore (il prww cerchio che
raffisso ci^//ìc) di queirimmenso imbuto costituito da nove cerchi
digradanti e man mano restringentisi fino al centro della terra, che è Tinlerno
di Dante (li\). Ora ^'li storici delle religioni - non certo i teologi
cattolici - sono o^^gimai concordi nel ritenere che la prima idea del
limbo cristiano sia derivaUi appunto da codesta rej:ione intermedia
dell'inferno ili V.: poiciiè c»^sì la parola limbo come il luogo che essa
designa, non solo non si trovano mai accennati da nessuno degli altri
scrittori pagani, ma nemm»'no dai Padri dei primi secoli della Chiesa.
ÌFino a S. Tommaso il soggiorno dei morti non si concepiva
che diviso in luogo di dannazione e luogo di premio, e la voce latina
limbus era adoperata per significare la parte estrema o V orlo di un
vestimento, o il lato esteriore più vicino air estremità di un cerchio o
di qualsiasi figura rotonda. Quindi non si trova alcun accenno al limbo
né nella Sacra Scrittura né nei Libri delle Sentenze di Pietro Lombardo;
e la discesa di Cristo a quello che fu poi il limbo si esprimeva colle
parole generiche descendit ad in/eros. Lo stesso S. Agostino non pone
ancora gradazione alcuna fra la felicità e la dannazione, quindi insegna
che i fanciulli morti senza battesimo non solo sono privati della gloria
celeste, ma anche condannati eternamente, benché sottomessi a minori
tormenti: damnatio mitissima et tolerabilior (24). Per poter
risolvere in modo definitivo la questione dell'origine del limbo
virgiliano, noi crediamo si debl)a anzi tutto separarla in due questioni
distinte; e cioè, da chi sia stato tratto il nostro poeta a collocare
suir orlo dell' inferno le anime dei fanciulli, degli innocenti
condannati, dei suicidi, delle donne morte per amore e dei guerrieri
uccisi in battaglia; quale criterio affatto nuovo nella storia delle religioni
antiche r abbia indotto a privare codeste anime cosi dei supplizi del
Tartaro come delle gioie dell' Eliso. Riguardo al primo problema, un
esame attento dell' inferno omerico ci ha fermamente convinti che la
collocazione del limbo virgiliano trae origine da Omero. Quando Ulisse,
disceso sulle spiaggie desolate dei Cimmerj, vuol far apparire davanti a
sé le ombre dei defunti, scava una larga fossa vicino alla rupe ai cui piedi s'
inabissano il Cocito e il Flegetonte ; quindi riempie la fossa di miele
di acqua di vino e di farina, chiamando ad alta voce le anime dei
trapassati. Non appena ha terminata la sua invocazione, « ecco sorgere
dall' Èrebo le pallide ombre dei morti : vùp,(pat x' Y](^so(
X8 TcoXóxXTjTof X8 Y^povxs^ iiapd-evtxaC x' àxaXal veoirevd'éa d-up-òv
Ixouoat, 'izoXXoi 8' oòxòt'isvot '/jxX%i\pZQ\.'^ éyX^^TÌ^^^» fivSpe^
àpTjfcpaxot ps^poxcoiiéva xetixe' lyio^'^^Z' oli nokXoi TCSpl '^ò^po^
àcpo(xft)v àXXoO«v 9X\oz V807i80tig lax^' ip-i 8è yiXmpò^ déog ijpetv
(25). Queste anime che si presentano prime ad Ulisse, sono duncpie
a un dipresso le stesse che si presentano ad Enea appena entrato nel vero
inferno, vale a dire le stesse che popolano il limbo virgiliano : «
giovanette appena maritate, giovani non ancora ammogliati, vecchi che
molto hanno sofferto, vergini ancora acerbe che hanno nell'animo una
sciagura recente (d'amore), e molti guerrieri feriti dalle bronzee lance
e uccisi in battaglia colle armi ancora insanguinate». Omero, com'è noto,
non fa distinzione 180 alcuna nel suo inferno
tra luogo di castigo e luogo di premio; le anime dei morti vi si aggirano
tutte alla rinfusa, tutte ugualmente addolorate della loro condizione e
rimpiangenti la vita: « Non cercare di consolarmi della morte, o glorioso
Ulisse - esclama Achille; - io amerei piuttosto servire qualche contadino
povero e con scarso alimento, che regnare su tutti quanti i trapassati »
(26). Tuttavia, se le prime ombre che compaiono ad Ulisse sono appunto
quelle dei fanciulli e delle fanciulle, delle donne morte per amore, dei
guerrieri uccisi in battaglia, non è forse naturale il supporre che esse
abbiano la loro sede vicino alla porta delF Èrebo, vale a dire sul lembo
dell'inferno? Ma la questione del luogo non ha, alla fin fine, che
una importanza relativa. Omero non fa parola della condizione di codeste
anime, mentre V. ha immaginato per esse una maniera speciale
dell'esistenza d'oltretomba; è qui che si manifesta l'originalità del pensiero
di V., ed è qui che si appalesa tutta l'estensione del suo intento morale
e politico, col quale soltanto può risolversi la dibattuta questione.
Molti critici e commentatori hanno acerbamente rimproverato il poeta
latino per aver escluso dalle gioie dell'Eliso tutte codeste anime, le
quali, per cause nobilissime indipendenti dalla loro volontà, s'erano divelto
anzi tempo dal corpo: « che cosa si può immaginare di più ributtante e di
più scandaloso ~ esclama con enfasi il Bayle - del castigo cui sono
sottoposte codeste piccole creature che non hanno ancora commesso alcun
peccato, e della pena di coloro la cui innocenza fu oppressa sotto la
calunnia?» (27). Ma questi rimproveri sono ingiustificati, e traggono
origine dall'ignoranza dell'altissimo fine sociale che animava il poeta.
La condizione dei fanciulli e, in generale, dei figli di famiglia, era lungi
dall' essere felice presso il popolo romano, perchè in nessun altro paese
del mondo la patria pòtestas era così assoluta e spinta alle sue estreme
conseguenze come in Roma: a nulli alti sunt hmnines - confessa lo stesso
Gaio - qui talem in filios sioos habe^it potestatem qualem nos liabemus »
(28). La legge concedeva al padre un potere assoluto di disposizione
sopra i suoi figli, potere che non cessava se non colla morte; egli era
autorizzato ad esporli, a venderli e persino ad ucciderli. La pratica
crudele e snaturata di esporre i fanciulli era assai diffusa tra i
Romani, ed aveva grandemente affievolito nel loro animo i sentimenti della
natura e della morale; si esponevano gli aborti, i bambini malaticci e
quelli nati in un giorno di pubblica sventura {dies ater). Cosi Svetonio
ci ricorda che furono esposti tutti i fanciulli nati nel giorno della
morte di Germanico (29). Quanto al vendere i propri figli, Diocleziano fu
il primo a proibirlo con apposita legge ; e dobbiamo poi venire fino agli
imperatori cristiani per veder trattata di parricidium Y uccisione d' un
figlio (30). V. non poteva non commuoversi davanti a codesta triste
condizione di cose, non poteva non preoccuparsi dell'onta o del danno che
ne derivava alla Pi^^^'1 patria. Pensò quindi
che nulla sarebbe stato più efficace a ravvivare i ?^ enti menti e gli
istinti naturali dei genitori, a spingt^rli ad aver cura dei tigli, del
mostrar loro che i fanciulli morti in tenera età non vanno al Tartaro —
che il suo animo giusto e mite non V avrebbe consentito — ma nemmeno all'
Elìso, come potevano su^rgerirgli il suo cuore e la credenza comune, bensì in
un luogo intermedio di et». In tiuutìlo oiFioio che a Radamante
attribuisce il poeta, si appalesa ancora una volta il fine che lo indusse
a descrivere la vita futura; il qual fine si rivela pure nella qualità
dei malvagi che ivi sono sottoposti ai più tremendi castighi.
Ed infatti, non è stato sufficientemente posto in luce come tutte
le colpe pujiite nel Tartaro, sono quelle che si riferiscono al vivere
sociale, ed erano più particolarmente proprie della società romana. I
dannati che V. pone neir abisso infernale si possono dividere - a nostro
giudizio - in sette categorie. La prima è costituita dagli atei, da tutti
coloro che furono irrivrrenti o ribelli agli dèi, sia assaltando V
Olimpo, sia arrogandosi onori divini, sia imitando le folgori di Giove. Questi
sono tutti eroi mitologici, che il poeta latino ha tolto in gran parte
dair epico greco, come pure ha imitato da Omero i supplizi a cui codesti
rei sono sottoposti (^i^t). Appartengono alla seconda tutti coloro i cui
delitti, pur essendo dannosi alla morale e alla società, non cadono sotto la
diretta sanzione delle leggi umane: perciò il poeta ha voluto mostrare che
tutti quegli sciagurati che in vita odiarono i loro fratelli, o maltrattarono
i propri genitori, o ordirono frodi ai clienti, o godettero
egoisticamente delle ricchezze accumulate, senza farne parte ai legittimi
eredi — e di questi colpevoli maxima turba est — se in vita non possono
essere puniti dagli Uomini, ricevono però dopo morti il giusto castigo dagli
dèi. La terza, p**r contro, e composta da coloro che furono condannati a
morte per adutteiio: ponendoli nel profondo del Tartaro, V. ha
inteso ammonire che codesto crìmine, anche se
punito colla più terribile delle pene umane, non sfugge per questo al
massimo dei castighi divini. Viene quindi la categoria di coloro che non
ebbero vergogna di tradire la fede giurata ai loro padroni, o che
suscitarono guerre scellerate e fratricide. Il ricordo delle guerre
civili appena sopite doveva presentare assai numerosa la loro schiera agli
occhi del poeta; il quale, accennando in altra parte dell'Eneide al regno
di Plutone, mostra infatti tra essi CatUina t appiccato ad un rovinoso macigno,
tutto tremante all' aspetto delle Furie » (34). Ai traditori seguono gli
empi, tra i quali è Teseo, condannato a rimanere eternamente assiso, e Flegia,
che grida senza posa ai peccatori che lo circondano : Dibcite
justitiain moniti, et non temnere Divos. Questo ammonimento di
Flegia, che provocava i frizzi mordaci di quello spirito bizzarro che fu
Paul Scarron /35), costituisce un' altra delle dif* fieoltà che i
commentatori non hanno mai saputo risolvere: non è perfettamente inutile e fuor
di luogo — osservano essi — il gridnre che imparino la giustizia e il rispetto
verso gli dèi ad infelici che non possono più sperare perdono ? Ma quando
si voglia riconoscere il Hne che indusse il poeta a descrivere la vita d'
oltretomba, si comprenderà lo scopo di codesto ammonimento, che è rivolto
ai cittadini romani non ai dannati senza scampo. Fanno parte della sesta
categoria quelli che vendettero la patria a prezzo d' oro, sottoponendola ad
una odiosa tirannide, e quei magistrati e dominatori che trasgredirono alle
leggi da essi medesimi pubblicate. L' ultima è costituita dagli
incestuosi. L'Eliso è una vasta e ridente regione, trascorsa da due
llumì, T Eridano e il Lete, e tutta a boschetti, valli, colline e verdi
praterie; ha costellazioni proprie, un proprio sole che la illumina di purpurea
luce e ditìfonde un più spirabil aere (largior aetlier) per quelle liete
cam])agne. Come nel Tartaro sono puniti i delitti che più nuociono al
vivere sociale, cosi neir Eliso ricevono il premio adeguato quelli che
con la loro virtù recarono maggior vantaggio alla patria e alla società.
Già Y oratore arpinate aveva detto nel suo sogno Sogno di Scipione^ che « a
tutti coloro i quali avranno conservata, aiutata e accresciuta la patria
è riservato un posto nel cielo, dove essi trascorrono una esistenza beata
ed eterna; perchè nessuna delle cose terrene è più accetta a Colui che
governa tutto il mondo, di quei consigli e compagnie di uomini
ragionevolmente raccolti, che si chiamano nazioni; per la qual cosa i rettori e
dìfensari di esse, dopo morti ritornano in cielo » (36). Ed infatti V. ha
riunito nelle beatas secles gli antichi legislatori, i fondatori di
città, quelli che soffersero ferite combattendo in difesa della patria, i
sacerdoti die sei)pero conservarsi casti, coloro che scopersero e insegnarono
agli uomini l-ll'lp" I le arti e le
industrie, i poeti che cantarono la religione, la patria, la I
virtù, e quelli che beneficarono in qualsiasi modo i propri simili, ren P;
dendosi degni per tal modo della loro riconoscenza. Essi non hanno una
!* sede fissa neir Eliso, ma s' aggirano per valli e per riviere,
raggruppan 'r' dosi secondo le proprie inclinazioni, e - conforme alla
credenza degli antichi - dilettandosi di quelle cose stesse che avevano
maggiormente i amate in vita. Così i poeti si riuniscono a
banchettare sull'erba, cantando •; inni giocondi di vittoria; i
guerrieri trascorrono invece il loro tempo tm f, i carri, le armi
ed i cavalli, poiché qiiae gratia curruum Armorumque
fuit vivis, quae cura nitentes Pascere equos^ eadeiu sequitur tellure
repostos. E qui finisce il vero e proprio inferno, V inferno tradizionale
colle sue gioie e i suoi tormenti, con la sua separazione di puniti e di
premiati, con i suoi mostri mitologici, co' suoi personaggi leggendari.
Ora incomincia invece l'inferno filosofico, che non solo è affatto
diverso dal primo, ma che col primo è in assoluta contraddizione. Fino ad
ora noi siamo riusciti a rischiarare tutte le oscurità che rendevano difficile
la lettura di questo canto, richiamandoci costantemente al palese intento
morale che aveva guidato il poeti nell'opera sua; ma giunti a questo
punto dobbiamo confessare che nessuno sforzo di critica sagace varrebbe a
togliere lo stridente dissidio che esiste tra la prima e la seconda parte
del libro sesto, perchè esso deriva appunto da quella disparatezza di
fonti cui più sopra abbiamo accennato. E infatti, due inferni
distinti vi hanno nel libro sesto : il primo, che il poeta fa percorrere
da Enea, è costruito per la maggior parte sulle leggende popolari della
Grecia e di Roma; il secondo, descritto da Anchise ad Enea, è tolto interamente
dalle fantasie filosofiche degli Orfici, di Pitagora e di Platone, ed ha
per fondamento le dottrine dell' anima del mondo, della purificazione e
della metempsicosi. In questo secondo inferno le condizioni delle anime sono
ben diverse dal primo : dopoché r anima umana
che, come vedemmo, è costituita dalla medesima essenza eterea dell'
anima del mondo e della divinità — s'è separata dal pesante involucro che
la imprigionava, essa deve purgarsi di tutte le macchie e le corporee
lordure (corpot^eae pestes) contratte nel suo lungo connubio colla
materia terrena. La purgazione può avvenire in diversi modi, a seconda
della maggiore e minore profondità di codeste macchie, vale a dire
secondo che codeste anime furono più o meno asservite alle cupidigie e ai
piaceri del corpo. Alcune di esse vanno errando qua e là in balia dei
venti, altre sono immerse nell' acqua, altre purificate col fuoco :
r ^r l'il io %m
* exercentur poenk, vctenimque malortim Supplicia
expedunt. Aliae panduEitur jnaties Suspcnsae ad ventos: alìis mh piTfìk
vasto Infectum eluitur scelus, ani exiiritur igni: Qiiisque suos
patimur manes. Fin qui T imitazione platonica è evidentissima, nò
occorre ci ter* miamo a dimostrarlo, poiché tutte queste dottrint^ si
possono trovare largamente esposte nel Fedone nella Repubblica e nel Timeo .
Riguardo poi al quisque suos patimur 7nanes, ì commentatori non sono per
anco riusciti a mettersi d' accordo. Alcuni, come il Ladewig, considerano i
nianes come spìriti usciti dal corpo, ancora tutti impressi dei vt^stigi
ilella materia e quindi soggetti alle prove dolorose delle catarsi ^18j ; altri
intendono per manes le Furie o gli altri minori dèi infernali, esecutori
delle sentenze pronunziate da Minosse, altri infine i maligni fantasmi
dei defunti, che sotto la guida della terribile dea Mania tormentano le
anime. Noi crediamo invece che con codesta frase il nostro poeta abbia
inteso alludere al genio o demone particolare, che, secondo la dottrina
platonica, ci accompagna durante tutta la vita quale testimonio delle
nostre opere, e durante la morte quale ministro dei castighi divini
(39). Quando adunque, dopo un lun^^o volger dì amil, le anime si
sono lavate dalla macchia congenita fconcretam labem) ed è riUiveJmto
puro il sentimento celeste e la scintilla del semplice fuoco divino
(aethermm sensum atqice aurai Simplicio ignem), dio le chiama tutte
intorno a sé, perchè tornino ad informare nuovi corpi. Prima però esse
sono costrette a bere una certa quantità di acqua del fiume Lete, affine
di perdere ogni ricordo della vita passata ed aver va)=rhej!;za di
ritornare sulla terra. Il fiume Lete scorre in una parte remota dell'
Eliso, lungo una stretta valle (reducta valle) coperta di boschi
silenziosi : sulle sponde di esso Enea scorge infatti una grande
moltitudine di popoli e di genti, che diffondono tutt' intorno un lieve
ronzio t come nei prati, ove le api nei giorni sereni deir estate posano
su vari fiori e s' aggirano intorno ai candidi gigli w. Secondo i miti
esposti dal filosofo ateniese neUa visione d' Er di l'ampilla, le anime
purificate, prima di bere IVac^na del Lete, dovevano presentarsi dinanzi a
Lachesi, una delle tre Moire, figlia della Necessità, la quale gettava
loro dinanzi le sorti delle anime e ogni fatta modelli di vita. Ciascuna
poteva scegliere a suo talento quella che più le piacesse; cosi r ignoto
soldato di Pampilia viena duri cent'anni, avvegnaché questa sia la misura della
vita umana affinchè scontino decupla la pena del lor peccato» (41). V. ha
seguito anche in questo il filosofo greco : egli infatti stabilisce cosi la
durata della vita oltremondana: Has oinnes, ubi mille rotam volvere
per annos, Lethaeiitn ad fluvium deus evocat agmine magno :
Scilicet immemores, supera ut convexa revisant Rupsus, et incipiant in
corpora velie reverti. Però non deve intendersi, come fanno i più,
che tutte le anime siano assogettate a questo lungo periodo di purgazione
; secondo la dottrina platonica, qui seguita da V., alcune di esse, quelle cioè
che uscirono dalla terra incontaminate e pure, senza nulla trar seco
delle nequizie del corpo, sono inviate senz'altro aéreis in canipis latis
delr Eliso, ove rimangono poi eternamente. Questo ci sembra il vero e V uriico
senso delle parole di Anchise : per amplum Mittiuiur Elysium,
et pauci laeta arva tenemus; mediante questa interpretazione, che si
ricollega strettamente alle dottrine ascetiche esposte qui ed altrove dal
poeta, e da esse logicamente deriva, si risolve una delle maggiori
difficoltà dell' inferno filosofico di V.. E infatti, se tutte
indistintamente le anime fossero assoggettate ud un periodo millenare di
purgazione, come potrebbesi spiegare la presenza di Anchise, morto da poco
tempo, nelle sedi dei beati? Ed ora che conosciamo il sistema della
vita futura esposto nella seconda parte del libro sesto, ci riuscirà facile il
comprendere quanto esso sia diverso dall'altro esposto nella prima. In
quello le ombre dei morti sono traghettate nell'inferno da Caronte,
giudicate da Minosse e assegnate paa-te al Limbo, parte all'Eliso, parte al
Tartaro, ove ad ogni delitto corrisponde una pena proporzionata; in questo non
esistono né regni sotterranei, uè fiumi, né nocchieri, uè giudicij né
separazioni di colpevoli maggiori o minori, ma tutte le anime vengono
divise in pure ed impure, e le prime sono inviate al cielo le seconde
purgate tielì'aria, neir acqua o nel fuoco. Nel primo le anima conservano
integro il ricordo della loro esistenza terrena, con tutti gli affetti e
gli odi, i sentimenti e le passioni che le avevano agitate in vita; nel
secondo esse non i^einbrano avere né il ricordo dell' esistenza passata, né il
presentimento delr esistenza futura, e sfilano indifferenti e silenziose
dinanzi ad Enea, senza nemmeno mostrare di riconoscere il capostipilo
della loro schiatta. Neir inferno tradizionale Y espiazione è eterna, né
potrà mai cessare per quanto sia grande il castigo e sincero il
pentimento ; in quello iilosoHcu la purificazione dura per tutte le anime
indistintamente nulle anni, trascorsi i quali esse sono pure e ricominciano una
novella esistenza. Quindi mentre nel primo é posta l'immortalità deiranijna,
nel secondo è negata: poiché ivi non si tratta più di una medesima
esistenza che si prolunga eternamente al di là del sepolcro, ma di una
serie di esistenze nuove e distinte, che ricominciano ogni volta da capo.
Avrebbe dun(iue^ potuto il nostro poeta togliere queste stridenti
contraddizioni ? Dissimularle foi^e, ma farle scomparire del tutto no,
per quanta cura, jn^r i[uanta arte, per quanto studio vi avesse posto.
Esse sono, lo ripetiamo, una conseguenza necessaria del modo onde il libro
sesto è stato composto, e si trovavano nelle credenze medesime dei
contemporanei. 1 ijuali dovevano meravigliarsene assai meno di noi, perché
ciascuno poteva scoprirle nel fondo stesso della propria coscienza
(42). Siamo giunti così alla fine del viaggio sotterraneo di Enea e
della sibilla. Le ombre dei futuri eroi di Roma ^mo passate
silenziosamente davanti al figlio d'Anchise, ultima fra tutte T omlira
dolorosa del giovine Marcello. Più nulla ormai rimane da vedere o da
conoscere al principe troiano, quindi i due solitari pellegrini s*
avviano per torniire supemun ad lumen. Due sono le porte dalle quali si
può uscire dal soggiorno dvi defunti: una é tutta di corno, l'altra di
candido avorio. Dalla prinia sortono le ombre veritiere, dalla seconda i sstgni
tailaci che ingannano i mortali ; Enea e la sibilla escono per quet'
ultima. Sunt geminae Sommi portae; quiirnm ultera fertur
Cornea, qua veris facilis datar e\itus iiiuiirìs; Altera candenti
perfecta nitens elciilianto; Sed falsa ad coelum mittunt insoiniiKi
nianes. His ubi tum natum Anchìses una'iuc Sil;yl1am Prosequitur
dictis, portaque emittìt ebiirniu Perchè V. ha fatto uscire il suo eroe
dalla porta d'avorio? Forse per slgniticare che ciò che Enea aveva
creduto di vedere non era che un vano sogno, e che quindi tutto quello
che è narrato in questo libro è una pura finzione ? La maggior parte dei
commentatori - quando non preferiscono tacere, come fanno il Ladewig, il
Rota, l'Arcangeli, ecc. - accettano questa seconda interpretazione,
giustificandola con argomenti più meno ingegnosi. Servio, ad esempio, che
è sempre fisso nel suo concetto della grande sapienza di V., commenta
cosi questi versi : « Phùiologia vero hoc loco habet. Per portani comeam
oculi s igni ficantar, qui et cornei sunt coloris, et duriores coeteris membris
: nani frigus non aentiunt : sicut etiam Cicei^o dicit in libris de
natura deorum. Per eburneam vero portum os signifhatur a dentibus. Et
scimics quia quae loquimur, falsa esse possunt : ea vero quae videmxis,
sine dubio vera sunt. Ideo Aeneas per eburneam emittitur portam.
Warburton, naturalmente, ritrova in questi versi una nuova conferma alla
sua interpretazione favorita, asserendo che « con la prima porta d' avorio V.
vuol esprimere la realtà di una nuova vita futura, e con la seconda le
rappresentazioni enigmatiche che se ne faceva negli spettacoli dei misteri :
cosicché le visioni che ebbe Enea erano fallaci non in quanto fosse falso
il dogma della vita futura, ma perchè ciò che egli vide non avvenne
realmente negli inferni, bensì nel tempio di Cerere» Il P. De la Rue,
nel suo diligente commento, afferma senza tanti preamì)oli che « cuin igitur
Virgilius Aeneam eburnea porta emittit, indicai profecto, quidquid a se
de ilio inf'eriorum aditu dictum est^ in fabulis esse numerandum »
. Noi non possiamo ammettere che tale sia realmente il significato
riposto di questi ultimi versi. V. era troppo grande artista per chiudere in un
modo così meschino il canto più splendido del suo poema immortale. Ma
oltre che poeta sommo, V. era anche un credente sincero, un caldo
patriota, un buon cittadino : questa ci sembra la conclusione più sicura di
tutto il nostro studio. Egli non credeva soltanto alla realtà di una vita
oltremondana di premio o di castigo, ma voleva anche che codesta credenza
fosse condivisa dai suoi contemporanei, perchè aveva compreso la grande efficacia
morale che poteva esercitare su di loro. Il libro sesto è insieme T
espressione e il prodotto di questi suoi convincimenti. Quindi le due
porte d'uscita vogliono essere riguardate come un semplice ornamento poetico,
suggeritogli, qui come altrove, da una diftusissima tradizione
mitologica, contenuta già in questi vei*si di Omero, che ha quasi
letteralmente tradotti: fio'.al Y^P "f® TtùXai àjisvrjvc5v
eIoIv dvefpcav. ai [lèv Y^p xspdeoot xexsóxaxat, al S'èXé^avxu x(5v
0^ [lèv x' 6X0-0)0. 5la :ip'.oxoO èXé^avxog, im
ot il 5tà ^laì^ì* xtpawv iX*(i>3*. ìHpat^t, Terminata
cosi la nostra lunga ricerca, crerìiamo affatto inutile rlafìSurnerne i
resultati generali, per stabilire a quale delle scuoio che allora
fiorivano nel mondo romano il nostro poeta siasi maggiormente accostato. Più
volte abbiamo avuto ocrasiorte di accennarlo, specie in tiuesl' uUiuia parte
dell'opera; né il lettore che ci abbia seguito pazientemente fin qui avrà
desiderio di sentirlo ripetere. Quindi, anziché dilungarci in un inutìltì
e pedestre lavoro di riassunto, stimi amo miglior cosa chiarire le ultime
difficoltà che potessero esser rimaste nella mente dei lettori,
richiamando a tal uopo i punti più importanti della ricerca.
Distrutta da prima la secolare e diftusissima credenx.a che faceva
di V. un timido seguace della scuola epicurea, noi dimostrammo
poscia com' egli si ricolleghi invece a q^4|^ corrente mistica e
teologica^ che nella storia del [^easieru fìlosolico sì^Mtrappone
direttamente alla coi~ rentc scientìfica e positiva rappresentata dalF
epicureismo (1). E come ai tempi del nostro poeta era lo stoicismo che
raccoglieva sotto le sue insegne gli spiriti più bisognosi di appoggiarsi al
sovrauJiaturale. più ligi al passato, più iedeli alle tradizioni religiose,
cosi le dottrine tilosofìche di V. sono tutte improntate air antica
sapienza del Portico. Ma lo stoicismo romano era ben diverso dal
primitivo stoicismo greco. Emigrando da Atene a Roma, le dottrine di
Zenone e di Cleante s erano protondameiUe trasformate sotto f intìusso
del nuovo ambiente e dei nuovi bisogni spirituali che s' andavano via via
maturando nel seno della società romana. Non il materialismo panteistico
dei primi stoici/ non il loro rigido determinismo, non le loro astrusità
dialettiche, si bene i dogmi spiritualistici ed ascetici del grande
filosofo ateniese potevano corrispondere ad un clima storico, nel quale
già lampeggiavano i primi bagliori di quella profonda rivoluzione delie
coscienze che fu il cristianesimo. Ed infatti la storia della fìlosotia romana
è caratterizzata da un sempre maggiore sovrapporsi del pensiero platonico
sul tronco delle dottrine stoiche, che timido ancora in Posidonio e in Panezio^
diventa poi evidentissimo in Seneca, in Epitteto, in Marco Aurelio.
V., di poco anteriore a Seneca e vissuta quando era ancor viva nel
mondo romano V ammirazione per ì libri di Parje:vrapparsi cosi
completamente all'antica religione romana, da cancellare quei caratteri
particolari, che le derivavano dalla natura stessa dei popoli
onde aveva avuto l'origine. E codesti caratteri sono ancora più manifesti
in V., spirito essenzialmente romano, educato e vissuto nelle gloriose
memorie del passato, al culto delle quali voleva anche ricondurre i suoi
concittadini. Sembrerà per avventura a taluni che noi abbiamo
esagerato non poco neir attribuire a V. una fede sincera ed oggettiva in
quei presagi divini, in quei miti ingenui, in quelle divinità chimeriche, in
quelle apparizioni notturne di defunti, che hanno tanta parte nei poemi
virgiliani. «Il macchinario mitologico dell'Eneide — ci osser%'ava
Gaetano Negri — è cosi artifizioso e così voluto, che mi pare proprio
impossibile il vedervi l' esposizione di una fede vera. Il Manzoni sì
negli Inni sacri C~ crede davvero a quello che dice, V. mi pare un
credente in man canza di meglio. E il meglio non doveva spuntare se non
quel giorno in nix Y uomo cominciasse a comprendere che la spiegazione
della natura non sta nel sovrannaturale, ma, bensì, nella natura stessa,
e sapesse dare a tale idea uno svolgimento razionale; cosa che Epicuro,
il quale ne aveva avuto il presentimento, non poteva fare, e che non
divenne possibile se non quando si abbandonò il concetto geo e antropocentrico
dell' universo > (3). A questa obbiezione noi abbiamo già
risposto, laddove dimostrammo i come V. fosse uno spirito essenzialmente,
profondamente religioso, e come le prime impressioni della sua
giovinezza, Y educazione ricevuta, la vita trascorsa fra le ingenue
popolazioni dei campi, le quali conservavano integro il patrimonio dell' antica
religione, tutto insomma dovesse contribuire a fare di lui un credente
sincero nei miti del paganesimo. La nostra coscienza di uomini moderni,
educata al metodo severo della critica, resa scettica da venti secoli di
vittorie scientifiche, si ribella a credere che codeste favole, sempre assurde
e spesso immorali, potessero acCDj4liei*e anche per un istante il consenso dei
più. Ma noi dobbiamo astrarre da ogni sentimento nostro per trasportarci
col pensiero a codeste ct:*i di profonda ignoranza, quando la scienza,
ristretta a poche verità malcerte, doveva abbandonare una parte immensa
dell' inesplorata natura ailMmpero di potenze sovrannaturali. In questo
modo soltanto riusciremo a romprendere come il nostro poeta potesse
credere in Giano bifronte, nelle Ninfe sorelle, nelle ire di Giunone,
nelle folgori di Giove, nei presugi divini, nella scienza augurale, e in queir
insieme di leggende, di formule, di riti e di superstizioni, che, per qualche secolo
ancora, doveva appagare pienamente gli istinti superstiziosi delle
popolazioni italiche. Poiché non dobbiamo dimenticare che presso
nessun popolo, in nessun pnese le tradizioni religiose erano conservate
con maggior tenacia e circon(liite di maggior venerazione che in Roma. Si
continuavano a cantare gli antichi inni sacri [ad es. i Saliorum carmina)
anche quando erano divenuti '\^r ^ ^ • ^ -- ^ »
-^.'?-f^»f»5r'pi«^5« •^-^r^r;yvfT^ ^v ' -^ ' T »' v^^>^r/Jt^j era
questo il dilemma che, nella sua rude franchezza, il popolo romano sembrava
aver gittate in faccia ai filosofi greci quand' essi, piena la niente di
speculazioni ardite, avevano abbandonato le spiagge ormai deserto del
Pireo per risalire le bionde correnti del Tevere. La scuola d' Epicuro,
fedele alle dottrine del maestro, aveva continuato a combattere la ^super
stizione ; ed era sparita. La scuola del Portico invece, animala da nn
singolare ardore di proselitismo, più affine nel suo panteismo naturalistico
alle religioni popolari, potè non solo accordarsi con esse, ma rafforzarle
anche nella loro debolezza senile con una apparenza di ^n untiticazione
scientifica; e divenne la filosofia officiale del mondo romano. 11 dio
rotondo di Cleante, l'anima dell'universo, il fuoco artista (tgnis artificiosus)
fu per tal guisa il Giove pagano o principio della vita: Cerere una parte
del fuoco divino penetrata nella terra; Nettuno una parie penetrata nel mare, e
cosi via via. Le leggende assurde o immorali della mitologia furono
spiegate e giustificate con allegorie fìsiche, e la divinazione, gli oracoli,
gli auspici, legittimati con ogni sorta di argomentazioni filosofiche
(5). Ma se l'accordo era possibile e facile tra i princìpi
fondamentali dello Stoa e i dogmi più vetusti della religione romana, non
era così per quelle dottrine platoniche che vedemmo penetrare in larga
vena nello stoicismo romano; poiché se esse non s'opponevano direttamente
alle credenze popolari, rappresentavano però uno stadio ben più evoluto
del sentimento religioso. Infatti, mentre nella religione romana la
divinità è conc+'pita come una potenza cieca ed inclemente che si deve
placare coi sacrifici, la teologia platonica invece è tutta compenetrata
del concetto, che tu poi cristiano, dell' origine divina dell'anima, e
della giustizia di dm ; per tal modo la religione non consiste già nel
placare i sognati furori celesti, ma nel purificare l'anima mediante la
mortificazione del corpo, e nel soddisfare alle esigenze di codesta
personificazione oltre-mondana della giustizia. Non era dunque possibile che
questi concetti tanto disparati avessero a conciliarsi fra loro, perchè
una conciliazione non sarebbe avveimta che col sacrificio di ciò che di
più intimo e di più t aralteristico aveva l' antica religione. E come d'
altro canto il naturale pro^^edire dei tempi aveva aperto le coscienze
dei più ai nuovi orizzonti spirituali, cosi la religione filosofica e la
religione popolare, quasi formazioni psicologiche indipendenti, seguitarono a
coesistere V una accanto air altra neir animo dei Romani, fino a che il
cristianesimo trionfante non ebbe distrutto ogni rudere del passato
pagano. Questo fatto, per quanto possa sembrare strano, non deve
tuttavia meravigliarci. La psiche umana è un' unità naturale, in cui le
produzioni veccliie persistono lungamente accanto alle nuove, sebbene fra
loro repugnanti, per il grado maggiore di resistenza acquistato dalle prime:
essa quindi presenta sempre, in qualsiasi momento della sua storia,
quella molteplicità varia e discorde degli elementi costitutivi che si
può riscontrare in tutte le altre unità naturali. Ma è nei popoli eminentemente
conservatori, quale fu il romano, è nei momenti in cui si stanno
maturando le più grandi rivoluzioni morali e religiose, quale fu il
cristianesimo, che la coscienza umana accoglie in sé stessa maggior
contrasto di sentimenti e di idee : e V., che appartenne a quel popolo e
visse in quel momento, ce n'ha offerto un esempio in massimo grado suggestivo.
Nell'aiiimo suo l'antica religione degli avi e le correnti nuove del pensiero
filosofico — che contenevano in germe la religione dei nepoti — occupano
un posto nettamente separato, né sarebbe possibile riempire V abisso profondu
che le divide. Come conciliare, ad esempio, le mille potenze del suo
politeismo antropomorfico, col dio unico ed incorporeo che chiama le
anime dei puri alle sponde del fiume Lete? e i commerci
impudichi p^ ^^m degli dèi con 0ì iioniinì. le toro
ire, le loro vendette, col concetto altÌBsiiììo di una divinità infinitamente
buona e perfetta i e le imprecazioni afjli dèi perchè riversino ogni male
sui propri nemici, col pietoso conipianto per gli stessi neinicì caduti in
hattaglia? e la pratica scrupolosa del sacrifìcio, col concetto della
divinità giusta che premia i buoni e punisce i malvagi ? e le frei|uenti alter
mozioni della implacabilità degli dèi, col concetto della sanzione
oltremondana dell' operare umano? Sono due mondi, due ten^^-ì-n\^'
-r»-*^ •^ y^.v ; yvT^.y "^'^'y'''^,^g"y L ! r ^isroTE m«cu/., I, 27, e II.
(2) TuscuL, I, 30. (3) Catone, che è il personaggio del
dialogo, parla qui dì suo tiglio; ma è manifesto che Cicerone, facendolo
parlare cosi, pensava alla propria figlia defunta. Il frammento del 1. IV
de fìepvòlica conservato da Macrobio. Orazio, Carmina: Nobilis libros
Panaetì, Epist- 117. Sul materialismo degli stoici, vedasi: C. A. Brolén,
De philosophìa L. i4. Senecae, Upsaliae, 1880, p. 46 e sogg.; e anche F.
Lange, Hisioire du maleiia' lisine, Paris, 1879. (7) Ho
voluto riportare le parole del Trezza, perchè mi parve che assai difficilmente
io avrei potuto riassumere in cosi poche parole, e con tanta chiarezza e
fedeltà, tutto il succo del pensiero platonico. Pel resto ci siamo
serviti deli* opera notissima del Fouillée (Paris, 1869) e dei Manuali
dello Zeller, dell' Ueberweg (Gi'undriss der Geschkhte der Philosophie,
Berlin 1882) e di FIORENTINO (vedasi) (Napoli
li Negri ha rilevato, con l'abituale acutezza, le profonde
contraddizioni che esistono nel pensiero di Marco Aurelio ANTONINO
(vedasi). Quanto a Cornuto, Musoriio Rufo, Seneca ed Epitteto abbiamo
intenzione di dimostrarlo per disteso in uno studio cui stiamo da tempo
meditando. De brevitate vitae, C. X. Ad Gallionem de vita beata, C
XVil. (U) Cfr. Epist., XVU, ex,(12) Epist. ecc.Tutti i discepoli di
cui ci fu conservata memoria, quali Lucilio, Sereno, Nerone, ecc. appartenevano
alla nobiltà. (14) Epist. V; de tranq, animi, XVII, ecc. De
vita beata Lo Zeller sostiene che Seneca non fu eclettico, ma soltanto si
spinse fino agli estremi confini dello stoicismo, senza però varcarli
[Phil ite?- Griech,, III, 1, p. 628). A noi sembra che questa volta il
genialissimo storico della filosofia sia caduto in un grave errore, il
che apparirà dal seguito della nostra dimostrazione, e ancor meglio da
quel no^stro studio sugli stoici platoni zzanti, che più sopra abbiamo
preannunziato. Riguardo alla filosofia di Seneca, oltre al Brolén già
citato, si confronti: Holzherr Der philosoph L. ^, Seneca, Rastatt, 1880;
Burgnìann - Senecas Theologlae in ihrem Verhalinss zum Stoicismus und zum
Christenthum, Berlin, 1872; Schmidt - Essai historiqìie sur la societé
civile dans le mond Bomain et sur sa transformation
-T^ jr par le II, VII, V, ecc. Quaest.
nat,, proL 13 e II, 45; De benef, IV, 7 e VI, 23; De ot, V; Epist. 1, 3;
49, 41; ad Helv. Vili; IX; XX, ecc. m) De benef, IV, 2; Epist, ecc. m) Ad Helv. X; de vita b.
II; ad Marc. XVI; de Benef V, 16; IV, 26; II, 30; Epht- ecc. Il
Buri^mann, in op. cit, p. 43, non credo che Seneca si sia allontanato
dalla dottrina stoica riguardo alla nAura dulia divinità; ma è opinione
insostenibile. Cons, ad Ilelviam, VII! Del resto, l'eclettismo di Seneca
si può desumere dallo sue stesse dichiarazioni: poiché ora si proclama
rigido seguace de^H stoici {EpiM. 8i), 1), e loda le loro dottrine (ad
Helv. XII; de Geni, li; de olio I), ora invece dice di non consentire in
tutto alle loro teorie (Epist. 80; 33; ecc.; de Olio mp^ III; de vita b.
IH; Brev. vit. XIV ecc.), che in parecchi luoghi combatte aperlamente (Epist.
59, 7; 83, 8; 85, 1; 113; 117, 6; ecc.).Repubblica, lib. X. (2) /
ricordi. II, 17; V, 23; Eneide, Georg.
Seneca dice : omne futurum incertum est et ad deteriora cerlius. Ad Marc.
Eglog. Ecco la traduzione di questo passo, che può offrire qualche
tliflinjlt-i d'interpretazione: «0 Dafni, innesta ì peri; i tuoi nepoti ne
raccogliepaniio le frutta. Tutto la età si porta, persino la memoria
(animum quoque) ; mi ricorda oh*^ fanciullo io cantava spesso, finché i
lunghi soli tramontassero. Ora tante canzoni dimenticai; la voce essa pure si
dileguò da Meri: i lupi lo videro primi t. Alludesi qui all' intercalare
comune, per cui dicesi che si perde la voce quando i lupi vedono noi
prima che ce ne accorgiamo. Georg De brevitate vitaé Georg. I versi
surriferiti sono riportati da Seneca nel C. IX; il brano che qui citiamo è
tolto invece dal capitolo successivo- Wp=^'^'•-•it-'sr.-^c:. En, ; si cfr.
V Apologia di Socrate, ove Piatone esprime l'identico pensiero.
(li) En. VI, 730-734.Fedone, VI. Avvertiamo fin d'ora che per le opere
platoniche ci serviamo della traduzione del Bonghi (Roma, Bocca).
Fcd., Ad Marciam, XXIY; ed anche Episi. 65, i2; ecc. Fed., En., IV,
384-386. 1 Romani erano tanto formalisti, che continuavano a ripetere le
antiche formule e seguire gli autichi riti, anche quando non fossero pia
conformi alle loro nuove opinioni. V. ce ne offre un esempio caratteristico:
sebbene egli non presti più fede all'antica credenza che faceva
sussistere nel sepolcro l'anima e il corpo uniti, tuttavia, descrivendo i
funerali di Polidoro, ha questa espressione: animamqiie sepulcro
comjiimus, che si riferisce appunto all' antica credenza, ed è in piena
contraddizione con le sue dottrine sulla vita futura.En. En. De brevitate vitae
En. Vi, 719-721. (21) Gaetano Negri - Rumori mondani, Milano, 1894,
il saggio: « 11 Fedone e l'immortalità dell' anima Havet Da queste
considerazioni noi escludiamo, naturalmente, la poesia filosofica vera e
propria, quale, ad esempio, quella di Lucrezio. (23) Cfr. Malfilatre - Le gènte
de V,, Paris, Tissot - ludes sur Virgile, compare avec tous les poètes épiques
et dramatiques des anciens et dts modemes, Bruxelles 1826, Voi. I, specie a pag. XCIX e segg. Boissier - op cu.
Voi. I p. 220-262. (24) En. IPer maggiore brevità d'ora innanzi
verrò citando, riguardo al carattere di Enea, solo quei passi non altrove
riportati. Fedone (trad. Meini, Roma Fedone En. II, 575-588.
(28) / Ricordi En. Agostino - Le
confessioni Tissot En. /6irf.,Tissot - Ètudes sur V.
Cfr. Essai sur le poème épique Tasso - Gerus. Havet Eglog. X,
69. (40) Eglog. Eglog. HI,
100-101. 200 Eglog. Vili, 47-50.
(44) En. IV, 412, (45) Georg. Ili, 242-2U. ItM, En,
En. : ille Paris, cum semiviro
comitatu - Maeonia merUum mitra crinemque madentem - Subnixus /élrf.,
193-194. (54) En. En. VI, 442. (56) Epìtteto – Manuale Havet En. En.. Lodovico
Frati - La donna italiana, Torino Joau Chrys. - Ser in decollai. S. Jo.
Bapt. (3) Orig. in Math. (4) Traggo queste notizie da
un libro di P. Viazzi - La lotta di sesso, Palermo Frati, op. cit, C.
VIII. CICERONE (vedasi) traduce questo passo nella sua Republica De
const' sapientis, C XIV. (8) En. ; per la descrizione dei furori di
Amata cfr. ibid^ 357-378; (9) En. Dice l'Heyne, voi. Ili, p. 173; *
Hanc adeo mor lem praetuUt poeta historiarum fidei, qua apud Seimum Fablus
Piclor, Amata inedia se interemisse tradiderat t. (11) En.
1,25-28. (12) En. En. En. En. Dice infatti THeyne, III, p. 619: «
liene autem Servius: - sane armorum longa descriptio eo special, ut in
eorum vupididatem merito Camilla videatur esse succensa. - Sciiicet elsi
virili animi femirui, tamen a cultu et omalu intactam mentem non
habuit. L. rT,-V^-yy^^,è77T'-^,yy^^r:^^7y;?V^y^^En.
XI, 8ia-819. i (18) Cons. ad Helv, XIX. Per la condizione della
donna a Roma vedansi: 6. Bois- 5 sior, op, ciLj Voi. II, p. 192-239; Gide -
Étude sur la condition de la femme, Paris, :i p. 98 e segg.; Marquardt -
La vie privée des Romains, Paris, 1892, Voi. I, C. I e II. ^1 CICERONE (vedasi) Tusculane Plauto
- Captivi Fedone (trad. Bonghi) In Opuscoli morali, il trattato: Non poleì'si
vivere felicemente secondo Epicuro, (trad. M. Adriani, Firenze In Op, mor,, il
trattato sulla Superstizione En. AMBROGIO (vedasi), De Sancto Sptr, II, 5, 36. Quanto
alla impressione destata fra i Romani dal 1. VI, vedasi Boissier De re^\
nat„ En. . I versi che veniamo citando
in seguito, sono tolti dallo stesso libro Preller, op. cit. P. VII.
C. I. Preller, ibid, ; si vedano anche ivi le notizie su Caronte.
En En, X, 641-642. (33) En. 11,268 e segg. Circa la credenza
neirapparizione dei morti, diffusissima ' in tutto il mondo antico, si
cfr. Friedlaender, op, cit. v. Ili, p. 640 e segg.; e CICERONE (vedasi), Tusc. En. En. En..En. En. V,
721-740. ^40) Orelli - Inscript. lai. amplissima collectio Corpus
inscript lat. (pubbl. dall'Accademia di Berlino) Voi.
II, n. 4429. (42) En. En.
. (44» En. VI, 323-324. Si abbia presente che per V. il vocabolo
numen significa sempre potenza divina; vedasi a tal proposito il diligentissimo
studio di R. Dietsch, Theologumenon Virgilianorum particula, off, Grim.
1853, p. 3-12. (45) Georg. IV, 469-470. Riguardo all' implacabilità
degli dèi infernali, vedasi ancora ihid. 505; En. VI, 370-376.
^46) En. VI, 570-573. L, VII, lo7 - 4 Xp'bL^Tt'JC 54
"càg tttiv a^i^rijv (/J^'jxàs) |idv5V (litt8Lat|iéviiV titxpì
-rfje ixwjp(;>aE(tì^)i, Per la rinesti^me pncrale, vedasi Ogereau, p OH e
seg^4, (5Ì Cfr Negri, op. ciL p- I2i, ovo si dinn>strit che il
lìoiKctto doli' iminurtal ita deir anima sembra assente dal pensiero di
Man'o Aurelio- Si consideri però ^[ue^sta frase dei Fiicordi, IV, 14: *
'EvuTiéaTT^; «g lispag. ^RvaqpavtaH^a'g xtp x^^^^ì'^^^ jidtUttìv
(tì) EpicL fimer^. li, 6; HI, i:). (7) Ep'tsL C. II. Tutta
«luesta lunga lettera è aiia fervida diaiostranìoiic della immortalità
dell anima. Epist En. VI, 852-85^. A proposito del carattrre i^enerale del
popolo ronjano e della letteratura latina, vedasi : G. Michant, /.f?
genie latin, Paris, 1900, p. 9-62. Cosi il Brurietiòre, nel (luinto
volume dei suoi EHules crUh/ues definisce come so^ date la letteratura
francese (10) Cfr Mallilatre, U gmk de Virgik, Parigi, : e Warbiirton, The dinne legalion of
}foses ecc* Londra, !7'iH-176.^, Voi. II parte 4, tll) Ed
infatti, ora tanto il ti moro di erodesti va*^he notizie ci giunsero
circa le cerimonie che s in Porfirio, fk antro Ni/rnpharum, C. 6, 20(12)
Nel proemio al L VI ; ed. Venezia Gfiorg
En. VI, 4;{n* Sali" idrografia dell" inferno vìrsjiMano
molto disputarono i commentatori, fra cui ii Cerdanus, il Ruaens, l'
lleyne e A. Jario Viaggio di Enea all' In fé?- no e agli Eli»i secondo V.,'
Napoli, 1831; la conclusione più coiunnc è die dal T Acheronte derivi lo Stige
a da questo il Cogito; ma uno studio attento ci jiersiiase ohe Acheronte
e Stille sono per V. una stessa eoaa En. Fldd. 5.H0-551,Odiss, Ft^dom, LIX - LX - LXI ; cfr
anchi.^ op, di. LIVIO (vedasi) Lucrezia», /> rer- naL Vi,
7V0; script NtapoL, Kruger - Charnn undThanatos, Ciiarlottenhurg En^ VI
431^433. (21)
Odiss.lìoissier, op. dU voL 1, p* 289. nota; lìepnJM. trad. Ferrai- castighi,
elle pochissime ed assai n compievano nei misteri. Si veda
il limpido riassunto fattone dal Negri, MoHimaen, /n
fe. i.Ma j m ^ mmmmmff^ Cfr. r opera dottisiiima del
P, Bottagisio - il Limbo daiUesco, Padovii^ S^ Asost. - Ep. 18tì, 27,
(25) Odiss. XI, 38-43- Questi versi sono [*ogtÌ tra parenUiit nelle
edizioni crìtiche, perchè ritenuti di funiiazione posteriore, come in generale
tutti i ]uoy;lii in cui é accenna ad una sanzione oitremoDdana dell'
operare umano, i quali Sìuao da attribuirsi alla poesia teosofica e teologica-
Ad o^^ni modo, l'aggiunta non è posteriore ai sec. V a. C, quindi rimane
il valore della nostra alferuiazione. Cfr- la lettera del Luechesini al
Mìcalì Sopra alcuni luoghi deli' Odis^ìm che si credono spuni, mìV
Antologia del Vieusseux, t YIU, ; e Coinparetti - Die Strafe des Tanialus
navh Pimiar in Pkìhlogm, voL XXX IL disp. %, n- Od'm. 487- V91.
(27) Cfr MaUllatrc, Gai US - lìulii^
I, 53. Svetonio - Cai-, 5. f30) Cfr. 1* Marquardt - Iji vie
privée des Bomaineàj Paria, Eepuò, p. 497; Gorgia p- 524 (trad- Ferrai); En. Erh VI, 577-579 ; in questo modo, e non altrimenti,
vogliono essere interpretati questi versi, i quali si potrebbero volgere in
prosa cojii : * ipse Tariarus bis tantum desceìidU In profundum^ et sub
umbì^as extendUur^ quantm est pròspeclus ìtidn mi aethereum cotti
olympum^ {%%] Uifxd^ Vili, 1*5; Esiodo, Teogon. 720, laov oùpctvóc
ic ànò t^^j Fedone^ 410 B - 11^ E. Cfr. Odiss- XI, 304. 57(5
ecc. Nella descrizione dello scudo di Vulcano, En. Nella sua Eneide
traveslie, parodiando questi versi lEìi. VI, ùfiì), esclama: Celle sentence est borine et
beile - Mais en Enfer de quol si^rl-eilef De RepuòL 1. VI, 3; e anclie Tiisc. 1. I, tO. j II
Winson mi suo Les religions avtuelks^ Paris II. dice che la teoria
esposta da V. nei versi che stiamo esaminando è quella dei;li Indiani.
Nul invece abbìamarte di essi riproduce la dottrina stoica
deiranima dei mojido; e diinostrei-emo ora che la seconda parte s'ispira
direttamente alle dottrine platoniche. (38) Cfr- 0* Trezza -
Lum^esw^ Firenze,. rwta^ mi Platone - liepubblka, L- X, C- XVI,
621; Fedone, p- *07 d. HepubbL, ibld. C. XIV e XV.
(41) BepubòL A tal proposito le osservazioni del BoisBÌer, op. cU.,
Voi. Ad Am. VK . ed. Parigi,
.AVaiburton; Malfilatre, op. clL^ loc cit (45) C. Ruaeus, op. di..
Voi II, p. 459 (46) (kiiss. XIX, o():l-5fi7. Questa tradizione era stata
riprodotta anche da Ovidio, Orazio, Cicerone- %\ confronti il gindizioso comm.
dell'Heyne ad Aen. i E' comparsa di questi ultimi
giorni un'opera di E. Disa, Le previsioni del tempo da V. ai di nostri
(Torino, Bocca) nella quale l'A. dice, a proposiU» degli insegnamenti contenuti
nelle Georgiche, che V. « ebbe incontestabilmente il senso scientifico del
metodo sperimentale, ebbe quell'acuto e potente concepinii^ntn che, dati i
mezzi, giunge a grandi scoperte; e riporta quindi il giiidi/Ì4> di due
moderni scienziati francesi, secondo i quali il nostro poeta avrebbe
intuito le leggi delle tempeste (fissateselo da pochi anni coli' aiuto del
telegrafo, degli stromeuti e degli Osservatori), e le leggi organiche del
Darwin sulla evoluzione degli organismi mediante la selezione (pag.
49-2J). Addirittura!..... Scevri da qualsiasi idolatria, noi abbiamo potuto
vedere quale sia realmente il senso scientifico di V.. Notiamo frattanto
che allo stesso Disa non è sfuggito che gli insegnamenti di V., non mno
dovuti ad intuizioni sue proprie, ma attinti in parte alla sapienza
volgare propria de' suoi tempi, in parte alle opere greche, come dimostrò
primo l'Orsini, e più lardi l'Eichofif, il Ribbeck, il Knuche, il Morsch,
e come Servio aveva già mostrato net suo commento. CICERONE (vedasi)
Accademica] É questo un brano di una lunga e splendida lettera che l'illustre
critico e filosofo ci scriveva dopo aver lette le prime tre parti del
nostro lavoro. Egli vorrà perdonarci se il desiderio di far conoscere
almeno una piccola parte -• non laudativa del suo scritto, ci ha indotti a
portare nel dominio pubblici» ciò che era destinato a rimanere
nell'ambito di una semplice corrispondenza privata. La Prefazione alla
trad. francese dell'opera più volte citata del Preller, CICERONE (vedasi) De
nat. deor. Zeller - Philos. dcr Griechen, III, ì, mi e Prefuionfl
daU'A Inì[iorUnza delia pfcsente ricerca, Deficienza degli studi antichi e
moderni sulla lìlosolia di V., Metodo ed estensione del nostro lavoro Noie: KEIiIOIONE
Le eondiiioni della relipone romana ai tempi dì V. e le riforme di
Augusto, i- — Poca sincerità dei lettcriitì suoi colìaìioratori, — La religiosità di V., — la lui rivive
Tantica religione romana con tutti ì suoi caratteri Segue della religione
romana in V., Crudeltà e dispotismo
degli dèi, Ribellioni al loro
volere, I 4» -^ Il rituale romano
in V., fi. ^ Funerali e sacriliii, 23.— Spirilo pratieo della religione romana,
L'allegoria dell' Eneide I libri sibiiliai e l'elemento greco asiatieo nella
reiigione di V. L'antropomorfismo e la moralità degli dèi L'egloga e il
cristiauesimo di V., kX
Pvrlfl II. i^'EFXCITBmSMO
L'epicureismo e la religione, Rapporti
storici tra la religione e la filosofiate^ -^ L'opinione dei critici e
dei commentatori suUepicureismodi V., L'egloga
Essa non ei^prime principi epicurei e nemmeno eni pedoelei o stoici,
tki. E" una eoniaminaiio di vari sistemi L'imitazione lucrexiana in V.
La prima età del mondo e l'uomo primitivo La descrizione della peste e il
gruppo plastico di Venero e Vulcano Lo spirito scientifico nella
filosofìa epicurea Credute aspiraKionì di V. a conoscere le cause dei
fenomeni, Gli effetti della superstizione, L'ultimo argomento, V. non è
epicureo Fartd in. - LO STOICISMO La filosofia a Roma L'amore
alla filosofia nel secolo di Augusto: Orazio La Scuola del
Portico, Lo Stoicismo e la tradizione
religiosa La dottrina stoica dell'anima del mondo in V.L'intelligenza degli
animali, Conseguenze morali Umanità e cosmopolitismo L'avversione alla guerra
nello stoicismo romano e in V., I
doveri verso sé stessi, il5. Il saggio delle Georgiche secondo la dottrina
degli stoici Disprezzo delle ricchezze e degli onori Amore alla povertà Il
vizio Il suicidio IL PLATOITISMO Lo
stoicismo platonizzaute CICERONE (vedasi) e la filosofia romana L'eclettismo di
Seneca Il concetto pessimistico della vita umana L'ascetismo e lo
spiritualismo, Il carattere di Enea, Il disprezzo dell'amore e il
significato del libro IV dell'Eneide Il mìsoginismo negli scrittori
ascetici e in V. La preoccupazione dell'oltretomba Gli dèi infernali e le
apparizioni dei morti La credenza della vita futura a Roma e lo scopo del
libro VI dell'Eneide, Critica delle interpretazioni comuni e di quella del
Warburton, Le fonti dell* inferno virgiliano, Il limbo, sua vera origine
e significato Il Tartaro e l'Eliso L'inferno filosofico e le due porte d'uscita.
Publio Virgilio Marone. Virgilio. Keywords: catabasi. Luigi Speranza, per il
Play Group di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza. Virgilio.
Luigi Speranza -- Grice e Virno: la ragione
conversazionale di un popolo di due -- filosofia ed azione – la scuola di
Napoli – filosofia napoletana – filosofia campanese -- filosofia italiana –
Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Napoli). Filosofo napoletano. Filoofo campaese. Filosofo
italiano. Napoli, Campania. Essential Italian philosopher. Grice: “Virno, like
me, is a semiotician.” D’orientamento operaista, insegna filosofia a Roma. Tra
i principali esponenti dell'organizzazione della sinistra extra-parlamentare, Potere
Operaio, il suo nome ricorse nelle cronache dei cosiddetti anni di piombo in
Italia. Arrestato e detenuto in prigione. Nel corso della detenzione elabora la
sua filosofia che trova espressione in Luogo comune. Democrazia è il fucile in
spalla agl’operai -- slogan attribuito a Potere Operaio. “Mi sono formato
politicamente a Genova, dove la mia famiglia vive e io faccio liceo. Genova e esposta
all’influenza di Torino, dove vi sono le prime occupazioni. Quindi, si
mobilitarono gli studenti del liceo – molto vivaci e in contatto con le
organizzazioni tradizionai dei partiti, UGI e via dicendo. Come studente del
liceo fondo dunque il sindacato degli studenti, che fa i primi scioperi sulla
lotta all’autoritarismo, solidarietà con Grecia dopo il golpe dei colonnelli e
quant’altro. Per un trasferimento di famiglia, vengo ad abitare a Roma, e di lì
a non molto prendo contatti e rapporti con il gruppo che divenne Potere
Operaio, che allora sostanzialmente a Roma e il gruppo delle facoltà. Entra in
Potere operaio dopo gl’episodi cruciali della primavera a Torino. Lavora a
Milano come insegnante all'Alfa Romeo di Arese e all'Innocenti, organizzando
anche azioni collettive nelle fabbriche sino alla dissoluzione di Potere operaio.
Si laurea con la tesi, Lavoro e coscienza –su Adorno, non Francesco. Partecipa
attivamente alle manifestazioni ad opera dei lavoratori precari e di altri
emarginati. Fonda Metropoli, organo ideologico del movimento politico. Nell'ambito
dell'inchiesta giudiziaria nota come 7 aprile, la redazione di Metropoli viene
accusata di appartenere in blocco all'organizzazione eversiva costituita in più
bande armate variamente denominate. “Siamo arrestati io, CASTELLANO, MAESANO,
e PACE -- che però sfugge all’arresto, di nuovo, giuro, non per sagacia. Noi siamo
arrestati, poi ci fanno confluire, ritroviamo
gl’altri nel cortile di Rebibbia, nel braccio speciale, stiamo un po’di mesi
lì, poi c’è la diaspora, cioè il ministero ordina di mandare ognuno di questi
detenuti in un carcere speciale diverso, perché ovviamente, tramite avvocati,
visite, benché ci fosse il regime di braccio speciale, quello e diventato una
specie di luogo in cui si elaborano documenti, lettere a giornali, si fa
campagna politica, c’e state delle lotte interne. Quindi, c’è la diaspora,
io vado a Novara. Oreste va a Cuneo; quell’altro va a Favignana. Quell’altro
ancora da un’altra parte. Comincia questo giro negli speciali, e ci ritroviamo
non tutti ma in parte nel carcere di Palmi, carcere per soli politici o per
detenuti comuni completamente politicizzati, una specie di “Kesh”. Là dentro c’e
una situazione curiosa, anche molto spettacolare, perché si incontrano
assolutamente tutti. Infatti, per un primo periodo con i compagni delle BR o
con Alunni o quelli dei NAP, si pensa anche di approfittare di questa
situazione per avviare una discussione larga, di carattere costituente. Però,
il problema è che anche lì c’è il fatto che i più spregiudicati di loro, come CURCIO,
sono d’accordo, hanno capito di aver perso l’essenziale, cioè il cambio di
paradigma, cioè il fatto che gl’operai sono non più riconducibili, altri invece
no. Riassumendo in breve, la mia detenzione e un anno, poi due anni liberi in
cui curai la serie continua di Metropoli, due anni ancora di carcere, condanna
a 12 anni in primo grado, un anno di arresti domiciliario e l’assoluzione, insieme
a tanti altri imputati, du la conferma. La travagliata esperienza politica e
esistenziale di questi anni e trasfusa nella pubblicazione di “Luogo Comune,”
una rivista dedicata all'analisi della vita nella situazione sociale del
"postfordismo". Lascia il lavoro di editore della rivista per
insegnare filosofia a Urbino e filosofia del linguaggio, semiotica ed etica
della comunicazione a Calabria da dove si trasferisce a Roma. Convinto della
necessità di un nuovo linguaggio della politica che chiarisca le trasformazioni
economiche, sociali e culturali che caratterizzano le società occidentali,
introduce nella “Grammatica della moltitudine” una riflessione sul contrasto
tra i termini di “popolo” – il “popolo” di Cicerone, S. P. Q. R -- e
moltitudine che generano una accesa polemica filosofica. Quando avvenne la
formazione dello stato nazionale e l’espressione “popolo” a prevalere. V. si
domanda se non sia venuto il tempo di restaurare l'altro concetto della “moltitudine”.
La multitude è quell'insieme di persone che nell'azione politica e in quella
economica, pur agendo collettivamente, non perdono il senso della propria
individualità, resistendo sempre alla riduzione a unica massa informe com'è nel
termine di "popolo". La “moltitudine” è dunque la base della libertà
civile – l’uno e i molti dei veliani. Una “moltitudine” e una dualita o
una pluralità che non si sintetizza nell'uno, il più grave pericolo per
l'autorità di uno stato che esercita il supremo imperio. Dopo i secoli
del “popolo” e quindi dello stato -- stato-nazione, stato centralizzato, ecc. -
torna infine a manifestarsi la polarità contrapposta. . La moltitudine come
ultimo grido della teoria sociale, politica e filosofica? Grice: “Peacocke popularized
‘population’ in the Oxford seminar organized by Evans and McDowell. Thus, I
cannot claim to have meant that p, unless ‘p’ means that p for a population –
of say, me and myself!” Forse.” Saggi:
“L'idea di mondo: intelletto pubblico e uso della vita” (Quodlibet); “Saggio
sulla negazione: per una antropologia linguistica” (Bollati); “E così via, all'infinito:
Logica e antropologia” (Boringhieri), “Motto di spirito e azione innovative:
per una logica del cambiamento” (Boringhieri); “Quando il verbo si fa carne:
linguaggio e natura umana” (Boringhieri); “Scienze sociali e natura umana -- facoltà
di linguaggio, invariante biologico, rapporti di produzione” (Rubbettino); “Grammatica
della moltitudine: per una analisi delle forme di vita contemporanee” (Derive Approdi);
“Esercizi di esodo: linguaggio e azione politica” (Ombre Corte); “Il ricordo
del presente: saggio sul tempo storico” (Bollati); “Parole con parole: poteri e
limiti del linguaggio” (Donzelli); “Mondanità: l'idea di “mondo” tra esperienza
sensibile e sfera pubblica” (Manifesto libri); “Convenzione e materialismo” (Theoria).
Roma Tre Intervista, Hecceitas. Questo
termine è entrato nel linguaggio corrente per indicare un insieme di
caratteristiche economiche, sociali e istituzionali del nostro presente,
avvertite pessimisticamente come profondamente diverse rispetto al nostro
recente passato e in genere come molto negativamente mutate. Fordismo e
postfordismo. Qualche dubbio su alcune certezze della sinistra italiana. Protagonisti;
“Anni di piombo: potere operaio"; Lessico postfordista: dizionario di idee
della mutazione. Feltinelli, sito "Filosofico net". Virno. Keywords: populus, res publica res
populi, Cicerone, multus, unus e multi, due e moltitudine, linguaggio e azione,
linguaggio, base biologica, invariante biologica, rappori di produzioni, natura
umana, el verbo fatto carne. Refs.: H. P. Grice Papers, Bancroft MS. Luigi
Speranza, “Grice e Virno”; “Grice e Virno: la conversazione: una popolazione di
due!” The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria. Virno.
Luigi Speranza -- Grice e Viroli: la ragione
conversazionale della res pvblica – Cicerone e la filosofia italiana – la
scuola di Forlì—filosofia emiliana – filosofia italiana – Luigi Speranza, pel
Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Forlì). Filosofo emiliano. Filosofo italiano. Forlì,
Forlì-Cesena, Emilia-Romagna. Essential Italian philosopher. Actually
“Viroli-Cavalieri”? Grice, “I shall
be fighting soon.” “The loyalty for one’s country is not based on evidence.” Durante il settennato di Ciampi serve la presidenza
della repubblica italiana. Insegna a Lugano. I suoi campi di ricerca sono la filosofia
politica e la storia della filosofia politica. I suoi autori di riferimento
sono MACHIAVELLI, Rousseau, MAZZINI, CROCE, ROSSELLI, e ROSSELLI. La sua
ricerca si basa sul metodo contestualista di Skinner, a cui apporta alcune
innovazioni. Il suoi riferimenti politico-ideali sono il repubblicanesimo e l'azionismo
del partito dell’azione. Collabora ad alcune testate giornalistiche, tra cui La
stampa, il Sole 24 ORE e Il fatto quotidiano. Si laurea dal liceo Calbol di
Forlì. Come egli stesso racconta in L'autunno della Repubblic”, per mantenersi
agli studi, lavora come garzone di
bottega, cameriere d'albergo e operaio presso lo zuccherificio. Abitavo a Forlì
con i miei genitori, in via Mellini, in un appartamento angusto e freddissimo,
riscaldato soltanto da una stufa a gas tenuta, per la nostra povertà, sempre
con la fiammella azzurrognola al minimo. Al termine degli studi liceali si iscribe
a Bologna. Si laurea con la tesi su Engels. Svolge il servizio di leva a
Casarsa in Venezia Giulia. Il ritorno alla vita civile è stato
all'insegna del precariato. Perceve un piccolo salario organizzando convegni e
lavorando come redattore alla rivista Problemi della transizione all’istituto
Gramsci di Bologna. Studia Firenze. Di fronte alla commissione composta dai
Maihofer, Skinner, BOBBIO, Cranston, e Moulakisha, discute la tesi sulla società
bene ordinata, Mulino. Perfeziona la sua formazione svolgendo attività di ricerca.
Insegna comunicazione politica alla Svizzera. Dirige il Laboratorio di Studi
civili, Svizzera italiana. Finanzato dal Fondo Svizzero per la Ricerca
Scientifica con un progetto di ricerca che prevede l'impegno di un folto gruppo
di ricercatori. I suoi interessi di studio ruotano intorno alla filosofia
politica e alla sua storia. Studia il repubblicanesimo nella sua accezione
classica da MACHIAVELLI a Rousseau e in quella contemporanea. Si occupa di culto
uffiziale e politica, di retorica classica, libertà e tirannide, di
patriottismo e nazionalismo, di etica civile, di diritti e doveri. Pone
particolare attenzione ai fondamenti della convivenza civile. I suoi periodi
storici di riferimento sono il rinascimento con MACHIAVELLI, il risorgimento con
MAZZINI e il FASCISMO – con sui opponenti: CROCE, ROSSELLI, e ROSSELLI. I suoi filosofi
di riferimento sono Machiavelli, Rousseau, Mazzini, Croce, Rosselli e Rosselli. Come
impegno civile si occupa d'educazione civica e della difesa e dell'attuazione
della costituzione della repubblica italiana. Collabora colla direzione generale
dell'Ufficio Scolastico Regionale per le Marche a progetti di educazione alla cittadinanza.
Fonda il Master in Civic Education presso l'associazione Ethica di Asti. Coordina
e diregge progetti di Educazione civica per la Fondazione per la scuola della
Compagnia di San Paolo. Dirige un progetto a San Marino. Dirige il progetto
Lezioni di Casa Cervi-Scuola di Etica civile presso Casa Cervi. Prende parte
attivamente alle campagne referendarie svoltesi in occasione del referendum
costituzionale, contro la riforma proposta dal centro-destra, e del referendum
costituzionale contro la riforma costituzionale Renzi-Boschi. Colleziona
inviti e incarichi di insegnamento presso prestigiose istituzioni culturali. Insegna
a Pisa, Trento, Molise, Ferrara, Catania ed Urbino. Collabora con Milano e la
Scuola Superiore della pubblica amministrazione, Scuola superiore di polizia,
Fondazione per la Scuola della Compagnia di San Paolo, il Collegio Carlo
Alberto e l'Associazione Nazionale Comuni Italiani, la Fondazione Alcide Cervi
presso Casa Cervi. Spiega la le sua posizione politica. Non sono soltanto
uno studioso del repubblicanesimo, mi sento repubblicano. Amo il princìpio della
reppublica e cerco di applicarli nella vita e nell’analisi dei fatti politici e
sociali. Più oltre, in riferimento a Ciampi racconta. La prima volta che incontro
CIAMPI provo la sensazione di trovarmi di fronte ad un uomo di straordinaria
energia morale, l’esempio vero della migliore cultura del risorgimento e
dell’azionismo. Rammento ancora le parole che mi dice dopo aver ascoltato con
attenzione la mia considerazione sul significato del concetto di amor di patria.
Quello che Ciampi dice l’ho sempre sentito e vissuto nella mia coscienza. E
allora che realizzai che io sono prima uno studioso di repubblicanesimo e poi
un repubblicano. Ciampi è repubblicano nell’intimo della coscienza:
repubblicano e azionista. Anzi, credo, repubblicano perché azionista. Anche la
lotta contro il fascismo é rilevante nel patrimonio ideale. Trovo in Croce,
Rosselli, Parri, Rossi, Calamandrei -- per citare soltanto i nomi più noti -- non
solo idee e argomenti in perfetta sintonia con il mio anti-fascismo assoluto e
intransigente, ma anche e soprattutto le più convincenti riflessioni sulle
ragioni della fragilità della libertà. Il patriottismo si oppone al
nazionalismo, anzi, ne è l'antidoto. Ancora ne L'Autunno della Repubblica si
legge a proposito del Per amore della patria. In Italia abbiamo una tradizione
di patriottismo di straordinario valore morale e politico, la migliore che io
conosca. Mi riferisco in primo luogo al patriottismo di MAZZINI, fondato sul
principio che la patria non è il territorio -- bensì un principio di libertà, e
al patriottismo degl’anti-fascisti di Giustizia e Libertà, concordi
nell’affermare che la nostra patria coincide con il mondo morale delle persone
libere non e poi idea tanto peregrina sostenere che il patriottismo
repubblicano e il mezzo più efficace per combattere la marea del nazionalismo
che comincia a montare. Credo sia troppo tardi. Infine, ci spiega il suo
relativismo. Sulle questioni etiche sono stato sempre un convinto relativista,
con comprensibile scandalo di molti. Se il dovere esiste soltanto là dove la
coscienza morale personale lo riconosce come tale, segue necessariamente che ci
sono persone che riconoscono quali loro doveri determinati princìpi, altre che
riconoscono quali loro doveri princìpi diversi, se non del tutto opposti. Il
pluralismo e il contrasto dei doveri sono sotto gl’occhi di tutti. Ad alcuni il
dovere indica il servizio e la pratica della carità, ad altri la pura e
semplice affermazione di sé stessi, anche a costo di usare altri esseri umani
come mezzi. La ragione, tante volte invocata quale guida sicura all’agire
umano, non detta i fini ma solo i mezzi. Lo spiega in modo esemplare JUVALTA
(si veda). La ragione per sé non comanda nulla. Né l’egoismo né l’altruismo --
né la giustizia. La ragione cerca, e mostra, se le riesce, i mezzi che servono
a conservar la vita a chi la vuol conservare, a distruggerla a chi la vuol
distruggere. La ragione addita ai pietosi le vie della pietà, ai giusti le vie
della giustizia, e le vie del proprio tornaconto agl’uomini senza scrupoli. Ma
l’egoismo non è per sé più razionale dell’altruismo, né il regresso più
razionale del progresso. Né la conservazione dell’individuo più razionale di
quella della specie. Né l’utile proprio più razionale che l’utile della
collettività. Razionale non e il fine, ma la relazione del mezzo al fine. Ed è
così ragionevole che dia la vita per un’idea chi pregia più l’idea che la vita,
come che taccia la verità per un ciondolo chi ama più i ciondoli che la verità.
Consulente della Presidenza della Repubblica Italiana per le attività culturali
durante il settennato di Ciampi. Collabora con la Presidenza della Camera dei
Deputati durante la presidenza di Violante. Coordinatore del Comitato Nazionale
per la valorizzazione della Cultura della Repubblica presso il Ministero
dell'Interno. Presidente dell'ASSOCIAZIONE MAZZINIANA. Ufficiale
dell'Ordine al merito della Repubblica italianana strino per uniforme ordinaria;
Ufficiale dell'ordine al merito della repubblica italiana di iniziativa del presidente
della repubblica. Saggi: “Nazionalisti e patrioti” (Roma, Laterza); “Etica del
servizio e etica del commando” (Napoli, Scientifica); “L’autunno della repubblica”
(Roma, Laterza); “La redenzione dell’Italia: sul principe” (Roma, Laterza); “Il
sorriso di Machiavelli” (Roma, Laterza); “Scegliere il principe: i consigli di MACHIAVELLI
al cittadino elettore” (Roma, Laterza); “L’Intransigente” (Roma, Laterza); “Le
parole del cittadino” (Roma, Laterza); “La libertà dei servi” (Roma, Laterza);
“Lo scrittore di ricami” (Reggio Emilia, Diabasis); “Come se Dio ci fosse: religione
e libertà nella storia d’Italia” (Torino, Einaudi); “MACHIAVELLI, filosofo
della libertà” (Roma, Castelvecchi); “L’Italia dei doveri” (Milano, Rizzoli); “Il
dio di Machiavelli e il problema morale dell’Italia” (Roma, Laterza); “Dialogo
intorno alla repubblica” (Roma, Laterza); “Per amor alla patria: patriottismo e
nazionalismo nella storia” (Roma, Laterza); “Dalla politica alla RAGION DI
STATO” (Roma, Donzelli); “L’etica laica di JUVALTA” (Milano, Angeli); “La
civiltà statuale’, in “Cultura civica e civiltà statuale” (Bologna, Mulino); “Libertà
e profezia in MACHIAVELLI’, MACHIAVELLI e i confini del potere” (Milano,
Mimesis); “La passione civile e la scienza politica di Sartori’, Protagonisti
sempre. Un secolo di storia visto con gl’occhi dei ragazzi, Reggio Emilia,
Imprimatur ‘Prefazione’, in Mosca, Il prefetto e l’unità nazionale, Napoli,
Editoriale Scientifica. ‘Skinner’, ‘God’ and ‘Macaulay’, Enciclopedia
machiavelliana” Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Vita di MACHIAVELLI”
(Roma, Castelvecchi); “La tradizione del Risorgimento” (Roma, Castelvecchi); “Se
è libero bisogna che creda”; “Cinque variazioni sul credere” (Torino, Abele); “L’attualità
del principe”; “Il principe e il suo tempo” (Roma, Complesso del Vittoriano,
Salone centrale, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana); “La moralità
della resistenza: l’esperienza del partigiano Bosco” (Benevento, Terre dei
Gambacorta); “Dalla patria allo stato: una biografia intellettuale di SPAVENTA”
(Roma, Laterza); “‘La costituzione repubblicana: un manuale di educazione
civica’, in Lessico civico: teorie e pratiche della cittadinanza (Reggio
Emilia, Diabasis); “Le origini meridiane del repubblicanesimo, Ethos
repubblicano e pensiero meridiano” (Reggio Emilia, Diabasis); “La dimensione
religiosa del risorgimento -- Cristiani d’Italia. chiese, società, stato” (Roma,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana); “La libertà politica è un bene fragile’,
Lettera internazionale. Rivista europea;
“Ragione e passioni nell’educazione civica -- Questioni civiche. Forme, simboli
e confini della cittadinanza” (Reggio Emilia, Diabasis); “La costituzione: il
pilastro di cristallo” (Napoli, Pitagora); “MACHIAVELLI, il carcere, Il
Principe”, in Gl’anni di Firenze, Roma-Bari, in La Costituzione ieri e oggi.
Roma, Atti dei Convegni Lincei (Roma, Bardi); “Etica e diritto: la forza
intelligente per sconfiggere la violenza’ in Regione Piemonte, Piano regionale
per la prevenzione della violenza contro le donne e per il sostegno alle
vittime; “Religione e libertà nella Democratie en Amérique’, Fra libertà e
democrazia: l’eredità di Tocqueville e Mill” (Milano, Angeli); “Una nuova
utopia della libertà’, Quaderni del Circolo Rosselli, ‘Machiavelli’s Realism’,
Constellations, ‘Religione”; “Tutte le ragioni del liberalismo’, Dove Ratzinger
sbaglia”; “MACHIAVELLI oratore”; “Machiavelli senza i Medici, scrittura del
potere, potere della scrittura,” Atti del convegno di Losanna (Roma, Salerno); ‘Due
concetti di religione civile’, in “Rituali civili: storie nazionali e memorie
pubbliche in Europa” (Roma, Gangemi); “Patriottismo e rinascita civile’,
Aspenia, in MAZZINI, Scritti politici” (Torino,
POMBA); “Che cos’è l’uomo? Raccolta di pensieri” (Senigallia, MIUR, Le Marche);
“Repubblicanesimo”; “Dizionario di Politica” (Torino, POMBA); “Libertà
democratica, libertà repubblicana e libertà socialista”; “Repubblicanesimo, democrazia,
socialismo delle libertà”; “Incroci” per una rinnovata cultura politica” (Milano,
Angeli); “Il lavoro nobilita l’uomo e l’impresa’, Impegno. Mensile di cultura
sociale”; “Della lontananza’, La saggezza del vivere. Tracce di etica” (Reggio
Emilia, Diabasis); “Repubblicanesimo e costituzione della repubblica’ Almanacco
della Repubblica: storia d’Italia attraverso le tradizioni, le istituzioni e le
simbologie repubblicane (Milano, Mondadori); ‘Europa contro America?’, Il
pensiero mazziniano, ‘Dio nella costituzione’, Il pensiero mazziniano, con BOBBIO,
‘Sul rientro dei Savoia’, Il pensiero mazziniano, ‘Scrivere la costituziuone.
L’esempio della storia americana’, Il pensiero mazziniano”; “Il despota e il
tiranno si sono fatti furbi’, Il pensiero mazziniano, ‘Il repubblicanesimo di
Machiavelli”; ‘Le ragioni di un dibattito’, Politica e cultura nelle
repubbliche italiane dal medioevo all’età moderna: Firenze, Genova, Lucca,
Siena, Venezia. Atti del convegno (Siena), Roma, Istituto Storico Italiano per
l’età moderna e contemporanea. ‘Giù le mani da CATTANEO’, Il pensiero
mazziniano, ‘Questioni attorno al repubblicanesimo”; “Il pensiero mazziniano”; “Repubblicanesimo, liberalism.
e comunitarismo”; Filosofia e questioni pubbliche; “Machiavelli’, Il pensiero
politico. Idee, teorie, dottrine. Età moderna” (Torino, POMBA); “La repubblica
romana’, Il pensiero mazziniano, ‘Repubblicanesimo’, ‘La sinistra non scordi la Patria’, Il
pensiero mazziniano, ‘I guerrieri di
Dio: chi sono i theo-conservatori che scendono in lotta contro aborto, eutanasia
e gay’, “La Stampa”, ‘L’arcipelago
progressista: l’orgogliosa cultura liberal, fra battaglie per le minoranze,
ambientalismo e progetti per riprendere il New Deal’, La Stampa, “Discussione
americana e caso italiano”; “Piccole patrie, grande mondo” (Roma, Donzelli); “Il
significato storico della nascita del concetto di RAGION DI STATO’, Aristotelismo
politico e RAGION DI STATOr. Atti del Convegno a Torino” (Firenze, Olschki); “Patrioti
o traditori?”; “L’Indice”; “Il ritorno della nazione’, I democratici,
‘L’etica politica di CICERONE e il suo significato moderno’, Nuova Civiltà
delle Macchine, ‘La cattiva retorica dell’autonomia della politica’, (Mulino); ‘Nazionalismo
e patriottismo’ (Mulino); “Una filosofia civile tra comunitari e liberali’, Ragioni
Critiche, ‘Introduction’, in Skinner, “Le origini del pensiero politico moderno” (Bologna,
Mulino); “L’Indice”; “Machiavelli e Rousseau: i dilemmi della politica
republicana”; “Teoria Politica, ‘“Revisionisti” e “ortodossi” nella storia
delle idee politiche”, Rivista di filosofia; “Dovere morale e pluralismo etico
in JUVALTA’, Rivista di Storia della Filosofia; “La “Morale dei Positivisti” e
l’etica del socialismo’, L’età del positivismo” (Bologna, Mulino); “Il Marxismo
e l’ideologia del socialismo italiano’, Despotismo e cittadini’, Transizione, JUVALTA
e la teoria della giustizia, Rivista di filosofia, ‘LABRIOLA, filosofo del socialismo”, Giornale
critico della filosofia italiana, ‘Aspetti della recezione di Engels in Italia:
tra socialismo scientifico e crisi del marxismo”; “L’Antidühring: affermazione
e deformazione del marxismo? Annale della Fondazione Issoco” (Milano, Angeli);
“Il problema dell’etica razionale in JUVALTA’, “Studi sulla cultura filosofica
italiana” (Bologna, CLUEB); Etica e marxismo: a proposito di una recente
discussione’, Problemi della Transizione”; “Socialismo e cultura, 'Studi Storici”;
“Il dialogo fra Engels e LABRIOLA”; “Critica marxista”; “Nella crisi del
positivismo: la ricerca teorica del divenire sociale,” “Giornale critico della
filosofia italiana”; “Filosofia e politica nell’Engels di Mondolfo’, Pensiero
antico e pensiero moderno” (Bologna, Cappelli); “Wellness. Storia e
cultura del vivere bene” (Milano, Sperling et Kupfer); “Libertà politica e
virtù [andreia] civile”; “Significati e percorsi del repubblicanesimo classico”
(Torino, Agnelli); “Lezioni per la repubblica: la festa è tornata in città” (Reggio
Emilia, Diabasis); “Ascesa e declino delle repubbliche” (Urbino, Quattro Venti);
“L'Autunno della Repubblica” (Laterza); “Per amore della patria. Patriottismo e
nazionalismo nella storia” (Laterza); Quirinale. blogspot
issuu.com/edizioni-in-magazine/docs/forli Enciclopedia multimediale delle
scienze filosofiche della RAI profilo
biografico da Ethica Forum profilo dall'Università della Svizzera italiana
Nello Ajello, Quanti servi in giro per l'Italia, recensione a La libertà dei
servi, la Repubblica, La libertà dei servi, Associazione Labini; “La libertà
dei servi; L'intransigente, da Fahrenheit del Radio Tre. Grice: “At Oxford, we
don’t have a republic!” -- Il repubblicanesimo è una lunga e variegata
tradizione del pensiero politico che si ispira all'ideale della repubblica
intesa quale comunità di cittadini sovrani fondata sul diritto e sul bene
comune. Il punto di riferimento ideale più rilevante del repubblicanesimo è il
concetto ciceroniano di res publica. Repubblica per CICERONE vuol dite «ciò che
appartiene al popolo» (respublica respopuli), e aggiunge che non è popolo ogni
moltitudine di uomini riunitasi in modo qualsiasi, bensì una società
organizzata che ha per fondamento l'osservanza della giustizia e la comunanza
di interessi (De re publica). Agli albori dell'età contemporanea un altro
esponente del repubblicanesimo, Rousseau, ribadisce la medesima interpretazione
del concetto di repubblica. Chiamo repubblica, scrive, «ogni Stato retto dalle
leggi, qualunque sia la sua forma di amministrazione, poiché solo allora
l'interesse pubblico governa e la cosa pubblica è qualcosa » (Contrat Social.
Per i teorici repubblicani la repubblica è l'opposto del potere senza freno e
senza regola, chiunque lo eserciti, e della tirannide, ovvero il dominio di un
uomo (o di una fazione o di molti) contro l'interesse comune. La repubblica si
contrappone anche alla monarchia perché la libertà sotto il re è sempre
dipendente dalla volontà arbitraria di un uomo. Il re, anche nelle monarchie
costituzionali, assume in virtù della nascita prerogative e poteri che sono
negati agli altri cittadini e dunque viola il principio dell'uguaglianza
repubblicana. Il concetto di repubblica è connesso al principio che la vera
libertà politica consiste nel non essere dipendenti dalla volontà arbitraria di
un uomo o di alcuni uomini ed esige l'uguaglianza dei diritti civili e
politici. La vera libertà, spiega Cicerone, esiste «solo in quella repubblica
in cui il popolo ha il sommo potere» e comporta «una assoluta uguaglianza di
diritti», in quanto «la libertà non
consiste nell'avere un buon padrone, ma nel non averne affatto» (De re
publica). Questo concetto di libertà vale sia per l'individuo sia per lo stato.
Uno stato può dirsi libero se non dipende dalla volontà di un altro stato e non
deve ricevere da altri gli statuti e leggi o richiedere approvazione per i suoi
atti.Come recitano le formule di Bartolo da Sassoferrato, le città che vivono
in libertà si governano da sole («proprio regimine»). Esse non riconoscono
alcun potere superiore («civitas quem superiorem non recognoscit»), e per
questo il loro popolo è un popolo libero. Rousseau, ma altri esempi si
potrebbero citare, racchiude in una formula precisa il concetto di libertà
repubblicana: «un popolo libero obbedisce ma non serve; ha dei capi, ma non dei
padroni; obbedisce alle leggi, ma solo alle leggi; ed è in virtù delle leggi
che non diventa servo degli uomini» (Jean-Jacques Rousseau, Lettres écrites de
la montagne, VIII). Per i filosofi politici repubblicani la libertà politica ha
quale condizione necessaria il governo della legge. Essi hanno sempre
sottolineato che la vera legge è un comando pubblico e universale che vale
ugualmente per tutti i cittadini, o per tutti i membri del gruppo rilevante. La
limitazione o l'interferenza che la legge impone sulle scelte degli individui
non è dunque una restrizione della libertà ma come un freno essenziale e
benefico. Se il governo della legge è scrupolosamente rispettato, nessun
individuo può impone la sua volontà arbitraria ad altri individui in virtù del
fatto che egli può compiere con impunità azioni che ad altri sono proibite
sotto pena di sanzione. Se invece sono gli uomini e non la legge a governare,
alcuni individui possono imporre la loro volontà arbitraria ad altri ed
impedire ad essi di perseguire i fini che essi vorrebbero perseguire, e quindi
privarli della libertà (questo vale anche nel caso in cui è la maggioranza
degli uomini a governare, ovvero una democrazia). Questa interpretazione della
libertà politica è descritta in modo eloquente in testi classici che
diventarono il nucleo centrale del repubblicanesimo moderno, in particolare un
passo in cui Livio afferma che la libertà dei romani consiste in primo luogo
nel fatto che le leggi sono più potenti degli uomini (Ab urbe condita) e un
passo di Cicerone, citato infinite volte dagli scrittori politici repubblicani:
«Legum idcirco omnes servi sumus ut Liberi esse possimus» (Pro Cluentio, 146).
Anche Machiavelli identifica la libertà politica con le restrizioni che il
diritto impone ugualmente a tutti i cit-tadini. Se in una città vi è un
cittadino che i magistrati temono, e che può rompere i vincoli delle leggi, egli
scrive, la città non è libera (Discorsi). Nelle Istorie fiorentine (Proemio)
osserva che «si può chiamar libera» solo quella città in cui le leggi e gli
ordinamenti costituzionali restringono in modo efficacie i «cattivi umori »
della nobiltà e del popolo. Per contro, tutti gli esempi di oppressione che i
repubblicani classici offrono nei loro scritti sono violazioni del principio
del governo della legge: il tiranno che si pone al di sopra delle leggi civili
e delle leggi costituzionali e quindi comanda ad arbitrio; il cittadino potente
che ha ottenuto per se un privilegio che è negato ad altri cittadini; i
governanti che hanno poteri discrezionali. Le restrizioni che la legge impone
sulle azioni dei governanti e dei cittadini sono dunque, per i repubblicani,
l'unica valida difesa contro la coercizione imposta da individui: essere liberi
vuol dire vivere sotto leggi eque. L'argomento repubblicano che il governo
della legge è la condizione necessaria affinché i cittadini non siano
assoggettati alla volontà arbitraria di alcuni individui (o di un solo
individuo), e possano pertanto vivere liberi, è il tema di fondo di uno dei più
significativi dibattiti nella storia del repubblicanesimo, ovvero la risposta
di James Harrington a Hobbes, che nel Leviatano aveva sostenuto che non è
affatto vero che i cittadini di una repubblica come Lucca sono più liberi dei
sudditi di un sovrano assoluto come il sultano di Constantinopoli perché tanto
i primi quanto i secondi sono sottomessi alle leggi. Ciò che rende i cittadini
di Lucca più liberi dei sudditi di Costantinopoli, spiega Harrington, è il
fatto che a Lucca tanto i governanti quanto i cittadini sono sottoposti alle
leggi civili e costituzionali, mentre a Constantinopoli il sultano è al di
sopra delle leggi e può disporre arbitrariamente delle proprietà e della vita
dei sudditi, costringendoli in tal modo a vivere in una condizione di completa
dipendenza, e dunque di mancanza di libertà. I cittadini di Lucca sono liberi
«per le leggi di Lucca» («by the laws of Lucca»), perché essi sono controllati
solo dalle leggi (James Harrington, The Commonwealth of Oceana and A System of
Politics, a cura di J.G.A. Pocock, Cambridge, Cambridge University Press, 1992,
Preliminaries). Nella sua lunga storia, il repubblicanesimo si è caratterizzato
non solo per gli ideali della repubblica e della libertà ma anche per
l'insistenza sull'idea che l'una e l'altra hanno bisogno della virtù civile dei
cittadini. Per virtù essi intendono la saggezza che fa capire ai cittadini che
il loro interesse individuale è parte del bene comune, la generosità dell'animo
che spinge a partecipare alla vita pubblica, la forza interiore che dà la
determinazione di resistere contro i potenti e gli arroganti che vogliono
opprimere. Nonostante l'autorevole opinione di Montesquieu che considerava la
virtù politica una forma di rinuncia e di sacrificio, gli scrittori politici
repubblicani dei secoli precedenti interpretavano la virtù come una passione
che non si contrapponeva né all'interesse né alla ricchezza, ma solo
all'avarizia e all'ambizione sfrenata di dominio. Il repubblicanesimo è stato
il linguaggio politico dominante delle élites politiche e sociali delle
repubbliche commerciali d'Europa. Anche se non mancarono, come nel caso di
Girolamo Savonarola, pensatori repubblicani che teorizzarono la repubblica come
una Nuova Gerusalemme abitata da uomini dediti alla virtù cristiana, il
pensiero politico repubblicano, con i suoi pensatori più influenti, ha
teorizzato un ideale mondano e realistico di virtù. Accanto all'ideale della
virtù civile, un altro concetto fondamentale della tradizione repubblicana è il
patriottismo. Per il repubblicanesimo classico l'amore della patria è una
passione, e più precisamente un amore caritatevole per la repubblica (caritas
reipublicae) e per i concittadini (caritas civium). Anche se rispetta i
principi della giustizia e della ragione, e può quindi essere chiamato «amore
razionale», l'amore della patria è un affetto particolare per una particolare
repubblica e per i suoi cittadini che nasce fra i cittadini delle libere
repubbliche perché essi condividono molti e importanti beni, quali le leggi, la
libertà, i consigli pubblici, le pubbliche piazze, gli amici e i nemici, le
memorie delle vittorie e delle sconfitte, le speranze, le paure. Essa
presuppone l'eguaglianza civile e politica e si traduce in atti di servizio
(officium) e di cura (cultus) per il bene comune. Infine, la caritas
reipublicae è una passione che irrobustisce l'animo, dà ai cittadini la forza
per compiere i loro doveri civici e ai governanti il coraggio di assolvere gli
obblighi, spesso onerosi, che la difesa della libertà comune richiede. Il
principio fondamentale del patriottismo repubblicano è che vera patria è solo
la libera 2 repubblica in cui vivono solo cittadini liberi ed eguali. La parola
patria si legge ad es. nell'Encyclopédie, non significa il luogo in cui siamo
nati, come vuole la concezione volgare, bensí uno stato libero (état libre) di
cui siamo membri e le cui leggi proteggono le nostre libertà e la nostra
felicità (D'Alembert, Diderot, Encyclopédie, Neuchatel, Bouloiseau 1765, vol.
XII, p. 178). Gli scrittori repubblicani dell'età dell'Illuminismo usavano la
parola «patria» come sinonimo di «repubblica». Questa identificazione non era
solo un motivo polemico; riassumeva la considerazione che sotto il giogo del
despota i cittadini sono senza protezione e non possono partecipare alla vita
pubblica, come se fossero stranieri, e dunque non hanno patria. Il concetto di
patria è dunque strettamente connesso alla libertà e alla virtù, come scrive
Jean Jacques Rousseau: «La patria non può sussistere senza la libertà, né la
libertà senza la virtù, ne la virtù senza i cittadini» (Economie politique, in
Oeuvres Complètes, III, p. 258). Anche MAZZINI sottolinea che la vera patria è
quella che assicura a tutti i cittadini non solo i diritti civili e politici,
ma anche il diritto al lavoro e all'educazione. Per Mazzini e per i
repubblicani dell'Ottocento la patria è la casa comune dove viviamo con persone
che capiamo e che abbiamo care perché le sentiamo simili e vicine. Ma è anche
una patria accanto ad altre patrie di ugual pregio.Quando siamo nella nostra
casa dobbiamo assolvere i nostri obblighi in quanto cittadini; quando siamo in
casa di altri dobbiamo assolvere i doveri verso l'umanità. La difesa della
libertà è l'obbligo supremo di ognuno, anche se viviamo in suolo straniero e
anche se il popolo oppresso è un popolo straniero. Gli obblighi morali verso
l'umanità vengono prima degli obblighi verso la patria. Prima di essere
cittadini di una patria particolare, siamo esseri umani.Nonostante l'accordo
sui principi della repubblica, della libertà, e del patriottismo, il
repubblicanesimo non è mai diventato un corpo dottrinario sistematico e ha
assunto molteplici accentuazioni legate ai diversi contesti storici e culturali
nei quali si è sviluppato dall'antichità classica all'età contemporanea. Il
repubblicanesimo è dunque una tradizione del pensiero politico solo nel senso
che i teorici repubblicani hanno spesso elaborato le proprie analisi
riprendendo concetti di scrittori politici di epoche precedenti. Ma è del pari
vero che i teorici repubblicani hanno spesso rielaborato in maniera anche
radicale idee di altri scrittori politici appartenenti alla medesima
tradizione.Le divergenze più significative riguardano la forma di governo
considerata più atta a realizzare l'ideale della repubblica. Quasi tutti i
teorici repubblicani furono sostenitori del governo misto inteso quale forma di
governo che contempera gli aspetti positivi delle tre forme rette: il governo
di uno(monarchia), ilgoverno del pochi (aristocrazia) e il governo dei molti
(governo popolare o democratico). Mentre alcuni ritenevano che nell'ambito del
governo misto il popolo (il consiglio grande) dovesse avere un ruolo
preponderante, altri erano favorevoli ad assegnare tale ruolo all'elemento
aristocratico rappresentato da un senato, o da un consiglio ristretto. Un'altra
differenza è quella fra i sostenitori della repubblica che garantisce i diritti
politici alla maggioranza degli abitanti (repubblica democratica) e i
sostenitori di una repubblica che garantisce i diritti politici solo ad una
minoranza degli abitanti (repubblica aristocratica). Inoltre, alcuni teorici
repubblicani, come Machiavelli, sostenevano la necessità dell'espansione
territoriale sulla base del modello della repubblica romana (o del modello
federativo etrusco); altri, ad es. Rousseau, erano convinti che la repubblica,
per conservarsi incorrotta, doveva rimanere confinata entro un piccolo territorio.
Vi furono pensatori repubblicani che propugnarono l'ideale di una repubblica
unitaria, e pensatori che propugnarono l'ideale di una repubblica fondata sul
decentramento amministrativo e sull'autogoverno, come Carlo Cattaneo. Infine,
la storia del pensiero politico repubblicano presenta pensatori favorevoli ad
usare la religione per rafforzare la lealtà dei cittadini verso la repubblica
(Machiavelli) accanto ad altri che raccomandarono la creazione di una vera e
propria religione civile (Rousseau) e altri ancora che si fecero banditori
dell'idea religiosa come principio morale interiore (Mazzini). Anche a causa
della molteplicità di concezioni politiche che si raccolgono all'interno del
pensiero repubblicano, gli studiosi contemporanei hanno opinioni diverse su
importanti problemi storici e teorici. Mentre John Pocock sostiene che il
repubblicanesimo è una forma di aristotelismo politico 3 fondato sull'idea che
la vita politica è la massima realizzazione dell'individuo, altri studiosi, in
particolare Quentin Skinner, sottolineano il ruolo prevalente del pensiero
politico e giuridico ROMANO. Anche l'interpretazione del concetto di libertà è
materia di divergenze interpretative. Philip Pettit sostiene che la mancanza di
libertà consiste solo nella dipendenza dalla volontà arbitraria di altri
uomini; per Quentin Skinner la mancanza di libertà può essere causata sia dalla
dipendenza che dall'interferenza. Vi sono inoltre autori che interpretano il
repubblicanesimo come una dottrina democratica, lontana dal liberalismo, che
insiste sulla partecipazione dei cittadini alle decisioni politiche; altri
avvicinano il repubblicanesimo al comunitarismo, altri ancora sottolineano
piuttosto l'affinità fra repubblicanesimo e liberalismo radicale; altri infine
ritengono che tanto il liberalismo quanto la democrazia siano derivazioni del
repubblicanesimo. Nonostante le divergenze interpretative gli studiosi di
storia del pensiero politico e di filosofia politica sono in larga maggioranza
concordi nel riconoscere che il repubblicanesimo rappresenta un'autonoma e
distinta tradizione di pensiero politico che ha svolto un ruolo di primo piano
nella nascita e nella formazione delle moderne democrazie. BIBLIOGRAFIA. - BARON, In
Search of Fiorentine Civic Humanism: Essays on the Transition from Medieval io
Modern Thought, Princeton, BOCK, Q. SKINNER,VIROLI, Machiavelli and
Republicanism, Cambridge University Press, Cambridge POCOCK, Il momento
machiavelliano. Il pensiero politico fiorentino e la
tradizione repubblicana anglosassone Il Mulino, Bologna; SANDEL, Democracy's
Discontent: America in Search of a Public Philosophy, Harvard, PETTIT,
Repubblicanesimo, a cura di M. GEUNA, Feltrinelli, Milano; Q. SKINNER, The
Foundations of Modem Political Thought, Cambridge; Le origini del pensiero
politico moderno, a cura di M. VIROLI, Il Mulino, Bologna; ID., Libertà prima
del liberalismo, a cura di M. GEUNA, Einaudi, Torino, SMITH, Civic Ideals:
Conflicting Visions of Citizenship in U.S. History, Yale University Press, New
Haven, Conn. V., Repubblicanesimo, Laterza, RomaBari 1999. V.] Da N.Bobbio, N.
Matteucci, G. Pasquino, Il dizionario di Politica, UTET, Torino. Maurizio
Viroli. Keywords: Cicerone, ragion di stato, repubblica, repubblicanismo, la
repubblica romana, la morte, il crollo, il fine, la caduta della repubblica
romana, l’assassinio di Giulio Cesare, Catone Uticense, la repubblica romana,
del re Romo alla repubblica romana, il ratto di Lucrezia – republicanism e
principato, storia della repubblica di Genova, la repubblica romana, il gusto
per l’antico; quasi-contratto, il sorriso di Macchiavelli. Refs.: H. P. Grice
Papers, Bancroft MS, Luigi Speranza, “Grice e Viroli: Contrattualismo e
quasi-contrattualismo” – Luigi Speranza: “Il sorriso di Viroli: Grice e
Machiavelli ironista” -- The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria. Virioli.
Luigi Speranza -- Grice e Vittielo: la ragione
conversazionale e il segno infranto nel Vico topologico – la scuola di Napoli –
filosofia napoleetana – filosofia campanese -- filosofia italiana – Luigi
Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Napoli). Filosofo napoletano. Filosofo campanese. Filosofo
italiano. Napoli, Campania. “Come la lingua dell’eroe separa l’eroe dall’uomo,
così la lingua volgare separa il filologo dal filosofo. La lingua italiana volgare,
comune a ogni uomo, non riusce a descrivere la natura e le proprietà delle cose.
Sorge la scissione tra un filosofo – come Paul Grice -- che si dettero ad
investigare sulla natura delle cose, e un filologo – come H. P. Grice -- che, invece
investiga sulle origini delle parole. Così la filosofia e la filologia che sono
nate tutte e due dalla lingua dell’eroe, vennero ad essere divise dalla lingua
volgare o commone. Essential Italian philosopher. Insegna a
Salerno. Studia VICO, l'idealismo, Nietzsche e Heidegger in rapporto con la
filosofia romana, elabora una teoria ermeneutica. La sua topo-logia si fonda su
una re-interpretazione del concetto di spazio come orizzonte trascendentale
dell'operare umano. Gli sviluppi della sua topologia riguardano in particolare
la genealogia della communicazione. Affronta più volte la fede da un punto di
vista laico. Fonda Paradosso. Collabora a Filosofia di Laterza e a numerose
altre riviste filosofiche, tra cui “aut aut.” Dirige Il pensiero. Collabora
all'annuario Filosofia e all'annuario sulla Religione. Pubblica in Teoria ed
altre ancora. Svolge un’intensa attività pubblicistica su quotidiani e
periodici. Tenne cicli di conferenze e seminari. Saggi: Filosofia della pratica
e dottrina politica liberale in CROCE, Napoli; Etica e liberalismo in CROCE,
Napoli; Il carattere DISCORSIVO del conoscere, Napoli; ANTONI, interprete di CROCE,
Napoli; Storia e storiografia nella filosofia di CROCE, Scientifica, Napoli; Sentimento
e relazione nell’ESPERIENZA, Napoli; Il nulla e la fondazione dello storico, Argalia,
Urbino; Dialettica ed ermeneutica, Guida, Napoli; Utopia del nichilismo, Guida,
Napoli; Studi heideggeriani, Roma; Ethos ed eros, ESI, Napoli; Logica e storia
in Hegel, Napoli; Il problema del cominciamento, Guida, Napoli; Hegel e la comprensione;Topologia,
Marietti, Genova; La voce riflessa, Logica ed etica della contraddizione, Lanfranchi,
Milano; Elogio dello spazio: ermeneutica e topologia, Bompiani, Milano; Cristianesimo
senza redenzione, Laterza, Roma; Non dividere il sì dal no: tra filosofia e
letteratura (Laterza, Roma); Filosofia teoretica: le domande fondamentali:
percorsi e interpretazioni (Milano); La favola di Cadmo (Laterza, Roma); “VICO (si
veda) e la topologia” (Cronopio, Napoli); “La vita e il suo oltre: sulla morte”
(Roma); “Il Dio possibile, esperienze di cristianesimo” (Città Nuova, Roma); “Hegel
in Italia, Milano); “Dire Dio in segreto” (Roma); “Cristianesimo e nichilismo: Dostoevskij-Heidegger”
(Morcelliana, Brescia); “Estetica e ascesi” (Modena); E pose la tenda in mezzo
a noi,” Albo Versorio, Il Decalogo. Ricordati di Santificare le feste; I tempi
della poesia. Ieri/oggi” (Mimesis, Milano); “Dipingere Dio” (Albo Versorio); “VICO:
storia, LINGUAGGIO, natura, Storia e Letteratura, Roma); “Ri-pensare il cristianesimo”
(De Europa, Ananke); “Oblio e memoria del sacro” (Moretti, Bergamo); “Grammatiche
del pensiero: dalla kenosi dell'io alla logica della seconda persona, ETS, Celan;
Heidegger” (Mimesis); “I comandamenti. Non dire falsa testimonianza” (Il Mulino);
“L'ethos della topologia. Un itinerario di pensiero” (Lettere, Firenze); “Paolo
e l'Europa: cristianesimo e filosofia” (Città Nuova, Roma); “L'immagine
infranta: linguaggio e mondo in VICO” (Bompiani, Milano); “VICO: tra storia e
natura,” aut aut; “Complessità e aporie del moderno”, in Filosofia politica; “Dall'ermeneutica
alla topologia”,“aut aut”; “Goethe, interprete della modernità” aut aut; “Per amicizia:
Epochè e metafora”; “aut aut”, “Sentire le Radici, la Terra stessa”, i“aut aut”;
“Zanzotto, ovvero: la poesia come genealogia della parola”, in “aut aut”; “Redaelli,
Il nodo dei nodi; L'esercizio del pensiero in VATTIMO”, V. (Sini, ETS, Pisa); “Luoghi
del pensare” (Mimesis, Milano); Enciclopedia multimediale delle scienze
filosofiche di RAI Educational; "Filosofia". Appare la
"seconda" Scienza Nuova. Non è propriamente una seconda edizione dei
Principj di una Scienza Nuova intorno alla Natura delle Nazioni, apparsi cinque
anni innanzi. La revisione, a cui Vico ha sottoposto il testo del 1725, è tale
da farne un'altra opera: basterebbe ricordare l'inserimento della
"discoverta del vero Omero", argomento affatto nuovo e fondamentale
che occupa un intero libro, il terzo; invero è mutata la struttura stessa del
lavoro, come anche una rapida scorsa degli indici delle due edizioni mostra.
Se, ciononostante, Vico ha mantenuto anche nella successiva edizione il
medesimo titolo, salvo piccole varianti,2 è perché l'ampliamento e la diversa
distribuzione della materia, nonché la correzione dell'"errore"
d'aver egli separato, nella prima redazione, i "principi delle idee"
da quelli "delle lingue", che sono "per natura tra loro
uniti", non solo non hanno mutato l'orientamento di fondo dell'opera,
l'hanno bensì approfondito e sviluppato, specialmente riguardo al tema del
linguaggio. Tra le "novità" della seconda Scienza Nuova spicca
l'immagine posta sul frontespizio dell'opera: una "dipintura
allegorica" commissionata dal filosofo a Domenico Antonio Vaccaro, noto
pittore napoletano, che l'aveva eseguita secondo precise indicazioni e sotto il
controllo del committente. Che l'uso di accompagnare un testo filosofico o
letterario con un'immagine fosse frequente al tempo di Vico è cosa nota: si
citano come esempi illustri l'Organon di Francesco Bacone, il Leviathan di
Hobbes, i Second Characters di Shaftesbury e da ultimo la Istoria universale
provata con monumenti e figurata con simboli degli antichi di Francesco
Bianchini. Che il filosofo napoletano ne sia stato influenzato, ben si ricava
da quanto egli stesso dice nel primo capoverso dell'Introduzione, dove spiega
che l'immagine sul frontespizio dell'opera serve a"ridurla più facilmente
a memoria [...] dopo di averla letta".Ma che la funzione mnemonica di
questa Tavola delle cose civili sia affatto secondaria, è del tutto chiaro,
premurandosi Vico di dire per prima cosa che la dipintura "serv(e) al
Leggitore per concepir l'idea di quest'Opera avanti di leggerla" (SN).
Prima di chiarire questo punto che è essenziale comprendere l'esigenza
filosofica cui risponde la "dipintura", è opportuno darle uno sguardo
veloce. In alto, a sinistra dell'osservatore, è dipinto un sole, al cui interno
è un triangolo con dentro un occhio, dal quale parte un raggio di luce che
giunge al petto della fanciulla dalle tempie alate, allegoria della Metafisica,
che ha lo sguardo fisso al sole. Dal petto della fanciulla, i cui piedi
poggiano sul globo terrestre, il raggio si riflette sulla statua collocata in
basso a sinistra. Ai piedi della statua, che raffigura Omero, vari arnesi: та
оно, un timone, un aratro, una borsa; poi una tavola con su scritte alcune
lettere alfabetiche, quindi un fascio di verghe. Al lato opposto della statua un
altare, su cui scorgiamo un lituo, una fiaccola, un orciuolo contenente acqua,
quindi il fuoco accanto al globo su cui poggia la fanciulla alata. La fascia
che cinge il globo è quella dello zodiaco, con i segni delle costellazioni
della Vergine e del Leone in evidenza. In basso, a destra, un'urna cineraria,
ai margini di una gran selva. Vico concepì il dipinto come "Idea
dell'opera" - così nell'Introduzione dedicata alla "spiegazione della
dipintura proposta al frontespizio" - e cioè come figura o immagine della
Scienza Nuova, ovvero della storia: della storia ideale eterna e delle storie
che "corron' in tempo". L'ampiezza e la meticolosità della
"spiegazione"5 attestano l'importanza ch'egli attribuiva alla "traduzione"
dei suoi argomenti in "immagine". L'immagine doveva, infatti,
integrare la voce, facendo cogliere uno actu - e non in successione - i due
aspetti che caratterizzano la storia: 1) la cornice stabile e permanente
dell'eterna provvedenza, esemplata nel raggio di luce che parte dall'occhio
divino e, toccando la metafisica, illumina e regge il mondo degli uomini, e 2)
l'operare umano nel tempo, volto, anche inconsciamente, a Dio, testimoniato
dallo sguardo della fanciulla alata, eternamente fisso sul triangolo solare. E,
pertanto, come l'immagine serviva ad integrare la voce, così questa doveva a
sua volta completare l'immagine, dacché soltanto la voce dà in successione
quello che in successione accade entro l'ordine necessario della storia ideale
eterna: il "correre in tempo" delle storie di tutte le nazioni
"ne' loro sorgimenti, progressi, stati, decadenze e fini" (SN44, p.
903). Vico non intese questa congiunzione di voce e immagine - phonè kai
schêma, per dirla con le parole del Cratilo di Platone, di cui il filosofo
napoletano resta insuperato "interprete"6 - come una
"novità" da lui introdotta in filosofia. Al contrario la presentava
come un'operazione di restauro. Per comprenderne le ragioni, dobbiamo fare
alcuni passi indietro nel tempo e leggere quella nota che lui aggiunse al Il
Libro del Diritto Universale, il De constantia jurisprudentis:[...] Come prima
la lingua eroica aveva diviso gli eroi dagli uomini, così dopo la lingua
volgare divise i filologi dai filosofi. Il motivo di questa seconda
osservazione è che, poiché la lingua volgare, in quanto comune, non riusciva a
descrivere la natura e le proprietà delle cose, sorse la scissione tra i
filosofi che si dettero a investigare sulla natura delle cose, e i filologi che
invece investigavano sulle origini delle parole; e così la filosofia e la
filologia, che erano nate tutte e due dalla lingua eroica, vennero ad essere
divise dalla lingua volgare.? La lingua volgare, così detta perché lingua della
comunicazione - in seguito Vico la chiamerà "pistolare" (SN, Degnità)
-, rende solo i caratteri "comuni", "generici", delle cose,
non la loro "natura", ciò che ad esse è proprio, la loro concreta,
reale, determinatezza. Questo ha portato alla divisione della filologia, che
s'interroga sull'origine delle parole - quindi su come siano sorte le parole
generiche, vuote di determinatezza, della lingua "comune" -, dalla
filosofia che, invece, investiga direttamente la natura delle cose. Ma in che
modo? Non è anche la filosofia legata al linguaggio? Vico s'avvide del cul-de-sac
in cui s'era cacciato. Ne uscì, con due mosse geniali. La prima fu l'abbandono
del latino delle scuole, lingua di pura comunicazione di concetti, priva di
vero rapporto con la vita quotidiana del popolo, fatta di eventi reali e cose
concrete; scelse di scrivere in volgare - ma bisogna aver confidenza con la
lingua di Vico, con il "barocco napoletano" della Scienza Nuova, per
capire la portata di questo mutamento.La seconda mossa strategica fu
"l'idea dell'opera": la "dipintura allegorica", con cui
egli volle ricongiungere voce e immagine, o, per dirla con Nietzsche, il mondo
dell'ascolto, della parola (Hörwelt), e quello della visione, dell'immagine
(Schauwelt). 8 Vico operava, consapevolemente, in controtendenza rispetto
all'intera tradizione occidentale e in particolare al suo tempo, che spingeva
la lingua all'astrazione, secondo il modello"matematico". Vico - ho
detto; ma debbo subito precisare: il filologo più che non il filosofo. Ché come
filosofo non fu meno attratto dal mos geometricum di quanto lo furono Cartesio
e Spinoza, se volle estendere alla storia quella mathesis universalis già da
Grozio applicata al diritto. Come filologo, invece, seppe risalire alle origini
lontane, remote del linguaggio, alle fonti antiche della poesia greca, con la
"discoverta" del vero Omero o dei molti Omeri, e della latina,
leggendo insieme con Virgilio e Lucrezio, e Orazio, Stazio, Plauto, gli
"storici" e gli"eruditi", interpretando anche l'antico
diritto romano qual"serioso poema" e l'antica giurisprudenza come"severa
poesia". Né si fermò qui, ma piegandosi sulla lingua dei contadini, sulle
loro metafore e i loro gesti, vide con l'occhio di una fervida immaginazione i
primi abitanti della Terra, i forti ed empiamente pii Polifemi, atterriti dalla
luce del lampo che squarcia le notti e dal cupo rimbombo del tuono che fa
tremare la Terra, emettere i primi suoni inarticolati di un linguaggio
"naturale", inintenzionale, prima fonte della lingua articolata
dell'uomo. Scorse, talora come da dietro un vetro opaco, la nascita dell'uomo
dall'animale, della mente dal corpo, della storia dall'ingens sylva, e ne
descrisse lo sviluppo, non senza "salti" e "confusioni" di
tempi e forme linguistiche. Philologia contra philosophia? In certo senso sì,
se la filologia lo convinse non solo a trattare dei miti, ma in qualche modo a
"mimarne" il gesto narrativo.10 Tentò una nuova lingua, logica e
mitica ad un tempo, capace di tenere insieme narrazione e logica, la
contingenza della storia e la necessità della mathesis. Anticipava con le sue folgoranti
intuizioni, l'idea della Mythologie der Vernunft,11 che nacque all'incirca
mezzo secolo dopo in terra germanica, ma che presto fu abbandonata, e proprio
dal suo massimo rappresentante, Hegel, che, anni dopo, avrebbe esaltato il
linguaggio alfabetico sulla lingua geroglifica, per essere quello costituito di
nomi, che sono bildlose Vorstellungen, rappresentazioni senza immagini. Ed
"è nei nomi che noi pensiamo", La "dipintura" serviva a
Vico per ricostruire nella composizione di parola e immagine quella unità di
voce e gesto che l'uomo storico aveva già perduto molto prima che sorgesse la
lingua della comunicazione - la lingua "pistolare" della ragione
riflessa -, già con la lingua eroica. Ma era, Vico, in ritardo sul suo tempo.
La frattura parola/immagine era solo l'aspetto "in superficie" di una
più profonda scissione.Vincenzo Vitielo. Vitielo. Keywords: la lingua
dell’eroe, la lingua degl’eroi, Lazio, lazini, italiano, volgare, Lucrezio,
confronto vichiano, vicho contro vico, la lingua eroica di Vico, Vico,
semiotica, Croce, Vico topologico, linguaggio in Vico. Refs.: H. P. Grice Papers, Bancroft. Luigi
Speranza, “Grice e Vittielo” – “Topologia semiotica di Vico” – “Il Vico di
Vitielo” – Vico e il segno infranto”, The Swimming-Pool Library, Villa
Speranza, Liguria. Vitielo.
Luigi Speranza --
Grice e Viveros: le implicature del deutero-esperanto – filosofia italiana –
Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Roma). Filosofo italiano. Roma, Lazio. Tentativi sono
quelli di V., che presenta la lingua scinter, acronimo per lingua SC-entifico-INTER-nazionale
– cf. Grice on the formalists and the unity of science --, basata sia sul
latino che sul greco, e la cui tendenza è ancora una volta quella di creare una
lingua logica in cui vi sia un rapporto univoco e giustificato tra significato
e significante. In questo senso egli si discosta dal lavoro dei suoi colleghi e
si avvicina più alle idee dei filosofi, andando alla ricerca di una lingua
ideale a priori, che egli definisce lingua exacto mundiale. Proposta al
Principe di Napoli di compilare un dizionario scientifico internazionale.
Proposta a MUSSOLINI di compilare un dizionario scientifico internazionale.
L’essatismo di Burzio. Lingua
scientifico internazionale. Lingua scinter. Grice: It is a
commonplace of philosophical logic that there are, or appear to be, divergences
in meaning between, on the one hand, at least some of what I shall call the
formal devices-~, A, V, J, (Vx), (Bx), (ux) (when these are given a standard
two-valued interpretation)-and, on the other, what are taken to be their
analogues or counterparts in natural language-such expressions as not, and, or,
if, all, some (or at least one), the. Some logicians may at some time have
wanted to claim that there are in fact no such divergences; but such claims, if
made at all, have been somewhat rashly made, and those suspected of making them
have been subjected to some pretty rough handling. Those who concede that
such divergences exist adhere, in the main, to one or the other of two rival
groups, which I shall call the formalist and the informalist groups. An outline
of a not uncharacteristic formalist position may be given as follows: Insofar
as logicians are concerned with the formulation of very general patterns of valid
inference, the formal devices possess a decisive advantage over their natural
counterparts. For it will be possible to construct in terms of the formal
devices a system of very general formulas, a considerable number of which can
be regarded as, or are closely related to, patterns of inferences the
expression of which involves some or all of the devices: Such a system may
consist of a certain set of simple formulas that must be acceptable if the
devices have the meaning that has been assigned to them, and an indefinite
number of further formulas, many of which are less obviously acceptable and
each of which can be shown to be acceptable if the members of the original set
are accept-able. We have, thus, a way of handling dubiously acceptable patterns
of inference, and if, as is sometimes possible, we can apply a
decisionprocedure, we have an even better way. Furthermore, from a
philosophical point of view, the possession by the natural counterparts of
those clements in their meaning, which they do not share with the corresponding
formal devices, is to be regarded as an imperfection of natural languages; the
elements in question are undesirable excres-cences. For the presence of these
elements has the result both that the concepts within which they appear cannot
be precisely or clearly de-fined, and that at least some statements involving
them cannot, in some circumstances, be assigned a definite truth value; and the
indef-initeness of these concepts not only is objectionable in itself but also
leaves open the way to metaphysics-we cannot be certain that none of these
natural language expressions is metaphysically "loaded." For these
reasons, the expressions, as used in natural speech, cannot be regarded as
finally acceptable, and may turn out to be, finally, not fully intelligible.
The proper course is to conceive and begin to construct an ideal language,
incorporating the formal devices, the sentences of which will be clear,
determinate in truth value, and certifiably free from metaphysical
implications; the foundations of science will now be philosophically secure,
since the statements of the scientist will be expressible (though not
necessarily actually expressed) within this ideal language. (I do not wish to
suggest that all formalists would accept the whole of this outline, but I think
that all would accept at least some part of it.) To this, an informalist
might reply in the following vein. The philosophical demand for an ideal
language rests on certain assumptions that should not be conceded; these are,
that the primary yardstick by which to judge the adequacy of a language is its
ability to serve the needs of science, that an expression cannot be guaranteed
as fully intelligible unless an explication or analysis of its meaning has been
provided, and that every explication or analysis must take the form of a
precise definition that is the expression or assertion of a logical
equivalence. Language serves many important purposes besides those of
scientific inquiry; we can know perfectly well what an expression means (and so
a fortiori that it is intelligible) without knowing its analysis, and the
provision of an analysis may (and usually does) consist in the specification,
as generalized as possible, of the conditions that count for or against the
applicability of the expression being ana-lyzed. Moreover, while it is no doubt
true that the formal devices are especially amenable to systematic treatment by
the logician, it remains the case that there are very many inferences and
arguments, expressed in natural language and not in terms of these devices,
whichare nevertheless recognizably valid. So there must be a place for an
unsimplified, and so more or less unsystematic, logic of the natural
counterparts of these devices; this logic may be aided and guided by the
simplified logic of the formal devices but cannot be supplanted by it. Indeed,
not only do the two logics differ, but sometimes they come into conflict; rules
that hold for a formal device may not hold for its natural counterpart.
On the general question of the place in philosophy of the reformation of
natural language, I shall, in this essay, have nothing to say. I shall confine
myself to the dispute in its relation to the alleged diver-gences. I have,
moreover, no intention of entering the fray on behalf of either contestant. I
wish, rather, to maintain that the common assumption of the contestants that
the divergences do in fact exist is (broadly speaking) a common mistake, and
that the mistake arises from inadequate attention to the nature and importance
of the conditions governing conversation. I shall, thereforc, inquire into the
gen-cral conditions that, in one way or another, apply to conversation as such,
irrespective of its subject matter. I begin with a characterization of the
notion of "implicature."Gaetano Viveros. Keywords: Implicature di Deutero-Esperanto. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Viveros,” pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The
Swimming-Pool Library. Viveros.
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