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Wednesday, February 19, 2025

LUIGI SPERANZA -- GRICE ITALO A-Z V VI

 

Luigi Speranza -- Grice e Viano: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del va’ pensiero – il carattere della filosofia italiana – la scuola d’Aosta -- filosofia italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Aosta). Filosofo italiano. Aosta, Valled’Aostda. Esential Italian philosopher. Filosofo italiano. Si laurea in filosofia a Torino sotto ABBAGNANO. Insegna a Milano e Cagliari. Fa ritorno, in qualità di ordinario fuori ruolo di storia della filosofia, a Torino. Fa parte del Comitato Nazionale per la bio-etica, ed è stato membro del direttivo della “Rivista di filosofia” e socio nazionale dell'accademia delle scienze di Torino.  Insignito del premio Feltrinelli per la storia dela filosofia. Di formazione illuminista, V. si occupa di storia della filosofia antica. -- è autore di importanti studi su Aristotele (“La logica di Aristotele” (Torino, Taylor) e l’empirismo (“Dal razionalismo all'illuminismo” (Einaudi, Torino); “Il pensiero politico” (Laterza, Roma). Nel campo dell'etica, oltre a studi storici -- “L'etica” (Mondatori, Milano), “Teorie etiche” (Boringhieri, Torino) -- si dedica a promuovere la costruzione di una bio-etica e a denunciare la timidezza dei laici di fronte alle ingerenze del cristianesimo.  Da Mistretta, direttore editoriale della Laterza di Roma, gli fu affidata, la direzione di una “Storia della filosofia.” Altre saggi: “La selva delle somiglianze: il filosofo e il medico” (Torino, Einaudi); “Va' pensiero: il carattere della filosofia italiana” (Torino, Einaud); “Filosofia italiana nel dopo-guerra” (Bologna, Mulino); “Etica pubblica” (Roma/Bari, Laterza); “Le città filosofiche: per una geografia della cultura filosofica italiana” (Bologna, Il Mulino); “Le imposture degl’antichi e i miracoli dei moderni” (Torino, Einaudi); “Laici in ginocchio” (Roma/Bari, Laterza); “Stagioni filosofiche: la filosofia del Novecento fra Torino e l'Italia” (Bologna, Mulino); “La scintilla di Caino: storia della coscienza e dei suoi usi” (Torino, Boringhieri). Profilo biografico sull’accademia delle scienze. Mori, Torino ricorda V., su Torino. Cerimonia nell'accademia nazionale dei lincei, su presidenza della repubblica, Roma. Treccani Enciclopedie,  Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Registrazioni su Radio Radicale, Radio Radicale.  Biografia e testi sull'Enciclopedia multimediale RAI delle scienze filosofiche Rassegna stampa sul Sito Italiano per la Filosofia Recensione di "Le città filosofiche" su Recensioni Filosofiche. Il lizio. Il punto di vista da cui intendiamo prendere le mosse e che ci pare adatto a permettere un proficuo studio della logica del LIZIO – tanto celelbrato a Roma -- può essere sufficientemente precisato se messo in rapporto con la tradizione storiografica concernente questo argomento. Le non molte pagine che compongono l’ “Organon” hanno suscitato interessi per secoli intieri dal tempo dei commenti romani fino ai rinnovati studi aristotelici del '500, attraverso gli studi medioevali, e fino alla logica classica dell'800. Ma una vera e propria indagine storiografica volta non a sviluppare una tecnica logica i cui principi si considerassero posti da Aristotele, bensì a comprendere il significato delle dottrine dello Stagirita e nei rapporti con gli atteggiamenti di pensiero dei suoi contemporanei e nei rapporti con gli interessi dello Stagirita stesso, sorse solo all'inizio del secolo scorso e tramontò abbastanza rapidamente: tanto che da cinquant'anni a questa parte poche e non molto significative sono le opere dedicate alla logica aristotelica.  Le ragioni di ciò si possono forse trovare nella impostazione che nella filosofia contemporanea viene data al problema logico. Infatti, nell'800 da un lato la critica kantiana presenta un' interpretazione della scienza classica servendosi proprio delle categorie della logica tradizionale come categorie proprie dell'intelletto umano, categorie di cui si serve ancora la logica hegeliana che pretende addirittura di assurgere a logica di tutta la realtà; d'altra parte il positivismo, soprattutto in Inghilterra, tenta di elaborare una logica empirica servendosi degli schemi che la logica tradizionale aveva mutuato da Aristotele; e la stessa logica formale ottocentesca finisce con il favorire lo studio di quello che i suoi cultori conside ravano come il fondatore della loro disciplina. Invece nel 'goo l'ideali-smo neo-hegeliano abbandona l' esigenza panlogistica, almeno quale si configura nello Hegel, preferendo parlare di una Coscienza assoluta più che di un'Idea che si svolga secondo una necessità logica, scoprendo perciò negli schemi cui ancora la Wissenschaft der Logik si era attenuta contraddizioni insanabili, come il Bradley, o vedendo nella logica che si attiene agli schemi aristotelici una indebita infiltrazione di schemi verbali irrigiditi nel campo del pensiero puro, come CROCE, o l' irrigidirsi del pensiero pensante nell'astratto pensiero pensato, come GENTILE. D'altra parte anche la logica della scienza tentava di liberarsi degli schemi tradizionali diventati incapaci di intendere i metodi nuovi di cui l' indagine scientifica si serviva o avvicinandosi sempre di più alla tecnica della ma-  tematica, con la logistica, o configurandosi come rigorosa analisi sintat-tica del linguaggio o servendosi delle nuove categorie che il pragmatismo offriva per l'interpretazione della scienza. In questo orizzonte gli studi sulla logica aristotelica non trovavano terreno propizio per germogliare.  Infatti gli interpreti idealisti, tra i quali il più significativo è forse CALOGERO, accettavano ben volentieri la qualificazione della logica aristotelica come logica formale, come solidificazione astratta ed artificiosa dell'opera vivente del pensiero e perciò tentavano di mostrare come essa non fosse essenziale per la comprensione del vero pensiero aristotelico in quanto costituisce un' intrusione del dianoetico nella noesi, cioè nell'atto di pensiero puro che determina i suoi contenuti immediatamente e senza ricorrere allo schema verbale del giudizio, come dimostrerebbe nel modo più lampante il libro della Metaphysica ed il frequente affiorare di questa esigenza anche nelle pagine dell'Organon, additate con molto acume e con molta perizia nella succitata opera del CALOGERO. La logistica, per bocca del Russell, prendeva un netto atteggiamento polemico nei riguardi della logica aristotelica vedendo in essa un insieme di schemi verbali non rispondenti però ad un'autentica tecnica logica, perché inficiati dal presupposto sostanzialistico, di carattere metafisico, che, riducendo tutte le enunciazioni a proposizioni della forma soggetto-predicato, preclude ogni considerazione delle relazioni. Tuttavia proprio nell'ambito della logistica doveva sorgere un altro atteggiamento verso la logica ari-stotelica, meno polemico, rappresentato soprattutto dallo Scholz, dal Becker e dal Bochénski. Comune a questi interpreti è il presupposto che la logica di Aristotele sia logica formale, cioè volta ad elaborare schemi linguistici aventi rapporti noti ed indipendenti dal valore dato alle incognite che in essi possono comparire. In questo modo, pur accettando l'osservazione del Russell che la logica aristotelica non va accettata così com'è perché deve essere integrata e sviluppata soprattutto con l'aggiunta della logica delle relazioni, essi non polemizzano più contro di essa, ma anzi la considerano come il precedente storico della logica formale contemporanea che si presenta appunto come un progresso rispetto a quella. Di conseguenza questi interpreti non mettono in problema le dottrine aristoteliche e l'impostazione da esse data al problema della logica; ma anzi accettano che quella dello Stagirita sia la vera impostazione del problema logico, la soluzione del quale consiste nello sviluppo diretto delle dottrine dell'Organon. Infatti secondo lo Scholz Aristotele avrebbe formulato un'as-siomatica che permetteva alla scienza del suo tempo di organizzarsi come un sistema di proposizioni necessariamente connesse; su questa base, da un lato, il Becker ha intrapreso una trascrizione in simboli della dottrina aristotelica della possibilità senza dare ragione delle diverse interpretazioni che di questa categoria lo Stagirita veniva dando, mentre dall'altro il Bochénski ha svolto un esame particolareggiato dell'assio-matica di cui parlava lo Scholz e della dottrina linguistica da questa pre-supposta, senza però vedere i rapporti tra questa e quella. Contro questo rapporto di derivazione diretta della logica formale contemporanea da quella aristotelica protestava il Veatch facendo però uso di argomenti non molto persuasivi. Fuori della logistica, frattanto, le difficoltà sorgenti dal tentativo di interpretare la scienza contemporanea con la logica aristotelica venivano messe in luce dal Reiser in alcuni articoli assai superficiali e disordinati, ma contenenti alcune buone osservazioni, e soprattutto dal Dewey che, con un atteggiamento ben più equilibrato, notava come la logica aristotelica presupponesse l'ontologia della sostanza alla quale era legata. Ma, facendo occasionalmente queste osservazioni in un'opera teorica, egli lasciava aperto proprio il problema di trovare i modi precisi di questo rapporto tra ontologia e logica e di determinare come l'ontologia si modelli attraverso la logica.  Dall'esame delle interpretazioni surriferite si possono trarre alcune importanti considerazioni che permettono subito di orientarsi di fronte alla logica aristotelica. Infatti lo studio della logica propria della scienza contemporanea ci fa subito avvertiti che ad essa 101 sono più applicabili gli schemi dell'Organon distruggendo così la pretesa di vedere in esso le tavole eterne, sebbene magari ancora incomplete, su cui sono segnate le leggi del pensiero umano e scoprendo le quali Aristotele avrebbe fatto l'uomo razionale, dopo che Dio lo aveva fatto semplice creatura a due gambe, come disse il Locke. Ciò posto, risulta impossibile giustificare storicamente la logica aristotelica vedendo in essa la scoperta del procedimento del pensiero in quanto tale, che è in fondo l'interpretazione del Barthélemy Saint-Hilaire, o anche solo dell’intelletto che sarà poi superato dialetticamente dalla Ragione, come sostiene Hegel. Ma allora il problema della logica del LIZIO si presenta in tutta la sua gravità. Infatti essa non potrà più essere giustificata come insieme di regole che reggano il corso del pensiero stesso in quanto tale, ma bisognerà esaminare l'effettivo valore che essa ha per noi, i problemi che essa ci pone, gli eventuali mezzi per risolverli che essa ci offre. Ma queste sono prospettive di ricerca che ci si offrono solo in quanto alla logica aristotelica non si attribuisca una validità metastorica e si riconosca in essa un insieme di dottrine storicamente condizionate che storicamente vanno studiate. Da ciò consegue che la logica di Aristotele non potrà essere studiata come logica in quanto tale, ma dovrà essere studiata come logica aristotelica: cioè svolgere una ricerca su di essa vorrà dire giustificare il suo posto nell'insieme delle opere aristoteliche, mettere in luce quali problemi il suo autore si proponeva di risolvere e quali riusciva a risolvere con essa. Perciò le interpretazioni idealistiche e lo-  gistiche, che sopra abbiamo esaminato, non conducono a fondo l'interpretazione storica della logica aristotelica in quanto lasciano sussistere dei termini - logica formale, schema verbale - il cui significato non viene determinato nel corso dell'indagine stessa, ma presupposto ad essa. È vero che la logica di Aristotele è costruita di schemi verbali; ma l'osservare che quegli schemi verbali sono troppo limitati o che essi oggi non servono più e rimproverare ad essi di soffocare la vera vita del pensiero non serve a comprendere storicamente il pensiero dello Stagirita; piuttosto giova vedere che cosa potesse significare per Aristotele stesso « schema verbale», quale uso di esso egli giustificasse, di quali dimensioni tenesse conto e quali eliminasse per costruire proprio quella nozione. Ed altrettanto dicasi per la qualificazione della sua logica come logica formale: in un certo senso questa attribuzione può essere sostenuta in quanto almeno gli Analytica priora si occupano di pure forme verbali in cui i termini sono rappresentati con lettere che prescindono da ogni eventuale contenuto. Ma il problema che subito si presenta è quello di determinare che significato abbia per Aristotele la « forma» e l'aggettivo « verbale» che ad essa viene attribuito. Perciò la comprensione storica della logica aristotelica ha come sua condizione la connessione delle dottrine logiche con le altre dottrine filosofiche dello Stagirita: a questo modo la logica non verrà considerata come la scienza del pensiero in quanto tale, ma come la logica resa possibile da una ben determinata posizione filosofica, presupponente una ben determinata metafisica, mentre, d'altra parte, sarà aperta la via a considerare con quali mezzi logico-lin-guistici sia stato possibile costruire quella metafisica.  La connessione delle dottrine logiche con quelle metafisiche nell' interpretazione di Aristotele non è nuova e, anzi, costituisce il tema dominante di alcuni studi assai celebri. Essa è riscontrabile nelle opere appartenenti alla storiografia francese di ispirazione spiritualistica facente capo al Ravaisson, all' Hamelin ed al Bergson. Carattere comune di questi studi è la presupposizione di una certa interpretazione della metafisica aristotelica, nella quale si cerca un posto per la logica o partendo dalla quale si discutono questioni pertinenti propriamente alla logica. E anche l'interpretazione della metafisica è caratterizzabile in modo assai tipico: essa infatti viene spiegata con schemi in prevalenza neoplatonici in base ai quali si vuole vedere teorizzata l'opera di un universale che darebbe vita agli individuali senza tuttavia risolversi totalmente in essi, lasciando così sussistere quelle aporie che. secondo questi interpreti, sarebbero riscontrabili nel xoprouós delle idec platoniche. Di conseguenza le interpretazioni della logica appartenenti a questa corrente, comc quelle di Chevalier, Aslan, Badareu, Robin, e Mansion rivelano un unico schema nel quale la logica appare come la dottrina dell'universale puro ed assolutamente necessario che lascia fuori di sé il particolare esistente, nel quale la nocessità si attenua fino a diventare soltanto il per lo più: anche qui cioè spunta la difficoltà della metafisica per cui da un lato l'universale è il solo oggetto veramente conoscibile, dall'altro il particolare è il solo oggetto veramente esistente. A questa interpretazione si potrebbe obbiettare che lascia insoluto proprio il problema della logica come logica, ossia come ricerca sulla possibilità di un discorso rigoroso, in quanto in questi studi non si vede come lo stesso discorso rigoroso, per potersi costituire come tale, richieda per Aristotele una certa metafisica. Del resto è assai significativo che questi interpreti si siano cimentati ben poco con gli Analytica priora esponendone semmai la dottrina, ma accettando implicitamente la tesi che in essi è svolta una trattazione di logica formale. Lo stesso Chevalier, che più degli altri si addentra nell'analisi di questo trattato, dichiara che esso rappresenta un tentativo di costruire una logica formale -- tentativo fallito perché il sillogismo richiede come fondamento una necessità reale che è concepibile solo se le premesse sono immediatamente intuibili, perché in caso contrario la pura necessità logica diventerebbe una mera necessità ipotetica. Ma la difficoltà sta proprio qui, cioè nell'assunzione che il sillogismo sia un mero mezzo di svolgere cocrente-mente un'ipotesi, il cui unico contatto con la realta consista in un' intui-zione intellettuale.  Ben più significativo è il modo in cui il Prantl tenta di connettere la logica con la metafisica nella sua Geschichte der Logik im Abendlande. Il fondamento della mediazione logica è un Realprincip immanente alle cose stesse e costituente l'equivalente ontologico delle categorie linguistiche di cui fa uso la logica. Il merito del Prantl consiste appunto nel tentare di definire per quel che gli è possibile il principio ontologico con categorie logiche, mettendo in luce la stretta connessione che per Aristotele sussiste tra questi due aspetti. Senonché anche qui non si vede poi come non solo il Realprincip sia definibile con categorie logiche, ma come le stesse categorie logiche determinino il Realprincip costituendosi pro-prio come categorie logiche. Mentre Prantl pone al centro della inter-pretazione il concetto che è definibile contemporaneamente con catego-rie ontologiche e con categorie logiche, il Trendelenburg preferisce par-tire dalla considerazione del giudizio nel quale prendono senso lc cate-gorie che deriverebbero dalle varie parti del discorso distinte dalla gram-matica. Da questa interpretazione prendeva l'avvio una lunga discus-sione sulla dottrina delle categorie aristoteliche condotta da Bonitz, Apelt, Gercke, Witte, Geyser, Gillespie, e Fritz, nel corso della quale si tenta di penetrare sei-pre meglio i precedenti academici della dottrina aristotelica e si abban-dona anche l'analogia con le categorie kantiane che in un primo tempo erano state il termine del confronto che tutte le trattazioni si sentivano in dovere di fare impedendosi cosi la comprensione del significato propria-mente aristotelico di quella dottrina. Ma il motivo della centralità del giudizio nella logica aristotelica veniva ripreso ed ampliato dal Maier che intitolava un'amplissima opera sulla logica aristotelica Die Syllogistik des Aristoteles, mostrando appunto di voler imperniare tutte le sue indagini sul sillogismo considerato come la base di tutte le dottrine dell'Organon. Il Maier rifiuta nettamente l'interpretazione formalistica della logica aristotelica sostenendo che per lo Stagirita giudizio e sillogismo hanno sempre un valore logico ed un valore ontologico. Ma poi distingue il significato ontologico da quello metafisico considerando l'intrusione del metafisico nella logica come un passaggio indebito compiuto in più punti dallo stesso Aristotele. Di conseguenza la logica, anziché essere interpretata in connessione con le dottrine metafisiche di Aristotele, viene disgiunta da esse ed irrigidita in una struttura formale che a quelle è estranea: perciò solo apparentemente il Maier respinge l'interpretazione formale della logica aristotelica, in quanto la sua interpretazione si distingue da quella formalistica solo perché non riconosce valore meramente linguistico agli schemi logici, ma li trasporta nel reale stesso pur senza alterare la loro natura. Appunto perciò l'interprete non è poi in grado di mettere in luce la connessione di quegli schemi con le altre dottrine filosofiche dello Stagirita, dalle quali, anzi, pretende di prescindere. Il Maier mette iu luce una esigenza che si fa veramente valere nell'indagine sull' Organon - cioè il bisogno di precisare il valore ontologico degli schemi logici —, ma non è in grado di soddi-sfarla, in quanto la distinzione dell'ontologia dalla mctafisica non regge, almeno nell'ambito delle dottrine aristoteliche, perché 1°) per Aristotele la metafisica si configura appunto come ontologia, in quanto pretende di essere la teoria dell'essere in quanto tale; 2°) l'eliminazione della metafisica dalla pura ontologia costituita dalle dottrine dell'Organon ha costretto Maier ad espungere idealmente dalla logica aristotelica sviluppi non irrilevanti.  Poiché abbiamo visto che l'autentica comprensione storica delle dottrine logiche dello Stagirita ha come condizione la loro connessione con le dottrine metafisiche, ci pare di poter affermare che gli interpreti che si sono messi su questa via e che sopra abbiamo citato, non hanno realizzato appieno il loro proposito in quanto non hanno del tutto realizzato proprio quella condizione. Infatti o, come il Maier, hanno irrigidito la logica in una struttura che ha impedito ogni suo ulteriore collegamento  son le errin pietarite oraco, i Pro e su pisto mone nageione,  poi la logica si sarebbe dovuta adeguare. Per stabilire un più stretto legame tra logica e metafisica aristoteliche bisogna esaminare la logica con l'intento di cercarvi gli strumenti con cui Aristotele ha potuto costruire la metafisica: cioè non si deve studiare la logica presupponendo la meta-fisica, ma considerando la metafisica come punto di arrivo della logica.  Ciò tuttavia non implica che la logica si svolga senza presupposti metafisici; ché anzi le dottrine logiche si vengono precisando via via con il precisarsi delle dottrine metafisiche e presuppongono posizioni metafisiche dalle quali sono indisgiungibili. La metafisica, perciò, si costituisce come punto di arrivo della logica non perché sia separata da questa, ma perché queste stesse categoric della metafisica si configurano in modo tale da determinare anche gli strumenti con cui esse sono usabili; d'altra parte dallo studio della logica si vedrà appunto come l'uso di certi determinati strumenti logici, l'impostazione della ricerca su certe determinate dimensioni e l'eliminazione di altre, porti all'elaborazione di una certa determinata metafisica che, a sua volta, giustifica quegli strumenti ed è il loro presupposto. A questo modo è possibile trarre dallo studio della logica l'orizzonte categoriale della metafisica, vale a dire l'unità delle dottrine metafisiche stabilite in base all'uso degli strumenti ad esse ap-propriati. Solo dalla indagine delle effettive categorie di cui Aristotele fa uso e del loro modo di operare potrà così emergere l'unità della filosofia aristotelica.  Ma per far ciò non sarà più possibile considerare la logica aristotelica come dottrina del procedere naturale dell'intelligenza o dottrina della conoscenza in generale, ma bisognerà fare concreto rifcrimento al modo preciso in cui Aristotele pensò che l'intelligenza lavorasse, cioè alla sua concezione della scienza. Infatti la stretta connessione della logica con la metafisica, nel modo che sopra abbiamo illustrato, diventa la stretta connessione della logica con la scienza, in quanto la metafisica di Aristotele si presenta appunto come una scienza che ha la medesima struttura delle altre scienze. Perciò dire che l'oggetto della logica aristotelica è il discorso comune, come fa il Kapp, non è interamente vero, in quanto il discorso comune può si costituire il punto di partenza ed il materiale delle considerazioni di Aristotele il cui oggetto, però, è la costruzione di un discorso scientifico fondato sul reale. Perciò se da un lato la metafisica esige la logica come quella che può determinare gli strumenti con cui le categorie metafisiche sono usabili, d'altra parte la logica tende alla metafisica come quella che, dando un fondamento nell' essere alle categorie logiche, legittima l'uso degli strumenti che quelle presuppongono. Ed appunto perciò la logica non sarà, come la tradizione con il nome di organon ha tramandato e come lo Zeller interpreta, uno strumento essa stessa, anche se mette in luce gli strumenti con cui certe categorie possono essere usate: essa, infatti, è una struttura che è necessaria all'essere perché possa esserci un discorso che lo enunci e al discorso per potersi costituire come discorso, anche sbagliato. Perciò presentandosi come logica della scienza quella di Aristotele non si configura come inetodologia, in quanto quest'ultima è possibile solo là dove non si presupponga l'esistenza di una struttura dell'essere già costituita e gli strumenti per conoscere la quale sono stabiliti una volta per tutte e stanno originariamente nelle nostre mani. Di conseguenza l'unico precetto metodologico che dalla logica aristotelica deriva è quello di non falsare gli strumenti che possediamo e di riconoscere l'essere in quello che veramente è. Ma tutto ciò potrà veramente venire alla luce solo attraverso lo studio dei fondamenti linguistici della logica aristotelica: infatti per Aristotele, come per Eraclito, la ragione è essenzialmente lóyos, discorso, cioè capacità di cogliere e di indicare con parole l'essenza stessa dell'essere. Il linguaggio, perciò, è lo strumento essenziale con il quale le categorie aristoteliche hanno da essere usate; e la posizione che ad esso Aristotele conferisce e le possibilità che ad esso apre costituiscono i fondamenti di tutta la costruzione logica e metafisica dello Stagirita. Del resto questo lato dell'indagine risponde pienamente agli interessi cui la filosofia odierna dedica la sua attenzione. Infatti, mentre da un lato la logica e la metodologia delle scienze dedicano sempre maggiore cura all'esame delle scienze in quanto fanno uso di certi determinati linguaggi e alle possibilità e ai limiti di questi linguaggi, dall'altro la considerazione dell'elemento linguistico della ricerca filosofica ha assai contribuito ad aumentare la cautela critica di quest'ultima e l'interesse per l'indagine sulle sue reali possibilità. Dalla tendenza volta a limitare la filosofia ad un'attività critica sull'uso delle parole ad altre più propense a dare ad essa un più vasto significato, le correnti più significative della filosofia con-temporanca si rendono conto dell'importanza che ha la determinazione del tipo di discorso che la filosofia deve adottare e delle possibilità che ne può trarre; e nella stessa tecnica dell'indagine filosofia l'analisi linguistica dei termini è praticata con sempre maggior frequenza nel tentativo di eliminare quelle parole o quei significati la cui determinazione non è possibile fare con mezzi il cui comportamento sia noto e, in qualche modo, controllabile. Il linguaggio cioè non è un insieme di segni assolutamente trasparenti, capaci di riprodurre fedelmente il puro pensiero o l'essere senza nulla pregiudicare di quella ricerca che nelle parole troverebbe solo la sede adatta alle sue conclusioni, ma interviene attivamente nella ricerca rischiando di deviarla su direzioni del tutto illusorie. Questo problema è particolarmente importante per la filosofia aristotelica che pretende di rintracciare, proprio avvalendosi del discorso, una struttura dell'essere universalmente valida e che nella logica si preoccupa di mettere in luce la posizione che il linguaggio ha come mezzo per enunciare quella strut-tura. Dalla soluzione data al problema del linguaggio come mezzo per enunciare l'essere dipende la configurazione della logica come struttura necessaria e non come disciplina possibile del discorso; nel senso che i mezzi semantici di cui il discorso è costituito sono sempre adatti a mettere capo ad un insieme in cui le categorie dell'essere sono adeguatamente aggravata dal fatto che sull'autenticità di due opere del corpus logicum si sono sollevati dubbi. È nostro preciso intento trattare questo problema nella misura richiesta dall'indagine che intendiamo condurre ed esclusivamente in vista di essa. Ora, del trattato delle Categoriae ci siamo serviti solo in quanto conteneva dottrine del tutto confermate da altri scritti di sicura attribuzione, mentre più largo uso abbiamo fatto del De interpretatione. Contro le difficoltà di natura oggettiva sollevate fin dall'antichità contro il trattatello ha svolto considerazioni probanti il Maier. Quanto a noi ce ne siamo serviti per studiare dottrine che trovano sicuro riscontro negli Analytica priora (qualità e quantità dei giudizi e dottrina della modalità), salvo differenze trascurabili per il punto di vista da cui ci siamo collocati (p. es. la comparsa dei giudizi individuali non considerati dagli Analytica). La dottrina della convenzionalità non trova invece riscontro letterale in altri testi aristotelici; senonché si può osservare: 1°) la nozione di inópavas come avíleois di arópiois e xatápaois compare anche negli Analytica posteriora e la costituzione di un discorso apofantico presuppone appunto l'eliminazione del problema della semanticità, che è proprio il senso in cui abbiamo interpretato la nozione aristotelica di convenzionalità del linguaggio; 2°) la dottrina del giudizio in tutte le sue enunciazioni presuppone la convenzionalità nel senso sopra specificato; 3") la Poetica che parairasa passi del “De interpretatione” eliminando la tesi della convenzionalità è stato dimostrato dal Maier essere un'in-terpolazione tendenziosa. Perciò mentre mancano criteri oggettivi sicuri capaci di sostenere la tesi dell' inautenticità, neppure l'esito dell'esame condotto sulla concordanza dottrinale può indurrc a pronunciare l'atetesi del De interpretatione, o almeno delle parti che ci interessano.  Assai più difficile si presenta la questione della collocazione cronologica degli scritti logici. Essa fu affrontata dapprima dal Brandis che sostenne la precedenza dei Topica rispetto alle altre opere aristote-liche, tesi ripresa e completata dal Maier che ritenne di poter dividere i Topica in parti che non presuppongono la conoscenza del sillogismo e parti che la presuppongono. Altre a ciò il Maier ritenne di poter considerare il De interpreta-tiene posteriore agli Analytica, dando così un piano completo della successione delle opere logiche aristoteliche, dai più accettato e confer-mato recentemente, con uno studio sui rinvii reciproci delle singole opere, dal Tielscher. Mentre la considerazione dei libri B e H (nei ca-pitoli sopra citati) come le parti più antiche dell' Organon sembra del tutto pacifica, maggiori riserve si potrebbero sollevare di fronte alla col-locazione nello stesso periodo dei libri che eseguono un progetto tracciato all' inizio del A, sì da costituire un corpo ab-bastanza unitario nel quale si trova un rinvio ben netto alla dottrina della dimostrazione di Analytica posteriora. Se questo indizio nonè affatto sufficiente per posticipare i libri in questione, esso rivela tuttavia il tentativo di trovare, attraverso un' interpolazione, un inserimento della dialettica dei Topica nella sillogistica degli Analytica. Quanto alla posticipazione del “De interpretatione”, le ragioni più importanti addotte dal Maier - la mancanza di citazioni in altri scritti e la giustificazione del cap. go come polemica contro Diodoro Crono - non sono del tutto probanti.  L'opera iniziata dal Maier portava innanzi il Solmsen che, partendo dagli studi del Jäger, suo maestro, dava un ordinamento del tutto nuovo al corpus logicum accettando quasi integralmente le tesi del Maier per i Topica ma facendo precedere gli Analytica posteriora ai priora; ordinamento che, accettato dallo Stocks, veniva criticato con consi-derazioni ragionevoli del Ross. D'altra parte il Gohlke, prendendo in esame le dottrine della quantità e della modalità dei giudizi tentava di individuare strati diversi di composizione delle opere dell' Organon; ten-tativo parzialmente condotto anche dal Becker. In realtà nessuno di questi tentativi ha dato finora un ordine cronologico fornito di un grado apprezzabile di probabilità e stabilito su basi puramente oggettive, cioè tale da non implicare un' interpretazione filosofica della logica aristotelica.  Vista l'estrema difficoltà di stabilire un ordine cronologico filologi-camente fondato in maniera soddisfacente, abbiamo preferito rinunciare all'ordine cronologico (che sarebbe stato ben malsicuro), pur tenendo conto, dove ciò ci è parso indispensabile, dei nessi di priorità che ci sono sembrati indiscutibili. Ma, d'altra parte, abbiamo cercato di non irrigidire le dottrine di Aristotele in un sistema che non fosse il sistema stesso di Aristotele, tentando piuttosto di mettere in luce l'orizzonte in cui tutte quelle dottrine si impostano e sforzandoci di non impacciare le loro movenze pur cercando la loro unità: unità consistente appunto nel problema di rintracciare una struttura linguistica universalmente necessaria. Se essa precisa i suoi tratti con particolare evidenza nel De interpretatione e negli Analytica priora, tuttavia sta già alla base della dottrina del giudizio e del ragionamento rintracciabile nei Topica e costituisce uno dei tratti tipici dell'aristotelismo; quell'aristotelismo che è già riscontrabile nel platonisino del Aristotele dell’Accademia e non del Lizio! Viano. Keywords: la filosofia romana, il neo-tradizionalismo. Refs.: The H. P. Grice Papers, Bancroft MS – Luigi Speranza, “Grice e Viano: il neo-tradizionalismo” – “Viano e la filosofia romana” -- The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria. Viano.

 

Luigi Speranza -- Grice e Viazzi: la ragione conversazionale  e l’implicatura conversazionale della bellezza della vita – la scuola d’Alessandria – filosofia alessandrina – filosofia piemontese -- filosofia italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library  (Gavi). Filosofo alessandrino. Filoofo piemontese. Filosofo italiano. Gavi, Alessadria, Piemonte. Essential Italian philosopher. Filosofo italiano. Apprezzato teorico e studioso di filosofia. Fra critici e interpreti di VICO, vuol esser ricordato con speciale considerazione, V.; il quale cura un'edizione della Scienza Nuova, facendola precedere d'una sua lunga prefazione, “La modernità e il positivismo di V.”, e accompagnandola con note che vorrebbero essere interpretative del testo. Comte e Spencer, Vogt e LOMBROSO, Büchner Haeckel, Ribot e Morselli, son questi i nomi cari a V. E accanto ad essi, egli pone quello del VICO, come di un sicuro e diretto loro antenato. Gli è che l'opera del VICO, fuori l'indirizze genuino dei metodi naturalistici, non può affatto intendersi, com non l'hanno intesa appunto - afferma esplicitarente il nostre nuovo interprete vichiano - tutti i metafisici, dai concettualisti pur ai neo-critici. Nè, altresì, conviene altrimenti giudicare il metod‹ vichiano, nell'idea e nell'attuazione, se non come empirico, in duttivo e psicologico, in forza del quale, è chiaro come il pen siero del filosofo, fortemente temprato dell'empiria del Bacone traesse decisamente a un sistema di sociologia o di demopsicologia. Il vero si è che VICO, accanto a Comte e Spencer, deve esser considerato come uno dei fondatori della scienza sociale; e nel modo suo di ricerca, negl'indirizzi degli studi nel loro stesso risultato, ci si rivela come il più genuino forse dei precursori dell'odierno positivismo critico, o filosofia scientifica che altri la voglia chiamare. Se è cosi, la nota dell'irreligiosità, nel sistema di dottrine di VICO, deve risonare con aperta e larga intonazione, non come un semplice motivo, chiuso chiuso, di preludio. Non si tratta più, dunque, di germi ideali ancora immaturi per il loro tempo, ma destinati poi alla fecondazione, dopo circa due se! coli d' inosservata incubazione; a spandere i loro effluvi inebbrianti sul campo rinnovellato del pensiero, che reca la piena iberta dello spirito, la suprema indipendenza della ragione. Contrariamente a ciò che opina il CROCE con i suoi, le conclusioni antireligiose dei principi vichiani sono apparse limpidamente delineate nel libero pensiero del filosofo; e inoltre sono state, esplicitamente, già dedotte dall'autore medesimo con una certa sufficienza, a chi ben osserva, e insieme con meditata parsi-monia, e, secondo l'importanza che esse hanno nell'organismo del sistema, messe nella loro vera luce, sebbene non piena e sfolgorante e a tutti accessibile. Sicché, da ogni pagina della Scienza Nuova emerge spontaneo, per una critica evoluta, il pensiero tutto vibrante di naturalità scientifica, tutto saturo di positivismo, che s'effonde con facile corso, attraverso il modo suo di ricerca, nell'indirizzo degli studi, nel loro stesso rieultato. Che se il VICO, per tal modo, ebbe a bandire estremamente, con matura persuasione e con coscienza, dall'opera sua di pensiero ogni genuina idea del divino e di religione, non poté conservare alcuna fede in fondo al suo cuore. Questo è ovvio.  Nè deve fare impressione di sorta il parlare, talvolta coperto, dell'autore, talvolta, ancora, irto di reticenze e concessioni, che sembra voglian salvare la forma d'una certa professione religiosa. Tale professione di fede (ci si fa notare) soverchiamente ripetuta, ha quasi sempre tutta la forma di un voler parere, più che altro si rifletta all'epoca ed al luogo in cui scrisse il nostro autore, e si comprenderà tutta la ragionevolezza pratica di talune concessioni'». Siamo, dunque, intesi: era una pura finzione di religiosità; una professione di fede, che doveva servire soltanto per il libero scambio nello smercio delle idee. E V. viene alle corte. A carico del VICO (s' intende, dall'aspetto del positivismo) fu quasi unanimemente posta la importanza, reputata eccessiva, non solo, ma intaccante alla base tutto il suo sistema, ch'egli dà ad una provvidenza divina regolatrice di questo mondo delle nazioni che egli prese a studiare. Ma quei che in tal guisa obbiettano, s'arrestano alla corteccia, e non penetrano con lo sguardo al midollo sottostante.  Non s'è detto, insomma, che VICO, non amante delle noie, cercava sempre, con insistente ostentazione, di allontanare il pericolo che s'addensassero, intorno alla sua opera, i sospetti e le avversioni dell'ortodossia dominante? Vico lo sente, quest'odioso freno all'espressione della sua idea, ma vi si trova costretto, e lo subisce. E incredulo qual'era nel pensiero e nel sentimento, tuttavia volle adoperare un ripiego formale che, senza dubbio, poteva giovargli di passaporto nell'epoca e nel luogo di pubblicazione del suo libro.? Si rifletta poi, in fine, che egli non era punto di apostolo.Se avesse avuto l'animo di BRUNO, si sa che le cose sarebbero procedute ben altrimenti. Cosi il nostro animoso interprete vichiano va difilato alla conclusione della sua fatica, per quel che concerne l'idea (della provvidenza divina) che domina e vivifica tutta l'esposizione dottrinale della Scienza Nuova. È chiaro, secondo lui, che anche qui la parola e l'espressione metempirica adoperate segnano un concetto prettamente positivo. Ricordiamo anzitutto come con singolare ostinazione VICO si richiami assai spesso a questo suo concetto, che il mondo delle gentili nazioni è pur certamente opera degli uomini. Questo nel campo delle idee. Nel campo ristretto della sua operosità di uomo, bisogna tener conto del fatto che VICO era obbligato a mettere i suoi libri sotto la protezione di cardinali; che scriveva prolusioni le quali non dovevano soverchiamente urtare il Corpo accademico dell'Università. Poichè in Italia si faceva professione di cattolicismo. quanto più superficiale tanto più generalmente ostentato; era utile e, più che utile, necessario, per un uomo che si trovava nelle umilissime condizioni del nostro autore dimostrare l'importanza del sentimento religioso nella vita sociale? Pio Viazzi. Viazzi. Keywords: Vico. Refs.: The H. P. Grice Papers, Bancroft MS – Luigi Speranza, “Grice e Viazzi” – “Il Vico di Grice e il Vico di Viazzi” -- The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria. Viazzi.

 

Luigi Speranza -- Grice e Vico: “We should treat those who were great and are dead as if they were great  and living” (Grice) -- la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dell’antichissima sapienza degl'italici -- da rintracciare nelle origini della sua lingua – la scuola di Napoli – filosofia napoletana – filosofia campanese -- filosofia italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Napoli). Filosofo napoletano. Filosofo campanese. Napoli, Campania. Filosofo italiano. “The best philosopher, but that’s Hampshire’s judgement!” – Grice. “Si potrebbe presentare la storia ulteriore del pensiero come un ricorso delle idee del Vico” (CROCE, La filosofia di V., Laterza, Bari). – cf. Whitehead on metaphysics as footnotes to Plato. matematiche perché siamo noi a farle tramite postulati, definizioni, ma non potremo mai dire di conoscere nello stesso modo la natura perché non siamo noi ad averla creata.  Conoscere una cosa significa rintracciarne i principi primi, le cause, poiché, secondo l'insegnamento aristotelico, veramente la scienza è «scire per causas» ma questi elementi primi li possiede realmente solo chi li produce, «provare per cause una cosa equivale a farla».  Le obiezioni a Cartesio Il principio del verum ipsum factum non era una nuova e originale scoperta di Vico ma era già presente nell'occasionalismo, nel metodo baconiano che richiedeva l'esperimento come verifica della verità, nel volontarismo scolastico che, tramite la tradizione scotista, era presente nella cultura filosofica napoletana del tempo di V.. La tesi fondamentale di queste concezioni filosofiche è che la piena verità di una cosa sia accessibile solo a colui che tale cosa produce; il principio del verum-factum, proponendo la dimensione fattiva del vero, ridimensiona le pretese conoscitive del razionalismo cartesiano che V. inoltre giudica insufficiente come metodo per la conoscenza della storia umana e delle scienze sociali, che non possono essere analizzate solo in astratto, perché esse hanno sempre un margine di imprevedibilità.  V. però si serve di quel principio per avanzare in modo originale le sue obiezioni alla filosofia cartesiana trionfante in quel periodo. Il cogito cartesiano infatti potrà darmi certezza della mia esistenza ma questo non vuol dire conoscenza della natura del mio essere, coscienza non è conoscenza: avrò coscienza di me ma non conoscenza poiché non ho prodotto il mio essere ma l'ho solo riconosciuto.  L'uomo, egli dice, può dubitare se senta, se viva, se sia esteso, e infine in senso assoluto, se sia; a sostegno della sua argomentazione escogita un certo genio ingannatore e maligno... Ma è assolutamente impossibile che uno non sia conscio di pensare, e che da tale coscienza non concluda con certezza che egli è. Pertanto Renato (René Descartes) svela che il primo vero è questo: "Penso dunque sono".»  (Giambattista V., De antiquissima Italorum sapientia in Opere filosofiche a cura di Paolo Cristofolini, Firenze, Sansoni 1971, p.70)  Il criterio del metodo cartesiano dell'evidenza procurerà dunque una conoscenza chiara e distinta, che però per V. non è scienza se non è capace di produrre ciò che conosce. In questa prospettiva, dell'essere umano e della natura colti nella loro interezza e nelle loro relazioni solo Dio, creatore di entrambi, possiede la verità (livello di conoscenza maggiore: inter - legere).  Mentre quindi la mente umana procedendo astrattamente nelle sue costruzioni, come accade per la matematica e la geometria, crea una realtà che le appartiene, essendo il risultato del suo operare, giungendo così a una verità sicura, la stessa mente non arriva alle stesse certezze per quelle scienze di cui non può costruire l'oggetto come accade per la meccanica, meno certa della matematica, la fisica meno certa della meccanica, la morale meno certa della fisica.  Noi dimostriamo le verità geometriche poiché le facciamo, e se potessimo dimostrare le verità fisiche le potremmo anche fare.»  (Ibidem, pag. 82)  Mente umana e mente divina I latini... dicevano che la mente è data, immessa negli uomini dagli dei. È dunque ragionevole congetturare che gli autori di queste espressioni abbiano pensato che le idee negli animi umani siano create e risvegliate da Dio [...] La mente umana si manifesta pensando, ma è Dio che in me pensa, dunque in Dio conosco la mia propria mente.»  (Giambattista V., De antiquissima, 6)  Il valore di verità che l'uomo ricava dalle scienze e dalle arti, i cui oggetti egli costruisce, è garantito dal fatto che la mente umana, pur nella sua inferiorità, esplica un'attività che appartiene in primo luogo a Dio. La mente dell'uomo è anch'essa creatrice nell'atto in cui imita la mente, le idee, di Dio, partecipando metafisicamente a esse.  L'ingegno Imitazione e partecipazione alla mente divina avvengono per opera di quella facoltà che V. chiama ingegno che è la facoltà propria del conoscere... per cui l'uomo è capace di contemplare e di imitare le cose». L'ingegno è lo strumento principe, e non l'applicazione delle regole del metodo cartesiano, per il progresso, ad esempio, della fisica che si sviluppa proprio attraverso gli esperimenti escogitati dall'ingegno secondo il criterio del vero e del fatto.  L'ingegno dimostra, inoltre, i limiti del conoscere umano e la contemporanea presenza della verità divina che si rivela proprio attraverso l'errore:  Dio mai si allontana dalla nostra presenza, neppure quando erriamo, poiché abbracciamo il falso sotto l'aspetto del vero e i mali sotto l'apparenza dei beni; vediamo le cose finite e ci sentiamo noi stessi finiti, ma ciò dimostra che siamo capaci di pensare l'infinito.»  (Giambattista V., De antiquissima, 6)  Il sapere metafisico Contro lo scetticismo V. sostiene che è proprio tramite l'errore che l'uomo giunge al sapere metafisico:  Il chiarore del vero metafisico è pari a quello della luce, che percepiamo soltanto in relazione ai corpi opachi... Tale è lo splendore del vero metafisico non circoscritto da limiti, né di forma discernibile, poiché è il principio infinito di tutte le forme. Le cose fisiche sono quei corpi opachi, cioè formati e limitati, nei quali vediamo la luce del vero metafisico.»  (Giambattista V., De antiquissima, 3)  Il sapere metafisico non è il sapere in assoluto: esso è superato dalla matematica e dalle scienze ma, d'altro canto, la metafisica è la fonte di ogni verità, che da lei discende in tutte le altre scienze.» Vi è dunque un "primo vero", comprensione di tutte le cause», originaria spiegazione causale di tutti gli effetti; esso è infinito e di natura spirituale poiché è antecedente a tutti i corpi e che quindi si identifica con Dio. In Lui sono presenti le forme, simili alle idee platoniche, modelli della creazione divina.  Il primo vero è in Dio, perché Dio è il primo facitore (primus Factor); codesto primo vero è infinito, in quanto facitore di tutte le cose; è compiutissimo, poiché mette dinanzi a Dio, in quanto li contiene, gli elementi estrinseci e intrinseci delle cose.»  (Giambattista V., De antiquissima Italorum sapientia in Opere filosofiche a cura di P. Cristofolini, Firenze, Sansoni 1971, p. 62)  La metafisica di V. Il platonico V. Attraverso i propri scritti V. fa capire la sua conversione dalla filosofia lucreziana e gassendiana a quella platonica, egli descrive la metafisica del filosofo di riferimento come tale che:  conduce a un principio fisico che è idea eterna, che da sé educe e crea la materia medesima, come uno spirito seminale, che esso stesso si fermi l'uovo.»  (Nicola Badaloni, "Introduzione a Gianbattista V., Opere Filosofiche, a cura di P. Cristofolini, Firenze 1971, p. 11")  Egli illustra nell'Autobiografia i suoi capisaldi:  1) nella nostra mente sono certe eterne verità che non possiamo sconoscere riniegare, e in conseguenza che non sono da noi», cioè che non sono fatte da noi  2) del rimanente sentiamo in noi una libertà di fare, intendendo, tutte le cose che han dipendenza dal corpo, e perciò le facciamo in tempo, cioè quando vogliamo applicarvi, e tutte in conoscendo le facciamo, e tutte le conteniamo dentro di noi: come le immagini con la fantasia; le reminescenze con la memoria; con l’appetito le passioni; gli odori, i sapori, i colori, i suoni, i tatti co’ sensi: e tutte queste cose le conteniamo dentro di noi. […] Ma per le verità eterne che non sono da noi e non hanno dipendenza dal corpo nostro, dobbiamo intendere essere Principio delle cose tutte come una idea eterna tutta scevera da corpo, che nella sua cognizione, ove voglia, crea tutte le cose in tempo e le contiene dentro sé...».»  La coerenza della filosofia 'timaica' di V. può essere analizzata anche da questi due punti, infatti, nel primo caso, questa si riferisce a un principio materiale, immateriale, ideale, eterno e attivo; nel secondo caso si riferisce al principio di materia che è prodotta da ὗλη (materia) e conserva la propria capacità di muoversi a causa di questa origine.  La religione secondo V. Anche per V. le religioni non sono vere, ma in esse non è nemmeno possibile che tutto sia falso. Infatti, avrebbe senso se tutte le loro parti fossero sbagliate, in quanto provocherebbero paura e odio, ma non possono spiegare come abbiano saputo restituire la loro "tenerezza" secondo il metodo della separazione. Tuttavia, per il filosofo Herbert Spencer (liberale), la religione assume così la "rutunda Dei religio" nella sua forma puramente circolare, che ritroveremo nel De Uno e in quella ricomparsa nella teoria del ciclo storico di V.; ci sono molti punti in comune tra le filosofie di Herbert e quella di V., anche se la causa finale è in V. determinata come 'conservazione', dunque non sbaglieremmo a leggere la filosofia vichiana e la filosofia di Herbert contemporaneamente ponendo punti di connessione e paragone tra le due. Un altro punto di contatto di Herbert con un capitolo del De Antiquissima di V. parte dal concetto di provvidenza e sostiene l'inconciliabilità di questa con le divinità dei 'gentili' e va quindi alla ricerca di alcuni elementi che possano accordare le due cose (media sufficientia), perché, per lui, il Dio è buono e la maggior parte degli uomini deve potersi salvare, egli trova tale conciliazione nella capacità inventiva della mente umana che l'ha indotta nella 'divinatio' o alla 'deificatio', cioè a forme di sublimazione che esprimono l'idea della bellezza del mondo, anche se l'errore ci può far vedere rotonda la torre quadrata.  Il conato Si giunge dunque a uno dei punti cardine della metafisica vichiana: il conato, si tratta del nocciolo di ciò che V. chiama zenonismo, ossia la dottrina dei punti metafisici, riassumibile nella tesi che il punto in quanto momentum "non è esteso, ma genera l'estensione".  Il punto-momento è il conatus che si allarga al di là della geometria e comprende la fisica cosicché la triade dominante è: quiete=Dio; conato=materia=virtù=idea; moto=corpo. Il moto non ha mai inizio autonomo, perché è sottoposto al controllo dell'etere. Il conato, espressione fisica del punto-momento, come non è punto né numero, ma il generatore di entrambi. È come se le ricerche di Galilei sulla dinamica e sul continuo fossero state trasferite nella metafisica, e alla fisica fossero stati lasciati solo i moti, una tesi che merita di essere riscontrata nei testi.  V. dà ai punti-conati (sia nella prima forma numerica sia in quella più vicina alla fisica) una capacità 'impulsiva' simile a questi indivisibili. Egli dice che:  La metafisica trascende la fisica perché tratta delle virtù e dell'infinito; la fisica è parte della metafisica perché tratta delle forme e degli oggetti finiti.»  (V., "Opere Filosofiche, pp. 93-94")  Poi V. aggiunge:  L'essenza del corpo consiste in indivisibili; il corpo tuttavia si divide: dunque l'essenza del corpo non è: dunque è l'altra cosa dal corpo. Cosa è dunque? È una indivisibil virtù, che contiene, sostiene, mantiene il corpo, e sotto parti diseguali del corpo vi sta egualmente; sostanza, della quale è solamente lecito raramente si somiglia alla divina, e perciò unica a dimostrare l'umano vero.»  (Nicola Badaloni, "Introduzione a Gianbattista V., p. 94")  Da un punto di vista matematico il conato può essere paragonato all'Uno, esso è indivisibile perché uno è l'infinito, e l'infinito è indivisibile, perché non ha in che dividersi, non potendo dividerlo in nulla.  Possiamo raccontare V. come un seguace di Galilei; tuttavia, lo critica per aver sostenuto la diversità tra infinito e indivisibile. Quando Galilei parla dell'infinitezza, per esempio, della percossa, ovvero di quella espansiva degli ignicoli, egli, per V., non fa che trasferire erroneamente il conato infinito nel moto al fine di dare a quest'ultimo (che non è che occasione) un rilievo maggiore. L'accumulo di moto, che Galilei vede risultare dall'infinitezza della percossa, secondo V., che dà una interpretazione più rigida dell'equazione conato=momento=punto indivisibile, è un tipo di energia potenziale che il conato sviluppa in ogni sito e attimo dell'universo e che, dal punto di vista metafisico, non varia mai, giacché il conato non è a base della dinamica ma della struttura dell'universo. La questione del rapporto tra sentire e pensare è ripresa nei capitoli V e VI del De Antiquissima. In quello intitolato De animo et anima, V. sostiene che:  Gli stessi muscoli del cuore sono contratti e dilatati dai nervi, sicché il sangue è continuamente fatto circolare per un processo di sistole e diastole ricevendo dai nervi il proprio moto.»  (Nicola Badaloni, "Introduzione a Gianbattista V., p. 104")  Dunque l'aria è lo spirito vitale che muove il sangue; l'etere è lo spirito animale; la prima costituisce l'anima, il secondo l'animo, la cui immortalità è spiegata col suo tendere all'infinito e all'eterno. Entro l'animo è la mente che è mens animi, cioè la parte più raffinata dell'animo stesso. Passando dalla teoria dell'anima a quella dell'animo e di qui al primo cenno di quella della mente, V. commenta, in modo platonico-spinoziano, che "forse importa più deporre gli affetti che allontanare i pregiudizi". Il capitolo VI è intitolato De Mente; il suo oggetto è appunto la animi mens che corrisponde alla libertà sui moti dell'animo. La facoltà di desiderare in vari termini e modi "è Dio a ciascuno" ma la libertà dell'arbitrio, cioè la mens animi rappresenta il momento di fuoriuscita dall'ambito della psicologia e d'ammissione in quello di una libertà umanamente inventiva. La mens animi è il punto di maggiore avvicinamento al creare reale, talché "in Dio dunque conosco la mia stessa mente".  La metafisica vichiana a confronto In letture recenti si è ripresentata l'antica analogia tra Kant e V. (a parte le diverse capacità analitiche dei due filosofi), la reale divergenza tra loro sta nel fatto che l'oggetto del primo è il sistema scientifico, già costruito da Newton, e da Kant posto in relazione colle possibilità e coi limiti delle facoltà umane; l'interesse di V. è invece rivolto a un 'oggetto' del tutto nuovo che è il rapporto strutturato tra la scienza e la sua genesi, nella mente dell'uomo primitivo e le situazioni e istituzioni sociali che hanno accompagnato le sue modificazioni.  V. è a conoscenza della discussione sul platonismo precedente e seguente il suo saggio sulla metafisica, conobbe sicuramente il libro di Brucker e a cui anzi rivolse una critica importante. Scrive infatti nella Scienza Nuova (1744) che:  Le scienze debbono incominciare da che ‘ncominciò la materia; esse ebbero inizio alle ch'i primi uomini cominciarono a umanamente pensare, non già quando i filosofi cominciarono a riflettere sopra l'umane menti (come ultimamente n'è uscito alla luce un libricciuolo erudito e dotto col titolo Historia de ideis, che si conduce fin all'ultime controversie che ne hanno avuto i due primi ingegni di questa età, il Leibnizio e ‘l Newtone.»  Con questa osservazione, V. integra l'esposizione del platonismo moderno con un progetto d'interpretazione della genesi di questo modo di pensare e del suo svolgimento. I sottoinsiemi scientifici, che egli si appresta a costruire, sono condizionati da questo punto di arrivo, che nella sua 'idealità' è metastorico, in senso quasi trascendentale, e, nel suo contenuto, difficilmente nasconde il carattere 'semilibertino' della struttura sistematica sottesa. La critica di V. a Brucker ci mette dunque in condizione di valutare il significato che egli attribuisce alla scienza nuova. L''oggetto' costituito dalle idee platonico-galileiane è nato, riferendosi al mondo tuttora in divenire, è la trasformazione strutturata di un complesso di tradizioni, istituzioni e conoscenze umane che si sostengono reciprocamente e si modificano conflittualmente. Il punto di attacco delle scienze della natura di tipo galileiano (integrato nella filosofia del platonismo moderno) con la scienza dell'uomo, è dato dal costituirsi di un diverso 'oggetto' a esse legato, che ha però la sua autonomia, le sue regole, costituendo un sottosistema aperto all'invenzione di nuovi strumenti interpretativi.  La scienza vichiana si organizza in modo da delimitare un campo di ricerche concrete. La critica a Brucker ha già dato un'idea del modo come V., partendo dalla scienza moderna e violentemente ributtandola sui suoi principi ne ricerchi gli elementi genetici e formativi per recuperarne, poi, gli aspetti complessi.  La Scienza nuova  Frontespizio della terza edizione 1744 della Scienza nuova Se l'uomo non può considerarsi creatore della realtà naturale ma piuttosto di tutte quelle astrazioni che rimandano a essa come la matematica, la stessa metafisica, vi è tuttavia un'attività creatrice che gli appartiene.  questo mondo civile egli certamente è stato fatto dagli uomini, onde se ne possono, perché se ne debbono, ritruovare i principi dentro le modificazioni della nostra medesima mente umana.»  (Giambattista V. Scienza nuova, terza ediz., libro I, sez. 3)  La storia creatrice L'uomo è dunque il creatore, attraverso la storia, della civiltà umana. Nella storia l'uomo verifica il principio del verum ipsum factum, creando così una scienza nuova che avrà un valore di verità come la matematica. Una scienza che ha per oggetto una realtà creata dall'uomo e quindi più vera e, rispetto alle astrazioni matematiche, concreta. La storia rappresenta la scienza delle cose fatte dall'uomo e, allo stesso tempo, la storia della stessa mente umana che ha fatto quelle cose.[44]  Filosofia e "filologia" La definizione dell'uomo e della sua mente non può prescindere dal suo sviluppo storico se non si vuole ridurre tutto a un'astrazione. La concreta realtà dell'uomo è comprensibile solo riportandola al suo divenire storico. È assurdo credere, come fanno i cartesiani o i neoplatonici, che la ragione dell'uomo sia una realtà assoluta, sciolta da ogni condizionamento storico.  La filosofia contempla la ragione, onde viene la scienza del vero; la filologia[45] osserva l'autorità dell'umano arbitrio onde viene la coscienza del certo... Questa medesima degnità (assioma) dimostra aver mancato per metà così i filosofi che non accertarono le loro ragioni con l'autorità de' filologi, come i filologi che non curarono d'avverare la loro autorità con la ragion dei filosofi.»  (Giambattista V. Ibidem Degnità X)  Ma la filologia da sola non basta, si ridurrebbe a una semplice raccolta di fatti che invece vanno spiegati dalla filosofia. Tra filologia e filosofia vi deve essere un rapporto di complementarità per cui si possa accertare il vero e inverare il certo.  Le leggi della 'scienza nuova' Compito della 'scienza nuova' sarà quello di indagare la storia alla ricerca di quei principi costanti che, secondo una concezione per certi versi platonizzante, fanno presupporre nell'azione storica l'esistenza di leggi che ne siano a fondamento, com'è per tutte le altre scienze:  Poiché questo mondo di nazioni egli è stato fatto dagli uomini, vediamo in quali cose hanno con perpetuità convenuto e tuttavia vi convengono tutti gli uomini; poiché tali cose ne potranno dare i principi universali ed eterni, quali devon essere d'ogni scienza, sopra i quali tutte sursero e tutte vi si conservano le nazioni.»  (Giambattista V. Ibidem, libro I, sez. 3)  La storia quindi, come tutte le scienze, presenta delle leggi, dei principi universali, di un valore ideale di tipo platonico, che si ripetono costantemente allo stesso modo e che costituiscono il punto di riferimento per la nascita e il mantenimento delle nazioni.  L'eterogenesi dei fini e la Provvidenza storica Rifarsi alla mente umana per comprendere la storia non è sufficiente: si vedrà, attraverso il corso degli avvenimenti storici, che la stessa mente dell'uomo è guidata da un principio superiore a essa che la regola e la indirizza ai suoi fini, che vanno al di là o contrastano con quelli che gli uomini si propongono di conseguire; così accade che, mentre l'umanità si dirige al perseguimento di intenti utilitaristici e individuali, si realizzino invece obiettivi di progresso e di giustizia secondo il principio della eterogenesi dei fini.  Pur gli uomini hanno essi fatto questo mondo di nazioni... ma egli è questo mondo, senza dubbio, uscito da una mente spesso diversa ed alle volte tutta contraria e sempre superiore ad essi fini particolari ch'essi uomini si avevan proposti.»  (Giambattista V. Ibidem, Conclusione)  La storia umana in quanto opera creatrice dell'uomo gli appartiene per la conoscenza e per la guida degli eventi storici, ma nel medesimo tempo lo stesso uomo è guidato dalla Provvidenza che prepone alla storia divina.  I corsi storici Secondo V. il metodo storico dovrà procedere attraverso l'analisi delle lingue dei popoli antichi poiché i parlari volgari debono essere i testimoni più gravi degli antichi costumi de' popoli che si celebrarono nel tempo ch'essi si formarono le lingue», e quindi tramite lo studio del diritto, che è alla base dello sviluppo storico delle nazioni civili.  Questo metodo ha fatto identificare nella storia una legge fondamentale del suo sviluppo che avviene evolvendosi in tre età:  l'età degli dei, nella quale gli uomini gentili credettero vivere sotto divini governi, e ogni cosa esser loro comandata con gli auspici e gli oracoli»;[46] l'età degli eroi, dove si costituiscono repubbliche aristocratiche; l'età degli uomini, nella quale tutti si riconobbero esser uguali in natura umana».[47] I bestioni La storia umana, secondo V., inizia con il diluvio universale, quando gli uomini, giganti simili a primitivi "bestioni", vivevano vagando nelle foreste in uno stato di completa anarchia. Questa condizione bestiale era conseguenza del peccato originale, attenuata dall'intervento benevolo della Provvidenza divina che immise, attraverso la paura dei fulmini, il timore degli dei nelle genti che scosse e destate da un terribile spavento d'una da essi stessi finta e creduta divinità del cielo e di Giove, finalmente se ne ristarono alquanti e si nascosero in certi luoghi; ove fermi con certe donne, per lo timore dell'appresa divinità, al coverto, con congiungimenti carnali religiosi e pudichi, celebrarono i matrimoni e fecero certi figlioli, e così fondarono le famiglie. E con lo star quivi fermi lunga stagione e con le sepolture degli antenati, si ritrovarono aver ivi fondati e divisi i primi domini della terra».[48]  La civiltà L'uscita dallo stato di ferinità quindi avviene:  per la nascita della religione, nata dalla paura e sulla base della quale vengono elaborate le prime leggi del vivere ordinato; per l'istituzione delle nozze che danno stabilità al vivere umano con la formazione della famiglia; per l'uso della sepoltura dei morti, segno della fede nell'immortalità dell'anima che distingue l'uomo dalle bestie. Della prima età V. sostiene di non poter scrivere molto poiché mancano documenti su cui basarsi: infatti quei bestioni non conoscevano la scrittura e, poiché erano muti, si esprimevano a segni o con suoni disarticolati. L'età degli eroi ebbe inizio dall'accomunarsi di genti che trovavano così reciproco aiuto e sostegno per la sopravvivenza. Sorsero le città guidate dalle prime organizzazioni politiche dei signori, gli eroi che con la forza e in nome della ragion di Stato, conosciuta solo da loro,[49] comandavano sui servi che, quando rivendicarono i propri diritti, si ritrovarono contro i signori che, organizzati in ordini nobiliari, diedero vita agli stati aristocratici che caratterizzano il secondo periodo della storia umana.  In questa seconda, dove predomina la fantasia, nasce il linguaggio dai caratteri mitici e poetici. Infine la conquista dei diritti civili da parte dei servi dà luogo alla età degli uomini e alla formazione di stati popolari basati sul diritto umano dettato dalla ragione umana tutta spiegata». Sorgono quindi stati non necessariamente democratici ma che possono essere pure monarchici poiché l'essenziale è che rispettino la ragione naturale, che eguaglia tutti».  La legge delle tre età costituisce la storia ideale eterna sopra la quale corrono in tempo le storie di tutte le nazioni». Tutti i popoli indipendentemente l'uno dall'altro hanno conformato il loro corso storico a questa legge che non è solo delle genti ma anche di ogni singolo uomo che necessariamente si sviluppa passando dal primitivo senso nell'infanzia, alla fantasia nella fanciullezza, e infine alla ragione nell'età adulta:  Gli uomini prima sentono senza avvertire; dappoi avvertiscono con animo perturbato e commosso, finalmente riflettono con mente pura.»  (Giambattista V. Scienza Nuova, 3a ediz. Degnità LIII)  La verità divina nella storia Se nella storia, pur tra le violenze e i disordini, appare un ordine e un progressivo sviluppo, ciò è dovuto secondo V. all'azione della Provvidenza, che immette nell'agire dell'uomo un principio di verità che si presenta in modo diverso nelle tre età:  nelle prime due età il vero si presenta come certo gli uomini che non sanno il vero delle cose procurano d'attenersi al certo, perché non potendo soddisfare l'intelletto con la scienza, almeno la volontà riposi sulla coscienza.»  (Giambattista V., Scienza Nuova, Degnità IX)  Questa certezza non viene all'uomo attraverso una verità rivelata ma da una constatazione di senso comune, condivisa da tutti, per cui vi è un giudizio senz'alcuna riflessione, comunemente sentito da tutto un ordine, da tutto un popolo, da tutta una nazione o da tutto il genere umano.»  La sapienza poetica Vi è poi, nella seconda età della storia e dell'uomo, caratterizzata dalla fantasia, un sapere tutto particolare che V. definisce poetico. In questa età nasce infatti il linguaggio non ancora razionale ma molto vicino alla poesia che alle cose insensate dà senso e passione, ed è proprietà dei fanciulli di prender cose inanimate tra le mani e, trastullandosi, favellarvi, come se fussero, quelle, persone vive. Questa degnità filologica-filosofica ne appruova che gli uomini del mondo fanciullo, per natura, furono sublimi poeti.»[50]  Se vogliamo quindi conoscere la storia dei popoli antichi dobbiamo rifarci ai miti che hanno espresso nella loro cultura. Il mito infatti non è solo una favola e neppure una verità presentata sotto le spoglie della fantasia ma è una verità di per sé elaborata dagli antichi che, incapaci di esprimersi razionalmente, si servivano di universali fantastici che, sotto spoglie poetiche, presentavano modelli ideali universali: come fecero ad esempio i Greci antichi che non definirono razionalmente la prudenza ma raccontarono di Ulisse, modello universale fantastico dell'uomo prudente.  La poesia V. si dedica poi a definire la poesia che innanzitutto  è autonoma come forma espressiva differente dal linguaggio tradizionale. I tropi della poesia come la metafora, la metonimia, la sineddoche, ecc. sono stati erroneamente ritenuti strumenti estetici di abbellimento del linguaggio razionale di base, mentre invece la poesia è una forma espressiva naturale e originaria i cui tropi sono necessari modi di spiegarsi di tutte le prime nazioni poetiche»; La poesia ha una funzione rivelativa, custodisce le prime immaginate verità dei primi uomini;[51] Il linguaggio non ha quindi un'origine convenzionale perché questo presupporrebbe un uso tecnico del linguaggio che invece sorge spontaneamente come poesia. Poiché il linguaggio e i miti costituiscono la cultura originaria e spontanea di tutto un popolo, V. arriva alla discoverta del vero Omero che è non il singolo autore dei suoi poemi ma l'espressione del patrimonio culturale comune di tutto il popolo greco. È comunque da respingere la interpretazione platonica di Omero come filosofo,[52] fornito di una sublime sapienza riposta».  Farsi intendere da volgo fiero e selvaggio[53] non è certamente (opera) d'ingegno addomesticato ed incivilito da alcuna filosofia. Né da un animo da alcuna filosofia umanato ed impietosito potrebbe nascer quella truculenza e fierezza di stile, con cui descrive tante, sì varie e sanguinose battaglie, tante sì diverse e tutte in istravaganti guise crudelissima spezie d'ammazzamenti, che particolarmente fanno tutta la sublimità dell'Iliade.»  (Giambattista V., Scienza Nuova)  Verità e storia La sapienza antica ha per contenuto princìpi di giustizia e ordine necessari per la formazione di popoli civili. Questi contenuti si esprimono in modi diversi a seconda che siano formati dal senso o dalla fantasia o dalla ragione. Questo vuol dire che la sapienza, la verità, si manifesta in forme diverse storicamente, ma essa come verità eterna è al di sopra della storia che di volta in volta la incarna. La verità della storia è una verità metafisica nella storia. Nella storia si attua la mediazione tra l'agire umano e quello divino:  nel fare umano si manifesta il vero divino; e il vero umano si realizza tramite il fare divino: la Provvidenza, legge trascendente della storia, che opera attraverso e nonostante il libero arbitrio dell'uomo. Questo non comporta una concezione necessitata del corso della storia poiché è vero che la Provvidenza si serve degli strumenti umani, anche i più rozzi e primitivi, per produrre un ordine ma tuttavia questo rimane nelle mani dell'uomo, affidato alla sua libertà. La storia quindi non è determinata come sostengono gli stoici e gli epicurei che niegano la provvedenza, quelli facendosi strascinare dal fato, questi abbandonandosi al caso», ma si sviluppa tenendo conto della libera volontà degli uomini che, come dimostrano i ricorsi, possono anche farla regredire:  Gli uomini prima sentono il necessario; dipoi badano all'utile; appresso avvertiscono il comodo; più innanzi si dilettano nel piacere; quindi si dissolvono nel lusso; e finalmente impazzano in istrapazzar di sostanze.»  (Giambattista V., Scienza Nuova, Degnità LXVI)  A questa dissoluzione delle nazioni pone rimedio l'intervento della Provvidenza che talora non può impedire la regressione nella barbarie, da cui si genererà un nuovo corso storico che ripercorrerà, a un livello superiore, poiché dell'epoca passata è rimasta una sia pur minima eredità, la strada precedente.  La filosofia Paradossalmente la criticità del progresso storico appare proprio con l'età della ragione, quando cioè questa invece dovrebbe assicurare e mantenere l'ordine civile. Accade infatti che la tutela della Provvidenza che si è imposta agli uomini nei precedenti due stadi, ora invece deve ricercare il consenso della ragione tutta spiegata» che si sostituisce alla religione: Così "ordenando la provvedenza": che non avendosi appresso a fare più per sensi di religione (come si erano fatte innanzi) le azioni virtuose, facesse la filosofia le virtù nella lor idea».[54] La ragione infatti, pur con la filosofia, custode della legge ideale del vivere civile, con il suo libero giudizio, può tuttavia incorrere nell'errore o nello scetticismo per cui si diedero gli stolti dotti a calunniare la verità».  La ragione non crea la verità, poiché non può fare a meno dal senso e dalla fantasia senza le quali appare astratta e vuota. Il fine della storia infatti non è affidato alla sola ragione ma alla sintesi armonica di senso, fantasia e razionalità. La ragione poi è ispirata dalla verità divina per cui la storia è sì opera dell'uomo, ma la mente umana da sola non basta poiché occorre la Provvidenza che indichi la verità. La filosofia è succeduta alla religione ma non l'ha sostituita anzi essa deve custodirla:  Da tutto ciò che si è in quest'opera ragionato, è da finalmente conchiudersi che questa Scienza porta indivisibilmente seco lo studio della pietà,[55] e che, se non siesi pio, non si può daddovero esser saggio.»  (Giambattista V. Scienza Nuova, Conclusione)  Teorizzazione sul riso La concezione di V. sul riso è riportata in Ridere la verità di Rosella Prezzo che scrive: La teorizzazione vichiana sul riso, rimasta per lo più sconosciuta, si trova celata in una digressione di un opuscolo polemico dal titolo Vici vindicae», dove il filosofo napoletano scrive che il riso proviene dall'inganno teso all'ingegno umano, avido del vero: ragion per cui scoppia tanto più abbondante quanto maggiore è la simulazione di questo».[56] Già Niccolò Tommaseo parlando della grandezza del V. lo presentava come non invaghito per nulla dalla novità che nuove (dic'egli) son anco le cose ridicole e mostruose» né cercando l'arguzia siccome col riso le arguzie sterili, sono con la malinconia i concetti possenti».[57] Francesco Flora riporta il racconto che V. fa dell'origine dell'interiezione: Seguitarono a formarsi le voci umane con l'interiezioni, che sono voci articolate nell'émpito di passioni violente, che 'n tutte le lingue son monosillabi», causate dalla meraviglia alla vista dei primi fulmini, ad esempio, da cui l'immaginazione di Giove. Il riso intravede la goffaggine di tali giganti» e vi si inserisce.[58]  Il giudizio della filosofia posteriore Predicavano la ragione individuale, ed egli le opponeva la tradizione, la voce del genere umano. Gli uomini popolari, i progressisti di quel tempo, erano Lionardo di Capua, Cornelio, Doria, Calopreso, che stavano con le idee nuove, con lo spirito del secolo. Lui era un retrivo, con tanto di coda, come si direbbe oggi. La coltura europea e la coltura italiana s'incontravano per la prima volta, l'una maestra, l'altra ancella. V. resisteva. Era vanità di pedante? Era fierezza di grande uomo? Resisteva a Cartesio, a Malebranche, a Pascal, i cui Pensieri erano lumi sparsi», a Grozio, a Puffendorfio, a Locke, il cui Saggio era la metafisica del senso». Resisteva, ma li studiava più che facessero i novatori. Resisteva come chi sente la sua forza e non si lascia sopraffare. Accettava i problemi, combattea le soluzioni, e le cercava per le vie sue, co' suoi metodi e coi suoi studi. Era la resistenza della coltura italiana, che non si lasciava assorbire, e stava chiusa nel suo passato, ma resistenza del genio, che cercando nel passato trovava il mondo moderno. Era il retrivo che guardando indietro e andando per la sua via, si trova da ultimo in prima fila, innanzi a tutti quelli che lo precedevano. Questa era la resistenza del V.. Era un moderno e si sentiva e si credeva antico, e resistendo allo spirito nuovo, riceveva quello entro di sé.»  (Francesco De Sanctis, Storia della letteratura italiana [1870], Morano, Napoli 1890, p. 314.)  Fintanto che V. fu in vita la portata e la ricezione critica del suo pensiero furono circoscritte quasi unicamente agli ambienti intellettuali di Napoli, trovando poi un più vasto seguito sol a quasi due secoli dalla sua morte, tra la seconda metà dell'Ottocento e il Novecento. Affermatasi la fama del pensiero vichiano, esso fu conteso dalle più disparate correnti filosofiche: dal pensiero cristiano (nonostante l'iniziale rifiuto), dagli idealisti (dai quali fu proclamato precursore dello storicismo hegeliano), dai positivisti e persino da diversi marxisti.[16] Come fa notare il Fassò V. è ben più di un semplice filosofo [...] tanto che in certi momenti della sua travagliatissima fama fu apprezzato prevalentemente per la sua filosofia del diritto, così come in altri momenti fu celebrato precursore della sociologia, della psicologia dei popoli, o come campione fra i maggiori della filosofia della storia, mentre veniva ignorata la sua pur genialissima metafisica, che è ad un tempo il punto d'arrivo e il presupposto logico di tutte le ricerche da lui condotte nei più vari campi dell'operare umano».[16]  Il pensiero vichiano, le cui prime fonti s'ispirano alla tradizione filosofica del Seicento che permeava l'ambiente partenopeo, rappresenta un ponte fra la cultura secentesca e quella settecentesca.[17] Nonostante V. non sia caratterizzato da audacia innovatrice illuminista, il suo pensiero raggiunse – come nota Abbagnano – alcuni risultati fondamentali» che lo connettono a pieno titolo al Settecento.[17] Tuttavia non può tacersi il carattere conservatore della filosofia politico-religiosa del V., generato dal turbamento di chi, assistendo alla fine di un mondo famigliare, non sa scoprire i segni del sorgere di un nuovo».[59] Ciò è dimostrato dalla giustapposizione del certo (ossia il peso dell'autorità della tradizione) al vero (ossia lo sforzo innovatore della ragione) che è il segno di una ricerca di equilibrio estranea al pensiero illuministico. A tali conclusioni il pensiero vichiano fu condotto dalla limitatezza della sua gnoseologia e dalla polemica contro il cartesianesimo, il quale professava, al contrario, l'eliminazione di ogni limite gnoseologico.[17]  Opere Sei Orazioni Inaugurali (1699-1707) De nostri temporis studiorum ratione (1709) Orazione Inaugurale del 1708 De antiquissima Italorum sapientia ex linguae latinae originibus eruenda (1710): Proemium (1710) Liber metaphysicus (1710) Risposte al giornale dei letterati Prima risposta (1711) Seconda risposta (1712) Institutiones oratoriae (1711-1738) De universis Juris (1720-1721) De universis juris uno principio et fine uno liber unus - include De opera proloquium» (1720) De constantia jurisprudentis liber alter (1721) Notae in duos libros, alterum De uno universi juris principio et fine uno», alterum De constantia jurisprudentis» (1722) Scienza nuova prima (1725) Vici Vindiciae (1729) Vita di Giambattista V. scritta da se medesimo, (l'Autobiografia» (1725-1728; Supplemento» 1731) Scienza nuova seconda (1730) De mente heroica (1732) Scienza nuova terza (1744) Edizioni  Scritti storici, 1939 Giambattista V., Scienza nuova, Scrittori d'Italia 135, Bari, Laterza, 1931. URL consultato il 16 aprile 2015. Giambattista V., Scienza nuova seconda. 1, Scrittori d'Italia 112, Bari, Laterza, 1942. URL consultato il 16 aprile 2015. Giambattista V., Scienza nuova seconda. 2, Scrittori d'Italia 113, Bari, Laterza, 1942. URL consultato il 16 aprile 2015. Giambattista V., Opere a cura di Fausto Nicolini, Laterza, Bari 1914-40 in otto volumi: I, 1914, Orazioni inaugurali, De studiorum rationum, De antiquissima Italorum sapientia, Risposte al giornale dei letterati; II, 1936, Diritto universale; III, 1931, Scienza nuova I; IV, 1928, Scienza nuova II; V, 1929, Autobiografia, Carteggio, Poesie varie; VI, 1939, Scritti storici; VII, 1940, Scritti vari e pagine disperse; VIII, 1941, Poesie, Institutiones oratoriae. Giambattista V., Opere filosofiche a cura di Paolo Cristofolini, Firenze, Sansoni, 1971. Giambattista V., Opere giuridiche a cura di Paolo Cristofolini, Firenze, Sansoni, 1974. Giambattista V., Institutiones oratoriae, testo critico, versione e commento a cura di Giuliano Crifò, Napoli, Istituto Suor Orsola Benincasa, 1989. Nicola Badaloni, Introduzione a Gianbattista V., Bari, Laterza, 1999. Giambattista V., La scienza nuova - Le tre edizioni del 1725, 1730, 1744, a cura di Manuela Sanna e Vincenzo Vitiello, Milano, Bompiani, 2012, ISBN 978-88-452-7155-7. Leonardo Amoroso, Introduzione alla Scienza nuova di V., Pisa, ETS, 2013, ISBN 978-884673126-5. Benedetto Croce, La filosofia di Giambattista V., Bari, Laterza, 1965. Note ^ Benedetto Croce, La filosofia di Giambattista V., 2ª ed., Bari, Laterza, 1922 [1911], p. 251, ISBN non esistente. URL consultato il 18 marzo 2016 (archiviato il 13 settembre 2016). ^ Ernst von Glasersfeld, An Introduction to Radical Constructivism. ^ Bizzell and Herzberg, The Rhetorical Tradition, p. 800. ^ "Giambattista V." (2002), A Companion to Early Modern Philosophy, Steven M. Nadler, ed. 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Nicolini (Bompiani), Milano, 1947, p. 57.  Giambattista V., La scienza nuova (a cura di Paolo Rossi), p. 45, Biblioteca Universale Rizzoli, 2008. ^ Ugo Grozio, Prolegomeni al diritto della guerra e della pace (a cura di Guido Fassò), cit. p. 16, Morano Editore, 1979.  Giambattista V., La scienza nuova (a cura di Paolo Rossi), p. 46, Biblioteca Universale Rizzoli, 2008. ^ Giovanni Liccardo, Storia irriverente di eroi, santi e tiranni di Napoli. ^ V. che si era rivolto inutilmente per sovvenzionare la stampa dell'opera prima al cardinale Orsini, poi a papa Clemente XII, fu costretto a vendere un anello per farla pubblicare. V. scrisse in seguito che, in fondo, l'accaduto era stato un bene poiché lo aveva spinto a riscrivere l'opera in maniera più completa. (Cfr. M. Fubini, G.B.V.. Autobiografia, Torino Einaudi 1965). ^ M. Fubini, G.B. V.. Autobiografia, Torino Einaudi 1965. ^ La prima redazione dell'opera, andata perduta, aveva il titolo di Scienza nuova in forma negativa. ^ L'Autobiografia fu pubblicata postuma nel 1818 ampliata con una modifica di V. del 1731. ^ Rivista di studi crociani, Volume 6, a cura della "Società napoletana di storia patria", 1969. ^ La fondazione "Giambattista V.", voluta da Gerardo Marotta, presidente dell'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, con sede nella Chiesa di San Biagio Maggiore di Napoli, si occupa della promozione del pensiero vichiano e della gestione di alcuni siti vichiani come il castello Vargas di Vatolla (Salerno) e la Chiesa di San Gennaro all'Olmo in Napoli. ^ Giambattista V., Principi di una scienza nuova d'intorno alla comune natura delle nazioni, a cura di Giuseppe Ferrari, Società tipografica de' Classici italiani, Milano 1843, p. 479. ^ Silvestro Candela, L'unità e la religiosità del pensiero di Giambattista V., Cenacolo Serafico, 1969, p. 35. ^ Inesatto è altresì che V. terminasse di vivere il 20 gennaio 1744 a più di settantasei anni: mancò nella notte tra il 22 e il 23 gennaio, a settantacinque anni e sette mesi precisi. ...» in La Letteratura italiana: Storia e testi, Giambattista V., Ricciardi, 1953. ^ La storia di Giambattista V., su napolitoday.it. URL consultato il 16 marzo 2017 (archiviato il 16 marzo 2017). ^ Secondo notizie di stampa diffuse nell'ottobre 2011, resti della salma di V. sarebbero stati recuperati nei sotterranei della chiesa napoletana. (Vedi: Corriere del Giorno: Ritrovata la salma di Giambattista V.? I ricercatori vanno cauti Archiviato il 14 novembre 2011 in Internet Archive.) La notizia è stata comunque commentata con prudenza dagli esperti. ^ Giambattista V., La scienza nuova (a cura di Paolo Rossi), pp.6-7, Biblioteca Universale Rizzoli, 2008. ^ Fausto Nicolini, La giovinezza di Giambattista V.: saggio biografico, Società editrice Il Mulino, 1992, p. 142, ISBN 9788815038326. ^ Croce, Nuovi saggi sul Seicento, pp. 91-105. ^ Per una silloge di pensieri» del Malvezzi, Politici e moralisti del Seicento, ediz. Croce-Caramella, Bari, Laterza, 1930. ^ V. nel perduto De equilibrio corporis animantis esponeva una concezione secondo cui ...riponevo la natura delle cose nel moto per il quale, come se fossero sottoposte alla forza di un cuneo, tutte le cose vengono spinte verso il centro del loro stesso moto e, invece, sotto l'azione di una forza contraria, vengono respinte verso l'esterno; e sostenni anche che tutte le cose vivono e muoiono in virtù di sistole e diastole». Secondo un'ipotesi di Benedetto Croce e Fausto Nicolini l'opera era stata concepita come appendice al Liber physicus e fu donata in forma manoscritta al suo grande amico, il giurista Domenico Aulisio tra il 1709 e il 1711. La trattazione di quella teoria di ispirazione cartesiana e presocratica venne poi inserita più ampiamente nella Vita. ^ Stefania De Toma, Ecco l'origine delle scienze umane: aspetti retorici di una contesa intorno al De antiquissima italorum sapienti, in Bollettino del Centro di Studi Vichiani», XLI, 2, 2011 (Roma : Edizioni di Storia e Letteratura, 2011). ^ G.B. V., Opere, Sansoni, Firenze, 1971, I, 1 p. 63 ^ V. è considerato da alcuni interpreti del suo pensiero come il primo costruttivista. Infatti V. sostiene che l'uomo può conoscere solo ciò che può costruire, aggiungendo poi che in effetti solo Dio conosce veramente il mondo, avendolo creato lui stesso. Il mondo quindi è esperienza vissuta e al suo riguardo non vale per gli uomini alcuna pretesa di verità ontologica. (In Paul Watzlawick, La realtà inventata, Milano, Feltrinelli, 2008, pag 26 e sgg.) ^ Per V. la filologia non è solo la scienza del linguaggio ma anche storia, usi e costumi, religioni... ecc. dei popoli antichi. ^ L'età degli dei nella quale gli uomini gentili credettero vivere sotto divini governi, e ogni cosa esser loro comandata con gli auspici e gli oracoli, che sono le più vecchie cose della storia profana: l'età degli eroi, nella quale dappertutto essi regnarono in repubbliche aristocratiche, per una certa da essi rifiutata differenza di superior natura a quella de' lor plebei; e finalmente l'età degli uomini, nella quale tutti si riconobbero esser uguali in natura umana, e perciò vi celebrarono prima le repubbliche popolari e finalmente le monarchie, le quali entrambe sono forma di governi umane.» (G. V., Scienza Nuova, Idea dell'Opera). ^ G. V., Scienza Nuova, Idea dell'Opera. ^ Ibidem. ^ La ragion di Stato non è naturalmente conosciuta da ogni uomo ma da pochi pratici di governo» (Ibidem). ^ Ibidem Degnità XXXVII. ^ Sull'immaginazione nei primitivi secondo la filosofia vichiana si veda: Paolo Fabiani, La filosofia dell'immaginazione in V. e Malebranche, Firenze University Press, 2002 Archiviato il 2 agosto 2016 in Internet Archive. ^ La rivendicazione dell'assoluta autonomia dell'arte e della poesia nei confronti delle altre attività spirituali fu uno dei meriti che Benedetto Croce riconobbe al pensiero vichiano: [V.] criticò tutt'insieme le tre dottrine della poesia come esortatrice e mediatrice di verità intellettuali, come cosa di mero diletto, e come esercitazione ingegnosa di cui si possa senza far danno fare a meno. La poesia non è sapienza riposta, non presuppone logica intellettuale, non contiene filosofemi: i filosofi che ritrovano queste cose nella poesia, ve le hanno introdotte essi stessi senza avvedersene. La poesia non è nata per capriccio, ma per necessità di natura. La poesia tanto poco è superflua ed eliminabile, che senza di essa non sorge il pensiero: è la prima operazione della mente umana.»  (Benedetto Croce, La filosofia di Giambattista V.)  ^ [qual era quello dei tempi d'Omero] ^ G. V., Scienza Nuova, Conclusione. ^ Nel senso di pietas, sentimento religioso. ^ Rosella Prezzo (a cura di), Ridere la verità. Scena comica e filosofia, Minima, n. 24, Milano, Raffaello Cortina Editore, 1994, pp. 14-18 e 64-70. ^ Niccolò Tommaseo, Storia civile nella letteraria, in Studii, Roma-Torino-Firenze, Loescher, 1872, pp. 104 sgg. ^ Francesco Flora, Giambattista V., in Storia della letteratura italiana. Nuova edizione riveduta e ampliata, Volume terzo, Il Cinquecento (parte seconda) Il Seicento-Il Settecento, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1958, pp. 441-452. ^ Giambattista V., La scienza nuova (a cura di Paolo Rossi), p. 13, Biblioteca Universale Rizzoli, 2008. Bibliografia Il pensiero vichiano rimase quasi del tutto ignorato dalla cultura europea del XVIII secolo con una diffusione limitata nell'Italia meridionale. Ancora in età romantica V. era poco conosciuto anche se filosofi tedeschi come Johann Gottfried Herder, chiamato V. tedesco, e Hegel presentano delle somiglianze con la dottrina vichiana per quanto riguarda il ruolo della storia nello sviluppo della filosofia.  La filosofia di V. comincia ad essere conosciuta e apprezzata nel clima del romanticismo francese e italiano: François-René de Chateaubriand e Joseph de Maistre ma, soprattutto  Jules Michelet, Principes de la philosophie de l'histoire, Parigi 1827 diffonde il pensiero di V. di cui apprezza la concezione della storia come sintesi di umano e divino.  Nella prima metà dell'Ottocento, Auguste Comte e Karl Marx stimarono la filosofia della storia di V. ma furono i filosofi italiani, come Antonio Rosmini, e soprattutto Vincenzo Gioberti, che videro in lui un maestro.  N. Tommaseo, G.B. V. e il suo secolo, 1843, rist. Torino 1930, mette in evidenza la grande affinità del pensiero vichiano con quello di Gioberti. Agostino Maria de Carlo, Istituzione Filosofica secondo i Princìpj di Giambattista V. ad uso della gioventù studiosa, Napoli, Tip. Cirillo, 1855. Nuove interpretazioni basate sul principio vichiano del verum ipsum factum considerano V. un anticipatore del positivismo  Giuseppe Ferrari, Il genio di V., 1837, rist. Lanciano, Carabba, 1916. C. Cattaneo, Sulla 'Scienza Nuova' di V., Milano, 1946-47. C. Cantoni, V., Torino, 1967. P. Siciliani, Sul rinnovamento della filosofia positiva in Italia, Firenze, Civelli, 1871. Recentemente, viene rivalutato il legame stringente fra il filosofo e l'Illuminismo:  Alberto Donati, Giambattista V.. Filosofo dell'Illuminismo, Ariccia, Aracne, 2016. Una spinta decisiva all'apprezzamento e alla diffusione del pensiero vichiano come anticipatore di Kant e dell'idealismo, si ebbe in Italia a cominciare dagli studi di Bertrando Spaventa e De Sanctis iniziatori di quella corrente dottrinale interpretativa che si ritrova soprattutto in Croce e  G. Gentile, Studi vichiani, Messina 1915, rist. Firenze, Sansoni, 1969, che ne mette in luce le ascendenze neoplatoniche e rinascimentali rifiutandone nel contempo l'interpretazione positivista e interpretandone il verum ipsum factum in senso idealistico. Una forzatura questa, secondo alcuni critici, ripresa da  B. Croce, La filosofia di G.B.V., Bari, Laterza, 1911. che ebbe soprattutto il merito di aver intuito in V. una definizione dell'arte come attività autonoma dello spirito e della visione storicistica dello sviluppo dello spirito da cui Croce elimina ogni riferimento alla trascendenza della Provvidenza vichiana.  Un'accurata ricerca storica su V. fu operata dal crociano  Fausto Nicolini, La giovinezza di V., Bari, Laterza, 1932. Fausto Nicolini, La religiosità di V., Bari, Laterza, 1949. Fausto Nicolini, Commento storico alla seconda 'Scienza nuova', Roma, 1949-50. Fausto Nicolini, Saggi vichiani, Napoli, Giannini, 1955. Fausto Nicolini, Giambattista V. nella vita domestica. La moglie, i figli, la casa, Venosa, Osanna, 1991. Contrari all'interpretazione immanentistica della Provvidenza vichiana sono gli studi di autori cattolici che ne mettono invece in risalto la trascendenza:  E. Chiocchietti, La filosofia di G. B. V., Milano, Vita e Pensiero, 1935. F. Amerio, Introduzione allo studio di V., Torino, SEI, 1946. L. Bellafiore, La dottrina della Provvidenza in G. B. V., Bologna, Cedam, 1962. A. Mano, Lo storicismo di G. B. V., Napoli, 1965. F. Lanza, Saggi di poetica vichiana, Varese, Magenta, 1961. Il dibattito tra le interpretazioni laiche e cattoliche su V. si è attenuato in periodi recenti dove lo studio del pensiero vichiano si è dedicato a particolari aspetti della sua dottrina:  G. Fassò, I quattro auttori» del V.. Saggio sulla genesi della Scienza nuova, Milano, Giuffrè, 1949. G. Fassò, V. e Grozio, Napoli, Guida, 1971. Maura Del Serra, Eredità e kenosi tematica della "confessio" cristiana negli scritti autobiografici di V., in Sapientia, XXXIII, n. 2, 1980, pp. 186–199. sulla concezione della storia ad opera della quale avviene la conciliazione tra immanenza e trascendenza del pensiero vichiano: A. R. Caponigri, Time and Idea, Londra-Chicago 1953, trad. it. Tempo e idea, Bologna, Pàtron, 1969. sulla estetica vichiana gli studi più notevoli sono quelli di Giovanni A. Bianca, Il concetto di poesia in G.B.V., Messina, D'Anna, 1967. Thomas Gilbhard, V.s Denkbild. Studien zur Dipintura der Scienza Nuova und der Lehre vom Ingenium, Berlin, Akademie Verlag, 2012, ISBN 978-3-05-005209-0. Giuseppe Prestipino, La teoria del mito e la modernità di G. B. V., in Annali della Facoltà di Palermo», 1972. Giuseppe Patella, Senso, corpo, poesia. Giambattista V. e l'origine dell'estetica moderna, Milano. Guerini, 1995, ISBN 8881070340. Stefania Sini, Figure vichiane. Retorica e topica della Scienza nuova, Milano, LED, 2005, ISBN 88-7916-285-3. Giuseppe Patella, Giambattista V. tra Barocco e Postmoderno, Milano, Mimesis, 2005, ISBN 9788884833983. Giuseppe Patella, Ingegno V.. Saggi estetici, Pisa, ETS, 2022, ISBN 9788846764287. sugli aspetti giuridici e sociologici: P. 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Modifica su Wikidata V., Giambattista, in Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2009. Modifica su Wikidata V., Giambattista, in Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2009. Modifica su Wikidata V., Giovanni Battista, su sapere.it, De Agostini. Modifica su Wikidata (EN) Jules-Marie Chaix-Ruy, Giambattista V., su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata (EN) Giambattista V., su Internet Encyclopedia of Philosophy. Modifica su Wikidata Andrea Battistini, V., Giambattista, in Dizionario biografico degli italiani, vol. 99, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2020. Modifica su Wikidata Giambattista V., su BeWeb, Conferenza Episcopale Italiana. Modifica su Wikidata Opere di Giambattista V., su Liber Liber. Modifica su Wikidata Opere di Giambattista V. / Giambattista V. (altra versione) / Giambattista V. (altra versione), su MLOL, Horizons Unlimited. 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Portale Biografie   Portale Diritto   Portale Filosofia   Portale Storia Categorie: Filosofi italiani del XVII secoloFilosofi italiani del XVIII secoloStorici italiani del XVII secoloStorici italiani del XVIII secoloGiuristi italiani del XVII secoloGiuristi italiani del XVIII secoloNati nel 1668Morti nel 1744Nati il 23 giugnoMorti il 23 gennaioNati a NapoliMorti a NapoliFilosofi della storiaOntologistiFilosofi del dirittoAccademici dell'ArcadiaProfessori dell'Università degli Studi di Napoli Federico IIMemorialisti italiani[altre]Molte delle notizie riguardanti la vita di V. sono tratte dalla sua “Autobiografia”, scritta sul modello letterario delle “Confessioni” d’AGOSTINO. Dall’autobiografia V. cancella ogni riferimento ai suoi interessi giovanili per le dottrine atomistiche e per la filosofia di Cartesio, che hanno cominciato a diffondersi a NAPOLI, ma venneno subito repressi dalla censura delle autorità civili e religiose, che le consideravano moralmente perniciose e contrari all'indice dei libri proibiti. Nato da una famiglia di modesta estrazione sociale – il padre e un libraio – V. e un bambino molto vivace. A causa di una caduta, si procura una frattura al cranio che gli impede di frequentare la scuola per III anni e che, pur non alterando le sue capacità mentali, quantunque “il cerusico ne fe' tal presagio: che egli o ne morrebbe o arebbe sopravvissuto stolido,” contribusce a sviluppare “una natura malinconica ed acre.” Ammesso agli studi di grammatica presso il collegio massimo dei gesuiti, li abbandona per dedicarsi al privato approfondimento dei testi di NICOLETTI [vide], il quale, tuttavia, rivelandosi superiore alle sue capacità, provoca l'allontanamento dall'attività intellettuale per I anno e mezzo.  Ripresa la via degli studi, V. si reca nuovamente dai gesuiti per seguire le lezioni di RICCI. Rimasto ancora una volta insoddisfatto, si apparta nuovamente a vita privata per affrontare la meta-fisica. Successivamente, per secondare il desiderio paterno, V. e “applicato agli studi legali.” Frequenta per II mesi le lezioni di VERDE, s’iscrive alla facoltà di giurisprudenza, senza tuttavia seguirne i corsi, e si cimenta, come di consueto, in studi di diritto. Conseguita la laurea a SALERNO, si appassiona subito ai problemi filosofici, segno “di tutto lo studio che ha egli da porre all'indagamento de’ princìpi del diritto universal.” Lapide nella casa natale di via San Biagio dei Librai che recita: In questa cameretta nasce V.. Nella sottoposta piccola bottega del padre libraio usa passare le notti nello studio. Vigilia della sua opera sublime. La città di Napoli pose.” Il periodo di tempo intercorrente e denominato dell' “auto-perfezionamento.” Difatti, nonostante l' “Auto-biografia” riporti indietro la data d'inizio del suo magistero, svolge attività di precettore dei figli del marchese ROCCA presso il castello di Vatolla nel Cilento e colà, usufruendo della grande biblioteca, ha modo di studiare l’Accademia di FICINO e PICO. Approfondisce gli studi del Lizio, nonostante la dichiarata avversione per Aristotele e la scolastica. Legge i saggi di di BOTERO e di BODIN, scoprendo al contempo TACITO (che divenne un maestro cui s'ispira la sua filosofia) e la sua “mente metafisica incomparabile con cui contempla l'uomo qual è.” Affronta per un breve periodo studi di geometria e pubblica la canzone “Affetti di un disperato,” d'ispirazione lucreziana (vide LUCREZIO). Erma del V. Ritornato a Napoli, affetto dalla tisi, rientra nella misera dimora paterna. A causa delle grosse difficoltà economiche, V. è costretto a tenere ripetizioni di retorica e grammatica. Pubblica un discorso proemiale a una crestomazia poetica dedicata alla partenza di Benavides, vice-ré e conte di S. Stefano. Compone un'orazione funebre in memoria di Cardona, madre del nuovo vice-ré. Tenta vanamente di ottenere un posto di lavoro come segretario al municipio di Napoli. Vince, con striminzita maggioranza, il concorso per la cattedra di eloquenza e retorica a Napoli, da cui non riusce, con suo grande rammarico, a passare a una di diritto. -- è aggregato all'accademia palatina fondata dal vice-ré Aragón, duca di Medinaceli. Anche dopo la nomina accademica per il mantenimento del padre e dei fratelli, totalmente dipendenti da lui, apre uno studio dove dà lezioni di retorica e di grammatica e impegnarsi a lavorare su commissione alla stesura di poesie, epigrafi, orazioni funebri, e panegirici. Può finalmente prendere in affitto in V.lo dei Giganti una casa di tre camere, sala, cucina, loggia e altre comodità, come rimessa e cantina e sposar e avere VIII figli. Da quel momento non ha più la tranquillità necessaria per condurre gli studi, ma prosegue ugualmente le sue meditazioni tra lo strepitio de' suoi figlioli. A questo periodo risale, inoltre, la conoscenza con DORIA (vide) e l'incontro con la filosofia di Bacone. Il governo partenopeo gli commissiona la scrittura del “Principum neapolitanorum coniuratio” e in una cena a casa di DORIA, espone le sue idee sulla filosofia della natura che lo conduceno alla composizione del “Liber physicus.” Pronunzia in latino le VI orazioni inaugurali, ossia le prolusioni all'anno accademico e, se ne aggiunge una VII, più ampia e importante, “De nostri temporis studiorum ratione,” la quale si concentra molto sul metodo degli studi giuridici, poiché sempre ha la mira a farsi merito con l'università nella giurisprudenza per altra via che di leggerla ai giovinetti. Nel “De ratione”, inoltre, è contenuta la critica al razionalismo di Cartesio e l'elogio dell'eloquenza, della retorica, della fantasia, nonché dell’ingegno produttore della META-FORA. L'insieme delle prolusioni universitarie sono rielaborate per essere raccolte in “De studiorum finibus naturae humanae convenientibus”. È aggregato all'accademia dell'Arcadia e pubblica il primo libro dell'opera dedicata a DORIA, “De antiquissima italorum sapientia ex linguae latinae originibus eruenda,” recante il sottotitolo “Liber primus sive metaphysicus.” Accanto al “Liber Meta-Physicus,” l'opera comprender anche il “Liber Physicus” e un mai compost, “Liber Moralis.” Un anonimo recensisce l'opera nel “Giornale de' letterati d'Italia”, cui segue la risposta del V., accompagnata dal ristretto o ri-assunto del “Liber Meta-Physicus”. Aseguito di nuove obiezioni prodotte dall'anonimo recensore, replica con una Risposta II. Pubblica un trattatello sulle febbri ispirato alle bozze del “Liber Physicus”, recante il titolo di “De aequilibrio corporis animantis.” Inoltre, si dedica alla stesura del “De rebus gestis Antonii Caraphaei,” una biografia del maresciallo Carafa. Durante i lavori di questa opera biografica, V. si dedica alla ri-lettura del suo quarto auttore», Grozio, cui dedicha un commento al “De iure belli ac pacis”. L'incontro di V. con la filosofia di Ugon capo» ha un'importanza decisiva per il suo sviluppo filosofico. Da quel momento, il suo interesse e completamente assorbito dai problemi storici e giuridici. L'idea dell'esistenza di un'umanità ferina e primitiva, dominata solamente dal senso e dalla fantasia, ed entro cui si producono gl’ordini civili divenne centrale in tutta la sua filosofia. Vide la luce un'opera di filosofia del diritto, intitolata “De uno universi iuris principio et fine uno”, seguita dallo saggio “De constantia iurisprudentis,” diviso in II parti, “De constantia philosophiae” e “De constantia philologiae,” e che, nonostante il titolo si riferisca alla tematica giuridica, è meno incentrato sull'argomento rispetto al “De uno”. Benché le due opere si differenzino, segno di un rapido sviluppo della sua filosofia, è d'uso considerarli, come invero fece anche V., insieme alle notae aggiunte e le sinopsi premesse al saggio, sotto l'unico titolo di “Diritto universale”. S'iscrive al concorso per ottenere la cattedra di diritto civile a Napoli e commenta un passo delle “Quaestiones di Papiniano “davanti a un collegio di giudici, ma, con suo grande scorno, il posto e assegnato a GENTILE. Dopo la fama ottenuta dalla pubblicazione della “Scienza Nuova”, ottenne da Carlo III, la carica di storiografo regio. Tanto nuova e la sua dottrina che la cultura del tempo non puo apprezzarla. Così che V. rimanda appartato e quasi del tutto sconosciuto negl’ambienti filosofici, dovendosi accontentare di una cattedra di secondaria importanza a Napoli che lo mantene inoltre in tali ristrettezze economiche che per pubblicare il suo capolavoro, la “Scienza Nuova”, dovette toglierne alcune parti in modo che risultasse meno costoso per la stampa. Alle difficoltà economiche vissute per la pubblicazione dell'opera sua, che inficiarono la sua notorietà nel seno dell'accademia partenopea, s’accompagna una prosa involuta, pertanto di difficile penetrazione. Prima della “Scienza Nuova” V. scrive la prolusione inaugurale “De nostri temporis studiorum ratione,” il “De antiquissima italorum sapientia, EX LINGUAE LATINAE originibus eruenda” a cui si devono aggiungere le II risposte al “Giornale dei letterati di Venezia” che critica la sua filosofia, il “De uno universi iuris principio et fine uno” e il “De costantia iurisprudentis”. Afflitto da difficoltà e disgrazie familiari, V. incomincia a scrivere la sua “Autobiografia” pubblicata a Venezia. Vengono pubblicati i “Principii di una scienza nuova intorno alla natura delle nazioni.” Alla “Scienza nuova” lavora per tutto il corso della sua vita, con un’edizione integralmente ri-scritta anche a seguito delle critiche ricevute (cui aveva risposto nelle “Vici Vindiciae”) e, infine, rivista completamente, senza grandi modifiche, per la edizione III, pubblicata pochi mesi dopo la sua morte da suo figlio che lo aveva sostituito nell'insegnamento accademico. La morte [incominciarono a crescere] quei malori che fin dai suoi più floridi anni l’avevano debilitato. Comincia adunque ad essere indebolito in tutto il sistema nervoso in guisa che a stento poteva camminare e, quel che più lo affligea, e di vedersi ogni giorno infiacchire la reminiscenza. Il fiaccato corpo anda in seguito ogni giorno più a debilitarsi in guisa che perde quasi interamente la memoria fino a dimenticare gl’oggetti a sé più vicini ed a scambiare i nomi delle cose più usuali. Affetto probabilmente dalla malattia di Alzheimer, all'epoca non ancora descritta scientificamente, negl’ultimi anni non riconosceva più i suoi stessi figli e e costretto ad allettarsi. Solo in punto di morte ri-acquista la coscienza come svegliandosi da un lungo sonno. Chiese i conforti religiosi e recitando i salmi di Davide muore. Per la celebrazione delle esequie nasce un contrasto tra i confratelli della congregazione di S. Sofia, alla quale V. era iscritto, e i professori di Napoli su chi dovesse tenere i fiocchi della coltre mortuaria. Non giungendo ad un accordo il feretro, che era stato calato nel cortile, e abbandonato dei membri della congregazione e e riportato in casa. Da lì finalmente, accompagnato dai colleghi dell'università, e sepolto nella chiesa dei padri dell'oratorio detta dei Gerolamini in Via dei Tribunali. Nell'ambiente culturale napoletano, molto interessato alle nuove dottrine filosofiche, V. ha modo di entrare in rapporto con il pensiero di Cartesio, Hobbes, Gassendi, Malebranche e Leibniz anche se i suoi autori di riferimento risalivano piuttosto alle dottrine neo-platoniche dell’accademia, rielaborate dalla filosofia rinascimentale di FICINO e PICO, aggiornate dalle moderne concezioni scientifiche di Bacone e GALILEI e del pensiero giusnaturalistico moderno di Grozio e Selden. Dal Portico di MALVEZZI riprende l'intuizione che il corso storico sia retto da una sua logica interna. Questa varietà di interessi fa pensare alla formazione di un pensiero eclettico in V. che invece giunse alla formulazione di un'originale sintesi tra una razionalità sperimentatrice e la tradizione platonica, accademica, e religiosa.  “De antiquissima Italorum sapientia” consta di tre parti: il “Liber Meta-Physicus”, che usce senza l'appendice riguardante la logica che, nella sua intenzione, avrebbe dovuto avere; il “Liber Physicus”, che pubblica sotto forma di opuscolo col titolo “De aequilibrio corporis animantis”, che anda smarrito, ma ampiamente riassunto nella Vita; e infine il “Liber moralis”, di cui non abbozza nemmeno il testo. Nel “De antiquissima” V., considerando il linguaggio come oggettivazione del pensiero, è convinto che dall'analisi etimologica di alcune parole si possano rintracciare originarie forme del pensiero. Applicando questo metodo, risale ad un antico sapere filosofico delle popolazioni italiche. Il fulcro di queste arcaiche concezioni filosofiche è la convinzione antichissima che “Latinis verum et factum reciprocantur, seu, ut scholarum vulgus loquitur, convertuntur” -- che cioè il criterio e la regola del vero consiste nell'averlo fatto. Per cui possiamo dire ad esempio di conoscere le proposizioni matematiche perché siamo noi a farle tramite postulati, definizioni. Ma non potremo mai dire di conoscere nello stesso modo la natura, perché non siamo noi ad averla creata.  Conoscere una cosa significa rintracciarne i principi primi, le cause, poiché, secondo l'insegnamento del Lizio, veramente la scienza è “scire per causas.” Ma questi elementi primi li possiede realmente solo chi li produce, “provare per cause una cosa equivale a farla”. Il principio del “verum ipsum factum” non e una nuova e originale scoperta di V. E già presente nell'occasionalismo, nel metodo baconiano che richiede l'esperimento come verifica della verità, nel volontarismo scolastico che, tramite la tradizione scotista, e presente nella cultura filosofica napoletana del tempo di V. La tesi fondamentale di queste concezioni filosofiche è che la piena verità di una cosa sia accessibile solo a colui che tale cosa produce. Il principio del verum-factum, proponendo la dimensione fattiva del vero, ridimensiona le pretese conoscitive del razionalismo di Cartesio che inoltre giudica insufficiente come metodo per la conoscenza della storia umana, che non può essere analizzata solo in astratto, perché essa ha sempre un margine di imprevedibilità. Si serve, però, di quel principio per avanzare in modo originale le sue obiezioni alla filosofia di Cartesio  trionfante in quel periodo. Il cogito di Cartesio infatti potrà darmi certezza della mia esistenza ma questo non vuol dire conoscenza della natura del mio essere. Coscienza non è conoscenza. Avrò coscienza di me ma non conoscenza poiché non ho prodotto il mio essere ma l'ho solo riconosciuto. L'uomo può dubitare se senta, se viva, se sia esteso, e infine in senso assoluto, se sia. A sostegno della sua argomentazione escogita un certo genio ingannatore e maligno. Ma è assolutamente impossibile che uno non sia conscio di pensare, e che da tale coscienza non concluda con certezza che egli è. Pertanto Cartesio svela che il primo vero è questo, Penso dunque sono. --“De antiquissima Italorum sapiential” in “Opere filosofiche,” a cura di Cristofolini (Firenze, Sansoni). Il criterio del metodo di Cartesio dell'evidenza procura dunque una conoscenza chiara e distinta, che però non è scienza se non è capace di produrre ciò che conosce. In questa prospettiva, dell'essere umano e della natura solo il divino, creatore di entrambi, possiede la verità.  Mentre quindi la mente umana procedendo astrattamente nelle sue costruzioni, come accade per la matematica, la geometria crea una realtà che le appartiene, essendo il risultato del suo operare, giungendo così a una verità sicura, la stessa mente non arriva alle stesse certezze per quelle scienze di cui non può costruire l'oggetto come accade per la meccanica, meno certa della matematica, la fisica meno certa della meccanica, la morale meno certa della fisica. Noi dimostriamo le verità geometriche poiché le facciamo, e se potessimo dimostrare le verità fisiche le potremmo anche fare. I latini diceno che la mente è data, immessa negl’uomini dagli dei. È dunque ragionevole congetturare che gl’autori di queste espressioni abbiano pensato che le idee negl’animi umani siano create e risvegliate dal divino. La mente umana si manifesta pensando, ma è il divino che in me pensa, dunque nel divino conosco la mia propria mente. Il valore di verità che l'uomo ricava dalle scienze e dalle arti, i cui oggetti egli costruisce, è garantito dal fatto che la mente umana, pur nella sua inferiorità, esplica un’attività che appartiene in primo luogo al divino. La mente dell'uomo è anch'essa creatrice nell'atto in cui imita la mente, le idee, del divino, partecipando metafisicamente ad esse. Imitazione e partecipazione alla mente divina avvengono ad opera di quella facoltà che V. chiama “ingegno” che è la facoltà propria del conoscere per cui l'uomo è capace di contemplare e di imitare le cose. L'ingegno è lo strumento principe, e non l'applicazione delle regole del metodo di Cartesio, per il progresso, ad esempio, della fisica che si sviluppa proprio attraverso gl’esperimenti escogitati dall'ingegno secondo il criterio del vero e del fatto.  L'ingegno dimostra, inoltre, i limiti del conoscere umano e la contemporanea presenza della verità divina che si rivela proprio attraverso l'errore. Il divino mai si allontana dalla nostra presenza, neppure quando erriamo, poiché abbracciamo il falso sotto l'aspetto del vero e i mali sotto l'apparenza dei beni. Vediamo le cose finite e ci sentiamo noi stessi finiti, ma ciò dimostra che siamo capaci di pensare l'infinito. Contro la Scessi sostiene che è proprio tramite l'errore che l'uomo giunge al sapere metafisico. Il chiarore del vero metafisico è pari a quello della luce, che percepiamo soltanto in relazione ai corpi opachi. Tale è lo splendore del vero metafisico non circoscritto da limiti, né di forma discernibile, poiché è il principio infinito di tutte le forme. Le cose fisiche sono quei corpi opachi, cioè formati e limitati, nei quali vediamo la luce del vero metafisico. Il sapere metafisico non è il sapere in assoluto. Esso è superato dalla matematica e dalle scienze ma, d'altro canto, la metafisica è la fonte di ogni verità, che da lei discende in tutte le altre scienze. Vi è dunque un primo vero, comprensione di tutte le cause, originaria spiegazione causale di tutti gli effetti; esso è infinito e di natura spirituale poiché è antecedente a tutti i corpi e che quindi si identifica con divino. Nel divino sono presenti le forme, simili alle idee platoniche, modelli della creazione divina.  Il primo vero è nel divino, perché il divino è il primo facitore (primus factor); codesto primo vero è infinito, in quanto facitore di tutte le cose; è compiutissimo, poiché mette dinanzi al divino, in quanto li contiene, gli elementi estrinseci e intrinseci delle cose. Se l'uomo non può considerarsi creatore della realtà naturale ma piuttosto di tutte quelle astrazioni che rimandano ad essa come la matematica, la stessa metafisica, vi è tuttavia un'attività creatrice che gli appartiene  questo mondo civile egli certamente è stato fatto dagli uomini, onde se ne possono, perché se ne debbono, ritruovare i principi dentro le modificazioni della nostra medesima mente umana. L'uomo è dunque il creatore, attraverso la storia, della civiltà umana. Nella storia, l'uomo verifica il principio del “verum ipsum factum” creando così una scienza nuova che ha un valore di verità come la matematica. Una scienza che ha per oggetto una realtà creata dall'uomo e quindi più vera e, rispetto alle astrazioni matematiche, concreta. La storia rappresenta la scienza delle cose fatte dall'uomo e, allo stesso tempo, la storia della stessa mente umana che ha fatto quelle cose. La definizione dell'uomo, della sua mente non può prescindere dal suo sviluppo storico se non si vuole ridurre tutto a un'astrazione. La concreta realtà dell'uomo è comprensibile solo riportandola al suo divenire storico. È assurdo credere, come fa Cartesio o i ne-oplatonici, che la ragione dell'uomo sia una realtà assoluta, sciolta da ogni condizionamento storico. La filosofia contempla la ragione, onde viene la scienza del vero. La filologia osserva l'autorità dell'umano arbitrio onde viene la coscienza del certo. Questa medesima degnità o assioma dimostra aver mancato per metà così i filosofi che non accertarono le loro ragioni con l'autorità de’ filologi, come i filologi che non curarono d'avverare la loro autorità con la ragion dei filosofi. Ma la filologia da sola non basta, si ridurrebbe a una semplice raccolta di fatti che invece vanno spiegati dalla filosofia. Tra filologia e filosofia vi deve essere un rapporto di complementarità per cui si possa accertare il vero e inverare il certo. Compito della 'scienza nuova' sarà quello di indagare la storia alla ricerca di quei principi costanti che, secondo una concezione per certi versi platonizzante, fanno presupporre nell'azione storica l'esistenza di una legge che ne sia a fondamento com'è per tutte le altre scienze. Poiché questo mondo di nazioni egli è stato fatto dagl’uomini, vediamo in quali cose hanno con perpetuità convenuto e tuttavia vi convengono tutti gl’uomini; poiché tali cose ne potranno dare i principi universali ed eterni, quali devon essere d'ogni scienza, sopra i quali tutte sursero e tutte vi si conservano le nazioni. La storia quindi, come tutte le scienze, presenta delle leggi, dei principi universali, di un valore ideale di tipo platonico, che si ripetono costantemente allo stesso modo e che costituiscono il punto di riferimento per la nascita e il mantenimento delle nazioni. Rifarsi alla mente umana per comprendere la storia non è sufficiente. Si vedrà, attraverso il corso degli avvenimenti storici, che la stessa mente dell'uomo è guidata da un principio superiore ad essa che la regola e la indirizza ai suoi fini che vanno al di là o contrastano con quelli che gli uomini si propongono di conseguire; così accade che, mentre l'umanità si dirige al perseguimento di intenti utilitaristici e individuali, si realizzino invece obiettivi di progresso e di giustizia secondo il principio della eterogenesi dei fini. Pur gli uomini hanno essi fatto questo mondo di nazioni, ma egli è questo mondo, senza dubbio, uscito da una mente spesso diversa ed alle volte tutta contraria e sempre superiore ad essi fini particolari ch'essi uomini si avevan proposti. La storia umana in quanto opera creatrice dell'uomo gli appartiene per la conoscenza e per la guida degli eventi storici ma nel medesimo tempo lo stesso uomo è guidato dalla provvidenza che prepone alla storia divina. Secondo V. il metodo storico dove procedere attraverso l'analisi delle lingue dei popoli antichi poiché i parlari volgari debono essere i testimoni più gravi degl’antichi costumi de' popoli che si celebrarono nel tempo ch'essi si formarono le lingue, e quindi tramite lo studio del diritto, che è alla base dello sviluppo storico delle nazioni civili.  Questo metodo ha fatto identificare nella storia una legge fondamentale del suo sviluppo che avviene evolvendosi in tre età:  l'età degli dei, nella quale gli uomini gentili credettero vivere sotto divini governi, e ogni cosa esser loro comandata con gl’auspici e gli oracoli; l'età degl’eroi dove si costituiscono repubbliche aristocratiche; l'età degl’uomini nella quale tutti si riconobbero esser uguali in natura umana. La storia umana, secondo V., inizia con il diluvio universale, quando gl’uomini, giganti simili a primitivi "bestioni", vivevno vagando nelle foreste in uno stato di completa anarchia. Questa condizione bestiale e conseguenza del peccato originale, attenuata dall'intervento benevolo della provvidenza divina che immise, attraverso la paura dei fulmini, il timore degli dei nelle genti che scosse e destate da un terribile spavento d'una da essi stessi finta e creduta divinità del cielo e di Giove, finalmente se ne ristarono alquanti e si nascosero in certi luoghi; ove fermi con certe donne, per lo timore dell'appresa divinità, al coverto, con congiungimenti carnali religiosi e pudichi, celebrarono i matrimoni e fecero certi figlioli, e così fondarono le famiglie. E con lo star quivi fermi lunga stagione e con le sepolture degli antenati, si ritrovarono aver ivi fondati e divisi i primi domini della terra. L'uscita dallo stato di ferinità quindi avviene:  per la nascita della religione, nata dalla paura e sulla base della quale vengono elaborate le prime leggi del vivere ordinato, per l'istituzione delle nozze che danno stabilità al vivere umano con la formazione della famiglia e per l'uso della sepoltura dei morti, segno della fede nell'immortalità dell'anima che distingue l'uomo dalle bestie. Della prima età sostiene di non poter scrivere molto poiché mancano documenti su cui basarsi. Infatti quei bestioni non conoscevano la scrittura e, poiché erano muti, si esprimevano a segni o con suoni disarticolati. L'età degl’eroi ha inizio dall'accomunarsi di genti che trovavano così reciproco aiuto e sostegno per la sopravvivenza. Sorsero la città guidata dalle prime organizzazioni politiche dei signori, gl’eroi che con la forza e in nome della ragion di stato, conosciuta solo da loro, comandano su i servi che, quando rivendicano i propri diritti, si ritrovarono contro i signori che, organizzati in ordini nobiliari, danno vita allo stato aristo-cratico che caratterizza il secondo periodo della storia umana.  In questa seconda, dove predomina la fantasia, nasce il linguaggio dai caratteri mitici e poetici. Infine, la conquista dei diritti civili da parte dei servi dà luogo alla età degl’uomini e alla formazione del stato popolari (res pubblica) basato sul diritto umano dettato dalla ragione umana tutta spiegata. Sorge quindi uno stato non necessariamente demo-cratico ma che puo essere pure monarchico poiché l'essenziale è che rispetta la ragione naturale, che eguaglia tutti. La legge delle tre età costituisce la storia ideale eterna sopra la quale corrono in tempo le storie di nostra nazione. Il popolo conforma il suo corso storico a questa legge che non è solo delle genti ma anche di ogni singolo uomo che necessariamente si sviluppa passando dal primitivo senso nell'infanzia, alla fantasia nella fanciullezza, e infine alla ragione nell'età adulta. Gl’uomini prima sentono senza avvertire. Dappoi avvertiscono con animo perturbato e commosso. Finalmente riflettono con mente pura. Se nella storia pur tra le violenze, i disordini, appare un ordine e un progressivo sviluppo ciò è dovuto all'azione della provvidenza che immette nell'agire dell'uomo un principio di verità che si presenta in modo diverso nelle tre età. Nella prima età degl’eroi, il vero si presenta come certo gl’uomini che non sanno il vero delle cose procurano d'attenersi al certo, perché non potendo soddisfare l'intelletto con la scienza, almeno la volontà riposi sulla coscienza. Questa certezza non viene all'uomo attraverso una verità rivelata ma da una constatazione di senso comune, condivisa da tutti, per cui vi è un giudizio senz'alcuna riflessione, comunemente sentito da tutto un ordine, da tutto un popolo, da tutta una nazione o da tutto il genere umano. Vi è poi, nella seconda età della storia e dell'uomo, caratterizzata dalla fantasia, un sapere tutto particolare che V. define poetico. In questa età nasce infatti il linguaggio non ancora razionale ma molto vicino alla poesia che alle cose insensate dà senso e passione, ed è proprietà dei fanciulli di prender cose inanimate tra le mani e, trastullandosi, favellarvi, come se fussero, quelle, persone vive. Questa degnità filologica-filosofica ne appruova che gl’uomini del mondo fanciullo, per natura, furono sublimi poeti. Se vogliamo quindi conoscere la storia del antico popoli romano dobbiamo rifarci ai miti che hanno espresso nella loro cultura. Il mito o la leggenda infatti non è solo una favola e neppure una verità presentata sotto le spoglie della fantasia ma è una verità di per sé elaborata dagl’antichi che, incapaci di esprimersi razionalmente, si servano di universali fantastici che, sotto spoglie poetiche, presentano modelli ideali universali. I antichi romani non definano razionalmente la prudenza ma raccontarono di ENEA, modello universale fantastico dell'uomo prudente.  V. si dedica poi a definire la poesia che innanzitutto è autonoma come forma espressiva differente dal linguaggio tradizionale. I tropi della poesia come la metafora, la metonimia, e la sineddoche, sono stati erroneamente ritenuti strumenti estetici di abbellimento del linguaggio razionale di base. Invece, la poesia è una forma espressiva naturale e originaria i cui tropi sono necessari modi di spiegarsi della nazione romana poetica. La poesia ha una funzione rivelativa, custodisce le prime immaginate verità dei primi uomini. La lingua romana non ha quindi un'origine convenzionale. Questo presupporrebbe un uso tecnico. Ma la lingua romana sorge invece spontaneamente come poesia. Poiché il linguaggio e i miti costituiscono la cultura originaria e spontanea di tutto il popolo romano, arriva alla discoverta dell’epica, l'espressione del patrimonio culturale comune di tutto il popolo romano. È comunque da respingere la interpretazione platonica dell’epica come filosofia, -- l’epica e fornita di una sublime sapienza riposte. Farsi intendere da volgo fiero e selvaggio non è certamente opera d'ingegno addomesticato ed incivilito da alcuna filosofia. Né da un animo da alcuna filosofia umanato ed impietosito potrebbe nascer quella truculenza e fierezza di stile, con cui descrive tante, sì varie e sanguinose battaglie, tante sì diverse e tutte in istravaganti guise crudelissima spezie d'ammazzamenti, che particolarmente fanno tutta la sublimità dell'epica romana. La sapienza antica ha per contenuto principi di giustizia e ordine necessari per la formazione di popoli civili. Questi contenuti si esprimono in modi diversi a seconda che siano formati dal senso o dalla fantasia o dalla ragione. Questo vuol dire che la sapienza, la verità, si manfesta in forme diverse storicamente ma che essa come verità eterna è al di sopra della storia che di volta in volta la incarna. La verità della storia è una verità metafisica nella storia. Nella storia si attua la mediazione tra l'agire umano e quello divino:  nel fare umano si manifesta il vero divino e il vero umano si realizza tramite il fare divino: la provvidenza, legge trascendente della storia, che opera attraverso e nonostante il libero arbitrio dell'uomo. Questo non comporta una concezione necessitata del corso della storia poiché è vero che la provvidenza si serve degli strumenti umani, anche i più rozzi e primitivi, per produrre un ordine ma tuttavia questo rimane nelle mani dell'uomo, affidato alla sua libertà. La storia quindi non è determinata come sostengono gli stoici e gl’epicurei che niegano la provvedenza, quelli facendosi strascinare dal fato, questi abbandonandosi al caso», ma si sviluppa tenendo conto della libera volontà degli uomini che, come dimostrano i ricorsi, possono anche farla regredire. Gl’uomini prima sentono il necessario; dipoi badano all'utile; appresso avvertiscono il comodo; più innanzi si dilettano nel piacere; quindi si dissolvono nel lusso; e finalmente impazzano in istrapazzar di sostanze. A questa dissoluzione delle nazioni pone rimedio l'intervento della provvidenza che talora non può impedire la regressione nella barbarie, da cui si genererà un nuovo corso storico che ripercorrerà, a un livello superiore, poiché dell'epoca passata è rimasta una sia pur minima eredità, la strada precedente. Paradossalmente la criticità del progresso storico appare proprio con l'età della ragione, quando cioè questa invece dovrebbe assicurare e mantenere l'ordine civile. Accade infatti che la tutela della provvidenza che si è imposta agli uomini nei precedenti due stadi, ora invece deve ricercare il consenso della ragione tutta spiegata che si sostituisce alla religione: Così ordenando la provvedenza: che non avendosi appresso a fare più per sensi di religione (come si erano fatte innanzi) le azioni virtuose, facesse la filosofia le virtù nella lor idea. La ragione infatti, pur con la filosofia, custode della legge ideale del vivere civile, con il suo libero giudizio, può tuttavia incorrere nell'errore o nello scetticismo per cui si diedero gli stolti dotti a calunniare la verità.  La ragione non crea la verità, poiché non può fare a meno dal senso e dalla fantasia senza le quali appare astratta e vuota. Il fine della storia infatti non è affidato alla sola ragione ma alla sintesi armonica di senso, fantasia e razionalità. La ragione poi è ispirata dalla verità divina per cui la storia è sì opera dell'uomo, ma la mente umana da sola non basta poiché occorre la provvidenza che indichi la verità. La filosofia è succeduta alla religione ma non l'ha sostituita anzi essa deve custodirla. Da tutto ciò che si è in quest'opera ragionato, è da finalmente conchiudersi che questa Scienza porta indivisibilmente seco lo studio della pietà, e che, se non siesi pio, non si può daddovero esser saggio. Predicavano la ragione individuale, ed egli le opponeva la tradizione, la voce del genere umano. Gl’uomini popolari, i progressisti di quel tempo, sono CAPUA, DORIA, e CALOPRESO, che stano con le idee nuove, con lo spirito del secolo. Lui e un re-trivo, con tanto di coda, come si direbbe oggi. La coltura europea e la coltura italiana s'incontravano per la prima volta, l'una maestra, l'altra ancella. Resiste. Era vanità di pedante? Era fierezza di grande uomo? Resiste a Cartesio, a Malebranche, a Pascal, i cui pensieri sono lumi sparsi, a Grozio, a Puffendorfio, a Locke, il cui saggio e la metafisica del senso. Resiste, ma li studia più che facessero i novatori. Resiste come chi sente la sua forza e non si lascia sopraffare. Accetta i problemi, combattea le soluzioni, e le cerca per le vie sue, co' suoi metodi e coi suoi studi. E la resistenza della coltura italiana, che non si lascia assorbire, e stava chiusa nel suo passato, ma resistenza del genio, che cercando nel passato trovava il mondo moderno. E il re-trivo che guardando indietro e andando per la sua via, si trova da ultimo in prima fila, innanzi a tutti quelli che lo precedevano. Questa e la resistenza di V. E un moderno e si sente e si crede antico, e resistendo allo spirito nuovo, riceveva quello entro di sé. SANCTIS. Fintanto che e in vita la portata e la ricezione critica del suo pensiero sono circoscritte quasi unicamente agl’ambienti intellettuali della propria città, trovando poi un ben più vasto seguito. Affermatasi la fama del pensiero vichiano, esso e conteso dalle più disparate correnti filosofiche: dal pensiero cristiano -- nonostante l'iniziale rifiuto --, dagl’idealisti -- dai quali fu proclamato precursore dell'immanentismo hegeliano --, dai positivisti, e persino da diversi marxisti. V. è ben più di un semplice filosofo tanto che in certi momenti della sua travagliatissima fama e apprezzato prevalentemente per la sua filosofia del diritto, così come in altri momenti e celebrato precursore della sociologia, della psicologia dei popoli, o come campione fra i maggiori della filosofia della storia, mentre venne ignorata la sua pur genialissima metafisica, che è ad un tempo il punto d'arrivo e il presupposto logico di tutte le ricerche da lui condotte nei più vari campi dell'operare umano. Il pensiero vichiano, le cui prime fonti s'ispirano alla tradizione filosofica che permea l'ambiente partenopeo della sua epoca, rappresenta un ponte. Nonostante V. non sia caratterizzato dall'audacia innovatrice illuminista, il suo pensiero raggiunse – come nota ABBAGNANO – alcuni risultati fondamentali che lo connettono a pieno titolo alla riforma. Tuttavia, non può tacersi il carattere conservatore della sua filosofia politico-religiosa, generato dal turbamento di chi, assistendo alla fine di un mondo famigliare, non sa scoprire i segni del sorgere di un nuovo. Ciò è dimostrato dalla giustapposizione del certo – ossia, il peso dell'autorità della tradizione -- al vero – ossia, lo sforzo innovatore della ragione -- che è il segno di una ricerca di equilibrio estranea all’illuminismo. A tali conclusioni il pensiero vichiano e condotto dalla limitatezza della sua gnoseologia e dalla polemica contro Cartesio, il quale professa, al contrario, l'eliminazione di ogni limite gnoseologico. Altri saggi: “VI Orazioni Inaugurali”: “De nostri temporis studiorum ratione”: “Orazione Inaugurale”; “Proemium”; “Risposte al giornale dei letterati Prima risposta”; “Seconda risposta”; “Institutiones oratoriae”; “De universis Juris”; “De universis juris uno principio et fine uno liber unus - include “De opera proloquium”; “De constantia jurisprudentis liber alter”; “ Notae in II libros, alterum De uno universi juris principio et fine uno, alterum De constantia jurisprudentis”; “Scienza nuova prima”; “Vici vindiciae”; “Vita di V. scritta da se medesimo, (l'Autobiografia» (Supplemento») Scienza nuova seconda, De mente heroica, Scienza nuova terza. Edizioni: Scritti storici, V., Scienza nuova, Scrittori d'Italia, Bari, Laterza, V., Scienza nuova seconda. 1, Scrittori d'Italia, Bari, Laterza, V., Scienza nuova seconda. Scrittori d'Italia, Bari, Laterza, V., Opere a cura di Nicolini, Laterza, Bari, Orazioni inaugurali, De studiorum rationum, De antiquissima Italorum sapientia, Risposte al giornale dei letterati; Diritto universale, Scienza nuova; Scienza nuova, Autobiografia, Carteggio, Poesie varie; Scritti storici; Scritti vari e pagine disperse; Poesie, Institutiones oratoriae. V., Opere filosofiche a cura di Cristofolini, Firenze, Sansoni. V., Opere giuridiche a cura di Cristofolini, Firenze, Sansoni. V., Institutiones oratoriae, testo critico, versione e commento a cura di Crifò, Napoli, Istituto Suor Orsola Benincasa. Il pensiero vichiano rimase quasi del tutto ignorato dalla cultura europea con una diffusione limitata nell'Italia meridionale. Ancora in età romantica V. e poco conosciuto anche se filosofi tedeschi come Herder, chiamato V. tedesco, e Hegel presentano delle somiglianze con la dottrina vichiana per quanto riguarda il ruolo della storia nello sviluppo della filosofia.  La filosofia di V. comincia ad essere conosciuta e apprezzata nel clima del romanticismo francese e italiano: Chateaubriand e Maistre ma, soprattutto Michelet, “Principes de la philosophie de l'histoire” (Parigi) diffonde il pensiero di V. di cui apprezza la concezione della storia come sintesi di umano e divino. Comte e Marx stimarono la filosofia della storia di V. Ma furono i filosofi italiani, come SERBATTI, e soprattutto GIOBERTI, che videro in lui un maestro. Tommaseo, V. e il suo secolo, rist. Torino mette in evidenza la grande affinità del pensiero vichiano con quello di GIOBERTI. Carlo, “Istituzione Filosofica secondo i Princìpj di V.” (Napoli, Cirillo). Nuove interpretazioni basate sul principio vichiano del verum ipsum factum considerano V. un anticipatore del positivismo. FERRARI, Il genio di V., rist. Carabba, CATTANEO, Sulla 'scienza nuova' di V.” (Milano); CANTONI, “V.” (Torino); Siciliani, “Sul rinnovamento della filosofia positiva in Italia” (Civelli Firenze). Viene rivalutato il legame stringente fra il filosofo e l’illuminismo. Donati, “V., filosofo dell'Illuminismo” (Aracne). Una spinta decisiva all'apprezzamento e alla diffusione del pensiero vichiano come anticipatore di Kant e dell'idealismo, si ha in Italia a cominciare dagli studi di SPAVENTA e SANCTIS iniziatori di quella corrente dottrinale interpretativa che si ritrova soprattutto in CROCE e  GENTILE, Studi vichiani, Messina, rist. Sansoni Firenze che ne mette in luce le ascendenze neo-platoniche e rinascimentali, rifiutandone nel contempo l'interpretazione positivista, e interpretandone il verum ipsum factum in senso idealistico. Una forzatura questa, secondo alcuni critici, ripresa da  CROCE, “La filosofia di V.” (Laterza, Bari) che ha soprattutto il merito di aver intuito in V. una definizione dell'arte come attività autonoma dello spirito e della visione storicistica dello sviluppo dello spirito da cui CROCE elimina ogni riferimento alla trascendenza della provvidenza vichiana.  Un'accurata ricerca storica su V. e operata dal crociano  Nicolini, “V.” (Laterza, Bari); Nicolini, “La religiosità di V.” (Laterza, Bari); Nicolini, Commento storico alla seconda 'Scienza Nuova (Roma); Nicolini, Saggi vichiani (Giannini, Napoli); Nicolini,  V. nella vita domestica. La moglie, i figli, la casa” (Osanna Venosa). Contrari all'interpretazione immanentistica della provvidenza vichiana sono gli studi di autori cattolici che ne mettono invece in risalto la trascendenza:  Chiocchietti, La filosofia di V., Vita e Pensiero, Milano, Amerio, Introduzione allo studio di V., SEI, Torino, Bellafiore, “La dottrina della provvidenza in V., Milani, Bologna, A. Mano, “Lo storicismo di V.” (Napoli); Lanza, Saggi di poetica vichiana, Magenta, Varese, Il dibattito tra le interpretazioni laiche e cattoliche su V. si è attenuato in periodi recenti dove lo studio del pensiero vichiano si è dedicato a particolari aspetti della sua dottrina:  Fassò, I quattro auttori» del V.. Saggio sulla genesi della Scienza nuova” (Milano, Giuffrè), non esistente. Fassò, V. e Grozio, Napoli, Guida, Serra, Eredità e kenosi tematica della "confessio" cristiana negli scritti autobiografici di V., in Sapientia, sulla concezione della storia ad opera della quale avviene la conciliazione tra immanenza e trascendenza del pensiero vichiano:  Caponigri, Tempo e idea, Pàtron, Bologna, sulla estetica vichiana gli studi più notevoli sono quelli di Bianca, Il concetto di poesia in V.,  D'Anna, Messina, Prestipino, "La teoria del mito e la modernità di V.", Annali della facoltà di Palermo, sugl’aspetti giuridici e sociologici: Fabiani, La filosofia dell'immaginazione in V. e Malebranche, Firenze,  Donati, Nuovi studi sulla filosofia civile (Firenze); Bellafiore, Il diritto naturale (Milano); Pasini, Diritto, società e stato in V., Jovene, Napoli, Giannantonio, "Oltre V. - L'identità del passato a Napoli e Milano (Carabba, Lanciano); Leone, [rec. al vol. di] Giannantonio, "Oltre V. - L'identità del passato a Napoli e Milano” (Carabba. Lanciano, in Misure critiche, La Fenice, Salerno, e in "Forum Italicum", Wehle, Sulle vette di una ragione abissale: V. e l'epopea di una 'Scienza Nuova'. In: Battistini e Guaragnella, V. e l'enciclopedia dei saperi. - Lecce: Pensa multimedia (Mneme). Croce, La filosofia di V., Bari, Laterza, Consiglia, Napoli, Editoria clandestina e censura ecclesiastica a Napoli, in Rao, Editoria e cultura a Napoli, Napoli: Liguori, Adorno, Gregory, Verra, Storia della filosofia, Laterza, V., La scienza nuova (a cura di Rossi), Biblioteca Universale Rizzoli, V., Ferrari, La scienza nuova (a cura di Rossi), Tip. de' Classici Italiani,  Cioffi ed altri, I filosofi e le idee, Mondadori, Armando, Sanna, Il Contributo italiano alla storia del Pensiero – Politica, Enciclopedia Italiana Treccani, Adorno, Gregory, Verra, Storia della filosofia (Laterza); Fassò, Storia della filosofia del diritto (Laterza); Abbagnano, Storia della filosofia (L'Espresso); V., La scienza nuova (Rizzoli); V., Principj di scienza nuova, di V.: d'intorno alla comune natura delle nazioni, Amico,  Nicolini, V. nella vita domestica. La moglie, i figli, la casa, Osanna Venosa, V. Autobiografia, ed. Nicolini (Bompiani, Milano); V., La scienza nuova (a cura di Rossi), Rizzoli, Grozio, Prolegomeni al diritto della guerra e della pace (a cura di Fassò), Morano, V., La scienza nuova (Rizzoli); Liccardo, Storia irriverente di eroi, santi e tiranni di Napoli. V. che si era rivolto inutilmente per sovvenzionare la stampa dell'opera prima al cardinale Orsini, poi a Papa Clemente XII, e costretto a vendere un anello per farla pubblicare. V. scrisse in seguito che, in fondo, l'accaduto era stato un bene poiché lo aveva spinto a riscrivere l'opera in maniera più completa. Cfr. Fubini, V. Autobiografia (Torino Einaudi). La prima redazione dell'opera, andata perduta, ha il titolo di Scienza nuova in forma negative.  L'Autobiografia e pubblicata postuma  ampliata con una modifica di V..  RIVISTA DI STUDI CROCIANI, a cura della Società napoletana di storia patria, La fondazione V. voluta da Marotta, presidente dell'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, con sede nella Chiesa di S. Biagio Maggiore, Napoli, si occupa della promozione del pensiero vichiano e della gestione di alcuni siti vichiani come il castello Vargas di Vatolla (Salerno) e la Chiesa di S. Gennaro all'Olmo in Napoli. V., Principi di una scienza nuova d'intorno alla comune natura delle nazioni, a cura di Ferrari, Società tipografica de' Classici italiani, Milano. Candela, L'unità e la religiosità del pensiero di V., Serafico, Inesatto è altresì che V. terminasse di vivere a più di settantasei anni. Per contrario, manca ai vivi nella notte e a settantacinque anni e sette mesi precisi, in La Letteratura italiana: Storia e testi, V., Ricciardi. La storia di V., su napolit oday. Secondo notizie di stampa diffuse resti della salma di V. sarebbero stati recuperati nei sotterranei della chiesa napoletana. (Vedi: Corriere del Giorno: Ritrovata la salma di V.? I ricercatori vanno cauti Archiviato in Internet Archive. La notizia è stata comunque commentata con prudenza dagl’esperti. La scienza nuova, Biblioteca Universale Rizzoli. Nicolini, V.: saggio biografico (Il Mulino), CROCE, Nuovi saggi. Per una silloge di pensieri di MALVEZZI, Politici e moralisti, ediz. CROCE-CARAMELLA, Bari, Laterza. V. nel perduto De equilibrio corporis animantis espone una concezione secondo cui riponevo la natura delle cose nel moto per il quale, come se fossero sottoposte alla forza di un cuneo, tutte le cose vengono spinte verso il centro del loro stesso moto e, invece, sotto l'azione di una forza contraria, vengono respinte verso l'esterno; e sostenni anche che tutte le cose vivono e muoiono in virtù di sistole e diastole. Secondo un'ipotesi di Croce e Nicolini l'opera e stata concepita come appendice al “Liber Physicus” ed e donata in forma manoscritta al suo grande amico, Aulisio. La trattazione di quella teoria di ispirazione cartesiana e pre-socratica venne poi inserita più ampiamente nella Vita.  Toma, Ecco l'origine delle scienze umane: aspetti retorici di una contesa intorno al De antiquissima italorum sapienti, Bollettino del CENTRO DI STUDI VICHIANI (Roma: Edizioni di storia e letteratura).  Opere, Sansoni, Firenze -- è considerato da alcuni interpreti della sua filosofia come il primo ‘costruttivista’. Infatti, V. sostiene che l'uomo può conoscere solo ciò che può costruire, aggiungendo poi che in effetti solo il divino conosce veramente il mondo, avendolo creato lui stesso. Il mondo quindi è esperienza vissuta e al suo riguardo non vale per gl’uomini alcuna pretesa di verità ontologica. Watzlawick, La realtà inventata (Milano, Feltrinelli)  Per V. la filologia non è solo la scienza del linguaggio ma anche storia, usi e costumi, e religioni dei popoli antichi. L'età degli dei nella quale gl’uomini gentili credettero vivere sotto divini governi, e ogni cosa esser loro comandata con gli auspici e gli oracoli, che sono le più vecchie cose della storia profana: l'età degli eroi, nella quale dappertutto essi regnarono in repubbliche aristocratiche, per una certa da essi rifiutata differenza di superior natura a quella de’ lor plebei. Finalmente, l'età degl’uomini, nella quale tutti si riconobbero esser uguali in natura umana, e perciò vi celebrarono prima le repubbliche popolari e finalmente le monarchie, le quali entrambe sono forma di governi umane. V., Scienza Nuova, Idea dell'Opera. La RAGION DI STATO non è naturalmente conosciuta da ogni uomo ma da pochi pratici di governo. Degnità. Sull'immaginazione nei primitivi secondo la filosofia vichiana si veda: Fabiani, La filosofia dell'immaginazione in V. e Malebranche, La rivendicazione dell'assoluta autonomia dell'arte e della poesia nei confronti delle altre attività spirituali e uno dei meriti che CROCE riconosce al pensiero vichiano. V. critica tutt'insieme le tre dottrine della poesia come esortatrice e mediatrice di verità intellettuali, come cosa di mero diletto, e come esercitazione ingegnosa di cui si possa senza far danno fare a meno. La poesia non è sapienza riposta, non presuppone logica intellettuale, non contiene filosofemi. I filosofi che ritrovano queste cose nella poesia, ve le hanno introdotte essi stessi senza avvedersene. La poesia non è nata per capriccio, ma per necessità di natura. La poesia tanto poco è superflua ed eliminabile, che senza di essa non sorge il pensiero: è la prima operazione della mente umana. CROCE, La filosofia di V. -- qual era quello dei tempi d'Omero. V., Scienza Nuova, Conclusione  Nel senso di pietas, sentimento religioso.  V., La scienza nuova (Biblioteca Universale Rizzoli). CROCE NICOLINI Storicismo Filosofia della storia Filologia. su Treccani – Enciclopedie, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. V., in Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. V., su sapere, De Agostini. V., su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Battistini, V., in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Bertland, La Scienza nuova su letteratura italiana Opere, su biblioteca italiana integrali in più volumi dalla collana  "Scrittori d'Italia" Laterza, Fabiani, La filosofia dell'immaginazione in V., su academia, Firenze, Pellegrino, 'La concezione della storia di V., su centro studi LA RUNA it. CENTRO DI STUDI VICHIANI, su Consiglio nazionale delle ricerche. Fondazione V., su Fondazione gbV. Portale V., su giambattist aV.. u treccani., in Il contributo italiano alla storia del Pensiero, Filosofia, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, V., Principj di una scienza nuova di V.: d'intorno alla comune natura delle nazioni, Tip. di A. Parenti. Italian philosopher. Grice: “The Italians revere him so much that his emblem is on one of their stamps!”“It would be as having Ryle on one of ours!” V.: He is so beloved by the Italians “that they made a stamp of him.”Grice. cited by H. P. Grice, “V. and the origin of language.” Philosopher who founded modern philosophy of history, philosophy of culture, and philosophy of mythology. He was born and lived all his life in or near Naples, where he taught eloquence. The Inquisition was a force in Naples throughout V.’s lifetime. A turning point in his career was his loss of the concourse for a chair of civil law. Although a disappointment and an injustice, it enabled him to produce his major philosophical work. He was appointed royal historiographer by Charles of Bourbon. V.’s major work is “La scienza nuova”  completely revised in a second, definitive version. He published three connected works on jurisprudence, under the title Universal Law; one contains a sketch of his conception of a “new science” of the historical life of nations. V.’s principal works preceding this are On the Study Methods of Our Time, comparing the ancients with the moderns regarding human education, and On the Most Ancient Wisdom of the Italians, attacking the Cartesian conception of metaphysics. His Autobiography inaugurates the conception of modern intellectual autobiography. Basic to V.’s philosophy is his principle that “the true is the made” “verum ipsum factum”, that what is true is convertible with what is made. This principle is central in his conception of “science” scientia, scienza. A science is possible only for those subjects in which such a conversion is possible. There can be a science of mathematics, since mathematical truths are such because we make them. Analogously, there can be a science of the civil world of the historical life of nations. Since we make the things of the civil world, it is possible for us to have a science of them. As the makers of our own world, like God as the maker who makes by knowing and knows by making, we can have knowledge per caussas through causes, from within. In the natural sciences we can have only conscientia a kind of “consciousness”, not scientia, because things in nature are not made by the knower. V.’s “new science” is a science of the principles whereby “men make history”; it is also a demonstration of “what providence has wrought in history.” All nations rise and fall in cycles within history corsi e ricorsi in a pattern governed by providence. The world of nations or, in the Augustinian phrase V. uses, “the great city of the human race,” exhibits a pattern of three ages of “ideal eternal history” storia ideale eterna. Every nation passes through an age of gods when people think in terms of gods, an age of heroes when all virtues and institutions are formed through the personalities of heroes, and an age of humans when all sense of the divine is lost, life becomes luxurious and false, and thought becomes abstract and ineffective; then the cycle must begin again. In the first two ages all life and thought are governed by the primordial power of “imagination” fantasia and the world is ordered through the power of humans to form experience in terms of “imaginative universals” universali fantastici. These two ages are governed by “poetic wisdom” sapienza poetica. At the basis of V.’s conception of history, society, and knowledge is a conception of mythical thought as the origin of the human world. Fantasia is the original power of the human mind through which the true and the made are converted to create the myths and gods that are at the basis of any cycle of history. MICHELET was the primary supporter of V.’s ideas. He made them the basis of his own philosophy of history. COLERIDGE is the principal disseminator of V.’s views in England. Joyce uses the New Science as a substructure for Finnegans Wake, making plays on V.’s name, beginning with one in Latin in the first sentence: “by a commodius vicus of recirculation.” CROCE revives V.’s philosophical thought, wishing to conceive V. as the  Hegel. V.’s ideas have been the subject of analysis by such prominent philosophical thinkers as Horkheimer and Berlin, by anthropologists such a Leach, and by literary critics such as Wellek and Read. Refs.: S. N. Hampshire, “V.,” in The New Yorker. Luigi Speranza, “V. alla Villa Grice.” H. P. Grice, “V. and language.” Danesi, Metaphor, and the Origin of Language. Serious scholars of V. as well as glotto-geneticists will find much of value in this excellent monograph. V. Studies. A provocative, well-researched argument which might find re-application in philosophy. Theological Book ReviewDANESI returns to V. to create a persuasive, original account of the evolution and development of the Italian language, one of the deep mysteries of Italians. V.’s reconstruction of the origin of language is described and evaluated in light of Grice’s philosophical conversational pragmatics. Keywords: V. e la filosofia romana, V., VARRONE, storia della linguistica, storia della rhetorica, glotto-genesi, la ricostruzione di V., The New Science Basic Notions. Language and the Imagination: V.’s Glottogenetic Scenario; V.’s Approach; Reconstructing the Primal Scene; After the Primal Scence; the dawn of communication: iconicita e mimesi, hypotheses The Nature of Iconicity. Imagery, Iconicita e gesto. Iconic Representation. Osmosis Hypothesis Ontogenesis From Percept al concetto. The Metaphoricity Metaphor metafora; Metaphor and Concept-Formation Mentation, Narrativity, e mito; the socio-biological-Computationist Viewpoint:A Vichian Critique; The Vichian Scenario Revisited; Revisting the Genetic Perspective; computationism. SAGGI FILOSOFICI ii V.  CROCE LA  FILOSOFIA DI V. BARI LATERZA TI  l'OQ  KAFI-KDITOBI-LIHK  AI Stampato in Trani, coi tipi dolla Ditta  Tipografica Editrice Vecchi.ifs V4GV0X WINDELBAND Per quali ragioni a Croce è sembrata necessaria una esposizione della filosofia di V. puo agevolmente desumersi dai cenni sulla fortuna di questo filosofo e dalle notizie bibliografiche, che si leggono nella seconda e terza appendice. Qui occorre avvertire soltanto che l’esposizione di Croce. non  vuol essere un riassunto saggio per saggio e parte per parte dei saggi di V.; e, anzi, presuppone la conoscenza di questi saggi e, ove manchi, vuol eccitare il lettore a procacciarsela per meglio seguire, e per riscontrare, l’interpetrazioni ed i giudizi che gli vengono offerti da Croce. Su questo presupposto, pur valendomi assai spesso (specialmente nei  capitoli relativi alla storiografia) delle parole testuali di V., Croce non crede opportuno virgoleggiarle (salvo dove piace a Croce dare risalto alla precisa espressione originale), perché, avendole di solito combinate da brani sparsi nei più vari luoghi e ora abbreviate ora allargate e sempre frammischiate liberamente con parole e frasi di Croce di  commento, il continuo virgoleggiarle è stato un mettere in mostra, con più di fastidio che d’utilità, il rovescio del ricamo di Croce, che ciascuno puo osservare da sé, quando ne ha voglia, col sussidio dei rimandi che Croce mette in fondo al saggio. Desideroso d’attestare, per quanto è possibile a Croce, in ogni particolare del suo saggio, la reverenza  che si deve al gran nome di V., Crice è studiato d’essere breve, di quella brevità che V. considera quasi suggello di saggi scientifici ben meditati. Al qual uopo Croce sacrifica anche le discussioni coi singoli interpetri, contentandosi di semplici accenni. Del resto, parte dell’interpetrazioni esposte sembrano a Croce frutti dell’indagini e controversie  che costituiscono la migliore letteratura di e su V.; e tutta quell'altra parte, che è personale di Croce, e l'idea stessa generale del suo saggio, difende a suo tempo, se è il caso, contro i dissenzienti e gl’obiettanti, nel modo diretto che nel corso dell'esposizione Croce non stima d’adoperare. Perché Croce spera che il suo saggio ha l'effetto non già di  spegnere ma di raccendere le discussioni intorno alla filosofia di V. Di questo altvater, come lo chiama Goethe, che è fortuna per un popolo possedere, e al quale bisognerà sempre fare capo per SENTIRE ITALIANAMENTE la filosofìa, pur pensandola cosmopoliticamente. La dedica del lavoro (oltre a essere omaggio a uno dei maggiori maestri  della storia della filosofia) vuol esprimere l'augurio e la speranza che venga presto riempita, in tale storia, la lacuna, sulla quale richiama l'attenzione più volte, e specialmente alla fine della seconda dell’appendici del volume. Raiano, Aquila. L'augurio espresso nell’ultime linee dell’avvertenza ha compimento, e non solo Windelband da luogo alla  filosofia di  V. nella sua Storia della filosofìa (Leipzig), ma il saggio di Croce è subito tradotto in francese, e altre versioni se ne preparavano, e fiorisceno l’indagini e le discussioni, quando la guerra sopravvenne a sospendere quella ripresa di studi e la divulgazione dell'opera di V. fuori d'Italia. Non si per altro che, durante la guerra e in relazione  ad essa, i concetti di V. non sono qua e là richiamati per dominare col pensiero il corso delle cose; e li richiama, tra gl’altri, lo stesso Windelband, nel suo saggio, che è una lezione di guerra sulla filosofia della storia. L’edizione contiene piccole correzioni, schiarimenti e aggiunte, ed è messa al corrente nella parte bibliografica. La tavola dei rinvìi  ai testi di V. è resa più precisa, e in ciò, come nella revisione generale, Croce ha l'amichevole aiuto di NICOLINI, benemerito editore della Scienza nuova. Circa la concezione e il metodo del saggio non ha alcun cangiamento d’introdurre né pentimento da  manifestare: sebbene da più parti mi sia stata rivolta la facile ma superflcialissima critica,  che l'interpretazione di V. vi è tutta compenetrata  dal proprio pensiero filosofico di Croce, e perciò non è oggettiva. In verità, chi voglia conoscere davvero V. deve leggere e meditare i saggi del V.; e questo è indispensabile, e questa è la sola oggettività possibile: non la cosiddetta esposizione oggettiva che altri ne faccia, e che non potrebbe riuscire  se non lavoro estrinseco e materiale. L'esposizione, invece, storica e critica d’un filosofo ha una diversa e più alta oggettività, ed è necessariamente il dialogo tra un'antico e un nuovo pensiero, nel quale solamente l'antico pensiero viene inteso e compreso. E tale è, o procura d’essere, il saggio di Croce. Che cosa avrei potutoi ntendere Croce di V.,  se non mi fossi travagliato su problemi strettamente congiunti ai suoi o derivanti da quelli suoi?  Per questa ragione anche non posso dare importanza all'opposizione che mi è venuta d’egregi scrittori cattolici, i quali è naturale che vedano le cose con occhi diversi dai miei. Ciò che, per altro, non mi sembra logico, è il loro sforzo di ridurre V. a  filosofo ortodosso; nel quale sforzo urtano inevitabilmente in due gravi difficoltà. In primo luogo essi vengono a trovarsi di fronte all'impossibilità di spiegare perché mai V., che, a loro giudizio, non fa altro che ripetere o rinfrescare i concetti della tradizione filosofica, sia sembrato e sembri tanto originale e rivoluzionario, e sia andato tanto a  genio ai filosofi. E parimente,  in secondo luogo, si tolgono il modo di spiegareT avversione che per lui provarono i cattolici del suo secolo e taluno insigne del secolo seguente, come, per  es., BALBO (vedsi), che lo senti estraneo alla scienza. E questo basti aver detto, perché, riguardoso come credo d'esser sempre stato verso i cattolici, non perciò  polemizzerei mai con essi, stimando la cosa tanto poco utile, quanto utile e doveroso è, per me, tirare innanzi per la mia via. Napoli. La prima forma della dottrina di V. sulla conoscenza si presenta come diretta critica e antitesi del pensiero cartesiano, che da oltre mezzo secolo da l'indirizzo generale allo spirito europeo ed era destinato a dominare  ancora per un secolo le menti e gli animi. Cartesio colloca f  ideale della scienza perfetta nella geometria, sul modello della quale intende a riformare la filosofia e ogni altra parte del sapere. E poiché il metodo geometrico perviene mercé l'analisi a verità intuitive, e da queste muove dipoi per ottenere con deduzione sintetica sempre più complesse  affermazioni, la filosofia, per procedere con rigore di scienza, dove, a mente di Cartesio, cercare anch'essa il fermo punto d'appoggio in una verità primitiva e intuitiva, dalla quale deduce tutte le sue ulteriori affermazioni, teologiche, metafisiche, fisiche e morali. L'evidenza, la percezione o idea chiara e distinta – H. P. Grice, “Descartes on clear and distinct ideas” -- era, dunque, criterio supremo; e  l'inferenza immediata, l'intuitiva  connessione del pensiero coll'essere, del cogito col sum, porge la prima verità e la base pella scienza. Con la percezione chiara e distinta, e col dubbio metodico che conduce al cogito, Cartesio si argomenta di sconfiggere una volta per sempre lo scetticismo.  Ma, per ciò stesso, tutto quel sapere non ancora ridotto o non riducibile a percezione chiara e distinta e a deduzione geometrica, perde ai suoi occhi valore e importanza. Tale la storia, che si fonda sulle testimonianze; l'osservazione naturalistica, non ancora matematizzata; la saggezza pratica e l'eloquenza, che si valgono dell'empirica conoscenza del cuore  umano; la poesia, che offre immagini fantastiche. Piuttosto che un sapere, codesti prodotti spirituali erano per Cartesio illusioni e torbide visioni: idee confuse, destinate o a farsi chiare e distinte e perciò a svestire la loro anteriore forma d'esistenza, o a trascinare un'esistenza miserabile, indegna dell'attenzione del filosofo. La  luce solare  del metodo matematico rende superflue le fiammelle che sono di guida nelle tenebre e proiettano sovente ombre ingannatrici. Ora V. non si restringe e non s’attarda, come altr’avversari di Cartesio, a prendere scandalo pelle conseguenze del metodo soggettivo, pericoloso alla religione; o a disputare scolasticamente se il cogito sia o non sia un  sillogismo, e se come sillogismo sia o no difettoso; o a protestare con l'offeso buon senso contro il disprezzo cartesiano verso la storia, l'oratoria e la poesia. Egli va diritto al cuore della questione, al criterio stesso stabilito da Cartesio per la verità scientifica, al principio dell'evidenza; e dove il filosofo gallo stima d’aver fornito tutto quanto si  potesse richiedere pella scienza più  rigorosa, V. osserva che, posta l'esigenza alla quale s'intende soddisfare, in realtà, col metodo raccomandato, s’ottene ben poco o addirittura nulla. Bella scienza, dice V., è codesta dell'idea chiara e distinta! Ch'io pensi quel ch'io penso è, si, cosa indubitabile, ma non mi ha punto l'aria d’una proposizione  scientifica. Ogni idea, per erronea che sia, può apparire evidente; e, non perché a me appaia tale, acquista virtù di scienza. Che se si pensa, si è anche, era cosa nota persino al Sosia di Plauto, che esprime questa sua persuasione quasi colle stesse parole della filosofia  cartesiana. SED QVOM COGITO EQVIDEM CERTO SVM. Ma lo scettico  replica sempre ai Sosì e ai Cartesì, che egli non dubita di pensare; professa anzi asseverantemente che quel che a lui sembra scorgere è certo, e lo sosterrà con ogni sorta di cavilli; e che non dubita d’essere, anzi cura d’esser bene, mercé la sospensione dell'assenso, per non aggiungere ai fastidì delle cose gl’altri provenienti dall’opinioni. Ma, nell'affermare  cosi, sosterrà insieme che la certezza del suo pensare e del suo essere è coscienza e non scienza; ed è coscienza volgare. Tanto poco la chiara e distinta percezione è scienza, che da quando, per effetto del cartesianismo, essa viene adoperata nella fisica, la conoscenza delle cose naturali non è divenuta punto più sicura. Cartesio spicca un salto per  sollevarsi dalla coscienza volgare alla scienza; ed è ricaduto di piombo in quella coscienza, senza raggiungere la scienza agognata. Ma in che cosa la verità scientifica consiste, poiché certamente non consiste nella coscienza immediata? In che la scienza differisce dalla semplice coscienza? Qual è il criterio, o, in altri termini, quale la condizione  che rende possibile la scienza? Colla chiarezza e colla distinzione non si muove un sol passo; coll'affermazione d’un primo vero non si risolve il problema, che non è già circa un primo vero, ma circa la forma che la verità deve avere perché possa essere riconosciuta verità scientifica, ossia verità vera. V. risponde a questa domanda, e giustifica la  sua accusa d' insufficienza al criterio cartesiano, col ricorrere a una proposizione che, a bella prima, potrebbe dirsi ovvia e tradizionale. Tradizionale non in conseguenza della tesi storica colla quale  V. l'accompagna e che egli stesso poi ebbe a rifiutare, cioè che quella proposizione risalga a un'ANTICHISSIMA SAPIENZA ITALICA; ma nel senso  che essa era comune e quasi intrinseca al pensiero. Nulla di più familiare, infatti, a un italiano, il quale recita ogni giorno il suo credo in un dio onnipotente, onnisciente e creatore del cielo e della terra, dell'affermazione che solo Dio può avere scienza piena delle cose, perché egli solo ne è l'autore. Il primo vero, ripete V., è in Dio, perché Dio è il  primo fattore; ed è vero infinito perché egli è fattore delle cose tutte, esattissimo perché rappresenta a lui gl’elementi cosi esterni come interni delle cose, le quali egli contiene tutte in sé. Questa medesima proposizione circola nelle scuole, specie, a quanto sembra, presso scotisti e occamisti, e, nel rinascimento, FICINO l'asseriva nella Theologia  platonica, dicendo che la natura, opera divina, produce le sue cose con vive ragioni dall'intrinseco, come la mente del geometra dall'intrinseco fabbrica le sue figure; e CARDANO ripete che tale è la vera scienza, la scienza divina, quaì res facit, e che di essa tra le umane rende immagine la sola geometria; e lo scettico Sanchez, nel Quod nihil scltur,  ricorda che non può perfecte cognoscere quis quaì non creavit, nec Deus creare potuisset nec creata regere quce non perfecte prcecognovisset; ipse ergo, solus sapientia, cognitio, intellectus perfectus, omnia penetrai, omnia sapit, omnia cognoscit, omnia intelligit, quia ipse omnia est et in omnibus, omniaque ipse sunt et in ipso. Ma  il [Si veda per  le origini il saggio di CROCE: Le fonti della gnoseologia di V., cit. nell'append. bibliografica. Sul concetto di Sanchez, Opera medica, ed. di Tectosagum] richiama l'attenzione Windelband, Gesch. d. Philosophie.] V. non si restringe ad affermazioni incidentali e, intendendo pel primo la fecondità del concetto espresso in quella proposizione,  dall'elogio dell'infinita potenza e sapienza di Dio e dal raffronto con quella limitata dell'uomo ricava, contro Cartesio, il principio gnoseologico universale, che la condizione per conoscere una cosa è il farla, e il vero è il fatto stesso: verum ipsum factum. Non altro che codesto si vuol dire, egli chiarisce, quando s’afferma che la scienza è peiccnisas  scire, perché la cagione è quel che per produrre l'effetto non ha bisogno di cosa estranea, è il genere o modo d’una cosa: conoscere la cagione è saper mandare ad effetto la cosa, provare dalla causa è farla. In altri termini, è rifare idealmente quel che si è fatto e si fa praticamente. La cognizione e l'operazione debbono convertirsi tra loro, come in  Dio intelletto e volontà si convertono e fanno tutt'uno. Senonché, stabilito nella connessione del vero e del fatto l'ideale della scienza, e, poiché l'ideale è la vera realtà, conosciuta la natura vera della scienza, la prima conseguenza che da questo riconoscimento deve trarsi è quella stessa che ne traevano i platonici e gli scettici del rinascimento,  l'impossibilità della scienza pell'uomo. Se Dio crea le cose, Dio solo le conosce per cause, egli solo ne conosce i generi o modi, ed egli solo ne ha la scienza. Forse che l'uomo ha esso creato il mondo? ha esso creato la propria anima? All'uomo non è data la scienza, ma la sola coscienza, la quale per l'appunto volge sulle cose di cui non si può  dimostrare il genere o forma onde si fanno. La verità di coscienza è il lato umano del sapere divino, e sta a questo come la superficie al solido: piuttosto che verità, dovrebbe dirsi CERTEZZA – H. P. Grice: objective It is certain that p; subjective, I am certain that p – Intention and UNcertainty. A Dio l' ìntelligere, all'uomo il solo cogitare, il  pensare, l'andare raccogliendo gl’elementi delle cose, senza poterli mai raccogliere tutti. A Dio il vero dimostrativo; all'uomo le notizie non dimostrate e non scientifiche, ma o CERTE PER SEGNI INDUBITATI O PROBABILI per forza di buoni raziocini o verisimili pel sussidio di potenti congetture. Il certo, la verità di coscienza, non è scienza,  ma non perciò è il falso. E V. si guarda bene dal chiamare false le dottrine di Cartesio: egli vuole soltanto degradarle da verità compiute a verità frammentarie, da scienza a coscienza. Tatt'altro che falso è il cogito ergo sum: il trovarsi finanche sulla bocca del Sosia plautino è argomento non per rigettarlo, anzi per accettarlo, ma come verità di  semplice coscienza. Il pensare, non essendo causa del mio essere, non induce scienza del mio essere; se l'induce, essendo l'uomo, secondo che i cartesiani ammettono, mente e corpo, il pensiero sarebbe causa del corpo; il che ci avvolgerebbe tra tutte le spine e gli sterpi delle dispute circa l'azione della mente sul corpo e del corpo sulla mente. Il  cogito è, dunque, UN MERO SEGNO O INDIZIO del mio essere: nient'altro. L'idea chiara e distinta non può dare criterio, non pure delle altre cose ma della mente medesima, perché la mente in quel suo conoscersi non si fa, e, poiché non si fa, ignora il genere o modo onde si conosce. Ma l'idea chiara e distinta è quel che solo è concesso allo spirito  dell'uomo, e, come unica ricchezza ch'egli abbia, preziosissima. Anche per V. la metafisica serba il primato fra le scienze umane, che tutte derivano da lei; ma laddove per Cartesio essa può procedere con sicuro metodo di dimostrazione pari a quello geometrico, per V. deve contentarsi del probabile, non essendo scienza per cause ma di cause. E del  probabile si contentò ai suoi bei tempi, nella Grecia antica, nella ROMA ANTICA DI CICERONE, e nell'Italia del Rinascimento; e quando volle abbandonare il probabile e si empi la testa dei fumi di quel detto fastoso: sapientem nihil opinavi, cominciò a  turbarsi e a decadere. L'esistenza  di Dio è certa, ma non è scientificamente dimostrabile, e  ogni tentativo di dimostrazione è da considerare documento non tanto di pietà quanto piuttosto d'empietà, perché, per dimostrare Dio, dovremmo farlo: l'uomo dovrebbe diventare creatore – GRICE GENITORE -- di  Dio. Parimente bisogna ritenere vero tutto quello che ci è stato rivelato da Dio, ma non domandare in qual modo sia vero, che è ciò  che non potremo mai comprendere. Sulla verità rivelata e sulla coscienza di Dio s’appoggiano le scienze umane e vi trovano la loro norma di verità; ma il fondamento stesso è verità di coscienza e non di scienza. Come V. abbassa le scienze che Cartesio prediligeva e coltiva, la metafisica, la teologia, la fisica, cosi risolleva le forme di sapere che  Cartesio aveva abbassate: la storia, l'osservazione naturalistica, la cognizione empirica circa l'uomo e la società, l'eloquenza e la poesia. 0, per meglio dire, non ha bisogno di sollevarle per rivendicarle: dimostrato che le superbe verità della filosofia condotta con metodo geometrico si riducono anch'esse a nient'altro che probabilità e asserzioni  aventi valore di seniplice coscienza, la vendetta delle altre forme del sapere è, nell'atto stesso, bella e compiuta, perché tutte si ritrovano ormai adeguate alla medesima altezza o bassezza che si dica. L'idea di una scienza umana perfetta, che respinga da sé un'altra indegna di questo nome perché fondata non sul ragionamento ma sull'autorità, è  chiarita illusoria. L'autorità delle proprie e delle altrui osservazioni e credenze, l'opinione generale, la tradizione, la coscienza del genere umano, vengono restaurate nell'ufficio che hanno sempre avuto e che ebbero nello stesso Cartesio; il quale, come suole accadere, disprezza quel che egli possede in gran copia e di cui si era potentemente giovato,  e, uomo dottissimo, scredita la dottrina e l'erudizione, come chi si è  nutrito può darsi il lusso di parlare con disdegno del cibo che è già sangue nelle sue vene. La polemica di Cartesio contro l'autorità si era provata, per alcuni rispetti, benefica, avendo scosso la troppo vile servitù di star sempre sopra l'autorità. Ma che non regni altro che il proprio  individuale giudizio, che si pretenda rifare da cima a fondo il sapere sulla propria individuale coscienza, che si giunga, come fa Malebranche, ad augurare perfino di vedere bruciati tutti i filosofi e di tornare alla nudità di Adamo; è una follia o, per lo meno, un eccesso, dal quale conviene rifuggire nel giusto mezzo. E il giusto mezzo è di seguire il  proprio giudizio, ma con qualche riguardo all'autorità; di congiungere insieme, cattolicamente, la fede colla critica circoscritta dalla fede e giovevole alla fede stessa: in modo conforme al carattere indelebile di mera probabilità che ha il sapere o la scienza umana, in modo avverso all'indirizzo della riforma, pel quale lo spirito interno di ciascuno si  fa divina regola delle cose che si devono credere. C'è, per altro, un gruppo delle scienze cartesiane al quale par che V. riconosca, come i suoi  predecessori del rinascimento, un posto privilegiato; vale a dire, non di coscienza, ma di vera e propria scienza, non nella certezza, ma nella verità: le discipline matematiche. Sono queste, secondo lui, le  sole  conoscenze possedute dall'uomo in modo del tutto identico a quello del sapere divino, e cioè perfetto e dimostrativo. E non già, come Cartesio crede, per effetto del loro carattere d’evidenza. L'evidenza, usata nelle cose fisiche e nelle agibili, non dà una verità della stessa forza che nelle matematiche. Né le matematiche sono per sé evidenti: con  quale chiara e distinta idea si potrebbe concepire che la linea consti di punti che non hanno parti? Ma il punto impartibile, che non si può concepire nelle cose reali, si può, invece, definire; e col DEFINIRE CERTI NOMI, l'uomo si crea gli eiementi delle matematiche, coi postulati li porta all'infinito, con gli assiomi stabilisce certe verità eterne, e  con questi infiniti e con questa eternità disponendo i loro elementi, egli fa IL VERO CH’INSEGNA. La forza delle matematiche nasce, dunque, non dal criterio cartesiano, ma appunto dall'altro enunciato da V.; non dall'evidenza, ma dalla conversione del conoscere col fare: mathematica demonstramus, quia verum facimus. L'uomo prende l'uno e  lo moltiplica, PRENDE IL PUNTO E LO DISEGNA, e crea i numeri e le grandezze che egli conosce perfettamente perché opera sua. Le matematiche –PEANO -- sono scienze operative, e non solo nei loro problemi, ma negli stessi teoremi, che volgarmente si stimano cosa di mera contemplazione. Per tal ragione esse sono anche scienze che  dimostrano per cause, contrariamente all'altra opinione volgare che esclude dalle matematiche il concetto di causa; sono, anzi, le sole, tra le scienze umane, che davvero provino per cause. Da questo procedere provengono le loro Verità meravigliose; e tutto l'arcano del metodo geometrico consiste nel DEFINIRE PRIMA LE VOCI, e cioè fare i  concetti coi quali si abbia a ragionare; poi stabilire alcune massime comuni, nelle quali colui col quale si ragiona convenga; finalmente, se bisogna, domandare cosa che per natura si possa concedere affine di poter dedurre i ragionamenti, i quali senza una qualche posizione non verrebbero a capo; e con questi principi da verità pili semplici dimostrate  procedere fil filo alle più composte, e le composte non affermare se prima non s’esaminino una per una le parti che le compongono. Si  direbbe che V. sia circa il valore delle matematiche affatto d'accordo con Cartesio, dal quale differisca soltanto nella fondazione di quel valore. E, posto che la sua fondazione debba considerarsi più profonda, tanto  più ne verrebbe rafforzato ed esaltato l'ideale matematico, prefisso alla scienza da quello. Se l'unica conoscenza perfetta che lo spirito umano raggiunga è quella matematica, è chiaro che sopra essa bisogna sorreggersi e alla stregua d’essa modellare o giudicare l’altre. V., insomma, si sarebbe mosso per dare torto a Cartesio e gli avrebbe procurato  una migliore ragione che quegli non sospetta. Ma, quantunque cosi sembri a prima vista, e cosi abbia pensato qualche interpetre, osservando meglio si scorge che la gran perfezione che V. attribuisce alle matematiche è più apparente che reale; che la sicurezza che egli vanta di quel procedere, è, per sua medesima confessione, acquistata a spese  della  realtà; e che, insomma, l'accento della teoria non cade tanto sulla verità di quelle discipline quanto sulla loro arbitrarietà. E in questo risalto dato al carattere d’arbitrarietà egli differisce non solo dai ricordati filosofi del rinascimento, ma anche da BONAITUO GALILEI e dalla sua scuola. L'uomo infatti, egli  dice, andando attorno a investigare la  natura delle cose, e accorgendosi finalmente di non poterla in niun modo conseguire, perché non ha dentro di sé gl’elementi onde sono composte, e, anzi, li ha tutti fuori di sé, è condotto via via a volgere a profitto questo stesso vizio della sua mente; e con l'astrazione (non, s'intende, coll'astrazione sulle cose materiali, perché V. NON ASSEGNA origine empirica alle matematiche, ma coll'astrazione che s’esercita sugli enti metafisici, si foggia due cose, duo sibi confingit: IL PUNTO DA DISEGNARE, e l'unità da moltiplicare. Entrambi finzioni, utrumque  ftctum, perché IL PUNTO DISEGNATO non è più punto – Grice: CIRCLE AND CIRCLE IN PLATO -- e l'uno moltiplicato non è più uno. Indi, da quelle finzioni, di proprio arbitrio, proprio  iure – GRICE DEEM -- assume di procedere all'infinito, sicché le linee si possano condurre nell'immenso, Si veda sulla storia della gnoseologia delle matematiche fino a  V.  il saggio di CROCE  cit.] l'uno moltiplicare pell'innumerabile. A questo modo costruisce per suo uso un mondo di  forme e numeri, che egli abbraccia tutto dentro di sé; e col prolungare, col tagliare, col comporre le linee, coll'aggiungere, togliere e computare i numeri, fa infinite opere e conosce infiniti veri. Non può definire le cose e DEFINISCE NOMI – GRICE ROBINSON --;  non può attingere gl’elementi reali e si contenta d’elementi immaginari –IL LATINO SINE FLEXIONE DI GRICE E PEANO – DEUTERO LATINO SINE FLEXIONE --, dai quali sorgono idee che non ammettono alcuna controversia. Simile a Dio, ad Del instar  >, da nessun sostrato materiale, e quasi dal niente, crea punto, linea, superficie: il punto che è posto come quello che non ha parti; la linea come l'escurso del  punto, ossia la lunghezza priva di larghezza e di profondità; la superficie, come l'incontro di due linee diverse in uno stesso punto, cioè la lunghezza e la larghezza senza la profondità. Cosi le matematiche purgano il vizio della scienza umana, di avere sempre le cose fuori di sé e di non aver essa fatto ciò che vuole conoscere. Quelle fanno ciò che  conoscono, hanno in sé medesime i loro elementi e si configurano, perciò, a somiglianza perfetta della scienza divina {sdentici divince similes evadunt. A chi legge queste e altrettali descrizioni e celebrazioni da V. del procedere matematico, par d'avvertire come un'ombra d'ironia, se non proprio intenzionale, certamente risultante dalle cose stesse.  La fulgida verità delle matematiche nasce, dunque, dalla disperazione della verità; la loro formidabile potenza dalla riconosciuta impotenza! La somiglianza dell'uomo matematico con Dio non è troppo diversa da quella del contraffattore – the black front -- di un'opera col suo autore: ciò che Dio ò nell'universo della realtà, l'uomo è, si, nell'universo  delle grandezze e dei numeri, ma questo universo è popolato d’astrazioni e finzioni. La divinità conferita all'uomo è, quasi, divinità da burla. Per effetto della diversa genesi che V.  ASSEGNA alle matematiche, anche la loro efficacia viene assai ristretta. Le matematiche non stanno più, come per Cartesio, al sommo del sapere umano, scienze  aristocratiche – ma blue-collar – Grice -- , destinate a redimere e a governare le scienze subalterne; ma occupano una cerchia, per quanto singolare, altrettanto ben circoscritta, fuori della quale se mai esse si provano a uscire, pèrdono, d'un subito, ogni loro mirabile virtù. Il potere delle matematiche incontra ostacoli a parte ante e a parte post: nel  loro fondamento e in quel che a loro volta sono in grado di fondare. Nel loro fondamento, perché se creano i loro elementi, cioè le finzioni iniziali, non creano la stoffa in cui queste sono ritagliate, e che a esse, non meno che alle altre scienze umane, è fornita dalla metafisica, la quale, non potendo dar loro il proprio soggetto, ne dà certe immagini.  Dalla metafisica la geometria toglie il punto PER DISEGNARLO, cioè,  per  annullarlo  come  punto; e l'aritmetica l'uno per moltiplicarlo, cioè, per distruggerlo come uno. E poiché la verità metafisica, per quanto certa appaia alla coscienza, non è dimostrabile, le matematiche, in ultima analisi, riposano anch'esse sull'autorità e sul probabile. Ciò  basta a svelare la fallacia d’ogni trattazione matematica che si tenti dalla Metafisica.  V. sembra ammettere una specie di circolo tra geometria e metafisica, la prima delle quali riceve il suo vero dalla seconda e, ricevutolo, lo rifonderebbe nella stessa metafisica, confermando reciprocamente la scienza umana colla divina. Ma questo concetto, che  è  più che contestabile e si può dichiarare senz'altro incoerente e contradittorio, richiama, in ogni caso, l'uso metafisico, o piuttosto L’USO SIMBOLICO – Grice Austin SYMBOLO -- e  poetico che della matematica fanno Pitagora a CROTONE e altri filosofi antichi e del Rinascimento, e non ha nulla da vedere con una filosofia trattata matematicamente  al modo dei cartesiani o Spinoza. La geometria sarebbe, a giudizio di V., l'unica ipotesi pella quale dalla metafisica sia dato passare alla fisica e la FISIOLOGIA; ma rimarrebbe in tale accezione un'ipotesi, una probabilità, qualcosa di mezzo tra la fede e la critica, tra l' immaginazione di WARNOCK e il ragionamento, quale rimane sempre la  metafisica e, in genere, la scienza umana, secondo il modo di vedere di V. in questa prima forma della sua gnoseologia. Come non fondano la metafisica dalla quale anzi derivano, cosi le matematiche – o LA GEOMETRIA e l’ARIMMETICA del quadrivio -- non sono neppure in grado di fondare le altre scienze, che pure seguono a esse nell'ordine di derivazione. Tutte le materie, diverse dai numeri e dalle misure, sono affatto incapaci di metodo geometrico. La fisica – o la FISIOLOGIA -- non è dimostrabile; se potessimo dimostrare le cose fisiche nella FISIOLOGIA, le faremmo -- sì physica demonstrare possemus, faceremus. – GRICE ENGINEER E GENITORE -- Ma non le facciamo e perciò non possiamo darne dimostrazione. L'introduzione del metodo matematico nella fisica e nella FISIOLOGIA non ha giovato a questa disciplina, che fa scoperte grandi senza quel  metodo, e nessuna né grande né piccola ha fatta mercé d’esso. La fisica o la FISIOLOGIA somiglia, in verità, a una casa che gl’antenati hanno riccamente arredata  e di cui gl’eredi non hanno accresciuto la suppellettile, ma si divertono solamente a cangiarla di posto e a disporla in modi nuovi. È necessario perciò restaurare e sostenere, in fisica e FISIOLOGIA, l'indirizzo sperimentale contro quello matematico: l'indirizzo britannico contro  quello gallo, il cauto uso che delle matematiche fa BUONAIUTO GALILEI e la sua scuola contro l'incauto e arrogante dei cartesiani. A ragione nlla BRITANNIA si proibisce l'insegnamento della fisica e della fisiologia matematica – il sabato per sperimenti a Oxford – TYE MALPAS --: cotal metodo non procede se non prima DEFINITI I NOMI – GRICE ROBINSON --, fermati gli assiomi e convenute –GRICE CONVENTIO -- le domande; ma in fisica si hanno a definire cose e non nomi, non vi ha convenzione che non sia contrastata, né si può domandare cosa alcuna alla ritrosa natura. Onde, nel migliore dei casi, quel metodo si risolve in un puro e innocuo verbalismo – My neighbour’s three-year old is not adult” --:  si espongono le osservazioni fìsiche  colla dicitura: pella definizione IV, pel postulato II,  pelll'assioma III, e si conclude con le solenni abbreviature: Q. e. d.; ma non si svolge nessuna forza dimostrativa e la mente resta dipoi in tutta la libertà d’opinare che possede innanzi d’udire tali metodi strepitosi. V. non sa astenersi, a tal  proposito, da paragoni satirici. Il metodo geometrico, egli  dice, quando è nel suo legittimo dominio, opera senza farsi sentire, e, ove fa strepito, SEGNO è che non opera – those spots SEGNO E CHE ha masles:  appunto come negl’assalti l'uomo timido grida e non ferisce, l'uomo d'animo fermato tace e fa colpi mortali. E ancora: il vantatore del metodo geometrico in cose in cui quel metodo non trae  necessità di consentire, quando pronuncia: questo è assioma o questo è dimostrato, è simile al pittore che a immagini informi, le quali per sé non si possano riconoscere, scrive sotto: questo è uomo, questo è satiro, questo è leone – DENNETT RYLE – GRICE – questo non e gatto, e cane --, e via discorrendo. Onde accade che col medesimo metodo geometrico Proclo dimostra i principi della fisica e della fisiologia del LIZIO, Cartesio i suoi, se non tutti opposti, certamente diversi; eppure furono due geometri, dei quali non si può dire che non sapessero usare il metodo. Quel che bisogna, se mai, introdurre nella fisica o fisiologia sarebbe non il metodo ma la dimostrazione geometrica; ma  questa è proprio ciò che non è dato introdurvi. Meno ancora è possibile nelle altre scienze via via più corpulente e più concrete: meno che in ogni altra, nelle scienze – sono scienze? -- morali. E perciò, non potendosi usare la cosa, in cambio s’abusa tanto del NOME; e, come il titolo di signore, rifiutato un tempo da TIBERIO  perché  troppo  superbo – mister Grice, master Grice --, si dà ora a ogni vilissimo uomo, cosi quello di dimostrazione, applicato a ragioni probabili e talora apertamente false, ha sminuito la venerazione che si deve alla verità. Per le matematiche stesse V. scorge pericoli nella sostituzione dei metodi analitici ai geometrici o sintetici. E dubita che la nuova meccanica sia  frutto davvero dell'analisi, la quale attutisce l'ingegno, ossia la facoltà inventiva, e, certa nel risultato {opere), è oscura nella via (opera), laddove il metodo sintetico è tum opere tura opera certissimo. L'analisi adduce le sue ragioni aspettando se per caso si diano le equazioni che cerca, e sembra un'arte d'indovinare, o una macchina piuttosto che  un  pensiero. Per analoghe considerazioni V. non tene in alcun pregio le topiche più o meno meccaniche e le arti lulliane e kircheriane dell'invenzione e della memoria. La simpatia pello sperimentalismo che, come si è visto, stacca V. dall'indirizzo gallo e cartesiano e l’avvicina piuttosto a quello ITALIANO o britannico,  a BUONAITUO GALILEI e  a  Bacone, lo rende altresì nemico del LIZIO e dello scolasticismo. Esortando egli a cercare i particolari e a valersi del metodo induttivo; affermando che il genere umano era stato arricchito d’innumerevoli verità dalla tìsica, la quale, mercé il fuoco, le macchine e gli strumenti, si era fatta operatrice di cose simili a peculiari opere della natura; raccomandando la propria metafisica come tale che serve bene, anclllantem, alla fisica o fisiologia sperimentale; non può non riconoscere ben meritato il discredito in cui era caduta la fisica del LIZIO, troppo, egli dice, universale. E se a Cartesio rimprovera l'introduzione delle forme fisiche o FISIOLOGICHE nella metafisica, e con ciò la tendenza  verso il materialismo, il LIZIO e gli scolastici sono poi da lui accusati dell'errore opposto, cioè d’aver voluto introdurre le forme metafisiche nella FISIOLOGIA. Come Bacone, egli stima che il sillogismo e il sorite non producano nulla di nuovo e ripetano ciò che è già contenuto nelle premesse; e mette in chiaro i molteplici danni che gl’universali  del LIZIO cagionano in tutte le parti del saper: nella giurisprudenza, in cui le vuote generalità soffocano il senno legislativo; nella medicina, che bada piuttosto a tenere in piedi i sistemi che a sanare gl'infermi; nella vita pratica, nella quale gl’abusatori d’universali sono derisi col nome di uomini  tematici. Dagl’universali derivano l’omonimie o  equivoci – AEQUI-VOX -- cause d'ogni sorta d’errori. Alla diffidenza verso gl’universali, intesi qui nel senso di concetti generali o astratti, risponde in V., com'era stato caso frequente presso gl’anti-LIZIO della Rinascenza, l'esaltazione dell’idee platoniche, delle forme metafisiche, o, come egli anche le chiama, dei generi, modelli eterni degl’oggetti  e infiniti per perfezione. Nominalista nelle matematiche, sospettoso del nominalismo – BETE NOIRE GRICE -- in tutti gl’altri campi del sapere, V. asserisce la realtà delle forme o dell’idee, e narra e attratto da questa dottrina, INSEGNATAGLI d’un suo maestro che era scotista e perciò seguace di quella tra le filosofie scolastiche che più si  approssima all’ACCADEMIA. Considerata nella sua interezza, la prima gnoseologia di V. non è intellettualistica, non è sensistica e non è veramente speculativa; ma contiene tutte tre queste tendenze che si compongono in certo modo tra loro, non col sottomettersi gerarchicamente a una tra esse, ma col sottomettersi tutte alla riconosciuta  incompiutezza della scienza umana. Il suo intento e di fronteggiare, con un sol movimento tattico, dominatici DOMMATICI  -- Grice underdogma -- e scettici, contro i primi negando che si possa sapere tutto e contro i secondi che non si possa sapere cosa alcuna; ma riesce invece a un'affermazione di scettiicismo o agnosticismo, nella quale non  manca neppure qualche tratto mistico. Il sapere divino è sapere unitario, quello umano è la frammentazione dell'unità; Dio sa tutte le cose perché contiene in sé gl’elementi dai quali le compone tutte; l'uomo si studia di conoscerle col ridurle in pezzi. La scienza umana è una sorta d’anatomia delle opere di natura, e viene dividendo l'uomo in corpo  e anima, e l'anima in intelletto e volontà – GRICE THE POWER STRUCTURE OF THE SOUL --,  e dal corpo astrae la figura e il moto, e da questi l'ente e l'uno – GRICE MULTIPLICITY OF BEING --;  onde la metafisica contempla l'ente, l'arimmetica l'uno e la sua moltiplicazione – MULTIPLICITY --,  la geometria la figura e le sue misure, la  meccanica il moto – LA DINAMICA -- dell'ambito, la fisica o FISIOLOGIA il moto del centro, la medicina il corpo, la logica la ragione, la morale la volontà. Ma accade di quest’anatomia come di quella del corpo umano, circa la quale i più acuti fisiologi dubitano se per effetto della morte e della stessa dissezione sia più possibile indagare il vero  sito, struttura e uso delle parti. L'ente, l'unità, la figura, il moto, il corpo, l'intelletto, la volontà sono altro in Dio, nel quale fanno uno, altro nell'uomo in cui restano divisi: in Dio vivono, nell'uomo periscono. La percezione chiara e distinta, nonché prova di forza, è prova di debolezza dell'intendimento umano. Le forme fisiche appaiono evidenti fintanto che non si mettono al paragone delle metafisiche: il cogito ergo sum è certissimo, quando l'uomo considera sé stesso, creatura finita, ma addentrandosi in Dio, che è l'unico e vero ente, egli conosce veramente non essere: con l'estensione e le sue tre misure crediamo di stabilire verità eterne, ma nel fatto ccelum ipsum petimus stillatici,  perché l’eterne verità – GRICE HOLY OF HOLLIES, LA CITTA DELL’ETERNA VERITA -- sono solamente in Dio: eterno ci sembra l'assioma che il tutto è maggiore della parte, ma, risalendo ai principi, si scorge che è falso e si vede che tanta virtù d’estensione è nel punto del cerchio quanto in tutta la circonferenza. Perciò, conclude  V., in  metafisica colui avrà profittato che nella meditazione di questa scienza avrà sé stesso perduto. Giudicare, come pur talora è stato fatto, che in queste proposizioni V. sia nient'altro che un ACCADEMICO o un seguace della tradizionale filosofia, e negare per conseguenza qualsiasi importanza alla sua prima gnoseologia, significa attenersi a  quell'erroneo modo di critica e di storia filosofica il quale, guardando alle conclusioni generali d’un sistema, ne trascura il contenuto particolare, che solo gli dà la vera fisonomia. S'intende bene che ogni filosofo è sempre, nelle sue conclusioni finali, o agnostico o mistico o materialista o spiritualista, e via dicendo; ossia rientra in qualcuna delle  perpetue categorie nelle quali s’aggira il pensiero e la ricerca filosofica. Ma presentare in questo modo unilaterale i filosofi giova soltanto a favorire il pregiudizio – e la predillezione GRICE --  che la storia del pensiero ripeta di continuo, sterilmente, sé medesima, passando d’un errore ad un altro  -- GRICE PHILOSOPHY REPEATING ITSELF, DEAD -- e abbandonando l'errore vecchio per il nuovo, che poi sarebbe anch'esso un vecchio rifatto o ritinto giovane. L’ACCADEMIA, agnosticismo  o  misticismo di V. è sommamente originale perché tutto contesto di dottrine che non solo non sono inferiori al livello della filosofia, ma lo sorpassano d'assai. La  prima di queste dottrine è la teoria  del conoscere come conversione del vero col fatto, sostituita al tautologico criterio della percezione chiara e distinta. Quantunque per V. quella conversione rappresenti un ideale inconseguibile dall'uomo, non pertanto con essa viene esattamente determinata la condizione e la natura della conoscenza, l'identità del pensiero e dell'essere, senza la  quale il conoscere è inconcepibile. La seconda è la svelata natura delle matematiche, singolari per la loro origine tra le altre conoscenze umane, rigorose perché arbitrarie, ammirevoli ma inette a dominare e a trasformare il restante sapere umano. La terza dottrina, finalmente, è la rivendicazione del mondo dell'intuizione, dell'esperienza, della  probabilità, dell'autorità, di quelle forme tutte che l'intellettualismo ignora o nega. In questi punti l'agnostico, l’ACCADEMICO, il mistico V. non e né agnostico né mistico né ACCADEMICO, e compie un triplice progressos sopra Cartesio, che, sotto tutti e tre questi aspetti, vene da lui definitivamente criticato. Dove, invece, Cartesio sopravanza  ancora V. e, per l'appunto, in quel dommatismo di  cui V. non voleva a niun conto sapere. Riuscisse o no, Cartesio tenta una scienza umana perfetta, dedotta dall'interna coscienza; e V., giudicando troppo superbo il filosofo gallo e disperando del tentativo, asseriva invece la trascendenza della verità, s’appoggia alla rivelazione e si restringe a dare  una metafisica humana imbecillitale dignam. La sua e una gnoseologia dell'umiltà – dell’IMBECILE --, come quella di Cartesio della superbia. Ora, V. non poteva progredire anche per questo verso se non ismettendo almeno una parte della sua umiltà e acquistando qualcosa della superbia di Cartesio; introducendo nel suo spirito cattolico un po' del  lievito di quello spirito protestante che gli sembra cosi pericoloso; provandosi a concepire una filosofia alquanto meno degna dell'umana debolezza e tanto più degna dell'uomo, che è debole e forte insieme, è uomo ed è Dio. E questo progresso è manifesto nella forma successiva del suo pensiero. La volontà di credere, fortissima in V., e la completa dedizione del suo animo al cattolicismo del suo  tempo e del suo paese, lo legano saldamente alla gnoseologia e metafisica ACCADEMICA; la quale, per questi ostacoli psicologici, non poteva sviluppare nella mente di lui le contradizioni di cui e pregna. L'idea di Dio lo doma e lo sorregge insieme; ed egli non aveva l'audacia né sente  il bisogno  d'investigare a fondo quale valore sia d’attribuire alla  rivelazione, o se sia concepibile un Dio fuori del mondo, o come l'uomo possa affermare Dio senza in qualche modo dimostrarlo e perciò crearlo lui. Per far si che V. aprisse e in parte percorre una nuova via, la quale avrebbe condotto lo spirito umano al superamento della concezione  platonica,  era indispensabile che la provvidenza, per servirci fin d’ora di un concetto di V., che verrà illustrato più oltre) adoperasse verso di lui un inganno, e con lungo e tortuoso giro lo menasse all'imboccatura della nuova via, non lasciandogli sospettare dove questa avrebbe messo capo. Gli scritti, nei quali V. espose la sua prima gnoseologia, il De ratione  studiorum, il De antiquissìma italorum sapientia, e le polemiche relative, appartengono ad un quadriennio. Nel decennio che segui, V. fu tratto a darsi sempre più alle ricerche sulla storia del diritto e della civiltà. Lesse Grozio per prepararsi a scrivere la vita di Carafa, e s'ingolfò nei dibattiti sul DIRITTO NATURALE; intensificò gli studi sul DIRITTO ROMANO e sulla scienza del diritto in genere, per rendersi degno, come H. L. A. Hart,  d’una cattedra di giurisprudenza nella università di NAPOLI; ripensò alle origini delle lingue, delle religioni, degli Stati, poco soddisfatto delle tesi storiche da lui sostenute nel De antiquissima, e forse anche intimamente scosso da qualche critica che  coglieva giusto, fattagli da un recensente del Giornale dei  letterati, l'INSEGNARE  rettorica, che era il suo mestiere, gli porgeva continua occasione a meditare sulla natura e la storia della poesia e delle forme del linguaggio. Cosicché, se non è esatto dire che V. fu condotto al suo  nuovo orientamento, culminante nella Scienza nuova, mercé un  processo non filosofico ma filologico, essendo chiaro che un orientamento filosofico non può nascere se non d’un processo egualmente filosofico, è indubitabile che il materiale e lo stimolo pel suo nuovo pensiero gli furono offerti dagli studi filologici. Attraverso i quali egli ebbe a fare un'esperienza solenne: cioè, che quella materia di studio non  poteva essere e non era elaborata dal suo pensiero senza l'ajuto di certi principi necessari, che gli si ripresentavano in ogni parte della storia da lui presa a meditare. Un  tempo gli era sembrato che le scienze morali, ragguagliate al metodo matematico, occupassero, quanto a sicurezza, l'infimo posto. Ora, nella quotidiana familiarità con quelle  scienze, gli si veniva scoprendo il contrario: niente di più sicuro del fondamento della FILOSOFIA MORALE. E quella loro sicurezza non era la semplice evidenza cartesiana, nella quale l'oggetto, per intrinseco che si dica, rimane estrinseco; ma era una sicurezza davvero intrinseca, intrinsecamente  ottenuta. Nel ripiegarsi colla mente sui fatti della  storia, V. sentiva d’appropriarsi meglio qualcosa che già gli appartene, di rientrare in possesso di propri beni. Egli ricostruiva la storia dell'uomo; e che cosa era la storia dell'uomo se non un prodotto dell'uomo stesso? Chi fa la storia se non la fa l'uomo, colle sue idee, i suoi sentimenti, le sue passioni, la sua volontà, la sua azione? E lo spirito  umano, che fa la storia, non è quello stesso che si adopera a pensarla e a conoscerla? La verità dei principi generatori della storia nasce, dunque, non dalla forza dell'idea chiara e distinta, ma dalla connessione indissolubile del soggetto coll'oggetto della conoscenza. Il che importa che la scoperta che V. ora compiva, la verità che egli ora riconosce  alla FILOSOFIA MORALE, era la visione di un nuovo nesso del principio gnoseologico già da lai formolato nel periodo precedente della sua speculazione, ossia del criterio della verità riposto nella conversione del vero col fatto. La ragione da lui addotta, pella quale l'uomo può avere perfetta scienza del mondo umano, è per l'appunto che il mondo  umano l'ha fatto l'uomo stesso; e ove avvenga che chi fa le cose esso stesso le narri, ivi non può essere più certa l'istoria. Con questo riattacco alla precedente teoria l'affermazione circa la possibilità della FILOSOFIA MORALE non prese, soggettivamente, nello spirito di V. l'importanza e non portò le conseguenze d’una rivoluzione, che gli  sconvolgesse da cima a fondo l'assetto delle sue idee e lo costringesse a procurarne uno affatto nuovo. Quell'affermazione parve a lui, d’una parte, una conferma della sua dottrina, un esempio aggiunto agli altri che aveva già recati di scienza perfetta, scienza divina dell'universo e scienza umana del mondo matematico; e dall'altra, un'estensione del  campo conoscitivo, i cui limiti, perché certi limiti sussistevano sempre, aveva tracciati dapprima in modo troppo stretto. Prima, aveva circoscritto una breve sfera luminosa in mezzo a un vasto campo buio o fiocamente illuminato; ora, la sfera luminosa s’amplia d’un  tanto, e  d’altrettanto scema la  zona tenebrosa. Ampliamento  che non lo getta  punto in conflitto colle sue convinzioni religiose, e, anzi, sembra favorirle ed esserne favorito. La religione non INSEGNA forse la libertà, responsabilità e consapevolezza che l'uomo ha dei  propri atti e fatti? V.  non senti dunque il bisogno di scrivere un saggio metafisico, perché gli sembrò che bastasse aggiungere una postilla al già scritto e  ritoccare alquanto le sue precedenti affermazioni. La sua gnoseologia, tenendo fermo il criterio generale della verità contrapposto al criterio cartesiano e cioè, che solo chi fa le cose le conosce, divide le cose tutte nel mondo della natura e nel mondo umano; e osservando che il mondo della natura è stato fatto da Dio e perciò Dio solo ne ha la scienza,  restringe l'agnosticismo solamente al mondo fisico, e dichiar, per contrario, che del mondo umano, come fatto dall'uomo, l'uomo ha la scienza. Eleva cosi le conoscenze, dapprima meramente INDIZIARIE – “I believe that this frown is a sign of my disgust” – Grice --  e probabili, circa le cose dell'uomo al grado di scienza perfetta; ed esprime  maraviglia che i filosofi si studino con tanto impegno di conseguire la scienza del mondo naturale, chiuso all'uomo, e trascurino il mondo umano o CIVILE CONVERSAZIONE o delle nazioni, come anche lo chiama, del quale è possibile conseguire scienza. Di questo erramento trova la cagione nella facilità che la mente umana, immersa e seppellita  nel corpo, prova a sentire le cose del corpo, e nello sforzo e fatica che le costa d'intendere sé medesima: come l'occhio corporale vede tutti gl’oggetti fuori di sé e, per vedere sé stesso, ha bisogno dello specchio. In ogni altra parte, le sue idee restano immutate. Di là dal mondo umano, il mondo soprannaturale, inaccessibile all'uomo, e il mondo  naturale, che era in certo senso anch'esso soprannaturale; di là dalla scienza perfetta che l'uomo può avere di sé stesso, la metafisica platonica, adatta alla debolezza, che continua pur sempre ad affliggere l'uomo. Le discipline naturali venivano considerate sempre come semi-scienze; le matematiche come una formazione astratta, validissima  nell'astratto, priva di forza innanzi al reale. Il sillogismo del LIZIO, il sorite del PORTICO, il metodo geometrico dèi cartesiani erano perseguitati dallo stesso odio di prima, e collo stesso amore celebrata  l'induzione che il verulamio,  gran filosofo insieme e politico, commenda e illustrava nel suo Organo, e che i britannici adoperavano con gran  frutto della sperimentale filosofia.  Un ravvedimento circa l'applicabilità del metodo geometrico potrebbe sembrare la frequente asserzione di V. che la scienza delle cose umane sia da lui costruita con uno stretto metodo geometrico. Ma, anche a lasciar andare che la struttura della Scienza è proprio l'opposto di quella geometrica, è un fatto che, nel  tempo stesso e negli stessi libri, egli non cessa di mettere in guardia contro l'uso del metodo matematico nelle cose fisiche e morali, il quale ove non sono figure di linee o di numeri o non porta necessità, spesso invece di dimostrare il vero può dare apparenza di dimostrazione al  falso; onde il preteso ravvedimento sarebbe una palmare contradizione,  se non gli si potesse dare un significato che ristabilisce interamente la coerenza nelle idee di V.. Un significato assai sémplice, perché, riconosciuta ormai alla FILOSOFIA MORALE  non meno che alla geometria la potenza di convertire il vero col fatto, esse potevano e dovevano svolgersi con metodo analogo a quello sintetico della geometria, o con cui da vero si passa a immediato vero, e seguire il mondo umano dai suoi inizi ideali nei suoi progressi fino alla sua perfezione, sicché lo studioso non doveva sperare di poter intendere le loro dottrine per salti, ma dove percorrerle per gradi da capo a piedi, senza recalcitrare alle conclusioni inaspettate che ne uscissero, come non si recalcitra a  quelle della geometria, e attendendo soltanto a esaminare la saldezza del nesso tra premesse e conseguenze. Era, dunque, codesto un metodo chiamato geometrico per analogia o PER SINEDDOCHE, ma in effetti intrinsecamente speculativo, da non confondere coll'applicazione della matematica alle cose morali, quale ne avevano dati esempì i  cartesiani e Spinoza. Né si può concedere senza riserve il giudizio d’alcuni interpetri: che V. in realtà, coll'ammettere una scienza dell'uomo d’investigarsi nelle modificazioni stesse della mente umana, si ravvicinasse e fa seguace di Cartesio; al qual uopo si suole addurre anche l'altra dichiarazione di lui, che, per pensare la sua Scienza, convenisse    ridursi a uno stato di somma ignoranza, come né filosofi né filologi né libro alcuno fossero mai stati al mond. Certamente, V. colla forma della sua gnoseologia entra anche lui nel soggettivismo della filosofia inaugurato da Cartesio (anzi, vi era già entrato, in certo modo, colla sua dottrina attivistica della verità come rifacimento del fatto); e, in  questo significato del tutto generico può dirsi, anche lui, cartesiano. Pure, se a Cartesio rimane ancora inferiore, perché il suo soggettivismo è principio non della scienza tutta ma di quella sola del mondo umano, per un altro verso si pone di sopra al filosofo gallo, in quanto, per lui, la verità meditata nel mondo umano non è STATICA  ma DINAMICA, non è trovata ma prodotta, è scienza e non coscienza. Per quel che concerne poi l'esortazione a far conto come se non vi fossero mai stati libri al mondo né placiti di filosofi e di filologi, essa non importa altro se non che bisogni spogliarsi d’ogni pregiudizio, d’ogni comune invecchiata anticipazione, d’ogni corpulenza proveniente da  fantasia o da memoria, per ridursi in istato di puro intendimento, informe d’ogni forma particolare, com'è indispensabile per la scoperta e l'apprendimento d’ogni verità; e tanto poco qui l'esortazione ha il significato cartesiano e malebranchiano d’un rifiuto dell’erudizione e dell'autorità, che, per non dir altro, nel medesimo luogo al quale di sopra  si è ALLUSO, si trova avvertito che la Scienza suppone una grande e varia cosi dottrina come erudizione, dalle quali prende le verità come già conosciute per valersene da termini per fare le sue proposizioni. Nella sua gnoseologia V., insomma, diventa non già più cartesiano ma sempre più vicinano, sempre più lui. Cartesio non pare gli servisse  neppure come tramite attraverso cui giungere alla persuasione della possibilità di costruire colla mente la scienza della mente. Il tramite vero fu il criterio stesso di V. della verità, messo a contatto coll’osservazioni che l'autore venne facendo nel corso dei suoi studi storici. Che se si volessero cercare precedenti, nella storia della filosofia, alla forma  della gnoseologia di  V., bisognerebbe, circa la divisione dei due mondi di realtà e delle due sfere di conoscenza, e circa la preferenza manifestata pelle indagini morali rispetto alle naturali, correre col pensiero alla posizione assunta da Socrate verso i fisiologi del suo tempo, al sentimento di religioso mistero onde il filosofo attico arretra innanzi  al mondo della natura e si rivolge a indagare la conformazione dell'animo umano. E, circa la maggiore trasparenza delle scienze morali in quanto concernono cose che l'uomo stesso ha prodotto, si potrebbe richiamare la partizione del LIZIO delle scienze in fisiche, che considerano il movimento estrinseco all'uomo, e in pratiche e poietiche, che  considerano le cose prodotte dall'uomo. La distinzione era passata nella filosofia delle scuole; e AQUINO parla della natura come  ORDO QUEM RATIO CONSIDERAT SED NON FACIT, e del mondo dell'attività umana come ORDO QUEM RATIO CONSIDERANDO FACIT. Ma queste riferenze non sono indicate da V., il quale pure assai si  compiace nel fare omaggio dei propri pensieri agl’antichi filosofi; e, ammesso anche che avessero qualche efficacia sopra di lui, è certo che tra esse e la dottrina di V. sulla conoscibilità del mondo umano corre distanza non minore che tra la proposizione dell'onniscienza di Dio creatore e il principio gnoseologico che egli sa ricavarne. Di questo  principio, la dottrina di V. sulle scienze morali è né più né meno che la prima legittima applicazione; e inesattamente il suo autore, come di solito, poi, gl'interpetri, ebbe a presentarla quale semplice estensione dell’applicazioni già date, un secondo caso aggiunto a quello già contemplato delle scienze matematiche. Nel caso delle scienze matematiche,  il principio della conversione del vero col fatto veniva applicato solo in apparenza. Originale e vero, quel principio; originale e vera la teoria delle matematiche; del tutto artificiale e falsa la connessione delle due verità. Manca, se non c'inganniamo, un effettivo rapporto tra il concetto di Dio che crea il mondo, e, perché lo crea, lo conosce; e quello  di colui che costruisce arbitrariamente un mondo di astrazioni e, nel fare ciò, non conosce nulla o conosce soltanto, quando non è più geometra o arimmetico ma filosofo, quando scrive non gl’Elementi d’Euclide ma le pagine di gnoseologia del De antiquissima, che egli procede arbitrariamente. Se le discipline matematiche foggiano i concetti a  libito, se producono finzioni e non verità, esse, a dir vero, non sono scienze né conoscenze di sorta, e non c'è possibilità di porle a riscontro colla scienza divina, che è scienza della reale realtà. Nelle  matematiche, dice V., l'uomo, contenendo dentro di sé un immaginato mondo di linee e di numeri, opera talmente in quello coll'astrazione, come  Dio  nell'universo colla realtà. Il riscontro può riuscire brillante, ma risplende, forse, di luce piuttosto metaforica che logica. Nella FILOSOFIA MORALE, invece, il riscontro è tanto logico che deve dirsi senz'altro coincidenza. Il sapere umano è, qualitativamente, il medesimo del divino, e al pari del pensiero divino conosce il mondo umano; sebbene,  quantitativamente più  ristretto, non si estenda, come quello, al mondo della natura. Nel campo umano, non più espedienti di debolezza, non più finzioni, non più falsificazioni: qui si è nella maggiore concretezza del conoscere. L'uomo crea il mondo umano, lo crea trasformandosi nelle cose CIVILI – CIVILE CONVERSAZIONE;  e, col pensarlo,  ricrea la sua creazione, ripercorre vie già percorse, la rifa idealmente e perciò conosce con vera e piena scienza. Questo è davvero un mondo, e l'uomo è per davvero il Dio di questo mondo. Ci sembra, dunque, incontrastabile che solamente l'applicazione del verum- factum, quale si effettua nella Scienza, risponda al criterio stabilito; e che l'altra  che ne era stata anteriormente tentata pelle matematiche, importante per altri rispetti e validissima a liberare gli spiriti dal pregiudizio matematico, non si possa considerare vera e propria applicazione. E, forse, V. ebbe talvolta qualche sentore della differenza tra le due applicazioni, la propria e la metaforica, che per solito confuse come identiche. La scienza del mondo umano, egli  dice, procede appunto come la geometria che, mentre sopra i suoi elementi il costruisce o'1 contempla, essa stessa si faccia il mondo delle grandezze; ma con tanto più di realità quanta più ne hanno gl’ordini d'intorno alle faccende degl’uomini, che non ne hanno punti, linee, superficie o figure. E un altro indizio  della coscienza che s’accende a tratti in lui d’avere pella prima volta, nella dottrina circa il mondo umano, ritrovata una conoscenza vera e propria, non una mera finzione di conoscenza, potrebbe vedersi nell'uso assai più convinto, più caldo ed entusiastico che egli fa, in questo caso, dell'epiteto divino; ben diverso da quello freddo, se non  propriamente ironico, dell' ad Dei instar nel De antiquissima. Le prove della Scienza, dice più d'una volta, con rapimento, sono d'una spezie divina, e debbono, o leggitore, arrecarti un divin piacere, perocché in  Dio il conoscere e il fare è una medesima cosa! La conversione del vero col fatto nella FILOSOFIA MORALE non poteva non ripercuotersi  nella trattazione del certo ossia, secondo uno dei parecchi significati, e forse il principale, che V. attribuisce a questa parola, delle cognizioni storiche, del peculiare, certuni, contrapposto al commune o veruni; il che forma l'altro tratto importante della gnoseologia di V. Nella gnoseologia, quelle cognizioni erano legittimate e protette, come si è  visto, col parificarle a ogni altra sorta di conoscenze tutte egualmente deboli o egualmente forti, perché tutte fondate sulla probabilità e sull'autorità, sia dell'individuo, autopsia, sia del genere umano. Ma, redenta dall'autorità e dalla probabilità la conoscenza dello spirito umano e delle sue leggi, le cognizioni storiche, quantunque di loro natura  fondate sempre in qualche modo sull'autorità, venivano rischiarate di nuova luce. Il certo dove entrare in un nuovo rapporto, perché aveva ormai di fronte non un altro certo, ossia una semplice conoscenza probabile circa lo spirito umano, ma un vero, una conoscenza filosofica. Questo rapporto è chiamato altresì da V. il rapporto di filosofia e  filologia, la prima delle quali versa circa necessaria naturai e contempla la ragione onde viene la scienza del vero, la seconda  circa piatita fiumani arbitrii e osserva l'autorità onde viene la coscienza del  certo. L'una considera l'universale, l'altra l'individuale, l'una, dice Leibniz, le vérités de raison, l'altra le vérités de fait. Distinzione che non è  mantenuta dappertutto, presso V., nella medesima nettezza; tanto che a volte l'autorità contrapposta alla ragione diventa, secondo lui, parte della ragione stessa, o si confonde colla conoscenza dell'arbitrio umano, contrapposta a quella della volontà razionale; ma di cui è per altro chiarissimo il senso generale. E per filologia V. non intende solamente  lo studio nella via delle parole – GRICE STUDIES IN THE WAY OF WORDS -- e della loro storia, ma, poiché alle parole sono annesse le idee delle cose, anzitutto la storia delle cose; onde i filologi debbono trattare di guerre, paci, alleanze, viaggi, commerci, di costumi, leggi e monete, di geografia e di cronologia, e d’ogni altra cosa che s’attenga  alla vita dell'uomo nel mondo. La filologia insomma (nel significato di V. – GRICE UTTERER’S MEANING -- che è  poi il significato esatto) abbraccia non solamente la storia delle lingue o delle letterature, ma quella altresì delle idee e dei fatti, della filosofia e della politica. Certamente, la filologia, le verità di fatto, il certo non sempre erano  stati brutalmente maltrattati come dai cartesiani. Grozio da esempio di vastissima erudizione storica, messa a servigio delle sue dottrine sul diritto naturale. GRAVINA (vedasi), contemporaneo e connazionale di V., richiede come necessarie al giurisperito non solo la ratiocinandi ars, ma la LATINAE LINGVAE PERITIA e la notitia temporum. E Leibniz, or ora ricordato, riasseriva l'importanza dell'erudizione contro i cartesiani e padroneggia da gran signore i più svariati aneddoti storici, che profonde a piene mani nei suoi libri. Ma V. nota che filosofia e filologia rimaneno tuttavia estranee l'una all'altra, come erano state quasi del tutto presso I ROMANI: i tanti luoghi di storici, oratori,  filosofi e poeti, che Grozio accumula, costituivano un puro ornamento; e il medesimo V. avrebbe giudicato forse, se ne avesse avuto conoscenza e ce n’avesse comunicato il suo giudizio, del largo uso che Leibniz fa della storia. Leggendo i libri dei filologi, egli prova un tal senso di vuoto e di fastidio per l'affastellamento inintelligente delle notizie  storiche, che era tratto quasi a dare ragione, e dovè darla per qualche tempo incondizionatamente, a Cartesio e Malebranche nel loro odio contro l'erudizione. Senonché, pensa dipoi, quei due filosofi, in cambio di sprezzare l'erudizione, avrebbero dovuto piuttosto indagare se non fosse stato possibile richiamare la filologia ai principi della filosofia;  e i filologi, da parte loro, invece d’arrecare i fatti a pompa d’erudizione, debbono industriarsi d’elaborarli a fini di scienza. La filologia è da ridurre a scienza: ceco il pensiero di V. circa i rapporti del certo col vero, della filologia colla filosofia. Che cosa vuol dire ridurre la filologia, o la storia, che è lo stesso, a scienza o a filosofia? A rigore, la  riduzione non è possibile, non perché si tratti di cose eterogenee, ma anzi perché quelle sono omogenee: la storia è già intrinsecamente filosofia; non è possibile proferire la più piccola proposizione storica senza plasmarla col pensiero, cioè, colla filosofia. Ma poiché questo presupposto filosofico della filologia allora non era avvertito, come non  fu molto spesso neppure nei tempi seguenti, e facilmente veniva negato; poiché i più, come sappiamo, o concepivano un'aristocratica filosofia geometrica, disdegnosa e aborrente dal profanum vulgus dei casi storici, ovvero, come fa prima V. stesso, una filosofia e una storia egualmente poco rigorose e meramente opinabili; V., mutato il suo punto di  vista filosofico, raggiunta la coscienza del metodo speculativo nella scienza dell'uomo, inteso più profondamente lo spirito umano, dove scorgere quanto ci fosse da riformare nella storiografia corrente, sentire il bisogno d’una più perfetta filologia come conseguenza della sua più perfetta filosofia, e in termini gnoseologici esprimerlo con quella  formola del richiamare alla filosofia la filologia, ut haec posterior, ut par est, prioris sit consequentìa. Dove, in altre parole, togliere la storia dalla sua condizione d'inferiorità, dalla servitù al capriccio, alla vanità, al moralismo, alla PRECETISTICA (GRICE) o ad altri fini estrinseci, e riconoscerle il fine proprio e intrinseco di necessario complemento del vero universale. In pari tempo, la filosofia si sarebbe riempita di storia, affiatata colla storia; e da questo affiatamento avrebbe acquistato maggiore larghezza e un senso più vivo della realtà concreta da spiegare. Tale, senza dubbio, è uno dei significati che ha la formola di V. del congiungimento di filosofia e filologia e della riduzione della  filologia a scienza. Ma non meno è fuori dubbio che, nel pronunziare quella  formola, V. voleva qualcosa di più e, di solito, intende qualcosa d'altro. Questo qualcos'altro può, nel modo più diretto, essere chiarito dall'appello che egli fa a Bacone e al suo metodo di filosofare più accertato: metodo espresso nel titolo del libro baconiano: Cogitata et  visa – GRICE E WARNOCK -- , e che V. si propone di  trasportare dalle naturali alle umane cose CIVILI CIVIL CONVERSAZIONE. Esige, insomma, la costruzione d’una storia tipica delle società umane, cogitare, da riscontrare poi nei fatti, videre, accertando coi fatti la costruzione ideale e avverando colla costruzione ideale i fatti, confermando  la ragione coll'autorità e l'autorità colla ragione; d’una scienza che fosse insieme filosofia dell'umanità e storia universale delle nazioni. Ora questa costruzione che egli esige, questo qualcosa di mezzo tra il cogitare e il videre, tra il pensiero e l'esperienza, questo misto dei due processi, è intrinsecamente diverso dalla unita, di filosofia e filologia  in quanto interpetrazione filosofica dei dati di fatto. Questa interpetrazione è la storia vivente; l'altra non è né filosofia né storia, ma una scienza empirica dell'uomo e delle società, materiata di schemi che non sono le extratemporali categorie filosofiche e neppure gì'individuali fatti storici, benché senza categorie filosofiche e senza fatti storici non  potrebbero mai costruirsi: una scienza empirica, e perciò né esatta né vera, ma solamente approssimativa e probabile, e soggetta a verificazione e rettificazione da parte cosi della filosofia come della storia. Sarebbe impossibile determinare quale di codesti due significati della filologia ridotta a storia sia quello proprio di V., perché nel suo pensiero  si trovano tutti e due; o quale prevalga, perché effettivamente prevale ora l'uno ora l'altro, quantunque il secondo, quello empirico, sia più di frequente formolato. Anzi si potrebbe dire che, quando V. intitolava Scienza la sua opera, il principale dei significati che da a questo titolo invidioso si riferiva appunto a quella scienza empirica: alla scienza  cioè che e insieme filosofia e storia  dell'umanità, alla storia ideale delle leggi eterne sopra le quali corrono i fatti d’ogni nazione nel sorgimento, progresso, stato, decadenza e fine. V., in realtà, non unifica mai, e non poteva, i due diversi significati, e ne serba la duplicità, la quale, appunto perché non e distinta chiaramente, prende apparenza  d'identità. Di qui la parziale giustificazione d’entrambe le tendenze che si sono manifestate tra gl'interpetri, dei quali alcuni vogliono che V. professa e adopera il metodo speculativo, altri che il suo metodo e, nell'idea e nell'attuazione, empirico, induttivo e psicologico; gl’uni che egli mira a dare un sistema di filosofia dell'umanità, gl’altri  che si    propones una sociologia o una demopsicologia. Unilaterali entrambi, ma i secondi più dei  primi, perché se in verità in  V. c'è di Bacone e c'è dell’ACCADEMIA, dell'empirista e del filosofo, quando poi si colga il carattere del suo ingegno, quando si penetra nell'intimo del suo spirito, e si partecipa ai suoi dissidi e al suo magnanimo sforzo, si deve  riconoscere che V., checché volesse e credesse, e della stoffa di  un ACCADEMICO e non d’un  Bacone; che Bacone stesso del quale egli parla è mezzo immaginato da lui, è un Bacone alquanto ACCADEMICO; e che la Scienza gli pare, in fondo, cosi non perché e un'empìrica costruzione alla Bacone, nel quale caso niente di più vecchio, bastando  ricordare la Politica del LIZIO e i discorsi di MACHIAVELLI, ma perché e tutta pregna d’una filosofia, la quale, infatti, irrompe d’ogni parte, attraverso tutta la sua empiria. La poca chiarezza circa il rapporto di filosofia e filologia, l'indistinzione dei due modi affatto diversi di concepire la riduzione della filologia a scienza, sono conseguenza e  cagione insieme dell'oscurità che regna nel saggio di V. sulla scienza. Col quale nome intendiamo tutto quel complesso di ricerche e dottrine che V. venne mettendo fuori, e che, elaborato precipuamente nelle tre opere del De uno universi iuris principio et fine uno e della Scienza, ha nella redazione definitiva di quest'ultima la sua forma più  sviluppata, alla quale principalmente giova riferirsi. La scienza, in modo conforme al vario significato del termine e del rapporto tra filosofia e filologia, consta di tre ordini di ricerche: filosofiche, storiche ed empiriche; e contiene tutt'insieme una filosofia dello spirito, una storia, o gruppo di storie, e una scienza sociale. Alla prima appartengono  le idee, enunciate in alcuni assiomi o DIGNITA e sparse altresì nel corso del saggio, sulla fantasia, sull'universale fantastico, sull'intelletto e l'universale logico, sul mito, sulla religione, sul giudizio morale, sulla forza e il diritto, sul certo e il vero, sulle passioni, sulla provvidenza, e tutte l’altre determinazioni concernenti il corso o sviluppo  necessario della mente ossia dello spirito umano. Alla seconda, ossia alla storia, l'abbozzo d’una storia universale delle razze primitive e dell'origine delle varie civiltà; la caratteristica della società barbarica o societa eroica antica in Grecia e SPECIALMENTE IN ROMA SOTTO L’ASPETTO della religione, del  costume,  del  diritto, DELLA LINGUA, della costituzione politica; l'indagine sulla poesia primitiva, che s’esemplifica poi più largamente colla determinazione della genesi e del carattere dei poemi omerici; la storia delle lotte sociali tra PATRIZIATO e plebe e dell'origine della REPUBBLICA, studiata anch'essa PRINCIPALMENTE IN ROMA; la caratteristica della barbarie  ricorsa, ossia del medioevo, anch'esso studiato in tutti gl’aspetti della vita e raffrontato colle società barbariche primitive. Finalmente, alla scienza empirica si richiama il tentativo di stabilire un corso uniforme in ogni nazione, concernente la successione cosi delle forme politiche come dell’altre e correlative manifestazioni teoretiche e pratiche  della vita, e i tanti tipi che V. viene delineando del PATRIZIATO, della plebe, del feudalesimo, della patria potestà e della famiglia, del diritto simbolico, del linguaggio metaforico, della scrittura geroglifica, e via discorrendo. Ora se questi tre ordini di ricerche e dottrine fossero stati logicamente distinti nella mente di V. e solo letterariamente mescolati e compressi in un medesimo saggio, questo sarebbe potuto riuscire disordinato, sproporzionato, disarmonico, e perciò faticoso a chi si fa a leggerlo, ma non veramente oscuro. Né, del resto, in linea di fatto, può dirsi che la scienza,  almeno l'esposizione definitiva che V. offri del suo  pensiero, difetti d’un disegno generale, abbastanza ben  concepito. L'opera è divisa. La prima parte raccoglie i principi generali, cioè  la filosofia. La seconda parte, oltre un breve cenno sulla storia universale antichissima, descrive la vita delle società barbariche, e ad esso forma appendice una terza parte sulla discoverta del vero Omero, e cioè sul più cospicuo esempio della  poesia barbarica. Una quarta parte delinea la scienza empirica del corso che fanno ogni nazione. La quinta ed ultima parte esemplifica il ricorso col caso particolare del medioevo. E tuttavia, a dispetto di questa bella architettura, la scienza, com'è la più ricca e compiuta, cosi è IL PIU OSCURO tra i saggi di V.. Se, d'altra parte, V., pur avendo ben chiare in mente le sue idee,  adopera una terminologia insueta o una forma troppo concisa d’esposizione e troppo piena d’allusioni e d'inespressi  presupposti – L’IMPLICATURE DI GRICE! --,  e senza dubbio un filosofo difficile, ma, neppure in questa  ipotesi, oscuro. La quale ipotesi neanche risponde alla realtà, giacché V. è assai parco di termini scolastici e predilige le  espressioni vive e popolari; è filosofo robusto ma non laconico, e spesso si compiace di ripetere le sue idee fermandovisi sopra a più riprese e con molta insistenza; emette in tavola tutte le sue carte, cioè tutto il materiale erudito dal quale gli sono state suggerite le dottrine. Né, infine, si è detto molto quando si è detto che a V. manca piena coscienza delle sue scoperte; perché questa coscienza manca più o meno in ogni filosofo  e in nessuno può essere mai piena. L'oscurità, la vera  oscurità, quella che s’avverte in V., e che a volte avverte egli stesso senza riuscir mai a trovarne la causa, non è superficiale e non nasce da cagioni estrinseche o accidentali, ma consiste veramente in oscurità d'idee,  nella deficiente intelligenza di certi nessi e nella sostituzione con nessi fallaci, nell'elemento arbitrario che perciò s'introduce nel pensiero, o, per dirla nel modo più semplice, in veri e propri errori. Si potrebbe riscrivere la scienza rifacendone l'ordine e mutandone o schiarendone la terminologia, chi scrive ha fatto per suo conto questa prova, e  l'oscurità persiste, anzi si  accresce, perché in siffatta traduzione il saggio, perdendo la forma originale, perde altresì quella torbida ma possente efficacia che può tenere luogo talvolta della chiarezza e che, dove non illumina, scuote lo spirito del lettore e propaga l'onda del pensiero quasi per vibrazioni simpatetiche. Che cagione dell'oscurità, ossia  dell'errore o degl’errori di V., sia l' indistinzione o confusione già notata nella sua gnoseologia circa il rapporto tra filosofìa, storia e scienza empirica, e sussistente non meno nel suo effettivo pensiero intorno ai problemi dello spirito e della storia umana, risulta dall'osservare come filosofia, storia e scienza empirica si convertano a volta a volta  presso di lui l'una nell'altra e, danneggiandosi a vicenda, producano quelle perplessità, equivoci, esagerazioni e temerità, che sogliono turbare il lettore della scienza. La filosofia dello spirito s’atteggia ora come scienza empirica ora come storia; la scienza empirica ora come filosofia ora come storia; e la proposizione storica acquista l'universalità  del principio filosofico o la generalità dello schema empirico. Per esempio, la filosofia dell'umanità assume di determinare le forme, categorie o momenti ideali dello spirito nella loro successione necessaria, e bene merita per tal rispetto il titolo o la definizione di storia ideale eterna sulla quale corrono nel tempo le storie particolari, non potendosi  concepire nessun frammento, per piccolo che sia, di storia reale, dove non operi quella storia ideale. Ma poiché storia ideale è anche per V. la determinazione empirica dell'ordine in cui si succedono le forme delle civiltà, degli stati, dei LINGUE, degli stili, delle poesie, accade che egli concepisca la serie empirica come identica alla serie ideale e  fornita delle virtù di questa; onde la pronunzia tale che debba sempre esattamente riscontrarsi nei fatti, fosse anco che nell'eternità nascessero di tempo in tempo mondi infiniti; il che è apertamente falso, non essendovi alcuna ragione che si ripetano in perpetuo, col dovette, deve e dovrà, l’empirica aristocrazia di ROMA, e la civiltà sorgano o  decadano pell'appunto come sorsero o decaddero quella della ROMA ANTICA. E nel medesimo atto di questo assolutizzamento del corso empirico, il corso ideale si vela d’un'ombra empirica, perché, reso identico all'altro, riceve il carattere empirico dell'altro, e si temporalizza, d’eterno ed extratemporale che e nella concezione iniziale. Si dica il  medesimo delle singole forme dello spirito, le quali, come ideali ed extratemporali, sono tutte e sempre in ogni singolo fatto; ma V., confondendole coi fatti reali e concreti che la scienza empirica fissa nei suoi schemi, viene, subito dopo averle proposte, ad abbuiarle nella loro ideale forma e distinzione. È vero che il momento della forza non e  quello della giustizia; ma il tipo empirico della società barbarica fondata sulla forza, appunto perché è una determinazione rappresentativa e approssimativa, e si riferisce a uno stato di cose concreto e totale, non contiene solamente forza, si anche giustizia; e quando quel momento ideale e quel tipo sono scambiati fra loro e presi come identici, da  una parte il concetto filosofico della forza – il ROMOLO e il neo-TRASIMACO di Grice -- s'intorbida di quello di giustizia – il neo-Socrate di Grice e REMO --  e, facendosi ibrido e contradittorio e incoerente, si sforma, dall'altra il tipo empirico della società barbarica viene esagerato e di troppo irrigidito. La confusione dell'elemento filosofico e  dell'empirico si può dire manifesta nella DIGNITA che definisce la natura delle cose: Natura di cose altro non è che nascimento di esse in certi tempi e con certe guise, le quali sempre che sono tali, indi tali e non altre nascono lo cose; dove appaiono messi insieme le guise e i tempi, la genesi ideale e la genesi empirica. Similmente, è verissimo che  la storia procede d'accordo colla filosofìa, e che quello che è filosoficamente ripugnante non possa essere giammai storicamente accaduto; ma, poiché  per V. la filosofia è indistinta dalla scienza empirica, egli, dove il documento gli manca e perciò nessuna filosofia è applicabile, si sente tuttavia sicuro della verità, e, riempiendo il vuoto colla  congettura che gli fornisce lo schema della scienza empirica, s'illude di aver fatto ricorso a prove metafisiche. O anche, trovandosi innanzi a fatti dubbi, anziché attendere che la scoperta ài altri documenti dissipi le dubbiezze, risolve il dubbio col prenderli, come egli dice, in conformità delle leggi, cioè sempre dello schema empirico; il che, in via  d'ipotesi, è certamente lecito. Ma queir ipotesi è, invece, per V., una verità meditata in idea, sicché il riscontro coi fatti, che egli pure raccomanda per conferma, dove essere superfluo; o, se i fatti nel riscontro risultassero contrari, il torto dovrebbe essere dei fatti, cioè dell'apparenza, non mai dell'ipotesi, affermata come verità indubbia – GRICE MEANING AND VALUE -- perché filosofica. Di qui la tendenza, che è in V., a fare, come si dice, violenza ai fatti. Bastino questi esempì a indicare il vizio intimo di struttura che è nella scienza, e a porre uno dei capisaldi della nostra esposizione e della critica di CROCE del pensiero di V., nel corso delle quali molti altri esempì ci si faranno  spontaneamente innanzi e anche i già dati saranno meglio schiariti. Ma un altro caposaldo che bisogna bene stabilire è che quel vizio è il vizio d’un organismo sommamente robusto, e che gl’ordini di ricerche che vengono da V. confusi sono costituiti d’effettive ricerche di straordinaria novità, verità e importanza. E, insomma, il vizio medesimo che  s'incontra di frequente presso gl'ingegni assai originali e inventivi, i quali di rado portano a perfezione nei particolari le loro scoperte; laddove gl'ingegni meno inventivi sogliono essere più. esatti e conseguenti – GRICE HARDY --. Profondità e acume non sempre vanno insieme e con pari vigore; e V., quantunque non fosse molto acuto, era sempre  molto profondo. Luce e tenebre, verità ed errore che s’alternano e incrociano quasi a ogni punto della scienza, sono diversamente appresi secondo le diverse anime dei lettori e critici; anzi, in casi eminenti com'è questo di V., si possono scorgere in modo più netto tali diversità. Vi sono anime restie e diffidenti, pronte a notare ogni più piccola  contradizione, inesorabili nell'esigere le prove d’ogni affermazione, vigorose nel maneggiare le tenaglie dei dilemmi che stritolano senza pietà un povero grand'uomo. Per costoro l'opera  di V., e molte altre della stessa qualità, è un libro chiuso; e, tutt'al più, offrirà loro l'argomento per una di quelle cosi dette demolizioni, che essi compiono con  grande facilità e gusto, sebbene con scarso successo, perché l'uomo da essi ucciso, dopo morto, suole restare più vivo di prima. Ma vi sono altre anime, che alla prima parola che vada diritta al loro cuore, al primo raggio di verità che lampeggi ai loro occhi, s’aprono tutte con desiderio, s’abbandonano con fiducia, s'inebriano d'entusiasmo, non  vogliono sapere di difetti, non scorgono difficoltà, o le difficoltà appianano subito e i difetti giustificano nel modo più semplice, e, quando per caso scrivono, le loro scritture si configurano come apologie – SCHIFFER SU GRICE – I trust Paul will forbear of my apostasy”.  E per costoro è da temere che la scienza sia un libro troppo aperto – ECO – OPERA APERTA. Certamente, se fra questi due atteggiamenti opposti non ce ne fosse un terzo, se bisogna risolversi di necessità pell'uno o pell'altro, sarebbe da preferire il peccato del troppo vivo amore a quello della gelida indifferenza, la troppa fede, che pur lascia cogliere qualche aspetto del vero, alla nessuna fede che non ne lascia vedere  alcuno. Ma un terzo atteggiamento è possibile, ed è doveroso pel critico: quello di non perdere mai di vista la luce, ma di non dimenticare le oscurità; di giungere allo spirito passando oltre la lettera, ma di non trascurare la lettera, anzi di ritornarvi di continuo, procurando di mantenersi interpetre libero ma non fantasioso, amante fervido ma non  cieco. I due capisaldi stabiliti, il vizio e la virtù che si sono riconosciuti propri della mente di V., la sua geniale confusione o la sua genialità confusionaria, impongono perciò come generale canone ermeneutico d’andare separando per via  d'analisi la schietta filosofia che è in lui dall'empiria e dalla storia colle quali è commista e quasi incorporata, e altresì  queste  da  quella, e di notare via via gl’effetti e le cause della commistione. Le scorie non possono essere considerate inesistenti, congiunte come sono all'oro nello stato di natura, ma non debbono impedire di riconoscere e purificare l'oro; o, fuori di metafora, la storia dev'essere storia senza dubbio, ma tale non è se non è intelligente. Delle forme dello spirito V. studia nella scienza principalmente, e si potrebbe dire esclusivamente, quelle inferiori o individualizzanti, che egli designa tutt'insieme col nome di certo: nello spirito teoretico la fantasia, nello spirito pratico la forza o arbitrio, e nella scienza empirica corrispondente alla filosofia dello spirito, la civiltà barbarica o  sapienza poetica, la cui investigazione costituisce, come egli stesso dice, quasi tutto il corpo dell'opera. Perché e come egli prende cosi forte interesse a codeste forme inferiori e alle società primitive e storie barbariche che le rappresentavano, è anche qui, nell'aspetto estrinseco, spiegato dagli studi che V. ebbe a condurre sul DIRITTO ROMANO e  sui tropi e le figure rettoriche – GRICE, FIGURE OF SPEECH --, dalla tradizione umanistica ancora viva in Italia, dal culto allora rinvigorito pelle scienze archeologiche, dalla curiosità che spinge  a indagare L’ANTICHISSIMA CIVILTA ITALIANA, e via enumerando. Ma altri non pochi, nel suo tempo e nel suo stesso paese, trattarono le  medesime materie senza punto acquistare la predilezione e la penetrazione del fantastico, dell'ingenuo, del violento: cose delle quali lo stesso V. possede la predilezione, ma non ancora la penetrazione, quando compone il De  antiquissima. Sicché la ragione piena di queir interessamento si vede quando si consideri l'origine del V. filosofo e si tenga  presente il carattere della sua mente, antitetica allo spirito cartesiano. Il cartesianismo, tatto rivolto alle forme universalizzanti e astrattive, trascura le individualizzanti; e tanto più V. dove essere attirato d’esse come d’un mistero. Il cartesianismo rifuggiva con orrore dalla selva selvaggia della storia; e V. s'interna bramoso in quella parte appunto  della storia, nella quale, per cosi dire, è più forte il sentore della storicità: nella storia che è più lontana e diversa dalla psicologia dell’età colte. Il cartesianismo generalizza questa psicologia a tutti i tempi e a tutti i popoli, e V. era portato a indagare nelle loro profonde differenze e opposizioni i modi di sentire e di pensare delle varie età.  Lo sforzo  grande che bisogna fare, e che egli stesso fa, per riprendere, attraverso l'intellettualismo, la coscienza della psicologia primitiva, è espresso da V., dove parla delle aspre difficultà che gli era costata la  ricerca per discendere da queste nostre umane nature ingentilite a quelle affatto fiere ed immani, le quali ci è affatto negato d'imaginare e solamente a gran pena ci è permesso d'intendere; o, poco diversamente, quando insiste sull'impossibilità ora che le menti umane sono troppo ritirate dai sensi perfino presso il volgo, adusate ai tanti vocaboli astratti, assottigliate coll'arte dello scrivere, quasi spiritualizzate dalla pratica dei numeri d’entrare nella vasta immaginativa dei primi uomini, le menti  dei quali di nulla sono astratte, di nulla assottigliate – GRICE ONE OFF IMPLICATURE --, di nulla spiritualizzate, anzi tutte profondate nei sensi, tutte rintuzzate dalle passioni, tutte seppellite nei corpi, e di formare l'idea, per es., della natura simpatetica. E quello sforzo, doloroso ma trionfante, che aveva dovuto compiere, era un'altra delle ragioni  pelle quali egli sente come nuova la scienza. Di questa infatti, ossia della ricerca sulla forma ideale e sull'epoca storica del certo, manca, egli  dice,  tutta la filosofìa. L’ACCADEMIA  la tenta invano nel Cratilo, perché gli era rimasta ignota LA LINGUA dei primi legislatori, dei poeti eroi, tratto in inganno dalle forinole emendate e ammodernate  che le leggi erano venute rivestendo via via in Atene. In un errore analogo sono caduti BORDONE (vedasi) Scaligero, Sanchez  e  Schopp, che presero a spiegare le lingue coi principi della logica, e della logica del LIZIO, sorta tanti secoli DOPO le lingue. E Grozio, Selden, Pufendorf  e gl’altri filosofi del diritto naturale meditarono anch'essi sulla  natura – GRICE NATURAL MEANING -- umana ingentilita dalla religione e dalle leggi, sicché ritrassero il corso storico cominciando dalla metà in giù; ossia si fermarono sull'intelletto e ignorano la fantasia, sulla volontà moralmente disciplinata e trascurarono la selvaggia  passione. Egli stesso, V., se col prendere a indagare l'antichissima  sapienza ITALIANA da segno del suo interessamento per quel problema,si era, per altro, sviato nella ricerca, seguendo l’orme dell'autore del Cratilo. Sotto l'aspetto filosofico, la scienza, per questa preponderanza che vi ha l'indagine delle forme individualizzanti e in ispecie della fantasia, la dottrina dei primi popoli come poeti e del loro pensare  per caratteri poetici è, dice V., la chiave maestra dell'opera, si potrebbe non troppo paradossalmente definire una filosofia dello spirito con particolare riguardo alla filosofia della  fantasia, cioè all'Estetica. L'Estetica è da considerare veramente una scoperta di V.: sia pure colle riserve onde s'intendono sempre circondate tutte le determinazioni di  scoperte e di scopritori, e quantunque egli non la tratta in un saggio speciale – GRICE IMPLICATURE --, né le da il nome fortunato col quale doveva battezzarla Baumgarten. Del resto, giova notare che nella terminologia della scienza nuova s'incontra un nome simile ad alcuno degl’equivalenti che Baumgarten passa in rassegna pell'Estetica: quello  di Logica poetica. Ma, in fondo, il nome importa poco, e assai importa la cosa; e la cosa è che V. espone una idea della poesia, che era a quei tempi, e dove rimanere per un pezzo ancora, un'ardita e rivoluzionaria novità. Persiste allora la vecchia idea praticistica o pedagogica, che dalla tarda antichità, attraverso il Medioevo, si era trapiantata e  radicata nel Rinascimento, della poesia come ingegnoso rivestimento popolare di sublimi concetti filosofici – METAFORA, IPERBOLE, MEIOSI, SINEDOCCHE -- e teologici – ANALOGIA, ALLEGORIA;  e, accanto a questa, sebbene in grado minore, l'altra che la considera come prodotto o strumento di svago e di voluttà -- rettorica e prammatica infernza, non logica – PRATT GRICE BERKELEY. Queste concezioni avevano alterato perfino il senso originale del trattato del LIZIO della Poetica, nel quale venivano introdotte e poi lette come se effettivamente il LIZIO le avesse pensate e scritte. Né il cartesianismo le rettificò, ma piuttosto, com'era d’aspettare, data la sua generale tendenza,  attenuò e annullò l'oggetto medesimo di quelle definizioni, come cosa di nessuno o di trascurabile valore. In un tempo in cui si cerca di ridurre a forma matematica la metafisica e l'etica, in cui si dispregia l'intuizione del concreto, s’escogitavano una letteratura e una poesia atte a diffondere la scienza nel volgo o nel bel mondo, s'iniziano tentativi  per foggiare lingue  artificiali – il deutero-esperanto di Grice -- logiche più perfette di quelle storiche e viventi, e perfino si tene possibile di stabilire regole per comporre arie musicali senza essere musicisti e poemi senza essere poeti; in codesto ambiente distratto, gelido, nemico, beffardo, solo un miracolo sembra potesse risvegliare una diversa e  opposta coscienza, una coscienza calda e veemente di quel che sia veramente la poesia e della sua originale funzione; e questo miracolo fa compiuto dallo spirito tormentato, agitato e scrutatore di V., il quale critica tutt' insieme le tre dottrine della poesia, come esornatrice e mediatrice di verità intellettuali – GRICE YOU’RE THE CREAM IN MY COFFEE --, come cosa di mero diletto, e come esercitazione ingegnosa di cui si possa senza danno far di meno. La poesia non è sapienza riposta, non presuppone la logica intellettuale, non contiene filosofemi: i filosofi che ritrovano queste cose nella poesia, ve le hanno ficcato dentro essi stessi, senza avvedersene. La poesia non è nata per capriccio  di piacere – cf. LORD GRICE AESTHETIC INSTRUMENTALISM – maximise pleasure --, ma per necessità di natura. La poesia tanto poco è superflua ed eliminabile che, senza d’essa, non sorge il pensiero: è la prima operazione della mente umana. L'uomo, prima d’essere in grado di formare universali, forma fantasmi; prima di riflettere con  mente pura, avverte con animo perturbato e commosso; prima d’articolare, canta; prima di parlare in prosa, parla in versi; prima d’adoperare termini tecnici, metaforeggia, e il suo parlare per metafore è tanto proprio quanto quello che si dice proprio – FIGURA DE-FIGURA, RE-FIGURA. La poesia, non che essere una maniera di divulgare la  metafisica, è distinta e opposta alla metafìsica: l'una purga la mente dai  sensi, l'altra ve la immerge e rovescia dentro; l'una è tanto più perfetta quanto più s'innalza agl’universali, l'altra quanto più s’appropria ai  particolari, al concreto; l'una infievolisce la fantasia, l'altra la richiede robusta; quella ci ammonisce di non fare dello spirito corpo,  questa si diletta di dare corpo allo spirito; le sentenze poetiche sono composte di sensi e passioni, quelle filosofiche di riflessioni, che, usate nella poesia, la rendono falsa e fredda: non mai, in tutta la distesa dei tempi, uno stesso uomo fu insieme grande metafisico e grande  poeta -- LUCREZIO. Poeti e filosofi possono dirsi gli uni il senso, gl’altri  l'intelletto dell'umanità; e in tale significato è da ritenere vero il detto delle scuole che niente è nell'intelletto che prima non sia nel senso – ma  l’intelletto medesimo. Senza il senso, non si dà intelletto; senza poesia, non si dà filosofia né civiltà alcuna. Quasi più miracoloso di questa concezione della  poesia è che V. intravedesse la qualità genuina  della lingua: problema non meglio risoluto e assai meno  agitato e investigato dalla filosofia. La lingua si sole, a volta a volta, o confonderlo colla logicità o abbassarlo a semplice SEGNO estrinseco e convenzionale o, per disperazione, dichiararlo d’origine  divina. V. intende che l'origine divina è, in questo caso, un rifugio da pigri, e che la  lingua  non è né logicità NÉ ARBITRIO, e, al pari della poesia, non è prodotto né di sapienza riposta NÉ DI PLACITO o convenzione. La lingua sorge NATURALMENTE. Nella prima forma d’essa, gl’uomini si spiegarono con atti muti, ossia per cenni, e con corpi aventi naturali rapporti all’idee che vuoleno SIGNIFICARE, ossia per oggetti simbolici.  Ma, anche pella lingua articolata e la lingua volgare, con troppo di buona fede, cioè con iscarso accorgimento, è stato ricevuto d’ogni filologo che esse SIGNIFICANO A PLACITO; laddove, pell’anzidette origini, dovettero SIGNIFICARE NATURALMENTE – Grice, MEANING NATURAL AND NON-NATURAL --, e ogni parola volgare  cominciare certamente d’un singolo individuo – GRICE IDIOSYNCRASY – d’una nazione e provenire dalla lingua primitiva per cenni e per oggetti. Nella lingua del LAZIO, come nelle altre, s’osserva che quasi ogni voce è formata per proprietà naturali o per trasporti; e il maggior corpo d’ogni lingua, presso ogni nazione, è costituito dalla metafora – Grice YOU’RE THE CREAM IN MY COFFEE. La diversa opinione deriva dall'ignoranza dei grammatici, i quali, abbattutisi in gran numero di vocaboli che offrono idee confuse e indistinte, non sapendone l’origini onde sono un tempo luminose e distinte, escogitarono, per darsi pace, la dottrina del PLACITO e la convenzione, e vi trassero il LIZIO e Galeno, armandoli contro l’ACCADEMIA e Giamblico. La grave difficoltà che si suole mettere innanzi contro l'origine naturale del linguaggio e in favore della convenzione, la diversità delle lingue volgari secondo i popoli, si scioglie col considerare che i popoli, pella diversità dei climi, temperamenti e costumi, guardarono le medesime  utilità o necessità della vita sotto aspetti diversi, e perciò produssero lingue diverse; com'è comprovato altresì dai proverbi, che sono massime di vita umana sostanzialmente identiche, eppure spiegate in tanti diversi modi quante sono state e sono le nazioni. Singolarmente importante è poi l'insistenza onde V. professa d’avere ritrovato le vere origini  delle lingue nei principi della poesia: con che viene, per una parte, riasserita l'origine spontanea e fantastica della lingua, e dall'altra, se non per esplicito, certo per implicito, si tende a sopprimere la dualità di poesia e lingua. Nei quali principi della poesia  V. ritrova non solamente l'origine della lingua, ma anche quella delle lettere o scritture,  dichiarando errore di grammatici la separazione fatta tra le due origini, che sono congiunte per natura e che come tutt'una cosa si presentano nella lingua primitiva  mutola,  per  cenni  e per oggetti. La sapienza riposta e la convenzione non hanno luogo neppure qui: i geroglifici non sono un ritrovato di filosofi per nascondervi dentro i misteri delle  loro grandi idee, ma comuni e naturali necessità d’ogni primo popolo; e solamente le scritture alfabetiche nacquero tra i popoli già inciviliti per effetto di libera convenzione. In altri termini, V. viene a distinguere, sia pure in modo confuso, nelle cosi dette scritture quella parte che è propriamente scrittura e perciò convenzione, dall'altra che è invece  DIRETTA ESPRESSIONE – DAVIS GRICE MEANING AND EXPRESSION – ESTETICA DI CROCE --, e perciò lingua, favola, poesia, pittura. Caratteristica di queste scritture espressive o lingue è l'inseparabilità del contenuto dalla forma; la loro ragione poetica è tutta qui: che la favola e L’ESPRESSIONE sono una cosa stessa, cioè una metafora  comune ai poeti e ai pittori, sicché un mutolo senza espressione verbale possa dipingerla. V. arreca in esempio d’esse alcuni aneddoti tradizionali, come le cinque parole reali, la ranocchia, il topo, l'uccello, il dente d'aratro e l'arco da saettare, che Idantura, re degli sciti, manda in risposta a Dario che gli aveva intimato guerra; e l'apologo degl’alti  papaveri che re TARQUINIO svolge innanzi agl’occhi dell'ambasciatore di suo tìglio Sesto circa il modo di domare Gabì: procedimenti ESPRESSIVI non diversi da costumanze che s’osservano ancora presso popolazioni selvagge e presso i volghi; e poi, altresì, l’imprese, le bandiere, gl’emblemi delle medaglie e monete. Una frivola favoletta – FAVOLA – FAME --, che  rimpicciolisce e calunnia l'ufficio vero dell’imprese, narra come esse venissero inventate nei tornei di Germania, qual costume di galanteria, dai garzoni che gareggiavano per meritare l'amore delle nobili donzelle. Ma l’imprese, nel Medioevo, sono cosa seria, come a dire la scrittura geroglifica di quell'età: un parlare – GRICE PARABOLARE -- muto, che suppliva la povertà dei parlari convenuti o delle scritture alfabetiche; e solamente più tardi, nei tempi colti, diventarono gioco e diletto, si convertirono in imprese galanti ed erudite, le quali bisogna animare coi motti, perché, ora, hanno SIGNIFICAZIONI solamente analoghe, laddove quelle primitive e naturali  sono mutole e tuttavia parlano senza bisogno d'interpetri – Those spots didn’t mean anything to me, but to the doctor they meant that he had the measles. In questa schietta naturalità perdurano nei tempi colti alcune di tali forme espressive; per es., le insegne o bandiere, che sono una certa lingua armata, colla quale le nazioni, come prive di FAVELLA, si fanno intendere tra loro nei maggiori affari del diritto naturale delle genti, nelle guerre, alleanze e commerci. Cosi, al lume del concetto estetico pensato da V., poesia, parole, metafore, scritture, simboli figurati, tutto si rischiara di lampi e dà guizzi di vita: cose grandi e cose piccole, l'EPOS e l'araldica. La dottrina delle forme  fantastiche riceve un avviamento nuovo affatto nella storia dell’idee; perché se  V. s’oppone coi suoi concetti alle scuole del suo tempo e specie alla cartesiana, nemmeno poi annoda e ripiglia altra scuola o tradizione più o meno remota. Egli stesso sente la propria opposizione come diretta non contro una scuola particolare, ma contro tutte quelle  che, nei secoli, avevano formolato dottrine sull'argomento. Circa la poesia dice che egli rovescia tutto ciò che se n’è pensato da Platone e poi da Aristotele via via fino ai recenti Patrizzi, Scaligero BORDONE e Castelvetro (si veda), i quali si perderono in inezie tali che fa vergogna fin riferirle. Patrizzi fa nascere la  poesia dai canti degl’uccelli e  dal sibilo dei venti! Circa la lingua, il suo intendimento non è rimasto soddisfatto né da Platone né dai Lazio, Scaligero BORDONE e Sanchez. Circa le lettere, rifiutata l'origine divina che era sostenuta da Mallinkrot ed Elingio, o, che vale il medesimo, interpetratala a suo modo, dà saggio per iscandalo delle vane opinioni, incerte, leggiere, sconce,  boriose e ridevoli, che le facevano provenire dai goti e per essi d’Adamo e dalla personale comunicazione di Dio, o più direttamente dal paradiso terrestre, o d’un gotico Mercurio inventore. Circa l’imprese, infine, osserva che i tanti che n’avevano composto trattati, non n’avevano inteso nulla, e, solo per caso e indovinando, lasciavano trapelare un  seniore della verità col chiamarle eroiche. In realtà, sarebbe difficile assegnare veri e propri precedenti ai concetti estetici di V., e tutt'al più si potrebbero ritrovarne vaghe suggestioni in certe sparse sentenze che egli raccoglie; qualche stimolo più prossimo nelle dispute secentesche sulle differenze tra intelletto e ingegno, ragione e immaginativa,    dialettica e rettorica; e qualche riscontro di particolari estrinseci, come nei ravvicinamenti fatti da qualche retore di quel tempo, il Tesauro, delle arguzie rettoriche parlate colle arguzie figurate. Senonché quei concetti, nati da cosi possente getto d’originalità, non appena dai loro lineamenti generali si passi alle determinazioni particolari, dall'idea  o ispirazione originaria agli svolgimenti effettivi, si vedono come turbarsi, ondeggiare, barcollare. Lasciamo da parte le varie successive opinioni che V. tenne, e che si legano al processo storico del suo spirito, sulla poesia, sulla lingua o sulla metafora, dalle orazioni accademiche e poi dal De ratione e dal De antiquissima al Diritto universale, e  ancora da questo alla  prima, e dalla prima alla seconda Scienza nuova: indagine che potrebbe porgere argomento a un'apposita dissertazione e che non entra nel quadro della nostra esposizione. Ma, anche nella forma ultima del suo pensiero estetico, coesistono dottrine contradittorie. Egli non sta pago a dire, come ha detto, che la forma poetica è  la  prima operazione della  mente, che essa è costituita da sensi di passione, è tutta fantastica, priva di concetti e di riflessioni; ma aggiunge che la poesia, diversamente dalla storia, rappresenta il vero nella sua idea ottima, e compie perciò quella giustizia e attribuisce quel premio e quella pena che spetta a ciascuno e che non sempre s’ottiene nella  storia, dominata sovente dal capriccio, dalla necessità e dalla fortuna. Dice ancora che la poesia ha per suo fine l'animazione dell'inanimato, essendo il più sublime lavoro d’essa indirizzato a dare vita e senso alle cose insensate. Dice che la poesia non è altro che imitazione, e che i fanciulli, i quali valgono assai nell'imitare, sono poeti, e che i popoli  primitivi, fanciulli del genere umano, furono in Si veda il capo della parte storica della Estetica di CROCE.] sieme sublimi poeti. Dice che la poesia ha per propria  materia l'impossibile credibile, com'è  impossibile che i corpi siano menti e pure fu creduto che il cielo tonante è Giove, onde i poeti non s’esercitarono in altro maggiormente che nel  cantare i prodigi compiuti dalle maghe per opera d'incantesimi. Dice che la poesia è nata d’inopia, ossia che è un effetto d'infermità dello spirito; perché l'uomo rozzo e di debole cervello, non potendo soddisfare il bisogno che prova del generale e dell'universale, foggia a sostituzione i generi fantastici, gl’universali o caratteri poetici; e che, per  conseguenza, il vero dei poeti e il vero dei filosofi sono lo stesso, questo astratto e quello rivestito d'immagini, questo una metafisica ragionata e quello una metafisica sentita e immaginata, confacente all'intendimento popolaresco. Parimente d’inopia, cioè dall'incapacità ad articolare, nasce il canto, e perciò i muti e gli scilinguati escono in suoni  che sono canti; e dall'incapacità a SIGNIFICARE le cose in modo PROPRIO, le metafore – GRICE YOU’RE THE CREAM IN MY COFFEE.  Dice, infine, che lo scopo della poesia è d'INSEGNARE al volgo l'operare virtuosamente. In questi detti sono accennati i più diversi concetti sulla poesia, alcuni conciliabili colla dottrina fondamentale, ma  proposti senza mediazione e perciò effettivamente non conciliati; altri, affatto inconciliabili. V. potrebbe essere, a volta a volta, sul fondamento di singoli testi, presentato come sostenitore dell'estetica moralistica, pedagogica, astratta e tipeggiante, mitologica, animistica, e via discorrendo. E se non ricasca nelle vecchie teorie che egli aborre, e se  non si dissipa tra gl’errori nuovi che precorre, si deve al fatto che su tutte quelle varietà e incoerenze sormonta costante il pensiero che la poesia è la prima forma della mente, anteriore all'intelletto e libera da riflessione e raziocini. Come non seppe, valendosi del suo principio capitale, sceverare e accorciare gl’altri che circa la natura della poesia  esistevano nella tradizione scientifica o erano stati da lui escogitati, cosi non riusci a liberarsi dalla tirannia delle classificazioni empiriche, vecchie e nuove. In cambio, si sforza di filosofarle, e tenta di dedurre serialmente le diverse forme della poesia, epica lirica drammatica; del verso e del metro, spondaico giambico prosastico; del parlare  figurato, metafora metonimia sineddoche ironia – GRICE LEECH CONVERSATIONAL RHETORIC;  delle parti del discorso, onomatopee interiezioni GRICE OUCH pronomi particelle nomi – Figgo is shaggy -- verbi, modi e tempi del verbo, al qual proposito richiama perfino un caso d’afasia da lui osservato in Napoli in persona d’un uomo onesto  tócco da grave apoplessia, il quale mentova nomi e si è dimenticato affatto de’verbi, delle scritture, geroglifiche simboliche alfabetiche; delle lingue secondo la loro crescente complessità, che va dalle parole monosillabiche alle composte e dalla prevalenza di vocali e dittonghi alla prevalenza delle consonanti. In questi tentativi dissemina dappertutto  interpetrazioni nuove e parzialmente vere di fatti particolari; ma non giunse, e non poteva, a sistemazione scientifica. E neppure vide chiaro nella relazione della poesia colle altr’arti, che talora unificò con quella, come quando considera intrinsecamente identiche pittura e poesia, e viene notando analogie tra la poesia e la pittura del Medioevo; e,  tal'altra, stranamente separò, come quando pretende che la delicatezza delle arti sia frutto delle filosofie e che delicatissime siano pittura, scultura, fonderia e intaglio, perché debbono astrarre le superficie dai corpi che imitano. Queste incoerenze ed errori, che abbiamo passati in rapida rassegna, se in parte derivano da scarsa capacità di distinzione  e d’elaborazione, per un'altra e maggiore parte si riportano più direttamente al già chiarito vizio fondamentale che è nella strattura della Scienza nuova e qui, propriamente, allo scambio fatto da V. tra il concetto filosofico della forma poetica dello spirito e il concetto empirico della forma barbarica della civiltà, talché, egli  stesso  dichiara, questa  prima età del mondo si può dire con verità tutta occupata d'intorno alla prima operazione della mente. Ma la prima età del mondo, essendo costituita d’uomini in carne ed ossa e non da categorie filosofiche, non potè essere occupata intorno a una sola operazione della mente. Quest'una poteva, come si suol dire, prevalere (e la parola stessa scopre il  carattere quantitativo e approssimativo del concetto); ma tutte l’altre dovevano essere in atto insieme con lei, la fantasia e l'intelletto, la percezione e l'astrazione, la volontà e la moralità, il cantare e il numerare. A siffatta evidenza V. non poteva sottrarsi, epperò in quella fase di civiltà introdusse non solo il poeta, ma anche il teologo, il fisico,  l'astronomo, il pater familias, il guerriero, il politico, il legislatore; senonché l’attività di tutti costoro volle considerare e chiamare poetiche, con metafora tratta dall'asserita prevalenza della forma fantastica dello spirito, e il complesso d’esse sapienza poetica. Il carattere metaforico della denominazione è accusato, o balza agl’occhi, in alcuni luoghi  caratteristici; come dove le  arti, ossia le arti meccaniche, produttrici pratiche d’oggetti per gl’usi della vita, sono definite poesie in certo modo reali, e l'antico DIRITTO ROMANO, per l'abbondanza delle formole e cerimonie onde si riveste, è detto poema drammatico serio. Ma le metafore sono pericolose, quando, come nel caso della Scienza  nuova, trovano terreno favorevole alla loro conversione in concetti; e, infatti, l'età storica, barbarica, metaforeggiata come sapienza poetica, non tarda a trasformarsi, presso V., nell'età ideale della poesia, conferendo a quest'ultima tutte le proprie attribuzioni. Colà erano teologi, e la poesia fu considerata da V. come teologia, sebbene  fantastica;  educatori, e fu fatta educatrice, sebbene di volgo; sapienti di cose fisiche, e fu fatta sapienza, sebbene di fisica immaginaria. E poiché quei barbari non potevano non pensare per concetti, rozzi che questi fossero e involti nelle immagini, i fantasmi della poesia, individuati, singolarizzati, le sentenze d’essa sempre corpulente, si falsificarono in  universali fantastici, che sarebbero qualcosa di mezzo tra l'intuizione, che è individualizzante, e il concetto, che universalizza: la poesia, che dove rappresentare il senso, lo schietto senso, rappresenta invece il senso già intellettualizzato, e il detto che niente si trova nell'intelletto che non sia già nel senso, acquistò il significato che l'intelletto è il  senso stesso, schiarito, o il senso l'intelletto stesso, confuso; onde non si ebbe più bisogno dell'aggiunta cautela: nìsi intellectus ipse. Per converso, la civiltà barbarica divenne come una mitologia o allegoria dell’ideale età poetica; e i primi popoli furono trasformati in moltitudini di sublimi poeti; come poeti furono fatti, nella  ontogenesi  corrispondente a tale filogenesi, perfino i fanciulli. Il concetto dell'universale fantastico come anteriore all'universale ragionato concentra in sé la duplice contradizione della dottrina; perché all'elemento fantastico dovrebbe essere congiunto in quella formazione mentale l'elemento dell'universalità, il quale, per sé preso, sarebbe poi un vero e  proprio  universale, ragionato e non fantastico: donde una petitio principii, per la quale la genesi degl’universali ragionati, che dovrebbe essere spiegata, viene presupposta. E, d'altro canto, se l'universale fantastico s'interpetrasse come purificato dell'elemento universale e logico, cioè come mero fantasma, la coerenza si ristabilirebbe certamente nella dottrina  estetica; ma la sapienza poetica o civiltà barbarica verrebbe mutilata d’una parte essenziale del suo organismo, perché privata d’ogni sorta di concetti, e, per dir cosi, disossata. Per risolvere la contradizione conveniva dissociare poesia e sapienza poetica; del che, in verità, s'incontra qualche accenno presso V. Egli confessa talvolta, quasi  involontariamente, la non corrispondenza tra la categoria filosofica e il tipo sociale, e per quest'ultimo è costretto a ricorrere ai press'a poco, e ai più o meno. Gli accade di dire, per es., che gli uomini primitivi erano nulla o assai poco ragione e tutti robustissima fantasia, quasi tutti corpo e quasi niuna riflessione; ovvero, dopo avere distinte con  filosofiche pretese tre lingue degli dèi, degl’eroi e degl’uomini, osserva che la lingua degli dèi fu quasi tutta muta e pochissimo  articolata; la lingua degl’eroi mescolata egualmente di articolata e di muta; la lingua degl’uomini quasi tutta articolata e pochissimo muta. La favella poetica, ammette  ancora, sopravvive alla sapienza poetica e scorre per  lungo tratto dentro il tempo istorico o età civile, come, dice con magnifica immagine, i grandi rapidi fiumi si spargono molto dentro il mare e serbano dolci l'acque portatevi colla violenza del corso. Anche nei tempi moderni non si può dismettere il parlare fantastico, e per ispiegare i lavori della mente pura ci han da soccorrere i parlari poetici per  trasporti de'sensi. La poesia non sembra che sia finita colla fine della barbarie, perché pur nei tempi civili sorgono poeti; e che quelli della prima epoca fossero fantastici per natura, e i nuovi tali si facciano per arte ed industria, ossia, come V. vuole, collo sforzarsi di perdere memoria delle parole proprie, di purgarsi delle filosofie, di riempirsi la  mente di pregiudizi fanciulleschi o volgari, di rimettere la mente in ceppi costringendosi, tra l'altro, all'uso della  rima, queste restrizioni, del resto facilmente confutabili, s’affaticano invano a sminuire l'importanza del fatto riconosciuto: che la poesia è di tutti i tempi, e non di quello solo barbarico; è una categoria ideale e non un fatto storico. Ma  le restrizioni anzidette, come la rarità e la timidezza degl’accenni ricordati, provano che V. non era in grado d’eseguire la dissociazione tra poesia e sapienza poetica, impeditone dall'ibridismo del concetto e del metodo stesso della Scienza nuova. Se, per altro, l'idea della poesia come pura fantasia, nonostante tutte le confusioni e incoerenze nelle  quali s’avvolge, non fosse rimasta salda nel fondo del pensiero di V., e non avesse operato, per cosi dire, nel sottosuolo della Scienza nuova, non sarebbe agevole, né forse possibile, intendere la concezione capitale che domina la sua filosofia dello spirito, e che è strettamente legata con quell'idea. Diciamo, la concezione dello spirito come sviluppo, o, per adoperare la terminologia propria di V., come corso o spiegamento: concezione la quale, pur senza espressa contrapposizione, supera quella ordinaria, limitantesi quasi esclusivamente a enumerare e classificare le facoltà dello spirito. La dottrina degl’universali fantastici come spontanee formazioni mentali, universali rozzi ma forniti d’un  motivo di vero, era certamente bastevole come strumento per debellare l'empirica teoria che fa sorgere le civiltà d’un'alta e ragionata saggezza ordinatrice, opera personale di Dio o di uomini sapienti, sorti NON SI SA COME e piovuti NON SI SA DONDE. V. pone chiaro il dilemma delle due e non più guise di spiegare l'origine della civiltà: o nella  riflessione d’uomini sapienti, ovvero  in un certo senso e istinto umano d’uomini bestioni; e si risolve pella seconda ipotesi, per i bestioni che via via s’erano fatti uomini; cioè pel pensiero che s’evolve dall'universale fantastico a quello ragionato, per l'assetto sociale che procede via via dalla forza all'EQUITÀ. Ma era quella concezione bastevole  per fondare la storia ideale o filosofia dello spirito?  Nella filosofia dello spirito, essa si sarebbe tradotta in qualcosa di simile, se non d'identico, alla dottrina che, per effetto del cartesianismo e anche d’una certa tal quale rinascita che ebbe la scolastica di Duns Scotus, corre ai tempi di V., e secondo cui la vita dello spirito s’esplica nei gradi  successivi del concetto oscuro, confuso, chiaro e distinto: Leibniz, com'è noto, fa argomento di speciale studio le percezioni oscure e confuse, le petltes  perceptions. Dottrina nel suo intrinseco  intellettualistica, perché i concetti, confusi e oscuri che fossero, erano pur sempre concetti; e impotente perciò a dare ragione, nonché della poesia, neppure  delio sviluppo spirituale, che non può intendersi, nella sua dialettica quando sia costituito di differenze meramente quantitative, le quali, in realtà, non sono differenze ma identità e perciò immobilità; e, infatti, tutto quell'indirizzo fa, insieme, antiestetico e statico, privo d’una vera dottrina della fantasia e d’una vera dottrina dello sviluppo. Il  pensiero di V. ò, invece, avverso all'intellettualismo, simpatico alla fantasia, tutto dinamico ed evolutivo; lo spirito è, per lui, un eterno dramma; e, poiché il dramma vuole tesi e antitesi, la sua filosofia della mente è impiantata sull'antinomia, cioè sulla reale distinzione e opposizione di fantasia e pensiero, poesia e metafisica, forza ed EQUITÀ,  passione e moralità, per quanto egli sembri talvolta, pelle ragioni già note, disconoscerla o, piuttosto, per quanto venga talvolta a ingarbugliarla con indagini e dottrine empiriche e con determinazioni storiche. Anche la dottrina di V. sul mito, se è non meno originale e profonda di quella circa la poesia, non è del tutto limpida, perché le relazioni tra  poesia e mito sono cosi strette che l'ombra gettata sull'una deve necessariamente stendersi in qualche modo sull'altro. Proseguendo a indagare, come abbiamo fatto sin qui e faremo sempre nel séguito, lo stato delle cognizioni ai tempi di V. secondo le varie discipline e problemi che egli prese a trattare, ricorderemo in breve, circa gli studi sulla  mitologia, come tra il Cinque e il Seicento non solamente si mettessero insieme grandi compilazioni letterarie di miti, delle quali già aveva dato esempio, nel Trecento, Boccaccio, ma venissero dottamente propugnate le due teorie esplicative già note all'antichità classica e non ignote del tutto al Medioevo: la teoria del mito come allegoria di verità  filosofiche, morali, politiche, e via discorrendo, e quella del mito come storia di personaggi effettivamente esistiti e d’avvenimenti accaduti, adornate dall'immaginazione che divinizza gl’eroi, evemerismo. L'allegorismo ispira, tra l'altre, l'opera di Conti, MythologicB sive explanationis fabularum libri decerti e il De sapientia veterum di Bacone;  dove, per altro, quel sistema era proposto non senza qualche dubbio e colla espressa cautela che, se anche non vale come interpetrazione storica, avrebbe potuto sempre mantenere il suo valore di moralizzazione, aut antiqultatem illustrabimus aut res ipsas. Il neoevemerismo era rappresentato autorevolmente da Giovanni Ledere, Clericus, l'erudito  ginevrino-olandese verso cui tanta reverenza e gratitudine ebbe a professare V. per aver degnato d’attenzione il suo Diritto universale, e del quale fece epoca, in materia mitologica, l'edizione della Teogonia esiodea; lo segui tra gl’altri Banier, autore di Les  fables expllquèes par l'histoire. Un  terzo sistema, anch'esso non senza qualche precedente  antico, deriva i miti da popoli particolari, dagl’egiziani o dagl’ebrei, ovvero dall'opera di singoli filosofi e poeti inventori; e, quando non si risolve in una pura e semplice ipotesi storica sulla formazione di alcuni o di tutti i miti trasmessi dall'antichità o non si riporta alla rivelazione divina, è chiaro che implica la teoria che il mito sia non già una  forma eterna, ma un contingente prodotto dello spirito, il quale, com'è nato una volta, cosi possa morire o sia già morto. V. s’oppone risolutamente alla prima e alla terza scuola, all'allegorismo e alla dottrina della derivazione storica; e ricorda, perla prima, il trattato di BACONE dal quale tratta incentivo a meditare sull'argomento, ma ch'egli  giudica    più ingegnoso che  vero; e per l'altra scuola, considerante i miti come storie sacre alterate e corrotte dai gentili e in particolare dai greci, il De theologla gentili di Vossio, la Demonstratio evangelica di Huet, e il Phaleg et Canaan di Bochart. I miti o favole non contengono sapienza riposta, cioè concetti ragionati, avvolti consapevolmente nel velo  della favola; e perciò non sono allegorie. L'allegoria – GRICE SCATOLOGIA FILOSOFICA -- importa che s’abbia, d’una  parte, il concetto o significato, dall'altra la favola o involucro, e tra le due cose l'artifizio che le fa stare insieme. Ma i miti non si possono scindere in questi tre momenti, e neppure in un significato e un significante: i loro  significati sono univoci. Importa altresì, quella teoria che chi crede al contenuto non creda alla forma; ma i creatori dei miti dettero ingenua e piena fede a quelle loro creazioni; e fintasi, per es., la prima favola divina, la più grande di quante mai se ne finsero in appresso, GIOVE ROMANO re e padre degli dèi e degl’uomini in atto di fulminante,  essi stessi che se lo finsero lo credettero, e con ispaventose religioni lo temerono, riverirono e osservarono. Il mito, insomma, non è favola ma storia, quale possono formarsela gli spiriti primitivi, e da questi è severamente tenuta come racconto di cose reali. I filosofi che sorsero posteriormente, servendosi dei miti per esporre in modo allegorico le  loro dottrine – cleaning the stables at Oxford – GRICE --, ovvero illudendosi di ritrovarvele per quel senso di riverenza che si porta all'antichità tanto più venerabile quanto più oscura, ovvero stimando comodo di giovarsi di tale espediente per i loro fini politici, e cosi Platone omerizzando e, nel tratto stesso, platonizzando Omero; resero i miti  favole, quali in origine non erano e intrinsecamente non sono. Onde è da dire che filosofi e mitologi furono piuttosto essi i poeti che immaginarono tante strane cose sulle favole, laddove i poeti o creatori primitivi furono i veri mitologi e intesero narrare cose vere dei loro tempi. Per la medesima ragione, ossia per essere i miti parte essenziale della  sapienza poetica o barbarica, e come tale spontanei in tutti i tempi e luoghi, non si può attribuirli a un singolo popolo che li avrebbe inventati e dal quale si sarebbero trasmessi agl’altri, quasi ritrovato particolare d’uomini particolari od oggetto di rivelazione. Codesta dottrina, superante l'allegorìe mò e lo storici 5 srao, è un altro aspetto della  rivendicazione che V. compi delle forme conoscitive alogiche contro l' intellettualismo, il quale le nega appunto col presentarle ora come forme artificiali ora come prodotti accidentali o dovuti a cause soprannaturali. Né sembra accettabile l'opinione che aggrega  V. all'indirizzo neoevemeristico, da lui in verità non combattuto espressamente e verso  il quale presenta anche, se si vuole, alcune superficiali somiglianze, ma insieme colle somiglianze questa radicale diversità: che per lui le favole non sono alterazioni di storie reali né si riferiscono di necessità a individui reali – BELLEROPHON RODE PEGASUS GRICE --, ma sono intrinsecamente verità storica, nella forma che la verità storica  suol prendere nelle menti primitive. Altra più precisa determinazione circa la natura del mito V. non dà né poteva, appunto perché essendo in lui ondeggiante il concetto stesso della poesia, egli non era in grado di segnare i limiti tra le due forme. Parlò, in genere, di poesia e di mito come di cose distinte, ma non fermò la distinzione. Eppure, V. si  era bene imbattuto nel concetto che porge quel criterio distintivo, e l'aveva enunciato; senonché, in cambio di valersene pella dottrina del mito, ne aveva fatto una o alcune delle sue parecchie definizioni della poesia. Quel carattere poetico, quell'universale fantastico che, introdotto nell'estetica come principio esplicativo della poesia, dà origine a  tante insuperabili difficoltà, è invece, pell'appunto, la definizione del mito, e come tale fornisce alla scienza della mitologia il vero principio che le bisogna. Se il concetto del compiere grandi fatiche pel comune vantaggio non si sa staccare dall'immagine d’un uomo particolare che abbia compiuto alcuna di quelle fatiche – GRICE THE STABLES OF OXFORD --, quel concetto diventa il mito, per es., di ERCOLE; ed Ercole è insieme un individuo che fa azioni individuali e uccide l'idra di Lerna e il leone nemeo o LAVA LE STALLE D’AUGIA – GRICE RETROSPECTIVE EPILOGUE --, ed è un concetto; come il concetto dell'operosità utile e gloriosa è un concetto ed è, insieme, Ercole: è  un universale – AND SOURCE OF IDIOMS -- e un fantasma: un universale fantastico – that every Oxonian learns about, even if rich. Anche quel sublime lavoro., che V. dice proprio della poesia, di dare vita alle cose inanimate, spetta non propriamente alla poesia ma al mito – those spots naturally NATURA DEVS mean measles. Il quale,  incorporando i concetti in immagini, ed essendo l’immagini sempre qualcosa d'individuale, viene ad atteggiarli come esseri viventi. Cosi gl’uomini primitivi, che non conoscevano la cagione del fulmine – or of dark clouds -- e perciò non ne possedevano la definizione fisica fisiologica naturale, erano tratti, miteggiando, a concepire il cielo come un  vasto corpo animato con una mente che menta – MEAN STEVENSON ‘The barometer ‘means’ that --, che a somiglianza d’essi medesimi quando erano in preda alle loro violentissime passioni, urlando, brontolando, fremendo, parlasse e volesse dire qualche cosa. E del mito e non della poesia si deve riconoscere l'origine nell'inopia, nella debolezza  della mente e nella sua inadeguazione ai problemi che vuole risolvere, nell’incapacità a pensare per universali ragionati e a esprimersi con termini propri, onde sorgono gl’universali fantastici e le metonimie e le sineddoche e ogni sorta di metafore ed IMPLICATURE -- espresse. Le contradizioni, notate da noi nell'universale fantastico e che lo  rendono inadatto a fondare la dottrina estetica – GRICE: I EXPRESS MY BELIEF --, stanno perfettamente a posto nella dottrina del mito; il quale è, pell'appunto, questa contradizione: un concetto che vuol essere immagine e un'immagine che vuol essere concetto, e perciò un'inopia, anzi un'impotenza potente, un contrasto e una transizione spirituale, dove il nero non è ancora e il bianco muore. Infine, la sapienza poetica, cioè la teologia, fisica, cosmografia, geografia, astronomia e tutto il complesso delle restanti idee e credenze dei popoli primitivi, esposte da V., erano effettivamente mito e non, come egli dice, poesia, pella buona ragione ch'egli stesso adduce che quelle erano le loro storie; e  la poesia è poesia e non istoria, neppure più o meno fantasticata. Poesia, i poemi omerici in quanto esprimevano i sentimenti e le umane aspirazioni della grecità – I’ve been washing the stables --; storia, gli stessi poemi omerici, in quanto erano cantati e ascoltati come racconti di fatti realmente accaduti: due forme di prodotti spirituali che, se  sembrano materialmente raccogliersi in una stessa opera, non per ciò s'identificano. Tutto questo V. vede e non vede, o, meglio, ora intravede e ora travede e perciò non si può dire che riesca a determinare veramente la distinzione e a risolvere il problema dei rapporti tra mito e poesia. Un altro importante e ancora assai dibattuto problema della  scienza mitologica, se cioè il mito sia filosofia o storia, potrebbe credersi, invece, da lui risoluto in modo netto; perché egli ripete molte volte che i miti contengono sensi storici, e non già filosofici, dei popoli primitivi; ma, in realtà, ove si faccia bene attenzione, si scorge che egli, nonché risolverlo, non se lo propone neppure. I sensi storici, che V.  assevera, sono contrapposti non propriamente ai sensi filosofici in genere, ma ai sensi mistici d’altissima filosofia e ai sensi analogi – GRICE ANALOGIA COME IMPLICATURA --, che i mitologi da lui criticati vi ritrovavano; cioè, d’una parte ripetono la critica all'allegorismo e, dall'altra, combattono quel cattivo modo d'interpetrazione storica  che trasferisce idee e costumi moderni ai popoli antichi. La sua teoria si concilia, a dir vero, alla pari con quella che avvicina il mito alla filosofia, e coll'altra che l'avvicina alla storia; coll'eclettica che ammette entrambi gl’elementi, e colla speculativa, che li ammette altresì entrambi ma perla ragione che filosofia e storia, cosi in sé medesime come  nel mito, costituiscono, in fondo, una cosa sola e indivisibile. Come inopia, il mito deve essere superato. La mente umana che agogna naturalmente d’unirsi a Dio donde ella viene, cioè al vero Uno, e che non potendo per  l’esuberante natura sensuale dell'uomo primitivo esercitare la facoltà, sepolta sotto i loro sensi troppo vigorosi, d’astrarre dai  subietti le proprietà e le forme universali, s’era finta le unità immaginarie, i generi fantastici o i miti, nel suo successivo SPIEGARSI – EXPLICATURA -- o esplicarsi risolve via via i generi fantastici in generi intelligibili, gl’universali poetici in ragionati, e si libera dai miti. L'errore del mito passa cosi nella verità della filosofia. V. conosce e  adopera un concetto dell'errore, dell'errore propriamente detto, nascente dalla volontà e non dal pensiero, il quale quanto a sé non erra mai, mens enim semper a vero urgetur quia nunquam aspectu amittere possumus Deum; dell'errore che consiste in vuote parole arbitrariamente combinate, verbo, autem scepissime veri vini voluntate MENTIENTIS – GRICE MEANING -- eludimi oc mentem deserunt, immo nienti vim faciunt et Dea obsistunt; dell'errore, insomma, che, per adoperare la sua efficace descrizione, si ha quando gl’uomini mentre colla bocca dicono, non hanno nulla in lor mente, perocché la lor mente è dentro il falso, che è nulla. Ma sa anche che l'errore non è  mai del tutto errore,  appunto perché, non potendosi dare idee false e consistendo il falso soltanto nella sconcia combinazione delle idee, in esso è sempre il vero, e ogni favola ha qualche motivo di verità. Perciò, lungi dal disprezzare le favole, ne riconosce il valore quasi d’embrione del sapere riposto o della filosofia che si svolge poi. I poeti, ossia, nel nuovo significato  che assume in V. questa parola, i creatori dei miti, sono il senso, cioè, nel  nuovo significato, la filosofia rudimentale e imperfetta – stone-age physics --; e i filosofi sono l'intelletto dell'umanità (vale a dire, la filosofia più compiuta, che nasce dalla precedente). L'idea di Dio s’evolve a poco a poco da Dio, che colpi la fantasia dell'uomo isolato, al  Dio delle famiglie, divi parentum, al Dio della classe sociale o della patria, divi patrii, al Dio delle nazioni, fino a quel Dio che a tutti è GIOVE, al Dio dell'umanità. Le favole destarono Platone a intendere le tre pene divine, che gli dèi solamente, e non gl’uomini, possono infliggere: l'oblio, l'infamia e il rimorso; il passaggio pell’Inferno gli suggerì  il concetto della via purgativa onde l'anima si purifica dalle passioni, e l'arrivo agl’elisi quello della via unitiva onde la mente va ad unirsi a Dio per mezzo della contemplazione delle eterne cose divine. Dalle somiglianze e metafore dei poeti Esopo trasse gl’esempì e gl’apologi con cui dette i suoi avvisi; e dall'esempio, che si fonda sopra un caso  solo e soddisfa le menti rozze, si svolge l'induzione, che si vale di più casi simili, quale l'insegnò Socrate colla dialettica, e successivamente il sillogismo, che Aristotele scoperse e che non regge senz’un universale. L’etimologie delle parole svelano le verità intraviste dai primi uomini e deposte nella loro lingua; per es., -- MEAN GRICE -- ciò che  i filosofi con gravi ragioni hanno dimostrato che i sensi fanno essi le qualità sensibili, è già adombrato nella parola OLFACERE – GRICE ODOUR SMELL -- della lingua del LAZIO, che implica il pensiero che l'odorato  faccia l'odore – GRICE, SOME REMARKS ABOUT THE SENSES -- V. attribuisce tanta importanza a questa connessione tra  universali poetici e universali ragionati, tra mito e filosofia, d’essere tratto ad affermare che le sentenze dei filosofi, le quali non trovino precedente e riscontro nella sapienza poetica e volgare – the lay and the learned --, debbano essere errate. Anzi, è questo un altro significato che egli assegna talvolta al rapporto tra filosofia e filologia – THE WAY OF WORDS --: d’una conferma reciproca tra sapienza volgare – the lay -- e sapienza  riposta – the learned --,  conciliate entrambe nell'idea d’una filosofia perenne dell'umanità. Colla teoria del mito e del rapporto d’esso colla filosofia  V. dato, tutt'insieme, la sua teoria della religione e del rapporto tra religione e filosofia. Due pensieri  circolano, a questo proposito, per entro la Scienza nuova: l'uno, che la religione nasca, nella fase della debolczza e dell'incultura, dal bisogno mentale di dare pace alla curiosità e d'intendere in qualche modo le cose della natura e dell'uomo. di spiegare, per es., il fulmine – or the dark clouds meant by Nature --, l'altro, che la religione s'ingeneri  negli animi pel terrore di colui che minaccia fulminando – those spots are killing us. E si potrebbero chiamare le due teorie, dell'origine teoretica e dell'origine pratica della religione; e poiché, conformemente alle dottrine di V., l'uomo è nient'altro che intelletto e volontà, è chiaro come, fuori di queste due origini, la religione non possa averne altre.  Ora, lasciando da parte la religione nel significato pratico, della quale si discorre più innanzi, la religione nel significato teoretico che cosa è altro se non l'universale fantastico, l'ANIMISMO – spots ‘mean’ measles --  poetico, il mito? A essa si lega quell'istituto che V. chiama la divinazione, il complesso dei metodi coi quali si raccoglie e  interpetra  la lingua di Giove, le parole reali, I SEGNI ie cenni del Dio, finto nell'universale fantastico e creato dall'immaginazione animatrice. E come dal mito procede la scienza e la filosofia, cosi, parimente, dalla  divinazione la conoscenza delle ragioni e cause, la previsione filosofica e scientifica. V., a questo modo, si libera dal pregiudizio che comincia  a prevalere al suo tempo, si ricordino la storia degl’oracoli antichi di Van Dale, resa popolare da Fontenelle, e il libro già citato di Banier, e tanta efficacia ebbe per un secolo ancora, delle religioni come impostura d'altrui, quando erano invece, egli dice, nate da propria credulità. Colui che non ammette l'origine artificiale dei miti, non poteva  ammetterla neppure delle religioni. Ma come egli rifiuta altresì l'origine soprannaturale o rivelata dai miti, cosi nello stesso atto pronunzia né più né meno che l'origine naturale, anzi umana, delle  religioni; e, quel che più specialmente è da notare, la ripone in una forma inadeguata dello spirito, nella forma semifantastica, che è il mito. Né bisogna  fare caso di qualche suo breve detto incidentale, che sembra in contrasto con questa teoria; come là dove dice che la religione precede non solo le filosofie ma la lingua stessa, il quale suppone la coscienza di qualcosa di comune tra gl’uomini: equivoci derivanti dalla solita perplessità metodica e d’abito di poca chiarezza. L'identificazione della  religione col mito, e l'origine umana delle religioni, non solo è insistentemente espressa, ma è essenziale a tutto il sistema di V. Origine umana, che non esclude, nelle parole di lui, un diverso concetto di religione: la religione rivelata, e perciò d’origine soprannaturale. Egli, infatti, pone sempre, d’un canto, la teologia poetica, che è mitologia, e la  teologia naturale, che è metafisica o filosofia; e, dall'altro, la teologia rivelata. Ma quest'ultimo concetto è ammesso da lui, non perché si leghi ai precedenti e tutti derivino d’un principio comune, si bene semplicemente perché V. afferma gl’uni e afferma l'altro. L'origine umana, la teologia poetica, di cui è séguito la teologia metafisica, è quella  che vale pell'umanità gentilesca, ossia pell'umanità intera, fatta eccezione del popolo ebreo che è privilegiato dalla rivelazione. Per quali motivi V. serba questo dualismo, e sopra quali contradizioni pungenti è a cagione d’esso costretto ad adagiarsi, anche questo si vedrà più oltre, e a suo luogo. Ma appunto perché quel dualismo rimase in lui senza  mediazione, noi dobbiamo, esponendo il suo pensiero, tenere fermo ciascuno dei due termini del dualismo, e, per ora, l'origine meramente umana: la religione quale prodotto del bisogno teoretico dell'uomo giacente in condizioni di relativa povertà mentale. Concetto che ha rapporti solamente indiretti con quellodi BRUNO della religione come cosa  necessaria alla moltitudine rozza e poco sviluppata, e con quello di CAMPANELLA della religione naturale o perpetua, eterna filosofia razionale coincidente col cristianesimo spogliato dai suoi abusi; e che ha rari e deboli riscontri negli scrittori del tempo, i quali, anche quando v’accennano di passaggio, l'intendono in modo superficiale e lo  presentano senza nessuna coerenza colle altre loro idee: battono sulla religione in quanto ignoranza e trascurano la sapienza di quell’ignoranza, la religione come verità. L’altre dottrine di V. di ragion teoretica, cioè di logica della filosofia, delle scienze fisiche e matematiche e delle discipline storiche, sono state già esposte nell 'esporre la sua  gnoseologia, e si desumono quasi tutte dai primi scritti, perché nella Scienza nuova la fase della mente tutta spiegata appare, più che altro, come un limite della ricerca. Soltanto giova notare che V. tocca altresì il problema del rapporto tra poesia e storia, ma, sempre a causa dell' indistinzione tra filosofia e scienza sociale, non gli riesce di risolverlo  pienamente. Sotto un aspetto, sembra a lui che la storia sia anteriore alla poesia, perché questa, dice, presuppone la realtà e contiene una imitazione di più; sotto un altro aspetto, che la poesia costituisca la forma prima, perché presso i popoli primitivi la loro storia è la loro poesia – la battaglia di Maldon -- e i primi storici sono i poeti. A ogni modo, egli insiste sull'elemento poetico, intrinseco alla storia; e d’Erodoto, padre della greca storia, osserva che non solo i libri di lui sono ripieni la più parte di favole, ma lo stile ritiene moltissimo dell'omerico, nella qual possessione si sono mantenuti tutti gli storici che sono venuti appresso, i quali usano una frase mezza tra la poetica e la volgare:    VERBA FERME POSTARVM, come ripete altrove facendo suo un detto di CICERONE. Né si trovano svolti particolarmente in V. i rapporti fra teoria e pratica, intelletto GRICE JUDGING e volontà GRICE WILLING, benché dappertutto egli SUGGERISCA – sub-gest – Grice, implicate -- il pensiero generale che come in Dio intelletto e volontà  coincidono, similmente nell'uomo, immagine di Dio; onde la mente o spirito non è divisa in un pensiero e in una volontà – GRICE PSI-ING --, in un pensiero che proceda per un verso e in una volontà che proceda per un altro, ma pensiero e volontà si compenetrano e formano un tutto solo: concezione assai superiore a quella della filosofìa del suo  tempo, cioè del leibnizianismo, in cui persiste il concetto dell'arbitrio divino, e perciò dell'irrazionalità. Un altro suo e singolare pensiero importerebbe invece, per chi concluda frettolosamente, la precedenza della pratica – GRICE VOLITING DEFINES JUDGING -- sulla teoria; perché V. dice che i filosofi pervengono ai loro concetti mercé  l'esperienza dell’istituzioni sociali e delle leggi nelle quali gl’uomini s’accordano come in qualcosa d’universale, e che Socrate e Platone, per es., presuppongono la democrazia e i tribunali ateniesi, e CARNEADE presuppone CATONE. Ma questa successione delle religioni che generano la repubblica, della repubblica che genera la legge, della  legge che genera l’idee filosofiche, e che egli chiama una particella della storia della filosofia narrata filosoficament, è, appunto, teoria d'importanza non filosofica ma sociologica. Per quel che concerne le dottrine di ragion pratica, delle quali ora entriamo a trattare, potrebbe parere che V., diversamente che in quelle di ragion teoretica, non sia in  recisa opposizione alle idee del suo tempo, ma anzi si ricolleghi proprio a un movimento del suo tempo: alla scuola del diritto naturale. Il capo della scuola, l'iniziatore del movimento, Grozio, era da lui chiamato uno dei suoi quattro autori – per Grice: due: Quine e Chomsky --, insieme con Platone, in cui trova appagata la sua brama d’una filosofia  idealistica, con Bacone che gli fa sorgere in mente l'idea d’una scienza positiva e storica delle società, e con TACITO, che vedremo più innanzi qual servizio gli rese o V. crede d’averne ottenuto. E insieme col Grozio ricorda perpetuamente gl’altri principali autori del diritto naturale, Selden e Pufendorf, trascurando gl'innumerevoli loro seguaci,  che considera, piuttosto che autori di scienza, semplici adornatori del sistema di GROZIO. Il ricollegamento, in un certo senso, è evidente e confessato e professato dallo stesso V.; ma anche è indubitabile che egli non aderì semplicemente a quella scuola, neppure la continua al modo di chi serbi i concetti generali e direttivi, e svolga o corregga i  particolari. La continua solamente in significato dialettico, cioè in quanto ne ebbe a contrastare le tesi capitali o ad accoglierle cangiandole profondamente. Il diritto naturale gl’offerse non soluzioni ma problemi, e di questi anche s’alcuni gl’offerse ben determinati, altri, e più gravi, suscita solamente nel suo spirito: problemi dunque o non risoluti  o neppure veduti, che V. si propone e in parte risolve. Gl’aspetti e le tendenze del diritto naturale erano molteplici, e conviene preliminarmente distinguerli ed enumerarli. In primo luogo, in quella scuola, presa nel suo complesso e nei suoi tratti essenziali, s’esprime il progresso sociale, onde l'Europa, uscendo dal feudalesimo e dalle guerre di  religione, si da una nuova coscienza, spiccatamente borghese e LAICA: si ricordi che la formazione d’essa fu quasi contemporanea alla nascita dell'anticlericale e borghese istituto della massoneria. Naturale voleva dire, tra l'altro, non soprannaturale – GRICE ON MOORE --; e, quindi, ostilità o indifferenza di fronte al soprannaturale e alle istituzioni che lo rappresentavano e ai conflitti sociali che ingenera. Non a caso Grozio fu arminiano; Pufendorf ebbe liti con teologi; TOMASIO è rammentato tra i promotori della libertà di coscienza. Le proteste di reverenza verso la religione e verso la chiesa, che con molta abbondanza quei pubblicisti solevano inserire nei loro scritti (i quali ne sono come  soffusi d’un velo di pietà), erano cautele da politici, che procurano di minare il nemico senza lasciarsi scorgere, di ferire coprendosi. Cautela lodata, per es., nel Grozio d’uno dei seguaci della scuola, l'autore della Pauco plenior iuris naturalis historia, che celebra il maestro come instrumentum divince providentice, quasi Messia venuto a redimere  il lumen naturale dalla servitù al super  naturale, e fornito perciò di tutta la forza e di tutta l'abilità occorrenti; talché, esperto delle persecuzioni scolastiche, caute versabatur  ne maius bilem adversus prudentiam naturalem et rationalem ex latebris productam tara minis irritaret, e procedendo a separare le leggi umane dalle divine, non prende di  fronte la scuola teologica coll'attaccarne gli errori fondamentali, anzi perfino la loda nei prolegomeni dell'opera sua. Naturale significa altresì ciò che è comune agl’individui delle varie nazioni e stati; onde, sotto l'aspetto pratico, forniva un ottimo motto d'ordine per riunire in certi desideri, speranze e lotte comuni la borghesia dei vari paesi. I  trattati del diritto naturale furono pella borghesia quel che il Manifesto dei  comunisti e il grido: Proletari di tutto il mondo, unitevi, tentarono d’essere pella classe operaia. In quanto quella scuola e quella pubblicistica erano manifestazione d’un moto pratico, l'interesse filosofico v’aveva parte subordinata e ufficio sussidiario. Per questa ragione,  in secondo luogo, le trattazioni del diritto naturale, filosoficamente considerate, non si levano di solito sopra un chiaro e popolare empirismo. I principi, sui quali si appoggiano, non sono approfonditi e assai spesso neppure estrinsecamente unificati; i concetti, che adoperano, sono piuttosto rappresentazioni generali; la forma della trattazione è solo  apparentemente sistematica. Qualcuno di quegli scrittori procura di collegare le sue dottrine giusnaturalisticbe colla filosofia platonica, del PORTICO o cartesiana, risaliva ad assiomi logici e metafisici, si giova della deduzione e del metodo matematico. Ma tutto codesto era accostamento e non fusione, adornamento e non ravvivamento; e, tutt'al  più, vale come prova di diligenza e di serietà d'intenzioni. La filosofia, pell’altro, implicita più o meno nei trattatisti del diritto naturale ed esplicita nei filosofi che presero a elaborarlo speculativamente, s’accorda collo spirito del tempo, del quale ci sono noti i caratteri generali. Cosicché terzo aspetto del giusnaturalismo fu, in etica, o l'utilitarismo,  ora più o meno larvato ora apertamente dichiarato, e a volta a volta ragionato con filosofia piuttosto matematizzante o piuttosto sensistica, di tendenze materialistiche o di tendenze razionalistiche; ovvero, che è quasi il medesimo, un astratto e intellettualistico moralismo, che minaccia di precipitare a ogni istante nell'utilitarismo. Dal quale  intellettualismo e utilitarismo, combinati coll'impronta pratica e rivoluzionaria di quel moto spirituale, che era rivolto piuttosto a un semplicistico diritto da far trionfare che non a riconoscere quello realmente svoltosi nella storia e ricco di tante forme e vicende, deriva il quarto carattere d’esso, cioè la mancanza di senso storico, l'antistoricismo  della scuola, la quale stabiliva l'astratto ideale di’una natura umana fuori della storia umana o non fusa e vivente in questa. Infine, borghese, anticlericale, utilitario o materialistico com'era, il giusnaturalismo aveva un quinto e importante carattere, l'avversione alla trascendenza e la tendenza a una concezione immanentistica dell'uomo e della società. Carattere poco esplicato e poco ragionato dottrinalmente, ma non pertanto facilmente riconoscibile nel complesso dei concetti di quella scuola. Ora, l'ispirazione di V. era genuinamente ed esclusivamente teoretica, punto pratica o riformistica; altamente speculativo il suo metodo, e disdegnoso dell'empirismo; idealistico, e perciò antimaterialistico  e antiutilitaristico, il suo spirito; la sua gnoseologia anelante al concreto, al certo, e però storicizzante. Per conseguenza, la sua dottrina della ragion pratica, pure prendendo le mosse dal giusnaturalismo, dove uscire diversa, anzi contraria a questo, in tutti i primi quattro caratteri da noi enunciati. E se in qualcosa coincide, non nella via  per pervenirvi,  ma nel risultamento, era appunto dove meno l'autore avrebbe voluto: nel carattere immanentistico e areligioso. Ma poiché il nostro proprio tema non è già la critica e modificazione che il diritto naturale ebbe nel pensiero di V., si bene questo pensiero stesso, sarà opportuno, ripigliando il filo dell’esposizione, seguire ordine alquanto diverso da  quello tenuto nel ricapitolare i vari caratteri del giusnaturalismo, e cominciare dal vedere l'opposizione di V. all'utilitarismo dichiarato o larvato di quella scuola, e la dottrina ch’egli svolge sul principio dell'etica. I due principali rappresentanti dell'utilitarismo che V. ha sempre innanzi agl’occhi, sono Hobbes e Spinoza; ma ricorda insieme con essi  Locke e Bayle e, MACHIAVELLI e, risalendo all'antichità, IL PORTICO ROMANO col suo concetto del fato, L’ORTO ROMANO con quello del caso, Carneade col suo scessi, e perfino l'inconsapevole dottrina che è contenuta nel  motto Vce victis, attribuito al Brenno o capo dei Galli invasori di Roma. Di Hobbes ammira lo sforzo magnanimo nel  cercare d’accrescere la filosofia d’una teoria che l’era mancata nei bei tempi della Grecia, cioè della teoria dell'uomo considerato in tutta la società del genere umano; ma dice infelice l'evento, fallito il tentativo, che, come anche quello di Locke, nel fatto risulta assai prossimo all'ORTO ROMANO. Hobbes non s’era accorto che egli non si sarebbe  potuto neppure proporre il suo problema del diritto naturale dell'umanità, s’il motivo non gliene fosse stato fornito pell'appunto dalla religione cristiana, la quale comanda verso tutto il genere umano, nonché la giustizia, la carità. Al PORTICO ROMANO invece, al suo fato e al suo determinismo onde furono incapaci a ragionare adeguatamente di  repubblica e di leggi, a codesti spinosisti dell'antichità, si collega idealmente Spinoza, del cui utilitarismo, diverso di spiriti tanto dal lockiano quanto dall'hobbesiano, perché Spinoza mente, non sensu de veris rerum diiudìcat, non isfuggiva a V. la singolarità. Ma, per singolare che debba dirsi, esso costrinse Spinoza a ragionare di repubblica in  modo poco elevato, come d’una società che sia di mercadanti. Quelle dottrine utilitarie, calunniose dell'umana natura, parvero a V. proprie d’uomini disperati, che pella loro viltà non ebbero mai parte nello stato, o pella loro superbia si stimarono tenuti bassi e non promossi agl’onori dei quali pella loro boria si credevano degni; e annovera tra  costoro il povero Spinoza, il quale, non avendo, perché ebreo, niuna repubblica, mosso da livore, si sarebbe dato a escogitare una metafisica da rovinare tutte le repubbliche del mondo. Severo è il suo giudizio sulle condizioni dell'etica ai suoi tempi, che era quale poteva essere sulla base d’una metafisica meccanica e materialistica, senza lume di  finalità. Cartesio fu affatto sterile in quel campo, perché le poche cose che sparsamente ne lascia scritte non compongono dottrina e il suo trattato delle Passioni serve piuttosto alla medicina che alla morale; similmente sterili Malebranche e Nicole, e i Pensieri di Pascal, solitaria eccezione, sono pur lumi sparsi. Degl’italiani, PALLAVICINO offri  appena un abbozzo d’etica nel suo trattato Del bene, e MURATORI, nella sua Filosofia morale, fece prova assai infelice. L' utilità non è principio esplicativo della moralità, perché proviene dalla parte corporale dell'uomo e, per tale provenienza, è caugevole, laddove la moralità, l' honestas, è eterna. Derivare la moralità dall'utilità -- THE OUGHT CASHED OUT ON A HIGHER-ORDER WANT – GRICE --  è scambiare l'occasione colla causa, fermarsi alla superfìcie e non spiegare per nulla i fatti. Nessuno dei vari modi nei quali il principio utilitario viene atteggiato dai filosofi, la frode o impostura, la forza, il bisogno, rende conto delle differenziazioni, cioè dell'organismo sociale. Quale  frode poteva mai sedurre e trarre in inganno i supposti primi semplici e parchi posseditori di campi, i quali vivevano affatto contenti della sorte loro? Quale forza, se i ricchi, i pretesi usurpatori, erano pochi, e i poveri, i derubati, molti? Codeste spiegazioni sono giochetti, indegni del grave problema. Quei forti, quei potenti erano, in realtà, potenti  d'altro che di sola forza; tanto che si facevano protettori dei deboli e oppugnatori delle tendenze distruttive e antisociali: la loro legge era, si, di forza, ma a natura prcestantiori dlctata, cosa che ben era lecito ignorare al barbaro Brenno, ma non a uomini filosofi. La forza creatrice e organizzatrice delle prime repubbliche fa tutta umanità generosa,  alla quale si debbono richiamare sempre gli Stati, quantunque acquistati coll'impostura e colla forza, perché reggano e si conservino; conformemente al detto di MACHIAVELLI di richiamarli all’origini, ma coll'intesa che l’origini profonde si trovano nella clemenza e nella giustizia. Gl’uomini sono tenuti insieme da qualcosa di più saldo dell'utilità.  Società d'uomini non può incominciare e durare senza fede scambievole; senza che altri riposino sopra l’altrui promesse e s’acquetino alle altrui asseverazioni di fatti occulti. Si può forse ottenere questa fede col rigore delle leggi penali contro la menzogna? Ma le leggi sono prodotto della società, e, perché sorga società, è necessaria quella fede  scambievole. Si dirà, come dice Locke, che si tratta d’un processo psicologico, pel quale gl’uomini via via s’avvezzano a credere quando altri loro dica e prometta di narrare la verità? Ma, in questo caso, quegli uomini già intendono l'idea d’un vero, che basti rivelare per obbligare altrui a doverlo credere senza niun documento umano; e il principio  psicologico dell'abitudine è oltrepassato. La causa vera della società umana non è, dunque, l'utilità, la quale favorisce soltanto, come occasione, l'azione della causa, e fa si che gl’uomini, per natura sociale deboli e indigenti, e divisi dal vizio d’origine, si traggano a celebrare la loro natura sociale, REBVS IPSIS DICANTIBVS, secondo la formola di POMPONIO, che V. ripete con predilezione. Cose, fatti, circostanze mutano nella moralità che non muta; e di qui l'illusione degl’utilitaristi, che guardano dall'esterno e si tengono alle apparenze e vedono il mutamento e non la costanza. L'omicidio è vietato; ma l'approvazione che si dà a colui il quale, minacciato nella vita, non potendo altrimenti  salvarsi, uccide l'ingiusto aggressore, non importa mutevolezza del criterio morale circa l'omicidio, perché, in quelle particolari circostanze, non si tratta, in realtà, d’omicidio, ma di pena capitale che l'ingiustamente aggredito, trovandosi in solitudine, infligge quasi per tacita delegazione sociale. Il furto è vietato; ma colui che, per tenersi in vita,  prende altrui un pane, non viola la moralità, perché esercita un diritto fondato sull'equobono. La sola filosofia che porti con sé una vera etica sembra a V. la platonica, risalente a un principio metafisico, l'idea eterna che educe da sé e crea la materia; laddove l'etica aristotelica è fondata sopra una metafisica che conduce a un principio fisico, alla  materia, dalla quale s’educono le forme particolari facendo di Dio un vasellaio che lavori le cose fuori di  sé. L'etica dei GIURECONSULTI ROMANI abbonda, senza dubbio, di splendidi aforismi, ma non è altro che una semplice arte d’equità, insegnata con innumerabili minuti precetti di giusto naturale, che quelli indagano dentro le ragioni delle  leggi e la volontà del legislatore; epperò non può considerarsi come filosofia morale, dove fa d'uopo procedere da pochissime verità eterne, stabilite in metafìsica d’una giustizia ideale. Per ragioni analoghe V. non poteva appagarsi di Grozio e degli altri giusnaturalisti; circa i quali nota in genere cosa verissima, cioè che i loro grossi volumi recano,  si, titoli magnifici, ma poi non contengono nulla più di ciò che è volgarmente risaputo. Se si pesano i principi del Grozio colla bilancia esatta della critica, risultano tutti piuttosto probabili e verisimili che necessari e invitti. Nella questione dell'utilità Grozio non coglie il punto giusto, non distinguendo l'occasione dalla causa; né inchioda, ossia non  definisce, l'antichissima disputa s’il diritto sia in natura o solo nelle opinioni degl’uomini, nella quale filosofi e teologi ancora contendono collo scettico Carneade e coll’ORTO ROMANO; propone l'ipotesi degl’uomini primitivi che siano semplicioni, ma si dimentica affatto di ragionarla. E poiché quei suoi semplicioni, accortisi dei danni della  solitudine bestiale, vengono alla vita comune, e questa determinazione è loro dettata dall'utilità, Grozio scivola anche lui, senza avvedersene, nell'utilitarismo e nell'ORTO ROMANO. Ma V., invece, alla domanda s’il diritto sia per natura o per convenzione  -- GRICE NATURAL CONVENTIONAL -- risponde colla solenne dignità: Le cose fuori  del loro stato naturale né vi s’adagiano né vi durano. Alla domanda donde nasca la società risponde richiamando il senso umano, la coscienza, il bisogno che  ha l'uomo di salvarsi dal nemico interno che gli rode il petto. L'origine è certamente nel timore, ma nel timore di sé stesso, non della violenza altrui; è nel rimorso che punge, nel pudore che  tingendo di rosso il volto dei primi uomini fa risplendere pella prima volta la moralità sulla terra. Dal pudore nascono tutte le virtù, l'onore, la frugalità, la probità, la fede nelle promesse, la verità nelle parole – GRICE LE MASSIME CONVERSAZIONALI WARNOCK OBJECT MORALITY --, l'astensione dall'altrui, la pudicizia. Celebrando la  società, l'uomo celebra la natura umana. Il pudore o coscienza morale – L’IMMANUELE CONVERSAZIONALE --,  tradotto nella corrispondente scienza  empirica, dà il senso comune degl’uomini d'intorno alle umane necessità o utilità, che è la fonte del diritto naturale delle genti. Questo senso comune, dice  V., è un giudizio senza alcuna  riflessione, comunemente sentito da tutto un ordine, da tutto un popolo, da tutta una nazione e da tutto il genere umano. Giudizio senza riflessione non è veramente giudizio, dal quale la riflessione è inseparabile; non è giudizio anche perché sentito e non pensato. Ma non è neppure – MASSIME – what WE DO FOLLOW that we OUGHT to follow -- quello che poi si disse sentimento, termine vago, ignoto a V. non meno che alla filosofia tradizionale. È piuttosto un atteggiamento pratico che, simile a un di presso negl'individui viventi in condizioni simili, produce i simili costumi dei vari gruppi sociali, da quelli d’una classe particolare a quelli dell'intera umanità. Atteggiamento affatto  spontaneo, e, anche per questo definito privo di riflessione, onde i costumi si generano dall'interno e non dall'esterno, e sono simili senza che siano copiati gl’uni dagl’altri, senza prendere esempio l'una nazione dall'altra. Attraverso quel senso comune la coscienza morale s'incorpora in compatti e resistenti istituti; ed esso accerta l'umano arbitrio,  che è di sua natura incertissimo. Ma il timore interno, il pudore, la coscienza morale è svegliata negl’uomini dalla religione: il timore è timore di Dio, il pudore è vergogna innanzi a lui. Gl’uomini primitivi errano pella terra solitari, selvaggi, feroci, senza lingue articolate, senza concubiti certi, in preda alle loro disordinate violentissime passioni;  piuttosto che uomini, bestioni. Chi li frenerà? Donde verrà il soccorso che loro impedisca di distruggersi a vicenda? Non possono indirizzarli uomini sapienti, che non si sa donde o come s'introdurrebbero in mezzo a loro; non può salvarli l'intervento di Dio: Dio si è ritirato nel suo popolo eletto e non ha nessun commercio colla restante umanità,  coll'umanità gentilesca. Ma quei bestioni son pur uomini: Dio, nell'abbandonarli, lascia nel fondo del loro cuore una favilla dell'esser suo. Ecco: il cielo fulmina, i bestioni stupiscono, si fermano, temono; s’accende in loro la confusa idea di qualcosa che li supera, d’una divinità. Ed essi pensano, o piuttosto immaginano, un primo Dio, un Cielo o un  Giove fulminante; e a quel Dio si rivolgono per placarlo o per invocarlo a soccorso. Ma per placarlo e averlo soccorritore debbono conformare la propria vita a questo intento: umiliarsi alla divinità, domare l'orgoglio e la fierezza, astenersi da certi atti, COMPIERNE altri. Dal pensiero della divinità riceve forza dunque il conato ossia la libertà, che  è propria della volontà umana, di tenere in freno i moti impressi alla mente dal corpo per acquetarli o per dare loro altra direzione. E con questi atti di dominio sopra sé stesso, colla libertà, è nata insieme la moralità: il timore di Dio ha posto il fondamento alla vita umana. La terra si copre di are; le grotte dei suoi monti, dove il maschio trascina ora  la femmina, vergognoso dei concubiti innanzi al volto del Cielo o di Dio, assistono ai primi riti nuziali, proteggono le prime famiglie; il grembo della terra s’apre ad accogliere il pio deposito dei morti corpi. Le prime e fondamentali istituzioni etiche, culto religioso, matrimoni, sepolture, sono sorte. Questa potenza etica e sociale dell'idea di Dio si  riafferma nel corso della storia posteriore; perché, quando i popoli sono infieriti colle armi, e nessun potere hanno più sopra di loro le umane leggi, l'unico mezzo di ridurli è la religione. Si riafferma nello svolgimento individuale della vita umana: ai fanciulli, infatti, non si può altrimenti insegnare la pietà che col timore di qualche divinità; e, nella  disperazione di tutti i soccorsi della natura, l'uomo desidera un essere superiore che lo salvi, e questo essere è Dio. Tutte le nazioni credono in una divinità PROVVIDENTE: popoli che vivano in società senza alcuna coscienza di Dio, per es., in alcuni luoghi del Brasile, in Cafra, nell’Antille, sono novelle di viaggiatori, che procurano smaltimento  ai loro libri con mostruosi ragguagli.  S’è cosi. e cosi è certamente, nessuna dottrina è più stolta di quella che pretende concepire morale e civiltà senza religione. Come delle cose fisiche non si può avere certa scienza senza la guida delle verità astratte fornite dalle matematiche, delle cose morali non si può senza la scorta delle verità astratte  metafisiche, e perciò senza l'idea di Dio. Quando si spegne o si oscura la coscienza religiosa, insieme si spegne e s’oscura il concetto di società e di stato. Ebrei, cristiani, gentili e maomettani ebbero quel concetto, perché tutti credettero in qualche divinità, sia come mente infinita libera, sia come più dèi composti di mente e di corpo, sia come un  unico Dio, mente infinita libera in corpo infinito. Ma non lo ha L’ORTO ROMANO, che attribuisce a Dio il solo corpo e col corpo il caso; né IL PORTICO Romano, che lo fa soggetto al fato. E ottimamente CICERONE dice ad ATTICO, DELL’ORTO ROMANO, di non potere istituire con lui ragionamento intorno alle leggi, se prima non gli  concede che vi sia un divino PROVVIDENTE. Hobbes, che rinnova L’ORTO ROMANO, e Spinoza, rinnovatore del PORTICO ROMANO, si è visto che non intesero nulla di quel che siano società e stato. Tra gl’empì uomini primitivi, brutti, irsuti, squallidi, rabbuffati, dovrebbero andarsi a disperdere quei dotti dalla sfumata  letteratura, e a capo  d’essi  Bayle, che sostengono che senza religione possa vivere, e viva di fatto, umana società. La manchevolezza nell'idea di Dio è altresì il principale argomento della critica che V. muove a due di coloro che egli altamente onora come principi del diritto naturale, a Grozio e a Pufendorf. Né l'uno né l'altro, egli  dice, statuisce per primo e proprio  principio il divino PROVVIDENTE. Grozio non già che propriamente la neghi, ma, pello stesso grande affetto che porta alla verità, per meglio assodare la necessità razionale dell'umana società, ne vuol prescindere, e professa che il suo sistema regga, tolta anche ogni cognizione di Dio; onde V. lo taccia di socinianismo, perché pone la naturale  innocenza in una semplicità di natura umana. Peggio Pufendorf, il quale addirittura sembra sconoscere il PROVVIDENTE e comincia con un'ipotesi scandalosa dell’ORTO ROMANO, supponendo 1'uomo gettato in questo mondo senza niun aiuto e cura di Dio, senza neppure quella scintilla chiusa in petto, che si dilata in fiamma  morale; della qual  cosa essendo stato ripreso, da Schwartz, cerca di giustificarsi con una particolare dissertazione, l'Apologia, ma non giunse a scorgere il principio vero che solo rende possibile spiegare la società. Ora perché mai, essendoci note tutte codeste energiche affermazioni e polemiche di V. sulla condizionalità religiosa della morale, abbiamo asserito che il  solo punto in cui egli si trovi veramente d'accordo con Grozio, con Pufendorf, e in genere colla scuola del diritto naturale, è la concezione affatto immanente  dell'etica? Perché, se ben s’osserva, V. non s’oppone al metodo tenuto dai giusnaturalisti; che anzi anch'egli costruisce la sua scienza della società umana prescindendo, come Grozio, d’ogni  idea di Dio, e, come Pufendorf, ponendo l'uomo senza aiuto e cura di Dio, cioè prescindendo dalla religione rivelata e dal Dio d’essa. Come per quei due, materia della sua indagine è il diritto naturale e non il soprannaturale, il diritto delle genti e non quello del popolo eletto, il diritto che sorge spontaneo nelle caverne e non quello che scende giù  dal Sinai – MT SINAI PERHAPS MOISES BROUGHT MORE THAN THE 10 COMMS – GRICE --  L'opposizione di V., da lui esposta colla consueta confusione e oscurità, s’aggira non sopra codeste affermazioni, ma sul concetto stesso di religione. La religione, insomma, della quale egli parla, non è la medesima di cui parlano, o non parlano, Grozio e Pufendorf. Religione, come già sappiamo, vale per V. non già rivelazione ma concezione della realtà; o che s’affermi, come nei tempi della mente tutta spiegata, in forma di metafisica intelligibile, e mova dal pensiero di Dio per schiarire la logica nei suoi raziocini e discendere a purgare il cuore dell'uomo colla morale; o che s’affacci,  come nei primordi dell'umanità, in forma di metafisica poetica. Dalla religione rivelata, quando si ricerchi  il fondamento della morale, si può ben prescindere; ma in qual modo si potrebbe da quella religione naturale, che è tutt'una cosa colla coscienza della verità? Plutarco, descrivendo le primitive religioni spaventevoli, pone in problema se,  invece di venerare cosi empiamente gli dèi, non sarebbe stato meglio che non fosse esistita religione alcuna; ma egli dimentica che da quelle fiere superstizioni si svolsero luminose civiltà e sull'ateismo non crebbe mai nulla. Senza una religione, mite o feroce, ragionata o immaginosa, che dia l'idea più o meno determinata e più o meno elevata di  qualcosa che superi gl'individui e in cui gl’individui tutti si raccolgano, mancherebbe alla volontà morale l'oggetto del suo volere. E a questo punto si chiarisce quello che abbiamo distinto come il secondo significato, pratico o etico, della parola religione in V. Nel qual significato egli rivendica e giustifica il detto degli empì che il timore fa gli dèi;  o, anche, addita la radice della religione nel desiderio che gl’uomini hanno di vivere  eternamente, mossi d’un senso comune d'immortalità nascosto nel fondo della loro mente. La religione è, in questo secondo significato, un fatto pratico ossia la moralità stessa, come nel primo era la verità stessa. Intesa dunque la religione da V. o, nel primo  significato, come condizione o, nel  secondo, come sinonimo della moralità, è chiaro che, col censurare Grozio e Pufendorf  pella loro trascuranza di questo importantissimo concetto, egli non fa altro in sostanza che ribadire la critica all'insipido moralismo e al larvato utilitarismo di quei due pensatori. E pel medesimo fine ebbe anche altre volte  ricorso all'efficace strumento del concetto di religione. Perché se alla filosofìa attribuì talora l'ufficio di giovare il genere umano sollevando e reggendo l'uomo caduto, tal'altra giudicò che essa sia piuttosto adatta a ragionare, e che le massime GRICE ragionate dai filosofi  intorno alla morale servano solamente all'eloquenza per accendere i sensi a  compiere i doveri della virtù, laddove solo la religione è efficace a far virtuosamente operare. Nella scienza empirica, poi, che corrisponde a questa parte della filosofia dello spirito, V., mutate in due epoche storiche la religione, o metafisica poetica, e la filosofia, fatto della prima il carattere dell'epoca barbarica e della seconda quello dell'epoca  civile, è ovvio che dove sostenere, come sostenne, che sola fondatrice d’ogni civiltà e della stessa filosofia è la religione, e rigettare il detto, che egli, non senza ritoccarlo, attribuisce a Polibio, che, se ci fossero al mondo filosofi, non farebbero uopo religioni. Come potrebbero sorgere filosofi, egli obietta, se prima non sorgano le repubbliche ossia  le civiltà? e come le repubbliche potrebbero sorgere, senza l'opera delle religioni? Quel detto si deve dunque invertire: senza  religione, nessuna filosofia. Fu la religione, fa il divio provvidente, che addimesticò i figliuoli dei Polifemi e via via li ridusse all'umanità degl’Aristidi e dei SPERATI, dei Lelì e degli Scipioni Africani. Anche il concetto  dello stato ferino, che nei libri dei giusnaturalisti serve d’ipotesi e d’espediente didascalico, sia per isvolgere la trattazione indipendentemente dalla teologia mistica senza sollevare troppi scandali, sia per insinuare le loro teorie utilitaristiche, in V. ricompare con nuovo ufficio è nuovo contenuto. Cattolico di pure intenzioni, avendo dato pace al suo  animo col separare la religione rivelata da quella umana, egli è in grado d’assumere lo stato ferino come vera e propria realtà. Verità ideale, in quanto rappresenta nella dialettica della coscienza pratica un momento necessario pella genesi della  moralità, il momento premorale; realtà storica ed empirica, come approssimativa condizione di fatto in  quei periodi d’anarchia e fermentazione che precedono il sorgere della civiltà o seguono alle crisi di queste. I giusnaturalisti fanno ossequio, ora più ora meno, alla dottrina tradizionale della chiesa, cioè che l'umanità gentilesca, nella dispersione seguita alla confusione babelica, avesse portato seco un residuo di religione rivelata, un vago ricordo  del vero Dio, donde l'origine della vita sociale e degli dèi falsi e bugiardi, barlume del Dio vero; e per questa ragione lo stato ferino veniva proposto nel loro sistema come astratto e irreale.  V. eseguiva sul serio la distinzione tra ebrei e gentili, e concepiva lo stato ferino come privo d’ogni aiuto che provenisse dall'anteriore rivelazione: uno stato  nel quale l'uomo era, per cosi dire, da solo a solo colle proprie sconvolte e turbolente passioni. Stato di fatto senza moralità, ma. diversamente che nell'ipotesi utilitaria, tutto pregno d’esigenze morali, e dal quale s’esce col farsi esplicito di questo implicito IMPLICATURA GRICE. Ma si esce naturalmente e non già per effetto della grazia divina:  la vera grazia divina è la stessa natura umana, a cui partecipano i gentili al pari degl’ebrei, tutti irraggiati nel volto d’un lume divino. L'uomo ha libero arbitrio, ma debole, di fare delle passioni virtù; e nel suo travaglio verso la virtù è aiutato in modo naturale dal divino provvidente. Di certo, V. non intende disconoscere l'efficacia altresì della  diretta e personale grazia divina; ma, col suo solito metodo, la separa del divino provvidente NATURALE, che solo gì’importa e solo considera. A lui piacque sempre, per quel che concerne le controversie sulla grazia, di tenersi lontano dai due estremi, tipicamente rappresentati, secondo lui, dal pelagianismo e dal calvinismo; e studiando le opere  di Ricardo, il  gesuita Deschamps, teologo della Sorbona, ne accetta la dimostrazione circa l'eccellenza della dottrina d’AGOSTINO, appunto perché media tra quegli estremi. Siffatta temperata dottrina gli sembra propria, dice, per meditare un principio di diritto naturale delle genti, che spiega l'origine del DIRITTO ROMANO e d’ogni altro  gentilesco, e per tenersi nel tempo stesso in accordo colla religione cattolica. Era disposto a concedere che vi sia una nazione  privilegiata, l'ebrea; e che l'uomo cristiano, nella lotta contro le passioni, sia più forte del non cristiano, perché, dove non giunge la grazia naturale, può essere soccorso dalla soprannaturale. Ma, infine, il miracolo è miracolo [WAR IS WAR, WOMEN ARE WOMEN --, e la Scienza nuova non è scienza di miracoli. Che tale non sia, è confermato dalla critica di V. al terzo dei tre principi del diritto naturale, a Selden, celebre ai suoi tempi quanto dimenticato poi, autore del De iure naturali et gentium iuxta disciplinam hebrceoì'um. Diversamente da Grozio, e avversario di  lui anche in altre questioni, Selden non nega anzi sublima l'efficacia della religione, né concepiva possibilità alcuna di vita morale e civile pel genere umano, fuori della rivelazione. La quale, fatta da Dio al popolo ebreo, da questo sarebbe passata ai gentili per molteplici vie di trasmissione: Pitagora, per es., avrebbe avuto per maestro Ezechiele;  Aristotele, al tempo della spedizione d’Alessandro in Asia, si sarebbe stretto in amicizia con Simone il giusto; a NUMA Pompilio sarebbe giunta qualche notizia della Bibbia e dei profeti. C'era di che soddisfare ogni animo di credente, che si ritraesse timoroso dai libri degl’altri giusnaturalisti avvertendone le tendenze eterodosse. Ma V. non vuol  sapere di codesto sistema ultrareligioso. Se Grozio prescinde del divino PROVVIDENTE e  Pufendorf  lo sconosce,  Selden aveva il torto, egli  dice, di supporlo, di farne cioè un deus ex machina, senza spiegarla coll’intrinseca natura della mente umana. Contrario alla filosofia, quel sistema non era meno contrario alla storia sacra, la quale anche  pell’ebrei ammette in certo modo un diritto non rivelato ma naturale, e solamente perché essi ne persero coscienza nel tempo della schiavitù d'Egitto, fa intervenire l'opera diretta di Dio con la legge – il decalogo conversazionale di Grice -- data a Mosé; e non era conforme, nell'asserita trasfusione di cognizioni e leggi dagl’ebrei nei gentili, a quel  che dice Flavio Giuseppe degl’ebrei, sempre restii a qualsiasi contatto con popoli stranieri, e a quel che V. suppone fosse detto anche a questo proposito da Lattanzio, come in genere era privo di qualsiasi più elementare sussidio di documenti. Cosicché la conclusione di V. è sempre la medesima: gl’ebrei si giovarono altresì d’un aiuto straordinario del vero Dio, ma le restanti nazioni s'incivilirono per opera dei soli lumi ordinari dal divino provvidente. Se poi V. interpetra esattamente Grozio e Pufendorf ed esattamente ne riferisse le parole, è quesito per noi di lieve peso, perché non tanto e'importa il modo nel quale V. espose e giudica gl’altri filosofi, quanto l’idee che egli sostenne pur  attraverso i suoi fraintendimenti storici, che, a dir vero, non sono pochi. Tuttavia, sarà bene indicare di volo, circa le difficoltà che possono incontrarsi su questo punto, la soluzione che a noi sembra plausibile. Senza dubbio, chi, dopo aver letto le censure di V.,  apra il De iure belli et pacis e vi trovi che Grozio include espressamente fra i suoi tre  principi fondamentali, accanto alla RAGIONE e alla socialità, la volontà divina, e che quel suo prescindere da Dio suona poco più d’una semplice frase enfatica a significare la forza della socialità e della ragione, le quali avrebbero efficacia etiamsi daremus non esse Deum o che Dio non si curi delle cose umane, quod sine summo scelere davi nequit, chi  apra Pufendorf  e vi legga il più solenne rifiuto dell'ipotesi groziana, empia ed assurda, e la dichiarazione che la legge naturale resta sospesa in aria, priva  di forza, senza la volontà d’un Dio legislatore, può essere tratto a tacciar V. di poca diligenza o di strana puntigliosità ortodossa nella critica che muove a questi suoi predecessori. Ma V., in  verità, non sa che cosa farsi d’un Dio messo accanto alle altre fonti della moralità, o messovi disopra come una superflua fonte della fonte; egli, che cerca Dio nel cuore dell'uomo, sente e scorge l'abisso che lo separa da coloro che non l'avevano più nel cuore e appena, per abito o per prudenza, lo serbavano nelle parole. Più sottilmente si potrebbe  domandare perché mai, se V. era d'accordo coi giusnaturalisti nel prescindere dalla rivelazione, e s’egli, anziché rigettare, approfondiva la loro superficiale dottrina immanentistica, s’atteggia a loro risoluto avversario e fa la voce grossa e insiste presso prelati e pontefici nell'attribuirsi il vanto d’aver esso pel primo formato un sistema del diritto  naturale, diverso da quello dei tre autori protestanti e adatto alla chiesa romana. L'ipotesi che opera cosi per politica cautela la proporremmo, se, invece di lui, avessimo innanzi, per es., un appassionato e magnanimo ma furbo frate, un CAMPANELLA; ma la candida personalità di V. l’esclude affatto, e solo si può concedere che, poco chiaro com'era  sempre nelle sue idee, questa volta s’adagia alquanto nella poca chiarezza e, trasportato dalla sua calda fede, alimenta le sue illusioni, fino a idoleggiarsi dentro di sé colla veste di defensor ecclesia nell'atto stesso che soppianta la religione della chiesa con quella dell'umanità. Da TACITO, insomma, egli avrebbe ricevuto la spinta al suo gran lavoro,  che fu di rendere concreto l'ideale, e d'inserire, come dice, adattando un detto di CICERONE, la repubblica di Platone nella feccia di Romolo. Come lo spirito conoscitivo passa dal sentire senza avvertire all'avvertire con animo perturbato e commosso e indi al riflettere con mente pura; cosi, analogamente, lo spirito volitivo passa dalla ferinità al  certo pratico e da questo al vero. Nella correlativa scienza empirica il passaggio è press'a poco quello dallo stato ferino all'eroico o barbarico e dall'eroico al civile. Tutte le manifestazioni della vita si conformano a questi tre tipi sociali: donde tre spezie di nature, tre spezie di costumi, tre spezie di diritti e quindi di repubbliche, tre spezie di lingue  e di scritture, tre spezie d’autorità, di ragioni, di giudizi, tre sètte di tempi. Per quanto V. sia confuso e talvolta contradittorio nel determinare i particolari delle varie corrispondenze, il suo pensiero generale è chiaro. Dove la riflessione è scarsa e la fantasia gagliarda, sono anche gagliarde le passioni, violenti i costumi, aristocratici ossia feudali gli  stati, sottoposte alla rigida autorità paterna le famiglie, dure le leggi, simbolici i procedimenti dei negozi giuridici, metaforiche le lingue, geroglifiche le scritture. Per contrario, dove la riflessione predomina, la poesia si dilegua o si riempie di filosofia, i costumi si fanno miti, le passioni regolate, i popoli assumono i governi, i componenti delle  famiglie sono anzitutto cittadini dello stato, le leggi si compenetrano d’equità, le procedure si semplificano, la lingua si sfronda della metafora, le scritture diventano alfabetiche. Forme miste, quali le vagheggiano artificiosamente alcuni politici, sarebbero mostri; e sebbene s’osservino forme mescolate naturalmente, ossia ritenenti il vezzo delle  primiere, ciascuna forma pella sua unità si sforza sempre, quanto più può, di scacciare dal suo subbietto tutte le proprietà d’altre forme. Quale dei vari tipi sociali sta a fondamento degl’altri e porge il criterio per giudicarli?  o quale è il criterio e la misura per giudicarli tutti quanti? Una siffatta domanda, per V., non ha senso. Ciascuno di quei tipi  ha la propria misura in sé stesso. I governi, egli  dice, debbono essere conformi alla natura degl’uomini governati: la scuola dei principi è la morale dei popoli. Si può inorridire innanzi alla guerra, al diritto del più forte – GRICE NEOTRASIMACO NEOSOCRTE --,  alla riduzione dei vinti a schiavi, cioè a cose che ripugnano ai nostri costumi  ingentiliti; ma la società, che s’esplica con quei costumi, era necessaria e perciò buona. La divinità della forza, come si è detto di sopra, teneva il posto e compie l'ufficio del non ancora possibile impero della ragione. Vengono di poi i tempi della ragione umana tutta spiegata; e gl’uomini non si stimano più secondo la forza, ma si riconoscono eguali  nella natura ragionevole, che è la propria ed eterna natura umana. Altri tempi, altri costumi, e buoni  non meno, ma non più, dei primi.  Tanto varrebbe domandare la misura comune di questi vari tipi sociali, quanto se si domanda quale sia la vera età della vita individuale, la misura comune della fanciullezza, della giovinezza, della virilità, della  vecchiaia. Paragone che, pell'appunto, V. stesso mette innanzi. Come i fanciulli tutto scelgono secondo il capriccio e si comportano con violenza – GRICE GOLDING --,  gl’adolescenti vigoreggiano pella fantasia, gl’adulti guidano le cose con più pura ragione e i vecchi con solida prudenza; cosi al genere umano, infermo, solitario e indigentissimo  nelle sue origini, convenne crescere dapprima in isfrenata libertà, poi ritrovare i necessari, utili e comodi della vita coll'ingegno e colla fantasia, che fu il secolo dei poeti; e, infine, coltivare la sapienza colla ragione, che fu il secolo dei filosofi. Parimente, il diritto naturale nasce dapprima con leggi, per cosi dire, di giusta libidine e di giusta  violenza; poi fu rivestito con alcune favole di giusta  ragione; infine, si afferma apertamente nella sua schietta ragione e generosa verità. Con siffatto modo di considerare e giudicare stati, leggi e costumi, V. respinge un'altra delle dottrine o delle pretese capitali del giusnaturalismo: quell'astrattismo e antistoricismo, che abbiamo ricordato a suo  luogo, e del quale era conseguenza la concezione di’un diritto naturale, che stia di sopra al diritto positivo, e perciò una sorta di codice eterno, una legislazione perfetta, non attuata ancora pienamente ma d’attuare, i cui lineamenti traspaiono con molta nitidezza nelle opere dei giusnaturalisti attraverso il tenue velame dottrinale e filosofico. Codice eterno, che era poi, nella sua parte effettuale, un codice contingente e transitorio, o almeno la proposta di un codice conforme alle tendenze riformistiche e rivoluzionarie di quegli scrittori, piuttosto che filosofi, pubblicisti. V. si spaccia del codice ideale eterno senza averne l'aria: prontissimo, anzi, a riconoscere che il ius naturale philosophorum ò  eterno nella sua idea e severissimamente stabilito ad rationis mternee libellam. Ma dall'eternità concessagli a parole e per ossequio alla vecchia filosofia scolastica e tradizionale, della quale qua e là egli risente l'efficacia, passa a negargli di fatto l'eternità e il carattere soprastorico, perché, invece di metterlo sopra e fuori la storia, lo colloca al posto  che gli spetta, dentro la storia. Il diritto della violenza o eroico, cangiatosi nel diritto incivilito, giunge via via a un certo termine di chiarezza, al quale pella sua perfezione altro non rimane che alcuna setta di filosofi lo compia e fermi con massime GRICE ragionate sull'idea d’un giusto eterno; e questo raziocinamento e sistemazione è il ius naturale  philosophorum, estrema forma dello svolgimento storico del diritto e non già regola perpetua d’esso: risultamento, non misura. Di qui l'accusa di V. a Grozio GRICEVS GRICEO GRIZEO che, per avere scambiato il ius naturale philosophorum, il diritto composto di massime GRICE ragionate da moralisti e teologi e in parte da giuristi, col ius  naturale gentium, nella terminologia groziana, per avere scambiato il diritto naturale con una forma di diritto arbitrario o positivo), fraintese i giureconsulti romani, i quali intendeno parlare solamente di questo secondo, e perciò propone correzioni e mosse loro censure i cui colpi vanno a cadere nel vuoto. Il codice eterno, considerato intrinsecamente,  è un'utopia – un MITO GRICE --; e poiché la prima e maggiore dell’utopie fu la Repubblica platonica – H. P. GRICE, PLATO’S REPUBLIC -- , conviene, per meglio determinare il punto di cui si tratta, osservare il comportamento di V. rispetto alla costruzione politica platonica. A dare ascolto alle sue parole, la Repubblica platonica sarebbe stata  un altro dei tanti incentivi e modelli che egli avrebbe avuti a concepire la Scienza nuova. Dallo studio di Platone incomincia a destarsi in lui, senz'avvertirlo, il pensiero di meditare un dritto ideale eterno che celebrassesi in una città universale nell'idea o disegno del provvidente, sopra la quale idea son pure fondate tutte le repubbliche di tutti i  tempi, di tutte le nazioni: che era quella repubblica ideale, che in conseguenza della sua metafisica divina dove meditar Platone. Dove, ma non lo potè fare pell'ignoranza, in cui egli era, del primo uomo caduto; cioè dell'originario stato ferino e della sapienza, che gli successe, affatto poetica o volgare: ignoranza in cui fu mantenuto per un errore  comune delle menti umane che misurano da sé le nature non ben conosciute d'altrui, di guisa che egli innalza le barbare e rozze origini dell'umanità gentilesca allo stato perfetto delle sue altissime divine cognizioni riposte, e sapientissimi di tal sapienza riposta immagina quei primi uomini che furono invece, nella realtà, bestioni tutti stupore e  ferocia. In conseguenza di quest'errore erudito Platone, in cambio di meditare sulla repubblica eterna e sulle leggi del giusto eterno colle quali il provvidente ordina il mondo delle nazioni e lo governa colle bisogne comuni del genere umano onde esse si reggono sul comune senso di tutta l'umana generazione, medita in una repubblica ideale ed in  un pur ideale giusto – GRICE JUSTICE AS FAIRNESS neosocrates neotrasimaco --, col quale le nazioni non si conducono punto. E, anzi, se mai, dovrebbero discostarsenc e purgarsene, perché tra quelle determinazioni di repubblica perfetta se ne trovano alcune disoneste e d’aborrire, com'è la comunanza delle donne. Cosicché, V. accetta da Platone  l'idea d’una repubblica eterna, sconvolgendola da cima a fondo con la soggiunta riserva: che la vera repubblica eterna non è l'astratta platonica, ma il corso storico in tutti i suoi vari e successivi modi, dai bestioni non esclusi a Platone compreso. Di codesta, che è la generis Immani respublica, la magna generis humani civitas, la respublica universa, egli intende studiare formarti, ordines, societates, negotia, leges, peccata, pcvnas et scientiam in ea tractandi iuris, e come tutte queste cose si venissero svolgendo a suis usque primis human itatis originibus, divina providentia – provvidente -- moderante, moribus gentium ac proinde auctoritate, cioè presso V. può essere, anzi è pell'appunto, quello  della persuasione circa il provvidente, ossia l'idea che l'uomo ha di Dio, dapprima nella forma del mito, dipoi in quella pura e ragionata della filosofia. L’antiche nazioni gentili, egli dice, incominciarono la sapienza poetica metafisica di contemplare Dio pell'attributo del provvidente, sulla quale furono fondati gl’auspici e la divinazione. Senza del provvidente, dunque, non si forma nell'uomo la sapienza, che è coscienza dell'infinito; non sorge la moralità, ch'è timore e riverenza del potere superiore che governa le cose umane. Ma il provvidente, in tale significato, non dà luogo a nuovo discorso, dopo di quello già fatto da noi a proposito cosi del mito come dei rapporti tra morale e religione. Passando, dunque, senz'altro, al provvidente nel secondo significato, ossia al suo vero e proprio concetto, ci sembra opportuno prescindere per qualche istante da V. e fornire alcuni schiarimenti dottrinali. È comune osservazione che altro è produrre un fatto, altro conoscere il fatto prodotto. La conoscenza di ciò che realmente un fatto è, s’ottiene  talora, nella vita dell'individuo, dopo parecchi anni, nella vita dell'umanità dopo parecchi secoli. Coloro medesimi che sono i diretti agenti d’un fatto, non ne hanno di solito la conoscenza o l'hanno assai imperfetta e fallace; tanto che sono passate in proverbio le illusioni, che, come si dice, accompagnano l'attività degl’uomini. Il poeta crede di  cantare la purità ed effettivamente canta la lascivia; crede di cantare la forza e canta la debolezza; crede d’essere terribilmente pessimista ed è fanciullescamente ottimista; crede d’essere Satana ed è un brav'uomo inoffensivo. Non meno s'ingannano i filosofi; e dei loro inganni non dovremo, in verità, andar lontano a cercare esempì, perché tanti e  tanti ce ne viene porgendo proprio il filosofo che stiamo studiando: uno di coloro che maggiormente s'illusero sulle reali tendenze dei propri pensieri. E s'inganna l'uomo politico che, assai spesso, credendo e professando di lottare pella libertà, è semplice aiutatore di reazione, o credendo di servire alla reazione, incita a ribellarsi e serve alla libertà.  E via discorrendo. Illusioni spiegabilissime, perché gl'individui e i popoli, nel fervore del produrre o appena uscenti da quel fervore, possono forse esprimere il loro stato d'animo, ma non farne quella critica che è il racconto storico; onde, quando non si rassegnano a tacere e ad aspettare, narrano di sé stessi storie fantastiche, verità e poesia commiste.  Anzi, in questa dimostrata difficoltà di conoscere l'agire nell'agire è uno dei motivi della saggia raccomandazione a parlare il meno possibile di sé medesimi, e della diffidenza che si prova pelle autobiografie e i libri di memorie, curiosi e anche, se si vuole, importanti, ma che non porgono mai la schietta verità storica dei fatti narrati. L’opere umane  ci giungono, per tal modo, avvolte nei fumi dell’illusioni che si sollevano dagl'individui. E lo storico superficiale si ferma all'involucro e prende a raccontare come le cose siano andate, facendosi portavoce di quelle illusioni. A questo modo la storia della poesia si viene conformando come il racconto dell’intenzioni, dell’opinioni, dei fini del poeta  o di quelli che gl’attribuirono i suoi contemporanei; la storia della filosofia, come l'aneddotica dei sentimenti, delle bizze, e dei fini pratici dei filosofi; quella politica, come un tessuto d'intrighi, di bassi interessi, di pettegolezzi, di miserie. Ma non appena un più cauto o diverso ingegno storico s’avvicina a quelle storie, il primo atto ch'egli compie  è di soffiare sulla nebbia, spazzare via gl'individui e le loro illusioni e guardare direttamente le cose, quali si sono prodotte nella loro successione oggettiva e nella loro origine sopraindividuale. La storia vera e reale emerge allora di là dagl'individui, come un'opera che si compia dietro le loro spalle: opera d’una forza diversa dagl'individui agenti:  Fato, Caso, Fortuna, Dio. Gl'individui, che prima erano tutto e riempivano la scena coi loro gesti o coi loro gridi, ora, in questa seconda guisa di storia, sono meno che nulla, e i loro atti e gridi, destituiti di seria efficacia, destano riso o pietà – GRICE CAESAR RUBICONE --  Si guarda atterriti il Fato che li domina, si stupisce alle strane combinazioni del Caso e ai capricci della Fortuna, s’adorano i disegni imperscrutabili del divino provvidente. Di codeste forze gl'individui appaiono a volta a volta l'inerte materiale, i leggieri giocattoli, i ciechi strumenti. Senonché una più profonda considerazione va oltre anche questa seconda veduta della storia. La pietà che sembrano destare gl'individui, la  comicità che suscitano, in effetti non è meritata d’essi ma dalle loro immaginazioni, o, piuttosto, da coloro che le scambiano per verità. La storia reale è fatta dall’opere e non dall’immaginazioni e illusioni; ma l’opere sono poi compiute dagl'individui, non certamente in quanto sognanti – il suicidio di CATONE --, ma, appunto, in quanto operanti; non nella frivolezza del loro opinare, ma nell'ispirazione del genio, nel sacro furore del vero, nel santo entusiasmo dell'eroismo d’ENEA, TURNO, e ROMOLO. Fato, Caso, Fortuna, Dio sono spiegazioni che hanno tutto il medesimo difetto, che è di separare l'individuo (AGENT, DOER) dal suo prodotto (ACT), e, invece di cacciare via, come si  argomentano, il capriccio o l'arbitrio individuale – GIULIO RUBICONE GRICE -- dalla storia, inconsapevolmente lo rafforzano e lo moltiplicano. Capriccioso è il cieco Fato, il Caso stravagante, il tirannico Dio; epperò il Fato passa nel Caso e in Dio, il Caso in Fato e Dio, e Dio si converte nell'uno e nell'altro, tutti eguali e tutt'uno. L'idea, che  supera e corregge tanto la visione individualistica della storia quanto quella sopraindividualistica, è l' idea della razionalità della storia. La storia è fatta dagl'individui; ma l'individualità è la concretezza stessa dell'universale, e ogni azione individuale, appunto perché individuale, è sopraindividuale. Non vi è né l'individuo né l'universale come due  cose distinte, ma l'unico corso storico, i cui aspetti astratti sono l'individualità priva d’universalità e l'universalità priva d'individualità. Quest'unico corso storico è coerente nelle sue molteplici determinazioni, al modo d’un'opera d'arte che è varia e una insieme e nella quale ogni parola s’abbraccia coll'altra, ogni tono di colore si riferisce agli altri  tutti, ogni linea si lega a ogni altra linea. A tale patto solamente è dato intendere la storia, che altrimenti resta inintelligibile, come inintelligibili restano un discorso senza significato e una incoerente azione da folle. La storia dunque non è opera né del Fato né del Caso, ma di quella necessità che non è fatalità e di quella libertà che non è caso. E  poiché la veduta religiosa che la storia sia opera di Dio ha, sulle altre, il vantaggio e il merito d'introdurre una causa della storia che non sia né fato né caso, e perciò neppure pili propriamente causa ma efficienza creativa e spirito intelligente e libero, è naturale che, per atto di gratitudine verso questa veduta più alta, non meno che per opportunità  di linguaggio, si sia tratti a dare alla razionalità della storia il nome di Dio che tutto regge e governa ed e provvidente. A denominarla cosi, purgando in pari tempo la denominazione delle sue scorie mitiche, pelle quali Dio provvidente si corrompevano di nuovo in un fato o in un caso. Onde il provvidente nella storia ha, in quest'ultima sua forma  logica, il duplice valore d’una critica dell’illusioni individuali, allorché si presentano come la piena e sola realtà della storia, e d’una critica della trascendenza del divino. E si può dire che nel punto di vista d’essa si siano collocati e si collochino sempre, come per istinto, cioè anche senza fare professione d’esplicita teoria, tutti gì'ingegni naturalmente  forniti di quella particolare attitudine che si chiama senso storico. S’ora, nel tornare a V., ricerchiamo quale soluzione egli da al problema della forza che muove la storia, e quale contenuto preciso avesse in lui il concetto del provvidente nel significato oggettivo, è agevole anzitutto escludere che la sua fosse quel provvidente trascendente e  miracoloso, che aveva formato il tema dell'eloquente Discours di Bossuet. Agevole, sia perché egli in tutta la sua filosofia non fa mai altro che ridurre il trascendente all'immanente, e qui innumeri volte ripete che il suo provvidente opera per vie naturali o, valendosi della terminologia della scuola, per cause seconde; sia perché sopra questo punto  c'è, si può dire, fra gl'interpetri consenso generale. Non meno insistente è la sua critica del fato del PORTICO e del caso DELL’ORTO, o, come talora  tripartisce, della fortuna, del fato e del caso. Egli avverte anche che la dottrina DEL PORTICO del fato s’aggira in un circolo vizioso, perché la serie eterna delle cagioni, colla quale esso tiene cinto  e legato il mondo, pende dall'arbitrio di Giove e Giove è insieme soggetto al fato; onde c'è rischio che IL PORTICO resta avvolti in quella catena di Giove, colla quale vogliono trascinare le cose umane. Quei tre concetti, ai quali corrispondono le opportunità se si tratta di cose desiderate—GRICE HE IS A LUCKY MAN --, l’occasioni se di quelle che avvengono oltre la speranza, e  gl’accidenti se di quelle che si presentano oltre l'opinione, sono distinzioni più che altro dell'apprendimento soggettivo, perché oggettivamente pertengono a un'unica legge, la quale potrebbe chiamarsi altresì fortuna, ove con Platone si riconosca per signora delle cose umane l'opportunità; e tutte tre sono le  manifestazioni e le vie del divino provvidente, che è intelligenza, libertà, necessità. Quello che fa il mondo delle nazioni fu pur Mente, perché'1 fecero gl’uomini con intelligenza; non fu Fato, perché'1 fecero con elezione; non Caso, perché con perpetuità, sempre cosi facendo, escono nelle medesime cose. V. lumeggia nei modi più immaginosi  quella commedia degl’equivoci, che sono l’illusioni circa i fini dell’azioni che si compiono. Gl’uomini credettero di salvarsi dalle minacce del cielo fulminante col portare via le femmine nelle grotte per isfogare la libidine bestiale fuori dello sguardo di Dio; e, nel  tenerle ferme colà dentro, fondarono i primi concubiti pudici e le prime società; cioè  i matrimoni e le famiglie. Si fortificarono in luoghi adatti col fine di difendere sé stessi e le loro famiglie; e, in realtà, con quel fortificarsi in certi luoghi, ponevano fine alla vita nomade, al divagamento ferino, e imparavano la cultura dei campi. I deboli e sregolati, ridotti alle estreme necessità dalla fame e dalle vicendevoli uccisioni, per campare  la vita corsero a chiedere riparo in quelle terre fortificate facendosi famoli degl’eroi come ROMOLO; e cosi, senza sliperlo, vennero ad ampliare le famiglie da famiglie di soli figliuoli a famiglie anche di famoli e da queste a stati aristocratici e feudali. Gl’aristocratici o OTTIMATI, feudatari o patrizi, credettero di difendere e perpetuare il loro  dominio quiritario sulle terre coll'usare la più stretta rigidità verso i famoli o plebi che le lavoravano; ma a questo modo indussero i famoli, per loro difesa, a unirsi tra loro, svegliarono in essi la coscienza della propria forza, da plebe ne fecero uomini, e quanto più fieramente i patrizi ed OTTIMATI si stimarono patrizi e si sforzarono di mantenersi  tali, tanto più efficacemente concorsero a distruggere lo stato patrizio o OTTIMO e a creare quello democratico. Cosi, dice V., il mondo delle nazioni esce d’una mente spesso diversa ed alle volte tutta contraria e sempre superiore ad essi fini particolari ch'essi uomini s’avevan proposti; de'quali fini ristretti fatti mezzi per servire a fini più ampi, gli  ha sempre adoperati per conservare l'umana generazione in questa terra. Ma già da talune di queste parole di V. si potrebbe ritrarre che egli tende talvolta a concepire gl’uomini come coscienti dei propri fini utilitari e incoscienti di quelli morali. Il che conduce logicamente a spiegare la vita sociale con esclusivi principi utilitari, e la moralità come  un qualcosa d’accidentale rispetto alla volontà umana e perciò di non veramente morale: una formazione estrinseca più o meno potente a tenere insieme gl’uomini, o l'opera nascosta d’un provvidente extramondano. L'utilitarismo s'insinua – IMPLICATURA -- soprattutto in una pagina nella quale è detto che l'uomo, pella sua corrotta natura, essendo  tiranneggiato dall'amor proprio pel quale segue principalmente la propria utilità e vuole tutto l'utile per sé e niuna parte pel compagno e non può porre in conato le passioni per indirizzarle a giustizia, nello stato bestiale ama solamente la sua salvezza; presa moglie e generati figliuoli, ama la sua salvezza colla salvezza della famiglia; venuto a vita  civile, ama la sua salvezza colla salvezza della città di ROMA; distesi gl'imperi sopra più popoli, ama la sua salvezza colla salvezza della nazione ITALIANA; unite le nazioni in guerre, paci, alleanze e commerci, ama la sua salvezza colla salvezza di tutto il genere umano; e in tutte queste circostanze ama principalmente l'utilità propria. Pella qual  ragione, non d’altri che dal divino provvidente deve essere tenuto dentro tali ordini a celebrare con giustizia la famigliare, la civile e finalmente l'umana società; per gli quali ordini, non potendo l'uomo conseguire ciò che vuole, almeno voglia conseguire ciò che dee dell'utilità, ch'è quel che dicesi giusto. La pubblica VIRTÙ ROMANA, scrive  altrove, non è altro che un buon uso che il divino provvidente – Giove -- fa di si gravi, laidi e fieri vizi privati, perché si conservassero la città di ROMA ne'tempi che le menti degl’uomini, essendo particolarissime, non potevano naturalmente intendere ben comune. Senonché l'utilitarismo, come sappiamo, è affafto repugnante alla concezione etica  di V., fondata sulla coscienza morale o sul pudore; e perciò queste sue affermazioni, che inconsapevolmente vi condurrebbero, non possono spiegarsi se non come effetto del turbamento che talora produce in lui la sopravvivenza del concetto trascendente e teologico circa il divino provvidente, e anche della poca chiarezza di pensiero, pella quale  non gli riusce di tenere ben distinto il concetto dell’illusioni individuali da quello dei fini individuali e sostituiva talvolta il secondo dove avrebbe dovuto trattare solamente del primo. S’il divino provvidente, 1'unità della religione d'una divinità PROVEDENTE, è  l'unità dello spirito ch’informa e dà vita al mondo delle nazioni, questa religiosità  non può starsene al pensiero dell'inconsapevole indirizzamento dei fini individuali –GOD WHO MADE THEE MIGHTY -- a effetti universali, ma deve esplicarsi nel dar vita e vigore ai fini universali direttamente, e l'uomo sarà tutt'insieme utilitario e morale, oche s'illuda d’essere morale dov'è utilitario o d’esser utilitario dov'è effettivamente  morale – GRICE MORALITY CASHING OUT ON DESIRE.  A ogni modo, e nonostante queste oscillazioni o piuttosto confusioni, concepire i fini particolari di GUILIO CESARE o CATONE come veicolo degl’universali e l’illusioni come accompagnanti e eoo peranti coll'azione importa concepire dialetticamente il moto della storia e superare – IL NASO DI CLEOPATRA -- il problema del male. In V., questo problema ha, infatti, pochissimo rilievo, tanto in lui domina l'idea ch’il divino providente governi tutto; e perciò quel che si chiama male, non solo gli si mostra voluto dagl’uomini sotto sembianza di bene, falsum sub veri specie, mala sub bonorum simulaci ìs amplectimur, ma dove  logicamente svelarglisi come esso stesso una forma di bene, a quella guisa che bene è la barbarica forza costitutrice della prima società. In qualche raro luogo dei suoi primi scritti nel quale gl’accade d’accennare a tali questioni, V. nota che noi altri uomini, a causa della nostra iniquità onde nosmetipsos, non hanc rerum universitatem spectamus, le  cose che ci contrariano stimiamo male, quce tamen, quia in mundi commune conferunt, bona sunt. La concezione della storia diventa in V. veramente oggettiva, affrancata dall'arbitrio divino, ma non meno dall'impero delle piccole cause – DECAPITATION WILLED CHARLES I’S DEATH -- e delle spiegazioni aneddotiche; e acquista coscienza  del suo fine intrinseco, che è d'intendere il nesso dei fatti, la logica degl’avvenimenti, d’essere rifacimento razionale d’un fatto razionale. Gli studi storici, a quei tempi, non erano tanto danneggiati dal primo errore, che anzi la concezione teologica, fin dagl’inizi del Rinascimento ITALIANO, poteva considerarsi decaduta, quanto da quella forma di  storia che appunto allora venne prendendo nome di PRAMMATICA GROZIANA GRICEIANA, e che restringendosi all'aspetto personale degl’avvenimenti di GIULIO CESARE e non raggiungendo per questa via la piena realtà storica, cerca di darsi calore e vita mercé le riflessioni e gli ammaestramenti politici e morali. Un monumento di storia  prammatica sorge nella stessa patria di V., contemporaneamente alla sua scienza: la storia civile del regno di Napoli dal condannato GIANNONE, il quale è veramente l'uomo del suo paese e del suo tempo e scrive un gran saggio di polemica e anche, per certi rispetti, di storia, ma tale che, colla sua altezza, dà modo di segnare la tanto maggiore  altezza dell'opera di V. Ben altro che astuzie di papi, vescovi e abati, e semplicità di duchi e imperatori, avrebbe saputo scoprire V., s’avesse dovuto narrare lui per filo e per segno l’origini della proprietà  e della potenza ecclesiastica – ecclesiaste -- nel Medioevo. E ben altro, come vedremo, egli scopri realmente nella storia, tutte le volte che prese  a indagarne qualche parte. Nello spirito, percorsi i suoi stadi di progresso, e dalla sensazione innalzatosi successivamente all'universale fantastico e poi a quello intelligibile, dalla violenza all'equità, non può, in conformità della sua eterna natura, se non ripercorrere il suo corso, ricadere nella violenza e nel senso, e di là riprendere il moto ascensivo,  iniziare il ricorso. È codesto il significato filosofico del ri-corso di V., ma non è il modo preciso in cui lo si trova espresso negli scritti di V., dove l'eterno circolo viene quasi esclusivamente considerato nelle storie dei popoli, come ri-corso delle cose umane civili. La civiltà va a terminare nella barbarie della riflessione, peggiore della prima barbarie del senso, che era d’una fierezza generosa, laddove l'altra è vile, insidiosa e traditrice; e perciò è necessario che quella malnata sottigliezza d'ingegni maliziosi vada a irrugginire dentro lunghi secoli di una nuova barbarie del senso. Tuttavia, dai fatti storici e dallo schema sociologico bisogna estrarre e depurare il concetto del ri-corso, non solo per  rendersi conto dell'assolutezza ed eternità che V. gl’attribuisce, ma anche per giustificare la rappresentazione storica e la LEGGE SOCIO-logica che si fondano sopra d’esso e d’esso principalmente attingono la loro forza. Le legge del ri-corso, che era stat stabilita dai filosofi e politici romani antichi e da quelli italiani del Rinascimento, si fondano  certamente anch'esse sopra qualche filosofia, ma assai superficiale; onde assumevano a loro obietto l’estrinseche e vuote forme politiche, delle quali procuravano di determinare la successione sopra dati di esperienza o su vaghi raziocini. Ma  V. ha per suo obietto le forme di cultura, che abbracciano in sé tutti gl’atteggiamenti della vita, l'economia  e il diritto, la religione e l'arte, la scienza e la lingua; e, riportandole alla loro intima fonte, che è lo spirito umano, ne stabilisce la successione secondo il ritmo dell’elementari forme dello spirito. Per questo, tutta l'erudizione che si è spesa per ravvicinare il ri-corso di V. alle teorie di Platone o di Polibio, di MACHIAVELLI o di CAMPANELLA,  riesce mediocremente inutile: tanto più che V., il quale, come sappiamo, pure fraintendendo spesso i suoi predecessori, non si può dire che volesse celarli, anzi, dove gli pare scorgere riscontri e consensi, se ne pompeggia, non senti il bisogno di ricordarle o vi accenna con poca stima. L'àvay.óxXtoats di Polibio, la sua economia della natura secondo la quale si cangiano e tramutano e al medesimo punto gli stati ritornano, è sembrata quasi un'anticipazione della storia ideale eterna; pure V. mette Polibio insieme cogl’ altri, invitando i lettori a considerare quanto, poco, i filosofi abbiano con iscienza meditato sui principi dei civili governi, e quanto, poco, con verità, Polibio abbia ragionato sulle  loro mutazioni. CAMPANELLA connette i suoi circoli storici con leggi ASTRO-logiche;  e MACHIAVELLI ecco come concepisce la catastrofe – la congiura contro LORENZO -- che inizia il ri-corso: Quando l'astuzia e malignità umana è venuta dove la può venire, conviene di necessità  che il mondo si purghi per uno dei tre modi, peste, fame e  inondazione, oltre quelli umani delle nuove religioni e lingue, acciocché gl’uomini, essendo divenuti pochi e battuti, vivano più comodamente e divengano  migliori. Il solo precedente al quale V. quasi si gloria di riferirsi, è l'antichissima tradizione egiziana – IL NASO DI CLEOPATRA -- sulla successione delle tre età degli dèi, degl’eroi e degl’uomini, che interpetra in guisa tutta sua, alla napoletana, e riempie di contenuto affatto nuovo. Se la filosofìa, che è nel fondo, conferisce forza alla teoria sociologica di V. del ri-corso, il materiale storico col quale è, per cosi dire, impastata, v'introduce qualche debolezza. V. ebbe pratica e predilezione particolare pella storia specialmente  giuridica di ROMA, donde mossero le sue indagini e alla quale si dedica per anni; e questa storia, sia perché da lui meglio ricercata, sia pella sua stessa complessità, GRANDIOSITÀ e  durata, fini per parergli la storia tipica o normale, da servire di misura tutte l’altre, e gli si confuse colla stessa legge del ri-corso. ROMA offre V. l'asilo di ROMOLO,  cioè il passaggio dallo stato ferino – UOMINI LUPA LUPI -- all'ordinamento politico; l’aristocrazie OTTIMO OTTIMATI, monarchiche REGNO dapprima solo in apparenza, e poi neppure nell'apparenza; la REPUBBLICA, uscente dalla lotta contro gl’OTTIMATI e terminante nell'effettivo PRINCIPATO, cioè  nella  forma  più perfetta della vita  civile; e di qui, per processo degenerativo, la barbarie della riflessione ossia della civiltà, che è incomparabilmente peggiore della prima e generosa barbarie della LUPA D’ALBALONGA, e, conseguenza d’essa, una seconda condizione di divagamento ferino, SENZA LA LUPA CAPITOLINA, e la nuova barbarie, la nuova gioventù, il Medioevo.  La storia di ROMA, a mala pena generalizzata e integrata qua e là con quella d’ATENE –the importanc of being Dorian --, si scorge nelle degnità di V. che formolano le leggi della dinamica sociale. Gl’uomini prima sentono il necessario, dipoi badano all'utile, appresso avvertiscono il comodo, più innanzi si dilettano del  piacere, quindi si dissolvono  nel lusso di NERONE, e finalmente impazzano in istrapazzar le sostanze. Ci vogliono prima uomini immani e goffi come i Polifemi, affinché l'uomo ubbidisca all'uomo nello stato delle famiglie, e per disporlo a ubbidire alla legge nello stato futuro delle città. Ci vogliono i magnanimi e gl’orgogliosi come gl’Achilli o ROMOLO o GIULIO CESARE, determinati a non cedere ai loro pari, affinché sulle famiglie si costituiscano le repubbliche di forma aristocratica degl’OTTIMATI. Quindi si richiedono i valorosi e giusti, quali gl’Aristidi e gli Scipioni Africani – l’inizio della filosofia a ROMA – il circolo degli Scipioni --, per aprire la strada alla libertà popolare. Più innanzi, personaggi appariscenti  con grandi immagini di virtù accompagnata da grandi vizi, che presso il volgo fanno strepito di vera gloria, quali gl’Alessandri e i Cesari, per introdurre le monarchie. Più oltre ancora, i tristi riflessivi, quali i Tiberi, per istabilirle; e, finalmente, i furiosi, dissoluti e sfacciati, quali i Caligola, i Neroni, i Domiziani, per rovesciarle. Per effetto di  questo assottigliamento della storia romana a storia tipica, e insieme della corpulenza che la storia tipica acquista nella storia di Roma, la legge di V. del ri-corso è tutta rotta d’eccezioni, assai più frequenti e gravi che la medesima legge empirica non comporta j talché se il suo schema empirico fosse tutt'uno, come a lui sembra, colla legge ideale  dello spirito, parrebbe quasi ironia l'affermata costanza d’esso nell'eternità e nei mondi infiniti. Il disegnato corso delle cose umane, egli  scrive, non fecero, nell'antichità, Cartagine, Capua e Numanzia le tre città che minacciarono di disputare a Roma l'impero del mondo; perché i cartaginesi furono prevenuti dalla nativa acutezza africana, che più  aguzzarono nei commerci marittimi; i capuani dalla mollezza del cielo e dall'abbondanza della Campagna felice; i numantini, perché nel loro primo furore dell'eroismo furono oppressi dalla potenza romana, comandata d’uno Scipione  Africano, vincitore di Cartagine, e assistita dalle forze del mondo. E dall'antichità saltando ai tempi moderni, gli  americani correrebbero ora il corso delle cose umane, se non fossero stati scoperti dagl’europei; Polonia e Inghilterra persistono stati aristocratici, tale stima V. la BRITANNIA, perché, non come  la GALLIA, monarchia assoluta, ma perverranno a perfettissime monarchie, s’il corso naturale delle cose umane civili non sarà loro impedito da cagioni  straordinarie. Neppur il Medioevo poteva considerarsi, secondo la mente di V., come un vero e proprio ritorno allo stato ferino – l’eta oscura --,  se s’apri collo stabilimento dell’universita di Bologna e la religione del vero Dio, del cristianesimo; né, a ogni modo, quel ritorno alla ferinità e alla barbarie sembra che sia la sola via che s’offra alle  nazioni, giunte alla loro tbqiVj, al loro culmine. C'è l'altra che le nazioni corrotte perdano l'indipendenza e vengano sotto il dominio d’altre migliori. Né, infine, la decadenza è inevitabile, se uomini di stato e filosofi, lavorando concordi, possono serbare la perfezione raggiunta e raffrenare la dissoluzione minacciante, e se difatti, come egli nota, le  poche repubbliche aristocratiche che sopravvivevano ai suoi tempi quali residui del Medioevo, per  es., Venezia, riuscivano a conservarsi con arti di sopraffina sapienza. I suoi propri tempi V. giudica d’alta civiltà: una compiuta umanità, egli dice, sembra sparsa, oggi, per tutte le nazioni. Pochi grandi monarchi reggono il mondo dei popoli, e quelli  ancora barbari o durano pella perdurante sapienza volgare di religioni fantastiche e fiere, o insiememente per effetto del temperamento naturale dei vari popoli. Le nazioni, infatti, soggette allo czar di Moscovia sono di mente pigra; quelle del chan di Tartaria, genti molli; i popoli sui quali regnano il negus d’Etiopia e i re di Fez e di Marocco, deboli  e parchi. Nella zona temperata il Giappone celebra un'umanità eroica, somigliante alla romana dei tempi delle guerre cartaginesi, fieri nelle armi, con una lingua ch’arieggia la latina, qui  V. fraintende il ragguaglio d’un missionario gesuita, con una religione feroce di dèi orribili tutti carichi d'armi infeste, e qui esagera alquanto un passo di BARTOLI; i cinesi, invece, con una religione mansueta, coltivano le lettere e sono umanissimi; umani ed esercitanti l’arti della pace, i popoli del gran Mogol; i persiani e i turchi mescolano alla mollezza dell'Asia la rozza dottrina della loro religione, e i turchi in ispecie temperano l'orgoglio colla magnificenza, col fasto, colla liberalità e colla gratitudine. Umanissima per eccellenza l'Europa, composta in grandi monarchie e dove dappertutto si professa la religione cristiana, la quale insegna un'idea di Dio infinitamente pura e perfetta e comanda la carità verso tutto il genere umano.  V. ferma l'occhio sulle confederazioni dei cantoni svizzeri e delle provincie unite d’Olanda, che gli ricordano le leghe  etolie ed achee, e sul corpo dell'impero germanico, sistema di città libere e di principi sovrani, che gli sembra quasi saggio d’un grande stato aristocratico, il più perfetto di tutti – GRICE HEGEL PRUSSIA --, forma ultima degli stati civili, perché non si può intenderne altra superiore, riproducendo essa la prima, l'aristocrazia dei patrizi, re sovrani  nelle loro famiglie e uniti in ordini regnanti nelle prime città, ma riproducendola non più barbarica, anzi sommamente civile. L'Europa sfolgora dappertutto di tanta umanità, che vi s’abbonda di tutti i beni i quali possono felicitare l'umana vita non meno pei piaceri della mente e dell'animo che pegli’agi del corpo; e tutto ciò per virtù della religione  cristiana che insegna verità sublimi, servita dalle più dotte filosofie dei gentili e dalla maggiori lingua del mondo, la latina, e riunente per tal  modo la sapienza comandata colla ragionata, la più scelta dottrina dei filosofi colla più colta erudizione dei filologi. Codesta somma civiltà, garantita dal cristianesimo, sarebbe andata o sta per andare incontro  a un nuovo stato ferino? È diffìcile conoscere quel che veramente V. pensa in proposito. C'è, tra i suoi versi, una canzone cupamente pessimistica; ma è una effusione e, a ogni modo, piuttosto che a decadenza sociale, accenna addirittura a un'imminente fine del mondo. Nelle sue lettere, si fa un triste quadro delle condizioni dell’UNIVERSITA DI BOLOGNA ai suoi tempi; ma non si spinge lo sguardo fuori di quel campo ristretto, a considerare la vita sociale e politica. D'altra parte, in un suo scritto filosofico, nel De mente heroica, volgendosi a quelli che dicevano tutto essere ormai perfetto e non presentarsi nient'altro da fare, afferma che s’era nel maggior fervore di progresso: Mundus  iuvenescit adhuc; nani septingentis non ultra ab hinc annis, quorum tamen quadringentos barbaries percurrit, quot nova inventa? quot novee artesf  qnot novee scientice  exeogitatee? Ma si potrebbe osservare che il De mente heroica è un'orazione detta A NAPOLI, e che forse per questo V. vi fa tacere i suoi dubbi o i suoi intimi convincimenti. In  ogni caso, come adattare nella previsione d’una imminente decadenza il sorgere di quel fatto del PROVIDENTE che era la sua Scienza, la quale illumina la vita delle nazioni e ne rende possibile la diagnosi e la cura? Tutto sommato, è probabile che il pensiero di  V. circa le sorti della società a lui contemporanea sia difficile tanto a cogliere perché,  in verità, un pensiero determinato su quel punto a lui manca, essendo il suo animo tratto in qua e in là da diverse e opposte tendenze e agitato fra timori e speranze.  Se non fosse stata turbata dallo schema della storia di ROMA, la teoria empirica del ri-corso non sarebbe stata costretta ad accogliere tante e tanto gravi eccezioni, né si sarebbe  impigliata in cosi angosciose perplessità, e avrebbe pili agevolmente allogato l’osservazioni storiche dell'autore, e, insomma, si sarebbe presentata con tratti più semplici e generali. Essa sarebbe consistita sopratutto nella determinazione e illustrazione del nesso tra epoche di prevalenza fantastica ed epoche di prevalenza intellettiva, tra spontanee e  riflesse, onde dalle prime escono le seconde per potenziamento e dalle seconde, attraverso la degenerazione e la decomposizione, si torna alle prime. La storia politica mostra di continuo lo spettacolo d’aristocrazie che, da forti che erano, si fanno vili e spregevoli, e cedono all'urto di classi meno affinate o addirittura rozze ma moralmente più  energiche, fintanto che queste, diventate a loro volta raffinate, raggiunta la più alta fioritura delle idee storiche di cui portano il germe, entrano in un periodo di decadenza e di fermentazione, dal quale esce una nuova classe dominatrice, giovanilmente barbara. E la storia della filosofia mostra periodi positivistici e periodi speculativi, l'irrigidirsi  delle soluzioni filosofiche nelle dottrine scolastiche e nei dommi, il ritorno alla mera osservazione del fatto singolo, e il rinascente processo speculativo. E la storia letteraria ci parla anch'essa di periodi realistici e idealistici, romantici e classicisti, di corruttela classica che è alessandrinismo e decadentismo d’ANNUNZIO, e di barbarie FUTURISTICA DI MARINETTI romantica che da questo risorge. Ecco altrettanti casi di vero e proprio ri-corso vie hi ani. Ma poiché la natura dello spirito, messa a fondamento di questi cicli, è fuori del tempo ossia è in ogni istante del tempo, non bisogna esagerare la distinzione dei periodi; e, se quella legge deve avere una certa rigidezza, deve per altro serbare  anche una certa elasticità. Non bisogna mai dimenticare che in ogni epoca, per aristocratica o democratica, romantica o classica, positiva – GRICE AYER VIENNESE BOMBSHELLS -- o speculativa che si dica, anzi in ogni individuo e in ogni fatto, è dato notare momenti aristocratici e democratici, romantici e classici, positivi e speculativi, e che  quelle distinzioni su grande scala sono quantitative e di comodo: il che non deve portarci né a sostenere quella legge a tutti i rischi, cadendo nell'artificiosità, né a combatterla a oltranza, ricusando i servigi che gli schemi generali e approssimativi sogliono rendere.  Perciò, quando sia cosi intesa e corretta, non solo non' e' è bisogno d'introdurre in  essa quelle grosse e stridenti eccezioni che il modellamento – GRICE MODEL IMPLICATURE -- sulla  storia  di ROMA e sulla sua catastrofe finale dai mani di goti fa necessarie, ma le accuse mosse a  V. di troppa uniformità si dileguano. Cuoco, uno dei primi che prendeno a studiare con intelligenza  l'opera  di V., nota, a proposito e contro il concetto del ri-corso, che la natura non si rassomiglia mai a sé stessa, ed è l'uomo che per comporre le sue osservazioni forma le classi e i nomi. Verissima sentenza, ma che si volesse applicare a questo caso, non varrebbe solo contro il ri-corso di V., ma contro ogni sorta di scienza umana di carattere empirico. Altri rimprovera a V. d’avere  trascurato  ordini di cause che hanno importanza grande nella storia, per es. il clima, le disposizioni naturali delle razze e dei popoli, gl’avvenimenti straordinari. Ma, lasciando stare che V. fa menzione più volte di tutte queste cose mettendo in rapporto i caratteri dei popoli e i climi colle forme e vicende degli Stati e ricordando avvenimenti e circostanze che  affrettano il corso naturale ossia ordinario delle nazioni, come, tra l'altro, nel discorrere della storia greca, o l’eruzzione del Vesuvio pella fortuna d’ERCOLANO; il vero è che egli non dove tenerne conto, o non poteva indugiarvisi, perché il suo assunto concerne le uniformità e non le differenze, o certe uniformità e non certe altre, che rispetto alle  prime diventavano differenze trascurabili. Allo stesso modo, e il paragone è calzante ed è più che un paragone, chi si faccia a notare i caratteri generali delle varie età della vita, dell’infanzia, della fanciullezza, dell'adolescenza e via dicendo, trascure di notare gl’acceleramenti o ritardi di sviluppo secondo i vari climi o le varie razze o i vari accidenti.  Nel medesimo gruppo d’addebiti, veri e inopportuni insieme, rientra che V. nega la comunicabilità e compenetrazione reciproca delle civiltà col sostenere insistentemente che la civiltà nasce separatamente presso i popoli senza sapere nulla gl’uni degl’altri – ROMA ED ATENE, CARNEADE AL CAMPIDOGLIO --  e perciò senza prendere esempio  reciproco. Il quale addebito è stato controbattuto osservando che V. non manca di ricordare casi d’efficacia d’un popolo sull'altro e di trasmissione delle civiltà e dei loro prodotti – IL LAOCOONTE DEL BELVEDERE --  per  es., della scrittura alfabetica dai caldei ai fenici e da questi agli egiziani, e che, a ogni modo, la sua legge è non empirica  ma filosofica e si riferisce alla spontaneità produttrice dello spirito umano. Senonché, ciò che è in discussione è appunto l'aspetto empirico e non quello filosofico della legge; e la risposta giusta sembra a noi, come si è già accennato, che V. non potesse e non dove tenere conto delle altre circostanze, al modo stesso, per ripigliare l'esempio, che chi  nello studiare le varie fasi della vita descrive le prime manifestazioni del bisogno sessuale nel vago fantasticare o in altri fatti consimili della pubertà, non tiene conto dell'iniziazione all'amore che gl’adolescenti meno esperti possono ricevere dai piti esperti, quando l'assunto della ricerca concerna non le leggi sociali dell'imitazione ma le leggi  fisiologiche dello sviluppo organico. E colui che affermasse che pur senza iniziazione e ammaliziamento il bisogno sessuale si risveglia egualmente e si procaccia soddisfazione, riaffermerebbe, senza dubbio, nient'altro che l'incontrastabile verità d’un'antichissima novellina orientale che Boccaccio inseri nel Decamerone, ma pronunzia insieme il  più esatto riscontro alla famosa e tanto contrastata dignità di V.  Né il ri-corso di V. s’oppone di necessità, come spesso s’è creduto, al concetto di progresso sociale. Si opporrebbero, se, invece d’essere semplicemente uniformi, fossero identici, in conformità dell'idea, che s’è affacciata nell'antichità e nei giorni  nostri a qualche cervello stravagante, dell'eterno ritorno delle cose singole e individuali. IL RI-PERCORSO DEL CORSO, il circolo eterno dello spirito, può e deve, sebbene V. non lo dice, pensarsi non solo diverso nel moto uniforme, ma continuamente arricchentesi e crescente su sé stesso, in guisa che la nuova epoca del senso è in realtà arricchita di tutto l'intelletto, di tutto lo  svolgimento precedente, e cosi la nuova epoca della fantasia o quella della mente spiegata. La barbarie ritornata, il Medioevo, fu per tanti rispetti uniforme all'antica barbarie ecetto BOLOGNA; ma non per ciò deve considerarsi identica se contenne in sé BOLOGNA e il cristianesimo che compendia e supera il pensiero antico romano. Tutt'altra  questione è se in V. è esplicito e rilevato il concetto di progresso. V. non nega il progresso, vi fa anche, quando parla delle condizioni dei suoi tempi, qualche accenno come a una realtà di fatto; ma non ne ha il concetto, e molto meno gli dà rilievo. La sua filosofia, se procura l'alta visione del processo dello spirito ubbidiente alla sua propria legge,  ritiene tuttavia, da questa mancanza di coscienza circa il progressivo arricchimento del reale, qualcosa di desolato e di triste. Il carattere individuale degl’uomini e degl’avvenimenti – L’ASSASSINIO DI GIULIO CESARE -- ò,  in  V., obliterato: individui e avvenimenti stanno soltanto come casi particolari d’un aspetto dello spirito o d’una fase  della civiltà; e perciò, sempre, Aristide con Scipione, Alessandro con Cesare, non mai Aristide come Aristide, Scipione come Scipione, e Alessandro e Cesare come Alessandro e come Cesare. Progresso importa ufficio privilegiato di ciascun fatto, di ciascun individuo, ciascuno mettendo la propria nota, insostituibile, nel poema della storia, e  ciascuno rispondente con maggior voce al suo predecessore. Ma  la ragione pella quale a V. dove fare difetto l'idea di progresso e la sua ricerca storica dove riuscire unilaterale, non si può scorgere bene se non quando si sia dato uno sguardo alla sua metafisica. Per metafisica – GRICE STRAWSON PEARS METAPHYSICS PEARS THE NATURE OF METAPHYSICS -- intendiamo la concezione che ha V. e COLLINGWOOD -- della realtà tutta e non del solo mondo umano; e includiamo nel significato della parola anche l'eventuale conclusione negativa che afferma l'inconoscibilità o l’imperfetta conoscibilità d’una o più  -- KANT E CARNAP CITATI DA GRICE -- sfere del reale, o di  quella suprema in cui le altre si riuniscono. V. pell'appunto, come ci è noto dalla sua gnoseologia, segna una profonda linea divisoria tra mondo umano e mondo naturale: il primo trasparente all'uomo perché fatto dall'uomo – UTTERER’S MEANING, e il secondo opaco – THOSE SPOTS MEANT NOTHING TO ME, BUT MEASLES TO THE DOCTOR -- perché Dio, che l'ha fatto, egli ne ha la scienza. E la sua concezione della realtà totale e ultima, la metafisica da lui esposta tutt'insieme colla sua gnoseologia, ritiene il solo valore, che questa le concede, d’una probabile ma inverificabile congettura, la quale si compie nella certezza della teologia rivelata – NATURE MEANS THAT THOSE SPOTS MEAN MEASLES. Essa rimane perciò senza possibile congiungimento colla scienza, che procede con metodo sicuro di verità e prescinde affatto dalla rivelazione. V. non la rifiutò mai; ne discorre nella sua autobiografia che è contemporanea al sagio sulla scienza; la ricorda con compiacimento, cioè dopo il saggio sulla scienza,  quando la sua vita scientifica era, ed egli stesso cosi la considera, terminata. Ma, sebbene non la rifiuta, la tenne sempre come appartata in un angolo della sua mente. Sembrerebbe che, assodato questo punto, non ci dove essere, circa la metafisica di V., altro da dire d'importanza filosofica. Pure, non è cosi. E in primo luogo, poiché OGNI PARTE DELLA FILOSOFIA IMPLICA L’ALTRE – like virtue, it is entire -- e dalla trattazione d’una delle cosi dette scienze filosofiche particolari – la filosofia della lingua di CESAROTTI -- si può SEMPRE desumere il carattere del tutto, è legittimo cercar di determinare, scrutando il saggio sulla scienza, quale metafisica vi è implicita, ossia quale  complemento filosofico quella scienza LOGICAMENTE sopporta e richiede.  Ora il saggio sulla scienza, che afferma la conoscibilità piena delle cose umane, e non già nella loro superficie come in una psicologia, ma nell'intima loro natura; la Scienza, che raggiunge di là dagl'individui la conoscenza della Mente che informa il mondo ed è il PROVIDENTE; quella Scienza, che con divino piacere contempla l'eterno circolo dello Spirto: innalzata che s’era a tale altezza tende necessariamente all'interpetrazione di tutta la realtà, della natura e di Dio come Mente. Che questa tendenza fosse oggettiva, della  Scienza, e non soggettiva, di V., nel quale quella scienza, per cosi dire, s’era pensata,  è quasi superfluo avvertire di nuovo. V., come persona, non solo non la favori, ma anzi la compresse e represse con tanta energia che non ne lascia apparire traccia nei suoi saggi. Di nessuna dottrina filosofica ebbe tanto terrore, e contro nessuna polemizza con tanta frequenza, quanto contro il panteismo animista naturale di Grice; e forse proprio questa preoccupazione polemica è la sola traccia, sebbene affatto involontaria, che si possa notare nei suoi saggi, della tendenza che egli dove sentire in sé. Egli era e voleva restare cristiano e cattolico: la trascendenza, il Dio personale, la sostanzialità dell'anima, per quanto la sua scienza non vi conduce, erano bisogni irrefrenabili della sua  coscienza. Ma ciò, come permette a V. di reprimere soltanto, e non di sopprimere – SVPPRESSIO FALSI VERI -- la logica e intrinseca tendenza del suo pensiero, cosi dà a noi facoltà di riconoscerla nella cosa stessa. E a ragione un critico italiano SPAVENTA ha ad affermare che in V. s’affacci l'esigenza d’una metafisica; e un altro, tedesco e  cattolico, defini il sistema di lui un semipanteismo. Più arrischiato sarebbe forse, col ricordato critico italiano, spingersi a dire – STONE AGE PHYSICS REGINA SCIENTIARVM -- che V. progredì sul concetto delle due sostanze cartesiane e dei due attributi spinoziani e della stessa monade leibniziana, sorpassando il parallelismo e l'armonia  prestabilita col distinguere le due PROVIDENTI, i due attributi, la natura e lo spirito, in modo che uno di essi sia scala all'altro, e col concepire il punto d’unione e la derivazione del contrario come spiegamento o sviluppo; onde la natura sarebbe il fenomeno e la base propria dello spirito, il presupposto che lo spirito fa a sé stesso per essere  veramente spirito, vera unità. Perché, potendosi dubitare che la distinzione dei due attributi o dei due PROVIDENTI, la naturale e l'umana, sia ben fondata e ineluttabile conseguenza del concepire la sostanza come spirito e come mente, non si può dedurre il passaggio evolutivo dall'una all'altra come tendenza implicita nel concetto di V. della  mente.  Per questa seconda e particolare tendenza occorrono, insomma, prove particolari e documentarie, che s’hanno bensì ma insufficienti e malsicure, e non nel sistema della Scienza, ma piuttosto in quello che cronologicamente lo precede. Perché anche la metafisica che V. delinea non è, com'è sembrato a parecchi e può sembrare a prima vista, priva di  ogni significato e importanza. Essa dimostra la medesima avversione contro il materialismo e il  medesimo amore pell’idealismo – GRICE WHAT PLATO WAS AFTER -- che anima le  meditazioni della Scienza. La filosofia dell’ORTO ROMANO – del PATER che Grice amava --, che prende a suo principio il  corpo già formato e diviso in parti  multiformi ultime, composte d'altre parti – IL DUALISMO DI RYLE CHE GRICE CRITICA -- che per difetto di vuoto interposto si fingono indivisibili, sembra a lui una filosofia da soddisfare le menti rozze dei fanciulli e le deboli delle donnicciuole;  e con quanto diletto vede spiegate dall’ORTO ROMANO, ossia  nel poema di Lucrezio, le  forme  della natura corporea, con  altrettanto o riso o compatimento  lo vede tratto dalla dura necessità a perdersi in mille inezie e sciocchezze per ispiegare le guise della mente. Di falsa posizione, non meno dell dell’ORTO ROMANO, V. accusa la tìsica cartesiana, che anch'essa ha per principio il corpo già formato, diversa da quella dell’ORTO ROMANO e LUCREZIO in ciò che l'una ferma la divisibilità del corpo negl’atomi, l'altra fa i suoi tre elementi divisibili all'infinito; l'una pone il moto nel vano, l'altra nel pieno; l'una comincia a formare i suoi  infiniti  mondi d’una casuale CLINAZIONE E DE-CLINAZIONE d’atomi dal moto in giù del proprio loro peso e gravità; l'altra, i suoi indefiniti  vortici – ABBAGNANO VEDAS – d’un impeto impresso a un pezzo di materia inerte INORGANICA e quindi non divisa ancora, che col moto impresso si divide in quadrelli e impedita dalla sua mole mette in necessità di sforzarsi a movere in moto retto, e, non potendo  per il suo pieno, incomincia, divisa nei suoi quadrelli, a moversi circa il centro  di ciascun quadrello. Cosi se L’ORTO ROMANO commette il mondo al Caso, Cartesio lo assoggetta al Fato; e invano, per salvarsi dal materialismo, egli sovrappone alla sua fisica una meta-fisica alla maniera platonica – la res cogitans --, con cui si studia di stabilire due sostanze, una distesa e l'altra intelligente, e di far luogo a un agente  immateriale, perché queste due parti – che s’incontrano nella glandola pineale -- non erano congruenti nel sistema, richiedendo la sua fìsica meccanica dellle machine animate d’un fantasma -- una metafisica come la dell’ORTO ROMANO, che stabilisce un sol genere di sostanza corporea operante. Per simili o analoghe ragioni, V. respinge le  filosofie di GASSENDI, di Spinoza e di Locke; e le fisiche d’altri autori, quella per es. di Boyle – qualita primaria del BULK --, gli parevano profittevoli pella medicina e pella spargirica – alla CHURCHLANDS, inutili pella filosofia. Di BONAIUTO GALILEI giudica che avesse mirato la fisica con occhio di gran geometra, ma non con tutto il  lume della metafisica. Le sue simpatie si volgevano ai filosofi ch’erano insieme geometri, e perciò alla fisica pitagorica o TIMAICA, secondo la quale il mondo consta di numeri; alla metafisica dell’ACCADEMIA che dalla forma della nostra mente, senz'alcuna ipotesi, stabilisce per principio di tutte le cose l'idea eterna sulla scienza e coscienza  che abbiamo di certe eterne verità – GRICE THE CITY OF THE ETERNAL TRUTH -- che sono nella nostra mente e che non possiamo sconoscere o rinnegare; alla dottrina, che egli attribuiva a Zenone DEL PORTICO, non di VELIA, dei punti metafisici; e, infine, alla filosofia del Rinascimento italiano, quando risplendeno  i  FICINO,  i  PICO  della Mirandola, gli STEUCO, i NIFO, i MAZZONI,  i PICCOLOMINI, gli ACQUAVIVA e i Patrizzi. Il concetto fondamentale della sua cosmologia era dato dai punti metafisici, nei quali trova applicazione il rioperamento della matematica sulla metafisica, da lui ammesso come procedere analogico costruttivo. Al modo stesso che dal punto  geometrico nasce la linea e la superficie, e il punto che viene definito non aver parti dà la dimostrazione che le linee altrimenti incommensurabili si tagliano eguali nei loro punti; cosi è lecito postulare punti non più geometrici ma metafisici, i quali, non estesi, generino l'estensione. Tra Dio, che è quiete, e il corpo, che è moto, s'interpone mediatore  il punto metafisico, il cui attributo è il conato, ossia l'indefinita virtù e sforzo dell'universo a mandar fuori e sostenere le cose particolari tutte. L'esistenza del corpo non è altro che un'indefinita virtù di mantenerlo disteso, la quale sta egualmente sotto cose distese quantunque disuguali, ed è insieme indefinita virtù di muovere che sta sotto ai moti  quanto si voglia disuguali. Sotto un granello d’arena – GRICE BLAKE -- vi ha tal cosa che, dividendosi quel corpicello, dà e sostiene un'infinita estensione e grandezza; sicché la mole dell'universo tutto, nel corpo del granello, se non è in atto, è bene in potenza e in virtù. Questo sforzo dell'universo, che è sotto ogni piccolissimo corpicciuolo, non  è né l'estensione del corpicciuolo né l'estensione dell'universo; è la mente di Dio, la quale, pura d’ogni corpolenza, agita e muove il tutto. Ogni particolare determinazione della realtà s’accorda con questa verità fondamentale. Il tempo si divide, l'eternità è nell'indiviso; le perturbazioni dell'animo diminuiscono e crescono, la tranquillità d'animo non  conosce gradi; le cose estese si corrompono, le inestese constano nell'indivisibilità; il corpo tollera divisione, la mente non la tollera – GRICE THE POWER STRUCTURE OF THE SOUL; le opportunità sono nel punto, i casi in ogni parte; la scienza non si divide, l'opinione genera le sètte; la virtù non sta né più in qua né più in là, il vizio spazia  dappertutto; il retto è uno, le cose prave innumerevoli; in ogni genere di cose, insomma, l'ottimo viene collocato nell'indivisibile. La sostanza in genere, che sta sotto e sostiene le cose, si divide nelle due specie della sostanza distesa, che e quella che sostiene ugualmente estensioni disuguali, e della sostanza cogitante, che sostiene ugualmente  pensieri disuguali; e siccome una parte dell'estensione è divisa dall'altra ma indivisa nella sostanza del corpo, cosi una parte della cogitazione, cioè a dire un determinato pensiero, è divisa dall'altra ed è indivisa nella sostanza dell'anima. Proprio dell'anima è il conato, ossia la libertà, negata affatto ai corpi – GRICE FREE FALL --; e Cartesio, che  comincia la sua  fisica dal conato dei corpi, l’incomincia veramente da poeta e ricade nelle concezioni antropomorfiche ANIMISTA NATURALISTA dei popoli primitivi. Quelli che i meccanici dicono conati, forme, potenze, sono moti insensibili dei corpi, coi quali essi o s'appressano, come voleva la meccanica antica, ai loro centri di gravità, o,  secondo le teorie della meccanica nuova, s'allontanano CENTRIPETATICAMENTE – STROPICAMENTE, non con entropia CENTRIFUGAMENTE -- dai loro centri del moto. E, al pari del conato, e inconcepibile nei corpi la comunicazione del  moto o L’ANIMAZIONE, concedere la quale tanto varrebbe quanto concedere la compenetrazione dei  corpi, non essendo altro il moto che il corpo che si muove: la percossa data a una palla è soltanto occasione perché lo sforzo dell'universo, il quale era si debole nella palla da far sembrare ch’essa si mantene quieta, si spieghi di più e cosi ci dia apparenza di più sensibile moto. Coi cartesiani, per altro, e in ispecie con Malebranche, V. s'accorda circa  l'origine dell’idee, inclinando alla concezione che Dio le crei in noi volta per volta; coi cartesiani altresì tene che i bruti – GRICE SQUARREL TOBY -- sono macchine; e con tutta la filosofia del suo tempo riconosce la soggettività delle qualità sensibili. Lasciando queste ultime dottrine, alle quali V. accenna appena e che non gli sono proprie, tutta  sua veramente è quella fondamentale dei punti metafisici; giacché l'attribuzione d’essa a un fantastico Zenone DEL PORTICO, nella cui persona erano fusi e  confusi  l'eleate di VELIA e quello del PORTICO, secondo un errore comune nella letteratura filosofica del tempo, non può ingannare nessuno, e non inganna il medesimo V. che, messo alle  strette, spiega come fosse stato condotto a interpetrare a quel modo ciò che di Zenone riferisce Aristotele e conclude che, se quella dottrina non si voleva ricevere come zenoniana, la si prende per sua propria e non assistita da nomi grandi. Né, d'altro canto, si può riportarla alla monadologia leibniziana, che è dubbio se fosse nota a V., che V. a ogni  modo non mentova, laddove pur mentova, con parole d’alta reverenza, Leibniz, e colla quale  la somiglianza è  molto vaga, perché i punti metafisici non sono monadi. Se mai, qualche efficacia si può affermare che avesse sopra d’essa la scoperta leibniziana e newtoniana, che allora si comincia a divulgare in Italia anche per opera di taluni amici  personali di V., del calcolo infinitesimale; i cui termini d'infiniti  massimi, minori, maggiori e via dicendo, egli dice, stravolge l'umano intendimento, perché l'infinito è schivo d’ogni moltiplicazione e comparazione, se non soccorre una metafìsica la quale stabilisca che sotto tutti gl’attuali distesi e attuali movimenti sia una virtù o potenza di  estensione e di moto sempre uguale a sé stessa, cioè infinita. E più giustamente ancora è stato indagato il confluire nella concezione di V. delle correnti platoniche, del  platonismo  della  Rinascenza, e di BONAIUTO GALILEI, particolarmente di queste ultime; il che, per altro, non ne diminuisce l'originalità. Originalità, senza dubbio, di’un pensare  fantasticheggiante e arbitrario, che per tal ragione rimane senza possibilità di svolgimento e senza efficacia diretta sulla restante concezione di V. Al recensente del Giornale dei letterati, che chiama quella metafisica un abbozzo, l'autore risponde che era affatto compiuta: un ABORTO, invero, piuttostq ch’un abbozzo, e, COME ABORTO, COMPIUTO. E nella Scienza, oltre qualche richiamo alla negata attribuzione del conato ai corpi, c'è un solo fuggevole ma curioso tentativo di connessione con una metafìsica geometrica o aritmetica sul tipo di quella ora delineata; ed è là dove s’afferma che sull'ordine delle cose civili corpulente e composte si conviene l'ordine dei numeri, che sono  cose astratte e purissime, e s’osserva che, infatti, i governi cominciano dall'uno colle monarchie familiari, passano ai pochi coll’OLIGARCHIA – the many and the wise few -- le aristocrazie, s'inoltrano ai molti e tutti nelle repubbliche, e finalmente ritornano all'uno nel principato civile  assoluto, sicché l'umanità corre sempre dall'uno (ROMOLO)  all'uno (OTTAVIANO), dall'assolutismo del paterfamilias a quello de principe illuminato. Ma se si può e si deve negar valore alla cosmologia di V.; se le contradizioni e l’oscurità in cui s’avvolge sono manifeste e furono notate dai critici del tempo; è anche innegabile il carattere ch’essa ha di dinamismo, in opposizione al meccanicismo della  filosofìa contemporanea. L'escogitazione dei punti metafisici, nella quale Dio appare il gran geometra che conoscendo fa e facendo conosce le cose dell'universo, è come il simbolo della necessità di risolvere la natura in termini idealistici. Un V. teologizzante, un V. agnostico, perfino un  V. immaginoso inventore di romanzi cosmologici e tìsici, si  trova qua e là; ma un V. materialista non si trova in nessuna parte dell'opera sua. Anche questa non ardita metafisica destò sospetto di panteismo, benché l'autore insiste nella dottrina teologica che il fare di Dio si converte ab intra col generato e ab extra col fatto, e che perciò il mondo è creato in tempo; che l'anima umana, la quale, specchio della  divina,  pensa l'infinito e l'eterno, non è terminata da corpo e quindi neppure da tempo, e perciò è immortale; e che in qual modo l'infinito sia disceso nelle cose finite—IL CIRCOLO DI GRICE -- ciò, se anche Dio l'insegna, non si potrebbe intendere dall'uomo. Comunque, egli stima necessario chiudere le risposte ai suoi critici col raccogliere le  proposizioni che dimostrano il suo ortodossismo, e ribadire che essendo Dio altrimente sostanza e altrimente le creature, e la ragion d'essere – GRICE RATIO ESSENDI -- o l'essenza essendo propria della sostanza, le sostanze create, anche in quanto all'essenza, sono diverse e distinte dalla sostanza di  Dio. La trascendenza limita la mente di  V. e,  impedendogli di raggiungere l'unità del reale, gì'impede anche la conoscenza veramente completa di quel mondo umano, ch'egli aveva cosi potentemente, con opposto principio, rischiarato. Ed ecco ora perché V., senza negare il progresso, non poteva averne il concetto. E stato osservato che il concetto di progresso è estraneo al cattolicismo e prende  origine dalla riforma protestante, e che perciò il cattolico V. dove inibirselo. Ma altresì il concetto del providente immanente è inconciliabile col cattolicismo, e tuttavia V. lo pensa profondamente. Il che vuol dire che non l'impulso gli manca, ma piuttosto la possibilità d’andar oltre un certo segno, dove la sua fede sarebbe stata messa a troppo aperto  sbaraglio. Il progresso, dedotto dal providente immanente e introdotto nella Scienza, accentua la differenza nell'uniformità, il sorgere del nuovo a ogni  istante, il perpetuo arricchimento del corso a ogni ri-corso; avrebbe cangiato la storia, d’un rassegnato percorrere e ri-percorrere il solco tracciato da Dio sotto l'occhio di Dio, in un dramma che ha  in sé la propria ragion d'essere – GRICE METIER --; avrebbe trascinato nelle sue spire l'intero cosmo e reso reale il pensiero dei mondi infiniti. V., all'affacciarsi di questa visione, arretra pauroso, si ferma ostinato, e il filosofo è sostituito in lui dal credente. Dalle cose precedentemente discorse è chiaro che la parte storica della Scienza non poteva  configurarsi come una storia del genere umano, nella quale ai popoli e agl'individui fosse riconosciuto l'ufficio proprio e singolare che ciascuno d’essi esercita nel corso degl’avvenimenti. A tal uopo V. avrebbe dovuto chiudere il suo sistema di pensiero, che in un punto rimane spezzato e aperto alla concezione religiosa; e  innalzare la sua divinità  PROVIDENTE a  divinità progrediente, determinando il corso  ed il ri-corso come il ritmo interno del progresso. Ovvero, per  raggiungere nella storia, in senso diametralmente opposto, la visione dell'individualità, dove abbandonare la sua germinale filosofia idealistica, togliere la divisione tra il PROVIDENTE ordinario e straordinario, darsi  totalmente in braccio alla fede e alla tradizione religiosa, e tracciare la storia dell'umanità sul disegno che Dio aveva rivelato o permetteva d' intravvedere. Come credente, egli repugna al primo partito, come filosofo, al secondo; onde la storia da lui ricostruita non poteva essere, e non fu, storia universale. Per conseguenza, non fu neppure quello  che si chiama filosofia della storia, se a questa denominazione si rida il significato originario d’una storia universale, cioè che abbia l'occhio alle maggiori e più nascoste iuncturce rerum, narrata filosoficamente, vale a dire, più filosoficamente che non si sole dai cronisti, dagl’aneddotisti e dagli storiografi cortigiani, politici e nazionali. La  controversia se a  V. o a Herder spetti d’aver fondato la filosofia della storia, dovrebbe francamente risolversi a favore di Herder, perché l'opera di costui ha quell'andamento di storia universale che manca alla Scienza; sebbene, d'altro canto, sia agevole trovare a Herder precursori in buon numero, a cominciare dai profeti ebraici e dallo schema  delle quattro monarchie, che rimase non solo nel Medioevo ma ben oltre nei tempi moderni lo schema costruttivo della storia universale. Né sarà fuori luogo soggiungere che la cosi detta filosofia della storia in quanto storia universale non costituisce una speciale scienza filosofica o una storia nettamente distinguibile da altre forme di storia, salvo  che, per ismania di renderla autonoma, non se ne faccia il mostro d’una storia astratta o d’una filosofia storicizzata; e quando a  V. o a Herder s’attribuisce il vanto d’avere creato colla filosofia della storia una scienza, si rivolge loro un complimento di dubbia lega: il quale, per ciò che in particolare concerne V., è stato cagione che non si scorge il  valore vero dall'opera sua. Infatti, la Scienza d'intorno alla comune natura delle nazioni, intesa come l'equivoca scienza della filosofia della storia, Philosophie de l'histoire intitola Michelet la sua riduzione galla dell'opera di V., non ha lasciato vedere la Scienza come nuova filosofia dello spirito e iniziale metafisica della mente. Il dissidio che era,  nella sua concezione generale, tra scienza e credenza, riappare, nella storiografia di  V., come divisione e opposizione  tra  storia  degl’ebrei e storia delle genti, tra storia sacra e storia profana. La storia ebraica non anda soggetta alla legge della storia della gente, ha un corso tutto proprio – GRICE E HART --, si spiega con principi affatto particolari, cioè con l'azione diretta di Dio. La Scienza, che nella sua parte filosofica non ne da i principi esplicativi, non avrebbe dunque dovuto trattarne altrimenti nella sua parte storica. E tale sarebbe stato, forse, il desiderio di V. Ma al desiderio s’oppone, senza parlare del bisogno in cui egli era di premunirsi della taccia d’empietà, che non sarebbe mancata,  il suo scrupolo di uomo di fede e di buona fede, che lo spinge a cercare una qualche armonia tra le due storie, le quali, per quanto divise egli le pone, ricordando in proposito che anche un autore gentile, Tacito, chiama gl’ebrei uomini  insocievoli, entrambe si erano svolte sulla terra e avevano avuto reciproche relazioni, non foss'altro che all'origine  dell'umanità e nella sua palingenesi per opera del cristianesimo. Accadde che V. il quale voleva e dove, per l'indirizzo stesso della sua mente, evitare il racconto della storia universale, e attenersi insieme ai soli problemi filosoficamente e filologicamente trattabili, non potesse esimersi dal rompere talvolta il suo proposito, e dal tentare un qualche  congiungimento tra le due storie, e in pari tempo una qualche apologia della storia sacra cogl’argomenti forniti dalla scienza e dalla storia. E questa la parte più infelice ma altamente significante dell'opera sua. Egli era costretto ad ammettere, in contrasto a tutte le sue scoperte, con istrazio di tutta la sua mente, che gl’ebrei avevano goduto il  privilegio di serbare intatte le loro memorie fino dal principio del mondo, della qual cosa le altre nazioni si vantavano a vuoto, e che perciò l'origine e successione certa della storia universale dove domandarsi alla storia sacra. E l'esigenza di connettere i suoi concetti circa le civiltà primitive colla cronologia biblica, coll'anno che si sole assegnare  alla creazione del mondo, colla tradizione del diluvio universale e con quella dei giganti, di trovare, com'egli dice, la perpetuità della storia sacra colla profana, lo porta a immaginare le cose più stravaganti. Imperversato dunque  nell'anno 1656 dalla creazione il diluvio, e separatisi i figli di Noè, mentre gl’ebrei iniziano o proseguono la loro sacra  storia con Abramo e gli altri patriarchi, e poi colla legge data da Dio a Mosè GRICE, tutti i restanti semiti e i camiti e giapetici, i primi più tardi e per minor tempo, i secondi e i terzi più presto e per tempo più lungo, caddero nello stato ferino ed errarono pella terra, bestioni stupidi e feroci. E laddove gl’ebrei, sottomessi al governo teocratico,  severamente educati e praticanti le abluzioni, rimasero di giusta statura, i componenti delle altre razze, senza disciplina né morale né fisica, travolgendosi nel fango, nello sterco e nell'urina e assorbendo sali nitrici, cosi come di sterco e d’urina la terra s'ingrassa e diventa feconda, crebbero in corpi mostruosi e giganteschi. Cento anni pei semiti e  dugento per le altre due razze dura lo stato ferino; fino a quando la terra, che era rimasta a lungo inzuppata dall'umidore del diluvio universale, asciugandosi manda fuori esalazioni secche o materie ignite in aria a ingenerare i fulmini. Coi fulmini, come già sappiamo, e colla mitologia del cielo fulminante che è Giove, si sveglia nei bestioni la  coscienza di Dio e la coscienza di sé, onde diventano uomini. S’apre cosi l'età degli dèi, che socialmente  è quella di ROMOLO e delle monarchie familiari dove il  padre è re e sacerdote e nel corso della quale si viene costituendo il sistema delle deità maggiori, e i giganti mercé le spaventose religioni e l'educazione domestica che doma la loro  carne e sviluppa in essi l'elemento spirituale, e mercé le lavande, degradano via via alla giusta corporatura quale hanno gl’uomini che s'incontrailo agl’inizi della susseguente età eroica. Tale, indicata per sommi capi, come TURNO ED ENEA, E ROMOLO, è la bizzarra costruzione, fatta da V., dei cominciamenti della storia umana sulla terra, messi  in armonia coi racconti della storia sacra; e d’essa si sarebbe riso o sorriso meno, se si fosse guardato al dramma che vi è sotto, alla tormentosa coscienza del credenteche, lottando col pensatore, cerca rifugio in quelle stravaganze. Colle quali, a ogni modo, V. valica sopra una serie di sassi vacillanti. il diluvio, i giganti, le esalazioni secche, la  fiumana della tradizione religiosa e raggiunge il terreno sodo della storia critica, dove scopre altresì il primo appoggio della sua filosofia dello spirito, la ferinità. È d’osservare inoltre che il rapporto colla storia ebraica, la sola che a lui s'impone come storia vera e propria, cioè come un unicum, sebbene in modo miracoloso, affatto  individuato, gli  suggerì i rari  accenni che s' incontrano nei suoi scritti ad assegnare ai vari popoli uno speciale ufficio o missione; onde gli parve talvolta che gl’ebrei rappresentassero la mens, i caldei la ratio e i giapetici la pliantasia. Parallelamente a questa storia fantastica dei cominciamenti del genere umano sulla terra, corrono i tentativi d’apologetica biblica.  V. non tralascia d’arrecare prove che dovrebbero profanamente confermare i racconti della storia sacra. Conferma, per es., del diluvio e dei giganti sarebbero i simiglianti racconti dei greci e di altri popoli; il governo teocratico, del quale nessuna storia profana ha notizia precisa e oscuramente vi alludono i poeti nelle loro favole, si riscontrerebbe  nel governo degl’ebrei innanzi e dopo il diluvio; gl’ebrei avrebbero ignorato la divinazione, perché vivevano in diretti rapporti col vero Dio, laddove i caldei ebbero la magia o divinazione secondo i moti degli astri e i popoli d’Europa quella per auspici. Si sente in tutto ciò, senza dubbio, qualcosa di voluto, un voler vedere o un voler non vedere,  un darsi sulla voce, un eccitarsi alla persuasione; come è consueto, del resto, in molti credenti colti e scientificamente educati. V. scrive perfino una volta, nell'esporre la genesi storica delle forme grammaticali e nell'asserire che i verbi cominciarono dagl’imperativi – GRICE JUDGING IN TERMS OF VOLITING -- e cioè dai comandi monosillabici  che i padri danno a mogli, figliuoli e famoli, ES, STA, I, DA, FAC, ecc. – Fido is shaggy, che da ciò si ricava un'indiretta dimostrazione della verità del cristianesimo, perché in ebraico la terza persona singola e maschile del perfetto è rappresentata dalla nuda radice senza alcun segno flessivo: prova evidente che i patriarchi dovettero dare gl’ordini  nelle loro famiglie a nome di un sol Dio, Deus dixit. Questo, a suo parere, era un fulmine d’atterrare tutti gli scrittori cheoppinano  gl’ebrei essere stati una colonia uscita da Egitto, quando, dall'incominciar a formarsi, la lingua ebraica incomincia d’un solo Dio. Sono fulmini, a dir vero, che invece di fulminare i miscredenti, illuminano la povertà  degl’argomenti sui quali l'apologetica s’appoggia anche in un uomo come V.; e, oggettivamente considerando, la divisione introdotta per iscrupolo religioso tra storia sacra e storia profana, col conseguente trattamento critico di questa e dommatico di quella, e colle conseguenti strane ipotesi e difese, fa pensare irresistibilmente che il sottrarsi della  storia sacra alla scienza umana provenga non dall'impotenza della scienza umana, ma dall'impotenza della storia sacra, cioè, dall'impotenza a serbarsi inalterata nella scienza; sicché di rado uno scrupolo religioso fu di tanto pericolo alla causa della religione. Ma V. aveva troppo genuino e rigoroso senso scientifico da mettersi a fare, e per giunta a  contraggenio, Selden o Bossuet; onde l'armonizzamento colla storia sacra o l'apologetica rimangono in lui episodi, dai quali si può prescindere. E poiché, d'altra parte, gli era vietato di profanare del tutto la filosofia e la storia, e di rappresentare il movimento storico complessivo in base al criterio del progresso, non gli resta se non guardare i fatti  dall'aspetto che la sua filosofia gli concede libero: quello del re-corso, dell'eterno processo e delle eterne fasi dello spirito. Qui era la sua forza, qui poteva riconoscere il carattere specifico, se non propriamente quello individuale, di leggi, costumi, poesie, favole, d'intere formazioni sociali e culturali che erano state fraintese dalla storiografia fino  ai suoi tempi. E per questa ragione egli, anziché narrare la storia, dove restringersi a mettere in luce gl’aspetti comuni di certi gruppi di fatti, appartenenti a tempi e nazioni varie. Nella Scienza si ha, egli  dice, tutta spiegata la storia, non già particolare ed in tempo delle leggi e dei fatti de’ROMANI, ma sull'identità in sostanza d'intendere e diversità  dei modi lor di spiegarsi. S’arrecheranno, dice ancora in altra occasione, i fatti a modo di esempli perché s'intendano in ragion di principi, imperocché vedere avverati i principi nella quasi innumerabile folla delle conseguenze, egli si dee aspettare da altre opere che da noi o già se ne son date fuori o già sono alla mano per uscire alla luce delle  stampe. Ossia, come sappiamo, in quella scienza si ha da una parte una filosofia e dall'altra una descrittiva empirica, storicamente esemplificata, nella qualeI ROMANI non stanno COME ROMANI, ma in ciò che hanno di comune con ogni nazione; la storia di ROMA sotto i re o ai primi tempi della repubblica spiega le sue affinità con quella dei  primi secoli del Medioevo; e Omero non sta come Omero, ma come esempio della poesia primitiva e, attraverso i secoli, ritrova e abbraccia il suo fratello, ALIGHIERI. Forza e limite insieme, perché la storia non consiste di certo, essenzialmente, in queste somiglianze; ma senza la percezione delle somiglianze come si giungerebbe a fissare le  differenze? ALIGHIERI non è Omero, i baroni non sono i   patres r l'ateniese Solone non è il romano PUBLILIO FILONE, il feudalismo dell'età carolingia e in genere medievale non  è la costituzione sociale delle età primitive di Roma; ma certamente, per taluni rispetti, Alighieri è più vicino a Omero che non al Petrarca, i baroni della prima epoca  più prossimi ai patres che non alla posteriore nobiltà di corte, Solone somiglia più a un tribuno o a un dittatore romano che a qualche altro dei sette savi coi quali suole andare congiunto, il feudalismo medievale si rischiara col ravvicinamento alle società fondate sull'economia agraria. Notare queste somiglianze significa negare o rigettare indietro altre più superficiali e aprire la via alla conoscenza dell'individualità, indicando la regione approssimativa dove si trova la verità piena. V., piuttosto che narrare e rappresentare, classifica; ma c'è classificazione e classificazione: quella che si fa a servigio di un pensiero superficiale e quella che si fa a servigio di un pensiero profondo. E la parte  storica della Scienza è una grande sostituzione di classificazioni superficiali con classificazioni profonde. In questo àmbito, dov'è la forza della storiografia di V., le deficienze e gli errori provengono non dal dì fuori dei limiti tracciati, ma  da cagioni operanti dentro quei limiti stessi. È stato allegato, in discolpa di V., che gran parte dei suoi errori  sono d’attribuire ai materiali scarsi e insufficienti dei quali egli dispone; ma scarsi e insufficienti rispetto alla nostra brama di sapere sono, sempre, i materiali di studio, e nel giudicare uno storico non può essere questione di ciò, si del modo cauto o incauto nel quale egli adopera i materiali di cui dispone. Ancora è stato detto che V. ebbe i difetti  del suo tempo; e qui s’è dimenticato che egli nasce nel secolo nel quale s’era svolta la criticissima filologia di Scaligero BORDONE e di tutta la scuola olandese, e Che suoi contemporanei sono in Italia Zeno, Maffei e Muratori. Il vero è che la forma mentale da noi giù, descritta, di V., come turba la pura trattazione filosofica colle determinazioni della scienza empirica e dei dati storici, cosi turba la ricerca storica col miscuglio della filosofia e della scienza empirica. V. è in uno stato come d’ebrezza: confondendo categorie e fatti, si sente molto spesso sicuro a priori di quel che i fatti gli diceno e non li lascia parlare e subito mette loro in bocca la sua risposta. Una frequente illusione gli fa  ravvisare rapporti tra cose che non ne avevano alcuno; gli muta ogni ipotetica combinazione in certezza; gli fa leggere negl’autori, invece delle parole esistenti, altre non mai scritte e ch'egli medesimo senz'accorgersene interiormente pronunzia e proietta negli scritti altrui. L'esattezza gl’è impossibile, e in quella sua eccitazione ed esaltazione di  spirito, quasi la disprezza; perché, infatti, dieci, venti, cento errori particolari che cosa avrebbero tolto alla verità sostanziale? L'esattezza, la diligenza, egli dice, dee perdersi nel lavorare d'intorno ad argomenti e' hanno della grandezza, perocché ella è una minuta e, perché minuta, anco tarda virtù. Etimologie immaginose, interpetrazioni mitologiche  arrischiate e infondate, scambi di nomi e tempi, esagerazioni di fatti, citazioni fallaci s'incontrano a ogni passo nelle sue pagine e molte se ne possono vedere notate nella bella edizione della Scienza, curata da Nicolini, e qualcuna ne noteremo via via anche noi a mo'di saggio, ma guardandoci dal dargli di continuo sulla voce, e qualche volta  rettificando tacitamente le sue citazioni. Sicché, come parlando della sua filosofia abbiamo osservato che V. non era ingegno acuto, cosi, parlando della sua storiografia, dobbiamo ora dire che egli non era ingegno critico. Ma come, negandogli colà l'acume in piccolo, gli riconoscevamo quell'acume in grande che e la profondità, cosi anche qui  dobbiamo aggiungere che, se V. manca di senso critico in piccolo, abbonda di quello in grande. Negligente, cervellotico, affastellato nei particolari; circospetto, logico, penetrativo nei punti essenziali; scopre il fianco, e talora tutta la persona ai colpi del pili meschino e meccanico erudito, e intimidisce ed è atto a ispirare reverenza a ogni critico e  storico, per grande che sia. E se spaziando sempre negli universali e tutto preso dalle sue geniali scoperte, molte volte non die tempo ài tempo e non die agio e campo alla sua forza indagatrice e osservatrice di spiegarsi, e invece di storia inventa miti e intessé romanzi; dove poi lascia che quella forza liberamente si spiega, compi anche nel campo  della storia cose mirabili, come c'industrieremo di venire mostrando nei capitoli che seguono. Ma passare a rassegna l’interpetrazioni storiche di V. per confrontarle, come da molti si è fatto ed è comune vezzo, con quelle della storiografia odierna e lodarle o censurarle di conseguenza, sarebbe poco concludente; perché, dove c'è accordo tra i due  termini del confronto, l'accordo potrebbe essere fortuito, e, dove c'ò divergenza, la dottrina recente potrebbe essere pur tuttavia svolgimento o conseguenza del tentativo antico, e, a ogni modo, lo stato odierno delle cognizioni storiche non porge in niun caso una misura assoluta. E, d'altra parte, sarebbe fuori luogo, oltreché superiore alle nostre  forze, ripigliare tutti i problemi che V. tratta e tocca per esaminare quel che' di vero o di falso fosse nelle sue conclusioni, perché tanto varrebbe scrivere un’altra Scienza, meglio conforme ai nostri tempi. A noi spetta indicare soltanto i principali problemi storici che egli si propone, riassumere le soluzioni che ne da, e avere l'occhio sempre allo  stato della scienza non già ai tempi nostri ma ai tempi suoi, per determinare quali progressi si debbano a V. nella storia degli studi storici. Il periodo storiografico che precede V. è tutt'altro che di credulità e di acrisia – cf CRISIA. Trascorsi d’un pezzo erano i tempi in cui si compilano le cronache del mondo e s’accoglie ogni favola e ogni più  grossolana falsificazione come storia: i semi sparsi d’alcuni umanisti portano i loro frutti negl’eruditi italiani, nella scuola giuridica galla, nella già ricordata di BORDONE, in tutti i grandi cronologi, epigrafisti, archeologi,topografi e geografi, ch’ordinano le prime e colossali raccolte critiche di fonti pella storia dell'antichità romana. Anzi, nel  tempo stesso che i filologi andano correggendo e perfezionando i loro metodie sfatavano imposture e riempivano lacune, si diffonde, per effetto della filosofia intellettualistica, lo scetticismo, o pirronismo storico come anche è chiamato, con Bayle, con Fontenelle, con Saint-Evremond e altri molti, precursori di quella polemica contro la verità e  l'utilità della storia di ROMA, che dove diventare cosi vivace. Quest'ultimo indirizzo è, piuttosto che critico, ipercritico, mettendo capo alla distruzione della storia in  genere; e poiché lo scetticismo storico rivesti assai spesso il carattere di paradosso a uso della società elegante e dei belli spiriti, la sua efficacia sul progresso degli studi è assai scarsa, o, tutt'al più, valse a provocare vigorose reazioni, d’una delle quali è rappresentante V., a favore della tradizione e dell'autorità. Giova invece notare le deficienze del primo e seriamente scientifico indirizzo dei filologi e antiquari: i quali restituivano testi, svelavano falsificazioni, ricostruivano serie di sovrani e di magistrati, raddrizzavano  la cronologia, contestano perfino alcune leggende; ma, sia pella mentalità consueta dei puri eruditi e filologi, sia pell'ambiente generale della  cultura, pur vivendo sempre a contatto dell'antico e del  primitivo, non sentivano punto, e non facevano sentire, l'antico e il primitivo. Fortissimi nei particolari, erano deboli nelle cose essenziali. Anche  quando alcuno dei più geniali s’accorge, per  es., dell'importanza dei canti popolari, mezzo di trasmissione storica in tempi in cui manca o era rarissimo l'uso della scrittura, da queste e simili osservazioni non riceve tale scossa d’esserne spinto a rinnovare da cima a fondo la sua concezione della vita primitiva, come accadde invece a V.,  il quale,  quasi a un tempo, intese la forma filosofica del certo e i due periodi di vita spirituale e sociale, che le corrispondevano nella storia reale: il periodo oscuro e quello favoloso. Anch'egli moveva d’una sorta di scetticismo, scetticismo concernente i pregiudizi dei dotti e delle nazioni circa l'indole e i fatti dell'antichità romana; e statuiva, nel combatterli, una serie di canoni o  degnità, che paiono ispirati agl’idola di  Bacone, di cui offrono come l'analogo nel campo della ricerca storica. V. mette in guardia in primo luogo contro le magnifiche opinioni che s’erano avute fino ai suoi tempi intorno alla lontanissima e sconosciuta antichità romana: ingenua illusione  di  cui trova la sorgente in ciò che  l'uomo, allorché si rovescia nell'ignoranza, fa di sé regola dell'universo e qui è più vicina l'analogia con Bacone, perché tale enunciato somiglia pell'appunto alla classe degl’idola tribus in cui la mente fa di sé regola delle cose, ex analogia hominis, non ex analogia universi. Sopra la medesima osservazione si fonda il detto che fama crescit eundo, e il di Tacito omne ignotum prò magnifico est. Donde il vezzo d'interpetrare i costumi antichi coll'aspettazione di trovarli simili o migliori di quelli moderni e civili. Cosi CICERONE, per un trasporto di fantasia ammira la mansuetudine degl’antichi romani, che chiamano ospite il nemico di guerra; non avvedendosi che la cosa sta proprio al rovescio  e che gl’ospiti sono HOSTES, stranieri e nemici. Parimente Seneca, per provare che convenga usare umanità verso gli schiavi, ricorda che i padroni sono detti in antico padri di famiglia: quasi che i patresfamilias non fossero stati disumanissimi, nonché contro gli schiavi e famoli, contro i medesimi loro figliuoli, adeguati ai famoli. E pello stesso  pregiudizio Grozio, che veramente V. scambia qui col suo esegeta Gronovio e di costui fraintende le parole, volendo dimostrare la mitezza degl’antichi germani, reca un gran numero di leggi barbariche, nelle quali l'omicidio è punito colla multa di pochi danari: documento, per contrario, di quanto fosse tenuto a vile il sangue dei poveri vassalli  rustici, che sono pell'appunto gli homìnes, di cui parlano quelle leggi. In secondo luogo, ammoniva di non prestare fede alla boria delle nazioni, che, come osserva Diodoro siculo, tutte sia romane sia barbare, caldei, sciti, egizi, cinesi, si vantarono d’avere, ciascuna prima delle altre, fondata l'umanità, ritrovati i comodi della vita e serbate le loro  memorie fin dall’origini del mondo. Ciascuna d’esse, non avendo per molte migliaia d'anni avuto commercio colle altre onde potesse accomunare le notizie, fu, nel buio della sua cronologia, simile a un uomo che, dormendo in una stanza piccolissima, nell'errore delle tenebre la crede certamente molto maggiore di quanto colle mani la toccherà poi.  Chi prenda quei sognati vanti per notizie sicure, si trova nell'imbarazzo di scegliere fra tante nazioni e tante memorie, tutte, con pari fondamento, offrentisi a gara come primitive. Colla boria delle nazioni V. mette la boria dei dotti, i quali ciò ch’essi sanno vogliono che sia antico quanto il mondo; e perciò si compiacciono nell'immaginare una  inarrivabile riposta sapienza degl’antichi, che coincide poi pell'appunto, mirabilmente, colle opinioni professate da ciascuno di quei dotti e d’essi ammantate d’antichità per imporne pili solennemente l'accettazione. In tale errore cadde non solo Platone, specialmente nelle ricerche del Cratilo, ma quasi tutti gli storici, antichi e moderni: v’era caduto  lo stesso V., che potè, dunque, studiarlo assai bene in sé medesimo, quando nel De antiquissima crede di trovare nell’etimologie dei vocaboli latini le prove d’una METAFISICA ITALIANA perfettamente concorde con quella sua propria della conversione tra verum e factum e dei punti metafisici. Ai quali tre pregiudizi, e più strettamente alla boria  dei dotti, va di séguito il quarto che ora si chiama delle fonti o degl’influssi di cultura, e che V. sarcasticamente designa come quello della successione delle scuole pelle nazioni. Secondo tale dottrina, Zoroastro, per es., avrebbe istruito Beroso pella Caldea, Beroso a sua volta Mercurio Trismegisto pell'Egitto, Mercurio Atlante legislatore dell'Etiopia,  Atlante Orfeo missionario della Tracia, e finalmente Orfeo ferma la sua scuola in Grecia. Lunghi viaggi, e  agevoli, in verità, a quelle prime nazioni che, appena uscite dallo stato selvaggio, vivevano appollaiate sulle montagne in siti poco accessibili, sconosciute alle loro medesime confinanti! E questi lunghi viaggi avrebbero avuto per oggetto di  diffondere invenzioni, che ciascuna nazione poteva fare senz'altro da sé, e che se poi, conosciutisi tra loro i popoli per guerre e trattati, si ritrovarono simili, è perché contenevano un motivo comune di vero e nascevano dalle medesime necessità umane. C'era bisogno di supporre l'efficacia del diritto ateniese o di quello mosaico sul ROMANO, come  usano i pareggiatori delle leggi o trattatisti del diritto comparato, per ispiegare come si fosse formato il diritto, riconosciuto in Roma, d’uccidere il ladro di notte? C'era bisogno che Pitagora anda diffondendo la dottrina della trasmigrazione dell’anime, che si ritrova perfino in India? Resta il pregiudizio circa gli storici antichi considerati come  informatissimi dei tempi primitivi, i quali, invece, nel racconto dell’origini, seppero quanto o meno di noi posteri. Per la storia,  V. legge, o meglio crede di leggere, in Tucidide la confessione che, fino alla generazione a questo storico precedente, non si conosce nulla della propria antichità; e osserva altresì che gli storici solo al tempo di Senofonte cominciarono ad avere qualche notizia precisa delle cose. LA STORIA DI ROMA si sole principiarla d’ALBA LONGA; ma con Roma certamente non nasce il mondo, la quale è una città fondata in mezzo a un gran numero di minuti popoli del Lazio; e per Roma stessa LIVIO dichiara di non entrare mallevadore della verità dei fatti concernenti il principio di quella storia colla LUPA, e a proposito della guerra cartaginese, di cui è in grado di scrivere con più verità, ingenuamente confessa  di non sapere da qual parte Annibale fa il suo grande e memorabile passaggio in Italia, se dall’Alpi eozie o dall’appennine. Tanto gli storici antichi erano bene informati! Per questi e altrettali motivi di  scetticismo, tutto quanto si narra dei romani fino alla guerra cartaginese parve a V. TUTTO INCERTISSIMO: un territorio quasi res nullius, ove si poteva entrare col diritto del primo occupante. Egli vi entra armato dei canoni positivi che nascevano accanto, anzi dal grembo di quelli negativi, che abbiamo riferiti. Perché, se V. nega fede agli storici  lontani dai tempi e luoghi dei fatti che raccontano, se scredita le vanterie nazionali, se svela l’illusioni e le ciarlatanerie dei dotti, non rimane pago per altro a quest'opera di distruzione; e al posto del vecchio e malfido cacciato via bada a sostituire il nuovo di migliore qualità e di maggiore resistenza, cioè un complesso di metodi mercé i quali era  dato procacciarsi nuovi documenti collo studiare meglio quelli già posseduti. Ogni avanzamento nelle conoscenze storiche non s’effettua, in verità, in altra guisa che con questo ritorno dal racconto ricevuto al documento sottostante, col quale solamente è dato confermare, rettificare e arricchire il racconto. Il primo metodo che V. addita, la prima  fonte che egli schiude pella conoscenza delle società antichissime, è l'etimologia della lingua del LAZIO, che si sole esercitare ai suoi tempi in modo affatto arbitrario, col raffrontare i suoni di qualche sillaba o lettera, e cercare altre superficiali somiglianze, inferendone la derivazione d’un vocabolo dal latino. Ma affinché l'etimologizzare sia  fruttuoso, bisogna non dimenticare che la lingua del LAZIO e il testimonio più grave degl’antichi costumi del popolo del LAZIO, che si celebrarono al tempo in cui si forma essa lingua; e illuminare perciò, perpetuamente, la lingua del LAZIO coi costumi e i costumi colla lingua del LAZIO. Cosi l’etimologie d’un vocabolo astratto (SHAGGINESS)  ci porta nel bel mezzo d‘una società affatto contadinesca, perché 1'INTELLIGERE, per es., richiama il LEGERE o raccogliere i frutti dei campi, donde LEGUMINA; il DISSERERE, lo spargere semenze; e la maggior parte dell’espressioni intorno a cose inanimate (those spots meaning measles) si svelano trasporti dal corpo umano e dalle sue parti  e dagl’umani sensi e passioni, come bocca per ogni apertura, labbro per orlo di vaso, fronte e spalle per avanti e dietro, e simili. V. vagheggia un etimologico comune  a la lingua del LAZIO, composto di radici monosillabiche e in gran parte onomatopeiche; un altro delle voci d’origine straniera, introdotte dopo che le nazioni si furono conosciute  tra loro; un terzo, universale, pella scienza del diritto delle genti, dal quale apparisse come gli stessi uomini, fatti o cose, guardati con diversi aspetti dalle varie nazioni, avessero ricevuto diversi vocaboli; e, infine, un dizionario di voci mentali, comuni a tutte le nazioni, che, spiegando le idee uniformi circa le sostanze e le modificazioni diverse  che le nazioni ebbero nel pensare intorno alle stesse necessità umane o utilità comuni a tutte, secondo la diversità dei loro siti, cieli, nature e costumi, narra l’origini delle diverse lingue vocali, che tutte convengono in una lingua ideale comune. La seconda fonte, schiusa da V., è l'interpetrazione dei miti o favole, che, conforme alla sua dottrina, non  erano allegorie, invenzioni o imposture, ma la scienza stessa dei popoli primitivi. Nel Diritto universale V. distinse quattro sensi pei quali gli dèi passarono: dapprima significando cose naturali – those spots mean measles --, Giove il cielo, Diana le acque perenni, Dite o Plutone la terra inferiore, Nettuno il mare, e cosi via; poi, cose umane naturali,  per es. Vulcano il fuoco, Cerere il frumento, Saturno i seminati; in  terzo luogo, fatti sociali; fintanto che, in ultimo, salirono al cielo, furono assunti agli astri, e le cose terrene e umane vennero divise dalle divine. Ma nelle Scienze mise in rilievo quasi esclusivamente il terzo significato, quello sociale, che diventò per lui l'originario; perché, sembra  che egli pensa, le prime nazioni erano troppo intente a sé stesse, troppo immerse nella loro dura e difficile vita,  da speculare astraendo dalle cose sociali. Cosi nei miti egli trova riflesse l’istituzioni, le scoperte, le divisioni sociali, le lotte di classe, i viaggi, le guerre, dei popoli primitivi. Anche pei tempi abbastanza progrediti V. fu alieno dalle  interpetrazioni naturalistiche o filosofiche; e il Conosci te stesso, attribuito all'antico savio, gli parve nient'altro che un monito alla plebe ateniese perché conoscesse le proprie forze, trasportato dipoi a sensi metafisici e morali. Oltre questa ermeneutica sociale, un altro principio assai importante egli stabilisce: vale a dire che i significati galanti,  lubrici e osceni delle favole furono tutti intrusi in tempi tardi e corrotti, che interpetrarono i costumi antichi sui propri o presero a giustificare le proprie lascivie coll'immaginare che gli dèi ne avessero dato l'esempio. Onde s’ebbero Giove adultero, Giunone nemica a morte della virtù degl’Ercoli, la casta Diana che sollecita gl’abbracciamenti degl’addormentati Endimioni, Apollo che infesta fino alla morte le pudiche donzelle, Marte che come se non basta commettere adulteri in terra li trasporta fin dentro il mare con Venere, e, peggio ancora, gl’amori di Giove con GANIMEDE – convito dell’ACCADEMIA --  e dello stesso Giove trasformato in cigno con Leda: dipinture atte a sciogliere  il freno al vizio, come per l'appunto accadde nel giovinetto Cherea dell'Eunuco di Terenzio. Ma nella loro forma e significato originari le favole furono tutte severe e austere, degne di fondatori di nazioni; e, per es., Apollo che insegue Dafne allude agl'indovini o àuspici delle nozze, che perseguitavano pelle selve le donne ancora in preda ai concubiti  vagabondi e nefarì; Venere, che si copre le vergogna col cesto, era simbolo pudico di matrimoni solenni; gl’eroi, figliuoli di Giove, non erano già i frutti degl’adulteri, ma gl’eroi nati da nozze certe e solenni, celebrate colla volontà di Giove che si rivela negl’auspici. Omnia intenda mundis et immunda immundis: le selve e i picchi delle montagne  non potevano produrre immagini d’alcove e postriboli. Oltre queste due ricche fonti della lingua del LAZIO e dei  miti, V. ne menziona e adopera una terza, che chiama dei sima real donzella Polissena, della rovinata casa del poc'anzi ricco e potente Priamo, divenuta misera schiava, non gli venga sacrificata sul sepolcro e le sue ceneri assetate di  vendetta non bevano l'ultima goccia di quel sangue innocente. E giù. nell'inferno Achille, domandato d’Ulisse come vi stia volentieri, risponde che vorrebbe essere un vilissimo schiavo, ma  vivo! Questo è l'eroe che Omero, coll'aggiunto perpetuo d'irreprensibile, àjiójAwv, canta ai popoli in esempio della virtù eroica. Un siffatto eroe, che pone tutta  la ragione nella punta della lancia, non si può altrimenti intendere se non come un uomo orgoglioso, il quale ora si direbbe che non si faccia passare la mosca per innanzi alla punta del naso. Se i più grandi caratteri di Omero sono tanto sconvenevoli alla nostra natura civile, le comparazioni delle quali egli si vale hanno a lor materia belve e altre  cose selvagge. E se per i costumi che rappresenta da fanciulli pella leggerezza delle menti, da femmine pella robustezza della fantasia, da violentissimi giovani pel fervido bollore della collera, e pelle favole degne di vecchierella che intrattenga bimbi ond'è piena l'Odissea, non si può attribuire a Omero nessuna sapienza riposta j quel suo cotanto  riuscire nelle fiere comparazioni non è certamente da ingegno addimesticato e incivilito da alcuna filosofia. Né da animo che sia umanato e impietosito da filosofia potrebbe nascere quella truculenza e fierezza di stile, onde si descrivono tante e si varie e sanguinose battaglie, tante e si diverse e tutte in istravaganti guise crudelissime specie di  ammazzamenti, che particolarmente formano la sublimità dell'Ilìade. Ma chi fu, in realtà, Omero? Che cosa di lui dicono gli antichi scrittori, che cosa si trae dai suoi poemi? A leggere l'Iliade e l'Odissea senza pregiudizi, a ogni passo ci si avventano agli occhi e ci offendono stravaganze e incoerenze. Incoerenze di costumi, che trasportano or di qua  or di là a tempi lontanissimi tra loro: da una parte si vede Achille, l'eroe della forza; dall'altra, Ulisse, l'eroe della saggezza; da una parte, la crudezza, la villania, la ferocia, l'atrocità; dall'altra, i lussi di Alcinoo, le delizie di Calipso, i piaceri di Circe, i canti delle sirene, i passatempi dei proci, che tentano anzi assediano le caste Penelopi; da una  parte, costumi rustici e ruvidi, dall'altra giuochi, vesti magnifiche, cibi squisiti e arti d'intagliare in bassorilievo e fondere in metalli; da una parte, rigida società eroica, dall'altra, perfino, accenni a libertà popolari. Questi costumi cosi delicati mal si convengono con gli altri tanto selvaggi e fieri, che nello stesso tempo si narrano dei medesimi eroi,  particolarmente nell'Iliade. Messi insieme tutti a un tempo, riescono incompossibili: dai costumi dell'età troiana si sbalza senza transizione a quelli del tempo di NUMA; talché, ne placidi s coè'ant inmitia, si è costretti a pensare che i due poemi furono per più età e da più mani lavorati e condotti. Incoerenze di allusioni geografiche, che anch'esse  trabalzano in ambienti fisici diversi e lontani: l'Iliade all'oriente della Grecia, verso settentrione; l'Odissea, all'occidente, verso mezzodì. Incoerenze di linguaggio, sconcezze di favellari, che permangono nonostante l'emendazione d’Aristarco, e pella quale si sono proposte le più strane teorie, come quella che Omero sarebbe andato raccogliendo il  suo linguaggio da tutte le varie popolazioni. Dai poemi passando alle tradizioni circa il loro autore, nessuna fede meritano le vite di Omero scritte da Erodoto, o da chi altri ne sia l'autore, e da Plutarco, dallo pseudo Plutarco. Intorno a Omero mancano le notizie più elementari: proprio dove dagli antichi si tratta di questo che fu il maggior lume di  Grecia, siamo lasciati affatto al buio. Non si sa di Omero né il tempo in cui visse né il luogo di nascita: ciascuno dei popoli di Grecia lo rivendica suo cittadino. Si narra bensì ch'egli fosse povero e cieco; ma codeste sono di quelle minute particolarità che mettono sospetto, come muove a riso ciò che dice Longino che Omero componesse l' Iliade e  piu tardi l'Odissea. Mirabile che si conoscessero queste private faccende di un uomo del quale s' ignoravano poi due cose da nulla: il tempo e il luogo! E la critica deve domandarsi, anzitutto, come mai fosse possibile che un sol uomo compone due cosi lunghi poemi, in un'età nella quale non esiste ancora la scrittura; giacché le tre iscrizioni eroiche,  una di Anfitrione, l'altra d'Ippocoonte e la terza di Laomedonte, delle quali con troppo buona fede parla Vossio, sono imposture, simili alle tante che sogliono eseguire i falsificatori di medaglie antiche. Per tutte queste considerazioni sorse in V. il sospetto che Omero non fosse, per lo meno in tutto e per tutto, un personaggio reale, ma anch'esso    pella meta uno di quei caratteri poetici ai quali si erano riportate nell'antichità lunghe serie di azioni, opere e avvenimenti. Se infatti ci si prova a pensare che i poemi omerici non siano l'invenzione di un individuo, ma due grandi tesori dei costumi della Grecia antichissima, che contengono la storia del diritto naturale e dell'età eroica delle genti  greche; se invece che a uno o due poeti singoli si pensa a un popolo intero poetante; invece che a due opere di getto, a una poesia popolare svoltasi per secoli: tutto si rischiara e si riaccorda. Si spiegano le stravaganze delle favole, perché la composizione dell' Iliade e dell'Odissea appartiene alla terza età di quelle, vere e severe presso i poeti teologi,  alterate e corrotte presso gli eroici, e ricevute cosi corrotte nei due poemi. Si spiegano le varietà dei costumi, richiamanti le varie età della composizione; e altresì l'Omero, simbolo del più antico (Illiade) e del più recente (Odissea) tempo della Grecia primitiva. Si spiega la varietà dei luoghi di nascita e di morte, assegnati al loro autore, e le varietà  dei suoi linguaggi, perché vari furono i popoli che produssero quei canti. Si spiega, infine, perché ogni popolo greco volle Omero suo concittadino, pella ragione cioè che essi popoli pell'appunto furono quest'Omero; e perché fosse detto cieco e mendico, perché tali erano di solito i cantori che girano pelle fiere recitando le storie. Bisogna dunque  che Omero, perché sia inteso nella sua verità, venga sperduto dentro la folla dei popoli e considerato come un'idea o carattere eroico di uomini in quanto narravano cantando le loro storie. Cosi quelle che sono sconcezze e inverisimiglianze nell'Omero finora creduto, diventano nell'Omero qui ritrovato tutte convenevolezze e necessità. E, innanzi  tutto, gli s’aggiunge una sfolgorantissima lode d'essere stato il primo storico a noi pervenuto. In Omero si ha il documento della primitiva identità di storia e poesia, e una conferma di quel che V. crede di leggere in  Strabone, cioè che prima d’Erodoto, anzi prima d’Ecateo milesio, la storia dei popoli fu scritta dai poeti. Nell'Odissea, volendosi  lodare alcuno per avere ben narrata una storia, si dice averla raccontata da musico e da cantore. V. non si perde in poco feconde congetture istituendo indagini più particolari circa il modo di elaborazione dei poemi omerici. Propende tuttavia per due principali autori poeti, l'uno pell'Iliade, nativo dell'oriente di Grecia, verso  settentrione, l'altro pell’Odissea, nativo dell'occidente verso mezzodì; e il nome Omero intende come di compositore e legatore di favole. Ma, d'altro canto, a causa del significato puramente ideale che per lui ha quel nome, non è da escludere, forse, l'interpetrazione che  i due Omeri fossero, a loro volta, due correnti poetiche e due gruppi di popoli o di cantori popolari.  Le persone storiche, che egli si trova innanzi, sono i rapsodi, uomini volgari che paratamente, chi uno chi altro, andano recitando i canti d'Omero nelle fiere e nelle feste pelle città. Lunga età corse dalla primitiva composizione fino ai Pisistratidi, i quali fecero dividere e disporre i canti omerici nei due gruppi dell’Iliade e dell'Odissea, donde si  deduce quanto innanzi dovessero essere stati una confusa congerie di cose, e ordinarono che d'indi in poi fossero cantati dai rapsodi nelle feste panatenaiche.  Comunque, non è di certo in questa risoluzione materialmente intesa dell'individuo Omero in un mito o carattere poetico l'importanza, come, forse, non è la verità, della teoria di V. Dalle  incoerenze ch'egli non pel primo nota, e non sempre con esattezza, la qual cosa, per altro, è di poco rilievo, essendo agevole compensare le osservazioni inesatte con le molte altre esatte da lui tralasciate, non c'era rigoroso passaggio logico all'affermazione della non esistenza di un Omero individuo, principale autore di uno o di entrambi i poemi.  Quelle incoerenze valevano a dimostrare che il poeta o i poeti lavorarono sopra una ricca materia tradizionale, della provenienza più varia per luoghi e per tempi, e non tanto disposta a strati secondo la provenienza, che era a un dipresso l'fpotesi messa innanzi da Aubignac, quanto piuttosto in tutti i suoi strati mescolata e sconvolta. Uno o molti  poeti, ovvero molti poeti e un abile collettore dei loro canti, o una società di abili collettori; queste e altrettali ipotesi si potevano proporre, come si sono proposte di poi, con pari diritto, e sostenere, come sono state sostenute, con argomentazioni parimente valide e parimente difettose perché non documentabili. Ma nel fondo di quella risoluzione di  Omero in un carattere poetico, come analogamente in altre simili risoluzioni fatte o tentate da V., era la scoperta della lunga e laboriosa genesi storica attraverso cui era passata la materia di quei poemi, che, in questo senso, ben potevano dirsi prodotto di collaborazione d’un intero  popolo. La sostituzione a Omero di un popolo di Omeri fu, anche  questa volta, la mitologia tessuta da  V. sulla propria scoperta: mitologia che omnes quivìtes tenerent. L'autorità del SENATO ROMANO ne venne ristretta, perché laddove, precedentemente, di quel che IL POPOLO ROMANO delibera i padri si fanno auctores, ora i padri sono essi  autori al popolo, che approva la legge secondo la forinola proposta  dal SENATO ROMANO, o le antiqua, cioè dichiara di non volere novità. La plebe ottenne, inoltre, l'ultima magistratura ancora non comunicata, la CENSVRA. La legge petelia, che segui pochi anni dopo, cancella l'ultimo vestigio di legame feudale, il nesso, nexus, che rende i plebei, per causa di debiti, vassalli ligi dei nobili  e li costringe  sovente  a lavorare tutta la vita nelle private prigioni di costoro. Quando FABIO MASSIMO alla divisione tra patriziato e plebe, coi corrispondenti comizi curiati e tributi, ebbe sostituita la divisione secondo i patrimoni dei cittadini, ripartiti nelle tre classi di senatori, cavalieri e plebei, l'ordine dei nobili venne a sparire affatto, e senatore e cavaliere non  furono più sinonimi di patrizio, né  plebeo d'ignobile. Ma al senato rimase il dominio sovrano sopra i fondi del romano imperio, che era già passato nel popolo; e, mercé i cosi detti senatoconsulti ultimi o ultimce necessitatis, lo mantenne con la forza delle armi finché la romana fu repubblica popolare; e quante volte il popolo tentò di disporne, tante  il senato armò i consoli, i quali dichiararono  ribelli e uccisero i tribuni della plebe che avevano promosso quei tentativi. Il che si spiega con una ragione di feudi sovrani soggetti a maggiore sovranità, come a V. pare confermato dal detto di Scipione Nasica nell'armare il popolo CONTRO Tiberio Gracco: Qui rempublicam salvam velit, consulem  sequatur. Aperta con le leggi la porta degli onori alla moltitudine che comanda nelle repubbliche popolari, non resta altro in tempo di pace che contendere di potenza, non colla legge ma colle armi; e mercé atti di potenza comandare leggi per arricchire, quali furono le agrarie dei Gracchi, onde provennero in pari tempo guerre civili in casa e ingiuste  fuori. Tutta la società, col trionfo della plebe e colla mutazione dello stato d’aristocratico in popolare, muta  fisonomia. Muta, in primo luogo, la flsonomia della famiglia: nella quale, durante l'impero del patriziato, per serbare le ricchezze dentro l'ordine, solo tardi furono ammesse le successioni testamentarie e facilmente i testamenti venivano annullati; dalla successione paterna era escluso il figliuolo emancipato; l'emancipazione aveva l'effetto di una pena; le legittimazioni non erano permesse; è da dubitare che le donne succedessero. Ma nella società democratica, poiché la plebe pone tutta la sua ricchezza, tutta la sua forza e potenza nella moltitudine dei figliuoli, si comincia a sentire  la tenerezza del sangue, e i pretori ne considerano i diritti e prendono a fargli ragione con le honorum possessiones e a sanare coi loro rimedi i vizi o i difetti dei testamenti, agevolando cosi la divulgazione delle ricchezze, che sole sono ammirate presso il volgo. Muta il significato degli istituti della proprietà: il dominio civile non è più di ragion  pubblica e si disperde per tutti i domini privati dei cittadini, che formano ora la città popolare; il dominio ottimo non è più quello fortissimo, non infievolito da niun peso reale, neppure pubblico, e significa semplicemente quello che sia libero da ogni peso privato: il quiritario non è più il dominio di cui il nobile era signore feudale e che dove venire  a difendere nel caso che ne  fosse decaduto il cliente o plebeo, ma è diventato dominio civile privato, assistito da rivendicazioni, diversamente dal bonitario che si mantiene col solo possesso. Le forme dei processi, cosi frondose di finzioni, di forinole solenni, di atti simbolici, sono semplificate e razionalizzate: si comincia a far uso dell'intelletto,  ossia della mente del legislatore e i cittadini si conformano in un'idea di comune ragionevole utilità, intesa come spirituale di sua natura. Le caussce, che prima erano forinole cautelate di proprie e precise parole, diventano affari o negozi, che si solennizzano coi PATTI convenuti e, nei trasferimenti di dominio, colla tradizione naturale; e solamente nei CONTRATTI che si dicono compiersi colle parole, nei contratti verbali, cioè nelle stipulazioni, le cautele rimangono caussce, nell'antica proprietà di questo termine. Cosi il certo della legge, essendosi la ragione umana spiegata tutta, mette capo nel vero delle idee, determinate colla ragione delle circostanze dei fatti, che è una forinola informe  di ogni forma particolare, formula naturai, come dice VARRONE, che a guisa di luce informa di sé, in tutte le ultime minutissime parti della superficie loro, i corpi opachi dei fatti sopra i quali ella è diffusa. Nelle repubbliche popolari regna l’cequum  bonum, l'equità naturale. Le crudelissime pene, che si usavano nel tempo delle monarchie familiari  e delle società eroiche, le leggi delle dodici tavole condannavano a essere bruciati vivi coloro che avevano dato fuoco alle biade altrui, precipitati giù dalla rupe Tarpea i falsi testimoni GRICE MASSIMA, fatti vivi in brani ì debitori falliti, vengono sostituite da pene benigne, perché la moltitudine, che è composta di deboli, è di sua natura incline a  compassione. La legge, che  era nelle aristocrazie unica, ferma  e religiosamente osservata, si moltiplica nella democrazie e si fa cangevole e flessibile. Gli spartani, che serbarono l'aristocrazia, dicevano che in Atene si scrivevano molte leggi, ma le poche che erano in Isparta s’osservavano: la plebe romana, a guisa dell'ateniese, comanda tutto dì  leggi singolari, e invano Silla, capoparte dei nobili, cerca di ripararvi alquanto colle questioni perpetue, perché, dopo di lui, si moltiplicarono di nuovo. Le stesse guerre, crudelissime nelle repubbliche aristocratiche, che distruggevano le città conquistate e riducevano i vinti in gruppi di giornalieri sparsi pelle campagne a coltivare a prò dei vincitori, si mitigano nelle repubbliche popolari, le quali, togliendo ai vinti il diritto delle genti eroiche, lasciano loro quello naturale delle genti umane. Gl'imperi si dilatano, perché le repubbliche popolari valgono assai più delle aristocratiche pelle conquiste, e più ancora vi valgono le monarchie. Eppure, in questo generale umanarsi dei costumi, scema la  sapienza di governo, la virtù politica. Gli antichi patrizi fanno duramente rispettare la legge; e, avendo privatamente ciascuno gran parte della pubblica utilità, a questo grande interesse particolare, che veniva loro conservato dalla repubblica, posponevano gl'interessi privati minori, e perciò magnanimamente difendevano il bene dello stato e  saggiamente consigliano intorno ad esso. Per contrario, negli stati popolari, e perché i cittadini comandano il bene pubblico che si ripartisce loro in minutissime parti quanti sono essi i cittadini che compongono il popolo, e pelle cagioni che producono siffatta forma di stati, che sono affetto d'agi, tenerezza di figliuoli, amore di donna e desiderio di  vita, gli uomini sono portati ad attendere alle ultime circostanze dei fatti che promuovono le loro private utilità, e perciò all'equobono, che è ciò solo di cui le moltitudini sono capaci. A cotal punto balza spontanea, perché di lunga mano preparata e resa necessaria, la monarchia: quella monarchia che gli ordinari scrittori di politica facevano venir    fuori, senza il precorso di tante e si varie cagioni che debbono condizionarla, di un tratto, al bel principio della storia umana, cosi come, dice V., nasce, piovendo l'està, una ranocchia. E molto meno sorse artificialmente, per effetto della favoleggiata legge regia dell'ignorante grecuzzo Triboniano, colla quale il popolo romano si sarebbe spogliato  del suo sovrano e libero imperio per conferirlo a Ottavio Augusto. La legge, che le die vita, fu una legge naturale, concepita con questa forinola di eterna utilità: che poiché nelle repubbliche popolari tutti guardano ai loro privati interessi ai quali fanno servire le pubbliche armi in eccidio della propria nazione, per impedire che le nazioni vadano in  rovina debba sorgere un solo, come tra i romani Augusto, qui »j come scrive Tacito, cuncta beììis civililms fessa nomine principia su imperium accepit; un solo, che colla forza delle armi richiami a sé tutte le cure pubbliche e lasci ai soggetti l'attendere alle loro cose private o a quel tanto delle cose pubbliche che viene loro permesso, e si circondi  di pochi sapienti di stato per consultare coll'equità civile nei gabinetti circa i pubblici affari. Quel solo è invocato alla pari da nobili e da plebei: dai nobili, che dopo essere stati abbassati e sottomessi al governo plebeo, abbandonata l'antica aristocratica volontà d'impero, non pensano se non ad avere salva almeno la vita comoda; e dai plebei, che  dopo avere sperimentato l'anarchia o la sfrenata demagogia, della quale non si dà tirannide peggiore, essendo tanti i tiranni quanti sono gli audaci e dissoluti delle città, fatti accorti dai propri mali, chiedono pace e protezione. La  monarchia è, dunque, una nuova forma del governo popolare. Perché un potente diventi sovrano, è necessario che il  popolo parteggi per lui, ed egli deve governare popolarmente, agguagliare tutti i soggetti, umiliare i grandi per tenere libera e sicura la moltitudine dalla loro oppressione, mantenere il popolo soddisfatto e contento circa il sostentamento che gli bisogna pella vita e circa gli usi della libertà naturale, e adoprare un ben ponderato sistema di concessioni  e privilegi o a interi ordini, nel qua! caso si chiamano privilegi di libertà, o a persone particolari, promovendo fuori d'ordine uomini di merito straordinario e di virtù eccezionali. Nella monarchia, che è governo umano al pari della democrazia, prosegue e s'intensifica quel processo di umanamente o ingentilimento dei costumi e della legge, che le  repubbliche popolari iniziano. Si sciolgono sempre più i rigidi vincoli della famiglia paterna e gentilizia. Gl'imperatori, ai quali faceva ombra lo splendore della  nobiltà, si diedero a promuovere le ragioni della natura umana, comune a nobili e a plebei; e Augusto attese a proteggere i fedeco in messi, coi quali nei tempi innanzi, mercé la puntualità  degli eredi gravati, i beni erano passati agi'incapaci di eredità, e li trasformò in necessità di ragione, costringendo gli eredi a mandarli ad effetto. Successe una folla di senatoconsulti, coi quali i cognati entrarono nell'ordine degli agnati; finché Giustiniano tolse le differenze tra legati e fedecommessi, confuse la quarta falcidia e trebellianica, distinse  poco i testamenti dai codicilli e adeguò ab intestato, in tutto e per tutto, gli agnati e i cognati. Tanto la legge romana ultima si profuse in favorire i testamenti che, laddove anticamente per ogni leggi ero motivo essi erano invalidati, poi si dovettero interpetrare nel modo che meglio conduce a mantenerli saldi. Caduto affatto il diritto ciclopico, che  i padri avevano esercitato sulle persone dei figliuoli, anda cadendo altresì quello economico sugli acquisti dei figliuoli; onde gl'imperatori introdussero prima il peculio castrense per attrarre i uomini alla  guerra, poi il quasicastrense per invitarli alla milizia palatina, e finalmente, per  tenere contenti quelli che non erano né soldati né letterati, il  peculio avventizio. Tolsero l'effetto della patria potestà alle adozioni, le quali non si contennero più ristrette nella cerchia di pochi congiunti; approvarono universalmente le arrogazioni, difficili alquanto perché è difficile che un pater familias, un sui iiiris, si sottometta alla patria potestà d'un estraneo; reputarono le emancipazioni quali benefizi e  dettero alle legittimazioni, degn.; le cosi dette prove metafisiche di V., i fatti dubbi sono asseriti da V. in conformità delle leggi e ritenuti da lui verità meditate  in  idea; Il  certo, Opere, la sapienza poetica costituisce quasi tutto il corpo della  scienza; le aspre difficultà per discendere dalle nostre nature ingentilite a quelle degli uomini primitivi e  l'idea della natura  simpatetica; una delle ragioni perché nuova la  Scienza di  V.; errori di Platone, Giulio Cesare Scaligero, Sanchez, Schopp; gli errori di Grozio, Selden e Puffendorf; V. confessa l'errore commesso da lui medesimo nel De antiquissima; la sapienza poetica è la chiave maestra della Scienza; la Logica  poetica; la sapienza riposta fu  intrusa nella poesia dai filosofi; la poesia è  necessità di natura e la  prima operazione della mente  umana; l'uomo, prima di riflettere, avverte con animo commosso e, prima di articolare, canta; la poesia è anteriore alla prosa; il linguaggio proprio e il linguaggio improprio; la poesia e la metafìsica; nessuno fu insieme gran metafisico e gran poeta; i  poeti sono il senso, i filosofi l'intelletto  dell'umanità; il linguaggio per atti muti; le lingue articolate non sono per convenzione; le origini delle lingue furon trovate da  V. nei principi della poesia; una e medesima è l'origine del linguaggio e della scrittura; i geroglifici; identità tra favola, poetica, ed espressione; le cinque parole reali d' Idantura; gli  alti papaveri troncati dal re Tarquinio; analoghi  procedimenti espressivi presso popolazioni selvagge e i volghi; le imprese, bandiere, medaglie, monete; la favoletta sull'origine delle imprese; le improse primitive furon mutole; le insegne e bandiere sono una  sorta di lingua armata; le teorie di Platone, Aristotele, ecc. sulla poesia son rovesciate da  quella di  V.; Il De Cristofaro è il noto matematico e giureconsulto napoletano, pel quale si veda Amodeo, Vita  matematica  napoletana,  Napoli,  Giannini, e fu amico di  V..  Altre notizie intorno ALL’ORTO ROMANO di Napoli di quel tempo, in Carducci, Opere,  Lettera, erano mai codesti errori e debolezze; E quando usci il De universi iurte  tino principio et fine uno, anzi la Sinopsi che ne da il  programma, le prime voci avverse, che V.  senti  levarsi, erano tinte da una simulata pietà; contro le quali egli trova scudo e conforto nella religione stessa, cioè nell'assenso di Giacchi, primo lume del pili severo e più santo ordine de'religiosi. Ma come delle accuse che su questo punto gli si  facevano non ci resta notizia particolare, cosi dei dubbi religiosi, che poterono travagliarlo, non si ha nemmeno la generica certezza. Tutti gli scritti di V. mostrano che nel suo animo s’assideva grave, salda, immota, come colonna adamantina, la religione cattolica: salda e forte cosi da non essere neppure in piccola parte intaccata dalla critica, che  egli inaugura, dei miti. Né soltanto in tutte le esteriori dimostrazioni V. fu cattolico irreprensibile, e sottomise sempre ogni parola che mette in istampa alla doppia censura, pubblica e privata, degli amici ecclesiastici, e fra zimarre sacerdotali e cocolle fratesche, più ancora che fra toghe di giuristi, menò la sua vita filosofica e letteraria; ma egli  giunse perfino allo scrupolo d'intermettere il commento a Grozio, non sembrandogli dicevole che un cattolico commenta un autore protestante; ed ebbe cosi delicato punto d'onore cattolico da non accettare nemmeno la polemica circa i suoi sentimenti religiosi: Questa difficoltà, dice ai critici del Giornale de'letterati, come quella che mi fate  sull'immortalità dell'anima, dove par che premiate la  mano con ben sette argomenti, se non mi fusser fatte da voi, io giudicherei che andassero più altamente a penetrare in parte la quale, quantunque si pro i Autob. tegga e sostenga colla vita e coi costumi, pure s'offende colla stessa difesa. Ma trattiamo le cose! Il suo cattolicesimo si mostra scevro  di materialità e superstizioni, cosi generali nel costume del tempo, e specie a Napoli dove in ogni avvenimento della vita privata e pubblica interveniva attore e direttore san Gennaro: era cattolicesimo di animo e di mente alta, e non di volgo. Ma neppure contro le credenze popolari e le superstizioni V. assunse le parti di censore; pago di non  parlarne, come non si parla delle debolezze di persone e d'istituzioni che sono oggetto della nostra reverenza. Disposizione d'animo analoga per più rispetti a quella verso la religione ebbe V. verso la vita politica e sociale. Non era nulla in, lui dello spirito combattivo da apòstolo, propagandista, agitatore e congiurato, che fu di alcuni filosofi della  Rinascenza; in ispecie di quel Bruno e di quel Campanella, che egli, benché, e forse PERCHÉ NAPOLETANO non nomina mai. Certo, il suo tempo e il suo paese non furono luogo e tempo di rivolgimenti e rivoluzioni e di quegli ardenti contrasti che suscitano grandi azioni e passioni politiche. Pure, vi s’agitarono partiti politici, il  gallo  e  l'austriaco,  e si profilò un certo desiderio d'indipendenza nazionale, e sorsero uomini che dettero l'opera e la vita a questi fini, e furono perseguitati e andarono profughi; e, segnatamente, giunge in quel tempo al più  alto punto la lotta dello Stato contro la Le cose, cioè, non le obiezioni religiose, che a lui suonano come offesa personale Risposta al Giornale de'  letterati, in Orazioni  ecc.,  ed.  Gentile-Nicolini. Chiesa, e di Napoli contro Roma, con Giannone, del quale come di tutto quel movimento tacque sempre e parve non essersi nemmeno accorto. La vita politica sta alta sopra il suo capo, come il cielo e le stelle; ed egli non si protese mai nel vano sforzo di attingerla. Come le controversie religiose,  cosi quelle politiche e sociali furono il limite della sua attività. Era veramente uomo apolitico. Di che non si può fargli colpa né accagionarlo di fiacchezza, perché ogni uomo ha il suo limite, e una lotta esclude l'altra, un lavoro esclude gli altri lavori.Non che egli si ritraesse da ogni contatto colla politica e coi rappresentanti di essa. Purtroppo,  dovette corteggiare assai di frequente e l'una e gli altri, con istorie, orazioni, versi ed epigrafi, latini e italiani; i quali basterebbero da soli a ricostruire la serie delle vicende cui andò soggetta Napoli: il viceregno, la congiura e rivoluzione tentata dagli autonomisti, la reazione e il rassodato viccrcgno, la conquista austriaca, il viceregno austriaco, la  riconquista e il regno di Carlo Borbone. Ma egli, molto pei suoi bisogni conversevole, e professore d’eloquenza nella regia università, dove fornire i componimenti letterari, richiesti dalle solennità del giorno; cosi come il drappiere lavora, pelle medesime occasioni, le frange, e lo stuccatore le volute e gli svolazzi. E quali frange e quali svolazzi!  Perdura la moda letteraria; e 'ciò basta per gran parte a spiegare quel che nelle lodi profuse da  V. ci sembra, ed è, iperbolico e barocco. Del suo animo indifferente e innocente può dare esempio quel In  Autob.,  ecc.. luogo dell'autobiografia, dove, dopo aver fatto ricordo del Panegyricus Philippo V inscriptus, da lui composto per ordine dell'ultimo  viceré duca di Ascalona, continua, come se niente fosse, col riattacco di un semplice appresso: Appresso, ricevutosi questo reame al dominio austriaco, dal signor conte Wirrigo di Daun, allora governatore delle armi cesaree in questo regno, ebbe l'ordine di comporre le iscrizioni pei funerali espiatori di Capece e di Sangro; cioè dei due ribelli contro  Filippo V,  che il governo precedente aveva MESSI A MORTE nella repressione della congiura di Macchia, da V. narrata, veridicamente bensì ma con ossequio al governo costituito, nel De parthenopea coniuratione. Ma non c'è,  in V., bassezza; e, se deve dirsi, in quei suoi scritti, retore e panegirista, non può dirsi adulatore. L'adulatore, l'uomo  senza coscienza, vilipende e calunnia gli avversari degli uomini da lui adulati, o colpisce i vinti; e questo è bassezza. V., il quale, pur conoscendo chi fosse l' italiano, anzi il napoletano, che aveva inviato agli Ada lipslensìa la noterella contumeliosa contro di lui, e fremendo d'ira, e potendo facilmente rovinarlo, perché quella noterella era  anticattolica,  generosamente non volle mai svelare quel nome, presta, si, i suoi servigi di professore d'eloquenza, ma non traffica cogl’interessi dei suoi lodati padroni. Della Vita di Carafa, composta per commissione, e col provento della quale marita una figliuola, dice che la lavorò temprata di onore del subietto, di riverenza verso i principi e di giustizia che si  dee aver pella verità. E, per tornare Autob., Lettera;  in  Autob.,  ecc.,  Autob.] al caso sopraricordato di Capece e di Sangro, quando nel De parthenopea conluratione egli narra la morte di quei due nemici della parte trionfante, mostra anche allora, in taluni particolari, il suo animo gentile; e di Capece, che non volle arrendersi ai soldati, scrive   ostentali s pectus ned eamque infestis armis efflagitans, inexoratus occubuit, fortissimum mortis genus si causa cohonestasset; e per Sangro, riferita la voce della grazia fattagli da Luigi XIV e giunta troppo tardi, aggiunge: unde maior damnati, qui iam poenas persolverat, miserano. Senza dubbio, non poteva essergli, e non gli era, nascosto che la  più parte degli individui da lui lodati vale ben poco. A leggere i suoi scritti panegiristici pare che Napoli ha allora una nobiltà splendida di virtù, di cultura, di dottrina; eppure, informando Vitry che gli aveva chiesto notizie circa le condizioni degli studi in Napoli, V. non cela la  realtà: i nobili sono addormentati da'piaceri della vita allegra  -- ONLY THE POOR LEARN AT OXFORD -- Un suo motto satirico circa quella nobiltà, spesso pezzente ma sempre fastosa e capace di soffrire la fame in casa pur di sfoggiare in pubblico con cocchi e altre gale, ci è stato serbato dal suo scolaro GENOVESI. A proposito del letterato duca di Laurenzano formula la teoria che gli scrittori nobili non possono  essere se non eccellenti; eppure, tra le sue carte io ho trovato il manoscritto di un libro di quel signore, riscritto da cima a fondo dallo stesso Opp.,  ed.   Ferrari,  e  Croce,  Critica,  Autob.,  ecc.,  Dice che molti  tiravano le carrozze colle budella!  In  Autob.,  ecc.,  V. K  Contradizioni e transazioni da pover'uomo, schiacciato dalla miseria e divenuto  riguardoso e timido; tanto che riesce difficile determinare fino a qual punto egli ammira a parole e per compiacenza, e fin a qual altro il suo sentimento d' inferiorità sociale si muta in effettiva ammirazione per coloro che avevano e ricchezze e dignità e tutto quello che a lui manca, e che stavano cosi in alto, ed erano i signori. in  Perché, com'è  risaputo, le sue condizioni economiche sono sempre tristissime. Figliuolo d’un libraiuccio di Napoli,  è dapprima costretto a recarsi come precettore domestico in un borgo selvaggio del Cilento; poi, tornato a Napoli, tenta invano d’ottenere il posto di segretario della città, e, avuta per concorso la cattedra di rettorica, rimane in  quell'ufficio  collo  stipendio annuo di cento ducati, lire  425. Invano tenta di passare a cattedra di maggiore importanza: fosse sfortuna, fosse inabilità, uomo di poco spirito intorno alle cose che riguardano l'utilità, si riconosce esso stesso, dove rinunziare a ogni avanzamento  universitario. È costretto, dunque, ad aiutarsi un po'coi lavori letterari del genere detto di  sopra, e più ancora colle lezioni private; e non solamente, oltre quella nella  pubblica università, tene scuola a casa sua, ma sale e scende le altrui scale come insegnante di grammatica. Non è fortunato nella famigli. La moglie è analfabeta, senza le virtù delle donne analfabete, incapacissima di curare le più piccole Antob.] faccende domestiche;  cosicché il marito dove farne le parti.  Dei figliuoli, una femmina gli muore dopo lunga  malattia, e dopo quei lunghi dispendi che inacerbiscono le malattie dei poveri; un figliuolo maschio gli da grandi dolori ed  egli è costretto a invocare l'intervento della polizia per chiuderlo in una casa di correzione. La sua irrazionale e sublime tenerezza paterna  è tanta, in questa occasione, che al vedere dalla finestra gl’uffiziali di polizia da lui richiesti i quali venivano a portar via il figliuolo sciagurato ed amato, corre a costui gridandogli, Figlio  mio,  salvati! Ha, invero, animo affettuosissimo: il che si può ritrarre, fra l'altro, dall'orazione piena di nobiltà e di dolcezza che compone pella morte della sua  amica donna Angela Cimini, dagli accenti di pietà e di sdegno che ha nella Scienza pelle plebi oppresse, di cui investiga la storia, o pelle dolenti figure di Priamo e di Polissena, di cui risente la poesia; e perfino da certi sparsi segni stilistici, come, per es., in quella  dignità dove ricorda che le streghe, per solennizzare le loro stregonerie, uccidono  spietatamente e fanno in brani amabilissimi innocenti bambini, e tutto si turba, in modo inopportuno ma significante, pella sorte di quei piccini, che adorna nella commossa fantasia di superlativa amabilità! I maggiori conforti domestici gli vennero dalla figliuola Luisa, colta e poetessa, e dal figliuolo Gennaro, che lo supplì e poi gli successe nella  cattedra. Quando, nell'elogio della contessa d'Althann, accenna sarcasticamente ai filosofi che ragionano passeggiando pegl’ameni giardini o sotto i portici dipinti, non nauseati né afflitti dalle mogli che infantano e dai figliuoli che nei morbi Villakosa,  nelle  aggiunte  alVAuloò. languiscono, si sente che parla per diretta esperienza e che lo pungono  ricordi angosciosi della propria vita familiare. Accade molto spesso, specie ai giorni nostri, di osservare gli uomini di qualche ingegno emanciparsi da questo o quello dei più umili doveri; e tanto più bisogna ammirare quest'uomo di genio, che invece li accetta tutti e, per adoperare una parola che Flaubert disse di sé medesimo, pensando da semidio,  visse costantemente da borghese, anzi da popolano. Egli aveva preso l'abitudine di leggere, scrivere, meditare e comporre i suoi lavori ragionando con amici e tra lo strepito de'suoi figliuoli. La salute ebbe sempre malferma; gli amici lo chiamano mastro Tisicuzzo: debole, straziato d’ulceri alla gola, da dolori alle cosce e alle gambe. Insomma, quel  riposo,  quell'ozio, quella  tranquillità, che altri filosofi goderono per tutta la loro vita, o per lunghi tratti di questa,  a  V. MANCA SEMPRE. Egli dove fare da Marta e da Maddalena: travagliandosi pelle necessità pratiche sue e dei suoi; travagliandosi insiememente con sé stesso, per adempiere alla missione assegnatagli fin dalla nascita e dare  forma concreta al mondo spirituale che gli s’agita dentro. Non c'è  bisogno, dunque, di foggiare o desiderare un V. eroe, cercandolo nella vita  religiosa, sociale e politica, quando  il  V.  eroe ci sta innanzi, ed è appunto questo: l'eroe della vita filosofica. E stato notato da altri Opp.,  ed.  Ferrari, Autob.,  Autob.] che egli ebbe carissima la parola    eroe e tutti i derivati di essa, eroismo, eroico,  ecc.; e ne fece continuo uso e svariatissime applicazioni. L'eroismo è, per lui, la forza vergine e strapotente, che appare negli inizi e riappare nei ri-corsi della storia. Questa forza egli dove sentire in sé medesimo, nel lavorare pella verità e nell'aprire, abbattendo ostacoli d'ogni sorta, nuove vie alla  scienza. Per questa forza, superate le incertezze, gli smarrimenti, gli avvilimenti, che talvolta lo fecero cadere in un cupo pessimismo individuale e cosmico, come si vede dalla canzone Affetti d'un disperato, potè sollevarsi alla sicura professione di metodo scientifico, che enunciò nel De nostri temporis studiorum ratione, e al suo primo tentativo  di applicazione filosofico-storica, rappresentato dal DE ANTIQUISSIMA ITALORVM SAPIENTIA, e da questo, poi, disfacendo in parte il suo stesso pensiero e ritessendo col resto una nuova tela, giungere al De uno universi iuris principio et fine uno e alla Scienza: dopo anni, egli  dice delle scoperte contenute in questa, di continova ed aspra  meditazione. L'opera, menata a termine da quel povero maestro di grammatica e rettorica, da quel pedagogo che un satirico contemporaneo raffigura stralunato e smunto, colla ferula in mano, da quel tormentato pater familias, stupisce e, quasi, spaventa: tanta somma di energia mentale vi è condensata. È un'opera di reazione e di rivoluzione insieme:  reazione al presente per riattaccarsi alla tradizione dell'antichità e del rinascimento; rivoluzione contro il presente e il passato per fondare l’avvenire. Nel campo della  scienza, l'umile popolano diventa aristocratico; e quello stile da signori, che egli falsamente loda nelle misere scritture dei superbi cavalieri e dei pomposi mitrati, era veramente il  suo. Egli aborriva la letteratura galante e socievole, che comincia a diffondersi dalla Gallia in Italia e negli altri paesi  d'Europa, i libri pelle dame. Ma non meno rifuggiva da quella maniera di trattazioni che si chiamano ora manuali, e in cui s’espongono per filo e per segno definizioni elementari e cose già da altri accertate:  ibri che possono giovare  soltanto ai cui per altro V. già abbastanza si sacrifica nella cerchia della scuola perché dove poi sacrificar loro anche qualcosa della propria inviolabile vita scientifica. In questa mira ad altro pubblico che a cavalieri: quando scrive, il suo primo pensiero, la sua prima   pratica era: Come riceverebbero le cose da lui meditate un Platone, un VARRONE,  un  QVINTO MUZIO SCEVOLA?; e la seconda:  Come riceverà queste cose la posterità. Dei contemporanei, aveva innanzi agli occhi, esclusivamente, la Repubblica letteraria, l'Ordine dei  dotti, le Accademie di Europa; un pubblico, a cui non bisognava ripetere ciòche già era stato trovato e detto nel corso della storia delle scienze e che esso aveva  bene a mente, ma porgere soltanto pensieri che fossero reale avanzamento del sapere: non libri voluminosi, ma piccioli libricciuoli, tutti pieni di cose proprie. Un pubblico ideale, insomma, che  ingenuamente egli confonde talvolta con quello dei dotti di professione e  dei critici da riviste letterarie; donde,. la  Autob., In  Autob.,  Ordz.,  ecc.,   Scienza,  ed.  Nicolini,  Oraz.] poi, le frequenti sue delusioni. I libri brevi, in materia metafisica, sembra a lui che avessero, come infatti hanno, particolare efficacia, acconciamente paragonata alle meditazioni sacre, che brievemente propongono pochi punti, le quali fanno molto più profitto nelle cose dello spirito che non le prediche più eloquenti  e più spiegate da facondissimi predicatori. Per quest'amore alla brevità, fu restio dall'aggravare di troppi libri la repubblica letteraria, che già non regge sotto il  peso; lasciò inedite le orazioni, stampò per dovere il De ratione, ed ebbe, infine, a manifestare più volte il desiderio che, di tutte le sue opere, sola gli sopravvive la  Scienza, la quale  contene  condensate e perfezionate tutte le sue indagini.  All'aristocrazia dell'ideale s’accompagnavano nella sua concezione della vita scientifica il più nobile decoro e la più profonda lealtà. Dalle sue polemiche si potrebbe ricavare un intero catechismo circa il modo in cui si debbono condurre le dispute letterarie. Bisogna, egli dice, non mirare a vincere  nella disputa, ma a vincere nella verità -- EPAGOGE DIAGOGE --; onde voleva che quelle si svolgessero con sedatissima maniera di ragionare, perché chi ha potenza non minaccia e chi ha ragione non ingiuria; variate tutt'al più da piacevoli motti, i quali diano a divedere gli animi de'ragionatori esser placidi e tranquilli, non perturbati e commossi.  Agli avversari, che movevano obiezioni vaghe, face notare: Il giudizio è in termini troppo generali: e gli uomini gravi non hanno mai di risposta deguato se non le particolari e determinate opposizioni, che loro sono fatte. Ai medesimi, quando si appellavano alraffinato Oraz., Tra le altre, nella lettera a Galiani  Autob., e il cui autografo è presso di  me. buon gusto del secolo, il quale ha sbandito,  ecc.  ecc., risponde sdegnoso: Questa è invero una grande opposizione, perché opposizione non è; perché, ritirandosi gli avversari al tribunale del proprio giudizio, con quel dire di codesto che tu dici non ho idea, da avversari divengono giudici. Alle autorità non intendeva appoggiarsi, ma neppure le  disprezza; dovendo l'autorità  farci considerati a investigare le cagioni che mai potessero gli autori, e massimamente gravissimi, indurre a questo o a quello opinare. E, accusato di avere commesso il medesimo peccato di Aristotele attribuendo errori ai filosofi per poterli con agevolezza confutare, protesta dignitosamente: Io mi contento del mio  poco sapere ingenuo, che essere comparato di mal costume ad un gran filosofo. Della sua equanimità può dare esempio lo splendido elogio che egli fa di Cartesio, contro il quale pure era rivolto tutto lo sforzo maggiore del suo pensiero. La sua lealtà è attestata dal pronto riconoscere i propri errori: Confesso, dice, in un  punto, ai critici del Giornale  dei letterati, che la mia divisione è VIZIOSA. Né già questo, scrive nella  Scienza, dee sembrare fasto a taluni che noi non contenti de'vantaggiosi giudizi da tali uomini dati alle nostre opere, dopo le disapproviamo e ne facciamo rifiuto; perché questo è argomento della somma venerazione e stima che noi facciamo di tali uomini anzi che no.  Imperciocché i rozzi ed orgogliosi scrittori sostengono le loro opere anche contro le giuste accuse e ragionevoli ammende d'altrui; altri, che per avventura sono di cuor picciolo, s'empiono de'favorevoli giudizi dati alle loro, e per quelli stessi non più s'avanzano a perfezionarle; ma a noi le lodi degli uomini grandi hanno ingrandito l'animo di  correggere, sup  1  Si  vedano  pass,  le  Risposte,  in  Oraz.,  ecc.] plire ed anco in miglior forma di cangiar questa nostra. Vita scientifica proba, come di serio ricercatore del vero: vita sentimentale commossa e rapita, come di chi giunga a faccia a faccia col vero a lungo bramato e cercato, ed esulti di poterlo annunziare agli uomini. Di qui la sua  alta  poesia, che è non già nei versi, ma nelle prose, e, segnatamente,  nella  Scienza. V. è  poeta, scrive Tommaseo: dal fumo dà luce, dalle metafisiche astrazioni trae imagini vive: raccontando, ragiona e, ragionando, dipinge; e pelle cime de'pensieri non passeggia, ma vola; onde in un suo periodo sovente è più estro lirico che in odi assai. Certo,  fossero anche tutte immaginazioni le sue dottrine, quella nascita che egli descrive della società, quella rappresentazione delle età primitive e delle lotte in cui si travagliano e assurgono,  plenderebbe ognora, colle sue gigantesche  figure, colle sue robuste passioni, col divino immanente in quegli aspri petti, come un mirabile poema; e Sanctis vide  infatti nella  Scienza l'andamento di un poema, quasi di una  nuova  Divina commedia. E, come ALIGHIERI sublime, fu anche più di Dante severo; e se le labbra del ghibellin fuggiasco pur si mossero talvolta un poco a riso, V. leva veramente innanzi alla storia un volto che giammai non rise. Del resto, egli che ha avuto tante censure pel suo stile,  non era scrittore volgare; anzi, studioso della buona forma e della toscanità, non meno che sottile estimatore, al dire di Capasso, di vocaboli latini Scienza  V.  e  il  suo  secolo, La  storia civile nella letteraria, Torino,  Loescher; un giudizio su  V.  scrittore. Più ampiamente ora, Nicolini, nella introd. alla sua  ediz. della  Scienza  Autob., Opp.,  ed.  Ferrari,  Autob. Ma compone male i suoi libri, perché la sua mente non padroneggia tutta la materia filosofica e storica che accumula; scrive confusamente, perché con furore e  come in preda a un dèmone: donde, le sproporzioni nelle varie parti dell'opera, nelle  singole pagine, nei singoli periodi. Rende talora immagine di quella bottiglia di cui  parla il poeta, piena d'acqua e capovolta di botto, nella quale l'umore, che vorrebbe uscire, tanto s'affretta e intrica pella via angusta, che a goccia a goccia fuori esce a fatica. A fatica o a fiotti, disordinatamente. Un'idea che egli sta enunciando, gliene richiama un'altra, e questa un fatto, e il  fatto un altro fatto; ed  egli vuol dire tutto in una volta, e  perciò le parentesi s’aprono nelle parentesd, con ritmo spesso vorticoso. Ma quei suoi periodi disordinati, come erano materiati di pensieri originali, cosi sono tutti contesti di frasi  possenti, di parole scultorie, di espressioni commosse, d'immagini pittoresche. Egli scrive male, se cosi piace dire; ma di quello scriver male, del  quale i grandi scrittori  portano con sé il segreto. L'eroismo filosofico di V. non s’afferma soltanto nella lotta interiore con sé stesso pell'elaborazione della scienza, ma fu sottomesso ad altre e più dure prove. La  posizione mentale, da lui raggiunta, avversa al presente e, sotto specie di reazione, vòlta all'avvenire, lo condanna necessariamente all'incomprensione. È codesta,  senza dubbio, la  sorte di tutti gli uomini di genio: incompresi intimamente, anche quando la fortuna sociale sembra secondarli ed essi sollevano entusiasmi e trovano in folla scolari e ripetitori. Il motto che, secondo la leggenda, Hegel pronunzia sul letto di morte, uno solo de'miei scolari m’ha inteso, e questi m’ha frainteso, esprime a meraviglia  tale necessità storica: chi è perfettamente inteso nel suo tempo, muore col suo tempo. Pure, di rado o non mai la sproporzione tra il proprio pensiero e la incomprensione dei contemporanei fu cosi grande come nel caso di V. Se altre cagioni d'infelicità non l'avessero tormentato, sarebbe bastata quest'una. Il desio di laude, che è poi negli animi non  volgari desio di vedere compartecipato, assentito e universalizzato negli altri spiriti ciò che a essi sembra vero e buono, rimase sempre per lui un van desio. Tanto pid l'incomprensione e l'indifferenza lo angosciano, in quanto, com'è facile supporre, aveva piena coscienza, dell'importanza delle proprie scoperte. Egli sa che il providete gli aveva  affidato una missione altissima; sa di esser nato pella gloria della sua patria, e in conseguenza dell'Italia, perché quivi nato, e non in Marrocco, esso riusci letterato. Allorché mandò fuori la Scienza, gli pare come di avere dato fuoco a una mina, e ne aspetta da un momento all'altro lo scoppio e il fragore. Non ne segui nulla: la gente non gliene  parlava; onde egli scrive a un amico, dopo qualche giorno: In questa città si io fo conto d’averla mandata al deserto; e sfuggo tutti i luoghi celebri per non abbattermi in coloro a'quali l'ho  mandata, e, se per necessità egli addivenga, di sfuggita li saluto: nel quale atto non dandomi essi né pure un riscontro di averla ricevuta, mi confermano l'opinione  che io l'abbia mandata al deserto. Egli aveva creduto, addirittura, a un effetto rapido e immediato; e sperato di trovare gli animi pronti e gl'intelletti aperti a ricevere e a fecondare i suoi  pensieri, In  Aulob., Lettera  a Giacchi, in  Anteo., nientemeno che tra i suoi contemporanei e conoscenti di Napoli: tra i frati occupati a comporre e mandare a  memoria prediche verbose, tra i verseggiatori che rimano sonettuzzi, tra gli avvocati che scrivevano allegazioni! Trovò, invece, moltissimi scettici e indifferenti, e non pochi irrisori. Già il libro sul Diritto universale, quando comparve, venne generalmente ripreso per oscuretto, come c'informa Metastasio; e fu poco letto e avventatamente censurato  pelle stravaganze che la lettura disattenta e a salti fa trovarvi in ogni punto. Paoli, cui l'autore ne aveva donato copia, vi scrisse sopra un distico celiando sull'incomprensibilità dell'opera. Peggio fu pella  Scienza: si sa che Capasso, che pure era dotto uomo e bene affetto verso V., provatosi a leggerla, credè di avere smarrito ogni scintilla  d'intendimento, e, buffoneggiando, eorse a farsi tastare il polso dal medico Cirillo. Un erudito senese, nel riferire le impressioni d’una sua visita a  V. e della lettura di qualche suo scritto, lo definì stravagante, privo di criterio e seccatore. Un nobile napoletano, interrogato a Venezia da Finetti circa quel che si pensa a Napoli di  V., disse che, per  un certo tempo costui era passato per uomo davvero dotto,  ma che dipoi, pelle strane sue opinioni, aveva acquistato fama di squilibrato.  E quando die fuori la Scienza? insiste Finetti. Oh, allora, rispose l'altro, era già diventato affatto pazzo! I maldicenti lo Latterà a Giacchi in  Aniob., In  Autob., Lettera di Bandiera  ed. da  Nicolini  e  ristamp.  Critica In  Autob.] colpivano perfino nella modesta professione da cui traeva il sostentamento, dicendolo buono ad insegnare dopo aver fatto tutto il corso de'loro studi, cioè quando erano stati da  essi già resi appagati del lor sapere; o, più insidiosamente, che egli era adatto non a insegnare, ma a dar buon indirizzo ad essi maestri; e, cioè,  riconoscevano la sua superiorità soltanto per farsene un argomento da danneggiarlo nella già cosi stentata sua vita pratica. Né alla generale indifferenza e alla leggerezza o alla malignità dei critici potevano formare compenso gli amici e lodatori, che anche a V. non mancano. Come sarebbero potuti mancargli, se egli ne fa una trepida ed attenta cultura artificiale? Si veda, per es., in qual modo coltiva Giacchi. Lodava di costui le opere ammirabili, il divinissimo ingegno, la rara sublimità delle meravigliose e divine idee. Gli annunzia di aver dato a leggere ai letterati della città l'epistola elogiativa ricevuta da lui, e che tutti ne avevano ammirato il sublime torno del concepire, eppure  egli  proprio, rifaceva in latino d'oro le iscrizioni che Giacchi compone in un latino fratesco! Gli comunica, altra volta, che le lodi di un Giacchi avevano destato invidia ed erano state prese da taluni per adulazioni. Eguali fatiche spende per propiziarsi Gaeta, un vanitoso, tutto pieno del proprio merito, negli Elogi di Gimma fa perfino lodare la sua  avvenenza, e che non sa parlare se non di sé stesso, autore di un panegirico Autob. Furono pubblicate da CROCE in Napoli nobiliss., e  di  ììtftvo  in  Sscondo  nappi,  alla  BUA.  deh. di Benedetto XIII, pel quale, lodato e rilodato da  V., non si sazia mai, e provoca, anzi chiede espressamente, nuove  lodi.  E  V. a inaffiarlo pazientemente della linfa  desiderata: la  maravigliosa opera  di  V.  S.  I. ; il suo dire da signore; le digressioni demosteniche; l'eloquenza, che fu la favella filosofica, colla quale parlano gli antichi accademici, tra i latini  Cicerone, e  tra gl'italiani niun altro che V. S.  I.! A Solla, che gli era stato scolaro e si era poi ritirato in provincia, insinua che la sua Scienza aspetta che  egli fosse tra i pochissimi forniti d'alto intendimento, che volessero riceverla con mente sgombra di tutti i pregiudizi circa i principi dell'umanità. Erano artifizi ingenui, fanciullaggini pietose, colle quali procura di dare un'illusoria soddisfazione al suo bisogno di riconoscimento e di lode, e un calmante ai suoi nervi eccitati. Ma anche a questo modo  raccoglie frutti assai  poveri. Nelle lettere di Giacchi, non è parola che provi che costui avesse intesa una sola delle dottrine di V.  o che almeno le avesse considerate con serio interesse. Gaeta, dopo molti giri eli frasi, gli confessa di avere più ammirate che intese le opere di lui; e, certamente, non le aveva neppur lette, tutto occupato ad ammirare  la propria prosa. Solla, nel quale V. sembra riporre tante speranze, giudica l'orazione pella morte di Cimini cosa superiore a tutte le altre opere dell'autore e alla stessa Scienza. Un simile incauto complimento rivolge a V. un altro ammiratore, pur caldo e affettuoso, Esteban. Lodi generiche o banali gli giungevano talvolta, ma più spesso per In  Autob. darà vano, ostinati, la trascuranza e il silenzio, in ricambio di alcuno dei tanti esemplari delle proprie opere, che invia non solamente ai letterati di Napoli, ma a quelli di Roma, di Pisa, di Padova, anzi di Germania, di Olanda, d'Inghilterra: ne manda, perfino, a Newton. Egli ottenne, tutt'al  più, di farsi considerare erudito tra centinaia di eraditi e  letterato tra migliaia di letterati: dotto uomo, insomma; ma niente altro. Senza dubbio, V. ebbe, tra i modesti, tra gl’oscuri, tra i giovani, schietti ammiratori. Di costoro era il poeta, poi oratore sacro, Angelis; i già ricordati Solla ed Esteban; Concina di Padova; e altri pochi. Ma, se il loro affetto era grande, la loro intelligenza era scarsa. Anche il  Concilia confessa, in mezzo i1 fervore dei suoi entusiasmi, di non intendere troppo bene: I HAVE NO IDEA WHAT THIS MEANS – I HOPE YOU DO Oh quanti fecondissimi e sublimissimi lumi vi sono per entro! Cosi avessi io talento da farne uso e da comprendere il fondo ed il mirabile artificio, che panni alquanto di ravvisare! Il miglior ufficio,  che codesti amici potessero adempiere, era di lenire con parole buone, se non con intima corrispondenza di pensieri, l'animo esacerbato di  V. Cosi fa Esteban, concludendo la lettera nella quale procura di rimediare a quel che gli era scappato dalla penna a proposito dell'orazione per Cimini, e ripete frasi che aveva dovuto cogliere sulla bocca del  maestro: Vivete sicuro  che il providente, per canali da  V.  S. non immaginati, farà sorgere a  V.  S. una fonte perenne di glorie immortali! LodoV., autore del distico, che si legge sotto il ritratto di V., ricevuta  la  Scienza Autob., In  Autob., nuova, manda all'autore, con pratico senno, un po' di vino della cantina e un po'di pane del forno della casa  della  Nunziatella, con una graziosa letterina nella quale lo prega di accettare codeste cosucce, comeché semplici, quando né pure il bambino Gesù rifiuta le rozze offerte de'rustici pastorelli. E gli suggeriva di aggiungere nella simbolica dipintura che precede l'opera, accanto all'alfabeto, un piccolo nano in atteggiamento di chi ammirando ammuta  come il montanaro di Dante, scrivendovi sotto con significante dieresi il  nome:  Lodo-V.! Tra i tanti giovani della sua scuola, erano alcuni, tutti pieni della dottrina di lui, pronti a difendere il maestro a spada tratta T ma si sa che cosa valgano codesti entusiasmi di giovani. Se quegli scolari avessero penetrato davvero le dottrine o qualche parte  delle dottrine di V., se ne sarebbero vedute le tracce nella letteratura e nella cultura della generazione che segui a  V.; e, invece, non ne fu nulla o quasi. Appena qualche sentenza, qualche affermazione storica, qualche concetto isolato e superficialmente inteso fu ripetuto a Venezia da Conti, a Padova da Concina, da Luzàn, il quale aveva dimorato  a  Napoli negli anni della pubblicazione della Scienza, e qualche cosa di più nella patria dell'autore, da Genovesi e particolarmente da Galiani.  GÌ' invidi, i leggieri, i pettegoli, i calunniatori, gl'inintelligenti eccitavano in V. scoppi di collera violenta. Di questo suo peccato si confessa nell'autobiografia, dicendo che con maniera troppo risentita  inveiva contro o gli errori d' ingegno o di dottrina o mal costume dei letterati suoi emuli, che dove con cristiana carità, e da vero fi  i  In  Autob., losofo, o dissimulare o compatirgli. Ma, in fondo, quel peccato non gli spiace: al pari di Dante, vi trova qualche bellezza. L'orazione per Cimini contiene una  specie d'inno alla collera, alla  collera eroica,  che negli animi generosi co' suoi bollori turbando e dall'imo confondendo ogni mal nata riflessione della mente, da cui nasce la razza vile della fraude, dell'inganno, della menzogna, fa ella gli eroi aperti, veritieri e fidi, e si, interessandoli della verità, li arma forti campioni della ragione incontro ai torti ed alle offese. Benché nello scrivere si  guardasse a tutto potere dal cadere in quella passione, la collera si sente tumultuare mal repressa nelle lettere private, in tutte quelle punte contro i dotti cattivi, che amano più l'erudizione che la verità, contro il comune degli uomini che è tutto memoria e fantasia, e via dicendo. Nella conversazione poi, era, a quel che sembra, mordacissimo. Quando,  Romano pubblica un libro contro la tesi di V. relativa alle dodici tavole,  V., racconta Romano medesimo, sebbene vi fosse stato trattato coi titoli di dottissimo e di celeberrimo e con ogni altra dimostrazione di reverenza, ci addenta in maniera che fu di ribrezzo e di orrore a chiunque vi si trovò presente, vedendo egli di malissima voglia che un  garzone come noi si fusse con lui cimentato. Ma agli scoppi di collera s’alternavano le ricadute nella più profonda tristezza. In un sonetto, egli si dice oppresso da quel fato che l'ingiusto odio altrui creò sovente, onde si era np  i  Opp-ì  eJ.  Ferrari,  Autob.,  In  Autob.,  partato dal consorzio umano a vivere solo con sé stesso. Da quel torpore si  riscoteva, talvolta, per qualche istante: Poi ricaggio in me stesso, e da mie gravi cure sospinto a tornar là dov'era, di me, non per mia colpa, ho da dolermi. Eppure, fra tanti tormenti e contrarietà e delusioni, in mezzo a questa tristezza che veniva frequente a ricoprirlo dei suoi neri veli,  V. provò una delle più alte felicità dell'uomo: quel vivere di  meditazione scevra e pura di passione, che allora senza la compagnia tumultuosa e grave del corpo vive veramente l'uomo solo; quella vita di sicuro possesso, perché medesimata coll'anima, sempre presta e presente, che gli dimostra il suo essere fisso nell'Eterno che tutti i tempi misura, e spaziante nell'infinito che tutte le finite cose comprende; e  si il colma di una eterna immensa gioia, non in certi luoghi invidiosamente né in certi tempi avaramente ristretta, ma che senza uggia di emulazione, senza tema di scemamento, per ciò unicamente in esso lui accrescere si  potrebbe se ella fosse tuttavia a più e più umane HVMANIORES menti comunicata e diffusa. Della verità raggiunta non dubitò  mai, pur continuando sempre a elaborarla: sopra il sistema presentato nel libro del Diritto universale la sua mente, egli  dice, riposa sodisfatta. Le fatiche, e gli stessi dolori che aveva cosi acerbamente sofferti, gli erano cari, perché attraverso di essi era pervenuto alle sue  scoperte: In  Autob., Opp.,  ed.  Ferrari, Lettera  a  Giacchi in  Autob.,  Benedico ben anni da me spesi nella meditazione di siffatto argomento, ed in mezzo le avversità della mia fortuna e le remore che mi facevano gli esempli infelici degl'ingegni, che han tentato delle nuove e gravi discoverte. Come poteva non benedire quelle fatiche e quei dolori e quelle avversità, se ogni qual volta si solleva dal tumulto passionale  dell'uomo empirico e dalle lotte dell'uomo pratico, la sua mente gli mostra la necessità ineluttabile e di quanto egli aveva operato e di quanto aveva sofferto, e l'ima e l'altra necessità strette in modo tra loro da formarne una sola e indivisibile?  La sua stessa dottrina filosofica gli porge dunque la medicina del male, e promoveva nel suo animo la  catarsi liberatrice: quella dottrina che aveva per centro l'idea del providente immanente o, come si disse poi, della necessità storica. Sia pur sempre lodato il providente, che quando agl'infermi occhi mortali sembra lui tutto severa giustizia, allora più che mai è impiegato in una somma benignità! Perché da questa opera io mi sento aver vestito un  nuovo uomo e provo rintuzzati quegli stimoli di più lamentarmi della mia avversa fortuna, e di più inveire contro alla corrotta moda delle lettere che mi ha fatto tal'avversa fortuna; perché questa moda, questa fortuna mi hanno avvalorato e assistito a lavorare quest'opera. Anzi, non sarà per avventura egli vero, ma mi piace che fosse vero, quest'opera  mi ha informato di un certo spirito eroico, per lo quale non più mi perturba alcun timore della morte e sperimento l'animo non più curante di parlare degli emoli. Finalmente, mi ha fermato come sopra  un'alta adamantina ròcca il giudizio  Lettera a Corsini in  Autob., di Dio, il quale fa giustizia alle opere d'ingegno colla stima dei saggi, degli uomini  cioè di altissimo intendimento, di erudizione tutta propria, generosi e magnanimi,  intenti a conferire opere immortali nel comune delle lettere, che sempre e da per tutto furono pochissimi. Il providente gli mostra, dunque, la necessità di tutto ciò che gli era accaduto e ancora gli accade nella vita, e, inculcandogli la rassegnazione, gli promette la  Gloria. Cosi l'uomo collerico diventa perfino tollerante: di quella tolleranza, di quella indulgenza superiore che non è da  confondere col volgare tollerantismo. L'Università, nella quale aveva sperato fare avanzamento e verso cui aveva rivolto il pensiero nel comporre le prime opere, non aveva voluto sapere di lui; ed egli si era tutto ritirato in sé  stesso a meditare la  Scienza. Dunque, dice con sorriso in cui si sente ancora alcunché d’amaro, questa mia opera io la debbo all'Università, che, riputandomi immeritevole della  cattedra e non volendomi occupato a trattar paragrafi, mi ha dato l'agio di meditarla: posso io avergliene più grado di questo? Un amico, il fiorentino Sostegni, in un sonetto  a lui indirizzato, usciva in parole di biasimo contro la città di Napoli, che aveva tenuto in poco conto il suo gran figlio. E  V., nella risposta, giustifica con nobili parole la patria, dura con lui perché molto da lui aspettala e molto aveva voluto ottenerne: In  Autob., Lettera  a  Giacchi in  Autob..Severa madre non vezzeggia in seno figlio, che ne fia  poscia oscura e vile; ma grave in viso ancor l'ode e rimira. Da questa condizione di spirito nasce l’Autobiografia, opera che è stata mal giudicata e del tutto fraintesa da Ferrari, il quale vi biasima il teleologismo dominante e vi lamenta la mancanza di una spiegazione psicologica della vita di V. Come se V. medesimo non avesse professato che  l'aveva scritta da  filosofo! E che cosa significa scrivere da filosofo la vita d’un filosofo, se non intendere l'oggettiva necessità del suo pensiero e scorgerne gli addentellati anche dove all'autore, nel momento che lo pensò, non apparivano del tutto chiari? V. medita nelle cagioni cosi naturali come morali, e nell'occasioni della fortuna; medita nelle  sue ch'ebbe fin da fanciullo o inclinazioni o avversioni più ad altre spezie di studi che ad altre; medita nell'opportunitadi o nelle traversie onde fece o ritardò i suoi progressi; medita, finalmente, in certi suoi sforzi di alcuni suoi sensi diritti, i quali poi avevangli a fruttare le riflessioni, sulle quali lavora l'ultima sua opera della Scienza, la qual  appruovasse tale e non altra aver dovuto essere la sua vita letteraria. L' Autobiografia di  V. è, insomma, l'applicazione della Scienza alla biografìa dell'autore, alla storia della propria vita individuale – H. P. Grice, Prejudices and predilections; which become, The life and opinions of H P. Grice; e il metodo ne è, quanto originale, altrettanto giusto  e vero. Che poi V. riuscisse solo in parte nel suo assunto, e, cioè, non potesse fare la critica e la storia di sé  stesso come sono in In  Autob., Nell'introd. Opere.  Autob., grado di farla i critici e gli storici odierni, e altrimenti saranno quelli futuri, è troppo ovvio perché vi si debba insistere. L'Autobiografia termina anch'essa con una benedizione alle  avversità, un  riconoscimento del providente e una certezza di fama e di gloria. Negli ultimi anni di sua vita V., aggravato dalla vecchiaia, dalle domestiche cure e dalle malattie, rinunzia affatto agli studi. Da la tremante man cade il mio stile e de'pensier s'è chiuso il mio tesauro, esclama in due versi, pieni di lacrime, di un sonetto. Prepara allora,  per una possibile ristampa, le aggiunte e correzioni alla Scienza, e le incorporò nel definitivo manoscritto dell'opera; pensò per un momento di mettere a stampa l'operetta De cequilibrio corporis animantìs, composta molti anni prima e che andò poi smarrita; adempiè ancora a qualche obbligo di uffizio, come, all'orazione pelle nozze di re Carlo  Borbone. Il figliuolo cominciat a sostituirlo nella scuola, e riceve definitivamente la cattedra dalla quale il  padre si ritira. Vive V. tra i suoi, come un soldato exacta militici, nel ricordo delle battaglie combattute, nella coscienza del dovere compiuto. Il buon figliuolo gli   faceva,  Autob.,  In  Autob.,  sonetto  pellle nozze di Sangro Autob.,  ed.  cit.,  Sec.  tuppL,  In  Aidob.y  ogni giorno, qualche ora di lettura dei classici latini da lui più amati e studiati un tempo. E, in questo suo tramonto, gli fu risparmiato, almeno, il tormento dei tormenti: quello che straziò negli ultimi anni di vita un filosofo tanto di lui più fortunato,  Kant, ansioso di dare séguito e compimento al suo sistema filosofico e  consumantesi in una sterile lotta coi pensieri che gli sfuggivano e le parole che non più gli obbedivano. V. aveva detto tutto ciò che doveva dire, e conobbe da sé stesso, quale grande storico di sé stesso, il momento in  cui il providente aveva terminato in lui l'opera sua, chiudeva il tesoro dei pensieri che gli aveva cosi largamente aperto per tanti  anni e gli comanda di deporre la penna.  La narrazione delle vicende alle quali anda soggetta la fama di V. non dev'essere sostituita o frammischiata all'esposizione e giudizio del pensiero di V., perdendo di vista la storia della filosofia propriamente detta o turbandola colla storia della cultura. Ma anche quando poi si passi a questa seconda storia,  bisogna guardarsi da un altro genere di errore: dalla pretesa di giungere a determinare, mercé quella narrazione, se l'opera di V. fosse o no culturalmente utile, e quanti gradi di utilità le si debbano riconoscere. Siffatta indagine è priva di significato e la  corrispondente  misurazione impossibile et eseguire; perché, se ben si consideri, un unico  discepolo può valere le decine e le centinaia, un effetto solo prodottosi dopo secoli compensare un'efficacia ritardata per secoli, un oblio immeritato riuscire altrettanto memorabile e ammonitivo quanto una fama meritatissima, e una mede Restringo in breve i principali risultati delle ricerche da CROCE fatte sull'argomento ed esposte nella  Bibliografia di V. e  nei annessi Supplementi, ai quali lavori rimando per maggiori particolari e pella documentazione delle cose che qui si affermano.  sima verità, scoperta due volte in modo indipendente, da questa stessa duplicazione e apparente superfluità ricevere come il crisma della sua ineluttabile necessità. L'opera di V., si è concluso di  solito, fu del tutto inutile, perché apparsa fuori tempo ossia troppo presto, e rimasta sconosciuta o giunta a notizia quando non poteva insegnare più nulla. E, col dire ciò, si è blasfemato contro la storia, la quale non ammette nulla d'inutile ed e sempre, in ogni sua parte, opera, avrebbe detto V., del providente, alle cui ampie utilità non è lecito  applicare piccole misure umane, corte di una spanna. Ebbe  V. rinomanza, lettori, intenditori e seguaci? Si è risposto, con pari risolutezza, no e si; e, a provare la risposta affermativa, si sono andati raccogliendo con molta diligenza i ricordi che del nome e delle  dottrine di  V. si trovano sparsi negli scritti  dei filosofi, accumulando sospetti e indizi  su tracce inconfessate delle sue idee, che si scorgerebbero in libri. Ma un pensatore come V. non si può dire propriamente conosciuto se non quando di lui sia stato còlto il pensiero fondamentale e risentito lo spirito animatore. Ora la maggior parte dei fatti arrecati a documento dell'efficacia dell'opera sua concernono dottrine particolari, che, avulse  dal complesso, furono accettate o contestate né più né meno di quelle di qualsiasi altro critico ed erudito o dicitore di paradossi del tempo suo. Tale è il caso, in primo luogo, della teoria circa l'origine della legge delle dodici tavole, discussa nella polemica che s’agita fraTanucci e Grandi, oppugnata da Romano, accolta nella Gallia da Bonamy e  rammentata  da Terrasson; delle interpretazioni storiche circa i primi tempi di Roma, ricordate da Chaslellux, seguite e svolte da Duni e, attraverso costui, sfruttate da Bignon; delle ipotesi sulla preistoria e sulle origini dell'umanità, adoperate e alterate da Boulanger nella Gallia e da Pagano in Italia; dei concetti storici e politici, e di quelli sulla  poesia e sulla lingua del LAZIO che si trovano presso Galiani, Pagano, Cesarotti e qualche altro. Questione pili sostanziale era quella del metodo di studiare e giudicare le istituzioni politiche e le leggi; pella qual parte Montesquieu fu messo a paragone con V. e accusato di essersi valso largamente della Scienza senza citarla. È ormai accertato che  Conti in Venezia consiglia al futuro autore dell'Esprit des lois, come risulta dai diari di quest'ultimo, di comprare a Napoli il libro di  V.: consiglio che fu certamente messo in atto quando Montesquieu si reca a  Napoli, perché un esemplare della Scienza si serba ancora nella biblioteca del castello de la Bròde. Ma ingegno troppo diverso rispetto al  V., e troppo meno profondo, era quello dello scrittore gallo, da trarre vitale nutrimento da un'opera come la Scienza; e i vestigi d' imitazione, che si è creduto di scorgere nell'Esprit des lois, sono assai contestabili e, in ogni caso, di scarsa importanza. Deve dirsi, per altro, che il merito generalmente attribuito al Montesquieu, di avere introdotto  l'elemento storico nel diritto positivo, prendendo per tal modo a considerare in guisa veramente filosofica, come poi scrisse Hegel, la legislazione, quale momento dipendente di una totalità in rapporto a tutte le altre determinazioni che formano il carattere di un popolo o di un'epoca; questo inerito, in ordine cosi di tempo come di eccellenza, spetta  invece a  V. Come Montesquieu pella scienza della legislazione, cosi Wolf pella questione omerica, fu sospettato di essersi giovato tacitamente delle speculazioni di V. Ma Wolf,  quando die fuori i Prolegomena ad Homerum, ignora, almeno direttamente, la Scienza, che non conobbe se non di nome e poi di fatto pel dono che di quel libro gli fece  Cesarotti. È da notare per altro che i concetti di V. circa il carattere barbarico e la mancanza di riposta sapienza nell'epos omerico erano, forse per opera di Galiani, divulgati dalla Gazette Uttéraire de l'Europe del Suard e d’Arnaud; e, meglio ancora, che la Scienza era conosciuta e adoperata dal filologo e archeologo Zoega, il quale la cita in un  suo  saggio su Omero; e che con Zoega teneva carteggio Heyne, il quale  accusò poi Wolf di avere attinto alle sue lezioni pella teoria presentata nei Prolegomena – cf GRICE CAJOLED -- IN THE NEW WORLD -- e, in verità, sin  d’anti, manifesta l'idea di una genesi graduale dei poemi omerici; e, infine, che quelle teorie già si profilavano in Wood e  in alcune memorie di Merian. I concetti di V. con o senza il nome del loro autore – SIDONIO, IMPLICATURA -- erano dunque penetrati in qualche misura nell'ambiente filologico; e Wolf ne ebbe indubbiamente un certo sentore indiretto. E, in ogni caso, resta sempre, anche qui, il fatto riconosciuto da tutti coloro che hanno studiato la questione:  che la teoria omerica, cosi come si trova esposta dal Wolf, dovrebbe dirsi non wolfiana ma vichiana, GRICEIANA perché tale è veramente in quasi tutti i suoi tratti fondamentali. Del resto, Wolf, filologo di gran lunga superiore a V. ma anch'esso pensatore assai minore – KRETZMANN ON GRICE --, non era in grado d'intendere le motivazioni  ideali che avevano condotto il suo predecessore a quella dottrina intorno a Omero; com'è chiaro dall'articolo, alquanto superficiale, che vi scrisse intorno. Certamente a Napoli fu in molti una confusa coscienza della grandezza dell'opera di V.; ma in che propriamente questa grandezza consistesse non si sa determinare, perché facevano ancora difetto  l'esperienza e la preparazione adeguate. E fuori d'Italia, e in Germania in particolare – i tedeschi amano gl’italiani --, dove questa preparazione c'era, o almeno ce n'era assai di più, l'opera di  V. rimane generalmente sconosciuta, in parte per il discredito di NAPOLI in cui erano caduti i libri italiani, in parte pelle difficoltà che lo stile di  V. offre  agli stranieri. Quando la Scienza capitò tra le mani di uomini atti a comprenderla, sembra come se il caso si divertisse a impedirne loro la seria lettura e l'intelligenza. Hamann si procurò la Scienza da  Firenze, in un tempo in cui si occupava di economia e di fisiocrazia, immaginando che vi si trattassero tali materie; e rimase deluso quando, nella  scorsa che le dette, si avvide di avere innanzi una selva di ricerche filologiche, eseguite per giunta con scarsa acribia. Goethe l'ebbe a Napoli, con grandi raccomandazioni, da Filangieri e la porta seco in Germania e la presta a Jacobi; ma solo per una felice combinazione, piuttosto che per una vera conoscenza o per un chiaro intuito, avvicinò il  nome di V. a quello di Hamann. Herder, che anch'esso conobbe l'opera di V. non forse mercé l'accenno fattogliene da Hamann nel loro carteggio, ma piuttosto nel suo viaggio d'Italia, ne discorse in termini affatto generici e senza avvertire nessuno dei molteplici rapporti che a V. lo stringevano, in ispecie nelle dottrine sulla lingua del LAZIO e  sulla  poesia. I soli che veramente penetrassero la tendenza fondamentale di V. e, pur senza volerlo, ne riconoscessero la genuina grandezza, furono, a nuova conferma della salda contestura spirituale del cattolicesimo, gli avversari cattolici, che egli, allora, ebbe in buon numero: Romano, Lami, Rogadei, e sopra tutti, Finetti. Videro costoro che V.,  nonostante i suoi fermi propositi di ortodossia religiosa, coltiva un' idea del providente affatto difforme da quella della teologia cristiana, e di Dio fa continua menzione a parole, ma non lo lascia poi operare effettivamente, come Dio personale, nella  storia; che distacca con taglio cosi netto storia profana e storia sacra da giungere a una dottrina  affatto naturale e umana delle origini della civiltà, mercé lo stato ferino, e di quelle della religione, mercé il timore, il pudore e l'universale fantastico, laddove la dottrina tradizionale cattolica ammette una certa comunicazione tra la storia sacra e la profana, e nella religione e civiltà pagana riconosce il lievito operante di una qualche notizia,sia pur  vaga, della primitiva verità  rivelata; che, pure protestando di accogliere e rafforzare l'autorità della Bibbia, egli la mina e scrolla in molti punti; che la sua critica alla tradizione storica profana, condotta con spirito superbo di ribellione al passato, poteva aprire l'adito a dannosissimi abusi, perché istiga ad applicare il medesimo spirito e metodo alla  storia sacra, come fece poi Boulanger. Un'invettiva, insomma, nella quale erano già accuratamente indicate tutte le parti che dovevano dipoi entrare a comporre il grandioso elogio che s’avrebbe indirizzato a V.. Nacque per tal modo tra gli uomini di chiesa una certa diffidenza verso questo autore; di che, tra l'altro, fu effetto più tardi, al tempo della  restaurazione, la polemica anti-V. di Colangelo, preceduta da un giudizio di Giustiniani, che dice la Scienza: un libro il quale da luogo a segnare un'epoca molto infelice in Europa. La critica dei cattolici contro V. porse materia a un libro assai istruttivo di Labanca: più oltre in questo volume. Quasi a contrasto, tra i filosofi che in Napoli coltivano  con ardore gli studi sociali e politici e s’accingevano all'opera attiva della imminente rivoluzione, V. comincia a essere considerato come filosofo anticlericale e anticattolico, e sorse la leggenda che V. avesse di proposito e per accorgimento reso oscuro il suo libro per salvarsi dalla censura ecclesiastica. Quei filosofi presero a leggere e a vantare la  Scienza; disegnarono di ristamparla, perché era divenuta rara, colle altre opere dell'autore e cogli scritti  inediti; prepararono lavori espositivi e critici sul sistema filosofico e storico di V.; taluno, come Pagano, si prova a rielaborarlo mescolandolo colle idee del sensismo gallo, e tal altro, come Filangieri, benché molto lo ammirasse, non ne fu  distolto dai sogni del più roseo riformismo; il  tedesco Gerning, che capita a Napoli, nota questo fervore di studi intorno a V. e augura una traduzione o almeno un estratto tedesco della Scienza. E quando la caduta della repubblica napoletana spinse quei filosofi, quelli, tra essi, che scamparono dalle stragi e dai patiboli della reazione borbonica, agli  esili nell'Italia superiore e specialmente in Lombardia, la fama di V. ebbe i suoi primi ardenti apostoli e missionari. Cuoco, Lomonaco, Salii e altri patrioti meridionali fecero conoscere la Scienza a Monti, che ne toccò nella sua prolusione universitaria di Pavia; a Foscolo, che ne accolse parecchi pensieri nel carme dei Sepolcri e nei saggi di critica;  a Manzoni, che dove poi istituire nel Discorso sulla storia lombarda un celebre raffronto tra V. e  Muratori;  e  ad  altri minori. Cuoco informò intorno a V. Degérando, che allora lavor alla sua Histoire comparée des sgstèmes philosophiques; un altro esule, Angelis, mette la Scienza tra le mani di Michelet; Salti discorre di  V. negli articoli della  Revue encyclopèdique e in volumi ed opuscoli scritti in francese. Anche per suggerimento di quei napoletani, fu a Milano ristampata la Scienza; e altre edizioni e raccolte di opere minori vicinane non tardarono a comparire. Per tali vicende, V., da reputazione quasi esclusivamente municipale e napoletana, pervenne a reputazione nazionale e italiana.   Senonché, conforme alle loro personali disposizioni e alle tendenze del  tempo, il primo e principale ammaestramento che i patrioti studiosi di V. trassero dal suo pensiero, fu POLITICO o di filosofia politica; e cioè, la critica di quel giacobinismo e di quel filo-gallismo che avevano fatto cosi cattiva prova negli avvenimenti a Napoli. Il pensiero di  V. li guida a concetti più concreti, e generò un'opera di capitale importanza, il Saggio storico sulla rivoluzione napoletana di  Cuoco. Similmente,  Ballanche, nei suoi Essais de palingénesie sociale, scrive che V., se fosse stato noto nell Gallia piu temprano avrebbe esercitato un'azione moderatrice e benefica sulle rivoluzioni sociali che seguirono. Un altro particolare aspetto di V., la riforma ch'egli inizia della metodologia storica e della scienza sociale a servigio della  storia, fu avvertito e lumeggiato da Iannelli nel libro: Sulla natura e necessità della scienza delle cosa e delle storie umane. Foscolo principalmente, e coloro che da lui presero ispirazione, fecero penetrare nella critica e storia letteraria qualcosa delle concezioni di V. sulla interpetrazione storica della poesia. Invece, in Germania, Jacobi, che aveva letto il De  1 quali V. trasse un opuscolo: De (Equilibrio corporis animantis, che molti anni dipoi pensa di pubblicare e che è andato perduto; onde di quelle, come delle sue speculazioni di fisica, che dovevano costituire il  Liber  physicus, non si sa altro se non ciò che egli stesso dice nell'autobiografia.  Tralasciando gli scritti rettorici e per commissione, dei quali il più esteso è il De rebus gestis Antonii Campitevi, Napoli, Mosca, i nuovi frutti del suo pensiero, che si andò concentrando sui problemi morali e storici, prima accennati in una  prolusione della quale il sommario è nell'autobiografia, furono condensati da  V., in  italiano, in un programma a stampa di quattro pagine fitte a due colonne, noto sotto il nome di Sinopsi del diritto universale, e svolti nell'ampia trattazione: De universi iuris uno principio et fine uno liber units, Napoli,  Mosca, compiuta l'anno dopo dal Liber alter qui est de constantia iurisprudentis,  e accresciuta  dalle Kotce in dioos libros, ecc., che rappresentano un ulteriore avanzamento; la quale opera si suole designare nel suo complesso, seguendo l'esempio dello stesso autore, col nome di Diritto universale. Questo libro, secondo Cantoni rappresenta il culmine dell'attività scientifica di V.: giudizio non meno inaccettabile del precedente.  L'autore (Opp.) rifiutò il Diritto universale, perché gli pare che vi perdurassero il pregiudizio e la pretesa di scendere dalla mente di Platone e degli altri filosofi a quelle degli uomini primitivi, onde in esso avrebbe errato in alquante materie ma lo disse anche a ragione, abbozzo della Scienza, qual è veramente. Le idee sulla  poesia vi sono ancora  perplesse, Omero non vi è ancora un mito, i canoni mitologici sono meno unitari di quel che divennero poi, per l'origine delle XII tavole s’affaccia un'ipotesi ibrida, la teoria del ri-corso vi è appena debolmente adombrata, e insomma cosi la storia ideale eterna come la gnoseologia, sulla quale essa si  fonda, sono ancora immature. L'opera è rifusa  nelle posteriori, salvo ciò che riguarda la generale filosofia etica e giuridica, che non è molto originale, e salvo alcuni svolgimenti storici che nelle opere posteriori ricompaiono solo in accenno. È andato perduto il manoscritto di un'opera italiana, divisa in due libri, in cui V. espone le sue dottrine per via negativa, ossia con metodo prevalentemente polemico. In modo positivo, invece, e in forma concisa, le espose nei Principi di una Scienza intorno alla comune natura delle nazioni, pella quale sì ritrovano i principi di altro sistema del diritto naturale delle genti, Napoli, Mosca, che sono coKOsciuti colla denominazione, anche questa proveniente dall'autore medesimo, di scienza. Nello stesso  anno in cui pubblicò la scienza V. narra la storia dei suoi studi: Vita  di V. scritta da sé medesimo, che fu inserita nella Raccolta di opuscoli scientifici e filologici di Calogerà, Venezia, Zani. Dei minori scritti di questo periodo sono notevoli altresì le due orazioni in morte della contessa di Althann e della marchesana della Petrella Angiola Cimini;  il volumetto Vici vindicice, Napoli, Mosca, contenente una difesa di carattere personale, con un'importante digressione teorica sul riso, contro una maligna noterella inserita negli Acta lipsiensia intorno alla Scienza; e alcune lettere bellissime a Giacchi, a  Angioli, a Esperti, a Vitry e a Solla, sul contrasto tra la sua opera e le condizioni degli studi  a quel tempo. Alla scienza V. pensò di aggiungere una lunga serie di Annotazioni, effettivamente poi  scritte ma andate disperse, in una ristampa che se ne prepara a Venezia. Ma poiché questa non ebbe più effetto e, d'altro canto, quel libro non lo soddisfaceva se non proprio pelle materie, egli  dice, pell'ordine tenuto, Opp., si risolse a dare  un'esposizione affatto nuova delle sue dottrine nei libri de' principi di una Scienza d'intorno alla comune natura delle nazioni, in questa impressione con più propia maniera condotti e di molto accresciuti, Napoli, Mosca, che formano la scienza. Quantunque Cantoni consideri quest'opera come una variazione del pensiero di V., essa è invece il  risultato necessario e la forma perfetta a cui mettono capo i tentativi precedenti; ed è il libro che, insieme col De antiquissima e coll'autobiografia, basta a fornire tutto l'essenziale pella conoscenza del pensiero di lai. Nel Diritto universale e nella Prima scienza nuova si può spigolare soltanto qualche particolare dipoi tralasciato; ma, pel resto, vi  compaiono le medesime dottrine della scienza in un modo meno profondo e meno sicuro, e, certamente, meno vichiano. Il confronto particolare tra queste tre opere fu eseguito con diligenza nei sommarietti apposti da Ferrari alle sue edizioni della scienza; e moltissimi altri riscontri e più particolareggiati possono vedersi ora nella edizione della  Scienza, curata da Nicolini. Anche alla  redazione V., senza quasi più mutarne l'ordine e la sostanza, andò facendo molte variazioni e aggiunte, che poi incorporò per gran parte nel testo in un manoscritto definitivo, sul quale fu condotta l'edizione dei Principi di una Scienza d'intorno alla comune natura delle nazioni, uscita dopo la morte di V.—GRICE STUDIES IN THE WAY, Napoli, nella stamperia muziana. Sono serbati nella Biblioteca di Napoli gli autografi cosi di questo manoscritto come di altri anteriori di aggiunte e correzioni, dai quali trassero alcuni brani rimasti inediti Giordano, Napoli, e Giudice, Napoli, e ora tutti i brani inediti e le varianti ha estratto Nicolini pella sua  edizione.  Dopo la scienza, V. scrisse pochissime cose notevoli, tra esse, l'orazione De  mente heroica, Napoli, l'aggiunta all'autobiografia  e alcuni sonetti, nei quali, sebbene composti, come quasi tutti i suoi versi, per occasione e commissione, risuona, qua e là, una nota personale. Degli scritti minori di V. si fecero raccolte, una delle sole Latince  orationes, a cura di Daniele, Napoli, e l'altra, ricca di cose inedite ma non esente da raffazzonature dell'editore, degli Opuscoli italiani e latini,  a cura del marchese di Villarosa, Napoli. Villarosa ebbe tutto ciò che avanza delle carte di  V. dal figliuolo di costui, Gennaro; e i preziosi autografi si serbano ancora a Napoli in casa dei miei cari amici  ingegneri Tommaso e  incenzo, de Rosa di Villarosa. Delle Opere complete la prima, e si può dire unica edizione perché riprodotta in tutte le altre, è quella di Ferrari, Milano, Classici italiani, ristampata con qualche miglionnento. Le Opere a cura di Corcia, Napoli, tipografia della Sibilla, sono, invece, una scelta; e le Opere a cura di Preclari, Milano, Bravetta, si arrestano al primo e disordinato volume. Incompleta e disordinata è anche l'edizione di Napoli, Iovene, che segue l'edizione di Ferrari, ma pur contiene qualche bazzecola inedita. Materialmente condotta sulla ferrariana, e poco corretta, è l'edizione napoletana delle Opere presso la tipografia dei Classici italiani, e Morano; la  quale, per altro, e la più completa di tutte, essendovi unite la Sinopsi, le Istituzioni oratorie e le Orazioni latine edite da Galasso, che vennero fuori dopo  l'edizioAe  Ferrari); vi sono aggiunte anche versioni italiane del De ratione, del De antiquissima e del Diritto universale, a cura di Pomodoro.  Scritti inediti o sparsi di  V., non compresi in nessuna  di tali edizioni, sono raccolti nel Croce, Bibliografìa vichiana  e  supplementi,  e ricerche e in un  opuscolo di Donati: si veda più  oltre.  Una  edizione critica della scienza è stata pubblicata nella Collana dei classici della filosofia moderna diretta da Croce e Gentile, Bari, Laterza. È dovuta a Nicolini, che si e valso per essa degli autografi ed ha  arricchito l'edizione Ferrari, che contene solo i brani soppressi, di tutti i brani delle redazioni intermedie fino al testo; ha, inoltre, riscontrato le citazioni vichiane e recato in nota i luoghi degli autori classici e moderni ai quali si riferiva V.; additati i molti errori d'erudizione, procurando sempre che fosse possibile di mostrarne la genesi; schiariti i  punti oscuri col riferimento alle altre opere di V.; e, finalmente, riforma, secondo un desiderio più volte espresso anche da autorevoli letterati come Tommaseo, l'ortografia e la punteggiatura. Dell'edizione ferrariana sono riprodotti in questa di Nicolini, ma alquanto ritoccati, gli utili sommarietti. In un'ampia introduzione si studia  V. scrittore e si  da notizia delle sue cessive redazioni e rimanipolazioni della Scienza, escursi mostrano come  V. giunse via via alla sua teoria omerica e all'altra analoga sulla Legge delle XII Tavole; e le ricerche sono agevolate da un minuto indice analitico. Lo stesso Nicolini, con Croce e con Gentile, attende a una edizione delle Opere complete, che fa parte  della raccolta degli Scrittori a Italia del Laterza e il cui disegno e indice particolareggiato si può leggere nel  Croce, Supplemento alla Bibliografia  vichiqna. Di questa edizione sono stati pubblicati Le orazioni inaugurali, il De italorum sapientia e le polemiche, a cura di Gentile e di Nicolini, e L'autobiografia, il  carteggio e le poesie varie, a cura  di Croce.  Le opere latine di V. sono state più volte tradotte in italiano: il De antiquissima da un anonimo, che forse fu Monti, e poi da Sarchi; il primo libro del Diritto universale da Corcia, d’Amante, da Giani e da Sarchi, e tutti i due libri, nonché il De ratione e il De antiquissima, da Pomodoro. La  scienza fu tradotta in gallo, ma molto abbreviata,  da Michelet, col titolo Principes de la philosophie de l'histoire, Paris, Renouard, e più volte ristampata, e di nuovo, completa, da un anonimo che si designa come l'auteur de l'Essai sur la formation du dogme catkolique e che fu la principessa di Belgioioso Cristina Trivulzi, Paris, Renouard. Completa anche, e fornita di ottime note, è la traduzione  tedesca di Weber, Leipzig, Brockhaus, che suggerimenti e aiuti ebbe da Orelli. In britannico, si ha solo la versione del libro su Omero, condotta sulla francese di Michelet e inserita nell'opera di Coleridge, Introduction to the study of the greek classic poets, London, Murray. Michelet traduce alcune delle operette minori di V., che si accompagnano  alla Scienza nell'edizione CEuvres choisies de V., Paris, Hachette, e in ristampe. Del primo libro del Diritto universale si ha un compendio in tedesco di Miiller, primo volumetto di una serie non proseguita di Kleine Schriften di V., Neubrandeburg, Brùnslow. A supplemento dell'autobiografia, Villarosa raccolse le notizie degli ultimi anni della  vita di V., e le mise come continuazione di quello scritto nella sua edizione degli Opuscoli. Questo supplemento, e tutto ciò che di poi è venuto fuori di documenti o di ricordi di contemporanei intorno a V., si trovano raccolti nella edizione delle opere di V., intitolato: L'autobiografia, il carteggio e le poesie varie, a cura di Croce, Bari, Laterza. Posteriormente, alcune aggiunte, in Croce, Nuove ricerche, e Nuove curiosità storiche, Napoli, Ricciardi, e nel volumetto di  Donati. Le tre sole monografie intorno a V., che possano ancora essere lette con frutto, quella di Ferrari, pur cosi benemerito editore, La mente di V., è degna di essere pietosamente dimenticata, sono: Croce, La  filosofìa di  V. Cantoni, V., studi  critici e comparativi, Torino, Civelli. Per alcune riserve Faggi,  Rivista filosofica italiana, e Gentile, Critica,  Werner, V. als Philosoph und gelehrter Forscher, Wien, Braumùller, Zeitschrift far Philosophie und philos. Kritik, Flint, V. Edinburgh a. Londo. Traduzione italiana di Finocchietti, Firenze.  Dei lavori hi'cvi di  carattere generale hanno singolare pregio Spaventa, V.,  Prolusione e introduzione alle lezioni di filosofia, Napoli, Vitale: opera ristampata col titolo: La filosofia italiana nelle sue relazioni colla filosofia europea, a cura di Gentile, Bari, Laterza; Sanctis, Storia della letteratura italiana, Napoli, Morano; molte  ristampe, Fiorentino, Lettere sopra la  Scienza, Firenze; ristampate in Scritti vari, Napoli, Morano, Cauer, V. und seine Stellung zur modernen Wissenscìiaft  nel Deutsclies Museum, diretto da Prutz  e Woelfsohn, Leipzig,  Hinrichs. Pella trattazione più o meno larga di parti speciali sono da tenere presenti Wolf, V. iiber den Homer  nel Museum der Alterthumsicissenschaft, Berlino,  Orelli, V. und Nìebuhr nello Scìnceizerisches Museum di Aarau,  Iannelli, Sulla natura e necessità della scienza delle cose e delle storie umane, Napoli, Porcelli, e Milano, Fontana,  Amari, Critica di una scienza della legislazione comparata, Genova, Istituto dei sordomuti. Intorno a questo libro Werner, E. A. in seinem Verhàltniss zu V., Wien;  dai Sitzung sberi elite der phil.-histor. Classe della Accademia imperiale di Vienna, Acri, Teoria di V. intorno alle idee o paradimmi, Abbozzo di una teoria delle idee,  Palermo, Lao; e con modificazioni nel volume: Vidcbimus in aenigmate, Bologna,  Mareggiani, Cenni, esposizione della metafisica di V., del volume nel quale nessuno la  cercherebbe, perché il titolo suona: Considerazioni sull'Italia ad occasione del traforo del Gottardo, Firenze, Cellini, Bouvy,  De V. Cartesii adversario, Paris, Hachette, Bouvy, La critique dantesque: Dante et V., Paris,  Leroux, Sorel, Etude sur V. nel Devenir social, Parigi; e si veda, altresì, dello stesso autore: Le système historique de Renan  Paris, Jacques, Labanca, V. e i suoi critici cattolici, Napoli, Pierro, Rossi, V. nei tempi di V. Rivista  filosofica  italiana, Maugain, Etude sur revolution intellectuelle de l'Italie, Paris, Hachette, Finsler, Homer in der Neuzeit von Dante bis Goethe, Leipzig, Teubner, Gentile, Studi vichianì, Messina, Principato. Contiene, tra l'altro, un'importante  monografia su Lo svolgimento della  filosofia di V., Nicolini, Galloni e V., Giorn. stor. d. leti. Hai., Divagazioni omeriche, Firenze, Ariani, Gemmingen, V., Hamann und Herder, Inaugural dissertation, Bona-Leipzig, Noske, Scrocca, V. nella critica di Croce, Napoli, Giannini, dal punto di vista cattolico. Donati, Autografi e documenti vichiani  inediti o dispersi, note pella storia del pensiero di V., Bologna, Zanichelli. Circa  i lavori di CROCE precedenti su  V., s’avverta che la materia del capitolo sulla dottrina estetica vichiana, Croce,  Estetica, Bari, Laterza, è rielaborata; lo critto sull'Etica di V., Critica, è  rifuso; e cosi quello sui Lineamenti di storia,  letteraria  in  V.; gli altri scritti  sparsi hanno, in genere, interesse solamente erudito, filologico o polemico. Posteriormente alla prima ed. di questo libro, Croce pubblica Le fonti della gnoseologia  vichiana, Atti d. Acc. Pontan.; ristamp. nel voi. Saggio sullo Hegel e altri scritti di storia della filosofia, Bari, La dottrina del riso e dell'ironia  in V., ristamp., e la critica omerica, ristamp., Bianchini e V., ristamp. in Conversazioni critiche, Bari, V. e Ferrari. Dell'influsso di V. sugli studi italiani CROCE tratta ampiamente nella Storia della storiografia italiana, Bari. Sulla posizione di V. nella storia della critica dantesca, v. La poesia di Dante, Bari. Del resto, tutta la letteratura vichiana, con estratti dei libri, opuscoli e  articoli più rari e con documenti inediti, come tutte le più minute notizie sulle edizioni degli scritti di V., si trovano raccolte nelle tre memorie, alle quali più volte si è fatto riferimento:  Croce, Bibliografìa vichiana contenente il catalogo delle edizioni, traduzioni e manoscritti delle opere  di V., quello dei giudizi e lavori storico-critici intorno a V, lettere inedite  di V. e a V., documenti e altri scritti inediti o rari, e varie appendici illustrative, Napoli; estratto dagli Atti dell'Accademia pontanianal di Napoli; Supplemento alla Bibliografia vichiana, estr. dagli Atti cit., e Secondo supplemento, estr. dagli  Atti  cit., riunite anche tutte e tre in un sol volume col titolo: Bibliografia viciliana, raccolta  di tre memorie presentate all'Accademia pontaniana di  Napoli, con appendice di Nicolini,Bari, Laterza. Continuazione di queste memorie sono le Nuove ricerche sulla vita e le opere di V. e sul vìchismo, Critica. Si veda anche Pella biografia di V., ora in Nuove curiosità storiche, Napoli, Ricciardi. OPERE COMPLETE DI GENTILE A CURA DELLA FONDAZIONE GENTILE PER GLI STUDI FILOSOFICI GENTILE OPERE, GENTILE STUDI VICHIANI, edizione riveduta e accresciuta, cur. BELLEZZA, SANSONI, FIRENZE  Stampato in Italia. All’amico NICOLINI  delle opere di V. editore e illustratore diligentissimo e intelligente. GENTILE aaccolge in questo volume, rivedendoli e introducendovi ai luoghi opportuni le aggiunte consigliatemi da studi posteriori da GENTILE ed altrui, alcuni saggi concernenti la storia  del pensiero di V., la sua biografia e la  sua fortuna. Lo studio sullo svolgimento della filosofia di V. inaugura, li pare a GENTILE, un nuovo genere di ricerche, che da GENTILE sono state appena iniziate, ma promettono una viva luce intorno  all'origine e al significato proprio delle idee di V. V. è stato studiato pell’innanzi in relazione col suo tempo e colla filosofia dell crisi e post-crisi, ala quale egli genialmente drecorse. Ma, se alla cultura di certo non rimase estraneo, e in essa pertanto bisogna pure che dallo storico sia collocato. V. è anche e sopra tutto un autodidatta, che molto studia, a suo modo,di antichi pensatori e filosofi italiani precedenti, alla cui tradizione attinse taluni de’suoi concetti fondamentali, che elabora bensì e trasforma profondamente, ma senza riuscire, com’ è naturale, a cancellarne l’ impronta originaria. E questa impronta GENTILE si è studiato di rimettere alla luce. Palermo.  fr. ca De di etnei L’edizione contiene di più e di meno di quella previa. È un'aggiunta il sagio che forma un capitolo; e ne è rimasto fuori lo studio sul CUOCO, con relativa appendice, entrato ora a far parte d'un mio volume  dedicato a CUOCO, pubblicato dalla Nuova Italia, Venezia. Ma gli altri saggi che sono nella prima edizione qui sono tutti conservati, con correzioni e molte aggiunte rese necessarie da  nuovi studi, specialmente di NICOLINI. Al quale vedrà il  lettore quanto gli studi di GENTILE devono di nuove notizie ed osservazioni sulla biografia e sulla cronologia vichiana.  Roma. Degli scritti raccolti in Studi su V., Il pensiero  italiano nel secolo di V. consta di due recensioni pubblicate nella Critica del CRCE.La prima  fase della filosofia di V. è la prima volta dato in luce nel vol. di Studi pubblicati in onore di Torraca, Napoli.  La seconda e la terza fase usce dapprima in francese col  titolo La philosophie di V. nella rivista France-Italie,  e in tedesco col titolo V.s Stellung in der Gesch. der europàischen Philosophie, Monatsschrift Jùr Wissenschaft Kunst u. Technik di Berlino. Dal concetto della grazia a quello della provvidenza è pubblicato la prima volta nella prima edizione di questi Studi  vichiani. Le varie redazioni della  Scienza nel Giorn. Stor. d. letter. ital.; e sul Figlio di V. nell’Arch. Stor. per le prov. napoletane, Napoli, Pierro. Roma. L’edizione è accresciuta d’una Appendice, in cui sono raccolti due discorsi e una relazione. V. nel ciclo delle celebrazioni campane, è tenuto nell’aula  magna della R. Università di Napoli nel ciclo delle celebrazioni campane promosse dalla Confederazione dei professionisti e degli artisti, ed è pubblicato in  Celebrazioni campane, Urbino, nella  Tiv. Leonardo e a parte nella Biblioteca del Leonardo, Firenze. V. nel secondo centenario della morte è tenuto all'Accademia d’Italia, in Firenze, è pubblicato nella Nuova Antologia. La relazione su Cartesio e V. È discussa alla Reale Accademia Nazionale dei Lincei, Classe di Scienze morali, storiche e filologiche, e quindi pubblicata  negli Atti di quella Accademia. Roma. IE AS SERIO A PRIZE I POSE I AES ROSI E PE 67 RS IL PENSIERO ITALIANO NEL SECOLO di V. CI ie LL SEO Leopoldo de’ Medici fonda l'Accademia del  Cimento. Per la prima volta, dopo la condanna di Galileo, scienziati italiani associano i loro sforzi allo scopo  di studiare la natura con ogni indipendenza, e di ripigliare, contro i ciechi amici della tradizione, la lotta  rimasta interrotta nel 1633, quando il maestro era stato  condannato e aveva dovuto ritrattare la dottrina dei  Massimi sistemi. Nel 1663 l’esempio degli accademici  toscani è imitato dagli Investiganti di Napoli; e nel ’68  è fondato a Roma il primo Giornale de’ letterati, organo  de’ moderni. Verso lo stesso tempo vengono in voga in  Italia Lucrezio e Gassendi.   D'altra parte, verso la metà del secolo seguente, Galileo ottiene la suprema riparazione. Nel 1737 i suoi resti  sono raccolti nel mausoleo di Santa Croce; sl fa  una pubblicazione autorizzata del Dialogo già condannato:  Il metodo sperimentale trionfa. La filosofia di Locke si  diffonde per tutta la Penisola, che vi resterà fedele per  Circa ottant'anni. Tra il ’42 e il ’50 si spengono gli scrittori più notevoli che l’ Italia aveva avuti in quel secolo:  Fagiuoli, V., Giannone, Conti, Muratori e Zeno. Un valente studioso francese, il Mougain, ha voluto  studiare 1 lo svolgimento intellettuale italiano durante I GABRIEL MaucaIn, Étude sur l’évolution intellectuelle de 1° Italie  de 1657 à 1750 environ, Paris, Hachette. Ted. ALZI -—-/*/*/%*/(*‘)4*\w*À*+>J,o.    Tr da (0...] questo periodo di fermento e di preparazione, in cui,  tolto V., solitario, e dal Maugain, a dir vero, non abbastanza staccato dallo sfondo del suo quadro, benché  non possa non rilevarne l’opposizione alle idee correnti  del tempo, l’ Italia non produce nulla di originale !.  Essa lavora unicamente a riformare la propria cultura,  liberandola dal peso schiacciante della tradizione e procurando di partecipare alla vita europea. Poiché il centro  di questa vita, rimasto fin allora tra noi, s'era già trasferito, dopo Galileo e dopo Campanella, in altri paesi.  I nomi più insigni che eccellono in questo secolo, più  che alla storia letteraria o alla storia della scienza, appartengono alla storia della cultura, nel senso che danno i  tedeschi a questa espressione; giacché, tolto sempre V.,  non creano idee nuove; ripetono, commentano, difendono,  oppugnano, agiscono piuttosto sulla società che sulla  scienza, anche se preparino un nuovo sapere, come chi,  agendo appunto sullo spirito del suo tempo, promuove  le condizioni favorevoli a un nuovo progresso reale dello  spirito. Soltanto la tradizione galileiana vive; ma vive  appunto delle idee che aveva messe in onore Galileo,  definendo filosoficamente i nuovi concetti della scienza  naturale e della natura: che furono per lui una nuova  filosofia, anzi la sola filosofia. Ma di vita religiosa, di vita  artistica, di vita filosofica dello spirito, in cui ogni istante  è una posizione nuova e una creazione, in cui insomma  lo spirito vive realmente, nessuna traccia: ossia, nessuna  traccia cospicua.   Questa atonia spirituale ci spiega la gran fortuna incontrata al principio di questo periodo in Italia dal G assendi, del quale attrae l’attenzione soltanto la concezione    I Contro questa tesi vedi ora gli studi che B. Croce vien pubblicando nella Critica (1926): Il pensiero italiano nel Seicento. I quali per  altro non modificano sostanzialmente il concetto della filosofia italiana  in quel secolo, quantunque mettano giustamente in rilievo alcuni notevoli movimenti d'idee finora poco noti.] meccanica, conforme, metafisicamente, al fiorente naturalismo galileiano; e alla fine dal Locke, di cui si nota  e si apprezza principalmente l’empirismo, che giustifica  anch'esso, gnoseologicamente, la scienza sperimentale  della natura, e, come allo spirito dei gretti galileiani importava, questa sola. Cartesio sul cadere del Sei e nei  primi trent'anni del Settecento suscita entusiasmi e opposizioni tenaci, fiere polemiche, un vivo appassionamento: ma non sveglia nessuno spirito di filosofo. Gl’Italiani accettano e mettono in versi la diottrica, la fisica,  la fisiologia meccanistica di lui: ne adottano il metodo,  come assunto, meramente formale ed estrinseco, di libertà  di filosofare; assunto, che in Italia era trionfato nella  storia viva dello spirito scientifico fin dal primo affermarsi dell’ Umanismo; ed era stato celebrato nella scuola  del Galilei, e particolarmente nell'Accademia dei Lincei:,  e non aveva quindi bisogno, in realtà, del nuovo puntello  straniero. Ma della metafisica cartesiana appena si bisbiglia; né se ne vede scosso profondamente nessuno.  Son dilettanti, che fanno della filosofia un passatempo e  un argomento di moda nei salotti (Maugain ricorda  Aurelia d’ Este, renatista; e avrebbe potuto ricordare  anche Giuseppa Eleonora Barbapiccola, traduttrice dei  Principii di filosofia»: sono medici, fisici e avvocati, i  quali, compiacendosi degli ultimi portati letterari della  filosofia, polemizzano con gli uomini del mestiere, legati  Sempre, anima e corpo, alla Scolastica; 0 tutt'al più  Professori di filosofia, che cambiano autore, come oggi  sì cambia testo nei licei, senza nessuna profonda ragione    1 Vedi G. GABRIELI, JI) carteggio scientifico ed accademico fra î  primi lincei (1603-1630); nelle Mem. d. R. Acc. dei Lincei, cl. sc. mor..  serie 68, vol. I, fasc. 2°, 1925.   ? B. Croce, Supplem. alla Bibliografia vichiana, Napoli. Incontreremo la Barbapiccola anche nello scritto sul Figlio di V., cap. I. Sul Concina e sui suoi rapporti col V., cfr. V., Autobiografia, ed. Croce, indice dei nomi, al nome. spirituale, e che, per difendere la loro infrazione alle  tradizioni della scuola italiana, scrivono anch'essi qualche  libercolo pro e contro. La metafisica, in realtà, sarebbe  dimenticata, se non avesse una cattedra negli studi pubblici; e Concina, nella sua prolusione a  Padova, ringraziava il governo veneto di non essersi arreso ai consigli di chi tentava far sopprimere quella cattedra come inutile e indegna d’una sì illustre università *.   Il Maugain, che giustamente ha preso i Giornali dei  letterati, che in questo tempo si pubblicavano in Italia,  a guida delle sue laboriose ricerche, trovandovi l’eco  continua delle questioni che si venivano dibattendo tra  le persone colte, avrebbe anche dovuto seguire la storia  dei principali insegnamenti nelle varie università, i quali  coi programmi e le provvisioni delle autorità, i libri degl’ insegnanti, le loro polemiche e le attinenze rispettive  coi loro avversari, sono anch'essi i centri di riferimento  della cultura temporanea. Pure la fine del sec. XVII e la prima metà del successivo sono l’epoca del maggior fiorire degli studi storici  in Italia. È il tempo in cui il benedettino Benedetto  Bacchini pubblica e illustra il Liber pontificalis (1708),  e col Noia, col Grandi, col Lami e col sommo Muratori  imprende arditamente la critica delle leggende agiografiche; Maffei distrugge le favolose origini  dell'ordine costantiniano e illustra con vasta erudizione  le antichità veronesi; Muratori, dopo avere indagato con occhio di lince le antichità italiane del Medio  Evo, mette insieme con lena infaticabile e con sagace I MAUGAIN critica la sua monumentale raccolta: per non dire dello  stuolo numeroso dei minori eruditi, che coadiuvano i  maggiori con l'ordinamento delle biblioteche, la compilazione dei giornali, la raccolta e la critica dei documenti.  Come si spiega questa vivacità d’interesse storico durante  la stasi generale della vita più profonda dello spirito, se  nella storia si concentrano le energie dello spirito, se la  storia non è concepibile senza le grandi passioni e senza  quindi le grandi intuizioni della vita ? Oggi noi pensiamo  la storia come la stessa concretezza della filosofia. Il  Maugain, con giusto fiuto della verità, ricollega gli studi  storici che mettono capo al Muratori, e che più propriamente sono studi di erudizione, al fiorire delle scienze  sperimentali: Cette renaissance a lieu durani la lutte  décisive d’où sortent victorieux les Italiens qui n’admettent  sans contròle aucune proposition relative aux phénomènes  naturels ou aux étres organisés. Bien mieux, plusieurs de  ceux qui, à la fin du XVII’ siècle et dans la première moité  du XVIII’, se sont illustrés comme érudits, connaissaient  en détails et admiraient les progrès accomplis depuis une  centaine d’années par le sciences expérimentales. Parfois,  ils y avaient personnellement contribué ». E altrove, non  meno giustamente, osserva che V. si distingue non  soltanto dai cartesiani di Napoli ma presso che da tutti  gl’ Italiani contemporanei, quantunque altrove nella Penisola prosperassero le ricerche storiche che i cartesiani  disdegnavano.  Mais selon quelle méthode s’y livre-t-on ?  On publie avec le plus grand soin des inscriptions, des textes  importanis et devenus rares. On reproduit par le dessin et  l’on décrit minutieusement des statues antiques, des médarlles, des monnaies. On les examine de près pour fixer quelque  point d’érudition jusqu'alors incertain, on ne va plus loin;  on a épuisé toute la curiosité dont on était capable. I O. c. Tutto questo è verissimo. Anche di recente abbiamo  assistito a questo fenomeno del decadere della filosofia  nel momento stesso in cui risorgevano e vigoreggiavano  gli studi storici; e abbiamo veduto dagli stessi cultori di  questi raccostare spesso il metodo da essi seguîìto al  metodo delle scienze sperimentali, o, come questa volta  si diceva, della filosofia positiva: raccostamento, che aveva  un lato di vero in quanto positivismo e metodo storico,  ciascuno a modo suo e nel suo campo, si proponeva di  ricostruire una verità certa: ossia una verità che constasse al soggetto, con di più il presupposto ingenuo,  che questa ricostruzione possa aver luogo senza che il  soggetto — cioè la mente conscia di sé e quindi capace  di render conto di sé — ci metta nulla del proprio, delle  sue leggi e di tutto il suo essere storicamente divenuto.  Allora, come ora (o almeno qualche anno fa), ci erano  gli studi storici, in Italia; mancava la storia, come comprensione dello spirito nella sua concreta attualità. Allora,  la storia era morta col Sarpi e col Pallavicino, rappresentanti di due grandi, opposte, concezioni della vita;  la prima delle quali tentava risorgere nell’ Istoria civile  del Regno di Napoli del Giannone, ma senz’attinenza  intrinseca colle idee dominanti nella generale cultura  italiana, e con radici sprofondate nella storia economica  e politica del Napoletano: anch'essa, come la Scienza  Nuova, staccata dal quadro generale dello spirito italiano  contemporaneo.   Non già, beninteso, che negli studi storici muratoriani  non ci sia nulla della storia: perché anch'essi sono tutti  storia; ma storia in germe, immatura, frammentaria, e  perciò, nel suo insieme, estrinseca, meccanica: storia, che  non ha raggiunta la sua forma vera della comprensione  comunque determinata del processo storico, perché non  poteva raggiungerla, non animata, com'era, da nessuna  sorta di filosofia. La storia vera, viceversa, come intuizione di idee che si realizzano nei fatti, non poteva mancare, e non manca in una mente come quella del V.;  e va cercata nella parte più propriamente storica della  Scienza Nuova *. E nessuno meglio di V., nell’orazione  De nostri temporis studiorum ratione, nella lettera a Francesco Solla e nella stessa opera maggiore, intese questo  vuoto spirituale che vaneggiava negli studi contemporanei.   In conchiusione, la storia che con tanto amore e tanta  fatica ha indagata il Maugain, non è una storia che ci  sì possa compiacere di mostrare fuori di casa nostra.  È una storia assai malinconica. Tolta la tradizione galileiana, che è storia di epigoni, ancorché non pochi insigni,  è tutto lavorio di ripercussione, d’ imitazione, di traduzione e adattamento. Sorgono i Giornali de’ letterati,  segno, senza dubbio, di una certa vita, espressione d’un  certo bisogno di studi; ma ad imitazione, e il primo quasi  edizione italiana, del Journal des sgavans. Fioriscono,  come s’ è detto, gli studi critici intorno alle fonti della  storia; e Muratori è gloria italiana incontestabile; ma  gl’ Italiani e lo stesso Muratori si muovono dietro le  tracce del Mabillon e degli altri famosi benedettini francesi. I riformatori della letteratura, che levano la bandiera del vero e dell’utile, riecheggiano l’estetica razionalistica postcartesiana. Prodotto italiano è l’Arcadia, dei  poeti senza poesia; l’arcadia pastorale, come l’arcadia  della scienza ?, espressione significativa dell’ indifferenza  degli spiriti verso il loro contenuto; e la stessa arcadia  sacra, che era cominciata, per altro, dai primi del Seicento:  versificazione di testi religiosi, mescolati ai motivi comuni  allo stile poetico del tempo:  Les poètes, dice il Mau  I Come ha dimostrato B. Croce, La filosofia di G. B. V., Bari,  Laterza, 1911 (23 ed., 1922), capp. XIII-XVIII.   è Studiata da E. BERTANA nello scritto L'Arcadia della scienza,  Parma, Battei, 1890; rist. nel vol. In Arcadia, saggi e profili, Napoli,  Perrella.gain !, ne songeaient aucunement à y méditer sur les grands  problèmes du catholicisme, non plus qu'à exprimer leurs  émottons religieuses. Ils se bornaient à traduire un paragraphe de théologie ou à rimer quelque passage de la vie  des saints. Malinconica storia, dunque, e specchio dell’estrema  ruina della decadenza italiana. Dopo la metà del secolo XVIII, da questa morte rinascerà la vita, e si preparerà l’Italia che accoglierà la Rivoluzione. Essa si  riscuoterà tutta, e riprenderà la sua via in tutte le manifestazioni della vita spirituale, e si aprirà un varco nella  politica de’ grandi Stati, e risorgerà come nazione. Ma  devo pur dire che nel modo, che ha tenuto l’egregio Maugain a rimettercela innanzi, essa diventa assai più malinconica che forse non sia nel fatto: tutta senza colore,  senza anima, né anche piccola, né anche frammentaria:  senza significato. Ora, una realtà storica così non c' è.  Come ha costruito il suo libro Maugain ? Ce lo dice egli  stesso nella prefazione. Spogliò otto collezioni di giornali  pubblicati in Italia tra il 1668 e 1750, dove, se non sempre  l’analisi, trovava per lo meno il titolo preciso di opere,  delle quali ritrovò poi e lesse gran numero a Firenze, Roma,  Bologna, Venezia, Padova, Verona, Bergamo, Milano, Torino e Genova. Scorse parecchie raccolte importanti di lettere e il Mare magnum della Marucelliana; cercò e studiò  articoli e monografie e libri indicati dal Catalogo metodico  della Camera, dal Giornale storico, dalla Bibliothèque des  éerivains de la Compagnie de Jésus di Backer-Sommervogel. Gli venne così fatto di raccogliere una gran quantità    I O. c.. 2 — (ii —=m_t2t“ zz ic ‘cir —.   II    di documenti, che gli parve di poter classificare in tre  parti, secondo che si riferissero alla credulità e allo spirito  critico (conseguenza della condanna di Galileo, movimento delle scienze sperimentali, contrasti tra antichi e  moderni, studi di critica storica); alle lotte tra spiritualisti  e materialisti (fortuna di Gassendi, Cartesio e Locke in  Italia e polemiche dei loro seguaci con gli scolastici,  attacchi di Doria e di V.); al vero e all’utile nelle lettere  (idee intorno alla poesia prevalse dalla Poetica del Gravina in poi, giudizi e polemiche, come quella BouhoursOrsi, sulla letteratura italiana, ritorno ai modelli greci  e latini, caratteri principali della letteratura italiana del  tempo). Fatta questa classificazione, il Maugain si è  messo, senz'altro, a stendere il suo lavoro, ordinando ed  esponendo secondo legami cronologici, topografici e per  soggetti il suo vasto materiale. Per copia e sistemazione  di materiale bibliografico ne è venuto infatti un lavoro  eccellente, fondamentale per chi vorrà tentare qualunque  studio sulla storia dello spirito italiano di questo periodo:  e dobbiamo tutti esser grati a questo studioso dello strumento prezioso di ricerca apprestatoci. I giudizi generali  da lui formulati e gl’ indirizzi delineati dimostrano pure  ottimo criterio e larghezza di vedute storiche. Ma rimane  a chi legge il suo libro, — pur leggendolo con profitto, un senso profondo d’ insoddisfazione, come di chi assista  a uno spettacolo interessante, ma troppo da lungi per  poter udire le parole degli attori, e seguirne con l'occhio  il commento che ne vien facendo in ciascuno la fisionomia.  In uno studio come questo non è possibile, certo, rappresentare nella loro varietà psicologica i singoli attori,  che vi rientrano, e ritrarre di ciascuno la fisionomia morale.  Una storia dello svolgimento generale dello spirito in un  dato tempo e paese dev'essere per necessità schematica.  Ma, d’altro lato, lo stesso schema, divenendo oggetto di  rappresentazione storica, deve assumere una vita sua nella mente dello storico. Le idee nei loro tratti salienti,  vissute da diversi spiriti, devono venirvi innanzi vive  insieme coi motivi che le sorressero, articolarsi nelle forme  in cui si concretarono, riflettere una situazione storica:  avere insomma, anch'esse, quella individualità che è  proprietà necessaria del fatto storico. A ciò i titoli dei  libri, come le designazioni generiche e le etichette estrinseche, è ovvio, non giovano. Per meschina che sia, poniamo, la filosofia di un cartesiano d’ Italia, non basterà  dire che egli difendeva Cartesio: bisogna mostrare come  lo difendeva, e perché; quale vita il cartesianismo assumeva in lui, quale propriamente era il suo cartesianismo.   Occorreva, se così può dirsi, che il Maugain esponesse  con un po’ più di simpatia storica la materia del suo  dotto studio: perché allora ci saremmo visto innanzi,  non un gran movimento, ma un movimento; non degli  spiriti creatori, ma degli spiriti: quella vita che l’ Italia  pensante visse tra la metà del Sei e la metà del Settecento, l’avremmo pure avuta. Giacché non bisogna dimenticare che quella stessa che diciamo morte, è tale  soltanto in un senso relativo; non sarà una vita palese,  appariscente; sarà una vita segreta, torpida, e presso che  invisibile, e pure condizione e momento di quella che fu  dopo la vita più intensa ed evidente; e senza intendere  l’una, non è possibile giungere all’ intendimento dell’altra.  La stasi del periodo studiato dal Maugain non è il progresso della creazione, ma è pure progresso, se è preparazione al progresso che seguirà. Noi infatti non potremmo intendere l’ Italia nuova, nutrita dalla cultura  europea compenetrata con la tradizione nostra, quale la  troviamo p. e. nella poesia del Foscolo e nell’ Italia tutta  del tramonto del secolo XVIII e degli albori del seguente,  se la innestassimo immediatamente all’ Italia tutta italiana, creatrice in filosofia come in arte, maestra ancora  all’ Europa tutta, e vivente di una vita spirituale sua,    del Cinque e del primo Seicento. L’ Italia dal 1657 al  1750 è l’ Italia che accoglie il riflusso della cultura europea,  su cui ha esercitato ella precedentemente un’azione storica rinnovatrice: e in questo lavoro di riassorbimento,  che dev'essere ed è anche di reazione (esempio solenne  V.), è la vita sua nuova rispetto al passato. Il senso di  questa vita nuova, se non m' inganno, non c’ è nel libro  di Maugain: forse perché esso è un semplice saggio »,  che per diventare una vera storia avrebbe bisogno di una  ricerca e di una ricostruzione più profonda e più intima  in ogni sua parte. Il secolo del V. è stato in Italia negli ultimi tempi  argomento di studio di molti, che variamente hanno  tentato di scuotere la vecchia tesi di Giuseppe Ferrari,  sostanzialmente giusta benché espressa in formula troppo  rigida e contornata da più di un giudizio paradossale, secondo il gusto di quello scrittore. Tra questi studiosi  merita che qui si menzioni, anche come tipico esempio  di quella passione che in ogni tempo suscitò con le parti  stesse misteriose del suo pensiero e della sua vita Giambattista V. nelle province meridionali, uno scrittore  erudito e ingegnoso, quantunque variamente indulgente  alle tendenze di una cultura dilettantesca: Raffaele Cotugno. Il quale nel 1890 pubblicò un opuscolo su G. 8.  V., il suo secolo e le sue opere. E nel 1914 tornò sul  tema in un volume *1, dove raccolse il miglior frutto de’  suoi lungbi studi. CoTUuGNO, La sorte di V. e le polemiche scientifiche e letterarie dalla fine del sec. XVII alla metà del  XVIII secolo, Bari, Laterza. Da vari decenni infatti egli era vissuto col suo autore,  non solo come studioso e ammiratore intelligente, ma  quasi come un coetaneo ed amico: raccogliendo libri e  ricordi rari non solo del V., ma di quanti ebbero rapporti  con lui, o appartennero in qualunque modo allo stesso  mondo, in cui alla fantasia rievocatrice del Cotugno  piace vedere e amare il suo V.; leggeva e rileggeva, e  godeva, come amico che torna sempre con piacere a conversare con l’amico; e gli piace rendersi sempre più familiare non solo il suo spirito attuale, ma i casi passati  della sua vita, e tutti i particolari, in cui può vagheggiarlo con l'immaginazione. Non giudica, non critica,  non esamina. Tutto ciò che può tornare ad onore dell’amico gli è bene accetto, ancorché contraddica all’ idea  ch'egli se n’ è formato. Il Cotugno plaude di gran cuore  al V. del Croce. V. crociano (come ad alcuno con  giudizio affrettato piacque affermare »)? — Ma che!  Esso è la più vasta, profonda, ed il più che sì poteva,  completa esposizione delle dottrine del sublime pensatore la cui anima nessuno seppe più e meglio [del Croce]  comprendere e penetrare ». — E come va allora che il  vostro V. non è quello del Croce ? Come va, per dirne  una, che voi fate del Gravina, in estetica, un precursore  del V.; e il Croce invece ha detto che precursore egli  si può dire nel senso che V., riprendendo le medesime  questioni, le risolse in modo perfettamente opposto a  quello del Gravina ? E come non vi siete accorto che,  se V. del Croce è il vero V., per la vostra tesi bisognava cercare nel pensiero contemporaneo e anteriore  idee a cui potessero rannodarsi le dottrine estetiche,  gnoseologiche, metafisiche, etiche e storiche, che sono il  V. del Croce ? — Egli è che il culto del Cotugno pel  V. non è un culto critico; e però nulla di strano che,  senza andar pel sottile, si fondano in un’ immagine sola  quel V. che egli è uso a vedere e V. esaltato dallo studio del Croce, ossia dal maggiore studio che ci sia  intorno al pensiero vichiano.   Quest’atteggiamento del Cotugno verso il suo autore  ha evidentemente il suo difetto, ma ha anche il suo pregio:  e l’uno è inseparabile dall’altro. Si vuol dimostrare che   G. B. V. non era stato un solitario, un anacronismo  tra i suoi contemporanei (che non lo avevano compreso),  ma sibbene una voce de’ tempi, un genio sublime che  aveva sintetizzato il suo secolo » 1; e l’ultimo capitolo,  a cui è indirizzata tutta la dimostrazione dei tre precedenti (i più importanti del volume), e che è intitolato,  come tutto il libro, La sorte di G. B. V., torna a ribadire quello che già si sapeva e s’era sempre detto, che  V. non passò inosservato al suo tempo (tutt'altro !),  ma non fu punto capito. Fu dunque un anacronismo,  o no ? Se fosse stato la maggior voce del suo secolo, tutti  i pensatori del tempo avrebbero trovato nella Scienza  Nuova la più profonda espressione del loro stesso pensiero,  la soddisfazione più adeguata ai loro maggiori bisogni  spirituali. Ciò che anche il Cotugno documenta che non  avvenne. Non solo pertanto egli dimostra ciò che ormai  non ha più bisogno di esser dimostrato; ma pare creda  di dimostrare il contrario.   Lo stesso difetto di critica nel primo capitolo del libro,  dove l’autore si rifà dal Medio Evo e dalle contese d’allora  tra Chiesa e Stato e dalla Scolastica, per venire al risorgimento filosofico e al rinnovamento sperimentale delle  scienze: il tutto per cenni che son troppo e troppo poco  agl’ intenti del libro. Lo stesso difetto nella indeterminatezza di molti giudizi particolari; ma sopra tutto nella  incompiutezza delle citazioni: che sono un accessorio, ma  un accessorio di non piccolo interesse in un libro come  questo. Il quale raccoglie attorno al V. una messe  10. c., p. v.    copiosa di notizie dirette su uomini e libri oscuri e non  facilmente reperibili, né pur nelle biblioteche napoletane,  intorno alla cultura scientifica, filosofica, letteraria, giuridica dell’ambiente in cui V. formò la sua; e in cui  bisogna perciò rivivere col V., chi voglia intenderne  pienamente la concreta mentalità. È il mondo stesso  della sua mirabile Autobiografia, che è già essa una guida  attraverso lo svolgimento progressivo del pensiero vichiano, ma ricercato e rifrugato in tutti gli angoli, in cui  posò o passò la faccia malinconica e meditabonda del  filosofo, concentrato bensì nel suo pensiero, ma non sì,  com’ è naturale, che non si guardasse intorno, e non ne  risentisse sempre nuovi stimoli all’originalità delle sue  idee.   Malgrado tutto, gli studiosi si gioveranno molto del  nuovo libro del Cotugno, che porta molte aggiunte e  rettifiche all’ opera del Maugain; e gli sapranno anche  grado di un curioso documento inedito di cui, per comunicazione dello stesso Cotugno, aveva dato notizia il Croce  nelle note all’Autobiografia, ma che dal Cotugno è integralmente pubblicato nell’appendice del suo volume: contenente una minuta relazione dell'ultima disgrazia toccata  al povero V., dopo morte, per le strane e villane gelosie  della confraternita laica, a cui era ascritto, e che ne  avrebbe dovuto curare perciò il seppellimento; e invece,  dopo aver costretti i professori universitari, recatisi in  forma ufficiale e solenne alle esequie, a ritirarsi, abbandonò il feretro nel cortile in cui era stato intanto calato,  per nuove contestazioni di prerogative col parroco. La  sorte avversa non gli dava requie né pur dopo morte! Della prima fase di una filosofia si può parlare, com’ è  ovvio, in un senso relativo; perché questa fase, per prima  che sia, suppone un processo già avviato, di cui non sarebbe possibile assegnare l’ inizio assoluto; né è così chiusa  in se stessa, da potersi nettamente distinguere da quelle  che le succederanno; e le succederanno con una continuità di processo, che costituisce l’unità assoluta, solo  astrattamente divisibile, del sistema nel suo storico svolgimento. Il primo momento di una filosofia può, dunque,  essere soltanto quella forma, nella quale noi possiamo  conoscerla attraverso i documenti più antichi, che di fatto  ne possediamo: forma da studiarsi e definirsi per quello  che possiamo sapere anticipatamente che essa fu: ossia  come germe o avviamento del pensiero ulteriormente  svolto nella coerenza maggiore e quindi nel significato  più profondo che l’autore seppe conferire al sistema delle  proprie idee. Ogni germe si conosce infatti dal frutto.   Del V. gli studiosi conoscono soltanto due filosofie,  o due momenti più rilevanti della sua filosofia: il primo  dei quali è rappresentato dalla orazione De nostri temporis  Studiorum ratione (18 ottobre 1708), dal libro De antiquissima Italorum sapientia, e dalle due Risposte che V. oppose alle critiche mosse a  questo suo libro dal Giornale dei letterati d’ Italia: il  secondo, iniziato nel 1720 col De universi iuris uno princidio et fine uno, si spiega nel lungo laborioso processo della Scienza Nuova, tante volte redatta o rimaneggiata,  come si vedrà, e la cui ultima edizione venne in luce  nell’anno stesso della morte del filosofo. Lo stesso V., ricostruendo nella Autobiografia lo svolgimento  del proprio pensiero, fa cominciare dal 1708, dall’orazione sul metodo degli studi de’ suoi tempi, la storia  della propria filosofia. Prima sentiva di non aver ritrovato se stesso. Dal 1693 in poi era venuto pubblicando  versi e orazioni rettoriche 1. Dal ’99, come professore  di rettorica, aveva’ letto quasi tutti gli anni l’orazione  inaugurale nell’università di Napoli, usando  proporre  universali argomenti, scesi dalla metafisica in uso della  civile »°. E nell’Autobiografia, dopo aver riferito sommariamente gli argomenti di quelle sue orazioni, fino  al 1707, dice: Fin dal tempo della prima orazione...,  e per quelle e per tutte l’altre seguenti e più di tutte  per queste ultime, apertamente si vede che V. agitava  un qualche argomento e nuovo e grande nell'animo, che  in un principio unisse egli tutto ilsapere umano e divino)»; cioè il principio di una  filosofia ciceronianamente intesa dal nostro professore di  rettorica come rerum divinarum et humanarum scientia;  ma tutti questi da lui trattati ne eran troppo lontani.  Ond’egli godé non aver dato alla luce queste orazioni,  perché stimò non doversi gravare di più libri la repubblica delle lettere, la quale per la tanta lor mole non  regge; e solamente dovervi portare in mezzo libri d’ importanti discoverte e di utilissimi ritrovati ».    I Anzi fin al 1699 egli s'era illuso d'essere molto più un poeta che  non un filosofo. Cfr. F. NicoLINI, Per la biografia di G. B. V., puntata I, Firenze, 1925 (estr. dall’Arch. stor. ital.), p. 59.   2 L’Autobiografia, il carteggio e le poesie varie a cura di CROCE,  Bari, Laterza (vol. V delle Opere, a cura di B. Croce, G. Gentile,  e F. Nicolini, nella collezione degli Scrittori d’ Italia. Da quest'Autobiografia, quando non sia altrimenti avvertito, sono tolti tutti  i luoghi e le parole del V. riferite qui appresso nel testo. Così, nel 1725, V. rifiutava le sue orazioni scritte  tra il 1699 e 1l 1707. Ma sei anni dopo rifiutava non solo  i due libri del Diritto Universale, ma anche, salvo tre  soli capitoli, la prima Scienza Nuova, scrivendo in una  prefazione a una nuova edizione della seconda: Né  già questo dee sembrare falso a taluni, che noi, non contenti de’ vantaggiosi giudizi da tali uomini [quali Giovanni Le Clerc] dati alle nostre opere, dopo le disappruoviamo e ne facciamo rifiuto; perché questo è argomento  della somma venerazione e stima che noi facciamo di tali  uomini, anzi che no. Imperciocché i rozzi ed orgogliosi  scrittori sostengono le lor opere anche contro le giuste  accuse e ragionevoli ammende d’altrui; altri, che, per  avventura, sono di cuor picciolo, s'tempiono de’ favorevoli giudizi dati alle loro, e per quelli stessi non più s’avvanzano a perfezionarle. Ma a noi le lodi degli uomini  grandi hanno ingrandito l’ animo di correggere, supplire  ed anco in miglior forma di cangiar questa nostra » *.   V., autodidatta, com’egli si compiaceva di affermarsi *, fu tormentato tutta la vita dall’assillo dei grandi  autodidatti; i quali si trovano quasi d’un tratto, con la  cultura personale e tutta propria raccolta nel loro cervello,  a cozzare con quella dei contemporanei; e mal riescono  ad orientarsi, e con fatica e con pentimenti continui e  smarrimenti penosi s’ incamminano per la propria via.  Sempre scontenti di se medesimi, travagliati da un bisogno incessante di chiarire il proprio pensiero, porre in  termini più netti i loro problemi, trovarne soluzioni più  adeguate: impotenti a guardare con un solo sguardo la  realtà, a volta a volta diversa secondo che la mirano quale  essi avevano imparato per loro conto a vederla, o sì pro Scienza Nuova, ed. Nicolini, p. 10. bi  Va forse con una certa esagerazione: cfr. NICOLINI, Per la bdiografia di G. B. V., puntata II.    DI    vano a mirarla qual’ è per i contemporanei: fluttuanti,  quindi, con l'animo tra due mondi, che gl’ ingegni più vi-  gorosi si sforzeranno tutta la vita di unificare. V. sentì  tragicamente questa legge della sua cultura; e ne fu, fino  a un certo punto, la vittima, poiché alla chiarezza delle  idee, che covavano nella sua mente, egli non pervenne  mai, benché vi lavorasse, con eroica costanza, per più di  un quarto di secolo, se non tutti gli anni quarantaquattro,  che visse nel sec. XVIII; e si può dire che tutto il suo  pensiero sia rimasto dentro di lui allo stato di gestazione.  Gestazione dolorosa !   Il maggior corso di studi, comegli stesso ci  fa sapere, lo fece da sé nei nove anni (1686-1695) * pas-  sati a Vatolla, in quel di Salerno, piccola terra di poche  centinaia d’abitanti, dove attese alla istruzione dei figli  del marchese Domenico Rocca: cioè dai diciotto ai venti-  sette anni di sua vita, lontano, a suo dire?, da ogni moto  di cultura viva, com'era allora quella di Napoli, sotto l’ in-  flusso della scuola galileiana, e poi di Gassendi e di De-  scartes. Quando V. ne partì, era avviato per gli studi  giuridici; e in giurisprudenza egli afferma 3 d’aver dovuto  istituire i figli del Rocca. Aveva bensì, ben per tempo,  mostrato in che modo di siffatti studi avrebbe potuto far    I Questa la data assegnata ora al soggiorno vatollese dal NICOLINI,  Per la biografia cit., puntata II.   2  A suo dire », giacché ora gli studi di DONATI (Auto-  grafi e documenti vichiani inediti 0 dispersi, Bologna, Zanichelli, 1921, 38 sgg.), e, ancor più, quelli del NicoLINI (Per la biografia cit., pun-  tata II), hanno mostrato che il così detto novennio vatollese » fu  intramezzato da parecchie e non brevi dimore a Napoli e a Portici,  e che anzi, forse, durante quei nove anni, V. dimorò più a  Napoli che non a Vatolla.   3 Anche quest'altra affermazione dell’Autobiografia è revocata in  dubbio e con buone ragioni, dal NicoLINI (Per la biografia cit., pun-  tata II), secondo il quale V. sarebbe entrato in casa Rocca come aio;  e, soltanto negli ultimi tempi del suo soggiorno in quella casa, avrebbe  data qualche lezione di giurisprudenza all’ultimo figliuolo del Rocca  (Saverio).    pascolo della sua mente: poiché in essi aveva portato un  abito mentale, di analisi e di penetrazione speculativa, che  della giurisprudenza doveva fare semplice materia di ri-  flessione filosofica. Il giovinetto aveva avuto a maestro  un gesuita nominalista, il quale lo aveva spinto allo studio  delle Summule di Pietro Ispano e di Paolo Veneto: e se  l'ingegno ancor debole da reggere a quella specie di logica  Crisippea (come rifletteva più tardi lo stesso V.) si  smarrì, si stancò e abbandonò l’ impresa, da quella di-  sfatta dovette restargli una natural ripugnanza a tale ma-  niera di filosofare, tutta astratta, artificiosa e formale,  propria dei terministi. E se un qualche profitto ne ricavò,  non poté essere altro che negativo: il senso forse della va-  nità di una filosofia che, staccati i concetti dalla realtà, e  perduto perciò ogni intimo contatto con la verità, si riduce  a giuocare con la combinazione de’ suoi concetti; un senso  di scetticismo, che gli s’ insinuò allora nell'animo, e non  poté esserne snidato dagli studi di filosofia poco stante ri-  presi e continuati sotto la guida d’ un altro gesuita,  uomo  di acutissimo ingegno, scotista di setta, ma zenonista nel  fondo » :.   Presso costui V. ricorda com’egli apprendesse  con piacere che le sostanze astratte hanno  più di realtà che i modi del maestro nomi-  nalista. Lo scotista lo trattenne a lungo nella metafisica  dell’ente e della sostanza, e lo invogliò poi a studiarsi da  sé le Disputationes metaphysicae di Suarez, su cui V.  passò un intero anno. Perché, posta pure la realtà delle  sostanze astratte, chi assicurerà l’animo invaso una       I Zenonismo è la filosofia dal V. attribuita a Zenone nel De an-  liquissima: specie di monadismo dinamico, qui attribuito allo sco-  tista perché questi doveva spiegare la realtà fisica con principii meta-  fisici. Ma intorno al significato di questo  zenonismo » nella filosofia del  tempo, vedi il pregevole studio di GIovaNNI Rossi, V. ne' tempi  di V.: La cosmologia vichiana, nella Rivista filosofica del 1907,015-7.    24 STUDI VICHIANI    volta dallo scetticismo, che le nostre idee siano identiche  a quelle astratte sostanze ? Sulla via della speculazione  della sostanza, aperta da Suarez, si misero pure i grandi  padri della filosofia moderna, Cartesio e Spinoza !: e riu-  scirono a una metafisica che è una matematica, ossia a  una costruzione della realtà meramente pensata, o sol-  tanto possibile, come cominciò ad avvertire Leibniz; di  contro alla quale Kant trovò giustificabile lo scetticismo  di Hume.   Comunque, nutrito di studi siffatti, non poteva il  V. acconciarsi alle lezioni del giurista, dal quale man-  dollo poi il padre ?: tutte ripiene di casi della pratica  più minuta dell'uno e dell’altro fòro e dei quali non ve-  deva i principii, siccome quello che dalla metafisica aveva  già incominciato a formare la mente universale a ragio-  nar de’ particolari per assiomi o sien massime ». Sì di-  stolse quindi anche da quella scuola, e prese a studiare  da sé le Istituzioni civili del Vulteio e le Canoniche del  Canisio. E qui, specie nel Vulteio, si trovò a suo genio.  Sentiva un sommo piacere in due cose: una in riflettere,  nelle somme delle leggi, dagli acuti interpetri astratti in  massime generali di giusto i particolari mo-  tivi dell’equità, ch’avevano i giureconsulti e gli impera-  tori avvertiti per la giustizia delle cause: la qual cosa  l’affezionò agl’interpetri antichi, che poi avvertì e giu-    I V. CARL LupEWIG, Die Substanztheorie bei Cartesius im Zusammenhang mit der scholastischen und neueren Philosophie, Fulda, 1893;  FREUDENTHAL, Spinoza und die Scholastik, in Philos. Aufsdtze Eduard  Zeller gewidmet, Leipzig, 1887 e una recens. in Zettschr. f. Philos. u.  philos. Krit., t. CVI,113-15; L. BRruNSCHVvICcG, La révolution cartésienne et la notion spinoziste de la substance, in Revue de métaphys.  et de morale, sept. 1904; G. TH. RICHTER, Spinozas philos. Terminologie  historisch u. immanent Rkritisch untersucht, I Abth. Leipzig, Barth,  1913; e le mie note all’ Etica, Bari, Laterza, 1914.   2 Francesco Verde. Sul quale, sul suo insegnamento e sul tempo  in cui V. frequentò la sua scuola privata (1684), vedere ora NICOLINI,  Per la biografia cit., puntata I,44 Sg8., 54 S88.    dicò essere i filosofi dell’equità naturale; l’altra, in osservare con quanta diligenza i giureconsulti medesimi  esaminavano le parole delle leggi, de’ decreti del Senato  e degli editti de’ pretori, che interpetrano: la qual cosa  il conciliò agl’ interpetri eruditi, che poi avvertì ed estimò  essere puri storici del dritto civile romano » 1. Non Vultelo, dunque, e i giureconsulti romani furono il suo nutrimento spirituale; ma quella filosofia e quella  storia o filologia, che egli costruiva per mezzo di essi;  né la nozione giuridica del diritto era materia del suo  sommo piacere, ma quello che egli vedeva o poneva  in questo diritto con la tendenza astrattiva di uno scotista, con la sottigliezza filologica di un terminista e di  un secentista (poiché, secondo l’andazzo dei tempi, anch'egli era solito spampinare nelle maniere più corrotte  del poetare moderno, che con altro non diletta che coi  trascorsi e col falso » e della poesia s’era fatto un esercizio d’ ingegno in opere di argutezza »). La giurisprudenza diventava occasione o materia indifferente a trovare nelle determinazioni dello spirito umano i principii,  i concetti fondamentali, le sostanze reali, in cui per lo  scotismo si risolve tutto il reale, e a tormentare le parole,  in cui tutte le determinazioni dello spirito pigliano corpo,  per farne sprizzare fuori l’anima, il senso riposto. Che  era un primo avviamento del problema vichiano della  constantia iurisprudentiae come constantia philosophiae  et constantia philologiae, e della Scienza nuova come  scienza a un tratto del vero e del certo.    I Questo il racconto dell’Autobiografia (1728); alla quale continuo  ad attenermi, quantunque il NicoLINI sospetti essa sia, a siffatto proposito, anacronistica, e cioè che V. (in perfetta buona fede, s' intende), abbia intruso, in quella che fu l’effettiva forma mentale dei  suoi diciotto anni, parecchio dell’esperienza spirituale di chi aveva già  scritta la prima Scienza Nuova (1725): cfr. Per la biografia cit., puntata I.] Intanto con questo mondo filosofico, in cui il giovanetto si chiudeva, attraverso lo studio del diritto si poneva  la realtà che doveva essere oggetto della sua filosofia. Il  mondo del diritto è un mondo umano, creato dalla volontà.  Dentro di esso la natura non si vede; né V. poteva  trovarvela. Approfondendone la conoscenza, come fece nei  suoi studi di Vatolla, doveva necessariamente imbattersi  nella volontà, nello spirito come libertà. Profondando, eglici dice, lo studio delle leggi e dei canoni,  al quale lo portava l’obbligazione contratta col  Rocca, in grazia della ragion canonica inoltratosi a  studiar de’ dogmi, si ritrovò poi nel giusto mezzo della  dottrina cattolica d’ intorno alla materia della grazia »;  e gli accadde di conoscere e appropriarsi tale dottrina  per l'esposizione di un teologo che faceva vedere la  dottrina di sant'Agostino posta in mezzo, come a due  estremi, tra la calvinistica e la pelagiana e alle altre sentenze che o all’una di queste due o all’altra sì avvicinano ».  Posizione, che servì poi al V., secondo egli stesso dichiara,  a spiegare storicamente (umanamente) le origini del diritto romano ed ogni altra forma di civiltà gentilesca,  senza contraddire alla sana dottrina della grazia; che fu  perciò, possiamo dire, il primo nucleo del suo concetto  della Provvidenza, che è l’arbitrio umano accertato e determinato dal senso comune *: una volontà, non immediata, generica, astratta, ma determinata e concreta  attraverso la storia, nel cui corso razionale si realizza  una volontà superiore a quella dell’ individuo, un fine in  cui si risolvono i fini particolari dei singoli uomini: la  grazia. Ma questa unità di divino e di umano, se è un'esigenza della posizione media tra calvinismo e pelagianismo  (astratta posizione della grazia o volontà divina, e quindi  negazione della umana; ed astratta posizione della volontà I S. N., dign.] umana, e quindi negazione della divina), ha bisogno,  com'è facile intendere, di maturare per divenire un  concetto !.   Intanto V. non dissocia lo studio del pensiero da  cui discende il diritto, dallo studio delle parole, in cui  il diritto vive. Le Eleganze del Valla lo rimandano a  Cicerone. Studia Virgilio e Orazio; e questi lo disgustano  del secentismo, e gli fan cercare Dante, Boccaccio e Petrarca =. Orazio gli fa osservare che la suppellettile più  ricca alla poesia è fornita dalla lettura dei filosofi morali. E studia l’etica aristotelica, che gli mostra il fondamento del diritto romano essere nella ideale giustizia,  di cui parla il filosofo, architetta nel lavoro  delle città. Dalla morale così intesa si volge alla  metafisica di Aristotele; ma questa non gli spiega la ragione del giusto ideale. Perché ? Allora non sapeva rendersene conto. Passò a Platone; e vi trovò il fatto suo,  perché vi ebbe una metafisica, in cui la realtà è pura  idea: che era ciò che egli, l’alunno dello scotista e lettore  di Suarez, andava cercando, per non cadere, rispetto all’ idea della giustizia o giustizia ideale, nel nominalismo.   Nell’Autobiografia spiega perché alla sua morale trovò  il fondamento in Platone e non in Aristotele, dando  delle due dottrine la seguente caratteristica:  Perché la  metafisica d'Aristotele conduce a un principio fisico, il  quale è materia, dalla quale si educono le forme particolari, e si fa Iddio un vasellaio che lavori le cose fuori  di sé; ma la metafisica di Platone conduce a un principio  metafisico, che è lor idea eterna, che da sé educe e crea la    1 Vedi in proposito qui appresso il cap. IV: Dal concetto della grazia  a quello della Provvidenza.   2 Così l’Autobiografia. Ma a determinare il passaggio del V. dal  Secentismo al purismo trecentesco concorse moltissimo, sebbene egli  non lo dica, l'influsso di Leonardo di Capua. Cfr. NicoLINI, Per la  biografia cit., puntata III.    materia medesima, come uno spirito seminale che esso  stesso si formi l’uovo ». Dove non è propriamente definita  né la metafisica di Aristotele, né quella di Platone. L’ Iddio aristotelico che pensa se stesso, è troppo pago di sé  perché possa fare questo mestiere del vasellaio, che tragga  le forme dalla materia. Tutte le forme le ha in sé; e  quindi anche quella della giustizia. D'altra parte, l’ idea,  che è l’ente, per Platone, ha fuori di sé la materia, che  è il non-ente, e non può edurla quindi da sé. Questo platonismo polemizzante con Aristotele non è filosofia platonica, ma posteriore ad Aristotele, neoplatonica. E più  in là, dove V. accenna allo studio della fisica gassendiana e cartesiana da lui potuto fare in quello stesso torno  di tempo, a Vatolla, su Lucrezio e sui Fundamenta physicae del Regio, dice esplicitamente che queste fisiche  gli erano come divertimenti dalle meditazioni severe sopra  i metafisici platonici » 1. E altrove ricorda i Marsili Ficino,  i Pico della Mirandola, e lamenta che i letterati napoletani, che dianzi volevano le metafisiche chiuse nei chiostri, poi per la moda cartesiana avessero preso a tutta  voga a coltivarle, non già sopra i Platoni e i Plotini coi  Marsili, onde nel Cinquecento fruttarono tanti gran letterati, ma sopra le Meditazioni di Renato delle Carte ».    I Anche a codesto proposito, l’Autobiografia, secondo il Nicolini,  è anacronistica. Antigassendiano e soprattutto anticartesiano, V. secondo lui, fu soltanto dal 1710 in poi. Nella sua gioventù,invece, anch'egli  partecipò all'’ammirazione dei suoi amici e concittadini per Lucrezio  (sul quale è da vedere un suo importante giudizio in Opere, ediz. Ferrari, VI, 138, e cfr. Croce, Filos. di G. B. V.2, p. 203); e, pur con  riserve in fatto di estetica (comuni, del resto, al Caloprese e agli altri  cartesiani napoletani) fu anch’egli per non pochi anni, cartesiano. Vedere  al riguardo NIcOLINI, Per la biografia, puntata III. Aggiungo per curiosità che le opere di ARISTOTELE furono studiate dal V. in un esemplare della magnifica edizione giuntina del 1550 sgg., il quale, serbato  Oggi dalla famiglia Ventimiglia di Vatolla, reca ancora l’ex libris del  convento di Santa Maria della Pietà di quella terra. E quell’edizione  reca appunto il gran commento » di Averroè. Cfr. NICOLINI, Per la  biografia, puntata II. L’aristotelismo rifiutato dal giovane V. era dunque  quel dualismo rigido, a cui esso s'era ridotto in Averroè !;  il platonismo da lui abbracciato è il monismo emanatistico  di Plotino così strettamente affine a quello del De la  causa di Bruno 2. Lo spirito seminale è il Xyog  otepuatimnòe O tvebpa orsppatixòv: quei spiritalia et vIvifica semina, onde, secondo il Ficino, l’anima del mondo,  emanazione di Dio e vita vitarum, avviverebbe la natura.   Punto di capitale importanza nella storia del pensiero  di Giambattista V.. Dal neoplatonismo egli dovette ricevere un forte impulso ad approfondire il concetto agostiniano della grazia come mediazione della volontà umana    I Cfr. Autob., p. 11: La metafisica non lo aveva soccorso per gli  studi della morale, siccome di nulla soccorse ad Averroè....» e p. 19:  Ne’ chiostri.... era stata introdotta fin dal sec. XI la metafisica d’Aristotile, che quantunque per quello che questo filosofo vi conferì del  suo ella avesse servito innanzi agli empi averroisti....». Qui risuona  l'eco della polemica di Marsilio Ficino contro l’averroismo. Un ravviÌcinamento del pensiero vichiano a quello del Ficino fece già F. DE  SANCTIS, St. d. letter. ital., ed. Croce. Bari, Laterza, 1912, II, 290-1; e  poi meglio K. WERNER, G. B. V. als Philosoph und gelehrter Forscher,  Wien, Braumiiller, 1881,8-9; per cui cfr. FLINT, V., Edimburgh  a. London, 1884,74-5, 128-9. In una recensione della prima edizione di questi studi un critico della Civiltà Cattolica, quaderno del  5 febbraio 1916, osservava che se V. nella pref. al Diritto Universale  dice che  Aristoteles in Ethicis doctrinae civilis principia vecte aut a  divina philosophia esse repetenda: namque haec metaphysices argumenta  Philosophi alteram philosophiae partem statuebant, et ‘ verum divinarum *  nomine significabant »: da ciò appare come V. non avesse nella  prima fase de’ suoi studi rifiutato, secondo vorrebbe il Gentile, l’aristotelismo, quasi dualismo rigido, a cui esso si era ridotto in Averroè ».  Ma io avevo detto: L'aristotelismo rifiutato dal giovane V. era  dunque quel dualismo rigido, a cui esso s'era ridotto in Averroè ».  Dunque, non io avevo affermato che V. avesse respinto l’ aristotelismo:  questo lo dice esso V.. Io dicevo invece che, sotto nome di aristotelismo, V. aveva respinto l’averroismo. Questo è nomato da’ Platonici fabro del mondo [cfr. il fabbro del mondo delle nazioni di V.].... Plotino lo dice  padre e progenitore, ed è il prossimo dispensator de le forme. Da nol  si chiama artefice interno, perché forma la materia e la figura da dentro,  come da dentro del seme o radice manda ed esplica lo stipe; da dentro  lo stipe cacci i rami» ecc. Così G. Bruno, De la causa, in Opere italiane, ed. Gentile, I2, 179, e cfr. De minimo, I, 3, in Opera latine conser,  I, III, 142.    3 e della divina, e attingere il primo bisogno dell’immanenza del divino nella natura e nella storia. Una pagina  della Theologia Platonica (IV, I) del Ficino dovette fermare certamente la sua attenzione, poiché un’eco ne risuona, molti anni dopo, nelle teorie fondamentali del De  antiquissima e della stessa Scienza Nuova; e merita esser  riletta. |    Proinde si ars humana nihil est aliud quam naturae imitatio  quaedam, atque haec ars per certas operum rationes fabricat  opera, similiter efficit ipsa natura, et tanto vivaciore sapientioreque arte, quanto efficit efficacius et efficit pulchriora. Ac  si ars vivas rationes habet, quae opera facit non viventia, neque  principales formas inducit, neque integras, quanto magis putandum est vivas naturae rationes inesse, quae viventia generat,  formasque principales producit et integras ! Quid est ars humana?  Natura quaedam materiam tractans exstrinsecus [cfr. il vasellaio  del V.]. Quid natura ? Ars intrinsecus materiam temperans, ac  si faber lignarius esset in ligno. Quod si ars humana, quamvis  sit extra materiam, tamen usque adeo congruit et propinquat  operi faciundo, ut certa opera certis consummet ideis, quanto  magis ars id naturalis implebit, quae non ita materiae superficiem  per manus aliave instrumenta exteriora tangit, ut geometrae  anima pulverem, quando figuras describit in terra, sed perinde  ut geometrica mens materiam intrinsecus phantasticam fabricat. Sicut enim geometrae mens, dum figurarum rationes  secum ipsa volutat, format imaginibus figurarum intrinsecus phantasiam, perque hanc spiritum quoque phantasticum absque labore  aliquo vel consilio, ita in naturali arte divina quaedam sapientia  per rationes intellectuales vim ipsam vivificam et motricem ipsi  coniunctam naturalibus seminibus imbuit, perque hanc materiam quoque facillime format intrinsecus. Quid artificium ? mens  artificis in materia separata. Quid naturae opus ? naturae mens  in coniuncta materia. Tanto igitur huius operis ordo similior  est ordini qui in arte est naturali, quam ordo artificii hominis  arti; quanto et materia propinquior est naturae quam homini,  et natura magis quam homo materiae dominatur. Ergo dubitabis  certorum operum certas in natura ponere rationes ? Imo vero  sicut ars humana quia superficiem tangit materiae, et per contingentes fabricat rationes, formas similiter solum efficit contingentes,    é    sic naturalem artem, quia formas gignit sive eruit substantialis  ex materiae fundo, constat funditus operari per rationes essentiales atque perpetuas !.    E si riscontri quest'altro luogo dello stesso Ficino nel  suo Commento al Parmenide platonico:    Cum enim nos per cognitionem non simus authores rerum,  nulla forsan est ratio quare percipiamus eas, nisi proportio quaedam; cum vero divina scientia sit causa prima rerum, non ideo  res cogniturus est Deus, quia congruat cum natura rerum, sed  ideo cognoscit quoniam ipse est causa rerum. Qui, cognoscendo  se ipsum principium omnium, omnia statim et cognoscit et facit ?.    Nella tradizione platonica italiana questa equazione  tra conoscere e fare rimase un punto fermo, e fu ripetuta  talvolta come un luogo comune anche da filosofi che non  fecero poi su questo concetto tanta attenzione da sentire  il bisogno di svilupparlo e connetterlo intimamente con  le altre loro dottrine. Così nel trattato De arcanis aeternitatis di G. Cardano s'incontra una chiara formulazione  della stessa dottrina vichiana, quantunque lasciata lì  senza svolgimento e senza rilievo. Il Cardano dice:    Anima humana in corpore posita substantias rerum attingere  non potest, sed in illarum superficie vagatur sensuum auxilio,  scrutando mensuras, actiones, similitudines ac doctrinas. Scientia  vero mentis, quae res facit, est quasi ipsa res, velut etiam in  humanis scientia trigoni, quod habeat tres angulos duobus rectis  aequales, eadem ferme est ipsi veritati: unde patet naturalem  scientiam alterius generis esse a vera scientia in nobis 3.    E non avrà letto V. questa pagina del Cardano ?  Egli non cita mai né Bruno, né Campanella. Ma non è Ficino, Opera, Basilea, 1561, t. I, p. 123.  2? Comm. in Parm., c. 32, in Opera, II, 1149.  3 Tract. de arc. aetern., c. 4. Cfr. FIORENTINO, B. Telesio, I, 212.    meraviglia, chi pensi ai suoi profondi scrupoli religiosi.  Che egli tuttavia, con quella sua insaziabile curiosità, che  gli faceva cercare ogni sorta di libri, non leggesse anche  di questi filosofi famosi ancorché esecrati quel che trovava  nella biblioteca del Valletta, a lui, come sappiamo di  sicuro, ben nota :, non è credibile. Ora in quella biblioteca sì conservava (e si conserva tuttavia nella Biblioteca  dei Gerolamini, dove i libri del Valletta passarono) l’esemplare della Scelta d’alcune poesie filosofiche di Settimontano Squilla cavate da’ suoi libri detti La Cantica  con l’esposizione, stampato l'anno MDCXXII » che era  stato usato e corretto dall'autore medesimo. Ed era libro  che il Valletta non solo possedeva, ma aveva letto? egli  stesso, e poteva perciò aver avuto egli stesso occasione  di additare all'amico filosofo e gran divoratore di libri.  In quelle Poesîe V. poté leggere i seguenti versi:    Ma lo Senno Primero   che tutte cose feo   tutte è insieme, e fue;   né per saperle, in lor si muta Deo,   S’egli era quelle già in esser più vero.   Tu, inventor, l’opre tue   sai, non impari; e Dio è primo ingegniero.    I Autob. ed. CROCE,41, 113, 192. È anzi tanto più sicuro che con  la biblioteca Valletta V. avesse familiarità fin dai suoi primi studi,  in quanto il Valletta appunto, ch'egli aveva conosciuto nella sua puerizia, fu uno dei suoi primi protettori e colui che lo indusse a porre  a stampa le sue prime poesie: cfr. NICOLINI, Per la biografia cit., puntata I,30 sgg., e puntata III.   2 [Cfr. infatti L. AMABILE, Il Santo Officio della Inquisizione in Napoli, Città di Castello, 1892, II, 67 n. 1. E come la Scelta di poesie, così  il Valletta possedeva e aveva lette altre opere del Campanella.  Ho ricevuto »,scriveva, per es., in una sua lettera inedita al Magliabechi, serbata nel magliabechiano segnato VIII, 1090,  ho ricevuto l’ Incredulo  senza scusa del p. SEGNERI, dove ho lette molte cose riportate dal padre CAMPANELLA nel suo Afeismo trionfato....». (Comunicazione di F.  NICOLINI)}.    Dio primo ingegniero » è frase che infatti si ritroverà  nello stesso V. !. Il quale, nell'esposizione degli stessi  versi, poté trovare che  Dio è il primo ingegniere avanti  la Natura; però sa il tutto; l’ insegna e non l’ impara »?.  E in altro luogo3 dell’esposizione: Se l’alma non sa  come s’ è fabbricato il corpo, né come fece tante membra  a tanti usi, né come si frena il calore etc., è segno  ch’essa non fece il corpo»n4.   Da questa dottrina neoplatonica non è dubbio che,  quando l’avrà covata nel suo cervello e fecondata di sue  osservazioni, V. trarrà l’opposizione scettica della  gnoseologia del De antiquissima tra il sapere divino che è  formazione intrinseca della natura, e il sapere umano che  è la formazione estrinseca e superficiale, di cui parla il  Ficino 5; ma trarrà anche la sua intuizione dinamica o,    I De antiquissima, in Opere I, 179, e Vindiciae, in Opere, ed. Fer.  rari, IV, 309-310.   ® CAMPANELLA, Poeste, ed. Gentile, p. 33.   3 O. c..   4 Niun dubbio, io credo, che al V. doverono esser note anche  altre opere del Campanella, e che meriti di essere studiato il problema  delle suggestioni che dové riceverne. Alle osservazioni di A. SARNO,  (Campanella e V., nel Giornale critico della filosofia ital., IV, 1924,  p. 137) altre importanti ce ne sarebbero da aggiungere. Cfr. il mio  G. Bruno e il pensiero del Rinascimento?, Firenze, Vallecchi, 1925,  p. 276. Aggiungo qui un riscontro alla dottrina vichiana della Provvidenza relativa alla eterogenia dei fini. Campanella (nella Città del  sole ed. Kvaéala, p. 65) dice:  Però gli spagnoli trovaro il resto del  mondo, benché il primo trovatore fu il Colombo nostro genovese, per  unirlo tutto a una legge; e questi filosofi saranno testimoni della verità eletti da Dio; e si vede che noi non sappiamo quello che facemo,  ma siamo instrumenti di Dio: quelli vanno per avarizia di danari cercando nuovi paesi, ma Dio intende più alto fine. Il sole cerca struggere la terra, non far piante e uomini; ma Dio si serve di loro: in  questo sia laudato ». Cfr. ed. Paladino, p. 59.   5 La derivazione neoplatonica di questa dottrina vichiana è ormai  riconosciuta. Vedi Croce, Fonti della gnoseologia vichiana, in Saggio  sullo Hegel seguito da altri scritti ecc., Bari, Laterza, 1913,250-I.  GIAN PaoLo ricorda anche lui questo concetto del conoscere come fare,  attribuendolo agli scolastici: So wie nach den Scholastikern Gott  alles erkennt, weil er es erschafft, so bringht das Kind nur ins geistige  Erschaffen hinein; die Fertigkeit des erkennden Aufmerkens folgt dann  von selber »: Levana, $ 131. Ma si tratta di una vaga reminiscenza.    com’egli, confondendo in uno Zenone d’ Elea con quello  di Cizio, userà dire, zenonistica !: che è vero e proprio  panteismo. E quell’opposizione, se dapprima potrà dar  luogo allo scetticismo della metafisica vichiana, più tardi  renderà possibile la profonda concezione — che è la scoperta di V. — della scienza del mondo umano, 0, com’ è  stato detto, della metafisica della mente. Giacché, una  volta ammesso il concetto neoplatonico, svolto anch'esso  dal Ficino ?, che Deus omnia agit et servat, et in omnibus  omnia operatur, poiché causae rerum sequentes Deum nihil  agunt absque virtute actioneque divina, Dio, immanente  nell’operare di una natura esterna a noi, sarà fuori di noi  (onde la nostra conoscenza della natura non potrà aver  verità); ma Dio immanente nella volontà umana sarà    I Nell’ Autobiografia, nel De antiquissima, nella Sec. risposta al  Giorn. d. letterati V. parla indifferentemente di Zenone e della sua  scuola (de Zenone eiusque secta, Zenonii) e di Zenone e degli stoici,  mostrando perciò di unificare i due Zenoni. E Znv@vetot in Dio. L.,  VII, 5 son detti gli stoici. La dottrina di Zenone, che V. dice malamente riportata e combattuta da Aristotele (nel VI della Fisica),  è la celebre aporia dell’ Eleate intorno alla molteplicità, dove si arresta  la divisione del continuo a quel minimo, che egli poi dimostra non  potersi insieme non concepire come massimo. Ma la ricostruzione che  V. stesso nella Sec. risposta $ 4 dà della sua interpretazione dei  punti metafisici (che parrebbero questi minimi), risalendo ai numeri  zenoniani-pitagorici, è fantastica. Realmente egli aveva contaminato  il concetto dell’ Eleate con la dottrina stoica, ed il dinamismo del De  antiquissima è di origine stoica. Si chiamino punti metafisici i X6yot  orepuatixot, e la metafisica di V. avrà la sua base nello stoicismo.  Con la cui rpévota, quale si ritrova nei neoplatonici, da Plotino (Enn.  III, 2, 3) a Ficino (7A. pI. II, 13), dovrebbe pure essere messa in relazione  la Provvidenza della Scienza Nuova. Ma non mi par dubbio  che al V. lo stoicismo perviene attraverso i neoplatonici. E mi par  degno di nota che la polemica vichiana contro il concetto della divisione all’ infinito opposto da Aristotele a Zenone (De ant. c. IV, $ 2)  si riscontra puntualmente con quella che contro lo stesso concetto aveva  rivolta fin dal 1591 il Bruno nel De triplici minimo, I, 6-8: in cui può  parere che si ripiglino gli argomenti lucreziani in favore dell’atomo,  ma in realtà, come in V., si trasforma l’atomo in conato, o operazione  dell'anima del mondo (v. GENTILE, G. Bruno e il pensiero del Rinascimento,223-4). Le radici delle due filosofie, bruniana e vichiana, si  toccano e s' intrecciano.   2 Theol. plat., II, 7. in nol, proprio come diceva Bruno, più che noi medesimi  non siamo dentro a noi (e la conoscenza del nostro mondo  sarà certa) !.   A Vatolla giungevano bensì le novelle di Napoli  e delle forme di cultura che colà venivano in auge.  La notizia del nuovo epicureismo, messo in onore dal  Gassendi, fa studiare al V. Lucrezio: la cui dottrina,  data già la sua intuizione metafisica, non poteva non  apparirgli quale gli apparve, o almeno, egli asseriva  molti anni più tardi, che gli era apparsa ?: una filosofia da soddisfare le menti corte de’ fanciulli e le deboli  delle donnicciuole ». Questo studio gli servi di gran  motivo di confermarsi vie più ne’ dogmi di Platone » 3;  cioè dei neoplatonici; pensando 4  essere principio delle  cose tutte una idea eterna, tutta scevera da corpo, che  nella sua cognizione, ove voglia 5, crea tutte le cose in    I Cfr. il concetto vichiano dell’astuzia della Provvidenza, per cui  il vero soggetto nostro trascende neoplatonicamente il nostro soggetto  empirico e i suoi fini particolari e finiti.   ® Si veda sopra p. 28 nota 1. Qui si aggiunge che della voga goduta a Napoli dal poema lucreziano, V., più che da lontano e per  sentito dire, ossia a Vatolla, ebbe notizia molto da vicino e per conoscenza diretta, vale a dire a Napoli stessa. Cfr. NICOLINI, Per la biografia, puntata II.   3 Ma non forse, com’ è detto nell’ Autobiografia, durante il periodo  vatollese, bensì alcuni anni più tardi, e forse non troppo prima del 1708.  Cfr. NicoLINI, Per la biografia, puntata III.   4 Autob., p. 17.   5  Non operari eum [Deum] externos effectus per meram intelligentiam, nisi accedat voluntatis assensus »: Ficino, Th. fI., II, 11; t. I,  p. 107. Può parere la dottrina di S. Tommaso, Summa theol., I, q. XIV,  a. 8. Se non che, per Ficino, come già per Plotino, come per Bruno e  per Spinoza, la volontà razionale di Dio coincide con l'intelligenza,  ed è quindi libera in quanto necessaria. Vedi Th. pi., II, 12: Si ubi  plus est rationis, ibi sortis est minus, in Deo, qui summa ratio est,  vel fons rationis, nihil potest cogitari fortuitum.... Necessitas autem  ipse est Deus.... Et quoniam necessitati nulla praeest necessitas, ideo ibi  est summa libertas.... At in Deo idem est re ipsa esse, intelligere, velle.  Quamobrem ita est per voluntatem suam intelligentiae essentiaeque suae  compos, ut non modo sicut est et sicut intelligit suapte natura, ita  quoque velit, verum etiam sicut vult, ita intelligat atque existat ».  Cfr. PLotINO. Enn.] tempo e le contiene dentro di sé e contenendole le sostiene » !.   A Napoli era salita in pregio la fisica sperimentale,  e si magnificava il nome di Roberto Boyle. V. ne ebbe  sentore; ma egli stesso ci dice di averla voluta da sé  lontana.... perché nulla conferiva alla filosofia dell’uomo....  ed egli principalmente attendeva allo studio delle leggi  romane, i cui principali fondamenti sono la filosofia degli  umani costumi e la scienza della lingua e del governo romano, che unicamente si apprende sui latini scrittori ». Il  suo spirito graviterà sempre più verso il mondo umano;  di un umanesimo concepito come accade di concepirlo a  chi la realtà umana sia avvezzo a mirare nel diritto positivo, ossia come società. Ond’ è che non gli parrà mai  morale quella degli stoici né quella degli epicurei,  siccome quelle che entrambe sono una morale di solitari ».   Poi venne a sapere aver oscurato la fama di tutte le  passate la fisica di Renato delle Carte »; e cercò averne  contezza. Ma già infatti l'aveva studiata e giudicata nell’opera del Regio, e l'aveva respinta perché meccanica al  pari di quella di Epicuro.   Tornò definitivamente a Napoli; e trovò tutta Napoli  cartesiana; e per amor di Cartesio tornata anche alla  metafisica 2.  Si erano cominciate a coltivare le Meditazioni metafisiche ». Egli, l’autodidatta, tuttavia immerso  nelle  meditazioni severe sopra i metafisici platonici »,  non provò per la metafisica cartesiana la stessa ripugnanza  che per la fisica. Vide e non vide il carattere di questa filosofia: non la trovò coerente, perché  alla sua fisica con  I  Deus ideo est in omnibus, quia omnia in eo sunt, quae nisi essent  in eo, essent nusquam, et omnino non essent »: FicIino, op. cit., II, 6;  G. Pico, Heptaplus, V, 6.   2? Naturalmente, nell’affermarsi assai sorpreso di trovar Napoli  affatto diversa da quella ch’egli aveva lasciata, V. esagera, secondo  il Nicolini, giacché, come s’è detto, i suoi contatti con la sua città  natale durante il novennio vatollese erano stati frequenti e talora abbastanza lunghi.] verrebbe una metafisica che stabilisse un solo genere di  sostanza corporea operante »: e quindi alla sua metafisica  una fisica fondata sui principii spirituali (spiriti seminali)  dei corpi. Ed aveva ragione, come dimostrava in quel  torno, a insaputa di V., il Leibniz, che movendo dal  cogito cartesiano, trasformava il meccanismo nel dinamismo. E in conclusione quello sterile abbozzo metafisico  delle Meditazioni, soffocato dal meccanismo quindi incapace di svolgimento sistematico, parve al V. niente  più che un brandello del platonismo suo. Più tardi, quando  s'acuì il suo senso di avversione al cartesianismo, scrisse  addirittura il Descartes non aver fatto altro che tracciare  alquante prime linee di metafisica alla maniera di Platone.... per avere un giorno il regno anche tra’ chiostri,  dove una metafisica materialista non sarebbe stata mai  accolta ». Ingenuo giudizio postumo. Quando, intorno  al 1695, poté conoscere le Meditazioni dovette scorgervi  tracce luminose di verità, rese più visibili dal contrasto  di esse col giudizio che egli aveva dato della fisica cartesiana e con l’aspettativa, poi delusa, che questa gli aveva  fatto nascere rispetto alla metafisica. L’ inconseguenza  cartesiana dové parergli una felix culpa, da render degno  di stima anche ai suoi occhi il celebrato filosofo francese;  e con l’acrisia ermeneutica, della quale doveva dare nelle  sue opere così curiosa dimostrazione !, dovette in un primo  momento piuttosto esagerare che attenuare il merito  del Cartesio, scorgendovi più platonismo che realmente  non vi sia, e che lo stesso V. più tardi non vi riconoscesse. Il suo neoplatonismo non era la preparazione  più adatta per entrare nello spirito del cartesianismo,  né per quel che è il difetto, né per quel che è il pregio di  esso. Ei rimase chiuso dentro di sé a rimuginare il suo    I V. le note del NicoLinI alla sua edizione della Scienza Nuova.    pensiero; e quel Cartesio che vi ammise, fu un Cartesio  neoplatonico.   Giova chiarire brevemente questa situazione. L’ intuizione fondamentale cartesiana (metafisica) è direttamente  opposta alla platonica e neoplatonica: in quanto questa  è orientata verso l’ Uno, o l’ Idea, o Dio, come oggetto o  come verità; quella invece verso il pensiero, come soggetto  o certezza. Il problema di Platone è appunto il concetto della verità, quello di Cartesio il concetto della  certezza. Dentro ciascuno di questi concetti le due  filosofie ricomprendono, naturalmente, e costruiscono  tutta la realtà, la quale nell’uno e nell’altro è diversa soltanto se si considera come contenuto del rispettivo concetto, in cui si organizza. Lo stesso concetto della certezza, c’ è nel platonismo, ma come momento del concetto  della verità; e questo c’ è nel cartesianismo, ma come momento del concetto della certezza. La differenza, in altri  termini, è nel punto di partenza, in quanto Platone muove  dalla massima oggettività (le idee come mondo intelligibile), e Cartesio dalla massima soggettività (1’ idea come  attività intelligente). V., platoneggiando, muove dalla  massima oggettività (quella idea, che egli dice scevera da  corpo): e però in Cartesio, quando vi trova solo alquante  linee di metafisica platonica, non vede il principio, il centro stesso, intorno a cui tutto gravita: la certezza; o meglio, vi vede questo concetto, platonicamente, come momento della verità. Le critiche che farà più tardi a Cartesio  attesteranno appunto questo capovolgimento che egli fa  del cartesianismo. Ma queste critiche, com’ è naturale, verranno più tardi in conseguenza della logica che egli metteva dentro al suo concetto del cartesianismo.   Qui è l'urto dell’autodidatta col pensiero del tempo  suo: poiché col vecchio cervello esercitato sulle opere  della libreria dei Minori Osservanti di Vatolla egli si  trova a pensare un mondo nuovo, prodottosi intanto nella    cultura europea. Lo scetticismo intorno alle scienze naturali, che trovò a Napoli sostenuto da uomini come Tommaso Cornelio e Leonardo da Capua ', non doveva fargli  specie: anzi veniva incontro a quella opposizione tra sapienza umana e divina, che egli aveva trovata nei neoplatonici. La filosofia galileiana di un Luca Antonio  Porzio, suo stretto amico ?, dovette parergli una esemplificazione appunto dell’arte umana incapace d’entrare nell’ interno della natura. Bacone, conosciuto in quel tempo,  non destò per altro la sua ammirazione, che per avere  nel De augmentis esposto l’elenco dei desiderati della  scienza. Quell’altro aspetto della soggettività, a cul mirava il filosofo inglese nella sua polemica contro la logica  aristotelica e nella rivendicazione del sapere come ricerca  della causa reale, non poteva fermare la sua attenzione.  Questa nuova filosofia non poteva avere un significato  per lui, rimasto cogli occhi intenti sulla realtà platonica,  oggetto del pensiero.   Eppure il suo cuore non era in quella realtà. La filosofia egli l'aveva cercata per intendere il mondo umano.  Per questo aveva cercato l’etica aristotelica; per questo  ne aveva schivato la metafisica intesa a mo’ degli averroisti, e s'era volto ai platonici. Per questo mondo, che è  mondo dell’umana volontà, s'era affacciato alle controversie sulla grazia, e s'era fermato in un concetto che  non negasse l'autonomia del volere umano, ma né pure  l'azione su di esso del volere divino. E facendo sua la  metafisica degli zenonisti, per salvare il suo mondo, era  scantonato innanzi alla loro morale. E perché il suo interesse era tutto in cotesto mondo, non lo aveva attratto    I Autob.,21, 33; e del CORNELIO v. il De ratione philosophandi,  in Progymnasmata physica, Napoli, 1688,66 e sgg. Cfr. ora il citato scritto del Croce, Fonti della gnoseologia vichiana.   2 Autob., p. 37.    Boyle con la sua fisica da tutti vantata; ed egli poté consentire con gli scettici della scienza della natura, e, oltre  Platone raffigurante l’uomo quale deve essere, leggere  Tacito che lo rappresenta quale è, e in Bacone ammirare  il magnanimo programma della storia umana futura.  Questo umanesimo è dentro lo stesso vecchio cervello del  platonico filosofante; e preme da dentro per rompere la  corteccia, o scioglierla, piuttosto, e riassorbirla nel circolo della sua vita. Poiché V. non resterà di qua da  Cartesio e da Bacone; anzi se li lascerà indietro; ma con  quanta fatica, si sforzerà di procedere, e di dare intera la  vita a quell’umanesimo che gli si agita dentro ! Né dalla  contraddizione si libererà mai del tutto.   Quando nel dicembre 1697 si bandisce il concorso per  la cattedra di rettorica dell’universià, qual meraviglia  che il nostro umanista, abituato a cercare il pensiero  nelle parole, e nelle parole il pensiero, lettore assiduo di  poeti e di filosofi, a intelligenza del suo diritto romano,  vi slinscriva ? Il 31 gennaio 1699 è nominato professore  di rettorica, alla cattedra di cui si dovrà contentare per  tutta la vita. Ma qual meraviglia se il nuovo professore,  dovendo per l’ ufficio suo recitare nell’annuale inaugurazione degli studi un discorso d’occasione, trasformerà  ogni volta l’ordinaria parenesi rettorica in una meditazione filosofica ?    II.    I primi documenti diretti del pensiero filosofico del  V. (poiché finora abbiamo ragionato dei suoi primi  studi vagliando i suoi ricordi, non anteriori al 1725),  sono le sei orazioni inaugurali da lui scritte tra l’ottobre 1699 e l'ottobre 1707: la prima e le ultime quattro    pubblicate da Antonio Galasso nel 1867 ! di sul manoscritto, in cui l’autore, non avendole messe a stampa,  le aveva raccolte e donate al suo amico p. Antonio da  Palazzuolo; la seconda acefala, dal Villarosa nel 1823 ?,  e quindi ristampata più volte nelle varie raccolte delle  opere vichiane; ma dal Galasso integrata del principio  che si desiderava. Questi scritti, per altro, da mezzo secolo che sono venuti alla luce, non sono stati mai studiati  con l’attenzione che meritano le prime manifestazioni  di un pensiero così profondamente originale. Quando  furono pubblicati, il Cantoni, che due anni prima aveva  pubblicato sul V. un’ampia monografia (dalla quale,  a dir vero, non risulta perché l’autore giudicasse il filosofo  napoletano degno di un così largo studio) 3, se trovò lodevole l’opera del Galasso 4, non esitò a dire che queste  orazioni si aggirano intorno ai vantaggi del sapere e  dello studio, e per verità, meno qualche considerazione  qua e là, esse non escono dai luoghi comuni delle mille  orazioni accademiche che si fecero sopra un tale argomento » 5. Roberto Flint, che è stato degli studiosi più  accurati della filosofia vichiana, riconobbe che le prime  tracce di questa son da cercare in queste orazioni, vedendo  qual conto fosse da fare del giudizio che ne dà nella sua  Vita lo stesso V.; e fece di queste orazioni una succinta    I Cinque orazioni latine inedite di G. B. V. pubbl. da un cod. ms.  della Bibl. naz. [di Napoli] per cura di A. GaLasso, Napoli, Morano,  1869. Una nuova edizione è nel primo volume delle Opere, a cura  di Giovanni Gentile e Fausto Nicolini, e a questa edizione mi riferisco  in questo volume ove cito soltanto: Opere, I.   2 JoH. B. Vici, Opuscula, Neapoli,191-208.   3 V. le mie Orig. della filos. contemp. în Italia, 1%,280-85, e  A. FacGI, Cantoni e V., nella Riv. filos., IX (1906),593 S8g8 4 Il Galasso premise alle orazioni un lungo discorso col titolo Storia  intima della Scienza Nuova; il quale gira molto largo, e non stringe  mai da presso la questione del valore storico delle orazioni pubblicate.   5 C. CANTONI, recensione del vol. del Galasso nella Nuova Antologia  del 1870, vol XIV, p. 392.    analisi !, additando alcuni concetti, che saranno ripresi  e svolti nelle opere posteriori. Ma l’analisi merita di essere  ripresa e guidata da un più pieno concetto storico dello  svolgimento di tutto il pensiero vichiano.   Soggetto della prima orazione è la dimostrazione della  sentenza: Suam ipsius cognittonem ad omnem doctrinarum orbem brevi absolvendum maximo cuique esse incitamento; ossia che la conoscenza dello spirito contiene  in sé i principii di tutto lo scibile, poiché nello spirito  umano si contraggono tutte le forme del reale. Era stato  un concetto eloquentemente svolto dal Pico nel De hkomanis dignitate, e anche altrove. Dio, secondo il Pico, creato  il mondo e fatto Adamo, avrebbe detto a questo:  Nec  certam sedem, nec propriam faciem, nec munus ullum  peculiare tibi dedimus, o Adam, ut quam sedem, quam  faciem, quae munera tute optaveris, ea, pro voto, pro tua  sententia, habeas et possideas. Definita caeteris natura intra  praescriptas a nobis leges coèrcetur; tu nullis angustiis coèrcitus, pro tuo arbitrio, in cuius manu te posui, tibi illam  praefinies. Medium te mundi posui, ut circumspiceres inde  commodius quicquid est in mundo. Nec te coelestem, neque  terrenum, neque mortalem, neque immortalem fecimus, ut  tur 1psius quasi arbitrarius honorariusque plastes et fictor,  in quam malueris, tute formam effingas. Poteris in inferiora,  quae sunt bruta, degenerare; poteris in superiora, quae sunt  divina, ex tui animi sententia regenerari ». All’uomo perciò  è dato habere quod optat, 1d esse quod velit. I bruti, da che  nascono, portano seco quel che potranno mai possedere.  Gli spiriti supremi (gli angeli) furono fin da principio,  o poco dopo, ciò che saranno in eterno. Nascenti homini  omnifaria semina et omnigenae vitae germina indidit Pater. FLINT, V.,50-58. Un breve cenno, proporzionato all’ indole del suo libro, ne ha fatto B. Croce, La filosofia di G. B. V. A seconda di quello che ne avrà coltivato, ognuno crescerà  e fruttificherà. S7 vegetalia, planta fiet; si sensualia,  obbrutescet; si rationalia, coeleste evadet animal; si intellectualia, angelus eritt et Dei filius. Et si, nulla  creaturarum sorte contentus, in unitatis centrum suae se  receperit, unus cum Deo spiritus factus, in solitaria Patris  caligine, qui est super omnia constitutus, omnibus antestabit »*. E per questa sua onnifaria natura l’uomo si  può dire possegga l’ immagine di Dio. Non la sua natura  spirituale, intelligibile, invisibile e incorporea è il carattere  privilegiato che fa ritrovare in lui un'immagine di Dio.  La stessa natura è negli angeli, e più eccellente, e meno  commista alla natura contraria. La proprietà, onde  l’uomo si assomiglia a Dio, è questa, che kominis substantta omnium in se mnaturarum substantias et totius  universitatis plenitudinem re ipsa complectitur ». Re ipsa:  vale a dire, non in quanto le può pensare, ma in quanto  può realizzarle. Con questa sola differenza tra Dio e l’uomo:  che il primo contiene in sé tutto, come principio di tutto;  1l secondo contiene tutto, come medio tra tutti gli esseri,  onde in lui tutti gli esseri inferiori si nobilitano e i superiori degenerano ?.   Ccen questo panteistico concetto dell’uomo, V. richiama il sacro detto che era scritto a lettere d’oro sul  tempio di Apollo: Tvad. cexvtév: due parole piene di  tanta verità, che dagli antichi, quantunque alcuni le attribuissero a Pitagora, molti a Talete, altri a Biante,  altri a Chione, tutti, per consentimento generale, vere  colonne dell’umana sapienza, si finì col toglierle a questi  stessi sapientissimi uomini, e ascriverle per unanime consenso all’oracolo pizio. Così parve meraviglioso che, tam  pressa brevitate, questo motto potesse contenere tale ab  I Pico, Opera, Basilea, 1601, p. 208.  2 Cfr. Heptapl.] bondanza di significato profondo. Giacché questo motto  non fu escogitato a reprimere la superbia umana, come  pur si crede volgarmente, quasi inculcasse di considerare  la scarsezza delle forze umane; anzi ad eccitare e incorare  gli uomini a quanto v’ è di grande e di sublime, riconoscendone loro la capacità.   Difficile bensì questa piena cognizione di se medesimo.  Difficile in ogni tempo: ma allora poi, a Napoli, difficilissima. V. ricorderà nella sua Vita: che allora, negli  anni estremi del sec. XVII, tra i suoi concittadini ai  quantunque dotti e grandi ingegni, perché si eran prima  tutti e lungo tempo occupati in fisiche corpuscolari, in  isperienze ed in macchine », le Meditazioni cartesiane riuscivano astrusissime appunto per la difficoltà di ritrar  da’ sensi le menti per meditarvi; onde l'elogio di gran  filosofo era: — Costui intende le Meditazioni di Renato ».  Non fisiche corpuscolari, esperienze e macchine, ma la  contemplazione del mondo intelligibile, in cui si sono esercitati i platonici, occorreva per una metafisica come la  cartesiana. E cartesiano egli, in quanto platonico, poteva  sentirsi nel 1699 dicendo  magnus ingenti conatus est revocare mentem a sensibus et a consuetudine cogitationem abducere». In una dignità della Scienza Nuova (la LXIII)  dirà che la mente umana è inchinata naturalmente  co’ sensi a vedersi fuori nel corpo, e con molta difficultà  per mezzo della riflessione ad intendere se medesima ».  L’ascenso, infatti, pei platonici è arduo, difficile,  e di pochi. Quell’abducere a consuetudine cogitationem innesta bensì sul vecchio motivo platonico un elemento  cartesiano, che è la critica del sapere ricevuto, della tradizione o della storia positiva. Ma V. non se n’'accorge, e insiste nel motivo platonico:  Af mentis actes,  quae omnia invisit, se ipsam intuens, hebescit. Vel hoc    1 dutob., p. 25.    ipso agnoscis animi iui divinitatem, eumque Dei Opt.  Max. simulacrum esse animadvertis ». Par di riudire Pico.  L’animo pel V. è expressissimum simulacrum di Dio,  per la medesima ragione per cui tutti i neoplatonici, da  Plotino fino, si può dire, a Spinoza, concepiscono Dio  come uno, non moltiplicabile per se stesso, e quindi tutto  in tutto, e come Dio l’uno: ossia come sua emanazione,  suo modo, ogni unità.   Ut enim Deus per ca, quae facta suni atque hac rerum  universitate continentur, cognoscitur; ita et animus der  rationem, qua dpraestat, per sagacitatem + et motum, per  memoriam et ingenium divinus esse percipitur ». La molteplicità del mondo fa conoscere Dio, come la molteplicità  delle operazioni psichiche fa conoscere l’anima. Ma, come  il molteplice fa conoscere l’ Uno ? Ci sono due modi di  passare dal molteplice all’ Uno: uno dei quali è quello  di S. Tommaso (degli argomenti a posteriori dell'esistenza di Dio), per cui il molteplice è sostanzialmente  differente dall’ Uno: e l’ Uno si può concepire perciò senza  il molteplice, né questo contiene in sé quello; e l’altro è  quello di Spinoza (dell'argomento 4 prior: o ontologico),  per cui il molteplice non è pensabile senza l’ Uno, poiché  solo l’ Uno è pensabile; ma 1’ Uno non si può pensare se  non nell’ infinità dei suoi attributi (che ne costituiscono  l'essenza). Il modo di V. è questo di Spinoza, e non  quello di Tommaso: è il panteista.  Ut enim Deus in  mundo, ita animus in corpore est. Deus per mundi elementa, animus per membra corporis humani perfusus;  uterque omni concretione secreti omnique corpore meri    I È qui da confrontare questo luogo di Bruno: Sagacitas  facultas distinctiva et apprehensiva circa errores, qui a deceptoribus  fabulosis et impostoribus ingerantur; et consistit in potentia partim  indicativa, partim scrutativa, qua, sicut naribus odorem percipimus, ita  ingenio sophistam et circumventorem »: G. BruNO, Lampas trig. stat.,  in Opera, III, 143.    4    purique agunt». L'uno e l’altro non si confondono (concretione secreti) con la materia, in cui agiscono. Onde  Dio e l’anima senza il mondo e il corpo saranno, ma non  si potranno conoscere. Per ea quae facta sunt cognoscuntur.   Così, se V. dice che mundus vivit quia Deus est; si  mundus pereat, etiam Deus erit, e analogamente corpus  sentit quia viget animus; si corpus occidat, animus tamen  est immortalis, egli però premette: Deus semper actuosus,  semper operosus animus; e così pareggia le partite, perché  l’agire lega Dio al mondo e l’anima al corpo, e in generale  l’ Uno al molteplice, o, nel linguaggio cartesiano, la sostanza ali suoi attributi. Che è cartesianismo rigoroso,  come coraggiosamente poi l’affermò Spinoza; ma è pure  il neoplatonismo, assai più antico di Spinoza e di Cartesio.   Par di leggere Giordano Bruno:  Er Deus in mundo,  et in corpore animus ubique adest, nec usquam comprehenditur: Deus enim in aethere movet sydera, in aère i1ntorquet fulmina, in mari procellas ciet, in terra denique  cuncta gignit [quindi anche i pensieri della mente e i  decreti della volontà]; mec coelum, nec mare, nec tellus  Dei circumscriptae sunt sedes: mens humana in aure audit,  in oculo videt, in stomacho tirascitur, ridet 1n liene, in  corde sapit, in cerebro intelligit, nec in ulla corporis parte  habet finitum larem. Deus combplectitur et regit ommia,  et extra Deum nihil est; animus, ut cum Sallustio loquar,  ‘ rector humani generis, ipse agit atque habet cuncta, neque  ipse habetur’ » 3.    I Cfr. G. Bruno, De la causa, dial. II: Se l’anima del mondo e  forma universale [cioè la divinità] se dicono essere per tutto, non s’ intende corporalmente e dimensionalmente; perché tali non sono; e  così non possono essere in parte alcuna; ma sono tutti per tutto spiritualmente. Come per esempio, anche rozzo, potreste imaginarvi  una voce, la quale è tutta in una stanza, e in ogni parte di quella;  perché da per tutto se intende tutta »: Opere ital., 12, 195. Cfr. anche 183-4 e Opera lat., III, 41, 57. L'anima individuale in relazione col  corpo ha la stessa individualità, perché sta all'anima del mondo come il  modo alla sostanza spinoziana (v. GENTILE, G. Bruno e il pens. del  [ Non ci vuole molto ad accorgersi che, per quanto, con  tutti 1 neoplatonici da Plotino a Bruno, V. si sforzi  di attenuare l’unità e identità di Dio e dell'anima, chiamando questo simulacro di quello, o, come dirà altrove 1,  riferendosi al concetto svolto in questa orazione, una  specie di divinità, parlando soltanto, come qui  fa, di una divina quaedam vis cogitandi (per definire  la facoltà umana del pensiero), il rapporto in cui lo spirito  umano è posto con Dio, è rapporto d’ identità, poiché  alla distinzione di Deus e animus precede il concetto panteistico ficiniano: Deus omnia agit.   Procedendo su questa strada, V. si trovò più d'una  volta ad essere accusato delle conseguenze pericolose,  a cui la sua filosofia poteva condurre. Il recensore del  Giornale de’ letterati vide profondamente dentro il De  antiquissima quando della sostanza vichiana, punto metafisico (tal quale il minimo di Bruno) inesteso e principio di estensione, notò che, convenendo cotesti concetti  altresì alle sostanze spirituali e pensanti, se ne potrebbe dedurre che queste ancora sieno principio di estensione; il che per altro è un manifesto assurdo ». Non  assurdo per V., che per l’appunto, emanatisticamente,  superando il corpo formato, a cui s'arrestava  per una falsa posizione la fisica corpuscolare, intendeva edurre la materia dallo spirito. — V. rispose:  Queste difficultà, come quelle che fate dell’ immortalità  dell’anima, dove par che premete la mano con ben sette  argomenti, se non mi fusser fatte da voi, io giudicherei  che andassero più altamente a penetrare in parte, la quale,  quantunque si protegga e sostenga con la vita e col co  Rinascimento, p. 218 sgg.). Per Ficino, v. sopra p. 34, e cfr. Theol.  plat., XV, 5 (I, p. 337):  Anima tota est in qualibet particula corporis ».  Cfr. PLotINO, Enn.. VI, 4, 12; e anche A. StEUCO, De perenni philos.  (1540), IX, 5; IX, 14; IX, 23.   1 Autob. stumi, pure s’offende con l’ istessa difesa » 1, E soggiunge,  quasi per pura cortesia, un argomento, che schiva bensì  l’assurdo, ma conferma l’ interpretazione monistica dell'avversario; laddove quella ombrosa sensibilità religiosa,  quel ricoverarsi sotto lo scudo della vita e dei costumi  svelano che egli, come Bruno, assegnava la religione allo  spirito pratico, sottraendo la ricerca speculativa ad ogni  preoccupazione religiosa 2. La stessa contraddizione ingenua di Bruno innanzi ai suoi giudici veneti è in fondo  al lamento, onde V. nel 1720 si doleva oscuramente col  p. Giacco di certe accuse religiose suscitategli contro dalla  pubblicazione della Sinopsi del Diritto universale 3:  Le  prime voci che in Napoli ho sentito contro da coloro che  han voluto troppo in fretta accusarmi dal medesimo  saggio che ne avea dato, erano tinte di una simulata  pietà, che nel fondo nasconde una crudel voglia  d’opprimermi con quelle arti, con le quali sempre han  soluto gli ostinati delle antiche o piuttosto loro opinioni  rovinare coloro che hanno fatto nuove discoverte nel  mondo dei letterati». Onde non sai se per cerimonia o  se per ingenua incapacità di apprezzare accuse di cotesto  genere, si confortava dicendo al suo corrispondente:   Però il grande Iddio ha permesso per sua infinita bontà    I Opere, I, 226-7, 266.   ? Per Bruno, v. il mio G. Bruno,160 sgg.   3 Qualcuno a Napoli nel 1720 ricordava forse ancora qualche debolezza giovanile del V., in fatto di religione. Fausto Nicolini mi  comunica in proposito:  Che V. attraversasse nella sua gioventù  un periodo di cupo pessimismo, è cosa che gli Affetti di un disperato  non potrebbero mostrare in modo più chiaro. Di più, ancora nel 1710,  V. dirà (prologo del De antiquissima) che i suoi amici più cari  erano Agostino Ariani, Nicola Galizia e Giacinto De Cristofaro. E  proprio contro l’ultimo fu intentato nel 1687-1693 un clamorosissimo  processo per ateismo dal Sant’ Ufficio: processo di cui discorre a  lungo l’AMABILE nel suo libro sul Sant’ Ufficio a Napoli (ne aveva già  parlato il GIANNONE) e del quale esiste anche uno spezzone inedito  nella Biblioteca Nazionale (molte notizie complementari si trovano  anche nei Giornali inediti del CONFUORTO e soprattutto nei carteggi cifrati del nunzio pontificio a Napoli, serbati nella Vaticana). Dal pro  che la religione istessa mi servisse di scudo, e che un  padre Giacchi, primo lume del più severo e più santo  ordine de’ religiosi, desse tal giudizio, per bontà sua,  delle mie debolezze » !.   Comunque, il suo pensiero viveva dentro questo mondo,  in cui tutto è Dio; e questo suo pensiero egli stesso viveva  con profondo sentimento, che ricollega nella storia del nostro pensiero, direttamente, V. a Bruno, suo forse ignorato precursore; ed è da entrambi chiamato, con termine  neoplatoneggiante, mente eroica, o spirito eroico ?    cesso e dagli atti sussidiari appare che il De Cristofaro faceva gran  propaganda e che affetta da lebbra epicureo-lucreziana-atomistica-ateistica fosse parte della gioventù studiosa napoletana (compreso il Galizia). Finora il nome del V. non è venuto fuori (disgraziatamente  molti nomi nel processo sono indicati con segni convenzionali). Ma,  tenuto conto di tutte le circostanze, non sarebbe illegittimo congetturare che anche lui, come tanti giovani suoi coetanei, avesse una parentesi ateistica o semiateistica. E si consideri poi una coincidenza per  lo meno curiosa. Nel Diritto Universale e anche nelle due Scienze Nuove  V. pone ripetutamente l’equazione  filii Dei o filii Jovis = eroi,  nobili ». Orbene quest’equazione appunto era addebitata nel 1693, come  un forte capo di accusa, al De Cristofaro e agli altri coaccusati, i quali,  al dir dei denunzianti, ne cavavano la conseguenza che l’attributo di   filius Dei» dato a Cristo volesse dire, non già che egli fosse davvero  figlio di Dio, ma, alla stessa guisa degli eroi dell’antichità pagana,  che fosse soltanto un uomo illustre ». Ma lo stesso Nicolini non crede  di esser giunto sopra questa materia a conclusioni definitive.   I Autob., p. 143.   2 V. lett. del 25 nov. 1725, in Autob., p. 175. Che V. abbia potuto  leggere qualcuno degli scritti del B. è reso probabile dal fatto che  questi, a tempo del V., dovevano essere familiari tra gli amici stessi  del V.. Che Tommaso Cornelio ne avesse letto qualcuno lo dimostrano i suoi Proginnasmi. Ma quel Giuseppe Valletta, nella cui biblioteca, come abbiamo visto (p. 32), V. poté leggere Campanella, aveva  pure il De l’ infinito universo e mondi del Nolano. In un suo libro cominciato a stampate ma rimasto incompiuto (conservato tra i Mss. della  Bibl. Naz. di Napoli, colla segn. 149 Q. 26) Sul procedimento del  Sant’ Uffizio,LKXXIHI e LXxXII, s'incontra la seguente citazione importantissima per la storia della fortuna che ebbero le opere del Bruno:  Il p. Cantini, non sapendo, o fingendo di non sapere ciò che disse  Sant'Agostino nel libro VII della Città di Dio: Mundus unus est, et  in eo uno omnia sunt, e nel Sermone XII sulle parole dell’Apostolo:  Unum mundum condidisti, ed egualmente nel cap. X del libro 3 Contro  gli Accademici, si pose egli ad esplicare la probabilità di sì fatta sentenza »,  e audacemente dice.... che noi non dobbiamo condannare il parere    In questo suo mondo V. potrà trovare il principio della Scienza Nuova (il concetto della provvidenza  realizzantesi nella storia). In questa prima fase del suo  filosofare egli ha in mente, ma non vede, l’unità del divino e dell'umano; e però parla di simulacro, come Pico  della Mirandola. Non la vede, perché non ha ancora viva  coscienza della realtà umana; e la sua realtà vera è an  di altri filosofi intorno alla pluralità de’ Mondi, quasi ripugnante alle  Sacre lettere, perché, se alcun s’applicasse, dic’egli, a considerar la  cosa più da presso e più naturalmente, inveniet cam certe multum habere  probabilitatis. Il che reca non poco di meraviglia in un uomo di tanta  autorità quanto egli certamente si era; e potrebbe, se non altro, dar  luogo alla calunnia, di dire che egli abbia per avventura approvato la  dottrina di Giordano Bruno; la quale avesse piaciuto al Cielo, che fosse  rimasta affatto incenerita nelle giustissime fiamme, in cui arse l’autore  e non vivesse ancora nel suo abbominevole libro scritto della pluralità di Mondi. Questo, con idea non più intesa, disotterrando le più  stravaganti opinioni, già sepolte de’ Greci, de’ Caldei e degli Egizi,  fece un nuovo ed inudito sistema; dove a pruova risplende l’umano  ardimento e la libertà non meno di pensar tutto ciò, che è possibile,  che di scrivere tutto ciò che può pensarsi. Nî/ mortalibus arduum, coelum  ipsum petitur stultitié. Giace, dice egli, nel mezzo del nostro Mondo  immobile il Sole; e la Terra con perpetue vertigini intorno a quello  s’aggira: come in un Madrialetto, posto nel terzo dialogo:    Quanto nel Cielo, e sotto il Ciel si mira,  Non sta, si volge, e gira.    Né di ciò contento, vuole che ogni pianeta sia una terra, e ciascuna  stella sia un altro sole; e che detti pianeti non siano quei pochi, che  noì osserviamo, nettampoco le stelle: ma infiniti ed innumerabili, e  quelli e queste sparse nello spazio infinito dell’ Universo; che, essendo com'’ei dice, immagine dell’ Onnipotenza infinita, non dee riconoscere termine alcuno. E non bastando questo alla vastità della sua immaginazione, s'avanza a dire che tutti questi infiniti Mondi sono abitati da sostanze diverse e forse migliori della nostra: e che l’ interminata ampiezza dell’ Universo sia assistita e governata da un'anima  universale, non meno che ciascuno Mondo dalla sua particolare. Alla  fine questo scellerato, prevedendo gli effetti della sua disperata libertà,  così, dopo apportati gli argomenti per la sua opinione, traboccando  d’una in altra empietà, fa parlare nel primo dialogo a I'iloteo: Questi,  se non sono semplici, sono demostrativi sillogismi, tuttavolta che da alcuni  degniì Teologi non se admettano; perché provvidamente considerando,  sanno che gli rozzi popoli ed ignoranti, con questa necessità vegnono a non  posser concipere come possa star la elettione, e dignità, e meriti di giusticia:  onde, confidati o desperati sotto certo fato, sono necessariamente scelleratissimi. Come talvolta certi correttori di leggi, fede e religione, volendo parere    SI    cora per lui, come per i platonici, quella che fa Dio: la  natura, la stessa natura di Ficino, di Bruno e di  Spinoza. E rispetto a questa natura, l’uomo non è dentro, ma fuori della realtà divina; e può solo intuirla risalendo all’ Uno, cioè come operazione non propria, ma  di questo Uno (che è il dommatismo spinoziano). Qui si  ferma V., restando innanzi al dualismo, e quindi allo  scetticismo, che corrode alla radice la metafisica del De  antiquissima.   Concludendo, nella Orazione del 1699, il confronto tra  Dio e lo spirito umano, V. dice:  Tandem Deus naturae artifex; animus artium, fas sit dicere, Deus » 1. Formola che coincide a capello con quella del Ficino, e anticipa  la gnoseologia del De antiquissima. C'è l’unità e c' è  l'opposizione: l’unità nelle arti (mondo delle  nazioni, si dirà nella Scienza Nuova), dove, se è  vero, come V. ha detto, che Dio en terra cuncta gignit,  lo spirito non crea se non in quanto è esso stesso Dio  (senza metafora); l'opposizione nella natura, dove  Dio crea, e l’uomo guarda da fuori.   Da questo punto di partenza V. potrà giungere alla  Scienza Nuova, ma non potrà mai superare la posizione  del De antiquissima; perché quella natura, di cui la metafisica può avere un’ intuizione indimostrabile, essendo  fuori dello spirito, non potrà mai risolversi nello spirito *.  savii, hanno infettato tanti popoli, facendoli dovenir più barbari e scellerati che non eran prima, dispregiatori del ben fare, ed assicuratissimi ad  ogni vizio e ribalderia, per le conclusioni che tirano da simili premisse.  Però non tanto il contrario dire appresso gli sapienti è scandaloso, e detrae  alla grandezza ed eccellenza divina, quanto quel che è vero, è pernicioso  alla civile conversazione e contrario al fine delle leggi, non per esser  vero, ma per esser male inteso, tanto per quei che malignamente il trattano,  quanto per quei che non son capaci de intenderlo, senza jattura de’ costumi ».  (Cfr. BRUNO, Opere ital. ed. Gentile, 1%,339 € 301). Su codesto scritto  del Valletta, e l'occasione a cui si riferisce, v. AMABILE, Il Sant Offizio,  II, 64.   I Opere, I, 8.    2 Accenno alla tesi dello Spaventa circa il concetto della metafisica della mente, di cui la Scienza Nuova dimostrerebbe per lo meno    L'avrebbe superata, se avesse potuto cangiare il suo  mondo, e non essere insomma V. neoplatonico, riportante tutto a Dio e mirante quindi la natura come  parallela allo spirito nelle manifestazioni di Dio, per  concepire non più questa dualità di natura e artes, ma  una natura essa stessa ars di quel Dio che è animus; e  ridurre insomma tutto ad ars.   Elementi corrosivi dell’oggettività platonicamente trascendente del reale, che si organizzeranno alla meglio a  poco a poco per la laboriosa meditazione del mondo umano  del diritto e in generale della storia, nella Scienza Nuova,  ce ne sono, e di grandissima importanza, già in questa  Orazione del 1699. Poiché fin da questo scritto il nostro  filosofo ha un acuto intuito dell’attività creatrice dello  spirito. La fantasia, nello stesso senso della Scienza  Nuova, autrice di un suo mondo pieno e perfetto, contemplato dalla sapienza poetica, fa qui la sua prima apparizione:  Vis vero illa rerum imagines conformandi, quae  dicitur ‘ phantasia ‘, dum novas formas gignit et procreat,  divinitatem profecto originis asserit et confirmat. Haec  finxit maiorum minorumque gentium deos; haec finxit heroas; haec rerum formas modo vertit, modo componit, modo  secernit; haec res maxime remotissimas ad oculos pontt....».   Né questa facoltà di creare gli dèi è assegnata incidentalmente alla fantasia. Quel luogo d’oro di  Giamblico nel De mysteriis Aegyptiorum, che sarà ricordato  nella Scienza Nuova a riprova della teoria dei caratteri  poetici (dign. XLIV), che cioè gli Egizi tutti 1 ritrovati_r_r-@y666    l'esigenza; e sono d’accordo col Croce (La filos. di G. B. V., p. 137;  2% ed. p. 141), nel ritenere che non si possa parlare di unificazione di  natura e spirito in V.: il quale s’arrestò, e doveva arrestarsi, alla  dualità degli attributi. Ma è vero che se egli non sa svolgere l’esigenza  implicita nella posizione della S. N., e deve mantenere la metafisica del  De ant., cotesta esigenza, che noi vediamo nella sua mente, è tale da  distruggere la posizione del De ant. Per la sua esigenza, V. va al di  là di Spinoza e di Leibniz, ed è kantiano prima di Kant.    utili alla vita umana attribuissero a Mercurio Trimegisto,  doveva esser noto al V. fin da quando scriveva nel ’99:    Quid vero illa, quae aut singularem utilitatem, aut summam  admirationem hominibus voluptatemve attulerunt, nonne ethnici  homines, suimet ipsorum ignari, sive ad deos quosdam retulerunt,  sive deorum dona esse existimarunt? Leges, quod iis vitae societas  conservetur,  deorum donum » Demosthenes dixit; at eae donum  humani animi vestrum similis fuit. Socrates moralem philosophiam de coelo dictus est devocasse; at is potius animum in  coelum intulit. Medicinam Graecia ad Apollinem retulit, eloquentiam ad Mercurium; at ii homines, ut quivis vestrum fuere.  Orphei lyra, Argus navis, inter sidera invecta, vestras hominum  mentes luculento testimonio caelestes esse confirmant. Et, ut  hanc rem omnem brevi complectar, dii omnes, quos ob  aliquod beneficium in hominum societatem collatum coelo appinxit  antiquitas, vos estis.    Razionalismo evemeristico, che si fonde nel pensiero  fondamentale dell’animus artium deus (poiché leggi, filosofia morale, medicina, eloquenza, musica e poesia son  tutte arti); e dà alla fantasia creatrice degli dèi, propria  degli uomini suimet ipsorum ignari, un posto nella metafisica generale del nostro pensatore. Che poi la fantasia  creatrice di questi, come dirà più tardi V., caratteri  poetici o ritratti ideali, che sono gli dèi degli antichi,  non sia pur fatta creatrice di tutti gli dèi, antichi o moderni — poiché anche la religione è un’ars — non vorrebbe dir nulla, se V. avesse la forza di rovesciare  il suo mondo sulla propria base, per fondarlo sullo spirito: allora la sua fantasia, il suo spirito diverrebbe creatore davvero del cielo e della terra. Per esser tale, infatti,  non avrebbe bisogno di saperlo; anzi non dovrebbe saperlo: suimet ipsius ignarus. V., interrogato, a rigore  non potrebbe non negare. Questa è, e rimarrà, una pura  esigenza del suo pensiero: non far creare misteriosamente  l'uomo da Dio, ma, razionalmente, Dio dall’uomo. Certo, da queste prime formule del suo pensiero fino  alle dignità più solide e definitive di esso, sta per V. che  gli uomini prima sentono senz’avvertire, dappoi avvertiscono con animo perturbato e commosso, finalmente riflettono con mente pura» (dign. LIII); e in generale, come  per Schelling, prima è il fare e poi il sapere di aver fatto;  verum ipsum fecisse (prima aver fatto); e la Scienza  Nuova può essere una dimostrazione di fatto storico della  Provvidenza,  perché dee essere una storia degli ordini,  che quella, senza verun umano scorgimento o consiglio,  e sovente contro essi proponimenti degli uomini, ha dato  a questa gran città del genere umano » ®. È dunque stretta  dottrina del V., che la piena coscienza del suo pensiero non può esser nel suo pensiero, ma solo nella riflessione posteriore.   Né la fantasia crea soltanto le religioni. Crea le lingue, con sorprendente rapidità; sì che a due anni, al più  a tre, si sanno omnia verba et res quibus communis vitae  usus continentur; che se si volesse redigerne un vocabolario, vi occorrerebbero di gran volumi. Così ognuno di  noi ha in sé una filosofia, tutto lo scibile: e non lo sa.  Basta attendervi. L’ innatismo platonico si colorisce di  immagini stoiche, dove V. esorta ad eccitare 2/as nobis  tot rerum atque tantarum a prima veritate insitas et quasi  consignatas notiones, quae in animo, tanquam igniculi  sepulti, occluduntur; et magnum cunctae eruditionis incendium excitabimus. Ricorda poi la storia del Menone  platonico, dove lo schiavo ignaro di geometria, accortamente interrogato, si palesa geometra. Vobiscum sunt,  vobiscum scientiae omnes, adolescentes, si vosmet 1sos  recte novenitis, fortunatissimi.   Questo innatismo è un modo della inconsapevolezza  originaria dell’anima, quale va concepita nella dottrina    I S. N..    IT. neoplatonica del descenso in contrapposto all’ascenso. Lo  spirito umano è, in quanto è ignaro dei tesori celati nel  suo grembo !. Ne acquista coscienza con la volontà,  come richiede il platonismo, dall’&owg del Convito all'amor Dei intellectualis dell’ Ethica. O insignem desidiosorum ignominiam, eos sapientes non esse! Cur? quia  noluerint; quando ut sapientes simus, id voluntate maxime constat ». E a persuadere che questo tesoro è già nell'animo, e che basta quindi volere, che cioè veramente  lo spirito non possiede soltanto quello che sa di possedere,  come Leibniz nei Nuovi Saggi anche V. scende all'osservazione di quelle che il filosofo di Lipsia dirà piccole percezioni. Quivis vestrum cottidie tabulas pictas intuetur, sed innumera non videt quae pictores observant;  cottidie symphonias et cantus audit, sed quam multa eum  fugiunt, quae exaudiunt in eo genere exercitatt ! Non vi  manca altro, conchiude V., che l’arte del vedere e  dell’udire.   Che più ? La stessa filosofia non è se non una scoperta, che chi vuole fa dentro di sé, di un mondo che reca  in se stesso, anche se non vi rifletta mai su. A dimostrazione di ciò, neoplatonicamente, V. esemplifica ai suoi  uditori il processo filosofico come un itinerario della mente  a Dio: a sui ad Dei cognitionem ascensto. Ma l’esposizione di questo processo riesce affatto nuova e sorprendente a chi, familiare col V. delle opere da lui pubblicate, legga per la prima volta queste orazioni che egli,  maturata la sua filosofia, rifiutò. L’acerbo critico di Cartesio qui ci apparisce cartesiano. Vediamo.    Etsi de omnibus omnino rebus mens humana haereat dubitetque, nullo usquam pacto ambigere potest quod cogitet, nam  id ipsum ambigere cogitatio est. Cum itaque nequeat se non cogitationis consciam agnoscere, ab ea cogitandi conscientia  conficit primum, quod sit res quaedam; nam, si nihil esset, qui  cogitaret ?   Questo è il cogito ergo sum cartesiano, se anche non  esposto con tutta la precisione desiderabile (poiché con  quel nam sî nihil esset la verità della proposizione cessa  di essere quella res per se nota simplici mentis intuitu  che Cartesio voleva). Ma V. prosegue: Deinde sibi infinitae cuiusdam rei notionem esse insitam sensit;  tum adsumit tantundem in caussa esse oportere quantum in re  est, quae ab ea caussa producatur: hinc denuo colligit, eam infinitae rei notionem a re, quae sit infinita, provenire. Heic se finitum  et imperfectum agnoscit: itaque infert eam notionem sibi ab infinita  quadam re, cuius ipse aliqua sit particula, obortam esse. Hoc  explicato, adsumit: — Quod infinitum est, in se continet omnia,  nec a se quicquam excludit. — Hinc rursus complectitur eam  notionem sibi esse a natura omnium perfectissima ingenitam.  Proponit iterum: — Quod perfectissimum est, id omnibus est   erfectionibus cumulatum. — Colligit denuo:  Itaque ab eo  nulla secreta est.  Ad haec assumit:  Perfectio est quid esse.   Tandem denique concludit:  Est igitur Deus. Cumque Deus  sit omnia, est omni pietate dignus !. È, come ognun vede, uno stringato estratto dalla terza  Meditazione cartesiana. Se non che, in qual modo si deve  intendere questo cartesianismo della prima fase della filosofia di V. ? L’anticartesianismo è la sola norma legittima della sua interpetrazione. Nel De antiquissima e  nella polemica col Giornale de’ letterati egli svolgerà una  critica della certezza cartesiana, che ha due momenti inseparabili.   I) La certezza del cogito è coscienza, nonscienza.  Scire est tenere genus seu formam, quo res fiat; conscientia  autem est eorum, quorum genus seu formam demonstrare    I Opere.] non possumus!. O altrimenti: la scienza è aver cognizione di quella causa che per produrre l’effetto non ha bisogno di cosa forestiera?: onde il criterio di avere scienza di una cosa  è il mandarla ad effetto; e che il pruovare della causa sia  il farla; e questo essere assolutamente vero, perché sì converte col fatto, e la cognizione di esso e la operazione è  una cosa istessa »3. V. avverte che egli non rifiuta  perciò l’analisi con la quale il Cartesio perviene al suo  primo vero ». Sarebbe cioè ancora disposto a farla sua,  come nella Orazione del 1699. Io l’appruovo e l’appruovo tanto, che dico anche i Sosi di Plauto, posti in  dubbio di ogni cosa da Mercurio, come da un genio fallace, acquetarsi a quello sed quom cogito, equidem sum.  Ma dico che quel cogito è segno indubbitato del mio  essere; ma, non essendo cagion del mio essere, non m'’ induce scienza dell’essere » 4.   2) Il vero processo per V. è quest'altro: Quid in  me cogitat; ergo est: in cogitatione autem nullam corporis  ideam agnosco; id igitur quod in me cogitat, est purissima  mens, nempe Deus. Perciò egli, approvando l’analisi cartesiana, può illustrare il significato del cogito, dicendo  che questo cogito non è ‘causa, ma signum dell’ esse:  Nisi forte mens humana ita sit comparata, ut cum ex  rebus, de quibus omnino dubitare non possit, ad Dei Opt.  Max. cognitionem pervenerit, postquam eum morit, falsa  agnoscat vel ca, quae omnino habebat indubia. Ac proinde  ex genere omnes îdeae de rebus creatis prae idea summi  Numinis quodammodo falsae sint, quia de rebus sunt,  quae ad Deum relatae non esse ex vero videntur: de uno    I Opere, I, 139.   2 Prima risp., II e III in fine; Sec. risp., $ IV.  3 Sec. risp., $ IV: Opere, I, 258.   4 Prima risp., II; cfr. De ant.] autem Deo idea vera sit, quia is unus ex vero est » 1. E però  V. rimprovera al Malebranche, che pur platoneggiava,  di non essersi accorto che la mente umana può ricavare  la cognizione, non pure del corpo, ma di se medesima,  soltanto da Dio; ita ut nec se quoque cognoscat, nisi in  Deo se cognoscat. È così, completando il processo già  esposto:  Mens cogitando se exhibet: Deus in me cogitat:  in Deo igitur meam ipsius mentem cognosco ».   Sicché la critica vichiana, se si guarda nel suo primo  momento, ha un significato; nel suo complesso ne ha  un altro. A V. sfugge interamente il valore del cogito  cartesiano, perché lo vede sempre in quel mondo, in cui  non è centro il pensiero come pensare (ego cogito), ma il  pensiero come pensato: l’ Idea, l’ Uno, il Dio platonico e  neo-platonico. Il cogito non può essere la causa dell’esse  (cogitansì,  come pure evidentemente è per chi attribuisce al cogito il valore e l'autonomia che gli spetta,   perché V. non vuol dimenticare (e Cartesio stesso, per altro lo dimentica fino a un certo punto)  quello che ha appreso dalla vecchia filosofia: che l’esse,  lo stesso esse cogitans, non è causa sui, non è sostanza,  ma res creata, la quale perciò non ha in sé nessuna verità,  e va riportata alla sua causa, che è la sua sostanza.   Il punto di vista vichiano contro Cartesio è panteistico  e antispirituale, precisamente come quello di Spinoza ?,  che, persuaso, da buon neoplatonico, che ad essentiam  hominis non pertinet esse substantiae, opponeva la stessa  critica a Cartesio: vulgus philosophicum incipere a creaturis, Cartesium incepisse a mente, se incipere a Deo 3.  Cotesto punto di vista V. non sorpassò mai; e in    I De ant., c. VI; in Opere, I, 173-4.   ? V. Epist. 2; la pref. del MEyER ai Princ. philos. Cartes., e Eth.,  II, prop. X, sch. 2.   3 Tschirnhaus a Leibniz, in L. STEIN, Leibniz u. Spinoza, Berlin.] certe aggiunte, poi rifiutate, che faceva nel 1731 alla  Scienza Nuova *, ripeteva con leggiere varianti, la stessa  critica, sul principio che gli addottrinati non debbono  ammettere alcun vero in metafisica che non cominci dal  vero ente, ch’ è Dio ». Ricorda quivi e critica anche Spinoza, sforzandosi (con argomenti che dovevano contentar  poco lui stesso, e più tardi infatti vi rinunziò) di dimostrare una reale distinzione tra il mio essere e il vero  Essere.   La questione già gli si era presentata nel De antiquissima; quando arditamente asseriva: 1n Deo meam 1ipsius  mentem cognosco; facendo Dio omnium motuum sive corporum sive animorum primus Auctor. Gli s'era affacciata  negli stessi termini che a Plotino e a tutti quelli che  s’eran messi sulle tracce di lui, finché Spinoza non trasse  col coraggio del genio filosofico la conseguenza necessaria,  che sola poteva chiarire il gran difetto di quel primus  Auctor.  Unde mala?  V. sente tutta la difficoltà:  sed heic illae syrtes, illi scopuli. Quonam pacto Deus  mentis humanae motor, et tot prava, tot foeda, tot falsa,  tot vicia ? ». Cartesio che, appena raggiunta la sola realtà  certa del pensiero, la smarrisce ricascando nel platonismo  della cognizione intellettuale, che è passiva intuizione  delle idee oggettive, spiega del pari platonicamente  l'errore con la volontà: che non si sa poi perché  non debba essere della stessa passività dell’ intelletto,  se la sua libertà non importa altro che la possibilità dell'errore. La soluzione del V. è più profonda. Nessuno,  come insegna il Vangelo di Giovanni, può andare al  Padre, misi Pater idem traxerit. E la volontà ? Quomodo  trahit, st volentem trahit? V. aveva accettato e accetta  la dottrina agostiniana come la più conforme alla so  I Pubblicate per la prima volta nell’ed. Nicolini,242-3, ma  da lui anticipate nella Critica, VIII (1910), p. 479.    stanza (necessità) della volontà divina, e alla libertà della  nostra; mantiene cioè l’azione divina, e la volontà umana;  o meglio quella in questa. Giacché, spinozianamente, egli  nega l’assolutezza del male, nega il finito come finito,  che non sia modo dell’ infinito. Questo luogo del De antiquissima non è stato mai ben considerato, ma è di grande  importanza per l’ intelligenza del pensiero vichiano:    Hinc fit quod in ipsis erroribus Deum aspectu non amittimus  nostro: nam falsum sub veri specie, mala sub bonorum simulacris  amplectimur: finita videmus, nos finitos sentimus; sed id  ipsum est, quod infinitum cogitamus: motus  a corporibus excitari, a corporibus communicari nobis videre videmur; sed eae ipsae motus excitationes, eae ipsae communicationes  Deum, et Deum mentem, motus authorem asserunt et confirmant; prava ut recta, multa ut unum, alia ut idem, inquieta ut  quieta cernimus !.    Nel De antiquissima quindi conchiude tornando a dire  ambiguamente: Sed cum neque rectum, neque unum,  neque idem, neque quietum sit in natura; falli în his rebus  nihil aliud est, nisi homines vel imprudentes vel falsos  de creatis rebus in ipsis imitamentis Deum Opi. Max.  intueri »; come se realmente l’ intelligibilità da lui veduta nel molteplice non fosse l’uno, e nel movimento la  quiete, e così via. Ma il fiore sboccerà nella Scienza Nuova:  dove i bestioni diverranno la prima forma necessaria  dello spirito divino nel corso dell’umanità: e la grazia  agostiniana diventerà quindi assoluta immanenza.   Ma torniamo al cartesianismo vichiano del 1699. È  chiaro ormai ch’esso è tutto un cartesianismo platonico,  e come dire, capovolto. Tutti i mistici medievali, da  Agostino in poi, movendo da Plotino, rientrano în ?1nteriore homine, per risalire quindi sopra la mente a Dio.  E V. aveva ragione di dire che quel che c’era di nuovo    I De ant., c. VI: Opere, I, 174; cfr. Opere2, ed. Ferrari, III, LA PRIMA FASE DELLA FILOSOFIA VICHIANA per lui, in Cartesio, era falso, e il vero era vecchio: non  cartesianismo, ma platonismo. Ecco qui che cosa aveva  egli letto, per esempio, nella Teologia platonica del  Ficino *:    Neque audiendi sunt sceptici, si negaverint in animis nostris  esse veritatem, quia videantur de singulis dubitare. Non enim  de omnibus dubitat animus, ut apparuit in omnibus necessariis  veritatibus quas narravimus, et similibus. Hoc mihi candidum  videri scio. Hoc mihi iucunde olere scio. Hoc dulciter gustum  attingere scio. Quis nesciat summum bonum esse, quo nihil praestantius ? Et esse vel in homine, vel extra hominem, et si in homine, vel in animo, vel in corpore, vel in utroque ? Quis non certo  sciat Deum esse, vel non esse ? et si sit, oportere unum esse,  vel plures, et si plures, aut finitos numero, aut infinitos ? oportere Deum esse corporeum, vel incorporeum, ac si non sit corporeus,  esse necessario incorporeum ? [Fin qui è benissimo espresso il  carattere della vecchia metafisica scrollata dal cogito cartesiano:  tutta concetti senza realtà, 0, se sì vuole, tutta verità senza certezza).  Item regulas multas astrologiae et medicinae certas esse declarat  effectus [che è, si badi, il concetto dell'esperimento, non baconiano,  dunque, ma ficiniano di V.]*, ut arithmeticas et geometricas  praetermittam, quibus nihil est certius [che è pure la dottrina  vichiana) 3.   Et quod maius est, si quando animus de re aliqua dubitat,  tunc etiam de multis est certus. Nam se tunc dubitare  non dubitat. ‘Acsi certum habet se esse dubitantem, a  veritate certa id habet certum. Quippe qui se dubitantem intelligit, verum intelligit, et de hac re quam intelligit, certus est,  de vero igitur est certus. Atque omnis qui utrum sit veritas dubitat, in seipso habet verum, unde non dubitet. Nec ullum  verum nisi veritate verum est. Nonigitur oportet    I Lib. XI, c. 7; ed. cit. I, p. 263.   2 Cfr. De ant., c. I, $ 2: Opere, I, 136: In physica ea meditata  probantur, quorum simile quid operemur: et ideo praeclarissima habentur de rebus naturalibus cogitata, et summa omnium consensione  excipiuntur, si iis experimenta apponamus, quibus quid naturae simile faciamus ».   3 Cfr. sopra30-31, e ancora Theol. plat., VIII, 2 (I, p. 185)  e 4 (p. 189), dove il Ficino chiarisce il carattere soggettivo o mentale  delle realtà matematiche. eum de veritate dubitare, qui potuit undecumque dubitare, ut  Augustinus inquit, praesertim cum non modo se dubitare intelligat, sed quod hoc intelligit animadvertat, et quod animadvertit  agnoscat, ac deinceps in infinitum. Discernit praeterea dubium  animum ab indubio. Nec eum latet quanto satius foret non dubitare, et quam ardenter cupiat veritatem. Certitudinem cum dubio  comparat, quo fit ut de utrisque sit certus. Est insuper  certus se investigare, sentire, vivere, esse.  Siquidem nihil dubitat qui non est, vivit, sentit, et investigat.  Certus quoque est se non esse primam veritatem,  quippe cum ipsa per se non dubitet. Scit  eam dubitatione et errore non implicare    Qui il cartesianismo di V. c’ è tutto; ma a suo posto:  la verità trovata dalla mente, in se stessa, è atto della  verità che trascende la mente, e si celebra in un’altra  mente, la quale agisce in noi. Giacché in questa assenza  della mente nostra a se medesima, o in questa passività  della mente, in quanto mente infinita, si fonda neoplatonicamente il concetto della inconsapevolezza originaria  dello spirito come fantasia, quale si vede, per la prima  volta, nella nostra Orazione. Il legame intimo dei due  concetti è chiaro appunto in Ficino, e mi permetto di  riportare ancora un lungo passo di lui per l’ interesse  che ha qui il chiarimento di questo punto:    Mens autem, quae supra nos est, quia purus intellectus est,  puro intelligibili pascitur, id est pura fruitur veritate. Eadem  nostra mens assidue vescitur, si epulis superioris mentis accumbit.  Nec iniuria intelligentiam in anima essentialem perpetuamque  locamus, quia ex eo est in anima, quod convenit cum perpetuis  eius essentiae causis. Et sicut animae ingenitus est appetitus  boni perpetuus atque essentialis, ita et ipsius veri naturalis essentialisque intuitus, sive tactus aliquis potius, ut Iamblici verbis  utar. Tactus, inquam, omni cognitione discursuque prior atque  praestantior 1. Eiusmodi sententiam hac insuper ratione divinus    ! Cfr. il celebre luogo del CAMPANELLA, Metaph. I, proem.:  A  Deo errantes per fiagella reducti sumus ad viam salutis et cognitio- [Iamblicus confirmavit, quod quemadmodum temporalia contingentiaque per temporalem contingentemque cognitionem attingimus, ita oportet necessaria et aeterna per essentialem et perpetuam attingere notionem, quae non aliter inquisitionem  nostram antecedit, quam status motum. Temporalis vero cognitio  ita inquisitionem sequitur, ut contingens effectus motum sequitur  ac ‘tempus. Putant autem divinum ipsum mentis actum, qui  quodam intuitu et quasi tactu divinorum fit, propter actiones  inferiores non intermitti quidem in seipso, quamvis quod animadversionem pertinet, in viribus inferioribus intermittatur, atque  actus intellectus rationalis, vel rationis intellectualis, qui discursione fiunt, propter operationes inferiores soleant intermitti,  atque e converso.   Verum cur non animadvertimus tam mirabile nostrae illius  divinae mentis spectaculum ? Forsitan quia propter continuam  spectandi consuetudinem admirari et animadvertere desuevimus.  Aut quia mediae vires animae, videlicet ratio et phantasia,  cum sint ut plurimum ad negotia vitae procliviores, mentis  illius opera non clare persentiunt, sicut quando oculus praesens  aliquid aspicit, phantasia tamen, in aliis occupata, quod oculus  videat non agnoscit. Sed, quando mediae vires agunt ocium,  defluunt in eas intellectualis speculationis illius scintillae velut  in speculum. Unde et vera ratiocinatio nascitur ex intelligentia  vera, et humana intelligentia ex divina. Neque mirum est aliquid  in mente illa fieri quod nequaquam persentiamus. Nihil enim  animadvertimus nisi quod in medias transit vires. Ideo licet saepe  vis concupiscendi esuriat atque sitiat, non prius tamen hoc  animadvertimus quam in phantasiam transeat talis passionis  intentio. Nonne nutriendi virtus assidue agit ? Assiduam tamen  actionem eius haudquaquam perpendimus, itaque neque perpetuam mentis intelligentiam. Neque ex hoc est intelligentia illa  debilior, quod intelligere nequaquam nos agnoscamus; imo est  potius vehementior. Saepe enim dum canimus aut currimus,  canere nos aut currere nequaquam excogitamus, atque ex hoc  attentius operamur. Animadversio enim actionis intentionem  distrahit animae, ac minuit actionem. Tyrones in qualibet arte  opera eius artis sine attentione non agunt, veterani autem, etiam    nem divinorum, non per syllogismum, qui est quasi sagitta qua scopum attingimus a longe absque gustu, neque modo per authoritatem,  quod est tangere quasi per manum alienam, sed per tactum  intrinsecum in magna suavitate ».  si non attendant, habitu quodam et quasi natura operantur.  Quid prohibet talem esse continuam mentis intelligentiam ? !.    Intuizione, che da Bruno? fino a Schelling, Schopenhauer e Hartmann avrà grande fortuna, finché non si  saprà scorgere la potenza creatrice dello spirito, e però  l’unità di queste che Ficino dice mens e ratio. Anche per  V., da principio, la cognizione originaria, la vera cognizione, base d'ogni riflessione, è questo tesoro non  nostro, e quest’asinità, come l’aveva detto Bruno, che  sarà essere, o sostanza, ma non è pensiero; onde l'asino,  per dirla ancora con Bruno, solo se è predestinato, può  arrivare alla Gerusalemme della beatitudine e visione  aperta della verità divina:  perché gli sopramonta quello,  senza il qual sopramontante non è chi condurvesi vaglia » 3. V. nella Scienza Nuova scoprirà una Gerusalemme della ragione tutta spiegata, a cui si conduce  l'uomo con le sue forze; ma potrà scoprirla in quanto,  profondandosi sempre più nella stessa intuizione neoplatonica, troverà che le forze dell’uomo sono la stessa  forza divina; e l’asino e il cavaliere bruniani diventeranno a’ suoi occhi un essere solo.    III.    Con la seconda Orazione (18 ottobre 1700) si rimane  nella cerchia della filosofia neoplatonica; e mal si potrebbe scorgervi un accento personale e una traccia di  elaborazione originale del pensiero vichiano. Pure il  V., quando già aveva tutte quante scritte queste sei  orazioni anteriori al De nostri temporis studiorum ratione,    1 Theol. plat., libr. XII, c. 4; I, p. 273.  * Cabala del cavallo pegaseo.  3 Opp. ital., ed. Gentile, IT,245-6.    questa orazione tra tutte tenne, una volta, degna di veder  la luce per istampa. Poiché una sua dedica del dicembre  1708 a Marcello Filomarino ! dimostra che almeno allora  non era dell’opinione espressa più tardi nell’ Autobiografia  e già da noi ricordata, poiché questa seconda almeno  pensava allora di darla alla repubblica delle lettere;  quantunque il suo disegno non avesse poi esecuzione.  La preferenza dell’autore per questa seconda orazione  non può aver altro significato se non che V. attribuiva uno special valore alle verità quivi contenute, e  le sentiva più vivamente nel suo animo. Profondità e  intimità, che ci viene per altro attestata dalla forte eloquenza con cui l’autore esprime il suo pensiero in questa  orazione, che è tra le pagine più belle del V..   Egli vi espone principii dell'etica, di cui nella precedente orazione aveva abbozzata la metafisica. Hostem  hosti infensiorem infestioremque quam stultum sibi esse  neminem. Tema, che in forma più piana può formularsi  così: la felicità consiste nella cognizione del saggio che  conosce se stesso (nel senso della prima Orazione) e, in  se stesso, Dio. Il concetto medesimo classicamente svolto  da Spinoza nell’ Etica, sorretto dalla intuizione neoplatonica del bene come Uno immanente nello stesso molteplice: onde ogni essere tende all’unità da cui deriva.   V. comincia dal contrapposto, che abbiamo visto  in Pico della Mirandola *, tra la natura e l’uomo: la natura,  governata da leggi necessarie, assolutamente inviolabili,  per cui ogni cosa non può essere che se stessa e non può  realizzare se non la propria legge; l’uomo, dotato di una  prerogativa, che è il principio di tutti i suoi mali: la  libertà, onde può accogliere in sé le più aspre contraddizioni. La natura è fatta, l’uomo si fa: o, come dice Opere, ed. Ferrari, VI, 80-81.  ® Vedi anche Ficino, Theol. plat.] V., nella natura omnia ad aeternum exemplar facta,  aeternoque consilio regi; nell'uomo nedum diversa et contraria, sed a sua communique natura aliena atque abhorrentia studia, e però, lungo il corso del tempo, un alzum  a se atque alium fieri. È meglio esser fatto o farsi ? Pel  V. della Scienza Nuova la risposta non sarà dubbia,  quantunque, come ha nettamente veduto il Croce 1, né  anche V. si liberi del tutto della trascendenza in  modo da poter conquistare un pieno concetto del progresso. In questa orazione tentenna, come Pico, come  Ficino, come ogni neoplatonico; e, in fondo, se si va a  vedere, questa che si dice libertà, è servitù, e la vera  libertà è quella per cui si nega la prima, senza conservarla, senza mostrare che soltanto per la prima si giunge  alla seconda.   Ad ogni essere Dio prescrive la sua legge. All’uomo  questa, scolpita da V. nello stile delle XII Tavole:  Homo mortali corpore, aeterno animo esto. Ad duas res,  verum et honestum, sive adeo mihi uni, nascitor. Mens  verum falsumque cognoscito. Sensus menti ne imponunto.  Ratio vitae auspicium, ductum imperiumque habeto. Cupiditates rationi ancillantor. Ne mens de rebus ex opinione,  sed sui conscia iudicato; neve animus ex libidine, sed ratione bonum amplectitor. Bonis animi artibus aeternam  sibi nominis claritudinem parato. Virtute et constantia  humanam felicitatem indipiscitor. Si quis stultus, sive  per malam fraudem, sive per luxum, sive per ignaviam,  sive adeo per imprudentiam secus faxit, perduellionis reus  sibi 1psi bellum indicato » 2.   La legge dell’uomo, adunque, è un valore che non è  valore; è un dover essere, che è essere; è una volontà,    I La filos. di G. B. V.,143-4; 28 ed.,147-8.  2 Riferita con qualche variante dal V. nell’Autob., ed. Croce,  p. 28.       mere Ade ii LA PRIMA FASE DELLA FILOSOFIA VICHIANA che è piuttosto natura. Si determina in imperativi che,  mentre par sì dirigano da Dio all'uomo, sono rivolti da  Dio a se medesimo. L’essere anima e corpo, il tendere  naturalmente (nascitor) a Dio come verità e come bene,  il conoscer la mente il vero e il falso, sono, e devono  essere, volontà di Dio; non sono, né possono essere, volontà dell’uomo. E se le altre determinazioni della legge  umana fossero dello stesso tenore, l’uomo non si farebbe  da sé quel che è (stultus o sapiens); sarebbe tale per volere  di Dio. V., non occorre dirlo, da questo genere di  determinazioni passò ad altre determinazioni che come  libere potessero essere rimesse alla libertà umana (non  sottomettere la ragione ai sensi, ma dar l'impero alla  ragione, e a questa soggiogare gli appetiti, mirando al  fine da essa prescritto, e superando per tal modo la guerra  tra le passioni e le razionali aspirazioni); ma, poiché  esse non sono se non le definizioni della natura umana,  quale può esser data dalla cognizione della propria divinità (onde V. conchiude che lex, quam Deus humano  generi sanxit, sapientia est), poiché questa cognizione non  può essere del senso, ma solo della mente, la quale per  natura cognoscit verum et falsum, ed è quindi incapace  di errore, non si vede come la legge potrebbe esser mai  liberamente violata: non si vede cioè come queste altre  determinazioni potrebbero esser leggi per la volontà  umana (leggi morali) e non più per la divina (leggi naturali), se V., come altri prima di lui, non sottintendesse  una volontà, che non è mens né sensus, o meglio è insieme  mens e sensus, e però può farsi questo e tornare ad essere  quella. Il motto, pertanto, di questa prima etica vichiana, è quello della morale stoica e neoplatonica: seguir  la natura: Si sapientiae studiis animum adiungamus,  naturam sequimur: sin ab ea ad stultitiam traducamur, a  nostra declinamus natura, et in cam facimus legem ». Liberar la propria natura (concepita nella sua originaria divinità astratta) dall’elemento estraneo sensuale, è il  processo morale: morale, perché eudemonologico, come fu  concepito dalla filosofia greca; eudemonologico, perché  intellettualistico, come fu concepito da Socrate, dalle  scuole socratiche e nel neoplatonismo, per cui il supremo  fastigio dello spirito è amor Dei intellectualis.   V. comincia dal ritrarre co’ più foschi colori una  truce immagine della guerra: scontro degli eserciti avversi, e fiammeggiare degli odii sul campo, quando ferve  inesorabile l’ ira e il furore acceca le menti e una prepotente libidine di strage infierisce negli animi. E i volti  efferati minacciano eccidio, e gli occhi rossi di fiamme  cercano nel nemico il punto da ferire, e la mano assale  pugnace, e il ferro passa da parte a parte. Se gli uni respinti indietreggiano, gli altri incalzano: se questi stan  fermi, quelli fanno impeto; dove si scompiglian le file,  penetrano gli avversari. Quindi, spettacolo miserando,  il campo seminato di strage, dopo la vittoria. E poi gli  orrori delle devastazioni, dei saccheggi, delle desolazioni.   Ebbene, assai più terribili sono i mali arrecati dalla  guerra che dentro di sé lo stolto fa a se medesimo: onde  si perde patria, felicità, libertà e ogni fortuna. L’anima  è parte razionale, parte irrazionale. Nell’anima irrazionale,  secondo l’ immagine di Filone, ci sono come due cavalli,  maschio e femmina; uno irascibile e l’altro concupiscibile:  uno tutto forza e impeto, l’altro tutto debolezza e languore. Nato l’appetito di alcun bene apparente (frava  cupiditas alicuius apparentis boni), l’anima è gittata nelle  passioni (perturbationes), di cui la sorgente è l’amore;  che è desiderio, seilbeneè lontano; speranza,  se sl può conseguire; gaudio, se presente; gelosia, se si ritiene così alto, che uno solo ne possa  godere; e quindi emulazione, invidia se altri  .ne ha molto, e noi poco. Ma, ottenuto lo scopo e strappata la maschera, resta la cosa, e il bene diventa male, l’amore diventa odio, e se il male è assente, ne viene  l’avversione (abominatio et fuga); se presente, la  tristezza e il dolore. Edecco riscuotersi l’altro  cavallo, il maschio, l'ira; che si fa audacia, se  può vincere il male; se dispera della vittoria, rinasce  l'appetito (della parte concupiscibile): e se il male è tollerabile, ne viene la noia (faedium); se trasmoda, lo  sbalordimento (stupor). Le gioie s’alternano perpetuamente ai dolori; ma quanto fugaci le gioie, e come  fallaci tutte le promesse a cui si arrende l'appetito !   Gli stolti che gli si danno in balìa, veggono talvolta  Il soave diletto di un Archimede occupato, durante il  saccheggio di Siracusa, nelle sue dimostrazioni geometriche; di uno Scipione che, mal compensato da Roma  della distruzione di Cartagine, si ritira tranquillo in una  villetta a studiare e, chiuso nella sua virtù, godere delle  meditazioni della filosofia e del ricordo delle sue grandi  gesta. Ma che perciò ? Basta forse la bellezza della virtù,  a metterli, destando il desiderio di sé, sulla via che sola  conduce a quella dolce gioia che non è premio della virtù,  ma la virtù stessa ? La virtù è scienza: scienza del giusto  mezzo o di quei termini, per dirla del poeta,    Quos ultra citraque nequit consistere rectum;    è coerenza logica, per cui non si può lodare la virtù e  Seguire il vizio; è ragionevolezza, per cui l'uomo si sottrae  all’insania delle gioie vane e delle tormentose cupidigie.  Stulti vita semper ingrata, semper trepida est, semperque  is sibi dissidet, secumque pugnat: semper fastidio sui Llaborat, suique taedet ac poenitet. Nunquam ei velle ac  nolle decretum est ». Lo stolto, dice V., semper foris est;  nunquam secum habitat.   Sconfitto nella guerra con se stesso, egli vien cacciato  dalla sua patria. Dalla patria del sapiente: non dalla    piccola città che un muro e una fossa serra, ma dalla  grande, cui circondano i flammantia moenia del poeta;  non dalla terra, che è governata dalla mente dell’uomo  con umano diritto; sì dal mondo, che aeterno regitur iure:  dalla città, in cui con Dio abitano i saggi: il mondo divino, che è la natura degli stoici e dei neoplatonici, panteisticamente intuita nella sua divinità: etenim ius, quo  haec maxima civitas fundata est, divina ratio est toti mundo  et partibus eius inserta, quae omnia permeans mundum  continet et tuetur ». Quella ragione, che è in Dio, e costituisce la sapienza divina, è conosciuta dall’uomo, e costituisce la sapienza umana (ma già dev’essere, com’ è  detto nella prima Orazione, anche nell'uomo, perché  questi non la conosce se non in se stesso); quella ferfecta  ratio, come V. dice pure esplicitamente,  qua Deus  cuncta operatur, sapiens cuncta intelligit ». Cuncta: anche  le passioni, la cui conoscenza viene ad essere perciò sapientia, quindi superamento della stultitia, e però libertà  virtù, felicità: tal quale in Spinoza. La quale virtù, appunto come in Spinoza, allo stringer dei nodi, poiché Dio  operando tutto, deve pur operare quell’ intelligenza onde  noi intelligimus omnia, cioè siamo virtuosi, non è operazione dell’uomo, ma dello stesso Dio. A V. infatti  par troppo superbo il pensiero degli stoici, che la virtù  (dell’uomo) faccia il sapiente simile a Dio; e gli par più  vero e più profondo dire: una re nos Deus sur similes  reddit, virtute, qua nedum humanae, sed cum caelestibus etiam  aeternae nos compotes facit felicitatis ». L'amore intellettuale  della mente verso Dio, aveva detto Spinoza,  col quale  V. era portato necessariamente ad incontrarsi spesso  dalla logica del suo pensiero 1,  è lo stesso amore di    I Sarebbe tema degno di studio speciale quello dei rapporti  ideali di V. con Spinoza. Intorno ad alcuno dei probabili rapporti  storici v. B. CROCE, La filosofia di G. B. V., p. 198; 28 ed., p. 204.  I riscontri della metafisica vichiana con quella dello Spinoza notati da    Dio: l’amore cioè con cui Dio ama se medesimo, non in  quanto è infinito, ma in quanto si può esplicare per l’essenza della mente umana considerata sub specie aeternitatis; o in altri termini, l’amore intellettuale della mente    CARLO SARCHI, Della dottrina di B. Sp. e di G. B. V., Milano, Bortolotti, 1877,103-7, 195-6, additano certamente rassomiglianze non  trascurabili, quantunque qualcuna di esse sia inesatta; ma non dimostrano nessun rapporto né storico, né ideale; perché non concernono  nessun concetto specifico dello spinozismo.   Ecco invece alcune coincidenze significative che potranno fornire  materia a una speciale indagine. Spinoza (Età. III, def. 1) distingue due  specie di causa: Causam adaequatam appello eam, cuius effectus  potest clare et distincie per eandem percipi. Inadaequatam autem seu  partialem illam voco, cuius effectus per ipsam solam intelligi non potest». E V. nella Prima risp. al Giorn. d. Letter. (Opere, I, 221)  avverte: Per vera cagione intendo quella che per produrre  l’effetto non ha di altra bisogno », 0, come spiega nella Sec. risp. (I, 257),  non ha di cosa forestiera bisogno »: quella causa insomma nella cognizion della quale la scienza consiste, poiché il criterio di avere  scienza di una cosa, è il mandarla ad effetto ». Tutta spinoziana, più che  cartesiana, è la dottrina della sostanza e degli attributi propugnata nel  De antiq., e così riassunta nella Sec. risp. (I, 267): Sostanza in  genere dico esser ciò che sta sotto e sostiene le cose, indivisibile in  sé, divisa nelle cose ch’ella sostiene; e sotto le divise cose, quantunque  disuguali, vi sta egualmente. Dividiamola nelle sue spezie:sostanza  distesa è quella che sostiene estensioni disuguali egualmente; s o stanza cogitante è quella che sostiene pensieri disuguali  egualmente; e siccome una parte dell’estensione è divisa dall'altra,  ma indivisa nella sostanza del corpo, così una parte della cogitazione,  cioè a dire un pensiero, è divisa dall’altra, cioè da altro pensiero, ed  è indivisa nella sostanza dell’anima ». Cfr. De uno, lemm. I (Opp.?,  ed. Ferrari, III, 16).  V., De antiq., c. IV, $ 2 (Opere, I, 156-7),  riproduce anche la distinzione spinoziana di attributum e modus.   Spinoziano è pure quel che V. dice nella Sec. risposta (I, 268) intorno all’errore: Io non mai ho inteso dire false le apprensioni  nell’esser loro; perché i sensi, anche allorquando ingannano, fanno  fedelmente l'ufficio loro; ed ogni idea, quantunque falsa, porta seco  qualche realità, essendo il falso, perché nulla, impercettibile. Ma le  ho dette false, in quanto sono urti e spinte al precipizio della mente  in giudizii falsi ». Cfr. SPINozA, Eth., II, prop. 17 sch., prop. 35 etc.   Per Spinoza (E#h., II, pr. 7) ordo et connexio idearum idem est ac  ordo et connexio rerum; e per V. egualmente: L'ordine dell’ idee  dee procedere secondo l’ordine delle cose » e le dottrine debbono  cominciare da quando cominciano le materie che trattano »: due dignità (LXIV e CVI) che, intese alquanto meglio che non suonino le  parole, si riferiscono allo stesso ordo di Spinoza.  Per Spinoza è un  corollario della cit. proposizione quod Dei cogitandi potentia aequalis  est ipsius actualì agendi potentiae; hoc est, quicquid ex infinita Det    DI    verso Dio è parte dell’ infinito amore onde Dio ama se  stesso !.   Lo stolto, vinto dalle passioni, ci rimette la propria  felicità: perché la virtù, come dice Spinoza, è premio a    natura sequitur formaliter, id omne ex Dei idea eodem ordine  eademque connexione sequitur in Deo obiective»: che è il verum  factum convertuntur rispetto a Dio, di V..  Per Spinoza (E#à., I,  app.) il concetto delle cause finali è antropomorfico (quod scilicet communtiter supponant homines, omnes res naturales ut ipsum propter finem  agere) e l’interrompere la ricerca delle cause meccaniche ricorrendo  ad Dei voluntatem è un ad ignorantiae asylum confugere. E V.:  Gli  uomini ignoranti delle naturali cagioni che producon le cose, ove non  le possono spiegare nemmeno per cose simili, essi dànno alle cose  la loro propria natura.... », e La fisica degli ignoranti è una volgar  metafisica, con la quale rendon le cagioni delle cose ch’ ignorano alla  volontà di Dio, senza considerare i mezzi de’ quali la volontà divina  si serve » (dign. XXXII e XXXIII).  E altri riscontri si possono  aggiungere come i seguenti:  Primum verum metaphysicum et primum  verum logicum unum idemque esse »: V., Notae al Diritto Universale, in Opere?, ed. Ferrari, III, 21 (Scienza Nuova?, dign. CVI: Le  dottrine debbono cominciare da quando cominciano le materie che  trattano »; cfr. pure dign. LXIV). Cfr. Spinoza, Eth., I, 10 sch.   La fantasia tanto è più robusta quanto è più debole il raziocinio » (Sc.  N.2, dign. XXXVI; e cfr. oltre,84 sgg.). Cfr. Spinoza, Tract. Theol.pol., c. 2:  Nam qui maxime imaginatione pollent, minus apti sunt  ad res pure intelligendum, et contra, qui intellectu magis pollent,  eumque maxime colunt, potentiam imaginandi magis temperatam,  magisque sub potestatem habent et quasi freno tenent, ne cum intellectu confundatur ».  Anche per lo Spinoza (Etàh., IV, 37 sch. I  e 68 sch. e le note mie all’Ethica, Bari, Laterza, 1914, parte IV, nn. 40,  80) la religione è, come pel V., il principio della vita civile dell’umanità.  A Spinoza manca certamente la profonda teoria vichiana del  certo (v. oltre,120 sgg.); ma un accenno a questo concetto è  nella sua dottrina del valore probativo dei fatti storici (a proposito  delle profezie) nel Trattato teologico-politico. Notevole questo luogo  delle Annot. in Tract. th.-pol., VIII, in Opera, Vloten-Land, II, 177:   Per res perceptibiles non illas tantum intelligo, quae legitime demonstrantur, sed etiam illas, quae morali certitudine amplecti et sine  admiratione audire solemus, tametsi demonstrare nequaquam possunt.  Euclidis demonstrationes a quovis percipiuntur priusquam demonstrantur. Sic etiam historias rerum tam futurarum quam praeteritarum,  quae humanam fidem non excedunt, ut etiam jura, instituta et mores,  perceptibiles voco et claros, tametsi nequeunt mathematice demonstrari.  Caeterum hieroglyphica et historias, quae fidem omnem excedere  videntur, imperceptibiles dico.... ».   I Eth., V, prop. 36. Era dottrina neoplatonica. Mi piace citare qui  un luogo di un nostro neoplatonico, di cui subì l’ influsso anche Spinoza, Leone Ebreo; il quale nei Dialoghi di amore (1516) dice che    se stessa: la virtù, che è rerum scientia, certa scire, quindi  mente adire Deum, che è il sommo bene. Il saggio, ritraendosi con la mente dentro se stesso, riacquista la perduta  libertà (quella libertà che sarebbe stato meglio non avesse  mai compromessa e smarrita per il libero arbitrio !):  poiché egli  agnoscit quae in nobis sunt, natura sua libera  et propria esse: extra autem postta, serva et alieni iuris ».   Lo stolto infine, sconfitto e fatto prigioniero di se medesimo, è gittato nel carcere del corpo:  Tenebricosus  carcer esì corpus; triumviri, opinio, falsitas, error; custodes,  sensus, qui in pueris acerrimi, in senibus hebetes, et in  omni vita pravis affectionibus corruptissimi ».   Il nosce te ipsum della prima Orazione diviene nella  seconda: sequere naturam. Ma è sempre lo stesso pro     ]» amor divino non solamente ha dell’onesto, ma contiene in sé l’onestà di tutte le cose e di tutto l’amor di quelle, come che sia: perché  la divinità è principio, mezzo e fine di tutti gli atti onesti.... È principio,  perché dalla divinità depende l’anima intellettiva agente di tutte l’onestà  umane, la quale non è altro che un piccolo raggio dell’ infinita chiarezza  di Dio appropriato all'uomo per farlo razionale, immortale e felice. E  ancora questafanima intellettiva, per venire a fare le cose oneste, bisogna che partecipi del lume divino: perché, non ostante che quella  sia prodotta chiara, come raggio della luce divina, per l’ intendimento  della colligazione che tiene col corpo, e per essere offuscata dalla tenebrosità della materia, non può pervenire all’ illustri abiti de la virtù  e lucidi concetti della sapienzia, se non ralluminata dalla luce divina  in tali atti e condizioni, che così come l’occhio, se ben da sé è chiaro,  non è capace di vedere i colori, le figure e altre cose visibili, senza  esser illuminato dalla luce del sole, la quale, distribuita nel proprio occhio e  nell'oggetto che si vede e nella distanzia, che è fra l’uno e l’altro, causa  la visione oculare attualmente, così il nostro intelletto, se ben è chiaro  da sé, è di tal sorte impedito negli atti onesti e sapienti dalla compagnia del rozzo corpo e così offuscato, che gli è di bisogno essere illuminato dalla luce divina....»; ed. Venezia, D. Giglio, 1558, p. 19.  Pei rapporti di Leone con Spinoza vedi E. SoLMI, B. S. e Leone Ebreo,  Modena, Vincenzi, 1903; e GENTILE, Studi sul Rinascimento, Firenze,  Vallecchi, 1923, p. 96 sgg. Dopo, un importante lavoro su Leone fu  pubblicato da Ernst AppPEL, Leone Medicos Lehre vom Weltall u.  ihv Verhdltniss zu griech. u. zeitgenòssichen Anschauungen, notevole  per la illustrazione delle fonti di Leone (Plotino, Ficino): in Arch. f.  Gesch. d. Philos., XX (1907), 287-403, 456-96. Vedi ora gli studi del  SAITTA nel Giorn. Crit. d. filos. ital., 1924-25; e H. PFLAUM, Die Idee  der Liebe, Leone Ebreo, Tiibingen, Mohr, 1926.    cesso: onde la metafisica diviene un'etica, ma un'etica  che è una metafisica: un'etica naturalistica, come quella  di Bruno e di Spinoza, dove l’uomo non può trovare la  sua libertà perché è un modo della sostanza. Se V.  fosse rimasto a questo punto, in cui Deus operaur e  l’uomo non può se non intelligere quel che fa Dio, al  concetto della storia, di un mondo creato dall'uomo, non  sarebbe mai pervenuto. Ma egli ora va ricercando come  l’ intelligere umano possa essere un operari di Dio; unità  di contrari, senza di cui la storia della Scienza Nuova  non sarebbe nata nemmeno ?. La terza Orazione (che V. dice recitata il 18 ottobre 1701, che è, a dir vero, dell’anno successivo) = riprende la concezione dell’etica adombrata nella precedente,  mantenendo l’opposizione dualistica di natura e uomo,  ragione e senso, virtù e passioni, e quindi il concetto  della libertà come prerogativa fatale dell’uomo, prima  origine di tutti i suoi vizi; onde tutto il male che fa l’uomo,  lo fa lui, e tutto il bene, in fondo, lo fa Dio. È rafforzata  l'opposizione tra la necessità naturale e la libertà umana  coi colori presso a poco di cui s’era servito, come s' è    1 Pel tema di questa Orazione cfr. il De uno, c. XXX, e la nota del  Ferrari a q. 1. in Opere2, III, 25. I concetti stoici dell’ Orazione ricompaiono nello stesso De uno, cc. XII-XXXVIII.   2 [Infatti nel 1701, causa la così detta rivoluzione del principe di  Macchia, lo Studio napoletano si riaprì, non secondo la tradizione, il  giorno di San Luca (18 ottobre), bensì, senza alcuna cerimonia inaugurale, il ro novembre. Inoltre in certi Giornali inediti di ANTONIO  BuLIFON (amico del V.), alla data del 18 ottobre 1702, è detto che,  nella riapertura degli Studi avvenuta in quel giorno, il signore Giovanni de V. fe’ una erudita orazione come lettore di rettorica » (Comunicazione di F. NicoLINI, al cui lavoro rimando per una più precisa  documentazione)]. veduto, il Pico. Ma esplicitamente deplorata, a differenza  del Pico, la sua prerogativa.  At utinam Deus fecisset  immortalis naturam humanam sibi itidem, ut reliquae,  mancipatam ! ».   Se non che, nell’etica di quest'anno spunta un elemento nuovo, che rompe l’ascetismo dell’ Orazione precedente. L'uomo, tornando in se stesso, per seguire la  propria natura, vi trova una legge che lo riporta fuori di  se stesso:  Maxima quidem et potentissima illa vis est in  hominum animis insita, quae alium alii consociat et comungit ». Pel V. la filosofia è ancora una naturae vestigatio; ma in questa natura comincia ad esserci veramente qualche cosa, che non è la natura fatta da Dio, e  che non è male: ed è la soctetas. Questa realtà non è più  l’ Uno astratto del neoplatonico, perché si realizza nella  molteplicità; talché la stessa sapientia, che prima era  quel dio che l’ individuo trovava nel fondo della propria  essenza, ora essa stessa è un legame, una comunità, di  cui compartecipano i filosofi. È il mondo del diritto, che  comincia a premere in V. sul neoplatonismo: un empirismo contro una filosofia, ma che ha su questa il vantaggio di affermare il valore di quel mondo umano, vario,  diverso, non raggomitolato nel pensiero immutabile dell’immutabile verità, ma spiegantesi attraverso l’amore e  l'odio per trionfarne.   Legge della società è che il socio aut rem aut operam  conferat in commune; e V. in questa Orazione svolge  pedagogicamente la necessità che i soci di quella società  che è costituita dai letterati, dagli scienziati e dai filosofi  adempiano in buona fede  secondo il monito del giureconsulto romano (inter bonos bene agier)  cotesta  legge. Scarsa l’ importanza scientifica dei singoli precetti  di questa morale letteraria esposta nel séguito dell’orazione; ma nelle esemplificazioni e nella deduzione di essi  V. ha occasione di darci notizie assai interessanti    per la storia del suo pensiero filosofico, e indizi manifesti  di una crisi che in lui vien maturando.   Dove riprende i filosofastri che contravvengono alla  buona legge della repubblica letteraria non recandovi il  contributo di opere proprie, ma badando a lacerare le  altrui, reca ad esempio le ingiurie che si sogliono scagliare contro Platone, anilium fabellarum auctorem; contro  Zenone, vanum mirabilium promissorem, magnificum, suderbum et fastus plenum; contro Democrito ed Epicuro,  carneos homines; contro Cartesio, naturae pottastrum, €  contro Aristotele, al quale non se ne risparmia nessuna.  Lo studioso di buona fede deve, invece, lodare in ogni  scrittore quel che c’è da lodare; e attribuire gli errori  all’umana debolezza.    Si te philosophiae dedidisti, audi Platonem, quae disserat de  animorum immortalitate, de divinarum aeterna et infatigabili vi  idearum, quae de geniis, quae de Deo summo bono, quae de  amore a libidine defoecato; et eum divini cognomentum  lure promeruisse cognosces.   Audi Stoicos, quam graviter et severe sapientis constantiam  doceant; et tute rigidos ac torvos virtutis custodes dixeris.   Audi Aristotelem, quanto acumine facultatem dissertatricem  universam complexus sit: cui nihil hactenus aliud, nisi quam  explicationem, rationem, et aliquod utilius exemplum addiderunt: quo corde de re oratoria et poética praecepta tradat;  absolutissimum illud de morum philosophia systema perlege;  et ingeniorum miraculum ultro fateberis.   Audi Democritum, quam verisimillima de principiis rerum,  de corpusculorum effluvio, de sensibus contempletur; et Naturae praelucem appellabis.   Audi Carthesium, quae de corporum motu, de passionibus  animi, de sensu videndi nova et admiranda investigarit, quae de  primo vero sit meditatus; ut geometricam methodum in physicam doctrinam invexit; et philosophum dices non ad aliorum  exemplar factum.    Dove, se non m’ inganno, è un documento assai notevole delle opinioni filosofiche di V. al 1702. Platone coi rimaneggiamenti neoplatonici (caratteristici il de geniis  e il de Deo summo bono) è sempre, com'era da aspettarsi,  il fondamento: su cui si accettano degli stoici la morale  (cfr. Orazione precedente); di Aristotele la logica, la  rettorica, la poetica e l’etica (fusa con la stoica); e, quel  che è più interessante, si fa buon viso non solo a Cartesio,  di cui già la prima Orazione accettava la teoria del primo  vero, che il De antiquissima combatterà, e il metodo  geometrico, che sarà sempre, più o meno, vagheggiato  come l’ ideale della dimostrazione scientifica in tutte le  opere, fino alla Scienza Nuova; ma, quel che non ci  saremmo davvero aspettati, anche a Democrito, anche a  quella fisica corpuscolare democrito-epicurea e cartesiana,  che dal De antiquissima in poi V. avverserà vigorosamente dallo stesso punto di vista dal quale contemporaneamente, e per analoghe ispirazioni, la scalzava il Leibniz.  La dottrina dei punti metafisici non era ancor nata;  ma è lecito anche sospettare che per allora V. non  vedesse nettamente l’ irriconciliabile contrasto che c’è  tra il meccanismo della fisica corpuscolare e il dinamismo  della sua metafisica platonica. Non è per altro da trascurare che fin d’allora V. non riconosceva valore di  verità, ma soltanto una certa verisimiglianza a quella  dottrina fisica, come probabilmente alla teoria democritea, che poco prima aveva rinnovato il Locke, della  soggettività delle qualità secondarie (cui forse si allude  col de sensibus). Poiché in questa stessa Orazione spuntano quelle riserve, che egli farà più tardi esplicitamente  circa la portata dimostrativa del metodo geometrico, su  cui il razionalismo cartesiano faceva troppo assegnamento;  e s’affaccia quello scetticismo  rispetto alla scienza della  natura  che sarà svolto poi nel De antiquissima, quando  V. acquisterà la chiara coscienza (una trentina d’anni  prima di D. Hume) che la scienza della natura ci è vietata  dall’ impossibilità di conoscer le cause reali; e affermerà    esplicitamente che il razionalismo dei filosofi dal fastoso  placito sapientem nihil opinari, genera l’ordine tutto  opposto degli scettici: e opporrà al vero dei matematici i probabile dei filosofi!. Nella fisica corpuscolare doveva vedere nel 1702 una verisimiglianza  equivalente alla probabilità propria della metafisica del  De antiquissima. E insomma di fronte a quella fisica è  da credere che rimanesse in atto di non irriverente scetticismo; secondo una tendenza ovvia del suo neoplatonismo (e se ne è colta l’espressione nel Ficino), che contrappone l’operare di Dio nella natura all’operare della  mente nell'animo: dualismo, per questo lato non diverso  da quello onde l’empirismo inglese doveva minare la  scienza razionalistica cartesiana.   Tra gli altri precetti di buona fede scientifica V.  appunto raccomanda di non finger di sapere quello che  s’ ignora. E nella illustrazione di questo precetto fermenta  certo lievito di scetticismo, indice di studi nuovi e di  nuovi bisogni mentali.   Esempio di ignoranza dissimulata sotto la maschera  della scienza: l’antipatia. La si definisce: una facoltà  che non ne soffre un’altra.  Ma che Dio ti benedica,  spiègami in che cosa è riposta questa facoltà.  In certa  facoltà occulta.  Ma appunto di questo ti prego: spiegami questa facoltà occulta.  E zitto. Perché non dire  piuttosto fin da principio: non so ? ?.   Fin qui è la polemica cartesiana contro le entità metafisiche e le qualità occulte degli aristotelici. Poi segue  un altro esempio, che è la satira di un'applicazione car  I Sec. visp., in Opere, I, 273-4.   2 Nel De antiq., c. IV, $ 2 e nella Sec. risposta, $ IV in Opere, I,  261, V. poi diede torto così agli aristotelici, che guardano le  cose fisiche con aspetto di metafisici per potenze e virtù, e così credono esser luce quelle cose che sono opache »; come ai cartesiani,   che con l'aspetto di fisici guardano le metafisiche cose, per atti e forme  finite, cioè non credono esser luce se non dove ella riflette ».    tesiana del metodo geometrico in fisica. Donde apparisce  che fin da principio V. doveva in quella sorta di  fisica incontrare insormontabili difficoltà, e si scorge una  certa anticipazione di una arguta censura mossa più  tardi all'abuso di certi metodi strepitosi:  S' immagina che un cartesiano, movendo dalle sue regole,  definizioni e postulati, voglia dimostrare che i corpi lanciati sien portati non dalla gravità, bensì dalla circumpulsione dell’aria, con la pretesa di dare alla dimostrazione  la stessa evidenza di quella, che gli angoli di un triangolo    sono eguali a due retti.  V. non la vede così chiara.   Ma tu hai concesso i principil.  SÌ, perché sono molto  verisimili.  E allora?  Ma, chi sa? Qualcuna    di queste regole del moto di Cartesio potrebbe anche  esser falsa. Ossia, potrebbe! Forse che il Malebranche  ne ha scoperta falsa una sola?  In conclusione: Quid  simulamus et geometricas demonstrationes homini sanae  mentis obtrudimus, quas non assequatur ? Sarebbe come  chi ha buona vista, è sveglio, e non vede la luce del sole.  Ma confessiamo qualche volta la debolezza della nostra  natura: :n hoc studia valeant, ut hoc sciamus vel nescire,  vel admodum pauca scire. La differenza tra l’ ignorante e  il dotto, si sa, è che il primo crede di sapere, e il secondo  sa d’ ignorare. Nella quarta Orazione (che dall’autore è attribuita al  18 ottobre 1704)? V. illustra un concetto ancor più  alieno dal mero ascetismo: che i maggiori vantaggi che  sì possono ritrarre dagli studi sono quelli che coincidono Sec. risp., $ IV: Opere, I 272.  2 Vedi Nota più avanti,92 sgg.    So coi fini morali propri degli studi stessi indirizzati a pro  della comunità civile. Egli s’allontana sempre più dalla  concezione mistica dello spirito, attratto dal vivo senso  della realtà storica della natura umana: onde finirà col  vedere il vero e il certo dello spirito soltanto nel senso  comune degli uomini. Il sommo bene non è più soltanto  Dio (il Dio immediato, astratto); ma è anche la vita  comune, la realtà storica (Dio concreto, mediato). Non è  cangiato il punto di vista; ma la legge morale si riempie  di un contenuto, al quale lo spirito prima era indifferente, e che accentua il motivo dell’ immanenza, di contro  a quello della trascendenza del panteismo acosmico dei  neoplatonici. La sapienza o cognizione di Dio si orienta  verso la realtà umana; pur rimanendo mera cognizione,  ed un'etica, perciò, eudemonistica. V. sente il bisogno di spezzare una lancia in favore dell’ intellettualismo socratico, combattuto da Aristotele, pigliandosela  con coloro che omnium primi hanc humanae societati  perniciosissimam invexerunt horum verborum ‘utilis honestique’ distinctionem; et quod natura unum idemque est,  falsis opinionibus distraxerunt ».   Per V., come per Spinoza! e per tutti i platonizzanti, la felicità, consistendo nella cognizione, che è pure  la virtù, non può scompagnarsi da questa, anzi coincide  con questa. V., per altro, introduce di suo una distinzione notevole: distingue beni fisici e beni spirituali,  tralasciando di dimostrare (ma non negando) nei primi  la identità socratica dell’utile e dell’onesto; e restringendosi ai secondi.  Officia, egli nota, quae a mentis opibus animique proveniunt, non sunt ciusmodi, ut vita, fundus,  aedes, quas qui insumit non utitur, qui utitur non insumit; sed res eius miri generis sunt, ut qui eas tenent,  non habeant; qui donant, hoc ipso quod donani, conser  t Eth., IV, prop. 24. LA PRIMA FASE DELLA FILOSOFIA VICHIANA vent; et argute ac vere carum avaros înopes, liberales dixeris  copiosos. Et vero caussarum patrocinia, morborum curationes,  agendorum fugiendorumque consilia uter în suis rationibus  referat îs, qui accepit has res, an qui dederit ? Quod si ita  se res habet, necessario illud conficitur: quo quis eiusmodi  officiorum finem sibi ampliorem proponit, uberius eorum  facere compendium mnecesse est. Quis autem amplior finis,  quam velle iuvare quam plurimos, quo uno homines, alius  alio proprior ad Deum Opt. Max. accedit, cuius ea est  natura, iuvare omnes ? >.   Qui abbiamo, mi pare, un nuovo orientamento, non  per l’ indirizzo etico, che rimane immutato, ma pel concetto fondamentale dello spirito. L’accessio ad Deum, in  cui si continua sempre a risolvere il processo dello spirito,  non è veduta come un ritrarsi dello spirito dalla molteplicità (della natura corporea) nella propria unità; anzi  come un uscire dalla propria astratta unità e realizzarsi  nella molteplicità (dello stesso spirito, come comunità  sociale). V. non guarda più alla natura, in cui non ha  trovato mai il suo mondo, e da cui si sforzava di raccogliersi in sé; ma comincia a guardare alla storia, dove  ha ritrovato sempre se stesso, studiando il diritto. Onde  il processo spirituale gli si rovescia, e se prima era un  ascenso a ritroso del descenso divino, ora comincia ad  apparirgli un descenso anch’esso parallelo al divino; e  con questo di vantaggio, che il descenso divino del neoplatonico è decremento di realtà, e il descenso dello spirito  è un incremento di realtà, e quindi piuttosto un ascenso.  Lo spirito si realizza nella comunicazione; non si diffonde  perciò, ma si concentra. Non si tratta più di cieco emanatismo, ma di veramente provvidenziale, finalistico,  processo teogonico.   V. intravvede già oscuramente la via sua, e comincia  a staccarsi dalla vecchia filosofia. E sulla nuova via risolutamente s’avanza nella successiva Orazione (18 ottobre    1705) *, che, proponendosi di provare respublicas tum  maxime belli gloria inclytas et rerum imperio potentes,  cum maxime literis florueruni, ha occasione di svolgere  il concetto dialettico dello spirito che è spuntato nell’ Orazione dell’anno innanzi. Poiché essa si aggira intorno  al concetto della guerra, che riapparisce in aspetto affatto  diverso da quello, in cui era stata rappresentata nell’ Orazione del 1700. Lì la guerra era dell’uomo in balìa  del senso, accecato dalle passioni, artefice di male agli  altri e a se stesso, errante fuori della sua razionale natura,  nella cui immoltiplicabile unità non può nascere conflitto  di sorta. Nata dall’errore, essa non poteva non esser  deplorata come l’errore: effetto di una libertà malaugurata, non manifestava la divinità, anzi la miseria dell’uomo  alienatosi dalla sua divina origine. Qui invece l’errore  stesso comincia ad apparire all'uomo, che ha meditato  sul mondo umano, qualche cosa di necessario: ut ad quod  verum vecta pergere nati sumus, non nisi per viarum amfractus circumducamur. Che è ben altra cosa da quella  facile impresa che pareva una volta la filosofia a V.  (Oraz. I), per cui ognun che volesse non aveva che a  guardar il tesoro di divina sapienza recatosi in seno dalla  nascita. Qui la filosofia è un’ impresa non meno virile ed  ardua della gesta guerriera. Le forze dello spirito si sublimano ai suoi occhi; non per la loro natura od origine,  ma pel loro valore e destino.  An ignoramus, quanta sit  animi vis, quamque admirabilis?... Qui sapientiam ociosam  putant, non plane norunt. Ea enim est hominis emendatio.  Nam mens et animus homo: mens autem erroribus obrupta,  animus cupiditatibus depravatus. Sapientia utrique medetur malo, et mentem veritate, animum virtute format.  Virtus instar ignis actuosa semper.... ». Qui tutto è capovolto. La stessa mens, contro cui lo stolto della seconda    I Se questa data assegnata dal V. è esatta.] Orazione si metterebbe arrendendosi agli appetiti, non è  verità, ma errore anch'essa. Il punto di partenza (la  natura umana) non è più il bene, ma il male. L'uomo  comincia ad apparire originariamente non più l’Adamo  dell’ Eden, ma il bestione postdiluviano. La ragione tutta  spiegata non è a principio, ma alla fine; e il processo  non è un tornare indietro dopo vani erramenti, ma un  andare avanti, sempre avanti, dall’errore alla verità.  I conflitti, quindi, che la guerra deve risolvere, non sono  più accidentali, ma naturali e necessari; e le guerre stesse  quo res componanit vengon dichiarate necessarie al genere  umano !. Quid enim sibi volunt graves ex eo 1ure conceptae formulae, nisi bona pace iniurias ad iuris hostimentum revocari; sin per pacem non liceat, ut armata vi  vindicare inferendas, ulcisci acceptas ius sit: et fas nationum supremamque iuris gentium legem, conservationem  humanae societatis, quam sapientes volunt, omnium officiorum moderatricem, armatos milites asserere ac vindicare? ».  Le guerre, secondo V., si devono definire turis 1udicia;  la scienza della guerra humani iuris prudentia, giurisprudenza internazionale; e, perché tale, atta a nutrirsi,  come è dimostrato anche dallo studio della storia, di tutta  la ricchezza spirituale che in uno Stato è tesorizzata dal  fiorire d'ogni cultura letteraria, scientifica, filosofica, 0,  in genere, dello spirito.   Sì comincia così ad intravvedere un vero certo, un  razionale provato dalla realtà, un diritto prodotto dai  fatti; un bene che sfavilla dal cozzare dei mali; una  sapienza, a cui collabora il genere umano, in una fatica  che non è più vana. V. distingue due specie di guerre, bella generis inferioris e  bella generis superioris; le guerre di Attila, devastatrici e barbariche,  e le guerre di Senofonte, civili ed edificatrici di civiltà. Inutile qui  rilevare il carattere empirico della distinzione.     V. ha distratto il suo sguardo dal mondo intelligibile dei filosofi platonici; è concentrato nella contemplazione dell’uomo. Nella sesta Orazione (18 ottobre  1707) ® affronta, come farà più ampiamente nell’orazione  notissima dell’anno dopo, il problema dello svolgimento  pieno e graduale dello spirito dal lato che interessa la  pedagogia: Corruptae hominum naturae cognitio ad universum ingenuarum artium scientiarumque orbem absolvendum invitat, ac rectum, facilem ac perpetuum in tis  addiscendis ordinem exponit. È il problema stesso della  prima Orazione, dove il nosce te ipsum non faceva scoprire  altro che l’astratta natura divina dello spirito umano,  e qui invece mette innanzi tutto un processo di sviluppo  di questo spirito, dalla sua natura corrotta alla scienza.   Sviluppo, che non è niente di accidentale, ma la realizzazione dello spirito; e a cui perciò il pedagogista si  appella contro l’usanza di avviare i giovani allo studio di  questa o quella determinata scienza o arte, filiorum ingenio ad quaenam id factum natumque sit inexplorato, et  eorumdem naturae viribus inexpensis, ex sua animi libidine.... vel invita quam sacpissime Minerva 2.   V. comincia dal descrivere al vivo gli effetti del  peccato originale, oltre il quale la sua mente più tardi  non risalirà a vagheggiare lo stato originario dell’uomo  perfetto. Di qua da esso l’uomo non ha più nella lingua  lo strumento di espressione adeguato del proprio pensiero; nella mente non ha più lo strumento del vero;  e quindi si travaglia tra le apparenze fallaci e le mutevoli  opinioni; e, quel che più lo affligge, l'animo non gli serve    1 Vedi Nota più avanti,92 sgg.  2 Cfr. S. Nuova, Dign. VIII: Le cose fuori del loro stato naturale  né vi si adagiano né vi durano.] più se non a gettarlo in preda alla tempesta delle passioni.  L'emendazione dello spirito consisterà pertanto nell’eloquenza, nella scienza e nella virtù. Il fine dell’uomo,  si può dire, è quello di farsi uomo: certo scire, recte agere,  digne loqui. Uomini divini son quelli che stimolano efficacemente gli uomini al raggiungimento di cotesto fine.  Nec sane alio fictis fabulis poètae sapientissimi Orpheum  lyra mulxisse feras, Amphionem cantu movisse saxa, t1sque  sese sponte sua ad symphoniam congerentibus, Thebas  moenisse muris; et ob ea merita illius lyram, delphinum  huius in coelum invectum astrisque appictum esse finxerunt.  Saxa illa, illa robora, illae ferae homines stulti sunt: Orpheus, Amphion sapientes, qui divinarum scientiam huma-.  narumque prudentiam cum eloquentia coniunzeruni, erusque  fleramina vi homines a solitudine ad coetus, hoc est a suo  ipsorum amore ad humanitatem colendam, ab inertia ad  industriam, ab effrena libertate ad legum obsequia traducuni ;  et viribus feroces cum imbecillis rationis aequabilitate consociant ». Orfeo e Anfione diverranno per V., più tardi,  ritratti ideali e fantastici universali della prudenza incivilitrice dell’uomo: ma qui appariscono come i rappresentanti della forza plasmatrice (flexamina vis) tutta propria  della spiritualità umana: per cui gli uomini da se medesimi  escon di solitudine, celebrano l’umanità loro nelle città,  nel lavoro, costringono la libertà sotto il freno delle leggi,  consociano le loro forze selvagge al mite governo della  ragione: quello insomma che si dirà il mondo delle  nazioni. Is perpetuo est horum studiorum verissimus,  amplissimus et praeclarissimus finis. Siamo ben lontani  dal non doversi altrove il fine degli studi riporre che in  coltivare una specie di divinità nell'animo nostro, come  sosteneva la prima Orazione !   A dichiarazione del metodo proposto come l’unico da  seguire per il raggiungimento del fine proprio degli studì,  V. premette un disegno dell’enciclopedia (:9sam    sapientiae suppellectilem omnem instrumentumque). Disegno, che dà luogo a due osservazioni. La scienza delle  cose divine è distinta in scienza delle cose naturali,  quarum Deus natura est, e scienza delle cose divine  propriamente dette, quarum natura Deus est. Distinzione,  come si vede, neoplatonica, fondata sulla distinzione di  un Deus-natura e un Deus supra naturam, com’ è in Bruno.  Le scienze naturali sono: la matematica, di cui  è un’applicazione, operaria appendix, la meccanica;  e la fisica, a cui van riportate l’anatomia,  studio della fabbrica del corpo umano, e la medicina, fisica del corpo umano ammalato, e corollario  pratico dell’anatomia.   Di queste due scienze naturali qui per la prima volta  sì presenta esplicito il concetto, che sarà sostenuto tra  breve nel De antiquissima, dove prenderà corpo lo scetticismo prenunciato nell’ Orazione terza: Naturalium  rerum contemplamur vel ca, de quibus tam inter homines conventt et constat, formas et numeros, de quibus mathesis suas  conficit apodixes ; vel caussas, de quibus maxime inter doctissimos homines disceptatur, quas explicat physice ». E più  innanzi dello studio delle matematiche si dice:  Eo facto  adolescentes in rebus, de quibus iam inter homines conventi,  ex dato vero verum conficere assuefiunt; ut in physicis, de  quibus maxime contenditur, idem praestare possint ». Il  nucleo centrale di quella che è stata detta prima forma  della gnoseologia vichiana è già formato. L’ex dato  vero accenna già all’artificiosità delle matematiche, di  queste verità, che son tali per noi perché fatte da noi.  Il verum conficere prelude da vicino al verum factum.  L'applicazione della matematica alla fisica è già dichiarata impotente a conferire a questa la certezza di quella.   Ma, come or ora vedremo, V. non ha raggiunto  ancora la chiara coscienza della esigenza di una fisica  dinamistica contenuta nella sua metafisica. Enumerate tutte le discipline, fa osservare che, salvo  le matematiche, la logica e la metafisica, a causa della  somma astrattezza dei loro oggetti, tutte le altre hanno  non soltanto una parte teorica (le instituttones quae rerum  genera prosequuntur), ma anche una parte storica; che,  nel pensiero del V., non è propriamente la storia delle  singole discipline, ma la concretezza del loro contenuto,  l'applicazione delle teorie ai particolari, l’esemplificazione  dei concetti generali nelle specie.   Giacché altro è studiare, poniamo, la lingua latina, in  astratto, altro studiarla nei suoi ottimi scrittori; altro  studiare la rettorica, altro gli oratori; e lo studio della  poetica si compie e integra con quello dei poeti. La fisica  non deve né anch’essa contentarsi di generalità; ma  descrivere i fenomeni particolari. I diari clinici con la  nota dei così detti rimedi specifici sono la storia della  medicina. La teologia si storicizza nei libri sacri, nei  dommi e nella tradizione perpetua dell’ insegnamento e  della disciplina della Chiesa. La giurisprudenza ha la  sua storia nelle singole leggi, nelle interpretazioni singole  dei giureconsulti, nei vari esempi delle cose giudicate.  La dottrina dell’uomo e del cittadino (moralis et civilis),  non occorre dirlo, hanno la loro storia in quella che è la  storia per antonomasia, le memorie e gli annali degli  uomini grandi e i pubblici monumenti.   Concetto, di cui non c’ è bisogno di rilevare la grande  importanza e le attinenze intime con quell’unità del vero  col certo, della filosofia con la filologia, che sarà una  delle intuizioni principali, la principale, della Scienza  Nuova.   Definito quindi il disegno di una compiuta istruzione  onde lo spirito può instaurare la propria natura, V.  trae il suo criterio metodico dalla norma già altra volta  invocata a instaurazione dello spirito etico: in guisa che,  per stabilire l’ordine degli studi, naturam, egli dice, se  88 DI    quamur ducem. E infatti la deduzione del suo metodo è  una filosofia dello spirito, di cui in questa ultima delle  sue Orazioni inedite egli segna alcune linee definitive.  Le quali saranno riprese nell’ Orazione dell’anno appresso  De nostri temporis studiorum ratione, e non saranno più  cancellate nella ulteriore elaborazione del pensiero vichiano.   La prima proposizione, in cui culmina un pensiero già  incontrato nella prima Orazione, d'origine neoplatonica,  suona:  Nullum sane dubium est, quin pueritia, quantum  ratione infirma aetas est, tantum memoria valeat »; la quale  poco più oltre vien integrata con l’altra: n ephoebis  phantasia plurimum pollet.... nil autem rationi magis,  quam phantasia adversatur », sicché, a suo tempo,  phantasia attenuanda est, ut per cam ipsam ratio invalescat » *.  Che saranno due delle più famose dignità della Scienza  Nuova: La fantasia tanto più è robusta quanto è più  debole il raziocinio » 2; e  ne’ fanciulli è vigorosissima la  memoria; quindi vivida all'eccesso la fantasia, ch'altro  non è che memoria dilatata o composta»: e tutte  insieme uno dei concetti più importanti e suggestivi della  filosofia del V.. Che la memoria sia potente nei fanciulli  vien confermato dall’osservazione, già fatta nella prima  Orazione, circa il ricchissimo patrimonio linguistico che i  fanciulli son capaci di accumulare nei primi tre anni;  e dall'altra, che V. dimenticherà nel De antiquissima,  ma rinnoverà più tardi, facendone uno dei canoni capitali  della Scienza Nuova: che cioè la lingua non è creazione  della ragione, ma della memoria (o fantasia), perché pro  en    I Nella Orazione IV già aveva detto:  Atque ea omnia quae memorari facienda sunt ab adolescentibus, qua aetate et sensus maxime vigent et phantasia plurimum pollet, et mens, quia tum primum materiae  vinculis relaxetur, angustissima sit; et ratio, cum in summa versetur  ignoratione rerum, sit ad vicium usque curiosa »: Opere, I, 37.   ? Dign.] dotto popolare, e non frutto di sapienza riposta *. Il  corollario pedagogico è, che le lingue sono gli studi più  adatti alla prima età. Superata la quale, spunta la ragione.  Ma lo sviluppo di questa è impedito dal fluttuare delle  opinioni, ‘dal prepotere "della ‘fantasia. Chi non sa che,  quando questa ci ha fatto immaginare da giovinetti  città e regioni lontane e mai viste, a stento col progredire  degli anni riusciamo a formarci un'idea diversa ? Tam  alte prior caelata est, ut complanari, et alia super ca induci  non posstt. E dell'opposizione tra fantasia e ragione si fa  esperienza nelle donne; le quali, appunto perché ci superano nella fantasia, fanno meno uso della ragione:  onde più degli uomini soggiacciono alle passioni. L’attenuazione della fantasia è, come siè accennato, il miglior modo di favorire il vigore della ragione: e però 1  giovani, dopo le lingue, devono studiare la matematica,  che è tutto un esercizio d’ immaginazione, la quale deve  spiegare tutte le sue forze per tener dietro a lunghissime  serie di figure e di numeri e cogliere quindi la verità delle  dimostrazioni. Intanto la fantasia in cosiffatto esercizio  (per una specie di eterogenia di fini, onde si gioverà tanto  la Scienza Nuova a intendere lo sviluppo dello spirito),  vien rimettendo ogni crassezza e corpulenza (crassitie et  corpulentia): la fantasia, si direbbe, nega se stessa nella  considerazione dei punti e delle linee: la mente umana si  liquefà, comincia a purgarsi, e dal senso passa al pensiero. Giacché, dopo le matematiche, si può volgere alla  fisica, ossia agli oggetti che non sono più sensibili, e pur  sono corpi;  atque ex rebus, quae sensu percipiuntur, par  est, quae omnem sensum effugiuni colligere, adhuc corpora  tamen »; appunto mercé la fisica, che studia « insensibilia  Nulla doctrina ratione minus, magis memoria constat,  quam sermonis, nam eius ratio consensus et usus populi est: quem  penes arbitrium est, et ius, et norma loquendi»: Opere, I, 63-4.    corpora corumque insensibiles et figuras et motus, quae  sunt naturalum rerum principia et caussae ». (Siamo,  come si vede, ancora alla fisica corpuscolare, che sarà  detta poi di falsa posizione in quanto non trascende i  corpi per ispiegarli). Così la mente, fer gradus, attraverso  1 dati della matematica e i dubbi della fisica, si vien  depurando, e liberando dal senso, e può elevarsi allo  studio delle cose spirituali, e conoscere con intelletto puro  (la mente pura della Dign. LIII) se stessa, e per  se stessa Dio. Scoperta quindi la regola del vero e del  falso, si potrà studiar la logica; e, conosciuto Dio, volgersi  alla teologia; e quindi all’etica, che consegue dall’ intera  scienza delle cose divine ed umane. Ma poco importano  1 particolari del ciclo, onde si conchiude lo sviluppo dello  spirito: molto la legge di questo sviluppo, che è quella  a cui s’'atterrà il pensiero vichiano; e, liberatosi nel De  antiquissima dalla intuizione neoplatonica del mondo, in  cui aveva, per così dire, impegnati i suoi occhi (mondo  della natura, da cui si risale a Dio, ma da cui non si  può salire all'uomo), se ne farà una fiaccola, nel Diritto  Universale e nella sua opera maggiore, che è poi la vera  sua opera, per penetrare in quell’oscuro mondo dell’uomo,  in cui l’uomo crea se stesso: il mondo, che era affatto  ignorato da tutta la filosofia precedente. Conchiudendo: la prima fase del pensiero vichiano si  distingue dalla seconda e dalla terza come l’unità ancora  indistinta di entrambe; quell’unità, a cui bisognerà guardare per intendere le due fasi consecutive, ciascuna delle  quali la porterà tuttavia oscuramente in se stessa. In  questa fase c’ è la metafisica antica dell’essere, in cui la  mente è in quanto cessa di esser mente, il molteplice nega la sua molteplicità, lo sviluppo si contrae nel suo punto  di partenza, e il mondo, come mondo, non ha valore, e  rappresenta un decadimento e una diminuzione di realtà.  È la metafisica antica, platonica per antonomasia; verità  senza certezza; oggetto senza spirito: e quindi trascendenza e scetticismo: il dommatismo di Spinoza e lo scetticismo di Hume. Ma c’è anche un’altra metafisica, che  non è dell’essere, bensì dello spirito, il cui essere non è  se non in quanto si fa (spiritualmente), attraverso contrasti,  sempre composti e sempre rinascenti, in cui si svolge con  incremento continuo la realtà, che non è più concetto  astratto (genera, gli universali della logica aristotelica),  ma storia, particolari, onde si realizza l’universale:  individuo. La prima metafisica è svolta nel De antiquissima. La seconda nelle opere con cui, dieci anni dopo,  dal Diritto Universale in poi, il filosofo riprese la sua attività letteraria. Ma, come il conato della prima  metafisica porta l’ Uno a moltiplicarsi e lo spirito a farsi  natura, la natura umana della seconda è naturalmente portata a dilettarsi dell'uniforme (Dign. XLVII); ossia un nuovo conato: spinge il molteplice a unificarsi, la natura (la  natura dello spirito, il sentire senza avvertire) a farsi spirito (riflessione con  mente pura), che, come senso comune  (Dign. XII), supera ogni arbitrio dello spirito finito, ed  è la stessa Provvidenza divina, Dio 2. Ora, come il primo  conato lega Dio al mondo, e quindi la metafisica a una  storia che, per non esser nostra, non può esser conosciuta  da noi; il secondo lega il mondo come umanità a Dio,  e quindi fa della storia la nostra vera metafisica. Ma V.    1 Scienza Nuova?, ed. Nicolini,183, 238. .,* E questo istesso è argomento che tali pruove [della S. N.] sieno  d'una Specie divina e che debbano, o leggitore, arrecarti un divin  piacere.] ha perfettamente ragione nella Scienza Nuova di ripetere  quel che è lo scetticismo del De antiquissima, e però di  conservare la metafisica che non è nostra (di quel mondo  naturale, di cui Dio solo ha la scienza)!  insieme con la nostra metafisica. Le due vedute, le due  opere vichiane,"s’ integrano a vicenda. Il che vuol dire  che a fondamento del processo dalla natura a Dio della  Scienza Nuova rimane sempre pel V. un processo da  Dio alla natura, un descenso platonico, che spiega così  la tendenza vichiana al panteismo e all’ immanenza e  però al soggettivismo e alla metafisica della mente, come  la tendenza, anch’essa incontestabilmente vichiana, al  teismo e alla trascendenza, e però al platonismo e alla  metafisica dell’essere. La luce è anche in V. cinta da  un emisfero di tenebre.    NOTA    Un valente studioso, DONATI pubblica (negli Annali della Fac. di Giurispr. della Univ.  di Perugia, vol. XXX) un’ importante memoria sui Prolegomeni  della filosofia giuridica del V. attraverso le Orazioni inaugurali  dal 1699 al 1708. Dove è indagato con molta sagacia lo svolgimento del pensiero vichiano attraverso le Orazioni inaugurali,  compresa quella del 1708 De nostri temporis studiorum ratione; e ciò  in relazione col Diritto Universale. E si vuol mostrare come a grado  a grado si venissero svolgendo i germi che giunsero a dare i loro  frutti maturi nel De uno. E non si può non congratularsi di questa  nuova analisi dei primi scritti del V., che fino a pochi anni fa  solevano passare quasi inosservati: poiché il Donati mette nella  più chiara luce gli addentellati che in essi hanno taluni dei concetti principali del periodo posteriore della speculazione vichiana,    T- -»    I  Dee recar meraviglia come tutti i filosofi seriosamente si studiarono di conseguire la scienza di questo mondo naturale, del quale perché  Iddio egli il fece, esso solo ne ha la scienza.] spiegando ottimamente perché le prime sei Orazioni V. non  avesse più pubblicate, e in qual senso rifiutasse tutte le opere  anteriori alla Scienza Nuova seconda; quantunque troppo forse  egli si giovi delle tardive illustrazioni e dichiarazioni dell’Awutobiografia per accertare l’originario significato dei primissimi scritti.   Tutte le sette Orazioni inaugurali sono considerate strettamente connesse tra loro e tutte destinate a preparare la trattazione del De uno con la discussione di tutti i problemi critici 0  introduttivi: e andrebbero divise in tre gruppi, distribuendo le  prime sei dal V. lasciate inedite in due trilogie (come le vuol  denominate il Donati): l’una sul fondamento della sapienza, e  l’altra sulla destinazione di questa. Alle quali trilogie seguirebbe  da ultimo, a modo di conclusione, l’ Orazione sul metodo. E poiché  il fondamento della sapienza, ossia dello svolgimento dell’attività  razionale conoscitiva dello spirito, consiste nella natura dello  spirito considerata dal V. non come astratta unità isolata, ma,  unità del molteplice, e quindi individualità che ha la sua concretezza nella storia, nelle attinenze sociali e nella vita comune,  dalla prima trilogia è ovvio il passaggio logico alla seconda, destinata a illustrare i fini della scienza desunti dalla vita, e a mostrare nella scienza stessa uno strumento per l’azione e il principio  della retta volontà. Onde entrambe le trilogie si possono a ragione  considerare una preparazione analitica di quella sintesi, che è  rappresentata dall’ Orazione sul metodo del 1708, e che V.  nella sua Autobiografia dice come  un abbozzo dell’opera che poi  lavorò: De universi iuris uno principio ecc., di cui è appendice  l’altra De constantia iurisprudentis ».   La esposizione che ne fa il Donati in correlazione col De uno  è meritevole d’ogni lode: precisa, netta, chiara e rigorosa, in  modo da riuscire una illustrazione efficacissima dell’ordine di  pensieri adombrati dal filosofo napoletano nella forma alquanto  rettorica di quegli antichi suoi tentativi. Ma, né mi pare che ne  venga un risultato nuovo per gli studi intorno alla formazione  della filosofia vichiana; né che riesca sufficientemente dimostrata  la tesi finale dell’autore, circa l'autonomia del Diritto Universale,  come trattazione speciale di filosofia del diritto, e conclusiva d'un  periodo d’indagini filosofico-giuridiche, dalla Scienza Nuova,  come quadro più vasto, a cui il problema del diritto si sarebbe  esteso dopo il De uno.   In un punto il Donati accenna ad una interpretazione della  Orazione del 1699 diversa da quella data da me. Egli ritiene che  le dichiarazioni del V. in quella Orazione circa la potenza crea  7    904 STUDI VICHIANI    trice dello spirito nel mondo umano bastino a salvare l’autonomia dell’uomo; né quindi si potrebbe convenire con me per  l’ identità che io vidi in quello scritto tra l’uomo e Dio. Ma nello  stesso luogo io richiamai altri pensieri analoghi di scrittori del  nostro Rinascimento (v. sopra p. 46; e ora lo studio intorno al  Concetto dell’uomo nel Rinascimento, nel mio volume G. Bruno e  il pensiero del Rinascimento); pensieri i quali mettono fuor di  dubbio che questa celebrazione dell’uomo era un motivo tradizionale, caro sopra tutto agli scrittori neoplatonici, ignari ancora  d’ogni vero principio di distinzione dello spirito umano dal divino,  e insufficiente quindi da sola a quella coscienza dell’assoluta  libertà dell’uomo, alla quale più tardi tenderà con tanto ardore  V.. E sta logicamente che, se già nel 1699 V. avesse raggiunto questa nozione dell'autonomia dell’uomo, non avrebbe  potuto, undici anni dopo, incorrere nello scetticismo del De antiquissima.   E quanto ai rapporti del De uno con la Scienza Nuova, sono  essi da considerare o no, come due redazioni diverse e successive  della stessa opera ? Va da sé che l’accentuazione dello speciale  problema del diritto  dal V. non ravvisato mai nella sua  caratteristica differenziale  che l’autore può aver fatto nel  De uno per ragioni estrinseche, come quelle de’ suoi interessi  accademici, non può aver peso per decidere se, sostanzialmente,  il tema in cui si travaglia in entrambe le opere la mente del V.  sia sostanzialmente il medesimo. E tra tutti i rilievi fatti in proposito dal Donati, quello che, secondo lui, dovrebbe togliere  perplessità ed equivoci (p. 81), si riduce a chiarire,  secondo lo stesso autore, che quando il proposito del V. nel  De uno ritorna per dar materia alla Scienza Nuova, si allarga  nella sua estensione, si precisa nel suo significato » (ivi). Il che  non costituisce certamente una differenza sostanziale, per la  quale s’abbia a conferire al problema del diritto nella filosofia  vichiana quell’ importanza specifica che esso non ha: almeno  fino a che il Donati non ci abbia dato una dimostrazione più  conclusiva di questa, con cui si chiude il suo bello opuscolo.    Un'altra serie di studi molto importanti, di carattere biografico  e cronologico, ma che potrebbero avere conseguenze di gran  rilievo rispetto alla storia intellettuale del V., sono quelli che  vien conducendo sull’Autobiografia il NicoLINI. Il quale dagli  errori cronologici commessi dal V. nella ricostruzione della  sua vita e del suo pensiero e fors’anche nella datazione delle sue    vecchie Orazioni inedite, è indotto a dubitare se per avventura  non solo l’anticartesianismo ma fors’anche lo stesso neoplatonismo di questa prima fase del pensiero vichiano non sia, almeno  in parte, una coloritura tardiva che l’autore medesimo fece del  proprio pensiero. Codesti suoi dubbi il Nicolini mi ha amichevolmente comunicati. E sebbene a me sembrino eccessivi, sopra  tutto se si tien presente la logica dello stesso sviluppo del pensiero vichiano, non voglio qui tralasciare di riferire talune sue  osservazioni, delle quali bisogna tener conto ancorché non bastino a suffragare le conclusioni che il Nicolini tende a ricavarne.   Prima di tutto a proposito del cenno autobiografico sul Di  Capua da me richiamato a p. 39:    Non ho fatte ancora ricerche speciali sulle derivazioni del V.  da Tommaso Cornelio. Ma quanto a Lionardo di Capua (che  abitava a Napoli a pochi passi dalla casuccia del V., a San Biagio  dei Librai), posso affermare di sicuro che V. nella sua gioventù  fu un fervente ‘ capuista ’, e che il giudizio non favorevole dato  nell’Autobiografia sullo scetticismo del Di Capua è, al solito,  anacronistico; e cioè rappresenta lo stato d'animo del V. nel  1728, non nel 1695. Tutto ciò è mostrato nella terza puntata  del mio lavoro Per la biografia, ove, tra altri argomenti, son  messi in rilievo questi:    a) la prosa giovanile del V. (periodo, costruzione, terminologia e giro di frase) è modellata esattamente su quella di  Lionardo di Capua;   b) ancora nel 1715-17 V. era (almeno letterariamente)  così capuista, da ricalcare la sua Vita di Antonio Carafa sulla  Vita di Andrea Cantelmo del Di Capua (fu già osservato anche  dal CROocE nel suo scritto sulla Vita di Antonio Carafa);   c) nella famosa disputa tra il Di Capua e l’Aulisio, che per  anni tenne divisa la Napoli dotta in due partiti avversissimi, che  polemizzarono tra loro nel modo più violento, V., insieme  con altri suoi amici capuisti, si schierò risolutamente accanto al  Di Capua; tanto che per parecchi anni l’Aulisio gli serbò il broncio  e gli perdonò soltanto nel 1709, dopo che V. ebbe pubblicato  il De studiorum ratione (cfr. Autobiografia, p. 33).   Insomma, qui come in molti altri punti dell’ Autobiografia,  V., nel discorrere dei suoi studi giovanili, trasportò alla sua  forma mentis giovanile quella dei suoi sessant'anni: da che la  conseguenza che, per la ricostruzione della primissima fase del  suo pensiero, l’Autobiografia è una fonte assai infida. Diverso,  naturalmente, dovrebb’essere il caso per la ricostruzione del pensiero vichiano dal 1699 in poi, perché di esso si dovrebbero  pure avere documenti contemporanei nelle Orazioni inaugurali.  Senonché, queste, nel testo in cui ci son pervenute, ci offrono l'effettivo e successivo svolgimento della mente del V. dal 1699 al 1707 ? Questa la questione.    Che il codice della Biblioteca Nazionale di Napoli, donde  prima il Galasso, poi tu e io pubblicammo quelle Orazioni, ne  contenga non la prima stesura (quella recitata via via all’ Università) e nemmeno la seconda (di cui restan soltanto alcune  Emendationes), ma soltanto una terza stesura,  dimostrai già  nella Nota bibliografica di quel nostro volume vichiano. Resta  ora a vedere:    I) in qual tempo V. allestì codesta terza stesura;    2) se nell’allestirla, egli v’introdusse soltanto correzioni  di forma, o non anche mutamenti filosofici più o meno profondi  e correlativi al grado di maggiore maturità raggiunto dal suo  pensiero.   Quanto al primo punto, è cosa più che certa che la terza  stesura delle Orazioni può esser bensì posteriore, non mai anteriore al 1708. Basti dire che nel codice che ce l’ ha serbata (tutto  di pugno di Giuseppe V. con correzioni autografe di Giambattista), le sei Orazioni inaugurali formano un sol corpo col  De studiorum ratione (recitato il 18 ottobre 1708), e tutte sette  s' intitolano complessivamente: De studiorum finibus naturae  humanae convenientibus. Anzi, poiché da alcuni raffronti che ho  iniziati, la redazione del De studiorum ratione contenuta dal codice anzidetto comincia a sembrarmi non anteriore ma posteriore  al testo a stampa (pubblicato nell'aprile 1709), la data dell’ intero codice potrebbe anche esser fissata tra la fine del 1709 e  1 principii del 1710.   Se poi nell’allestire codesta stesura definitiva V. introducesse anche nelle prime sei Orazioni mutamenti correlativi alla  sua forma mentale del 1709-10, è impossibile naturalmente dimostrare con una prova documentaria, perché manca il meglio:  il testo primitivo su cui compiere il raffronto. Tuttavia alcune  circostanze, che ti verrò enumerando, rendono, a mio vedere,  la cosa altamente probabile.    1) Il pensiero del V., come tu ben sai, non fu mai statico,  ma sempre ultradinamico. Per citare un esempio solo tra cento,  dalla pubblicazione del De constantia iurisprudentis (1721) a  quella delle Note al Diritto universale (1722) corrono appena  pochi mesi: eppur nelle Note V. svolse, sopra tutto in fatto di mitologia, di estetica e di critica letteraria, ‘canoni ’ affatto  diversi e talora diametralmente opposti a quelli ch’egli medesimo  aveva posti pochi mesi prima. Per contrario, le Orazioni inaugurali, sebben tra la prima e la sesta intercedano ben otto anni  (1699-1707), esibiscono non un pensiero in continua gestazione  e dall’una all’altra Orazione sempre più progredito, ma un pensiero già bell’e formato e, sia pur provvisoriamente, consolidato.  L’una illustra l’altra; tutte si compiono a vicenda; nella sesta  si riprende, con altri sviluppi, ma senza alcun mutamento fonda mentale, il motivo centrale della prima: tutte sei, insomma,  col De studiorum ratione, che dell’edificio è il magnifico coro namento, formano, come V. voleva che formassero, un blocco  solo, un tutto armonico. Salvo dunque a supporre che il dinamicissimo V. del 1720-44 fosse invece nel 1699-1709 il più statico  dei filosofi e degli scrittori, è da ritenere che, allorché nel 1709  o nel 1710 egli si risolse a riunire tutte le sette Orazioni (De studiorum ratione compreso) nel De siudiorum finibus naturae hum anae convenientibus, introducesse, sopra tutto nelle più antiche,  mutamenti così profondi da farle sembrar tutte scritte in un  momento solo. O, per dir la medesima cosa con altre parole, le  sette Orazioni non sono sette documenti di sette momenti diversi  del pensiero del V., ma un documento unico d’un momento solo,  naturalmente, l’ultimo (1709 o 1710).   2) Non mancano indizi che V. allestisse il testo definitivo  delle Orazioni inaugurali, non voglio dire senza guardar nem meno  la stesura primitiva, ma tenendo di questa un conto molto relativo. Nel testo recitato via via all’ Università (1699, 1700,  ecc. ecc.) era materialmente impossibile che V. sbagliasse le  date delle singole Orazioni. Invece curiosissimi errori del genere  si trovano nella stesura definitiva e nel riassunto che V. stesso  ne die’ poi nell’Autobiografia. Ho già fatto osservare che la terza  Orazione (‘terza ’, sempre che le Orazioni furono recitate effettivamente nell'ordine dal V. e questi non introdusse anche,  nella stesura definitiva, qualche inversione), che la terza Orazione, dicevo, fu pronunziata il 18 ottobre, non del 1701, secondo  afferma V., ma del 1702. E molto maggiori, e più aggrovigliate, sono le incongruenze cronologiche che si osservano nella  quarta Orazione, alla quale, così nel testo definitivo come nell’Autobiografia, V. assegna la data del 18 ottobre 1704.    a) A principio di essa si dice che, nei due precedenti anni  scolastici, non c’era stata all’ Università alcuna Orazione inaugurale. E, nemmeno a farlo apposta, ce n’era stata una all’ inizio dell’anno scolastico 1703-4, e l’ aveva recitata l’ amico e collega  del V. Giovanni Chiaiese, nominato il 28 luglio 1703 lettore di  Istituzioni di diritto civile (Praelectio ad initium legis ecc. ecc.  a D. JOHANNE CHIAIESIO, în inclyta Academia Neapolitana habita, Neapoli, 1703); e un’altra, a principio dell’anno scolastico  1702-3, l'aveva recitata proprio Giambattista V. !    b) V. soggiunge che causa del suo supposto silenzio nei  due anni precedenti (1702 e 1703) era stata la preparazione della  riforma dell’ Università napoletana compiuta dal cappellano  maggiore Diego Vincenzo Vidania per incarico del viceré marchese  di Villena. Ma codesta riforma (dalla quale il filosofo ricavò il  beneficio che la sua cattedra di rettorica, da quadriennale, divenisse perpetua) era stata già bell’e compiuta venti mesi  prima dell’ottobre 1704 mercé la nota prammatica del 28 febbraio 1703.   c) Nell’Autobiografia, infine, V. aggiunge che dopo che,  il 18 ottobre 1704, aveva recitata ‘ metà’ di questa quarta Orazione, entrò nell’aula ‘il signor don Felice Lanzina Ulloa, presidente del Sacro Real Consiglio, in onor di cui egli con molto  spirito diede altro torno e più breve al già detto, e attaccollo con  ciò che restava a dire’. E il 18 ottobre 1704 don Felice Lanzina  Ulloa era già morto da diciotto mesi, giacché la Gazzetta di Napoli reca il suo decesso (e proprio di lui, presidente  del Sacro Real Consiglio) nel numero del 20 marzo 1703.    3) Alla sesta Orazione V. assegna, così nella stesura definitiva come nell’ Autobiografia, la data del 18 ottobre 1707. Ma  tre mesi prima le truppe austriache erano entrate a Napoli; al  due volte secolare viceregno spagnuolo era sottentrato il viceregno austriaco; e come loro re i napoletani non avevan più Filippo V di Spagna, ma Carlo d’Austria. È mai possibile che, in  una solenne prolusione universitaria, in un discorso ufficiale  tenuto appena tre mesi dopo avvenimenti così clamorosi, non si  trovi nessun accenno a essi, non una parola sola di omaggio al  nuovo dinasta ? e che non vi accennasse proprio V., i cui scritti  ufficiali, come dice argutamente il Croce, ‘basterebbero da soli  a ricostruire la serie delle vicende cui andò soggetta Napoli dalla  fine del secolo decimosettimo alla metà del decimottavo ’ ? il  qual V., anzi, l’ 11 ottobre 1707 (sei giorni prima dell’ Orazione)  aveva avuto incarico ufficiale dal nuovo governo di preparare  una solenne commemorazione dei martiri della congiura di Macchia ? Allora una delle due: o l’ Orazione fu recitata in anno  diverso dal 1707, oppure nella stesura definitiva V. soppresse    qualsiasi accenno politico. E, nell’un caso o nell’altro, si giunge  sempre al risultato, che la stesura definitiva è diversa dal testo  primitivo.   Comprendo io pel primo che questi dati di fatto sono ancor  troppo poca cosa perché possan già far configurare diversamente  la cronologia (che in questo caso è storia) del pensiero vichiano.  E non mancherò certo, nelle mie future postille all’Autobiografia,  di allargare e approfondire l’ indagine. Ma, in fin dei conti, nessuno potrà sconvenire che la sicurezza, che finora avevamo tutti,  che al neoplatonismo V. passasse per lo meno fin dal 1699 (data  della prima Orazione) comincia a essere alquanto scossa. E correlativamente comincia a delinearsi la possibilità che codesto  passaggio, almeno in forma decisiva, avvenisse soltanto nel 1708  O 1709, cioè quasi alla vigilia del giorno in cui, col De antiquissima (1710), V. spiegherà risolutamente la bandiera anticarte-  siana. Neoplatonismo e anticartesianismo, insomma, potrebbero  nel V. esser coevi o quasi: come quasi coevi, del resto, li dice  l’Autobiografia, salvo ad anticipare al 1686-95, e ad asserir già  bell'e compiuto nel 1695, un atteggiamento spirituale, che forse  in lui non cominciò a prender consistenza se non molti anni dopo.  Che se poi questi miei dubbi assurgessero un giorno a certezza,  sarebbe molto interessante indagare se e in qual misura il neo-  platonismo del V. venisse determinato dalle sue lunghe e appas-  sionate conversazioni filosofiche con Paolo Mattia Doria, ricor-  date dal V. medesimo nel prologo del De antiquissima e nel-  l’Autobiografia ». LA SECONDA E LA TERZA FASE  DELLA FILOSOFIA VICHIANA  La filosofia di G. B. V., se si può da una parte con-  siderare come una delle forme più eminenti dello schietto  spirito italiano e una delle maggiori forze autoctone svi-  luppatesi dalla storia particolare d’ Italia, apparisce,  dall'altra, a chi ne investighi accuratamente i più profondi  motivi ideali, quasi uno specchio dei principii fonda-  mentali della moderna filosofia europea: francese, inglese  e tedesca. Essa, insomma, come le affermazioni più vigo-  rose dello spirito, unisce in sé e concilia in un solo atto  di vita la più larga universalità ideale con la più con-  creta determinatezza storica. E l’aver guardato per solito  all'una o all'altra faccia del pensiero vichiano ha reso  molto difficile la piena intelligenza della sua storica indi-  vidualità, mentre ha prodotto, come conseguenza né-  cessaria, quella strana storia della fortuna dello scrittore,  che non so se abbia riscontro in altro scrittore di qual-  Stasi letteratura: quella storia anch'essa a doppia faccia  di un  illustre ignoto »: di un grande, anzi grandissimo  filosofo per gl’ Italiani, che da un secolo e mezzo non né  Tipetono il nome senza sentirsi vivamente compresi di  ammirazione mista a riverenza come innanzi a uno de’  genti maggiori della loro stirpe, di quelli che la coscienza  d o popolo consacra nel tempio de’ suoi spiriti tutelari;  e d'un filosofo, d’altra parte, ignorato come tale, malgrado sporadici omaggi di simpatie, di lodi, e di plagi, nel  mondo della cultura internazionale *,   Contrasto tanto più significativo, se sl considera che  l'ammirazione universale e sconfinata degli Italiani per  V. non aveva punto radici in sentimenti e tempera-  menti spirituali di geloso nazionalismo, poiché V. sorge  in mezzo a una cultura impregnata d'’ influssi stranieri,  segnatamente francesi, e la sua fama postuma vive e  grandeggia attraverso tutto quel secolo XIX, in cui  l’ Italia non lavora che ad affiatarsi con la filosofia stra-  niera, dal Galluppi, che meditò tutta la vita la filosofia  francese e la tedesca di Kant, fino a Bertrando Spaventa  hegeliano o a Roberto Ardigò riecheggiante in Italia il  positivismo francese e inglese; e si pon mente, d'altro  canto, che gli stranieri, se disconoscevano il valore d’un  filosofo della forza del V., non indugiavano a scorgere ‘  e pregiare in giusta misura altri dei maggiori rappre-  sentanti della genialità italiana. Basti per tutti ricordare  il Goethe, di cui invano Gaetano Filangieri richiamò  l’attenzione sulla Scienza Nuova, e che ebbe invece animo  così pronto a intendere e gustare Giordano Bruno, p. es.,  e il Manzoni. Onde è chiaro che non, per così dire, la  generica italianità di V. fu ostacolo all’ intelligenza del  suo pensiero fuori d’ Italia, ma la sua italianità parti-  colare, riuscita oscura agli stessi Italiani preoccupati delle  forme, in cui gli stessi problemi vichiani si erano pre-  sentati nella filosofia straniera: ossia appunto in quella  filosofia che era stata il maggior pascolo delle loro menti.   Uno dei caratteri più appariscenti della italianità del  V. è il suo atteggiamento negativo e polemico verso    I Tutti i documenti di questa singolare storia sono stati con grande  amore raccolti da B. Croce, Bibliografia vichiana, Napoli, 1904 (negli  Atti dell’Accademia Pontaniana) col Supplemento del 1907, il Secondo  supplemento del 1910 (negli stessi Atti) e nuove aggiunte nella Cri-  tica.] la cultura del suo tempo, quando lo spirito italiano era  tributario della cultura straniera, e accoglieva passivo le  idee dominanti oltre Alpi, sopra tutto in Francia: in  filosofia, nelle due forme dell’atomismo gassendista e del  matematicismo cartesiano. E V. alla intuizione mate-  rialistica e naturalistica dell’atomismo contrappone la  concezione idealistica e umanistica della storia, e all'astratta contemplazione delle idee chiare e distinte,  oggetto di intuizione e deduzione matematica, il processo  autogenetico della umanità, che vien creando il suo  mondo, e nel suo mondo se stessa. La storia dell’umanità,  prima del V. e attorno al V., in Italia e fuori d'’ Italia,  era erudizione (o filologia, per usare la parola  dello stesso V.): rivolta più a raccogliere i documenti  esterni dell’attività dello spirito umano, che a penetrarvi  dentro e giovarsene a intendere l’ intimo sviluppo di  quest’attività medesima. Movimento, di certo, tutt’altro  che trascurabile, anzi di grandissima importanza nella  storia dello spirito italiano, nella quale LudoV. Antonio  Muratori occupa un posto cospicuo: ma che aveva nondimeno nel suo presupposto speculativo quel difetto che  V. avvertì: di vedere il solo aspetto esterno di quella  realtà, che è il processo storico: quel difetto, di cui lo  stesso V. additò profondamente la correzione nella sua  unità di filologia e filosofia. E anche per questa parte è  ormai noto che le menti italiane entravano in una corrente che moveva dalla Francia *.   Contro questa cultura in voga, di cui notava accortamente le origini forestiere, V. si vantava di essere  autodidascalo » e di far parte per se stesso riannodandosi alla tradizione italiana dei filosofi del Quattro e del  Cinquecento: ai Ficino, ai Pico, ai Patrizzi, ai Mazzoni,    1 Vedi G. Maucain, Étude sur l’évolution intellectuelle de 1° Italie  de 1657 à 1750 environ,93 sgg.; agli Steuco. E in realtà la mentalità del V. si spiega  meglio nel suo svolgimento se si ricollega col pensiero italiano del Rinascimento, anzi che con quello de’ suoi contemporanei. Non s'intenderebbe mai, per dirne una,  perché V. affermi con tanta insistenza di essere un  platonico, egli che è pure l’autore di una delle filosofie  più avverse al platonismo, senza considerare le tracce di  platonismo rimaste nel suo pensiero dallo studio dei filosofi italiani neoplatonici e neoplatonizzanti del sec. XV  e del XVI *.   Ma fuori di questa intima parentela italica della mente  vichiana non s’' intenderebbe neppure un’altra delle caratteristiche più speciali della sua filosofia, che non è  stata tra le minori cause della sua scarsa fortuna nella  storia internazionale del pensiero speculativo: voglio dire  la sua forma, affatto impropria, per cui non c’è uno  scritto del V., che si possa additare come esposizione  adeguata o approssimativa della sua dottrina, a quel modo  che si fa per Cartesio, per Spinoza, per Leibniz, per Locke,  per Hume e per tanti altri filosofi del periodo stesso,  a cui V. appartiene. Questi, invece, non sì propone  mai chiaramente e direttamente la trattazione del problema, che agita realmente il suo pensiero, e vi riceve  infatti una soluzione. Il suo pensiero filosofico fondamentale, per motivi estranei alla sua interna struttura  logica, ci è presentato in una forma più atta a deviare  l’attenzione da esso che non a fermarvela sopra e concentrarvela: in una forma impostagli violentemente dall’autore, più sollecito, apparentemente, d’accentuare questa  forma estrinseca arbitraria che non la sostanza vera ed originale del suo pensiero. Le opere capitali del V. son due:  il De antiquissima Italorum sapientia ex linguae latinac  originibus eruenda (1710) e 1 Principii d'una scienza nuova d’ intorno alla comune natura delle nazioni (1725, 2% edizione 1730 e ’44). Nella prima l’autore, come attesta lo  stesso titolo, si propone per l’appunto di dimostrare quale  sia la filosofia che può e deve ricavarsi dalle origini della  lingua latina, come quella dottrina che una volta dové  esser professata da’ più antichi saggi d’Italia; e nella  seconda come argomento principale della ricerca viene  annunziata una scienza nuova intorno alla natura  della società umana (come si vien realizzando attraverso  la storia). Ora la critica ha dimostrato che i problemi,  intorno ai quali si travaglia la mente del V. in queste  due opere, non sono né l’uno né l’altro di questi qui enunciati, nei quali è pure innegabile che egli abbia impegnato  di proposito copiose riserve di dottrina e d’ ingegno, segnatamente nella Scienza Nuova. Chi voglia intendere il  De antiquissima, non deve tenere nessun conto del suo  titolo e del proemio, e di tutte le vane investigazioni che  qua e là vi ricorrono, dei riposti concetti, che, secondo 1l  V., supporrebbero talune voci latine, ma limitarsi a  considerare in se stessa questa dottrina che egli pretende  rimettere in luce dal più vetusto tesoro della mente italica, e che non è altro che una dottrina modernissima,  quale poteva essere costruita da esso V. nel 1710. E chi  voglia parimenti penetrare nel pensiero nuovo, che è  il nocciolo sostanziale della Scienza Nuova, non deve arrestarsi agli sforzi faticosi, con cui V. si argomenta  di dimostrare come infatti l’umanità civile percorra e ripercorra nel tempo una storia ideale eterna, ossia come il  processo storico obbedisca a una legge costante immanente  alla natura dello spirito umano (che sarebbe soltanto l’assunto di quel contestabile problema filosofico, che si disse  poi di  filosofia della storia »); ma guardare più addentro,  per mirare a quella profonda speculazione (su cui pur  costantemente s’aggira il pensiero vichiano) intorno alla  natura dello spirito umano. Della quale egli scopre in  108 STUDI VICHIANI    fatti una scienza nuova, ma che non è altro che una  nuova filosofia, un nuovo sistema filosofico. Il pensiero  vichiano perciò è un nocciolo chiuso dentro un forte  guscio; e chi non è in grado di rompere il guscio, non  può gustare quel pensiero.   Ora questo guscio, come dicevo, non si spiegherebbe  senza la cultura speciale del V.: cultura anacronistica,  certamente, ma italiana. Quella inutile fatica che si dà  l’autore del De antiquissima di sforzare il significato di  talune voci latine per farne altrettanti documenti di un  pensiero italiano antichissimo, da farsi risalire, secondo  probabili congetture, fino alla filosofia degli egiziani !, richiama bensì il Cratzlo di Platone 2, ma si riconnette ben  più da presso al metodo dei neoplatonici italiani del Rinascimento, che aveva, a sua volta, la sua buona ragion d'essere nel sec. XV e nel XVI, ma diventa una semplice  maniera » letteraria nel XVIII; quantunque qualche  suggerimento o incoraggiamento ad usarne possa V.  aver ricevuto dagli stessi scrittori contemporanei 3. Il  neoplatonismo italiano del Quattrocento risaliva anch'esso,  per la trafila di Platone, Filolao, Pitagora, Aglaofemo,  Orfeo, Mercurio Trimegisto, fino all’arcana e favolosa sapienza egiziana 4: ed era uso comune a tutti i filosofi platonizzanti di esporre il proprio pensiero come dottrina  de’ più famosi ed antichi, ancorché non mai esistiti, filosofi e sapienti. Tipico per questo rispetto il sincretismo  del De perenni philosophia di Agostino Steuco (1540), dal  V. menzionato tra gli autori da lui tenuti in maggior  considerazione.    I V., Seconda risposta al Giorn. dei letterati, $ 1; Opp., I, 242-8.   2 Ricordato dallo stesso V. nel Proemio.   3 GIOVANNI RossI, V. nei tempi di V.: La cosmologia vichiana,  nella Rivista filosofica, vol. X (1907),602 sgg.   4 Ficino, Argomento premesso alla sua trad. del Pimandro. LA II E LA II FASE DELLA FILOSOFIA VICHIANA Quanto alla Scienza Nuova, non parmi possibile spieGare la genesi del problema, nella forma in cui vi è proPosto, senza rifarsi da Platone, dal V. così lungamente  meditato in compagnia de’ suoi filosofi del Rinascimento,  € tenuto poi sempre per la maggior guida al vero filoSofare, quantunque la concezione filosofica incarnatasi nella  Scienza Nuova sia, com’ho accennato, diametralmente contraria ai principii del platonismo. Che altro, infatti, è la  Repubblica platonica se non una sorta di storia ideale  eterna del corso delle nazioni, dedotta in qualche modo  dalla speculazione della natura dello spirito umano; storia,  in cui campeggia una forma di Stato ideale, punto di partenza ideale e ideal punto di arrivo dei singoli periodi ciclici della perpetua vicenda del mondo, ma che anch'essa  non può, nel suo divenire, spiegarsi se non pel natural  moto dei sentimenti e delle idee umane ? Nella prima  edizione della Scienza Nuova, dove discorre della estrema  difficoltà, in cui si trova chi indaghi le prime origini ideali  dell'umanità, a ridursi in quello stato di somma ignotanza », libero dalle comuni invecchiate anticipazioni »,  in cui è pur necessario collocarsi per assistere al primo  Svegliarsi d’ogni senso d’umanità », V. dice:  Tutte  Queste dubbiezze, insieme unite, non ci possono in niun  conto porre in dubbio questa unica verità, la qual dee  esser la prima di sì fatta scienza; poiché in cotal lunga e  densa notte di tenebre quest’una sola luce barluma: che ’1  mondo delle gentili nazioni egli è stato  Pur certamente fatto dagli uomini; in  conseguenza della quale per sì fatto immenso oceano  di dubbiezze, appare questa sola picciola terra, dove si  possa fermare il piede; che i di lui principii si  debbono ritruovare dentro la natura  della nostra mente umana, e nella forza  del nostro intendere». E Platone aveva detto  che  quante sono le forme degli Stati, altrettante rischiandi essere le forme dell’anima »: cinque quelle, cinque  queste !; essendo chiaro, come dice altrove ?, che non  dal rovere e dal macigno procedono le forme politiche,  sì dai costumi dei popoli che nel loro mutare trascinan  seco tutto il resto. La differenza tra la ricerca platonica  e la vichiana è certo grandissima per la diversa concezione  da cui muovono, della storia o dell'umanità: ma, senza  dire delle analogie particolari, qui si vuole fermar l’attenzione sul loro comune carattere di speculazione ambigua  intorno alla storia, ora intesa come storia ideale, e ora  come storia empirica e cronologica.   E così nella Scienza Nuova come nella Repubblica  questa impostazione della ricerca è una superfetazione,  che deve superare chi voglia scoprire la sostanza di pensiero filosofico viva nelle due opere. La teoria delle idee  e l'etica della Repubblica infatti non ha che vedere con  le fiacche speculazioni politiche sovrappostevi dall’autore;  come le dottrine intorno al mondo dello spirito svolte dal  V. nella Scienza Nuova non hanno intrinseco legame  con la filosofia storica dei corsi e dei ricorsi. E  come il filosofo antico, in quella sua indagine della ideale  successione delle forme di reggimento politico, ritenne 3  più opportuno, perché più evidente, @c vapyfotepov, indurre dall’ indole degli Stati l’ indole degli uomini che li  creano anziché quella dedurre da questa, e cioè contemplare la natura dello spirito non in se medesima, nei suoi  eterni caratteri, ma nella sua manifestazione storica ; così  il moderno si svia dietro uno sforzo improbo di rielaborazione logica (e però incongrua) della materia storica, per  farne sprizzare quell’organismo di categorie spirituali, che  sono il proprio oggetto della sua speculazione.    I Rep.] Di qui un errore capitale della sua costruzione, che  sì ripeterà nella filosofia della storia di Hegel, e che si  può definire come quel riflesso del dualismo, per cui si  pone fuori dell’eterno il temporaneo, e si persegue pertanto il riscontro del primo nel secondo. Giacché V.  è tratto dal suo pensiero verso la storia ideale eterna, la  quale, per essere eterna, non può avere fuor di sé il  tempo, e non deve quindi né applicarsi, né verificarsi  in riscontri assurdi. L’eterno è la risoluzione del  tempo; e però realtà eterna è quella che, se essa è, non  può esser altro che essa. E se, dopo aver concepito una  realtà eterna, ne concepiamo ancora una temporanea,  egli è che noi mettiamo da parte la prima  per concepire la seconda. La violenta mescolanza che il  V., dualisticamente, è indotto a fare, sulle orme di Platone, della considerazione speculativa (sub specie aeterni)  della storia con la considerazione empirica (sub specie temdoris), ha fatto della Scienza Nuova una filosofia della  storia, laddove essa avrebbe dovuto esser nella forma, come  è nella sostanza e in ciò che costituisce il suo valore,  una filosofia dello spirito, cioè una metafisica della realtà  intesa come spirito.   E come filosofo della storia bisogna dire che V. è  stato conosciuto piuttosto largamente, anche fuori d' Italia.  Se non che, come tale, egli, salvo particolari fortunati,  come la sua celebre teoria omerica (non fortunati, per  altro, per le profonde radici che essi avevano in tutta la  speculazione vichiana) non poteva conquistare uno di quei  Primi posti, a cui egli senza dubbio ha diritto, nella storia  generale della filosofia. Il guscio, assai duro a rompersi,  celava il nocciolo prezioso.   Ma quando, intorno al 1860, la sua opera maggiore fu  riletta attentamente da un pensatore italiano espertissimo  nell’ intendimento dei più vivi pensieri attraverso i quali  si è venuta costituendo la filosofia moderna, Bertrando    Spaventa, uno dei più forti pensatori che abbia avuto  l’ Italia, poco noto anche lui fuori d’ Italia per la cagione  stessa del V., cioè per la sua intensa italianità, il guscio  fu infranto :; e dentro al filosofo della storia si cominciò  a vedere il filosofo originalissimo. Del quale un'analisi e  ricostruzione ampia e sistematica diede per primo Benedetto Croce =, mettendo in luce in modo magistrale quelle  che si possono dire le scoperte del celebre pensatore napoletano, ed eloquentemente dimostrando le ragioni dell'alta valutazione che di esso deve farsi nella storia universale.    II.    Ora, invece che l'originalità del V., io vorrei qui  brevemente rilevare la larga risonanza che hanno in Europa i pensieri fondamentali della sua filosofia nella seconda e nella terza ed ultima fase del suo svolgimento e  dimostrare così che essa non è un frutto fuor di stagione,  sì uno dei fuochi più potenti in cui si concentrò la speculazione umana nel sec. XVIII, in guisa da non pure raccogliere la più ricca eredità del passato, ma da anticipare  altresì le più valide conquiste dell’avvenire.   La filosofia vichiana, superata la sua prima fase di  preparazione e di orientamento, in cui rimane sotto l’ influsso del neoplatonismo e si sforza di conquistare il proprio  punto di vista, e affermatasi quindi nella sua autonomia, si  svolge per due principali gradi, nettamente distinti, quan  I Da vedere tra i suoi Scritti filosofici (ed. Gentile, Napoli, Morano,  1900) la prolusione Carattere e sviluppo della filosofia italiana dal sec. XVI,  sino al nostro tempo (1860), la lettera Paolottismo, positivismo, razionalismo (1868), e La Filosofia ital. nelle sue rela. con la filos. europea (1861),  lez. VI, ed. Gentile, Bari, Laterza, 1908; 2% edizione 1926.   è La filosofia di G. B. V., cit.    tunque il secondo sia evidentemente lo svolgimento del  primo. L’uno è rappresentato dall’ Orazione De nostri  temporis studiorum ratione (1708) e dal De antiquissima  (1710); l’altro dal Diritto Universale © (1720-21) e dalla  Scienza Nuova. In quello si hanno 1 lineamenti di una  filosofia kantiana insieme con taluni dei motivi fondamentali della filosofia, da cui Kant prese le mosse; in questo  sono affermati i principii stessi della filosofia postkantiana,  cioè dell’ idealismo tedesco. Dall’uno all’altro c’ è infatti  un passaggio analogo a quello per cui l’idealismo soggettivo della Critica della ragion pura = diventa in Hegel  un idealismo assoluto.   Come nella filosofia kantiana confluiscono la metafisica  del razionalismo leibniziano e lo scetticismo dell’empirismo inglese, così nella prima filosofia vichiana il principio kantiano della sintesi costruttiva del sapere umano  si presenta come l’accordo di uno scetticismo che ha molti  punti di contatto con quello, posteriore di trent'anni, di  David Hume, e di una metafisica che ha strane somiglianze con quella di Leibniz, da cui è storicamente indipendente.   V. infatti segue questi stessi indirizzi, in cui sì  moveva da una parte l’empirismo inglese e dall'altra il  razionalismo francese e tedesco; ma stringendoli insieme,  e riuscendo perciò a cavarne conseguenze che precorrono  di almeno sessant’anni le più profonde vedute del criticismo. |   Egli scorge con Bacone, e più acutamente, il valore  dell'esperimento, onde il fisico sa della natura quel che    n   E _    I Come si suole designare, sull'esempio dell’autore, il suo trattato  De universi iuris uno principio et fine uno (1720), compiuto l’anno  dopo con un secondo libro: De constantia îurisprudentis.   è Il primo a notare il riscontro della dottrina gnoseologica del De  antiquissima col criticismo kantiano fu F. H. JacoBr nel 1811 nel suo  scritto Von den gottlichen Dingen u. ihrer Offenbarung (Werke.] riesce a rifarne (utpote 1d pro vero in natura habeamus,  cuius quid simile per experimenta facimus) :: restando  negli stessi limiti della dottrina baconiana che, ferma nel  supposto empirista della opposizione della natura allo  spirito, non può riconoscere all’attività di questo una  produttività reale: sicché l’esperimento riesce non a  far la natura, ma soltanto a rifarla, oa farne un  quid simile.   La teoria vichiana dell'esperimento, del pari che in  Bacone e in Galileo, presuppone la teoria dell’esperienza  sensibile come solo mezzo di conoscenza diretta della realtà  naturale. Ma, con più coerenza di Galileo, V. si sottrae alla illusione dell’oggettività della geometria o della  matematicità della natura, e combatte il metodo geometrico di Cartesio e dei cartesiani, e in generale la concezione razionalistica del reale con un nominalismo empirico, che è scala allo storicismo della sua seconda filosofia.  E viene perciò ad incontrarsi con Hume, che separerà la  conoscenza della natura dalla conoscenza matematica, contrapponendole l'una all’altra in quanto l’una ha per oggetto verità di fatto e l’altra mere relazioni ideali; e assegnando quindi alla prima un compito, che non si potrebbe  ragionevolmente ascrivere alla seconda, quantunque neppure alla prima riesca di assolverlo: la scoperta della  causa, non quale antecedente empirico dell'effetto, ma  quale potere o forza produttiva, per cui solo è possibile,    I De antiq., concl. Cfr. cap. II, p. 144-5:  Genus humanum innumeris novis veris ditarunt ignis et machina, istrumenta, quibus utitur  recens physica, rerum, quae sint similes peculiarium naturae operum,  operatrix », e Vici Vindiciae (in Opere*, ed. Ferrari, IV, 309):  Utinam philosophiae opera daretur cum Verulamii Organo, ut quod philosophi meditarentur, id ii verum esse experimentis ipsis demonstrarent.... Nam, si ita physicae incumberetur, non solum non pluris fierent a Socrate sutores quam sophistae, cum illi tamen aliquod faciant  opus humano generi utile, hi vero nullum omnino; sed in eo sane Deo  Opt. Max. quodammodo similes fierent, cuius intelligentia et  opus unum idemque sunt».  LA II E LA III FASE DELLA FILOSOFIA VICHIANA secondo che nota Hume, concepire il rapporto causale come  connessione necessaria. La ragione per la quale Hume  nega alla matematica la facoltà di conferire alla fisica il  carattere necessario proprio di essa come scienza razionale e a priori, coincide con quella del V.: ed è l'assoluta  opposizione della mente alla natura, il cui processo è un  processo interno, diverso e remoto da quello della mente,  che nell’esperienza può seguire soltanto le semplici apparenze sensibili nel loro contingente succedersi.   La realtà, in questa seconda forma della filosofia vichiana, è esterna alla mente. E però V. si schiera contro  la Scolastica e la logica del sillogismo, e contro l’ innatismo e l’astrattismo razionalistico di Cartesio. Condanna  Aristotele, che metaphysicam recta in physicam intult ;  quare de rebus physicis metaphysico genere disserit. per  virtutes et facultates »; convinto che  naturae iam exstantis phaenomena non virtute et potestate explicare par est»,  e vedendo con soddisfazione che tam meliorum virtute  Pphysicorum illud disserendi genus per studia et averstonesnaturae, per arcana eiusdem constlia, quas qualitates occultas vocani, tam,  inquam, sunt e physicis scholis eliminata » *. Loda il Descartes ?,  che volle il proprio sentimento regola del vero;  perché era servitù troppo vile star tutto sopra l'autorità »;  e  volle l’ordine nel pensare; perché già sì pensava troppo  disordinatamente con quelli tanti e tanto sciolti tra loro  obiicies primo, obiicies secundo ». Sta con Bacone contro  Il sillogismo e quella deduzione analitica del Descartes,  che egli paragona al sorite stoico, e combatte con la  tenacia stessa e gli stessi motivi con cui contro la logica  di Crisippo stettero in campo nell’antichità gli Accademici 1 De antig., c. IV, $$ 2 e 3: Opp., I, 158, 161: cfr. Sec. risp., $ IV:  Opere, I, 261-63. Cfr.83-85.  2 Sec. risp., in Opere, I, 274-5.    (al V. familiari per le Accademiche di Cicerone, da lui  espressamente citate, e per le [fotipost di Sesto Empirico,  che deve pure avere studiate, se non altro, attraverso  l’ Examen vanitatis doctrinae gentium et veritatis Christianae  disciplinae di Giovan Francesco Pico della Mirandola) *.    DI    Il metodo deduttivo anche per V. è sterile: presuppone la scienza, non la costituisce: non tam utilis est ut  nova inveniamus, quam ut ordine disponamus inventa.  Così egli paragona i fisici contemporanei, tutti soddisfatti  della loro fisica razionale, chiusa in un sistema statico di  idee ben ordinate, ma senza alcun rapporto vivo con l’esperienza mutevole, a coloro, quibus aedes a parentibus relictae sunt, ubi nihil ad magnificentiam et usum desideretur, ut iis tantum amplam supellectilem mutare loco,  aut aliquo tenui opere ad seculi morem exornare relinquatur ». Costoro, nota V. profondamente, scambiano  la natura con la loro fisica (pongono infatti le loro idee  chiare e distinte come la stessa realtà, o verità, da cono  1 Per Cicerone v. la Sec. rîisp., $ IV, p. 272 (dove appunto si riferisce ad Acad., II, 16, 49). Per Sesto cfr. De antiq., Il, p. 146 (argomento degli aequivoca) con Hyp. Pirr. II, 23; De antig., I, 3 (dottrina  dei segni) con H. P., II, 10. Per la critica del sillogismo e del sorite  v. De nostri temp., VI, in Opere, I, 89-90, De antig., VII, 5 (Opere, I,  183-4) e Scienza Nuova?, ed. Nicolini,358-9; e non occorre ricordare  la famosa e perentoria critica del sillogismo di Sesto, H. P., II, 14.  Pel Pico v. per ora F. STROWSKI, Montaigne (nella Collezione dei Grands  philosophes), Paris, Alcan, 1906,125-30. Un primo accenno allo  scetticismo accademico prevalso in questa seconda fase della filosofia  vichiana si può scorgere in questo luogo della Orazione III (1701),  in Opere, I, 36:  Te iactas, philosophe, principia rerum et caussas assecutum. In quo te iactas ? in quo animos effers, ubi adversae sectae  alius te putat errare ? Addiscamus igitur verum studiorum usum; et  sciamus, vetitam primi parentis curiositatem in nobis esse vera rerum  cognitione mulctatam. Hoc disciplinae doctos a vulgo distinguat. Utrique nesciunt: sed vulgus se scire putat, eruditus ignorare se noscit.  Ita sapiens in omnibus verat; si omnia cum illa exceptione affirmet:  ‘ Aio, ni rectius, aut verisimilius obstet’. Ita nunquam falletur, nec  unquam fallet; ita nunquam ullam stultorum profert vocem: ‘ Aliter  putabam ’ ». Cfr. il De mostri temporis, in Opere, I, 83:  Academici  antiqui, Socratem secuti, qui nihil se scire, practerquam nescire affirmabat, abundantes et ornatissimi ».    scere); sicché sarebbero quasi da ringraziare perché con  la loro scienza ci tolgono l’ incomodo di più oltre studiare  la natura: nos tanto negotio naturae ultra contemplandae  liberarunt ®. Che è la più efficace critica che possa farsi  del vecchio apriorismo in nome dei diritti dell'esperienza.   L’empirismo, come ho accennato, trae V. alle.  sue conseguenze nominalistiche, dov’ è il fondamento ultimo della critica del razionalismo astratto. Combatte infatti nel De nostri temporis l'applicazione del sorite (metodo deduttivo) alla medicina, avvertendo che nella deduzione non si procede da una verità antica a una verità  nuova, ma si rende esplicito l’ implicito, cioè si rimane  nel vero già posseduto.  Afqui morbi semper novi sunt et  alri, ut semper alia sunt aegrotantes. Neque enim ego idem  nunc sum, qui modo fui, dum aegrotantes proloquerer:  innumera namque temporis momenta tam actatis meae  praeterieruni, et innumeri motus, quibus ad summum diem  impellor, tam facti sunt». E nel De antiquissima poco  dopo dirà: ‘ Rectum’ et ‘idem’ res metaphysicae sunt.  Idem ipse mihi videor; sed perenni accessu et decessu  rerun, quae me intrani, a me exeunt, quoquo temporis  momento sum alius». E ancora: Haec est vita rerum,  fluminis nempe instar, quod idem videtur, et semper alia  atque alia aqua proflut » 2.    I De mostri temp., $ IV.  ? De nostri temp., c. VI e De antigq., c. 1V, $$ 4-5; in Opere, I, 102,  164. Cfr. per la VI Orazione qui sopra86-87. V. così fa sua la  dottrina, che PLATONE (Teeteto 154 A) combatteva, o meglio dalla  quale egli, che moveva dall’eraclitismo, cercava liberarsi. E prima del  V. l'aveva fatta sua in Italia Tommaso Campanella, a cui V. qui  sì rannoda. Basta leggerne questo curioso brano che ha così vivo sapore  di modernità:  Però gran stoltizia è credere, che la scienza consista nel  sapere gli universali: che saprò io, se intendo che Pietro è uomo animale  razionale, mentre non intendo le sue qualità e proprietà minutamente ?  Vero è che, essendo impossibile cognoscere tutti gl’ individui, per mancamento fu bisogno imparare le scienze in universali e in confuso; ma  Dio sa le minutissime particolarità d’ogni cosa; e questa è vera, certa  sapienza. Ma la medicina per il bisogno si avvisa, che non basta sapere [Così nel De studiorum ratione conclude che la definizione del concetto generico non coglie quel che vi è di  proprio nei singoli casi; e però miglior partito sarà guardare al concreto (ut particularia consectemur), e attenersi  alla induzione.    Che febra è questa, ma quando, come assale, e la complessione dell’ infermo particolare, e del morbo, e del medicamento; non in communi,  cioè del reubarbaro, ma di questo reubarbaro, che se ha da dare sino  alla tale ora »: Del senso delle cose, ed. Bruers, II, 22 (Bari, Laterza,  1925, p. 106). Cfr. CAMPANELLA, Metaph., V, 2, a. 2: Itaque principia scientiarum sunt nobis historiae »; e in proposito, RITTER, Gesch.  d. Phil., X, p. 26. BACONE, letto e ammirato da V., dei difetti della  medicina del suo tempo aveva detto nel De augm. scient., IV, 2, (ed.  Ellis-Spedding?, I, 590):  Solent autem homines naturam tanquam  ex praealta turri et a longe despicere, et circa generalia nimium occupari; quando si descendere placuerit, et ad particularia accedere, resque  ipsas attentius et diligentius inspicere, magis vera et utilis fieret comprehensio. Itaque huius incommodi remedium non in eo solum est,  ut organum ipsum vel acuant vel roborent, sed simul ut ad objectum  propius accedant. Ideoque dubitandum non est quin si medici, missis  paulisper istis generalibus, naturae obviam ire vellent, compotes ejus  fierent, de quo ait poéta [Ovid., Rem. am. 525]:    Et quoniam variant morbi, variabimus artes;  Mille mali species, mille salutis erunt ».    E tra i desiderata per i progressi della medicina aveva osservato  (ivi, I,591-2):  Primum est, intermissio diligentiae illius Hippocratis, utilis admodum et accuratae, cui moris erat narrativam componere casuum circa aegrotos specialium; referendo qualis fuisset morbi  natura, qualis medicatio, qualis eventus. Atque hujus rei nactis nobis  jam exemplum tam proprium atque insigne, in eo scilicet viro qui  tanquam parens artis habitus est, minime opus erit exemplum aliquod  forinsecum ab alienis artibus petere; veluti a prudentia jurisconsultorum, quibus nihil antiquius quam illustriores casus et novas decisiones  scriptis mandare, quo melius se ad futuros casus muniant et instruant ».   Ma più degno di considerazione, per le sue probabili relazioni col  pensiero del V. è forse un brano della Dissertatio logica (1681) del  medico napoletano Luca ANTONIO Porzio  ultimo filosofo italiano della  scuola di Galileo » (come lo chiama V. nell’Autob., p. 37, ricordando la stretta amicizia e gli spessi ragionamenti avuti con lui). In questo brano, dopo aver accennata la dottrina platonica e cartesiana delle idee innate, è detto:  Coeterum  licet haec majori ex parte verissima censeri possint; homini tamen, ut  satis excultus animo sit, non sufficere existimo, universalia et communia  scientiarum principia. Oportet enim non raro ad particularia descendere, et singularem alicujus rei nobis scientiam comparare. Quod non  fit nisi assumpto etiam peculiari et proprio aliquo quaesitae rei principio. Sed non inficiabor, ingenium excolendi et exercendi gratia, posse    Qual'è, si domanda altrove :, la causa del gran discredito in cui è caduta oggi la fisica aristotelica ? È troppo  universale, laddove gli esperimenti della fisica moderna  riproducono fenomeni peculiari determinati. Così nella  giurisprudenza l’arte non consiste nel possedere summum  et generale regularum, ma nel vedere le circostanze prossime, alle quali non sempre si possono applicare le disposizioni generali della legge. Ottimi oratori non sono quelli  che discorrono per luoghi comuni, ma quelli che, per  dirla con Cicerone, haerent in propriis. Né gli storici possono contentarsi di narrare i fatti all’ ingrosso, assegnandone cause generiche. Né la sapienza della vita si giova  di massime astratte, poiché il sapiente dev’esser tale  Caso per caso, e non affidarsi ai sistemi, come fanno 1 dottrinari (fhematici), poiché la realtà è sempre nuova: e  nova, mira, inopinata universalibus illis generibus non  providentur. Così, nel discorso, ogni parola conviene sia  propria e adatta a ciò che a volta a volta si vuol dire;    nos arbitratu nostro quaecumque velimus determinare, et cuiuscunque  speculationis, quod lubet statuere principium, atque inde quaenam  investigare. Quod si ea quae inveniuntur, consona fuerint tum ei, quod  sumpsimus, hypothesi scilicet prius factae, tum scientiarum dignitatibus, hoc est propositionibus per se notis, et communibus hominum  Opinionibus, tunc affirmare poterimus, recte nos fuisse speculatus. Si  quid vero consequatur, quod vel repugnet axiomati alicui, vel sit contra  hypothesim, tunc certi esse possumus de fallacia aliqua nostrarum cogitationum.... Quamobrem si non idcirco philosophamur, ut ingenium  tantummodo exerceamus, verum etiam ut speculationum et inventionum nostrarum aliquis sit usus, deducendae illae sunt tum ab universalibus scientiarum principiis et communibus hominum opinionibus,  tum ex peculiari non ficto principio, non ficta hypothesi; sed quae sit  secundum rei naturam, quam indagandam suscepimus. Atque ideo meo  quidem iudicio summe custodienda atque promovenda est rerum omnium  historia sive civilium sive bellicarum, sive physicarum sive aliarum,  quarumcunque rerum, utcunque observatarum. Etenim cum vel ipsa  natura universalia non edoceat, observatarum rerum historia particularia nobis praebet principia unicuique scientiae propria, quibus adjuti  pleraque, quae nobis occulta erant, dignoscere valeamus »: Opera omnia  medica, philosophica et mathematica, Neapoli, Mosca, MDCCXXXVI,  t. 1,379-80.  1 De antiq., c. II, in Opere, I, 144.    giacché loqui universalibus verbis infantium est aut barbarorum.   Ed ecco spuntare una dottrina, che avrà un grande valore nella terza forma della filosofia vichiana: la dottrina  del certo.    IIIl    Il certo nel pensiero del V. è il determinato, il  positivo, l’effettuale o il concreto, fuori del quale non v’ ha  realtà, ma astrazione: dottrina, che si collega da una  parte con la teoria dell’ induzione e dall’altra con quella  della percezione. In molti luoghi del De nostri temporis studiorum ratione e del De antiquissima Italorum  sapientia, nonché della polemica a cui questo libro diede  luogo, V. raccomanda l’ induzione baconiana, come  l'organo proprio della scienza, che vuol costruire il vero  sulla base del certo 1. Ma in un paragrafo del De antiquissima ?, svolge una teoria della conoscenza che va  assai più in là di Bacone.   Attribuisce alla mente tre operazioni: percezione,  giudizio e raziocinio ; donde provengono le tre  arti della to pica, o arte di trovare, della critica,  o arte di giudicare, e del metodo,o arte di ordinare  razionalmente le materie: ma fondamentali sono la topica  e la critica, ossia le funzioni del percepire e del giudicare.  E tra le due quella che costituisce ed estende il dominio  del sapere, la propria sciendi facultas, è la funzione del  percepire, che V. ama chiamare ingegno?3: che  è qualche cosa di analogo, ma anche qualche cosa di supe  I E il concetto ritorna nella Scienza Nuova*, ed. Nic.,358-9.   2? Cap. VII, $ 5.   3 Oltre il De antig., vedi le Vicî vindiciae, Nota q, in Opere, ed.  Ferrari, IV, 309.    riore alla esperienza o intuizione sensibile di Kant. Alla  celebre proposizione di questo, che l’ intuizione è cieca  senza il concetto, e il concetto vuoto senza l’ intuizione,  11 V. prelude nel suo linguaggio dicendo:  Neque inventio sine tudicio, neque tudicium sine inventione certum  esse potest ». E il gi udizio vichiano è proprio quello  che è il concetto puro kantiano, se fuso con l’invenzione o percezione: laddove si muta in un’ idea  a priori, in una prolessi dommatica a mo’ degli stoici,  o in un' idea innata a mo’ di Cartesio, se diviso dalla percezione. La quale, come operazione propria dell’ ingegno,  non è soltanto l’ intuizione del dato (come l’ intuizione di  Kant), ma ogni intuizione del certo, ossia del nuovo, del  proprio o singolo, del reale, onde si estende la sfera del  conoscere, e però propriamente si sa. Di guisa che l’ ingegno è la forza dello scopritore di regioni per l’ innanzi  inesplorate nel dominio della natura, ma è anche la forza  del poeta nella sua originale creazione, e dello scienziato  che scopre rapporti ideali non più veduti: onde la dottrina  vichiana dell’ ingegno supera il concetto dell’ intuizione  kantiana, e accenna alla dottrina del genio dei romantici tedeschi. La percezione è insomma non tanto la esperienza passiva di Kant, base alla funzione attiva dello  Spirito, quanto la stessa pura attività mentale, creatrice  e costruttiva, con cui non si rielabora un contenuto già acquisito, ma si acquista o si pone il contenuto stesso; e  non si rimane perciò nel già noto, ma si procede di là  dal suoi confini: non analytica via, sed sinthetica, per  usare le stesse parole del V., che anticipa con esse la  famosa distinzione della Critica della ragion pura.    Academici toti în arte inveniendi, în illa iudicandi toti  Stoici fuerunt: utrique prave »: e gli Accademici erano per  V. i filosofi che non avevano costruito con la ragione  sull'esperienza, ma s’eran limitati a raccogliere le apparenze sensibili e i dati di fatto, senza né pur giudicarli per affermarli o negarli; i puri empirici, insomma; laddove gli Stoici, contro cui gli Accademici avevan battagliato, s'erano sbizzarriti a dommatizzare con la loro presunta scienza naturale della natura; cioè i razionalisti.  Correggere perciò gli opposti difetti degli uni e degli  altri vuol essere pel V. lo stesso programma annunziato  nelle prime parole della Critica di Kant:  Non c’ è dubbio che ogni nostra conoscenza comincia con l’esperienza.... ma non per questo tutta la nostra conoscenza  deriva dalla esperienza »: il superamento e la conciliazione del pretto empirismo e della metafisica razionalistica.   Ma, come Kant na tuttavia una manifesta propensione  per gli empiristi contro i metafisici, si direbbe pure che il  V. abbia una particolar simpatia per i suoi Accademici.  Egli serba tutti i suoi strali per gli Stoici (leggi Cartesio '*), come Kant intitola Critica della ragion pura la sua  opera, che avrebbe pur potuto capovolgere e intitolare   Critica della pura esperienza ». Per questa simpatia verso  gli Accademici V. accentua da una parte lo scetticismo della sua tesi empirica, e, risentendo, assai più che  tra qualche decennio David Hume, anch'egli, com’ è noto,  tornato ad ispirarsi alla filosofia accademica ?, il motivo  umanistico-socratico di questa, s’apre la via dallo scetticismo del De antiquissima alla filosofia positiva della  Scienza Nuova.   Al dommatismo cartesiano, che, agli occhi del V.,  rinnovava quello degli Stoici, egli contrappose il pro b a bilismo di Carneade 3, salvandone, come Hume, le  matematiche. Le quali sono scienze del vero; ma di un   I .... Stoicis, quibus recentiores respondere videntur »: De nostri  temp. in Opere, I, 97; Cfr. De antiquissima, ivi,138-9.   2? Hume, An enquiry concerning human understanding, sect. V, part.  I in princ., e sect. XII.   3 Cfr. la critica di Descartes nel De antig., I, 3 e la Sec. risp., in  Opere. Vero senza certezza; come il certo del probabile è senza  verità. Lo stesso cogîto cartesiano agli occhi del V. diventa quel che è agli occhi di ogni empirista e di ogni  scettico: un fatto, un certo, com’egli dice; un probabile,  come avrebbero detto gli Accademici: qualche cosa che  è oggetto di coscienza, non di scienza; quindi  privo della certezza, nel senso cartesiano di esclusione del  dubbio. L’essere dell’ I o che pensa, per esser vero, e non  semplicemente probabile, dovrebbe potersi dimostrare come  l'eguaglianza degli angoli di un triangolo a due retti.   Ma in che consiste la dimostrazione del matematico?  o, in altri termini, in che consiste la verità del suo sapere ?  Se la scienza della natura è offuscata dall’ ignoranza ineliminabile dell’ intimo processo della natura, onde la causalità cessa di essere una connessione necessaria, e uno  schema d'’ intelligibilità sistematica dei fatti naturali, nella  matematica ci dev'essere quel che manca alla fisica: la  conoscenza del processo per cui si generano i numeri e le  figure (che son la realtà del matematico); e come quel  processo pei fatti naturali è inattingibile, perché la natura  è una realtà opposta allo spirito che la conosce, così il  processo generatore della realtà matematica dovrà, per  essere conoscibile, coincidere col processo conoscitivo;  e la causazione essere la stessa conoscenza. Di qui la or:  mula vichiana: verum et factum convertuntur.   A questo concetto della matematica in opposizione al  concetto della fisica, che del resto serpeggiava, ancora  immaturo, in Galileo e nella sua scuola, V. fu spinto  e dallo studio dei Neoplatonici (poiché nel Ficino egli  aveva letto qualche cosa di simile) 1, e dal confluire nel  suo spirito della nuova gnoseologia delle matematiche,  dell’empirismo della sua scepsi accademizzante e dei vecchi concetti platonici e scolastici intorno al rapporto di      ! Cfr. la dimostrazione precedente,30 sgg. e più avanti139588. Dio col mondo. Posto il carattere di verità delle matematiche, riconosciuto da tutta la filosofia, dal Rinascimento  in poi; posto lo scetticismo come negazione della conoscenza causale della natura come realtà estramentale;  posta la naturaco me realizzazione del pensiero divino  (quale la concepiscono tutti gli scolastici e quei neoplatonici, a cui V. amava rannodarsi); il dommatismo  matematico doveva apparire il rovescio del ricamo dello  scetticismo fisico. E così V. fu condotto a scoprire  il suo grande principio del verum factum, per cui la scienza  è solo di ciò che si fa: che è lo stesso concetto con cui  Kant doveva, molto più tardi, giustificare il valore della  scienza, quale cognizione, non di un oggetto che si porga  bello e costituito alla mente umana, anzi di un oggetto  costruito appunto dall’atto stesso del conoscere.   La scienza, rispetto alla quale sorge nel De antiquissima la nuova gnoseologia vichiana, è bensì una scienza  puramente formale: piena di verità, ma vuota di certezza.  Vuota di certezza, perché la realtà pel V., nel De antiquissima, resta la natura (l’opera di Dio): la natura stessa  degli empiristi, ma neoplatonicamente o (che, qui, è lo  stesso) spinozisticamente considerata, cioè superata: non  però nel monismo meccanico del filosofo di Amsterdam,  sì in una specie di pluralismo dinamico, che richiama  quello di Leibniz.   Come Spinoza, V. pone una natura estesa irriducibile al pensiero: ma, pel suo scetticismo, supera Spinoza,  come lo supera Hume; giacché non iscambia la causalità  razionale (che è l’intelligibilità della matematica, o della  verità senza certezza) con la causalità reale della natura,  e tiene ben distinto l’ordine delle verità di fatto dall’ordine delle verità di ragione. Spinoza risolve la sua natura  corporea o la molteplicità infinita dei modi dell'estensione  nell’unità della sostanza estesa, la quale nella sua unità è  la negazione del corpo e del moto; ma la sostanza per LA II E LA III FASE DELLA FILOSOFIA VICHIANA Spinoza non si sveste mai né può svestirsi dell’estensione,  che è attributo irriducibile ad altri attributi. Per V.,  invece, come per Leibniz, l’esteso ha il suo principio nello  inesteso, talché la sostanza degli stessi modi corporei è  inestesa 1. Né il movimento si risolve nel meccanismo dell’ impulso che un corpo esercita sopra un altro corpo, come  nel determinismo spinoziano; bensì nel conato stesso  della sostanza, che è a base del corpo. L'’inesteso è il  punto metafisico, che nella metafisica vichiana ora par  molti, ora uno, con un'esitazione che non è in  Leibniz, ma che può dimostrare una vista più acuta  di quella di Leibniz: perché la molteplicità è uno dei caratteri fantastici della monade leibniziana, la quale, come  principio del composto, ossia del molteplice, dovrebb'essere esclusione assoluta della molteplicità.   La scienza del punto metafisico viene ad essere pel  V. una sorta di geometria del divino, per la quale non  si penetrerà già nell’attualità o nel certo della natura  (oggetto della fisica), destinato a rimanere un libro chiuso  con sette suggelli; al punto che, se Dio volesse insegnarci  egli stesso come l’ infinito (la sostanza) sia sceso in questi  finiti (i modi), noi non potremmo, dice risolutamente il  V., comprenderlo: perché cotesta è propria scienza di  Dio, che fa dell’ infinito il finito. Si ricordi la dotta ignoranza, o cognizione negativa del Cusano, che V.  non pare abbia conosciuto, ma alle cui fonti dirette o  indirette s'’abbeverò anche lui. Senza trascendere tuttavia  la sfera della conoscenza formale concessa all'uomo, una  metafisica è possibile in un senso analogo a quello per  cui Kant può, senza sconfinare dai limiti segnati dalla    t In mundo, quem Deus condidit, est quaedam individua virtus  extensionis, quae, quia individua est, iniquis exstensis ex aequo sternitur » (De antig., IV, 2; Opp., I, 156). Per le relazioni di questa  dottrina con quelle affini di Bruno, di Spinoza e di Hegel, v. B. SPAVENTA, Saggi di critica, Napoli, Ghio.] Critica, indagare i Principii metafisici della scienza della  natura; una metafisica che, conforme allo spirito d’umile  agnosticismo della religione 1, stia nei termini della geometria 2; e sia una geometria che renda pensabili i dati  dell'esperienza, procurando di spiegare il mondo che è  fuori della mente con quello che è dentro di essa, come  pure avran pensato di fare i Pitagorici 3, quando dei numeri fecero il principio di tutte le cose. La fisica infatti  ci dà corpi e moto. Ora, pensare quelli e questo non è  possibile senza trascenderli: ché l’essenza del corpo,  ciò che noi pensiamo dicendo corpo, non è niente  di esteso e divisibile, come i corpi, bensì un che d'’ inesteso e indivisibile. Né l’essenza del movimento si muove;  e dev'essere perciò posta di là dal moto. Ma, se il corpo  realizza la propria essenza, questo è un inesteso che si  estende; e se il moto realizza la sua essenza, questa non  è neppure l’assoluta quiete, ma il principio del movimento in fieri. L’inesteso, essenza dell’esteso, è il  punto, concuiinfatti la geometria costruisce le linee, le  figure e, in generale, l’esteso; e se l’esteso si muove, il  suo principio sarà principio di movimento, oltre che di  estensione: conato. Il punto metafisico (che è lo  stesso concetto del punto geometrico, non come definizione nominale, ma reale) e il conato sono i due concetti  che, secondo V., rendono intelligibile la fisica quale  apparisce alla mente umana.   Ma la metafisica non può andar oltre, e dire come e  perché la sostanza inestesa, unica, infinita col suo sforzo    IChristianae fidei commoda m»: De antig., concl.   2  Et ea ratione geometria a metaphysica suum verum accipit, et  acceptum in ipsam metaphysicam refundit »: De antig., IV, 2, in Opere Nec.... cum de naturae rebus per numeros disseruerunt, naturam  vere ex numeris constare arbitrati sunt: sed mundum, extra quem  essent, explicare per mundum, quem intra se continerent, studuerunt »:  O. c., in Opere.] si estenda, si moltiplichi, si determini, si muova e dia  luogo alla natura. La quale è opera di Dio, e perciò è  conosciuta soltanto da lui. Pure quel semplice sguardo  negativo gettato dentro al segreto della natura basta a  farci apparire tutta la meccanica del determinismo una  apparenza seco stessa contradittoria. Come Leibniz, V.  non sa più concepire quiete assoluta, né comunicazione  di movimento. Accetta da Malebranche l’occasionalismo 1,  e con lui ascrive a Dio ogni attività:  Lo sforzo dell’universo, che sostiene ogni piccolissimo corpicciuolo,... non  è né l’estensione del corpicciuolo, né l’estensione dell'universo. Questa è la mente di Dio, pura d'ogni corpolenza, che agita e muove il tutto » 2. E quel che Dio è  al corpi, è anche alle menti, in cui V., traendo audacemente alla massima coerenza l’ intuizione neoplatonica  del Malebranche 3, non ammette se non quello che vi  pensa Dio, omnium motuum, sive corporum sive animorum, primus auctor.   Sicché il dinamismo vichiano del De antiquissima rispecchia quella critica interna del meccanismo cartesiano che, attraverso Geulincx e Malebranche, perviene  in Leibniz al superamento della fisica come scienza dei  fenomeni (dei corpi formati, come dice V.)  nella speculazione dei punti metafisici, che caratterizza,  come tutti sanno, la prima fase della filosofia leibniziana;  ma non raggiunge il concetto della monade. Giacché,  per quanto si sforzi V. d’ introdurre e affermare nella  sua stessa intuizione emanatistica il concetto della libertà  dello spirito (che è la nota più profonda della monade),    I Dunque la percossa non serve ad altro che di occasione che lo  sforzo dell’universo, il quale era sì debole nella palla, che sembrava  star queta, alla percossa si spieghi più, e, più spiegandosi, ci dia apparenza di più sensibile moto »: Sec. risposta, in Opere, I, 265.   * Prima risp., $ III, Opere, I, 218.   3 Cfr. De antiq., cap. VI.  questo concetto rimane affatto estraneo al suo pensiero;  e il suo punto metafisico, come conato, ondeggia sempre  tra il concetto dell’unica mente di Dio (che è il solo centro  reale di questo mondo) e il concetto dei molti centri individuali di forza.    IV.    Ma il concetto della spiritualità e della libertà del reale  nello sviluppo ulteriore del pensiero vichiano fu affermato  ben più validamente che nella monadologia leibniziana.  Lo sguardo gettato sulla metafisica della natura, nel suo  significato negativo, è una tappa nella speculazione del  V.. Tappa, in cui V. si è sbarazzato del meccanismo, e si è raffermato nella sua intuizione giovanile dell’ immanenza di Dio nel reale, e quindi nella mente umana.  Della quale intanto aveva scoperta la legge intrinseca:  che è quella di creare il mondo che è suo, e non poter  penetrare nella costituzione di un mondo derivante da  un principio diverso.   Questa scoperta, a cui la meditazione dell’antico scetticismo lo aveva condotto, era suscettibile di un grandioso  ampliamento, pur che V. avesse volto l'animo a un  altro importante suggerimento implicito in uno dei motivi  principali dello scetticismo accademico: voglio dire nel concetto socratico della conversione della ricerca speculativa  dalle cose naturali o divine alle umane: concetto centrale  nella filosofia accademica, considerata perciò da taluno  de’ suoi seguaci e de’ suoi storici quasi un ritorno al punto  di partenza originario della filosofia platonica, a Socrate.   Ora dall’ Orazione De mostri temporis studiorum ratione: come dalla Seconda risposta al Giornale de’ letterati* si vede chiaramente quanto ben disposto fosse  l'animo del V. ad accogliere quel suggerimento e a fecondarlo dentro di sé, già fin dal tempo della sua metafisica negativa. Nel primo scritto infatti lamenta, come  grave danno arrecato dal metodo dommatico e scientifico  prevalente nella cultura contemporanea, quel chiudersi  negli studi delle scienze naturali, considerando la natura  solo oggetto possibile di scienza, cioè di cognizione universale e necessaria, e trascurare ogni dottrina morale  perché hominum natura est ab arbitrio incertissima. Certamente, il metodo aprioristico della scienza fallisce nelle  cose umane, dove il variare delle occasioni e la scelta  generano l’ imprevedibile. Ma il senno pratico (frudentia civilis vitae) non si giova della ricerca del vero  (dell’astratto), né i fatti umani possono valutarsi ex ista  mentis regula, quae rigida est; anzi debbono misurarsi  con quella flessibile regola lesbia, che non adatta a sé i  corpi, ma essa si adatta ai corpi; con una specie pertanto  di cognizione, che non guardi alle vette della scienza, sì  alle infime particolarità delle cose individuali, e segua la  realtà (il certo) in tutti i suoi mutevoli accidenti  mercé il senso comune, che, in luogo del vero, si contenta  e si giova del verisimile. E nello scritto polemico,  contro il matematicismo cartesiano V. asserisce che  la repubblica delle lettere fu così da prima fondata,  che 1 filosofi si contentassero del probabile, esi  lasciasse a’ matematici trattare il vero. Mentre si conservaron questi ordini al mondo, del quale avem notizia,  diede la Grecia tutti i principii delle scienze e delle arti,  e quei felicissimi secoli furono ricchi di inimitabili repubbliche, imprese, lavori e detti e fatti grandi; e godé l’umana  società, da’ greci incivilita, tutti i commodi e tutti 1 piaceri della vita sopra de’ barbari. Sorse la setta stoica,    I $ IV. Questa Sec. risp. è del 1712.    e, ambiziosa, volle confonder gli ordini, e occupar il luogo  de’ matematici con quel fastoso placito: Sapientem nihil  opinari; e la repubblica non fruttò alcuna cosa migliore ».  Dove chi abbia qualche notizia della dottrina di Carneade non può non riconoscere il suo probabilismo  in servizio della gpévnotc, che è la stessa prudenza vichiana; come non è possibile disconoscere la parentela  della critica vichiana della morale stoica e giansenista !  con la polemica anticrisippea di Carneade.   Per V., dunque, come per Carneade e per tutta la  tradizione accademica, l’ ideale del filosofo tornò ad essere  Socrate, che anche lui parve primus a rebus occultis et  ab ipsa natura involutis, in quibus omnes ante eum philosophi occupati fuerunt, avocavisse philosophiam et ad  vitam communem adduxisse, ut de virtutibus et vitiis, omninoque de bonis rebus et malis quaereret »*. Socrate, che   sconsigliava dallo speculare sulle cose celesti e sul come  la divinità produca ciascuno di quei fenomeni » per non  dare in vaneggiamenti non meno assurdi di quelli in  cui era venuto Anassagora; quell’Anassagora, che si era  dato così gran vanto di sapere spiegare gli artifizi messi  in opera dagli dei » 3. Socrate, che, tutto raccolto per la  parte sua nello studio dell’uomo,  domandava se, a quella  guisa che gli studiosi delle cose umane si credono in grado  di effettuare.... quello che avranno imparato, così parimente gli indagatori delle cose divine credono, scoperte  che abbiano le cause di ciascun fenomeno, di poterlo produrre quando vogliano, e formare, a un bisogno, i venti,  le pioggie, le stagioni e ogni altra cosa di simil genere » 4.  Parole, di cui par di sentire un'eco lontana in quelle con  cui V. enuncia insieme ed illustra la sua più matura    I CROCE, 0. C.,97-8; e cfr. qui appresso, p. 143 Sgg.  ? CIcER., Ac., I, 15.   3 SENOFONTE, Memor., IV, 7, 6 (tr. Bertini).   40. c., I. 1, 15. LA Il E LA III FASE DELLA FILOSOFIA VICHIANA concezione del problema della scienza:  Questo mondo civile egli certamente è stato fatto dagli uomini, onde se ne  possono, perché se ne debbono, ritruovare i principii dentro le modificazioni della nostra medesima mente umana.  Lo che, a chiunque vi rifletta, dee recar meraviglia come  tutti i filosofi seriosamente si studiarono di conseguire la  scienza di questo mondo naturale, del quale, perché Iddio egli il fece, esso solo ne ha la scienza; e trascurarono  di meditare su questo mondo delle nazioni, o sia mondo  civile, del quale, perché l’avevano fatto gli uomini, ne  potevano conseguire la scienza gli uomini » *®.   Non occorre dire che questo concetto della filosofia, se  ha attinenze storiche, di cui non è possibile non tener  conto, con idee della filosofia socratica e accademica, è,  nel suo proprio significato, assolutamente originale; come  lo scetticismo del De antiquissima, malgrado le sue manifeste ispirazioni accademiche, è, col suo concetto kantiano delle scienze formali matematiche, più moderno  dello stesso scetticismo di D. Hume. Ora, se nel De antiquissima V. anticipava Kant, qui, nella Scienza Nuova  egli precorre a dirittura Hegel. Lì la mente umana era  considerata creatrice di un mondo astratto, avente perciò  esclusivamente valore pel soggetto che lo costruisce, mentre ha fuori di sé la realtà, opera di Dio. E lo spirito geometrico era dio di un mondo di figure, come Dio poteva  dirsi il geometra di un mondo reale =. Qui invece lo spirito appare creatore di un mondo saldo, in sé perfetto,  qual è il mondo delle nazioni, la civiltà, la storia. La  profonda meditazione di quella realtà umana, a cui il suo  scetticismo lo richiamava, ha fatto scoprire in questa    I Scienza Nuova, ed. Nicolini,172-3.   2 Geometra in illo suo figurarum mundo est quidam Deus, uti  Deus Opt. Max. in hoc mundo animorum et corporum est quidam  geometra». Così ripete ancora nel 1729 V. nelle Vindiciae: Opere,  ed. Ferrari.] realtà un essere ignoto all’autore del De antiquissima,  tutto preso dalla vista dell’essere naturale posto da Dio.   Il conato cieco dei punti metafisici, che si risolve nello  sforzo dell’universo, e quindi in Dio, di cui è atto, diventa  ora il conato, il qual è proprio dell’umana volontà, di  tener in freno i moti impressi alla mente dal corpo, effetto della libertà dell'umano arbitrio, e sì della libera  volontà, la qual’è domicilio e stanza di tutte le virtù » 1.  Il punto metafisico quindi diventa monade; ma anche ben  più che monade. Perché nel concetto della monade leibniziana rimane qualche cosa del concetto dell’estensione,  che vuol superare; giacché ogni monade, come elemento  costitutivo del composto, ha accanto a sé tante altre monadi; sicché è sì spirito, ma limitato e particolare; è  individuo, ma di una individualità che non contiene ancora in sé l'universalità; quella universalità interna, senza  la quale non ci è spirito. La monade vichiana invece è la  trasformazione del punto metafisico, quale lo concepiva  V., tendente a identificarsi con Dio stesso: l’unico spirito, unità che non ha altre unità fuori di sé, ed è perciò vera, assoluta unità.   L’umano arbitrio (che è il conato della Scienza  Nuova) è determinato (accertato, nel linguaggio  vichiano) dal senso comune degli uomini; e questo  ‘ senso comune vien definito un giudizio senz’alcuna riflessione, comunemente sentito da tutto un ordine, da  tutto un popolo, da tutta una nazione o da tutto il genere umano »: il gran criterio insegnato alle nazioni  dalla Provvedenza divina per diffinire il certo d’ intorno  al diritto natural delle genti » 2, onde s’ intesse tutta la  trama della storia. In guisa che lo spirito non è più concepito né come individuale, che abbia fuori di sé l’uni     -_&    I S. N, ed. Nic., p. 183.  2 S. N.2, Dign.] versale, né come universale che abbia fuori di sé l’ individuale: anzi individuale, in quanto universale, secondo  il concetto che V. era venuto maturando del certo,  già accennato nella dottrina dell’unità della percezione  e del giudizio.   Il certo delle leggi », dice ora 1, è un’oscurezza della  ragione unicamente sostenuta dall’autorità, che le ci fa  sperimentare dure nel praticarle, e siamo necessitati  praticarle per lo di lor certo, che in buon latino  significa particolarizzato o, come le scuole dicono, individuato; nel qual senso certum e commune, con troppo latina eleganza, sono opposti tra loro ».  Troppo, perché, secondo V., il comune nel certo può  essere oscuro, come quando si vede nel diritto il solo lato  positivo o della forza; ma non può mancare. E in un’altra  tesi fondamentale 2:  La filosofia contempla la ragione,  onde viene la scienza del vero; la filologia osserva l’autorità dell'umano arbitrio, onde viene la coscienza del  certo ». La scienza del vero è la scienza stoica,  cartesiana; la scienza delle verità di ragione di  Hume: il dommatismo dell’universale astratto. La co scienza del certo è l’attualità del fenomeno, che  V. nella già accennata critica di Cartesio ha detto non  esser negata neppur dagli scettici: è la verità di fatto  di Hume.   Alla matematica del De antiquissima mancava la coscienza del certo: come alla fisica mancava la scienza  del vero. Qui la Scienza Nuova supera l’astrattezza di  quelle due scienze, mercé il concetto della storia, in cui  appunto vero e certo coincidono. E però dopo le parole  testé riferite V. soggiungeva, che quella sentenza dimostrava, aver mancato per metà così i filosofi che non    I Dign. CXI.  * Dign. X.    accertarono le loro ragioni con l’autorità de’ filologi,  come i filologi che non curarono d’avverare le loro autorità  con la ragion de’ filosofi; lo che se avessero fatto,... ci  avrebber prevenuto nel meditar questa scienza »; la quale  si propone di essere l’unità della filologia e della filosofia.  Il vero accertato o il vero certo è unità di ragione e di  fatto, perché è la stessa ragione che si attua nella volontà (l'umano arbitrio). Non è pura speculazione sul  fatto altrui, ma verum-factum, la realizzazione stessa  dello spirito.   La realtà dunque della Scienza Nuova non solo è mente,  ma mente come autocoscienza: non astratta universalità,  quale apparisce a se stessa la mente considerata come  oggetto di sé (idea, mondo intelligibile, Dio trascendente),  ma quella concreta universalità che è il soggetto che si  pone per sé, e si attua raccogliendosi nella coscienza di  sé. È insomma la mente quale si realizza nella storia.  Infatti natura di cose altro non è che nascimento  di esse in certi tempi e con certe guise » 1; e la mente  vien manifestando, anzi costituendo, la sua attraverso il  processo storico. Che è il concetto dello spirito o dell’ idea  assoluta, come si sforzerà di pensarlo Hegel.   Non è possibile indagare qui fino a che punto V.  sia riuscito a svolgere un tal concetto. Il suo maggior  difetto consiste nel non essersi liberato del tutto dalla  trascendenza e dal dualismo; aver lasciato accanto alla  nuova realtà da lui scoperta (che non tollera compagnia)  quella del De antiquissima, ossia la natura opera di Dio;  e aver concepito poi la storia, oggetto della Scienza Nuova,  come qualche cosa per sé stante (un’altra specie di natura) di rimpetto alla scienza, quasi storia che debba  esser rifatta dallo storiografo: dualismo del tutto  analogo a quello con cui V. si rappresentava nel  I Dign.] l'esperimento l’opera del fisico rispetto all’opera indipendente della natura. Ma questi gravi residui della  concezione dualistica antica permangono anche  nell’idealismo assoluto hegeliano, come ora si viene chiarendo: e l’opera del V. precede di poco meno che un  secolo quella di Hegel.    NOTA    Riproduco qui appresso un brano d’una mia risposta (pubbl.  nella Critica del 1916) a una recensione che della prima edizione  di questo libro fu fatta nella Civiltà Cattolica del 5 febbraio di  quell’anno.    Il punto principale dove io e altri (Jacobi, Spaventa, Croce)  avremmo preso un grosso abbaglio, e lo scrittore della Civiltà  Cattolica pretende rimettere le cose a posto, è quel che riguarda  la celebre dottrina gnoseologica del De antiquissima, da me raccostata, per la sua parte negativa, allo scetticismo di Hume, e  per la parte positiva intesa, come dagli altri maggiori interpreti,  quale dottrina analoga alla kantiana, e raffrontata a certe osservazioni del Ficino. Qui, mi dispiace dirlo, il recensore non ha  capito proprio di che si tratta.    La distinzione », egli dice,  onde V. separava la geometria  e l’aritmetica dalle altre scienze, si fonda sul supposto che quelle  due sono fatte dall’uomo, e le altre no. Né si accorgeva il bravo  uomo che non diversa è la posizione del nostro intelletto davanti  alla matematica di quel che sia di fronte a qualunque altro 0ggetto delle cose; e anche il punto, la linea, la superficie e la matematica, che diceva dall'uomo creati ad Dei instar ex nulla re  substrata, tanquam ex mnihilo, erano accolti nella mente per una  astrazione, alta quanto si voglia, dalla materia delle cose corpulente, giacché gli spiriti non hanno né punti né linee né superficie » (p. 340).   Gran brav’uomo davvero quel V.! In primo luogo, è  da fermar bene che non le scienze matematiche diceva egli esser  fatte dall'uomo: ché questo era carattere comune (da tutti am messo) a ogni scienza, la teologia esclusa; ma la differenza specifica del sapere matematico, per la quale questo sapere si salva  dallo scetticismo, è pel V. questa, che cioè anche il suo o0ggetto è fatto da noi. In secondo luogo, non è possibile stare a  ripetere che la matematica è scienza d’astrazione (ossia empirica)  senza lasciarsi sfuggire tutto il significato della dottrina vichiana;  la quale non si riferisce alle relazioni matematiche che il recensore dice già esistenti e fatte nelle cose e negli oggetti della  nostra contemplazione scientifica », ma a quelle altre, onde l’uomo  mundum quemdam formarum et numerorum sibi condidit, quem  intra se universum combplecteretur: l’oggetto delle matematiche  pure, che è in sé compiuto e perfetto, senza nessun rapporto con  gli oggetti dell’esperienza. Quanto poi agli elementi di cotesto  universo interno alla mente, il punto e l’unità, s’accomodi pure  il recensore se crede che già ineriscano alla materia delle cose  corpulente. Noi amiamo stare col brav’uomo:  Atqui  utrumque fictumi punctum enim, si designes, puncium non est;  unum si multiplices, non est amplius unum » (De ant., I, $ 2).  Questo, ad ogni modo, sarà apprezzamento, non accertamento  del pensiero vichiano. Ma, dove si tratta di definire il senso di  esso, ecco lo storico della Civiltà Cattolica saltar su a confondere  e cancellare i tratti essenziali della dottrina di cui si vuol discutere 1:  Va però osservato, a non esagerare di troppo la tendenza scettica della norma vichiana, esser cioè veri criterium et  regulam ipsum fecisse, che V., quando afferma la minor certezza delle altre scienze rimpetto alle matematiche, non diceva  cosa nuova, e ripeteva ciò che in parte aveva già letto nella metafisica di Suarez, e forse nel commento dell’Aquinate, le cui parole  non sembrano sconosciute al V.. Non pare pertanto che, come  afferma il Gentile, proprio dalla schietta dottrina neoplatonica  V. deducesse la sua gnoseologia.... » (p. 341). Malgrado l’abilità  dello stile (che vuol dire e non dire), qui evidentemente si afferma  che almeno un addentellato alla gnoseologia del verum-factum  (senza il colorito scettico che assume nel V.) può trovarsi in Suarez    I Del resto, a proposito di un’ interpretazione arbitraria che io avrei  fatta di alcune parole di V., la Civiltà Cattolica ci addita una novissima  e mai sospettata interpretazione del verum-factum, scrivendo: Se,  secondo V.,il vero si converte col fatto, occorre]affermare che  nel fatto (!) delle sue parole sia la verità (!) della sua mente quale intese farcela conoscere » (p. 345). In verità, non si può essere interpreti  più fedeli del pensiero d’un filosofo !  einS.    let. 3,    Ma (2.0   Re  laphysi  Mathen  Talibus  fecta   superio  Modo   esse te i haec ulteriu  Parter  Plicite  Quod    Per ns0 di   condert   pol di   la tele   gin È   of cer”   dicev*   Jla DE   i paso!    -r.] e in S. Tommaso. Del primo dei quali si cita Metaph., Disp. I,  lect. 5, n. 26; e del secondo Comm. alla metaf., lib. I, lect. 2.  Ma ecco integralmente il luogo del Suarez:    Respondetur ! ergo primo fortasse in aliquo statu posse Metaphysicam humanam esse perfectiorem et certiorem quam sint  Mathematicae: nam, licet acquirendo hanc scientiam solis natu-  ralibus viribus et ordinario modo humano non possit tam per-  fecta obtineri, si tamen noster intellectus iuvetur ab aliqua  superiori causa in ipsomet discursu naturali, vel si ipsa scientia  modo supernaturali fiat, licet res ipsa sit naturalis, potest forte  esse tam clara et evidens ut Mathematicas superet. Quia vero  haec responsio magis est theologica quam philosophica, addo  ulterius, quamvis Metaphysica in nobis semper sit, quoad hanc  partem, inferior Mathematica in certitudine, nihilominus sim-  pliciter et essentialiter esse nobiliorem: ad quod multum refert  quod sit secundum se et ex parte obiecti certior: nam dignitas  obiecti maxime spectat ad dignitatem scientiae et illa est quae  per se redundat in scientiam: imperfectiones autem quae ex  parte nostra miscentur, sunt magis per accidens: et ad hoc tendit  definitio data, in quo sensu nullam involvit repugnantiam».   Dove, per aguzzare che si faccia la vista, non si vede nulla  della dottrina vichiana. E S. Tommaso, commentando quel testo  della Metafisica aristotelica, che dice più certe (propriamente,  più esatte, &xprBéotepar) le scienze aventi oggetti più semplici  e più elementari, come l’aritmetica rispetto alla geometria, che  richiede qualche dato di più (I, 2, p. 982 a 25-28), dice:    I Al n. 23, a proposito del luogo di ARIST., Metaph., II, 3, p. 995 a,  14-16, s'era proposta la distinzione tra la metafisica in noi che ha minor  certezza della matematica, e la metafisica in sé, a cui la matematica  stessa è subordinata, e dal cui valore perciò dipende, poiché res illae  de quibus Mathematicae tractant, includunt communia et trascendentia  praedicata de quibus Metaphysica disserit ». Alla qual difesa della metafi-  sica, nel numero 25 si opponeva:  Haec scientia [sc. Metaph.], prout in  nobis est, semper est minus certa in hac parte, quam Mathematica: ergo  simpliciter est minus certa, quia Metaphysica de qua agimus non est  alia nîsì humana: haec tantum in nobis est. Quid ergo vefert ad nobili-  tatem Metaphysicae, quod secundum se sit angelica ? illud enim erit  verum de Metaph. angelica, non de nostra. Unde tractando de mostra,  videtur involvi repugnantia in illa distinctione secundum se et prout in  nobis. Haec enim optime quadrat et ita est illa usus saepe Arist.in 1° Poster.  etin principio Phys. et Metaph. At vero acconimodata actibus vel habitibus  nostris nullo modo videtur posse habere locum ».    Quanto aliquae scientiae sunt priores naturaliter, tanto sunt  certiores: quod ex hoc patet, quia illae scientiae, quae dicuntur  ex additione ad alias, sunt minus certae scientiis, quae pauciora  in sua consideratione comprehendunt, ut Arithmetica certior est  Geometria; nam ea, quae sunt in Geometria, sunt ex additione  ad ea quae sunt in Arithmetica. Quod patet, si consideremus id  quod utraque scientia considerat in primum principium, scic.  unitatem et punctum. Punctus enim addit super  unitatem situm. Nam ens indivisibile rationem  unitatis constituit; et haec, secundum quod habet rationem  mensurae, fit principium numeri. Punctus autem supra hoc addit  situm. Sed scientiae particulares sunt posteriores secundum  naturam universalibus scientiis, quia subiecta earum addunt ad  subiecta scientiarum universalium, sicut patet quod ens mo-  bile, de quo est naturalis philosophia addit supra ens sim-  pliciter, de quo est Metaphysica, et supra ens quantum,  de quo est Mathematica: ergo scientia illa, quae est de ente  et maxime universalibus, est certissima. Nec illud  est contrarium, quod dicitur esse ex paucioribus, cum supra  dictum sit quod sciat omnia. Nam universale quidem compre-  hendit pauciora in actu, sed plura in potentia. Et tanto aliqua  scientia est certior, quanto ad sui subiecti considerationem pau-  ciora actu consideranda requiruntur. Unde scientiae operativae  sunt incertissimae, quia oportet quod considerent multas singu-  larium operabilium circumstantias ».   La certezza di cui parla qui Tommaso d’Aquino, l’&xptBoXoyla  di Aristotele, non ha nulla da vedere con la certezza di cui parla  V., la certitude cartesiana, che è il problema di Hume, di Kant  e di tutta la filosofia moderna. Quella è, si può dire, una certezza  oggettiva, e corrisponde all’ idea chiara di Descartes; questa  invece è la certezza soggettiva, o presenza del soggetto nell’og-  getto, del cui significato storico il mio recensore avrebbe potuto  rendersi conto già per quel poco che io pure ebbi occasione di  dirne nel mio studio. Senza dire poi che per Aristotele e per Tom-  maso d’Aquino, di questa certezza, è sì più certa l’aritmetica  della geometria, e tutte due della fisica; ma più certa ancora  dell’aritmetica è la metafisica. E senza dire che il concetto di  questa qualsiasi certezza non ha (com’ è naturale) nessun punto  di contatto con la dottrina del verum-factum. Sicché, non volendo  dire che lo scrittore della Civiltà Cattolica abbia citato i due  luoghi di Suarez e di S. Tommaso per gettar polvere negli occhi, bisogna pensare che non si sia fatto ancora una chiara idea di  quel che significhi la dottrina del V..   I riscontri invece tra il concetto del V. e la dottrina del  Ficino, seguitata dal Campanella, di cui ho pure additato luoghi  molto significativi, sono così evidenti, che bisogna proprio voler  tenere gli occhi ben chiusi per non vederli. Il mio recensore vi  sorvola per notare poi che  sulla identità del vero col fatto, dal  Gentile e dal Croce meglio si poteva citare ciò che il Ficino dice  della verità divina, ove afferma che Dio è veritas, quia producendo  esse dat omnibus (Opera, ed. 1561, I, 97)» e in un altro luogo  dove l’arte umana è paragonata alla divina, e quindi si distingue  una veritas operis humani, adaequatio eius ad hominis mentem  e una veritas operis naturalis, quod est divinae mentis opus, adaequatio ad divinam mentem. Ma egli stesso poi deve  affrettarsi a soggiungere: In ciò il filosofo cristiano platonico  non diceva nulla di nuovo né di diverso dagli scolastici e dall’Aquinate » (p. 342). O allora ? Se per trovare l’origine del concetto vichiano  che lo stesso recensore è costretto a riconoscere come diverso dal concetto scolastico  si deve cercare in  un concetto analogo, è inutile cercare in quelle pagine del Ficino,  dove questi non si allontana dagli scolastici; ma bisogna rivolgersi a quegli altri punti, sui quali si fermò la mia attenzione, e  che il recensore si guarda bene dal considerare. Ai quali mi piace  qui aggiungerne un altro, che sempre più conferma che il concetto vichiano della verità non è nel filosofo fiorentino un’osservazione fortuita e senza radici nel suo pensiero. Nella stessa  Theologia platonica, XIII, 3, leggiamo:   Unum est illud in primis animadvertendum, quod artificis  solertis opus artificiose constructum non potest quilibet qua  ratione quove modo sit constructum discernere, sed solum qui  eodem pollet artis ingenio. Nemo enim discerneret qua via Archimedes sphaeras constituit aeneas, eisque motus motibus caelestibus similes tradidit, nisi simili esset ingenio praeditus. Et  qui propter ingenii similitudinem discernit, is certe posset easdem  constituere, postquam agnovit, modo non deesset materia. Cum igitur homo caelorum ordinem, unde moveantur, quo progrediantur,  et quibus mensuris, quidve pariant, viderit, quis neget eum esse  ingenio, ut ita loquar, pene eodem quo et author ille caelorum ?  ac posse quodammodo caelos facere, si instrumenta nactus fuerit,  materiamque caelestem postquam facit eos nunc, licet ex alia  materia, tamen persimiles ordine ? Nel suo Commentario al Parmenide poi, cap. si trova un’osservazione, che fu già da noi riferita a  p. 31, dove il Ficino dice che la cognizione umana delle cose  materiali, poiché noi non siamo gli autori delle cose non è altro  che una proportio quaedam, laddove Dio le conosce veramente,  perché ne è la causa.   Che se qui pare dubitativamente concedere potersi la cognizione umana intendere forse come proporzione al conosciuto,  ossia come adequazione del soggetto all’oggetto, più oltre, e nella  pagina stessa, dimostrando perché la cognizione divina non  importi congruenza dell’ intelletto divino con le cose materiali  e transeunti, mette bene in chiaro la natura affatto soggettiva  d'ogni conoscenza, l’umana compresa: Multo minus actio in agente manens, id est cognitio,  adducit agentem, id est cognoscentem, pro ipso cognoscendorum  modo cognoscere: quod omne cognoscens non simpliciter pro rei  cognitae qualitate, sed pro ipsa cognitivae virtutis natura, forma  et dignitate, cognoscat et iudicet, hinc apparet, quia hominem  nobis obiectum aliter quidem sensus exterior, aliter autem imaginatio viderat, aliter item ratio, aliter intellectus. Sensus enim  solam rem praesentem percipit et accidentia sola; imaginatio et  absentem repetit et quodammodo substantiam suspicatur, componit, dividit, sola summatim conficit quae singulatim quinque  sensus; ratio vero et haec efficit omnia, et praeterea ad universalem speciem incorporeamque naturam argumentando se transfert; intellectus denique simul quodam intuitu conspicit, quae  ratio multifariam argumentando circumspicit, quemadmodum  visus obiectum globum semet percipit ut rotundum, tactus autem  saepius attingendo.... Neque rerum cognitarum conditiones, sed  naturam ipsam suam sequitur [sc. întellectus] cognoscendo: naturam inquam uniformem, indivisibilem, immutabilem ».   Dottrina tra le più atte a confermare la tendenza della gnoseologia del verum-factum: tendenza scettica, finché non si risolva  il dualismo del soggetto e dell’oggetto.   Dal Ficino, e in generale dal platonismo, ho sostenuto che il  V. fosse anche indirizzato verso quella intuizione panteistica,  che è, suo malgrado, nel fondo di tutto il suo pensiero  filosofico. Sono affatto inutili e fuor di luogo le osservazioni che  si tornano a fare ancora una volta circa l’avversione del V.  al panteismo. Nessuno ha mai dubitato di ciò, e la questione  non è questa. Il punto ora contestato è che dal Ficino il filosofo  napoletano potesse ricevere suggestioni panteistiche. Contestato,  LA II E LA III FASE DELLA FILOSOFIA VICHIANA bensi, col solito dire e disdire: perché prima si assicura che   se V. lesse e studiò le opere del Ficino e dei Platonici, non  ne bevve però gli errori dommatici »: il che vorrebbe dire che  questi errori intanto nel Ficino ci sono; poi si garentisce che  quel letterato [cioè, il Ficino appunto] era assai ben ferrato in  teologia cattolica » e che la sua Theologia platonica altro non  è che una teologia cristiana » e che è assai difficile ammettere  che il F. e dopo di lui V. accogliessero il panteismo » (341-2).   Che diamine ! Bruno sì: egli, tra il Ficino e V., egli accolse  il panteismo, perciò incorse nelle condanne della Chiesa ».  Ma sta a vedere chei sognatori alemanni e i nuovi  hegeliani napoletani hanno scoperto essi che il  buon canonico di Santa Maria del Fiore accolse l’emanatismo  plotiniano, pure sforzandosi di accomodarlo coi dommi cristiani.  Io confesso di non conoscere storico della filosofia degno di questo  nome, che lo metta in dubbio; e mi pare che potrebbe bastare  per tutti il Vacherot, autore di una Histoire critique de l’école  d’Alexandrie, che è della metà del secolo passato, ma che non è  stata ancora sostituita. Il quale, dopo dimostrato che nella stessa  Theologia il Ficino espose la dottrina di Plotino avec un ordre,  une clarté, une précision qu'on ne retrouve point dans les Ennéades,  osserva:  En devenani Alexandrin, Ficin voudrait rester orthodoxe.  Mais il est facile de s’apercevoir qu’ il ne conserve guère que la  langage de la théologie chrétienne. Il préte è Dieu tous les attributs  Psychologiques dont le dépouillait l’ idéalisme néoplatonicien....  mais il les détruit pour les définitions et les explications tout Alexandrines qu’ il en donne.... La psychologie de Ficin est encore  Plus compléiement alexandrine que sa théologie», ecc. (t. III, 180-1). Sicché questa almeno del panteismo ficiniano non è  poi la grande eresia alemanna o napoletana !  DAL CONCETTO DELLA GRAZIA  A QUELLO DELLA PROVVIDENZA  La quistione della grazia, come s’ è veduto, fu studiata dal V. negli anni passati a Vatolla (1686-95).  In grazia della ragion canonica », racconta di sé nell’Autobiografia, inoltratosi a studiar de’ dogmi, sì ritruovò poi nel giusto mezzo della dottrina cattolica  d’intorno alla materia della grazia, particolarmente con  la lezion del Ricardo, teologo sorbonico, che per fortuna  si aveva seco portato dalla libreria di suo padre ». E la  dottrina di questo teologo V. stesso riassume dicendo  che costui con un metodo geometrico fa vedere la dottrina di sant'Agostino posta in mezzo come a due estremi  tra la calvinistica e la pelagiana e alle altre sentenze  che all'una di queste due o all’altra si avvicinano; la qual  disposizione riuscì a lui efficace a meditar poi un principio di dritto natural delle genti, il quale e fosse comodo  a spiegar le origini del dritto romano ed ogni altro civile  gentilesco per quel che riguarda la storia, e fosse conforme  alla sana dottrina della grazia per quel che ne riguarda  la morale filosofica ». Dove c’è un’interpretazione del  Ricardo e una genealogia della propria dottrina, per così  dire, postuma: data dal V. più di trent'anni dacché  aveva letto il teologo sorbonico, e dopo che il suo pensiero (almeno su questo punto) aveva fatto molto cammino. Non è quindi privo d’ interesse ricordare quanto  del V. ci sia nell’ interpretazione del Ricardo, e quanto  del Ricardo nella genesi del pensiero vichiano. Ne deriverà qualche nuovo chiarimento intorno a un punto essenziale di questa filosofia.   Il Ricardo, a cui V. si riferisce, è il gesuita francese  Stefano Dechamps (1613-1701), professore della Sorbona,  confessore del principe di Condé, autore di vari scritti  polemici di teologia, pubblicati anonimi o sotto lo pseudonimo di Antonius Richardus *. Gran diffusione ebbero,  nel fervore della lotta tra giansenisti e gesuiti, la sua  Disputatio theologica de libero arbitrio, qua defenditur censura sacrae Facultatis Theol. Parisiensis lata 27 iunii r560,  et plures novi dogmatis propositiones ab eadem merito  proscribi et S. Augustini aliorum Patrum ac veterum theologorum doctrinae adversari demonstratur (1645); di cui una  quarta edizione fu pubblicata a Parigi nel 1646, e una  quinta a Colonia nel 1653; e il grosso ?n-folio, al quale  V. certamente allude, De haeresi Janseniana ab apostolica sedes merito proscripta, in tre libri, la cui prima  edizione, incompleta, è del 1645, e la seconda del ‘54.   A documentare la posizione tenuta dal Dechamps meglio  di ogni esposizione possono giovare alcune citazioni testuali. Basterà limitarsi ai punti più importanti.   Contro l’accusa di pelagianismo, che Martino Chemnitz  aveva mossa ai gesuiti, il Dechamps riferisce la risposta  datagli dal gesuita Andradio, che fu de’ teologi del Concilio di Trento:     Et sane, inquiunt, quamvis nos a divina misericordia pendeamus; quamvis nihil boni operetur fidelis, quod in illo non  efficiat Deus; quamvis non solum gratia conferatur ut converti  possimus, sed etiam ut convertamur; etsi gratia haec, quae ad  operandum necessaria est et velle facit, non sit quaecumque  inspiratio aut cogitatio sancta, sed efficax Dei operatio: quamvis    I BACKER-SOMMERVOGEL, Biblioth. d. écriv. de la Comp. de Jésus,  part. I, t. II, coli. 1863-9. V. anche SoMMERVvOGEL, Dictionn. des our.  anonymes et pseudon.., Paris, 1884, s. Richardus.   2 Citerò quest’ultima, Lutetiae Paris, Cramoisy.] haec omnia vere admittamus, homini tamen semper liberum  relinquitur divinae operationi praebere impedimentum, eamque  vel amplecti, vel etiam repudiare ». Haeccine verba, Chemniti,  sunt liberum arbitrium a divina gratia segregantium !... Haec  est Coloniensium patrum Societatis Iesu sententia, quam Pelagianismi insimulare numquam desinis !,    Per Giansenio non c’è termine medio tra grazia e  libero arbitrio; quel libero arbitrio, che i pelagiani avrebbero preso dalla filosofia profana, e introdotto in teologia  ad extenuandam Christi gratiam. Né vale richiedere, oltre  al libero arbitrio, la grazia: qui semel liberum hominis  lapsi arbitrium indifferentem ad utrumlibet facultatem esse  definienit, etsi postea gratiam ad bene agendum necessariam  esse fateatur, abire tamen non potest, quin, S. Augustino  iudice, in Pelagir haeresim incidat ».   Tutte calunnie, secondo il Dechamps. Il quale contesta  che non si possa conciliare il concetto della libertà con  quello della grazia, e che Agostino abbia condannato  come pelagiano qualsiasi concetto della libertà, secondo  che Giansenio pretende. In primo luogo bisogna osservare che il libero arbitrio può esser considerato in due  modi,    Primo, pro naturali facultate secundum se sumpta quae pro  libito potest alterutrum e duobus eligere, sive quae, positis omnibus ad agendum requisitis, agere potest et non agere. Secundo,  pro facultate omnibus ad bene agendum viribus instructa. Quae  duo quantum inter se distent, hoc exemplo intelligetur. Aliud est  oculum posito lumine videre posse, aliud habere lumen ad videndum. Nam qui caecus non est, etsi tenebroso claudatur specu  et nulla collustretur luce, oculos tamen habet, quibus, cum lux  adfuerit, videre poterit. Ita aliud est hominis voluntatem esse  eiusmodi, ut, positis omnibus ad agendum praerequisitis, agere  possit et non agere; aliud ea omnia ad bene agendum praerequisita habere. Primum ad libertatem naturae spectat; secundum  Lib, I, disp. III, ad libertatem gratiae, sive ad laudabilem illum liberi arbitrii  statum, ad quem divina gratia evehimur. Prima libertas deleri  peccato non potest. Nam, etsi voluntas necessariis ad bene agendum praesidiis spolietur, et, infami daemonis servituti mancipata, ne levissimum quidem melioris vitae votum de se concipere  possit, talis est tamen semper, ut, cum aliunde necessaria ad bene  agendum subsidia adfuerint et caelestis gratiae aura afflaverit,  agere possit et non agere. Secunda, primi parentis culpa periit.  Nam tum omnibus gratiae praesidiis destituti, cam in miseriam  incidimus, ut non simus sufficientes cogitare aliquid ex nobis, tanquam ex nobis. Qui cum  Calvino aliisque superioris aevi haereticis congressi sunt Catholici, hanc utriusque libertatis distinctionem diligenter observaverunt; quod ex illa totius de libero arbitrio controversiae  disceptatio penderet. Hinc Bartholomaeus contra Calvinum  scribens (lib. I de lid. arbit., cap. 3); Ignoras», inquit,  aliud  esse hominem libertatem arbitrii habere, hoc est potentiam consentiendi vel dissentiendi, ut dixi: quod naturae liberum  dicitur arbitrium; aliud vero libertatem meritorie operandi iustitiam: quod liberatum liberum dicitur arbitrium»!.    In secondo luogo, poi, è da notare che non pensa diversamente sant’Agostino: il quale, quando nega contro  Pelagio il libero arbitrio, intende di questa libertà liberata, principio attivo di bene; ma non nega mai in conseguenza del peccato di Adamo il libero arbitrio, anche  come principio di male.  Fides Catholica, egli dice, neque  liberum arbitrium negat, neque tantum eci tribuit, ut sine  gratia valeat aliquid ». E altrove più chiaramente:  Peccato Adae liberum arbitrium de hominum natura periisse  non dicimus, sed ad peccandum valere in hominibus subditis  diabolo ; ad bene autem vivendum non valere, nisi ipsa  voluntas hominis Dei gratia fuerit liberata, et ad omne  bonum actionis, cogitationis, sermonis adiuta ».    I Lib. III, disp. II, cap. 18.    Questo concetto insufficiente della libertà negativa s' è  già incontrato nel V., nell’ Orazione del 1700 *. Ma in  quella stessa Orazione abbiamo visto com'’egli sentisse  pure il bisogno di qualche cosa di meglio. Certo, nel suo  teologo non trovava un libero arbitrio che senza l’estrinseco aiuto della divina grazia bastasse a bene operare;  quantunque dovesse, senz’alcun dubbio, esser più soddisfatto da questa dottrina che un’ombra almeno di  libertà lasciava all'uomo; all’ucmo di quella che egli  chiamerà umanità gentilesca, artefice anch'egli del mondo delle nazioni.   E non poteva egualmente non propendere alla sentenza  della teologia sorbonica nella questione famosa della  grazia efficace, che è l’altro mcmento della negazione della libertà nel giansenismo: per cui, l’uomo non  è libero prima d'esser redento dalla grazia, perché, per  effetto del peccato, è in potere del diavolo; e non è libero  né anche dopo, perché l’efficacia della grazia redentrice  consiste nella necessità della redenzione. Prima la sua  volontà è principio del male, e soltanto del male; poi,  del bene, e soltanto del bene. E non vien concepita mai  come principio degli opposti, quale dev'essere, per esser  libera. Anche qui il gesuita distingue; e se la distinzione  tra grazia sufficiente che non è sufficiente e grazia efficace  provocherà il sorriso del Pascal, essa però ha una profonda ragion d'essere, e mira a salvare insieme con la  grazia la libertà, senza la quale la grazia edificherebbe  la distruzione. Il Ricardo riferisce in proposito un luogo  del De spiritu et littera (c. 33) di Agostino, che egli dice  un compendio di tutti i libri scritti dal Santo contro i  nemici della grazia e del libero arbitrio: un muro di  bronzo contro pelagiani, manichei, luterani, calvinisti e  simili pesti.       1 Vedi sopra65 sgg..  Attendat et videat non ideo tantum istam voluntatem divino  muneri tribuendam, quia ex libero arbitrio est, quod nobis naturaliter concreatum est; verum etiam quod visorum suasionibus  agit Deus ut velimus et ut credamus: sive extrinsecus per Evangelicas exhortationes, ubi et mandata legis aliquid agunt, si ad  hoc admonent hominem infirmitatis suae, ut ad gratiam iustificantem credendo confugiat; sive intrinsecus, ubi nemo habet  in potestate quid ei veniat in mentem; sed consentire  vel dissentire propriae voluntatis est. His  ergo modis quando Deus agit cum anima rationali, ut ei credat;  neque enim credere potest quolibet libero arbitrio, si nulla sit  suasio vel vocatio, cui credat; profecto et ipsum bonum velle  Deus operatur in homine, et in omnibus misericordia eius praevenit nos: consentire vocationi Dei, vel ab  ea dissentire, sicut dixi, propriae voluntatis est!.    Anche il Concilio di Trentc ?, ispirandosi a questa  dottrina di Agostino, sentenziò lhominem praevenienti  gratiae posse dissentiri. Basta perciò questa grazia a  salvar l’uomo, nel senso che non gli occorre altro, se egli  vuole salvarsi. Ma egli deve volere. La grazia risana la  volontà (e si dice perciò medicinale). Ma all'uomo già di  sana volontà Agostino 3 afferma Deum permisisse atque  dimisisse facere quod vellet, e però gratiam in eius arbitrio  reliquisse. E qui c'è un punto, che dové fermare l’attenzione del V. 4:    Insignis est in hanc sententiam planeque divinus locus ille,  quo S. Augustinus Petilianum Donatistarum episcopum sic affatur: Si tibi proponam quaestionem, quomodo Deus Pater  attrahat ad filium homines, quos in libero dimisit  arbitrio, fortasse eam difficile soluturus ess Quomodo  enim attrahit, si dimittit ut quis quod vo  I Lib. III, disp. III, cap. 1.  2 Sess. 6, can. 4.   3 De corrept. et gratia, c. 12. CONCETTO DELLA GRAZIA E DELLA PROVVIDENZA ISI    luerit eligat? Et tamen utrumque verum est, sed intellectu hoc penetrare pauci valent. Si ergo fieri potest, ut quos  in libero dimisit arbitrio attrahat tamen ad Filium Pater, sic  fieri potest, ut ea quae legum coércitionibus admonentur, non  auferant liberum arbitrium ». Haec S. Augustinus scribit ad  Donatistarum querelas retundendas, qui cum propositis suppliciis  ab haeresi sua deterrebantur, de Catholicis graviter expostulabant  in haec verba:  Cur vos non liberum arbitrium unicuique sequi  permittitis, cum ipse tamen Dominus Deus liberum arbitrium  dederit hominibus ? ». Respondet S. Augustinus liberum arbitrium legum coéèrcitionibus non eripi, quemadmodum divina per  gratiam tractione non violatur. Unde concludit:  Nemo ergo  vobis aufert liberum arbitrium, sed vos diligenter attendite quid  potius eligatis: utrum correcti vivere in pace, an in malitia perseverantes falsi martirii nomine vera supplicia sustinere ». Qua ex  disputatione certissime conficitur quod pugnamus. Primo, quia  clarissime et expressis verbis de gratia medicinali S. Augustinus  affirmat, quod gratiae nullam agendi necessitatem inferentis  argumentum esse Jansenius profitetur: nempe Deum per  gratiam homines trabhere: et tamen in libero  dimittere arbitrio, ut quis quod voluerit  eligat. Secundo, quia inepta esset illa comparatio, et contra  S. Augustini mentem, si divina ratio sequendi necessitatem imponeret; nam ex illa Petilianus continuo colligeret, quod unum  contendebat: nimirum intentata a legibus supplicio necessitatem  parendi imponere, adeoque libertatem illam, quae necessitati est  inimica, hominibus adimere.    V. riferisce ed accetta, come abbiamo visto !, nel  De antiquissima questa soluzione agostiniana del problema che nasce dal versetto del Vangelo di Giovanni  (VI, 44): Nemo potest venire ad me, nisi Pater, qui misit  me, traxerit eum ». V. condensa la soluzione nel motto:  Non solum volentem, sed et lubentem trahit, et voluptate  trahit »?; e nel De constantia iurisprudentis (1721) dirà:  Ex divini sacrificiù meritis divina gratia ita trahit    - +À#    I Pagg. 59-60.  * De an., in Opere, I, 174.    ad Deum homines, ut, quemadmodum appositissime  D. Augustinus * ex Poeta docet:    .... trahit sua quemque voluptas ».    Intorno a questa voluftas 1 Dechamps disputa molto  sottilmente ?, a proposito della grazia a perseverare concessa da Dio agli angeli e all'uomo prima del peccato.  Per la quale osserva che Agostino non adopera mai nessuno dei termini da lui usati per esprimere i moti della  volontà, sia come impulsi di essa, sia come aiuti attuali  inerenti a lei stessa. E nota ben dodici di questi termini;  sel che si riconducono all’amor indeliberatus (come spiritus  charitatis, inspiratio charitatis, ecc.); e sei che hanno per  tipo la delectatto, ma suonano anche: suavitas, dulcedo,  condelectatio, incunditas, voluptas 3. Tutti proprii dell’uomo beneficato dalla grazia dopo il peccato, ed esprimenti tutti, perciò, non l’unità primitiva, in cui la natura ha in se stessa la grazia, ma un'unità che presuppone l'opposizione.    Cum igitur S. Augustinus eiusque discipuli, de statu innocentiae disputantes, his nominibus natura, naturalis  possibilitas, liberum arbitrium, non solam  voluntatem sine vitio, sed ipsam quoque habitualem gratiam,  quae completam bene agendi potestatem illi conferebat, plerumque intelligant, quid mirum si bona status illius opera vel libero  arbitrio adscribant, vel naturae opera appellent, vel,  quod durius videtur, naturaliter fieri contendant ? Audi  S. Augustinum de bono opere disputantem:  Hoc opus est gratiae, non naturae: opus est, inquam, gratiae, quam nobis attulit  secundus Adam; non naturae, quam totam perdidit in semetipso  primus Adam, etc. Non est igitur gratia in natura liberi arbitrii,  quia liberum arbitrium ad diligendum Deum primi peccati gran  1 V. rimanda qui al Tract. XXII in Iohannem. Correggi: XXVI, 4.  2 Lib. III, disp. III, c. 16. |  3 E per la voluptas cita appunto il luogo del Tract. XXVI in Iohann.] ditate perdidimus ». Quibus verbis manifeste significat opus  bonum, quod iam gratiae tribuit, si Adam non peccasset, fore  opus naturae; sed huius rei caussam inde repetit, quod  ante primum peccatum gratia Dei esset in natura liberi  arbitrii: gratia, inquam, illa, quae ad bene agendum ex  parte voluntatis requiritur !.    Questa natura liberi arbitrit, in cui, prima del peccato,  era immanente la gratta, dopo del peccato è perduta; e  per quanta voluptas Dio ci faccia sentire nell’assenso al  suo divino suggerimento, essa non può considerarsi una  espressione della stessa umana natura: come la sua voluptas del poeta latino. E quando perciò V. nel De  constantia iurisprudentis raccosta la voluptas agostiniana  a quella virgiliana (e il raccostamento è già implicito nel  lubentem del De antiquissima), egli mette in Agostino e  nel Ricardo un po’, anzi molto del suo pensiero, che  tende a risolvere il dualismo insuperabile del domma  della grazia in una fondamentale unità.   Ma, tanto nel De antiquissima quanto nel Diritto Universale V., pure accennando con questa interpretazione sforzata della dottrina agostiniana a superare il  concetto trascendente della grazia, crede tuttavia di doversi  arrestare. E mantiene la necessità della grazia per spiegare il processo dello spirito. Nella seconda delle due  opere testé menzionate si propone esplicitamente il problema. Contrapposta la stoltezza dell’uomo caduto alla  eroica sapienza di Adamo anteriore al peccato,  concepisce la vita umana come un processo di realizzazione dell’ infinito, ossia dello spirito. Dio è fosse, nosse,  velle infimitum; l’uomo, poiché è corpo, oltre che spirito,  e poiché il corpo è limitato, è mosse velle posse finitum  quod tendit ad infinitum. L’uomo aspira a unirsi con Dio,  che è il suo principio; e questa aspirazione può compiere    ! Lib. III, disp.] soltanto conformandosi all’ordine della natura, nel quale  sovrasta per la ragione a tutti gli animali; ossia sommettendo la volontà alla ragione. Sommissione, in cui  consistette la natura hominis integra, conferita da Dio  ad Adamo, ut nullo sensuum tumultu agitaretur, sed et in  sensus ed in cupiditates liberum pacatumque exerceret imperium. Questa natura integra dell’ucmo, conforme all’ordine delle cose, è la mnaturalis honestas integra. Ma  questa rettitudine naturale dell’uomo venne corrotta per  colpa dell’uomo: in che modo ? Ut voluntas rationi dominaretur. Donde nasce la passione (cupiditas), che non è  altro che amor sui ipsius, e l’errore, ossia quella iudicii  temeritas, qua de rebus 1udicamus, antequam eas habeamus  plane exploratas. Or, come riconquistare la verità, e ristaurare il processo divino dell’ uomo ? Com? nel De antiquissima *, V. sente la necessità di ammettere un  minin.o di umanità a capo dell’umanità.    Sed homo Deum aspectu amittere omnino non potest suo;  quia a Deo sunt omnia; et quod a Deo non est, nihil est; nam  Dei lumen in omnibus rebus, nisi reflexu, saltem radiorum  refractu cernere cuique datur. Quare homo falli nequit, nisi sub  aliqua veritatis imagine; vel peccare nequit, nisi sub aliqua  boni specie 2.    Ma queste immagini della verità, questi semi di bene  non bastano ancora pel V. a spiegare l’umanità.    Hinc aeterni veri semina in homine corrupto non  prorsus extincta; quae, gratia Dei adiuta, conantur contra naturae corruptionem.    Conato, che è l’effetto della provvidenza e della grazia  divina, come una cosa sola. Giacché, se qui parla di gra  I Vedi sopra59-60.  2 Opere, ed. Ferrari, III, p. 26.    zia, poco prima ha detto  provvidenza »; dove, definendo  gli attributi di Dio, ne fa consistere la bontà in ciò, quod  omnibus rebus a se creatis quemdam conatum, quoddam 1ngenium indit se conservandi. Così, quando per  corporeae naturae vitia, quibus dividitur, atteritur et corrumpitur, singula quaeque in sua specie conservari non  possunt, divina Bonitas per ipsarum vitia rerum erumpit,  et conservati în suo quaeque genere cuncia. Di guisa che  questa bontà non ha funzione diversa dalla sapienza divina; la quale, quatenus suo quaeque tempore cuncia promat,  Divina Providentia appellatur. Quella divina  Provvidenza, le cui vie sono le opportunità, le occasioni,  gli accidenti, attraverso ai quali erompe la divina Bontà,  e fa nascere la virtù, com? virtù dianoetica o sapienza,  e virtù etica, infrenatrice degli affetti, imperfetta nei  gentili, o perfetta, qual’ è soltanto la virtù cristiana, che,  reprimendo la filautia, piega l’uomo all’umiltà:.  La virtù si può bensì distinguere in prudenza, temperanza  e fortezza; ma a patto che vadano tutte insiem= congiunte perché la virtù è una, e non dell’uomo. Sed  Dei virtus est, divina gratia, quae suo  lumine Christianis perspicue recta vitae agenda demonstrat: et efficit ut uno genere assensionis et rebus contembplandis et rebus in vita agendis assentiamur. Uno genere assensionis, perché spinozianamente  o, com'’egli preferisce dire, socraticamente, V. tiene a confermare  quel che ha stabilito nel lemma 4° (Prolog.), che cioè la volontà libera o  razionale coincide con l’ intelletto (voluntas et intellectus unum et idem  sunt, aveva detto SPINOZA, Eth., II, prop. 49 sch.):  Unum esse genus  assensionis, et quo rebus contemplandis, et quo rebus in vita agendis,  perspicue, ut tamen utrarumque fert natura, demonstratis assentimur.  Nam qui officio faciendo non assentitur, is perturbatione aliqua animi  id perspicue faciendum non cernit: quare ubi perturbatio sedata sit, et  animus ea sit defoecatus, hominem poenitet prave facti: quod quia in  geometricis rebus ex. gr. non evenit, quia linearum nulla sunt studia  sive affectus nulli, quibus perturbari homines possint, idcirco in iis  ac in vitae officiis faciendis diversum assensionis genus esse videtur »:  V., Op.2, ed. Ferrari, III, 17; cfr.42-43.    La virtù concreta è adunque virtù divina; o almeno  quel lume della divina grazia, che rende possibile il volere  umano instauratore dell’ordine morale. Che è pel V. un  ordine naturale, ossia ideale, eterno di giustizia: immutabile come fato, quasi sanctio et veluti vox divinae mentis,  al dire di Agostino. E l’uomo vien instaurando questa  eterna giustizia secondo le occasioni di utilità e di necessità, che la Provvidenza gli vien presentando affinché  esso affini e svolga la sua natura primitiva.    Homo erat factus ad Deum contemplandum colendumque  et ad caeteros homines ex Dei pietate complectendos, quae erat  honestas integra: bonae igitur occasiones fuere usus  et necessitas, quibus Divina Providentia rebus ipsis  dictantibus », ut eleganter ait Pomponius, hoc est ipsarum sponte  rerum, homines originis vitio dissociatos, non ex honestate integra,  quae ex animo tota erat, prae Dei pietate, quia non integros,  sed ex aliqua honestatis parte, nempe ex corporis utilitatum  aequalitate, quae magna et bona parte corruptos ad colendam  societatem retraheret. Uti corpus non est causa, sed occasio, ut  in hominum mente excitetur idea veri, ita utilitas corporis non  est causa sed occasio, ut excitetur in animo voluntas iusti !.    Qui, evidentemente, la Provvidenza, senza la quale  non ci sarebbe giustizia, e quindi non ci sarebbe società,  è identica con la grazia: la quale opera sulla volontà  umana illuminandola e traendola a Dio con quell’azione  che vien definita dalla sana teologia agostiniana. Onde  nella seconda parte del Diritto Universale (De const.  iurisprud.) V. crederà di poter dire che i suoi tur:s  principia sunt maxime conformia santiori de gratia doctrinae.    Ratio enim naturalis est, qua gentes ipsae sibi sunt  lex: eaque est lumen divini vultus super omnes signatum »;  et immutabiliter tuetur libertatem humani arbitrii, ut possimus,    I Pagg. 30-31.    si volumus, subsistere motus cupiditatis. Sed gentes vel Christianae ipsae, exsortes divinae gratiae, aliis cupiditatibus, ut  humana gloria, non tam subsistunt, quam deflectant motus cupiditatis, unde edunt imperfectae virtutis facinora: sola Christi  gratia victrix praestat, quam diximus esse verae virtutis notam !.    In una lettera del 1726 all’ab. Esperti V. accennava  alla morale giansenistica, deplorando che in odio della  probabile s’ irrigidisse in Francia la cristiana morale » ?.  Morale da stoici, secondo lui, «i quali vogliono l’ammortimento de’ sensi » e «negano la Provvidenza, facendosi strascinare dal fato, ignari che la filosofia, per giovar  al genere umano, dee sollevar a reggere l’uomo caduto  e debole, non convellergli la natura »; ignari «che si dia  Provvidenza divina » e « che si debbano moderare l’umane  passioni con la giustizia e da quella sì moderate farne  umane virtù » 3. Tutte determinazioni che nella Scienza  Nuova V. riferisce bensì agli stoici, ma a quegli stoici,  coi quali si confondevano nella sua mente i razionalisti  cartesiani, e quella sorta di razionalisti, che col loro fatalismo e rigorismo erano pure, ai suoi occhi, i giansenisti 4.  Il rigorismo, conseguenza necessaria del carattere trascendente della dottrina giansenistica della grazia, era  pel V. un lato solo della verità, che egli certamente,  nel suo platonismo, non voleva disconoscere. E nel Diritto  Universale, stabilita l’eternità come nota propria del  diritto naturale, ossia della morale, soggiunge: « Indidem  ruris naturalis immutabilitatem, quam meliores moralis  Christianae auctores rigorem appellant, aeternam in  I Pagg. 220-1.   * Opere, V, 186.   3 S. N, ed. Nic., p. 118 (secondo il testo 1730). Cfr. S. N.! in  Opere, ed. Ferr., p. 14.   4 Egli conosceva e ammirava, pur dichiarandoli «lumi sparsi» e  semplici tentativi, i Pensieri di Pascal e i Saggi di Nicole: Opere2, ed.  Ferr., VI, 127, e Opere, V, 19, 238.    telligis »; e nota che di qui viene l’ immutabilità dello  stesso giusto volontario:    Quod fateri verum omnes necesse est, qui de divina  gratia cum moelioribus sentiunt post D. Augustinum, qui  saepe docet « Deum suo immutabili decreto nostram arbitrii  libertatem tueri »; atque hac ratione iurisprudentiae Christianae  propria principia docerent !.    E qui interviene il concetto della sintesi del vero  e del certo, ossia della ragione e dell’autorità o volontà.   Nella Scienza Nuova del 1725 della grazia non si parla,  e V. si contenta di speculare su quella Provvidenza  scoperta nel Diritto Universale, che qui dice «l’architetta  di questo mondo delle nazioni » mediante la sapienza del  genere umano: «mente eterna ed infinita, che penetra  tutto e presentisce tutto; la quale, per sua infinita bontà,  in quanto appartiene a questo argomento, ciò che gli  uomini o popoli particolari ordinano a’ particolari loro  fini, per li quali principalmente proposti essi anderebbero  a perdersi, ella fuori e bene spesso contro ogni loro proposito dispone a un fine universale; per lo quale, usando  ella per mezzi quegli stessi particolari fini, li conserva » *.  E nelle successive rielaborazioni dell’opera si profonda  sempre più nella speculazione di questa razionalità positiva  del giusto, della civiltà, del processo storico, insomma,  dello spirito umano. Onde, condensando nelle dignità  della seconda Scienza Nuova tutta la filosofia delle sue  indagini, finirà con l’accorgersi che la sua Provvidenza  prescinde affatto dall’opera del Cristo, e perciò non ha  Opere, ed. Ferr., V, p. 52. Per Sant'Agostino V. qui cita dell'edizione dei Maurini (Parigi, 1679-1700): De civ. Dei, V, 10, VII, 30  (to. VII): De 7r._ nit., III, 4, e De corrept. et gr., c. 8, n. 14 (to. X).Il  Ferrari riproduce la nota con qualche inesattezza.   2 Opere, ed. Ferrari, IV, 39-40, 41. CONCETTO DELLA GRAZIA E DELLA PROVVIDENZA più niente che fare con la grazia. Laddove la filosofia,  secondo la Dign. VI, considera l’uomo quale deve essere,  la legislazione considera l’uomo qual è per farne buoni  usi nell’umana società; come della ferocia, dell’avarizia,  dell'ambizione, che sono gli tre vizi che portano a traverso tutto il gener umano, ne fa la milizia, la mercatanzia e la corte, e, sì, la fortezza, l’opulenza e la sapienza delle repubbliche; e di questi tre grandi vizi, i  quali certamente distruggerebbero l’umana generazione  sopra la terra, ne fa la civile felicità ». Donde il corollario:  Questa Degnità pruova esservi Provvedenza divina,  e che ella sia una divina mente legislatrice, la quale delle  passioni degli uomini tutti attenuti alle loro private  utilità, ne fa la giustizia, con la quale si conservi umanamente la generazione degli uomini, che si chiama gener  umano ». La Provvidenza qui, evidentemente, è la stessa  logica onde si rende intelligibile lo stesso fatto storico  dell'umanità. Il quale basta, per V., nella successiva  Dignità, a provare che c’è un diritto di natura o, che  è lo stesso, che l’umana natura è socievole,  poiché il  gener umano da che si ha memoria del mondo ha vivuto  e vive comportevolmente in società », e le cose fuori  del loro stato naturale né vi si adagiano né vi durano ».  E tutto ciò! prova che l’uomo abbia libero arbitrio,  però debole, di fare delle passioni virtù; ma che da Dio  è aiutato, naturalmente con la divina  Provvedenza e, soprannaturalmente,  dalla divina grazia».   Ed ecco esplicitamente messa da parte la grazia, e  ricondotta alla sola Provvidenza come razionalità immanente ogni spiegazione della realtà umana, o di quella  natura comune delle nazioni » che V. chiama  sub  &    I Dign.] bietto adeguato » della propria scienza 1. La grazia non  è negata, di certo, ma dichiarata estranea alla ricerca  vichiana. Se non che, e questa è l’importanza delle  riflessioni spese dal V. nella questione della grazia, il  suo concetto della Provvidenza, nato da quello della  grazia e spiccatosi da esso quando V. sentì il bisogno  d’una grazia immanente, conserva sempre la primitiva  impronta della dottrina della grazia, quale è propugnata  dal Dechamps. In un corollario infatti della Dign. CIV  (la consuetudine è simile al re.... ») che conferma l’ VIII,  l’autore torna a dedurne che l’uomo non è ingiusto per  natura assolutamente, ma per natura caduta e debole ».  E soggiunge:    E ’n conseguenza [questa Degnità] dimostra il primo principio  della cristiana religione, ch’ è Adamo intiero, qual dovette nell’ idea ottima essere stato criato da Dio. E quindi dimostra i  catolici principii della grazia: che ella operi nell'uomo, ch’abbia  la privazione, non la niegazione delle buone opere, e sì, ne abbia  una potenza inefficace, e perciò sia efficace la grazia; che perciò  non può stare senza il principio dell’arbitrio libero, il quale naturalmente è da Dio aiutato con la di lui Provvedenza.... sulla  quale la cristiana conviene con tutte l’altre religioni 2.    Dove la dottrina della grazia coincide perfettamente  con quella che abbiamo vista difesa dal Ricardo, se si  bada a quel principio dell’arbitrio libero, la cui necessità  si tiene ad affermare accanto alla grazia efficace; ma dalla  grazia si distingue la Provvidenza, non propria del Cristianesimo, bensì comune a tutte le religioni, e dal V.  concepita come la legge stessa di quel processo dal finito  all’ infinito, che è per lui la vita dello spirito come unità    1 Mi attengo qui al testo del 1730, che è più affine al pensiero del  Diritto Universale, ponendo la giustizia termine medio tra Dio e l’arbitrio  umano.   2 S. N.*, ed. Nicolini CONCETTO DELLA GRAZIA E DELLA PROVVIDENZA I6I    di questi due opposti. Sicché, terminando la Scienza  Nuova, ei potrà dire che quella mente che fece il  mondo delle Nazioni, è bensì una sovrumana sapienza, ma che opera senza forza di leggi,  anzi  facendo uso degli stessi costumi degli uomini, de’  quali le costumanze sono tanto libere d’ogni forza, quanto  lo è agli uomini celebrare la lor natura»:  E la grazia veniva quindi per lui ad identificarsi, per  quanto oscuramente, con la stessa natura.    I S. N, ed. Nicolini LE VARIE REDAZIONI  DELLA SCIENZA NUOVA »  E LA SUA ULTIMA EDIZIONE    Digitized by Google    Non spetta a me di lodare Fausto Nicolini del lavoro  faticoso e difficile da lui condotto a termine nei tre magnifici volumi della sua edizione della Scienza Nuova 3;  quantunque io sia dei pochissimi che possano personalmente attestare l’amore, l'entusiasmo che ha sorretto per  sei anni o sette questa tempra fortissima di studioso  sagace, instancabile e geniale attraverso la lunghissima  via percorsa per rifare parola per parola la composizione,  così singolare anche per gli sforzi tormentosi costati  all'autore, di quest’'oscuro e vasto monumento del pensiero italiano che è l’opera maggiore del V.. L’amore,  l'entusiasmo del Nicolini non ha bisogno d’altri testimoni,  oltre il suo libro. Il quale si apre con una lucidissima  introduzione, che illustra acutamente le complicate difficoltà in cui rimase fatalmente avvolto il pensiero vichiano, e 1 molteplici tentativi ond’esso si venne a grado  a grado accostando alla sua espressione finale nell'ultima    I GIAMBATTISTA V., La Scienza Nuova giusta l’edizione del 1744,  con le varianti dell’edizione del 1730 e di due redazioni intermedie  inedite e corredata di note storiche, a cura di FAUSTO NICOLINI (nei  Classici della Filosofia moderna, n. XIV), Bari, Laterza, 1911, 1913  e 1916 (8°, un vol. in tre parti diLXXXxIV-1274, con ritratto). Del  volume uscì contemporaneamente un'edizione di lusso in cento esemplari numerati, di carta a mano, formato 8° grande. Dell'opera il N.  ha ora in corso di stampa, negli Scrittori d’ Italia, una nuova edizione  in due volumi. Nel primo sarà dato il testo e una scelta delle varianti  di maggiore interesse. Nel secondo saranno condensate, in un'’esposizione continua, le note, arricchite di molte giunte.    forma della Scienza Nuova, per rifare quindi la storia dei  manoscritti e delle stampe; e dimostra così l'opportunità  dei criteri a cui s’ è inspirata la nuova edizione. Si conchiude con un ricchissimo indice analitico, dove tutti gli  elementi sparsi nel contenuto del difficile libro sono ad  uno ad uno disarticolati e classificati e ordinati alfabeticamente. E tutte le mille e dugento pagine mostrano il  valente editore vigile scrutatore d'ogni parola, d’ogni  sillaba, d'ogni virgola del suo testo, a ricostruire e, qua  e là, perfino a emendare, ma con molta discrezione, l’ intricata né sempre corretta sintassi dell'autore, a indagare  le fonti e le inesattezze e gli equivoci delle citazioni e dei  richiami affollantisi dietro alle deduzioni vichiane, e  schiarire oscurità, e illustrare argomentazioni, e rannodare  pensieri; e non posar mai, insomma, finché non abbia  accompagnato il suo gran V. al termine del suo viaggio.  Il nome di V. non potrà più disgiungersi da quello del  Nicolini; perché nessuno più studierà la Scienza Nuova  senza servirsi di questa edizione e attingere al tesoro di  erudizione, ammassatovi nelle note a dichiarazione degli  accenni e riferimenti onde è sempre complicato il pensiero vichiano. E questo è il maggior premio e la lode  più bella che il Nicolini potesse ambire. Singolare opera la Scienza Nuova per la sua struttura !  Merito capitale della edizione del Nicolini è appunto il  darci fedelmente il processo di questa struttura, per ciò  beninteso che si riferisce a quella che l’autore stesso  battezzò Scienza Nuova seconda. Giacché, dopo il De  antiquissima Italorum sapientia (1710),  che contiene  per alcune parti una dottrina in diretta antitesi con quella  della Scienza Nuova, ma contiene pure il principio filosofico più profondo, che animerà l’opera maggiore,  V.  tutti gli altri trentaquattro anni della sua vita li visse  nella meditazione dei problemi, che sono argomento  della Scienza Nuova. Intorno al ’19 1 suoi pensieri avevano  preso già corpo. Ma da quell’anno fino al ’35 o ‘36, quando  si può ritenere abbia data l’ultima forma al libro cui  intendeva affidare il suo nome, lavorò a ben quattro  esposizioni diverse del suo pensiero. La prima volta gli  die’ forma nei due libri De universi iuris uno principio  et fine uno (1720) e De constantia turisprudentis (1721):  due parti di una stessa opera, che V. stesso dice del  Diritto Universale. Il De constantia comprendeva alla  sua volta due parti: una, molto breve, De constantia  philosophiae, esposizione dei principii filosofici che illuminano tutta la storia del diritto nella sua concreta  realtà, che è tutta la vita spirituale dell’uomo, ossia la  civiltà; e l’altra, assai ampia, De constantia fhilologiae,  ricostruzione dei fatti dalle testimonianze rimasteci, interpretate al lume di quei principii. E qui era un capitolo: Nova scientia tentatur; donde » (come dirà V.  stesso nella sua Autobiografia) s’ incomincia la filologia  a ridurre a principii di scienza, e.... sopra tal sistema  vi si facevano molte ed importanti scoverte di cose tutte  nuove e tutte lontane dall’oppinione di tutti i dotti di  tutti i tempi »!.    I Autobiografia ed. Croce,41-2. Sui rapporti fra Dir. Universale  e Scienza Nuova, v. ora anche NIcoOLINI, Vita di G.B. V., nel Giorn.  crit. di filos. ital., 1925. Ma quanto alla data assegnata dal V. alla  Scienza Nuova in forma negativa, il NICOLINI stesso mi comunica ora  qualche suo dubbio:  Par difficile che alla Scienza Nuova in forma  negativa V. cominciasse a lavorare fin dal 1722. Basta pensare che  nel 1722 V. lavorava intorno alle Note al Diritto Universale, le quali  furon finite di stampare non prima dell’agosto 1722. Pertanto, malgrado  l'affermazione dell’Autobiografia, credo che alla Scienza Nuova negativa  V. si accingesse non prima ma do po la disavventura universitaria  dell’aprile 1723. Essa era già a buon punto nell’ottobre 1723, giacché il 30 di quel mese Anton Francesco Maria Marmi, informato da [A questa prima forma ne seguì ben presto un'altra,  che non fu più stampata, quantunque già pronta per la  stampa, e già riveduta e approvata dal censore ecclesiastico. La quale è andata smarrita. Essa dovette essere  scritta nel '22 o nel ’23; perché nella Autobiografia il  V., dopo aver narrato la disavventura toccatagli nel  concorso alla cattedra mattutina di leggi (che ebbe luogo  tra il gennaio e l’aprile del ’23), soggiunge che per ciò  egli non si ritrasse punto di lavorare altre opere; come  in effetto ne aveva già lavorata una divisa in  due libri, ch'avrebbono occupato due giusti volumi in  quarto; nel primo de’ quali andava a ritrovare I princip del diritto naturale delle genti dentro quegli dell’umanità delle nazioni per via d’ inverisimiglianze, sconcezze  ed impossibilità di tutto ciò che ne avevano gli altri  innanzi più imaginato che raggionato; in conseguenza del  quale, nel secondo, egli spiegava la Generazione de’ costumi  umani con una certa cronologia raggionata di tempi oscuro  e favoloso de’ greci »*: la Scienza Nuova, insomma, «in  forma negativa ».   Questo manoscritto non poté essere stampato perché  troppo voluminoso; e al povero V. falli la speranza  riposta nel card. Lorenzo Corsini (poi Clemente XII) di  averne le spese della stampa in contraccambio della  dedica offertagli. Ed ecco quindi la necessità (di cui parve    qualche suo corrispondente napoletano, informava a sua volta il  Muratori che V. «lavorava sopra un’opera che voleva intitolare  Dubbi e desidèri intorno alla teologia de’ gentili ». Quasi compiuta  l’opera era già nel novembre 1724, e cioè quando V. mandò al Corsini, per mezzo del Monti, la minuta della dedica (divenuta poi dedica  della Scienza Nuova prima). Ma pronto per la stampa il ms. non fu  se non nel maggio 1725: tempo in cui V. lo dié al canonico Torno  per la revisione. Il titolo definitivo che V. voleva dare a codesta  Scienza Nuova în forma negativa, era, come ha dimostrato il DONATI  (Autografi e documenti vichiani,153 Sgg.): Scienza nuova dintorno  aì principii dell'umanità ». 1 Autobiografia] al V. dover esser grato alla Provvidenza) di riscrivere  la sua opera in forma più stretta e, come a lui parve,  anche più stringente: abbandonando quel metodo negativo  che procedeva « per via di dubbi e desiderii; maniera la  qual fa più tosto forza che soddisfa la mente umana »;  e facendo un’altra opera « più picciola in vero » (scriveva  V. stesso, un mese dopo stampatala, il 20 nov. 1725),  «ma, se non vado errato, di gran lunga più efficace;  nella quale per mezzo di tre verità positive, sperimentate  dall’universale delle nazioni, che si prendono per principli, e per un gran séguito di rilevantissime discoverte,  dando altro ordine e più breve e più spedito a quelle  medesime cose che si dubitavan e si ricercavano nella  prima, si truovano tali principii convincere di fatto e 1  filosofi obbesiani e i filologi baileani », ecc. *. Ed ecco la  Scienza Nuova in forma positiva, che è quella che, col  titolo di Principit di una Scienza Nuova intorno alla  natura delle nazioni, per la quale si ritruovano i principii  di altro sistema del diritto naturale delle genti, venne in  luce nel ’25; e che divenne più tardi, pel V. e per gli  studiosi, la prima Scienza Nuova.   Ad essa seguì nel ’30 una nuova edizione, che, cominciata come un’ illustrazione della prima, riuscì poi una  seconda Scienza Nuova, modificata in alcuni particolari,  ma sostanzialmente conservata, nella terza ed ultima  edizione, pubblicata postuma nel ’44. Sicché le redazioni  principali dell’opera son quattro: il Diritto Universale e  tre Scienze Nuove, la prima delle quali, in forma negativa, non ci è pervenuta, e le altre due sono a stampa.   Ma queste sono soltanto le principali! Già la quarta  forma non ebbe, alla sua volta, meno di quattro redazioni: due rappresentate dalle edizioni ricordate del ’30  e del ‘44; e due, rimaste inedite, e soltanto ora note per       t Lettera a L. Corsini, in A utobiogr. l’accuratissimo spoglio fattone dal Nicolini dai rispettivi  autografi conservati nella Biblioteca Nazionale di Napoli;  e sono due forme intermedie, dove più compendiose dove  più ampie della Scienza Nuova terza, l’una del 1731 e  l’altra del ’34 circa. Dal Diritto Universale alla Scienza  Nuova del ’44 ben sette redazioni dunque: attraverso le  quali gli stessi problemi vengono risoluti e ripresi complicandosi con nuovi problemi per essere tornati a risolvere in forma sempre più adeguata, finché sulle tormentate carte non cadde la stanca mano:    da la tremante man cade lo stile  e de’ pensier si è chiuso il mio tesauro;    come lo stesso V. dice nel suo sonetto a Gaetano Brancone, nel 1735 !.   Né basta. Le due redazioni intermedie suddette, rimaste inedite, sono entrambe intitolate Correzioni, miglioramenti ed aggiunte perché destinate ad essere incorporate  all'opera nella ristampa della Scienza Nuova” seconda »,  come V. soggiunge al titolo di quelle del 1731. In  realtà, più che una revisione del testo del ’30, ne sono,  le une e le altre, un rifacimento: come quel testo, a sua  volta, era riuscito un rifacimento affatto nuovo del testo  anteriore del ’25, quantunque V. credesse prima di  poterlo intitolare: Trascelto delle annotazioni e dell’opera  dintorno alla natura comune delle nazioni, in una maniera  eminente ristretto ed unito, e principalmente ordinato alla  discoverta del vero Omero =. Il titolo si spiega con l’origine  di queste ulteriori redazioni, le quali, quasi per generazione spontanea, nascevano a volta a volta accanto al  testo anteriore per l’ insoddisfazione che V. provava,    I Autobiografia.] appena data forma concreta e determinata al proprio  pensiero. Sicché cominciava da prima a riempire di postille i margini de’ suoi libri, e poi a stendersi in annotazioni ordinate con rinvii ai vari luoghi che gli parevano  bisognosi d'ampliamenti e schiarimenti; e poi finiva col  rifarsi da capo per dare sistema e unità alle stesse annotazioni, sì da farne un’opera nuova.   Così fece col Diritto Universale, di cui prima tempestò  di postille marginali alcuni esemplari; ma, dopo quello  con particolar cura annotato pel principe Eugenio di  Savoia, sentì di dover fare seguire le Notae în duos libros  alterum De uno universi etc., alterum De constantia t1urisprudentis (1722): note tanto importanti da contenere  p. e. per la prima volta la teoria vichiana intorno al vero  Omero. Così fece per la Scienza Nuova del ’25, che, appena pubblicata, gli die’ materia a scrivere un commento  di 600 pagine, che nel ’28 egli, a richiesta del p. Lodoli  e di Antonio Conti, mandava a stampare a Venezia; e  se ne iniziava infatti la stampa colà, poi interrotta per  dissidii sorti con l’editore, e non più proseguita !. E il  manoscritto, richiamato dal V. a Napoli, fu da cima  a fondo rifatto tra il 25 dicembre 1729 e il 9 aprile del ’30,  con un estro quasi fatale », al dire dello stesso V.:  e fu la Scienza Nuova del ’30. Ma non aveva ancor finito  la stampa del Trascelto, ed eran già cominciate le prime  Correzioni, miglioramenti e giunte (CMA*), che l’autore  faceva in tempo ad aggiungere a guisa di Errata, in    I [Così, fin ora, hanno affermato i biografi, compreso il Nicolini.  Il quale, per altro, per ragioni che sarebbe troppo lungo riassumere,  è giunto ora alla conclusione che le parole dell’Autobiografia:  ma,  dopo essersi stampato più della metà di detta opera, avvenne un fatto »,  ecc. (ediz. Croce, p. 72), si riferiscano non alle Annotazioni alla Scienza  Nuova prima, di cui anzi non fu stampata nemmeno una riga, ma alla  Scienza Nuova seconda, ossia all'edizione del 1730. V., insomma,  riebbe da Venezia il ms. delle Annotazioni, dopo che già aveva stampata a Napoli più della metà della Scienza Nuova seconda, e cioè circa  a metà del 1730).    fondo al volume. E divulgate appena le prime copie  della nuova edizione, ecco V., quasi felice che un  errore provvidenziale notatogli dal principe di  Scalea gli dia occasione di pubblicare una Lettera, a cui  può aggiungere una nuova serie d’ importanti giunte,  tra le quali un nuovo capitolo: Dell’origine de’ comizi  curiati (CMA?). Ma queste prime revisioni rapidissime  avevan dato luogo soltanto ad aggiunte relative ad alcuni  luoghi particolari. In dodici paginette del Trascelto (pp. 46578) sono le CMA: e nelle dodici paginette della Lettera  al Principe di Scalea sono comprese, oltre questa lettera,  le CMA=?. Dalla continuazione dello stesso lavoro di revisione, in modo più riposato e in forma più larga, nascono  le CMA:3, che è un manoscritto di duecento pagine fittissime, nel corso del quale V. s’accorge di fare opera  che sta già a sé, ben diversa dalla Scienza Nuova prima  (1725): anzi finisce da ultimo col rifiutarla, salvo tre  capitoli come rifiuta il Diritto Universale, salvando anche  di questo due capitoli soli, di cui era tuttavia contento.  E quando, due o tre anni dopo, rifà nelle CMA4 questo  nuovo lavoro in un altro grosso manoscritto di centoquaranta pagine, toglie ancora e aggiunge, e mostra di  non essere per anco soddisfatto a pieno della forma raggiunta dal proprio pensiero. Che infatti tornerà a rielaborare in quella che sarà la Scienza Nuova terza, ossia  la definitiva forma della Scienza Nuova seconda, ch'egli  non poté vedere stampata, e che ci rappresenta l’ultimo  sforzo fatto dall’autore per svolgere con ordine e con  sistema tutto il vasto materiale che gli si avvolgeva dentro  la mente, solcato in tutti i sensi, ma non mai illuminato  in pieno, dai lampi del suo genio speculativo.   Sicché, al trar dei conti, e non contando, per la brevità  loro, le CMA: e le CMA?, il Nicolini ha potuto dirci,  che ben nove sono state le redazioni (più o men diverse  tra loro) della Scienza Nuova:   I. Diritto Universale ;   2. Note al Diritto Universale ;   3. Scienza Nuova in forma negativa (smarrita);   4. Scienza Nuova prima (1725);   5. Scienza Nuova veneta (ossia, Scienza Nuova prima  con Annotazioni e commenti, andati anch'essi smarriti);   6. Scienza Nuova seconda (1730);   7. CMA3;   8. CMA4;   o. Scienza Nuova terza (1744; ma scritta tra il ’35 e  il '36 e continuamente corretta fino al 1743).    E pure il conto non si può dire rigorosissimo. Se sl contano le Note al Diritto Universale, si potrebbe pure contare il saggio » del D. U. che iì V. pubblicò nel ’20,  la Sinopsi del D. U.; quantunque questa supponga forse  già scritto, almeno in gran parte, il D. U. Ma certamente  al Diritto Universale bisogna far precedere una prima  redazione, a noi non giunta: per cui la somma complessiva delle redazioni della Scienza Nuova deve salire a dieci.   Il Nicolini stesso ricorda un documento, sul quale  aveva fermato la sua attenzione il Croce, unico frammento  di un’opera vichiana che non possediamo, e che nel 1837  fu pubblicato dal Ferrari (in appendice alla sua Mente di  V.) come prefazione al perduto Commento a Grozio del  V. 1. Il Croce osservò ?, che quella pagina I. non è  una prefazione, ma la nota finale di un’opera (in operis  calce, ecc.); 2. non si riferisce ad annotazioni, ma a una  opera originale (sî hos legeris libros); 3. non si riferisce  a un commento a Grozio, perché, nel citare l’opera di  questo, se ne dà il titolo per disteso e s’ invita a metterla  a raffronto con quella di esso V....; 4. si riferisce, invece,       I Nelle Opere del V., vol. I,280-1; nella 28 ed., vol. I,250-I.  2 Secondo Supplemento alla Bibliografia vichiana,3-4.    12    a un’opera del V. in più libri (n tertia universae nostrae  tractationis parte). L'opera trattava de metaphysica, de  philologia, de re morali ac civili, de lingua, historia et  iurisprudentia romana..., de ture naturali gentium; V.  sì preoccupava di essere in essa riuscito oscuro; vi aveva  esposto cose ‘inaudite’; nella terza parte si dimostrava  falso il labefactare inconditis rationibus et distractis auctorum  locis, quamquam numero plurimis, et magis memoria quam  mente. Che questa nota finale non possa concernere il  secondo e terzo libro del De antiquissima, è certo, perché  quei due libri non furono mai scritti. Essa dunque o appartiene al disegno di un’opera che fu la prima idea del  Diritto Universale; o (il che ci sembra più probabile) era  destinata a questa opera stessa; la quale, benché divisa  in due libri, essendo il secondo di questi bipartito, si può  considerare come composta di tre parti». Il Nicolini  prende le mosse da quest’acuta analisi del Croce, e ne  trae una conclusione alquanto diversa: che cioè il lavoro,  di cui, dunque, ci sarebbe rimasto il commiato, dev'essere  ritenuto un lavoro originale, il quale non può essere se  non un primo (o secondo, o terzo, o quarto) getto dell’opera capitale del V. » (p. XXVI).   Che si tratti della materia stessa del Diritto Universale  è indubbio. Non solo le parole rilevate dal Croce, ma  altre anche più precise c’ informano con certezza del  contenuto dell’opera, là dove l’autore invita l’equanime  lettore che volesse criticarla a metterglisi contro faribus  armis; e a vedere an ex aliis tam paucis, quam sunt numero sepiem vera, ci tam simplicibus, quantum sunt metaphysica, quae ut agnoscas vera, hominem esse sat est, alia  faciliori et feliciori methodo plura quam nos, in universa  historia profana, re poetica, grammatica, morali, civilique  doctrina ad Christianam iurisprudentiam omnia accomodate in unum systema componas, et sic efficies, ui nostrum  sua sponte corruerit. Tutte queste materie rientrano appunto nel programma del D. U. Ma né la pagina di cui  si tratta, può attribuirsi proprio al D. U., né credo, a  ben riflettervi, si possa parlare di due, e tanto meno  di tre o quattro getti di cotesta opera. Che non sia propriamente il Diritto Universale, quale fu pubblicato nel  1720-21, risulta da questa sfida lanciata dall’autore al  suo immaginario critico, di fare quanto aveva fatto lui  nel suo libro, componendo un ugual numero di scoperte  di storia profana universale, di poetica, di grammatica,  di dottrina morale e civile, in un sistema di cristiana  giurisprudenza; deducendo il tutto da non più che sette  principii metafisici, ricavati dalla stessa natura della  mente umana (quae ut agnoscas vera, hominem esse sat  est). Numero sette, che non vedo dove si possa rintracciare nel Diritto Universale, o che si cerchi nei principii del De uno, o che si cerchi in quelli del De constantia  philosophiae. Questi sette principii o verità (vera), così  come sono definiti, parrebbero aver riscontro nei tre elementi d’ogni erudizione divina e umana (mosse, velle, posse),  che nel Diritto Universale sono messi a base di tutto,  come quelli quae tam existere, et nostra esse, quam nos  vivere, certo scimus (Ferrari?, p. 14): ma non sono questi  tre elementi. I quali pure erano stati annunziati come  principio di unificazione d’ogni sapere, nell’Orazione inau  LI    gurale del 1719, che non ci è stata conservata, ma di    I Nel De Uno questa triade veramente è Posse, nosse, velle (Ferr.?,  p. 21). E V. citando, al solito, a memoria, dice  ut D. Augustinus  in Confessionibus definit ». Ma Sant'Agostino (nelle Confess. XIII, 11)  dà invece quest'altra triade: (Esse, nosse, velle). Nell’ Orazione del 1719  (Autob., p. 40) egli stesso aveva data la sua con diverso ordine: Nosse,  velle, posse. Ma, in un modo o nell’altro, il concetto vichiano non credo  risalga direttamente ad Agostino; bensì forse piuttosto al Campanella (che V., per ovvie ragioni, non ama nominare) che tanto nella  Metafisica e nelle Poesie aveva insistito sulla sua dottrina delle primalità, o della  monotriade »: Posse, nosse, velle. Cfr. (anche per luoghi  della Metafisica) Poesie filosofiche, ed. Gentile,31, 44, 133. E per  i rapporti tra V. e Campanella, vedi sopra31-33.cui V. ci riferisce nella Autobiografia l'argomento, poi  ripetuto testualmente nel Proloquium del Diritto Universale. E si badi alla partizione che fin d'allora faceva  dell'argomento:  Quod quo facilius facitamus, hanc tractationem universam divido in partes tres: in quarum prima  omnia scientiarum principia a Deo esse; in secunda, divinum lumen sive acternum verum per haec tria quae proposuimus elementa omnes scientias permeare, casque omnes  una arctissima complexione colligatas alias in alias dirigere  et cunctas ad Deum ipsarum principium revocare; in tertia,  quicquid usquam de divinae ac humanae eruditionis principiis scriptum dictumve sit quod cum his principiis congruerit, verumy quod dissenserit, falsum esse demonstremus.  Atque adeo de divinarum atque humanarum rerum notitia  haec agam tria: de origine, de circulo, de constantia.... » ®.  Partizione precisamente identica a quella presupposta dal  commiato dell’opera di cui si tratta, dove l’autore dice  al suo critico: .... Sin postules inconditis rationibus, et  distractis auctorum locis, quamquam numero plurimis, et  magis memoria, quam mente, hanc nostram doctrinam labefactare, ignosce, quaeso, si tibi nihil respondeam: nam  silentum non mihi adrogantia, res ipsa faciet, quod ea illa  ipsa fuerint, quae in tertia nostrae universae tractationis  parte, hoc ipso, quod cum nostris principiis non congruerini,  falsa esse demonstravimus ». Dove l’accenno al contenuto  della terza parte diventa chiarissimo quando si riscontri  con l'argomento dell’ Orazione del ’19, messo poi a capo  anche del Diritto Universale.   Conviene osservare altresì che le tre parti De uno,  Constantia philosophiae e Constantia philologiae non sono  propriamente quelle che l’autore distinse nella sua succinta trattazione del ’19, né quindi quelle in cui era  distinta l’opera smarrita: giacché nell’Autobiografia egli,    t Autobiogr., p. 40; cfr. D. U. Ferrari?, p. 14. LE VARIE REDAZIONI DELLA SCIENZA NUOVA per indicare come nel Diritto Universale mantenesse le  superbe promesse dell’ Orazione del ’19, dice esplicitamente che nel De uno pruova la prima e la seconda  parte della dissertazione » (cioè, de origine, de circulo);  e nel De constantia turisprudentis  più a minuto sì pruova  la terza parte della dissertazione, la quale in questo libro  si divide in due parti, una De constantia philosophiae,  altra De constantia philologiae » *.   Dunque, il Diritto Universale fu scritto dopo la dissertazione del ’19 (e quando nel ’20 V. pubblicò  soltanto il primo libro, De uno, certo egli aveva ancora  da scrivere il secondo, De constantia), la quale altrimenti  avrebbe rispecchiato l’organamento dell’opera, di cui sarebbe venuta ad essere un riassunto. E poiché essa invece  rispecchia la sistemazione che la materia aveva nell'opera  perduta, questa piuttosto deve ritenersi anteriore alla  dissertazione del ‘19. E per questa ragione, come per la  discrepanza avvertita circa i principii tra l’opera perduta  e il Diritto Universale, bisogna conchiudere che piima  di questa opera (scritta tra il ’19 e il ’21), prima dell’ Orazione inaugurale del ’19, V. dové scrivere  un’opera che possiamo dire la prima forma così del Diritto  Universale come della Scienza Nuova, e di cui ci è giunto  il solo commiato. Quando la scrisse ?   Certamente dopo la Vita di Antonio Carafa (1716),  perché nell’apparecchiarsi a scrivere questa vita, ll  V. si vide in obbligo di leggere Ugon Grozio, De iure  belli et pacis », che fu il suo  quarto auttore » =; aggiuntosi  allora a Platone, Tacito e Bacone: Ugone Grozio, che  pone in sistema di un dritto universale tutta la filosofia  e la teologia in entrambe le parti di questa ultima, sì  della storia delle cose o favolosa o certa, sì della storia    I O. c., p. 4I.  2 Autobiogr.] delle tre lingue, ebrea, greca e latina, che sono le tre  lingue dotte antiche che ci son pervenute per mano della  cristiana religione »1. Quando scrisse l’opera perduta,  egli non solo aveva letto il De rure delli et pacis (da cui  si può dire, in certo senso, che togliesse il problema),  ma lo avea, come ora si direbbe, superato, potendo enunciare hactenus inaudita. Ciò che suppone qualche inter-  vallo tra il ’16 e la nascita della detta opera, nel quale  cade un altro lavoro vichiano; perché nell’Autobdiografia  si legge che V. molto più poi si fe’ addentro in quest'opera del Grozio, quando, avendo ella  a ristampare, fu richiesto che vi scrivesse alcune note,  che ’1 V. cominciò a scrivere, più che al Grozio, in  riprensione di quelle che vi aveva scritte il Gronovio...;  e già ne aveva scorso il primo libro e la metà del secondo;  delle quali poi si rimase, sulla riflessione che non conveniva ad uom cattolico adornare di note opera di auttore  eretico » 2. Si rimase, sopra tutto, è da credere, perché  dal lavorio delle note, dall’ intensa meditazione del problema dovette cominciare a sorgergli nella mente e a  prender forma e figura quel systema che doveva esser suo.   Con questi studi », continua infatti V.,  con queste  cognizioni, con questi quattro autori che egli ammirava  sopra tutt’altri, con desiderio di piegarli in uso della  cattolica religione, finalmente V. intese [tra  il ’17 e il 18] non esservi ancora nel mondo delle lettere  un sistema, in cui accordasse la miglior filosofia,  qual’ è la platonica subordinata alla cristiana religione,  con una filologia che portasse necessità di scienza in  entrambe le sue parti, che sono le due storie, una delle  lingue, l’altra delle cose.... Ed in questo intendimento  egli tutto spiccossi dalla mente del V. quello che egli era ito nella mente cercando nelle prime orazioni  augurali ed aveva dirozzato pur grossolanamente nella  dissertazione De nostri temporis studiorum ratione e, con  un poco più di raffinamento, nella Metafisica. Ed in una  apertura di studi pubblica solenne dell’anno 1719 propose  questo argomento ». Che è quello che conosciamo: e che  egli poté proporre, perché già s’era spiccato dalla sua  mente il sistema che fin dalle prime Orazioni (dal 1699)  era andato cercando: e che dev’essere appunto quell’opera  anteriore al Diritto Universale, primissimo incunabulo  della Scienza Nuova. Della quale, per concludere queste  osservazioni, si può dire con tutta verità che sono state  ben dieci le redazioni distinte e da considerare come  altrettante stazioni attraverso le quali venne posando e  passando il pensiero vichiano.   Di queste dieci redazioni tre, dunque, sono per noi  perdute: questa del ’17 o ’18; la Scienza Nuova in forma  negativa, e la Scienza Nuova veneta. Delle sette rimaste,  due, Diritto Universale e Note al Diritto Universale, possono  pure riguardarsi come un’opera sola, e fondersi insieme,  come fece il Ferrari; quantunque, dato il diverso momento che esse rappresentano nello svolgimento della  dottrina, meglio forse sarebbe aggiunger le Note a guisa  di appendice, all’opera cui si riconnettono. Resta a sé la  Scienza Nuova: del ’25; e fanno corpo insieme le altre  quattro redazioni: Scienza Nuova?, CM A3, CM A4, Scienza  Nuova: con le migliori aggiunte CMA*-:, già a stampa.    III.    Il Nicolini, facendo l’edizione di questa terza Scienza  Nuova, è partito dal metodo già adottato parzialmente  dal Ferrari. Il quale, giustamente, non credette di accontentarsi della sola lezione del 1744, e notò tutte le    varianti delle edizioni del 1730 e tutte le aggiunte inserite  in quella del 1744 »; cosicché ogni lettore potesse, diceva,   assistere allo spettacolo delle ultime idee di V., vedere  in qual modo egli stesso si avvedesse di avere qualche  volta naufragato contro la realtà istorica; e.... conoscere  le intime esitazioni delle idee e dell’orgoglio di V. dinanzi all’ indifferenza de’ suoi contemporanei » :. Ma ha  esteso questo metodo a CMA:, CMA?, CMA3 e CMA4,  in guisa da darci prospetticamente, per intero, tutto il  processo di formazione della Scienza Nuova dalla seconda  alla terza edizione fattane dallo stesso autore.   Quanta fatica debba esser costata al Nicolini questo  riscontro e raccordo, può vedere ognuno che scorra con  l'occhio la varia provenienza delle varianti che accompagnano in serie perpetua il testo, contrassegnate ciascuna  dalla sigla della rispettiva redazione a cui appartiene.  Ed è questa forse la parte del suo lavoro, per cui il Nicolini ha più bene meritato degli studi vichiani, ove si  consideri che mercé sua non solo sono cronologicamente  distinti tutti gli elementi di questo tormentoso processo  di pensiero che in cinque o sei anni fece e rifece tante  volte con erculei sforzi l’elaborazione d’un vastissimo  materiale di fatti e di idee, ma sono anche portati a nostra cognizione molteplici documenti o frammenti finora  ignorati di questo pensiero, che con le sue stesse angosclose oscurità esercita tanto fascino e desta tanto interesse in noi, che vogliamo leggervi fino al fondo.   Di CMA4 due brani aveva pubblicati il bibliotecario  della Biblioteca Borbonica (ora Nazionale) di Napoli, il  can. Antonio Giordano nel 1818 ?. E messo sulle tracce  di questi dimenticati manoscritti vichiani, ora tutti    I Opere, ed. Ferrariz, V, p. XXIII.  2 Lettera ed altri pezzi inediti del ch. G. B. V. tratti da un ms., ecc., Napoli, Giovannitti LE VARIE REDAZIONI DELLA SCIENZA NUOVA raccolti, come si è accennato, in quella Nazionale, altri  pochi brani, tra i più significativi, dalle stesse CMA4 e  da CMA3 aveva potuti pubblicare, ma poco correttamente, Giuseppe Del Giudice nel 1862 !; poscia riprodotti nel vol. VII delle Ofere vichiane (1865) nella ingloriosa ma tutt’altro che spregevole edizione napoletana  curata da Francesco Saverio Pomodoro. Ma questi brani  staccati non apparivano nella loro importanza; e ora ci  tornano innanzi accompagnati da tutto lo spoglio dei  manoscritti a cui spettano, nel sistema compiuto di tutto  lo svolgimento del pensiero vichiano: ora forma imperfetta di quello che V. sentì poi di poter esprimere  più efficacemente, o più pienamente, o con maggior concisione; ora elementi espunti più tardi, probabilmente  perché sembrati accessori o discordi dal filo del pensiero  principale, o non più soddisfacenti a quel poderoso intelletto così vigorosamente autocritico: ma che in ogni  caso riescono, qual più qual meno, documenti di alto  interesse per lo studioso.   Segnatamente la redazione del ’'31 (CMA3) meritava  di essere così tutta accuratamente analizzata e messa in  luce.  Redazione quasi del tutto inedita », avverte il  Nicolini, e pure di singolare interesse per lo svolgimento  delle idee vichiane », giacché  l'edizione del 1730 formava  (almeno nella mente del V.) tutt'uno con la Scienza  Nuova prima, la quale appunto perciò vi è sempre citata,  non con questo nome, ma con l’altro generico di ‘ opera ’  o di ‘ Scienza Nuova’, senz'altro. Invece nella nuova redazione, l’edizione del 1725 non solo non è più presupposta (e quindi V. comincia a citarla col nome, che  è poi restato, di Scienza Nuova prima), ma, tranne tre  capitoli, rifiutata. E rifiutati altresì sono i due libri del    I Scritti inediti di G. B. V. tratti da un autografo dell’A., Napoli,  Stamp. R. Università, 1862.    Diritto Universale, e la Scienza Nuova in forma negativa  e tutto ciò che V. aveva fino allora scritto di filosofico.  Basta ciò a mostrare quanto di nuovo si debba trovare  in questa.... redazione, in cui V. aveva voluto raccogliere quel che del suo pensiero credeva degno di essere  trasmesso alla posterità. Delle quattro redazioni della  seconda Scienza Nuova, questa senza dubbio è la più  piena: più piena anche dell’edizione del 1744. Di fronte  a quella del 1730, essa, oltre che molti e lunghi brani  intercalati qua e là, presenta ben quindici capitoli in  più », ecc. E si badi che di questi capitoli soltanto sette  rimangono in CMA4.   Ebbene, degli altri otto solo una parte rientrarono nel  testo del ’44; e 1 rimanenti e i molti singoli brani soppressi delle stesse CM 43 come delle CM A* era necessario  pure far conoscere. E il Nicolini è stato colpito dalla  importanza di questo nuovo materiale, rimasto fuori dalla  redazione definitiva; e dove ha potuto, ossia dove trattavasi di capitoli interi, l’ ha incorporato senz'altro nel  testo, avvertendone bensì sempre la provenienza. Risoluzione certamente arbitraria, quantunque scusata dal  carattere di questa edizione, che vuol essere pure una  storia illustrativa di tutto il testo vichiano; e che per  altro non crederei più giustificata in un’edizione che,  pur fornendo notizia delle varianti (se pure ciò sarà più  necessario dopo questa monumentale fatica, che non sarà  più da rifare), ci mettesse innanzi in forma criticamente  corretta quella che per l’autore fu, comunque, la forma  definitiva del suo pensiero 1. Tutti i capitoli, adunque,  soppressi dopo CM A3, sono dal Nicolini restituiti al testo;  e con essi una sorta di prefazione, che in quella redazione  l’autore aveva scritta col titolo Occasione di meditarsi    I E infatti, nella nuova edizione che va ora preparando, lo stesso  Nicolini ha relegati tutti codesti capitoli soppressi nelle varianti.] quest'opera, e un'appendice, in cui intendeva, oltre due  Ragionamenti, uno dintorno alla legge delle XII tavole  venuta da fuori in Roma, e l’altro dintorno alla legge regia  di Triboniano, rifacimenti e riadattamenti di alcune pagine  del Diritto Universale, riprodurre tre luoghi della Scienza  Nuova prima, come tutto ciò che all’autore pareva nel  31 di dover conservare di quei primi abbozzi della sua  opera, che erano stati Diritto Universale e Scienza Nuova *.   Di questi brani e interi capitoli restituiti al testo della  Scienza Nuova o soggiunti a pie’ di esso tra le ‘varianti,  buona parte era già nota, benché scorrettamente pubblicata dal Del Giudice insieme con quella prefazione e  l’appendice. Ma due capitoli compaiono ora come affatto  nuovi nella edizione del Nicolini (pp. 238-44), senza dire  delle moltissime varianti, alcune lunghe, e altre brevi,  ma assai significative. E benissimo ha fatto il Nicolini a  darceli col resto dell’opera, benché  bisogna pur dirlo  a onore del V., che lavorò con gli occhi aperti attorno  a queste sue numerose redazioni, e non soppresse, credo,  mai nulla a caso,  ragionevolmente fossero stati soppressi dall’autore nell’ulteriore revisione del libro. Dei due  infatti (lib. II, sez. 1, capp. 3 e 4) il primo, Come da questa  debbano tutte l’altre scienze prender i loro principii, ripete  concetti qua e là accennati, e spesso meglio chiariti, in  tutto il corso dell’opera. E il secondo ?, Riprensione delle  metafisiche di Renato delle Carte, di Benedetto Spinosa e di  Giovanni Locke, è un documento notabilissimo della posizione intellettuale del V., ma non colpisce nessuno dei  tre pensatori, presi a bersaglio; o perché mira più alto, o  perché mira più basso, e mai al segno giusto. E V.  forse sentì che la sua critica contro il soggettivismo cartesiano era stata fatta per l'appunto da Spinoza (infatti    I Pagg. XXXVII-IX.  ? Venne già anticipato nella Critica egli dice che  cotal maniera di filosofare diede lo scandalo  a B. Spinosa »)! e andava a finire nello spinozismo; e  non gli consentiva quindi più la critica alla quale egli  subito passa dello Spinoza. In sostanza V., faccia a  faccia col panteismo, che era nel fondo del suo pensiero,  doveva dare addietro, e sopprimere il suo pericoloso saggio  di critica. Quanto al Locke, che V. non doveva aver  letto, e che giunge a riguardare come un materialista,  egli non poteva non aver qualche dubbio a dirlo  costretto a dar un Dio tutto corpo operante a caso »; né  quindi poteva fermarsi a credere veramente efficace  contro l’empirismo del filosofo inglese il concetto  del  vero Essere » anteriore ad ogni esperienza, compresa  quella che il soggetto fa di se stesso. In generale credo  sl possa dire (occorrerebbe un’analisi molto minuta e  lunga per dimostrarlo) che l’autore fu bene avvisato,  come sarebbe già da presumere a friori, nei tagli e nelle  modificazioni che venne via via apportando al suo lavoro.  Che, del resto, non diede poi subito al tipografo, poi che  l’'ebbe condotto a termine: anzi lo trattenne parecchi  anni presso di sé, e per quanto la luce della sua intelligenza s'andasse in quegli ultimi anni della sua vita affievolendo, egli certamente avrebbe avuto tempo e forze  per prendere dalle precedenti redazioni e restituire nell’ultima pezzi già pronti, di cui potesse dirsi soddisfatto.  E quando non lo fece, avrà avuto le sue ragioni.   Il Nicolini bensi ha preferito abbondare, una volta  avviato il lavoro; e ha profuso fatiche e notizie e commenti, dotti, arguti, inattesi, e sempre luminosi, nel  ricchissimo commento, allargatosi da ultimo per alcuni  punti sostanziali in excursus e note illustrative che sono  vere e proprie memorie; come quella, la più lunga, mi  I Cfr. SPINoZzA, Eth., ed. Gentile, note 33 alla parte I e 23 alla  parte II.    V. LE VARIE REDAZIONI DELLA SCIENZA NUOVA » 135    rabile di lucidità, intorno alla teoria vichiana sulla legge  delle XII Tavole: nota premessa al primo dei già ricordati Ragionamenti dell’Appendice. Ma l’erudizione del  Nicolini, ancorché laboriosa e densa, è agile sempre e  quasi festosa, perché sorretta e animata da un gioioso  spirito indagatore, che è più contento della difficoltà che  delle vie piane ed aperte, per l'occasione che ne ha a  cercare, a scrutare, ad esercitare il suo acume e il suo  fiuto di segugio valente, e stare attorno al suo V. a  fargli lume e rendergli l’omaggio, profondamente sentito,  bleno corde, della propria infinita devozione. Giacché il  Nicolini ha vivamente amato il suo V.; e chi dava di  quando in quando un'occhiata amichevole e confortatrice  alle stampe del suo lavoro, se da principio tentò arginare  e frenare, come non del tutto necessaria, quella foga e  quell’ impeto di copiosa vena irrompente in questo commento, fatto di ingegno, di dottrina e di amore, ha dovuto a poco a poco ceder egli stesso terreno, e tòrsi di  mezzo, e lasciar fare: e ora non può che plaudire a una  somma di lavoro così difficile, così utile, così disinteressato,  e così degno in tutto del gran V., che aspettava da  quasi due secoli questo studio rivendicatore.   Entrare, a questo punto, nell’analisi di questo commento, aggiungere, discutere, esaminare a parte a parte,  informare di tutto, è impossibile: o per lo meno, questa  recensione dovrebbe quintuplicarsi; e resterebbe sempre  da invitare il lettore della recensione a prendere in mano  1 tre volumi del Nicolini, e studiarseli, e studiarsi V.,  ora che lo studio è tanto agevolato; e quindi a scrutare  anche lui, la sua parte, dentro ai pensieri di questo grande  spirito e alle tante congetture che lo strenuo commentatore ha dovuto pur fare assai spesso per illustrarlo. Io  preferisco perciò fermarmi qui, solo citando un luogo,  dei più curiosi, e singolarmente caratteristico del fare  vichiano e degli enigmi che la sua forma presenta non    186 STUDI VICHIANI    di rado all’annotatore: esempio tipico delle difficoltà, in  cui l’annotatore s’ è dovuto dibattere. Latona, dice il  V. nell’ Iconomica poetica, partorì i suoi figliuoli, Apollo  e Diana, presso l’acque delle fontane perenni, ch’abbiamo detto; al cui parto gli uomini diventaron ranocchie, le quali nelle piogge d’està nascono dalla terra, la  qual fu detta ‘ madre de’ giganti ’, che sono propriamente  della Terra figliuoli » (p. 431). Ranocchie ?  Non sappiamo », scappò qui a protestare certo pedante dei tanti  abbattutisi in V.,  non sappiamo in nessun modo intendere come l’autore si facesse a mandar fuori che al parto  di Latona gli uomini diventassero ranocchie, dappoiché  questa circostanza non è punto un mito e solo si rinviene nell’alterata fantasia dell’autore ». Ma, assai probabilmente », nota il Nicolini, V. aveva in mente  quelle che più sopra ha chiamate ‘ ranocchie di Epicuro ’ »;  che sono (p. 181) gli uomini allo stato di pura natura,  prima che incominciassero, come dice V., a umanamente pensare ». E perché poi ranocchie ? e dove ne ha  parlato Epicuro ? L'immagine avrebbe potuto essere  illustrata da quel luogo di Censorino, De die nat., 4, 9,  che ci serba notizia della dottrina epicurea intorno all'origine naturale dell’uomo:  Democrito Abderitae ex aqua  limoque primum visum esse homines procreatos. Nec longe  secus Epicurus: is enim credidit limo calefacto uteros nescio  quos radicibus terrae cohaerentes primum increvisse et  infantibus ex se editis ingenitum lactis umorem natura  ministrante praebuisse, quos ita educatos et adultos genus  propagasse » (Usener, Epicurea,225-6) *1. Questi uteri    I [Ora, il Nicolini mi comunica di essere riuscito a trovare il mito  a cui precisamente voleva alludere V. e la fonte a cui, pur con°qualche  libertà, egli attinse. Si tratta del passo delle Metamorfosi ovidiane  (VI, 313 sgg.) ov’ è detto che Latona, dopo aver partorito, nell’ isola  Ortigia, Diana e Apollo ed essere stata cacciata di là da Giunone, giunse  coi due neonati in Licia, presso un piccolo lago, e poiché alcuni villani  volevano impedirle di dissetarsi, ella li maledisse e li trasformò in rane]. LE VARIE REDAZIONI DELLA SCIENZA NUOVA nella fantasia corpulentissima del V. diventano quelle  ranocchie che nella credenza popolare  nelle piogge d’està  nascono dalla terra ». Non dunque ranocchie, ma uomini,  e grossi uomini  goffi e fieri », giganti, i Polifemi di Omero,  primi padri del genere umano, per V. come già per  Platone. Le ranocchie son simbolo dei primi uomini, che  il mito fa nascere dalla terra: dalla terra e dall’acqua,  come dice Epicuro, e come si può leggere in fondo al  mito di Latona che partorisce presso alle fonti: mito,  secondo il quale V. dice perciò che gli uomini diventaron ranocchie, cioè si rappresentarono alla fantasia  quasi, al pari dei batraci, sorti ex aqua limoque.  Enigmi come questi brulicano in tutta la mitologia  vichiana; e trovan la maggior parte il loro Edipo nel  bravo Nicolini, che ne toglie spesso materia a note argutissime, come quella sullo scudo » funebre napoletano di  p. 420. Ma ho detto di non volermi dilungare in questa  materia. E basta anche cogli esempi; e faccio punto !.    I A proposito di quel che ho detto nelle174 sgg., Fausto Nicolini mi comunica le seguenti osservazioni:   Quando, a proposito dell’opera di incerto titolo, ho parlato di  un primo getto dell’opera capitale del V., volevo alludere alla  Scienza Nuova nel senso largo della parola, e cioè intesa come quel  complesso di problemi a cui V. die’ poi il titolo di Scienza Nuova.  Primo getto dunque del Diritto Universale. E a confermarmi nella mia  opinione mi conforta proprio ciò che in codeste tue pagine è detto  dei contatti evidentissimi tra quest’opera di titolo incerto e la prolusione del 1719. Insomma la cosa più ovvia sembra a me che V.  scrivesse prima la prolusione del 1719; indi la sviluppasse ai principii  del 1720 in un’opera di poco più ampia e divisa in tre libri (l’opera  d’ incerto titolo); e per ultimo, non più contento di questo lavoro ancor  troppo ristretto, si desse a scrivere, sempre nel 1720, la prima parte  del Diritto Universale. Che l’opera d’ incerto titolo sia anteriore al Diritto Universale è evidente; ma che essa sia anteriore anche alla prolusione del 1719, mi sembra non solo non evidente (e a ogni modo non  provato), ma anche pochissimo verisimile.    Aggiungo, a sostegno della mia opinione, proprio la sfida all’ immaginario critico che tu adduci. Critico che non è tanto immaginario.  Narra infatti V. nell’Autobiografia (p. 40) che, dopo aver recitata la  prolusione del 1719, ‘ sembrò a taluni l'argomento, particolarmente  per la terza parte, più magnifico che efficace, dicendo che non di tanto si era compromesso Pico della Mirandola quando propose sostenere conclusiones de omni scibili’, ecc. A questi critici appunto, tra i quali par  che fossero il Capasso e altri professori universitari capassiani, è rivolta  la sfida. Inoltre, nel prol/oquium del Diritto Universale V. dice che fu  consigliato da Gaetano Argento a svolgere ampiamente il tema della prolusione da oratore, filosofo e giureconsulto (cioè in tre parti), e poi  dal nipote dell’Argento, Francesco Ventura, a ricavare tutte le innumerabili conseguenze derivanti dai principii posti nell’ Orazione del 1719;  il che, a giudicarne dal commiato superstite, par che egli facesse o  volesse fare nell’opera d’incerto titolo (che poté anche non essere  scritta, ma soltanto abbozzata).    Pertanto la Scienza Nuova avrebbe avute le seguenti redazioni:  I. Commento a Grozio (1717-8); 2. Orazione del 1719; 3. Opera d° incerto  titolo (sviluppo dell’ Orazione) (1720); 4. Sinopsi del Diritto Universale  (1720); 5. Diritto Universale (1720-21); 6. Note al Diritto Universale  (1722); 7. Scienza Nuova negativa (1723-25); 8. Scienza Nuova prima  (1725); 9. Scienza Nuova veneta; 10. Scienza Nuova seconda  (1729-30); 11. Corr. migl. e agg. terze (1731); 12. Corr. migl. e agg.  quarte (1732 o 1733); 13. Scienza Nuova terza (1734-1744).    Ciò senza calcolare alcuni riassunti totali o parziali, come per es. la  Giunone in danza (1721); una conferenza (forse soltanto detta e non mai  scritta) tenuta dal V. in casa del suo antico discepolo Giambattista  Filomarino della Rocca (1721 o 1722); la lettera a Monsignor Monti  del 18 novembre 1724; l’ampio riassunto della Scienza Nuova prima  recato nell’Autobiografia (1728), ecc. ecc. ».  IL FIGLIO DI V.   E GL INIZI DELL INSEGNAMENTO DELLA FILOSOFIA ITALIANA A NAPOLI. LA FAMIGLIA DEL V.    Di figli, veramente, G. B. V. ne ebbe più d'uno.  E se Angelo Fabroni gli aveva attribuito binos libderos,  nel 1818 il marchese di Villarosa corresse l'affermazione  del biografo pisano, portando quel numero a sei. E sarebbero stati: Luisa, Ignazio, Teresa, un primo Gennaro,  morto in tenera età, un altro Gennaro e Filippo 1. Ma la  famiglia del V. fu anche più numerosa, come dimostrano i registri parrocchiali del Duomo di Napoli.   Egli si ammogliò il 12 dicembre 1699 =. Il 17 settembre  1700 ebbe la prima figlia, a cui furono imposti i nomi  di Luisa Gaetana 3. Il 17 luglio 1703, ebbe una seconda  figlia, non ricordata dal Villarosa, e che fu chiamata  Carmelia Nicoletta 4. Il 31 dicembre 1704, una terza  figlia, Filippa Anna Silvestra 5, ignorata anch'essa dal  Villarosa. Ma entrambe queste bambine devono essere  morte ben presto e aver lasciato poca memoria di sé    I Opuscoli di G. B. V., racc. e pubbl. da C. A. DE Rosa, march.  di ViLLarosa, Napoli, Porcelli, 1818-23, I, 228.   2 VILLAROSA, Opuscoli, I, 208.   3 Loisa Caetana, secondo l’atto di battesimo, in data 21 settembre 1700 (Parrocchia del Duomo, Battesimi, lib. XI, fol. 87). Ringrazio l’amico cav. Lorenzo Salazar della cortesia con cui volle ricercarmi queste notizie nella parrocchia del Duomo.   4 Atto di battesimo addì 19 luglio 1703, nello stesso libro XI, fol. 109.   È Atto di battesimo addì 1° gennaio 1705, nello stesso lib. XI,  fol. 121.    nella famiglia :. Il quarto figlio, finalmente, fu un maschio; nacque il 31 luglio 1706, e si chiamò Ignazio Nicolò  Gaetano Geronimo: fu tenuto al fonte battesimale da  donna Teresa Stiammone de’ duchi di Salza =. Dopo,  un’altra femmina, che non ebbe nome Teresa, come dice  il Villarosa, ma Angiola 3, nata nel luglio 1709. Il primo  Gennaro vide la luce il 19 luglio 1712; ma non visse fino  al dicembre 1715, quando nacque il secondo Gennaro,  che ebbe altri due nomi: Emanuele e Filippo. Nel febbraio 1720 infine chiuse la serie l'ottavo figlio: Filippo  Antonio Francesco Gaetano 4.   Di tutti questi figli due soli sembra siano sopravvissuti al padre 5. Giacché Niccolò Solla 6, autore di una  Vita del V., e amico e scolaro del V. stesso,  onorato », come egli dice, di tutta la sua confidenza ed  amore », scrive:  Rimasero di lui due figliuoli: il prime  de’ quali gli è stato anche successore nella cattedra di    I [E infatti dai Libri dei defunti della parrocchia del Duomo appare che Carmelia Nicoletta morì il 27 luglio 1703, e Filippa Anna  Silvestra il 28 luglio 1705 (Comunicazione di Fausto NICOLINI, che darà  la documentazione delle sue giunte e correzioni, qui inserite, in un  suo studio su G. B. V. nella vita domestica))].   2 Atto di battesimo dell’ 8 agosto 1706: lib. XII (Battesimi dal 17006  al 1739), fol. 4. 1   3 [Più esattamante: al fonte battesimale ricevè i nomi di Angela  Teresa Ippolita, ma in famiglia solevan chiamarla Teresa (Comunicazione di F. NICOLINI)].   4 Tenne al fonte Angiola donna Ippolita Cantelmi, duchessa di  Bruzzano (le cui nozze V. aveva cantate nel 1696 nella canzone  D'’amaranti immortali ornai la fronte: v. Opere, V, 105: e diede il parere per la stampa di certe Stanze di lei scritte nel 1729, ristampato  dal NICOLINI, in B. Croce, Sec. supplem., p. 81), il 23 luglio 1709  (lib. XII dei Battesimi cit., fol. 21). Il primo Gennaro fu battezzato  il 24 luglio 1712 (ivi, fol. 41); il secondo, il 26 decembre 1715 (ivi,  fol. 64); Filippo, il 18 febbraio 1720 (ivi, fol. 84).   5 [Veramente, quattro: Gennaro II, Filippo, Luisa e Angiola Teresa. Il Solla, com= si vede, non tenne conto delle femmine (Comunicazione di F. NicoLINI)]. Erano ridotti a cinque nel 1729, com’ è attestato da un luogo delle Vindiciae: CROCE nelle note all'Autobd., p. 123.   6 B. Croc£, Bibliografia vichiana, Napoli, 1904,45-06.    eloquenza » 1; cioè, come si vedrà, Gennaro: e l’altro,   ce lo dice il Villarosa =,  Filippo, morì impiegato  nella Regia Dogana di Napoli 3.   Di un figliuolo, il cui nome non gli piacque di ricordare,  il Villarosa stesso 4, che ebbe modo d’esserne informato,  ci fa sapere che amareggiò assai il padre per la sua cattiva  indole.  Cresciuto questi in età, lungi di dar opera agli  studi ed alle oneste discipline, diessi interamente in preda  ad una vita molle ed oziosa, ed in processo di tempo a’  vizi di ogni maniera, in guisa che il disonore divenne  dell’ intera famiglia ». Riuscite vane le ammonizioni e le  minacce del padre e di autorevoli amici, il povero V.  fu, suo malgrado, costretto a ricorrere alla giustizia per  farlo imprigionare.  Ma nel momento che ciò si eseguiva,  avvedendosi che i birri già montavan le scale della casa  di lui, e l'oggetto sapendone, trasportato dal paterno  amore, corse dal disgraziato figlio, e tremando gli disse:   Figlio, salvati.  Ma un tal passo di paterna tenerezza  non impedì, che la giustizia avesse il corso dovuto, poiché  il figlio condotto venne in prigione, ove dimorò lunga  pezza, finché non diede chiari segni di esser veramente  ne’ costumi mutato » 5. Fu costui Filippo o Ignazio ?    I Vita di G. B. V., nel Giornale arcadico del 1830, t. XLVIII, 97-8.   % Opuscoli, I, 228.   3 [Chi, di sicuro, morì impiegato nella Dogana napoletana fu, veramente, Ignazio. Ma potrebbe anche darsi che Filippo, dopo il 1744,  avesse un posto simile a quello del suo maggior fratello (Comunicazione di F. NICOLINI)].   4 Opuscoli, I, 161-2; cfr. ora Opere, V, 79.   5 [Il racconto del Villarosa, che non è al certo inverisimile e sarà  magari vero, non ha trovato alcuna conferma nei documenti contemporanei venuti finora alla luce. I quali, per altro, dicono che l’ 8 febbraio 1730 Ignazio V. sposò la ventenne Caterina Tomaselli senza  che i genitori di lui, a differenza che per gli altri loro figliuoli, intervenissero al matrimonio (da che parrebbe che non lo volessero); e che  al matrimonio stesso fu fatto inutile impedimento canonico da una  Grazia Maddalena Pascale, con la quale sembra che Ignazio avesse una  relazione intima (Comunicazione di F. NicoLINI)].    194 STUDI VICHIANI    Un documento rintracciato tra le carte vichiane, conservate tuttavia dagli eredi del marchese Villarosa 1, mi  fa propendere a vedere piuttosto l’ultimo dei due ora  nominati nello sciagurato figlio, che addolorò tanto l’animo  paterno. È una Breve nota di ragioni per D. Giov. Battista  di V. contro la magnifica Caterina Tomaselli, in una  causa che fu trattata, non è detto quando, ma certo negli  anni più tardi della vita del V. ?, innanzi al Sacro Real  Consiglio. Era morto Ignazio V., lasciando una figlia,  a nome Candida; e la vedova, Caterina Tomaselli, sosteneva che spettasse a lei l'educazione della bambina, e  dovesse esserne escluso l’avo paterno, richiamandosi a  decisioni analoghe del magistrato 3. L’avvocato del V.  risponde non essere applicabili tali decisioni al caso presente; perché, in una di esse, s'era considerato che il  padre della pupilla era emancipato, e quindi poteva far  testamento e lasciare per tutrice la madre; e s'era anche  avuto riguardo al fatto che la madre era persona prudente ed onestissima, mentre l’avo paterno odiava la  pupilla. Di un’altra decisione la ragione era stata che    I Rendo qui le più vive grazie ai signori ing. Tommaso e Vincenzo  De Rosa dei marchesi di Villarosa, i quali hanno gentilmente messe a  mia disposizione le preziose carte vichiane, che già furono del loro  bisavolo C. A. De Rosa marchese di Villarosa, benemerito editore degli  Opuscoli di V.. Un catalogo di queste carte pubblicò poi il NICOLINI  in B. CROocE, Secondo supplemento,35-43.   2 [Infatti la causa ebbe inizio negli ultimi giorni del luglio 1737  (Comunicazione di F. NICOLINI)].   3 (Ignazio, che con la moglie e la figliuola Candida (nata il 5 aprile  1731) conviveva col padre, morì il 10 maggio 1737, lasciando, in un  testamento commoventissimo, la tutela della figlia, coniunctim et non  divisim, al V. e alla Tomaselli, alla quale impose di continuare a vivere coi suoceri e di prestar loro obbedienza e rispetto. Ma, appena  un paio di mesi dopo (26 luglio 1737), il filosofo fu costretto a cacciar  di casa la nuora. Da che la lite, terminata o sospesa in un primo  momento col trionfo del V. che riuscì, fino alla sua morte, a tener con  sé la nipote; la quale, peraltro, nel giugno 1744, mercé nuovo intervento della giustizia, fu dalla nonna consegnata alla madre (Comunicazione di F. NICOLINI)].    VI. l’avo era un dissipatore. Di una terza, che l’avo non era  persona di buona fama e condizione.    Nella specie della presente causa, concorre tutto l'opposto;  poiché D. Gio. Battista di V., avo paterno, è persona di somma  prudenza, virtù et integrità, come a tutti è noto; ed all’ incontro  detta Caterina Tomaselli persona stravagante ed imprudente e  di non retti costumi, come ben consta. Onde per ogni ragione e  giustizia la tutela ed educazione di detta pupilla deve deferirsi  al predetto D. Gio. Battista di V. avo paterno. Anco perché  detto Ignazio di V., padre di detta pupilla, era figlio di famiglia, e come tale, oltre non poter fare testamento, ma nemmeno  lasciare tutore alla sua figlia.... Detto D. Gio. Battista deve a  sue proprie spese mantenere et alimentare detta pupilla per la  tenuità del peculio di suo padre, che, come profettizio, sarebbe  d’esso Gio. Battista.    Se il figlio innominato, di cui parla il Villarosa, non  fosse quest’ Ignazio, bisognerebbe dire che non uno, ma  due figli fossero stati il tormento di Giambattista V. *.   Egli amava 1 suol con eccesso di tenerezza; contento  piuttosto di una rispettosa amicizia, che d’un servile Nella commedia in quattro atti di GruLio GENOINO, Giovan Battista V., Napoli, Stamp. della Società Filematica, 1824, il figliuolo  cattivo sarebbe Filippo. Se non che il Genoino cita tutte le sue fonti  (gli Opuscoli di V. a cura del Villarosa); né accenna a tradizioni  orali. Questa del Genoino dovette essere la commedia dal titolo  G. B. Vizo, che il Programina giornaliero degli spettacoli di Napoli  annunziò per la sera del 7 settembre 1850 e poi per quella del 26 ottobre 1854 al Teatro dei Fiorentini, senza indicare il nome dell'autore.  C’ è bensì nell’elenco dei personaggi un  Don Vincenzo » che non compare nella commedia del Genoino. Ma può trattarsi d’una leggera modifica della scena 38, atto IV del Genoino, dov’ è descritto l’ incontro  di Don Vincenzo Milesio, suocero di Filippo V., con costui e col  padre suo Giambattista. Nessuna delle raccolte delle commedie del  bar. Gio. Carlo Cosenza conservate nelle Biblioteche di Napoli, compresa la Lucchesi-Palli, ne contiene una su G. B. V.; e sospetto che  la citazione trovatane dal CrocE, Supplem., p. 7, possa esser nata da  uno scambio col Genoino. Un dramma Giambattista V. pubblicò  nel 1845 DomENIco BureFA (Torino, presso Carlo Schiepati): e anche  qui, come ricavo da una recensione di un tal Pier MURANI (Giornale  Euganeo, a. III, quad. 5, maggio 1864, Padova), comunicatami da  B. CROCE, ci sono pure alcune scene  in cui l’autore ci mostra V. in    196 STUDI VICHIANI    timore » 1. La moglie Caterina Destito 2, analfabeta e  meno che mediocre massaia, costrinse lui a pensare a  provvedere non solo a’ vestimen*i, ma di quanto altro  i piccoli suoi figliuoli avean di bisogno » 3. Attese alla  loro educazione ed istruzione da se medesimo; ed è bello  pensare che, tra un pensiero e un altro della sua alta  speculazione, egli rivolgesse l’animo a coltivare l’ intelligenza delle sue figliuole predilette: Luisa e Angiola.  Furono la sua più cara consolazione. Al p. Benedetto  Laudati, cassinese, quello stesso che, nel gennaio 1716,  diede per la censura ecclesiastica il parere sulla Vita di  Antonio Carafa, trovando un giorno il filosofo a scherzare  tra le figliuole, spianata la fronte e un sorriso spensierato su quella faccia per solito meditabonda, tornarono  sulle labbra quei versi del Tasso:    Mirasi qui fra le meonie ancelle  Favoleggiar con la conocchia Alcide.    E V. ne rise. La Luisa era il suo orgoglio. Dotata  di raro ingegno, aveva largamente corrisposto alle cure  paterne, ed era capace di scrivere de’ versi non inferiori    famiglia, amato e venerato da pochi buoni e dai figli suoi, tranne da  un Filippo, giovane sventato più che malvagio, il quale lo amareggia  con gherminelle insolenti e poco drammatiche ». Il Buffa probabilmente  avrà avuto la prima idea del suo dramma dal Genoino.   1 SOLLA, Vita, p. 97.   2 Figlia di uno scrivano fiscale di Vicaria; nata il 26 novembre  1678: VILLAROSA, Opuscoli, I, 208. Sopravvisse di quindici anni al  marito, risultando dal necrologio della chiesa dei Padri dell’ Oratorio,  detta dei Gerolamini, che fu ivi sepolta il 3 giugno 1759. Cfr. G. TaGLIALATELA, Commemorazione di A. Galasso, p. 26, in Atti dell’Acc.  Pontaniana, vol. XXII.   3 [Così il Villarosa. E la cosa potrà anche esser vera. I documenti  contemporanei, per altro, dicon soltanto che V. aveva conosciuta  la Caterina da bimbetta (eran vicini di casa), che la sposò per amore,  e che ancora dopo trent'anni di matrimonio parlava di lei con grande  affetto e riconoscenza. S’aggiunga inoltre che la Destito era non figlia,  ma sorella di Pietro, scrivano fiscale di Vicaria (Comunicazione del  NICOLINI)].    a quelli che scrivevano tutte le persone colte, i dotti,  come allora si diceva, della società in cui V. sl aggirava. I versi di lei, il suo canto dovevano scendere al  cuore del padre, che tante amarezze ebbe nella sua vita  affaticata.   Perché aveva quell’ornamento in casa 1, egli che ebbe  sempre abitazioni così modeste, poteva accogliere presso  di sé uomini insigni e gentildonne dell’alta società napoletana; e certo doveva condurla seco negli intellettuali  ritrovi presso le nobili dame da lui frequentate con Paolo  Doria e gli altri letterati del tempo: fino al 1727 ordinariamente presso Angiola Cimini, marchesa della Petrella.   Oh il rimpianto pel salotto di questa marchesa, quando,  quell’anno, donna Angiola morì! Chi non conosce l'elogio  magnifico che V. ne scrisse e premise a una raccolta di  scritti di tutti i frequentatori di quel salotto, da lui curata  ed ornata del ritratto della marchesa e di molti finissimi  fregi? La raccolta, che allora fece molto rumore in Napoli,  e tanto se ne parlò che una mala lingua ne fece una  satira ?.   In quell’ Orazione, V., celebrando la grazia di questa  novella Aspasia, anche lei poetessa e curiosa di sapere  e di entrare in questioni filosofiche, ricorda:  Ippolita  Cantelmi-Stuarta, principessa della Roccella, donna che  con la maestà che le corona la fronte, coll'augusto aspetto  e colle sovrane maniere, congiunte alla singolare altezza    I [La Luisa, per altro, cessò di convivere col padre fin dal settembre 1717, tempo in cui sposò un Antonio Servillo, e prese a dimorare col marito presso la chiesa della Pietrasanta (Comunicazione di  F. NICOLINI)].   2 FRANcEscO VESPOLI, il cui nome s'incontra non di rado nelle  raccolte poetiche di quel tempo, a proposito degli Ultimi onori di letterati amici in morte di A. Cimini (Napoli, Mosca, 1727) e di uno speciale libro di versi pubblicato in quell'occasione stessa da Gherardo  De Angelis, scrisse una satira in ternari, non priva di spirito, tuttora  inedita, che pubblico in appendice (v.343-53) come documento  della società a cui V. appartenne.    198 STUDI VICHIANI    dell’animo, alla grandezza de’ suoi pensieri ed allo splendore delle sue azioni, non che tra le nazioni ingentilite,  tra’ barbari stessi dell’ Africa o della Zembla non potrebbe  dissimulare e nascondere d’essere degno generoso rampollo del ceppo reale di Scozia, per una volta sola che  nella nostra casa conobbela, ne concepì  tanta ammirazione ed amore! ...».   E chi sa quante altre delle gentildonne celebrate dai  versi del V., oltre la Cantelmi (che era, s'è veduto, sua  comare), frequentavano la sua casa! Letterati, scolari del  V., come il De Angelis 2, professori, frati, predicatori,  tutto il circolo degli amici ed ammiratori di lui, doveva  spesso adunarsi nella modesta dimora del Largo dei Gerolamini al n. 12 (dove V. abitò dal 1704 al ’18), o, più  tardi, in quella nel V. delle Grotte della Marra, e poi nel  V. delle Zite, e dal 1741 a San Giovanni a Carbonara, e  per ultimo ai Giardini dei Santi Apostoli 3. V’intervenne  per qualche tempo anche Pietro Metastasio, giovanissimo,  che improvvisava 4. Si leggevano versi: e Luisa 5 leggeva   +rr__rm    I Opere, ed. Ferrari, VI, 265.   2 Su Gherardo De Angelis o degli Angioli v. ora lo scritto di  ENRICO PERITO, G. D. A., in Scritti di storia, di filologia e d’arte (Nozze  Fedele-De Fabritiis), Napoli, Ricciardi, 1908,249-54, nonché LuIci  PAPA, G. D. A., Verona, 1914.   3 Vedi l’art. del MANDARINI, // centenario di V., ne La Carità,  riv. relig. scientif. letter., a. III, quad. VI, 1868; la nota del CORRERA,  in Arch. stor. nap., IV (1879), 407-8; e ora F. NICOLINI, Per la biografia  cit., punt. I,181.   4 F. NUNZIANTE, Metastasio a Napoli, nella Nuova Antologia del  15 agosto 1895, p. 722, e A. SALZA, in Giorn. stor. letter. ital., LX, p. 206,  n. 2. Nella Vita del signor abate Pietro Metastasio poeta cesareo, aggiuntevî le massime e sentenze estratte dalle sue opere, Roma, 1786, a  spesa di Gioacchino Puccinelli, p. 98, si asserisce che la canzonetta  Grazie agl’ inganni tuoi fu scritta dal Metastasio in Napoli  nella sua  verde età per la figlia del celebre letterato G. B. V. », col quale  spesso trattava, onde non seppe difendersi di non esser preso da’ vezzi  di lei». Ma questo vago accenno, avverte un accuratissimo studioso  della biografia del M. (SALZA, l. c.), non è confermato. D'altronde,  come s’ è detto, Luisa era maritata fin dal 1717.   5 Il Villarosa diceva di avere presso di sé molte poesie mss. di    VI. IL FIGLIO DI G. B. V. I99    i suoi. Spesso anche cantava. Ecco come ce la presenta  uno dei frequentatori di quel circolo nel 1727:    Il mover dolce di costei mi suole  Fermar i sensi, e gli occhi, e lo ’ntelletto  Al vago riso intenti, e al vestir schietto,  E più alle saggie oneste alme parole !    Ma, quando scioglier l’angelico vuole  Suo canto dal gentil candido petto,  Lo mio spirto volar sovra è costretto  A’ giri eterni, oltra le vie del sole,    Sciolto nuotando in que’ diletti immensi;  Tal che il ritorno obblia, né sa l’ incanto,  Se alcun poi nol richiama, e riconsiglia.    E ben mi spiace il farmi desto intanto,  Dicendo all’alma:  Or dove star mai pensi ?  Tu ascolti del tuo gran Mastro la figlia!.    In un altro sonetto, lo stesso poeta si rivolge a Luisa:  O figliuola di Lui, che °l tutto intese, e le augura serenità  di spirito e animo di attendere alla poesia:    Né amare indegne di Fortuna offese,  Né d’aspri mali tempestoso verno  Turbin mai lo bel tuo lucido interno  Spirto, che a saper nuovo il cammin prese.    Che se in te vedi, hai potestate accolta  Di spezzar l’armi a’ minaccevoli astri,    Luisa, trovate tra le carte del padre, oltre quelle che sono sparse per  le tante raccolte stampate del tempo: Opuscoli, I, 228.   1 Rime scelte di GHER. DE ANGELIS, Firenze, MDCCXXX (con pref.  di G. B. V.), p. 185. Ma il 3° libro di queste Rime, a cui questo e  l’altro sonetto, che sarà citato, appartengono, era stato stampato integralmente la prima volta nel 1727. Ad aprir siegui or tua limpida e colta  Vena, che sazia i più superbi mastri:  O forte e saggia, quanto adorna e bella !.    Ma erano augurii meramente rettorici. Luisa ebbe  marito; e certamente a lei Giambattista V. diede i mille  ducati, guadagnati con la Vita di A. Carafa, che gli servirono, come raccontava Gherardo De Angelis, per  mandare a marito una sua figliuola » =. Ed ebbe figli,  o almeno una figlia, che, nella qualesima del 1729, era  gravemente ammalata, e si temeva che morisse. E se  Luisa era la figlia prediletta, s'immagini il dolore dell’avo. In quella quaresima, venne a predicare in Duomo  il p. Michelangelo da Reggio, cappuccino eloquentissimo;  e contrasse amicizia con parecchi uomini di lettere e  col V., che lo ascoltarono con ammirazione. Frequentò  anche lui la casa del filosofo, allora centro di una vera e  propria scuola letteraria, non ancora ben nota, e degna di  essere studiata 3; e confortò la giovane madre palpitante  per la salute della figliuola. Di che V. credé quasi di  aversi a sdebitare, promovendo una raccolta in lode del  cappuccino, pubblicata infatti quell’anno stesso con una  dedica del V., che divotamente consacra un rinfuso  vago fascetto di fiori colti in Parnaso », cioè di componimenti poetici scritti in onore di p. Michelangelo da  alquanti gentili spiriti » 4.    I Rime scelte, p. 1Io.   ® VILLAROSA, Opuscoli, I, 225.   3 Da vedere per ora A. Fusco, Nella Colonia Sebezia, Benevento,  tip. Forche Caudine, 1901, e M. Bruno, G. B. V. poeta, saggio critico  con un'appendice di sonetti inediti e rari, Catanzaro, tip. G. Caliò, 1910.   4 Componimenti in lode del P. Michelangelo da Reggio di Lombardia  cappuccino predicatore nel duomo di Napoli nella quaresima dell’anno  MDCCXXIX. Napoli, Mosca, s. a. La dedica del V. è ristampata  dal ViLLaROosA, Opuscoli, II, 284-5. Ma non è riprodotta né dal Ferrari,  né dagli altri editori posteriori. Ora è ristampata dal NICOLINI, Sec.    supplem.,74-5.    VI. IL FIGLIO DI G. B. V. 20I    Vi sono distici latini e sonetti italiani di parecchi letterati del solito circolo vichiano; uno, che giova rilevare, di  Gaetano Maria Brancone 1, personaggio di grand'’affare,  che presto incontreremo in un momento importante della  biografia ael V.. Ve ne sono, naturalmente, anche di  questo ?.   Dopo un sonetto di una giovane donna, il cui nome ri-  corre sovente anch'esso nelle raccolte contemporanee, e  che era amica a Luisa V., e cultrice di studi filosofici 3,  oltre che di poesia, Giuseppa Lionora Barbapiccola, ce  n'è uno della nostra Luisa, che ha un accento personale e    I Ap. 13.   * Ve ne sono due, ristampati dal ViLLarosa, Opusc., III, 11-12.  Ma il primo di essi, che nell’ediz. Villarosa comincia: Alma mia, che  perdesti il bel candore, nella raccolta del ’29 cominciava: Alma mia  tutta al di fuore. E non saprei dire di chi sia la correzione. Noto anche  che il 3° dei sonetti, che, nell’ediz. del Ferrari (VI, 416) e nelle  successive (ed. Pomodoro, p. 318), è dato come in lode di p. Mich. da  Reggio, non si trova in cotesta raccolta del 1729; e nella racc. del Villarosa (p. 53) reca per titolo solo: In lode di un Sacro Oratore. Comincia: Ammirdro già un tempo Atene e Roma. Il Villarosa lo trasse dall'autografo: v. NICOLINI, Sec. supplem., p. 52.   3 In un sonetto dello stesso lib. III delle Rime (1727), il DE ANGELIS, rivolgendosi alla Barbapiccola, dice:    Questa è colei, che aggiunse altro splendore   Al gran RENATO, del ver tanto amico;   E "1 monte aspro di gloria, ov’ i0 m’ implico,   Vinse, pascendo d’onestate il core.  Vieni a mirarla, o tu Francia superba,   Che sì le tue donne al cielo înnalzi e canti;   Qui scrive ancora in sua stagione acerba.  Più d’essa non la greca Aspasia vanti   Ciascuna età, che le più degne serba ...    La Barbapiccola, ricorda uno scrittore napoletano,  per saggio di  aver coltivate le moderne dottrine, produsse in italiano una versione  della filosofia di Cartesio » (NAPOLI-SIGNORELLI, Vicende della coltura,  vol. V. Napoli, 1786, p. 497). Vedi infatti I principii della filosofia di  Renato Des-cartes, tradotti dal francese, col confronto del latino in  cui l’Autore gli scrisse, da GIUSEPPA-ELEONORA BARBAPICCOLA tra gli  arcadi MiRISTA, Torino, Mairesse, 1722. Un vol. in 4° di40 + 350 +  18 con figure intercalate. Vedi pure F. AMoDEO, Dai fratelli Di Martino  a Vito Caravelli, negli Atti dell’Accad. Pontan., XXXII, 1902, p. 15 N,  e CRocg, Suppl. alla Bibl. vich., Napoli o 900  T, ci) 0  “x f dA %  a 07, N  7 o U td \\  et  | NA S UN  II NN si  O LÒ Wa: 5  LA ND é  N  N i  NN N  a  \K N  \ MENTA)  Lt ta agli È    apr ab  LU n Tipi ma,  PO  PIENA    \  7.0 st \ Arignano NN  PL È “kan \k v alt \ N  Ni \ DI INNI \  Fo Ul ì BRANI  >, n ANN Ma) Pim  < SEEN A tata  y KEÉ N    Nt Sap to tnt  POL  IL FIGLIO DI V. Due anni appresso, in una raccolta nuziale, che reca  anche un sonetto di Pietro Metastasio (Vanne, sposa  leggiadra, ove sospira), Luisa rispose con un sonetto a rime  obbligate all’amica Barbapiccola, che le diceva:    O tu, che forte incontro a rei martiri  Donna saggia ne vai, lucido esempio  Di quel valor che signoreggia l’empio  Fato, e in alto ten posi, e al vero aspiri;  Vieni, e tu aita i giusti miei desiri  De la gran coppia a dir ciò, ch’ io contempio ecc.    E Luisa di rimando:    Poic’ ho sì l’alma carca di martiri  Fatta degl’ infelici un raro esempio,  A cui turba e confonde il rio Fat'empio  Ogni voglia leggiadra, ov’ella aspiri,  Com’ornar posso i tuoi giusti desiri  Per l’alta coppia, in cui miro e contempio  Mille belle speranze entro il gran tempio  Che virtù alzossi in su gli eterni giri ?  Lionora, tu colla tua fronte lieta  Chiama Imeneo, a cui, madre d’eroi,  Partenope gentil applaude e gode.  E tessi al chiaro innesto or degna lode  Fra dotti cigni co’ be’ carmi tuoi,  Ch’ io non oso toccar tant’alta meta !.    Meno male che donna Luisa, in fine, aveva questa  distrazione della letteratura !?.    I Vari componimenti per le felicissime nozze degli eccellentissimi  signori D. Tomaso Caracciolo marchese di Casalbore, principe di Torrenova [...] e D. Ippolita di Dura de' duchi d’ Erce raccolti da PARRINO, e dedicati all’ Ecc.mo signor D. Orazio di Dura duca  d’ Erce [...], in Firenze. Il son. del Metastasio è a p. 64.  Ve n’ è uno di Francesco Vespoli (p. 37), e uno (a p. 25) di G. B. V.,  che non è stato mai ristampato: Benché io mi veggia da quel fato oppresso. Credo opportuno ristamparlo in appendice. [Poi fu ristampato  anche dal NICOLINI, 0. C., p. 57].   2 Un altro sonetto di Luisa V. fu ristampato da G. FERRARI, nelle  Opere, IV, 419. Comincia: Poiché della mortal terrestre spoglia, ed   . PRIMI ANNI DI GENNARO V. CORSINI E LA PRIMA SCIENZA NUOVA Ma tra tutti i figli, quello che a lungo sopravvisse al  padre, attese, e seriamente, agli studi stessi di lui, continuò il suo insegnamento universitario e quasi la tradizione domestica; quello che confortò del suo affetto filiale  gli estremi anni infelici del vecchio filosofo, e ne proseguì  poi con pietoso culto la memoria; quel figlio del V.,  insomma, che tutti gli studiosi conobbero, in Napoli,  durante tutto il sec. XVIII, e al quale fecero spesso capo  per notizie sul padre, è Gennaro, nato nel dicembre 1715.  E di lui ho creduto opportuno raccogliere le notizie che ci  rimangono, perché ne può derivar qualche luce sulla stessa  biografia di Giambattista e sulla sua fama postuma. E già  il grande filosofo fu così tenero de’ suoi figliuoli e così  poco avventurato, che può quasi parere un debito di riconoscenza verso di lui adunare attorno al suo nome le fronde  sparte delle sue memorie domestiche.   La prima volta che vien ricordato Gennaro nella vita  del padre, è nel suo carteggio col card. Lorenzo Corsini,  a proposito della prima Scienza Nuova *: carteggio, le cui  date non sono scevre di qualche incertezza. Già il Croce  notò che non si comprende come la risposta negativa  del Corsini alla istanza del V. per le spese di stampa    era stato pubblicato nella Raccolta în morte di D. Giuseppe Alliata Paruta Colonna principe di Villafranca, 1729, per cui G. B. V. scrisse il  sonetto Morte, o d’ invidia vil ministra e fera.   I Un accenno veramente a questo figliuolo aveva già fatto V.  stesso nel De const. iurisprud., II, c, XII, $ 12, in Opere2, ed. Ferrari, III, 270; ed è stato rilevato da ANTONIO SARNO (Origini dell’ incivilimento, Napoli, 1926).    della prima Scienza Nuova sia, com’è data dal Villarosa 1,  del luglio 1726, quando la prima Scienza Nuova era stata  già pubblicata nell’ottobre 1725 ?. La stessa avvertenza  doveva aver fatta il Ferrari, che corresse senz'altro la data  di quella lettera in 20 luglio 1725 3. Correzione, secondo  me, indispensabile (ed è confermata da quanto dirò in  seguito). E, se si accetta questa correzione, si rifletta un  po’ alla conseguenza che ne deriva, e che non è priva  d'interesse.   Nella sua Vita, Giambattista V., dopo avere accennato alla primitiva redazione dell’opera sua (che avrebbe  occupato due giusti volumi in-4°»), della quale ci  rimane solo il disegno esposto dall’autore, nella lettera del  19 novembre 1724, a mons. Filippo M. Monti 4, continua  dicendo:  Già l’opera era stata riveduta dal signor don  Giulio Torno, dottissimo teologo della chiesa napoletana,  quando esso [V.], riflettendo che tal maniera negativa  di dimostrare [seguìta nella primitiva redazione], quanto  fa di strepito nella fantasia, tanto è insuave all’intendimento, poiché con essa nulla più si spiega la mente  umana; ed altronde per un colpo di avversa  fortuna, essendo stato messo in una  necessità di non poterla dare alle  stampe, e perché pur troppo obbligato  dal proprio punto di darla fuori, r itrovandosi aver promesso di pubblicarla, restrinse tutto il suo spirito  in un’aspra meditazione per ritro  I Opuscoli, II, 254. Ho riscontrato l’autografo servito alla stampa  del Villarosa, ed esso concorda, per la data, con la stampa. È, tranne  la firma, di mano del segretario del Corsini.   * Bibliogr. cit., p. 97, n. 2.   3 Cfr. anche la ristampa delle Opere, Napoli, Jovene, 1840, IV,  134, e quella Pomodoro, 1860, VI, 80.   w 4 CROCE, Bibliografia vichiana,96-7; e ora Carteggio, in Opere,  s 167.    14    varne un metodo positivo, e sì più  stretto, e quindi più ancora efficacep»!;  che fu il metodo della edizione uscita in luce precisamente  nel novembre 1725. Il colpo di avversa tortuna, non c'è dubbio, è la delusione inflittagli dal  Corsini, a cui la promessa, qui accennata, di pubblicare l’opera, doveva essere stata fatta con lettera del  maggio 1725; la lettera, con la quale V. aveva dovuto  accompagnare al cardinale l’invio della sua dedicatoria,  che ha per l’appunto la data dell’8 maggio 1725. Si ricordi  infatti la celebre postilla fatta dal povero V. alla sconfortante risposta del Corsini 2;  Lettera di S. E. Corsini,  che non ha facultà di somministrare la spesa della stampa  dell’opera precedente alla Scienza Nuova [cioè, della  redazione primitiva 3], onde fui messo in necessità di  pensar a questa della mia povertà, che restrinse il mio  spirito [dopo la risposta del cardinale, cioè dopo il luglio]  a stamparne quel libricciuolo, traendomi un anello che  avea, ove era un diamante di cinque grani di purissima  acqua, col cui prezzo potei pagarne la stampa e la legatura  degli esemplari del libro, il quale, perché me ’1 trovava  promesso a divulgarlo, dedicai ad esso signor Cardinale » 4.   Si badi: il parere del revisore ecclesiastico don Giulio  Torno, che è in fondo al libricciuolo, con la  data del 15 luglio 1725, non può essere se non lo stesso  parere ricordato dal V. nella sua Vita come già scritto  dal Torno per la prima redazione. È vero che vi si dice il  libro mole exiguum; ciò che non si sarebbe potuto dire della  prima forma; ma questa dev'essere stata una mutazione   forse la sola,  introdotta nella stampa del parere,    I Opere, V, 48.   2 Postilla che ho riletta sull’autografo, in un margine esterno.   3 Lo ha notato anche il CROCE, op. e loc. cit.   4 Stamp. la prima volta dal ViLLarosa, Opuscoli, II, 255 n.; ora  in Opere, V, 77.    perché richiesta dalla mutata mole del libro, rimasto  d’altronde sostanzialmente il medesimo, e non sottoposto  quindi a una nuova revisione ecclesiastica. Il parere,  invece, del censore civile, Giovanni Chiajese, è scritto  dietro ordine del 3 ottobre, e seguito dall’approvazione per  l’imprimatur del 12 ottobre. Sicché devesi riferire alla  redazione pubblicata e già allora certamente tutta stampata, poiché il 18 novembre successivo ! l’autore poté  mandare un certo numero di esemplari del libro, belli e  legati, a Roma 2.   E uno di essi andò, naturalmente, al Corsini 3. Al quale  V., scrivendo due giorni dopo, era costretto a spiegare  anche perché l’opera, per metodo e per estensione, non  fosse più quella che gli aveva propriamente offerta nel  maggio innanzi. Non si rileggono senza pietà queste  parole:  Riflettendo io al mio sommo onore, che Vostra  Eminenza mi aveva già compartito per mezzo di monsignor  Monti, di aver ricevuta nella vostra alta protezione l’opera  da me scritta in due libri, nella quale per via di dubbi e  desiderii, maniera la qual fa più tosto forza che soddisfa la  mente umana, si andavano ritrovando i principii dell'umanità delle nazioni, e quindi quei del diritto natural  delle genti, 1a qual opera già era alla mano    I Cfr. le importanti lettere del V. all’ Esperti e al Corsini del  18 e 20 novembre 1725, pubblicate dal CROCE, Bibliogr.,98-100; e ora  Opere, V, 172, 173. Anche la lettera precedente a Celestino Galiani è  del 18 novembre (non ottobre: l’autografo, ora posseduto dal Croce,  potrebbe leggersi in un modo e nell’altro).   ® [Anzi, fin dal 25 ottobre 1725, dopo averne già donati alcuni esemplari ad amici e conoscenti napoletani, V. ne inviava ad Arienzo un  altro a suo p. Giacchi; e fin dal 3 novembre una cassetta con altri  esemplari partiva da Napoli per Livorno, diretta al letterato ebreo  Giuseppe Athias (Comunicazione di F. NICOLINI)].   3 [Era magnificamente rilegato in marocchino e oro: rilegatura  che costò, certamente, al povero V. un’altra cavata di sangue. Ma il  Corsini, senza neppur leggerlo, lo die’ prima a esaminare, e poi lo donò  (decembre 1725) al marchese Alessandro Gregorio Capponi, che, alla  sua morte (1746), lo lasciò, con la restante sua biblioteca, alla Vaticana, ove tuttora si serba (Comunicazione di F. NICOLINI)]. per istamparsi; e considerando altresì la mia  avanzata e cagionevole età; mi determinai finalmente  affatto abbandonar quella, e consacrare a Vostra Eminenza quest'opera, più picciola in vero, ma, se non vado  errato, di gran lunga più efficace della prima » !.   Questa seconda opera, dunque, nei mesi che corsero  dal luglio al settembre dello stesso anno 1725, ossia non  più che in due mesi, obbligò V., impegnato ormai alla  pubblicazione nonché alla dedica già annunziate al cardinale, diventatone poi immeritevole, a restringere, com'egli  ci racconta, tutto il suo spirito in un’aspra meditazione,  per ritrovare il metodo  positivo e più stretto ». Soprattutto più stretto, povero V.!uSì fatta opera »,  scrive egli al Corsini, nella stessa lettera del 30 novembre,  aveva io destinato dare alla luce qualche anno  dopo, come per soluzione della prima, quasi d’un  problema innanzi proposto ». Non solo però dare alla  luce, ma scrivere anche: benché l'animo gentile vieti  al V. di far intendere al cardinale la pena che questi  gli ha cagionata.   Il lavoro vagheggiato quale riposato lavoro di qualche anno, come avrà affaticato, in quei due mesi, il  grande spirito! Aspra meditazione la disse egli stesso;  e la brevità del tempo e il tormento della promessa fatta  a un principe di Santa Chiesa, non devono pure tenersi in  conto, per intendere le ragioni dell’oscurità maggiore  della prima Scienza Nuova, e del bisogno che V. sentì  di mutare e rimutare le espressioni di essa, e con le postille  sui margini di tanti esemplari donati agli amici 2, e con  l'edizione del 1730, nonché poscia, del rifacimento radicale  della edizione del ’44 ? CROCE, Bibliogr., 99; V., Opere, V., 173.  2 Vedi, per gli esemplari postillati, CROCE, Bibliogr.,25-6.    Altre difficoltà cronologiche sorgono dalla lettura della  seguente bozza d’una lettera del V. al Corsini, di cui ho  trovato l’autografo inedito tra le solite carte del Villarosa !:    Con l’umiliazione più ossequiosa m'inchino a professar a  Vostra Eminenza gl’ infiniti obblighi per l’altezza dell’animo,  onde ha Ella degnato con sensi sì generosi, e proprj della Vostra  Grandezza di gradire una mia umile, e riverente offerta, che io non avendo l’ardire  da me stesso, m’avvanzai d’umiliargliela  per mezzo del sig. D. Francesco Buoncuore?.  Talché benedico tutte le mie lunghe e penose  fatighe che per lo spazio di tanti anni ho  speso nella meditazione di questa mia Opera che  sta per uscire alla luce, ed in mezzo le avversità  della mia Fortuna abbia menato tant’oltre la Vita che portassi  a compimento questo lavoro, che mi ha prodotto il merito, 0  per meglio dire la buona ventura di compiacersene un principe  di S. Chiesa di tanta Sapienza, e grandezza, di quanta la Fama  da per tutto con immortali laudi la celebra. Onde per non  perdere una tanto per me onorevole occasione, con l’istessa umiltà di spirito mi  fo ardito di dare a V.ra Em.za una piena  testimonianza dell’animo mio grato e riverente, di annunciarle propizio questo  giorno tanto nella Chiesa segnalato, e memorabile....    Di questa bozza tutta la parte che non è in carattere  spaziato si ritrova nella lettera pubblicata dal Villarosa, Ora è stampata nel Carteggio a cura di B. CROCE, Opere, V,168-9,  lett. n. XXVII.   ® Per Francesco Buonocore (o Boncore),  Philippi V Hispaniarum  regis medico clinico, Caroli Borbonii regis utriusque Siciliae archiatro  et in Regno Neapolitano medicamentariis universis praefecto », V.  scrisse, nel 1738, un’ iscrizione pubblicata dal FERRARI (Operez, VI, 309).  V. nel 1721 lo aveva pur ricordato nella Giunone in danza: Opere,  V, p. 288. Questa notizia della parte avuta anche dal Buonocore nella  offerta del V. al Corsini è nuova. Sullo stesso Buonocore v. SCHIPA,  Il Regno di Napoli al tempo di Carlo di Borbone, Napoli, Pierro, 1904,   72, 94. 260, 268, 545. 778, 779.    con la data del 15 dicembre 1725 *. E l’autografo corrispondente reca infatti questa data. Ora si può domandare:  come mai nella prima bozza di questa lettera del 15 dicembre, V. poteva dire della Scienza Nuova sta per  uscire alla luce », se da un mese egli ne aveva mandato  al Corsini, come s'è visto, alcuni esemplari, e se fin dall’ 8 dicembre ? il cardinale lo aveva ringraziato del dono  ricevuto ?   Inoltre: che cosa offrì V. per mezzo del protomedico Buonocore ? Non certo l’opera stampata, che V.  fece consegnare al Corsini nel novembre,  per mano del  signor abate Giuseppe Luigi Esperti»3. La dedica?  Ma, nella stessa lettera del novembre al Corsini, V.  ricorda il sommo onore, che Sua Eminenza gli aveva  già compartito per mezzo di monsignor Monti, di aver  ricevuto nella sua alta protezione l’opera » nella primitiva redazione 4.   Infine: in un'altra bozza di lettera (che trovasi nella  stessa pagina della precedente, e, a riscontro di essa, reca  il testo originale, pure autografo e senza data, della lettera del V. al Corsini, stampata dal Villarosa 5 con la  data del 26 dicembre 1725), è detto, che l’onore, onde il  cardinale l’aveva colmato, compiacendosi di gradire  l'umile ed ossequioso disiderio, di consegnare sotto  l'alto e potente patrocinio del Cardinale un debol parto  del suo scarso ingegno, che era per uscire alla luce, gli  dava ora lo spirito di non perdere una tanto per lui onorevole occasione, di dare a S. E. una piena testimonianza  del suo animo umile e riverente, di annunciarle propizio    I Opuscoli, II, 171-2 (lett. XXXVI nella racc. del CROCE).   2 Vedi questa lettera in VILLAROSA, II, 251-2, ristampata poi dal  Ferrari e dagli editori posteriori.   3 V. la lett. del 20 novembre 1725 al Corsini.   4 Cfr. anche la lettera del 18 novembre 1724 allo stesso Monti,  in CROCE, Bibliogr.,96-7; ora in Opere, V, 167.   5 Opuscoli, II, 173-4.    questo giorno tanto per noi segnalato e memorabile, augurandoglielo con que’ più fervidi voti, che l’animo mio può  concepire, continuato da una lunghissima serie d’anni », ecc.  Parole che si riscontrano tutte nella stampa.   Sicché, ancora il 26 dicembre 1725, l’opera stava per  uscire alla luce, e V. introduceva in questa lettera le  parole d’augurio già inserite nella bozza della prima, di  dieci giorni innanzi, e poi soppresse.   Non una sola difficoltà, come si vede, sorge da questi  documenti, se non si ammette che, scrivendo a un principe  della  Cristiana Repubblica », V. non abbia voluto  nella data segnare questa volta l’anno ab incarnatione,  anzi che l’anno comune: trasportando così le due lettere  al 1724 !. E questa soluzione vien suggerita dallo stesso  stato delle due minute. V., dopo aver tentato, nel  novembre 1724, la via di monsignor Monti (al quale  tornò nel maggio successivo), aveva indi a poco trovato  più speditivo l'intervento del medico Buonocore, per    I E questa dev'essere anche la spiegazione della data 20 luglio 1726  della lett. del Corsini, di cui sopra si disse. È noto che Innocenzo XII  (Pontefice dal 1691 al 1700) tolse l’uso di far cominciare l’anno, nelle  date delle bolle, dal 25 marzo. Vedi L’art de vérifier les dates, Paris,  Desprez, 1770, p. 324. E, nei volumi della corrispondenza di monsignor  Celestino Galiani, donati da Fausto Nicolini alla Biblioteca della Società Storica Napoletana, si hanno lettere di Alessandro Rinuccini al  Galiani, del tempo in cui questi dimorò a Roma per le trattative del  concordato, con la doppia data 1738-9 e 1739-40 (Corrispond., vol. VI,  carte 119 sgg., 169 sgg.). Ciò che prova come anche allora durasse l’uso  di far cominciare l’anno ab incarnatione, scrivendo da Roma o a Roma.  [Le correzioni qui sopra proposte alla cronologia del carteggio del  V. col card. Corsini sono state accettate dal CRrocE nella sua ed.  delle lettere vichiane, salvo che per la lett. XXXVI, pubbl. dal Villarosa  e mantenuta anche dal Croce con la data del 15 dic. 1725: per la quale  il Croce osserva:  Anche per questa lettera sarebbe da accettare la  data proposta dal Gentile del 1724, se essa non fosse scritta sullo stesso  foglio che contiene la lettera del Corsini dell’ 8 dicembre 1725, esprimente i ringraziamenti per gli esemplari ricevuti della Scienza Nuova.  È, dunque, effettivamente del 15 dicembre 1725; e quanto alla sua  relazione con l’altra del dicembre 1724 (n. XXVII), è da ritenere che  V., serbando tra le sue carte l’abbozzo di una lettera officiosa non  spedita, si valesse di alcune frasi di essa l’anno dopo »: p. 341).    aprire al Corsini il suo desiderio di dedicargli l’opera,  che presto avrebbe data alla luce. Ottenuto così il consenso, il 15 dicembre dello stesso anno 1724, se non prima,  dové scrivere la minuta d’una lettera di ringraziamento  e d’augurii pel prossimo Natale. Ma dopo, sembrandogli  che fino al 25 avrebbe indugiata troppo questa sua azione  di grazie, la quale, nel suo pensiero, doveva amicargli  ancor più l’animo del cardinale (prima di accennargli  la sua speranza del sussidio per la stampa), rimandò  gli augurii a un altro giorno, e scrisse la lettera, che spedì  subito, e che è quella a stampa con la data del 15 dicembre 1725. Ma conservò la prima minuta, quasi per ricordarsi degli augurii che aveva poi da inviare: e, a fianco  di essa, dieci giorni dopo, scrisse infatti l’altra lettera,  che spedi senza altri mutamenti, riprendendo per gli  augurii quasi i termini stessi già preparati.   Nel maggio poi, si fe’ animo, e chiese. Ma, dopo più  di un mese, il Corsini, di ritorno dalla visita allora fatta  alla sua diocesi di Frascati, in cui gli occorse di metter  mano a molte esorbitanti spese », gli confidava di  non aver modo di secondare la sua istanza. E V. non  rifiatò. Stampare un libro di 500 fogli, di due volumi  in-4°, con lo stipendio che aveva dall’università, di  100 ducati annui! Ma era corsa la promessa a un sì gran  signore: e bisognò restringersi, e dare come i risultati  dell’opera, e così stampare, dedicare e mandare al cardinale  il libro, che era costato tanto pensiero, tanta gioia e  tanta amarezza.   Un raggio di speranza gli rimise in cuore la lettera  con cui il Corsini, l’ 8 dicembre :, lo ringraziò; e, protestando la propria riconoscenza, lo esortò a  ripromettersene altresì i proporzionati effetti », pur che gli avesse  indicato le convenevoli aperture d’impiegarlo in cose VILLAROSA, Opusc, II, 251-2. Ristampata nelle edizioni posteriori. IL FIGLIO DI V. di suo servigio ».. Che aperture ? Al povero uomo, che  aveva allora 57 anni, cresceva costumato e promettente  quel suo figliuolino, Gennaro, di così diversa indole da  Ignazio. Aveva dieci anni: era il penultimo ‘dei figli,  come s'è veduto. Ed egli l’amava tanto !  È per natura »,  rifletteva nell’ Orazione per la Cimini, che gli ultimi  parti soglionci esser più cari per questi due occulti sensi  di umanità: tra perché essi sono li più innocenti, e per  conseguenza, che ci hanno recato maggior piacere, meno  disgusti; e perché essi han bisogno di più lunga difesa,  la quale i padri credono, per la loro avanzata età, poter a  quelli al maggior uopo mancare »!.   Se il cardinale procacciasse a Gennaro un benefizio per  farlo chiericare ? La lettera che gli deve avere scritta,  non l’abbiamo. Ma abbiamo la risposta del Corsini, del  IQ gennaio 1726 :. Era stato pronto a rifarsi d’animo il  V., e a ritentare. E gli toccò un’altra delusione. Il cardinale gli ridava sì buone parole, ma nessuna promessa,  nessuna speranza; e accampava di quelle difficoltà, che  svelano il poco buon volere:  Nel particolare poi del far  conseguire qualche benefizio a cotesto suo signor figliuolo,  lo v’incontro delle difficoltà; imperciocché, oltre all’età  tenera di esso figliuolo, che può fare non piccolo ostacolo,  vi è da considerare ancora, che si trovano in oggi nel  palazzo apostolico tante persone di Regno, che non sì  tosto vaca qualche cosa, che già prima assai della vacanza  sentesi la provista ».   Vana fatica, dunque, battere a questa porta. E V.,  come soleva, scrisse malinconicamente sul dorso del foglio  del cardinale: Lettera di S. E. Corsini, con cui dice  non poter proccurarmi un beneficio da potersi ordinare    1 Opuscoli, ed. Villarosa, I, 250-1; Opere, ed. Ferrari, VI, 258.  * In VILLAROSA, II, 252 e nelle edizioni posteriori.    un mio figliuolo » *. Nel foglio stesso, dopo un mese, lo  sconsolato filosofo, il 20 febbraio 1726, trovò la forza  per offrire le sue più umili grazie, e dichiararsi convinto che il differimento dell’effetto egli nasca  dall’impossibile ». E mitigava frattanto la sua avversa  fortuna con la speranza, anzi fiducia di vivere sotto  la potente protezione » di Sua Eminenza ?.   Gennaro non si chiericò più; e, quando, quattro anni  dopo, il padre ristampò, sempre a sue spese, la Scienza  Nuova, la dedicò un’altra volta al Corsini, già divenuto  Clemente XII:  Al quale », racconta nelle aggiunte postume alla Vita, da Gennaro date a pubblicare certo più  di mezzo secolo dopo che papa Corsini era morto anche  lui, al quale era stata la prima [edizione] essendo cardinale, dedicata, e si dovette a Sua Santità anche  questa dedicarsi » ! 3. E il cardinal Neri Corsini, nipote a  Lorenzo, gli dava, il 6 gennaio 1731, la consolazione  della notizia, che questa seconda edizione aveva  incontrato nel clementissimo animo di Sua Santità tutto il  gradimento ». Nient'altro.   Allora, colmato V. di tanto onore », è V.  che parla,  non ebbe cosa al mondo più da sperare: onde  per l'avanzata età, logora da tante fatiche, afflitta da  tante domestiche cure, e tormentata da spasimosi dolori  nelle cosce e nelle gambe, e da uno stravagante male, che  gli avea divorato quasi tutto ciò, ch'è al di dentro tra  l’osso inferior della testa e ’1 palato, rinunziò affatto agli  studi ».    1 Dall’autografo. Ora in Opere, V, p. 1809 n.   2 La lettera fu pubblicata anch'essa dal VILLAROSA, II, 172-3; ora  V., Opere, V, 192. In questa lettera, è detto che il figliuolo, che  si sarebbe dovuto ordinare, era Gennaro.   3 Opere, V, 74, dov'è pure la lettera di N. Corsini.    PASSAGGIO DELLA CATTEDRA DEL V. AL FIGLIO  E MORTE DEL FILOSOFO    Il buon Gennaro continuò con amore gli studi sotto la  direzione paterna !, e pensò a farsi la sua strada col lavoro. E ne aveva bisogno. Al padre, con l’età, cominciava a pesare indicibilmente quella scuola eterna che era  costretto a tenere in casa, per ingrossare un po’ il sottile  soldo universitario. Quando partirono quelle sanguisughe  degli austriaci, e venne a Napoli Carlo di Borbone, incorato forse dal cappellano maggiore Celestino Galiani,  V. si fece innanzi, chiedendo la carica di regio istoriografo ?, nel giugno 1734.   L'’infante don Carlo, si ricordi, non era entrato in  Napoli che il 10 maggio ! Le strettezze del V. dovevano  essere grandi. L’animo amico del Galiani si scorge da  questa consulta, ancora inedita, mandata al Montealegre:    Illustrissimo Signore,    Con riveritissimo biglietto di V. S. Illma dei 30 del caduto  mese ho ricevuto i supremi veneratissimi comandi di S. M., che  Iddio guardi, di riferire sopra un memoriale presentato alla M. S.  da Gio. Battista V., lettore di Rettorica in questa Regia Università; in cui, dopo avere esposte le sue dotte fatiche letterarie,    I Vedi VILLAROSA, Ritratti poetici, ed. 1842,61-62.   2 La supplica del V. è passata nella Raccolta degli autografi di  scienziati ed artisti, esposta nel Museo dell'Archivio di Stato di Napoli,  insieme con la relazione inedita del Galiani, che io pubblico. Una copia  di entrambe è nel vol. XIV, incartamento 13, delle Scritture diverse  raccolte dalle Segreterie di Stato di Acton. La supplica del V. fu  pubblicata, il 19 aprile 1885, nella Napoli letteraria, giornale della  domenica, a. II, n. 16. Devo alla cortesia dell’egregio prof. N. BARONE  se ho potuto rintracciare nell'Archivio di Stato i documenti inediti su  G. B. e Gennaro V., di cui mi servo in questo lavoro.    supplica S. M. della carica di suo Istoriografo; acciocché possa  coronar i suoi studj col mandare alla posterità le gloriosissime  gesta della M. S.   Su di ciò con tutto il maggiore ossequio debbo riferire a V. S.  Ill.ma, esser più che vero quanto il suddetto V. espone delle  sue opere date alla luce. Egli è certamente uno de’ primi letterati d’ Italia, e singolarissimo ornamento di questa Regia Università, a cui colle sue dotte fatiche è stato di grand’onore.   Î: pur vero, ch'egli sia il decoro di tutt’i lettori della medesima Università, ed insieme poverissimo, non rendendogli più  la sua cattedra, dopo il lungo corso di tanti anni che serve il  pubblico, che cento ducati l’anno, oltre a pochi altri ducati, che  ricava dalle fedi, che fa per gli studenti che dagli studi di lettere  umane passano a quei delle leggi; e trovandosi carico di famiglia,  trovasi certamente in grande miseria, dalla quale recargli qualche  sollievo in questi ultimi periodi della sua vita sarebbe cosa degnissima della somma regal clemenza e carità della M. S.   Qui finora non vi è stato l’impiego d’ Istoriografo. Ma ora  che ’1 Signore Iddio ha fatto a questo Regno il tanto desiderato  beneficio di concedergli un proprio Re, che qui risegga, nella  maniera che praticasi negli altri stati ben regolati, un tal impiego  vi vorrebbe; e il detto V. certamente sarebbe abilissimo ad  esercitarlo con tutto il maggior decoro ed applauso che potesse  desiderarsi 1,   E sottoponendo tutto all’alta comprensione della M. S., con  tutta osservanza resto    Di V. S. IllLlma  Napoli, 5 luglio 1734    Dev.mo ed obl.mo servidore  C. Arcivescovo di Tessalonica  Cappellano Maggiore.    I Nella minuta di questa consulta (Arch. Sta. Napoli, Relaz. del  Cappellano Magg., vol. 6°, dal giugno 1732 all'agosto 1735) sono, dopo  questo punto, cancellate le parole seguenti:  Quando poi piacesse al  Regal animo di S. M. onorare e consolare un vecchio di tanto merito,  coll'appoggiargli la suddetta carica di suo Istoriografo, per assegnargli  una mercede che non fusse di peso al Regio Erario, gli si potrebbe  assegnar una pensione ecclesiastica di quella quantità che alla M. S.  più piacesse, sopra qualche Vescovato di regia prelazione allora quando  ve ne sarà l’apertura ».    Ma Carlo ebbe da pensare ad altro, allora, che alla  nomina del suo istoriografo. Solo il 2 luglio dell’anno  seguente, il Montealegre annunziava al Galiani che il re  si era degnato onorare G. B. V. del titolo ed impiego di  suo istoriografo. E fu  notizia applauditissima » in Napoli,  secondo riscriveva il cappellano maggiore, pronto, il  17 di quello stesso mese, a sollecitare il decreto nei termini più onorevoli per il vecchio V. 1. E il 22 luglio,  finalmente, quel ministro comunicava al filosofo la sua  nomina, e l’assegno di otros cien ducados =.   Meschino soldo anche questo. Comunque, aggiunto a  quello che V. percepiva da 38 anni, lo raddoppiava.  Né qui si arrestarono le premure di Celestino Galiani.  Il 26 luglio, cioè dopo quattro giorni che V. ebbe  notizia del raddoppiamento del suo soldo, fu nominata una  commissione, già sollecitata dal Galiani stesso, incaricata  di proporre le riforme possibili per un migliore assetto  dell'organico dell’ Università.   La commissione, a capo della quale fu il Galiani, si  riunì alla presenza del segretario di Stato, marchese di  Montealegre, e del Tanucci; e il 9 ottobre 1735 presentò  la sua Relazione per la riforma dell’ Università. In essa,  la cattedra del V. non era dimenticata:  Dell’ Eloquenza latina col soldo di ducati 100. Si esercita dal dottor  Giambattista V., Istoriografo della M. V.; secondo la  nuova pianta, avrà di dote ducati 200 ». Il 2 novembre  successivo, il re approvava questa parte delle proposte;  la quale era stata particolarmente raccomandata da  Bernardo Tanucci, nel suo parere sui lavori della commis  I Questo doc., da una copia esistente nella biblioteca della Società  nap. di storia patria, è stato pubblicato da M. ScHIPA, Carlo di Borbone,739-40; e dal Croce, Bibliogr., p. 85-6.   è Pubblicata la prima volta dal VILLAROSA, nelle sue aggiunte alla  Vita del V., Opuscoli, I, 163: quindi ristampata in tutte le edizioni  della Vita.    sione del 17 ottobre *. Il Tanucci anzi avrebbe voluto che,  in riguardo della persona  por el merito, por la necesidad  y honrra de istorico R.° que tiene Juan B.à de V......  a lo menos se le deviesen asignar otros cientos » ?. Non  si volle confuso il valore della cattedra con quello del  cattedratico ! Ad ogni modo, erano altri 100 ducati: non  aveva mai sperato tanto V. dalla sua misera cattedra  quadriennale.   Ma don Giambattista non reggeva più alla fatica dell’ insegnamento. Gennaro, non saprei dire se dottorato in  legge, frequentava la Vicaria, e cercava anche lui di fare  un po’ di quattrini, come avvocato. E il padre, che gli  aveva insegnato con tanta cura il latino, e fatto leggere  gli scrittori, cominciò anche a farsi aiutare da lui; dapprima, forse, nel solo insegnamento privato.   Giacché, com’ ho accennato, V. aveva sempre  tenuto in casa una scuola di eloquenza e lettere latine 3,  frequentata dai figli dei più scelti gentiluomini della  Capitale ». E uno scolaro del V. ci dice che egli in casa  abbassavasi fino a spiegar Plauto, Terenzio e Tacito.  Conservava nondimeno in questa stessa sua umiliazione  tutta la grandezza del proprio carattere. Erano da lui,  come di passaggio, avvertiti i mezzi della lingua, le or gini  e proprietà delle voci, la bellezza e signoria delle espressioni. Ma, nell’affacciarsi alla sua mente le immagini delle  nostre passioni, a miracolo dipinte in Plauto e Terenzio,    I Vedi detta Relazione, £.0 196: Arch. Sta. Nap., Scritture diverse  della cappellania maggiore, vol. 34. Di questa relazione e dell'esito che  ebbe, rese conto sommario il prof. F. AMoDbEO, Le riforme universitarie  di Carlo III e Ferd. IV Borbone, negli Atti dell’Acc. Pont., serie 22,  vol. VII, 1902,Ir sgg.   2 Al soldo della cattedra si riferisce infatti l'estratto di questa relaz.  del Tanucci, copiato, a quel che pare, da F. Daniele e pubbl. dallo  ScHIPA, Carlo di Borbone, p. 740, n. 3 e dal CROCE, Bibl., p. 86. I   doscientos ducados », che sembravan focos al Tanucci, erano proprio quelli proposti per la cattedra di eloquenza. VILLAROSA, nelle sue Aggiunte alla Vita del V..    penetrando egli ne’ più segreti recessi del nostro cuore,  intrattenevasi lungamente a scoprire le sorgenti delle  umane azioni: e quindi, scorrendo di dovere in dovere,  secondo le varie relazioni che noi abbiamo con Dio, con  noi medesimi e cogli altri uomini, passava a descrivere le  prime linee della moral filosofia e del diritto universal  delle genti, condotte poscia a maggior lume e dimostrate  in pratica sulle acutissime riflessioni di Tacito » !.   In questa scuola privata, Gennaro dovette fare le sue  prime prove d’insegnante, sotto la guida del padre. Ma  le condizioni di questo s’aggravavano sempre più; e già  non si sentiva la forza di trascinarsi fino all’università,  per le sue lezioni ordinarie.   Il 1° settembre 1736, un suo entusiasta ammiratore,  professore di metafisica a Padova, il domenicano Nicola  Concina, per notizie avute allora da Napoli (forse da suo  fratello Daniele, amico anch'egli del V. ?), e per quello  che doveva avergli detto di sé V. stesso, gli scriveva:   Ella si faccia coraggio, e si governi; ed io non mancherò  di pregare il Signore che la conservi, e l’invigorisca per  suo, e mio, e comune vantaggio del mondo letterato.  Mi riverisca quel suo figliuolo, che intendo di essere di una  grande espettazione, per cui sento un ardentissimo amore,  e gli bramo ogni miglior fortuna » 3. E V. gli rispondeva, il 16 dello stesso mese:  La lode del profitto, che  Gennaro mio figliuolo, che umilmente vi inchina, fa negli    I SOLLA, Vita di G. B. V., in Giorn. arc., 1830, t. XLVIII, p. 95.  Per questa scuola privata devono essere state scritte le Ammnotazioni  sopra gli Annali di C. Tacito, pubblicate nel 1840, nell’ediz. Jovene  delle Opere, IV, 409-418. Ad essa devono anche appartenere la  maggior parte dei mss. vichiani posseduti dal sig. Raffaele Mottola,  sui quali v. la Rassegna critica d. lett. it, del prof. Pércopo, II, 95; e  NICOLINI, Sec. supplem.,42, 85-93.   2 Cfr. il brano di lett. di Nicola a Daniele, pubbl. da B. CROCE,  Bibl., 107-8; e ora in Opere, V, 218-3.   3 In VILLAROSA, II, 274, e nelle raccolte posteriori.    studi migliori, la qual scrive esserle con piacere giunta  all’orecchia, e l’amore che gentilmente perciò gli portate,  gli sono forti stimoli a più vigorosamente correre la strada  della virtù » !.   Questa voce giunta fino a Venezia, dove, in quei mesi,  trovavasi il Concina, doveva esser nata dall’approvazione  generalmente incontrata da Gennaro quell’anno, per aver  cominciato a sostituire felicemente il padre nella cattedra  di rettorica, con gran compiacimento di quanti stimavano  e amavano V., e gli desideravano pace all’età stanca.  Gennaro, quell’anno, cominciò infatti il suo insegnamento  universitario, come sostituto del padre; e divenne poi  il titolare della cattedra, che conservò, vedremo, fino  al 1805. Ma ecco come, in una supplica indirizzata a Ferdinando IV, al principio del 1797, lo stesso Gennaro ricordava da vecchio l’ inizio del suo insegnamento. Nelle sue  parole trema ancora la commozione che il giovane provò,  nel ’36, a prendere il posto del padre e maestro venerato:    S. R. M.    Signore,   Gennaro V., pubblico professor di rettorica nella Vostra  Regia Università de’ studj di Napoli, prostrato a’ piedi del Vostro Real Trono, umilmente l’espone, come finora ha avuta la  gloria d’aver servito la M. V. ben sessant’anni, lungo corso della  vita d’un uomo, che è quanto dire fin da che la M. V. era nel  seno dell’ Eternità; onde ora è il Decano dell’ Università. Poiché  Gio. Battista V., suo padre, mancando di giorno in giorno  per le sofferte lunghe fatighe del tavolino, tarlo potentissimo a  rodere insensibilmente la salute del corpo; al che si aggiungeva,  che a misura che le forze del corpo gli s’ indebolivano, del pari  l'abbandonava il vigor della mente, logorata dalle continue profonde meditazioni, il supplicante, mal soffrendo di vederlo con  tanto stento trascinarsi per andar a far lezione, d’ inverno, in    I In VILLAROSA, II, 210, e nelle raccolte posteriori.    tanta distanza, gliene dimezzò la fatiga con incaricarsi prima  della dettatura, perché, quando poteva, venisse Egli a farne la  spiega. Un giorno, mentre dettava, vennegli talento, per liberarnelo intieramente, di avventurarne anche la spiegazione;  Dio sa con qual ribrezzo e palpitazione; e Dio gliela benedisse.  Bastogli questo primo cimento, che gli era stato il più difficile  e pericoloso, che tornato in casa disse a suo padre, che avesse  pensato solamente a tirar avanti la sua vita, e a non più imbarazzarsi della lezione; narrandogli il tentativo fatto, e quanto  gli era riuscito felice. Andò a darne parte a Monsignor Galiani,  allora Cappellano Maggiore, il quale dimostronne sommo piacere,  e d'allora cominciò, forse per ciò che disegnava, a non far passar  quasi settimana che non venisse a sentirlo per la spiega in latino,  com’ è costume: e per maggiormente esporlo, gli diede l’ incarico  di far l’Orazione per l’apertura de’ studj. Finalmente, dopo  d’aver servito per quattro anni da sostituto di suo padre, ne  umiliò supplica all’Augustissimo Vostro Genitore di gloriosissima  memoria, ed ottenne dalla di Lui Real Clemenza, in virtù di  favorevolissima consulta del Cappellano Maggiore, la Cattedra  in proprietà nell’anno 1740; la quale di padre in figlio già n’ è  scorso un secolo, che per Sovrana Munificenza gode sua casa,  avendola detto suo padre ottenuta nel 1696 !.    Lasciando passare quest’ultima data, che, in una supplica di poco posteriore, lo stesso Gennaro corregge in  1697 (e avrebbe dovuto correggere in 1699), per l’esattezza  storica bisogna avvertire due /afsus memoriae, ne’ quali  incorre il più che ottuagenario V. secondo; uno, che la  Orazione per l'apertura degli studi, la sua prima Orazione, fu letta da lui non prima, ma nello stesso anno  in cui ebbe la cattedra in proprietà; e l’altro, che la cattedra ei non l’ebbe nel 1740, ma nel gennaio 1741. Ne  abbiamo i documenti.   Vista la buona prova fatta per quattro anni da Gennaro,  e preoccupandosi dello stato di Giambattista, l'ottimo    = .rr__    I Arch. Sta. Napoli, Espedienti di Consiglio, fascio 837, I, 12 dicembre 1797. Questo non’ è se non un brano, da principio, della  istanza, il cui séguito darò innanzi.] Galiani volle, al principio dell’anno accademico 17401741, regolare e assicurare la condizione del primo nell’ Università. Dové esortare il vecchio filosofo a presentare  al sovrano la seguente supplica, che ci rimane, autografa,  nell’incartamento del relativo espediente di Consiglio: e  che io pubblico per la prima volta. È il pietoso testamento  del V., che chiede di lasciare al figliuolo quella cattedra,  che, bene o male, era servita a sostertare la sua famiglia.    S. R. M.    Signore,   Gio. Battista V., Historiografo regio, e Professor d’ Eloquenza ne’ Regj studj, prostrato a’ piedi della M. V., umilmente  supplicandola, l’espone come esso da quaranta e più anni ha  servito e serve in questa regia Università nella cattedra di Rettorica, col tenue soldo di cento ducati annui!, co’quali miseramente ha dovuto sostentar sé, e la sua povera famiglia; e perché  ora è giunto in un’età assai avanzata, ed è aggravato, e quasi  oppresso da tutti que’ mali, che gli anni, e le continue fatighe  sofferte soglion seco portare; e sopra tutto è stretto dalle angustie  domestiche, e dalli strapazzi dell’avversa fortuna, da’ quali  sempre, ed ora più che mai, troppo crudelmente viene malmenato;  quali mali del corpo, accompagnati ed uniti ai più potenti, quali  sono quelli dell’animo, l’ hanno reso in uno stato affatto inabile  per la vita, non potendo più trascinare il corpo già stanco, e quasi  cadente; di maniera che miseramente vive quasi inchiodato in  un letto: per la qual cosa si è venuto nella necessità di sostituire  in suo luogo interinamente nella Cattedra della Rettorica un  suo figliuolo, per nome Gennaro, il quale da più anni s’ ha indossato il peso di questa carica, ed in essa se ne disimpegna con  qualche soddisfazione del pubblico, e della gioventù; del che ne  può essere bastante pruova il mantenersi l’ istessa udienza, e  l’ istesso concorso di giovani, che esso supplicante soleva avere;  e perché esso già si vede in età cadente, e dall’angustie presenti  nelle quali esso ed i suoi vivono, ne considera e prevede le mag   cm.    I V. qui ricorda lo stipendio goduto per 38 dei suoi 43 ann  di servizio.    giori, nelle quali la sua povera famiglia dovrà cadere cessando  esso di vivere: laonde supplica umilmente la Vostra Real Clemenza a volersi degnare con suo real ordine di conferire la futura  sostituzione proprietaria della mentovata Cattedra di Rettorica  in persona di detto suo figliuolo, acciocché la sua famiglia, dopo  la sua mancanza, possa almeno avere un qualche ricovero, donde  in qualche maniera tener da sé lontana una brutta e vergognosa  povertà, nella quale certamente andrà a cadere; e lo riceverà  dalla Vostra Real Munificenza a grazia ut Deus 4. Dal 1737 ministro dell’ecclesiastico era quel Gaetano  Maria Brancone, persona dottissima, al dire dei contemporanei 2, che già abbiamo incontrato in relazioni letterarie col V.. Il quale, nel 1735, nella raccolta per le  nozze di don Raimondo de Sangro, principe di Sansevero,  con donna Carlotta Gaetani di Laurenzana, indirizzò a  lui un sonetto, in cui malinconicamente gli diceva:    Né corone, né ostro, o gemme ed auro  Giamai mi ponno, o mio Brancon gentile,  Rimenare il mio già caduto aprile;   Né qual serpe di nuovo al sol m’ innauro;   Da la tremante man cade lo stile,   E de’ pensier si è chiuso il mio tesauro 3.    Il Brancone conosceva, dunque da vicino lo stato del  V.. E appena avuta la supplica. si affrettò a trasmetterla, per la consulta, al Galiani con questo decreto 4:    Ill.mo Signore,    Haviendo recurrido al Rey con el memorial incluso Juan  Bap.ta de V. haciendo instancia que en remuneracién de sus    I Arch. Sta. Napoli. R. segreteria dell’ecclesiastico. Espedienti  di Consiglio, gennaio 1741, fascio 42: Cautelas de la semana de 8 por  todo los 14 de Enero de 1741.   ? ScHIPA, Carlo di Borbone, p. 360.   3 Opere, V, 326.   4 Dispacci dell’ Ecclesiastico.] largos y sefialados servicios se digne conferir 4 Genaro su hijo  la Cathedra de Rectoria (sic) que està exerciendo con la aprobaci6n que es notoria por la indisposiciòén del suplicante, me ha  ordenado S. M. remitirlo à Usted para que informe con lo que  se le ofreciere y pareciere; D. G. Nap. a 31 de dic.re 1740.    G. M. B. Galiani intanto era dovuto tornare a Roma per le  trattative del Concordato, che indi a poco si conchiuse.  Ma, dopo soli sei giorni dal decreto del Brancone, scriveva  e spediva la seguente consulta, nobilissima per le cose che  dice, e pel modo:    S. R. M.    Si è servita V. M. con lettera della Segreteria di Stato per gli  affari ecclesiastici dei 31 del caduto mese rimettermi un memoriale di Giambattista di V., regio istoriografo, e professor d’eloquenza ne’ regj studj: nel quale, dopo aver esposto il suo lungo  servizio renduto a’ regj studj per lo spazio di quaranta anni  coll’annuo soldo di soli cento ducati, fin a tanto che la sovrana  clemenza di V. M. gliel'accrebbe fino a dugento; e le angustie  della sua povera famiglia, ch’egli prevede assai maggiori colla  sua morte non molto lontana, attesa la sua età troppo avanzata,  e le malattie del corpo, che soffrisce; supplica la M. V. che con  suo regal chirografo voglia degnarsi conferire in proprietà a  Gennaro suo figliuolo la cattedra d’eloquenza, che egli, facendo  le veci d’esso supplicante, esercita da qualche anno a questa parte.  . Non vi è dubbio, S. M., che il supplicante Giambattista di  V. è benemerito della Regia Università degli Studj, alla quale  egli colle sue dotte fatiche ha fatto molto onore; e perciò richiede  la pubblica gratitudine, che gli si abbia qualche riguardo. Il suddetto suo figliuolo Gennaro è giovine d’abilità, e nell’esercizio  della detta cattedra incontra certamente tutto l'applauso. Solo  mi dà fastidio, ch’egli nell’ istesso tempo pensi applicarsi al foro,  perché il dover frequentare la Vicaria, che richiede certamente  tutto l’uomo, e fare il professore in una cattedra d’eloquenza,  che richiede profondo studio degli autori greci e latini de’ migliori tempi; sono due mestieri, che insieme non possono star  bene, e per necessità conviene trapazzare o l’uno o l’altro, o pure    cn   mt  = ur € ev  _ pr ne    amendue. Quindi sarei di parere, quando non sembri altrimenti  al purgatissimo giudizio della M. V., che potesse il supplicante  Tendersi consolato, ogni qualunque volta però si fusse certo,  che il suo figliuolo, lasciate da parte le occupazioni forensi, fusse  Per voltar tutto l’animo suo agli studj di eloquenza, ed a quei,  Che sono necessarj per riuscir eccellente in tal non facile e stimatissima professione.   Che è quanto su di ciò ho stimato dover sottoporre alla sovrana  comprensione della M. V. La Sagra Regal Persona il Sig.r Iddio  sempre più prosperìi e conservi.    Roma, 6 gennaio 1741.    Umilissimo Vassallo e Cappellano  C. Galliano Arciv.o di Tessalonica 1.    Non era giunta da Roma questa consulta, che il Brancone portò, il 12 gennaio, la supplica del V. col parere  del Galiani in Consiglio di Stato. E, in quel giorno, sollecitò da Carlo il seguente decreto, che si legge a fianco  della relazione della segreteria di Stato al re =:    A 12 gennaio 1741.  Nel Consiglio di Stato:    Essendo il supplicante benemerito della R. Università degli  Studj, alla quale egli colle sue dotte fatiche ha fatto molto onore,  ed essendo il suo figliuolo Gennaro giovine di abilità, e nell’esercizio della suddetta Cattedra avendo incontrato tutto l'applauso,  S. M. si è degnato conferire in proprietà a Gennaro la suddetta  Cattedra di Eloquenza, la quale egli ha esercitata facendo le veci  di suo Padre da qualche anno a questa parte.    Si vede che 11 Brancone non credette necessario assicurarsi, prima, che Gennaro averebbe abbandonato il foro. E,  quel giorno stesso, poteva far riporre tutto l’incartamento    I Nell’ incartamento cit. degli Espedienti di Consiglio: Cautelas de  semana 8-14, I, 1741. La minuta di questa consulta è nel vol. 4° delle  Relazioni del Cappellano maggiore, dal 6 gennaio al 26 maggio I74I  (mandate da Roma alla corte di Napoli).   2 Vedi questa relazione in Appendice I.] con la nota apposta sotto il decreto ora riferito: ex.do en  dicho dia a la sec.ria de Hazienda y al M. Capellan M vy.   Infatti recano la stessa data, del 12 gennaio, i due  seguenti dispacci del Brancone al segretario dell'azienda  Giovanni Brancaccio, e all’obispo de Puzol, cioè a Nicola  de Rosa, vescovo di Pozzuoli e cappellano maggiore  interino, nell’assenza del Galiani.    A Brancaccio, Decreto:    Precedente suplica que ha hecho al Rey don Juan Bap.ta  de V. Historiografo Regio para que se confiera 4 su hijo Don Genaro la Cathedra de Eloquencia en la Universidad de Estudios  que posee y presentemente la està exerciendo el mismo, respecto  4 que por le edad muy adelantada en que se halla, y por los  muchos achaques que le han sobrevenido, no puede continuar 4  desempefiarla, como por lo pasado, ha venido S. M. en atenci6n  4 ser el suplicante benemerito de la Universidad de los Estudios,  4 la qual con sus doctas obras ha hecho honor, y par consiguiente  es capaz de publica gratitud, y assimismo et que su hijo Genaro  es de mucha habilidad como lo ha manifestado de algunos afios  4 esta parte en el exercicio de la mencionada Cathedra supliendo  las veces de su Padre, en conferir en propiedad por gracia especial  al dicho D. Genaro de V. la citada Cathedra de Eloquencia,  con el sueldo que 4 la misma està sefialado, en remuneraci6n  de las circunstancias expresadas. Y de Real orden lo prevengo  4 Usted por que por la Secretaria 4 su cargo se dé lo conveniente  4 la Contadoria principal, por que execute el asiento y libramento de dicha cathedra y sueldo, 4 favor del citado Genaro de  V., y que se la satisfaxa, como y quando et los demés cathedràticos. D. G.  Pal. à 12 de Enero 1741. G. M. B.!.    Al Obispo de Puzol:    Ill.mo Sig.  Atendiendo el Rey 4 la supplica que le ha hecho D.n Juan Bap.ta  de V. Historiografo Regio, y Cathedratico de la Eloquencia    1 Dispacci dell’ Ecclesiastico, vol. 36 (novembre 1740-gennaio 1741),  carte 131-132 £.    VI. IL FIGLIO DI G. B. V. 227    en la Universidad de los Estudios, paraque en resguardo à la  edad adelantada que tiene, y a los muchos achaques que le han  Sobrevenido, y le impiden de poder continuar 4 esercer la dicha  cathedra, como lo ha executado por lo passado con mucho beNeficio de la misma Universidad y de los Estudiantes, se dignase  Conferirla a D.n Genaro su hijo, que la està presentemente desempefiando con publica satisfaciòn; i teniendo su Mag.d al mismo  tiempo consideracibn 4 que el suplicante es benemerito de la  Universidad de los Estudios, 4 la qual con sus doctas obras ha  hecho mucho honor, por lo que es capaz de una publica gratitud,  y assimismo et que su hijo Don Genaro es de mucha havilidad,  como lo ha manifestado de algunos afios à esta parte en el exercicio de la mencionada Cathedra, supliendo las vezes de su Padre,  se ha dignado por gracia especial conferir en propiedad al referido  D.n Genaro de V. la enunciada cathedra de Eloquencia, con  el sueldo que està sefialado 4 la misma en remuneracién de las  circunstancias expressadas; i de orden de su Mag.d lo prevengo  a Usted, 4 fin que en esta inteligencia disponga su complimiento,  pues ya se ha dado lo conveniente 4 la contaduria principal para  el asiento de la Cathedra y libramento del sueldo. Dios guarde.  Palo 4 12 de Enero 1741  Ill.mo Sig.r Don Gaetano M.a  Brancone !.    Questi documenti rettificano le inesattezze in cui incorse il Villarosa, nel suo racconto di questo passaggio  della cattedra dal V. padre al V. figlio; dove attribuisce al proprio congiunto Nicola de Rosa ? il merito di  quest’ultimo omaggio reso dallo Stato di Napoli alla gloriosa vecchiezza di G. B. V..   Dev’essere poi del Brancaccio questo altro dispaccio,  di cui ho trovato copia a capo dei pagamenti del soldo  di ducati 200, per rate quadrimestrali, a Gennaro V.  dal 1752 in poi, in un Ordinario della Scrivania di razione:    1 Dispacci dell’ Ecclesiastico, vol. cit., cc. 128 b-129 bd.   2 Nelle Aggiunte alla vita del V., Opusc., I, 164 (ora Opere, V, 81)  e nella Prefaz. allo stesso vol. p. xv. Secondo il VILLAROSA, il vescovo  di Pozzuoli avrebbe riferito al re sull’ istanza del V. padre. Su Magestad con Real orden 4 12 de Henero de 1741, compa-  decido de los muchos achaques y aîios que tiene Don Juan Bap.ta  de V. Historiografo Regio, por cuyos motivos suplicé a su Real  piedad se dignase conferir à Don Genaro de V. su hijo la citada  cathedra de la Universidad de los estudios que sirve de algunos  afios 4 esta parte por sus indisposiciones, vino en conceder por  gracia especial la mencionada Cathedra 4 Don Genaro de V.,  en atencion 4 su abilidad, y al mucho honor y credito con que  la desempena y a los particulares meritos de su Padre y mandé  se le considerasse y pagasse el sueldo que le correspondia desde  el mismo dia 12 de Henero de 1741, en adelante al mismo tiempo  que 4 los demas cathedraticos.    Nell’ Ordinario segue la nota: cuya gracia fué con-  firmada con otra Real Orden de S.M. de 18 de sept.re de  1745 *; cioè, dopo la morte del padre, e in perpetuo.    Quando si diffuse la notizia, nel gennaio 1741, fu  anch'essa  applauditissima » per Napoli. Francesco Serao  scrisse al venerando filosofo, congratulandosi vivamente  che fosse toccato a un napoletano la lode di aver promosso  sì nobile e liberale provvedimento, qual era la promozione  di Gennaro iuvenis doctrinae probitatisque laude florentis-  simi: e pensava che fosse dovuta al Vescovo di Pozzuoli  o al Brancaccio, o ad entrambi.  Ego, soggiungeva,  qui unus e multis, sed minime vulgari aut tralaticio animo,  familiae tuae decora atque commoda prosequor, nullum  finem faciam plausu ac praedicatione tam illustre facinus  concelebrandi : tum animus est collegas lectissimos exci-  tandi, ut de gratiarum actione, tamquam pro publico    1 Scrivania di vazione. Ordinario I: Lettori pubblici 1754-1805,  vol. 32, c. 23. In questa carta e nella successiva sono segnati tutti i  pagamenti fatti a Gennaro V. dal 1° dic. 1752 al 5 aprile 1783.  A c. 134, ricomincia la nota dei pagamenti al medesimo dal 6 giugno  1783 al 2 giugno 1797. A pie’ del doc. riferito nel testo, è avvertito  che il real ordine del 1741 acompafia el Pliego de la fué Contadoria  Principal del mismo (G. V.); e la conferma del 1745 acompaòia el  Pliego de D.n Blas Troise, ossia il Dispaccio del 18 settembre 1745  firmato dal Brancone, che ricorderò più innanzi.] ‘ngentique beneficio, ad supremos aulae proceres habenda,  cogutent. Nihil profecto aequius ; nihil universae scholae  honorificentius fortasse et fructuosius fuerit » 3.   Tra le carte di Gennaro si trova anche l’orazione che  egli lesse nell’occasione dell'apertura degli studi, il primo  anno che ebbe da titolare la cattedra che era stata del  padre. Trattò questo tema: Sola efficax voluntas littera-  rum studiosam iuventutem perquam doctissimam efficere  dotest. Giova qui riferirne l’esordio: Cum ego die multumque mecum animo volutassem quam  difficile sit ex hoc loco ad dicendum amplissimo verba facere,  in quem nihil nisi ingenio elaboratum et industria perfectum  et perpolitum adferri oportere comperio; dicendum est enim in  hoc tam frequenti consessu tot doctissimis Antecessoribus, am-  plissimis patribus, lectissimisgue Auditoribus referto et constipato,  magis magisque huius diei subeundum periculum animus de-  spondebat, cum me et dicendi rudem et rerum omnium impe-  ritum ac pene hospitem, et meas infirmas vires huic tanto oneri,  quod suscipiendum aggredior, omnino impares reputarem; nam  cum id diu usquequaque versassem, humeros meos prorsus per-  ferre non posse intelligebam: ad haec et summus timor, pudorque  meus et vestra dignitas me quoque ab incoepto deterrebat. His  tot tantisque difficultatibus jactato, quae me ab hoc optatissimo  laudis aditu prohibebant, occurrebat pietatis erga optime de me  meritum patrem officium; quum eum conspicerem senio malisque  pene absumptum, curis confectum, et adversa fortuna usque  vexatum et nunc quam maxime saeviente, corpus vix ac ne vix  quidem trahere, aequum esse duxi me labentem iam aetatem ejus  aliqua ex parte substentare; atque ita quodammodo in animum  induxi meum ejus vices, quamquam deterrima comparatione,  explere; etenim erga patrem officium praetendendo, me facile  temeritatis vitium effugere posse, eaque pietatis professione, si  non aliqua laude, at certe excusatione dignum fore arbitratus sum.   Cum tandem aliquando me recreavit refecitque Munificentissimi  et Sapientissimi Regis nostri consilium, quo me in ordinarium    1 Lett. pubbl. da B. Croce, nella Bib/., p. 109; e poi in Opere,  V, 256-7.    Antecessorum numero referri placuit 1; cum enim me hoc tanto  tamque praeclaro munere, nullo ingenii mei periculo facto, di-  gnum et parem censuisset, ejus sacratissimam mentem, qua hoc  pene immensum civile corpus informat et inspirat, et cuncta  ratione et consilio recte atque ordine regit et moderatur, plus  vidisse, et meas ingenii vires, quas ego in me non sentirem melius  perlustrasse et penitius introspexisse putavi; quapropter auctus  animo, Augustissimi Principis praesertim judicio, quod mihi  maximum adversus obtrectatores propugnaculum esse poterit,  hoc mihi impositum onus alacri animo suscipiendum potius,  quam deponendum censui.    Il manoscritto fu riveduto dal padre, che segnò qua e  là, in margine, qualche parola da aggiungere. Così, a un  certo punto, Gennaro diceva:  Nulla animi affectio homi-  nis tam propria, quam curiositas, quae mihil aliud est,  quam veri quaedam investigandi cupiditas, qua cuncti  rerum caussas rimando veram rerum scientiam prosequun-  tur ». E il padre aggiungeva al margine un fiore poetico:  unde, Felix qui potuit rerum cognoscere caussas ! ».   E già, col consiglio del padre e sulle orme di consimili  orazioni di lui, Gennaro aveva dovuto scrivere questa sua.  Si scoprono, in fatti, in più luoghi i soliti pensieri, i soliti  movimenti oratorii di Giambattista. Gennaro dice ai  giovani:  Ne desides et inertes supina vota concipiatis,  ut vobis in sinu de coleo decidat sapientia .... Neve imperitum hominum vulgus imitemini, qui ventri et somno  dediti, et rei familiari solum intenti, id tantum ab hac  publica sapientia mutuari oportere arbitrantur, quantum  rebus bene în vita gerendis sufficere possit ». E il padre,    I Queste parole non potevano essere scritte prima del 12 gennaio 1741. Ma l’ Orazione doveva già essere preparata dalla metà di  dicembre, perché in un angolo dell’ultima pagina (che fa da copertina  al ms.), si legge, della mano stessa di Gennaro, una fede di studi in  data  Neap.  Il che significa che il Brancone e il Galiani avevano già assicurato  l'esito della supplica al V..] nella solenne Orazione De mente heroica aveva  detto, con ispirazione bensì molto più alta:  Ne supina  vota concipiatis, ut dormientibus vobis in sinum de coelo  cadat sapientia, eius efficaci desiderio  commoveamini,  improbo, invictoque labore facite vestri pericula, quid possitis .... vestras mentes excutite; et incalescite Deo, quo  Dleni estis ».   Gennaro, dunque, consolò gli anni estremi del padre,  che morì il 23! gennaio 1744.   Ma Gennaro solo nel 1789 ? poté fargli murare nella  chiesa dei Gerolamini, in cui era stato seppellito, una  modesta lapide, che rammenta con quello del padre il  nome della madre  coniuge lectissima. Buon figliuolo !    1 Per la data del giorno v. Croce, in V., Opere, V, 124.   2 Non 1799, come dice, credo erroneamente, A. RANIERI, Scritti vari,  Napoli, Morano, 1879, I, 144; cfr. VIiLLAROSA, Aggiunte, in Opusc., I,  167-8. Tra le lettere di P. Napoli-Signorelli pubblicate da C. G. MININNI  nel suo vol. P. N.-S., vita, opere, tempi, amici, con lett. e docc., Città  di Castello, Lapi, 1914, ce n’è una (p. 456) ad Agostino Gervasio, al  quale il N.-S. invia  due iscrizioni di Gennaro V. per suo Padre »  che aveva trovate tra le proprie carte.    LA CARRIERA ACCADEMICA DI GENNARO V.   Il padre morì, come è pur noto, nella casa sui Gradini  a Santi Apostoli. E qui ancora abitava Gennaro nel 1768 1.  Qui continuò egli la quieta vita del padre, tra l’università,  gli studi, la conversazione dei signori e dei dotti. Gennaro  non si elevò mai alle speculazioni di Giambattista, ma  seguì l’indirizzo umanistico e rettorico degli studi paterni.  Continuò, insomma, la men difficile tradizione domestica.  Non scrisse versi; ma compose più epigrafi del padre e  studiò con pari amore le più leggiadre eleganze della lingua  latina. Dev’essere stato un ottimo insegnante della sua  materia; e le idee didattiche accennate nelle sue Orazioni  inaugurali, che ci sono giunte, confermano tale giudizio.  Ebbe anche dottrina classica e acume non volgari: ma fu  modestissimo, e il suo titolo maggiore restò sempre quello  di essere figliuolo di Gian Battista V.. Né egli avrebbe  ambito di più, conscio, benché confusamente, della paterna  grandezza.   Nel 1756, lesse per l'apertura degli studi un’ Orazione  sul tema: Dissidium linguae ab animo factum praecipuum  corruptae eloquentiae causam fuisse. E, sul principio di  questa, accenna a un’altra Orazione, letta fere multis  abhinc annis, nella quale aveva indagato quidnam esset,  quod plures omnibus in artibus, quam in dicendo admairabiles extitissent. Ma questa non si trova tra le sue carte.   Una quarta volta, a nostra notizia, gli spettò di leggere l’ Orazione inaugurale, e fu al principio dell’anno    I In una copia d’una Orazione per le nozze di Ferdinando IV (1768)  trovo segnato l’ indirizzo di Gennaro così:  A S. Apostolo il Signor  D. Gennaro V..  Attaccato alla porteria ».    scolastico 1774, il 13 novembre; e trattò un tema molto  affine a quello della prima Orazione: Optima studendi  ratio ab ipso studio petenda. Ma, qualche anno prima,  il 5 novembre 1768, ebbe a parlare in occasione più solenne alla gioventù studiosa: In regiis Ferdinandi IV  Neap. ac Sicil. Regis et Mariae Carolinae Austriae nupius.  E queste due Orazioni die’ alle stampe in un nitido volumetto nel 1775, amicis summo opere adnitentibus, siccome  attesta, nel suo parere, il revisore civile 1, E veramente  in quelle occasioni il buon Gennaro sì fece onore. Lo stesso  revisore ricorda che le due Orazioni erano state lette  tota ltteratorum plaudente cavea ; e, per conto suo,  era  un professore di teologia,  ne giudicava così:  In e:s  tantum nitoris ac dignitatis, totque Latialis eloquir veneres  ubique emicant, ut cas numquam satis laudare quiverim,  mihi si linguae centum sint, oraque centum. Sane parentem  ejus doctissimum, Jo. Baptistam Vicum, immortalis memoriae virum, latine loquentem audire jam videor. Adeo  verum plerumque illud est :     Fortes creantur fortibus et bonis » 2.    Il Decreto reale, già ricordato, del 18 settembre 1745,  aveva stabilito la dotazione fissa di ciascuna cattedra,  lasciando quella di eloquenza latina con 200 ducati 3.    I L'opuscolo ha questo frontespizio: In regiis Ferdinandi IV. Neap.  ac Sicil. regis et Mariae Carolinae Austriae oratio a JANUARIO V. Regio  Eloquentiae Professore, ad studiosam Juventutem in R. Neapolitana  Academia solemniter habita Non. Ma  l’ Orazione per le regie nozze va da p. WI a p. LI; e da p. LI a  p. LXXXII segue l’ Optima studendi ratio ab ipso studio petenda, ad  studiosam juventutem habita. La data di  pubblicazione risulta dall'ordine dell’ imprimatur (p. LxxxIv), in data  29 settembre 1775. i   2 Il parere di questo revisore, p. Felice Cappiello, reca la data del  30 agosto 1775.   3 Vedi il Dispaccio del Brancone nel Cod. delle leggi del Regno di  Napoli di AL. DE SaRIS, Napoli, 1796, lib. X, tit. IV,41-42. Ma    Ma, nel 1777, il marchese della Sambuca elevò la dotazione complessiva dell’ Università da ‘7000, qual’era  rimasta fin dal ’45, a duc. 12613,99. Si accrebbero quindi  gli stipendi dei professori. E della cattedra di Gennaro,  chiamata ora di Rettorica e poetica, nel nuovo piano che  11 marchese della Sambuca comunicò al ministro dell’ecclesiastico con dispaccio del 26 settembre 1777 !, è detto:  Questa Cattedra nella Università gode ora ducati 200,  insegnando sette mesi dell’anno la sola Rettorica. Si  accresce fino a ducati 300, con l'obbligo però d’insegnare  per tutto l’anno, a riserva del mese di ottobre, anche la  Poetica » =. Fu duro a Gennaro V., passati i 62 anni,  restare a insegnare tutta l’estate, rinunziando per quell'aumento di soldo, a tre mesi di vacanza 3! Ce lo farà  dire egli stesso, tra poco, in una relazione del Cappellano  maggiore su certa sua istanza al re, che riporteremo più  innanzi. Ma ad alleggerirgli il peso, nel giugno successivo (1778), quando appunto, negli anni precedenti, soleva  smettere le sue lezioni, venne a incorarlo un altro segno  della regia benevolenza.   È noto il dispaccio del marchese della Sambuca del  22 giugno 1778 4, per cui fu creata la RR. Accademia delle    il testo originale di esso è tra i Dispacci del GATTA, parte II, t. III, 449-55. Vi sono stabiliti tutti gli stipendi dei singoli insegnanti, a  cominciare da quello di Biagio Troisi di duc. 800. Ivi a p. 454:  Eloquencia latina que se lee por le Dotor Don Gennaro V., dos cientos  ducados ».   I Vedilo in DE SARIIs, lib. X, tit. IV,51-3. Cfr. anche AMoDEO  (Rif. universitarie,25, 55) il quale ignora che questi docc. erano stati  pubblicati dal De Sariis, fin dal 1796.   2 Il DE SARIS, ha per isbaglio: Pratica.   3 Fino al 1777 il Calendario di Corte chiama la cattedra di G. V.:  Rettorica. In quello del 1777 (p. 68) si comincia a dire: Rettorica e poetica.  Non è esatto quel che dice sul proposito l’AMODEO, Riforme,24-5 4 Ristampato dal Minieri Riccio, Cenno stor. delle Acc. fiorite  nella città di Napoli, in Arch. stor. nap., V (1880), 586-7; ma già pubblicato dal DE SARIIS, lib. X, tit. VI, p. 55 e insieme cogli Statut  dell'Accademia nel t. XIII della Nuova Collez. delle Prammatiche del  Regno di Napoli del GiusTINIANI (Napoli, Stamp. Simoniana, 1805),    scienze e belle lettere. L’ Accademia veniva compartita in  quattro classi: due per le scienze, Matematica e Fisica, e  due per le lettere: Storia ed erudizione antica e Storia ed  erudizione dei mezzi tempi. Si nominava il presidente, il  vice-presidente e un segretario per ciascuno dei due rami  dell’ Accademia; infine, quattro accademici pensionari  ( coll’assegnamento ad ognuno di essi di annui ducati  sessanta »), uno per classe:  per la Storia ed erudizione  antica, don Gennaro V. ». Presidente, vice-presidente  segretari e questi primi quattro accademici dovevano  riunirsi per formare il piano e le regole dell’ Accademia »,  proporre  il numerc degli accademici pensionari e onorari,  e i soggetti per occuparne le piazze, con riferirsi tutto al  Re per la sovrana approvazione ». L’annunzio si dice  destasse in Napoli grande entusiasmo, e nessuno pare sì  meravigliasse dell’onore segnalato che riceveva Gennaro  V.. Certo, egli doveva essere ben veduto dalla Corte;  ma, tra per i suoi meriti personali, e tra per un certo  riflesso della gloria paterna, che veniva affermandosi  ogni giorno più saldamente, doveva essere stimato ed  amato anche dagli studiosi. Gli statuti, a cui lo stesso Gennaro collaborò, furono approvati dal Re con dispaccio  del Beccadelli del 30 settembre di quello stesso anno.   57 S8gg.: pubblicazioni sfuggite, tutte e due al BELTRANI, nella  sua memoria, del resto assai diligente, La R. Acc. di Scienze e belle  lettere fond. in Napoli nel 1778, negli Atti dell’Accademia Pontaniana  vol. XXX. Napoli, 1900; dov’ è detto (p. 62) che il Minieri-Riccio  pubblicò il dispaccio 22 giugno 1778. E dalla pubblicazione del MinieriRiccio il Beltrani non poté intendere il vero carattere del doc., che  egli prende per una semplice /ettera del marchese della Sambuca al principe di Francavilla, maggiordomo reale (p. 3); laddove si tratta d’un  regolare dispaccio di segreteria, ossia della ordinaria forma ufficiale  onde erano annunziate tutte le determinazioni reali. Su quell’accademia  vedere anche F. NICOLINI, in GALIANI, Dialetto napoletano, Napoli,  Ricciardi, 1923, Introd., $$ 2, 3.   I Sono pubbl., oltre che nel Del de Regimine Studiorum (N. Collez. ecc.,  t. XIII,58 sgg.), nel vol. rarissimo: Statuti della R. Acc. delle scienze  e delle belle lettere, eretta in Napoli dalla Sovrana Munificenza, Stamp.  Reale, 1780. Ivi è anche il lungo elenco dei soci. Facevasi obbligo agli accademici pensionari  d’intervenire a tutte le private e pubbliche assemblee », e di non   allontanarsi dalla capitale, senza averne prima ottenuto  in iscritto l'autentica permissione del presidente ». Infine,  si stabiliva: Ogni accademico pensionario sarà nell’obbligo indispensabile di comporre in ogni anno una memoria su quell’argomento, che egli, a propria elezione,  scerrà dalla serie degli argomenti dei lavori scientifici annuali ». Giacché non era riconosciuto ai singoli soci il  diritto di scrivere su qualunque soggetto; ma sì di presentare ogni anno  in iscritto un breve parere sul metodo,  sugli argomenti e sulla qualità de’ lavori letterari e scientifici, che potrebbero per tutto il resto dell’anno in ogni  Classe eseguirsi ». Tutti i pareri poi dovevano essere esaminati da una Deputazione di uomini savi e intelligenti », nominata, per ciascuna classe, dal presidente,  che, com'era stato ordinato nel dispaccio del 22 giugno,  sarebbe stato sempre il maggiordomo maggiore di S. M.  Gennaro fu messo a capo della classe di Erudizione e  storia antica, che, nel dispaccio posteriore del 19 gennaio 1783, fu detta di Alta antichità *. |   Nel 1788, uscì il primo ed unico volume degli Atti di  quest’ Accademia, contenente gli atti dalla fondazione  sino all'anno 1787 =. Non vi è nessuna memoria del V. 3;  ma il segretario, Pietro Napoli-Signorelli, nel Discorso  istorico preliminare, esponendo i lavori eseguiti dall’ Acca- [In questo dispaccio (MINIERI-Riccio, in Arch. Stor. Nap., V. 587),  si ordinava ai pensionari di non astenersi senza il real permesso dal  presentare ogni anno una memoria. Non potendo, si domandasse la  grazia di passare tra gli onorari.   2 Atti della R. Acc. delle scienze e belle lettere di Napoli, Napoli,  Don. Campo, 1788, diXCVIII-374 in -4°, con 18 tavole.   3 Né di altri soci del ramo letterario, salvo una di Dom. Diodati  (della 4® classe, Mezzana Antichità), letta nel 1784 e nel 1786: Illustrazione delle monete che si mominano nelle Costituzioni delle Due    Sicili. (pp. 313-370).    demia in quel primo decennio, ricorda anche la parte di  Gennaro:    L'eruditissimo accademico pensionario della III classe don Gennaro V., degno figliuolo dell’ immortale autore dei Principit  di una Scienza Nuova e suo successore nella cattedra di Eloquenza  nel Liceo Napolitano, prese in una dissertazione con piena erudizione e fina critica ad illustrar Pompei, celebre città della Campania, sepolta da diciassette secoli dalle ceneri del Vesuvio. Non  ebbe per oggetto di adornar alcune delle discoperte parti di essa,  ma di considerarla col solo lume degli antichi scrittori e di rilevarne le vicende. Saggio e modesto quanto sagace osservatore,  lontano da ogni ambizione di produrre cosa nuova in un argomento venerabile per la sua antichità, egli conseguì la rara lode  di saper raccogliere con giudizio e disporre e combinare insieme  con discernimento e dottrina que’ languidi e dispersi barlumi  lasciatici dai greci e dai latini intorno a sì famosa città, e di apportar somma luce e dar sembianza di novità alle sue erudite  ricerche !.    E ne riporta un largo sunto ?, compilato con le parole  stesse dell’autore, come risulta dal confronto con l’originale manoscritto, conservato tra le carte Villarosa. Codesta  memoria il Signorelli assegna agli anni anteriori al 1783,  anno dei terremoti delle Calabrie e di Messina, che diedero  occasione a speciali indagini e studi dell’ Accademia 3.  Un'altra memoria del V. ricorda poi, letta nel 1787,  sull’antica repubblica di Locri»; e dice che di essa si  attendeva la continuazione, per pubblicarla nel volume  seguente, che non venne più. Questa memoria era stata  preparata da Gennaro con grandissima cura, come apparisce da molti appunti, che sono tra le sue carte. Dove  pure si trova un buon tratto della medesima, col titolo:  Dissertazione sull’ origine, dominio, legislazione, governo, AttiLXII sgg.  ® Pagg. LXIII-LXX.  3 Vedi su ciò la cit. memoria del BELTRANI.    ed uomini illustri della Repubblica di Locri nella Magna  Grecia di G. V.  Parte I: Dell’origine della Repubblica  di Locri ®.   Ma altro dové scrivere per l'Accademia, anche dopo  il 1787; e lo stesso Napoli-Signoi:elli, lodando altrove il  medico Silvestro Finamore di Lanciano d'una memoria  sulle antichità lancianesi mandata all'Accademia in forma  d’una serie di questioni, accenna ai dottissimi giudizi  portati su di essa da due nostri valorosi accademici, il  giureconsulto Domenico Diodati ed il regio professor di  eloquenza Gennaro V. »; il quale prende per mano  tutti i punti additati nella memoria, e ne illustra buona  parte in quanto gli permette quel periodo tenebroso; e  certamente il di lui esame merita (se pure torni un tempo  che ci si conceda ?) che si renda di pubblica ragione » 3.  Quel tempo non tornò più: ma della relazione del V.  sulla memoria del Finamore ci resta una copia di mano  del marchese di Villarosa, insieme con una lettera del  22 giugno 1804 del Finamore, che, avuto sentore, per la  notizia del Napoli-Signorelli, di quella relazione, e non  sperando di vederla presto pubblicata, prega Gennaro  V., con cui era entrato in relazione epistolare, di volergliela comunicare manoscritta *. E altro fors’'anco scrisse,  di cui non ci resta notizia, per l'Accademia.   Certo, quest'occasione a lavori di erudizione storica  troppo tardi sorse nella vita di Gennaro, perché egli  fosse ancora in tempo di produrre molti e notevoli frutti.  Il suo genere erano sempre state, come vedremo, ora  I Non resta una copia completa, né anche della parte I; invece,  della Dissertazione sulla città di Pompei ci sono tre esemplari, fra cui  due autografi.   ? Per le angustie finanziarie in cui si trovò l'Accademia, vedi BELTRANI, La RR. Acc. ecc.   3 P. NAPOLI-SIGNORELLI, Regno di Ferdinando IV adombrato în tre  volumi, t. I, Napoli, Migliaccio, 1798, p. 381.   I Vedila in Appendice I] zioni ed epigrafi: il suo ideale letterario, l’elegante espressione, la frase classica pura: non era andato più oltre.  Il suo mondo, sempre, quel circolo chiuso de’ professori  e degli eruditi. Tra i ricordi della sua lunga vita neppure  un alito di affetti domestici. Si trae un largo respiro,  svolgendo le sue carte muffite, quando, finalmente,  s'incontra la seguente lettera, che ci dà al viso quasi un  soffio d’aria fresca. Una villeggiatura di don Gennaro,  forse per una cortesia usatagli dal marchese di Campolattaro. Dalla cui villa immagino Gennaro scrivesse alla  marchesa:    Godo immensamente in sentirvi tutti bene: et infinitamente  ringrazio V. S., il Marchesino e don Andrea della memoria, che  avete di me; e le dico che desidererei poter meglio meritare le  cortesie che ricevo.   Quelle pere che le mandai, furono da me raccolte per terra,  e come che alla giornata cadono immature, essendone io ora  incaricato, voglio che V. E. ed il Marchesino le vedano; ed intanto  le mandai, perché le avesse riposte, avendomi detto Giovanni  che, accadendo l’ istesso alle sue, egli le ripone perché col tempo  vengono alla maturità, sapendo bene che queste pere d’ inverno  anche si colgono immature, e si ripongono. Io sempre mi dichiaro  non solo pronto, ma anche ambizioso di ricevere l’onore di tutte  l’ EE. VV., ma sempre con quella condizione; e desidererei che il  Marchesino non misurasse me alla sua misura, e che si facesse  carico della gran disparità della condizione e dello stato suo e  mio, ed ancora della mia corte compendiosissima; perché una  brieve anticipazione porta, che, se non posso far quel che devo,  almeno fo quel che posso. Onde tanto Lui quanto V. E. faccino  conto di tener qui un fattore di campagna: basta che si diano  la pena di mandarmi l’ordine, per far conoscere il piacere di  eseguirlo.  Poiché state colla falsa prevenzione che, favorendomi con  anticipazione, io mi metta in cerimonie (veramente vi feci truovar  archi e trofei!) per toglier ogni briga, e per aver l’onore [dei]  vostri favori, fo una solenne dichiarazione, col contentarmi che  la medesima sia anche ridotta in forma di pubblico istromento  da potermi esser liquidato in ogni corte e foro, rinunciando ex  nunc pro hinc ad ogni eccezione, così dilatoria come perentoria e declinatoria di foro, la quale è del tenore seguente, videlicet:  Dichiaro e mi obbligo etiam cum juramento quatenus opus, che,  anticipandomi l’avviso de’ vostri favori, io sia tenuto farvi truovare non più né meno né altro di quello che è mio ordinario  mangiare, intendendosi d’anticipazione a solo fine che non  restiamo tutti digiuni !.    Intorno al 1790, a cagione di grave infermità sopravvenutagli, Gennaro V. fu costretto a smettere il suo  insegnamento. Non potendo più leggere la memoria d’obbligo all'Accademia, perdette, non saprei dir quando,  anche quel posto. E si preparò al triste tramonto. Dissi  sopra * che, nel 1797, rivolse una supplica a Ferdinando IV,  per esporgli il suo misero stato, e chiedere un sussidio.  Dopo il tratto già riferito, il vecchio V. continuava  a raccontare di sé:    Anni addietro essendoglisi aperto un gran tumor cistico, che  da tanti anni aveva alla gola, con un fiume perenne di sangue,  che per cinque mesi lo tenne inchiodato in un fondo di letto,  disperato da’ medici, il fu don Nicola Frongillo, degnissimo Lettore dell’ Università, lo curò, ed espressamente gli proibì, che non  avesse pensato più a montar sulla Cattedra, perché avrebbe  corso evidente pericolo di discenderne morto. Il quale ancor tiene    I La lettera nella minuta, da cui la pubblico, non ha né data né  intestazione; ma nello stesso foglio, a riscontro della minuta della  lettera, sono due abbozzi, pure di mano di Gennaro, della seguente  epigrafe:   Villam hanc suburbanam   breve otii negotiique confinium   atîris salubritate laxiorisque amoenitate prospectus  facile principem  N. Blanch Campilactaris Marchio  sibi emptam sibi auctam  atque   ad ingeniosissimam elegantiam   compositam instructamque  genio suo comparavit.   Mi par ovvio che la epigrafe sia stata composta dove fu scritta la  lettera, cioè nella villa Blanch, ora Famiglietti, a Mojarello (Capodimonte).] aperto. Nel principio del suo male, per non far mancanza, stabilì  per suo Sostituto il Sacerdote secolare don Ignazio Falconieri 1,  conosciuto per le sue opere. Lo partecipò tosto a monsignor Cappellano Maggiore, per averne il permesso, il quale molto ne commendò la scelta; sempre però che la M. V. si degni di confermarla.  Ed il medesimo ha continuato con soddisfazione, dovendolo il  supplicante mantenere a suo costo, con detrarlo dalle angustissime sue finanze, non avendo il suo sostentamento altro appoggio, che quello della Vostra Real Munificenza.    Continuava, rammentando i favori già ottenuti da’  Borboni, e confidava implorando un generoso sussidio dalla munificenza reale.   Ma pare che la supplica rimanesse dapprima senza  risposta ?. Gli toccò infatti di rinnovare l’istanza, abbre  1 La Rettorica del Falconieri, pubblicata la prima volta nel 1786,  si studiava ancora a tempo del De Sanctis; ne ho visto un'edizione del  1835, e il D’Ayala ne cita la ventisettesima! Vedi La giovinezza di  F. de Sanctis, Napoli, Morano, 1899, p. 7. Ignazio Falconieri, fu, com’ è  noto, afforcato il 31 ottobre 1799.  Era gran patriota, molto impiegato  e stimato nella Repubblica, buon uomo, dotto scrittore di Retorica ».  Così D. MARINELLI, Giornali, ed. Fiordelisi, I, 107, dov’è pur riferito  il sonetto scritto dal Falconieri pochi giorni prima della sua morte.  Nei Calendari di corte, da me veduti, degli anni 1758-1793, 1795-1797.  non compare mai il nome del Falconieri come sostituto del V..  Questi vi figura sempre come insegnante. Doveva perciò essere una  sostituzione affatto privata. E chi sa che il modo, in cui fu messo  fuori dall’ insegnamento universitario, non sia stato pel Falconieri un  motivo personale per fare quel che fece nel 1799, e che è ricordato nella  sentenza della Giunta di Stato, pubblicata da A. SANSONE, Gli avvenimenti del 1799 melle Due Sicilie, Nuovi Docc., Palermo, 1901  (Docc. per servire alla Storia di Sicilia, 48 serie, vol. VII), p. 260. Tra  le altre colpe addebitategli dalla Giunta vi è anche quella di aver  educato i giovani per la Repubblica ». Fu infatti maestro di Vincenzo  Russo: v. B. Croce, La Rivoluzione napoletana del 1799, Bari, Laterza, 1912, p. 87. Commissario per l’organizzazione repubblicana del  Volturno, ebbe segretario Vincenzo Cuoco: SANSONE, p. 356 e RucGIERI, Vincenzo Cuoco, studio storico-critico, Rocca S. Casciano, 1903,  p. 17. Del Falconieri vedi la vita scritta da M. D’AvALA, Vite degli  italiani benemeriti della libertà e della patria uccisi dal carnefice, Roma,  1883,264-67. Era nato a Lecce nel 1755. Oltre la Rettorica, pubblicò  altre opere letterarie, che sono indicate dal D’Ayala.   2 Nell’ incartamento trovasi unito a questa supplica un breve rapporto della Segreteria, con cui la supplica doveva esser sottomessa  nel Consiglio di Stato all’esame reale, e su cui avrebbe dovuto esser  segnata la risoluzione del re. Ma di questa non v'è traccia.    242 STUDI VICHIANI    viando tutta la parte della prima supplica, che abbiamo  riferita: e conservando, nel resto, i termini stessi, che  sono i seguenti: Ora, essendo giunto all’età di 82 anni, indebolito da tutti  que’ mali, che ne sono l’ indispensabile conseguenza; ed ammirando alla giornata la somma Munificenza della M. V. verso  di tutti, per cui tanto si assomiglia al Beneficentissimo Dio, di  cui ne sostiene in terra le veci; poiché non v’è chi per qualche  suo onesto desiderio venga a ricorrere al Vostro Trono, Fonte  inesausto di Beneficenze, che non se ne torni pienamente dissetato; anzi la M. V. è talmente trasportata da quest’ammirabile  Virtù, che spesso ne previene li voti, e ne risparmia le preghiere:  come infatti esso supplicante ben due volte l’ ha sperimentato  nella sua persona: quando la M. V. instituì la Real Accademia  delle Scienze, si degnò destinarlo per direttore dell’Alta Antichità,  Greca e Romana, che è uno de’ quattro rami, ne’ quali la Reale  Accademia è divisa: dovendo far la scelta de’ Maestri per istruir  nelle scienze S. A. R. il principe Ereditario, senza che esso neppur  osasse tant’alto, si degnò d’eleggerlo per precettore ne’ studi  delle Lettere Umane: il qual invidiabilissimo onore per l’eccezione della sua cagionevole salute, per cui doveva spesso, e lungo  tempo mancare, non poté conseguire. Or, se cotesto Sacro Fonte  basta che sappia su di chi debba diffondersi, che da sé si apre,  ed a larga mano versa le sue Beneficenze, come l’ ha ben due  volte sperimentato in se stesso, in quanta maggior copia deve  spargerlo su di chi vi ricorre portando in mano la chiave delle  preghiere ? Due volte, o Sire, in tutta la sua vita esso vi è ricorso:  la prima al Trono del Vostro Augustissimo Genitore, e ritornossene supra vota pienissimamente soddisfatto; questa è la seconda,  al Trono di V. M., che ne siegue gloriosissimamente le tracce,  ed implora un generoso sussidio dalla Vostra Real Munificenza,  acciocché nella sua cadente età, in cui ha bisogno preciso di  qualche comodo maggiore, non abbia da sempre luttare coll’ indigenza, e colle difficoltà di soddisfarla; e l’avrà a grazia,  ut Deus.    I In questa seconda istanza corregge l’anno 1696, in cui, la prima  volta, aveva detto essere stata conferita la cattedra al padre, in 1697.  Questo e gli altri docc. qui appresso riferiti, ove non sia avvertito  altrimenti, sono tolti dagli Espedienti di Consiglio, fascio 287, I, 12 dicembre 1797 (Arch. Sta. Napoli).    In cima alla nuova supplica dalla Segreteria dell’eccleslastico fu apposta (forse, in seguito ad ordine reale) la  nota seguente:  25 febbraio 1797. Informi, e manifesti il  suo parere ». E, con questa nota, la supplica stessa dové  esser trasmessa al cappellano maggiore. Il quale, nella  sua consulta, che tardò più mesi, riassunta l’istanza del  V., aggiungeva:    Poiché la M. V. con Real Carta del dì 25 dello scorso Febbraio  mi ha comandato, che informi, e manifesti il mio parere, debbo  rassegnare alla M. V. che sono veri e noti i lunghissimi servizi  prestati per lo corso di un secolo consecutivamente dal padre  don Gio. Battista V., illustre letterato, e dal figlio supplicante  don Gennaro, che ha caminato nelle orme del padre, a questa  Regia Università degli Studi, con decoro della medesima, e con  profitto della studiosa gioventù. Sono ancora vere le circostanze  della cagionevole salute dello stesso supplicante don Gennaro  nell’età di anni 82, a cui è giunto, fatigando per lo corso di circa  anni 60 in beneficio dello Stato; onde io stimo che merita un  tal soggetto gli effetti della Real Munificenza, per i quali possa  provvedere ai bisogni della vita; e che a tale oggetto possa degnarsi V. M. conferirgli una pensione o sulle rendite delle chiese  vacanti, o su di altro fondo che stimi più proprio.   Il signore Iddio conservi lungamente e sempre prosperi la  vostra Real Persona = di V. M. = Napoli 6 Maggio 1697 = Umilissimo Vassallo = L. Arciv. di Colosso Capp. M.    Il ritardo della consulta derivò dal ritiro, accaduto nel  corso dell’anno 1797, del cappellano maggiore, monsignor  Alberto Capobianco, arcivescovo di Reggio; il quale morì,  più che nonagenario, nel febbraio 1798. Il successore nella  cappellania maggiore, del quale si ha notizia, è mons.  Agostino Gervasio, arcivescovo di Capua, nominato nel  dicembre 1797! Interinalmente dovette esserci questo  arcivescovo di Colosso, dal maggio, forse, al dicembre.    ! Vedi il Catalogo de’ Cappellani Maggiori del Regno di Napoli c  de’ confessori delle persone reali [del P. Luici Guarini], Napoli, Coda,    Il 23 maggio, la supplica, con la relazione del cappellano, fu presentata al re, che era a Foggia, e dispose che   gli si proponga questo espediente al suo felice ritorno ».  Avvenuto il quale, gli fu riproposto, il 12 luglio. E sulla  pratica fu scritto:    Il Re vuole, che il C. M. indichi gli esempi delle pensioni accordate a’ lettori emeriti dell’ Università degli Studi, e quale  sia il soldo, che gode il ricorrente.    Questi ordini furono trasmessi al cappellano maggiore, con dispaccio dell’ecclesiastico del 22 luglio 1797.  Qual differenza dalla sollecitudine usata nel ’40 e nel ’4I  per provvedere alla vecchiaia di Giambattista V. !   L’arcivescovo rispose, il 12 agosto, con quest'altra  relazione al Re:    Signore,  In adempimento del Real comando, le fo presente, riguardo  alla prima parte, che la Cattedra di Rettorica è isolata e non ha  ascenso alcuno, come alcune delle altre facoltà, che di grado in  grado giungono alle primarie. Non vi è esempio di Lettore emerito  a cui sieno state accordate pensioni; ma non vi è esempio altresì  di Lettore, il quale abbia servito 60 anni, che fa il corso di una  lunga vita, con potersi anche considerare, che già sia scorso un  secolo che dal padre e dal figlio sia stata occupata senza interruzione la Cattedra di Rettorica nella Regia Università.   Riguardo alla seconda parte, debbo rassegnarle che il padre  del supplicante don Gio. Battista V., il quale illustrò questa  Regia Università, sostenne la stessa Cattedra col soldo di soli  docati cento: che l’Augusto fu Genitore della M. V. l’accrebbe  a docati duecento, e così esso supplicante l’ ha sostenuta, finché  la M. V. ordinò che l’ Università degli Studi pubblici passasse    1819, p. 63. Cfr. anche Sulla origine e giurisdizione del Capp. Magg.  Cenni di GIR. pi Marzo, Palermo, Morello, 1840, p. 24. Ma questo elenco  si arresta a mons. Capobianco.   I Dispacci dell’ Ecclesiastico, vol. 532, fol. 145 (Arch. Sta. Napoli).    al Salvadore; nel qual passaggio, essendo la sua Cattedra entrata  nel ruolo di quelle, che debbono leggere fino alli 28 di Settembre,  per tale accrescimento di fatighe gli furono aggiunti altri cento  docati. Adunque egli, dopo aver già servito quarant’anni, per  avere il soldo di docati trecento che godono anche i lettori più  moderni, fu costretto tirare avanti le sue lezioni, in tutta l’està,  quando per l’antico piano gli Studi finivano a’ 15 di giugno, ed  a dover formare le Istituzioni poetiche, che nel corso dell’està  andassero di séguito all’oratorie.   Nella istituzione dell’Accademia Reale delle scienze V. M. si  degnò eleggere il supplicante per direttore del Ramo dell'Alta  antichità colla pensione di docati sessanta, e questa gli è mancata:  altri piccioli emolumenti dice di essergli minorati: ed a queste  detrazioni si aggiunge che per la sua cadente età dovrà pagare  docati 30 annui per lo mantenimento del Sostituto. Quindi egli, per particolari circostanze de’ suoi lunghi servigi,  della sua età e della sua salute cagionevole, implora sussidio per  lo sostentamento della vita, facendo il conto di essergli mancati  da cento venti docati annui.   Il signor Iddio conservi lungamente e sempre prosperi la Vostra  Sacra R.* Persona. Di V. M. = Napoli 12 agosto 1797 = Umilissimo Vassallo = L. Arc. di Colosso Capp. M.    Portata di nuovo la pratica nel Consiglio, il 26 agosto 1797, da Belvedere, il re ordinò che a Gennaro V.  sì desse la giubilazione coll’intiero soldo in pensione ed  emolumenti, che ha perduti». E il 9 settembre furono  spediti da Ferdinando Corradini, segretario dell’ecclesiastico, i relativi dispacci al cappellano maggiore e al principe d’ Ischitella, segretario dell’ azienda.   Giubilato V., si ordinò tosto il concorso per la  cattedra di rettorica. Ma, per allora, non ebbe effetto.  Ecco in proposito una relazione del cappellano maggiore,  curioso documento di quel che fosse allora un concorso  universitario:    ue usata    ! Vedili in Appendice I.    Il Sig.r...Nella Università de’ regi Studi è vacata la cattedra di Rettorica per la giubilazione da V. M. accordata al vecchio professore  don Gennaro di V., e si è pure dalla M. V. ordinato di tenersi  il concorso per la provvista di tale Cattedra, con doversi prima  riferire i nomi, cognomi e patria di coloro, che dopo l’editto si  ascrivono per detto concorso.   Si è di già affisso l’editto a norma de’ Sovrani ordini; ma, frattanto che non si diverrà all’elezione del proprietario professore,  manca nella R.® Università la lezione di Rettorica, la quale è  necessaria nel corso degli studj, e per la quale mi si fa premura  dalla gioventù studiosa. Un de’ concorrenti a detta Cattedra è  il Sacerdote don Nicola Ciampitti, napoletano, professore di  eloquenza nel Seminario arcivescovile, il quale coll’acclusa supplica si è offerto d’ insegnare le Istituzioni Oratorie come sostituto  della cattedra medesima sin tanto che si eseguirà l’ordinato concorso, senza pretendere soldo o riconoscenza veruna, ma soltanto per amore del ben pubblico. Ho trovato sode ragioni di  accettare questa offerta, perché il Sac. Ciampitti è riputato non  solo per l'abilità nella materia, in grado già di Professore, ma è  noto eziandio pel costume irreprensibile, e pe’ puri sentimenti  morali e di attaccamento al Regio Trono: e perché, senza alcun  pregiudizio e interesse della R.8 Università, si provvede al bene  pubblico, col non far mancare né anche per brieve tempo una  lezione necessaria alla gioventù studiosa.   Tutto ciò sommetto alla intelligenza di V. M.; affinché, se  altrimenti non istimi, possa degnarsi approvare che il Sac. don Niccola Ciampitti insegni le Istituzioni Oratorie nella Cattedra di  Rettorica della Università dei Regi studi, sin a che non sia provvista del professore in esito dell’ordinato concorso, in qualità  di sostituto, e senza poter pretendere né soldo, né riconoscenza  veruna. Il Sig.r.... 18 novembre 1797 !.    A Gennaro V. però dispiacque la giubilazione, e  più una notevole perdita che l'abbandono della cattedra e  la trasformazione del soldo in pensione gli avrebbe arrecata. Presentò nell'ottobre un altro ricorso. Il quale,    I Relazioni del Cappellano maggiore.] deferito al re, non ebbe se non questa dura risposta,  segnata in margine alla pratica:    Da Portici li 21 ottobre 1797. Il re è fermo nella presa risoluzione.    Ma V. non si perdé d’animo, e rinnovò il ricorso,  con lievi mutamenti di forma. Riferisco questo secondo: Ss. R. M. Signore,    Gennaro V., pubblico professor di KRettorica nella Vostra  Regia Università de’ Studi, prostrato a’ piedi del Real Trono  della M. V., umilmente le rappresenta, che essendosi per sua  Real Munificenza degnata, con sua real Carta de’ 9 del caduto,  ordinare che gli si dia la giubilazione coll’intiero soldo in pensione, e gli emolumenti che ha perduti: esso supplicante si dà lo spirito  di umilmente esporle, che il soldo è immune da ogni peso, e la  pensione è sottoposta alla decima, la quale gli scema il pieno  godimento del soldo intiero, che la M. V. si è degnata concederli:  onde la supplica a volersi compiacere di accordargli l’ intiero  soldo, siccome finora l’ ha goduto, secondando in questo la generosa inclinazione del Real Animo Vostro di beneficarlo. Alla  cattedra di Rettorica è privatamente annesso l’emolumento delle  fedi di Rettorica !; e questo gli si è dimezzato; ma ne ritiene  ed esige l’altra mettà. Egli si augura che la mente di V. M. sia,    I L’esame di Rettorica era una specie di baccellierato. La Prammatica del conte di Lemos del 1616, parte III, tit. II, art. I dice:  Ordiniamo e comandiamo che niuno studente grammatico possa passare  ad intendere niuna facoltà o scienza, senza prima essere stato esaminato per lo cattedratico, seu lettore di Rettorica, il quale a quello che  approverà per sufficiente ed abile, darà una fede firmata di sua mano,  nella quale dichiarerà averlo trovato idoneo, per poter passare alla  facoltà che domanda; e lo Studente che sarà passato in qualsivoglia  altro modo, non guadagnerà il corso in quella facoltà, che passò infin  a tanto che non sarà esaminato ». L'art. 4 stabilisce che per questo  esame lo studente, sia approvato o sia riprovato, paghi all’esaminatore mezzo carlino ». Cfr. ora N. CORTESE in Storia della Università di  Napoli, Napoli, Ricciardi.] che su quel che ritiene gli si dia il compenso di ciò che ha  perduto; dovendosi intender l’ istesso sul soprasoldo, che godeva  di duc. 47, solito distribuirsi alli Lettori più emeriti, dimenticato  nella sua prima supplica; e questo anche è decimato, esigendone  duc. 38. Il che fa crescere la somma del compenso accordatogli  dalla Vostra Real Clemenza a duc. 130, inclusivi li duc. 60 dell'Accademia. Quindi ricorre a’ piedi della M. V., che è quanto  dire al Sacro Fonte inesausto delle Beneficenze, ed umilmente  la supplica, a volersi degnare fargli godere l’intiero soldo immune  da decima, siccome l’ ha goduto finora; com’ancora esentarne il  compenso accordatogli di ciò, che ha perduto negli emolumenti  annessi alla cattedra, con degnarsi indicargli da qual fondo debba  ripeterlo. Qualora poi V. M. voglia togliergli anche quel che ritiene  ed esige in essi emolumenti, il compenso di duc. 130 ascenderebbe  a duc. 200, che, uniti alli duc. 300 di soldo, formerebbero duc.  500: nel qual caso potrebbe la M. V. degnarsi ordinare, che gli si  corrispondano duc. 500 annui, immuni ed esenti da decima, e da  ogn’altro peso, essendogli sensibile ogni qualunque detrazione  nella sua cadente età, in cui ha bisogno di qualche comodo maggiore: confidando di tutto conseguire dall’ammirabile generosità  del Real Animo Vostro in considerazione di un povero suo suddito, che ha la gloria d’averlo sessant'anni servito; e tutto riceverà  a grazia, ut Deus. Gennaro V.  supplica come sopra.    Ritornata così l’istanza al re, questi diede l’ordine  seguente, eseguito il 18 novembre ‘97:  Il C. M. s’incarichi  di questo e riferisca speditamente, tenendo presente  l’antecedente sua relazione, volendo S. M. che si riesamini ». Il cappellano maggiore rispose, questa volta con  una lunga relazione, in cui premette la storia della lunga  pratica; e prosegue: In oggi lo stesso don Gennaro V., con ricorso umiliato nelle  vostre Reali mani, espone, che il soldo è immune da ogni peso,  e la pensione è sottoposta alla decima, e chiede che gli si faccia  godere il soldo intero senza alcun peso. Espone inoltre che alla  Cattedra di Rettorica è privativamente annesso l’emolumento  delle fedi di Rettorica, e questo gli si è dimezzato: che anche il    soprasoldo che godea di annui D.ti 47, si è minorato ad annui  D.ti 38, onde fa ascendere il compenso da V. M. ordinatogli a  D.ti 130 annui; e, qualora dovesse lasciare i detti emolumenti,  il fa scendere a D.ti 200, che, uniti al soldo di detti D.ti 300,  formano la somma di D.ti 500; e quindi implora la grazia di ordinarsi, che gli si corrispondano gli annui D.ti 500 immuni ed esenti  da decima e da ogni altro peso, essendogli sensibile ogni qualunque  altra detrazione nella sua età cadente, in cui ha bisogno di qualche  comodo maggiore.   Debbo inoltre aggiungere, che lo stesso don Gennaro V.,  essendosi a me presentato, mi ha fatto conoscere, che avrebbe  desiderato il solo domandato sussidio senza la giubilazione; affinché gli fosse continuato l’onore di pubblico Regio Professore  fino alla morte.   Quindi sommetto io alla sovrana intelligenza, che l’emolumento delle fedi di Rettorica non si è dimezzato al supplicante  don Gennaro V., se non che per la condizione de’ tempi, in  cui è minore il numero di coloro che si prendono la laurea dottorale; e quando la Cattedra di Rettorica sia provveduta di novello  Professore, a costui dovrà appartenere la formazione di tali fedi,  giacché il giubilato de V. non potrebbe attestare ciò che non  potrebbe sapere, che per altrui relazioni. Se il Professore don  Gennaro V. continuasse a leggere nella Cattedra di Rettorica  colla pensione di annui D.ti 120 sulle rendite delle Chiese vacanti,  avrebbe con queste un giusto compenso per la mancanza dei  D.ti 60 che godeva come Direttore dell’Alta antichità dell’ Accademia Reale, e per la minoranza sofferta ne’ soprasoldi e negli  emolumenti delle fedi. E potrebbe anche esentarsi dal peso di  annui D.ti 30 per lo mantenimento del Sostituto, qualora avesse  per sostituto il Sacerdote don Nicola Ciampitti napoletano, il  quale si è offerto di leggere in tale qualità senza pretendere soldo  o riconoscenza veruna; ed io già l’ ho proposto alla M. V. per la  sostituzione nella stessa Cattedra sotto il dì 18 del corrente, sino  a che non fosse provvista di proprietario in esito del concorso  ordinato; essendo detto Ciampitti riputato non solo per l’abilità  in grado di Professore, ma noto eziandio per lo costume irreprensibile, e pe’ suoi sentimenti morali e di attaccamento al Regio  Trono.   La giubilazione, o Signore, del ricorrente don Gennaro V.,  non vi ha dubbio, che sia stato un effetto della vostra Sovrana  Clemenza e paterno amore verso i vostri sudditi, considerando il  lungo servizio ed età di lui avanzata: ma, siccome egli ama di    proseguire per quanto può nel servigio, e morire coll’onore di  Cattedratico, desiderando solo il compenso per ciò che ha perduto, così sarà effetto della stessa Sovrana Clemenza e paterno  amore il risolvere, che gli si dia la pensione de’ suddetti D.ti 120,  e continui ad essere il Professore nella Cattedra di Rettorica,  accordandogli per sostituto il Sacerdote don Nicola Ciampitti  senza soldo o riconoscenza alcuna, come esso Ciampitti si è offerto.   Il Signore Iddio lungamente conservi e sempre prosperi la  vostra Sagra Real Persona. = Di V. M. = Napoli 25 novembre 1797 = L. Arciv. di Colosso.    Allora, il 12 dicembre 1797, il re prese la seguente  decisione:    Il Re, prendendo in considerazione le circostanze del vecchio  pubblico Lettore di Rettorica don Gennaro V., permette, che  lo stesso rimanga nella Cattedra valendosi di un sostituto; e nel  tempo stesso, per dare al medesimo un segno di sua sovrana  beneficenza, gli accorda l’annua pensione di ducati 120 sul Monte  Frumentario, soggetta però al peso della decima.   Nel comunicarsi al Cappellano Maggiore, si dica, che, rispetto  al sostituto nominato, la M. S. li comunicherà appresso i suoi  R.li ordini.   Resti accordato per sostituto il proposto don Nicola Ciampitti, qualora la Giunta di Stato non l’abbia notato, e perciò se  gli faccia la domanda.   C[orradini].   es.° a 19. Nell'ultimo inciso si sente che sono avvenuti i processi del 1794, e che tutta la cultura è venuta in sospetto  a’ Borboni. Il Corradini, adunque, dové prima assumere  le informazioni politiche relative al Ciampitti; che gli  vennero con questa lettera del principe di Castelcicala:    Dalla consulta della Suprema particolare Giunta delegata  di Stato de’ 7 del corrente Dicembre, avendo rilevato il Re che  nelle carte della materia di Stato nonvi è alcuna nota o indicazione  contro il Sacerdote don Nicola Ciampitti proposto dal Cappellano  Maggiore per Sostituto alla vacante cattedra di rettorica ne’    Regj Studj: nel Real nome, la Real Segreteria di Stato, Affari  esteri, Marina e Commercio lo rescrive a V. S. Illma per sua  intelligenza, in risposta del viglietto de’ 2 del suddetto Dicembre. = Palazzo 16 dicembre 1797 = Il Principe di Castelcicala   Sig. Marchese Corradini,    E quindi, il 18 dicembre, il Corradini poté dare questo  ultimo ordine ', eseguito il dì seguente: Si comunichi  al Cappellano maggiore la real risoluzione, affinché lo  stesso l’esegua, accordando al Ciampitti la sostituzione  della cattedra di Rettorica ».   Ed ecco, infine il decreto, in data 19 dicembre 1797,  con cui si chiuse questo piato lungo e pietoso:    Il Re, prendendo in considerazione le circostanze del vecchio  pubblico Lettore di Rettorica don Gennaro V., permette che  lo stesso rimanga nella cattedra, valendosi del Sacerdote don  Nicola Ciampitti per sostituto. E nel tempo stesso, per dare la  M. S. al medesimo un segno di sua Sovrana beneficenza, è venuta  ad accordargli l’annua pensione di ducati centoventi sul Monte  Frumentario, soggetta però al peso della decima. Lo prevengo  di Real Ordine a V. S. Ill ma, acciò ne disponga l'adempimento,  nella prevenzione di essersi dati gli ordini alla Camera, per la  pensione al Monte Frumentario. Palazzo, 19 dicembre 1797 =  Saverio Simonetti = Sig. Principe d’ Ischitella 2.    Così nel Calendario di Corte del 1798, per la cattedra  di Rettorica e Poetica, accanto al nome di Gennaro V.  sì trova quello di don Nicola Ciampitti, professore    I Segnato in margine alla lett. precedente del Princ. di Castelcicala.   2 In vigore del sud. R. Ordine a 25 gennaio 1798 si spedì lib. a  D. Gennaro V. Lettore della Cattedra di Rettorica doc.ti sessantasei,  e s. 66 2-3» ecc. ecc.   Ordinario 32: Scrivania di razione. Lettori pubblici, c. 135 a. Seguono ivi i pagamenti delle rate fatti al V. fino al 21 marzo 1805  (c. 135 d). A c. 168 d sono segnati i due ultimi pagamenti del 6 giugno e 5 dicembre 1805. In pari data era comunicato lo stesso Decreto  al Cappellano maggiore. Dispacci dell’ Ecclesiastico, 534, fol. 3 db.   Anche nell’ Ord. 125, della Scrivania di razione: R. Studj  Pompei, fol. 38, sono segnati dei pagamenti di soldo fatti a Gennaro V.    sostituto. Ma, disgraziatamente, non ci restano 1  Calendari degli anni 1799-1804. Per quanti anni insegnò  Ciampitti? I suoi biografi ci farebbero pensare che fino  alla morte di Gennaro V. egli continuasse a sostituirlo:   Prescelto venne nel 1798 », dice uno di essi, ad occupar la cattedra di Eloquenza nella R. Università degli  Studi, che per la decrepita età di Gennaro V. era stata  dal medesimo abbandonata. Nella qual palestra, avendo  egli mostrato non volgar valore, come ordinario professore, nel 1806 meritò di ottenerla » 1. Ma, nel Calendario  del 1805, vediamo sostituto di Gennaro V., don Nicola  Rossi, che forse era sottentrato al Ciampitti nella cattedra  del liceo arcivescovile 2. Quell’anno, il 18 gennaio, le  lezioni universitarie furono inaugurate nel chiostro di  Monteoliveto 3 (donde l’ Università tornò al Gesù Vecchio,  il 31 ottobre di quell’anno stesso 4). Abbiamo l’ Oratio  Nicolai Rossi in Regio Neapolitano Archigymnasio Rhetor.  et Poetic. Prof. subst. habita in aedibus Montis Oliveti in  prima solemni studiorum instauratione An. MDCCCV 5.    dal 21 ottobre 1799 al 5 dicembre 1805, tre volte all'anno; e ivi a fol. 12  leggesi anche una serie di pagamenti al medesimo, per gli anni precedenti.   I Elogio di N. Ciampitti del march. di VILLAROSA, in Ultimi uffizi  alla memoria del Can. N. Ciampitti, Napoli, Porcelli, 1833, p. 16. (Vi  si parla anche del metodo d’ insegnare del Ciampitti). Dello stesso VILLAROSA, Ritratti poetici, Napoli, 1842, p. 118. G. CASTALDI (Elogio stor.  di N. Ciampitti, pron. nell’ad. gen. della R. Soc. Borb. il 30 genn. 1833, 7-8) parla anche lui della nomina di sostituto nel 1798, della decrepitezza del V., e della nomina d’ordinario nel 1806  per proposta  fattane da Monsignor Capobianco Capp. Magg. ». Cfr. anche RovER,  Elogio di N. C., Napoli, 1834, p. 18; e gli E/ogi dell’ab. SERAFINO GATTI,  Napoli, Fibreno, 1832-3, II, 2009 e le note a p. 224.   2 C'è infatti un Januarii Caroli Borboni de Vita Commentariolus  auctore NicoLAo Rossio in Archiepiscopali Licaeo Humanarum Lùiterarum professore; s. a.   3 L. DeL Pozzo, Cron. civ. e milit. delle Due Sicilie sotto la dinastia  Borbonica, Napoli, 1857, p. 213.   4 DEL Pozzo, sotto questa data.   5 Ut quisque literatissimus, ita civis optimus. Neapoli, ap. Vinc. Ursinum, di32, s. a.    VI. IL FIGLIO DI V. Nell’esordio, il Rossi, accennando le ragioni della sua  peritanza per la solennità dell’occasione, dice fra l’altro:   Moveor etiam 1ipsius loci insolentia, qui ut prope suo jure  a me repetit, ne quid in occursu primo ominosum vitio  meo ‘intercidat ; ita sua non assueta facies, nescio quam  offensionem habet in dicendo » *. Queste parole non fanno  pensare che il luogo, non la cattedra, era nuovo al Rossi ?  In tal caso, il Rossi avrebbe sostituito V. anche prima  del 1805.   Questi percepì l’ultima rata del suo stipendio il 5 dicembre 1805 =. Il pagamento successivo sarebbe toccato  nel marzo 1806. Nel qual anno Gennaro morì 3. Un decreto del 31 ottobre 1806, di Giuseppe Bonaparte, riordinava, come vedremo, gli studi dell’ Università; sopprimeva varie cattedre fra cui quella di  Rettorica »; e  disponeva:  Tutti 1 professori proprietari delle cattedre  soppresse avranno la metà del loro antico soldo per giubilazione » 4. Infatti un decreto degli 11 dicembre 1806  accordava la giubilazione a ventidue professori universitari, fra i quali sono 1 titolari delle cattedre soppresse 5.  Ma Gennaro non c’è. Il decreto dell’ottobre istituiva bensì,  come vedremo, una cattedra di  Eloquenza antica e moderna ». Ma appunto a questa un decreto del 14 novembre °  nominava il canonico Nicola Ciampitti. V., adunque,  morì poco dopo compiuti i novant'anni 7.    I Pag. 6.   * Vedi sopra p. 251 n. 2.   3 IT NICOLINI ha ora trovato il testamento di Gennaro, che fu pubblicato il 19 agosto 1806. Gennaro doveva esser morto uno o due giorni prima.   4 V. Collez. degli editti, determinazioni, decreti e leggi di S. M. da'  15 febbr. a’ 31 dic. 1806, Napoli, Stamp. Simoniana,384, 385.  Lo stesso Decreto è nella Collez. delle leggi, de’ decr. e di altri atti  riguardante la P. S. promulgati nel già Reame di Napoli dall’a. 18c6  in poi, Napoli, 1861-63, I, 6 sgg.   5 Collez. degli editti cit., 465-6.   6 Ivi, 424-5 7 Il march. di ViLLarosa, nel suo art. biografico su G. V., nei  Ritratti poetici, ed. 1842 (nell’ed. 1834 non c’ è il  Ritratto » di V.),  GLI SCRITTI DI GENNARO V.  E IL SUO INSEGNAMENTO  Quando Gennaro V. lesse nell’ Accademia  la sua memoria sull’ Origine della repubblica di Locri, tra  gli accademici che l’ascoltarono, era l’abate Filippo  De Martino (1702-1794), l'elegante traduttore in esametri  latini del Tempio di Cnido del Montesquieu (1786), l’autore  dell’anonimo Hirpini poétae in Germanum Penthecatosticon contro l’ Archenholz (1789), e di varie opere erudite, come i commentari Ad sex primorum Caesarum genealogicam arborem, pubblicati appunto quell’anno, 1787.   L’ab. De Martino, che sapeva comporre esametri e  distici per ogni occasione ?, salsus attice  doctissimus  eloquio  lepidissimus colloquio 3, fu ispirato dalla sua  facile musa a indirizzare a Gennaro V. i seguenti versi,  che rimangono tra le carte di questo, nella pressoché  illeggibile scrittura 4 dell’autore:    non indica nessuna data; o meglio dà, sì, quella del 1° vol. degli  Opuscoli di V. da lui pubblicati, ma sbaglia indicando il 1816 invece del 1818. Dice che Gennaro finì di vivere nell’età di anni 78. Ma  è un errore, come hanno dimostrato i nostri docc. E così erronea  è l'indicazione di una Oratio ibid. (sc. in R. Neapolit. Acad.) în solemni studior. instauratione, An. 1768; che è l’ Orazione Optima studendi ratio del 1774, pubblicata con quella In Regiis Nuptiis del 1768.   I Vedi su di lui e i suoi scritti VILLAROSA, Ritratti poetici, 1209-31.   * Una raccolta di Carmina del De MARTINO fu pubblicata a Napoli,  1778, in-49.   3 Vedi l’epigrafe scritta per lui nel Sepulcretum amicabile di E. CAMPOLONGO (Napoli, 1781-2), I, 18. Il NAPOLI-SIGNORELLI, nel Supplemento  alle Vic. d. colt. delle Due Sic., Parte I, Napoli, Flauto, 1792, p. 190:  « E tuttavia risuona fra noi la cetra armoniosa dell’ab. Filippo Martini, il quale presso a compiere il sedicesimo lustro di sua età serba  in vecchie membra giovanile vigore e fecondità e facilità pari alla  vena ovidiana ».   4 Anche il VILLAROSA, del cui padre il De Martino sarebbe stato    age AL = _ E Ri © n n onice ci i ce a = ZA  Ad J. Vicum  Hexastichon. Haeredem quis te virtutis jam paternae,  Fortunaeque simul pauperis esse neget ?   Ambo fortuna digni meliore, sed ambo  Sprevistis caecam. Gloria parta satis:   Trans Apenninos, Alpes gelidamque Pyrenem,  Trans mare, trans Calpem fama perennis erit.    Ad eundem pro Dissertatione de Pompejis.    Eruis e tenebris Pompejos, pene sepultos,  Et nitido praefers lumine jam facem. Hesperia ! reducis magnis hinc bobus abactis  Amphitryoniadis maxima pompa fuit.   Et terrae motum ?, quo corruit Vrbe theatrum,  Pompej, Alcidis moenia celsa, notas,   Dum caneret Nero, dum, tristi sed corde, severus  Cum Seneca Burrhus plauderet ore, manu.  Aurigam foedum vidit quoque Roma Neronem:   Et mirata suum turpis arena Pium 3  Arrosos ungues scalptum caput, osque columnae  Innixum nobis nobile monstrat opus.    Ad eundem pro Dissertatione de Locris  Dodecastichon alterum.    Hoc ingens etiam studium, vigilemque lucernam  Ad galli cantum, nocte silente, sapit.   Italiae regio Graecis dominata colonis  Quum fuerit priscis Graecia Magna fuit.   Hic Locros memoras, Trojani ab tempore belli  Et varios casus innumerasque vices,    « amicissimo », diceva (l. c.) di possedere moltissimi versi del medesimo  scritti col di lui poco intelligibil carattere ».   I Cioè dalla Spagna. Allusione alla leggenda menzionata anche nella  Dissertazione del V., e che si trova in SoLIno (II, 5); la quale spiega  il nome di Pompei quia [Ercole, fondatore di Pompei] pompam  boum duxerat ».   % Il terremoto dell’anno 63 d. C.   3 Commodum gladiatorem (Postilla del De M.).    Hinc mutas etiam, vocales inde cicadas!,  At de Thebano Vitigatore nihil.   Collibus haud Thuscis, heic primam fixit Bacchus  Sedem; mentitur Musa diserta Rhedi 3;   Expeti an ignoras totum Locrensem orbem ?  Siccavit vates pocula mane duo.    Ride et vale, meque tui amantissimum tibique addictissimum,  quod sponte talis, amare perge.  PH. TUUS.    Del resto anche nell’invettiva contro il dotto tedesco  aveva esaltato Gennaro V. insieme col padre glorioso:    En Vicum ante alios, cui fasces ipse Leybnitz  Submittit, nullo per loca trita solo   Pergentem; sequitur, patriae non degener artis,  Par animo natus, moribus, ingenio. E l'alto elogio era ingrandito dalla enumerazione degli  altri maggiori discepoli del V., a capo dei quali pel  De Martino stava Gennaro  patriae artis callentissimus »  come egli stesso commentava nelle note, aggiungendo:  Multas etiam edidit orationes ac dissertationes, easque  eruditissimas, inque nostro Atheneo latinam eloquentram meritissimus patris successor docet ». Multas, no:    DI    ma l’iperbole è indizio dell’animo 3.    I Accenna al curioso fenomeno, su cui s’ intrattiene a lungo V.  nella sua Dissertazione su Locri, accennato da Strabone, Plinio e altri  scrittori antichi, che le cicale oltre il fiume Alece, dalla parte di Reggio,  fossero mute, e al di qua, dalla parte di Locri, cantassero. Uno studioso del luogo, al quale Gennaro V. per mezzo dell’Accademia si era  rivolto per ottenere certe informazioni topografiche su questo fatto  delle cicale, per sapere se notavasi ancora il curioso fenomeno, rispondeva:  Quel che si dice delle cicale mutole e vocali non è punto  vero, perché da per tutto assordano le orecchie di questi abitatori ! ».   2 In ditirambo Bacco în Toscana (Postilla del De M.).   3 Hyrpini potètae in Germanum Penthecatosticon, Neapoli, typ. Simoniana, 1789, 17 e 48; cfr. CRocE, Nuove ric. sulla vita e le opere  del V. e sul vichianismo, in Critica. E col De Martino un altro poeta, Giovanni Fantoni,  Labindo, che allora era a Napoli e stretto in amicizia a  Gennaro, dovette plaudire in prosa, se non in versi, alla  sua dotta dissertazione. In versi elegiaci gli si rivolse  quattro anni più tardi, quando già s'era allontanato da  Napoli, nella primavera del 1791, in occasione della morte  del loro comune amico il duca di Belforte Antonio di  Gennaro, tra gli arcadi Licofonte Trezenio: Iannuario  V., eruditissimo viro ac amico suavissimo, in obitu Lycophontis :    Desine, Vice, meum lacrimis urgere dolorum:  Iam satis in nostro pectore regnat amor.  Regnat, et assiduis late loca questibus implet  Et frustra surdis dis Lycophonta petit.  Flebilis ille bonis, decus et spes magna Sebethi  Occidit heu! nulli quam mihi flebilior;    e così via per altri undici distici *.   Quanta fosse la modestia di Gennaro si può vedere  dalla risposta in prosa che egli fece ai distici del De Martino, e che non vale certo meno di essi. In questa lettera  c'è tutto lui:    Philippo De Martino  Januarius Vicus S. D.    Accepi una cum elegantissima Elegia, mihi inscripta, et quasi  comite adjuncta, nitidissimum tuum, Clarissimi Viri, Stephani    I L’elegia fu pubblicata la prima volta nel 1791 nel vol. Omaggio  poetico in morte di D. Antonio di Gennaro Duca di Belforte e Cantalupo Principe di S. Martino Marchese di S. Massimo, ecc., tra gli  Arcadi Licofonte Trezenio, in -4° (s.a.); ma è stata riprodotta da  un ms. orig. nella edizione delle Poesie, a cura di Gerolamo Lazzeri,  Bari, Laterza, 1913, p. 436. A una cortese comunicazione dello stesso  prof. Lazzeri devo la precisa determinazione del tempo in cui l’elegia  fu scritta.    Patritii! Elogium; dignum sane argumentum, in quo laudata  virtus cum compta laudantis facundia ita certare videtur, ut  nescias utrum plus decoris dignitatis splendori accesserit, an  ingenii ubertati. Quod sane a me ipso quasi abductus ea inexplebili aviditate voravi, ut veritus sim, ne tot tantarumque venustatum ingluvies stomacho nimis pigro et inerti, qua molestissima  valetudine maxime laboro, aliquam pareret cruditatem:sed longe  absunt ea, quibus corpora, ab iis, quibus aluntur ingenia: illa  enim tempore egent, ut conficiantur; haec facillime concoquuntur,  ac statim in vires et sanguinem transeunt. Quapropter cum res tuas  legendas, imo potius admirandas suscipio, in quibus cum sententiarum splendorem, tum, velut in vermiculato emblemate,  sic structa verba videas; tantum abest, ut in iis Aristarchum agere  audeam, ea jucunditate et quasi nectare animus perfunditur,  ut, audacter dicam, quod sentio, ipse mihi quodam modo videor,    epulis accumbere Divim    Tuo lautissimo exceptus convivio, repletusque dapibus tuis,  ne mihi, ne tibi desim, te vicissim ad me invitare cogor; nam  saepe fit, ut quedam officia vel cum aliquo periculo praestanda  sint. Fortasse inquies, quid agis ? Satin’ sanus es? qui me postules ad te vocare ? Vide ne quid temere facias! Visne tuum  pusillum censum absumere ? audio: ineptus, profusus, impudens videar, quidvis, potius, dum ne sim inofficiosus. Quare  mitto Tibi cum hac deprecatrice epistola duas Oratiunculas ?,  quae si rei amplitudinem existimas, si quis eam commode et pro  dignitate tractasset, haud longe abeunt ab iis, quas coeci per  compita canentes stipem emendicant. Quanto sane mihi satius  fuisset, exiguam illam de me opinionem, quaecumque ea esset,  retinere, nullo typis edito experimento: quis modo recipiat, etiam  levi illa existimatione me non esse revocatum ? Grave quidem  et anceps, toties judicium subire, quot sunt ii, quorum in manus  incidas: cum praesertim in rebus, in quibus non utilitas quaeritur  necessaria, sed libera quaedam animi oblectatio, sciam quam sint    I Su Stefano Patrizi (1715-1797), magistrato, professore di diritto  feudale nell’ Università, dotto giureconsulto, autore anche di una Dissertazione sul Teatro (inedita), che è lodata dal Metastasio, vedi ViLLAROSA, Ritratti, 55-57.   2 Le due Orazioni stampate nel 1775: In Regiis Nuptiis e Optima  studendi ratio. homines morosi et difficiles ut nodum in scirpo quaerant. Haec eo  dico, ne me putes laureolam in mustaceo quaerere voluisse:  quod vel ex eo patet, quod tam diu in publicum edere cessaverim;  magnum sane nolentis indicium; sed ne diutius eorum, qui apud  me plurimum possunt, voluntatem negligere viderer; ac proinde  rogari er negare desinerem. Nunc tecum mihi res est: obliviscere  parumper divitiarum atque opum tuarum: pone, quaeso, munditias, pone lautitias tuas; illam denique eruditissimi palatus tui,  cuncta minus exquisita aspernantis, elegantiam pone: da te mihi  vicissim; et finge te iter facientem in quandam miseram atque  omnium egenam cauponam divertisse, quod saepe usuvenire  solet; atque in coena panem atrum, asperrimum vinum, coepas,  allium, palustres mullos frictos et silvestria poma esse apposita;  quid ageres ? nonne tempori servires ? Quidni amici tempori inservias? et siquid ei exciderit, quod tibi minus probetur (id vero pro  meo jure postulem) transverso calamo signes ? Utinam ne cuncta:  atque ejus causam suscipias ? Equidem liquido jurare possum;  et tu fortasse iuxta mecum sentis: tantum iis dignationis  accessurum, quantum tu tua auctoritate tribueris. Male factum:  aegre est. Te propter M. Antonii, fratris amantissimi et sanctissimae monialium, sororis tuae, obitum, adhuc in moerore et luctu  versari !. Quid ? visne solus ignorare, vulgo quod dici solet, nihil  facilius, quam lacrymas, inarescere ?    Credis id Manes curare sepultos ?    ac demum, quid jam ridentes, et coelo receptos luges ? Vale.    Una lettera, come si vede, di chi non ha molto da fare:  un componimento letterario, freddo, ma irreprensibile, e  non privo di certa grazia. Dell’intenzione letteraria di  chi lo scrisse ci assicura la doppia copia ?, che se ne trova  tra le carte di Gennaro, e ci fa pensare che questi la dové  dare a leggere a qualche amico. Certo, già questa lettera    I Della sorella Maria Gabriella, che riedificò il monastero delle  Cappuccine di Aversa, e morì in odore di santità, fu scritta la vita,  che è ricordata dal VILLAROSA, Ritratti, p. 131.   2 Ne abbiamo riprodotta una, senza tener conto delle varianti di  poco conto che l’altra presenta.] dimostra una conoscenza profonda e un uso sapiente del  latino classico.   Ma s’ingannerebbe chi pensasse che per Gennaro la  frase o la forma fosse tutto. Non era stato questo l’insegnamento paterno. Chi non ha letta l’orazione di G. B. V.  De nostri temporis studiorum ratione (1708) ? In essa 1l  professore di rettorica si permetteva di criticare l’indirizzo di tutti gli studi del tempo suo, e di additare a tutti  un’altra via. Onde sulla fine sospettava che altri potesse  ammonirlo: Quid tua, inquiet, ejusmodi argumenta,  quae omnia sapiunt, disserenda suscipere ? » e rispondeva:  Nihil mea Ioh. Baptistae a V.; at mea multum eloquentiae professoris ; quando sapientissimi matores nostri,  qui hanc studiorum universitatem fundarunt, eloquentiae  professorem omnes scientias artesque doctum esse oportere  satis suo instituto significarunt .... Nec temere ter maximus  ille vir Franciscus Verulamius illud Iacobo Angliae regi  dat de ordinanda studiorum universitate consilium, ut  adolescentes, non omni doctrinarum orbe circumacto, ab  eloquentiae studiis prohibeantur. Nam quid aliud est eloquentia nist sapientia, quae ornate copioseque et ad sensum communem  accommodate loquatur?»:. E, nelle Institutiones oratoriae, che V. dettò a’ suoi scolari nel I7I1 2,  la filosofia è detta rhetoricae instrumentum maxime necessarnum. E, nelle aggiunte postume alla propria Vita,  parlando del suo insegnamento di rettorica, ci fa sapere  che egli non ragionò mai delle cose dell’eloquenza, se  non in séguito della sapienza, dicendo che la eloquenza  altro non è, che la sapienza che parla, e perciò la sua  cattedra esser quella che doveva indirizzare gl’ingegni e  fargli universali, e che l’altre attendevano alle parti,    1 Opere, I, 119-20.  2 V. CROCE, Bibliogr. IL FIGLIO DI V. questa doveva insegnare l’intiero sapere, per cui le parti  ben sl corrispondan nel tutto » '. Insegnamento, dunque,  più di cose che di parole.   E che non dissimile, mutatis mutandis, debba essere  stato anche quello del figlio, basta ad attestarcelo l’inedita  orazione del 1756: Dissidium linguae ab animo ecc., della  quale giova dare particolare notizia, come documento  dell’indirizzo mentale di Gennaro.   Perché, egli si chiede, ci siamo tanto allontanati dall’eloquenza degli antichi, ut vix, ac ne vix quidem, species  ejus quae beatissimis illis saeculis floruit, sit relicta ?  E fa la curiosa e giusta osservazione, che nell’antichità ci  furono tanti grandi oratori prima che s’inventasse la rettorica; laddove il decadimento dell’oratoria incomincia  proprio dalla invenzione di questa. E già anche il padre,  nelle Istituzioni, aveva detto:  Sine natura, sine exercitatone, ars misera dicendi officina est. Omnes enim ingenue  educti rethoricam artem didiceruni ; at quotus quisque  evasit eloquens, sive adeo disertus ? Itaque praestare  putarim hanc artem praeceptionibus parce parcam, optimorum vero exemplorum tradere adolescentibus maxime copiosam. Neque sane pictores, qui excellere in arte student,  diu in eius subtili disputatione immorantur»?. Già il padre dunque aveva scosso la fede nei precetti rettorici.  Sì senta ora il figlio:  Etenim jam constat quod, inventa arte, adductis praeceptis,  adhibitis magistris, hoc dicendi studium tantum fecerit jacturam,  ut singulis aetatibus vix singuli mediocres oratores extiterint !  Quid enim ad rem tam immensam, tam longe latedue dissitam  definiendam magis aptum excogitari potuit, quam eam in arte  redigere, quae nonnisi cognitis penitusque perspectis, et nunquam  pallentibus rebus continetur ? Nonne nobis facillime actu videatur,  quod quae observata sunt in usu et ratione dicendi, haec ab homi  I Opere, V, 75.  ? V., Instituz. orat. e scritti inediti, Napoli, Morano, 1865, p. 9.    nibus acutissimis animadversa, notata, verbis designata, generibus  illustrata, partibus sint distributa, ut quod illi sive natura, sive  improbo labore effecissent, nos eadem suadente natura, atque  aliena industria assequeremur ?... Hoc mirabilius videri debet,  quod quibus adjumentis ceterae cunctae disciplinae, quae fere  reconditis atque abditis fontibus hauriuntur, tantum incrementum sunt adeptae, iis haec dicendi ratio, quae in communi  hominum more et sermone versatur, tantum accepit detrimentum,  ut difficile dijudicari possit, utrum artis inventio profuerit magis  an funditus everterit hanc liberalissimam facultatem.    Si addurrà che manchi ai moderni l’intelligenza degli antichi? Sarebbe ridicolo, essendo innegabile anzi,  che gli ingegni moderni abbiano superato gli antichi.  Anche Gennaro fu figlio del sec. XVIII!    Nobis gloriari licet, hanc nostram aetatem tot novis inventis,  novis artibus, novisque scientiis ab antiquis aut ingenii vitio non  animadversis aut voto tantum expetitis auctam esse et locupletatam, ut nihil fortasse quicquam quod ad humanos usus pertineat amplius excogitandum, nihilque in re literaria desiderandum  nobis relinquatur. La vera ragione sta proprio, secondo Gennaro, nell'insegnamento della rettorica; non, di certo, per colpa  della stessa disciplina, bensì per i falsi criteri di chi l’in  segna: Non enim tam infestum animum in artem gero, ut putem  eam nullius bonae frugis esse; nec ignoro multa adjumenta atque  ornamenta huic dicendi studio ab arte esse subministrata; at  rursum fateor quam plurima imo maxima in eloquentia existere,  quae nec arte tradi, nec praeceptis contineri possunt: habet ea  quaedam quasi ad commonendum oratorem quo quidque referat,  et quo intuens, ab eo quod sibi proposuerit, minus aberret; at ex  adverso petendo haec omnia ad excolendum oratorem non ad  fingendum esse instituta: non abnuo artem quaedam limare posse,  et quae bona sunt fieri meliora doctrina, et quae non optima, aliquo  tamen modo acui posse et corrigi: at contra sic sentio, nisi subsit  materia, in qua versetur, nihil quicquam proficere posse. Verum, seposita arte, cum ista artificum intemperie mihi res  est, qui, omissis illis utilissimis sapientiae studiis, sine quibus  eloquentia consistere nequit, in lingua tantum exercenda occupati,  ex hujus artificii exilibus jejunisque praeceptionibus, tanquam e  maximo dicendi emporio, omnes divitias et ornamenta eloquentiae  petenda esse contendunt; eaque falsa persuasione imperitam  juventutem, rerum omnium egenam, in eam fraudem inducunt,  ut fere omnes credant se, ea percepta, omnibus laboribus jam esse  perfunctos, atque in iis quae ad dicendum pertinent, nihil omnino  aliud sibi addiscendum superesse.... Hoc maximum fuit incommodum, haec gravissima pernicies fuit eloquentiae, quod dum in  hac seclusa verborum aquula juventutem haerere patiuntur, ab  uberrimo et perenni sapientiae fonte, a quo solida omnis et generosa dicendi virtus promanavit, avertere atque abducere conantur.  Hic factum est ut nostrorum temporum diserti sapientiae studia  reformident; in paucissimos sensus, in inanem verborum sonitum,  nulla re subjecta, in angustas sententias detrudant eloquentiam  velut expulsam regno suo atque in pistrinum aliquod dejectam.    Insomma, studiate l’eloquenza; ma non ut ducem,  verum ut comitem cam adhibeamini. Al tempo del maggior  fiorire dell’eloquenza greca, questa non proveniva se non  dai penetrali della filosofia; iidemque erant et dicendi et  morum praecedtores:    at postquam isti verborum nugatores extitere, qui eloquentiam  a sapientia, quae natura ipsa conjunctae erant, dissociarunt, et  facto quodam linguae a corde divortio, quo alii nos sapere, alii  dicere docerent, dum linguam in quaestu ponunt, animum desidia  et socordia tabescere patiuntur, uberrimus fons eloquentiae prorsus exharuit.    Gennaro V. si fa banditore della più sana teoria  estetica, sostenendo che la vera eloquenza è quella che  scaturisce dal pieno possesso dell’argomento. E lo dice  molto bene:    Sane dicendi virtus quiddam majus est, quam isti opinantur,  atque ex pluribus artibus studiisgue collectum: quae, etiamsi  in dicendo se non proferant, nec effundant, vim tamen occultam    suggerunt, et tacite quoque sentiuntur. Ipsa enim multarum  artium scientia etiam aliud agentes nos ornat, atque ubi minime  credas, eminet atque excellit: atque adeo si, quod isti ipsi celeri lingua et exercitata operarii fatentur, verum est, quod persapienter  Socrates dicere solebat, omnes in eo quod sciunt, satis esse eloquentes; ex eorum scilicet inanibus futilibusque praeceptiunculis  scientia illa rerum plurimarum maximarumque, sine qua verborum volubilitas inanis est atque irridenda, colligetur ? Rerum  enim copia verborum copiam gignit: quonam pacto oratori in hoc  tanto tamque immenso campo libere vagari liceat, atque ubicumque constiterit, consistere in suo, nisi ei qui dicit, ea de quibus  dicit perspecta sint? Qui poterit quandoque insurgere et ab angustis ejus cancellis, quod optimum est dicendi genus, in amplissimum generum campum causam educere, nisi res subsit ab oratore percepta penitusque cognita ?    V., quindi, si fermava a provare partitamente come  i fini principali dell’oratoria presuppongano la conoscenza  delle parti principali della filosofia, per conchiudere anche  lui, come già il padre: eloquentiam nihil aliud esse, nisi  copiose loquentem sapientiam. Ma quale filosofia ? E s’insegnava allor nell’ Università di Napoli una filosofia  capace di far risorgere l’eloquenza ?   G. B. V., nel 1711, aveva detto:  Per ciò che riguarda  la filosofia; come anticamente né la dottrina degli epicurei,  né degli stoici era utile all’eloquenza (quando gli epicurei  della nuda e semplice esposizione delle cose si contentavano, e gli stoici col troppo affettare sublimità, ciò che  nell’orazione e nello stesso spirito ha di generoso, infrangeano e cincischiavano, e tolto ogni succo ne denudavan  le ossa disciolte per soprappiù di lor giunture); così oggi  né la cartesiana, né l’aristotelica del nostro tempo fa  gran prò alle cose oratorie: questi perché disadorni e  rozzi; quegli perché digiuni, secchi ed aridi in tanto,  che io stimo l’eloquenza dei nostri tempi (quando la  lingua latina pur coltivasi diligentissimamente) prender  vizio dalle cose istesse; ed essersi principalmente corrotta    perché le cose filosofiche senza splendore alcuno, senza  ornamento e ricchezza s’insegnano » 1.   Nel 1756 insegnava filosofia, già dal ’41, nello Studio  di Napoli Antonio Genovesi. Pure Gennaro, da buon  figliuolo di Giambattista, dice vichianamente al suo uditorio accademico:    Audacter dicam quod sentio: nostrorum temporum philosophi  nullum emolumentum eloquentiae afferre possunt, quippe nos  non ut ad hanc civilem lucem natos, sed tanquam ab hominum  societate sejunctos vitam acturos in sapientiae studiis instituunt;  etenim dum nimis curiose naturae secreta rimari conantur, moralem penitus neglexerunt, eamque potissimam partem, quae de  humani generis ingenio, ejusque affectibus, de propriis virtutum et  vitiorum notis, deque illa decori arte omnium difficillima disserit:  atque adeo praestantissima de republica doctrina nobis deserta et  inculta jacet; cumque hodie unus studiorum finis sit veritas,  vestigamus rerum naturam, quae certa est, hominum naturam non  vestigamus, quae ab arbitrio est incertissima.    Anche nelle ultime parole pare di scorgere una reminiscenza degli scritti paterni. Si ricordi il celebre luogo  della seconda Scienza Nuova:  A chiunque vi rifletta, dee  recar maraviglia, come tutti i filosofi seriosamente sì studiarono di conseguire la scienza di questo mondo naturale;  del quale, perché Iddio egli il fece, esso solo ne ha la  scienza; e trascurarono di meditare su questo mondo  delle nazioni, o sia mondo civile, del quale, perché l’avevano fatto gli uomini, ne potevano conseguire la scienza  gli uomini ». Non più che una reminiscenza: già lo spirito è diverso.   Quapropter ad antiquos confugiendum! Ma a quali  antichi ? Anche in ciò Gennaro segue da presso il padre.    I Institut. orat., 7-8. Ho citato la trad. del Parchetti, pel suo  sapore vichiano. Epicurus, etsi eum in sapientum numero! censeo, nuda ac  simplici rerum expositione contentus dimittebat. Pyrrhoni  vero quas in hoc opere partes habere potuisset, qui judices essent, apud quos verba faciat, reum pro quo loquatur, Senatum, in quo sit dicenda sententia, non liquebat. Zenonem, utpote  ab hoc, quem instituimus, oratore abhorrentem, puto ejiciendum;  nam cum illud in votum habuisset, suum sapientem liberum ac  beatum esse, atque eos, qui sapientes non sint, servos, hostes,  insanos, absurdum sane fuisset concionem ei aut senatum, aut  ullum hominum coetum committere, cui nemo illorum qui adsunt,  sanus, nemo civis, nemo liber videatur. Accedit etiam quod, nimia  subtilitatis affectatione, quidquid erat in oratione generosius,  frangebat, concidebatque 2. Quare factum est ut Stoici, qui fere  omnes prudentissimi fuere in disserendo, traducti a disputando in  dicendum, steriles et inopes reperti sint. Aristoteles studiose quodam oratorio (?) non immerito laetat, et sane ejus disserendi ratio  utilis quidem esset, nisi hodie in vermiculatis illis quaestionibus,  verbis utar Verulamii, versaretur.    Anche per Gennaro il porto, che offre un sicuro rifugio, è quello della filosofia platonica, în qua disserendi  ratio conjungitur cum suavitate et copia dicendi: e della  quale Gennaro si compiace specialmente di ricordare la  dialettica, come mirabilmente atta ad acuire le menti con  quel suo procedere quo adolescentes ex seipsis vera invenire conarentur, secondo il principio socratico: neque  scientias, neque virtutes doceri, sed auditorum mentibus  atque animis educi 3. Pensieri e ricordi in tutto degni del  padre.   Nel dicembre dell’anno innanzi, Carlo di Borbone  aveva istituita l’ Accademia Ercolanese. E Gennaro, sulla  fine del suo discorso, incitando i giovani agli studi, non    I Quel che segue nel ms. è di mano del Villarosa; ed è alquanto  scorretto.   2 Sono le parole stesse del padre, nel l. c.   3 Gennaro confonde il metodo socratico con la dialettica platonica.  Ma, raccomandando lo studio della filosofia platonica, egli pensa ai  dialoghi di Platone. tralascia di richiamare alla loro mente i premi che riservava ai dotti l’ottimo principe; il quale    tanta cura et sedulitate doctissimos ex universa civitate viros  nuper delegit, novamque Academiam constituit ad situm illis  venerandae antiquitatis ruderibus obductum detergendum, quae  ex obruto Herculano continue eruuntur, ne in lucem prolata in  iisdem tenebris maneant quibus tot saeculorum intervallo circumfusa jacuerunt.    Di Carlo di Borbone, in verità, Gennaro non aveva se  non a lodarsi; e non si lasciò sfuggire occasione di tesserne  le lodi. Quando, nel 1759, si seppe in Napoli che Carlo  sarebbe passato al trono di Spagna, egli ebbe occasione di  scrivere la seguente lettera, che credo indirizzata a quel  padre don Giuseppe Bolafios (o Burafios), arcivescovo di  Nisibe, che fu confessore di re Carlo ::    Januarius Vicus    Ex quo mihi sorte quadam datum est tibi, Vir Amplissime,  innotescere, igniculum quendam animo injecisti, quonam pacto  ei humanitati, qua me semper excipere soles, responderem  cum tandem, quo majorem tuae erga me benevolentiae documentum praeberes, libellum mihi dono dedisti a te elucubratum....  (sic) mole quidem exiguum, fructu autem, quem ex eo quisque  pro sua aeterna salute collegere potest, maximum; unguenta enim  quo pretiosiora, eo angustioribus vasculis continentur: quem cum  maxima utilitate quotidie versare non desino. Ex eo enim facile  mihi intelligere datur optimo sane et sapientissimo consilio factum,  Carolum Regem nostrum tibi viro religiosissimis moribus praedito  tradere, ut ex te pene ab incunabulis veram pietatem, solidiora    I ScHIPA, Carlo di Borbone, p. 464 n. e il Catalogo de’ cappellani  maggiori e de’ confessori delle persone reali (del P. Luigi Guarini), Napoli, Coda, 1819, p. 123. La data della lettera risulta in modo certo dal  contenuto. Nella  Pianta della Famiglia della Regina (Maria Amalia) »  del febbraio 1738 (in SCHIPA, o. c., p. 260), è dato come confessore  (della regina) il frate Giuseppe da Madrid,  teologo e predicatore del  re o Era egli il Bolafios ? A lei potrebbe essere scritta questa lettera  del V..    nostrae religionis praecepta, omniumque Christianarum virtutum  disciplinam acciperet; ut non mirum si apud omnes gentes verum  Christiani Principis exemplar habeatur!: pro quibus maximis  immortalibusque beneficiis quas Deo O. M. gratias agere quasque  habere oportet? Quibus vocibus, quibusque laudibus te efferre, qui  tantam ejus curam suscepisti, egregiamque alioquin indolem ad  veram Christiani Principis imaginem conformare studuisti, ut  eo tamquam coelo demisso 2 perfruamur ? At quid nunc dico ? Quo  animus excurrit ? Nobis jam eo aegrius curandum est, quocum  hic praesentem usque adhuc vidimus tanta humanitate tantaque  mansuetudine ut merito parens omnium haberetur.   Invida enim tantae felicitati Hispania (eheu, quem dono datum  nobis putabamus, commodatum aegre intelligimus!) rursus repetit,  et suo jure quodammodo sibi vindicat: ea est rerum humanarum  vicissitudo. Verum enimvero ut Magni Alexandri animo terrarum  orbis vix sufficere videbatur, ita haec tanta virtus nimis angustis  hujus regni finibus circumsepta, alias terras nec Europae terminis,  nec Oceano contentas, sed, fas sit dicere, ad fiammantia moenia  mundi usque procurrentes exposcebat, quo libere spatiari posset.  Quoniamque necessitas ita proloqui cogit, nec sine lacrimis proferre audeo, grassetur in via virtutis, capessat potentissimum  universae Europae imperium, et impleat Orbem gloria nominis  sui magna ex parte in tuam laudem, Praesul Amplissime, redun-  datura: non enim conaptissimis votis Ejus ac Regiae Sobolis  incolumitatem expetemus, faustissimis ominibus ejus iter hinc  prosequemur. Hoc tantum omnibus praecibus ab eo petimus 3,  ut aliquem ex suis augustissimis liberis apud nos relinquat, quem  tanquam ejus imaginem in sinu foveamus, quem utpote ex se  natum, haud sui dissimilem fore speramus. Haec sint grati et  observantis animi mei testimonia.    Vale.    I Sulla religiosità di Carlo vedi l’ Elogio estemporaneo per la gloriosa memoria di Carlo III (Napoli, Perger, 1789) del prete dell’ Oratorio FRANCESCO D’ ONOFRIJ, XXII sgg.   2 Nella minuta: demissum.   3 Questo desiderio non poteva formarsi dopo il 6 ottobre 1759,  quando si celebrò la solenne cessione del trono di Napoli da Carlo a  Ferdinando IV. Né gli auguri pel buon viaggio possono essere anteriori al 10 agosto 1759, giorno della morte di Ferdinando VI di Spagna.  La lettera, quindi, fu scritta tra l’agosto e l’ottobre 1759.    Questi medesimi sentimenti espresse con maggior  larghezza nove anni dopo, nella solenne orazione letta,  come già ricordai, nell’ Università, Per le nozze di Ferdinando IV con Maria Carolina (1768), giusto trent'anni  dacché il padre vi aveva celebrato con una sua Orazione  le nozze di Carlo e di Maria Amalia; giacché Gennaro a  magnificare i nuovi destini di Napoli sotto il secondo  Borbone trasse gli auspicî dalla memoria di tutto che di  grande e di utile era stato compiuto dal primo. Sicché  una buona parte del discorso è consacrata a re Carlo; e  non è un elogio volgare, ma una breve ed efficace storia  in iscorcio del regno di lui, narrata nel più puro latino e  in classico stile. Storia, che, pur compendiosa, non va per  le generali, ma, senza colorire, accenna tutte le linee  principali e qualcuna anche delle secondarie di quel regno,  rilevandone ogni carattere; in modo che ne risulta un  concetto abbastanza compiuto di quel periodo così importante della storia napoletana.   Comincia dal rilevare la nota storica fondamentale,  della costituzione del regno indipendente, per opera del  Borbone: si    Quisnam enim unquam in animum sibi inducere potuisset,  Regnum hoc trecentos fere abhinc annos, tot tantasque rerum  passum vicissitudines, semper exterarum gentium imperio subjectum, sui tandem juris factum, in suam ditionem perventurum, Neapolitanorumque cervices diuturno externae dominationis servitio suetas suavissimum proprii Principis subituras ? !.    Quindi, pensando alle contingenze storiche (specialmente al matrimonio di Filippo V con Elisabetta Farnese),  a cui si dové la indipendenza del Reame di Napoli, non  può a meno di rammentare un principio della Scienza  Nuova, che non saprei peraltro quanto da lui esattamente compreso: Abeant hinc, et facessant, qui stultissime  putant humana ratione fieri, quae Divino tantum consilio  eveniunt, aut fateantur caelesti Numine rectores terris  dari ! ».   Accenna poscia con tocchi liviani le giovanili imprese  militari di Carlo, le sue doti guerresche, l’amore guadagnatosi dei soldati, i costumi castissimi continentissimique  Ducis, che eran d’esempio all’esercito; e la conquista del  Regno, la vittoria di Bitonto, e poi il rapido acquisto della  Sicilia (quam tanta celeritate in suam vredegit potestatem,  ut haud quisquam cursu cam, quam victoria peragraverit),  nonché il trionfale ingresso in Napoli. Della città ricorda  la singolare tranquillità con queste efficaci parole:  Testes denique [della grandezza delle sue gesta] sumus  nosmetipsi, qui velut in Theatro sedentes, tamquam de  aliis fabula, non de nobis res ageretur, belli malis damnisque  expertes, securi et oscitantes, in summo otto, in maxima  rerum omnium copia sacvientis Martis furorem spectabamus ».   Menzionata anche la guerra di Velletri, tanto per compiere il ricordo dei fatti militari di Carlo, torna con la  memoria al giorno in cui l’infante don Carlo fece la sua  prima entrata nella capitale (Io maggio 1734); e ricorda  il giubilo della città in quell’occasione 1. Detto poi delle  virtù pubbliche e private del re, accenna le principali  riforme da lui promosse, a capo delle quali il riordinamento della magistratura, e poi la restituzione della Università nel Palazzo degli Studi, il cui riattamento era  stato già celebrato con un'epigrafe da G. B. V. =; infine    I Lo ScHIPA per la menzione che fa anche lui di quelle feste (op.  cit., p. 125) avrebbe trovato nell’opuscolo del V. un documento interessante; IX-x. Vedi pure (pp. xv-xVviI) il ricordo delle feste di  Napoli pel matrimonio di Carlo con Maria Amalia.   2 Inter praecipua pacis ornamenta, quae jam animo volutaverat,  nihil ei antiquius visum (utpote non ignaro bonarum artium disciplinas rerum humanarum esse moderatrices) quam Musis, regno suo  passa ad enumerare le opere pubbliche, le imprese d’arte  e di storia, cui provvide Carlo di Borbone. Questa la parte  più curiosa e caratteristica dell’orazione; e merita d’esser  conosciuta. Ecco come accenna alla costruzione del  S. Carlo:    Praeterea, ne videretur otium virtute partum sibi tantum  comparasse, neve populus expers esset honestissimarum voluptatum, quae pacis et tranquillitatis sociae in Rep. aluntur  bene constituta, Theatrum totius ferme Europae magnificentissimum tanto temporis spatio excitavit, quantum vix ad opus  designandum tignumque comparandum satis esset.    Dei lavori per la Strada Nuova verso Porta del Carmine, eseguiti nel 1749, e del ponte presso al Castello del  Carmine, pel quale fu composta un'iscrizione dal Mazzocchi 2, Gennaro dice:    Quid dicam prohibitum a muris, quos autem alluebat, mare,  strata civium commoditati urbisque ornamento publica via,  quae mari intermittit, pontibus continuata, quodque antea  cymbis ratibusque aptum, curribus nunc equisque pervium factum  esse ? pomoeriumque prius e remis expertum nunc rotas pati,  perque subterlabentes undas nedum tuto incedi, sed plaustra etiam  duci videmus ? Quid jactis molibus super contractum mare productae civium inambulationes, et tutissimum navium receptui  portum effectum, quo antea carebamus ?    E della istituzione del Real Albergo dei poveri, cominciata nel 1751 3:    quasi expulsis, nulla certa stabilique sede errabundis, vixque precario  hospitio [a S. Domenico] exceptis, pristinum domicilium nitidius elegantiusque restituere » (pp. XVI-XVII). Per la parte di G. B. V. nel  ripristino dell’ Università nel Palazzo degli Studi vedi l’ importante articolo di GiusePPE CECI, Il palazzo degli Studi, nella Napoli nobilissima, vol. XIII, 1904, 182-3.   I Vedi in proposito, D’ ONOFRI, Elogio, p. cxxx; CROCE, I teatri di  Napoli, Napoli, Giannini, 1891,pp. 322 sgg.; SCHIPA, o. c., p. 28I.   è Cfr. D’ ONOFRI, Elogio, p. CXxVI.   3 D' ONOFRJ, p. CvII. Cfr. SCHIPA.] Exhauriendae sentinae Urbis amplissimum Ptochotrophium  coeptum, quo compellerentur imae plebis purgamenta, ne nobis  molestiae, et civitati dehonestamento essent.    E delle ville acquistate e abbellite da Carlo ::    Quid tot villas ad urbium instar aedificatas, Bacchi, Florae  Pomonaeque certamina, amplitudine, elegantia, amoenitate adeo  admirabiles, ut cum Romanis ipsis de operum magnitudine jure  contendere audeamus.    E della cascata di Caserta:    Praeterea quasi terrae ac maria sibi satis non essent, per vetitum ruens, caelum ipsum tentare ausus est. Quis unquam fando  audivit per aérem volitantia sua natura reptantia filumina ?  altissimis jugis profundissimae aequatae valles, perfossi montes,  ‘amnisque longissime arcessitus, ac Regiae Villae sublimis invectus.  Jactet quamvis Romana magnitudo sua immania opera, templa,  theatra, basilicas, villas denique suas, magna quidem admirandaque, quorum rudera adhuc extantia animos omnium stupore  defigunt, rerum tamen naturam non est supergressa; at rerum  ordinem invertere, naturae vim facere, ni caelum ipsum moliri,  nobis concedere cogatur.    E gli arazzi di Parma e le porcellane di Capodimonte 3  famose. Gennaro ha un accenno anche per queste arti  fiorite in quel felice periodo della storia napoletana:    Quid de artibus aut inventis, aut advectis, aut perfectis dicam ?  Nonne, ut Attalica peripetasmata et cetera cuncta consulto  praeteream, scimus figulinam ab eo institutam, summoque  studio Myrrhina pocula perfecta adeo, ut levitate, candore, perspicuitate cum Sinensibus Saxonicisque, quae tanto pretio antea  comparabantur, facile contenderent ?    I D’'ONOFRJ, p. CKXXVIII, e SCHIPA 0. c. 287 sgg.   ? Cfr. SCHIPA, 0. c., p. 286.   3 Vedi D' ONOFR], p. Cxx, e L. DE LA VILLE, La r. fabbrica di porcellane in Capodimonte durante il regno di Carlo Borbone, e La v. fabbrica di porcellane in Napoli durante 1l regno di Ferdinando IV, in Nap.  nobiliss., III (1894), 131-8, 182-7.    Degli scavi di Ercolano lo scrittore, eccitato dall’estro  encomiastico, afferma che la gloria di averla scoperta non  fu per Carlo maggiore che non fosse per la città quella  di essere scoperta da Carlo; e che certo essa aveva desiderato di starsene diciassette secoli sotterra per aspettare  tanto scopritore !    Res natura occultas et latentes indagare quoque et inquirere  curiosissime aggreditur; ausisque adeo affuit Fortuna, ut, terrae  viscera rimando, Herculanum Vesuvii incendio haustum patefecerit, quod tamdiu fortasse obrutum jacere optavit, ut a regum Clarissimo detegeretur, ne prolatum minus a Principis gloria  lucis acciperet, quam decoris ejus fortunae tribuere videretur. Poi, com'era da aspettarsi, vien la volta dell’ Accademia,  e in fine anche del Museo Ercolanese: cunctis gentibus,  nedum earum rerum studiosis, tanquam antiquitatis miraculum spectandum contemplandumque.   E Pompei? Perché Carlo non s’è accinto anche agli    scavi di Pompei? Fortasse factum puto  vi risponde  Gennaro con classica reminiscenza, che poteva anche  essere sprone ed ammonimento,  ut ejus gloriae, quam    maximam jam sibi comparaverat, materram Ferdinando  filio, regi nostro amabilissimo, relinqueret.   Che più ? Né anche l’ordine di S. Gennaro, istituito  dal Borbone nel 1738 !, è dimenticato:    Postremo, quo munia bene obita, pericula fortiter suscepta  rependeret, amplissimum Divi Januarii Ordinem instituit, maximorum praemium meritorum ?.    Dopo quello di Carlo viene, naturalmente, l'elogio di  Ferdinando.    ! Vedi SCHIPA, o. c., p. 325, e D’ ONOFRIJ, p. CCXxXIv.  2 Per tutti questi passi che ho citati, vedi In regiis, XVI-XX.    274 STUDI VICHIANI    È vero che per costui almeno si sarebbe dovuto attendere. E infatti, Gennaro dapprima preferisce insistere  sull'esempio da imitare che Carlo aveva lasciato al figlio.  Ma poi s’interrompe: At quorsum abeo ? fortes degenerem  nunquam gignunt aquilae columbam! E si rivolge allo  stesso Ferdinando con parole affettuose:    Cogita Te non advenam, sed indigenam esse; non traducem peregre accersitum, sed heic satum; non aliis, at nobis autem natum  esse: easdem nobiscum auras spirare coepisse; eodem caelo tectum;  eadem moenia suo te complexu nobiscum continere; idem solum,  patriam, patrios Divos communes habere nobiscum; nostris moribus institutisque imbutum; atque adeo civem nostrum esse!, etc.    Si ricordi: Ferdinando aveva allora 17 anni; ma, come  si vede, s'avviava a diventare il Re Lazzarone!  Di Maria Carolina è lodata la bellezza, la serenità della  fronte, la tranquillità dell’aspetto, la grazia, il sorriso.    Tacitus enim ei inest lepos, qui vultus, oris, oculorum alit augetque quodammodo venustatem, in quibus charites, tribus velut  arcibus insidentes, excubare videntur, ad omnium animos te  intuentium alliciendos 2.    Che avrà detto il buon Gennaro de’ suoi amabili principi nel ’99, quando gl’impiccarono anche il suo Falconieri? In quell’occasione delle nozze di Ferdinando,  compose anche quest’iscrizione, che forse fu apposta alla  porta dell’ Università il giorno stesso, in cui fu letta  l’ Orazione:    Carolo III Borbonio  Hispaniarum Regi Potentissimo  semper Augusto  in communi omnium plausu pro firmata  auspicatissimis  Ferdinandi IV et Mariae Carolinae Austriae  nuptiis  Neapolitanarum felicitate  vel ipse Musarum Numen Apollo  e suis excitus adytis  Laeta omina futura  canens  tanquam praesentissimo Numini  pro tanto beneficio  aucturo Caelitum numerum  supplicationes ac pulvinaria decernendo  respondit.    Del re Carlo, quando morì (14 dicembre 1788) non so  se Gennaro V. abbia avuto l’incarico di leggere l’elogio.  Tra le sue carte non ci resta se non un frammento di  minuta di un’ Orazione in lode di questo re. Ma sono a  stampa le quattro iscrizioni latine da lui composte pel  funerale celebrato in onore di Carlo III dalla Real Compa  gnia de’ Bianchi ', il 12 febbraio 1789. L'ultima di esse  dice:    Si tuis precibus  pronae Dei aures   sì votîs invocari incipis   pro ea  în quam nos vecepisti  fide  te prolixe obsecramus  ut Ferdinando et Mariae Carolinae  DD. NN. Augustaeque proli       1 Solennità funebre all’eterna memoria di Carlo III, celebrata nella  Real Compagnia de’ Bianchi della Carità sotto l’invocazione di Santa Sofia  e Capuano di Napoli, s. a. In questo opuscolo, dopo descritto il  mausoleo, è detto:  Vi si leggevano delle nobili Iscrizioni composte  dal regio prof. della Università don Gennaro V. » (p. 3). L’elogio fu    So dal sacerdote don Bartolomeo De Cesare, professore di S. Teoogia.] semper propitius adsis  cum  in eorum incolumitate  securitas et felicitas nostra contineantur.    Gennaro V. non fu regio istoriografo come il padre:  ma, fosse obbligo, in certo modo, della sua cattedra di  rettorica, fosse gratitudine per i benefici ricevuti dalla  dinastia, fu panegirista ed epigrafista del re. Così nel 1781,  quando tutta Napoli si profuse in dimostrazioni di lutto per  la morte di Maria Teresa (27 novembre 1780) 1, Gennaro  diede anche lui in luce un elogio dell’imperatrice, che non  risulta, per altro, scritto per incarico ufficiale 2. Ma il suo  genere era l’epigrafe, in cui gareggiava col collega, professore di lingua latina e antichità romane, don Emanuele  Campolongo, le cui iscrizioni furono raccolte in due volumi, intitolati Sefulcretum amicabile (1781-2). Infatti,  quando il 28 giugno 1790 furono celebrati i funerali d’un  professore dell’ Università, il valente naturalista Gaetano.  De Bottis, le iscrizioni attorno al mausoleo furono composte dal Campolongo, e una, la più importante, da collocare sotto il ritratto dell’estinto, scritta dal V.:  che  in tale genere », dice il narratore di quei funerali,  han  presso di noi raggiunto lo schietto ed aureo genio dell’antichità » 3.    I Vedi le due raccolte miscellanee di prose e versi in morte di Maria  Teresa nella Bibl. naz. di Napoli ai segni 156, L 3 e 155, K 16. Vi  è anche un’ Orazione del sac. MARCELLO Eus. ScoTTI pei funerali celebrati in Procida il 19 febbraio 1781: Napoli, Stamp. Simoniana, s. a.  Anche un martire del ’99!   2? Elogium Mariae Teresae Augustae a JANUARIO V. inscriptum;  Neapoli, ex tip. Bernardi Perger Vindobonensis [s. a.], di 7 più  I inn. in-4°. Stampa di lusso.   3 Solenne funerale di D. Gaet. De Bottis prof. [...] celebrato nella  Torre del Greco sua patria, Napoli, MDCCXC, Stamp. Migliaccio, p. 6.  L’epigrafe di G. V.  che contiene tutta la biografia del morto   è a p. 7. V’è anche (pp. 34-9) una canzone dell’ab. don Antonio  Jerocades.    Tra le carte di Gennaro sono quattro abbozzi d’una  epigrafe per una principessina reale, morta nel luglio 1783.  L'ultimo, al quale pare l’autore si fermasse, è questo:    Regia Infantula  Ferd. IV et Mariae Carolinae Austriae  filia infelicissima  quasi esset parum ab omnibus  naturae et summae Fortunae  bonis ejici  luce orba utraque  carens nomine  a suorun columbario etiam prohibita  ad hoc tantum mata  ui omnium expers esset  | heic condita®.    Nel 1787 morì, ancora in tenerissima età, un altro  figliuolo della feconda Maria Carolina; e Gennaro scrisse  quest'altra epigrafe:    Have Animula innocentissima  Caroli Titi  dulcissima  Augustae Domus Regnique  primula nec dum quadrimula spes  e 3  Ferdinandi IV et Mariae Carolinae Austriae  moerentissimorum Parentum  sinu et complexu  acerbissimo funere erepta  amarissimo cunctis relicto desiderio tui.  Vixit annis III. mens. XI dieb. XIII  Coelo recepta Ter  I    à    I A 2 i  Questo verso nel primo abbozzo segue: X/V. Kal. Sextil. e    ® Ve n'ha tra le carte di Gennaro anche un’altra bozza. Dai funerali alle nozze. In occasione del matrimonio di  Francesco Borbone  il mancato discepolo di Gennaro  V.  con Maria Clementina d’ Austria, i fratelli Terres  presentarono ai principi una tavola di marmo, in cui erano  insieme rappresentate le due effigie regali; e vi scrisse la  dedica Gennaro:    Faustissimo  Francisci Borboni et Mariae Clementinae Austriae  conjugio  dulcissimae spei ac nostrae posteritatis praesidio  comperientis !  nostram felicitatem  ex pene tisdem quibus ad nos fontibus ad seipsam promanare  hac marmorea tabula novo picturae genere dedita opera expresso  ut quae corporum conjunctio în speciem oculis subjicitur  eadem animorum, dissecto marmore, penitus inveniatur  F. T. pronti et venerabundi D. D. D.    1 Pare si accenni propriamente al 1790, quando si celebrò il matrimonio di Maria Teresa e Luigia Amelia di Borbone con Francesco  d'Austria e Ferdinando granduca di Toscana, e si formò, come dice il  COLLETTA (lib. II, c. II, $ 34), a Vienna il terzo matrimonio tra le due  case di Napoli e di Vienna: questo di Francesco con Maria Clementina.   ? L’anno innanzi, o quell’anno stesso, una tavola simile, con l’effigie di S. Domenico, fu mandata dai fratelli Terres a Ferdinando duca  di Parma. E pel regalo onde il duca compensò i fratelli Terres, Gennaro scrisse la seguente epigrafe, la cui minuta è sul retro d’una lettera  in data 12 marzo 1789: Ferdinando  Parmae Placentiaeque  Duci   Qui  praeclarum Borbonidarum munificentiae  cum Farnesiorum   in fovendis alendisque pacis artibus  singulari studio  fida societate conjunxit  marmoream tabellam  cum  Divi Dominici   ei praecipuo cultu habiti  effigie  indelebili quodam picturae genere  marmovi coalescente  haud pridem invento  atque anaglyptico opere exornatam - cujus libenter accepta  vel maximum  proemium fuisset  manus munere  sive potius cultum culto   rependens  suam imaginem  maximo aureo numismate  graphice  expressam  colendam misiît  cuius pars aversa  drammaticae Poéèseos coronatio  ut omnes cognoscerent  Parmensem ditionem   uti pridem, ita modo etiam  Musarum esse domicillum  atque optimarum artium culiricem  pro quo summo beneficio  Fratres Terres   Neapolitani Bibliopolae  proni et venerabundi  cum gratia agunt   tum maximas habent et immortales.   Pare che i Terres stampassero anche un’incisione della medaglia  ricevuta, con un’altra iscrizione del V. che comincia: En cur honor    VI. IL FIGLIO DI G. B. V. 279    Ferdinando IV fa ricostruire un ponte sul Garigliano;  e Gennaro detta l’epigrafe che ne tramandi il ricordo ai  posteri®. Nasce a Ferdinando un altro figlio; e V.    raccoglie in un’epigrafe a S. Gennaro i ringraziamenti  del popolo:    St antea  Dive Januari  hanc  sacerdotum sacra fronde redimitorum  solemnem pompam  caste celebravimus  nunc vero  solido gaudio perfusi  ingentes tibi gratias agimus  quod  Maria Carolina  felice foecunditate  Ferdinandum  alio dulcissimo praesidio auxit  quo  Augusta Domus  pluribus munimentis insisteret  nostraque felicitas  stabilius firmaretur.    Si celebra la solita festa a S. Gennaro, e sono del V.  le quattro iscrizioni che si leggono quel giorno nel Duomo;  in una delle quali si prega il santo di voler rappresentare,  in suo liquenti cruore », Ferdinando et Carolinae  DD.  NN.  Totique Domui Augustae  perpetuam incolumitatem felicitatemque  ac proinde nostram securitatem.    alit artes  en cos ingeniorum  en effigies  Parmae et Placentiae  Ducis; e accenna anch'essa alla tavola di S. Domenico ignoto pingendi  genere  et nova diaglyphice  nulla ferri ope  eleganter exornata.   I Vedi questa e altre epigrafi in Appendice I, scelte tra le molte che  restano tra le carte di Gennaro, per lo più sepolcrali.    Con le lodi di Carlo III e di Ferdinando IV si apre  anche la Dissertazione sulla città di Pompei : del primo,  per gli scavi di Ercolano e per l’ Accademia Ercolanese,  che veniva certo in proposito di ricordare in uno scritto  con cui s’inauguravano i lavori della classe d’ Alta Antichità nella nuova Accademia; e del secondo, pel nuovo  impulso dato ai medesimi studi con la nuova istituzione.    Per adempiere [continua l’autore modestissimo] per quanto  la scarsezza de’ miei talenti e la cortissima estensione delle mie  cognizioni mi permettono, l’incarico superiore di gran lunga a  me stesso impostomi dalla Sovrana Munificenza, prendo per oggetto  delle mie ricerche la città di Pompei, non già sull’ idea di adornar  alcuna delle discoperte parti di quel tutto, che ancor giace sepolto;  ma di considerarlo al solo lume degli antichi scrittori; e coll’autorità dei greci e de’ latini, tra i di cui confini alla mia Classe è stato  circoscritto il commercio, di tutti il più ricco, e ’1 più nobile, perché  di tutto da essi abbiam ricevuto il sapere; rilevarne, per quanto  mi sia possibile, le di lei vicende. Né sulla lusinga di produrre  cosa nuova in un argomento, il qual solamente è venerabile per  la sua antichità: quantunque il raccogliere, disporre e combinar  insieme que’ languidi e dispersi barlumi, lasciatici dagli antichi,  potrebbe conciliarsi una qualche sembianza di novità, se fossero  da più dotta e più maestra mano stati ordinati e composti. Ma sulla  speranza che siccome que’ venerabili avanzi di antichità, che da  Ercolano si estrassero, furon cagione, che s’ instituisse l’Accademia Ercolanense, così a vicenda questa real Accademia istituita  potesse cominciar li suoi fasti dall'epoca gloriosissima del risorgimento di Pompei, dopo essere stata per l’ immemorabil corso  di ben XVII secoli sepolta: poiché.... se que’ rottami ercolanensi  svelti ed infranti, rivestiti di sì dotta ed erudita luce da tanti  chiarissimi ingegni, che vi travagliarono, si son resi non meno  ammirabili per il buon lume ricevuto, che per la loro antichità;  onde il Museo Ercolanense è divenuto nell’ Europa cotanto celebre,  che può dirsi essere una delle cagioni del frequente concorso in  questa città, per se stessa luminosissima, di tante culte nazioni:  quanta, e quanta maggior confluenza ne attirerebbe, se mai potesse vedersi una nobilissima città, unico esempio nella storia  di tutti i tempi, intieramente esposta alla luce del sole, e quindi  all’ammirazione dell'universo ?    Gli scavi di Pompei, com'è noto, furono intrapresi nell'aprile 1748 !; ma rimasero presto interrotti; e s’è visto  che Gennaro ne faceva un'eredità di gloria lasciata da re  Carlo a Ferdinando. Certo, il nome del figliuolo del V.  va ricordato tra coloro che incitarono efficacemente a  quest'opera importantissima. E, come già altri ha notato ?,  a torto è dimenticata la sua monografia su Pompei, la cui  parte più notevole è, come si disse, riferita dal NapoliSignorelli nella sua Storia dell’ Accademia delle scienze e  belle lettere. In questa monografia è innegabile profonda  conoscenza e acuta critica delle fonti letterarie.   Chi vorrà studiare il bel tema degli studi d’erudizione  antica in Napoli durante il sec. XVIII, non potrà trascurare questo scritto del V., e il frammento che ci resta  dell’altro su Locri. Ma non è qui il luogo di farne particolare esame. Dirò soltanto che ci si vede l’erudito, ma  non l’antiquario di professione. Rifiutate le leggende, non  subentra lo sforzo di spremere dalle scarse testimonianze  superstiti quello che esse non possono darci; e il buon  senso mette in guardia contro le sottigliezze e gli artifizi  congetturali, che facilmente attraggono lo studioso dell’antichità. Ciò è particolarmente notevole nella relazione sulla  memoria del Finamore intorno alle origini di Lanciano;  dove, nonostante la  cadente età » e la languidezza dello  spirito », accusate sul principio dall'autore, spunta qua  e là anche il bonario sorriso del buon senso contro certi  arzigogoli del Finamore, per ottenere che l’ Accademia  riconoscesse nell’antica Lanciano un municipio anzi che  una colonia romana. Dopo un minuto esame delle epigrafi  lancianesi mandate dallo stesso Finamore all’ Accademia,    I FIORELLI, Descriz. di Pompei, Napoli, 1875, p. 22; o Pomp. antiq.  historia, Neapoli, 1860, dov’ è la storia degli scavi.   ® BELTRANI, La R. Acc. di scienze e belle lett., p. 37. Il lavoro del  V. non è citato, nota lo stesso Beltrani, p. 88, nella Bibliografia di  Pompei, Ercolano e Stabia di FRIEDRICH FURCHEIM, Napoli, 1901.    il buon V. viene a questa conclusione, che mi piace  riferire:    Avrei bramato soddisfare il dotto ed erudito sig. Finamore,  se li monumenti me ne avessero somministrati i mezzi. Ed in  questa occasione sperimento pur troppo vera la natura dell’ambizione, che non respiciîit, che non si volta mai indietro; la quale,  quantunque vizio, quando però si propone per oggetto la virtù  ed il sapere, deve riputarsi ambizione lodevolissima: siccome  Quintiliano dice: quamquam ipsa sit vitium, frequenter tamen  causa viriutum est: e l'ambizioso più si duole di un solo, che abbia  innanzi, che l’attraversi il conseguimento del suo fine, che goda  di tanti meno felici, che gli vengono appresso; e le passioni più  commendabili devono essere regolate sempre da quel ne quid  nimis; perché    Virtus est medium vitiorum et utrimque reductum.    Avrebbe desiderato il dotto ed erudito cittadino assiem col suo  collega il sacerdote don Uomobuono de’ Buchachi!, con cui  est studiorum societate conjunctus, che Lanciano fosse stato dichiarato municipio, la quale quasi già non lo è; e non si volge dietro a  considerare tant’altre città di condizione meno ragguardevole  che Lanciano, che le vengono appresso. Mi lusingava di dover  fare da avvocato del sig. Finamore in questa sua onestissima  causa; e, mio malgrado, devo farvi la comparsa da fiscale, perché  l'autorità e li monumenti l’oppugnano, e quelli stessi, che egli ha  prodotti, punto non lo suffragano: ma non per questo può dirsi,  che egli abbia intieramente perduta la sua causa: perché quod  petit intus habet. Non sente essersi talmente confusi li diritti, e  le prerogative de’ municipi con quelle delle colonie, e questi in  quelli trasfusi in guisa, che gli uni dagli altri non sì distinguevano ?  Non sente da Gellio il nome di municipio già dileguato  obscura  et obliterata suni municipiorum jura, quibus uti per innotitiam non  queunt ? Non ha inteso, che li municipi pretesero di cangiar la  loro condizione in quella delle colonie, e non vede le istesse città    I È lo stesso BOocHAcHE, autore del Saggio storico-critico della  città di Lanciano, che si conserva ms. nella Biblioteca del Ginnasio di  Lanciano ? Un brano ne pubblicò il prof. L. GAMBERALE, Notizie sui  fatti di Agnone nel 1799 tratte dall’appendice al Saggio ecc. Campobasso, Colitti, 1900.    essersi appellate colonie e municipi ? Non ha inteso li distinti cittadini municipali in sì poco conto presso li romani ? Non conosce  quindi, che il tutto si riduce alla distinzione del nome ? Perché  Struggersi per investir la sua patria di un pregio, che, in tempo  che valeva, era in sì poco conto, ed ora si riduce a un nome vano,  in guisa che, se allora municipium e colonia eran riputati lo stesso,  ora questo istesso è divenuto un nulla ? !.    In questa dotta relazione, dove l’ immortal Muratori »  è vichianamente detto, con ammirazione, ingordo voracissimo rivolgitor di biblioteche », è pur degna di nota,  in mezzo all’erudizione archeologica, una disgressione filosofica, o disgressione in astratto », come dice l’autore;  e che egli chiede di poter fare, giudicandola  non capricciosa, perché avvalorata dall’autorità; se poi applicabile  alla nostra ricerca, lo sottopongo al giudizio de’ dotti ».  Da quale autorità, Gennaro non dice; ma basta sentirne  il principio per indovinare l’allusione:    È costante che le lingue sieno indici, che ci scoprono li costumi delle nazioni; e perché fide interpreti dell'animo, dovettero  nascere aspre, dure, orride, esprimendo la rozzezza e la ferocia  delle nazioni, che le parlavano; a misura poi che li costumi a poco  a poco s'ingentilirono colle arti dell’ umanità, si raddolcirono  anche le lingue: del che ce ne somministra una testimonianza la  lingua latina, la quale tale la scorgiamo in que’ frammenti delle  leggi delle XII Tavole; e pure cominciava il quarto secolo della  fondazione di Roma. Tal dovette essere, e fu la lingua di Lucilio,  di Pacuvio, di Livio Andronico, di Ennio; e Plauto, che ci è  restato, e provenne assai più tardi, essendo morto nel consolato  di Fublio Claudio Pulcro e di L. Porzio Licinio, cioè nel 570 di  Roma, di quante ruvidezze e racidumi è pieno ! Come, per esempio, nel Prologo dell’Anfitrione:    I Di questa relazione rimane una copia di mano del marchese di  Villarosa. Anche all'Accademia credo sia stata letta una breve Relazione intorno a certe dissertazioni su Virgilio di A. DE SANCTIS, che  resta tra le carte di Gennaro, curioso documento della sua bonarietà,  contraria a ogni ipercritica, e un po’ anche alla stessa critica.    Ut vos în vostris voltis mercimoniis  Emundis vendundisque.    Uno scrittore del secolo d’oro avrebbe detto:    Ut vos in vestris vultis mercimoniis  Emendis vendendisque.    Or l’ istesso dovette accadere in tutte le lingue delle altre nazioni: che, a proporzione che colle arti dell’ umanità depressa  [fu] la ferocia de’ costumi, così le lingue la loro asprezza, e quel  rumoroso strepito di voci [perderono]. L’ istesso vediamo esser  avvenuto nella ricorsa barbarie in tutti i dialetti della lingua  italiana, che fu una corruzione della latina: le lingue, le quali ora  parliamo, quanto sono differenti da quelle di tre o quattro secoli  addietro !    Si ricordi la Dignità XVII della seconda Scienza Nuova:  I parlari volgari debbon esser i testimoni più gravi  degli antichi costumi de’ popoli, che si celebrarono nel  tempo, ch’essi si formaron le lingue ». Ma tutto il pensiero  e le espressioni di questo brano sono di (G. B. V..  Le cui opere Gennaro dové custodire sempre come cosa  sacra, e leggere e rileggere, benché non avesse intelletto pari alle speculazioni paterne; ma per compiacersi  in ammirar i monumenti della grandezza del padre, alla  cui ombra svolgevasi la sua vita tranquilla. Custodiva  gelosamente quei libri. Dev’essere un suo parente chi gli  scriveva, nel 1780, la seguente lettera:    Casa, 27 luglio 1789.  Veneratissimo mio Sig.r don Gennaro,    Il Sig.r don Francesco Esperti 1, a che (sîc) molto devo, desidera la prima edizione della Scienza Nuova solamente per incon  I L’avv. Franc. Sav. Esperti, nipote di mons. Esperti, corrispondente di G. B. V.. Nel 1792 pubblicò in un opuscoletto la lettera del  V. allo zio, relativa appunto alla 18 Scienza Nuova. Vedi VILLAROSA,  Opuscoli, 368-9, e CROCE, Bibliogr.] trare (sic) certo passo, e restituirvela. Spero dunque che l’abbiate,  e me la favorite, che sarà mia cura di restituirla; e sicuro de’ vostri  favori, resto pieno di stima dicendomi    Vostro devot.mo servitore obbl.mo  Nicolò Santaniello 1.    Non pare che egli abbia avuto nessuna parte nel preparar la raccolta delle Latinae orationes del padre, pubblicata nel 1767 da Francesco Daniele 2. Ma questi dové  più tardi rivolgere nell’animo il proposito di raccogliere  tutti gli scritti sparsi del V.. E allora certo ricorse  a Gennaro 3. Se non che il Daniele in fine non ne fece  nulla; e Gennaro per un momento poté sperare di far  lui la desiderata edizione delle opere paterne. È. ormai    I Il ViLLarosa, Opuscoli, III, p. v, parla della casa de’ signori  Santaniello, ultimi eredi del V., sita nella strada dei Mannesi »; e  dice che in essa conservavasi il ritratto di G. B. V. dipinto dal Solimena, che fu distrutto con la casa stessa da un incendio intorno al  1819 (v. anche Croce, Bibdl., p. 116). [Filippo Santaniello (mi comunica il Nicolini), sposò Candida V., figlia di Ignazio, e due figli, Mercurio e Carlo, nati da questo matrimonio, son nominati nel testamento  di Gennaro V., in data 2 settembre 1805).   2 Nella dedica del libro al Targiani, il Daniele dice d’aver raccolto  da sé e da molto tempo quelle Orazioni. Cfr. CROCE, Bibl., p. 30.   3 Nel 1804 faceva ricerca di scritti del V. e di sue lettere, scrivendone ad amici a Roma e altrove. Il Croce (Bib/., p. 30) ha richiamato l’attenzione su due lettere del card. Borgia (del 1804) al Daniele,  che sono nel carteggio inedito di costui, conservato dalla Soc. storica  napoletana. Importante è anche il seguente brano d’una lettera allo  stesso Daniele, scritta da Jacopo Morelli (l’erudito bibliotecario veneziano, a cui il Villarosa dedicò il 1° volume degli Opuscoli), da Venezia 1I febbraio 1804:   Ho fatto ricerche per le Lettere del V. richieste, e nulla si è  trovato. Per quelle all’ab. Conti ho fatto esaminare le casse di lui, già  possedute in Padova dal professore Toaldo, ed ora dal Cheminello.  Per quelle al Lodoli non vi sono ricerche da fare, essendo perite le  casse di lui in uno dei Pubblici Archivi, dove erano trasportate dopo  la morte di lui; perché vi si trovavano scritture di affari di Stato mescolate, e si fece un’asporto (sic) totale senza discrezione. Per quelle  al Porcìa ho fatto cercare in Udine presso li discendenti del corrispondente col V., e nulla si è trovato. Sicché null’altro mi resta da fare »  (Carteggio di F. Daniele, vol. III, c. 305; Soc. stor. nap.).   Le relazioni del V. coll’abate Conti e col Lodoli il Daniele non  poté conoscerle se non dalle aggiunte, allora inedite, alla Vita del    19 nota la minuta della prefazione ! che egli già aveva preparata pel primo volume, che avrebbe dovuto contenere  la Scienza Nuova del 1744.    Tandem tot flagitatoribus, tot obtrectatoribus mihi tanquam  parum officioso exprobantibus morem gero, a quibus quasi  obsessus quotidie oppugnabar; tandem rogari, atque invitus  negare desino, cum non mea me voluntas, sed rationes meae  ab incepto prohiberent: fidem meam absolvo, dato fidejussore  satis superque locuplete, honestissimo Neapolitano Michaele Stasio,  qui onus in se suscepit: tandem Patris mei (cujus etsìi eundem muneris ordinem adeptus, utinam eodem dignitatis gradu explessem !) opera omnia.... in unum corpus collecta, in lucem prodeunt.    Accennando alla diuturna meditazione in cui s'era  maturata la Scienza Nuova, Gennaro dice che è questa la  ragione principale della pretesa oscurità trovata in quell’opera da taluni,  qui, ne de grege imperitae multitudinis  habeantur, quae ca magis admiratur quae minus intelligit,  prorsus damnant quod non intelligunt ».   Aliud est, dice Gennaro, e nelle sue parole bisogna  vedere un pochino lo stato d’animo di lui stesso quando  leggeva la Scienza Nuova ;  aliud est dicere, non intellago, aliud, non intelligitur :    illud modestiae, et suae cujusque conscientiae potius tribuendum; hoc autem summae arrogantiae indicium, quod firmissimum supinae ignorantiae argumentum; nam quid est aliud,  quam se supra omnes extollere ac postulare, quod ipse non intelligit, e nemine intelligi posse ? Nam vere docti quantum sibi  desit, sciunt.    V., che erano presso Gennaro, se già questi non le aveva date al  march. di Villarosa. A quell’anno, infatti, devono pur risalire le avvertenze del Daniele comunicate al Villarosa per una ristampa della  Vita del V. (cfr. Croce, Bibl., p. 110); dalle quali apparisce e la  conoscenza delle carte vichiane possedute da Gennaro V., e la familiarità del Daniele con quest’ultimo, già decrepito. Potrebbe anche  pensarsi che queste ricerche pel Borgia e pel Morelli ei cominciasse a  farle per compiacere al  marchesino Villarosa ».  I Fu pubblicata dal Croce, Bibl., 112-13.    Non credo poi Gennaro tanto modesto da non credersi  uno di questi vere doctt! Egli ben sentiva per sua esperienza che la Scienza Nuova    non est ex eo librorum genere, saeculi commoditati obsecundantium, quos sagina graves, in lecto strati, supini et oscitantes,  aut fallendi temporis aut somni conciliandi gratia in manus  sumuntur, in quibus omnia extant omnium oculis exposita. Si  iterum legas, leges eundem, ut animum despondens tertio legendi;  aurum autem natura occultum et latens, indagatione ex terrae  visceribus, in quibus jacet, patefaciendum eruendumque.    Oh l’animo intento e la commozione di Gennaro,  quando rileggeva per la ventesima o trentesima volta  (non aveva letto 35 volte il suo Tacito il padre, scoprendovi sempre qualche cosa di nuovo ?) la maggiore opera  paterna, con la testa fra le mani, e la memoria che correva  indietro a rivedere il vecchio Giambattista, languente in  un angolo tristo della casa, dove Gennaro rimase! E qual  dolore non dové essere per lui che l'edizione non si facesse  più! Negli anni più tardi vi fu chi gli rifece nascere la  speranza di veder ristampati in un corpo gli scritti paterni.  Sollecitava l'edizione un giovane di grande ingegno, che  studiava profondamente V. ed era capace d’intenderlc.  A Gennaro forse fu presentato dal suo sostituto Ignazio  Falconieri, che con quel giovane aveva dimestichezza,  e doveva di lì a poco metterlo a grave repentaglio, traendolo seco segretario nell’organizzazione repubblicana d’un  dipartimento della repubblica del ’99. Questo giovane  era Vincenzo Cuoco. Il quale però, pochi anni più tardi,  nel 1804, scrivendo da Milano all’ideologo De Gérando,  ricordava:  Una buona edizione di V. [...] forse si sarebbe fatta in Napoli, ed eransi a tal fine preparati molti  materiali. Si era invitato il figlio, allora ancor vivo !, a          ! Al Cuoco, da cinque anni lontano da Napoli, pareva impossibile  che il vecchio Gennaro vivesse tuttavia !    somministrare i manoscritti del padre. Si eran raccolte  molte cose ancor inedite. Una parte di ciò che erasi preparato trovavasi in casa mia; un’altra in casa di quel mio  amico che voleva far l’edizione: ed ambedue le case furono nel saccheggio anglo-russo-turco-napoletano saccheggiate. Ed addio edizione di V. »!.   Intorno al 1804, infine, per lo stesso motivo, Gennaro  vecchissimo fu visitato dal marchese Villarosa. Il quale,  nella prefazione al primo volume degli Opuscoli =, non  pubblicato, per altro, prima del 1818, quando Gennaro  era morto da tredici anni, racconta che nell’accingersi  alla sua raccolta, si diresse al figlio di Gio. Battista,  uomo di antichissimi costumi, per informarlo del suo  proposito e pregarlo che volesse fargli dono di quegli  opuscoli del padre, che aveva presso di sé. Il buon vecchio, gravato dagli anni, e più da’ malori, quasi pianse  della letizia per un tale avviso ». E gli diede infatti i  pochi manoscritti rimastigli, e un abbozzo delle aggiunte  alla Vita pubblicata dal Calogerà. Anche i libri del padre  a uno a uno gli erano stati portati via dagli amici; ma  conservava  un Tacito tutto dal padre nel margine postillato e qualche altro latino libro ». Qualche ferro, insomma,  del mestiere !   Giacché anche gli storici il professore di rettorica doveva  leggere e illustrare. Delle origini di questa cattedra si  sa poco, come in generale delle origini di tutti gl’insegnamenti dello Studio di Napoli. Pare sia sorta per le  esigenze umanistiche del Rinascimento napoletano, sotto  gli Aragonesi. Il maestro del Sannazzaro, Giuniano Maio,  l’autore del De Matestate, e di un dizionario latino De  priscorum proprietate verborum, il precettore d’ Isabella    I RUGGERI, V. Cuoco, 191-92; e cfr. ora Cuoco, Scritti vari, ed.  Cortese-Nicolini, I, 314-15.  2? Opusc., I, XIV-XV.    d’ Aragona, lesse nello Studio (riaperto nel 1451 da  Alfonso I) dal 1465 al 1488 rettorica, poesia o  arte oratoria, col soldo di trenta o quaranta ducati 1. E nello stesso anno 1465, re Ferdinando creava per  Costantino Lascaris, venuto da Milano al séguito di Ippolita Sforza, di cui era stato maestro, una cattedra di  eloquenza, ma ad lecturam Graecorum auctorum,  poétarum scilicet et oratorum *. Non risulta, del resto, che il  Lascaris v’insegnasse più d'un anno; e alla sua partenza  la cattedra dové cadere. Non così quella di rettorica  latina, detta poi anche di umanità, che ebbe  maestri di fama, come Pomponio Gàurico, il quale v’insegnò sempre con la provvisione di 40 ducati dal 1512 al  15193, e l’amico del Pontano, Pietro Summonte, dal  1520 al ’26 4. Ma questa, come le altre cattedre dello Studio,  ebbe un assetto stabile dalla prammatica del 1616, che  (parte II, tit. I) ordinò una cattedra di rettorica  con I00 ducati di salario 5 l’anno: ha da leggere i precetti  di essa, o per Aristotile, o per Quintiliano, o per il libro  Ad Herennium, et parte dell’anno alcun oratore, o istoriografo per poter esemplificare detti precetti » 6. In questo  programma, d'altronde, bisogna scorgere la conseguenza    I Pércopo, Nuovi docc. sugli scrittori e gli artisti dei tempi aragonesi,  in Arch. stor. nap., XIX, 740-1; e introd. alle Rime del Cariteo, Napoli, 1892, p. CCXVIII; e CANNAVALE, Lo Studio di Napoli nel Rinascimento, Napoli, Tocco, 1895, docc. cit. nell’ Indice dei nomi, s.  Mayo  de Juliano ».   % CANNAVALE, doc. 13, p. XXI.   3 Pércopo, L’umanista Pomponio Gàurico e Luca Gàurico ultimo degli  astrologi, Napoli, Pierro, 1895, 69 e 173-7.   4 PÉRCOPO, od. cit. 69 e 177-9. Per altri nomi oscuri vedi oltre il  Pércopo, l. c., il CANNAVALE, p. 87.   5 Dai documenti pubblicati dal Cannavale risulta (p. 63) che il soldo  era salito a 60 duc. nell’anno 1532-33. Ridisceso a 50 duc. nel 1568-69  (p. 70), risalì a 60 nel 1574-75 (p. 72); e vi si mantenne fino al 1580  (p. 74), ultimo anno per cui si abbia notizia d’un lettore d’humanità: e forse fino al 1616. Per maggiori particolari sulla cattedra si  veda ora il cit. vol. miscellaneo sulla Storia della Università di Napoli.   6 V. Nuova Coll. delle Pramm. del Regno, t. XIII, p. 17.    dello stesso sviluppo storico di quell’insegnamento, che  in esso ebbe quasi la sua codificazione. Quando, nel 1711,  G. B. V. dettò di suo le Institutiones oratoriae, in fondo  non fece uno strappo al programma, perché la sostanza  era sempre quella tradizionale. E Gennaro non fece di  certo lui la rivoluzione. Fino al ‘77 insegnò la solita rettorica; dopo gli toccò anche di formare » le Istituzioni  poetiche. Era sempre l’insegnamento greco e romano,  rinnovato dagli umanisti e perpetuatosi dal Quattrocento  in poi, col perdurare del generale indirizzo strettamente  classico della cultura e della letteratura. Vedremo tra poco  come timidamente, durante la vita stessa del nostro  Gennaro, farà capolino nello Studio un insegnamento  letterario moderno; e quanta fatica durerà ad affermarsi  con carattere e spirito veramente nuovo e indipendente  da questo vecchio istituto umanistico.   A Gennaro, che, per altro, non fu l’ultimo dei maestri  di rettorica latina, bisogna render merito dei sani criteri,  che, per ispirazioni paterne, seppe mantenere nella sua  disciplina, insistendo sempre sull'importanza del contenuto, combattendo il puro studio della forma vuota, le  virtuosità stilistiche e sofistiche, le minuzie grammaticali :, ed incitando i giovani agli studi seri e profondi.  Nell’ Orazione inaugurale del 1774: Optima studendi ratio  ab ipso studio petenda, tornando sul tema già trattato  nel 1741?, fatta una dipintura satirica delle abituali  occupazioni della gioventù effeminata del tempo, affermava  questo bisogno degli studi coltivati con ardore d’animo e  vigoria di volere: aeque naturalis et facilis est vobis sapientiae adipiscendae ratio, quae est vestramet ipsa voluntas 3.    I Sono degni d’esser letti gli Avvertimenti per l’ insegnamento del latino,  da lui dati, pare, per l'istruzione di qualche figliuolo di signori, e  che io sono costretto a rimandare all’Appendice I.   ? Vi sono ripetuti anche de’ periodi.   3 Pag. LXIv.    La volontà vince anche i difetti della natura. Non c’è  difficoltà che non si superi col buon volere. Ma il fine  degli studi non è da riporre nel guadagno.    Sordida haec et vilia sunt litterarum pretia, quae vobis contemnentibus ultro abunde suppetent. Qui studio flagrat cognitionis  et scientiae, is nullo emolumento ad eas res impellitur: quin etiam  qui ingenuis studiis delectantur, eos videmus nec valetudinis nec  rei familiaris habere rationem; omnia perpeti ipsa cognitione et  scientia captos: cum maximis laboribus compensare eam, Rara  in discendo capiunt voluptatem.    Di che adduceva ad esempi Anassagora, Carneade,  Archimede, Pitagora, Demostene: e meglio avrebbe  potuto ricordare il padre, se non l'avesse trattenuto  certo pudore domestico, che mai non gli fece pronunciare  quel sacro nome, quando sulla sua bocca potesse suonare  lattanza.    LA CATTEDRA DI LETTERATURA ITALIANA  DALLA SUA ORIGINE ALLA RIFORMA DEL 31811    Da uno sdoppiamento della vecchia cattedra di rettorica, nell’ Università di Napoli, trasse origine l’insegnamento di letteratura italiana. Quello stesso marchese della  Sambuca, che nel 1778, per porre in attività il genio  della nazione e il talento dei sudditi»! di Sua Maestà,  die’ vita, come s’è visto, all’ Accademia delle scienze e  belle lettere, in. quel torno stesso, tentò anche un ammodernamento dell’ Università con la riforma del 26 settembre 1777, che qualche modificazione importò anche  alla cattedra di Gennaro V.. Nel dispaccio con cui  comunicava a Carlo Demarco, ministro del culto (da  cui la pubblica istruzione dipendeva), il nuovo piano  dell’ Università, scriveva:   La pubblica educazione, che è stata sempre tra le  cure principali di ogni ben regolato governo, per la influenza, che ha sul costume de’ popoli e su la floridezza  dello Stato, con la cognizione e con l’esercizio delle scienze  e delle arti liberali e meccaniche, necessarie non meno  alla cultura ed alla politezza delle nazioni, che alla sua  ricchezza e potenza, col promuoverne e sostenerne il com‘mercio, avea già richiamata l’attenzione del Re ».   Si sente il linguaggio del tempo dei lumi. Sono quindi  ricordate le precedenti cure di Ferdinando IV per l’istruzione.  Dopo queste sue prime sovrane disposizioni, ha  il Re voluto rivolgere ancora il suo pensiero all’ Università  degli studi .... Ed avendo S. M. veduto, che siccome nelle    I Disp. cit. del 22 giugno 1778.    pubbliche scuole stabilite nella R. Casa del Salvatore vi  erano alcune lezioni, che anche nell’ Università degli studi  faceansi; e così in questa e in quelle ne mancavano poi  molte, che le nuove scoverte fatte nelle scienze e nelle  arti rendevano interessanti: ha perciò disposto che si  combinassero insieme; e, togliendo per una parte quel che  vi fosse di superfluo, e aggiungendo quel che mancasse  per l’altra, e alcuni soldi, ch’'erano nelle scuole, sopprimendo, ed altri, che nell’ Università eran troppo. tenui,  aumentando, si formasse un corpo intero e compiuto di  tutto ciò, ch’ è necessario alla perfetta istituzione della  gioventù, cominciando da’ primi elementi fin alla Facoltà  delle scienze più sublimi » 1. Affinché tutto questo corpo  completo di studi fosse raccolto in un sol edificio, l’ Università passò allora nella casa del Salvatore, dov'era già il  convitto.  Né qui si sono arrestate le paterne cure del Re.  Ha determinato di più, e disposto, che si formino, oltre  all’ Accademia della pittura, scultura ed architettura ....  altre due Accademie, una per le scienze e l’altra per le  belle lettere, con avere stabilite le pensioni corrispondenti  ‘agli accademici ed ai segretari dell'una e dell’altra, che  saranno a suo tempo dalla M. S. dichiarati, col presidente  delle medesime. E siccome queste Accademie si terranno  nell’edifizio, ove sin ora è stata l’ Università degli studi 2,  ha disposto ancora S. M. che nel medesimo si situino le  magnifiche due regali Biblioteche, Farnesiana e Palatina,  destinandole all’uso del pubblico. Ed oltre ciò, vi saranno  trasportati li due ricchissimi suoi regali Musei, Farnesiano ed Ercolanese, per lo stesso uso ». E, perché    I Arch. Sta. Nap., Scritture diverse della cappellania maggiore, vol. 34,  f.° 230 sgg. Ma il dispaccio è pubblicato nel DE SARIIS, Cod. di leggi  del Regno di Napoli, lib. X, tit. IV, Napoli, Orsini, 1796, 47 S8g 2 Il Palazzo degli Studi. Sbaglia perciò il COLLETTA (Storîa, lib. II,  cap. II, $ 13) ponendo tutti quest’ istituti insieme con l’ Università  al Salvatore.    nulla mancasse alla perfezione di que sta grande opera, ed alla compiuta  istruzione della gioventù, si disponeva  l'istituzione di una cattedra di storia naturale, di un  orto botanico, di un laboratorio chimico, e che vi sieno  tutte le macchine per fare le esperienze, e le altre operazioni corrispondenti ». Tutto ciò nel Palazzo degli Studi.  Si ordinava altresì all’ Ospedale degli Incurabili una  cattedra di ostetricia e la formazione di un teatro anatomico. Infine, si era annunziato l’ordinamento di un Osservatorio astronomico nella casa del Salvatore.   In questa, che si può dire la riforma universitaria  dell’illuminismo, tra le cattedre nuove comprese nel piano  dell’ Università, troviamo appunto quella di Eloquenza italiana. Si dee provvedere», è detto  nel Piano, anch'esso del 26 settembre 1777,  col soldo di  ducati 300 » ®. E a questa, come alle altre cattedre nuove,  si doveva provvedere per concorso:  Solamente », diceva  il marchese della Sambuca al Demarco nel suo dispaccio,   solamente, per questa prima volta li maestri delle nuove  cattedre si proporranno al Re da V. S. Ill. ma con la mia  intelligenza, per combinarsi colla Riforma fatta ».   Non passarono infatti tre mesi, che il ministro Carlo  Demarco spediva al cappellano maggiore del tempo,  don Matteo Gennaro Testa Piccolomini, arcivescovo di  Cartagine, il seguente dispaccio:    Essendosi fatta presente al Re la rappresentanza di V. S. I.  de’ 19 dello scorso novembre, contenente le terne de’ soggetti  proposti per le nuove cattedre aggiunte all’ Università dei Regi  Studi, S. M. ha scelto per l’Eloquenza italiana don  Luigi Serio; per la meccanica, p. Nicola Cavallo; per l’Arte  Critica e Diplomatica, il p. don Emanuele Caputo Cassinese;  per la Storia sagra e profana il prete don Francesco Conforto;    I Arch. Sta. Nap., Scritture cit., vol. 34, f.° 252 db; DE SARIIS, p. 52.    VI. IL FIGLIO DI G. B. V. 295    per l'Agricoltura don Nicola d’Andria; per l’Architettura Civile  e Geometria pratica il Canonico Taralli; per la Geografia e Nautica  il p. don LodoV. Marrano; coll’obbligo però, che debbano tutti  tali lettori di persona far le lezioni, senz'ammettersi sostituti in  loro vece nelle cennate rispettive cattedre nuovamente aggiunte.  Rispetto poi alla cattedra di Logica e Metafisica, S. M. si ha riservato di risolvere in appresso, ed allora a suo tempo comunicherò  a V. S. I. la Real risoluzione.   Nel Real nome pertanto comunico a V. S. I. tal’elezioni de’  cennati lettori, fatte dalla M. S. perché ne disponga il possesso e  l'adempimento; siccome ne ho dato l’avviso a’ medesimi per loro  intelligenza.  Palazzo, 10 dicembre 1777 !.    Chi era don Luigi Serio ? Nato nel 1744 a V. Equense,  esercitava in Napoli la professione d’avvocato; ma già  intorno al ’65 era diventato una celebrità come improvvisatore. A differenza dei soliti poeti estemporanei, il  Serio aveva solida cultura letteraria e scientifica. Né era  privo di buon gusto, come dimostrano alcune sue polemiche  letterarie.  La fraseologia dei novatori, della gente  alla moda, gallicizzante ed anglizzante, delle anime sensibili, dei filosofanti, era un suo odio particolare. Contro  costoro scrisse, tra l’altro, un opuscoletto, pubblicato  anonimo, col titolo: Cose e non parole, mettendo in caricatura gli obblighi filosofici e utilitari, che si volevano  addossare alla poesia. Ma non pare che questo suo odio  fosse effetto di un pensiero profondo »?. Le sue Rime,  del resto, raccolte in due volumi nel 1772 e 1775, hanno    I Dispacci dell’ Ecclesiastico, vol. 426 (novembre 1777 a gennaio 1778),  ff. 140-141; nonché tra le Scritture diverse della Cappellania Maggiore,  vol. 34, i ff. 228-229. Parzialmente lo stesso dispaccio fu pubblicato  dal prof. N. BARONE, Breve memoria intorno ai proff. di diplom. e paleografia nell’ Univ. e nel G. Archivio, Valle di Pompei, 1888, 7 sgg.   2 B. CROCE, L. Serio, nel vol.: Aversa a D. Cimarosa, Napoli, Giannini, 1900; e poi nel volume dello stesso Croce, Aneddoti e profili settecenteschi, Palermo, Sandron, 1914. Sul Serio scrisse più tardi uno studio il prof. M. Bruno, L. S. letterato e patriota napoletano del Settecento, negli Studi di letteratura italiana, pubblicati da E. Pércopo,  vol. VI, fasc. 1-2.    290 STUDI VICHIANI    scarsissimo valore. Nel 1771 die’ in luce alcuni Pensieri  sulla poesta*, dedicati all'abate Galiani: al quale diceva  (salvo, nove anni dopo, nel Vernacchio, a colmarlo di  vituperii):  Voi siete un letterato di vivacissimo spirito, di  sublime ingegno, e di vasta erudizione .... Vedete dunque,  se io senta qualche cosa avanti nella ragion poetica, ed il  vostro giudizio mi servirà di perpetua norma ». Ma più  che a questi Pensieri, in cui pure non mancano buone  osservazioni sul mutare degli ideali artistici col mutare dei  secoli, e sui difetti della vuota poesia del tempo, il Serio  dové la cattedra di Eloquenza italiana alla stima guadagnatasi in Corte con le sue ammirate improvvisazioni, che  già quell’anno, 1777, gli avevano procacciato la nomina  di poeta di Corte, nonché l’incarico di rivedere le opere  teatrali e provvedere ai bisogni poetici del S. Carlo*.  . Delle ragioni che indussero all’istituzione della nuova  cattedra letteraria, il Napoli-Signorelli, facendone risalire  il merito fino a Ferdinando IV, scriveva nel 1798:  Vide  il nostro Re che la gioventù dedita alla greca e latina eloquenza od a svolgere Demostene, Pindaro ed Omero, o  Tullio, Orazio e Virgilio, riusciva così rozzamente a disviluppare i propri concetti nella materna lingua volgare,  come si ravvisa singolarmente negl’immensi mucchi    I Di cui non conosciamo altro che le prime 12 conservate in  una Miscellanea (III st., XV, F., 25) della Società storica napoletana.   2 Intorno alle lotte che dové sostenere, come revisore teatrale, per  la riforma del melodramma, vedi B. Croce, I teatri di Napoli, Napoli, Pierro, 1891, 575 Sgg., 592 Sgg., 624 Sgg., 733 sgg.  P. Calà  ULLOA, che non era privo di gusto, né di buon senso scrive:  On peut  reconnaître encore dans quelques pages de Luigi Serio, plus éloquantes et plus spécieuses que raisonnables, des pensées neuves, et des  images heureuses à còté des traits les plus hasardés. Il eut le torte  de semer dans l’arène du palais les fleurs et les ornements de la poésie.  Ses discours portaient l’empreint d’une éloquence factice et d’un  goùt passager; il avait plus d’imagination que de force d’exprit ».  Altri, d’ ingegno anche inferiore, se laissaient aller, comme Serio, à  inonder leur auditoire de fleurs d’une déclamation académique »: Pensées et souvenirs sur la littérature contemporaine du Royaume de Naples, Genève, 1859-60, I, 33-4. d’allegazioni ed altre scritte forensi; ed accorse ad ovviare  a tale inconveniente col fondare una cattedra di Elo quenza italiana, e fece sì che la lingua di Dante,  del Petrarca e del Boccaccio e de’ tersi scrittori del secolo  decimosesto s’intendesse, s’imparasse per principii e si  pregiasse ».   Il pensiero risale certo ad A. Genovesi, che fu il primo,  com'è noto, a insegnare nell’ Università in italiano, quando  iniziò le sue lezioni di Economia civile. E quando, dopo  la cacciata de’ gesuiti, nel 1767, ebbe incarico dal Tanucci  di formare un piano di scuole  che poi non poté essere  adottato, almeno interamente  propose anche  una  scuola di lingua, di eloquenza e di poesia toscana ; perciocché, mirando già tutte le nazioni di Europa a rendere  volgari e comuni le regole delle arti e delle scienze, parve  all'abate Genovesi necessario che i giovani si avvezzassero  di buon’ora a sapere parlare e scrivere con nettezza ed  eleganza la propria lingua ». Ma  questo studio sì necessario », concludeva il biografo del Genovesi, nel 1770 *,  è intanto il più negletto nella nostra educazione ».   Importante è quello che lo stesso Napoli-Signorelli,  dopo avere accennato alle altre cattedre moderne stabilite  con la riforma del 1777, ci dice della impressione che di  quelle novità ebbero i contemporanei:  Chi crederebbe »,  egli esclama, che queste gloriose novità dovessero sembrare innovazioni inutili a certi vecchioni che non hanno  mai inteso più oltre delle istituzioni mediche, legali e teologiche, della fisica di Aristotele o di Cartesio, e della  nuda pedanteria (ma non altro) delle lingue dotte ? E pure  odonsi alcune sparute larve, ignoranti dell'importanza di  tali stabilimenti, mormorarne e torcere il muso:  Quali  cattedre ! (van dicendo) lingua italiana, agricoltura, chi  I G. M. GALANTI, Elogio stor. del sig. ab. A. Genovesi, 33 ed., Firenze, 1781, 7I, 9I1-3, 109.    mica, commercio, diplomatica, storia naturale, geografia  fisica ! Fa mestieri di un pubblico professore per istudiar  la lingua volgare che parliamo dalle fasce ....  Così favellano certi noti annosi maestri, che non mai seppero passare  oltre dei confini della pedanteria e cacciar da sé prisci  vestigia ruris. Ma il gran Ferdinando che d’ingegno e di  cognizioni, come di grandezza d’animo, di possanza e di  maestà tutti sorpassa, ad onta di codesti idioti eruditi alla vecchia maniera, ha fondate  queste nuove scuole importantissime per rimuovere la  gioventù da’ rancidumi, onde non più comparisca inceppata e coperta di timidezza da collegio a fronte di chi  bevve in migliori fonti » 1.   Tra cotesti vecchioni, eruditi alla vecchia maniera, vi  sarà stato anche Gennaro V. ? Non parrà improbabile,  se si considera che realmente, così come nacque, l’insegnamento della letteratura italiana fu una duplicazione  della vecchia rettorica, che s’insegnava nell’ Università di  Napoli dalla metà del Cinquecento; e se si ripensa alle  sue lamentele del 1797 per la sorte toccatagli, di raggiungere dopo 40 anni d’insegnamento quello stipendio di 300  ducati, che altri aveva ottenuto tanto più presto: p. es.  don Luigi Serio !   Che cosa abbia precisamente insegnato il Serio sì può  argomentare da un interessante documento rimastoci ?:  cioè dal manifesto, con cui. dopo 14 anni d'insegnamento,  annunziò la pubblicazione delle sue Istituzioni, che non  sembra vedessero poi la luce. Esso reca la data di Napoli,    16 maggio 179I:    Agli amatori della bella letteratura:    I P. NAPOLI-SIGNORELLI, Regno di Ferdinando IV, Napoli, Migliac  cio, 1798, 242, 244-5.  2 Misc. XV, F. 25, nella Bibl. della Soc. stor. napoletana. Dalla stamperia di Vincenzo Flauto usciranno alla pubblica  luce le istituzioni dell’eloquenza e della poesia italiana dell’avv.  Luigi Serio, regio cattedratico. Quest'opera sarà divisa in quattro  tomi: il primo conterrà le più importanti questioni intorno all'origine, all’ indole ed al carattere della lingua; e in esso si tratterà  eziandio di tutto ciò, che principalmente alla grammatica appartiene, ma con animo di veder come esser possa una delle fonti  dell’eloquenza. Nel secondo e nel terzo tomo va l’autore ritrovando i mezzi, onde si pervenga alla perfezion del gusto, e crede  di esservi riuscito, facendo le seguenti ricerche: I. In che consiste l’artifizio delle metafore, e quale utilità se ne ricava ? II. Perché le figure, che si addimandan retoriche, facciano mirabili effetti in qualunque specie di scrittura e di discorso ? E se ne additerà la cagione nelle passioni, di cui esse sono, e devono esser il  linguaggio. III. Che cosa sono i pensieri ingegnosi e i concetti,  e perché rapiscono ed incantano gli animi altrui, o riescon freddi  e puerili ? IV. Coloro che declaman tanto contro il periodo, hanno  pur ragione di farlo ? E qui si farà un’ analisi diciò che forma  l'armonia del discorso in generale, e della lingua italiana in particolare. V. L’eleganza e l’elocuzione son voci, che esprimono idee  distinte o confuse ? e possono esser soggette a un maggiore schiarimento ? VI. Che cosa è stile ? E qui, abbracciandosi l’antica  divisione di stile semplice, temperato e sublime, se ne dimostreranno i caratteri, e con questa occasione si faranno per lo stile  semplice molte osservazioni sulle lettere familiari, su’ dialoghi,  sulle materie didascaliche o sieno instruttive, e sulla istoria; e  per lo stile sublime si andrà esaminando in che consista il merito di que’ fortunati pensieri, che in prosa o in verso riempiscono  gli animi de’ lettori in un medesimo tempo di gioia, di maraviglia  e di nobile ardimento. VII. Si faranno finalmente opportune  riflessioni sull’eloquenza del pulpito e del foro. Il quarto tomo è  destinato alla poesia italiana, e conterrà questi sei trattati, cioè  l'origine della nostra poesia, il metro e le rime; l'armonia del verso,  e come possa servire all’ imitazione; la locuzione poetica e il dar  persona alle idee; la lirica poesia in generale, e le sue diverse specie;  e i principii della poesia drammatica, e dell’epica.... Addio.    L'insegnamento del Serio era, come si vede, il pendant  della rettorica e della poetica insegnata da Gennaro V..  Questi esemplificava i suoi precetti con la lettura dei  classici latini; il Serio con quella degli scrittori italiani.    A’ suoi commenti danteschi accenna il marchese di Villarosa, quando in uno di quei suoi sciagurati Ritratti poetici  fa dire al Serio:    Dell’ itala eloquenza, in Dante oscura,  Talora i pregi di svelarne avviso.    Gli stessi precetti e le teoriche dovevano spesso dar  luogo ad esemplificazioni, e quindi a letture di classici,  secondo era richiesto già dall’antico programma di Rettorica. Lo stesso Villarosa ci dice che, esercitando il suo  ufficio, il Serio ne riscosse non mentite lodi, perciocché  le sue lezioni, pronunziate con brio e piacevolezza, eran  ripiene di recondito sapere, le bellezze additando dell’idioma gentil sonante e puro».    Ma la pagina più bella, scritta dal Serio, fu quella  della sua morte » 3. È noto il racconto commovente del  Colletta. Il 13 giugno 1790, il Serio si trasse dietro i nipoti  a combattere contro le schiere di Ruffo, che assaltavano  Napoli: Il vecchio, per grande animo e natural difetto  agli occhi, non vedendo il pericolo, procedeva combattendo  con le armi e con la voce. Morì su le sponde del Sebeto:  nome onorato da lui, quando visse, con le muse gentili  dell'ingegno, ed in morte col sangue » 4. Il borbonico  Villarosa nota amaramente che le Muse non furono  capaci a salvarlo, ed illagrimato non poté evitar la  taccia di arrogante ed ingrato ».   E per lo sdegno, forse, contro questa ingratitudine dei  poeti, Ferdinando IV per un pezzo non volle più saperne  di professori di Eloquenza italiana. Nell’ Almanacco di  Corte del 1805 la cattedra si dà ancora per vacante 5.       Ed. cit., p. 21.  O. c., p. 84.  B. CROcE, Aneddoti, p. 298.   4 COLLETTA, Storia, lib. IV, c. III, $ 32.   5 Calendario e notiziario della Corte per l’anno 1805, 122-3 (Napoli, 1805).    Venuto Giuseppe Bonaparte, il 31 ottobre 1806 emanò un  decreto, come fu sopra accennato, per riorganizzare gli  studi universitari sopprimendo parecchie cattedre, anche  di quelle stabilite nel 1777, e alcune istituendone nuove *.  Tra le soppresse con quelle di Diritto di natura, Testo  d' Ippocrate, Etica, Teologia primaria, Testo di S. Tommaso, Storia de’ concili, ecc., v'è anche, come dissi già, la  Rettorica: la cattedra di V. 2. L’ Università fu divisa  in cinque Facoltà: Diritto, Teologia, Medicina, Filosofia 3  e Scienze naturali. Ma alle Facoltà erano aggiunte sei  cattedre diverse : Commercio; Critica e diplomatica; Eloquenza antica e moderna; Lingua greca; Lingua  ebraica; Lingue orientali. Nell’ Eloquenza antica  e moderna pare s’intendesse fondere i due insegnamenti di Gennaro V. e di L. Serio; e vi fu nominato 1l  già sostituto di Gennaro, il can. Nicola Ciampitti (decreto  31 dicembre 1806); il quale conservò la cattedra con quel  titolo fino al 1811. Ma non passarono due anni, che un  decreto del 20 gennaio 1808 erigeva nell’ Università una  cattedra di Letteratura antica e moderna, nominandone  titolare (col soldo di professore di 3* classe, come tutti gli  altri delle  cattedre diverse ») certo Angelo Marinelli.   Ci è arrivata la Prolusione che il Marinelli lesse quell'anno stesso în occasione dell'apertura della nuova cattedra di letteratura antica e moderna eretta nella R. Università  degli studi di Napoli ; ed essa accenna alle ragioni, per cui  la  coltissima » Accademia di storia e d’antichità, fondata    I Vedi questo Decreto nella Collez. degli editti, determinaz., decreti  e leggi di S. M. da’ 15 febbr. ai 31 dic. 1806 (Napoli, Stamp. Simoniana),  384 Sgg., nonché nell’altra Collezione (pressoché ignota e pure importantissima) delle leggi, de’ decreti e di altri atti riguardanti la P. I.  promulgati nel già Reame di Napoli dall’anno 1806 in poi, Napoli,  Fibreno, 1861-3 (3 voll.), I, 6-7.   2 Allora (per l’art. 58 di questo decreto) l’ Università, che nel 1805  era passata a Monteoliveto, tornò al  palazzo detto del Gesù vecchio ».   3 In questa Facoltà furono comprese 6 cattedre: 1) logica e metafisica; 2) matematica semplice; 3) matematica trascendentale; 4) meccanica; 5) fisica sperimentale; 6) astronomia.    l’anno innanzi da Giuseppe !, aveva proposta e  garantita »  al governo l'istituzione della nuova cattedra. E ci dà  insieme un'idea di quello che tale insegnamento doveva  essere.   Non era un uomo volgare questo Marinelli. Fratello  primogenito di Diomede, autore dei noti Giornali, ora in  parte pubblicati, così utili allo storico degli avvenimenti  napoletani dal 1794 al 1820 ?, egli, sebbene sacerdote, fu,  come il fratello, caldo fautore della repubblica del 1799.  Ma più del fratello dové compromettersi, se, appena  caduta la repubblica, il 14 giugno venne arrestato e condotto al Ponte della Maddalena, quartier generale del  Ruffo, poscia su un bastimento 3. Ne scese il 14 agosto;  ed ha sofferto molto dalla vil plebe », notava quel giorno  il fratello 4, come gli altri; e tra l’altro, gli ponevano  in bocca ogni lordura, che trovavano in terra ». Il 27 settembre il fratello notava ancora 5:  Quest’oggi mio fratello Angelo Marinelli mi ha mandato a dire, ch'è stato  condannato ad esser deportato fuori il territorio napole  I Con decreto del 17 marzo 1807: vedi la Col/ez. ora citata, I, 30-32.  Questa Accademia fu poi, com'è noto (COLLETTA, Storia, lib. VI,  c. III, $ 29; MINIERI Riccio, Arch. Stor. Nap., V, 1880, 595-7)  incorporata nella Società reale di Napoli, istituita da  Giuseppe con decreto 20 maggio 1808 (Co/l. cit., I, 53-56), diventata  nel 1817 Società Borbonica. Nei Giornali del Marinelli,  t. XII, 80-82, è riferito il decreto di costituzione dell’Accademia  del 1807; e segue questo ricordo:  Per decreto di S. M. sono nominati  Accademici dell’Accademia Reale d’ Istoria e di Antichità i signori  p. Andrés, cav. Arditi, arcivescovo Capecelatro, abbate Gaetano Carcani, Domenico Cotugno, Francesco Carelli, abbate Nicola Ciampitti,  Francesco Daniele, consigliere di Stato Delfico, professore Gargiulo,  abbate Donato Gigli, abbate Gaetano Greco, vescovo Lupoli, abbate Girolamo Marano, generale Parisi, abbate Bartolomeo Pezzetti, vescovo  Bosini, canonico Francesco Rossi, cav. Villa-Rosa ».   2 Vedi la nota su D. Marinelli in B. Croce, La Rivoluzione napoletana del 17993, Bari, Laterza, 1912, 187-88; e la cit. pubblicazione  della I parte dei Giornali di D. M. a cura di A. FIORDELISI.   3 Giornali di D. M., ed. Fiordelisi, 81-2.   4 Ivi, p. 88.   5 Ivi p. 96.    tano, e portato in Marsiglia ». E il 19 novembre, infatti,  Angelo, in Sant’ Elmo, firmava l'obbligo di andare in  esilio sua vita durante » *. Onde il 14 dicembre Diomede  poteva registrare con piacere che nella notte il fratello  era stato imbarcato per Marsiglia:  Sto contento », scriveva, temendo di peggio » =. Non ne seppe altro fino al  giugno dell’anno dopo, quando Angelo, dopo sei mesi,  gli diede finalmente notizie di sé da Marsiglia 3. Ma non  doveva rivederlo che nel 1807 la sera del 12 ottobre, dopo  otto anni d'esilio ! 4.   Questi meriti patriottici del Marinelli, che, per altro,  aveva esercitato sempre la professione dell’insegnamento,  ne fecero un professore dell’ Università, con cattedra  istituita per lui, sotto Giuseppe Bonaparte.  La sua reputazione », dice l’ Ulloa 5, e una vita esente da rimproveri furono forse le vere cause della sua riuscita e del  favore pubblico ». Oh! l’animo di Diomede, quando il  giovedì 28 aprile 1808 poté scrivere nel suo diario ©:  Questa mattina Angelo mio fratello ha principiato le  lezioni della nuova cattedra, ne’ Regi Studi, di letteratura  antica e moderna !» Ma non convissero quindi che pochi  anni. Ecco la necrologia di Angelo inserita nei Giornali 7:    Angelo Marinelli, mio fratello germano, nato nel 17658, è  passato a miglior vita nella notte a sei ore venendo il sabato  di marzo del 1813. Mi è avvenuta questa disgrazia dopo una  tediosa malattia di quasi tre mesi con idropisia, e poi è terminata  con cangrena nella verga. È stato seppellito il sabato a sera nella    I Ivi, p. 112.   2 Ivi, p. 117.   3 Ivi, p. 130.   4 Sotto questa data nel ms. t. XI, p. 708: Questa sera verso le  ore 3 è giunto Angelo mio fratello dopo l’esilio di otto anni ».   5 Pensées cit., I, 114.   6 Ms. t. XI, p. 723.   7 Dal ms. cit. XI, p. 733.   8 Nacque probabilmente a Longano nel Molise.    Congregazione di S. Caterina a Formello. Esso mio fratello era  sacerdote, e professore dell’ Università di Napoli. Gli primi studi  gli fece nel seminario d’ Isernia, e vi fu lettore e rettore per pochi  anni. Nel 1795 venne in Napoli per studiare maggiormente, e  aprì scuola privata. Nel 1799 fu arrestato dalla populazione della  nota rivoluzione, e fu sbarcato a Marsiglia, e poco vi si trattenne  essendo passato in Italia poco dopo. Fu professore nel Liceo di  Alessandria e di Casal Monferrato. Finalmente nel dì 12 ottobre  del 1807 si ritirò in mia casa, e poco dopo fu fatto professore  nell’ Università, e confirmato dell’organizzazione seguìta a dì  18 gennaio 1811. Era uomo portato all’ ipocondria, sentenzioso e  grave. Studioso all'eccesso ed era il suo idolo la gloria ed onore  nelle scienze. Giusto nelle sue deliberazioni, e non capace di offendere niuno in fatti, sebbene in parole spacciasse che la vendetta era il nettare di Giove. Amava la gioventù  e principalmente i suoi allievi. È stato pianto da tutti quei che lo  conobbero, non che da me. È passato a miglior vita monìto con  tutt’i sagramenti, ch’ ha eseguiti, con edificazione degli astanti 1.    Ma torniamo alla Prolustone. Il Marinelli dice che la  nuova cattedra ha di mira particolarmente l’analisi critica e ragionata de’ classici antichi e moderni » per formare di una maniera facile e breve » il gusto dei  giovani, e abituarli ad apprezzare e leggere gli autori con  discernimento, pronunziare sul loro merito il proprio  giudizio con sicurezza, e, proponendoseli per modelli,  lavorare componimenti solidi e degni dell'immortalità ».  I classici da leggere sono i grandi scrittori di queste quattro  epoche: la Grecia di Pericle e di Alessandro, la Roma  di Cesare e di Augusto, l’ Italia di Leone X e dei Medici,  la Francia di Luigi XIV.  Da essi trar bisogna l’abbondanza e la ricchezza de’ termini, la varietà delle figure,  la maniera di comporre, le immagini, i movimenti, l’armonia e tutto ciò che evvi di bello, di grande e di squisito    I Un nipote di Angelo Marinelli affermava nel 1887 che un’opera  dello zio su la Fisonomia dell’uomo si conservava manoscritta presso  l'arciprete di Longano (Croce, O. c., p. 187): ma non se ne sa altro.    VI. IL FIGLIO DI G. B. V. 305    nel carattere del loro ingegno e del loro stile ». Dunque,  lettura ed analisi di Omero, Sofocle, Euripide, Pindaro,  Tucidide, Virgilio, Orazio, Sallustio, Petrarca !, Tasso,  Ariosto, Corneille, Racine, Fénelon. Studio importantissimo ai tempi nostri, dice il Marinelli,  perché oggi più  che mai si trascurano i grandi originali, che soli formar  possono il nostro spirito ». Del resto, il novello insegnante  non intendeva presentare questi classici per modelli  perfetti all’ammirazione cieca degli scolari. Anzi annunziava  una critica severa », che, rilevando le imperfezioni,  avrebbe fatto meglio risplendere il merito, come  il fuoco  dà un nuovo lustro alla purezza dell’oro ». La censura  non fece forse migliori i cittadini di Roma? Bisogna  distinguere le buone guide dalle pericolose.  Chi non sa  che Seneca, Lucano e Marino hanno in diverse epoche  contribuito a corrompere il gusto della gioventù ? ».  Ricordarsi poi che negli autori migliori non tutto è egualmente buono, né tutto ciò che è buono, conviene egualmente in tutti i tempi e luoghi.  Chi oserebbe imitare  oggidì le noiose enumerazioni d’ Omero e le similitudini  ch'egli prende da cose basse e triviali; i dettagli minutissimi d’ Ovidio; lo stil concettoso del Marino; le leggi  drammatiche tante volte trascurate dal gran Corneille ? ».  Questa dev'essere scuola di critica e di buon gusto ».  E quando questa novella cattedra », dice il Marinelli  a’ suoi uditori, non servisse ad altro ch’ a distruggere  quel resto d’amore pe’ concetti e per le arguzie, che regna  in quegli spiriti, il di cui gusto non è ancora depurato, a  far amare da coloro che si piccano di comporre, quella  saggia sobrietà che forma la solidità dello stile; a mostrare che nelle cose piuttosto che ne’ termini bisogna    I Dante non c'entra: forse perché non si poteva tirare come il  Petrarca (per via degl’ imitatori), al secolo di Leone X. Del resto il Marinelli conchiude:  Questi ed altri scrittori celeberrimi.] cercare la nobiltà dell’espressione; ad evitare ne’ discorsi  quella grandiosità affettata, la quale egualmente che la  semplicità triviale, è contraria alla dignità della dizione;  insomma a scrivere sensatamente, ciò bastar dovrebbe a  convincervi della sua utilità ».   Siamo, come sì vede, a un livello molto più alto che  col Serio. Il fondo dell’insegnamento è ancora la rettorica: ma che rivoluzione ! Tutta la precettistica, tutto il  convenzionalismo, e il formalismo classico e pedantesco  sono iti: Marinelli è uno schietto romantico; e in qualche  accento ti parrebbe di sentir già il De Sanctis, se non  stonasse, tra tanto buon senso e indipendenza di giudizio,  qualche accenno a quel filosofismo, di cui il Marinelli  doveva essersi imbevuto già prima del ’99, e anche più  nelle sue peregrinazioni in Francia e nella Cisalpina.   Terminando il suo discorso, esponeva brevemente il  metodo che avrebbe seguito. In primo luogo si sarebbe  studiato di sviluppare le cagioni fisiche (sc) e morali,  che hanno contribuito alla nascita, all'incremento ed allo  splendore di ciascuna letteratura ». Avrebbe cercato  perché essa, come una pianta, in alcuni climi si è veduta  nascere e fiorire spontaneamente; perché, esotica altrove,  non ha prodotto dei frutti che a forza di cultura, o perché  selvatica ha resistito alle cure che si son prese di ccltivarla ». Avrebbe indagato il perché della mirabile fioritura delle quattro epoche letterarie. Compiuto questo  quadro filosofico delle vicende e della storia letteraria  de’ quattro secoli », sarebbe venuto quindi all’esame dei  classici. Ma bisogna sentire quanto nei criteri qui enunciati  per tale esame questo Marinelli, rimasto finora quasi  interamente ignorato, s’avvicini a principii e metodi  molto recenti:    Di quelli che col lor sapere e coll’opera loro si renderon più  illustri, parlerò più ampiamente; più brevemente di quelli che non    furon per equal modo famosi. Della vita de’ più rinomati scrittori  accennerò in iscorcio le cose le più importanti, e quelle particolarmente che contribuir possono a dar lume e risalto maggiore alle  lor produzioni; più diffusamente ragionerò di ciò che appartiene  al loro carattere, al loro sapere, al loro stile. Rileverò i pregi e  le bellezze che sfolgoreggiano nelle opere loro, per promuoverne  l’ imitazione. Non passerò sotto silenzio i difetti che intrusi vi  sono, affinché s’evitino. E se parlar dovrassi di due o più scrittori,  che si saranno nello stesso genere segnalati, non tralascerò di  farne il parallelo e di mostrare in che l’ uno sull’altro primeggi.    Infine il Marinelli credeva di conchiudere, che questo  insegnamento avrebbe istruita la gioventù senza obbligarla al meccanismo de’ precetti, e senza ingolfarla nelle  minuzie grammaticali, che sono per lo più disgradevoli  alle persone di già avanzate negli studi ».   Ben presto però il carattere speculativo di un tale insegnamento dovette prevalere sulla sua parte storica, e la  materia trasformarsi in una filosofia dell’eloquenza.  Filosofia dell’eloquenza s'intitola infatti il libro pubblicato  dal Marinelli nel 1811, e dedicato (in data di Napoli,    I La filosofia dell’eloquenza di AnGELO MARINELLI, professore di  letteratura classica nella Regia Università di Napoli, e socio di varie  Accademie italiane e straniere. In Napoli, 1811, presso Angelo Trani; di  VI-103, in-8°. A_pp. 68 sgg., è un cenno di quello che l’Autore avrà  svolto nel suo corso: ossia intorno alle cause del fiorire delle lettere  nei quattro secoli accennati nella Prolusione del 1808.  Una Filosofia  dell’eloquenza o sia l’eloquenza della ragione aveva pubblicata nel 1783  in due grossi volumi in-16° (in Napoli, presso Vincenzo Orsini) l'avv.  FRANC. ANT. ASTORE, uno de’ martiri del ’99, nato a Casarano, in Puglia,  nel 1742, autore nel 1799 d’un Catechismo repubblicano e d’una trad.  dei Diritti e doveri del cittadino del MaBLY. Vedi su di lui una notizia  di N. MORELLI, in Biografia degli uomini illustri del Regno di Napoli  del Gervasi, vol IX, Napoli, 1822; D’AvALA, Vite degli italiani benemeriti ecc., Roma, 1883, 34-41, e B. Croce nell'Albo della vivoluz.  napol. del 1799, p. 28. Per la sua condanna v. SANSONE, Glîì avvenimenti  del 1799 nelle Due Sicilie, p. cxcI, Palermo, 1901; e per la sua fine  Croce, La Rivol. napoletana, 151, 152. La Filosofia dell’eloquenza  ebbe una ristampa a Venezia, e fu tradotta in francese dall’ Yverdun;  ed è certamente opera notevole per la profonda conoscenza che dimostra della letteratura estetica straniera, specie francese ed inglese, e  per lo strano miscuglio che, come ne’ Saggi politici pubblicati quel  2 di luglio 1811) al conte Giuseppe Zurlo, capo della pubblica istruzione, versando sulla riforma dello studio  dell’eloquenza ». Scopo del libro era quello di mostrare  che, più degli aridi precetti de’ retori, una felice disposizione  della natura, il genio, l'entusiasmo, la conoscenza del  mondo ed un ricco corredo di cognizioni filosofiche formano l’uomo eloquente ». Questa, dice il Marinelli nella  sua dedica, è una teoria da me già dimostrata ad evidenza ». (Dove dimostrata, se non nelle sue lezioni ?)  Pure a giudizio di alcuni essa sembra ancora un problema ». Da qui parrebbe che il suo insegnamento avesse  suscitato qualche critica e forse anche un certo scandalo.  Che insegnava egli dunque ?  Un cenno di questo libro  non si riterrà fuor di luogo, se si tien conto delle felici  osservazioni che vi abbondano e la grande rarità di esso.    l’anno stesso dal Pagano, vi si fa, delle idee del V. con quelle dei  sensisti. La menziona il CROcE nelle sue Varietà di storia dell’estetica,  nella Rassegna crit. di lett. ital. del Pércopo, VII (1902) p. 5 (poi in  Probl. di estetica e contributi alla storia dell’estetica italiana, Bari, 1910,  p. 385), ma merita uno studio particolare. In quest'opera però la rettorica è elaborata filosoficamente, ma non è criticata. Il libro non ha  altro che il titolo in comune con la Filosofia del Marinelli.   Un lavoro sull’A. fu pubblicato nel 1905 dal prof. F. DE SIMONE  BroUWER, Franc. Ant. Astore, patriota napoletano, nei Rend. dei Lincei,  Sc. mor., serie 58, vol. XIV, 299-315. L’Astore fu in amicizia con Gennaro V., com'è dimostrato da una sua letterina pubblicata dal DE SiMONE, p. 303, dov’ è detto:  Vi acchiudo due esemplari di certe bagattelle  poetiche.... di un vostro amico.... il quale.... ve ne presenta un esemplare  per vostro uso.... L'altro esemplare al nostro signor V. ».   Insieme coi libri del Marinelli e dell’Astore può esser ricordato il  Saggio filosofico sull’eloguenza dell’ab. GrusEPPE GENTILE (Siracusa, Pulejo, 1795, 2 voll.). Ne ho potuto vedere soltanto il 2° volume, dove l'A.  si dimostra un sensista, e si riferisce più d’una volta all’Astore.  Questo  saggio », dice D. ScINÀ (Prospetto della storia letteraria di Sicilia nel secolo XVIII, Palermo, 1824-27, III, 440-4I),  è modellato sul Batteux,  e su quelli francesi, che scrivono di eloquenza più colla teorica, che col  sentimento, e più colla metafisica che col gusto; e come manca di quel  senso delicato, vero e naturale che ci fa il bello sentire; così avviene  che di sugose osservazioni scarseggi, e venga nella scelta degli esempii  non di rado a fallare. Cioè non di meno, se il Gentile non è atto a formare degli oratori o pur de’ poeti, ha il pregio di tener lontani i giovani  dalla pedanteria ».    È diviso in due parti, una negativa, Del vero carattere  dell’eloquenza, in cui l’autore critica la vecchia rettorica;  e una positiva, Vedute filosofiche intorno alla scienza del  comporre, che espone le dottrine critiche del Marinelli.  L'esposizione procede per considerazioni aforistiche ed  epigrammatiche; ed è più una serie di appunti, che una  trattazione vera e propria.   Rilevata l’importanza del linguaggio nello sviluppo  dello spirito, accennati gli effetti per esso conseguibili  quando tocchi il grado dell’eloquenza, l’autore afferma che  questi effetti  annunciano la forza ed il potere di un’anima  che signoreggia sulle anime mercé l'ascendente della parola » +. E nota subito:  Quel che evvi però di singolare  si è, che alcuni hanno creduto supplire colle regole ad un  talento sì raro. Ciò sarebbe, a parer mio, lo stesso che  il ridurre, se si potesse, il genio a precetti. E colui che  ha preteso il primo, che gli uomini eloquenti si debbano  all’arte, o 11 dono della parola certamente non possedeva,  o era molto sconoscente ed ingrato verso la natura ».  La natura sola fa l’uomo eloquente. Gli ornamenti studiati delle rettoriche hanno rispetto all’eloquenza il valore”  della scolastica di fronte alla vera filosofia.    Qual cosa, infatti, più triviale quanto il professare e mettere  in pratica un’eloquenza sì ridicola ? Figure ammonticchiate,  grandi parole, che non dicono nulla di grande, movimenti imprestati, che non partono dal cuore, e che per conseguenza non vi  giungono giammai, non suppongono al certo nell’autore e nel  maestro alcuna elevazione di spirito, alcuna sensibilità. Ma la vera  eloquenza essendo l'emanazione di un’anima ad un tempo semplice, forte, grande e sensibile, bisogna in sé concentrare tutte    I L’ULLOA (Pensées, 1, 114),  il quale dice anche lui, che questa  Filosofia dell’eloquenza ne manquait pas d’apergus nouveaux et intéressants » (1, 116),  a proposito dei discorsi letti dal Marinelli nella  Pontaniana nota che in quel tempo la conduite des écrivains était inégale et incorrecte. À ce défaut près, l’auteur a de la méthode, de l’érudition et du jugement.]  queste qualità per dar precetti ed eseguirli. Poiché, diciamolo pur  con franchezza, chi è penetrato vivamente dal bello, dal sorprendente, dal sublime, lungi non è dall’esprimerlo !.    I precetti non hanno prodotto mai nessun capolavoro.  Infatti i grandi scrittori sono d’accordo nel dire che  gli  squarci più sorprendenti delle loro opere hanno quasi sempre loro costato minor fatica, perché sono stati ad essi  come ispirati, producendoli. L’eloquenza è nata avanti le  regole della rettorica. Cmero sparso avea di tratti sublimi  e magnifici i suoi poemi divini, ed il teatro greco vantava  un Eschilo, un Sofocle ed un Euripide, prima che lo stile  sublime fosse stato definito da Demetrio Falereo, ed il  filosofo di Stagira prescritto avesse regole sulla tragedia ».  La rettorica v’insegna l’uso della figura: ma il popolo  stesso usa il linguaggio figurato, e nulla più frequente  dei tropi sulla sua bocca.   Come nelle leggi la lettera uccide e lo spirito vivifica,  così le teorie rettoriche sono diventate altrettante gravi  catene, di cui si è caricato il genio. Le istituzioni dei retori  moderni, modellate su quelle degli antichi,  rigurgitano  di definizioni, di regole e di particolarità, necessarie forse  per leggere con profitto gli oratori latini, ma assolutamente inutili e contrarie anche al genere di eloquenza,  che si professa ai giorni nostri ». Questi retori, « fanatici  per l’antichità che si millantavano di conoscere, ci dettero  per modelli tutto ciò ch'essa ci ha lasciato, e posero, senza  discernimento, l’esempio, e l’autorità al luogo del sentimento e della ragione ». Leggi ce ne saranno, ma bisogna  ricavarle dagli stessi  principii delle cose », dallo studio  degli uomini, della natura e delle arti medesime. Non devono essere regole, a cui il genio abbia da sottomettersi  servilmente, senza il diritto di scostarsene ogni volta che  ZII  gli siano di peso e d’imbarazzo. Abbia egli la regola per  far bene, ma anche la libertà, per far meglio. Il Gravina  avrebbe voluto che il Metastasio  radesse il suolo, schiavo  della regola, quando era fornito di penne per tentare un  volo di Dedalo, ed apprendesse le leggi del teatro dalle  usanze de’ greci, quando, per ispirazione di Melpomene,  st leggeva l’arte dentro il suo cuore ». Fortuna che la  natura la vinse sull’autorità del maestro! La scuola lo  rese autor del Giustino; il genio ne fece un classico ».  Sicché le opere artistiche bisogna giudicarle non dalle  imperfezioni e dalle quisquilie che vi si rinvengono, ma  dalle bellezze che vi brillano ». Detto profondo e, almeno  per l’ Italia, novissimo. Il De Sanctis ne farà un principio  fondamentale della sua critica.  Il poema di Klopstock »,  dice il nostro Marinelli, è forse meglio condotto della  Eneide; ma venti bei versi di Virgilio sopraffanno tutta  la regolarità della Messiade. I drammi di Shakespeare e  la Divina Commedia di Dante hanno delle imperfezioni  barbare e disgustevoli; ma a traverso di quella densa  caligine folgoreggiano quei tratti di genio che eglino soli  potevano avventurare ». Lasciate libera da ogni freno  l’immaginazione; lasciate saltellare e correre a suo  bell’agio quel destrier generoso; esso non è giammai sì  bello quanto ne’ suoi traviamenti .... Abbandonato a se  stesso, alle volte cadrà certamente; ma che ? anche nella  sua caduta conserverà quella fierezza e quell’audacia che  perderebbe colla libertà.   La turba dei retori definisce l’eloquenza: l’arte di  ben dire acconciamente per persuadere ». Meglio il  D’ Alembert: il talento di far passare con rapidità, ed  imprimere con forza nell’anima altrui il sentimento profondo di cui siamo penetrati ». In tutte le lingue vi sono    I Pagg. squarci eloquentissimi, che non provano nulla, e quindi  non si può dire che siano atti a persuadere; eloquenti sono  perché scuotono potentemente chi legge od ascolta.  Quando Andromaca fa a Cesira il quadro dell’esterminio  di Troia, o le rammemora il congedo che da lei prese  Ettore sul punto di andare a battersi con Achille, non ha  certamente disegno di persuaderla. Ella geme e, piena  del dolore che la desola, cerca di aprire agli altri il suo  cuore esulcerato ». C'è l’'eloquenza poetica e l’eloquenza  prosaica, non tanto diverse, che, attingendo le loro  ricchezze nella medesima sorgente, non si ravvicinino  qualche volta, non si tocchino, non si confondano ».   La distinzione tra poesia e prosa è propriamente distinzione tra arte e scienza: delle cui attinenze il Marinelli  ha un concetto prettamente vichiano. I poeti classici  precedono sempre i prosatori; ed  è agevol cosa a trovarne  la ragione. La poesia non è che l’opera della fantasia e del  sentimento. Or i popoli che sortono dalla barbarie, avendo  idee ristrette e limitate, sono per conseguenza sommamente immaginosi. Ciò osservasi di leggieri nei fanciulli  che un simulacro sono de’ popoli selvaggi. Al contrario,  la prosa richiede intelletto e spirito di osservazione.  Quindi negli uomini sviluppandosi più presto quelle prime  facoltà, che i talenti, i quali suppongono la maturezza  del giudizio, è avvenuto che l’eloquenza pcetica ha sempre  fiorito prima della prosastica in tutte l’epoche della letteratura ».   Dopo di che fa veramente meraviglia che il Marinelli  si affanni a dimostrare che la filosofia, lungi dal nuocere,  giova anzi moltissimo alle produzioni del genio », e che  il più bello squarcio di eloquenza, se manca del fondo  di verità che vien compartito dallo spirito filosofico,  rassomiglia a quel fiorellino, che, pompeggiando in mezzo  al prato, sorprende i primi sguardi, ma, appena colto,    langue e si scolora ». Miscuglio di falso e di vero, in cui  senti l’influenza della filosofia di moda, come là dove Dio  non è altrimenti nominato che  Ente supremo » da questo  curioso prete della rivoluzione, il quale si dice amasse  vestire sempre da laico *.   Pure, un fondo di verità, per dirla con lo stesso Marinelli, nel suo pensiero c’è; e si scopre subito, quando  l’autore soggiunge che  per sentire il pregio dell’espressione, bisogna, come i Platoni, i Montaigne, i Baconi da  Verulamio, i Montesquieu e i Filangieri, unire l’arte di  scrivere all’arte di ben pensare ».   Non si respira qui l’aria romantica ? Da anteporre a  tutti gli studi dei libri, il più utile e 11 più necessario,  lo studio degli uomini e della vita.   Volete conoscere gli uomini ? Vedeteli da vicino, ascoltateli, osservateli continuamente:  Una parola, un colpo  d'occhio, un atteggiamento, un gesto ed il silenzio stesso  è alle fiate quel che dà la vita, l’espressione » ?.   Non sta negli ornamenti estrinseci il vero pregio di  un’opera d’arte: il capolavoro, spogliato di essi, conserva  tutto il suo interesse. Vuole lo scrittore rendersi interessante ? S’investa bene della parte sua, ed esamini a  fondo le cagioni e gli effetti degli avvenimenti. Quando  una volta si è renduto padrone della sua materia; quando  si è investito del carattere che dee rappresentare; quando  la sua anima si è riscaldata, per così dire, ai riverberi  della sua immaginazione; quando essa è montata al livello  del soggetto e delle circostanze, la sua eloquenza è tale  quale convien che sia. Ella si esprime con nettezza. Il valore del sentimento interiore si spande su tutto il suo  discorso ». Sobrietà, sopra tutto, e naturalezza. Se un sol    I CROCE, La Rivol. napol.] tratto ha espresso una passione violenta, ogni aggiunta  non fa che guastare. Romantica è anche l’idea del Marinelli, che bisogna  essere originali, ma che, se avete disegno di depredare  le idee altrui, siano almeno quelle, che non alla vostra, ma  all'estere nazioni si appartengono .... Trasporterete tra i  vostri nazionali un nuovo fondo di dottrine, e dilaterete  così la sfera delle loro cognizioni ».   C'è ancora in questo libretto, certamente, molto vecchiume rettorico; ma c’è pure una tendenza, che ha una  importanza storica notevole; e qua e là lampeggia un  ingegno critico non comune.    I A questo proposito il Marinelli fa una critica del Laocoonte di  Virgilio, la quale dimostra buon gusto, acume e libertà di giudizio  (PP. 73-4).   Aggiungerò qui in nota che negli Atti della Società Pontaniana (alla  quale il Marinelli appartenne come socio residente), vol. I, Stamp.  Reale, 1810, 93-120, e 213-39, sono due memorie del Marinelli:  Cagioni dei progressi straordinari dei greci nella letter. e nelle belle arti,  letta ai 20 dicembre 1808; e Origine e progressi della letter. e delle belle  arti presso 1 Romani, letta nella sed. de’ 30 maggio 1809. La prima  è una dimostrazione di quell'amore della bellezza che i greci portarono  in tutte le forme della loro attività. Curioso questo brano in cui si  vuol spiegare la semplicità greca: I greci erano semplicissimi, per la ragione ch’essendo repubblicani, esser dovevano più liberi  e generalmente popolari.  Sì, quella libertà ch’eleva l’animo dei cittadini, fu la prima cagione che contribuì allo sviluppo di quel popolo  classico, poiché la forma del governo influisce essenzialmente sulle  arti e sulle scienze di tutte le nazioni. I sovrani che, rispettando il  codice eterno della natura, lasciano ai sudditi la porzione della libertà  ch'è loro necessaria per illuminarsi, bisogno non hanno di minacce  e di catene per tenerli a freno, né innalzar debbono baluardi sulle frontiere per garentire lo stato dagli insulti stranieri. Il genio, il valore,  i lumi e la virtù sono i figli della libertà ».   La seconda memoria è un abbozzo di storia letteraria romana. A  p. 215 n., l’A., a proposito dell’origine greca delle leggi delle XII tavole, dice:  Non s’ignora che Giambattista V. nella sua Scienza  Nuova intorno alla natura delle cose (sic) ha messo in forse questo  fatto; ma il dotto avvocato Antonio Terrasson in una delle sue memorie inserita negli atti dell’Accademia delle Iscrizioni, tomo XII, l’ ha  difeso in modo, che sembra non potersene più dubitare ».  Pur citando il Terrasson (Sulle leggi delle XII tavole), il Cuoco, invece, nel  suo Platone, $ LXIV, aveva sostenuto con acume e con brio la tesi  vichiana.  DALLA RIFORMA DEL ALLA FINE DEL REGNO. Una Filosofia dell’eloquenza aveva proposta nel 1809 un altro molisano d’ingegno,  intelletto  veramente superiore,  nel piano degli studi universitari,  al luogo della cattedra del Ciampitti (Eloquenza  antica e moderna)e di quella del Marinelli, il cui  titolo era propriamente, come s’è veduto: Letteratura  antica e moderna. Il Rapporto e progetto di legge  presentato nel 1809 a G. Murat dalla Commissione straordinaria pel riordinamento della pubblica istruzione nel  Regno di Napoli, di cui fece parte quello spirito illuminato di Melchiorre Delfico, ma fu relatore e vero autore  Vincenzo Cuoco, è il documento pedagogico e scientifico  più notevole, in cui ci sia accaduto d’incontrarci in questa  nostra ricerca. Questa scrittura del potente scrittore di  Civitacampomarano, insieme col Saggio storico sulla rivoluzione napoletana, è anzi, vorrei dire, ciò che di più notevole  produsse il pensiero napoletano in quegli anni agitati  tra il 'gge il ’20. Tra i letterati e professori del suo tempo  il Cuoco grandeggia in questo Rapporto come un alto  spirito solitario, giacché egli si rannoda direttamente al  pensiero d’un grande morto, rimasto nome sacro ma  incompreso per tutto il periodo che abbiamo qui addietro  percorso, e per cui si distese la vita presso che vuota  di Gennaro V.. Il nome del padre di costui ricorre in  questo scritto più d’una volta. Sono esplicitamente richiamate alcune delle idee più geniali dell’ Orazione De nostri  femporis studiorum ratione*. Ma quando gli accade di    I V. Cuoco, Scritti pedagogici ined. o rari racc. e pubbl. con note  e appendice di docc. da G. GENTILE, Roma, Albrighi, Segati menzionare la Scienza Nuova, l’autore esce a dire di essa:   Una delle opere le più ardite che lo spirito umano abbia  tentate; e se quell’opera non ha prodotto ancora tutto  quello effetto che dovea produrre, ciò è solo perché era  superiore di mezzo secolo all’età in cui fu scritta. Ma è  degno di osservazione, che le idee di V. vanno sbocciando  nelle menti altrui, a misura che la filosofia dell’erudizione  progredisce; e si spacciano da per tutto molte teorie come  novità, mentre non sono altro che semplicissimi corollari  della dottrina di V.. Noi non ne facciamo l’enumerazione, perché forse potrebbe dispiacere a molti, i quali  saranno inventori di quelle cose, delle quali potrebbero  esser creduti plagiari:, se mai le opere di V. fossero  tanto note, quanto meriterebbero di esserlo. Quello però  che possiam dire con sicurezza si è, che la dottrina di  V. è nota e adottata quasi tutta intera nelle sue applicazioni; ma n’è rimasta oscura la teoria generale, da cui  tali applicazioni dipendono, e da cui sl possono rendere  più ampie e più certe » ?.   Il Cuoco non è certo un plagiario del V., né anche  in questo Rapporto 3: dal V. trae ispirazioni e germi  fecondi di pensiero nuovo. Un esame dell'intero scritto    p. 98. Lo scritto del Cuoco nella cit. Collez. delle leggi e decr. della P.I.  (dove fu ristampato nel vol. I) è riferito al 1811. Il RUGGIERI, o. c.,  p. 61, lo riferisce al 1812. Ma documenti inediti dell'Archivio di Stato  di Napoli (da me pubblicati nel volume Scritti pedagogici inediti  o rari, 251-6) ci attestano che il Rapporto e il Progetto risalgono  al 1809. Si vegga ora in Scritti varii del Cuoco, II, 1 sgg.   I Il Cuoco non prende questo termine nel senso ora corrente: ma vuol  dire ripetitori, non originali. Intorno a questa fortuna delle idee vichiane  si può vedere del Cuoco l’Abbozzo di lettera al De Gérando, pubblicato  dal RUGGERI, 186-99 (cfr. sopra, 287-88), e una sua Pagina  inedita data in luce da M. Romano nel vol. Scritti di storia, di filologia e  d’arte (Nozze Fedele-De Fabritiis), Napoli, Ricciardi, 1908, 181-92.   2 O. c., 132-3.   3 Sui rapporti del Cuoco col V. si può anche vedere quel che ne  ho detto nella Critica del 20 gennaio 1904, III, 39 sgg.; nel mio Saggio  su V. C. pedagogista, che sarà prossimamente ristampato con la mia  Commemorazione di V. C., 1924 [ora in V. Cuoco?, vol. XXII delle  Opere di G. GENTILE, Firenze, Sansoni, 1964 (n. dell’ed.)].  sarebbe qui fuor di luogo. Tuttavia non è possibile, prima  di vedere il disegno che il Cuoco propone e propugna per  l'insegnamento letterario dell’ Università, non dare anche  uno sguardo alle sue profonde osservazioni sull’insegnamento letterario nella scuola media. Il Cuoco inizia per  questa una riforma capitale, mettendo a capo di tutte le  materie da insegnarvi la lingua italiana, della  quale nelle scuole mezzane non s’era pensato ancora a far  oggetto di studio speciale 1. E bisogna sentire come ragiona la sua proposta. Il linguaggio », egli dice, non è  solamente la veste delle nostre idee, siccome i grammatici  dicono, ma n’è anche l’istrumento. La prima lingua  che noi dobbiamo sapere, è la propria. L'educazione  de’ nostri collegi dava troppo, ed inutilmente, allo studio  grammaticale delle lingue morte. Le lingue non sì possono    1 Dopo la cacciata dei gesuiti, la riforma fatta nel 1770 dal Tanucci,  che ordinò in Napoli il collegio del Salvatore e altri reali collegi in  Aquila, Bari, Capua, Catanzaro, Chieti, Cosenza, Lecce, Matera e Salerno, restrinse ancora tutto l’ insegnamento letterario al latino e al  greco. Vedi il Regolamento degli studi del Collegio napoletano del SS.  Salvatore e de’ Collegi Provinciali, in DE SARIIS, lib. X, tit. VI,  (pp. 53-54) e nelle Prammatiche De reg. studiorum (pp. 42-50). Vedi  pure le Istruzioni per le scuole del Salvatore e delle Provincie, anche  del Tanucci (1771), nelle stesse collezioni. Solo per i convittori  del convitto in queste istruzioni si stabili un'ora al giorno di  scuola particolare perlostudio delle lingue italiana, francese e spagnuola, in due soli anni del corso, che era di otto; fuori,  dunque, del programma comune. Nell’ istituzione dei collegi il Tanucci  fu detto seguisse i consigli di Ferdinando Galiani. Vedi la Vita dell’ab.  F. Galiani di L. DiopaTI, Napoli, Orsino, 1788, 35-6. Nelle Lettere di  F. Galiani a B. Tanucci, Napoli, Pierro, 1914, pubblicate da NICOLINI ce n’ è infatti una da Parigi, 4 gennaio 1768, riguardante gli  istituti d’ istruzione che si dovevano fondare dopo l’espulsione dei gesuiti. Rispetto al metodo, l’ab. Galiani dice solo che si potrà dar la  cura di distenderne il piano ai più valenti professori dell’ Università;  ma intanto che si faccia, si potrà senza esitazione servirsi di que’ regolamenti distesi dal sig. E. Ferdinando di Leon, Commissario di Campagna per il nuovo Collegio di Sora, messo sotto la sua cura. Kegolamenti, che fan conoscere non meno l’adequatezza e acume della mente,  che le profonde cognizioni di questo Magistrato. Tutti gli altri regolamenti dal medesimo pensati per il vitto, vestito, distribuzioni di ore ecc.  di quel Collegio, meritano d'esser a parer mio con applauso adottati. apprendere bene per via di grammatiche e di vocabolari;  lo avverte benissimo il proverbio: alzud est grammatice,  aliud est latine loqui; e l’esperienza giornaliera lo conferma.  I precetti della grammatica in ogni lingua sono pochi e  semplici; e tra le grammatiche la più breve è sempre  la migliore. Lo studio della lingua, e non già della grammatica, deve esser lungo; ma ogni studio soverchio, che  si dà alla grammatica, è tolto al vero studio della lingua,  la quale non si apprende se non colla lettura e retta  imitazione de’ classici ».   Tanto buon senso non dico che precorre il tempo del  Cuoco; perché troppi ancora non ne sono capaci. Certo,  meglio del Cuoco oggi non si potrebbe dire su questo  punto.  Noi diremo anche di più », continua il Cuoco:  rende più facile lo studio delle lingue morte il saper  bene la propria e vivente. Tutte le lingue hanno un meccanismo comune, il quale dipende dalla natura comune  delle menti umane ». Da questo principio vichiano il  Cuoco desume che quella che occorre studiare è, a proposito della lingua nostra, una grammatica generale, una  grammatica con metodo filosofico, che faciliti l'apprendimento delle altre lingue. Allo studio dell’italiana vuole unito quello delle lingue  classiche, perché  quando esse si potessero senza danno  e senza vergogna ignorare dagli altri popoli, non si debbono ignorare da noi ». Ma con lo studio delle lingue (tra  cui non crede trascurabili le moderne, sopra tutto la francese) il Cuoco intende che vada di pari passo la lettura  dei classici, così latini e greci come italiani:  E questa  continuerà per tutto il tempo delle scuole; e perché non  per tutta la vita ? Sarà cura della Direzione ? il fare una    I Il Cuoco doveva avere in mente la Grammatica generale del Du  Marsais, che cita infatti poco dopo a proposito dei tropi.   2? Avrebbe dovuto essere (Progetto di Decreto, art. 4) un ufficio  preposto a tutta la P. I., alla dipendenza del Ministero dell’ Interno. ripartizione dei nostri classici; onde ve ne siano degli  adattati alla diversa età e capacità dei giovanetti: sarà  cura de’ professori manodurli in questa lettura, più utile  di qualunque lezione; renderla più utile ancora colle imitazioni, colle versioni, e con tutti quegli altri generi di  esercizi scolastici, de’ quali, siccome notissimi, non occorre  parlare ».   Il concetto, come ognun vede, giu-tissimo, del Marinelli. Ma dove si nota anche più la modernità del Cuoco,  è nei colpi che dà alla vecchia carcassa della poetica e  della rettorica. Bisogna riferir questo luogo, che è un  documento storico di molto valore:    Noi non parliamo particolarmente della poetica e della rettorica. Nella prima il meccanismo della versificazione è tanto facile  ad apprendersi, che bastano quattro o cinque lezioni nel finir della  grammatica, seguendo il metodo degli antichi, che tali lezioni  alla grammatica solevano unire. Ma quanta distanza vi è fra il  conoscere il meccanismo della versificazione, ed il saper fare de’  bei versi ? E quanta ancora dal far dei bei versi al fare un bel  poema? Tutto ciò non si fa, se non a forza di genio e di bene intesa  imitazione de’ grandi esemplari.   Lo stesso dicasi per la rettorica. Che s’ insegna colle rettoriche  ordinarie ? L’invenzione, quasi che l’inventare consistesse in altro, che nel paragonar due idee, che già si hanno,  per farne sorgere una terza, che non si ha ancora; e quasi potesse inventare chi non ha idee, e non ha acquistato, a forza di  esercizi matematici e logici, quella versatilità, che è necessaria per  farne più rapidamente i paragoni! La disposizione, quasi  che il disporre abbia altra ragione, che quella di ordinar le idee  ed i sentimenti in modo, che producano il massimo effetto possibile; e quasi che questo non sia l’ultimo risultato della più profonda  cognizione del cuore e dell’ intelletto umano! L’elocuzione,  quasi che la forza intrinseca, principale dello stile, non dipenda  dalla varia associazione e coordinazione delle idee! Che rimane  dunque in quella, che chiamasi rettorica? L'esposizione  delle figure delle parole, o sia de’ t ro pi, la cognizione de’ quali  appartiene alla grammatica, ed è di sua natura tanto facile,  che il più grande forse, e certamente il più filosofo degli scrittori,    che ne han trattato (Du Marsais), ha dimostrato, che que’ modi,  che noi sogliam chiamar figurati, sono i modi più naturali di esprimerci !. Che altro finalmente ? La nomenclatura delle  varie parti di un nostro discorso: nomenclatura, chesi  può apprendere, e si apprende benissimo, anche senza maestro;  perché si richiede ben poco a sapere, che quando taluno racconta,  fauna narrazione, quando descrive fa unadescrizione.  È tutto questo materia sufficiente per un corso particolare di  lezioni ?   AI risorgere delle lettere ci ha nociuto la mala intesa imitazione  degli antichi: abbiam ritrovati di essi alcuni trattati particolari  sopra talune parti della rettorica, sull'invenzione, sui  tropi, sull’elocuzione..: gli abbiamo compendiati, gli  abbiamo riuniti, e ne abbiam formato un corpo di scienza, che  abbiam destinata pe’ giovinetti. Avean destinati ai giovinetti i  loro libri anche gli antichi ? Aristotele non parla di rettorica al suo  grande allievo, se non dopo i più profondi studi di morale e di  politica; e l’opera rettorica, che di lui abbiamo, ben dimostra che  non poteva esser diversamente: essa non potrebbe intendersi da  un giovine di collegio. Tutta la scuola platonica credeva non esservi,  propriamente parlando, alcun’arte rettorica; e che il saper bene  parlare non altro fosse, che il saper ben pensare e vivamente  sentire. Ed alla scuola platonica non si può per certo rimproverare  di disprezzare ciò che non sapeva. Cicerone ha voluto difendere  contro Platone la sua arte; ed ha voluto dimostrare, che l’oratore  ha bisogno di qualche altra cosa, oltre del sapere. La disputa forse  non è ancora decisa; ma lo stesso Cicerone non ha potuto negare,  che all’oratore il sapere era indispensabile.... Perché invertiamo  l'ordine della natura, e vogliamo insegnare a parlare a coloro che  non ancora sanno pensare ? Onde poi ne avviene, che i giovani  de’ nostri collegj sanno tutto Cygne ? e tutto De Colonia, e non  sanno scrivere un biglietto? Perché turbiamo la classificazione delle  scienze, e riuniamo alla rettorica ciò che deve esser il risultato  di altri studi, i quali sono egualmente necessari ? Perché finalmente non imitiamo i grandi esempi ? Presso gli antichi, lo studio  dell’eloquenza era l’ultimo di tutti; e Cicerone aveva compiuti  tutti suoi studi, quando si esercitava sotto Molone. Cfr. CROCE, Estetica 3, 502-3.  2 Cioè l’Ars rethorica (1659) tante volte ristampata, di CYGNE, gesuita. Il libro del De Colonia è più noto. Vedremo subito quale sia questa eloquenza che il Cuoco  rimanda a studi superiori. Ora voglio notare soltanto, che  questo assalto alla rettorica non è mosso da quello spirito,  per cui certamente l’avrà approvato M. Delfico, da quel  filosofismo astratto che era al fondo della cultura di costui,  ma era solo una verniciatura di quella del Cuoco, e che  dichiarò anch’esso guerra alle regole, alle tradizioni, alle  pedanterie. Il Cuoco era altra tempra intellettuale: il suo  libro è la Scienza Nuova. Basterebbe leggere, per accertarsene, ciò che dice con profondità da cui rimangono  ancora assai lontani i compilatori di certi non ancor dimenticati programmi e pedagogisti della scuola media. Basta  anche notare questa sua osservazione: La storia deve  esser collezione di fatti, e non di riflessioni: quindi non  sono del tutto lodevoli quelle tante istituzioni di storie che  coi titoli pomposi di filosofiche, si sono pubblicate  in questi ultimi tempi, per uso de’ giovinetti. Se fate  che le riflessioni precedano i fatti, voi non date più storia,  ma riflessioni: e siccome la storia tiene nelle cose morali  il luogo dell’esperienza, voi rassomigliate ad un maestro  di fisica, il quale in vece di esperienza dia sistemi, in  vece di dati dia conseguenze». Questo era genuino  pensiero vichiano; era la buona tradizione paesana.   Prima che queste idee del Cuoco nella scuola trionfino,  passeranno ancora diecine d’anni. Bisognerà aspettare  F. De Sanctis che dia mano, nella scuola di V. Bisi,  alle lezioni sulla rettorica, o piuttosto sull’anti-rettorica »; per insegnare  allora per la prima volta a una  gioventù che ascolterà plaudente come alla rivelazione  della verità  che la rettorica ha per base l’arte del  ben pensare, e perciò non può insegnarsi che ai già provetti nelle discipline filosofiche »; che essa fu  una invenzione e quasi un gioco dei sofisti» e produsse l’indifferenza verso il contenuto e il disprezzo della verità »; che  le regole rettoriche non hanno la loro verità che nelle forme del pensiero, materia della logica. Ma, come la rettorica non ti dà il ben dire, così neppure la logica ti dà il  ben pensare, essendo le sue forme staccate da quel centro  di vita che si chiama lo spirito »!: che la parola non  manca a chi ha innanzi viva e schietta la cosa », e che  bisogna perciò studiare le cose con serietà e libertà d’intelletto. E così rinnovare la critica delle figure rettoriche  e conchiudere  proprio come il Cuoco nel 1809  che la  rettorica svia da’ forti studi, guasta l’intelletto e il  cuore », e che bisogna buttare al fuoco tutte le rettoriche,  e che ci vuole il verbum factum caro, la parola fatta  cosa » =. Il De Sanctis rifarà da sé il cammino: ma l’indirizzo di pensiero, da cui trarrà i motivi della sua critica,  sarà pure una continuazione di quello del Cuoco, a lui  per questo rispetto rimasto ignoto.   Ma tutto il pensiero del Cuoco si compie in ciò che  egli dice dell’insegnamento universitario. Egli propone   era la prima volta  la costituzione d’una speciale Facoltà  di Belle lettere e filosofia;ela vuole anzia  capo di tutte (lasciando le altre cinque del 1806, ma in  un ordine diverso 3). In essa, oltre l’ideologia e  l’etica, o teoria de’ sentimenti morali  (nell'ordinamento del 1806, l’etica religiosa e filosofica »  era stata aggregata alla Facoltà di teologia, e nella Facoltà  di filosofia s’era istituita una cattedra di logica e metafisica, rimasta immutata fino al 1860), chiede una disciplina  filosofica del tutto nuova: quella dell’eloquenza,    I  Per imparare a ragionare », aveva detto il Cuoco nel Rapporto  (Scritti, p. 94), è necessità aver ragionato ». La logica non insegna  a ragionare, ma a riflettere sulle operazioni logiche dello spirito.   ? Vedi per tutto ciò La giovinezza di F. De Sanctis, cap. 25, 252-3,  254, 250-7.   3 Cioè: 2) scienze matematiche e fisiche; 3) medicina; 4) giurisprudenza; 5) teologia. A quest’ultima, oltre l’esegesi e la storia, non lasciava che la  teologia dogmatica e morale evangelica ». Vedi il Prog.  di Decreto, artt. 46-59; negli Scritti, 197-200.  o, per meglio dire, della filosofia dell’eloquenza, la  quale chiamar si potrebbe il complemento della filosofia  istrumentale ».   Contro la sua proposta il Cuoco prevede due sorta opposte di avversari:  Alcuni troveranno questa cattedra  inutile, perché contraria agli antichi metodi d’insegnare la  rettorica; altri, perché per mezzo di essa non si faranno  mai degli uomini eloquenti ». Ma ai primi la risposta è  facile. È da qualche tempo, che la filosofia si è impadronita  delle materie dell’eloquenza. Questa che i pedanti vorrebero far credere un’usurpazione, non è che una legittima  rivindica di ciò che la filosofia possedeva nei tempi antichi ». E accenna quindi compendiosamente quanta luce la  filosofia avesse fatta sulla vecchia materia empirica della  rettorica. Ritorna col Du Marsais (ma un Du Marsais  cuochiano, o vichiano che si voglia dire) a rilevare gli  errori degli antichi teorici. E dopo aver disegnato a grandi  tratti il quadro di tutto ciò che la filosofia ha operato  sull’eloquenza », entra in un ordine di considerazioni più  fondamentale e più opportuno :    Diremo che tutto ciò non sia che visione ed errore ? Questo  sarebbe duro a dirsi, durissimo a credersi; ma, quando anche si  dicesse e si credesse, non basterebbe. Quando anche tutte le osservazioni finora fatte fossero false, non ne verrebbe perciò, che non  se ne dovessero fare delle vere; perché non ne verrebbe mai che  i precetti potessero rimaner senza ragioni. E se queste ragioni si  debbono ricercare, poiché esse non altronde si possono trarre che  dalla natura dell’uomo, ne verrà sempre che, abbandonate le  officine de’ retori, siccome diceva Cicerone, si debba ritornare  alle accademie de’ filosofi. È vero, i pedanti perderanno il diritto  di censurare il Tasso, perché avea messo il canto al principio  del verso, mentre Virgilio l’avea messo nel mezzo; i sonettisti,  imitatori del gran Petrarca, non spingeranno la servile imitazione  fino al punto di comporre lo stesso numero di sonetti, di canzoni,  di sestine, di ballate, o d’ innamorarsi anche essi di venerdì santo;  i precetti cesseranno di esser esempi, il che è sempre o servile,  se non vi discostate dall’originale, o pericoloso, se volete al tempo istesso e discostarvene ed imitarlo; il genio avrà un campo più  libero a correre, ed avrà sempre la ragione per guida. Ecco la  differenza tra la rettorica ordinaria e quella che da noi si propone.    Non è un’affermazione netta: ma chi non vede che cosa  avrebbe dovuto essere questa teoria razionale dell’arte,  questa filosofia ? La critica filosofica della rettorica conduceva dove doveva condurre: all’estetica.   Il Cuoco conviene cogli altri oppositori, che questa sua  rettorica non formerà mai l’uomo eloquente. E quale  altra mai lo potrebbe ? Non vi è eloquenza, ove non vi è  ricca vena di pensieri e di affetti ». Ma non è questo il fine  di tale insegnamento. La gioventù ne’ suoi primi anni  non si esercita che a sentire le bellezze dei grandi modelli  e ad imitarle: quando avrà già molto sentito, incomincerà  a riflettere sulle proprie sensazioni; e questa riflessione,  lungi dall’infievolire o distruggere le prime sensazioni, le  conserva e le rinvigorisce. I giovani si arresteranno a  riflettere sul bello ».  Saranno eloquenti, se la natura gli  avrà fatti tali; e se la natura tali non gli avrà fatti, almeno  non saranno né stentati, né affettati, per imitare le parole,  i perlodi, lo stile di un antico, che esponeva idee ed affetti  diversi dai loro; saranno semplici ed originali, il che è  grandissima parte di bello ».   Insomma, non doveva essere una precettistica, ma una  teoria: cioè, per l'appunto, l’estetica. Lo studio degli  scrittori, a cui, non i soli letterati, ma tutte le persone  colte devono essere iniziate, nei ginnasi; e nell’ Università  questo  studio profondo della teoria dell’eloquenza restituito alla filosofia ».   Il Marinelli, conterraneo del Cuoco, liberale moderato  come il Cuoco, suo compagno d’esilio a Marsiglia 1, quando    I Anche il Cuoco, com’ è noto, fu esiliato dalla Giunta di Stato  nell'aprile 1800, e dové partire per Marsiglia, dove nel marzo l’aveva nel luglio 1811 pubblicava la sua Filosofia dell’eloquenza,  si può credere che non ne avesse già a lungo discorso  con l’autore del Rapporto ? Il libro pare pubblicato col  fine di ottenere la nuova cattedra, qualora le idee del  Cuoco fossero trionfate. A ogni modo, le attinenze del  pensiero del Cuoco col libro del Marinelli, dopo tutto ciò  che si è detto, sono innegabili.   La sola parte che un programma di studi moderno  desidererebbe, e non sì trova nel piano del Cuoco, è la  storia della letteratura; forse perché egli intendeva che  questo studio dovesse, con l’esame degli scrittori, farsi nei  ginnasi e nei licei. Quanto infatti sapesse pregiare il sapere  storico si scorge in questo stesso Rafporto da quel che  dice con acume e larghezza mirabili delle due cattedre,  che propone, di filologia latina e filologia greca +1: alle  quali voleva congiunto l'insegnamento della Paleografia  e della Critica diplomatica (in una sola cattedra); e congiunta anche  ardimento veramente notabilissimo !   una cattedra di filologia universale, ossia della scienza  speciale del V..  Anche la filologia », dice il Cuoco,  ha le sue idee astratte, ha la sua parte filosofica; perché  ha le sue regole universali applicabili ai fatti di tutte  le nazioni. Dalla filologia appunto dei particolari popoli  il nostro V. trasse i principii, che poscia espose nella  Scienza Nuova ». E, fatto l’elogio, che s’è visto, di questo  libro, continua:  Noi abbiam creduto e glorioso ed utile  per la nostra nazione stabilire una cattedra, nella quale  tal filologia universale s’insegnasse ». Filologia, per cui  l’erudizione diventa filosofia, e quello che sappiamo dei    preceduto l’altro molisano, cugino suo, Gabriele Pepe. Vedi RUGGIERI,  O. C., 24-25 e M. Romano, Ricerche su V. Cuoco, Isernia, 1904,  p. 23.   _* Questa filologia è intesa, alla maniera del Boeckh, come arte  di conoscere e intendere tutti i monumenti, che a noi sono pervenuti  dall’antichità greci e dei romani diventa utile a intendere ciò che ignoriamo o conosciamo molto imperfettamente della filologia  delle altre nazioni. La stessa filologia greca e romana si  illuminano di una luce tutta nuova; come ha dimostrato  V. nel De antiquissima Italorum sapientia e nel De uno  universi juris principio et fine uno. Le parole e i miti  sono considerati conseguenza certa della intrinseca  natura della mente umana », e soggetti a regole costanti.   La cattedra proposta, conchiude il Cuoco, è forse unica  in Europa.  Ma che importa ? Esiste o non esiste questa  scienza ? Ciò non si può negare, né anche da coloro che  non conoscono V.. Essa esiste tanto, che il solo spirito  filosofico del secolo ne ha fatte sviluppare molte varietà  di dettaglio nella testa di molti: perché dunque non insegnarne l’insieme ? ». E chi l’avrebbe insegnata ? Non credo  che il Cuoco ci avesse pensato, e molto meno che vi si  sarebbe potuto o voluto provare. Certo, non altri che lui  allora ne sarebbe stato capace !.   Ma, se su questo punto imbarazzo ebbe il consigliere  Cuoco, ci fu chi ne lo cavò subito. Gabriele Pepe, che  era in grado d'esser bene informato, nella Necrologia di  V. Cuoco, ci fa sapere che il progetto di questo non fu  accettato da re Gioacchino per le opposizioni di un altro  molisano (di Baranello), Giuseppe Zurlo, ministro dell’ Interno (da cui dipendeva l’ Istruzione); il quale ne  aveva già presentato uno suo, che naturalmente pre  1 Nel 1792 era stata istituita nell’ Università una cattedra di storia  della filologia, e data ad Antonio Jerocades, di cui ci rimane la prolusione: Orazione intorno alla concordia della filosofia e della filologia,  s. l. e a., e l'opuscolo Bacone e V., ossia Disegno delle parti della  filosofia corrispondenti alle parti della filologia secondo il piano di Bacone e dì V. (Napoli, 1792]; cfr. CRocE, Varietà cit., 6-7, e ora  Probl. di estetica, 385-6. La biblioteca della Società storica per le  province napoletane possiede anche un quaderno delle lezioni del  Jerocades, scritte da un suo scolaro, l’ insigne giureconsulto Nicola Nicolini. Ma presentano assai scarso interesse. Sul Jerocades vedi G. CaPASSO. Un abate massone nel sec. XVIII, Parma, valse :. Ed è quello promulgato col decreto 20 novembre 1811. Il quale, per ciò che concerne l’insegnamento  letterario, tornò allo statu quo: la lingua italiana nei licei  non ci entrò; la Facoltà di lettere e filosofia fu bensì  costituita, ma con le cattedre antecedenti alla riforma  del 1806: Eloquenza italiana, Eloquenza e poesia latina.  Nessuna novità degna di nota. Alla Lingua greca si  aggiunse la Letteratura; si introdussero l’ Archeologia  greco-latina, la Cronologia e l’ Arabo. Ma, rispetto alla  Letteratura italiana, si tornò indietro. Si tornò all’erudizione pura e alla vecchia rettorica: V. e la filosofia  furono sconfitti. Cuoco era andato troppo oltre; e si  ripiombò nel sec. XVIII. Marinelli, perduta la cattedra  ili letteratura antica e moderna, non ebbe 1’ Eloquenza  italiana, malgrado la sua Filosofia dell’eloquenza dedicata  a don Giuseppe Zurlo. Gli toccò di passare, credo nel 1812,  alla Cronologia, e l’ Eloquenza italiana fu data un’altra  volta al poeta di Corte, più propriamente bibliotecario    1 Vedi lo stesso Romano, o. c., p. 39. Oggi, grazie alle ricerche  del Nicolini, sappiamo più precisamente come andarono le cose. Il Progetto primitivo del Cuoco fu approvato dalla Commissione dell’ Istruzione. Ma la Commissione stessa, vista la resistenza del Consiglio di  Stato (Sezione Interno) compilò un secondo progetto modificato (ottobre 1809). Progetto modificato che fu rinviato al Consiglio di Stato (1° novembre 1809) perché lo approvasse in seduta plenaria. Ma lo Zurlo,  ch’era divenuto frattanto (1 o 2 novembre) ministro dell’ Interno, lo  fece bocciare (3 novembre). Nel settembre 1811 lo Zurlo compilò (o  meglio fece compilare da Matteo Galdi) un terzo progetto, che pare  fosse bocciato dalla Sezione dell’ Interno del Consiglio di Stato. Il  Murat allora nominò una seconda Commissione di quattro ministri,  che, con l’ intervento palese di Melchiorre Delfico e quello clandestino  del Cuoco, compilò un quarto progetto, che finalmente fu approvato  (29 novembre 1811) dal Consiglio di Stato e divenne legge il 13 dicembre 1811. E quest’ultimo progetto s’accosta più al progetto Cuoco  che non al progetto Zurlo. Cfr. NICOLINI, in Cuoco, Scritti vari, II,  4IO SQg.   ? Collezione cit., I, 230-240.  Non è esatto, dunque, ciò che si  dice nelle Notizie intorno alla origine, formazione e stato presente della  R. Università di Napoli per l’ Esposizione nazionale di Torino nel 1884:  rettore G. Capuano, Napoli, 1884, p. 48, intorno alla sorte del  progetto Cuoco. del re e più tardi lettore della regina, Angelo Maria Ricci,  che si apprestava a cantare i Fasti di Gioacchino Murat,  ma aveva cominciato già a tesserne le lodi fin dal 18009 con  le ottave La Pace e nel 1810 ne aveva cantato il felice  ritorno nell’ode La Verità*. Con lo spirito leggiero e  vuoto del Ricci, si riebbe l'insegnamento del Seric. E lo  studio della letteratura italiana non si rialzò più fino  al 1860.    In una breve notizia biografica sul poeta di Monopolino,  sfuggita ai due recenti studiosi che si sono occupati di lui,  il marchese di Villarosa ? dice che il Ricci  ottenne per  lasua intemerata condotta intempo della militare occupazione alcuni letterari impieghi, e fra questi di  esser professore di Eloquenza italiana nella regia Università degli studi, impiego che conservò anche nel ritorno  di re Ferdinando. Dovette tal onorevole carica rinunziare  per motivi di salute, e ritornare ne’ patrii lari». Il che  accadde sul finire del 18173. Il suo insegnamento non    I Vedi G. B. FicoRILLI, A. M. Ricci: la sua vita e le sue opere, Città  di Castello, Lapi, 1899, p. 21, e A. SACCHETTI-SASSETTI, La vita  e le opere di A. M. Ricci, Rieti, 1898, 22-23. Il 29 ott. 1901 dalla  città di Rieti fu pubbl. un Numero unico A! poeta A. M. Ricci, Città di  Castello, Lapi, 20; contenente ritratti, autografi ecc., con una notizia biografica del prof. Sacchetti-Sassetti.  Non si trova nella raccolta degli Almanacchi di corte posseduta dalla Soc. storica napoletana  (la più ricca che si abbia) quello del 1812. Nell’Almanacco del 1811,  p. 369, Ciampitti insegna ancora Eloquenza antica e moderna e Marinelli Letteratura antica e moderna.  Nell’Alm. del 1813, p. 320, Ciampitti è all’Eloquenza e poesia  latina, Ricci all’Eloquenza e poesia italiana, e  Marinelli alla Cronologia.   2 In nota alle Lettere indiritte al marchese di Villarosa da diversi  uomini illustri racc. e pubbl. da M. TARSIA, con note biografiche dello  stesso Villarosa, Napoli, 1844, 337-39. Una biografia del Ricci aveva  il VILLAROSA inserita già nelle Notizie di alcuni cavalieri del Sacro Ordine Gerosolimitano, Napoli, Fibreno, 1841; ed è citata dal SACCHETTISASSETTI, p. X.   3 FICORILLI, 0. c., p. 26. Il lavoro del Ficorilli è molto accurato e  attendibile, per le molte carte e corrispondenze dell’Archivio di casa  Ricci, di cui l’A. poté servirsi.    VI. IL FIGLIO DIG. B. V. 329    durò, dunque, più di sei anni. E il Villarosa ricorda appunto  di essersi procurata l'amicizia di lui udendo spesso le  lezioni di Eloquenza italiana, che allor dettava nella  regia Università degli studi, e che spesso terminava con  la recita di qualche suo poetico componimento ». Della  qual parte d’insegnamento si possono cercare i documenti  nelle molte centinaia di poesie da lui pubblicate, raccolte  in parte nelle Poesie varie, date in luce in Rieti in sei  volumi dal 1828 al 1830. I documenti del resto li diede  egli pubblicando nel 1813 Della vulgare eloquenza libri  due *, indirizzati, come già le lezioni del Serio, Agli amatori  delle lettere italiane.  Nulla di nuovo, e pochissimo del  mio offro al pubblico », dice l’autore.  Tentai per ardito  esperimento di essere oratore e vate ancor io .... Conobbi  nell’arduo cammino quali fossero le regole di véto lusso  magistrale, e quali quelle che contengono teorie fondamentali, appoggiate al buon senso. Quindi, come ape,  mi proposi di sceglier da tutte il più bel fiore ».   Ecco la materia che vi è trattata, poiché la semplice  indicazione di essa può bastare a provarci che siamo ricascati nelle vecchie teorie trite, false od inutili.    Nel lb. I: Origine delle lingue volgari: lingua italiana   Eloquenza italiana  Del sublime  Del bello  Del gusto:  modo di acquistarlo e di perfezionarlo: modelli che corrispondono  al gusto universale  Del genio  Degli ornamenti del discorso,  ossia delle figure  Dello stile, e sue qualità generiche  Stile  epistolare  Stile di dialoghi  Stile didascalico  Stile istorico   Stile oratorio  Stile di novelle, e romanzi.   Nel lb. II: Della poesia  Della poesia descrittiva  Della  poesia pastorale  Della poesia lirica  Della poesia didascalica    1 Non m’ è riuscito di vedere se non l’edizione del 1819, fatta a Napoli, Stamp. del Giornale delle Due Sicilie (di vVII-199 in-16°), e non  ne conobbe una anteriore il Sacchetti-Sassetti. Ma quella del 1813 è  nota al FICORILLI (pp. 21 e 168), il quale cita una lunga recensione  che dell’opera fu fatta nel Nuovo Giornale dei Letterati.  Della poesia epica  Della poesia drammatica  Della tragedia  Della commedia  Del dramma musicale: della favola  pastorale: del dramma sentimentale.    Quanto alla materia », dice un recente critico, in  gran parte non sì tratta che dei soliti precetti letterarii;  ma tuttavia è notevole nell’autore la erudizione vasta e la  cognizione sicura che mostra d’avere di tutti i capolavori  dell’arte antica e moderna, nostrana e in parte straniera » 1. Curioso quello che soggiunge lo stesso critico:  Se, come vasta la erudizione, avesse avuto egli profondo  il giudizio, corretto il gusto e squisito il sentimento artistico, avrebbe potuto far opera eccellente ». Se cioè non  l’avesse scritta il Ricci, ma un altro, l’opera poteva anche  essere eccellente. Disgraziatamente però, la scrisse il  Ricci; il Ricci, disgraziatamente, diede l’avviata a questo  nuovo lungo inglorioso periodo dell’insegnamento della  letteratura nella Università.   L’opera, pur troppo» (è sempre lo stesso critico)  contiene osservazioni, precetti e regole che sono, come  ho detto, le solite » =. Dopo il Marinelli, si torna un’altra  volta a dire, p. es.:  Che sia negletta la trina unità drammatica, colla quale si pretende che in teatro una sia  l’azione, uno sia il luogo, uno il protagonista ecc., non  sì può concedere senza smentire l’arte e offendere la  verisimiglianza ».   Quando era professore di eloquenza a Napoli », scrive  un altro critico recente, il quale ha fatto una lunga analisi    I Questa cognizione è specialmente dimostrata nella 3* edizione del  libro, Rieti, 1828, in 2 volumi, dove i precetti sono accompagnati da  copiosi esempi di classici. E a questa 3® ediz. è aggiunto qualche nuovo  capitolo; ma non ha più che fare con la storia di cui ci occupiamo,  dell’ insegnamento della letteratura nell’ Università.   2 FICORILLI, p. 168.    di questa Vulgare Eloquenza*, il Ricci comprese bene  di non poter mai adempiere il suo debito che seguendo le  tracce degli antichi maestri, e in ispecie di Aristotele ».  Peccato che non l’avessero compreso, né bene né male, né  il Marinelli né il Cuoco!   Partito che fu il Ricci, alla cattedra si dové provvedere  per concorso. Fu il primo che si facesse per questa disciplina. Il 12 marzo 1816 furono pubblicati i nuovi Statut:  per la R. Università degli Studi del Regno di Napoli?,  rimasti immutati fino alla fine del Regno. Questi statuti  mantennero la Facoltà di filosofia e letteratura»yeinessa la cattedra di Eloquenza e poesia latina,  aggiungendovi, in una cattedra sola, la letteratura;  all’ Eloquenza italiana del 1811 sostituirono la Lette ratura italiana3. Ma fu solo un cambiamento di  nomi; la sostanza rimase quella. Gli statuti prescrivevano il concorso per l’elezione dei professori (art. 50).  Si ricordi come seccò la cosa al Galluppi, quando nel 1831  volle entrare nell’insegnamento universitario 4. Il concorso  sl faceva nella stessa Università, sotto la sorveglianza del  presidente della commissione della P.I. o del rettore  dell’ Università. Da un trattato delle materie sulle quali  versava l’insegnamento, a cui si voleva provvedere, si  prendeva a caso, o si ricavava un quesito,  che uno dei professori della Facoltà, delegato dal decano,  avrebbe proposto a’ concorrenti; i quali dovevano tutti    1 SACCHETTI-SASSETTI, 31-40. Questi addirittura conclude che  l’opera si poteva considerare come un eccellente Corso elementare di  letter. italiana ».   ? Collez. cit., I, 424 Sg8& 3 Novità notabile fu l’ istituzione di una cattedra di  Principii generali della Storia », la quale però non fu subito coperta. Il titolare  G. Mazzarella non v’insegnò niente che avesse valore. Vedi le sue  Lezioni Sulla scienza della storia, Napoli, 1854; e quello che di lui e  del libro ho detto nelle mie ricerche Dal Genovesi al Galluppi, Napoli,  ed. della Critica, 1903, 307-8 in nota.   4 Dal Genovesi al Galluppi.] commentare e risolvere lo stesso punto o quesito in latino:  raccolti tutti in una sala, col permesso di consultare i  libri che avessero portato seco. Di che dovevasi fare  particolare e distinta menzione negli atti del concorso  (art. 51-53). |   Del concorso, che sulla fine del 1817 o al principio  del ’18 si fece per la letteratura italiana, chi lo vinse, il  canonico Michele Bianchi, che dal 1832 al ’35 ebbe tra i  suoi scolari L. Settembrini, raccontava, dopo tanti anni,  com'era andato; e il Settembrini nelle Ricordanze ne ha  lasciato memoria:  Prima del 1820 quando s’ebbe a fare  11 professore di letteratura italiana nell’ Università, si  presentarono al concorso parecchi, fra i quali il Puoti e il  poeta Gabriele Rossetti. Il tema fu: scrivere un comento  itallano ad un sonetto del Petrarca, ed una dissertazione  latina sopra non so qual secolo della nostra letteratura.  La benedetta dissertazione latina decise il merito.  Il Bianchi, professore in un collegio, avendo abito e facilità di scrivere in latino, poté dire agevolmente tutto  quello che sapeva, dove che gli altri, più o meno impacciati dalla lingua, dissero meno di quello che sapevano:  onde, giudicati imparzialmente su gli scritti, il Bianchi  ebbe il primo luogo, e l’ultimo toccò al povero Rossetti,  che fece qualche errore di grammatica, tutto che avesse  quell’ingegno e quella beata vena di poesia »*.   Al canonico Ciampitti,  che tirò innanzi nella Elo quenza, poesia e letteratura latina fino  al 1832, anno della sua morte ?  si venne, dunque, ad    1 Ricordanze, Napoli, Morano, 1881, I, 79-80.   ® La sua cattedra fu coperta da un altro canonico, don Nicola Lucignano, nel 1835. L'Almanacco del 1834 la dà ancora come vacante.  Del concorso, a cui prese parte anche Carlo De Sanctis, zio di Francesco, sono ricordati nella Giovinezza di F. De Sanctis, 66-70, alcuni gustosi particolari.    accompagnare il canonico Bianchi ', Al quale toccò subito  di comparire in una pubblicazione ufficiale dei professori  dell’ Università. Giacché sulla fine del 1818, Ferdinando I  ammalò mortalmente, e il Colletta, non sospetto, ci dice  che  palpitarono a quel pericolo i napoletani più accorti,  per sospetto che il figlio mutasse in peggio gli ordini civili ;  giacché, tenuto proclive al male, avverso alle blandizie di  governo, intimo amico del Canosa .... Ma quei guarì, ed  ebbe feste sacre e civiche, dove 1 migliori ingegni rappresentarono l’universale contento con rime e prose, in grosso  volume raccolte » 2. In questo volume Pro recuperata valetudine Ferdinandi I utriusque Sic. Regis Archigymnasti  Neapolitani officium3, miscellanea di scritti gratulatori  ed elogiativi in italiano, in latino, in greco e in ebraico,  come il Ciampitti mise un’orazione latina, e B. Quaranta,  professore di archeologia e letteratura greca, un Aébyog  (seguito bensì dalla relativa traduzione), il Bianchi inserì  una Orazione italiana, oltre un Carmen latino, un Epigramma greco e alcuni altri distici latini. Orazione notevole, perché non è una filza di vuote adulazioni; ma  un buon riassunto di tutto il bene realmente fatto da Ferdinando. Degno ancora di esser letto è quello che vi si dice  dei provvedimenti e delle riforme relative alla pubblica  istruzione, durante il regno di Ferdinando. Tutte le Orazioni di questo tempo, a giudizio dell’ Ulloa, che fu scolaro, credo, del Bianchi, rappresentano un periodo di  transizione dalla licenza precedente alla tirannia del  purismo; ed egli reca ad esempio questa del Bianchi  où d’incontestables mérites couvrent quelques défauts, et  Il primo Almanacco di Corte, tra quelli da me potuti vedere, che  porti il nome del Bianchi, come titolare della cattedra di letteratura  italiana, è quello del 1820  Storia, lib. VIII, cap. II, $ 40.   FF 3 Pridie Id. Januarii An. MDCCCXIX, Typis Josephi M. Porcelli,  di carte 57 (num. nel solo recto) in-fo. Pubblicazione di lusso.    font de l’oraison entière une ocuvre remarquable. Le style est  clair, rapide, parfois incisive, et entraîne le lecteur. Comment  n’étre pas frappé des observations et des faits qu'il présente  rapidement, attestani l’étroite relation de la criminabité  et de l’ignorance ? IL a su toucher avec convenance, avec  retenue, à toutes les phases historiques de l’époque précédente, qui sous la plume d’un autre écrivain auraieni du  étre difficilement traitées » 3.   Dei difetti di stile notati in questo discorso, il Bianchi  si sarebbe liberato nelle sue Istituzioni, dove all’ Ulloa  pare di scorgere uno stile più puro, più paziente  e più elaborato, e teorie di buon critico.   E altrove ?, dopo aver ricordati gli Elementi di belle  lettere di Cristoforo Mazzogatti, e l’ Arte del dire di Vito  Fornari: Mais, soggiunge, c'est l’ouvrage du chanoine  Michele Bianchi qui dépasse tous ceux qui écrivent dans  le but ordinaire de dicter des lecons de rhétorique ». Il Bianchi era stato uno dei letterati la cui stima e benevolenza  avevano incoraggiati i lavori della sua prima giovinezza,  e l’ Ulloa lo trovava tel qu'il était dans son ouvrage » 3.   Giacché, come insegnante dell’ Università, aveva quasi  un obbligo di pubblicare le sue istituzioni 4, nel 1832 egli  die’ in luce le Lezioni di belle lettere ad uso de’ giovanetti 5,  di cui così rende ragione nella prefazione:    Da che presi a dettare le mie lezioni nella cattedra di Lingua  e letteratura italiana fui sovente richiesto d’ indicare l’opera di    1 Pensées, I, 322 e 323. L’ Ulloa riferisce anche un tratto dell’ Orazione.   2 Pensées, I, 335.   3 Notava tuttavia che, anche nelle Lezioni, les mots ne sont souvent que des clous rivés à téte d’or ».   4 L'art. 70 degli Statuti del 1816 diceva:  Ogni professore, quando  non abbia ancora stampato le sue istituzioni o trattati, dovrà fare un  elenco delle materie che insegnerà, il quale al principio dell’anno scolastico dovrà affiggere alla sua cattedra, acciò il sostituto, o l’aggiunto,  e gli scolari possano esser preparati pe’ rispettivi esercizi ».   3 Vol. I. Napoli, Criscuolo, 1832. Nel 1833 uscì il 2° volumetto. IL FIGLIO DI G. B. V. cui mi giovavo all’uopo. E poiché fu da me risposto, avermi io compilato che che mi occorreva per l’affidato insegnamento, si chiese e  s’ insistette, anche da persone autorevoli, che divulgassi per le  stampe que’ divisamenti riputati adatti e buoni a formare il gusto  letterario de’ giovanetti studiosi. Lasciai nondimeno trascorrere  molti anni prima che m'’ inducessi a secondare simili desiderii e  premure. Ma infine il pensiero che avrei potuto recare alcun utile  agli alunni delle lettere vinse il mio ritegno. E così dalle lezioni  scritte per la cattedra mi feci a tòrre quel tanto, che nel corso  di un anno o poco più potesse nelle scuole insegnarsi.    Più che lezioni, sono brevi dissertazioni, non molto  strettamente connesse tra loro. La prima Sull’origine e  sulle vicende della lingua italiana è una breve storia della  lingua dalle origini fino alle polemiche contemporanee tra  1 puristi e gli antipuristi, e combatte così le affettazioni  arcaiche degli uni, come le esagerazioni e la scioperataggine degli altri. Il Bianchi, uomo di non grande levatura, ma di buon senso, preferisce attenersi al giusto  mezzo. Segue un Cenno sul bello e sulle varie sue forme,  che non contiene altro che vacue trivialità sul povero  Bello, distinto, per conto della natura » in sensibile,  intelligibile e morale, e  per conto degli oggetti » in generale, particolare e convenzionale. L’Orator e il De oratore di  Cicerone fanno le spese dell’erudizione estetica del Bianchi.  Quindi, dopo un capitoletto sul Sublime, seguono queste  altre dissertazioncelle, di cui basterà il titolo: Influenza  delle lettere nella civiltà e nella morale dei popoli.   Analisi delle qualità necessarie ad ogni parlare colto.   Rettorica ragionata per le varie sue parti e Poetica ragionata per li suor rami diversi. Queste ultime tre parti sono  la materia del secondo volumetto.   Su per giù, la stessa materia della Vulgare eloquenza  del Ricci, trattata con minor calore e minore sfoggio  di dottrina, ma con modestia e buon senso. Aurea  mediocritas : molto mediocre e poco aurea! A che, del resto, affannarsi a salire in regioni più elevate per quello scarso uditorio che aveva il canonico  Bianchi ?  Eravamo ascoltatori soliti », ricorda il Settembrini, un quattro o cinque giovani .... Il Bianchi ragionava con noi, come con amici, e soltanto quando ci capitava qualche sconosciuto faceva un po’ di diceria distesa.  Non usava come gli altri professori, che come scoccava  la mezz’ora rompevano a mezzo il discorso, ma s’intratteneva con noi lungamente, e ci diceva molte belle cose,  e finita la lezione lo accompagnavamo per buon tratto di  via, e seguitavamo a ragionare. Quando era io solo con  lui, egli usciva alla politica, parlava de’ tempi trascorsi,  di molti uomini, di molti avvenimenti, e ne giudicava  con senno severo: e se parlava di quella che egli chiamava  casta pretesca, non sapeva frenare lo sdegno, e  diceva: È nemica di Dio e di Cesare: fu, è, e sarà principale  cagione della servitù d’ Italia. Credete a me che conosco  quali visi si nascondono sotto quelle maschere » !.   Insomma era egli», come soggiunge il Settembrini  stesso, un uomo che bisognava guardare da vicino, e  allora lo stimavi e lo amavi. Poco eloquente, di maniere  modeste, un po’ pedante, ma dotto assai, liberi sensi, gran  bontà di animo ». Il Settembrini ci dice che ogni volta    1 Ricordanze, I, 77. Sarà stato come dice il Settembrini un prete  liberale, ma alla Gioberti: perché teneva alle glorie e benemerenze  della Chiesa, e quando nel 1825 pronunziò la sua Oratio in solemnt  studiorum instauratione (a MicHAELE BIANCHI Palatinae Ecclesiae Canonico et Litteraturae Italicae Professore in R. Archigymnasio Neapolitano habita, s. d., di 24 in-4°) tolse a discorrere  quam bene de  humanitate vel ideo meruit catholica religio, quod ad excolendos a  barbarie per Europam bonis artibus animos plurimum contulit » (p. 5).  Un'altra Orazione inaugurale lesse nel dicembre 1843: De litterarum  efficientia în animis mentibusque egregie formandis, Neapoli, Cuomo,  MDCCCXLIII, di 20, in-4°. Il discorso è tutto nel titolo.  Di lui  è pure a stampa l’opuscolo Alla Consulta de’ Reali dominii di qua dal  Faro ragguaglio della Memoria umiliata al Re mostro signore per la  reintegrazione del Vescovo di Cajazzo, Napoli, Criscuolo, 1831 (di 24  in-4°): ma non ha interesse letterario. IL FIGLIO DI G. B. V. che si partiva dal Bianchi, egli aveva imparato qualche  cosa; e che però la sua memoria gli era cara e onorata.  Egli fu, che, letti con piacere e lodati due dei primi scritti  del Settembrini, li fece vedere a monsignor Colangelo,  pregando costui di proporlo come professore in un collegio. E poiché il Colangelo rispose che quelle cattedre si  davano per esame, fu il Bianchi a spronare il Settembrini all'esame, e fece, quindi, di lui un professore. Non  avesse fatto altro, per amore del Settembrini, destinato a  salire quella cattedra stessa di letteratura italiana, il buon  canonico meriterebbe il nostro ricordo e la nostra simpatia.   Ma la vera e viva scuola di letteratura a Napoli allora  non era nell’ Università. Lo stesso Settembrini rammenta  che  mentre nell’ Univer ità il Bianchi leggeva agli scanni  e a quattro studenti, il marchese Basilio Puoti aveva in  casa sua una fiorita scuola di lettere italiane, dove convenivano oltre dugento giovani » 1. E dagli eccitamenti del  Puoti a uno studio amorosc degli scrittori, ma sopra tutto  dal potente lievito degli studi filosofici promossi dal Galluppi e dal Colecchi con l’esposizione e la critica delle  moderne dottrine germaniche, e quindi da quel fervore di  pensiero, che dagli scritti dell’eclettismo francese, da  Hegel, da V. attingeva materia di speculazioni non più  tentate e motivo a una trasformazione filosofica degli stessi  studi letterari, eromperà la prima scuola di F. De Sanctis,  quale ci è rappresentata nel libro della sua Giovinezza.  Il movimento, iniziato da Marinelli e da Cuoco, e subito  arrestatosi, sarà ripreso per virtù di una mente geniale,  che creerà la critica e la storia della letteratura italiana:  il contenuto più razionale dell’insegnamento, di cui ho  narrato i timidi inizi e il primo incerto svolgimento.    1 Ricordanze Bianchi insegnò fino al 1853. Nell’ Almanacco  di Corte dell’anno seguente comparisce professore emerito; e per la cattedra rimasta vacante di Letteratura  italiana non c’è che un sostituto: Stefano Lombardi.  Il quale nel 1831 aveva pubblicate alcune Od: di Q. Orazio  Flacco recate in versi italiani * (20 odi scelte dai quattro  libri e 2 epodi): lavoro rapido e incompleto », dice  l’ Ulloa,  ma che rivela nel traduttore un bel talento di  traduttore » 2. Nel 1854 appunto die’ alle stampe una  canzone Alla Maestà di Ferdinando II.   _ Nel 1850 il 6 marzo era stato pubblicato un nuovo  Decreto col quale st modificava l'organico della R. Università  degli Studi di Napoli 3. L’ Università, divise le scienze  fisiche dalle matematiche, veniva a scomporsi in sei  Facoltà, anzi che in cinque, come nel 1816, e nella Facoltà  di Belle lettere e filosofia, l’Archeologia e letteratura greca di prima si mutava in  Lingua e archeologia greca, l’Eloquenza, poesia e letteratura latina  in Eloquenza, poesia ed archeologia  latina. Le due letterature classiche così eran bandite:  né rimasero più 1 Principii generali della  storia. Ma la Letteratura italiana rimase intatta.   Stefano Lombardi è ancora sostituto nel 1855. Nel 1856  o 1857 il Bianchi dev'essere morto. Perché nell’ Almanacco  del 1857 non c’è più il suo nome come di professore emerito. E la sua cattedra ha per titolare don Geremia Ro  I Napoli, tip. del Sebeto, 1831, 79, in-16°. Nella prefazione l’A.  dice:  Dette Odi non andarono esenti di applausi, cosicché mi son  reso ardito a farne dono al pubblico colle stampe. Che se, ora che al  giudizio degli occhi fedeli son elleno sottoposte, pari applausi, benché  del pari infruttuosi, mi arrecheranno, io mi reputerò fortunato ». Dové  aspettare un quarto di secolo a cogliere il frutto ?   ® Pensées, II, 172.   3 Collez. cît., IV, 25-8. mano, sostituto sempre il Lombardi. Doveva esser morto  anche il Lucignano, a cui successe don Gennaro Seguino.   Il Romano credo -ia stato l’ultimo professore di letteratura italiana dell’antico regime. Chi era costui? Un  Carneade, come il Lombardi: e la sua oscurità non è senza  significato in questo tramonto della vecchia cattedra  con l'ordinamento che la sorreggeva. Fi lui non ho trovato se non alcune osservazioni Sopra un pezzo d'avorio  dorato esistinte nel R. Museo borbonico in Napoli (dove  si dà appunto per regio professore) pubblicate nel 1858 ::  memorietta archeologica bene scritta, con erudizione  e non senza spirito.   Ricorderò infine il primo ordinamento che, dopo la  caduta dei Borboni, fu dato all’ Università con decreto  del prodittatore G. Pallavicino, dal ministro R. Conforti,  11 16 febbario 1861. Alla Facoltà di filosofia e lettere,  oltre la Letteratura italiana, la latina, la greca, fu data  una Storia della letteratura. A questa  venne sostituita, nella successiva legge di P. E. Imbriani  del 16 febbreio 1861, la cattedra di Letteratura  comparata. Chi dopo il 1861 abbia insegnato dalle  due cattedre di Letteratura italiana e Letteratura comparata, e che cosa sia stato insegnato, è noto a tutti. Luigi  Settembrini fu nominato alla prima il 24 ottobre 1861 *.  Alla seconda il De Sanctis nel 1863; ma la coprì solo  per quattro anni, dopo che ve l’ebbe richiamato un decreto del 15 ottobre 1871 3.    I Stamperia del Fibreno, di 16 in-169. Misc. 180, I della Bibl.  Naz. di Napoli.   ® Sul Settembrini v. TORRACA, L. S., Notizia, Napoli, Morano. CROCE, pref. al vol. F. DE SANCTIS, La letter. ital. nel sec. XIX,  Napoli, Morano, 1897; e TORRACA, F. De S. e la sua seconda scuola, nel  periodico La Settimana del 7 dicembre 1902; e poi nel vol. Per F. De S.,  Napoli, Perrella L’ ANGIOLA    Capitolo serio-burlesco di VESPOLI !.    Donn’Angiola Cimina era una donna, ì  Ch’eccetto quando stava ignuda in letto,  Come ogni altra portò sempre la gonna.    Sol piacevale andar col busto stretto, 4  Onde poi vogliono i contemplativi,  Che le venisse l'asma e ’1 mal di petto.    Benché da certi cicisbei corrivi, 7  Che fur della buon’anima divoti,  Ma d'ogni di lei grazia e favor privi;    Dico di certi poetuzzi ignoti, 10  Pieni di boria e di presunzione,  Senza creanza e di scienza vuoti,    I Da una copia esistente in un volume miscellaneo ms. posseduto  dalla Soc. nap. di st. patria (XXII, c. 12) da carta 10 a c. 21. Nello  stesso volume precede un Capitolo di D. Francesco Vespoli sopra il  Genio alemanno, anch'esso in terzine; diretto contro il partito degli  austriacanti rimasto in Napoli dopo la conquista borbonica. L’Angiola  consta di 300 versi. Ne pubblico la parte che ha più interesse per la  conoscenza della società vichiana. I versi del Vespoli furono già indicati dallo ScHIPA, Il regno di Napoli.] I quali entro l’Angelica magione  Andavan sol per essere stimati  Uomini savi e d’erudizione:    Benché da certi cotali accennati  Si dica, che patì Sua Signoria  La Marchesana il mal de’ letterati,    Cioè d’ostruzione e d’eticìa:  Mal, che vien per lo studio e ’l meditare:  O maledetta, o brutta malattia !    Dico adunque così primieramente:  È certo, che le donne per natura  Son tutte sceme e deboli di mente;    Sembiano nell’estrinseca figura  Più perfette dell’uomo, e più capaci,  Non che più vaghe, e belle di fattura;    Ma con ragioni chiare ed efficaci  Il contrario si prova dagli antichi  E moderni filosofi veraci.    E, senza che in recarle m'’affatichi,  L'esperienza, mastra delle cose,  Te ’1 fa vedere, e par che te lo dichi:    Paion le donne a noi meravigliose  In bellezza, in savere ed in valore,  E tutte l’opre lor miracolose;    Quando c’entra per esse un po’ d'amore,  Questo è quel che ci fa poi travedere,  Quest’ è cagione d’ogni nostro errore. Né mi stia a dir Platone l’ ideate  Specie dell’amor suo; ché da lui quelle  Per ingannare il vulgo fur trovate. Virtude e amore, uomini e donne belle,  Che star possano insieme, e senza alcuna  Malizia praticar elli con elle, Aristotile il nega, ed a quest’'una  Opinion del suo maestro assegna  Il concavo profondo della luna.    67    Sapea, che il senso la ragion disdegna, 70  E che, venendo insieme a competenza,  La ragione va fuori, e ’l senso regna.    Io non intendo entrar nell’altrui messe, 26  Ma dico sol, che non mi meraviglio  Di certe decantate poetesse.    E senza che ad alcuna io dia di piglio, 79  Si sa, ch’ogni lor parto o fu supposto,  O vi pose qualch’uom parte e consiglio;    Che che intenda provare a tutto costo ss  Il nobil Doria in un volume intero  Sebben la giunta strugga il fin proposto !.    I Accenna ai Ragionamenti tre, ne’ quali si dimostra la donna în  quasi che tutte le virtù più grandi non essere all’uomo inferiore, pubbl.  da P. M. Dorta nel 1716. Dal Doria e dal V. (come narra questi in  Opere, ed. Ferrari, VI, 264) la Cimini fu iniziata alla filosofia. E di  P. M. Doria c’è pure un sonetto per la morte della Cimini, nella raccolta qui appresso citata (p. 129); come molte poesie a lui indirizzate  sono tra le Rime scelte di GH. DE ANGELIS (con pref. del V.), Firenze. Intanto V. stralunato e smunto  Colla ferola in mano e ’1 Passerazio 1  N’appella, e vuol ch'io torni al primo assunto.    118    Ei, che suol porre alle parole il dazio, 131  Nella Raccolta fatta a onore e gloria  Della signora ha posto un gran prefazio?    x    Lo qual non so s’ è calendario o storia, isà  Se avvisi 3, o pur relazione nova,  Se carta scritta per farne baldoria,    Ivi il Soave-Austero4 si ritrova Laù  Ch’ è l’acro-dolce, che sa fare un cuoco,  O l’irco-cervo, ch’in sua mente cova.    V’ è dell’arte rettorica ogni loco; 130  E ’l tanto a lui diletto paradosso:  Chi più ne legge, più n’ intende poco ».    1 Jean Passerat, maestro d’umanità, autore de’ Commentariù in Catullum, Tibullum et Propertium (Parisiis, 1608), gran repertorio di erudizione filologica latina; nonché di altre opere di minore importanza.   2 L’ Orazione în morte di Angiola Cimini marchesana della Petrella, che V. inserì nel vol. Ultimi onori di letterati amici in morte  di A. C. ecc., Napoli, Mosca. Cfr. CROCE,  Bibliogr., p. 17. Citerò la ristampa che è negli Opuscoli della ed. Ferrari? (vol. VI delle Opere). Ma noto qui l'errore commesso dal VILLAROSA, nella sua edizione degli Opuscoli, e ripetuto dagli  editori successivi (v. ed. Ferrari, p. 261) per non aver capito (il Villarosa se ne dovette accorgere troppo tardi) che la nota fatta dal V.  a un certo punto dell’ Orazione, doveva nella ristampa incorporarsi  nel testo, essendo essa una correzione e un’aggiunta. Vedila tra le   Correzioni » innanzi al volume Ultimi onori.   3 Vecchie gazzette.   4 Sul principio della sua Orazione, V. ne accennava quasi il  tema, dicendo che la Cimini a tutti i saggi uomini che ebbero la  sorte di conoscerla e riverirla, fece intendere i tempi più colti della  gentilissima Atene; siccome quella che fu loro il grande esempio della  rara difficil tempra onde si mesce e confonde il soave austero della  virtù » (p. 249). Con identiche parole l’Orazione si chiude; e il soave austero vi ricorre spesso nel mezzo.    Ivi vuol comparir da gran colosso,  Ma vi si scuopre un piedestallo basso  E reo s’accusa, allor che fa il Minosso. Orazion la chiama il babbuasso, ia  Ma è lunga e sciocca sì, che non la puoi  Leggere, senza dir più volte: ahi lasso!    Com’ è possibil ch’egli non t’annoi sn  Con quel proemio vecchio e riscaldato,  E colle cose che seguon dappoi ? Precise quando del di lei casato ses  Fa la descrizione, ed a minuto  Narra la vita e ’1l transito beato ?    Quando ci fa veder l’applauso muto, ia  Ch'essa facea sporgendo il petto in fuori  O con un giro d’occhi il bel rifiutot?    Quando la di lei collera egli onora 148  Col titolo d’eroica, e dietro a lei  Cesare allega, ed Alessandro ancora??    I V. racconta che, nei trattenimenti letterari soliti in casa  della Cimini, ella, al dirsi le cose degne di applauso, applaudivale o  con un leggiadro movimento del dilicato corpo, il casto petto sporgendo  in atto come di chi incomincia a levarsi da sedere, o con un soave  giro de’ suoi bellissimi occhi inverso il cielo;... a’ quali atti i riguardanti ammiravano in lei e l’acutezza dello ’ngegno e la gravità del  giudizio, e sopra tutto la somma modestia, con la quale si guardava  di parere intendente col non professando d’ intendere, o vero di sembrar saggia col non diffinitivamente approvare » (p. 266).   2? Parlando del temperamento collerico di Angiola, V. avverte  che la sua era collera  ragionevole e generosa e quale appunto a donna  di eroica virtù convenivasi.... Fin dalla sua più tenera età questa nobil  fanciulla diede pur troppo gravi segni di tal collera eroica ». E diede  saggio insieme di eroica virtù, di quella specie onde lasciarono di  sé tanto mondano romore i Cesari e gli Alessandri. Quando abortir la fa ne’ mesi sei, ini  E piagne gli campioni iti sotterra  Ch’eran, Dio buono! tutti maschi, e bei?    Quando la fa veder distesa in terra ie  Battere il capo al duro pavimento ?:  O ‘1 gran fatto! o ’1 malanno che l’afferra !    E questo detto sia per compimento iui  Di tutta l’opra di sopr’accennata  Di questo arcipedante pien di vento.    Ond' io non so capir, dove appoggiata sea  Sia la gran lode, che ne fa il Sostegni,  Con che, se non è burla, è una frittata 3.    Cesare Augusto, ch’ebbe tanti regni, 163  Che piantarvi i confini gli convenne  E porvi ancor del non plus ultra i segni;    1 La Cimini morì a 27 anni, per male cagionatole da parto prematuro; ché la collera virile », dice V., di che ella abbondava,  depredando l’umidore che facevale mestieri per nmudrire i feti già  fatti grandi, fece per mala sorte che tutti nel sesto mese, funesto da’  medici giudicato, ella facessegli aborti» (p. 270). E l’ultimo le fu  fatale. Ma V. non parla dei « campioni » della satira.   2 V., facendo la storia della collera eroica della Cimini, ricorda pure, che bambina «ove mai non era ella compiaciuta  di un qualche suo fanciullesco talento, si crucciava a tal segno, che,  gittatasi lunga a terra, tutta vi si affliggeva, fino a percuotersi sul duro  pavimento il tenero capo » (p. 254).   3 Nella Introduzione di Roberto Luigi Sostegni, canonico regolare  lateranense, agli Ultimi onori, si dice (p. 10) l’ Orazione del V. « sublimissima », e che per essa «si scorge, poter l’Italiana Eloquenza  ascendere a quell’altezza a cui la Grecia e la Romana pervenne, qualora l’istessa morale, e civil sapienza.... l’invigorisca e sostengala ».  Un sonetto del Sostegni al V. (Opere2, VI, 410) finisce: O chiaro  V., o sol pari a te stesso. Nello stesso vol., p. 80, un  sonetto del De Angelis dice:    E basta poi per simulacro eterno  Di sue virtudi, e d'altri pregi eletti,  La prosa del divin V. e Roberto! Nipote al zio, che vinse, vide, e venne, 1%  Pur quando si partì per l’altra vita,  Tal onor da’ vassalli non ottenne,    Qual Donn’Angiola nostra, poiché gita 19  AI ciel se n’è, da’ Letterati Amici!  Ha per tributo, come lor favorita.    E siccome gli Orfei per l’ Euridici ATA  Si mostrar grati, ed i Petrarchi e i Danti  Per le loro Laurette e Beatrici,    Così per lei si veggon tanti e tanti in  Nostri partenopei cigni canori,  Che non v’ ha qui de’ frati zoccolanti.    Vi son poeti, medici e dottori, 178  Plebei, civili, dame, e cavalieri,  E laici, e cherci, anco predicatori;    E congiunti, e paesani, e forestieri, lei  E buoni, e tristi, ed ottimi, e mezzani,  La maggior parte innamorati veri.    Non altramenti che al carname i cani,  Sono accorsi costoro a tal impresa;  E Dio il voglia, non vengano alle mani.    184    Nacque da precedenza la contesa  Tra quei che furo ammessi alla Raccolta.  Ma poi tra lor s’ è nova briga accesa:    Cosa, che ha posto la città in rivolta,  Talché hinc inde vi son forti partiti,  E se non sai il perché, di grazia, ascolta.    190    I V. nella perorazione della sua Orazione: «Letterati amici,  che con uguale ossequio la onoraste e la riveriste » ecc. (p. 272). Ma  la frase è già nel frontispizio della Raccolta. Un tal Gerardo, ch'ora gli eruditi  Della scuola d’ Ulloa 1 scrivon Gherardo.  Giovine d’anni ventidue compiti 2,    Piccolo di statura, ma gagliardo,  Di bocca grande e di naso canino,  D'occhi che ti spaventan collo sguardo:    Di viso magro, giallo e saturnino,  Col mento fesso e un poi rivolto in suso,  Bello come la statua di Pasquino,    Veste di negro di paglietta all’uso,  Cammina alla carlona, e sempre astratto,  Parla da vecchio 3, e scrive assai confuso,    Vogliono alcuni che sia mezzo matto;  Io credo che sia tutto; e testimonio    N° è quanto ha scritto, ed anche il suo ritratto.    Or egli, che al comporre è un gran demonio,  Vo’ dir che spaccia versi anche dormendo,  Per grazia special di Sant'Antonio,    Improvvisante più del reverendo  Quondam Fanelli e del siciliano,  Ch’or ha nel molo un concorso stupendo, L'avv. Niccolò Ulloa-Severino, che scrisse una canzone per la  Cimini (Ultimi onori, p. 122) e al quale è indirizzato un sonetto nel  Quarto libro delle Rime del DE ANGELIS, p. 50. Chi legge la canzone  di quest’ Ulloa per la Cimini, tutta affettature arcaizzanti, intende la  punta satirica del Vespoli. N. ULLOA-SEVERINO pubblicò un volume di  Lettere erudite, Napoli, 1699.   ? Infatti Gherardo De Angelis era nato ad Eboli (prov. di Salerno)  il 16 dicembre 1705.   3 Visi potrebbe vedere un’allusione contro l’epigramma, che nel 1725  il p. Sostegni aveva apposto al ritratto del De Angelis, nel 1° volume  delle sue Rime toscane: Adspicis hunc quarto vix dum pubescere lustro ?  Perlege; dispeream ni tibi Nestor erit.    APPENDICE I 35I    L’ ha fatta alli compagni suoi di mano, sà  Col libro, c' ha stampato in questo mese:  Azion veramente da villano !    Azion, che non ha scuse o difese, 217  Azion di lui degna e di suoi pari,  Azion da scriverla al paese,    Dove i nobili sono i bufalari,  Paese di mal’aria e mal costume,  Buono bensì per pascervi i somari.    N’era Priapo il protettore e ’1 nume; das  Or Eboli si vanta aver costui,  Che ’n istampa gli ha dato onore e lume.    Ma ritorniamo all’azion di lui, ciù  Ch’ io non vorrei, col troppo andar vagando,  Tirarmi addosso la censura altrui.    Il fatto è come siegue. Allora quando sii  Nella Raccolta dagli amici s'era  Di Lei detto il più bello e ’1 più ammirando;    Anzi Gerardo in mezzo a quella schiera ass  Contribuito avea la maggior parte 1,  La qual potea passar per lode intera;    Volle egli solo poi farla da Marte. 235  Ed ecco, presto presto, ha dato in luce  Su lo stesso soggetto un libro a parte.    Per Quarto di sue Rime lo produce ass  Senza il Terzo d’avanti; e, ad ingrandirlo,  Rime vecchie per entro vi riduce ?. ! Del DE ANGELIS infatti ci sono una canzone e tredici sonetti  (Pp. 75-91). l   2 Angiola Cimina Marchesana della Petrella defunta, poesia (sic) d’ANGELIS, Firenze, 1728. A p. 9:  Inco- [Leggilo, e dimmi poi se puoi capirlo,  E se a me ne dimandi, io ti rispondo,  Che ’n leggerlo mi venne il capogirlo.    Gran cose vi vedrai dell’altro mondo,  E ridicoli conti puerili,  E fatti inverisimili in abbondo;    Un gran mescuglio di contrari stili,  Improprietà di voci, oscuri sensi,  Componimenti rozzi e pensier vili;    E barbarismi, e solecismi immensi,  Ed atti di superbia e di dispregio,  E dati ad altri ed a se stesso incensi.    E queste cose, che sarian di sfregio  In altri, non che error sommi e notabili,  Sono oggigiorno in lui di stima e pregio !    Ma presso chi ? presso cervelli instabili,  O presso pochi, che l’adulan solo    Per farlo andare in tutto agl’ Incurabili *.    Gli dicon, che sua fama ha fatto un volo  Sì strepitoso ed alto, che già s’ode  Il nome suo dall’uno all’altro polo. ]mincia il quarto libro de le giovanili rime di Gh. De A., J. C.» ecc.  Nella dedica a donna Emmanuela Pignatelli Silva Aragona, l’A. dice:  Sendosi partita da questa terra l’anima benedetta di A. C., santa, e  saggia nobile Donna, come a V. E. e per l’ Italia si è già noto, dopo  aver pubblicata in laude sua la sublimissima Orazione il gran Giambattista V. maestro mio, e molti altri elevati ingegni che la conobbero,  prose e rime, le quali un libro compongono, io, fra tutti gli amici suoi e  per l’età e per consiglio minore, ho voluto in onor di sì alta memoria,  agli uomini che verranno queste poesie tramandare ».   ! Famoso Spedale di Napoli. Né s’accorge il meschino, che tal lode  Ha dato al suo profitto un tal tracollo,  Per non aver le basi vere e sode.    Io son pronto a giurare, e a porvi il collo,  Ch’ancor costui non sa dov’ è Parnaso,  Né che son tra lor le Muse e Apollo;    265    Che se sapesse onde pisciò il Pegaso,  Tante carte sporcato non avrebbe,  Né de’ classici autor parlato a caso. Infatti, colmé suole, ei non direbbe,  Che ’1 Bembo, il Casa ed il Petrarca ha vinto,  E che il gran Tasso buono stil non ebbe.    271    O dove sei, gran papa Sisto quinto !  E pur quel tuo poeta una parola,  Per forza della rima a dir fu spinto.    274    Ma il vizio, che s’'apprende in detta scuola, sn  Quest’ è, di morder gli altri, e assiem grattarsi,  Quando cavano fuor qualche lor fola.    Procura bensì ognun di segnalarsi 280  In far meglio dell’altro l’antiquario,  Con voci malagevoli a spiegarsi;    Anzi il lor mastro ! un nuovo dizionario i  S°' ha fatto di vocaboli a capriccio,  Che non mai registrò il vocabolario.    Quindi è che, s’egli scrive, fa un pasticcio ade    Pieno di fracidume; e, se discorre,  Fa l’alto-basso che suol fare il miccio. V..  PER LE NOZZE DI TOMMASO CARACCIOLO  E DONNA IPPOLITA DE DURA    Sonetto di G. B. V.!.    Bench’ io mi veggia da quel fato oppresso,  Che l’ ingiust'odio altrui creò sovente,  E affatto lungi dalla molta gente  Viva, che appena me trovi in me stesso;    Poiché il raro valor dal Ciel concesso  A voi, bell’alme, unisce Amor possente,  Al pubblico piacer mio spirto sente  Disio di riveder l’alto Permesso,    E cantar lieto in dilettosa schiera  Vostro nodo real, gli onor degli avi,  E svelar que’ futuri invitti germi.    Poi ricaggio in me stesso, e da mie gravi  Cure sospinto a tornar là dov'era,  Di me, non per mia colpa, ho da dolermi.    I Dalla raccolta: Vari componimenti per le felicissime nozze degli  eccellentissimi signori D. Tommaso Caracciolo marchese di Casalbore,  principe di Torrenova [...] e D. Ippolita di Dura de’ Duchì d’ Erce,  raccolti da GENNARO PARRINO, e dedicati all’ Ecc.mo signor D. Orazio  di Dura duca d’ Erce, Firenze. Di questa rarissima raccolta si conserva copia nella Biblioteca Villarosa.  RELAZIONE DELLA SEGRETERIA DI STATO  AL RE SULLA SUPPLICA DJ G. B. V. PEL CONFERIMENTO DELLA SUA CATTEDRA  AL FIGLIO. Sefior,   Exponiendo 4 V. M. Juan Bapt.ta de V., Historiografo  Regio y Profesor de eloquencia en la Universidad de Estudios, son ya mas de quarenta afios, que ha servido y sirve  en dicha Universidad la Cathedra de Rectorica, col en tenue  sueldo de cien Ducados annuales, que le ha servido para el  mantenimiento de su pobre familia, hallandose ya en edad  muy adelantada agravado y oprimido de muchos achaques, y  con especialidad de las angustias domesticas, y de la contraria fortuna, por lo que se ha visto obligado et substituir  en su lugar interinamente en el servicio de dicha Cathedra  4 su hijo Genaro, mozo de habilidad, y que asta aora ha  sabido cumplir con publica satisfaciòn, suplica 4 V. M. se  digne conferir la propiedad de dicha Cathedra al mismo  Genaro, para que despues del fallecimiento del mismo, pueda  su pobre familia quedar con algun apoio.   El Capellan Maior representa a V. M. que el sobredicho  Juan Bap.ta de V. es benemerito de la Regia Universidad  de Estudios, 4 la qual con sus doctos trabajos ha hecho  mucho onor; por lo que requiere la publica gratitud, que  se le atienda; que siendo el expresado su hijo mozo de habilidad, y portandose ciertamente en el exercicio de su Ca  358 STUDI VICHIANI    thedra con todo aplauso, solo puede ser de algun reparo que  la aplicazion del mismo et los tribunales, pueda serle de embarazo, requiriendo una y otra aplicacion, cadauna por si,  todo un hombre, y la Cathedra de Eloquencia un profundo  estudio en los Autores Griegos y Latinos; por lo que le  parezze puede V. M. consolar al suplicante; quando haya la  certidumbre de que dicho su hijo, dejando la aplicacion 4 los  tribunales, vuelva todo su animo à los estudios de la eloquencia, y 4 los demàs que son necessarios para ser excelente en tal profesion no facil, y éstimadissima.  DISPACCI  PER LA GIUBILAZIONE DI V, I.  Al Cappellano maggiore.    Informato il Re da quanto V. S. I. ha rappresentato con  l’ultima sua consulta del 12 del caduto agosto, che al Lettore emerito di Rettorica nella R. Università degli Studi  D. Gennaro V. siano mancati ducati 120 l’anno, cioè ducati 60, che godea come direttore dell’Alta antichità nell’Accademia Regale, ducati 30 pel sostituto che dee mantenere,  e per altri emolumenti che gli sono minorati; ha S. M. con  suoi sacri caratteri risoluto che gli si dia la giubilazione con  l’intero soldo in pensione, e gli emolumenti che ha perduto.   Nel real nome lo partecipo a V. S. I. per intelligenza sua  e del ricorrente, e per l'adempimento.   Palazzo, 9 settembre Alla Segreteria dell’ Azienda.    Informato il Re da quanto gli ha consultato il Cappellan  maggiore, che al Lettore benemerito di Rettorica nella Regia    I Arch. Sta. Napoli: Dispacci dell’ Ecclesiastico. Università degli Studi D. Gennaro Vigo (sîc) siano mancati docati centoventi l’anno, cioè docati sessanta che godeva come Direttore del Ramo dell’Alta antichità nell’Accademia Reale, docati trenta per il Sostituto che deve mantenere, e per altri emolumenti che gli sono minorati, ha S.M.  con suoi sacri caratteri risoluto, che gli si dia la giubilazione  coll’ intero soldo in pensione, e gli emolumenti che ha perduti. Lo partecipo di suo real ordine a V. S. Ill.ma, affinché  da codesta Scrivania di razione se ne disponga l'adempimento.   Palazzo, ‘a 9 settembre 1797 = Ferd. Corradini = Sig. Principe d’ Ischitella. Arch. Sta. Napoli: Ordinario 82: Scrivania di razione, Lettori  pubblici. EPIGRAFI DI V.:  I,    Lirim  Saepe robora cautesque  Et quicquid sibi obstet  Nedum fluitantem scafam  Secum în praeceps abridientem  Ac proinde moriem trajicientibus  Minitabundum Ferdinandus IV  Bonc Reip. natus  Optimo censilio  Firmissimi pontis  Quadrato lapide extructi   Patientem effecit  ut qui antea  multos dies in ripis haerere   Cogebantur  In posterum  Ejus furorem  Despectantes   Tuto et continuo itinere  Transtirent ?. Utinam  Pie VI Pontifex O. M.  Isthaec tua marmorea effigies  Tuorum in Catholicum Orbem menitorum   Memoria non vinceretur.  Deus vere Averrunce  Si  Per te clades  Per te calamitates  Avertuntur  Uno ore tuam fidem imploramus    1 Traggo dagli autografi posseduti dai sigg. Villarosa queste altre  quattro epigrafi di Gennaro V. per l’ interesse storico che esse possono avere, lasciando ad altri di ricercare le occasioni per cui vennero  scritte.   » Di questa iscrizione si trovano tra le carte di Gennaro altre varianti, ma di poca importanza. Adsis dexter adsis praesens semper propitius adsis  Et  cuncta nobis merito ingruentia mala  Prohibeas  In Vesuvit  Jam propinqui hostis  Cladem  Subjectis longinquisque  Semper minitantis  Iram cohibes  Qui anno  superiore  Annum integrum et plus eo  Quasi ratione et  consilio  Sensim ignem in alvo concepit = Paulatim egessit   Eoque levi lapsu  In rivos deductum  Doctus iter melius   Innocuus devolvit  Forsitan uti metu antea tuo nutui semper  parut  Posthac consuetudine tuae voluntati votisque nostris  obsecundare assuescet.  Regium hoc  Templum Maximum Cavense  Sanctae  Dei Genttricis  Elisabetham invisentis  Nomine, et tu  tela augustum  A. D. N. Ferdinando IV Rege  Jure  Patronatus sibr vindicatum Erigi a solo coeptum An. MDVII  Tum mole fatiscens sua  refectum  Consecratum vero VI  Non. Majas Terrae dehinc motibus. Labefactum et restitutum  Quum adhuc ultimam manum expeciaret  Ordo Populusq. Cavensis  Eadem pecunia publica,  quae illud evexit, refecitque  Collata ut alias a suis Pontificibus  In opus symbola  Absolutum tandem sublaqueavit   Omnique ex parte prisco squalore deterso  Picturis opereque  albario exornatum  In novam hanc splendidioremque formam   Redigendum curavit I Credo accenni al  gran miracolo, operato [da S. Gennaro il 22 di  ottobre del 1767], quando nel comparir sul Ponte [della Maddalena] la  statua d’argento del Santo, cessò di botto l'eruzione » del Vesuvio (D’OnoFRJ, Elogio, p. LXxIH). Onde fu collocata sul Ponte stesso la statua del  Santo, con la destra levata verso il vulcano.  AVVERTIMENTI !  PER L’ INSEGNAMENTO DEL LATINO    di V. Essendo il ragazzo, siccome si scrive, di talento, e che  promette di sé liete speranze, sia cura del dotto ed avveduto maestro non immergerlo troppo ne’ rudimenti di grammatica, li quali poi dovrà dediscere; ma sopratutto esercitarlo nelle coniugazioni e declinazioni, e nei principali precetti  della sintassi; e tutto il di più farglielo apprendere dall’ interpretazione de’ scrittori latini, essendo grandissima la distanza del parlare de’ grammatici dal parlare de’ latini. Questo basti: che nello spiegare lo scrittore latino gli facci fare  in ogni membro una minuta analisi delle parti che lo compongono, e non lasci passare neppur la menoma particella  senza spiegargliene la proprietà e la significazione; e nella  ripetizione farsene render conto. Di poi quel tratto che ha  spiegato, obbligarlo a riportarlo in iscritto tradotto, acciocché il fanciullo di buon’ora si avvezzi a ben concepire, a  nobilmente spiegare le idee, non essendoci esercizio più profittevole per la gioventù quanto quello delle traduzioni; poiché, avendo il giovane [da] trasportare da lingua in lingua,  ed avendo ciascuna lingua un genio particolare di concepire, e quindi spiegare le idee, egli è costretto di riflettere    I Dall’autografo esistente tra le carte Villarosa.] ed esaminare la maniera propria con cui lo scrittore latino  ha concepito, e quindi spiegato quel pensiero, per poi studiarsi  di concepirlo e di spiegarlo secondo il gusto particolare della  sua lingua natìa. E questo è quello che si chiama spirito  di lingua, che rende l’acquisto di una lingua tanto difficile,  che vi bisogna la vita di un uomo, per poterla conseguire;  dovendosi la diversità de’ termini e dei vocaboli riputare più  tosto un giuochetto di memoria. Quindi si rileva quanto  vantaggio rechi ad un giovane il continuo esercizio delle  versioni, che, oltre al conseguire lo spirito della lingua da cui  trasporta, senza accorgersene, acquista e la norma di saper  con naturalezza ordinare li pensieri, e quindi saperli con felicità concepire, e quindi con nobiltà e chiarezza spiegarli, consistendo tutta la difficoltà nel concepire. Un pensiero felicemente concepito, sarà sempre facilmente spiegato:    Verba provisam rem non invita sequuntur.    Onde Cicerone disse: Oplimus dicendi magister stylus.   Sento che sia esercitato nel tradurre Cornelio Nipote e  Virgilio. Perché due scrittori così vicini per l’età in cui fiorirono, e così lontani per il genere in cui scrissero ?_ Non  istimo proprio ad un ragazzo, che appena sta imparando il  volgar latino, metter in mano Virgilio, che, come poeta, studia di allontanarsene quanto più può, secondo quel detto di  Cicerone, poétae alia lingua loquuntur. È l’istesso che se,  per far apprendere ad un oltramontano la nostra volgare lingua italiana, si mettesse in mano Petrarca, Tasso, Ariosto.  Li poeti, perché alia lingua loquuntur, devono riserbarsi all’ultimo. Il giusto metodo d'’ istituire la gioventù nello studio  della lingua latina sarebbe farle prima apprendere la lingua  volgare e familiare latina, e per questa dovrebbesi ricorrere  alli purissimi due fonti inesausti di essa, Plauto e Terenzio,  essendo gli argomenti delle comedie avvenimenti che sì raggirano nell’uso della vita privata; ma non si deve, per far  apprendere la purità della volgar lingua, esporre la gioventù  al pericolo di corrompere la purità de’ costumi, che è quel  che più deve interessare. Si eviti questo scoglio e si sostituiscano l’ Epistole familiari di Cicerone, li di cui argomenti  sì versano presso a poco sull’ istesso: ed ecco che il giovane  acquista il sermone volgar latino.   Spedito che sia il giovane nell'acquisto della lingua volgare privata, mettergl’ in mano gli elegantissimi Commentari  di Giulio Cesare, ne’ quali acquisterà la lingua pubblica, tanto  necessaria per le arti della pace e della guerra; ed in essi  la conseguirà nella sua somma purità e chiarezza, e tale e  tanta, che ne riportò il grande elogio di Cicerone, che, parlando de’ Commentari di Cesare, dice che egli li lasciò, perché poi ci fosse stato chi potesse scriverne l’ istoria: ma poi  soggiunge: stultis gratum facere potuit, perché gli uomini  dotti ed avveduti disperarono poterne scrivere una storia con  quella limpidezza e eleganza, con cui Cesare scrisse li suoi  Commentari. |   E Virgilio fu il solo tra i latini che non solamente sostenne, ma ancora rivendicò la gloria del nome romano contro la superbia de’ disprezzanti greci, che solevan distinguersi  da tutte le altre nazioni; e ciò con qualche ragione in rapporto alla felicità della lor lingua. Il qual pregio li romani  stessi, che chiamavano barbara la maestosa lingua latina  quante volte volevano metterla al confronto della greca, con  somma ingenuità confessarono; come, fra gli altri attestati,  ve n'è quello di Plauto nella comedia intitolata Asinara,  ove fa dire al Prologo, che l’autore di quella comedia era  stato Demofilo, poeta greco, e che M. Accio Plauto l’aveva  tradotta in latino: Demophilus scripsit, Marcus vortit barbare, cioè latine. Così, al contrario, di rimbalzo, li romani  poterono rivendicare la gloria del loro nome con opporre a  tutta la Grecia il solo Virgilio, ché tutta la Grecia non aveva  prodotto un ingegno così stupendo e quasi divino, il quale  feliciter audax era riuscito egualmente ammirabile in tutti  tre li caratteri del dire, nel tenue ed umile nelle sue Bucoliche, nel florido ed ornato nelle Georgiche, nel grande e  sublime nell’ Eneide: e Torquato Tasso ardì d’imitarlo e  riuscì felice in due solamente: essendo costante in tutti li  scrittori di qualunque genere sieno, che chi è riuscito in una delle tre note, non è riuscito nelle altre due; e così a vicenda:  ed in fatti nella pittura,  la quale è sorella della poesia:    Poéma est pictura loquens, mutum pictura poéma.     li principi delle tre famose scuole che fecero risorgere tanto  felicemente la pittura in Italia, Raffaello d’ Urbino nel carattere tenue e delicato, Tiziano nel complesso e carnuto,  Michelangelo Buonarota nel robusto e lacertoso, ciascuno non  uscì fuori dei confini che si aveva prescritti.   Non dico poi di Orazio, il quale nelle sue liriche non solo  tentò di gareggiare con Pindaro; ma si foggiò una forma  di dire tutta nuova e tutta di conio suo così inimitabile, che  dopo di lui fiorirono tra i latini molti nobili poeti, ma niuno  osò scrivere in quel genere di poesia, in cui Orazio summum  tetigerat; così inimitabile che può dirsi, che egli fu il primo  e l’unico che vi fosse riuscito.   Finalmente, per ritornare all’ intento, e render la ragione  perché li poeti debbano riserbarsi all’ultimo, essendo la loro  locuzione lontanissima dalla volgare, intendendo di escludere  in rapporto della locuzione li poeti comici, li quali solamente  sono poeti riguardo all’ invenzione della favola; imperciocché,  per quel che s’appartiene alla locuzione, devono usare una  locuzione affatto volgare, come sopra si è detto.   Poi farlo passare alla lezione di chi cerca di elevarsi un  poco al di sopra del sermon volgare; ed a questo primo  grado subentia la locuzione oratoria, la quale, quantunque  deve conformarsi al senso comune, nulla di meno deve usare  una maniera di ragionare più culta e più elaborata, in guisa  però che facciasi intendere dall’uom volgare; quindi passare  alla lezione delle Orazioni di Cicerone.   Spedito che sarà il giovane degli oratori, passi alla storia;  la quale usa una locuzione posta in mezzo tra la locuzione  oratoria e la locuzione poetica, perché lo storico ha da  far due parti in comedia, le parti di oratore, nelle allocuzioni, che fanno generali all’eserciti, magistrati a popoli,  come sono ammirabili quelle di Livio; ed ha da sostener le  parti di poeta nelle descrizioni di battaglie, di assedi, di espugnazioni di città; onde Cicerone dice, che in historia funduntur verba prope pottarum: non assolutamente poetiche;  ma prope pottarum. Finalmente far passare il giovane alla  lezione de’ poeti; la di cui locuzione è lontanissima dalla volgare, perché, siccome devono dilettare colla novità delle favole, così ancora colle novità della locuzione, dall’ammirazione delle quali novità nasce il diletto: usano nuove forme  di dire che inebbriano l’anima di piacere; richiamano in uso  voci antiche e disusate, le quali, perché disusate, chiamate  in uso, sembrano nuove; adoperare voci straniere, le quali,  come le mode straniere, sogliono dilettare; e ciascuno si foggia un nuovo genere di dire: ed ecco quel di Cicerone, 04tae alia lingua loquuntur. E questo sarebbe il metodo profittevole alla gioventù nella lezione de’ scrittori latini. LETTERA DI FINAMORE  A V, Ill.mo Signore, Signore e Padrone Col.mo,    Contestando la vostra favoritissima de’ 12 andante con  quella semplicità di espressioni e veracità di sentimenti che  inspira la fama de’ vostri rari talenti e della vostra [mo]destia 1; mi fo un dovere di ringraziarvi distintament[e delle]  gentilissime espressioni, onde, ad onta del mio de[bole ingegno ?], mi onorate. Quindi protesto le mie indelebili.... zioni  alla vostra generosità che si compiacque.... non solo di compatire una mia memoria sullfe antichi]tà di questa mia  patria, rimessavi dalla R. A[ccademia, ma] anche di considerarmi non indegno di esservi aggregato. Allora io non  seppi qual ne fosse stato il degno censore, mentre ne ottenni  la patente di socio nazionale; ma, colla pubblicazione che  nel 1798 fece il dotto segretario Napoli-Signorelli del primo  tomo del Regno di Ferdinando IV, p. 381, dove rilevai che  vi compiaceste fare alla stessa memoria vari commenti e  proporre alcuni dubi da sciogliersi da me medesimo, mi  cadde il pensiero di leggere le vostre erudite riflessioni ed  approfittarmene pria che si pubblicassero negli atti della  R. A. Questo medesimo desiderio, anziché mancare, mi si  avanza di più in più, dopocché ho acquistata la vostra pa  1 Supplisco, quanto è possibile, quel che manca per uno strappo  dell’autografo.] dronanza, e vi prego quanto so e posso di rimettermene  una copia, giacché non sappiamo quando si potranno riaprire le adunanze accademiche. Son sicuro che vi compiacerete di soddisfare queste mie premure, e compatirete il  mio ardimento con quella urbanità che è propria d’un animo  grande.   Veramente da una medaglia urbica disotterrata qui anni  a dietro, del peso di una libra di bronzo, coll’epigrafe greca  ANZANON e nel rovescio ®P, si conosce che il nome poi  latinizzato di Anxanum, sempre identico a questa città, sia  di origine greca; ma non saprei donde derivi la sua vera etimologia. Fatemi grazia d’illuminarmi su tal particolare,  scusando sempre la mia impertinenza. Ai maestri di filosofia  si dee sempre ricorrere in simile rincontro.   Volendomi onorare di vostri graditissimi comandi non  meno de’ vostri caratteri, vi prego di diriggermi le vostre  lettere per la posta, e di significarmi se per la stessa possa  diriggervi a dirittura le mie.   Sono intanto con la più perfetta stima e divozione   di V. S. Illma   Lanciano, li 22 giugno 1804.   Div. obblig.mo Serv. Vostro  FINAMORE !.    I Dall’autografo esistente tra le carte Villarosa. Se Giambattista V. redivivo vedesse questa Italia senza  né Spagnuoli né Austriaci, padrona di sé, grande tra le grandi  nazioni di Europa direttrici della civiltà, conscia della sua  dignità, fiera della gloria de’ suoi figli maggiori, che anche  nei secoli più bui e più duri della divisione politica e della  servitù la fecero con l’altezza dell’ ingegno celebrata e ricercata da tutte le genti più culte, potente collaboratrice, maestra  privilegiata d’ogni arte più splendida e d’ogni più originale  scienza: la vedesse questa Italia tutta qui convenuta in ispirito a rendergli onore in questa aula magnifica della sua  rinnovata università; Giambattista V. sarebbe, non sorpreso, ma sbigottito di così insigne riconoscimento, che egli  non avrebbe mai sperato.   Ma poiché, per alta che fosse la sua intelligenza, l’animo  era ingenuo come di fanciullo e sensibile alla lusinga della  lode, lo sbigottimento facilmente cederebbe il luogo alla schietta commozione, con la quale tornerebbe a ringraziare ancora  una volta la Provvidenza delle traversie d'ogni genere sofferte durante tutta la sua grama esistenza; poiché queste  traversie infine erano state la causa per cui egli si ritirasse  e concentrasse sempre più nella sua solitaria meditazione e  facesse le sue scoperte, e scrivesse il suo capolavoro, la Scienza  Nuova; e fosse, insomma, Giambattista V.. Aveva pubblicato da poche settimane, anzi da pochi giorni,  il suo gran libro; e con quanta trepidazione ne aspettasse i  primi giudizi dei concittadini nessuno dei quali (egli pur lo  sapeva !) era propriamente preparato a rendersi conto dei  profondi concetti animatori della sua opera, si può vedere  dalla lettera che scriveva a un amico. Lettera dolente e  superba, ma tutta piena di alta fede religiosa:    In questa città sì io fo conto di averla mandata al diserto, e  sfuggo tutti i luoghi celebri per non abbattermi in coloro a’ quali  l’ ho io mandata; che, se per necessità egli addivenga, di sfuggita  li saluto: nel quale atto non dandomi essi né pure un riscontro  di averla ricevuta, mi confermano l’oppenione di averla io mandata al diserto. Io poi devo tutte le altre mie deboli opere d’ ingegno a me medesimo, perché le ho lavorate per mie utilità propostemi affine di meritare alcun luogo decoroso nella mia città:  ma poiché questa università me ne ha riputato immeritevole, io  certamente debbo questa sola opera tutta a questa università, la  quale, non avendomi voluto occupato a legger paragrafi, mi ha  dato l’agio di meditarla ». (Dove si accenna alla gravissima delusione toccatagli nel concorso alla importante cattedra di Diritto civile della mattina, alla quale aspirava e si veniva preparando da molto tempo).  Sia per sempre lodata la Provedenza,  che, quando agli infermi occhi mortali sembra ella tutta rigor  di giustizia, allora più che mai è impiegata in una somma benignità ! Perché da quest’opera io mi sento avere vestito un nuovo  uomo, e pruovo rintuzzati quegli stimoli di più lamentarmi della  mia avversa fortuna, e di più inveire contro alla corrotta moda  delle lettere, che mi ha fatto tale avversa fortuna, perché questa  moda, questa fortuna mi hanno avvalorato ed assistito a lavorare  quest'opera. Anzi (non sarà per avventura egli vero, ma mi piace  stimarlo vero) quest'opera mi ha informato d'un certo spirito eroico,  per lo quale non più mi perturba alcuno timore della morte e sperimento l’animo non più curante di parlare degli emoli. Finalmente  mi ha fermato, come sopra un’alta adamantina ròcca, il giudizio  di Dio, il quale fa giustizia alle opere d’ ingegno con la stima de’  saggi, i quali, sempre e da per tutto, furono pochissimi » !. Lett. del 25 ott. 1725 al p. Giacco, in V., L’Autob., il Carteggio  e le poesie varie, ed. Croce-Nicolini. V. nacque il 23 giugno 1668 in uno stambugio sopra la  botteguccia del padre, in via San Biagio dei Librai, n 3I.  Giacché il padre era libraio, figlio d’un contadino di Maddaloni: modestissimo libraio, sposato a una povera donna,  figliuola, a sua volta, d’un carrozziere. Famiglia numerosa:  otto figli. Ambiente povero, buio, triste: dove, anche senza  la tremenda caduta da una scala per cui il fanciullo settenne si ruppe il cranio e perdette molto sangue ed ebbe  bisogno di tre anni di cure per riaversi  o muore, prediceva il cerusico, o sopravvive idiota!  era impossibile che  non crescesse gracile, malinconico, infermiccio, come restò  tutta la vita. Dal n. 31 il padre si trasferì nel 1685 al n. 23,  di rimpetto al Banco della Pietà !: anche qui bottega e mezzanino soprastante. Poca aria e poca luce, e povertà. Quando  perciò il fanciullo a dieci anni poté tornare a scuola, l’anda1e  e il venire erano boccate d’aria vivificanti; quantunque non  ci fossero giuochi né spassi per lui studiosissimo, cresciuto tra  i libri, impaziente della necessaria lentezza e gradualità dello  studiare in comune con coetanei men veloci nell’apprendere.  E per la sua malinconia e precocità, ombroso, puntiglioso.  Abbreviò il corso elementare de’ suoi studî, fin d'allora autodidatta; e iscrittosi poi nel Collegio dei Gesuiti (al Gesù Vecchio) alla seconda classe di grammatica, se ne ritrasse però  prima della fine dell’anno scolastico per un torto fattogli  dai maestri in una gara in cui aveva vinto i primi della classe.  Si chiuse nella libreria paterna e nel mezzanino di sopra. E  giorno e notte sui libri. Da sé quindi, a furia, compì gli studî  di grammatica e di umanità: tutta la sua istituzione letteraria.  Scoraggiato, per la filosofia, da una astrusissima logica, che  gli era stata consigliata, si svogliò e distrasse. Tentò più tardi  tornare dai Gesuiti; ma quantunque il maestro quivi gli desse    ! Per tutte le abitazioni del V. cfr. Note all’Autobiografia, dove  sono i risultati delle molteplici sagaci esaurienti ricerche del Nicolini.] il gusto d’una metafisica che andò a genio al giovinetto allora forse quindicenne, gli parve che troppo costui andasse per  le lunghe con le sue scolastiche distinzioni e sottodistinzioni;  e si ritrasse pertanto da capo a studio privato, e da sé condusse  a termine, con grande applicazione, il corso di filosofia; dal  quale si accedeva alla Università. In questa, dopo avere fatto  da sé, solo frequentando per un paio di mesi lo studio d’un  canonico vicino di casa, insegnante di diritto di molta fama,  s' immatricolò nel 1688 alla facoltà di Leggi; e vi fu iscritto  per quattro anni. Ma non vi mise mai piede, dividendo il suo  tempo tra gli studî giuridici, i lette1arî e i filosofici, pei quali  allora come sempre qui a Napoli grande era l’ interesse delle  persone colte. Una volta tentò i tribunali, in una causa civile,  in difesa del padre. E la fortuna gli arrise; ma sentì egli che  non era nato per la carriera forense. Accettò l'offerta di recarsi a Vatolla, nel Cilento, precettore privato in casa di certi  signori. E lì rinvigorì la salute, che tia gli stenti di Napoli  era minacciata da tisi; e lontano dalle angustie familiari  ebbe per nove anni ozio e serenità d’animo e agio per compiere  il maggior corso, com'’egli più tardi ricordava, de’ suoi studî.    III.    Non aveva peraltro trovato la sua via. Le letture dei libri  recenti di cui nelle sue gite a Napoli si provvedeva, non erano  ordinate. Ma ogni autore metteva in movimento lo spirito  del giovane, lo faceva pensare. E quelle meditazioni assidue  erano più feconde d’ogni più metodica lettura. Ci rimane di  quel tempo una canzone Affetti di un disperato, documento del  pessimismo a cui di tratto in tratto lo spingevano l’ incertezza  dell'avvenire, il pensiero della famiglia lontana miserabile,  e sopra tutto il bisogno inappagato di trovare, in quella sua  indole raccolta e meditabonda, una soluzione a certi problemi  angosciosi. Erano i problemi che letture e forse ricordi di  conversazioni avute a Napoli coi letterati inclini all’ateismo  venuto di moda tra gli spiriti forti, gli avevan fatto intravvedere prima confusamente, poi scorgere in maniera sempre più chiara e paurosa per la sua anima severamente educata  nella fede religiosa e di tempra profondamente mistica. Ma  anche i dubbî, gli errori, che più tardi ricorderà !, degli anni  giovanili, erano pungolo a scrutare più addentro nel proprio  pensiero; finché non gli parve di trovare in Platone e nei Platonici sopra tutto del Rinascimento italiano il fondamento  speculativo incrollabile alle sue sante credenze. Il periodo del ritiro cilentano ebbe  termine; e V. tornò a Napoli. Aveva ventisette anni; il  padre vecchio; sui fratelli non era da fare assegnamento.  Bisognava provvedere alla famiglia, oltre che alla propria  persona. Ricerca affannosa di un’occupazione stabile, anche  umile. E intanto ripetizioni, anche elementari, mal retribuite  e difficili a trovare. Lavori letterari d'occasione (orazioni,  sonetti, canzoni) procuravano bensì qualche magra soddisfazione alla ambizione del giovane ormai maturo, a cui invano  autorevoli personaggi cercavano onorato collocamento. Un  d'essi non seppe far di meglio che consigliargli di farsi frate.  Nel ’97 chiese la carica di segretario del Municipio, che era  ufficio, allora, da letterato, poiché si carteggiava in lingua  latina. Ma la domanda non fu accolta. Due anni dopo, finalmente, concorse alla cattedra universitaria di Eloquenza;  e l'ottenne. Lo stipendio però era di 100 ducati l’anno, poco  più di 35 lire al mese, oltre gli emolumenti non cospicui provenienti dai certificati che l'insegnante di quella cattedra  rilasciava per l’immatricolazione degli studenti alle varie  facoltà. E di cento ducati rimase lo stipendio di V., finché  nel 1735 una riforma di tutto l’ordinamento universitario    I Lett. al p. Giacco del 12 ottobre 1720. Per questi errori giovanili del V. v. CROCE, La filos. di G. B. V.3, p. 286 e Intr. a FINETTI,  Difesa dell’autorità della S. Scrittura contro G. B. V., Bari, 1936; NICOLINI, La giovinezza di G. B. V., Bari, 1932, p. 127; A. Corsano,  Umanesimo e religione in G. B. V., Bari, 1935, 17-22. non glielo raddoppiò; nello stesso anno che il nuovo re Carlo  di Borbone, seguendo il suggerimento del suo cappellano maggiore, uomo di larga mente e dottrina, molto benevolo estimatore di V., lo nominò istoriografo regio con altri cento  ducati di assegno. Ma nel 1735 V. era già presso che al termine della sua carriera; e se fin allora, pur tra disagi, rinunzie  e sacrifizi inenarrabili aveva potuto trascinare avanti l’esistenza, s'era dovuto aiutare con i proventi d’uno studio privato  di rettorica, aperto in una sua casetta in V.lo dei Giganti,  mutata cinque anni dopo in altra alquanto più ampia al largo  dei Gerolamini, dove rimase fino al 1733. Cambiò casa ancora  tre volte; e finalmente nel ’43 andò ad abitare ai Gradini  dei Santi Apostoli, dove morrà nella notte dal 22 al 23 gennaio  dell'anno dopo.   Appena ottenuta la cattedra universitaria, V. non perdette tempo: sposò una povera donna analfabeta e, quel che  è più, inetta al governo della casa; e ne ebbe via via otto  figli, cinque dei quali sopravvissero; e due procurarono al  padre grandi gioie, ma uno altresì dolori acerbissimi. Com’egli  vivesse in mezzo ad essi fanciulli, lo dice egli stesso nell’accenno  che reiteratamente ! fa ne’ suoi scritti al costume suo di meditare e scrivere in mezzo alle conversazioni dei familiari e allo  strepito de’ figliuoli. Altro che la quiete e il silenzio di cui sente  il bisogno ogni scrittore ! Ma la stessa cattedra modesta avuta in sorte gli procurava  almeno una volta l’anno una segnalata soddisfazione; poiché  al professore di Eloquenza spettava di leggere, nel giorno dell’ inaugurazione degli studî, un’orazione latina, sopra argomento d’ interesse generale e filosofico, alla presenza di tutti  1 colleghi e degl’illustri personaggi che erano invitati allora  come oggi a tale solenne cerimonia. V. ne aveva occasione    I Autob.] ad esporre nel latino aureo, di cui la familiarità quotidiana con  gli scrittori classici lo aveva reso maestro, i più alti concetti  che nelle sue meditazioni veniva maturando intorno alla natura dello spirito umano, alla società, a Dio. In nuce oggi  possiamo scorgere in quei concetti quasi tutta la filosofia  posteriore. E V. doveva in quelle occasioni cominciare ad  assaporare il gusto del pensiero, che, levandosi sovrano sopra  tutte le cose e tutte le idee, acquista la coscienza di non so  che divino, che è la sua forza e la sorgente della sua superiore  certezza. Onde a lui veniva fatto di dire, non potersi il fine  degli studî altrove collocare che nel proposito di coltivare  una specie di divinità dell'animo nostro ». La sua filosofia  platonizzante lo confermò poi sempre in questa intuizione  della divina essenza delle idee, che l’uomo scopre con la  riflessione dentro il proprio animo, e quindi di questa natura eroica, come già diceva Platone, ossia partecipe del  divino, che è propria dello spirito umano che venga in  possesso della verità. Intuizione, che fu sempre l'’ ispirazione più profonda del carattere religioso del suo pensiero e di quella lirica commozione che scuote ognora più  vigorosamente la sua filosofia. Scrive infatti vivendo il suo  pensiero come una demoniaca rivelazione interiore, che lo  eleva al di sopra di sé e gli dà quella certezza che il pensiero  umano attribuisce alla mente divina. Comporre quelle orazioni,  leggerle a quegli uditori d’eccezione, in cui si raccoglieva il  fiore dell’ intelligenza e della cultura napoletana, e poi per  giorni e giorni serbare le impressioni provate in quell’ora  solenne, e illudersi magari sul valore degli applausi di cui,  sì sa, raramente l’uditorio è avaro all’oratore che finisce  di parlare, era pure un motivo di compiacimento. In parte  era anche appagamento dell’amor proprio di letterato, a cui  V., come i suoi coetanei spasimanti per gli ozî, le parate e i  mutui incensi delle accademie era sensibile (e forse in modo  anche superiore all’ordinario, in ragione del candore dell’uomo  vissuto per lo più fuori del mondo); ma in parte era la gioia  che prova ogni nobile spirito al cospetto della verità o di  quella che innanzi gli splende come tale. Lampi di luce che  rischiaravano a un tratto la penombra faticosa e triste a cui il povero filosofo abitualmente era condannato. Ma l’animo  ne era spinto a innalzarsi dalle miserie della vita quotidiana  al puro cielo dei grandi pensieri luminosi e rinfiancato a durare nella fatica e nella meditazione. Lezioni pazienti e umili,  prosaiche cure domestiche, e letture di grandi scrittori antichi  e moderni che lo traevano in su, alle cose serene e immortali.  Quelle orazioni, salvo qualche riecheggiamento di filosofia  cartesiana, allora diffusa a Napoli come l’ultimo figurino di  Francia, si aggirano tra le idee platoniche. Ondeggiano pertanto  tra la raffigurazione di un divino mondo trascendente, di là  da questo della vita nostra mista di luce e di tenebre, di dolori e di gioie, di essere e di non essere, e un acuto senso dell’unità profonda del divino e dell'umano, e però della grandezza  e potenza creatrice dell’uomo considerato in quella sua spirituale essenza, dove l’alta vena del divino preme a scorgere  l’uomo alla cognizione del vero e alla volontà del bene e ad  ogni arte che conferisce ai mortali il dominio delle loro passioni  e delle forze stesse della natura. Ma cogli anni l’orizzonte di V. si allargava e arricchiva.  Leggeva Bacone, che con la sua critica dell’antico sapere,  fondato su presupposti razionali e costruito per deduzione  raziocinativa, col suo vigoroso appello all’esperienza, al particolare, al mondo che non è nel pensiero, ma di fronte ad esso,  non conosciuto a priori, ma da conoscere, da studiar sempre  perché non mai abbastanza conosciuto, con l’alto suo grido  dell’ instauratio magna ab imis fundamentis a cui la scienza  moderna doveva accingersi, gli aprì quasi gli occhi ad una  seconda vista. Cogttata et visa (titolo di uno scritto baconiano)  divenne uno de’ motti prediletti di V.. Pensare, analizzare  i pensieri, criticare le opinioni ricevute nell’animo, sì; ma prima  vedere, percepire, aprire l’animo al nuovo, con cui la vigile  esperienza ad ora ad ora lo investe, lo scuote, lo trasforma.  Cartesio a lui platonico aveva già mostrato chiaramente il  carattere tutto moderno di quel pensiero a cui il filosofo francese richiamava; e che non era più pensiero in sé, la verità  divina a cui lo spirito umano aspira, ma il pensare dell’uomo  che ha coscienza di sé, del fatto in cui esso consiste. Fatto  umano, ma certo. Coscienza, non propriamente scienza. Fatto  che è lì nello spirito umano, nella coscienza che questo ha di  sé; non più. Ma, come tal fatto, investito d’un valore che è  discutibile che possa attribuirsi alla verità, quale il pensiero,  analizzando e deducendo, ce la pone innanzi. Si tratta di  quel valore di certezza, che è il primo postulato del pensiero  moderno, stanco d'ogni dommatismo e di ogni affermazione,  per logica che sia, della quale naturalmente si possa dubitare.  Altro il vero, altro il certo. E la sete di certezza, ossia di una  verità che non sia passivamente ricevuta, ma acquistata come  la verità che consti, e sia nostra verità, della quale non si  possa dubitare senza rinunziare al pensare, e che perciò regga  a ogni critica, e sia da accogliere non perché si abbia la fortuna o sfortuna di appartenere a una chiesa, a una scuola,  a una gente, ma perché si è uomini dotati di ragione; questa è  l’ inquietudine salutare che muove il pensiero moderno:  nella filosofia, come nella religione, nella politica e in ogni  forma della cultura. Inquietudine non di spiriti scettici, rassegnati alla propria ignoranza, anzi di spiriti positivi, costruttori, che han bisogno di possedere saldamente la realtà.   E questa inquietudine riempie l’animo di V. quando  nel 1708, riprendendo l’abitudine da un biennio intermessa  delle orazioni inaugurali, scrisse il discorso De nostri temporis  studiorum ratione, pubblicato con aggiunte l’anno dopo. È  una polemica contro l’ imperante cartesianismo, contro quel  filosofare superbo, sprezzante di ogni erudizione storica od  esperienza o poesia, o forma, in genere, della vita spirituale  che non sia puro pensiero o astratta ragione: filosofare sordo  alla storia, alla vita sociale, ai sensi, alle passioni, d’un astratto  spirito tutto ragione, senza né memoria, né fantasia, né percezione sensibile, chiuso in sé e lavorante nel vuoto. Rivendicazione quindi del concreto, del particolare, dello storicamente  determinato; di quello che non si deduce, ma si apprende,  direttamente, materia di topica», come V. ama dire nel  linguaggio della retorica tradizionale, prima che di  critica». Filologia, non filosofia. Ma affermazione insieme della necessità della critica, della filosofia a complemento e intelligenza  d'ogni sapore filologico o comunque di fatto. Certo e insieme  vero. Su questo punto si concentrò l’attenzione del filosofo, che  l’anno appresso si trovava ad aver delineato nella mente tutto  un sistema di filosofia, di cui pubblicò nel 1710 la prima parte  contenente la metafisica; tre anni dopo abbozzò, in un opuscolo, stampato postumo verso la fine del secolo in una rivista  napoletana finora irreperibile, la parte seconda relativa alla  fisica; e tralasciò la terza, la morale, poiché la materia di essa  venne assorbita nelle maggiori opere posteriori. Questo De  antiquissima Italorum sapientia diede fama all'autore, facendolo conoscere fuori di Napoli, specialmente per l’ importante polemica che ne seguì tra gli scrittori del Giornale de’  Letterati d' Italia, che si pubblicava a Venezia, e V.. Ma  quel che attrasse l’attenzione fu piuttosto la cornice che il  quadro: non la dottrina espostavi, in cui era l'originalità e  l’importanza storica, notevolissima, dell’operetta, ma l’ ipotesì artificiosa e falsa con cui questa dottrina era presentata  come dottrina antichissima degli Italiani, attestata dalle etimologie di alcune voci della lingua latina interpretate col  metodo arbitrario usato da Platone nel Cratilo. Ipotesi di  cui il primo a fare più tardi la critica perentoria sarà esso  V., quando dimostrerà l’assurdo dei dotti, che da Platone  in poli avevano attribuito ai primitivi una sapienza riposta,  ossia una vera e propria filosofia. Ma la cornice, come accade,  compromise il quadro, poiché gli uomini guardano più alla  forma che alla sostanza; e la sostanza, che era una scoperta  da fare epoca, passò inosservata. Era la soluzione del problema  della moderna filosofia, dell’unità, come dirà V. stesso,  del vero col certo, del pensiero con l’esperienza, delle idee  con i fatti, o, secondo una formula prediletta da V., della  filosofia con la filologia. Giacché in questa prima parte del De antiquissima V. premetteva alla stringata esposizione  della sua metafisica  una sorta di dinamismo spiritualistico  analogo alla contemporanea monadologia leibniziana, che ben  servirà di sfondo alla filosofia che V. svolgerà poi nella  Scienza Nuova  un cenno di teoria del conoscere che ha una  strana somiglianza, pur essendone differentissima, con la celeberrima teoria che sarebbe stata esposta settant'anni dopo da  Kant nella Critica della ragion pura. Dove tutti gli storici  della filosofia asseriscono aver ricevuto del pari soddisfazione,  ed essere stati quindi conciliati, gli opposti indirizzi filosofici  precedenti dell’età moderna: quello empiristico che comincia  con Bacone e giunge allo scetticismo di D. Hume e quello  razionalistico che da Cartesio arriva alla metafisica di Leibniz. Ma la conciliazione era stata fatta qui a Napoli settant'anni  prima in questo modestissimo libricciolo vichiano con la teoria  fermata in un motto di conio scolastico diventato poi quasi  proverbiale: verum et factum convertuntur; ossia, il vero consiste nel fatto, poiché chi sa è chi fa, e della natura non fatta  da noi, noi non possiamo osservare perciò e conoscere se non le  apparenze, o i fenomeni, come aveva pur detto Galileo; e del  perché, della essenza dell’operare che a noi si manifesta in  forme fenomeniche, non ci è dato fare altro che una scienza  per congettura, probabile e soddisfacente per la ragione,  ma priva di quella certezza, che è carattere specifico del sapere  scientifico. Con certezza noi possiamo sapere quel tanto di cui  noi siamo autori. Poco, secondo le prime riflessioni suggerite  a V. dalla sua scoperta: ossia le grandezze matematiche,  che sono innanzi a noi ed esistono, in quanto noi le costruiamo  (numerando o tracciando triangoli e quadrati). Così anche  per V. in questa prima forma della sua gnoseologia, le matematiche, come per Galileo e per la massima parte dei pensatori  contemporanei, rimangono il tipo della scienza perfetta.  Non impoita per altro qui vedere quali scienze V. conceda  alla mente umana; importa invece il carattere che egli attribuisce alla scienza: questo carattere costruttivo della realtà  che ne è l'oggetto. Concetto che evidentemente nega la preesistenza dell’oggetto alla mente che lo conosce, e conferisce  a questa un’attività creatrice di quel mondo che essa è in grado di conoscere; sicché la certezza del fatto viene a coincidere con questa intimità della mente al mondo di cui è artefice. È la certezza del poeta che è il creatore de’ suoi fantasmi,  come Dio crea gli uomini vivi; ed è perciò dentro di essi, e ne  conosce tutti i segreti. La verità è, sì, pensiero (evidenza  delle idee alla mente), come voleva Cartesio; ma il pensiero  non è spettatore di quel che si rappresenta, bensì produttore.  Il fatto di cui perciò siamo certi, non è quello di cui siamo testimoni; ma quello invece di cui noi siamo gli attori (costruendolo o ricostruendolo).   Si vedrà poi se noi siamo costruttori e creatori di astratti  numeri e di astratte entità geometriche, o di qualche cosa  di più saldo e reale; e cioè di quanto il nostro potere s’assomiglia a quello che attribuiamo a Dio. Intanto la via è aperta.  E V. procederà.    VIII.    Procederà speculando, chiuso nel suo cervello, anche nei  colloqui amichevoli e tra gli strepiti domestici. I coetanei non  sospetteranno questo nuovo mondo che egli viene tentando  e scrutando con trepidazione. Quelle sue pretese etimologie  delle parole più filosofiche della lingua latina lo avevan fatto  apparire agli occhi dei letterati piuttosto un pedante che un  pensatore: lo avevan screditato cervello balzano e incline ad  abusare della dottrina, anziché dimostrare l’elevatezza eccezionale del suo ingegno filosofico.   Un lavoro storico scritto tra il 1714 e il '16 per commissione, la Vita di Antonio Carafa, gli diede occasione di leggere il De iure belli et pacis di Ugo Grozio; e questo poi gli  fece cercare gli altri autori famosi di diritto naturale, Giovanni  Selden e Samuele Pufendorf; e gli spiegò innanzi al pensiero  più vasto e concreto orizzonte che non fosse quello degli astratti  concetti ricavabili o no da poche etimologie latine: il mondo  della storia al suo primo uscire dalla barbarie alla civiltà  mediante il formarsi del diritto. Tutta una storia da ricostruire solo in piccola parte filologicamente, e nel suo complesso invece per congetture e argomenti di ragione appoggiata a  considerazioni filosofiche intorno alla natura umana. Il problema dell’origine storica e ideale del diritto gli si affacciò  subito come il problema dell’origine e della natura dell’umanità, o della civiltà (poesia e religione, istituzioni sociali e  giuridiche, scienze e filosofia): tutto l'insieme delle cose umane,  dipendenti comunque dalla volontà o dalla intelligenza dell’uomo: quello che più tardi V. stesso dirà  mondo delle  nazioni ». Problema di preistoria, che era poi un problema  di storia, ma sopra tutto un problema di filosofia. Poiché le  origini non si prestavano a essere ricostruite e interpretate  se non al lume della stessa natura operante nel processo storico  del diritto e in genere della civiltà; e quindi in base al concetto  di questa natura onde si rende intelligibile ogni punto del  processo storico. Il grande posto che occupava nella cultura  e nell'ordinamento universitario il Diritto romano veniva per  tal via ad illuminarsi agli occhi del V. di nuova luce. Quelle  antiche fonti della giurisprudenza romana, che agli occhi  suoi erano state fin allora argomento di osservazioni filologiche,  a un tratto si innalzarono a sorgenti della più veneranda  sapienza; le parole diventarono cose, la filologia si trasfigurò  in filosofia.   Donde una più intensa applicazione del V. al diritto.  Quindi l’idea di non più tentate ricostruzioni del diritto romano e di tutta la storia che nel diritto converge; e nel 1720-2I  la pubblicazione del Diritto Universale, ossia di due volumi,  uno De universi juris uno principio et fine uno e l’altro De  constantia iurisprudentis, preceduti nel 1719 dalla Sinopsti  del diritto universale (foglio volante che anticipava l’ idea  dell’opera) e seguito nel ’22 dalle Notae, contenenti aggiunte  e correzioni. Quindi la speranza per qualche anno accarezzata e finita nella dolorosissima delusione che s'è veduta,  di poter aspirare alla grande cattedra mattutina di Jus civile (che gli avrebbe sestuplicato il troppo magro stipendio).  Ma, sopra tutto, il primo scontro, per così dire, in campo  aperto, di V., studioso, filosofo, scopritore di nuove idee e  grande riformatore della scienza del suo tempo, coi rappresentanti di questa, che erano poi gli uomini con cui egli doveva vivere e fare 1 conti. Il largo giro delle questioni abbracciate nel Diritto Universale, non pure giuridiche e filosofiche, ma religiose, storiche  e letterarie, interessanti ogni genere di studiosi di scienze  morali, e l'originalità delle tesi che in ogni campo l’autore vi  propugnava, in un primo abbozzo di quella che pochi anni  dopo sarà la Scienza Nuova (pubblicata dall'autore la prima  volta nel '25, la seconda nel ’30 e l’ultima nel ’44) non poteva non mettere in qualche modo il campo a rumore. Ma la  sorte del Diritto Universale fu subito quella che sarà più tardi  la sorte dell’opera maggiore e più matura. La forma del pensiero vichiano era così paradossale e, in apparenza, così intenzionalmente rivoluzionaria rispetto alle opinioni tradizionali,  così ostentata, col solito candore del filosofo, la propria originalità, così frammentarie e affrettate le prove filologiche  dove ne occorressero, così pregnanti e sommarie quelle filosofiche a cui più spesso si faceva ricorso, così rapida e pure  involuta e contorta l'andatura del pensatore, tutto rapito  nella gioia delle sue intuizioni e nulla curante del pubblico  a cui pur s' indirizzava, da procurare al V. la taccia di oscurità, che pesò a lungo, in vita e dopo, sulla opinione che si  ebbe di lui e impedì l’ intelligenza e la fortuna del suo pensiero,  e gli diede mala voce tra i contemporanei. Gli venne la fama  di spirito malinconico, bizzarro, senza criterio, privo di buon  senso, stravagante, cervello imbrogliato e fantastico; e anche  peggio. Amici, o malevoli, tutti celieranno sulla oscurità  del filosofo. Era ripreso comunemente per oscuretto, scrisse  con la sua mite bonomia il Metastasio. L’acre Giannone dava  ragione a quel dotto napoletano che si stomacava  in vedere  che i compilatori degli Att# di Lipsia tanto si travagliano  per intendere le fantastiche ed impercettibili idee del V.,  quando, per non torcersi il cervello, non dovrebbero nemmeno  fiutare i suoi librettini »; e quando vide l’autobiografia vichiana, non si peritò di battezzarla la cosa più sciapita e trasonica  insieme che si potesse mai leggere ». Di certe composizioni  letterarie del filosofo, come di quell’orazione che egli scrisse  con magnificenza di stile per la morte d’una culta gentildonna,  che lo aveva degnato della sua benevola amicizia, Angiola  Cimini marchesana della Petrella, si rideva; e un letterato  di buon umore ne fece strazio in una satira bernesca, che  girò per Napoli manoscritta, rappresentando il filosofo maestro  di scuola. V. stranulato e smunto  Colla ferola in mano e ’l Passerazio    (che era un commentario ai poeti elegiaci romani). Della  orazione per un’altra dama, che V. stesso mostrava a un  letterato senese venuto a fargli visita nel 1726, questi scriveva  a un amico le stranezze notatevi, aggiungendo:  Il bello che  vi ha in questo discorso è che nella prima sola facciata vi  sono due periodi, nel primo dei quali tra ’1 nome agente ed  il verbo ci corrono undici versi e nel secondo quattordici ».  Il lucchese Sebastiano Paoli, sopra un esemplare della Scienza  Nuova inviatogli dall'autore annotò un suo distico:    Culpa mea est, solus si non capio tua dicta;  Culpa tua est, nemo si tua dicta capit.    E certamente era in buona parte colpa del V. se nessuno,  proprio nessuno, lo capiva. Vero quello che egli sentenzia in  una sua bellissima lettera del ’29, quasi a propria discolpa:  So bene che ’1 comune degli uomini è tutto memoria e fantasia: e perciò hanno sparlato tanto della Nuova scienza,  perché quella rovescia tutto ciò che essi con errore si ricordavano e si avevano immaginato de’ principî di tutta la divina  ed umana erudizione. Pochissimi sono mente » 1. Vero altresì  quel che egli dice nella stessa lettera e altrove della cultura  contemporanea, tutta dietro ai metodi, per se stessi vuoti    I Autob.] e infecondi, e all’analisi laddove l’ ingegno è sintesi, e alla  critica, che genera lo scetticismo, sempre a caccia del facile,  del chiaro, ignorando che la facilità così fiacca ed avvelena  gl’ ingegni siccome la difficoltà gl’ invigorisce ed avviva »;  e quel correr dietro ai compendî, ai manuali, ai dizionari, che  sono il cimitero delle scienze. Tutto verissimo; ma restava che  egli, fisso nelle idee che sgorgavano con vena abbondante e  impetuosa dalla sua potente ispirazione, ne era trascinato  come da un estro, da un furore eroico, e non sentiva più il  freno dell’arte; non era più in grado di mettersi avanti il  suo pensiero per introdurvi quell’ordine, che si richiede a  dare unità così a un periodo, come ad un libro o a tutto un  sistema di idee. Ma coloro che favoleggiano di tragedia vichiana,  di una lotta trilustre incessante del V. con la sua materia,  ribelle ad ogni regola, ad ogni lavoro che la riducesse a lucidus  ordo, a forma efficace e persuasiva, e la rendesse prima di tutto  ben chiara e distinta allo stesso V., non distinguono in questa  famosa questione della oscurità di V. due cose differentissime. C'è l'oscurità oggettiva, per dir così, e c’ è l'oscurità  soggettiva. L'una propria del pensiero non logicamente configurato, quale dev’essere perché possa valere in sé, essere  comunicato altrui ed inteso da chi ascolta come da chi parla,  da chi legge come da chi scrive. L’altra è l’oscurità sentita  dallo stesso autore, che vede e non vede, ma sospetta le lacune che non sa colmare nel suo pensiero, e non possiede  insomma la verità che gli brilla da lungi davanti, che egli  si sforza di raggiungere ma non vi riesce. La proclamazione  frequente che s’ incontra in V. delle proprie scoperte dimostra una coscienza fermissima d’essere in possesso del vero;  e lo stesso stile poetico, tutto fantasia corpulenta ed espressioni scultoree che si scolpiscono infatti nella fantasia del  lettore e non si dimenticano più, sprezzante di ogni cura didascalica, tutto vibrante di passione e infuso di trionfante eloquenza che si spande con l’empito d’una forza di natura   tutte qualità che sono caratteristiche della prosa vichiana e  ne costituiscono la grande attrattiva, e stavo per dire l’ incanto  dimostrano che egli è convinto bensì di trattare cose  molto difficili, e che richiedono lunga e aspra meditazione ad essere intese; ma è convinto altresì che gli altri, per difetto  loro, trovano oscuro quel che splende alla sua mente di luce  abbagliante. Non è un maestro esemplare perché, sotto la  spinta del dèmone che lo possiede, non pensa più agli scolari  che stanno ad ascoltarlo; e si chiude in un soliloquio, che non  deve servire se non per lui stesso. Così, perché il V. si affida  sempre alla memoria, che troppo spesso l’ inganna e lascia  correre ne’ suoi libri tante citazioni sbagliate ? Perché non  s' è presa la cura di controllare i ricordi delle sue letture e  magari corredare le sue affermazioni con note esatte che  confortassero e alutassero il lettore al riscontro delle fonti  di cui egli si serviva ? È lo stesso motivo che fa sdegnare a  ogni schietto poeta il commento della sua poesia, quantunque  un buon commento storico e filologico riesca sempre utilissimo  alla piena intelligenza del lavoro poetico. Ma il poeta, in quanto  tale, è assorto in un suo mondo, dove non sono né lettori né  ascoltatori: ed è solo, l’unico, infinito, come Dio. V., quantunque sia tornato nove o dieci volte sul tema suo dal primo  abbozzo del Diritto Universale all'ultima forma della Scienza  Nuova e fino all’estremo della vita, si può dire, abbia sempre  tenuto presente l’opera sua, postillando, aggiungendo, correggendo, in essa, sottraendosi alle angustie della vita terrena,  domestica e sociale, fu assorto, felice. E in quel continuo  sforzo di revisione e ritocco è l’artista che accarezza la sua  creatura, e rinnova il calore e il dolce gusto della creazione.   Bisogna sentire questo calore, questo vigore poetico dello  scrittore per rendersi conto di siffatti caratteri dello stesso  pensiero vichiano. Mi permetterò quindi di leggere una pagina presa a caso dalla seconda Scienza Nuova; una pagina  dove si assiste al primo apparire dei sensi di umanità tra gli  uomini, ancora fieri bestioni: Con tali nature [ossia, con nature di fanciulli pronti a crear  le cose con la fantasia] si dovettero ritruovar i primi autori dell'umanità gentilesca quando  dugento anni dopo il diluvio per  lo resto del mondo e cento nella Mesopotamia.... (perché tanto di  tempo v’abbisognò per ridursi la terra nello stato che, disseccata  dall’umidore dell’universale innondazione, mandasse esalazioni  secche, o sieno materie ignite, nell’aria ad ingenerarvisi i fulmini) il cielo finalmente folgorò, tuonò con folgori e tuoni spaventosissimi, come dovett’avvenire per introdursi nell’aria la prima volta  un’ impressione sì violenta. Quivi pochi giganti, che dovetter  esser gli più robusti, ch’erano dispersi per gli boschi sull’alture  de’ monti, siccome le fiere più robuste ivi hanno i loro covili, eglino,  spaventati ed attoniti dal grand’effetto di che non sapevano la  cagione, alzarono gli occhi ed avvertirono il cielo. E perché in  tal caso la natura della mente umana porta ch’ella attribuisca  all’effetto la sua natura.... e la natura loro era in tale stato, d’uomini  tutti robuste forze di corpo, che, urlando, brontolando, spiegavano le loro violentissime passioni; si finsero il cielo esser un  gran corpo animato, che per tal aspetto chiamarono Giove, il  primo dio delle genti dette maggiori, che col fischio de’ fulmini  e col fragore de’ tuoni volesse loro dir qualche cosa....    In tal guisa i primi poeti teologi si finsero la prima favola divina,  la più grande di quante mai se ne finsero appresso, cioè Giove,  re e padre degli uomini e degli dèi, ed in atto di fulminante; si  popolare, perturbante ed insegnativa, ch’essi stessi che sel finsero,  sel credettero, e con ispaventose religioni il temettero, il riverirono  e l’osservarono ! AI centro del quadro, dunque, la religione. Essa crea e mantiene, secondo V., la civiltà, stringe gli uomini a una legge, è  fondamento e forza dello Stato, perché primo principio e  radice di tutta la vita dello spirito. Il quale con l’idea, 10zza  da principio e tutta materiale, d'un Dio che vede l’uomo,  gli parla e può correggerlo con la sua forza strapotente, dà  inizio alla sua vita e dispiega i germi segreti che sono nella sua  natura, passando dalla venere vaga al matrimonio e ai primi  nuclei sociali, dal nomadismo errabondo alle sedi fisse, all'occupazione della terra, all'agricoltura, e a tutte le forme  della vita civile. E quando le società decadono, dalla religione  debbono rifarsi, e però da quello stato tutto fantasia in cui  l’uomo crea la sua fede e ne è investito, sorretto, animato,  S. N. 1744 ed. Nicolini (Bari, Laterza, 1928) capoverso 377.  e irrompe perciò nella più potente poesia, tutta passione  ed estro.   Ma la religione di V. scopritore della scienza nuova non  è propriamente quella di V. cattolico sincero e fervente:  non è quella che interviene dall’alto nella vita umana naturale per salvarla con una forza superiore di cui l’uomo non  potrebbe venire mai in possesso da se medesimo. Egli distingue infatti il popolo eletto, privilegiato della grazia divina,  dalle nazioni gentili, o  tutte perdute » 1, come dice una volta;  la cui storia si propone di spiegare con rigoroso senso  scientifico per vie affatto naturali; in quanto ogni uomo,  come uomo, è creatore del suo mondo. E la nuova scienza è  appunto quella del mondo umano storico, che, a differenza  del mondo naturale, è conoscibile perché prodotto della mente  umana, e intelligibile secondo la logica di questa mente;  e dà luogo perciò a questa nuova scienza che non è, come una  volta si diceva, la filosofia della storia, ma, al dire dello stesso  V., la  metafisica della mente » 2. E questa non può ammettere, per la sua natura filosofica, presupposto di sorta; neanche  religioso. Come Cartesio partiva dal dubbio universale (de  omnibus dubitandum) per assistere allo svolgimento di una  scienza che potesse dedursi da un principio certo, V. a  capo della sua ricerca insiste sulla necessità di vestire per alquanto, non senza una vtolentissima forza, la natura degli  uomini primitivi che andarono tratto tratto a disimparare la  lingua d’Adamo, e, senza lingua e non con altre idee che di  soddisfare alla fame, alla sete e al fomento della libidine, giunsero a stordire ogni senso d’umanittà 3. Perciò, ridurci in  uno stato di una somma ignoranza di tutta l’umana e divina  erudizione.... poiché in cotal lunga e densa notte di tenebre  quest’una sola luce barluma: che ’1 mondo delle gentili nazioni  egli è stato pur certamente fatto dagli uomini». In mezzo  a un oceano di dubbiezze su queste remote origini dell'umanità,    I S. N. ed. Nic. cv. 47.   ? S. N.! ed. Nic. cv. 40 e passim. Questa metafisica è filosofia dell’Umanità per la serie delle cagioni »; filosofia dell’Autorità o storia  universale delle nazioni  per lo séguito degli effetti ». S. N.! cv. .   3 S. NI ed. Nic. cv. cit. non ricorrere alla rivelazione (domma sacrosanto della nostra  fede, ma pel quale non est hic locus)  appare questa sola  picciola terra dove si possa fermare il piede: che i di lui principii sì debbono ritruovare dentro la natura della nostra  mente umana e nella forza del nostro intendere » 1. Infatti  quella Provvidenza che per V. illumina la mente dell’uomo,  genera il conato ? della sua volontà, promuove il libero volere a operare in quel modo per cui si viene a grado a grado  tessendo questa tela del mondo delle nazioni, tutto provvidenziale, logico, indirizzato al dispiegarsi dell’umana natura  ossia all’arricchimento progressivo dell'umanità di questo  mondo, non è la Provvidenza trascendente o soprannaturale,  che faccia agire gli uomini quasi inconsapevoli strumenti di  fini superiori. L'uomo ha libero arbitrio, osserva V., per  quanto debole; arbitrio di fare delle passioni virtù; arbitrio  che da Dio è aiutato naturalmente con la divina provvidenza, e soprannaturalmente dalla divina giazia ».   Questo aluto soprannaturale della grazia V. non nega;  è ben lontano dal dubitarne; ma non entra nel suo quadro,  dove campeggia l’azione naturale della Provvidenza. Essa  è l’architetta di questo mondo delle nazioni. E perché ? Perché,  nota V.,  non possono gli uomini in umana società convenire, se non convengono in un senso umano che vi sia una  divinità la quale vede nel fondo del cuor degli uomini » 3.  È questo senso umano, che fa il miracolo: quello che V.    I Da tener presente il classico luogo della seconda Scienza Nuova:   Ma, in tal densa notte di tenebre ond’ è coverta la prima da noi lontanissima antichità, apparisce questo lume eterno, che non tramonta,  di questa verità, la quale non si può a patto alcuno chiamar in dubbio: che questo mondo civile egli certamente è stato fatto dagli uomini,  onde se ne possono, perché se ne debbono ritruovare i principî dentro  le modificazioni della nostra medesima mente umana. Lo che, a chiunque  vi rifletta, dee recar maraviglia come tutti i filosofi seriosamente si  studiarono di conseguire la scienza di questo mondo naturale, del quale,  perché Iddio egli il fece, esso solo ne ha la scienza; e trascurarono di  meditare su questo mondo delle nazioni, o sia mondo civile, del quale,  perché l’avevano fatto gli uomini, ne potevano conseguire la scienza  gli uomini » (S. N. 1744 ed. Nic. cv. ).   2 Sul conato, che è libertà v. S. N. 1744 cv. 340; cfr. cv. 504, 689.   3 S. NU ed. Nic. cv. 45. dice senso comune, anch'esso definito da lui  fabbro di questo  mondo delle nazioni»: quello che a tutti i più antichi sapienti delle nazioni gentili fa temere spaventosamente gli déi  ch'essi stessi si avevano finti. E coincide perciò come  unità  della religione d’una divinità provvedente» con l’ unità  dello spirito, che informa e dà vita a questo mondo di nazioni » 1, Questa Provvidenza è anche platonicamente definita  una mente eterna ed infinita, che penetra tutto e presentisce  tutto, la quale.... ciò che gli uomini o popoli particolari ordinano a’ particolari loro fini, per gli quali.... essi anderebbero  a perdersi,... fuori e bene spesso contro ogni loro proposito,  dispone a un fine universale » 2. Opera essa con la regola  della sapienza volgare, la quale è un senso comune di ciascun  popolo o nazione, che regola la nostra vita socievole in tutte  le nostre umane azioni così che facciano acconcezza in ciò  che ne sentono comunemente tutti di quel popolo o nazione ».  Ogni nazione ha il suo senso comune; ma tutti i sensi comuni convengono e concorrono nella sapienza del genere  umano » 3.   Giacché questo senso comune che fa tutto, non va confuso con lo spirito individuale del singolo uomo. Opera tante  volte attraverso il singolo, come s'è visto, contro il proposito e l’ intendimento di lui. Perché pur gli uomini», conferma  V. a conclusione della sua opera nell’edizione definitiva,  hanno essi fatto questo mondo di nazioni...: ma egli è questo  mondo, senza dubbio uscito da una mente spesso diversa ed  alle volte tutta contraria e sempre superiore ad essi fini particolari ch’essi uomini si avevan proposti; quelli fini ristretti,  fatti mezzi per servire a fini più ampi, gli ha sempre adoperati  per conservare l’umana generazione in questa terra. Imperciocché vogliono gli uomini usar la libidine bestiale e disperdere i loro parti, e ne fanno la castità de’ matrimoni, onde  surgono le famiglie; vogliono i padri esercitare smoderatamente gl’ imperi paterni sopra i clienti, e gli assoggettiscono    I S. N. 1744 ed. Nic. cv. 9I6 e 915.  2 S. N.! ed. Nic.] agl’ imperi civili, onde surgono le città; vogliono gli ordini  regnanti ne’ nobili abusare la libertà signorile sopra i plebei,  e vanno in servitù delle leggi, che fanno la libertà popolare;  vogliono i popoli liberi sciogliersi dal freno delle lor leggi, e  vanno nella soggezion de monarchi; vogliono i monarchi in  tutti i vizi della dissolutezza, che gli assicuri, invilire i loro  sudditi, e gli dispongono a sopportare la schiavitù di nazioni  più forti; vogliono le nazioni disperdere se medesime, e vanno  a salvarne gli avanzi dentro le solitudini, donde, qual fenice,  nuovamente risurgono ». Ebbene:  Questo che fece tutto ciò,  fu pur mente, perché ’1 fecero gli uomini con intelligenza;  non fu fato, perché ’1 fecero con elezione; non caso, perché  con perpetuità, sempre così faccendo, escono nelle medesime  cose » !.   La storia è prodotto della libertà dello spirito; il quale  ha la sua logica universale, divina, provvidenziale, consistente nella legge dello stesso sviluppo spirituale. Questo attraversa tre gradi: senso, ancora inconsapevole; avvertimento  di questo senso; ragione o  mente tutta spiegata ». E tutta  la storia con ritmo costante passa eternamente per tre stati,  divino, eroico ed umano, correndo e ricorrendo questo libero  processo dello spirito, e informando a volta a volta tutte le  forme della propria vita alla legge del grado di sviluppo in cui  lo spirito viene a trovarsi: ora vedendo da per tutto la divinità  e tutto attribuendo alla sua forza eccedente ogni umano potere; ora sentendo in sé la divina natura e fidando nell’ invitta  forza del proprio eroico volere; ora riconoscendo l'universalità  della natura umana e placando perciò l’ impeto e la fierezza  del più forte per piegarlo al diritto della ragione eguale per  tutti. Dalla religione e quindi dalla poesia alla scienza, alla  filosofia, alla riflessione che doma il costume violento e la  forza immoderata della giovinezza, e la raggentilisce. Ma pur  finisce per fiaccare la fibra vigorosa che è necessaria alla sanità  degl’ individui e delle nazioni. Onde queste decadono, ma per  risorgere, poiché la dissoluzione della civiltà, che si è tutta  piegata nella struttura giuridica e morale dello Stato, è ri  I S. N. 1744, ed. Nic.] torno alla barbarie primitiva; ossia al provvidenziale principio da cui la civiltà trae la sua origine. L'uomo infatti allo  stato primitivo non è cosa inerte che debba essere messa in  moto da una forza estranea; ha in sé, nei semt eterni di vero  che, secondo V., giacciono sepolti in noi, in quella sorta  di mens anim di cui parlavano i Latini, il principio del  movimento. Lo spirito è autonomo, non aspetta né prende  nulla da fuori: né arte né scienza né leggi né 1eligione. Uno  dei corollari più celebri di questa dottrina, la negazione vichiana della origine greca delle Leggi delle XII tavole.   E la legge dei corsi e ricorsi, per cui le nazioni risorgono  tornando ai principii, se giova a spiegare il Medio Evo come  una barbarie ricorsa dopo la decadenza del mondo classico  e a scoprire la sorgente della civiltà moderna; se ci fa intendere la grandezza di Dante  che per il primo V. giudica,  con altezza di criterio estetico, come un nuovo Omero, il  toscano Omero » 3  è pure e prima di tutto la legge eterna  della mente umana. La quale non aspetta secoli e millennii  per tornare ai suoi principii. Torna e ritorna con eterno moto  circolare in ogni ideale momento della sua vita. È il ritmo  della sua costante, immanente natura. Giacché se può dirsi  che l’ individuo abbia, nel corso irreversibile della sua vita  naturale, come tre età distinte e successive, una fanciullezza  divina e tutta poetica, una giovinezza eroica e una maturità  fatta di riflessione, la vita tutta dello spirito si mantiene  per uno sviluppo che è acquisto di forme nuove e conservazione delle precedenti. L’uomo sano, finché non infermi e  discenda per la china degli anni, non perde né la divina ingenua fanciullezza, né l’eroica animosa giovinezza dello spirito.  Soltanto così è possibile la poesia dell’artista provetto, e l’operare risoluto e magnanimo dell’uomo esperto delle leggi della  vita. E ben fa ogni uomo anche avanti negli anni a invocare  la divina giovinezza che torni a rinsaldare il suo braccio e    I S. N. ed. Nic. cv. 49.   2 S. N. 1744, ed. Nic., cv. 696.   3 S. N. 1744, ed. Nic. cv. 786. Cfr. S.N. cv. 312; Lett. 26 dic. 1725,  in Autob., p. 195; e il Giudizio sopra Dante, in Opere ed. Ferrari.] a fermare il suo cuore; anzi a tener vivo nel suo segreto il  fanciullino pascoliano, senza di cui la stessa natura s’ inaridisce  e il mondo, spopolato dei nostri fantasmi, diviene un deserto.  V. non attribuì mai a’ suoi corsi e ricorsi quella rigidità  meccanica, che altri ha creduto.   Quanta luce egli con tal suo concetto dello spirito umano  e della storia in cui questo si specchia abbia gettato sul mondo  dell’arte, sulla morale, sul diritto; quante intuizioni felici e  divinatrici abbia quindi avute nell’ interpretazione e ricostruzione dei tempi oscuri e favolosi, segnatamente per i primi  secoli della storia romana, anticipando Niebuhr e Mommsen,  ancorché costoro abbiano preferito tacere e misconoscere il  precursore geniale; come egli abbia creato del pari la moderna  critica omerica, non è possibile dire con la necessaria chiarezza  in quest'ora. Né v’ è modo qui di illustrare il carattere preromantico del pensiero vichiano, cioè il suo antirazionalismo  e la sua accentuazione dei momenti prelogici dello spirito:  nonché il suo profondo concetto della storicità della realtà  spirituale che si fa gradualmente quello che è, senza salti né  arbitrii. Onde è stato detto che tutto il secolo decimonono  è già nella Scienza Nuova.   Certo, essa fu il libro oscuro, ma singolarmente suggestivo,  che i patrioti napoletani del ’99 studiarono, anche senza intenderlo tutto, come il libro sacro delle nuove generazioni.  Il libro che Cuoco, quando, fallita la rivoluzione giacobina, il  problema dell’ Italia una e indipendente cominciò a porsi  con una profonda coscienza storica, realistica e veramente  politica, esaltò come il vangelo dell’avvenire. E gli esuli napoletani lo additavano a Milano al principio del secolo, quando  l’ Italia si svegliava: e Monti, Foscolo e Manzoni sentivano  la potente originalità delle dottrine vichiane e ne traevano  suggestioni e idee ispiratrici; e V. diventava il filosofo  italiano. E se dal Cuoco Mazzini attinse o fu confortato ad  accogliere l’ ideale dell’unità e la convinzione che l’ Italia  non potesse esser fatta se non dagl’ Italiani; se Rosmini e  Gioberti, lavorando a dare agli Italiani una coscienza filosofica che li riscattasse da ogni servaggio spirituale, che non  è mai altro che un aspetto del servaggio politico, ebbero un nome, un grande nome a cui appellarsi, di filosofo che altamente rappresentasse l’ ingegno speculativo italiano; l’ Italia  moderna, ricordando V., deve sentire che da lui comincia  la sua nuova storia. È Lo storico che prenda a studiare le relazioni del V. con  Caitesio, si trova innanzi a due problemi distinti e diversi.  Uno è quello dei giudizi del filosofo italiano sul francese;  l’altro delle reali attinenze storiche tra i problemi della filosofia vichiana e quelli venuti su per opera di Cartesio.   Il problema dei giudizi, sui quali preferiscono insistere gli  studiosi del V., e in Italia negli ultimi quaranta anni ne  abbiamo avuti di veramente insigni  basta nominare B.  Croce e F. Nicolini, che hanno fatto ogni possibile luce sugli  angoli più oscuri della vita, degli scritti, dei tempi e della fortuna del V.  è un problema che appartiene più alla biografia che alla storia della filosofia, quantunque non sia possibile staccare del tutto il pensiero dalla personalità del filosofo, né si possa prescindere dai motivi che a volta a volta  egli ebbe per assumere questi o quegli atteggiamenti verso i  rappresentanti tipici di certe dottrine, senza rischiare di togliere al pensiero di un filosofo tutto il suo colorito e il suo  significato storico. D'altra parte, nella biografia d’un filosofo  la sua filosofia non è un elemento secondario o da collocarsi  sullo stesso piano con altri elementi che possono sembrare di  pari importanza. Perché infine la sostanza della personalità  ideale o storica d’ un filosofo è nel pensiero, anzi nella logica  del pensiero in cui vennero assorbiti tutti gl’interessi della sua  vita. Di guisa che se i particolari biografici d’un pensatore rischiarano la sua mente e le sue dottrine, di quei particolari  stessi non è possibile intelligente valutazione e rappresentazione  efficace e concludente, a chi non li sappia scorgere nella luce  del pensiero in cui essi storicamente ebbero il principio vivente di quel tanto di realtà che spetta loro storicamente.  Si potrà dire che in una rappresentazione compiuta e coerente  della realtà storica d’un filosofo elementi biografici e speculativi debbono richiamarsi reciprocamente e costituire tutti  insieme un sistema unico e compatto. Ma bisogna soggiungere  che l’anima di questo sistema sarà evidentemente la logica  delle dottrine che lo dominarono. Sostanziale dunque e preliminare il secondo problema,  relativo alle attinenze storiche obbiettive tra filosofia vichiana  e filosofia cartesiana. Attinenze che non è facile fissare, a mio  parere, se non si distinguono nella prima tre fasi diverse,  tutte connesse intrinsecamente tra loro in guisa da costituire  un unico processo di svolgimento, ma nettamente distinte  l’una dall'altra in maniera da spiegare per quali vie il pensiero  del V. sia pervenuto alla sua forma più matura, quale si  trova nella Scienza Nuova, anzi nella seconda edizione di questa.   Queste tre fasi sono: La fase neoplatonizzante, rappresentata dalle giovanili Orazioni inaugurali, da V. riordinate e  ritoccate nel 1708-09, ma non giudicate mai degne di venire  alla luce, e pubblicate infatti solo nel secolo XIX.   2) La fase critico-empirizzante rappresentata principalmente dal De nostri temporis studiorum ratione, dal De antiquissima Italorum sapientia e dalle polemiche che tennero dietro  a quest’operetta col Giornale dei letterati.   3) La fase metafisica in cui si disegnò la nuova filosofia  della storia, come filosofia della mente, abbozzata da prima  nel Diritto Universale e svolta quindi nella prima  e seconda Scienza Nuova. La prima fase contiene i germi della seconda e della terza,  ma non ancora distinti e non fecondati dal vivo soffio dei  problemi a cui la mente del V. si aprì per effetto dell’ intensa  meditazione dei motivi della filosofia moderna, di cui son  documento evidente i nuovi atteggiamenti speculativi da lui  assunti nella seconda fase. Sicché la chiave di volta di tutta  la sua filosofia è in questa seconda fase, quando da Cartesio,  da Bacone, dalle correnti prevalse anche per opera del Galilei  nel pensiero moderno, V., per dirla kantianamente, si svegliò  dal sonno dommatico della vecchia metafisica, in cui la lettura  e l'ammirazione dei nostri grandi Platonici del Rinascimento  l'avevano già immerso. Con Cartesio egli comincia a sen-  tire il problema della certezza; con Bacone scorge la sterilità  del procedere deduttivo astratto della pura ragione, caro alla  Scolastica medievale e contemporanea, e di quel metodo. geo-  metrico che con i Cartesiani eta venuto in grande onore tra  i facili filosofanti alla moda della seconda metà del Seicento;  e la necessità del fatto, del nuovo, del concreto, dell’esperienza  e dell'esperimento: ma sente pure la fenomenalità del sapere  scientifico intorno ai fatti della natura, tra i quali ogni nesso  causale interno è impossibile allo spirito umano che la natura  sì rappresenta dualisticamente come esterna ed estranea allo  spirito. Quel dubbio, che Cartesio, dopo averlo energicamente  svegliato, sopisce col dommatismo dell’ idea di Dio, e che  attraverso l’empirismo dovrà necessariamente sboccare allo  scetticismo di Hume, è il potente lievito della speculazione  vichiana, tutta rivolta nel secondo e nel terzo periodo a risol-  vere il problema d’un sapere che unisca il certo dell’empirismo  col vero della ragione, della logica, del pensiero puro. Problema  che egli potrà risolvere quando, in luogo della natura, assumerà  ad oggetto del pensiero lo stesso pensiero o quello che il pen-  siero nel suo sviluppo crea. Ma il dubbio, ossia la profonda  coscienza dell'autonomia del soggetto nella sua assoluta  posizione di puro soggetto  che si stacca dall'oggetto, e deve  uscire da questa sua astratta e vuota soggettività per ricon-  quistare l’oggetto, dov’ è la sua vita,  questo dubbio affatto  cartesiano e punto platonico, che non s’ è impossessato an-  cora del V. nelle giovanili Orazioni inaugurali (nella prima delle quali l’autore cartesianeggia, ma ripetendo Cartesio  senza metterne in rilievo l’originalità, anzi mettendolo sullo  stesso piano di Agostino e Ficino); questo dubbio che nel De  antiquissima V. sente anche più profondamente del filosofo  francese, con la sua distinzione tra scientia e conscientia, la sua  teoria tutta fenomenistica e scettica del signum che non è  causa; esso è il punto di partenza della più significativa teoria  di V. da lui formulata col celebre motto: verum et factum  convertuntur. Che sarà il tema della Scienza Nuova.    Quando V. intende e fa suo il problema cartesiano della  certezza  egli diventa il primo vero cartesiano nella folla  dei cartesiani di Napoli della fine secolo XVII; ma un carte-  siano che già combatte Cartesio; perché non si contenta più  del carattere intuitivo e immediato del cogito ergo sum  che  non è, ai suoi occhi, se non semplice accorgimento, constata-  zione, coscienza di un fatto; non è spiegazione e quindi reale  possesso o scienza della verità che per tale coscienza si viene a  intuire. La certezza sì è il più urgente bisogno del nuovo sa-  pele: ma la certezza non è coscienza o intuito dell’essere che  il pensiero non può non trovare nella sua propria esperienza  di essere pensante; è bensì scienza, deduzione, costruzione  (tenere formam seu genus quo res fiat) di questo essere. Il  quale, cioè, allora veramente si conosce e si apprende e di-  venta saldo scoglio in mezzo a quell’oceano di dubbiezze in  cui lo spirito è gittato dalla critica cartesiana, quando s' in-  tenda quale esso è: non essere immediato, ma essere che è  sviluppo, spiegamento, attuazione e conquista di se medesimo. Quindi non idee chiare e distinte come essenza dello spirito;  non innatismo; non razionalismo (quel razionalismo che sarà  poi un secolo più tardi illuminismo); ma graduale passaggio  dello spirito dall’ ignoranza al sapere, dalla fantasia corpu-  lenta, anzi dal senso oscuro, alla ragione tutta spiegata; e  restituito il suo valore alla memoria e alla cognizione del  passato, e alle lingue e alla filologia; e la religione anch'essa non lasciata in disparte e come espulsa dal processo razionale  dello spirito, salvo ad essere invocata da ultimo a comple-  mento e puntello della vita morale e sociale dell’uomo, ma  rimessa al suo posto, alle origini della vita spirituale, dove  essa anticipa, consacra e rinsalda la fede dello spirito nel  prodotto della sua creatrice potenza. Insomma, quando co-  mincia ad essere cartesiano, V. è già anticartesiano, e non  risparmia più gli strali della sua ben munita faretra contro  Cartesio e cartesiani, contro metodi e dottrine del proprio  tempo. E pai che rimandi sempre dal nuovo all’antico, da  Cartesio a Platone e seguaci, laddove il motivo della sua  insistente polemica è più moderno ancora di tutti i motivi  della filosofia contemporanea: è un cartesianismo approfon-  dito e affrancato dalle catene del dommatismo vecchio stile  con cui Cartesio s'era da se medesimo tornato a incatenare. V. ebbe un senso acuto della novità e originalità assoluta  del suo filosofare. Basti rammentare il titolo della sua opera  maggiore, preannunziata in modo solenne nel Diritto Universale  (nova scientia tentatur !) +. E chi si lascia prendere a’ suoi con-  tinui appelli a Platone, e si sforza di confondere la sua dottrina  con quella di Agostino, non ha occhi per vedere la luce del  sole. V., senza dubbio, ha incertezze? e ambiguità di espressione. Ce ne sono in tutti i filosofi. E nessuno che abbia familiarità con la storia del pensiero umano, si può meravigliare  delle professioni di fede e delle personali proteste in cui egli De const. iurispr. Caratteristica, a mio avviso, quella che V. ebbe nella serie  di Correzioni, miglioramenti e aggiunte alla Scienza Nuova seconda,  scritte nel 1731, e che il NicoLINI nella sua edizione del 1911 inserì  a suo luogo nel testo lib. II, cap. 4 (I, 242-44) ma giustamente  relegò in appendice nella nuova edizione, dal titolo  Riprensione delle metafisiche di Renato delle Carte, di Benedetto Spinoza  e di Locke. Preparata per una futura ristampa della seconda  S. N., l’autore invece non l’accolse nella ristampa del 1744. Perché ?  Pel sapore panteistico di essa, come è stato creduto ? Certo il rimesce di frequente nel trepidante ma schietto candore delle  convinzioni che gli sono confitte più addentro nell’animo,  poiché l’uomo, nella sua formazione mentale, fu naturalmente  investito da poderose correnti di cultura tradizionale e costretto quindi, in un faticoso travaglio tre e quattro volte  decennale, a lottare contro la sua vecchia anima per liberarsi  da ogni scoria che gl’ impedisse di veder chiaro co’ propri  occhi e fare del froprio sentimento regola del vero, giusta il  monito cartesiano, che V. accetta e apprezza nel suo giusto  valore (Sec. risp., in Opere, ed. Laterza). Quello che  V. riesce a dire di nuovo, di suo,  quella verità nella cui coscienza egli si esalta e sente la propria  vita immortale, non è platonico, né baconiano, né cartesiano,  né lockiano, né tanto meno conforme alla dottrina tradizionale dei Padri o dei dottori della Chiesa. È la sua scoperta.  La quale contrappone il mondo delle nazioni, o della storia,  o della mente (com’egli pur dice), al mondo della natura, per  attuare rispetto al primo quel che solo rispetto al primo è  possibile, un ideale di scienza non più tentata mai nel passato: dove Dio opera nella sua razionalità o provvidenza  attraverso il senso comune degli uomini: ossia mediante lo  stesso pensiero umano nel suo universale cammino dal senso  alla ragione, dalla schiavitù alla libertà: un cammino il cui  ritmo è intelligibile perché divino insieme ed umano, anzi  divino veramente in quanto umano. E il dualismo è superato,  perché per intendere e sapere il pensiero può rinunziare all’ inutile conato di uscir da sé, anzi deve profondarsi in se  medesimo. Rispetto a questo umanismo, o spiritualismo che si dica,   o piuttosto, se mi sì consente, rispetto a questo idealismo    provero che vi si muove a Cartesio, rinverga con quello analogo di  Spinoza, che cioè il filosofo francese abbia cominciato dal pensiero dell’uomo anziché da un’ idea semplicissima quale è quella di Dio, eterno,  infinito, libero. Ma il vero è che questo modo di filosofare, spinoziano  o no, per cui si comincia da un'idea e si procede more geometrico, era  di quel genere metafisico (tutto verità senza certezza) a cui V.  aveva voltato le spalle e che non poteva rientrare più nel quadro del suo  sistema.  della Scienza Nuova,  il mondo di Cartesio, con le sue tre  sostanze, una primaria (Dio) e due secondarie (pensiero ed  estensione) è un’anticaglia da relegare per sempre in soffitta.  La filosofia cessa di essere quella vuota metafisica, che sarà  condannata da Kant, e di cui il pensiero moderno, malgrado  tutti gli sforzi che si fanno sempre per galvanizzare i morti,  non vuol proprio più sapere. Non è più metafisica, perché  diventa tutt'uno, come inculca V., con la filologia: con la  scienza del certo, del fatto, che è fatto per noi che se ne ha  esperienza, ed è perciò nostro fatto, immediata posizione del  soggetto nel suo mondo. E quindi il vero della filosofia, l’ idea,  oggetto una volta di pura speculazione, o meglio costruzione  di un astratto pensiero dommatico, senza base nell’ intimo  dell'esperienza, che è lo stesso sentire, o il soggetto, è tiamontato.   Il cogito cartesiano che nel tempo stesso che V. cominciava a filosofare aveva incontrato l’ irriducibile opposizione  del sentire di Locke, veniva per tal modo da V., anche più  risolutamente che non sarà da Kant mezzo secolo dopo,  risoluto e inverato nella sintesi dei due termini opposti. Il 23 gennaio di quest'anno si compiva il secondo centenario della morte di Giambattista V.. E se le contingenze  presenti non consentono che la data sia celebrata come la  grandezza dell’uomo meriterebbe, e come infatti ci si preparava a celebrarla quando non erano ancora prevedibili i  luttuosi avvenimenti degli ultimi mesi; non è possibile che  l'Accademia la lasci passare sotto silenzio. Che se il rimbombo  dei cannoni potesse infatti coprire la voce d’Italia, che suona  tra le genti Dante, Michelangelo, V. e dice Roma, Firenze,  Napoli, allora veramente dovremmo credere che la barbarica  forza della civiltà meccanica possa prevalere sulle forze immortali dello spirito. E se le ansie dell’ora ci costringono a  limitare a breve ed austera cerimonia la commemorazione di  V., questa tuttavia deve significare il sentimento profondo  religioso con cui il popolo italiano intende custodire i ricordi  sacri delle sue origini e dei fondatori della sua realtà morale.  Potranno gli stranieri non conoscere l’altezza spirituale di  V., come si può dire s’ inchinino tutti universalmente innanzi a Dante o Michelangelo; come certamente non riescono  ad ostentare un fiero disprezzo per i valori che si compendiano nei nomi di Roma e di Firenze, città privilegiate di  più vasta orma dello spirito creatore dell’uomo, senza una  segreta trepidazione come per un atto di sacrilega infamia.  Per molto tempo gli stessi Italiani ignorarono le ragioni della grandezza di V.; di lui avevano piuttosto un sentore che  un chiaro concetto; a lui s'accostavano con la sacra reverenza  con cui gli uomini s’accostano a un Nume, tanto più esaltato  nell'animo, quanto più misterioso, e cioè men conosciuto ed  inteso. Grande il fascino esercitato dallo scrittore, e avidamente cercate per un secolo dalla sua morte le sue opere,  di cui le edizioni si moltiplicavano, principalmente a Napoli  e a Milano, ed eran citate in ogni sorta di libri; e tracce della  lettura di quelle opere sono frequenti presso che in tutti gli  scrittori italiani degli ultimi decenni del Settecento e dei  primi del secolo seguente: molte le monografie e le ricerche  intorno ad alcune delle più celebrate dottrine del filosofo.  Il quale per altro, anche dopo la doppia edizione delle sue  opere complete dovuta a Giuseppe Ferrari, alla vigilia e all'indomani del ’48, doveva aspettare chi lo scoprisse e ne  svelasse criticamente il pensiero: ciò che fecero due insigni  storici napoletani, Bertrando Spaventa e Francesco De Sanctis.  Paragonabile anche per questo rispetto a Dante, che, sia  detto subito, V. fu il primo a scoprire nella sua schietta  sostanza poetica guardata per la prima volta e intesa dall'alto  punto di vista estetico a cui V. con la sua filosofia si sollevò.  A Dante per più secoli segno di sconfinata ammirazione,  consacrato col titolo di divino », ma stretto dentro una  folta selva di letteratura dotta, più o meno filosofica o mistica,  ed erudita e ingegnosa ed anche astrusa, ma aliena dalla  poesia dantesca; e tutta esteriore: commenti e discussioni  e lezioni accademiche sull’ interpretazione dell’allegoria, sulla  struttura dei tre regni, sul sistema morale e punitivo dell’Alighieri, e illustrazioni filologiche e polemiche. Storia lunga  copiosa accidentata della fortuna esterna del Poeta, da farne  una biblioteca; la quale può dimostrare come si possa infinitamente amare un genio come un uomo qualsiasi, dell'uno o  dell’altro sesso, senza intenderlo. La stessa sorte toccata a  V. nel primo secolo dalla sua morte. Ma non accade altrettanto agli uomini grandi anche nella vita quotidiana ? Una  folla di mediocri li riverisce e si dà attorno per provar loro  una sconfinata devozione: ombre che li seguono per tutto  dove possono, e fan corteo pompeggiandosi dell'onore che è per loro la familiarità con quegli uomini illustri. E in verità  la costoro intelligenza, per modesta che sia, non è del tutto  chiusa a una certa vaga ma insistente e ferma intuizione di  ciò che è grande; ed è causa infatti che i grandi si rassegnino  e non sentano fastidio di siffatti corteggiamenti e persecuzioni  da sottrarvisi a forza; giacché, sia pure in forma banale e  stucchevole, una testimonianza è loro tributata da siffatta  compagnia: la testimonianza ingenua e perciò immediata,  schietta, sincera di un consenso che è conforto ambito dal  genio: la conferma del valore della sua opera che nell’approvazione ed ammirazione degl’ incolti e dei semplici può avere  anche maggior peso del giudizio dei dotti fondato su ragioni  sempre discusse e sempre discutibili. Che se l’uomo grande  sente dentro di sé la voce che l’approva e l’assicura, quando  questa voce interna riecheggia da altre anime plaudenti,  acquista solennità, come di voce di popolo che è voce di Dio.   Dentro perciò la fortuna esterna corre un filo d’oro, più  o meno consapevole, di critica interna e di serio e obbiettivo  giudizio, quasi di progressiva conquista che il genio fa gradatamente degli spiriti di un popolo, attraverso i quali si viene  rivelando e si attua in tutta l’energia della sua potenza ispiratrice e formativa anche al di là dei limiti segnati alla coscienza dell’ individuo dalla sua esistenza mortale. Tanto è  difficile dire ciò che della realtà storica è opera di un individuo  determinato, e ciò che dei suoi fantasmi e de’ suoi pensieri  è svolgimento e maturazione dovuta alla collaborazione delle  menti, in cui la vita di quello si perpetua e più compiutamente si realizza.   La fortuna esterna di V. culmina nelle ricordate edizioni  delle sue opere a cura di Giuseppe Ferrari, che sciolse il  voto ardente dei patrioti napoletani del ’99, specialmente di  Vincenzo Cuoco, raccoglitore sui primi del secolo degli scritti  vichiani dispersi, propagatore assiduo di alcuni de’ concetti  più originali di V. nella Milano di Monti, Foscolo e Manzoni  e propugnatore appunto di una edizione completa delle opere.  I lavori illustrativi e critici di Ferrari sono ancora parziali  e talvolta unilaterali intuizioni di quella  mente di V.,  che lo scrittore milanese fece tema di molte esercitazioni storiche e filosofiche tra l’erudito e il brillante. Ma hanno  valore di gran lunga inferiore delle sparse osservazioni in cui,  poco meno di mezzo secolo innanzi, aveva spaziato l’alto  intelletto di Cuoco, storico e pensatore politico di razza.  La vera scoperta di V. fu resa possibile dopo Ferrari, quando  la storia del pensiero italiano si rinnovò e trasfigurò sotto  l'influsso dei movimenti spirituali d’oltralpe del periodo  romantico.   Comunque, nei decenni della lunga vigilia V. fu presente  e operò nel pensiero italiano. Quello che ne apprese Cuoco e  trasfuse nel suo Saggio sulla rivoluzione napoletana e nel suo  romanzo Platone in Italia, s' è dimostrato in tutta la sua  importanza quando codeste opere negli ultimi decenni le  abbiamo potute a nostra volta rileggere e vedere nello spirito  che le animava e che più chiaro ed organico era manifesto  negli articoli anonimi che Cuoco nei primi anni del secolo  pubblicò a Milano nel Giornale Italiano. Articoli per più di  un secolo dimenticati; ma avevano fecondato le menti dei  lettori contemporanei, e più tardi fermata l’attenzione di  Mazzini giovane; il quale ne trascrisse qualcuno ne’ suoi  Zibaldoni, traendone ispirazione alla politica unitaria e costruttiva di cui doveva essere l’apostolo. Quella politica che  insegnò agl’ Italiani, ed è da augurarsi che possa tuttavia  insegnare, che la libertà  e quindi l’unità e l’ indipendenza   d’un popolo non può essere un grazioso dono degli altri, ma  una conquista a prezzo di sacrifici e di piena dedizione. Che  era concetto vichiano: non esserci valore spirituale che possa  provenire d’altronde che dallo spontaneo sviluppo della  stessa attività dello spirito.   E non basta il binomio Cuoco-Mazzini a provare la grande  importanza storica dell’azione esercitata dal V. in questo  periodo in cui si può dire che egli ancora si cerchi e non si  trovi? Ma giova pure avvertire che tutto vichiano, quasi  nello stesso tempo, è il concetto dell’uomo, e quindi dell’ Italiano, di Vittorio Alfieri: vichiana l’anticipazione ch'egli  pur fa della conquista ulteriore di uno degli elementi più  cospicui dell’ italianità quale prese forma e splendore nella  coscienza della nuova Italia: voglio dire del giudizio su Dante, che prima V. e poi l’Alfieri cominciano a vedere nella sua  reale grandezza poetica. E da V. e da Alfieri il giudizio  passa in Foscolo, Mazzini e Gioberti, massime in questo, e  diventa uno dei cardini della coscienza nazionale esaltata  nel Primato.   Non è possibile asserire che Alfieri abbia letto V.. Ma,  oltre il giudizio su Dante, un altro punto ravvicina Alfieri  a V.: il suo misogallismo, che in V. è critica di Cartesio  e del suo astratto razionalismo; critica che diverrà uno dei  motivi dominanti della filosofia giobertiana, ossia una delle  forme principali della mentalità italiana del secolo decimonono,  come fu in V. un precorrimento del Romanticismo. Con  Rosmini poi e con Gioberti, segnatamente con Gioberti, dei  nostri pensatori del Risorgimento il più affine a V. pel  carattere realistico, storicistico e spiccatamente religioso della  sua filosofia, V. comincia a campeggiare nel quadro del  pensiero italiano; e la sua figura giganteggia, erma colossale  nel cammino del nuovo popolo che s’avanza sulla scena della  storia europea. Tutti gli altri nostri filosofi, dopo il Rinascimento, parteciparono al lavoro speculativo degli altri paesi,  s’ interessarono a problemi sorti fuori d’ Italia, echeggiarono  idee maturate altrove; si tennero al corrente, ma non ebbero  una propria fisonomia. V. fu solo, in disparte, in alto, con  una potente originalità di pensiero, tanto connesso all’ intima  storia della mente italiana, quanto difforme e divergente da  ogni filosofia esotica, e perciò poco accessibile e poco apprezzato dagli stranieri. Filosofo italiano per eccellenza, espressione  profonda del genio della stirpe; il quale veniva incontro a  questa nel momento in cui questa sentiva più vivo il bisogno  di sentire indipendente e originale e possente la propria personalità nazionale. Italianissimo V.; vichiana la nuova  Italia, che, riconquistando energica coscienza di sé, sentiva  maturare in se stessa il suo nuovo destino.   Una delle guide spirituali dell’ Italia del Risorgimento,  come tutti sanno, Alessandro Manzoni. Di Manzoni, che in  gioventù fu amico di Cuoco e sentì la sua influenza anche  per l'apprezzamento di V., sono celebri quelle pagine del  Discorso sopra alcuni punti della storia Longobardica in cui    412 STUDI VICHIANI    si paragona Muratori a V., e si esalta il secondo come complemento essenziale della storia tutta fatti e documenti.  Giudizio schiettamente vichiano anch’esso, poiché fu V. a  indicare, com’egli diceva, l’unità della filologia e della filosofia  come l’ ideale del sapere storico. Ma chi volesse scrutare gli  elementi vichiani della mentalità manzoniana, non si dovrebbe  arrestare a quelle pagine. E a me piace ravvisare uno degli  effetti di non minore significato dell’azione di V. su Manzoni in uno dei caratteri fondamentali della personalità manzoniana.   Il grande scrittore lombardo è sì arguto, sorridente, ironico;  ma s’ingannerebbe a partito chi, guardando a questo suo  aspetto, si lasciasse sfuggire la serietà profonda, la religiosa  austerità, quasi giansenistica, che è alla base della filosofia  con cui egli vede la vita in grande e in piccolo, nel tragico  de’ suoi eventi maggiori e anche nel comico dei piccoli fatti  e individui che vi concorrono. Serietà per cui tutto, anche  le cose più umili e banali, hanno il loro peso, e di tutto bisogna render conto a Dio, poiché nulla vi è nella giornata  di futile, né in alcun momento la vità può togliersi come un  passatempo, un giuoco, per cui sia dato scherzare e agire a  capriccio. Ogni cosa al suo posto è retta dalla Provvidenza  e ha una sua legge divina, che l’uomo deve sapere scorgere  e rispettare. E non solo fuero magna debetur reverentia, ma  anche all'uomo e al vecchio, e ai morti come ai vivi; e tutto  si deve prendere sul serio. Quando l’ Italia cominciò a svegliarsi, Manzoni le insegnò quest’arte che è necessaria alla  vita; e che, ahimè, non si può dire che tutti gli Italiani abbiano bene appresa. Quanto avessero bisogno di tale insegnamento sanno quanti pongono mente al boccaccesco, al  bernesco, o burchiellesco, e a quanto di letterario, e accademico, e arcadico l’Italia barocca ereditò dal Rinascimento,  quando l’arte e la letteratura fecero divorzio dalla vita e dalla  religione a cui la vita necessariamente s’ informa.   Di tal vedere tutta la vita in questa serietà che pone l’uomo  sempre in faccia a Dio a rendergli conto d’ogni sua azione,  d’ogni suo pensiero, d’ogni suo sentimento, grande maestro  agl’ Italiani prima di Manzoni era stato Alfieri. Che scrive sì anche lui satire e commedie; ma è poeta tragico e nelle sue più  belle rime d’amore s’ispira a una musa malinconica. Egli non  ride, non sa più ridere. E Mazzini e Gioberti? Chi ne conosce  1 ritratti non sa sospettare su quelle vaste fronti un contrarsi  anche fugace e atteggiarsi a riso giocondo. Sul loro volto,  come su quello del padre Alfieri, quale fu visto dal Foscolo  a Firenze, errare dov’Arno è più deserto, :/ pallor della morte  e la speranza. Ma il primo esemplare di questa serietà agli  Italiani, che avevano tanto riso di tante cose, era stato V.,  che i contemporanei di Napoli poterono  povero V. vissuto sempre in angustie domestiche, in umiltà di stato, tra  disagi dolorosi, in malferma salute, costretto a mendicare  come il pane quotidiano accattato a frustoa frusto con lezioni  private poiché lo stipendio universitario era oltremodo magro,  così il sorriso dei potenti e la stima dei coetanei  poterono,  dico, raffigurare satiricamente come un malinconico disgraziato; e che ne’ suoi scritti non abbandona mai il tono solenne  e sacerdotale del maestro di verità, se non per qualche raro  sfogo di polemica amara, ché nessuna facezia, nessun tratto  di spirito riesce mai a liberare lo scrittore dalla stretta che  lo avvince al suo argomento. Anche nel suo volto severo il  pallore della morte.   Pregio ? difetto ? Il riso, che è pure uno dei segni superiori  dell'umana intelligenza, è sempre difetto se prima non sia  passato, come passa in Manzoni, attraverso il tragico, che è  sempre nella vita per l’uomo che senta Dio o il suo destino.  E finché questo tirocinio non sia compiuto, finché non si sia  gustato del calice amaro della vita sperimentata come duro  sforzo di abnegazione etica, il riso è fatuità insana e corruttrice. Da V. a Manzoni è un tono affatto nuovo nella letteratura e cioè nell’anima italiana. Il tono di quegl’ Italiani  seri che giuravano di credere ora e sempre, e sentivano la  santità del giuramento; degli Italiani pronti a morire per la  loro fede, che fu la sostanza della loro Patria.   V. per altro non si lega strettamente alla storia del pensiero italiano come un precursore di idee e di caratteristiche  vitali del pensiero italiano posteriore. Egli una volta apparve  un’oasi nel deserto, un miracolo nel secolo dei razionalisti e dei matematici: singolare nel tempo suo, staccato dal suo  prossimo passato come dal tempo che lo seguì; e tardi gli  storici si accorsero di dover ritornare a lui per continuarlo.  Ma la verità è che come da V. procede, dapprima in modo  oscuro e poi con coscienza più chiara e critica, l’ Italia moderna,  egli non si stacca dal fondo del glorioso Rinascimento, quando  l’ Italia toccò le più alte cime della sua genialità creatrice.  Gli studi recenti hanno dimostrato che egli, quando leva al  cielo Platone, ha la mente piuttosto ai Platonici italiani del  Quattro e del Cinquecento, massime al Ficino e al Pico; e  che a molti segni è dato argomentare che del movimento  platonizzante italiano  che doveva pure esercitare un forte  influsso in Inghilterra da Bacone in poi orientata verso la  scienza italiana, come già verso la nostra letteratura — V.  dové conoscere anche i rappresentanti più maturi, se pur la  pietà religiosa gli vietò di nominarli, Bruno e Campanella;  e opere di loro, molto rare, poté leggere nella Biblioteca Valletta (passata poi ai Padri dell’Oratorio); e tracce del loro  pensiero si trovano infatti non infrequenti nei suoi scritti;  e partecipò al moto spirituale suscitato dal rinnovamento  scientifico di Galileo: anche lui legato al movimento filosofico  dei platonici fiorentini. Lo studio dei primi scritti e di alcune  delle idee maestre di V. ha messo in chiara luce questi suoi  rapporti con la filosofia italiana del Rinascimento. Della quale  è traccia anche in certe forme antiquate del suo pensiero  — questioni che si propone, autori che amò citare, ormai,  al suo tempo, generalmente dimenticati, e modi di dire che  talora paiono sue invenzioni e hanno anch'essi una storia.  E la dottrina di Giambattista V. può per molti rispetti  esser considerata la conclusione di quella filosofia. Talché in  lui si annodano e si saldano la filosofia italiana dei nuovi  tempi — che torna a partecipare con sue proprie esigenze e  una sua nota originale al comune lavoro speculativo dell’ Europa — e la filosofia italiana del Rinascimento, che  aveva fatto epoca, e attirato l’attenzione universale; e di  fronte alla Riforma e alla Controriforma aveva rappresentato  un indirizzo di pensiero libero da’ più angusti preconcetti  delle parti opposte, e quindi capace di conciliare le avverse    ragioni degli uni e degli altri in una concezione realistica  dell'unità insopprimibile dell’ individuo e della obiettiva  realtà storica; in quella che il Gioberti dirà la dialettica della  libertà e della autorità.   In V. dunque il centro di tutto il pensiero italiano.  Riassume egli il passato e, approfondendo i principii, anticipa  l'avvenire. E quando nel secolo del Risorgimento si alza  nell'animo degli Italiani come il Maestro, in lui, ancorché  oscuramente, essi sentono rivivere tutti i grandi pensieri per cui l’Italia del Rinascimento è un faro di luce a tutto il  mondo: ed è l’Italia che eleva l’uomo nella coscienza delle sue divine prerogative e della potenza creatrice  del suo pensiero, esploratore e dominatore della natura, scopritore e inventore, instauratore del regno dello spirito nel  mondo, Cristoforo Colombo e Leonardo da Vinci; l’uomo  conscio della miracolosa arte che possiede nel pensiero, e che  fa di lui un secondo Dio continuatore del primo; e gli fa toccare il fondo della verità cristiana, per cui Dio s’ incarna  nell'uomo; dell’uomo peccatore, ma che deve redimersi anche  sulla croce per salvarsi e tornare a Dio; e su questa via di  redenzione è naturaliter Christianus, perché attua la sua vera  natura; portato perciò a creare un suo mondo: mente che  non è solo mente umana, ma umana insieme e divina. Grande  fiducia perciò dell’uomo in se medesimo; ma fondata sulla  fede che è la sua vita, che nel suo pensiero si adempia il  pensiero di Dio, e che perciò questi sia presente a noi, più  che noi non si sia a noi medesimi. E sarà la gran fede cristiana  di Manzoni; ma sarà anche il grande insegnamento religioso  (ahi non sempre compreso !) del motto mazziniano: Dio e  Popolo; come sarà il significato della doppia formola (l'Ente  crea l'esistente e l'esistente torna all’ Ente) che il Gioberti metterà a base d’ogni scienza e della sua stessa dottrina politica.  Sono pensieri vichiani; ma V. li estrasse dalla filosofia del  nostro Rinascimento. E ne fece la sua forza di resistenza a  dottrine straniere in voga come il germe del suo pensiero  vitale.   In Europa allora tenevano il campo il razionalismo francese  di Cartesio e l’empirismo inglese di Locke. Da Cartesio era venuto Spinoza col suo monismo panteistico; e si era aperta  la via all’illuminismo. Da Locke cominciava a dilagare il  sensismo, il materialismo e ogni dottrina negativa della libertà  e della sostanzialità dello spirito; nonché lo scetticismo scrollatore di ogni fede nell’attività costruttiva dell’ intelligenza.  A questi movimenti in vario modo metafisici e dommatici o  distruttivi del valore del sapere scientifico, e tutti in fine  avversi alle credenze morali e religiose che sono a fondamento  della sana vita spirituale dell’uomo, si opporrà nell’ultimo  ventennio del secolo XVIII la filosofia critica di Kant; la  quale finirà col battere in breccia empirismo e razionalismo  e col restaurare il concetto della scienza e della libertà umana,  operando una radicale rivoluzione nel punto di vista fondamentale d’ogni pensiero. Osservò Kant infatti che il mondo  che noi dobbiamo conoscere e in cui ci spetta di operare,  non è concepibile se non in funzione dell’attività costruttiva  dello spirito; attività che è perciò condizione dell’esperienza  e non può essere un suo prodotto. Soggettivo quindi il sapere,  ma di una soggettività che non infirma il valore del pensiero,  una volta che si cessi dal cercare cotesto valore in un impossibile ragguaglio del pensiero con una realtà in sé irraggiungibile e puramente fantastica. Purché si apra gli occhi  per riconoscere che la realtà da conoscere è la realtà che lo  Stesso pensiero costruisce col suo potere creatore universalmente valido, derivante, di là dall’esperienza, da un principio  trascendentale, da cui l’esperienza stessa è resa possibile; e  che insomma è l’uomo in quanto è al centro attivo del mondo.  Concetto che, una volta enunciato dal grande filosofo germanico, ha svegliato nell'uomo la coscienza e la responsabilità  di questa sua posizione centrale nell'universo. E da questa  coscienza trassero origine le più grandi filosofie del secolo  scorso e tutto un nuovo modo di concepire la vita in ogni  ramo delle scienze morali e storiche: donde, nei primi decenni  del secolo, quel romanticismo che fu sì principalmente un  movimento letterario, ma fu pure una vasta riforma di tutta  la vita dello spirito e dell’atteggiamento dell’uomo nel mondo.  Poiché allora l’uomo si sentì il protagonista non pure di quel  ristretto settore della realtà che contrapponendosi alla natura è governato dalla libertà; ma dell’universa realtà, la natura  compresa, che l’uomo anima della sua propria vita interiore,  pervadendola del suo sentire e di tutta la forza del suo spirito, traendola con l’ impeto della sua passione e con l’energia  del suo pensiero dentro alla sua stessa vita, partecipe della  sconfinata e possente attività che nella coscienza si svela a  Se stessa e si compone e indirizza in assoluta libertà verso  1 fini trascendenti dello spirito. Questo romanticismo è la forma più cospicua della mentalità  del secolo XIX nel periodo creatore, che è della prima metà  del secolo; creatore del Risorgimento italiano e di tutte le  rivoluzioni da cui sorse la nuova Europa. Nella filosofia kantiana esso ebbe la sua forma classica, come posizione di problemi radicalmente nuovi e avviamento a un concetto della  realtà; il quale poté offendere le intelligenze pigre e adagiate  nella comune e immediata concezione del mondo, e suscitare  quindi ribellioni e reazioni tenaci e fierissime a guisa di una  santa battaglia in difesa del senso comune; ma non perdé  più terreno, e s’insinuò anche negli avversari, e divenne a  poco per volta come la seconda vista del pensiero umano,  sempre più convinto della verità elementare, che questo  mondo, in cui viviamo e moriamo, per cui batte il nostro  cuore nella scienza e nella vita, è certamente il mondo dell’uomo: il nostro mondo.   Di questo romanticismo il precursore è V., critico di  Cartesio e di Locke, nemico di ogni filosofare meccanizzante  e matematizzante, consapevole dell’originalità dello spirito e  della sterilità di un sapere tutto deduttivo e analitico; sensibilissimo alla profonda differenza tra la realtà umana, che è  sintesi, creazione, libertà e conoscenza di sé, e la pretesa  natura che l’uomo si trova davanti come creata da Dio senza  il suo intervento e concorso; tutto rivolto quindi a quello  che egli chiamava  mondo delle nazioni », la storia, creazione  dell’uomo,  prodotto della umana mente ». Dentro il quale  la mente perciò sl ritrova, si orienta e opera sicura senza  uscire da sé: e opera non pure come ragione con la scienza  e la filosofia, ma opera già come senso e fantasia, già con  l'animo ancora  perturbato e commosso ». E questo non ha bisogno di aspettare il sorgere della ragione tutta spiegata  per credere nella divinità, scoprire la propria immortalità e  farsi un sistema di concetti universali, sebbene fantastici.  Fantastici, ma già veri, pregni di sapienza poetica, che ha  la sua logica, e precede quella dei filosofi. E lo spirito è sempre  tutto, ogni sapere e ogni virtù, anche nella sua infanzia; un  eterno sviluppo, un continuo progresso, onde l’uomo è  sempre lo stesso uomo e un uomo sempre diverso, attraverso  tutte le età della vita individuale e tutte le epoche che si  possono distinguere nella storia: un uscir d'infanzia e procedere dalla fanciullezza all’età matura per tornare poi alle  origini, in un perpetuo ritmo di corsi e ricorsi, dalla barbarie  alla civiltà della ragione tutta spiegata ». Questo ritmo  rende possibile un Medio Evo barbarico dopo le età luminose  di Grecia e di Roma, ma non va preso, s’ intende, alla lettera,  poiché a base del processo temporale in cui le epoche si succedono V. vede una storia ideale eterna, in cui la successione è contratta nell’ immanente vita dello spirito, dove  l’ infanzia e la fanciullezza son dentro allo stesso adulto;  come l’adulto è nel bambino; e la poesia non è cacciata di  nido dalla filosofia, ma ne è come l’anima interna e la scaturigine segreta.   Mai filosofo aveva visto così addentro nei recessi dello  spirito, e compreso come V. la serietà della poesia, cioè  della forma più ingenua e primitiva dello spirito; che i filosofi,  da Platone a Cartesio, tendevano piuttosto a disprezzare,  quasi che la ragione  con le idee innate di Platone, e le  idee chiare e distinte di Cartesio fosse una subitanea e  immediata rivelazione, una luce trascendente che potesse a  un tratto folgorare e distruggere, come inadeguati e vani  tentativi, le forme inferiori dello spirito.   Per V. nel piccolo c’ è il grande; nella poesia la serietà  e il significato della più illuminata sapienza: ogni forma,  completa coscienza nell'uomo della sua interiore divinità.  E questa fin da principio presente nella religione, madre  d’ogni umanità, e però d'ogni civiltà: anch’essa destinata a  purificarsi e ad elevarsi dalle concezioni materiali a quelle più  astratte e ideali: ma palese sempre in ogni forma anche in apparenza più ripugnante al sentimento raffinato della cultura; poiché la Provvidenza, come scopre V., fa degli umani  vizi virtù. La Provvidenza è quel comune senso » che fa  uomo l’uomo, quel pensiero profondo dalla logica infallibile  che muove e dirige tutte le azioni degli uomini, vicini a Dio e  sotto la sua guida anche quando ne sembrano più lontani. E  tanto più l’uomo si profonda in se stesso, tanto più si coltiva ed  impara, e tanto più sente e scopre il divino nell’animo proprio.  E si accerta della verità del principio kantiano, da V., settanta anni prima della Critica della ragion pura, scolpito nel  motto famoso: verum et factum convertuntur, che diverrà la  chiave di volta della sua Scienza Nuova: che cioè la verità  non è scoperta da noi, ma fatta; ossia che il vero mondo  non è un antecedente dello spirito ma il mondo che egli crea  come regno dello spirito: l’arte, la religione, la scienza, lo  Stato, tutta la storia, che diventa intelligibile se viene intesa  come opera dell’uomo. Diventa intelligibile, si giustifica e  riempie il cuore dell’uomo del nobile orgoglio della sua potenza e insieme del più umile sentimento di religiosità: poiché  egli non può non sentire in sé autore del mondo una potenza  superiore che trascende la sua limitata personalità e attua  all’ infinito la sua virtù creatrice.   Idee oscure, che sono però convinzioni piantate nel più  profondo dell'animo. Come V. le volle trovare e additare  nel mondo del diritto prima e poi in tutta la storia, splendenti  di subitanei bagliori che illuminano di luce vivissima aspetti  vari e diversi della vita degli individui e delle nazioni più  familiari alla cultura classica e moderna di V.. Semina  flammae, pensieri suggestivi, verità improvvise e lampeggianti,  tanto più accolte con meraviglia e con gioia, quanto più largamente profuse a piene mani in mezzo ad astruse osservazioni quasi secentescamente ingegnose e ad un’erudizione  classica e moderna non di rado indigesta e mista di fantasie  favolose. Molti motti pregnanti di V., come tanti versi  di Dante, son divenuti proverbiali; e molti egli perciò ne sigillò col nome di degnità», come a dire assiomi; e sono spesso  il distillato della più meditata filosofia. In queste luci, che  nella maggiore opera vichiana, che fu poi l’opera di tutta la sua vita, abbozzata prima e poi ripresa più volte, e ritoccata  sempre fino alla morte con innumeri postille e annotazioni,  brillano come stelle splendenti in un firmamento caliginoso,  è la bellezza, l’attrattiva, il fascino di V.. In queste luci  il maggior motivo che, anche al lettore intricato nelle mille  difficoltà che in menti inesperte suscita la lettura dello scrittore napoletano, fa amare questo libro difficile, aspro, duro;  che tuttavia non si può deporre senza che rinasca la brama  di riprenderlo e ritornare a leggerlo con la speranza di capirci  prima o poi qualche cosa di particolarmente importante e di  scoprire una paglia d’oro in mezzo al terreno sabbioso.   Qui l’ incanto della Scienza Nuova, in cui gl’ Italiani vedranno sempre l’estratto della più riposta sapienza dei loro  padri e la sorgente inesausta della verità a cui s’abbevera il  pensiero moderno: il segreto della. filosofia che concilia l’uomo  con Dio, gl’infonde la fede nella vita, e gli fa sentire dentro  non so che divino che lo eleva al di là di tutti i limiti dell’umano e di tutte le miserie terrene, senza farlo cedere perciò  alla tentazione del maligno, anzi raumiliandolo ad ora ad ora  nel sentimento del nulla che l’uomo è appena si allontani  da Dio.   Fu cattolico o immanentista ? Questione spesso dibattuta  quasi per dividere gli animi concordi nel sentire la grandezza  di V.: questione di scarso interesse storico e che si risolve  negando che per V. ci potesse essere tra i due termini l’opposizione inconciliabile che c’è per chi si domanda se egli  fu cattolico o immanentista. Nessun dubbio che egli si sarebbe  ribellato a chi lo avesse voluto tirare da una parte o dall’altra.  E nessun dubbio, perciò, che l’ insegnamento di V. non  è fatto per dividere gl’ Italiani; i quali vogliono una filosofia  dell’ immanenza, che concentri nella libertà dello spirito  l’ infinito universo, ma vogliono pure vivere della fede della  loro tradizione vittoriosa. Esso li inviterà sempre a cercare  in se medesimi il principio in cui le parti avverse potranno  conciliarsi superando gli esclusivismi che han sempre del  paradosso e del fazioso. Da V. impareranno sempre gl’ Italiani a disdegnare le fazioni. Dedica Nota bibliografica Il pensiero italiano nel secolo del V. La prima fase della filosofia vichiana La seconda e la terza fase della filosofia vichiana Dal concetto della ‘grazia’ a quello della ‘provvidenza’ Le varie redazioni della Scienza Nuova e la sua ultima  edizione Il figlio di V. e gl’inizi dell’ insegnamento  di letteratura italiana nella Università di Napoli La famiglia di V. Primi anni di Gennaro  V.. Il card. Corsini e la prima Scienza Nuova Passaggio della cattedra del V. al figlio e morte del Filosofo  4. La carriera accademica di Gennaro V. Gli scritti di V. e il suo insegnamento. La cattedra di letteratura italiana dalla sua  origine alla riforma. Dalla riforma alla fine del Regno L'Angiola. Capitolo serio-burlesco di VESPOLI. II. Per le nozze di Caracciolo  e Donna Ippolita De Dura. Sonetto di V.  Relazione della Segreteria di Stato al Re sulla supplica  di V. pel conferimento della sua cattedra al figlio. Dispacci per la giubilazione di V. Epigrafi di V. Avvertimenti per l’ insegnamento del latino di V. Lettera di Finamore a V. V. nel ciclo delle celebrazioni campane. Cartesio e V. V.nell’anniversario della morte. OPERE COMPLETE DI   GENTILE  OPERE SISTEMATICHE Sommario di pedagogia. Vol. I: Pedagogia generale; vol. II: Didattica. Teoria generale dello spirito come atto puro.   I fondamenti della filosofia del diritto. Sistema di logica come teoria del conoscere.  La riforma dell’educazione.  La filosofia dell’arte.  Genesi e struttura della società. OPERE STORICHE    Storia della filosofia (dalle origini a Platone:  inedita). Storia della filosofia italiana (fino a Valla). I problemi della Scolastica e il pensiero italiano.   Studi su ALIGHIERI. Il pensiero italiano del Rinascimento.  Studi sul Rinascimento. Studi vichiani (V.).  L'eredità d’Alfieni. Storia della filosofia italiana dal Genovesi al  Galluppi. Albori della nuova Italia. Cuoco.Capponi e la cultura toscana.  Manzoni e Leopardi.   Rosmini e Gioberti. I profeti del Risorgimento italiano. La riforma della dialettica hegeliana. La filosofia di Marx. Spaventa.   Il tramonto della cultura siciliana.   Le origini della filosofia contemporanea in Italia  Il modernismo e 1 rapporti tra religione e filosofia. OPERE VARIE Introduzione alla filosofia. Discorsi di religione. Difesa della filosofia. Educazione e scuola laica. La nuova scuola media. La riforma della scuola în Italia.  Preliminari allo studio del fanciullo.  Guerra e fede.   Dopo la vittoria.   Politica e cultura FRAMMENTI    Frammenti di estetica e di teoria della storia. Frammenti di critica e storia letteraria. Frammenti di filosofia. Frammenti di storia della filosofia. EPISTOLARIO Carteggio Gentile-Jaja Carteggio Gentile-Maturi. Carteggi vari.Civelli  Via Faenza, Firenze. Giovanni Battista Vico. Giambattista Vico. Keywords: Vico. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Vico” “Vico e Grice,” Villa Grice, for H. P. Grice’s Play-Group, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza. Vico.

 

Luigi Speranza -- Grice e Vieri: la ragione conversazionale della filiale fiorentina dell’accademia – la scuola d Firenze – filosofia fiorentina – filosofia toscana -- filosofia italiana – By Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library  (Firenze). Filosofo fiorentino. Filosofo toscano. Filosofo italiano. Firenze, Toscana.Essential Italian philosopher. Filosofo italiano. Di famiglia nobile. Insegna a Pisa. Dell’ACCADEMIA, molto attivo. E contestato dai colleghi per il suo vagheggiare un nuovo circolo dei filosofi dell’Accademia, improntato su PICO. Suo principale avversario e BORRI. Saggi: “Liber in quo a calumniis detractorum PHILOSOPHIA defenditur et eius praestantia demonstrator” (Roma). Grice: “The term ‘accademia’ is mostly misused, as in The British Accademy – strictly, it is Hekademos, and so, anything connected with Plato, as in V.’s case! But V. is what I call a co-philosopher. Without BORRI, or PICO, no V. – and his essay on his ‘demonstration’ of the excellence of philosophy against her detractors is hardly a best-seller!” Crusca. LEZZIOne   DI M. FRANCESCO   DE'  VIERI  FIORENTINO, detto il Verino Secondo Per recitarla netf ^4 ce ademi a fiorentina, nel Confo! afe di M. Federigo  StxoYz}  DOVE SI RAGIONA DELL’IDEE E Delle Bellezze. Dedicdtd all' illu fri (? ty Eccellenti^, signor Conte  VL1sSE  Bcntitiogli . IN FIORENZA,  Appretto  Giorgio Marcfcottt. Con  licenzi  di*  ì»*trÌ4ri.  ALL'ILLVSTRISSIMO ED  ECCELLENTISS. Signore, llSì?. [onte OLISSE Hmmglì  Mto Sig.oJJeruandifìmo L desiderio mio era in quella itate con leggere di nuouo all'Accademia di  Firenze  fa tisfare in qualche parte a molti e molti obIighi, che io tengo col Magnifico e prudentifTimo Signor Confblo, e col letteratiflimo e graziofiflìmo fuo fratello M. Giouambatilfca Strozzi; ed in oltre fé il mio difeorfo era da querti, & da molti  altri così intendenti, come gentili spiriti approuato e giudicato degno d’cflere vdito e Ietto da grandi, e  da  A 2  nonobili, mandarlo in luce Cotto il pregiato nome  di  V. Ecc. Ill. la quale (per quello, che mi ha riferito M. Alessandro Catani, uomo così amatore del vero, come eccellenti^,  nell'arte della Medicina) non meno è fèmpre difpo-ila a difendere e fauorire le lettere, & le virtù, et  i loro profeflbri, che ella fi fia nata nobiIe, Sc con nobiliffime perfbne di nuouo congiunta, quello dico era tutto  il difideno mio Uluftrifs. &c Eccellentifs. mio Signore: ma l'infermiti mia, et alcuni negozi] di grandiflima importanza, m'hanno in guifa impedito, che non (blamente io non ho potuta leggere quella mia Lezzione, ma ne pure nuederla, & ripulirla, &  nondimeno  io  non  poffo, ne debbo mancare di tetitiare m qualche modo a eentiliffimi Strozzi, et alli altri gencihfii'mi  fpintij & quella mia fatica difiderà fiderà la protezzione di  V. Ecc. III. ElIa  dunque l'accetti con pronto, &c grato animo, come io prontamente, e con ardentifsimo difìderio gnene offero, e raccomando, & come io fpero, cKe ella fia per fare. Le bacio le mani, &c le difidero da Dio non  meno ogni felice contento, che io mi difideri, che ella tenga memoria di me, et di chiunque rama, &:  la nuerifce delli amatori delle virtù, &c  delle lettere, fènza le quali il mondo altro non {àrebbe, che vn foi tifsimo bofco di tenebre per Tignoranza, &  vna fèlua  (pauenteuole, &c brutta, mercè di vna infinita di vizij, che ci (ì ritrouerrebbero. Dt V e.  I.& molto  Mag, e gentile  Senatore  afFezzionatifsimo Francesco de Vieri detti il ferino Secondo  %  1]V  qual parte del del, in qualided  Lra  l  efempio, onde natura  tot fé Quel bel Info leggiadra: in ch'ella  ^rolfe Afoffrar quaggiù, quanto la sùpotea? Qual Ninfa in fonti, mfelue mai qual Dee chiome d'oro fi fino  jc Laura fctolfe: Quand'^n  cor tante in fé lurtute accolfe  f Benché lafomma e di mia morte rea?  Per diurna  bellezza m damo mira f  chi gl’occhi di cosieigiamai non  ~>tde.  Come soauemente  ellagligira, iVon sa come ^morfana, cr come ancide; chi non sa come dolce ella filtra 0 M orni dolce farla, e dolce ride LEZZIONE   DI  M.  FRANCESCO  DE'  V. detto il Verino Secondo: Votte si ragiona delle Idee, e delle  'Bellezza . IL PROEMIÒ.  É quefto sì honorato luogo, nel quale lòno ftati  per tanti e tanti anni infiniti spiriti gentili, e  vi hanno Magnifico  Sig.Confolo, &  nobilisfimi Accademici, et  Vditori, con i loro leggiadriflìmi dilcorfi con no minore contentezza, che con iftupore trattenuti. Se quefto luogo dico è ordinato prima dalla feliciflìma memoria del prudentiflìmo,  e magnanimo Gran  Duca il  G. D. Cosimo de’ Medici, e poi mantenuto dal Sercniflìmo G.D.  Francefco luo figliuolo a quefto fine lòia  mente, che  molti colla  diligenza del dire bene, &  co ornamento di parole diuenghino ottimi ambafeiadori, e gentilifiìmi poeti, a vtilita, grandezza, e diletto di quefìi ftati e di loro S. A. come alcuni fi penfano; al Filologo dunque, il quale più della verità delle cole fpecolabili, &deli'az7Ìonihumane tien conto che del graziolo ragionamento,  non  apparterrà falire in quefto fteflb luogo: ma fi bene à quelli, i quali fanno profeflìone di Oratori  e  di  Poeti. Se  più oltre l'Accademia fia ancora inftituitai fine che in quefta lingua fi eiprima da ogni perfona letterata ogni maniera di concetto^ onde fi gioui  A 4  à  8 Lezzione  a quelli, i quali non hanno potuto con altra lingua  intcndere £liarnhzij degl’oratori, e de Poeti, e  gl’alti co certi  Filolòfici. quelli Ioli deono qui l'altre de letterari, e de Filoiolantiji quali da ogni altro penfiero hf.no l'animo libero, et  non io, prudemiflìir:i, &  giudiziofìrTimi  Ac cademici  Se  Vditori, il quale negli ftudij di Ariitotele e di Platone iò no tutto occupato à publica vtilità e nella cura di tanta mia famiglia,  ricercandoli alla fpècolazione delle cole et al dire acconciamente ozio, e tranquillità d'animo, con tutto ciò io fon tanto obliato al Magnifico Sig. Confolo, et à  M. Giouambatiitaiuo fratello, che io non ho potuto mancare di non nlalire dopo molti e molti anni in quello cosi degno luogo per fatisfare per quanto io potrò a loro Signorie, et a voi altri norbili: ìimi, et gentikiliiru accademici, et Vditori>& perche io non pollo piacerai con la grazia del dire per non ne fare io proiezione, ne colla fufHzienza della dottrina pelle molte Se molte occupa/ ioni, et perturbazioni, ho pen-iamo di compiacerui colla nobiltà, e grandezza del loggetto, del quale io ragionerò, che tiranno l'Idee delle cole, che (I contengono nella mente di  Dio, et le grazie, et le bellezze di M. Laura: onde  infìeme s'harà più pròfonda, et più chiara intelligenza di quel dottiiìirno, et gra-2iofilfimo sonetto del noiiro Petrarca, il cui principio e queito. in qualparte del Cielo, in qual idea 0J Era l'esempio, onde natura tolfe 0, Quel bel yifo leggiadro: in  cWella  x>lfe  3J  Mostrar quaggiù, quanto lifiùpotea t Preconi Magnanimo Sig. Cordolo, e voi nobili/Timi Accademici et Vditori, che vi  degnate predarmi grata ydienza più perche cosi conuiene alla dignità del ioggetto, che è nobilifiìmo, &:allo iplendore dell’animo volito, che è di gradire le cole alte e diuine, che per alcuna mia iurfizienza di dottrina, et che per alcuna mia grazia di parole. Per precedere con più facilità, et con più ordinc,io  Huiderò tutto quello mio ragionamento in tre parti; nella nrima delle quali fi  disputerà, et determinerà delle Idee, poiché in quello Sonetto il Poeta cene dà occafionemeila feconda pella medefima ragione decorrerò delle bellerze di M. Laura; quanto pero fa all'intelligenza di quello Sonetto; nella terza et vltima (urline che tutto quello, che da me fi farà detto delle Idee, & della bellezza di queib donna fi conofea elfere, non folo di parere de'più gran Filolòfi, quali  fono flati Platone, et Aristotile: ma ancora di eiYo Petrarcaa del qua le voi fiate cotanto ftudiofi, et il quale cotanto vi e grato quanto ei merita per il ilio graziofiiìimo poema di eifere letto et vdito ) 10efporrò alcune parole deltcfìo, & moflrerrò l'arti^ io, che quefto Poeta tiene in ragionare deH'Ic[ee, & della bellezza della  (uà donna, et muouerò, et feiorrò alcune dubita'/ ioni col faucre  dunque di colui; il quale è la vera iàpicn:?a,& la prima verità darò hora mai principio à quanto io ho propoflo di dire. Intorno al primo punto deiridee, toccheròbre ementc tre capi, il primo farà lo efporre con efempi quello, che fi unifichino qtieiìe voci Idee, efempi, fpezie, et vnmerfali, che precedono la moltitudine de particolari. il fiondo le lì danno l'Idee, ò nò; poiché Ariflotile in  tanti luoghi cerca di leuarle via, et Platone le concerìe quafi in ogni libro delle lue opere, et queito noiiro Poeca. lMtimo capo farà di quante et quali cole fi ritrouinoi'jdee: da quali tre punti farà facil cola raccorrc quelle  ch'elle fi Mano. Quanto al ^r imo la cognizione d'vna cofa in quanto ella Terne per immagine e farne vn'altra, ò à giudicare fé è ben tarta; & ad intenderla à punto, fi  domanda elèmpio e modello ed Idea, come quel ritratto, che ha nella mente vn'irtcfice d'vno artihzioio, e mirabile palagio glifer ne à Hrne cosi bene vno, e molti e  molti: et à giudicare i  hUXi  ic  iòno con tutte le regole dell'arte fabbricati ò nò,  io Lezzione nò, et quanto e'vi fi accollino: quefti medcfimi efèmpl in quanto e1 rapprefentono le forme, che danno lo effcre fpeziale al  foggetto, nel quale le fi riceuono, come le forme nella materia fenfibile e corporale si chiamano spezie e forme. quefti fteiTì modelli, e quefte fteffe notizie delle colè in quato le Tono vniuerfàli di più cofe particolari, & di nature vniuerfàli, che ne particolari fi ritro nano, et fono come cagioni di quefte precedédole di precedenza di natura, come dell'eterne fecondo i Filofofi, ò ancora di  tempo, come delle cofe temporali, et nuoue» anzi l'Idee, et di precedenza di natura, e di tempo fon prima di qua! fi voglia creatura, attefo che quelle fon sémpiterne, & ciò che è fuori della diuina effenza di buono è flato creato di nuouo quado cominciò il tempo, & in que ila maniera le fi domadono da Greci uniuerfàli innanzi a molti particolari, come il modello nell'animo dello Scultore  d' vna  ftatua, ad efempio del qual ritratto molte e molte fimiglianti ftatue fi poflbn fare. E ben vero, che il modello delh artefici, ò vero Idea, e quello, che da Platone, & d’Ariftotile fi concede in  Dio, et in vn certo modo ancora nel Cielo, fono tra loro differenti; perche l'Idea dello artefice è prima prela dalle cofe ben fatte da altri, come ancorar idea, &  l'immagine, che riluce nello  specchio, mercè della cofa, che glie dauanti. ma l'ldea> che è in Dio et nel Ciclo precede alle cofe, & è caulà delle cofe, che d fanno: dipoi l'ldea, che è nello arteficemon è fempiterna non durando fempre l'artefice, ma fi bene quella, che é in Dio et nel Cielo foftanze incorrottibili éc eterne. finalmente  l'Idea, ò notizia, che ha l'artefice Iella cofa ha due modi d'eflère, vno vniuerfale  nell'ime!letto poffibile, e l'altroparticolare nel sènso di dentro: il Pittore efempigrazia ha nell'intelletto l'Idea in vniuerlàle di donna graziofiflima, e nella fantafia di rieletta, di  Laura, ò di qualche altra limile: il Filofofo naturale ha qucfto concetto dell'Intorno nell'intelletto, che fa animale ragioneuole e mortale quanto al corpo, e lo info Inferiori potenze, et immortale quanto alta mente, ©  vero ragione, e nel senso di dentro, quando epji applica quefto concetto à Socrate, ò a Platone, ò à qualcun'uitro particolare: come (ì caua d’Ariftotile nel terzo dell'anima, et nel principio del primo libro dell'aite del dimoftrare. fecondo l'ordine di natura le notme vniueriàli precedono le particolarità fecondo l'ordine dei noftro imparare fi fono ritrouate l'arti, Se le fcicn7C dalla cognizione de'particolari di qui peruenendo alla cognizione vniuerfale: come c'infegna il Filolòfo nel primo libro della  Metafifica, ò vero lì può dire, che i concetti vniuerTali precedono i particolari in chi impara l'artì, e le feien re da altri, che di elfe è perito, &  f ciéziato: et poi gli efpe rimenta nelle cofe particolari, le quali formano di loro fteife ne'sensi i particolari concetti: Ma rifpcrto  àgli inuentori dell'arti, e delle feienze, prima nafeono i concerti particolari ne’sensi, che gli’apprendono dalle cole come particolari, poi fene fanno gl’vniuerfali per opera dell'intelletto agente, i quali rapprefentano le nature vniuerlali, che ne’particolari fono nafeofte. Ma ritornando alla terza differenza, che è tra l'Idee, che lono in Dio, e quelle che fono nell'animo dell’artefici, et  de’Filofofi, e delli feienziati: quelle hanno in Dio vn modo di effere, che non è ne vniuerfale ne (ingoiare, come in noi, non vniuerfale, perche colla notizia vniuerlale delle colè ftà l'ignoranza de'particolari. può efempigrazia {tare ch'io fappia vniuerlàlmente, che ognuno degl’uomini è atto a ridere, et infierire non fappia di quelli, che fono lontani come in Francia, ò in Ilpagna, ò al Perù,  ò altroue fé fono atti à ridere, perche io non so fé fono uomini non gl’auendo mai veduti,  ne vditi, come bene dice ancora Ariftotile nel primo capo dell'arte del moftrare; ma in Dio non é lecito porre ignoranza, ò imperfezziotie alcuna, non vi fono ancora i concetti particolari: perche quefti fono del Iònio, che e virtù materiale, e corruttibile, et egli è immateriale et eterno j come confck   sono 1 nolln Theologi, e come fi di morirà dal Filofofo nell'ottauo de’principi). reità dunque cheridec, & con certi delle colè (lana in Dio in vn terzo modo più perretto, e tanto eccellente che in noi, che dall'intelletto noterò non fi può comprendere, ne con voce alcuna efplicare ad altri: (è noi potcffimo intendere come  Dio intenda le cole, l'intelletto noftro farebbe di tanta perfezione di  quanta è l'intelletto di Dio, come beniflìmo dif fé il gran Comentatore Auerroe nelle lue difputazioni contro ad Algazcle: (blamente fi può dare ad intendere ofciramente con alcuni efempi, vno de quali è queilojfe il fuoco, che è caldo fecondo i Filolorì naturali in otto gradi i\  intenderle, intenderebbe inficine iè clfere participato fecondo tutti quelli otto gradi da chi fecondo vn grado  folojcomc l'acqua tiepida, da chi fecondo due gradi, & cosi decorrendo: Cosi Dio intendendo fé, intende ancora che la (ùa natura è partecipata da tutte le creature^ più e meno, come confeflbno le cole ftelfe, et Aristotile nel prime del Cielo al 1.1 00. & ALIGHIERI nel principio del primo canto del Paradifo cosi dicédo La gloria di colu'h che tutto mttoue, Ver  l\nit*erfo penetra et  njhlende  it In  >na parte più, armeno altrove. E quefto è Tefempio del gran Comentatore Auerroe. Tn'altro efempio e de' Greci. quelli volendo farci comprendere, come Dio, il quale e vna natura intellettuale indiuifibile intenda infieme le cofe fimilmente indiuifibili, come lòn gli Angioli, Si le diuilìbili e corporali, come fono 1 corpi celeih, e tutte l'altre di quaggiù, fuori che l'huomo >  Se cflò huomo ancora che delfvna, e dell'altra natura participa, per vn mei/.o iòio, che e' la ileifo natura lua impartitale, ci danno lo elèni pio del punto di mezzo del cerchio, il quale è vaio et indiuifibile, e da ef  io denuano infinite linee, et infiniti punti, che le terminano. Se quello punto ò vero centro fulfc vna natura in*  tcUcuuaie, & fi ia:eiideiTe, mtcadereubc  fimUmente le  ef  ter   caufà di tutte le lince, che da elio deriuano, & de punti che le terminano: cosi Dio a guifa di quello punto intendendo fc  ftefio, donde deriuano tutte le creature così diuifibili come indiuifibili, & noi iteflì, che participiamo della condizione e di quefre e di quelle, tutte le intende e conolce, e cosi noi  fteiTì  ;  è ben vero, che il punto è colla quantità, et hi fito, ma Dio è foftanza e leparato  dal  (ito e da luogo, (e bene e per tutto come fino a più eccellenti Filoiòh" confeflono come prima vnità, donde è nata ogni moltitudine, e quefto fi caua da Platone nel Par. come prima forma, vltimo fine, e primo principio produmuo del tutto, e tutto quello ancora ccnfefta il medefimo Fiìofofo, parte nel Timeo, e parte nelle lue letcere, & Ariftotelc ancora nel primo del Cielo, nell'otta 110  de'principij,S: nel 12 della Metafifìca j ancora Dio è per tutto come ottimo Rè  dell'Vnii.erfo, il quale regge et gouerna col marauielioio ordine, che egli ha di tutte le cole dentro di fé. E qui è daauuertire, che le bene Dio fi aììbmiglia al punto del circulo, donde deriuano tutte le creature vgualmenre et immediatamente: non pero tutte lono di vguaie bontà, et perfettione dotate, ma  quali più e quali meno ne participano, affine che fra loro fufle cosi marauigliolo ordine, che fa allo ctfere, & alla bellezza  dell' Vniuer(o, &  iteftimonianza  della Diuina  Sapienza,  l'vfizio della quale è dare ordine, e mifura a tutte le cole, et ferue per il cala ad alzare colla cognizione il noftro intelletto di grado in grado fino a quelli, il quale e l'alta cagion prima, et cosi coll'amore . dal  qual amore, ne furge in noi ogni atto piufto e retto concorrendoci però la Diuina grazia infieme colla fede colla Speranza e colla carità, e coll'altre virtù, e doni: cosi ancora non efiendo tutte le creature vgualmente buone, non fono ancora con vguaie amore in vn certo modo amate, e dico in vn certo modo: perche quanto allo atto dell'amare. cosi come Dio è in£nito, così  co  infinito  amore tutte l'ama: ma quato a beni che vuole e che dà à eia- fami Lezzione  fcuna non già; ma à qual più, et a qual  meno ò men degni: fecondo che le cóuiene loro, & parlando degl’uomini giufti, & che (ì faluano, qucfti nell'altra vita tutti faranno felici e beati in Dio, tra gl’angioli, et in sempiterno, ma non con vgtial mifura intenderanno, e goderanno la Diuina Verità, e Bontà, ma quegli  più, che più di qua haranno offeruato ifuoi fanti comandamenti con fauore della grazia e quegli meno, che meno, come fi couiene alla Diuina giuftitia, e quefte fono quei molti luoghi ò> molte manfìoni, che fono nella cafa del celcfte pa-3re, come dirle il vero Maeftro della verità Chrifto Giesù infìeme Dio ed uomo, e quello ci  SIGNIFICA PAOLO Apostolo quando ei diflc, che fi  come le ftelle in cielo fon differenti di chiarezza, e di fplendore, cosi faranno i giufti in cielo. Più oltre ancora è da fàpere che tutte le creature quatto furon prodotte per creatione di niente, furon fatte da Dio folo, et immediate: ma poi quelle di quaggiù si conferuano per fuccefTione di nuoui particolari, concorrendoci ancora i cieli, & le cagioni di quaggiù, perche la D. Bontà, come  ha  farte partecipi le creature del bene, e dello edere, così ha volfuto, che ancora elle habbmo virtù di dare lo eflere, & qualche perfezzione ad altri, perche ci feopriffe il suo amore et i fuoi tanti benefizij,6^fuf  fimo tanto più tenuti d’amarlo, e di riuerirlo fòpra ogni altra poteftà: potrebbe Dio egli folo produrre ogni di delle creature, e conlèruar le fpezie lènza l'aiuto delle caule feconde,  come ci le creò; ma pelle cagioni dette non volle: ne per quefto alcuna mutazione ònouitàfì pone in Dio: perche egli le creò quando ab eterno ei propofè di crearle, c cosiauuerrebbe fè'ne creafle di  nuouo, & come accade dell'anime umane. Platonc, & Aristotile pongano la creazione deH'Vniueriò, ma ab eterno, come  Simplicio ed AQUINO (si veda)  attribuirono  loro;  et come è forza  di dire volendo parlare conforme ad alluce loro autorità, come altrouc io ho dimoftro.il terz» et vltìmo efempio è  de’Latini, i quali hano voluto efpor ci l'vnità  dell'Idea, e la fomma Tua eccellenza inficme, et il loro efempio è d'vno feudo d'oro, e di vna gioia di grà valutar quefto fcudo, poniamo per cafò,  vale cèto era zie, et la  ^ioia vn milione di feudi, fé quefto feudo s'intenderle intenderebbe infìeme fé valere cento crazic: e così le intenderebbe per mezzo della fua natura, e non per concetti d’argento, e di crazie: così fé la gioia fé conofcefle, conofcerebbe quel milione di feudi: ma non pella natura dell'oro, ò  dell'argéto, ne pella figura delli leu di, ò delle crazie, ò d'altra  moneta. Iddio è vno feudo ò vna  gioia che racchiude in fé lo eflere, & la perfezzione di  tutte le creature e più in infinito, ma fotto natura di Deità, e così le intende, e cosi in vn modo quanto allo effere di infinità, quanto allo intelletto creato è incomprenfibile, e quanto al  SIGNIFICARLO AD ALTRI è ineffabile: perche come fi può dare ad intendere ad altri quello che per noi non polliamo capire,  e quello che è infinito come infinito è  incomprenfibile  dall'intelletto creato, et finito, & Dio poiché produce ogni cofa di niente (cosi come infinita è la proporzione tra il niente e quello ch’è attualmente) cosi è d'infinita poteftà, non folo quanto al durar fempre: ma ancora in vigore. Sino a qui penfcrò, che da voi gentiliflìmi (piriti fi fia intelo benifs. quello, che SIGNIFICHINO qfte voci Idea, vniucrfale innanzi a molti particolari, et eséplari, fegue hora che io vi  proui breuemente che l'Idee, et efemplari delle cofe fiano nella mente di Dio; la qual verità non iolamente è confefTata da noftri Theologi, che non poflbno errare cauandola dalle diurne fcritture, doue fi dice che Dio è sàpientiiTimo, ottimo, omnipotentiffimo, e che intende fino i lègreti del cuore: ma ancora fi concede da Platone, e d’Ariftotile Principi dell’umana  fapienza Platone  nel  Parmenide pone nell'vno, & nel primo ente  l'Idee,  le quali participate ed imitate, fono cagioni dello cflerc y et delia moltitudine delle cole: nel Timeo pone due mondi,  il mondo efèmplare, che iòlo colla mente fi comprende da noi: et poi il senfibile, che fi conofee ancora  col  fenfò. Nel Conuito due Venere vna intellettuale, che  é  ?ordine, &  la  grazia, che  refulta  dalla  moltitudine delle Idee, l'altra celefte, che confitte nell'ordine di tutte le creature del Cielo, e deirVniuerìo. Cosi Ariftotile nel primo della Metafifica dice, che la fapienza é vna cognizione di tutte le cofe pelle prime cagioni, la quale principalmente è in Dio, e di Dio: adunque lècondo il maeftro ancora di coloro, chc fanno, e che lòno dotti nell’umana Filofòfia le Idee, ò notizie cji tutte le cofe fono  in efio Dio Principe deirVniuerib; nel decimo delfEthica dimoftra come à Dio ci aflòmigliamo propriamente nell'atto dell'intendere le cole diuine, et ipecolabilii come ancora quefto medefimo ci proua Aleffandro Tuo eipofitore nel proemio Jbpra il primo libro della  Priora, ò vero de Sillogi(mi; e nel duodecimo della Metafifica ci infognano Ariftotile, & AleiTandro, che il bene  defl'vniuerio è di due maniere, come ancora il bene dell'elercito  de' foldati,  l'vno e  elio  Capitano degli eferciti, nel quale ftà principalmente il fine, che è la vittoria, l'altro è l'ordine fenfibile delle file de'foldati, che pende dall'ordine, che quel Generale hi nell'animo: coki Dio è bene dell'Vniuerfo in quato è quel ente, et quel bene, che è amato e desiderato (òpra ogni coià, &  di  più  l'ordine intelligibile, che è  nella mente di Dio di tutte le creami e, dal quale pende l'ordine ienfibile di elle: Ecco che fecondo Ariftotiie ancora fa di biiògno concedere l'Idee: come ancora con ragione fi può dimoflrarc,e  prima fé a Dio fi niega l'atto dell'intendere atto nobiliflimo, che operazione più nobile le gli può attribuire? certo ninna et così fari in tutto oziolo: come bene argomentò quello gran Filoiòfo nel decimo libro dell'Etnica^ vero de'coltami, e fé egli non intende tutte le codina folo le ilcifojò le più nobili, adunque egli làprà me di noi, che se incendiamo di molte et  moke, come  argomenta  Ariitotile contro ad Empedocle di GIRGENTI, che voleua che Dio non intendere la difcordia, e le cole diicordanti: ma folo l'amicizia, e le colè concordi, oltre che le fi  concede, che Dio intenda fc ftcflb, fa di bilògno ancora che egli intenda ih eflère caufa dogri altra cola da elfo caufata, & dipendente, e la curia, e cioche pende da eim fa, è oppofto per relazione; in guila che chi ne intende vno, intende ancora l'altro. Adunque Dio intendendo le fteflò (come confeflbno Annotile, e il fuo gran Cementatore Auerroe nel duodecimo della  iua Metafifica  altefto ?i  ) s'intende come caufa vniuerlàle di tutte le cofe che da eflò procedono: e cosi intende ancor quelle,  & quefte notizie ibno l'iftefle Idee, et ritratti delle cofe. Finalmente fé le cofe delTvniuerfo Iòn ben goucrnate e per i debiti mezzi al loro debito fine condotte, come si vede, e la natura non intende; adunque e retta eia chi le intédc, & quelli ò è Dio, ò colà fuperiore à Dio, il che  non fi può pure colll'animo fingere, e penfàrc. La  D. M. dunque intendendo le cofe, &  il bene di ciafeuna, &  d quello indinzzandolc, come  il làettatore la làetta alberzaglio non conofeiuto da lei, le intende ancora, e le conosce benifiimo; di qui portiamo intendere comc (b no molto più arroganti quei Filolòfi; i quali colle loro fofifliche argomentazioni, e perche e' non  iànno rilòluere  alcune obiezioni, ardifcano di dire, che Dio non intende (è non fé ltefib, e che ei regge e gouerna tutte le altre colè come la natura senza intenderle: di qui dico polliamo conofeere che quefti tali fono molto più arrogacene non furono quelli huomini così grandi et di corpò e d'animo, che ardirono mettendo monte (opra monte di prendere il Cielo: però  che quefti così facendo fi penfàuano  arriuare à celefti corpi: ma quelli più su penlandò di peruenire fino à Dio, lo priuono dell'intelligenza delle colè. Chi dunque bene e fottilmcnte confiderà le autorità, & le ragioni non folo di Platone, ma ancora quclle,che fi cauano da AriAoulc, è forzato di confcffare,  u 8 Lezzione Tare, che le Idee e notizie delle cofe fiano veramente in Dio:  et  ie bene cucilo filofofo in tanti e tanti  luoghi, Se della Logica, e dell'Ethica, e della Filosbfia naturale, e della Metafisica s'ingegna di leuarle via, inoltrando che le non fanno ne alla produzione delle cole in alcun genere di caule, ne  alla cognizione, e nel duodecimo della  Metafifica fi dice che Dio non intende fé non le itefTò: perche la liia faenza farebbe vile, (e ancora fi cftendeife all'altre cole, le quali rilpetto a lui fon  molto vili, et imperfette: oltre che fé tante, e tante notizie follerò nel ilio intelletto, come le fono nel noftro, e non farebbe firnpliciffuno atto ne pura foftanza, ma vn comporto d'intelletto e di forme intelligibili, e cosi non  farebbe vgualmente perfettiflìmo, perche la natura intellettuale in lui harebbe ragione di potenza, e le forme di atti, & perfez.7Ìoni: accioche non legnino cotah  incouenienti per non dire impietà, et à fine (ì parli conforme ad Ariliotele, chc  -vuole 3 che in Dio fia laiapienza, e feienza del tutto, fi dee dire chc quando egli niega  l'Idee, le mega nel fenso cattino et falso: nel quale l'erano intelc da molti: come bene di ciò ciauuertilcono i Greci efpofitori: ma quelli dunque i quali penlano, che l'Idee fiano agenti immediati urincipali, &  fuori  delFeifenza  diuina, s'ingannono non eifendo congiunte con materia, nella quale lì fondano le qualità fenfibili, colle quali gl’agenti naturali alterano 1 pazienti: ma bene l'Idee in Dio fono agenti che indirizzono le cagioni naturali al bene, e rettamente adoperare; cosi chi penfa che l'Idee eiìendo forme ieparate fiano Felfenza formale intrinseca delle colè> che fono fuori di Dio prende  grande errore: ma non già quelli, il quale crede che quelle forme che hanno vno efiere formale diftinto e multiplice, dipenda da quelle che hanno l'eHerc vnito nella diuina Eifenza, e che fiano multiplicate folo virtualmente, come di fopra da me fi è efpoito. E' ancora falfo il penfare che l'Idee fiano cagioni finali che terminino le generazioni delle colè: attefo 1, 9  attefò che cotali fini  s'acquiftono di nuouo, e no precedono la generazione, ma fon fini per cóformità in quanto i fini, à quali terminano le generazioni  fi confermano con quelli del mondo ideale, et intelligibil. in vltimo quando fi diccua che l’idee non feruono a conolcerc, ed intendere le cofe, perche noi le intendiamo, apprendendo le fimilitudini da effe per via de'ièntimcnti, e dello  intelletto. fi dee dire,  che quefto argomento folo conchiude che nel noftro intelletto porTibile nò fiano le notizie delle cole, dì maniera che il noftro fàpere fia vn ricordarfi  come penfauano i Platonici, percioche l'anime noftre fono come tauole non iicritte – TAVOLA RASA – Locke – Grice – the bete noire of Empiricism -- e libri no ilcritti, doue'ii può scriuere ogni cognizione, perche fiamo nello flato doue fi va dall’imperfezzione alla perfezzione, come dal non potere generare al potere, dal non làpere al fapere: ma il primo huomo Adamo cosi come ei fu creato perfetto quanto al corpo, che poteua lubito generare delh altri, così fu creato perfetto quanto all'anima, e gli furono  infufe da Dio le notizie e le fpetie di tutte le colè quanto baftaua, acciò potetfe ammaestrare gli altri, & perciò potette porre il nome conveniente ancora à tutte, come fi dice da Mosé nel Genefi, et tutto quefto conlèntono i Theologi, come AQUINO nella prima parte delia Somma alla dift.^.art^ .  Non lì niega dunque che le idee non fiano in qualche modo in Dio: anzi  è  neceifario  che  le vi fiano: come da me fi è dimoftro, e fé in Dio è la làpienza, e cognizione delle colè per la notizia di fé fteifo, che è la prima cagionc, come Ariftotile confeifa nel primo della Metafifica, & altroue Platone nel Timeo, & in molti altri luoghi. E qua do i peripatetici opponendoli à quefta fermiiììma et importatiilìma verità dicono che Dio fi auuilirebbe fé egli ìntendelie altro che le ftcilo.  fi dee rifponderc chc Ariftotile per quefto argomento nò niega in tutto et per tutto la cognizione dell'altre cole da Dio, come li è prouato, ma la niega in quel modo che ella è in noi e che la hz pòtrebbe concernere in Dio qualche imperfezzionCjCO*  me auuerrebbe feUio nello intendere dipcndelfc dalle cof., che fono fuori di lui, e da effe apprenderle le notizie ci oselle, à guifa che  facciamo noi 3 anzi la Icienza di Dio, tra Faltrc differenze ha ancora quella per la quale ella fi diftingue dalla  noìtra: perche la iiia è caufa delle cofe, e la noitra da elle è cagionata come beniifimo ci in'ccnail gran Comentatorc nel duodecimo libro della  Mctarifica j ci quella altiflìma verità non meno è conforme alla condizione dell'intelletto diuino, che ella (I fìa ad Àriftptile, et à  Piatene, i quali tra tutti i filosofanti tengono il preircìpatò: e dico conforme alla condizione di Dio l'intendere per vn mezzo interno che è la fua diluna efTenza, perche al primo, e diuino intelletto, come atto puriffimo, e mafTimamcnte non (è gli conuicne rice i-er le  fpcv-ìc da akri,ne auerle in fé fteife multiplicate: ma all'intelletto noftro come pura potenza, et come congiunto à materia  corporale a ragione conaicne l'intendei per le fpezie e fimiglianze, riceuute da diuerfe cole, e riformate dall'intelletto agente cosi ancora l'intendono quégli due gran Fìiofofì, come di (opra fi è dipioftrato di Dio, e come del modo del noftro intendere £ d.J chiara e fi tocca da Platone nel Filebo, doue ei dice che l'anima npfìra è come vn libro non ifcritto, & che GLI SCRITTORI SONO I CINQUE SENSI, e nel fettimo della republica coll’elèmpio di collii che è legato in vna fpelonca in guiia che non vede (è non le fimilitudini, e l'ombre delle colè, et noi fiiiolto le feorge chiariiTimamente, ci monVa co ipe 1 miprrip dalla notivia delle colè di quaggiù s'alzi alla cognizione delie cofe diuine, et d’Ariitotile nel ter-io dell'anima: deueper viade'fenfi, et  rer virtù dell’ intellètto agente li efpone come noi intendiamo tutte le cofe e nel icttimo della Metallica fi rende ragione per rodotte, come determinano beniflìmo i Theolo-- i,&  tré'   B j ° gli  Lezzione tefo che per quello che è diritto et retto fi giudica del  torto, & nó al cótrario, come dice Arift. nel 1. dell'anima. Più oltre molti e molti affermano che in Dio ncn  fo- no i ritratti degli effetti carnali e fortuiti:  perche cfuefti non procedono le non da cagioni indcterminate, & di ra  lo, e la feienza è di quelle cole che dipendono dalle lo ro proprie cagioni et tèmpre; e fé ciò è vero della faenza noftra quanto più della feienza diuina. Ma quefti fi ingannano prefupponendo in pnma che rifpetto a Dio G. dia la fortuna ed il caso, e gl’effetti fortuiti: attefo che Pio intende ogni colà, e rilpetto a lui  quefti effetti procedono da cagioni certe, ma R bene a noi incerte ed occulte, $c  fon «épre nelle loro caufe, come  Jccliffe del Sole,  Del Verino.  2$   le;&  della Luna nelle loro. Si penlàno ancora molti de’Platonici che nella  D. Sapiéza nò (ìano i modelli di quelle colè che naicono di putrcfaz.ione, comc efèmpiprazia de’vermi, si perch'eglino no pelano che in Dio {ìano i ritratti delle  colè vili, si ancora perche e'fi dano ad intédere che cosi fatte cole nò fi riduchino fotto l'ordine elsé-tiale delle creature: e nódimeno più dalla produzzione di cosi fatte cole per virtù de'lumi, e del calore celefte proporzionato ììamo indotti à venire in quella credè? a, che in Dio fiano Y Idee, che pell'altre cole, perche elio folo sa quitti gradi di calore bilògna alla loro generazione formazione,  nò altramente che l'eccellente fabbro sàquato caldo dee elfere il ferro per introdurui qualche forma, & per farne qualche colà, come confella il grà Co mét. Auerroe: & pili oltre participàdo quelle colè di qual che forma, e la forma è vn certo bene e certa perfezzione della materia, con1e  C\  dice nel i.lib. de' princ. all'Si.t. e mercè di lei la materia diuenta qualche cola lpeziale; per qfte  cagioni io mi pélo che le bene le lìano vili qua-to alla  materia che le siano però di qualche perfezzionc quato alla  forma, e pche fon buone a qualche colà, no ci' sedo da Dio, e dalla natura fatta colà alcuna i damo, ma à qualche fine, & a qualche vtilità: E fé pur alcun voglia te nerc che ciò che fi genera p putrefazione non fia dell'ordine efséziale delle colè deH'vniuerib, ne di elle fiano  le Idee in Dio, nò perciò legue, che nò l'intenda per l'Idee di'qlle fpezie più rimili, e che fono dell'ordine elséziale del Modo, quale di quefte due rifpoile fia nò lòio più co forme alla dottrina de'più eccell. Filoforanti, ma ancora (& qfto impòrta all'onore della  D.M.& alla làlute nra) io mene rimetto in quello, ed in ogni altra cola da me pé fata, detta, ò  fcntta, à  più  giudiziofi, e  lbpra  tutto à quello che netiene e determina la S.M. Chiela  Cat. Ap. &  Rom. Più oltre della materia prima non e dicono alcuni Idea non eiìèndo ella forma, ne di lùa natura colà formata, mi; Dio intendédo le forine, infieme intende il loro foggetto. B 4  t'iwls Lezziome finalmente de’generi delle cofe non fi pone diftinta idea confiderata come elèmpio dall'Idea delle fpczie: non fi ritrouando  mai i generi fuori delle loro fpezie. Da tutto cjuello che da me C\  è ragionato dell'Idee fi può raccorre quello che le fiano, dicendo che le non iòno altro che la ilella divina efienza non alfolutamettte, ma in quanto le fono fimilitudini, ò ragioni delie Tue creature, e come quella che è partecipata da efle lotto diuerfi gradi di  più, ò meno perfezione, mercè ancora delle quali di tutte le cole  ne ha ottima prouidenza. Puoflì ancora quella dirHnizione dell'Idee con quella ragione procedente per diuifione cosi ritronare, & confermare, argomentando in quella maniera. O Dio intende le cole, che fono fuori della lua diuina eilen7a,ò  nò. non fi può dire che non l'intenda, perche egli intende le ilef lo, e cosi fc eifere caula d'ogni cola, adunquc egli intende ancora ciò che è  fuori di  lui . il dire che non intenda aflblutamente farebbe non folo fomma impietà ma ancora vna delle maggiori bugie che fi poteife dire, perche qual più eccellente operazione Te gli può attribuire, che lo intendere? più oltre le Dio produce le cofe bene, Se bene le regge, & gouerna; adunque ancora l'intende, altramente d’n'intelletto liiperiore iàrebbe retto e guidato, come gli linimenti dallo  artefice che sà, & incende quello ch'ei fa con eifi, & eglino nò: e dunque colà chiara et fermiilìma verità, che Dio intende, e non lolamuc le fteflb, ma ancora l'altre cofe ch'egh produce, e gouerna, e di più quelle che nò ha prodotte, & polche Dio l'in fède, e conofce, ò e' fa quello p vn mezzo che fia fuori di le fteflo, ò che fia in lui. fé fuori di le follò, ò le fono forme colla materia,  parlando delle cole matenali, ò le lòno fpezie, & fimilitudini attratte dalla materia, no è ragione noie dire che in alcuno di qfti modi Dio le intéda si per che'I  Tuo lapere dipéderebbe dalle cole come il noflro, 6c no farebbe in tutto perfetto, si ancora poi in particolare, perche le egli incédeife le forme, come difterici nella ma  «cri* 2f  tenia ad ette voltandola, no farebbe proportione tra  il  fuo irttelletto, che è atto puro, & le forme materiali. noi ancora non conofciamo le cole fé non per mezzo delle fpezie attratte dalla materia e fpiritali, come fono i  Icnfi, & molto piti l'intelletto, fi.vilmente non lì dee credercene Dio intenda le forme materiali per le fpczie attratte dalla materia, e dalle fiic condizioni, perche ò le lòno tali per opera dell'intelletto adente, e cosi  lopra Diobiì ò- gnerebbe porre vn piu nobile intelletto che lo reduceffe dalla potenza dello intendere e del lapere allo atto, e la dia fcicn7a non farebbe fempiterna, ma nuoua, ò veramente quefte forme  aitratte, 5: fuori di Dio, fòno di loro natura tari,: cosi Dio nello intendere dependerebbe d’altri, e non farebbe perfetti/fimo: in niun modo adunque Dio intende le cole per il mezzo che fia fuori di lui.  Kefta che lì vegga come ei le conofea per vn mezzo che fia dentro di lui; dico adunque che ò que^e ìono le forme, & le fyezie delle cole, ò elfa diuina elfcnza, fé le fpczie delle colè, ò colla materia, e cosi egli farebbe materiale, Se non in tu ito ottimo, e pur: filmo atto, ò  lènza materia come l’immagini fono nello specchio, il quale fé fulfe natura intelligente per effe intenderebbe le  cole,  che iono fuori di lui; m quello modo ancora non è da dire che Dio intenda le creature: però che egli non farebbe atto purilTimo, ma vn comporto della natura intellettuale, come potenza e d’effe forme, come atti, fìmilmente non farebbe in tutto ottimo, e perfettiilìmo: perciò fi dee conchiudere che Dio intenda tutte ie cofè che lbno fuori di lui per la fùa diuina clfenza, & non pereffa come  infmìta: perche cosi intende le iìefio, il quale è inrmito, fic le creature fono finite; e quale più e quai1 meno participa dell’efferc e della perfezzione: adunque l'Idee in Dio non fono altro che eflà diuina ellènza, come rappresentatrici al  D. intelletto delle creature, e secondo che ne partecipano più ò meno. AgoiHno Santo nelli%ro  dcÙ'otcStatre ouiitioni alla quiitione 46  le  dirHnifcf   CQH LEZZIONE cosi dicendo che le fono certe fornicò rigioni ftabili, & v  fempiterne, e no fono formate, & fi contengono nella di ulna intelligenza, e che le h di ino lo prona cosi, perche il Creatore [cf. Grice, the creatures] con retta ragione fa le cofe, & co  altra  l'uo-mo, & coll’altra il cauallo: e che le non pollino effer fuori del Creatore è manifefto, dice, perche fuori di lui ei non  cótéplaua cofa  alcuna. AQUINO (si veda), la cui dottrina è cotanto reale, sicura, e santa, ancor egli nella  prima parte della Soma alla q. 15. tiene che glie ncceflario porre l'Idee nella méte diuina: che le fono più, e che le non fono altro che ella Diuina cifenz.a non allolutamente confiderata ma in quanto è efempio et ragione delle cole create da Dio > 6  che pòtrebbe creare. Speditomi  nella prima parte dal ragionamento dell'Idee, leguita hora che in quella feconda io difeorra alquanto delle bellezze di M. Laura, quanto però appartiene all'intelligenza di quefto Sonetto, doue fa di bifogno primieramente intendere quello che fi fia la bellezfca, dipoi di quante fpezie, & terzo in quello che le conuenghino tra loro e in quello che le fiano differenti. Quanto al primo punto la  bellezza non è altro che vna certa proporzione e grazia che reliilta da più cofe, onde per il contrario le colè brutte fon tutte quelle che fono fproporzionate nelle loro parti, &  condizioni, & fenza alcuna grazia.-quetta difHnizione è più prelto pre(a da principij interni iolamente, de quali ella è compofta, che altramente, come fono in cambio di forma proporzione e grazia, e in cabio di  materia più parti, ò più condizioni: legno di ciò che vna colà fola, come vn'elemento non fi domanda bello. Puollì ancora  difKnire la bellezza più perfettamente dicendo ch’ella è vn fiore, ed vna grazia, ò fplendpre. di  più bontà, & perfezzioni vnite che è arde tifììmaméte disiderata.  dicesi fiore, grazia, e splédore per 4i^inguerl4 dal iuo eontiario,, chc. e la bruttezza composta di più  perfezzioni defettiuc vnitc, ma {proporzionate e discordanti.  Più oltre fi aggiugnc in più bontà, perche come fi é detto vna colà in tutto femplice, & come fcmplice confiderata  non fi domanda bella, ancora che come partecipe della forma Tua iemplice fia buona, come fi  è'dato l'efempio d'vno elemento. Terzo ho detto ardentiflìmamente disidcrata, perche cosi ancora la bellezza Ci  diilingue dal bene come bene, che none cotanto amato e disiderato, e quando pure alcuna forte di bene fia troppo amato, co  . roc dagl’avari fono le ricchezze, dagl’ambiziofi gl’onori, dal vulgo i piaceri del senso, e  che Ci dice e' ne fono innamorati, quefto auuiene per certa fimilitudine di ecceiliuo amore di qui fi poflbn cauare le ragioni di alcune òccultilìime verità. Tvnaè, che la  materia prima perche e lòftanza femplice, e non è buona, non eflendo forma, ma  lbggetto atto à riccuere le forme non è bella ne brutta, e fi dee dire propriamente non bella, & nò buona, & quella medefima cófideratacome informata di tutte le forme séz’ordine e proporzione è buona: ma bruìta, e come informata delle forme con ordine e propor.7ione é beila e buona. l'altra nafeoià verità  è che Dio perche è Comma bontà e perche con  iòmma ed infinita proporzione et grazia le contiene tutte in vn modo perfettiflimo, perciò è la fomma ed infinita  bellezza, &  merita d’eflere amato con ardentifììmo ed infinito amore,  6 Ce gl’amanti delle terrene e create bellezze sentono marauigliofi diletti senza alcuno difpiacere quando le ri mirano come  e3 vogliono: quanto più senza  coinparatione ne sentono delimcreata, & diurna bellezza gli An gipli sii in Cielo, e l'anime beate in eflètto, e  quaggiù ì giufti et gl’eletti per ifperanza.  In vltimo fi può aggiugnere alla predetta difhnizione e dire della bellezza veduta: perciochc fino à tanto che la cofà bella no è veduta, ò con l'occhio corporale, ò eoo quello dell'anima,  eh  e  la mente, niuno iène innamora. Onde il noftro Petrarca quando le bellezze della ina donna gli danno di!piacere, fi doleua  d'auerla guardata dicendo. Occhi  pianate  accompagnate il core,  Jt  Che divoftiofalltr morte foftiene.  E Cavalcanti nella lua così dotta, come ofeura Canzone dell'amore dice che viene da veduta forma che s'intende. Quanto al fecondo punto, che era delle fpezie dell'ai more quante et quali le fìano. fé vogliamo  feguire il  parere di FICINO,  il quale più copioiamente, e più fottilmente chealcun'altro de'Platonici,  ragiona d'Amore fopra  Famorofo Convito di  Platone fi dee dire che le fono di tre maniere, vna dell'animo, qhe fi  conoicc colla mente, l'altra del corpo, che fi feorge  colla vissa, ed vna delle voci, la quale fi comprende co  l'vdito, ma    fi  riguarda à quello che fi è detto  dell'Idee  e  della bellezza con  Platone e  con  Ariftotele di fopra, ed alle parti principali dell'uomo, pare che le bellezze fiero folo di due maniere, vna del corpo, che si conofee col senfo della vista & coll'occhio corporale; e l'altra dell’animOjche  fi contempla coll'occhio dell'anima, che è la méte. É volendo difendere il nota  M. Marfilio  {pudore apprellb di noi Latini della Platonica Filofofia fi  può dire che la diuifione di Platone nelle due Venere, cioè nell’intelligibile, & nella sènfibile, e  le quali in quanto (ì confiderono ncll'Vniuerfò, iòno da Ariitot'ile  chiamate ordine delle cofe intelligibili in Dio, ed ordine ienfibile nelle ipezie del mondo fuori di Dio, fi può dico dire che quclta diuifione è prefa dalle oppoite bellézze, atte(o che vna è immateriale ed  in  Dio, raltrafcnfib;1e, &  tuo  ri della diiiina  eiìenza, cos'i  è preia da due diuerie potente che fono in noi, e queite (òno l'intelletto ed il senfo.  Ma Ficino via la diuifione, et ibeto diuifione infieme volendo dire cosi che iàbellezza, et mafiìmamente con- Édérata  neU'iiuomo>ò  nella  donna, è  ò  dell'animo  folo, del corpo lòlo, ò  dciranimo, & del corpo infìeme: quale è la bellezza e la grazia delle voci  et de1  gentili ragionamenti; perciochc in quanto concionano all'orecchio & all'vdito corporale, & con moto corporale dell'aria, é bellezza corporale, ma in quanto a' gentili concetti, c nobili affezzioni, Se disij, che le SIGNIFICANO, che fono nell'animo, e bellezza interna e dell'animo. Puofli ancora dire che le bellezze eflenziah del mondo grande e del piccolo che e lhuomo, fono di due maniere  vna intelligibile^ l'altra senfibile 5 delle quali quefta cosi è fcala e mezzo à quella, come il senso ierue nelle cófiderazioni all'intelletto. ma per accidente poi, perche all'intelletto in noi non iolo ièruc la vifta, ma ancora  rvdito, perciò ancora ci fu di bilbgno della bellezza e grazia delle voci 5 E le alcuno dicerie fefonoeuenzialmente di  due forti di bellezze, ò di Venere vna  intclligibile, &  l'altra senfibile: donde nafce che alcuni de’maggiori Platonici pongono tre sorti d'Amori, vno bestiale, che è IL DESIDERIO grande, che moki hanno di goder la bellezza sensibile co diletto carnale del tatto. L’altro umano col quale dama la medefima bellezza con honeftà, ò per dir meglio con minore errore fermandoli in efla; et il terzo amore è intellettuale e diuino e perfetto,  perche  termina alle diurne bellezze, le quali  iole co le tre diuine perfòne fono il vero oggetto fruibile, parea ragioneuole che quanti io no gli amori tante fiano le Venere, ò vero le bellezze eiiendo queite cagioni dell'amore più oltre fi può cercare da qualche bello ipirito, perche la bellezza fi chiami madre dell'amore, e non padre? e perche la fi chiami col nome di femmina, fendo cola perfetta,  et l'amore col nome di maftio, che è imperfetto, & cógiunto colla pouertà ò mancamento. Al primo dubbio fi dee riipondcre chc fecondo i duoi oggetti dell'amore eflenziali, che fono la bellezza  sensibile e  l'intelligibile,  fono ancora due amori foli il sensibile, &  l'intelligibile;  ma per accidente poi; perche alcune  ni hanno dell'animale e del bruto feguédo i piaceri del Ieri lo: diquìé che  l'amor loro è sensuale e brutale insieme. Al secondo dico ( rimettendomene a più lottili,  & à più intelligenti) che la bellezza fi domanda madre e non padre, e con nome di femmina, & non di maftio, perche la bellezza senza l'amante atto a innamorarli, e senza il dilcorrerui intorno è cagione imperfetta dell'amore, come la femmina senza il maftio non può ancor ella generare ne le ftelle  fenza il Iole,  Venendo hora al terzo capo dico che la bellezza intelligibile e la senfibile conuengono primieramente in più condizioni, poiché tutte e due lbn grazie, fiori, e fplendori, tutte e due fono di  più  perfezzioni, & in pili forme, ò beni fi fondano,  & noninvnfolo. Terzo tutte e due iòno oggetti di potenze cognoicitrici, e quarto fono difiderate di  amoro{b,  et vehementilfimo  difiderio. Sono  lecondariamente uuette due Venere ò bellezze tra loro differenti primieramente perche vna è di cofe Ipiritali, l'altra  corporali: dipoi vna fi comprende con l'intelletto, Faitra col fènfo. Terzo vna ne guida Tempre al bene operare, che è l'intelIettuale bellezza, l'altra talhora ne fa cadere in  rei diade  rij,&  in più fozzi fatti per difetto però di noi, et queita è la senfibile. quarto  l'intelligibile non fi conofee da noi per fé  fterTa, &  chiaramente,  che le fi vedelfe  chiaramente,  molto più ci accenderebbe d’amoroso desiderio, che ella non fi, il vederli chiaraméte tocca folo alla bellezza del corpose però ella lòia ardentimmaméte da noi è amata: come ne moitra l'eiperienza in ogni fecolo, come ne fanno ampiflìma  tede  i'Iftorie, &  Petrarca nel Trionfo d'Amore, et  come  bene dice il Diuino Platone nel Fedro & la cagione perche la bellezza fia lommamente amata e difiderata e perche il bene è colà amabile e  difidcrabilc, più beni molto più, et le vi è  la grazia ancora in  fommo, &  ardentifiìmamentc. In quella vltinia parte di quclto mio difeorfo fi dee da me lpiegare il raara-iglielò ordine, che uenc in questo Sonetto Petrarca in celebrare le bellezze  della dia Madonna Laura, et  'fi dcono efporre alcune voci deltefro: accioche et  l'artifizio, e tutto quello che qui dal poeta è detto della Tua donna, s'intenda chiariflimamente,  e fi deono muouere  Se  iiciorre alcune dubitazioni per difefa di quello che fi farà detto. Quanto  all'artifizio, ò vero ordine io ci auuertifco  tre  -cole la prima che il Poeta primieramente nel primo quadernario  ragiona delle cagioni delle bellezze della tua M. Laura e poi nell'altro quadernario. ne  due terzetti parla delle bellezze, ieguendo in ciò l'ordine di natura, fecondo il quale le cagioni precedono i loro effetti. La seconda cola che io ci noto è, che queflo Poeta lodando le gmzie di lei compitamente dalle loro più prediate cagionile  celebra  prima  dalle  cagioni  antecedenti, che  fono  l'ideale  bellezza, il cielo, e la natura, dipoi dalla  ca^ione che  accompagna quella suà donna, che è il iiio viiòcon legge e maeftria fatto dalla natura: e terzo da quella, che fegue che è il fine che fegue all'opera  beila,&  e per moitrar  quaggiù  in  terra  quàto  lafsù  potea.  Vedete,vedete  vi  prego  giudiziofiflimi  Accademici, come compitamente,  et  con  ordine  efàlti  le  bellezze  della  lui  amata  :  conforme  al  compimento  di  ciafcuna  cofa,  il  quale  ftà  nello  hauer  tre  parti  il  principio,  il  mezzo,  et  il  fine, come  con  tre  prcue  ci  dimoftra  Ariftotile  nel  primo del  Cielo,  cioè  dell'autorità  di  grandinimi  Filofo»  fanti,  quali  furono  i  Pitagorici,  dai  numero  che  fi  via  in  ogni  religione  di  honorare il divino, che é il numero ternario, e dal perfetto modo di parlare de’greci al quale gli induce la natura delle cose. La terza ed ultima cosa che si dee avertire intorno all'ordine, che tiene M. Francesco in questo e leggiadria ed aitifìziofifs. Sonetto in celebrare le maravigliose bellezze della sua donna è, che egli procede nel fecondo quadernario e ne’due ternari. In questa maniera   te- ff  Lezzione facendosi in prima dalla bellezza del corpo più alta, quale e quella delle chiome corrispondenti a quella del sole di cielo, dipoi segue di dire della occulta, conforme in qualche parte à quella del sole diurno e mutabile, e terzo discende alle bellezze delle parti più basse, e prima alla bellezza, e leggiadria degl’occhi, che con la vissa si comprende, et poi della bocca  dividendola in tre. Una, che ancide per pietade, et confitte nel dolce sospirare. L’altra nel dolce esprimere de’concetti. L'altra nel ridere dolcemente. E tutte e tre appartengono alla bocca polla; di lòtto a gl’occhi, e  quelli Iorio nel mez  mezzo tra quella, e il capo, donde efeono i capelli. Da tutto quello che io ho detto, potete ingegnosissìmi accademici conoscere che quello nostro poeta  non con minore ordine ed artifìzio che con grazia, Sgmaeflà celebra ed ammira le bellezze e le grazie del bel viso di  M. Laura, e insieme di qui si può da voi sapere come cosi le bellezze, come ogn'altro bene, s'ha dal divino fonte d'ogni bontà, e d'ogni bellezza per mezzo de celesti lumi, e della divina ed ideale bellezza. Quanto all’esposizione delle voci più ofeurc la prima è quella qllo, che il poeta nitida [per parte del cielo;] alcuni dellielpofitori di Petrarca per parte del Cielo dicono che egli intende le stelle parti più dense de’celesti corpi, come i nocchi in un legno, e che egli parla come accademico, tenendo che l'anime nostre sono tutte create ad vn tratto, e ciascuna furie alìegnata alla sua stella; come racconta L’ACCADEMIA nel TIMEO (vedasi) ma a me piace di  cfporre per parte del Cielo, tutta quella parte ò flellata, ò non iftellata, la quale con debito modo riguarda il luogo dove è ingenerata – H. P. Grice, GENITOR -- , e dove nasce quella si bella donna  j  attelb che dalla debita situazionc delle stelle in cotal parte, come da cause uniuersali nasceno le grazie di lei: come vogliono gli’astrologi, e cosi piace ancora a quello nostro poeta, come si  può vedere in quella  £iuzone, il cui principio è queilo. MJ Tdctr D£L VERTNO. j|   0>  Tacer non pcffo, e temo non adopre o, contrario effetto la mia Imgua al core l dove nella quinta stanza ei dice  1/  dì che coftei nasce sono UJlelle, Che prodvcon fra voi feliii effetti j, 1/7 luoghi altt er eletti uvna ver l'altra con amor converse. In questa parte del Cielo: come in cagione efficiente,  mediante il lume et il moto è il bel viio di M. Laura, e nell'idea come in eiempio  [onde natura tolge.] Puoi si per natura intendere la forma degl’agenti naturali i quali prendono il  modello dell'operare bene dal divino, in quanto da esso sono bene indirizzati fé bene non intendono. O vero per natura si dee esporre il divino itesso, donde dipende tutta la natura, nel qual SIGNIFICATO – H. P. Grice, NATURAL MEANING -ancora Tintele il LIZIO quando nel primo del Cielo ei dice che fa natura fece bene a lpogliare il corpo celedte d’ogni contrarietà, da che douea elìere eterno, secondo che  e^lì lì pensa, piìi pretto guidato da ragioni uumane che dall’infallibili verità – 2 + 2 = 4 -- , che altramente ci mostrano. Più oltre leguitando [ per vn cuore dove sono unte  virtudi  accolte] Petrarca intende non il cuore, che è parte corporale prima dell'altre: ma  o L’ANIMO, che rifiecie nel cuore, nel qual  ientimento vfìamo di dire io ho in bocca cioche io ho nel cuore, o vero per l'uno e l'altro: anelò che formalmente il cuore èl'iiteifo appetito sensitivo, del quale la virtù é moderatrice, e delle parti materiali gli spiriti sono il soggetto delle spezie di esse virtà come  conofeiute, come d'ogni altra cosa che si conosce. Quanto alle dubitazioni qui dirà qualche ingegnoso spirito come può cilere, che il leggiadro viso di M. Laura fulge in qualche parte del Cielo, e in qualche idea ì atteso che il bel viso di lei è cosa particolare, e il  Cielo, e l'Idea sono cagioni universali. Dipoi come celebrali Petrarca la bellezza della sua donna, e dice che la somma e di  sua morte rea; attclà C cht  LEZZION E che fé le grazie dell'ANIMO, e quelle del corpo di lei sono congiurate contro di lui, ed aspirano a darli morte, sono crudeli, ed unto più fi deono biafimare che lodare quanto la morte è cosa rea e la vita cosa buona. E finalmente come può Ilare che il dolce riso di lei, i  dolci sospiri, e il dolce parlare, sono cagioni che amori  iani,e  anci da,  che  iòno effetti contranj, e douerrebbero nascere da contrarie cagioni, di maniera che SE i dolci sospiri, il dolce parlare, e il dolce riso danno all'amante la sanità e la vita;  L’amaro sospirare, RAGIONARE e  ridere lo fanno infermare e lo conduceno à morte. Al primo dubbio e primieramente quanto al cielo di co, che egli si può considerare in due modi. In uno da per le lenza le cagioni  particolari di quaggiù e senza la  particolare materia e in un'altro inficine con quelli agenti e con quella materia  jnel primo modo è vero che il cielo no può  eiTerc causa delle cose particolari, come di particolari leoni, cani, ed uomini, altramente in damo farebbe data dal divinio la virtù del GENERARE – H. P. Grice GENITOR -- à questi inferiori agenti, nel secondo modo è ben vero: atteso che ogni movimento di quaggiù fino all'alterazione, per la quale lì dsipone la  materia, e si generano le cose pende dal  movimento e da lumi dei celesti corpi, come ne mostra cosi l’esperienza, come IL LIZIO  ancora nel sècondo della GENERAZIONE – H. P. Grice, GENITOR -- e della corruzzione e nel  primo della Metheora, oltre che la ragione il medesimo ci confermalero  che SE i cieli con il loro moto, e con il loro lume non cor correderò gl’agéti di quaggiù alla produzzione delle coae generali, non conosceremo come il divino è la prima ed uniceraale cagione di tutte le cose, ed al cielo che interne coll'intelligenze participa molto più della bontà, che le creature di quello mondo inferiore, farebbe negata la virtù di comunicarla ad altri, ed all'altre creature  mcn buone  conceduta, & l'vno et l'altro farebbe non meno inconveniente che  falso. Secondariamente quanto all'idee, le quali sono nel divino dico che fé bene le fono cagioni vniuerfali delli effetti in if pezic da per loro confidente, nondimeno con gli agenti particolari, et con la particolare materia, fono ancora cagioni particolari. Puoflì ancora dire che l'Idee, fé fi considerano come forme in  Dio che è caufa vniuerfale, in quefta maniera, ioti caule delli effetti Ipeciali, ed uniuerfali ma fé le fi contemplano in Dio come cofa che è maftimamente in atto come ancora i particolarità quella maniera Dio intende più prefto in particolare, che in vniuerfale, et cosi ancora ne è cagione più oltre che cofà non iòlo fallà, & empia, ma ancora ridicola farebbe quella de’ Fiiofòfanti,  fé credeflero che Dio ch'e l'ottima, Scleccellentifs. cagione, e che le foftanze particolari, fono più pertette che Tvniuer(ali, come fi dimoftra d’Ariftotile nel capitolo della foftanza e nondimeno più prefto fi penlàifero che Dio producefTe rvniuerfali cheleparticolaii, & che più prefto di quelle che di quefteteneffe cura, perciò vfizio è di huomo fàuio, pio, et amatore del vero, tenere, che  Dio et in vniuerfale, ed in particolare fìa autore delle cole, et tanto più in particolare, che in vniuerfale: quanto così fono più perfette che in quel modo e cosi deono credere dello intendere di Dio e chi non sa rifoluere le argomentazioni più forti che in contrario fono itate ritrovate da fottili ingegni, dee più prefto in ciò confeffare lz fiia ignoranza che per non fare quefro che farebbe fegno  di modeftia incorrere in quelli tre grandiflìmi vizij di stoltizia, di menzogna, e d'impietà. Alla terza ed vkima difficultà fi può rifpódere che gli effetti contrarij poifon nafeere da vn medefìmo agente ò da due agenti contrarij'. da vn medefìmo in più modi, ò perche egli fìa diversamente dispotto, ò i fuoi finimenti, o la materia, ò perche in diuerfit é piafpirià diuerfì fini può vn medefìmo  agente effere diuerfamente difpofto & così cagionare diuerfì eftetti come il gouernatore e maeftro di naue con la  fuà prefenza e coll’arte fùa faiua la iauc dalle fortune del mare e de'corlali e colla suà  C a alfe*    Le 2 z ione  fllTcn?!, ò non fapendo ben farti, è caufa del contrario umilmente fé vn medelìmo agente fi lèrua di linimenti diuerfi, farà diuerfe operazioni e contrarie, colle  tana- glie esépi grazia vn legnaiuolo caua gli aguti d'vn legno e col martello ve gii ficca, vn'eccell. pittore le ha buon pennellij & buon colori fa vna bella figura, le altramente brutta. Che più oltre vn'iftelfo agente, mercè della  divertita della materia faccia contrarij effetti, è chiaro di qui perche il Sole indurifee la terra, che e tenera per efiere mefcolata coll'acqua, ed intenerire la cera.  aelFaz.zioni umane vn'iftelfo capitano delli  elèrciti Ce ha per fine la vittoria per quella rcpubl. pella quale e5 combatte la può conlèguire. fé la perdita e la rovina ancora di cotanto male può eifere caufa; e cosi la diuerfità de’fini è caufa ancora, che d’vna medemna cagione effettrice nafehino diuerfi effetti, in vltimo, che duoi contrarij, contrarij effetti preduchino è chiaro, il bene accende  in noi desiderio di le il eifo, & di qui è che ci muouiamo per acquiftarlo, il male cagiona l'odio, ed il fuggirlo dalla fanità procedono le operazioni naturali Se buone, dairinfermità fono impediti, e fatte imperfette, da queita diftinzione è manifefto come il dolce sòspirare, parlare, e ridere dell'amata dia la làmta all'amante, fendo li ella con quefte gra7ie prefente, e l'infermi, e dia morte con  la fua ai-lènza, poi come contrarie cagioni il dolce sòspirare, parlare e ridere, el fare tutto que :o con afprezza et sgarbatamente, ne lègue ò la sanità e la vita o la malattia, 8c la morte nello amante, effetti contrarij da contrarie cagioni procedenti. Da tutto quefto mio ragionamento può ciafeuno di voi gentiliduni, et accortitììrni Accademici, e Vditori haucre comprelò, chcilnoltro M.  Petrarca non con minore altezza ni concetti, ne con manco beilo ordine hi celebrate le bellezze et le gra?  ie delia suà  M. Laura che con maeità e grazia di parole, ateeiò che egli «el primo quadernario di quello sonetto l'eiàlta da  tut- Del Verino.%f   te le principali più degne cagioni come tra le irrumentali è il Cielo con 1 fuoi più benigni lumi, i quali in luoghi alci ed eletti si ridonarono  il di che cortei nacque, tra l'elemplari  l'idea d'vna graviofilTima donna, tra le agenti la natura prima, ò vero eifa prima, ed iuprema cagione d'ogni cosa buona, et d'ogni rara bellezza, tra le formali più notabilità grazia e la Ieggiadna, & tra le ma renali il vifo di queita iva donna. Confederando più oltre che quello e dotto e gentil poeta nel lecondo quadernario lèguita, ma più particolarmente  ài renderci ma rauigliofele bellezze di M. Laura, celebrandole fuechio me, con agguagliarle al finiiììmo ore nel colore, e nello splendore e preponendole alle chiome fparie all'aura di qual lì voglia ninfa, che (ì ritroui ne' fonti, & di qual fi voglia  dea habitatrice delle lelue, e credo io, che à più eleuati ingegni intenia di lodarla di carità attribuì» ta alle ninfe, le quali l'ardore delle carnali  dilettazioni eitinguono con queita angelica virtù, non altraméte che il fuoco iìa eitinto dall'acqua cosi voglia Ibpra modo significarci che ella ha in se raccolte le virtù in eccellenza, il che e colà rara e solitaria come quelli che per attendere alle diuine specolazioni, fuggono le conversazioni, Se li riducono ad abitare ne’dolchi, e nelle felue nelmedefimo quadernario magnifica le virtù di  queita dia donna dal gran numero che ella  n'ha raccolte nel suo animo quasi volendo dire che doue nell'altre belle ne è vna, e óuq, ò poche più in lei iòn tutte cosi dalleilremo poterebbe l'hanno in lui, che è di condurlo à morte per l'infinite, e grandiilune pailìoni, eoa le quali tutta la fuà vita è mole-Hata, e quello perche egli non teneua modo, ne anfora in amarle, onde ella molte volte le  gli moitraua disdegnofa, ed adirata; e questo li reca infiniti tormenti, come pel contrario le benigne accoglierne vq contento, vn allegrézza lenza termine Tcn#    $8 Lezzione  Terzo ed vltimo più in particolare ci efprimc le grafie e la forza d’alcune parti di queftabelliiTima, e  le?- giadriflìmà donna: le quali grazie dico iono di alcune parti del corpo, come degl’occhi, del cuore, e della bocca, e ci annunziano vna maggiore grazia che è quella del suo bell'animo, quella degl’occhi è divina, e confifbe più che in altro nel girargli con suavità, e perche per gl’occhi  molto si lcuoprono altrui, le qualità dell'animo: come i più dotti de Fisìonomi ci dimostrano, & refperienzaftefla: di quìè che dal mouimento fòaue e gentile degl’occhi si può prendere fpedito argomento del fuo  bell'animo dal sòfpirare similmente con soavità, si conosce vn'animo appaflìonatOi ma con certa moderanza comeauuicne in chi modera gl’affetti col freno e colla legge della retta ragione. Le grazie finalmente della bocca Tono il dolce parlare che ci dinota vna moderanza nell'appetito iralabile che ci ìùole pella bellezza ò per qualche bene che è  m noi più che in altri inluperbire  ed il dolce riio dolcezza e piaceuolezza nel conversare, O Dio immortale con  quanta arte ci fai tu quaggiù in terra ed inquefta materia vedere la tua bontà e le tue bellezze e con quanto ftupore cosi  dottamente e con tanta leggiadria di parole quefto poeta ce le ha cfprefTe e cantate in quefto sonetto: perche non ho io potuto con quell'altezza di concetti, con quel marauigliofo ordine, e con  quella maeftà di parole, che fi conuenne, e che io più defidcrauo difeorrerne digniilfimi accademici, ed uditori? perche dico non ho io potuto così celebrarle alla presenza vostra? mercè credo io della  debolezza del mio intelletto, e della rozzezza del mio dire, colle quali imperfezzioni è piaciuto alla  diuina prouidenza che io fia, acciò più illuftre e chiare apparifehino le perfezzioni e  le  grazie di molti altri, & atfine che io comprenda, che tanto più  fi Del Verino. 0 ri fono obbligato della grata vdienza, che come corte fiiTimi mi auete data, quanto meno mi  II conucniua, e perciò con tutto l’affetto del  cuore ve ne ringrazio. IO HO DETTO. Il  Fini. Francesco Vieri. Keywords: Pico, Accademia. Refs.: The H. P. Grice Papers, Bancroft; Luigi Speranza, “Grice e Vieri: la dialettica fiorentina”, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria. Vieri.

 

Luigi Speranza -- Grice e Vigellio: la ragione conversazionale al portico romano – filosofia italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Roma). Filosofo italiano. Amico ed allievo di Panezio. Stoic philosopher. A friend and pupil of PANEZIO (vedasi), with whom he also lives. He is noted by CICERONE in “De Oratore” to have also been a friend of Lucio Licinio CRASSIO (vide), the greatest Roman orator prior to CICERONE. All other information has been lost.  See also List of Stoic philosophers. References: Blits, “The Heart of Rome: Ancient Rome’s Political Culture”; CICERONE. The first Stoic philosopher in Rome is the famous Panezio, who joins The Scipionic Circle, lives for a while in SCIPIONE’s home and travels with him for more than a year on a public embassy to the East. Besides SCIPIONE, consul, and censor, at least six  *other* consuls study under Panaetius. They include LELIO and L. FURIO, both of whom, along with SCIPIONE and Polibio, hear the three Greek philosophers at Rome; FANNIO; Q. Elio TUBERONE, suffect consul, Q. Mucio SCEVOLA, and Rutilio RUFO. In addition, Spurio Mummio, one of the legates sent to settle Greek affairs is trained in the doctrine of il PORTICO (Cicero, “Bruto”). V., friend of CRASSIO, consul, is Panezio’s friend and pupil, and lives with him (CICERONE, “De oratore”); and Sesto POMPEO, son of the governor of Macedonia, brother of a consul, and uncle of POMPEO maggiore, withdraws from politics in order to devote himself to the philosophy of the Portico (CICERONE, Bruto, De oratore). Portico. Pupil of Panezio. Marco Vigellio. Marcus Vigellius. Luigi Speranza for H. P. Grice’s Play-Group, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza.

 

Luigi Speranza -- Grice e Vigna: FILOSOFIA SICILIANA, NON ITALIANA -- all’isola -- la ragione conversazionale e la regola d’oro conversazionale – la scuola di Rosolini – filosofia siciliana -- filosofia italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Rosolini). Filosofo siciliano. Filosofo italiano. Rosolini, Siracusa, Sicilia. Essential Italian philosopher. Filosofo italiano. Studia filosofia a Milano, legandosi in special modo all'insegnamento di BONTADINI (vide) e SEVERINO (vide). Con SEVERINO si laurea con la tesi, ‘La logica dell'astratto – generale -- e la logica del concreto – particolare’”. Insegna filosofia a Milano e Venezia. Presidente della Società italiana di filosofia morale. Si occupa della filosofia del lizio, o peripato, e di neo-idealismo italiano. Si concentra in maniera speciale sull'ontologia, proponendo una ‘semantizzazione’ del concetto di ‘essere’ capace di risolvere la aporia del “parmenidismo” (vide VELIA) di SEVERINO, che in qualche modo grava anche sulla speculazione di BONTADINI. Questa ‘semantizzazione’ permette di leggere nel ‘divenire’ (“x divenne y”), non l'annullamento dell'ESSERE (“x e y”), ma piuttosto l’annullamento di UN ENTE. La differenza fondamentale è proprio quella che passa tra l’essere ‘assoluto’ che *non* diviene, e UN ente finito che comincia e cessa di essere – cfr. Grice, relative identity in Geach and Myro, and his schema on becoming after von Wrigt in “Actions and events.” Questa impostazione ha consentito di raffinare ulteriormente il tema della mediazione metafisica che sfrutta e compone la posizione necessaria della totalità di un essere con la posizione della totalità molteplice e mutabile dell'esperienza.  Insieme all’analisi di ontologia, si sono svolte quelle di etica (bio-etica). L'etica è intesa fondamentalmente come un’annalisi del desiderio o volere, il quale, a sua volta, è fondamentalmente desiderio di un altro desiderio (“meta-desiderio”), cioè poi di un altro essere umano – il co-conversazionalista B -- che ci desideri e ci riconosca. L'etica e così ri-condotta alle dinamiche di una relazione inter-soggettiva, che si puo descrivere secondo tre modelli basilari. Il primo modello è il modello griceiano – ariskantiano -- quello regolativo per l'etica. E quello in cui le soggettività si riconoscono reciprocamente come delle soggettività, e cioè come delle persone o degl’esseri che pensano e desiderano in modo trascendentale. Il secondo modello, piu primitive, è quello trasgressivo della ragione istrumentale. Quello in cui le soggettività confliggono e cercano di dominare il soggetto che hanno di fronte, trattandolo come un oggetto o istrumento -- o una cosa manipolabile a loro piacimento. Il terzo modello, che si colloca a mezza strada fra i due precedenti, è quello che V. definisce come modello griceiano ‘oblativo,’ in cui, mentre una delle due soggettività riconosce l'altra e si dispone a trattare l'altra secondo la cura e il rispetto che le convengono, l'altra soggettività non offre nessun riconoscimento e cerca di imporsi sulla soggettività riconoscente come soggettività dominante. Questa impostazione onto-etica si caratterizza per il tentativo di fondare la regolatività etica del modello ariskantiano di Grice su argomentazioni che partono dal rilievo irrefutabile della trascendentalità della persona, la quale si trova invece contraddetta in tutte le situazioni di rapporto inter-soggettivo ri-conducibili agl’altri due modelli (razionalita istrumentale – Modelo II --, e razionalita di oppression – Modelo III).  L’indagini di antropologia trascendentale completano e chiudono questo percorso, ponendosi come il termine medio che stringe e salda l'ontologia all'etica. Il concetto di ‘persona’ viene inteso alla Grice e Strawson come sinergia del concetto di ‘sostanza’ e di quello di relazione (la categoria della relazione di Aristotele, la relati, o il ‘pros ti’.  Sostanza (ousia, sub-stantia,  essential) è classicamente quello che permane e sta in sé. La relazione, invece, è qui il rapporto intenzionale ad altro da sé. La persona è una sinergia di sostanza e relazione perché è sia rapporto a se stesso sia rapporto all'altro da sé, in quanto è essenzialmente una intenzionalità trascendentale, ovverosia un orizzonte consistente di relazione all'altro da sé, secondo il corso illimitato del desiderio che lo abita. Saggi: “La dialettica di GENTILE” in “Giornale critico della filosofia italiana”, “La religione nella filosofia di GENTILE”, “Giornale critico della filosofia italiana”, “GENTILE, interprete di Marx”, in  Enciclopedia. La filosofia di GENTILE, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma, “Ragione e religione”(CELUC, Milano); “Filosofia e marxismo” (CELUC, Milano); “Le origini del marxismo teorico in Italia: il dibattito tra LABRIOLA, CROCE, GENTILE, e Sorel sui rapporti tra marxismo e filosofia (Città Nuova, Roma); “GRAMSCI: il pensiero teorico e politico e la questione leninista” (Città Nuova, Roma); “Invito al pensiero di Aristotele” (Mursia, Milano), “Sostanza e relazione: una aporetica della persona,” in L'idea di persona, Melchiorre (Vita e Pensiero, Milano); “L'enigma del desiderio” (San Paolo, Cinisello Balsamo); “La politica e la speranza” (Lavoro, Roma); “Il frammento e l'intero: -- il toto e la parte -- indagini sul concetto di essere e sulla stabilità del sapere” (Orthotes, Napoli); “Sul trascendentale come inter-soggettività originaria”, in “Le avventure del trascendentale,” Rigobello (Rosenberg, Torino); “Sulla verità e sul bene” (Petite Plaisance, Pistoia); “Etica del desiderio come etica del riconoscimento” (Orthotes, Napoli); “Sostanza e relazione: indagini di struttura sull'umano che ci è comune” (Napoli); “Studi su GENTILE” (Orthotes, Napoli); “Studi su Marx” (Orthotes, Napoli); “Studi su Aristotele” (Orthotes, Napoli); “La ragione e la dialettica: studi su Marx e VOLPE” (Marsilio, Venezia); “Teorie della felicità” (Francisci, Abano Terme); “La qualità dell'uomo: filosofi e psicologi a confronto” (Angeli, Milano); “Dio e la ragione” (Marietti, Genova); “L'etica e il suo altro” (Angeli, Milano); “Strutture del sapere filosofico” (Cardo, Venezia); “La libertà del bene” (Vita e Pensiero, Milano); “Essere giusti con l'altro” (Rosenberg, Torino); ‘Introduzione all'etica” (Vita e Pensiero, Milano); “Etica trascendentale e intersoggettività” (Vita e Pensiero, Milano); “Multi-culturalismo e identità” (Vita e Pensiero, Milano); “La persona e i nomi dell'essere: sritti di filosofia in onore di MELCHIORRE” (Vita e Pensiero, Milano); “Libertà, giustizia e bene in una società plurale” (Vita e Pensiero, Milano); “Etiche e politiche della post-modernità” (Milano, Vita e Pensiero); “Etica del plurale: giustizia, riconoscimento, responsabilità” (Vita e Pensiero, Milano); “Affetti e legami” (Vita e Pensiero, Milano); “La REGOLA D’ORO come etica universale (Vita e Pensiero, Milano); “BONTADINI e la metafisica” (Vita e Pensiero, Milano); “Metafisica e violenza” (Vita e Pensiero, Milano); “Etica di frontiera: nuove forme del bene e del male” (Vita e Pensiero, Milano); “Di un altro genere: etica al femminile” (Vita e Pensiero, Milano); Pira. Un san Francesco nel Novecento (AVE, Roma); “Multi-culturalismo e inter-culturalità: l'etica in questione” (Vita e Pensiero, Milano); “La vita spettacolare: questioni di etica” (Orthotes, Napoli); “Etica dell'economia: idee per una critica del riduzionismo economico (Orthotes, Napoli); “Differenza di genere e differenza sessuale: un problema di etica di frontiera” (Orthotes, Napoli); “Il dovere dell'ospitalità (Orthotes, Napoli). Dell'interpretazione di GENTILE offerta da V. discutono, fra gl’altri, Berlanda, “GENTILE e l'ipoteca kantiana. Linee di formazione del primo attualismo” (Vita e Pensiero, Milano); Bettineschi, “Critica della prassi assoluta: analisi dell'idealismo di GENTILE” (Orthotes, Napoli). Si vedano anche “Studi GENTILIANI” (Orthotes, Napoli). Cfr. “Studi marxiani” (Orthotes, Napoli). Cfr. gli scritti raccolti in V., Studi aristotelici” (Orthotes, Napoli); Saccardi, Semantizzazione dell'essere e inferenza metempirica, in Pagani, “Debili postille. Lettere a V.” (Orthotes, Napoli). Cfr. anche Messinese, “L'apparire del mondo: dialogo con SEVERINO sulla ‘struttura originaria’ del sapere” (Mimesis, Milano). “V., invece, che pur si è formato alla scuola di BONTADINI e di SEVERINO, non segue più i suoi maestri, perché ormai ritiene che, se si accetta la “semantizzazione parmenidea” (vide VELIA) dell’essere, non si può evitare di estendere gl’attributi dell'essere assoluto all’ente, come precisamente è avvenuto nello svolgimento della filosofia di SEVERINO. L'errore, però, prosegue V., sta proprio in questo “aver trattato la questione dell'essere come una questione di ESSENZA.” L'errore viene eliminato convincendosi che la “semantizzazione” dell'essere coincide con la relazione d’essenza ed esistenza': questo è il 'tratto comune' tra tutti gl’enti".  Cfr. V., “Il frammento e l'intero,  Sulla semantizzazione dell'essere. L'eredità speculativa di BONTADINI, in “BONTADINI e la metafisica.” Si veda inoltre SOLLIANI, “Dell'essere come essenza: per una rivisitazione del problema a partire d'AQUINO” in Debili postille, Il frammento e l'Intero, Cfr. anche Pagani, “Una rivisitazione della via del divenire e Peratoner, Intorno alla conoscibilità di Dio, la ragione, la fede, in Debili postille,  Si veda poi Barzaghi, Percorsi di rigorizzazione della teologia naturale nella filosofia neo-classica milanese”, “Rivista di filosofia neo-scolastica”. Cfr. Vigna, Etica del desiderio umano (in nuce), in Introduzione all'etica, Aporetica dei rapporti intersoggettivi e sua risoluzione, in Etica trascendentale e inter-soggettività,  Si veda anche il saggio di Fanciullacci, “Dell'inter-soggettività e del riconoscimento, in Debili postille, Cfr. V., Sul trascendentale come inter-soggettività originaria. Venuti, La cura dell’altro come REGOLA D’ORO. Lettera aperta a V., e Zanardo, Sul dono della differenza, in Debili postille, Per una discussione complessiva del pensiero di V. si vedano i saggi contenuti in Pagani  Debili postille. Lettere a V.” (Orthotes, Napoli); “Sostanza e relazione: una aporetica della persona.” Si può vedere anche Bettineschi, Finità e infinità della soggettività. Lettera aperta a V., in Bettineschi, “Intenzionalità e riconoscimento: scritti di etica e antropologia trascendentale” (Orthotes, Napoli). Bergamo festival: l'intuizione, su you tube. Malato o persona?, su you tube. L'etica, you tube.com. Treccani. Intervista a V.: la filosofia morale, you tube. Tugnoli, V.: il desiderio come orizzonte trascendentale, su mondo-domani. Venezia, su unive Bollettino della Società filosofica italiana, Centro di etica generale ed applicata, su centro di etica. Centro inter-universitario per gli studi sull’etica, su venus unive. Società italiana di filosofia morale, Intervento su La Pira, su avvenire. Attualismo, problematicismo, metafisica, su filosofia. La politica e il sacro, su in schibboleth.  Bisognerebbe oggi parlare piuttosto di metafisica del male comune… Siamo infatti  dinanzi ad un certo tramonto del politico, almeno nell’Occidente post-industriale: lo siamo  nel senso che la società civile, negli ultimi decenni, ha assorbito in sé ciò che una volta era,  almeno in parte, contenuto della sfera politica; ma lo siamo soprattutto nel senso che il  compito politico sembra troppo difficile da eseguire ed è in effetti non di rado tradito da  coloro che ne sono in prima battuta responsabili. Ad una sorta di processo di disseminazione di progettualità creativa in seno alla società civile sembra corrispondere una sorta di discredito e di scetticismo quanto alla sfera politica. La sfera politica sembra non riuscire più  ad occuparsi della cosa comune ed essere diventata, piuttosto, il luogo di una distribuzione  corporativa delle risorse. Quando non si giunge, come ad esempio in Italia (ma certo non  soltanto in Italia), a forme molto gravi di corruzione e di spreco. Il cittadino medio tende  perciò a ritrarsi dalla politica o semplicemente cerca di profittarne. Di fronte all’ingestibilità della progettualità politica, e pure di fronte al discredito della politica, si capisce perché vi sia un generale movimento di conversione dai fini ai fondamenti  della comune convivenza. Ma questa conversione a me pare, in realtà, non tanto una conversione dalla progettualità politica all’amministrazione della società civile, quanto una  qualche conversione dalla politica all’etica.  Ci si è convertiti all’etica, quasi per esaurimento della sfera politica: questo ho appena  suggerito. Ma l’etica non pare offrire uno spettacolo diverso dalla politica, nonostante oggi  la si chiami fuori, l’etica, per dirimere, quasi giudice supremo, i conflitti tra il politico, il sociale e il privato; anche l’etica, infatti, ha i suoi problemi, né suscita consensi facili, quando  si va a determinare caso per caso che cosa può dirsi garantito dall’etica. Sono note ad es. le  polemiche sulla bioetica, tanto per citare uno dei temi oggi forse più rilevanti, anche per le  sue immediate ripercussioni in ambito politico. Dobbiamo dunque mettere sul conto della  nostra quotidianità una eclisse anche dell’accordo sulle convinzioni etiche? Così pare. E il  multiculturalismo spinge nello stesso senso. Fino a qualche decennio fa la trasgressione  prendeva di mira la legge politica (si ricordi la temperie sessantottina); oggi quel tipo di trasgressione sembra rientrata e sembra, appunto, presa di mira anche l’etica. Cito solo un  sintomo, ma vistoso: ciò che si discute con sempre maggiore frequenza è la possibilità di  stabilire regole per tutti che siano regole puramente convenzionali o formalistiche, anche  sul piano etico. L’area anglosassone, più sperimentata in fatto di multiculturalismo, ha  avanzato non poche proposte in tal senso. Ma bisogna pur dire che ogni formalismo convenzionalistico contiene in sé il difetto radicale di valere tanto per le cose buone quanto per quelle malvagie (anche una organizzazione mafiosa rispetta una serie di convenzioni...),  sicché serve solo a scansare il problema fondamentale, anzi che a risolverlo. Ed è qui che  il bisogno di stare al sostanziale tende alla compensazione dell’etica, lmeno nel senso di  ricorrere ad elementi o frammenti di rimandi all’etica, per ottenere coesione e consenso.  Una certa fiducia nell’universale rispetto dell’essere umano e un certo rimando ad una fede  paiono non di rado un collante più potente di qualsiasi considerazione ideologica, visto  anche il discredito su larga scala patito dalle ideologie novecentesche. Eppure, dell’etica e della politica, in realtà, nessuno può fare a meno. L’etica e la  politica, come tutte le cose “necessarie” per la vita degli uomini, si raccomandano da sole.  Come tutte le cose necessarie, l’etica e la politica ricompaiono e persino dominano anche  là dove le si vuole a tutti i costi esorcizzare. Solo che tutte queste cose prendono vesti diverse da quelle di una volta: tendono a frantumarsi in molti rivoli o assumono andamenti  carsici. Per esempio, l’etica e la politica diventano oggi cura del mondo della natura o  riscatto del femminile, lotta per l’integrazione delle etnie o sostegno per gli emigranti e gli  emarginati. Comunque, quando e a misura che appaiono onorate, queste dimensioni del  senso della vita umana sembrano rendere possibile la convivenza, perché esse si presentano come custodi di ciò che accomuna gli esseri umani nel profondo. Più di quanto accada  alla semplice fattualità dell’ethos. L’etica e la politica sembrano qualcosa di infinitamente  più prezioso dell’ethos. Sono in effetti il giudizio sull’ethos a partire dalla verità del desiderio umano, se intendiamo per ethos ciò che appare come la realizzazione storico-fattuale  di tale desiderio.  5. Abbiamo evocato la “verità” a proposito del desiderio umano. In realtà, l’etica e la  politica, sono solitamente intese come il luogo del riferimento all’”oggettività” normativa.  Ma l’”oggettività” qui che cos’è, se non la “verità” di quel che il desiderio del singolo o  della collettività desidera? Una certa eclisse dell’etica e della politica, in particolare, sembra l’eclisse della consapevolezza di questo legame originario con la verità dell’esistenza.  E allora? Come far fronte a questa “sfida” paradossale del nostro tempo, che vorrebbe fare  a meno dell’universale verità, proprio mentre la invoca per governare la frammentazione  delle esperienze dei singoli e dei molti? Semplificando non poco, io azzarderei questo tipo  di risposta. Un codice universale di natura semplicemente teorica, cioè veritativa, sembra  diventato di fatto improponibile. Questo non significa che sia impossibile. Significa semplicemente che la cultura dominante, incline al relativismo e allo scetticismo, non lo cerca e  non lo vuole. In fondo, ne dispera. Eppure, tenta di rimediare a questo fallimento epocale  mediante la ricerca di un codice pratico. È degna di rilievo la circostanza che gli “ultimi fuochi” della “fondazione” di qualcosa siano, nel pensiero filosofico occidentale, di tipo eticopratico (cfr. ad es. le proposte di Apel). Ma anche la fondazione dell’eticità, purtroppo, è un che di teorico. Perciò non funziona più di tanto. Ossia: anche l’etica e la filosofia della  politica dividono. Sembra che unisca, piuttosto, la pratica tout court, forse perché nella  pratica ci si deve necessariamente determinare così e così. La pratica è “reale”, si pensa, o  è almeno la riconduzione del pensiero alla realtà (laddove la teoria è la riconduzione della  realtà al pensiero e quindi sembra offrire un margine maggiore alla variazione soggettiva).  Per una metafisica del bene comune  Ma non ci si illude anche da questa parte? È possibile. E tuttavia la pratica, come alternativo terreno di intesa, sembra più efficace della teoria, perché si orienta al reale, e il reale  tendenzialmente unifica, se e quando ci è dinanzi (almeno in qualche modo), più di quanto non  accada alla teoria, che soffre degli equivoci insuperabili della comunicazione. Ma una maggiore approssimazione al nostro obbiettivo richiede una manovra aggiuntiva. Noi dobbiamo cercare ciò in cui gli esseri umani possono praticamente convenire,  ossia ciò che li può praticamente accomunare. Orbene, ciò che tutti desideriamo è almeno  questo: d’essere riconosciuti e onorati nella nostra umana soggettività. Detto in altri termini, ogni soggettività umana chiede d’essere riconosciuta come un orizzonte di senso  inoltrepassabile, cioè intenzionalmente infinito, perché tale essa è per via del logos che la  informa. Ma le soggettività sono molte. E come è possibile che più orizzonti intenzionalmente infiniti coesistano? Non si riesce facilmente a capire proprio questo. Sulle prime, più  infinità, per quanto semplicemente intenzionali, sembrano incompossibili. L’una sembra  togliere all’altra proprio tale carattere (Sartre). Di qui l’impulso al conflitto e quindi alla potenziale esterminazione dell’altro. E in effetti l’esito è inevitabile, se ogni soggettività viene  innanzi esigendo, anzitutto, dall’altra il riconoscimento della propria trascendentalità. Cioè  imponendolo. L’altra, per lo più, farà lo stesso con la prima. Così entrambe le soggettività  finiranno per lottare per la vita e per la morte. Non così, se ogni soggetto, anziché esigere  d’essere riconosciuto nella sua trascendentalità, viene innanzi offrendo, anzitutto, il proprio  riconoscimento della trascendentalità dell’altro. Non così, se l’altro, riconosciuto, viene innanzi riconoscendo a sua volta la trascendentalità del primo. Poiché la trascendentalità in  tal caso non è predata, ma reciprocamente offerta, accade che ognuna delle due coscienze  sia riconosciuta dall’altra. E poiché ognuna liberamente riconosce, resta nella propria trascendentalità anche quando lascia essere l’altra allo stesso modo. Due trascendentalità,  così chiasmaticamente incrociate, non sono più incompossibili, anzi si sostengono e si alimentano a vicenda. L’inciampo dell’ostilità reciproca è qui tolto in via di principio.  Il primo codice universale e il più efficace è dunque il principio del reciproco riconoscimento. In effetti, il principio del reciproco riconoscimento è il codice universale più  praticabile: un gesto di riconoscimento può esser fatto da chiunque lo voglia. La sequenza che ho sinora esposto si può riassumere così: possiamo tornare alla politica solo se transitiamo per un’etica del riconoscimento reciproco. Ma il riconoscimento  reciproco implica inevitabilmente trattare ogni essere umano come fine in sé. Cioè come  qualcosa di inoltrepassabile. Cioè come libero dall’ambiguità delle relazioni di dominio. La vita umana non può che abitare questo luogo, se andiamo alla sua regola secondo verità. Ma come in concreto si struttura la salvaguardia della vita umana nella società civile?  Credo che si possa agevolmente rispondere a questa domanda riproponendo nel giusto  ordine tre grandi convinzioni che da tempo immemorabile gli esseri umani hanno tentato  in un modo o nell’altro di onorare: la libertà del gesto, che fa dell’azione una azione umana  nella sua dignità, la mira del bene, che riscatta la libertà da possibili ambiguità, la giustizia  del gesto che fa della mira del bene una questione non solo della vita del singolo, ma anche della vita di tutti. Vediamo partitamente queste tre convinzioni, che rendono possibile  l’umana convivenza come società civile e che devono essere protette dall’umana convivenza  come società politica. Il primo breve discorso che vorrei fare è quello sul bene1, perché sono convinto del  fatto che dal bene cominci propriamente la possibilità di una determinazione equilibrata  delle altre due parole: la libertà e la giustizia e perché il bene custodisce in sommo grado la natura sacro-santa della vita umana. La vulgata precedenza della libertà sul bene e sulla  giustizia è in realtà un capovolgimento della vera sequenza teorica. Dobbiamo tale errata  precedenza alla modernità. Essa compare con solennità epocale per la prima volta nelle  parole d’ordine della rivoluzione francese: libertà, eguaglianza, fraternità. Da allora in poi  ha fatto, purtroppo, molta strada. Dico “purtroppo”, perché sono dell’avviso che, cominciando dalla libertà si onora un essere umano, ma solo cominciando dal bene lo si orienta  in modo conveniente nei suoi propositi di vita, singolare o collettiva. E un essere umano è  libero soprattutto per questo, per confrontarsi col bene. Il bene è infatti il fine d’ogni azione  e nella vita pratica tutto prende senso dal fine.  Ma lasciamo i discorsi formali e veniamo a qualche considerazione un po’ più contenutistica. Chiediamoci, anzitutto, perché nel corso della modernità il bene è stato gradualmente messo da parte (il grande discrimine è il Kant della Critica della ragion pratica).  La risposta a questo interrogativo è nota ai metafisici  solo la richiamo  ed è duplice.  Prima parte: il tema del bene è stato accantonato, perché strettamente legato all’ontologia  metafisica, da Kant in poi (v. Critica della ragion pura), per comune convinzione, considerata  impossibile. L’ontologia metafisica, veicolata, specialmente da Wolff in avanti, come un  sapere sistematico, con l’aura dell’assolutezza, era simbolicamente accostata, in termini  politici, a qualcosa come la monarchia assoluta e/o il papato. Ma questo, in molti spiriti  liberi, significava inevitabilmente dispotismo, autoritarismo, inquisizione e simili. La modernità è rappresentabile, da questo punto di vista, come la rivolta della soggettività contro  un simile apparato, in nome d’un nuovo fondamento di senso: la soggettività medesima,  cui appartiene essenzialmente l’attributo trascendentale della libertà. Il cogito cartesiano  inaugura questa stagione, anche se l’emergenza della figura della libertà è da addebitare  alla stagione illuministica. Ma vediamo l’altra parte. Nella modernità il riferimento al divino, cui il bene era da  molti secoli, in ultima istanza, rapportato, si attenua fortemente e gradualmente; dall’Umanesimo in avanti, viene innanzi, e anche occupa per intero lo scenario, l’essere umano con  il suo mondo. Il contenuto del bene diventa proprio questo. Non è, il bene, sparito dalla  circolazione delle idee: ha solo mutato nome. E del resto non poteva sparire, perché fa parte  del modo in cui necessariamente viviamo. Dunque, il bene della soggettività moderna in rivolta è la soggettività medesima: in versione singolare o in versione comunitaria. Troviamo l’espressione più netta della rotazione di senso nella prima e nella terza parola della sequenza della  1 Mi permetto rimandare al vol. da me curato, La libertà del bene, Vita e Pensiero, Milano e spec. al  mio saggio su Bene e male. Una riconsiderazione. Per una metafisica del bene comune  rivoluzione francese: la libertà e la fraternità. A seconda che si propenda per il primato dell’una o dell’altra parola, si avrà nel seguito il liberalismo o il collettivismo. Da allora, a  mio avviso, non è cambiato molto su questo terreno. Tutti i pensatori etico-politici moderni  e molti dei pensatori contemporanei si schierano tendenzialmente da una parte o dall’altra. Direi che questa vulgata ha per ora pochi avversari. Ma a breve le cose potrebbero  cambiare. Timidamente si fa innanzi presso alcuni post-moderni (ad es. Foucault) e presso  alcuni esponenti radicali del pensiero verde (v. Bateson, ad es.) l’oltrepassamento della centralità del soggetto e dei soggetti, in direzione di un paganesimo cosmicizzante. Nietzsche  è il piccolo padre anche di questa nuova ondata. La cosa era forse in certo modo prevedibile.  Una volta eliminato il Dio della metafisica e della religione, il piccone della critica si è andato esercitando, anzi si è andato accanendo sulla portata trascendentale della soggettività, e  ne ha decretato la fine. E allora, cosa può diventare riferimento ultimo del senso, messo da  parte Dio e l’uomo, se non il cosmo, che è poi la terza della grandi parole della metafisica,  ancora presenti nella critica kantiana come indicazioni sistematiche ideali? Questa recente direzione di marcia lavora sulla fine della soggettività trascendentale  forse anche a partire da un certo fascino indotto dalla vita materiale: la durezza delle dinamiche economiche, apparentemente incontrollabili; il trionfo della tecnologia, dilatabile,  si opina, senza limiti; il fascino della biosfera, che fa sognare una sorta di unità mistica  quanto alle forme di vita, compresa la vita umana; la rete mediatica che influisce potentemente sui costumi e produce condotte eteronome di massa, l’enorme flusso migratorio,  che relativizza tutto ciò che la soggettività singola ha costruito come propria storia. La  soggettività moderna, insomma, ne sembra schiacciata. Marx pensava ancora di mettere  innanzi la grandezza della specie umana per governare la storia. I contemporanei si sono  arresi, quando anche questa variante consolatoria è fallita. Le voci che fanno dell’umanità  un giocattolo in balia di mani più forti, come sono quelle della tecnologia o quelle delle  forze naturali, sono sempre più ascoltate. Personalmente, resto scettico di fronte ai tentativi di oltrepassamento dell’orizzonte della soggettività in una neutra oggettività. Neutra, poi, non proprio, perché si colora  subito di irrazionalità, arbitrarietà, crudeltà e cinismo. Nietzsche ancora una volta ha già  predetto l’essenziale, cioè ha visto in anticipo la deriva di ciò che segue alla morte di Dio.  Egli voleva reagire a questa deriva, con un rinnovato umanesimo. E noi siamo forse ancora  al punto in cui egli si era fermato; dobbiamo, cioè, capire che fare quanto al nostro destino  di umani, ora che cominciamo a nutrire seri dubbi sulla capacità nostra di governare la  terra. Chiedersi da che parte andare è lo stesso che chiedersi qual è il nostro bene, il bene  per noi post-moderni. S’intende: trattandosi del nostro bene, si tratta del bene non solo  di un singolo, ma anche dei molti e in una società pluralistica. Si tratta del bene comune  dell’intera umanità. A guardare le cose un po’ dall’alto, vien da dire che oggi bisognerebbe  decidere quale delle tre grandi parole della metafisica prima citate può interessare una società pluralistica come riferimento di senso. Dico “può interessare”. Faccio, in altri termini,  un discorso di “persuasività”, non un discorso di stretta “verità”. Se dovessi fare un discorso di stretta verità, dovrei molto semplicemente affermare che il primo e, in certo senso,  l’unico oggetto degno dell’attenzione originaria di un essere umano è l’assoluto. Cioè,  solo Dio è degno, in ultima istanza, dei nostri desideri e dei nostri pensieri. Nessun altro  e nient’altro. La stragrande parte degli uomini, in modo più o meno rozzo o più o meno  sofisticato, pensa spontaneamente così e in qualche modo cerca di onorare questo modo di  pensare. L’enorme impatto sulla faccia della terra delle convinzioni religiose è lì a testimoniarlo. Solo una sparuta minoranza, in realtà, per lo più abitante dell’Occidente opulento  e post-industriale, si permette, a questo riguardo, forme insistite o incistate di scetticismo  a trecentosessanta gradi. Se si vuol fare, tuttavia, un discorso di persuasività etico-politica,  cioè un discorso che si fonda su una serie di evidenze abbastanza facili da percepire per  i più, allora il discorso sul bene in una società pluralistica non può che essere centrato sugli  esseri umani. Non certo sulla natura, la quale deve essere, sì, oggetto di cura, perché è il nostro “grande corpo organico”, ma, appunto, di una cura subordinata alla cura degli umani;  non, purtroppo, su un Dio trascendente, perché non tutti lo riconoscono, perché di Lui, comunque, nulla possiamo sapere in linea puri intellectus, eccetto l’esistenza sua, e quel che  ne diciamo quanto alla sua essenza, ci divide più di qualsiasi altra cosa. Insomma, resta  l’uomo come fine. In termini etico-politici, cioè di pragmatica possibilità di stringere accordi  potenzialmente universali, una impostazione come quella ad es. di Hans Jonas potrebbe  essere accettabile. Ma studiosi come Rawls o Habermas – cf. Habermas on Grice – Thomson, Reading Habermas reading Grice – Speranza -- propongono strategie simili. Del  resto, se questo primato antropologico venisse perseguito a fondo, sarebbe più facile per  molti sentire in cuor proprio il bisogno di volgersi all’origine ontologico-metafisica della buona qualità dei rapporti tra noi, anche perché una parte, almeno, dell’umanità sicuramente  continuerà a testimoniare il nesso tra la pratica della fraternità e il rimando inevitabile ad  una suprema e universale Paternità. Lì abita in ultima istanza il sacro-santo della vita. Ma qui devo lasciare in sospeso il tema, perché andrebbe nel senso della teologia politica, su  cui è bene che sia altri a dire. Ora andiamo al tema della giustizia. Come è noto, l’etica pubblica si divide tra i sostenitori del primato della giustizia come elemento procedurale e formale dell’architettura  della convivenza umana e i sostenitori del primato del bene o dei beni come acquisizione sostantiva. Lo abbiamo accennato prima. Io credo, invece, che si tratti di due “cifre”, la  giustizia e il bene, per nulla alternative, anche perché entrambe “originarie”. Se ben si riflette, appare sufficientemente chiaro che il giusto è un certo rapporto, mentre il bene è il termine di un rapporto. Giusto, poi è il rapporto buono, mentre il bene non si  risolve semplicemente nel rapporto giusto. Il rapporto giusto è solo uno dei beni possibili.  I due significati, dunque, non sono propriamente equivalenti (il bene, ad evidentiam, ha una  estensione maggiore), anche se l’uso linguistico tende a trattarli quasi in modo sinonimico.  È vero, piuttosto, che essi in qualche modo si determinano a vicenda, perché il bene non  È anche evidente che l’oggetto cui ci si rapporta è più importante del rapporto. Il rapporto è una realtà intenzionale, mentre il bene è una realtà ontologica. Naturalmente, anche la realtà intenzionale è in qualche modo Per una metafisica del bene comune  può prescindere da un certo rapporto e il giusto non può fare a meno del riferimento al  bene. E tuttavia, se è vero che il bene non può fare a meno d’essere un rapporto, ciò che  nel determinare il bene importa è, in primo luogo, la natura dell’oggetto cui ci si rapporta;  parimenti, se il giusto non può fare a meno di una relazione ai beni (questo è specialmente  evidente nella giustizia di tipo distributivo, ma poi appare anche in quella di tipo commutativo), la natura del bene è per il giusto relativamente indifferente. Si può stare nel giusto  con beni piccoli o con grandi beni. Conta, appunto la natura del rapporto, cioè che si tratti  di un rapporto in cui non manchi l’uguaglianza (commutativa o distributiva che sia). Che ne è della giustizia in una società veramente civile? La domanda importa che  si trovi un rapporto giusto per tutti, indipendentemente da una certa identità culturale. Ora,  che cosa è anzitutto giusto per qualsiasi essere umano? Ossia: quale rapporto un essere  umano giudica come tale che non viola le proprie attese originarie di giustizia? La risposta  obbligata mi par questa: per un essere umano è anzitutto giusto o ingiusto ciò che concerne  l’immediato rapporto suo con gli altri esseri umani. E il rapporto giusto è il rapporto che  rispetta, anzi onora e quindi si prende cura della soggettività nella sua trascendentalità; è  il rapporto che lascia essere gli esseri umani come tali, cioè non li riduce a oggetti manipolabili; è il rapporto, per dirla kantianamente, che tratta un essere umano sempre anche come  fine e mai come semplice mezzo. Abbiamo già detto che questo, universalmente praticato, è  proprio solo del rapporto di riconoscimento reciproco, perché solo nel riconoscimento reciproco le due o più soggettività si lasciano essere come tali. Bene e giustizia, dunque, qui  convengono. Soltanto qui. E questo per il fatto che l’essenza di un essere umano è d’essere  un rapporto. Egli è, dunque il bene del rapporto e, nel contempo, il rapporto del bene, se  si rapporta riconoscendo. S’intende, secondo le forme della finitudine. Non ho inteso, con  ciò, dimenticare la complessità e la difficoltà di trovare criteri appropriati per la giusta distribuzione dei beni della terra. Non v’è dubbio che il concetto di giustizia passa, innanzi  tutto e per lo più, per questa pratica quotidiana. Ma la giusta distribuzione dei beni non è  che l’effetto, in parte, e in parte l’individuazione simbolica del giusto rapporto tra noi, che è,  appunto, il rapporto di riconoscimento reciproco. Giustizia dunque come riconoscimento della dignità di un essere umano, delle sue  opportunità d’ingresso alla vita e del suo onesto disegno di fioritura. È a questo punto che  può cominciare l’istruzione del tema della libertà. La libertà non può che essere l’ultima  delle tre parole, e non la prima. Questo non significa che essa non sia altrettanto originaria  delle altre due. Significa solo che è ordinata alle altre due, mentre non è vera l’affermazione  reciproca. Lo smarrimento di quest’ordine, che direi onto-etico, è forse una delle più grandi  sciagura della modernità. E noi viviamo ancora sull’onda di quella deriva. I moderni hanno fatto della libertà una magica parola, cui tutto dovrebbe essere sottomesso; ma la libertà,  come prima ho ricordato, fa la dignità del gesto di un essere umano, non ne fa, da sola, la  bontà, anche per il fatto incontestabile che esistono, e come!, gesti di libertà cattivi.  qualcosa e quindi ha una valenza ontologica, ma l’ha di seconda battuta. Un po’ come accade alla verità rispetto  all’essere. Una società veramente civile è possibile pensarla, solo se si oltrepassa la convinzione  moderna del primato assoluto e incondizionato della libertà e si accede al primato assoluto  e incondizionato del bene di e per ogni essere umano (che comprende di certo anche la sua  condizione di libero, ma non si riduce a quella). Né basta dire che la mia libertà finisce,  quando comincia la libertà dell’altro, che è lo slogan più noto della tradizione liberale.  Non basta, anzitutto, perché questo slogan confligge teoricamente con l’idea del primato  incondizionato della libertà. La libertà dell’altro invocata come limitante è, infatti, un bene  dell’altro; quindi la libertà è limitata, come dev’essere, dal bene e non è affatto incondizionata. Solo il bene lo è. Non basta poi perché, riducendo il bene dell’altro alla libertà dell’altro, si tace di tanti altri beni dell’altro che devono costituire, anch’essi, un limite alla mia  libertà. Non è sufficiente, infatti, che l’altro sia libero. Se l’altro è libero di morire di fame, e  io sono libero di mangiare a crepapelle, la mia libertà è la maschera penosa e vigliacca di un  delitto. Io mi approprio in esclusiva dei beni della terra che sono comuni e di fatto escludo  l’altro che ne ha gli stessi diritti. Così lo lascio morire. C’è un senso, tuttavia, secondo cui la libertà può esser concepita come incondizionata, ma non è il senso difeso dalla tradizione teorica liberale: io la chiamo: la libertà del bene,  cioè la libertà di fare il bene. Qui la libertà è incondizionata, perché gode, per una sorta di  simbiosi, dell’incondizionatezza del bene. Poiché in una società veramente civile, la libertà  come arbitrio non può avere solo l’altrui libertà come limite, ma deve avere come limite  tutti i diritti dell’altro, compreso certo anche quello della sua libertà, per questo l’umana  libertà deve farsi carico di tutto ciò che la giustizia invoca per l’altro. È questa la ragione  per cui le società liberali sono incapaci di essere veramente civili, nonostante l’abbondanza  delle dichiarazioni in contrario. Esse dimenticano facilmente, o meglio, occultano il lato  della cura e della giusta promozione dell’altro e così proteggono di fatto le situazioni discriminanti, che sono poi la radice permanente della conflittualità endemica. La situazione  nordamericana è un esempio per molti versi eclatante. Sotto il manto della libertà, messicani, asiatici e neri praticano in massa gli umili mestieri che consentono ai bianchi una  vita agiata. Sono liberi d’esser poveri… Più o meno come accade in Italia per la fascia degli  immigrati extracomunitari. Se la libertà del bene guida l’azione, allora la mira è il bene dell’altro, cioè l’altro come  bene. È anche il mio bene, ma di me come l’altro di un altro. Solo così io posso conseguire,  storicamente parlando, il massimo bene. Sulle prime, questa affermazione può parere per-  sino patetica: l’invocazione del “buon cuore” come regola di condotta in un mondo che il  pluralismo tende piuttosto ad indurire. Una riflessione accorta però è in grado di far vedere che il mio bene, cioè poi la mia fioritura di vita, può avere senso solo se il movimento del  desiderio verso l’oggetto a lui conveniente, il bene, appunto, compie il giro della referenza  immediata all’alterità e di quella all’identità in modo mediato. Mediato, appunto dall’alterità. Rimando di nuovo al vol. La libertà del bene, cit., e stavolta spec. alla mia Introduzione  Per una metafisica del bene comune. Provo a tirare in breve le fila del mio discorso. Posso anche far presto, perché tutte  le fila conducono, come si è di certo inteso, allo stesso punto: alla cifra del riconoscimento  come forma regolativa dell’esistenza degli esseri umani. Una società veramente civile infatti  è possibile, se i molti si onorano reciprocamente, cioè appunto, reciprocamente si riconoscono. È  questo il senso primo (primo per noi) del bene comune. Nel reciproco riconoscimento, ognuno è  signore dell’altro (in quanto riconosciuto nella propria trascendentalità, quindi come oriz-  zonte inoltrepassabile di senso) e ognuno è servo dell’altro (in quanto riconosce nell’altro la signoria del senso). Le forme democratiche di vita politica tendono ad approssimarsi a  queste dinamiche più d’ogni altra forma. Nella democrazia infatti l’autorità del cittadi-  no su un altro cittadino è o dovrebbe essere semplicemente di tipo funzionale. Tutti sono  eguali, cioè tutti sono signori, ma fatti signori gli uni dagli altri, mai da se stessi. All’interno della cifra del riconoscimento, come regola universale, prendono un sen-  so determinato, come si è detto, tanto il bene, quanto la giustizia e la libertà come realiz-  zazione e, insieme, protezione del bene comune. Bene significa voler ciò che consente la  mia fioritura di vita; bene è dunque volermi bene, volendo bene altri come quegli che tale  fioritura in me rende possibile. Altri, naturalmente, solo che lo si voglia o, meglio, solo che lo si  creda, può essere scritto – dovrebbe anche essere scritto – con la maiuscola (la dinamica relazionale è la stessa). Il bene comune in una società veramente civile è questo, essenzialmente. Giustizia  significa rendere ad ognuno ciò che gli spetta (unicuique suum). Ma ciò che spetta ad ognu-  no è anzitutto d’essere trattato come una soggettività (trascendentale). Cioè come un essere  umano in totalità. La reciprocità riconoscente è dunque il luogo della massima giustizia per  ognuno di noi. Libertà significa non arbitrio incondizionato, bensì libertà di fare il bene. E  poiché il primo bene, storicamente parlando, è l’esserci d’altri per me, libertà del bene vuol  dire di nuovo libertà di riconoscere l’altro come il mio bene. Come il bene che tutti accomuna. Carmelo Vigna. Keywords: bein, essence, essenza, essere, intersoggetivo, tre tipi di intersoggetivo: trascendentale, oppressivo, istrumentale, being and becoming. Refs.: H. P. Grice Papers, Bancroft MS. Luigi Speranza, “Grice e Vigna: la regola d’oro conversazionale” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria. Vigna.

 

Luigi Speranza -- Grice e Vignoli: la ragione conversazionale della etologia filosofica – della legge fondamentale dell’intelligenza nel regno animale – la scuola di Rosignano Marittimo – filosofia toscana -- filosofia italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Rosignano Marittimo). Filosofo toscano. Rosignano Marittimo, Livorno, Toscana. Essential Italian philosopher. Filosofo italiano. Grice: “I spent quite some time observing a species of pirot: the squarrel – mainly I was in search of what Vignoli calls ‘la legge fondamentale dell’intelligenza nel regno animale” – his ‘saggio,’ he says, is in ‘psicologia comparata,’ but since it is vintage, I might just as well refer to is as being one in ‘philosophical ethology’!” -- Si trasfere a Milano. Insegna antropologia presso la Reale Accademia di Scienze e Lettere. Direttore del Museo di storia naturale. I suoi saggi apparisceno sul Politecnico e la Rivista di filosofia scientifica. Due sue saggi hanno risonanza: Della legge fondamentale dell'intelligenza nel regno animale: saggio di psicologia comparata” -- e “Mito e scienza”.   Io termino il mio saggio iniiorno ad una Dottrina razionale del Progresso, inserito con una serie di articoli nel Politecnico a Milano, diretto da Cattaneo, e ristampato a parte, con queste  parole e in queste sentenze, risultato di tutti  gli studi e argomenti anteriori. Quésta libertà del pensiero cresce terello, soqo antiche e> costanti nella mia  mente. Onde due anni or sono termina la  mia prolusione ad un corso d’antropologia  generale gratuito nella R. Accademia scientifico-letteraria di Milano, al quale venni invitato d’ASCOLI (si veda), gloria  della glottologia italiana — allora Preside di quel chiaro istituto. Siamo nuovi ancora si può dire nei moderni studi, se volgiamo lo sguardo alle  altre nazioni che ci superarono, ma i ri« sultati ottenuti e che si vanno conqui« stando, sono augurio che sapremo perve« nire a quella gloria che un giorno sì chiaramente ci segnalò tra le genti. Ma molti  RBPAZioini   e per rispetto del pubblico ; e che infine fui  sempre consentaneo con i miei principi, come  tutti possono toccare con mano dalla lettura  dei brani sopra trascritti, e stesi a lunghi  intervalli e dal presente mio opùscolo stesso.  Che se V ingegno è tapino, e il sapere non  così vasto come vorrei, e come dovrebbe essere, la colpa non è mia, né della mia volontà : poiché tra i tanti difetti, che in me  possono annidare, l'ozio certo, e l'ignavia non  vi si trovano:, perchè li sfuggii sempre, come  la peste più oscena, brut a e nefanda di tutte,  e la più dannosa ai privati ed alle nazioni.   Milano. Sitixa;25Ìoiie«  Posta la nostra società odierna tra due sette temerarie e procaccianti) diverse d'origine, ma identiche di propositi nefandi e distruttori, i retrivi clericali, e i demagoghi incendiarli, non mai soverchia  riuscirà la solerzia, la virtù, la virilità di atti e di  concetti ad allontanare e vincere i mali, sociali, morali e materiali a cui esse mirano con tenacità formidabile. Che se Tuna vorrebbe ridotto il mondo a  un cenobio e a una triste tebaide, l'altra procaccia  che gli uomini ritornino alla selvatichezza preistorica,  e alla squisitezza sociale delle caverne. Certamente  le magnanime speranze di questi tristi non si avvereranno, poiché la mentalità umana, la libertà civile  e le suppellettili industriali tanto cresciute e potenti  non lo concedono, e in Italia specialmente, ove l'indole, gl'istinti, il senno proprio della razza, e le necessità storielle assolutamente vi si oppongono ; ma  tuttavìa è d'uopo avvisare ai pericoli^ e alle sciagure  parziali^ addottrinati dall'esempio miserando di altre  nazioni. I retrìvi e demagoghi sono gli estremi faziosi e a cosi dire l'oscena e perversa caricatura dei  due legittimi fattori della vita civile dei popoli, e del  loro intrinseco progresso, i conservatori cioè e gl'innovatori, necessarii entrambi al perfetto e mobile equilibrio delle forze, e al loro dinamico esplicamento :  in quella guisa che nella compagine oi^anica, e nell'esercizio delle sue funzioni, trovansi nervi moderatori, e stimolanti, onde resulti quella armonia di effetti che vita si appella. Imperocché come in questa  si arresterebbe immoto il circolo animatore se l'energia del freno prevalesse, e tanto si accelererebbe da  distruggere sé medésimo quando quella contraria eccedesse : parimente una nazione perirebbe, se V uno  l'altro dei fattori accennati rimanesse vincitore nella  lotta, che l'uno la renderebbe mummia o cristallo^  mentre il secondo la dileguerebbe in vapore. La sa^  pienza e la scienza civile consistono quindi nel provvedere che un equo temperamento intervenga fra le  due forze rivali, o a disporre le cose in guisa che  l'una a vicenda con l'altra serva all'incremento del  bene sociale, e al sempre più largo, e sincero esercizio della libertà civile e politica   Ma a raggiungere questo arduo e nobile scopo l'intenzione e il desiderio non bastano: vuoisi non solò  perizia grande d'uomini e di negozj, animo pronto,  profonda conoscenza dei fatti e leggi "Bociali, risolutezza impavida nelle difficili prove, onestà costante  di mezzi, magnanimo sprezzo d'insulti e guerre volgari; ma rìohiedesi altresì vasta e chiara dottrina sto*  rica, e quel senso sicuro dei bisogni^ dell'indole^ delle  ^piraadoni legittime. del popolo^ e limpida intuizione  Clelia legge che regola i moti delle genti europee in  generale; e di quella italiana in particolare* Or qui  in Italia ì, caduti principati lasciarono copiosa eredità  di elementi conservatori e retrivi, fatti più rabbiosi  •dal prevalere delle istituzioni ed istinti democratici^  a^vviticchiàntisi con disperato amplesso al papato, che  i loro rammarichi, ire, convinzioni, speranze rese domina religioso, ultimo strumento alla assoluta sua signoria vacillante ; méntre d'altra parte le inveterate  abitudini cospiratrici, l'intempestive brame di utopie  facilmente nascenti in popoli non assuefati a libertà,  gli antagonismi regionali superstiti alla unificazione dei  varii Stati, le bieche e torbide imitazioni demagogiche d'altri paesi, e l'arruffio anche di tristi, tengono  la nazione incerta, rinfocolano odii di parte, e la spingono soverchiamente nelle avventure : e quindi tanto  più difficile riesce l'impemare stabilmente lo Stato, e  condurlo sapientemente.   Tra queste due forze rivali, ostacolo al retto andamento della cosa pubblica, rimane poderósa zavorra, la maggioranza della nazione, la quale, aliena  in parte dai mutamenti radicali, intenta alle private  faccende, e guidata dal senso positivo delle cose, e  dagli interessi domestici, mantiene a cosi dire un meccanico equilibrio nelle loro lotte, e fece si che sino  ad ora né l'una, ne l'altra prevalesse : e la nazione  perciò stette, e vinse prove che sbalordirono il mondo,  e procacciò ai reggitori una gloria, che in fondo e in  parte derivava dalla sua consapevole inerzia. Né si creda che io voglia, concludere non aver ben  meritato della patria coloro^ che per vari v anni stettero al timone della Bua nave.^ e che questa se noa  pericolò e. si sommerse nelle tempeste ove fu più di  lina fiata travolta^ debba soltanto la propria salute  alla indifferenza^ o agli istinti conservatori delle moltitudini : imperocché i fatti mi sbugiarderebbero, e  non conoscerei affatto, o confusamente la nostra storia contemporanea. Certamente Visconti- Venosta che a più riprese diresse e in condizioni sovente ardue e perigliose i nostri rapporti con gli stranieri, seppe schivare con tatto fino, e con squisitezza^  di modi, non disgiunti da dignitosa fermezza, i rischi  che ci minacciarono, sia di lusinghe subdole, di altere brame, o di tenebrose cospirazioni del Vaticano.  E potrei pure ricordare con encomio altri, che con  zelo ed onestà, si adoperarono a prò della nazione.  Né si vuole poi dimenticare il grande partito liberale, erede degli intendimenti di Camillo CavQur, il  quale nei giornali, dalle cattedre, nelle concioni, nel  parlamento con costanza segui in parte quelle caute  e forti norme, che ci condussero sino ai tempi presenti. Ma tutti questi saggi consigli e propositi, edi  fatti che vi corrisposero, non avrebbero certamente  salvato dai perigli la nazione, se la maggioranza degli italiani col suo contegno fermo, l'indole non eccitabile, e col veto, a cosi dire, della passività, non  avesse resi vani i proponimenti, sventate le trame  sotterranee, e lasciati in secco gli apostoli del disordine e del dispotismo : che anzi il più delle volte  scossa da evidente rischio, segnò col desiderio espresso  virilmente in mille guise, la via da tenersi dai reggitoli, e si può dire in un certo modo, che Ella fu  che governò il paese, con senno suo proprio, e con  quegli spiriti liberali che seppero infonderle molti valenti predecessori, e il grande intelletto del più grande  ministro del secolo. E CAVOUR (si veda) potè essere concreatore di un  popolo,, perchè nella vasta mente raunò a cosi dire  tutti i pensieri, le idee, i concetti, e nell'animo i desiderii, i sentimenti, gl'istinti magnanimi di tutta la  nazione che in lui si confidò : associandosi senza tema,  o gelosa inquietudine, in momenti solenni, nell'impresa  unificatrice a GARIBALDI, che, quale soldato  della libertà, fu a cosi dire la popolare poesia del  nostro riscatto : egli fu grande perchè conscio dell'indole moderna dei popoli non si argomentò di rendere  libera e indipendente la patria con mezzi termini,  con sussidii di una o altra casta e fazione esclusiva, ma si armonizzando in un solo pensiero, e ad  un solo e generoso scopo tutti i ceti, tutti i partiti, tutte le forze vive della nazione, non pauroso  di sette, o queste trasformando in leve poderose ad  inalzare dal servaggio l' Italia : insomma ei fu grande  e riusci, perchè senti tutti gl'influssi, vasti e potenti  di un popolo intero: che sarà sempre, come per il  passato r«/n hoc signo mnces!^ di coloro, che fecero  e faranno opere generose ed immortali nel mondo.   Morto Cavour rimase al governo il partito che avevalo  ajutato in gran parte nell'opra santissima della redenzione della patria, il quale si propose e si argomentò  di seguire quella via, che dischiuse la mente e l'operosità del grande uomo, onde si compissero i fati  della nazione, e si raggiungesse il fine desiderato. Ma se il concetto politico e Tindìrizzo del maestro fu compreso, e seguito all'ingrosso dai successori, e la nazione si dispose ad effettuare i suoi disegni, nessuno  però dei reggitori ebbe l'ingegno l'animo e lo spirito  del sommo cittadino, e comecché mandassimo ad effetto difficili imprese, e si conseguisse il massimo scopo  della indipendenza e unità della patria, pure alla lunga  si manifestò a poco a poco nel governo, e nel vasto  partito, d'onde visceralmente egli usciva, il difetto di  comprensione potente ed intera, e di quel senso generoso di libertà piena ed operosa, ove si mostrò l'eccellenza del primo. Ne io* offendo l'amor proprio di  alcuno di quelli che mano mano vennero impugnando  le redini dello Stato, con l'asserire che non raggiunse  l'ingegno, la perizia e l'animo suo, poiché è cosa evidente di per sé stessa, e l'esemplare troppo noto e  cospicuo. Ed in vero uno degli uomini che maggiormente fecero parlare di sé più frequentemente e sedette  in scranna al governo dello Stato, e si segnalò per varie  vicende, è Minghetti, conosciuto moltissimo  eziandio dagli stranieri. Or bene, chi non scorge a  prima vista quanto ei sia inferiore per molti versi a CAVOUR (si veda)? Per quanto io possa avere dei contraddittori  non mi perito dire che il Minghetti è un mediocre  uomo di Stato, in quanto gli manca ogni nota che  distingue coloro che nacquero a tanto ufficio. Mente  lucida e simmetrica, ma non acuta e profonda; bel  parlatore, ma più facondo che eloquente, animo più  ostinato, che tenace, scrittore sensato e forbito, ma  privo di nerbo e di vena inventrice ; ambizioso, certo  nobilmente, d'aura popolare, ma incapace a raggiungerla : ondeggiante tra le diverse parti, non abile  3f dominarle: non q;ristocraticp per proposito o arte  di governo, ma inclinato a riceverne di riverbero \^  fosforescenza : e non facile a sentire i fecondi in?  flussi del popolo. Che se per ora pronunziò raggiun^iQ  il pareggio, e gli fu attribuito come cosa sua, quando  non una legge di finanza gli è propria, e la longanimità e sofferenza invece del popolo italiano ne è  il più grande fattore, la freddezza e indifferenza con  che accolse il paese questa notizia, che pure doveva  riempirlo di fervida letizia, è la miglior prova di  quanto riserbo si senta per le cose sue nell'animo degli  italiani, e come egli non abbia veramente radici nella  fede delle moltitudini. Si badi però che io parlando  si schiettamente del Minghetti, come Ministro e scrittore, solo sindacabili in paese libero e dalla stampa  onesta, faccio e rendo omaggio alla sua vita priv^)t^,  a.lla nobiltà dell'animo e delFingegno e in altra occasione ne feci testimonianza e al disinteresse personale, che spiccò sempre anche posto al governo della  cratica, osservata e giudicata con occhio scevro da  prevenzioni, e con animo non travolto da passioni o  dA interessi parziali. Né facciano illusione all^ intelletto alcune singole pretese, o desiderii in paesi ove da poco la legge livellatrice civile tolse i privilegi  d'ordini vecchi: imperocché tali avanzi archeologici  di tempi irremissibilmente passati^ sono a cosi dire  piante morte, alle quali s' inaridiscono le radici, e  che fra i nuovi còlti, e rampolli rimangono in piedi  senza vita e finitti, sinché cadano per intrinseco e naturale sfacelo. Nella sola Inghilterra, e meno altrove,  alcuni privilegi territoriaU o ereditarii mantengono  un ordine nello Stato, ma già ne vennero scrollate le  basi, e tra non molto anche colà, se ne sono veduti  i sintomi, e i desiderii legalmente espressi testé, si  dilegueranno del tutto. Quando nelle nazioni Tegualità civile dei ceti si ottenne, e tutti vengono rappresentati in parlamenti elettivi, e la stampa è libera,  la necessità della democrazia è già posta, e non può  tardare a vincere in un avvenire più o meno prossimo, a seconda dell'indole, dei costumi, e delle ragioni storiche delle nazioni. GHi ordini nelle società  una volta spenti, o trasformati non si restaurano, e  mal si oppongono coloro che carezzano Tidea di un  ritorno al passato in ogni genere di istituzioni privilegiate ; solo provano che non sanno la storia, né comprendono i itempi che corrono, né antivedono quelli  avvenire. Che se nella caduta del romano imperio e  per le invasioni delleif.orde settentrionali, il sorgere  poi del feudalismo si considera come un ritorno ad  un patriziato ereditario, oltreché il paragone non regge,  poiché nella storia non si ripetono mai esattamente  le vicende e gli istituti d'altra età, or sarebbe anche  quel fatto assolutamente impossibile, dacché mancano  inteme ed esteme condizioni ad awerarlo^E chi supponesse che a ciò potesse bastare Tinflìisso in^retto^  o la invasipne dei Russi; solo popolo che si accampi  formidabile di fronte all'Europa mediana e occidentale, non conoscerebbe affatto le condizioni civili in  cui versa la Russia. Imperocché per l'autocrazia di per  sé stessa sempre livellatrice, lo Czar attuale anche per  intendimenti di civiltà tolse in gran parte i resti di  privilegi con Temancipazione, e la franchigia dei servi,  eguagliando) le persone dinanzi alla legge, e quindi rese  impossibili una aristocrazia dominatrice. I Russi se invadesserc una parte d'Europa limitrofa al vasto impero,  recherebbero per costumi e idee piuttosto principj comunistici, propri in alcune parti del loro organamento  municipale, ampliati e resi più forti per le sette che  formiolano nel suo seno, e che la rodono con manifesto danno. Onde é vano sperare anche stando ai  calcili meramente empirici, e all'osservazione superficiae, che in Europa possa avvenire una restaurazioiB del patriziato, come ordine distinto per dritti  dal resto della nazione. E ducimi che qua e là in  Itala ed altrove in special modo tra giovani rampoli dejle vecchie, o più moderne famiglie gentilizie,  riesca in alcuni un certo spasimo e languore perle  anicaglie, e si tenti quasi con amminìl^i araldici,  dJricostituire un ceto a parte, separandosi con ridicio anacronismo dal resto del popolo. La quale ubbia  aguisce una ignoranza profonda della epoca nostra,  ci una nullità prodigiosa nei nuovi, cxdtori dei caselli in rovina : Ut nomine Toagnifieo segne otium  tlaret! per dirla con Tacito. Lungi da me il peniero di menomare il lustro, il decoro, la fama di  tÉinte famiglie storiche nostre : sono anzi il primo a  riverire un lungo ordine di discendenti che ai segnalarono con la mente, o con le armi: questo è patrimonio privato inviolabile } quanto altra mai pròprietà, e fanno bene a tenersi care e onorate le  memorie d'avi illustri, quando furono veramente illustri, e vorrei che un tal culto fosse sprone ad emularli nella eccellenza delle opere. Né la querela può  venire oramai da invidia, e da astio, quatdo ordini  distinti non esistono più, e tanto vale di &ccia alla  legge e alla nazione rispetto ai diritti, un ciabattino che un principe. Onde la gara tra patrizj e plebei non può più rinascere, in quanto tutti aono popolo: e se si parla di volgo, il volgo adesso può trovarsi in tutti i ceti, unica norma alla stima sociale,  essendo, la Dio mercè, il valore personale. Parlo soltanto di quelli, e certamente son pochi, che invece  di adoperare le loro forze, i loro ozj, le loro ricclezze  ad egregio scopo sia nelle arti, nella scienza, ielle  armi, in ogni argomento di progresso civile, si trastullano con le ferraglie del medio-evo, sciupano tenpo  e decoro, e si preparano una vita squallida, vana funerea di mezzo a quella fervida che già erompe dslle  viscere della nazione, che farà cerna dei forti e nu)vi  rampolli, disperdendo, non col ferro, col sangue, o altre nequizie, come gridano a squarciagola i pusilanimi gli astuti, ma con la ferrea necessità di latura e della sua legge di selezione, i neghittosi, e caboU di mente e di volontà. E tanto più desta meur  viglia questa vanagloria di festuche blasoniche in 4cuni, in quanto la eletta parte del patriziato italian  die largo tributo di sussidj, di sapere, di sangue A,  nostro risorgimento, e si segnalò per generosa cariti  di patria: ed anche oggi molti tra essi onorano TIt^a e gli avi loro con operose virtù cittadine, e qual*cheduno con gU scritti e l'ingegno. Si ricordi che i  tre più grandi poeti della nostra epoca, animati da  fieri e virili spiriti di libertà, ALFIERI (vedasi), NICCOLINI (vedasi) e LEOPARDI (vedasi) uscirono dalle loro fila; e del loro ceto fu pure  il più grande, e liberale Ministro della età nostra (!). Altri s'immagina che la democrazia sia irrazionale  mente livellatrice, e la confondono con le utopie comunistiche, impossibili ad effettuarsi, e non mai effettuate : onde rimpiangono i tempi passati, ove tutto  era ordine e casta distinta, e già mirano le genti* europee in un non lontano avvenire, o mummificate ed  immote in una sterile eguaglianza assoluta; ovverà  scatenate in passioni furibonde spargere dappertutto  fiamme, mine, stragi, ed avverarsi il finimondo. Tali  piagnoai, o gufi di cattivo augurio, provano una cosa  sola, ehe non intendono nulla; prendono l'accidente  per li legge, il particolare pel generale, il deviare di  una jetta pel costume dell'universale, e i loro sogni  per i&altà. Certamente se questi conservatori dirigessero  le sirti dei popoli, le tristi scene e nefarie che non a 11 patrizio Piola, seguendo l’esempio della  egr^ia e chiara famiglia, dio alla luce neirannò scorso un libro di  eeoDmia, che certamente merita di essere segnalato. Che se alcuil non potrà condividere tutte le idee, o ascriversi assolutamente  ai luoi principj, trovansi nel suo trattato cose ottime, e ricerche  fate con lungo studio ed amore : e fanno onore a chi le scrisse. Or  be^e nessuno intraprese a parlarne, eziandio criticandolo. Questo sibilo non é buon segno: l’esempio è eccellente anche per Torifiée e il ceto dello scrittore: nò doveva trascurarsene ropportunità^  .nche civile. guari inorriditi vedemmo in altri paesi; inevitabilmente accadrebbero, e con sempre più frequente ripetizione; ma governandoci con altri intendimenti e  con più larghi e generosi propositi, quei mali diverranno sempre più rari, e impossibili. Del resto a nessuno che abbia fior di senno verrà in mente mai, o crederà, che nelle cose umane possa affatto il male evitarsi, quando lo scopo a cui deve intendere ognuno,  si è il procacciare di sminuirlo con costante operosità.  L'età d'oro e di ogni bene, i miti e i poeti la posero  al principio, o alla fine del mondo; e ragionevolmente, perchè dell'una non ci ricordiamo,^ all'altra non  siamo ancora pervenuti. La democrazia, intesa come vedremo, tra poco,  mentre suscita tutte le forze vive della nazione, pone  in moto tutti i valori, fa con rapidità ricircolare nel  corpo sociale i beni avvivatori, e tiene desta la mente  di tutti nella universale concorrenza a vantag^o poi  di tutti, non livella matematicamente le rjmsse, come  con eleganza di eloquio, e con dignità cristiana chiamano il popolo : poiché nella libera attività di i ciascuno, sorge una disuguaglianza proporzionale, 6 l'aristocrazia legittima, cioè dell'ingegno e del valor personale ; ed appunto perchè personale non la perpetua  con violenza alla verità e alla giustizia, nei successori. Onde i timidi del livello si rassicurino ; se lunno  mente, vigore, volontà possono saUre nelle società democratiche, con più decoro, al sommo della glorii, o  del legittimo potere, quanto ai tempi dei paladin: di  Carlo Magno. Se una cosa hanno da temere, temtno  di quelle dottrine, che frapponendo violenti ostacoU  alla libera esplicazione delle potenze e attività uman^^ raccolgono legna agli incendii futuri, e preparano le  bufere sanguinose delle rivoluzioni delle plebi maneggiate allora dagli arruffoni e dai demagoghi. La vittoria della democrazia, e il suo regno duraturo nelle nazioni civili, dipende dalla natura medesima del principio che la informa, che è un portato necessario della evoluzione sociale, e la distingue dalle democrazie antiche, e da quelle che susseguirono al rinascimento dei comuni nella età media di  Europa. La democrazia moderna è l'effetto di leggi  non solamente sociali, morali, economiche ìiella significazione loro ordinaria, ma di leggi antropologiche,  che s'innestano, e s'immedesimano a quelle naturali,  che governano l'evoluzione intera delle cose che sono.  £ questo nesso, questa identità analogica della esplicazione delle razze e istituzioni umane, con le leggi  che signoreggiano la dinamica universale degU esseri  fii da tempo avvertita, e nella Grran Bretagna, Germania, Francia, Russia stessa ed America ha validi  campioni che la sostengono, e sarà certo la scienza  sociale avvenire. Coloro, che adesso sequestrano e dividono i fatti sociali, morali, storici dalla generale  forma evolutiva dei varii fenomeni, nei quali, a dirla  col grande poeta, si squaderna la vita dell'universo, come se consistessero impomati in sé medesimi, e separati dal mondo, non se ne intendono; e mal comprendono l'alto e nuovo valore della scienza attuale,  e vìvono ancora della vita postuma dei nostri arcavoli^ E si badi che io non ripongo tra i cultori dei  nuovi metodi storici, e della nuova scuola dinamica,  i vaporosi filosofi egeliani, od affini, che sbalordirono per poco il mondo con le loro teoriche sperticaie e temerarie^ e lo stomacarono poi negli stessi  paesi ove nacque : teoriche si disformi dall'indole delle  menti italiane^ e piuttosto delirii,. che scienza; ma si  bene io intendo parlare di quelli, che mediante norme  osservatrici e sperimentali, e con la sovrana leva dell'induzione, virilmente applicati (secondo gli esempii  ed i canoni del divino BONAITUI (si veda), che primo nei moderni  tempi ruppe non solo nelle scienze fisiche, ma per  analogia in quelle organiche e morali stesse, i claustri e i ceppi scolastici del pensiero, e le arbitrarie  quisquilie a priori) seppero, io dissi, ricondurre la mente  alla realtà delle cose in ogni ordine della scienza, e  dare base solida alla enciclopedia, che deve essere  l'interprete, e lo specchio sincero, e intellettivo della  jiatura. E certo alcuno non sarà si tracotante da negare gli  splendidi effetti e le portentose applicazioni che tali metodi in ogni ramo d'arte, di industrie, di scienze produssero, e quanto se ne avvantaggiarono eziandio quelle discipline che sembrano agli uomini superficiali maggiormente aliene à^ quei procedimenti : poiché tutto il bene  materiale e morale e la stessa vittoria della libertà civile e politica nei presenti tempi, è dovuta per chi ha  fior di senno, a questo sovrano e indipendente indirizzo della ragione. Io so che molti, che si dicono con  sorridente compiacenza di sé medesimi, positivi  e  fanno professione di arguto realismo, e canzonano coloro che non partecipano alla loro innata divinazione,  trattano quasi da allucinati, e di spiriti perduti nel  vano delle sottili astrazioni, quelli che dai fatti risalgono alle leggi, dalla norma sensata degli atti sociali ai principii che ne governano l'esplicamento,    daUa esperienza giomaUera dei negozii privati e pub^  blici, alle profonde ragioni che li rendono inevitabili.  Ma di tali Tersiti della scienza^ la scienza ha fatto  giustizia^ e non ne possono certamente arrestare il  corso trionfale. Quando ci mostreranno che la scienza^  qualunque sia il proprio obbietto, è una raccolta inorganica di fatterelli, e di qualche regoluccia metodica :  che le varie discipline non abbiano tra loro alcun  rapporto, e sieno disposte una dopo Taltra, senza intrinseco legame, come le pietre migliari, avranno ragione : e allora confesserò contrito che il manuale che  accatasta, equilibrandoli, sciolti materiali, ne sa più  di Archimede e di Newton. Ma ritornando al nostro argomento della natura  della democrazia moderna, ripeto che ella si disforma  da quelle che con tal nome si ebbero pel passato.  Nell'antichità stavano in generale di fronte due ordini di cittadini, ordini più o meno distinti, gli ottimati e le plebi: e il valore di queste si argomentava nella lotta contro i primi, che resistevano ad una  eguaglianza di diritti in parte civili, in parte pubblici, ereditarli nella loro classe per lungo corso di  tempo: e, condizione sociale rilevantissima, viveva  al di sotto di esse, un immane numero di schiavi, i  quali attendevano, mere macchine animah, alla produzione delle cose necessarie, utili e superflue, ed anche alle arti, e agli uffici indispensabili alla civile  convivenza. Nella età media le lotte dei borghesi e  dei castellani sotto altra forma è vero, ma lotte di  potenza, eguaglianza e sopreminenza politica si rin.novarono, e se schiavi nel significato antico non c'erano, rimanevano però i vassalU e i servi della gleba: ed U lavoro stesso nelle città libere veniva in ogni  maniera vincolato dalle maestranze e dalle corporazioni artificiali dei travagliatori. In tali società certamente non esisteva esplicito un principio che involgesse la necessità di una vittoria definitiva della  democrazia^ e dì una forma civile di evoluzione della  operosità di tutti^ e dello Stato medesimo. Non vi ha  dubbio che fin da quelle epoche lontane il principio  generatore della democrazia moderna non operasse; e  le condizioni intermedie non fossero per cosi dire  anelli e spire per le quali andasse svolgendosi con  irresistibile moto. Or quasi dappertutto in Europa  quelle condizioni cambiarono: gli ordini distinti si  ruppero, e si fusero in quello unico dello Stato: le  arti, le professioni divennero libere e comuni: il patriziato perdette i suoi privilegi, come fu costretto a  svestirsene il clero, ed una uguaglianza perfetta e virtuale dinanzi alla legge si estese dai sommi agli imi,  dal ricco al povero, dal dotto all'ignorante, dal manuale sino ai maggiori uffizii di Stato. Quindi nessun  ordine di cittadini potendo consistere e perpetuarsi  per via di privilegi, e tutti dovendo personalmente  bastare a se stessi, privi di appoggio artificiale che in  qualunque evento ne garantisse il possesso, rimane  che runico principio che informa e mantiene la società moderna nella eguaglianza legale assoluta dei  cittadini, è il lavoro nella indefinita molteplicità delle  sue forme: il lavoro, etemo generatore di tutte le  cose, spirito vivificatore del mondo, arte divina che  tutte le cose produce, e produsse, e le spinge, le  evolve a sempre nuovi e splendidi effetti: il lavoro,  il quale elevò alla loro altezza morale e intellettuale  Tuomo e la società, e li redense: conforto e premio  nel tempo stesso; causa ed effetto della democrazia  moderna, e garanzia perpetua della sua durata, e dei  suoi progressi.   Le lotte contro gli ordini- privilegiati, del popolo, e  delle plebi serve con Teguaglianza civile cessate, a poter  vivere e durare rimane a tutti e inevitabile il lavoro:  e poiché questo è libero, chi non vede, che per la  inesorabile legge della selezione naturale, il neghittoso dee alla lunga scomparire, anche per la radicale  divisione dei beni tra i figli, e lasciare il posto agli  operosi : provvidenziale magisterio del mondo, che una  legge fisica e organica, si trasmuti socialmente in una  giustizia morale! La democrazia moderna è invincibile per questo appunto che tutta quanta s' impema  e vive nel lavoro, reso formidabile e irresistibile nei  suoi effetti dalla eguaglianza di tutte le classi; onde  ogni specifica distinzione anteriore delle diverse forme  di Stati nel loro interno componimento sparisce, e rimane splendida per tutti, chiara e nobilissima quella  di popolo, che tutti comprende, tutti inalza, tutti redime in un alto e dignitoso nome : in quella guisa. che  uno pure ne resta il principio vivificatore, premio ai  buoni, minaccia ai tristi e agli ignavi che lo dispregiano, il lavoro. A questa conclusione di fatti e di  ragioni storiche e sociali provenne la razza nostra  per una lenta evoluzione delle sue potenze, governata  da leggi fisse organiche e morali, che poi tutte in una  si convertono, nella costante esplicazione delle forze  in ogni ordine di fenomeni dalla genesi siderale sino  alla costituzione della città moderna. Or vedasi quanto  fanno mostra di avvedimento, di senno, di sapere coloro che si argomentano e sperano di ricondurre le  società presenti alla forma di quelle passate, sia vagheggiando le antiche repubbliche, o più tristi le miserande anticaglie del medio evo. Arrestare il corso dei firmamenti, la produttività della natura, mutar le sue  leggi, sembra a tutti impossibile, e concetto di mente  stravolta: orbene, altrettanto impossibile ò il far retrócedere la umana società, e rifare il cammino percorso, e ritornare don^de partimQio. La legge del moto  sociale è invitta ed etema ; Tonda trasformatrice della  vita passa e non rinverte  Spingete, o retrogradi,  pure rocchio d'intorno : nessuna orda selva^a, o popolo rozzo, che possa, invadendo, ripristinare le squisitezze feudali: all'interno con F eguaglianza assoluta  e col lavoro che la nutre e la difende, nessun modo di  elevarsi a casta dominatrice : poichà se > lo tentassero,  sarebbero dispersi in pochi giorni dal genio libero e  insofferente di privilegi moderno : genio non sorto da  condizioni speciali o da particolari necessità in un  breve giro di mura, di provincia, di popolo, ma effetto e compimento di una legge eterna, in tutta la razza  nostra. Quindi sono vaghe lusinghe, sperpero di fantasia, sogno sterile, e che uccide miseramente il sognatore ; poiché mentre ei si travaglia in un lavoro improduttivo e chimerico, altri si inalza con quello maschio e  fecondo, e rovescia chi perdeva il tempo a insidiarlo.  Alcuno potrà credere forse che in altri paesi d'Europa la legge che noi abbiamo formulato non valga,  o sia lontana ancora dal compimento come da noi  latine nazioni, avvenne più o meno perfettamente.  S'inganna! Della più lontana jRussia parlammo,  e vedemmo che ivi pure oramai l'eguaglianza si effettuava, e con la eman \U 4à'"fe. iSX I Ideet dello stato. Definita liella sua natura^ nel suo valore storico y  e per la sua genesi la moderna demoera^a^ e fatti  certi ohe ella consiste e si fonda sulla eguaglianza  assoluta dei diritti ciyili « politici di tuttì^ e sul lavoro libero, indipendente e affatto personde, vediamo quale sia la forma genkulna e necessaria dello  stato che visceralmente ne germo^a, e quale l'idea  che del medesimo se ne svolga, e si disegni. Trala  pevsonate egualmente. Quindi il diritto di proprietà è ìmplicitameiite contenuto, e identificato a cosi dire  nel diritto al libero esercizio delle personali potenze,  poiché il lavoro, che è la condizione assoluta della  vita e della libertà delle società moderne, non si consuma soltanto nel suo atto presente, ma si continua  negli effetti suoi, giacché in essi restarono scolpiti  inerenti, consustanziati gli atti successivi via via delle  potenze che li produssero. Imperocché se prodotto un  oggetto, od attuato un fatto qualunque economico,  materiale o intellettivo, cessa il lavoro della facoltà,  e dell'arte nostra a produrlo, egli è perciò ancora una  emanazione della nostra persona, fa parte della medesima, nò potrebbe essermi tolto gratuitamente, e di  forza, senza che venga io stesso violato in una appartenenza della mia propria persona : ed è appunto per questo  che TeguagUanza vera, e la condizione sua, il lavoro,  fattori della libertà privata e pubblica, presuppongono  la proprietà, e la proprietà dei prodotti: onde nel lavoro libero, abbiamo non solo un principio economico,  ma giuridico. Ed in vero se la proprietà, prodotto  del lavoro, o la possibilità di possedere stabilmente  secondo i canoni della legge di eguaglianza, non fosse  un fatto, un diritto d'ogni singolo, eguaglianza e lavoro sarebbero nomi vani, e la proprietà come fu durante secoli molti un privilegio di pochi, e di caste.  Quindi i comunisti e socialisti che distruggono o violano per arbitrarie teoriche il diritto pieno di proprietà, distruggono a un tempo eguaglianza, libertà  e lavoro, annichilando gU effetti della evoluzione generale della società umana, *e spegnerebbero ogni  progresso. Ma l'uomo vive di libertà, e a libertà si  muovono le genti, e con la libertà alla dignità morale e intellettiva: senza eguaglianza di diritto^ che  piresuppone lavoro, e virtualmente proprietà, libertà  e benessere non sussistono: il principio loro quindi  riinane sempre economico, in cui implicitamente è  contenuto e connaturato il giuridico. Le attitudini umane sono svariatissime e molte>  plici:'le indoli diverse, dissimiU i desiderii, le aspirazioni, gli scopi, come distinte le condizioni economiclie di ciascheduno ; onde nasce e pullula una infi*nita varietà di lavori, di atti, di esercizio, di prodòtti,  di gara che avvivano, rimutano, conunovono e corroborano la società, ove lìberamente possono effettuarsi.  Ma per la ragione appunto per cui tutte queste attitudini e facoltà debbono pel libero lavoro esplicarsi^  ed operare in una società d'uomini eguali virtualmente in ogni diritto fra loro, sorge la necessità di  rispettare reciprocamente il lavoro, e il suo prodotto  in ciascheduno: il che implica nel diritto il dovere^  e la ragione reciproca loro. Imperocché sarebbe affatto vana illusione l'eguaglianza^ e con essa la  libertà del lavoro, e la proprietà dei prodotti, che  indi risultano, se a tutti vicendevolmente si concedesse di violare Tesercizio degli ^ altri ; ed- illusione  sarebbe pure l'effetto della legge di evoluzione storica, che in quella eguaglianza di diritti si conchiudeva, e sciaguratamente inutili tanti sacrificj, tanto  sangue, tante violenze sofferte € superate dai derelitti lungo i secoli, per conquistarla. Quindi come nel  fette economico del lavoro, era implicito, inchiuso,  consustanziato quello giuridico, cosi c'è pure involuto fu la forza, 3 o e l'UTILITA IMMEDIATA RECIPROCA (Grice). E si badi  che io sono lontano dall'affermare  e come npl sarei, se il sipposto è ridicolo?  che questa forza,  questa utiltà, causa e tutela delle prime aggregazioni, foss3 voluta per deliberato proposito e cosciente  degli sciani rozzi a selvatichi : che nulla nelle origini umaae avviene per esplicito divisamente, ma  tutto pet spontanea evoluzione delle potenze nostre  nella coitorrenza e operosità loro, secondo ragioni  di luogo, di tempo, di razza. Verità che non dee mai  dimenticarsi, e canone storico da non mai trascurare  da tutti,!che desiderano raggiungere con certezza le  reali ori(ini d'ogni umana istituzione e credenza.  Quandoinvero le intelligenze dei singoli uomini primitivi fano si umili, e sì nel senso implicate, e le  volontèrsì poco esplicite per razionale valutazione di  motivi e mentre le necessità di natura, d'altra parte,  appar^nen ti tutte alla conservazione individuale gli  spingv^a ad aggregarsi, nessun altro stimolo, oltre la  legg legame che quello della forza sia di uno o di più a norma dei varii modi di ordinarsi valeva a tenerne stretta la convivenza. In quel primo stadio,  in quella prima forma se possa cosi chiamarsi, di  stato, nessun principio teocratico, mitico, simbolico  era sorto, dappoiché le intelligeme erano ancora  troppo chiuse, e involute e non pote-^ano sollevarsi a  quelle idee, proprie d'altre età, e coniizioni psicologiche successive. In questo stadio gF Stinti animali  prevalevano, e la mente sordamente in quando tra essi sorgono ingegni che o per senso  di umanità^ o per ambizione personale, o sete di gloria si fanno campioni di più giuste leggi^ e preparano  i rirolgimenti sociali. Al di sotto di questi ordini superiori^ altri minori stanno sinché si giunga alle plebi,  le quaU benché non serve, pure non usufruiscono di  tutti i diritti dei primi, e per ultimo vive una moltitudine di servi, cose e non uomini. Or tutto questo  immenso numero di meno privilegiati, e di servi, mentre è materia infiammabile per chi nacque in alto, e  vuole per buono o malvagio fine adoprarla, essa stessa  é spontanea artefice d' insurrezioni o rivoluzioni sociali, che conducono in ultimo alla eguaglianza delle  persone e dei cet^. E ciascuno sa, come sempre in un  modo nell' altro, continuamente ciò avvenne, per  lungo corso di Secoli : fatti che predispongono ed avviano lo stato alla terza sua forma, la simbolica. In questa novella forma in cui si risolve l'idea  dello Stato antecedente, i diversi ordini e poteri, comecché permangano ancora nominalmente, cangiono  però d'origine e d'indole propria per la comune eguaglianza che quasi si raggiunse, sancita dai nuovi codici e dagli statuti. L'investitura divina del supremo  potere, la quale a sua volta istituiva ordini, e delegava uffici in virtù di questa sublime prerogativa  cessò quasi, rimanendo ancora, qualunque sia il nome  del governo, soltanto come fede pubblica, nella elezione continua ed ereditaria delle famiglie regnanti  non solo per volontà nazionale, ma si per la divina  grazia. Il quale presupposto teologico però per l'incremento della mentalità, ed il progresso intellettivo  della cittadinanza, ed un sentimento implicito nelle classi inferiori della ' eguaglianza civilei anche quando  e dove non si rese universale, divenne piuttosto un  simbolo sociale  che una fede positiva ad un fatto religioso come per il passato. In qualunque confessione  religiosa tra i popoli civili, l'adagio che ogni potere  viene da Dio, come ogni evento è signoreggiato dal  medesimo, resta nella fede e nella abitudine generale  degli spiriti eziandio allora che il pensiero tanto si  aflfòrzò, ed emancipò da dileguare ogni mitica rappresentazione, -e valutare più razionalmente le leggi della  natura e quelle che reggono i moti del mondo sociale,  dove veracemente il principio etemo si matdfesta.  Onde Tidea di un influsso divino, e di un regime  provvidenziale immediato negli ordini politici perdura  nel nuovo concetto della vita dei popoli, e cinge per  cosi dire di una aureola religiosa le persone che esercitano le più alte funzioni dello Stato: benché a queste non presiedano più, tranne la famiglia dominatrice, classi privilegiate, che ne ereditano gli ufficii.  La quale discrepanza tra le idee e le cose, tra gU  ufficii e le persone, tra la costituzione razionale, a  dir così, dello Stato, e le abitùdini degli spiriti nel  supporlo preordinazioni divine, dà vita appunto alla  forma simbolica, di cui discorriamo. Le leggi razionalmente sono discusse e ordinate, i poteri dello Stato  si esercitano in forza di queste leggi, le persone che  gli rappresentano non sono più identificate con I medesimi, il sentimento della libertà umana è profondo,  e quello della eguaglianza dei cittadini dinanzi alla  legge, diviene una verità sempre più chiara, amata  e voluta; ma pure ogni grado pel quale sì ascende  dalle funzioni infime alle supreme, è vivificato da una rappresentazione simbolica ^ ove continua sotto una  certa forma fantastica e incoscente, la mitica e teecratica natura dei poteri della fase anteriore. Cosi la  grazia divina pei principi, Temanazione della giustizia persoi^ale, la permanenza legale, se non privilegiato, dell'ordine patrizio, e la facoltà di aggiungere  membri al medesimo con titoli vecchi, la costituzione  dei diversi poteri come entità sostanziali, e via discorrendo, sono tutti simboli sociali a cui si attribuisce  un valore pubblico, mentre in sostanza le condizioni  civili e intellettuali del popolo ripugnano a queste  credenze.   Questa forma simbolica della idea dello Stato perchè si effettui e si manifesti, è d'uopo che l'eguaglianza dei cittadini nel giure civile, se non in quello  politico, sia raggiunta: poiché il simbolo sottentra appunto alla personificazióne effettiva di una emanazione o delegazione divina neUe famiglie, o ceti preposti al potere, e con esso quindi identificate : perchè  il sentimento della eguaglianza comune già esplicito  nelle moltitudini, e legittimamente stabilito nei rispetti  civili, scassina, abbatte, ruina l'idolo teocratico che  dianzi regnava: onde la forma simbolica dello Stato  è propria di quelle nazioni civili che avanzarono nella  democrazia, e preposero agli ordini e ai moti sociali  del medesimo un principio affatto razionale: come si  vede, a modo di esempio, in quasi tutti gli odierni  Stati d'Europa. E quindi mentre gl'intendimenti più  esplicitamente manifesti, verso l'eguaglianza, là libertà la rappresentanza nazionale prevalgono nel governo  della cosa pubblica, e nella formazione delle leggi,  contemporaneamente perdurano formolo, fatti, istituti che con quelli intendimenti sono in contraddizione^ e  che solo hanno ragione transitoria di vita, in quanto  sono meri simboli di più antiche credenze, dommi,  costumi. Cosi molte formule di diritto e di procedura,  d'investitura agli ufficii, e via discorrendo, come creazione di nobiltà nuova, distribuzione di titoli, ordini  cavallereschi, le quali cose tutte non avendo oramai  alcun valore reale e positivo, restano come meri simboli nella costituzione dello Stato. Se, come dimostreremo, cagione e fonte di questa terza forma, fu  il principio di eguaglianza civile, ed un sentimento  più esplicito della libertà morale e giuridica, che distruggevano gli antichi idoli, egli è un vero progresso  di fronte alle forme antecedenti, ed una ultima preparazione alla forma pura e razionale deUa democrazia futura, o a quella che i^oi appellammo funzione:  e già ne delineammo per sommi capi la natura, e  l'organamento. In questa ultima forma che è quella  verso cui corrono le società moderne, per adagiarvisi  completamente, effettuandone in ogni singola parte il  principio generatore, i simboli cadono, come cadde la  forza, ed il mito, e la saldezza dello Stato dipende e  rampolla da una legge naturale di esplicamento necessario delle società umane, intrecciantesi con tutte  le altre che armonicamente compongono e reggono  r ordine universale. La quale legge riassumendo in  sé stessa tutto il valore morale, giuridico, economico  della operosità singolare dell'uomo consociato in politico e civile ordinaùiento, possiede di fronte alla ragione particolare e sociale quella assoluta autorità,  che per l'innanzi fondavasi in finzioni legali, o nella   forza. Imperocché nella democrazia moderna ogni potere emana legittimamente dal popolo, chiamato nei  suoi liberi comizi, come ogni delegazione di nfficii  deriva da lui direttamente o indirettamente: quindi  nella quarta forma dello Stato, ogni potere rampollando dal fette concreto del suflfragio comune, ed ogni  delegazione agli ufficii per essere legittima ed autorevole per diretto o indiretto fecendosi dal medesimo ;  e i varii ufficii costituendo le funzioni che via via s'ingradano a sempre più alto valore, a comporre nell'insieme loro il vivo organamento della nazione, non vi  ha più luogo a qualsiasi finzione, e cade pure la pericolosa nozione dello Stato, come astrazione legale :  la quale fu più volte cagione d'errori, di sventure,  di tirannide mostruosa. Imperocché rese possibile Tincamazione dello Stato in una persona, secondo la vana  e stolta sentenza del più fastoso e pernicioso dei despoti francesi; e die e dà occasione alle teoriche e  conati impossibili e micidiali della civiltà, dei comunisti e socialisti di tutte le epoche storiche. Or se riflettasi e s'indaghi quale sia stato il principio trasformatore della costituzione dello Stato per  il lungo corso della storia in queste quattro forme  che assunse, vedremo di nuovo mostrarsi il sentimento, il concetto, la vittoria mano mano della eguaglianza morale, civile e politica tra gli uomini, che a  poco a poco ridussero e spensero la prevalenza della  forza, distrussero gli ordini e i poteri privilegiati, dissipano i simboli che ancor rimangono ad offuscare la  pura razionalità civile, e preparano la vittoria della  libertà e della legge in tutte le classi dei cittadini.  Onde, abbattuta ogni finzione, autorità arbitraria, mito,  simbolo, privilegio, resta a sussidio unico di esistenza. IDBA. DELLO STATO di progresso economico, intellettivo, e di libertà, il lavoro libero, che come provammo fin da principio, è  il cardine e lo spirito creatore delle società moderne:  e quindi seguendo il corso della evoluaione storica  dello Stato in Europa, e nelle razze che la popolano,  e che via via si allargano a vivificare le altre parti  del mondo, si pervenne alla medesima conclusione,  cioè che il sentimento del^a eguaglianza che ha per  strumento il lavoro fisico-intellettuale, e la sua estrinsecazione in un fatto giuridico, è il resultato, come  è il fattore di tutta la storia antecedente: e la democrazia, forma attuale e necessaria delle società moderne, è l'effetto per una parte, e il principio per  l'altra, del generale incivilimento. Noi dicemmo che  le nazioni moderne riposano tutte sopra un fatto e  un principio economico, poiché riposano inevitabilmente e s'impemano nel lavoro, ed in questo si risolve tutto quanto il valore e l'ordine della attuale  iTOLo ni metterebbe l’atto della più violenta tirannide, e la  democrazia civile non sarebbe phe una turpe copia  di quei sistemi d'intolleranza, cui ella combatte da  secoli. Quindi ove l'eguaglianza giuridica del cittadino è un fatto, e la democrazia prevalse, la libertà di coscienza, o la inviolabilità del foro interiore, è una condizione della sua legge, è la sua essenza medesima.   Noi abbiamo adunque in Italia nemico alla unità  nostra, alla indipendenza, alla libertà, il Papato, che  da pertutto d'altronde si pone come tale di fronte  alle nazioni, e al pensiero : e poiché il Papato è una  istituzione rehgiosa, la forma di un sistema spirituale  di credenze, una fede, così per lo Stato importa, come  sentimento individuale, una inviolabilità assoluta pel  principio della libertà di coscienza, condizione impreteribile della vera democrazia. Quindi a combatterlo  abbisognano armi adeguate alla smisurata potenza, e  che non oflFendano i diritti dei cittadini. L'unico strumento, l'unico modo di lottare, e di vincere, è la.divisione assoluta, ma veramente assoluta dello Stato  dalla Chiesa: non ce n'è altro, né vi può essere, che  tutti si romperebbero dinanzi alla sua forza. Le persecuzioni, le minaccie, l'intromettersi ad ogni ora  nelle cose attinenti strettamente alla Chiesa, non lo  debilita, lo invigorisce, perchè la fede della maggioranza ingigantisce nella fantasia il castigo, e lo trasforma in martirio, e tronca i nervi allo Stato. Ogni  ingerenza di questo sia a favorire una parte del clero,  per abbatterne un' altra, è seme di futuro danno,  è un intricarsi in un dedalo senza uscita, è un appoggio indiretto alla istituzione che vuoisi conibattere. Lo Stato nella democrazia moderna, appunto  perchè sorto e informato da questa, dovendo tutelare  con forza e scrupolo la libertà di coscienza, dee essere indifferente alle varie forme di fede, di culto:  tutte sono eguali dinanzi a lui: e la sua operosità  e ingerenza in queste materie dee solo versare nelr impedire che i varii culti con fatti si cozzino, e si  osteggino, ed offendano cosi la generale libertà di coscienza. GHi ordini e gli atti religiosi e civili possono nello Stato moderno vivere insieme, ma assolutamente distinti, senza mai confondersi, senza mai,  come erroneamente si crede, a vicenda rafforzarsi; essi sono indipendenti l'uno dall'altro. La vita civile  è una cosa, quella religiosa un'altra: la loro confusione è dispotismo inevitabile,, e il più tristo e il più  feroce. H matrimonio civile, i riti funebri estrinseci,  r insegnamento, l'educazione, la libera espressione del  pensiero, la costituzione delle leggi, il governo della  cosa pubbKca, sono diritti propri dello Stato e della  società laicale: né si dee permettere che tra queste  facoltà, e le correlative religiose vi sia mischianza, e  confusione mai: quantunque sia lecito alla diverse  confessioni religiose risguardare quegl'atti dal proprio  e spirituale punto di vista, ed ai cittadini il conformarvisi, quando non ledano l'ordine pubblico. La chiesa nell'esercizio dei suoi riti, del suo culto, nelr insegnamento religioso, in tutto ciò, in una parola,  che spetta alla sua indole interna spirituale, è libera,  e deve essere, dall'intromissione dello Stato, quando  non assalga apertamente le sue istituzioni, e non offenda i suoi diritti: ma l'insegnamento pubbKco dei  cittadini, popolare, secondario, superiore, tutto, dee ni essere esclusivamente per quanto concerne i gradi^ i  diplomi, i diritti che ne provengono di pertinenza assoluta dello Stato, e sotto la di lai unica e sola direzione. Come tutti i cittadini sono eguali dinanzi  alla legge, tutte le istituzioni civili dallo Stato dipendono: e quindi il clero in quanto alle persone fa  parte del diritto comune: nessun privilegio sostenendolo ove egli infranga le leggi : il codice e la procedura penale colpiscono il sacerdote, come il laico sia  nelle transazioni civili, come in quelle d'ordine pubblico. La giustizia perfetta richiederebbe che lo Stato  non s' ingerisse affatto nelle rendite dei diversi culti,  ne spendesse una lira a mantenerli : poiché in un popolo essendo diverse le confessioni, se lo stato ne  sussidii una sola, ne sc'ende la mostruosa consegueìiza  che taluni, come contribuenti, paghino pel culto non  proprio, e che anzi ripudiano. Ogni culto dovrebbe  sostenersi "dalla libera concorrenza e cooperazione dei  propri credenti, e lo Stato non avrebbe sulla proprietà di ciascuno altro sindacato che la tutela delle  medesime, sciolte da qualunque vincolo arbitrario,  sottoposte alle medesime leggi, e agli stessi tributi.  Questa condizione civile dei culti è V unica giusta,  e lo Stato dee intendere ad affrettarne il compimento. La divisione della Chiesa dallo Stato nei termini  accennati è necessaria al vercJ progresso delle nazioni,  ed è l'unico modo della sconfitta del papato, come  ostacolo alla libertà civile dei popoli. H fondamento  alla secolarizzazione dello Stato consiste principalmente nella direzione esclusiva delle scuole, nelle  quali non dovrebbero immischiarsi legalmente i chierici, né compartirvi nelle medesime alcun insegnamento positivo delle religioni, essendo tutte queste  fuori della cerchia delle attribuzioni dirette del governo. Poiché se fosse concessa l'istruzione intomo ad  una sola nelle scuole, sia pure la più prevalente, i  cittadini che appartengono ad altre religioni verrebbero lesi nei loro diritti, in quanto e difetterebbero  di uno speciale insegnamento, pel quale pure pagano  il loro tributo, o sarebbero costretti ad assistere a  definizioni dommatiche che non approvano ; onde verrebbe in parte lesa quella eguaglianza che è l'anima  d'ogni Stato che voglia essere civile. L'insegnamento  religioso poi affidato a laici non può riuscire che vano,  e incompleto, destituito pel fatto stesso delle persone,  di autorità, e di competenza: quindi si rischia, tenuto  conto delle varie opinioni dei docenti, che riesca più  di danno che di profitto. La dottrina elementare dommatìca meglio si imparte nel seno delle famiglie,  l'autorità patema e* materna essendo più viva e sentita che quella di estranei ; e più propriamente nella  Chiesa, per bocca di coloro che a ciò sono superiormente ordinati; ove Uberamente e con efficacia si  professa. Nelle scuole dovrebbesi diffondere, rinforzare  ad ogni occasione quel sentimento di civile onestà,  ove consiste ogni dignità morale, comune a tutti gli  nomini, a qualunque fede appartengano. Che se, come  altri notò, il rimuovere dalle scuole l'insegnamento  religioso per mezzo dei chierici, o il toglierlo affatto,  temesi occasione di allontanamento dalle medesime di  grande copia di alunni, è questo uno dei soliti timori,  prodotti da fatti particolari innalzati dalle fantasie e  dagli interessi di vario genere, a legge, e che producono inevitabilmente questo effetto solo, cioè di non osare mai avanzare, avendo paura della propria ombra. Quando a nessuna professione, a nessun tirocinio, a nessuno utile esercizio sociale non si potesse  pervenire, od essere legalmente abilitato a goderne  i vantaggi, se non frequentando le scuole dello Stato,  sottomesso ai loro esami, e ai diritti che ne rampollano, Tallontanamento non sarebbe di lunga durata, e dopo qualche oscillazione, o ricalcitranza,  tutti volentieri e senza ombra di scrupolo vi interveprrebbero. Ben poco conosce gli uomini e.i tempi  nostri colui che dubiterebbe di una tal verità: gli  esempi che la testimoniano in altri ordini di fajtti,  non m^cano tutti i giorni. Certamente, e questa è  la condizione assoluta della riuscita, il governo dee  curare con assidua e scrupolosa attenzione, e ferma  volontà che le scuole dello Stato sieno le migliori di  tutte quelle che sotto altro nome possano sorgere, e  quindi i maestri dai gradi infimi ai supremi sieno  degi^ dell'alto magisterio a cui si consacrano senza  cerna partigiana, e che gli stipendi si accrescano,  onde onestamente possano vivere e con quejla dignità  e decoro atti ad infondere eziandio per sé stessi nelle  giovani menti il sentimento di autorità: poiché pur  troppo lo squallore, la miseria, gli stenti palesi, degni di altissimo rispetto, quando sieno virtuosamente  sopportati, non sempre accrescono per la fralezza e  vanità umana, merito in chi ne è vittima immeritevole. Finché risolutamente non si porrà mano ad un  tale riordinamento radicale dell'insegnamento, e non  verrà divisa la Chiesa dallo Stato nelle pertinenze  civili, vano é lo sperare di vincere grinflussi faziosi  clericali, e la continua intromittenza loro nelle facende laicali* Non oso sperare^ tanta e la nostra fiacchezza^ un si gran bene^ e si necessario^ prontamente,  benché sia Tunieo modo di vincere. Ma quello di cbe  sono certissimo; si è che dovrà farsi^ quando che sia,  perchè è Funico argomento per combattere il pertinace  iiiimico.   Alcuni sottilmente sillogizzando potrebbero opporre  a queste nostre dottrine l'obiezione, dimandando il  perchè lo Stato solo e nella democrazia prevalente,  può foggiare la forma interna di sé medesimo, secondo  il canone del giure civile esclusivamente, negando  questa facoltà a quello ecclesiastico, che si radica parimente nella inviolabilità personale dei cittadini. Alla  quale speciosa obiezione facile è la risposta : poiché  Fattuazione organica delle funzioni e delle leggi onde  risulta poi la nazione legalmente costituita, dipende  e si evolve da quelle facoltà e potenze individuali  che spettano all'esercizio d'atti esteriori, di fatti econonùci, di procedure eflfettive, riguardano fini essenzialmente terreni ed eudemonici, i di cui profitti e utiUtà sono per sé medesimi così definiti e certi che  acquistano spontaneamente l'assenso dell'universale :  mentre il sentimento religioso, e le formolo onde obiettivamente si veste, variando da persona a persona,  e riguardando interessi, e speranze che effettivamente  qui BuUa terra non hanno compimento, se dovessero  dar forma a così dire civile, ed estrinsecarsi in un  ordine pubblico di popolo, recherebbero confusione e  anarchia, o prevalendo il più forte, ritornerebbe a  galla lo stato teocratico, che è la più bieca e turpe  tirannide. Quindi mentre il sentimento religioso che nella democrazia vera dee risolversi nella assoluta liberta di coscienza viene tutelato come DIRITTO INALIENABILE [cf. Grice on Locke on the inalienable right to make a word stand for a idea] dallo Stato, non può^ come il fatto meramente  giuridico, assumersi a principio organatore della società medesima, come qualunque altro sentimento dell'animo umano. Ma alcuno, e ce ne sono molti, più  appassionato amatore,, che fidente nei benefici effetti  della libertà, insorgerà a ripetere ciò, che si andò  ripetendo dai dottori in politica soventi volte, che^  concessa questa separazione dello Stato in tutti i suoi ordini dalla chiesa, basterà poi a contrapporsi vittoriosamente al gigante che ci sovrasta, e agli influssi  perniciosi del medesimo verso la civiltà in generale,  e la libertà della nazione in particolare? Una potenza  cosi formidabile verrà poi sconfitta, in quanto agli  effetti civili, con un tale metodo, e non userà invece  della libertà sconfinata che le concediamo, a schiacciarci più prontamente? Vane paure! Se il papato  conta una vita di diciotto secoli, se la sua efficacia  penetra da per tutto, se sotto gli ordini suoi milita  una moltiforme schiera di sudditi operosi e ubbidienti,  e formolo adesso nel sillabo la teorica^ del dispotismo  teocratico, l'umanità e la razza nostra europea numera d'altra parte, ben più secoli di vita: crebbe e  si emancipò con lotte continue e pertinaci d'onde  uscivano più vive scintille di luce intellettiva, prorompevano più fervidi desiderii di libertà ; si rafforzarono propositi più civili di vittorie futurp, che andavano animando mille e mille e poi milioni di adepti,  che poi si dilatavano baldi e procaci su tutta la terra^  recandovi non solo germi di verità e libertà, ma istituzioni imperiture, Ed ora non solamente nel suo vasto e onnipotente pensiero agita tutte le genti europeo; ma ravviva metà del nuovo mondo j fascia le  bollenti terre dell'Africa, signoreggia l'Asia, ripopola  l'Oceania, e stende la mano minacciosa già sul Giappone e la China, che eccita a nuovi fati, o li trasforma a sua immagine :£ già nell'animo e nell'intelligenza sua stanno indelebili, consustanziati, e immoriali l'eguaglianza civile, politica e la libertà del pensiero : tre libertà che non si spengono, tre soli che  non vedranno tramonto, e che bastano di per sé col  tempo a sconfiggere qualunque potenza. Al sillabo noi  opponiamo il codice del libero esame, e l'immenso  jcumulo delle conquiste della natura, che sono strumenti poderosi non di servitù, ma di libertà, ed emanjcipazione: al servaggio delle menti, la vittoria vivi£catrice della scienza moderna, al mito il vero, alle  jsquallide e lugubri letane dei mistici, lo splendido e  stridente carro dell'incivilimento. Chi dubita della  finale vittoria, chi crede di fronte alla civiltà moderna  ultrapotente il Papato, non intese la storia, o non  comprese la legge indefettibile della nostra intrinseca  evoluzione, e non sentì nell'anima quella voce divina  che grida alla nostra umanità. Sorgi e cammina ! Che  se vuoisi opporre all'esito favorevole della lotta, anche la enorme virtù della unità del Papato, come  forza direttrice, tenacemente nelle sue compagini costituita, e presente per tutto, si pensi che adèsso la  nostra razza omogenea e identica nei tratti suoi principali, e animata degli stessi sentimenti, è parimente  diffusa e organizzata nel mondo, e che la sua unità  morale si va compiendo ogni giorno. Perchè per i trovati meravigliosi della scienza e dell'arte, che assoggettarono alla volontà umana le potenti energie della natura^ il pensiero che da prima esemplò sé stesso e^  scolpì nelle pietre; nei bronzi^ nelle pergamene dei  popoli separati^ o inimici^ or non solo con la stampa si  moltiplicò con la velocità quasi del concepimento in  innumerevoli copie, ma identificandosi con l'immane  rapidità deirelettrico in un istante, e in un punto  raccoglie tutto ciò che avviene su tutta la superficie del mondo: e le merci, gli uomini, le dottrine, travalicano con l'impeto della ijieteora nejla espansione  del vapore, immensi spazi di terre, perforano montagne, e sorvolano emulando i venti, gli oceani, aeoumunando prodotti materiali e intellettivi in breve  giro di giorni: onde, per la originaria parentela e  indole della stirpe or dominatrice, tutte insieme le  forze domate della natura, van componendo l'unità di  pensiero^ di scopo, di istituzioni per ogni dove : contrapponendo ai concili! jeratici, le splendide e provvide mostre dell'industria e del sapere universale. La  quale unità, perchè effetto della spontanea e nativa  evoluzione della specie, non meccanico sistema di artificiale organismo, è assai più potente di quella pontificale: ed ha nella legge che la governa, e negli  effetti che naturalmente ne rampollano, la necessità  d'infuturarsi, e la inevitabilità della vittoria. Di fronte  alla cattolicità dommatica e ufficiale, la cattolicità deliastirpe, del pensiero, delle istituzioni, della Civiltà va  costituendosi, e poderosa si accampa, libera signora  di sé medesima. Pongasi mente a questo fatto innegabile, e veggasi se le paure soverchie di chi nulla  osa tentare, sieno giustificate dalle condizioni generali  del mondo. Ma si rassicurino i timorati e i timorosi,,  il sentimento ingenuo e nobile religioso non verrk  Spento ma non verrà spenta neppure quella luce purìssima di verità, quel calore di bene, quel fuoco di  libertà che crebbero, e trionfarono a costo di lacriimè,  di sangue, di stragi, di roghi infami e scellerati. Sia  libera la chiesa, ma libero lo stato e autonomo in  ogni ordine di sé medesimo, e sieno libere tutte le  religioni che in esso convivono : non temete, il resultato finale non è dubbio, trionfo della libertà da una  parte, ed epurazione dall’altra. Altri forse può dubitare, pur riconoscendo l'impossibilità della vittoria del sillabo nel mondo, che parzialmente i popoli rischino secondo le proprie condizioni  civili diverse, soccombere, ed in ispecie Y Italia ove il papato ha la visibile sede, e regna il pontefice. Vero è che non tutte le nazioni avanzarono siffattamente da superare e non temere gl'influssi perniciosi  del Papato, e sarebbe follia il negarlo. Ma oltre gli  aiuti che vengono loro dal di fuori per la continua  efficacia del generale incivilimento, che da per tutto  penetra e si diffonde, ciascuno di questi popoli, appunto perchè affine alla comune razza europea, ha in  sé medesimo la necessità della emancipazione, la quale  può parzialmente ritardare ad effettuarsi, ma deve in  ultimo avverarsi per le ragioni discorse. In quanto  poi all' Italia in particolare, non conosce l' indole del  popolo nostro chi crede alla sua etema e congenita  servilità religiosa tramutantesi in quella civile; chi  crede che a questa posponga i suoi affetti e i suoi  interessi; che rinunzi alla terra ed ai suoi leciti godimenti; voglia, parlo dell'universale, porre in non  cale la nazione, rinunziare all' indipendenza ed alla  libertà per vivere una squallida vita di chiostro, e salire per lugubre scala al paradiso. L'italiano è conservativo, non retrivo, per indole, e non inerte nel  pensiero; e altrettanto rapido' ad afferrare il lato giusto, positivo delle dottrine, valutare con abilità ingenita gli avvenimenti e considerare ed estimare le  sue condizioni; aperta una via, sorto un barlume di  vero alla sua mente, vi s'innoltra con prudenza si^  ma virilmente, e con tenacità la segue. Conosco, grazie al cielo, il mio paese, e a palmo a palmo io posso  dire; conversai con tutti i ceti, in tutte le parti della  penisola, ed ho una chiara idea delle loro condizioni  morali; e certamente in alcune provincie tali condizioni non sono liete e normali, e richiedono tutta la  sollecitudine provvida e saggia dei governanti; ma  non si illuda l'osservatore superficiale, anche fra loro,  come dappertutto, l'agitazione operosa nazionale sotto  mille forme si propagò; l'idea del riscatto politico, il  sentimento di libertà, una forma migliore e più degna  di vita, traversarono, mossero quelle menti e quegli  animi, ed all'occorrenza saprebbe deludere le cieche  mene dei retrogradi e dei demagoghi. Cosi dunque non temasi in Italia della libertà concessa alla chiesa e alle chiese, e si proceda con risolutezza; si armi dei suoi diritti naturali lo Stato, e  si lasci il clero esercitare il suo ufficio, e di fare e  disfare in casa propria in quelle cose che strettamente  si attengono al suo ministerio. Contro la fazione clericale, non v'ha altra politica possibile; ogni aggressione è vana, ogni minaccia non rintuzza ma fortifica  l'avversario, ed ogni ingerenza dello Stato nelle cose  interne delle chiese, riesce poi di danno a sé stesso.  I clericali, e parlo della fazione politica loro, ben  sanno del resto^ (gli abili e che hanno il mestolo in  mano) che senza lo Stato e il suo appoggio, le loro  forze sono monche e sfatate ; imperocché il giorno nel  quale in Italia^ per una ipotesi impossibile avessimo  un parlamento del loro colore e spirito, e quindi un  governo uscito dalle loro viscere, sarebbe l'ultima ora della loro fazione, poiché nessun popolo di Europa vorrebbe e potrebbe mantenere rapporti col nero e funesto governo, mentre una riscossa di tutte le gradazioni dei partiti liberali della penisola fora inevitabile o spaventosa. Questa i clericali sanno, e quindi  non tentano, né tenteranno l'ultima prova, e solo procacceranno di tenere Ymo zampino ed un addentellato  nel giure pubblico della nazione, perché lo Stato da  sé medesimo, per gli errori servili o erroneamente  aggressivi, si procuri una certa rovina. Quindi, qualunque sia il governo che resti al timone della nostra patria, non devii dalle norme che ora tracciammo;  ogni altra politica sarebbe funesta; con l'apparenza della forza e della libertà troncherebbe i nervi a sé  stesso. Adoperandoci di questa guisa, noi renderemo  a Cesare quel che è di Cesare, a Dio quel che é di  Pia, secondo il detto profonda del Nazzareno ; e mentre daremo saldi fondamenti alla libertà ed al suo  incrementa, faremo un bene eziandio alla chiesa, poiché, toltole ogni speranza d' ingerenza nelle cose civili,  e richiamata al suo morale ministerio, abbraccerà nella  carità religiosa anche la patria ; come sanno molti  buoni fra loro, i quali sentono che per conquistare,  secondo la loro fede, la'^patria celeste, bisogna amare  e difendere quella terrena. L'altra fazione che tenta e vorrebbe sconvolgere l’attuale ordine di cose civili, quali vennero prodotte  dal lento moto della evoluzione sociale, è la demagogia anarchica e selva^ia, avente gradazioni diverse,  come diversi propositi, diffusa da per tutto,^e stretta  da vincoli, patti, associazioni, e guidate da uomini  risoluti. E da prima è d'uopo, per giusta ed equa  estimazione d'uomini e di cose, distinguere ed assolutamente separare da una tale fazione il partito repubblicano che si agita anch'esso da per tutto, e che  in varie parti del mondo ha vita effettiva e legale  riconoscimento. Vero è che una tale distinzione sarebbe superflua e stolta, se pur troppo lo zelo improvvido o l'ignoranza, non spingesse molti a confondere cose insociabili, e a far tutto un mazzo, sieno  buoni o rei, di quelli che a puntino non partecipano  al grado presente del loro liberalismo. Il partito repubblicano, quando come in generale si mostra, segue  la legge sana della democrazia moderna, riposa sui  medesimi fondamenti giuridici e éivili dei popoli retti  a monarchia rappresentativa; mantiene saldi i principj di proprietà, di famiglia, d'ordine, senza cui convivenza umana non è possibile, ed è una naturale e necessaria evoluzione sociale. Quindi è d'uopo non  fraintendersi, né recare violentemente e con palese ingiustizia le colpe, i danni, i pericoli alla forma repubblicana, che sono propri esclusivamente della demagogia.  Dispregiare con puerile sussiego questa torbida fazione, è follia; la fidanza di sterminarla con le sole  armi, è concetto che non può capire che in un cervello da Don Chisciotte ; combatterFa con palliativi o  discorsi, è troppo ingenua bredulità. A mali morali,  profondi, tenaci, universali come quelli di cui trattìatnO; si può ovviare soltanto con serii e virili propositi, e Còli rimedi adeguati alla forza che li produce IEj prima condizione a sapersi schermire da un tale  nemico, è quella al solito di non farsi illusione alcuna  intorno alla sua potenza, indagarne l'origine, e non  attenuarne il pericolo. E questo si farà per noi il più  brevemente possibile, onde premunirsi in Italia anticipatamente dagli influssi e danni di questo malanno,  perchè la libertà sana e la civiltà non ne soffrano  detrimento. La demagogia o l'insurrezione anarchica delle classi  povere e proletarie non è nuova, e si può dire che  i germi sbocciarono col costituirsi delle società primitive; imperocché di fronte ai più potenti, ai più  agiati e felici, stettero sempre i derelitti dalla fortuna, i deboli, i miseri, qualunque ne fossero le cagioni. Ma se il sentimento, il mobile, lo scopo si  mantenne identico di mezzo alle trasformazioni sociali,  la forma della demagogia cambiò, e i suoi seguaci e  proseliti crebbero spaventosamente di numero. Quindi  nell'età nostra, per quanto si estende la civiltà europea sopra la terra, assunse una forma consuonante  con quella naturale del progresso sociale, delle condizioni economiche presenti, e con l'immenso accrescimento della popolazione. Or noi si vide che il fondamento, il fatto che costituiva l'indole propria della  società moderna e dell'incivilimento stesso, è un fatto  economico, il lavoro, reso libero, scevro di qualsiasi  privilegio od ostacolo, e sostegno unico dei singoli  associati, nella moltiforme sua natura, e nella immensa  varietà dei suoi atti, dal rozzo manuale al più alto  intelletto, il sentimento di questa feconda e santa mT-erità, pel naturale svolgimento che in tutti lo produsse e lo suscitò; nacque nell'animo di tutte le classi  vagamente le eccitò, spingendole di un salto con Timmaginativa agli effetti ultimi e salutari di questo  principio, valicandone i necessari intervalli per ignoranza da una parte, e per impeto di bisogno dall'altra. Indi la foga pertinace, perseverante, ma più  calma, o Torrido assalto subitaneo di selvaggie ire  contro quei medesimi sostegni, quelle istituzioni che  Bono anzi i mezzi di giungete gradatamente ad una  condizione migliore di tutti. Cosi nacquero per un  verso le associazioni della cosi detta intemazionale,  o le improvvise ruine della comune. Ma nel tempo  stesso che noi dobbiamo combattere le funeste teoriche di queste sette, e soffocarne con pronta energia  i delirii nefandi, non bisogna, lo ripeto, fanciullescamente cullarsi nella idea, che fatti cosi universali, e  che in un modo o nell'altro si mostrano per quanto  fii stende il campo civile delle nazioni, sia un mero capriccio momentaneo d' ebbre moltitudini, vapore di  idioti, e fenomeno che non abbia fondamento di sorta  nella storia; né in se, in mezzo al profondo errore  che l'offusca, e lo insozza, un raggio e un filo di vero.  E noi vedemmo già che la demagogia ha la sua storia, antica quanto il mondo, e svolgentesi e sgomitolandosi con i secoli parallela alla trasformazione  fiociale della nostra stirpe. Ed il vero, che questa fazione nelle sue teòriche micidiali racchiude è questo:  che ad ogni uomo, ad ogni cittadino, sia qualunque  la nascita, l'economica condizione, incombe egualmente  l'obbligo salutare del lavoro, ed è compartecipe di  tutti i doveri che stringono autorevolmente tutti i consociati a prò di tatti con reoiprocft operosità; imperocché l'ozio infecondo, e soltanto consumatore et  cormttore, è oramai agli occhi di tutti il più tristo,  squallido e vituperevole vizio sociale, la causa e il  fomite di ogni disordine e, d' (^ni ruina. Ma questo  vero, che or comincia, rispetto al suo valore sociale,  a risplendere alle menti di tutti, e che mano mano  che la società progredisce, sempre più palese si farà,  e che dee divenire la fede comune, nelle sette demagogiche si trasformò in ribellione ad ogni sano  principio, e divenne piuttosto sorgente di miserie e  di lutti, che fonte di prosperità per gli stessi che si  Intano in suo nome. Quindi la fallacia nella credenza di poter sterminare ogni sentimento religioso  come quello che secondo essi sostiene i perni della società attuale; la puerile fidanza del condividere i  beni fra tutti, e ritornare, per essere felici e mirabili,  alle delizie animalesche delle prime orde umane. II  sentimento religioso in sé, astraendo dalle forme  dommatiche che può rivestire, è in quella vece sì  connaturato all'uomo, appena gli balenò un ra^io di  intelligente attività nella mente, è un. bisogno cosi  profondo, che il supporlo nell'universale temporario  periturio, riesce un errore sì madornale, quanto il  credere che possa miù cessare il sentimento del bello,  del buono, dell'utile, e così via discorrendo. Un tal  sentimento muterà forma, materia, simbolo, a sempre  più puro e razionale aere s'innalzerà, ma rimarrà e quando anche in tutti si trasmutasse in effettiva  intellezione dell'ordine infinito del mondo, e dell'eterna energia che lo vivifica, e continua, avrà sempre una efficacia potente negli animi umani, e una autorità suprema nei loro atti. Quindi, sicc^ome è vano  l'assunto, è assurdo il crederlo effettuabile ; e di questo  si persuadano coloro che eccitano a simili fantaami le  moltitudini. In quanto poi alla proprietà e alla famiglia, sarebbe con esse distrutto l'ordine civile, ogni speranza di miglioramento, ogni libertà. Poiché l'ultimo  fatto sociale a cui" pervenne il moto evolutivo umano  è Tuniversale libero lavoro, questo senza la proprietà  non può sussistere, in quanto mancherebbe di sussidi,  e dei giusti stimoli ad esercitarsi. Che se il lavoro è  un dovere, un godimento, una dignità, la sola nobiltà  possibile oramai nel mondo, oltre avere un effetto che  giova alla generale convivenza nella reciprocanza di  ragioni e d'influssi che l'anima, è pure un modo di  rendere più lieta, agiata e amabile la vita; poiché  colui che vuole rendere l'uomo misticamente perfetto,  e che tutto versi e si travagli nella carità, e non  senta e non provi gli onesti piaceri, e rinunzi ai comodi, agli agi, agli utili personali, non solo disconosce  la umana natura, ma annienta la storia. Laonde la  proprietà ed in conseguenza la famiglia, sono condizioni indispensabili del lavoro, e con esso della civiltà  tutta quanta, e della libertà che a tutti è si cara, e  desiderata. Questi sono i veri contro cui infuriano i  propositi dell'intemazionale, i quali se venissero ad  effetto, ogni bene sarebbe distrutto; sono errori in cui  cadono e caddero non una sola volta, quelli che, vivificati da un sentimento giusto e da un vero che  balena incerto e confuso nelle loro menti, credono  raggiungere la meta sterminando gli argomenti che  vi conducono.  Egli è certo però che tali sette sono or formidabili e sparse da per tutto: hanno associazioni, pecunia, giornali, conventicole e cattedre: e gl'iniziati si  mescolano in tutti gli ordini della vita, e gli arruffoni ne sfruttano la credulità, o ne inveleniscono, rinfuocano le ire: pericolo tanto più tremendo, quanto  più è avvalorato da un sentimento giusto di una verità male intesa. Or che contrapporrete a questa fiumana? La Forza? è tentato, ma l'idra rinasce: oltre, che la forza contro il sentimento e il numero non prevale, e senza un principio che la sostenga,  è vano amminicolo. Combatterlo con principii contrarii? si sperimentò, risorse, e sempre più sì  estende. Con gl'influssi religiosi? Ma ella imperversò maggiormente ove le genti erano guidate e  ispirate dal clero, e si agita nei paesi, ove la fede è  più viva, poniamo che non sia la cattolica, tralasciando  anche che alcune tendenze, ire, dispetti clericali sono  fomite a queste sette, e piuttosto che attutarle, le  attizzano. Forse pej: mezzo delle esortazioni, le per«  suasioni, i libri, e i giornali? Certamente questi  modi, e argomenii quando sieno bene appropriati e  condotti, hanno un grande valore, e maggior della  forza, e degli influssi religiosi, perchè vanno a poco  a poco componendo una opinione favorevole ai suoi  principj, e l'opinione oggi è regina, e può molto: ma  la sua efficacia è in parte frustrata dai giornali, dalle  associazioni della setta, onde è lento e stentato il benefico risultamento. Dunque non hawi rimedio? I rimedii opportuni, i soli efficaci, e che, spero, saranno riconosciuti tali a poco a poco da tutti, se vogliamo salvare la civiltà, sono di due sorta, privati e  pubblici: e ne discorreremo partitamente le loro ragioni. Odesi tutto giorno dalle persone di ogni ordine e  d'ogni ceto, tra quelli più agiati^ lamenti e querimonie  rispetto ai pericoli che ci sovrastano da parte della  demagogia universale^ e si paventa^ si trema^ s'impreca^ o si pronostica il finimondo. Ma sciaguratamente  tutto questo tumulto dì sgomenti^ predizioni^ spasimi  si risolve in parole, in chiacchere, in vaniloquio effervescente, e nessuno, parlo in generale, fa nulla, o  aspetta da un arcangelo la spada salvatrice, o grida  contro il governo e i governi che non uccidono a  soffocano nella culla il mostro divoratore. E mi fanno  la figura di chi, appreso lentamente il fuoco in un  canto della propria casa, corra in piazza a gemere^  a piangere la imminente ruina delle sue mura, imprecando perchè il sindaco non distrugga i zolfanelli,  causa immediata del danno, invece di provvedere tosto e virilmente al pericolo, tenue da principio, con  la propria persona, o con gli ajuti che ai forti e volonterosi non mancano mai. Cosi presso a poco va la  faccenda per tutti coloro, e sono innumerevoli, che  presentendo l'avvento della cosi detta questione sociale, credono rimediare al male col vociferare ai  quattro venti il prossimo diluvio, o volendo che altri  gli soccorra con modi, che neppure essi sanno in che  veramente consistono. Ma in tale maniera l'acqua arriva  alla gola, e senza rimedio, perchè il neghittoso è spiacevole a tutti, utile a nessuno. Egli è oramai tempo  di mutare registro, e se veramente stanno a cuore  gli averi, i diritti, la giustizia, non fosse che rispetta  ai privati vantaggi, bisogna persuadersi, perdio! che  il tempo è venuto, ove chi non opera, e fortemente  vuole e lavora, verrà travolto non solo dalla fiumana     impura ch^ paventano^ ma dalla indole della civiltà  presìHite, nella quale il volontarìp infingardo nozi può  trovare modo durevole di vita. E innanzi tutto la so- *  cietà è solidale d'ogni bene^ d'ogni male, e chi non  sente q^uesto alto dovere, è indegno di chiamarsi uomo  civile: e quindi ognuno è strettamente tenuto a co-operare [cf. Grice, PRINCIPLE OF CONVERSATIONAL HELPFULNESS] al maggior benessere possibile della nazione.  E si badi che questa, di cui parlo, non è mica una  carità estrinseca e contingente, che possa a volontà  con minore o maggiore zelo esercitarsi, come avviene  in altri fatti di pubblica o privata beneficenza, ma è  una necessità intrinseca, senza la quale la società  minerebbe. La quale cosa si fa a tutti palese anche  materialmente, se riflettono ajla solidarietà, sempre  più stretta e generale che nasce fra tutti gì' interessi,  sia per associazioni a scopi diversi di utilità personale, o di prodotti, sia per la dipendenza d'ogni ordine di fatti economici fra loro, sia nel più vasto e  universale credito dello Stsito, da cui dipendono una  immensa varietà di fortune particolari. Quindi il lavoro libero, ma co-operativo [GRICE, PRINCIPLE OF CONVERSATIONAL HELPFULNESS] dei singoli, onde si conservino intatte e abbondanti le fonti .di ricchezza e  di sussistenza nazionale, anche per questo lato, è lavoro necessario: che se egli allentasse, svigorisse., o  venisse meno, il popolo perirebbe senza rimedio.   Adunque tra i rimedii privati che possono contrastare all' ampliarsi delle sette demagogiche a danno  di tutti, è l'operosità di tutti, e in specie di quelli  che più avrebbero a perdere, e nei quali quanto è  più grande la ricchezza e l'agio, tanto più cresce e  ingigantisce il dovere dell'opera. Si persuadano che  nelle moltitudini adesso il prestigio solo delle ricchezze, o del nome; o del fasto è scemato, e va scemando, grazie al cielo, rapidamente, e invano si atteggerk a pavone, chi sotto le splendide penne, e  r iridiscente folgore delle piume, cela miseramente  una cornacchia. D popolo non dispregia- né nomi,  né fasto, quando coloro che li portano, o V esercitano  senza jattanza, sono degni della civiltà nostra, la  quale consiste tutta nel lavoro, utile e generoso. Bisogna adunque che coloro a    crescente onda delle mene demagogidie, è una necessità delle stesse condizioni civili deUe nazioni moderne, un diritto e un dovere. '   Dichiarati brevemente i rimedi privati, consideriamo quali sieno,o possano essere quelU pubblici, o  di pertinenza dello Stato, e del suo governo. Questi  a divisarli compiutamente si disbrancano in lare ordini, e possono essere quindi di tre specie: mo^?ali,  amministrativi e poUtìci. . Un grande rimedio aU'errore, al vizio e alle miserie, è certamente V istruzione  diffusa, e più tra quelle classi che di per sé mal saprebbero provvedervi, e alle quali manc^ lo stimolo  proprio ad avanzare, vale a dire alle plebi della città  e delle campagne. Che questo sia precipuo ed assoluto dovere di ogni governo civile, è chiaro, e sarebbe  anche più chiaro, se non fossero ancora alcuni, e non.  son pochi, nei quali si mantiene la dignitosa e generosa ctedenza, che l’ignoranza delle moltitudini lavoratrici, è un ingrediente e un sussidio nòbilissimo  di governo, e s’affidano nella loro maravigliosa attitudine, di contrastare ad ogni male, puntellati all'arte provvida di pochi, e all'uni vergfale e servile asinaggine. E tatLto più stupore arreca una tale saggia sentenza, in qitanto di preferenza è sostenuta da quelli   non parlo certamente di tutti  che bazzicano  frequentemente per le chiese, e fanno pompa di cristiana pietà. Brutta e ridicola contraddizione, la quale  se ingenuamente* professata, indica in essi una ignoranza proporzionata al grottesco proposito; se ad afte  pensata, è iniqua e degna deff universale dispregia.  Jn ciasctm uomo come sono eguali potenzialmente i  diritti e i doveri, sono eguali i bisogni e la necessità  deiihi dignità della vita; ora in tutti in quella guisa  dello stato, e migliorare le loro condizioni economiche;  ma parlandosi di suffragio fermarsi alle porte del salterio e dell'abbaco, è tale stravaganza che la maggiore  non si può immaginare; si crede d'essere' del nostro'  secolo, e viviamo delle idee dei bisarcavoli!  CICERONE (si veda) assennatamente dicera essere gF ignoranti  capaci di verità^ poiché T ignoranza ^ cioè la mente  primitiva^ non ingombra da sfumature; e il più delle  volte arruffata da un sapere rachitico, entrato a spruzzi  anarchici nel celabro, è tutt'altro che chiusa alle verità pratiche della vita ; che anzi quando queste vertono intomo a positive questioni d' interessi generali,  ma consuonanti o influenti con e su quelli particolari  della famiglia, del comune, della provincia, sono pronte  a colpirne il nocciolo principale, e a scegliere le persone più idonee a risolverle secondo le necessità del  momento. Se non fosse così, se noi attendessimo ad  allargare il diritto di suff'ragio che virtualmente è di  tutti, quando tutti fossero dotti, ed uomini di stato  almeno in cacchioni, io credo che si aspetterebbe indarno quel giorno, e si aprirebbero le universali urne  dei trapassati allo squillo finale dell'arcangelo, più  presto che quelle generali del popolo pel comune sufeagio. Ma ribadiscono gli oppositori : voi desiderate estendere il diritto di suffragio mentre ^ nessuno, o da  pochi si chiede : attendete che il desiderio nasca, si  diffonda, giunga legalmente al parlamento, e allora  si aprirà la mano, ma sempre con prudente riserva.  E cosi, soggiungerò io, noi liberi cittadini di libero stato, e un governo che dalla libertà è sorto, e a questa deve intendere con tenaci propositi, saremo meno  generosi, meno magnanimi dei governi dispotici ? In  questi sovente, e la storia anche contemporanea è  piena di esempj, il governo costringe spontaneamente  le moltitudini riluttanti a incivilirsi, e con violenta  mano le sforza ad accettare .riforme civili, amministratìve, economiofae : noi BEtremo il contrario: in nome  delia libertà, teleremo lontani dalle riforme utili e necessarie quelle moltitudini chC; secondo il ^iblime concetto, persistono nella ignoranza, o nella indifferenza politica. Un governo onesto di libero popola  dee spingere al meglio di proprio impulso le genti  confidate al suo senno: nò dee nelle leggi fondamentali attendere che altri domandi, ma generosamente  anticipare opportune riforme. Ma se del resto tuUi  non chiedono o vogliono il diritto di suffragio, questi  è sorto nella coscienza dei più, emana spontanearmente dal nostro giure pubblico, è una necessità dei  tempi, è un dovere civile. Che se un tale dovere, per  ipotesi impossibile, non si sentisse, o si dissimulasse,  p^r durare in un certo grado matematicamente misurato, e fisso di libertà, a prò di minoranze qua quando anche,  per ipotesi, ciò avvenisse, Teffetto sólo che produrrebbe, fora certamente una'^pìù grande e viva operosità nei partiti liberali, e una agitazione legale più  intensa, le quali riuscirebbero in fine a risolvere più  presto e ricisamente una tale questione interna, e  scongiurare più virilmente i pericoli, onde è gravida  per la nazione. Altro benefizio che recherebbe seco  la partecipazione, larga del popolo al Suffragio, sarebbe quello di stimolare, (essendo più vasto il sindacato, e le possibili peripezie del voto), e costringere i- deputati ad intervenire scrupolosamente al parlamento^ e smettere il brutto sciopero in cui sono caduti molti ripetutamente, e in modo da far credere  cronico il morbo pernicioso, che gl'infesta, e li rende  colpevoli dinanzi alla nazione. Più e più volte gli  atti e le discussioni del parlamento, d'importanza capitale per la prosperità e ordine del paese, non poterono aver termine necessario, o sanzione legale, per  Io scarso numero degli intervenuti, e ancKe quando  giungevano alla cifra prestabilita, di fronte alla totalità dei rappresentanti, erano si può dire al disotto  del decoro del parlamento. Se coloro che pur brigano,  e fauno chiasso per essei'c assunti al grave incarico, e rappresentano ciò che v'ha di più vivo nella na  ssioney e la funzione più eccelsa di un popolo, che è  quella 4'essere il legislatore di sa medesimo^ danno  un si tristo esempio di trascuranza agli alti doveri, e  di abbandono alla alacrità civile della vita pubblica,  B0^ è da atupire, se gli aitai alla base imitano nel  laìiguote, nella cascarne, nella dimenticanza dei diritti e doveri civili, i loro rappresentanti ; e «'ingeneri nella na2doDe quell'ozio politico, che è la lue  più deleteria, e corruttrice delle viscere della medesima; sintomo, se i rimedii non intervengono pronti  ed energici, di inevitabile morte. O non cercare, desiderare r^lezioùe e intromettersi in ogni maniera per  ottenerla, o ottenuta, attendere con lealtà e perseveranza al proprio mandato, ^d esercitarlo costantemente,  risparmiando cosi un malo esempio al popolò \ intero,  un acerbo e giusto rimprovero a sé medesimi; lasciando aperto il corso ai più degni, e più operosi, e  non ocisasionando cosi la morale decadenza dell'autorità del parlamento, come pur troppo fra noi già per  moltissimi accadeva : e che io dica il vero faccio appello alla stampa quotidiana di tutti i colori piena sovente di acuti, e meritati riinbrotti ai neghittosi legislatori. Bispetto al pericolo del cesarismo, che secondo altri  sarebbe il mostro che uscirebbe dal voto generale,  come quei fantocci deformi e strani, che scattano all’improwiso dalla scatola magica, a stupose e terrore  dei nostri fanciulli, temerlo da senno in Italia, è cosa  che non Val la pena di confutare. Il cesarismo è  solo possibile in un paese, sconvolto ^à, sconquas'  fiato, disordinato a più riprese, e dove la furia delle fazioni anaik^hicbe^ o le gare di pretendenti più  meno apocrifi, tanto scrollarono le fondamenta d'ogni ordine, e tanto impaurirono le maggiorante, che,  conservatrici sempre, si appigliano di iiecessità all'unico modo di salvezza che si presenta, sia pute Tautonta irra:dónaie della sciabola, o la potenza moi'ale  di un nome: poiché ove è questione di anarchia di  forze brute tenzonanti, il popolo si rivolge a quella  che ha maggiore probabilità di vittoria, e di ristabilire quindi la pace, e la cancordia nel caos informe  sociale. Ma un tal voto," quando è generale, se manifestasi sostenitore di una forma dittatoriale in un  dato momento ove egli è necessario, apparisce anche  come fondatore di repubblica, quando una tal forma  di reggimento ad un dato momento, sia Tunica arra  di durevole ordine, come intervenne in Francia : nella  quale, nonostante la lunga cospirazione della caduta  assemblea, e del suo governo, retrogrado e monarchico, e tutto rìmmienso arrabbattarsi dei clericali, e  dei funzionari governativi, sorse testé la repubblica da  quelle Urne rurali^ che secondo i giusti estimatori del  senno delle moltitudiiii, dovevano imporre alla Francia  il -^èsaitfismo na^Kileonico^ o il lugubre spettro della  rameica tirannide legittimista. Che se invece avvenne il  contrario della comune aspettativa, si deve solo a ciò,  che tra i varii e funesti pretendenti al trono francese, e  delle loro ingenerose e tristi fazioni, il popolo senti, che  runico governo d'ordine, era il rejpubblicano, che tagliava a tutti la cresta, e li poneva fuori dell'astioso e  cupido combattimento, e per la repubblica votò. In Italia  non vi sono affatto elementi per un cesarismo possibile, e mancano condizioni antecedenti per un tal rini Bultato; qui non sfacelo, qui non anarchia^ qui non  odii; rancori^ ambizioni^ rafforzati dal sangue sparso da vendette nefande, da rappresaglie inique ; qui nessun bisogno di salvatore, o d'incoronare col servaggio del popolo, un fortunato vincitore di eroiche battaglie. Da noi le istituzioni, grazie al cielo, possono  per poco affievolirsi, o venire in meglio modificate,  ma legalmente operano, e sono fisse nella coscienza  pubblica, né alcuno anche dei partiti possibili più  risoluti, e accentuati, pensa a rovesciarle, perchè in  Italia c'è senso in tutti della realtà, né ci si scapriccia in utopie senza pratico costrutto: in Italia  la dinastia regnante è politicamente insigne pel rispetto alle leggi, né vi attenta, né vi corrìe rischio,  (quando esercita il suo mandato, come ora fa) di v^enire rejetta, e inimicata dalla nazione^ e F esercito  nostro, quanto valoroso, fedele^ onesto, e nel quale  in bella armonia si fusero tutti gli elementi fortf  della nazione, sia patrizi, sia popolani, se è tutela delle  leggi, dell'ordine, della integrità della patria, non è  una accolta di pretoriani, e conosce a prova quali sieno  i suoi doveri di soldato leale e devoto e quelli di  cittadino. Indi il timore e lo spauracchio di Cesari  possibili in Italia è affatto chimerico, e non conosce  certo il popolo nostro, né le nostre condizioni civili  interno in tutti i loro elementi, chi paventa di un  tale babau,   E dico adunque che si dee proporre legalmente e  stabilire una tal forma di suffragio, senza indugio^  poiché la libertà lo richiede, la dignità della nazione  lo esige, la prudenza Io consiglia. Le moltitudini eleggono, non governano; immenso ' divario ; ed esse in  media secondo tempi, luoghi, e coadisiom sociali soelgono' seeipmi pia opportuni ai bisogni presenti. Io  80 a rn^AA dito tatto quello che poseono rispondere,  e obiettAi^é coloro ohe sono di contrario avviso : e m'invitératino ad inchieste del come si fanno e si fecero  le elezioni' in varie provincie della penisola, sia per  brogli, tàsir per persone e mi sopraffaranno di una  quai^tità enorme di fatti, e' di aneddoti; ma queste  cose^ e questi riposti archivi!,li conosciamo: ed è appunto perchè U conosciamo, che invochiamo la riforma del voto. Poiché il ragionamento dì alcuni fra  gli awersarii consiste a dire: il voto, nella guisa  che ora si esercita, è vero, non dà buoni restdtati,  dunque Voi attendete una conclusione necessaria:  ohibò! la logica loro è più stupènda: dunque conserviamolo!   Altri potrebbe opporre : concesso che la moltitudine,  la gt»nde maggioranza delle nazioni sieno di fatto e  sempre conservatrici, perchè allora prevalsero via via,  e vinsero le rivoluzioni, effettuando ad onta di quel  freno costante, mutamenti radicali nel costume e nelle  idee dei popoli? La ragione e la spiegazione di un  tale fette è ovvia a trovarsi; poiché per una parte  le moltitudini, perchè conservatrici, e lontane e aborrenti per le loro faccende, dal moto e dall'agitazione  delle minoranze, che vivono in special modo di pensieiV)^ e di abitudini innovatrici, nulla iniziano spontaneamente, e rimangono estranee agli influssi delle  novelle idee; e dall'altra non chiamate a manifestare  legalmente i loro sentimenti, non possono arrestare,  moderare o piegare il corso degli avvenimenti, o modificame i resultamenti sociali. Le moltitudini vivono   m   sciolte y guardando ciascuno ai propri negozii^ e non  possono congregarsi facilmente in assemblee, in comitati, in conventicole, come è facile alle minoranze appunto perchè minoranze. Ma una tale inerzia, una  tale paziente annegazione, non rimane senza effetto col tempo; inquanto se le minoranze si spinsero oltre  certi confini morali e civili e vollero trionfanti principii che offendono il sentimento ereditario della moltitudine, cadono poi in seguito le loro esagerazioni  stesse, non nutrite e sostenute dall'universale, e solo  resta il progresso possibile, pratico, buono, il quale,  comechè nuovo, pure non perturbando le coscienze e  abitudini della maggioranza nazionale, viene a poco  a poco a consustanziarsi con le medesime: e cosi i popoli camminano e vanno perfezionandosi. E che ciò  sia vero, oltre la testimonianza palese di tutte le storie, basta fermarsi a considerare il corso delle rivoluzioni moderne di tutti gli Stati, perchè la realità  della dottrina nostra salti agli occhi ai più miopi. Affine dunque che le moltitudini non per lunga e  sempre faticosa efficacia, come freni conservativi, operanti spontaneamente e fuori del giure positivo, riescano immediatamente salutari all'equabile e fruttuoso  progresso dei popoli civili, è d'uopo renderle partecipi  della vita pubblica, chiamandole alla elezione di coloro che sono poi i legislatori della nazione, è debbono guidarla alla libertà e ai beni che essa racchiude^  con ordine e operosità. Così facendo, con quei temperamenti richiesti dalla moralità e dignità stessa del  voto, si otterrà una maggiore attività politica ; la nazione non sonnecchierà mai, né ristagnerà; i partiti  che pervengono al governo dello Stato, nella vicenda continua di nuovi biefogni^ non crìstalUzzeranno^ e riposeranno in una beata e grassa quiete^ ringipvaniti  e stimolati sempre dal voto popolare^ donde tutto nelle  democrazie fluisce e sorge ^ e viene legittimato; si  avrà sempre una benefica remora alle intemperanze  delle fazioni, e quello che più importa, un ostacolo,  e, si radichi bene nella mente, l’unico ostacolo all' imperversare della furibonda demagogia. Io non  aspiro alla divina prerogativa della infallibilità, e  lascio ad altri senza rammarico questa modesta ed  umile virtù ; ma per quello che io valgo a discernere  dopo lungo studio e lungo amore pel pubblico bene,  crèdo fermamente alla efficacia, necessità, utilità delle  mie proposte, come sono certo che quadrano a capello  con le norme positive di una scienza sociale, veramente degna di questo nome. Tali sono le proposte, che coscienziosamente e dopo  maturo e scrupoloso esame, e modestia, venni svolgendo in questo mio scritto ; tali le riforme che credo  indispensabili per la durata, la esplicazione naturale  e la salute delle nostre istituzioni, e pel decoro e la  prosperità della patria. Certamente non si possono  tutte e subito attuare, e Roma non fii fatta in un  giorno; ma necessario è che gli uomini a qualunque  partito nazionale appartengano, proposti al governo  della cosa pubblica, vi si accingano con tenace proposito, e vi aspirino costantemente. Un sentimento di  malessere indefinito occasionò la crisi presente, e la  nazione sta raccolta attendendo che i diversi ordini  dello Stato meglio rispondano all'indole loro e dei  tempi, e si ritemperi a vita più robusta e libera la  fibra dei cittadini; e tale è il compito di coloro che ora salirono; è giudicheremo dai fatti se sono da tanto.  Quelli che caddero ^ il partito cioè che fino ad o^  resse i destini d' Italia^ operò cèrto molte cose buotie  e condusse a termine, stimolato però dalla piÙL viva  e impaziente parte della nazione e laicamente eoa;  diuvato da questa, Tunità territoriale e politica della  patria^ protetto da fortuna propizia e da eventi insperati, trasmutanti in vittoria eziandio la sconfitta;  ma a poco a poco, ritirandosi in sé medesimo e chiuso  troppo forse agli influssi sempre salutari della maggioranza del popolo, si aflSevoll ed obbliò le origini  sue, e la natura essenzialmente democratica degli  Stati moderni. L'Italia oramai è giunta a quel temperamento civile ehe esclude la violenza e T illegale  intromissione di fazioni perturbatrici, ma vuole ed  esige che si avanzi e che si cammini di pari alle nazioni più civili; che gli uomini che la capitaneggiano  si governino con le idee nuove, e si lascino i metodi  troppo curialeschi e scolastici nell' indirizzo della cosa  pubblica. Or non è più tempo, e tra poco lo vedranno  anche i più restii e ostinati, di grette abilità e di piccoli e scuciti mezzi, giorno per giorno, di reggere gli  Stati ; tutte le questioni sono larghe e grandi, e non  si risolvono che con intendimenti e principj larghi e  generosi; in ogni vertenza è conflata, a cosi dire, la  vita di tutto un popolo, anche per i rapporti che  essa ha o può avere con tutte le nazioni civili. Isolarsi, fetcendo i suoi affari alla guisa di un agente di  fattoria, è impossibile, dannoso e indecoroso; la necessità presente spinge i popoli europa all'unità morale della razza loro, ed all'equilibrio econoiiiicO civile  e politico di tutte le membra ; ciò che non importa ima yi^ota cosmopQlitia alla maniera dei politici mistici: m ogoji inombro e nazione vive della sua vita  particolare; ma in conserto di vincoli si stretti, e una  reciprocità di r^oni che costringono tutti ad avanz^ure perire ; poiché la selezione naturale governa  anche 1a vita dei pppoli. Né valga il dire, come da  molti si ripete che il governo è, od era assai più  liberale della na:pione, e quindi ogni spinta o riforma  riuscire inutile, o inopportuna; poiché, oltre essere  questo in generale vero per tutti i governi, in quanto  sono al di sopra del sapere e del civile temperamento  delle moltitudini, suscita spontaneamente questo dilemma: o il governo, in uno Stato libero, possiede  minori spiriti liberi del popolo, e quindi dee, in virtù  della legge fondamentale di un libero stato, ritirarsi,  perchè violatore moralmente della medesima; o si  confessa più liberale del paese, e allora piuttosto che  ristarsi e mantenere il grado fisso del valore civile  del medesimo, dee spingerlo innanzi e trasformarlo  alla sua immagine; che se sta, non procacciando di  eccitarlo alla riforma, è indegno dell'alto loco che occupa. Queste teoriche di accomodamenti pratici non  sono più d'uso, e solo argomentano una profonda imperizia del come si dirigano le società moderne, e dei  doveri effettivi dei governanti. Sciolto da qualunque legame di disciplina, come dicesi, di partiti, perchè uomo affatto privato ed oscuro, e  al di sopra di questi, come debbo essere lo scrittore imparziale, non consigliandomi con altre norme che con  quella che io credo il giusto, scevro da qualunque ambizione personale, né stimolato da ire o passioni di  parte, liberamente dissi, comecché sempre con rispetto in  olle persone, ciò che stimava opportuno ed utile, devoto  in tutta la mia vita ad una cosa sola, ma quella grandissima e santa, la verità. Se altri mi provi che io mi  ingannai, sarò ancora felice quando il contrario di ciò  che credetti, profitti alla mia patria. In ogni modo,  nel piccolo giro delle mie facoltà, avrò soddisfatto all'obbligo di cittadino ; ciascuno dovendo servire la patria in quel modo che gli è concesso. Solo una cosa  detesto in questo ordine di fatti: la petulante vanità  dei neghittosi. Altri saggi: S^Uo ai ierehi:   DELLK   CONDIZIONI INTELLETTUALI D.' ITALIA  ITm preparmziùHe ì SELLA LEGGE FONDAMENTALE DELLA INTELLIGENZA ffCL RC6II0 ANIMALC  S t'Udii di Psicologia compartita. Se-    rv;.ft- Tito Vignoli. Vignoli. Keywords: squirrel, squarrel, psicologia comparata, etologica filosofica, una legge della intelligenza degl’animali – mito e scienza – mitos e logos – animale, legge, legge della psicologia, psicologia comparata, etologia comparata, evoluzione. Refs.: The H. P. Grice Papers, Bancroft MS, Luigi Speranza, “Grice e Vignoli” – “La etologia filosofica di Grice e Vignoli” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria. Vignoli.

 

Luigi Speranza -- Grice e Vinadio: la ragione conversazionale della prassi e del valore – la scuola di Torino – filosofia torinese – filosofia piemontese -- filosofia italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Torino). Filosofo torinese. Filosofo piemontese. Filosofo italiano. Torino, Piemonte. Grice: “Of course, Vinadio is bound to be a good dialectician, since Italian neo-idealists take Hegel’s Dialektik – or colloquenza, as the count prefers – much more seriously than the most Hegelian of Oxonians! (And I don’t mean Bradley!”) --  Grice: “I like Vinadio; but then I’m English and we like an earl!” – “My favourite of his tracts is the one about dialettica which he understood just as Plato did, only better!” -- Felice Balbo di Venadio, conte di Venadio, vide, “Il conte di Vinadio” --. Considerato una delle voci più significative della filosofia italiana e un intellettuale impegnato in un vasto progetto di ri-fondazione della filosofia politica nell'immediato secondo dopoguerra. Figlio di Enrico Balbo di V., naque in via Bogino, nel palazzo che e del conte Cesare Balbo di V., ministro di casa Savoia. Dopo la laurea, partecipa alla seconda guerra mondiale, prima come sottufficiale degll’apini, poi come membro della resistenza. Come consulente d’Einaudi cura una collana di filosofia. Insegna filosofia a Roma. Si raccolge attorno a lui un gruppo di filosofi per discutere sulla crisi dei valori nella società e sui modi di superarla mediante l'impegno sociale. Il suo impegno trova espressione inoltre con i contributi alle riviste “Cultura e realtà” e “Terza generazione”. Vicino all’organizzazioni della sinistra e al partito comunista, comprende come il mutamento centrale della società e avvenuto nel rapporto tra lavoro umano e tecnica. Assunto all'IRI presso il Servizio problemi del lavoro. Si interessa di formazione del personale. Direttore del Centro IRI per lo studio delle funzioni direttive aziendali. Saggi: “L'uomo senza miti”; “Il laboratorio dell'uomo”; “Studi in memoria di SOLARI [vide] dei discepoli” (Torino, Ramella); “La sfida storica del comunismo al cristianesimo e le sue conseguenze filosofiche” (Mulino); “Idee per una filosofia dello sviluppo umano” (Torino, Boringhieri); “Opere” (Torino, Boringhieri)’ “Essere e progresso”; “Lezioni di etica” (Roma, Lavoro); “Lettere a Ludovica”; Archinto. Boringhieri, “Per un umanesimo scientifico. Storia di libri, di mio padre e di noi” (Torino, Einaudi); Cavalieri, “Scienza economica e umanesimo positivo. la critica della ragione economica” (Milano, Angeli); Tassani, “La Terza Generazione: tra stato e rivoluzione” (Roma, Lavoro); Tassani, “Lezioni di etica” (Roma, Lavoro); Invitto, “Una filosofia pragmatica dello sviluppo” (Mulino, Bologna); Invitto, “Di fronte a fenomenologia ed esistenzialismo” (Salentina, Lecce); Invitto, “Una questione aperta, "Italia contemporanea", Dizionario storico del movimento cattolico in Italia: i protagonisti” (Marietti, Torino); Grotti (Boringhieri, Torino); Grotti, “Un altro futuro è possible” (Egeria); Possenti, “La filosofia dell'essere” (Vita e Pensiero, Milano); “Tra filosofia e società” (Angeli, Milano); Invitto, “Il superamento delle ideologie” (Roma, Studium); Ricci, “Cattolici e marxismo: filosofia e politica” (Milano, Angeli); Dal marxismo ad economia umana” (Brescia, Morcelliana); “La prassi e il valore: la filosofia dell'essere” (Roma, Aracne); “Il cristianesimo nella sfida della “modernità” su storia e futuro” -Dizionario biografico degl’italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Filosofi italiani Insegnanti italiani Professore. INVITTO Le idee di V. Una filosofia pragmatica dello sviluppo, IL MULINO, L'istanza manageriale. L'uscita dal PCI non determina l'ingresso di V. in schieramenti alternativi, ma lo porta ad assumere una azione di fiancheggiamento, di compagno di strada per alcune forze interne allo schieramento cattolico, in chiara antitesi alla linea degasperiana 1. Nel '51 è Dossetti ad avvicinarsi a Balbo e a subire la sua in fluenza e nel senso della visione della « catastrofe  del sistema e nel rifiuto delle tesi maritainiane, fino ad allora costante ideologica degli intellettuali cattolici di sinistra 2. L'accostamento Dossetti-V. è stato importante in quanto, nel momento della dissoluzione del gruppo dossettiano, il suo leader, ma solo per una breve stagione, ha pensato di poter avere nel pensiero balbiano una integrazione teorica. Ben presto t Non ritengo di condividere nella sostanza quanto afferma Giura Longo. V., invece di Rodano, segui altre strade, giungendo a farsi ispiratore di un gruppo di intellettuali democristiani, attraverso la rivista Terza generazione 'che ha dato qualche contributo (si pensi ad un Morlino) sul piano dell'impegno politico dell'attuale gruppo dirigente democristiano (La sinistra cattolica in Italia. Dal dopoguerra al Referendum Storia documentaria, cur. Giura Longo, Bari). teli sembra che sia, piuttosto, un gruppo di intellettuali cattolici, anche impegnati nella D.C., ad interessarsi al pensiero di Balbo (che allora era ad una chiara svolta) ed a tentare di annetterlo e di mutuarlo. G. Baget-Bozzo. Nel convegno di Merano dei giovani democristiani, la mediazione del pensiero di Balbo, portata da Baget-Bozzo,  consenti di ristabilire alla dirigenza giovanile DC quell'unità di linguaggio che lo scioglimento del dossettismo aveva posto in crisi. La presenza in politica dei cattolici ` in quanto tali ' era giustificata dal fatto che la Chiesa aveva conservato la filosofia perenne e, quindi, il principio della ripresa culturale e civile . Si ebbe, cosí, il superamento del maritainismo portato da Lazzati. 3 Se  Cronache Sociali  si era interessata a Balbo (cfr. A. Romanò, op. cit.; S. Lombardini scrive che Dossetti  personalmente ancora nel 1945 ebbe occasione di esprimere [a Padre Stefano Bianchi] simpatie per la sinistra cristiana) anche i cattolici-comunisti si erano 139  Dalla rivoluzione alla collaborazione inventiva Dossetti si accorge che il tentativo di filtrare i suoi motivi attraverso quelli balbiani non può avvenire per una nainteressati alla rivista di Dossetti (Pombeni, Le  Cronache Sociali  di Dossetti, cit., 161, 225, 231). Anzi possiamo dire che, soprattutto con La Pira, c'erano stati accostamenti (A. Ossicini, a nome del gruppo Roma-Sud di Azione Cattolica, aveva evidenziato a La Pira  l'urgenza di un impegno diretto nell'azione politica, e La Pira ammise che questo era necessario, anche se le forme di esso era difficile prevederle e prospettarle. Rispose esplicitamente: ` Fate; comunque, qualcosa uscirà ' ; A. Cuccchiari). Il futuro sindaco di Firenze prenderà le distanze  ideologiche  necessarie, criticando i cattolici-comunisti, perché, secondo lui, il materialismo dialettico è  causa  del materialismo storico:  Ora l'effetto non è mai separabile dalla causa  (G. La Pira, Premesse della politica, Firenze; riportato da L. Fiorillo, Il fondamenti teorici dell'impegno politico di Giorgio La Pira, in Novecento minore). Anche su  Cultura e realtà  era stato un dibattito sul dossettismo, attraverso un intervento di F. Rodano (l'articolo, Laicismo e Azione cattolica in Italia, è però firmato da Novacco) e una risposta di Baget-Bonzo (cfr. G. Baget-Bozzo). Secondo Possenti la diversità fra V. e Dossetti è costituita dal fatto che, mentre il torinese  manteneva aperta la possibilità di una azione civile sulla base di una cultura rinnovata , Dossetti si stava volgendo verso la tesi della estraneità del cristiano al civile e verso una visione  panmonastica. Mi sembra, invece, che anche la concezione di Dossetti monaco recuperi il civile in una sfera più alta. Infine, ricordo a titolo di testimonianza che Giuseppe Dossetti, in uno scambio di battute avute con me a Bologna, mi diceva che a V. era stato legato da profondo affetto e che V.  era stato molto importante in un certo periodo de lla sua vita . Ciò non toglie la differenza di temperamento, di cultura, di problematica tra i due; differenze che sembrano determinanti a chi ha avuto lunga consuetudine con entrambi (mi riferisco a quanto mi dicevano Marcella e Giuseppe Glisenti). 4 Due storici della sinistra cattolica italiana, pur partendo da presupposti storiografici diversissimi, hanno notato che l'accostamento fra Dossetti e Balbo (che avrebbero avuto come comune  preoccupazione apologetica  quella di inserire la Chiesa fra le masse operaie, anche se proponendo vie alternative; cfr. L. Bedeschi, La sinistra cristiana ecc.) non è casuale nelle motivazioni, né nel tempo in cui é avvenuto. Scrive Campanini:  Infatti, sembra consumarsi l'illusione, comune e insieme diversa, di V. e di Dossetti. La prima, quella di condizionare dall'interno il partito comunista italiano e di potere operare in esso come cattolici; la seconda, quella di condizionare dall'interno la Democrazia Cristiana e di spostarla nel suo complesso a sinistra. L'uscita di V. dal PC e di Dossetti dalla DC appaiono cosí in un certo senso il segno emblematico de lla conclusione di questa vicenda  (Campanini, Fede e politica). Lo stesso Campanini ricorda che nel '51 (al congresso dell'UCIIM tenuto a Camaldoli nel-140 tura diversa dei due pensieri: da una parte Balbo ribadisce il primato della tecnica filosofica, dall'altra Dossetti è fermo al primato della prassi, mistica o politica 5.In questa forma di gramscismo balbiano (gli intellettuali forza trainante nella prassi politica) è da ritrovare una chiara eredità della  corrente Politecnico , relativa al concetto di  eccedenza  della cultura sulla politica 6. All'interno della cultura cattolica la posizione di Balbo era di assoluta novità non tanto perché si contrapponeva ai due integralismi in auge: quello di destra geddiano, quello di sinistra, dossettiano, come è stato molto  schematicamente  definito '. La novità è costituita da lla pregnanza filo-l'agosto), Dossetti svolse una relazione che  si può considerare il suo testamento politico . In essa, parlò del fascismo come  autobiografia della nazione  e  sbocco inevitabile del liberalismo , evidenziando l'accostamento ad alcune tesi portate avanti in quegli stessi anni da V. Da testimonianze indirette, si sa che l'ultimo Dossetti, per intenderci il.monaco che vive a Gerico, insiste nelle sue prediche sulla situazione di  catastrofe  della civiltà occidentale. Anche questo concetto, tipicamente balbiano, può essere stato acquisito da Dossetti nel periodo del loro avvicinamento. È utile aggiungere, però, che già nel gruppo dossettiano era presente il tema dell' apocalittica dell'ora decisiva  (che Pombeni riconduce a un clima generale nell'Europa post-bellica; cfr. Il  dossettismo). Il tentativo di Dossetti avvenne. Sul fallimento di questa mossa, scrive Baget-Bozzo:  Probabilmente le tesi di V. gli [a Dossetti] apparvero troppo esclusivamente filosofiche ed intellettuali: una causalità assoluta e primaria della filosofia sullo sviluppo storico non era facile da accettarsi per una persona cosí legata alla concretezza dell'agire. Aveva scritto vittorini a Togliatti che la cultura che si adegua alle masse è politica, ed è cultura quella che si impegna nella ricerca:  Ma se tutta la cultura diventa politica, e si ferma su tutta la linea, e non vi è pii ricerca da nessuna parte, addio  (Politica e cultura, cit.).7 L'accusa di  integralismo  di sinistra a Dossetti è di A. Del Noce (Genesi e significato ecc.) ed è confutata da G. Baget-Bozzo con argomenti definitivi. Anche Pombeni prende chiara posizione contro l'ipotetico integralismo di Dossetti, aggiungendo che quasi sempre il termine si usa in maniera imprecisa e generica (Il  dossettismo ). A proposito del termine  integralismo , spesso usato phi per evitare un giudizio che non per esprimerlo in concreto, mi viene in mente ciò che V. ha scritto sul termine  borghese  e sul suo uso. Oggi si chiama da alcuni ` borghese ' tutto quello che si vuol respingere. Borghese ha soltanto piú un significato negativo, è un segno non posto di fronte a un qualunque sostantivo, e quindi privo totalmente di contenuto (V., Politica e cultura, Torino. L'istanza manageriale141 Dalla rivoluzione alla collaborazione inventivasofica della proposta di V., che non si limita ad operare all'interno delle masse cattoliche organizzate, ma, delineando un profilo della crisi umana del Novecento, ripropone un ribaltamento anzitutto del progetto filosofico, come ritorno al senso comune e, quindi, l'opzione per una via pragmatica ed anti-utopica allo sviluppo.In questa rifondazione filosofica ci si è chiesto quale sia stata la prospettiva dominante: se quella di Maritain o quella di Mounier. Del Noce dice che la sinistra cristiana dimostra la sua simpatia prima per Maritain, poi per Teilhard de Chardin, ma aggiunge che il vero iniziatore della sinistra cristiana è stato Mounier (che sta a Maritain, come Gobetti sta a Croce) s. Ora bisogna dire che per Noce, Mounier è di molto inferiore a Maritain, e V. avrebbe di fatto incoraggiato la diffusione del suo pensiero in Italia 9. Questo è vero solo in parte in quanto il pensiero di Mounier, assolutamente assente dagli scritti di V., è invece reperibile in esperienze culturali diverse da  Il Politecnico  a  Cronache sociali. Comunque l'accostamento alla cattolicità ufficiale vede da parte di questa un tentativo di  catturare  V. e di aiutarlo finanziariamente per un programma di elaborazione di una  scienza dello sviluppo. Il programma, che impegnerà V. è  basato su un gruppo di ricercatori di filosofia e di scienze sociali 1`. La suddiCfr. Noce, Pensiero cristiano e comunismo ecc. L'interesse [fu] portato sul tanto inferiore Mounier, in cui tutto c`, veramente esplicito, senza germe alcuno che abbia bisogno di maturare; col che non intendo dire che V. abbia incoraggiato volontariamente la fortuna italiana di Mounier, ma che contribuí, per l'abbandono dell'aspetto filosofico-politico del pensiero di Maritain, allo spostamento di interesse verso la sua opera  (Noce, Genesi e significato ecc.). Su  Il Politecnico  appare un articolo di E. Mounier, Agonia del Cristianesimo (il termine agonia  è preso d’Unamuno), con presentazione di Fortini (Fr. F.). Su  Cronache Sociali  c'è una intervista a Mounier; nel 1951 appaiono due articoli di Scoppola, uno sul filosofo francese ed uno su  Esprit  (n. 9). Questa linea si affianca a quella maritainiana di Lazzati.11 C. Leonarcli dice che tramite per il finanziamento fu L. Gedda La suddivisione fatta da V. era in cinque settori che corrisponvisione rappresenta i settori nei quali la crisi è avvenuta in maniera globale, e attraverso i quali una ripresa  rivoluzionaria  può avvenire. Non è, però, assolutamente il caso di gonfiare l'espediente dei gruppi (che era piú una metodologia) a sistema. Il pensiero, l'impegno di V. non si risolvono nei  quintetti . La crisi è per lui caduta di un rapporto di funzioni nell'ambito del sistema sociale globale: il sistema teoretico deve svolgere funzione di rinnovamento, il sistema etico ha funzione di sviluppo, quello economico la funzione di innovazione, quello politico la funzione di movimento, í1 sistema giuridico-statuale la funzione di conservazione 13. Sulla base di questi schemi ideali (che qualcuno definirà utopici) si svilupperà una nuova iniziativa-esperienza-tentativo cui partecipa V.:  Terza generazione . Il gruppo balbiano cerca di conservare una  propria rilevanza pubblica  inserendosi nell'ideazione di questa rivista mensile. Si è parlato molto, ma si è scritto un po' di meno su  Terza generazione . Anzitutto c'è da definire il rapporto con il degasperismo nell'indirizzo della rivista. Sappiamo già come il distacco tra V. e il PCI non colmi la diffidenza e il rifiuto di Balbo nei confronti de lle tesi degasperiane. D'altra parte è appurato l'aiuto finanziario dato da De Gasperi a lla rivista, ma meno noto è il disinteresse pratico dello statista per  Terza generazione. La nascita della rivista non fu ritenuta underebbero a cinque scienze autonome: diritto, economia, sociologia, morale e politica. Responsabili dei gruppi erano: C. Napoleoni, M. Motta, G. Sebregondi, U. Scassellati, N. Novacco (cfr. Leonardi, e le Note biografiche in V., Opere). Baget-Bozzo. Confrontando lo schema proposto da Leonardi e quello proposto da Baget-Bozzo, troviamo l'assimilazione tra momento sociologico e momento teoretico (cfr. Leonardi).14 Cfr. anche G. Baget-Bozzo Leonardi, che fu redattore nella rivista nella seconda fase, in una conversazione con chi scrive, nel novembre 1975, diceva che De Gasperi finanziò la rivista, ma che probabilmente non l'ha mai letta. L'interesse di Gasperi per l'iniziativa era stato sollecitato da padre Delbono ( Leonardi; l'autore riprende L. Garruccio (pseud. di L. Incisa di Camcrana), La politica era tuttoL'istanza manageriale Dalla rivoluzione collaborazione inventivafatte r, strutturale  ma una iniziativa  congiunturale , derivata dalle elezioni, per lo meno a quanto dice uno dei suoi responsabili ', ma ebbe ambizioni  strutturali  e di rifondazione ideologica. Ciccardini, nel ricostruirsi le fonti, integra le nutrici balbiane de  Il Politecnico  con alcuni autori cattolici i-`, ma riafferma la congiuntura catastrofica della realtà 's. V., nell'unico suo scritto sulla rivista, puntualizza il senso della crisi come crisi del modello di autosufficienza dell'individuo che andava dalla Grecia a Mara ', e il riconoscimento del fallimento di tutta la storia 0. La via che Balbo e  Terza generazione  cercano di perseguire e però una via assolutamente nuova rispetto a quelle tentate da lle altre forzepolitiche, culturali, economiche: la proposta di una diversa classe manageriale.La nuova dirigenza, scrive V. a Ciccardini, deve reggersi sul piano dell'invenzione e non su quello dello sfruttamento delle doti naturali;  dirigenze sociali  di nuovo tipo faranno salvi gli indici intellettuali, morali e tecnici dell'intera soviet ì 2t. La dirigenza sociale proposta(Cronache d’una generazione), in  L'Europa). to Cfr. Lelnardi. Eleggemmo a nostri maestri Maritain e Ferrero, Mounier, Dorso, Sturzo, Giobetti e Gramsci : Ciccardini, L.: politica: era tutto, in  Terza generazione , num. di presentazione, V. Scrive. Dobbiamo rifarci essenzialmente ai nomi di Gobetti e di Dorso e di Gramsci (Cultura anti-fascista). is  Se non appare unsi soluzione. 1a nostri so ìer ì si :ivvi:i :alla disgregazione ed alla catastrofe  (Ciecirdini).t^ Cfr. F. Balbo, Le soluzioni stanno ogi davanti a noi, in  Terza generazione , num. di presentazione; ora in Opere. V. scrivcral in seguito: Comprendendo la verit:t di Mari si viene a riconoscere la fine dell'epoca moderna e il fallimento di tutta la storia fino ad oggi se non si origini uno nuovi storta a livello superiore ; in Per la rilevazione e l,: critica delle: scoperta essenziale d MMfart, in Studi in memoria di Solari, Torino; orsin Opere. Cfr. Le soluzioni stanno oggi davanti a noi. Questi originale identificazione trai imprenditore cd intellettualeun° degli spunti pití interessanti della proposta bailbiana. intatti, anche questo il periodo in cui V. tentava a Torino il  Centro dì relazionc  c sperimentava in Irpinia. assieme ad altri ricercatori, tipi cui Achille Ardigò, un nuovo modo di impostare l'iniziativa agri olai. Quel144 da V. è qualcosa di diverso dall'operatore privato e dall'operatore pubblico, in tal senso è qualcosa di pii dell'imprenditore di tipo gobettiano, che è sempre l'operatore privato anche . se aperto all'uso sociale dei suoi beni 2. Ciò che sollecita questa proposta ultimativa è, ancora una volta, la coscienza di una  crisi finale  del sistema storico-sociale dominante, cioè quello illuministicodemocratico o individualistico che ha incluso e raggiunto ogni altro sistema. E come sistema individualistico, V. pone anche quello comunista per la sua  originaria e íneliminabile ispirazione anarchica. In questo senso,  Ter-za generazione  nasce dal crollo della generazione precedente, quella resistenziale e antifascista. C'è l'illusione nei giovani redattori de lla rivista di superare la generazione che  aveva dato vita al Politecnico a Cronache Sociali ad Iniziativa Socialista. Invece, per certi versi, esiste una palese continuità tra questi fatti culturali e, addirittura, alcune impostazioni redazionali di  Terza generazione  ricordano esplicitamente la rivista vittoriniana. L'ambiguità unanimistica del nuovo tentativo è chia-periodo é ricordato come quello dei  pomodori .Tutto ciò ci dice la fondatezza delle motivazioni di chi ha respintoun appiattimento teoreticistico del pensiero balbiano (P. Pratesi, Lafilosofia di F. Balbo, in  L'Avvenire d'Italia, contro l'in-terpretazione di Del Noce).È anche questo il caso di Penati che, però, critica il ridimensiona-mento balbiano della teoresi (cfr. Penati, rec. Idee, in  Rivista di Fil. neoscolastica Gobetti parla di imprenditori nuovi ( i soli che abbiano diritto a chiamarsi borghesi nel senso economico della parola ) all'interno di un sistema capitalistico del quale però sia possibile un esito socialista ( Il socialismo è conquista da parte del proletariato di una relativa indispensabile autonomia economica e l'aspirazione delle masse ad affermarsi nella storia. Anche il nostro liberalismo è socialista se si accetta il bilancio del marxismo e del socialismo da noi offerto pii volte. Basta che si accetti il principio che tutte le libertà sono solidali ). I brani sono presi, rispettivamente, da Storia dei comunisti torinesi scritta da un liberale, in  La Rivoluzione Liberale; ora in Gobetti, Scritti politici; e da Liberalismo socialista, in  La Rivoluzione Liberale, nota non firmata a un articolo di C. Rosselli; ora in Scritti politici. Sull'ultimo brano, v. pure L. Valiani, Gobetti, uno dei nostri, in  L'Espresso. Le soluzioni stanno oggi davanti a noi. u B. Ciccardini. L'istanza manageriale145 Dalla rivoluzione alla collaborazione inventivaramente enunciato da Leonardi quando parla di richiami per la sinistra e per la destra (per la prima era determinante il carattere  utopico  della proposta di V., per la seconda il superamento di fascismo e antifascismoribadito da Scassellati). Naturalmente la critica successiva ha privilegiato una categoria o l'altra. Comunque non dovrebbe esser messa più in discussione la  leadersbip  di V. sul gruppo 27, anche se si tratta di un primato p1625 Leonardi. Alla discussione intorno alla ipotesi di una sostanziale utopia del pensiero balbiano è dedicato il quinto capitolo di questa seconda parte. Leonardi ci presenta la storia delle interpretazioni di Terza generazione come fatto di destra. Ricorda gli articoli di Panorama (Cinque per cinque; J profeti armati) dove si parla del gruppo di Terza generazione come di un gruppo che stava preparando una svolta totalitaria di destra in Italia . Ricorda pure un articolo su Astrolabio , a cui risponde A. Paci, con la lettera Un discepolo di V., ioi. Anche Parri risponde su Astrolabio. Se Lotta Continua definisce V. un cretino (cfr. Leonardi), Giura Longa ba visto nella rivista inquinamenti di carattere reazionario Giura Longo. Pregiudizi partitici? Autosuggestioni? di si, se un intellettuale come N. Bobbio ha parlato di Terza generazione come di un gruppo avanzato che ha gli occhi sulle cose del nostro paese  (Cultura ueccbia e politica nuova, in II Mulino; ora in V., Politica e cultura). un giornalista-scrittore, che ha la destra politica ineccess,ivJ 'lU!]'alla, ha scritto di V.: in Francia o in o anche income un rivoluzionario culturale in sensoNonscrittodoveconosce (G. F. in alcune sociali e dice che le Einaudi) .i fosse vissuto, poniamo, sarebbe oggi riconosciuto un paese cattolico. odierno che V. non abbia affrontato: chiunque abbiaultimi trent'anni, pertra la società politica, se non rio improvvisa fa cadere l'autore i cattolici comunisti con i cristianodi V. sono state pubblicate dastoriche. È sempre Leonardi a riportare la critica. Lo stesso Ciugni, che dala prospettiva umanistica che costituiscebalbiano (Giugnì dice che deveduttivo ma l'iniziativaun ordine capace di garantiresioni ; in J m i t i in cui abbiamone , num. di present.). Inè presentata in maniera piti scopertaper l'organizzazione della cultura, in  Terza generazione , I, n. 2, no-146 del punto (op. cit., socialista, assume nodale del discorso non solo il lavoro proI'invcnzione creativa umana in tutte le sue dimenii Terza generazio-l'Ipotesi balbiana immediata (cfr Paci, Appunti di fatto, che non per decisione esplicita,L'ipotesi chiave è la situazione di zero alla partenza , a cui esser fedeli senza guardare il passato, sicuri che non tutto è politica, come afferma V. 28, e come dice Cìccardini nell'editoriale di presentazione 29, Ma la situazione di  zero alla partenza e il rifiuto del totus politicus erano già de  Il Politecnico , sulla linea, anche in ciò, di un involontario crocianesimo, La rivista entra, però, in serie contraddizioni. La esperienza di Scassellati alla direzione mette in crisi lo stesso V. perché, secondo Leonardi, aveva dimostrato il carattere utopico di fondo del suo pensiero che era in grado di mobilitare delle forze, ma non di soddisfarle, Con l'avvento della linea di Claudio Leonardi, abbiamo una ulteriore contraddizione formale ed esplicita con lo schema balbiano, in quanto il neo responsabile privilegia il momento morale, rispetto alle altre tecniche 32, Se V. non accetta la posizione politica divernbre. Chi, tra gli altri, ha sostenuto la tesi della egemonia culturale di V. su Terza generazione è stata la Buongiorno Veroi che afferma essere stato V. il vero animatore della rivista (cfr. T. Buongiorno Veroi, Terza generazione , in Il Veltro , La stessa fa dipendere la fine della rivista da una autonoma decisione di V., dopo una riunione ristretta in cui il filosofo avrebbe fatto l'autocritica per l'errore pelagiano in cui si era caduti. Cfr. Le soluzioni stanno oggi davanti a noi, Ciccardini, op. cit., tra l'altro dice: Ma la politica era tutto: morale e rivoluzione, speranze e novità d'esperienze, conservazione e poesia. Era un fatto molto vitale in cui ciascuno cercava la sua parte e vi si trovava a suo agio, La polemica di Vittorini con Togliatti era basata, come si è già ricordato, sul rifiuto di una concezione della cultura come realtà totale. Poco prima della polemica in questione, Croce scrive a Togliatti: lo ripugno a diventare toius politicus come (e non la invidio perché talvolta penso che debba soffrirne) è Lei in ogni Suo gesto e parola (la lettera è pubblicata in Rinascita Garin, nel commentare il brano, aggiunge che, però, Croce è  semper politicus (cfr. Intellettuali italiani). Leonardi. È dunque il fatto stesso di porci il problema dello sviluppo che ci obbliga immediatamente a porre il problema della moralità ; Leonardi, La questione prcgiudiziale, in Terza generazione  Dalla rivoluzione alla collaborazione inventivaScassellati, non accetta neanche quella di Baget o di nardi, che vede legati a prospettive integralistiche 33. Cosi muore questo tentativo culturale, lasciando però, anche qui, qualche eredità balbiana. L'uomo cerca una sua collocazione precisa, degli strumenti adeguati alla realizzazione delle sue intuizioni speculative, un modo nuovo di essere intellettuale, o meglio, di essere un filosofo non intellettuale. Si presentano, su questa linea, due avvenimenti-svolta nell'esistenza di V.: gli ultimi significativi fatti che, rappresentando dei momenti di professionalità, sono anche due nuovi modi di dimostrare una nuova figura di filosofo. Mi riferisco alla assunzione di Balbo presso l'IRI, per il settore  Problemi del lavoro e all'incarico di Filosofia Morale avuto al Magistero di Roma. Comincia cosi a lavorare come  l'altra gente 35. Se l'insegnamento universitario gli permet-33  Per il filosofo torinese, infatti, la dimensione ecclesiale era una condizione personale del ricercatore, che non poteva mai intervenire direttamente nel discorso storico ; Baget-Bozzo. Se l'inizio di Terza generazione era stato possibile anche grazie al sostegno economico di De Gasperi, la fine della rivista si ebbe un mese dopo la morte dello statista (con il n. 12, del settembre 1954). Ma neanche qui esiste un rapporto di causalità fra i due fatti. La rivista fu chiusa dopo varie riunioni indette da Balbo e dal suo gruppo rivoluzionario (cfr. Leonardi, Terza generazione ecc.); il filosofo torinese accusò il gruppo redazionale di eresia  semi-pelagiana  (con un termine dossettiano); Lconardi, invece, vede nel fallimento della rivista il limite dell'esperienza pluri-idcologica di V.; la velleità di partire da zero ingenerava componenti moralistiche e attivistiche [Leonardi intuisce, senza il nucleo pragmatico del pensiero di Balbo?], e dunque nuove. Una eredità di questa esperienza rimane anche in Baget-Bozzo, che in essa rappresentava di fatto l'alternativa teorica all'impostazione di V.. Dice il teologo genovese che nel periodo della rivista  L'Ordine civile egli risente delle posizioni culturali che lo hanno influenzato: il dossettisrno, Terza generazione V.( la nozione della crisi della civiltà e della necessità di nuove forme di pensiero e di azione autonome dallo Stato come condizione per la stessa ripresa dell'azione dello Stato; Baget-Bozzo, I l partito cristiano e l'apertura a sinistra La DC di Fanfani e di Moro, Firenze Scrive Ginzburg: V. andò a vivere a Roma, e lasciò la casa editrice. Poi annaspò per anni fra progetti assurdi ed errori. Infine ebbe un vero lavoro. Imparò a lavorare come l'altra gente te di approfondire alcune tematiche interne ai suoi interessi etico-politici, l'impegno all'IRI, accettato per necessità, lo porta a non considerarsi un intellettuale in senso classico in quanto rifiuta, come nota Baget, un compito legato solo alla parola, che è strumento di mistificazione 38, Nel frattempo il suo discorso tende a mettere in luce, ancora una volta, sotto prospettive diverse, la novità di Marx, ma anche i suoi sotismi. La premessa metodologica che Balbo ritiene indispensabile è riconoscere come imprescindibile necessità teorica e pratica quella di un  integrale ricominciamento storico dalla filosofia alle istituzioni 39, Sempre sulla linea di un marxismo italiano che privilegia i Manoscritti (vedi Volpe), il pen[Argomenti dei corsi universitari di V. sono quelli della urnanizzazione dell'uomo nella moderna civiltà industriale, della proprietà privata e del bene comune, del problema dell'utopia di K. Mannheim e S. Weil, il problema del diritto naturale in L. Strauss, la crisi dei valori in M. Scheler (cfr. Note biografiche). Il metodo d'insegnamento seguito da V. consisteva nel prendere spunto da fatti realmente accaduti e da questi risalire a considerazioni teoriche.37 Il dover lavorare alle dipendenze dello Stato non fu una scelta di comodo per V., ma, come testimoniano le persone a lui più vicine, gli fu imposto dalla necessità di dover vivere (problema che prima non si era mai posto in termini concreti). Pertanto ci sembrano OlLllJLLUX:, su tale argomento, le critiche  teoreticistiche  di Lconardi a intoppo esistenziale del filosofo ( Il sistema obiettivamente moralmente più forte. Ci pare che la presenza di V. nell'Llc.L, che iniziò poco dopo, come la sua ultima produzione siano lemeno significative della sua attività, e rappresentinovistoso del suo limite laicistico ; Terza generazione  ecc"). Più aderente alla realtà, nei suoi toni l'intuizionechi afferma che V. spari nel gorgo, e diversi anni pni tardi morf, ingoiato da una professione di prestigio certote accettato con la rassegnazione implicita in casi (G. F.). Mi piace ripetere ora una affermazione di Pombeni: l~ malsano tentare interpretazioni del dossetìisrno traendo spunto dalle tuali vicende dei suoi personaggi (Il dossettismo ecc.), È un invito a non mescolare le carte e i piani del discorso ed è premessa indispensabile per ogni metodologia corretta,38 Cfr. G. Baget-Bozzo, Il partito cristiano al potere, Per la rilevazione e la critica ecc. su'questo tema Duso, Il nodo Hegel-Marx nel dibattitodel '48, in Gli intellettuali in trincea. Pavese ci parla di orrore di Balbo e del gruppo romano, quandoin una riunione della Einaudi, egli aveva proposto la pubblicazione delL'istanza manaueriaie Dalla rivoluzione alla collaborazione inventivasatore torinese coglie la verità filosofica fondamentale del marxismo-leninismo nel vedere come le idee, i comportamenti e le manifestazioni dell'uomo, in quanto prodotti,41.Mediando certi temi del marxismo con le istanze della43,Il limite del marxismo, limite teorico-pratico, è individuabile nel concetto di sintesi, come fine o soppressione semplice della proprietà privata. In questo modo non si arriva, secondo V., al superamento ma alla disgregazione; un reale processo dialettico non dovrebbe comportare una oppressione positiva della proprietà privata, ma una forma superiore del sistema di appropriazione,  deve essere la nascita di istituzioni superanti (ossia superiori sistematicamente) il nostro attuale sistema istituzionale  45.Capitale,  estravagante , in una collana assieme alla Bibbia e a Mille Volevano linciarmi  (lettera ad Einaudi eunanote:, in Lettere). Cfr. Per la rilevazione e la critica ecc.. Balbo affermache la contraddizione del marxismo è stata centrata da Della Volpe, Del Noce e Löwith. Aggiunge che si rimane nell'apologia del marxismo anche in casi di  altissimo livello culturale , come in Gramsci e Lukàcs. É evidente che V. sta rivedendo il suo giudizio su Gramsci.  La forza-lavoro o pratica attività sensibile è indubbiamente il presupposto reale attivo (causa efficiente) della produzione come tale cosí come la natura ne è il presupposto reale passivo (causa materiale). Ma altrettanto indubbiamente non sono e non possono essere i presupposti reali di ogni ` modo particolare ' della produzione , escludendo cosí la peculiarità dell'uomo, cioè la produzione razionale come specifica. Si ricorda su ciò una polemica con Rodano. V. sarebbe, invece, piú vicino alla visione dell'antropologia culturale, secondo la quale ogni forma storico-culturale è un prodotto umano. Cfr. S. Moravia, La ragione nascosta ecc. Per la rilevazione e la critica ecc., sottostanno alle leggi della produzioneper V. costituisce il sofisma marxiano è il far coincidere ogni forma di produzione (anche quella razionale) con la attività pratica-sensibile, cadendo nel materialismo dialettico 42.antropologia culturalesuo complesso ciò che include tutta la storia umana, e ciò che misura la realizzazione della natura umana:  Dove c'è produzione c'è storia e realizzazione umana, dove non c'è produzione non c'è storia né realizzazione umana  44.150 V. vede nella produzione nelCiò che, invece, Infatti, l'eliminazione di uno dei termini dialettici non risolve la contraddizione e rappresenta, invece, elemento di corruzione della storia esistente, in quanto conserva all'infinito la contraddizione invece di superarla ` 6. Non si tratta piú di sopprimere istituzioni, ma di crearne altre nel quadro di una espansione organica totale. Quindi non si parla di fine dello Stato, ma  della nascita di nuove dirigenze dello sviluppo continuo della società  (l'istanza manageriale), non di fine della filosofia nella rivoluzione, ma di definitiva acquisizione della indispensabilità della47.filosofia come funzione socialequesta fase del suo pensiero, V. ha ormai raggiunto alcune linee abbastanza precise e nei confronti del marxismo (che non si tratta piú di integrare, ma di correggere), e anche nei confronti di un quadro globale delle istituzioni sociali: riaffermazione della proprietà privata, trasferita su un piano di solidarietà umana non adeguatamente definita, ripresa della proposta manageriale, corroborata da una nuova figura di filosofo. L'errore essenziale di Marx sarebbe di aver voluto impostare una problematica48, aristotelica  (o realistica) in termini hegelianirore che si accompagna alla verità delle domande poste da Marx, domande per le quali non esiste ancora, a livello storico, una filosofia adeguata. V. comunque dice che la via per rispondere esiste ed è l'assumere la posizione filosofica di Aristotele e di san Tommaso (non la loro filosofia, ma il loro punto di vista sul reale).In sostanza  da Marx in avanti, resta tutto da fare in teoria e in pratica. Marx, affossatore e vittima della dialettica hegeliana, annulla la dimensione creativa di V. afferma che Marx demistifica la dialettica hegeliana, manon la rifiuta; perciò il rovesciamento della prassi riduce il marxismo a  empirismo praticistico collettivistico . Sotto questo aspetto, gli ultimi scritti di Stalin (probabilmente il filosofo si riferisce alle trad. it. apparsc in quegli anni di Questioni di leninismo, Roma, e di Problemi economici del socialismo nell'URSS, Roma) rappresenterebbero  il tentativo di una specie di ' revisionismo pratico ' interno alL'istanza manageriale Come si può notare, inun erDalla rivoluzione alla collaborazione inventival'uomo; anche a certe interpretazioni pii disponibili per l'uomo non si può dar credito perché non sono conformi alla  norma base  della verità del sistema S 1. Una ripresa delle tesi umanistiche non può avvenire che come ripresa filosofica: una storia priva di filosofia  a livello storico  è quella storia disumana e catastrofica, dice V., che il marxismo ci ha svelato. Se prima la filosofia ha solo conosciuto o solo mutato la storia, ora si deve contemporaneamente conoscerla e mutarla S2.Il filosofo che deve conoscere e mutare il mondo non è in questo autosufficiente, ma deve strumentare i suoi interventi attraverso organismi intermedi. Quello su cui la riflessione e la funzione organizzativa di Balbo si appuntano maggiormente è il  gruppo di lavoro . Ogni elaborazione specifica è sempre inquadrata in una visione pití ampia e piú fondata teoricamente. V. afferma che il problema primario dell'ontogenesi sociale non è quello dello Stato o dell'assetto giuridico-economico della proprietà (come dice Marx), ma è quello della giusta forma so-ciale dei lavoro, cioè  il trascendimento effettivo del sistema sociale da parte della persona, senza evasione , cosa che Marx addirittura nega, sostanzializzando la realtà collettiva S3. Alla istanza etica di recupero dell'uomo va, pertanto, affiancata una tecnica adeguata, al pari di quan-marxismo e tendente ad impedire, o almeno a ritardare, le conseguenze ultime, tecnocratico-burocratiche, dell'essere teoretico tipico del marxismo ; (Per la rilevazione e la critica ecc.. V. si riferisce a Lenin e a Gramsci come elaboratori delle tesi  sull'umanità dell'uomo  all'interno del marxismo. Cfr. Il piccolo gruppo di lavoro e la sua funzione nella grande organizzazione, in Termine e concetto di Costume, Atti del Convegnolaboratorio del Centro Intern. delle Arti e dei Costume, Venezia (Brescia); ripubblicato in Rivista di Organizzazione aziendale; ora in V., Opere. Petrilli ricorda alcuni passi di V. relativi a lla pianificazione e al lavoro come ritrovamento dell'ordine  (Petrilli, Dal progresso alla crescita, in  Civiltà delle macchine).St  L'etica senza tecnica adeguata non vive, infatti, nella societ ì umana. Vive in alcuni momenti della vita degli individui, può risorgere continuamente e come intenzione pura. Ma, poichi. gli uomini non sono to è avvenuto in America (come fenomeno secondario e non primario). Infatti 11 vi è stata la scoperta  dell'umanità dell'uomo da parte della società industriale: è stata una scoperta empirica e sperimentale della non riducibilità dell'uomo a  fattore economico , attraverso nuovi modi di gestione del lavoro nell'industria S5. In questo orizzonte, ci deve essere una chiara collaborazione fra metodo sperimentale e metodo filosofico: ciò che si ottiene con l'uno, non si ottiene con l'altro, e viceversa. Il piccolo gruppo di lavoro diventa quindi il risultato di unaconvergenza tra istanze filosofiche, morali, manageriali:  Il piccolo gruppo umano e in particolare il piccolo gruppo di lavoro viene considerato oggi dagli scienziati, tecnologi ed educatori come una unità sociale primaria, avente realtà, proprietà e caratteri distinti da quelli dei singoli individui, che lo compongono  S'. Se il tecnicismo può essere liberato dai suoi vizi e dai suoi mali, questo, affermaangeli, non può esistere socialmente senza tecnica corrispondente e a livello tecnico dell'ambiente. Peggio, l'intenzione etica retta pub congiungersi con una porzione di ambiente tecnico opposto e determinare delle vere e proprie mostruosità sociali di cui la nostra epoca è ricca. V. si riferisce all'esperimento di Mayo alla Western Electric. L'esperimento in questione va con il nome di Hawthorne, perché ebbe luogo negli stabilimenti Hawthorne della Western Electric C., che si trovano a Cicero, alla periferia di Chicago. La sostanza dell'esperimento consiste nel tentativo di scoprire il rapporto tra il rendimento dell'operaio e le condizioni  umane  del lavoro. Il resoconto phi ampio di questo esperimento è nel vol. dei diretti esecutori Roethlisberger e Dickson, Management and the Worker, Boston; Cambridge, Mass. Si leggano pure Mayo, The human problems of an industrial civilization, New York; una sec. ed. è The social problems of an industrial civilization, Boston. Una buona esposizione è in Madge, Lo sviluppo dei metodi di ricerca empirica in sociologia, Bologna  -è una bibliografia de lla critica alla scuola di Mayo. Sugli stessi temi, ritornano gli scritti di Zaleznik, Christensen, Roethisberger, Motivazioni, produttività e soddisfazione nel lavoro, Bologna. Per un rifiuto globale delle human relations, e delle  comunità  di fabbrica come trappola ormai logora , Illuminati, Lavoro e rivoluzione, Milano. In particolare, dove l'autore vede Mayo inglobato nel taylorismo. Cfr. Il piccolo gruppo di lavoro ecc.. S7 l bick, L'istanza manageriale Dalla rivoluzione alla collaborazione inventiva V., può avvenire attraverso il piccolo gruppo di lavoro, diventato generatore delle norme etiche e tecniche della grande organizzazione, che può soltanto applicarle ".È un po' la critica allo Stato etico, ribaltata a livello di impresa industriale: a V. interessa tanto la umanità del lavoro, quanto la produttività dello stesso, privilegiando il primo momento rispetto al secondo che, invece, poteva essere pii presente nell'esperimento di Hawthorne. Quella balbiana è una ricerca di soluzione all'interno delle strutture malate: si tratta non di modificare il sistema, ma di giungere a forme pii umane di lavoro e quindi a una maggiore produttività. V. sembra essersi rassegnato al sistema capitalistico, non prospetta alternative strutturali, ma solo terapie per l'individuo e vede nel piccolo gruppo la nuova cellula in cui ogni realtà, ogni fatto della vita del gruppo, ogni elemento del suo lavoro può essere a portata diretta dei sensi, dell'intelligenza e del fare di ogni singolo componente E 0. In questo quadro si colloca il riemergere, nella filosofia di V., delle istanze antropologiche, il riesame delle possibilità storiche dell'uomo e una definizione ottimistica della vita terrena. Se si è parlato di pessimismo cristiano è stato per l'esperienza dello scarto tra la condizione umana di peccato .e il presentimento del possibile essere, mentre il pessimismo pagano è irreversibile in quanto parte dallo stato di decadenza e dalle perdite definitive dell'età dell'oro. II discorso di V. sembra riecheggiare il clima de  Il Politecnico , quando nota una reciproca universale necessità di ogni uomo per ogni uomo, in quanto in ogni uomo si sostanzia l'essere urnaV. afferma che la vita terrena è incoativa, quella ultraterrenaé perfettiva; ma aggiunge che questo non comporta una concezione  attesista  e una svalutazione della vita terrena (cfr. Il futuro e l'al di là, Note di ricerca metafisica sull'uomo, Archivio di Filosofia, Metafisica ed esperienza religiosa; poi in Idee per una filosofia dello sviluppo umano, I1 motivo dell'io umano onni-esistenziale  è unodei pii complessi all'interno del pensiero di V., inquanto ha matrici non bene definite o, al limite, può es-sere il minimo comune denominatore di fonti diverse,talvolta opposte.  Analizzando la mia esistenza intendodunque analizzare l'essere umano che è in me come inogni altro che ha la mia stessa natura: dalle letterepaoline, a Croce e Gentile, si trova tutto in questa defi-nizione, ma l'ancoraggio è costituito da una solida filosofia65.ritrovata mediante la ricerca e la dimostrazione razionale, mentre la nozione religiosa è dogmatica 6. Alla fine non possono, però, divergere e V. definisce l'uomo come o il poter essere sussistente  dal punto di vista dinamico, dell'azione pratica, della produttività. Una ripresa, ancora una volta puramente lessicale, di termini marceliani troviamo quando il pensatore torinese enuclea le categorie antropologiche e dice che l'uomo ha bisogno di essere, di avere e di dare; ma la categoria dell'avere è quella maggiormente rilevante, per una continuità ed integrazione anche a livello ontico. Direttamente legato I1 riferimento a lla rivista è, in questo caso, molto mediato. Infatti su  Il Politecnico  appare il brano di J. Donne, premesso ai romanzo di Hemingway, Per chi suona la campana, Milano. Sulla rivista di Vittorini è pubblicata la trad. a puntate, a cura di L. Foà e B. Zevi, con il titolo Per chi suonano le campane. Il brano di Donne è questo. Nessun uomo è un'Isola in sé compiuta; ogni uomo è un frammento del Continente, una parte del tutto; se il Mare inghiotte una zolla di terra, l'Europa ne è diminuita, come se quella zolla fosse un Promontorio, o la Casa dei tuoi amici o la tua propria; la morte di ogni uomo diminuisce me, perché io sono parte dell'Umanità. E cosí non mandar mai a chiedere per chi suonano le campane: suonano per te  (trad. de  Il Politecnico ). Idee per una filosofia dello sviluppo umano. Ferrarotti scrive. V. passa dall'io trascendentale de lla filosofia moderna all'io umano onni-esistenziale de lla filosofia dell'essere che in assoluta libertà di spirito, al di là degli schemi consueti del tomismo e della scolastica, si apprestava ad elaborare: una filosofia come attività. Cfr. Il futuro e l' al di la. L'uomo  ha bisogno di avere per affermare ed espandere l'esseredell'essere L'antropologia di V., a questo punto, è critica eL'istanza manageriale155 Dalla rivoluzione alla collaborazione inventivaa questa categoria antropologica è il lavoro, fatto metafisicamente costitutivo dell'uomo, tanto nella fase terrena  incoativa  quanto nella fase ultraterrena  perfettiva ; ma del  lavoro  necessario pure nella vita ultraterrena non possiamo dire niente se non per rivelazione divina. Attraverso il lavoro si attua quella integrazione con gli altri che è sintesi nuova e non somma di elementi; perciò V. dice che questa sintesi nuova è un dato reale cherende essenziale l'integrazione nella ricerca dell'umanità. È facile riscontrare in queste affermazioni, accanto alla teorizzazione dei molteplici gruppi costituiti nelle varie esperienze culturali di V., la sua nuova ipotesi di una filosofia costruibile in gruppo; cosí come, dal punto di vista manageriale, si può vedere una riproposta del piccologruppo come cellula nuova dell'organismo industriale da ristrutturare.Alla base di questa speculazione è oramai chiaramente individuabile l'impronta di una ontologia  leggibile  in termini aristotelico-tornisti, ma V. ricorda che i termini non glieli suggerisce la tradizione filosofica bensí  la fortissima vergine evidenza della verità  cui cerca di corrispondere Aveva detto la stessa cosa AQUINO a proposito de lle sue fonti Nell'ammettere un imporsi della verità attraverso la evidenza dei principi è ilche è secondo le potenze ad esso proprie. Ha bisogno di avere per continuare ad essere ciò che è e non morire. Ha anche bisogno di avere per essere ciò che non è ancora, ma che può essere La ripresa filosofica di V. è citata in questo senso anche da C. Napoleoni (cfr. L'enigma del valore, in  Rinascita , AQUINO (si veda) ha pii volte ripetuto che l'argomento dell'autorità è il pii debole (Summa Theol.; In Phys.); che la sapienza non procede propter auctoritatem dicentium, bensí propter rationem dictorum (Sup. I3oët. de Trinit.). Infine scrive. Studium philosophiæ non est ad hoc quod sciatur quid homines senserint, sect qualiter se habeat veritas rerum (De Coelo). Erroneamente SERTILLANGES (si veda)  (La filosofia d’AQUINO (si veda), Roma) traduce il qualiter con di sapere quello che han detto di vero, inquinando le intenzioni e il testo tomistici che eliminano la mediazione dei filosofi e dicono che occorre conoscere in che modo si abbia la veritil. tomismo di V., o, come preferisce dire il filosofo, il punto dove anche AQUINO (si veda) tocca la verità. Quindi tale AQUINISMO consiste, ora, nel tema della evidenza dei principi primi pratici, incorruttibile garanzia morale del potere dell'uomo sul futuro. Anzi V. rilegge la sua prima produzione proprio sotto il tema della sinderesi. Lo sguardo appuntato sulla funzione dell'uomo di cultura ci mostra ancora un Balbo in parte legato all'immagine dell'intellettuale che esce da lla Resistenza. Parla, infatti, di un intellettuale che  non deve appartenere a coloro che decidono, o che muovono le masse, ma a coloro che propongono, che sollecitano, che ideano e aprono nuove vie, che portano a verità l'opinione confusa e contraddittoria, che scoprono ed enunciano nuovi bisogni, nuovi doveri, che determinano, in una parola, il primo atto in ogni processo di umanizzazione degli uomini. L'autonomia, o  distinzione  dell'intellettuale nei confronti del politico, comporta un eroismo di preveggenza 7S, una priorità di mansioni (che nello sviluppo della speculazione balbiana si riaccostano sempre piú a tematiche crociane a livello di’auto-coscienza), e rischia di isolarlo in una casta, quando Balbo parla della necessità della vocazione, aggiungendo, però, che con questo Cfr. Il futuro e l'al di là. Nella nota V. afferma che L'uomo senza miti, malgrado le insufficienze e le oscillazioni, verte, in fondo, tutto sulla tematica della sinderesi . Come ho già chiarito prima, non è corretto parlare, a proposito del primo libro di V., di tomismo, inteso come ripresa diretta di teorie torniste, quanto piuttosto di una confluenza teorica tra la visione balbiana di un ripristino della evidenza e quella tomistica della sinderesi, cui solo dopo V. si avvicina chiaramente. La funzione dell'intellettuale L'intellettuale, per V., non deve avere il coraggio fisico delle armi, ma l'eroismo dei momenti non eroici:  La vedetta ha il suo momento eroico nel resistere al sonno delI'alba, quando gli altri dormono, e non nel darsi da fare con gli altri quando la nave è finita tra gli scogli. a Intellettuale [non è uno status sociologico], mi pare, è chi esprime con la parola, o manifesta con l'esempio dei valori universali nel tnomento storico, e cioè chi produce l'autocoscienza storica del suo tempo. L'istanza managcriale Dalla rivoluzione alla collaborazione inventivatermine non vuole indicare altro che una particolare capacità alla funzione, al compito intellettuale n. E che l'intellettuale abbia un primato nei confronti del politico è, per Balbo, evidenziato dal fatto che non è mai una struttura organizzativa a dare la giustizia sociale, ma l'ethos trasformato e sviluppato n.Il nodo che gli intellettuali italiani, ed europei in generale, si trovano a dover affrontare e risolvere, dopo la destalinizzazione in Russia, è quello di un possibile dilemma tra le istanze dell'individualismo liberale e que lle di un collettivismo che ha annullato tutta la sua potenzialità positiva nelle forme radicali del regime sovietico. V. afferma che il dilemma tra individualismo e collettivismo non si risolve scegliendo uno dei termini, ma superando la contraddizione  in una nuova realtà che include ciò che tutti i contrari includono e ciò che la loro contrarietà esclude ". Questo tema del superamento e del rifiuto di una logica dicotomica, inteso come somma dei valori positivi inclusi nelle tesi, ridimensiona il tema marxiano della lotta di classe che, se è vista come principio, può dare origine a una evasione permanente, o a una centralizzazione di tutto il potere in una classe, o in un gruppo, o in un individuo B0. Il rifiuto della lotta rivela nelle tesi di V. una sfiducia progressiva verso la dialettica politico-economica, ridefinisce la lotta come mezzo e non come principio perché in tal caso non dà origine  ad altra realtà che la lotta stessa. Questa Cfr. Note filosofiche sul problema della giustizia sociale, conf. tenuta a lla Fac. di Magistero di Roma, in u Atti della SOCIETÀ FILOSOFICA ROMANA; poi in Tesi filosofiche per lo sviluppo sociale, dispense redatte da V. o sul corso tenuto da lui alla Fac. di Magistero di Roma; ora in Opere. Il futuro e l'al di là. sa Cfr. Note filosofiche sul problema della giustizia sociale Ibidem. La teoria statuale di V. è ripresa in un convegno organizzato a Lucca dalla Democrazia Cristiana. In quella sede, G. De Rosa ricordò V., come un  profondo filosofo della nostra età  (cfr. Orfci, L'occupazione del potere, Milano, e G. Galli, Storia della Democrazia Cristiana, Bari polemica  strisciante  con le teorizzazioni marxiste della società borghese, come società essenzialmente conflittuale, è interna a tutta la revisione che Balbo ha operato della sua lettura del marxismo; revisione il cui punto centrale è costituito dallo spostamento di giudizio sulla ateologicit à che diventa ateismo e anti-religione marxista. Il pensatore torinese non rinunzia, però, ancora a rintracciare, oltre l'ateismo dichiarato,  un'orma di Dio  nel desiderio di giustizia presente nel marxismo s3Da una angolazione piú chiaramente po litica, l'ideologo della Sinistra Cristiana, che aveva fondato la scelta di classe anche per i cattolici, ora propone la collaborazione di classe come risultato di una certa lotta  che miri appunto all'equilibrio per integrazione di soggetti autentici di interessi e di poteri: si può considerare cioè che esista una lotta di classe che non cerca di sopprimere uno dei termini della lotta, che cerca anzi l'equilibrio effettivo dei termini e che quindi coincide con la collaborazione di classe. L'interclassismo era stato uno dei motivi teorici per cui non si era realizzata la fusione tra la  Sinistra giovanile cattolica  e il partito degasperiano nel '43Galli critica come  ovvietà tardoilluministiche  il concetto balbiano di Stato rappresentativo, gestito dai piú forti o dall'equilibrio dei gruppi phi forti: è questa, chiaramente, una banalizzazione del pensiero di V. sul superamento della lotta di classe). La stampa vedrà proprio nella riscoperta di Balbo l'aspetto phi interessante di quel convegno (cfr. M. Scarano, Affrontare la sfida, Il giorno). Cfr. Il futuro e l'al di la. Chiamo il desiderio di giustizia presupposto reale e non principale del COMMUNISMO, perché, mentre il COMMUNISMO non lo riconosce come elemento del proprio sistema teorico e pratico, esso è d'altra parte la forza senza la quale il COMMUNISMO stesso non avrebbe corso storico. Il COMMUNISMO a mio avviso rica la sua forza storica piú profonda dal fatto di apparire come il realizzatore della desiderata giustizia, vera ed effettiva, e come il giustiziere della morale e del diritto astratti. Note filosofiche sul problema della giustizia sociale Cfr. Casula, Il Movimento dei comunisti e la Resistenza a Roma, I1 movimento di liberazione in Italia; poi in Casula, Comunisti ecc.. Per il programma interclassista della DC i documenti fondamentali sono Il programma di Milano e le Idee ricostruttive della Democrazia Cristiana, che possono essere letti nella stesura originaria in Rossi, Dal Partito Popolare alla Democrazia Cristiana, L'istanza manageriale Dalla rivoluzione alla collaborazione inventiva emerge ora una proposta inter-classista avanzata da un V. che abbandona i programmi massimalistici per un riformismo non ipocrita, ma comunque ambiguo ed eterogeneo al quadro della sua speculazione anteriore. Infatti ora il filosofo teorizza la tesi per cui è necessario che gl’interessi e le classi sussistano e non si sopprimano con violenza diretta o indiretta. Né riteniamo di poter accostare questo inter-classismo ai temi di GOBETTI (si veda) nei quali il termine di “classe” è pura astrazione. Quindi ci puo essere annullamento delle classi, ma non loro collaborazione. Invece, per V. si deve instaurare un equilibrio dinamico fra le classi, ossia un equilibrio che si fondi su di un'autonoma, effettiva e adeguata, sostanzialmente e non solo quantitativamente, partecipazione al potere in tutte le sue forme da parte di ogni classe, di ogni interesse, singolo e collettivo. Il che sarebbe appunto la giustizia sociale. Questo inter-classismo ha motivazioni antropologiche ed etiche che per certi versi richiamano temi dell'anarchismo di Sartre, ma solo perché convergono nell'identificare la libertà nella liberazione, e la integrazione creativa nel movimento. Bologna, Scoppola parla, pure, delle difficoltà interne alla DC, che non riusciva ad esprimere compiutamente la proposta inter-classista di cui la società italiana ha bisogno (cfr. Scoppola, La proposta politica di Gasperi, Bologna; esamina acutamente e attraverso documenti spesso inediti l'atteggiamento di Gasperi nei confronti della Sinistra e il suo incunearsi tra essa e il Vaticano. Una collaborazione di classe che non riconosca i termini dei contrasti fondamentali e particolari di classe, che non riconosca la esistenza, la natura e le ragioni dei contrastanti interessi sociali e delle lotte aperte o nascoste che conseguono a tali contrasti, non è una collaborazione di classe, ma la maschera ipocrita del dispotico dominio, o tentativo di dominio, di una classe sull'altra, di un interesse sull'altro (Note filosofiche sul problema della giustizia sociale). Scrive GOBETTI (si veda). Nella concreta realtà dell'atto spirituale gli schemi perdono la validità loro. Le classi diventano meri fantasmi (Definizioni: la Borghesia, La Rivoluzione Liberale, ora in Scritti politici, Note filosofiche sul problema della giustizia sociale. Gl’uomini non sono liberi ed eguali in senso rigoroso se non nella loro integrazione creativa per lo sviluppo umano, per la giustizia prospettiva riformistica, in chiave inter-classista, non può che realizzarsi tornando agli incroci tra privato e pubblico, tra momento di analisi e momento di sintesi deliberativa. Cosi V., che cerca di correggere la struttura industriale intervenendo sui piccoli gruppi di lavoro, ritiene che il problema centrale della democrazia sia nelle erme ï collettive, dove di tatto è il potere e il controllo delle masse. Quelle entità sono diventate, dopo la Resistenza, delle macchine, senza spazi reali per le decisioni di base. Il filosofo scrive che solo con un'azione individuale e collettiva, teorica e pratica, centrale, non centralistica, e periferica d’invenzione si può realizzare un equilibrio dinamico di interessi e si può realizzare l giustizia sociale, cioè un crescente influsso di collettività di persone sulla proprietà, sull'uso, sulla destinazione dei mezzi di produzione. L'ipotesi balbiana è quella di intervenire sugl’organismi intermedi come strutture portanti di un regime democratico. Il discorso dei rapporti economici diventa, quindi, un tema consequenziale e derivato. t un ridare il primato alla politica, ma, come tiene a specificare il filosofo, non il primato al pensiero politico. Il pensiero è solo la premessa statica dei partiti, una premessa generica e spesso mistificatrice presa in prestito e non creata dalla loro attività, strumento di persuasione o momento subordinato dell'organizzazione. Ciò che sociale. Sartre dice che il superamento della dialettica tra soggetto e oggetto è il gruppo, per la sua impresa e per quel suo movimento costante d'integrazione che tende a farne una praxis pura e a sopprimere in esso tutte le forme d'inerzia (Critica; della ragione dialettica, Teoria degli insiemi pratici, Milano, Cfr. Note filosofiche sui problema della giustizia sociale, Vita cita e illustra la teoria balbiana del piccolo gruppo, nel suo saggio Piccoli gruppi e società in trasformazione, Milano. Note filosofiche sul problema della giustizia sociale, La sfida storica del comunismo al Cristianesimo e le sue consegueuze filosofico-sociali, in Il Mulino; unito a Ancora su Cristianesimo, comunismo e azione politica, L'istanza manageriale Dalla rivoluzione alla collaborazione inventiva costituisce realmente i partiti (clic Balbo ritiene le arterie della democrazia) è l'essere strumenti di organizzazione della volontà e degli interessi politici. È rilevante sottolineare che questo tema del partito politico come struttura portante è una ulteriore caratterizzazione ciel pensiero filosofico di V. che lo pone a metà strada tra la concezione del materialismo storico e quelle, estranee ma parallele, dello storicismo crociano (CROCE (si veda)) e della storia cone storia filosofica di NOCE (si veda). C'è quindi, nell'autore di L'uomo senza miti, questa esigenza esasperata di sceverare nelle sue esperienze teoriche una linea di unificazione, anche se la sua filosofia della storia  propende verso una accentuazione dei motivi di  materialità  (o nel senso delle istituzioni, o nel senso del bisogno economico), rispetto alle urgenze puramente ideali.L'operare dall'interno del sistema, pid che rassegnazione alla sconfitta, è caparbietà pragmatica e machiavellica nel voler trasformare le cose e frenare la catastrofe. Non sempre la proposta speculativa di V. è, però, adeguata alle sue istanze, è ora in Opere, con il titolo Comunismo e Cristianesimo. Cfr. ibidem.as Riguardo a questo dissenso, Del Noce afferma che fu tra le cause clic gli vietarono di aderire alle trii di Balbo, nel periodo della Sinistra Cristiana. Da ciò il sorgere tra lui e Balbo a di una discussione, che per l'uno e per l'altro era piuttosto un monologo che un dialoga; non certosensodl una sordia, ma anzi in quello di una fusione masatma,nel,per cui ognuno combatteva nell'altro una posizione che ritenevadl aver Avissuto '(e non soltanto obiettivam ente pensato) e oltrepas atrt^ r (Ge netle significato ecc). Felice Balbo Vinadio, conte di Vinadio. Felice Balbo Vinadio. Keywords. Refs.: H. P. Grice Papers, Bancroft MS – Luigi Speranza, “Grice e Vinadio: being, value – and colloquenza!” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria. Vinadio.

 

Luigi Speranza -- Grice e Vio: AQUINISTI SPECULATIVI -- la ragione conversazionale e le categorie del lizio – un senso, un’analogia – la scuola di Gaeta – filosofia lazia -- filosofia italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Gaeta). Filosofo Lazio. Filosofo italiano. Gaeta, Latina, Lazio. Essential Italian philosopher. Grice: “While the typical Englishman is more interested in the fact that Vio never thought that Henry VIII did divorce Aragon, I prefer his commentary on the ‘prae-dicamentum’ of Aristotle, via ‘Porfirio’!” -- Grice was irritated that when ‘Vio’ became a saint, the Italians list him under ‘c’. O. P. cardinale di Santa Romana Chiesa. V. riceve Lutero, Template-Cardinal. Incarichi ricoperti. Maestro generale dell'ordine dei predicatori, cardinale presbitero di San Sisto, arcivescovo metropolita di Palermo, arcivescovo-vescovo di Gaeta, cardinale presbitero di Santa Prassede. Ordinato presbitero, nominato arcivescovo da Leone X, consacrato arci-vescovo da Fieschi, creato cardinale da Leone X. Religioso domenicano, generale dell'ordine: filosofo, teologo e diplomatico pontificio. Incontro tra V. e Lutero in una stampa d'epoca. Entra tra i frati domenicani del monastero di Gaeta, e prosegue i suoi studi in filosofia a Napoli, Bologna e Padova. Insegna filosofia a Pavia e Roma. Acquisce una considerevole fama in seguito ad un pubblico dibattito con PICO a Ferrara. Generale dell'ordine e consigliere dei papi, dimostra grande zelo nel difendere il diritto del papa contro il concilio di Pisa, polemizzando contro Almain in una serie di articoli messe al bando dalla Sorbona e bruciati per ordine di Luigi XII. Leone X crea V. cardinale, e fatto arci-vescovo di Palermo. Arci-vescovo di Gaeta, inviato in Germania come legato apostolico per partecipare alla dieta di Augusta, si adopera con profitto per l'elezione di Carlo V d'Asburgo ad imperatore del sacro romano impero -- prevalendo sull'altro concorrente Francesco I -- e lì cerca di arginare la nascente riforma protestante di Lutero. Fa rientro in Roma senza essere riuscito a convincere Lutero ad abbandonare i suoi propositi di riforma. Aiuta il papa nell'estensione della bolla “Exsurge domine” rivolta a contrastare il dilagare della riforma di Lutero. Oganizza la resistenza contro i turchi. Venne fatto prigioniero durante il sacco di Roma dai Lanzichenecchi, inviati da Carlo V per punire Clemente VII per il tradimento della parola datagli. Pronuncia la sentenza definitiva di validità del matrimonio di Enrico VIII e Caterina d'Aragona, rifiutando il divorzio al sovrano inglese. Accanto alla produzione filosofica e di teologia filosofica, secondo la linee della scuola d’AQUINO, V. si distinque come esegeta. Ignora attamente l’ebraico, ma consulta esperti rabbinici e grazie alla sua familiarità con il testo greco, ubblica un commentario dei libri sacri di giuidei e galilei. L’enfasi alla Grice di V. sulla ricerca del SIGNIFICATO letterario o LITERALE dell’Eneide o altri testi pone V. alle origini della tradizione esegetica del cattolicismo contro le sette delle differenti nazioni.  Saggi: “Summula Caietani”; “Opuscula omnia” (Giunta); “Commentaria super tractatum de ente et essentia [di Aquino]”; “De nominum analogia”; “Commentaria in III libros Aristotelis de anima”; “Auctoritas pape et concilii sive ecclesie comparata” (Silber); “Oratio in secunda sessione concilii lateranensis” (Berlin); “Apologia de comparata auctoritate pape et ecclesie”; “De divina institutione pontificatus romani pontificis”; “Jentacula Nuovo Testamento, expositio LITERALIS sexaginta quatuor notabilium sententiarum Novi Testamenti” (Roma). Francesco senese De Franceschi; “In Porphyrii Isagogen ad Prædicamenta Aristotelis”; “Opera omnia”; “Scripta philosophica”; “De conceptu entis”; “De comparatione auctoritatis papæ”; “Apologia”. Allaria, V.: cardinale -- Roma; Treccani, Enciclopedie, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Dizionario biografico degl’italiani, Conferenza Episcopale Italiana. ALCUIN, Università di Ratisbona. V. philosophised extensively on free will, and had a colourful dispute with, of all people, Luther, well represented in a painting that Grice adored. Shropshire borrowed his proof for the immortality of the soul from V. Prelate and theologian. Born in Gæta from which he take his name, he enters the Dominican order and studies philosophy at Naples, Bologna, and Padua. He becomes a cardinal, and travels to Germany, where he engages in a theological controversy with Luther. His major work is a Commentary Aquino’s Summa Theologiæ, which promotes a renewal of interest in scholastic and ‘Thomistic’ philosophy. In agreement with Aquino, V. places the source of knowledge in sense perception. In contrast with Aquino, V. *denies* that the immortality of the soul and the existence of the divine as our creator may be proved. V.’s work in logic is based on the traditional syllogistic logic that he called ‘dal Lizio,’ but is original in its discussion of the notion of “analogy”. V. distinguishes *three* types of analogy: analogy of inequality, analogy of attribution, and analogy of proportion. Whereas he rejects “analogy of inequality” and “analogy of attribution” as improper, fallacious, and invalid, V. regards the analogy of proportion as valid and basic and appeals  to it in explaining how humans may come to know propositions about the divine  and how analogical reasoning, applied to both the divine, and the divine’s creatures, may avoid being æqui-vocal. DE NOMINUM ANALOGIA. QUOTUPLEX SIT ANALOGIA, CUM DECLARATIONE PRIMI MODI  Invitatus et ab ipsius rei obscuritate, et a nostri æui flebili profundarum litterarum penuria, de nominuin analogia in his uacationibus tractatum edere intendo. Est siquidem eius notitia necessaria adeo, ut sine illa non possit metaphysicam quispiam discere, et multi in aliis scientiis ex eius ignorantia errores procedant. Quod si ullo usquam tempore accidit, hac ætate id euenire clara luce uidemus, dum analogiam, uel indisiunctionis, uel ordinis, uel conceptus præcisi unitate, cum inæqualis participatione constituunt. Ex dicendis namque patebit, opiniones huiusmodi a ueritate, quae ultro se offerebat, per abrupta deuiasse.  2. Analogiae igitur uocabulum proportionem siue proportionalitatem (ut a Graecis accepimus) in proposito sonat. Adeo tamen extensum distinctumque est, ut multa nomina analoga abusiue dicamus; et multarum distinctionum adunatio si fieret, confusionem pareret. Ne tamen rectum obliqui iudicio priuetur, et singularitas in loquendo accusetur, unica distinctione trimembri omnia comprehendemus, et a minus proprie analogis ad uere analoga procedemus.  3. Ad tres ergo modos analogiae omnia analoga reducuntur: scilicet ad analogiam inaequalitatis, et analogiam attributionis, et analogiam proportionalitatis. Quamuis secundum ueram uocabuli proprietatem et usum Aristotelis, ultimus modus tantum analogiam constituat, primus autem alienus ab analogia omnino sit.  4. Analoga secundum inaequalitatem uocantur, quorum nomen est commune, et ratio secundum illud nomen est omnino eadem, inaequaliter tamen participata. Et loquimur de inaequalitate perfectionis: ut corpus nomen commune est corporibus inferioribus et superioribus, et ratio omnium corporum (in quantum corpora sunt) eadem est. Quaerenti enim quid est ignis in quantum corpus, dicetur: substantia trinae dimensioni subiecta. Et similiter quaerenti: quid est caelum in quantum corpus, etc. Non tamen secundum aequalem perfectionem ratio corporeitatis est in inferioribus et superioribus corporibus.  5. Huiusmodi autem analoga Logicus uniuoca appellat, Philosophus uero aequiuoca, eo quod ille intentiones considerat nominum, iste autem naturas. Unde et in X Metaph., text. ultim. Aristoteles dicit quod corruptibili et incorruptibili nihil est commune uniuocum, despiciens unitatem rationis seu conceptus tantum. Et in VII Physic., text. 13 dicitur iuxta genus latere aequiuocationes; quia huiusmodi analogia cum unitate conceptus non dicit unam naturam simpliciter, sed multas compatitur sub se naturas, ordinem inter se habentes, ut patet inter species cuiuslibet generis, specialissimas et subalternas magis. Omne enim genus analogum hoc modo appellari potest, (licet non multum consueuerint nisi generalissima et his propinqua sic uocari), ut patet de quantitate et qualitate in praedicamentis, et corpore, etc.  6. Hanc analogiam S. Thomas, in I Sent., dist. 19 uocat analogiam secundum esse tantum, eo quod analogata parificantur in ratione significata per illud nomen commune, sed non parificantur in esse illius rationis. Perfectius enim esse habet in uno, quam in alio, cuiuscumque generis ratio, ut in Metaphysica pluries patet. Non solum enim planta est nobilior minera; sed corporeitas in planta est nobilior corporeitate in minera: et sic de aliis.  7. Perhibet quoque huic analogiae testimonium Auerroes in XII Metaph., text. 2 dicens, cum unitate generis stare prioritatem et posterioritatem eorum, quae sub genere sunt. Haec pro tanto analoga uocantur, quia considerata inaequali perfectione inferiorum, per prius et posterius ordine perfectionis de illis dicitur illud nomen commune. Et iam in usum uenit, ut quasi synonime dicamus aliquid dici analogice et dici per prius et posterius. Abusio tamen uocabulorum haec est; quoniam dici per prius et posterius, superius est ad dici analogice. In huius modi autem analogis, quomodo inueniantur unitas, abstractio, praedicatio, comparatio, demonstratio et alia huiusmodi, non oportet determinare; quoniam uniuoca sunt secundum ueritatem, et uniuocorum canones in eis seruandi sunt.  ANALOGIA ATTRIBUTIONIS QUID SIT, ET QUOT MODIS FIAT, ET QUAE EIUS CONDITIONES. Analoga autem secundum attributionem sunt, quorum nomen commune est, ratio autem secundum illud nomen est eadem secundum terminum, et diuersa secundum habitudines ad illum: ut sanum commune nomen est medicinae, urinae et animali; et ratio omnium in quantum sana sunt, ad unum terminum (sanitatem scilicet), diuersas dicit habitudines. Si quis enim assignet quid est animal in quantum sanum, subiectum dicet sanitatis; urinam uero in quantum sanam, signum sanitatis; medicinam autem in quantum sanam, causam sanitatis proferet. Ubi clare patet, rationem sani esse nec omnino eamdem, nec omnino diuersam; sed eamdem secundum quid, et diuersam secundum quid. Est enim diuersitas habitudinum, et identitas termini illarum habitudinum.  9. Quadrupliciter autem fieri potest huiusmodi analogia, secundum quatuor genera causarum (uocando pro nunc causam exemplarem causam formalem). Contingit siquidem multa ad unum finem, et ad unum efficiens, et ad unum exemplar, et ad unum subiectum, secundum aliquam unam denominationem et attributionem diuersimode habere: ut patet ex exemplis Aristotelis, IV Metaph., text. 2. Ad causam enim finalem pertinet exemplum de sano in III Metaph., text. 2, ad efficientem uero exemplum de medicinali ibidem positum; ad materialem autem analogia entis ibidem subiuncta; ad exemplarem demum analogia boni, posita in I Ethic., cap. 7.  10. Attribuuntur autem huic analogiae multae conditiones, ordinate se consequentes: scilicet quod analogia ista sit secundum denominationem extrinsecam tantum; ita quod primum analogatorum tantum est tale formaliter, caetera autem denominantur talia extrinsece. Sanum enim ipsum animal formaliter est; urina uero, medicina et alia huiusmodi, sana denominantur, non a sanitate eis inhaerente, sed extrinsece, ab illa animalis sanitate, significatiue uel causaliter, uel alio modo. Et similiter idem est de medicatiuo et de substantia, quae sunt formaliter in primo; in caeteris uero denominatiua significatione denominantur et extrinsece. Boni quoque ratio in bono per essentiam saluata, quo exemplariter caetera denominantur bona, in solo primo bono formaliter inuenitur; reliqua uero extrinseca denominatione, secundum illud bonum, bona dicuntur.  11. Sed diligenter aduertendum est, quod hæc huiusmodi analogiæ conditio, scilicet quod non sit secundum genus causæ formalis inhærentis, sed semper secundum aliquid extrinsecum, est formaliter intelligenda et non materialiter: idest non est intelligendum per hoc, quod omne nomen quod est analogum per attributionem, sit commune analogatis sic, quod primo tantum conueniat formaliter, cæteris autem extrinseca denominatione, ut de sano et medicinali accidit; ista enim uniuersalis est falsa, ut patet de ente et bono; nec potest haberi ex dictis, nisi materialiter intellectis. Sed est ex hoc intelligendum, quod omne nomen analogum per attributionem ut sic, uel in quantum sic analogum, commune est analogatis sic, quod primo conuenit formaliter, reliquis autem extrinseca denominatione. Hoc siquidem uerum est, ex formali intellectu præcedentium; ex eisque manifeste sequitur. Ens enim quamuis formaliter conueniat omnibus substantiis et accidentibus etc., in quantum tamen entia, omnia dicuntur ab ente subiectiue ut sic, sola substantia est ens formaliter; cætera autem entia dicuntur, quia entis passiones uel generationes etc. sunt; licet entia formaliter alia ratione dici possint. Et simile est de bono. Licet enim omnia entia bona sint, bonitatibus sibi formaliter inhærentibus, in quantum tamen bona dicuntur, bonitate prima effectiue aut finaliter aut exemplariter, omnia alia nonnisi extrinseca denominatione bona dicuntur: illamet bonitate, qua Deus ipse bonus formaliter in se est.  Et ex hac conditione statim infertur alia: scilicet quod illud unum, ad quod diuersæ habitudines terminantur in huiusmodi analogis, est unum non solum ratione, sed numero. Quod dupliciter intelligi potest, secundum quod analogata dupliciter sumi possunt: scilicet uniuersaliter et particulariter.  Si enim sumantur analogata particulariter, illud unum necessario est unum numero uere et positiue. Si autem sumantur uniuersaliter, illud unum necessario est unum numero negatiue, idest non numeratur in illis analogatis ut sic, quamuis in se sit uniuersale quoddam, et non unum numero. Verbi gratia, si sumantur hæc urina sana, hæc medicina sana, et hoc animal sanum: hæc omnia dicuntur sana a sanitate quæ est in hoc animali, quam constat unam numero uere esse. Sortes enim dicitur sanus, quia habet hanc sanitatem; medicina, quia illam facit; urina, quia eamdem significat, etc. Si uero sumantur animal sanum in communi, et urina sana in communi et medicina sana in communi: sic, formaliter loquendo, sanitas a qua huiusmodi sana dicuntur, non est una numero in se: eo quod causæ uniuersales effectibus uniuersalibus comparandæ sunt, ut II Phys., text. 39 dicitur. Et simile est de signis, et instrumentis, et conseruatiuis, et aliis huiusmodi; sed est una numero in istis analogatis negatiue. Non enim numeratur sanitas in animali, urina et diæta; quoniam non est alia sanitas in urina, et alia in animali, et alia in diæta.  13. Et sequitur conditio ista ex præcedenti: quoniam commune secundum denominationem extrinsecam non numerat id a quo denominatio sumitur in denominatis, sicut uniuocum multiplicatur in suis uniuocatis; et propter hoc dicitur unum ratione tantum, et non unum numero in suis uniuocatis. Alia est enim animalitas hominis, et alia equi, et alia bouis, animalis nomine adunatæ in una ratione.  14. Ex hac autem conditione infertur alia, quod scilicet primum analogatum ponitur in definitione cæterorum, secundum illud nomen analogum; quoniam cætera non suscipiunt illud nomen, nisi per attributionem ad primum, in quo formaliter saluatur eius ratio. Cadit siquidem in ratione medicinæ, et diætæ, et urinæ etc., in quantum sanæ sunt, animalis sanitas: sine qua intelligi cætera sana non possunt. Et simile est de aliis iudicium.  15. Ex hoc autem sequitur ulterius, quod nomen sic analogum, unum certum significatum commune omnibus partialibus eius modis, seu omnibus analogatis, non habet. Et consequenter, quod nec conceptum obiectiuum, nec conceptum formalem abstrahentem a conceptibus analogatorum habet; sed sola uox cum identitate termini diuersimode respecti communis est: ita quod cum in hac analogia sint tria: uox scilicet, terminus et respectus diuersi ad illum; nomen analogum terminum quidem distincte significat, ut sanum sanitatem; respectus autem diuersos ita indeterminate et confuse importat, ut primum distincte uel quasi distincte ostendat, cæteros autem confuse, et per reductionem ad primum. Sanum enim respectus multos ad sanitatem, puta habentis, significantis, causantis, etc., sic in una uoce sanitatem distincte importante confundit, ut respectum primum scilicet habentis seu subiecti, distincte significet (Sanum enim absolute dicimus sanitatem habentem, ut subiectum); cæteros autem respectus indeterminate importat et per attributionem ad primum, sicut patet ex dictis.  16. Et propter hoc tria de huiusmodi analogo dicuntur: scilicet quod commune est omnibus analogatis non secundum uocem tantum; - et quod simpliciter prolatum stat pro primo; - et quod non est prius primo analogato, in quo tota sua ratio formaliter saluatur. Primum quidem peculiarius significat, et super omnia analogata superius significatum non habet.  17. Diuiditur autem a sancto Thoma analogia hæc in analogiam duorum ad tertium, ut urinæ et medicinæ ad animal sanum; et in analogiam unius ad alterum, ut urinæ uel medicinæ ad animal sanum  18. Nec habet ista diuisio alia membra a supradictis: quoniam hæc circuit analogiam secundum omnia genera causarum. Sed ad hoc facta est, ut ostendatur differenter suscipi nomen analogum, quando ponitur primum analogatum ex una parte, et cætera ex altera parte; et quando secundorum analogatorum unum hinc et alterum inde ponitur, secundum quodcumque genus causæ analogia fiat. Primo enim et cæteris sic commune est analogum, ut nihil eis prius ponat aut significet: et propterea uocatur analogia unius ad alterum, ponendo omnia alia a primo, loco unius. Secundis autem analogatis sic commune est nomen analogum, ut aliquid omnibus eis prius ponat: primum scilicet ad quod omnia secunda attribuuntur. Et uocatur analogia duorum ad tertium, uel multorum ad unum: quia non inter se est attributio, sed ad primum.  Appellantur autem hæc analoga a Logico æquiuoca, ut in principio Prædicamentorum patet, ubi animal æquiuocum dicitur ad animal uerum et animal pictum. Animal enim pictum non pure æquiuoce, sed per attributionem ad animal uerum, animal dicitur; et in ratione eius in quantum animal manifeste patet animal uerum accipi. Quærenti enim: quid est animal pictum in eo quod animal? respondebitur: imago animalis ueri.  20. A philosophis uero Græcis, nomina ex uno, uel ad unum, aut in uno, et media inter æquiuoca et uniuoca dicuntur, ut pluries in Metaphysica patet; et expresse in I Ethic. huiusmodi nomina contra analoga distinguuntur, ut infra amplius dicetur. A Latinis autem uocantur analoga uel æquiuoca a consilio.  21. Hanc analogiam S. Thomas in I Sent., dist. 19, q. 5 a. 2 ad 1 uocat analogiam secundum intentionem, et non secundum esse: eo quod, nomen analogum non sit hic commune secundum esse, idest formaliter; sed secundum intentionem, idest secundum denominationem. Ut enim ex dictis patet, in hac analogia nomen commune non saluatur formaliter nisi in primo; de cæteris autem extrinseca denominatione dicitur. Hæc ideo apud Latinos analoga dicuntur: quia proportiones diuersas ad unum dicunt, extenso proportionis nomine ad omnem habitudinem. Abusiua tamen locutio hæc est, quamuis longe minor quam prima.  22. Quomodo autem de huiusmodi analogis sit scientia, et contradictiones et demonstrationes, et consequentiæ et alia huiusmodi de eis fiant, ex dictis, et consuetudine Aristotelis patet. Oportet enim significationes diuersas prius distinguere (propter quod ambigua apud Arabes hæc dicuntur), et deinde a primo ad alia procedere, sicut a centro ad circumferentiam diuersis proceditur uiis. DE ANALOGIA PROPORTIONALITATIS: QUID SIT ET QUOTUPLEX SIT, ET QUOD SOLA PROPRIE ANALOGIA VOCETUR  23. Ex abusiue igitur analogis ad proprie analogiam ascendendo, dicimus: analoga secundum proportionalitatem dici, quorum nomen est commune, et ratio secundum illud nomen est proportionaliter eadem. Vel sic: Analoga secundum proportionalitatem dicuntur, quorum nomen commune est, et ratio secundum illud nomen est similis secundum proportionem: ut uidere corporali uisione, et uidere intellectualiter, communi nomine uocantur uidere; quia sicut intelligere, rem animæ offert, ita uidere corpori animato. Quamuis autem proportio uocetur certa habitudo unius quantitatis ad aliam, secundum quod dicimus quatuor duplam proportionem habere ad duo; et proportionalitas dicatur similitudo duarum proportionum, secundum quod dicimus ita se habere octo ad quatuor quemadmodum sex ad tria: utrobique enim dupla proportio est, etc.; transtulerunt tamen Philosophi proportionis nomen ad omnem habitudinem conformitatis, commensurationis, capacitatis, etc. Et consequenter proportionalitatem extenderunt ad omnem similitudinem habitudinum. Et sic in proposito uocabulis istis utimur.  25. Fit autem duobus modis analogia hæc: scilicet metaphorice et proprie. Metaphorice quidem, quando nomen illud commune absolute unam habet rationem formalem, quæ in uno analogatorum saluatur, et per metaphoram de alio dicitur: ut ridere unam secundum se rationem habet, analogum tamen metaphorice est uero risui, et prato uirenti, aut fortunæ successui; sic enim significamus hæc se habere, quemadmodum homo ridens. Et huiusmodi analogia sacra Scriptura plena est, de Deo metaphorice notitiam tradens. Proprie uero fit, quando nomen illud commune in utroque analogatorum absque metaphoris dicitur: ut principium in corde respectu animalis, et in fundamento respectu domus saluatur. Quod, ut Auerroes in comm. septimo I Ethic. ait, proportionaliter de eis dicitur.  27. Præponitur autem analogia hæc cæteris antedictis dignitate et nomine. Dignitate quidem, quia hæc fit secundum genus causæ formalis inhærentis: quoniam prædicat ea, quæ singulis inhærent. Altera uero secundum extrinsecam denominationem fit.  28. Nomine autem, quia analoga nomina apud Græcos (a quibus uocabulum habuimus) hæc tantum dicuntur; ut ex Aristotele etiam colligitur, qui in Metaphysica nomina quæ dicimus analoga per attributionem, ex uno, uel ad unum, uel in uno uocat: ut patet in principio IV et in VII, text. 15. In V autem Metaphysicæ, cap. de uno, text. 12, definiens unum secundum analogiam, ut synonimis utitur unum analogia et unum proportione; et definit ea esse, « quæcumque se habent ut aliud ad aliud »: aperte insinuans illam esse proprie analogatorum definitionem, quam diximus. Quod tamen clarius habetur in Arabica translatione, ubi dicitur: « Illa quæ sunt unum secundum æqualitatem, scilicet proportionalem, sunt quorum proportio est una, sicut proportio alicuius rei ad aliam rem ». Ubi Auerroes exponens ait: « Et illa dicuntur unum, quæ sunt unum secundum proportionalitatem; sicut dicitur, quod proportio rectoris ad ciuitatem et gubernatoris ad nauem, est una ». In secundo quoque Posteriorum, cap. XIII huiusmodi nomina proportionalia, analoga uocat. Et quod plus est, in I Ethic., cap. 7 distinguit supradicta nomina ad unum aut ex uno, contra analoga; dum, loquens de communitate boni ad ea quæ bona dicuntur, ait: « Non assimilantur a casu æquiuocis; sed certe ei, quod est ab uno esse, uel ad unum omnia contendere, uel magis secundum analogiam ». Et subdens exemplum analogiæ dicit: « Sicut enim in corpore uisus, in anima intellectus ». In quibus uerbis diligenti lectori, non solum nomen analogiæ hoc, quod diximus, sonare docuit; sed præferendam esse in prædicationibus metaphysicis hanc insinuauit analogiam (in ly magis), ut S. Thomas ibidem propter supradictam rationem optime exponit.  29. Scimus quidem secundum hanc analogiam rerum intrinsecas entitates, bonitates, ueritates etc., quod ex priori analogia non scitur. Unde sine huius analogiæ notitia, processus metaphysicales absque arte dicuntur. Acciditque huiusmodi ignorantibus, quod antiquis nescientibus logicam, ut in II Elenchorum dicitur. Nec fuit forte ab Aristotelis tempore tam periculosus casus iste, sicut modo apud nos est; quoniam blasphemare fere uidetur, qui metaphysicales terminos analogos dicens, secundum proportionalitatem communes exponit. Cum tamen Auerroes dicat super prædicto textu: « Et dignius his tribus modis est, ut sit nomen boni dictum de eis secundum uiam, quæ dicitur de proportionalibus ».  Vocatur quoque a Sancto Thoma in I Sent., dist. 19, ubi supra, analogia secundum esse et secundum intentionem; eo quod analogata ista, nec in ratione communis nominis, nec in esse illius rationis parificantur, et tamen tam in ratione illius nominis, quam in esse eiusdem, proportionaliter, conueniunt. Sed quoniam, ut dictum est, obscura et necessaria ualde res hæc est, accurate distincteque dilucidanda est per plura capitula.  QUOMODO ANALOGUM AB ANALOGATIS DISTINGUATUR. Quoniam autem analogia media est inter æquiuocationem puram et uniuocationem, ex extremis natura medii declaranda est. Et quia in nominibus tria inueniuntur, scilicet uox, conceptus in anima, et res extra, seu conceptus obiectiuus: ideo singula perlustrando, dicendum est, quomodo analogum ab analogatis distinguatur  32. Et a rebus incipiendo, quia priores conceptibus et nominibus sunt, dicimus quod, nomine æquiuoco ita diuersæ res significantur, quod ut sic non nisi uoce adunantur. Uniuoco uero diuersæ res ita significantur, quod, ut sic, ad rem in se simpliciter unam abstractam et præcisam in esse cognito ab eis, adunantur. Analogo autem nomine res diuersæ ita significantur, quod ut sic ad res diuersas secundum proportionem unam uniuntur. Vocatur autem in proposito res, non solum natura aliqua, sed quicumque gradus, quæcumque realitas, et quodcumque reale in rebus inuentum. Unde inter uniuocationem et analogiam hæc est differentia: quod res fundantes uniuocationem sunt sic ad inuicem similes, quod fundamentum similitudinis in una est eiusdem rationis omnino cum fundamento similitudinis in alia: ita quod nihil claudit in se unius ratio, quod non claudat alterius ratio. Ac per hoc fundamentum uniuocæ similitudinis, in utroque extremorum æque abstrahit ab ipsis extremis. Res autem fundantes analogiam, sic sunt similes, quod fundamentum similitudinis in una, diuersæ est rationis simpliciter a fundamento illius in alia: ita quod unius ratio non claudit id quod claudit ratio alterius. Ac per hoc fundamentum analogæ similitudinis, in neutro extremorum oportet esse abstractum ab ipsis extremis; sed remanent fundamenta distincta, similia tamen secundum proportionem; propter quod eadem proportionaliter uel analogice dicuntur.  34. Et ut possint omnibus prædicta patere, declarantur exemplariter in uniuocatione huius nominis animal, et analogia huius nominis ens. Homo, bos, leo et cætera animalia, quia habent in se singulas naturas sensitiuas, seu proprias animalitates, quas constat diuersas secundum rem esse, et mutuo similes: sic quod in quocumque extremo, puta homine aut leone, consideretur secundum se animalitas, quæ est similitudinis fundamentum, inuenitur æqualiter abstrahens ab eo in quo est, et nihil includens in uno quod non in alio. Ideo et in rerum natura fundant secundum suas animalitates similitudinem uniuocam, quæ identitas generica uocatur; et in esse cognito adunantur non ad duas uel tres animalitates, sed unam tantum, quæ animalis nomine in concreto per se primo significatur, et uniuoce uocatur communi nomine animal. Omnium siquidem eorum, secundum quod naturas sensitiuas habent, indistincta omnino est ratio ab omnibus abstracta, quæ illius rei, quam animalitatem uocauimus, adæquata est definitio. Substantia autem quantitas, qualitas etc., quia non habent in suis quidditatibus aliquid prædicto modo abstrahibile, puta entitatem, (quoniam supra substantialitatem nihil amplius restat), ideo nullam substantialem uniuocationem inter se compatiuntur.  35. Et quia cum hoc, quod non solum eorum quidditates sunt diuersæ, sed etiam primo diuersæ; retinent similitudinem in hoc, quod unumquodque eorum secundum suam proportionem habet esse; ideo et in rerum natura non secundum aliquam eiusdem rationis in extremis sed secundum proprias quidditates, ut commensuratas his propriis esse fundant analogam idest proportionalem similitudinem. Et in intellectu adunantur ad tot res, quot sunt fundamenta, proportionis similitudine unitas, significatas (propter illam similitudinem) entis nomine, et analogice communi nomine uocantur ens. Differenter ergo res adunantur sub nomine Analogo et Uniuoco.  36. Conceptus quoque mentalis non eodem modo inuenitur in uniuocis et analogis: quoniam nomen uniuocum et omnia uniuocata ut sic, unum tantum conceptum in mente habent perfecte et adæquate eis correspondentem; quia fundamentum uniuocæ similitudinis (quod significatum formale est nominis uniuoci), unius omnino rationis est in omnibus uniuocatis; ac per hoc in uno repræsentato, omnia repræsentari necesse est. In analogis uero, quoniam fundamenta analogæ similitudinis diuersarum rationum sunt simpliciter, et eiusdem secundum quid, idest secundum proportionem: oportet duplicem analogi mentalem conceptum distinguere, perfectum et imperfectum; et dicere quod analogo et suis analogatis respondet unus conceptus mentalis imperfectus, et tot perfecti, quot sunt analogata. Quia enim unum analogatorum ut sic, simile est alteri: consequens est, quod conceptus repræsentans unum, repræsentet alterum, iuxta illam maximam: Quidquid assimilatur simili ut sic, assimilatur etiam illi, cui illud tale est simile.  Quia uero talis similitudo secundum proportionem tantum est, quæ diuersam rationem in altero fundamento habet: conceptus perfecte repræsentans unum analogatorum, a perfecta repræsentatione alterius deficit; et per consequens oportet alterius analogati alterum adæquatum conceptum esse. Unde et analogum unum habere mentalem conceptum, et plures habere conceptus mentales: uerum est diuersimode; quamuis simpliciter loquendo, magis debeat dici, analogi esse plures conceptus; nisi loquendi occasio aliud exigat. Dico autem hoc: quoniam cum secundum dicentes, analoga omnino carere uno conceptu mentali, sermo est; unum eorum conceptum absolute dicere non est reprehendendum. Propter quod oportet solerti discretione lectorem uti quando inuenitur scriptum, quod analogata conueniunt in una ratione, et quando inuenitur dictum alibi, quod analogata non conueniunt in una ratione. Est ergo differentia inter analogiam et uniuocationem quoad conceptum mentalem, ita quod uniuoci et uniuocatorum ut sic, unus est conceptus perfecte et adæquate eis respondens, ut de conceptu animalis patet. Analogi uero et analogatorum ut sic, plures necessario sunt conceptus perfecte ea repræsentantes, et unus est conceptus imperfecte repræsentans. Non tamen ita quod sit unus conceptus adæquate respondens nomini analogo, et inadæquate analogatis: quoniam secundum ueritatem nomen illud uniuocum esset; sed ita quod conceptus unus repræsentans perfecte alterurn analogatum ut sic, imperfecte repræsentat reliquum. Quoad uocem autem, non est inter analoga et uniuoca differentia.  39. His autem prælibatis, intentum facile patere potest: quomodo scilicet disfinguitur analogum, puta ens, ab analogatis, puta substantia, quantitate et qualitate. Uniuocum enim, puta animal, distinguitur ab uniuocatis, puta homine et leone, quoad rem significatam seu conceptum obiectiuum, et quoad conceptum mentalem, sicut unum simpliciter abstractum etc., a multis simpliciter etc. Analogum uero, quoad rem, seu conceptum obiectiuum, distinguitur sicut unum proportione a multis simpliciter; uel (et idem est) sicut multa ut similia secundum proportiones a multis absolute. Verbi gratia, ens distinguitur a substantia et quantitate, non quia significat rem quamdam eis communem; sed quia substantia quidditatem tantum substantiæ importat, et similiter quantitas quidditatem quantitatis absolute significat; ens autem significat ambas quidditates, ut similes secundum proportiones ad sua esse; et hoc est dicere ut easdem proportionaliter.  40. Quoad conceptum autem mentalem adæquatum, hoc quoque eodem omnino modo distinguitur. Secundum uero conceptum mentalem imperfectum, quamuis distinguatur sicut unum simpliciter a multis simpliciter; non tamen sicut unum abstrahens in repræsentando ab illis multis, quemadmodum in uniuocis contingit. Quoniam, ut ex dictis patet, conceptus ille, puta qualitatis, in quantum ens, alterius analogati, idest ipsius qualitatis, secundum quod se habet ad suum esse, est adæquate repræsentatiuus, et a qualitatis quidditate non abstrahens; cæterorum uero, puta quantitatis et substantiæ, imperfecte tantum est repræsentatiuus, in quantum eis similis est proportionaliter. QUALIS SIT ABSTRACTIO ANALOGI AB ANALOGATIS. Oportet autem ex præmissis ostendere, qualiter analogum abstrahat ab his, quibus commune secundum analogiam dicitur, puta qualiter ens abstrahat a substantia et quantitate. Insurgit siquidem difficultas quædam in re hac, et ex parte rerum, et ex parte conceptus. Ex parte siquidem rerum, quia uidetur analogi nominis res significata, eodem abstrahibilis et abstracta modo, quo res uniuoco nomine significata. Quoniam cum, ut in V Metaph. dicitur, unum in qualitate faciat simile, nulla apparet ratio, cur a quibusdam similibus sit una res abstrahibilis, et a quibusdam non; licet euidens ratio sit, cur ab his similibus, puta Sorte et Platone, abstrahibilis sit res magis una, et ab illis, puta homine et lapide, minus una. Unde si substantia et quantitas assimilantur in hoc, quod utraque est ens, et consequenter in eis est aliquid unum, quod est fundamentum illius similitudinis: quid uetat ab eis abstrahi rem unam utrique communem?  Ex parte uero conceptus, quia uidetur eodem modo conceptus analogi abstrahere ab analogatis, sicut uniuocum ab uniuocatis: eo quod analogum nomen importat in confuso singulas proportiones analogatorum, et distincte non significat nisi proportionem in communi. Verbi gratia, ens non significat habens se ad esse sic uel sic, puta ut substantia, aut ut quantitas; sed si proportionale nomen est, significare uidetur, habens se ad esse secundum aliquam proportionem, quæcumque illa sit. Hoc autem constat esse æque abstractum a substantia et a quantitate; et consequenter per modum uniuoci in analogis abstractio conceptus apparet.  43. Ut autem euidens fiat huius ambiguitatis determinatio, sciendum est, quod licet abstrahere diuersa significet, cum dicimus intellectum abstrahere animal ab homine et equo, et cum dicimus animal abstrahere ab homine et equo: eo quod tunc significat ipsam intellectus operationem attingentem in eis unum et non alia; nunc uero significat extrinsecam denominationem ab illa intellectus operatione, qua res cognita abstracta denominatur: in unum tamen et idem semper tendit, quoniam semper sonat intelligi unum, non intellecto altero.  44. Ideoque nihil aliud est agere de abstractione analogi ab analogatis quam inquirere et determinare, quomodo res significata analogo nomine intelligi possit, non cointellectis analogatis; et quomodo conceptus illius habeatur, absque conceptibus istorum.  45. Cum igitur ex supradictis, et ex ipso analogiæ uocabulo pateat, quod analogo nomine non simpliciter una res, sed res proportione una significatur, talis autem idem est quod res diuersæ, ut similes proportionaliter: facile deduci potest, quod res analoga potest quidem intelligi, non cointellectis analogatis, et consequenter abstrahere ab eis.  46. Sed non sicut in uniuocis res una, (puta natura sensitiua, seu animal intelligitur, non cointellectis omnino natura humana et equina ut sic), sed sicut duæ res ut proportionaliter similes intelliguntur, non cointellectis ipsismet duabus rebus secundum suas proprias naturas absolute. Ita quod analogi abstractio non consistit in cognitione unius et non cognitione alterius; sed in unius et eiusdem intellectione ut sic, et non intellectione absolute. Verbi gratia, entis abstractio non consistit in hoc, quod entitas apprehenditur, et substantia aut quantitas non; sed in hoc: quod substantia aut quantitas apprehenditur ut sic se habens ad proprium esse; (in hoc enim similitudo proportionalis attenditur) et non apprehenditur substantia, aut quantitas absolute. Et simile est de aliis rebus analogis, quales sunt fere omnes metaphysicales.  47. Unde concedi potest, rem analogam abstrahere, et non abstrahere ab analogatis diuersimode. Abstrahit quidem, pro quanto abstrahit ab eis, quemadmodum res ut sic, idest ut res similis alteri proportionaliter abstrahit a se absolute sumpta. Non abstrahit uero, pro quanto res ut sic accepta seipsam necessario includit, et absque seipsa intelligi non potest. Quod de uniuocis dici non potest: quia res uniuoca, absque aliis quibus est uniuoce communis, intelligitur sic, quod res in suo intellectu nullo modo actualiter includit ea quibus est comm unis, ut patet de animali  48. Obiectioni autem in oppositum adductæ, ex analogæ similitudinis natura facile satisfit, dicendo, quod cum unum multipliciter dicatur, non oportet omnem similitudinem attendi secundum unum simpliciter; sed quandoque sufficit, quod unum secundum proportionem faciat simile. Unum autem proportionaliter non est simpliciter unum; sed multa similia secundum proportiones, a quibus ideo non potest abstrahi res una simpliciter: quia similitudo ipsa proportionalis tantum est, et fundamentum non est unum nisi proportionaliter  49. De ratione siquidem unius proportionaliter est habere quatuor terminos (ut in V Ethicorum dicitur). Quoniam proportionalitas qua similitudo proportionum fit, inter quatuor ad minus, (quæ duarum proportionum extrema sunt), necessario est; et consequenter unum proportione non unificatur simpliciter, sed distinctionem retinens, unum pro tanto est et dicitur, pro quanto proportionibus dissimilibus diuisum non est. Unde sicut non est alia ratio quare unum proportionaliter non est unum absolute, nisi quia ista est eius ratio formalis; ita non est quærenda alia ratio, cur a similibus proportionaliter non potest abstrahi res una; hoc enim ideo est, quia similitudo proportionalis talem in sua ratione diuersitatem includit. Et accidit ulterius procedentibus, ut quærant id, quod sub quæstione non cadit: ut quare homo est animal rationale, etc.  De abstractione quoque conceptus, eodem modo est dicendum: abstrahit enim conceptus analogi nominis non sicut unum simpliciter, sed sicut unum proportione, seu simile secundum proportiones a multis absolute.  Sed quia in obiciendo tangitur de abstractione conceptus analogi a specialibus conceptibus illius analogiæ, et abusiue analogata ibidem uocantur partiales analogi rationes; ideo diligenter cauendum est, ne apparentia in obiectione tacta in illum errorem ducat, qui ibi tangitur. Sciendum siquidem est, quod licet in analogis secundum attributionem in hoc omnia analogata conueniant, quod eamdem formam omnino respiciunt, ita quod non solum conueniunt in uno termino, sed in hoc, quod est respicere illum: erroneum tamen est, analogo per attributionem conceptum unum respectus in communi ad illum terminum, per abstractionem a tali et tali respectu, attribuere. Verbi gratia: animal in quantum sanum, urina in quantum sana, et medicina in quantum sana, licet conueniant et in sanitate tamquam termino: cuius animal est subiectum, urina signum, et medicina causa; et conueniant in hoc, quod est respicere sanitatem (quodlibet enim eorum sanitatem respicit, licet diuersimode); ab his tamen specialibus respectibus non abstrahitur respectus in communi ad sanitatem, importatus nomine sani, in cuius conceptu omnes speciales respectus ad sanitatem, confuse et in potentia clauduntur.  52. Falsum enim est, quod sanum significet hoc quod dico, respiciens uel aliqualiter se habens ad sanitatem. Tum quia sic sani nomen uniuocum uere esset ad urinam et animal etc., ut patet ex uniuocorum definitione. Tum quia hoc est contra intentionem dicentium, urinam aut diætam sanam. Percunctantibus siquidem, quid est urina in quantum sana, non respondetur: respiciens sanitatem; sed omnes respectum illum specificant respondentes: signum sanitatis; et similiter de diæta respondetur, quod est conseruatiua sanitatis, etc. Tum quia contra omnes Philosophos et Logicos (hucusque a me uisos) hoc est.  Sicut autem in prædictis analogis prædictus cauendus est error, ita in analogis secundum proportionem (quæ sola simpliciter analoga sunt) similis cauendus est error, ex simili causa apparentiæ firmitatem trahens. Quia enim analogata conueniunt in hoc, quod unumquodque eorum commensuratum seu proportionatum est (licet diuersimode), credi potest quod ab his specialibus proportionibus abstrahatur proportionatum in communi, et nomine analogo significetur. Ac per hoc analogum habeat conceptum unum, in quo confuse et in potentia claudantur omnes speciales proportiones analogatorum; uerbi gratia, ut quia substantia proportionata est suo esse, et similiter quantitas et qualitas (licet diuersimode) ideo a substantia et quantitate et qualitate etc., diuersimode proportionatis suis esse, abstrahatur res seu quidditas proportionem habens ad esse, qualiscumque sit illa proportio, et hoc sit entis primarium significatum, in quo omnes speciales proportiones substantiæ quantitatis et qualitatis etc., ad sua esse confuse claudantur et in potentia.  54. Sed hoc falsissimum est. Tum quia hoc quod dicitur, scilicet res proportionata ad hoc quod sit, non est res una simpliciter etiam in esse obiectiuo, nisi chimerice. Tum quia proportionalia nomina uniuoca essent (ut patet ex uniuocorum definitione), et consequenter periret proportionalitatis ratio, quæ extrema unum simpliciter esse non compatitur; et sic essent proportionalia et non proportionalia: quod intellectus capere nullo modo potest. Tum quia contra Aristotelis auctoritatem, in II Poster. inferius adducendam, et adductam ex I Ethic., et S. Doctorem et Auerroem et Albertum expresse est. Unde confusio, qua analogum tam secundum attributionem quam secundum proportionem, importat speciales habitudines aut proportiones: non est confusio plurium conceptuum in uno communi conceptu; sed est confusio significationum in una uoce, licet difformiter. Quoniam in analogia attributionis uox analoga primum distincte significat, cætera autem confuse. In analogia uero proportionis, nomen analogum ad omnes suas significationes indistincte se habere permittitur. Cautum tamen et attentum oportet hic esse; quia cum analogi rationes dupliciter sumi possint: scilicet secundum se, et ut eædem et ipsæ ut eædem propter identitatis proportionalis naturam non abstrahant a seipsis, et tamen aliquid conuenit eis ratione identitatis, seu in quantum eædem sunt, quod non conuenit eis ratione diuersitatis, ut patet de communibus eis: uidetur quod duo incompossibilia secundum apparentiam, analogi rationibus conueniant; scilicet quod ipsæ ut eædem non abstrahant a seipsis, et quod ipsæ ut eædem aliquid causent et habeant, quod non ut diuersæ; reduplicarique possint ut eædem, non reduplicatis ut diuersæ sunt. Hæc enim non solum compossibiliter, sed necessario sibi simul uindicat identitas proportionalis; quoniam et extrema uniri omnino non patiens, ab eis abstrahi omnino non permittit; et extrema aliqualiter indiuisa et eadem ponens, ut eadem ea considerabilia et reduplicabilia exigit.  56. Sicque fit, ut in analogo secundum identitatem in se clausam, ad diuersitatem rationum in se quoque clausam comparato, abstractio quædam, quæ non tam abstractio quam quidam abstractionis modus est inueniatur; propter quam non solum ab analogatis (puta substantia et quantitate), analogum (puta ens), abstrahere dicitur, ut supra diximus; sed ab ipsis eius rationibus, seu a diuersitate ipsarum rationum eius: puta rationis entis in substantia, et rationis entis in quantitate. Non quia quamdam rationem eis communem dicat: quia hoc est fatuum; nec quia illæ rationes sint omnino eædem, aut eas omnino uniat: quia sic non esset analogum, sed uniuocum; sed quia eas proportionaliter adunans, et ut easdem proportionaliter significans, ut easdem considerandas offert: annexa inseparabiliter, diuersitate quasi seclusa; et identitate proportionali unit, et confundit quodammodo diuersitatem rationum. Sicque non sola significationum in uoce confusio, analogo conuenit, sed confusio quædam conceptuum, seu rationum fit in identitate eorum proportionali, sic tamen ut non tam conceptus, quam eorum diuersitas confundatur. Et quoniam analogum talem identitatem præcipue importat, et tali confusione frequenter utimur; analoga nomina ab omni rationum eius diuersitate abstrahere dicentes, dum confuse pro omnibus supponere ipsum pluries exponimus, ideo non mediocri opus est uigilantia, ne in uniuocationem labi contingat.  Abstrahit ergo analogum a suis analogatis, puta ens a substantia et quantitate, sicut unum proportione a multis; seu sicut similia proportionaliter a seipsis absolute, tam quoad conceptum obiectiuum, quam mentalem, siue sit sermo de abstractione totali siue de formali. Hæ enim abstractiones non differunt in eodem, nisi secundum præcisionem et non præcisionem, ut alibi declarauimus. Unde nihil aliud est dicere ens abstractum a naturis prædicamentorum abstractione formali, quam dicere naturas prædicamentales proportionales ad sua esse ut sic præcise; a specialibus autem seu singulis analogiæ rationibus extremis, non tertio conceptu simplici, sed uoce communi et identitate proportionali earumdem, quodammodo abstrahit.  QUALIS SIT PRÆDICATIO ANALOGI DE SUIS ANALOGATIS Videbitur autem forte alicui ex his, quod prædicatio analogi de suis analogatis, puta entis de substantia et quantitate, aut formæ de anima et albedine etc., sit sicut prædicatio æquiuoci de suis æquiuocatis; ita quod non sit prædicatio superioris de suis inferioribus, nec communioris de minus communi, nisi sola uoce; sed eiusdem de seipso. Non est enim analogo una res significata, quæ in utroque analogatorum saluetur; absque hoc autem prædicatio communioris aut superioris non inuenitur secundum intrinsecam denominationem, seu inexsistentiam. Sic enim analogum secundum proportionalitatem commune esse dictum est.  60. Fouere quoque potest non parum opinionem hanc processus iuxta I Topicorum. Aut scilicet analogum est prædicatum conuertibile, aut inconuertibile, seclusa uocis communitate. Et cum constet non esse inconuertibile, - quoniam substantia ut sic se habens ad suum esse, quod ens de substantia dictum prædicat, conuertitur cum substantia: et similiter quantitas sic commensurata suo esse, cum quantitate conuertitur, et sic de aliis, - consequens est, quod analogum tamquam superius, de analogatis prædicari non possit. Superioris enim intentionem suscipere non potest, quod conuertibile esse comprobatur.  61. Et quoniam secundum ueritatem analogum ut superius prædicatur de analogatis, et non sola uoce commune est eis, sed conceptu unico proportionaliter: cuius unitas ad hoc, quod prædicatum aliquod superioris rationem habeat, sufficit: quia superius nihil aliud sonat, quam unum prædicatum ad plura se extendens; unum autem non per accidens, neque aggregatione, sicut aceruum lapidum; sed per se, constat esse etiam unum proportione: ideo ad huius ueritatis claritatem ex extremis procedendo, sciendum est, quod quia analogum medium est inter uniuocum et pure æquiuocum: consequens est, quod analogum aliquo modo idem, et non idem aliquo modo de suis prædicet analogatis. Et quia prædicat aliquid abstrahens aliquo modo a suis analogatis, ut ex præmisso patet capite; consequens est, quod comparetur ad sua analogata ut maius ad minora, seu ut superius ad inferiora; licet non omnino unum secundum rationem sit, quod imponit.  Quod ut clarius pateat, figuraliter declaratur sic: Tam in uniuocis, quam in æquiuocis, quam in analogis quatuor inueniuntur, scilicet duæ res ad minus, æquiuocatæ, uniuocatæ, aut analogatæ; et duæ res, seu rerum rationes, æquiuocationem, uniuocationem aut analogiam fundantes. Verbi gratia: In æquiuocatione canis inueniuntur hæc quatuor: scilicet canis marinus, et canis terrestris, et ratio illius, et ratio istius secundum canis nomen. In uniuocatione quoque animalis inueniuntur quatuor: scilicet homo, et bos, et natura sensitiua hominis et natura sensitiua bouis, quæ animalis uniuocationem fundant. In analogia similiter entis quatuor sunt: scilicet substantia et quantitas, et substantia in quantum commensurata suo esse, et quantitas secundum quod suo esse proportionatur. Et licet prima duo, scilicet æquiuocata et analogata, eodem modo quantum ad propositum spectat in omnibus his distinguantur, quia ubilibet ex opposito condistincta sunt; altera tamen duo uniuocationem, æquiuocationem et analogiam fundantia, diuersimode unita aut distincta sunt. In æquiuocis namque rationes illæ, puta canis marini et terrestris, sunt omnino diuersæ secundum rationem; et propter hoc id quod prædicat canis de marino cane, nullo modo prædicat de terrestri, et e conuerso; et ideo sola uoce communius aut maius æquiuocatis dicitur et est.  64. In uniuocis uero res illæ, puta animalitatis in boue et animalitatis in leone, licet et numero et specie diuersæ sint, ratione tamen omnino eædem sunt; ratio enim unius est omnino eadem quod ratio alterius, et, e conuerso; et propter hoc id quidem quod prædicat animal de homine, idem prædicat omnino de boue, et uniuocum dicitur et superius homine, leone boueque. In analogis autem res analogiam fundantes (puta quantitas ut sic se habens ad esse, et substantia ut sic se habens ad esse), licet diuersæ sint et numero et specie et genere; ratione tamen eædem sunt non omnino, sed proportionaliter; quoniam unius ratio proportionaliter eadem est alteri.  66. Et propterea, id quod prædicat analogum, puta ens de quantitate, illud idem proportionaliter prædicat de substantia, et e conuerso; est enim illudmet proportionaliter id quod in substantia ponit, et e conuerso. Et propter hoc analogum, puta ens, non sola uoce communius, maius aut superius analogatis est; sed conceptu, ut dictum est, proportionaliter uno. Ita quod analogum et uniuocum conueniunt in hoc, quod utrumque communioris et superioris rationem habet. Differunt autem in hoc, quod illud est superius analogice seu proportionaliter, hoc uero uniuoce.  67. Et merito, quia fundamentum superioritatis utrobique saluatur, uniuocationis autem non. Fundatur enim superioritas super identitate rationis rei significatæ, idest super hoc quod res significata inuenitur non in hoc tantum, sed illamet non numero sed ratione inuenitur in alio. Uniuocatio autem supra modo identitatis omnimodæ scilicet identitate rationis rei significatæ, idest super hoc quod ratio rei significatæ in illo et in isto est eadem omnino.  68. Quamuis enim in analogis hic identitatis modus non inueniatur, quem in uniuocis inueniri pluries dictum est, identitas tamen ipsa rationum inuenitur. Est namque identitas proportionalis, identitas quædam. Et ideo non minus analogum (puta ens) est prædicatum superius, quam uniuocum (puta animal), sed alio modo: analogum enim est superius proportionaliter, quia fundatur supra identitate proportionali rationis rei significatæ; uniuocum autem præcise et simpliciter, quia supra omnimoda identitate rationis rei significatæ eius superioritas fundatur. Propter quod S. Thomas, superioritatis fundamentum aspiciens, in V Metaph. dicit, quod ens est superius ad omnia, sicut animal ad hominem et bouem.  69. Unde obiectiones ad oppositum adductæ in hoc peccant, quod inter identitatem et modum identitatis non distinguunt. Fatendum enim est, quod ad hoc, quod aliquis terminus denominetur superior aut communior, oportet ut rem unam et eamdem in utroque ponat; sed sophisma consequentis committitur inferendo ex hoc: ergo oportet quod dicat rem unam et eamdem omnino. Et est semper sermo de identitate secundum rationem, seu definitionem. Identitas enim et unitas continent sub se non solum unitatem et identitatem omnimodam, sed proportionalem, quæ in analogi nominis ratione saluatur. Negandum est igitur quod in analogis non prædicetur idem de uno et de alio analogato: quoniam unum et idem proportionaliter de omnibus analogatis dicitur; et propterea inter prædicata non conuertibilia numerandum est. Quantitas enim licet adæquet ens de quantitate uerificatum secundum rationem omnino eamdem, non tamen secundum rationem illam proportionaliter: quoniam entis ratio non alia proportionaliter ad substantiam et quantitatem se extendit. Verum quia analogum sonat identitatem proportionalem, ideo huiusmodi rationibus formaliter respondendo, nullo pacto concedendum est conuerti analogum cum analogato aliquo. Ad materiam tamen descendendo, potest intrepide dici, quod quia analogum rationem unam tantum proportionaliter prædicat, et unum proportionaliter plura esse proportionibus similia manifestum est; dupliciter potest secundum singulas rationes ad analogata comparari. Uno modo absolute: et sic secundum singulas rationes cum singulis analogatis conuertitur; quia nulla omnino una analogi ratio in duobus analogatis inuenitur. Alio modo secundum identitatem proportionalem, quam habet una cum altera: et sic cum nullo analogato conuertitur, quoniam omnes analogi rationes indiuisæ sunt proportionaliter, et una est altera proportionaliter. Et quia, ut dictum est, analogum hanc sonat identitatem, ideo formaliter et simpliciter loquendo, analogum inconuertibile et communius prædicatum, concedendum est esse. Non tamen genus, aut species, aut proprium, aut definitio, aut differentia, aut accidens uniuersaliter est. Nec propterea Aristoteles diminutus fuit aut Porphyrius, quoniam prædicabile, quod unum est simpliciter, edocebant; ac per hoc inter æquiuoca, analoga numerarunt. Ex prædictis autem manifeste patet, quod analogum non conceptum disiunctum, nec unum præcisum inæqualiter participatum, nec unum ordine; sed conceptum unum proportione dicit et prædicat. De ordine tamen in analogis incluso inferius tractabitur. Unde cum dicitur de homine, aut albedine, aut quocumque alio, quod est ens: non est sensus, quod sit substantia, uel accidens; sed sic se habens ad esse.  72. Utor autem ly sic, quoniam de propriis nominibus proportionum ad esse in actu exercito eas importantibus, disputare nolo ad præsens; quoniam Metaphysici negotii opus hoc est, et exemplariter hic de ente loquimur. Simile siquidem est de actu, potentia, forma, materia, principio, causa, et aliis huiusmodi, indicium.  QUALIS SIT ANALOGATORUM SECUNDUM ANALOGI NOMEN DEFINITIO. Apparere quoque alicui poterit, quod in ratione unius analogati, (puta qualitatis) secundum analogi (puta entis) nomen, alterius analogati, puta substantiæ, uel quantitatis ratio secundum idem nomen analogi cadere debeat, sicut in analogia attributionis contingere dictum est. Fundamentum autem inde apparentia hæc sumit: quia ratio unius analogati ut eadem proportionaliter est alteri, absque illa altera exprimi nequit complete. Dictum est autem, quod analogo nomine rationes hæ importantur, ut eadem proportionaliter sunt.  74. Et confirmat hoc expositio ipsa analogiæ ab Aristotele, Auerroe et S. Thoma in I Ethic. posita. Exponunt enim quod bonum, seu perfectio, analogice dicitur de uisu et intellectu, quia sicut uisus in corpore, ita intellectus in anima perfectio est. Constat autem, quod non est intelligibile hoc se habere sicut illud, nisi utrumque extremorum percipiatur. Necessario igitur uidetur, unum analogatorum secundum analogi nomen per aliud definiendum esse.  75. Ut autem liqueat huius ambiguitatis solutio, recolendum est analoga hæc dupliciter inueniri, scilicet proprie et metaphorice. Diuersimode enim hæc se habent ad propositam quæstionem. In analogia siquidem secundum metaphoram, oportet unum in alterius ratione poni, non indifferenter; sed proprie sumptum, in ratione sui metaphorice sumpti claudi necesse est; quoniam impossibile est intelligere quid sit aliquid secundum metaphoricum nomen, nisi cognito illo, ad cuius metaphoram dicitur. Neque enim fieri potest, ut intelligam quid sit pratum in eo quod ridens, nisi sciam quid significet risus nomen proprie sumptum, ad cuius similitudinem dicitur pratum ridere.  76. Est autem huius ratio radicalis, quia analogum metaphorice sumptum, nihil aliud prædicat, quam hoc se habere ad similitudinem illius, quod absque altero extremo intelligi nequit. Et propter hoc huiusmodi analoga prius dicuntur de his, in quibus proprie saluantur, et posterius de his, in quibus metaphorice inueniuntur et habent in hoc affinitatem cum analogis secundum attributionem, ut patet.  77. In analogia uero, in qua nominis saluatur proprietas, nullum analogi membrum per alterum definiri oportet, nisi forte gratia materiæ, ut S. Thomas in qq. de Verit., q. 2, a. 11 docuit. Sunt enim analogatorum rationes secundum analogi nomen quodammodo mediæ inter analoga secundum attributionem, et uniuoca. In analogis enim secundum attributionem, primum definit reliqua. In uniuocis uero neutrum alterum definit, sed unius definitio est completa alterius definitio, et e conuerso. In analogis autem neutrum alterum definit; sed unius definitio est proportionaliter alterius definitio. Et loquimur semper de ratione secundum nomen commune. Verbi gratia, in definitione cordis, secundum quod principium animalis, non ponitur fundamentum secundum quod principium domus, nec e conuerso; sed eadem proportionaliter est principii ratio utrobique, ut Commentator ubi supra dicit. Duabus autem opus est distinctionibus uti in hac re: ea scilicet, quæ in logica, traditur de actu signato et exercito; et ea quæ a metaphysico ut plurimum tractatur, de ordine rerum sub uno nomine ex parte rei, et ex parte impositionis nominis.  79. Ex prima siquidem distinctione scimus duo. Primo, quod sicut animal dictum de homine et de equo importans uniuocationem in actu exercito, non prædicat de homine totum hoc, scilicet naturam sensitiuam eamdem omnino secundum rationem naturæ sensitiuæ equi et bouis, sed naturam sensitiuam simpliciter; quam tamen ad hoc, quod uniuoca sit prædicatio, oportet omnino esse eamdem secundum rationem naturæ sensitiuæ equi et bouis, - ita ens importans proportionalitatem in actu exercito, non prædicat de quantitate totum hoc, scilicet habens se ad esse sic proportionaliter sicut substantia, aut qualitas ad suum esse; sed habens se ad esse sic absque alia additione; quod tamen oportet, ad hoc quod analoga sit prædicatio, idem proportionaliter esse cum altero, sic se habere ad esse quod de substantia aut qualitate ens prædicat.  80. Secundo, quod sicut ex declaratione, qua manifestatur animal esse uniuocum, quia dicit unam et eamdem omnino rationem in omnibus, non fallimur, nec confundimur, nec uagamur circa hominis et bouis secundum animalis nomen rationem; sed quiescimus, intuentes quod animal exercet, quod uniuocorum definitio et expositio significat: - ita ex hoc, quod declaratur ens aut bonum, aut quodcumque aliud esse analogum, quia dicit rationes plures easdem proportionaliter, et importat hoc se habere quemadmodum proportionaliter illud se habet ad esse uel appetitum etc., non debemus turbari et inquirere in analogi nominis (puta boni) ratione significationem istam; sed sat sit, distinguendo inter actum signatum et exercitum, inspicere quod analogi nominis ratio id exercet, quod analogi ratio et declaratio significat.  81. Ex his autem duobus patere iam potest intentum, quod scilicet non oportet unum analogiæ membrum per alterum definire, ex eo quod analogum significat ea esse eadem proportionaliter, quoniam hæc in actu exercito significat.  82. Ex secunda uero distinctione scimus, non solum - quod præposterus est ordo rerum et significationum quandoque sub nomine analogo, ita quod prior secundum rem ratio, posterior interdum significatione est (ut de ente et bono et aliis huiusmodi communibus Deo et creaturis accidit: ratio enim quam in Deo quodlibet horum ponit, significatione quidem posterior, re autem prior est); et quod propter alterum horum dicitur analogum prædicari de suis analogatis secundum prius et posterius ipsam analogi rationem. - Sed etiam scimus, quod quando ratio, quam ponit analogum in uno, ex ratione quam in altero ponit, exponitur: non ideo fit, quia unum in alterius ratione cadat; sed quia unius ratio posterior altera est significatione; et per priorem, utpote notiorem declaratur: ut S. Thomas in I p., q. XIII, art. 2 fecit: declarans quod, dicendo: Deus est bonus: sensus est, id quod bonitatem in creaturis dicimus, præexsistit in Deo proportionaliter etc. Et eadem intelligendum est ratione fieri, si posterior secundum rem per priorem declaretur. Non definit ergo analogum secundum unam rationem, seipsum secundum alteram, licet exponat et declaret.  83. Obiectionibus autem in oppositum, quamuis ex dictis satisfactum sit, formaliter responderi potest, quod cognosci aliqua ut eadem proportionaliter, seu hoc se habere sicut illud, dupliciter contingit. Uno modo formaliter, idest quoad relationem identitatis et similitudinis, et sic absque extremis cognitio hæc haberi non potest. Alio modo fundamentaliter, et sic in ratione unius non cadit reliquum; sed ratio unius est ratio alterius omnino, uel proportionaliter. Constat autem quod analogum nomen, puta ens aut bonum, non relationem identitatis aut similitudinis significat, sed fundamentum; et ideo obiectiones quæ iuxta primum sensum procedunt, nihil concludunt contra intentum. Patet autem facillime, hæc esse uera exempla de uniuocis, ponendo et applicando ad identitatem uniuocationis. Significat namque nomen uniuocum plura, in quantum eadem sunt uniuoce, seu secundum rationem omnino. Et identitatis relatio in nullo extremorum absque altero intelligibilis est. QUALIS SIT IN ANALOGO COMPARATIO. Difficultas etiam non parua, quæ multos inuasit ac superauit, de comparatione in analogo, dilucidanda est. Creditum enim est a quibusdam, quod non posset, analogia posita, sermo ille nisi extorte exponi, quo unum analogatum magis aut perfectius tale secundum analogi nomen diceretur. Verbi gratia: substantia est magis, aut perfectius ens quam quantitas. Moti sunt autem ex eo, quod comparatio in uno communi, utrinque facienda est, etiam secundum grammaticos; quod in analogo non inueniri uidetur. Et potest formari ratio pro eis talis: Aut comparantur analogata in una communi eis ratione, aut in suis rationibus. Non in ratione communi: quia illa analogum caret; nec in rationibus propriis: quia tunc falsum est, substantiam magis esse ens quam quantitatem. Non enim minus aut imperfectius quantitas est sua ratio, quam ens in ea ponit, quam substantia sua etc. Nullo igitur modo uidetur comparationem cum analogia saluari posse.  86. Succumbitur autem difficultati huic, quia proprium comparationis fundamentum non consideratur. Fundatur enim super identitate seu unitate rei, in qua fit comparatio, et non super modo identitatis aut unitatis; sicut de intentione superioritatis prædictum est. Unde cum analogum ex dictis constet rem unam, licet proportionaliter, dicere; nihil prohibet in ipso comparari analogata, licet non eo modo, quo uniuoca fit comparatio. Ad comparationem siquidem cum requirantur et sufficiant hæc tria: scilicet distinctio extremorum, et identitas eius, in quo fit comparatio, et modus essendi illius in extremis, scilicet eaque, uel magis aut minus perfecte; sub identitate autem seu unitate, proportionalis unitas seu identitas contineatur, consequens est, quod si in diuersis idem proportionaliter eaque uel magis aut minus perfecte esse habet, comparatio secundum illud proportionale fieri possit, comparatione non uniuoca, sed analoga.  88. Sicut enim, quia natura sensitiua est in boue, et illamet omnino secundum rationem est in homine, et perfectius esse habet in homine quam in boue: homo perfectius animal boue dicitur, uniuoca comparatione; sic quia sic se habere ad esse est in substantia, et hoc idem proportionaliter est in quantitate, et imperfectius esse habet in quantitate quam in substantia: dicitur substantia magis seu perfectius ens, quam quantitas, analoga comparatione. Unde S. Thomas in art. 7, quæst. VII de Potentia Dei, tripliciter comparationem fieri docens, duos modos analogicæ comparationis ponit: aperte ex hoc insinuans, comparationem non solum super identitate numerali, specifica aut generica fundari, sed etiam proportionali.  89. Modi autem comparationis ibidem traditi sunt, hi scilicet secundum solam quantitatem rei participatæ: et sic unum album dicitur altero albius. Vel extendendo, propter præsens propositum, hunc modum ad omnem comparationem uniuocam, dicatur quod primus attenditur secundum quantitatem rei participatæ, eiusdem omnino secundum rationem, siue illa ratio sit specifica, siue generica: ut calidum magis calidum altero dicitur, et homo perfectius animal leone est.  90. Secundus uero modus attenditur secundum quod res aliqua in uno inuenitur participatiue, in altero uero est per essentiam: quemadmodum homo Platonicus longe perfectior homo esset nobis. Et abstractione intellectus utendo, quemadmodum bonitas longe melior est quocumque bono, quod participatiue bonum dicitur.  91. Tertius autem modus attenditur secundum quod res aliqua in uno inuenitur formaliter et secundum se, in altero autem uirtualiter et eleuatum ad rem superioris ordinis. Quemadmodum dicitur quod sol est magis calidus quam ignis; uel quod calor perfectius esse habet in sole, quam in igne.  Nec est dubium hos duos modos uniuocam comparationem impedire, ut S. Thomas ibidem dicit, et Aristoteles in I Ethic. de primo modo testatur: ubi bonum commune non uniuoce, sed secundum proportionalitatem dicendum docet, bonitati separatæ et bonis cæteris per participationem. Patet igitur ex his, eadem proportionaliter ut sic esse comparabilia; quamuis, physice loquendo, in sola specie aut genere comparatio fiat.  93. Ad obiectionem autem in oppositum, dicitur quod utroque modo in analogis comparatio fit. Comparantur siquidem analogata, puta substantia et quantitas, in ratione una et communi proportionaliter, quam analogi nomen, puta ens, dicit, et addit supra analogata, ut ex dictis patet. Et comparantur secundum suas rationes, secundum tamen analogi nomen, quæ earum sit perfectior, secundum quod dicimus substantiam esse perfectius ens quantitate; quia ratio entis in substantia perfectior est ratione entis in quantitate. Ita quod iuxta istam comparationem est sensus: Substantia habet, secundum entis nomen, perfectiorem rationem quam quantitas; et non quod substantia est magis aut perfectius substantia quam quantitas sit quantitas, ut quidam somniare uidentur.  94. Unde comparatio ista extenditur usque ad analoga secundum attributionem, licet in tali analogia non nisi abusiue comparatio fieri possit. Dicimus enim quod ens reale est magis et perfectius ens ente rationis, quod per attributionem ad illud ens dicitur in IV Metaph. text. com. II; quia ens reale habet, secundum entis nomen, perfectiorem rationem. Iuxta quem modum, si usus admitteret, diceremus: animal est magis sanum urina; quia perfectiorem secundum sani nomen rationem habet.  QUALIS SIT ANALOGI DIVISIO ET RESOLUTIO  95. Qualiter autem analogum diuidendum sit, ex dicendis manifestum est. Potest siquidem trifariam analogi diuisio intelligi. Primo, ut diuidatur uox in suas significationes. Dictum est enim, quod analogum plures rationes significat immediate, et hæc diuisio conuenit sibi, in quantum æquiuocum quoddam est.  Secundo, ut diuidatur significatum eius in quasi membra eius: eo modo quo eius, quod proportionaliter unum est, sic et sic proportionatum, membra dici possunt. Dictum est enim, quod analogum non ita diuersas rationes significat, quin significet unam rationem proportionaliter. Omnes namque rationes analogo nomine immediate significatæ eædem proportionaliter sunt. Ratio autem una proportionaliter, cum constituatur ex pluribus rationibus proportionalibus, in eas secari potest. Hæc autem non est diuisio analogi in sua analogata: quoniam rationes hæ in ipsius analogi ratione intrinsece clauduntur, et analogata ea sunt, in quibus rationes illæ saluantur, et non ipsæ rationes. Entis enim analogata sunt substantia et quantitas, et non rationes entis in substantia et quantitate. Rationes enim ut dictum est, analogæ sunt.  97. Unde tertio modo potest diuidi analogum, diuidendo significatum eius in sua analogata per diuersos modos, quibus analogi rationem proportionalem analogata ipsa diuersimode suscipiunt: ita quod diuisum est significatum unum proportionaliter, diuidentia sunt modi fundantes et facientes in analogatis proprias proportiones, secundum quas fit analogia; constituta autem per diuisionem, ut partes subiectiuæ, sunt analogata ipsa. Verbi gratia: quando ens diuiditur in substantiam et quantitatem, diuisum est ratio entis nomine significata, quæ omnes in se entis nomine significatas rationes claudit, utpote una proportionaliter; diuidentia sunt substantiuum et mensuratiuum, seu per se et in alio, sicut ex quibus substantia et quantitas habent quod diuersas entis rationes subintrent; partes autem subiectiuæ sunt substantia et quantitas, quæ in entis ratione analogantur. Et quia hæc est propria analogi diuisio, idcirco distincte explicandum est, quomodo differat diuisio hæc ad uniuoca. Tripliciter siquidem differunt. Primo ex parte diuisi: quia diuisione uniuoca unum omnino secundum rationem secatur; hic autem unum proportionaliter.  99. Secundo ex parte diuidentium: quia differentiæ secantes genus, extra genus sunt; modi autem secantes analogum, in ipsius analogi ratione clauduntur, quemadmodum ipsa analogata (ut in capitulo de abstractione declaratum est); propter quod in III Metaph. text. comm. X ens genus esse negatur.  100. Tertio ex parte ipsarum partium subiectiuarum, quæ per diuisionem fiunt: quia partes diuisionis uniuocæ, licet ordinem habeant secundum se, et originis: ut dualitas est prior trinitate; et perfectionis: ut albedo est perfectior nigredine; tamen secundum diuisi rationem, puta numeri, aut coloris, neutra altera prior, aut posterior est; sed omnes æqualiter in diuisi ratione communicant. Analogata uero, quæ analoga diuisione constituuntur, non solum secundum se, sed etiam in ipsius analogi quod diuiditur ratione ordinem habent; et aliud prius aliud posterius est; adeo ut in uno eorum, tota ratio diuisi saluari dicatur; in alio autem imperfecte et secundum quid. Quod non est sic intelligendum quasi analogum habeat unam rationem, quæ tota saluetur in uno, et pars eius saluetur in alio. Sed cum totum idem sit quod perfectum, et analogo nomine multæ importentur rationes, quarum una simpliciter et perfecte constituit tale secundum illud nomen, et aliæ imperfecte et secundum quid: ideo dicitur, quod analogum sic diuiditur, quod non tota ratio eius in omnibus analogatis saluatur, nec æqualiter participant analogi rationem, sed secundum prius et posterius.  101. Cum grano tamen salis accipiendum est, analogum simpliciter saluari in uno et secundum quid in alio. Sufficit enim hoc uerificari: uel absolute, ut patet in diuisione entis in substantiam et accidens; (illa enim absolute loquendo dicitur ens simpliciter, hoc autem secundum quid); uel in respectu, ut patet in diuisione entis in Deum et creaturam. Utrumque enim licet ens simpliciter sit et dicatur, absolute loquendo; creatura tamen in respectu ad Deum, ens secundum quid, et quasi non ens est et dicitur.  102. Circa resolutionem autem analogatorum, sciendum est: quod cum uniuersaliter, primum in compositione sit ultimum in resolutione, et per diuisionem in ea, quæ actu in aliquo sunt resolutio fiat: eodem modo resoluenda sunt analogata in suum analogum, quo cætera resoluuntur, scilicet utendo diuisione prædicta (quæ uocatur diuisio in partes essentiæ uel rationis), et a posterioribus secundum consequentiam ad priora procedendo, si longa esset resolutio facienda. Ad rationem autem analogi cum deuentum fuerit, singulis analogatis in suas rationes secundum analogi nomen resolutis: cum illa analogi ratio ex multis constituatur rationibus, ordinem inter se et proportionalem similitudinem habentibus: uel ordinate ad primam resolutio fiat, ueniendo semper ad similius et propinquius primæ, et id, in quo dissimilitudo est, relinquendo. Vel si non sic ordinatas inter se contingit esse rationes illas, ad primam omnes modo prædicto reducendæ sunt. Ordinem enim ad primam nulla subterfugere potest. Nec refert in proposito, an fiat resolutio ad rationem primam, significatione, uel secundum rem. Intelligenda enim sunt hæc in suo ordine, scilicet, significationum aut rerum. QUALITER DE ANALOGO SIT SCIENTIA  . Visum est autem quibusdam de analogo scientiam esse non posse, nisi quemadmodum de æquiuocis scientia habetur: eo quod plures rationes dicit licet similes. Imo fallaciam æquiuocationis committi in syllogismis, in quibus, analogo pro medio sumpto, certum analogatum subsumitur, (nisi forte gratia materiæ bonus esset processus) astruunt ex eadem ratione. Nec posse ex unius analogati ratione, secundum analogi nomen, concludi alterum analogatum tale formaliter esse; sed semper prædictum incidere uitium, ratione prædicta, confirmant. Verbi gratia: si ponamus sapientiam esse analogice communem Deo et homini, ex hoc quod sapientia, in homine inuenta, secundum formalem rationem præcise sumpta, dicit perfectionem simpliciter: non potest concludi: ergo Deus est formaliter sapiens, sic arguendo: Omnis perfectio simpliciter est in Deo; sapientia est perfectio simpliciter; ergo etc. Minor enim distinguenda est: et si ly sapientia pro ratione sapientiæ, quæ est in homine stat, argumentum est ex quatuor terminis: quia in conclusione, sapientia stat pro ratione sapientiæ quam ponit in Deo, cum concluditur: ergo sapientia est in Deo. Si autem pro ratione sapientiæ in Deo, stat in minore; non concluditur, ex perfectione sapientiæ creatæ, Deum esse sapientem; cuius oppositum et philosophi et theologi omnes clamant.  106. Decipiuntur autem isti, Scotum (cuius est ratio hæc I Sent., dist. 3, q. I) sequentes: quia in analogo diuersitatem rationum inspicientes, id quod in eo unitatis et identitatis latet, non considerant. Rationes enim analogi (ut superius etiam diximus) possunt dupliciter accipi: Uno modo secundum se, in quantum ab inuicem distinguuntur, et ea quæ conueniunt eis ut sic, seu ex hoc. Alio modo in quantum eadem sunt proportional iter. Primo modo acceptæ, uitium æquiuocationis inducerent, si quis eis uteretur, ut patet. Secundo autem modo eis utendo, peccatum nullum incurritur: eo quod quidquid conuenit uni, conuenit et alteri proportionaliter; et quidquid negatur de una, et de altera negatur proportionaliter: quia quidquid conuenit simili, in eo quod simile, conuenit etiam illi, cui est simile, proportionalitate semper seruata.  Unde si ex immaterialitate animæ, concluditur eam esse intellectualem; ex immaterialitate proportionaliter posita in Deo optime concluderetur, Deum esse intellectualem proportionaliter: ut quantum immaterialitas illa excedit istam, tantum intellectualitas illa excedit istam etc. Propter quod S. Thomas in quæstione II De Potentia Dei, art. 5, analogata omnia sub una analogi distributione cadere dixit. Et merito, quia unitas analogiæ non esset in coordinatione unitatum numeranda, nisi unum proportionaliter, unum esset affirmabile et negabile, et consequenter distribuibile et scibile, ut subiectum, et medium, et passio.  Unde ad obiecta in oppositum dicitur, quod quia, ut in II Elenchorum cap. X dicitur, æquiuocatio latens in huiusmodi proportionalibus peritissimos etiam latet: ideo oportet, huiusmodi analogis nominibus utendo ex parte unitatis, semper modum proportionalitatis subintelligi; aliter in uniuocationem lapsus fieret. Nisi enim præ oculis haberetur proportionalitas, cum dicitur immateriale omne esse intellectuale, tamquam uniuoce dictum acciperetur, et latens æquiuocatio non uisa obreperet.  109. Proportionalitate autem seruata, de analogis scientiam esse: et diui Thomæ processus de bono et uero et aliis huiusmodi, et quotidianum conuincit exercitium. Testatur quoque demonstratiuæ artis pater Aristoteles, in II Poster., cap. XIII incipiente: Ut habeamus autem proposita (uel problemata) analogum causam adæquatam esse alicuius passionis, et in medium oportere quandoque a demonstratore assumi, dum uenationem propter quid docens, inquit: « Amplius alius modus est secundum analogiam eligere. Unum enim idem non est accipere quod oportet uocare sepion, et spinam, et os. Sunt autem quæ sequuntur et hoc, tamquam natura una huiusmodi exsistente ». Et sequenti cap. ait: « Secundum autem analogiam eiusdem, et medium se habet secundum analogiam ». In quibus uerbis non solum docuit, analogum ut medium assumi quandoque in demonstrationibus; sed etiam ipsum non esse unum in se expressit, et cum hoc habere passionem adæquatam, ac si unius esset naturæ.  110. Nec impedit analogia hæc processum formalem ad concludendum de Deo et creaturis prædicatum aliquod eis commune: quoniam accepta sapientiæ ratione, et segregatis ab ea per intellectum eis, quæ sunt imperfectionis, ex hoc quod id, quod est sibi proprium formaliter sumptum, perfectionem absque imperfectione claudit, concluditur ergo sapientiæ ratio non omnino alia, nec omnino hæc, sed hæc proportionaliter est in Deo: quia similitudo inter Deum et creaturam non est uniuoca, sed analoga.  Nec pari ratione potest concludi, Deum esse lapidem proportionaliter: quia ratio lapidis formaliter sumpta, quantumcumque expoliata, imperfectionem aliquam claudit, quæ prohibet tam ipsam secundum se, quam ipsam proportionaliter in Deo reperiri, nisi metaphorice: quemadmodum dictum est: Petra autem erat Christus. Unde, cum fit huiusmodi processus: Omnis perfectio simpliciter est in Deo; sapientia est perfectio simpliciter; ergo etc.; in minore ly sapientia non stat pro hac uel illa ratione sapientiæ, sed pro sapientia una proportionaliter, idest, pro utraque ratione sapientiæ non coniunctim uel disiunctim; sed in quantum sunt indiuisæ proportionaliter, et una est altera proportionaliter, et ambæ unam proportionaliter constituunt rationem  Significantur enim analogo nomine in quantum eædem sunt; unde non oportet analogum distinguere, ad hoc quod contradictionem fundet, et enuntiationis subiectum, aut prædicatum fiat; sed ratione identitatis preportionalis in se clausæ, et quam principaliter dicit, ex se ad hoc sufficit. Contradictio enim dicitur consistere in affirmatione et negatione eiusdem de eodem etc., et non in affirmatione et negatione uniuoci de eodem uniuoco. Identitas siquidem tam rerum quam rationum, ut pluries replicatum est, ad identitatem proportionalem se extendit.  Ex hoc autem apparet, Scotum in I Sent., dist. 3, q. I, uel male exposuisse conceptum uniuocum uel sibi ipsi contradicere: dum, uolens uniuocationem entis fingere, alt: « Conceptum uniuocum uoco, qui ita est unus, quod eius unitas sufficit ad contradictionem, affirmando et negando ipsum de eodem ». Et sic uniuocum uult esse ens. Si enim identitas sufficiens ad contradictionem, uniuocatio dicitur; constat quod, ponendo ens esse analogum, et secundum proportionalitatem tantum unum, satisfiet uniuocationi: quod scoticæ doctrinæ aduersatur, tenenti ens habere conceptum unum simpliciter, et omnino indiuisum, (ut de uniuocis diximus). Si autem non omnis talis identitas sufficit ad uniuocationem, non recte igitur uniuocatio conceptus declarata est esse eam, quæ ad contradictionem sufficit, quasi proportionalis identitas ad hoc non sufficiat. DE CAUTELIS NECESSARIIS CIRCA ANALOGORUM NOMINUM INTELLECTUM ET USUM. Quia uero Aristoteles in prædicta ex Elenchis auctoritate, doctissimos uiros circa horum nominum conceptus errare dicit, ob latentem eorum unitatis modum: idcirco necessarium fore duximus, in fine huius tractatus cautelas quasdam tradere, quibus possit se quis ab errore multiplici in re hac præseruare.  Cauendum est igitur in primis, ne ex uniuocatione ipsius nominis analogi respectu quorumdam, credamus simpliciter ipsum esse uniuocum: omnia enim fere analoga proprie, prius fuerunt uniuoca, et deinde extensione, analoga communia proportionaliter illis quibus sunt uniuoca et aliis uel alii, facta sunt. Sapientiæ enim nomen primo impositum est humanæ sapientiæ, et uniuocum omnium hominum sapientiis erat. Deinde, ad diuinæ naturæ cognitionem ascendentes, proportionalemque similitudinem inter nos ut sapientes et Deum contemplantes, sapientiæ nomen extenderunt ad id in Deo significandum, cui nostra sapientia proportionalis est; sicque uniuocum nobis, analogum factum est nobis et Deo. Et similiter de aliis accidit.  Falli autem contingit faciliter ex hoc, quia illa ratio prior, utpote notior et familiarior et prior quoad nos, semper profertur ab illustribus uiris, et ab eorum sequacibus, cum analogi significatio quæritur; et dicitur esse tota analogi ratio, pro qua simpliciter prolatum stat, et omnia analogata illam participare: ut patet cum sapientiæ ratio redditur. Assignatur enim differentialis eius conceptus pro ratione, secundum quam communis ponitur Deo et creaturis. Et similiter est in aliis. Creditur enim ex hoc, quod illa sit ipsa analogi ratio, et incaute uniuocatio acceptatur: non enim illa ratio est ratio analogi, sed eius origo quoad nos; quoniam non illa, sed illa proportionaliter in altero analogato inuenitur, ut ex dictis patet. Cauendum secundo est, ne nominis unitas, aut diuersitas rationum, analogam unitatem obnubilet; hoc enim tamquam quoddam accidens, in re hac suscipiendum est. Nihil enim minus analogice idem sunt sepion, os, et spina, unum non habentia nomen, quam si unum nomen haberent. Nec magis idem essent, si unum nomen haberent, et tamen si communi nomine ossa uocarentur, ita quod defectu uocabulorum, uel rerum proportionali similitudine ossis nomen ad cætera extensum esset, crederemus eiusdem esse naturæ et rationis, ossa, sepion, et spinas. Præsertim quia, ut dictum fuit, ad ea quæ sunt proportionaliter eadem, consequuntur passiones tamquam si eorum esset natura una. Cauendum tertio est, ne uocalis unitas rationis analogi nominis mentem inuoluat. Ex eo namque uerbi gratia, quod principium dicitur esse id ex quo res fit, aut est, aut cognoscitur; et hæc ratio in omnibus quæ principia dicuntur, saluatur: principii nomen uniuocum creditur. Erratur autem, quia ratio ipsa non est una simpliciter, sed proportione et uoce. Vocabula enim, ex quibus integratur, analoga sunt, ut patet; neque enim fieri, neque esse, neque cognosci, neque ly ex unius omnino est rationis, sed proportionalis saluatur. Et propterea ratio illa in omnibus utpote proportionalis saluatur: sicut et principii nomen proportionaliter commune dicitur.  119. Cauendum demum est, ne diuersa doctorum dicta de analogis nos perturbent. Considerandum quippe est quod, quia analogum medium inter uniuocum et æquiuocum est, et medium extremorum naturam sapiens: ad alterum comparatum, alterum induit; adeo ut quando medio, secundum id quod de uno extremo habet, utimur, illius extremi conditiones ei attribuamus, ut in V Physic., text. comm. 6 et 52 patet. Ideo plerumque doctores utentes analogo ex parte unitatis, quam ex uniuocis participat, uniuocorum non solum conditiones, puta abstractionem, indistinctionem, etc. sed etiam nomen ei attribuunt. Utentes uero analogo ex parte diuersitatis, quam ex æquiuocis trahit, conditiones quoque supradictis oppositas, et nomen illi imponunt æquiuoci.  120. Et ut de multis pauca dicantur, Aristoteles in II Metaph., text. comm. 4, ens et uerum uniuoca uocat; quia ex parte identitatis illis utitur, ut processus suus aperte ostendit. S. Thomas quoque pluries dicit, in ratione alicuius analogi, puta paternitatis communis diuinæ et humanæ paternitati, omnia contenta esse indiuisa et indistincta; et quod paternitas, uerbi gratia, abstrahit a paternitate humana et diuina: quia utitur analogo ex parte identitatis.  121. Nec tamen falsæ sunt aut abusiuæ prædictæ utriusque locutiones et similes; sed amplæ potius et largæ, quemadmodum pallidum nigro contrarium est et dicitur. Saluatur siquidem in analogis identitas nominis et rationis, in qua (ut ex dictis patet) non solum analogata, sed etiam singulæ analogi rationes uniuntur, et quodammodo confunduntur, utpote abstrahentes aliqualiter ab earum diuersitate.  Rursus pater Aristoteles in I Physic., ex parte diuersitatis ente utens contra Parmenidem et Melissum, multiplex seu æquiuocum, (ut ipsemet illum textum sic exponendum specialiter in II Elenchorum tradit) uocauit. Unde et Porphyrius, Aristotelem dicere ens esse æquiuocum accepisse uidetur, utens ente ex parte diuersitatis. Quod tamen Scotus, in I Sent., dist. 3, q. 3, in Logica Aristotelis non inueniri ideo dixit: quia prædictos textus non coniugauit. Propter quod, ibidem quoque contra textum, glossauit principium Aristotelis contra Parmenidem in I Physic., text. comm. 13, ut in Elenchis (ut dictum est) clare patet. Thomas etiam, ens prius non esse primo analogato, nihilque Deo prius secundum intellectum esse, dicit pluries: utens analogo ex parte diuersitatis rationum eius. Quælibet siquidem eius ratio secundum se, quia proprium analogatum in se claudit, et in sui abstractione illud secum trahens, cum illo conuertitur, ut supra diximus: ideo prior secundum consequentiam, aut abstractior suo analogato negatur. Ac per hoc, primo analogato et Deo nihil est prius: quia eius ratio secundum analogi nomen, quæ ipso prior secundum se non est, sed conuertitur, cæteris prior est rationibus. Cum his tamen stat, quod ratio illa in Deo ut eadem est proportionaliter alteri rationi, secundum idem nomen superior, et secundum consequentiam prior logice loquendo sit, ut ex dictis patet. Dico autem logice: quia physice loquendo, analogum nec est prius secundum consequentiam omnibus analogatis (quia ab eorum propriis abstrahere non potest, quamuis ut saluatur in uno sit prius altero), nec potest esse sine primo analogato, ubi analogata consequenter se habent.  125. Unde si quis falli non uult, solerter sermonis causam coniectet, et extremorum conditiones medio applicaturum se recolat; sic enim facile erit omnia sane exponere, et ueritatem assequi, quæ a prima est Veritate. Cuius cognitio ex hoc exaltetur et firmetur Opusculo.  Completo in conuentu S. Apollinaris, Papiæ suburbio, EXPLICIT TRACTATUS DE NOMINUM ANALOGIA. Gætano. V.. Caietanus Vio. Cajetano Vio. Cætano Vio. Gætano Vio. Al secolo: Giacomo De Vio. Jacopo De Vio. Tommaso De Vio. Cardinal Cætano. Cardinal Gætano. Tommaso De Vio da Gæta, detto il Gætano. COMMENTARIO di V. Sulla INTERPRETAZIONE del LIZIO. THOMÆ DE VIO CAIETANI  ORDINIS PRÆDICATORUM  S. R.  IN  E. CARDINALIS  COMMENTARIA  RELIQUUM LIBRI SECUNDI PERI HERMENDE INTERPRETATIONE EIAS  AD LECTOREM  Humano: capiti cervicem. nitor. equinam  Addere: da veniam, si nova monstra iuvant.  —H—  LECTIO   (Cano. CarrTANt lect. 1).  DE NUMERO ET HABITUDINE ENUNCIATIONUM IN QUIBUS PRÆDICATUR VERBUM EST  ET SUBIICITUR NOMEN FINITUM UNIVERSALITER SUMPTUM, VEL NOMEN INFINITUM, ET IN QUIBUS  PRÆDICATUR VERBUM: ADIECTIVUM  Ὁμοίως δὲ ἔχει κἂν καθόλου τοῦ ὀνόματος κατάφάσις" olov, πᾶς ἐστὶν ἄνθρωπος δίκαιος: ἀπόφασις  τούτου, οὐ πᾶς ἐστὶν ἄνθρωπος δίκαιος: πᾶς ἔστιν  ἄνθρωπος οὐ δίκαιος, οὐ πᾶς ἐστὶν ἄνθρωπος οὐ δίχαιὸς.  Πλὴν οὐχ ὁμοίως τὰς κατοὸ διάμετρον ἐνδέχεται συναληθεύειν: ἐνδέχεται δὲ ποτέ.  Αὗται μὲν οὖν δύο ἀντίκεινται,  ἴλλλαι δὲ δύο πρὸς τὸ οὐχ ἄνθρωπος, ὡς ὑποκείμενόν  τι  προστεθέν- ἔστι δίκαιος οὐκ ἄνθρωπος, οὐχ ἔστι  δίχαιος οὐχ ἄνθρωπος" ἔστιν οὐ δίκαιος οὐχ ἄνθρωπος, οὐχ ἐστιν οὐ δίκαιος οὐχ ἄνθρωπος. '  Πλείους δὲ τούτων οὐχ ἔσονται ἀντιθέσεις.  Αὗται δὲ χωρὶς ἐκείνων αὐταὶ καθ᾽ ἑαυτὰς ἔσονται, ὡς  ὀνόματι τῷ οὐχ ἄνθρωπος χρώμεναι.  "Eg ὅσων δὲ τὸ ἔστι pod ἁρμόττει, olov ἐπὶ τοῦ ὑγιαίνει  καὶ βαδίζει, ἐπὶ τούτων τὸ αὐτὸ ποιεῖ οὕτω. τιθέμενον, ὡς ἂν εἰ τὸ ἔστι προσήπτετο; olov, ὑγιαίνει  à  πᾶς ἄνθρωπος; οὐχ ὑγιαίνει πᾶς ἄνθρωπος, ὑγιαίγει  πᾶς οὐχ ἄνθρωπος, οὐχ ὑγιαίνει πᾶς οὐκ ἄνθρωπος.  Οὐ γάρ ἐστι τὸ οὐ πᾶς ἄνθρωπος λεχτέον' ἀλλὰ τὸ οὔ,  τὴν ἀπόφασιν, τῷ ἄνθρωπος προσθετέον" τὸ γὰρ πᾶς  οὐ τὸ καθόλου σημαίνει, ἀλλ᾽ ὅτι καθόλου.  ᾿  Δῆλον δὲ ἐκ τοῦδε, ὑγιαίνει ἄνθρωπος, οὐχ ὑγιαίνει ἄνθρωπος" ὑγιαίνει οὐχ ἄνθρωπος, οὐχ ὑγιαίνει οὐχ ἄνθρωπος. Ταῦτα γὰρ ἐχείνων διαφέρει τῷ μὴ καθόλου  εἶναι. Ὥστε τὸ πᾶς, οὐδείς, οὐδὲν ἄλλο προσσημαίνει; ὅτι χαθόλου τοῦ ὀνόματος κατάφασιν 7)  ἀπόφασιν.  :  Τὰ δὲ ἄλλα τὰ αὐτὰ δεῖ προστιθέναι"  * Similiter autem se habent, et si universalis nominis sit affirmatio; ut est, omnis homo iustus est; negatio huius,  non omnis est homo iustus, omnis est homo non iustus,  non omnis est homo non iustus.  Sed non similiter angulares contingit veras esse; contingit  autem aliquando.  Hæ igitur duæ oppositæ sunt.  Aliæ  autem duæ ad id quod est, non homo, quasi ad  subiectum aliquod additum; ut, est iustus non homo,  non est iustus non homo; est non iustus non homo,  non  est non iustus non homo.  Plures autem his non erunt oppositæ.  Hæ autem extra illas, ipsæ secundum se erunt, ut nomine  utentes eo, quod est non homo.  In his vero, in quibus, est, non convenit ut in eo. quod  est valere vel ambulare, idem faciunt sic positum, ac  si, est, adderetur, ut, sanus est omnis homo, non sanus  est  nus  omnis homo; sanus est omnis non homo, non sæst  omnis non homo.  Non enim dicendum est, non omnis homo; sed, non, negationem ad id quod est homo addendum est; omnis  enim non universalem significat, sed quoniam universaliter.  Manifestum est autem ex eo quod est, valet homo, non  valet homo; valet non homo, non valet non homo.  Hæc enim ab illis differunt, eo quod universaliter non  sunt. Quare omnis vel nullus nihil significant aliud, nisi  quoniam universaliter de nomine, vel affirmant vel  negant.  Ergo et cætera eadem oportet apponi.  *  Seq. cap. x. II  ostquam Philosophus α distinxit enunciationes in quibus subiicitur nomen   infinitum non universaliter sumptum, hic  S  *  Ed. c: indefinitas.  *  *  Num. 4.  Num. 8.  intendit  distinguere enunciationes, in  )quibus subiicitur nomen finitum univerCsaliter sumptum. Et circa hoc tria facit:  primo, ponit similitudinem istarum enunciationum ad infinitas * supra positas; secundo, ostendit  dissimilitudinem earumdem; ibi: Sed non similiter * etc. ;  tertio, concludit numerum oppositionum inter dictas enunciationes; ibi: Hæ duæ igitur  2.  *  Lib. II, lect. ui,  n. 5.  Ammonius.  Porphyrius.  *  Lect. xi, n. 5,  seq.  *  Ed. c: quam sura  posuimus.  orphyrius.  et  * etc. Dicit ergo primo quod:  similes sunt enunciationes, in quibus est nominis universaliter sumpti affirmatio.  Quoad primum notandum est quod in enunciationibus indefinitis supra positis * erant duæ oppositiones et  quatuor enunciationes, et affirmativæ inferebant negativas, et non inferebantur ab eis, ut patet tam in expositione Ammonii, quam Porphyrii. Ita in enunciationibus  in quibus subiicitur nomen finitum universaliter sumptum  inveniuntur duæ oppositiones et quatuor enunciationes:  affirmativæ inferunt negativas et non e contra. Unde  similiter se habent enunciationes supradictæ, sj nominis  in subiecto sumpti fiat affirmatio universaliter. Fierit enim  tunc quatuor enunciationes: duæ de prædicato finito,  scilicet omnis bomo est iustus, et eius negatio quæ est,  non ommis bomo est iustus; et duæ de prædicato infinito, scilicet omnis bomo. est non iustus, et eius negatio quæ  est, non omnis bomo est non iustus. Et quia quælibet affirmatio cum sua negatione unam integrat oppositionem,  duæ efficiuntur oppositiones, sicut et de indefinitis dictum est. Nec obstat quod de enunciationibus universalibus  loquens particulares inseruit; quoniam sicut supra  de  indefinitis  et  suis  negationibus sermonem fecit, ita  nunc de afhrmationibus universalibus sermonem faciens  de earum negationibus est coactus loqui. Negatio siquidem universalis affirmativæ non est universalis negativa,  sed particularis negativa, ut in I libro habitum est *  3. Quod autem similis sit consequentia in istis et supradictis indefinitis patet exemplariter. Et ne multa loquendo  res  clara prolixitate obtenebretur, formetur primo figura  de indefinitis, quæ supta posita est * in expositione Porphyrii, scilicet ex una parte ponatur affirmativa finita, et  sub ea negativa infinita, et sub ista negativa privativa.  Ex altera parte primo negativa finita, et sub ea affirmativa infinita, et sub ea affirmativa privativa. Deinde sub  illa figura formetur alia figura similis illi universaliter: ponatur scilicet ex una parte universalis affirmativa de prædicato finito, et sub ea particularis negativa de prædicato  infinito, et ad complementum similitudinis sub ista particularis negativa de prædicato privativo; ex altera vero parte  ponatur primo particularis negativa de prædicato infinito,  Quibus ita dispositis, exerceatur consequentia semper in  ista proxima figura, sicut supra in indefinitis exercita est:  sive sequendo expositionem: Ammonii, ut infinitæ se habeant ad finitas, sicut privativæ se habent ad ipsas finitas ;  finitæ autem non se habeant ad infinitas medias, sicut privativæ se habent ad ipsas infinitas: sive sectando expositionem Porphyrii, ut affirmativæ inferant negativas, et  non e contra. Utrique enim expositioni suprascriptæ deserviunt figuræ, ut patet diligenter indaganti. Similiter  ergo se habent enunciationes istæ universales ad indefinitas in tribus, scilicet in numero propositionum, et numero oppositionum, et modo consequentiæ.  4. Deinde cum dicit: Sed non similiter angulares etc., ponit.  ctas  dissimilitudinem inter istas universales et supradiindefinitas, in hoc quod angulares non similiter contingit veras esse. Quæ verba primo exponenda sunt secundum eam, quam credimus esse ad mentem Aristotelis, expositionem; deinde secundum alios. Angulares  ex  enunciationes in utraque figura suprascripta vocat eas  quæ sunt diametraliter oppositæ, scilicet affirmativam  finitam  uno  angulo, et affirmativam infinitam sive  privativam ex alio angulo: et similiter negativam finitam ex uno angulo, et negativam infinitam vel privativam ex alio angulo.  5. Enunciationes ergo in qualitate similes angulares  vocatæ, eo quod angulares, idest diametraliter distant,  dissimilis veritatis sunt apud indefinitas et universales.  Angulares enim indefinitae tam in diametro affirmationum, quam in diametro negationum possunt esse simul  verae, ut patet in suprascripta figura indefinitarum. Et  hoc intellige in materia contingenti. Angulares vero in  figura universalium non sic se habent, quoniam angulares secundum diametrum affirmationum impossibile est  esse  simul veras in quacumque materia. Angulares autem secundum diametrum negationum quandoque possunt esse simul veræ, quando scilicet fiunt im materia  contingenti : in materia enim necessaria et remota * impossibile est esse ambas veras. Hæc est Boethii, quam veram  credimus, expositio.  6. Herminus * autem, Boethio referente, aliter exponit. Licet enim ponat similitudinem inter universales et  indefinitas quoad numerum enunciationum: et. oppositionum, oppositiones. tàmen aliter accipit in universalibus  et  aliter in indefinitis. Oppositiones siquidem. indefinitarum  infinitas  numerat sicut et nos numeravimus, alteram scilicet inter finitas affrmativanr et negativam, et alteram  inter  affirmativam et negativam, quemadmodum nos fecimus. Universalium vero non sic numerat oppositiones, sed alteram sumit inter universalem  affirmativam finitam et particularem negativam finitam,  scilicet.  Ammonius.  Porphyrius.  *  Cf. lib. 1, lect.  xut, n. 3.  Boethius.  *Edd.  Hermenius, Cf. lib. IL,  lect. n, not. 0. .  omnis bomo est iustus, hon omnis bomo est iustus,  et  sub ea universalis affirmativa de prædicato finito, et,Sub ista universalis affirmativa de prædicáto privativo,  LI  hoc modo:  Figura indefinitarum  Homo est iustus  Homo non est non iustus  Homo non ést iniustus  Homo non est iustus  Homo est non iustüs  Homo est iniustus  Figura universalium  Omnis homo est iustus    Non omnis homo est non iustus  Non omnis homo est non iustus — Omnis homo est iüstus  Nón omfis homo est iniustus. — — 'Ornnis homo est iniustus  a) Postquam Philosophus. Hoc supplementum ad commentaria s.Thomæ in secundum librum Peri hermeneias, quod Caietanus complevit  anno  1496, impressum est eodem anno in ed. Veneta c Peri hermeneias et Posteriorum analyticorum. Quocirca dd istam exegimus præet  alteram inter eamdem universalem affirmativam fini«tam et universalem affirmativam infinitam, scilicet omnis  bomo est iustus, omnis bomo est non iustus. Inter has enim  est contrarietàs, inter illas vero contradictio. - Dissimilitudinem etiam universalium ad indefinitas aliter ponit. Non  enim nobiscum fundat dissimilitudinem inter angulares  universalium et indefinitarum supra differentia quæ est  inter angulares universalium affirmativas et negativas, sed  supra differentia quæ est inter ipsas universalium angulares inter se ex utraque parte. Format namque talem  figuram, in qua ex una parte sub universali affirmativa  finita, universalis affirmativa infinita est; et ex alia parte  cipue hanc nostram eiusdem supplementi editionem. — Editio præfata c  incipit: « Deinde cum dicit: Similiter autem se habent etc., intendit  »  distinguere enunciationes in quibus subiicitur nomen finitum univer»  saliter sumptum, οἵ circa hoc tria facit » etc.  CAP. X, LECT. III  sub particulari negativa finita, particularis negativa infinita ponitur; sicque angulares sunt disparis qualitatis, et  similiter indefinitarum figuram format hoc modo:  ut  89  ly bæ demonstret enunciationes finitas et infinitas  quoad prædicatum sive universales sive indefinitas, et  tunc est sensus, quod hæ enunciationes supradictæ habent duas oppositiones, alteram inter affirmationem fiOmnis homo  est iustus  1  o  E  S  Ξ  8  o  1  Omnis homo est  non iustus  Homo est  justus  ESSEEE ENS:  Homo est  non iustus  Non omnis homo   Contradictoriæ e  fe  *  s  4?  9,  *  $  «  9  *,  9  οι  ἊΨ  Contradictoriæ $9    .*  EM  ?,    IX  x :  ?  e  ^e,  *  ]  est iustus  [  o  A  H  E  δ  s  F1  ys r  Non omnis homo    est non iustus  Homo non est  justus  Homo non est  non iustus  Quibus ita dispositis, ait in hoc stare dissimilitudinem,  quod angulares indefinitarum mutuo se invicem compellunt ad veritatis sequelam, ita quod unius angularis veritas suæ angularis veritatem infert undecumque incipias.  Universalium vero angulares non se mutuo compellunt ad  *Par.  fo  et Ven.1557:  *  1557  Edd. Ven.  c et  1526 omitt. nom,  sed erronee.  —. Herminus.  IT  ante  EXPERS,  Mrd  ope  UR  Me  RN  EE  NRI  EET  Rer  METCUNERE  veritatem,  sed ex altera parte necessitas deficit illationis. *  Si enim incipias ab aliquo universalium et ad suam angularem procedas, veritas universalis non * ita potest esse  simul cum veritate angularis, quod compellit eam ad veritatem: quia si universalis est vera, sua universalis contraria erit falsa: non enim possunt esse simul veræ. Et  si ista universalis contraria est falsa, sua contradictoria  particularis, quæ est angularis primæ universalis assumptæ, erit necessario vera: impossibile est enim contradictorias esse simul falsas. Si autem incipias e converso ab  aliqua. particularium et ad suam angularem procedas, veritas particularis ita potest stare cum veritate suæ angularis, quod tamen non necessario infert eius veritatem:  quia licet sequatur: Particularis est vera; ergo sua universalis. contradictoria est falsa; non tamen sequitur ultra :  Ista. universalis contradictoria est falsa; ergo sua universalis contraria, quæ est angularis particularis assumpti,  est vera. Possunt enim contrariæ esse simul falsæ.  7.  Sed. videtur expositio ista deficere ab Aristotelis  mente quoad modum sumendi oppositiones. Non enim intendit hic loqui de oppositione quæ est inter finitas et infinitas, sed de ea quæ est inter finitas inter se, et infinitas  inter se. Si enim de utroque modo oppositionis exponere  yolumus, iam. non duas, sed tres oppositiones invenie-,  mus; primam inter finitas, secundam inter infinitas, tertiam .quam ipse Herminus dixit inter finitam et infinitam. Figura etiam quam formavit, conformis non est ei,  quam Aristoteles in fine I Priorum formavit, ad quam nos  remisit, cum dixit: Hæc igitur quemadmodum in. Resoluloris dictum. est, sic sunt. disposita. In. Aristotelis namque  figura, angulares sunt affirmativæ aflirmativis, et negativæ negativis.  8. Deinde cum dicit: Hæ igitur duæ etc., concludit numerum propositionum. Et potest dupliciter exponi; primo, ut ly bæ demonstret universales, et sic est sensus,  quod. hæ universales finitæ et infinitæ habent duas oppositiones, quas supra declaravimus; secundo, potest exponi  Opp. D. Tnuowar T. I.  nitam  et  eius  negationem, alteram inter affirmationem  infinitam et eius negationem. Placet autem mihi magis  secunda expositio, quoniam brevitas cui Aristoteles studebat, replicationem non exigebat, sed potius quia enunciationes finitas et infinitas quoad prædicatum secundum  diversas quantitates enumeraverat, ad duas oppositiones  omnes reducere, terminando earum tractatum, voluit.  9. Deinde cum dicit: Aliæ autem ad id quod est etc.,  intendit declarare diversitatem enunciationum de tertio  adiacente, in quibus subiicitur nomen infinitum. Et circa  hoc tria facit: primo, proponit et distinguit eas; secundo,  ostendit quod non dantur plures supradictis; ibi: Magis  autem * etc.; tertio, ostendit habitudinem istarum ad alias ;  ibi: Hæ autem extra* etc. Ad. evidentiam primi advertendum est tres esse species enunciationum de inesse, in quibus explicite ponitur hoc verbum est.- Quædam sunt, quæ  subiecto sive finito sive infinito nihil habent additum ultra  verbum, ut, homo est, non bomo est.- Quædam vero sunt  quæ subiecto finito habent, præter verbum, aliquid additum sive finitum sive infinitum, ut, bomo est iustus,  bomo est non iustus.- Quædam autem sunt quæ subiecto  infinito, præter verbum, habent aliquid additum sive finitum sive infinitum, ut, non bomo est iustus, non bomo est  non iustus. Et quia de primis iam determinatum est, ideo  de ultimis tractare volens, ait: Aliæ autem sunt, quæ  habent aliquid, scilicet prædicatum, additum supra verbum est, ad id quod est, mon bomo, quasi ad subiectum,  idest ad subiectum infinitum. Dixit autem quasi, quia sicut nomen infinitum deficit a ratione nominis *, ita deficit  a ratione subiecti. Significatum siquidem nominis infiniti  non  proprie substernitur compositioni cum prædicato  quam importat, esf, tertium adiacens. Enumerat quoque  quatuor enunciationes et duas oppositiones in hoc ordine,  sicut et in superioribus fecit. Distinguit etiam istas  ex  finitate vel infinitate prædicata. Unde primo, ponit  oppositiones inter affirmativam et negativam habentes  subiectum infinitum et prædicatum finitum, dicens: Ut,  non bomo est iustus, non bomo non est iustus. Secundo, ponit  oppositionem alteram inter affirmativam et negativam, habentes subiectum infinitum: et prædicatum infinitum, dicens : Ut, non bomo est non iustus, non bomo non est non iustus.  το. Deinde cum dicit: Magis autem. plures etc., ostendit quod non dantur plures oppositiones enunciationum  supradictis. Ubi notandum est quod enunciationes de inesse, in quibus explicite ponitur hoc verbum «est, sive secundum, sive tertium adiacens, de quibus loquimur, non  possunt esse plures quam duodecim supra positæ; et consequenter oppositiones earum secundum affirmationem  et  negationem non. sunt nisi sex. Cum enim in tres ordines divisæ sint enunciationes, scilicet in illas de secundo adiacente, in illas de tertio. subiecti finiti, et in  illas de tertio subiecti infiniti, et in quolibet ordine sint  quatuor enunciationes; fiunt omnes enunciationes duode|  cim, et oppositiones sex. Et quoniam subiectum earum  in quolibet ordine potest quadrupliciter quantificari, scilicet universalitate, particularitate, et singularitate, et indefinitione; ideo istæ duodecim multiplicantur in quadraginta octo. Quater enim duodecim quadraginta octo  faciunt. Nec possibile est plures his imaginari. Et licet  Aristoteles nonnisi viginti harum expresserit, octo in primo  ordine, octo in secundo, et quatuor in tertio, attamen per  eas  reliquas voluit intelligi. Sunt autem sic enumerandæ  et ordinandæ secundum singulos ordines, ut affirmationi  negatio prima ex opposito situetur, ut oppositionis ini2 *  *  *  *  Num. seq.  Infra num. Π.  Cf. lib.I. lect.iv,  n. 13.  SPEO  9o  tentum clarius videatur. Et sic contra universalem afhrmativam non est ordinanda universalis negativa, sed particularis negativa, quæ est illius negatio; et e converso,  contra particularem affirmativam non est ordinanda particularis negativa, sed universalis negativa quæ est eius II  negatio. Ad clarius autem intuendum numerum, coordinandæ sunt omnes, quæ sunt similis quantitatis, simul  in recta linea, distinctis tamen ordinibus tribus supradictis.  Quod ut clarius elucescat, in hac subscripta videatur  figura:  Primus  Socrates est  Quidam homo .est  Homo est  Omnis homo est   Socrates  non est  Quidam homo non est  Homo non est  Omnis homo non est  e    Ordo  Non Socrates est  Quidam non homo est  Non homo est  Omnis non homo est  Secundus Ordo  Socrates est iustus  Quidam homo est iustus  Homo. est iustus  Omnis homo est iustus Socrates non est iustus  Quidam homo non est iustus  Homo non est iustus   Socrates est non iustus  Non Socrates non est    Quidam non homo non est  Non homo non est  Omnis non homo non est  Socrates non est non iustus  Quidam homo est non iustus  Quidam homo non est non iustus  Homo est non iustus    Omnis homo non est iustus  Non Socrates est iustus  Quidam non homo est iustus  Non homo est iustus  Omnis non homo est iustus - Non Socrates non est iustus  Quidam non homo non est iustus  Non homo non est iustus - Tertius    Omnis homo est non iustus  Ordo  Non Socrates est non iustus    Homo non est non iustus  Omnis homo non est non iustus  Non Socrates non est non iustus  Quidam non homo est non iustus — Quidam non homo non est non iustus  Non homo est non iustus    Omnis non homo non est iustus    Quod autem plures his non sint, ex eo patet quod non  contingit pluribus modis variari subiectum et prædicatum penes finitum et infinitum, nec pluribus modis variantur finitum et infinitum subiectum. Nulla enim enunciatio de secundo adiacente potest variari penes prædicatum finitum vel infinitum, sed tantum penes subiectum  quod sufficienter factum apparet. Enunciationes autem de  tertio adiacente quadrupliciter variari possunt, quia aut  sunt subiecti et prædicati finiti, aut utriusque infiniti,  aut subiecti finiti et prædicati infiniti, aut subiecti infiniti et prædicati finiti. Quarum nullam prætermissam  esse superior docet figura.  11. Deinde cum dicit: Hæ autem extra illas etc., ostendit habitudinem harum quas in tertio ordine numeravimus ad illas, quæ in secundo sitæ sunt ordine, et dicit  quod istæ sunt extra illas, quia non sequuntur ad illas,  nec e converso. Et rationem assignans subdit: Ut momine  ulenles 60 quod est non bomo, idest ideo istæ sunt extra  illas, quia istæ utuntur nomine infinito loco nominis,  dum omnes habent subiectum infinitum. Notanter autem  dixit enunciationes subiecti infiniti uti ut nomine, infinito nomine, quia cum subiici in enunciatione proprium  sit nominis, prædicari autem commune nomini et verbo,  omne subiectum enunciationis ut nomen subiicitur.  Deinde cum dicit: In bis vero in quibus est etc.,  determinat de enunciationibus in quibus ponuntur verba  adiectiva. Et circa hoc tria facit: primo, distinguit eas; se Num. 13.  Num. 16.  cundo, respondet cuidam tacitæ quæstioni ; ibi: Non enim  dicendum est * etc.; tertio, concludit earum conditiones; ibi:  Ergo et cætera eadem * etc. Ad evidentiam primi resumendum  est, quod inter enunciationes in quibus ponitur es? secundum adiacens, et eas in quibus ponitur es! tertium adiacens talis est differentia quod in illis, quæ sunt de secundo adiacente, simpliciter fiunt oppositiones; scilicet ex  parte subiecti tantum variati per finitum et infinitum; in his  vero, quæ habent est tertium. adiacens dupliciter fiunt oppositiones, scilicet et ex parte prædicati et ex parte subiecti, quia utrumque variari potest per finitum et infinitum. Unde unum ordinem tantum enunciationum de  secundo adiacente fecimus, habentem quatuor enunciationes diversimode quantificatas et duas oppositiones. Enunciationes autem de tertio adiacente oportuit partiri in duos  ordines, quia sunt in eis quatuor oppositiones et octo  enunciationes, ut supra dictum est.- Considerandum quoque est quod enunciationes, in quibus ponuntur verba  adiectiva, quoad significatum æquivalent enunciationibus  Non homo non est non iustus  Omnis non homo est non iustus — Omnis non homo non est non iustus  de tertio adiacente, resoluto verbo adiectivo in proprium  participium et es/, quod semper fieri licet, quia in omni  verbo adiectivo clauditur verbum substantivum. Unde idem  significant ista, omnis bomo currit, quod ista, omnis bomo  est  currens. Propter quod Boethius vocat enunciationes  cum verbo adiectivo de secundo adiacente secundum vocem, de tertio autem secundum potestatem, quia potest  resolvi in tertium adiacens, cui æquivalet. Quoad numerum autem enunciationum et oppositionum, enunciationes :  verbi adiectivi formaliter sumptæ non æquivalent illis de  tertio adiacente, sed æquivalent enunciationibus, in quibus  ponitur esf secundum adiacens. Non possunt enim fieri  oppositiones dupliciter in enunciationibus adiectivis, scilicet ex parte subiecti et prædicati, sicut fiebant in substantivis de tertio adiacente, quia verbum, quod prædicatur  in adiectivis, infinitari non potest. Sed oppositiones adiectivarum fiunt simpliciter, scilicet ex parte subiecti tantum variati per infinitum et finitum diversimode quantificati, sicut fieri didicimus supra in enunciationibus substantivis de secundo adiacente, eadem ducti ratione, quia  præter verbum nulla est affirmatio vel negatio *, sicut præter nomen esse potest. Quia autem in præsenti tractatu non de significalionibus, sed de mumero enunciationum  et  oppositionum sermo intenditur, ideo Aristoteles determinat diversificandas esse enunciationes adiectivas secundum modum, quo distinctæ sunt enunciationes in  quibus ponitur es? secundum adiacens. Et ait quod in his  enunciationibus, in quibus non contingit poni hoc verbum est formaliter, sed aliquod aliud, ut, currit, vel, ambulat, idest in enunciationibus adiectivis, idem faciunt quoad numerum oppositionum et enunciationum sic posita,  scilicet nomen et verbum, ac si est secundum adiacens subiecto nomini adderetur. Habent enim et istæ adiectivæ,  sicut illæ, in quibus ponitur es/, duas oppositiones tantum,  alteram inter finitas, ut, omnis bomo currit, omnis bomo mon  currit, alteram inter infinitas quoad subiectum, ut, omnis  non bomo currit, omnis non bomo mon currit.  ip  13. Deinde cum dicit: Non enim dicendum est etc., respondet tacitæ quæstioni. Et circa hoc facit duo: primo,  ponit solutionem quæstionis; deinde, probat eam; ibi:  Manifestum est autem* etc. Est ergo quæstio talis: Cur negatio infinitans numquam addita est supra signo universali aut particulari, ut puta, cum vellemus infinitare istam,  omnis bomo currit, cur non sic infinitata est, om omnis  bomo currit, sed sic, omnis non bomo currit? Huic namque quæstioni respondet, dicens quod quia nomen infi*  Cf. lib. I, lect.  vit, n. 9.  * Num. 44.  CAP. X, LECT. IIl  nitabile debet significare aliquid universale, vel singulare; omnis autem et similia signa non significant aliquid  universale aut singulare, sed quoniam. universaliter aut  particulariter; ideo non est dicendum, mom ommis bomo,  si infinitare volumus (licet debeat dici, si negare quantitatem enunciationis quærimus), sed negatio infinitans  ad ly homo, quod significat aliquid universale, addenda  est, et dicendum, omnis non bomo.  14. Deinde cum dicit: Manifestum est autem. ex eo quod  est εἴς.» probat hoc quod dictum est, scilicet quod omnis  et similia non significant aliquod universale, sed quoniam  universaliter tali ratione. Illud, in quo differunt enunciationes præcise differentes per habere *et non habere  ly omnis, est non universale aliquod, sed quoniam umi91  particularitatis absolute, sed applicatum termino distributo. Cum enim dico, omnis bomo, ly omnis denotat universitatem applicari illi termino /omo, ita quod Aristoteles dicens quod omnis significat quoniam universaliter,  per ly quoniam insinuavit applicationem universalitatis  importatam in ly ommis in actu exercito, sicut et in T  per  Posteriorum, in. definitione scire applicationem causæ notavit  illud verbum quoniam, dicens: Scire est rem  per causam cognoscere, et quoniam. illius est causa.- Ratio autem  versaliter; sed illud in quo differunt enunciationes præcise  differentes per habere et non habere ly ommis, est  significatum per ly omnis; ergo significatum per ly  ommis est non aliquid universale, sed quoniam universaliter. Minor huius rationis, tacita in textu, ex se clara est.  Id enim in quo, cæteris paribus, habentia a non habentibus aliquem terminum differunt, significatum est illius  termini. Maior vero in littera exemplariter declaratur sic.  Illæ  οὐ  τὸ.  νιν.  OG  REIR  RN  enunciationes, bomo currit, et omnis bomo currit,  præcise differunt ex hoc, quod in una est ly omnis, et  in altera non. Tamen non ita differunt ex hoc, quod una  sit universalis, alia non universalis. Utraque enim habet  subiectum universale, scilicet ly bomo, sed differunt, quia  in ea, ubi ponitur ly omnis, enunciatur de subiecto universaliter, in altero autem. non universaliter. Cum enim  dico, bomo currit, cursum attribuo homini universali, sive  communi, sed non pro tota humana universitate; cum  autem dico, ommis bomo currit, cursum inesse homini  pro omnibus inferioribus significo.- Simili modo declarari potest de tribus aliis, quæ in textu adducuntur,  Scilicet, bomo non currit, respectu suæ universalis universaliter, omnis bomo mon currit: et sic de aliis. Relinquitur ergo, quod, omnis et nullus et similia signa nullum  universale significant, sed tantummodo significant, quoniam universaliter de homine affirmant vel negant.  I$. Notato hic duo: primum est quod non dixit  omnis et nullus significat universaliter, sed quoniam universaliter; secundum est, quod addit, de homine affrmant vel negant.- Primi ratio est, quia signum distributivum non significat modum ipsum universalitatis aut  secundi insinuat differentiam inter terminos categorematicos et syncategorematicos. Illi siquidem ponunt  significata supra terminos absolute; isti autem ponunt '  significata sua supra terminos in ordine ad prædicata. Cum  enim dicitur, bomo albus, ly albus denominat hominem  in seipso absque respectu ad aliquod sibi addendum. Cum  vero  dicitur, ommis bomo, ly omnis etsi hominem distribuat, non tamen distributio intellectum firmat, nisi in  ordine ad aliquod prædicatum intelligatur. Cuius signum  est, quia, cum dicimus, omnis bomo currit, non intendimus  distribuere hominem pro tota sua universitate absolute,  sed in ordine ad cursum. Cum autem dicimus, albus  bomo currit, determinamus hominem in seipso esse album  et non in ordine ad cursum. Quia ergo ommis et nullus,  sicut et alia syncategoremata, nil aliud in enunciatione  faciunt, nisi quia determinant subiectum in ordine ad prædicatum, et hoc sine affirmatione et negatione fieri nequit;  ideo dixit quod nil aliud significant, nisi quoniam universaliter  de  nomine, idest de subiecto, affirmant vel  negant, idest affirmationem vel negationem fieri determinant, ac per hoc a categorematicis ea separavit. Potest  etiam referri hoc quod dixit, affirmant vel negant, ad ipsa  signa, scilicet omnis et nullus, quorum alterum positive  distribuit, alterum removendo.  16. Deinde cum dicit: Ergo et cætera eadem etc., concludit adiectivarum enunciationum conditiones. Dixerat enim  quod adiectivæ enunciationes idem faciunt quoad oppositionum numerum, quod substantivæ de secundo adiacente;  et  hoc declaraverat, oppositionum numero exemplariter  subiuncto. Et quia ad hanc convenientiam sequitur convenientia quoad finitationem prædicatorum, et quoad diversam subiectorum quantitatem, et earum multiplicationem ex ductu quaternarii in seipsum, et si qua sunt huiusmodi enumerata; ideo concludit: Ergo et cætera, quæ in illis  servanda erant, eadem, idest similia istis apponenda sunt.   II  LECTIO   (Can. CarkTANI lect. 11).  NONNULLÆ CIRCA EA QUÆ DICTA SUNT DUBITATIONES MOVENTUR AC SOLVUNTUR  ᾿Επεὶ δὲ ἐναντία ἀπόφασίς ἐστι τῇ, ἅπαν. ἐστὶ ζῷον  δίκαιον, σημαίνουσα ὅτι οὐδέν ἐστι ζῷον δίκαιον,  αὗται μὲν φανερὸν ὅτι οὐδέποτε ἔσονται οὔτε ἀληθεῖς ἅμα οὔτε ἐπὶ τοῦ αὐτοῦ, αἱ δὲ ἀντικείμεναι  ταύταις ἔσονταί ποτε, οἷον, οὐ πᾶν ζῷον δίκαιον,  xai  ἔστι τι ζῷον δίχαιον.  ᾽᾿Ακολουθοῦσι δὲ αὑται, τῇ μὲν πᾶς ἄνθρωπος οὐ δίχαιός  ἐστιν, , οὐδείς ἐστιν ἄνθρωπος δίκαιος: τῇ δὲ ἔστι  τις  ἄνηρωπος δίκαιος, ἀντιχειμένη, ὅτι οὐ πᾶς  ἄνθρωπος ἐστὶν οὐ δίκαιος" ἀνάγκη γὰρ εἶναί τινα.  Φανερὸν δὲ καὶ ὅτι ἐπὶ μὲν τῶν καθ᾽ ἕχοστον εἰ ἀληθές  ἐρωτηθέντα ἀποφῆσαι, ὅτι καὶ χαταφῆσαι ἀληθές"  οἷον, ἄρά γε Σωχράτης σοφός; οὔ. Σωχράτης ἄρα οὐ  σοφός. ᾿Επὶ δὲ τῶν καθόλου οὐχ ἀληθὴς ὁμοίως  λεγομένη: ἀληθὴς δὲ ἀπόφασις, οἷον, ἀρά γε πᾶς  ἄνθρωπος σοφός; οὔ: πᾶς ἄρα ἄνθρωπος οὐ σοφός"  τοῦτο γὰρ ψεῦδος: ἀλλὰ τὸ, οὐ πᾶς ἄρα, ἄνθρωπος  σοφός, ἀληθές" αὕτη δέ ἐστιν ἀντικειμένη, ἐχείνη  δὲ ἐναντία.  Αἱ  δὲ χατὰ τὰ ἀόριστα ἀντιχείμεναι ὀνόματα καὶ ῥήματα,  ὥσπερ  οἷον ἐπὶ τοῦ μὴ ἄνθρῳπος καὶ μὴ δίκαιος,  ἀποφάσεις ἄνευ ὀνόματος χαὶ ῥήματος δόξειαν  ἂν εἶναι" οὐχ εἰσὶ δέ. " Acl 12e ἀληθεύειν ἀν ἄγχη   ψεύδεσθαι τὴν ἀπόφασιν δ᾽ εἰπὼν, οὐκ ἄνθρωπος,  οὐδὲν μᾶλλον τοῦ εἰπόντος, ἄνθρωπος, ἀλλὰ καὶ  ἧττον ἠλήθευχέ τι ἔψευσται, ἐὰν μή τι προστεθῇ.  Σημαίνει δὲ τὸ, ἔστι πᾶς οὐχ ἄνθρωπος δίκαιος, οὐδεμιᾷ ἐκείνων ταὐτόνοὐδὲ ἀντιχειμένη ταύτῃ, )  οὐχ ἔστι πᾶς οὐκ ἄνθρωπος δίκαιος"  τὸ δὲ, πᾶς οὐ δίκαιος οὐχ ἄνθρωπος, τῷ, οὐδεὶς δίκαιος  οὐχ ἄνθρωπος, ταὐτὸν σημαίνει.  Μετατιθέμενα δὲ τὰ ὀνόματα καὶ τὸ ῥήματα ταὐτὸν  Εἰ  σημαίνει, olov, ἔστι λευχὸς ἄνθρωπος, ἔστιν ἄνθρωπος  λευχός.  γὰρ Xj τοῦτό ἐστι, τοῦ αὐτοῦ πλείους ἔσονται ἀποφάσεις" ἀλλ᾽ ἐδέδεικτο, ὅτι μία μιᾶς" τοῦ μὲν γάρ;  ἔστι λευκὸς ἄνθρωπος, ἀπόφασις τὸ οὐχ ἔστι λευχὸς  ἄνθρωπος" τοῦ δὲ ἔστιν ἄνθρωπος Acuxóc, εἰ μηὴ   αὐτή ἐστι τῇ, ἔστι λευκὸς ἄνθρωπος, ἔσται ἀπόφασις  ἤτοι τὸ οὐχ ἔστιν οὐχ ἄνθρωπος λευχός, τό, οὐχ  ἔστιν  φασις  ἄνγηρωπος λευκός. ᾿Αλλ ἑτέρα  μέν ἐστιν ἀπότοῦ, ἔστιν οὐχ ἄνθρωπος λευχός" ἑτέρα δὲ  τοῦ, ἔστι λευχὸς ἄνθρωπος" ὥστε ἔσονται δύο μιᾶς.  Ὅτιμεὲν οὖν μετατιθεμένου τοῦ ὀνόματος καὶ τοῦ ῥήματος αὐτὴ γίνεται κατάφασις καὶ ἀπόφασις, δῆλον.  enunciationum, hic intendit removere quædam dubia circa prædicta. Et circa hoc  2facit sex secundum numerum. dubiorum,  quæ suis patebunt locis. Quia ergo supra  dixerat quod. in universalibus non similiter contingit angulares esse simul veras, quia affirmativæ angulares non  possunt esse simul veræ, negativæ autem sic; poterat  quispiam dubitare, quæ est causa huius diversitatis. Ideo  nunc illius dicti causam intendit assignare talem, quia,  scilicet,  *  Cf. lib. I, lect.ix,  n. s et lect. xt,  n.  6.  *Cflib.Llec.x,  angulares affirmativæ sunt contrariæ inter se;  contrarias autem in nulla materia contingit esse simul  veras *. Angulares autem negativæ sunt subcontrariæ  illis oppositæ; subcontrarias autem contingit esse simul  veras *. Et circa hæc duo facit: primo, declarat condin. P: CU*C-3- tones contrariarum et subcontrariarum ; secundo, quod  angulares affirmativæ sint contrariæ et quod angulares  *  Quoniam vero contraria est negatio ei quæ est, omne  animal est iustum, illa quæ significat quoniam, nullum  animal est iustum; hæ quidem manifestum est quoniam  nunquam erunt, neque veræ simul, neque in eodem  ipso; his vero oppositæ erunt aliquando: ut, non omne  animal iustum est, et, aliquod animal iustum est.  Sequuntur vero eam quæ est, omnis homo est non iustus, illa quæ est, nullus homo est iustus; illam vero  quæ est, aliquis homo iustus est, opposita, quoniam,  non  omnis est homo non iustus. Necesse est enim aliquem esse.  Manifestum est autem etiam, quod in singularibus si est verum interrogatum negare, quoniam et affirmare verum  est. Ut, putasne Socrates sapiens est? non. Socrates igitur  non  sapiens est. In universalibus vero non est vera,  quæ similiter dicitur: vera autem negativa est. Ut, putasne omnis homo sapiens est? non; omnis igitur homo  non  sapiens est: hoc enim falsum est: sed, non igitur  omnis homo sapiens est, vera est. Hæc enim opposita  est; illa vero contraria.  Illæ vero secundum infinita contraiacentes sunt nomina vel  verba, ut in eo quod est, non homo, vel, non iustus,  quasi negationes sine nomine et verbo esse videbuntur.  Sed non sunt. Semper enim vel veram esse vel falsam  necesse est negationem; qui vero dixit, non homo, nihil  magis quam qui dicit, homo, sed etiam minus verus vel  falsus fuit, si non aliquid addatur.  Significat autem, est omnis non homo iustus, nulli illarum  idem; nec huic opposita ea quæ est, non est omnis  non homo iustus:  illa vero, quæ est, omnis non iustus non homo est, illi  quæ est, nullus est iustus non homo, idem significat.  Transposita vero nomina et verba idem significant, ut, est  albus homo, et, est homo albus.  Nam si hoc non est, eiusdem multæ erunt negationes;  sed ostensum est, quod una unius est: eius enim quæ  est, est albus homo, negatio est, non est albus homo:  eius vero quæ est, est homo albus, si non eadem est  ei  quæ est, est albus homo, erit negatio, vel ea quæ  est, non est non homo albus, vel ea quæ est, non est  homo albus. Sed altera quidem est negatio eius, quæ  est, est non homo albus; altera vero eius quæ est, est  homo albus. Quare erunt duæ unius. Quod igitur  transposito nomine vel verbo, eadem sit affirmatio vel  negatio, manifestum est.  negativæ sint subcontrariæ; ibi: Sequuntur vero * etc.Dicit ergo resumendo: quoniam in Primo dictum est quod  enunciatio negativa contraria illi affirmativæ universali,  scilicet, omne animal estiustum, est ista, nullum animal est  iustum ; manifestum est quod istæ non possunt simul,  idest in eodem tempore, meque im eodem ipso, idest de  eodem subiecto esse veræ. His vero oppositæ, idest  subcontrariæ inter se, possunt esse simul veræ aliquando,  scilicet  in  materia contingenti, ut, quoddam animal est  iustum, non omne animal est iustum *.  2. Deinde cum dicit: Sequuntur vero etc., declarat quod  angulares affirmativæ supra positæ sint contrariæ, negativæ vero subcontrariæ. - Et primum quidem ex eo  quod universalis affirmativa infinita et universalis negativa simplex æquipollent; et consequenter utraque earum  est  contraria universali affirmativæ simplici, quæ est  altera angularis. Unde dicit quod hanc universalem nega*  *  Seq. c. x.  Num. seq.  Cf. lib. I, lect  *  citt.  CAP., LECT.  tivam finitam, wullus bomo est iustus, sequitur æquipollenter illa universalis affirmativa infinita, omnis bomo est non  iustus.  Secundum vero declarat ex eo quod particularis  affirmativa finita et particularis negativa infinita æquipollent. Et consequenter utraque earum est subcontraria particulari negativæ simplici, quæ est altera angularis, ut in  figura supra posita inspicere potes. Unde subdit quod  illam párticularem   affirmativam finitam, aliquis bomo est  iustus, opposita sequitur æquipollenter (opposita intellige non istius particularis, sed illius universalis affirmativæ infinitæ), mom ommis bomo est mom iustus. Hæc  enim est contradictoria eius. Ut autem clare videatur  quomodo supra dictæ enunciationes sint æquipollentes,  formetur figura quadrata, in cuius uno angulo ponatur  universalis negativa finita, et sub ea contradictoria particularis affirmativa finita; ex alia vero parte locetur universalis affirmativa infinita, et sub ea contradictoria particularis  negativa infinita, noteturque contradictio inter  angulares et collaterales inter se, hoc modo:  Nullus homo    "poil  .  est iustus  e  Ξ  2  E  E  d  25  o  Quidam homo  i  est lustus  Omnis homo  Æquivalentes  e  o  C  o  ΝᾺ  .  SU  o  πᾶ    S  ow  [73  Æquivalentes  t  est non justus  e  n  (  T  [i  E"  ξ -—  $  E  o  Non omnis homo  "  est non iustus  His siquidem sic dispositis, patet primo ipsarum universalium mutua consequentia in veritate et falsitate, quia  si altera earum est vera, sua angularis contradictoria est  falsa; et si ista est falsa, sua collateralis contradictoria,  quæ est altera universalis, erit vera, et similiter procedit  quoad falsitatem particularium. Deinde eodem modo manifestatur mutua sequela. Si enim altera earum est vera,  sua angularis contradictoria est falsa, ista autem existente  falsa, sua contradictoria collateralis, quæ est altera particularis erit vera; simili quoque modo procedendum est  quoad falsitatem.  3. Sed est hic unum dubium. In I enim Priorum, in  fine, Aristoteles ex proposito determinat non esse idem  iudicium de universali negativa et universali affirmativa  infinita. Et superius in hoc Secundo *, super illo verbo:  Quarum duæ se babent secundum consequentiam, duæ vero  minime, Ammonius, Porphyrius, Boethius et sanctus Thomas  dixerunt quod negativa simplex sequitur affirmativam infinitam, sed non e converso.  Ad  hoc dicendum est, secundum Albertum, quod  negativam finitam sequitur affirmativa infinita subiecto  constante; negativa vero simplex sequitur affirmativam  absolute.  Unde utrumque dictum verificatur, et quod  inter eas est mutua consequentia cum subiecti constantia,  et  SS. Thomas.  * Nempe in primo modo primæ  gue eros»  syllogisquod inter eas non est mutua consequentia absolute.  Potest dici secundo, quod supra locuti sumus de infinita  enunciatione quoad suum totalem significatum ad formam  prædicati reductum; et secundum hoc, quia negativa finita est superior affirmativa infinita, ideo non erat mutua  consequentia: hic autem loquimur de ipsa infinita formaliter sumpta. Unde s. Thomas tunc adducendo Ammonii  expositionem dixit, secundum hunc modum loquendi:  negativa simplex, in plus est quam affirmativa infinita.  'Textus vero I Priorum ultra prædicta loquitur de  finita et infinita in ordine ad syllogismum. Manifestum  est autem quod universalis affirmativa sive finita sive  infinita non concluditur nisi in primo primæ *. Univer93  salis autem negativa quæcumque concluditur et in secundo primæ, et primo et secundo secundæ.  4. Deinde cum dicit: Manifestum est autem. etc., movet secundum dubium de vario situ negationis, an scilicet  quoad veritatem et falsitatem differat præponere  et postponere negationem. Oritur autem hæc dubitatio,  quia dictum est nunc quod non refert quoad veritatem  si dicatur, ommis bomo est non iustus, aut si dicatur, omis  bomo non est iustus; et tamen in altera postponitur negatio, in altera præponitur, licet multum referat quoad   affirmationem et negationem. Hanc, inquam, dubitationem  solvere  intendens cum distinctione, respondet quod in  singularibus enunciationibus eiusdem veritatis sunt singularis negatio et infinita affirmatio eiusdem, in universalibus autem non est sic.  Si enim est vera negatio ipsius universalis non oportet  quod sit vera infinita affirmatio universalis. Negatio enim  universalis est particularis contradictoria, qua existente  vera, non est necesse suam subalternam, quæ est contraria suæ contradictoriæ esse veram. Possunt enim duæ  contrariæ esse simul falsæ. Unde dicit quod in singularibus enunciationibus manifestum est quod, si est verum  negare interrogatum, idest, si est vera negatio enunciationis singularis, de qua facta est interrogatio, verum etiam  est affirmare, idest, vera erit affirmatio infinita eiusdem  singularis. Verbi gratia: putasne Socrates estsapiens ? Si vera  est ista responsio, z/.9 ; - Socrates igitur non sapiens est, idest,  vera erit ista affirmatio infinita, Socrates est non sapiens.  In universalibus vero non est vera, quæ similiter dicitur,  idest, ex veritate negationis universalis affirmativæ in|  terrogatæ non sequitur vera universalis affirmativa infinita, quæ similis est quoad quantitatem et qualitatem  enunciationi quæsitæ; vera aulem est eius negatio, idest,  sed ex veritate responsionis negativæ sequitur veram esse  eius, scilicet universalis quæsitæ negationem, idest, particularem negativam. Verbi gratia: putasne omnis bomo est  sapiens? Si vera est ista responsio, non; - affirmativa similis interrogatæ quam quis ex hac responsione inferre  intentaret est illa: igitur omnis bomo est non sapiens. Hæc  autem non sequitur ex illa negatione. Falsum est enim  hoc, scilicet quod sequitur ex illa responsione; sed. inferendum est, igitur non ommis bomo sapiens est.- Et ratio  utriusque est, quia hæc particularis ultimo illata est opposita, idest contradictoria illi universali interrogatæ quam  respondens falsificavit; et ideo oportet quod sit vera. Contradictoriarum enim si una est falsa, reliqua est vera. Illa  vero, scilicet universalis affirmativa infinita primo illata,  est  contraria illi eidem universali interrogatæ. Non est  autem opus quod si universalium altera sit falsa, quod  reliqua sit vera. In promptu est autem causa huius diversitatis inter singulares et universales. In singularibus enim  varius negationis situs non variat quantitatem enunciationis; in universalibus autem variat, ut patet. Ideo fit ut  de se patet.  non sit eadem veritas negantium universalem in quarum  altera præponitur, in altera autem postponitur negatio,  ut  5. Deinde cum dicit: ΠΙᾺ vero secundum. infinita. etc.,  solvit tertiam dubitationem, an infinita nomina vel verba  sint negationes. Insurgit autem hoc dubium, quia dietum est quod æquipollent negativa et infinita. Et rursus  dictum est nunc quod non refert in singularibus præponere et postponere negationem: si enim infinitum nomen est negatio, tunc enunciatio, habens subiectum infinitum vel prædicatum, erit negativa et non afhrmativa.  Hanc dubitationem solvit per interpretationem,  probando quod nec nomina nec verba infinita sint negationes, licet videantur. Unde duo circa hoc facit: primo, pro:  ponit solutionem dicens: Illæ vero, scilicet dictiones, conPCT  94 II  iraiacenies: verbi gratia: mom bomo, et, bomo non iustus et  iustus.  Vel sic: Illæ vero, scilicet dictiones, secundum infinita, idest secundum infinitorum naturam, iacentes contra  nomina et verba. (utpote quæ removentes quidem nomina  et verba significant, ut som bomo et mon iustus et mon  currit, quæ opponuntur contra ly bomo, ly iustus et ly  currit), illæ, inquam, dictiones infinitæ videbuntur prima  facie  esse  quasi negationes sine nomine et verbo ex eo  quod comparatæ nominibus et verbis contra quæ iacent,  ea  removent, sed non sunt secundum veritatem. Dixit  sine nomine et verbo quia nomen infinitum, nominis natura caret, et verbum infinitum verbi natura non possidet.  Dixit quasi, quia nec nomen infinitum a nominis ratione,  nec verbum infinitum a verbi proprietate omnino semota  sunt.  Unde, si negationés apparent, videbuntur sine nomine et verbo non omnino sed quasi.  Deinde probat distinctiones infinitas non esse negationes tali ratione. Semper est necesse negationem esse veram vel falsam, quia negatio est enunciatio alicuius ab  aliquo; nomen autem infinitum non dicit verum vel fal  sum; igitur dictio infinita non est negatio. - Minorem  declarat, quia. qui dixit, mom bomo, nihil magis de homine dixit quam qui dixit, bomo. Et quoad significatum  quidem clarissimum est: non bomo, namque, nihil addit  supra hominem, imo removet hominem. Quoad veritatis  vero vel falsitatis conceptum, nihil magis profuit qui  dixit, non bomo, quam qui dixit, bomo, si aliquid aliud  non  addatur, imo minus verus vel falsus fuit, idest  magis remotus a veritate et falsitate, qui dixit, wom bomo,  quam qui dixit, homo: quia tam veritas quam falsitas  in  compositione consistit; compositioni autem vicinior  est  dictio finita, quæ aliquid ponit, quam dictio infinita,  quæ nec ponit, nec componit, idest nec positionem nec  compositionem importat.  6. Deinde cum dicit: Significat autem. etc., respondet  quartæ dubitationi, quomodo scilicet intelligatur illud  verbum supradictum de enunciationibus habentibus subiectum infinitum: Hæ autem. extra. illas, ipsæ secundum  se  erunt. Et ait quod intelligitur quantum ad significati  consequentiam, et non solum quantum ad ipsas enunciationes formaliter. Unde duas habentes subiectum infinitum, universalem scilicet affirmativam et universalem negativam adducens, ait quod neutra earum significat idem  alicui illarum, scilicet habentium subiectum finitum. Hæc  enim  universalis  affirmativa, omnis nom bomo est iustus,  nulli habenti subiectum finitum significat idem: non enim  significat idem quod ista, omnis bomo est iustus ; neque quod  ista, omnis bomo est non iustus. Similiter opposita negatio et  universalis negativa habens subiectum infinitum, quæ est  contrarie opposita supradictæ, scilicet omnis non bomo non  est iustus, nulli illarum de subiecto finito significat idem. Et  hoc clarum est ex diversitate subiecti in istis et in illis. Deinde cum dicit: Illa vero quæ est etc., respondet quintæ quæstioni, an scilicet inter enunciationes de  subiecto infinito sit aliqua consequentia. Oritur autem  dubitatio hæc ex eo, quod superius est inter eas ad invicem assignata consequentia. Ait ergo quod etiam inter  istas  est  consequentia. Nam universalis affirmativa de  subiecto et prædicato infinitis et, universalis negativa de  subiecto infinito, prædicato vero finito, æquipollent. Ista  namque, omnis non bomo est mon iustus, idem significat  illi;  cium  nullus non. bomo est iustus. Idem autem est iudide particularibus indefinitis et singularibus similibus supradictis. Cuiuscunque enim quantitatis sint, semper affirmativa de utroque extremo infinita et negativa  subiecti quidem infiniti, prædicati autem finiti, æquipollent, ut facile potes exemplis videre. Unde Aristoteles universales exprimens, cæteras ex illis intelligi voluit.  8. Deinde cum dicit: Transposita vero nomina. etc.,  solvit sextam dubitationem, an propter nominum vel verborum transpositionem varietur enunciationis significatio.  Oritur autem hæc quæstio ex eo, quod docuit transpositionem negationis variare enunciationis significationem.  Aliud enim dixit significare, ommis bomo mon est iustus,  et  aliud, non omnis bomo est iustus. Ex hoc, inquam, dubitatur, an. similiter contingat circa nominum transpositionem, quod ipsa transposita enunciationem varient,  sicut negatio transposita. Et circa hoc duo facit: primo,  ponit solutionem dicens, quod transposita nomina et  verba idem significant: verbi gratia, idem significat, est  albus homo, et, est bomo albus, ubi est transpositio nominum. Similiter transposita verba idem significant, ut, est  albus bomo, et, bomo albus est.  9. Deinde cum dicit: Nam si boc mon est etc., probat  prædictam solutionem ex numero negationum contradictoriarum ducendo ad impossibile, tali ratione. Si hoc non  est, idest si nomina transposita diversificant enunciationem, eiusdem affirmationis erunt duæ negationes; sed  ostensum est in I libro *, quod una tantum est negatio unius affirmationis; ergo a destructione consequentis  ad destructionem antecedentis transposita nomina non  variant enunciationem. Ad probationis autem consequentiæ claritatem formetur figura, ubi ex uno latere locentur  ex  ambæ suprapositæ affirmationes, transpositis nominibus ;  et  altero contraponantur duæ negativæ, similes illis  quoad terminos et eorum positiones. Deinde, aliquantulo  interiecto spatio, sub affirmativis ponatur affirmatio infiniti subiecti, et sub negativis illius negatio. Et notetur  contradictio inter primam affirmationem et duas negationes primas, et inter secundam aflirmationem et omnes  tres  negationes, ita tamen quod inter ipsam et infimam  negationem notetur contradictio non vera, sed imaginaria. Notetur quoque contradictio inter tertiam affirmationem et tertiam negationem inter se. Hoc modo:  Est albus  homo  Est homo  albus  Est non  homo albus  His ita dispositis, probat consequentiam Aristoteles sic.  Illius affirmationis, est albus bomo, negatio est, mom est  albus bomo ; ilius autem secundæ affirmationis, quæ  est, est bomo albus, si ista affirmatio non est eadem illi  .  supradictæ affirmationi, scilicet, est albus bomo, propter  Non est albus - Coníradictoriæ —  e  o  C  o cn  —"  s  *  nalf  e  bi  7.  dde  Kn  Gontradictoriæ EN “  36  b"  Contradictoriæ homo  Non est homo  albus  Non est non  homo albus  Lect. xir.  CAP. X,  nominum transpositionem, negatio erit altera istarum,  scilicet aut, non est non bomo albus, aut, non est bomo albus. Sed utraque habet affirmationem oppositam alia ab  illa assignatam, scilicet, est bomo albus. Nam altera quidem dictarum negationum, scilicet, nom est mon bomo albus, negatio est illius quæ dicit, est mom bomo albus;  alia vero, scilicet, »on est bomo albus, negatio est eius  affirmationis, quæ dicit, est albus bomo, quæ fuit prima  affirmatio. Ergo quæcunque dictarum negationum afferatur contradictoria illi mediæ, sequitur quod sint duæ  unius, idest quod unius negationis sint duæ affirmationes, et quod unius affirmationis sint duæ negationes:  quod est impossibile. Et hoc, ut dictum est, sequitur stante  hypothesi erronea, quod illæ affBrmationes sint propter  nominum transpositionem diversæ.  10.  Adverte hic primo quod Aristoteles per illas duas  negationes, non est non bomo albus, et, non est bomo albus,  sub  disiunctione sumptas ad inveniendam negationem  |  *  Lect. xi, n. 5  "seq.  e  ΤΡ)  DOR  illius affirmationis, est bomo albus, cæteras intellexit, quasi  diceret: Aut negatio talis affirmationis acceptabitur illa  uæ est vere eius negatio, aut quæcunque extranea negatio ponetur; et quodlibet dicatur, semper, stante hypothesi,  sequitur unius affirmationis esse plures negationes, unam  veræ quæ est contradictoria suæ comparis habentis nomina transposita, et alteram quam tu ut distinctam acceptas, vel falso imaginaris; et e contra multarum affirmationum esse unicam negationem, ut patet in apposita  figura, Ex quacunque enim illarum quatuor incipias, duas  sibi oppositas aspicis. Unde notanter concludit indeterminate: Quare erunt duæ unius.  11.  Nota secundo quod Aristoteles contempsit probare quod contradictoria primæ affirmationis sit contradictoria secundæ, et similiter quod contradictoria secundæ affirmationis sit contradictoria primæ. Hoc enim accepit tamquam per se notum, ex eo quod non possunt  simul esse veræ neque simul falsæ, ut manifeste patet  præposito sibi termino singulari. Non stant enim simul  aliquo modo istæ duæ, Socrates est albus bomo, Socrates non  est bomo albus. Nec turberis quod eas non singulares proposuit. Noverat enim supra dictum esse in Primo * quæ  LECT. IV  95  affirmatio et negatio sint contradictoriæ et quæ non, et  ideo non fuit sollicitus de exemplorum claritate.  Liquet ergo ex eo quod negationes affirmationum de  nominibus transpositis non sunt diversæ quod nec ipsæ  affirmationes sunt diversæ et sic nomina et verba transposita idem significant.  I2.  Occurrit autem dubium circa hoc, quia non videtur verum quod nominibus transpositis eadem sit affirmatio. Non enim valet: omnis bomo est animal; ergo  omne animal est bomo. Similiter, transposito verbo, non  valet: bomo est amimal rationale; ergo bomo animal rationale est, de secundo adiacente. Licet enim nugatio committatur, tamen non sequitur primam.  Ad hoc est dicendum quod sicut in rebus naturalibus  est  duplex transmutatio, scilicet localis, scilicet de loco  ad locum, et formalis de forma ad foit? ita in enunciationibus est duplex transmutatio, situalis scilicet, quando  terminus præpositus postponitur, et e converso, et formalis, quando terminus, qui erat prædicatum efficitur  subiectum, et e converso vel quomodolibet, simpliciter etc.- Et sicut quandoque fit in naturalibus transmutatio  pure localis, puta quando res transfertur de loco  ad locum, nulla alia variatione facta; quandoque autem  fit transmutatio secundum locum, non pura sed cum  variatione formali, sicut quando transit de'loco frigido  ad  locum calidum: ita in enunciátionibus quandoque  fit transmutatio pure situalis, quando scilicet nomen vel  verbum solo situ vocali variatur; quandoque autem fit  transmutatio situalis et formalis simul, sicut contingit  cum  prædicatum fit subiectum, vel cum verbum tertium adiacens fit secundum. - Et quoniam hic intendit Aristoteles de transmutatione nominum et verborum pure situali, ut transpositionis vocabulum præsefert, ideo dixit  quod transposita nomina et verba idem significant, insinuare volens quod, si nihil aliud præter transpositionem  nominis vel verbi accidat in enunciatione, eadem manet  oratio.- Unde patet responsio ad instantias. Manifestum  est namque quod in utraque non sola transpositio fit, sed  transmutatio de subiecto in prædicatum, vel de tertio adiacente in secundum. Et per hoc patet responsio ad similia.  LECTIO Cann. CargraNr lect, ui).  DE MULTIPLICITATE ENUNCIATIONUM IUXTA QUOSDAM MODOS, QUIBUS NON UNAM,  SED PLURES ESSE CONTINGIT UNAM ENUNCIATIONEM.  ^"  B  δὲ ἕν κατὰ πολλῶν πολλὰ καθ᾽ ἑνὸς χαταφάναι  ἀποφάναι, ἐὰν uw ἕν τι τὸ ἐκ τῶν πολλῶν δηλούμενον, οὐχ ἔστι κατάφασις μία οὐδὲ ἀπόφασις.  Λέγω δὲ ἕν οὐχ ἐὰν ὄνομα ἕν κείμενον, pm δὲ  ἕν  τι  ἐξ ἐχείνων, olov, ἄνθρωπος ἴσως ἐστὶ καὶ  ζῷον καὶ δίπουν καὶ ἥμερον, ἀλλὰ x«l ἕν τι γίνεται  ἐκ τούτων’ Ex δὲ τοῦ λευχοῦ, xai τοῦ ἀνθρώπου,  καὶ τοῦ βαδίζειν, οὐχ ἕν: ὥστε οὔτε ἐὰν ἕν τι x&v.  τούτων καταφήσῃ τις; μία κατάφασις, ἀλλὰ φωνὴ  μὲν μία, καταφάσεις δὲ πολλαί: οὔτε ἐὰν καθἑνὸς  ταῦτα, ἀλλ᾽ ὁμοίως πολλαί.  Εἰ οὖν ἐρώτησις διαλεχτιχὴ ἀποχρίσεώς ἐστιν αἴτησις) τῆς προτάσεως, θατέρου μορίου τῆς ἀντι'  φάσεως; δὲ πρότασις ἀντιφάσεως μιᾶς μόριον, οὐκ  ἂν εἴη ἀπόχρισις μία πρὸς ταῦτα" οὐδὲ γὰρ ἐρώτῆσις  μία, οὐδὲ ἐὰν ἀληθής"  εἴρηται δὲ ἐν τοῖς Τοπικοῖς περὶ αὐτῶν. "Apa δὲ δῆλον  ὅτι οὐδὲ τὸ τί ἐστιν ἐρώτησίς ἐστι διαλεκτική, Δεῖ  dp δεδόσθαι ix τῆς ἐρωτήσεως ἑλέσθαι, ὁπότερον  βούλεται τῆς ἀντιφάσεως μόριον ἀποφήνασθαι. ᾿Αλλὰ  εἴ  τὸν  ἐρωτῶντα προσδιορίσασθαι, πότερον τόδε  ἐστὶν ἄνθρωπος, οὐ τοῦτο.  jtem enunciationis unius provenientem ex  additione negationis infinitatis, hic intendit  D determinare quid accidat enunciationi ex hoc  quod additur aliquid subiecto vel prædicato tollens eius unitatem. Et circa hoc duo facit: quia  *  *  *  Lect. seq.  Num. 4.  Lect. vri, n. 12  seq.  Porphyrius.  primo, determinat diversitatem earum ; secundo, consequentias earum; ibi: Quoniam vero bæc quidem * etc. Circa  primum duo facit: primo, ponit earum diversitatem;  secundo, probat omnes enunciationes esse plures; ibi:  Si ergo dialectica * etc.- Dicit ergo quoad primum, resumendo  quod in Primo dictum fuerat *, quod affirmare vel negare  unum de pluribus, vel plura de uno, si ex illis pluribus:  non fit unum, non est enunciatio una affirmativa vel negativa. Et declarando quomodo intelligatur unum debere  esse subiectum aut prædicatum, subdit quod unum dico non  si nomen unum impositum sit, idest ex unitate nominis,  sed ex unitate significati. Cum enim plura conveniunt  in uno nomine, ita quod ex eis non fiat unum illius  nominis significatum, tunc solum vocis unitas est. Cum  autem unum nomen pluribus impositum est, sive partibus subiectivis, sive integralibus, ut eadem significatione  concludat, tunc et vocis et significati unitas est, et enunciationis unitas non impeditur.  2.  Secundum quod subiungit: Ut bomo est fortasse animal et mansuelum et bipes obscuritate non caret. Potest enim  intelligi ut sit exemplem ab opposito, quasi diceret: unum  dico non ex unitate nominis impositi pluribus ex quibus  non fit tale unum, quemadmodum homo est unum quoddam ex animali et mansueto et bipede, partibus suæ definitionis. Et ne quis crederet quod hæ essent veræ definitionis nominis partes, interposuit, fortasse. Porphyrius  autem, Boethio referente et approbante, separat has textus  particulas, dicens quod Aristoteles hucusque declaravit  enunciationem illam esse plures, in qua plura subiicerentur uni, vel de uno prædicarentur plura, ex quibus non  fit unum. In istis autem verbis: Ut bomo est fortasse etc.,  *  At vero unum de pluribus, vel plura de uno affirmare,  vel negare, si non sit unum aliquid quod ex pluribus  significatur, non est affirmatio neque negatio una. Dico  autem unum, non si unum nomen positum sit, non sit  autem unum aliquid ex illis, ut homo est fortasse et animal et bipes et mansuetum, sed ex his unum fit, ex  albo autem et homine et ambulare, non est unum; quare  nec  si unum aliquid de his affirmet aliquis, erit affirmatio una: sed vox quidem una, affirmationes vero  multæ, nec si de uno ista, sed similiter plures,  Si ergo dialectica interrogatio responsionis est petitio vel  propositionis vel alterius partis contradictionis, propositio vero unius contradictionis est pars, non erit una  responsio ad hæc. Neque enim interrogatio una, nec  si  sit vera.  Dictum est autem de his in Topicis. Simul autem manifestum est, quod nec hoc ipsum, quid est, dialectica interrogatio est. Oportet enim datum esse ex interrogatione  eligere, utram velit contradictionis partem enunciare: sed  oportet interrogantem determinare utrum hoc sit homo,  an  non hoc.  intendit declarare enunciationem aliquam esse plures, in  qua plura ex quibus fit unum subiiciuntur vel prædicantur; sicut cum dicitur, bomo est animal et mansuetum.| et  bipes, copula interiecta, vel morula, ut oratores faciunt.  Ideo autem addidisse aiunt, fortasse, ut insinuaret hoc  contingere posse, necessarium autem non esse.  3. Possumus in eamdem Porphyrii, Boethii et AIberti sententiam incidentes subtilius textum introducere,  ut  quatuor hic faciat.  Bs  Et primo quidem, resumit quæ sit enunciatio in communi dicens: Enunciatio plures est, in. qua unum de pluribus,  vel plura de uno. enunciantur. Si tamen ex illis pluribus non  fit unum, ut in Primo * dictum et expositum fuit.  Deinde dilucidat illum terminum de uno, sive unum,  dicens: Dico autem unum, idest, unum nomen voco, non  propter unitatem vocis, sed significationis, ut supradictum est.  Deinde tertio, dividendo declarat, et declarando dividit, quot modis contingit unum nomen imponi pluribus  ex quibus non fit unum, ut ex hoc diversitatem enunciationis multiplicis insinuet. Et ponit duos modos, quorum  prior est, quando unum nomen imponitur pluribus ex  quibus fit unum, non tamen in quantum ex eis fit unum.  Tunc enim, licet materialiter et per accidens loquendo  nomen imponatur pluribus ex quibus fit unum, formaliter  tamen et per se loquendo nomen unum imponitur pluribus, ex quibus non fit unum: quia imponitur eis non  in quantum ex eis est unum, ut fortasse est hoc nomen,  bomo, impositum ad significandum animal et mansuetum  et bipes, idest, partes suæ definitionis, non in quantum  adunantur in unam hominis naturam per modum actus  et  potentiæ, sed ut distinctæ sint inter se actualitates.  Et insinuavit quod accipit partes definitionis ut distinctas  per illam coniunctionem, et per illud quoque * adversative  additum: Sed si ex bis unum fit, quasi diceret, cum hoc  tamen stat quod ex eis unum fit. Addidit autem, fortasse,  quia hoc nomen, bomo, non est impositum ad signifi Cap. xr.  Porphyrius.  Boethius. Albertus.   .  Lect. cit.  Ed.  quoque.  c  omittit  candum partes sui definitivas, ut distinctæ sunt. Sed si  impositum esset aut imponeretur, esset unum nomen  pluribus impositum ex quibus non fit unum. Et quia  idem iudicium est de tali nomine, et illis pluribus; ideo  similiter illæ plures partes definitivæ possunt dupliciter  accipi. Uno modo, per modum actualis et possibilis, et  sic unum faciunt; et sic formaliter loquendo vocantur  plura, ex quibus fit unum, et pronunciandæ sunt continuata oratione, et faciunt enunciationem unam dicendo,  animal rationale mortale currit. Est enim ista una sicut  et  ista, bomo currit. Alio modo, accipiuntur prædictæ  definitionis partes ut distinctæ sunt inter se actualitates, et sic non faciunt unum: ex duobus enim actibus  ut  sic, non fit unum, ut dicitur VII Metaphysicæ ; et  sic faciunt enunciationes plures et pronunciandæ sunt  vel cum pausa, vel coniunctione interposita, dicendo,  bomo est animal et mansuetum. οἱ bipes ; sive, bomo est  animal, mansuetum, bipes, rethorico more. Quælibet enim  istarum est enunciatio multiplex. Et similiter ista, Socrates est bomo, si homo est impositum ad illa, ut distinctæ    *  *  Pm  E  WC  acm  οὐ  ORI  οτὔὖὦο  UPS  δ...  δου,  Lect. xit, n. 9.  Num. 8.  RESP  actualitates sunt, significandum. Secundus autem  modus, quo unum nomen impositum est pluribus ex quibus non fit unum, subiungitur, cum dicit: Ex albo autem et bomine. et ambulante etc., idest, alio modo hoc fit,  quando unum nomen imponitur pluribus, ex quibus non  potest fieri unum, qualia sunt: bomo, album, et ambulans. Cum enim ex his nullo modo possit fieri aliqua  una natura, sicut poterat fieri ex partibus definitivis, clare  liquet quod nomen aliquod si eis imponeretur, esset nomen non unum significans, ut in Primo dictum fuit * de  hoc nomine, íumica, imposita homini et equo.  4. Habemus ergo enunciationis pluris seu multiplicis  duos modos, quorum, quia uterque fit dupliciter, efficiuntur quatuor modi. Primus est, quando subiicitur vel  prædicatur unum nomen impositum pluribus, ex quibus  fit unum, non in quantum sunt unum; secundus est,  quando ipsa plura ex quibus fit unum, in quantum sunt  distinctæ actualitates, subiiciuntur vel prædicantur; tertius est, quando ibi est unum nomen impositum pluribus  ex quibus non fit unum; quartus est, quando ista plura ex  quibus non fit unum, subiiciuntur vel prædicantur. Et  notato quod cum enunciatio secundum membra divisionis  ilius, qua divisa est, in unam et plures, quadrupliciter  variari poss't, scilicet cum unum de uno prædicatur, vel  unum de pluribus, vel plura de uno, vel plura de pluribus; postremum sub silentio præterivit, quia vel eius  pluralitas de se clara est, vel quia, ut inquit Albertus,  non intendebat nisi de enunciatione, quæ aliquo modo  una est, tractare. Demum concludit totam sententiam,  dicens: Quare nec si aliquis affirmet unum. de bis pluribus,  erit affirmatio una secundum. rem: sed vocaliter quidem erit  una, significative autem non una, sed multæ fient affirmaliones. Nec si e converso de uno ista plura. affrmabuntur, fiet  affirmatio una. Ista namque, bomo est albus, ambulans et  musicus, importat tres affirmationes, scilicet, bomo est albus et est ambulans et est musicus, ut patet ex illius contradictione.  Triplex enim negatio ili opponitur correspondens triplici affirmationi positæ.  5. Deinde cum dicit: Si ergo dialectica etc., probat a  posteriori supradictas enunciationes esse plures. Circa  quod duo facit: primo, ponit rationem ipsam ad hoc probandum per modum consequentiæ; deinde probat antecedens dictæ consequentiæ; ibi: Dictum est autem de  his* etc. Quoad primum talem rationem inducit. Si interrogatio dialectica est petitio responsionis, quæ sit propositio vel altera pars contradictionis, nulli enunciationum  supradictarum interrogative formatæ erit responsio una;  ergo nec ipsa interrogatio est una, sed plures. Cuius raOpp. D. Tnowas T. I.  9y  tionis primo ponit antecedens: Si ergo etc. Ad huius intelligendos terminos nota quod idem sonant enunciatio, interrogatio et responsio. Cum enim dicitur, cælum est  animatum, in quantum enunciat prædicatum de subiecto,  enunciatio vocatur; in quantum autem quærendo proponitur, interrogatio; ut vero quæsito redditur, responsio appellatur. Idem ergo erit probare non esse responsionem  unam, et interrogationem non esse unam, et enunciationem non esse unam. Adverte secundo interrogationem  esse  duplicem. Quædam enim est utram partem contradictionis eligendam proponens; et hæc vocatur dialectica,  quia dialecticus habet viam ex probabilibus ad utramque  contradictionis partem probandam. Altera vero determinatam ad unum responsionem exoptat; et hæc est interrogatio demonstrativa, eo quod demonstrator in unum  determinate tendit. Considera ulterius quod interrogationi  dialecticæ dupliciter responderi potest. Uno modo, consentiendo interrogationi, sive affirmative sive negative;  ut  si quis petat, cælum est animatum? et respondeatur,  est; vel, Deus non movelur? et respondeatur, mon: talis  responsio vocatur propositio. Alio modo, potest responderi interimendo; ut si quis petat, cælum est animatum,  et  respondeatur, non; vel Deus non movetur? et respondeatur, movetur: talis responsio vocatur contradictionis  altera pars, eo quod affirmationi negatio redditur et negationi affirmatio. Interrogatio ergo dialectica est petitio  annuentis responsionis, quæ est propositio, vel contradicentis, quæ est altera pars contradictionis secundum supradictam Boethii expositionem.  6. Deinde subdit probationem consequentiæ, cum ait:  Propositio vero unius contradictionis est etc. Ubi notandum  est  quod si responsio dialectica posset esse plures, non  sequeretur quod responsio enunciationis multiplicis non  posset esse dialectica; sed si responsio dialectica non  potest esse nisi una enunciatio, tunc recte sequitur quod  responsio enunciationis pluris, non est responsio dialectica, quæ una est. Notandum etiam quod si enunciatio  aliqua plurium contradictionum pars est, una non esse  comprobatur: una enim uni tantum contradicit. Si autem  unius solum contradictionis pars est, una est eadem ratione, quia scilicet unius affirmationis unica est negatio,  et e converso. Probat ergo Aristoteles consequentiam ex  eo quod propositio, idest responsio dialectica unius contradictionis est, idest una enunciatio est affirmativa vel  negativa. Ex hoc enim, ut iam dictum est, sequitur quod  nullius enunciationis multiplicis sit responsio dialectica,  et  consequenter nec una responsio sit. Nec prætereas  quod cum propositionem, vel alteram partem contradictionis, responsionemque præposuerit dialecticæ interrogationis, de sola propositione subiunxit, quod est una;  quod ideo fecit, quia illius alterius vocabulum ipsum  unitatem præferebat. Cum enim alteram contradictionis  partem audis, unam affirmationem vel negationem statim  intelligis.  Adiunxit autem antecedenti ly ergo, vel insinuans hoc  esse  aliunde sumptum, ut postmodum in speciali explicabit, vel, permutato situ, notam consequentiæ huius inter antecedens et consequens locandam, antecedenti præposuit; sicut si diceretur, si ergo Socrates currit, movetur ;  pro eo quod dici deberet, si Socrates currit, ergo. movetur.  Sequitur deinde consequens: Nom erit una responsio  ad boc ; et infert principalem conclusionem subdens, Quod  neque  una  erit interrogatio etc. Si enim responsio non  potest esse una, nec interrogatio ipsa una erit.  Quod autem addidit: Nec si sit vera, eiusmodi est.  Posset aliquis credere, quod licet interrogationi pluri non  possit dari responsio una, quando id de quo quæstio  fit non potest de omnibus illis pluribus affirmari vel neBoethius.  13*  TAS  98  gari (ut cum quæritur, canis est animal? quia non potest  vere de omnibus responderi, est, propter cæleste sidus,  nec vere de omnibus responderi, som est, propter canem  latrabilem, nulla possit dari responsio una); attamen quando id quod sub interrogatione cadit potest vere de omnibus  affirmari aut negari, tunc potest dari responsio una; ut  si II  nec  ipsa quæstio quid est, est interrogatio dialectica:  verbi gratia; si quis quærat, quid est amimal? talis non  quærit dialectice. Deinde subiungit probationem assumpti, scilicet quod ipsum quid est, non est quæstio dialectica; et intendit quod quia interrogatio dialectica optionem respondenti offerre debet, utram velit contradictionis  quæratur, camis est substantia? quia potest vere de  omnibus responderi, esí, quia esse substantiam omnibus canibus convenit, unica responsio dari possit. Hanc  erroneam existimationem removet dicens: Nec si sit vera,  idest, et dato quod responsio data enunciationi multiplici  de omnibus verificetur, nihilominus non est una, quia  unum non significat, nec unius contradictionis est pars, sed  plures responsio illa habet contradictorias, ut de se patet.  8. Deinde cum dicit: Dictum est autem de bis in Topicis etc., probat antecedens dupliciter: primo, auctoritate  eorum quæ dicta sunt in Topicis; secundo, a signo. Et  circa hoc duo facit. Primo, ponit ipsum signum, dicens:  Quod similiter etc., cum auctoritate Topicorum, manifestum  est, scilicet, antecedens assumptum, scilicet quod dialectica  interrogatio est petitio responsionis affirmativæ vel neQuoniam nec ipsum quid est, idest ex eo quod  gativæ.  partem, et ipsa quæstio quid est talem libertatem non  proponit (quia cum dicimus, quid est animal? respondentem ad definitionis assignationem coarctamus, quæ non  solum ad unum determinata est, sed etiam omni parte  contradictionis caret, cum nec esse, nec non esse dicat);  ideo  ipsa quæstio quid est, non est dialectica interrogatio. Unde dicit: Oportet enim ex data, idest ex proposita interrogatione dialectica, hunc respondentem eligere  posse utram velit contradictionis partem, quam contradictionis utramque partem interrogantem oportet determinare, idest determinate proponere, hoc modo: Utrum. boc  animal sit bomo an mon: ubi evidenter apparet optionem  respondenti offerri. Habes ergo pro signo cum quæstio  dialectica petat responsionem propositionis, vel alterius  contradictionis partem, elongationem quæstionis quid est  a  quæstionibus dialecticis.  CAP. , LECT.   LECTIO   (Canp. CargTANr lect. 1v)  EX. ALIQUIBUS DIVISIM. PRÆDICATIS DE SUBIECTO SEQUITUR ENUNCIATIO. DE EISDEM  CONIUNCTIM IN EODEM SUBIECTO, EX ALIQUIBUS AUTEM NON SEQUITUR  "Excel δὲ τὰ μὲν κατηγορεῖται συντιθέμενα, ὡς ἕν τὸ πᾶν  κατηγόρημα τῶν χορὶς κατηγορουμένων; τὰ δ᾽ οὔ:  τίς διαφορά; κατὰ γὰρ τοῦ ἀνθρώπου ἀληθὲς εἰπεῖν καὶ χωρὶς ζῷον, καὶ χωρὶς δίπουν, καὶ ταῦτα  ὡς fv καὶ  ἄνθρωπον, καὶ λευκόν, καὶ ταῦθ᾽ ὡς ἕν.  *  99  Quoniam vero hæc quidem prædicantur composita, ut ' Seq. c. x.  unum omne prædicatum fiat eorum quæ extra prædicantur, alia vero non; quæ differentia est? De homine enim verum est dicere, εἴ extra animal, et extra  bipes; et hæc ut unum: et, hominem, et, album; et  'AXX  οὐχί; εἰ ὀκυτεὺς καὶ ἀγαθός, xal σκυτεὺς  ἀγαθός.  Εἰ γάρ, ὅτι ἑκάτερον ἀληθές, εἶναι δεῖ καὶ τὸ συνάμφω,  πολλὰ καὶ ἄτοπα ἔσται. Κατὰ γὰρ τοῦ ᾿ἀνθρώπου  καὶ τὸ ἄνθρωπος ἀληθὲς καὶ τὸ λευχόν- ὥστε xal τὸ  «muy. Πάλιν, εἰ τὸ λευκὸν αὐτό, καὶ τὸ ἅπαν, στε  ἔσται ἄνθρωπος λευχὸς λευχός, καὶ τοῦτο εἰς ἄπειgov. Καὶ πάλιν μουσικός, λευχός, βαδίζων" καὶ ταῦτα  πολλάκις πεπλεγμένα εἰς ἄπειρον. "Ect, εἰ Zoxpdτῆς  τῆς  Σωχράτης καὶ ἄνθρωπος, καὶ Σωχράτης Σωχράἄνθρωπος. Καὶ εἰ ἄνθρωπος, καὶ δίπους" καὶ ἄνθρωπος ἄνθρωπος δίπους" Ὅτι μὲν οὖν, εἴ τις ἁπλῶς  φήσει τὰς συμπλοχοὶς γίνεσθαι, πολλὰ συμβαίνει λέεἰν  Τῶν  ἄτοπα, δῆλον. Ὅπως δὲ θετέον, λέγωμεν νῦν.  αὐτοῦ  δὴ κατηγορουμένων καὶ ἐφ᾽ οἷς χατηγορεῖσθται  συμβαίνει, ὅσα μὲν λέγεται κατὰ συμβεβηκὸς κατὰ  τοῦ    θάτερον xavd θατέρου, ταῦτα οὐχ  ἔσται ἕν, οἷον ἄνθρωπος λευχός ἐστι xxl μουσιχός.,  ἀλλ᾽  οὐχ ἕν τὸ λευκὸν καὶ τὸ μουσικόν" συμβεβηκότα  γὰρ ἄμφω τῷ αὐτῷ. Οὐδ᾽ εἰ τὸ λευκὸν μουσικὸν  ἀληθὲς εἰπεῖν, ὅμως οὐχ ἔσται τὸ μουσικὸν λευκὸν  ἕν  cv  χατὸὰ συμβεβηκὸς γὰρ τὸ μουσικὸν λευχόν"  ὥστε οὐκ ἔσται τὸ λευχὸν μουσικὸν ἕν τι.  Διὸ οὐδ᾽ σχυτεὺς ἁπλῶς ἀγαθὸς, ἀλλὰ ζῷον δίπουν.  οὐ γὰρ κατὰ συμβεβηκός.  Ἔτι οὐδ᾽ ὅσα ἐνυπάρχει ἐν τῷ ἑτέρῳ. Διὸ οὔτε τὸ λευκὸν πολλάχις, οὔτε ἄνθρωπος ἄνθρωπος ξῷόν ἐστιν  δίπουν" ἐνυπάρχει γὰρ ἐν τῷ ἀνθρώπῳ τὸ ζῷον καὶ  τὸ δίπουν.    aJ  yostquam declaravit diversitatem multiplicis  enunciationis, intendit determinare de earum  consequentiis. Et circa hoc duo facit, secundum duas dubitationes quas solvit. Secunda  incipit; ibi: Verum autem est dicere * etc. Circa  primum tria facit: primo, proponit quæstionem; secundo  ostendit rationabilitatem quæstionis; ibi: Si enim quoniam * etc.; tertio, solvit eam ; ibi: Eorum igitur ** etc. Est  ergo dubitatio prima: Quare ex aliquibus divisim prædicatis de uno sequitur enunciatio, in qua illamet unitæ  prædicantur de eodem, et ex aliquibus non. Unde hæc  diversitas oritur? Verbi gratia; ex istis, Socrates est amimal et est bipes ; sequitur, ergo Socrates est. animal. bipes ;  et similiter ex istis, Socrates est bomo et est albus; sequitur,  ergo Socrates est bomo albus. Ex illis vero, Socrates est bonus,  et.  est.  citbaroedus ; non sequitur, ergo est bonus citbaroedus.  Unde proponens quæstionem inquit: Quoniam vero bæc,  scilicet prædicta, ita prædicantur composita, idest coniuncta, ut unum sit prædicamentum quæ extra prædicantur, idest, ut ex eis extra prædicatis unite fiat prædicatio, alia vero prædicata non sunt talia, quæ est inter  differentia; unde talis innascitur diversitas? Et subdit exempla iam adducta, et ad propositum applicata: quorum  primum continet prædicata ex quibus fit unum per se,  hæc  est  ut  et  unum.  Sed non  si  citharoedus (coriarius)  bonus, etiam citharoedus ('coriarius) bonus.  Si enim quoniam utrunque, verum, esse oportet et simul  utrunque multa inconvenientia erunt. De homine enim  verum est et hominem, et album dicere; quare et  omne. Rursus si album, et omne. Quare erit homo  albus albus; et hoc in infinitum. Et rursus musicus  albus ambulans; et hæc eadem frequenter implicita in  infinitum. Amplius si Socrates, Socrates est, et homo;  et  Socrates Socrates homo; et si homo et bipes, erit  homo homo bipes. Quod igitur si quis simpliciter dicat  complexiones fieri, plurima inconvenientia contingere  manifestum est. Quemadmodum ponendum est nunc  dicimus.  Eorum igitur quæ prædicantur, et de quibus prædicari  accidit quæcumque secundum accidens dicuntur, vel de  eodem, vel alterum de altero, hæc non erunt unum; ut,  homo albus est et musicus; sed non est unum album  et  musicum; accidentia enim sunt utraque eidem. Nec,  si album, musicum verum est dicere, tamen non erit  musicum album unum aliquid: secundum accidens enim  album musicum dicetur; quare non erit album musicum unum aliquid.  Quocirca nec citharoedus (coriarius) bonus simpliciter; sed  animal bipes: non enim sunt secundum accidens.  Amplius nec quæcunque insunt in alio. Quare neque album frequenter dictum, neque homo homo animal est,  vel bipes; insunt enim in homine animal et bipes.  scilicet, animal et bipes, genus et differentia; secundum  autem prædicata ex quibus fit unum per accidens, scilicet, bomo albus; tertium vero prædicata ex quibus neque  unum per se neque unum per accidens inter se fieri sequitur; ut, cilbaroedus et bonus, ut declarabitur.  2.  Deinde cum dicit: Si enim quoniam etc., declarat  veritatem diversitatis positæ, ex qua rationabilis redditur  quæstio: si namque inter prædicata non esset talis diversitas, irrationabilis esset dubitatio. Ostendit autem hoc  ratione ducente ad inconveniens, nugationem scilicet. Et  quia nugatio duobus modis committitur, scilicet explicite et  implicite; ideo primo deducit ad nugationem explicitam,  secundo ad implicitam; ibi: Amplius, si Socrates etc. Ait  ergo quod si nulla est inter quæcumque prædicata differentia, sed de quolibet indifferenter censetur quod quia  alterutrum separatum dicitur, quod utrumque coniunctim  dicatur, multa inconvenientia sequentur. De aliquo enim  homine, puta Socrate, verum est separatim dicere quod,  homo est, et albus est; quare et omne, idest et coniunctim dicetur, Socrates est homo albus. Rursus et de eodem  Socrate potest dici separatim quod, est homo albus, et  quod, est albus; quare et omne, idest, igitur coniunctim  dicetur, Socrates est homo albus albus: ubi manifesta est  nugatio. Rursus si de eodem Socrate iterum dicas sepa100  ratim quod, est homo albus albus, verum dices et congrue  quod est albus, et secundum hoc, si iterum hoc repetes  separatim, a veritate simili non discedes, et sic in infinitum sequetur, Socrates est homo albus, albus, albus in infinitum. Simile quod ostenditur in alio exemplo. Si quis  de Socrate dicat quod, est musicus, albus, ambulans, cum  possit et separatim dicere quod, est musicus, et quod,  est II  accidens enumerasset, unico tamen exemplo utrumque  membrum explanavit, ut insinuaret quod distinctio illa  non erat in diversa prædicata per accidens, sed in eadem  diversimode comparata. Album enim et musicum, comparata ad hominem, sub primo cadunt membro; comalbus, et quod, est ambulans; sequetur, Socrates est  musicus, albus, ambulans, musicus, albus, ambulans. Et  quia pluries separatim, in eodem tamen tempore, enunciari potest, procedit nugatio sine fine.  Deinde deducit ad implicitam nugationem, dicens,  cum  de  Socrate vere dici possit separatim quod, est  homo, et quod, est bipes, si coniunctim inferre licet,  sequetur quod, Socrates sit homo bipes. Ubi est implicita nugatio. Bipes enim circumloquens differentiam hominis actu et intellectu clauditur in hominis ratione. Unde  ponendo loco hominis suam rationem (quod fieri licet,  ut  docet Aristoteles II Topicorum), apparebit manifeste  nugatio. Dicetur enim: Socrates est homo, idest, animal  bipes, bipes. Quoniam ergo plurima inconvenientia sequuntur si quis ponat complexiones, idest, adunationes  prædicatorum fieri simpliciter, idest, absque diversitate  aliqua, manifestum est ex dictis. Quomodo autem faciendum est, nunc, idest, in sequentibus dicemus. Et nota  quod iste textus non habetur uniformiter apud omnes  quoad verba, sed quia sententia non discrepat, legat quicunque ut vult.  3. Deinde cum dicit: Eorum igitur etc., solvit propositam quæstionem. Et circa hoc duo facit: primo, respon*  *"  Num. 11.  Num. 7.  det instantiis in ipsa propositione quæstionis adductis;  secundo, satisfacit instantis in probatione positis; ibi:  Amplius nec quæcumque * etc. Circa primum duo facit:  primo namque, declarat veritatem ; secundo, applicat ad  propositas instantias; ibi: Quocirca * etc. Determinat ergo  dubitationem tali distinctione. Prædicatorum sive subiectorum plurium duo sunt genera: quædam sunt per accidens, quædam per se. Si per accidens, hoc dupliciter  contingit, vel quia ambo dicuntur per accidens de uno  tertio, vel quia alterum de altero mutuo per accidens  prædicatur. Quando illa plura divisim prædicata sunt  per accidens quovis modo, ex eis non sequitur coniunctim prædicatum; quando autem sunt per se, tum ex  eis sequitur coniuncte prædicatum. Unde continuando  se  de  ad præcedentia ait: Eorum. igitur quæ prædicantur, et  quibus prædicantur, idest subiectorum, quæcumque  dicuntur secundum accidens (et per hoc innuit oppositum  membrum, scilicet per se), vel de eodem, idest accidentaliter  concurrunt ad unius tertii denominationem, vel.  alterutrum. de altero, idest accidentaliter mutuo se denominant (et per hoc ponit membra duplicis divisionis),  ba:c, scilicet plura per accidens, mom erunt unum, idest  non inferent prædicationem coniunctam.  4. Et explanat utrumque horum exemplariter. Et primo,  primum, quando scilicet illa plura per accidens dicuntur  de tertio, dicens: Ut si bomo albus est et musicus. divisim.  Sed non est idem, idest non sequitur adunatim, ergo bomo  est  musicus albus. Utraque enim sunt accidentia eidem  tertio.  Deinde explanat secundum, quando solum illa  plura per accidens de se mutuo prædicantur, subdens:  Nec si album. musicum. verum est dicere, idest, et etiamsi  de se invicem ista prædicantur per accidens ratione subiecti in quo uniuntur, ut dicatur, bomo est albus, et est  musicus, el album est musicum, non tamen sequitur quod  album musicum unite prædicetur, dicendo, ergo bomo est  albus musicus. Et causam assignat, quia album dicitur de  musico per accidens, et e converso.  $. Notandum est hic quod cum duo membra per  parata autem inter se, sub secundo. Diversitatenr ergo  comparationis pluralitate membrorum, identitatem autem  prædicatorum unitate exempli astruxit.  6. Advertendum est ulterius, ad evidentiam divisionis  factæ in littera, quod, secundum accidens, potest dupliciter accipi. - Uno modo, ut distinguitur contra perseitatem posterioristicam, et sic non sumitur hic: quoniam  cum dicitur plura prædicata secundum accidens, - aut  ly secundum accidens determinaret coniunctionem inter se,  et  ma  sic manifeste esset falsa regula; quoniam inter priprædicata, animal bipes, seu, animal rationale, est  prædicatio secundum accidens hoc modo (differentia  enim in nullo modo perseitatis prædicatur de genere, et  tamen Aristoteles in textu dicit ea non esse prædicata  per accidens, et asserit quod est optima illatio, est amimal  et bipes, ergo est animal bipes); - aut determinaret coniunctionem illarum ad subiectum, et sic etiam inveniretur falsitas in regula: bene namque dicitur, paries est coloratus, et  est visibilis, et tamen coloratum visibile non per se inest parieti. - Alio modo, accipitur ly secundum accidens, ut distinguitur contra hoc quod dico, ratione sui, seu, non propter  aliud, et sic idem sonat, quod, per aliud: et hoc modo  accipitur hic. Quæcunque enim sunt talis naturæ quod  non ratione sui iunguntur, sed propter aliud, ab illatione  coniuncta deficere necesse est, ex eo quod coniuncta  illatio unum alteri substernit, et ratione sui ea adunata denotat ut potentiam et actum. - Est ergo sensus divisionis,  quod prædicatorum plurium, quædam sunt per accidens,  quædam per se, idest, quædam adunantur inter se ratione  sui, quædam propter aliud. Ea quæ per se uniuntur  inferunt coniunctum, ea autem quæ propter aliud, nequaquam.  7. Deinde cum dicit: Quocirca nec. citbaroedus etc., applicat declaratam veritatem ad partes quæstionis. Et primo, ad secundam partem, quia sclicet non sequitur: est  bonus et est citharoedus; ergo est bonus citharoedus, dicens: Quocirca nec citbaroedus bonus etc.; secundo, ad aliam  partem quæstionis, quare sequebatur: est animal et est  bipes; ergo est animal bipes: et ait: Sed animal bipes etc.  Et subiungit huius ultimi dicti causam, quia, animal bipes,  non sunt prædicata secundum accidens coniuncta inter  se  rum  aut in tertio, sed per se. Et per hoc explanavit altemembrum primæ divisionis, quod adhuc positum  non fuerat explicite. Adverte quod Aristoteles, eamdem  tenens  sententiam de citharoedo et bono et musico et  albo, conclusit quod album et musicum non inferunt  coniunctum prædicatum; ideo nec citharoedus et bonus  inferunt citharoedus bonus simpliciter, idest coniuncte.  Est autem ratio dicti, quia licet musica et albedo dissimiles sint bonitati et arti citharisticæ in hoc, quod bonitas nata est denominare et subiectum tertium, puta hominem et ipsam artem citharisticam (propter quod falsitas  manifeste cernitur, quando dicitur: est bonus et citharoedus; ergo bonus citharoedus ), musica vero et albedo subiectum tertium natæ sunt denominare tantum, et non se  invicem (propter quod latentior est casus cum proceditur:  est albus et est musicus; ergo est musicus albus),  licet, inquam, in hoc sint dissimiles, et propter istam  dissimilitudinem processus Aristotelis minus sufficiens videatur; attamen similes sunt in hoc quod, si servetur  identitas omnimoda prædicatorum quam servari oportet,  si illamet divisa debent inferri coniunctim, sicut musica  non denominat albedinem, neque contra, ita nec bonitas,  de qua fit sermo, cum dicitur, bomo est bonus, denominat  artem citharisticam, neque e converso. Cum enim bonum sit æquivocum, licet a consilio, alia ratione dicitur  de perfectione citharoedi, et alia de perfectione hominis.  Quando namque dicimus, Socrates est bonus, intelligimus  bonitatem moralem, quæ est hominis bonitas simpliciter  (analogum siquidem simpliciter positum sumitur pro potiori); cum autem infertur, citharoedus bonus, non boni101  9. Nec obstat quod album faciat unum per accideüs  cum homine: non enim dictum est quod unitas per accidens aliquorum impedit ex diversis inferre coniunctum,  sed quod unitas per acccidens aliquorum ratione tertii  tantum est illa quæ impedit. Talia enim quæ non sunt  unum per accidens nisi ratione tertii, inter se nullam hatatem moris sed artis prædicas: unde terminorum identitas non salvatur. Sufficienter igitur et subtiliter Aristoteles eamdem de utrisque protulit sententiam, quia eadem  est hæc, et ibi ratio etc.  8. Nec prætereundum est quod, cum tres consequentias  adduxit quæstionem proponendo, scilicet; est animal et  bipes; ergo est animal bipes: et, est homo et albus; ergo  est  homo albus: et, est citharoedus et bonus; ergo est  bonus citharoedus; et duas primas posuerat esse bonas,  tertiam vero non ; huius diversitatis causam inquirere volens, cur solvendo quæstionem nullo modo meminerit  secundæ consequentiæ, sed tantum primæ et tertiæ.  Indiscussum namque reliquit an illa consequentia sit bona  —-an  ve,  SUB -w  mala. - Et ad hoc videtur mihi dicendum quod ex his  paucis verbis etiam illius consequentiæ naturam insinuavit. Profundioris enim sensus textus capax apparet  cum dixit quod, non sunt unum album et musicum etc., ut  scilicet non tantum indicet quod expositum est, sed etiam  eius causam, ex qua natura secundæ consequentiæ elucescit. Causa namque quare album et musicum non inferunt coniunctam, prædicationem est, quia in prædicatione coniuncta oportet alteram partem alteri supponi,  ut  potentiam actui, ad hoc ut ex eis fiat aliquo. modo  unum, et altera a reliqua denominetur (hoc enim vis  coniunctæ prædicationis requirit, ut supra diximus de  partibus definitionis); album autem et musicum secundum  se  non faciunt unum per se, ut patet, neque unum per  accidens. Licet enim ipsa ut adunantur in subiecto uno  sint unum subiecto per accidens, tamen ipsamet quæ  adunantur in uno, tertio subiecto, non faciunt inter se  unum per accidens: tum quia neutrum informat alterum  (quod requiritur ad unitatem per accidens aliquorum inter  se, licet non in tertio); tum quia non considerata subiecti  unitate, quæ est extra eorum rationes, nulla remanet inter  ea  unitatis causa. Dicens ergo quod album et musicum  non sunt unum, scilicet inter se, aliquo modo, causam  expressit quare coniunctim non infertur ex eis prædicatum. Et quia oppositorum eadem est disciplina, insinuavit  per illamet verba bonitatem illius consequentiæ. Ex eo  enim quod homo et albus se habent sicut potentia et actus,  (et ita albedo informet, denominet atque unum faciat cum  homine ratione sui), sequitur quod ex divisis potest inferri  coniuncta prædicatio; ut dicatur: est bomo et albus; ergo  δὲ bomo albus. Sicut per oppositum dicebatur quod ideo  musicum et album non inferunt coniunctum prædicatum  quia neutrum alterum informabat.  bent unitatem; et propterea non potest inferri coniunctum, ut dictum est, quod unitatem importat. Illa vero  quæ sunt unum per accidens ratione sui, seu inter se, ut,  bomo albus, cum coniuncta accipiuntur, unitate necessaria  non carent, quia inter se unitatem habent. Notanter autem  apposui ly tantum : quoniam si aliqua duo sunt unum per  accidens, ratione tertii subiecti scilicet, sed non tantum ex  hoc habent unitatem, sed etiam ratione sui,ex hoc quod  alterum reliquum informat, ex istis divisis non prohibetur  inferri coniunctum. Verbi gratia, optime dicitur: est quantum et est coloratum; ergo est quantum coloratum: quia  color informat quantitatem.  IO.  Potes  autem credere quod secunda illa consequentia, quam non explicite confirmavit Aristoteles respondendo, sit bona et ex eo quod ipse proponendo  quæstionem asseruit bonam, et ex eo quod nulla istantia  reperitur. Insinuavit autem et Aristoteles quod sola talis  unitas impedit illationem coniunctam, quando dixit quæcunque secundum. accidens dicuntur vel de eodem vel alterutrum. de altero. Cum enim dixit, secundum. accidens de eodem, unitatem eorum ex sola adunatione in tertio posuit  (sola enim hæc per accidens prædicantur de eodem,  ut  dictum est); cum autem addidit, vel alterutrum de altero, mutuam accidentalitatem ponens, ex nulla parte inter se unitatem reliquit. Utraque ergo per accidens adducta prædicata, in tertio scilicet vel alterutrum, quæ impediant illationem coniunctam, nonnisi in tertio unitatem  habent.  11. Deinde cum dicit: Amplius nec etc., satisfacit instantiis in probatione adductis, et in illis in quibus explicita  committebatur nugatio, et in illis in quibus implicita; et  ait quod non solum inferre ex divisis coniunctum non  licet quando prædicata illa sunt per accidens, sed mec  etiam quæcunque insunt im alio: idest, sed nec hoc licet  quando prædicata includunt se, ita quod unum includatur in significato formali alterius intrinsece, sive explicite,  ut  album in albo, sive implicite, ut animal et bipes in  homine. Quare neque album frequenter dictum divisim  infert  coniunctum, neque bomo divisim ab animali vel  bipede enunciatum, animal bipes *, coniunctum cum homine infert; ut dicatur, ergo Socrates est bomo bipes, vel animal bomo. Insunt enim in hominis ratione, animal et bipes actu et intellectu, licet implicite. Stat ergo solutio  quæstionis in hoc, quod unitas plurium per accidens in  tertio tantum et nugatio, impediunt ex divisis inferri coniunctum ; et consequenter, ubi neutrum horum inven'tur,  licebit inferre coniunctum.  divisis  ex  quando divisæ sunt simul veræ de eodem etc.  Et  hoc  intellige  *  vel bipes.  Ed. c: animal  102  ᾿ II  LECTIO   (Can. CargTAN: lect. v)  AN EX ENUNCIATIONE HABENTE PLURA PRÆDICATA CONIUNCTIM INFERRE LICEAT  ENUNCIATIONEM QUÆ EADEM PRÆDICATA DIVISIM CONTINET  ᾿Αληθὲς δέ ἐστιν εἰπεῖν χατὰ τοῦ τινὸς χαὶ ἁπλῶς, οἷον  τὸν τινὰ ἄνθρωπον ἄνθρωπον, 5 τὸν τινὰ λευχὸν ἀνθρωπον ἄνθρωπον. λευκόν: οὐχ ἀεὶ δέ.  ᾽Αλλ᾽  ὅταν μὲν ἐν τῷ προσχειμένῳ τῶν ἀντιχειμένων τι  ἐνυπάρχῃ; ἕπε ται ἀντίφασις, οὐχ ἀληθές, ἀλλὰ  y: 930oc, οἷον τὸν τεθνεῶτα ἄνθρωπον ἄνθρωπον εἰπεῖν"  ὅταν δὲ Un ἐνυπάρχῃ; ἀληθές.  "H ὅταν μὲν ἐνυπάρχῃ, ἀεὶ οὐκ ἀληθές: ὅταν δὲ μὴ ἐνυπάρχῃ, οὐκ ἀεὶ ἀληθές, ὥσπερ, Ὅμηρός ἐστί τι, οἷον  ποιητής" ἄρ᾽ οὖν καὶ ἔστιν, 00;  χατὰ cup ps βηχὸς γὰρκατηγορεῖται τοῦ Ὁμήρου τὸ  ἔστι" ὅτι 12e ποιητής ἐστιν, ἀλλ᾽ οὐ καθ᾽ αὐτὸ κατηγορε εἴται χατὰ τοῦ Ὁμήρου τὸ ἔστιν.  Ὥστε ἐν ὅσαις κατηγορίαις μήτε ἐναντιότης ἔνε στιν, Hu  λόγοι ἀντ᾽ ὀνομάτων λέγονται; καὶ xa ἑαυτὸ χατηγορῆται; χαὶ μὴ κατὰσυμβεβηκός, ἐπὶ τούτων  τὸ τὶ χαὶ ἁπλῶς ἀληθὲς ἔσται εἰπεῖν.  "  Τὸ δὲ μὴ ὄν, ὅτι δοξαστόν, οὐχ ἀληθὲς εἰπεῖν ὄν τι  δόξα γὰρ αὐτοῦ οὐχ ἔστιν, ὅτι ἔστιν, ἀλλ᾽ ὅτι οὐκ  ὩΣ secundam dubitationem. Et circa hoc tria fa*  *  *  Num.seq.  Num. 17.  Num. 8.  Ξ  ys do solvit eam; ibi: Sed quando in adiecto * etc.,  tertio, ex hoc excludit quemdam errorem; ibi:  Quod autem non est* etc. Est ergo quæstio: an ex enunciatione habente prædicatum coniunctum, liceat inferre enunciationes dividentes illud coniunctum; et est quæstio: contraria superiori. Ibi enim quæsitum est an ex divisis inferatur coniunctum; hic autem quæritur an ex coniuncto  sequantur divisa. Unde movendo quæstionem dicit: erum  aulem. aliquando est dicere de aliquo et. simpliciter, idest divisim, quod scilicet prius dicebatur coniunctim, ΜῈ quemdam hominemalbum esse bominem, aut quoddam album hominem. album esse, idest ut ex ista, Socrates est. bomo albus,  sequitur divisim, ergo Socrates est bomo, ergo Socrates est albus.  Non autem. semper, idest aliquando autem ex coniuncto  non inferri potest divisim; non enim sequitur, Socrates est  bonus citbaroedus, ergo est bonus. Unde hæc est differentia,  quod quandoque licet et quandoque non. Et adverte quod  notanter  adduxit  exemplum de homine albo, inferendo  utramque partem divisim, ut insinuaret quod intentio  quæstionis est investigare quando ex coniuncto potest  utraque pars divisim inferri, et non quando altera tantum.  2. Deinde cum dicit: Sed quando in adiecto etc., solvit  quæstionem. Et duo facit: primo, respondet parti negativæ  quæstionis, quando scilicet non licet; secundo, ibi:  Quare in quantiscumque * etc., respondet parti affirmativæ,  quando scilicet licet. Circa primum considerandum quod  quia dupliciter contingit fieri prædicatum coniunctum, uno  modo ex oppositis, alio modo ex non oppositis, ideo duo  facit: primo, ostendit quod numquam ex prædicato coniuncto ex oppositis possunt inferri eius partes divisim;  secundo, quod nec hoc licet universaliter in prædicato  coniuncto ex non oppositis, ibi: Pel etiam quando etc. Ait  ergo quod quando in termino adiecto inest aliquid de  numero oppositorum, ad quæ sequitur contradictio inter  * Verum autem est dicere de aliquo et simpliciter; ut aliquem ' Sea. c. xr.  hominem hominem, aut aliquem album hominem, hohominem album: non autem semper.  Sed quando in adiecto aliquid quidem oppositorum insit,  quod consequitur contradictio, non verum sed falsum  est; ut, hominem mortuum, hominem dicere: quando  autem non insit, verum est.  Aut quando insit quidem, semper non verum est: quando  vero non insit, non semper verum est; ut, Homerus  est  aliquid, ut poeta: utrum igitur est, an ergo etiam  est; non?  Secundum accidens enim prædicatur, est, de Homero;  (quoniam est enim poeta), sed non secundum se prædicatur de Homero ipsum est.  Quare in quantiscunque prædicationibus neque contrarietas,  [aliqua aut nulla oppositio] inest, si definitiones pro nominibus dicantur, et secundum se prædicantur et non secundum accidens, in his aliquid et simpliciter verum  erit dicere.  Quod autem non est, quoniam opinabile est, non est verum  dicere esse aliquid: opinio enim eius non est, quoniam  est, sed quoniam non est.  ipsos terminos, »on verum. est, scilicet inferre divisim, sed  falsum. Verbi gratia cum dicitur, Cæsar est bomo mortuus,  non sequitur, ergo est bomo: quia ly mortuus, adiacens homini, oppositionem habet ad hominem, quam. sequitur  contradictio  inter  hominem et mortuum: si enim est  homo, non est mortuus, quia .non est corpus inanimatum;  et si est mortuus, non est homo, quia mortuum est corpus  inanimatum. Quando autem mon inest, scilicet talis. oppositio, verum est, scilicet inferre divisim. Ratio autem  quare, quando est oppositio in adiecto, non sequitur illatio divisa est, quia alter terminus ex adiecti oppositione  corrumpitur in ipsa enunciatione coniuncta. Corruptum  autem seipsum absque corruptione non infert, quod illatio divisa sonaret.  3. Dubitatur hic primo circa id quod supponitur,  quomodo possit vere dici, Cæsar est bomo mortuus, cum  enunciatio non possit esse vera, in qua duo contradictoria  simul de aliquo prædicantur. Hoc enim est primum principium. Zomo autem et mortuus, ut in littera  dicitur, contradictoriam oppositionem includunt, quia in  homine includitur vita, in mortuo non vita. - Dubitatur  secundo circa ipsam consequentiam, quam reprobat Aristoteles: videtur enim . optima. Cum enim ex enunciatione prædicante duo contradictoria possit utrumque inferri (quia æquivalet copulativæ), aut neutrum, (quia  destruit seipsam), et enunciatio supradicta terminos oppositos contradictorie prædicet, videtur sequi utraque  pars, quia falsum est neutram sequi.  4. Ad hoc simul dicitur quod aliud est loqui de duobus terminis secundum se, et aliud de eis ut unum stat  sub determinatione alterius. Primo namque modo, bomo  et  moriuus, contradictionem inter se habent, et impossibile est quod simul in eodem inveniantur. Secundo autem modo, bomo et mortuus, non opponuntur, quia homo  transmutatus iam per determinationem corruptivam importatam in ly mortuus, non stat pro suo significato secundum se, sed secundum exigentiam termini additi, a  CAP. ,  quo suum significatum distractum est. Ad utrunque autem insinuandum Aristoteles duo dixit, et quod habent  oppositionem quam sequitur contradictio, attendens significata eorum secundum se, et quod etiam ex eis formatur una vera enunciatio cum dicitur, Socrates est bomo moriuus,  attendens coniunctionem eorum alterius corruptivam. Unde patet quid dicendum sit ad dubitationes. Ad  utramque siquidem dicitur, quod non enunciantur duo  contradictoria simul de eodem, sed terminus ut stat sub  distractione *, seu transmutatione alterius,cui secundum se  *  Ed. c: distinclione.  esset contradictorius.  5. Dubitatur quoque circa id quod ait: /mest aliquid  oppositorum quæ consequitur contradictio; superflue enim videtur addi illa particula, quæ consequitur contradictio. Omnia  enim opposita consequitur contradictio, ut patet discurrendo in singulis; pater enim est non filius, et album non nigrum, et videns non cæcum etc.  Et ad hoc dicendum est quod opposita possunt dupliciter accipi: uno modo formaliter, idest secundum sua  significata; alio modo denominative, seu subiective. Verbi  gratia, pater et filius possunt accipi pro paternitate et  filiatione, et possunt accipi pro eo qui denominatur pater  vel filius. Rursus cum omnis distinctio fiat oppositione  aliqua, ut dicitur in X Metapbysicæ, supponatur omnino  distincta esse opposita. Dicendum ergo est quod, licet ad  omnia opposita seu distincta contradictio sequatur inter  se  formaliter sumpta, non tamen ad omnia opposita sequitur contradictio inter ipsa denominative sumpta. Quamvis enim pater et filius mutuam sui negationem inferant  inter se formaliter, quia paternitas est non filiatio, et filiatio  est non paternitas; in relatione tamen ad denominatum, contradictionem non necessario inferunt. Non  enim sequitur, Socrates est pater; ergo mon est filius; nec e  converso. Ut persuaderet igitur Aristoteles quod non quæcunque opposita colligata impediunt divisam illationem  (quia non illa quæ habent contradictionem annexam formaliter tantum, sed illa quæ,habent contradictionem et  formaliter et secundum rem denominatam), addidit: quæ  consequitur contradictio, in tertio scilicet denominato. Et  usus est satis congrue vocabulo, scilicet, consequitur : contradictio enim ista in tertio est quodammodo extra ipsa  opposita.  6. Deinde cum dicit: Vel etiam quando est etc., declarat quod ex non oppositis in tertio coniunctis secundum unum prædicatum, non universaliter possunt inferri partes divisim. Et primo, hoc proponit quasi emendans quod immediate dixerat, subiungens: Vel etiam quando est, scilicet oppositio inter terminos coniunctos, falsum  est semper, scilicet inferre divisim ; quasi diceret : dixi quod  quando inest oppositio, non verum sed falsum est inferre  divisim; quando autem non inest talis oppositio, verum  est inferre divisim. Vel etiam ut melius dicatur, quod  quando est oppositio, falsum est semper, quando autem  non inest talis oppositio, non semper verum est. Et sic  modificavit supradicta addendo ly semper, et, nom semper.  Et subdens exemplum quod non semper ex non oppositis sequatur divisio, ait: Ut, Homerus est aliquid ut poeta;  ergo eliam. est? Non. Ex hoc coniuncto, est poeta, de Homero enunciato, altera pars, ergo Homerus est, non sequitur; et tamen clarum est quod istæ duæ partes colligatæ, est et poeta, non. habent oppositionem, ad quam  sequitur contradictio. Igitur non semper ex non oppositis coniunctis illatio divisa tenet etc.  .  7. Deinde cum dicit: Secundum. accidens etc., probat  hoc, quod modo dictum est, ex eo quod altera pars istius  compositi, scilicet, est, in antecedente coniuncto prædicatur  de  Homero secundum accidens, idest ratione alterius, quoniam, scilicet poeta, prædicatur de Homero, et  LECT.   non prædicatur secundum se ly est de Homero; quod tamen  infertur, cum concluditur: ergo Homerus est. - Considerandum est hic quod ad solvendam illam conclusionem  negativam, scilicet, - non semper ex non oppositis coniunctis  infertur divisim, - sufficit unam instantiam suæ  oppositæ universali affirmativæ afferre. Et hoc fecit Aristoteles adducendo illud genus enunciationum, in quo  altera pars coniuncti est aliquid pertinens ad actum animæ.  Loquimur enim modo de Homero vivente in poematibus suis in mentibus hominum. In his siquidem  enunciationibus partes coniunctæ non sunt oppositæ in  tertio, et tamen non licet inferre utramque partem divisim. Committitur enim fallacia secundum quid ad simpliciter. Non enim valet, Cæsar est laudatus, ergo. est: et  simile  est  de esse in effectu dependente in conservari.  Quomodo autem intelligenda sit ratio ad hoc adducta  ab Aristotele in sequenti particula dicetur.  8. Deinde cum dicit: Quare in quantiscunque etc., respondet parti affirmativæ quæstionis, quando scilicet ex  coniunctis licet inferre divisim. Et ponit duas conditiones  oppositas supradictis debere convenire in unum, ad  hoc ut possit fieri talis consequentia; scilicet, quod nulla  inter partes coniuncti oppositio sit, et quod secundum  se  prædicentur. Unde dicit inferendo ex dictis: Quare in  quantiscunque prædicamentis, idest prædicatis ordine quodam adunatis, meque contrarietas aliqua, in cuius ratione  ponitur contradictio in tertio (contraria enim sunt quæ  mutuo se ab eodem expellunt), aut universaliter nulla oppositio inest, ex qua scilicet sequatur contradictio in tertio, si. definitiones pro. nominibus sumantur. Dixit hoc, quia  licet in quibusdam non appareat oppositio, solis nominibus positis, sicut, bomo mortuus, et in quibusdam appareat, ut, vivum mortuum; hoc tamen non obstante,  si, positis nominum definitionibus loco nominum, oppositio appareat, inter opposita collocamus. Sicut, verbi gra.tia, bomo mortuus, licet oppositionem non præseferat,  tamen si loco hominis et mortui eorum definitionibus  utamur, videbitur contradictio. Dicemus enim corpus animatum rationale, corpus inanimatum irrationale. In quantiscunque, inquam, coniunctis nulla est oppositio, ef secundum se, et non secundum | accidens. prædicantur, in. bis  verum. erit. dicere et. simpliciter, idest divisim quod fuerat  coniunctim enunciatum.  9. Ad evidentiam secundæ conditionis hic positæ,  nota quod ly secumdum se potest dupliciter accipi: uno  modo positive, et sic dicit perseitatem primi, secundi,  universaliter, quarti modi; alio modo negative, et sic  idem sonat quod non per aliud. - Rursus considerandum  est  quod cum Aristoteles dixit de prædicato coniuncto  quod, secundum se prædicetur, ly secundum. se potest ad  tria referri, scilicet, ad partes coniuncti inter se, ad totum  coniunctum respectu subiecti, et ad partes coniuncti respectu subiecti. Si ergo accipiatur ly secumdum se positive, licet non falsus, extraneus tamen a mente Aristotelis reperitur sensus ad quodcunque illorum trium referatur.  Licet  enim valeat, est bomo risibilis, ergo. est  bomo et est risibilis, et, est animal rationale, ergo est animal et est rationale; tamen his oppositæ inferunt similes  consequentias. Dicimus enim, est albus musicus, ergo est  musicus et est. albus: ubi nulla est perseitas, sed est coniunctio per accidens, tam inter partes inter se, quam inter  totum et subiectum, quam etiam inter partes et subiectum. Liquet igitur quod non accipit Aristoteles ly secundum se positive, ex eo quod vana fuisset talis additio, quæ  ab oppositis non facit in hoc differentiam. Ad quid enim  addidit, secundum se, et non, secundum accidens, si tam  illæ quæ sunt secundum se, modo exposito, quam illæ  quæ  sunt secundum accidens ex coniuncto, inferunt di104 II  visum? - Si vero accipiatur secundum se, negative, idest,  non per aliud, et referatur ad partes coniuncti inter se,  falsa invenitur regula. Nam non licet dicere, est bonus  cilbaroedus ; ergo est. bonus et citlbaroedus ; et tamen ars  citharizandi et bonitas eius sine medio coniunguntur. Et  similiter contingit, si referatur ad totum coniunctum respectu  subiecti, ut in eodem exemplo apparet. Totum  enim hoc, citbaroedus bonus, non propter aliud convenit  homini; et tamen non infert, ut dictum est, divisionem.  Superest ergo ut ad partem coniuncti respectu subiecti  referatur, et sit sensus: quando aliqua coniunctim prædicata, secundum se, idest, non per aliud, prædicantur, idest,  quod utraque pars prædicatur de subiecto non propter  alteram, sed propter seipsam et subiectum, tunc ex conAverroes.  Boethius.  * Ed. c: idest, negative.  *  Ed. c: opinionem.  iuncto infertur divisa prædicatio.  το. Et hoc modo exponunt Averroes et Boethius; et  vera invenitur regula, ut inductive facile manifestari potest, et ratio ipsa suadet. Si enim partes alicuius coniuncti  prædicati ita inhærent subiecto quod neutra propter alteram insit, earum separatio nihil habet quod veritatem  impediat divisarum. Est et verbis Aristotelis consonus  sensus iste. Quoniam et per hoc distinguit inter enunciationes  ex  quibus coniunctum infert divisam prædicationem, et eas quibus hæc non inest consequentia. Istæ  siquidem ultra habentes oppositiones in adiecto, sunt  habentes prædicatum coniunctum, cuius una partium alterius est ita determinatio, quod nonnisi per illam subiectum respicit, sicut apparet in exemplo ab Aristotele adducto, Homerus est poeta. Est siquidem ibi non respicit  Homerum ratione ipsius Homeri, sed præcise ratione  poesis relictæ; et ideo non licet inferre, ergo Homerus  est. Et simile est in negativis. Si quis enim dicat, Socrates  non  est  paries, non licet inferre, ergo Socrates mon est,  eadem ratione, quia esse non est negatum de Socrate,  sed de pariete in Socrate.  11. Et per hoc patet qualiter sit intelligenda ratio in  textu superiore adducta. Accipitur enim ibi, secundum se  negative *, modo hic exposito, et secundum accidens, idest  propter aliud. In eadem ergo significatione est usus ly  secundum. accidens, solvendo hanc et præcedentem quæstionem: utrobique enim intellexit secundum accidens,  idest, propter aliud, coniuncta, sed ad diversa retulit. Ibi  namque ly secundum. accidens determinabat coniunctionem  duorum prædicatorum inter se; hic vero determinat partem coniuncti prædicati in ordine ad subiectum. Unde  ibi, album et musicum, inter ea quæ secundum accidens  sunt, numerabantur; hic autem non.  12. Sed occurrit circa hanc expositionem * dubitatio non  parva. Si enim ideo non licet ex coniuncto inferre divisim,  quia altera pars coniuncti non respicit subiectum propter  se, sed propter alteram partem (ut dixit Aristoteles de  ista enunciatione, Homerus est poeta), sequetur quod numquam a tertio adiacente ad secundum erit bona consequentia: quia in omni enunciatione de tertio adiacente, est respicit subiectum propter prædicatum et non propter se etc.  13. Ad huius difficultatis evidentiam, nota primo hanc  distinctionem. Aliud est tractare regulam, quando ex tertio  adiacente  infertur  secundum et quando non, et aliud  quando ex coniuncto fit illatio divisa et quando non. Illa  siquidem est extra propositum, istam autem venamur.  Illa compatitur varietatem terminorum, ista non. Si namque unus terminorum, qui est altera pars coniuncti, secundum significationem seu suppositionem varietur in  separatione, non infertur ex coniuncto prædicato illudmet divisim, sed aliud. - Nota secundo hanc propositionem: Cum ex tertio adiacente infertur secundum, non  servatur identitas terminorum. Liquet ista quoad illum  terminum, es/. Dictum siquidem fuit supra a sancto Thoma *, quod aliud importat est secundum adiacens, et aliud  est tertium adiacens. Illud namque importat actum essendi  simpliciter, hoc autem habitudinem inhærentiæ vel identitatis  prædicati ad subiectum. Fit ergo varietas unius  termini cum ex tertio adiacente infertur secundum, et  consequenter non fit illatio divisi ex coniuncto. - Unde  prælucet responsio ad obiectionem, quod, licet ex tertio  adiacente quandoque possit inferri secundum, numquam  tamen ex tertio adiacente licet inferri secundum tamquam  ex  coniuncto divisum, quia inferri non potest divisim,  cuius altera pars ipsa divisione perit. Negetur ergo consequentia obiectionis et ad probationem dicatur quod,  optime concludit quod talis illatio est illicita infra limites  illationum, quæ ex coniuncto divisionem inducunt, de  quibus hic Aristoteles loquitur.  I4. Sed contra hoc instatur. Quia etiam tanquam  ex  per  coniuncto divisa fit illatio, Socrates est albus, ergo est,  locum a parte in modo ad suum totum, ubi non  fit varietas terminorum. - Et ad hoc dicitur quod licet  homo albus sit pars in modo hominis (quia nihil minuit  de hominis ratione albedo, sed ponit hominem simpliciter), tamen est album non est pars in modo ipsius est, eo  quod pars in modo est universale cum conditione non  minuente, ponente illud simpliciter. Clarum est autem  quod album minuit rationem ipsius esf, et non ponit  ipsum simpliciter: contrahit enim ad esse secundum quid.  Unde apud philosophos, cum fit aliquid album, non dicitur generari, sed generari secundum quid.  15. Sed instatur adhuc quia secundum hoc, dicendo,  est animal, ergo est, fit illatio divisa per eumdem locum.  Animal enim non minuit rationem ipsius est. - Ad hoc  est  dicendum quod ly est, si dicat veritatem propositionis, manifeste peccatur a secundum quid ad simpliciter.  Si autem dicat actum essendi, illatio est bona, sed non  est  de tertio, sed de secundo adiacente.  16. Potest ulterius dubitari circa principale: quia sequitur, est quantum coloratum, ergo est quantum, et, est. coloratum ; et tamen coloratum respicit subiectum mediante  quantitate: ergo non videtur recta expositio supra adducta. - Ad hoc et similia dicendum est quod coloratum non  ita inest subiecto per quantitatem quod sit eius determinatio et ratione talis determinationis subiectum denominet, sicut bonitas artem citharisticam determinat ; cum di-citur, est citbaroedus bonus; sed potius subiectum ipsum  primo coloratum denominatur, quantum vero secundario  coloratum. dicitur, licet color media quantitate suscipiatur. Unde notanter supra diximus, quod tunc altera pars  coniuncti prædicatur per accidens, quando præcise denominat subiectum, quia denominat alteram partem. Quod  nec in hac, nec in similibus instantiis invenitur  17. Deinde cum dicit: Quod autem non est etc., excludit quorumdam errorem qui, quod "on est, esse tali syl-  logismo concludere satagebant: Quod est, opinabile est.  Quod non est, est opinabile. Ergo quod non est, est. - Hunc  siquidem processum elidit Aristeteles destruendo primam  propositionem, quæ partem coniuncti in subiecto divisim  prædicat, ac si diceret: est opinabile, ergo est. Unde as-  sumendo subiectum conclusionis illorum ait: Quod autem  non est; et addit medium eorum, quoniam opinabile est; et  subdit maiorem extremitatem, »om est verum dicere, esse  aliquid. Et causam assignat, quia talis opinatio non pro-  pterea est, quia illud sit, sed potius quia non est.  pere   *  et im.  Lib. II, lect. 1  LECTIO  (Canp. CareTANt lect. v1)  DE PROPOSITIONIBUS MODALIBUS EARUMQUE INTER SE OPPOSITIONE  Τούτων δὲ διωρισμένων, σχεπτέον ὅπως ἔχουσιν αἱ ἀπο-  φάσεις χαὶ χαταφάσεις πρὸς ἀλλήλας, αἱ τοῦ δυνα-  τὸν  εἶναι καὶ μὴ δυνατόν, χαὶ ἐνδεχόμενον καὶ μὴ  ἐνδεχόμενον, καὶ περὶ τοῦ ἀδυνάτου τε καὶ ἀναγκα-  (ou*  ἔχει γὰρ ἀπορίας τινάς.  Εἰ γὰρ τῶν συμπλεκομένων αὗται ἀλλήλαις ἀντίχεινται  ἀντιφάσεις, ὅσαι χατὰ τὸ εἶναι καὶ μὴ εἶναι τάτ-  :  His vero determinatis, considerandum est quemadmodum  se se habent negationes et affirmationes ad se invicem;  quæ sunt de possibili esse et non possibili, et de con-  tingenti, et de impossibili, et necessario; habent enim  aliquas dubitationes.  Nam si eorum, quæ corpplectuntur, illæ sunt sibi invicem  oppositæ contradictiones, quæcunque secundum esse  τονται, οἷον τοῦ εἶναι ἄνθρωπον ἀπόφασις τὸ μὴ  εἶναι ἄνθρωπον, οὐ τὸ εἶναι μιὴ ἄνθρωπον, καὶ τοῦ  εἶναι λευκὸν ἄνθρωπον, τὸ, p εἶναι λευκὸν ἄνθρω-  πον,  ἀλλ᾽ οὐ τὸ εἶναι μὴ λευχὸν ἄνθρωπον" εἰ γὰρ  χατὰ παντὸς κατάφασις ἀπόφασις, τὸ ξύλον  ἔσται ἀληθὲς εἰπεῖν εἶναι μιὴ λευκὸν ἄνθρωπον εἰ δὲ  τοῦτο οὕτως, καὶ ὅσοις τὸ εἶναι μὴ προστίθεται, τὸ  αὐτὸ ποιήσει τὸ ἀντὶ τοῦ εἶναι λεγόμενον, οἷον τοῦ,  ἄνθρωπος βαδίζει, οὐ τὸ οὐχ ἄνθρωπος βαδίζει, ἀπό-  φάσις ἔσται, ἀλλὰ «0, οὐ βαδίζει ἄνθρωπος- οὐδὲν  dg  διαφέρει εἰπεῖν, ἄνθρωπον βαδίζειν, ἄνθρωπον  ζαλζοντα εἶναι. Ὥστε, εἰ οὕτως πανταχοῦ, καὶ τοῦ  υνατὸν εἶναι ἀπόφασις ἔσται τὸ δυνατὸν μὴ εἶναι,  ἀλλ᾽  οὐ τὸ μὴ δυνατὸν εἶναι.  Δοχεῖ δὲ τὸ αὐτὸ δύνασθαι χαὶ εἶναι καὶ μὴ εἶναι: πᾶν  do τὸ δυνατὸν τέμνεσθαι βαδίζειν, καὶ μὴ βα-  ίζειν xa μὴ τέμνεσϑαι δυνατόν: λόγος δέ, ὅτι ἅπαν  τὸ οὕτω δυνατὸν οὐχ ἀεὶ ἐνεργεῖ, ὥστε ὑπάρξει αὐτῷ  'χαὶ ἀπόφασις: δύναται γὰρ καὶ μὴ βαδίζειν τὸ  βαδιστικόν, καὶ μὴ ὁρᾶσθαι τὸ ὁρατόν. ᾿Αλλὰ μιὴν  ἀδύνατον χατὸὺ τοῦ αὐτοῦ ἀληθεύεσθαι τας ἄντι-  χειμένας φάσεις. Οὐχ ἄρα τοῦ δυνατὸν εἶναι ἀπό-  ασίς ἐστι τὸ, δυνατὸν μὴ εἶναι.  Συμβαίνει γὰρ ἐκ τούτων τὸ αὐτὸ φάναι xal ἀποφάναι  ἅμα κατὰ τοῦ αὐτοῦ, μὴ κατὰ τὸ εἶναι καὶ μὴ  εἶναι τὰ προστιθέμενα γίνεσθαι φάσεις καὶ ἀποφά-  σεις.  Εἰ οὖν ἐχεῖνο ἀδύνατον, τοῦτ᾽ ἂν εἴη αἱρετόν.  gj  ostquam determinatum est de enunciationi-  Sybus, quarum partibus aliud additur tam rema-  MZ'nente quam variata unitate, hic intendit de-  clarare quid accidat enunciationi, ex eo quod.  aliquid additur, non suis partibus, sed com-  positioni eius. Et circa hoc duo facit: primo, determinat de  E" Eest. x.  . Num. 7.  *Ed. c: et  sibili.  oppositione earum ; secundo, de consequentiis; ibi: Conse-  quentiæ vero* etc. Circa primum duo facit: primo, proponit  quod intendit; secundo, exequitur; ibi: Nam si eorum * etc.  Proponit ergo quod iam perspiciendum est, quomodo se  pos-  i  habeant affirmationes et negationes enunciationum de *  possibili et non possibili etc. Et causam subdit: Habent enim  multas dubitationes speciales. - Sed antequam ulterius pro-  cedatur, quoniam de enunciationibus, quæ modales vo-  cantur, sermo inchoatur, prælibandum est esse quasdam  modales enunciationes, et qui et quot sunt modi reddentes:  propositiones modales; et quid earum sit subiectum et  quid prædicatum ; et quid sit ipsa enunciatio modalis ;  quisque sit ordo earum ad præcedentes; et quæ necessi-  tas sit specialem faciendi tractatum de his. Quia ergo possumus dupliciter de rebus loqui;  uno modo, componendo rem unam cum alia, alio modo,  compositionem factam declarando qualis sit, insurgunt  duo enunciationum genera; quædam scilicet enunciantes  Opp. D. Tgowaz T. I.  »  et  non esse disponuntur, ut eius quæ est, esse hominem, negatio est, non esse hominem, non autem ea  quæ  est, esse non hominem: et eius, quæ est, esse  album hominem, ea quæ est, non esse album hominem,  sed non ea quæ est, esse non album hominem (5i énim  de  omni aut affirmatio aut negatio est, lignum erit  verum dicere esse non album hominem): quod si hoc  modo et in quibuscunque esse non additur, idem faciet quod pro esse dicitur; ut eius, quæ est, homo  ambulat, non hæc, ambulat non homo, negatio erit, sed  hæc, non ambulat homo. Nihil enim differt dicere hominem ambulare, vel hominem ambulantem esse. Qua're si hoc modo ubique, et eius, quæ est, possibile esse,  negatio erit possibile non esse, sed non ea quæ est, non  possibile esse.  Videtur autem idem posse et esse et non esse. Omne enim  quod est possibile dividi, vel ambulare, et non ambulare, et non dividi possibile est. Ratio autem est, quoniam omne quod sic possibile est, non semper in actu  est; quare inerit ipsi etiam negatio: potest enim et non  ambulare quod est ambulativum, et non videri quod est  visibile. At vero impossibile est de eodem oppositas veras  esse  affirmationes et negationes. Non igitur eius quæ  est, possibile esse, negatio est hæc, possibile non esse.  Contingit autem ex his, aut idem affirmare et negare simul  de eodem, aut non secundum esse vel non esse, quæ  opponuntur, fieri affirmationes et negationes. Si ergo  illud impossibile est, hoc erit magis eligendum.  aliquid inesse vel non inesse alteri, et hæ vocantur de  inesse, de quibus superius habitus est sermo; quædam  vero enunciantes modum compositionis prædicati cum  subiecto, et hæ vocantur modales, a principaliori parte  sua, modo scilicet. Cum enim dicitur, Socratem currere est  possibile, non enunciatur cursus de Socrate, sed qualis sit  compositio cursus cum Socrate , scilicet possibilis. Signanter autem dixi modum compositionis, quoniam modus in  enunciatione positus duplex est. Quidam enim determinat  verbum, vel ratione significati ipsius verbi, ut Socrates  currit velociter, vel ratione temporis consignificati, ut  Socrates currit hodie; quidam autem determinat compositionem ipsam prædicati cum subiecto; sicut cum dicitur,  Socratem. currere est possibile. In illis namque determinatur  qualis cursus insit Socrati, vel quando; in hac autem, qualis  sit coniunctio cursus cum Socrate. Modi ergo non illi qui  rem verbi, sed qui compositionem determinant, modales  enunciationes reddunt, eo quod compositio veluti forma  totius totam enunciationem continet.  3. Sunt autem huiusmodi modi quatuor proprie loquendo, scilicet possibile et impossibile, necessarium et  contingens.-Verum namque et falsum, licet supra compositionem cadant cum dicitur, Socratem currere est uerum, vel  hominem. esse quadrupedem est. falsum, attamen modificare    Cap. xit.  Ed. c: de Socrate.    *  Ed. c et 1526.  promitur. II  facit: primo, movendo quæstionem arguit ad partes; seproprie non videntur compositionem ipsam. Quia modificari proprie dicitur al'quid, quanlo redditur aliuale, non  quando fit secundum suam substantiam. Compositio autem quando dicitur vera, non aliqualis propon'tur *, sed  quod est: nihil enim aliud est dicere, Socratzm currere. est  erum, quam quod compos:tio cursus cum Socrate est. Et  similiter  quando  est  falsa,  nihil aliud dicitur, quam  quod non est: nam nihil aliud est dicere, Socratzm currere est falsum, quam quod compositio cursus cum Socrate  non  est. Quando vero compositio dicitur possibilis aut  contingens, iam non ipsam esse, sed ipsam al'qualem  esse  dicimus: cum s'quidem dicitur, Socratzm currere est  possibile, non substantificamus compositionem cursus cum  Socrate, sed qual'ficamus, asserentes illam esse possibilem.  Unde Aristoteles hic modos proponens, veri et falsi  nullo modo meminit, licet infra verum et non verum inferat, propter causam ibi assignandam.  4. Et quia enunciatio modalis duas in se continet compositiones, alteram inter partes dicti, alteram inter dictum et modum, intelligendum est eam compositionem  modificari, idest, quæ est inter partes dicti, non eam quæ  est  inter modum et dictum. Quod sic perpendi potest.  Huius enunciat'on's modalis, Socratzm esse album est. possibile, duæ sunt partes ; altera est, Socratzm esse album, altera  est, possibile. Prima dictum vocatur, eo.quod est id quod  dicitur per eius indicativam, scilicet, Socrates est a!bus: qui  enim profert hanc, Socratzs est albus, nihil aliud dicit nisi  Socratem esse album: secunda vocatur modus, eo quod  modi adiectio est. Prima compositionem quandam in se  continet ex Socrate et albo; secunda pars primæ opposita,  compos'tionem aliquam sonat ex dicti compos:tione et  modo. Prima rursus pars, licet omnia habeat propria, subiectum scilicet, et prædicatum, copulam et compositionem, tota tamen subiectum est modalis enunciationis; secunda autem est prædicatum. Dicti ergo compositio subiicitur et modificatur in enunciatione modali. Qui enim  dicit, Socratem esse album est possibile, non significat qualis  est  se,  coniunctio possibilitatis cum hoc dicto, Socrat»m esse  album, sed insinuat qualis sit compositio partium dicti  inter  scilicet  albi  cum Socrate, scilicet quod est  compositio possibilis. Non dicit igitur enunciatio modalis  aliquid inesse, vel non inesse, sed dicti potius modum  enunciat. Nec proprie componit secundum significatum,  quia compositionis non est compositio, sed rerum compositioni modum apponit. Unde nihil aliud est enunciatio modalis, quam enunciatio dicti modificativa.  5. Nec propterea censenda est enunciatio plures modalis, quia omnia duplicata habeat: quoniam unum modum de unica compositione enunciat, licet illius compositionis plures sint partes. Plura enim illa ad dicti compositionem concurrentia, veluti plura ex quibus fit unum  subiectum concurrunt, de quibus dictum est supra quod  enunciationis unitatem non impediunt. Sicut nec cum  dicitur,  domus est: alba, est enunciatio multiplex, licet  domus ex multis consurgat partibus.  6. Merito autem est, post enunciationes de inesse, de  modalibus tractandum, quia partes naturaliter sunt toto  priores, et cognitio totius ex partium cognitione dependet;  et specialis sermo de his est habendus, quia proprias habet  difficultates. Notavit quoque Aristoteles in textu multa.  Horum ordinem scilicet, cum dixit: His vero determinatis etc.  modos qui et quot sunt, cum eos expressit et inseruit;  variationem eiusdem modi, per affirmationem et negationem, cum dixit: Possibile et non possibile, contingens et  non  conlingens; necessitatem cum addidit: Habent enim  multas dubitationzs proprias etc.  7. Deinde cum dicit: Nam si eorum etc., exequitur  tractatum de oppositione modalium, Et circa hoc duo  cundo, determinat veritatem ; ibi: Contingit autzm * etc. Est  autem dubitatio: an in enunciationibus modalibus fiat contradictio negatione apposita ad verbum dicti, quod dicit  rem; an non, sed potius negatione apposita ad modum qui  qualificat. Et primo, arguit ad partem affirmativam, quod  scilicet addenda sit negatio ad verbum ; secundo, ad partem  negativam, quod non apponenda sit negatio ipsi verbo;  ibi: Vid»tur autzm * etc.  8. Intendit ergo primo tale argumentum; si complexorum contradictiones attenduntur penes esse et non esse  (ut patet inductive in enunciationibus substantivis de secundo adiacente et de tertio, et in adiectivis), contradictionesque omnium hoc modo sumendæ sunt, contradictoria  huius, possibile esse, erit, possibile mon esse, et non illa, non  possibile esse. Et consequenter apponenda est negatio verbo, ad sumendam oppositionem in modalibus. Patet consequentia, quia cum dicitur, possibile esse, et, possibile  non esse, negatio cadit supra esse. Unde dicit: Nam si  eorum, qua» complectuntur, idest complexorum, illæ sibi invicom. sunt oppositæ contradictionzs, quæ secundum esse vel  non esse disponuntur, idest in quarum una affirmatur esse,  et in altera negatur.  9.  Et subdit inductionem, inchoans. a secundo adiacente: ut, eius enunciationis quæ est, esse hominem, idest,  bomo est, negatio est, non esse hominem, ubi verbum negatur, idest, bomo non est; et non est eius negatio ea quæ  est, esse non hominem, idest, non bomo est: hæc enim  non  est  quæ  negativa, sed affrmativa de subiecto infinito,  simul est vera cum illa prima, scilicet, homo est.  ro. Deinde prosequitur inductionem in substantivis de  tertio adiacente: ut, eius quæ est, esse album hominem,  idest, ut, illius enunciationis, homo est albus, negatio  est, non esse album hominem, ubi verbum negatur, idest,  homo non est albus; et non est negatio illius ea, quæ  est, esse;non album hominem, idest, homo est non albus. Hæc enim non est. negativa, sed affirmativa de prædicato infinito. - Et quia istæ duæ affirmativæ de prædicato finito et infinito non possunt de eodem verificari,  propterea quia sunt de prædicatis oppositis, posset aliquis credere quod sint contradictoriæ; et ideo ad hunc  errorem tollendum interponit rationem probantem quod  hæ duæ non sunt contradictoriæ. Est autem ratio talis.  Contradictoriorum talis est natura quod de omnibus  aut dictio, idest affirmatio aut negatio verificatur. Inter  contradictoria siquidem nullum potest inveniri medium;  sed hæ duæ enunciationes, scilicet, est bomo albus, et,  est bomo mon albus, sunt contradictoriæ per se; ergo sunt  talis naturæ quod de omnibus altera verificatur. Et sic,  cum de ligno sit falsum dicere, est homo albus, erit  verum dicere de eo, scilicet ligno, esse non album hom'nem, idest, lignum est homo non albus. Quod est manifeste falsum: lignum enim neque est homo albus, neque  est  homo non albus. Restat ergo ex quo utraque est  simul falsa de eodem, quod non sit inter eas contradictio:  Sed contradictio fit quando negatio apponitur verbo.  1r.  Deinde prosequitur inductionem in enunciationibus adiectivi verbi, dicens: Quod si boc modo, scilicet  supradicto, accipitur contradictio, et. im   quantiscunque  enuncialionibus esse non ponitur explicite, idem faciet! quoad oppositionem sumendam, id quod pro esse ;dicitur (idest  verbum adiectivum, quod locum ipsius esse tenet,  pro quanto, propter eius veritatem in se inclusam, copulæ officium facit), ut eius enunciationis quæ est, bomo  ambulat, negatio est, non ea quæ dicit, mom bomo ambulat (hæc enim est affirmativa de subiecto infinito), sed  negatio illius est, bomo non ambulat ; sicut et in illis. de  verbo substantivo, negatio verbo addenda erat. Nihil enim  *  *  Num. 14.  Num. 13.  differt dicere verbo adiectivo, homo ambulat, vel substantivo, homo est ambulans.  Deinde ponit secundam partem inductionis dicens:  Et si boc modo in omnibus sumenda est contradictio, scilicet; apponendo negationem ad esse, concluditur quod  et  eius enunciationis, quæ dicit, possibile esse, negatio  est, possibile non esse, et non illa quæ dicit, non possibile esse. Patet conclusionis sequela: quia in illa, possibile  non esse, negatio apponitur verbo; in ista autem non.  Dixit  autem in principio huius rationis: Eorum quæ  complectuntur, idest complexorum, contradictiones fiunt  secundum esse et non esse, ad differentiam incomplexorum quorum oppositio non fit negatione dicente mon  107  non semper actu est, sequitur quod sit possibile non esse.  Quod enim non semper est, potest non esse. Bene ergo intulit Aristoteles ex his duobus: Quare inerit 'etiam negatio  possibilis et non solum affirmatio; potest igitur et non. ambulare, quod est ambulabile, et non. videri, quod est visibile.  Maior vero subiungitur, cum ait: 4t vero impossibile est. de eodem. veras esse contradictiones. Infertur quoque ultimo conclusio: Nom est igitur ista (scilicet, possibile non esse) negatio ilius, quæ dicit, possibile esse:  quia sunt simul veræ de eodem. - Caveto autem ne ex isto  textu putes possibile, ut est modus, debere semper accipi  pro possibili ad utrumlibet: quoniam hoc infra declarabitur esse falsum; sed considera quod satis fuit intenesse,  sed ipsi incomplexo apposita, ut, homo, et, non bomo,  legit, et, non legit.  153.  Deinde cum dicit: Videtur autem. idem. etc., arguit  ad quæstionis partem negativam (scilicet quod ad sumendam contradictionem in modalibus non addenda est negatio verbo), tali ratione. Impossibile est duas contradictorias esse simul veras de eodem; sed supradictæ, scilicet, possibile esse, et, possibile non esse, simul verificantur  de eodem; ergo istæ non sunt contradictoriæ: igitur contradictio modalium non attenditur penes verbi negationem. Huius rationis primo ponitur in littera minor cum  sua probatione; secundo maior; tertio conclusio.  Minor quidem cum dicit: Videtur autem. idem. possibile  esse, el, non possibile esse. Sicut verbi gratia, omne quod est  possibile dividi est etiam possibile non dividi, et quod est  possibile ambulare est etiam possibile non ambulare. Ratio autem. huius minoris est, quoniam omne quod sic possibile est (sicut, scilicet, est possibile ambulare et dividi),  non semper actu esi: non enim semper actualiter ambulat,  qui ambulare potest; nec semper actu dividitur, quod  dividi potest. Quare inerit etiam negatio possibilis, idest, ergo  non solum possibilis est affirmatio, sed etiam negatio  eiusdem. - Adverte quod quia possibile est multiplex, ut  infra dicetur, ideo notanter Aristoteles addidit ly sic, assumens, quod sic possibile est, nom semper actu est. Non  enim de omni possibili verum est dicere quod non semper  UTE.  TNT  ΞΜ  D    »w  actu  est, sed de aliquo, eo scilicet quod est sic * possibile, quemadmodum ambulare et dividi. Nota ulterius  quod quia  tale possibile habet duas conditiones, scilicet  quod potest actu esse et quod non semper actu est, sequitur necessario quod de eo simul est verum dicere,  possibile esse, et, non esse. Ex eo enim quod potest actu  esse, sequitur quod sit possibile esse; ex eo vero quod  denti declarare quod in modalibus non sumitur contradictio ex verbi negatione, afferre instantiam in una modali, quæ continetur sub modalibus de possibili.  14. Deinde cum dicit: Contingit autem unum ex bis εἴς  determinat veritatem huius dubitationis. Et quia duo  petebat, scilicet, an contradictio modalium ex negatione  verbi fiat an non, et, an potius ex negatione modi; ideo  primo, determinat veritatem primæ petitionis, quod scilicet contradictio harum non fit negatione verbi; secundo,  determinat veritatem secundæ petitionis, quod scilicet fiat  modalium contradictio ex negatione modi; ibi: Est ergo  negatio * etc. - Dicit ergo quod propter supradictas rationes  evenit unum ex his duobus, quæ conclusimus determinare, aut idem ipsum, idest, unum et idem dicere, idest affirmare et negare simul de eodem: idest, aut quod duo  contradictoria simul verificantur de eodem, ut prima ratio  conclusit; aut affirmationes vel negationes modalium, quæ  opponuntur contradictorie, fieri nom secundum. esse vel non  6556, idest, aut contradictio modalium non fiat ex negatione verbi, ut secunda ratio conclusit. Si ergo illud est  impossibile, scilicet quod duo contradictoria possunt simul  esse  vera de eodem, boc, scilicet quod contradictio modalium non fiat secundum verbi negationem, erit magis  eligendum. Impossibilia enim semper vitanda sunt. Ex ipso  autem modo loquendi innuit quod utrique earum aliquid  obstat.  Sed quia primo obstat impossibilitas quæ acceptari non potest, secundo autem nihil aliud obstat nisi  quod negatio supra enunciationis copulam cadere debet,  si negativa fieri debet enunciatio, et hoc aliter fieri potest  quam negando dicti verbum, ut infra declarabitur;  ideo hoc secundum, scilicet quod contradictio modalium  non fiat secundum negationem verbi, eligendum est: primum vero est omnino abiiciendum.  *  Lect. seq.   II  LECTIO   (Canp.. CargrANr lect. vi)  DE NEGATIONE APPONENDA NON VERBO SED MODIS IN CONTRADICTIONIBUS  PROPOSITIONUM MODALIUM   Ἔστιν ἄρα ἀπόφασις τοῦ δυνατὸν εἶναι τὸ μὴ δυνατὸν  εἶναι.    χαὶ  δ᾽ αὐτὸς λόγος καὶ περὶ τοῦ ἐνδεχόμενον  εἶναι" καὶ 13e τούτου ἀπόφασις τὸ μὴ ἐνδεχόμενον  εἶναι,  ἐπὶ  τῶν  ἄλλων  δὲ  ὁμοιοτρόπως, οἷον  ἀναγκαίου τε καὶ ἀδυνάτου.  Γίνεται γάρ, ὥσπερ ἐπ᾽ ἐκείνων τὸ εἶναι καὶ τὸ μὴ εἶναι  προσθέσεις,) τὰ δ᾽ ὑποχείμενα πράγματα, τὸ  μὲν  λευχόν, τὸ δὲ ἄνθρωπος: οὕτως ἐνταῦθα τὸ μὲν εἶναι  xai μὴ εἶναι, ὡς ὑποχείμενον γίνεται, τὸ δὲ δύνασθαι καὶ τὸ ἐνδέχεσθαι, προσθέσεις διορίζουσαι, ὥσπερ  ἐπ᾽  ἐχείνων τὸ εἶναι καὶ μὴ εἶναι, τὸ ἀληθὲς xa τὸ  ψεῦδος, ὁμοίως αὖται ἐπὶ τοῦ εἶναι δυνατὸν χαὶ εἶναι  οὐ δυνατόν.  Τοῦ δὲ δυνατὸν μὴ εἶναι ἀπόφασις οὐ τὸ οὐ δυνατὸν  εἶναι, ἀλλὰ τὸ οὐ δυνατὸν μὴ εἶναι, καὶ τοῦ δυνατὸν  εἶναι οὐ τὸ δυνατὸν  μὴ εἶναι, ἀλλὰ τὸ  μιὴ δυνατὸν  εἶναι. Διὸ καὶ Hs Pp μὰ ἂν δόξειαν ἀλλήλαις αἱ τοῦ  δυνατὸν εἶναι χαὶ δυνατὸν μὴ εἶναιτὸ γὰρ αὐτὸ δυνατὸν εἶναι καὶ μὴ εἶναι" οὐ γὰρ ἀντιφάσεις ἀλλήλων  αἱ τοιαῦται, τὸ δυνατὸν εἶναι καὶ δυνατὸν μὴ εἶναι"  * Est ergo negatio eius quæ est, possibile esse, ea quæ est ' Seq. cap. xir.  non possibile esse. Eadem quoque ratio est et in eo  quod est contingens esse: etenim negatio eius est, non  contingens esse; et in aliis quoque simili modo, ut in  necessario et impossibili.  Fiunt enim quemadmodum in illis, esse et non esse, appositiones, subiectæ vero res, hoc quidem album, illud  vero homo: eodem quoque modo hoc in loco, esse quidem et non esse, ut subiectum fit, posse vero et conüngere appositiones sunt, determinantes (quemadmodum in illis esse et non esse) veritatem et falsitatem,  similiter hæ in eo quod est, esse possibile et esse non  possibile.  Eius vero, quæ est, possibile non esse, negatio est non ea  quæ est, non esse, sed ea quæ est, non possibile; et  eius quæ est, possibile esse, non ea quæ est, possibile  non  esse,  sed ea quæ est, non possibile esse.  Quare et sequi sese invicem videbuntur, possibile esse  et  possibile non esse. Idem enim possibile esse et non  esse.  ἀλλὰ τὸ δυνατὸν εἶναι χαὶ μὴ δυνατὸν εἶναι οὐδέποτε ἐπὶ τοῦ αὐτοῦ ἅμα ἀληθεύονται" ἀντίκεινται  Te, οὐδέ γε τὸ δυνατὸν μὴ εἶναι χαὶ οὐ δυνατὸν  pen εἶναι οὐδέποτε ἅμα ἐπὶ τοῦ αὐτοῦ ἀληθεύονται.  Ὁμοίως δὲ xài τοῦ ἀναγκαῖον εἶναι ἀπόφασις οὐ τὸ  ἀναγκαῖον μὴ εἶναι, ἀλλὰ τὸ μὴ ἀναγκαῖον εἶναι"  τοῦ δὲ ἀναγχαῖον μὴ εἶναι, τὸ per ἀναγκαῖον μὴ εἶναι.  Καὶ τοῦ al θελα εἶναι οὐ τὸ ἀδύνατον μὴ εἶναι,  ἀλλὰ τὸ μὴ ἀδύνατον εἶναι: τοῦ δὲ ἀδύνατον μὴ εἶναι  τὸ οὐκ ἀδύνατον μὴ εἶναί.  Καὶ καθόλου 3£, ὥσπερ εἴρηται, τὸ μὲν εἶναι καὶ μὴ  εἶναι δεῖ τιθέναι, ὡς τὰ ὑποκείμενα, κατάφασιν δὲ  Non enim contradictiones sunt sibi invicem huiusmodi, possibile esse et possibile non esse; sed possibile esse et non possibile esse, nunquam simul sunt  in eodem veræ sunt: opponuntur enim : neque ea quæ .  est, possibile non esse et non possibile non esse, nunquam simul in eodem veræ sunt. Similiter autem et  eius. quæ est, necessarium est, negatio non est quæ  est, necessarium non esse, sed ea quæ est, non necessarium esse; eius vero quæ est, necessarium non  esse, ea quæ est, non necessarium non esse. Et eius  quæ est, impossibile esse, non ea quæ est, impossibile  non esse, sed hæc, non impossibile esse; eius vero  quæ est, impossibile non esse, ea quæ est, non impossibile non esse.  A  Universaliter vero, quemadmodum dictum est, esse quidam  et  xal  ἀπόφασιν ταῦτα ποιοῦντα πρὸς τὸ εἶναι καὶ μὴ  εἶναι συντάττειν. Καὶ ταύτας οἴεσθαι χρὴ εἶναι τὰς  ἀντικειμένας  φάσεις" δυνατόν, οὐ δυνατόν" ἐνδεχόμενον;  οὐχ ἐνδεχόμενον: ἀδύνατον, οὐχ ἀδύνατον,  ἀναγκαῖον, οὐχ ἀναγκαῖον" ἀληθές, οὐχ ἀληθές.  qpeterminat ubi ponenda sit negatio ad assumenΞΔ  dam modalium contradictionem. Et circa hoc  (  [quatuor facit: primo, determinat veritatem  I. summarie; secundo, assignat determinatæ veritatis rationem, quæ dicitur rationi ad oppo  Num. seq.  Num. 4.  Num. 5.  Ed. c: et verba  non addenda in  ea  declar.  situm inductæ; ibi: Fiunt enim * etc.; tertio, explanat eamdem veritatem in omnibus modalibus; ibi: Eius vero * etc.;  quarto, universalem regulam concludit; ibi: Universaliter  vero * etc. Quia igitur negatio aut verbo aut modo apponenda est, et quod verbo non addenda est *, declaratum  est per locum a divisione; concludendo determinat: Es!  ergo negatio eius quæ est possibile esse, ea quæ est non possibile esse, in qua negatur modus. Et eadem est ratio in  enunciationibus de contingenti. Huius enim, quæ est,  contingens esse, negatio est, non contingens esse. Et in  alis, scilicet de mecesse et impossibile idem est iudicium.  2.  liones  Deinde  etc.,  cum  subdit  dicit:  Fiust  enim in illis apposihuius veritatis rationem talem. Ad  sumendam contradictionem inter aliquas enunciationes  et  non esse oportet ponere quemadmodum subiecta,  negationem vero et affirmationem hæc facientem, ad  esse  non esse apponere. Et has oportet putare esse  oppositas dictiones: possibile non possibile; contingens  non  contingens; impossibile non impossibile; necessarium non necessarium; verum non verum.  oportet ponere negationem super appositione, idest coniunctione prædicati cum subiecto; sed in modalibus appositiones sunt modi; ergo in modalibus negatio apponenda est modo, ut fiat contradictio. Huius rationis,  maiore subintellecta, minor ponitur in littera per secundam similitudinem ad illas de inesse. Et dicitur quod  quemadmodum in illis enunciationibus de imesse appositiones,  idest prædicationes, sunt esse et non esse,  idest verba significativa esse vel non esse (verbum enim  semper est nota eorum quæ de altero prædicantur), subiective vero appositionibus res sunt, quibus esse vel non  esse  apponitur, ut album, cum dicitur, album est, vel  homo, cum dicitur, homo est; eodem modo hoc in loco  in modalibus accidit: esse quidem subiectum fit, idest dictum  sunt.  significans esse vel non esse subiecti locum tenet ;  contingere vero et posse oppositiones, idest modi, prædicationes  Et quemadmodum in illis de inesse penes esse  et non esse veritatem vel falsitatem determinavimus, ita  in istis modalibus penes modos. Hoc est enim quod subCAP. , LECT.   dit, determinantes, scilicet, fiunt ipsi modi veritatem, quemadmodum in illis esse et non esse, eam * determinat.  109  negatio, possibile non esse, sit illa, non possibile non  esse:  :  Mu præced.    3. Et sic patet responsio ad argumentum in oppositum primo adductum *, concludens quod negatio verbo  apponenda sit, sicut illis de inesse. Dicitur enim quod cum  modalis enunciet modum de dicto sicut enunciatio de  inesse, esse vel esse tale, puta esse album de subiecto,  eumdem locum tenet modus hic, quem ibi verbum; et  consequenter super idem proportionaliter cadit negatio  hic et ibi. Eadem enim, ut dictum est, proportio est modi  ad dictum, quæ est verbi ad subiectum. - Rursus cum veritas et falsitas afhrmationem et negationem sequantur,  penes idem. attendenda est affirmatio vel negatio enunciationis, et veritas vel falsitas eiusdem. Sicut autem in  enunciationibus de igesse veritas vel falsitas esse vel non  esse consequitur, ita in modalibus modum. Illa namque  modalis est vera quæ sic modificat dictum sicut dicti  compositio patitur, sicut illa de imesse est vera, quæ sic  significat esse sicut est. Est ergo negatio modo hic apponenda, sicut ibi verbo, cum sit eadem utriusque vis  quoad veritatem et falsitatem enunciationis.  7 Adverte quod modos, appositiones, idest, prædicationes vocavit, sicut esse in illis de inesse, intelligens per  modum totum prædicatum enunciationis modalis, puta,  est possibile. In cuius signum modos ipsos verbaliter protulit dicens: Contingere vero et posse appositiones sunt. Contingit enim et potest, totum prædicatum modalis continent.  4. Deinde cum dicit: Eius vero quod est possibile est  non esse etc., explanat determinatam veritatem in omnibus  modalibus, scilicet de possibili, et necessario, et impossibili. Contingens convertitur cum possibili. Et quia quilibet modus facit duas modales affirmativas, alteram habentem dictum affirmatum *, et alteram habentem dictum  negatum; ideo explanat in singulis modis quæ cuiusque  affirmationis negatio sit. Et primo in illis de possibili. Et  quia primæ affirmativæ de possibili (quæ scilicet habet  dictum affirmatum) scilicet possibile esse, negatio assignata fuit, non possibile esse; ideo ad reliquam affirmativam de possibili transiens ait: Eius vero, quæ est possibile non esse (ubi dictum negatur) megatio est mom possibile non esse. Et hoc consequenter probat per hoc quod  contradictoria huius, possibile non esse, aut est, possibile esse, aut illa, quam diximus, scilicet, non possibile  non esse. Sed illa, scilicet, possibile esse, non est eius  contradictoria. Non enim sunt sibi invicem contradicentes,  possibile esse, et, possibile non esse, quia possunt simul esse  veræ. Unde et sequi sese invicem putabuntur: quoniam,  ut supra dictum fuit, idem est - possibile esse, et - non  esse, et consequenter sicut ad, posse esse, sequitur, posse  non esse, ita e contra ad, posse non esse, sequitur, posse  esse.  Sed contradictoria illius, possibile esse, quæ non  potest simul esse vera est, non possibile esse: hæ enim,  ut dictum est, opponuntur. Remanet ergo quod huius  neret.  hæ namque simul nunquam sunt veræ vel falsæ.  Dixit quod possibile esse et non esse sequi se invicem putabuntur, et non dixit quod se invicem consequuntur: quia  secundum veritatem universaliter non sequuntur se, sed  particulariter tantum, ut infra dicetur; propter quod putabitur quod simpliciter se invicem sequantur. Deinde decarat hoc idem in illis de necessario. Et primo, in affirmativa habente dictum affirmatum, dicens: Similiter eius  quæ est, necessarium. esse, megatio non est ea, quæ dicit  necessarium. mon esse, ubi modus non negatur, sed ea quæ  est, non necessarium. esse. Deinde subdit de affirmativa de  necessario habente dictum negatum, et ait: Eius vero, quæ  est,  necessarium. mom esse, megatio est ea, quæ dicit, mon  necessarium.  mon.  esse.  Deinde transit ad illas de impossibili, eumdem ordinem servans, et inquit: Et eius, quæ  dicit, impossibile esse, negatio non est ea quæ dicit, impossibile non esse, sed, non impossibile esse: ubi idm modus negatur. Alterius vero afhrmativæ, quæ est, impossibile non  es$e,  negatio est ea quæ dicit, won impossibile non esse. Et  sic semper modo negatio addenda cst.  5. Deinde cum dicit: Unmiversaliter vero etc., concludit  regulam universalem dicens quod, quemadmodum dictum  est, dicta importantia esse et non esse oportet ponere in  modalibus ut subiecta, negationem vero et affirmationem  hoc, idest contradictionis oppositionem, facientem, oportet apponere tantummodo ad suum eumdem modum, non  ad diversos modos. Debet namque illemet modus negari,  qui prius affirmabatur, si contradictio esse debet. Et exemplariter: explanans quomodo hoc fiat, subdit: Et oportet  putare bas esse oppositas dictiones, idest affirmationes et  negationes in modalibus, possibile et non possibile, contingens et mon contingens. Item cum dixit negationem alio  tantum modo ad modum apponi debere, non exclusit  modi copulam, sed dictum. Hoc enim est singulare in  modalibus quod eamdem oppositionem facit, negatio modo addita, et eius verbo. Contradictorie enim opponitur  huic, possibile est esse, non solum illa, non possibile est  esse, sed ista, possibile non est esse. Meminit autem  modi potius, et propter hoc quod nunc diximus, ut scilicet insinuaret quod negatio verbo modi postposita, modo  autem præposita, idem facit ac si modali verbo præponeretur, et quia, cum modo numquam caret modalis  enunciatio, semper negatio supra modum poni potest.  Non autem sic de eius verbo: verbo enim modi carere  contingit modalem, ut cum dicitur, Socrates currit necessario; et ideo semper verbo negatio aptari potest. - Quod  autem in fine addidit, verum et non verum, insinuat, præter  quatuor prædictos modos, alios inveniri, qui etiam  compositionem enunciationis determinant, puta, verum et  non verum, falsum et non falsum: quos tamen inter  modos supra non posuit, quia, ut declaratum fuit, non  proprie modificant. II  LECTIO  (Canp. CareTANI lect. vir)  DE PROPOSITIONUM MODALIUM CONSEQUENTIIS  Καὶ αἱ ἀκολουθήσεις δὲ κατὰ λόγον γίνονται οὕτω τιθεμένοις:  τῷ μὲν γὰρ δυνατὸν εἶναι τὸ ἐνδέχεσθαι  εἶναι, καὶ τοῦτο ἐχείνῳ ἀντιστρέφει,  καὶ τὸ μὴ ἀδύνατον εἶναι χαὶ τὸ Un ἀναγκαῖον εἰναι" τῷ δὲ δυνατὸν μὴ εἶναι χαὶ ἐνδεχόμενον μὴ εἶναι τὸ μὴ ἀναγκαῖον μὴ εἶναι καὶ τὸ οὐκ ἀδύνατον μὴ εἶναι, τῷ δὲ  μὴ δυνατὸν εἶναι καὶ y ἐνδεχόμενον εἶναι τὸ ἀναγχαῖον νὴ Ξἶναι xa τὸ ἀδύνατον εἰναι; τῷ δὲ μὴ δυγατὸν  μὴ εἶναι, xal μὴ ἐνδεχόμενον [um εἰναι τὸ  ἀναγκαῖον εἶναι καὶ τὸ ἀδύνατον μὴ εἶναι. Θεωρείσθω δὲ ἐκ ἧς ὑπογραφῆς ὡς λέγομεν,  LN  ΄  δυνατὸν εἶναι,  ἐνδεχόμενον εἶναι;  οὐκ ἀδύνατον εἶναι,  οὐκ ἀναγκαῖον εἶναι;  δυνατὸν μὴ εἶναι,  ἐνδεχόμενον μὴ εἶναι;  οὐχ  αδυνατον μὴ εἰναι»  οὐχ ἀναγκαῖον μὴ εἶναι,  οὐ δυνατὸν εἶναι.  οὐκ ἐνδεχόμενον εἶναι.  ἀδύνατον εἶναι.  ἀναγκαῖον μὴ εἶναι.  οὐ δυνατὸν μὴ εἶναι.  οὐχ ἐνδεχόμενον μὴ εἶναι.  ἀδύνατον Un εἶναι.  ἀναγκαῖον εἰναι.  *  Consequentiæ vero secundum rationem fiunt cum ita 'Cap.xm.  ponuntur illam enim quæ est, possibile esse, sequitur  illa quæ est, contingit esse, et hæc illi convertitur, et,  non  impossibile esse et non necessarium esse; illam  vero  non  quæ est, possibile non esse, et, contingens non  esse, ea quæ est, non necesse non esse, et, non impossibile  esse:  illam autem quæ est, non possibile  esse, et, non contingens esse, ea quæ est, necessarium  non  esse, et impossibile esse: illam vero quæ est, non  possibile non esse, et, non contingens non esse, ea quæ  est, necesse est esse, et, impossibile non esse. Consideretur autem ex subscriptione quemadmodum dicimus:  Possibile est esse,  Contingens est esse,  Non impossibile est esse,  Non necessarium est esse,  Possibile est non esse,  Contingens est non esse,  Non impossibile est non esse,  Non possibile est esse.  Non contingens est esse.  Impossibile est esse.  Necessarium est non esse.  Non possibile est non esse.  Non contingens est non esse.  Impossibile est non esse.  Non necessarium est non esse, Necessarium est esse.  Τὸ  μὲν οὖν ἀδύνατον καὶ οὐκ ἀδύνατον τῷ ἐνδεχομένῳ  χαὶ δυνατῷ καὶ οὐχ ἐνδεχομένῳ καὶ μὴ δυνατῷ ἀχολουθεῖ μὲν ἀντιφατικῶς, ἀντεστραμμένως δέ: τῷ μὲν  γὰρ δυνατὸν εἶναι ἀπόφασις τοῦ ἀδυνάτου ἀκολουθεῖ, τῇ δὲ ἀποφάσει κατάφασις. Τῷ γὰρ οὐ  δυνατὸν εἶναι τὸ ἀδύνατον εἶναι: κατάφασις γὰρ τὸ  ἀδύνατον εἶναι, τὸ δ᾽ οὐκ ἀδύνατον εἶναι ἀπόφασις.  δ"  δ᾽ ἀναγκαῖον πῶς, ὀπτέον. Φανερὸν δὴ ὅτι οὐχ οὕ-,  ε:  e  H,  τως  σεις  γάρ,  ἔχει, ἀλλ᾽  χωρίς"  ἐστιν  »  αἱ,  ἐναντίαι ἕπονται" αἱ δ᾽ ἀντιφά- kJ  ἀπόφασις τοῦ ἀνάγχη μὴ εἶναι τὸ οὐχ  ἀνάγκη εἶναι: ἐνδέχεται γὰρ ἀληθεύεσθαι ἐπὶ τοῦ  M] 5,,    Ζ  »  IB,,  5  αὐτοῦ ἀμφοτέρας" τὸ qup ἀναγκαῖον μη εἶναι οὐχ  ἀναγκαῖον εἶναι.  ὅτι  Αἴτιον δὲ τοῦ μὴ ἀκολουθεῖν τὸ ἀναγκαῖον ὁμοίως τοῖς  ἑτέροις,  ἐναντίως τὸ ἀδύνατον τῷ ἀναγκαίῳ  ἀποδίδοται, τὸ αὐτὸ δυνάμενον. Εἰ γὰρ ἀδύνατον  εἶναι, ἀναγκαῖον τοῦτο οὐχ εἶναι, ἀλλὰ μὴ εἶναι"  εἰ δὲ ἀδύνατον μὴ εἶναι, τοῦτο ἀνάγχη εἶναι: ὥστε  εἰ  ἐχεῖνα ὁμοίως τῷ δυνατῷ καὶ μή, ταῦτα ἐξ ἐναντίας, ἐπεὶ οὐ σημαίνει γε ταὐτὸν τό τε ἀναγκαῖον  xai τὸ ἀδύνατον, ἀλλ᾽ ὥσπερ εἴρηται, ἀντεστραμμένως.  ᾿  ἀδύνατον οὕτως κεῖσθαι τὰς τοῦ ἀναγκαίου ἀντιφάPS  ;  Ξ  σεις; τὸ μὲν γὰρ ἀναγκαῖον εἶναι δυνατὸν εἶναι" εἰ  N  γὰρ μή; ἀπόφασις ἀκολουθήσει: ἀνάγκη γὰρ φάναι  ἀποφάναι: ὥστ᾽ εἰ μὴ δυνατὸν εἶναι, ἀδύνατον  εἶναι:  ἀδύνατον ἄρα εἶναι τὸ ἀναγκαῖον εἶναι, ὅπε  ἄτοπον. ᾿Αλλὰ μὴν τῷ γε δυνατὸν εἶναι τὸ οὐχ ἀδύνατον εἶναι ἀκολουθεῖ, τούτῳ δὲ τὸ μὴ ἀναγκαῖον  εἶναι:  docs συμβαίνει τὸ ἀναγχαῖον εἶναι μὴ ἀναγxatov εἶναι, ὅπερ ἄτοπον.  ᾿Αλλὰ μὴν οὐδὲ τὸ ἀναγκαῖον εἶναι ἀχολουθεῖ τῷ δυνατὸν εἶναι. οὐδὲ τὸ ἀναγχαῖον μὴ εἶναι: τῷ μὲν γὰρ  duo. ἐνδέχεται συμβαίνειν, τούτων δὲ ὁπότερον ἂν  ἀληθὲς , οὐκέτι ἔσται ἐκεῖνα ἀληθῆ. "Apa γὰρ δυγατὸν εἶναι καὶ μὴ εἶναι" εἰ δ᾽ ἀνάγκη εἶναι 7) μὴ  Hæ igitur, impossibile, et, non impossibile, eam quæ est,  contingens, et possibile, et non contingens, et non possibile sequuntur quidem contradictorie, sed conversim.  Eam enim quæ est, possibile esse, negatio impossibilis  sequitur, quæ est, non impossibile esse: negationem  vero affirmatio. Illam enim, non possibile esse, ea quæ  est, impossibile esse: affirmatio enim est, impossibile  esse; non impossibile vero, negatio.  Necessarium autem quemadmodum se habeat, considerandum est. Manifestum est autem quod non eodem modo  se  habet, sed contrariæ sequuntur, contradictoriæ autem sunt extra.  Non enim est negatio. eius, quæ est, necesse non esse,  ea  quæ est, non necesse esse: contingit enim veras esse  utrasque in eodem: quod enim est necessarium non  esse, non est necessarium esse.  Causa autem huius est, cur non sequitur necessarium cæteris similiter: quoniam contrarie, impossibile esse, necessario redditur idem valens. Nam quod impossibile  esse, necesse hoc non quidem esse, sed potius non  esse: quod vero impossibile non esse, hoc necessarium  esse. Quare si illa similiter sequuntur possibile, et, non  possibile: hæc ex opposito: quoniam non significant  idem necessarium et impossibile; sed (ut dictum est)  conversim.  Aut certe impossibile est sic poni necessarii contradictiones.  Nam quod necessarium est esse, possibile est esse: nam  si non, negatio consequetur: necesse est enim aut affirmare, aut negare. Quare si non possibile est esse, impossibile est esse. Igitur impossibile est esse quod necesse est esse: quod est inconveniens. At vero illam  quæ est, possibile esse, non impossibile esse, sequitur:  hanc vero, ea quæ est, non necessarium est esse; quare  contingit quod necessarium esse, non necessarium esse:  quod est inconveniens.  At  vero  neque necessarium esse, sequitur eam quæ est,  possibile esse, neque ea quæ est, necessarium non esse.  Illi enim utraque contingit accidere: harum autem utralibet vera fuerit, non erunt illa vera: simul enim possibile esse, et, non esse. Si vero necesse esse, vel non esse,  CAP. XIII,  εἶναι, οὐκ ἔσται δυνατὸν ἄμφω. Λείπεται τοίνυν τὸ  οὐχ ἀναγκαῖον μὴ εἶναι ἀκολουθεῖν τῷ δυνατὸν εἶναι.  Τοῦτο γὰρ ἀχηθὲς xxl xxcvd τοῦ ἀναγκαῖον εἶναι. Καὶ  qde αὕτη γίνεται ἀντίφασις τῇ ἑπομένῃ τῷ οὐ δυνατὸν εἰναι" ἐχείνῳ vp ἀχολουθεῖ τὸ ἀδύνατον εἶνα!:  xal ἀναγκαῖον μὴ εἶναι, οὐ ἀπόφασις τὸ οὐχ ἀναγκαῖον μὴ εἶναι.  ᾿Ακολουθοῦσί τε ἄρα xal αὐται αἱ ἀντιφάσεις χατὰ τὸν  εἰρημένον τρόπον, καὶ οὐδὲν ἀδύνατον συμβαίνει τιθεμένων οὕτως.  I.  y ERN  S  (Q9  ;  Jo lium, hic determinare intendit de consequenD^ tradit veritatem; secundo, movet quandam  dubitationem circa determinata; ibi: Dubita*  *  *  Lect. seq.  Num. 5.  dun  bit autem * etc. Circa primum duo facit: primo, ponit consequentias earum secundum opinionem aliorum; secundo,  examinando et corrigendo dictam opinionem, determinat  veritatem ; ibi: Ergo impossibile * etc.  2. Quoad primum considerandum est quod cum quiliLect. præced. bet modus faciat duas affirmationes, ut dictum fuit *, et  un  '  *Lect. xi.  *  Ed.  c  τος quabus-affirmationibus opponantur duæ negationes, ut  etiam dictum fuit in Primo * ; secundum quemlibet modum  fient quatuor enunciationes, duæ scilicet affirmativæ et  duæ negativæ. Cum autem modi sint quatuor, effcientur sexdecim modales: quaternarius enim in seipsum ductus sexdecim constituit. Et quoniam apud omnes, quælibet cuiusque modi, undecumque incipias, habet unam  tantum cuiusque modi se consequentem, ideo ad assignandas consequentias modalium, singulas ex singulis  modis accipere oportet et ad consequentiæ ordinem inter se adunare.  3. Et hoc modo fecerunt antiqui, de quibus inquit  Aristoteles: Consequentiæ vero. fiunt secundum infrascriptum  ordinem, antiquis ita. ponentibus. Formaverunt enim quaomittit  se.  Averroes.  tuor ordines modalium, in quorum quolibet omnes quæ  se * consequuntur collocaverunt. - Ut autem confusio vitetur, vocetur, cum Averroe, de cætero, in quolibet modo,  affirmativa de De et modo, affirmativa simplex ; afhrmativa autem  de  modo et negativa de dicto, affirmativa  declinata; negativa vero de modo et non dicto, negativa  simplex; negativa autem de utroque, megativa d:clinata:  ita quod modi affirmationem vel negationem simplicitas,  dicti vero declinatio denominet. - Dixerunt ergo antiqui  quod affirmationem simplicem de possibili, scilicet, possibile est esse, sequitur affirmativa simplex de contingenti,  Scilicet, contingens est esse (contingens enim convertitur  cum possibili); et negativa simplex de impossibili, scilicet,  non  impossibile esse; et similiter negativa simplex de  necessario, scilicet, non necesse est esse. Et hic est primus ordo modalium consequentium se. - In secundo au3 QE ecaftema- feih dixerunt quod affirmativas * declinatas de possibili  et contingenti, scilicet, possibile non esse, et, contingens  non esse, sequuntur negativæ declinatæ de necessario  et impossibili, scilicet, non necessarium non esse, et, non  impossibile non esse.- In tertio vero ordine dixerunt  quod negativas simplices de possibili et contingenti, scilicet, non possibile esse, non contingens esse, sequuntur  afBrmativa declinata de necessario, scilicet, necesse non  esse, et affirmativa simplex de impossibili, scilicet, impossibile esse. - In quarto demum ordine dixerunt quod  negativas declinatas de possibili et contingenti, scilicet,  non possibile non esse, et, non contingens non esse, sequuntur affirmativa simplex de necessario, scilicet, necesse  esse, et affirmativa declinata de impossibili, scilicet, impossibile est non esse.  4. Consideretur autem ex subscriptione appositæ figuræ, quemadmodum dicimus, ut clarius elucescat depictum.  non erit possibile utrunque. Relinquitur ergo non necessarium non esse, sequi eam quæ est, possibile est esse.  Hæc enim vera est, et de necesse esse. Hæc enim fit contradictio eius, quæ sequitur illam quæ est, non possibile esse: illam enim sequitur ea quæ est, impossibile  esse,  cesse  et,  necesse non esse, cuius negatio est, non nenon esse.  Sequuntur igitur et hæ contradictiones secundum prædictum modum: et nihil impossibile contingit sic positis.  CONSEQUENTIÆ ENUNCIATIONUM MODALIUM SECUNDUM  QUATUOR ORDINES AB ANTIQUIS POSITÆ ET ORDINATÆ Primus Ordo  Possibile est esse  Contingens est esse  Non impossibile est esse  Non necessarium est esse  Tertius Ordo  Non possibile est esse  Non contingens est esse  Impossibile est esse  Necessarium est non esse  Secundus Ordo  Possibile est non esse  Contingzens est non esse  Non impossibile est non esse  Non necessarium est non esse  Quartus Ordo  Non possibile est non esse  Non contingens est non esse  Impossibile est non esse  Necesse est esse  5. Deinde cum dicit: Ergo impossibile et non impossibile etc.,  examinando dictam op'nionem, determinat veritatem. Et  circa hoc duo facit: quia primo examinat consequentias  earum de impossibili; secundo, illarum de necessario; ibi:  Necessarium. autem * etc. Unde ex præmissa op' nione concludens et approbans, dicit: Ergo ista, scilicet, impossibile,  et, non impossibile, sequuntur illas, scilicet, contingens et  possibile, non contingens, et, non possibile, sequuntur, inquam, coniradictoriz, idest ita ut contradictoriæ de impossibili contradictorias de possibili et contingenti consequantur, sed comversim, idest, sed non ita quod affirmatio  affirmationem et negatio negationem sequatur, sed conversim, scilicet, quod affirmationem negatio et negationem  affirmatio. Et explanans hoc ait: lllud enim quod est possibile esse, idest affirmationem possibilis negatio sequitur  impossibilis, idest, non impossibile esse; negationem vero  possibilis affirmatio sequitur impossibilis. Illud enim quod  est, non possibile esse, sequitur ista, impossibile est esse ;  hæc autem, scilicet, impossibile esse, affirmatio est; illa  vero, scilicet, non possibile esse, negatio est; hic s'quidem modus negatur; ibi, non. Bene igitur dixerunt antiqui in quolibet ordine quoad consequentias illarum de  impossibili, quia, ut in suprascripta figura apparet, semper  ex  affirmatione possibilis negationem impossibilis, et ex  negatione possibilis affirmationem impossibilis inferunt.  .6. Deinde cum dicit: Necessarium autem. etc., intendit  examinando determinare consequentias de necessario. Et  circa hoc duo facit: primo examinat dicta antiquorum ;  secundo, determinat veritatem intentam; ibi: 4t vero neque  necessarium * etc. Circa primum quatuor facit. Primo, declarat quid bene et quid male dictum sit ab antiquis in hac  re. - Ubi attendendum est quod cum quatuor sint enunciationes de necessario, ut dictum est, differentes inter se  sécundum quantitatem et qualitatem, adeo ut unam integrent figuram oppositionis iuxta morem illarum de ine$$£; duæ earum sunt contrariæ inter se, duæ autem  illis contrariis contradictoriæ, ut patet in hac figura.  Necesse  esse  Non necesse  non esse  Necesse  Contrariæ  e  2  $3,    S  S  [2  «9  o  x  o  *o  "v.  Subcontrariæ  non esse  e  e  δ  Non  fiecesse esse  *  *  Num. seq.  Num. 1.  112 Il  Quia ergo antiqui universales contrarias bene intulerunt ex aliis, contradictorias autem earum, scilicet particulares, male intulerunt; ideo dicit quod considerandum  restat de his, quæ sunt de necessario, qualiter se habeant  in consequendo illas de possibili et non possibili. Manifestum est autem ex dicendis quod non eodem modo istæ  de necessario illas de possibili consequuntur, quo easdem  sequuntur illæ de impossibili. Nam omnes enunciationes  de impossibili recte illatæ sunt ab antiquis. Enunciationes  autem de necessario non omnes recte inferuntur: sed duæ  earum, quæ sunt contrariæ, scilicet, necessé est esse, et,  necesse est nom esse, sequuntur, idest recta consequentia  *  Cf. supra, n. 4.  Boethius.  Averroes.  deducuntur ab antiquis, in tertio scilicet et quarto ordine *;  reliquæ autem duæ de necessario, scilicet, non necesse  non esse, et, non necesse esse, quæ sunt contradictoriæ  supradictis, sunt extra consequentias illarum, in secundo  scilicet et primo ordine. Unde antiqui in tertio et quarto  ordine omnia recte fecerunt; in primo autem et in secundo peccaverunt, non quoad omnia, sed quoad enunciationes de necessario tantum.  7. Secundo cum dicit: Non enim est negatio eius etc.,  respondet cuidam tacitæ obiectioni, qua defendi posset  consequentia enunciationis de necessario in primo ordine  ab antiquis. facta. Est autem obiectio tacita talis. Non  possibile esse, et, necesse non esse, convertibiliter se  sequuntur in tertio ordine iam approbato; ergo, possibile  esse, et, non necesse esse, invicem se sequi debent in primo ordine. Tenet consequentia: quia duorum convertibiliter se sequentium contradictoria mutuo se sequuntur; sed  illæ duæ tertii ordinis convertibiliter se sequuntur, et  istæ duæ primi ordinis sunt earum contradictoriæ; ergo  istæ primi ordinis, scilicet, possibile esse, et, non necesse  esse, mutuo se sequuntur. - Huic, inquam, obiectioni respondet Aristoteles hic interimendo minorem quoad hoc  quod assumit, quod scilicet necessaria primi ordinis et  necessaria tertii ordinis sunt contradictoriæ. Unde dicit:  Non enim est negatio eius quod est, necesse mon esse (quæ  erat  esse,  in  tertio  ordine), illa quæ dicit, mom mecesse est  quæ sita erat in primo ordine. Et causam subdit,  quia contingit utrasque simul esse veras in eodem; quod  contradictoriis repugnat. Illud enim idem, quod est necessarium non esse, non est necessarium esse. Necessarium  siquidem est hominem non esse lignum et non necessarium est hominem esse lignum. Adverte quod, ut infra  patebit, istæ duæ de necessario, quas posuerunt antiqui.  in primo et tertio ordine, sunt subalternæ (et ideo sunt  simul veræ), et deberent esse contradictoriæ; et ideo  erraverunt antiqui.  8. Boethius autem et Averroes non reprehensive legunt tam hanc, quam præcedentem textus particulam,  sed narrative utranque simul iungentes. Narrare enim  aiunt Aristotelem qualitatem suprascriptæ figuræ quoad  consequentiam illarum de necessario, postquam narravit  quo modo se habuerint illæ de impossibili, et dicere  quod secundum præscriptam figuram non eodem modo  sequuntur illas de possibili illæ de necessario, quo sequuntur illæ de impossibili. Nam contradictorias de possibili contradictoriæ de impossibili sequuntur, licet conversim; contradictoriæ autem de necessario non dicuntur  sequi illas contradictorias de possibili, sed potius eas  sequi dicuntur contrariæ de necessario: non inter se  contrariæ, sed hoc modo, quod affirmationem possibilis  negatio de necessario sequi dicitur, negationem vero possibilis non affirmatio de necessario sequi ponitur, quæ sit  contradictoria illi negativæ quæ ponebatur sequi ad possibilem, sed talis affirmationis de necessario contrario. Et quod hoc ita fiat in illa figura ut dicimus, patet ex  primo et tertio ordine, quorum capita sunt negatio et affirmatio possibilis, et extrema sunt, non necesse esse, et,  necesse non esse. Hæ siquidem non sunt contradictoriæ.  Non enim est negatio eius, quæ est, necesse non  esse, non necesse esse (quoniam contingit eas simul verificari de eodem), sed illa scilicet, necesse non esse, est  contraria contradictoriæ huius, scilicet, non necesse esse,  quæ est, necesse est esse.  Sed quia sequenti litteræ magis consona est introductio nostra, quæ etiam Alberto consentit, et extorte videtur ab aliis exponi ly contrariæ, ideo prima, iudicio  meo, acceptanda est expositio et ad antiquorum reprehensionem referendus est textus.  9. Tertio cum dicit: Causa autem cur etc., manifestat  id quod præmiserat, scilicet, quod non simili modo ad  illas de possibili sequuntur illæ de impossibili et illæ  de necessario. Antiquorum enim hoc peccatum fuit tam  in  primo quam in secundo ordine, et quod simili modo  intulerunt illas de impossibili et necessario. In primo siquidem ordine, sicut posuerunt negativam simplicem de  impossibili, ita posuerunt negativam simplicem de necessario, et similiter in secundo ordine utranque negativam  declinatam * locaverunt. Hoc ergo quare peccatum sit,  et  causa autem quare necessarium som sequitur possibile,  similiter,  idest, eodem modo cum cæteris, scilicet, de impossibili, est, quoniam impossibile redditur idem valens necessario, idest, æquivalet necessario, comtrarie, idest, contrario modo sumptum, et non eodem modo. Nam si, hoc  esse  est  impossibile, non inferemus, ergo hoc esse est  necesse, sed, hoc non esse est necesse. Quia ergo impossibile et necesse mutuo se sequuntur, quando dicta eorum contrario modo sumuntur, et non quando dicta eorum simili modo sumuntur, sequitur quod non eodem  modo ad possibile se habeant impossibile et necessarium,  sed contrario modo. Nam ad id possibile quod sequitur  dictum affirmatum de impossibili, sequitur dictum negatum de necessario; et e contrario. Quare autem hoc accidit infra dicetur. Erraverunt igitur antiqui quod similes  enunciationes de impossibili et necessario in primo et in  secundo ordine locaverunt.  ro.  Hinc apparet quod supra posita nostra expositio  conformior est Aristoteli. Cum enim hunc textum induxerit ad manifestandum illa verba: Manifestum. est autem.  quoniam non eodem modo, etc., eo accipiendo sunt sensu  illa verba, quo hic per causam manifestantur. Liquet autem quod hic redditur causa dissimilitudinis veræ inter  necessarias et impossibiles in consequendo possibiles, et  non dissimilitudinis falso opinatæ ab antiquis: quoniam  ex  vera  causa  nonnisi verum concluditur. Ergo reprehendendo antiquos, veram dissimilitudinem inter necessarias, et impossibiles in consequendo possibiles, quam non  servaverunt illi, proposuisse tunc intelligendum est, et  nunc  eam manifestasse. Quod autem dissimilitudo illa,  quam antiqui posuerunt inter necessarias et impossibiles,  sit falso posita, ex infra dicendis patebit. Ostendetur enim  quod contradictorias de possibili contradictoriæ de necessario sequuntur conversim; et quod in hoc non differunt  ab his quæ sunt de impossibili, sed differunt in hoc quod  modo diximus, quod possibilium et impossibilium se consequentium dictum est similiter, possibilium autem et necessariorum, se invicem consequentium dictum est contrarium, ut infra clara luce videbitur.  11. Quarto cum dicit: Aut certe impossibile est etc., manifestat aliud quod proposuerat, scilicet, quod contradictoriæ de necessario male situatæ sint secundum consequentiam ab antiquis, qui contradictiones necessarii ita  ordinaverunt. In primo ordine posuerunt contradictoriam  negationem, necesse esse, idest, non necesse esse; et in secundo contradictoriam negationem, necesse non esse, idest,  Albertus.  *  Ν  Cf. supra, n..3.  CAP.,  non  necesse  non  esse.  Et probat hunc consequentiæ  modum esse malum in primo ordine. Cognita enim malitia primi, facile est secundi ordinis agnoscere defectum.  Probat autem hoc tali ratione ducente ad impossibile. Ad  necessarium esse sequitur possibile esse: aliter sequeretur non possibile esse, quod manifeste implicat; ad possibile esse sequitur non impossibile esse, ut patet; ad non  impossibile esse, secundum antiquos, sequitur in primo  ordine non necessarium esse; ergo de primo ad ultimum,  ad necessarium esse sequitur non necessarium esse: quod  est  inconveniens, quia est manifesta implicatio contradictionis. Relinquitur ergo quod male dictum sit, quod non  necessarium esse consequatur in primo ordine. Ait ergo  et  certe  impossibile est poni sic secundum consequentiam, ut antiqui posuerunt, necessarii contradictiones, idest illas duas enunciationes de necessario, quæ sunt negationes contradictoriæ aliarum duarum de necessario.  Nam ad id quod est, necessarium esse, sequitur, possibile  est esse: nam si non, idest quoniam si hanc negaveris  consequentiam, negatio possibilis sequitur illam, scilicet,  necesse esse. Necesse est enim de necessario aut dicere,  idest affirmare possibile, aut negare possibile: de quolibet enim est affirmatio vel negatio vera. Quare si dicas  quod, ad necesse esse, non sequitur, possibile esse, sed, non  possibile est esse; cum hæc æquivaleat illi quæ dicit, impossibile est esse, relinquitur quod ad, necesse esse, sequitur, impossibile esse, et idem erit, necesse esse et impossibile esse: quod est inconveniens. Bona ergo erat prima  illatio, scilicet, necesse est esse, ergo possibile est esse.  Tunc ultra. Illud quod est, possibile esse, sequitur, non  impossibile esse, ut patet in primo ordine. Ad hoc vero,  scilicet, non impossibile esse, secundum antiquos eodem  primo ordine, sequitur, non necesse est esse (quare contingit de primo ad ultimum); ad id quod est, necessarium  esse, sequitur, non necessarium esse: quod est inconveniens, immo impossibile.  12. Dubitatur hic: quia in I Priorum dicitur quod ad  possibile sequitur non necessarium, hic autem dicitur  oppositum. Ad hoc est dicendum quod possibile sumitur dupliciter. Uno modo in communi, et sic est quoddam superius ad necessarium et contingens ad utrunque, sicut animal ad hominem et bovem; et sic ad possibile non sequitur non necessarium, sicut ad animal non  sequitur non homo. Alio modo sumitur possibile pro  una parte possibilis in communi, idest pro possibili seu  contingenti, scilicet ad utrunque, scilicet quod potest esse  et  non esse; et sic ad possibile sequitur non necessarium.  Quod enim potest esse et non esse, non necessarium est  esse, et similiter non necessarium est non esse. Loquimur ergo hic de possibili in communi, ibi vero in speciali.  13. Deinde cum dicit: 4f vero neque necessarium etc.,  determinat veritatem intentam. Et circa hoc tria facit: primo, determinat quæ enunciatio de necessario sequatur ad  possibile; secundo, ordinat consequentias omnium modalium; ibi: Sequuntur enim etc. Quoad primum, sicut duabus  viis reprehendit antiquos, ita ex illis duobus motivis intentum probat. Et intendit quod, ad possibile esse, sequitur,  non necesse non esse. - Primum motivum est per locum  a divisione. Ad, possibile esse, non sequitur (ut probatum  est), non necesse esse, at vero neque, necesse esse, neque,  necesse non esse. Reliquum est ergo ut sequatur ad eam,  non necesse non esse: non enim dantur plures enunciationes de necessario. Huius communis divisionis primo  proponit reliqua duo membra excludenda, dicens: At vero  neque necessarium. esse, neque necessarium. nom esse, sequitur  ad, possibile non esse ; secundo probat hoc sic. Nullum formale consequens minuit suum antecedens: tunc enim oppositum consequentis staret cum antecedente; sed utrunOpp. D. Tnuowar T. I.  LECT.   que horum, scilicet, necesse esse, et, necesse non esse, minuit possibile esse; ergo, etc. Unde, tacita maiore, ponit  minoris probationem dicens: Illi enim, scilicet, possibile  esse, utraque, scilicet,esse et non esse, contingit accidere;  horum autem, scilicet, necesse esse et necesse non esse,  utrumlibet verum fuerit, non erunt illa duo, scilicet, esse  et  non esse, vera simul in potentia. Et primum horum  explanans ait: cum dico, possibile esse, simul est possibile  esse et non esse. Quoad secundum vero subdit. Si vero  dicas, necesse esse vel necesse non esse, non remanet  utrunque, scilicet, esse et non esse, possibile: si enim necesse est esse, possibilitas ad non esse excluditur; et si  necesse  est  non  esse,  possibilitas ad esse removetur.  Utrunque ergo istorum minuit illud antecedens, possibile  esse, quoniam ad esse et non esse se extendit, etc. Tertio  subdit conclusionem: relinquitur ergo quod, non necessarium non esse, comes est ei quæ dicit, possibile esse;  et  consequenter hæc ponenda erit in primo ordine.  14. Occurrit in hac parte dubium circa hoc quod dicit  quod, ad possibile non sequitur necessarium, cum superius  dixerit quod ad ipsum non sequitur non necessarium. Cum  enim necessarium et non necessarium sint contradictoria  opposita, et de quolibet sit affirmatio vel negatio vera, non  videtur posse evadi quin ad possibile sequatur necessarium,  vel, non necessarium. Et cum non sequatur necessarium,  sequetur non necessarium, ut dicebant antiqui. - Augetur et  dubitatio ex eo quod Aristoteles nunc  * usus est tali argumentationis modo, volens probare quod ad necessarium  sequatur possibile. Dixit enim: Nam si non negatio possibilis  consequatur. Necesse est enim aut dicere aut negare.  15. Pro solutione huius, oportet reminisci habitudinis quæ est inter possibile et necessarium, quod scilicet  possibile est superius ad necessarium, et attendere quod  superius potestate continet suum inferius et eius oppositum, ita quod neutrum eorum actualiter sibi vindicat, sed  utrunque potest sibi contingere; sicut animali potest accidere homo et non homo: et consequenter inspicere debes quod, eadem est proportio superioris ad. habendum  affirmationem et negationem unius inferioris, quæ est alicuius subiecti ad affirmativam et negativam futuri contingentis. Utrobique enim neutrum habetur, et salvatur potentia ad utrumlibet. Unde, sicut in futuris contingentibus  nec affirmatio nec fiegatio est determinate vera, sed sub  disiunctione altera est necessario vera, ut in fine Primi *  conclusum est; ita nec affirmatio nec negatio inferioris  sequitur determinate affirmationem vel negationem superioris, sed sub disiunctione altera sequitur necessario.  Unde non valet, est animal, ergo est homo, neque, ergo  non est homo, sed, ergo est homo vel non est homo. Quia ergo possibile superius est ad necessarium, ideo  optime determinavit Aristoteles neutram contradictionis  partem de necessario determinate sequi ad possibile. Non  tamen dixit quod sub disiunctione neutra sequatur; hoc  enim est contra illud primum principium: de quolibet est  affirmatio vera vel falsa.  Ad id autem quod additur, ex eadem trahitur radice  responsio. Quia enim necessarium inferius est ad possibile,  et  inferius non in potentia sed in actu includit suum  superius, necesse est ad inferius determinate sequi suum  superius: aliter determinate sequetur eius contradictorium. Unde per dissimilem habitudinem, quæ est inter  necessarium et possibile et non possibile, ex una parte,  et  inter possibile et necessarium et non necessarium, ex  altera parte, ibi optimus fuit processus ad alteram contradictionis partem determinate, et hic optimus ad neutram  determinate.  16. Oritur quoque alia dubitatiuncula. Videtur enim  quod Aristoteles difformiter accipiat ly possibile in praepy) *  "ES :  nunc.  *  Lect. xin.  nunc  114 II  cedenti textu et in isto. Ibi enim accipit ipsum in communi, ut sequitur ad necessarium; hic videtur accipere  ipsum specialiter pro possibili ad utrumlibet, quia dicit  quod possibile est simul potens esse et non esse.  Et ad hoc dicendum est quod uniformiter usus est  possibili. Nec eius verba obstant: quoniam et de possibili  in communi verum est dicere quod potest sibi utrunque accidere, scilicet, esse et non esse: tum quia quidquid verificatur de suo inferiori, verificatur etiam de suo  superiori, licet non eodem modo; tum quia possibile in  communi neutram contradictionis partem sibi determinat,  et consequenter utranque sibi advenire compatitur, licet  non asserat potentiam ad utranque partem, quemadmodum possibile ad utrunque.  17. Secundum motivum ad idem, correspondens tacitæ  obiectioni antiquorum quam supra exclusit, addit cum subdit: Hoc enim verum est etc. Ubi notandum quod Aristoteles  sub illa maiore adducta pro antiquis (scilicet, convertibiliter se consequentium contradictoria se mutuo consequuntur), subsumit minorem: sed horum convertibiliter se  sequentium in tertio ordine (scilicet, non possibile esse et  necesse non esse), contradictoria sunt, possibile esse et non  necesse non esse (quoniam modi negatione eis opponunquuntur, scilicet, possibile esse, et, non necesse non esse, .  tamquam contradictoria duorum se mutuo consequentium.  18. Deinde cum dicit: Sequuntur enim. etc., ordinat  omnes  consequentias modalium secundum opinionem  propriam; et ait quod, hæ contradictiones, scilicet, de necessario, sequuntur illas de possibili, secundum modum  prædictum et approbatum illarum de impossibili. Sicut  enim contradictorias de possibili contradictoriæ de impossibili sequuntur, licet conversim; ita contradictorias de possibili contradictoriæ de necessario sequuntur conversim:  licet in hoc, ut dictum est, dissimilitudo sit quod, contradictoriarum de possibili et impossibili similiter est dictum, contradictoriarum autem de possibili et necessario  contrarium est dictum, ut in sequenti videtur figura:  CONSEQUENTIÆ ENUNCIATIONUM MODALIUM SECUNDUM  QUATUOR ORDINES AB ARISTOTELE POSITÆ ET ORDINATÆ.  Primus Ordo  Possibile est esse  Contingens est esse  Non impossibile est esse  Non necesse est non esse  .  Secundus Ordo  Possibile est non esse  Contingens est non esse  Non impossibile est non esse.  Non necesse est esse  tur); ergo istæ duæ (scilicet, possibile esse et non necesse  non esse) se consequuntur et in primo locandæ sunt ordine. Unde motivum tangens ait: Hoc enim, quod dictum  est, verum est, idest verum esse ostenditur, et de necesse non  esse, idest, et ex illius, scilicet, non necesse non esse, opposita, quæ est, necesse non esse. Vel, boc enim, scilicet, non  necesse non esse, verum est, scilicet, contradictorium illius  de necesse non esse. Et minorem subdens ait: Hæc enim,  scilicet, non necesse non esse, fit contradictio eius, quæ  convertibiliter sequitur, non possibile esse. Et explanans  hoc in terminis subdit. Illud enim, non possibile esse,  quod est caput tertii ordinis, sequitur hoc de impossibili,  scilicet, impossibile esse, et hæc de necessario, scilicet, necesse non esse, cuius negatio seu contradictoria est, non  necesse non esse. Et quia, cæteris paribus, modus negatur,  et illa, possibile esse, est (subauditur) contradictoria illius,  scilicet, non possibile; igitur ista duo mutuo se conseTertius Ordo  Non possibile est esse  Non contingens est esse  Impossibile est esse  Necesse est non esse  Quartus Ordo  Non possibile est non esse  Non contingens est non esse  Impossibile est non esse  Necesse est esse  Ubi vides quod nulla est inter Aristotelem et antiquos differentia, nisi in duobus primis ordinibus quoad  illas  de  necessario.  Præpostero namque situ usi sunt  antiqui, eam de necessario, quæ locanda erat in primo  ordine, in secundo ponentes, et eam quæ in secundo ponenda erat, in primo locantes. Et aspice quoque quod  convertibiliter se consequentium semper contradictoria se  consequi ordinavit. Singulis enim tertii ordinis singulæ  primi ordinis contradictoriæ sunt; et similiter singulæ  quarti ordinis singulis, quæ in secundo sunt, contradictoriæ sunt. Quod antiqui non observarunt.  CAP. LECT.  LECTIO  (Canp. CarerANr lect. 1x)  AN AD ILLUD QUOD EST, NECESSARIUM ESSE, SEQUATUR ID QUOD EST, POSSIBILE ESSE?  ᾽Απορήσειε δ᾽ ἄν τις εἰ τῷ ἀναγκαῖον εἶναι τὸ δυνατὸν  εἶναι  ἕπεται.  Εἴ τε γὰρ μὴ ἕπεται, ἀντίφχοσις  ἀχολουθήσει, τὸ μὴ δυνατὸν εἶναι" καὶ εἴ τις ταύτην  μὴ φήσειεν εἶναι ἀντίφασιν, ἀνάγκη λέγειν τὸ δυνατὸν μὴ εἶναι: ἅπερ ἄμφω ψευδῇ κατὰ τοῦ ἀναγκαῖον  115 * Dubitabit autem aliquis, si ad illud quod est, necessarium  esse, illud quod est, possibile esse, sequatur. Nam si  εἶναι.  ᾿Αλλὰ μὴν πάλιν τὸ αὐτὸ εἶναι δοχεῖ δυνατὸν τέμνεσθαι  καὶ μὴ τέμνεσθαι, καὶ εἶναι καὶ μιὴ εἶναι, ὥστε ἔσται  τὸ ἀναγκαῖον εἶναι ἐνδεχόμενον po εἶναι: τοῦτο δὲ  ψεῦδος.  3    ε  Φανερὸν δὴ ὅτι οὐ πᾶν τὸ δυνατὸν εἶναι βαδίζειν  xxi τὰ ἀντικείμενα δύναται, ἀλλ᾽ ἔστιν ἐφ᾽ ὧν οὐκ  ος͵ ἀληθές" πρῶτον μὲν ἐπὶ τῶν μὴ κατα λόγον δυνατῶν,  οἷον τὸ πῦρ θερμαντικὸν καὶ ἔχει δύναμιν ἄλογον.  Αἱ μὲν οὖν μετὰ λόγου δυνάμεις αἱ αὐταὶ πλειόνων  καὶ τῶν ἐναντίων, αἱ δ᾽ ἄλογοι οὐ πᾶσαι, ἀλλ᾿ ὥσπερ  εἴρηται, τὸ πῦρ οὐ δυνατὸν θερμαίνειν καὶ μή, οὐδ᾽  ὅσα ἄλλα ἐνεργεῖ ἀεί. "ἔνια μέντοι δύναται xal τῶν  χατὰ τὰς ἀλόγους δυνάμεις ἅμα τὰ ἀντιχείμενα δέἕξασται. ᾿λλλὰ τοῦτο μὲν τούτου χάριν εἴρηται, ὅτι  οὐ πᾶσα δύναμις τῶν ἀντικειμένων, οὐδ᾽ ὅσαι λέγονται χατὸὰ τὸ αὐτὸ εἴδος.  mew  [TAS  TA  necesse. Et duo facit: quia primo dubitationem absolvit; secundo, ex determinata quæstione alium or*  *  Wr  ed  TE  ϑ,  να  MPPT  T  Lect. seq.  Num. 5.  dinem earumdem consequentiarum modalibus statuit ; ibi:  Et est fortasse * etc. Circa primum duo facit: primo, movet  quæstionem; secundo, determinat eam; ibi: Manifestum  est * etc. Movet ergo quæstionem: primo dicens: Dubitabit  autem. aliquis si ad id quod est. necesse esse sequatur. possibile  &5$£; et secundo, arguit ad partem affirmativam subdens:  Nam si non sequatur, contradictoria eius. sequetur, scilicet  non possibile esse, ut supra deductum est: quia de quolibet  est  affirmatio vel negatio vera. Et si quis dicat hanc, scilicet, non possibile esse, non esse contradictoriam illius,  scilicet, possibile esse, et propterea subterfugiendum velit  argumentum, et dicere quod neutra harum sequitur ad  necesse esse; talis licet falsum dicat, tamen concedatur  sibi, quoniam necesse erit ipsum dicere illius contradictoriam fore, possibile non esse. Oportet namque aut  non possibile esse aut possibile non esse, esse contradictoriam, possibile esse; et tunc in eumdem redibit errorem,  quoniam utræque, scilicet, non possibile esse et possibile  non esse, falsæ sunt de eo quod est, necesse esse. Et  consequenter ad ipsum neutra sequi potest. Nulla enim  enunciatio sequitur ad ilam, cuius veritatem destruit.  Relinquitur ergo quod, ad necesse esse sequitur possibile  esse. Tertio, arguit ad partem negativam cum subdit: 4  vero rursus etc., et intendit talem rationem. Si ad necesse  esse  sequitur possibile esse, cum ad possibile sequatur  possibile non esse (per conversionem in oppositam qua"litatem, ut dicitur in I Priorum, quia idem est possibile  esse  et  non 6556), sequetur de primo ad ultimum quod  necesse esse est possibile non esse: quod est falsum manifeste.  Unde oppositionis hypothesim subdit: 44: vero  non sequatur, contradictio sequetur, quæ est, non possibile esse: et si quis hanc non dicat esse contradictionem, necesse est dicere, possibile non esse: quæ utræque falsæ sunt de necesse esse.  At vero rursus idem videtur esse possibile aliquid incidi  et non incidi, et esse et non esse: quare erit necesse  esse, contingens non esse. Hoc autem falsum est.  Manifestum est autem quod non omne possibile, vel esse,  vel ambulare, etiam opposita potest; sed est in qu:bus  non sit verum. Primum quidem in his quæ non secundum rationem possunt; ut ignis calefactibilis est, et habet vim irrationalem. Quæ igitur secundum rationem  potestates  sunt,  eædem plurium etiam contrariorum  sunt. Irrationales vero non omnes: sed (quemadmodum  dictum est) ignem non esse possibile calefacere et non;  neque quæcunque alia semper agunt. Alia vero possunt,  et  secundum irrationales potestates simul opposita suscipere. Sed hoc huius gratia: dictum est, quoniam non  omnis potestas oppositorum susceptiva est, neque quæcunque secundum eamdem speciem dicuntur.  rursus videtur idem possibile esse et non esse, ut domus, et  possibile incidi et. non. incidi, ut vestis. Quare de primo  ad ultimum necesse esse, erit contingens non esse. Hoc  autem est falsum. Ergo hypothesis illa, scilicet, quod possibile sequatur ad necesse, est falsa.  3. Deinde cum dicit: Manifestum. est. autem. etc., respondet dubitationi. Et primo, declarat veritatem simpliciter; secundo, applicat ad. propositum; ibi: Hoc igitur  possibile*  etc. Proponit ergo primo ipsam veritatem declarandam, dicens: Manifestum est autem, ex dicendis, quod non  omne possibile esse vel ambulare, idest operari: idest, non  omne possibile secundum actum primum vel secundum  ad opposita valet, idest ad opposita viam habet, sed est  invenire aliqua possibilia, in quibus non sit verum dicere  quod possunt in opposita. Deinde, quia possibile  a  potentia nascitur, manifestat qualiter se habeat potentia  ipsa ad opposita: ex hoc enim clarum erit quomodo possibile se liabeat ad opposita. Et circa hoc duo facit: primo  manifestat hoc in potentiis eiusdem rationis; secundo,  in his quæ æquivoce dicuntur potentiæ; ibi: Quasdam  vero potentiæ * etc. Circa primum tria facit: quia primo  manifestat qualiter potentia irrationalis se habeat ad opposita; et ait quod potentia irrationalis non potest in  opposita.  4. Ubi notandum est quod, sicut dicitur IX Metapbys.,  potentia activa, cum nihil aliud sit quam principium quo  in aliud agimus, dividitur in potentiam rationalem et irrationalem. Potentia rationalis est, quæ cum ratione et  electione operatur; sicut ars medicinæ, qua medicus cognoscens quid sanando expediat infirmo, et volens applicat  remedia. Potentia autem irrationalis vocatur illa, quæ non  ex ratione et libertate operatur, sed ex naturali sua dispositione; sicut calor ignis potentia irrationalis est, quia  calefacit, non ut cognoscit et vult, sed ut natura sua  exigit. Assignatur autem ibidem duplex differentia proposito deserviens inter istas potentias.- Prima est quod  activa potentia irrationalis non potest duo opposita, sed  *  *  *  Seq. c. xut.  Lect. seq.  Lect. seq.  RN"  116  est II  determinata ad unum oppositorum, sive sumatur oppositum contradictorie sive contrarie. Verbi gratia: calor  non potest calefacere et non calefacere, quæ sunt contradictorie opposita, reque potest calefacere et frigefacere,  quæ sunt contraria, sed ad calefactionem determinatus  est.  Et hoc intellige per se, quia per accidens calor frigefacere potest, vel resolvendo materiam caloris, humidum  scilicet, vel per antiperistasin contrarii. Et similiter potest  non calefacere per accidens, scilicet si calefactibile deest.  Potentia autem rationalis potest in opposita et contradictorie  et  contrarie.  Arte  siquidem medicinæ potest  medicus adhibere remedia et non adhibere, quæ sunt  contradictoria; et adhibere remedia sana et nociva, quæ  sunt  contraria. - Secunda differentia est quod potentia  activa irrationalis, præsente passo, necessario operatur,  deductis impedimentis: calor enim calefactibile sibi præsens calefacit necessario, si nihil impediat; potentia autem  rationalis, passo præsente, non necessario operatur: præ-:  sente  siquidem. infirmo, non cogitur medicus remedia  adhibere.  É  5. Dimittantur autem metaphysico harum differentiarum rationes et ad textum redeamus. Ubi narrans quomodo se habeat potentia irrationalis ad oppositum, ait:  Et primum quidem, scilicet, non est verum dicere quod  sit potentia ad opposita in his quæ. possunt non secundum  rationem, idest, in his quorum posse est per potentias  irrationales; ut ignis calefactivus est, idest, potens calefacere,  et babet vim, idest, potentiam istam irrationalem. Ignis siquidem non potest frigefacere; neque in eius potestate  est calefacere et non calefacere. Quod autem dixit primum  ordinem, nota, ad secundum genus possibilis infra dicendum, in quo etiam non invenitur potentia ad opposita.  6. Secundo, manifestat quomodo potentia rationalis  se habeat ad opposita, intendens quod potentia rationalis  potest in opposita. Unde subdit: Ergo potestates secundum  rationem, idest rationales, ipsæ eædem sunt contrariorum,  a  non solum duorum, sed etiam plurimorum, ut arte medicinæ medicus plurima iuga contrariorum adhibere potest,  et  multarum operationum contradictionibus abstinere  potest. Præposuit autem ly ergo, ut hoc consequi ex dictis  insinuaret: cum enim oppositorum oppositæ sint proprietates, et potentia irrationalis ex eo quod irrationalis ad  opposita non se extendat; oportet potentiam rationalem  ad opposita viam habere, eo quod rationalis sit.  7. Tertio, explanat id quod dixit de potentiis irrationalibus, propter causam infra assignandam ab ipso; et  intendit quod illud quod dixit de potentia irrationali,  scilicet quod non potest in opposita, non est verum universaliter, sed particulariter. - Ubi nota quod potentia  irrationalis dividitur in potentiam activam, quæ est principium faciendi, et potentiam passivam, quæ est principium patiendi: verbi gratia, potentia ad calorem dividitur  in posse calefacere, et in posse calefieri. In potentiis activis irrationalibus verum est quod non possunt in opposita,  .ut declaratum est; in potentiis autem passivis non est  verum. Illud enim quod potest calefieri, potest etiam frigefieri, quia eadem est materia, seu potentia passiva contrariorum, ut dicitur in II De cælo et mundo, et potest  non calefieri, quia idem est subiectum privationis et formæ, ut dicitur in I Physic. Et propter hoc ergo explanando, ait: Irralionales vero potentiæ mom omnes a posse  in opposita excludi intelligendæ sunt, sed illæ quæ sunt  quemadmodum potentia ignis calefactiva (ignem enim  non posse non calefacere manifestum est), et universaliter, quæcunque alia sunt talis potentiæ, quod semper  agunt, idest quod quantum est ex se non possunt non  agere, sed ad semper agendum ex sua forma necessitantur. Huiusmodi autem sunt, ut declaravimus, omnes  potentiæ activæ irrationales. Alia vero sunt talis conditionis  quod  etiam  secundum irrationales potentias,  scilicet passivas, simul possunt in quædam opposita, ut  ær  potest calefieri et frigefieri.  Quod vero ait, simul, cadit supra ly possunt, et non  supra ly opposita; et est sensus, quod simul aliquid habet  potentiam passivam ad utrunque oppositorum, et non  quod habeat potentiam passivam ad utrunque oppositorum simul habendum. Opposita namque impossibile est  haberi simul. Unde et dici solet et bene, quod in huiusmodi est simultas potentiæ, non potentia simultatis. Irrationalis igitur potentia non secundum totum suum ambitum a posse in opposita excluditur, sed secundum partem  eius, secundum potentias scilicet activas.  8. Quia autem videbatur superflue addidisse differentias inter activas et passivas irrationales, quia sat erat proposito ostendisse quod non omnis potentia oppositorum  est; ideo subdit quod hoc idcirco dictum est, ut notum  fiat quoniam nedum non omnis potestas oppositorum est,  loquendo de potentia communissime, sed neque quæcunque potentiæ dicuntur secundum eamdem speciem ad  opposita possunt. Potentiæ siquidem irrationales omnes  sub una specie irrationalis potentiæ concluduntur, et tamen non omnes in opposita possunt, sed passive tantum.  Non supervacanea ergo fuit differentia inter passivas et  activas irrationales, sed necessaria ad declarandum quod  non omnes potentiæ eiusdem speciei possunt in opposita.  Potest etly boc demonstrare utranque differentiam, scilicet,  inter rationales et irrationales,et inter irrationales activas et.  passivas inter se; et tunc est sensus, quod hoc ideo fecimus,  ut ostenderemus quod non omnis potestas, quæ scilicet  secundum eamdem rationem potentiæ physicæ dicitur,  quia scilicet potest in aliquid ut rationalis et irrationalis,  neque etiam omnis potestas, quæ sub eadem specie continetur, ut irrationalis activa et passiva sub specie irrationalis, ad opposita potest.  CAP. LECT. LECTIO  (Canp. CargrANI lect. x)  DECLARATIS POTENTIIS QUÆ ÆQUIVOCÆ DICUNTUR, SUMITUR RATIO ZMPOSSIBILIS  AD DETERMINANDUM QUODNAM EX POSSIBILIBUS AD NECESSARIUM SEQUATUR  '  *,   Ν  b  Ἔνιαι δὲ δυνάμεις ὁμώνυμοί εἰσι. Τὸ γὰρ δυνατὸν οὐχ  ἁπλῶς λέγεται, ἀλλὰ τὸ μὲν ὅτι ἀληθὲς ὡς ἐνεργείᾳ  *  117,  Quædam vero potestates æquivocæ sunt. Possibile enim * Sea. c. xu. :  non  L4  ὄν,  1  olov  ^  à  *  L]  δυνατὸν  e  f.  δίζε  e  (Q  δίζε  ^  e  NI  ῥαδίζειν ὅτι βαδίζει, καὶ ὅλως δυ-,  "^,  νατὸν εἶναι ὅτι ἤδη ἔστι xav ἐνέργειαν λέγεται  E  ^  εἰ,  i  εἶναι δυνατόν, τὸ δὲ ὅτι ἐνεργήσειεν ἄν, οἷον δυνα[i  *  τὸν εἶναι βαδίζειν ὅτι βαδίσειεν ἄν.  Καὶ αὕτη μὲν ἐπὶ τοῖς κινητοῖς ἐστὶ μόνοις δύναμις,  ἐκείνη δὲ καὶ ἐπὶ τοῖς ἀχινήτοις, Γλμφω δὲ ἀληθὲς  εἰπεῖν τὸ μὴ ἀδύνατον εἶναι βαδίζειν εἶναι, xai  τὸ βαδίζον ἤδη καὶ ἐνεργοῦν καὶ τὸ βαδιστιχόν.  Τὸ μὲν οὖν οὕτω  δυνατὸν οὐχ ἀληθὲς χατο τοῦ ἀναγχαίου ἁπλῶς εἰπεῖν, θάτερον δὲ ἀληθές. “Ὥστε ἐπεὶ  7 τῷ ἐν μέρει τὸ καγόλου ἕπεται, τῷ ἐξ ἀνάγχης ὄντι  ἕπεται τὸ δύνασθαι εἶναι, οὐ μέντοι πᾶν.  Καὶ ἔστι δὴ ἀρχὴ ἴσως τὸ ἀναγκαῖον καὶ μὴ ἀνάγκαϊον  πάντων εἶναι μιὴ εἶναι, καὶ τἄλλα ὡς τούτοις  ἀχολουθοῦντα ἐπισκοπεῖν δεῖ.  Φανερὸν δὴ ix τῶν εἰρημένων. ὅτι τὸ ἐξ ἀνάγκης ὃν  χατ᾽  ἐνέργειάν ἐδτιν, ὥστε εἰ πρότερα τὰ ἀίδια, καὶ  ἐνέργεια δυνάμεως προτέρα.  οὐσίαι, τὰ  Καὶ τὰ μὲν ἄνευ δυνάμεως ἐνέργειαί εἰσιν, olov αἱ πρῶται  δὲ μετὰ δυνάμεως, τῇ μὲν φύσει  πρότερα, τῷ δὲ χρόνῳ ὕστερα, vd δὲ οὐδέποτε ἐνέργειαί εἰσιν, ἀλλὰ δυνάμεις μόνον.  3  ntendit declarare quomodo illæ quæ æquiUP vocæ dicuntur potentiæ, se habeant ad oppoE. sita. Et circa hoc duo facit: primo, declarat  £j)  *  Num. 3.  naturam talis potentiæ; secundo, ponit differentiam et convenientiam inter ipsas et supradictas, ibi: Et bæc quidem* etc. Ad evidentiam primi advertendum est quod V et TX Metapbys., Aristoteles dividit potentiam in potentias, quæ eadem ratione potentiæ dicuntur,  et in potentias, quæ non ea ratione qua prædictæ potentiæ nomen habent, sed alia. Et has appellat æquivoce  potentias. Sub primo membro comprehenduntur omnes  potentiæ activæ, et passivæ, et rationales, et irrationales.  Quæcunque enim posse dicuntur per potentiam activam  vel passivam quam habeant, eadem ratione potentiæ sunt,  quia scilicet est in eis vis principiata alicuius activæ vel  passivæ. Sub secundo autem membro comprehenduntur  potentiæ mathematicales et logicales. Mathematica potentia est, qua lineam posse dicimus in quadratum, et eo  quod in semetipsam ducta quadratum constituit. Logica  potentia est, qua duo termini coniungi absque contradictione in enunciatione possunt. Sub logica quoque potentia continetur quæ ea ratione potentia dicitur, quia est.  Hæ vero merito æquivoce a primis potentiæ dicuntur,  eo quod istæ nullam virtutem activam vel passivam prædicant; et quod possibile istis modis dicitur, non ea ratione  possibile appellatur quia aliquis habeat virtutem ad hoc  agendum vel patiendum, sicut in primis. Unde cum potentiæ habentes se ad opposita sint activæ vel passivæ,  istæ quæ æquivocæ potestates dicuntur ad opposita non  se  habent. De his ergo loquens ait: Quædam vero potestates æquivocæ sunt, et ideo ad opposita non se habent.  2. Deinde declarans qualis sit ista potestas æquivoce  dicta, subdit divisionem usitatam possibilis per quam hoc  simpliciter dicitur: sed hoc quidem, quoniam verum est, quod in actu est; ut possibile ambulare, quoniam ambulat iam, et omnino possibile esse, quoniam  iam est in actu, quod dicitur esse possibile: illud vero,  quoniam actu esse posset; ut possibile ambulare, quoniam ambulabit.  in  Et hæc quidem in mobilibus solis est potestas, illa vero  et  immobilibus. Utrunque vero verum est dicere,  non impossibile esse ambulare vel esse, et quod iam  ambulat et agit, et ambulativum.  Hoc igitur possibile non est verum de necessario dicere  simpliciter, alterum autem verum est. Quare quoniam  partem universale sequitur, illud quod ex necessitate  est,  consequitur posse esse, sed non omne.  Et est fortasse quidem principium, quod necessarium est,  et  quod non necessarium est, omnium vel esse, vel non  esse:  et  oportet.  alia, veluti horum consequentia, considerare  Manifestum est autem ex his quæ dicta sunt, quod id  quod ex necessitate est, secundum actum est: quare si  priora sunt sempiterna, et quæ actu sunt potestate  priora sunt. Et hæc quidem sine potestate actus sunt, ut primæ substantiæ: alia vero cum potestate, quæ natura quidem  priora sunt, tempore vero posteriora. Alia vero numquam actus sunt, sed potestates tantum.  scitur, dicens: possibile enim non uno modo dicitur, sed  duobus. Et uno quidem modo dicitur possibile eo quod  verum est ut in actu, idest ut actualiter est; ut, possibile  est ambulare, quando ambulat iam: et omnino, idest universaliter possibile est esse, quoniam est actu iam quod  possibile dicitur. Secundo modo autem possibile dicitur  aliquid non ea ratione quia est actualiter, sed quia forsitan  aget, idest quia potest agere; ut possibile est ambulare,  quoniam ambulabit. Ubi advertendum est quod ex divisione bimembri possibilis divisionem supra positam potentiæ declaravit a posteriori. Possibile enim a potentia  dicitur: sub primo siquidem membro possibilis innuit potentias æquivoce; sub secundo autem potentias univoce,  activas  scilicet et passivas. Intendebat ergo quod quia  possibile dupliciter dicitur, quod etiam potestas duplex  est. Declaravit autem potestates æquivocas ex uno earum  membro tantum, scilicet ex his quæ dicuntur possibilia  quia sunt, quia hoc sat erat suo proposito.  3. Deinde cum dicit: Et bæc quidem etc., assignat differentiam inter utranque potentiam, et ait quod potentia  hæc ultimo dicta physica, est in solis illis rebus, quæ  sunt  mobiles ; illa autem est et in rebus mobilibus et  immobilibus. Possibile siquidem a potentia dictum eo  quod possit agere, non tamen agit, inveniri non potest  absque mutabilitate eius, quod sic posse dicitur. Si enim  nunc potest agere et non agit,si agere debet, oportet quod  mutetur de otio ad operationem. Id autem quod possibile dicitur eo quod est, nullam mutabilitatem exigit in  eo  quod sic possibile dicitur. Esse namque in actu, quod  talem possibilitatem fundat, invenitur et in rebus necessariis, et in immutabilibus, et in rebus mobilibus. Possibile ergo hoc, quod logicum vocatur, communius est illo  quod physicum appellari solet.    4. Deinde subdit convenientiam inter utrunque possibile, dicens quod in utrisque potestatibus et possibilibus  verum est non impossibile esse, scilicet, ipsum ambulare,  quod iam actu ambulat seu agit, et quod iam ambulabile  est; idest, in hoc conveniunt quod, sive dicatur possibile  ex II  CONSEQUENTIÆ ENUNCIATIONUM MODALIUM  SECUNDUM QUATUOR ORDINES ALIO CONVENIENTI SITU  AB ARISTOTELE POSITÆ ET ORDINATÆ:  Primus Ordo  eo  *  Cf. lect. præc.  n. 5.  quod actu est, sive ex eo quod potest esse, de  utroque verificatur non impossibile; et consequenter necessario verificatur possibile, quoniam ad non impossibile  sequitur possibile. Hoc est secundum genus possibilis, respectu cuius Aristoteles supra dixit: Et primum quidem * etc.,  in quo non invenitur via ad utrunque oppositorum, hoc,  inquam, est possibile quod iam actu est. Quod enim tali  ratione possibile dicitur, iam determinatum est ex eo  quod actu esse suppositum est. Non ergo possibile omne  ad utrunque possibile est, sive loquamur de possibili physice, sive logice.  5. Deinde cum dicit : Sic igitur possibile etc., applicat determinatam veritatem ad propositum. Et primo, concludendo ex dictis, declarat habitudinem utriusque possibilis  ad necessarium, dicens quod hoc ergo possibile, scilicet  physicum quod est in solis mobilibus, non est verum dicere  Necesse est esse  Non possibile est non esse  Non contingens est non esse  Impossibile est non esse  Tertius Ordo  Non. necesse est esse  Possibile est non esse  Contingens est non esse  Non impossibile est non esse  Secundus Ordo  Necesse est non esse  Non possibile est esse  Non contingens est esse  Impossibile est esse  Quartus Ordo  Non necesse est non esse  Possibile est esse  Contingens est esse  Non impossibile est esse  Vides autem hic nihil immutatum, nisi quod necessariæ quæ ultimum locum tenebant, primum sortitæ  sunt. Quod vero dixit fortasse, non dubitantis, sed absque  determinata ratione rem proponentis est.  et  prædicare de necessario simpliciter: quia quod simpliciter necessarium est, non potest aliter esse. Possibile  autem physicum potest sic et aliter esse, ut dictum est.  Addit autem ly simpliciter, quoniam necessarium est multiplex. Quoddam enim est ad bene esse, quoddam ex  suppositione: de quibus non est nostrum tractare, sed  solummodo id insinuare. Quod ut præservaret se ab illis  modis necessarii qui non perfecte et omnino habent necessarii rationem, apposuit ly simpliciter. De tali enim  necessario possibile physicum non verificatur. Alterum  autem possibile logicum, quod in rebus immobilibus invenitur, verum est de illo enunciare, quoniam nihil neces*  c  *  Lect. præced.  a  Cf. lect. præc.  n. I.  *  Num. seq.  sitatis adimit. Et per hoc solvitur ratio inducta * ad partem negativam quæstionis. Peccabat siquidem in hoc, -quod ex necessario inferebat possibile ad utrunque quod  convertitur in oppositam qualitatem.  6. Deinde respondet quæstioni formaliter intendens  quod affirmativa pars * quæstionis tenenda sit, quod scilicet ad necessarium sequitur possibile; et assignat causam.  Quia ad partem subiectivam sequitur constructive  suum totum universale; sed necessarium est pars subiectiva possibilis: quia possibile dividitur in logicum et  physicum, et sub logico comprehenditur necessarium ;  ergo ad necessarium sequitur possibile. Unde dicit: Quare,  quoniam partem, scilicet subiectivam, suum totum universale sequitur, illud quod ex necessitate est, idest necessarium, tamquam partem subiectivam, consequitur posse  esse, idest possibile, tamquam totum universale. Sed mon  omnino, idest sed non ita quod omnis species possibilis  sequatur; sicut ad hominem sequitur animal, sed non  omnino, idest non secundum omnes suas partes subiectivas sequitur ad hominem: non enim valet: est homo, ergo  est animal irrationale. Et per hoc confirmata ratione adducta ad partem affirmativam, expressius solvit rationem  adductam ad partem negativam, quæ peccabat secundum  fallaciam consequentis, inferens ex necessario possibile,  descendendo ad unam possibilis speciem, ut de se patet.  7. Deinde cum dicit: Et est fortasse quidem etc., ordinat  easdem modalium consequentias alio situ, præponendo  necessarium omnibus aliis modis. Et circa hoc duo facit:  primo, proponit quod intendit; secundo, assignat causam  dicti ordinis; ibi: Manifestum est autem* etc. Dicit ergo: Et  est fortasse principium omnium enunciationum modalium vel esse  vel non esse, idest, affirmativarum vel negativarum, necessarium et non necessarium. Et oportet considerare alia, scilicet, possibile contingere et impossibile esse, sicut borum,  scilicet, necessarii et non necessarii, consequentia, hoc modo:  8. Deinde cum dicit: Manifestum est autem. etc., intendit assignare causam dicti ordinis. Et primo, assignat  causam, quare præposuerit necessarium possibili tali ratione. Sempiternum est prius temporali; sed necessarium  dicit sempiternitatem (quia dicit esse in actu, excludendo  omnem mutabilitatem, et consequenter temporalitatem,  quæ sine motu non est imaginabilis), possibile autem  dicit temporalitatem (quia non excludit quin possit esse  et  non esse); ergo necesse merito prius ponitur quam  possibile. Unde dicit, proponendo minorem: Manifestum  est autem ex bis quæ dicta sunt etc., tractando de necessario:  quoniam id quod ex necessitate est, secundum actum est  totaliter, scilicet quia omnem excludit mutabilitatem et  potentiam ad oppositum: si enim mutari posset in oppositum aliquo modo, iam non esset necessarium. - Deinde  subdit maiorem per modum antecedentis conditionalis :  Quare si priora sunt sempiterna temporalibus etc. - Ultimo  ponit conclusionem: et quæ actu sunt omnino, scilicet  necessaria, priora sunt potestate, idest possibilibus, quæ  omnino actu esse non ponunt, licet compatiantur.  9. Deinde cum dicit: Et bæ quidem etc., assignat causam totius ordinis a se inter modales statuti, tali ratione.  Universi triplex est gradus. Quædam sunt actu sine poteillæ  state, idest sine admixta potentia, ut primæ substantiæ, non  quas in præsenti diximus primas, eo quod  principaliter et maxime substent, sed illæ quæ sunt primæ, quia omnium rerum sunt causæ, Intelligentiæ scilicet. - Alia sunt actu cum possibilitate, ut omnia mobilia, quæ secundum id quod habent de actu sunt priora  natura seipsis secundum id quod habent de potentia, licet e contra sit, aspiciendo ordinem temporis. Sunt enim  secundum id quod habent de potentia priora tempore  seipsis secundum id quod habent de actu. Verbi gratia,  Socrates prius secundum tempus poterat esse philosophus, deinde fuit actualiter philosophus. Potentia ergo  præcedit actum secundum ordinem temporis in Socrate,  ordine autem naturæ, perfectionis et dignitatis e converso  contingit. Prior enim secundum dignitatem, idest  dignior et perfectior habebatur Socrates cum philosophus  actualiter erat, quam cum philosophus esse poterat. Præposterus est igitur ordo potentiæ et actus in unomet,  utroque ordine, scilicet, naturæ et temporis attento, - Alia  vero nunquam sunt actu sed potestate tantum, ut motus,  tempus, infinita divisio magnitudinis, et infinita augmentatio numeri. Hæc enim, ut IX Metapbys. dicitur, nunquam  exeunt in actum, quoniam eorum rationi repugnat. Nunquam enim aliquid horum ita est quin aliquid eius expectetur, et consequenter nunquam esse potest nisi in potentia. Sed de his alio tractandum est loco.  Nunc hæc ideo dicta sint ut, inspecto ordine universi, appareat quod illum imitati sumus in nostro ordine.  Posuimus siquidem primo necessarium, quod sonat  actu esse sine potestate seu mutabilitate, imitando primum  gradum universi. - Locavimus secundo loco possibile et  contingens, quorum utrunque sonat actum cum possibilitate, et sic servatur conformitas ad secundum gradum  universi. - Præposuimus autem possibile et non contingens, quia possibile respicit actum, contingens autem  secundum vim nominis respicit defectum causæ, qui ad  potentiam pertinet: defectus enim potentiam sequitur; et  ex hoc conforme est secundæ parti universi, in qua actus  est prior potentia secundum naturam, licet non secundum  tempus.- Ultimum autem locum impossibili reservavimus,  eo  quod sonat nunquam fore, sicut et ultima universi  pars dicta est illa, quæ nunquam actu est. Pulcherrimus  igitur ordo statutus est, quando divinus est observatus.  IO. Quia autem suppositæ modalium consequentiæ  nil aliud sunt quam æquipollentiæ earum, quæ ob varium negationis situm, qualitatem, vel quantitatem, vel  utranque mutantis, fiunt; ideo ad completam notitiam  consequentium se modalium, de earum qualitate et quantitate pauca admodum necessaria dicenda sunt. Quoniam  igitur natura totius ex partium naturis consurgit, sciendum est quod subiectum enunciationis modalis et dicit  esse vel non esse, et est dictum unicum, et continet in  se subiectum dicti; prædicatum autem modalis enunciationis, modus scilicet, et totale prædicatum est ( quia  explicite vel implicite verbum continet, quod est semper  nota eorum quæ de altero prædicantur: propter quod  Aristoteles dixit quod modus est ipsa appositio), et continet in se vim distributivam secundum partes temporis.  Necessarium enim et impossibile distribuunt in omne tempus vel simpliciter vel tale; possibile autem et contingens  pro aliquo tempore in communi.  11. Nascitur autem ex his quinque conditionibus duplex in qualibet modali qualitas, et triplex quantitas. - Ex  eo  enim quod tam subiectum quam prædicatum modalis verbum in se habet, duplex qualitas fit, quarum altera  vocatur qualitas dicti, altera qualitas modi. Unde et supra  dictum est* aliquam esse: affirmativam de modo et non  de dicto, et e converso. - Ex eo vero quod subiectum  modalis continet in se subiectum dicti, una quantitas  consurgit, quæ vocatur quantitas subiecti dicti: et hæc  distinguitur in universalem, particularem et singularem,  Sicut et quàántitas illarum de inesse. Possumus enim dicere, Socratem, quemdam hominem, vel omnem hominem, vel nullum hominem, possibile est currere. Ex eo autem quod subiectum unius modalis dictum unum  *  Ed. c: scilicet  omne dictum cu tusque  E  isttus  modalis  re,  est  universalis, scilicet dictum .  est, consurgit alia quantitas, vocata quantitas dicti; et  hæc unica est singularitas: secundum * omne enim dictum cuiusque modalis singulare est istius universalis,  scilicet  dictum. Quod ex eo liquet quod cum dicimus,  hominem esse album est possibile, exponitur sic, hoc  dictum, hominem esse album, est possibile. Hoc dictum  autem singulare est, sicut et, hic homo. Propterea et dicitur quod omnis modalis est singularis quoad dictum, licet  quoad subiectum dicti sit universalis vel particularis. - Ex  eo autem quod prædicatum modalis, modus scilicet, vim  distributivam habet, alia quantitas consurgit vocata quantitas modi seu modalis; et hæc distinguitur in universalem et particularem.  12. Ubi diligenter: duo attendenda sunt. Primum est  quod hoc est singulare in modalibus, quod prædicatum  simpliciter quantificat propositionem modalem, sicut et  simpliciter qualificat. Sicut enim illa est simpliciter affirmativa, in qua modus affirmatur, et illa negativa, in qua  modus negatur; ita illa est simpliciter universalis cuius  modus est universalis, et illa particularis cuius modus est  particularis. Et hoc quia modalis modi naturam sequitur.  119  Secundum attendendum (quod est causa istius primi )  est, quod prædicatum modalis, scilicet modus, non habet  solam habitudinem prædicati respectu sui subiecti, scilicet esse et non esse, sed habitudinem syncategorematis distributivi, sed non secundum quantitatem partium  subiectivarum ipsius subiecti, sed secundum quantitatem  partium temporis eiusdem. Et merito. Sicut enim quia  subiecti enunciationis de inesse propria quantitas est penes  divisionem vel indivisionem ipsius subiecti (quia  est nomen quod significat per modum substantiæ, cuius  quantitas est per divisionem continui: ideo signum quantificans in illis distribuit secundum partes subiectivas), ita  quia subiecti enunciationis modalis propria quantitas est  tempus (quia est verbum quod significat per modum  motus, cuius propria quantitas est tempus), ideo modus  quantificans distribuit ipsum suum subiectum, scilicet, esse  vel non esse, secundum partes temporis. Unde subtiliter  inspicienti apparebit quod quantitas ista modalis proprii  subiecti modalis enunciationis quantitas est, scilicet, ipsius  esse vel non esse. Ita quod illa modalis est simpliciter  universalis, cuius proprium subiectum distribuitur pro  omni tempore: vel simpliciter, ut, hominem esse animal  est necessarium vel impossibile; vel accepto, ut, hominem  currere hodie, vel, dum currit, est necessarium vel impossibile. Illa vero est particularis, in qua non pro omni,  sed aliquo tempore distributio fit in communi tantum;  ut, hominem esse animal, est possibile vel contingens. Est  ergo et ista modalis quantitas subiecti sui passio (sicut  et universaliter quantitas se tenet ex parte materiæ), sed derivatur a modo, non in quantum prædicatum est (quod, ut  sic, tenetur formaliter), sed in quantum syncategorematis  officio fungitur, quod habet ex eo quod proprie modus est.  13. Sunt igitur modalium (de propria earum quantitate loquendo) aliæ universales affirmativæ, ut illæ de  necessario, quia distribuunt ad semper esse; aliæ universales negativæ, ut illæ de impossibili, quia distribuunt ad  nunquam esse; aliæ particulares affirmativæ, ut illæ de  possibili et contingenti, quia distribuunt utrunque ad  aliquando esse; aliæ particulares negativæ, ut illæ de  non necesse et non impossibili, quia distribuunt ad aliquando non esse:sicut in illis de inesse, omnis, nullus,  quidam, non omnis, non nullus, similem faciunt diversitatem. Et quia, ut dictum est, hæc quantitas modalium  est  inquantum modales sunt, et de his, inquantum  huiusmodi, præsens tractatus fit ab Aristotele; idcirco  æquipollentiæ, seu consequentiæ earum, ordinatæ sunt  negationis vario situ, quemadmodum æquipollentiæ illarum de inesse: ut scilicet, negatio præposita modo faciat  æquipollere suæ contradictoriæ; negatio autem modo  postposita, posita autem dicti verbo, suæ æquipollere  contrariæ facit; præposita vero et postposita suæ subalternæ, ut videre potes in consequentiarum figura ultimo  ab Aristotele formata. In qua, tali præformata oppositionum figura, clare videbis omnes se mutuo consequentes,  secundum alteram trium regularum æquipollere, et consequenter, totum primum ordinem secundo contrarium,  tertio contradictorium, quarto vero subalternum.  Necesse  esse  o  qd  Ε  S  s  E    ri  Possibile  esse  Impossibile e  Contrariæ eo  E  δα  ES  x  ο x9  9  ?  .  [d  x  Se,    ᾿ς 6  Subcontrariæ esse  uU  g&  z  E  $  B  E  Contingens  non essc  vtt  120 II  LECTIO DECIMATERTIA  (Cann. CargTANI lect. xi)  CONTRARIETAS IN ANIMI OPINIONIBUS CONSTITUITUR EX ALIQUA  VERI FALSIQUE OPPOSITIONE.  Πότερον δὲ ἐναντία ἐστὶν κατάφασις τῇ ἀποφάσει   κατάφασις τῇ χαταφάσει, καὶ λόγος τῷ λόγῳ;  λέγων ὅτι πᾶς ἄνθρωπος δίκαιος τῷ οὐδεὶς ἄνθρωπος δίκαιος τὸ πᾶς ἄνθρωπος δίκαιος τῷ πᾶς ἄνθρωπος ἄδικος, οἷον ἔστι Καλλίας δίκαιος, οὐχ ἔστι  Καλλίας δίκαιος, Καλλίας ἄδιχός ἐστι" ποτέρα δὴ  Εἰ  ἐναντία τούτων ;  γὰρ τὰ μὲν ἐν τῇ φωνῇ ἀχολουθεῖ τοῖς ἐν τῇ διανοίᾳ, ἐκεῖ δὲ ἐναντία δόξα τοῦ ἐναντίου, οἷον ὅτι  πᾶς ἄνθρωπος δίκαιος τῇ πᾶς ἄνθρωπος ἄδικος, καὶ  ἐπὶ  τῶν  ἐν τῇ φωνῇ καταφάσεων ἀνάγχη ὁμοίως  ἔχειν. Εἰ δὲ ped ἐχεῖ τοῦ ἐναντίου δόξα ἐναντία  ἐστίν, οὐδὲ κατάφασις τῇ καταφάσει ἔσται ἐνανvla, ἀλλ᾽ εἰρημένη ἀπόφασις. Ὥστε σχεπτέον ποία  δόξα ἀληθὴς ψευδεῖ δόξη ἐναντία. πότερον τῆς  ἀποφάσεος τὸ ἐναντίον εἶναι δοξάζουσα. Λέγω  δὲ ὧδε. Ἔστι τις δόξα ἀληθὴς τοῦ ἀγαθοῦ ὅτι ἀγαθόν, ἄλλη δὲ ὅτι οὐκ ἀγαθὸν ψευδής, ἑτέρα δὲ ὅτι  χακόν. Ποτέρα δὴ τούτων ἐναντία τῇ ἀληθεῖ; xal  εἰ ἔστι μία, x40 ' ὁποτέραν ἐναντία:  μὲν δὴ τούτῳ οἴεσθαι τὰς ἐναντίας δόξας ὡρίσθαι,  τῷ τῶν ἐναντίων εἶναι, ψεῦδος" τοῦ γὰρ ἀγαθοῦ ὅτι  ἀγαθὸν καὶ τοῦ καχοῦ ὅτι κακὸν αὐτὴ ἴσως καὶ  ἀληθὴς ἔσται εἴτε πλείους εἴτε μία ἐστίν. ᾿Εναντία  δὲ ταῦτα. ÀAXA' οὐ τῷ ἐναντίων εἶναι ἐναντία, ἀλλὰ  μᾶλλον τῷ ἐναντίως.  Εἰ δὴ ἔστι μὲν τοῦ ἀγαθοῦ ὅτι ἐστὶν ἀγαθὸν δόξα, ἄλλη  δ᾽ ὅτι οὐχ ἀγαθόν, ἔστι δὲ ἄλλο τι οὐχ ὑπάρχει  οὐδ᾽ οἷόντε ὑπάρξαι, τῶν μὲν δὴ ἄλλων οὐδεμίαν  θετέον, οὔτε ὅσαι ὑπάρχειν τὸ μιὴ ὑπάρχον δοξαάζουσιν,  οὔθ᾽  ὅσαι μὴ ὑπάρχειν τὸ ὑπάρχον (ἄπειροι γὰρ  ἀμφότεραι, καὶ ὅσαι ὑπάρχειν δοξάζουσι τὸ μὴ ὑπάρyov, καὶ ὅσαι μὴ ὑπάρχειν τὸ ὑπάρχον);  SEN  ene ostquam determinatum est de enunciatione se(Q5) (oy cundum quod diversificatur tam ex additione  facta ad terminos, quam ad compositionem  S. Thomas.  *  *  *  Num. 5.  Num. 8.  Lect. seq.  J7  eius, hic secundum divisionem a s. Thoma in  principio huius Secundi factam, intendit Aristoteles tractare quandam quæstionem circa oppositiones  enunciationum provenientes ex eo quod additur aliquid simplici enunciationi. Et circa hoc quatuor facit: primo, movet  quæstionem; secundo, declarat quod hæc quæstio dependet ab una alia quæstione prætractanda; ibi: Nam si ea, quæ  sunt in voce * etc.; tertio, determinat illam aliam quæstionem; ibi: Nam arbitrari * etc.; quarto, redit ad respondendum quæstioni primo motæ; ibi: Quare si in opinione* etc.  Quæstio quam movere intendit est: utrum affirmativæ  enunciationi contraria sit negatio eiusdem prædicati, an affirmatio de prædicato contrario seu privativo?  Unde dicit: Utrum contraria est affirmatio. negationi. contradictoriæ, scilicet, et universaliter oratio affirmativa orationi negativæ; ut, affirmativa oratio quæ dicit, omnis  bomo est iustus, illi contraria sit orationi negativæ, nullus  bomo est iustus, aut illi, omnis bomo est iniustus, quæ  est affirmativa de prædicato privativo? Et similiter ista  affirmatio, Callias est iustus, est ne contraria illi contradictoriæ negationi, Callias non est iustus, aut illi, Callias est  iniustus, quæ est affirmativa de prædicato privativo?  *  Utrum autem contraria est affirmatio negationi, aut affirmatio affirmationi et oratio orationi, quæ dicit, quod  omnis homo iustus est, ei quæ est, nullus homo iustus  est; aut, omnis homo iustus est, ei quæ est, omnis  homo iniustus est; ut, Callias iustus est, Callias iustus  non  est, Callias iniustus est; utra harum contraria est?  Nam s. a, quæ suntin voce, sequuntur ea, quæ sunt in  intellectu, illic autem contraria est opinio contrarii,  ut  quod, omnis homo iustus est, ei quæ est, omnis  homo iniustus est, et etiam in his, quæ,sunt in voce,  affirmationibus, necesse est similiter se se habere. Quod  si neque illic contrarii opinatio contraria est, nec affirmatio affirmationi contraria erit; sed ea quæ dicta est  negatio. Quare  considerandum est quæ opinio vera  opinioni falsæ contraria est, utrum negationis, an ea,  quæ contrarium esse opinatur. Dico autem hoc modo.  Est quædam opinatio vera boni, quod bonum est ;: alia  vero, quod non bonum, est falsa; alia vero, quod malum: utra harum contraria veræ? et si est una, secundum quamnam contraria est?  Nam arbitrari contrarias opiniones definiri, eo quod contrariorum sunt, falsum est: boni enim, quod bonum est,  et mali, quod malum est, eadem fortasse opinio est et  vera, sive plures,sive una sit. Sunt autem ista contraria. Sed non eo quod contrariorum sint contraria :sunt  sed magis eo quod contrarie.  Si ergo est boni quidem, quod est bonum, opinio, alia autem quod non est bonum: est vero aliquid aliud quod  non est, neque potest esse: aliarum quidem nulia ponenda est, neque quæcunque esse, quod non est, opinantur, neque quæcunque non esse quod est (infinitæ  enim utræque sunt, et quæ esse opinantur quod non est, et quæ non esse quod est).  2. Ad evidentiam tituli huius quæstionis, quia hactenus indiscusse ab aliis est relictus, considerare oportet  quod cum in enunciatione sint duo, scilicet ipsa enunciatio  seu significatio et modus enunciandi seu significandi, duplex inter enunciationes fieri potest oppositio, una ratione  ipsius enunciationis, altera ratione modi enunciandi. Si  modos enunciandi attendimus, duas species oppositionis  in latitudine enunciationum inveniemus, contrarietatem  scilicet et contradictionem. Divisæ enim superius sunt  enunciationes oppositæ in contrarias et contradictorias.  Contradictio inter enunciationes ratione modi enunciandi  est quando idem prædicatur de eodem subiecto contradictorio modo enunciandi; ut sicut unum contradictorium  nil ponit, sed alterum tantum destruit, ita una enunciatio  nil asserit, sed id tantum quod altera enunciabat destruit.  Huiusmodi autem sunt omnes quæ contradictoriæ vocantur, scilicet, omnis bomo est iustus, non omnis bomo est  iustus, Socrates est iustus, Socrates nom est iustus, ut de se  patet. Et ex hoc provenit quod non possunt simul veræ  aut falsæ esse, sicut nec duo contradictoria. Contrarietas  vero inter enunciationes ratione modi enunciandi est quando idem prædicatur de eodem subiecto contrario modo  enunciandi; ut sicut unum contrariorum ponit materiam  sibi et reliquo communem in extrema distantia sub illo  |  genere, ut patet de albo et nigro, ita una enunciatio ponit  *  Y  Cap. xiv.  CAP. XIV,  subiectum commune sibi et suæ oppositæ in extrema  distantia sub illo prædicato. Huiusmodi quoque sunt  omnes illæ quæ contrariæ in figura appellantur, scilicet, omnis bomo est iustus, omnis bomo non. est iustus. Hæ  enim faciunt subiectum, scilicet hominem, maxime distare  sub iustitia, dum illa enunciat iustitiam inesse homini,  non quocunque modo, sed universaliter; ista autem enunciat iustitiam abesse homini, non qualitercunque, sed universaliter. Maior enim distantia esse non potest quam ea,  quæ est inter totam universitatem habere aliquid et nullum de universitate habere illud. Et ex hoc provenit quod  non possunt esse simul veræ, sicut nec contraria possunt eidem simul inesse; et quod possunt esse simul  falsæ, sicut et contraria simul non inesse eidem possunt.  *  Ed. c: posita  sunt.  Si vero ipsam enunciationem sive eius significationem  attendamus secundum unam tantum oppositionis speciem,  in tota latitudine enunciationum reperiemus contrarietatem, scilicet secundum veritatem et falsitatem: quia duarum enunciationum significationes entia positiva * sunt,  ac  per hoc neque contradictorie neque privative opponi  possunt, quia utriusque oppositionis alterum extremum  est formaliter non ens. Et cum nec relative opponantur,  ut clarum est, restat ut nonnisi contrarie opponi possunt.  3. Consistit autem ista contrarietas in hoc quod duarum enunciationum altera alteram non compatitur vel in  veritate vel in falsitate, præsuppositis semper conditionibus contrariorum, scilicet quod fiant circa idem et in  eodem tempore. Patere quoque potest talem oppositionem esse contrarietatem ex natura conceptionum animæ  componentis et dividentis, quarum singulæ sunt enunciationes. Conceptiones siquidem animæ adæquatæ nullo  alio modo opponuntur conceptionibus inadæquatis nisi  contrarie, et ipsæ conceptiones inadæquatæ, si se mutuo  expellunt, contrariæ quoque dicuntur. Unde verum et  falsum, contrarie opponi probatur a s. Thoma in I parte,  qu. xvii *. Sicut ergo hic, ita et in enunciationibus ipsæ  significationes adæquatæ contrarie opponuntur inædequatis, idest veræ falsis; et ipsæ inadæquatæ, idest falsæ, contrarie quoque opponuntur inter se, si contingat  quod se non compatiantur, salvis semper contrariorum  conditionibus. Est igitur in enunciationibus duplex contrarietas, una ratione modi, altera ratione significationis,  et unica contradictio, scilicet ratione modi. Et, ut confusio vitetur, prima contrarietas vocetur contrarietas modalis, secunda contrarietas formalis. Contradictio autem  non ad confusionis vitationem quia unica est, sed ad proprietatis expressionem contradictio modalis vocari potest.  Invenitur autem contrarietas formalis enunciationum inter  omnes contradictorias, quia contradictoriarum altera alteram semper excludit; et inter omnes contrarias modaliter quoad veritatem, quia non possunt esse simul veræ,  licet non inveniatur inter omnes quoad falsitatem, quia  possunt esse simul falsæ.  4. Quia igitur Aristoteles in hac quæstione loquitur  de contrafietate enunciationum quæ se extendit ad contrarias modaliter, et contradictorias, ut patet in principio  et in fine quæstionis (in principio quidem, quia proponit  utrasque contradictorias dicens: Affirmatio negationi etc.;  et contrarias modaliter dicens: Ef oratio orationi etc., unde  et exempla utrarunque statim subdit, ut patet in littera.  In fine vero, quia ibi expresse quam conclusit esse contrariam affirmativæ universali veræ dividit, in contrariam  modaliter universalem negativam, scilicet, et contradictoriam: quæ divisio falsitate non careret, nisi conclusisset  contrariam formaliter, ut de se patet), quia, inquam, sic  accipit contrarietatem, ideo de contrarietate formali enunciationum quæstio intelligenda est. Et est quæstio valde  subtilis, necessaria et adhuc nullo modo superius tacta.  Opp. D. Tuowaz T. I.  LECT. XIII  121  Est igitur titulus. quæstionis; utrum affirmativæ veræ  contraria formaliter sit negativa falsa eiusdem prædicati, aut affirmativa falsa de prædicato privativo, vel  contrario? Et sic patet quis sit sensus tituli, et quare non  movet quæstionem de quacunque alia oppositione enunciationum (quia scilicet nulla alia in eis formaliter invenitur), et quod accipit contrarietatem proprie et strictissime, licet talis contrarietas inveniatur inter contradictorias modaliter et contrarias modaliter.    Dictum vero fuit a s. Thoma * provenire hanc dubitationem ex eo quod additur aliquid simplici enunciationi,  quia si tantum simplices, idest, de secundo adiacente  enunciationes attendantur, non habet hæc quæstio radicem. Quia autem simplici enunciationi, idest subiecto et  verbo substantivo, additur aliquid, scilicet práedicatum,  nascitur dubitatio circa oppositionem, an illud additum'  in contrariis debeat esse illudmet prædicatum, negatione  apposita verbo, an debeat esse prædicatum contrarium  seu  privativum, absque negatione præposita verbo.  5. Deinde cum dicit: Nam siea etc., declarat unde  sumenda sit decisio huius quæstionis. Et duo facit: quia  primo declarat quod hæc quæstio dependet ex una alia  quæstione, ex illa scilicet: utrum opinio, idest conceptio  animæ, in secunda operatione intellectus, vera, contraria  sit opinioni falsæ negativæ eiusdem prædicati, an falsæ  afürmativæ contrarii sive privativi. Et assignat causam,  quare illa quæstio dependet ex ista, quia scilicet enunciationes vocales sequuntur mentales, ut effectus adæquati causas proprias, et ut significata signa * adæquata,  et consequenter similis est in hoc utraque natura. Unde  inchoans ab hac causa ait: Nam si ea quæ sunt in voce  sequuntur ed, quæ sunt in anima, ut dictum est in principio I libri, et illic, idest in anima, opinio contrarii  prædicati circa idem subiectum est contraria illi alteri,  quæ affirmat reliquum contrarium de eodem (cuiusmodi  sunt istæ mentales enunciationes, omnis bomo est iustus,  omnis bomo est iniustus); si ita inquam est, etiam et in his  affrmationibus quæ sunt in voce, idest vocaliter sumptis, necesse est similiter se habere, ut scilicet sint contrariæ duæ affirmativæ de eodem subiecto et prædicatis  contrariis. Quod si neque illic, idest in anima, opinatio  contrarii prædicati, contrarietatem inter mentales enunciationes constituit, nec affirmatio vocalis affirmationi vocali contraria erit de contrario prædicato, sed magis affirmationi contraria erit negatio eiusdem prædicati.  6. Dependet ergo mota quæstio ex ista alia sicut effectus ex causa. Propterea et concludendo addit secundum,  quod scilicet de hac quæstione prius tractandum est, ut  ex  causa cognita effectus innotescat dicens: Quare considerandum est, opinio vera cui opinioni falsæ contraria est: utrum  negationi falsæ am certe ei affirmationi falsæ, quæ contrarium esse opinatur. Et ut exemplariter proponatur, dico  hoc modo: Sunt tres opiniones de bono, puta vita: quædam enim est ipsius boni opinio vera, quoniam bonum  est, puta, quod vita sit bona; alia vero falsa negativa,  scilicet, quoniam bonum non est, puta, quod vita non sit  bona; alia item falsa affirmativa contrarii, scilicet, quoniam  malum est, puta, quod vita sit mala. Quæritur ergo quæ  harum falsarum contraria est veræ?  7. Quod autem subdidit: Et si est una, secundum quam  contraria est, tripliciter legi potest. Primo, dubitative, ut  Sit pars quæstionis; et tunc est sensus: quæritur quæ  harum falsarum contraria est veræ: et simul quæritur,  si est tantum una harum falsarum secundum quam fiat  contraria ipsi veræ: quia cum unum uni sit contrarium,  ut  dicitur in X Metaphysicæ, quærendo quæ harum sit  contraria, quæremus etiam an una earum sit contraria. Alio modo, potest legi adversative, ut sit sensus: quæ16 *  *  Supra lect. 1,  n. I.  *  Ed. c: singula.  122 II  ritur quæ harum sit contraria; quamquam sciamus quod  non utraque sed una earum est secundum quam fit contrarietas. - Tertio modo, potest legi dividendo hanc particulam, Et si est una, ab illa sequenti, secundum quam  contraria est; et tunc prima pars expressive, secunda vero  Boethius.  dubitative legitur; et est sensus: quæritur quæ harum  falsarum contraria est veræ, non solum si istæ duæ  falsæ inter se differunt in consequendo, sed etiam si  utraque est una, idest alteri indivisibiliter unita, quæritur  secundum quam fit contrarietas. Et hoc modo exponit  Boethius, dicens quod Aristoteles apposuit hæc verba  propter contraria immediata, in quibus non differt contrarium a privativo. Inter contraria enim mediata et immediata hæc est differentia, quod immediatis a prwativo  contrarium non infertur. Non enim valet, corpus colorabile  est non album, ergo est nigrum: potest enim esse rubrum.  In immediatis autem valet; verbi gratia: amimal est mon  sanum, ergo infirmum ; numerus est non par, ergo impar.  Voluit ergo Aristoteles exprimere quod nunc, cum quærimus quæ harum falsarum, scilicet negativæ et affirmativæ contrarii, sit contraria affirmativæ veræ, quærimus  universaliter sive illæ duæ falsæ indivisibiliter se sequantur, sive non.  8. Deinde cum dicit: Nam arbitrari, prosequitur hanc  secundam quæstionem. Et circa hoc quatuor facit. Primo,  declarat quod contrarietas opinionum non attenditur penes  contrarietatem materiæ, circa quam versantur, sed potius  penes oppositionem veri vel falsi; secundo, declarat quod  non penes quæcunque opposita secundum veritatem et  falsitatem est contrarietas opinionum; ibi: Si ergo boni etc.;  tertio, determinat quod contrarietas opinionum attenditur  penes per se primo opposita secundum veritatem et falsitatem tribus rationibus; ibi: Sed im quibus primo falla-  cia etc.; quarto, declarat hanc determinationem inveniri  in omnibus veram; ibi: Manifestum. est igitur etc.  Dicit ergo proponens intentam conclusionem, quod  falsum est arbitrari opiniones definiri seu determinari de-  bere contrarias ex eo quod contrariorum obiectorum sunt.  Et adducit ad hoc duplicem tationem. Prima est: opiniones contrariæ non sunt eadem opinio; sed contrariorum eadem est fortasse opinio; ergo opiniones non sunt  contrariæ ex hoc quod contrariorum sunt. - Secunda est:  opiniones contrariæ non sunt simul veræ; sed opiniones  contrariorum, sive plures, sive una, sunt simul veræ  quandoque; ergo opiniones non sunt contrariæ ex hoc  quod contrariorum sunt.- Harum rationum, suppositis  maioribus, ponit utriusque minoris declarationem simul,  dicens: Boni enim, quoniam bonum est, et mali, quoniam  malum est, eadem forlasse opinio est, quoad primam. Et  subdit esse vera, sive plures sive una sit, quoad secundam.  Utitur autem dubitativo adverbio et disiunctione,  quia non est determinandi locus an contrariorum eadem  sit opinio, et quia aliquo modo est eadem et aliquo modo  non. Si enim loquamur de habituali opinione, sic eadem  est; Si autem de actuali, sic non eadem est. Alia siquidem mentalis compositio actualiter fit, concipiendo bonum esse bonum, et alia concipiendo malum esse malum,  licet eodem habitu utrunque cognoscamus, illud per se  primo, et hoc secundario, ut dicitur IX Metaphysicæ. Deinde subdit quod ista quæ ad declarationem minorum sumpta sunt, scilicet bonum et malum, contraria  sunt  ac  etiam  contrarietate sumpta stricte in moralibus,  per hoc congrua usi sumus declaratione. Ultimo inducit conclusionem. Sed non in eo quod contrariorum  opiniones sunt, contrariæ sunt, sed magis in eo quod  contrariæ, idest, sed potius censendæ sunt opiniones  contrariæ ex eo quod contrarie adverbialiter, scilicet contrario modo, idest vere et false enunciant. Et sic patet  primum.  9. Si ergo boni etc. Quia dixerat quod contrarietas opinionum accipitur secundum oppositionem veritatis et falsitatis earum, declarat modo quod non quæcunque secundum veritatem et falsitatem oppositæ opiniones sunt  contrariæ, tali ratione. De bono, puta, de iustitia, quatuor  possunt opiniones haberi, scilicet quod iustitia est bona,  et quod non est bona, et quod est fugibilis, et quod est  non appetibilis. Quarum prima est vera, reliquæ sunt  falsæ. Inter quas hæc est diversitas quod, prima negat  idem prædicatum quod vera affirmabat ; [secunda affirmat  aliquid aliud quod bono non inest; tertia negat id quod  bono inest, non tamen illud quod vera affirmabat. Tunc  sic.  Si omnes opiniones secundum veritatem et falsitatem sunt contrariæ, tunc uni, scilicet veræ opinioni non  solum multa sunt contraria, sed etiam infinita: quod est  impossibile, quia unum uni est contrarium. Tenet consequentia, quia possunt infinitæ imaginari opiniones falsæ  de una re, similes ultimis falsis opinionibus adductis,  affirmantes, scilicet ea quæ non insunt illi, et negantes  ea  quæ illi quocunque modo coniuncta sunt: utraque  namque indeterminata esse et absque numero constat.  Possumus* enim opinari quod iustitia est quantitas, quod  est relatio, quod est hoc et illud; et similiter opinari quod  iustitia non sit qualitas, non sit appetibilis, non sit habitus.  Unde ex supradictis in propositione quæstionis,  inferens pluralitatem falsarum contra unam veram, ait:  Si ergo est opinatio vera boni, puta iustitiæ, quoniam est  bonum; et si est etiam falsa opinatio negans idem, scilicet, quoniam mon est quid bonum; est vero et tertia opinatio falsa quoque, affirmans aliquid aliud inesse illi, quod  non inest nec inesse potest, puta, quod iustitia sit fugibilis, quod sit illicita; et hinc intelligitur quarta falsa  quoque, quæ scilicet negat aliquid aliud ab eo quod vera  opinio affirmat inesse iustitiæ, quod tamen inest, ut puta  quod non sit qualitas, quod non sit virtus; si ita inquam  est, nulla aliarum falsarum ponenda est contraria opinioni  veræ. Et exponens quid demonstret per ly aliarum, subdit: Neque quæcumque opinio opinatur esse quod mom est,  ut tertii ordinis opiniones faciunt: meque quæcumque opiEt  nio opinatur non. esse quod est, ut quarti ordinis opiniones  significant.  causam subdit: Infimitæ enim utræque  sunt, el quæ esse opinantur quod mom est, el quæ mon esse  quod est, ut supra declaratum fuit. Non ergo quæcunque opiniones oppositæ secundum veritatem et falsitatem contrariæ sunt. Et sic patet secundum.  d. c et :  po  ssum  LECTIO  (Cann. CarkrANI lect. xi1)  ILLA VERI FALSIQUE OPPOSITIO, QUÆ OPINIONUM CONTRARIETATEM CONSTITUIT,  EST OPPOSITIO SECUNDUM AFFIRMATIONEM ET NEGATIONEM EIUSDEM DE EODEM.  ἀλλ᾽ ἐν ὅσαις ἐστὶν ἀπάτη. Αὐται δέ εἰσιν ἐξ ὧν αἱ αἱ  t,  γενέσεις" ἐκ τῶν ἀντικειμένων δὲ αἱ γενέσεις, ὥστε  χαὶ,  ^,  *  E  ἀπάται.  Ei οὖν τὸ ἀγαθὸν xal ἀγαθὸν xal οὐ χαχόν ἐστι; xad  τὸ μὲν καθ᾽ ἑαυτό, τὸ δὲ χατὰ συμβεβηκός (συμβέβηκε γὰρ αὐτῷ οὐ καχῷ εἶναι), μᾶλλον δὲ ἑκάστου,   Sed in quibuscunque fallacia est. Hæ autem sunt ex his * Seq.c.xiv.  ex quibus sunt generationes: ex oppositis vero generationes sunt: quare etiam fallacia.  Si ergo quod bonum est, et bonum, et non malum est;  et  ἀληθὴς καθ᾽ ἑαυτό, καὶ ψευδής, εἴπερ καὶ ἀληθής.  μὲν οὖν ὅτι οὐχ ἀγαθὸν τὸ ἀγαθὸν τοῦ καθ᾽ ἑαυτὸ  ὑπάρχοντος, ψευδής, δὲ τοῦ ὅτι χακὸν τοῦ κατὰ  συμβεβηκός. “Ὥστε μᾶλλον ἂν εἴη ψευδής τοῦ ἀγαθοῦ  τῆς ἀποφάσεως, τοῦ ἐναντίου δόξα. Διέψευσται δὲ μάλιστα περὶ ἕκαστον τὴν ἐναντίαν ἔχων.  δόξαν: τὰ γὰρ ἐναντία τῶν πλεῖστον διαφερόντων  περὶ τὸ αὐτό. Εἰ οὖν ἐναντία μὲν τούτων ἑτέρα;  ἐναντιωτέρα δὲ τῆς ἀποφάσεως, δῆλον ὅτι αὑτὴ  ἂν εἴη ἐναντία. δὲ τοῦ ὅτι κακὸν τὸ ἀγαθὸν συμ.πεπλεγμένη ἐστί: xol γὰρ ὅτι οὐχ ἀγαθὸν ἀνάγχη  ἴσως ὑπολαμβάνειν τὸν αὐτόν.  hoc quidem secundum se, illud vero secundum accidens (accidit enim ei non malum esse); magis autem  in unoquoque vera est, quæ secundum se est etiam falsa,  est  falsa  siquidem et vera. Ergo ea quæ est, quoniam non  bonum quod bonum est, eius, quæ secundum se  est;  eius,  quæ  illa  vero  quæ  est,  quoniam malum est,  est secundum accidens. Quare magis erit  falsa de bono ea, quæ est negationis opinio, quam  ea, quæ est contrarii. Falsus autem est maxime circa  singula, qui habet contrariam opinionem: contraria enim  sunt eorum, quæ plurimum circa idem differunt. Si  igitur harum contraria est altera, magis vero negationis  est  contraria; manifestum est quoniam hæc erit  contraria. Illa vero quæ est, quoniam malum est, quod  bonum est, implicita est. Etenim quoniam non bonum  Ἔτι δέ, εἰ καὶ ἐπὶ τῶν ἄλλων ὁμοίως δεῖ ἔχειν, καὶ  ταύτῃ ἂν δόξειε καλῶς concava γὰρ πανταχοῦ  τὸ τῆς ἀποφάσεως οὐδαμοῦ. Ὅσοις δὲ μή ἐστιν  ἐναντία, περὶ τούτων ἔστι μὲν ψευδὴς τῇ ἀληθεῖ  ἀντικειμένη, οἷον τὸν ἄνθρωπον οὐχ ἄνθρωπον οἰόμενος ον  Ei  οὖν  ἄλλαι αἱ τῆς ἀποφάσεως.  αὗται ἐναντίαι. xal αἱ  :  Ἔτι ὁμοίως ἔχει τοῦ ἀγαθοῦ ὅτι ἀγαθὸν καὶ τοῦ  ^,  μὴ ἀγαθοῦ ὅτι οὐχ ἀγαθόν, xad πρὸς ταύταις τοῦ  ἀγαθοῦ ὅτι οὐκ ἀγαθόν, καὶ τοῦ μὴ ἀγαθοῦ ὅτι  ἀγαθόν. Τῇ οὖν τοῦ μηὴ ἀγαθοῦ ὅτι οὐχ αθὸν  ἀληθεῖ οὔσῃ δόξῃ τίς ἂν εἴη ἐναντία ; οὐ γὰρ δ᾽ὴ   λέγουσα ὅτι Xa dv ἅμα γὰρ ἄν ποτε εἴη ἀληθής,  s? hail δὲ ἀληθὴς ἀληθεῖ ἐναντία. Ἔστι γάρ τι  μὴ ἀγαθὸν χακόν, ὥστε ἐνδέχεται ἅμα ἀληθεῖς εἶναι.  Οὐδ᾽ αὖ ὅτι οὐ κακόν: ἀληθὴς γὰρ καὶ αὕτη" ἅμα  γὰρ καὶ ταῦτα ἂν εἴη. Λείπεται οὖν τῇ τοῦ μὴ  ἀγαθοῦ ὅτι οὐχ ἀγαθὸν ἐναντία τοῦ μὴ ἀγαθοῦ  ὅτι ἀγαθόν" ψευδὴς γὰρ αὕτη. Ὥστε χαὶ τοῦ ἀγαθοῦ ὅτι οὐκ ἀγαθὸν τῇ τοῦ ἀγαθοῦ ὅτι ἀγαθόν.  V  Φανερὸν δὲ ὅτι οὐδὲν διοίσει οὐδ᾽ ἂν καθόλου τιθῶμεν  τὴν κατάφασιν: γὰρ καθόλου ἀπόφασις ἐναντία  ἔσται, οἷον τῇ δόξῃ τῇ Sobakoóon, ὅτι πᾶν ἂν dj  ἀγαθὸν ἀγαθόν ἐστιν, ὅτι οὐδὲν τῶν ἀγαθῶν ἀγα0óv: γὰρ τοῦ ἀγαθοῦ ὅτι αθόν, εἰ χαθόλου τὸ  ἀγαθόν, αὐτή ἐστι τῇ ὅτι ἂν ἀγαθὸν δοξαζούσῃ  ὅτι ἀγαθόν" τοῦτο δὲ οὐδὲν διαφέρει τοῦ ὅτι πᾶν   ἂν fj ἀγαθὸν ἀγαθόν ἐστι. 'Ομοίως $: xal ἐπὶ τοῦ μὴ  ἀγαθοῦ.  Ὥστε εἴπερ ἐπὶ δόξης οὕτως ἔχει; εἰσὶ δὲ αἱ ἐν τῇ φωνῇ  καταφάσεις καὶ ἀποφάσεις σύμβολα τῶν ἐν τῇ ψυχῇ,  δῇλον ὅτι χαὶ καταφάσει ἐναντία μὲν ἀπόφασις   περὶ τοῦ αὐτοῦ χαθόλου, οἷον, τῇ ὅτι πᾶν ἀγαθὸν  ἀγαθόν, ὅτι πᾶς ἄνθρωπος ἀγαθός, ὅτι οὐθὲν  οὐδείς, ἀντιφατικῶς $n οὐ πᾶν οὐ πᾶς.  est, necesse est forte idem ipsum opinari.  Amplius si etiam in aliis similiter oportet se habere, et  hoc modo videbitur bene esse dictum. Aut enim ubique  ea, quæ est contradictionis, aut nusquam. Quibus vero  non est contrarium, de his quidem est falsa ea, quæ  est veræ opposita; ut qui hominem non putat esse hominem, falsus est. Si ergo hæ contrariæ sunt, etiam aliæ  quæ sunt contradictiones.  Amplius similiter se habet opinio boni, quoniam bonum  est, et non boni, quoniam non bonum est. Et præter  has boni, quoniam non bonum est, et non boni quoniam bonum est. Illi ergo quæ est, non boni quoniam  non bonum est; veræ opinationi quænam est contraria? non enim ea, quæ dicit quoniam malum est: simul enim aliquando veræ erunt. Nunquam autem vera  veræ  est  contraria: est enim quidquam non bonum  malum. Quare contingit simul esse veras. At vero nec  illa, quæ est, quod non malum: vera enim et, hæc: simul enim et hæc erunt. Relinquitur ergo, ei, quæ est  non-bonum, quoniam non bonum est, contraria ea,  quæ est, non boni, quoniam bonum est. Falsa enim  hæc. Quare et ea, quæ est boni, quoniam non bonum  est, ei, quæ est boni, quoniam est bonum.  Manifestum est autem quoniam nihil interest nec si universaliter ponamus affirmationem. Universalis enim negatio contraria erit; ut opinioni, quæ opinatur, quoniam omne .quod est bonum, bonum est, ea quæ est,  quoniam nihil horum quæ bona sunt, bonum est. Nam  ea  quæ est boni quoniam bonum est, si universaliter  sit bonum, eadem est ei quæ opinatur, quod quidquid  bonum est, quoniam bonum est. Hoc autem nihil differt ab eo quod est, quod omne quod est bonum, bonum est. Similiter autem et in non bono.  Quare si in opinione sic se habet; sunt autem hæ quæ  sunt in voce affirmationes et negationes notæ eorum  quæ sunt in anima; manifestum est quoniam affirmationi contraria quidem negatio est, quæ de eodem universaliter; ut ei, quæ est, quoniam omne bonum bonum est, vel quoniam omnis homo bonus, ea quæ est,  quoniam nullum vel nullus: contradictorie autem quæ  est, quod non omne aut non omnis.  124 II  Φανερὸν δὲ ὅτι καὶ ἀληθῇ ἀληθεῖ οὐχ ἐνδέχεται ἐναντίαν εἶναι οὔτε δόξαν οὔτε ἀπόφασιν. ᾿Εναντίαι μὲν  γὰρ αἱ περὶ τὰ ἀντικειμενα περὶ ταῦτα δὲ ἐνδέχεται  τὸν  ἀληθεύειν  αὐτόν:  x s οὐχ ἐνδέχεται τὰ  ἐναντία ὑπαάρχειντῷ αὐτῷ.  uia subtili indagatione ostendit quod nec materiæ contrarietas, nec veri falsique qualisτῷ  hcunque oppositio contrarietatem opinionum  ZA constituit, sed quod aliqua veri falsique oppo77  sitio id facit, ideo nunc determinare intendit  qualis sit illa veri falsique oppositio, quæ opinionum contrarietatem constituit. Ex hoc enim directe quæstioni satisfit. Et intendit quod sola oppositio opinionum secundum  affirmationem et negationem eiusdem de eodem etc. constituit contrarietatem earum. Unde intendit probare istam  conclusionem per quam ad quæsitum respondet: Opiniones oppositæ secundum affirmationem et negationem  eiusdem de eodem sunt contrariæ; et consequenter illæ,  quæ sunt oppositæ secundum aflirmationem contrariorum prædicatorum de eodem, non sunt contrariæ, quia  Manifestum est autem, quoniam et veram veræ non contingit esse contrariam, nec opinionem nec contradictionem. Contrariæ enim, quæ circa opposita sunt; circa  eadem autem contingit verum dicere eumdem; simul  autem non contingit eidem inesse contraria.  et  illi inter quos est primo fallacia, quia utrobique termini sunt affirmatio et negatio.    4. Deinde cum dicit: Si ergo quod bonum est etc., intendit probare maiorem principalis rationis. Et quia iam  declaravit quod ea, in quibus primo est fallacia, sunt  affirmatio et negatio, ideo utitur, loco maioris probandæ,  scilicet,  opiniones in quibus primo est fallacia, sunt  contrariæ, sua conclusione, scilicet, opiniones. oppositæ  secundum affirmationem et negationem eiusdem sunt  contrariæ.  Æquivalere enim iam declaratum est. Fecit  autem hoc consuetæ brevitati studens, quoniam sic procedendo, et probat maiorem, et respondet directe quæstioni, et applicat ad propositum simul. Probat ergo loco  maioris conclusionem principaliter intentam quæstionis,  hanc, scilicet: Opiniones oppositæ secundum affirmasic affirmativa vera haberet duas contrarias, quod est  impossibile. Unum enim uni est contrarium.  2.  Probat autem istam conclusionem tribus rationibus. -Prima est: opiniones in quibus primo est fallacia  sunt contrariæ; opiniones oppositæ secundum affirmationem et negationem eiusdem de eodem sunt in quibus  primo est fallacia; ergo opiniones oppositæ secundum  affirmationem et negationem eiusdem de eodem sunt contrariæ. - Sensus maioris est: opiniones quæ primo ordine  naturæ sunt termini fallaciæ, idest deceptionis seu erroris, sunt contrariæ: sunt enim, cum quis fallitur seu errat,  duo termini, scilicet a quo declinat, et ad quem labitur. Huius rationis in littera primo ponitur maior, cum dicitur: Sed in. quibus primo fallacia est ; adversative enim continuans sermonem supra dictis, insinuavit non tot enumeratas opiniones esse contrarias, sed eas in quibus primo  fallacia  est  modo exposito. Deinde subdit probationem  minoris talem: eadem proportionaliter sunt, ex quibus  sunt generationes et ex quibus sunt fallaciæ; sed generationes sunt ex oppositis secundum affirmationem et negationem; ergo et fallaciæ sunt ex oppositis secundum affirmationem et negationem. Quod erat assumptum in minore. Unde ponens maiorem huius prosyllogismi, ait: Hæc  autem, scilicet fallacia, est ex bis, scilicet terminis, proportionaliter tamen, ex quibus sunt et generationes. Et subsumit  minorem: Ex oppositis vero, scilicet secundum affirmationem et negationem, et generationes fiunt. Et demum concludit: Quare etiam fallacia, scilicet, est ex oppositis secundum affirmationem et negationem eiusdem de eodem.  3. Ad evidentiam huius probationis scito quod idem  faciunt in processu intellectus cognitio et fallacia seu  error, quod in processu naturæ generatio et corruptio.  Sicut namque perfectiones naturales generationibus acquiruntur, corruptionibus desinunt; ita cognitione perfectiones intellectuales acquiruntur, erroribus autem seu deceptionibus amittuntur. Et ideo, sicut tam generatio quam  corruptio est inter affirmationem et negationem, ut proprios terminos, ut dicitur V Pbysic.; ita tam cognoscere  aliquid, quam falli circa illud, est inter affirmationem et negationem, ut proprios terminos: ita quod  id ad quod primo attingit cognoscens aliquid in secunda  operatione intellectus est veritatis affirmatio, et quod per  se  primo abiicitur est illius negatio. Et similiter quod  per se primo perdit qui fallitur est veritatis affirmatio, et  quod primo incurrit est veritatis negatio. Recte ergo dixit  quod iidem sunt termini inter quos primo est generatio,  tionem  et  negationem eiusdem sunt contrariæ; et non  illæ, quæ sunt oppositæ secundum contrariorum affrmationem de eodem. Et intendit talem rationem. Opinio vera et eius magis falsa sunt contrariæ opiniones;  'oppositæ secundum affirmationem et negationem sunt  vera  et  eius  magis falsa; ergo opiniones oppositæ secundum affirmationem et negationem sunt contrariæ.  Maior probatur ex eo quod, quæ plurimum distant circa  idem sunt contraria; vera autem et eius magis falsa  plurimum distant circa idem, ut patet. Minor vero probaturex eo quod opposita secundum negationem eiusdem  de  eodem est per se falsa respectu suæ affirmationis  veræ. Opinio autem per se falsa magis falsa est quacunque alia. Unumquodque enim quod est per se tale,  magis tale est quolibet quod est per aliud tale.  5. Unde ad suprapositas opiniones in propositione  quæstionis rediens, ut ex illis exemplariter clarius intentum ostendat, a probatione minoris inchoat tali modo.  Sint quatuor opiniones, duæ veraé, scilicet, bonum est  bonum, bonum non est malum, et duæ falsæ, scilicet,  bonum non est bonum, et, bonum est malum. Clarum est  autem quod prima vera est ratione sui, secunda autem est  vera secundum accidens, idest, ratione alterius, quia scilicet non esse malum est coniunctum ipsi bono: ideo enim  ista est vera, bonum non est malum, quia bonum est  bonum, et non e contra; ergo prima quæ est secundum  se  vera, ést magis vera quam sécunda: quia in unoquoque genere quæ secundum se est vera est magis  vera.  sunt,  Illæ  autem duæ falsæ eodem modo censendæ  quod scilicet magis falsa est, quæ secundum se  est falsa. Unde quia prima earum, scilicet, bonum non est  bonum, quæ est negativa, est per se et non ratione alterius falsa, relata ad illam affirmativam, bonum est bonum; et secunda, scilicet, bonum est malum, quæ est  affirmativa contrarii, ad eamdem relata est falsa per accidens, idest ratione alterius (ista enim, scilicet, bonum  est malum, non immediate falsificatur ab illa vera, scilicet  bonum est bonum, sed mediante illa alia falsa, scilicet,  bonum non est bonum); idcirco magis falsa respectu affirmationis veræ est negatio eiusdem quam affirmatio contrarii. Quod erat assumptum in minore.  6. Unde rediens ad supra positas (ut dictum est) opiniones, infert primas duas veras opiniones dicens: Si ergo  quod bonum. est et bonum est et. mon. est malum; et hoc quidem, scilicet quod dicit prima opinio, est verum secundum se, idest ratione sui; illud vero, scilicet quod dicit  CAP. XIV,  ecunda opinio, est verum secundum accidens, quia acci:  it, idest, coniunctum est ei, scilicet bono, malum non  esse. In unoquoque autem ordine magis vera est illa quæ  secundum se est vera. Etiam igitur falsa magis est quæ  secundum se falsa est: siquidem et vera huius est naturæ, ut declaratum est, quod scilicet magis vera est, quæ  secundum se est vera. Ergo illarum duarum opinionum  falsarum in quæstione propositarum, scilicet, bonum non  est bonum, et, bonum est malum, ea quæ est dicens,  quoniam non est bonum quod bonum est, idest negativa,  scilicet, bonum non est bonum, est consistens falsa secundum se, idest, ratione sui continet in seipsa falsitatem;  illa vero reliqua falsa opinio, quæ est dicens, quoniam  malum est, idest, affirmativa contraria, scilicet, bonum  est malum, eius, quæ est, idest, illius affirmationis dijd.  * Ed.  e et  CTS  "ENT  AQUINO.  TRENT  ἀπ᾿    :  j  centis, bonum est bonum, secundum accidens, idest, ratione alterius falsa est.  Deinde subdit ipsam minorem: Quare erit magis falsa  de bono, opinio negationis, quam contrarii. Deinde ponit maiorem dicens quod, semper magis falsus circa singula est ille  qui babet contrariam opinionem, ac si dixisset, veræ opinioni  magis falsa-est contraria. Quod assumptum erat in maiore.  Et eius probationem subdit, quia contrarium est de num?ro  eorum. quæ. circa idem. plurimum differunt. Nihil enim plus  differt a vera opinione quam magis falsa circa illam *.  7. Ultimo directe applicat ad quæstionem dicens:  Quod si (pro, quia) barum falsarum, scilicet, negationi  eiusdem et affirmationis contrarii, altera est contraria veræ affirmationi, opinio vero contradictionis, idest, negationis eiuslem de eodem, magis est contraria secundum  falsitatem, idest, magis est falsa, manifestum est quoniam  hæc, scilicet opinio falsa negationis, erit contraria affirmationi veræ, et e contra. Illa vero opinio quæ est dicens, quoniam malum est quod bonum est, idest, affirmatio contrarii, non contraria sed implicita est, idest, sed  implicans in se veræ contrariam, scilicet, bonum non est  bonum. Etenim necesse est ipsum opinantem affirmationem contrarii opinari, quoniam idem de quo affirmat  contrarium non est bonum. Oportet siquidem si quis  opinatur quod vita est mala, quod opinetur quod vita  non sit bona. Hoc enim necessario sequitur ad illud, et  non e converso; et ideo affirmatio contrarii implicita dicitur. Negatio autem eiusdem de eodem implicita non  est.- Et sic finitur prima ratio.  .  8. Notandum est hic primo quod ista regula generalis  tradita hic ab Aristotele de contrarietate opinionum, quod  Scilicet contrariæ opiniones sunt quæ opponuntur secundum affirmationem et negationem eiusdem de eodem,  et in se et in assumptis ad eius probationem propositionibus scrupulosa est. Unde multa hic insurgunt dubia.Primum est quia cum oppositio secundum affirmationem  et negationem non constituat contrarietatem sed contradictionem apud omnes philosophos, quomodo Aristoteles  opiniones oppositas secundum affirmationem et negationem ex hoc contrarias ponat. Augetur et dubitatio quia  dixit quod ea in quibus primo est fallacia sunt contraria,  et  tamen subdit quod sunt oppositæ sicut termini generationis, quos constat contradictorie opponi. Nec dubitatione caret quomodo sit verum id quod supra diximus  ex  intentione s. Thomæ, quod nullæ duæ opiniones  opponantur contradictorie; cum hic expresse dicitur aliquas opponi secundum affirmatiónem et negationem.  Dubium secundo insurgit circa id quod assumpsit,  quod contraria cuiusque veræ est per se falsa. Hoc enim  non videtur verum. Nam contraria istius veræ, Socrates est  albus, est ista, Socrates non. est albus, secundum   determinata; et tamen non est per se falsa. Sicut namque sua  opposita affirmatio est per accidens vera, ita ista est  LECT.  per accidens falsa. Accidit enim isti enunciationi falsitas.  Potest enim mutari in veram, quia est in materia  contingenti.  Dubium est tertio circa id quod dixit: Magis vero contradictionis est contraria. Ex hoc enim videtur velle quod  utraque, scilicet, opinio negationis et contrarii, sit contraria veræ affirmationi; et consequenter vel uni duo ponit  contraria, vel non loquitur de contrarietate proprie  sumpta: cuius oppositum supra ostendimus.  9. Ad evidentiam omnium, quæ primo loco adducuntur, sciendum quod opiniones seu conceptiones intellectuales, in secunda operatione de quibus loquimur, possunt tripliciter accipi: uno modo, secundum id quod sunt  absolute; alio modo, secundum ea quæ repræsentant  absolute; tertio, secundum ea quæ repræsentant, ut sunt  in ipsis opinionibus. Primo membro omisso, quia non  est  præsentis speculationis, scito quod si accipiantur secundo modo secundum repræsentata, sic invenitur inter  eas et contradictionis, et privationis, et contrarietatis oppositio. Ista siquidem mentalis enunciatio, Socrates est  videns, secundum id quod repræsentat opponitur illi, Socrates non est videns, contradictorie; privative autem illi,  Socrales est cæcus; contrarie autem illi, Socrates est luscus ;  si accipiantur secundum repræsentata. Ut enim dicitur  ἴῃ  Postprædicamentis, non solum cæcitas est privatio  visus, sed etiam cæcum esse est privatio huius quod est  esse videntem, et sic de aliis. - Si vero accipiantur opiniones tertio modo, scilicet, prout repræsentata per eas  sunt in ipsis, sic nulla oppositio inter eas invenitur nisi  contrarietas: quoniam sive opposita contradictorie sive  privative sive contrarie repræsententur, ut sunt in opinionibus, illius tantum oppositionis capaces sunt, quæ  inter duo entia realia inveniri potest. Opiniones namque  realia entia sunt. Regulare enim est quod quidquid convenit alicui secundum esse quod habet in alio, secundum  modum et naturam illius in quo est sibi convenit, et non  secundum quod exigeret natura propria.Inter entia autem  realia contrarietas sola formaliter reperitur. Taceo nunc de  oppositione relativa. Opiniones ergo hoc modo sumptæ,  si oppositæ sunt, contrarietatem sapiunt, sed non omnes  proprie contrariæ sunt, sed illæ quæ plurimum differunt  circa idem veritate et falsitate. Has autem probavit Aristoteles esse opiniones affirmationis et negationis eiusdem  de eodem. Istæ igitur veræ contrariæ sunt. Reliquæ vero  per reductionem ad has contrariæ dicuntur.  IO. Ex his patet quid ad obiecta dicendum sit. Fatemur enim quod affirmatio et negatio in seipsis contradictionem constituunt; in opinionibus vero existentes contrarietatem inter illas causant propter extremam distantiam, quam ponunt inter entia realia, opinionem scilicet  veram et opinionem falsam circa idem. Stantque ista duo  simul quod ea, in quibus primo est fallacia, sint opposita  ut  termini generationis, et tamen sint contraria utendo  supradicta distinctione: sunt enim opposita contradictorie  ut termini generationis secundum repræsentata ; sunt autem contraria, secundum quod habent in seipsis illa contradictoria.  Unde plurimum differunt. - Liquet quoque  ex hoc quod nulla est dissentio inter dicta Aristotelis et  s. Thomae, quia opiniones aliquas opponi secundum affirmationem et negationem verum esse confitemur, si ad  repraesentata nos convertimus, ut hic dicitur.  1I.  Tu autem qui perspicacioris ac provectioris ingenii es compos, hinc habeto quod inter ipsas opiniones  oppositas quidam tantum motus est, eo quod de affrmato in affirmatum mutatio fit: inter ipsas vero secundum  repraesentata, similitudo quaedam generationis et corruptionis invenitur, dum inter affirmationem et negationem  mutatio clauditur. Unde et fallacia sive error quandoque  S. Thomas.  RI ERIS  126  et motus et mutationis rationem habet diversa respiciendo,  quando scilicet ex vera in per se falsam, vel e converso, II  Secundum autem dictum simpliciter verum est, quoniam  quis mutat opinionem ; quandoque autem solam mutationem imitatur, quando scilicet absque praeopinata veritate ipsam falsam offendit quis opinionem; quandoque  vero motus undique rationem possidet, quando scilicet ex  vera affirmatione in falsam circa idem contrarii affirmationem transit. Quia tamen prima ut quis fallatur radix est  oppositio affirmationis et negationis, merito ea in quibus  primo est fallacia, sicut generationis terminos opponi dixit.  12. Ad dubium secundo loco adductum dico quod  peccatur ibi secundum aequivocationem illius termini per  se falsa, seu per se vera. Opinio enim et similiter enunciatio potest dici dupliciter per se vera seu falsa. Uno modo,  in seipsa, sicut sunt omnes verae secundum illos modos  perseitatis qui enumerantur I Posteriorum, et similiter  falsae secundum illosmet modos, ut, bomo non est animal.  Et hoc modo non accipitur in hac regula de contrarietate  opinionum et enunciationum opinio per se vera aut  falsa, ut efficaciter obiectio adducta concludit. Si enim ad  contrarietatem opinionum hoc exigeretur non possent esse  opiniones contrariae in materia contingenti: quod est  falsissimum. Alio modo potest dici opinio sive enunciatio  per se vera aut falsa respectu suae oppositae. Per se vera  quidem respectu suae falsae, et per se falsa respectu suae  verae. Et tunc nihil aliud est dicere, est per se vera respectu illius, nisi quod ratione sui et non alterius verificatur  ex falsitate illius. Et similiter cum dicitur, est per se falsa  respectu illius, intenditur quod ratione sui et non alterius  falsificatur  ex  illius  veritate. Verbi gratia; istius verae,  Socrates currit, non est per se falsa, Socrates sedet, quia  falsitas eius non immediate sequitur ex illa, sed mediante  ista  alia falsa, Socrates non currit, quae est per se illius  falsa, quia ratione sui et non per aliquod medium ex illius  veritate falsificatur, ut patet. Et similiter istius falsae, Socrates est. quadrupes, non est per se vera ista, Socrates  est  bipes, quia non per seipsam veritas istius illam falsificat, sed mediante ista, Socrales mon est quadrupes,  quae est per se vera respectu illius: propter seipsam enim  falsitate istius verificatur, ut de se patet. Et hoc secundo  modo utimur istis terminis tradentes regulam de contrarietate opinionum et enunciationum. Invenitur siquidem sic universaliter vera in omni materia regula dicens  quod, vera et eius per se falsa, et falsa et eius per se vera,  sunt contrariae. Unde patet responsio ad obiectionem,  quia procedit accipiendo ly per se vera, et per se falsa  primo modo.  13. Ad ultimum dubium dicitur quod, quia inter opiniones ad se invicem pertinentes nulla alia est oppositio  nisi contrarietas, coactus fuit Aristoteles (volens terminis specialibus uti) dicere quod una est magis contraria  quam altera, insinuans quidem quod utraque contrarietatis.  oppositionem habet respectu illius verae. Determinat tamen immediate quod tantum una earum, scilicet negationis opinio, contraria est affirmationi verae. Subdit enim: Manifestum est quoniam. baec contraria erit. Duo  ergo dixit, et quod utraque, tam scilicet negatio eiusdem  quam affirmatio contrarii, contrariatur affirmationi verae,  et quod una tantum earum, negatio scilicet, est contraria.  Et utrunque est verum. Illud quidem, quia, ut dictum  est, ambae contrarietates oppositione contra affirmationem moliuntur; sed difformiter, quia opinio negationis  primo et per se contrariatur, affirmationis vero contrarii  opinio secundario et per accidens, idest per aliud, ratione scilicet negativae opinionis, ut declaratum est: sicut  etiam in naturalibus albo contrariantur et nigrum et rubrum, sed illud primo, hoc reductive, ut reducitur scilicet ad nigrum illud inducendo, ut dicitur V Pbysicor.  simpliciter contraria non sunt nisi extrema unius latitudinis, quae maxime distant; extrema autem unius distantiae non sunt nisi duo. Et ideo cum inter pertinentes ad se  invicem opiniones unum extremum teneat affirmatio vera,  reliquum uni tantum falsae dandum est, illi scilicet quae  maxime a vera distat. Hanc autem negativam opinionem  esse probatum est. Haec igitur una tantum contraria est  illi, simpliciter loquendo. Caeterae enim oppositae ratione  istius contrariantur, ut de mediis dictum est. Non ergo  uni plura contraria posuit, nec de contrarietate large loquutus est, ut obiiciendo dicebatur.  14. Deinde cum dicit: Amplius si etiam etc., probat idem,  scilicet quod affirmationi contraria est negatio eiusdem,  et  non affirmatio contrarii secunda ratione, dicens: Si in  aliis materiis oportet opiniones se habere similiter, idest,  eodem modo, ita quod contrariae in aliis materiis sunt  affirmatio et negatio eiusdem; et hoc, scilicet quod diximus de boni et mali opinionibus, videtur esse bene dictum,  quod scilicet contraria affirmationi boni non est affirmatio mali, sed negatio boni. Et probat hanc consequentiam subdens: Aut enim ubique, idest, in omni materia,  ea  quae est contradictionis altera pars censenda est contraria suae affirmationi, aut nusquam, idest, aut in nulla  materia. Si enim est una ars generalis accipiendi contrariam opinionem, oportet quod ubique et in omni materia  uno et eodem modo accipiatur contraria opinio. Et consequenter, si in aliqua materia negatio eiusdem de eodem affirmationi est contraria, in omni materia negatio  eiusdem de eodem contraria erit affirmationi. Deinde intendens concludere a positione antecedentis, affirmat antecedens ex sua causa, dicens quod illae materiæ quibus  non  inest  contrarium, ut substantia et quantitas, quibus, ut in Prædicamentis dicitur, nihil est contrarium. De  his quidem est pér se falsa ea, quæ est opinioni veræ  opposita contradictorie, ut qui putat hominem, puta Socratem non esse hominem, per se falsus est respectu putantis, Socratem esse hominem. Deinde affirmando ipsum  antecedens formaliter, directe concludit intentum a positione antecedentis ad positionem consequentis dicens: Si  ergo bæ, scilicet, affirmatio et negatio in materia carente  contrario, sunt contrariæ, et omnes aliæ contradictiones  contrariæ censendæ sunt. Deinde cum dicit: Amplius similiter etc., probat idem  tertia ratione, quæ talis est: Sic se habent istæ duæ opiniones de bono, scilicet, bonum est bonum, et, bonum non  est bonum, sicut se habent istæ duæ de non bono, scilicet, non bonum non est bonum, et, non bonum est bonum. Utrobique enim salvatur oppositio contradictionis.  Et primæ utriusque combinationis sunt veræ, secundæ  autem falsæ. Unde proponens hanc maiorem quoad primas veras utriusque combinationis ait: Similiter se babet  opinio boni, quoniam bonum est, et non boni quoniam mon  est bonum. Et subdit quoad secundas utriusque falsas: Et  super bas opinio bomi quoniam mon est bonum, et. non boni  quoniam .est bonum. Hæc est maior. Sed illi veræ opinioni de non bono,scilicet, non bonum non est bonum,  contraria non est, non bonum est malum, nec bonum  non est malum, quæ sunt de prædicato contrario, sed  illa, non bonum est bonum, quæ est eius contradictoria ;  ergo et illi veræ opinioni de bono, scilicet, bonum est  bonum, contraria erit sua contradictoria, scilicet, bonum  non est bonum, et non affirmatio contrarii, scilicet, bonum est malum. Unde subdit minorem supradictam dicens: Illi ergo veræ opinioni non boni, quæ est dicens quoniam scilicet non bonum non est bonum, quæ est. contraria.  Non enim est sibi contraria ea opinio, quæ dicit affirmativæ prædicatum contrarium, scilicet, quod non bonum  CAP. , LECT.   est malum: quia istæ duæ aliquando erunt simul veræ.  Nunquam autem vera opinio veræ contraria est. Quod  autem istæ duæ aliquando simul sint veræ, patet ex  hoc quod quoddam non bonum malum est: iniustitia  enim quoddam non bonum est, et malum. Quare contingeret contrarias esse simul veras: quod est impossibile. At vero nec supradictæ veræ opinioni contraria est  illa opinio, quæ est dicens prædicatum contrarium negativæ, scilicet, non bonum non est malum, eadem ratione, quia simul et hæ erunt veræ. Chimæra enim est  quoddam non bonum, de qua verum est simul dicere  quod non est bona, et quod non est mala. Relinquitur  ergo tertia pars minoris quod ei opinioni veræ quæ,  est dicens quoniam non bonum non est bonum, contraria est ea opinio. non boni, quæ est dicens quod est  bonum, quæ est contradictoria ilius. Deinde subdit  127  mativæ quæ est, omne bonum est bonum, vel, omnis  homo est bonus, contraria est universalis negativa, ea  scilicet, nullum bonum est bonum, vel, nullus homo est  bonus: singula singulis referendo. Contradictoria autem  negatio, contraria illi universali affirmationi est, aut, non  omnis homo est bonus, aut, non omne bonum est bonum,  singulis singula similiter referendo. - Et sic posuit utrunque divisionis membrum, et declaravit.  18. Sed est hic dubitatio non dissimulanda. Si enim  affirmationi universali contraria est duplex negatio, universalis scilicet et contradictoria, vel uni duo sunt contraria,  vel  contrarietate large utitur Aristoteles: cuius  oppositum supra declaravimus. -- Augetur et dubitatio:  quia in præcedenti textu dixit Aristoteles quod, nihil  interest si universalem negationem faciamus ita contrariam universali affBrmationi, sicut singularem singulari.  conclusionem intentam: Quare et ei opinioni boni, quæ  dicit bonum est bonum, contraria est ea boni opinio,  quæ dicit quod bonum non est bonum, idest, sua contradictoria. Contradictiones ergo contrariæ in omni materia censendæ sunt.  16. Deinde cum dicit: Manifestum est igitur etc., declarat determinatam veritatem extendi ad cuiusque quantitatis opiniones. Et quia de indefinitis, et particularibus, et  singularibus iam dictum est, eo quod idem evidenter  apparet de eis in hac re iudicium (indefinitæ enim et  particulares nisi pro eisdem supponant sicut singulares,  per modum affirmationis et negationis non opponuntur,  quia simul veræ sunt); ideo ad eas, quæ universalis  quantitatis sunt se transfert, dicens, manifestum esse quod  nihil interest quoad propositam quæstionem, si universaliter ponamus affirmationes. Huic enim, scilicet, universali affirmationi, contraria est universalis negatio, et non  universalis affirmatio de contrario; ut opinioni quæ opinatur, quoniam omne bonum est bonum, contraria est,  nihil horum, quæ bona sunt, idest, nullum bonum est  bonum. Et declarat hoc ex quid nominis universalis affirmativæ, dicens: Nam eius quæ est boni, quoniam bonum  est, si universaliter sit bonum : idest, istius opinionis universalis, omne bonum est bonum, eadem est, idest, æquivalens, illa quæ opinatur, quidquid est bonum est bonum;  et consequenter sua negatio contraria est illa quam dixi,  nihil horum quæ bona sunt bonum est, idest, nullum bonum est bonum. Similiter autem se habet in non bono:  quia affirmationi universali de non bono reddenda est  negatio universalis eiusdem, sicut de bono dictum est.  17. Deinde cum dicit: Quare si in opinione sic se ba/-* Cf. lect. præced. n. 1, 5 seqq.  *  *  Num. 2r.  Cf. lect. præced. n. 5, seqq.  æe    I  eu  ER  CP  πο  INCUBE  FRE  bet etc., revertitur ad respondendum quæstioni primo  motæ *, terminata iam secunda, ex qua illa dependet. Et  circa hoc duo facit: quia primo respondet quæstioni; secundo, declarat quoddam dictum in præcedenti solutione; ibi: Manifestum est autem quoniam * etc. Circa primum duo facit. Primo, directe respondet quæstioni, dicens:  Quare si in opinione sic se' babet contrarietas, ut  dictum est; et affirmationes et negationes quæ sunt in  voce, notæ sunt eorum, idest, affirmationum et negationum quæ sunt in anima; manifestum. est. quoniam. affirmationi, idest, enunciationi affirmativæ, contraria erit  negatio circa idem, idest, enunciatio negativa eiusdem de  eodem, et non enunciatio affirmativa contrarii. Et sic patet  responsio ad primam quæstionem, qua quærebatur, an  enunciationi affirmativæ contraria sit sua negativa, an  affirmativa contraria . Responsum est enim quod negativa est contraria.  Secundo, dividit negationem contrariam affirmationi,  idest, negationem universalem et contradictoriam, dicens:  Universalis, scilicet, negatio, affirmationi contraria est etc.  Ut exemplariter dicatur, ei enunciationi universali affirEt ita declinari non potest quin affirmationi universali  duæ sint negationes contrariæ, eo modo quo hic loquitur  de contrarietate Aristoteles.  I9. Ad huius evidentiam notandum est quod, aliud est  loqui de contrarietate quæ est inter negationem alicuius  universalis affirmativæ in ordine ad affirmationem contrarii  de eodem, et aliud est loqui de illamet universali negativa in ordine ad negationem eiusdem affrmativæ contradictoriam.  Verbi gratia: sint quatuor enunciationes,  quarum nunc meminimus, scilicet, universalis affirmativa,  contradictoria, universalis negativa, et universalis affirmatio contrarii, sic dispositæ in eadem linea recta: Omnis  bomo est iustus, non omnis bomo est iustus, omnis bomo non  est iustus, omnis bomo est iniustus: et intuere quod licet  primæ omnes reliquæ aliquo modo contrarientur, magna  tamen  differentia  est  inter primæ et cuiusque earum  contrarietatem. Ultima enim, scilicet affirmatio contrarii,  primæ contrariatur ratione universalis negationis, quæ  ante ipsam sita est: quia non per se sed ratione illius  falsa est, ut probavit Aristoteles, quia implicita est*. Tertia  autem, idest universalis negatio, non per se sed ratione  secundæ, scilicet negationis contradictoriæ, contrariatur  primæ eadem ratione, quia, scilicet, non est per se falsa  illius affirmationis veritate, sed implicita: continet enim  negationem contradictoriam, scilicet, nom ommis bomo est  iustus, mediante qua falsificatur ab affirmationis veritate,  quia simpliciter et prior est falsitas negationis contradictoriæ falsitate negationis universalis:  totum  namque  compositius et posterius est partibus. Est ergo inter has  tres falsas ordo, ita quod affirmationi veræ contradictoria  negdtio simpliciter sola est contraria, quia est simpliciter  respectu illius per se falsa; affirmativa autem contrarii  est  per accidens contraria, quia est per accidens falsa;  universalis vero negatio, tamquam medium sapiens utriusque extremi naturam, relata ad contrarii affirmationem  est  per se contraria et per se falsa, relata autem ad negationem contradictoriam est per accidens falsa et contraria. Sicut rubrum ad nigrum est album, et ad album  est nigrum, ut dicitur in V Physicorum. Aliud igitur est  loqui de negatione universali in ordine ad affirmationem  contrarii, et aliud in ordine ad negationem contradictoriam.  Si  enim primo modo loquamur, sic negatio universalis per se contraria et per se falsa est; si autem  secundo modo, non est per se falsa, nec contraria affirmationi.  20.  Quia ergo agitur ab Aristotele nunc quæstio,  inter affirmationem contrarii et negationem quæ earum  contraria sit affirmationi veræ, et non agitur quæstio  ipsarum negationum inter se, quæ, scilicet, earum contraria sit illi afhrmationi, ut patet in toto processu quæstionis;  ideo  Aristoteles indistincte dixit quod utraque  negatio est contraria affirmationi veræ, et non affirmatio  *  Cf.supra n. 4,  seqq.  E  128  contrarii. Intendens per hoc declarare diversitatem quæ IIl, CAP., LECT.:  est  inter  affirmationem contrarii ét negationem in hoc  quod veræ aífirmationi contrariantur, et non intendens  dicere quod utraque negatio est simpliciter contraria. Hoc  enim in dubitatione non est quæsitum, sed illud tantum.- Et similiter dixit quod nihil interest si quis ponat  negationem universalem: nihil enim interest quoad hoc,  quod affirmatio contrarii ostendatur non contraria affirmationi veræ, quod inquirimus. Plurimum autem interesset, si negationes ipsas inter se discutere vellemus  quæ earum esset affirmationi contraria.- Sic ergo patet  quod subtilissime Aristoteles locutus de vera contrarietate enunciationum, unam uni contrariam posuit in omni  materia et quantitate, dum simpliciter contrarias contradictiones asseruit.  Deinde cum dicit: Manifestum est autem etc., resumit quoddam dictum ut probet illud, dicens: Manifestum  est autem. ex dicendis quod mom contingit veram. veræ contrariam esse, nec in opinione mentali, mec in contradictione,  idest, vocali enunciatione. Et causam subdit: quia contraria sunt quæ circa idem opposita sunt; et consequenter  enunciationes et opiniones veræ circa diversa contrariæ esse non possunt. Circa idem autem contingit  simul omnes veras enunciationes et opiniones verificari,  sicut et significata vel repræsentata earum simul illi insunt: aliter veræ tunc non sunt. Et consequenter omnes  veræ enunciationes et opiniones circa idem contrariæ  non sunt, quia contraria non contingit eidem simul inesse.  Nullum ergo verum sive sit circa idem, sive sit  circa aliud, est alteri vero contrarium.  Et sic finitur expositio huius libri Perihermenias. Anno Nativitatis Dominicæ 1496, in Festo Divi Thomæ  Aquinatis. Cui sit honor et gloria, eo quod dederit opus a se inceptum, tanto tempore incompletum, perfici. III. 1 Postquam philosophus distinxit enunciationes in quibus subiicitur nomen infinitum non universaliter sumptum, hic intendit distinguere enunciationes, in quibus subiicitur nomen finitum universaliter sumptum. Et circa hoc tria facit: primo, ponit similitudinem istarum enunciationum ad infinitas supra positas; secundo, ostendit dissimilitudinem earumdem; ibi: sed non similiter etc.; tertio, concludit numerum oppositionum inter dictas enunciationes; ibi: hæ duæ igitur et cetera. Dicit ergo primo quod similes sunt enunciationes, in quibus est nominis universaliter sumpti affirmatio. Having distinguished enunciations in which the subject is an infinite name not taken universally, Aristotle now distinguishes enunciations in which the subject is a finite name taken universally. He first proposes a similarity between these enunciations and the infinite enunciations already discussed, and then shows their difference where he says, But it is not possible, in the same way as in the former case, that those on the diagonal both be true, etc. Finally, he concludes with the number of oppositions there are between these enunciations where he says, These two pairs, then, are opposed, etc. He says first, then, that enunciations in which the affirmation is of a name taken universally are similar to those already discussed. 2 Quoad primum notandum est quod in enunciationibus indefinitis supra positis erant duæ oppositiones et quatuor enunciationes, et affirmativæ inferebant negativas, et non inferebantur ab eis, ut patet tam in expositione Ammonii, quam Porphyrii. Ita in enunciationibus in quibus subiicitur nomen finitum universaliter sumptum inveniuntur duæ oppositiones et quatuor enunciationes: et affirmativæ inferunt negativas et non e contra. Unde similiter se habent enunciationes supradictæ, si nominis in subiecto sumpti fiat affirmatio universaliter. Fient enim tunc quatuor enunciationes: duæ de prædicato finito, scilicet omnis homo est iustus, et eius negatio quæ est non omnis homo est iustus; et duæ de prædicato infinito, scilicet omnis homo est non iustus, et eius negatio quæ est, non omnis homo est non iustus. Et quia quælibet affirmatio cum sua negatione unam integrat oppositionem, duæ efficiuntur oppositiones, sicut et de indefinitis dictum est. Nec obstat quod de enunciationibus universalibus loquens particulares inseruit; quoniam sicut supra de indefinitis et suis negationibus sermonem fecit, ita nunc de affirmationibus universalibus sermonem faciens de earum negationibus est coactus loqui. Negatio siquidem universalis affirmativæ non est universalis negativa, sed particularis negativa, ut in I libro habitum est. It is to be noted in relation to Aristotle’s first point that in indefinite enunciations there were two oppositions and four enunciations, the affirmatives inferring the negatives and not being inferred by them, as is clear in the exposition of Ammonius as well as of Porphyry. In enunciations in which the finite name universally taken is the subject there are also two oppositions and four eminciations, the affirmatives inferring the negatives and not the contrary. Hence, enunciations are related in a similar way if the affirmation is made universally of the name taken as the subject. For again, four enunciations will be made, two with a finite predicate-"Every man is just,” and its negation, "Not every man is just”-and two with an infinite predicate-"Every man is non-just” and its negation, "Not every man is non-just.” And since any affirmation together with its negation makes one whole opposition, two oppositions are made, as was also said of indefinite enunciations. There might seem to be an objection to his use of particulars when speaking of universal enunciations, but this cannot be objected to, for just as in dealing with indefinite enunciations he spoke of their negations, so now in dealing with universal affirmatives be is forced to speak of their negations. The negation of the universal affirmative, however, is not the do universal but the particular negative as was stated in the first book. V. lib. 2 l. 3 n. 3Quod autem similis sit consequentia in istis et supradictis indefinitis patet exemplariter. Et ne multa loquendo res clara prolixitate obtenebretur, formetur primo figura de indefinitis, quæ supra posita est in expositione Porphyrii, scilicet ex una parte ponatur affirmativa finita, et sub ea negativa infinita, et sub ista negativa privativa. Ex altera parte primo negativa finita, et sub ea affirmativa infinita, et sub ea affirmativa privativa. Deinde sub illa figura formetur alia figura similis illi universaliter: ponatur scilicet ex una parte universalis affirmativa de prædicato finito, et sub ea particularis negativa de prædicato infinito, et ad complementum similitudinis sub ista particularis negativa de prædicato privativo; ex altera vero parte ponatur primo particularis negativa de prædicato infinito, et sub ea universalis affirmativa de prædicato finito, et sub ista universalis affirmativa de prædicato privativo, hoc modo: (Figura). Quibus ita dispositis, exerceatur consequentia semper in ista proxima figura, sicut supra in indefinitis exercita est: sive sequendo expositionem Ammonii, ut infinitæ se habeant ad finitas, sicut privativæ se habent ad ipsas finitas; finitæ autem non se habeant ad infinitas medias, sicut privativæ se habent ad ipsas infinitas: sive sectando expositionem Porphyrii, ut affirmativæ inferant negativas, et non e contra. Utrique enim expositioni suprascriptæ deserviunt figuræ, ut patet diligenter indaganti. Similiter ergo se habent enunciationes istæ universales ad indefinitas in tribus, scilicet in numero propositionum, et numero oppositionum, et modo consequentiæ. A table will make it evident that the consequence is similar in these and in indefinite eminciations. And lest what is clear be made obscure by prolixity let us first make a diagram of the indefinites posited in the last lesson, based upon the exposition of Porphyry. Place the finite affirmative on one side and under it the infinite negative, and under this the privative negative. On the other side put the finite negative first, under it the infinite affirmative, and under this the privative affirmative. Then under this diagram make another similar to it but of universals. On one side put the universal affirmative of the finite predicate, under it the particular negative of the infinite predicate, and to complete the parallel put the particular negative of the privative predicate under this. On the other side, first put the particular negative of the infinite predicate, under it the universal affirmative of the finite predicate,” and under this the universal affirmative of the privative predicate. Thus: DIAGRAM OF THE INDEFINITES Man is just Man is not just Man is not non-just Man is non-just Man is not unjust Man is unjust DIAGRAM OF THE UNIVERSALS Every man is just Not every man is just. Not every man is non-just Every man is non-just Not every man is unjust Every man is unjust In this disposition of enunciations, the consequence always follows in the second diagram just as it followed in regard to indefinites in the first diagram. This is true if we follow the exposition of Ammonius in which infinites are related to finites as privatives are related to the same finites, and the finites not related to the infinite middle enunciatious as privatives are related to those infinites. It is equally true if we follow the exposition of Porphyry, in which affirmatives infer negatives and not vice versa. That the tables serve both expositions will be clear to one studying them. These universal enunciations, therefore, are related in like manner to indefinite entinciations in three things: the number of propositions, the number of oppositions, and the mode of consequence. 4 Deinde cum dicit: sed non similiter angulares etc., ponit dissimilitudinem inter istas universales et supradictas indefinitas, in hoc quod angulares non similiter contingit veras esse. Quæ verba primo exponenda sunt secundum eam, quam credimus esse ad mentem Aristotelis, expositionem; deinde secundum alios. Angulares enunciationes in utraque figura suprascripta vocat eas quæ sunt diametraliter oppositæ, scilicet affirmativam finitam ex uno angulo, et affirmativam infinitam sive privativam ex alio angulo: et similiter negativam finitam ex uno angulo, et negativam infinitam vel privativam ex alio angulo. When he says, But it is not possible, in the same way as in the former case, that those on the diagonal both be true, etc., he proposes a difference between the universals and the indefinites, i.e., that it is not possible for the diagonals to be true in the case of universals. First we will explain these words according to the exposition we believe Aristotle had in mind, then according to the opinion of others. Aristotle means by diagonal eminciations those that are diametrically opposed in the diagram above, i.e., the finite affirmative in one corner and the infinite affirmative or the privative in the other; and the finite negative in one corner and the, infinite negative or privative in the other. 5 Enunciationes ergo in qualitate similes angulares vocatæ, eo quod angulares, idest diametraliter distant, dissimilis veritatis sunt apud indefinitas et universales. Angulares enim indefinitæ tam in diametro affirmationum, quam in diametro negationum possunt esse simul veræ, ut patet in suprascripta figura indefinitarum. Et hoc intellige in materia contingenti. Angulares vero in figura universalium non sic se habent, quoniam angulares secundum diametrum affirmationum impossibile est esse simul veras in quacumque materia. Angulares autem secundum diametrum negationum quandoque possunt esse simul veræ, quando scilicet fiunt in materia contingenti: in materia enim necessaria et remota impossibile est esse ambas veras. Hæc est Boethii, quam veram credimus, expositio. Enunciations that are similar in quality, and called diagonal because diametrically distant, are dissimilar in truth, tben, in the case of indefinites and universals. The indefinites on the corners, both oil the diagonal of affirmations and the diagonal of negations can be simultaneously true, as is evident in the table of the indefinite entinciations. This is to be understood in regard to contingent matter. But diagonals of universals are not so related, for angtilars on the diagonal of affirmations cannot be simultaneously true in any matter. Those on the diagonal of negations, however, can sometimes be true simultaneously, i.e., when they are in contingerlt matter. In necessary and rernote matter it is impossible for both of these to be true. This is the exposition of Boethitis, which we believe to be the true one. 6 Herminus autem, Boethio referente, aliter exponit. Licet enim ponat similitudinem inter universales et indefinitas quoad numerum enunciationum et oppositionum, oppositiones tamen aliter accipit in universalibus et aliter in indefinitis. Oppositiones siquidem indefinitarum numerat sicut et nos numeravimus, alteram scilicet inter finitas affirmativam et negativam, et alteram inter infinitas affirmativam et negativam, quemadmodum nos fecimus. Universalium vero non sic numerat oppositiones, sed alteram sumit inter universalem affirmativam finitam et particularem negativam finitam, scilicet omnis homo est iustus, non omnis homo est iustus, et alteram inter eamdem universalem affirmativam finitam et universalem affirmativam infinitam, scilicet omnis homo est iustus, omnis homo est non iustus. Inter has enim est contrarietas, inter illas vero contradictio. Dissimilitudinem etiam universalium ad indefinitas aliter ponit. Non enim nobiscum fundat dissimilitudinem inter angulares universalium et indefinitarum supra differentiam quæ est inter angulares universalium affirmativas et negativas, sed supra differentiam quæ est inter ipsas universalium angulares inter se ex utraque parte. Format namque talem figuram, in qua ex una parte sub universali affirmativa finita, universalis affirmativa infinita est; et ex alia parte sub particulari negativa finita, particularis negativa infinita ponitur; sicque angulares sunt disparis qualitatis, et similiter indefinitarum figuram format hoc modo: (Figura). Quibus ita dispositis, ait in hoc stare dissimilitudinem, quod angulares indefinitarum mutuo se invicem compellunt ad veritatis sequelam, ita quod unius angularis veritas suæ angularis veritatem infert undecumque incipias. Universalium vero angulares non se mutuo compellunt ad veritatem, sed ex altera parte necessitas deficit illationis. Si enim incipias ab aliquo universalium et ad suam angularem procedas, veritas universalis non ita potest esse simul cum veritate angularis, quod compellit eam ad veritatem: quia si universalis est vera, sua universalis contraria erit falsa: non enim possunt esse simul veræ. Et si ista universalis contraria est falsa, sua contradictoria particularis, quæ est angularis primæ universalis assumptæ, erit necessario vera: impossibile est enim contradictorias esse simul falsas. Si autem incipias e converso ab aliqua particularium et ad suam angularem procedas, veritas particularis ita potest stare cum veritate suæ angularis, quod tamen non necessario infert eius veritatem: quia licet sequatur: particularis est vera; ergo sua universalis contradictoria est falsa; non tamen sequitur ultra: ista universalis contradictoria est falsa; ergo sua universalis contraria, quæ est angularis particularis assumpti, est vera. Possunt enim contrariæ esse simul falsæ. Herminus, however, according to Boethius, explains this in another way. He takes the oppositions in one way in universals and in another in indefinites, although he holds that there is a likeness between universals and indefinites with respect to the n timber of enunciations and of oppositions. He arrives at the oppositions of indefinites we have, i.e., one between the affirmative and negative finites, and the other between the affirmative and negative infinites. But he disposes the oppositions of universals in another way, taking one between the finite universal affirmative and finite particular negative, "Every man is just” and "Not every man is just,” and the other between the same finite universal affirmative and the infinite universal affirmative, "Every man is just” and "Every man is non-just.” Between the latter there is contrariety, between the former contradiction. He also proposes the dissimilarity between universals and indefinites in another way. He does not base the dissimilarity between diagonals of universals and indefinites on the difference between affirinative and negative diagonals of universals, as we do, but on the difference between the diagonals of universals on both sides among themselves. Hence he forms his diagram in this way: under the finite universal affirmative be places the infinite universal affirmative, and on the other side, under the finite particular negative the infinite particular negative. Thus the diagonals are of different quality. He also diagrams the indefinites in this way. Every man is just? contradictories? Not every man is just contraries subcontraries Every man is non-just? contradictories? Not every man is non-just Man is just Man is non-just Man is not just Man is not non-just With enunciations disposed in this way he says their difference is this: that in indefinite enunciations, one on the diagonal is true as a necessary consequence of the truth of the other, so that the truth of one enunciation infers the truth of its diagonal from wherever you begin But there is no such mutual necessary consequence in universals—from the truth of one on a diagonal to the other—since the necessity of inference fails in part. If you begin from any of the universals and proceed to its diagonal, the truth of the universal cannot be simultaneous with the truth of its diagonal so as to compel it to truth. For if the universal is true its universal contrary will be false, since they cannot be at once true; and if this universal contrary is false, its particular contradictory, which is the diagonal of the first universal assumed, will necessarily be true, since it is impossible for contradictories to be at once false; but if, conversely, you begin with a particular enunciation and proceed to its diagonal, the truth of the particular can so stand with the truth of its diagonal that it does not infer its truth necessarily. For this follows: the particular is true, therefore its universal contradictory is false. But this does not follow: this universal contradictory is false, therefore its universal contrary, which is the diagonal of the particular assumed, is true. For contraries can be at once false. 7 Sed videtur expositio ista deficere ab Aristotelis mente quoad modum sumendi oppositiones. Non enim intendit hic loqui de oppositione quæ est inter finitas et infinitas, sed de ea quæ est inter finitas inter se, et infinitas inter se. Si enim de utroque modo oppositionis exponere volumus, iam non duas, sed tres oppositiones inveniemus: primam inter finitas, secundam inter infinitas, tertiam quam ipse herminus dixit inter finitam et infinitam. Figura etiam quam formavit, conformis non est ei, quam Aristoteles in fine I priorum formavit, ad quam nos remisit, cum dixit: hæc igitur quemadmodum in resolutoriis dictum est, sic sunt disposita. In Aristotelis namque figura, angulares sunt affirmativæ affirmativis, et negativæ negativis. But the way in which oppositions are taken in this exposition does not seem to be what Aristotle had in mind. He did not intend to speak here of the opposition between finites and infinites, but of the opposition between finites themselves and infinites themselves. For if we meant to explain each mode of opposition, there would not be two but three oppositions: first, between finites; second, between infinites; and third, the one Herminus states between finite and infinite. Even the diagram Herminus makes is not like the one Aristotle makes at the end of I Priorum, to which Aristotle himself referred us in the last lesson when he said, This, then, is the way these are arranged, as we have said in the Analytics; for in Aristotle’s diagram affirmatives are diagonal to affirmatives and negatives to negatives. 8 Deinde cum dicit: hæ igitur duæ etc., concludit numerum propositionum. Et potest dupliciter exponi; primo, ut ly hæ demonstret universales, et sic est sensus, quod hæ universales finitæ et infinitæ habent duas oppositiones, quas supra declaravimus; secundo, potest exponi ut ly hæ demonstret enunciationes finitas et infinitas quoad prædicatum sive universales sive indefinitas, et tunc est sensus, quod hæ enunciationes supradictæ habent duas oppositiones, alteram inter affirmationem finitam et eius negationem, alteram inter affirmationem infinitam et eius negationem. Placet autem mihi magis secunda expositio, quoniam brevitas cui Aristoteles studebat, replicationem non exigebat, sed potius quia enunciationes finitas et infinitas quoad prædicatum secundum diversas quantitates enumeraverat, ad duas oppositiones omnes reducere, terminando earum tractatum, voluit. Then Aristotle says, These two pairs, then, are opposed, etc. Here he concludes to the number of propositions. What he says here can be interpreted in two ways. In the first way, "these” designates universals, and thus the meaning is that the finite and infinite universals have two oppositions, which we have explained above. In the second, "these” designates enunciations which are finite and infinite with respect to the predicate, whether universal or indefinite, and then the meaning is that these enunciations have two oppositions, one between the finite affirmation and its negation and the other between the infinite affirmation and its negation. The second exposition seems more satisfactory to me, for the brevity for which, Aristotle strove allows for no repetition; hence, in terminating his treatment of the enunciations he had enumerated—those with a finite and infinite predicate according to diverse quantities—he meant to reduce all the oppositions to two.  9 Deinde cum dicit: aliæ autem ad id quod est etc., intendit declarare diversitatem enunciationum de tertio adiacente, in quibus subiicitur nomen infinitum. Et circa hoc tria facit: primo, proponit et distinguit eas; secundo, ostendit quod non dantur plures supradictis; ibi: magis autem etc.; tertio, ostendit habitudinem istarum ad alias; ibi: hæ autem extra et cetera. Ad evidentiam primi advertendum est tres esse species enunciationum de inesse, in quibus explicite ponitur hoc verbum est. Quædam sunt, quæ subiecto sive finito sive infinito nihil habent additum ultra verbum, ut, homo est, non homo est. Quædam vero sunt quæ subiecto finito habent, præter verbum, aliquid additum sive finitum sive infinitum, ut, homo est iustus, homo est non iustus. Quædam autem sunt quæ subiecto infinito, præter verbum, habent aliquid additum sive finitum sive infinitum, ut, non homo est iustus, non homo est non iustus. Et quia de primis iam determinatum est, ideo de ultimis tractare volens, ait: aliæ autem sunt, quæ habent aliquid, scilicet prædicatum, additum supra verbum est, ad id quod est, non homo, quasi ad subiectum, idest ad subiectum infinitum. Dixit autem quasi, quia sicut nomen infinitum deficit a ratione nominis, ita deficit a ratione subiecti. Significatum siquidem nominis infiniti non proprie substernitur compositioni cum prædicato quam importat, est, tertium adiacens. Enumerat quoque quatuor enunciationes et duas oppositiones in hoc ordine, sicut in superioribus fecit. Distinguit etiam istas ex finitate vel infinitate prædicata. Unde primo, ponit oppositiones inter affirmativam et negativam habentes subiectum infinitum et prædicatum finitum, dicens: ut, non homo est iustus, non homo non est iustus. Secundo, ponit oppositionem alteram inter affirmativam et negativam, habentes subiectum infinitum et prædicatum infinitum, dicens: ut, non homo est non iustus, non homo non est non iustus. When he says, and there, are two other pairs if something is added to "non-man” as a subject, etc., he shows the diversity of enunciations when "is” is added as a third element and the subject is an infinite name. First, he proposes and distinguishes them; secondly, he shows that there are no more opposites than these where he says, There will be no more opposites than these; thirdly, he shows the relationship of these to the others where he says, The latter, however, are separate from the former and distinct from them, etc. With respect to the first point, it should be noted that there are three species of absolute [de inesse] enunciations in which the verb "is” is posited explicitly. Some have nothing added to the subject—which can be either finite or infinite—beyond the verb, as in "Man is,” "Non-man is.” Some have, besides the verb, something either finite or infinite added to a finite subject, as in "Man is just,” "Man is non-just.” Finally, some have, besides the verb, something either finite or infinite added to an infinite subject, as in "Non-man is just,” "Non-man is non-just.” He has already treated the first two and now intends to take tip the last ones. And there are two other pairs, he says, that have something, namely a predicate. added beside the verb "is” to "non-man” as if to a subject, i.e., to an infinite subject. He says "as if” because the infinite name falls short of the notion of a subject insofar as it falls short of the notion of a name. Indeed, the signification of an infinite name is not properly submitted to composition with the predicate, which "is,” the third element added, introduces. Aristotle enumerates four enunciations and two oppositions in this order as he did in the former. In addition he distinguishes these from the former finiteness and infinity. First, he posits the opposition between affirmative and negative enunciations with an infinite subject and a finite predicate, "Non-man is just,” "Non-man is not just.” Then he posits another opposition between those with an infinite subject and an infinite predicate, "Non-man is non-just,” "Non-man is not non-just. 10 Deinde cum dicit: magis autem plures etc., ostendit quod non dantur plures oppositiones enunciationum supradictis. Ubi notandum est quod enunciationes de inesse, in quibus explicite ponitur hoc verbum est, sive secundum, sive tertium adiacens, de quibus loquimur, non possunt esse plures quam duodecim supra positæ; et consequenter oppositiones earum secundum affirmationem et negationem non sunt nisi sex. Cum enim in tres ordines divisæ sint enunciationes, scilicet in illas de secundo adiacente, in illas de tertio subiecti finiti, et in illas de tertio subiecti infiniti, et in quolibet ordine sint quatuor enunciationes; fiunt omnes enunciationes duodecim, et oppositiones sex. Et quoniam subiectum earum in quolibet ordine potest quadrupliciter quantificari, scilicet universalitate, particularitate, et singularitate et indefinitione; ideo istæ duodecim multiplicantur in quadraginta octo. Quater enim duodecim quadraginta octo faciunt. Nec possibile est plures his imaginari. Et licet Aristoteles nonnisi viginti harum expresserit, octo in primo ordine, octo in secundo, et quatuor in tertio, attamen per eas reliquas voluit intelligi. Sunt autem sic enumerandæ et ordinandæ secundum singulos ordines, ut affirmationi negatio prima ex opposito situetur, ut oppositionis intentum clarius videatur. Et sic contra universalem affirmativam non est ordinanda universalis negativa, sed particularis negativa, quæ est illius negatio; et e converso, contra particularem affirmativam non est ordinanda particularis negativa, sed universalis negativa quæ est eius negatio. Ad clarius autem intuendum numerum, coordinandæ sunt omnes, quæ sunt similis quantitatis, simul in recta linea, distinctis tamen ordinibus tribus supradictis. Quod ut clarius elucescat, in hac subscripta videatur figura: (Figura). Quod autem plures his non sint, ex eo patet quod non contingit pluribus modis variari subiectum et prædicatum penes finitum et infinitum, nec pluribus modis variantur finitum et infinitum subiectum. Nulla enim enunciatio de secundo adiacente potest variari penes prædicatum finitum vel infinitum, sed tantum penes subiectum quod sufficienter factum apparet. Enunciationes autem de tertio adiacente quadrupliciter variari possunt, quia aut sunt subiecti et prædicati finiti, aut utriusque infiniti, aut subiecti finiti et prædicati infiniti, aut subiecti infiniti et prædicati finiti. Quarum nullam prætermissam esse superior docet figura. Then he says, There will be no more opposites than these. Here he points out that there are no more oppositions of enunciations than the ones be has already given. We should note, then, that simple [or absolute] enunciations—of which we have been speaking—in which the verb "is” is explicitly posited whether it is the second or third element added, cannot be more than the twelve posited. Consequently, their oppositions according to affirmation and negation are only six. For enunciations are divided into three orders: those with the second element added, those with the third element added to a finite subject, and those with the third element added to an infinite subject; and in any order there are four enunciations. And since their subject in any order can be quantified in four ways, i.e., by universality, particularity, singularity, and indefiniteness, these twelve will be increased to fortyeight (four twelves being forty-eight). Nor is it possible to imagine more than these. Aristotle has only expressed twenty of these, eight in the first order, eight in the second, and four in the third, but through them be intended the rest to be understood. They are to be enumerated and disposed according to each order so that the primary negation is placed opposite an affirmation in order to make the relation of opposition more evident. Thus, the universal negative should not be ordered as opposite to the universal affirmative, but the particular negative, which is its negation. Conversely, the particular negative should not be ordered as opposite to the particular affirmative, but the universal negative, which is its negation. For a clearer look at their number all those of similar quantity should be co-ordered in a straight line and in the three distinct orders given above. The following diagram will make this clear. FIRST ORDER Socrates is Socrates is not Non-Socrates is Non-Socrates is not Some man is Some man is not Some non-man is Some non-man is not Man is Man is not Non-man is Non-man is not Every man is No man is Every non-man is No non-man is SECOND ORDER Socrates is just Socrates is not just Socrates is non-just Socrates is not non-just Some man is just Some man is not just Some man is non-just Some man is not non-just Man is just Man is not just Man is non-just Man is not non-just Every man is just No man is just Every man is non-just No man is non-just THIRD ORDER Non-Socrates is just Non-Socrates is not just Non-Socrates is non-just Non-Socrates is not non-just Some non-man is just Some non-man is not just Some non-man is non-just Some non-man is not non-just Non-man is just Non-man is not just Non-man is non-just Non-man is not non-just Every non-man is just No non-man is just Every non-man is non-just No non-man is non-just It is evident that there are no more than these, for the subject and the predicate cannot be varied in any other way with respect to finite and infinite. Nor can the finite and infinite subject be varied in any other way, for the enunciation with a second adjoining element cannot be varied with a finite and infinite predicate but only in respect to the subject. This is clear enough. But enunciations with a third adjoining element can be varied in four ways: they may have either a finite subject and predicate, or an infinite subject and predicate, or a finite subject and infinite predicate, or an infinite subject and finite predicate. These variations are all evident in the above table. 11 Deinde cum dicit: hæ autem extra illas etc., ostendit habitudinem harum quas in tertio ordine numeravimus ad illas, quæ in secundo sitæ sunt ordine, et dicit quod istæ sunt extra illas, quia non sequuntur ad illas, nec e converso. Et rationem assignans subdit: ut nomine utentes eo quod est non homo, idest ideo istæ sunt extra illas, quia istæ utuntur nomine infinito loco nominis, dum omnes habent subiectum infinitum. Notanter autem dixit enunciationes subiecti infiniti uti ut nomine, infinito nomine, quia cum subiici in enunciatione proprium sit nominis, prædicari autem commune nomini et verbo, omne subiectum enunciationis ut nomen subiicitur. Then when he says, The latter, however, are separate from the former and distinct from them, etc., he shows the relationship of those we have put in the third order to those in the second order. The former, he says, are distinct from the latter because they do not follow upon the latter, nor conversely. He assigns the reason when he adds: because of the use of "non-man” as a name, i.e., the former are separate from the latter because the former use an infinite name in place of a name, since they all have an infinite subject. It should be noted that he says enunciations of an infinite subject use an infinite name as a name; for to be subjected in an enunciation is proper to a name, to be predicated common to a name and a verb, and therefore every subject of an enunciation is subjected as a name. 12 Deinde cum dicit: in his vero in quibus est etc., determinat de enunciationibus in quibus ponuntur verba adiectiva. Et circa hoc tria facit: primo, distinguit eas; secundo, respondet cuidam tacitæ quæstioni; ibi: non enim dicendum est etc.; tertio, concludit earum conditiones; ibi: ergo et cætera eadem et cetera. Ad evidentiam primi resumendum est, quod inter enunciationes in quibus ponitur est secundum adiacens, et eas in quibus ponitur est tertium adiacens talis est differentia quod in illis, quæ sunt de secundo adiacente, simpliciter fiunt oppositiones, scilicet ex parte subiecti tantum variati per finitum et infinitum; in his vero, quæ habent est tertium adiacens dupliciter fiunt oppositiones, scilicet et ex parte prædicati et ex parte subiecti, quia utrumque variari potest per finitum et infinitum. Unde unum ordinem tantum enunciationum de secundo adiacente fecimus, habentem quatuor enunciationes diversimode quantificatas et duas oppositiones. Enunciationes autem de tertio adiacente oportuit partiri in duos ordines, quia sunt in eis quatuor oppositiones et octo enunciationes, ut supra dictum est. Considerandum quoque est quod enunciationes, in quibus ponuntur verba adiectiva, quoad significatum æquivalent enunciationibus de tertio adiacente, resoluto verbo adiectivo in proprium participium et est, quod semper fieri licet, quia in omni verbo adiectivo clauditur verbum substantivum. Unde idem significant ista, omnis homo currit, quod ista, omnis homo est currens. Propter quod Boethius vocat enunciationes cum verbo adiectivo de secundo adiacente secundum vocem, de tertio autem secundum potestatem, quia potest resolvi in tertium adiacens, cui æquivalet. Quoad numerum autem enunciationum et oppositionum, enunciationes verbi adiectivi formaliter sumptæ non æquivalent illis de tertio adiacente, sed æquivalent enunciationibus, in quibus ponitur est secundum adiacens. Non possunt enim fieri oppositiones dupliciter in enunciationibus adiectivis, scilicet ex parte subiecti et prædicati, sicut fiebant in substantivis de tertio adiacente, quia verbum, quod prædicatur in adiectivis, infinitari non potest. Sed oppositiones adiectivarum fiunt simpliciter, scilicet ex parte subiecti tantum variati per infinitum et finitum diversimode quantificati, sicut fieri didicimus supra in enunciationibus substantivis de secundo adiacente, eadem ducti ratione, quia præter verbum nulla est affirmatio vel negatio, sicut præter nomen esse potest. Quia autem in præsenti tractatu non de significationibus, sed de numero enunciationum et oppositionum sermo intenditur, ideo Aristoteles determinat diversificandas esse enunciationes adiectivas secundum modum, quo distinctæ sunt enunciationes in quibus ponitur est secundum adiacens. Et ait quod in his enunciationibus, in quibus non contingit poni hoc verbum est formaliter, sed aliquod aliud, ut, currit, vel, ambulat, idest in enunciationibus adiectivis, idem faciunt quoad numerum oppositionum et enunciationum sic posita, scilicet nomen et verbum, ac si est secundum adiacens subiecto nomini adderetur. Habent enim et istæ adiectivæ, sicut illæ, in quibus ponitur est, duas oppositiones tantum, alteram inter finitas, ut, omnis homo currit, omnis homo non currit, alteram inter infinitas quoad subiectum, ut, omnis non homo currit, omnis non homo non currit. Next he takes up enunciations in which adjective verbs are posited, when he says, In enunciations in which "is” does not join the predicate to the subject, etc. First, he distinguishes these adjective verbs; secondly, he answers an implied question where he says, We must not say "non-every man,” etc.; thirdly, he concludes with their conditions where he says, All else in the enunciations in which "is” does not join the predicate to the subject will be the same, etc. It is necessary to note here that there is a difference between enunciations in which "is” is posited as a second adjoining element and those in which it is posited as a third element. In those with "is” as a second element oppositions are simple, i.e., varied only on the part of the subject by finite and infinite. In those having "is” as a third element oppositions are made in two ways—on the part of the predicate and on the part of the subject—for both can be varied by finite and infinite. Hence we made only one order of enunciations with "is” as the second element. It had four enunciations quantified in diverse ways, and two oppositions. But enunciations with "is” as a third element must be divided into two orders, because in them there are four oppositions and eight enunciations, as we said above. Enunciations with adjective verbs are made equivalent in signification to enunciations with "is” as the third element by resolving the adjective verb into its proper participle and "is,” which may always be done because a substantive verb is contained in every adjective verb. For example, "Every man runs” signifies the same thing as "Every man is running.” Because of this Boethius calls enunciations having an adjective verb "eminciations of the second adjoining element according to vocal sound, but of the third adjoining element according to power.” He designates them in this manner because they can be resolved into enunciations with a third adjoining element to which they are equivalent. With respect to the number and oppositions of enunciations, those with an adjective verb, formally taken, are not equivalent to those with a third adjoining element but to those in which "is” is posited as the second element. For oppositions cannot be made in two ways in adjectival enunciations as they are in the case of substantival enunciations with a third adjoining element, namely, on the part of the subject and predicate, because the verb which is predicated in adjectival enunciations cannot be made infinite. Hence oppositions of adjectival enunciations are made simply, i.e., only by the subject quantified in diverse ways being varied by finite and infinite, as was done above in substantival enunciations with a second adjoining element, and for the same reason, i.e., there can be no affirmation or negation without a verb but there can be without a name. Since the present treatment is not of significations but of the number of enunciations and oppositions, Aristotle determines that adjectival enunciations are to be diversified according to the mode in which enunciations with "is” as the second adjoining element are distinguished. And he says that in enunciations in which the verb "is” is not posited formally, but some other verb, such as "matures” or "walks,” i.e., in adjectival enunciations, the name and verb form the same scheme with respect to the number of oppositions and enunciations as when is as a second adjoining element is added to the name as a subject. For these adjectival enunciations, like the ones in which "is” is posited, have only two oppositions, one between the finites, as in "Every man runs,” "Not every man runs,” the other between the infinites with respect to subject, as in "Every non-man runs,” "Not every non-man runs.” 13 Deinde cum dicit: non enim dicendum est etc., respondet tacitæ quæstioni. Et circa hoc facit duo: primo, ponit solutionem quæstionis; deinde, probat eam; ibi: manifestum est autem et cetera. Est ergo quæstio talis: cur negatio infinitans numquam addita est supra signo universali aut particulari, ut puta, cum vellemus infinitare istam, omnis homo currit, cur non sic infinitata est, non omnis homo currit, sed sic, omnis non homo currit? Huic namque quæstioni respondet, dicens quod quia nomen infinitabile debet significare aliquid universale, vel singulare; omnis autem et similia signa non significant aliquid universale aut singulare, sed quoniam universaliter aut particulariter; ideo non est dicendum, non omnis homo, si infinitare volumus (licet debeat dici, si negare quantitatem enunciationis quærimus), sed negatio infinitans ad ly homo, quod significat aliquid universale, addenda est, et dicendum, omnis non homo. Then he answers an implied question when he says, We, must not say "non-every man” but must add the negation to man, etc. First he states the solution of the question, then he proves it where he says, This is evident from the following, etc. The question is this: Why is the negation that makes a word infinite never added to the universal or particular sign? For example, when we wish to make "Every man runs” infinite, why do we do it in this way "Every non-man runs,” and not in this, "Non-every man runs.” He answers the question by saying that to be capable of being made infinite a name has to signify something universal or singular. "Every” and similar signs, however, do not signify something universal or singular, but that something is taken universally or particularly. Therefore, we should not say "non-every man” if we wish to infinitize (although it may be used if we wish to deny the quantity of an enunciation), but must add the infinitizing negation to "man,” which signifies something universal, and say "every non-man.” 14 Deinde cum dicit: manifestum est autem ex eo quod est etc., probat hoc quod dictum est, scilicet quod omnis et similia non significant aliquod universale, sed quoniam universaliter tali ratione. Illud, in quo differunt enunciationes præcise differentes per habere et non habere ly omnis, est non universale aliquod, sed quoniam universaliter; sed illud in quo differunt enunciationes præcise differentes per habere et non habere ly omnis, est significatum per ly omnis; ergo significatum per ly omnis est non aliquid universale, sed quoniam universaliter. Minor huius rationis, tacita in textu, ex se clara est. Id enim in quo, cæteris paribus, habentia a non habentibus aliquem terminum differunt, significatum est illius termini. Maior vero in littera exemplariter declaratur sic. Illæ enunciationes homo currit, et omnis homo currit, præcise differunt ex hoc, quod in una est ly omnis, et in altera non. Tamen non ita differunt ex hoc, quod una sit universalis, alia non universalis. Utraque enim habet subiectum universale, scilicet ly homo, sed differunt, quia in ea, ubi ponitur ly omnis, enunciatur de subiecto universaliter, in altera autem non universaliter. Cum enim dico, homo currit, cursum attribuo homini universali, sive communi, sed non pro tota humana universitate; cum autem dico, omnis homo currit, cursum inesse homini pro omnibus inferioribus significo. Simili modo declarari potest de tribus aliis, quæ in textu adducuntur, scilicet, homo non currit, respectu suæ universalis universaliter, omnis homo non currit: et sic de aliis. Relinquitur ergo, quod, omnis et nullus et similia signa nullum universale significant, sed tantummodo significant, quoniam universaliter de homine affirmant vel negant. Where he says, This is evident from the following, etc., he proves that "every” and similar words do not signify a universal but that a universal is taken universally. His argument is the following: That by which enunciations having or not having the "every” differ is not the universal; rather, they differ in that the universal is taken universally. But that by which enunciations having and not having the "every” differ is signified by the "every.” Therefore, that which is signified by the "every” is not a universal but that the universal is taken universally. The minor of the argument is evident, though not explicitly given in the text: that in which the having of some term differs from the not having of it, other things being equal, is the signification of that term. The major is made evident by examples. The enunciations "Man matures” and "Every man matures” differ precisely by the fact that in one there is an "every,” in the other not. However, they do not differ in such a way by this that one is universal, the other not universal, for both have the universal subject, "man”; they differ because in the one in which "every” is posited, the enunciation is of the subject universally, but in the other not universally. For when I say, "Man matures,” I attribute maturing to "man” as universal or common but not to man as to the whole human race; when I say, "Every man matures,” however, I signify maturing to be present to man according to all the inferiors. This is evident, too, in the three other examples of enunciations in Aristotle’s text. For example, "Non-man matures” when its universal is taken universally becomes "Every non-man matures,” and so of the others. It follows, therefore, that "every” and "no” and similar signs do not signify a universal but only signify that they affirm or deny of man universally. 15 Notato hic duo: primum est quod non dixit omnis et nullus significat universaliter, sed quoniam universaliter; secundum est, quod addit, de homine affirmant vel negant. Primi ratio est, quia signum distributivum non significat modum ipsum universalitatis aut particularitatis absolute, sed applicatum termino distributo. Cum enim dico, omnis homo, ly omnis denotat universitatem applicari illi termino homo, ita quod Aristoteles dicens quod omnis significat quoniam universaliter, per ly quoniam insinuavit applicationem universalitatis importatam in ly omnis in actu exercito, sicut et in I posteriorum, in definitione scire applicationem causæ notavit per illud verbum quoniam, dicens: scire est rem per causam cognoscere, et quoniam illius est causa. Ratio autem secundi insinuat differentiam inter terminos categorematicos et syncategorematicos. Illi siquidem ponunt significata supra terminos absolute; isti autem ponunt significata sua supra terminos in ordine ad prædicata. Cum enim dicitur, homo albus, ly albus denominat hominem in seipso absque respectu ad aliquod sibi addendum. Cum vero dicitur, omnis homo, ly omnis etsi hominem distribuat, non tamen distributio intellectum firmat, nisi in ordine ad aliquod prædicatum intelligatur. Cuius signum est, quia, cum dicimus, omnis homo currit, non intendimus distribuere hominem pro tota sua universitate absolute, sed in ordine ad cursum. Cum autem dicimus, albus homo currit, determinamus hominem in seipso esse album et non in ordine ad cursum. Quia ergo omnis et nullus, sicut et alia syncategoremata, nil aliud in enunciatione faciunt, nisi quia determinant subiectum in ordine ad prædicatum, et hoc sine affirmatione et negatione fieri nequit; ideo dixit quod nil aliud significant, nisi quoniam universaliter de nomine, idest de subiecto, affirmant vel negant, idest affirmationem vel negationem fieri determinant, ac per hoc a categorematicis ea separavit. Potest etiam referri hoc quod dixit, affirmant vel negant, ad ipsa signa, scilicet omnis et nullus, quorum alterum positive distribuit, alterum removendo. Two things should be noted here: first, that Aristotle does not say "every” and "no” signify universally, but that the universal is taken universally; secondly, that he adds, they affirm or deny of man. The reason for the first is that the distributive sign does not signify the mode of universality or of particularity absolutely, but the mode applied to a distributed term. When I say, "every man” the "every” denotes that universality is applied to the term "man.” Hence, when Aristotle says "every” signifies that a universal is taken universally, by the "that” he conveys the application in actual exercise of the universality denoted by the "every,” just as in I Posteriorum [2: 71b 10] in the definition of "to know,” namely, To know scientifically is to know a thing through its cause and that this is its cause, he signifies by the word "that” the application of the cause. The reason for the second is to imply the difference between categorematic and syneategorematic terms. The former apply what is signified to the terms absolutely; the latter apply what they signify to the terms in relation to the predicates. For example, in "white man” the "white” denominates man in himself apart from any regard to something to be added; but in "every man,” although the "every” distributes man,” the distribution does not confirm the intellect unless it is under stood in relation to some predicate. A sign of this is that when we say "Every man runs” we do not intend to distribute "man” in its whole universality absolutely, but only in relation to "running.” When we say "White man runs,” on the other hand, we designate man in himself as "white” and not in relation to "running.” Therefore, since "every” and "no” and the other syncategorematic terms do nothing except determine the subject in relation to the predicate in the enunciation, and this cannot be done without affirmation and negation, Aristotle says that they only signify that the affirmation or negation is of a name, i.e., of a subject, universally, i.e., they prescribe the affirmation or negation that is being formed, and by this he separates them from categorematic terms. They affirm, or deny can also be referred to the signs themselves i.e., "every” and "no,” one of which distributes positively, the other distributes by removing. 16 Deinde cum dicit: ergo et cætera eadem etc., concludit adiectivarum enunciationum conditiones. Dixerat enim quod adiectivæ enunciationes idem faciunt quoad oppositionum numerum, quod substantivæ de secundo adiacente; et hoc declaraverat, oppositionum numero exemplariter subiuncto. Et quia ad hanc convenientiam sequitur convenientia quoad finitationem prædicatorum, et quoad diversam subiectorum quantitatem, et earum multiplicationem ex ductu quaternarii in seipsum, et si qua sunt huiusmodi enumerata; ideo concludit: ergo et cætera, quæ in illis servanda erant, eadem, idest similia istis apponenda sunt. When he says All else in enunciations in which "is”does not join the predicate to the subject, etc., he concludes the treatment of the conditions of adjectival enunciations. He has already stated that adjectival enunciations are the same with respect to the number of oppositions as substantival enunciations with "is” as the second element, and has clarified this by a table showing the number of oppositions. Now, since upon this conformity follows conformity both with respect to finiteness of predicates and with respect to the diverse quantity of subjects, and also-if any enunciations of this kind are enumerated—their multiplication in sets of four, he concludes, Therefore also the other things, which are to be observed in them, are to be considered the same, i.e., similar to these. IV. 1. Postquam determinatum est de diversitate enunciationum, hic intendit removere quædam dubia circa prædicta. Et circa hoc facit sex secundum numerum dubiorum, quæ suis patebunt locis. Quia ergo supra dixerat quod in universalibus non similiter contingit angulares esse simul veras, quia affirmativæ angulares non possunt esse simul veræ, negativæ autem sic; poterat quispiam dubitare, quæ est causa huius diversitatis. Ideo nunc illius dicti causam intendit assignare talem, quia, scilicet, angulares affirmativæ sunt contrariæ inter se; contrarias autem in nulla materia contingit esse simul veras. Angulares autem negativæ sunt subcontrariæ illis oppositæ; subcontrarias autem contingit esse simul veras. Et circa hæc duo facit: primo, declarat conditiones contrariarum et subcontrariarum; secundo, quod angulares affirmativæ sint contrariæ et quod angulares negativæ sint subcontrariæ; ibi: sequuntur vero et cetera. Dicit ergo resumendo: quoniam in primo dictum est quod enunciatio negativa contraria illi affirmativæ universali, scilicet, omne animal est iustum, est ista, nullum animal est iustum; manifestum est quod istæ non possunt simul, idest in eodem tempore, neque in eodem ipso, idest de eodem subiecto esse veræ. His vero oppositæ, idest subcontrariæ inter se, possunt esse simul veræ aliquando, scilicet in materia contingenti, ut, quoddam animal est iustum, non omne animal est iustum. Having treated the diversity of enunciations Aristotle now answers certain questions about them. He takes up six points related to the number of difficulties. These will become evident as we come to them. Since he has said that in universal enunciations the diagonals in one case cannot be at once true but can be in another, for the diagonal affirmatives cannot be at once true but the negatives can,” someone might raise a question as to the cause of this diversity. Therefore, it is his intention now to assign the cause of this: namely, that the diagonal affirmatives are contrary to each other, and contraries cannot be at once true in any matter; but the diagonal negatives are subcontraries opposed to these and can be at once true. In relation to this he first states the conditions for contraries and subcontraries. Then he shows that diagonal affirmatives are contraries and that diagonal negatives are subcontraries where he says, Now the enunciation "No man is just” follows upon the enunciation "Every man is nonjust,” etc. By way of resumé, therefore, he says that in the first book it was said that the negative enunciation contrary to the universal affirmative "Every animal is just” is "No animal is just.” It is evident that these cannot be at once true, i.e., at the same time, nor of the same thing, i.e., of the same subject. But the opposites of these, i.e., the subcontraries, can sometimes be at once true, i.e., in contingent matter, as in "Some animal is just” and "Not every animal is just.” 2 Deinde cum dicit: sequuntur vero etc., declarat quod angulares affirmativæ supra positæ sint contrariæ, negativæ vero subcontrariæ. Et primum quidem ex eo quod universalis affirmativa infinita et universalis negativa simplex æquipollent; et consequenter utraque earum est contraria universali affirmativæ simplici, quæ est altera angularis. Unde dicit quod hanc universalem negativam finitam, nullus homo est iustus, sequitur æquipollenter illa universalis affirmativa infinita, omnis homo est non iustus. Secundum vero declarat ex eo quod particularis affirmativa finita et particularis negativa infinita æquipollent. Et consequenter utraque earum est subcontraria particulari negativæ simplici, quæ est altera angularis, ut in figura supra posita inspicere potes. Unde subdit quod illam particularem affirmativam finitam, aliquis homo est iustus, opposita sequitur æquipollenter (opposita intellige non istius particularis, sed illius universalis affirmativæ infinitæ), non omnis homo est non iustus. Hæc enim est contradictoria eius. Ut autem clare videatur quomodo supra dictæ enunciationes sint æquipollentes, formetur figura quadrata, in cuius uno angulo ponatur universalis negativa finita, et sub ea contradictoria particularis affirmativa finita; ex alia vero parte locetur universalis affirmativa infinita, et sub ea contradictoria particularis negativa infinita, noteturque contradictio inter angulares et collaterales inter se, hoc modo: (Figura). His siquidem sic dispositis, patet primo ipsarum universalium mutua consequentia in veritate et falsitate, quia si altera earum est vera, sua angularis contradictoria est falsa; et si ista est falsa, sua collateralis contradictoria, quæ est altera universalis, erit vera, et similiter procedit quoad falsitatem particularium. Deinde eodem modo manifestatur mutua sequela. Si enim altera earum est vera, sua angularis contradictoria est falsa, ista autem existente falsa, sua contradictoria collateralis, quæ est altera particularis erit vera; simili quoque modo procedendum est quoad falsitatem. When he says, Now the enunciation, "No man is just” follows upon the enunciation "Every man is nonjust,” etc., he shows that the diagonal affirmatives previously posited are contraries, the negatives subcontraries. First he manifests this from the fact that the infinite universal affirmative and the simple universal negative are equal in meaning, and consequently each of them is contrary to the simple universal affirmative, which is the other diagonal. Hence, he says that the infinite universal affirmative "Every man is non-just” follows upon the finite universal negative "No man is just,” equivalently. Secondly he shows this from the fact that the finite particular affirmative and the infinite particular negative are equal in meaning, and consequently each of these is subcontrary to the simple particular negative, which is the other diagonal. This you can see in the previous diagram. He says, then, that the opposite "Not every man is non-just” follows upon the finite particular "Some man is just” equivalently (understand "the opposite” not of this particular but of the infinite universal affirmative, for this is its contradictory). In order to see clearly how these enunciations are equivalent, make a four-sided figure, putting the finite universal negative in one corner and under it the contradictory, the finite particular affirmative. On the other side, put the infinite universal affirmative and under it the contradictory, the infinite particular negative. Now indicate the contradiction between diagonals and the contradiction between collaterals. No man is just equivalents Every man is non-just contradictories contradictories Some man is just equivalents Not every man is non-just This arrangement makes the mutual consequence of the universals in truth and falsity evident, for if one of them is true, its diagonal contradictory is false; and if this is false, its collateral contradictory, which is the other universal, will be true. With respect to the falsity of the particulars the procedure is the same. Their mutual consequence is made evident in the same way, for if one of them is true, its diagonal contradictory is false, and if this is false, its contradictory collateral, which is the other particular, will be true; the procedure is the same with respect to falsity. 3 Sed est hic unum dubium. In I enim priorum, in fine, Aristoteles ex proposito determinat non esse idem iudicium de universali negativa et universali affirmativa infinita; et superius in hoc secundo, super illo verbo: quarum duæ se habent secundum consequentiam, duæ vero minime, Ammonius, Porphyrius, Boethius et sanctus Thomas dixerunt quod negativa simplex sequitur affirmativam infinitam, sed non e converso. Ad hoc dicendum est, secundum Albertum, quod negativam finitam sequitur affirmativa infinita subiecto constante; negativa vero simplex sequitur affirmativam absolute. Unde utrumque dictum verificatur, et quod inter eas est mutua consequentia cum subiecti constantia, et quod inter eas non est mutua consequentia absolute. Potest dici secundo, quod supra locuti sumus de infinita enunciatione quoad suum totalem significatum ad formam prædicati reductum; et secundum hoc, quia negativa finita est superior affirmativa infinita, ideo non erat mutua consequentia: hic autem loquimur de ipsa infinita formaliter sumpta. Unde s. Thomas tunc adducendo Ammonii expositionem dixit, secundum hunc modum loquendi: negativa simplex, in plus est quam affirmativa infinita. Textus vero I priorum ultra prædicta loquitur de finita et infinita in ordine ad syllogismum. Manifestum est autem quod universalis affirmativa sive finita sive infinita non concluditur nisi in primo primæ. Universalis autem negativa quæcumque concluditur et in secundo primæ, et primo et secundo secundæ. However, a question arises with respect to this. At the end of I Priorum [46: 51b 5], Aristotle determines from what he has proposed that the judgment of the universal negative and the infinite universal affirmative is not the same. Furthermore, in the second book of the present work, in relation to the phrase Of which two are related according to consequence, two are not. Ammonius, Porphyry, Boethius, and St. Thomas say that the simple negative follows upon the infinite affirmative and not conversely.” Albert answers this latter difficulty by pointing out that the infinite affirmative follows upon the finite negative when the subject is constant, but the simple negative follows upon the affirmative absolutely. Hence both positions are verified, for with a constant subject there is a mutual consequence between them, but there is not a mutual consequence between them absolutely. We could also answer this difficulty in this way. In Book II, Lesson 2 we were speaking of the infinite enunciation with the whole of what it signified reduced to the form of the predicate, and according to this there was not a mutual consequence, since the finite negative is superior to the infinite affirmative. But here we are speaking of the infinite itself formally taken. Hence St. Thomas, when he introduced the exposition of Ammonius in his commentary on the above passage, said that according to this mode of speaking the simple negative is wider than the infinite affirmative. In the above mentioned text in I Priorum [46: 52a 36], Aristotle is speaking of finite and infinite enunciations in relation to the syllogism. It is evident, however, that the universal affirmative, whether finite or infinite is only inferred in the first mode of the first figure, while any universal negative whatever is inferred in the second mode of the first figure and in the first and second modes of the second figure. 4 Deinde cum dicit: manifestum est autem etc., movet secundum dubium de vario situ negationis, an scilicet quoad veritatem et falsitatem differat præponere et postponere negationem. Oritur autem hæc dubitatio, quia dictum est nunc quod non refert quoad veritatem si dicatur, omnis homo est non iustus, aut si dicatur, omnis homo non est iustus; et tamen in altera postponitur negatio, in altera præponitur, licet multum referat quoad affirmationem et negationem. Hanc, inquam, dubitationem solvere intendens cum distinctione, respondet quod in singularibus enunciationibus eiusdem veritatis sunt singularis negatio et infinita affirmatio eiusdem, in universalibus autem non est sic. Si enim est vera negatio ipsius universalis non oportet quod sit vera infinita affirmatio universalis. Negatio enim universalis est particularis contradictoria, qua existente vera, non est necesse suam subalternam, quæ est contraria suæ contradictoriæ esse veram. Possunt enim duæ contrariæ esse simul falsæ. Unde dicit quod in singularibus enunciationibus manifestum est quod, si est verum negare interrogatum, idest, si est vera negatio enunciationis singularis, de qua facta est interrogatio, verum etiam est affirmare, idest, vera erit affirmatio infinita eiusdem singularis. Verbi gratia: putasne Socrates est sapiens? Si vera est ista responsio, non; Socrates igitur non sapiens est, idest, vera erit ista affirmatio infinita, Socrates est non sapiens. In universalibus vero non est vera, quæ similiter dicitur, idest, ex veritate negationis universalis affirmativæ interrogatæ non sequitur vera universalis affirmativa infinita, quæ similis est quoad quantitatem et qualitatem enunciationi quæsitæ; vera autem est eius negatio, idest, sed ex veritate responsionis negativæ sequitur veram esse eius, scilicet universalis quæsitæ negationem, idest, particularem negativam. Verbi gratia: putasne omnis homo est sapiens? Si vera est ista responsio, non; affirmativa similis interrogatæ quam quis ex hac responsione inferre intentaret est illa: igitur omnis homo est non sapiens. Hæc autem non sequitur ex illa negatione. Falsum est enim hoc, scilicet quod sequitur ex illa responsione; sed inferendum est, igitur non omnis homo sapiens est. Et ratio utriusque est, quia hæc particularis ultimo illata est opposita, idest contradictoria illi universali interrogatæ quam respondens falsificavit; et ideo oportet quod sit vera. Contradictoriarum enim si una est falsa, reliqua est vera. Illa vero, scilicet universalis affirmativa infinita primo illata, est contraria illi eidem universali interrogatæ. Non est autem opus quod si universalium altera sit falsa, quod reliqua sit vera. In promptu est autem causa huius diversitatis inter singulares et universales. In singularibus enim varius negationis situs non variat quantitatem enunciationis; in universalibus autem variat, ut patet. Ideo fit ut non sit eadem veritas negantium universalem in quarum altera præponitur, in altera autem postponitur negatio, ut de se patet. When he says, And it is also clear with respect to the singular that if a question is asked and a negative answer is the true one, there is also a true affirmation, etc., he presents a difficulty relating to the varying position of the negation, i.e., whether there is a difference as to truth and falsity when the negation is a part of the predicate or a part of the verb. This difficulty arises from what he has just said, namely, that it is of no consequence as to truth or falsity whether you say, "Every man is non-just” or "Every man is not just”; yet in one case the negation is a part of the predicate, in the other part of the copula, and this makes a great deal of difference with respect to affirmation and negation. To solve this problem Aristotle makes a distinction: in singular enunciations, the singular negation and infinite affirmation of the same subject are of the same truth, but in universals this is not so. For if the negation of the universal is true it is not necessary that the infinite affirmation of the universal is true. The negation of the universal is the contradictory particular, but if it is true [i.e., the contradictory particular] it is not necessary that the subaltern, which is the contrary of the contradictory, be true, for two contraries can be at once false. Hence he says that in singular enunciations it is evident that if it is true to deny the thing asked, i.e., if the negation of a singular enunciation, which has been made into an interrogation, is true, there will also be a true affirmation, i.e., the infinite affirmation of the same singular will be true. For example, if the question "Do you think Socrates is wise?” has "No” as a true response, then "Socrates is non-wise,” i.e., the infinite affirmation "Socrates is non-wise” will be true. But in the case of universals the affirmative inference is not true, i.e., from the truth of a negation to a universal affirmative question, the truth of the infinite universal affirmative (which is similar in quantity and quality to the enunciation asked) does not follow. But the negation is true, i.e., from the truth of the negative response it follows that its negation is true, i.e., the negation of the universal asked, which is the particular negative. Consider, for example, the question "Do you think every man is wise?” If the response "No” is true, one would be tempted to infer the affirmative similar to the question asked, i.e., then "Every man is non-wise.” This, however, does not follow from the negation, for this is false as it follows from that response. Rather, what must be inferred is "Then not every man is wise.” And the reason for both is that the particular enunciation inferred last is the opposite, i.e., the contradictory of the universal question, which, being falsified by the negative response, makes the contradictory of the universal affirmative true, for of contradictories, if one is false the other is true. The infinite universal affirmative first inferred, however, is contrary to the same universal question. Should it not also be true? No, because it is not necessary in the case of universals that if one is false the other is true. The cause of the diversity between singulars and universals is now clear. In singulars the varying position of the negation does not vary the quantity of the enunciation ‘ but in universals it does. Therefore there is not the same truth in enunciations denying a universal when in one the negation is a part of the predicate and in the other a part of the verb. V. lib. 2 l. 4 n. 5Deinde cum dicit: illæ vero secundum infinitætc., solvit tertiam dubitationem, an infinita nomina vel verba sint negationes. Insurgit autem hoc dubium, quia dictum est quod æquipollent negativa et infinita. Et rursus dictum est nunc quod non refert in singularibus præponere et postponere negationem: si enim infinitum nomen est negatio, tunc enunciatio, habens subiectum infinitum vel prædicatum, erit negativa et non affirmativa. Hanc dubitationem solvit per interpretationem, probando quod nec nomina nec verba infinita sint negationes, licet videantur. Unde duo circa hoc facit: primo, proponit solutionem dicens: illæ vero, scilicet dictiones, contraiacentes: verbi gratia: non homo, et, homo non iustus et iustus. Vel sic: illæ vero, scilicet dictiones, secundum infinita, idest secundum infinitorum naturam, iacentes contra nomina et verba (utpote quæ removentes quidem nomina et verba significant, ut non homo et non iustus et non currit, quæ opponuntur contra ly homo ly iustus et ly currit), illæ, inquam, dictiones infinitæ videbuntur prima facie esse quasi negationes sine nomine et verbo ex eo quod comparatæ nominibus et verbis contra quæ iacent, ea removent, sed non sunt secundum veritatem. Dixit sine nomine et verbo quia nomen infinitum, nominis natura caret, et verbum infinitum verbi natura non possidet. Dixit quasi, quia nec nomen infinitum a nominis ratione, nec verbum infinitum a verbi proprietate omnino semota sunt. Unde, si negationes apparent, videbuntur sine nomine et verbo non omnino sed quasi. Deinde probat distinctiones infinitas non esse negationes tali ratione. Semper est necesse negationem esse veram vel falsam, quia negatio est enunciatio alicuius ab aliquo; nomen autem infinitum non dicit verum vel falsum; igitur dictio infinita non est negatio. Minorem declarat, quia qui dixit, non homo, nihil magis de homine dixit quam qui dixit, homo. Et quoad significatum quidem clarissimum est: non homo, namque, nihil addit supra hominem, imo removet hominem. Quoad veritatis vero vel falsitatis conceptum, nihil magis profuit qui dixit, non homo, quam qui dixit, homo, si aliquid aliud non addatur, imo minus verus vel falsus fuit, idest magis remotus a veritate et falsitate, qui dixit, non homo, quam qui dixit, homo: quia tam veritas quam falsitas in compositione consistit; compositioni autem vicinior est dictio finita, quæ aliquid ponit, quam dictio infinita, quæ nec ponit, nec componit, idest nec positionem nec compositionem importat. Then he says, The antitheses in infinite names and verbs, as in " non-man” and "nonjust,” might seem to be negations without a name or a verb, etc. Here he raises the third difficulty, i.e., whether infinite names or verbs are negations. This question arises from his having said that the negative and infinite are equivalent and from having just said that in singular enunciations it makes no difference whether the negative is a part of the predicate or a part of the verb. For if the infinite name is a negation, then the enunciation having an infinite subject or predicate will be negative and not affirmative. He resolves this question by an interpretation which proves that neither infinite names nor verbs are negations although they seem to be. First he proposes the solution saying, The antitheses in infinite names and verbs, i.e., words contraposed, e.g., "non-man,” and "non-just man” and "just man”; or this may be read as, Those (namely, words) corresponding to infinites, i.e., corresponding to the nature of infinites, placed in opposition to names or verbs (namely, removing what the names and verbs signify, as in "non-man,” "non-just,” and "non-runs,” which are opposed to "man,” "just” and "runs”), would seem at first sight to be quasi-negations without Dame and verb, because, as related to the names and verbs before which they are placed, they remove them; they are not truly negations however. He says without a name or a verb because the infinite name lacks the nature of a name and the infinite verb does not have the nature of a verb. He says quasi because the infinite name does not fall short of the notion of the name in every way, nor the infinite verb of the nature of the verb. Hence, if it is thought that they are negations, they will be regarded as without a name or a verb, not in every way but as though they were without a name or a verb. He proves that infinitizing signs of separation are not negations by pointing out that it is always necessary for the negation to be true or false since a negation is an enunciation of something separated from something. The infinite name, however, does not assert what is true or false. Therefore the infinite word is not a negation. He manifests the minor when he says that the one who says "non-man” says nothing more of man than the one who says "man.” Clearly this is so with respect to what is signified, for "non-man” adds nothing beyond "man”; rather, it removes "man.” Moreover, with respect to a conception of truth or falsity, it is of no more use to say "non-man” than to say "man” if something else is not added; rather, it is less true or false, i.e., one who says non-man is more removed from truth and falsity than one who says man,” for both truth and falsity depend on composition, and the finite word which posits something is closer to composition than the infinite word, which neither posits nor composes, i.e., it implies neither positing nor composition. 6 Deinde cum dicit: significat autem etc., respondet quartæ dubitationi, quomodo scilicet intelligatur illud verbum supradictum de enunciationibus habentibus subiectum infinitum: hæ autem extra illas, ipsæ secundum se erunt. Et ait quod intelligitur quantum ad significati consequentiam, et non solum quantum ad ipsas enunciationes formaliter. Unde duas habentes subiectum infinitum, universalem scilicet affirmativam et universalem negativam adducens, ait quod neutra earum significat idem alicui illarum, scilicet habentium subiectum finitum. Hæc enim universalis affirmativa, omnis non homo est iustus, nulli habenti subiectum finitum significat idem: non enim significat idem quod ista, omnis homo est iustus; neque quod ista, omnis homo est non iustus. Similiter opposita negatio et universalis negativa habens subiectum infinitum, quæ est contrarie opposita supradictæ, scilicet omnis non homo non est iustus, nulli illarum de subiecto finito significat idem. Et hoc clarum est ex diversitate subiecti in istis et in illis. When he says, Moreover, "Every non-man is just does not signify the same thing as any of the other enunciations, etc., he answers a fourth difficulty, i.e., how the earlier statement concerning enunciations having an infinite subject is to be understood. The statement was that these stand by themselves and are distinct from the former [in consequence of using the name "non-man”]. This is to be understood not just with respect to the enunciations themselves formally, but with respect to the consequence of what is signified. Hence, giving two examples of enunciations with an infinite subject, the universal affirmative and universal negative,” he says that neither of these signifies the same thing as any of those, namely of those having a finite subject. The universal affirmative "Every non-man is just” does not signify the same thing as any of the enunciations with a finite subject; for it does not signify "Every man is just” nor "Every man is non-just.” Nor do the opposite negation, or the universal negative having an infinite subject which is contrarily opposed to the universal affirmative, signify the same thing as enunciations with a finite subject; i.e., "Not every non-man is just” and "No non-man is just,” do not signify the same thing as any of those with a finite subject. This is evident from the diversity of subject in the latter and the former. V. lib. 2 l. 4 n. 7Deinde cum dicit: illa vero quæ est etc., respondet quintæ quæstioni, an scilicet inter enunciationes de subiecto infinito sit aliqua consequentia. Oritur autem dubitatio hæc ex eo, quod superius est inter eas ad invicem assignata consequentia. Ait ergo quod etiam inter istas est consequentia. Nam universalis affirmativa de subiecto, et prædicato infinitis et universalis negativa de subiecto infinito, prædicato vero finito, æquipollent. Ista namque, omnis non homo est non iustus, idem significat illi, nullus non homo est iustus. Idem autem est iudicium de particularibus indefinitis et singularibus similibus supradictis. Cuiuscunque enim quantitatis sint, semper affirmativa de utroque extremo infinita et negativa subiecti quidem infiniti, prædicati autem finiti, æquipollent, ut facile potes exemplis videre. Unde Aristoteles universales exprimens, cæteras ex illis intelligi voluit. When he says, But "Every non-man is non-just” signifies the same thing as "No non-man is just,” he answers a fifth difficulty, i.e., is there a consequence among enunciations with an infinite subject? This question arises from the fact that consequences were assigned among them earlier.” He says, therefore, that there is a consequence even among these, for the universal affirmative with an infinite subject and predicate and the universal negative with an infinite subject but a finite predicate are equivalent, i.e., "Every non-man is non-just” signifies the same thing as "No non-man is just.” This is also the case in particular infinites and singulars which are similar to the foresaid, for no matter what their quantity, the affirmative with both extremes infinite and the negative with an infinite subject and a finite predicate are always equivalent, as may be easily seen by examples. Hence, Aristotle in giving the universals intends the others to be understood from these. V. lib. 2 l. 4 n. 8Deinde cum dicit: transposita vero nomina etc., solvit sextam dubitationem, an propter nominum vel verborum transpositionem varietur enunciationis significatio. Oritur autem hæc quæstio ex eo, quod docuit transpositionem negationis variare enunciationis significationem. Aliud enim dixit significare, omnis homo non est iustus, et aliud, non omnis homo est iustus. Ex hoc, inquam, dubitatur, an similiter contingat circa nominum transpositionem, quod ipsa transposita enunciationem varient, sicut negatio transposita. Et circa hoc duo facit: primo, ponit solutionem dicens, quod transposita nomina et verba idem significant: verbi gratia, idem significat, est albus homo, et, est homo albus, ubi est transpositio nominum. Similiter transposita verba idem significant, ut, est albus homo, et, homo albus est. When he says, When the names and verbs are transposed, the enunciations signify the same thing, etc., he resolves a sixth difficulty: whether the signification of the enunciation is varied because of the transposition of names or verbs. This question arises from his having shown that the transposition of the negation varies the signification of the enunciation. "Every man is non-just,” he said, does not signify the same thing as "Not every man is just.” This raises the question as to whether a similar thing happens when we transpose names. Would this vary the enunciation as the transposed negation does? First he states the solution, saying that transposed names and verbs signify the same thing, e.g., "Man is white” signifies the same thing as "White is man.” Transposed verbs also signify the same thing, as in "Man is white” and "Man white is.” V. lib. 2 l. 4 n. 9Deinde cum dicit: nam si hoc non est etc., probat prædictam solutionem ex numero negationum contradictoriarum ducendo ad impossibile, tali ratione. Si hoc non est, idest si nomina transposita diversificant enunciationem, eiusdem affirmationis erunt duæ negationes; sed ostensum est in I libro, quod una tantum est negatio unius affirmationis; ergo a destructione consequentis ad destructionem antecedentis transposita nomina non variant enunciationem. Ad probationis autem consequentiæ claritatem formetur figura, ubi ex uno latere locentur ambæ suprapositæ affirmationes, transpositis nominibus; et ex altero contraponantur duæ negativæ, similes illis quoad terminos et eorum positiones. Deinde, aliquantulo interiecto spatio, sub affirmativis ponatur affirmatio infiniti subiecti, et sub negativis illius negatio. Et notetur contradictio inter primam affirmationem et duas negationes primas, et inter secundam affirmationem et omnes tres negationes, ita tamen quod inter ipsam et infimam negationem notetur contradictio non vera, sed imaginaria. Notetur quoque contradictio inter tertiam affirmationem et tertiam negationem inter se. Hoc modo: (Figura). His ita dispositis, probat consequentiam Aristoteles sic. Illius affirmationis, est albus homo, negatio est, non est albus homo; illius autem secundæ affirmationis, quæ est, est homo albus, si ista affirmatio non est eadem illi supradictæ affirmationi, scilicet, est albus homo, propter nominum transpositionem, negatio erit altera istarum, scilicet aut, non est non homo albus, aut, non est homo albus. Sed utraque habet affirmationem oppositam alia ab illa assignatam, scilicet, est homo albus. Nam altera quidem dictarum negationum, scilicet, non est non homo albus, negatio est illius quæ dicit, est non homo albus; alia vero, scilicet, non est homo albus, negatio est eius affirmationis, quæ dicit, est albus homo, quæ fuit prima affirmatio. Ergo quæcunque dictarum negationum afferatur contradictoria illi mediæ, sequitur quod sint duæ unius, idest quod unius negationis sint duæ affirmationes, et quod unius affirmationis sint duæ negationes: quod est impossibile. Et hoc, ut dictum est, sequitur stante hypothesi erronea, quod illæ affirmationes sint propter nominum transpositionem diversæ. Then he proves the solution from the number of contradictory negations when he says, For if this is not the case there will be more than one negation of the same enunciation, etc. He does this by a reduction to the impossible and his reasoning is as follows. If this is not so, i.e., if transposed names diversify enunciations, there will be two negations of the same affirmation. But in the first book it was shown that there is only one negation of one affirmation. Going, then, from the destruction of the consequent to the destruction of the antecedent, transposed names do not vary the enunciation. To clarify the proof of the consequent, make a figure in which both of the affirmations posited above, with the names transposed are located on one side. Put the two negatives similar to them in respect to terms and position on the opposite side. Then leaving a little space, under the affirmatives put the affirmation with an infinite subject and under the negatives the negation of it. Mark the contradiction between the first affirmation and the first two negations and between the second affirmation and all three negations, but in the latter case mark the contradiction between it and the lowest negation as not true but imaginary. Mark, also, the contradiction between the third affirmation and negation. (1) Man is white - contradictories - Man is not white (2) White is man – contradictories - White is not man (3) Non-man is white - contradictories - Non-man is not white Now we can see how Aristotle proves the consequent. The negation of the affirmation "Man is white” is "Man is not white.” But if the second affirmation, "White is man,” is not the same as "Man is white,” because of the transposition of the names, its negation, [i.e., of "White is man”] will be either of these two: "Non-man is not white,” or "White is not man.” But each of these has another opposed affirmation than that assigned, namely, than "White is man.” For one of the negations, namely, "Non-man is not white,” is the negation of "Non-man is white”; the other, "White is not man” is the negation of the affirmation "Man is white,” which was the first affirmation. Therefore whatever negation is given as contradictory to the middle enunciation, it follows that there are two of one, i.e., two affirmations of one negation, and two negations of one affirmation, which is impossible. And this, as has been said, follows upon an erroneously set up hypothesis, i.e., that these affirmations are diverse because of the transposition of names. 10 Adverte hic primo quod Aristoteles per illas duas negationes, non est non homo albus, et, non est homo albus, sub disiunctione sumptas ad inveniendam negationem illius affirmationis, est homo albus, cæteras intellexit, quasi diceret: aut negatio talis affirmationis acceptabitur illa quæ est vere eius negatio, aut quæcunque extranea negatio ponetur; et quodlibet dicatur, semper, stante hypothesi, sequitur unius affirmationis esse plures negationes, unam veram quæ est contradictoria suæ comparis habentis nomina transposita, et alteram quam tu ut distinctam acceptas, vel falso imaginaris; et e contra multarum affirmationum esse unicam negationem, ut patet in opposita figura. Ex quacunque enim illarum quatuor incipias, duas sibi oppositas aspicis. Unde notanter concludit indeterminate: quare erunt duæ unius. Notice first that Aristotle through these two negations, "Non-man is not white” and "White is not man,” taken under disjunction to find the negation of the affirmation "Man is white,” has comprehended other things. It is as though he said: The negation which will be taken will either be the true negation of such an affirmation or some extraneous negation; and whichever is taken, it always follows, given the hypothesis, that there are many negations of one affirmation—one which is the contradictory of it, having equal truth with the one having its name transposed, and the other which you accept as distinct, or you imagine falsely. And conversely, there is a single negation of many affirmations, as is clear in the diagram. Hence, from whichever of these four you begin, you see two opposed to it. It is significant, therefore, that Aristotle concludes indeterminately: Therefore, there will be two [negations] of one [affirmation]. 11 Nota secundo quod Aristoteles contempsit probare quod contradictoria primæ affirmationis sit contradictoria secundæ, et similiter quod contradictoria secundæ affirmationis sit contradictoria primæ. Hoc enim accepit tamquam per se notum, ex eo quod non possunt simul esse veræ neque simul falsæ, ut manifeste patet præposito sibi termino singulari. Non stant enim simul aliquo modo istæ duæ, Socrates est albus homo, Socrates non est homo albus. Nec turberis quod eas non singulares proposuit. Noverat enim supra dictum esse in primo quæ affirmatio et negatio sint contradictoriæ et quæ non, et ideo non fuit sollicitus de exemplorum claritate. Liquet ergo ex eo quod negationes affirmationum de nominibus transpositis non sunt diversæ quod nec ipsæ affirmationes sunt diversæ et sic nomina et verba transposita idem significant. Note secondly that Aristotle does not consider it important to prove that the contradictory of the first affirmation is the contradictory of the second, and similarly that the contradictory of the second affirmation is the contradictory of the first. This he accepts as self-evident since they can neither be true at the same time nor false at the same time. This is manifestly clear when a singular term is placed first, for "Socrates is a white man” and "Socrates is not a white man” cannot be maintained at the same time in any mode. You should not be disturbed by the fact that he does not propose these singulars here, for he was undoubtedly aware that he had already stated in the first book which affirmation and negation are contradictories and which not and for this reason felt that a careful elaboration of the examples was not necessary here. It is therefore evident that since negations of affirmations with transposed names are not diverse the affirmations themselves are not diverse, and hence transposed names and verbs signify the same thing. 12 Occurrit autem dubium circa hoc, quia non videtur verum quod nominibus transpositis eadem sit affirmatio. Non enim valet: omnis homo est animal; ergo omne animal est homo. Similiter, transposito verbo, non valet: homo est animal rationale; ergo homo animal rationale est, de secundo adiacente. Licet enim nugatio committatur, tamen non sequitur primam. Ad hoc est dicendum quod sicut in rebus naturalibus est duplex transmutatio, scilicet localis, scilicet de loco ad locum, et formalis de forma ad formam; ita in enunciationibus est duplex transmutatio, situalis scilicet, quando terminus præpositus postponitur, et e converso, et formalis, quando terminus, qui erat prædicatum efficitur subiectum, et e converso vel quomodolibet, simpliciter et cetera. Et sicut quandoque fit in naturalibus transmutatio pure localis, puta quando res transfertur de loco ad locum, nulla alia variatione facta; quandoque autem fit transmutatio secundum locum, non pura sed cum variatione formali, sicut quando transit de loco frigido ad locum calidum: ita in enunciationibus quandoque fit transmutatio pure situalis, quando scilicet nomen vel verbum solo situ vocali variatur; quandoque autem fit transmutatio situalis et formalis simul, sicut contingit cum prædicatum fit subiectum, vel cum verbum tertium adiacens fit secundum. Et quoniam hic intendit Aristoteles de transmutatione nominum et verborum pure situali, ut transpositionis vocabulum præsefert, ideo dixit quod transposita nomina et verba idem significant, insinuare volens quod, si nihil aliud præter transpositionem nominis vel verbi accidat in enunciatione, eadem manet oratio. Unde patet responsio ad instantias. Manifestum est namque quod in utraque non sola transpositio fit, sed transmutatio de subiecto in prædicatum, vel de tertio adiacente in secundum. Et per hoc patet responsio ad similia. A doubt does arise, however, about the point Aristotle is making here, for it does not seem true that with transposed names the affirmation is the same. This, for example, is not valid: "Every man is an animal”; therefore, "Every animal is a man.” Nor is the following example with a transposed verb valid: "Man is a rational animal and (taking "is” as the second element), therefore "Man animal rational is”; for although it is nugatory as a whole combination, nevertheless it does not follow upon the first. The answer to this is as follows. just as there is a twofold transmutation in natural things, i.e., local, from place to place, and formal, from form to form, so in enunciations there is a twofold transmutation: a positional transmutation when a term placed before is placed after, and conversely, and a formal transmutation when a term that was a predicate is made a subject, and conversely, or in whatever mode, simply, etc. And just as in natural things sometimes a purely local transmutation is made (for instance, when a thing is transferred from place to place, with no other variation made) and sometimes a transmutation is made according to place—not simply but with a formal variation (as when a thing passes from a cold place to a hot place), so in enunciations a transmutation is sometimes made which is purely positional, i.e., when the name and verb are varied only in vocal position, and sometimes a transmutation is made which is at once formal and positional, as when the predicate becomes the subject, or the verb which is the third element added becomes the second. Aristotle’s purpose here was to treat of the purely positional transmutation of names and verbs, as the vocabulary of the transposition indicates; when he says, then, that transposed names and verbs signify the same thing, he intends to imply that if nothing other than the transposition of name and verb takes place in the enunciation, what is said remains the same. Hence, the response to the present objection is clear, for in both examples there is not only a transposition but a transmutation of subject to predicate in one case, and from an enunciation with a third element to one with a second element in the other. The response to similar questions is evident from this. V. 1. Postquam Aristoteles determinavit diversitatem enunciationis unius provenientem ex additione negationis infinitatis, hic intendit determinare quid accidat enunciationi ex hoc quod additur aliquid subiecto vel prædicato tollens eius unitatem. Et circa hoc duo facit: quia primo, determinat diversitatem earum; secundo, consequentias earum; ibi: quoniam vero hæc quidem et cetera. Circa primum duo facit: primo, ponit earum diversitatem; secundo, probat omnes enunciationes esse plures; ibi: si ergo dialectica et cetera. Dicit ergo quoad primum, resumendo quod in primo dictum fuerat, quod affirmare vel negare unum de pluribus, vel plura de uno, si ex illis pluribus non fit unum, non est enunciatio una affirmativa vel negativa. Et declarando quomodo intelligatur unum debere esse subiectum aut prædicatum, subdit quod unum dico non si nomen unum impositum sit, idest ex unitate nominis, sed ex unitate significati. Cum enim plura conveniunt in uno nomine, ita quod ex eis non fiat unum illius nominis significatum, tunc solum vocis unitas est. Cum autem unum nomen pluribus impositum est, sive partibus subiectivis, sive integralibus, ut eadem significatione concludat, tunc et vocis et significati unitas est, et enunciationis unitas non impeditur. After the Philosopher has treated the diversity in an enunciation arising from the addition of the infinite negation, he explains what happens to an enunciation when something is added to the subject or predicate which takes away its unity. He first determines their diversity, and then proves that all the enunciations are many where he says, In fact, if dialectical interrogation is a request for an answer, etc. Secondly, he determines their consequences, where he says, Some things predicated separately are such that they unite to form one predicate, etc. He begins by taking up something he said in the first book: there is not one affirmative enunciation nor one negative enunciation when one thing is affirmed or denied of many or many of one, if one thing is not constituted from the many. Then he explains what he means by the subject or predicate having to be one where he says, I do not use "one” of those things which, although one name may be imposed, do not constitute something one, i.e., a subject or predicate is one, not from the unity of the name, but from the unity of what is signified. For when many things are brought together under one name in such a way that what is signified by that name is not one, then the unity is only one of vocal sound. But when one name has been imposed for many, whether for subjective or for integral parts, so that it encloses them in the same signification, then there is unity both of vocal sound and what is signified. In the latter case, unity of the enunciation is not impeded. 2 Secundum quod subiungit: ut homo est fortasse animal et mansuetum et bipes obscuritate non caret. Potest enim intelligi ut sit exemplum ab opposito, quasi diceret: unum dico non ex unitate nominis impositi pluribus ex quibus non fit tale unum, quemadmodum homo est unum quoddam ex animali et mansueto et bipede, partibus suæ definitionis. Et ne quis crederet quod hæ essent veræ definitionis nominis partes, interposuit, fortasse. Porphyrius autem, Boethio referente et approbante, separat has textus particulas, dicens quod Aristoteles hucusque declaravit enunciationem illam esse plures, in qua plura subiicerentur uni, vel de uno prædicarentur plura, ex quibus non fit unum. In istis autem verbis: ut homo est fortasse etc., intendit declarare enunciationem aliquam esse plures, in qua plura ex quibus fit unum subiiciuntur vel prædicantur; sicut cum dicitur, homo est animal et mansuetum et bipes, copula interiecta, vel morula, ut oratores faciunt. Ideo autem addidisse aiunt, fortasse, ut insinuaret hoc contingere posse, necessarium autem non esse. Then he adds, For example, man probably is an animal and biped and civilized. This, however, is obscure, for it can be understood as all example of the opposite, as if he were saying, "I do not mean by ‘one’ such a ‘one’ as the unity of the name imposed upon many from which one thing is not constituted, for instance, ‘man’ as ‘one’ from the parts of the definition, animal and civilized and biped.” And to prevent anyone from thinking these are true parts of the definition of the name he interposes perhaps. Porphyry, however, referred to with approval by Boethius, separates these parts of the text. He says Aristotle first states that that enunciation is many in which many are subjected to one, or many are predicated of one, when one thing is not constituted from these. And when he says, For example, man perhaps is, etc., he intends to show that an enunciation is many when many from which one thing is constituted are subjected or predicated, as in the example "Man is an animal and civilized and biped,” with copulas interjected or a pause such as orators make. He added perhaps, they say, to imply that this could happen, but it need not. 3 Possumus in eamdem Porphyrii, Boethii et Alberti sententiam incidentes subtilius textum introducere, ut quatuor hic faciat. Et primo quidem, resumit quæ sit enunciatio in communi dicens: enunciatio plures est, in qua unum de pluribus, vel plura de uno enunciantur. Si tamen ex illis pluribus non fit unum, ut in primo dictum et expositum fuit. Deinde dilucidat illum terminum de uno, sive unum, dicens: dico autem unum, idest, unum nomen voco, non propter unitatem vocis, sed significationis, ut supra dictum est. Deinde tertio, dividendo declarat, et declarando dividit, quot modis contingit unum nomen imponi pluribus ex quibus non fit unum, ut ex hoc diversitatem enunciationis multiplicis insinuet. Et ponit duos modos, quorum prior est, quando unum nomen imponitur pluribus ex quibus fit unum, non tamen in quantum ex eis fit unum. Tunc enim, licet materialiter et per accidens loquendo nomen imponatur pluribus ex quibus fit unum, formaliter tamen et per se loquendo nomen unum imponitur pluribus, ex quibus non fit unum: quia imponitur eis non in quantum ex eis est unum, ut fortasse est hoc nomen, homo, impositum ad significandum animal et mansuetum et bipes, idest, partes suæ definitionis, non in quantum adunantur in unam hominis naturam per modum actus et potentiæ, sed ut distinctæ sint inter se actualitates. Et insinuavit quod accipit partes definitionis ut distinctas per illam coniunctionem, et per illud quoque adversative additum: sed si ex his unum fit, quasi diceret, cum hoc tamen stat quod ex eis unum fit. Addidit autem, fortasse, quia hoc nomen, homo, non est impositum ad significandum partes sui definitivas, ut distinctæ sunt. Sed si impositum esset aut imponeretur, esset unum nomen pluribus impositum ex quibus non fit unum. Et quia idem iudicium est de tali nomine, et illis pluribus; ideo similiter illæ plures partes definitivæ possunt dupliciter accipi. Uno modo, per modum actualis et possibilis, et sic unum faciunt; et sic formaliter loquendo vocantur plura, ex quibus fit unum, et pronunciandæ sunt continuata oratione, et faciunt enunciationem unam dicendo, animal rationale mortale currit. Est enim ista una sicut et ista, homo currit. Alio modo, accipiuntur prædictæ definitionis partes ut distinctæ sunt inter se actualitates, et sic non faciunt unum: ex duobus enim actibus ut sic, non fit unum, ut dicitur VII metaphysicæ; et sic faciunt enunciationes plures et pronunciandæ sunt vel cum pausa, vel coniunctione interposita, dicendo, homo est animal et mansuetum et bipes; sive, homo est animal, mansuetum, bipes, rhetorico more. Quælibet enim istarum est enunciatio multiplex. Et similiter ista, Socrates est homo, si homo est impositum ad illa, ut distinctæ actualitates sunt, significandum. Secundus autem modus, quo unum nomen impositum est pluribus ex quibus non fit unum, subiungitur, cum dicit: ex albo autem et homine et ambulante etc., idest, alio modo hoc fit, quando unum nomen imponitur pluribus, ex quibus non potest fieri unum, qualia sunt: homo, album, et ambulans. Cum enim ex his nullo modo possit fieri aliqua una natura, sicut poterat fieri ex partibus definitivis, clare liquet quod nomen aliquod si eis imponeretur, esset nomen non unum significans, ut in primo dictum fuit de hoc nomine, tunica, imposito homini et equo. While agreeing with the opinion of Porphyry, Boethius, and Albert, we think a more subtle construction can be made of the text. According to it Aristotle makes four points here. First, he reviews what an enunciation is in general when he says, The enunciation is many in which one is enunciated of many or many of one, unless from the many something one is constituted... as he stated and explained in the first book. Secondly, he clarifies the term "one,” when he says, I do not use "one” of those things, etc., i.e., I call a name one, not by reason of the unity of vocal sound, but of signification, as was said above. Thirdly, he manifests (by dividing) and divides (by manifesting) the number of ways in which one name may be imposed on many things from which one thing is not constituted. From this he implies the diversity of the multiple enunciation. And he posits two ways in which one name may be imposed on many things from which one thing is not constituted: first, when one name is imposed upon many things from which one thing is constituted but not as one thing is constituted from them. In this case, materially and accidentally speaking, the name is imposed on many from which one thing is constituted, but it is formally and per se imposed on many from which one thing is not constituted; for it is not imposed upon them in the respect in which they constitute one thing; as perhaps the name "man” is imposed to signify animal and civilized and biped (i.e., parts of its definition) not as they are united in the one nature of man in the mode of act and potency, but as they are themselves distinct actualities. Aristotle implies that he is taking these parts of the definition as distinct by the conjunctions and by also adding adversatively, but if there is something one formed from these, Neither the Greek nor the Latin text of Aristotle has the "if” that Cajetan puts into this phrase.The correct reading is "...but there is something one formed from these.” Close as if to say, "when however it holds that one thing is constituted from these.” He adds perhaps because the name "man” is not imposed to signify its definitive parts as they are distinct. But if it had been so imposed or were imposed, it would be one name imposed on many things from which no one thing is constituted. And since the judgment with respect to such a name and those many things is the same, the many definitive parts can also be taken in two ways: first, in the mode of the actual and possible, and thus they constitute one thing, and formally speaking are called many from which one thing is constituted, and they are to be pronounced in continuous speech and they make one enunciation, for example, "A mortal rational animal is running.” For this is one enunciation, just as is "Man is running.” In the second way, the foresaid parts of the definition are taken as they are distinct actualities, and thus they do not constitute one thing, for one thing is not constituted from two acts as such, as Aristotle says in VII Metaphysicæ [13: 1039a 5]. In this case they constitute many enunciations and are pronounced either with conjunctions interposed or with a pause in the rhetorical manner, for example, "Man is an animal and civilized and biped” or "Man is an animal–civilized–biped.” Each of these is a multiple enunciation. And so is the enunciation, "Socrates is a man” if "man” is imposed to signify animal, civilized, and biped as they are distinct actualities. Aristotle takes up the second way in which one name is imposed on many from which one thing is not constituted where he says, whereas from "white” and "man” and "walking” there is not [something one formed]. Since in no way can any one nature be constituted from "man,” white,” and "walking” (as there can be from the definitive parts), it is evident that if a name were imposed on these it would be a name that does not signify one thing, as was said in the first book of the name "cloak” imposed for man and horse. 4 Habemus ergo enunciationis pluris seu multiplicis duos modos, quorum, quia uterque fit dupliciter, efficiuntur quatuor modi. Primus est, quando subiicitur vel prædicatur unum nomen impositum pluribus, ex quibus fit unum, non in quantum sunt unum; secundus est, quando ipsa plura ex quibus fit unum, in quantum sunt distinctæ actualitates, subiiciuntur vel prædicantur; tertius est, quando ibi est unum nomen impositum pluribus ex quibus non fit unum; quartus est, quando ista plura ex quibus non fit unum, subiiciuntur vel prædicantur. Et notato quod cum enunciatio secundum membra divisionis illius, qua divisa est, in unam et plures, quadrupliciter variari possit, scilicet cum unum de uno prædicatur, vel unum de pluribus, vel plura de uno, vel plura de pluribus; postremum sub silentio præterivit, quia vel eius pluralitas de se clara est, vel quia, ut inquit Albertus, non intendebat nisi de enunciatione, quæ aliquo modo una est, tractare. Demum concludit totam sententiam, dicens: quare nec si aliquis affirmet unum de his pluribus, erit affirmatio una secundum rem: sed vocaliter quidem erit una, significative autem non una, sed multæ fient affirmationes. Nec si e converso de uno ista plura affirmabuntur, fiet affirmatio una. Ista namque, homo est albus, ambulans et musicus, importat tres affirmationes, scilicet, homo est albus et est ambulans et est musicus, ut patet ex illius contradictione. Triplex enim negatio illi opponitur correspondens triplici affirmationi positæ. We have, therefore, two modes of the many (i.e., the multiple enunciation) and since both are constituted in two ways, there will be four modes: first, when one name imposed on many from which one thing is constituted is subjected or predicated as though the name stands for many; the second, when the many from one which one thing is constituted are subjected or predicated as distinct actualities; the third, when one name is imposed for a many from which nothing one is constituted; the fourth, when many which do not constitute one thing are subjected or predicated. Note that the enunciation, according to the members of the division by which it has been divided into one and many, can be varied in four ways, i.e., one is predicated of one, one of many, many of one, and many of many. Aristotle has not spoken of the last one, either because its plurality is clear enough or because, as Albert says, he only intends to treat of the enunciation which is one in some way. Finally [fourthly], he concludes with this summary: Consequently, if someone affirms something one of these latter there will not be one affirmation according to the thing: vocally it will be one; significatively, it will not be one, but many. And conversely, if the many are affirmed of one subject, there will not be one affirmation. For example, "Man is white, walking, and musical” implies three affirmations, i.e., "Man is white” and "is walking” and "is musical,” as is clear from its contradiction, for a threefold negation is opposed to it, corresponding to the threefold affirmation. 5 Deinde cum dicit: si ergo dialectica etc., probat a posteriori supradictas enunciationes esse plures. Circa quod duo facit: primo, ponit rationem ipsam ad hoc probandum per modum consequentiæ; deinde probat antecedens dictæ consequentiæ; ibi: dictum est autem de his et cetera. Quoad primum talem rationem inducit. Si interrogatio dialectica est petitio responsionis, quæ sit propositio vel altera pars contradictionis, nulli enunciationum supradictarum interrogative formatæ erit responsio una; ergo nec ipsa interrogatio est una, sed plures. Cuius rationis primo ponit antecedens: si ergo et cetera. Ad huius intelligendos terminos nota quod idem sonant enunciatio, interrogatio et responsio. Cum enim dicitur, cælum est animatum, in quantum enunciat prædicatum de subiecto, enunciatio vocatur; in quantum autem quærendo proponitur, interrogatio; ut vero quæsito redditur, responsio appellatur. Idem ergo erit probare non esse responsionem unam, et interrogationem non esse unam, et enunciationem non esse unam. Adverte secundo interrogationem esse duplicem. Quædam enim est utram partem contradictionis eligendam proponens; et hæc vocatur dialectica, quia dialecticus habet viam ex probabilibus ad utramque contradictionis partem probandam. Altera vero determinatam ad unum responsionem exoptat; et hæc est interrogatio demonstrativa, eo quod demonstrator in unum determinate tendit. Considera ulterius quod interrogationi dialecticæ dupliciter responderi potest. Uno modo, consentiendo interrogationi, sive affirmative sive negative; ut si quis petat, cælum est animatum? Et respondeatur, est; vel, Deus non movetur? Et respondeatur, non: talis responsio vocatur propositio. Alio modo, potest responderi interimendo; ut si quis petat, cælum est animatum? Et respondeatur, non; vel Deus non movetur? Et respondeatur, movetur: talis responsio vocatur contradictionis altera pars, eo quod affirmationi negatio redditur et negationi affirmatio. Interrogatio ergo dialectica est petitio annuentis responsionis, quæ est propositio, vel contradicentis, quæ est altera pars contradictionis secundum supradictam Boethii expositionem. Then when he says, In fact, if dialectical interrogation is a request for an answer, etc., he proves a posteriori that the foresaid enunciations are many. First he states an argument to prove this by way of the consequent; then he proves the antecedent of the given consequent where he says, But we have spoken about these things in the Topics, etc. Now if dialectical questioning is a request for an answer, either a proposition or one part of a contradiction, none of the foresaid enunciations, put in the form of a question, will have one answer. Therefore, the question is not one, but many. Aristotle first states the antecedent of the argument, if dialectical interrogation is a request for an answer, etc. To understand this it should be noted that an enunciation, a question, and an answer sound the same. For when we say, "The region of heaven is animated,” we call it an enunciation inasmuch as it enunciates a predicate of a subject, but when it is proposed to obtain an answer we call it an interrogation, and as applied to what was asked we call it a response. Therefore, to prove that there is not one response or one question or one enunciation will be the same thing. It should also be noted that interrogation is twofold. One proposes either of the two parts of a contradiction to choose from. This is called dialectical interrogation because the dialectician knows the way to prove either part of a contradiction from probable positions. The other kind of interrogation seeks one determinate response. This is the demonstrative interrogation, for the demonstrator proceeds determinately toward a single alternative. Note, finally, that it is possible to reply to a dialectical question in two ways. We may consent to the question, either affirmatively or negatively; for example, when someone asks, "Is the region of heaven animated,” we may respond, "It is,” or to the question "Is not God moved,” we may say, "No.” Such a response is called a proposition. The second way of replying is by destroying; for example, when someone asks "Is the region of heaven animated?” and we respond, "No,” or to the question, "Is not God moved?” we respond, "He is moved.” Such a response is called the other part of a contradiction, because a negation is given to an affirmation and an affirmation to a negation. Dialectical interrogation, then, according to the exposition just given, which is that of Boethius, is a request for the admission of a response which is a proposition, or which is one part of a contradiction. 6 Deinde subdit probationem consequentiæ, cum ait: propositio vero unius contradictionis est et cetera. Ubi notandum est quod si responsio dialectica posset esse plures, non sequeretur quod responsio enunciationis multiplicis non posset esse dialectica; sed si responsio dialectica non potest esse nisi una enunciatio, tunc recte sequitur quod responsio enunciationis pluris, non est responsio dialectica, quæ una est. Notandum etiam quod si enunciatio aliqua plurium contradictionum pars est, una non esse comprobatur: una enim uni tantum contradicit. Si autem unius solum contradictionis pars est, una est eadem ratione, quia scilicet unius affirmationis unica est negatio, et e converso. Probat ergo Aristoteles consequentiam ex eo quod propositio, idest responsio dialectica unius contradictionis est, idest una enunciatio est affirmativa vel negativa. Ex hoc enim, ut iam dictum est, sequitur quod nullius enunciationis multiplicis sit responsio dialectica, et consequenter nec una responsio sit. Nec prætereas quod cum propositionem, vel alteram partem contradictionis, responsionemque præposuerit dialecticæ interrogationis, de sola propositione subiunxit, quod est una; quod ideo fecit, quia illius alterius vocabulum ipsum unitatem præferebat. Cum enim alteram contradictionis partem audis, unam affirmationem vel negationem statim intelligis. Adiunxit autem antecedenti ly ergo, vel insinuans hoc esse aliunde sumptum, ut postmodum in speciali explicabit, vel, permutato situ, notam consequentiæ huius inter antecedens et consequens locandam, antecedenti præposuit; sicut si diceretur, si ergo Socrates currit, movetur; pro eo quod dici deberet, si Socrates currit, ergo movetur. Sequitur deinde consequens: non erit una responsio ad hoc; et infert principalem conclusionem subdens, quod neque una erit interrogatio et cetera. Si enim responsio non potest esse una, nec interrogatio ipsa una erit. He adds the proof of the consequent when he says, and a proposition is a part of one contradiction. In relation to this it should be noted that if a dialectical response could be many, it would not follow that a response to a multiple enunciation would not be dialectical. However, if the dialectical response can only be one enunciation then it follows that a response to a plural enunciation is not a dialectical response, for it is one [i.e., it inclines to one part of a contradiction at a time]. It should also be noted that if an enunciation is a part of many contradictions, it is thereby proven not to be one, for one contradicts only one. But if an enunciation is a part of only one contradiction, it is one by the same reasoning, i.e., because there is only one negation of one affirmation, and conversely. Hence Aristotle proves the consequent from the fact that the proposition, i.e., the dialectical response, is a part of one contradiction, i.e., it is one affirmative or one negative enunciation. It follows from this, as has been said, that there is no dialectical response of a multiple enunciation, and consequently not one response. It should not be overlooked that when he designates a proposition or one part of a contradiction as the response to a dialectical interrogation, it is only of the proposition that he adds that it is one, because the very wording shows the unity of the other. For when you hear one part of a contradiction, you immediately understand one affirmation or negation. He puts the "therefore” with the antecedent, either implying that this is taken from another place and he will explain in particular afterward, or having changed the structure, he places the sign of the consequent, which should be between the antecedent and consequent before the antecedent, as when one says, "Therefore if Socrates runs, he is moved,” for "If Socrates runs, therefore he is moved.” Then the consequent follows: there will not be one answer to this, etc.; and the inference of the principal conclusion, for there would not be a single question. For if the response cannot be one, the question will not be one. 7 Quod autem addidit: nec si sit vera, eiusmodi est. Posset aliquis credere, quod licet interrogationi pluri non possit dari responsio una, quando id de quo quæstio fit non potest de omnibus illis pluribus affirmari vel negari (ut cum quæritur, canis est animal? Quia non potest vere de omnibus responderi, est, propter cæleste sidus, nec vere de omnibus responderi, non est, propter canem latrabilem, nulla possit dari responsio una); attamen quando id quod sub interrogatione cadit potest vere de omnibus affirmari aut negari, tunc potest dari responsio una; ut si quæratur, canis est substantia? Quia potest vere de omnibus responderi, est, quia esse substantiam omnibus canibus convenit, unica responsio dari possit. Hanc erroneam existimationem removet dicens: nec si sit vera, idest, et dato quod responsio data enunciationi multiplici de omnibus verificetur, nihilominus non est una, quia unum non significat, nec unius contradictionis est pars, sed plures responsio illa habet contradictorias, ut de se patet. He adds, even if there is a true answer, because someone might think that although one response cannot be given to a plural interrogation when the question concerns something that cannot be affirmed or denied of all of the many (for example, when someone asks, "Is a dog an animal?” no one response can be given, for we cannot truly say of every dog that it is an animal because of the star by that name; nor can we truly say of every dog that it is not an animal, because of the barking dog), nevertheless one response could be given when that which falls tinder the interrogation can be truly said of all. For example, when someone asks, "Is a dog a substance?” a single response can be given because it can truly he said of every dog that it is a substance, for to be a substance belongs to all dogs. Aristotle adds the phrase, even if there is a true answer, to remove such an erroneous judgment. For even if the response to the multiple enunciation is verified of all, it is nonetheless not one, since it does not signify one thing, nor is it a part of one contradiction. Rather, as is evident, this response has many contradictories. 8 Deinde cum dicit: dictum est autem de his in Topicis etc., probat antecedens dupliciter: primo, auctoritate eorum quæ dicta sunt in Topicis; secundo, a signo. Et circa hoc duo facit. Primo, ponit ipsum signum, dicens: quod similiter etc., cum auctoritate topicorum, manifestum est, scilicet, antecedens assumptum, scilicet quod dialectica interrogatio est petitio responsionis affirmativæ vel negativæ. Quoniam nec ipsum quid est, idest ex eo quod nec ipsa quæstio quid est, est interrogatio dialectica: verbi gratia; si quis quærat, quid est animal? Talis non quærit dialectice. Deinde subiungit probationem assumpti, scilicet quod ipsum quid est, non est quæstio dialectica; et intendit quod quia interrogatio dialectica optionem respondenti offerre debet, utram velit contradictionis partem, et ipsa quæstio quid est talem libertatem non proponit (quia cum dicimus, quid est animal? Respondentem ad definitionis assignationem coarctamus, quæ non solum ad unum determinata est, sed etiam omni parte contradictionis caret, cum nec esse, nec non esse dicat); ideo ipsa quæstio quid est, non est dialectica interrogatio. Unde dicit: oportet enim ex data, idest ex proposita interrogatione dialectica, hunc respondentem eligere posse utram velit contradictionis partem, quam contradictionis utramque partem interrogantem oportet determinare, idest determinate proponere, hoc modo: utrum hoc animal sit homo an non: ubi evidenter apparet optionem respondenti offerri. Habes ergo pro signo cum quæstio dialectica petat responsionem propositionis, vel alterius contradictionis partem, elongationem quæstionis quid est a quæstionibus dialecticis. Where he says, But we have spoken about these things in the Topics, etc., he proves the antecedent in two ways. First, he proves it on the basis of what was said in the Topics; secondly, by a sign. The sign is given first where he says, Similarly it is clear that the question "What is it?” is not a dialectical one, etc. That is, given the doctrine in the Topics, it is clear (i.e., assuming the antecedent that the dialectical interrogation is a request for an affirmative or negative response) that the question "What is it?” is not a dialectical interrogation, e.g., when someone asks, "What is an animal?” he does not interrogate dialectically. Secondly, he gives the proof of what was assumed, namely, that the question "What is it?” is not a dialectical question. He states that a dialectical interrogation must offer to the one responding the option of whichever part of the contradiction he wishes. The question "What is it?” does not offer such liberty, for in saying "What is an animal?” the one responding is forced to assign a definition, and a definition is not only determined to one but is also entirely devoid of contradiction, since it affirms neither being nor non-being. Therefore, the question "What is it?” is not a dialectical interrogation. Whence he says, For the dialectical interrogation must provide, i.e., from the proposed dialectical interrogation the one responding must be able to choose whichever part of the contradiction he wishes, which parts of the contradiction the interrogator must specify, i.e., he must propose the question in this way: "Is this animal man or not?” wherein the wording of the question clearly offers an option to the one answering. Therefore, you have as a sign that a dialectical question is seeking a response of a proposition or of one part of a contradiction, the setting apart of the question "What is it?” from dialectical questions. VI. 1 Postquam declaravit diversitatem multiplicis enunciationis, intendit determinare de earum consequentiis. Et circa hoc duo facit, secundum duas dubitationes quas solvit. Secunda incipit; ibi: verum autem est dicere et cetera. Circa primum tria facit: primo, proponit quæstionem; secundo, ostendit rationabilitatem quæstionis; ibi: si enim quoniam etc.; tertio, solvit eam; ibi: eorum igitur et cetera. Est ergo dubitatio prima: quare ex aliquibus divisim prædicatis de uno sequitur enunciatio, in qua illamet unita prædicantur de eodem, et ex aliquibus non. Unde hæc diversitas oritur? Verbi gratia; ex istis, Socrates est animal et est bipes; sequitur, ergo Socrates est animal bipes; et similiter ex istis, Socrates est homo et est albus; sequitur, ergo Socrates est homo albus. Ex illis vero, Socrates est bonus, et est citharoedus; non sequitur, ergo est bonus citharoedus. Unde proponens quæstionem inquit: quoniam vero hæc, scilicet prædicta, ita prædicantur composita, idest coniuncta, ut unum sit prædicamentum quæ extra prædicantur, idest, ut ex eis extra prædicatis unite fiat prædicatio, alia vero prædicata non sunt talia, quæ est inter differentia; unde talis innascitur diversitas? Et subdit exempla iam adducta, et ad propositum applicata: quorum primum continet prædicata ex quibus fit unum per se, scilicet, animal et bipes, genus et differentia; secundum autem prædicata ex quibus fit unum per accidens, scilicet, homo albus; tertium vero prædicata ex quibus neque unum per se neque unum per accidens inter se fieri sequitur; ut, citharoedus et bonus, ut declarabitur. Having explained the diversity of the multiple enunciation Aristotle now proposes to determine the consequences of this. He treats this in relation to two questions which he solves. The second begins where he says, On the other hand, it is also true to say predicates of something singly, etc. With respect to the other question, first he proposes it, then he shows that the question is a reasonable one where he says, For if we hold that whenever each is truly said of a subject, both together must also be true, many absurdities will follow, etc. Finally, he solves it where he says, Those things that are predicated—taken in relation to that to which they are joined in predication, etc. The first question is this: Why is it that from some things predicated divisively of a subject an enunciation follows in which they are predicated of the same subject unitedly, and from others not? What is the reason for this diversity? For example, from "Socrates is an animal and he is biped” follows, "Therefore, Socrates is a biped animal”; and similarly, from "Socrates is a man and he is white” follows, "Therefore, Socrates is a white man.” But from "Socrates is good and he is a lute player,” the enunciation, "Therefore, he is a good lute player” does not follow. Hence in proposing the question Aristotle says, Some things, i.e., predicates, are so predicated when combined, that there is one predicate from what is predicated separately, i.e., from some things that are predicated separately, a united predication is made but from others this is riot so. What is the difference between these; whence does such a diversity arise? He adds the examples which we have already cited and applied to the question. Of these examples, the first contains predicates from which something one per se is formed, i.e., "animal” and "biped,” a genus and difference; the second contains predicates from which something accidentally one is formed, namely, "white man”; the third contains predicates from which neither one per se nor one accidentally is formed, "lute player” and "good,” as will be explained. V. lib. 2 l. 6 n. 2Deinde cum dicit: si enim quoniam etc., declarat veritatem diversitatis positæ, ex qua rationabilis redditur quæstio: si namque inter prædicata non esset talis diversitas, irrationabilis esset dubitatio. Ostendit autem hoc ratione ducente ad inconveniens, nugationem scilicet. Et quia nugatio duobus modis committitur, scilicet explicite et implicite; ideo primo deducit ad nugationem explicitam, secundo ad implicitam; ibi: amplius, si Socrateset cetera. Ait ergo quod si nulla est inter quæcumque prædicata differentia, sed de quolibet indifferenter censetur quod quia alterutrum separatum dicitur, quod utrumque coniunctim dicatur, multa inconvenientia sequentur. De aliquo enim homine, puta Socrate, verum est separatim dicere quod, homo est, et albus est; quare et omne, idest et coniunctim dicetur, Socrates est homo albus. Rursus et de eodem Socrate potest dici separatim quod, est homo albus, et quod, est albus; quare et omne, idest, igitur coniunctim dicetur, Socrates est homo albus albus: ubi manifesta est nugatio. Rursus si de eodem Socrate iterum dicas separatim quod, est homo albus albus, verum dices et congrue quod est albus, et secundum hoc, si iterum hoc repetes separatim, a veritate simili non discedes, et sic in infinitum sequetur, Socrates est homo albus, albus, albus in infinitum. Simile quod ostenditur in alio exemplo. Si quis de Socrate dicat quod, est musicus, albus, ambulans, cum possit et separatim dicere quod, est musicus, et quod, est albus, et quod, est ambulans; sequetur, Socrates est musicus, albus, ambulans, musicus, albus, ambulans. Et quia pluries separatim, in eodem tamen tempore, enunciari potest, procedit nugatio sine fine. Deinde deducit ad implicitam nugationem, dicens, cum de Socrate vere dici possit separatim quod, est homo, et quod, est bipes, si coniunctim inferre licet, sequetur quod, Socrates sit homo bipes. Ubi est implicita nugatio. Bipes enim circumloquens differentiam hominis actu et intellectu clauditur in hominis ratione. Unde ponendo loco hominis suam rationem (quod fieri licet, ut docet Aristoteles II topicorum), apparebit manifeste nugatio. Dicetur enim: Socrates est homo, idest, animal bipes, bipes. Quoniam ergo plurima inconvenientia sequuntur si quis ponat complexiones, idest, adunationes prædicatorum fieri simpliciter, idest, absque diversitate aliqua, manifestum est ex dictis; quomodo autem faciendum est, nunc, idest, in sequentibus dicemus. Et nota quod iste textus non habetur uniformiter apud omnes quoad verba, sed quia sententia non discrepat, legat quicunque ut vult. When he says, For if we hold that whenever each is truly said of a subject, both together must also be true, etc., he shows that there truly is such a diversity among predicates and in so doing renders the question reasonable, for if there were not such a diversity among predicates the question would be pointless. He shows this by reasoning lead-ing to an absurdity, i.e., to something nugatory. Now, something nugatory is effected in two ways, explicitly and implicitly. Therefore, he first makes a deduction to the explicitly nugatory, secondly to the implicitly, where he says, Furthermore, if Socrates is Socrates and a man, Socrates is a Socrates man, etc. If, he says, there is no difference between predicates, and it is supposed of any of them indifferently that because both are said separately both may he said conjointly, many absurdities will follow. For of some man, say Socrates, it is true to say separately that he is a man and he is white; therefore both -together, i.e., we may also say conjointly, "Socrates is a white man.” Again, of the same Socrates we can say separately that he is a white man and that he is white, and both together, i.e., therefore conjointly, "Socrates is a white white man.” Here the nugatory expression is evident. Further, if of the same Socrates that you again say separately is a white white man it will be true and consistent to say that he is white, and according to this, if again repeating this separately, you will not deviate from a similar truth, and this will follow to infinity, then Socrates is a white white white man to infinity. The same thing can be shown by another example, If someone says of Socrates that he is musical, white, and walking, since it is also possible to say separately that he is musical, and that he is white, and that he is walking, it will follow that Socrates is musical, white, walking, musical, white, walking. And since these can be enunciated many times separately, yet at the same time, the nugatory statement proceeds without end. Then he makes a deduction to the implicitly nugatory. Since it can be truly said of Socrates separately that he is man and that he is biped, it will follow that Socrates is a biped man, if it is licit to infer conjointly. This is implicitly nugatory because the "biped,” which indirectly expresses the difference of man in act and in understanding, is included in the notion of man. Hence, if we posit the definition of man in place of "man” (which it is licit to do, as Aristotle teaches in II Topicorum [2: 110a 5]) the nugatory character of the enunciation will be evident, for when we say "Socrates is a biped man,” we are saying "Socrates is a biped biped animal.” From what has been said it is evident that many absurdities follow if anyone proposes that combinations, i.e., unions of predicates, be made simply, i.e., without any distinction. Now, i.e., in what follows, we will state how this must be settled. This particular text is not uniformly worded in the manuscripts, but since no discrepancy of thought is involved one may read it as he wishes. 3 Deinde cum dicit: eorum igitur etc., solvit propositam quæstionem. Et circa hoc duo facit: primo, respondet instantiis in ipsa propositione quæstionis adductis; secundo, satisfacit instantiis in probatione positis; ibi: amplius nec quæcumqueet cetera. Circa primum duo facit: primo namque, declarat veritatem; secundo, applicat ad propositas instantias; ibi: quocirca et cetera. Determinat ergo dubitationem tali distinctione. Prædicatorum sive subiectorum plurium duo sunt genera: quædam sunt per accidens, quædam per se. Si per accidens, hoc dupliciter contingit, vel quia ambo dicuntur per accidens de uno tertio, vel quia alterum de altero mutuo per accidens prædicatur. Quando illa plura divisim prædicata sunt per accidens quovis modo, ex eis non sequitur coniunctim prædicatum; quando autem sunt per se, tum ex eis sequitur coniuncte prædicatum. Unde continuando se ad præcedentia ait: eorum igitur quæ prædicantur, et de quibus prædicantur, idest subiectorum, quæcumque dicuntur secundum accidens (et per hoc innuit oppositum membrum, scilicet per se), vel de eodem, idest accidentaliter concurrunt ad unius tertii denominationem, vel alterutrum de altero, idest accidentaliter mutuo se denominant (et per hoc ponit membra duplicis divisionis), hæc, scilicet plura per accidens, non erunt unum, idest non inferent prædicationem coniunctam. When he says, Those things that are predicated—taken in relation to that to which they are joined in predication, etc., he solves the proposed question. First he makes an answer with respect to the instances cited in proposing the question; secondly, he solves the problem as related to the instances posited in his proof where he says, Furthermore, predicates that are present in one another cannot be combined simply. In relation to the first answer, he states the true position first and then applies it to the instances where he says, This is the reason "good” and "shoemaker” cannot be combined simply, etc. He settles the question with this distinction: there are two kinds of multiple predicates and subjects. Some are accidental, some per se. If they are accidental this occurs in two ways, either because both are said accidentally of a third thing or because they are predicated of each other accidentally. Now when the many predicated divisively are in any way accidental, a conjoined predicate does not follow from them; but when they are per se, a conjoined predicate does follow from them. In answering the question, therefore, Aristotle connects what he is saying with what has gone before: Of those things that are predicated and those of which they are predicated, i.e., subjects, whichever are said accidentally (by which he intimates the opposite member, i.e., per se), either of the same subject, i.e., they unite accidentally for the denomination of one third thing, or of one another, i.e., they denominate each other accidentally (and by this he posits the members of a two-fold division), these (i.e., these many accidentally) will not be one, i.e., do not produce a conjoined predication. 4 Et explanat utrumque horum exemplariter. Et primo, primum, quando scilicet illa plura per accidens dicuntur de tertio, dicens: ut si homo albus est et musicus divisim. Sed non est idem, idest non sequitur adunatim, ergo homo est musicus albus. Utraque enim sunt accidentia eidem tertio. Deinde explanat secundum, quando solum illa plura per accidens de se mutuo prædicantur, subdens: nec si album musicum verum est dicere, idest, et etiamsi de se invicem ista prædicantur per accidens ratione subiecti in quo uniuntur, ut dicatur, homo est albus, et est musicus, et album est musicum, non tamen sequitur quod album musicum unite prædicetur, dicendo, ergo homo est albus musicus. Et causam assignat, quia album dicitur de musico per accidens, et e converso. He explains both of these by examples. First, the many said accidentally of a third; for example, man is white and musical divisively. But they are not the same, i.e., it does not follow unitedly that "Man is musical white” for both are accidental to the same third thing. Then he explains the second member by an example. In it the many are predicated only of one another. Even if it were true to say white is musical, i.e., even if these are predicated accidentally of each other by reason of the subject in which they are united, so that we may say "Man is white and he is musical, and white is musical,” it still does not follow that "musical white” is predicated as a unity when we say, "Therefore, man is musical white.” He gives as the cause of this that "white” is said of "musical” accidentally and conversely. 5 Notandum est hic quod cum duo membra per accidens enumerasset, unico tamen exemplo utrumque membrum explanavit, ut insinuaret quod distinctio illa non erat in diversa prædicata per accidens, sed in eadem diversimode comparata; album enim et musicum, comparata ad hominem, sub primo cadunt membro; comparata autem inter se, sub secundo. Diversitatem ergo comparationis pluralitate membrorum, identitatem autem prædicatorum unitate exempli astruxit. It must be noted here that although he has enumerated two accidental members, he explains both members by this single example so as to imply that the distinction is not one of different accidental predicates, but of the same predicates compared in different ways. "White” and "musical” compared to "man” fall under the first member, but compared with each other, under the second. Hence he has provided diversity of comparison by the plurality of the members, but identity of predicates by the unity of the example. 6 Advertendum est ulterius, ad evidentiam divisionis factæ in littera, quod, secundum accidens, potest dupliciter accipi. Uno modo, ut distinguitur contra perseitatem posterioristicam, et sic non sumitur hic: quoniam cum dicitur plura prædicata secundum accidens, aut ly secundum accidens determinaret coniunctionem inter se, et sic manifeste esset falsa regula; quoniam inter prima prædicata, animal bipes, seu, animal rationale, est prædicatio secundum accidens hoc modo (differentia enim in nullo modo perseitatis prædicatur de genere, et tamen Aristoteles in textu dicit ea non esse prædicata per accidens, et asserit quod est optima illatio, est animal et bipes, ergo est animal bipes); aut determinaret coniunctionem illarum ad subiectum, et sic etiam inveniretur falsitas in regula: bene namque dicitur, paries est coloratus, et est visibilis, et tamen coloratum visibile non per se inest parieti. Alio modo, accipitur ly secundum accidens, ut distinguitur contra hoc quod dico, ratione sui, seu, non propter aliud, et sic idem sonat, quod, per aliud: et hoc modo accipitur hic. Quæcunque enim sunt talis naturæ quod non ratione sui iunguntur, sed propter aliud, ab illatione coniuncta deficere necesse est, ex eo quod coniuncta illatio unum alteri substernit, et ratione sui ea adunata denotat ut potentiam et actum. Est ergo sensus divisionis, quod prædicatorum plurium, quædam sunt per accidens, quædam per se, idest, quædam adunantur inter se ratione sui, quædam propter aliud. Ea quæ per se uniuntur inferunt coniunctum, ea autem quæ propter aliud, nequaquam. To make this division evident it must also be noted that accidentally can be taken in two ways. It may be taken as it is distinguished from "posterioristic perseity.” This is not the way it is taken here, for "many predicates accidentally” would then mean that the "accidentally” determines a conjunction between predicates, and thus the rule would clearly be false, for the first predicates he gave as examples are predicated accidentally in this way, namely, "biped animal,” or "rational animal” (for a difference is not predicated of a genus in any mode of perseity, and yet Aristotle says in the text that these are not predicated accidentally, and has asserted that "He is an animal and biped, therefore he is a biped animal” is a good inference). Or it would mean that the "accidentally” determines a conjunction of the predicates with the subject, and thus also the rule would be false, for it is valid to say, "The wall is colored and it is visible,” yet visible colored is not per se in the wall. Accidentally” taken in the second way is distinguished from what I call "on its own account,” i.e., not because of something else; "accidentally” then means "through another.” This is the way it is taken here, for whatever are of such a nature that they are joined because of something else, and not on their own account, do not admit of conjoined inference, because a conjoined inference subjects one to the other, and denotes the things united on their own account as potency and act. Therefore, the sense of the division is this: of many predicates, some are accidental, some per se, i.e., some are united among themselves on their own account, some on account of another. Those that are per se united infer conjointly; those that are united on account of another do not infer conjointly in any way. 7 Deinde cum dicit: quocirca nec citharoedusetc., applicat declaratam veritatem ad partes quæstionis. Et primo, ad secundam partem, quia scilicet non sequitur: est bonus et est citharoedus; ergo est bonus citharoedus, dicens: quocirca nec citharoedus bonus etc.; secundo, ad aliam partem quæstionis, quare sequebatur: est animal et est bipes; ergo est animal bipes: et ait: sed animal bipes et cetera. Et subiungit huius ultimi dicti causam, quia, animal bipes, non sunt prædicata secundum accidens coniuncta inter se aut in tertio, sed per se. Et per hoc explanavit alterum membrum primæ divisionis, quod adhuc positum non fuerat explicite. Adverte quod Aristoteles, eamdem tenens sententiam de citharoedo et bono et musico et albo, conclusit quod album et musicum non inferunt coniunctum prædicatum; ideo nec citharoedus et bonus inferunt citharoedus bonus simpliciter, idest coniuncte. Est autem ratio dicti, quia licet musica et albedo dissimiles sint bonitati et arti citharisticæ in hoc, quod bonitas nata est denominare et subiectum tertium, puta hominem et ipsam artem citharisticam (propter quod falsitas manifeste cernitur, quando dicitur: est bonus et citharoedus; ergo bonus citharoedus), musica vero et albedo subiectum tertium natæ sunt denominare tantum, et non se invicem (propter quod latentior est casus cum proceditur: est albus et est musicus; ergo est musicus albus), licet, inquam, in hoc sint dissimiles, et propter istam dissimilitudinem processus Aristotelis minus sufficiens videatur; attamen similes sunt in hoc quod, si servetur identitas omnimoda prædicatorum quam servari oportet, si illamet divisa debent inferri coniunctim, sicut musica non denominat albedinem, neque contra, ita nec bonitas, de qua fit sermo, cum dicitur, homo est bonus, denominat artem citharisticam, neque e converso. Cum enim bonum sit æquivocum, licet a consilio, alia ratione dicitur de perfectione citharoedi, et alia de perfectione hominis. Quando namque dicimus, Socrates est bonus, intelligimus bonitatem moralem, quæ est hominis bonitas simpliciter (analogum siquidem simpliciter positum sumitur pro potiori); cum autem infertur, citharoedus bonus, non bonitatem moris sed artis prædicas: unde terminorum identitas non salvatur; sufficienter igitur et subtiliter Aristoteles eamdem de utrisque protulit sententiam, quia eadem est hæc, et ibi ratio et cetera. When he says, This is the reason "good” and "shoemaker” cannot be combined simply, etc., he applies the truth he has stated to the parts of the question. He applies it first to the second part, i.e., why this does not follow: "He is good and he is a shoemaker, therefore he is a good shoemaker.” Then he applies it to the other part of the question, i.e., why this follows: "He is an animal and he is biped, therefore he is a biped animal.” He adds the reason in the case of the latter: "biped” and "animal” are not predicates accidentally conjoined among themselves, nor in a third thing, but per se. This also explains the other member of the first division which has not yet been explicitly posited. Notice that he maintains the same judgment is to be made about lute player and good, and musical and white. He has concluded that "white” and "musical” do not infer a conjoined predicate; hence neither do "lute player” and "good” infer "good lute player” simply, i.e., conjointly. There is a reason for saying this. For although there is a difference between musical and white, and goodness and the art of luteplaying, they are also similar. Let us consider their difference first. Goodness is of such a nature that it denominates both a third subject, namely, man, and the art of lute-playing. This is the reason the falsity is clearly discernible when we say "He is good and a lute player, therefore he is a good lute player.” Musical and whiteness, on the other band, are of such a nature that they denominate only a third subject, and not each other, and hence, the error is less obvious in "He is white and be is musical, therefore he is musical white.” Now it is this difference that makes Aristotle’s process of reasoning appear somewhat inconclusive. However, they are similar. For if identity of predicates is kept in every way that is required for the same things divided to be inferred conjointly, then, just as "musical” does not denominate "whiteness,” nor the contrary, so neither does "goodness,” of which we are speaking when we say "Man is good,” denominate the art of lute-playing,,nor conversely. For "good” is equivocal—by choice though—and therefore is said of the perfection of the lute player by means of one notion and of the perfection of man by means of another. For example, when we say, "Socrates is good” we understand moral goodness, which is the goodness of man absolutely (for the analogous term posited simply, stands for what is mainly so); but when good lute player is inferred, it is not the goodness of morality that is predicated but the goodness of art; whence identity of the terms is not saved. Therefore, Aristotle has adequately and subtly expressed the same judgment about both, i.e., "white” and "musical,” and "good” and "lute player,” for the reason here is the same as there. Nec prætereundum est quod, cum tres consequentias adduxit quæstionem proponendo, scilicet; est animal et bipes; ergo est animal bipes: et, est homo et albus; ergo est homo albus: et, est citharoedus et bonus; ergo est homo albus: et, est citharoedus et bonus; ergo est bonus citharoedus; et duas primas posuerat esse bonas, tertiam vero non; huius diversitatis causam inquirere volens, cur solvendo quæstionem nullo modo meminerit secundæ consequentiæ, sed tantum primæ et tertiæ. Indiscussum namque reliquit an illa consequentia sit bona an mala. Et ad hoc videtur mihi dicendum quod ex his paucis verbis etiam illius consequentiæ naturam insinuavit. Profundioris enim sensus textus capax apparet cum dixit quod, non sunt unum album et musicum etc., ut scilicet non tantum indicet quod expositum est, sed etiam eius causam, ex qua natura secundæ consequentiæ elucescit. Causa namque quare album et musicum non inferunt coniunctam prædicationem est, quia in prædicatione coniuncta oportet alteram partem alteri supponi, ut potentiam actui, ad hoc ut ex eis fiat aliquo modo unum, et altera a reliqua denominetur (hoc enim vis coniunctæ prædicationis requirit, ut supra diximus de partibus definitionis); album autem et musicum secundum se non faciunt unum per se, ut patet, neque unum per accidens. Licet enim ipsa ut adunantur in subiecto uno sint unum subiecto per accidens, tamen ipsamet quæ adunantur in uno, tertio subiecto, non faciunt inter se unum per accidens: tum quia neutrum informat alterum (quod requiritur ad unitatem per accidens aliquorum inter se, licet non in tertio); tum quia non considerata subiecti unitate, quæ est extra eorum rationes, nulla remanet inter ea unitatis causa. Dicens ergo quod album et musicum non sunt unum, scilicet inter se, aliquo modo, causam expressit quare coniunctim non infertur ex eis prædicatum. Et quia oppositorum eadem est disciplina, insinuavit per illamet verba bonitatem illius consequentiæ. Ex eo enim quod homo et albus se habent sicut potentia et actus (et ita albedo informet, denominet atque unum faciat cum homine ratione sui), sequitur quod ex divisis potest inferri coniuncta prædicatio; ut dicatur: est homo et albus; ergo est homo albus. Sicut per oppositum dicebatur quod ideo musicum et album non inferunt coniunctum prædicatum quia neutrum alterum informabat. There is another point that must be mentioned. Aristotle in proposing the question draws three consequences: "He is an animal and biped, therefore he is a biped animal” and "He is a man and white, therefore he is a white man” and "He is a lute player and good, therefore he is a good lute player.” Then he states that the first two consequences are good, the third not. His intention was to inquire into the cause of this diversity, but in solving the question he mentions only the first and third consequences, leaving the goodness or badness of the second consequence undiscussed. Why is this? I would say in answer to this that in these few words he has also implied the nature of the second consequence, for there is a more profound meaning to the statement in the text that whiteness and being musical is not one. It is a meaning that not only indicates what has already been explained but also its cause, and from this the nature of the second consequence is apparent. For the reason "white” and "musical” do not infer a conjoined predication is that in conjoined predication one part must be subjected to the other as potency to act such that in some way one thing is formed from them and one is denominated from the other (for the force of the conjoined predication requires this, as we have said above concerning the parts of the definition). "White” and "musical,” however, do not in themselves form one thing per se, as is evident, nor do they form one thing accidentally. For while it is true that as united in a subject they are one in subject accidentally, nevertheless things that are united in one third subject do not form one thing accidentally among themselves: first, because neither informs the other (which is required for accidental unity of things among themselves, although not in a third thing); secondly, because, considered apart from the unity of a subject, which is outside of their notions, there is no cause of unity between them. Therefore, when Aristotle says that whiteness and being musical are not one, i.e., among themselves, in some measure he expresses the reason why a predicate is not conjointly inferred from them. And since the same discipline extends to opposites, the goodness of the second consequence is implied by these words. That is, man and white are related as potency and act (and so, on its own account whiteness informs, denominates, and forms one thing with ‘man’); therefore from these taken divisively a conjoined predication can be inferred, i.e., "He is man and white, therefore be is a white man”; just as, in the opposite case, it was said that "musical” and "white” do not infer a conjoined predicate because neither informs the other. 9 Nec obstat quod album faciat unum per accidens cum homine: non enim dictum est quod unitas per accidens aliquorum impedit ex diversis inferre coniunctum, sed quod unitas per accidens aliquorum ratione tertii tantum est illa quæ impedit. Talia enim quæ non sunt unum per accidens nisi ratione tertii, inter se nullam habent unitatem; et propterea non potest inferri coniunctum, ut dictum est, quod unitatem importat. Illa vero quæ sunt unum per accidens ratione sui, seu inter se, ut, homo albus, cum coniuncta accipiuntur, unitate necessaria non carent, quia inter se unitatem habent. Notanter autem apposui ly tantum: quoniam si aliqua duo sunt unum per accidens, ratione tertii subiecti scilicet, sed non tantum ex hoc habent unitatem, sed etiam ratione sui, ex hoc quod alterum reliquum informat, ex istis divisis non prohibetur inferri coniunctum. Verbi gratia, optime dicitur: est quantum et est coloratum; ergo est quantum coloratum: quia color informat quantitatem. There is no opposition between the position just stated and the fact that white forms an accidental unity with man. For we did not say that accidental unity of certain things impedes inferring a conjunction from divided things,” but that accidental unity of certain things only by reason of a third thing is the one that impedes. Things that are one accidentally only by reason of a third thing have no unity among them selves; and for this reason a conjunction, which implies unity, cannot be inferred, as we have said. But things that are one accidentally on their own account, i.e., among themselves, as for example, "white man,” when taken conjointly, have the necessary unity because they have unity among themselves. Notice that I have added "only.” The reason is that if any two C are one accidentally, namely, by reason of a third subject, and they not only have unity from this but also on their own account (because one informs the other), then from these taken divisively a conjoined inference can be made. For example, we can infer, "It is a quantity and it is colored, therefore it is a colored quantity,” because color informs quantity. V. lib. 2 l. 6 n. 10Potes autem credere quod secunda illa consequentia, quam non explicite confirmavit Aristoteles respondendo, sit bona et ex eo quod ipse proponendo quæstionem asseruit bonam, et ex eo quod nulla instantia reperitur. Insinuavit autem et Aristoteles quod sola talis unitas impedit illationem coniunctam, quando dixit quæcumque secundum accidens dicuntur vel de eodem vel alterutrum de altero. Cum enim dixit, secundum accidens de eodem, unitatem eorum ex sola adunatione in tertio posuit (sola enim hæc per accidens prædicantur de eodem, ut dictum est); cum autem addidit, vel alterutrum de altero, mutuam accidentalitatem ponens, ex nulla parte inter se unitatem reliquit. Utraque ergo per accidens adducta prædicata, in tertio scilicet vel alterutrum, quæ impediant illationem coniunctam, nonnisi in tertio unitatem habent. You can hold as true that this second consequence is good even though Aristotle has not explicitly confirmed it by returning to it, both from the fact that in proposing the question he has claimed it as good and also because there is no instance opposed to it. Moreover, Aristotle has implied that it is only such unity that impedes the conjoined inference where he says: which are said accidentally, either of the same subject or of one another. By accidentally of the same subject, he posits their unity to be only from union in a third thing (for only these are predicated accidentally of the same subject, as was said). When he adds, or of one another—positing mutual accidentality—no unity at all is left between them. Therefore, both kinds of accidental predicates, namely, in a third thing or in one another, that impede a conjoined inference have unity only in a third thing. 11 Deinde cum dicit: amplius nec etc., satisfacit instantiis in probatione adductis, et in illis in quibus explicita committebatur nugatio, et in illis in quibus implicita; et ait quod non solum inferre ex divisis coniunctum non licet quando prædicata illa sunt per accidens, sed nec etiam quæcunque insunt in alio: idest, sed nec hoc licet quando prædicata includunt se, ita quod unum includatur in significato formali alterius intrinsece, sive explicite, ut album in albo, sive implicite, ut animal et bipes in homine. Quare neque album frequenter dictum divisim infert coniunctum, neque homo divisim ab animali vel bipede enunciatum, animal bipes, coniunctum cum homine infert; ut dicatur, ergo Socrates est homo bipes, vel animal homo. Insunt enim in hominis ratione, animal et bipes actu et intellectu, licet implicite. Stat ergo solutio quæstionis in hoc, quod unitas plurium per accidens in tertio tantum et nugatio, impediunt ex divisis inferri coniunctum; et consequenter, ubi neutrum horum invenitur, ex divisis licebit inferre coniunctum. Et hoc intellige quando divisæ sunt simul veræ de eodem et cetera. Then when he says, Furthermore, predicates that are present in one another cannot be combined simply, etc., he gives the solution for the instances (both the explicitly nugatory and the implicitly nugatory) cited in the proof. It is not only not licit, he says, to infer a union from divided predicates when these are accidental, but it is not licit when the predicates are present in one another. That is, it is not licit to infer a conjoined predicate from divided predicates when the predicates include one another in such a way that one is included in the formal signification of another intrinsically, or explicitly, as "white” in white,” or implicitly, as "animal” and "biped” in "man.” Therefore, white” said repeatedly and divisively does not infer a conjoined predication, nor does "man” divisively enunciated from "animal” or "biped” infer "biped” or "animal” conjoined with man, such that we could say, "Therefore, Socrates is a biped-man” or "animal-man.” For animal and biped are included in the notion of man in act and in understanding, although implicitly. The solution of the question, then, is this: the inferring of a conjunction from divided predicates is impeded when there is unity of the many accidentally only in a third thing and when there is a nugatory result. Consequently, where neither of these is found it will be licit to infer a conjunction from divided predicates. It is to be understood that this applies when the divided predicates are at once true of the same subject. VII. 1. Postquam expedita est prima dubitatio, tractat secundam dubitationem. Et circa hoc tria facit: primo, movet ipsam quæstionem; secundo, solvit eam; ibi: sed quando in adiecto etc., tertio, ex hoc excludit quemdam errorem; ibi: quod autem non est et cetera. Est ergo quæstio: an ex enunciatione habente prædicatum coniunctum, liceat inferre enunciationes dividentes illud coniunctum; et est quæstio contraria superiori. Ibi enim quæsitum est an ex divisis inferatur coniunctum; hic autem quæritur an ex coniuncto sequantur divisa. Unde movendo quæstionem dicit: verum autemaliquando est dicere de aliquo et simpliciter, idest divisim, quod scilicet prius dicebatur coniunctim, ut quemdam hominem album esse hominem, aut quoddam album hominem album esse, idest ut ex ista, Socrates est homo albus, sequitur divisim, ergo Socrates est homo, ergo Socrates est albus. Non autem semper, idest aliquando autem ex coniuncto non inferri potest divisim; non enim sequitur, Socrates est bonus citharoedus, ergo est bonus. Unde hæc est differentia, quod quandoque licet et quandoque non. Et adverte quod notanter adduxit exemplum de homine albo, inferendo utramque partem divisim, ut insinuaret quod intentio quæstionis est investigare quando ex coniuncto potest utraque pars divisim inferri, et non quando altera tantum. Aristotle now takes up the second question in relation to multiple enunciations. He first presents it, and then solves it where he says, When something opposed is present in the adjunct, from which a contradiction follows, it will not be true to predicate them singly, but false, etc. Finally, he excludes an error where he says, In the case of non-being, however, it is not true to say that because it is a matter of opinion, it is something, etc. The second question is this: Is it licit to infer from an enunciation having a conjoined predication, enunciations dividing that conjunction? This question is the contrary of the first question. The first asked whether a conjoined predicate could be inferred from divided predicates; the present one asks whether divided predicates follow from conjoined predicates. When he presents the question he says, on the other hand, it is also true to say predicates of something singly, i.e., what was previously said conjointly may be said divisively; for example, that some white man is a man, or that some white man is white. That is, from "Socrates is a white man,” follows divisively, "Therefore Socrates is a man,” "There fore Socrates is white.” However, this is not always the case, i.e., some times it is not possible to infer divisively from conjoined predicates, for this does not follow: "Socrates is a good lute player, therefore he is good.” Hence, sometimes it is licit, sometimes not. Note that in inferring each part divisively he takes as an ex ample "white man.” This is significant, for by it he means to imply that his intention is to investigate when each part can be inferred divisively from a conjoined predicate, and not when only one of the two can be inferred. 2 Deinde cum dicit: sed quando in adiecto etc., solvit quæstionem. Et duo facit: primo, respondet parti negativæ quæstionis, quando scilicet non licet; secundo, ibi: quare in quantiscumque etc., respondet parti affirmativæ, quando scilicet licet. Circa primum considerandum quod quia dupliciter contingit fieri prædicatum coniunctum, uno modo ex oppositis, alio modo ex non oppositis, ideo duo facit: primo, ostendit quod numquam ex prædicato coniuncto ex oppositis possunt inferri eius partes divisim; secundo, quod nec hoc licet universaliter in prædicato coniuncto ex non oppositis, ibi: vel etiam quando et cetera. Ait ergo quod quando in termino adiecto inest aliquid de numero oppositorum, ad quæ sequitur contradictio inter ipsos terminos, non verum est, scilicet inferre divisim, sed falsum. Verbi gratia cum dicitur, Cæsar est homo mortuus, non sequitur, ergo est homo: quia ly mortuus, adiacens homini, oppositionem habet ad hominem, quam sequitur contradictio inter hominem et mortuum: si enim est homo, non est mortuus, quia non est corpus inanimatum; et si est mortuus, non est homo, quia mortuum est corpus inanimatum. Quando autem non inest, scilicet talis oppositio, verum est, scilicet inferre divisim. Ratio autem quare, quando est oppositio in adiecto, non sequitur illatio divisa est, quia alter terminus ex adiecti oppositione corrumpitur in ipsa enunciatione coniuncta. Corruptum autem seipsum absque corruptione non infert, quod illatio divisa sonaret. When he says, When something opposed is present in the adjunct, etc., he solves the question, first by responding to the negative part of the question, i.e., when it is not licit; secondly, to the affirmative part, i.e., when it is licit, where he says, Therefore, in whatever predications no contrariety is present when definitions are put in place of the names, and wherein predicates are predicated per se and not accidentally, etc. It should be noted, in relation to the negative part of the question, that a conjoined predicate may be formed in two ways: from opposites and from non-opposites. Therefore, he shows first that the parts in a conjoined predicate of opposites can never be inferred divisively. Secondly, he shows that this is not licit universally in a conjoined predicate of non-opposites, where he says, Or, rather, when something opposed is present in it, it is never true; but when something opposed is not present, it is not always true. Aristotle says, then, that when something that is an opposite is contained in the adjacent term, which results in a contradiction between the terms themselves, it is not true, namely, to infer divisively, but false. For example, when we say, "Cæsar is a dead man,” it does not follow, "Therefore he is a man,” because the contradiction between 11 man” and "dead” which results from adding the "dead” to "man” is opposed to man, for if he is a man he is not dead, because he is not an inanimate body; and if he is dead he is not a man, because as dead he is an inanimate body. When something opposed is not present, i.e., there is no such opposition, it is true, i.e., it is true to infer divisively. The reason a divided inference does not follow when there is opposition in the added term is that in a conjoined enunciation the other term is destroyed by the opposition of the added term. But that which has been destroyed is not inferred apart from the destruction, which is what the divided inference would signify. V. lib. 2 l. 7 n. 3Dubitatur hic primo circa id quod supponitur, quomodo possit vere dici, Cæsar est homo mortuus, cum enunciatio non possit esse vera, in qua duo contradictoria simul de aliquo prædicantur. Hoc enim est primum principium. Homo autem et mortuus, ut in littera dicitur, contradictoriam oppositionem includunt, quia in homine includitur vita, in mortuo non vita. Dubitatur secundo circa ipsam consequentiam, quam reprobat Aristoteles: videtur enim optima. Cum enim ex enunciatione prædicante duo contradictoria possit utrumque inferri (quia æquivalet copulativæ), aut neutrum (quia destruit seipsam), et enunciatio supradicta terminos oppositos contradictorie prædicet, videtur sequi utraque pars, quia falsum est neutram sequi. Two questions arise at this point. The first concerns something assumed here: how can it ever be true to make such a statement as "Cæsar is a dead man,” since an enunciation cannot be true in which two contradictories are predicated at the same time of something (for this is a first principle). But "man” and "dead,” as is said in the text, include contradictory opposition, for in man is included life, and in dead, non-life. The second question concerns the consequent that Aristotle rejects, which appears to be good. The enunciation given as an example predicates terms that are opposed contradictorily. But from an enunciation predicating two contradictory terms, either both can be inferred (because it is equivalent to a copulative enunciation), or neither (because it destroys itself); therefore both parts seem to follow, since it is false that neither follows. V. lib. 2 l. 7 n. 4Ad hoc simul dicitur quod aliud est loqui de duobus terminis secundum se, et aliud de eis ut unum stat sub determinatione alterius. Primo namque modo, homo et mortuus, contradictionem inter se habent, et impossibile est quod simul in eodem inveniantur. Secundo autem modo, homo et mortuus, non opponuntur, quia homo transmutatus iam per determinationem corruptivam importatam in ly mortuus, non stat pro suo significato secundum se, sed secundum exigentiam termini additi, a quo suum significatum distractum est. Ad utrunque autem insinuandum Aristoteles duo dixit, et quod habent oppositionem quam sequitur contradictio, attendens significata eorum secundum se, et quod etiam ex eis formatur una vera enunciatio cum dicitur, Socrates est homo mortuus, attendens coniunctionem eorum alterius corruptivam. Unde patet quid dicendum sit ad dubitationes. Ad utramque siquidem dicitur, quod non enunciantur duo contradictoria simul de eodem, sed terminus ut stat sub distractione, seu transmutatione alterius, cui secundum se esset contradictorius. These two questions can be answered simultaneously. It is one thing to speak of two terms in themselves, and another to speak of them as one stands under the determination of another. Taken in the first way, "man” and "dead” have a contradiction between them and it is impossible that they be found in the same thing at the same time. In the second way, however, "man” and "dead” are not opposed, since "man,” changed by the destructive element introduced by "dead,” no longer stands for what it signifies as such, but as determined by the term added, by which what is signified is removed. Aristotle, in order to imply both, says two things: that they have the opposition upon which contradiction follows if you regard what they signify in themselves; and, that one true enunciation is formed from them as in "Socrates is a dead man,” if you regard their conjunction as destructive of one of them. Accordingly, the answer to the two questions is evident. In a case such as this two contradictories are not enunciated of the same thing at the same time, but one term as it stands under dissolution or transmutation from the other, to which by itself it would be contradictory. V. lib. 2 l. 7 n. 5Dubitatur quoque circa id quod ait: inest aliquid oppositorum quæ consequitur contradictio; superflue enim videtur addi illa particula, quæ consequitur contradictio. Omnia enim opposita consequitur contradictio, ut patet discurrendo in singulis; pater enim est non filius, et album non nigrum, et videns non cæcum et cetera. Et ad hoc dicendum est quod opposita possunt dupliciter accipi: uno modo formaliter, idest secundum sua significata; alio modo denominative, seu subiective. Verbi gratia, pater et filius possunt accipi pro paternitate et filiatione, et possunt accipi pro eo qui denominatur pater vel filius. Rursus cum omnis distinctio fiat oppositione aliqua, ut dicitur in X metaphysicæ, supponatur omnino distincta esse opposita. Dicendum ergo est quod, licet ad omnia opposita seu distincta contradictio sequatur inter se formaliter sumpta, non tamen ad omnia opposita sequitur contradictio inter ipsa denominative sumpta. Quamvis enim pater et filius mutuam sui negationem inferant inter se formaliter, quia paternitas est non filiatio, et filiatio est non paternitas; in relatione tamen ad denominatum, contradictionem non necessario inferunt. Non enim sequitur, Socrates est pater; ergo non est filius; nec e converso. Ut persuaderet igitur Aristoteles quod non quæcunque opposita colligata impediunt divisam illationem (quia non illa quæ habent contradictionem annexam formaliter tantum, sed illa quæ habent contradictionem et formaliter et secundum rem denominatam), addidit: quæ consequitur contradictio, in tertio scilicet denominato. Et usus est satis congrue vocabulo, scilicet, consequitur: contradictio enim ista in tertio est quodammodo extra ipsa opposita. There is also a question about something else that Aristotle says, namely, something opposed is present... from which a contradiction follows. The phrase from which a contradiction follows seems to be superfluous, for contradiction follows upon all opposites, as is evident in discoursing about singulars; for a father is not a son, and white is not black, and one seeing is not blind, etc. Opposites, however, can be taken in two ways: formally, i.e., according to what they signify, and denominatively, or subjectively. For example, father and son can be taken for paternity and filiation, or they can be taken for the one who is denominated a father or a son. But, again, since every distinction is made by some opposition, as is said in X Metaphysicæ [3: 1054a 20], it could be supposed that opposites are wholly distinct. It must be pointed out, therefore, that although contradiction follows between all opposites or distinct things formally taken, nevertheless, contradiction does not follow upon all opposites denominatively taken. Father and son formally taken infer a mutual negation of one another, for paternity is not filiation and filiation is not paternity, but in respect to what is denominated they do not necessarily infer a contradiction. It does not follow, for example, that "Socrates is a father; therefore he is not a son,” nor conversely. Aristotle, therefore, in order to establish that not all combined opposites prevent a divided inference (since those having a contradiction applying only formally do not prevent a divided inference, but those having a contradiction both formally and according to the thing denominated do prevent a divided inference) adds, from which a contradiction follows, namely, in the third thing denominated. And appropriately enough he uses the word follows, for the contradiction in " the third thing denominated is in a certain way outside of the opposites themselves. V. lib. 2 l. 7 n. 6Deinde cum dicit: vel etiam quando est etc., declarat quod ex non oppositis in tertio coniunctis secundum unum prædicatum, non universaliter possunt inferri partes divisim. Et primo, hoc proponit quasi emendans quod immediate dixerat, subiungens: vel etiam quando est, scilicet oppositio inter terminos coniunctos, falsum est semper, scilicet inferre divisim; quasi diceret: dixi quod quando inest oppositio, non verum sed falsum est inferre divisim; quando autem non inest talis oppositio, verum est inferre divisim. Vel etiam ut melius dicatur, quod quando est oppositio, falsum est semper, quando autem non inest talis oppositio, non semper verum est. Et sic modificavit supradicta addendo ly semper, et, non semper. Et subdens exemplum quod non semper ex non oppositis sequatur divisio, ait: ut, Homerus est aliquid ut poeta; ergo etiam est? Non. Ex hoc coniuncto, est poeta, de Homero enunciato, altera pars, ergo Homerus est, non sequitur; et tamen clarum est quod istæ duæ partes colligatæ, est et poeta, non habent oppositionem, ad quam sequitur contradictio. Igitur non semper ex non oppositis coniunctis illatio divisa tenet et cetera. When he says, Or, rather, when something opposed is present in it, it is never true, etc., he explains that the parts cannot universally be inferred divisively in the case of a conjoined predicate in which there is a non-opposite as the third thing denominated. He proposes this—Or, rather, when something opposed is contained in it, i.e., opposition between the terms conjoined—as if amending what he has just said, namely, it is always false, i.e., to infer divisively. What he is saying, then, is this: I have said that when there is inherent opposition it is not true but false to infer divisively; but when there is not such opposition it is true to infer divisively; or, even better, when there is opposition it is always false but when there is not such opposition it is not always true. That is, he modifies what he first said by the addition of "always” and "not always.” Then he adds an example to show that division does not always follow from non-opposites: For example, Homer is something, say, a poet. Is it therefore true to say also that Homer "is,” or not? From the conjoined predicate, is a poet, enunciated of Homer, one part, Therefore Homer is, does not follow; yet it is evident that these two conjoined parts, "is” and "poet,” do not have the opposition upon which contradiction follows. Therefore, in the case of conjoined non-opposites a divided inference does not always hold. V. lib. 2 l. 7 n. 7Deinde cum dicit: secundum accidens etc., probat hoc, quod modo dictum est, ex eo quod altera pars istius compositi, scilicet, est, in antecedente coniuncto prædicatur de Homero secundum accidens, idest ratione alterius, quoniam, scilicet poeta, prædicatur de Homero, et non prædicatur secundum se ly est de Homero; quod tamen infertur, cum concluditur: ergo Homerus est. Considerandum est hic quod ad solvendam illam conclusionem negativam, scilicet,- non semper ex non oppositis coniunctis infertur divisim,- sufficit unam instantiam suæ oppositæ universali affirmativæ afferre. Et hoc fecit Aristoteles adducendo illud genus enunciationum, in quo altera pars coniuncti est aliquid pertinens ad actum animæ. Loquimur enim modo de Homero vivente in poematibus suis in mentibus hominum. In his siquidem enunciationibus partes coniunctæ non sunt oppositæ in tertio, et tamen non licet inferre utramque partem divisim. Committitur enim fallacia secundum quid ad simpliciter. Non enim valet, Cæsar est laudatus, ergo est: et simile est de esse in effectu dependente in conservari. Quomodo autem intelligenda sit ratio ad hoc adducta ab Aristotele in sequenti particula dicetur. When he says, The "is” here is predicated accidentally of Homer, he proves what he has said. One part of this composite, namely, "is,” is predicated of Homer in the antecedent conjunction accidentally, i.e., by reason of another, namely, with regard to the "poet” which is predicated of Homer; it is not predicated as such of Homer. Nevertheless, this is what is inferred when one concludes "Therefore Homer is.” To validate his negative conclusion, namely, that it is not always true to infer divisively from conjoined non-opposites, it was sufficient to give one instance of the opposite of the universal affirmative. To do this Aristotle introduces that genus of enunciation in which one part of the conjunction is something pertaining to an act of the mind (for we are speaking only of Homer living in his poems in the minds of men). In such enunciations the parts conjoined are not opposed in the third thing denominated; nevertheless it is not licit to infer each part divisively, for the fallacy of going from the relative to the absolute will be committed. For example, it is not valid to say, "Cæsar is praiseworthy, therefore he is,” which is a parallel case, i.e., of an effect whose existence requires maintenance. Aristotle will explain in the following sections of the text how the reasoning in the above text is to be understood. V. lib. 2 l. 7 n. 8Deinde cum dicit: quare in quantiscunque etc., respondet parti affirmativæ quæstionis, quando scilicet ex coniunctis licet inferre divisim. Et ponit duas conditiones oppositas supradictis debere convenire in unum, ad hoc ut possit fieri talis consequentia; scilicet, quod nulla inter partes coniuncti oppositio sit, et quod secundum se prædicentur. Unde dicit inferendo ex dictis: quare in quantiscunque prædicamentis, idest prædicatis ordine quodam adunatis, neque contrarietas aliqua, in cuius ratione ponitur contradictio in tertio (contraria enim sunt quæ mutuo se ab eodem expellunt), aut universaliter nulla oppositio inest, ex qua scilicet sequatur contradictio in tertio, si definitiones pro nominibus sumantur. Dixit hoc, quia licet in quibusdam non appareat oppositio, solis nominibus positis, sicut, homo mortuus, et in quibusdam appareat, ut, vivum mortuum; hoc tamen non obstante, si, positis nominum definitionibus loco nominum, oppositio appareat, inter opposita collocamus. Sicut, verbi gratia, homo mortuus, licet oppositionem non præseferat, tamen si loco hominis et mortui eorum definitionibus utamur, videbitur contradictio. Dicemus enim corpus animatum rationale, corpus inanimatum irrationale. In quantiscunque, inquam, coniunctis nulla est oppositio, et secundum se, et non secundum accidens prædicantur, in his verum erit dicere et simpliciter, idest divisim quod fuerat coniunctim enunciatum. When he says, Therefore, in whatever predications no contrariety is present when definitions are put in place of the names, etc., he replies to the affirmative part of the question, i.e., when it is licit to infer divisively from conjoined predicates. He maintains that two conditions—opposed to what has been said earlier in this portion of the text—must combine in one enunciation in order that such a consequence be effected: there must be no opposition between the parts conjoined, and they must be predicated per se. He says, then, inferring from what has been said: Therefore, in whatever predicaments, i.e., predicates joined in a certain order, no contrariety, in virtue of which contradiction is posited in the third thing denominated (for contraries mutually remove each other from the same thing), is present, or universally, no opposition is present, i.e., upon which a contradiction follows in the third thing denominated, when definitions are taken in place of the names.... He says this because it may be the case that the opposition is not apparent from the names alone, as in "dead man,” and again it may be, as in "living dead,” but whether apparent or not it will be evident that we are putting together opposites if we posit the definitions of the names in place of the names. For example, in the case of "dead man,” if we replace "man” and "dead,” with their definitions, the contradiction will be evident, for what we are saying is "rational animate body, irrational inanimate body.” In whatever conjoined predicates, then, there is no opposition, and wherein predicates are predicated per se and not accidentally, in these it will also be true to predicate them singly, i.e., say divisively what had been enunciated conjointly. V. lib. 2 l. 7 n. 9Ad evidentiam secundæ conditionis hic positæ, nota quod ly secundum se potest dupliciter accipi: uno modo positive, et sic dicit perseitatem primi, secundi, universaliter, quarti modi; alio modo negative, et sic idem sonat quod non per aliud. Rursus considerandum est quod cum Aristoteles dixit de prædicato coniuncto quod, secundum se prædicetur, ly secundum se potest ad tria referri, scilicet, ad partes coniuncti inter se, ad totum coniunctum respectu subiecti, et ad partes coniuncti respectu subiecti. Si ergo accipiatur ly secundum se positive, licet non falsus, extraneus tamen a mente Aristotelis reperitur sensus ad quodcunque illorum trium referatur. Licet enim valeat, est homo risibilis, ergo est homo et est risibilis, et, est animal rationale, ergo est animal et est rationale; tamen his oppositæ inferunt similes consequentias. Dicimus enim, est albus musicus, ergo est musicus et est albus: ubi nulla est perseitas, sed est coniunctio per accidens, tam inter partes inter se, quam inter totum et subiectum, quam etiam inter partes et subiectum. Liquet igitur quod non accipit Aristoteles ly secundum se positive, ex eo quod vana fuisset talis additio, quæ ab oppositis non facit in hoc differentiam. Ad quid enim addidit, secundum se, et non, secundum accidens, si tam illæ quæ sunt secundum se, modo exposito, quam illæ quæ sunt secundum accidens ex coniuncto, inferunt divisum? Si vero accipiatur secundum se, negative, idest, non per aliud, et referatur ad partes coniuncti inter se, falsa invenitur regula. Nam non licet dicere, est bonus citharoedus; ergo est bonus et citharoedus; et tamen ars citharizandi et bonitas eius sine medio coniunguntur. Et similiter contingit, si referatur ad totum coniunctum respectu subiecti, ut in eodem exemplo apparet. Totum enim hoc, citharoedus bonus, non propter aliud convenit homini; et tamen non infert, ut dictum est, divisionem. Superest ergo ut ad partem coniuncti respectu subiecti referatur, et sit sensus: quando aliqua coniunctim prædicata, secundum se, idest, non per aliud, prædicantur, idest, quod utraque pars prædicatur de subiecto non propter alteram, sed propter seipsam et subiectum, tunc ex coniuncto infertur divisa prædicatio. In order to make this second condition clear, it should be noted that "per se” can be taken in two ways: positively, and thus it refers to "perseity” of the first, of the second, and of the fourth mode universally; or negatively, and thus it means the same as not through something else. It should also be noted that when Aristotle says of a conjoined predicate that it is predicated "per se,” the "per se” can be referred to three things: to the parts of the conjunction among themselves, to the whole conjunction with respect to the subject, and to the parts of the conjoined predicate with respect to the subject. Now if "per se” is taken positively, although it will not be false, nevertheless in reference to any of these three the meaning will be found to be foreign to the mind of Aristotle. For, although these are valid: "He is a risible man, therefore he is man and he is risible” and "He is a rational animal, therefore he is animal and he is rational,” nevertheless the opposite kind of predication infers consequences in a similar way. For example, there is no 11 perseity” in "He is a white musician, therefore he is white and he is a musician”; rather, there is an accidental conjunction, not only between the parts among themselves and between the whole and the subject, but even between the parts and the subject. It is evident, therefore, that Aristotle is not taking "per se” positively, for an addition that does not differentiate this kind of predication from the opposed kind of predication would be useless. Why add "per se and not accidentally,” if both those that are per se in the way explained and those that are conjoined accidentally infer divisively? If "per se” is taken negatively, i.e., as not through another, and is referred to the parts of the conjoined predicate among themselves, the rule is found to be false. It is not licit, for example, to say, "He is a good lute player, therefore he is good and a lute player”; yet the art of lute-playing and its goodness are conjoined without anything as a medium. And the case is the same if it is referred to the whole conjoined predicate with respect to the subject, as is clear in the same example, for the whole, "good lute player,” does not belong to man on account of another, and yet it does not infer the division, as has already been said. Therefore, "per se” is referred to the parts of the conjoined predicate with respect to the subject and the meaning is: when the predicates are conjointly predicated per se, i.e., not through another, i.e., each part is predicated of the subject, not on account of another but on account of itself and the subject, then a divided predication is inferred from the conjoined predication. 10 Et hoc modo exponunt Averroes et Boethius; et vera invenitur regula, ut inductive facile manifestari potest, et ratio ipsa suadet. Si enim partes alicuius coniuncti prædicati ita inhærent subiecto quod neutra propter alteram insit, earum separatio nihil habet quod veritatem impediat divisarum. Est et verbis Aristotelis consonus sensus iste. Quoniam et per hoc distinguit inter enunciationes ex quibus coniunctum infert divisam prædicationem, et eas quibus hæc non inest consequentia. Istæ siquidem ultra habentes oppositiones in adiecto, sunt habentes prædicatum coniunctum, cuius una partium alterius est ita determinatio, quod nonnisi per illam subiectum respicit, sicut apparet in exemplo ab Aristotele adducto, Homerus est poeta. Est siquidem ibi non respicit Homerum ratione ipsius Homeri, sed præcise ratione poesis relictæ; et ideo non licet inferre, ergo Homerus est. Et simile est in negativis. Si quis enim dicat, Socrates non est paries, non licet inferre, ergo Socrates non est, eadem ratione, quia esse non est negatum de Socrate, sed de pariete in Socrate. This is the way in which Averroes and Boethius explain this and, explained in this way, a true rule is found, as can easily be manifested inductively; moreover, the reasoning is compelling. For, if the parts of some conjoined predicate so inhere in the subject that neither is in it on account of another, their separation produces nothing that could impede the truth of the divided predicates. And this meaning is consonant with the words of Aristotle, for by this he also distinguishes between enunciations in which the conjoined predicate infers a divided predicate, and those in which this consequence is not inherent. For besides the predicates having opposition in the additional determining element, there are those with a conjoined predicate wherein one part is a determination of the other in such a way that only through it does it regard the subject, as is evident in Aristotle’s example, "Homer is a poet.” The "is” does not regard Homer by reason of Homer himself, but precisely by reason of the poetry he left. Hence it is not licit to infer, "Therefore Homer is.” The same is true with respect to negative enunciations of this type, for it is not licit to infer from "Socrates is not a wall,” "Therefore Socrates is not.” And the reason is the same: "to be” is not denied of Socrates, but of "wallness” in Socrates. 11 Et per hoc patet qualiter sit intelligenda ratio in textu superiore adducta. Accipitur enim ibi, secundum se negative, modo hic exposito, et secundum accidens, idest propter aliud. In eadem ergo significatione est usus ly secundum accidens, solvendo hanc et præcedentem quæstionem: utrobique enim intellexit secundum accidens, idest, propter aliud, coniuncta, sed ad diversa retulit. Ibi namque ly secundum accidens determinabat coniunctionem duorum prædicatorum inter se; hic vero determinat partem coniuncti prædicati in ordine ad subiectum. Unde ibi, album et musicum, inter ea quæ secundum accidens sunt, numerabantur; hic autem non. Accordingly, it is evident how the reasoning in the text above is to be understood. "Per se” is taken negatively in the way explained here, and "accidentally” as "on account of another.” The "accidentally” is used with the same signification in solving this and the preceding question. In both he understands "accidentally” to mean conjoined on account of another, but it is referred to diverse things. In the preceding question "accidentally” determines the way in which two predicates are conjoined among themselves; in the latter question it determines the way in which the part of the conjoined predicate is ordered to the subject. Hence, in the former, "white” and "musician” are numbered among the things that are accidental, but in the latter they are not. 12 Sed occurrit circa hanc expositionem dubitatio non parva. Si enim ideo non licet ex coniuncto inferre divisim, quia altera pars coniuncti non respicit subiectum propter se, sed propter alteram partem (ut dixit Aristoteles de ista enunciatione, Homerus est poeta), sequetur quod numquam a tertio adiacente ad secundum erit bona consequentia: quia in omni enunciatione de tertio adiacente, est respicit subiectum propter prædicatum et non propter se et cetera. This exposition seems a bit dubious, however. For if it is not licit to infer divisively from a conjoined predicate because one part of the conjoined predicate does not regard the subject on account of itself but on account of another part (as Aristotle says of the enunciation, "Homer is a poet”), it will follow that there will never be a good consequence from the third determinant to the second, since in every enunciation with a third determinant, "is” regards the subject on account of the predicate and not on account of itself. 13 Ad huius difficultatis evidentiam, nota primo hanc distinctionem. Aliud est tractare regulam, quando ex tertio adiacente infertur secundum et quando non, et aliud quando ex coniuncto fit illatio divisa et quando non. Illa siquidem est extra propositum, istam autem venamur. Illa compatitur varietatem terminorum, ista non. Si namque unus terminorum, qui est altera pars coniuncti, secundum significationem seu suppositionem varietur in separatione, non infertur ex coniuncto prædicato illudmet divisim, sed aliud. Nota secundo hanc propositionem: cum ex tertio adiacente infertur secundum, non servatur identitas terminorum. Liquet ista quoad illum terminum, est. Dictum siquidem fuit supra a sancto Thoma, quod aliud importat est secundum adiacens, et aliud est tertium adiacens. Illud namque importat actum essendi simpliciter, hoc autem habitudinem inhærentiæ vel identitatis prædicati ad subiectum. Fit ergo varietas unius termini cum ex tertio adiacente infertur secundum, et consequenter non fit illatio divisi ex coniuncto. Unde prælucet responsio ad obiectionem, quod, licet ex tertio adiacente quandoque possit inferri secundum, numquam tamen ex tertio adiacente licet inferri secundum tamquam ex coniuncto divisum, quia inferri non potest divisim, cuius altera pars ipsa divisione perit. Negetur ergo consequentia obiectionis et ad probationem dicatur quod, optime concludit quod talis illatio est illicita infra limites illationum, quæ ex coniuncto divisionem inducunt, de quibus hic Aristoteles loquitur. To make this difficulty clear, we must first note a distinction. It is one thing to treat of the rule when inferring a second determinant from a third determinant, and when not; it is quite another thing when a divided inference is made from a conjoined predicate, and when not. The former is an additional point; the latter is the question we have been inquiring about. The former is compatible with variety of the terms, the latter not. For if one of the terms which is one part of a conjoined predicate will be varied according to signification, or supposition when taken separately, it is not inferred divisively from the conjoined predicate, but the other is. Secondly, note this proposition: when a second determinant is inferred from a third, identity of the terms is not kept. This is evident with respect to the term "is.” Indeed, St. Thomas said above that "is” as the second determinant implies one thing and "is” as the third determinant another. The former implies the act of being simply, the latter implies the relationship of inherence, or identity of the predicate with the subject. Therefore, when the second determinant is inferred from the third, one term is varied and consequently an inference is not made of the divided from the conjoined. Accordingly, the response to the objection is clear, for although the second determinant can sometimes be inferred from the third, it is never licit for the second to be inferred from the third as divided from conjoined, because you cannot infer divisively when one part is destroyed by that very division. Therefore, let the consequence of the objection be denied and for proof let it be said that the conclusion that such an inference is illicit under the limits of inferences which induce division from a conjoined predicate-is good, for this is what Aristotle is speaking of here. 14 Sed contra hoc instatur. Quia etiam tanquam ex coniuncto divisa fit illatio, Socrates est albus, ergo est, per locum a parte in modo ad suum totum, ubi non fit varietas terminorum. Et ad hoc dicitur quod licet homo albus sit pars in modo hominis (quia nihil minuit de hominis ratione albedo, sed ponit hominem simpliciter), tamen est album non est pars in modo ipsius est, eo quod pars in modo est universale cum conditione non minuente, ponente illud simpliciter. Clarum est autem quod album minuit rationem ipsius est, et non ponit ipsum simpliciter: contrahit enim ad esse secundum quid. Unde apud philosophos, cum fit aliquid album, non dicitur generari, sed generari secundum quid. But the objection is raised against this that in the case of "Socrates is white, therefore be is,” a divided inference can be made as from a conjoined predicate, in virtue of the argument that we can go from what is in the mode of part to its whole as long as the terms remain the same. The answer to this is as follows. It is true that white man is a part in the mode of man (because white diminishes nothing of the notion of man but posits man simply); is white, however, is not a part in the mode of is, because a part in the mode of its whole is a universal, the condition not diminishing the positing of it simply. But it is evident that white diminishes the notion of is, and does not posit it simply, for it contracts it to relative being. Whence when something becomes white, philosophers do not say that it is generated, but generated relatively. 15 Sed instatur adhuc quia secundum hoc, dicendo, est animal, ergo est, fit illatio divisa per eumdem locum. Animal enim non minuit rationem ipsius est. Ad hoc est dicendum quod ly est, si dicat veritatem propositionis, manifeste peccatur a secundum quid ad simpliciter. Si autem dicat actum essendi, illatio est bona, sed non est de tertio, sed de secundo adiacente. In accordance with this, the objection is raised that in saying "It is an animal, therefore it is,” a divided inference is made in virtue of the same argument; for animal does not diminish the notion of is itself. The answer to this is that if the is asserts the truth of a proposition, the fallacy is committed of going from the relative to the absolute; if the is asserts the act of being, the inference is good, but it is of the second determinant, not of the third. 16 Potest ulterius dubitari circa principale: quia sequitur, est quantum coloratum, ergo est quantum, et, est coloratum; et tamen coloratum respicit subiectum mediante quantitate: ergo non videtur recta expositio supra adducta. Ad hoc et similia dicendum est quod coloratum non ita inest subiecto per quantitatem quod sit eius determinatio et ratione talis determinationis subiectum denominet, sicut bonitas artem citharisticam determinat; cum dicitur, est citharoedus bonus; sed potius subiectum ipsum primo coloratum denominatur, quantum vero secundario coloratum dicitur, licet color media quantitate suscipiatur. Unde notanter supra diximus, quod tunc altera pars coniuncti prædicatur per accidens, quando præcise denominat subiectum, quia denominat alteram partem. Quod nec in similibus instantiis invenitur. There is another doubt, this time about the principle in the exposition; for this follows, "It is a colored quantity, therefore it is a quantity and it is colored”; but "colored” regards the subject through the medium of quantity; therefore the exposition given above does not seem to be correct. The answer to this and to similar objections is that "colored” is not so present in a subject by means of quantity that it is its determination, and by reason of such a determination denominates the subject; as goodness,” for instance, determines the art of lute-playing when we say "He is a good lute player.” Rather, the subject itself is first denominated "colored” and quantity is called "colored” secondarily, although color is received through the medium of quantity. Hence, we made a point of saying earlier that one part of a conjoined predicate is predicated accidentally when it denominates the subject precisely because it denominates the other part.93 This is not the case here nor in similar instances. 17 Deinde cum dicit: quod autem non est etc., excludit quorumdam errorem qui, quod non est, esse tali syllogismo concludere satagebant: quod est, opinabile est. Quod non est, est opinabile. Ergo quod non est, est. Hunc siquidem processum elidit Aristoteles destruendo primam propositionem, quæ partem coniuncti in subiecto divisim prædicat, ac si diceret: est opinabile, ergo est. Unde assumendo subiectum conclusionis illorum ait: quod autem non est; et addit medium eorum, quoniam opinabile est; et subdit maiorem extremitatem, non est verum dicere, esse aliquid. Et causam assignat, quia talis opinatio non propterea est, quia illud sit, sed potius quia non est. When he says, In the case of non-being, however, it is not true to say that it is something, etc., he excludes the error of those who were satisfied to conclude that what is not, is. This is the syllogism they use: "That which is, is ‘opinionable’; that which is not, is ‘opinionable’; therefore what is not, is.” Aristotle destroys this process of reasoning by destroying the first proposition, which predicates divisively a part of what is conjoined in the subject, as if it said "It is ‘opinionable,’ therefore it is.” Hence, assuming the subject of their conclusion, he says, In the case of that which is not, however; and he adds their middle term, because it is a matter of opinion; then he adds the major extreme, it is not true to say that it is something. He then assigns the cause: it is not because it is but rather because it is not, that there is such opinion. VIII. 1 Postquam determinatum est de enunciationibus, quarum partibus aliud additur tam remanente quam variata unitate, hic intendit declarare quid accidat enunciationi, ex eo quod aliquid additur, non suis partibus, sed compositioni eius. Et circa hoc duo facit: primo, determinat de oppositione earum; secundo, de consequentiis; ibi: consequentiæ vero et cetera. Circa primum duo facit: primo, proponit quod intendit; secundo, exequitur; ibi: nam si eorum et cetera. Proponit ergo quod iam perspiciendum est, quomodo se habeant affirmationes et negationes enunciationum de possibili et non possibili et cetera. Et causam subdit: habent enim multas dubitationes speciales. Sed antequam ulterius procedatur, quoniam de enunciationibus, quæ modales vocantur, sermo inchoatur, prælibandum est esse quasdam modales enunciationes, et qui et quot sunt modi reddentes propositiones modales; et quid earum sit subiectum et quid prædicatum; et quid sit ipsa enunciatio modalis; quisque sit ordo earum ad præcedentes; et quæ necessitas sit specialem faciendi tractatum de his. Now that he has treated enunciations in which something added to the parts leaves the unity intact on the one hand, and varies it on the other, Aristotle begins to explain what happens to the enunciation when something is added, not to its parts, but to its composition. First, he explains their opposition; secondly, he treats of the consequences of their opposition where he says, Logical sequences result from modals ordered thus, etc. With respect to the first point, he proposes the question he intends to consider and then begins his consideration where he says, Let us grant that of mutually related enunciations, contradictories are those opposed to each other, etc. He proposes that we must now investigate the way in which affirmations and negations of the possible and not possible are related. He gives the reason when he adds, for the question has many special difficulties. However, before we proceed with the consideration of enunciations that are called modal, we must first see that there are such things as modal enunciations, and which and how many modes render propositions modal; we must also know what their subject is and their predicate, what the modal enunciation itself is, what the order is between modal enunciations and the enunciations already treated, and finally, why a special treatment of them is necessary. 2 Quia ergo possumus dupliciter de rebus loqui; uno modo, componendo rem unam cum alia, alio modo, compositionem factam declarando qualis sit, insurgunt duo enunciationum genera; quædam scilicet enunciantes aliquid inesse vel non inesse alteri, et hæ vocantur de inesse, de quibus superius habitus est sermo; quædam vero enunciantes modum compositionis prædicati cum subiecto, et hæ vocantur modales, a principaliori parte sua, modo scilicet. Cum enim dicitur, Socratem currere est possibile, non enunciatur cursus de Socrate, sed qualis sit compositio cursus cum Socrate, scilicet possibilis. Signanter autem dixi modum compositionis, quoniam modus in enunciatione positus duplex est. Quidam enim determinat verbum, vel ratione significati ipsius verbi ut Socrates currit velociter, vel ratione temporis consignificati, ut Socrates currit hodie; quidam autem determinat compositionem ipsam prædicati cum subiecto; sicut cum dicitur, Socratem currere est possibile. In illis namque determinatur qualis cursus insit Socrati, vel quando; in hac autem, qualis sit coniunctio cursus cum Socrate. Modi ergo non illi qui rem verbi, sed qui compositionem determinant, modales enunciationes reddunt, eo quod compositio veluti forma totius totam enunciationem continet. We can speak about things in two ways: in one, composing one thing with another; in the other, declaring the kind of composition that exists between the two things. To signify these two ways of speaking about things we form two kinds of enunciations. One kind enunciates that something belongs or does not belong to something. These are called absolute [de inesse] enunciations; these we have already discussed. The other enunciates the mode of composition of the predicate with the subject. These are called modal, from their principal part, the mode. For when we say, "That Socrates run is possible,” it is not the running of Socrates that is enunciated but the kind of composition there is between running and Socrates-in this case, possible. I have said "mode of composition” expressly, for there are two kinds of mode posited in the enunciation. One modifies the verb, either with respect to what it signifies, as in "Socrates runs swiftly,” or with respect to the time signified along with the verb, as in "Socrates runs today.” The other kind modifies the very composition of the predicate with the subject, as in the example, "That Socrates run is possible.” The former determines how or when running is in Socrates; the latter determines the kind of conjunction there is between running and Socrates. The former, which affects the actuality of the verb, does not make a modal enunciation. Only the modes that affect the composition make a modal enunciation, the reason being that the composition, as the form of the whole, contains the whole enunciation. 3 Sunt autem huiusmodi modi quatuor proprie loquendo, scilicet possibile et impossibile, necessarium et contingens. Verum namque et falsum, licet supra compositionem cadant cum dicitur, Socratem currere est verum, vel hominem esse quadrupedem est falsum, attamen modificare proprie non videntur compositionem ipsam. Quia modificari proprie dicitur aliquid, quando redditur aliquale, non quando fit secundum suam substantiam. Compositio autem quando dicitur vera, non aliqualis proponitur, sed quod est: nihil enim aliud est dicere, Socratem currere est verum, quam quod compositio cursus cum Socrate est. Et similiter quando est falsa, nihil aliud dicitur, quam quod non est: nam nihil aliud est dicere, Socratem currere est falsum, quam quod compositio cursus cum Socrate non est. Quando vero compositio dicitur possibilis aut contingens, iam non ipsam esse, sed ipsam aliqualem esse dicimus: cum siquidem dicitur, Socratem currere est possibile, non substantificamus compositionem cursus cum Socrate, sed qualificamus, asserentes illam esse possibilem. Unde Aristoteles hic modos proponens, veri et falsi nullo modo meminit, licet infra verum et non verum inferat, propter causam ibi assignandam. This kind of mode, properly speaking, is fourfold: possible, impossible, necessary, and contingent. True and false are not included because, strictly speaking, they do not seem to modify the composition even though they fall upon the composition itself, as is evident in "That Socrates runs is true,” and "That man is four-footed is false.” For something is said to be modified in the proper sense of the term when it is caused to be in a certain way, not when it comes to be according to its substance. Now, when a composition is said to be true it is not proposed that it is in a certain way, but that it is. To say, "That Socrates runs is true,” for example, is to say that the composition of running with Socrates is. The case is similar when it is false, for what is said is that it is not; for example, to say, "That Socrates runs is false” is to say that the composition of running with Socrates is not. On the other hand, when the composition is said to be possible or contingent, we are not saying that it is but that it is in a certain way. For example, when we say, "That Socrates run is possible,” we do not make the composition of running with Socrates substantial, but we qualify it, asserting that it is possible. Consequently, Aristotle in proposing the modes, does not mention the true and false at all, although later on he infers the true and the not true, and assigns the reason for it where he does this. 4 Et quia enunciatio modalis duas in se continet compositiones, alteram inter partes dicti, alteram inter dictum et modum, intelligendum est eam compositionem modificari, idest, quæ est inter partes dicti, non eam quæ est inter modum et dictum. Quod sic perpendi potest. Huius enunciationis modalis, Socratem esse album est possibile, duæ sunt partes; altera est, Socratem esse album, altera est, possibile. Prima dictum vocatur, eo quod est id quod dicitur per eius indicativam, scilicet, Socrates est albus: qui enim profert hanc, Socrates est albus, nihil aliud dicit nisi Socratem esse album: secunda vocatur modus, eo quod modi adiectio est. Prima compositionem quandam in se continet ex Socrate et albo; secunda pars primæ opposita compositionem aliquam sonat ex dicti compositione et modo. Prima rursus pars, licet omnia habeat propria, subiectum scilicet, et prædicatum, copulam et compositionem, tota tamen subiectum est modalis enunciationis; secunda autem est prædicatum. Dicti ergo compositio subiicitur et modificatur in enunciatione modali. Qui enim dicit, Socratem esse album est possibile, non significat qualis est coniunctio possibilitatis cum hoc dicto, Socratem esse album, sed insinuat qualis sit compositio partium dicti inter se, scilicet albi cum Socrate, scilicet quod est compositio possibilis. Non dicit igitur enunciatio modalis aliquid inesse, vel non inesse, sed dicti potius modum enunciat. Nec proprie componit secundum significatum, quia compositionis non est compositio, sed rerum compositioni modum apponit. Unde nihil aliud est enunciatio modalis, quam enunciatio dicti modificativa. Since the modal enunciation contains two compositions, one between the parts of what is said, the other between what is said and the mode, it must be understood that it is the former composition that is modified, i.e., the composition between the parts of what is said, not the composition between what is said and the mode. This can be seen in an example. In the modal enunciation, "That Socrates be white is possible,” there are two parts: one, "That Socrates be white,” the other, "is possible.” The first is called the dictum because it is that which is asserted by the indicative, namely, "Socrates is white”; for in saying "Socrates is white” we are simply saying, "That Socrates be white.” The second part is called the mode because it is the addition of a restriction. The first part of the modal enunciation consists of a certain composition of Socrates and white; the second part, opposed to the first, 4 indicates a composition from the composition of dictum and mode. Again, the first part, although it has all the properties of an enunciation—subject, predicate, copula, and composition—is, in its entirety, the subject of the modal enunciation; the second part, the mode, is the predicate. In a modal enunciation, therefore, the composition of the dictum is subjected and modified; for when we say, "That Socrates be white is possible,” it does not signify the kind of conjunction of possibility there is with the dictum "That Socrates be white,” but it implies the kind of composition there is of the parts of the dictum among themselves, i.e., of white with Socrates, namely, that it is a possible composition. The modal enunciation, therefore, does not say that something is present in or not present in a subject, but rather, it enunciates a mode of the dictum. Nor properly speaking does it compose according to what is signified, since it is not a composition of the composition; rather, it adds a mode to the composition of the things. Hence the modal enunciation is simply an enunciation in which the dictum is modified. 5 Nec propterea censenda est enunciatio plures modalis, quia omnia duplicata habeat: quoniam unum modum de unica compositione enunciat, licet illius compositionis plures sint partes. Plura enim illa ad dicti compositionem concurrentia, veluti plura ex quibus fit unum subiectum concurrunt, de quibus dictum est supra quod enunciationis unitatem non impediunt. Sicut nec cum dicitur, domus est alba, est enunciatio multiplex, licet domus ex multis consurgat partibus. Because the modal enunciation has everything duplicated, it must not on that account be thought to be many. It enunciates one mode of only one composition, although there are many parts of that composition. The many concurring for the composition of the dictum are like the many that concur to make one subject, of which it was said above that it does not impede the unity of the enunciation.” The enunciation, "The house is white,” is also a case in point, for it is not multiple, although a house is built of many parts. 6 Merito autem est, post enunciationes de inesse, de modalibus tractandum, quia partes naturaliter sunt toto priores, et cognitio totius ex partium cognitione dependet; et specialis sermo de his est habendus, quia proprias habet difficultates. Notavit quoque Aristoteles in textu multa. Horum ordinem scilicet, cum dixit: his vero determinatis etc.; modos qui et quot sunt, cum eos expressit et inseruit; variationem eiusdem modi, per affirmationem et negationem, cum dixit: possibile et non possibile, contingens et non contingens; necessitatem cum addidit: habent enim multas dubitationes proprias et cetera. Modal enunciations are rightly treated after the absolute enunciation, for parts are naturally prior to the whole, and knowledge of the whole depends on knowledge of the parts. Moreover, a special discussion of them was necessary because the modal enunciation has its own peculiar difficulties. Aristotle indicates in his text many of the things we have taken up here: the order of modal enunciations, when he says, Having determined these things, etc.; what and how many modes there are when he expresses and lists them, the variation of the same mode by affirmation and negation when he says, the possible and not possible, contingent and not contingent; the necessity of treating them, when he adds, for they have many difficulties of their own. 7 Deinde cum dicit: nam si eorum etc., exequitur tractatum de oppositione modalium. Et circa hoc duo facit: primo, movendo quæstionem arguit ad partes; secundo, determinat veritatem; ibi: contingit autem et cetera. Est autem dubitatio: an in enunciationibus modalibus fiat contradictio negatione apposita ad verbum dicti, quod dicit rem; an non, sed potius negatione apposita ad modum qui qualificat. Et primo, arguit ad partem affirmativam, quod scilicet addenda sit negatio ad verbum; secundo, ad partem negativam, quod non apponenda sit negatio ipsi verbo; ibi: videtur autem et cetera. Then he investigates the opposition of modal enunciations, where he says, Let us grant that of those things that are combined, contradictories are those opposed to each other by being related in a certain way according to "to be” and "not to be,” etc. First, he presents the question and in so doing gives arguments for the parts; secondly, he determines the truth, where he says, For it follows from what we have said, either that the same thing is asserted and denied at once of the same subject, etc. The question with respect to the opposition of modals is this: Is a contradiction made in modal enunciations by a negation added to the verb of the dictum, which expresses what is; or is it not, but rather by a negation added to the mode which qualifies? Aristotle first argues for the affirmative part, that the negation must be added to the verb; then he argues for the negative part, that the negation must not be added to the verb, where he says, However it seems that the same thing is possible to be and possible not to be, etc. 8 Intendit ergo primo tale argumentum; si complexorum contradictiones attenduntur penes esse et non esse (ut patet inductive in enunciationibus substantivis de secundo adiacente et de tertio, et in adiectivis), contradictionesque omnium hoc modo sumendæ sunt, contradictoria huius, possibile esse, erit, possibile non esse, et non illa, non possibile esse. Et consequenter apponenda est negatio verbo, ad sumendam oppositionem in modalibus. Patet consequentia, quia cum dicitur, possibile esse, et, possibile non esse, negatio cadit supra esse. Unde dicit: nam si eorum, quæ complectuntur, idest complexorum, illæ sibi invicem sunt oppositæ contradictiones, quæ secundum esse vel non esse disponuntur, idest in quarum una affirmatur esse, et in altera negatur. His first argument is this. If of combined things, contradictions are those related according to "to be” and "not to be” (as is clear inductively in substantive enunciations with a second determinant, in those with a third determinant, and in adjectival enunciations) and all contradictions must be obtained in this way, the contradictory of "possible to be” will be "possible not to be,” and not, "not possible to be.” Consequently, the negation must be added to the verb to get opposition in modal enunciations. The consequence is clear, for when we say "possible to be” and possible not to be” the negation falls on "to be.” Accordingly, he says, Let us grant that of those things that are combined, i.e., of complex things, contradictions are those opposed to each other which are disposed according to "to be” and "not to be,” i.e., in one of which "to be” is affirmed and in the other denied. Et subdit inductionem, inchoans a secundo adiacente: ut, eius enunciationis quæ est, esse hominem, idest, homo est, negatio est, non esse hominem, ubi verbum negatur, idest, homo non est; et non est eius negatio ea quæ est, esse non hominem, idest, non homo est: hæc enim non est negativa, sed affirmativa de subiecto infinito, quæ simul est vera cum illa prima, scilicet, homo est. He goes on to give an induction, beginning with an enunciation having a second determinant. The negation of "Man is,” is, "Man is not,” in which the verb is negated. The negation of "Man is,” is not, "Non-man is,” for this is not the negative but the affirmative of the infinite subject, which is true at the same time as the first enunciation, "Man is.” V. lib. 2 l. 8 n. 10Deinde prosequitur inductionem in substantivis de tertio adiacente: ut, eius quæ est, esse album hominem idest, ut illius enunciationis, homo est albus, negatio est, non esse album hominem, ubi verbum negatur, idest, homo non est albus; et non est negatio illius ea, quæ est, esse non album hominem, idest, homo est non albus. Hæc enim non est negativa, sed affirmativa de prædicato infinito. Et quia istæ duæ affirmativæ de prædicato finito et infinito non possunt de eodem verificari, propterea quia sunt de prædicatis oppositis, posset aliquis credere quod sint contradictoriæ; et ideo ad hunc errorem tollendum interponit rationem probantem quod hæ duæ non sunt contradictoriæ. Est autem ratio talis. Contradictoriorum talis est natura quod de omnibus aut dictio, idest affirmatio aut negatio verificatur. Inter contradictoria siquidem nullum potest inveniri medium; sed hæ duæ enunciationes, scilicet, est homo albus, et, est homo non albus, sunt contradictoriæ per se; ergo sunt talis naturæ quod de omnibus altera verificatur. Et sic, cum de ligno sit falsum dicere, est homo albus, erit verum dicere de eo, scilicet ligno, esse non album hominem, idest, lignum est homo non albus. Quod est manifeste falsum: lignum enim neque est homo albus, neque est homo non albus. Restat ergo ex quo utraque est simul falsa de eodem, quod non sit inter eas contradictio. Sed contradictio fit quando negatio apponitur verbo. He continues the induction with substantive enunciations having a third determinant. The negation of the enunciation "Man is white” is "Man is not white,” in which the verb is negated. The negation is not "Man is nonwhite,” for this is not the negative, but the affirmative of the infinite predicate. Now it might be thought that the affirmatives of the finite and infinite predicates are contradictories since they cannot be verified of the same thing because of their opposed predicates. To obviate this error, Aristotle interposes an argument proving that these two are not contradictories. The nature of contradictories, he reasons, is such that either the assertion, i.e., the affirmation, or the negation, is verified of anything, for between contradictories no middle is possible. Now the two enunciations, that something "is white man” and "is nonwhite man” are per se contradictories. Therefore, they are of such a nature that one of them is verified of anything. For example, it is false to say "is white man” of wood; hence "is nonwhite man” will be true to say of it, namely of wood, i.e., "Wood is nonwhite man.” This is manifestly false, for wood is neither white man nor nonwhite man. Consequently, there is not a contradiction in the case in which each is at once false of the same subject. Therefore, contradiction is effected when the negation is added to the verb. 11 Deinde prosequitur inductionem in enunciationibus adiectivi verbi, dicens: quod si hoc modo, scilicet supradicto, accipitur contradictio, et in quantiscunque enunciationibus esse non ponitur explicite, idem faciet quoad oppositionem sumendam, id quod pro esse dicitur (idest verbum adiectivum, quod locum ipsius esse tenet, pro quanto, propter eius veritatem in se inclusam, copulæ officium facit), ut eius enunciationis quæ est, homo ambulat, negatio est, non ea quæ dicit, non homo ambulat (hæc enim est affirmativa de subiecto infinito), sed negatio illius est, homo non ambulat; sicut et in illis de verbo substantivo, negatio verbo addenda erat. Nihil enim differt dicere verbo adiectivo, homo ambulat, vel substantivo, homo est ambulans. He continues his induction with enunciations having an adjective verb: Now if the case is as we have stated it, i.e., contradiction is taken as said above, then in enunciations in which "to be” is not the determining word added (explicitly), that which is said in place of "to be” will effect the same thing with respect to the opposition obtained (i.e., the adjective verb that occupies the place of "to be,” inasmuch as the truth of "to be” is included in it, effects the function of the copula). For example, the negation of the enunciation "Man walks” is not, "Non-man walks” (for this is the affirmative of the infinite subject) but "Man is not walking.” In this case, as in that of the substantive verb, the negation must be added to the verb, for there is no difference between using the adjective verb, as in "Man walks,” and using the substantive verb, as in "Man is walking.” 12 Deinde ponit secundam partem inductionis dicens: et si hoc modo in omnibus sumenda est contradictio, scilicet, apponendo negationem ad esse, concluditur quod et eius enunciationis, quæ dicit, possibile esse, negatio est, possibile non esse, et non illa quæ dicit, non possibile esse. Patet conclusionis sequela: quia in illa, possibile non esse, negatio apponitur verbo; in ista autem non. Dixit autem in principio huius rationis: eorum quæ complectuntur, idest complexorum, contradictiones fiunt secundum esse et non esse, ad differentiam incomplexorum quorum oppositio non fit negatione dicente non esse, sed ipsi incomplexo apposita, ut, homo, et, non homo, legit, et non legit. Then he posits the second part of the induction: And if this is always the case, i.e., that contradiction must be gotten by adding the negation to "to be,” we must conclude that the negation of the enunciation that asserts "Possible to be” is "possible not to be,” and not, "not possible to be.” The consequent of the conclusion is evident, for in "possible not to be” the negation is added to the verb, in "not possible to be,” it is not. At the beginning of this argument, Aristotle said, Of those things that are combined, i.e., complex things, the contradictions are effected according to "to be” and "not to be.” He said this in reference to the difference between complex and incomplex things, for opposition in the latter is not made by the negation expressing "not to be,” but by adding the negative to the incomplex thing itself, as in "man” and "non-man,” "reads” and "non-reads.” V. lib. 2 l. 8 n. 13Deinde cum dicit: videtur autem idem etc., arguit ad quæstionis partem negativam (scilicet quod ad sumendam contradictionem in modalibus non addenda est negatio verbo), tali ratione. Impossibile est duas contradictorias esse simul veras de eodem; sed supradictæ, scilicet, possibile esse, et, possibile non esse, simul verificantur de eodem; ergo istæ non sunt contradictoriæ: igitur contradictio modalium non attenditur penes verbi negationem. Huius rationis primo ponitur in littera minor cum sua probatione; secundo maior; tertio conclusio. Minor quidem cum dicit: videtur autem idem possibile esse, et, non possibile esse. Sicut verbi gratia, omne quod est possibile dividi est etiam possibile non dividi, et quod est possibile ambulare est etiam possibile non ambulare. Ratio autem huius minoris est, quoniam omne quod sic possibile est (sicut, scilicet, est possibile ambulare et dividi), non semper actu est: non enim semper actualiter ambulat, qui ambulare potest; nec semper actu dividitur, quod dividi potest. Quare inerit etiam negatio possibilis, idest, ergo non solum possibilis est affirmatio, sed etiam negatio eiusdem. Adverte quod quia possibile est multiplex, ut infra dicetur, ideo notanter Aristoteles addidit ly sic, assumens, quod sic possibile est, non semper actu est. Non enim de omni possibili verum est dicere quod non semper actu est, sed de aliquo, eo scilicet quod est sic possibile, quemadmodum ambulare et dividi. Nota ulterius quod quia tale possibile habet duas conditiones, scilicet quod potest actu esse et quod non semper actu est, sequitur necessario quod de eo simul est verum dicere, possibile esse, et, non esse. Ex eo enim quod potest actu esse, sequitur quod sit possibile esse; ex eo vero quod non semper actu est, sequitur quod sit possibile non esse. Quod enim non semper est, potest non esse. Bene ergo intulit Aristoteles ex his duobus: quare inerit etiam negatio possibilis et non solum affirmatio; potest igitur et non ambulare, quod est ambulabile, et non videri, quod est visibile. Maior vero subiungitur, cum ait: at vero impossibile est de eodem veras esse contradictiones. Infertur quoque ultimo conclusio: non est igitur ista (scilicet, possibile non esse) negatio illius, quæ dicit, possibile esse: quia sunt simul veræ de eodem. Caveto autem ne ex isto textu putes possibile, ut est modus, debere semper accipi pro possibili ad utrumlibet: quoniam hoc infra declarabitur esse falsum; sed considera quod satis fuit intendenti declarare quod in modalibus non sumitur contradictio ex verbi negatione, afferre instantiam in una modali, quæ continetur sub modalibus de possibili. When he says, However, it seems that the same thing is possible to be and possible not to be, etc., he argues for the negative part of the question, namely, to get a contradiction in modals the negation should not be added to the verb. His reasoning is the following: It is impossible for two contradictories to be true at once of the same subject; but "possible to be” and "possible not to be” are verified at once of the same thing; therefore, these are not contradictories. Consequently, contradiction of the modals is not obtained by negation of the verb. In this reasoning, the minor is posited first, with its proof; secondly, the major; finally, the conclusion. The minor is: However, it seems that the same thing is possible to be and possible not to be. For instance, everything that has the possibility of being divided also has the possibility of not being divided, and that which has the possibility of walking also has the possibility of not walking. The proof of this minor is that everything that is possible in this way (as are possible to walk and to be divided) is not always in act; for he who is able to walk is not always actually walking, nor is that which can be divided always divided. And so the negation of the possible will also be inherent in it, i.e., therefore not only is the affirmation possible but also the negation. Notice that since the possible is manifold, as will be said further on, Aristotle explicitly adds "in this way” when he assumes here that that which is possible is not always in act. For it is not true to say of every possible that it is not always in act, but only of some, namely, those that are possible in the way in which to walk and to be divided are possible. Note also that "possible in this way” has two conditions: that it is able to be in act, and that it is not always in act. It follows necessarily, then, that it is true to say of it simultaneously that it is both possible to be and possible not to be. From the fact that it can be in act it follows that it is possible to be; from the fact that it is not always in act it follows that it is possible not to be, for that which not always is, is able not to be. Aristotle, then, rightly infers from these two: and so the negation of the possible will also be inherent in it; and not just the affirmation, for that which could walk could also not walk and that which could be seen not be seen. The major is: But it is impossible that contradictions in respect to the same thing be true. The final conclusion inferred is: Therefore, the negation of "possible to be” is not, "possible not to be” because they are true at once of the same thing. In relation to this part of the text, be careful not to suppose that possible as it is a mode, is always to be taken for possible to either of two alternatives, for this will be shown to be false later on. If you consider the matter carefully you will see that it was enough for his intention to give as an instance one modal contained under the modals of the possible in order to show that contradiction in modals is not obtained by negation of the verb. 14 Deinde cum dicit: contingit autem unum ex his etc., determinat veritatem huius dubitationis. Et quia duo petebat, scilicet, an contradictio modalium ex negatione verbi fiat an non, et, an potius ex negatione modi; ideo primo, determinat veritatem primæ petitionis, quod scilicet contradictio harum non fit negatione verbi; secundo determinat veritatem secundæ petitionis, quod scilicet fiat modalium contradictio ex negatione modi; ibi: est ergo negatioet cetera. Dicit ergo quod propter supradictas rationes evenit unum ex his duobus, quæ conclusimus determinare, aut idem ipsum, idest, unum et idem dicere, idest affirmare et negare simul de eodem: idest, aut quod duo contradictoria simul verificantur de eodem, ut prima ratio conclusit; aut affirmationes vel negationes modalium, quæ opponuntur contradictorie, fieri non secundum esse vel non esse, idest, aut contradictio modalium non fiat ex negatione verbi, ut secunda ratio conclusit. Si ergo illud est impossibile, scilicet quod duo contradictoria possunt simul esse vera de eodem, hoc, scilicet quod contradictio modalium non fiat secundum verbi negationem, erit magis eligendum. Impossibilia enim semper vitanda sunt. Ex ipso autem modo loquendi innuit quod utrique earum aliquid obstat. Sed quia primo obstat impossibilitas quæ acceptari non potest, secundo autem nihil aliud obstat nisi quod negatio supra enunciationis copulam cadere debet, si negativa fieri debet enunciatio, et hoc aliter fieri potest quam negando dicti verbum, ut infra declarabitur; ideo hoc secundum, scilicet quod contradictio modalium non fiat secundum negationem verbi, eligendum est: primum vero est omnino abiiciendum. Aristotle establishes the truth with respect to this difficulty where he says, For it follows from what we have said, either that the same thing is asserted and denied at once of the same subject, etc. Since he is investigating two things, i.e., whether contradiction of modals is made by the negation of the verb or not; and, whether it is not rather by negation of the mode, he first determines the truth in relation to the first question, namely, that contradiction of modals is not made by negation of the verb; then he determines the truth in relation to the second, namely, that contradiction of modals is made by negation of the mode, where he says, Therefore, the negation of "possible to be” is "not possible to be,” etc. Hence he says that because of the foresaid reasoning one of these two follows: first, that either the same thing, i.e., one and the same thing is said, i.e., is asserted and denied at once of the same subject, i.e., either two contradictories are verified at once of the same thing, as the first argument concluded; or secondly, that assertions and denials of modals, which are opposed contradictorily are not made by the addition of "to be” or "not to be,” i.e., contradiction of modals is not made by the negation of the verb, as the second argument concluded. If the former alternative is impossible, namely, that two contradictories can be true of the same thing at once, the latter, that contradiction of modals is not made according to negation of the verb, must obtain, for impossible things must always be avoided. His mode of speaking here indicates that there is some obstacle to each alternative. But since in the first the obstacle is an impossibility that cannot be accepted, while in the second the only obstacle is that the negation must fall upon the copula of the enunciation if a negative enunciation is to be formed, and this can be done otherwise than by denying the verb of the dictum, as will be shown later on, then the second alternative must be chosen, i.e., that the contradiction of modals is not made according to negation of the verb, and the first alternative is to be rejected. IX. 1. Determinat ubi ponenda sit negatio ad assumendam modalium contradictionem. Et circa hoc quatuor facit: primo, determinat veritatem summarie; secundo, assignat determinatæ veritatis rationem, quæ dicitur rationi ad oppositum inductæ; ibi: fiunt enim etc.; tertio, explanat eamdem veritatem in omnibus modalibus; ibi: eius veroetc.; quarto, universalem regulam concludit; ibi: universaliter vero et cetera. Quia igitur negatio aut verbo aut modo apponenda est, et quod verbo non addenda est, declaratum est per locum a divisione; concludendo determinat: est ergo negatio eius quæ est possibile esse, ea quæ est non possibile esse, in qua negatur modus. Et eadem est ratio in enunciationibus de contingenti. Huius enim, quæ est, contingens esse, negatio est, non contingens esse. Et in aliis, scilicet de necesse et impossibile idem est iudicium. Aristotle now determines where the negation must be placed in order to obtain contradiction in modals. He first determines the truth summarily; secondly, he presents the argument for the truth of the position, which is also the answer to the reasoning induced for the opposite position, where he says, For just as "to be” and "not to be” are the determining additions in the former, and the things subjected are "white” and "man,” etc.; thirdly, he makes this truth evident in all the modals, where he says, The negation, then, of "possible not to be” is "not possible not to be,” etc.; fourthly, he arrives at a universal rule where he says, And universally, as has been said, "to be” and "not to be must be posited as the subject, etc. Since the negation must be added either to the verb or to the mode and it was shown above in virtue of an argument from division that it is not to be added to the verb, he concludes: Therefore, the negation of "possible to be” is "not possible to be”, that is, the mode is negated. The reasoning is the same with respect to enunciations of the contingent, for the negation of "contingent to be” is "not contingent to be.” And the judgment is the same in the others, i.e., the necessary and the impossible. V. lib. 2 l. 9 n. 2Deinde cum dicit: fiunt enim in illis appositiones etc., subdit huius veritatis rationem talem. Ad sumendam contradictionem inter aliquas enunciationes oportet ponere negationem super appositione, idest coniunctione prædicati cum subiecto; sed in modalibus appositiones sunt modi; ergo in modalibus negatio apponenda est modo, ut fiat contradictio. Huius rationis, maiore subintellecta, minor ponitur in littera per secundam similitudinem ad illas de inesse. Et dicitur quod quemadmodum in illis enunciationibus de inesse appositiones, idest prædicationes, sunt esse et non esse, idest verba significativa esse vel non esse (verbum enim semper est nota eorum quæ de altero prædicantur), subiective vero appositionibus res sunt, quibus esse vel non esse apponitur, ut album, cum dicitur, album est, vel homo, cum dicitur, homo est; eodem modo hoc in loco in modalibus accidit: esse quidem subiectum fit, idest dictum significans esse vel non esse subiecti locum tenet; contingere vero et posse oppositiones, idest modi, prædicationes sunt. Et quemadmodum in illis de inesse penes esse et non esse veritatem vel falsitatem determinavimus, ita in istis modalibus penes modos. Hoc est enim quod subdit, determinantes, scilicet, fiunt ipsi modi veritatem, quemadmodum in illis esse et non esse, eam determinat. When he says, For just as "to be” and "not to be” are the determining additions in the former, and the things subjected are "white” and "man,” etc., he gives the argument for the truth of his position. To obtain contradiction among any enunciations the negation must be applied to the determining addition, i.e., to the word that joins the predicate with the subject; but in modals the determining additions are the modes; therefore, to get a contradiction in modals, the negation must be added to the mode. The major of the argument is subsumed; the minor is stated in Aristotle’s wording by a further similitude to absolute enunciations. In absolute enunciations the determining additions, i.e., the predications, are "to be” and "not to be,” i.e., the verb signifying "to be” or "not to be” (for the verb is always a sign of those things that are predicated of another). The things subjected to the determining additions, i.e., to which to be” and "not to be” are applied, are "white,” in "White is, "or man,” in "Man is.” This happens in modals in the same way but in a manner appropriate to them. "To be” is as the subject, i.e., the dictum signifying "to be” or "not to be” holds the place of the subject; "is possible” and "is contingent,” i.e., the modes, are the predicates. And just as in absolute enunciations we determine truth or falsity with "to be” and "not to be,” so in modals with the modes. He makes this point when he says, determining additions, i.e., these modes effect truth just as "to be” and "not to be” determine truth and falsity in the others. 3. Et sic patet responsio ad argumentum in oppositum primo adductum, concludens quod negatio verbo apponenda sit, sicut illis de inesse. Dicitur enim quod cum modalis enunciet modum de dicto sicut enunciatio de inesse, esse vel esse tale, puta esse album de subiecto, eumdem locum tenet modus hic, quem ibi verbum; et consequenter super idem proportionaliter cadit negatio hic et ibi. Eadem enim, ut dictum est, proportio est modi ad dictum, quæ est verbi ad subiectum. Rursus cum veritas et falsitas affirmationem et negationem sequantur, penes idem attendenda est affirmatio vel negatio enunciationis, et veritas vel falsitas eiusdem; sicut autem in enunciationibus de inesse veritas vel falsitas esse vel non esse consequitur, ita in modalibus modum. Illa namque modalis est vera quæ sic modificat dictum sicut dicti compositio patitur, sicut illa de inesse est vera, quæ sic significat esse sicut est. Est ergo negatio modo hic apponenda, sicut ibi verbo, cum sit eadem utriusque vis quoad veritatem et falsitatem enunciationis. Adverte quod modos, appositiones, idest, prædicationes vocavit, sicut esse in illis de inesse, intelligens per modum totum prædicatum enunciationis modalis, puta, est possibile. In cuius signum modos ipsos verbaliter protulit dicens: contingere vero et posse appositiones sunt. Contingit enim et potest, totum prædicatum modalis continent. Thus the response to the argument for the opposite position, which he gave first, is evident. That argument concluded that the negation should be added to the verb as it is in absolute enunciations. But since the modal enunciates a mode of a dictum—as the absolute enunciation enunciates "to be” or "not to be” such, for instance, "to be white” of a subject—the mode holds the same place here that the verb does there. Consequently, the negation falls upon the same thing proportionally here and there, for the proportion of mode to dictum is the same as the proportion of verb to subject. Again, since truth and falsity follow upon affirmation and negation, the affirmation and negation of an enunciation and its truth and falsity must be controlled by the same thing. In absolute enunciations truth and falsity follow upon "to be” or "not to be,” hence in the modals they follow upon the mode; for that modal is true which modifies the dictum as the composition of the dictum permits, just as that absolute enunciation is true which signifies that something is as it is. Therefore, negation is added here to the mode just as it is added there to the verb, since the power of each is the same with respect to the truth and falsity of an enunciation. Notice that he calls the modes "determining additions,” i.e., predications—as "to be” is in absolute enunciations—understanding by the mode the whole predicate of the modal enunciation, for example, "is possible.” As a sign of this he expresses the modes themselves verbally when he says, "is possible” and "is contingent” are determining additions. For "is contingent” and "is possible” comprise the whole predicate of the modal enunciation. V. lib. 2 l. 9 n. 4Deinde cum dicit: eius vero quod est possibile est non esse etc., explanat determinatam veritatem in omnibus modalibus, scilicet de possibili, et necessario, et impossibili. Contingens convertitur cum possibili. Et quia quilibet modus facit duas modales affirmativas, alteram habentem dictum affirmatum, et alteram habentem dictum negatum; ideo explanat in singulis modis quæ cuiusque affirmationis negatio sit. Et primo in illis de possibili. Et quia primæ affirmativæ de possibili (quæ scilicet habet dictum affirmatum) scilicet possibile esse, negatio assignata fuit, non possibile esse; ideo ad reliquam affirmativam de possibili transiens ait: eius vero, quæ est possibile non esse (ubi dictum negatur) negatio est non possibile non esse. Et hoc consequenter probat per hoc quod contradictoria huius, possibile non esse, aut est, possibile esse, aut illa, quam diximus, scilicet, non possibile non esse. Sed illa, scilicet, possibile esse, non est eius contradictoria. Non enim sunt sibi invicem contradicentes, possibile esse, et, possibile non esse, quia possunt simul esse veræ. Unde et sequi sese invicem putabuntur: quoniam, ut supra dictum fuit, idem est, possibile esse, et, non esse, et consequenter sicut ad, posse esse, sequitur, posse non esse, ita e contra ad, posse non esse, sequitur, posse esse; sed contradictoria illius, possibile esse, quæ non potest simul esse vera est, non possibile esse: hæ enim, ut dictum est, opponuntur. Remanet ergo quod huius negatio, possibile non esse, sit illa, non possibile non esse: hæ namque simul nunquam sunt veræ vel falsæ. Dixit quod possibile esse et non esse sequi se invicem putabuntur, et non dixit quod se invicem consequuntur: quia secundum veritatem universaliter non sequuntur se, sed particulariter tantum, ut infra dicetur; propter quod putabitur quod simpliciter se invicem sequantur. Deinde declarat hoc idem in illis de necessario. Et primo, in affirmativa habente dictum affirmatum, dicens: similiter eius quæ est, necessarium esse, negatio non est ea, quæ dicit necessarium non esse, ubi modus non negatur, sed ea quæ est, non necessarium esse. Deinde subdit de affirmativa de necessario habente dictum negatum, et ait: eius vero, quæ est, necessarium non esse, negatio est ea, quæ dicit, non necessarium non esse. Deinde transit ad illas de impossibili, eumdem ordinem servans, et inquit: et eius, quæ dicit, impossibile esse, negatio non est ea quæ dicit, impossibile non esse, sed, non impossibile esse: ubi iam modus negatur. Alterius vero affirmativæ, quæ est, impossibile non esse, negatio est ea quæ dicit non impossibile non esse. Et sic semper modo negatio addenda est. When he says, The negation, then, of "possible not to be” is [not, "not possible to be” but] "not possible not to be,” etc., he makes this truth evident in all the modals, i.e., the possible, the necessary, and the impossible (the contingent being convertible with the possible). And since any mode makes two modal affirmatives, one having an affirmed dictum and the other having a negated dictum, he shows what the negation of each affirmation is in each mode. First he takes those of the possible. The negation of the first affirmative of the possible (the one with an affirmed dictum), i.e., "possible to be,” was assigned as "not possible to be.” Hence, going on to the remaining affirmative of the possible he says, The negation, then, of "possible not to be” [wherein the dictum is negated] is, "not possible not to be.” Then he a proves this. The contradictory of "possible not to be” is either "Possible to be” or "not possible not to be.” But the former, i.e., "possible to be,” is not the contradictory of "possible not to be,” for they can be at once true. Hence they are also thought to follow upon each other, for, as was said above, the same thing is possible to be and not to be. Consequently, just as "possible not to be” follows upon "possible to be,” so conversely "possible to be” follows upon "possible not to be.” But the contradictory of "possible to be,” which cannot be true at the same time, is "not possible to be,” for these, as has been said, are opposed. Therefore, the negation of "possible not to be” is, "not possible not to be,” for these are never at once true or false. Note that he says, Wherefore "possible to be” and "possible not to be” would appear to be consequent to each other, and not that they do follow upon each other, for it is not true that they follow upon each other universally, but only particularly (as will be said later); this is the reason they appear to follow upon each other simply. Then he manifests the same thing in the modals of the necessary, and first in the affirmative with an affirmed dictum: The case is the same with respect to the necessary. The negation of "necessary to be” is not, "necessary not to be” (in which the mode is not negated) but, "not necessary to be.” Next he adds the affirmative of the necessary with a negated dictum: and the negation of "necessary not to be is "not necessary not to be.” Next, he takes up the impossible, keeping the same order. The negation of "impossible to be” is not, "impossible not to be” but, "not impossible to be,” in which the mode is negated. The negation of the other affirmative, "impossible not to be” is "not impossible not to be.” The negation, therefore, is always added to the mode. V. lib. 2 l. 9 n. 5Deinde cum dicit: universaliter vero etc., concludit regulam universalem dicens quod, quemadmodum dictum est, dicta importantia esse et non esse oportet ponere in modalibus ut subiecta, negationem vero et affirmationem hoc, idest contradictionis oppositionem, facientem, oportet apponere tantummodo ad suum eumdem modum, non ad diversos modos. Debet namque illemet modus negari, qui prius affirmabatur, si contradictio esse debet. Et exemplariter explanans quomodo hoc fiat, subdit: et oportet putare has esse oppositas dictiones, idest affirmationes et negationes in modalibus, possibile et non possibile, contingens et non contingens. Item cum dixit negationem alio tantum modo ad modum apponi debere, non exclusit modi copulam, sed dictum. Hoc enim est singulare in modalibus quod eamdem oppositionem facit, negatio modo addita, et eius verbo. Contradictorie enim opponitur huic, possibile est esse, non solum illa, non possibile est esse, sed ista, possibile non est esse; meminit autem modi potius, et propter hoc quod nunc diximus, ut scilicet insinuaret quod negatio verbo modi postposita, modo autem præposita, idem facit ac si modali verbo præponeretur, et quia, cum modo numquam caret modalis enunciatio, semper negatio supra modum poni potest. Non autem sic de eius verbo: verbo enim modi carere contingit modalem, ut cum dicitur, Socrates currit necessario; et ideo semper verbo negatio aptari potest. Quod autem in fine addidit, verum et non verum, insinuat, præter quatuor prædictos modos, alios inveniri, qui etiam compositionem enunciationis determinant, puta, verum et non verum, falsum et non falsum: quos tamen inter modos supra non posuit, quia, ut declaratum fuit, non proprie modificant. Then he says, And universally, as has been said, "to be”and "not to be” must be posited as the subject, and those that produce affirmation and negation must be joined to "to be” and "not to be,” etc. Here he concludes with the universal rule. As has been said, the dictums denoting "to be” and "not to be” must be posited in the modals as subjects, and the one making this an affirmation and negation, i.e., the opposition of contradiction, must be added only to the selfsame mode, not to diverse modes, for the selfsame mode which was previously affirmed must be denied if there is to be a contradiction. He gives examples of how this is to be done when he adds, And these are the words that are to be considered opposed, i.e., affirmations and negations in modals, possible–not possible, contingent–not contingent. Moreover, when he said elsewhere but in another way that the negation must be applied only to the mode, he did not exclude the copula of the mode, but the copula of the dictum. For it is unique to modals that the same opposition is made by adding a negation to the mode and to its verb. The contradictory of "is possible to be,” for instance, is not only "is not possible to be,” but also "not is possible to be.” There are two reasons, however, for his mentioning the mode rather than the verb: first, for the reason we have just given, namely, so as to imply that the negation placed after the verb of the mode, the mode having been put first, accomplishes the same thing as if it were placed before the modal verb; and secondly, because the modal enunciation is never without a mode; hence the negation can always be put on the mode. However, it cannot always be put on the verb of a mode, for the modal enunciation may lack the verb of a mode as for example in "Socrates runs necessarily,” in which case the negation can always be adapted to the verb. In adding "true” and "not true” at the end he implies that besides the four modes mentioned previously there are others that also determine the composition of the enunciation, for example, "true” and "not true,” "false” and "not false”; nevertheless he did not posit these among the modes first given because, as was shown, they do not properly modify. Postquam determinavit de oppositione modalium, hic determinare intendit de consequentiis earum. Et circa hoc duo facit: primo, tradit veritatem; secundo, movet quandam dubitationem circa determinata; ibi: dubitabit autem et cetera. Circa primum duo facit: primo, ponit consequentias earum secundum opinionem aliorum; secundo, examinando et corrigendo dictam opinionem, determinat veritatem; ibi: ergo impossibile et cetera. Having established the opposition of modals, Aristotle now intends to determine their consequents. He first presents the true doctrine; then, he raises a difficulty where he says, But it may be questioned whether "Possible to be follows upon "necessary to be,” etc. In presenting the true doctrine, he first posits the consequents of the opposition of modals according to the opinion of others; secondly, he determines the truth by examining and correcting their opinion, where he says, Now the impossible and the not impossible follow contradictorily upon the contingent and the possible and the not contingent and the not possible, but inversely, etc. 2 Quoad primum considerandum est quod cum quilibet modus faciat duas affirmationes, ut dictum fuit, et duabus affirmationibus opponantur duæ negationes, ut etiam dictum fuit in primo; secundum quemlibet modum fient quatuor enunciationes, duæ scilicet affirmativæ et duæ negativæ. Cum autem modi sint quatuor, efficientur sexdecim modales: quaternarius enim in seipsum ductus sexdecim constituit. Et quoniam apud omnes, quælibet cuiusque modi, undecumque incipias, habet unam tantum cuiusque modi se consequentem, ideo ad assignandas consequentias modalium, singulas ex singulis modis accipere oportet et ad consequentiæ ordinem inter se adunare. Before we consider these consequents according to the opinion of others, we must first note that since any mode makes two affirmations and there are two negations opposed to these, there will be four enunciations according to any one mode, two affirmatives and two negatives. And since there are four modes, there will be sixteen modals. Among these sixteen, anyone of each mode, from wherever you begin, has only one of each mode following upon it. Hence, to assign the consequents of the modals, we have to take one from each mode and arrange them among themselves to form an order of consequents. V. lib. 2 l. 10 n. 3Et hoc modo fecerunt antiqui, de quibus inquit Aristoteles: consequentiæ vero fiunt secundum infrascriptum ordinem, antiquis ita ponentibus. Formaverunt enim quatuor ordines modalium, in quorum quolibet omnes quæ se consequuntur collocaverunt. Ut autem confusio vitetur, vocetur, cum Averroe, de cætero, in quolibet modo, affirmativa de dicto, et modo, affirmativa simplex; affirmativa autem de modo et negativa de dicto, affirmativa declinata; negativa vero de modo et non dicto, negativa simplex; negativa autem de utroque, negativa declinata: ita quod modi affirmationem vel negationem simplicitas, dicti vero declinatio denominet. Dixerunt ergo antiqui quod affirmationem simplicem de possibili, scilicet, possibile est esse, sequitur affirmativa simplex de contingenti, scilicet, contingens est esse (contingens enim convertitur cum possibili); et negativa simplex de impossibili, scilicet, non impossibile esse; et similiter negativa simplex de necessario, scilicet, non necesse est esse. Et hic est primus ordo modalium consequentium se. In secundo autem dixerunt quod affirmativas declinatas de possibili et contingenti, scilicet, possibile non esse, et, contingens non esse, sequuntur negativæ declinatæ de necessario et impossibili, scilicet, non necessarium non esse, et, non impossibile non esse. In tertio vero ordine dixerunt quod negativas simplices de possibili et contingenti, scilicet, non possibile esse, non contingens esse, sequuntur affirmativa declinata de necessario, scilicet, necesse non esse, et affirmativa simplex de impossibili, scilicet, impossibile esse. In quarto demum ordine dixerunt quod negativas declinatas de possibili et contingenti, scilicet, non possibile non esse, et, non contingens non esse, sequuntur affirmativa simplex de necessario, scilicet, necesse esse, et affirmativa declinata de impossibili, scilicet, impossibile est non esse. The modals were ordered in this way by the ancients. They disposed them in four orders placing together in each order those that were a consequent to each other. Aristotle speaks of this order when he says, Logical consequents follow according to the order in the table below, which is the way in which the ancients posited them. Henceforth, however, to avoid confusion let us call the affirmative of dictum and mode in any one mode, the simple affirmative, as it is by Averroes, among others; affirmative of mode and negative of dictum, the declined affirmative; negative of mode and not of dictum, the simple negative; negative of both mode and dictum, the declined negative. Hence, simplicity of mode designates affirmation or negation, and so, too, does declination of dictum. The ancients said, then, that simple affirmation of the contingent, i.e., "contingent to be” follows upon simple affirmation of the possible, i.e., "Possible to be” (for the contingent is converted with the possible); the simple negative of the impossible also follows upon this, i.e., "not impossible to be”; and the simple negative of the necessary, i.e., "not necessary to be.” This is the first order of modal consequents. In the second order they said that the declined negatives of the necessary and impossible, i.e., "not necessary not to be” and "not impossible not to be,” follow upon the declined affirmative of the possible and the contingent, i.e., "possible not to be” and "contingent not to be.” In the third order, according to them, the declined affirmative of the necessary, i.e., "necessary not to be,” and the simple affirmative of of the impossible, i.e., "impossible to be,” follow upon the simple negatives of the possible and the contingent, i.e., "not possible to be” and not contingent to be.” Finally, in the fourth order, the simple affirmative of the necessary, i.e., "necessary to be,” and the declined affirmative of the impossible, i.e., "impossible not to be,” follow upon the declined negatives of the possible and the contingent, i.e., "not possible not to be” and "not contingent not to be.” 4 Consideretur autem ex subscriptione appositæ figuræ, quemadmodum dicimus, ut clarius elucescat depictum. Consequentiæ enunciationum modalium secundum quatuor ordines ab antiquis positæ et ordinatæ. (Figura). To make this ordering more evident, let us consider it with the help of the following table. CONSEQUENTS OF MODAL ENUNCIATIONS IN THE FOUR ORDERS POSITED AND ORDERED BY THE ANCIENTS FIRST ORDER It is possible to be It is contingent to be It is not impossible to be It is not necessary to be SECOND ORDER It is possible not to be It is contingent not to be It is not impossible not to be It is not necessary not to be It is not possible to be It is not contingent to be It is impossible to be It is necessary not to be FOURTH ORDER It is not possible not to be It is not contingent not to be It is impossible not to be It is necessary to be V. lib. 2 l. 10 n. 5Deinde cum dicit: ergo impossibile et non impossibile etc., examinando dictam opinionem, determinat veritatem. Et circa hoc duo facit: quia primo examinat consequentias earum de impossibili; secundo, illarum de necessario; ibi: necessarium autem et cetera. Unde ex præmissa opinione concludens et approbans, dicit: ergo istæ, scilicet, impossibile, et, non impossibile, sequuntur illas, scilicet, contingens et possibile, non contingens, et, non possibile, sequuntur, inquam, contradictorie, idest ita ut contradictoriæ de impossibili contradictorias de possibili et contingenti consequantur, sed conversim, idest, sed non ita quod affirmatio affirmationem et negatio negationem sequatur, sed conversim, scilicet, quod affirmationem negatio et negationem affirmatio. Et explanans hoc ait: illud enim quod est possibile esse, idest affirmationem possibilis negatio sequitur impossibilis, idest, non impossibile esse; negationem vero possibilis affirmatio sequitur impossibilis. Illud enim quod est, non possibile esse, sequitur ista, impossibile est esse; hæc autem, scilicet, impossibile esse, affirmatio est; illa vero, scilicet, non possibile esse, negatio est: hic siquidem modus negatur; ibi, non. Bene igitur dixerunt antiqui in quolibet ordine quoad consequentias illarum de impossibili, quia, ut in suprascripta figura apparet, semper ex affirmatione possibilis negationem impossibilis, et ex negatione possibilis affirmationem impossibilis inferunt.When he says, Now the impossible and the not impossible follow contradictorily upon the contingent and the possible and the not contingent and the not possible, but inversely, etc., he determines the truth by examining the foresaid opinion. First, he examines the consequents of enunciations predicating impossibility; secondly, those predicating necessity, where he says, Now we must consider how enunciations predicating necessity are related to these, etc. From the opinion advanced, then, he concludes with approval that the impossible and the not impossible follow upon the contingent and the possible and the not contingent and the not possible, contradictorily, i.e., the contradictories of the impossible follow upon the contradictories of the possible and the contingent, but inversely, i.e., not so that affirmation follows upon affirmation and negation upon negation, but inversely, i.e., negation follows upon affirmation and affirmation upon negation. He explains this when he says, The negation of "impossible to be” follows upon "possible to be,” i.e., the negation of the impossible, i.e., "not impossible to be,” follows upon the affirmation of the possible, and the affirmation of the impossible follows upon the negation of the possible. For the affirmation, "impossible to be” follows upon the negation, "not possible to be.” In the latter the mode is negated, in the former it is not. Therefore, the ancients were right in saying that in any order, the consequences of enunciations predicating impossibility are as follows: from affirmation of the possible, negation of the impossible is inferred; and from negation of the possible, affirmation of the impossible is inferred. This is apparent in the diagram. V. lib. 2 l. 10 n. 6Deinde cum dicit: necessarium autem etc., intendit examinando determinare consequentias de necessario. Et circa hoc duo facit: primo examinat dicta antiquorum; secundo, determinat veritatem intentam; ibi: at vero neque necessarium et cetera. Circa primum quatuor facit. Primo, declarat quid bene et quid male dictum sit ab antiquis in hac re. Ubi attendendum est quod cum quatuor sint enunciationes de necessario, ut dictum est, differentes inter se secundum quantitatem et qualitatem, adeo ut unam integrent figuram oppositionis iuxta morem illarum de inesse; duæ earum sunt contrariæ inter se, duæ autem illis contrariis contradictoriæ, ut patet in hac figura. (Figura). Quia ergo antiqui universales contrarias bene intulerunt ex aliis, contradictorias autem earum, scilicet particulares, male intulerunt; ideo dicit quod considerandum restat de his, quæ sunt de necessario, qualiter se habeant in consequendo illas de possibili et non possibili. Manifestum est autem ex dicendis quod non eodem modo istæ de necessario illas de possibili consequuntur, quo easdem sequuntur illæ de impossibili. Nam omnes enunciationes de impossibili recte illatæ sunt ab antiquis. Enunciationes autem de necessario non omnes recte inferuntur: sed duæ earum, quæ sunt contrariæ, scilicet, necesse est esse, et, necesse est non esse, sequuntur, idest recta consequentia deducuntur ab antiquis, in tertio scilicet et quarto ordine; reliquæ autem duæ de necessario, scilicet, non necesse non esse, et, non necesse esse, quæ sunt contradictoriæ supradictis, sunt extra consequentias illarum, in secundo scilicet et primo ordine. Unde antiqui in tertio et quarto ordine omnia recte fecerunt; in primo autem et in secundo peccaverunt, non quoad omnia, sed quoad enunciationes de necessario tantum. When he says, Now we must consider how enunciations predicating necessity are related to these, etc., he proposes an examination of the consequents of enunciations predicating necessity in order to determine the truth about them. First he examines what was said by the ancients; secondly, he determines the truth, where he says, But in fact neither " necessary to be” nor "necessary not to be” follow upon "possible to be,” etc. In his examination of the ancients, Aristotle makes four points. First, he shows what was well said by the ancients and what was badly said. It must be noted in regard to this that, as we have said, there are four enunciations predicating necessity, which differ among themselves in quantity and quality, and hence they make up a diagram of opposition in the manner of the absolute enunciations. Two of them are contrary to each other, and two are contradictory to these contraries, as is clear in the diagram below. necessary to be contraries necessary not to be not necessary not to be subcontraries not necessary to be Now the ancients correctly inferred the universal contraries from the possibles, contingents, and impossibles, but incorrectly inferred their contradictories, namely, particulars. This is the reason Aristotle says that it remains to be considered how enunciations predicating necessity are related consequentially to the possible and not possible. From what Aristotle says, it is clear that those predicating necessity do not follow upon the possibles in the same way as those predicating impossibility follow upon the possibles, for all of the enunciations predicating impossibility were correctly inferred by the ancients, but those predicating necessity were not. Two of them, the contraries, "necessary to be” and "necessary not to be,” follow, i.e., correct consequents were deduced by the ancients in the third and fourth orders; the remaining two, "not necessary not to be” and "not necessary to be,” which are contradictories of the contraries, are outside of the consequents of these, i.e., in the second and first orders. Hence, the ancients represented everything correctly in the third and fourth orders, but in the first and second they erred, not with respect to all things, but only with respect to enunciations predicating necessity. V. lib. Secundo cum dicit: non enim est negatio eius etc., respondet cuidam tacitæ obiectioni, qua defendi posset consequentia enunciationis de necessario in primo ordine ab antiquis facta. Est autem obiectio tacita talis. Non possibile esse, et, necesse non esse, convertibiliter se sequuntur in tertio ordine iam approbato; ergo, possibile esse, et, non necesse esse, invicem se sequi debent in primo ordine. Tenet consequentia: quia duorum convertibiliter se sequentium contradictoria mutuo se sequuntur; sed illæ duæ tertii ordinis convertibiliter se sequuntur, et istæ duæ primi ordinis sunt earum contradictoriæ; ergo istæ primi ordinis, scilicet, possibile esse, et, non necesse esse, mutuo se sequuntur. Huic, inquam, obiectioni respondet Aristoteles hic interimendo minorem quoad hoc quod assumit, quod scilicet necessaria primi ordinis et necessaria tertii ordinis sunt contradictoriæ. Unde dicit: non enim est negatio eius quod est, necesse non esse (quæ erat in tertio ordine), illa quæ dicit, non necesse est esse, quæ sita erat in primo ordine. Et causam subdit, quia contingit utrasque simul esse veras in eodem; quod contradictoriis repugnat. Illud enim idem, quod est necessarium non esse, non est necessarium esse. Necessarium siquidem est hominem non esse lignum et non necessarium est hominem esse lignum. Adverte quod, ut infra patebit, istæ duæ de necessario, quas posuerunt antiqui in primo et tertio ordine, sunt subalternæ (et ideo sunt simul veræ), et deberent esse contradictoriæ; et ideo erraverunt antiqui. Secondly, he says, For the negation of "necessary not to be” is not "not necessary to be,” since both may be true of the same subject, etc. Here he replies to a tacit objection. This reply could be used to defend the consequent of the enunciation of the necessary made by the ancients in the first order. The tacit objection is this: "not possible to be” and "necessary not to be” follow convertibly in the third order which has already been shown to be correct; therefore, "possible to be” and "not necessary to be” ought to follow upon each other in the first order. The consequent holds; for the contradictories of two that convertibly follow upon each other, mutually follow upon each other; but those two follow upon each other convertibly in the third order and these two in the first order are their contradictories; therefore, those of the first order, i.e., "possible to be” and "not necessary to be,” mutually follow upon each other. Aristotle replies here to this objection by destroying what was assumed in the minor, i.e., that the necessary of the first order and the necessary of the third order are contradictories. He says, For the negation of "necessary not to be” (which is in the third order) is not "not necessary to be” (which has been placed in the first order). He also gives the reason: it is possible for both to be true at once of the same subject, which is repugnant to contradictories. For the same thing which is necessary not to be, is not necessary to be; for example, it is necessary that man not be wood and it is not necessary that man be wood. Notice, as will be clear later, that these two which the ancients posited in the first and third orders, are subalterns and therefore are at once true, whereas they should be contradictories; hence the ancients were in error. V. lib. 2 l. 10 n. 8Boethius autem et Averroes non reprehensive legunt tam hanc, quam præcedentem textus particulam, sed narrative utramque simul iungentes. Narrare enim aiunt Aristotelem qualitatem suprascriptæ figuræ quoad consequentiam illarum de necessario, postquam narravit quo modo se habuerint illæ de impossibili, et dicere quod secundum præscriptam figuram non eodem modo sequuntur illas de possibili illæ de necessario, quo sequuntur illæ de impossibili. Nam contradictorias de possibili contradictoriæ de impossibili sequuntur, licet conversim; contradictoriæ autem de necessario non dicuntur sequi illas contradictorias de possibili, sed potius eas sequi dicuntur contrariæ de necessario: non inter se contrariæ, sed hoc modo, quod affirmationem possibilis negatio de necessario sequi dicitur, negationem vero possibilis non affirmatio de necessario sequi ponitur, quæ sit contradictoria illi negativæ quæ ponebatur sequi ad possibilem, sed talis affirmationis de necessario contrario. Et quod hoc ita fiat in illa figura ut dicimus, patet ex primo et tertio ordine, quorum capita sunt negatio et affirmatio possibilis, et extrema sunt, non necesse esse, et, necesse non esse. Hæ siquidem non sunt contradictoriæ. Non enim est negatio eius, quæ est, necesse non esse, non necesse esse (quoniam contingit eas simul verificari de eodem), sed illa scilicet, necesse non esse, est contraria contradictoriæ huius, scilicet, non necesse esse, quæ est, necesse est esse. Sed quia sequenti litteræ magis consona est introductio nostra, quæ etiam Alberto consentit, et extorte videtur ab aliis exponi ly contrariæ, ideo prima, iudicio meo, acceptanda est expositio et ad antiquorum reprehensionem referendus est textus. Boethius and Averroes read both this and the preceding part of the text, not reprovingly, but as explanatorily joined together. They say Aristotle explains the quality of the above table with respect to the consequents of enunciations predicating necessity after he has explained in what way those predicating impossibility are related. What Aristotle is saying, then, is that those of the necessary do not follow those of the possible in the same way as those of the impossible follow upon the possible. For contradictories of the impossible follow upon contradictories of the possible, although inversely; but contradictories of the necessary are not said to follow the contradictories of the possible, but rather the contraries of the necessary follow upon them. It is not the contraries among themselves that follow, but contraries in this way: the negation of the necessary is said to follow upon the affirmation of the possible; but what follows on the negation of this possible is not the affirmation of the necessary contradictory to that negative of the necessary following upon the possible, but the contrary of such an affirmation of the necessary. That this is the case is evident in the first and third orders. The sources are negation and affirmation of the possible, and the extremes are "not necessary to be” and "necessary not to be.” But these are not contradictories, for the negation of "necessary not to be” is not "not necessary to be,” for it is possible for them to be at once true of the same thing. "Necessary not to be” is the contrary of the contradictory of "not necessary to be,” which contradictory is "necessary to be.” In my judgment, however, the first exposition should be accepted and this portion of the text taken as a reproof of the ancients, because the contraries seem to be explained in a forced way by others, whereas our introduction is more in accord with what follows in the next part of the text; in addition, it agrees with Albert’s interpretation. V. lib. 2 l. 10 n. 9Tertio cum dicit: causa autem cur etc., manifestat id quod præmiserat, scilicet, quod non simili modo ad illas de possibili sequuntur illæ de impossibili et illæ de necessario. Antiquorum enim hoc peccatum fuit tam in primo quam in secundo ordine, et quod simili modo intulerunt illas de impossibili et necessario. In primo siquidem ordine, sicut posuerunt negativam simplicem de impossibili, ita posuerunt negativam simplicem de necessario, et similiter in secundo ordine utranque negativam declinatam locaverunt. Hoc ergo quare peccatum sit, et causa autem quare necessarium non sequitur possibile, similiter, idest, eodem modo cum cæteris, scilicet, de impossibili, est, quoniam impossibile redditur idem valens necessario, idest, æquivalet necessario, contrarie, idest, contrario modo sumptum, et non eodem modo. Nam si, hoc esse est impossibile, non inferemus, ergo hoc esse est necesse, sed, hoc non esse est necesse. Quia ergo impossibile et necesse mutuo se sequuntur, quando dicta eorum contrario modo sumuntur, et non quando dicta eorum simili modo sumuntur, sequitur quod non eodem modo ad possibile se habeant impossibile et necessarium, sed contrario modo. Nam ad id possibile quod sequitur dictum affirmatum de impossibili, sequitur dictum negatum de necessario; et e contrario. Quare autem hoc accidit infra dicetur. Erraverunt igitur antiqui quod similes enunciationes de impossibili et necessario in primo et in secundo ordine locaverunt. Thirdly, he says, Now the reason why enunciations predicating necessity do not follow in the same way as the others, etc. Here Aristotle shows why enunciations predicating impossibility and necessity do not follow in a similar way upon those predicating possibility. This was the error made by the ancients in both the first and second orders, for in the first order they posited the simple negative of the impossible, and in a similar way the simple negative of the necessary, and in the second order their declined negatives, the reason being that they inferred those predicating impossibility and necessity in a similar way. The cause of this error, then, and the reason why enunciations predicating necessity do not follow the possible in the same way, i.e., in a similar mode, as the others, i.e., as the impossibles, is that the impossible expresses the same meaning as the necessary, i.e., is equivalent to the necessary, contrarily, i.e., taken in a contrary mode, and not in the same mode. For if something is impossible to be, we do not infer, therefore it is necessary to be, but it is necessary not to be. Since, therefore, the impossible and necessary mutually follow each other when their dictums are taken in a contrary mode—and not when their dictums are taken in a similar mode — it follows that the impossible and necessary are not related in the same way to the possible, but in a contrary way. For the negated dictum of the necessary follows upon that possible which follows the affirmed dictum of the impossible, and contrarily. Why this is so will be explained later. Therefore, the ancients erred when they located similar enunciations of the impossible and necessary in the first and in the second orders. V. lib. 2 l. 10 n. 10 Hinc apparet quod supra posita nostra expositio conformior est Aristoteli. Cum enim hunc textum induxerit ad manifestandum illa verba: manifestum est autem quoniam non eodem modo, etc., eo accipiendo sunt sensu illa verba, quo hic per causam manifestantur. Liquet autem quod hic redditur causa dissimilitudinis veræ inter necessarias et impossibiles in consequendo possibiles, et non dissimilitudinis falso opinatæ ab antiquis: quoniam ex vera causa nonnisi verum concluditur. Ergo reprehendendo antiquos, veram dissimilitudinem inter necessarias, et impossibiles in consequendo possibiles, quam non servaverunt illi, proposuisse tunc intelligendum est, et nunc eam manifestasse. Quod autem dissimilitudo illa, quam antiqui posuerunt inter necessarias et impossibiles, sit falso posita, ex infra dicendis patebit. Ostendetur enim quod contradictorias de possibili contradictoriæ de necessario sequuntur conversim; et quod in hoc non differunt ab his quæ sunt de impossibili, sed differunt in hoc quod modo diximus, quod possibilium et impossibilium se consequentium dictum est similiter, possibilium autem et necessariorum, se invicem consequentium dictum est contrarium, ut infra clara luce videbitur. Hence it appears that our exposition is more in conformity with Aristotle. For he introduced this text to manifest these words: It is evident that the case here is not the same, etc. By taking this meaning, then, these words are made clear through the cause. Moreover, it is evident that here the cause is given of a true dissimilitude between necessaries and impossibles in following the possibles, and not of a dissimilitude falsely held by the ancients, for from a true cause only the truth is concluded. Therefore in reproving the ancients it must be understood that a true dissimilitude between the necessary and impossible in following the possible, which they did not beed, has been proposed, and now has been made manifest. It will be clear from what will be said later that the dissimilitude posited by the ancients between the necessary and impossible is falsely posited, for it will be shown that contradictories of the necessary follow contradictories of the possible inversely, and that in this they do not differ from enunciations predicating impossibility. They do differ, however, in the way we have indicated, i.e., the dictum of the possibles and of the impossibles following on them is similar, but the dictum of the possibles and of the necessaries following on them is contrary, as will be seen clearly later. V. lib. 2 l. 10 n. 11 Quarto cum dicit: aut certe impossibile est etc., manifestat aliud quod proposuerat, scilicet, quod contradictoriæ de necessario male situatæ sint secundum consequentiam ab antiquis, qui contradictiones necessarii ita ordinaverunt. In primo ordine posuerunt contradictoriam negationem, necesse esse, idest, non necesse esse; et in secundo contradictoriam negationem, necesse non esse, idest, non necesse non esse. Et probat hunc consequentiæ modum esse malum in primo ordine. Cognita enim malitia primi, facile est secundi ordinis agnoscere defectum. Probat autem hoc tali ratione ducente ad impossibile. Ad necessarium esse sequitur possibile esse: aliter sequeretur non possibile esse, quod manifeste implicat; ad possibile esse sequitur non impossibile esse, ut patet; ad non impossibile esse, secundum antiquos, sequitur in primo ordine non necessarium esse; ergo de primo ad ultimum, ad necessarium esse sequitur non necessarium esse: quod est inconveniens, quia est manifesta implicatio contradictionis. Relinquitur ergo quod male dictum sit, quod non necessarium esse consequatur in primo ordine. Ait ergo et certe impossibile est poni sic secundum consequentiam, ut antiqui posuerunt, necessarii contradictiones, idest illas duas enunciationes de necessario, quæ sunt negationes contradictoriæ aliarum duarum de necessario. Nam ad id quod est, necessarium esse, sequitur, possibile est esse: nam si non, idest quoniam si hanc negaveris consequentiam, negatio possibilis sequitur illam, scilicet, necesse esse. Necesse est enim de necessario aut dicere, idest affirmare possibile, aut negare possibile: de quolibet enim est affirmatio vel negatio vera. Quare si dicas quod, ad necesse esse, non sequitur, possibile esse, sed, non possibile est esse; cum hæc æquivaleat illi quæ dicit, impossibile est esse, relinquitur quod ad, necesse esse, sequitur, impossibile esse, et idem erit, necesse esse et impossibile esse: quod est inconveniens. Bona ergo erat prima illatio, scilicet, necesse est esse, ergo possibile est esse. Tunc ultra. Illud quod est, possibile esse, sequitur, non impossibile esse, ut patet in primo ordine. Ad hoc vero, scilicet, non impossibile esse, secundum antiquos eodem primo ordine, sequitur, non necesse est esse (quare contingit de primo ad ultimum); ad id quod est, necessarium esse, sequitur, non necessarium esse: quod est inconveniens, immo impossibile. Fourthly, when he says, Or is it impossible to arrange the contradictions of enunciations predicating necessity in this way? he manifests another point he had proposed, namely, that contradictories of enunciations predicating necessity were badly placed according to consequence by the ancients when they ordered them thus: the contradictory negation to "necessary to be,” i.e., "not necessary to be,” in the first order, and the contradictory negation to "necessary not to be,” i.e., "not necessary not to be,” in the second. Aristotle only proves that this mode of consequence is incorrect in the first order, for when this is known the mistake in the second order is readily seen. He does this by an argument leading to an impossibility. "Possible to be” follows upon "necessary to be”; otherwise "not possible to be” would follow, which it manifestly implies. "Not impossible to be” follows upon "possible to be” as is evident, and, according to the ancients, in the first order, "not necessary to be” follows upon "not impossible to be.” Therefore, from first to last, "not necessary to be” follows upon "necessary to be,” which is inadmissible because there is an obvious implication of contradiction. Therefore, it is erroneous to say that "not necessary to be” follows in the first order. He says, then, that in fact it is impossible to posit contradictions of the necessary according to consequence as the ancients posited them, i.e., in the first order the contradictory negation of "necessary to be,” i.e., "not necessary to be” and in the second the contradictory negation of "necessary not to be,” i.e., "not necessary not to be.” For "possible to be” follows upon "necessary to be”; if not, i.e., if you deny this consequence, the negation of the possible follows upon "necessary to be,” since the possible must either be asserted of the necessary or denied, the reason being that of anything there is a true affirmation or a true negation. Therefore, if you say that "possible to be” does not follow upon "necessary to be,” but "not possible to be” does follow, then, since the latter is equivalent to the former, i.e., "not possible to be” to "impossible to be,” "impossible to be” follows upon "necessary to be” and the same thing will be "necessary to be” and "impossible to be,” which cannot be admitted. Consequently, the first inference was good, i.e., "It is necessary to be, therefore it is possible to be.” But again, "possible to be” follows upon "not impossible to be,” as is evident in the first order, and according to the ancients, "not necessary to be” follows upon "not impossible to be” in the same first order. Therefore, from first to last we arrive at this: "not necessary to be” follows upon "necessary to be,” which is unlikely, not to say impossible. 12 Dubitatur hic: quia in I priorum dicitur quod ad possibile sequitur non necessarium, hic autem dicitur oppositum. Ad hoc est dicendum quod possibile sumitur dupliciter. Uno modo in communi, et sic est quoddam superius ad necessarium et contingens ad utrunque, sicut animal ad hominem et bovem; et sic ad possibile non sequitur non necessarium, sicut ad animal non sequitur non homo. Alio modo sumitur possibile pro una parte possibilis in communi, idest pro possibili seu contingenti, scilicet ad utrunque, scilicet quod potest esse et non esse; et sic ad possibile sequitur non necessarium. Quod enim potest esse et non esse, non necessarium est esse, et similiter non necessarium est non esse. Loquimur ergo hic de possibili in communi, ibi vero in speciali. There is a doubt about this, for in I Priorum, it is said that the not necessary follows upon the possible, while here the opposite is said. The possible, however, is taken in two ways: commonly, and thus it is superior to the necessary and the contingent to either of two alternatives, as is the case with animal in relation to man and cow; taken in this way, the not necessary does not follow upon the possible, just as not-man does not follow upon animal. In another way the possible is taken for one part of the possible commonly, i.e., for the possible or contingent to either of two alternatives, namely, for what can be and not be. The not necessary follows upon the possible taken in this way, for what can be and not be is not necessary to be, and likewise is not necessary not to be. In the Prior Analytics, then, Aristotle is speaking of the possible in particular; here of the possible commonly. Deinde cum dicit: at vero neque necessarium etc., determinat veritatem intentam. Et circa hoc tria facit: primo, determinat quæ enunciatio de necessario sequatur ad possibile; secundo, ordinat consequentias omnium modalium; ibi: sequuntur enim et cetera. Quoad primum, sicut duabus viis reprehendit antiquos, ita ex illis duobus motivis intentum probat. Et intendit quod, ad possibile esse, sequitur, non necesse non esse. Primum motivum est per locum a divisione. Ad, possibile esse, non sequitur (ut probatum est), non necesse esse, at vero neque, necesse esse, neque, necesse non esse. Reliquum est ergo ut sequatur ad eam, non necesse non esse: non enim dantur plures enunciationes de necessario. Huius communis divisionis primo proponit reliqua duo membra excludenda, dicens: at vero neque necessarium esse, neque necessarium non esse, sequitur ad possibile non esse; secundo probat hoc sic. Nullum formale consequens minuit suum antecedens: tunc enim oppositum consequentis staret cum antecedente; sed utrumque horum, scilicet, necesse esse, et, necesse non esse, minuit possibile esse; ergo, et cetera. Unde, tacita maiore, ponit minoris probationem dicens: illi enim, scilicet, possibile esse, utraque, scilicet, esse et non esse, contingit accidere; horum autem, scilicet, necesse esse et necesse non esse, utrumlibet verum fuerit, non erunt illa duo, scilicet, esse et non esse, vera simul in potentia. Et primum horum explanans ait: cum dico, possibile esse, simul est possibile esse et non esse. Quoad secundum vero subdit. Si vero dicas, necesse esse vel necesse non esse, non remanet utrumque, scilicet, esse et non esse, possibile: si enim necesse est esse, possibilitas ad non esse excluditur; et si necesse est non esse, possibilitas ad esse removetur. Utrumque ergo istorum minuit illud antecedens, possibile esse, quoniam ad esse et non esse se extendit, et cetera. Tertio subdit conclusionem: relinquitur ergo quod, non necessarium non esse, comes est ei quæ dicit, possibile esse; et consequenter hæc ponenda erit in primo ordine. When he says, But in fact neither "necessary to be” nor "necessary not to be” follow upon "possible to be,” etc., he determines the truth. First he determines which enunciation of the necessary follows upon the possible; secondly, he orders the consequents of all of the modals, where he says, Thus, these contradictions also follow in the way indicated, etc. Aristotle has reproved the ancients in two ways; on the basis of these two he now proves which enunciation of the necessary follows upon the possible. What he intends to show is that "not necessary not to be” follows upon "possible to be.” The first argument is taken from a locus of division. "Not necessary to be” does not follow upon possible to be” (as has been proved), but neither does "necessary to be” nor "necessary not to be.” Therefore, "not necessary not to be” follows upon "possible to be,” since there are no more enunciations of the necessary. He first proposes the remaining two members that are to be excluded from this common division: But in fact neither "necessary to be” nor "necessary not to be” follow upon "possible to be.” Then he proves this: no formal consequent diminishes its antecedent, for if it did, the opposite of the consequent would stand with the antecedent; but both of these, namely, "necessary to be” and "necessary not to be,” diminish possible to be”; therefore, etc. The major is therefore implied and he gives the proof of the minor when he says that "possible to be” admits of two possibilities, namely, "to be” and "not to be”; but of these, namely, "necessary to be” and "necessary not to be” (whichever should be true), these two, "to be” and "not to be,” will not be true at the same time in potency. He explains the first point thus: when I say "possible to be” it is at once possible to be and not to be. With respect to the second, he adds: if you should say, "necessary to be” or "necessary not to be,” both do not remain, i.e., possible to be and not to be do not remain, for if a thing is necessary to be, possibility not to be is excluded, and if it is necessary not to be, possibility to be is removed. Both of these, then, diminish the antecedent, possible to be, for it is extended to "to be” and "not to be,” etc. Thirdly, he concludes: it remains, therefore, that "not necessary not to be” accompanies "possible to be,” and consequently will have to be placed in the first order. V. lib. 2 l. 10 n. 14 Occurrit in hac parte dubium circa hoc quod dicit quod, ad possibile non sequitur necessarium, cum superius dixerit quod ad ipsum non sequitur non necessarium. Cum enim necessarium et non necessarium sint contradictoria opposita, et de quolibet sit affirmatio vel negatio vera, non videtur posse evadi quin ad possibile sequatur necessarium, vel, non necessarium. Et cum non sequatur necessarium, sequetur non necessarium, ut dicebant antiqui. Augetur et dubitatio ex eo quod Aristoteles nunc usus est tali argumentationis modo, volens probare quod ad necessarium sequatur possibile. Dixit enim: nam si non negatio possibilis consequatur. Necesse est enim aut dicere aut negare. A difficulty arises at this point with respect to his saying that the necessary does not follow upon the possible, since he has also said that the not necessary does not follow upon it. For the necessary and the not necessary are opposed contradictorily, and since of anything there is a true affirmation or negation, it seems impossible to avoid the conclusion that either the necessary or the not necessary follows upon the possible; and since the necessary does not follow, the not necessary must follow, as the ancients said. Furthermore, the difficulty is augmented by the fact that Aristotle just used such a mode of argumentation when, to prove that the possible follows upon the necessary, he said, for if not, the negation will follow; for it is necessary either to affirm or deny. 15. Pro solutione huius, oportet reminisci habitudinis quæ est inter possibile et necessarium, quod scilicet possibile est superius ad necessarium, et attendere quod superius potestate continet suum inferius et eius oppositum, ita quod neutrum eorum actualiter sibi vindicat, sed utrunque potest sibi contingere; sicut animali potest accidere homo et non homo: et consequenter inspicere debes quod, eadem est proportio superioris ad habendum affirmationem et negationem unius inferioris, quæ est alicuius subiecti ad affirmativam et negativam futuri contingentis. Utrobique enim neutrum habetur, et salvatur potentia ad utrumlibet. Unde, sicut in futuris contingentibus nec affirmatio nec negatio est determinate vera, sed sub disiunctione altera est necessario vera, ut in fine primi conclusum est; ita nec affirmatio nec negatio inferioris sequitur determinate affirmationem vel negationem superioris, sed sub disiunctione altera sequitur necessario. Unde non valet, est animal, ergo est homo, neque, ergo non est homo, sed, ergo est homo vel non est homo. Quia ergo possibile superius est ad necessarium, ideo optime determinavit Aristoteles neutram contradictionis partem de necessario determinate sequi ad possibile. Non tamen dixit quod sub disiunctione neutra sequatur; hoc enim est contra illud primum principium: de quolibet est affirmatio vera vel falsa. Ad id autem quod additur, ex eadem trahitur radice responsio. Quia enim necessarium inferius est ad possibile, et inferius non in potentia sed in actu includit suum superius, necesse est ad inferius determinate sequi suum superius: aliter determinate sequetur eius contradictorium. Unde per dissimilem habitudinem, quæ est inter necessarium et possibile et non possibile, ex una parte, et inter possibile et necessarium et non necessarium, ex altera parte, ibi optimus fuit processus ad alteram contradictionis partem determinate, et hic optimus ad neutram determinate. In order to resolve this, we must recall the relationship between the possible and the necessary, namely, that the possible is superior to the necessary. Now the superior potentially contains its own inferior and the opposite of it in such a way that neither of them is actually appropriated by the superior, but each is possible to it; as in the case of man and not-man in relation to animal. We must also consider that the proportion of the superior as related to the affirmation and negation of one inferior is the same (which is the proportion of some subject to the affirmative and negative of a future contingent), for it is had by neither of the two, and the potency to either is kept. Accordingly, as in future contingents neither the affirmation nor the negation is determinately true, but under disjunction one is necessarily true (as was concluded at the end of the first book), so neither the affirmation nor negation of the inferior follows upon the affirmation or negation of the superior determinately, but under disjunction one follows necessarily. This, for instance, is not valid: "It is animal, therefore it is man,” nor is "therefore it is not man” valid, but, "therefore it is man or it is not man.” Since, then, the possible is superior to the necessary, Aristotle has correctly determined that neither part of the contradiction of the necessary determinately follows upon the possible. However, he has not said that under disjunction neither follows; for this would be opposed to the first principle, that of anything there is a true or false affirmation. The response to what was added, beginning with "Furthermore, the difficulty is augmented,” etc., is based upon the same point. Since the necessary is inferior to the possible, and the inferior does not include its superior in potency but in act, the superior must follow determinately upon the inferior; otherwise the contradiction of it would follow determinately. Hence, because of the dissimilar relationship between the necessary and the possible and not possible on the one hand, and between the possible and the necessary and not necessary on the other, the movement of the earlier argument to one part of the contradiction determinately was quite right, and the movement here to neither determinately was quite right. 16. Oritur quoque alia dubitatiuncula. Videtur enim quod Aristoteles difformiter accipiat ly possibile in præcedenti textu et in isto. Ibi enim accipit ipsum in communi, ut sequitur ad necessarium; hic videtur accipere ipsum specialiter pro possibili ad utrumlibet, quia dicit quod possibile est simul potens esse et non esse. Et ad hoc dicendum est quod uniformiter usus est possibili. Nec eius verba obstant: quoniam et de possibili in communi verum est dicere quod potest sibi utrunque accidere, scilicet, esse et non esse: tum quia quidquid verificatur de suo inferiori, verificatur etiam de suo superiori, licet non eodem modo; tum quia possibile in communi neutram contradictionis partem sibi determinat, et consequenter utranque sibi advenire compatitur, licet non asserat potentiam ad utranque partem, quemadmodum possibile ad utrunque. There is another slight difficulty, for it seems that Aristotle takes the possible in a different way in the preceding text and in this. There he takes it commonly as it follows upon the necessary; here he seems to take it specifically for the possible that is indifferent to alternatives, since he says that the possible is at once possible to be and not to be. But in fact Aristotle has used the possible uniformly. Nor are his words at variance, for it is also true to say of the possible as common that it admits of both possibilities, i.e., of "to be” and "not to be”; first, because whatever is verified of its inferior is verified also of its superior, although not in the same mode; secondly, because the possible as common determines neither part of the contradiction to itself and consequently admits of either happening, although it does not affirm a potency to each part, as does the possible to either of two alternatives. Secundum motivum ad idem, correspondens tacitæ obiectioni antiquorum quam supra exclusit, addit cum subdit: hoc enim verum est et cetera. Ubi notandum quod Aristoteles sub illa maiore adducta pro antiquis (scilicet, convertibiliter se consequentium contradictoria se mutuo consequuntur), subsumit minorem: sed horum convertibiliter se sequentium in tertio ordine (scilicet, non possibile esse et necesse non esse), contradictoria sunt, possibile esse et non necesse non esse (quoniam modi negatione eis opponuntur); ergo istæ duæ (scilicet, possibile esse et non necesse non esse) se consequuntur et in primo locandæ sunt ordine. Unde motivum tangens ait: hoc enim, quod dictum est, verum est, idest verum esse ostenditur, et de necesse non esse, idest, et ex illius, scilicet, non necesse non esse, opposita, quæ est, necesse non esse. Vel, hoc enim, scilicet, non necesse non esse, verum est, scilicet, contradictorium illius de necesse non esse. Et minorem subdens ait: hæc enim, scilicet, non necesse non esse, fit contradictio eius, quæ convertibiliter sequitur, non possibile esse. Et explanans hoc in terminis subdit. Illud enim, non possibile esse, quod est caput tertii ordinis, sequitur hoc de impossibili, scilicet, impossibile esse, et hæc de necessario, scilicet, necesse non esse, cuius negatio seu contradictoria est, non necesse non esse. Et quia, cæteris paribus, modus negatur, et illa, possibile esse, est (subauditur) contradictoria illius, scilicet, non possibile; igitur ista duo mutuo se consequuntur, scilicet, possibile esse, et, non necesse non esse, tamquam contradictoria duorum se mutuo consequentium. The second grounds for proving the same thing corresponds to the tacit objection of the ancients he excluded above: For this, he says, is true also with respect to "necessary to be,” etc. It should be noted here that Aristotle subsumes under the major cited as a proof for the position of the ancients (namely, contradictories of consequences convertibly following each other mutually follow upon each other) this minor: but the contradictories of those following upon each other convertibly in the third order (i.e., of "not possible to be” and "necessary not to be”) are "possible to be” and "not necessary not to be” (for they are opposed to them by negation of mode); therefore, these two (i.e., "possible to be” and "not necessary not to be”) follow upon each other and are to be placed in the first order. Hence, with respect to the basis of the above argument, he says, For this, i.e., what has been said, is true, i.e., is shown to be true, also with respect to "necessary not to be,” i.e., of the opposite of "not necessary not to be,” i.e., "necessary not to be.” Or, For this, namely, not necessary not to be,” is true, namely, is the true contradictory of necessary not to be.” He gives the minor when he says, For "not necessary not to be” is the contradictory of what follows upon "not possible to be.” Then he states this explicitly: for "not possible to be,” which is the source of the third order is followed by this impossible, namely, "impossible to be,” and by this one of the necessary, namely, "necessary not to be,” of which the negation or contradictory is "not necessary not to be.” And since, other things being equal, the mode is negated, and, "possible to be” is (it is understood) the contradictory of "not possible to be,” therefore, these two mutually follow upon each other, namely, "possible to be” and "not necessary not to be,” as contradictories of the two mutually following upon each other. V. lib. Deinde cum dicit: sequuntur enim etc., ordinat omnes consequentias modalium secundum opinionem propriam; et ait quod, hæ contradictiones, scilicet, de necessario, sequuntur illas de possibili, secundum modum prædictum et approbatum illarum de impossibili. Sicut enim contradictorias de possibili contradictoriæ de impossibili sequuntur, licet conversim; ita contradictorias de possibili contradictoriæ de necessario sequuntur conversim: licet in hoc, ut dictum est, dissimilitudo sit quod, contradictoriarum de possibili et impossibili similiter est dictum, contradictoriarum autem de possibili et necessario contrarium est dictum, ut in sequenti videtur figura: consequentiæ enunciationum modalium secundum quatuor ordines ab Aristotele positæ et ordinatæ. (Figura). Ubi vides quod nulla est inter Aristotelem et antiquos differentia, nisi in duobus primis ordinibus quoad illas de necessario. Præpostero namque situ usi sunt antiqui, eam de necessario, quæ locanda erat in primo ordine, in secundo ponentes, et eam quæ in secundo ponenda erat, in primo locantes. Et aspice quoque quod convertibiliter se consequentium semper contradictoria se consequi ordinavit. Singulis enim tertii ordinis singulæ primi ordinis contradictoriæ sunt; et similiter singulæ quarti ordinis singulis, quæ in secundo sunt, contradictoriæ sunt. Quod antiqui non observarunt. When he says, Thus, these contradictions also follow in the way indicated, etc., he orders all of the consequents of modals according to his own opinion. He says, then, that these contradictions, namely, of the necessary, follow those of the possible, according to the foresaid and approved mode of those of the impossible. For just as contradictories of the impossible follow upon contradictories of the possible, although inversely, so contradictories of the necessary follow contradictories of the possible inversely. In the latter, however, as has been said, there is a dissimilarity in that the dictum of the contradictories of the possible and impossible is similar, but the dictum of the contradictories of the possible and necessary is contrary. This can be seen in the following table. CONSEQUENTS OF MODAL ENUNCIATIONS POSITED AND ORDERED BY ARISTOTLE ACCORDING TO FOUR ORDERS FIRST ORDER It is possible to be It is contingent to be It is not impossible to be It is not necessary to be SECOND ORDER It is possible not to be It is contingent not to be It is not impossible not to be It is not necessary not to be It is not possible to be It is not contingent to be It is impossible to be It is necessary not to be FOURTH ORDER It is not possible not to be It is not contingent not to be It is impossible not to be It is necessary to be Here you see that there is no difference between Aristotle and the ancients except in the first two orders with respect to those of the necessary. The ancients inverted the position of these, placing the necessary that should have been placed in the first order in the second order, and the one that should have been in the second in the first. Notice, too, that he has ordered them in such a way that the contradictories of those following upon each other convertibly, always follow each other, for each one in the first order is the contradictory of each one in the third order, and similarly, each of the fourth order the contradictory of each in the second. This the ancients did not observe. Postquam Aristoteles declaravit modalium consequentias, hic movet quandam dubitationem circa unum eorum quæ determinata sunt, scilicet quod possibile sequitur ad necesse. Et duo facit: quia primo dubitationem absolvit; secundo, ex determinata quæstione alium ordinem earumdem consequentiarum modalibus statuit; ibi: et est fortasse et cetera. Circa primum duo facit: primo, movet quæstionem; secundo, determinat eam; ibi: manifestum est et cetera. Movet ergo quæstionem: primo dicens: dubitabit autem aliquis si ad id quod est necesse esse sequatur possibile esse; et secundo, arguit ad partem affirmativam subdens: nam si non sequatur, contradictoria eius sequetur, scilicet non possibile esse, ut supra deductum est: quia de quolibet est affirmatio vel negatio vera. Et si quis dicat hanc, scilicet, non possibile esse, non esse contradictoriam illius, scilicet, possibile esse, et propterea subterfugiendum velit argumentum, et dicere quod neutra harum sequitur ad necesse esse; talis licet falsum dicat, tamen concedatur sibi, quoniam necesse erit ipsum dicere illius contradictoriam fore, possibile non esse. Oportet namque aut non possibile esse aut possibile non esse, esse contradictoriam, possibile esse; et tunc in eumdem redibit errorem, quoniam utræque, scilicet, non possibile esse et possibile non esse, falsæ sunt de eo quod est, necesse esse. Et consequenter ad ipsum neutra sequi potest. Nulla enim enunciatio sequitur ad illam, cuius veritatem destruit. Relinquitur ergo quod, ad necesse esse sequitur possibile esse. Now that he has explained the consequents of modals, Aristotle raises a question about one of the points that has already been determined, namely, that the possible follows upon the necessary. He first raises the question and then settles it where he says, It is evident by now that not every possibility of being or walking is one that admits of opposites, etc. Secondly, he establishes another order of the same consequents from the determination of the present question, where he says Indeed the necessary and not necessary may well be the principle of all that is or is not, etc. First, then, he raises the question: But it may be questioned whether "Possible to be follows upon "necessary to be.” Secondly, he argues to the affirmative part: Yet if not, the contradictory, "not possible to be,” would have to follow, as was deduced earlier, for either the affirmation or the negation is true of anything. And if someone should say "not possible to be” is not the contradictory of "possible to be,” because he wants to avoid the conclusion by saying that neither of these follows upon "necessary to be,” this may be conceded, although what he says is false. But then he will have to say that the contradictory of "possible to be” is "possible not to be,” for the contradictory of "possible to be” has to be either "not possible to be” or "possible not to be.” But if he says this, he will fall into another error, for it is false to say it is not possible to be of that which is necessary to be, and it is false to say it is possible not to be. Consequently, neither follows upon it, for no enunciation follows upon an enunciation whose truth it destroys. Therefore, "possible to be” follows upon "necessary to be.” 2. Tertio, arguit ad partem negativam cum subdit: at vero rursus etc., et intendit talem rationem. Si ad necesse esse sequitur possibile esse, cum ad possibile sequatur possibile non esse (per conversionem in oppositam qualitatem, ut dicitur in I priorum, quia idem est possibile esse et non esse), sequetur de primo ad ultimum quod necesse est possibile non esse: quod est falsum manifeste. Unde oppositionis hypothesim subdit: at vero rursus videtur idem possibile esse et non esse, ut domus, et possibile incidi et non incidi, ut vestis. Quare de primo ad ultimum necesse esse, erit contingens non esse. Hoc autem est falsum. Ergo hypothesis illa, scilicet, quod possibile sequatur ad necesse, est falsa. Thirdly, he argues to the negative part where he says, On the other hand, it seems possible for the same thing to be cut and not to be cut, etc. His argument is as follows: If "possible to be” follows upon "necessary to be,” then, since "possible not to be” follows upon the possible (through conversion to the opposite quality, as is said in I Priorum, for the same thing is possible to be and not to be), from first to last it will follow that the necessary is possible not to be, which is clearly false. In this argument, Aristotle supplies a hypothesis opposed to the position that possible to be follows upon necessary to be: On the other hand, it seems possible for the same thing to be cut and not to be cut, for instance a garment, and to be and not to be, for instance a house. Therefore, from first to last, necessary to be will be possible not to be. But this is false. Therefore, the hypothesis that the possible follows upon the necessary is false. 3. Deinde cum dicit: manifestum est autemetc., respondet dubitationi. Et primo, declarat veritatem simpliciter; secundo, applicat ad propositum; ibi: hoc igitur possibile et cetera. Proponit ergo primo ipsam veritatem declarandam, dicens: manifestum est autem, ex dicendis, quod non omne possibile esse vel ambulare, idest operari: idest, non omne possibile secundum actum primum vel secundum ad opposita valet, idest ad opposita viam habet, sed est invenire aliqua possibilia, in quibus non sit verum dicere quod possunt in opposita. Deinde, quia possibile a potentia nascitur, manifestat qualiter se habeat potentia ipsa ad opposita: ex hoc enim clarum erit quomodo possibile se habeat ad opposita. Et circa hoc duo facit: primo manifestat hoc in potentiis eiusdem rationis; secundo, in his quæ æquivoce dicuntur potentiæ; ibi: quædam vero potentiæ et cetera. Circa primum tria facit: quia primo manifestat qualiter potentia irrationalis se habeat ad opposita; et ait quod potentia irrationalis non potest in opposita. When he says, It is evident by now that not every possibility of being or walking, etc., he answers the question he proposed. First, he manifests the truth simply, then applies it to the question where he says, So it is not true to say the latter possible of what is necessary simply, etc. First, then, he proposes the truth he is going to explain: It is evident by now that not every possibility of being or walking, i.e., of operating; that is, not everything possible according to first or second act admits of opposites, i.e., has access to opposites; there are some possibles of which it is not true to say that they are capable of opposites. Then, since the possible arises from potency, he manifests how potency is related to opposites; for it will be clear from this bow the possible is related to opposites. First he manifests this in potencies having the same notion; secondly, in those that are called potencies equivocally where he says, But some are called potentialities equivocally, etc. With respect to the way in which potencies of the same specific notion are related to opposites, he does three things. First of all he manifests how an irrational potency is related to opposites; an irrational potency, he says, is not a potency that is capable of opposites. V. lib. 2 l. 11 n. 4Ubi notandum est quod, sicut dicitur IX Metaphys., potentia activa, cum nihil aliud sit quam principium quo in aliud agimus, dividitur in potentiam rationalem et irrationalem. Potentia rationalis est, quæ cum ratione et electione operatur; sicut ars medicinæ, qua medicus cognoscens quid sanando expediat infirmo, et volens applicat remedia. Potentia autem irrationalis vocatur illa, quæ non ex ratione et libertate operatur, sed ex naturali sua dispositione; sicut calor ignis potentia irrationalis est, quia calefacit, non ut cognoscit et vult, sed ut natura sua exigit. Assignatur autem ibidem duplex differentia proposito deserviens inter istas potentias. Prima est quod activa potentia irrationalis non potest duo opposita, sed est determinata ad unum oppositorum, sive sumatur oppositum contradictorie sive contrarie. Verbi gratia: calor non potest calefacere et non calefacere, quæ sunt contradictorie opposita, neque potest calefacere et frigefacere, quæ sunt contraria, sed ad calefactionem determinatus est. Et hoc intellige per se, quia per accidens calor frigefacere potest, vel resolvendo materiam caloris, humidum scilicet, vel per antiperistasin contrarii. Et similiter potest non calefacere per accidens, scilicet si calefactibile deest. Potentia autem rationalis potest in opposita et contradictorie et contrarie. Arte siquidem medicinæ potest medicus adhibere remedia et non adhibere, quæ sunt contradictoria; et adhibere remedia sana et nociva, quæ sunt contraria. Secunda differentia est quod potentia activa irrationalis, præsente passo, necessario operatur, deductis impedimentis: calor enim calefactibile sibi præsens calefacit necessario, si nihil impediat; potentia autem rationalis, passo præsente, non necessario operatur: præsente siquidem infirmo, non cogitur medicus remedia adhibere. It must be noted in this connection that active potency, since it is the principle by which we act on something else, is divided into rational and irrational potency, as is said in IX Metaphysicæ [2: 1046a 36]. Rational potency operates in connection with reason and choice; for example, the art of medicine by which the physician, knowing and willing what is expedient in healing an illness, applies a remedy. Irrational potency operates according to its own natural disposition, not according to reason and liberty; for example, the heat of fire is an irrational potency, because it heats, not as it knows and wills, but as its nature requires. In the Metaphysics, a twofold difference between these potencies is assigned which is relevant here. The first is that an irrational active potency is not capable of two opposites, but is determined to one opposite, whether "opposite” is taken contradictorily or contrarily; e.g., heat cannot heat and not heat, which are opposed contradictorily; nor can it heat and cool, which are contraries, but is deter mined to heating. Understand this per se, for heat can cool accidentally, either by destroying the matter of heat, namely, the humid, or through alternation of the contrary. It also has the potentiality not to heat accidentally, if that which can be heated is lacking. A rational potency, on the other hand, is capable of opposites, both contradictorily and contrarily; for by the art of medicine the physician can employ a remedy and not employ it, which are contradictories, and employ healing and harmful remedies, which are contraries. The second difference is that an irrational active potency necessarily operates when a subject is present and impediments are with drawn; for heat necessarily heats when a subject that can be heated is present, and nothing impedes it. A rational potency, however, does not necessarily operate when a subject is present; e.g., when a sick man is present the physician is not forced to employ a remedy. 5. Dimittantur autem metaphysico harum differentiarum rationes et ad textum redeamus. Ubi narrans quomodo se habeat potentia irrationalis ad oppositum, ait: et primum quidem, scilicet, non est verum dicere quod sit potentia ad opposita in his quæ possunt non secundum rationem, idest, in his quorum posse est per potentias irrationales; ut ignis calefactivus est, idest, potens calefacere, et habet vim, idest, potentiam istam irrationalem. Ignis siquidem non potest frigefacere; neque in eius potestate est calefacere et non calefacere. Quod autem dixit primum ordinem, nota, ad secundum genus possibilis infra dicendum, in quo etiam non invenitur potentia ad opposita. The reasons for these differences are given in the Metaphysics, but let us return to the text. Explaining bow an irrational potency is related to opposites, he says, First of all, this is not true, i.e., it is not true to say that there is a potency to opposites in those which are not according to reason, i.e., whose power is through irrational potencies; as fire which is calefactive, i.e., capable of heating, has this power, i.e., this irrational potentiality, since it is not able to cool, nor is it in its power 4 to heat and not to heat. Note that he speaks here of a first kind. This is in relation to a second genus of the possible which he will speak of later, in which there is not a potency to opposites either. 6. Secundo, manifestat quomodo potentia rationalis se habeat ad opposita, intendens quod potentia rationalis potest in opposita. Unde subdit: ergo potestates secundum rationem, idest rationales, ipsæ eædem sunt contrariorum, non solum duorum, sed etiam plurimorum, ut arte medicinæ medicus plurima iuga contrariorum adhibere potest, et a multarum operationum contradictionibus abstinere potest. Præposuit autem ly ergo, ut hoc consequi ex dictis insinuaret: cum enim oppositorum oppositæ sint proprietates, et potentia irrationalis ex eo quod irrationalis ad opposita non se extendat; oportet potentiam rationalem ad opposita viam habere, eo quod rationalis sit. Secondly, he shows how a rational potency is related to opposites, i.e., it is capable of opposites: Therefore potentialities that are in conjunction with reason, i.e., rational potencies, are capable of contraries, not only of two, but even of many; for example, a physician by the art of medicine can employ many pairs of contraries and he can abstain from doing or not doing many things. He begins with "therefore” so as to imply that this follows from what has been said.”’ The argument would be: properties of opposites are opposites; an irrational potency, because it is irrational, does not extend itself to opposites; therefore a rational potency, because it is rational, has access to opposites. V. lib. Tertio, explanat id quod dixit de potentiis irrationalibus, propter causam infra assignandam ab ipso; et intendit quod illud quod dixit de potentia irrationali, scilicet quod non potest in opposita, non est verum universaliter, sed particulariter. Ubi nota quod potentia irrationalis dividitur in potentiam activam, quæ est principium faciendi, et potentiam passivam, quæ est principium patiendi: verbi gratia, potentia ad calorem dividitur in posse calefacere, et in posse calefieri. In potentiis activis irrationalibus verum est quod non possunt in opposita, ut declaratum est; in potentiis autem passivis non est verum. Illud enim quod potest calefieri, potest etiam frigefieri, quia eadem est materia, seu potentia passiva contrariorum, ut dicitur in II de cælo et mundo, et potest non calefieri, quia idem est subiectum privationis et formæ, ut dicitur in I Physic. Et propter hoc ergo explanando, ait: irrationales vero potentiæ non omnes a posse in opposita excludi intelligendæ sunt, sed illæ quæ sunt quemadmodum potentia ignis calefactiva (ignem enim non posse non calefacere manifestum est), et universaliter, quæcunque alia sunt talis potentiæ, quod semper agunt, idest quod quantum est ex se non possunt non agere, sed ad semper agendum ex sua forma necessitantur. Huiusmodi autem sunt, ut declaravimus, omnes potentiæ activæ irrationales. Alia vero sunt talis conditionis quod etiam secundum irrationales potentias, scilicet passivas, simul possunt in quædam opposita, ut ær potest calefieri et frigefieri. Quod vero ait, simul, cadit supra ly possunt, et non supra ly opposita; et est sensus, quod simul aliquid habet potentiam passivam ad utrunque oppositorum, et non quod habeat potentiam passivam ad utrunque oppositorum simul habendum. Opposita namque impossibile est haberi simul. Unde et dici solet et bene, quod in huiusmodi est simultas potentiæ, non potentia simultatis. Irrationalis igitur potentia non secundum totum suum ambitum a posse in opposita excluditur, sed secundum partem eius, secundum potentias scilicet activas. Thirdly, he explains what he has said about irrational potencies. He will assign the reason for doing this later. He makes the point that what he has said about irrational potentiality, i.e., that it is not capable of opposites, is not true universally, but particularly. It should be noted here that irrational potency is divided into active potency, which is the principle of acting, and passive potency, which is the principle of being acted upon; e.g., potency to heat is divided into potentiality to heat and potentiality to be heated. Now it is true that active irrational potencies are not capable of opposites, as was explained. This is not true, however, of passive potencies, for what can be heated can also be cooled, because the mat ter is the same, i.e., the passive potency of contraries, as is said in II De cælo et mundo [7: 286a 23]. It can also not be heated, since the subject of privation and of form is the same, as is said in I Physic [7: 189b 32]. Therefore, in explaining about irrational potencies, he says, But not all irrational potentialities should be understood to be excluded from the capacity of opposites. Those like the potentiality of fire to heat are to be excluded (for it is evident that fire cannot not heat) I and universally, whatever others are potencies of such a kind that they always act, i.e., the ones that of themselves cannot not act, but are necessitated by their form always to act. All active irrational potencies are of this kind, as we have explained. There are others, however, of such a condition that even though they are irrational potencies (i.e., passive) are simultaneously capable of certain opposites; for example, air can be heated and cooled. "Simultaneously” modifies "are capable” and not "opposites.” What he means is that the thing simultaneously has a passive potency to each opposite, and not that it has a passive potency to have both opposites simultaneously, for it is impossible to have opposites at one and the same time. Hence it is customary and correct to say that in these there is simultaneity of potency, not potency of simultaneity. Therefore, irrational potency is excluded from the capacity of opposites, not completely, but according to its part, namely, according to active potencies. Quia autem videbatur superflue addidisse differentias inter activas et passivas irrationales, quia sat erat proposito ostendisse quod non omnis potentia oppositorum est; ideo subdit quod hoc idcirco dictum est, ut notum fiat quoniam nedum non omnis potestas oppositorum est, loquendo de potentia communissime, sed neque quæcunque potentiæ dicuntur secundum eamdem speciem ad opposita possunt. Potentiæ siquidem irrationales omnes sub una specie irrationalis potentiæ concluduntur, et tamen non omnes in opposita possunt, sed passive tantum. Non supervacanea ergo fuit differentia inter passivas et activas irrationales, sed necessaria ad declarandum quod non omnes potentiæ eiusdem speciei possunt in opposita. Potest et ly hoc demonstrare utranque differentiam, scilicet, inter rationales et irrationales, et inter irrationales activas et passivas inter se; et tunc est sensus, quod hoc ideo fecimus, ut ostenderemus quod non omnis potestas, quæ scilicet secundum eamdem rationem potentiæ physicæ dicitur, quia scilicet potest in aliquid ut rationalis et irrationalis, neque etiam omnis potestas, quæ sub eadem specie continetur, ut irrationalis activa et passiva sub specie irrationalis, ad opposita potest. Because it might seem superfluous to have added the differences between active and passive irrational potencies, since enough had already been said to show that not every potency is of opposites, Aristotle gives the reason for this. It was not only to make it known that not every potency is of opposites, speaking of potency most commonly, but also that not all that are called potencies according to the same species are capable of opposites. For all irrational potencies are included under one species of irrational potency, and yet not all are capable of opposites, but only the passive potencies. It was not superfluous, therefore, to point out the difference between passive and active irrational potencies, since this was necessary in order to show that not all potencies of the same species are capable of opposites. " This” in the phrase "this has been said” could designate each difference, the one between rational and irrational potencies, and the one between active and passive irrational potencies. The meaning is, then, that we have said this to show that not every potentiality which is said according to the same notion of physical power—namely, because it can be in something as rational and irrational—not even every potentiality which is contained under the same species, as active and passive under the species irrational, is capable of opposites. Intendit declarare quomodo illæ quæ æquivocæ dicuntur potentiæ, se habeant ad opposita. Et circa hoc duo facit: primo, declarat naturam talis potentiæ; secundo, ponit differentiam et convenientiam inter ipsas et supradictas, ibi: et hæc quidem et cetera. Ad evidentiam primi advertendum est quod V et IX Metaphys., Aristoteles dividit potentiam in potentias, quæ eadem ratione potentiæ dicuntur, et in potentias, quæ non ea ratione qua prædictæ potentiæ nomen habent, sed alia. Et has appellat æquivoce potentias. Sub primo membro comprehenduntur omnes potentiæ activæ, et passivæ, et rationales, et irrationales. Quæcunque enim posse dicuntur per potentiam activam vel passivam quam habeant, eadem ratione potentiæ sunt, quia scilicet est in eis vis principiata alicuius activæ vel passivæ. Sub secundo autem membro comprehenduntur potentiæ mathematicales et logicales. Mathematica potentia est, qua lineam posse dicimus in quadratum, et eo quod in semetipsam ducta quadratum constituit. Logica potentia est, qua duo termini coniungi absque contradictione in enunciatione possunt. Sub logica quoque potentia continetur quæ ea ratione potentia dicitur, quia est. Hæ vero merito æquivoce a primis potentiæ dicuntur, eo quod istæ nullam virtutem activam vel passivam prædicant; et quod possibile istis modis dicitur, non ea ratione possibile appellatur quia aliquis habeat virtutem ad hoc agendum vel patiendum, sicut in primis. Unde cum potentiæ habentes se ad opposita sint activæ vel passivæ, istæ quæ æquivocæ potestates dicuntur ad opposita non se habent. De his ergo loquens ait: quædam vero potestates æquivocæ sunt, et ideo ad opposita non se habent. Aristotle now proposes to show in what way potencies that are called equivocal are related to opposites. He first explains the nature of this kind of potency, and then gives the difference and agreement all between these and the foresaid, where he says, This latter potentiality is only in that which is movable, but the former is also in the immovable, etc. In V and IX Metaphysicæ [V, 12: 1019a 15; 12, 1: 1046a 4], Aristotle divides potency into those that are called potencies for the same reason, and those that have the name potency for another reason than the aforesaid potencies. The latter are named "potencies” equivocally. Under the first member are included all active and passive, rational and irrational potencies, for whatever are said to be possible through the active or passive potency they have, are potencies for the same reason, i.e., because there is in them the originative force of something active or passive. Mathematical and logical potencies are included under the second member of this division. That by which a line can lead to a square we call a mathematical potency, for a line constitutes a square when protracted back to itself. That by which two terms can be joined in an enunciation without contradiction is a logical potency. Logical potency also comprises that which is called "potency” because it is. The latter [mathematical and logical potencies] are named from the former equivocally because they predicate no active or passive capacity; and what is said to be possible in these ways is not termed possible in virtue of having the capacity to do or undergo as in the first case. Hence, since the potencies related to opposites are active or passive, the ones that are called potentialities equivocally are not related to opposites. These, then, are the potencies he speaks of when he says But some are called potentialities equivocally, and therefore they are not related to opposites. V. lib. 2 l. 12 n. 2Deinde declarans qualis sit ista potestas æquivoce dicta, subdit divisionem usitatam possibilis per quam hoc scitur, dicens: possibile enim non uno modo dicitur, sed duobus. Et uno quidem modo dicitur possibile eo quod verum est ut in actu, idest ut actualiter est; ut, possibile est ambulare, quando ambulat iam: et omnino, idest universaliter possibile est esse, quoniam est actu iam quod possibile dicitur. Secundo modo autem possibile dicitur aliquid non ea ratione quia est actualiter, sed quia forsitan aget, idest quia potest agere; ut possibile est ambulare, quoniam ambulabit. Ubi advertendum est quod ex divisione bimembri possibilis divisionem supra positam potentiæ declaravit a posteriori. Possibile enim a potentia dicitur: sub primo siquidem membro possibilis innuit potentias æquivoce; sub secundo autem potentias univoce, activas scilicet et passivas. Intendebat ergo quod quia possibile dupliciter dicitur, quod etiam potestas duplex est. Declaravit autem potestates æquivocas ex uno earum membro tantum, scilicet ex his quæ dicuntur possibilia quia sunt, quia hoc sat erat suo proposito. To clarify the kind of potency that is called equivocal, he gives the usual division of the possible through which this is known. "Possible,” he says, is not said in one way, but in two. Something is said to be possible because it is true as in act, i.e., inasmuch as it actually is; for example, it is possible to walk when one is already walking, and in gene eral, i.e., universally, that is said to be possible which is possible to be because it is already in act. Something is said to be possible in the second way, not because it actually is, but because it is about to act, i.e., because it can act; for instance, it is possible for someone to walk because be is about to walk. Notice here that by this two-membered division of the possible he makes the division of potency posited above evident a posteriori, for the possible is named from potency. Under the first member of the possible he signifies potencies equivocally; under the second, potencies univocally, i.e., active and passive potencies. He means to show, then, that since possible is said in two ways, potentiality is also twofold. He explains equivocal potentialities in terms of only one member, namely, those that are called possible because they are, since this was sufficient for his purpose. V. lib. Deinde cum dicit: et hæc quidem etc., assignat differentiam inter utranque potentiam, et ait quod potentia hæc ultimo dicta physica, est in solis illis rebus, quæ sunt mobiles; illa autem est et in rebus mobilibus et immobilibus. Possibile siquidem a potentia dictum eo quod possit agere, non tamen agit, inveniri non potest absque mutabilitate eius, quod sic posse dicitur. Si enim nunc potest agere et non agit, si agere debet, oportet quod mPombaur de otio ad operationem. Id autem quod possibile dicitur eo quod est, nullam mutabilitatem exigit in eo quod sic possibile dicitur. Esse namque in actu, quod talem possibilitatem fundat, invenitur et in rebus necessariis, et in immutabilibus, et in rebus mobilibus. Possibile ergo hoc, quod logicum vocatur, communius est illo quod physicum appellari solet. When he says, This latter potentiality is only in that which is movable, but the former is also in the immovable, etc., he specifies the difference between each potency. This last potency, he says, [possible because it can be] which is called physical potency, is only in things that are movable; but the former is in movable and immovable things. The possible that is named from the potency which can act, but is not yet acting, cannot be found without the mutability of that which is said to be possible in this way. For if that which can act now and is not acting, should act, it is necessary that it be changed from rest to operation. On the other hand, that which is called possible because it is, requires no mutability in that which is said to be possible in this way, for to be in act, which is the basis of such a possibility, is found in necessary things, in immutable things, and in mobile things. Therefore, the possible which is called logical, is more common than the one we customarily call physical. V. lib. Deinde subdit convenientiam inter utrunque possibile, dicens quod in utrisque potestatibus et possibilibus verum est non impossibile esse, scilicet, ipsum ambulare, quod iam actu ambulat seu agit, et quod iam ambulabile est; idest, in hoc conveniunt quod, sive dicatur possibile ex eo quod actu est, sive ex eo quod potest esse, de utroque verificatur non impossibile; et consequenter necessario verificatur possibile, quoniam ad non impossibile sequitur possibile. Hoc est secundum genus possibilis, respectu cuius Aristoteles supra dixit: et primum quidem etc., in quo non invenitur via ad utrunque oppositorum, hoc, inquam, est possibile quod iam actu est. Quod enim tali ratione possibile dicitur, iam determinatum est ex eo quod actu esse suppositum est. Non ergo possibile omne ad utrunque possibile est, sive loquamur de possibili physice, sive logice.Then he shows that there is a correspondence between these possibles when he adds that not impossible to be is true of both of these potentialities and possibles, e.g., to walk is not impossible for that which is already walking in act, i.e., acting, and it is not impossible for that which could now walk; that is, they agree in that not impossible is verified of both—of either what is said to be possible from the fact that it is in act or of what is said to be possible from the fact that it could be. Consequently, the necessary is verified as possible, for possible follows upon not impossible. The possible that is already in act is the second genus of the possible in which access is not found to both opposites, of which Aristotle spoke when he said, First of all this is not true of the potentialities which are not according to reason, etc. For that which is said to be possible because it is already in act is already determined, since it is supposed as being in act. Therefore, not every possible is the possible of alternatives, whether we speak of the physical possible or the logical. V. lib. Deinde cum dicit: sic igitur possibile etc., applicat determinatam veritatem ad propositum. Et primo, concludendo ex dictis, declarat habitudinem utriusque possibilis ad necessarium, dicens quod hoc ergo possibile, scilicet physicum quod est in solis mobilibus, non est verum dicere et prædicare de necessario simpliciter: quia quod simpliciter necessarium est, non potest aliter esse. Possibile autem physicum potest sic et aliter esse, ut dictum est. Addit autem ly simpliciter, quoniam necessarium est multiplex. Quoddam enim est ad bene esse, quoddam ex suppositione: de quibus non est nostrum tractare, sed solummodo id insinuare. Quod ut præservaret se ab illis modis necessarii qui non perfecte et omnino habent necessarii rationem, apposuit ly simpliciter. De tali enim necessario possibile physicum non verificatur. Alterum autem possibile logicum, quod in rebus immobilibus invenitur, verum est de illo enunciare, quoniam nihil necessitatis adimit. Et per hoc solvitur ratio inducta ad partem negativam quæstionis. Peccabat siquidem in hoc, quod ex necessario inferebat possibile ad utrunque quod convertitur in oppositam qualitatem. When he says, So it is not true to say the latter possible of what is necessary simply, etc., he applies the truth he has determined to what has been proposed. First, by way of a conclusion from what has been said, he shows the relationship of each possible to the necessary. So, he says, it is not true to say and predicate this possible, namely physical, which is only in mobile things, of the necessary simply, because what is necessary simply cannot be otherwise. The physical possible, however, can be thus and otherwise, as has been said. He adds "simply” because the necessary is manifold. There is the necessary for well-being and there is also the necessary from supposition, but it is not our business to treat these, only to indicate them. In order, then, to avoid the modes of the necessary that do not have the notion of the necessary perfectly and in every way, he adds "simply.” Now the physical possible is not verified of this kind of necessary [i.e., of the necessary simply], but it is true to enunciate the logical possible, the one found in immovable things, of the necessary, since it takes away nothing of the necessity. The argument introduced for the negative part of this question”’ is destroyed by this. The error in that argument was the inference—by way of conversion into the opposite quality—of the possible to both alternatives from the necessary. V. lib. Deinde respondet quæstioni formaliter intendens quod affirmativa pars quæstionis tenenda sit, quod scilicet ad necessarium sequitur possibile; et assignat causam. Quia ad partem subiectivam sequitur constructive suum totum universale; sed necessarium est pars subiectiva possibilis: quia possibile dividitur in logicum et physicum, et sub logico comprehenditur necessarium; ergo ad necessarium sequitur possibile. Unde dicit: quare, quoniam partem, scilicet subiectivam, suum totum universale sequitur, illud quod ex necessitate est, idest necessarium, tamquam partem subiectivam, consequitur posse esse, idest possibile, tamquam totum universale. Sed non omnino, idest sed non ita quod omnis species possibilis sequatur; sicut ad hominem sequitur animal, sed non omnino, idest non secundum omnes suas partes subiectivas sequitur ad hominem: non enim valet: est homo, ergo est animal irrationale. Et per hoc confirmata ratione adducta ad partem affirmativam, expressius solvit rationem adductam ad partem negativam, quæ peccabat secundum fallaciam consequentis, inferens ex necessario possibile, descendendo ad unam possibilis speciem, ut de se patet. Then he replies to the question formally. He states that the affirmative part of the question must be held, namely, that the possible follows upon the necessary. Next, he assigns the cause. The whole universal follows constructively upon its subjective part; but the necessary is a subjective part of the possible, because the possible is divided into logical and physical and under the logical is comprehended the necessary; therefore, the possible follows upon the necessary. Hence he says, Therefore, since the universal follows upon the part, i.e., since the whole universal follows upon its subjective part, to be possible to be, i.e., possible, as the whole universal, follows upon that which necessarily is, i.e., necessary, as a subjective part. He adds: though not every kind of possible does, i.e., not every species of the possible follows; just as animal follows upon man, but not in every way, i.e., it does not follow upon man according to all its subjective parts, for it is not valid to say, "He is a man, therefore he is an irrational animal.” By this proof of the validity of the affirmative part, Aristotle has explicitly destroyed the reasoning adduced for the negative part, which, as is evident, erred according to the fallacy of the consequent in inferring the possible from the necessary by descending to one species of the possible. V. lib. Deinde cum dicit: et est fortasse quidem etc., ordinat easdem modalium consequentias alio situ, præponendo necessarium omnibus aliis modis. Et circa hoc duo facit: primo, proponit quod intendit; secundo, assignat causam dicti ordinis; ibi: manifestum est autem et cetera. Dicit ergo: et est fortasse principium omnium enunciationum modalium vel esse vel non esse, idest, affirmativarum vel negativarum, necessarium et non necessarium. Et oportet considerare alia, scilicet, possibile contingere et impossibile esse, sicut horum, scilicet, necessarii et non necessarii, consequentia, hoc modo: consequentiæ enunciationum modalium secundum quatuor ordines alio convenienti situ ab Aristotele positæ et ordinatæ: (Figura). Vides autem hic nihil immutatum, nisi quod necessariæ quæ ultimum locum tenebant, primum sortitæ sunt. Quod vero dixit fortasse, non dubitantis, sed absque determinata ratione rem proponentis est. When he says, Indeed the necessary and not necessary may well be the principle of all that is or is not, etc., he disposes the same consequences of modals in another arrangement, placing the necessary before all the other modes. First he proposes the order of modals and then assigns the cause of the order where he says, It is evident, then, from what has been said that that which necessarily is, actually is, etc. Indeed, he says, the necessary and not necessary may well be the principle of the "to be” or "not to be” of all modal enunciations, i.e., the necessary and not necessary is the principle of affirmatives or negatives. And the others, i.e., the possible, contingent, and impossible to be must be considered as consequent to these, i.e., to the necessary and not necessary. THE CONSEQUENTS OF MODAL ENUNCIATIONS ACCORDING TO THE FOUR ORDERS, POSITED AND DISPOSED BY ARISTOTLE IN ANOTHER APPROPRIATE ARRANGEMENT FIRST ORDER It is necessary to be It is not possible not to be It is not contingent not to be It is impossible not to be SECOND ORDER It is necessary not to be It is not possible to be It is not contingent to be It is impossible to be It is not necessary to be It is possible not to be It is contingent not to be It is not impossible not to be FOURTH ORDER It is not necessary not to be It is possible to be It is contingent to be It is not impossible to be Nothing is changed here except the enunciations predicating necessity. They have been allotted the first place, whereas in the former table they were placed last. When he says "may well be,” it is not because he is in any doubt, but because he is proposing this here without a determinate proof. 8. Deinde cum dicit: manifestum est autemetc., intendit assignare causam dicti ordinis. Et primo, assignat causam, quare præposuerit necessarium possibili tali ratione. Sempiternum est prius temporali; sed necessarium dicit sempiternitatem (quia dicit esse in actu, excludendo omnem mutabilitatem, et consequenter temporalitatem, quæ sine motu non est imaginabilis), possibile autem dicit temporalitatem (quia non excludit quin possit esse et non esse); ergo necesse merito prius ponitur quam possibile. Unde dicit, proponendo minorem: manifestum est autem ex his quæ dicta sunt etc., tractando de necessario: quoniam id quod ex necessitate est, secundum actum est totaliter, scilicet quia omnem excludit mutabilitatem et potentiam ad oppositum: si enim mutari posset in oppositum aliquo modo, iam non esset necessarium. Deinde subdit maiorem per modum antecedentis conditionalis: quare si priora sunt sempiterna temporalibus et cetera. Ultimo ponit conclusionem: et quæ actu sunt omnino, scilicet necessaria, priora sunt potestate, idest possibilibus, quæ omnino actu esse non possunt, licet compatiantur. When he says, It is evident, then, from what has been said that that which necessarily is, actually is, etc., he gives the cause of this order. First he gives the reason for placing the necessary before the possible: the sempiternal is prior to the temporal; but "necessary” signifies sempiternal (because it signifies "to be in act,” excluding all mutability and consequently temporality, which is not imaginable without movement) and the possible signifies temporality (since it does not exclude the possibility of being and not being); therefore, the necessary is rightly placed before the possible. He proposes the minor of this argument when he says, It is evident, then, from what has been said in treating the necessary, that that which necessarily is, is totally in act, since it excludes all mutability and potency to the opposite—for if it could be changed into the opposite in any way, then it would not be necessary. Next he gives the major, which is in the mode of an antecedent conditional: and if eternal things are prior to temporal, etc. Finally, he posits the conclusion: those that are wholly in act in every way, namely necessary, are prior to the potential, i.e., to possibles, which do not have being in act wholly although they are compatible with it. V. lib. 2 l. 12 n. 9Deinde cum dicit: et hæ quidem etc., assignat causam totius ordinis a se inter modales statuti, tali ratione. Universi triplex est gradus. Quædam sunt actu sine potestate, idest sine admixta potentia, ut primæ substantiæ, non illæ quas in præsenti diximus primas, eo quod principaliter et maxime substent, sed illæ quæ sunt primæ, quia omnium rerum sunt causæ, intelligentiæ scilicet. Alia sunt actu cum possibilitate, ut omnia mobilia, quæ secundum id quod habent de actu sunt priora natura seipsis secundum id quod habent de potentia, licet e contra sit, aspiciendo ordinem temporis. Sunt enim secundum id quod habent de potentia priora tempore seipsis secundum id quod habent de actu. Verbi gratia, Socrates prius secundum tempus poterat esse philosophus, deinde fuit actualiter philosophus. Potentia ergo præcedit actum secundum ordinem temporis in Socrate, ordine autem naturæ, perfectionis et dignitatis e converso contingit. Prior enim secundum dignitatem, idest dignior et perfectior habebatur Socrates cum philosophus actualiter erat, quam cum philosophus esse poterat. Præposterus est igitur ordo potentiæ et actus in unomet, utroque ordine, scilicet, naturæ et temporis attento. Alia vero nunquam sunt actu sed potestate tantum, ut motus, tempus, infinita divisio magnitudinis, et infinita augmentatio numeri. Hæc enim, ut IX Metaphys. dicitur, nunquam exeunt in actum, quoniam eorum rationi repugnat. Nunquam enim aliquid horum ita est quin aliquid eius expectetur, et consequenter nunquam esse potest nisi in potentia. Sed de his alio tractandum est loco. Then he says, Some things are actualities without potentiality, namely, the primary substances, etc. Here he assigns the cause of the whole order established among modals. The grades of the universe are threefold. Some things are in act without potentiality, i.e., not combined with potency. These are the primary substances—not those we have called "first” in the present work because they principally and especially sustain—but those that are first because they are the causes of all things, namely, the Intelligences. In others, act is accompanied with possibility, as is the case with all mobile things, which, according to what they have of act, are prior in nature to themselves according to what they have of potency, although the contrary is the case in regard to the order of time. According to what they have of potency they are prior in time to themselves according to what they have of act. For example, according to time, Socrates first was able to be a philosopher, then he actually was a philosopher. In Socrates therefore, potency precedes act according to the order of time. The converse is the case, however, in the order of nature, perfection, and dignity, for when he actually was a philosopher, Socrates was regarded as prior according to dignity, i.e., more worthy and more perfect than when he was potentially a philosopher. Hence, when we consider each order, i.e., nature and time, in one and the same thing, the order of potency and act is reversed. Others never are in act but are only in potency, e.g., motion, time, the infinite division of magnitude, and the infinite augmentation of number. These, as is said in IX Metaphysicæ, never terminate in act, for it is repugnant to their nature. None of them is ever such that something of it is not expected, and consequently they can only be in potency. These, however, must be treated in another place. V. lib. Nunc hæc ideo dicta sint ut, inspecto ordine universi, appareat quod illum imitati sumus in nostro ordine. Posuimus siquidem primo necessarium, quod sonat actu esse sine potestate seu mutabilitate, imitando primum gradum universi. Locavimus secundo loco possibile et contingens, quorum utrunque sonat actum cum possibilitate, et sic servatur conformitas ad secundum gradum universi. Præposuimus autem possibile et non contingens, quia possibile respicit actum, contingens autem secundum vim nominis respicit defectum causæ, qui ad potentiam pertinet: defectus enim potentiam sequitur; et ex hoc conforme est secundæ parti universi, in qua actus est prior potentia secundum naturam, licet non secundum tempus. Ultimum autem locum impossibili reservavimus, eo quod sonat nunquam fore, sicut et ultima universi pars dicta est illa, quæ nunquam actu est. Pulcherrimus igitur ordo statutus est, quando divinus est observatus. This has been said so that once the order of the universe has been seen it should appear that we were imitating it in our present ordering. The necessary, which signifies "to be in act” without potentiality or mutability, has been placed first, in imitation of the first grade of the universe. We have put the possible and contingent, both of which signify act with possibility, in second place in conformity with the second grade of the universe. The possible has been Placed before the contingent because the possible relates to act whereas the contingent, as the force of the name suggests, relates to the defect of a cause-which pertains to potency, for defect follows upon potency. The order of these is similar to the order in the second part of the universe, where act is prior to potency according to nature, though not according to time. We have reserved the last place for the impossible because it signifies what never will be, just as the last part of the universe is said to be that which is never in act. Thus, a beautifully proportioned order is established when the divine is observed. V. lib. Quia autem suppositæ modalium consequentiæ nil aliud sunt quam æquipollentiæ earum, quæ ob varium negationis situm, qualitatem, vel quantitatem, vel utranque mutantis, fiunt; ideo ad completam notitiam consequentium se modalium, de earum qualitate et quantitate pauca admodum necessaria dicenda sunt. Quoniam igitur natura totius ex partium naturis consurgit, sciendum est quod subiectum enunciationis modalis et dicit esse vel non esse, et est dictum unicum, et continet in se subiectum dicti; prædicatum autem modalis enunciationis, modus scilicet, et totale prædicatum est (quia explicite vel implicite verbum continet, quod est semper nota eorum quæ de altero prædicantur: propter quod Aristoteles dixit quod modus est ipsa appositio), et continet in se vim distributivam secundum partes temporis. Necessarium enim et impossibile distribuunt in omne tempus vel simpliciter vel tale; possibile autem et contingens pro aliquo tempore in communi. Since the consequents of modals, i.e., those placed under each other, are their equivalents in meaning, and these are produced by the varying position of the negation changing the quality or quantity or both, a few things must be said about their quality and quantity to complete our knowledge of them. The nature of the whole arises from the parts, and therefore we should note the following things about the parts of the modal enunciation. The subject of the modal enunciation asserts to be or not to be, and is a singular dictum, and contains in itself the subject of the dictum. The predicate of a modal enunciation, namely, the mode, is the total predicate (since it explicitly or implicitly contains the verb, which is always a sign of something predicated of another, for which reason Aristotle says that the mode is a determining addition) and contains in itself distributive force according to the parts of time. The necessary and impossible distribute in all time either simply or in a limited way; the possible and contingent distribute according to some time commonly. V. lib. Nascitur autem ex his quinque conditionibus duplex in qualibet modali qualitas, et triplex quantitas. Ex eo enim quod tam subiectum quam prædicatum modalis verbum in se habet, duplex qualitas fit, quarum altera vocatur qualitas dicti, altera qualitas modi. Unde et supra dictum est aliquam esse affirmativam de modo et non de dicto, et e converso. Ex eo vero quod subiectum modalis continet in se subiectum dicti, una quantitas consurgit, quæ vocatur quantitas subiecti dicti: et hæc distinguitur in universalem, particularem et singularem, sicut et quantitas illarum de inesse. Possumus enim dicere, Socratem, quemdam hominem, vel omnem hominem, vel nullum hominem, possibile est currere. Ex eo autem quod subiectum unius modalis dictum unum est, consurgit alia quantitas, vocata quantitas dicti; et hæc unica est singularitas: secundum omne enim dictum cuiusque modalis singulare est istius universalis, scilicet dictum. Quod ex eo liquet quod cum dicimus, hominem esse album est possibile, exponitur sic, hoc dictum, hominem esse album, est possibile. Hoc dictum autem singulare est, sicut et, hic homo. Propterea et dicitur quod omnis modalis est singularis quoad dictum, licet quoad subiectum dicti sit universalis vel particularis. Ex eo autem quod prædicatum modalis, modus scilicet, vim distributivam habet, alia quantitas consurgit vocata quantitas modi seu modalis; et hæc distinguitur in universalem et particularem. As a consequence of these five conditions there is a twofold quality and a threefold quantity in any modal. The twofold quality results from the fact that both the subject and the predicate of a modal have a verb in them. One of these is called the quality of the dictum, the other the quality of the mode. This is why it was said above that there is an enunciation which is affirmative of mode and not of dictum, and conversely. Of the threefold quantity of a modal enunciation, one arises from the fact that the subject of the modal contains in it the subject of the dictum. This is called the quantity of the subject of the dictum, and is distinguished into universal, particular, and singular, as in the case of the quantity of an absolute enunciation. For we can say: "That ‘Socrates,’ ‘some man,’ ‘every man,”’ or "‘no man,’ run is possible’ " The second quantity is that of the dictum, which arises from the fact that the subject of one modal is one dictum. This is a unique singularity, for every dictum of a modal is the singular of that universal, i.e.,dictum. "That man be white is possible” means "This dictum, ‘that man be white,’ is possible.” "This dictum” is singular in quantity, just as "this man” is. Hence, every modal is singular with respect to dictum, although with respect to the subject of the dictum it is universal or particular. The third quantity is that of the mode, or modal quantity, which arises from the fact that the predicate of the modal, i.e., the mode, has distributive force. This is distinguished into universal and particular. V. lib. Ubi diligenter duo attendenda sunt. Primum est quod hoc est singulare in modalibus, quod prædicatum simpliciter quantificat propositionem modalem, sicut et simpliciter qualificat. Sicut enim illa est simpliciter affirmativa, in qua modus affirmatur, et illa negativa, in qua modus negatur; ita illa est simpliciter universalis cuius modus est universalis, et illa particularis cuius modus est particularis. Et hoc quia modalis modi naturam sequitur. Secundum attendendum (quod est causa istius primi) est, quod prædicatum modalis, scilicet modus, non habet solam habitudinem prædicati respectu sui subiecti, scilicet esse et non esse, sed habitudinem syncategorematis distributivi, sed non secundum quantitatem partium subiectivarum ipsius subiecti, sed secundum quantitatem partium temporis eiusdem. Et merito. Sicut enim quia subiecti enunciationis de inesse propria quantitas est penes divisionem vel indivisionem ipsius subiecti (quia est nomen quod significat per modum substantiæ, cuius quantitas est per divisionem continui: ideo signum quantificans in illis distribuit secundum partes subiectivas), ita quia subiecti enunciationis modalis propria quantitas est tempus (quia est verbum quod significat per modum motus, cuius propria quantitas est tempus), ideo modus quantificans distribuit ipsum suum subiectum, scilicet, esse vel non esse, secundum partes temporis. Unde subtiliter inspicienti apparebit quod quantitas ista modalis proprii subiecti modalis enunciationis quantitas est, scilicet, ipsius esse vel non esse. Ita quod illa modalis est simpliciter universalis, cuius proprium subiectum distribuitur pro omni tempore: vel simpliciter, ut, hominem esse animal est necessarium vel impossibile; vel accepto, ut, hominem currere hodie, vel, dum currit, est necessarium vel impossibile. Illa vero est particularis, in qua non pro omni, sed aliquo tempore distributio fit in communi tantum; ut, hominem esse animal, est possibile vel contingens. Est ergo et ista modalis quantitas subiecti sui passio (sicut et universaliter quantitas se tenet ex parte materiæ), sed derivatur a modo, non in quantum prædicatum est (quod, ut sic, tenetur formaliter), sed in quantum syncategorematis officio fungitur, quod habet ex eo quod proprie modus est. Now, there are two things about modal enunciations that must be carefully noted. The first—which is peculiar to modals—is that the predicate quantifies the modal proposition simply, as it also qualifies it simply. For just as the modal enunciation in which the mode is affirmed is affirmative simply, and negative when the mode is negated, so the modal enunciation in which the mode is universal is universal simply and particular in which the mode is particular. The reason for this is that the modal follows the nature of the mode. The second thing to be noted (which is the cause of the first) is that the predicate of a modal, i.e., the mode, not only has the relationship of a predicate to its subject (i.e., to "to be” and "not to be”), but also has the relationship to the subject, of a distributive syncategorematic term, which has the effect of distributing the subject, not according to the quantity of its subjective parts, but according to the quantity of the parts of its time. And rightly so, for just as the proper quantity of the subject of an absolute enunciation varies according to the division or lack of division of its subject (since the subject is a name which signifies in the mode of substance, whose quantity is from the division of the continuous, and therefore the quantifying sign distributes according to the subjective parts), so, because the proper quantity of the subject of a modal enunciation is time (since the subject is a verb, which signifies in the mode of movement, whose proper quantity is time), the quantifying mode distributes the subject, i.e., "to be” or "not to be” according to the parts of time. Hence, we arrive at the subtle point that the quantity of the modal is the quantity of the proper subject of the modal enunciation, namely, of "to be” or "not to be.” Therefore, a modal enunciation is universal simply when the proper subject is distributed throughout all time, either simply, as in "That man is an animal is necessary or impossible,” or taken in a limited way, as in "That man is running today,” or "while he is running, is necessary or impossible.” A modal enunciation is particular in which "to be” or "not to be” is distributed, not throughout all time, but commonly throughout some time, as in "That man is an animal is possible or contingent.” This modal quantity is therefore also a property of its subject (in that, universally, quantity comes from the matter) but is derived from the mode, not insofar as it is a predicate (because, as such, it is understood formally), but insofar as it performs a syncategorematic function, which it has in virtue of the fact that it is properly a mode. V. lib. Sunt igitur modalium (de propria earum quantitate loquendo) aliæ universales affirmativæ, ut illæ de necessario, quia distribuunt ad semper esse; aliæ universales negativæ, ut illæ de impossibili, quia distribuunt ad nunquam esse; aliæ particulares affirmativæ, ut illæ de possibili et contingenti, quia distribuunt utrunque ad aliquando esse; aliæ particulares negativæ, ut illæ de non necesse et non impossibili, quia distribuunt ad aliquando non esse: sicut in illis de inesse, omnis, nullus, quidam, non omnis, non nullus, similem faciunt diversitatem. Et quia, ut dictum est, hæc quantitas modalium est inquantum modales sunt, et de his, inquantum huiusmodi, præsens tractatus fit ab Aristotele; idcirco æquipollentiæ, seu consequentiæ earum, ordinatæ sunt negationis vario situ, quemadmodum æquipollentiæ illarum de inesse: ut scilicet, negatio præposita modo faciat æquipollere suæ contradictoriæ; negatio autem modo postposita, posita autem dicti verbo, suæ æquipollere contrariæ facit; præposita vero et postposita suæ subalternæ, ut videre potes in consequentiarum figura ultimo ab Aristotele formata. In qua, tali præformata oppositionum figura, clare videbis omnes se mutuo consequentes, secundum alteram trium regularum æquipollere, et consequenter, totum primum ordinem secundo contrarium, tertio contradictorium, quarto vero subalternum. (Figura). Therefore, with respect to their proper quantity, some modals are universal affirmatives, i.e., those of the necessary because they distribute "to be” to all time. Others are universal negatives, i.e., those of the impossible because they distribute "to be” to no time. Still others are particular affirmatives, i.e., those signifying the possible and contingent, for both of these distribute "to be” to some time. Finally, there are particular negatives, i.e., those of the not necessary and not impossible, for they distribute "not to be” to some time. This is similar to the diversity in absolute enunciations from the use of "every,” "no” "some,” not all,” and "not none.” Now, since this quantity belongs to modals insofar as they are modals, as has been said, and since Aristotle is now considering them in this particular respect, the modal enunciations that are equivalent, i.e., their consequents, are ordered by the different location of the negation, as is the case with absolute enunciations that are equivalent. A negative placed before the mode makes an enunciation equivalent to its contradictory; placed after the mode, i.e., with the verb of the dictum, makes it equivalent to its contrary; placed before and after the mode makes it equivalent to its subaltern, as you can see in the last table of consequents given by Aristotle. In that table of oppositions, you see all the mutual consequents, according to one of the three rules for making enunciations equivalent. Consequently, the whole first order of equivalent enunciations is contrary to the second, contradictory to the third, and the fourth is subalternated to it. Necessary to be - contraries - Impossible to be subalterns subalterns Possible to be - subcontraries - Contingent not to be TABLE OF OPPOSITION OF EQUIPOLLENT MODALS This table is not V.’s but is a full arrangement of the orders of modal enunciations asdeveloped in this lesson. Close I Universal Affirmatives It is necessary to be It is not possible not to be It is not contingent not to be It is impossible not to be contraries II Universal Negatives It is necessary not to be It is not possible to be It is not contingent to be It is impossible to be subalterns subalterns IV Particular Affirmatives It is not necessary not to be It is possible to be It is contingent to be It is not impossible to be subcontraries III Particular Negatives It is not necessary to be It is possible not to be It is contingent not to be It is not impossible not to be. XIII. 1 Postquam determinatum est de enunciatione secundum quod diversificatur tam ex additione facta ad terminos, quam ad compositionem eius, hic secundum divisionem a s. Thoma in principio huius secundi factam, intendit Aristoteles tractare quandam quæstionem circa oppositiones enunciationum provenientes ex eo quod additur aliquid simplici enunciationi. Et circa hoc quatuor facit: primo, movet quæstionem secundo, declarat quod hæc quæstio dependet ab una alia quæstione prætractanda; ibi: nam si ea, quæ sunt in voce etc.; tertio, determinat illam aliam quæstionem; ibi: nam arbitrari etc.; quarto, redit ad respondendum quæstioni primo motæ; ibi: quare si in opinione et cetera. Quæstio quam movere intendit est: utrum affirmativæ enunciationi contraria sit negatio eiusdem prædicati, an affirmatio de prædicato contrario seu privativo? Unde dicit: utrum contraria est affirmatio negationi contradictoriæ, scilicet, et universaliter oratio affirmativa orationi negativæ; ut, affirmativa oratio quæ dicit, omnis homo est iustus, illi contraria sit orationi negativæ, nullus homo est iustus, aut illi, omnis homo est iniustus, quæ est affirmativa de prædicato privativo? Et similiter ista affirmatio, Callias est iustus, est ne contraria illi contradictoriæ negationi, Callias non est iustus, aut illi, Callias est iniustus, quæ est affirmativa de prædicato privativo? Now that he has treated the enunciation as it is diversified by an addition made to the terms and by an addition made to its composition (which is the division of the text made by St. Thomas at the beginning of the second book), Aristotle takes up another question about oppositions of enunciations. This question concerns the oppositions that result from something added to the simple enunciation. First he asks the question; secondly, he shows that this question depends upon another, which must be treated first, where he says, For if those things that are in vocal sound are determined by those in the intellect, etc.; third, he settles the latter question where he says, It is false, course, to suppose that opinions are to be defined as contrary because they are about contraries, etc.; finally, he replies to the first question where he says, If, therefore, this is the case with respect to opinion, and affirmations and negations in vocal sound are signs of those in the soul, etc. The first question he raises is this: is the contrary of an affirmative enunciation the negation of the same predicate or the affirmation of a contrary or privative predicate? Hence he says, There is a question as to whether the contrary of an affirmation is the contradictory negation, and universally, whether affirmative speech is contrary to negative speech. For instance, is affirmative speech which says "Every man is just,” contrary to negative speech which says "No man is just,” or to the affirmative of the privative predicate, "Every man is unjust”? And similarly, is the affirmation "Callias is just” contrary to the contradictory negation, "Callias is not just” or is it contrary to "Callias is unjust,” the affirmative of the privative predicate? V. lib. Ad evidentiam tituli huius quæstionis, quia hactenus indiscusse ab aliis est relictus, considerare oportet quod cum in enunciatione sint duo, scilicet ipsa enunciatio seu significatio et modus enunciandi seu significandi, duplex inter enunciationes fieri potest oppositio, una ratione ipsius enunciationis, altera ratione modi enunciandi. Si modos enunciandi attendimus, duas species oppositionis in latitudine enunciationum inveniemus, contrarietatem scilicet et contradictionem. Divisæ enim superius sunt enunciationes oppositæ in contrarias et contradictorias. Contradictio inter enunciationes ratione modi enunciandi est quando idem prædicatur de eodem subiecto contradictorio modo enunciandi; ut sicut unum contradictorium nil ponit, sed alterum tantum destruit, ita una enunciatio nil asserit, sed id tantum quod altera enunciabat destruit. Huiusmodi autem sunt omnes quæ contradictoriæ vocantur, scilicet, omnis homo est iustus, non omnis homo est iustus, Socrates est iustus, Socrates non est iustus, ut de se patet. Et ex hoc provenit quod non possunt simul veræ aut falsæ esse, sicut nec duo contradictoria. Contrarietas vero inter enunciationes ratione modi enunciandi est quando idem prædicatur de eodem subiecto contrario modo enunciandi; ut sicut unum contrariorum ponit materiam sibi et reliquo communem in extrema distantia sub illo genere, ut patet de albo et nigro, ita una enunciatio ponit subiectum commune sibi et suæ oppositæ in extrema distantia sub illo prædicato. Huiusmodi quoque sunt omnes illæ quæ contrariæ in figura appellantur, scilicet, omnis homo est iustus, omnis homo non est iustus. Hæ enim faciunt subiectum, scilicet hominem, maxime distare sub iustitia, dum illa enunciat iustitiam inesse homini, non quocunque modo, sed universaliter; ista autem enunciat iustitiam abesse homini, non qualitercunque, sed universaliter. Maior enim distantia esse non potest quam ea, quæ est inter totam universitatem habere aliquid et nullum de universitate habere illud. Et ex hoc provenit quod non possunt esse simul veræ, sicut nec contraria possunt eidem simul inesse; et quod possunt esse simul falsæ, sicut et contraria simul non inesse eidem possunt. Si vero ipsam enunciationem sive eius significationem attendamus secundum unam tantum oppositionis speciem, in tota latitudine enunciationum reperiemus contrarietatem, scilicet secundum veritatem et falsitatem: quia duarum enunciationum significationes entia positiva sunt, ac per hoc neque contradictorie neque privative opponi possunt, quia utriusque oppositionis alterum extremum est formaliter non ens. Et cum nec relative opponantur, ut clarum est, restat ut nonnisi contrarie opponi possunt. Since this question has not been discussed by others, we must begin by noting that there are two things in an enunciation, namely, the enunciation itself, i.e., the signification, and the mode of enunciating or signifying. Hence, a twofold opposition can be made between enunciations, one by reason of the enunciation itself, the other by reason of the mode of enunciating. If we consider the modes of enunciating, we find two species of opposition among enunciations, namely, contrariety and contradiction. This point was made earlier when opposed enunciations were divided into contraries and contradictories. There is contradiction by reason of mode of enunciating when the same thing is predicated of the same subject in a contradictory mode; so that just as one of a pair of contradictories posits nothing but only destroys the other, so one enunciation 4 asserts nothing, but only destroys what the other was enunciating. All enunciations that are called contradictories are of this kind; e.g., "Every man is just,” "Not every man is just”; "Socrates is just,” "Socrates is not just.” It follows from this that they cannot be at once true or false, just as two contradictories cannot be at once. There is contrariety between enunciations by reason of mode of enunciating when the same thing is predicated of the same subject in a contrary mode of enunciating; so that just as one of a pair of contraries posits matter common to itself and to the other which is at the extreme distance under that genus—as is evident for instance in white and black—so one enunciation posits a subject common to itself and its opposite at the extreme distance under that predicate. All the enunciations in the diagram that are called contrary are of this kind, for example, "Every man is just,” "No man is just.” These make the subject "man” distant to the greatest degree possible under justice, one enunciating justice to be in man, not in any way, but universally, the other enunciating justice to be absent from man, not in any way, but universally. For no distance can be greater than the distance between the total number of things having something and none of the total number of things having that thing. It follows that contrary enunciations cannot be at once true, just as contraries cannot be in the same thing at once. They can, however, be false at the same time, just as it is possible that contraries not be in the same thing at the same time. If we consider the enunciation itself (viz., its signification) according to only one species of opposition, we will find in the whole range of enunciations an opposition of contrariety, i.e., an opposition according to truth and falsity. The reason for this is that the significations of two enunciations are positive, and accordingly cannot be opposed either contradictorily or privatively because the other extreme of both of these oppositions is formally non-being. And since significations are not opposed relatively, as is evident, the only way they can be opposed is contrarily. V. lib. 2 l. 13 n. 3Consistit autem ista contrarietas in hoc quod duarum enunciationum altera alteram non compatitur vel in veritate vel in falsitate, præsuppositis semper conditionibus contrariorum, scilicet quod fiant circa idem et in eodem tempore. Patere quoque potest talem oppositionem esse contrarietatem ex natura conceptionum animæ componentis et dividentis, quarum singulæ sunt enunciationes. Conceptiones siquidem animæ adæquatæ nullo alio modo opponuntur conceptionibus inadæquatis nisi contrarie, et ipsæ conceptiones inadæquatæ, si se mutuo expellunt, contrariæ quoque dicuntur. Unde verum et falsum, contrarie opponi probatur a s. Thoma in I parte, qu. 17. Sicut ergo hic, ita et in enunciationibus ipsæ significationes adæquatæ contrarie opponuntur inadæquatis, idest veræ falsis; et ipsæ inadæquatæ, idest falsæ, contrarie quoque opponuntur inter se, si contingat quod se non compatiantur, salvis semper contrariorum conditionibus. Est igitur in enunciationibus duplex contrarietas, una ratione modi, altera ratione significationis, et unica contradictio, scilicet ratione modi. Et, ut confusio vitetur, prima contrarietas vocetur contrarietas modalis, secunda contrarietas formalis. Contradictio autem non ad confusionis vitationem quia unica est, sed ad proprietatis expressionem contradictio modalis vocari potest. Invenitur autem contrarietas formalis enunciationum inter omnes contradictorias, quia contradictoriarum altera alteram semper excludit; et inter omnes contrarias modaliter quoad veritatem, quia non possunt esse simul veræ, licet non inveniatur inter omnes quoad falsitatem, quia possunt esse simul falsæ. The contrariety spoken of here consists in this: of two enunciations one is not compatible with the other either in truth or falsity—presupposing always the conditions for contraries, that they are about the same thing and at once. It can be shown that such opposition is contrariety from the nature of the conceptions of the soul when composing and dividing, each of which is an enunciation. Adequate conceptions of the soul are opposed to inadequate conceptions only contrarily, and inadequate conceptions, if each cancels the other, are also called contraries. It is from this that St. Thomas proves, in [Summa theologiæ] part I, question 17, that the true and false are contrarily opposed. Therefore, as in the conceptions of the soul, so in enunciations, adequate significations are contrarily opposed to inadequate, i.e., true to false; and the inadequate, i.e., the false, are also contrarily opposed among themselves if it happens that they are not compatible, supposing always the conditions for contraries. There is, therefore, in enunciations a twofold contrariety, one by reason of mode, the other by reason of signification, and only one contradiction, that by reason of mode. To avoid confusion, let us call the first contrariety modal and the second formal. We may call contradiction modal—not to avoid confusion since it is unique—but for propriety of expression. Formal contrariety is found between all contradictory enunciations, since one contradictory always excludes the other. It is also found between all modally contrary enunciations in regard to truth, since they cannot be at once true. However it is not found between the latter in regard to falsity, since they can be at once false. V. lib. Quia igitur Aristoteles in hac quæstione loquitur de contrarietate enunciationum quæ se extendit ad contrarias modaliter, et contradictorias, ut patet in principio et in fine quæstionis (in principio quidem, quia proponit utrasque contradictorias dicens: affirmatio negationi etc.; et contrarias modaliter dicens: et oratio orationi etc., unde et exempla utrarunque statim subdit, ut patet in littera. In fine vero, quia ibi expresse quam conclusit esse contrariam affirmativæ universali veræ dividit, in contrariam modaliter universalem negativam, scilicet, et contradictoriam: quæ divisio falsitate non careret, nisi conclusisset contrariam formaliter, ut de se patet), quia, inquam, sic accipit contrarietatem, ideo de contrarietate formali enunciationum quæstio intelligenda est. Et est quæstio valde subtilis, necessaria et adhuc nullo modo superius tacta. Est igitur titulus quæstionis; utrum affirmativæ veræ contraria formaliter sit negativa falsa eiusdem prædicati, aut affirmativa falsa de prædicato, vel contrario? Et sic patet quis sit sensus tituli, et quare non movet quæstionem de quacunque alia oppositione enunciationum (quia scilicet nulla alia in eis formaliter invenitur), et quod accipit contrarietatem proprie et strictissime, licet talis contrarietas inveniatur inter contradictorias modaliter et contrarias modaliter. Dictum vero fuit a s. Thoma provenire hanc dubitationem ex eo quod additur aliquid simplici enunciationi, quia si tantum simplices, idest, de secundo adiacente enunciationes attendantur, non habet hæc quæstio radicem. Quia autem simplici enunciationi, idest subiecto et verbo substantivo, additur aliquid, scilicet prædicatum, nascitur dubitatio circa oppositionem, an illud additum in contrariis debeat esse illudmet prædicatum, negatione apposita verbo, an debeat esse prædicatum contrarium seu privativum, absque negatione præposita verbo. Aristotle in this question is speaking of the contrariety of enunciations that extends to contraries modally and to contradictories. This is evident from what he says in the beginning and at the end of the question. In the beginning, he proposes both contradictories when he says, an affirmation... to a negation, etc.; and contraries modally, when he says, and in the case of speech whether the one saying... is opposed to the one saying... etc. It is evident, too, from the examples immediately added. At the end, he explicitly divides what he has concluded to be contrary to a true universal affirmative, into the modally contrary universal negative and the contradictory. It is clear at once that this division would be false unless it comprised the contrary formally. Since he takes contrariety in this way the question must be understood with respect to formal contrariety of enunciations. This is a very subtle question and one that has to be treated and has not been thus far. The question, therefore, is this: whether the formal contrary of the true affirmative is the false negative of the same predicate or the false affirmative of the privative predicate, i.e., of the contrary. The meaning of the question is now clear, and it is evident why he does not ask about any other oppositions of enunciations-no other opposition is found in them formally. It is also evident that he is taking contrariety properly and strictly, notwithstanding the fact that such contrariety is found among contradictories modally and contraries modally. St. Thomas has already pointed out that this question arises from the fact that something is added to the simple enunciation, for as it far as simple enunciations are concerned, i.e., those with only a second determinant, there is no occasion for the question. When, however, something is added, namely a predicate, to the simple enunciation, i.e., to the subject and the substantive verb, the question arises as to whether what ought to be added in contrary enunciations is the selfsame predicate with a negation added to the verb or a contrary, i.e., privative, predicate without a negation added to the verb. 5. Deinde cum dicit: nam siea etc., declarat unde sumenda sit decisio huius quæstionis. Et duo facit: quia primo declarat quod hæc quæstio dependet ex una alia quæstione, ex illa scilicet: utrum opinio, idest conceptio animæ, in secunda operatione intellectus, vera, contraria sit opinioni falsæ negativæ eiusdem prædicati, an falsæ affirmativæ contrarii sive privativi. Et assignat causam, quare illa quæstio dependet ex ista, quia scilicet enunciationes vocales sequuntur mentales, ut effectus adæquati causas proprias, et ut significata signa adæquata, et consequenter similis est in hoc utraque natura. Unde inchoans ab hac causa ait: nam si ea quæ sunt in voce sequuntur ea, quæ sunt in anima, ut dictum est in principio I libri, et illic, idest in anima, opinio contrarii prædicati circa idem subiectum est contraria illi alteri, quæ affirmat reliquum contrarium de eodem (cuiusmodi sunt istæ mentales enunciationes, omnis homo est iustus, omnis homo est iniustus); si ita inquam est, etiam et in his affirmationibus quæ sunt in voce, idest vocaliter sumptis, necesse est similiter se habere, ut scilicet sint contrariæ duæ affirmativæ de eodem subiecto et prædicatis contrariis. Quod si neque illic, idest in anima, opinatio contrarii prædicati, contrarietatem inter mentales enunciationes constituit, nec affirmatio vocalis affirmationi vocali contraria erit de contrario prædicato, sed magis affirmationi contraria erit negatio eiusdem prædicati. When Aristotle says, For if those things that are in vocal sound are determined by those in the intellect, etc.; he shows where we have to begin in order to settle this question. First he shows that the question depends on another question, namely, whether a true opinion (i.e., a conception of the soul in the second operation of the intellect) is contrary to a false negative opinion of the same predicate, or to a false affirmative of the contrary, i.e., privative, predicate. Then he gives the reason why the former question depends on this. Vocal enunciations follow upon mental as adequate effects upon proper causes and as the signified upon adequate signs. So, in this the nature of each is similar. He begins, then, with the reason for this dependence: For if those things that are in vocal sound are determined by those in the intellect (as was said in the beginning of the first book) and if in the soul, those opinions are contrary which affirm contrary predicates about the same subject, (for example, the mental enunciations, "Every man is just, "Every man is unjust”), then in affirmations that are in vocal sound, the case must be the same. The contraries will be two affirmatives about the same subject with contrary predicates. But if in the soul this is not the case, i.e., that opinions with contrary predicates constitute contrariety in mental enunciations, then the contrary of a vocal affirmation will not be a vocal affirmation with a contrary predicate. Rather, the contrary of an affirmation will be the negation of the same predicate. V. lib. Dependet ergo mota quæstio ex ista alia sicut effectus ex causa. Propterea et concludendo addit secundum, quod scilicet de hac quæstione prius tractandum est, ut ex causa cognita effectus innotescat dicens: quare considerandum est, opinio vera cui opinioni falsæ contraria est: utrum negationi falsæ an certe ei affirmationi falsæ, quæ contrarium esse opinatur. Et ut exemplariter proponatur, dico hoc modo: sunt tres opiniones de bono, puta vita: quædam enim est ipsius boni opinio vera, quoniam bonum est, puta, quod vita sit bona; alia vero falsa negativa, scilicet, quoniam bonum non est, puta, quod vita non sit bona; alia item falsa affirmativa contrarii, scilicet, quoniam malum est, puta, quod vita sit mala. Quæritur ergo quæ harum falsarum contraria est veræ? The first question, then, depends on this question as an effect upon its cause. For this reason, and by way of a conclusion to what he has just been saying, he adds the second question, which must be treated first so that once the cause is known the effect will be known: We must therefore consider to which false opinion the true opinion is contrary, whether it is to the false negation or to the false affirmation that it is to be judged contrary. Then in order to propose the question by examples he says: what I mean is this; there are three opinions of a good, for instance, of life. One is a true opinion, that it is good, for instance, that life is good. The other is a false negative, that it is not good, for instance, that life is not good. Still another, likewise false, is the affirmative of the contrary, that it is evil, for instance, that life is evil. The question is, then, which of these false opinions is contrary to the true one. V. lib. Quod autem subdidit: et si est una, secundum quam contraria est, tripliciter legi potest. Primo, dubitative, ut sit pars quæstionis; et tunc est sensus: quæritur quæ harum falsarum contraria est veræ: et simul quæritur, si est tantum una harum falsarum secundum quam fiat contraria ipsi veræ: quia cum unum uni sit contrarium, ut dicitur in X metaphysicæ, quærendo quæ harum sit contraria, quæremus etiam an una earum sit contraria. Alio modo, potest legi adversative, ut sit sensus: quæritur quæ harum sit contraria; quamquam sciamus quod non utraque sed una earum est secundum quam fit contrarietas. Tertio modo, potest legi dividendo hanc particulam, et si est una, ab illa sequenti, secundum quam contraria est; et tunc prima pars expressive, secunda vero dubitative legitur; et est sensus: quæritur quæ harum falsarum contraria est veræ, non solum si istæ duæ falsæ inter se differunt in consequendo, sed etiam si utraque est una, idest alteri indivisibiliter unita, quæritur secundum quam fit contrarietas. Et hoc modo exponit Boethius, dicens quod Aristoteles apposuit hæc verba propter contraria immediata, in quibus non differt contrarium a privativo. Inter contraria enim mediata et immediata hæc est differentia, quod in immediatis a privativo contrarium non infertur. Non enim valet, corpus colorabile est non album, ergo est nigrum: potest enim esse rubrum. In immediatis autem valet; verbi gratia: animal est non sanum, ergo infirmum; numerus est non par, ergo impar. Voluit ergo Aristoteles exprimere quod nunc, cum quærimus quæ harum falsarum, scilicet negativæ et affirmativæ contrarii, sit contraria affirmativæ veræ, quærimus universaliter sive illæ duæ falsæ indivisibiliter se sequantur, sive non. Then he adds, the question, and if there is one, is either one the contrary. This passage can be read in three ways. It can be read inquiringly so that it is a part of the question, and then the meaning is: which of these false opinions is contrary to the true opinion, and, is there one of these by which the contrary to the true one is effected? For since one is contrary to one other, as is said in X Metaphysicæ, in asking which of these is the contrary we are also asking whether one of them is the contrary. This can also be read adversatively, and then the meaning is: which of these is the contrary, given that we know it is not both but one by which the contrariety is effected? This can be read in a third way by dividing the first clause, "and if it is one” from the second clause, "is either one the contrary.” The first part is then read assertively, the second inquiringly, and the meaning is: which of these two false opinions is contrary to the true opinion if the two false opinions differ as to consequence, and also if both are one, i.e., united to each other indivisibly? BOEZIO explains this passage in the last way. He says that Aristotle adds these words because of immediate contraries in which the contrary does not differ from the privative. For the difference between mediate and immediate contraries is that in the former the contrary is not inferred from the privative. For example, this is not valid: "A colored body is not white, therefore it is black”—for it could be red. In immediate contraries, on the other hand, it is valid to infer the contrary from the privative; e.g., "An animal is not healthy, therefore it is number is not even, therefore it is odd.” Therefore, Aristotle intends to show here that when we ask which of these false opinions, i.e., negative and affirmative contraries, is contrary to the true affirmative, we are asking universally whether these two false opinions follow each other indivisibly or not. 8. Deinde cum dicit: nam arbitrari, prosequitur hanc secundam quæstionem. Et circa hoc quatuor facit. Primo, declarat quod contrarietas opinionum non attenditur penes contrarietatem materiæ, circa quam versantur, sed potius penes oppositionem veri vel falsi; secundo, declarat quod non penes quæcunque opposita secundum veritatem et falsitatem est contrarietas opinionum; ibi: si ergo boni etc.; tertio, determinat quod contrarietas opinionum attenditur penes per se primo opposita secundum veritatem et falsitatem tribus rationibus; ibi: sed in quibus primo fallacia etc.; quarto declarat hanc determinationem inveniri in omnibus veram; ibi: manifestum est igitur et cetera. Dicit ergo proponens intentam conclusionem, quod falsum est arbitrari opiniones definiri seu determinari debere contrarias ex eo quod contrariorum obiectorum sunt. Et adducit ad hoc duplicem rationem. Prima est: opiniones contrariæ non sunt eadem opinio; sed contrariorum eadem est fortasse opinio; ergo opiniones non sunt contrariæ ex hoc quod contrariorum sunt. Secunda est: opiniones contrariæ non sunt simul veræ; sed opiniones contrariorum, sive plures, sive una, sunt simul veræ quandoque; ergo opiniones non sunt contrariæ ex hoc quod contrariorum sunt. Harum rationum, suppositis maioribus, ponit utriusque minoris declarationem simul, dicens: boni enim, quoniam bonum est, et mali, quoniam malum est, eadem fortasse opinio est, quoad primam. Et subdit esse vera, sive plures sive una sit, quoad secundam. Utitur autem dubitativo adverbio et disiunctione, quia non est determinandi locus an contrariorum eadem sit opinio, et quia aliquo modo est eadem et aliquo modo non. Si enim loquamur de habituali opinione, sic eadem est; si autem de actuali, sic non eadem est. Alia siquidem mentalis compositio actualiter fit, concipiendo bonum esse bonum, et alia concipiendo malum esse malum, licet eodem habitu utrunque cognoscamus, illud per se primo, et hoc secundario, ut dicitur IX metaphysicæ. Deinde subdit quod ista quæ ad declarationem minorum sumpta sunt, scilicet bonum et malum, contraria sunt etiam contrarietate sumpta stricte in moralibus, ac per hoc congrua usi sumus declaratione. Ultimo inducit conclusionem. Sed non in eo quod contrariorum opiniones sunt, contrariæ sunt, sed magis in eo quod contrariæ, idest, sed potius censendæ sunt opiniones contrariæ ex eo quod contrariæ adverbialiter, scilicet contrario modo, idest vere et false enunciant. Et sic patet primum. When he says, It is false, of course, to suppose that opinions are to be defined as contrary because they are about contraries, etc., he proceeds with the second question. First he shows that contrariety of opinions is not determined by the contrariety of the matter involved, but rather by the opposition of true and false; secondly, he shows that there is not contrariety of opinions in just any opposites according to truth and falsity, where he says, Now if there is the opinion of that which is good, that it is good, and the opinion that it is not good, etc.; third, he determines that contrariety of opinions is concerned with the per se first opposites; according to truth and falsity, for three reasons, where he says, Rather, those opinions in which there is fallacy must be posited as contrary to true opinions, etc.; finally, he shows that this determination is true of all, where he says, It is evident that it will make no difference if we posit the affirmation universally, for the universal negation will be the contrary, etc. Aristotle says, then, proposing the conclusion he intends to prove, that it is false to suppose that opinions are to be defined or determined as contrary because they are about contrary objects. He gives two arguments for this. Contrary opinions are not the same opinion; but opinions about contraries are probably the same opinion; therefore, opinions are not contrary from the fact that they are about contraries. And, contrary opinions are not simultaneously true; but opinions about contraries, whether many or one, are sometimes true simultaneously; therefore, opinions are not contraries because they are about contraries. Having supposed the majors of these arguments, he posits a manifestation of each minor at the same time. In relation to the first argument, he says, for the opinion of that which is good, that it is good, and of that which is evil, that it is evil are probably the same. In relation to the second argument he adds: and, whether many or one, are true. He uses "probably,” an adverb expressing doubt and disjunction, because this is not the place to determine whether the opinion of contraries is the same opinion, and, because in some way the opinion is the same and in some way not. In the case of habitual opinion, the opinion of contraries is the same, but in the case of an actual opinion it is not. One mental composition is actually made in conceiving that a good is good and another in conceiving that an evil is evil, although we know both by the same habit, the former per se and first, the latter secondarily, as is said in IX Metaphysicæ [4: 1051a 4]. Then he adds that good and evil—which are used for the manifestation of the minor—are contraries even when the contrariety is taken strictly in moral matters; and so in using this our exposition is apposite. Finally, he draws the conclusion: however, opinions are not contraries because they are about contraries, but rather because they are contraries, i.e., opinions are to be considered as contrary from the fact that they enunciate contrarily, adverbially, i.e., in a contrary mode, i.e., they enunciate truly and falsely. Thus the first argument is clear. V. lib. Si ergo boni et cetera. Quia dixerat quod contrarietas opinionum accipitur secundum oppositionem veritatis et falsitatis earum, declarat modo quod non quæcunque secundum veritatem et falsitatem oppositæ opiniones sunt contrariæ, tali ratione. De bono, puta, de iustitia, quatuor possunt opiniones haberi, scilicet quod iustitia est bona, et quod non est bona, et quod est fugibilis, et quod est non appetibilis. Quarum prima est vera, reliquæ sunt falsæ. Inter quas hæc est diversitas quod, prima negat idem prædicatum quod vera affirmabat; secunda affirmat aliquid aliud quod bono non inest; tertia negat id quod bono inest, non tamen illud quod vera affirmabat. Tunc sic. Si omnes opiniones secundum veritatem et falsitatem sunt contrariæ, tunc uni, scilicet veræ opinioni non solum multa sunt contraria, sed etiam infinita: quod est impossibile, quia unum uni est contrarium. Tenet consequentia, quia possunt infinitæ imaginari opiniones falsæ de una re similes ultimis falsis opinionibus adductis, affirmantes, scilicet ea quæ non insunt illi, et negantes ea quæ illi quocunque modo coniuncta sunt: utraque namque indeterminata esse et absque numero constat. Possumus enim opinari quod iustitia est quantitas, quod est relatio, quod est hoc et illud; et similiter opinari quod iustitia non sit qualitas, non sit appetibilis, non sit habitus. Unde ex supradictis in propositione quæstionis, inferens pluralitatem falsarum contra unam veram, ait: si ergo est opinatio vera boni, puta iustitiæ, quoniam est bonum; et si est etiam falsa opinatio negans idem, scilicet, quoniam non est quid bonum; est vero et tertia opinatio falsa quoque, affirmans aliquid aliud inesse illi, quod non inest nec inesse potest, puta, quod iustitia sit fugibilis, quod sit illicita; et hinc intelligitur quarta falsa quoque, quæ scilicet negat aliquid aliud ab eo quod vera opinio affirmat inesse iustitiæ, quod tamen inest, ut puta quod non sit qualitas, quod non sit virtus; si ita inquam est, nulla aliarum falsarum ponenda est contraria opinioni veræ. Et exponens quid demonstret per ly aliarum, subdit: neque quæcunque opinio opinatur esse quod non est, ut tertii ordinis opiniones faciunt: neque quæcunque opinio opinatur non esse quod est, ut quarti ordinis opiniones significant. Et causam subdit: infinitæ enim utræque sunt, et quæ esse opinantur quod non est, et quæ non esse quod est, ut supra declaratum fuit. Non ergo quæcunque opiniones oppositæ secundum veritatem et falsitatem contrariæ sunt. Et sic patet secundum.When he says, Now, if there is the opinion of that which is good, that it is good, and the opinion that it is not good, etc., he takes up the second point. Since he has just said that contrariety of opinions is taken according to their opposition of truth and falsity, he goes on to show that not just any opposites according to truth and falsity are contraries. This is his argument. Four opinions can be held about a good, for instance justice: that justice is good, that it is not good, that it is avoidable, that it is not desirable. Of these, the first is true, the rest false. The three false ones are diverse. The first denies the same predicate the true one affirmed; the second affirms something which does not belong to the good; the third denies what belongs to the good, but something other than the true one affirmed. Now if all opinions opposed as to truth and falsity are contraries, then not only are there many contraries to one true opinion, but an infinite number. But this is impossible, for one is contrary to one other. The consequence holds because infinite false opinions about one thing, similar to those cited, can be imagined; such opinions would affirm of it what does not belong to it and deny what is joined to it in some way. Both kinds are indeterminate and without number. We can think, for instance, that justice is a quantity, that it is a relation, that it is this and that; and likewise we can think that it is not a quality, is not desirable, is not a habit. Hence, from what was said above in proposing the question, Aristotle infers a plurality of false opinions opposed to one true opinion: Now if there is the opinion of that which is good, for instance justice, that it is good, and there is a false opinion denying the same thing, namely, that it is not good, and besides these a third opinion, false also, affirming that some other thing belongs to justice that does not belong and cannot belong to it (for instance, that justice is avoidable, that it is illicit) and a fourth opinion, also false, that denies something other than the true opinion affirms, something, however, which does belong to justice (for instance, that it is not a quality, that it is not a virtue), none of these other false enunciations are to be posited as the contrary of the true opinion. To explain what he is designating by "of these others,” he adds, neither those purporting that what is not, is, as opinions of the third order do, nor those purporting that what is, is not, as opinions of the fourth order signify. Then he adds the reason these cannot be posited as the contrary of the true opinion: for both the opinions that that is which is not, and that which is not, is, are infinite, as was shown above. Therefore, not just any opinions opposed according to truth and falsity are contraries. Thus the second argument is clear. V. lib. Quia subtili indagatione ostendit quod nec materiæ contrarietas, nec veri falsique qualiscunque oppositio contrarietatem opinionum constituit, sed quod aliqua veri falsique oppositio id facit, ideo nunc determinare intendit qualis sit illa veri falsique oppositio, quæ opinionum contrarietatem constituit. Ex hoc enim directe quæstioni satisfit. Et intendit quod sola oppositio opinionum secundum affirmationem et negationem eiusdem de eodem etc. constituit contrarietatem earum. Unde intendit probare istam conclusionem per quam ad quæsitum respondet: opiniones oppositæ secundum affirmationem et negationem eiusdem de eodem sunt contrariæ; et consequenter illæ, quæ sunt oppositæ secundum affirmationem contrariorum prædicatorum de eodem, non sunt contrariæ, quia sic affirmativa vera haberet duas contrarias, quod est impossibile. Unum enim uni est contrarium.Aristotle has just completed a subtle investigation in which he has shown that contrariety of matter does not constitute contrariety of opinion, nor does just any kind of opposition of true and false, but some opposition of true and false does. Now he intends to determine what kind of opposition of true and false it is that constitutes contrariety of opinions, for this will answer the question directly. He maintains that only opposition of opinions according to affirmation and negation of the same thing of the same thing, etc., constitutes their contrariety. Accordingly, as the response to the question, he intends to prove the following conclusion: opinions opposed according to affirmation and negation of the same thing of the same thing are contraries; and consequently, opinions opposed according to affirmation of contrary predicates of the same subject are not contraries, for if these were contraries, the true affirmative would have two contraries, which is impossible, since one is contrary to one other. V. lib. Probat autem istam conclusionem tribus rationibus. Prima est: opiniones in quibus primo est fallacia sunt contrariæ; opiniones oppositæ secundum affirmationem et negationem eiusdem de eodem sunt in quibus primo est fallacia; ergo opiniones oppositæ secundum affirmationem et negationem eiusdem de eodem sunt contrariæ. Sensus maioris est: opiniones quæ primo ordine naturæ sunt termini fallaciæ, idest deceptionis seu erroris, sunt contrariæ: sunt enim, cum quis fallitur seu errat, duo termini, scilicet a quo declinat, et ad quem labitur. Huius rationis in littera primo ponitur maior, cum dicitur: sed in quibus primo fallacia est; adversative enim continuans sermonem supradictis, insinuavit non tot enumeratas opiniones esse contrarias, sed eas in quibus primo fallacia est modo exposito. Deinde subdit probationem minoris talem: eadem proportionaliter sunt, ex quibus sunt generationes et ex quibus sunt fallaciæ; sed generationes sunt ex oppositis secundum affirmationem et negationem; ergo et fallaciæ sunt ex oppositis secundum affirmationem et negationem. Quod erat assumptum in minore. Unde ponens maiorem huius prosyllogismi, ait: hæc autem, scilicet fallacia, est ex his, scilicet terminis, proportionaliter tamen, ex quibus sunt et generationes. Et subsumit minorem: ex oppositis vero, scilicet secundum affirmationem et negationem, et generationes fiunt. Et demum concludit: quare etiam fallacia, scilicet, est ex oppositis secundum affirmationem et negationem eiusdem de eodem. Aristotle uses three arguments to prove this conclusion. The first one is as follows: Those opinions in which there is fallacy first are contraries. Opinions opposed according to affirmation and negation of the same predicate of the same subject are those in which there is fallacy first. Therefore, these are contraries. The sense of the major is this: Opinions which first in the order of nature are the limits of fallacy, i.e., of deception or error, are contraries; for when someone is deceived or errs, there are two limits, the one from which he turns away and the one toward which he turns. In the text the major of the argument is posited first: Rather, those opinions in which there is fallacy must be posited as contrary to true opinions. By uniting this part of the text adversatively with what was said previously, Aristotle implies that not just any of the number of opinions enumerated are contraries, but those in which there is fallacy first in the manner we have explained. Then he gives this proof of the minor: those things from which generations are and from which fallacies are, are the same proportionally; generations are from opposites according to affirmation and negation; therefore fallacies, too, are from opposites according to affirmation and negation (which was assumed in the minor). Hence he posits the major of this prosyllogism: Now the things from which fallacies arise, namely, limits, are the things from which generations arise—proportionally however. Under it he posits the minor: but generations are from opposites, i.e., according to affirmation and negation. Finally, he concludes, therefore also fallacies, i.e., they are from opposites according to affirmation and negation of the same thing of the same thing. V. lib. Ad evidentiam huius probationis scito quod idem faciunt in processu intellectus cognitio et fallacia seu error, quod in processu naturæ generatio et corruptio. Sicut namque perfectiones naturales generationibus acquiruntur, corruptionibus desinunt; ita cognitione perfectiones intellectuales acquiruntur, erroribus autem seu deceptionibus amittuntur. Et ideo, sicut tam generatio quam corruptio est inter affirmationem et negationem, ut proprios terminos, ut dicit V Physic.; ita tam cognoscere aliquid, quam falli circa illud, est inter affirmationem et negationem, ut proprios terminos: ita quod id ad quod primo attingit cognoscens aliquid in secunda operatione intellectus est veritatis affirmatio, et quod per se primo abiicitur est illius negatio. Et similiter quod per se primo perdit qui fallitur est veritatis affirmatio, et quod primo incurrit est veritatis negatio. Recte ergo dixit quod iidem sunt termini inter quos primo est generatio, et illi inter quos est primo fallacia, quia utrobique termini sunt affirmatio et negatio. This proof will be more evident from the following: Knowledge and fallacy, or error, bring about the same thing in the intellect’s progression as generation and corruption do in nature’s progression. For just as natural perfections are acquired by generations and perish by corruptions, so intellectual perfections are acquired by knowledge and lost by errors or deceptions. Accordingly, just as generation and corruption are between affirmation and negation as proper terms, as is said in Physicæ so both to know something and to be deceived about it is between affirmation and negation as proper terms. Consequently, what one who knows attains first in the second operation of the intellect is affirmation of the truth, and what he rejects per se and first is the negation of it. In like manner, what he who is deceived loses per se and first is affirmation of the truth, and acquires first is negation of the truth. Therefore Aristotle is correct in maintaining that the terms between which there is generation first and between which there is fallacy first are the same, because with respect to both, the terms are affirmation and negation. V. lib. Deinde cum dicit: si ergo quod bonum est etc., intendit probare maiorem principalis rationis. Et quia iam declaravit quod ea, in quibus primo est fallacia, sunt affirmatio et negatio, ideo utitur, loco maioris probandæ, scilicet, opiniones in quibus primo est fallacia, sunt contrariæ, sua conclusione, scilicet, opiniones oppositæ secundum affirmationem et negationem eiusdem sunt contrariæ. Æquivalere enim iam declaratum est. Fecit autem hoc consuetæ brevitati studens, quoniam sic procedendo, et probat maiorem, et respondet directe quæstioni, et applicat ad propositum simul. Probat ergo loco maioris conclusionem principaliter intentam quæstionis, hanc, scilicet: opiniones oppositæ secundum affirmationem et negationem eiusdem sunt contrariæ; et non illæ, quæ sunt oppositæ secundum contrariorum affirmationem de eodem. Et intendit talem rationem. Opinio vera et eius magis falsa sunt contrariæ opiniones; oppositæ secundum affirmationem et negationem sunt vera et eius magis falsa; ergo opiniones oppositæ secundum affirmationem et negationem sunt contrariæ. Maior probatur ex eo quod, quæ plurimum distant circa idem sunt contraria; vera autem et eius magis falsa plurimum distant circa idem, ut patet. Minor vero probatur ex eo quod opposita secundum negationem eiusdem de eodem est per se falsa respectu suæ affirmationis veræ. Opinio autem per se falsa magis falsa est quacunque alia. Unumquodque enim quod est per se tale, magis tale est quolibet quod est per aliud tale. When he says, Now, if that which is good is both good and not evil, the former per se, the latter accidentally, etc., he intends to prove the major of the principal argument. He has already shown that the opinions in which there is fallacy first are affirmation and negation, and therefore in place of the major to be proved (i.e., opinions in which it there is fallacy first are contraries) he uses his conclusion—which has already been shown to be equivalent—that opinions opposed according to affirmation and negation of the same thing are contraries. Thus with his customary brevity he at once proves the major, responds directly to the question, and applies it to what he has proposed. In place of the major, then, he proves the conclusion principally intended, i.e., that opinions opposed according to affirmation and negation of the same thing are contraries, and not those opposed according to affirmation of contraries about the same thing. His argument is as follows: A true opinion and the opinion that is more false in respect to it are contrary opinions, but opinions opposed according to affirmation and negation are the true opinion and the opinion that is more false in respect to it; therefore, opinions opposed according to affirmation and negation are contraries. The major is proved thus: those things that are most distant in respect to the same thing are contraries; but the true and the more false are most distant in respect to the same thing, as is clear. The proof of the minor is that the opposite according to negation of the same thing of the same thing is per se false in relation to the true affirmation of it. But a per se false opinion is more false than any other, since each thing that is per se such is more such than anything that is such by reason of something else. V. lib. Unde ad suprapositas opiniones in propositione quæstionis rediens, ut ex illis exemplariter clarius intentum ostendat, a probatione minoris inchoat tali modo. Sint quatuor opiniones, duæ veræ, scilicet, bonum est bonum, bonum non est malum, et duæ falsæ, scilicet, bonum non est bonum, et, bonum est malum. Clarum est autem quod prima vera est ratione sui, secunda autem est vera secundum accidens, idest, ratione alterius, quia scilicet non esse malum est coniunctum ipsi bono: ideo enim ista est vera, bonum non est malum, quia bonum est bonum, et non e contra; ergo prima quæ est secundum se vera, est magis vera quam secunda: quia in unoquoque genere quæ secundum se est vera est magis vera. Illæ autem duæ falsæ eodem modo censendæ sunt, quod scilicet magis falsa est, quæ secundum se est falsa. Unde quia prima earum, scilicet, bonum non est bonum, quæ est negativa, est per se et non ratione alterius falsa, relata ad illam affirmativam, bonum est bonum; et secunda, scilicet, bonum est malum, quæ est affirmativa contrarii, ad eamdem relata est falsa per accidens, idest ratione alterius (ista enim, scilicet, bonum est malum, non immediate falsificatur ab illa vera, scilicet bonum est bonum, sed mediante illa alia falsa, scilicet, bonum non est bonum); idcirco magis falsa respectu affirmationis veræ est negatio eiusdem quam affirmatio contrarii. Quod erat assumptum in minore. Accordingly, returning to the opinions already given in proposing the question so as to show his intention more clearly by example, he begins with the proof of the minor. There are four opinions, of which two are true, "A good is good,” "A good is not evil”; two are false, "A good is not good” and "A good is evil.” It is evident that the first is true by reason of itself, the second accidentally, i.e., by reason of another, for not to be evil is added to that which is good. Hence, "A good is not evil” is true because a good is good, and not contrarily. Therefore, the first of these opinions, which is per se true, is more true than the second, for in each genus that which per se is true is more true. The two false opinions are to be judged in the same way. The more false is the one that is per se false. The first of them, the negative, "A good is not good,” in relation to the affirmative, "A good is good,” is per se false, not false by reason of another. The second, the affirmative of the contrary, "A good is evil,” in relation to the same opinion, is false accidentally, i.e., by reason of another (for "A good is evil” is not immediately falsified by the true opinion, "A good is good,” but mediately through the other false opinion "A good is not good”). Therefore, the negation of the same thing is more false in respect to a trite affirmation than the affirmation of a contrary. This was assumed in the minor. V. lib. 2 l. 14 n. 6Unde rediens ad supra positas (ut dictum est) opiniones, infert primas duas veras opiniones dicens: si ergo quod bonum est et bonum est et non est malum, et hoc quidem, scilicet quod dicit prima opinio, est verum secundum se, idest ratione sui; illud vero, scilicet quod dicit secunda opinio, est verum secundum accidens, quia accidit, idest, coniunctum est ei, scilicet bono, malum non esse. In unoquoque autem ordine magis vera est illa quæ secundum se est vera. Etiam igitur falsa magis est quæ secundum se falsa est: siquidem et vera huius est naturæ, ut declaratum est, quod scilicet magis vera est, quæ secundum se est vera. Ergo illarum duarum opinionum falsarum in quæstione propositarum, scilicet, bonum non est bonum, et, bonum est malum, ea quæ est dicens, quoniam non est bonum quod bonum est, idest negativa; scilicet, bonum non est bonum, est consistens falsa secundum se, idest, ratione sui continet in seipsa falsitatem; illa vero reliqua falsa opinio, quæ est dicens, quoniam malum est, idest, affirmativa contraria, scilicet, bonum est malum, eius, quæ est, idest, illius affirmationis dicentis, bonum est bonum, secundum accidens, idest, ratione alterius falsa est. Deinde subdit ipsam minorem: quare erit magis falsa de bono, opinio negationis, quam contrarii. Deinde ponit maiorem dicens quod, semper magis falsus circa singula est ille qui habet contrariam opinionem, ac si dixisset, veræ opinioni magis falsa est contraria. Quod assumptum erat in maiore. Et eius probationem subdit, quia contrarium est de numero eorum quæ circa idem plurimum differunt. Nihil enim plus differt a vera opinione quam magis falsa circa illam. As was pointed out above, Aristotle returns to the opinions already posited, and infers the first two true opinions: Now if that which is good is both good and not evil, and if what the first opinion says is true per se, i.e., by reason of itself, and what the second opinion says is trite accidentally (since it is accidental to it, i.e., added to it, that is, to the good, not to be evil) and if in each order that which is per se true is more true, then that which is per se false is more false, since, as has been shown, the true also is of this nature, namely, that the more true is that which per se is true. Therefore, of the two false opinions proposed in the question, namely, "A good is not good,” and "A good is evil,” the one saying that what is good is not good, namely, the negative, is an opinion positing what is per se false, i.e., by reason of itself it contains falsity in it. The other false opinion, the one saying it is evil, namely, the affirmative contrary in respect to it, i.e., in respect to the affirmation saying that a good is good, is false accidentally, i.e., by reason of another. Then he gives the minor: Therefore, the opinion of the negation of the good will be more false than the opinion affirming a contrary. Next, he posits the major, the one who holds the contrary judgment about each thing is most mistaken, i.e., in relation to the true judgment the contrary is more false. This was assumed in the major. He gives as the proof of this, for contraries are those that differ most with respect to the same thing, for nothing differs more from a true opinion than the more false opinion in respect to it. V. lib. 2 l. 14 n. 7Ultimo directe applicat ad quæstionem dicens: quod si (pro, quia) harum falsarum, scilicet, negationis eiusdem et affirmationis contrarii, altera est contraria veræ affirmationi, opinio vero contradictionis, idest, negationis eiusdem de eodem, magis est contraria secundum falsitatem, idest, magis est falsa, manifestum est quoniam hæc, scilicet opinio falsa negationis, erit contraria affirmationi veræ, et e contra. Illa vero opinio quæ est dicens, quoniam malum est quod bonum est, idest, affirmatio contrarii, non contraria sed implicita est, idest, sed implicans in se veræ contrariam, scilicet, bonum non est bonum. Etenim necesse est ipsum opinantem affirmationem contrarii opinari, quoniam idem de quo affirmat contrarium non est bonum. Oportet siquidem si quis opinatur quod vita est mala, quod opinetur quod vita non sit bona. Hoc enim necessario sequitur ad illud, et non e converso; et ideo affirmatio contrarii implicita dicitur. Negatio autem eiusdem de eodem implicita non est. Et sic finitur prima ratio. Finally, he directly approaches the question. If (for "since”), then, of two opinions (namely, false opinions—the negation of the same thing and the affirmation of a contrary), one is the contrary of the true affirmation, and, the contradictory opinion, i.e., the negation of the same thing of the same thing, is more contrary according to falsity, i.e., is more false, it is evident that the false opinion of negation will be contrary to the true affirmation, and conversely. The opinion saying that what is good is evil, i.e., the affirmation of a contrary, is not the contrary but implies it, i.e., it implies in itself the opinion contrary to the true opinion, i.e., "A good is not good.” The reason for this is that the one conceiving the affirmation of a contrary must conceive that the same thing of which he affirms the contrary, is not good. If, for example, someone conceives that life is evil, he must conceive that life is not good, for the former necessarily follows upon the latter and not conversely. Hence, affirmation of a contrary is said to be implicative, but negation of the same thing of the same thing is not implicative. This concludes the first argument. V. lib. Notandum est hic primo quod ista regula generalis tradita hic ab Aristotele de contrarietate opinionum, quod scilicet contrariæ opiniones sunt quæ opponuntur secundum affirmationem et negationem eiusdem de eodem, et in se et in assumptis ad eius probationem propositionibus scrupulosa est. Unde multa hic insurgunt dubia. Primum est quia cum oppositio secundum affirmationem et negationem non constituat contrarietatem sed contradictionem apud omnes philosophos, quomodo Aristoteles opiniones oppositas secundum affirmationem et negationem ex hoc contrarias ponat. Augetur et dubitatio quia dixit quod ea in quibus primo est fallacia sunt contraria, et tamen subdit quod sunt oppositæ sicut termini generationis, quos constat contradictorie opponi. Nec dubitatione caret quomodo sit verum id quod supra diximus ex intentione s. Thomæ, quod nullæ duæ opiniones opponantur contradictorie, cum hic expresse dicitur aliquas opponi secundum affirmationem et negationem. Dubium secundo insurgit circa id quod assumpsit, quod contraria cuiusque veræ est per se falsa. Hoc enim non videtur verum. Nam contraria istius veræ, Socrates est albus, est ista, Socrates non est albus, secundum determinata; et tamen non est per se falsa. Sicut namque sua opposita affirmatio est per accidens vera, ita ista est per accidens falsa. Accidit enim isti enunciationi falsitas. Potest enim mutari in veram, quia est in materia contingenti. Dubium est tertio circa id quod dixit: magis vero contradictionis est contraria. Ex hoc enim videtur velle quod utraque, scilicet, opinio negationis et contrarii, sit contraria veræ affirmationi; et consequenter vel uni duo ponit contraria, vel non loquitur de contrarietate proprie sumpta: cuius oppositum supra ostendimus. The general rule about the contrariety of opinions that Aristotle has given here (namely, that contrary opinions are those opposed according to affirmation and negation of the same thing of the same thing) is accurate both in itself and in the propositions assumed for its proof. Many questions may arise, however, as a consequence of this doctrine and its proof. First of all, all philosophers hold that opposition according to affirmation and negation constitutes contradiction, not contrariety. How, then, can Aristotle maintain that opinions opposed in this way are contraries? The difficulty is augmented by the fact that he has said that those opinions in which there is fallacy first are contraries, yet he adds that they are opposed as the terms of generation are, which he establishes to be opposed contradictorily. In addition, there is a difficulty as to the way in which the assertion of St. Thomas, which we used above, is true, namely, that no two opinions are opposed contradictorily, since here it is explicitly said that some are opposed according to affirmation and negation. The second uestion involves his assumption that the contrary of each true opinion is per se false. This does not seem to be true, for according to what was determined previously, the contrary of the true opinion "Socrates is white” is "Socrates is not white.” But this is not per se false, for the opposed affirmation is true accidentally, and hence its negation is false accidentally. Falsity is accidental to such an enunciation because, being in contingent matter, it can be changed into a true one. A third difficulty arises from the fact that Aristotle says the contradictory opinion is nwre contrary. He seems to be proposing, according to this, that both the opinion of the negation and of a contrary are contrary to a true affirmation. Consequently, he is either positing two opinions contrary to one or he is not taking contrariety strictly, although we showed above that he was taking contrariety properly and strictly. V. lib. Ad evidentiam omnium, quæ primo loco adducuntur, sciendum quod opiniones seu conceptiones intellectuales, in secunda operatione de quibus loquimur, possunt tripliciter accipi: uno modo, secundum id quod sunt absolute; alio modo, secundum ea quæ repræsentant absolute; tertio, secundum ea quæ repræsentant, ut sunt in ipsis opinionibus. Primo membro omisso, quia non est præsentis speculationis, scito quod si accipiantur secundo modo secundum repræsentata, sic invenitur inter eas et contradictionis, et privationis, et contrarietatis oppositio. Ista siquidem mentalis enunciatio, Socrates est videns, secundum id quod repræsentat opponitur illi, Socrates non est videns, contradictorie; privative autem illi, Socrates est cæcus; contrarie autem illi, Socrates est luscus; si accipiantur secundum repræsentata. Ut enim dicitur in postprædicamentis, non solum cæcitas est privatio visus, sed etiam cæcum esse est privatio huius quod est esse videntem, et sic de aliis. Si vero accipiantur opiniones tertio modo, scilicet, prout repræsentata per eas sunt in ipsis, sic nulla oppositio inter eas invenitur nisi contrarietas: quoniam sive opposita contradictorie sive privative sive contrarie repræsententur, ut sunt in opinionibus, illius tantum oppositionis capaces sunt, quæ inter duo entia realia inveniri potest. Opiniones namque realia entia sunt. Regulare enim est quod quidquid convenit alicui secundum esse quod habet in alio, secundum modum et naturam illius in quo est sibi convenit, et non secundum quod exigeret natura propria. Inter entia autem realia contrarietas sola formaliter reperitur. Taceo nunc de oppositione relativa. Opiniones ergo hoc modo sumptæ, si oppositæ sunt, contrarietatem sapiunt, sed non omnes proprie contrariæ sunt, sed illæ quæ plurimum differunt circa idem veritate et falsitate. Has autem probavit Aristoteles esse opiniones affirmationis et negationis eiusdem de eodem. Istæ igitur veræ contrariæ sunt. Reliquæ vero per reductionem ad has contrariæ dicuntur. In order to answer all of the difficulties in regard to the first argument it must be noted that opinions, or intellectual conceptions in the second operation, can be taken in three ways: according to what they are absolutely; (2) according to the things they represent absolutely, according to the things they represent, as they are in opinions. We will omit the first since it does not belong to the present consideration. If they are taken in the second way, i.e., according to the things represented, there can be opposition of contradiction, of privation, and of contrariety among them. The mental enunciation "Socrates sees,” according to what it represents, is opposed contradictorily to. Socrates does not see”; privatively to "Socrates is blind”; contrarily to "Socrates is purblind.” Aristotle points out the reason for this in the Postpredicamenta [Categ.]: not only is blindness privation of sight but to be blind is also a privation of to be seeing, and so of others. Opinions taken in the third way, i.e., as the things represented through opinions are in the opinions, have no opposition except contrariety; for opposites as they are in opinions, whether represented contradictorily or privatively or contrarily, only admit of the opposition that can be found between two real beings, for opinions are real beings. The rule is that whatever belongs to something according to the being which it has in another, belongs to it according to the mode and nature of that in which it is, and not according to what its own nature would require. Now, between real beings only contrariety is found formally. (I am omitting here the consideration of relative opposition.) Therefore, opinions taken in this mode, if they are opposed, represent contrariety, although not all are contraries properly. Only those differing most in respect to truth and falsity about the same thing are contraries properly. Now Aristotle proved that these are - judgments affirming and denying the same thing of the same thing. Therefore, these are the true contraries. The rest are called contraries by reduction to these. V. lib. Ex his patet quid ad obiecta dicendum sit. Fatemur enim quod affirmatio et negatio in seipsis contradictionem constituunt; in opinionibus vero existentes contrarietatem inter illas causant propter extremam distantiam, quam ponunt inter entia realia, opinionem scilicet veram et opinionem falsam circa idem. Stantque ista duo simul quod ea, in quibus primo est fallacia, sint opposita ut termini generationis, et tamen sint contraria utendo supradicta distinctione: sunt enim opposita contradictorie ut termini generationis secundum repræsentata; sunt autem contraria, secundum quod habent in seipsis illa contradictoria. Unde plurimum differunt. Liquet quoque ex hoc quod nulla est dissentio inter dicta Aristotelis et s. Thomæ, quia opiniones aliquas opponi secundum affirmationem et negationem verum esse confitemur, si ad repræsentata nos convertimus, ut hic dicitur. From this the answer to the objections is clear. We grant that affirmation and negation in themselves constitute contradiction. In actual judgments,”’ affirmation and negation cause contrariety between opinions because of the extreme distance they posit between real beings, namely, true opinion and false opinion in respect to the same thing. And these two stand at the same time: those in which there is fallacy first are opposed as the terms of generation are and yet they are contraries by the use of the foresaid distinction—for they are opposed contradictorily as terms of generation according to the things represented, but they are contraries insofar as they have in themselves those contradictories and hence differ most. It is also evident that there is no disagreement between Aristotle and St. Thomas, for we have shown that it is true that some opinions are opposed according to affirmation and negation if we consider the things represented, as is said here. 11. Tu autem qui perspicacioris ac provectioris ingenii es compos, hinc habeto quod inter ipsas opiniones oppositas quidam tantum motus est, eo quod de affirmato in affirmatum mutatio fit: inter ipsas vero secundum repræsentata, similitudo quædam generationis et corruptionis invenitur, dum inter affirmationem et negationem mutatio clauditur. Unde et fallacia sive error quandoque et motus et mutationis rationem habet diversa respiciendo, quando scilicet ex vera in per se falsam, vel e converso, quis mutat opinionem; quandoque autem solam mutationem imitatur, quando scilicet absque præopinata veritate ipsam falsam offendit quis opinionem; quandoque vero motus undique rationem possidet, quando scilicet ex vera affirmatione in falsam circa idem contrarii affirmationem transit. Quia tamen prima ut quis fallatur radix est oppositio affirmationis et negationis, merito ea in quibus primo est fallacia, sicut generationis terminos opponi dixit. It will be noted, however, by those of you who are more penetrating and advanced in your thinking, that between opposite opinions there is something of true motion when a change is made from the affirmed to the affirmed; but according to the order of representation there is a certain similitude to generation and corruption so long as the change is bounded by affirmation and negation. Consequently, fallacy or error may be regarded in different ways. Sometimes it has the aspect of both movement and change. This is the case when someone changes his opinion from a true one to one that is per se false, or conversely. Sometimes change alone is imitated. This happens when someone arrives at a false opinion apart from a former true opinion. Sometimes, however, there is movement in every respect. This is the case when reason passes from the true affirmation to the false affirmation of a contrary about the same thing. However, since the first root of being in error is the opposition of affirmation and negation, Aristotle is correct in saying that those in which there is fallacy first are opposed as are the terms of generation. 12. Ad dubium secundo loco adductum dico quod peccatur ibi secundum æquivocationem illius termini per se falsa, seu per se vera. Opinio enim et similiter enunciatio potest dici dupliciter per se vera seu falsa. Uno modo, in seipsa, sicut sunt omnes veræ secundum illos modos perseitatis qui enumerantur I posteriorum, et similiter falsæ secundum illosmet modos, ut, homo non est animal. Et hoc modo non accipitur in hac regula de contrarietate opinionum et enunciationum opinio per se vera aut falsa, ut efficaciter obiectio adducta concludit. Si enim ad contrarietatem opinionum hoc exigeretur non possent esse opiniones contrariæ in materia contingenti: quod est falsissimum. Alio modo potest dici opinio sive enunciatio per se vera aut falsa respectu suæ oppositæ. Per se vera quidem respectu suæ falsæ, et per se falsa respectu suæ veræ. Et tunc nihil aliud est dicere, est per se vera respectu illius, nisi quod ratione sui et non alterius verificatur ex falsitate illius. Et similiter cum dicitur, est per se falsa respectu illius, intenditur quod ratione sui et non alterius falsificatur ex illius veritate. Verbi gratia; istius veræ, Socrates currit, non est per se falsa, Socrates sedet, quia falsitas eius non immediate sequitur ex illa, sed mediante ista alia falsa, Socrates non currit, quæ est per se illius falsa, quia ratione sui et non per aliquod medium ex illius veritate falsificatur, ut patet. Et similiter istius falsæ, Socrates est quadrupes, non est per se vera ista, Socrates est bipes, quia non per seipsam veritas istius illam falsificat, sed mediante ista, Socrates non est quadrupes, quæ est per se vera respectu illius: propter seipsam enim falsitate istius verificatur, ut de se patet. Et hoc secundo modo utimur istis terminis tradentes regulam de contrarietate opinionum et enunciationum. Invenitur siquidem sic universaliter vera in omni materia regula dicens quod, vera et eius per se falsa, et falsa et eius per se vera, sunt contrariæ. Unde patet responsio ad obiectionem, quia procedit accipiendo ly per se vera, et per se falsa primo modo. With respect to the second question, I say that there is an equivocation of the term "per se false” and "per se true” in the objection. Opinion, as well as enunciation, can be called per se true or false in two ways. It can be called per se true in itself. This is the case in respect to all opinions and enunciations that are in accordance with the modes of perseity enumerated in I Posteriorum. Similarly, they can be said to be per se false according to the same modes. An example of this would be "Man is not an animal.” Per se true or false is not taken in this mode in the rule about contrariety of opinions and enunciations, as the objection concludes. For if this were needed for contrariety of opinions there could not be contrary opinions in contingent matter, which is false. Secondly, an opinion or enunciation can be said to be per se true or false in respect to its opposite: per se true with respect to its opposite false opinion, and per se false with respect to its opposite true opinion. Accordingly, to say that an opinion is per se true in respect to its opposite is to say that on its own account and not on account of another it is verified by the falsity of its opposite. Similarly, to say that an opinion is per se false in respect to its opposite means that on its own account and not on account of another it is falsified by the truth of the opposite. For example, the opinion that is per se false in respect to the true opinion "Socrates is running "is not, "Socrates is sitting,” since the falsity of the latter does not immediately follow from the former, but mediately from the false opinion, "Socrates is not running.” It is the latter opinion that is per se false in relation to "Socrates is running,” since it is falsified on its own account by the truth of the opinion "Socrates is running,” and not through an intermediary. Similarly, the per se true opinion in respect to the false opinion "Socrates is four-footed” is not, "Socrates is two-footed,” for the truth of the latter does not by itself make the former false; rather, it is through "Socrates is not four-footed” as a medium, which is per se true in respect to "Socrates is four-footed”; for "Socrates is not four-footed” is verified on its own account by the falsity of "Socrates is four-footed,” as is evident. We are using "per se true” and "per se false” in this second mode in propounding the rule concerning contrariety of opinions and enunciations. Thus the rule that the true opinion and the per se false opinion in relation to it and the false opinion and the per se true in relation to it are contraries, is universally true in all matter. Consequently, the response to the objection is clear, for it results from taking "per se true” and "per se false” in the first mode. Ad ultimum dubium dicitur quod, quia inter opiniones ad se invicem pertinentes nulla alia est oppositio nisi contrarietas, coactus fuit Aristoteles (volens terminis specialibus uti) dicere quod una est magis contraria quam altera, insinuans quidem quod utraque contrarietatis oppositionem habet respectu illius veræ. Determinat tamen immediate quod tantum una earum, scilicet negationis opinio, contraria est affirmationi veræ. Subdit enim: manifestum est quoniam hæc contraria erit. Duo ergo dixit, et quod utraque, tam scilicet negatio eiusdem quam affirmatio contrarii, contrariatur affirmationi veræ, et quod una tantum earum, negatio scilicet, est contraria. Et utrunque est verum. Illud quidem, quia, ut dictum est, ambæ contrarietates oppositione contra affirmationem moliuntur; sed difformiter, quia opinio negationis primo et per se contrariatur, affirmationis vero contrarii opinio secundario et per accidens, idest per aliud, ratione scilicet negativæ opinionis, ut declaratum est: sicut etiam in naturalibus albo contrariantur et nigrum et rubrum, sed illud primo, hoc reductive, ut reducitur scilicet ad nigrum illud inducendo, ut dicitur V Physic. Secundum autem dictum simpliciter verum est, quoniam simpliciter contraria non sunt nisi extrema unius latitudinis, quæ maxime distant; extrema autem unius distantiæ non sunt nisi duo. Et ideo cum inter pertinentes ad se invicem opiniones unum extremum teneat affirmatio vera, reliquum uni tantum falsæ dandum est, illi scilicet quæ maxime a vera distat. Hanc autem negativam opinionem esse probatum est. Hæc igitur una tantum contraria est illi, simpliciter loquendo. Cæteræ enim oppositæ ratione istius contrariantur, ut de mediis dictum est. Non ergo uni plura contraria posuit, nec de contrarietate large loquutus est, ut obiiciendo dicebatur. The answer to the third difficulty is the following. Since there is no other opposition but contrariety between opinions pertaining to each other, Aristotle (since he chose to use limited terms) has been forced to say that one is more contrary than another, which implies that both have opposition of contrariety in respect to a true opinion. However, he determines immediately that only one of them, the negative opinion, is contrary to a true affirmation, when he adds, it is evident that it must be the contrary. What he says, then, is that each, i.e., both negation of the same thing and affirmation of a contrary, is contrary to a true affirmation, and that only one of them, i.e., the negation, is contrary. Both of these statements are true, for both contrarieties are caused by an opposition contrary to the affirmation, as was said, but not uniformly. The opinion of negation is contrary first and per se, the opinion of affirmation of a contrary, secondarily and accidentally, i.e., through another, namely, by reason of the negative opinion, as has already been shown. There is a parallel to this in natural things: both black and red are contrary to white, the former first, the latter reductively, i.e., inasmuch as red is reduced to black in a motion from white to red, as is said in V Physicorum. However, the second statement, i.e., that only one of them, the negation, is contrary, is true simply, for the most distant extremes of one extent are contraries absolutely. Nov,, there are only two extremes of one distance and since between opinions pertaining to each other true affirmation is at one extreme, the remaining extreme must be granted to only one false opinion, i.e., to the one that is most distant from the true opinion. This has been proved to be the negative opinion. Only this one, then, is contrary to that absolutely speaking. Other opposites are contrary by reason of this one, as was said of those in between. Therefore, Aristotle has not posited many opinions contrary to one, nor used contrariety in a broad sense, both of which were maintained by the objector. V. lib. Deinde cum dicit: amplius si etiam etc., probat idem, scilicet quod affirmationi contraria est negatio eiusdem, et non affirmatio contrarii secunda ratione, dicens: si in aliis materiis oportet opiniones se habere similiter, idest, eodem modo, ita quod contrariæ in aliis materiis sunt affirmatio et negatio eiusdem; et hoc, scilicet quod diximus de boni et mali opinionibus, videtur esse bene dictum, quod scilicet contraria affirmationi boni non est affirmatio mali, sed negatio boni. Et probat hanc consequentiam subdens: aut enim ubique, idest, in omni materia, ea quæ est contradictionis altera pars censenda est contraria suæ affirmationi, aut nusquam, idest, aut in nulla materia. Si enim est una ars generalis accipiendi contrariam opinionem, oportet quod ubique et in omni materia uno et eodem modo accipiatur contraria opinio. Et consequenter, si in aliqua materia negatio eiusdem de eodem affirmationi est contraria, in omni materia negatio eiusdem de eodem contraria erit affirmationi. Deinde intendens concludere a positione antecedentis, affirmat antecedens ex sua causa, dicens quod illæ materiæ quibus non inest contrarium, ut substantia et quantitas, quibus, ut in prædicamentis dicitur, nihil est contrarium. De his quidem est per se falsa ea, quæ est opinioni veræ opposita contradictorie, ut qui putat hominem, puta Socratem non esse hominem, per se falsus est respectu putantis, Socratem esse hominem. Deinde affirmando ipsum antecedens formaliter, directe concludit intentum a positione antecedentis ad positionem consequentis dicens: si ergo hæ, scilicet, affirmatio et negatio in materia carente contrario, sunt contrariæ, et omnes aliæ contradictiones contrariæ censendæ sunt. When Aristotle says, Further, if this necessarily holds in a similar way in till other cases it would seen that what we have said is correct, etc., he gives the second argument to prove that the negation of the same thing is contrary to the affirmation, and not the affirmation of a contrary. If opinions are necessarily related in a similar way, i.e., in the same way, in other matter, that is, in such a way that affirmation and negation of the same thing are contraries in other matter, it would seem that what we have said about the opinions of that which is good and that which is evil is correct, i.e., that the contrary of the affirmation of that which is good is not the affirmation of evil but the negation of good. He proves this consequence when he adds: for the opposition of contradiction either holds everywhere or nowhere, i.e., in every matter one part of a contradiction must be judged contrary to its affirmation—or never, i.e., in no matter. For if there is a general art which deals with contrary opinions, contrary Opinions must be taken everywhere and in every matter in one and the same mode. Consequently, if in any matter, negation of the same thing of the same thin- is the contrary of the affirmation, then in all matter negation of the same thing of the same thing will be the contrary of the affirmation. Since he intends in his proof to conclude from the position of the antecedent, Aristotle affirms the antecedent through its cause: in matter in which there is not a contrary, such as substance and quantity, which have no contraries, as is said in the Predicamcnta [Categ.], the one contradictorily opposed to the true opinion is per se false. For example, he who thinks that man, for instance Socrates, is not man, is per se mistaken with regard to one who thinks that Socrates is man. Then he affirms the antecedent formally and concludes directly from the position of the antecedent to the position of the consequent. If then these, namely, affirmation and negation in matter which lacks a contrary, are contraries, all other contradictions must be judged to be contraries. Deinde cum dicit: amplius similiter etc., probat idem tertia ratione, quæ talis est: sic se habent istæ duæ opiniones de bono, scilicet, bonum est bonum, et, bonum non est bonum, sicut se habent istæ duæ de non bono, scilicet, non bonum non est bonum, et, non bonum est bonum. Utrobique enim salvatur oppositio contradictionis. Et primæ utriusque combinationis sunt veræ, secundæ autem falsæ. Unde proponens hanc maiorem quoad primas veras utriusque combinationis ait: similiter se habet opinio boni, quoniam bonum est, et non boni quoniam non est bonum. Et subdit quoad secundas utriusque falsas: et super has opinio boni quoniam non est bonum, et non boni quoniam est bonum. Hæc est maior. Sed illi veræ opinioni de non bono, scilicet, non bonum non est bonum, contraria non est, non bonum est malum, nec bonum non est malum, quæ sunt de prædicato contrario, sed illa, non bonum est bonum, quæ est eius contradictoria; ergo et illi veræ opinioni de bono, scilicet, bonum est bonum, contraria erit sua contradictoria, scilicet, bonum non est bonum, et non affirmatio contrarii, scilicet, bonum est malum. Unde subdit minorem supradictam dicens: illi ergo veræ opinioni non boni, quæ est dicens quoniam scilicet non bonum non est bonum, quæ est contraria. Non enim est sibi contraria ea opinio, quæ dicit affirmativæ prædicatum contrarium, scilicet, quod non bonum est malum: quia istæ duæ aliquando erunt simul veræ. Nunquam autem vera opinio veræ contraria est. Quod autem istæ duæ aliquando simul sint veræ, patet ex hoc quod quoddam non bonum malum est: iniustitia enim quoddam non bonum est, et malum. Quare contingeret contrarias esse simul veras: quod est impossibile. At vero nec supradictæ veræ opinioni contraria est illa opinio, quæ est dicens prædicatum contrarium negativæ, scilicet, non bonum non est malum, eadem ratione, quia simul et hæ erunt veræ. Chimæra enim est quoddam non bonum, de qua verum est simul dicere quod non est bona, et quod non est mala. Relinquitur ergo tertia pars minoris quod ei opinioni veræ quæ, est dicens quoniam non bonum non est bonum, contraria est ea opinio non boni, quæ est dicens quod est bonum, quæ est contradictoria illius. Deinde subdit conclusionem intentam: quare et ei opinioni boni, quæ dicit bonum est bonum, contraria est ea boni opinio, quæ dicit quod bonum non est bonum, idest, sua contradictoria. Contradictiones ergo contrariæ in omni materia censendæ sunt. Then he says, Again, the opinions of that which is good, that it is good and of that which is not good, that it is not good, are parallel. This begins the third argument to prove the same thing. The two opinions of that which is good, that it is good, and that it is not good, are related in the same way as the two opinions of that which is not good, that it is not good and that it is good; i.e., the opposition of contradiction is kept in both. The first opinion of each combination is true, the second false. Hence with respect to the first true opinions of each combination he proposes this major: Again, the opinions of that which is good, that it is good, and of that which is not good, that it is not good, are parallel. With respect to the second false judgment of each combination he adds: so also are the opinions of that which is good, that it is not good, and of that which is not good, that it is good. This is the major. But the contrary of the true opinion of that which is not good, namely, the true opinion "That which is not good is not good,” is not, "That which is not good is evil,” nor "That which is not good is not evil,” which have a contrary predicate, but the opinion that that which is not good is good, which is its contradictory. Therefore, the contrary of the true opinion of that which is good, namely, the true opinion "That which is good is good,” will also be its contradictory, "That which is good is not good,” and not the affirmation of the contrary "That which is good is evil.” Hence he adds the minor which we have already stated: What, then, would be the contrary of the true opinion asserting that that which is not good is not good? The contrary of it is not the opinion which asserts the contrary predicate affirmatively, "That which is not good is evil,” because these two are sometimes at once true. But a true opinion is never contrary to a true opinion. That these two are sometimes at once true is evident from the fact that some things that are not good are evil. Take injustice; it is something not good, and it is evil. Therefore, contraries would be true at one and the same time, which is impossible. But neither is the contrary of the above true opinion the one asserting the contrary predicate negatively, "That which is not good is not evil,” and for the same reason. These will also be true at the same time. For example, a chimera is something not good, and it is true to say of it simultaneously that it is not good and that it is not evil. There remains the third part of the minor: the contrary of the true opinion that that which is not good is not good is the opinion that it is good, which is the contradictory of it. Then he concludes as he intended: the opinion that a good is not good is contrary to the opinion that a good is good, i.e., its contradictory. Therefore, it must be judged that contradictions are contraries in every matter. 16. Deinde cum dicit: manifestum est igitur etc., declarat determinatam veritatem extendi ad cuiusque quantitatis opiniones. Et quia de indefinitis, et particularibus, et singularibus iam dictum est, eo quod idem evidenter apparet de eis in hac re iudicium (indefinitæ enim et particulares nisi pro eisdem supponant sicut singulares, per modum affirmationis et negationis non opponuntur, quia simul veræ sunt); ideo ad eas, quæ universalis quantitatis sunt se transfert, dicens, manifestum esse quod nihil interest quoad propositam quæstionem, si universaliter ponamus affirmationes. Huic enim, scilicet, universali affirmationi, contraria est universalis negatio, et non universalis affirmatio de contrario; ut opinioni quæ opinatur, quoniam omne bonum est bonum, contraria est, nihil horum, quæ bona sunt, idest, nullum bonum est bonum. Et declarat hoc ex quid nominis universalis affirmativæ, dicens: nam eius quæ est boni, quoniam bonum est, si universaliter sit bonum: idest, istius opinionis universalis, omne bonum est bonum, eadem est, idest, æquivalens, illa quæ opinatur, quidquid est bonum est bonum; et consequenter sua negatio contraria est illa quam dixi, nihil horum quæ bona sunt bonum est, idest, nullum bonum est bonum. Similiter autem se habet in non bono: quia affirmationi universali de non bono reddenda est negatio universalis eiusdem, sicut de bono dictum est. He then says, It is evident that it will make no difference if we posit the affirmation universally, etc. Here he shows that the truth he has determined is extended to opinions of every quantity. The case has already been stated in respect to indefinites, particulars, and singulars. On this point their status is alike, for indefinites and particulars, unless they stand for the same thing, as is the case in singulars, are not opposed by way of affirmation and negation, since they are at once true. Therefore he turns his attention to those of universal quantity. It is evident, he says, that it will make no difference with respect to the proposed question if we posit the affirmations universally, for the contrary of the universal affirmative is the universal negative, and not the universal affirmation of a contrary. For example, the contrary of the opinion that everything that is good is good is the opinion that nothing that is good (i.e., no good) is good. He manifests this by the nominal definition of universal affirmative: for the opinion that that which is good is good, if the good is universal, i.e., the universal opinion "Every good is good,” is the same, i.e., is equivalent to the opinion that whatever is good is good. Consequently, its negation is the contrary I have stated, "Nothing which is good is good,” i.e., "No good is good.” The case is similar with respect to the not good. The universal negation of the not good is opposed to the universal affirmation of the not good, as we have stated with respect to the good. Deinde cum dicit: quare si in opinione sic se habet etc., revertitur ad respondendum quæstioni primo motæ, terminata iam secunda, ex qua illa dependet. Et circa hoc duo facit: quia primo respondet quæstioni; secundo, declarat quoddam dictum in præcedenti solutione; ibi: manifestum est autem quoniam et cetera. Circa primum duo facit. Primo, directe respondet quæstioni, dicens: quare si in opinione sic se habet contrarietas, ut dictum est; et affirmationes et negationes quæ sunt in voce, notæ sunt eorum, idest, affirmationum et negationum quæ sunt in anima; manifestum est quoniam affirmationi, idest, enunciationi affirmativæ, contraria erit negatio circa idem, idest, enunciatio negativa eiusdem de eodem, et non enunciatio affirmativa contrarii. Et sic patet responsio ad primam quæstionem, qua quærebatur, an enunciationi affirmativæ contraria sit sua negativa, an affirmativa contraria. Responsum est enim quod negativa est contraria. Secundo, dividit negationem contrariam affirmationi, idest, negationem universalem et contradictoriam, dicens: universalis, scilicet, negatio, affirmationi contraria est et cetera. Ut exemplariter dicatur, ei enunciationi universali affirmativæ quæ est, omne bonum est bonum, vel, omnis homo est bonus, contraria est universalis negativa, ea scilicet, nullum bonum est bonum, vel, nullus homo est bonus: singula singulis referendo. Contradictoria autem negatio, contraria illi universali affirmationi est, aut, non omnis homo est bonus, aut, non omne bonum est bonum, singulis singula similiter referendo. Et sic posuit utrunque divisionis membrum, et declaravit. Then he says, If, therefore, this is the case with respect to opinion, and. affirmations and negations in vocal sound are signs of those in the soul, etc. With this he returns to the question first advanced, to reply to it, for he has now completed the second on which the first depends. He first replies to the question, then manifests a point in the solution of a preceding difficulty where he says, It is evident, too, that true cannot be contrary to true, either in opinion or in contradiction, etc. First, then, he replies directly to the question: If, therefore, contrariety is such in the case of opinions, and affirmations and negations in vocal sound are signs of affirmations and negations in the soul, it is evident that the contrary of the affirmation, i.e., of the affirmative, enunciation, is the negation of the same subject. In other words, the negative enunciation of the same predicate of the same subject will be the contrary, and not the affirmative enunciation of a contrary. Thus the response to the first question—whether the contrary of the affirmative enunciation is its negative or the contrary affirmative—is clear. The answer is that the negative is the contrary. Next, he divides negation as it is contrary to affirmation, i.e., into the universal negation, and the contradictory: The universal, i.e., negation, is contrary to the affirmation, etc. In order to state this division by way of example he relates one enunciation to one enunciation: the contrary of the universal affirmative enunciation "Every good is’ good” or "Every man is good,” is the universal negative "No good is good” or "No man is good.” Again, relating one to one, he says that the contradictory negation contrary to the universal affirmation is "Not every man is good” or "Not everything good is good.” Thus he posits both members of the division and makes the division evident. V. lib. Sed est hic dubitatio non dissimulanda. Si enim affirmationi universali contraria est duplex negatio, universalis scilicet et contradictoria, vel uni duo sunt contraria, vel contrarietate large utitur Aristoteles: cuius oppositum supra declaravimus. Augetur et dubitatio: quia in præcedenti textu dixit Aristoteles quod, nihil interest si universalem negationem faciamus ita contrariam universali affirmationi, sicut singularem singulari. Et ita declinari non potest quin affirmationi universali duæ sint negationes contrariæ, eo modo quo hic loquitur de contrarietate Aristoteles. A difficulty arises at this point which we cannot disregard. If the contrary of the universal affirmative is a twofold negation, namely, the universal and the contradictory, either there are two contraries to one affirmation or Aristotle is using contrariety in a broad sense, although we showed that this was not the case apropos of an earlier passage of the text. The difficulty is augmented by the fact that Aristotle said in the passage immediately preceding that it makes no difference if we take the universal negation as contrary to the universal affirmation, i.e., as one of its negations. Hence, the conclusion cannot be avoided that in the mode in which Aristotle speaks of contrariety here, there are two contrary negations to the universal affirmative. C. lib. Ad huius evidentiam notandum est quod, aliud est loqui de contrarietate quæ est inter negationem alicuius universalis affirmativæ in ordine ad affirmationem contrarii de eodem, et aliud est loqui de illamet universali negativa in ordine ad negationem eiusdem affirmativæ contradictoriam. Verbi gratia: sint quatuor enunciationes, quarum nunc meminimus, scilicet, universalis affirmativa, contradictoria, universalis negativa, et universalis affirmatio contrarii, sic dispositæ in eadem linea recta: omnis homo est iustus, non omnis homo est iustus, omnis homo non est iustus, omnis homo est iniustus: et intuere quod licet primæ omnes reliquæ aliquo modo contrarientur, magna tamen differentia est inter primæ et cuiusque earum contrarietatem. Ultima enim, scilicet affirmatio contrarii, primæ contrariatur ratione universalis negationis, quæ ante ipsam sita est: quia non per se sed ratione illius falsa est, ut probavit Aristoteles, quia implicita est. Tertia autem, idest universalis negatio, non per se sed ratione secundæ, scilicet negationis contradictoriæ, contrariatur primæ eadem ratione, quia, scilicet, non est per se falsa illius affirmationis veritate, sed implicita: continet enim negationem contradictoriam, scilicet, non omnis homo est iustus, mediante qua falsificatur ab affirmationis veritate, quia simpliciter et prior est falsitas negationis contradictoriæ falsitate negationis universalis: totum namque compositius et posterius est partibus. Est ergo inter has tres falsas ordo, ita quod affirmationi veræ contradictoria negatio simpliciter sola est contraria, quia est simpliciter respectu illius per se falsa; affirmativa autem contrarii est per accidens contraria, quia est per accidens falsa; universalis vero negatio, tamquam medium sapiens utriusque extremi naturam, relata ad contrarii affirmationem est per se contraria et per se falsa, relata autem ad negationem contradictoriam est per accidens falsa et contraria. Sicut rubrum ad nigrum est album, et ad album est nigrum, ut dicitur in V physicorum. Aliud igitur est loqui de negatione universali in ordine ad affirmationem contrarii, et aliud in ordine ad negationem contradictoriam. Si enim primo modo loquamur, sic negatio universalis per se contraria et per se falsa est; si autem secundo modo, non est per se falsa, nec contraria affirmationi. To clear up this difficulty we must note that it is one thing to speak of the contrariety there is between the negation of some universal affirmative in relation to the affirmation of a contrary, and another to speak of that same universal negative in relation to the negation contradictory to the same affirmative. For example, the four enunciations of which we are now speaking are the universal affirmative, the contradictory, the universal negative, and the universal affirmation of a contrary: "Every man is just,” "Not every man is just,” "No man is just,” "Every man is unjust.” Notice that although all the rest are contrary to the first in some way, there is a great difference between the contrariety of each to the first. The last one, the affirmation of a contrary, is contrary to the first by reason of the preceding universal negation, for it is false, not per se but by reason of that negation, i.e., it is implicative, as Aristotle has already proved. The third, the universal negation, is not per se contrary to the first either. It is contrary by reason of the second, the contradictory negation, and for the same reason, i.e., it is not per se false in respect to the truth of the affirmation but is implicative, for it contains the contradictory negation "Not every man is just,” by means of which it is made false in respect to the truth of the affirmation. The reason for this is that the falsity of the contradictory negation is prior absolutely to the falsity of the universal negation, for the whole is more composite and posterior as compared to its parts. There is, therefore, an order among these three false enunciations. Only the contradictory negation is simply contrary to the true affirmation, for it is per se false simply in respect to the affirmation; the affirmative of the contrary is per accidens contrary, since it is per accidens false; the universal negation, which is a medium partaking of the nature of each extreme, is per se contrary and per se false as related to the affirmation of a contrary, but is per accidens false and per accidens contrary as related to the contradictory negation; just as red in a motion from red to black takes the place of white, and in a motion from red to white takes the place of black, as is said in V Physicorum. Therefore, it is one thing to speak of the universal negation in relation to affirmation of a contrary and another to speak of it in relation to the contradictory negation. If we are speaking of it in the first way, the universal negation is per se contrary and per se false; if in the second, it is not per se false or contrary to the affirmation. Quia ergo agitur ab Aristotele nunc quæstio, inter affirmationem contrarii et negationem quæ earum contraria sit affirmationi veræ, et non agitur quæstio ipsarum negationum inter se, quæ, scilicet, earum contraria sit illi affirmationi, ut patet in toto processu quæstionis; ideo Aristoteles indistincte dixit quod utraque negatio est contraria affirmationi veræ, et non affirmatio contrarii. Intendens per hoc declarare diversitatem quæ est inter affirmationem contrarii et negationem in hoc quod veræ affirmationi contrariantur, et non intendens dicere quod utraque negatio est simpliciter contraria. Hoc enim in dubitatione non est quæsitum, sed illud tantum. Et similiter dixit quod nihil interest si quis ponat negationem universalem: nihil enim interest quoad hoc, quod affirmatio contrarii ostendatur non contraria affirmationi veræ, quod inquirimus. Plurimum autem interesset, si negationes ipsas inter se discutere vellemus quæ earum esset affirmationi contraria. Sic ergo patet quod subtilissime Aristoteles locutus de vera contrarietate enunciationum, unam uni contrariam posuit in omni materia et quantitate, dum simpliciter contrarias contradictiones asseruit. Since Aristotle is now treating the question as to which is the contrary of a true affirmation, affirmation of a contrary or the negation, and not the question as to which of the negations is contrary to a true affirmation—as is clear in the whole progression of the question—bis answer is that both negations are contrary to the true affirmation without distinction, and that affirmation of a contrary is not. His intention is to manifest the diversity between the negation, and the affirmation of a contrary, inasmuch as they are contrary to a true affirmation. He does not intend to say that both negations are contrary simply, for this is not the difficulty in question here, but the former is. With respect to his saying that it makes no difference if we posit the universal negation, the same point applies, for in regard to showing that affirmation of a contrary is not contrary to a true affirmation, which is the question at issue here, it makes no difference which negation is posited. It would make a great deal of difference, however, if we wished to discuss which negation was contrary to a true affirmation. It is evident, then, that Aristotle’s discussion of the true contrariety of enunciations is very subtle, for he has posited one to one contraries in every matter and quantity, and affirmed that contradictions are contraries simply. 21. Deinde cum dicit: manifestum est autem etc., resumit quoddam dictum ut probet illud, dicens manifestum est autem ex dicendis quod non contingit veram veræ contrariam esse, nec in opinione mentali, nec in contradictione, idest, vocali enunciatione. Et causam subdit: quia contraria sunt quæ circa idem opposita sunt; et consequenter enunciationes et opiniones veræ circa diversa contrariæ esse non possunt. Circa idem autem contingit simul omnes veras enunciationes et opiniones verificari, sicut et significata vel repræsentata earum simul illi insunt: aliter veræ tunc non sunt. Et consequenter omnes veræ enunciationes et opiniones circa idem contrariæ non sunt, quia contraria non contingit eidem simul inesse. Nullum ergo verum sive sit circa idem, sive sit circa aliud, est alteri vero contrarium. Et sic finitur expositio huius libri perihermenias. When he says, It is evident, too, that true cannot be contrary to true, either in opinion or in contradiction, etc., he returns to a statement he has already made in order to prove it. It is evident, too, from what has been said, that true cannot be contrary to true, either in opinion or in contradiction, i.e., in vocal enunciation. He gives as the cause of this that contraries are opposites about the same thing; consequently, true enunciations and opinions about diverse things cannot be contraries. However, it is possible for all true enunciations and opinions about the same thing to be verified at the same time, inasmuch as the things signified or represented by them belong to the same thing at the same time; otherwise they are not true. Consequently, not all true enunciations and opinions about the same thing are contraries, for it is not possible for contraries to be in the same thing at the same time. Therefore, no true opinion or enunciation, whether it is about the same thing or is about another is contrary to another. VIO ORDINIS PRÆDICATORUM  S. R.  IN  E. CARDINALIS  COMMENTARIA  RELIQUUM LIBRI SECUNDI PERI HERMENEIAS  AD LECTOREM  Humano: capiti cervicem. nitor. equinam  Addere: da veniam, si nova monstra iuvant.  —H—  LECTIO   (Cano. CarrTANt lect. 1).  ^  DE NUMERO ET HABITUDINE ENUNCIATIONUM IN QUIBUS PRÆDICATUR VERBUM EST  ET SUBIICITUR NOMEN FINITUM UNIVERSALITER SUMPTUM, VEL NOMEN INFINITUM, ET IN QUIBUS  PRÆDICATUR VERBUM: ADIECTIVUM  Ὁμοίως δὲ ἔχει κἂν καθόλου τοῦ ὀνόματος ἦ ἡ κατάφάσις" olov, πᾶς ἐστὶν ἄνθρωπος δίκαιος: ἀπόφασις  τούτου, οὐ πᾶς ἐστὶν ἄνθρωπος δίκαιος: πᾶς ἔστιν  ἄνθρωπος οὐ δίκαιος, οὐ πᾶς ἐστὶν ἄνθρωπος οὐ δίχαιὸς.  Πλὴν οὐχ ὁμοίως τὰς κατοὸ διάμετρον ἐνδέχεται συναληθεύειν: ἐνδέχεται δὲ ποτέ.  Αὗται μὲν οὖν δύο ἀντίκεινται,  ἴλλλαι δὲ δύο πρὸς τὸ οὐχ ἄνθρωπος, ὡς ὑποκείμενόν  τι  προστεθέν- ἔστι δίκαιος οὐκ ἄνθρωπος, οὐχ ἔστι  δίχαιος οὐχ ἄνθρωπος" ἔστιν οὐ δίκαιος οὐχ ἄνθρωπος, οὐχ ἐστιν οὐ δίκαιος οὐχ ἄνθρωπος. '  Πλείους δὲ τούτων οὐχ ἔσονται ἀντιθέσεις.  Αὗται δὲ χωρὶς ἐκείνων αὐταὶ καθ᾽ ἑαυτὰς ἔσονται, ὡς  ὀνόματι τῷ οὐχ ἄνθρωπος χρώμεναι.  "Eg ὅσων δὲ τὸ ἔστι pod ἁρμόττει, olov ἐπὶ τοῦ ὑγιαίνει  καὶ βαδίζει, ἐπὶ τούτων τὸ αὐτὸ ποιεῖ οὕτω. τιθέμενον, ὡς ἂν εἰ τὸ ἔστι προσήπτετο; olov, ὑγιαίνει  à  πᾶς ἄνθρωπος; οὐχ ὑγιαίνει πᾶς ἄνθρωπος, ὑγιαίγει  πᾶς οὐχ ἄνθρωπος, οὐχ ὑγιαίνει πᾶς οὐκ ἄνθρωπος.  Οὐ γάρ ἐστι τὸ οὐ πᾶς ἄνθρωπος λεχτέον' ἀλλὰ τὸ οὔ,  τὴν ἀπόφασιν, τῷ ἄνθρωπος προσθετέον" τὸ γὰρ πᾶς  οὐ τὸ καθόλου σημαίνει, ἀλλ᾽ ὅτι καθόλου.  ᾿  Δῆλον δὲ ἐκ τοῦδε, ὑγιαίνει ἄνθρωπος, οὐχ ὑγιαίνει ἄνθρωπος" ὑγιαίνει οὐχ ἄνθρωπος, οὐχ ὑγιαίνει οὐχ ἄνθρωπος. Ταῦτα γὰρ ἐχείνων διαφέρει τῷ μὴ καθόλου  εἶναι. Ὥστε τὸ πᾶς, ἢ οὐδείς, οὐδὲν ἄλλο προσσημαίνει; ἢ ὅτι χαθόλου τοῦ ὀνόματος ἢ κατάφασιν 7)  ἀπόφασιν:  Τὰ δὲ ἄλλα τὰ αὐτὰ δεῖ προστιθέναι"  Similiter autem se habent, et si universalis nominis sit affirmatio; ut est, omnis homo iustus est; negatio huius,  non omnis est homo iustus, omnis est homo non iustus,  non omnis est homo non iustus.  Sed non similiter angulares contingit veras esse; contingit  autem aliquando.  Hæ igitur duæ oppositæ sunt.  Aliæ  autem duæ ad id quod est, non homo, quasi ad  subiectum aliquod additum; ut, est iustus non homo,  non est iustus non homo; est non iustus non homo,  non  est non iustus non homo.  Plures autem his non erunt oppositæ.  Hæ autem extra illas, ipsæ secundum se erunt, ut nomine  utentes eo, quod est non homo.  In his vero, in quibus, est, non convenit ut in eo. quod  est valere vel ambulare, idem faciunt sic positum, ac  si, est, adderetur, ut, sanus est omnis homo, non sanus  est  nus  omnis homo; sanus est omnis non homo, non sæst  omnis non homo.  Non enim dicendum est, non omnis homo; sed, non, negationem ad id quod est homo addendum est; omnis  enim non universalem significat, sed quoniam universaliter.  Manifestum est autem ex eo quod est, valet homo, non  valet homo; valet non homo, non valet non homo.  Hæc enim ab illis differunt, eo quod universaliter non  sunt. Quare omnis vel nullus nihil significant aliud, nisi  quoniam universaliter de nomine, vel affirmant vel  negant.  Ergo et cætera eadem oportet apponi.   Seq. cap. x. II  ostquam Philosophus α distinxit enunciationes in quibus subiicitur nomen   infinitum non universaliter sumptum, hic  S   Ed. c: indefinitas.    Num. 4.  Num. 8.  intendit  distinguere enunciationes, in  )quibus subiicitur nomen finitum univerCsaliter sumptum. Et circa hoc tria facit:  primo, ponit similitudinem istarum enunciationum ad infinitas supra positas; secundo, ostendit  dissimilitudinem earumdem; ibi: Sed non similiter etc. ;  tertio, concludit numerum oppositionum inter dictas enunciationes; ibi: Hæ duæ igitur  2. Lib. II, lect. ui,  n. 5.  Ammonius.  Porphyrius.   Lect. xi, n. 5,  seq.   Ed. c: quam sura  posuimus.  orphyrius.  et  etc. Dicit ergo primo quod:  similes sunt enunciationes, in quibus est nominis universaliter sumpti affirmatio.  Quoad primum notandum est quod in enunciationibus indefinitis supra positis erant duæ oppositiones et  quatuor enunciationes, et affirmativæ inferebant negativas, et non inferebantur ab eis, ut patet tam in expositione Ammonii, quam Porphyrii. Ita in enunciationibus  in quibus subiicitur nomen finitum universaliter sumptum  inveniuntur duæ oppositiones et quatuor enunciationes:  affirmativæ inferunt negativas et non e contra. Unde  similiter se habent enunciationes supradictæ, sj nominis  in subiecto sumpti fiat affirmatio universaliter. Fierit enim  tunc quatuor enunciationes: duæ de prædicato finito,  scilicet omnis bomo est iustus, et eius negatio quæ est,  non ommis bomo est iustus; et duæ de prædicato infinito, scilicet omnis bomo. est non iustus, et eius negatio quæ  est, non omnis bomo est non iustus. Et quia quælibet affirmatio cum sua negatione unam integrat oppositionem,  duæ efficiuntur oppositiones, sicut et de indefinitis dictum est. Nec obstat quod de enunciationibus universalibus  loquens particulares inseruit; quoniam sicut supra  de  indefinitis  et  suis  negationibus sermonem fecit, ita  nunc de afhrmationibus universalibus sermonem faciens  de earum negationibus est coactus loqui. Negatio siquidem universalis affirmativæ non est universalis negativa,  sed particularis negativa, ut in I libro habitum est  3. Quod autem similis sit consequentia in istis et supradictis indefinitis patet exemplariter. Et ne multa loquendo  res  clara prolixitate obtenebretur, formetur primo figura  de indefinitis, quæ supta posita est in expositione Porphyrii, scilicet ex una parte ponatur affirmativa finita, et  sub ea negativa infinita, et sub ista negativa privativa.  Ex altera parte primo negativa finita, et sub ea affirmativa infinita, et sub ea affirmativa privativa. Deinde sub  illa figura formetur alia figura similis illi universaliter: ponatur scilicet ex una parte universalis affirmativa de prædicato finito, et sub ea particularis negativa de prædicato  infinito, et ad complementum similitudinis sub ista particularis negativa de prædicato privativo; ex altera vero parte  ponatur primo particularis negativa de prædicato infinito,  Quibus ita dispositis, exerceatur consequentia semper in  ista proxima figura, sicut supra in indefinitis exercita est:  sive sequendo expositionem: Ammonii, ut infinitæ se habeant ad finitas, sicut privativæ se habent ad ipsas finitas ;  finitæ autem non se habeant ad infinitas medias, sicut privativæ se habent ad ipsas infinitas: sive sectando expositionem Porphyrii, ut affirmativæ inferant negativas, et  non e contra. Utrique enim expositioni suprascriptæ deserviunt figuræ, ut patet diligenter indaganti. Similiter  ergo se habent enunciationes istæ universales ad indefinitas in tribus, scilicet in numero propositionum, et numero oppositionum, et modo consequentiæ.  4. Deinde cum dicit: Sed non similiter angulares etc., ponit.  ctas  dissimilitudinem inter istas universales et supradiindefinitas, in hoc quod angulares non similiter contingit veras esse. Quæ verba primo exponenda sunt secundum eam, quam credimus esse ad mentem Aristotelis, expositionem; deinde secundum alios. Angulares  ex  enunciationes in utraque figura suprascripta vocat eas  quæ sunt diametraliter oppositæ, scilicet affirmativam  finitam  uno  angulo, et affirmativam infinitam sive  privativam ex alio angulo: et similiter negativam finitam ex uno angulo, et negativam infinitam vel privativam ex alio angulo.  5. Enunciationes ergo in qualitate similes angulares  vocatæ, eo quod angulares, idest diametraliter distant,  dissimilis veritatis sunt apud indefinitas et universales.  Angulares enim indefinitæ tam in diametro affirmationum, quam in diametro negationum possunt esse simul  veræ, ut patet in suprascripta figura indefinitarum. Et  hoc intellige in materia contingenti. Angulares vero in  figura universalium non sic se habent, quoniam angulares secundum diametrum affirmationum impossibile est  esse  simul veras in quacumque materia. Angulares autem secundum diametrum negationum quandoque possunt esse simul veræ, quando scilicet fiunt im materia  contingenti : in materia enim necessaria et remota impossibile est esse ambas veras. Hæc est Boethii, quam veram  credimus, expositio.  6. Herminus autem, Boethio referente, aliter exponit. Licet enim ponat similitudinem inter universales et  indefinitas quoad numerum enunciationum: et. oppositionum, oppositiones. tàmen aliter accipit in universalibus  et  aliter in indefinitis. Oppositiones siquidem. indefinitarum  infinitas  numerat sicut et nos numeravimus, alteram scilicet inter finitas affrmativanr et negativam, et alteram  inter  affirmativam et negativam, quemadmodum nos fecimus. Universalium vero non sic numerat oppositiones, sed alteram sumit inter universalem  affirmativam finitam et particularem negativam finitam,  scilicet.  Ammonius.  Porphyrius.   Cf. lib. 1, lect.  xut, n. 3.  Boethius.  *Edd.  Hermenius, Cf. lib. IL,  lect. n, not. 0. .  omnis bomo est iustus, hon omnis bomo est iustus,  et  sub ea universalis affirmativa de prædicato finito, et,Sub ista universalis affirmativa de prædicáto privativo,  LI  hoc modo:  Figura indefinitarum  Homo est iustus  Homo non est non iustus  Homo non ést iniustus  Homo non est iustus  Homo est non iustüs  Homo est iniustus  Figura universalium  Omnis homo est iustus   Non omnis homo est non iustus  Non omnis homo est non iustus Omnis homo est iüstus  Nón omfis homo est iniustus. — 'Ornnis homo est iniustus  a) Postquam Philosophus. Hoc supplementum ad commentaria s.Thomæ in secundum librum Peri hermeneias, quod Caietanus complevit  anno  1496, impressum est eodem anno in ed. Veneta c Peri hermeneias et Posteriorum analyticorum. Quocirca dd istam exegimus præet  alteram inter eamdem universalem affirmativam fini«tam et universalem affirmativam infinitam, scilicet omnis  bomo est iustus, omnis bomo est non iustus. Inter has enim  est contrarietàs, inter illas vero contradictio. - Dissimilitudinem etiam universalium ad indefinitas aliter ponit. Non  enim nobiscum fundat dissimilitudinem inter angulares  universalium et indefinitarum supra differentia quæ est  inter angulares universalium affirmativas et negativas, sed  supra differentia quæ est inter ipsas universalium angulares inter se ex utraque parte. Format namque talem  figuram, in qua ex una parte sub universali affirmativa  finita, universalis affirmativa infinita est; et ex alia parte  cipue hanc nostram eiusdem supplementi editionem. Editio præfata c  incipit: « Deinde cum dicit: Similiter autem se habent etc., intendit  »  distinguere enunciationes in quibus subiicitur nomen finitum univer»  saliter sumptum, οἵ circa hoc tria facit » etc.  CAP., LECT.   sub particulari negativa finita, particularis negativa infinita ponitur; sicque angulares sunt disparis qualitatis, et  similiter indefinitarum figuram format hoc modo:  ut  89  ly bæ demonstret enunciationes finitas et infinitas  quoad prædicatum sive universales sive indefinitas, et  tunc est sensus, quod hæ enunciationes supradictæ habent duas oppositiones, alteram inter affirmationem fiOmnis homo  est iustus  1  o  E  S  Ξ  8  o  1  Omnis homo est  non iustus  Homo est  justus  ESSEEE ENS:  Homo est  non iustus  Non omnis homo » Contradictoriæ e  fe   s  4?  9,   $  «Ὁ  9  ἢ *,  9  οι  ἊΨ  Contradictoriæ $9  ὸ  .*  EM  ?,  Ὁ  IX  x :  ?  e  ^e,   ]  est iustus  [  o  A  H  E  δ  s  F1  ys r  Non omnis homo  ἴ  est non iustus  Homo non est  justus  Homo non est  non iustus  Quibus ita dispositis, ait in hoc stare dissimilitudinem,  quod angulares indefinitarum mutuo se invicem compellunt ad veritatis sequelam, ita quod unius angularis veritas suæ angularis veritatem infert undecumque incipias.  Universalium vero angulares non se mutuo compellunt ad  *Par.  fo  et Ven.:     Edd. Ven.  c et  1526 omitt. nom,  sed erronee. . Herminus.  IT  ante  EXPERS,  Mrd  ope  UR  Me  RN  EE  NRI  EET  Rer  METCUNERE  veritatem,  sed ex altera parte necessitas deficit illationis.  Si enim incipias ab aliquo universalium et ad suam angularem procedas, veritas universalis non ita potest esse  simul cum veritate angularis, quod compellit eam ad veritatem: quia si universalis est vera, sua universalis contraria erit falsa: non enim possunt esse simul veræ. Et  si ista universalis contraria est falsa, sua contradictoria  particularis, quæ est angularis primæ universalis assumptæ, erit necessario vera: impossibile est enim contradictorias esse simul falsas. Si autem incipias e converso ab  aliqua. particularium et ad suam angularem procedas, veritas particularis ita potest stare cum veritate suæ angularis, quod tamen non necessario infert eius veritatem:  quia licet sequatur: Particularis est vera; ergo sua universalis. contradictoria est falsa; non tamen sequitur ultra :  Ista. universalis contradictoria est falsa; ergo sua universalis contraria, quæ est angularis particularis assumpti,  est vera. Possunt enim contrariæ esse simul falsæ.  7.  Sed. videtur expositio ista deficere ab Aristotelis  mente quoad modum sumendi oppositiones. Non enim intendit hic loqui de oppositione quæ est inter finitas et infinitas, sed de ea quæ est inter finitas inter se, et infinitas  inter se. Si enim de utroque modo oppositionis exponere  yolumus, iam. non duas, sed tres oppositiones invenie-,  mus; primam inter finitas, secundam inter infinitas, tertiam .quam ipse Herminus dixit inter finitam et infinitam. Figura etiam quam formavit, conformis non est ei,  quam Aristoteles in fine I Priorum formavit, ad quam nos  remisit, cum dixit: Hæc igitur quemadmodum in. Resoluloris dictum. est, sic sunt. disposita. In. Aristotelis namque  figura, angulares sunt affirmativæ aflirmativis, et negativæ negativis.  8. Deinde cum dicit: Hæ igitur duæ etc., concludit numerum propositionum. Et potest dupliciter exponi; primo, ut ly bæ demonstret universales, et sic est sensus,  quod. hæ universales finitæ et infinitæ habent duas oppositiones, quas supra declaravimus; secundo, potest exponi  Opp. D. Tnuowar T. I.  nitam  et  eius  negationem, alteram inter affirmationem  infinitam et eius negationem. Placet autem mihi magis  secunda expositio, quoniam brevitas cui Aristoteles studebat, replicationem non exigebat, sed potius quia enunciationes finitas et infinitas quoad prædicatum secundum  diversas quantitates enumeraverat, ad duas oppositiones  omnes reducere, terminando earum tractatum, voluit.  9. Deinde cum dicit: Aliæ autem ad id quod est etc.,  intendit declarare diversitatem enunciationum de tertio  adiacente, in quibus subiicitur nomen infinitum. Et circa  hoc tria facit: primo, proponit et distinguit eas; secundo,  ostendit quod non dantur plures supradictis; ibi: Magis  autem etc.; tertio, ostendit habitudinem istarum ad alias ;  ibi: Hæ autem extra* etc. Ad. evidentiam primi advertendum est tres esse species enunciationum de inesse, in quibus explicite ponitur hoc verbum est.- Quædam sunt, quæ  subiecto sive finito sive infinito nihil habent additum ultra  verbum, ut, homo est, non bomo est.- Quædam vero sunt  quæ subiecto finito habent, præter verbum, aliquid additum sive finitum sive infinitum, ut, bomo est iustus,  bomo est non iustus.- Quædam autem sunt quæ subiecto  infinito, præter verbum, habent aliquid additum sive finitum sive infinitum, ut, non bomo est iustus, non bomo est  non iustus. Et quia de primis iam determinatum est, ideo  de ultimis tractare volens, ait: Aliæ autem sunt, quæ  habent aliquid, scilicet prædicatum, additum supra verbum est, ad id quod est, mon bomo, quasi ad subiectum,  idest ad subiectum infinitum. Dixit autem quasi, quia sicut nomen infinitum deficit a ratione nominis *, ita deficit  a ratione subiecti. Significatum siquidem nominis infiniti  non  proprie substernitur compositioni cum prædicato  quam importat, esf, tertium adiacens. Enumerat quoque  quatuor enunciationes et duas oppositiones in hoc ordine,  sicut et in superioribus fecit. Distinguit etiam istas  ex  finitate vel infinitate prædicata. Unde primo, ponit  oppositiones inter affirmativam et negativam habentes  subiectum infinitum et prædicatum finitum, dicens: Ut,  non bomo est iustus, non bomo non est iustus. Secundo, ponit  oppositionem alteram inter affirmativam et negativam, habentes subiectum infinitum: et prædicatum infinitum, dicens : Ut, non bomo est non iustus, non bomo non est non iustus.  το. Deinde cum dicit: Magis autem. plures etc., ostendit quod non dantur plures oppositiones enunciationum  supradictis. Ubi notandum est quod enunciationes de inesse, in quibus explicite ponitur hoc verbum «est, sive secundum, sive tertium adiacens, de quibus loquimur, non  possunt esse plures quam duodecim supra positæ; et consequenter oppositiones earum secundum affirmationem  et  negationem non. sunt nisi sex. Cum enim in tres ordines divisæ sint enunciationes, scilicet in illas de secundo adiacente, in illas de tertio. subiecti finiti, et in  illas de tertio subiecti infiniti, et in quolibet ordine sint  quatuor enunciationes; fiunt omnes enunciationes duode|  cim, et oppositiones sex. Et quoniam subiectum earum  in quolibet ordine potest quadrupliciter quantificari, scilicet universalitate, particularitate, et singularitate, et indefinitione; ideo istæ duodecim multiplicantur in quadraginta octo. Quater enim duodecim quadraginta octo  faciunt. Nec possibile est plures his imaginari. Et licet  Aristoteles nonnisi viginti harum expresserit, octo in primo  ordine, octo in secundo, et quatuor in tertio, attamen per  eas  reliquas voluit intelligi. Sunt autem sic enumerandæ  et ordinandæ secundum singulos ordines, ut affirmationi  negatio prima ex opposito situetur, ut oppositionis ini2 Num. seq.  Infra num. Π.  Cf. lib.I. lect.iv,  n. 13.  SPEO  9o  tentum clarius videatur. Et sic contra universalem afhrmativam non est ordinanda universalis negativa, sed particularis negativa, quæ est illius negatio; et e converso,  contra particularem affirmativam non est ordinanda particularis negativa, sed universalis negativa quæ est eius  negatio. Ad clarius autem intuendum numerum, coordinandæ sunt omnes, quæ sunt similis quantitatis, simul  in recta linea, distinctis tamen ordinibus tribus supradictis.  Quod ut clarius elucescat, in hac subscripta videatur  figura:  Primus  Socrates est  Quidam homo .est  Homo est  Omnis homo est  —. Socrates  non est  Quidam homo non est  Homo non est  Omnis homo non est  e   Ordo  Non Socrates est  Quidam non homo est  Non homo est  Omnis non homo est  Secundus Ordo  Socrates est iustus  Quidam homo est iustus  Homo. est iustus  Omnis homo est iustus - Socrates non est iustus  Quidam homo non est iustus  Homo non est iustus   -Socrates est non iustus  Non Socrates non est  Quidam non homo non est  Non homo non est  Omnis non homo non est  Socrates non est non iustus  Quidam homo est non iustus — Quidam homo non est non iustus  Homo est non iustus   Omnis homo non est iustus  Non Socrates est iustus  Quidam non homo est iustus  Non homo est iustus  Omnis non homo est iustus - Non Socrates non est iustus  Quidam non homo non est iustus  Non homo non est iustus Tertius  Omnis homo est non iustus  Ordo  Non Socrates est non iustus    Homo non est non iustus  Omnis homo non est non iustus  Non Socrates non est non iustus  Quidam non homo est non iustus Quidam non homo non est non iustus  Non homo est non iustus    Omnis non homo non est iustus   Quod autem plures his non sint, ex eo patet quod non  contingit pluribus modis variari subiectum et prædicatum penes finitum et infinitum, nec pluribus modis variantur finitum et infinitum subiectum. Nulla enim enunciatio de secundo adiacente potest variari penes prædicatum finitum vel infinitum, sed tantum penes subiectum  quod sufficienter factum apparet. Enunciationes autem de  tertio adiacente quadrupliciter variari possunt, quia aut  sunt subiecti et prædicati finiti, aut utriusque infiniti,  aut subiecti finiti et prædicati infiniti, aut subiecti infiniti et prædicati finiti. Quarum nullam prætermissam  esse superior docet figura.  11. Deinde cum dicit: Hæ autem extra illas etc., ostendit habitudinem harum quas in tertio ordine numeravimus ad illas, quæ in secundo sitæ sunt ordine, et dicit  quod istæ sunt extra illas, quia non sequuntur ad illas,  nec e converso. Et rationem assignans subdit: Ut momine  ulenles 60 quod est non bomo, idest ideo istæ sunt extra  illas, quia istæ utuntur nomine infinito loco nominis,  dum omnes habent subiectum infinitum. Notanter autem  dixit enunciationes subiecti infiniti uti ut nomine, infinito nomine, quia cum subiici in enunciatione proprium  sit nominis, prædicari autem commune nomini et verbo,  omne subiectum enunciationis ut nomen subiicitur.  12. Deinde cum dicit: In bis vero in quibus est etc.,  determinat de enunciationibus in quibus ponuntur verba  adiectiva. Et circa hoc tria facit: primo, distinguit eas; se  Num. 13.  Num. 16.  cundo, respondet cuidam tacitæ quæstioni ; ibi: Non enim  dicendum est etc.; tertio, concludit earum conditiones; ibi:  Ergo et cætera eadem etc. Ad evidentiam primi resumendum  est, quod inter enunciationes in quibus ponitur es? secundum adiacens, et eas in quibus ponitur es! tertium adiacens talis est differentia quod in illis, quæ sunt de secundo adiacente, simpliciter fiunt oppositiones; scilicet ex  parte subiecti tantum variati per finitum et infinitum; in his  vero, quæ habent est tertium. adiacens dupliciter fiunt oppositiones, scilicet et ex parte prædicati et ex parte subiecti, quia utrumque variari potest per finitum et infinitum. Unde unum ordinem tantum enunciationum de  secundo adiacente fecimus, habentem quatuor enunciationes diversimode quantificatas et duas oppositiones. Enunciationes autem de tertio adiacente oportuit partiri in duos  ordines, quia sunt in eis quatuor oppositiones et octo  enunciationes, ut supra dictum est.- Considerandum quoque est quod enunciationes, in quibus ponuntur verba  adiectiva, quoad significatum æquivalent enunciationibus  Non homo non est non iustus  Omnis non homo est non iustus Omnis non homo non est non iustus  de tertio adiacente, resoluto verbo adiectivo in proprium  participium et es/, quod semper fieri licet, quia in omni  verbo adiectivo clauditur verbum substantivum. Unde idem  significant ista, omnis bomo currit, quod ista, omnis bomo  est  currens. Propter quod Boethius vocat enunciationes  cum verbo adiectivo de secundo adiacente secundum vocem, de tertio autem secundum potestatem, quia potest  resolvi in tertium adiacens, cui æquivalet. Quoad numerum autem enunciationum et oppositionum, enunciationes :  verbi adiectivi formaliter sumptæ non æquivalent illis de  tertio adiacente, sed æquivalent enunciationibus, in quibus  ponitur esf secundum adiacens. Non possunt enim fieri  oppositiones dupliciter in enunciationibus adiectivis, scilicet ex parte subiecti et prædicati, sicut fiebant in substantivis de tertio adiacente, quia verbum, quod prædicatur  in adiectivis, infinitari non potest. Sed oppositiones adiectivarum fiunt simpliciter, scilicet ex parte subiecti tantum variati per infinitum et finitum diversimode quantificati, sicut fieri didicimus supra in enunciationibus substantivis de secundo adiacente, eadem ducti ratione, quia  præter verbum nulla est affirmatio vel negatio *, sicut præter nomen esse potest. Quia autem in præsenti tractatu non de significalionibus, sed de mumero enunciationum  et  oppositionum sermo intenditur, ideo Aristoteles determinat diversificandas esse enunciationes adiectivas secundum modum, quo distinctæ sunt enunciationes in  quibus ponitur es? secundum adiacens. Et ait quod in his  enunciationibus, in quibus non contingit poni hoc verbum est formaliter, sed aliquod aliud, ut, currit, vel, ambulat, idest in enunciationibus adiectivis, idem faciunt quoad numerum oppositionum et enunciationum sic posita,  scilicet nomen et verbum, ac si est secundum adiacens subiecto nomini adderetur. Habent enim et istæ adiectivæ,  sicut illæ, in quibus ponitur es/, duas oppositiones tantum,  alteram inter finitas, ut, omnis bomo currit, omnis bomo mon  currit, alteram inter infinitas quoad subiectum, ut, omnis  non bomo currit, omnis non bomo mon currit.  Deinde cum dicit: Non enim dicendum est etc., respondet tacitæ quæstioni. Et circa hoc facit duo: primo,  ponit solutionem quæstionis; deinde, probat eam; ibi:  Manifestum est autem* etc. Est ergo quæstio talis: Cur negatio infinitans numquam addita est supra signo universali aut particulari, ut puta, cum vellemus infinitare istam,  omnis bomo currit, cur non sic infinitata est, om omnis  bomo currit, sed sic, omnis non bomo currit? Huic namque quæstioni respondet, dicens quod quia nomen infi*  Cf. lib. I, lect.  vit, n. 9.  Num. 44.  CAP., LECT.   nitabile debet significare aliquid universale, vel singulare; omnis autem et similia signa non significant aliquid  universale aut singulare, sed quoniam. universaliter aut  particulariter; ideo non est dicendum, mom ommis bomo,  si infinitare volumus (licet debeat dici, si negare quantitatem enunciationis quærimus), sed negatio infinitans  ad ly homo, quod significat aliquid universale, addenda  est, et dicendum, omnis non bomo.  14. Deinde cum dicit: Manifestum est autem. ex eo quod  est εἴς.» probat hoc quod dictum est, scilicet quod omnis  et similia non significant aliquod universale, sed quoniam  universaliter tali ratione. Illud, in quo differunt enunciationes præcise differentes per habere *et non habere  ly omnis, est non universale aliquod, sed quoniam umi91  particularitatis absolute, sed applicatum termino distributo. Cum enim dico, omnis bomo, ly omnis denotat universitatem applicari illi termino /omo, ita quod Aristoteles dicens quod omnis significat quoniam universaliter,  per ly quoniam insinuavit applicationem universalitatis  importatam in ly ommis in actu exercito, sicut et in T  per  Posteriorum, in. definitione scire applicationem causæ notavit  illud verbum quoniam, dicens: Scire est rem  per causam cognoscere, et quoniam. illius est causa.- Ratio autem  versaliter; sed illud in quo differunt enunciationes præcise  differentes per habere et non habere ly ommis, est  significatum per ly omnis; ergo significatum per ly  ommis est non aliquid universale, sed quoniam universaliter. Minor huius rationis, tacita in textu, ex se clara est.  Id enim in quo, cæteris paribus, habentia a non habentibus aliquem terminum differunt, significatum est illius  termini. Maior vero in littera exemplariter declaratur sic.  Illæ  οὐ  τὸ.  νιν.  OG  REIR  RN  enunciationes, bomo currit, et omnis bomo currit,  præcise differunt ex hoc, quod in una est ly omnis, et  in altera non. Tamen non ita differunt ex hoc, quod una  sit universalis, alia non universalis. Utraque enim habet  subiectum universale, scilicet ly bomo, sed differunt, quia  in ea, ubi ponitur ly omnis, enunciatur de subiecto universaliter, in altero autem. non universaliter. Cum enim  dico, bomo currit, cursum attribuo homini universali, sive  communi, sed non pro tota humana universitate; cum  autem dico, ommis bomo currit, cursum inesse homini  pro omnibus inferioribus significo.- Simili modo declarari potest de tribus aliis, quæ in textu adducuntur,  Scilicet, bomo non currit, respectu suæ universalis universaliter, omnis bomo mon currit: et sic de aliis. Relinquitur ergo, quod, omnis et nullus et similia signa nullum  universale significant, sed tantummodo significant, quoniam universaliter de homine affirmant vel negant.  I$. Notato hic duo: primum est quod non dixit  omnis et nullus significat universaliter, sed quoniam universaliter; secundum est, quod addit, de homine affrmant vel negant.- Primi ratio est, quia signum distributivum non significat modum ipsum universalitatis aut  secundi insinuat differentiam inter terminos categorematicos et syncategorematicos. Illi siquidem ponunt  significata supra terminos absolute; isti autem ponunt '  significata sua supra terminos in ordine ad prædicata. Cum  enim dicitur, bomo albus, ly albus denominat hominem  in seipso absque respectu ad aliquod sibi addendum. Cum  vero  dicitur, ommis bomo, ly omnis etsi hominem distribuat, non tamen distributio intellectum firmat, nisi in  ordine ad aliquod prædicatum intelligatur. Cuius signum  est, quia, cum dicimus, omnis bomo currit, non intendimus  distribuere hominem pro tota sua universitate absolute,  sed in ordine ad cursum. Cum autem dicimus, albus  bomo currit, determinamus hominem in seipso esse album  et non in ordine ad cursum. Quia ergo ommis et nullus,  sicut et alia syncategoremata, nil aliud in enunciatione  faciunt, nisi quia determinant subiectum in ordine ad prædicatum, et hoc sine affirmatione et negatione fieri nequit;  ideo dixit quod nil aliud significant, nisi quoniam universaliter  de  nomine, idest de subiecto, affirmant vel  negant, idest affirmationem vel negationem fieri determinant, ac per hoc a categorematicis ea separavit. Potest  etiam referri hoc quod dixit, affirmant vel negant, ad ipsa  signa, scilicet omnis et nullus, quorum alterum positive  distribuit, alterum removendo.  16. Deinde cum dicit: Ergo et cætera eadem etc., concludit adiectivarum enunciationum conditiones. Dixerat enim  quod adiectivæ enunciationes idem faciunt quoad oppositionum numerum, quod substantivæ de secundo adiacente;  et  hoc declaraverat, oppositionum numero exemplariter  subiuncto. Et quia ad hanc convenientiam sequitur convenientia quoad finitationem prædicatorum, et quoad diversam subiectorum quantitatem, et earum multiplicationem ex ductu quaternarii in seipsum, et si qua sunt huiusmodi enumerata; ideo concludit: Ergo et cætera, quæ in illis  servanda erant, eadem, idest similia istis apponenda sunt.  (Can. CarkTANI lect.).  NONNULLÆ CIRCA EA QUÆ DICTA SUNT DUBITATIONES MOVENTUR AC SOLVUNTUR  ᾿Επεὶ δὲ ἐναντία ἀπόφασίς ἐστι τῇ, ἅπαν. ἐστὶ ζῷον  δίκαιον, σημαίνουσα ὅτι οὐδέν ἐστι ζῷον δίκαιοναὗται μὲν φανερὸν ὅτι οὐδέποτε ἔσονται οὔτε ἀληθεῖς ἅμα οὔτε ἐπὶ τοῦ αὐτοῦ, αἱ δὲ ἀντικείμεναι  ταύταις ἔσονταί ποτε, οἷον, οὐ πᾶν ζῷον δίκαιον,  xai  ἔστι τι ζῷον δίχαιον᾽᾿Ακολουθοῦσι δὲ αὑται, τῇ μὲν πᾶς ἄνθρωπος οὐ δίχαιός  ἐστιν, , οὐδείς ἐστιν ἄνθρωπος δίκαιος: τῇ δὲ ἔστι  τις  ἄνηρωπος δίκαιος, ἀντιχειμένη, ὅτι οὐ πᾶς  ἄνθρωπος ἐστὶν οὐ δίκαιος" ἀνάγκη γὰρ εἶναί τιναΦανερὸν δὲ καὶ ὅτι ἐπὶ μὲν τῶν καθ᾽ ἕχοστον εἰ ἀληθές  ἐρωτηθέντα ἀποφῆσαι, ὅτι καὶ χαταφῆσαι ἀληθέςοἷον, ἄρά γε Σωχράτης σοφός; οὔ. Σωχράτης ἄρα οὐ  σοφός. ᾿Επὶ δὲ τῶν καθόλου οὐχ ἀληθὴς ὁμοίως  λεγομένη: ἀληθὴς δὲ ἀπόφασις, οἷον, ἀρά γε πᾶς  ἄνθρωπος σοφός; οὔ: πᾶς ἄρα ἄνθρωπος οὐ σοφόςτοῦτο γὰρ ψεῦδος: ἀλλὰ τὸ, οὐ πᾶς ἄρα, ἄνθρωπος  σοφός, ἀληθές" αὕτη δέ ἐστιν ἀντικειμένη, ἐχείνη  δὲ ἐναντίαΑἱ  δὲ χατὰ τὰ ἀόριστα ἀντιχείμεναι ὀνόματα καὶ ῥήματαὥσπερ  οἷον ἐπὶ τοῦ μὴ ἄνθρῳπος καὶ μὴ δίκαιοςἀποφάσεις ἄνευ ὀνόματος χαὶ ῥήματος δόξειαν  ἂν εἶναι" οὐχ εἰσὶ δέ. " Acl 12e ἀληθεύειν ἀν ἄγχη   ψεύδεσθαι τὴν ἀπόφασιν δ᾽ εἰπὼν, οὐκ ἄνθρωποςοὐδὲν μᾶλλον τοῦ εἰπόντος, ἄνθρωπος, ἀλλὰ καὶ  ἧττον ἠλήθευχέ τι ἔψευσται, ἐὰν μή τι προστεθῇΣημαίνει δὲ τὸ, ἔστι πᾶς οὐχ ἄνθρωπος δίκαιος, οὐδεμιᾷ ἐκείνων ταὐτόνοὐδὲ ἀντιχειμένη ταύτῃ, οὐχ ἔστι πᾶς οὐκ ἄνθρωπος δίκαιοςτὸ δὲ, πᾶς οὐ δίκαιος οὐχ ἄνθρωπος, τῷ, οὐδεὶς δίκαιος  οὐχ ἄνθρωπος, ταὐτὸν σημαίνειΜετατιθέμενα δὲ τὰ ὀνόματα καὶ τὸ ῥήματα ταὐτὸν  Εἰ  σημαίνει, olov, ἔστι λευχὸς ἄνθρωπος, ἔστιν ἄνθρωπος  λευχόςγὰρ Xj τοῦτό ἐστι, τοῦ αὐτοῦ πλείους ἔσονται ἀποφάσεις" ἀλλ᾽ ἐδέδεικτο, ὅτι μία μιᾶς" τοῦ μὲν γάρἔστι λευκὸς ἄνθρωπος, ἀπόφασις τὸ οὐχ ἔστι λευχὸς  ἄνθρωπος" τοῦ δὲ ἔστιν ἄνθρωπος Acuxóc, εἰ μηὴ   αὐτή ἐστι τῇ, ἔστι λευκὸς ἄνθρωπος, ἔσται ἀπόφασις  ἤτοι τὸ οὐχ ἔστιν οὐχ ἄνθρωπος λευχός, τό, οὐχ  ἔστιν  φασις  ἄνγηρωπος λευκός. ᾿Αλλ ἑτέρα  μέν ἐστιν ἀπότοῦ, ἔστιν οὐχ ἄνθρωπος λευχός" ἑτέρα δὲ  τοῦ, ἔστι λευχὸς ἄνθρωπος" ὥστε ἔσονται δύο μιᾶςὍτιμεὲν οὖν μετατιθεμένου τοῦ ὀνόματος καὶ τοῦ ῥήματος αὐτὴ γίνεται κατάφασις καὶ ἀπόφασις, δῆλον.  enunciationum, hic intendit removere quædam dubia circa prædicta. Et circa hoc  2facit sex secundum numerum. dubiorum,  quæ suis patebunt locis. Quia ergo supra  dixerat quod. in universalibus non similiter contingit angulares esse simul veras, quia affirmativæ angulares non  possunt esse simul veræ, negativæ autem sic; poterat  quispiam dubitare, quæ est causa huius diversitatis. Ideo  nunc illius dicti causam intendit assignare talem, quia,  scilicet,   Cf. lib. I, lect.ix,  n. s et lect. xt,  n.  6.  Cflib.Llec.x,  angulares affirmativæ sunt contrariæ inter se;  contrarias autem in nulla materia contingit esse simul  veras *. Angulares autem negativæ sunt subcontrariæ  illis oppositæ; subcontrarias autem contingit esse simul  veras *. Et circa hæc duo facit: primo, declarat condin. P: CU*C-3- tones contrariarum et subcontrariarum ; secundo, quod  angulares affirmativæ sint contrariæ et quod angulares   Quoniam vero contraria est negatio ei quæ est, omne  animal est iustum, illa quæ significat quoniam, nullum  animal est iustum; hæ quidem manifestum est quoniam  nunquam erunt, neque veræ simul, neque in eodem  ipso; his vero oppositæ erunt aliquando: ut, non omne  animal iustum est, et, aliquod animal iustum est.  Sequuntur vero eam quæ est, omnis homo est non iustus, illa quæ est, nullus homo est iustus; illam vero  quæ est, aliquis homo iustus est, opposita, quoniam,  non  omnis est homo non iustus. Necesse est enim aliquem esse.  Manifestum est autem etiam, quod in singularibus si est verum interrogatum negare, quoniam et affirmare verum  est. Ut, putasne Socrates sapiens est? non. Socrates igitur  non  sapiens est. In universalibus vero non est vera,  quæ similiter dicitur: vera autem negativa est. Ut, putasne omnis homo sapiens est? non; omnis igitur homo  non  sapiens est: hoc enim falsum est: sed, non igitur  omnis homo sapiens est, vera est. Hæc enim opposita  est; illa vero contraria.  Illæ vero secundum infinita contraiacentes sunt nomina vel  verba, ut in eo quod est, non homo, vel, non iustus,  quasi negationes sine nomine et verbo esse videbuntur.  Sed non sunt. Semper enim vel veram esse vel falsam  necesse est negationem; qui vero dixit, non homo, nihil  magis quam qui dicit, homo, sed etiam minus verus vel  falsus fuit, si non aliquid addatur.  Significat autem, est omnis non homo iustus, nulli illarum  idem; nec huic opposita ea quæ est, non est omnis  non homo iustus:  illa vero, quæ est, omnis non iustus non homo est, illi  quæ est, nullus est iustus non homo, idem significat.  Transposita vero nomina et verba idem significant, ut, est  albus homo, et, est homo albus.  Nam si hoc non est, eiusdem multæ erunt negationes;  sed ostensum est, quod una unius est: eius enim quæ  est, est albus homo, negatio est, non est albus homo:  eius vero quæ est, est homo albus, si non eadem est  ei  quæ est, est albus homo, erit negatio, vel ea quæ  est, non est non homo albus, vel ea quæ est, non est  homo albus. Sed altera quidem est negatio eius, quæ  est, est non homo albus; altera vero eius quæ est, est  homo albus. Quare erunt duæ unius. Quod igitur  transposito nomine vel verbo, eadem sit affirmatio vel  negatio, manifestum est.  negativae sint subcontrariæ; ibi: Sequuntur vero etc.Dicit ergo resumendo: quoniam in Primo dictum est quod  enunciatio negativa contraria illi affirmativæ universali,  scilicet, omne animal estiustum, est ista, nullum animal est  iustum ; manifestum est quod istæ non possunt simul,  idest in eodem tempore, meque im eodem ipso, idest de  eodem subiecto esse veræ. His vero oppositæ, idest  subcontrariæ inter se, possunt esse simul veræ aliquando,  scilicet  in  materia contingenti, ut, quoddam animal est  iustum, non omne animal est iustum *.  2. Deinde cum dicit: Sequuntur vero etc., declarat quod  angulares affirmativæ supra positæ sint contrariæ, negativæ vero subcontrariæ. - Et primum quidem ex eo  quod universalis affirmativa infinita et universalis negativa simplex æquipollent; et consequenter utraque earum  est  contraria universali affirmativæ simplici, quæ est  altera angularis. Unde dicit quod hanc universalem nega  Seq. c. x.  Num. seq.  Cf. lib. I, lect   citt.  CAP. X, LECT. IV tivam finitam, wullus bomo est iustus, sequitur æquipollenter illa universalis affirmativa infinita, omnis bomo est non  iustus.  Secundum vero declarat ex eo quod particularis  affirmativa finita et particularis negativa infinita æquipollent. Et consequenter utraque earum est subcontraria particulari negativæ simplici, quæ est altera angularis, ut in  figura supra posita inspicere potes. Unde subdit quod  illam párticularem   affirmativam finitam, aliquis bomo est  iustus, opposita sequitur æquipollenter (opposita intellige non istius particularis, sed illius universalis affirmativæ infinitæ), mom ommis bomo est mom iustus. Hæc  enim est contradictoria eius. Ut autem clare videatur  quomodo supra dictæ enunciationes sint æquipollentes,  formetur figura quadrata, in cuius uno angulo ponatur  universalis negativa finita, et sub ea contradictoria particularis affirmativa finita; ex alia vero parte locetur universalis affirmativa infinita, et sub ea contradictoria particularis  negativa infinita, noteturque contradictio inter  angulares et collaterales inter se, hoc modo:  Nullus homo  T»  "poil  .  est iustus  e  Ξ  2  E  E  d  25  o  Quidam homo  i  est lustus  Omnis homo  Æquivalentes  e  o  C  o  ΝᾺ  .  SU  o  “πᾶ  ὁ  S  ow  [73  Æquivalentes  t  est non justus  e  n  (  T  [i  E"  ξ -  $  E  o  Non omnis homo est non iustus  His siquidem sic dispositis, patet primo ipsarum universalium mutua consequentia in veritate et falsitate, quia  si altera earum est vera, sua angularis contradictoria est  falsa; et si ista est falsa, sua collateralis contradictoria,  quæ est altera universalis, erit vera, et similiter procedit  quoad falsitatem particularium. Deinde eodem modo manifestatur mutua sequela. Si enim altera earum est vera,  sua angularis contradictoria est falsa, ista autem existente  falsa, sua contradictoria collateralis, quæ est altera particularis erit vera; simili quoque modo procedendum est  quoad falsitatem.  3. Sed est hic unum dubium. In I enim Priorum, in  fine, Aristoteles ex proposito determinat non esse idem  iudicium de universali negativa et universali affirmativa  infinita. Et superius in hoc Secundo *, super illo verbo:  Quarum duæ se babent secundum consequentiam, duæ vero  minime, Ammonius, Porphyrius, Boethius et sanctus Thomas  dixerunt quod negativa simplex sequitur affirmativam infinitam, sed non e converso.  Ad  hoc dicendum est, secundum Albertum, quod  negativam finitam sequitur affirmativa infinita subiecto  constante; negativa vero simplex sequitur affirmativam  absolute.  Unde utrumque dictum verificatur, et quod  inter eas est mutua consequentia cum subiecti constantia,  et  SS. Thomas.  Nempe in primo modo primæ  gue eros»  syllogisquod inter eas non est mutua consequentia absolute.  Potest dici secundo, quod supra locuti sumus de infinita  enunciatione quoad suum totalem significatum ad formam  prædicati reductum; et secundum hoc, quia negativa finita est superior affirmativa infinita, ideo non erat mutua  consequentia: hic autem loquimur de ipsa infinita formaliter sumpta. Unde s. Thomas tunc adducendo Ammonii  expositionem dixit, secundum hunc modum loquendi:  negativa simplex, in plus est quam affirmativa infinita.  'Textus vero I Priorum ultra prædicta loquitur de  finita et infinita in ordine ad syllogismum. Manifestum  est autem quod universalis affirmativa sive finita sive  infinita non concluditur nisi in primo primæ. Universalis autem negativa quæcumque concluditur et in secundo primæ, et primo et secundo secundæ.  4. Deinde cum dicit: Manifestum est autem. etc., movet secundum dubium de vario situ negationis, an scilicet  quoad veritatem et falsitatem differat præponere  et postponere negationem. Oritur autem hæc dubitatio,  quia dictum est nunc quod non refert quoad veritatem  si dicatur, ommis bomo est non iustus, aut si dicatur, omis  bomo non est iustus; et tamen in altera postponitur negatio, in altera præponitur, licet multum referat quoad   affirmationem et negationem. Hanc, inquam, dubitationem  solvere  intendens cum distinctione, respondet quod in  singularibus enunciationibus eiusdem veritatis sunt singularis negatio et infinita affirmatio eiusdem, in universalibus autem non est sic.  Si enim est vera negatio ipsius universalis non oportet  quod sit vera infinita affirmatio universalis. Negatio enim  universalis est particularis contradictoria, qua existente  vera, non est necesse suam subalternam, quæ est contraria suæ contradictoriæ esse veram. Possunt enim duæ  contrariæ esse simul falsæ. Unde dicit quod in singularibus enunciationibus manifestum est quod, si est verum  negare interrogatum, idest, si est vera negatio enunciationis singularis, de qua facta est interrogatio, verum etiam  est affirmare, idest, vera erit affirmatio infinita eiusdem  singularis. Verbi gratia: putasne Socrates estsapiens ? Si vera  est ista responsio, z/.9 ; - Socrates igitur non sapiens est, idest,  vera erit ista affirmatio infinita, Socrates est non sapiens.  In universalibus vero non est vera, quæ similiter dicitur,  idest, ex veritate negationis universalis affirmativæ in|  terrogatæ non sequitur vera universalis affirmativa infinita, quæ similis est quoad quantitatem et qualitatem  enunciationi quæsitæ; vera aulem est eius negatio, idest,  sed ex veritate responsionis negativæ sequitur veram esse  eius, scilicet universalis quæsitæ negationem, idest, particularem negativam. Verbi gratia: putasne omnis bomo est  sapiens? Si vera est ista responsio, non; - affirmativa similis interrogatæ quam quis ex hac responsione inferre  intentaret est illa: igitur omnis bomo est non sapiens. Hæc  autem non sequitur ex illa negatione. Falsum est enim  hoc, scilicet quod sequitur ex illa responsione; sed. inferendum est, igitur non ommis bomo sapiens est.- Et ratio  utriusque est, quia hæc particularis ultimo illata est opposita, idest contradictoria illi universali interrogatæ quam  respondens falsificavit; et ideo oportet quod sit vera. Contradictoriarum enim si una est falsa, reliqua est vera. Illa  vero, scilicet universalis affirmativa infinita primo illata,  est  contraria illi eidem universali interrogatæ. Non est  autem opus quod si universalium altera sit falsa, quod  reliqua sit vera. In promptu est autem causa huius diversitatis inter singulares et universales. In singularibus enim  varius negationis situs non variat quantitatem enunciationis; in universalibus autem variat, ut patet. Ideo fit ut  de se patet.  non sit eadem veritas negantium universalem in quarum  altera præponitur, in altera autem postponitur negatio,  ut  5. Deinde cum dicit: ΠΙᾺ vero secundum. infinita. etc.,  solvit tertiam dubitationem, an infinita nomina vel verba  sint negationes. Insurgit autem hoc dubium, quia dietum est quod æquipollent negativa et infinita. Et rursus  dictum est nunc quod non refert in singularibus præponere et postponere negationem: si enim infinitum nomen est negatio, tunc enunciatio, habens subiectum infinitum vel prædicatum, erit negativa et non afhrmativa.  Hanc dubitationem solvit per interpretationem,  probando quod nec nomina nec verba infinita sint negationes, licet videantur. Unde duo circa hoc facit: primo, pro:  ponit solutionem dicens: Illæ vero, scilicet dictiones, conPCT  iraiacenies: verbi gratia: mom bomo, et, bomo non iustus et  iustus.  Vel sic: Illæ vero, scilicet dictiones, secundum infinita, idest secundum infinitorum naturam, iacentes contra  nomina et verba. (utpote quæ removentes quidem nomina  et verba significant, ut som bomo et mon iustus et mon  currit, quæ opponuntur contra ly bomo, ly iustus et ly  currit), illæ, inquam, dictiones infinitæ videbuntur prima  facie  esse  quasi negationes sine nomine et verbo ex eo  quod comparatæ nominibus et verbis contra quæ iacent,  ea  removent, sed non sunt secundum veritatem. Dixit  sine nomine et verbo quia nomen infinitum, nominis natura caret, et verbum infinitum verbi natura non possidet.  Dixit quasi, quia nec nomen infinitum a nominis ratione,  nec verbum infinitum a verbi proprietate omnino semota  sunt.  Unde, si negationés apparent, videbuntur sine nomine et verbo non omnino sed quasi.  Deinde probat distinctiones infinitas non esse negationes tali ratione. Semper est necesse negationem esse veram vel falsam, quia negatio est enunciatio alicuius ab  aliquo; nomen autem infinitum non dicit verum vel fal  sum; igitur dictio infinita non est negatio. - Minorem  declarat, quia. qui dixit, mom bomo, nihil magis de homine dixit quam qui dixit, bomo. Et quoad significatum  quidem clarissimum est: non bomo, namque, nihil addit  supra hominem, imo removet hominem. Quoad veritatis  vero vel falsitatis conceptum, nihil magis profuit qui  dixit, non bomo, quam qui dixit, bomo, si aliquid aliud  non  addatur, imo minus verus vel falsus fuit, idest  magis remotus a veritate et falsitate, qui dixit, wom bomo,  quam qui dixit, homo: quia tam veritas quam falsitas  in  compositione consistit; compositioni autem vicinior  est  dictio finita, quæ aliquid ponit, quam dictio infinita,  quæ nec ponit, nec componit, idest nec positionem nec  compositionem importat.  6. Deinde cum dicit: Significat autem. etc., respondet  quartæ dubitationi, quomodo scilicet intelligatur illud  verbum supradictum de enunciationibus habentibus subiectum infinitum: Hæ autem. extra. illas, ipsæ secundum  se  erunt. Et ait quod intelligitur quantum ad significati  consequentiam, et non solum quantum ad ipsas enunciationes formaliter. Unde duas habentes subiectum infinitum, universalem scilicet affirmativam et universalem negativam adducens, ait quod neutra earum significat idem  alicui illarum, scilicet habentium subiectum finitum. Hæc  enim  universalis  affirmativa, omnis nom bomo est iustus,  nulli habenti subiectum finitum significat idem: non enim  significat idem quod ista, omnis bomo est iustus ; neque quod  ista, omnis bomo est non iustus. Similiter opposita negatio et  universalis negativa habens subiectum infinitum, quæ est  contrarie opposita supradictæ, scilicet omnis non bomo non  est iustus, nulli illarum de subiecto finito significat idem. Et  hoc clarum est ex diversitate subiecti in istis et in illis.  7. Deinde cum dicit: Illa vero quæ est etc., respondet quintæ quæstioni, an scilicet inter enunciationes de  subiecto infinito sit aliqua consequentia. Oritur autem  dubitatio hæc ex eo, quod superius est inter eas ad invicem assignata consequentia. Ait ergo quod etiam inter  istas  est  consequentia. Nam universalis affirmativa de  subiecto et prædicato infinitis et, universalis negativa de  subiecto infinito, prædicato vero finito, æquipollent. Ista  namque, omnis non bomo est mon iustus, idem significat  illi;  cium  nullus non. bomo est iustus. Idem autem est iudide particularibus indefinitis et singularibus similibus supradictis. Cuiuscunque enim quantitatis sint, semper affirmativa de utroque extremo infinita et negativa  subiecti quidem infiniti, prædicati autem finiti, æquipollent, ut facile potes exemplis videre. Unde Aristoteles universales exprimens, cæteras ex illis intelligi voluit.  8. Deinde cum dicit: Transposita vero nomina. etc.,  solvit sextam dubitationem, an propter nominum vel verborum transpositionem varietur enunciationis significatio.  Oritur autem hæc quæstio ex eo, quod docuit transpositionem negationis variare enunciationis significationem.  Aliud enim dixit significare, ommis bomo mon est iustus,  et  aliud, non omnis bomo est iustus. Ex hoc, inquam, dubitatur, an. similiter contingat circa nominum transpositionem, quod ipsa transposita enunciationem varient,  sicut negatio transposita. Et circa hoc duo facit: primo,  ponit solutionem dicens, quod transposita nomina et  verba idem significant: verbi gratia, idem significat, est  albus homo, et, est bomo albus, ubi est transpositio nominum. Similiter transposita verba idem significant, ut, est  albus bomo, et, bomo albus est.  9. Deinde cum dicit: Nam si boc mon est etc., probat  prædictam solutionem ex numero negationum contradictoriarum ducendo ad impossibile, tali ratione. Si hoc non  est, idest si nomina transposita diversificant enunciationem, eiusdem affirmationis erunt duæ negationes; sed  ostensum est in I libro *, quod una tantum est negatio unius affirmationis; ergo a destructione consequentis  ad destructionem antecedentis transposita nomina non  variant enunciationem. Ad probationis autem consequentiæ claritatem formetur figura, ubi ex uno latere locentur  ex  ambæ suprapositæ affirmationes, transpositis nominibus ;  et  altero contraponantur duæ negativæ, similes illis  quoad terminos et eorum positiones. Deinde, aliquantulo  interiecto spatio, sub affirmativis ponatur affirmatio infiniti subiecti, et sub negativis illius negatio. Et notetur  contradictio inter primam affirmationem et duas negationes primas, et inter secundam aflirmationem et omnes  tres  negationes, ita tamen quod inter ipsam et infimam  negationem notetur contradictio non vera, sed imaginaria. Notetur quoque contradictio inter tertiam affirmationem et tertiam negationem inter se. Hoc modo:  Est albus  homo  Est homo  albus  Est non  homo albus  His ita dispositis, probat consequentiam Aristoteles sic.  Illius affirmationis, est albus bomo, negatio est, mom est  albus bomo ; ilius autem secundæ affirmationis, quæ  est, est bomo albus, si ista affirmatio non est eadem illi  .  supradictæ affirmationi, scilicet, est albus bomo, propter   Non est albus - Coníradictoriæ  e  o  C  o cn "  s   nalf  e  bi  7.  dde  Kn  Gontradictoriæ EN “  36  b"  Contradictoriæ homo  Non est homo  albus  Non est non  homo albus  Lect. xir.  CAP.,  nominum transpositionem, negatio erit altera istarum,  scilicet aut, non est non bomo albus, aut, non est bomo albus. Sed utraque habet affirmationem oppositam alia ab  illa assignatam, scilicet, est bomo albus. Nam altera quidem dictarum negationum, scilicet, nom est mon bomo albus, negatio est illius quæ dicit, est mom bomo albus;  alia vero, scilicet, »on est bomo albus, negatio est eius  affirmationis, quæ dicit, est albus bomo, quæ fuit prima  affirmatio. Ergo quæcunque dictarum negationum afferatur contradictoria illi mediæ, sequitur quod sint duæ  unius, idest quod unius negationis sint duæ affirmationes, et quod unius affirmationis sint duæ negationes:  quod est impossibile. Et hoc, ut dictum est, sequitur stante  hypothesi erronea, quod illæ affBrmationes sint propter  nominum transpositionem diversæ.  10.  Adverte hic primo quod Aristoteles per illas duas  negationes, non est non bomo albus, et, non est bomo albus,  sub  disiunctione sumptas ad inveniendam negationem  |   Lect. xi, n. 5  "seq.  e  ΤΡ)  DOR  illius affirmationis, est bomo albus, cæteras intellexit, quasi  diceret: Aut negatio talis affirmationis acceptabitur illa  uæ est vere eius negatio, aut quæcunque extranea negatio ponetur; et quodlibet dicatur, semper, stante hypothesi,  sequitur unius affirmationis esse plures negationes, unam  veræ quæ est contradictoria suæ comparis habentis nomina transposita, et alteram quam tu ut distinctam acceptas, vel falso imaginaris; et e contra multarum affirmationum esse unicam negationem, ut patet in apposita  figura, Ex quacunque enim illarum quatuor incipias, duas  sibi oppositas aspicis. Unde notanter concludit indeterminate: Quare erunt duæ unius. Nota secundo quod Aristoteles contempsit probare quod contradictoria primæ affirmationis sit contradictoria secundæ, et similiter quod contradictoria secundæ affirmationis sit contradictoria primæ. Hoc enim accepit tamquam per se notum, ex eo quod non possunt  simul esse veræ neque simul falsæ, ut manifeste patet  præposito sibi termino singulari. Non stant enim simul  aliquo modo istæ duæ, Socrates est albus bomo, Socrates non  est bomo albus. Nec turberis quod eas non singulares proposuit. Noverat enim supra dictum esse in Primo quæ  LECT.   affirmatio et negatio sint contradictoriæ et quæ non, et  ideo non fuit sollicitus de exemplorum claritate.  Liquet ergo ex eo quod negationes affirmationum de  nominibus transpositis non sunt diversæ quod nec ipsæ  affirmationes sunt diversæ et sic nomina et verba transposita idem significant.  I2.  Occurrit autem dubium circa hoc, quia non videtur verum quod nominibus transpositis eadem sit affirmatio. Non enim valet: omnis bomo est animal; ergo  omne animal est bomo. Similiter, transposito verbo, non  valet: bomo est amimal rationale; ergo bomo animal rationale est, de secundo adiacente. Licet enim nugatio committatur, tamen non sequitur primam.  Ad hoc est dicendum quod sicut in rebus naturalibus  est  duplex transmutatio, scilicet localis, scilicet de loco  ad locum, et formalis de forma ad foit? ita in enunciationibus est duplex transmutatio, situalis scilicet, quando  terminus præpositus postponitur, et e converso, et formalis, quando terminus, qui erat prædicatum efficitur  subiectum, et e converso vel quomodolibet, simpliciter etc.- Et sicut quandoque fit in naturalibus transmutatio  pure localis, puta quando res transfertur de loco  ad locum, nulla alia variatione facta; quandoque autem  fit transmutatio secundum locum, non pura sed cum  variatione formali, sicut quando transit de'loco frigido  ad  locum calidum: ita in enunciátionibus quandoque  fit transmutatio pure situalis, quando scilicet nomen vel  verbum solo situ vocali variatur; quandoque autem fit  transmutatio situalis et formalis simul, sicut contingit  cum  prædicatum fit subiectum, vel cum verbum tertium adiacens fit secundum. - Et quoniam hic intendit Aristoteles de transmutatione nominum et verborum pure situali, ut transpositionis vocabulum præsefert, ideo dixit  quod transposita nomina et verba idem significant, insinuare volens quod, si nihil aliud præter transpositionem  nominis vel verbi accidat in enunciatione, eadem manet  oratio.- Unde patet responsio ad instantias. Manifestum  est namque quod in utraque non sola transpositio fit, sed  transmutatio de subiecto in prædicatum, vel de tertio adiacente in secundum. Et per hoc patet responsio ad similia.  TIUS  (Cann. CargraNr lect, ui).  DE MULTIPLICITATE ENUNCIATIONUM IUXTA QUOSDAM MODOS, QUIBUS NON UNAM,  SED PLURES ESSE CONTINGIT UNAM ENUNCIATIONEM.  ^"  B  Té δὲ ἕν κατὰ πολλῶν πολλὰ καθ᾽ ἑνὸς χαταφάναι  ἀποφάναι, ἐὰν uw ἕν τι τὸ ἐκ τῶν πολλῶν δηλούμενον, οὐχ ἔστι κατάφασις μία οὐδὲ ἀπόφασιςΛέγω δὲ ἕν οὐχ ἐὰν ὄνομα ἕν κείμενον, pm δὲ  ἕν  τι  ἐξ ἐχείνων, olov, ἄνθρωπος ἴσως ἐστὶ καὶ  ζῷον καὶ δίπουν καὶ ἥμερον, ἀλλὰ x«l ἕν τι γίνεται  ἐκ τούτων’ Ex δὲ τοῦ λευχοῦ, xai τοῦ ἀνθρώπουκαὶ τοῦ βαδίζειν, οὐχ ἕν: ὥστε οὔτε ἐὰν ἕν τι x&v.  τούτων καταφήσῃ τις; μία κατάφασις, ἀλλὰ φωνὴ  μὲν μία, καταφάσεις δὲ πολλαί: οὔτε ἐὰν καθἑνὸς  ταῦτα, ἀλλ᾽ ὁμοίως πολλαίΕἰ οὖν ἐρώτησις διαλεχτιχὴ ἀποχρίσεώς ἐστιν αἴτησις) τῆς προτάσεως, θατέρου μορίου τῆς ἀντιφάσεως; δὲ πρότασις ἀντιφάσεως μιᾶς μόριον, οὐκ  ἂν εἴη ἀπόχρισις μία πρὸς ταῦτα" οὐδὲ γὰρ ἐρώτῆσις  μία, οὐδὲ ἐὰν ἀληθήςεἴρηται δὲ ἐν τοῖς Τοπικοῖς περὶ αὐτῶν. "Apa δὲ δῆλον  ὅτι οὐδὲ τὸ τί ἐστιν ἐρώτησίς ἐστι διαλεκτική, Δεῖ  dp δεδόσθαι ix τῆς ἐρωτήσεως ἑλέσθαι, ὁπότερον  βούλεται τῆς ἀντιφάσεως μόριον ἀποφήνασθαι. ᾿Αλλὰ  εἴ  τὸν  ἐρωτῶντα προσδιορίσασθαι, πότερον τόδε  ἐστὶν ἄνθρωπος, οὐ τοῦτο.  jtem enunciationis unius provenientem ex  additione negationis infinitatis, hic intendit  D determinare quid accidat enunciationi ex hoc  quod additur aliquid subiecto vel prædicato tollens eius unitatem. Et circa hoc duo facit: quia     Lect. seq.  Num..  Lect. vri, n. 12  seq.  Porphyrius.  primo, determinat diversitatem earum ; secundo, consequentias earum; ibi: Quoniam vero bæc quidem etc. Circa  primum duo facit: primo, ponit earum diversitatem;  secundo, probat omnes enunciationes esse plures; ibi:  Si ergo dialectica etc.- Dicit ergo quoad primum, resumendo  quod in Primo dictum fuerat *, quod affirmare vel negare  unum de pluribus, vel plura de uno, si ex illis pluribus:  non fit unum, non est enunciatio una affirmativa vel negativa. Et declarando quomodo intelligatur unum debere  esse subiectum aut prædicatum, subdit quod unum dico non  si nomen unum impositum sit, idest ex unitate nominis,  sed ex unitate significati. Cum enim plura conveniunt  in uno nomine, ita quod ex eis non fiat unum illius  nominis significatum, tunc solum vocis unitas est. Cum  autem unum nomen pluribus impositum est, sive partibus subiectivis, sive integralibus, ut eadem significatione  concludat, tunc et vocis et significati unitas est, et enunciationis unitas non impeditur.  2.  Secundum quod subiungit: Ut bomo est fortasse animal et mansuelum et bipes obscuritate non caret. Potest enim  intelligi ut sit exemplem ab opposito, quasi diceret: unum  dico non ex unitate nominis impositi pluribus ex quibus  non fit tale unum, quemadmodum homo est unum quoddam ex animali et mansueto et bipede, partibus suæ definitionis. Et ne quis crederet quod hæ essent veræ definitionis nominis partes, interposuit, fortasse. Porphyrius  autem, Boethio referente et approbante, separat has textus  particulas, dicens quod Aristoteles hucusque declaravit  enunciationem illam esse plures, in qua plura subiicerentur uni, vel de uno prædicarentur plura, ex quibus non  fit unum. In istis autem verbis: Ut bomo est fortasse etc.,   At vero unum de pluribus, vel plura de uno affirmare,  vel negare, si non sit unum aliquid quod ex pluribus  significatur, non est affirmatio neque negatio una. Dico  autem unum, non si unum nomen positum sit, non sit  autem unum aliquid ex illis, ut homo est fortasse et animal et bipes et mansuetum, sed ex his unum fit, ex  albo autem et homine et ambulare, non est unum; quare  nec  si unum aliquid de his affirmet aliquis, erit affirmatio una: sed vox quidem una, affirmationes vero  multæ, nec si de uno ista, sed similiter plures,  Si ergo dialectica interrogatio responsionis est petitio vel  propositionis vel alterius partis contradictionis, propositio vero unius contradictionis est pars, non erit una  responsio ad hæc. Neque enim interrogatio una, nec  si  sit vera.  Dictum est autem de his in Topicis. Simul autem manifestum est, quod nec hoc ipsum, quid est, dialectica interrogatio est. Oportet enim datum esse ex interrogatione  eligere, utram velit contradictionis partem enunciare: sed  oportet interrogantem determinare utrum hoc sit homo,  an  non hoc.  intendit declarare enunciationem aliquam esse plures, in  qua plura ex quibus fit unum subiiciuntur vel prædicantur; sicut cum dicitur, bomo est animal et mansuetum.| et  bipes, copula interiecta, vel morula, ut oratores faciunt.  Ideo autem addidisse aiunt, fortasse, ut insinuaret hoc  contingere posse, necessarium autem non esse.  3. Possumus in eamdem Porphyrii, Boethii et AIberti sententiam incidentes subtilius textum introducere,  ut  quatuor hic faciat.  Bs  Et primo quidem, resumit quæ sit enunciatio in communi dicens: Enunciatio plures est, in. qua unum de pluribus,  vel plura de uno. enunciantur. Si tamen ex illis pluribus non  fit unum, ut in Primo dictum et expositum fuit.  Deinde dilucidat illum terminum de uno, sive unum,  dicens: Dico autem unum, idest, unum nomen voco, non  propter unitatem vocis, sed significationis, ut supradictum est.  Deinde tertio, dividendo declarat, et declarando dividit, quot modis contingit unum nomen imponi pluribus  ex quibus non fit unum, ut ex hoc diversitatem enunciationis multiplicis insinuet. Et ponit duos modos, quorum  prior est, quando unum nomen imponitur pluribus ex  quibus fit unum, non tamen in quantum ex eis fit unum.  Tunc enim, licet materialiter et per accidens loquendo  nomen imponatur pluribus ex quibus fit unum, formaliter  tamen et per se loquendo nomen unum imponitur pluribus, ex quibus non fit unum: quia imponitur eis non  in quantum ex eis est unum, ut fortasse est hoc nomen,  bomo, impositum ad significandum animal et mansuetum  et bipes, idest, partes suæ definitionis, non in quantum  adunantur in unam hominis naturam per modum actus  et  potentiæ, sed ut distinctæ sint inter se actualitates.  Et insinuavit quod accipit partes definitionis ut distinctas  per illam coniunctionem, et per illud quoque adversative  additum: Sed si ex bis unum fit, quasi diceret, cum hoc  tamen stat quod ex eis unum fit. Addidit autem, fortasse,  quia hoc nomen, bomo, non est impositum ad signifi*  Cap. xr.  Porphyrius.  Boethius. Albertus.  Lect. cit.  Ed.  quoque.  c  omittit  CAP. XI, LECT. V  candum partes sui definitivas, ut distinctæ sunt. Sed si  impositum esset aut imponeretur, esset unum nomen  pluribus impositum ex quibus non fit unum. Et quia  idem iudicium est de tali nomine, et illis pluribus; ideo  similiter illæ plures partes definitivæ possunt dupliciter  accipi. Uno modo, per modum actualis et possibilis, et  sic unum faciunt; et sic formaliter loquendo vocantur  plura, ex quibus fit unum, et pronunciandæ sunt continuata oratione, et faciunt enunciationem unam dicendo,  animal rationale mortale currit. Est enim ista una sicut  et  ista, bomo currit. Alio modo, accipiuntur prædictæ  definitionis partes ut distinctæ sunt inter se actualitates, et sic non faciunt unum: ex duobus enim actibus  ut  sic, non fit unum, ut dicitur VII Metaphysicæ ; et  sic faciunt enunciationes plures et pronunciandæ sunt  vel cum pausa, vel coniunctione interposita, dicendo,  bomo est animal et mansuetum. οἱ bipes ; sive, bomo est  animal, mansuetum, bipes, rethorico more. Quælibet enim  istarum est enunciatio multiplex. Et similiter ista, Socrates est bomo, si homo est impositum ad illa, ut distinctæ  Pm  E  WC  acm  οὐ  ORI  οτὔὖὦο  UPS  δ...  δου,  Lect. xit, n. 9.  Num. 8.  RESP  actualitates sunt, significandum. Secundus autem  modus, quo unum nomen impositum est pluribus ex quibus non fit unum, subiungitur, cum dicit: Ex albo autem et bomine. et ambulante etc., idest, alio modo hoc fit,  quando unum nomen imponitur pluribus, ex quibus non  potest fieri unum, qualia sunt: bomo, album, et ambulans. Cum enim ex his nullo modo possit fieri aliqua  una natura, sicut poterat fieri ex partibus definitivis, clare  liquet quod nomen aliquod si eis imponeretur, esset nomen non unum significans, ut in Primo dictum fuit de  hoc nomine, íumica, imposita homini et equo.  4. Habemus ergo enunciationis pluris seu multiplicis  duos modos, quorum, quia uterque fit dupliciter, efficiuntur quatuor modi. Primus est, quando subiicitur vel  prædicatur unum nomen impositum pluribus, ex quibus  fit unum, non in quantum sunt unum; secundus est,  quando ipsa plura ex quibus fit unum, in quantum sunt  distinctæ actualitates, subiiciuntur vel prædicantur; tertius est, quando ibi est unum nomen impositum pluribus  ex quibus non fit unum; quartus est, quando ista plura ex  quibus non fit unum, subiiciuntur vel prædicantur. Et  notato quod cum enunciatio secundum membra divisionis  ilius, qua divisa est, in unam et plures, quadrupliciter  variari poss't, scilicet cum unum de uno prædicatur, vel  unum de pluribus, vel plura de uno, vel plura de pluribus; postremum sub silentio præterivit, quia vel eius  pluralitas de se clara est, vel quia, ut inquit Albertus,  non intendebat nisi de enunciatione, quæ aliquo modo  una est, tractare. Demum concludit totam sententiam,  dicens: Quare nec si aliquis affirmet unum. de bis pluribus,  erit affirmatio una secundum. rem: sed vocaliter quidem erit  una, significative autem non una, sed multæ fient affirmaliones. Nec si e converso de uno ista plura. affrmabuntur, fiet  affirmatio una. Ista namque, bomo est albus, ambulans et  musicus, importat tres affirmationes, scilicet, bomo est albus et est ambulans et est musicus, ut patet ex illius contradictione.  Triplex enim negatio ili opponitur correspondens triplici affirmationi positæ.  5. Deinde cum dicit: Si ergo dialectica etc., probat a  posteriori supradictas enunciationes esse plures. Circa  quod duo facit: primo, ponit rationem ipsam ad hoc probandum per modum consequentiæ; deinde probat antecedens dictæ consequentiæ; ibi: Dictum est autem de  his* etc. Quoad primum talem rationem inducit. Si interrogatio dialectica est petitio responsionis, quæ sit propositio vel altera pars contradictionis, nulli enunciationum  supradictarum interrogative formatæ erit responsio una;  ergo nec ipsa interrogatio est una, sed plures. Cuius raOpp. D. Tnowas T. I.  9y  tionis primo ponit antecedens: Si ergo etc. Ad huius intelligendos terminos nota quod idem sonant enunciatio, interrogatio et responsio. Cum enim dicitur, cælum est  animatum, in quantum enunciat prædicatum de subiecto,  enunciatio vocatur; in quantum autem quærendo proponitur, interrogatio; ut vero quæsito redditur, responsio appellatur. Idem ergo erit probare non esse responsionem  unam, et interrogationem non esse unam, et enunciationem non esse unam. Adverte secundo interrogationem  esse  duplicem. Quædam enim est utram partem contradictionis eligendam proponens; et hæc vocatur dialectica,  quia dialecticus habet viam ex probabilibus ad utramque  contradictionis partem probandam. Altera vero determinatam ad unum responsionem exoptat; et hæc est interrogatio demonstrativa, eo quod demonstrator in unum  determinate tendit. Considera ulterius quod interrogationi  dialecticæ dupliciter responderi potest. Uno modo, consentiendo interrogationi, sive affirmative sive negative;  ut  si quis petat, cælum est animatum? et respondeatur,  est; vel, Deus non movelur? et respondeatur, mon: talis  responsio vocatur propositio. Alio modo, potest responderi interimendo; ut si quis petat, cælum est animatum,  et  respondeatur, non; vel Deus non movetur? et respondeatur, movetur: talis responsio vocatur contradictionis  altera pars, eo quod affirmationi negatio redditur et negationi affirmatio. Interrogatio ergo dialectica est petitio  annuentis responsionis, quæ est propositio, vel contradicentis, quæ est altera pars contradictionis secundum supradictam BOEZIO (vedasi) expositionem.  6. Deinde subdit probationem consequentiæ, cum ait:  Propositio vero unius contradictionis est etc. Ubi notandum  est  quod si responsio dialectica posset esse plures, non  sequeretur quod responsio enunciationis multiplicis non  posset esse dialectica; sed si responsio dialectica non  potest esse nisi una enunciatio, tunc recte sequitur quod  responsio enunciationis pluris, non est responsio dialectica, quæ una est. Notandum etiam quod si enunciatio  aliqua plurium contradictionum pars est, una non esse  comprobatur: una enim uni tantum contradicit. Si autem  unius solum contradictionis pars est, una est eadem ratione, quia scilicet unius affirmationis unica est negatio,  et e converso. Probat ergo Aristoteles consequentiam ex  eo quod propositio, idest responsio dialectica unius contradictionis est, idest una enunciatio est affirmativa vel  negativa. Ex hoc enim, ut iam dictum est, sequitur quod  nullius enunciationis multiplicis sit responsio dialectica,  et  consequenter nec una responsio sit. Nec prætereas  quod cum propositionem, vel alteram partem contradictionis, responsionemque præposuerit dialecticæ interrogationis, de sola propositione subiunxit, quod est una;  quod ideo fecit, quia illius alterius vocabulum ipsum  unitatem præferebat. Cum enim alteram contradictionis  partem audis, unam affirmationem vel negationem statim  intelligis.  Adiunxit autem antecedenti ly ergo, vel insinuans hoc  esse  aliunde sumptum, ut postmodum in speciali explicabit, vel, permutato situ, notam consequentiæ huius inter antecedens et consequens locandam, antecedenti præposuit; sicut si diceretur, si ergo Socrates currit, movetur ;  pro eo quod dici deberet, si Socrates currit, ergo. movetur.  Sequitur deinde consequens: Nom erit una responsio  ad boc ; et infert principalem conclusionem subdens, Quod  neque  una  erit interrogatio etc. Si enim responsio non  potest esse una, nec interrogatio ipsa una erit.  7. Quod autem addidit: Nec si sit vera, eiusmodi est.  Posset aliquis credere, quod licet interrogationi pluri non  possit dari responsio una, quando id de quo quæstio  fit non potest de omnibus illis pluribus affirmari vel neBoethius.  *  TAS    gari (ut cum quæritur, canis est animal? quia non potest  vere de omnibus responderi, est, propter cæleste sidus,  nec vere de omnibus responderi, som est, propter canem  latrabilem, nulla possit dari responsio una); attamen quando id quod sub interrogatione cadit potest vere de omnibus  affirmari aut negari, tunc potest dari responsio una; ut  si II  nec  ipsa quæstio quid est, est interrogatio dialectica:  verbi gratia; si quis quærat, quid est amimal? talis non  quærit dialectice. Deinde subiungit probationem assumpti, scilicet quod ipsum quid est, non est quæstio dialectica; et intendit quod quia interrogatio dialectica optionem respondenti offerre debet, utram velit contradictionis  quæratur, camis est substantia? quia potest vere de  omnibus responderi, esí, quia esse substantiam omnibus canibus convenit, unica responsio dari possit. Hanc  erroneam existimationem removet dicens: Nec si sit vera,  idest, et dato quod responsio data enunciationi multiplici  de omnibus verificetur, nihilominus non est una, quia  unum non significat, nec unius contradictionis est pars, sed  plures responsio illa habet contradictorias, ut de se patet.  8. Deinde cum dicit: Dictum est autem de bis in Topicis etc., probat antecedens dupliciter: primo, auctoritate  eorum quæ dicta sunt in Topicis; secundo, a signo. Et  circa hoc duo facit. Primo, ponit ipsum signum, dicens:  Quod similiter etc., cum auctoritate Topicorum, manifestum  est, scilicet, antecedens assumptum, scilicet quod dialectica  interrogatio est petitio responsionis affirmativæ vel neQuoniam nec ipsum quid est, idest ex eo quod  gativæ.  partem, et ipsa quæstio quid est talem libertatem non  proponit (quia cum dicimus, quid est animal? respondentem ad definitionis assignationem coarctamus, quæ non  solum ad unum determinata est, sed etiam omni parte  contradictionis caret, cum nec esse, nec non esse dicat);  ideo  ipsa quæstio quid est, non est dialectica interrogatio. Unde dicit: Oportet enim ex data, idest ex proposita interrogatione dialectica, hunc respondentem eligere  posse utram velit contradictionis partem, quam contradictionis utramque partem interrogantem oportet determinare, idest determinate proponere, hoc modo: Utrum. boc  animal sit bomo an mon: ubi evidenter apparet optionem  respondenti offerri. Habes ergo pro signo cum quæstio  dialectica petat responsionem propositionis, vel alterius  contradictionis partem, elongationem quæstionis quid est  a  quæstionibus dialecticis.  (Canp. CargTANr lect. 1v)  EX. ALIQUIBUS DIVISIM. PRÆDICATIS DE SUBIECTO SEQUITUR ENUNCIATIO. DE EISDEM  CONIUNCTIM IN EODEM SUBIECTO, EX ALIQUIBUS AUTEM NON SEQUITUR  "Excel δὲ τὰ μὲν κατηγορεῖται συντιθέμενα, ὡς ἕν τὸ πᾶν  κατηγόρημα τῶν χορὶς κατηγορουμένων; τὰ δ᾽ οὔ:  τίς ἡ διαφορά; κατὰ γὰρ τοῦ ἀνθρώπου ἀληθὲς εἰπεῖν καὶ χωρὶς ζῷον, καὶ χωρὶς δίπουν, καὶ ταῦτα  ὡς fv καὶ  ἄνθρωπον, καὶ λευκόν, καὶ ταῦθ᾽ ὡς ἕν.   99  Quoniam vero hæc quidem prædicantur composita, ut ' Seq. c. x.  unum omne prædicatum fiat eorum quæ extra prædicantur, alia vero non; quæ differentia est? De homine enim verum est dicere, εἴ extra animal, et extra  bipes; et hæc ut unum: et, hominem, et, album; et  'AXX  οὐχί; εἰ ὀκυτεὺς καὶ ἀγαθός, xal σκυτεὺς  ἀγαθός.  Εἰ γάρ, ὅτι ἑκάτερον ἀληθές, εἶναι δεῖ καὶ τὸ συνάμφω,  πολλὰ καὶ ἄτοπα ἔσται. Κατὰ γὰρ τοῦ ᾿ἀνθρώπου  καὶ τὸ ἄνθρωπος ἀληθὲς καὶ τὸ λευχόν- ὥστε xal τὸ  «muy. Πάλιν, εἰ τὸ λευκὸν αὐτό, καὶ τὸ ἅπαν, στε  ἔσται ἄνθρωπος λευχὸς λευχός, καὶ τοῦτο εἰς ἄπειgov. Καὶ πάλιν μουσικός, λευχός, βαδίζων" καὶ ταῦτα  πολλάκις πεπλεγμένα εἰς ἄπειρον. "Ect, εἰ ὁ Zoxpdτῆς  τῆς  Σωχράτης καὶ ἄνθρωπος, καὶ Σωχράτης Σωχράἄνθρωπος. Καὶ εἰ ἄνθρωπος, καὶ δίπους" καὶ ἄνθρωπος ἄνθρωπος δίπους" Ὅτι μὲν οὖν, εἴ τις ἁπλῶς  φήσει τὰς συμπλοχοὶς γίνεσθαι, πολλὰ συμβαίνει λέεἰν  Τῶν  ἄτοπα, δῆλον. Ὅπως δὲ θετέον, λέγωμεν νῦν.  αὐτοῦ  δὴ κατηγορουμένων καὶ ἐφ᾽ οἷς χατηγορεῖσθται  συμβαίνει, ὅσα μὲν λέγεται κατὰ συμβεβηκὸς ἢ κατὰ  τοῦ  ἢ  θάτερον xavd θατέρου, ταῦτα οὐχ  ἔσται ἕν, οἷον ἄνθρωπος λευχός ἐστι xxl μουσιχός.,  ἀλλ᾽  οὐχ ἕν τὸ λευκὸν καὶ τὸ μουσικόν" συμβεβηκότα  γὰρ ἄμφω τῷ αὐτῷ. Οὐδ᾽ εἰ τὸ λευκὸν μουσικὸν  ἀληθὲς εἰπεῖν, ὅμως οὐχ ἔσται τὸ μουσικὸν λευκὸν  ἕν  cv  χατὸὰ συμβεβηκὸς γὰρ τὸ μουσικὸν λευχόν"  ὥστε οὐκ ἔσται τὸ λευχὸν μουσικὸν ἕν τι.  Διὸ οὐδ᾽ ὁ σχυτεὺς ἁπλῶς ἀγαθὸς, ἀλλὰ ζῷον δίπουν.  οὐ γὰρ κατὰ συμβεβηκός.  Ἔτι οὐδ᾽ ὅσα ἐνυπάρχει ἐν τῷ ἑτέρῳ. Διὸ οὔτε τὸ λευκὸν πολλάχις, οὔτε ὁ ἄνθρωπος ἄνθρωπος ξῷόν ἐστιν  ἢ δίπουν" ἐνυπάρχει γὰρ ἐν τῷ ἀνθρώπῳ τὸ ζῷον καὶ  τὸ δίπουν.  vá  aJ  yostquam declaravit diversitatem multiplicis  enunciationis, intendit determinare de earum  consequentiis. Et circa hoc duo facit, secundum duas dubitationes quas solvit. Secunda  incipit; ibi: Verum autem est dicere etc. Circa  primum tria facit: primo, proponit quæstionem; secundo  ostendit rationabilitatem quæstionis; ibi: Si enim quoniam etc.; tertio, solvit eam ; ibi: Eorum igitur ** etc. Est  ergo dubitatio prima: Quare ex aliquibus divisim prædicatis de uno sequitur enunciatio, in qua illamet unitæ  prædicantur de eodem, et ex aliquibus non. Unde hæc  diversitas oritur? Verbi gratia; ex istis, Socrates est amimal et est bipes ; sequitur, ergo Socrates est. animal. bipes ;  et similiter ex istis, Socrates est bomo et est albus; sequitur,  ergo Socrates est bomo albus. Ex illis vero, Socrates est bonus,  et.  est.  citbaroedus ; non sequitur, ergo est bonus citbaroedus.  Unde proponens quæstionem inquit: Quoniam vero bæc,  scilicet prædicta, ita prædicantur composita, idest coniuncta, ut unum sit prædicamentum quæ extra prædicantur, idest, ut ex eis extra prædicatis unite fiat prædicatio, alia vero prædicata non sunt talia, quæ est inter  differentia; unde talis innascitur diversitas? Et subdit exempla iam adducta, et ad propositum applicata: quorum  primum continet prædicata ex quibus fit unum per se,  hæc  est  ut  et  unum.  Sed non  si  citharoedus (coriarius)  bonus, etiam citharoedus ('coriarius) bonus.  Si enim quoniam utrunque, verum, esse oportet et simul  utrunque multa inconvenientia erunt. De homine enim  verum est et hominem, et album dicere; quare et  omne. Rursus si album, et omne. Quare erit homo  albus albus; et hoc in infinitum. Et rursus musicus  albus ambulans; et hæc eadem frequenter implicita in  infinitum. Amplius si Socrates, Socrates est, et homo;  et  Socrates Socrates homo; et si homo et bipes, erit  homo homo bipes. Quod igitur si quis simpliciter dicat  complexiones fieri, plurima inconvenientia contingere  manifestum est. Quemadmodum ponendum est nunc  dicimus.  Eorum igitur quæ prædicantur, et de quibus prædicari  accidit quæcumque secundum accidens dicuntur, vel de  eodem, vel alterum de altero, hæc non erunt unum; ut,  homo albus est et musicus; sed non est unum album  et  musicum; accidentia enim sunt utraque eidem. Nec,  si album, musicum verum est dicere, tamen non erit  musicum album unum aliquid: secundum accidens enim  album musicum dicetur; quare non erit album musicum unum aliquid.  Quocirca nec citharoedus (coriarius) bonus simpliciter; sed  animal bipes: non enim sunt secundum accidens.  Amplius nec quæcunque insunt in alio. Quare neque album frequenter dictum, neque homo homo animal est,  vel bipes; insunt enim in homine animal et bipes.  scilicet, animal et bipes, genus et differentia; secundum  autem prædicata ex quibus fit unum per accidens, scilicet, bomo albus; tertium vero prædicata ex quibus neque  unum per se neque unum per accidens inter se fieri sequitur; ut, cilbaroedus et bonus, ut declarabitur.  2.  Deinde cum dicit: Si enim quoniam etc., declarat  veritatem diversitatis positæ, ex qua rationabilis redditur  quæstio: si namque inter prædicata non esset talis diversitas, irrationabilis esset dubitatio. Ostendit autem hoc  ratione ducente ad inconveniens, nugationem scilicet. Et  quia nugatio duobus modis committitur, scilicet explicite et  implicite; ideo primo deducit ad nugationem explicitam,  secundo ad implicitam; ibi: Amplius, si Socrates etc. Ait  ergo quod si nulla est inter quæcumque prædicata differentia, sed de quolibet indifferenter censetur quod quia  alterutrum separatum dicitur, quod utrumque coniunctim  dicatur, multa inconvenientia sequentur. De aliquo enim  homine, puta Socrate, verum est separatim dicere quod,  homo est, et albus est; quare et omne, idest et coniunctim dicetur, Socrates est homo albus. Rursus et de eodem  Socrate potest dici separatim quod, est homo albus, et  quod, est albus; quare et omne, idest, igitur coniunctim  dicetur, Socrates est homo albus albus: ubi manifesta est  nugatio. Rursus si de eodem Socrate iterum dicas sepa100  ratim quod, est homo albus albus, verum dices et congrue  quod est albus, et secundum hoc, si iterum hoc repetes  separatim, a veritate simili non discedes, et sic in infinitum sequetur, Socrates est homo albus, albus, albus in infinitum. Simile quod ostenditur in alio exemplo. Si quis  de Socrate dicat quod, est musicus, albus, ambulans, cum  possit et separatim dicere quod, est musicus, et quod,  est  accidens enumerasset, unico tamen exemplo utrumque  membrum explanavit, ut insinuaret quod distinctio illa  non erat in diversa prædicata per accidens, sed in eadem  diversimode comparata. Album enim et musicum, comparata ad hominem, sub primo cadunt membro; comalbus, et quod, est ambulans; sequetur, Socrates est  musicus, albus, ambulans, musicus, albus, ambulans. Et  quia pluries separatim, in eodem tamen tempore, enunciari potest, procedit nugatio sine fine.  Deinde deducit ad implicitam nugationem, dicens,  cum  de  Socrate vere dici possit separatim quod, est  homo, et quod, est bipes, si coniunctim inferre licet,  sequetur quod, Socrates sit homo bipes. Ubi est implicita nugatio. Bipes enim circumloquens differentiam hominis actu et intellectu clauditur in hominis ratione. Unde  ponendo loco hominis suam rationem (quod fieri licet,  ut  docet Aristoteles II Topicorum), apparebit manifeste  nugatio. Dicetur enim: Socrates est homo, idest, animal  bipes, bipes. Quoniam ergo plurima inconvenientia sequuntur si quis ponat complexiones, idest, adunationes  prædicatorum fieri simpliciter, idest, absque diversitate  aliqua, manifestum est ex dictis. Quomodo autem faciendum est, nunc, idest, in sequentibus dicemus. Et nota  quod iste textus non habetur uniformiter apud omnes  quoad verba, sed quia sententia non discrepat, legat quicunque ut vult.  3. Deinde cum dicit: Eorum igitur etc., solvit propositam quæstionem. Et circa hoc duo facit: primo, respon"  Num. 11.  Num. 7.  det instantiis in ipsa propositione quæstionis adductis;  secundo, satisfacit instantis in probatione positis; ibi:  Amplius nec quæcumque etc. Circa primum duo facit:  primo namque, declarat veritatem ; secundo, applicat ad  propositas instantias; ibi: Quocirca etc. Determinat ergo  dubitationem tali distinctione. Prædicatorum sive subiectorum plurium duo sunt genera: quædam sunt per accidens, quædam per se. Si per accidens, hoc dupliciter  contingit, vel quia ambo dicuntur per accidens de uno  tertio, vel quia alterum de altero mutuo per accidens  prædicatur. Quando illa plura divisim prædicata sunt  per accidens quovis modo, ex eis non sequitur coniunctim prædicatum; quando autem sunt per se, tum ex  eis sequitur coniuncte prædicatum. Unde continuando  se  de  ad præcedentia ait: Eorum. igitur quæ prædicantur, et  quibus prædicantur, idest subiectorum, quæcumque  dicuntur secundum accidens (et per hoc innuit oppositum  membrum, scilicet per se), vel de eodem, idest accidentaliter  concurrunt ad unius tertii denominationem, vel.  alterutrum. de altero, idest accidentaliter mutuo se denominant (et per hoc ponit membra duplicis divisionis),  ba:c, scilicet plura per accidens, mom erunt unum, idest  non inferent prædicationem coniunctam.  4. Et explanat utrumque horum exemplariter. Et primo,  primum, quando scilicet illa plura per accidens dicuntur  de tertio, dicens: Ut si bomo albus est et musicus. divisim.  Sed non est idem, idest non sequitur adunatim, ergo bomo  est  musicus albus. Utraque enim sunt accidentia eidem  tertio.  Deinde explanat secundum, quando solum illa  plura per accidens de se mutuo prædicantur, subdens:  Nec si album. musicum. verum est dicere, idest, et etiamsi  de se invicem ista prædicantur per accidens ratione subiecti in quo uniuntur, ut dicatur, bomo est albus, et est  musicus, el album est musicum, non tamen sequitur quod  album musicum unite prædicetur, dicendo, ergo bomo est  albus musicus. Et causam assignat, quia album dicitur de  musico per accidens, et e converso.  $. Notandum est hic quod cum duo membra per  parata autem inter se, sub secundo. Diversitatenr ergo  comparationis pluralitate membrorum, identitatem autem  prædicatorum unitate exempli astruxit.  6. Advertendum est ulterius, ad evidentiam divisionis  factæ in littera, quod, secundum accidens, potest dupliciter accipi. - Uno modo, ut distinguitur contra perseitatem posterioristicam, et sic non sumitur hic: quoniam  cum dicitur plura prædicata secundum accidens, - aut  ly secundum accidens determinaret coniunctionem inter se,  et  ma  sic manifeste esset falsa regula; quoniam inter priprædicata, animal bipes, seu, animal rationale, est  prædicatio secundum accidens hoc modo (differentia  enim in nullo modo perseitatis prædicatur de genere, et  tamen Aristoteles in textu dicit ea non esse prædicata  per accidens, et asserit quod est optima illatio, est amimal  et bipes, ergo est animal bipes); - aut determinaret coniunctionem illarum ad subiectum, et sic etiam inveniretur falsitas in regula: bene namque dicitur, paries est coloratus, et  est visibilis, et tamen coloratum visibile non per se inest parieti. - Alio modo, accipitur ly secundum accidens, ut distinguitur contra hoc quod dico, ratione sui, seu, non propter  aliud, et sic idem sonat, quod, per aliud: et hoc modo  accipitur hic. Quæcunque enim sunt talis naturæ quod  non ratione sui iunguntur, sed propter aliud, ab illatione  coniuncta deficere necesse est, ex eo quod coniuncta  illatio unum alteri substernit, et ratione sui ea adunata denotat ut potentiam et actum. - Est ergo sensus divisionis,  quod prædicatorum plurium, quædam sunt per accidens,  quædam per se, idest, quædam adunantur inter se ratione  sui, quædam propter aliud. Ea quæ per se uniuntur  inferunt coniunctum, ea autem quæ propter aliud, nequaquam.  7. Deinde cum dicit: Quocirca nec. citbaroedus etc., applicat declaratam veritatem ad partes quæstionis. Et primo, ad secundam partem, quia sclicet non sequitur: est  bonus et est citharoedus; ergo est bonus citharoedus, dicens: Quocirca nec citbaroedus bonus etc.; secundo, ad aliam  partem quæstionis, quare sequebatur: est animal et est  bipes; ergo est animal bipes: et ait: Sed animal bipes etc.  Et subiungit huius ultimi dicti causam, quia, animal bipes,  non sunt prædicata secundum accidens coniuncta inter  se  rum  aut in tertio, sed per se. Et per hoc explanavit altemembrum primæ divisionis, quod adhuc positum  non fuerat explicite. Adverte quod Aristoteles, eamdem  tenens  sententiam de citharoedo et bono et musico et  albo, conclusit quod album et musicum non inferunt  coniunctum prædicatum; ideo nec citharoedus et bonus  inferunt citharoedus bonus simpliciter, idest coniuncte.  Est autem ratio dicti, quia licet musica et albedo dissimiles sint bonitati et arti citharisticæ in hoc, quod bonitas nata est denominare et subiectum tertium, puta hominem et ipsam artem citharisticam (propter quod falsitas  manifeste cernitur, quando dicitur: est bonus et citharoedus; ergo bonus citharoedus ), musica vero et albedo subiectum tertium natæ sunt denominare tantum, et non se  invicem (propter quod latentior est casus cum proceditur:  est albus et est musicus; ergo est musicus albus),  licet, inquam, in hoc sint dissimiles, et propter istam  dissimilitudinem processus Aristotelis minus sufficiens videatur; attamen similes sunt in hoc quod, si servetur  identitas omnimoda prædicatorum quam servari oportet,  si illamet divisa debent inferri coniunctim, sicut musica  non denominat albedinem, neque contra, ita nec bonitas,  de qua fit sermo, cum dicitur, bomo est bonus, denominat  artem citharisticam, neque e converso. Cum enim bonum sit æquivocum, licet a consilio, alia ratione dicitur  de perfectione citharoedi, et alia de perfectione hominis.  Quando namque dicimus, Socrates est bonus, intelligimus  bonitatem moralem, quæ est hominis bonitas simpliciter  (analogum siquidem simpliciter positum sumitur pro potiori); cum autem infertur, citharoedus bonus, non boni101  9. Nec obstat quod album faciat unum per accideüs  cum homine: non enim dictum est quod unitas per accidens aliquorum impedit ex diversis inferre coniunctum,  sed quod unitas per acccidens aliquorum ratione tertii  tantum est illa quæ impedit. Talia enim quæ non sunt  unum per accidens nisi ratione tertii, inter se nullam hatatem moris sed artis prædicas: unde terminorum identitas non salvatur. Sufficienter igitur et subtiliter Aristoteles eamdem de utrisque protulit sententiam, quia eadem  est hæc, et ibi ratio etc.  8. Nec prætereundum est quod, cum tres consequentias  adduxit quæstionem proponendo, scilicet; est animal et  bipes; ergo est animal bipes: et, est homo et albus; ergo  est  homo albus: et, est citharoedus et bonus; ergo est  bonus citharoedus; et duas primas posuerat esse bonas,  tertiam vero non ; huius diversitatis causam inquirere volens, cur solvendo quæstionem nullo modo meminerit  secundæ consequentiæ, sed tantum primæ et tertiæ.  Indiscussum namque reliquit an illa consequentia sit bona -an  ve,  SUB -w  mala. - Et ad hoc videtur mihi dicendum quod ex his  paucis verbis etiam illius consequentiæ naturam insinuavit. Profundioris enim sensus textus capax apparet  cum dixit quod, non sunt unum album et musicum etc., ut  scilicet non tantum indicet quod expositum est, sed etiam  eius causam, ex qua natura secundæ consequentiæ elucescit. Causa namque quare album et musicum non inferunt coniunctam, prædicationem est, quia in prædicatione coniuncta oportet alteram partem alteri supponi,  ut  potentiam actui, ad hoc ut ex eis fiat aliquo. modo  unum, et altera a reliqua denominetur (hoc enim vis  coniunctæ prædicationis requirit, ut supra diximus de  partibus definitionis); album autem et musicum secundum  se  non faciunt unum per se, ut patet, neque unum per  accidens. Licet enim ipsa ut adunantur in subiecto uno  sint unum subiecto per accidens, tamen ipsamet quæ  adunantur in uno, tertio subiecto, non faciunt inter se  unum per accidens: tum quia neutrum informat alterum  (quod requiritur ad unitatem per accidens aliquorum inter  se, licet non in tertio); tum quia non considerata subiecti  unitate, quæ est extra eorum rationes, nulla remanet inter  ea  unitatis causa. Dicens ergo quod album et musicum  non sunt unum, scilicet inter se, aliquo modo, causam  expressit quare coniunctim non infertur ex eis prædicatum. Et quia oppositorum eadem est disciplina, insinuavit  per illamet verba bonitatem illius consequentiæ. Ex eo  enim quod homo et albus se habent sicut potentia et actus,  (et ita albedo informet, denominet atque unum faciat cum  homine ratione sui), sequitur quod ex divisis potest inferri  coniuncta prædicatio; ut dicatur: est bomo et albus; ergo  δὲ bomo albus. Sicut per oppositum dicebatur quod ideo  musicum et album non inferunt coniunctum prædicatum  quia neutrum alterum informabat.  bent unitatem; et propterea non potest inferri coniunctum, ut dictum est, quod unitatem importat. Illa vero  quæ sunt unum per accidens ratione sui, seu inter se, ut,  bomo albus, cum coniuncta accipiuntur, unitate necessaria  non carent, quia inter se unitatem habent. Notanter autem  apposui ly tantum : quoniam si aliqua duo sunt unum per  accidens, ratione tertii subiecti scilicet, sed non tantum ex  hoc habent unitatem, sed etiam ratione sui,ex hoc quod  alterum reliquum informat, ex istis divisis non prohibetur  inferri coniunctum. Verbi gratia, optime dicitur: est quantum et est coloratum; ergo est quantum coloratum: quia  color informat quantitatem.  IO.  Potes  autem credere quod secunda illa consequentia, quam non explicite confirmavit Aristoteles respondendo, sit bona et ex eo quod ipse proponendo  quæstionem asseruit bonam, et ex eo quod nulla istantia  reperitur. Insinuavit autem et Aristoteles quod sola talis  unitas impedit illationem coniunctam, quando dixit quæcunque secundum. accidens dicuntur vel de eodem vel alterutrum. de altero. Cum enim dixit, secundum. accidens de eodem, unitatem eorum ex sola adunatione in tertio posuit  (sola enim hæc per accidens prædicantur de eodem,  ut  dictum est); cum autem addidit, vel alterutrum de altero, mutuam accidentalitatem ponens, ex nulla parte inter se unitatem reliquit. Utraque ergo per accidens adducta prædicata, in tertio scilicet vel alterutrum, quæ impediant illationem coniunctam, nonnisi in tertio unitatem  habent. Deinde cum dicit: Amplius nec etc., satisfacit instantiis in probatione adductis, et in illis in quibus explicita  committebatur nugatio, et in illis in quibus implicita; et  ait quod non solum inferre ex divisis coniunctum non  licet quando prædicata illa sunt per accidens, sed mec  etiam quæcunque insunt im alio: idest, sed nec hoc licet  quando prædicata includunt se, ita quod unum includatur in significato formali alterius intrinsece, sive explicite,  ut  album in albo, sive implicite, ut animal et bipes in  homine. Quare neque album frequenter dictum divisim  infert  coniunctum, neque bomo divisim ab animali vel  bipede enunciatum, animal bipes, coniunctum cum homine infert; ut dicatur, ergo Socrates est bomo bipes, vel animal bomo. Insunt enim in hominis ratione, animal et bipes actu et intellectu, licet implicite. Stat ergo solutio  quæstionis in hoc, quod unitas plurium per accidens in  tertio tantum et nugatio, impediunt ex divisis inferri coniunctum ; et consequenter, ubi neutrum horum inven'tur,  licebit inferre coniunctum.  divisis  ex  quando divisæ sunt simul veræ de eodem etc.  Et  hoc  intellige   vel bipes.  Ed. c: animal   (Can. CargTAN: lect. v)  AN EX ENUNCIATIONE HABENTE PLURA PRÆDICATA CONIUNCTIM INFERRE LICEAT  ENUNCIATIONEM QUÆ EADEM PRÆDICATA DIVISIM CONTINET  ᾿Αληθὲς δέ ἐστιν εἰπεῖν χατὰ τοῦ τινὸς χαὶ ἁπλῶς, οἷον  τὸν τινὰ ἄνθρωπον ἄνθρωπον, 5 τὸν τινὰ λευχὸν ἀνθρωπον ἄνθρωπον. λευκόν: οὐχ ἀεὶ δέ᾽Αλλ᾽  ὅταν μὲν ἐν τῷ προσχειμένῳ τῶν ἀντιχειμένων τι  ἐνυπάρχῃ; ἕπε ται ἀντίφασις, οὐχ ἀληθές, ἀλλὰ  y: 930oc, οἷον τὸν τεθνεῶτα ἄνθρωπον ἄνθρωπον εἰπεῖνὅταν δὲ Un ἐνυπάρχῃ; ἀληθές.  "H ὅταν μὲν ἐνυπάρχῃ, ἀεὶ οὐκ ἀληθές: ὅταν δὲ μὴ ἐνυπάρχῃ, οὐκ ἀεὶ ἀληθές, ὥσπερ, Ὅμηρός ἐστί τι, οἷον  ποιητής" ἄρ᾽ οὖν καὶ ἔστιν, 00;  χατὰ cup ps βηχὸς γὰρκατηγορεῖται τοῦ Ὁμήρου τὸ  ἔστι" ὅτι 12e ποιητής ἐστιν, ἀλλ᾽ οὐ καθ᾽ αὐτὸ κατηγορε εἴται χατὰ τοῦ Ὁμήρου τὸ ἔστινὭστε ἐν ὅσαις κατηγορίαις μήτε ἐναντιότης ἔνε στιν, Hu  λόγοι ἀντ᾽ ὀνομάτων λέγονται; καὶ xa ἑαυτὸ χατηγορῆται; χαὶ μὴ κατὰσυμβεβηκός, ἐπὶ τούτων  τὸ τὶ χαὶ ἁπλῶς ἀληθὲς ἔσται εἰπεῖν.  "  Τὸ δὲ μὴ ὄν, ὅτι δοξαστόν, οὐχ ἀληθὲς εἰπεῖν ὄν τι’  δόξα γὰρ αὐτοῦ οὐχ ἔστιν, ὅτι ἔστιν, ἀλλ᾽ ὅτι οὐκ  i» ὩΣ secundam dubitationem. Et circa hoc tria fa   Num.seq.  Num. .  Num.  Ξ  ys do solvit eam; ibi: Sed quando in adiecto etc.,  tertio, ex hoc excludit quemdam errorem; ibi:  Quod autem non est* etc. Est ergo quæstio: an ex enunciatione habente prædicatum coniunctum, liceat inferre enunciationes dividentes illud coniunctum; et est quæstio: contraria superiori. Ibi enim quæsitum est an ex divisis inferatur coniunctum; hic autem quæritur an ex coniuncto  sequantur divisa. Unde movendo quæstionem dicit: erum  aulem. aliquando est dicere de aliquo et. simpliciter, idest divisim, quod scilicet prius dicebatur coniunctim, ΜῈ quemdam hominemalbum esse bominem, aut quoddam album hominem. album esse, idest ut ex ista, Socrates est. bomo albus,  sequitur divisim, ergo Socrates est bomo, ergo Socrates est albus.  Non autem. semper, idest aliquando autem ex coniuncto  non inferri potest divisim; non enim sequitur, Socrates est  bonus citbaroedus, ergo est bonus. Unde hæc est differentia,  quod quandoque licet et quandoque non. Et adverte quod  notanter  adduxit  exemplum de homine albo, inferendo  utramque partem divisim, ut insinuaret quod intentio  quæstionis est investigare quando ex coniuncto potest  utraque pars divisim inferri, et non quando altera tantum.  2. Deinde cum dicit: Sed quando in adiecto etc., solvit  quæstionem. Et duo facit: primo, respondet parti negativæ  quæstionis, quando scilicet non licet; secundo, ibi:  Quare in quantiscumque etc., respondet parti affirmativæ,  quando scilicet licet. Circa primum considerandum quod  quia dupliciter contingit fieri prædicatum coniunctum, uno  modo ex oppositis, alio modo ex non oppositis, ideo duo  facit: primo, ostendit quod numquam ex prædicato coniuncto ex oppositis possunt inferri eius partes divisim;  secundo, quod nec hoc licet universaliter in prædicato  coniuncto ex non oppositis, ibi: Pel etiam quando etc. Ait  ergo quod quando in termino adiecto inest aliquid de  numero oppositorum, ad quæ sequitur contradictio inter  Verum autem est dicere de aliquo et simpliciter; ut aliquem ' Sea. c. xr.  hominem hominem, aut aliquem album hominem, hohominem album: non autem semper.  Sed quando in adiecto aliquid quidem oppositorum insit,  quod consequitur contradictio, non verum sed falsum  est; ut, hominem mortuum, hominem dicere: quando  autem non insit, verum est.  Aut quando insit quidem, semper non verum est: quando  vero non insit, non semper verum est; ut, Homerus  est  aliquid, ut poeta: utrum igitur est, an ergo etiam  est; non?  Secundum accidens enim prædicatur, est, de Homero;  (quoniam est enim poeta), sed non secundum se prædicatur de Homero ipsum est.  Quare in quantiscunque prædicationibus neque contrarietas,  [aliqua aut nulla oppositio] inest, si definitiones pro nominibus dicantur, et secundum se prædicantur et non secundum accidens, in his aliquid et simpliciter verum  erit dicere.  Quod autem non est, quoniam opinabile est, non est verum  dicere esse aliquid: opinio enim eius non est, quoniam  est, sed quoniam non est.  ipsos terminos, »on verum. est, scilicet inferre divisim, sed  falsum. Verbi gratia cum dicitur, Cæsar est bomo mortuus,  non sequitur, ergo est bomo: quia ly mortuus, adiacens homini, oppositionem habet ad hominem, quam. sequitur  contradictio  inter  hominem et mortuum: si enim est  homo, non est mortuus, quia .non est corpus inanimatum;  et si est mortuus, non est homo, quia mortuum est corpus  inanimatum. Quando autem mon inest, scilicet talis. oppositio, verum est, scilicet inferre divisim. Ratio autem  quare, quando est oppositio in adiecto, non sequitur illatio divisa est, quia alter terminus ex adiecti oppositione  corrumpitur in ipsa enunciatione coniuncta. Corruptum  autem seipsum absque corruptione non infert, quod illatio divisa sonaret.  3. Dubitatur hic primo circa id quod supponitur,  quomodo possit vere dici, Cæsar est bomo mortuus, cum  enunciatio non possit esse vera, in qua duo contradictoria  simul de aliquo prædicantur. Hoc enim est primum principium. Zomo autem et mortuus, ut in littera  dicitur, contradictoriam oppositionem includunt, quia in  homine includitur vita, in mortuo non vita. - Dubitatur  secundo circa ipsam consequentiam, quam reprobat Aristoteles: videtur enim . optima. Cum enim ex enunciatione prædicante duo contradictoria possit utrumque inferri (quia æquivalet copulativæ), aut neutrum, (quia  destruit seipsam), et enunciatio supradicta terminos oppositos contradictorie prædicet, videtur sequi utraque  pars, quia falsum est neutram sequi.  4. Ad hoc simul dicitur quod aliud est loqui de duobus terminis secundum se, et aliud de eis ut unum stat  sub determinatione alterius. Primo namque modo, bomo  et  moriuus, contradictionem inter se habent, et impossibile est quod simul in eodem inveniantur. Secundo autem modo, bomo et mortuus, non opponuntur, quia homo  transmutatus iam per determinationem corruptivam importatam in ly mortuus, non stat pro suo significato secundum se, sed secundum exigentiam termini additi, a  CAP. ,  quo suum significatum distractum est. Ad utrunque autem insinuandum Aristoteles duo dixit, et quod habent  oppositionem quam sequitur contradictio, attendens significata eorum secundum se, et quod etiam ex eis formatur una vera enunciatio cum dicitur, Socrates est bomo moriuus,  attendens coniunctionem eorum alterius corruptivam. Unde patet quid dicendum sit ad dubitationes. Ad  utramque siquidem dicitur, quod non enunciantur duo  contradictoria simul de eodem, sed terminus ut stat sub  distractione *, seu transmutatione alterius,cui secundum se   Ed. c: distinclione.  esset contradictorius.  5. Dubitatur quoque circa id quod ait: /mest aliquid  oppositorum quæ consequitur contradictio; superflue enim videtur addi illa particula, quæ consequitur contradictio. Omnia  enim opposita consequitur contradictio, ut patet discurrendo in singulis; pater enim est non filius, et album non nigrum, et videns non cæcum etc.  Et ad hoc dicendum est quod opposita possunt dupliciter accipi: uno modo formaliter, idest secundum sua  significata; alio modo denominative, seu subiective. Verbi  gratia, pater et filius possunt accipi pro paternitate et  filiatione, et possunt accipi pro eo qui denominatur pater  vel filius. Rursus cum omnis distinctio fiat oppositione  aliqua, ut dicitur in X Metapbysicæ, supponatur omnino  distincta esse opposita. Dicendum ergo est quod, licet ad  omnia opposita seu distincta contradictio sequatur inter  se  formaliter sumpta, non tamen ad omnia opposita sequitur contradictio inter ipsa denominative sumpta. Quamvis enim pater et filius mutuam sui negationem inferant  inter se formaliter, quia paternitas est non filiatio, et filiatio  est non paternitas; in relatione tamen ad denominatum, contradictionem non necessario inferunt. Non  enim sequitur, Socrates est pater; ergo mon est filius; nec e  converso. Ut persuaderet igitur Aristoteles quod non quæcunque opposita colligata impediunt divisam illationem  (quia non illa quæ habent contradictionem annexam formaliter tantum, sed illa quæ,habent contradictionem et  formaliter et secundum rem denominatam), addidit: quæ  consequitur contradictio, in tertio scilicet denominato. Et  usus est satis congrue vocabulo, scilicet, consequitur : contradictio enim ista in tertio est quodammodo extra ipsa  opposita.  6. Deinde cum dicit: Vel etiam quando est etc., declarat quod ex non oppositis in tertio coniunctis secundum unum prædicatum, non universaliter possunt inferri partes divisim. Et primo, hoc proponit quasi emendans quod immediate dixerat, subiungens: Vel etiam quando est, scilicet oppositio inter terminos coniunctos, falsum  est semper, scilicet inferre divisim ; quasi diceret : dixi quod  quando inest oppositio, non verum sed falsum est inferre  divisim; quando autem non inest talis oppositio, verum  est inferre divisim. Vel etiam ut melius dicatur, quod  quando est oppositio, falsum est semper, quando autem  non inest talis oppositio, non semper verum est. Et sic  modificavit supradicta addendo ly semper, et, nom semper.  Et subdens exemplum quod non semper ex non oppositis sequatur divisio, ait: Ut, Homerus est aliquid ut poeta;  ergo eliam. est? Non. Ex hoc coniuncto, est poeta, de Homero enunciato, altera pars, ergo Homerus est, non sequitur; et tamen clarum est quod istæ duæ partes colligatæ, est et poeta, non. habent oppositionem, ad quam  sequitur contradictio. Igitur non semper ex non oppositis coniunctis illatio divisa tenet etc. Deinde cum dicit: Secundum. accidens etc., probat  hoc, quod modo dictum est, ex eo quod altera pars istius  compositi, scilicet, est, in antecedente coniuncto prædicatur  de  Homero secundum accidens, idest ratione alterius, quoniam, scilicet poeta, prædicatur de Homero, et  non prædicatur secundum se ly est de Homero; quod tamen  infertur, cum concluditur: ergo Homerus est. - Considerandum est hic quod ad solvendam illam conclusionem  negativam, scilicet, - non semper ex non oppositis coniunctis  infertur divisim, - sufficit unam instantiam suæ  oppositæ universali affirmativæ afferre. Et hoc fecit Aristoteles adducendo illud genus enunciationum, in quo  altera pars coniuncti est aliquid pertinens ad actum animæ.  Loquimur enim modo de Homero vivente in poematibus suis in mentibus hominum. In his siquidem  enunciationibus partes coniunctæ non sunt oppositæ in  tertio, et tamen non licet inferre utramque partem divisim. Committitur enim fallacia secundum quid ad simpliciter. Non enim valet, Cæsar est laudatus, ergo. est: et  simile  est  de esse in effectu dependente in conservari.  Quomodo autem intelligenda sit ratio ad hoc adducta  ab Aristotele in sequenti particula dicetur. Deinde cum dicit: Quare in quantiscunque etc., respondet parti affirmativæ quæstionis, quando scilicet ex  coniunctis licet inferre divisim. Et ponit duas conditiones  oppositas supradictis debere convenire in unum, ad  hoc ut possit fieri talis consequentia; scilicet, quod nulla  inter partes coniuncti oppositio sit, et quod secundum  se  prædicentur. Unde dicit inferendo ex dictis: Quare in  quantiscunque prædicamentis, idest prædicatis ordine quodam adunatis, meque contrarietas aliqua, in cuius ratione  ponitur contradictio in tertio (contraria enim sunt quæ  mutuo se ab eodem expellunt), aut universaliter nulla oppositio inest, ex qua scilicet sequatur contradictio in tertio, si. definitiones pro. nominibus sumantur. Dixit hoc, quia  licet in quibusdam non appareat oppositio, solis nominibus positis, sicut, bomo mortuus, et in quibusdam appareat, ut, vivum mortuum; hoc tamen non obstante,  si, positis nominum definitionibus loco nominum, oppositio appareat, inter opposita collocamus. Sicut, verbi gra.tia, bomo mortuus, licet oppositionem non præseferat,  tamen si loco hominis et mortui eorum definitionibus  utamur, videbitur contradictio. Dicemus enim corpus animatum rationale, corpus inanimatum irrationale. In quantiscunque, inquam, coniunctis nulla est oppositio, ef secundum se, et non secundum | accidens. prædicantur, in. bis  verum. erit. dicere et. simpliciter, idest divisim quod fuerat  coniunctim enunciatum.  9. Ad evidentiam secundæ conditionis hic positæ,  nota quod ly secumdum se potest dupliciter accipi: uno  modo positive, et sic dicit perseitatem primi, secundi,  universaliter, quarti modi; alio modo negative, et sic  idem sonat quod non per aliud. - Rursus considerandum  est  quod cum Aristoteles dixit de prædicato coniuncto  quod, secundum se prædicetur, ly secundum. se potest ad  tria referri, scilicet, ad partes coniuncti inter se, ad totum  coniunctum respectu subiecti, et ad partes coniuncti respectu subiecti. Si ergo accipiatur ly secumdum se positive, licet non falsus, extraneus tamen a mente Aristotelis reperitur sensus ad quodcunque illorum trium referatur.  Licet  enim valeat, est bomo risibilis, ergo. est  bomo et est risibilis, et, est animal rationale, ergo est animal et est rationale; tamen his oppositæ inferunt similes  consequentias. Dicimus enim, est albus musicus, ergo est  musicus et est. albus: ubi nulla est perseitas, sed est coniunctio per accidens, tam inter partes inter se, quam inter  totum et subiectum, quam etiam inter partes et subiectum. Liquet igitur quod non accipit Aristoteles ly secundum se positive, ex eo quod vana fuisset talis additio, quæ  ab oppositis non facit in hoc differentiam. Ad quid enim  addidit, secundum se, et non, secundum accidens, si tam  illæ quæ sunt secundum se, modo exposito, quam illæ  quæ  sunt secundum accidens ex coniuncto, inferunt di104  visum? - Si vero accipiatur secundum se, negative, idest,  non per aliud, et referatur ad partes coniuncti inter se,  falsa invenitur regula. Nam non licet dicere, est bonus  cilbaroedus ; ergo est. bonus et citlbaroedus ; et tamen ars  citharizandi et bonitas eius sine medio coniunguntur. Et  similiter contingit, si referatur ad totum coniunctum respectu  subiecti, ut in eodem exemplo apparet. Totum  enim hoc, citbaroedus bonus, non propter aliud convenit  homini; et tamen non infert, ut dictum est, divisionem.  Superest ergo ut ad partem coniuncti respectu subiecti  referatur, et sit sensus: quando aliqua coniunctim prædicata, secundum se, idest, non per aliud, prædicantur, idest,  quod utraque pars prædicatur de subiecto non propter  alteram, sed propter seipsam et subiectum, tunc ex conAverroes.  Boethius.  Ed. c: idest, negative.   Ed. c: opinionem.  iuncto infertur divisa prædicatio.  το. Et hoc modo exponunt Averroes et Boethius; et  vera invenitur regula, ut inductive facile manifestari potest, et ratio ipsa suadet. Si enim partes alicuius coniuncti  prædicati ita inhærent subiecto quod neutra propter alteram insit, earum separatio nihil habet quod veritatem  impediat divisarum. Est et verbis Aristotelis consonus  sensus iste. Quoniam et per hoc distinguit inter enunciationes  ex  quibus coniunctum infert divisam prædicationem, et eas quibus hæc non inest consequentia. Istæ  siquidem ultra habentes oppositiones in adiecto, sunt  habentes prædicatum coniunctum, cuius una partium alterius est ita determinatio, quod nonnisi per illam subiectum respicit, sicut apparet in exemplo ab Aristotele adducto, Homerus est poeta. Est siquidem ibi non respicit  Homerum ratione ipsius Homeri, sed præcise ratione  poesis relictæ; et ideo non licet inferre, ergo Homerus  est. Et simile est in negativis. Si quis enim dicat, Socrates  non  est  paries, non licet inferre, ergo Socrates mon est,  eadem ratione, quia esse non est negatum de Socrate,  sed de pariete in Socrate.  11. Et per hoc patet qualiter sit intelligenda ratio in  textu superiore adducta. Accipitur enim ibi, secundum se  negative *, modo hic exposito, et secundum accidens, idest  propter aliud. In eadem ergo significatione est usus ly  secundum. accidens, solvendo hanc et præcedentem quæstionem: utrobique enim intellexit secundum accidens,  idest, propter aliud, coniuncta, sed ad diversa retulit. Ibi  namque ly secundum. accidens determinabat coniunctionem  duorum prædicatorum inter se; hic vero determinat partem coniuncti prædicati in ordine ad subiectum. Unde  ibi, album et musicum, inter ea quæ secundum accidens  sunt, numerabantur; hic autem non.  12. Sed occurrit circa hanc expositionem dubitatio non  parva. Si enim ideo non licet ex coniuncto inferre divisim,  quia altera pars coniuncti non respicit subiectum propter  se, sed propter alteram partem (ut dixit Aristoteles de  ista enunciatione, Homerus est poeta), sequetur quod numquam a tertio adiacente ad secundum erit bona consequentia: quia in omni enunciatione de tertio adiacente, est respicit subiectum propter prædicatum et non propter se etc.  13. Ad huius difficultatis evidentiam, nota primo hanc  distinctionem. Aliud est tractare regulam, quando ex tertio  adiacente  infertur  secundum et quando non, et aliud  quando ex coniuncto fit illatio divisa et quando non. Illa  siquidem est extra propositum, istam autem venamur.  Illa compatitur varietatem terminorum, ista non. Si namque unus terminorum, qui est altera pars coniuncti, secundum significationem seu suppositionem varietur in  separatione, non infertur ex coniuncto prædicato illudmet divisim, sed aliud. - Nota secundo hanc propositionem: Cum ex tertio adiacente infertur secundum, non  servatur identitas terminorum. Liquet ista quoad illum  terminum, es/. Dictum siquidem fuit supra a sancto Thoma *, quod aliud importat est secundum adiacens, et aliud  est tertium adiacens. Illud namque importat actum essendi  simpliciter, hoc autem habitudinem inhærentiæ vel identitatis  prædicati ad subiectum. Fit ergo varietas unius  termini cum ex tertio adiacente infertur secundum, et  consequenter non fit illatio divisi ex coniuncto. Unde  prælucet responsio ad obiectionem, quod, licet ex tertio  adiacente quandoque possit inferri secundum, numquam  tamen ex tertio adiacente licet inferri secundum tamquam  ex  coniuncto divisum, quia inferri non potest divisim,  cuius altera pars ipsa divisione perit. Negetur ergo consequentia obiectionis et ad probationem dicatur quod,  optime concludit quod talis illatio est illicita infra limites  illationum, quæ ex coniuncto divisionem inducunt, de  quibus hic Aristoteles loquitur.  I4. Sed contra hoc instatur. Quia etiam tanquam  ex  per  coniuncto divisa fit illatio, Socrates est albus, ergo est,  locum a parte in modo ad suum totum, ubi non  fit varietas terminorum. Et ad hoc dicitur quod licet  homo albus sit pars in modo hominis (quia nihil minuit  de hominis ratione albedo, sed ponit hominem simpliciter), tamen est album non est pars in modo ipsius est, eo  quod pars in modo est universale cum conditione non  minuente, ponente illud simpliciter. Clarum est autem  quod album minuit rationem ipsius esf, et non ponit  ipsum simpliciter: contrahit enim ad esse secundum quid.  Unde apud philosophos, cum fit aliquid album, non dicitur generari, sed generari secundum quid.  15. Sed instatur adhuc quia secundum hoc, dicendo,  est animal, ergo est, fit illatio divisa per eumdem locum.  Animal enim non minuit rationem ipsius est. - Ad hoc  est  dicendum quod ly est, si dicat veritatem propositionis, manifeste peccatur a secundum quid ad simpliciter.  Si autem dicat actum essendi, illatio est bona, sed non  est  de tertio, sed de secundo adiacente.  16. Potest ulterius dubitari circa principale: quia sequitur, est quantum coloratum, ergo est quantum, et, est. coloratum ; et tamen coloratum respicit subiectum mediante  quantitate: ergo non videtur recta expositio supra adducta. - Ad hoc et similia dicendum est quod coloratum non  ita inest subiecto per quantitatem quod sit eius determinatio et ratione talis determinationis subiectum denominet, sicut bonitas artem citharisticam determinat ; cum di-citur, est citbaroedus bonus; sed potius subiectum ipsum  primo coloratum denominatur, quantum vero secundario  coloratum. dicitur, licet color media quantitate suscipiatur. Unde notanter supra diximus, quod tunc altera pars  coniuncti prædicatur per accidens, quando præcise denominat subiectum, quia denominat alteram partem. Quod  nec in hac, nec in similibus instantiis invenitur  17. Deinde cum dicit: Quod autem non est etc., excludit quorumdam errorem qui, quod "on est, esse tali syllogismo concludere satagebant: Quod est, opinabile est.  Quod non est, est opinabile. Ergo quod non est, est. - Hunc  siquidem processum elidit Aristeteles destruendo primam  propositionem, quæ partem coniuncti in subiecto divisim  prædicat, ac si diceret: est opinabile, ergo est. Unde assumendo subiectum conclusionis illorum ait: Quod autem  non est; et addit medium eorum, quoniam opinabile est; et  subdit maiorem extremitatem, »om est verum dicere, esse  aliquid. Et causam assignat, quia talis opinatio non propterea est, quia illud sit, sed potius quia non est.  pere et im.  Lib. II, lect. 1  (Canp. CareTANt lect. v1)  DE PROPOSITIONIBUS MODALIBUS EARUMQUE INTER SE OPPOSITIONE  Τούτων δὲ διωρισμένων, σχεπτέον ὅπως ἔχουσιν αἱ ἀποφάσεις χαὶ χαταφάσεις πρὸς ἀλλήλας, αἱ τοῦ δυνατὸν  εἶναι καὶ μὴ δυνατόν, χαὶ ἐνδεχόμενον καὶ μὴ  ἐνδεχόμενον, καὶ περὶ τοῦ ἀδυνάτου τε καὶ ἀναγκα(ou*  ἔχει γὰρ ἀπορίας τινάςΕἰ γὰρ τῶν συμπλεκομένων αὗται ἀλλήλαις ἀντίχεινται  ἀντιφάσεις, ὅσαι χατὰ τὸ εἶναι καὶ μὴ εἶναι τάτ*  105  :  His vero determinatis, considerandum est quemadmodum  se se habent negationes et affirmationes ad se invicem;  quæ sunt de possibili esse et non possibili, et de contingenti, et de impossibili, et necessario; habent enim  aliquas dubitationes.  Nam si eorum, quæ corpplectuntur, illæ sunt sibi invicem  oppositæ contradictiones, quæcunque secundum esse  τονται, οἷον τοῦ εἶναι ἄνθρωπον ἀπόφασις τὸ μὴ  εἶναι ἄνθρωπον, οὐ τὸ εἶναι μιὴ ἄνθρωπον, καὶ τοῦ  εἶναι λευκὸν ἄνθρωπον, τὸ, p εἶναι λευκὸν ἄνθρωπονἀλλ᾽ οὐ τὸ εἶναι μὴ λευχὸν ἄνθρωπον" εἰ γὰρ  χατὰ παντὸς κατάφασις ἀπόφασις, τὸ ξύλον  ἔσται ἀληθὲς εἰπεῖν εἶναι μιὴ λευκὸν ἄνθρωπον εἰ δὲ  τοῦτο οὕτως, καὶ ὅσοις τὸ εἶναι μὴ προστίθεται, τὸ  αὐτὸ ποιήσει τὸ ἀντὶ τοῦ εἶναι λεγόμενον, οἷον τοῦἄνθρωπος βαδίζει, οὐ τὸ οὐχ ἄνθρωπος βαδίζει, ἀπόφάσις ἔσται, ἀλλὰ «0, οὐ βαδίζει ἄνθρωπος- οὐδὲν  dg  διαφέρει εἰπεῖν, ἄνθρωπον βαδίζειν, ἄνθρωπον  ζαλζοντα εἶναι. Ὥστε, εἰ οὕτως πανταχοῦ, καὶ τοῦ  υνατὸν εἶναι ἀπόφασις ἔσται τὸ δυνατὸν μὴ εἶναιἀλλ᾽  οὐ τὸ μὴ δυνατὸν εἶναιΔοχεῖ δὲ τὸ αὐτὸ δύνασθαι χαὶ εἶναι καὶ μὴ εἶναι: πᾶν  do τὸ δυνατὸν τέμνεσθαι βαδίζειν, καὶ μὴ βαίζειν xa μὴ τέμνεσϑαι δυνατόν: λόγος δέ, ὅτι ἅπαν  τὸ οὕτω δυνατὸν οὐχ ἀεὶ ἐνεργεῖ, ὥστε ὑπάρξει αὐτῷ  'χαὶ ἀπόφασις: δύναται γὰρ καὶ μὴ βαδίζειν τὸ  βαδιστικόν, καὶ μὴ ὁρᾶσθαι τὸ ὁρατόν. ᾿Αλλὰ μιὴν  ἀδύνατον χατὸὺ τοῦ αὐτοῦ ἀληθεύεσθαι τας ἄντιχειμένας φάσεις. Οὐχ ἄρα τοῦ δυνατὸν εἶναι ἀπόασίς ἐστι τὸ, δυνατὸν μὴ εἶναιΣυμβαίνει γὰρ ἐκ τούτων τὸ αὐτὸ φάναι xal ἀποφάναι  ἅμα κατὰ τοῦ αὐτοῦ, μὴ κατὰ τὸ εἶναι καὶ μὴ  εἶναι τὰ προστιθέμενα γίνεσθαι φάσεις καὶ ἀποφάσειςΕἰ οὖν ἐχεῖνο ἀδύνατον, τοῦτ᾽ ἂν εἴη αἱρετόν.  gj  ostquam determinatum est de enunciationiSybus, quarum partibus aliud additur tam remaMZ'nente quam variata unitate, hic intendit declarare quid accidat enunciationi, ex eo quod.  aliquid additur, non suis partibus, sed compositioni eius. Et circa hoc duo facit: primo, determinat de  E" Eest. x.  .  Num. 7. Ed. c: et  sibili.  oppositione earum ; secundo, de consequentiis; ibi: Consequentiæ vero etc. Circa primum duo facit: primo, proponit  quod intendit; secundo, exequitur; ibi: Nam si eorum etc.  Proponit ergo quod iam perspiciendum est, quomodo se  posi  habeant affirmationes et negationes enunciationum de  possibili et non possibili etc. Et causam subdit: Habent enim  multas dubitationes speciales. - Sed antequam ulterius procedatur, quoniam de enunciationibus, quæ modales vocantur, sermo inchoatur, prælibandum est esse quasdam  modales enunciationes, et qui et quot sunt modi reddentes:  propositiones modales; et quid earum sit subiectum et  quid prædicatum ; et quid sit ipsa enunciatio modalis ;  quisque sit ordo earum ad præcedentes; et quæ necessitas sit specialem faciendi tractatum de his. Quia ergo possumus dupliciter de rebus loqui;  uno modo, componendo rem unam cum alia, alio modo,  compositionem factam declarando qualis sit, insurgunt  duo enunciationum genera; quædam scilicet enunciantes  Opp. D. Tgowaz T. I.  »  et  non esse disponuntur, ut eius quæ est, esse hominem, negatio est, non esse hominem, non autem ea  quæ  est, esse non hominem: et eius, quæ est, esse  album hominem, ea quæ est, non esse album hominem,  sed non ea quæ est, esse non album hominem (5i énim  de  omni aut affirmatio aut negatio est, lignum erit  verum dicere esse non album hominem): quod si hoc  modo et in quibuscunque esse non additur, idem faciet quod pro esse dicitur; ut eius, quæ est, homo  ambulat, non hæc, ambulat non homo, negatio erit, sed  hæc, non ambulat homo. Nihil enim differt dicere hominem ambulare, vel hominem ambulantem esse. Qua're si hoc modo ubique, et eius, quæ est, possibile esse,  negatio erit possibile non esse, sed non ea quæ est, non  possibile esse.  Videtur autem idem posse et esse et non esse. Omne enim  quod est possibile dividi, vel ambulare, et non ambulare, et non dividi possibile est. Ratio autem est, quoniam omne quod sic possibile est, non semper in actu  est; quare inerit ipsi etiam negatio: potest enim et non  ambulare quod est ambulativum, et non videri quod est  visibile. At vero impossibile est de eodem oppositas veras  esse  affirmationes et negationes. Non igitur eius quæ  est, possibile esse, negatio est hæc, possibile non esse.  Contingit autem ex his, aut idem affirmare et negare simul  de eodem, aut non secundum esse vel non esse, quæ  opponuntur, fieri affirmationes et negationes. Si ergo  illud impossibile est, hoc erit magis eligendum.  aliquid inesse vel non inesse alteri, et hæ vocantur de  inesse, de quibus superius habitus est sermo; quædam  vero enunciantes modum compositionis prædicati cum  subiecto, et hæ vocantur modales, a principaliori parte  sua, modo scilicet. Cum enim dicitur, Socratem currere est  possibile, non enunciatur cursus de Socrate, sed qualis sit  compositio cursus cum Socrate , scilicet possibilis. Signanter autem dixi modum compositionis, quoniam modus in  enunciatione positus duplex est. Quidam enim determinat  verbum, vel ratione significati ipsius verbi, ut Socrates  currit velociter, vel ratione temporis consignificati, ut  Socrates currit hodie; quidam autem determinat compositionem ipsam prædicati cum subiecto; sicut cum dicitur,  Socratem. currere est possibile. In illis namque determinatur  qualis cursus insit Socrati, vel quando; in hac autem, qualis  sit coniunctio cursus cum Socrate. Modi ergo non illi qui  rem verbi, sed qui compositionem determinant, modales  enunciationes reddunt, eo quod compositio veluti forma  totius totam enunciationem continet.  3. Sunt autem huiusmodi modi quatuor proprie loquendo, scilicet possibile et impossibile, necessarium et  contingens.-Verum namque et falsum, licet supra compositionem cadant cum dicitur, Socratem currere est uerum, vel  hominem. esse quadrupedem est. falsum, attamen modificare     Cap.   Ed. c: de Socrate. Ed. c et .  promitur.  facit: primo, movendo quæstionem arguit ad partes; seproprie non videntur compositionem ipsam. Quia modificari proprie dicitur al'quid, quanlo redditur aliuale, non  quando fit secundum suam substantiam. Compositio autem quando dicitur vera, non aliqualis propon'tur *, sed  quod est: nihil enim aliud est dicere, Socratzm currere. est  erum, quam quod compos:tio cursus cum Socrate est. Et  similiter  quando  est  falsa,  nihil aliud dicitur, quam  quod non est: nam nihil aliud est dicere, Socratzm currere est falsum, quam quod compositio cursus cum Socrate  non  est. Quando vero compositio dicitur possibilis aut  contingens, iam non ipsam esse, sed ipsam al'qualem  esse  dicimus: cum s'quidem dicitur, Socratzm currere est  possibile, non substantificamus compositionem cursus cum  Socrate, sed qual'ficamus, asserentes illam esse possibilem.  Unde Aristoteles hic modos proponens, veri et falsi  nullo modo meminit, licet infra verum et non verum inferat, propter causam ibi assignandam.  4. Et quia enunciatio modalis duas in se continet compositiones, alteram inter partes dicti, alteram inter dictum et modum, intelligendum est eam compositionem  modificari, idest, quæ est inter partes dicti, non eam quæ  est  inter modum et dictum. Quod sic perpendi potest.  Huius enunciat'on's modalis, Socratzm esse album est. possibile, duæ sunt partes ; altera est, Socratzm esse album, altera  est, possibile. Prima dictum vocatur, eo.quod est id quod  dicitur per eius indicativam, scilicet, Socrates est a!bus: qui  enim profert hanc, Socratzs est albus, nihil aliud dicit nisi  Socratem esse album: secunda vocatur modus, eo quod  modi adiectio est. Prima compositionem quandam in se  continet ex Socrate et albo; secunda pars primæ opposita,  compos'tionem aliquam sonat ex dicti compos:tione et  modo. Prima rursus pars, licet omnia habeat propria, subiectum scilicet, et prædicatum, copulam et compositionem, tota tamen subiectum est modalis enunciationis; secunda autem est prædicatum. Dicti ergo compositio subiicitur et modificatur in enunciatione modali. Qui enim  dicit, Socratem esse album est possibile, non significat qualis  est  se,  coniunctio possibilitatis cum hoc dicto, Socrat»m esse  album, sed insinuat qualis sit compositio partium dicti  inter  scilicet  albi  cum Socrate, scilicet quod est  compositio possibilis. Non dicit igitur enunciatio modalis  aliquid inesse, vel non inesse, sed dicti potius modum  enunciat. Nec proprie componit secundum significatum,  quia compositionis non est compositio, sed rerum compositioni modum apponit. Unde nihil aliud est enunciatio modalis, quam enunciatio dicti modificativa.  5. Nec propterea censenda est enunciatio plures modalis, quia omnia duplicata habeat: quoniam unum modum de unica compositione enunciat, licet illius compositionis plures sint partes. Plura enim illa ad dicti compositionem concurrentia, veluti plura ex quibus fit unum  subiectum concurrunt, de quibus dictum est supra quod  enunciationis unitatem non impediunt. Sicut nec cum  dicitur,  domus est: alba, est enunciatio multiplex, licet  domus ex multis consurgat partibus.  6. Merito autem est, post enunciationes de inesse, de  modalibus tractandum, quia partes naturaliter sunt toto  priores, et cognitio totius ex partium cognitione dependet;  et specialis sermo de his est habendus, quia proprias habet  difficultates. Notavit quoque Aristoteles in textu multa.  Horum ordinem scilicet, cum dixit: His vero determinatis etc.  modos qui et quot sunt, cum eos expressit et inseruit;  variationem eiusdem modi, per affirmationem et negationem, cum dixit: Possibile et non possibile, contingens et  non  conlingens; necessitatem cum addidit: Habent enim  multas dubitationzs proprias etc.  7. Deinde cum dicit: Nam si eorum etc., exequitur  tractatum de oppositione modalium, Et circa hoc duo  cundo, determinat veritatem ; ibi: Contingit autzm etc. Est  autem dubitatio: an in enunciationibus modalibus fiat contradictio negatione apposita ad verbum dicti, quod dicit  rem; an non, sed potius negatione apposita ad modum qui  qualificat. Et primo, arguit ad partem affirmativam, quod  scilicet addenda sit negatio ad verbum ; secundo, ad partem  negativam, quod non apponenda sit negatio ipsi verbo;  ibi: Vid»tur autzm etc.  8. Intendit ergo primo tale argumentum; si complexorum contradictiones attenduntur penes esse et non esse  (ut patet inductive in enunciationibus substantivis de secundo adiacente et de tertio, et in adiectivis), contradictionesque omnium hoc modo sumendæ sunt, contradictoria  huius, possibile esse, erit, possibile mon esse, et non illa, non  possibile esse. Et consequenter apponenda est negatio verbo, ad sumendam oppositionem in modalibus. Patet consequentia, quia cum dicitur, possibile esse, et, possibile  non esse, negatio cadit supra esse. Unde dicit: Nam si  eorum, qua» complectuntur, idest complexorum, illæ sibi invicom. sunt oppositæ contradictionzs, quæ secundum esse vel  non esse disponuntur, idest in quarum una affirmatur esse,  et in altera negatur.  9.  Et subdit inductionem, inchoans. a secundo adiacente: ut, eius enunciationis quæ est, esse hominem, idest,  bomo est, negatio est, non esse hominem, ubi verbum negatur, idest, bomo non est; et non est eius negatio ea quæ  est, esse non hominem, idest, non bomo est: hæc enim  non  est  quæ  negativa, sed affrmativa de subiecto infinito,  simul est vera cum illa prima, scilicet, homo est.  ro. Deinde prosequitur inductionem in substantivis de  tertio adiacente: ut, eius quæ est, esse album hominem,  idest, ut, illius enunciationis, homo est albus, negatio  est, non esse album hominem, ubi verbum negatur, idest,  homo non est albus; et non est negatio illius ea, quæ  est, esse;non album hominem, idest, homo est non albus. Hæc enim non est. negativa, sed affirmativa de prædicato infinito. - Et quia istæ duæ affirmativæ de prædicato finito et infinito non possunt de eodem verificari,  propterea quia sunt de prædicatis oppositis, posset aliquis credere quod sint contradictoriæ; et ideo ad hunc  errorem tollendum interponit rationem probantem quod  hæ duæ non sunt contradictoriæ. Est autem ratio talis.  Contradictoriorum talis est natura quod de omnibus  aut dictio, idest affirmatio aut negatio verificatur. Inter  contradictoria siquidem nullum potest inveniri medium;  sed hæ duæ enunciationes, scilicet, est bomo albus, et,  est bomo mon albus, sunt contradictoriæ per se; ergo sunt  talis naturæ quod de omnibus altera verificatur. Et sic,  cum de ligno sit falsum dicere, est homo albus, erit  verum dicere de eo, scilicet ligno, esse non album hom'nem, idest, lignum est homo non albus. Quod est manifeste falsum: lignum enim neque est homo albus, neque  est  homo non albus. Restat ergo ex quo utraque est  simul falsa de eodem, quod non sit inter eas contradictio:  Sed contradictio fit quando negatio apponitur verbo.  1r.  Deinde prosequitur inductionem in enunciationibus adiectivi verbi, dicens: Quod si boc modo, scilicet  supradicto, accipitur contradictio, et. im   quantiscunque  enuncialionibus esse non ponitur explicite, idem faciet! quoad oppositionem sumendam, id quod pro esse ;dicitur (idest  verbum adiectivum, quod locum ipsius esse tenet,  pro quanto, propter eius veritatem in se inclusam, copulæ officium facit), ut eius enunciationis quæ est, bomo  ambulat, negatio est, non ea quæ dicit, mom bomo ambulat (hæc enim est affirmativa de subiecto infinito), sed  negatio illius est, bomo non ambulat ; sicut et in illis. de  verbo substantivo, negatio verbo addenda erat. Nihil enim    Num. 14.  Num. 13.  CAP. XII, LECT. VIII  differt dicere verbo adiectivo, homo ambulat, vel substantivo, homo est ambulans.  12. Deinde ponit secundam partem inductionis dicens:  Et si boc modo in omnibus sumenda est contradictio, scilicet; apponendo negationem ad esse, concluditur quod  et  eius enunciationis, quæ dicit, possibile esse, negatio  est, possibile non esse, et non illa quæ dicit, non possibile esse. Patet conclusionis sequela: quia in illa, possibile  non esse, negatio apponitur verbo; in ista autem non.  Dixit  autem in principio huius rationis: Eorum quæ  complectuntur, idest complexorum, contradictiones fiunt  secundum esse et non esse, ad differentiam incomplexorum quorum oppositio non fit negatione dicente mon  107  non semper actu est, sequitur quod sit possibile non esse.  Quod enim non semper est, potest non esse. Bene ergo intulit Aristoteles ex his duobus: Quare inerit 'etiam negatio  possibilis et non solum affirmatio; potest igitur et non. ambulare, quod est ambulabile, et non. videri, quod est visibile.  Maior vero subiungitur, cum ait: 4t vero impossibile est. de eodem. veras esse contradictiones. Infertur quoque ultimo conclusio: Nom est igitur ista (scilicet, possibile non esse) negatio ilius, quæ dicit, possibile esse:  quia sunt simul veræ de eodem. - Caveto autem ne ex isto  textu putes possibile, ut est modus, debere semper accipi  pro possibili ad utrumlibet: quoniam hoc infra declarabitur esse falsum; sed considera quod satis fuit intenesse,  sed ipsi incomplexo apposita, ut, homo, et, non bomo,  legit, et, non legit.  153.  Deinde cum dicit: Videtur autem. idem. etc., arguit  ad quæstionis partem negativam (scilicet quod ad sumendam contradictionem in modalibus non addenda est negatio verbo), tali ratione. Impossibile est duas contradictorias esse simul veras de eodem; sed supradictæ, scilicet, possibile esse, et, possibile non esse, simul verificantur  de eodem; ergo istæ non sunt contradictoriæ: igitur contradictio modalium non attenditur penes verbi negationem. Huius rationis primo ponitur in littera minor cum  sua probatione; secundo maior; tertio conclusio.  Minor quidem cum dicit: Videtur autem. idem. possibile  esse, el, non possibile esse. Sicut verbi gratia, omne quod est  possibile dividi est etiam possibile non dividi, et quod est  possibile ambulare est etiam possibile non ambulare. Ratio autem. huius minoris est, quoniam omne quod sic possibile est (sicut, scilicet, est possibile ambulare et dividi),  non semper actu esi: non enim semper actualiter ambulat,  qui ambulare potest; nec semper actu dividitur, quod  dividi potest. Quare inerit etiam negatio possibilis, idest, ergo  non solum possibilis est affirmatio, sed etiam negatio  eiusdem. - Adverte quod quia possibile est multiplex, ut  infra dicetur, ideo notanter Aristoteles addidit ly sic, assumens, quod sic possibile est, nom semper actu est. Non  enim de omni possibili verum est dicere quod non semper  UTE.  TNT  ΞΜ  D   »w  actu  est, sed de aliquo, eo scilicet quod est sic possibile, quemadmodum ambulare et dividi. Nota ulterius  quod quia tale possibile habet duas conditiones, scilicet  quod potest actu esse et quod non semper actu est, sequitur necessario quod de eo simul est verum dicere,  possibile esse, et, non esse. Ex eo enim quod potest actu  esse, sequitur quod sit possibile esse; ex eo vero quod  denti declarare quod in modalibus non sumitur contradictio ex verbi negatione, afferre instantiam in una modali, quæ continetur sub modalibus de possibili.  14. Deinde cum dicit: Contingit autem unum ex bis εἴς.»  determinat veritatem huius dubitationis. Et quia duo  petebat, scilicet, an contradictio modalium ex negatione  verbi fiat an non, et, an potius ex negatione modi; ideo  primo, determinat veritatem primæ petitionis, quod scilicet contradictio harum non fit negatione verbi; secundo,  determinat veritatem secundæ petitionis, quod scilicet fiat  modalium contradictio ex negatione modi; ibi: Est ergo  negatio etc. - Dicit ergo quod propter supradictas rationes  evenit unum ex his duobus, quæ conclusimus determinare, aut idem ipsum, idest, unum et idem dicere, idest affirmare et negare simul de eodem: idest, aut quod duo  contradictoria simul verificantur de eodem, ut prima ratio  conclusit; aut affirmationes vel negationes modalium, quæ  opponuntur contradictorie, fieri nom secundum. esse vel non  6556, idest, aut contradictio modalium non fiat ex negatione verbi, ut secunda ratio conclusit. Si ergo illud est  impossibile, scilicet quod duo contradictoria possunt simul  esse  vera de eodem, boc, scilicet quod contradictio modalium non fiat secundum verbi negationem, erit magis  eligendum. Impossibilia enim semper vitanda sunt. Ex ipso  autem modo loquendi innuit quod utrique earum aliquid  obstat.  Sed quia primo obstat impossibilitas quæ acceptari non potest, secundo autem nihil aliud obstat nisi  quod negatio supra enunciationis copulam cadere debet,  si negativa fieri debet enunciatio, et hoc aliter fieri potest  quam negando dicti verbum, ut infra declarabitur;  ideo hoc secundum, scilicet quod contradictio modalium  non fiat secundum negationem verbi, eligendum est: primum vero est omnino abiiciendum.   Lect. seq.  (Canp.. CargrANr lect. vi)  DE NEGATIONE APPONENDA NON VERBO SED MODIS IN CONTRADICTIONIBUS  PROPOSITIONUM MODALIUM  .  '  Ἔστιν ἄρα ἀπόφασις τοῦ δυνατὸν εἶναι τὸ μὴ δυνατὸν  εἶναι.  Ὁ  χαὶ  δ᾽ αὐτὸς λόγος καὶ περὶ τοῦ ἐνδεχόμενον  εἶναι" καὶ 13e τούτου ἀπόφασις τὸ μὴ ἐνδεχόμενον  εἶναι,  ἐπὶ  τῶν  ἄλλων  δὲ  ὁμοιοτρόπως, οἷον  ἀναγκαίου τε καὶ ἀδυνάτου.  Γίνεται γάρ, ὥσπερ ἐπ᾽ ἐκείνων τὸ εἶναι καὶ τὸ μὴ εἶναι  προσθέσεις,) τὰ δ᾽ ὑποχείμενα πράγματα, τὸ  μὲν  λευχόν, τὸ δὲ ἄνθρωπος: οὕτως ἐνταῦθα τὸ μὲν εἶναι  xai μὴ εἶναι, ὡς ὑποχείμενον γίνεται, τὸ δὲ δύνασθαι καὶ τὸ ἐνδέχεσθαι, προσθέσεις διορίζουσαι, ὥσπερ  ἐπ᾽  ἐχείνων τὸ εἶναι καὶ μὴ εἶναι, τὸ ἀληθὲς xa τὸ  ψεῦδος, ὁμοίως αὖται ἐπὶ τοῦ εἶναι δυνατὸν χαὶ εἶναι  οὐ δυνατόν.  Τοῦ δὲ δυνατὸν μὴ εἶναι ἀπόφασις οὐ τὸ οὐ δυνατὸν  εἶναι, ἀλλὰ τὸ οὐ δυνατὸν μὴ εἶναι, καὶ τοῦ δυνατὸν  εἶναι οὐ τὸ δυνατὸν  μὴ εἶναι, ἀλλὰ τὸ  μιὴ δυνατὸν  εἶναι. Διὸ καὶ Hs Pp μὰ ἂν δόξειαν ἀλλήλαις αἱ τοῦ  δυνατὸν εἶναι χαὶ δυνατὸν μὴ εἶναι’ τὸ γὰρ αὐτὸ δυνατὸν εἶναι καὶ μὴ εἶναι" οὐ γὰρ ἀντιφάσεις ἀλλήλων  αἱ τοιαῦται, τὸ δυνατὸν εἶναι καὶ δυνατὸν μὴ εἶναι"  Est ergo negatio eius quæ est, possibile esse, ea quæ est ' Seq. cap. xir.  non possibile esse. Eadem quoque ratio est et in eo  quod est contingens esse: etenim negatio eius est, non  contingens esse; et in aliis quoque simili modo, ut in  necessario et impossibili.  Fiunt enim quemadmodum in illis, esse et non esse, appositiones, subiectæ vero res, hoc quidem album, illud  vero homo: eodem quoque modo hoc in loco, esse quidem et non esse, ut subiectum fit, posse vero et conüngere appositiones sunt, determinantes (quemadmodum in illis esse et non esse) veritatem et falsitatem,  similiter hæ in eo quod est, esse possibile et esse non  possibile.  Eius vero, quæ est, possibile non esse, negatio est non ea  quæ est, non esse, sed ea quæ est, non possibile; et  eius quæ est, possibile esse, non ea quæ est, possibile  non  esse,  sed ea quæ est, non possibile esse.  Quare et sequi sese invicem videbuntur, possibile esse  et  possibile non esse. Idem enim possibile esse et non  esse.  ἀλλὰ τὸ δυνατὸν εἶναι χαὶ μὴ δυνατὸν εἶναι οὐδέποτε ἐπὶ τοῦ αὐτοῦ ἅμα ἀληθεύονται" ἀντίκεινται  Te, οὐδέ γε τὸ δυνατὸν μὴ εἶναι χαὶ οὐ δυνατὸν  pen εἶναι οὐδέποτε ἅμα ἐπὶ τοῦ αὐτοῦ ἀληθεύονται.  Ὁμοίως δὲ xài τοῦ ἀναγκαῖον εἶναι ἀπόφασις οὐ τὸ  ἀναγκαῖον μὴ εἶναι, ἀλλὰ τὸ μὴ ἀναγκαῖον εἶναι"  τοῦ δὲ ἀναγχαῖον μὴ εἶναι, τὸ per ἀναγκαῖον μὴ εἶναι.  Καὶ τοῦ al θελα εἶναι οὐ τὸ ἀδύνατον μὴ εἶναι,  ἀλλὰ τὸ μὴ ἀδύνατον εἶναι: τοῦ δὲ ἀδύνατον μὴ εἶναι  τὸ οὐκ ἀδύνατον μὴ εἶναί.  Καὶ καθόλου 3£, ὥσπερ εἴρηται, τὸ μὲν εἶναι καὶ μὴ  εἶναι δεῖ τιθέναι, ὡς τὰ ὑποκείμενα, κατάφασιν δὲ  Non enim contradictiones sunt sibi invicem huiusmodi, possibile esse et possibile non esse; sed possibile esse et non possibile esse, nunquam simul sunt  in eodem veræ sunt: opponuntur enim : neque ea quæ .  est, possibile non esse et non possibile non esse, nunquam simul in eodem veræ sunt. Similiter autem et  eius. quæ est, necessarium est, negatio non est quæ  est, necessarium non esse, sed ea quæ est, non necessarium esse; eius vero quæ est, necessarium non  esse, ea quæ est, non necessarium non esse. Et eius  quæ est, impossibile esse, non ea quæ est, impossibile  non esse, sed hæc, non impossibile esse; eius vero  quæ est, impossibile non esse, ea quæ est, non impossibile non esse.  A  Universaliter vero, quemadmodum dictum est, esse quidam  et  xal  ἀπόφασιν ταῦτα ποιοῦντα πρὸς τὸ εἶναι καὶ μὴ  εἶναι συντάττειν. Καὶ ταύτας οἴεσθαι χρὴ εἶναι τὰς  ἀντικειμένας  φάσεις" δυνατόν, οὐ δυνατόν" ἐνδεχόμενον;  οὐχ ἐνδεχόμενον: ἀδύνατον, οὐχ ἀδύνατον,  ἀναγκαῖον, οὐχ ἀναγκαῖον" ἀληθές, οὐχ ἀληθές.  qpeterminat ubi ponenda sit negatio ad assumenΞΔ  dam modalium contradictionem. Et circa hoc  (ἡ  [quatuor facit: primo, determinat veritatem  I. summarie; secundo, assignat determinatæ veritatis rationem, quæ dicitur rationi ad oppo    Num. seq.  Num. .  Num. .  Ed. c: et verba  non addenda in  ea  declar.  situm inductæ; ibi: Fiunt enim etc.; tertio, explanat eamdem veritatem in omnibus modalibus; ibi: Eius vero etc.;  quarto, universalem regulam concludit; ibi: Universaliter  vero etc. Quia igitur negatio aut verbo aut modo apponenda est, et quod verbo non addenda est, declaratum  est per locum a divisione; concludendo determinat: Es!  ergo negatio eius quæ est possibile esse, ea quæ est non possibile esse, in qua negatur modus. Et eadem est ratio in  enunciationibus de contingenti. Huius enim, quæ est,  contingens esse, negatio est, non contingens esse. Et in  alis, scilicet de mecesse et impossibile idem est iudicium.    liones  Deinde  etc.,  cum  subdit  dicit:  Fiust  enim in illis apposihuius veritatis rationem talem. Ad  sumendam contradictionem inter aliquas enunciationes  et  non esse oportet ponere quemadmodum subiecta,  negationem vero et affirmationem hæc facientem, ad  esse  non esse apponere. Et has oportet putare esse  oppositas dictiones: possibile non possibile; contingens  non  contingens; impossibile non impossibile; necessarium non necessarium; verum non verum.  oportet ponere negationem super appositione, idest coniunctione prædicati cum subiecto; sed in modalibus appositiones sunt modi; ergo in modalibus negatio apponenda est modo, ut fiat contradictio. Huius rationis,  maiore subintellecta, minor ponitur in littera per secundam similitudinem ad illas de inesse. Et dicitur quod  quemadmodum in illis enunciationibus de imesse appositiones,  idest prædicationes, sunt esse et non esse,  idest verba significativa esse vel non esse (verbum enim  semper est nota eorum quæ de altero prædicantur), subiective vero appositionibus res sunt, quibus esse vel non  esse  apponitur, ut album, cum dicitur, album est, vel  homo, cum dicitur, homo est; eodem modo hoc in loco  in modalibus accidit: esse quidem subiectum fit, idest dictum  sunt.  significans esse vel non esse subiecti locum tenet ;  contingere vero et posse oppositiones, idest modi, prædicationes  Et quemadmodum in illis de inesse penes esse  et non esse veritatem vel falsitatem determinavimus, ita  in istis modalibus penes modos. Hoc est enim quod subCAP. XII, LECT. IX  dit, determinantes, scilicet, fiunt ipsi modi veritatem, quemadmodum in illis esse et non esse, eam determinat.  109  negatio, possibile non esse, sit illa, non possibile non  esse:  :  Mu præced.   3. Et sic patet responsio ad argumentum in oppositum primo adductum *, concludens quod negatio verbo  apponenda sit, sicut illis de inesse. Dicitur enim quod cum  modalis enunciet modum de dicto sicut enunciatio de  inesse, esse vel esse tale, puta esse album de subiecto,  eumdem locum tenet modus hic, quem ibi verbum; et  consequenter super idem proportionaliter cadit negatio  hic et ibi. Eadem enim, ut dictum est, proportio est modi  ad dictum, quæ est verbi ad subiectum. - Rursus cum veritas et falsitas afhrmationem et negationem sequantur,  penes idem. attendenda est affirmatio vel negatio enunciationis, et veritas vel falsitas eiusdem. Sicut autem in  enunciationibus de igesse veritas vel falsitas esse vel non  esse consequitur, ita in modalibus modum. Illa namque  modalis est vera quæ sic modificat dictum sicut dicti  compositio patitur, sicut illa de imesse est vera, quæ sic  significat esse sicut est. Est ergo negatio modo hic apponenda, sicut ibi verbo, cum sit eadem utriusque vis  quoad veritatem et falsitatem enunciationis. Adverte quod modos, appositiones, idest, prædicationes vocavit, sicut esse in illis de inesse, intelligens per  modum totum prædicatum enunciationis modalis, puta,  est possibile. In cuius signum modos ipsos verbaliter protulit dicens: Contingere vero et posse appositiones sunt. Contingit enim et potest, totum prædicatum modalis continent.  4. Deinde cum dicit: Eius vero quod est possibile est  non esse etc., explanat determinatam veritatem in omnibus  modalibus, scilicet de possibili, et necessario, et impossibili. Contingens convertitur cum possibili. Et quia quilibet modus facit duas modales affirmativas, alteram habentem dictum affirmatum *, et alteram habentem dictum  negatum; ideo explanat in singulis modis quæ cuiusque  affirmationis negatio sit. Et primo in illis de possibili. Et  quia primæ affirmativæ de possibili (quæ scilicet habet  dictum affirmatum) scilicet possibile esse, negatio assignata fuit, non possibile esse; ideo ad reliquam affirmativam de possibili transiens ait: Eius vero, quæ est possibile non esse (ubi dictum negatur) megatio est mom possibile non esse. Et hoc consequenter probat per hoc quod  contradictoria huius, possibile non esse, aut est, possibile esse, aut illa, quam diximus, scilicet, non possibile  non esse. Sed illa, scilicet, possibile esse, non est eius  contradictoria. Non enim sunt sibi invicem contradicentes,  possibile esse, et, possibile non esse, quia possunt simul esse  veræ. Unde et sequi sese invicem putabuntur: quoniam,  ut supra dictum fuit, idem est - possibile esse, et - non  esse, et consequenter sicut ad, posse esse, sequitur, posse  non esse, ita e contra ad, posse non esse, sequitur, posse  esse.  Sed contradictoria illius, possibile esse, quæ non  potest simul esse vera est, non possibile esse: hæ enim,  ut dictum est, opponuntur. Remanet ergo quod huius  neret.  hæ namque simul nunquam sunt veræ vel falsæ.  Dixit quod possibile esse et non esse sequi se invicem putabuntur, et non dixit quod se invicem consequuntur: quia  secundum veritatem universaliter non sequuntur se, sed  particulariter tantum, ut infra dicetur; propter quod putabitur quod simpliciter se invicem sequantur. Deinde decarat hoc idem in illis de necessario. Et primo, in affirmativa habente dictum affirmatum, dicens: Similiter eius  quæ est, necessarium. esse, megatio non est ea, quæ dicit  necessarium. mon esse, ubi modus non negatur, sed ea quæ  est, non necessarium. esse. Deinde subdit de affirmativa de  necessario habente dictum negatum, et ait: Eius vero, quæ  est,  necessarium. mom esse, megatio est ea, quæ dicit, mon  necessarium.  mon.  esse.  Deinde transit ad illas de impossibili, eumdem ordinem servans, et inquit: Et eius, quæ  dicit, impossibile esse, negatio non est ea quæ dicit, impossibile non esse, sed, non impossibile esse: ubi idm modus negatur. Alterius vero afhrmativæ, quæ est, impossibile non  es$e,  negatio est ea quæ dicit, won impossibile non esse. Et  sic semper modo negatio addenda cst.  5. Deinde cum dicit: Unmiversaliter vero etc., concludit  regulam universalem dicens quod, quemadmodum dictum  est, dicta importantia esse et non esse oportet ponere in  modalibus ut subiecta, negationem vero et affirmationem  hoc, idest contradictionis oppositionem, facientem, oportet apponere tantummodo ad suum eumdem modum, non  ad diversos modos. Debet namque illemet modus negari,  qui prius affirmabatur, si contradictio esse debet. Et exemplariter: explanans quomodo hoc fiat, subdit: Et oportet  putare bas esse oppositas dictiones, idest affirmationes et  negationes in modalibus, possibile et non possibile, contingens et mon contingens. Item cum dixit negationem alio  tantum modo ad modum apponi debere, non exclusit  modi copulam, sed dictum. Hoc enim est singulare in  modalibus quod eamdem oppositionem facit, negatio modo addita, et eius verbo. Contradictorie enim opponitur  huic, possibile est esse, non solum illa, non possibile est  esse, sed ista, possibile non est esse. Meminit autem  modi potius, et propter hoc quod nunc diximus, ut scilicet insinuaret quod negatio verbo modi postposita, modo  autem præposita, idem facit ac si modali verbo præponeretur, et quia, cum modo numquam caret modalis  enunciatio, semper negatio supra modum poni potest.  Non autem sic de eius verbo: verbo enim modi carere  contingit modalem, ut cum dicitur, Socrates currit necessario; et ideo semper verbo negatio aptari potest. - Quod  autem in fine addidit, verum et non verum, insinuat, præter  quatuor prædictos modos, alios inveniri, qui etiam  compositionem enunciationis determinant, puta, verum et  non verum, falsum et non falsum: quos tamen inter  modos supra non posuit, quia, ut declaratum fuit, non  proprie modificant.  (Canp. CareTANI lect. vir)  DE PROPOSITIONUM MODALIUM CONSEQUENTIIS  Καὶ αἱ ἀκολουθήσεις δὲ κατὰ λόγον γίνονται οὕτω τιθεμένοιςτῷ μὲν γὰρ δυνατὸν εἶναι τὸ ἐνδέχεσθαι  εἶναι, καὶ τοῦτο ἐχείνῳ ἀντιστρέφεικαὶ τὸ μὴ ἀδύνατον εἶναι χαὶ τὸ Un ἀναγκαῖον εἰναι" τῷ δὲ δυνατὸν μὴ εἶναι χαὶ ἐνδεχόμενον μὴ εἶναι τὸ μὴ ἀναγκαῖον μὴ εἶναι καὶ τὸ οὐκ ἀδύνατον μὴ εἶναι, τῷ δὲ  μὴ δυνατὸν εἶναι καὶ y ἐνδεχόμενον εἶναι τὸ ἀναγχαῖον νὴ Ξἶναι xa τὸ ἀδύνατον εἰναι; τῷ δὲ μὴ δυγατὸν  μὴ εἶναι, xal μὴ ἐνδεχόμενον [um εἰναι τὸ  ἀναγκαῖον εἶναι καὶ τὸ ἀδύνατον μὴ εἶναι. Θεωρείσθω δὲ ἐκ ἧς ὑπογραφῆς ὡς λέγομεν,  LN δυνατὸν εἶναιἐνδεχόμενον εἶναιοὐκ ἀδύνατον εἶναιοὐκ ἀναγκαῖον εἶναιδυνατὸν μὴ εἶναιἐνδεχόμενον μὴ εἶναιοὐχ  αδυνατον μὴ εἰναι»  οὐχ ἀναγκαῖον μὴ εἶναιοὐ δυνατὸν εἶναιοὐκ ἐνδεχόμενον εἶναιἀδύνατον εἶναιἀναγκαῖον μὴ εἶναιοὐ δυνατὸν μὴ εἶναιοὐχ ἐνδεχόμενον μὴ εἶναιἀδύνατον Un εἶναιἀναγκαῖον εἰναι  Consequentiæ vero secundum rationem fiunt cum ita 'Cap.xm.  ponuntur illam enim quæ est, possibile esse, sequitur  illa quæ est, contingit esse, et hæc illi convertitur, et,  non  impossibile esse et non necessarium esse; illam  vero  non  quæ est, possibile non esse, et, contingens non  esse, ea quæ est, non necesse non esse, et, non impossibile  esse:  illam autem quæ est, non possibile  esse, et, non contingens esse, ea quæ est, necessarium  non  esse, et impossibile esse: illam vero quæ est, non  possibile non esse, et, non contingens non esse, ea quæ  est, necesse est esse, et, impossibile non esse. Consideretur autem ex subscriptione quemadmodum dicimus:  Possibile est esse,  Contingens est esse,  Non impossibile est esse,  Non necessarium est esse,  Possibile est non esse,  Contingens est non esse,  Non impossibile est non esse,  Non possibile est esse.  Non contingens est esse.  Impossibile est esse.  Necessarium est non esse.  Non possibile est non esse.  Non contingens est non esse.  Impossibile est non esse.  Non necessarium est non esse, Necessarium est esse.  Τὸ  μὲν οὖν ἀδύνατον καὶ οὐκ ἀδύνατον τῷ ἐνδεχομένῳ  χαὶ δυνατῷ καὶ οὐχ ἐνδεχομένῳ καὶ μὴ δυνατῷ ἀχολουθεῖ μὲν ἀντιφατικῶς, ἀντεστραμμένως δέ: τῷ μὲν  γὰρ δυνατὸν εἶναι ἀπόφασις τοῦ ἀδυνάτου ἀκολουθεῖ, τῇ δὲ ἀποφάσει κατάφασις. Τῷ γὰρ οὐ  δυνατὸν εἶναι τὸ ἀδύνατον εἶναι: κατάφασις γὰρ τὸ  ἀδύνατον εἶναι, τὸ δ᾽ οὐκ ἀδύνατον εἶναι ἀπόφασιςδδ᾽ ἀναγκαῖον πῶς, ὀπτέον. Φανερὸν δὴ ὅτι οὐχ οὕ-,  ε:  e  H,  τως  σεις  γάρἔχει, ἀλλ᾽  χωρίςἐστιν  »  αἱἐναντίαι ἕπονται" αἱ δ᾽ ἀντιφά- kJ  ἀπόφασις τοῦ ἀνάγχη μὴ εἶναι τὸ οὐχ  ἀνάγκη εἶναι: ἐνδέχεται γὰρ ἀληθεύεσθαι ἐπὶ τοῦ  M] 5,,    Ζ  »  IB,,  5  αὐτοῦ ἀμφοτέρας" τὸ qup ἀναγκαῖον μη εἶναι οὐχ  ἀναγκαῖον εἶναιὅτι  Αἴτιον δὲ τοῦ μὴ ἀκολουθεῖν τὸ ἀναγκαῖον ὁμοίως τοῖς  ἑτέροιςἐναντίως τὸ ἀδύνατον τῷ ἀναγκαίῳ  ἀποδίδοται, τὸ αὐτὸ δυνάμενον. Εἰ γὰρ ἀδύνατον  εἶναι, ἀναγκαῖον τοῦτο οὐχ εἶναι, ἀλλὰ μὴ εἶναιεἰ δὲ ἀδύνατον μὴ εἶναι, τοῦτο ἀνάγχη εἶναι: ὥστε  εἰ  ἐχεῖνα ὁμοίως τῷ δυνατῷ καὶ μή, ταῦτα ἐξ ἐναντίας, ἐπεὶ οὐ σημαίνει γε ταὐτὸν τό τε ἀναγκαῖον  xai τὸ ἀδύνατον, ἀλλ᾽ ὥσπερ εἴρηται, ἀντεστραμμένως᾿ἀδύνατον οὕτως κεῖσθαι τὰς τοῦ ἀναγκαίου ἀντιφάPS  ;  Ξ  σεις; τὸ μὲν γὰρ ἀναγκαῖον εἶναι δυνατὸν εἶναι" εἰ  N  γὰρ μή; ἀπόφασις ἀκολουθήσει: ἀνάγκη γὰρ φάναι  ἀποφάναι: ὥστ᾽ εἰ μὴ δυνατὸν εἶναι, ἀδύνατον  εἶναιἀδύνατον ἄρα εἶναι τὸ ἀναγκαῖον εἶναι, ὅπε  ἄτοπον. ᾿Αλλὰ μὴν τῷ γε δυνατὸν εἶναι τὸ οὐχ ἀδύνατον εἶναι ἀκολουθεῖ, τούτῳ δὲ τὸ μὴ ἀναγκαῖον  εἶναι:  docs συμβαίνει τὸ ἀναγχαῖον εἶναι μὴ ἀναγxatov εἶναι, ὅπερ ἄτοπον᾿Αλλὰ μὴν οὐδὲ τὸ ἀναγκαῖον εἶναι ἀχολουθεῖ τῷ δυνατὸν εἶναι. οὐδὲ τὸ ἀναγχαῖον μὴ εἶναι: τῷ μὲν γὰρ  duo. ἐνδέχεται συμβαίνειν, τούτων δὲ ὁπότερον ἂν  ἀληθὲς , οὐκέτι ἔσται ἐκεῖνα ἀληθῆ. "Apa γὰρ δυγατὸν εἶναι καὶ μὴ εἶναι" εἰ δ᾽ ἀνάγκη εἶναι 7) μὴ  Hæ igitur, impossibile, et, non impossibile, eam quæ est,  contingens, et possibile, et non contingens, et non possibile sequuntur quidem contradictorie, sed conversim.  Eam enim quæ est, possibile esse, negatio impossibilis  sequitur, quæ est, non impossibile esse: negationem  vero affirmatio. Illam enim, non possibile esse, ea quæ  est, impossibile esse: affirmatio enim est, impossibile  esse; non impossibile vero, negatio.  Necessarium autem quemadmodum se habeat, considerandum est. Manifestum est autem quod non eodem modo  se  habet, sed contrariæ sequuntur, contradictoriæ autem sunt extra.  Non enim est negatio. eius, quæ est, necesse non esse,  ea  quæ est, non necesse esse: contingit enim veras esse  utrasque in eodem: quod enim est necessarium non  esse, non est necessarium esse.  Causa autem huius est, cur non sequitur necessarium cæteris similiter: quoniam contrarie, impossibile esse, necessario redditur idem valens. Nam quod impossibile  esse, necesse hoc non quidem esse, sed potius non  esse: quod vero impossibile non esse, hoc necessarium  esse. Quare si illa similiter sequuntur possibile, et, non  possibile: hæc ex opposito: quoniam non significant  idem necessarium et impossibile; sed (ut dictum est)  conversim.  Aut certe impossibile est sic poni necessarii contradictiones.  Nam quod necessarium est esse, possibile est esse: nam  si non, negatio consequetur: necesse est enim aut affirmare, aut negare. Quare si non possibile est esse, impossibile est esse. Igitur impossibile est esse quod necesse est esse: quod est inconveniens. At vero illam  quæ est, possibile esse, non impossibile esse, sequitur:  hanc vero, ea quæ est, non necessarium est esse; quare  contingit quod necessarium esse, non necessarium esse:  quod est inconveniens.  At  vero  neque necessarium esse, sequitur eam quæ est,  possibile esse, neque ea quæ est, necessarium non esse.  Illi enim utraque contingit accidere: harum autem utralibet vera fuerit, non erunt illa vera: simul enim possibile esse, et, non esse. Si vero necesse esse, vel non esse,  CAP. XIII,  εἶναι, οὐκ ἔσται δυνατὸν ἄμφω. Λείπεται τοίνυν τὸ  οὐχ ἀναγκαῖον μὴ εἶναι ἀκολουθεῖν τῷ δυνατὸν εἶναι.  Τοῦτο γὰρ ἀχηθὲς xxl xxcvd τοῦ ἀναγκαῖον εἶναι. Καὶ  qde αὕτη γίνεται ἀντίφασις τῇ ἑπομένῃ τῷ οὐ δυνατὸν εἰναι" ἐχείνῳ vp ἀχολουθεῖ τὸ ἀδύνατον εἶνα!:  xal ἀναγκαῖον μὴ εἶναι, οὐ ἡ ἀπόφασις τὸ οὐχ ἀναγκαῖον μὴ εἶναι.  ᾿Ακολουθοῦσί τε ἄρα xal αὐται αἱ ἀντιφάσεις χατὰ τὸν  εἰρημένον τρόπον, καὶ οὐδὲν ἀδύνατον συμβαίνει τιθεμένων οὕτως.  I.  y ERN  S  (Q9  ;  Jo lium, hic determinare intendit de consequenD^ tradit veritatem; secundo, movet quandam  dubitationem circa determinata; ibi: Dubita   Lect. seq.  Num. 5.  dun  bit autem etc. Circa primum duo facit: primo, ponit consequentias earum secundum opinionem aliorum; secundo,  examinando et corrigendo dictam opinionem, determinat  veritatem ; ibi: Ergo impossibile etc.  2. Quoad primum considerandum est quod cum quiliLect. præced. bet modus faciat duas affirmationes, ut dictum fuit *, et  un  '  *Lect. xi.   Ed.  c  τος quabus-affirmationibus opponantur duæ negationes, ut  etiam dictum fuit in Primo ; secundum quemlibet modum  fient quatuor enunciationes, duæ scilicet affirmativæ et  duæ negativæ. Cum autem modi sint quatuor, effcientur sexdecim modales: quaternarius enim in seipsum ductus sexdecim constituit. Et quoniam apud omnes, quælibet cuiusque modi, undecumque incipias, habet unam  tantum cuiusque modi se consequentem, ideo ad assignandas consequentias modalium, singulas ex singulis  modis accipere oportet et ad consequentiæ ordinem inter se adunare.  3. Et hoc modo fecerunt antiqui, de quibus inquit  Aristoteles: Consequentiæ vero. fiunt secundum infrascriptum  ordinem, antiquis ita. ponentibus. Formaverunt enim quaomittit  se.  Averroes.  tuor ordines modalium, in quorum quolibet omnes quæ  se consequuntur collocaverunt. - Ut autem confusio vitetur, vocetur, cum Averroe, de cætero, in quolibet modo,  affirmativa de De et modo, affirmativa simplex ; afhrmativa autem  de  modo et negativa de dicto, affirmativa  declinata; negativa vero de modo et non dicto, negativa  simplex; negativa autem de utroque, megativa d:clinata:  ita quod modi affirmationem vel negationem simplicitas,  dicti vero declinatio denominet. - Dixerunt ergo antiqui  quod affirmationem simplicem de possibili, scilicet, possibile est esse, sequitur affirmativa simplex de contingenti,  Scilicet, contingens est esse (contingens enim convertitur  cum possibili); et negativa simplex de impossibili, scilicet,  non  impossibile esse; et similiter negativa simplex de  necessario, scilicet, non necesse est esse. Et hic est primus ordo modalium consequentium se. - In secundo au3 QE ecaftema- feih dixerunt quod affirmativas declinatas de possibili  et contingenti, scilicet, possibile non esse, et, contingens  non esse, sequuntur negativæ declinatæ de necessario  et impossibili, scilicet, non necessarium non esse, et, non  impossibile non esse.- In tertio vero ordine dixerunt  quod negativas simplices de possibili et contingenti, scilicet, non possibile esse, non contingens esse, sequuntur  afBrmativa declinata de necessario, scilicet, necesse non  esse, et affirmativa simplex de impossibili, scilicet, impossibile esse. - In quarto demum ordine dixerunt quod  negativas declinatas de possibili et contingenti, scilicet,  non possibile non esse, et, non contingens non esse, sequuntur affirmativa simplex de necessario, scilicet, necesse  esse, et affirmativa declinata de impossibili, scilicet, impossibile est non esse.  4. Consideretur autem ex subscriptione appositæ figuræ, quemadmodum dicimus, ut clarius elucescat depictum. non erit possibile utrunque. Relinquitur ergo non necessarium non esse, sequi eam quæ est, possibile est esse.  Hæc enim vera est, et de necesse esse. Hæc enim fit contradictio eius, quæ sequitur illam quæ est, non possibile esse: illam enim sequitur ea quæ est, impossibile  esse,  cesse  et,  necesse non esse, cuius negatio est, non nenon esse.  Sequuntur igitur et hæ contradictiones secundum prædictum modum: et nihil impossibile contingit sic positis.  CONSEQUENTIÆ ENUNCIATIONUM MODALIUM SECUNDUM  QUATUOR ORDINES AB ANTIQUIS POSITÆ ET ORDINATÆ  Primus Ordo  Possibile est esse  Contingens est esse  Non impossibile est esse  Non necessarium est esse  Tertius Ordo  Non possibile est esse  Non contingens est esse  Impossibile est esse  Necessarium est non esse  Secundus Ordo  Possibile est non esse  Contingzens est non esse  Non impossibile est non esse  Non necessarium est non esse  Quartus Ordo  Non possibile est non esse  Non contingens est non esse  Impossibile est non esse  Necesse est esse  Deinde cum dicit: Ergo impossibile et non impossibile etc.,  examinando dictam op'nionem, determinat veritatem. Et  circa hoc duo facit: quia primo examinat consequentias  earum de impossibili; secundo, illarum de necessario; ibi:  Necessarium. autem etc. Unde ex præmissa op' nione concludens et approbans, dicit: Ergo ista, scilicet, impossibile,  et, non impossibile, sequuntur illas, scilicet, contingens et  possibile, non contingens, et, non possibile, sequuntur, inquam, coniradictoriz, idest ita ut contradictoriæ de impossibili contradictorias de possibili et contingenti consequantur, sed comversim, idest, sed non ita quod affirmatio  affirmationem et negatio negationem sequatur, sed conversim, scilicet, quod affirmationem negatio et negationem  affirmatio. Et explanans hoc ait: lllud enim quod est possibile esse, idest affirmationem possibilis negatio sequitur  impossibilis, idest, non impossibile esse; negationem vero  possibilis affirmatio sequitur impossibilis. Illud enim quod  est, non possibile esse, sequitur ista, impossibile est esse ;  hæc autem, scilicet, impossibile esse, affirmatio est; illa  vero, scilicet, non possibile esse, negatio est; hic s'quidem modus negatur; ibi, non. Bene igitur dixerunt antiqui in quolibet ordine quoad consequentias illarum de  impossibili, quia, ut in suprascripta figura apparet, semper  ex  affirmatione possibilis negationem impossibilis, et ex  negatione possibilis affirmationem impossibilis inferunt. Deinde cum dicit: Necessarium autem. etc., intendit  examinando determinare consequentias de necessario. Et  circa hoc duo facit: primo examinat dicta antiquorum ;  secundo, determinat veritatem intentam; ibi: 4t vero neque  necessarium etc. Circa primum quatuor facit. Primo, declarat quid bene et quid male dictum sit ab antiquis in hac  re. - Ubi attendendum est quod cum quatuor sint enunciationes de necessario, ut dictum est, differentes inter se  sécundum quantitatem et qualitatem, adeo ut unam integrent figuram oppositionis iuxta morem illarum de ine$$£; duæ earum sunt contrariæ inter se, duæ autem  illis contrariis contradictoriæ, ut patet in hac figura.  Necesse  esse  Non necesse  non esse  Necesse  Contrariæ  e  2  $3,  €  S  S  [2  «9  o  x  o  *o  "v.  Subcontrariæ  non esse  e  e  δ  Non  fiecesse esse    Num. seq.  Num. 1.  Quia ergo antiqui universales contrarias bene intulerunt ex aliis, contradictorias autem earum, scilicet particulares, male intulerunt; ideo dicit quod considerandum  restat de his, quæ sunt de necessario, qualiter se habeant  in consequendo illas de possibili et non possibili. Manifestum est autem ex dicendis quod non eodem modo istæ  de necessario illas de possibili consequuntur, quo easdem  sequuntur illæ de impossibili. Nam omnes enunciationes  de impossibili recte illatæ sunt ab antiquis. Enunciationes  autem de necessario non omnes recte inferuntur: sed duæ  earum, quæ sunt contrariæ, scilicet, necessé est esse, et,  necesse est nom esse, sequuntur, idest recta consequentia   Cf. supra, n. 4.  Boethius.  Averroes.  deducuntur ab antiquis, in tertio scilicet et quarto ordine *;  reliquæ autem duæ de necessario, scilicet, non necesse  non esse, et, non necesse esse, quæ sunt contradictoriæ  supradictis, sunt extra consequentias illarum, in secundo  scilicet et primo ordine. Unde antiqui in tertio et quarto  ordine omnia recte fecerunt; in primo autem et in secundo peccaverunt, non quoad omnia, sed quoad enunciationes de necessario tantum.  7. Secundo cum dicit: Non enim est negatio eius etc.,  respondet cuidam tacitæ obiectioni, qua defendi posset  consequentia enunciationis de necessario in primo ordine  ab antiquis. facta. Est autem obiectio tacita talis. Non  possibile esse, et, necesse non esse, convertibiliter se  sequuntur in tertio ordine iam approbato; ergo, possibile  esse, et, non necesse esse, invicem se sequi debent in primo ordine. Tenet consequentia: quia duorum convertibiliter se sequentium contradictoria mutuo se sequuntur; sed  illæ duæ tertii ordinis convertibiliter se sequuntur, et  istæ duæ primi ordinis sunt earum contradictoriæ; ergo  istæ primi ordinis, scilicet, possibile esse, et, non necesse  esse, mutuo se sequuntur. - Huic, inquam, obiectioni respondet Aristoteles hic interimendo minorem quoad hoc  quod assumit, quod scilicet necessaria primi ordinis et  necessaria tertii ordinis sunt contradictoriæ. Unde dicit:  Non enim est negatio eius quod est, necesse mon esse (quæ  erat  esse,  in  tertio  ordine), illa quæ dicit, mom mecesse est  quæ sita erat in primo ordine. Et causam subdit,  quia contingit utrasque simul esse veras in eodem; quod  contradictoriis repugnat. Illud enim idem, quod est necessarium non esse, non est necessarium esse. Necessarium  siquidem est hominem non esse lignum et non necessarium est hominem esse lignum. Adverte quod, ut infra  patebit, istæ duæ de necessario, quas posuerunt antiqui.  in primo et tertio ordine, sunt subalternæ (et ideo sunt  simul veræ), et deberent esse contradictoriæ; et ideo  erraverunt antiqui.  8. Boethius autem et Averroes non reprehensive legunt tam hanc, quam præcedentem textus particulam,  sed narrative utranque simul iungentes. Narrare enim  aiunt Aristotelem qualitatem suprascriptæ figuræ quoad  consequentiam illarum de necessario, postquam narravit  quo modo se habuerint illæ de impossibili, et dicere  quod secundum præscriptam figuram non eodem modo  sequuntur illas de possibili illæ de necessario, quo sequuntur illæ de impossibili. Nam contradictorias de possibili contradictoriæ de impossibili sequuntur, licet conversim; contradictoriæ autem de necessario non dicuntur  sequi illas contradictorias de possibili, sed potius eas  sequi dicuntur contrariæ de necessario: non inter se  contrariæ, sed hoc modo, quod affirmationem possibilis  negatio de necessario sequi dicitur, negationem vero possibilis non affirmatio de necessario sequi ponitur, quæ sit  contradictoria illi negativæ quæ ponebatur sequi ad possibilem, sed talis affirmationis de necessario contrario. Et quod hoc ita fiat in illa figura ut dicimus, patet ex  primo et tertio ordine, quorum capita sunt negatio et affirmatio possibilis, et extrema sunt, non necesse esse, et,  necesse non esse. Hæ siquidem non sunt contradictoriæ.  Non enim est negatio eius, quæ est, necesse non  esse, non necesse esse (quoniam contingit eas simul verificari de eodem), sed illa scilicet, necesse non esse, est  contraria contradictoriæ huius, scilicet, non necesse esse,  quæ est, necesse est esse.  Sed quia sequenti litteræ magis consona est introductio nostra, quæ etiam Alberto consentit, et extorte videtur ab aliis exponi ly contrariæ, ideo prima, iudicio  meo, acceptanda est expositio et ad antiquorum reprehensionem referendus est textus.  9. Tertio cum dicit: Causa autem cur etc., manifestat  id quod præmiserat, scilicet, quod non simili modo ad  illas de possibili sequuntur illæ de impossibili et illæ  de necessario. Antiquorum enim hoc peccatum fuit tam  in  primo quam in secundo ordine, et quod simili modo  intulerunt illas de impossibili et necessario. In primo siquidem ordine, sicut posuerunt negativam simplicem de  impossibili, ita posuerunt negativam simplicem de necessario, et similiter in secundo ordine utranque negativam  declinatam locaverunt. Hoc ergo quare peccatum sit,  et  causa autem quare necessarium som sequitur possibile,  similiter,  idest, eodem modo cum cæteris, scilicet, de impossibili, est, quoniam impossibile redditur idem valens necessario, idest, æquivalet necessario, comtrarie, idest, contrario modo sumptum, et non eodem modo. Nam si, hoc  esse  est  impossibile, non inferemus, ergo hoc esse est  necesse, sed, hoc non esse est necesse. Quia ergo impossibile et necesse mutuo se sequuntur, quando dicta eorum contrario modo sumuntur, et non quando dicta eorum simili modo sumuntur, sequitur quod non eodem  modo ad possibile se habeant impossibile et necessarium,  sed contrario modo. Nam ad id possibile quod sequitur  dictum affirmatum de impossibili, sequitur dictum negatum de necessario; et e contrario. Quare autem hoc accidit infra dicetur. Erraverunt igitur antiqui quod similes  enunciationes de impossibili et necessario in primo et in  secundo ordine locaverunt.  ro.  Hinc apparet quod supra posita nostra expositio  conformior est Aristoteli. Cum enim hunc textum induxerit ad manifestandum illa verba: Manifestum. est autem.  quoniam non eodem modo, etc., eo accipiendo sunt sensu  illa verba, quo hic per causam manifestantur. Liquet autem quod hic redditur causa dissimilitudinis veræ inter  necessarias et impossibiles in consequendo possibiles, et  non dissimilitudinis falso opinatæ ab antiquis: quoniam  ex  vera  causa  nonnisi verum concluditur. Ergo reprehendendo antiquos, veram dissimilitudinem inter necessarias, et impossibiles in consequendo possibiles, quam non  servaverunt illi, proposuisse tunc intelligendum est, et  nunc  eam manifestasse. Quod autem dissimilitudo illa,  quam antiqui posuerunt inter necessarias et impossibiles,  sit falso posita, ex infra dicendis patebit. Ostendetur enim  quod contradictorias de possibili contradictoriæ de necessario sequuntur conversim; et quod in hoc non differunt  ab his quæ sunt de impossibili, sed differunt in hoc quod  modo diximus, quod possibilium et impossibilium se consequentium dictum est similiter, possibilium autem et necessariorum, se invicem consequentium dictum est contrarium, ut infra clara luce videbitur.  11. Quarto cum dicit: Aut certe impossibile est etc., manifestat aliud quod proposuerat, scilicet, quod contradictoriæ de necessario male situatæ sint secundum consequentiam ab antiquis, qui contradictiones necessarii ita  ordinaverunt. In primo ordine posuerunt contradictoriam  negationem, necesse esse, idest, non necesse esse; et in secundo contradictoriam negationem, necesse non esse, idest,  Albertus.   Ν  Cf. supra, n..3.  CAP. XIII,  non  necesse  non  esse.  Et probat hunc consequentiæ  modum esse malum in primo ordine. Cognita enim malitia primi, facile est secundi ordinis agnoscere defectum.  Probat autem hoc tali ratione ducente ad impossibile. Ad  necessarium esse sequitur possibile esse: aliter sequeretur non possibile esse, quod manifeste implicat; ad possibile esse sequitur non impossibile esse, ut patet; ad non  impossibile esse, secundum antiquos, sequitur in primo  ordine non necessarium esse; ergo de primo ad ultimum,  ad necessarium esse sequitur non necessarium esse: quod  est  inconveniens, quia est manifesta implicatio contradictionis. Relinquitur ergo quod male dictum sit, quod non  necessarium esse consequatur in primo ordine. Ait ergo  et  certe  impossibile est poni sic secundum consequentiam, ut antiqui posuerunt, necessarii contradictiones, idest illas duas enunciationes de necessario, quæ sunt negationes contradictoriæ aliarum duarum de necessario.  Nam ad id quod est, necessarium esse, sequitur, possibile  est esse: nam si non, idest quoniam si hanc negaveris  consequentiam, negatio possibilis sequitur illam, scilicet,  necesse esse. Necesse est enim de necessario aut dicere,  idest affirmare possibile, aut negare possibile: de quolibet enim est affirmatio vel negatio vera. Quare si dicas  quod, ad necesse esse, non sequitur, possibile esse, sed, non  possibile est esse; cum hæc æquivaleat illi quæ dicit, impossibile est esse, relinquitur quod ad, necesse esse, sequitur, impossibile esse, et idem erit, necesse esse et impossibile esse: quod est inconveniens. Bona ergo erat prima  illatio, scilicet, necesse est esse, ergo possibile est esse.  Tunc ultra. Illud quod est, possibile esse, sequitur, non  impossibile esse, ut patet in primo ordine. Ad hoc vero,  scilicet, non impossibile esse, secundum antiquos eodem  primo ordine, sequitur, non necesse est esse (quare contingit de primo ad ultimum); ad id quod est, necessarium  esse, sequitur, non necessarium esse: quod est inconveniens, immo impossibile.  12. Dubitatur hic: quia in I Priorum dicitur quod ad  possibile sequitur non necessarium, hic autem dicitur  oppositum. Ad hoc est dicendum quod possibile sumitur dupliciter. Uno modo in communi, et sic est quoddam superius ad necessarium et contingens ad utrunque, sicut animal ad hominem et bovem; et sic ad possibile non sequitur non necessarium, sicut ad animal non  sequitur non homo. Alio modo sumitur possibile pro  una parte possibilis in communi, idest pro possibili seu  contingenti, scilicet ad utrunque, scilicet quod potest esse  et  non esse; et sic ad possibile sequitur non necessarium.  Quod enim potest esse et non esse, non necessarium est  esse, et similiter non necessarium est non esse. Loquimur ergo hic de possibili in communi, ibi vero in speciali.  13. Deinde cum dicit: 4f vero neque necessarium etc.,  determinat veritatem intentam. Et circa hoc tria facit: primo, determinat quæ enunciatio de necessario sequatur ad  possibile; secundo, ordinat consequentias omnium modalium; ibi: Sequuntur enim etc. Quoad primum, sicut duabus  viis reprehendit antiquos, ita ex illis duobus motivis intentum probat. Et intendit quod, ad possibile esse, sequitur,  non necesse non esse. - Primum motivum est per locum  a divisione. Ad, possibile esse, non sequitur (ut probatum  est), non necesse esse, at vero neque, necesse esse, neque,  necesse non esse. Reliquum est ergo ut sequatur ad eam,  non necesse non esse: non enim dantur plures enunciationes de necessario. Huius communis divisionis primo  proponit reliqua duo membra excludenda, dicens: At vero  neque necessarium. esse, neque necessarium. nom esse, sequitur  ad, possibile non esse ; secundo probat hoc sic. Nullum formale consequens minuit suum antecedens: tunc enim oppositum consequentis staret cum antecedente; sed utrunOpp. D. Tnuowar T. I.  LECT.  que horum, scilicet, necesse esse, et, necesse non esse, minuit possibile esse; ergo, etc. Unde, tacita maiore, ponit  minoris probationem dicens: Illi enim, scilicet, possibile  esse, utraque, scilicet,esse et non esse, contingit accidere;  horum autem, scilicet, necesse esse et necesse non esse,  utrumlibet verum fuerit, non erunt illa duo, scilicet, esse  et  non esse, vera simul in potentia. Et primum horum  explanans ait: cum dico, possibile esse, simul est possibile  esse et non esse. Quoad secundum vero subdit. Si vero  dicas, necesse esse vel necesse non esse, non remanet  utrunque, scilicet, esse et non esse, possibile: si enim necesse est esse, possibilitas ad non esse excluditur; et si  necesse  est  non  esse,  possibilitas ad esse removetur.  Utrunque ergo istorum minuit illud antecedens, possibile  esse, quoniam ad esse et non esse se extendit, etc. Tertio  subdit conclusionem: relinquitur ergo quod, non necessarium non esse, comes est ei quæ dicit, possibile esse;  et  consequenter hæc ponenda erit in primo ordine.  14. Occurrit in hac parte dubium circa hoc quod dicit  quod, ad possibile non sequitur necessarium, cum superius  dixerit quod ad ipsum non sequitur non necessarium. Cum  enim necessarium et non necessarium sint contradictoria  opposita, et de quolibet sit affirmatio vel negatio vera, non  videtur posse evadi quin ad possibile sequatur necessarium,  vel, non necessarium. Et cum non sequatur necessarium,  sequetur non necessarium, ut dicebant antiqui. - Augetur et  dubitatio ex eo quod Aristoteles nunc  usus est tali argumentationis modo, volens probare quod ad necessarium  sequatur possibile. Dixit enim: Nam si non negatio possibilis  consequatur. Necesse est enim aut dicere aut negare.  Pro solutione huius, oportet reminisci habitudinis quæ est inter possibile et necessarium, quod scilicet  possibile est superius ad necessarium, et attendere quod  superius potestate continet suum inferius et eius oppositum, ita quod neutrum eorum actualiter sibi vindicat, sed  utrunque potest sibi contingere; sicut animali potest accidere homo et non homo: et consequenter inspicere debes quod, eadem est proportio superioris ad. habendum  affirmationem et negationem unius inferioris, quæ est alicuius subiecti ad affirmativam et negativam futuri contingentis. Utrobique enim neutrum habetur, et salvatur potentia ad utrumlibet. Unde, sicut in futuris contingentibus  nec affirmatio nec fiegatio est determinate vera, sed sub  disiunctione altera est necessario vera, ut in fine Primi  conclusum est; ita nec affirmatio nec negatio inferioris  sequitur determinate affirmationem vel negationem superioris, sed sub disiunctione altera sequitur necessario.  Unde non valet, est animal, ergo est homo, neque, ergo  non est homo, sed, ergo est homo vel non est homo. Quia ergo possibile superius est ad necessarium, ideo  optime determinavit Aristoteles neutram contradictionis  partem de necessario determinate sequi ad possibile. Non  tamen dixit quod sub disiunctione neutra sequatur; hoc  enim est contra illud primum principium: de quolibet est  affirmatio vera vel falsa.  Ad id autem quod additur, ex eadem trahitur radice  responsio. Quia enim necessarium inferius est ad possibile,  et  inferius non in potentia sed in actu includit suum  superius, necesse est ad inferius determinate sequi suum  superius: aliter determinate sequetur eius contradictorium. Unde per dissimilem habitudinem, quæ est inter  necessarium et possibile et non possibile, ex una parte,  et  inter possibile et necessarium et non necessarium, ex  altera parte, ibi optimus fuit processus ad alteram contradictionis partem determinate, et hic optimus ad neutram  determinate.  16. Oritur quoque alia dubitatiuncula. Videtur enim  quod Aristoteles difformiter accipiat ly possibile in præpy)  "ES ἃ:  nunc.   Lect. xin.  nunc  cedenti textu et in isto. Ibi enim accipit ipsum in communi, ut sequitur ad necessarium; hic videtur accipere  ipsum specialiter pro possibili ad utrumlibet, quia dicit  quod possibile est simul potens esse et non esse.  Et ad hoc dicendum est quod uniformiter usus est  possibili. Nec eius verba obstant: quoniam et de possibili  in communi verum est dicere quod potest sibi utrunque accidere, scilicet, esse et non esse: tum quia quidquid verificatur de suo inferiori, verificatur etiam de suo  superiori, licet non eodem modo; tum quia possibile in  communi neutram contradictionis partem sibi determinat,  et consequenter utranque sibi advenire compatitur, licet  non asserat potentiam ad utranque partem, quemadmodum possibile ad utrunque.  17. Secundum motivum ad idem, correspondens tacitæ  obiectioni antiquorum quam supra exclusit, addit cum subdit: Hoc enim verum est etc. Ubi notandum quod Aristoteles  sub illa maiore adducta pro antiquis (scilicet, convertibiliter se consequentium contradictoria se mutuo consequuntur), subsumit minorem: sed horum convertibiliter se  sequentium in tertio ordine (scilicet, non possibile esse et  necesse non esse), contradictoria sunt, possibile esse et non  necesse non esse (quoniam modi negatione eis opponunquuntur, scilicet, possibile esse, et, non necesse non esse, .  tamquam contradictoria duorum se mutuo consequentium.  Deinde cum dicit: Sequuntur enim. etc., ordinat  omnes  consequentias modalium secundum opinionem  propriam; et ait quod, hæ contradictiones, scilicet, de necessario, sequuntur illas de possibili, secundum modum  prædictum et approbatum illarum de impossibili. Sicut  enim contradictorias de possibili contradictoriæ de impossibili sequuntur, licet conversim; ita contradictorias de possibili contradictoriæ de necessario sequuntur conversim:  licet in hoc, ut dictum est, dissimilitudo sit quod, contradictoriarum de possibili et impossibili similiter est dictum, contradictoriarum autem de possibili et necessario  contrarium est dictum, ut in sequenti videtur figura:  CONSEQUENTIÆ ENUNCIATIONUM MODALIUM SECUNDUM  QUATUOR ORDINES AB ARISTOTELE POSITÆ ET ORDINATÆ.  Primus Ordo  Possibile est esse  Contingens est esse  Non impossibile est esse  Non necesse est non esse  .  Secundus Ordo  Possibile est non esse  Contingens est non esse  Non impossibile est non esse.  Non necesse est esse  tur); ergo istæ duæ (scilicet, possibile esse et non necesse  non esse) se consequuntur et in primo locandæ sunt ordine. Unde motivum tangens ait: Hoc enim, quod dictum  est, verum est, idest verum esse ostenditur, et de necesse non  esse, idest, et ex illius, scilicet, non necesse non esse, opposita, quæ est, necesse non esse. Vel, boc enim, scilicet, non  necesse non esse, verum est, scilicet, contradictorium illius  de necesse non esse. Et minorem subdens ait: Hæc enim,  scilicet, non necesse non esse, fit contradictio eius, quæ  convertibiliter sequitur, non possibile esse. Et explanans  hoc in terminis subdit. Illud enim, non possibile esse,  quod est caput tertii ordinis, sequitur hoc de impossibili,  scilicet, impossibile esse, et hæc de necessario, scilicet, necesse non esse, cuius negatio seu contradictoria est, non  necesse non esse. Et quia, cæteris paribus, modus negatur,  et illa, possibile esse, est (subauditur) contradictoria illius,  scilicet, non possibile; igitur ista duo mutuo se conseTertius Ordo  Non possibile est esse  Non contingens est esse  Impossibile est esse  Necesse est non esse  Quartus Ordo  Non possibile est non esse  Non contingens est non esse  Impossibile est non esse  Necesse est esse  Ubi vides quod nulla est inter Aristotelem et antiquos differentia, nisi in duobus primis ordinibus quoad  illas  de  necessario.  Præpostero namque situ usi sunt  antiqui, eam de necessario, quæ locanda erat in primo  ordine, in secundo ponentes, et eam quæ in secundo ponenda erat, in primo locantes. Et aspice quoque quod  convertibiliter se consequentium semper contradictoria se  consequi ordinavit. Singulis enim tertii ordinis singulæ  primi ordinis contradictoriæ sunt; et similiter singulæ  quarti ordinis singulis, quæ in secundo sunt, contradictoriæ sunt. Quod antiqui non observarunt. LECTIO (Canp. CarerANr lect. 1x)  AN AD ILLUD QUOD EST, NECESSARIUM ESSE, SEQUATUR ID QUOD EST, POSSIBILE ESSE?  ᾽Απορήσειε δ᾽ ἄν τις εἰ τῷ ἀναγκαῖον εἶναι τὸ δυνατὸν  εἶναι  ἕπεταιΕἴ τε γὰρ μὴ ἕπεται, ἀντίφχοσις  ἀχολουθήσει, τὸ μὴ δυνατὸν εἶναι" καὶ εἴ τις ταύτην  μὴ φήσειεν εἶναι ἀντίφασιν, ἀνάγκη λέγειν τὸ δυνατὸν μὴ εἶναι: ἅπερ ἄμφω ψευδῇ κατὰ τοῦ ἀναγκαῖον  115 Dubitabit autem aliquis, si ad illud quod est, necessarium  esse, illud quod est, possibile esse, sequatur. Nam si  εἶναι᾿Αλλὰ μὴν πάλιν τὸ αὐτὸ εἶναι δοχεῖ δυνατὸν τέμνεσθαι  καὶ μὴ τέμνεσθαι, καὶ εἶναι καὶ μιὴ εἶναι, ὥστε ἔσται  τὸ ἀναγκαῖον εἶναι ἐνδεχόμενον po εἶναι: τοῦτο δὲ  ψεῦδος.  3    ε  Φανερὸν δὴ ὅτι οὐ πᾶν τὸ δυνατὸν εἶναι βαδίζειν  xxi τὰ ἀντικείμενα δύναται, ἀλλ᾽ ἔστιν ἐφ᾽ ὧν οὐκ  ος͵ ἀληθές" πρῶτον μὲν ἐπὶ τῶν μὴ κατα λόγον δυνατῶνοἷον τὸ πῦρ θερμαντικὸν καὶ ἔχει δύναμιν ἄλογονΑἱ μὲν οὖν μετὰ λόγου δυνάμεις αἱ αὐταὶ πλειόνων  καὶ τῶν ἐναντίων, αἱ δ᾽ ἄλογοι οὐ πᾶσαι, ἀλλ᾿ ὥσπερ  εἴρηται, τὸ πῦρ οὐ δυνατὸν θερμαίνειν καὶ μή, οὐδ᾽  ὅσα ἄλλα ἐνεργεῖ ἀεί. "ἔνια μέντοι δύναται xal τῶν  χατὰ τὰς ἀλόγους δυνάμεις ἅμα τὰ ἀντιχείμενα δέἕξασται. ᾿λλλὰ τοῦτο μὲν τούτου χάριν εἴρηται, ὅτι  οὐ πᾶσα δύναμις τῶν ἀντικειμένων, οὐδ᾽ ὅσαι λέγονται χατὸὰ τὸ αὐτὸ εἴδος.  mew  [TAS  TA  necesse. Et duo facit: quia primo dubitationem absolvit; secundo, ex determinata quæstione alium or  Wr  ed  TE  ϑνα  MPPT  T  Lect. seq.  Num. 5.  dinem earumdem consequentiarum modalibus statuit ; ibi:  Et est fortasse etc. Circa primum duo facit: primo, movet  quæstionem; secundo, determinat eam; ibi: Manifestum  est etc. Movet ergo quæstionem: primo dicens: Dubitabit  autem. aliquis si ad id quod est. necesse esse sequatur. possibile  &5$£; et secundo, arguit ad partem affirmativam subdens:  Nam si non sequatur, contradictoria eius. sequetur, scilicet  non possibile esse, ut supra deductum est: quia de quolibet  est  affirmatio vel negatio vera. Et si quis dicat hanc, scilicet, non possibile esse, non esse contradictoriam illius,  scilicet, possibile esse, et propterea subterfugiendum velit  argumentum, et dicere quod neutra harum sequitur ad  necesse esse; talis licet falsum dicat, tamen concedatur  sibi, quoniam necesse erit ipsum dicere illius contradictoriam fore, possibile non esse. Oportet namque aut  non possibile esse aut possibile non esse, esse contradictoriam, possibile esse; et tunc in eumdem redibit errorem, quoniam utræque, scilicet, non possibile esse et possibile  non esse, falsæ sunt de eo quod est, necesse esse. Et  consequenter ad ipsum neutra sequi potest. Nulla enim  enunciatio sequitur ad ilam, cuius veritatem destruit.  Relinquitur ergo quod, ad necesse esse sequitur possibile  esse. Tertio, arguit ad partem negativam cum subdit:   vero rursus etc., et intendit talem rationem. Si ad necesse  esse  sequitur possibile esse, cum ad possibile sequatur  possibile non esse (per conversionem in oppositam qua"litatem, ut dicitur in I Priorum, quia idem est possibile  esse  et  non 6556), sequetur de primo ad ultimum quod  necesse esse est possibile non esse: quod est falsum manifeste.  Unde oppositionis hypothesim subdit: : vero  non sequatur, contradictio sequetur, quæ est, non possibile esse: et si quis hanc non dicat esse contradictionem, necesse est dicere, possibile non esse: quæ utræque falsæ sunt de necesse esse.  At vero rursus idem videtur esse possibile aliquid incidi  et non incidi, et esse et non esse: quare erit necesse  esse, contingens non esse. Hoc autem falsum est.  Manifestum est autem quod non omne possibile, vel esse,  vel ambulare, etiam opposita potest; sed est in qu:bus  non sit verum. Primum quidem in his quæ non secundum rationem possunt; ut ignis calefactibilis est, et habet vim irrationalem. Quæ igitur secundum rationem  potestates  sunt,  eædem plurium etiam contrariorum  sunt. Irrationales vero non omnes: sed (quemadmodum  dictum est) ignem non esse possibile calefacere et non;  neque quæcunque alia semper agunt. Alia vero possunt,  et  secundum irrationales potestates simul opposita suscipere. Sed hoc huius gratia: dictum est, quoniam non  omnis potestas oppositorum susceptiva est, neque quæcunque secundum eamdem speciem dicuntur.  rursus videtur idem possibile esse et non esse, ut domus, et  possibile incidi et. non. incidi, ut vestis. Quare de primo  ad ultimum necesse esse, erit contingens non esse. Hoc  autem est falsum. Ergo hypothesis illa, scilicet, quod possibile sequatur ad necesse, est falsa.  3. Deinde cum dicit: Manifestum. est. autem. etc., respondet dubitationi. Et primo, declarat veritatem simpliciter; secundo, applicat ad. propositum; ibi: Hoc igitur  possibile*  etc. Proponit ergo primo ipsam veritatem declarandam, dicens: Manifestum est autem, ex dicendis, quod non  omne possibile esse vel ambulare, idest operari: idest, non  omne possibile secundum actum primum vel secundum  ad opposita valet, idest ad opposita viam habet, sed est  invenire aliqua possibilia, in quibus non sit verum dicere  quod possunt in opposita. Deinde, quia possibile  a  potentia nascitur, manifestat qualiter se habeat potentia  ipsa ad opposita: ex hoc enim clarum erit quomodo possibile se liabeat ad opposita. Et circa hoc duo facit: primo  manifestat hoc in potentiis eiusdem rationis; secundo,  in his quæ æquivoce dicuntur potentiæ; ibi: Quasdam  vero potentiæ * etc. Circa primum tria facit: quia primo  manifestat qualiter potentia irrationalis se habeat ad opposita; et ait quod potentia irrationalis non potest in  opposita. Ubi notandum est quod, sicut dicitur IX Metapbys.,  potentia activa, cum nihil aliud sit quam principium quo  in aliud agimus, dividitur in potentiam rationalem et irrationalem. Potentia rationalis est, quæ cum ratione et  electione operatur; sicut ars medicinæ, qua medicus cognoscens quid sanando expediat infirmo, et volens applicat  remedia. Potentia autem irrationalis vocatur illa, quæ non  ex ratione et libertate operatur, sed ex naturali sua dispositione; sicut calor ignis potentia irrationalis est, quia  calefacit, non ut cognoscit et vult, sed ut natura sua  exigit. Assignatur autem ibidem duplex differentia proposito deserviens inter istas potentias.- Prima est quod  activa potentia irrationalis non potest duo opposita, sed Seq. c. xut.  Lect. seq.  Lect. seq.  RN est  determinata ad unum oppositorum, sive sumatur oppositum contradictorie sive contrarie. Verbi gratia: calor  non potest calefacere et non calefacere, quæ sunt contradictorie opposita, reque potest calefacere et frigefacere,  quæ sunt contraria, sed ad calefactionem determinatus  est.  Et hoc intellige per se, quia per accidens calor frigefacere potest, vel resolvendo materiam caloris, humidum  scilicet, vel per antiperistasin contrarii. Et similiter potest  non calefacere per accidens, scilicet si calefactibile deest.  Potentia autem rationalis potest in opposita et contradictorie  et  contrarie.  Arte  siquidem medicinæ potest  medicus adhibere remedia et non adhibere, quæ sunt  contradictoria; et adhibere remedia sana et nociva, quæ  sunt  contraria. - Secunda differentia est quod potentia  activa irrationalis, præsente passo, necessario operatur,  deductis impedimentis: calor enim calefactibile sibi præsens calefacit necessario, si nihil impediat; potentia autem  rationalis, passo præsente, non necessario operatur: præ-:  sente  siquidem. infirmo, non cogitur medicus remedia  adhibere.  É  5. Dimittantur autem metaphysico harum differentiarum rationes et ad textum redeamus. Ubi narrans quomodo se habeat potentia irrationalis ad oppositum, ait:  Et primum quidem, scilicet, non est verum dicere quod  sit potentia ad opposita in his quæ. possunt non secundum  rationem, idest, in his quorum posse est per potentias  irrationales; ut ignis calefactivus est, idest, potens calefacere,  et babet vim, idest, potentiam istam irrationalem. Ignis siquidem non potest frigefacere; neque in eius potestate  est calefacere et non calefacere. Quod autem dixit primum  ordinem, nota, ad secundum genus possibilis infra dicendum, in quo etiam non invenitur potentia ad opposita.  6. Secundo, manifestat quomodo potentia rationalis  se habeat ad opposita, intendens quod potentia rationalis  potest in opposita. Unde subdit: Ergo potestates secundum  rationem, idest rationales, ipsæ eædem sunt contrariorum,  a  non solum duorum, sed etiam plurimorum, ut arte medicinæ medicus plurima iuga contrariorum adhibere potest,  et  multarum operationum contradictionibus abstinere  potest. Præposuit autem ly ergo, ut hoc consequi ex dictis  insinuaret: cum enim oppositorum oppositæ sint proprietates, et potentia irrationalis ex eo quod irrationalis ad  opposita non se extendat; oportet potentiam rationalem  ad opposita viam habere, eo quod rationalis sit. Tertio, explanat id quod dixit de potentiis irrationalibus, propter causam infra assignandam ab ipso; et  intendit quod illud quod dixit de potentia irrationali,  scilicet quod non potest in opposita, non est verum universaliter, sed particulariter. Ubi nota quod potentia  irrationalis dividitur in potentiam activam, quæ est principium faciendi, et potentiam passivam, quæ est principium patiendi: verbi gratia, potentia ad calorem dividitur  in posse calefacere, et in posse calefieri. In potentiis activis irrationalibus verum est quod non possunt in opposita,  .ut declaratum est; in potentiis autem passivis non est  verum. Illud enim quod potest calefieri, potest etiam frigefieri, quia eadem est materia, seu potentia passiva contrariorum, ut dicitur in II De cælo et mundo, et potest  non calefieri, quia idem est subiectum privationis et formæ, ut dicitur in I Physic. Et propter hoc ergo explanando, ait: Irralionales vero potentiæ mom omnes a posse  in opposita excludi intelligendæ sunt, sed illæ quæ sunt  quemadmodum potentia ignis calefactiva (ignem enim  non posse non calefacere manifestum est), et universaliter, quæcunque alia sunt talis potentiæ, quod semper  agunt, idest quod quantum est ex se non possunt non  agere, sed ad semper agendum ex sua forma necessitantur. Huiusmodi autem sunt, ut declaravimus, omnes  potentiæ activæ irrationales. Alia vero sunt talis conditionis  quod  etiam  secundum irrationales potentias,  scilicet passivas, simul possunt in quædam opposita, ut  ær  potest calefieri et frigefieri.  Quod vero ait, simul, cadit supra ly possunt, et non  supra ly opposita; et est sensus, quod simul aliquid habet  potentiam passivam ad utrunque oppositorum, et non  quod habeat potentiam passivam ad utrunque oppositorum simul habendum. Opposita namque impossibile est  haberi simul. Unde et dici solet et bene, quod in huiusmodi est simultas potentiæ, non potentia simultatis. Irrationalis igitur potentia non secundum totum suum ambitum a posse in opposita excluditur, sed secundum partem  eius, secundum potentias scilicet activas. Quia autem videbatur superflue addidisse differentias inter activas et passivas irrationales, quia sat erat proposito ostendisse quod non omnis potentia oppositorum  est; ideo subdit quod hoc idcirco dictum est, ut notum  fiat quoniam nedum non omnis potestas oppositorum est,  loquendo de potentia communissime, sed neque quæcunque potentiæ dicuntur secundum eamdem speciem ad  opposita possunt. Potentiæ siquidem irrationales omnes  sub una specie irrationalis potentiæ concluduntur, et tamen non omnes in opposita possunt, sed passive tantum.  Non supervacanea ergo fuit differentia inter passivas et  activas irrationales, sed necessaria ad declarandum quod  non omnes potentiæ eiusdem speciei possunt in opposita.  Potest etly boc demonstrare utranque differentiam, scilicet,  inter rationales et irrationales,et inter irrationales activas et.  passivas inter se; et tunc est sensus, quod hoc ideo fecimus,  ut ostenderemus quod non omnis potestas, quæ scilicet  secundum eamdem rationem potentiæ physicæ dicitur,  quia scilicet potest in aliquid ut rationalis et irrationalis,  neque etiam omnis potestas, quæ sub eadem specie continetur, ut irrationalis activa et passiva sub specie irrationalis, ad opposita potest. Canp. CargrANI lect.DECLARATIS POTENTIIS QUÆ ÆQUIVOCÆ DICUNTUR, SUMITUR RATIO ZMPOSSIBILIS  AD DETERMINANDUM QUODNAM EX POSSIBILIBUS AD NECESSARIUM SEQUATUR   Ν  b  Ἔνιαι δὲ δυνάμεις ὁμώνυμοί εἰσι. Τὸ γὰρ δυνατὸν οὐχ  ἁπλῶς λέγεται, ἀλλὰ τὸ μὲν ὅτι ἀληθὲς ὡς ἐνεργείᾳ, Quædam vero potestates æquivocæ sunt. Possibile enim Sea. c. xu. :  non  L4  ὄν,  1  olov  ^  à   L]  δυνατὸν  e  f.  δίζε  e  (Q  δίζε  ^  ὶ e  NI  ῥαδίζειν ὅτι βαδίζει, καὶ ὅλως δυνατὸν εἶναι ὅτι ἤδη ἔστι xav ἐνέργειαν ὃ λέγεται  E  εἰ,  i  εἶναι δυνατόν, τὸ δὲ ὅτι ἐνεργήσειεν ἄν, οἷον δυνα[i   τὸν εἶναι βαδίζειν ὅτι βαδίσειεν ἄν.  Καὶ αὕτη μὲν ἐπὶ τοῖς κινητοῖς ἐστὶ μόνοις ἡ δύναμις,  ἐκείνη δὲ καὶ ἐπὶ τοῖς ἀχινήτοις, Γλμφω δὲ ἀληθὲς  εἰπεῖν τὸ μὴ ἀδύνατον εἶναι βαδίζειν ἢ εἶναι, xai  τὸ βαδίζον ἤδη καὶ ἐνεργοῦν καὶ τὸ βαδιστιχόν.  Τὸ μὲν οὖν οὕτω  δυνατὸν οὐχ ἀληθὲς χατο τοῦ ἀναγχαίου ἁπλῶς εἰπεῖν, θάτερον δὲ ἀληθές. “Ὥστε ἐπεὶ  7 τῷ ἐν μέρει τὸ καγόλου ἕπεται, τῷ ἐξ ἀνάγχης ὄντι  ἕπεται τὸ δύνασθαι εἶναι, οὐ μέντοι πᾶν.  Καὶ ἔστι δὴ ἀρχὴ ἴσως τὸ ἀναγκαῖον καὶ μὴ ἀνάγκαϊον  πάντων ἢ εἶναι ἢ μιὴ εἶναι, καὶ τἄλλα ὡς τούτοις  ἀχολουθοῦντα ἐπισκοπεῖν δεῖ.  Φανερὸν δὴ ix τῶν εἰρημένων. ὅτι τὸ ἐξ ἀνάγκης ὃν  χατ᾽  ἐνέργειάν ἐδτιν, ὥστε εἰ πρότερα τὰ ἀίδια, καὶ  ἡ ἐνέργεια δυνάμεως προτέρα.  οὐσίαι, τὰ  Καὶ τὰ μὲν ἄνευ δυνάμεως ἐνέργειαί εἰσιν, olov αἱ πρῶται  δὲ μετὰ δυνάμεως, ἃ τῇ μὲν φύσει  πρότερα, τῷ δὲ χρόνῳ ὕστερα, vd δὲ οὐδέποτε ἐνέργειαί εἰσιν, ἀλλὰ δυνάμεις μόνον.  3  ntendit declarare quomodo illæ quæ æquiUP vocæ dicuntur potentiæ, se habeant ad oppoE. sita. Et circa hoc duo facit: primo, declarat  £j)   Num. 3.  naturam talis potentiæ; secundo, ponit differentiam et convenientiam inter ipsas et supradictas, ibi: Et bæc quidem* etc. Ad evidentiam primi advertendum est quod V et TX Metapbys., Aristoteles dividit potentiam in potentias, quæ eadem ratione potentiæ dicuntur,  et in potentias, quæ non ea ratione qua prædictæ potentiæ nomen habent, sed alia. Et has appellat æquivoce  potentias. Sub primo membro comprehenduntur omnes  potentiæ activæ, et passivæ, et rationales, et irrationales.  Quæcunque enim posse dicuntur per potentiam activam  vel passivam quam habeant, eadem ratione potentiæ sunt,  quia scilicet est in eis vis principiata alicuius activæ vel  passivæ. Sub secundo autem membro comprehenduntur  potentiæ mathematicales et logicales. Mathematica potentia est, qua lineam posse dicimus in quadratum, et eo  quod in semetipsam ducta quadratum constituit. Logica  potentia est, qua duo termini coniungi absque contradictione in enunciatione possunt. Sub logica quoque potentia continetur quæ ea ratione potentia dicitur, quia est.  Hæ vero merito æquivoce a primis potentiæ dicuntur,  eo quod istæ nullam virtutem activam vel passivam prædicant; et quod possibile istis modis dicitur, non ea ratione  possibile appellatur quia aliquis habeat virtutem ad hoc  agendum vel patiendum, sicut in primis. Unde cum potentiæ habentes se ad opposita sint activæ vel passivæ,  istæ quæ æquivocæ potestates dicuntur ad opposita non  se  habent. De his ergo loquens ait: Quædam vero potestates æquivocæ sunt, et ideo ad opposita non se habent. Deinde declarans qualis sit ista potestas æquivoce  dicta, subdit divisionem usitatam possibilis per quam hoc  simpliciter dicitur: sed hoc quidem, quoniam verum est, quod in actu est; ut possibile ambulare, quoniam ambulat iam, et omnino possibile esse, quoniam  iam est in actu, quod dicitur esse possibile: illud vero,  quoniam actu esse posset; ut possibile ambulare, quoniam ambulabit.  in  Et hæc quidem in mobilibus solis est potestas, illa vero  et  immobilibus. Utrunque vero verum est dicere,  non impossibile esse ambulare vel esse, et quod iam  ambulat et agit, et ambulativum.  Hoc igitur possibile non est verum de necessario dicere  simpliciter, alterum autem verum est. Quare quoniam  partem universale sequitur, illud quod ex necessitate  est,  consequitur posse esse, sed non omne.  Et est fortasse quidem principium, quod necessarium est,  et  quod non necessarium est, omnium vel esse, vel non  esse:  et  oportet.  alia, veluti horum consequentia, considerare  Manifestum est autem ex his quæ dicta sunt, quod id  quod ex necessitate est, secundum actum est: quare si  priora sunt sempiterna, et quæ actu sunt potestate  priora sunt. Et hæc quidem sine potestate actus sunt, ut primæ substantiæ: alia vero cum potestate, quæ natura quidem  priora sunt, tempore vero posteriora. Alia vero numquam actus sunt, sed potestates tantum.  scitur, dicens: possibile enim non uno modo dicitur, sed  duobus. Et uno quidem modo dicitur possibile eo quod  verum est ut in actu, idest ut actualiter est; ut, possibile  est ambulare, quando ambulat iam: et omnino, idest universaliter possibile est esse, quoniam est actu iam quod  possibile dicitur. Secundo modo autem possibile dicitur  aliquid non ea ratione quia est actualiter, sed quia forsitan  aget, idest quia potest agere; ut possibile est ambulare,  quoniam ambulabit. Ubi advertendum est quod ex divisione bimembri possibilis divisionem supra positam potentiæ declaravit a posteriori. Possibile enim a potentia  dicitur: sub primo siquidem membro possibilis innuit potentias æquivoce; sub secundo autem potentias univoce,  activas  scilicet et passivas. Intendebat ergo quod quia  possibile dupliciter dicitur, quod etiam potestas duplex  est. Declaravit autem potestates æquivocas ex uno earum  membro tantum, scilicet ex his quæ dicuntur possibilia  quia sunt, quia hoc sat erat suo proposito.  3. Deinde cum dicit: Et bæc quidem etc., assignat differentiam inter utranque potentiam, et ait quod potentia  hæc ultimo dicta physica, est in solis illis rebus, quæ  sunt  mobiles ; illa autem est et in rebus mobilibus et  immobilibus. Possibile siquidem a potentia dictum eo  quod possit agere, non tamen agit, inveniri non potest  absque mutabilitate eius, quod sic posse dicitur. Si enim  nunc potest agere et non agit,si agere debet, oportet quod  mutetur de otio ad operationem. Id autem quod possibile dicitur eo quod est, nullam mutabilitatem exigit in  eo  quod sic possibile dicitur. Esse namque in actu, quod  talem possibilitatem fundat, invenitur et in rebus necessariis, et in immutabilibus, et in rebus mobilibus. Possibile ergo hoc, quod logicum vocatur, communius est illo  quod physicum appellari solet.  '  118  4. Deinde subdit convenientiam inter utrunque possibile, dicens quod in utrisque potestatibus et possibilibus  verum est non impossibile esse, scilicet, ipsum ambulare,  quod iam actu ambulat seu agit, et quod iam ambulabile  est; idest, in hoc conveniunt quod, sive dicatur possibile  ex  CONSEQUENTIÆ ENUNCIATIONUM MODALIUM  SECUNDUM QUATUOR ORDINES ALIO CONVENIENTI SITU  AB ARISTOTELE POSITÆ ET ORDINATÆ:  Primus Ordo  eo   Cf. lect. præc.  n. 5.  quod actu est, sive ex eo quod potest esse, de  utroque verificatur non impossibile; et consequenter necessario verificatur possibile, quoniam ad non impossibile  sequitur possibile. Hoc est secundum genus possibilis, respectu cuius Aristoteles supra dixit: Et primum quidem etc.,  in quo non invenitur via ad utrunque oppositorum, hoc,  inquam, est possibile quod iam actu est. Quod enim tali  ratione possibile dicitur, iam determinatum est ex eo  quod actu esse suppositum est. Non ergo possibile omne  ad utrunque possibile est, sive loquamur de possibili physice, sive logice.  5. Deinde cum dicit : Sic igitur possibile etc., applicat determinatam veritatem ad propositum. Et primo, concludendo ex dictis, declarat habitudinem utriusque possibilis  ad necessarium, dicens quod hoc ergo possibile, scilicet  physicum quod est in solis mobilibus, non est verum dicere  Necesse est esse  Non possibile est non esse  Non contingens est non esse  Impossibile est non esse  Tertius Ordo  Non. necesse est esse  Possibile est non esse  Contingens est non esse  Non impossibile est non esse  Secundus Ordo  Necesse est non esse  Non possibile est esse  Non contingens est esse  Impossibile est esse  Quartus Ordo  Non necesse est non esse  Possibile est esse  Contingens est esse  Non impossibile est esse  Vides autem hic nihil immutatum, nisi quod necessariæ quæ ultimum locum tenebant, primum sortitæ  sunt. Quod vero dixit fortasse, non dubitantis, sed absque  determinata ratione rem proponentis est.  et  prædicare de necessario simpliciter: quia quod simpliciter necessarium est, non potest aliter esse. Possibile  autem physicum potest sic et aliter esse, ut dictum est.  Addit autem ly simpliciter, quoniam necessarium est multiplex. Quoddam enim est ad bene esse, quoddam ex  suppositione: de quibus non est nostrum tractare, sed  solummodo id insinuare. Quod ut præservaret se ab illis  modis necessarii qui non perfecte et omnino habent necessarii rationem, apposuit ly simpliciter. De tali enim  necessario possibile physicum non verificatur. Alterum  autem possibile logicum, quod in rebus immobilibus invenitur, verum est de illo enunciare, quoniam nihil neces*  c   Lect. præced.  a  Cf. lect. præc.  n. I.   Num. seq.  sitatis adimit. Et per hoc solvitur ratio inducta ad partem negativam quæstionis. Peccabat siquidem in hoc, -quod ex necessario inferebat possibile ad utrunque quod  convertitur in oppositam qualitatem.  6. Deinde respondet quæstioni formaliter intendens  quod affirmativa pars quæstionis tenenda sit, quod scilicet ad necessarium sequitur possibile; et assignat causam.  Quia ad partem subiectivam sequitur constructive  suum totum universale; sed necessarium est pars subiectiva possibilis: quia possibile dividitur in logicum et  physicum, et sub logico comprehenditur necessarium ;  ergo ad necessarium sequitur possibile. Unde dicit: Quare,  quoniam partem, scilicet subiectivam, suum totum universale sequitur, illud quod ex necessitate est, idest necessarium, tamquam partem subiectivam, consequitur posse  esse, idest possibile, tamquam totum universale. Sed mon  omnino, idest sed non ita quod omnis species possibilis  sequatur; sicut ad hominem sequitur animal, sed non  omnino, idest non secundum omnes suas partes subiectivas sequitur ad hominem: non enim valet: est homo, ergo  est animal irrationale. Et per hoc confirmata ratione adducta ad partem affirmativam, expressius solvit rationem  adductam ad partem negativam, quæ peccabat secundum  fallaciam consequentis, inferens ex necessario possibile,  descendendo ad unam possibilis speciem, ut de se patet.  7. Deinde cum dicit: Et est fortasse quidem etc., ordinat  easdem modalium consequentias alio situ, præponendo  necessarium omnibus aliis modis. Et circa hoc duo facit:  primo, proponit quod intendit; secundo, assignat causam  dicti ordinis; ibi: Manifestum est autem* etc. Dicit ergo: Et  est fortasse principium omnium enunciationum modalium vel esse  vel non esse, idest, affirmativarum vel negativarum, necessarium et non necessarium. Et oportet considerare alia, scilicet, possibile contingere et impossibile esse, sicut borum,  scilicet, necessarii et non necessarii, consequentia, hoc modo:  8. Deinde cum dicit: Manifestum est autem. etc., intendit assignare causam dicti ordinis. Et primo, assignat  causam, quare præposuerit necessarium possibili tali ratione. Sempiternum est prius temporali; sed necessarium  dicit sempiternitatem (quia dicit esse in actu, excludendo  omnem mutabilitatem, et consequenter temporalitatem,  quæ sine motu non est imaginabilis), possibile autem  dicit temporalitatem (quia non excludit quin possit esse  et  non esse); ergo necesse merito prius ponitur quam  possibile. Unde dicit, proponendo minorem: Manifestum  est autem ex bis quæ dicta sunt etc., tractando de necessario:  quoniam id quod ex necessitate est, secundum actum est  totaliter, scilicet quia omnem excludit mutabilitatem et  potentiam ad oppositum: si enim mutari posset in oppositum aliquo modo, iam non esset necessarium. - Deinde  subdit maiorem per modum antecedentis conditionalis :  Quare si priora sunt sempiterna temporalibus etc. - Ultimo  ponit conclusionem: et quæ actu sunt omnino, scilicet  necessaria, priora sunt potestate, idest possibilibus, quæ  omnino actu esse non ponunt, licet compatiantur.  9. Deinde cum dicit: Et bæ quidem etc., assignat causam totius ordinis a se inter modales statuti, tali ratione.  Universi triplex est gradus. Quædam sunt actu sine poteillæ  state, idest sine admixta potentia, ut primæ substantiæ, non  quas in præsenti diximus primas, eo quod  principaliter et maxime substent, sed illæ quæ sunt primæ, quia omnium rerum sunt causæ, Intelligentiæ scilicet. - Alia sunt actu cum possibilitate, ut omnia mobilia, quæ secundum id quod habent de actu sunt priora  natura seipsis secundum id quod habent de potentia, licet e contra sit, aspiciendo ordinem temporis. Sunt enim  secundum id quod habent de potentia priora tempore  seipsis secundum id quod habent de actu. Verbi gratia,  Socrates prius secundum tempus poterat esse philosophus, deinde fuit actualiter philosophus. Potentia ergo  præcedit actum secundum ordinem temporis in Socrate,  ordine autem naturæ, perfectionis et dignitatis e converso  contingit. Prior enim secundum dignitatem, idest  dignior et perfectior habebatur Socrates cum philosophus  actualiter erat, quam cum philosophus esse poterat. Præposterus est igitur ordo potentiæ et actus in unomet,  utroque ordine, scilicet, naturæ et temporis attento, - Alia  vero nunquam sunt actu sed potestate tantum, ut motus,  tempus, infinita divisio magnitudinis, et infinita augmentatio numeri. Hæc enim, ut IX Metapbys. dicitur, nunquam  exeunt in actum, quoniam eorum rationi repugnat. Nunquam enim aliquid horum ita est quin aliquid eius expectetur, et consequenter nunquam esse potest nisi in potentia. Sed de his alio tractandum est loco.  9. Nunc hæc ideo dicta sint ut, inspecto ordine universi, appareat quod illum imitati sumus in nostro ordine.  Posuimus siquidem primo necessarium, quod sonat  actu esse sine potestate seu mutabilitate, imitando primum  gradum universi. - Locavimus secundo loco possibile et  contingens, quorum utrunque sonat actum cum possibilitate, et sic servatur conformitas ad secundum gradum  universi. - Præposuimus autem possibile et non contingens, quia possibile respicit actum, contingens autem  secundum vim nominis respicit defectum causæ, qui ad  potentiam pertinet: defectus enim potentiam sequitur; et  ex hoc conforme est secundæ parti universi, in qua actus  est prior potentia secundum naturam, licet non secundum  tempus.- Ultimum autem locum impossibili reservavimus,  eo  quod sonat nunquam fore, sicut et ultima universi  pars dicta est illa, quæ nunquam actu est. Pulcherrimus  igitur ordo statutus est, quando divinus est observatus.  IO. Quia autem suppositæ modalium consequentiæ  nil aliud sunt quam æquipollentiæ earum, quæ ob varium negationis situm, qualitatem, vel quantitatem, vel  utranque mutantis, fiunt; ideo ad completam notitiam  consequentium se modalium, de earum qualitate et quantitate pauca admodum necessaria dicenda sunt. Quoniam  igitur natura totius ex partium naturis consurgit, sciendum est quod subiectum enunciationis modalis et dicit  esse vel non esse, et est dictum unicum, et continet in  se subiectum dicti; prædicatum autem modalis enunciationis, modus scilicet, et totale prædicatum est ( quia  explicite vel implicite verbum continet, quod est semper  nota eorum quæ de altero prædicantur: propter quod  Aristoteles dixit quod modus est ipsa appositio), et continet in se vim distributivam secundum partes temporis.  Necessarium enim et impossibile distribuunt in omne tempus vel simpliciter vel tale; possibile autem et contingens  pro aliquo tempore in communi. Nascitur autem ex his quinque conditionibus duplex in qualibet modali qualitas, et triplex quantitas. - Ex  eo  enim quod tam subiectum quam prædicatum modalis verbum in se habet, duplex qualitas fit, quarum altera  vocatur qualitas dicti, altera qualitas modi. Unde et supra  dictum est* aliquam esse: affirmativam de modo et non  de dicto, et e converso. - Ex eo vero quod subiectum  modalis continet in se subiectum dicti, una quantitas  consurgit, quæ vocatur quantitas subiecti dicti: et hæc  distinguitur in universalem, particularem et singularem,  Sicut et quàántitas illarum de inesse. Possumus enim dicere, Socratem, quemdam hominem, vel omnem hominem, vel nullum hominem, possibile est currere. Ex eo autem quod subiectum unius modalis dictum unum   Ed. c: scilicet  omne dictum cutusque  E  isttus  modalis  re,  est  universalis, scilicet dictum .  est, consurgit alia quantitas, vocata quantitas dicti; et  hæc unica est singularitas: secundum omne enim dictum cuiusque modalis singulare est istius universalis,  scilicet  dictum. Quod ex eo liquet quod cum dicimus,  hominem esse album est possibile, exponitur sic, hoc  dictum, hominem esse album, est possibile. Hoc dictum  autem singulare est, sicut et, hic homo. Propterea et dicitur quod omnis modalis est singularis quoad dictum, licet  quoad subiectum dicti sit universalis vel particularis. Ex  eo autem quod prædicatum modalis, modus scilicet, vim  distributivam habet, alia quantitas consurgit vocata quantitas modi seu modalis; et hæc distinguitur in universalem et particularem. Ubi diligenter: duo attendenda sunt. Primum est  quod hoc est singulare in modalibus, quod prædicatum  simpliciter quantificat propositionem modalem, sicut et  simpliciter qualificat. Sicut enim illa est simpliciter affirmativa, in qua modus affirmatur, et illa negativa, in qua  modus negatur; ita illa est simpliciter universalis cuius  modus est universalis, et illa particularis cuius modus est  particularis. Et hoc quia modalis modi naturam sequitur. Secundum attendendum (quod est causa istius primi )  est, quod prædicatum modalis, scilicet modus, non habet  solam habitudinem prædicati respectu sui subiecti, scilicet esse et non esse, sed habitudinem syncategorematis distributivi, sed non secundum quantitatem partium  subiectivarum ipsius subiecti, sed secundum quantitatem  partium temporis eiusdem. Et merito. Sicut enim quia  subiecti enunciationis de inesse propria quantitas est penes  divisionem vel indivisionem ipsius subiecti (quia  est nomen quod significat per modum substantiæ, cuius  quantitas est per divisionem continui: ideo signum quantificans in illis distribuit secundum partes subiectivas), ita  quia subiecti enunciationis modalis propria quantitas est  tempus (quia est verbum quod significat per modum  motus, cuius propria quantitas est tempus), ideo modus  quantificans distribuit ipsum suum subiectum, scilicet, esse  vel non esse, secundum partes temporis. Unde subtiliter  inspicienti apparebit quod quantitas ista modalis proprii  subiecti modalis enunciationis quantitas est, scilicet, ipsius  esse vel non esse. Ita quod illa modalis est simpliciter  universalis, cuius proprium subiectum distribuitur pro  omni tempore: vel simpliciter, ut, hominem esse animal  est necessarium vel impossibile; vel accepto, ut, hominem  currere hodie, vel, dum currit, est necessarium vel impossibile. Illa vero est particularis, in qua non pro omni,  sed aliquo tempore distributio fit in communi tantum;  ut, hominem esse animal, est possibile vel contingens. Est  ergo et ista modalis quantitas subiecti sui passio (sicut  et universaliter quantitas se tenet ex parte materiæ), sed derivatur a modo, non in quantum prædicatum est (quod, ut  sic, tenetur formaliter), sed in quantum syncategorematis  officio fungitur, quod habet ex eo quod proprie modus est. Sunt igitur modalium (de propria earum quantitate loquendo) aliæ universales affirmativæ, ut illæ de  necessario, quia distribuunt ad semper esse; aliæ universales negativæ, ut illæ de impossibili, quia distribuunt ad  nunquam esse; aliæ particulares affirmativæ, ut illæ de  possibili et contingenti, quia distribuunt utrunque ad  aliquando esse; aliæ particulares negativæ, ut illæ de  non necesse et non impossibili, quia distribuunt ad aliquando non esse:sicut in illis de inesse, omnis, nullus,  quidam, non omnis, non nullus, similem faciunt diversitatem. Et quia, ut dictum est, hæc quantitas modalium  est  inquantum modales sunt, et de his, inquantum  huiusmodi, præsens tractatus fit ab Aristotele; idcirco  æquipollentiæ, seu consequentiæ earum, ordinatæ sunt  negationis vario situ, quemadmodum æquipollentiæ illarum de inesse: ut scilicet, negatio præposita modo faciat  æquipollere suæ contradictoriæ; negatio autem modo  postposita, posita autem dicti verbo, suæ æquipollere  contrariæ facit; præposita vero et postposita suæ subalternæ, ut videre potes in consequentiarum figura ultimo ab Aristotele formata. In qua, tali præformata oppositionum figura, clare videbis omnes se mutuo consequentes,  secundum alteram trium regularum æquipollere, et consequenter, totum primum ordinem secundo contrarium,  tertio contradictorium, quarto vero subalternum.  Necesse  esse  o  qd  Ε  S  s  E  ὦ  ri  Possibile  esse  Impossibile e  Contrariæ eo  E  δα  ES  x  ο x9    ?  . [d  x  Se,  ἢ  ᾿ς 6  Subcontrariæ esse  uU  g&  z  E  $  B  E Contingens  non essc  vtt  (Cann. CargTANI lect. xi)  CONTRARIETAS IN ANIMI OPINIONIBUS CONSTITUITUR EX ALIQUA  VERI FALSIQUE OPPOSITIONE.  Πότερον δὲ ἐναντία ἐστὶν ἡ κατάφασις τῇ ἀποφάσει ἢ  ἡ κατάφασις τῇ χαταφάσει, καὶ ὁ λόγος τῷ λόγῳ;  ὁ λέγων ὅτι πᾶς ἄνθρωπος δίκαιος τῷ οὐδεὶς ἄνθρωπος δίκαιος ἢ τὸ πᾶς ἄνθρωπος δίκαιος τῷ πᾶς ἄνθρωπος ἄδικος, οἷον ἔστι Καλλίας δίκαιος, οὐχ ἔστι  Καλλίας δίκαιος, Καλλίας ἄδιχός ἐστι" ποτέρα δὴ  Εἰ  ἐναντία τούτων ;  γὰρ τὰ μὲν ἐν τῇ φωνῇ ἀχολουθεῖ τοῖς ἐν τῇ διανοίᾳ, ἐκεῖ δὲ ἐναντία δόξα ἡ τοῦ ἐναντίου, οἷον ὅτι  πᾶς ἄνθρωπος δίκαιος τῇ πᾶς ἄνθρωπος ἄδικος, καὶ  ἐπὶ  τῶν  ἐν τῇ φωνῇ καταφάσεων ἀνάγχη ὁμοίως  ἔχειν. Εἰ δὲ ped ἐχεῖ ἡ τοῦ ἐναντίου δόξα ἐναντία  ἐστίν, οὐδὲ ἡ κατάφασις τῇ καταφάσει ἔσται ἐνανvla, ἀλλ᾽ ἡ εἰρημένη ἀπόφασις. Ὥστε σχεπτέον ποία  δόξα ἀληθὴς ψευδεῖ δόξη ἐναντία. πότερον ἡ τῆς  ἀποφάσεος ἢ ἡ τὸ ἐναντίον εἶναι δοξάζουσα. Λέγω  δὲ ὧδε. Ἔστι τις δόξα ἀληθὴς τοῦ ἀγαθοῦ ὅτι ἀγαθόν, ἄλλη δὲ ὅτι οὐκ ἀγαθὸν ψευδής, ἑτέρα δὲ ὅτι  χακόν. Ποτέρα δὴ τούτων ἐναντία τῇ ἀληθεῖ; xal  εἰ ἔστι μία, x40 ' ὁποτέραν ἡ ἐναντία:  μὲν δὴ τούτῳ οἴεσθαι τὰς ἐναντίας δόξας ὡρίσθαι,  τῷ τῶν ἐναντίων εἶναι, ψεῦδος" τοῦ γὰρ ἀγαθοῦ ὅτι  ἀγαθὸν καὶ τοῦ καχοῦ ὅτι κακὸν ἡ αὐτὴ ἴσως καὶ  ἀληθὴς ἔσται εἴτε πλείους εἴτε μία ἐστίν. ᾿Εναντία  δὲ ταῦτα. ÀAXA' οὐ τῷ ἐναντίων εἶναι ἐναντία, ἀλλὰ  μᾶλλον τῷ ἐναντίως.  Εἰ δὴ ἔστι μὲν τοῦ ἀγαθοῦ ὅτι ἐστὶν ἀγαθὸν δόξα, ἄλλη  δ᾽ ὅτι οὐχ ἀγαθόν, ἔστι δὲ ἄλλο τι ὃ οὐχ ὑπάρχει  οὐδ᾽ οἷόντε ὑπάρξαι, τῶν μὲν δὴ ἄλλων οὐδεμίαν  θετέον, οὔτε ὅσαι ὑπάρχειν τὸ μιὴ ὑπάρχον δοξαάζουσιν,  οὔθ᾽  ὅσαι μὴ ὑπάρχειν τὸ ὑπάρχον (ἄπειροι γὰρ  ἀμφότεραι, καὶ ὅσαι ὑπάρχειν δοξάζουσι τὸ μὴ ὑπάρyov, καὶ ὅσαι μὴ ὑπάρχειν τὸ ὑπάρχον);  SEN  ene ostquam determinatum est de enunciatione se(Q) (oy cundum quod diversificatur tam ex additione  facta ad terminos, quam ad compositionem AQUINO Num. .  Num. .  Lect. seq.  J7  eius, hic secundum divisionem a s. Thoma in  principio huius Secundi factam, intendit Aristoteles tractare quandam quæstionem circa oppositiones  enunciationum provenientes ex eo quod additur aliquid simplici enunciationi. Et circa hoc quatuor facit: primo, movet  quæstionem; secundo, declarat quod hæc quæstio dependet ab una alia quæstione prætractanda; ibi: Nam si ea, quæ  sunt in voce etc.; tertio, determinat illam aliam quæstionem; ibi: Nam arbitrari etc.; quarto, redit ad respondendum quæstioni primo motæ; ibi: Quare si in opinione etc.  Quæstio quam movere intendit est: utrum affirmativæ  enunciationi contraria sit negatio eiusdem prædicati, an affirmatio de prædicato contrario seu privativo?  Unde dicit: Utrum contraria est affirmatio. negationi. contradictoriæ, scilicet, et universaliter oratio affirmativa orationi negativæ; ut, affirmativa oratio quæ dicit, omnis  bomo est iustus, illi contraria sit orationi negativæ, nullus  bomo est iustus, aut illi, omnis bomo est iniustus, quæ  est affirmativa de prædicato privativo? Et similiter ista  affirmatio, Callias est iustus, est ne contraria illi contradictoriæ negationi, Callias non est iustus, aut illi, Callias est  iniustus, quæ est affirmativa de prædicato privativo?   Utrum autem contraria est affirmatio negationi, aut affirmatio affirmationi et oratio orationi, quæ dicit, quod  omnis homo iustus est, ei quæ est, nullus homo iustus  est; aut, omnis homo iustus est, ei quæ est, omnis  homo iniustus est; ut, Callias iustus est, Callias iustus  non  est, Callias iniustus est; utra harum contraria est?  Nam s. a, quæ suntin voce, sequuntur ea, quæ sunt in  intellectu, illic autem contraria est opinio contrarii,  ut  quod, omnis homo iustus est, ei quæ est, omnis  homo iniustus est, et etiam in his, quæ,sunt in voce,  affirmationibus, necesse est similiter se se habere. Quod  si neque illic contrarii opinatio contraria est, nec affirmatio affirmationi contraria erit; sed ea quæ dicta est  negatio. Quare  considerandum est quæ opinio vera  opinioni falsæ contraria est, utrum negationis, an ea,  quæ contrarium esse opinatur. Dico autem hoc modo.  Est quædam opinatio vera boni, quod bonum est ;: alia  vero, quod non bonum, est falsa; alia vero, quod malum: utra harum contraria veræ? et si est una, secundum quamnam contraria est?  Nam arbitrari contrarias opiniones definiri, eo quod contrariorum sunt, falsum est: boni enim, quod bonum est,  et mali, quod malum est, eadem fortasse opinio est et  vera, sive plures,sive una sit. Sunt autem ista contraria. Sed non eo quod contrariorum sint contraria :sunt  sed magis eo quod contrarie.  Si ergo est boni quidem, quod est bonum, opinio, alia autem quod non est bonum: est vero aliquid aliud quod  non est, neque potest esse: aliarum quidem nulia ponenda est, neque quæcunque esse, quod non est, opinantur, neque quæcunque non esse quod est (infinitæ enim utræque sunt, et quæ esse opinantur quod non est, et quæ non esse quod est).  2. Ad evidentiam tituli huius quæstionis, quia hactenus indiscusse ab aliis est relictus, considerare oportet  quod cum in enunciatione sint duo, scilicet ipsa enunciatio  seu significatio et modus enunciandi seu significandi, duplex inter enunciationes fieri potest oppositio, una ratione  ipsius enunciationis, altera ratione modi enunciandi. Si  modos enunciandi attendimus, duas species oppositionis  in latitudine enunciationum inveniemus, contrarietatem  scilicet et contradictionem. Divisæ enim superius sunt  enunciationes oppositæ in contrarias et contradictorias.  Contradictio inter enunciationes ratione modi enunciandi  est quando idem prædicatur de eodem subiecto contradictorio modo enunciandi; ut sicut unum contradictorium  nil ponit, sed alterum tantum destruit, ita una enunciatio  nil asserit, sed id tantum quod altera enunciabat destruit.  Huiusmodi autem sunt omnes quæ contradictoriæ vocantur, scilicet, omnis bomo est iustus, non omnis bomo est  iustus, Socrates est iustus, Socrates nom est iustus, ut de se  patet. Et ex hoc provenit quod non possunt simul veræ  aut falsæ esse, sicut nec duo contradictoria. Contrarietas  vero inter enunciationes ratione modi enunciandi est quando idem prædicatur de eodem subiecto contrario modo  enunciandi; ut sicut unum contrariorum ponit materiam  sibi et reliquo communem in extrema distantia sub illo  |  genere, ut patet de albo et nigro, ita una enunciatio ponit  Y  Cap. .  CAP. ,  subiectum commune sibi et suæ oppositæ in extrema  distantia sub illo prædicato. Huiusmodi quoque sunt  omnes illæ quæ contrariæ in figura appellantur, scilicet, omnis bomo est iustus, omnis bomo non. est iustus. Hæ  enim faciunt subiectum, scilicet hominem, maxime distare  sub iustitia, dum illa enunciat iustitiam inesse homini,  non quocunque modo, sed universaliter; ista autem enunciat iustitiam abesse homini, non qualitercunque, sed universaliter. Maior enim distantia esse non potest quam ea,  quæ est inter totam universitatem habere aliquid et nullum de universitate habere illud. Et ex hoc provenit quod  non possunt esse simul veræ, sicut nec contraria possunt eidem simul inesse; et quod possunt esse simul  falsæ, sicut et contraria simul non inesse eidem possunt. Ed. c: posita  sunt.  Si vero ipsam enunciationem sive eius significationem  attendamus secundum unam tantum oppositionis speciem,  in tota latitudine enunciationum reperiemus contrarietatem, scilicet secundum veritatem et falsitatem: quia duarum enunciationum significationes entia positiva sunt,  ac  per hoc neque contradictorie neque privative opponi  possunt, quia utriusque oppositionis alterum extremum  est formaliter non ens. Et cum nec relative opponantur,  ut clarum est, restat ut nonnisi contrarie opponi possunt.  3. Consistit autem ista contrarietas in hoc quod duarum enunciationum altera alteram non compatitur vel in  veritate vel in falsitate, præsuppositis semper conditionibus contrariorum, scilicet quod fiant circa idem et in  eodem tempore. Patere quoque potest talem oppositionem esse contrarietatem ex natura conceptionum animæ  componentis et dividentis, quarum singulæ sunt enunciationes. Conceptiones siquidem animæ adæquatæ nullo  alio modo opponuntur conceptionibus inadæquatis nisi  contrarie, et ipsæ conceptiones inadæquatæ, si se mutuo  expellunt, contrariæ quoque dicuntur. Unde verum et  falsum, contrarie opponi probatur ad AQUINO (vedasi) in I parte,  qu. xvii. Sicut ergo hic, ita et in enunciationibus ipsæ  significationes adæquatæ contrarie opponuntur inædequatis, idest veræ falsis; et ipsæ inadæquatæ, idest falsæ, contrarie quoque opponuntur inter se, si contingat  quod se non compatiantur, salvis semper contrariorum  conditionibus. Est igitur in enunciationibus duplex contrarietas, una ratione modi, altera ratione significationis,  et unica contradictio, scilicet ratione modi. Et, ut confusio vitetur, prima contrarietas vocetur contrarietas modalis, secunda contrarietas formalis. Contradictio autem  non ad confusionis vitationem quia unica est, sed ad proprietatis expressionem contradictio modalis vocari potest.  Invenitur autem contrarietas formalis enunciationum inter  omnes contradictorias, quia contradictoriarum altera alteram semper excludit; et inter omnes contrarias modaliter quoad veritatem, quia non possunt esse simul veræ,  licet non inveniatur inter omnes quoad falsitatem, quia  possunt esse simul falsæ.  4. Quia igitur Aristoteles in hac quæstione loquitur  de contrafietate enunciationum quæ se extendit ad contrarias modaliter, et contradictorias, ut patet in principio  et in fine quæstionis (in principio quidem, quia proponit  utrasque contradictorias dicens: Affirmatio negationi etc.;  et contrarias modaliter dicens: Ef oratio orationi etc., unde  et exempla utrarunque statim subdit, ut patet in littera.  In fine vero, quia ibi expresse quam conclusit esse contrariam affirmativæ universali veræ dividit, in contrariam  modaliter universalem negativam, scilicet, et contradictoriam: quæ divisio falsitate non careret, nisi conclusisset  contrariam formaliter, ut de se patet), quia, inquam, sic  accipit contrarietatem, ideo de contrarietate formali enunciationum quæstio intelligenda est. Et est quæstio valde  subtilis, necessaria et adhuc nullo modo superius tacta.  Opp. D. Tuowaz   LECT.   Est igitur titulus. quæstionis; utrum affirmativæ veræ  contraria formaliter sit negativa falsa eiusdem prædicati, aut affirmativa falsa de prædicato privativo, vel  contrario? Et sic patet quis sit sensus tituli, et quare non  movet quæstionem de quacunque alia oppositione enunciationum (quia scilicet nulla alia in eis formaliter invenitur), et quod accipit contrarietatem proprie et strictissime, licet talis contrarietas inveniatur inter contradictorias modaliter et contrarias modaliter.  Ὁ  Dictum vero fuit a s. Thoma provenire hanc dubitationem ex eo quod additur aliquid simplici enunciationi,  quia si tantum simplices, idest, de secundo adiacente  enunciationes attendantur, non habet hæc quæstio radicem. Quia autem simplici enunciationi, idest subiecto et  verbo substantivo, additur aliquid, scilicet práedicatum,  nascitur dubitatio circa oppositionem, an illud additum'  in contrariis debeat esse illudmet prædicatum, negatione  apposita verbo, an debeat esse prædicatum contrarium  seu  privativum, absque negatione præposita verbo.  5. Deinde cum dicit: Nam siea etc., declarat unde  sumenda sit decisio huius quæstionis. Et duo facit: quia  primo declarat quod hæc quæstio dependet ex una alia  quæstione, ex illa scilicet: utrum opinio, idest conceptio  animæ, in secunda operatione intellectus, vera, contraria  sit opinioni falsæ negativæ eiusdem prædicati, an falsæ  afürmativæ contrarii sive privativi. Et assignat causam,  quare illa quæstio dependet ex ista, quia scilicet enunciationes vocales sequuntur mentales, ut effectus adæquati causas proprias, et ut significata signa adæquata,  et consequenter similis est in hoc utraque natura. Unde  inchoans ab hac causa ait: Nam si ea quæ sunt in voce  sequuntur ed, quæ sunt in anima, ut dictum est in principio I libri, et illic, idest in anima, opinio contrarii  prædicati circa idem subiectum est contraria illi alteri,  quæ affirmat reliquum contrarium de eodem (cuiusmodi  sunt istæ mentales enunciationes, omnis bomo est iustus, omnis bomo est iniustus); si ita inquam est, etiam et in his  affrmationibus quæ sunt in voce, idest vocaliter sumptis, necesse est similiter se habere, ut scilicet sint contrariæ duæ affirmativæ de eodem subiecto et prædicatis  contrariis. Quod si neque illic, idest in anima, opinatio  contrarii prædicati, contrarietatem inter mentales enunciationes constituit, nec affirmatio vocalis affirmationi vocali contraria erit de contrario prædicato, sed magis affirmationi contraria erit negatio eiusdem prædicati. Dependet ergo mota quæstio ex ista alia sicut effectus ex causa. Propterea et concludendo addit secundum,  quod scilicet de hac quæstione prius tractandum est, ut  ex  causa cognita effectus innotescat dicens: Quare considerandum est, opinio vera cui opinioni falsæ contraria est: utrum  negationi falsæ am certe ei affirmationi falsæ, quæ contrarium esse opinatur. Et ut exemplariter proponatur, dico  hoc modo: Sunt tres opiniones de bono, puta vita: quædam enim est ipsius boni opinio vera, quoniam bonum  est, puta, quod vita sit bona; alia vero falsa negativa,  scilicet, quoniam bonum non est, puta, quod vita non sit  bona; alia item falsa affirmativa contrarii, scilicet, quoniam  malum est, puta, quod vita sit mala. Quæritur ergo quæ  harum falsarum contraria est veræ?  Quod autem subdidit: Et si est una, secundum quam  contraria est, tripliciter legi potest. Primo, dubitative, ut  Sit pars quæstionis; et tunc est sensus: quæritur quæ  harum falsarum contraria est veræ: et simul quæritur,  si est tantum una harum falsarum secundum quam fiat  contraria ipsi veræ: quia cum unum uni sit contrarium,  ut  dicitur in X Metaphysicæ, quærendo quæ harum sit  contraria, quæremus etiam an una earum sit contraria. Alio modo, potest legi adversative, ut sit sensus: quæ16   Supra lect. 1,  n. I.  Ed. c: singula.  ritur quæ harum sit contraria; quamquam sciamus quod  non utraque sed una earum est secundum quam fit contrarietas. - Tertio modo, potest legi dividendo hanc particulam, Et si est una, ab illa sequenti, secundum quam  contraria est; et tunc prima pars expressive, secunda vero  Boethius.  dubitative legitur; et est sensus: quæritur quæ harum  falsarum contraria est veræ, non solum si istæ duæ  falsæ inter se differunt in consequendo, sed etiam si  utraque est una, idest alteri indivisibiliter unita, quæritur  secundum quam fit contrarietas. Et hoc modo exponit  Boethius, dicens quod Aristoteles apposuit hæc verba  propter contraria immediata, in quibus non differt contrarium a privativo. Inter contraria enim mediata et immediata hæc est differentia, quod immediatis a prwativo  contrarium non infertur. Non enim valet, corpus colorabile  est non album, ergo est nigrum: potest enim esse rubrum.  In immediatis autem valet; verbi gratia: amimal est mon  sanum, ergo infirmum ; numerus est non par, ergo impar.  Voluit ergo Aristoteles exprimere quod nunc, cum quærimus quæ harum falsarum, scilicet negativæ et affirmativæ contrarii, sit contraria affirmativæ veræ, quærimus  universaliter sive illæ duæ falsæ indivisibiliter se sequantur, sive non.  8. Deinde cum dicit: Nam arbitrari, prosequitur hanc  secundam quæstionem. Et circa hoc quatuor facit. Primo,  declarat quod contrarietas opinionum non attenditur penes  contrarietatem materiæ, circa quam versantur, sed potius  penes oppositionem veri vel falsi; secundo, declarat quod  non penes quæcunque opposita secundum veritatem et  falsitatem est contrarietas opinionum; ibi: Si ergo boni etc.;  tertio, determinat quod contrarietas opinionum attenditur  penes per se primo opposita secundum veritatem et falsitatem tribus rationibus; ibi: Sed im quibus primo fallacia etc.; quarto, declarat hanc determinationem inveniri  in omnibus veram; ibi: Manifestum. est igitur etc.  Dicit ergo proponens intentam conclusionem, quod  falsum est arbitrari opiniones definiri seu determinari debere contrarias ex eo quod contrariorum obiectorum sunt.  Et adducit ad hoc duplicem tationem. Prima est: opiniones contrariæ non sunt eadem opinio; sed contrariorum eadem est fortasse opinio; ergo opiniones non sunt  contrariæ ex hoc quod contrariorum sunt. - Secunda est:  opiniones contrariæ non sunt simul veræ; sed opiniones  contrariorum, sive plures, sive una, sunt simul veræ  quandoque; ergo opiniones non sunt contrariæ ex hoc  quod contrariorum sunt.- Harum rationum, suppositis  maioribus, ponit utriusque minoris declarationem simul,  dicens: Boni enim, quoniam bonum est, et mali, quoniam  malum est, eadem forlasse opinio est, quoad primam. Et  subdit esse vera, sive plures sive una sit, quoad secundam.  Utitur autem dubitativo adverbio et disiunctione,  quia non est determinandi locus an contrariorum eadem  sit opinio, et quia aliquo modo est eadem et aliquo modo  non. Si enim loquamur de habituali opinione, sic eadem  est; Si autem de actuali, sic non eadem est. Alia siquidem mentalis compositio actualiter fit, concipiendo bonum esse bonum, et alia concipiendo malum esse malum,  licet eodem habitu utrunque cognoscamus, illud per se  primo, et hoc secundario, ut dicitur IX Metaphysicæ. Deinde subdit quod ista quæ ad declarationem minorum sumpta sunt, scilicet bonum et malum, contraria  sunt  ac  etiam  contrarietate sumpta stricte in moralibus,  per hoc congrua usi sumus declaratione. Ultimo inducit conclusionem. Sed non in eo quod contrariorum  opiniones sunt, contrariæ sunt, sed magis in eo quod  contrariæ, idest, sed potius censendæ sunt opiniones  contrariæ ex eo quod contrarie adverbialiter, scilicet contrario modo, idest vere et false enunciant. Et sic patet  primum.  9. Si ergo boni etc. Quia dixerat quod contrarietas opinionum accipitur secundum oppositionem veritatis et falsitatis earum, declarat modo quod non quæcunque secundum veritatem et falsitatem oppositæ opiniones sunt  contrariæ, tali ratione. De bono, puta, de iustitia, quatuor  possunt opiniones haberi, scilicet quod iustitia est bona,  et quod non est bona, et quod est fugibilis, et quod est  non appetibilis. Quarum prima est vera, reliquæ sunt  falsæ. Inter quas hæc est diversitas quod, prima negat  idem prædicatum quod vera affirmabat secunda affirmat  aliquid aliud quod bono non inest; tertia negat id quod  bono inest, non tamen illud quod vera affirmabat. Tunc  sic. Si omnes opiniones secundum veritatem et falsitatem sunt contrariæ, tunc uni, scilicet veræ opinioni non  solum multa sunt contraria, sed etiam infinita: quod est  impossibile, quia unum uni est contrarium. Tenet consequentia, quia possunt infinitæ imaginari opiniones falsæ  de una re, similes ultimis falsis opinionibus adductis,  affirmantes, scilicet ea quæ non insunt illi, et negantes  ea  quæ illi quocunque modo coniuncta sunt: utraque  namque indeterminata esse et absque numero constat.  Possumus* enim opinari quod iustitia est quantitas, quod  est relatio, quod est hoc et illud; et similiter opinari quod  iustitia non sit qualitas, non sit appetibilis, non sit habitus.  Unde ex supradictis in propositione quæstionis,  inferens pluralitatem falsarum contra unam veram, ait:  Si ergo est opinatio vera boni, puta iustitiæ, quoniam est  bonum; et si est etiam falsa opinatio negans idem, scilicet, quoniam mon est quid bonum; est vero et tertia opinatio falsa quoque, affirmans aliquid aliud inesse illi, quod  non inest nec inesse potest, puta, quod iustitia sit fugibilis, quod sit illicita; et hinc intelligitur quarta falsa  quoque, quæ scilicet negat aliquid aliud ab eo quod vera  opinio affirmat inesse iustitiæ, quod tamen inest, ut puta  quod non sit qualitas, quod non sit virtus; si ita inquam  est, nulla aliarum falsarum ponenda est contraria opinioni  veræ. Et exponens quid demonstret per ly aliarum, subdit: Neque quæcumque opinio opinatur esse quod mom est,  ut tertii ordinis opiniones faciunt: meque quæcumque opiEt  nio opinatur non. esse quod est, ut quarti ordinis opiniones  significant.  causam subdit: Infimitæ enim utræque  sunt, el quæ esse opinantur quod mom est, el quæ mon esse  quod est, ut supra declaratum fuit. Non ergo quæcunque opiniones oppositæ secundum veritatem et falsitatem contrariæ sunt. Et sic patet secundum.  d. c et:  possum  (Cann. CarkrANI lect. xi1)  ILLA VERI FALSIQUE OPPOSITIO, QUÆ OPINIONUM CONTRARIETATEM CONSTITUIT,  EST OPPOSITIO SECUNDUM AFFIRMATIONEM ET NEGATIONEM EIUSDEM DE EODEM.  ἀλλ᾽ ἐν ὅσαις ἐστὶν ἡ ἀπάτη. Αὐται δέ εἰσιν ἐξ ὧν αἱ αἱ  t,  γενέσεις" ἐκ τῶν ἀντικειμένων δὲ αἱ γενέσεις, ὥστε  χαὶ,  ^,   E  ἀπάται.  Ei οὖν τὸ ἀγαθὸν xal ἀγαθὸν xal οὐ χαχόν ἐστι; xad  τὸ μὲν καθ᾽ ἑαυτό, τὸ δὲ χατὰ συμβεβηκός (συμβέβηκε γὰρ αὐτῷ οὐ καχῷ εἶναι), μᾶλλον δὲ ἑκάστου, Sed in quibuscunque fallacia est. Hæ autem sunt ex his Seq.c.xiv.  ex quibus sunt generationes: ex oppositis vero generationes sunt: quare etiam fallacia.  Si ergo quod bonum est, et bonum, et non malum est;  et  ἀληθὴς ἡ καθ᾽ ἑαυτό, καὶ ψευδής, εἴπερ καὶ ἀληθής.  Ἡ μὲν οὖν ὅτι οὐχ ἀγαθὸν τὸ ἀγαθὸν τοῦ καθ᾽ ἑαυτὸ  ὑπάρχοντος, ψευδής, ἡ δὲ τοῦ ὅτι χακὸν τοῦ κατὰ  συμβεβηκός. “Ὥστε μᾶλλον ἂν εἴη ψευδής τοῦ ἀγαθοῦ  ἡ τῆς ἀποφάσεως, ἢ ἡ τοῦ ἐναντίου δόξα. Διέψευσται δὲ μάλιστα περὶ ἕκαστον ὁ τὴν ἐναντίαν ἔχων.  δόξαν: τὰ γὰρ ἐναντία τῶν πλεῖστον διαφερόντων  περὶ τὸ αὐτό. Εἰ οὖν ἐναντία μὲν τούτων ἡ ἑτέρα;  ἐναντιωτέρα δὲ ἡ τῆς ἀποφάσεως, δῆλον ὅτι αὑτὴ  ἂν εἴη ἐναντία. Ἢ δὲ τοῦ ὅτι κακὸν τὸ ἀγαθὸν συμ.πεπλεγμένη ἐστί: xol γὰρ ὅτι οὐχ ἀγαθὸν ἀνάγχη  ἴσως ὑπολαμβάνειν τὸν αὐτόν.  hoc quidem secundum se, illud vero secundum accidens (accidit enim ei non malum esse); magis autem  in unoquoque vera est, quæ secundum se est etiam falsa,  est  falsa  siquidem et vera. Ergo ea quæ est, quoniam non  bonum quod bonum est, eius, quæ secundum se  est;  eius,  quæ  illa  vero  quæ  est,  quoniam malum est,  est secundum accidens. Quare magis erit  falsa de bono ea, quæ est negationis opinio, quam  ea, quæ est contrarii. Falsus autem est maxime circa  singula, qui habet contrariam opinionem: contraria enim  sunt eorum, quæ plurimum circa idem differunt. Si  igitur harum contraria est altera, magis vero negationis  est  contraria; manifestum est quoniam hæc erit  contraria. Illa vero quæ est, quoniam malum est, quod  bonum est, implicita est. Etenim quoniam non bonum  Ἔτι δέ, εἰ καὶ ἐπὶ τῶν ἄλλων ὁμοίως δεῖ ἔχειν, καὶ  ταύτῃ ἂν δόξειε καλῶς concava ἢ γὰρ πανταχοῦ  τὸ τῆς ἀποφάσεως ἢ οὐδαμοῦ. Ὅσοις δὲ μή ἐστιν  ἐναντία, περὶ τούτων ἔστι μὲν ψευδὴς ἡ τῇ ἀληθεῖ  ἀντικειμένη, οἷον ὁ τὸν ἄνθρωπον οὐχ ἄνθρωπον οἰόμενος ον  Ei  οὖν  ἄλλαι αἱ τῆς ἀποφάσεως.  αὗται ἐναντίαι. xal αἱ: Ἔτι ὁμοίως ἔχει ἡ τοῦ ἀγαθοῦ ὅτι ἀγαθὸν καὶ ἡ τοῦ  ^,  μὴ ἀγαθοῦ ὅτι οὐχ ἀγαθόν, xad πρὸς ταύταις ἡ τοῦ  ἀγαθοῦ ὅτι οὐκ ἀγαθόν, καὶ ἡ τοῦ μὴ ἀγαθοῦ ὅτι  ἀγαθόν. Τῇ οὖν τοῦ μηὴ ἀγαθοῦ ὅτι οὐχ ἁ αθὸν  ἀληθεῖ οὔσῃ δόξῃ τίς ἂν εἴη ἡ ἐναντία ; οὐ γὰρ δ᾽ὴ ἡ  λέγουσα ὅτι Xa dv ἅμα γὰρ ἄν ποτε εἴη ἀληθής,  s? hail δὲ ἀληθὴς ἀληθεῖ ἐναντία. Ἔστι γάρ τι  μὴ ἀγαθὸν χακόν, ὥστε ἐνδέχεται ἅμα ἀληθεῖς εἶναι.  Οὐδ᾽ αὖ ἡ ὅτι οὐ κακόν: ἀληθὴς γὰρ καὶ αὕτη" ἅμα  γὰρ καὶ ταῦτα ἂν εἴη. Λείπεται οὖν τῇ τοῦ μὴ  ἀγαθοῦ ὅτι οὐχ ἀγαθὸν ἐναντία ἡ τοῦ μὴ ἀγαθοῦ  ὅτι ἀγαθόν" ψευδὴς γὰρ αὕτη. Ὥστε χαὶ ἡ τοῦ ἀγαθοῦ ὅτι οὐκ ἀγαθὸν τῇ τοῦ ἀγαθοῦ ὅτι ἀγαθόν.  V  Φανερὸν δὲ ὅτι οὐδὲν διοίσει οὐδ᾽ ἂν καθόλου τιθῶμεν  τὴν κατάφασιν: ἡ γὰρ καθόλου ἀπόφασις ἐναντία  ἔσται, οἷον τῇ δόξῃ τῇ Sobakoóon, ὅτι πᾶν ὃ ἂν dj  ἀγαθὸν ἀγαθόν ἐστιν, ἡ ὅτι οὐδὲν τῶν ἀγαθῶν ἀγα0óv: Ἢ γὰρ τοῦ ἀγαθοῦ ὅτι ἁ αθόν, εἰ χαθόλου τὸ  ἀγαθόν, ἡ αὐτή ἐστι τῇ ὅτι ὃ ἂν ἡ ἀγαθὸν δοξαζούσῃ  ὅτι ἀγαθόν" τοῦτο δὲ οὐδὲν διαφέρει τοῦ ὅτι πᾶν ὃ  ἂν fj ἀγαθὸν ἀγαθόν ἐστι. 'Ομοίως $: xal ἐπὶ τοῦ μὴ  ἀγαθοῦ.  “Ὥστε εἴπερ ἐπὶ δόξης οὕτως ἔχει; εἰσὶ δὲ αἱ ἐν τῇ φωνῇ  καταφάσεις καὶ ἀποφάσεις σύμβολα τῶν ἐν τῇ ψυχῇ,  δῇλον ὅτι χαὶ καταφάσει ἐναντία μὲν ἀπόφασις ἡ  περὶ τοῦ αὐτοῦ χαθόλου, οἷον, τῇ ὅτι πᾶν ἀγαθὸν  ἀγαθόν, ἢ ὅτι πᾶς ἄνθρωπος ἀγαθός, ἡ ὅτι οὐθὲν  ἢ οὐδείς, ἀντιφατικῶς $n ἢ οὐ πᾶν ἢ οὐ πᾶς.  est, necesse est forte idem ipsum opinari.  Amplius si etiam in aliis similiter oportet se habere, et  hoc modo videbitur bene esse dictum. Aut enim ubique  ea, quæ est contradictionis, aut nusquam. Quibus vero  non est contrarium, de his quidem est falsa ea, quæ  est veræ opposita; ut qui hominem non putat esse hominem, falsus est. Si ergo hæ contrariæ sunt, etiam aliæ  quæ sunt contradictiones.  Amplius similiter se habet opinio boni, quoniam bonum  est, et non boni, quoniam non bonum est. Et præter  has boni, quoniam non bonum est, et non boni quoniam bonum est. Illi ergo quæ est, non boni quoniam  non bonum est; veræ opinationi quænam est contraria? non enim ea, quæ dicit quoniam malum est: simul enim aliquando veræ erunt. Nunquam autem vera  veræ  est  contraria: est enim quidquam non bonum  malum. Quare contingit simul esse veras. At vero nec  illa, quæ est, quod non malum: vera enim et, hæc: simul enim et hæc erunt. Relinquitur ergo, ei, quæ est  non-bonum, quoniam non bonum est, contraria ea,  quæ est, non boni, quoniam bonum est. Falsa enim  hæc. Quare et ea, quæ est boni, quoniam non bonum  est, ei, quæ est boni, quoniam est bonum.  Manifestum est autem quoniam nihil interest nec si universaliter ponamus affirmationem. Universalis enim negatio contraria erit; ut opinioni, quæ opinatur, quoniam omne .quod est bonum, bonum est, ea quæ est,  quoniam nihil horum quæ bona sunt, bonum est. Nam  ea  quæ est boni quoniam bonum est, si universaliter  sit bonum, eadem est ei quæ opinatur, quod quidquid  bonum est, quoniam bonum est. Hoc autem nihil differt ab eo quod est, quod omne quod est bonum, bonum est. Similiter autem et in non bono.  Quare si in opinione sic se habet; sunt autem hæ quæ  sunt in voce affirmationes et negationes notæ eorum  quæ sunt in anima; manifestum est quoniam affirmationi contraria quidem negatio est, quæ de eodem universaliter; ut ei, quæ est, quoniam omne bonum bonum est, vel quoniam omnis homo bonus, ea quæ est,  quoniam nullum vel nullus: contradictorie autem quæ  est, quod non omne aut non omnis.  Φανερὸν δὲ ὅτι καὶ ἀληθῇ ἀληθεῖ οὐχ ἐνδέχεται ἐναντίαν εἶναι οὔτε δόξαν οὔτε ἀπόφασιν. ᾿Εναντίαι μὲν  γὰρ αἱ περὶ τὰ ἀντικειμενα περὶ ταῦτα δὲ ἐνδέχεται  τὸν  ἀληθεύειν  αὐτόν:  x s οὐχ ἐνδέχεται τὰ  ἐναντία ὑπαάρχειντῷ αὐτῷ.  uia subtili indagatione ostendit quod nec materiæ contrarietas, nec veri falsique qualisτῷ  hcunque oppositio contrarietatem opinionum  ZA constituit, sed quod aliqua veri falsique oppositio id facit, ideo nunc determinare intendit  qualis sit illa veri falsique oppositio, quæ opinionum contrarietatem constituit. Ex hoc enim directe quæstioni satisfit. Et intendit quod sola oppositio opinionum secundum  affirmationem et negationem eiusdem de eodem etc. constituit contrarietatem earum. Unde intendit probare istam  conclusionem per quam ad quæsitum respondet: Opiniones oppositæ secundum affirmationem et negationem  eiusdem de eodem sunt contrariæ; et consequenter illæ,  quæ sunt oppositæ secundum aflirmationem contrariorum prædicatorum de eodem, non sunt contrariæ, quia  Manifestum est autem, quoniam et veram veræ non contingit esse contrariam, nec opinionem nec contradictionem. Contrariæ enim, quæ circa opposita sunt; circa  eadem autem contingit verum dicere eumdem; simul  autem non contingit eidem inesse contraria.  et  illi inter quos est primo fallacia, quia utrobique termini sunt affirmatio et negatio.    Deinde cum dicit: Si ergo quod bonum est etc., intendit probare maiorem principalis rationis. Et quia iam  declaravit quod ea, in quibus primo est fallacia, sunt  affirmatio et negatio, ideo utitur, loco maioris probandæ,  scilicet,  opiniones in quibus primo est fallacia, sunt  contrariæ, sua conclusione, scilicet, opiniones. oppositæ  secundum affirmationem et negationem eiusdem sunt  contrariæ.  Æquivalere enim iam declaratum est. Fecit  autem hoc consuetæ brevitati studens, quoniam sic procedendo, et probat maiorem, et respondet directe quæstioni, et applicat ad propositum simul. Probat ergo loco  maioris conclusionem principaliter intentam quæstionis,  hanc, scilicet: Opiniones oppositæ secundum affirmasic affirmativa vera haberet duas contrarias, quod est  impossibile. Unum enim uni est contrarium. Probat autem istam conclusionem tribus rationibus. -Prima est: opiniones in quibus primo est fallacia  sunt contrariæ; opiniones oppositæ secundum affirmationem et negationem eiusdem de eodem sunt in quibus  primo est fallacia; ergo opiniones oppositæ secundum  affirmationem et negationem eiusdem de eodem sunt contrariæ. - Sensus maioris est: opiniones quæ primo ordine  naturæ sunt termini fallaciæ, idest deceptionis seu erroris, sunt contrariæ: sunt enim, cum quis fallitur seu errat,  duo termini, scilicet a quo declinat, et ad quem labitur. Huius rationis in littera primo ponitur maior, cum dicitur: Sed in. quibus primo fallacia est ; adversative enim continuans sermonem supra dictis, insinuavit non tot enumeratas opiniones esse contrarias, sed eas in quibus primo  fallacia  est  modo exposito. Deinde subdit probationem  minoris talem: eadem proportionaliter sunt, ex quibus  sunt generationes et ex quibus sunt fallaciæ; sed generationes sunt ex oppositis secundum affirmationem et negationem; ergo et fallaciæ sunt ex oppositis secundum affirmationem et negationem. Quod erat assumptum in minore. Unde ponens maiorem huius prosyllogismi, ait: Hæc  autem, scilicet fallacia, est ex bis, scilicet terminis, proportionaliter tamen, ex quibus sunt et generationes. Et subsumit  minorem: Ex oppositis vero, scilicet secundum affirmationem et negationem, et generationes fiunt. Et demum concludit: Quare etiam fallacia, scilicet, est ex oppositis secundum affirmationem et negationem eiusdem de eodem.  3. Ad evidentiam huius probationis scito quod idem  faciunt in processu intellectus cognitio et fallacia seu  error, quod in processu naturæ generatio et corruptio.  Sicut namque perfectiones naturales generationibus acquiruntur, corruptionibus desinunt; ita cognitione perfectiones intellectuales acquiruntur, erroribus autem seu deceptionibus amittuntur. Et ideo, sicut tam generatio quam  corruptio est inter affirmationem et negationem, ut proprios terminos, ut dicitur V Pbysic.; ita tam cognoscere  aliquid, quam falli circa illud, est inter affirmationem et negationem, ut proprios terminos: ita quod  id ad quod primo attingit cognoscens aliquid in secunda  operatione intellectus est veritatis affirmatio, et quod per  se  primo abiicitur est illius negatio. Et similiter quod  per se primo perdit qui fallitur est veritatis affirmatio, et  quod primo incurrit est veritatis negatio. Recte ergo dixit  quod iidem sunt termini inter quos primo est generatio,  tionem  et  negationem eiusdem sunt contrariæ; et non  illæ, quæ sunt oppositæ secundum contrariorum affrmationem de eodem. Et intendit talem rationem. Opinio vera et eius magis falsa sunt contrariæ opiniones;  'oppositæ secundum affirmationem et negationem sunt  vera  et  eius  magis falsa; ergo opiniones oppositæ secundum affirmationem et negationem sunt contrariæ.  Maior probatur ex eo quod, quæ plurimum distant circa  idem sunt contraria; vera autem et eius magis falsa  plurimum distant circa idem, ut patet. Minor vero probaturex eo quod opposita secundum negationem eiusdem  de  eodem est per se falsa respectu suæ affirmationis  veræ. Opinio autem per se falsa magis falsa est quacunque alia. Unumquodque enim quod est per se tale,  magis tale est quolibet quod est per aliud tale.  5. Unde ad suprapositas opiniones in propositione  quæstionis rediens, ut ex illis exemplariter clarius intentum ostendat, a probatione minoris inchoat tali modo.  Sint quatuor opiniones, duæ veraé, scilicet, bonum est  bonum, bonum non est malum, et duæ falsæ, scilicet,  bonum non est bonum, et, bonum est malum. Clarum est  autem quod prima vera est ratione sui, secunda autem est  vera secundum accidens, idest, ratione alterius, quia scilicet non esse malum est coniunctum ipsi bono: ideo enim  ista est vera, bonum non est malum, quia bonum est  bonum, et non e contra; ergo prima quæ est secundum  se  vera, ést magis vera quam sécunda: quia in unoquoque genere quæ secundum se est vera est magis  vera.  sunt,  Illæ  autem duæ falsæ eodem modo censendæ  quod scilicet magis falsa est, quæ secundum se  est falsa. Unde quia prima earum, scilicet, bonum non est  bonum, quæ est negativa, est per se et non ratione alterius falsa, relata ad illam affirmativam, bonum est bonum; et secunda, scilicet, bonum est malum, quæ est  affirmativa contrarii, ad eamdem relata est falsa per accidens, idest ratione alterius (ista enim, scilicet, bonum  est malum, non immediate falsificatur ab illa vera, scilicet  bonum est bonum, sed mediante illa alia falsa, scilicet,  bonum non est bonum); idcirco magis falsa respectu affirmationis veræ est negatio eiusdem quam affirmatio contrarii. Quod erat assumptum in minore.  6. Unde rediens ad supra positas (ut dictum est) opiniones, infert primas duas veras opiniones dicens: Si ergo  quod bonum. est et bonum est et. mon. est malum; et hoc quidem, scilicet quod dicit prima opinio, est verum secundum se, idest ratione sui; illud vero, scilicet quod dicit,  ecunda opinio, est verum secundum accidens, quia acci:  it, idest, coniunctum est ei, scilicet bono, malum non  esse. In unoquoque autem ordine magis vera est illa quæ  secundum se est vera. Etiam igitur falsa magis est quæ  secundum se falsa est: siquidem et vera huius est naturæ, ut declaratum est, quod scilicet magis vera est, quæ  secundum se est vera. Ergo illarum duarum opinionum  falsarum in quæstione propositarum, scilicet, bonum non  est bonum, et, bonum est malum, ea quæ est dicens,  quoniam non est bonum quod bonum est, idest negativa,  scilicet, bonum non est bonum, est consistens falsa secundum se, idest, ratione sui continet in seipsa falsitatem;  illa vero reliqua falsa opinio, quæ est dicens, quoniam  malum est, idest, affirmativa contraria, scilicet, bonum  est malum, eius, quæ est, idest, illius affirmationis dijd.  Ed. e et  CTS ENT AQUINO TRENT  ἀπ᾿ :  j centis, bonum est bonum, secundum accidens, idest, ratione alterius falsa est.  Deinde subdit ipsam minorem: Quare erit magis falsa  de bono, opinio negationis, quam contrarii. Deinde ponit maiorem dicens quod, semper magis falsus circa singula est ille  qui babet contrariam opinionem, ac si dixisset, veræ opinioni  magis falsa-est contraria. Quod assumptum erat in maiore.  Et eius probationem subdit, quia contrarium est de num?ro  eorum. quæ. circa idem. plurimum differunt. Nihil enim plus  differt a vera opinione quam magis falsa circa illam. Ultimo directe applicat ad quæstionem dicens:  Quod si (pro, quia) barum falsarum, scilicet, negationi  eiusdem et affirmationis contrarii, altera est contraria veræ affirmationi, opinio vero contradictionis, idest, negationis eiuslem de eodem, magis est contraria secundum  falsitatem, idest, magis est falsa, manifestum est quoniam  hæc, scilicet opinio falsa negationis, erit contraria affirmationi veræ, et e contra. Illa vero opinio quæ est dicens, quoniam malum est quod bonum est, idest, affirmatio contrarii, non contraria sed implicita est, idest, sed  implicans in se veræ contrariam, scilicet, bonum non est  bonum. Etenim necesse est ipsum opinantem affirmationem contrarii opinari, quoniam idem de quo affirmat  contrarium non est bonum. Oportet siquidem si quis  opinatur quod vita est mala, quod opinetur quod vita  non sit bona. Hoc enim necessario sequitur ad illud, et  non e converso; et ideo affirmatio contrarii implicita dicitur. Negatio autem eiusdem de eodem implicita non  est.- Et sic finitur prima ratio. Notandum est hic primo quod ista regula generalis  tradita hic ab Aristotele de contrarietate opinionum, quod  Scilicet contrariæ opiniones sunt quæ opponuntur secundum affirmationem et negationem eiusdem de eodem,  et in se et in assumptis ad eius probationem propositionibus scrupulosa est. Unde multa hic insurgunt dubia.Primum est quia cum oppositio secundum affirmationem  et negationem non constituat contrarietatem sed contradictionem apud omnes philosophos, quomodo Aristoteles  opiniones oppositas secundum affirmationem et negationem ex hoc contrarias ponat. Augetur et dubitatio quia  dixit quod ea in quibus primo est fallacia sunt contraria,  et  tamen subdit quod sunt oppositæ sicut termini generationis, quos constat contradictorie opponi. Nec dubitatione caret quomodo sit verum id quod supra diximus ex intentione AQUINO (vedasi), quod nullæ duæ opiniones  opponantur contradictorie; cum hic expresse dicitur aliquas opponi secundum affirmatiónem et negationem.  Dubium secundo insurgit circa id quod assumpsit,  quod contraria cuiusque veræ est per se falsa. Hoc enim  non videtur verum. Nam contraria istius veræ, Socrates est  albus, est ista, Socrates non. est albus, secundum   determinata; et tamen non est per se falsa. Sicut namque sua  opposita affirmatio est per accidens vera, ita ista est  per accidens falsa. Accidit enim isti enunciationi falsitas.  Potest enim mutari in veram, quia est in materia  contingenti.  Dubium est tertio circa id quod dixit: Magis vero contradictionis est contraria. Ex hoc enim videtur velle quod  utraque, scilicet, opinio negationis et contrarii, sit contraria veræ affirmationi; et consequenter vel uni duo ponit  contraria, vel non loquitur de contrarietate proprie  sumpta: cuius oppositum supra ostendimus.  9. Ad evidentiam omnium, quæ primo loco adducuntur, sciendum quod opiniones seu conceptiones intellectuales, in secunda operatione de quibus loquimur, possunt tripliciter accipi: uno modo, secundum id quod sunt  absolute; alio modo, secundum ea quæ repræsentant  absolute; tertio, secundum ea quæ repræsentant, ut sunt  in ipsis opinionibus. Primo membro omisso, quia non  est  præsentis speculationis, scito quod si accipiantur secundo modo secundum repræsentata, sic invenitur inter  eas et contradictionis, et privationis, et contrarietatis oppositio. Ista siquidem mentalis enunciatio, Socrates est  videns, secundum id quod repræsentat opponitur illi, Socrates non est videns, contradictorie; privative autem illi,  Socrales est cæcus; contrarie autem illi, Socrates est luscus;  si accipiantur secundum repræsentata. Ut enim dicitur  ἴῃ  Postprædicamentis, non solum cæcitas est privatio  visus, sed etiam cæcum esse est privatio huius quod est  esse videntem, et sic de aliis. Si vero accipiantur opiniones tertio modo, scilicet, prout repræsentata per eas  sunt in ipsis, sic nulla oppositio inter eas invenitur nisi  contrarietas: quoniam sive opposita contradictorie sive  privative sive contrarie repræsententur, ut sunt in opinionibus, illius tantum oppositionis capaces sunt, quæ  inter duo entia realia inveniri potest. Opiniones namque  realia entia sunt. Regulare enim est quod quidquid convenit alicui secundum esse quod habet in alio, secundum  modum et naturam illius in quo est sibi convenit, et non  secundum quod exigeret natura propria.Inter entia autem  realia contrarietas sola formaliter reperitur. Taceo nunc de  oppositione relativa. Opiniones ergo hoc modo sumptæ,  si oppositæ sunt, contrarietatem sapiunt, sed non omnes  proprie contrariæ sunt, sed illæ quæ plurimum differunt  circa idem veritate et falsitate. Has autem probavit Aristoteles esse opiniones affirmationis et negationis eiusdem  de eodem. Istæ igitur veræ contrariæ sunt. Reliquæ vero  per reductionem ad has contrariæ dicuntur.  IO. Ex his patet quid ad obiecta dicendum sit. Fatemur enim quod affirmatio et negatio in seipsis contradictionem constituunt; in opinionibus vero existentes contrarietatem inter illas causant propter extremam distantiam, quam ponunt inter entia realia, opinionem scilicet  veram et opinionem falsam circa idem. Stantque ista duo  simul quod ea, in quibus primo est fallacia, sint opposita  ut  termini generationis, et tamen sint contraria utendo  supradicta distinctione: sunt enim opposita contradictorie  ut termini generationis secundum repræsentata ; sunt autem contraria, secundum quod habent in seipsis illa contradictoria.  Unde plurimum differunt. - Liquet quoque  ex hoc quod nulla est dissentio inter dicta Aristotelis et  s. Thomæ, quia opiniones aliquas opponi secundum affirmationem et negationem verum esse confitemur, si ad  repræsentata nos convertimus, ut hic dicitur. Tu autem qui perspicacioris ac provectioris ingenii es compos, hinc habeto quod inter ipsas opiniones  oppositas quidam tantum motus est, eo quod de affrmato in affirmatum mutatio fit: inter ipsas vero secundum  repræsentata, similitudo quædam generationis et corruptionis invenitur, dum inter affirmationem et negationem  mutatio clauditur. Unde et fallacia sive error quandoque  et motus et mutationis rationem habet diversa respiciendo,  quando scilicet ex vera in per se falsam, vel e converso,  Secundum autem dictum simpliciter verum est, quoniam  quis mutat opinionem ; quandoque autem solam mutationem imitatur, quando scilicet absque præopinata veritate ipsam falsam offendit quis opinionem; quandoque  vero motus undique rationem possidet, quando scilicet ex  vera affirmatione in falsam circa idem contrarii affirmationem transit. Quia tamen prima ut quis fallatur radix est  oppositio affirmationis et negationis, merito ea in quibus  primo est fallacia, sicut generationis terminos opponi dixit.  Ad dubium secundo loco adductum dico quod  peccatur ibi secundum æquivocationem illius termini per  se falsa, seu per se vera. Opinio enim et similiter enunciatio potest dici dupliciter per se vera seu falsa. Uno modo,  in seipsa, sicut sunt omnes veræ secundum illos modos  perseitatis qui enumerantur I Posteriorum, et similiter  falsæ secundum illosmet modos, ut, bomo non est animal.  Et hoc modo non accipitur in hac regula de contrarietate  opinionum et enunciationum opinio per se vera aut  falsa, ut efficaciter obiectio adducta concludit. Si enim ad  contrarietatem opinionum hoc exigeretur non possent esse  opiniones contrariæ in materia contingenti: quod est  falsissimum. Alio modo potest dici opinio sive enunciatio  per se vera aut falsa respectu suæ oppositæ. Per se vera  quidem respectu suæ falsæ, et per se falsa respectu suæ  veræ. Et tunc nihil aliud est dicere, est per se vera respectu illius, nisi quod ratione sui et non alterius verificatur  ex falsitate illius. Et similiter cum dicitur, est per se falsa  respectu illius, intenditur quod ratione sui et non alterius  falsificatur  ex  illius  veritate. Verbi gratia; istius veræ,  Socrates currit, non est per se falsa, Socrates sedet, quia  falsitas eius non immediate sequitur ex illa, sed mediante  ista  alia falsa, Socrates non currit, quæ est per se illius  falsa, quia ratione sui et non per aliquod medium ex illius  veritate falsificatur, ut patet. Et similiter istius falsæ, Socrates est. quadrupes, non est per se vera ista, Socrates  est  bipes, quia non per seipsam veritas istius illam falsificat, sed mediante ista, Socrales mon est quadrupes,  quæ est per se vera respectu illius: propter seipsam enim  falsitate istius verificatur, ut de se patet. Et hoc secundo  modo utimur istis terminis tradentes regulam de contrarietate opinionum et enunciationum. Invenitur siquidem sic universaliter vera in omni materia regula dicens  quod, vera et eius per se falsa, et falsa et eius per se vera,  sunt contrariæ. Unde patet responsio ad obiectionem,  quia procedit accipiendo ly per se vera, et per se falsa  primo modo.  Ad ultimum dubium dicitur quod, quia inter opiniones ad se invicem pertinentes nulla alia est oppositio  nisi contrarietas, coactus fuit Aristoteles (volens terminis specialibus uti) dicere quod una est magis contraria  quam altera, insinuans quidem quod utraque contrarietatis.  oppositionem habet respectu illius veræ. Determinat tamen immediate quod tantum una earum, scilicet negationis opinio, contraria est affirmationi veræ. Subdit enim: Manifestum est quoniam. bæc contraria erit. Duo  ergo dixit, et quod utraque, tam scilicet negatio eiusdem  quam affirmatio contrarii, contrariatur affirmationi veræ,  et quod una tantum earum, negatio scilicet, est contraria.  Et utrunque est verum. Illud quidem, quia, ut dictum  est, ambæ contrarietates oppositione contra affirmationem moliuntur; sed difformiter, quia opinio negationis  primo et per se contrariatur, affirmationis vero contrarii  opinio secundario et per accidens, idest per aliud, ratione scilicet negativæ opinionis, ut declaratum est: sicut  etiam in naturalibus albo contrariantur et nigrum et rubrum, sed illud primo, hoc reductive, ut reducitur scilicet ad nigrum illud inducendo, ut dicitur Pbysicor.  simpliciter contraria non sunt nisi extrema unius latitudinis, quæ maxime distant; extrema autem unius distantiæ non sunt nisi duo. Et ideo cum inter pertinentes ad se  invicem opiniones unum extremum teneat affirmatio vera,  reliquum uni tantum falsæ dandum est, illi scilicet quæ  maxime a vera distat. Hanc autem negativam opinionem  esse probatum est. Hæc igitur una tantum contraria est  illi, simpliciter loquendo. Cæteræ enim oppositæ ratione  istius contrariantur, ut de mediis dictum est. Non ergo  uni plura contraria posuit, nec de contrarietate large loquutus est, ut obiiciendo dicebatur.  Deinde cum dicit: Amplius si etiam etc., probat idem,  scilicet quod affirmationi contraria est negatio eiusdem,  et  non affirmatio contrarii secunda ratione, dicens: Si in  aliis materiis oportet opiniones se habere similiter, idest,  eodem modo, ita quod contrariæ in aliis materiis sunt  affirmatio et negatio eiusdem; et hoc, scilicet quod diximus de boni et mali opinionibus, videtur esse bene dictum,  quod scilicet contraria affirmationi boni non est affirmatio mali, sed negatio boni. Et probat hanc consequentiam subdens: Aut enim ubique, idest, in omni materia,  ea  quæ est contradictionis altera pars censenda est contraria suæ affirmationi, aut nusquam, idest, aut in nulla  materia. Si enim est una ars generalis accipiendi contrariam opinionem, oportet quod ubique et in omni materia  uno et eodem modo accipiatur contraria opinio. Et consequenter, si in aliqua materia negatio eiusdem de eodem affirmationi est contraria, in omni materia negatio  eiusdem de eodem contraria erit affirmationi. Deinde intendens concludere a positione antecedentis, affirmat antecedens ex sua causa, dicens quod illæ materiæ quibus  non  inest  contrarium, ut substantia et quantitas, quibus, ut in Prædicamentis dicitur, nihil est contrarium. De  his quidem est pér se falsa ea, quæ est opinioni veræ  opposita contradictorie, ut qui putat hominem, puta Socratem non esse hominem, per se falsus est respectu putantis, Socratem esse hominem. Deinde affirmando ipsum  antecedens formaliter, directe concludit intentum a positione antecedentis ad positionem consequentis dicens: Si  ergo bæ, scilicet, affirmatio et negatio in materia carente  contrario, sunt contrariæ, et omnes aliæ contradictiones  contrariæ censendæ sunt.  Deinde cum dicit: Amplius similiter etc., probat idem  tertia ratione, quæ talis est: Sic se habent istæ duæ opiniones de bono, scilicet, bonum est bonum, et, bonum non  est bonum, sicut se habent istæ duæ de non bono, scilicet, non bonum non est bonum, et, non bonum est bonum. Utrobique enim salvatur oppositio contradictionis. Et primæ utriusque combinationis sunt veræ, secundæ  autem falsæ. Unde proponens hanc maiorem quoad primas veras utriusque combinationis ait: Similiter se babet opinio boni, quoniam bonum est, et non boni quoniam mon  est bonum. Et subdit quoad secundas utriusque falsas: Et  super bas opinio bomi quoniam mon est bonum, et. non boni  quoniam .est bonum. Hæc est maior. Sed illi veræ opinioni de non bono,scilicet, non bonum non est bonum,  contraria non est, non bonum est malum, nec bonum  non est malum, quæ sunt de prædicato contrario, sed  illa, non bonum est bonum, quæ est eius contradictoria ;  ergo et illi veræ opinioni de bono, scilicet, bonum est  bonum, contraria erit sua contradictoria, scilicet, bonum  non est bonum, et non affirmatio contrarii, scilicet, bonum est malum. Unde subdit minorem supradictam dicens: Illi ergo veræ opinioni non boni, quæ est dicens quoniam scilicet non bonum non est bonum, quæ est. contraria. Non enim est sibi contraria ea opinio, quæ dicit affirmativæ prædicatum contrarium, scilicet, quod non bonum  est malum: quia istæ duæ aliquando erunt simul veræ.  Nunquam autem vera opinio veræ contraria est. Quod  autem istæ duæ aliquando simul sint veræ, patet ex  hoc quod quoddam non bonum malum est: iniustitia  enim quoddam non bonum est, et malum. Quare contingeret contrarias esse simul veras: quod est impossibile. At vero nec supradictæ veræ opinioni contraria est  illa opinio, quæ est dicens prædicatum contrarium negativæ, scilicet, non bonum non est malum, eadem ratione, quia simul et hæ erunt veræ. Chimæra enim est  quoddam non bonum, de qua verum est simul dicere  quod non est bona, et quod non est mala. Relinquitur  ergo tertia pars minoris quod ei opinioni veræ quæ,  est dicens quoniam non bonum non est bonum, contraria est ea opinio. non boni, quæ est dicens quod est  bonum, quæ est contradictoria ilius. Deinde subdit mativæ quæ est, omne bonum est bonum, vel, omnis  homo est bonus, contraria est universalis negativa, ea  scilicet, nullum bonum est bonum, vel, nullus homo est  bonus: singula singulis referendo. Contradictoria autem  negatio, contraria illi universali affirmationi est, aut, non  omnis homo est bonus, aut, non omne bonum est bonum,  singulis singula similiter referendo. - Et sic posuit utrunque divisionis membrum, et declaravit.  18. Sed est hic dubitatio non dissimulanda. Si enim  affirmationi universali contraria est duplex negatio, universalis scilicet et contradictoria, vel uni duo sunt contraria,  vel  contrarietate large utitur Aristoteles: cuius  oppositum supra declaravimus. Augetur et dubitatio:  quia in præcedenti textu dixit Aristoteles quod, nihil  interest si universalem negationem faciamus ita contrariam universali affBrmationi, sicut singularem singulari. conclusionem intentam: Quare et ei opinioni boni, quæ  dicit bonum est bonum, contraria est ea boni opinio,  quæ dicit quod bonum non est bonum, idest, sua contradictoria. Contradictiones ergo contrariæ in omni materia censendæ sunt. Deinde cum dicit: Manifestum est igitur etc., declarat determinatam veritatem extendi ad cuiusque quantitatis opiniones. Et quia de indefinitis, et particularibus, et  singularibus iam dictum est, eo quod idem evidenter  apparet de eis in hac re iudicium (indefinitæ enim et  particulares nisi pro eisdem supponant sicut singulares,  per modum affirmationis et negationis non opponuntur,  quia simul veræ sunt); ideo ad eas, quæ universalis  quantitatis sunt se transfert, dicens, manifestum esse quod  nihil interest quoad propositam quæstionem, si universaliter ponamus affirmationes. Huic enim, scilicet, universali affirmationi, contraria est universalis negatio, et non  universalis affirmatio de contrario; ut opinioni quæ opinatur, quoniam omne bonum est bonum, contraria est,  nihil horum, quæ bona sunt, idest, nullum bonum est  bonum. Et declarat hoc ex quid nominis universalis affirmativæ, dicens: Nam eius quæ est boni, quoniam bonum  est, si universaliter sit bonum : idest, istius opinionis universalis, omne bonum est bonum, eadem est, idest, æquivalens, illa quæ opinatur, quidquid est bonum est bonum;  et consequenter sua negatio contraria est illa quam dixi,  nihil horum quæ bona sunt bonum est, idest, nullum bonum est bonum. Similiter autem se habet in non bono:  quia affirmationi universali de non bono reddenda est  negatio universalis eiusdem, sicut de bono dictum est.  Deinde cum dicit: Quare si in opinione sic se ba/- Cf. lect. præced. n. 1, 5 seqq.    Num. 2r.  Cf. lect. præced. n. 5, seqq.  æe  Ὑ  I  eu  ER  CP  πο  INCUBE  FRE  bet etc., revertitur ad respondendum quæstioni primo  motæ, terminata iam secunda, ex qua illa dependet. Et  circa hoc duo facit: quia primo respondet quæstioni; secundo, declarat quoddam dictum in præcedenti solutione; ibi: Manifestum est autem quoniam etc. Circa primum duo facit. Primo, directe respondet quæstioni, dicens:  Quare si in opinione sic se' babet contrarietas, ut  dictum est; et affirmationes et negationes quæ sunt in  voce, notæ sunt eorum, idest, affirmationum et negationum quæ sunt in anima; manifestum. est. quoniam. affirmationi, idest, enunciationi affirmativæ, contraria erit  negatio circa idem, idest, enunciatio negativa eiusdem de  eodem, et non enunciatio affirmativa contrarii. Et sic patet  responsio ad primam quæstionem, qua quærebatur, an  enunciationi affirmativæ contraria sit sua negativa, an  affirmativa contraria ἢ. Responsum est enim quod negativa est contraria.  Secundo, dividit negationem contrariam affirmationi,  idest, negationem universalem et contradictoriam, dicens:  Universalis, scilicet, negatio, affirmationi contraria est etc.  Ut exemplariter dicatur, ei enunciationi universali affirEt ita declinari non potest quin affirmationi universali  duæ sint negationes contrariæ, eo modo quo hic loquitur  de contrarietate Aristoteles. Ad huius evidentiam notandum est quod, aliud est  loqui de contrarietate quæ est inter negationem alicuius  universalis affirmativæ in ordine ad affirmationem contrarii  de eodem, et aliud est loqui de illamet universali negativa in ordine ad negationem eiusdem affrmativæ contradictoriam.  Verbi gratia: sint quatuor enunciationes,  quarum nunc meminimus, scilicet, universalis affirmativa,  contradictoria, universalis negativa, et universalis affirmatio contrarii, sic dispositæ in eadem linea recta: Omnis  bomo est iustus, non omnis bomo est iustus, omnis bomo non  est iustus, omnis bomo est iniustus: et intuere quod licet  primæ omnes reliquæ aliquo modo contrarientur, magna  tamen  differentia  est  inter primæ et cuiusque earum  contrarietatem. Ultima enim, scilicet affirmatio contrarii,  primæ contrariatur ratione universalis negationis, quæ  ante ipsam sita est: quia non per se sed ratione illius  falsa est, ut probavit Aristoteles, quia implicita est*. Tertia  autem, idest universalis negatio, non per se sed ratione  secundæ, scilicet negationis contradictoriæ, contrariatur  primæ eadem ratione, quia, scilicet, non est per se falsa  illius affirmationis veritate, sed implicita: continet enim  negationem contradictoriam, scilicet, nom ommis bomo est  iustus, mediante qua falsificatur ab affirmationis veritate,  quia simpliciter et prior est falsitas negationis contradictoriæ falsitate negationis universalis:  totum  namque  compositius et posterius est partibus. Est ergo inter has  tres falsas ordo, ita quod affirmationi veræ contradictoria  negdtio simpliciter sola est contraria, quia est simpliciter  respectu illius per se falsa; affirmativa autem contrarii  est  per accidens contraria, quia est per accidens falsa;  universalis vero negatio, tamquam medium sapiens utriusque extremi naturam, relata ad contrarii affirmationem  est  per se contraria et per se falsa, relata autem ad negationem contradictoriam est per accidens falsa et contraria. Sicut rubrum ad nigrum est album, et ad album  est nigrum, ut dicitur in V Physicorum. Aliud igitur est  loqui de negatione universali in ordine ad affirmationem  contrarii, et aliud in ordine ad negationem contradictoriam.  Si  enim primo modo loquamur, sic negatio universalis per se contraria et per se falsa est; si autem  secundo modo, non est per se falsa, nec contraria affirmationi. Quia ergo agitur ab Aristotele nunc quæstio, inter affirmationem contrarii et negationem quæ earum  contraria sit affirmationi veræ, et non agitur quæstio  ipsarum negationum inter se, quæ, scilicet, earum contraria sit illi afhrmationi, ut patet in toto processu quæstionis;  ideo  Aristoteles indistincte dixit quod utraque  negatio est contraria affirmationi veræ, et non affirmatio  Cf.supra n. 4,  seqq.  E    contrarii. Intendens per hoc declarare diversitatem quæ  st  inter  affirmationem contrarii ét negationem in hoc  quod veræ aífirmationi contrariantur, et non intendens  dicere quod utraque negatio est simpliciter contraria. Hoc  enim in dubitatione non est quæsitum, sed illud tantum.- Et similiter dixit quod nihil interest si quis ponat  negationem universalem: nihil enim interest quoad hoc,  quod affirmatio contrarii ostendatur non contraria affirmationi veræ, quod inquirimus. Plurimum autem interesset, si negationes ipsas inter se discutere vellemus  quæ earum esset affirmationi contraria.- Sic ergo patet  quod subtilissime Aristoteles locutus de vera contrarietate enunciationum, unam uni contrariam posuit in omni  materia et quantitate, dum simpliciter contrarias contradictiones asseruit.  Deinde cum dicit: Manifestum est autem etc., resumit quoddam dictum ut probet illud, dicens: Manifestum  est autem. ex dicendis quod mom contingit veram. veræ contrariam esse, nec in opinione mentali, mec in contradictione,  idest, vocali enunciatione. Et causam subdit: quia contraria sunt quæ circa idem opposita sunt; et consequenter  enunciationes et opiniones veræ circa diversa contrariæ esse non possunt. Circa idem autem contingit  simul omnes veras enunciationes et opiniones verificari,  sicut et significata vel repræsentata earum simul illi insunt: aliter veræ tunc non sunt. Et consequenter omnes  veræ enunciationes et opiniones circa idem contrariæ  non sunt, quia contraria non contingit eidem simul inesse.  Nullum ergo verum sive sit circa idem, sive sit  circa aliud, est alteri vero contrarium.  Et sic finitur expositio huius libri Perihermenias. Anno Nativitatis Dominicæ 1496, in Festo Divi Thomae  Aquinatis. Cui sit honor et gloria, eo quod dederit opus a se inceptum, tanto tempore incompletum, perfici. Vio. Keywords: analogia, commentary on Porphyry on Aristotle’s categories, the example of ‘healthy’[sanus, corpore, medicina, excrementum], analogy in philosophical eschatology, analogy of proportion, aequivocality, Grice, “focal unity”, “Aristotle on the multiplicity of ‘being’” – ‘healthy’ – an animal is healthy – various types of analogy. Unfortunately, the Germans focus more on his, the saint’s, fight with Luther!” Seminar by Grice and Austin on DE INTERPRETATIONE – the Vio commentary. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e de Vio” – Luigi Speranza, “Grice e Vio: Le categorie” -- The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia. VIO.

 

Luigi Speranza -- Grice e Virgilio: la ragione conversazionale e la leggenda d’Enea a Roma – la scuola d’Andes -- filosofia italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Pietola). Filosofo romano. Filosofo italiano. Pietole, Borgo Virgilio, Andes, Mantova. Publio Virgilio Marone  Voce Discussione Leggi Modifica Modifica wikitesto Cronologia  Strumenti  Disambiguazione – "Virgilio" rimanda qui. Se stai cercando altri significati, vedi Virgilio (disambigua).  Publio Virgilio Marone Publio Virgilio Marone, noto semplicemente come Virgilio o Vergilio (in latino: Publius Vergilius Maro, pronuncia classica o restituta: [ˈpuːblɪ.ʊs wɛrˈɡɪlɪ.ʊs ˈmaroː]; Andes – Brindisi), è stato un poeta romano, autore di tre opere, tra le più famose e influenti della letteratura latina: le Bucoliche[2][4] (Bucolica), le Georgiche (Georgica), e l'Eneide (Aeneis).  Al poeta viene attribuita anche una serie di componimenti giovanili, la cui autenticità è oggetto di discussioni accademiche, che si è soliti indicare nel complesso come Appendix Vergiliana (Appendice Virgiliana).[1]  V., per il senso sublime dell'arte e per l'influenza che esercitò nei secoli, viene considerato il massimo poeta di Roma,[1] nonché l'interprete più completo del grandioso momento storico che, dalla morte di Giulio Cesare, conduce alla fondazione del Principato e dell'Impero ad opera di Augusto.[1]  L'opera di V., presa a modello e studiata fin dall'antichità, ha avuto una profondissima influenza sulla letteratura e sugli autori occidentali, in particolare su Dante Alighieri e la sua Divina Commedia, nella quale V. funge anche da guida dell'Inferno e del Purgatorio.[2]  Biografia  Immagine giovanile del poeta V., di profilo e con la corona di alloro, di autore ignoto. A differenza di altri poeti latini, sono molte le notizie giunte fino a noi, da fonti dirette o da testimonianze indirette, in merito alla biografia di V..  La nascita  Casalpoglio, zona di Castel Goffredo, possibile luogo di nascita di V. Il poeta nacque ad Andes, un piccolo villaggio sito nei pressi dell'antica città di Mantua (odierna Mantova), nella Gallia Cisalpina (abolita ed annessa all'Italia proprio durante la sua vita), il 15 ottobre del 70 a.C. da una benestante famiglia di coloni romani, figlio di Marone Figulo, un piccolo proprietario terriero, arricchitosi considerevolmente con l'apicoltura, l'allevamento e l'artigianato, e di Màgia Polla, figlia a sua volta d'un facoltoso mercante, Magio, al cui servizio aveva lavorato il padre del poeta in passato. Andes (dalla radice etimologica and- che indica il cammino ad anse di un corso fluviale) era il nome celtico del borgo sulla riva destra del fiume Mincio ove nacque il Sommo Poeta, borgo che, rientrato nel feudo dei Canossa che ivi costruirono l'importante pieve, nel medioevo mutò il nome in Pletule. Suo padre, a quanto riferito, apparteneva alla gens Vergilia - di scarsa attestazione all'infuori di sole quattro iscrizioni rinvenute nei pressi di Verona (3) e dell'odierna Calvisano (1), che suggerirebbero pure una sua parentela con la gens Munatia[6] -, mentre sua madre alla gens Magia, d'origine campana. Il biografo Foca lo definisce "vates Etruscus" e le origini etrusche vengono confermate dallo stesso poeta nell'Eneide: " Mantua dives avis....ipsa caput populis: Tusco de sanguine vires" (E. X, 201 ss.).  Il nome Marone (in latino Maro) deriverebbe dalla carica politica etrusca di maru.[8]  L'ubicazione esatta del borgo natio del Vate è stata oggetto di controversie; tuttavia, stando all'identificazione più accreditata facente capo agli studi dei più eminenti filologi classici e studiosi della tradizione virgiliana[senza fonte], esso corrisponderebbe al borgo di Pietole, in prossimità delle acque del Mincio, nelle vicinanze di Mantova, nome assunto nel corso del Medioevo, divenuto poi, in tempi recenti, "Pietole Vecchia" per distinguerlo da "Pietole Nuova" venuta a formarsi tra Sette e Ottocento in prossimità della strada Romana, a due chilometri dall'antico borgo natale sito in prossimità del fiume; il borgo natio del Poeta ha ripreso alcuni anni fa l'antico nome celtico Andes ed è divenuto, nel 2014, con la fusione dei comuni di V. e Borgoforte, una frazione del comune di Borgo V.. L'attuale Pietole corrisponde dunque a Pietole Nuova. La fama dell'antica Pietole come luogo di pellegrinaggio e venerazione, poiché fu considerato sin dai primi secoli dopo la morte il borgo natale del vate e "profeta di Cristo", è testimoniata da Dante Alighieri nella Divina Commedia (Purgatorio, XVIII 83) e dalle opere di Giovanni Boccaccio e di altri scrittori[Chi?]. Altri studi[5] sostengono invece che il corrispettivo odierno dell'antica Andes vada ricercato nella zona di Casalpoglio, frazione di Castel Goffredo, così come anche per il comune di Calvisano è stata avanzata l'ipotesi d'una sua identificazione col luogo di nascita del poeta, sulla base anche di un'iscrizione recante il nome della gens paterna nei suoi pressi[13][14] (si vedano in tal senso gli studi e le ricerche effettuate dal filologo ed accademico inglese Conway). Secondo altri[chi?], corrisponderebbe all'odierno Redondesco, comune situato a ovest di Mantova, lungo l'antica strada romana Postumia. Analisi sul toponimo sembrano confermare questa ipotesi[senza fonte].  La formazione e l'avvicinamento all'epicureismo V. frequenta la scuola di grammatica a Cremona, poi la scuola di filosofia a Milano, dove si avvicina alla corrente filosofica epicureista grazie a Sirone e infine la scuola di retorica a Roma. Qui conobbe molti poeti e uomini di cultura e si dedicò alla composizione delle sue opere. Inoltre nella capitale portò a termine la propria formazione oratoria studiando eloquenza alla scuola di Epidio, un maestro importante di quell'epoca. Lo studio dell'eloquenza doveva fare di lui un avvocato e aprirgli la via per la conquista delle varie cariche politiche. L'oratoria di Epidio non era certo congeniale alla natura del mite V., riservato e timido, e dunque quantomai inadatto a parlare in pubblico. Infatti, nella sua prima causa come avvocato non riuscì nemmeno a parlare. In seguito a ciò V. entrò in una crisi esistenziale che lo portò, non ancora trentenne, a spostarsi dopo il 42 a.C. a Napoli, per recarsi alla scuola dei filosofi Filodemo di Gadara e Sirone per apprendere i precetti di Epicuro.  La crisi e la confisca dei possedimenti agricoli  Le colonne terminali della via Appia nei pressi della casa dove, secondo la tradizione, V. morì. Gli anni in cui V. si trova a vivere sono anni di grandi sconvolgimenti a causa delle guerre civili: prima lo scontro tra Cesare e Pompeo, culminato con la sconfitta di quest'ultimo a Farsalo, poi l'uccisione di Cesare in una congiura, e lo scontro tra Ottaviano e Marco Antonio da una parte e i cesaricidi (Bruto e Cassio) dall'altra, culminato con la battaglia di Filippi (42 a.C.). Egli fu toccato direttamente da queste tragedie come testimoniano le sue opere: infatti la distribuzione delle terre ai veterani dopo la battaglia di Filippi mise in grave pericolo le sue proprietà nel mantovano ma sembra che, grazie all'intercessione di personaggi influenti (Pollione, Varo, Gallo, Alfeno, Mecenate e dunque lo stesso Augusto), V. sia riuscito (almeno in un primo tempo) ad evitare la confisca.  Si spostò poi a Napoli con la famiglia e in seguito, nel 38 a.C., si fece assegnare da Mecenate un podere in Campania come risarcimento per le proprietà perdute ad Andes. In Campania avrebbe terminato le Bucoliche e composto le Georgiche, dedicate all'amico Mecenate, che V. frequentava.  V. entrò dunque nel circolo del "primo ministro imperiale", che raccoglieva molti letterati famosi dell'epoca.  L'avvicinamento ad Augusto Il poeta frequentava le tenute terriere di Mecenate, che egli possedeva in Campania nei pressi di Atella e in Sicilia. Attraverso Mecenate, V. conobbe meglio Augusto. Divenne il maggiore poeta di Roma e dell'Impero e le sue opere poetiche furono introdotte nell'insegnamento scolastico da Quinto Cecilio Epirota ancor prima della sua morte, verso il 26 a.C.  Dopo il 29 a.C. il poeta iniziò la stesura dell'Eneide, e tra il 27 a.C. e il 25 a.C., l'imperatore Augusto richiese a V. degli estratti del poema in corso di stesura. Il poeta lesse ad Augusto alcune parti dell'Eneide, tra cui quasi sicuramente, il celebre VI libro[20][21].  L'ultimo viaggio in Grecia e la morte  La Tomba di V. a Napoli V. morì a Brindisi il 21 settembre del 19 a.C. (calendario giuliano), di ritorno da un importante viaggio in Grecia, forse per ricevere alcuni pareri tecnici sull'Eneide[21]. Secondo alcuni biografi fatali furono le conseguenze di un colpo di sole, ma non è l'unica ipotesi accreditata.  Prima di morire, V. raccomandò ai suoi compagni di studio Plozio Tucca e Vario Rufo di distruggere il manoscritto dell'Eneide, perché, per quanto l'avesse quasi terminata, non aveva fatto in tempo a rivederla[22]: i due però consegnarono il manoscritto all'imperatore, cosicché l'Eneide, pur recando tuttora qua e là evidenti tracce di incompiutezza, divenne in breve il poema nazionale romano.[23]  I resti del grande poeta furono poi trasportati a Napoli, dove sono custoditi in un tumulo tuttora visibile, nel quartiere di Piedigrotta. L'urna che conteneva i suoi resti andò dispersa nel Medioevo. Sulla tomba fu posto il celebre epitaffio:  (LA) «Mantua me genuit, Calabri rapuere, tenet nunc Parthenope; cecini pascua rura duces»  (IT) «Mi ha generato Mantova, il Salento mi rapì la vita, ora Napoli mi conserva; cantai pascoli [le Bucoliche], campagne [le Georgiche], comandanti [l'Eneide][24]»  Opere Appendix Vergiliana  Lo stesso argomento in dettaglio: Appendix Vergiliana e Storia della letteratura latina (31 a.C. - 14 d.C.). Un primo gruppo di opere, la cui autenticità e la partenità restano ancora oggi oggetto di dubbi, vengono generalmente indicate con l'appellativo di Appendix Vergiliana; tale appellativo è stato coniato per la prima volta dall'umanista Giuseppe Scaligero.  Alla spicciolata (Catalepton); La focaccia (Moretum); Epigrammi (Epigrammata): che comprendono le Rose (Rosae), Sì e no (Est et non), Uomo buono (Vir bonus), Elegiae in Maecenatis obitu, Hortulus, Il vino e Venere (De vino et Venere), Il livore (De livore), Il canto delle Sirene (De cantu Sirenarum), Il compleanno (De die natali), La fortuna (De fortuna), Orfeo (De Orpheo), Su sé stesso (De se ipso), Le età degli animali (De aetatibus animalium), Il gioco (De ludo), De Musarum inventis, Lo specchio (De speculo), Mira Vergilii experientia, Le quattro stagioni (De quattuor temporibus anni), La nascita del sole (De ortu solis), Le fatiche di Ercole (De Herculis laboribus), La lettera Y (De littera Y), ed I segni celesti (De signis caelestibus). L'ostessa (Copa) (solo secondo il biografo Servio); Maledizioni (Dirae); L'airone (Ciris); La zanzara (Culex); L'Etna (Aetna); Storia romana (Res romanae), opera solo progettata e poi abbandonata. Opere autentiche  Lo stesso argomento in dettaglio: Bucoliche, Georgiche, Eneide e Storia della letteratura latina (31 a.C. - 14 d.C.).  Bucolica, 1481 Queste tre opere si distinguono dalle precedenti, in quanto composte sicuramente dal poeta latino[20].  Bucoliche (Bucolica): composte tra il 42 e il 39 a.C. a Napoli, sono una raccolta di dieci componimenti detti "ecloghe" o "egloghe" di stile perlopiù bucolico e che seguono il modello del poeta siciliano Teocrito.[26] Le Bucoliche, che significa canti dei bovari, sono dunque costituite da dieci egloghe: la prima è un dialogo tra due contadini, Titiro e Melibeo. Melibeo è costretto ad abbandonare la sua casa e i campi, che diverranno la ricompensa di un soldato romano. Titiro invece può restare grazie all'influenza di un potente (forse Ottaviano, o un nobile della sua cerchia, come Asinio Pollione); la seconda egloga contiene il lamento d'amore del pastore Coridone, che si strugge per il giovane Alessi; la terza egloga è una tenzone poetica fra due pastori, svolta in canti alternati detti amebèi; la quarta egloga è dedicata a Pollione ed è la celebre profezia circa la nascita di un puer il cui avvento rigenererà l'umanità; la quinta è il lamento per la morte di Dafni, il "principe dei pastori" (Elio Donato); nella sesta il vecchio Sileno canta l'origine del mondo; nella settima Melibeo racconta la gara di canto tra due pastori; l'ottava egloga contiene due canti d'amore ed è dedicata ad Asinio Pollione; la nona egloga è molto simile alla prima, ma vi si canta un esproprio di terre definitivo (i due protagonisti sono Lìcida e Meri) e la decima è dedicata a Gallo e ne celebra gli amori infelici. Varo, Gallo e Pollione furono tre potenti governatori della provincia Cisalpina presso cui il poeta aveva forse sperato di trovare favore per rientrare in possesso delle proprie terre perdute durante l'esproprio. Georgiche (Georgica): composte a Napoli. È un poema didascalico sul lavoro dei campi, sull'arboricoltura (in particolare della vite e dell'olivo), sull'allevamento e sull'apicoltura come metafora di un'ideale società umana.[27] Ciascun libro presenta una digressione: il primo le guerre civili, il secondo la lode della vita agreste, il terzo la peste degli animali nel Norico, il quarto libro si conclude con la storia di Aristeo e delle sue api (questa digressione contiene la famosa favola di Orfeo e Euridice). Secondo il grammatico tardoantico Servio, nella prima stesura delle Georgiche, la conclusione del IV libro era dedicata a Cornelio Gallo ma, caduto questi in disgrazia presso Augusto, V. avrebbe concluso l'opera in modo diverso. L'opera fu dedicata a Mecenate. Si tratta sicuramente di uno dei più grandi capolavori della letteratura latina e l'espressione più alta dell'autentica e vera poesia virgiliana. I modelli qui seguiti sono Esiodo e Varrone. Eneide (Aeneis): poema epico composto forse fra Napoli e Roma, in dieci anni (tra il 29 a.C. e il 19 a.C.) e suddiviso in dodici libri. Opera monumentale, considerata dai contemporanei alla stregua di un'Iliade latina, fu il libro ufficiale sacro all'ideologia del regime di Augusto sancendo l'origine e la natura divina del potere imperiale. Naturalmente il modello fu Omero. Essa narra la storia di Enea, esule da Ilio e fondatore della divina gens Iulia. Il poema rimase privo di revisione, e nonostante V. prima di partire per l'Oriente ne avesse chiesto la distruzione e ne avesse vietato la diffusione in caso di sua morte, esso fu pubblicato per volere dell'imperatore.[28] Nel XV secolo il poeta Maffeo Vegio compose in esametri il Supplementum Aeneidos, cioè il tredicesimo libro a completare la vicenda narrata nel poema virgiliano. V. nella cultura successiva  Monumento a V. Piazza Virgiliana, Mantova.  Mantova, Piazza Broletto, statua di V. in cattedra[29] La fama del vate dopo la morte fu tale che egli fu considerato una divinità degna di ricevere onori, lodi, preghiere, e riti sacri. Già Silio Italico (appena un secolo dopo), che acquistò la villa e la tomba di V., istituì una celebrazione in memoria del Mantovano nel suo giorno di nascita (le Idi di ottobre). In tal modo questa celebrazione si tramandò anno per anno nei primi secoli dell'era volgare, diventando un punto di riferimento importante soprattutto per il popolo napoletano che vide in V. ("Vergilius") il suo secondo patrono e spirito protettore della città di Napoli, dopo la vergine Partenope. Ai suoi resti (cenere e ossa), conservati nel sepolcro da lui stesso concepito secondo forme e proporzioni pitagoriche, fu attribuito il potere di proteggere la città dalle invasioni e dalle calamità. Nonostante le divinità pagane venissero dimenticate, di V. si mantenne comunque intatto il ricordo, e le sue opere furono interpretate cristianamente.  Egli divenne in particolare un simbolo dell'identità e della libertà politica di Napoli: fu per questo che nel XII secolo i conquistatori normanni, col consenso interessato della Chiesa di Roma, consentirono ad un filosofo e negromante inglese di nome Ludowicus di profanare il sepolcro di V. con lo scopo di rimuovere e asportare il vaso con le sue ossa, al fine di indebolire e sottomettere Napoli al potere normanno distruggendo l'oggetto di culto che era la base simbolica della sua autonomia. I resti di V. furono salvati dalla popolazione che li trasferì all'interno di Castel dell'Ovo, ma in seguito vennero qui sotterrati e nascosti per sempre ad opera dei Normanni. Da allora i napoletani ritennero che il potere protettivo del Poeta verso la città fosse vanificato.  Il ricordo di V. però, soprattutto nel popolo napoletano, rimase sempre vivo. Alla fama di sapiente per la tradizione colta, con il tempo si affiancò quella di mago nella tradizione popolare, inteso come uomo che conosce i segreti della natura e ne fa uso a fin di bene. Di tale interpretazione ci resta un corpus basso-medievale di leggende che hanno come sfondo soprattutto le città di Roma e Napoli: ad esempio, tanto per citarne una, quella che lo vede costruttore del Castel dell'Ovo magicamente edificato sopra il guscio di un uovo magico di struzzo che si sarebbe rotto solo quando la fortezza fosse stata definitivamente espugnata, oppure quella che riguarda la creazione e l'occultamento sotterraneo di una specie di palladio (una riproduzione in miniatura della città di Napoli contenuta in una bottiglia vitrea dal collo finissimo) che per magia protesse la città dalle sciagure e dalle invasioni finché non fu trovato e distrutto da Corrado di Querfurt, cancelliere dell'imperatore Enrico VI inviato nel XII secolo a conquistare il Regno di Sicilia (che allora comprendeva anche la città di Napoli).  Durante l'Alto Medioevo V. fu letto con ammirazione, il che permise alle sue opere di essere tramandate completamente. L'interpretazione dell'opera virgiliana utilizzò largamente lo strumento dell'allegoria: al poeta fu infatti attribuito un ruolo di profeta di Cristo, sulla base di un brano delle Bucoliche (la IV ecloga) annunciante la venuta di un bambino che avrebbe riportato l'età dell'oro e identificato per questo con Gesù.  V. venne quindi rappresentato come vate, maestro e profeta nella Divina Commedia (Purgatorio, canto XXII, vv. 67-72) da Dante Alighieri, il quale ne fece la propria guida attraverso i gironi dell'Inferno e del Purgatorio.  «O de li altri poeti onore e lume, vagliami 'l lungo studio e 'l grande amore che m' ha fatto cercar lo tuo volume.»  (Inferno)  Da Dante al Rinascimento  Georgica, Libro IV, 497. Illustrazione di François Gérard in un'edizione del 1798 La presenza di V. è costante nello svolgimento della letteratura italiana. L'eco della sua poesia risuona sovente nelle opere dei nostri più grandi scrittori.  Per Dante Alighieri, l'Eneide diviene modello di alta poesia, fonte di ispirazione di tanti suoi versi. È vero, egli avverte il fascino anche di altri grandi autori del passato, di "Omero, poeta sovrano" di " Orazio satiro", "Ovidio", "Lucano", e poi "Tullio e Lino e Seneca morale" (Inferno, 4, 102 e passim) ma è V. la sua guida, V. "l'altissimo poeta" (ibid.,80). Dante riconosce la grandezza morale, il peso del pensiero antico e nella sua opera fa confluire insieme i valori dell'umanesimo classico e quelli cristiani. Si può considerare pertanto il primo umanista della nostra letteratura: un discepolo di V., al di là del pensiero medievale.[30] Dalla lettura delle sue opere apprese il senso di partecipazione al dolore universale, la pietas, intesa quest'ultima nel senso morale di adesione al cielo sì, ma anche di attenzione ai valori della terra. Egli si accosta al mantovano non solo per capire "come l'uom s'eterna", ma anche per perfezionare lingua e stile.  Con diversa e più moderna sensibilità si avvicina a V. un cultore degli studia humanitatis come Francesco Petrarca. Il dolore umano alla scuola del poeta antico trova innumerevoli rivoli per elevarsi in una poesia soavemente malinconica. Da lui deriva l'amore per le belle lettere, la nobiltà dei sentimenti e del pensiero, da lui l'arte della perfezione stilistica. La lingua italiana diviene, come vuole de Sanctis, "la dolcissima delle lingue".[31] Intuisce e tramanda ai posteri i più alti segreti della poesia del mantovano. Virgiliano nell'anima, vive a lui unito nello spirito, gli dedica epistole. Petrarca venne salutato come il nuovo V., modello di poeta, elegante, raffinato: si colloca tra i più grandi lirici di tutti i tempi.  Nell'Umanesimo è ancora V., unitamente a Cicerone, l'autore più amato, più ricercato come guida di maestria linguistica. Con il ritorno al mondo classico nasce la nuova civiltà in cui confluisce l'antica e, nel contempo, una nuova visione della vita e del mondo.  La lingua latina per tutta la prima metà del Quattrocento domina incontrastata nella nostra letteratura, ed è una letteratura elegante, che raggiunge come per miracolo forme umanissime. Si pensi alle Neniae, le celebri ninne-nanne che il Pontano scrive per il suo bambino; alle Sylvae del Poliziano, ben due dedicate a V.: Manto, carica di suggestioni e risonanze dell'antica bucolica in cui si celebra la poesia pastorale, e il Rusticus, che si ispira invece alle Georgiche, ricolma di immagini e di echi virgiliani. Il Poliziano, complice V., viene ritenuto il lirico più elegante che abbia scritto in latino.  Della riscoperta del mondo antico non solo la lingua latina viene a giovarsi, ma anche la lingua volgare quando si torna a prediligerla. Jacopo Sannazaro, considerato il "V. cristiano" per il suo De Partu Virginis, nell'Arcadia riproduce la classica bucolica in una lingua armoniosa, piena di fluidità e di malinconia. Non si può non parlare della Fabula di Orfeo del Poliziano: Orfeo ed Euridice come nelle Georgiche rivivono il loro dramma d'amore in un canto accorato, di estrema eleganza. Riporta altresì a V. quella sorta di immersione nell'universo e nella natura presente nella favola del giovane Julio nelle Stanze, così come la Giostra richiama la mente al senso di vaga malinconia delle ombre virgiliane della sera.[32]  Ancor più determinante è l'influsso di V. nel Rinascimento. Il volgare, assurto a piena dignità letteraria, affronta temi alti, impegnativi e viene adottato dai grandi scrittori del tempo. Il riferimento è all'Ariosto e al Tasso.   L'Incoronazione di V., parte di un ciclo di affreschi settecenteschi sull'Eneide a Palazzo Pianetti, Jesi L'Eneide non poco contribuisce a portare l'Orlando Furioso alle più alte vette della poesia rinascimentale e l'Ariosto tra i più grandi artisti del tempo. Qui Cloridano e Medoro ritrovano il fascino, l'umanità di Eurialo e Niso a rappresentare un sentimento alto come l'amicizia, nobile come la fedeltà; e molte analogie si possono trovare nella caratterizzazione dei guerrieri uccisi nel sonno dalle due coppie. Angelica vive all'unisono con la natura che la circonda, ama le cose semplici e umili, effonde intorno un sentimento virgiliano di pace, di serenità, appena velato di malinconia. Per non riferire di altri temi comuni ai due poeti: l'amore, la giovinezza, l'eroismo, la religione della vita, la rappresentazione dell'animo umano in tutte le sue variazioni.  E si arriva a Torquato Tasso, che da V. eredita finezza e musicalità del dire. Le ingenue parole di Aminta, allorché descrive il primo sbocciare di un amore nuovo nella favola pastorale che da lui prende il nome (atto I, scena II), riportano insistentemente al mondo idillico popolato di prati, ninfe, pastori, boschi, nel quale regna una lieve, sospesa virgiliana malinconia. Il candore di Galatea torna a risplendere nella delicata figura di Erminia, che si desta al "garrir" degli uccelli tra alberi e fiori mentre "scherzan" con l'onda al suon di "pastorali accenti" (Gerusalemme liberata, VII, 5 e 6, passim). Al pari di Didone, Armida, creatura piena di mistero riscopre l'umanità nel dolore e nell'amore. Come l'eroica Camilla, desta commozione la fiera Clorinda. Nell'opera tutta aleggia quel senso di tristezza per il quale molti hanno ritenuto la Liberata il poema italiano forse più vicino all'Eneide[33], già a partire dall'incipit (il verso canto l'armi pietose e il capitano richiama immediatamente il virgiliano arma virumque cano).  Al sommo poeta latino sono intitolate l'Accademia Nazionale Virgiliana e il Liceo Classico di Mantova. Il Liceo, fondato nel 1584, è tuttora considerato uno dei più prestigiosi licei classici d'Italia.  La leggenda virgiliana Come stretto amico di personaggi di potere e di grandissima influenza come l'imperatore Augusto, del governatore provinciale Gaio Asinio Pollione e del ricco Gaio Cilnio Mecenate, secondo leggende medioevali di scarsa o nessuna attendibilità, il grande poeta avrebbe potuto beneficare in molti modi la città di Napoli in cui tanto amava risiedere.  I suoi biografi medioevali infatti ci narrano che fu V. a proporre all'imperatore di costruire un acquedotto (proveniente dalle sorgenti nei pressi di Serino, nell'Irpinia) che servisse questa e anche altre città, come Nola, Avella, Pozzuoli e Baia.  Inoltre avrebbe esortato Augusto a creare per Napoli una rete di pozzi e fontane per l'approvvigionamento idrico, un sistema fognario di cloache e complessi termali terapeutici a Baia e Pozzuoli, per cui fu anche necessario scavare un traforo nella collina di Posillipo, l'odierna "Grotta di Posillipo", nota per tale motivo fino al XIV secolo come "Grotta di V.".  Infine, V., essendo grandemente appassionato di divinazione e del mondo della religione in generale (come si nota dalle sue opere letterarie), avrebbe fatto installare due sculture di teste umane in marmo, una maschile e allegra, l'altra femminile e triste, sulle mura della città e precisamente ai lati della porta di Forcella al fine di fornire un presagio casuale fausto o infausto (una sorta di innocua cefalomanzia minerale) per i cittadini di passaggio.  Con le modifiche fatte in epoca aragonese, le teste furono trasferite nella lussuosa villa reale di Poggioreale, ma andarono poi perdute a causa della distruzione del complesso.  Come riportano i suoi più antichi biografi, V. aderì al neopitagorismo, corrente filosofica e magica allora molto diffusa nelle colonie della Magna Grecia, in particolare a Neapolis, una delle poche poleis magnogreche che dopo la conquista romana aveva conservato la sua vita culturale genuinamente ellenica.  In quanto filosofo neopitagorico e mago gli sono attribuite diverse immagini magiche e talismani volti alla protezione della città di Napoli che tanto amò, secondo alcuni biografi medievali e rinascimentali.  Omaggi A V. sono intitolate le Virgil Fossae sulla superficie di Plutone[34] e il Museo Virgiliano a Borgo V..[35]  Letteratura Le ultime ore di vita del poeta sono raccontate da Hermann Broch nel romanzo La morte di V., dove il protagonista, sentendosi prossimo alla morte, avrebbe voluto bruciare l'Eneide non perdonandosi di averla lasciata incompiuta. V. è uno dei protagonisti di Un infinito numero, romanzo di Sebastiano Vassalli. Lo stesso autore ha reso il poeta protagonista di uno dei racconti che compongono la raccolta Amore Lontano. Nel romanzo del 2024 I demoni di Pausilypon di Pino Imperatore V. agisce nelle vesti di detective. Videogiochi Nella serie Devil May Cry, si trova un chiaro riferimento a V.: Vergil, fratello del protagonista Dante e antagonista principale della saga. Note  V., in Enciclopedia Italiana, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. URL consultato il 21 marzo 2018.  V. Marone, Publio, in Enciclopedia dei ragazzi, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2. ^ Virgìlio Maróne, Publio, in Treccani.it – Enciclopedie on line, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Le opere di Publio V. Marone: "Bucoliche", "Georgiche", "Eneide", in m.oilproject.org. URL consultato il 21 marzo 2018.  Davide Nardoni, La terra di V., in Archeologia Viva, N.1/2, gennaio-febbraio 1986, pp. 71-76. ^ Conway, Robert Seymour. 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Cecini pascua, rura, duces" e "+ Millenis lapsis annis D(omi)niq(ue) ducentis / bisq(ue) decem iunctis septemq(ue) sequentibus illos / uir constans a(n)i(m)o fortis sapiensq(ue) benignus / Laudarengus honestis moribus undiq(ue) plenus / hanc fieri, lector, fecit qua(m) conspicis ede(m). / Tunc aderant secu(m) ciuili iure periti / Brixia quem genuit Bonacursius alter eorum, / Iacobus alter erat, Bononia quem tulit alta." ^ Augustin Renaudet, Dante humaniste, Paris, Les Belles Lettres 1952. ^ Francesco De Sanctis, Saggio critico su Petrarca, a cura di E. Bonora, Bari, Laterza Vicario, Il richiamo di V. nella poesia italiana, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, anche Raffaele Spongano, Due saggi sull'Umanesimo, Firenze, Sansoni, 1964; Eduard Norden, Orpheus und Eurydike, in «Sitzungsber. der deutschen Akad. der Wiss., Philol. hist. Kl. 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Bucoliche, traduzioni di: Luca Canali, Milano Rizzoli, 1978; Mario Geymonat, Milano, Garzanti, 1981; Massimo Cescon, Milano, Mursia, 1986; Marina Cavalli, Milano, Mondadori Georgiche, traduzioni di: Alessandro Barchiesi, Milano, Mondadori, 1980; Luca Canali, Milano, Rizzoli, 1983; Mario Ramous, Milano, Garzanti, 1982; Eneide, traduzioni di: Rosa Calzecchi Onesti, Torino, Einaudi, 1967; Luca Canali, Milano, Fondazione Lorenzo Valla - Mondadori, 1978-1983. Altri progetti Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina dedicata a Publio V. Marone Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina in lingua latina dedicata a Publio V. Marone Collabora a Wikiquote Wikiquote contiene citazioni di o su Publio V. Marone Collabora a Wikiversità Wikiversità contiene risorse su Publio V. Marone Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Publio V. Marone Collegamenti esterni Virgìlio Maróne, Publio, su Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su Wikidata Publio V. Marone, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su Wikidata V., in Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2010. Modifica su Wikidata (EN) Robert Deryck Williams, Virgil, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata Publio V. Marone, su BeWeb, Conferenza Episcopale Italiana. Modifica su Wikidata Opere di Publio V. Marone, su Liber Liber. Modifica su Wikidata (LA) Opere di Publio V. Marone, su Musisque Deoque. Modifica su Wikidata (LA) Opere di Publio V. Marone, su PHI Latin Texts, Packard Humanities Institute. Modifica su Wikidata Opere di Publio V. Marone / Publio V. Marone (altra versione), su MLOL, Horizons Unlimited. Modifica su Wikidata (EN) Opere di Publio V. Marone, su Open Library, Internet Archive. 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(LA) Testo originale delle Bucoliche, delle Georgiche e dell'Eneide da The Latin Library (LA) IntraText Digital Library Testi originali dei Catalepton, delle Bucoliche, delle Georgiche e dell'Eneide con concordanze e liste di frequenza (da Intratext) (LA) Bibliotheca Augustana Estratti di alcuni codici antichi dell'Università tedesca di Augusta. Marcovalerio.it Traduzione in lingua italiana delle Ecloghe Bucoliche. (EN) IntraText Digital Library Traduzione in lingua inglese dell'Eneide. Classici Italiani Archiviato il 7 novembre 2009 in Internet Archive. "V. nel Medioevo" di Domenico Comparetti . Napoli on the road Interessante articolo sull'interpretazione magica di V. nel Medioevo.  Virgil Murder Sito di uno studioso francese, Maleuvre, che presenta le ipotesi sull'assassinio di V. da parte dell'imperatore Augusto. Parco della Tomba di V. Sito della Soprintendenza per il Patrimonio Storico-artistico dedicato al Parco della Tomba di V.. Parco della Tomba di V. in Internet Archive. Sito sul Parco della Tomba di V. all'interno della Rete dei Musei Napoletani. Scolii delle opere di V.: Marco Valerio Probo, In Vergilii bucolica et georgica commentarius, accedunt scholiorum veronensium et aspri quaestionum vergilianarum fragmenta, Henricus Keil (ed.), Halis sumptibus Eduardi Anton,. Mauro Servio Onorato, Servii grammatici qui feruntur in Vergilii carmina commentarii, Georius Thilo, Hermannus Hagen (ed.), 3 voll., Lipsiae in aedibus B. G. Teubneri Gli scolii veronesi a V., Claudio Baschera (a cura di), Casa Editrice Mazziana, giugno 1999. Ettore Paratore, La santità di V. in un mondo disorientato Archiviato in Internet Archive., Il Tempo. Opere di Virgílio presso la Biblioteca Nazionale del Portogallo V · D · M Publio V. Marone V · D · M Circolo di Mecenate V · D · M Divina Commedia V · D · M Poeti epici antichi Portale Biografie   Portale Età augustea   Portale Letteratura Categorie: Poeti romani Poeti del I secolo a.C.Romani Morti a Brindisi Mitologia romanaPublio V. MaronePersonaggi citati nella Divina Commedia (Inferno)Personaggi citati nella Divina Commedia (Purgatorio)Personaggi citati nella Divina Commedia (Paradiso)CasalpoglioAforisti romaniNeopitagorici[altre]Influssi lucreziani, e, quindi, della filosofia dell’orto. Nato presso Mantova, muore a Brindisi. Studia la filosofia dell’orto sotto SIRONE. In “Catal.” prende congedo dalle muse per volgersi verso la scuola di SIRONE affinchè la filosofia gl’insegni a liberare la sua vita dalle passioni. Esprime il proponimento di dedicare alla filosofia il resto dell’esistenza. Nel “Ciris,” esaltando di nuovo l'insegnamento dei filosofi dell’ORTO, manifesta l'intenzione di filosofare sui fenomeni celesti. L’influsso dell’orto è esplicito nelle “Georgiche.” L' “Eneide", invece, nella escatologia, dipende dalle correnti orfica e pitagorica – di CROTONE --, mediata, si erede, da Posidonio, dal quale si fa derivare le rappresentazioni dell’età dell'oro e dello sviluppo della civiltà umana e alcune teorie d’impronta del PORTICO. Agl'interessi di psicologia filosofica si collegano quelli naturalistici. In una ecloga, Sileno espone una cosmogonia. Nelle "Georgiche" prega le muse d’interpretargli una serie di fenomeni naturali. Nell’ “Eneide” Iopas tratta di problemi naturalistici. Fa parte dell' “Appendix Vergiliana” il poemetto "Aetna" sullo cause e gl’effetti di queso volcano -- del quale sono incerte la paternità e la data. Fra i filosofi ai quali è stato attribuito il "Aetna", trovano adesioni soprattutto V. e LUCILIO, l’amico di SENECA. Per le teorie scientifiche particolari, l’autore dell'"Aetna" si serve principalmente di Posidonio e ciò spiega l’affinità dell'"Aetna" con le "Questioni Naturali" di Seneca che provengono dalla stessa fonte. Per la filosofia, V. mescola ecletticamente elementi svariati e non fusi, perchè espone dottrine del portico, dell’orto-lucreziane e inoltre eraclitei, democritei, ecc. Grice: “It is interesting to study Virgil as the author of what at Oxford we call “Beowulf,” an heroic narrative of origin. But in the history of philosophy, -- and the history of Roman philosophy under the principate, specifically, it was the exegesis of “Eneide” that we only have with Beowulf when it comes to Tolkien and the monsters!  On the other hand, the Roman aristocrats find in “Eneide” a fabulous source for their even more fabulous philosophisings! My favourite is Macrobio’s “Saturnalia” – it fits a gentleman’s pocket – but there are others. The idea is to produce a didaskalia, i. e. a way to deal with conceptual notions or philosophical concepts as we study one line or other from “Eneide” as we did at Clifton! However false, the philosophy behind V. comprises not only a physical theory (natural philosophy) – the theory of the three ages – but a full moral theory – and one of philosophical psychology. The Eurialo/Niso episode is an interesting one as a re-creation of the old Achilles-Patroclus topos that has fascinated even Plato and the author of “Maurice,” i. e. E. M. Forster. Usually, you won’t find Virgil listed in any manual on Roman philosophy, but you should. It is fascinating also to trace the influence, via Alighieri in “Commedia” down to Mussolini, where there were few exhibitions of the Mostra della Revoluzione Fascista that would fail to quote from Enea. Note that the iconography – and I don’t mix the effeminate one by Flaxman, but the fascist one – helped!”. Publio V. Marone – He spent some time in fellowship with a Garden community in Naples headed by Siro. He appears to have been a particular favourite of Siro, inheriting the villa upon his death. The extent to which the Garden influenced his poetry has long been debated. Approdato a Cuma, Enca consulta la Sibilla nell'antro presso il tempio di Apollo e la prega di guidarlo negli Inferi. La Sibilla accetta, ma l'eroe deve prima procurarsi il ramo d'oro da offrire in dono a Proserpina e dare sepoltura a un compagno morto durante la sua assenza dalle nasi. Dunque, Enea porta alla Sibilla il ramo d'oro, trovato nel bosco grazie all'aiuto di Venere, e celebra i funerali di Miseno. Giunta la notte, e compiuto il sacrificio propiziatorio alle divinità infernali, inizia il viaggio verso gli Inferi, e l'eroe varca, con la Sibilla, la soglia dell'Averno. Essi attraversano il vestibolo, pieno di mostri e simulacri di mali e malattie, e arrivano alla riva del fiume Acheronte, dove appare Caronte, il traghettatore infernale.tra i quali spicca la figura di Marcello. Infine, Enea e la Sibilla varcano la porta d'avorio e ritornano alla luce.libro 6 dell'Encide: la Sibilla cumana e la discesa agli inferiEneide: analisi Libro 6 Cuma e la Sibilla nel Libro 6 dell'Eneide Lapio po de i praga da pala, le da di ad ge di and in al pre fite di Oli, nd e alce e esca cabr sua discendenza. In questa parte si distinguono le fasi di un vero e proprio percorso iniziatico: rispettare gli ordini di un sacerdote, la Sibilla dare prova della pietas celebrando i riti trovare il ramo d'oro da donare a Proserpina, per poter entrare negli Inferi. Enea viene assistito dalla madre nel recupero del ramo, mentre la Sibilla lo aiuta nel viaggio verso gli Inferi. La catabasi è preceduta da due rituali: le esequie di Miseno, e il rito propiziatorio agli dei inferi. Questi riti sottolineano la sacralità dell'impresa. La differenza fra la catabasi di Odisseo e quella di Enca sta nel fatto che quella di Odisseo non è altro che l'ennesima avventura ai confini della realtà, mentre l'eroe virgiliano intraprende un viaggio religioso per assecondare i voleri del Fato.Gli Inferi nel Libro 6 dell'Eneide Celebrati i rituali, Enea e la Sibilla entrano nel regno dei morti. Predominano le descrizioni dell'Aldilà, ma l'attenzione si sposta sull'eroe nel momento in cui entrano in scena personaggi a lui collegati. Per esempio, gli incontri con Palinuro e Didone permettono al poeta di dare spazio ad Enca e alla sua umanità. Il passo delinea la concezione virgilianadell'Oltretomba: un luogo in cui le ombre si aggirano rimpiangendo la vita perduta, e in cui i giudici infernali, Minosse e Radamanto, assegnano la dimora definitiva nel Tartaro alle anime malvagie, nei Campi Elisi ai beati.Dal Tartaro ai Campi Elisi nel Libro 6 dell'Encide un bivio: a sinistra la Sibilla mostra ad Enca il Tartaro, dove sono puniti gli empi, e poi lo conduce a destra, verso la città di Dite. Dopo essersi purificato, Enea afligge sulla porta delle case di Plutone il ramo d'oro, come dono a Proserpina. Poi prosegue con la Sibilla verso i Campi Elisi. giovane Marcello, il giovane adottato da Augusto ma morto precocemente, rappresenta un omaggio alla casa di Augusto, ma nello stesso tempo sfuma in immagini di morte la visione trionfalistica del destino di Roma. pitagorismo, l'orfismo, lo stoicismo. Nella parte finale del libro, in ogni caso, domina l'esaltazione delle glorie romane, del periodo augusteo e della missione civilizzatrice e ordinatrice di Roma. L'orgoglio di appartenere a un popolo vincitore non impedisce a V. di condannare la guerra e di celebrare i valori della pace della concordia. Completata l'analisi e il riassunto del libro 6 dell'Eneide, ti potrebbero interessare altri approfondimenti dei poemi epici di V. e Omero. UUPI^   HI Bott. Ccdare 'Ranjoli MI   m Ili  DI  V.  PADOVA   R. Stilb. Tipo-Litografico P. Prosperini  J^y/f,SOÌ.Ì  ^-i:t--Cant  ;   il qunle verso ci è rischiarato di queste parole del commento di Servio  t" Aìiiùinì Jooìs sìgnxim lapide m s ilice m put(werunt esse ». Tuttavia,  anche dopo T invasione dell' antropomorfismo greco, gli dèi romani conservamno questo loro carattere vago ed astratto ; essi non riuscirono mai  ad assumere a^ìì occhi dei loro adoratori una individualità vera e propria, una ]»ersonalità ben definita, cosicché ad ogni preghiera ed invocazione si fai^evano i>recedere formole ambigue come : sire Deus sive Dea,  sin* fetiuna :i^':-, ^ q*.::i: es-ere essenzialmente un male: e T anima dal princi;^1: '" l'ù:, -d •?-^>^re perei'» es>enzialmente un Wne È naturale che,  rri. s:~-i.:::. or line di idee, la religione consistesse nella i ktrì/ìc/izìone  iell'iz :..i j::e»i:inte !a mortificazione del corpo. — In seguito, in uno  -'^:o :^:• :;;±lc p.ù avanzato, nel .juale si verificò che un capo puniva, in  rune iella giiisii/ia, l'infrazione volontaria della legge, il dolore apparve  =r::'VL.e :I «nisiijo dovuto alla legge violata. E allora si potè formare il  e: ::•>;:•: della divinità giusta, che vt^n-ìica la colpa, inrliggendo una animecii rnr-jrzlonata, ossia un dolore E la religione consistè nel ^vx/d^  '-*//v all^i inesrrabile esiirenza di ui.ì tale pers^-^nifioazione oltremondjkLA iella giustizia. In pari tempo, per la osser>'a2ione, che il «lolore,  ossia la punizione, si veritlcava anche nei n«^n c»:»lpevoli, si dovette, affine  di lib-erarr* in qualeKe m'>io il conceno religioso fondamentale dalla contrai iizione, rl.orrere allo spediente, suuigerito anch' ^l-S'-*^ da una osservaziorie di fatto, del peccato originale. — 1 ni ultimo, avendo il progresso  d»rLl' incivilimento reso più mite l'animo e fat:o preiiominare il sentimento  della benevolenza e del perdono, la carità divenuta coscienza dell' uomo,  fu da tf^>so fH-rtata in dio : e insieme alla carità, la re«lenzione e U perd:no, invece della riprovazione e del casii^ro senza scampo E ne venne  la religione, non totalmente servile, ma in parte figliale, drlla conversione  per mezzo del jr:n'r,r'r:,t'o inspirato dall'amore del bene, e dimostrato  colla so:ye^^'nza pas-iva rassegnata dei patimenti, e coli' applicazione vo1 anuria di essi d,   TalL al.'r»ra:.'ìati in utia sintesi grand: sa che soio la mente del tìh>- :.» p::'« avvi>are. i «juiutro gradini penarsi attraverso i seioli del senti ini^nt.» reli*n>so. I e irutteri dt-l primo periodo sono evidentissimi nelle  pn..;itive reli-rivoi italiche, e nella relii:iv»ue rv»mana, la quale non perdette mai il eamtt-re cup*.> e tenebroso che aveva in oriirine A differenza  de! {- p Io i:re« o, cLe ciclo e terra aveva s;iputo accornuuiire nella sua  b ti i \ e ri itrnte fantasia, il popolo romano non eMn? mai alcuna familiarità coi propri d- i. che per lui fun^no sempre un oi:getto di sp;ìvento. ai  •{i vii Tu -in • n- lì pu'» avvicinarsi cbe tnMiiatido.  : alla «uiale fa eoo il detto  •li Servio '.*"/«/if- .*'/ e\«'./i .s-'.tf : / ./' et f>\(:!0 -»  ta Non diverso concetto della religione doveva avere il più grande degli  epici latini, il quale, amiamo ripeterlo, per natura, per abitudini, per  sentimenti era portato ad essere l' interprete più fedele e più sincero della  religio patrum. Per fermo, nel sentimento religioso che circola attraverso i  poemi virgiliani, si possono anche riscontrare diversi caratteri propri di  uno stadio più evoluto della religiosità: tale il concetto di una sanzione  oltremondana dell' operare umano, svolto ampiamente nel canto sesto dell' Eneide ; tale ancora il dualismo tra V anima, considerata come il principio del bene, e il corpo, considerato invece come principio del male,  che si appalesa pure nel canto sesto, e che noi esamineremo a suo luogo,  studiando le manilestazioni del pensiero platonico in V.. Ma questi  elementi nuovi non informano di sé stessi il sentimento religioso dominante, non fanno parte della convinzione intima del poeta, e sono dovuti  più che altro all'influsso di nuove idee, venute da paesi stranieri.   (ili dèi di V. hanno una potenza illimitata, della quale usano  ed abusano a loro piacere. Tutto quanto avviene nel mondo, non è che  un eftetto della loro volontà. Essi presiedono a tutti i fenomeni naturali (4)  e a tutte le azioni umane (5) ; essi possono rivolgere il corso delle  leggi ordinarie di natura, e scatenare i venti (6), suscitare le tempeste   e i terremoti (8;, cambiare gli uomini in virgulti (9), mutare una  intera flotta in tante Nereidi oceanine (10), fornire ai mortali armi intangibili  accrescere o togliere loro la forza e il coraggio (12), predire  il futuro direttamente , o per mezzo di profeti (14, o per mezzo  dei Penati e dei morti  o per mezzo dei più vari portenti (16). Del  modo onde impiegano la loro potenza, essi non devono render conto ad  alcuno : « sic placitum » dice Giove nel narrare a Venere i futuri destini  di Enea (17); ìì Coelestium vis magna iubet)) dice Aletto a Turno  per costringerlo e ripigUare la guerra (18) t me jussa Deàm cogunt  »,  « sic Dii votuistis  » « ubi primum anntierint superi  t, dice  ad ogni tratto Enea, e in codeste frasi secche e recise è sintetizzato tutto  il cieco dispotismo degli dèi.   L' uomo è lo schiavo della divinità, e nulhi può fare, nulla può tentare se gli dèi non lo assistono : « Hea nihil invitis — esclama Enea —  fas quetnqitatn fidere Diois (22)». Non solo, ma allorché essi si rivelanocontrari è empio e sacrilego ogni tentativo di resistenza:   Infelix, quae tanta animum denientia coepit ?  Non vires alias, conversaque numina sentis?  Cede Deo.   È questo V ammonimento che Enea rivolge al forte Darete, atterrato  e vinto dal vecchio Entello, cui gli dèi avevano ispirato un ardore sovrumano. Quando la divinità ha mostrato con segni non dubbi di essere  /    ostile, unico scampo è la morte ; tal pensiero è espresso nel lamento di  Anchise, colpito dai tristi presagì di Giove :   Facilis jaotura sepulcri.  Jampridem invisus Divis, et inutilis aonos  Demoror, ex quo me Divùm pater atque hominum rex  Fulminis afilavit ventis, et contìgìt igni (24).   Né la potenza illimitata di cui godono codeste divinità è sempre rivolta a fin di bene ; tutt' altro. Crudeli, vendicative, gelosissime delle proprie prerogative, esse non si piegano alle preghiere e alle implorazioni,  ma perseguitano senza posa e in tutti i modi gli infelici che si attirarono i loro sdegni ingiustificati. Contro V ira dei celesti non v'ha scampo,  non V* ha speranza, non giova la purificazione dell' anima mediante la  mortificazione del corpo, non la soddisfazione ad un concetto astratto di  giustizia, che essi sono ancor lungi dal personificare, non il pentimento che  essi non sono capaci né di comprendere né di inspirare. Con questi detti  risponde la Sibilla alle preghiere dell'infelice Palimiro, cui era impedito  di traghettare l'Acheronte, perché privo, senza sua colpa, di sepoltura :  « donde, o Palimìro, tanto funesto desiderio? Tu insepolto vedrai le acque  Stigie e il tremendo fiume delle Eumeneidi ? e contro il divieto ne varcherai la riva ? Cessa di lusingarti che i voleri degli dèi si pieghino pregando  », E così grida il re Latino al valoroso Turno, che per difendere il patrio suolo dall' invasore troiano aveva iniziata una guerra sacrilega contra omina e contra fata Deàm :   Ipsi has sacrilego pendetis sanguine poenas  miseri. Te, Turno, nefas, te triste manebit  Supplicium; votisque Deos venerabere seris (26).   E la vendetta venne pe '1 misero Turno, terribile e senza scampo ; che,  mentre teneva testa da vero eroe ad Enea, cui lo scudo di Vulcano rendeva intangibile, sente scemare ad un tratto l'usato vigore, i tristi presagi di Giove lo colpiscono, gli vacillano sotto le ginocchia; e ad Enea,  che imbaldanzito lo incalza, gitta in faccia quel grido tanto naturale e  straziante: e non mi atterriscono le tue feroci parole, o uomo crudele;  gli Dei mi atterriscono, e Giove che mi è nemico .   Ac velut in somnis, oculoa ubi languida pressit  Nocte quies, nequidquam avidos extendere cursus  Velie videmur, et in mediis conatibus aegri  Succidimus: non lingua valet, non corpore notae  Sufficiunt vires, nec vox, aut verba sequuntur :  Sic Turno, quaqumque viam virtute petivit  Successum Dea dira negat . Spossato, atterrito, implorando salva la vita nel nome del vecchio  padre, il re dei Rutoli cade sotto i colpi ingenerosi del pio Enea:   Ast illi solvuotar frigore membra  Vitaque cum gemitu fugìt indignata sub umbras (29).   Questi esempi credo possano essere sufficienti per dare un' idea esatta  del modo onde nei poemi virgiliani è concepita e descritta l'azione della  divinità; molti altri potremmo citarne, come quello di Palinuro sacrificato  dagli dèi per sfogare su un capo almeno Tira concepita su molti (30); e  la spaventosa descrizione delle Arpie, delle loro ire e delle loro feroci  imprecazioni (31); e il racconto di Diomede intorno ai castighi inflitti  dagli dèi a quanti avevano combattuto sotto le mura di Troia (32); e le  tremende profezie svelate dal veggente Proteo ad Aristeo perseguitato  dairira di un nume ; e la tetra descrizione della peste cagionata da  Tisifone (34). Ma l'esempio più convincente e caratteristico della ferocia  degli dèi ci è otìerto da Giunone, il cui odio per la nazione troiana in  genere, e per Enea in ispecie, costituisce tutta la macchina che muove  VEneide. In che cosa consiste infatti l'intreccio del poema? Nei dissidio  tra Venere e Giunone, la prima deile quali protegge il figlio Enea in ogni  sua impresa, mentre la seconda cerca di impedire ch'egli venga in Italia  a compiere il volere dei fati. Dopo un sèguito di favolose avventure, nelle  quali cosi Tuna che T altra delle due dee mettono in azione tutti i mezzi  che sono in loro potere per riuscire nel proprio intento, la vittoria definitiva rimane alla dea dell' amore, e cosi finisce il poema che è tutto compenetrato del sovrumano, e in cui gli uomini non figurano che come deboli stromenti nelle mani degli dèi. Ma quaP è la causa dell'odio di Giunone? Ce lo dice il poeta stesso nel principio del suo racconto:   Nec dum etiam causae irarum, saevictue dolores  Exciderant animo; manet alta mente repostum  ludicium Paridis, spraetaeque injuria formae,  Et genus in visura, et rapti Ganimedìs honores (35).   Ma se tanto puerile e tanto meschina è la causa, terribili però ne  sono gli eff'etti; poiché, come dicemmo, lo sdegno di Giunone non ha  limiti. Uatrox Juno (36), aeternum servans sub pectore vulnics (37), la  Juno saevissima (38)   Quam nec longa dies, pietas nec mitigat ulla (39)   col suscitare spaventose tempeste, col favorire da prima l'amore, poi gli  sdegni disperati di Didone, coir eccitare le dame troiane a bruciare le  navi, col mandare la terribile Aletto a suscitare la discordia e la guerra fra i Latini, coirorcitare Turno a far impeto sui Troiani mentre Enea è  lonlano dal campo, col far rompere al re dei Rutoli gli accordi del prossimo duello, non si stanca di frainiorre ostacoli e procurar danni al discendente di quel Priamo che sprezzò la sua bellezza, al concittadino di  quel Ganimede che In da Gìoa'c prrferito alla figlia sua Ebe. Terribili  specialmente sono le imprecazioni che V ira insoddisfatta le fa uscire dall' animo: i|nando, ad esempio, vide Enea che lieto cominciava a fabbricarsi  le case sulle sponde sicule « stette, pimta da acerbo dolore; poi, scrollando  il capo, versa fuori dal j>etto tali parole: Ahi! razza abominata, e destini dei Frigi contrari ai nostri! Forse che poterono soccombere nelle campagne Sigee? forse Troia ^\ì avvolse nelle sue fiamme? essi trovarono   una via ili scampo fi-ammezzo agli incendi e agli eserciti nemici. Ma io  eredo 4'he la mia divinità, stanca aitine soggiaccia, ovvero io. satura di  odi. mi acc|ui(1ai *> (40).   Poiché air odio suo irla forte rontro Enea, si aggiunge anche la gelosia  della propria potenza, il timore di iliminuire nella venerazione degli uomini, la rabbia di vedersi vinta — essa, la moglie di (jiove — non solo  da una imniiirtale. Venere, ma anche da un semplice mortale che Venere  protegge. Cosi, quando vede Enea approdare in Sicilia, esclama:   ViiU'or ab Aenea. Quoti si mea numina non sunt   Magna satis^ duliiteia liaud ei iniziano i htdi noren^ftiale-s indetti da  Enea per onorare il padre. Cloanto riesce ad ottenere la vittoria facendo  questo vóto alle divinità del mare :   e^o hoc candtntem in litore taurum  Constituam ante aras, voti reus, extaqiie sals«iS  Porriciam in fluctns. et vina lùiuentia fundam S\l   Qui non si tratta che di una semplice promes>a : ma poco più innanzi,  narrando il poeta la partenza della flotta troiana alla volta d'Italia, cosi  descrive il sacrificio col quale Enea cerca propiziarsi gli dèi del mare :  opoIo romano  era chiamato a compiere nella storia del mondo: l'autorità religiosa doveva ben guardarsi dall' intralciarla. Questo concetto è espresso chiaramente nei versi — an«'or oggi pi eni di significato per il popolo italiano —  coi quali Turno rimprovera la vecchia Calibe, sa«Nrdotessa di Giunone,  che voleva spingerlo alla guerra:   Cura tibi, Divùin eflìgies et tempia tiieri:   Bella viri pacein^ue re-^ant, quìs bella merenda ^. — Se gli antichi commentatori, rnn le loro interpretazioni allegoriche dell' E/ieif le. avevano fatto dire a V. una infinità di corbellerie, che non gli eran mai {»as>ate per la mente, non s'erano perO> ingannati nel ritenere che il poeta avesse voluto dare un significato allegorico  alla sua narrazione della venuta di Enea in Italia. Infatti è facile comprendere — per «juanto compreso da pochi che il viaggio fatale dell' eroe troiano dalle coste dell'Asia Minore alle terre italiche, altro non  significa che V introduzione nel Lazio di nuovi culti e di nuove diNinità  venute dallOriente: fatto importantissimo, avvenuto in tempi assai lontani, e per il quale l'antica religione romana era rimasta profondamente  trasformata. Quest'allegoria traspare evidentissima da tutta V Eneide, e  semhra che il poeta n^niesimo, con accenni frequenti, abbia voluto togliere ogni possibile dubbio intorno ad essa, (iià dal primo libro egli ha  cura dì farci sapere che l' impresa di Enea è voluta dai destini 1). e  che il compito dell'eroe è di trasportare i propri dèi nel Lazio r2) : nel  secóndo è il morto Ettore che c (:»v. preparandosi alla fuga dalla patria, il primo pensiero di Enea è quello di affidare alle pure mani  di Anchise le cose sacre ed i patri numi (4); giunto a Creta, sono le  slesse ef'pges sacrae diimm ed i PJirigii penales che gli compaiono durante il sonno e lo scongiurano a non fermarsi oltre su quelle spiaggie.  ed a procedere arditamente verso l'Esperia, dove saranno le loro sedi (5,  Durante tutto il fatidico suo viaggio Enea — che somiglia più un sacerdote che un guerriero — non si mostra tanto preoccupato di conquistare  un regno, quanto dì ottenere un asilo per i propri dèi: u io non domando  altro che un posticino {sedem exiguam) per ripom i miei Penati » dice  egli al re del Lazio ((>) ; e quando è giunto al conspetto della Sibilla, si  alìVetta a farle conoscere che non è venuto a chiedere regni non dovutigli, ma soltanto un luogo sicuro per i suoi numi erranti:   da, non indebita posco  Regna nieis fatis, Latio considero Tencros,  Errantesque Deos agitataque numlna Trojae ^7).   Ma Tallegoria ci sembra tanto evidente, che crederemmo inutile insistervi oltre.   Fin qui il nostro studio è stato unicamente rivolto a porre in lue(^  quei caratteri della religione di V. che corrispondono all'indole dell' antica religione romana ; per rendere compiuto il nostro quadro dohhiamo dunque esaminare anche questi elementi nuovi, che s'infiltrarono  assai presto in essa, e, pur lasciandole un fondo tutto proprio e particolare, l'accostarono sensibilmente alle altre religioni dei popoli antichi, e  specialmente dei Greci.   LMntroduzione del culto e degli dèi greci in Roma ha cause diverse,  prima delle quali Y uso di ricorrere ai Libri sibillini, che provenivano da  Gergis (rèpytc, ed erano stati portati a Roma sotto Tarquinio il Superbo (8).  La conservazione e l'interpretazione di codesti libri fu affidata ad \\n   collegio speciale di sacerdoti, i (juali, da due che erano all' epoca dei re, '   s'accrebbero a poco a poco fino a raggiungere sotto l'impero il numero  di quindici, e furon detti perciò Quindiceminri sacris faciundis. Quando  avvenivano fenomeni straordinari, come pestilenze, terremoti, inoncL^zioni, ecc., o prodigi affatto nuovi, non contemplati nei libri pontificali,  lo Stato ricorreva solennemente al consiglio di codesti sacerdoti, i quali,  dopo aver consultato i libri loro affidati, prescrivevano le relative cennio  nie di preghiera e di purificazione.   Siccome poi i libri sibillini raccomandavano il culto degli dèi del lon*  paese d'origine, così d'allora in poi accanto al Romanus ritus si eblie il  Graecus ritus, e accanto agli antichi dèi italici le divinità dell' Olimpo  greco, che finirono col sovrapporsi quasi completamente ai primi.      Questa mescolanza di riti e di divinità possiamo agevolmente riscon trarla anche nella religione del massimo fra gli epici latini. Insieme ai  .*. dii patrii indAyetea^ appartenenti all'antichissimo ciclo degli dèi romano f sabini, quali Giano, Pico, Vesta, Pilumno, Romolo, Fauno, Silvano, il suo   '; Olimpo contiene anche quegli dèi che, per contrapposto, eran detti dii   ^, peregriìii o novemsédes ; vale a dire divinità greche ed orientali come   » Febo, Apollo, Cibele, Bellona, Latona, Mercurio. Vulcano, Venere, (giunone   -' Cerere, Proserpina, Plutone, Esculapio (9); e infine divinità greche identi ficatesi poi con divinità italiche, quali Saturno, Nettuno, Artemide (= Diana  in Aventino) ed Ercole (= Hercules domesticus o Mars). Il culto che nei  L poemi virgiliani è reso a tutte queste divinità, varia naturalmente col va \ riare dell'origine loro ; cosi, mentre gli dèi greci sono onorati secondo le   (; norme del rito greco, agli dèi patri è serbato l'antico rito romano. I primi   hanno auree statue, pompe solenni e templi di marmo dalle colonne di  : bronzo e dalle porte istoriate in oro ed avorio (10), i secondi conservano   invece la primitiva agreste semplicità : Vesta non ha altra imagine che  " il sacro fuoco, alla cui conservazione vegliano assiduamente le vergini   sacerdotesse ; Fauno è ancora rappresentato da un semplice t oleaster  foliis amaris », al quale i marinai salvati dalle onde solevano atta(rcare  i loro doni e le spoglie votive (11); il dio Tevere è adorato nella sacra  quercia, al cui tronco i guerrieri appendono le armi e le exuriae (spoglie)  dei nemici uccisi \V2).   Insieme agli dèi ed ai riti, anche Tantropomorfismo greco è penetrato  largamente nella religione virgiliana, togliendole, o, a dir meglio, attenuandole (luel carattere incerto e nebuloso che vedemmo provenirle dalla astrattezza propria delle antiche divinità italiche. Né poteva essere altrimenti;  prima di tutto perchè in Roma Tantropomorfismo s' era imposto alla imaginazione di tutti fino dal tempo dei Taniuinj, poi perchè il poeta non  avrebbe potuto rinunziare al grande vantaggio, clie gli proveniva dal valersi di divinità dotate di forma e passioni umane. Per tal modo, gli dèi  che V. fa soprassedere agli avvenimenti svolgentisi nelFEneide, sono,  in fondo in fondo, gli stessi di cui Omero s' era servito nell'Iliade e nelr Odissea. Essi hanno un corpo simile in tutto e per tutto a quello dei  semplici mortali, con le identiche qualità e bisogni ad esso inerenti : vi è  la sola differenza che tali qualità sono portate ad un grado sovrumano,  cosicché anche quando gli dèi scendono in terra- e cercano nascondersi  sotto spoglie mortali, il suono della loro voce, il loro portamento, la loro  statura, la loro bellezza, il scintillare degli occhi, ne svelano agevolmente  Torigine divina. Quando Iride, deposto Tabito e l'aspetto di dea, cerca  persuadere le donne troiane a bruciare la flotta che doveva condurle in  Italia, la vecchia Pirgo, nutrice di Priamo, si accorge subito che sotto  -- l'apparenza della matrona Beroe era nascosta una dea, e grida alle   compagne :  Non Beroe vobis, nou haec rhaeteia, matres,  Est Dorycii coniux. Divini signa decoris,  Ardentesque notate oculos; qui spiritiis illi,  Qui vultus, voeisve sonus, vel gressus eunti  E quando la dea Venere appare ad Enea sotto V aspetto e V armi  di vergine cacciatrice spartana, e gii chiede con mentita voce se avesse  veduta alcuna delle sue sorelle, V eroe troiano risponde senza esitazione :   Nulla tuarum audita railii, neque visa sororum   (quam te raemorem ?) virgo: namque hand tibi vultus   Mortalis, nec vox hominem sonat. dea certe :   An Phoebi soror? an nimpharuin sanguinis uua? (14)   Ed è curioso notare come, nei poemi di V., V antropomorfismo  non si restringa agli dèi venuti dalla Grecia, ma si sia esteso persino  a quelle antiche divinità romane, le quali, nella loro originaria astrattezza ed immaterialità, sembravano le più restie ad assumere forma umana.  Il deus Tiberinus era uno dei numi più vetusti e rispettati fra il popolo  romano, che lo considerava come il protettore naturale del patrio suolo,  il genius loci simbolizzante in sé stesso l' origine, le vicende e la gloria  di Roma : suo unico simulacro era, come vedemmo, T umile quercia, alla  quale i soldati vincitori appendevano divotamente le spoglie dei vinti nemici. Or bene, anche il dio Tevere ha assunto neir Eneide veste, forma  voce umana, che lo fa rassomigliare in tutto ad un dio dell'Olimpo greco :  uscendo di tra i pioppi dell' amena sua corrente, egli si presenta ad Enea  in sembianza di vecchio, e   eum tennis glauco velabat amictu  Carbasus, et crines umbrosa tegebat arundo ;  Tum sic affari, et curas bis demere dictis (15'.   Come per le qualità fisiche, così anche per le qualità morali gli dèi  somigliano in tutto e per tutto agli uomini : essi nutrono nel loro animo  passioni, desideri e sentimenti al pari di ogni mortale, ma con una forza  ed una intensità di gran lunga superiore a quella umana. I loro odi, i  loro amori, le loro gelosie, le loro vendette, che hanno tanta parte negli  avvenimenti umani, sono riprodotte da V. sulla falsariga di Omero,  (lai quale il poeta mantovano ha mutuato tutto il macchinismo mitologico.  Ciò è tanto evidente, per chi abbia una certa conoscenza dei poemi virgiliani  che sarebbe affatto inutile ci dilungassimo a mostrarlo. Noteremo soltanto che esagerarono quei critici i quali vollero scorgere nella mitologia  virgiliana una serietà ed una moralità di molto superiori a quella omerica   4»'   Ch*:? Li ma-gior rispetto del i)4)polo latino verso gli dèi, la sua inatrj:- r»- izrtivirà, e il pn»}j:r^^>so stesso compiuto dalla ragione umana in otto  s^ci I: di riflessione, «li >tudi e di ricerche, «ìovesJ^ero spingere il nostro  j toeta a d^ire una ve>te più severa e più casti^jata alle antiche favole   > • . «n-ire sul >uolo ell»-nni«*o. è cosa naturale, confermata anche dall'esame  •i-i p» «-uJ iVià nr-i tempi di poct) anterit>ri al poeta, codeste favole sem! /.iVAi... :i: più sfa«NÌate, assurde, immorali, e contro di esse protestava  - .rrjicaiiit-ritt- il più trrande dejrli oratori romani: u nec enim multo aì)-:!:•' :. r:i — es^Uma ej:li, «lopo aver esposto i giudizi dei tilosofi sulla divi:.:-^ — >unt ea, quae poetarum vocibus fusa ipsa suavitate nocuerunt,,'iì et ira inrI:ìmiiiatos et libidine furentis induxeruut deos feceruntque.  r.: ri:r;m hèUa. pro«-lìa, pugnas, vulnera videremus, odia praeterea. dis-i.a. -i:^ or.iia.s, ortu>. iiiteritus. «|uerellas. lamentationes. effusas in  •:n.::: intrriiiprrantia libidines. aduUeria, vincula, cum humano genere con^ r\i lvd> iiiortaii'[Uè ex iLimurtali procrea tos » 17). Ma. come abbiam ve I :r . C:- eri'iie non aveva la natura timida e profondamente religiosa di   Vìrjil:?. né s'era accinto come lui ad un poema epico il cui fine era di  r. :.r. iurre i Romani ali" aritica religiosità, e la cui materia si trovava già  :r: -è -ie tu'ù .libine divina: lo stesso pn»tagonista del poema è figlio di una dea,   jr Vrrnere, ol.e s«..ntratasi con Anchise sulle falde dell'Ida, s'era congiunta   P e n lui: Latino padr»- dì Lavinia e re del Lazio, è figlio del dio Fauno   S tr iella n:r*f:i Mari, a (IS). Ma questa semidivinità di Enea e di Lavinia.   % »^: ->:.•" nifi n«^'lia tradizione, era necessaria al poeta non solo per aver   5 n. io i; L':;>t:n. are le favolose imprese del primo e l'aiuto che a lui con ^ c-rÌLO jl. dèL lua aiii'he per dimosti*are ai Fiomani derivati dal matri • !..?:.!• 'l-l prÌMio **olIa sfonda, la loro origine divina, e con ciò in ^ iiirli ad es.>ere più religiosi. Fra i guerrieri italici che scendono in guerra   1^ *.» re-enit» troiano, i più devono la loro nascita al connubio di un   « Iemale con rialclie divinità : Turno ha per avo il dio Pilumno e per nia ^ dre li dea Venilia li») Messapo è tìglio di Nettuno (2l>), Cecolo fu gene \ rat • da Vulcano tra le greggi e trovato nel fuoco -21), Ebaio da Telone   i è dil!a iiinra Seb»'tidr' ;.^2) : il leggiadro Aventino è tìglio del dio Ercole   e i -Il.i >^acerd-te>*>a Rea. la quale   Furtivum parta sul» luiuìnis edìlit aurati,  Mivta l>n» imilior  ;     41   ed anche in questo caso il nostro poeta non fa che servirsi di una tradìzione antichissima, colla quale può giustificare la prima sconfitta  ecc. ecc.  Sulle condizioni della religione romana verso il finire della repubblica e sulle  cause della sua decadenza, vedi G. Boissier - La Belìgìon Bomaine, Paris, 1884,  Voi. I, pag. 37-63. Joachin Marquardt - Le eulte chez les Bomains, Paris, 1889, Voi. I,  pagg. 69-87. C. Schmidt - Essai hìstorique sur la Società civile dans le monde Bomain et sur sa transformation par le Christianisme, Strasbourg, Havet - Lo Chrhtìanisme et ses orìgines, Paris, Livio - Ab urbe condita- L. VI, 42; X, 6-9. La prima legge per la quale  anche al popolo fu aperta la via al sacerdozio, fu la lex Licinia (389-367); vennero  poi la lex Ogulnia (454—300) e infine la lex Domitia (650=104).   (6) Zeller - Beligion und Phìlosophie bei den Bomern. Berlin, 1872 (Vortrage  und Abhandlungen, Asìnaria, II, 1, 11. Persa, Iecc.  CICERONE (vedasi) De Divinatione, II, 50; 1, 58. Ennius - Telamo (Ribbeck,  pag. 44)   (9) Com' è noto, la notizia della traduzione, ora perduta, fatta da Ennio della  Storia sacra di Evemero, ci è data da Cicerone nel De nat. deoi\ 1. I, C. 42 « gwae  ratio maxime tractata ab Euhemeì'o est, quem noster et interpretatus et secutus  est praeter ceteros Ennius 9, Dei brani della storia di Evemero sono riportati da  Lattanzio, Justit, 1, 11, 17 e seg.; le maggiori notizie su di lui si trovano in R. de  Block - Euhèmère son Ihrre et sa doctrine, Bruxelles, 1876. Quanto al poema di  Epicarmo, esso è citato da Varrone nel De lingua latina V, 65.   (10) Una prova, fra le tante, degli eilettì prodotti in Roma dal diffondersi della  Storia sacra di Evemero, ci è data da questo passo di Cicerone, De nat. deor. Ili, 19:  « An Amphtaraus erit deus et Trophonins ? Nostri quidem publicnni, cum essent  agri in tìoeotia deorum immortalium excepti legi" censoria, negabant immortali^  esse ullus, qui aliquando homines fuissent*.   (11) Varrone, che consacrò il suo libro sulle Antichità divine a ia,r conoscere gli  antichi riti^ all'ignoranza dei quali attribuiva la decadenza della religione romana,  chiamava poi assurde le favole che si raccontavano sugli dei, e confesssava che il culto  romano era mal fatto^ e che non sarebbe più tale se egli potesse rifarlo; cfr. S. Agostino, De civitate dei, IV, 31. Per Lucilio, vedasi il modo con cui egli giudica le religioni popolari nelle sue satire XV, 2; ed. Miìller, Lipsia Com' è noto, Cicerone era augure, ed a tale suo officio teneva moltissimo,  facendo feilelmente la guardia alla porta dei templi. Con tutto questo egli non si fa  scrupoli di combattere recisamente, nel suo trattato sulla divinazione, l'opinione di  coloro che credevano possibile una scienza dell'avvenire, ne vuol permettere che la  superstizione sia posta sotto la protezione della filosofia. Nel trattato sulla Natura  degli Dèi si mostra titubante, incerto, né sa giungere ad una conclusione recisa; tantoché non a torto vi fu chi ai nostri giorni credette sorprendere, in codesta assenza  di conclusioni formali, una prova di ateismo (Cfr. Boissier, Op. cit.. Voi. I, pag. 56).  Nelle lettere familiari, che ce lo mostrano nella vita privata, di religione non ia  quasi mai parola. I discorsi politici e giudiziari sono per contro tutti compenetrati  di religiosità, e ne vedremo più avanti la ragione. In questa esagerazione cadono quasi tutti gli autori sopra citati, specie il  Marquadt (loc. cit, op, cit)   (14) Epist. ad famil., V, 16.   (15) Ad. Att,, ì, 3.   (16j Cicero. Act, in C Ve7rem, IV, 35.     51   (47) Cfr. Havet, op. cU., pag. 77 e segg.   (18) Vedcsi specialmente la Pro lege manilia, (quelle In Catilinam, ([uelle contro  Verre, già ricordate, ecc. ecc.   (19) Plutarco — Le vite degli uomini illustri, trad. G. Pompei, Cremona, Ab urbe cond.Vedi fram. del 1. XXXII.   (22) De rer. nat. III, v. 7.   (23) Lentulo, il complice di Catilina, credeva agli oracoli della Sibilla; cfr. Cicero In L' Calilinam orat^ ieri., 5. Siila, che aveva rubato i tesori del tempio di  Delfo, portava sempre con se una piccola ima'^ine di Apollo che baciava di tempo  in tempo; cfr. Plutarco, Siila, Voi. VI, pa?. 490, Mario eonduceva sempre con sé la  profetessa Marta^ nella quale aveva grande fiducia e dietro ordine della quale sacrificava; cfr. in Plutarco la vita di Mario. Vatinio, che affettava incredulità per gli  auspici, e\ oca va segretamente i morti e immolava loro dei fanciulli; cfr. Cicerone, In  Vatin,, 6. Quando apparo qualche meteora, quando qualche statua divina ha sudato,  quando qualche rumore misterioso s*è fatto sentire sotto terra o nel cielo, il terrore  invade tutti, e per ordine del Senato si consultano ì libri della Sibilla e gli auspici;  CICERONE (vedasi), De Divinatione Le superstizioni funebri dominano specialmente tra gli sventurati. Lucrezio ce li fa vedere, nelle ansie e nelle sofferenze  (leiresi^lio, affrettarsi a sacrificare ai mani e immolare pecore nere là ove il caso li  ha condotti; cfr. De rer^ nat- III, n. 8. Quanto a Cicerone, vedemmo già com'egli  attribuisse la propria guarigione agli dèi e incaricasse la moglie di ringraziarli.  Per verità, al tempo di Cesare e di Cicerone, le matematiche pure ed applic^itct la fisica, la scienza musicale, la meccanica, l'astronomia, la geografia, la storia  naturale ecc. si trovano ormai ad uno stato soddisfacente di sviluppo. Ma oltreché molto  delle verità più alte, come ad esempio il movimento della terra intorno al sole,  erano ancora al puro stato di ipotesi non dimostrate, s'aggiungeva anche che coloro  che nella loro gioventù avevano potuto compiere una buona educazione scientifica,  dimenticavano poi ogni cosa; cfr. a tal proposito Polibio, IX, 24, e Cicerone De Republica I, 40, e Academica II, 39. Per convincersi poi a qual punto di imperfezione  era ancora la cosmologia e l'astronomia, basta leggere le considerazioni di Lucrezio  .sugli antipodi, le dimensioni del sole, la durata dei giorni e dello notti, le fasi della  luna ecc.; cfr. De rer. nat. I, 4056, V 563, V 694, e 730.   (25) Che Ottaviano fosse grandemente superstizioso, è cosa risaputa (cfr. Svetonio, Ang. 90, 94); ma ciò non implica che fosse anche religioso nel vero e proprio  senso della parola. Antonio lo acculò di aver parodiato in modo così turpe durante  un banchetto l'Olimpo degli dèi, che Giove aveva abbandonato il Campidoglio per  sottrarsi a quella vista. Lo stesso Svetonio narra che, avendogli una tempesta distrutta Tarmata navale, adirato cacciò Nettuno dal tempio (Ang, 46, 70).   (26) Kpist. 1. I, IV.  LIVIO, M.   Georg. Georg. En. En. Sulla religione romana, vedasi, oltre le opere a;ià citate del Boissier, del  Marquardt, dello Sehmidt, dello Zeller e dell' Ha vet, anche Bouché — Leclerecq, Les  Ponti fes de rancieìine Rome. Paris, 1871; e, dello stesso, il Manuel des ìnsliiU'  tlons romaines. Paris, 1866. Preller, !.£s dkicv de /' ancienne Rome, Paris.  1855; Friedlaender — DarsCellungen nus der Sittengeschìchle Roms, Leipzig, 3  voi.; Inscriplìonum iMinarum amplissima collectio pubblicato a Zurigo dall' Creili pei due primi volumi e dall' Hcrzen per il terzo; le Inscriptiones regni  Neapoletani pubblicate a Zurigo dal Mommsen ; io mi sono anche servito di uno  splendido e comprensivo riassunto della religione romana, fatto dal Boissier in Remie  de V histoire des religions, En. Hinc Augustns agens Italos in poelia Caesar  Cum patribus, populoque, penatibus et magnis dis,  Stans celsa in puppi : geminas cui tempora flammas  Laeta vomunt patriuinqne apei-itur vertice sidus.   tll) Georg. Properzio III, 22-20; Zeller, op. di. p. 6: Preller Hamisvke Mythologie, Diogini d'Aliearnasso PcojiatxYj 'ApxatoXoyia, I En. Quando gli Arvali sacrificavano due pecore alla divinità protettrice del luogo,  pronunciavano queste parole .  Infatti, mentre i primi indirizzavano i loro inni a Giunone, a Minerva, a Giano^ a  Lucetins (Giove,; i secondi non cantavano che le imprese di Ercole; ora il canto che  V. pone in tM>ccg^. : li Massarani — yei parentali  di V., Mantova, 1883, paicg. i9 e seguenti. Nai. Deor, En. Eh. En En. En. IV, 912 Giunone è detta cara Jovis coniux ; cfr. iinclic  En. XII, 806 uUerius tentare veto.   (27) En. Eru En.  En. En. En C Uiad. XIV, 346-351.   Y] pOL xal àyxàg Ijiapxs Kpóvou nal^ if^v Tiapixomv  Totoi 8' uno x^à)v Sìa qpiiev vsoOijXéa «oIt}v,  Xa)xóv ^'IpoVìevxa t8è xpóxov vj8' ftàxivO-ov  Ttoxvòv xal {iaXaxóv, Sg ìtcò x^C &'+io' èspYsv.  xqi ivt Xegaoi'hjv ènl 8è vscyéXr^v Sooavxo  xaXrjv xpuoeCrjv.   (38) A'n. Per tutte queste notizie cl'r. A. Gabrielli. Sulla IV egloga di V..  Mantova, 1883.   (40) 1. II.  l41) 1. II.   (42) V. Ogereaii. Easai sur le système philosophique des Sloicìens — Paris Gabrielli, op. cit.; i>er vedere quale diffusione avesse codesta leggenda in  Italia, cfr. Ccnsorinus, De die natali, 17. Sugli anni e i //ja^^ne /wt'fwe* dell'eglog, IV  cfr. De Romanorum anno saec ad Very. eclg. IV nc^li Archivi di Filologia dell' Henghelmann.  En. Riguardo ai carmi sibillini cfr. le opere già citate.   (49) Completo magno anno, omnia si/dera in ortus suos redire et referri  rursus eodem motu. Quod si est idem st/derum motus, necesse est ut omnia  qiiae fueiunt habeant iteratiorwm.   (50) Cfr. Compareti, op. ci/., C. VII; ed ancora Schickedanz: Unde VirgiUus argumentum quartae eclogae hauseriU Servest. 1761 ; Frcj'mullcr: Die messianische Weùsagung in Vergils Edoga IV, McUeii, 1852.   (51) Sì confrontino i vorsi 10-45 con (lucsto frammento del carme dclhi 2»ibilla  cumana.   Cum Deus ab alto llegem dimittet Olympo  Junc terra omniparens friictas mortalibus aegris  Reddet inexaustos frumenti, vini, oleÌQUc;  Dulcia tunc mellis diffundent pocula coeli,  Et niveo latices erumpent lacte suaves.  Oppida piena bonis, et pinguia eulta vigebunt,  Nec gladios metuet, nec belli Terra tumultus,  Verum pax terris florebit omnibus alta.  Cumque lapis Agni per montes gramina carpent.  Permistique simul Pardi pascentur, et Hoedi ;  Gum Vitulis Ursi degent, Armenta sequentes  Carnivorusque leo praesepia carpct uti bos:  Cum pueris capient somnos in noctc Dracones,  Nec laedent, quoniam Domini manus obteget illois.   (52) Si confrontino ancora i versi 10-45 dell'egl. IV, con queste parole di Isaia  (C. XI) * Ei erit justUia cingulum lumborum e.jus ; ei fides cinclorìum renum  ejus. liabitablt lupits cum agno, et pardus cum hoedo occubabil et leu et ovis  simul morahantur, et parvulm mbiabit eos. VltuliLS et ursus pascentur : s'unuI  requiescent catuli eorum ; et leo quasi bos comedet paleas. Et delectabilur infaìia  ab ubere supeì' foramine aspidis ; et in caverna regulì, qui ablactatus fuerit.  manuin sua mittet. Non nocebunt et non occident in universo monte sancto meo;  quia repleta est terra scientia Domini, sicut aqtuie maris aperientes ».   (53) Cfr. Comparetti, op. cit. C. VII; Evangelicher Kalender. 1862, pan- i7-5o. Vedasi il saggio veramente geniale di G. Negri « I Ricordi di Marco Aurei in  eie Confessioni di S- Agostino» in Meditazioni vagabomie, Milano. riiica fra le sètte filosofiche deirantirhitii. la scuola di Epicuro  esclude nel modo i)iù assoluto la religione, nega ogni sorta di miracoli,  e bandisce il sovrannaturah* che l'ignoranza e la paura avevano cui loi^ato  nel seno dei fenomeni. La strana dottrina psicologica della i^pO-rfyy;,, nhe  pure ha un fondo indiscutibile di verità, aveva bensì costretto il (ilosofo  d'Abdera ad ammettere un Olimpo di dèi immortali, ma essi non hanno  alcun potere sul mondo e sugli uomini, sono formati da una semplice  successione di imagini prive affatto di consistenza, e vivono riligati  negli spazi intercosmici {intermundia). dai quali non potrebbero uscire  per la diversa natura degli atomi che li compongono. Quindi riiomo min  ha nulla da temere e nulla da sperare da codeste vane ombre senza  cor|)0, che non possono togliergli (jnello che l'epicureo considera il massimo dei beni: la libertà dello spirito. In modo ben diverso intendeviino  razione divina le altre scuole, che si disputavano nel mondo rintien la  direzione degli animi. La dottrina del Portico, ad esempio, era venuta,  col suo mal definito panteismo, a giustificare ogni più volgare superstizione, e ad ammettere nel mondo una incessante azione divina, una rnntinua provvidenza, un perpetuo miracolo ; lo stoico, al pari di ogni altro  pagano, credeva alla fatalità, alla predestinazione e persino agli oracoli e  alla scienza augurale. Lo stesso può dirsi della filosofia platonica, la  quale, mistica ed ascetica già neirorigine. aveva accentuato aiici^r più     questi suoi caratteri passando attraverso la speculazione degli Alessandrini, ed era giunta al punto di accettare non solo, ma di giustificare col  ragionamento filosofico l'ermetica e la magia. L'epicureismo soltanto era  recisamente nemico di ogni religione, qualunque essa fosse : poiché ogni  religione deve, dal più al meno, poggiare su quelle idee di provvidenza,  di creazione, di miracolo, di solidarietà fra il mondo e dio, che il seguace  d' Epicuro esclude nel modo più assoluto, u Ce n' est donc pas sans raison — diremo anche noi col Guyau — que le nom d'epicurien devint  rapidement synonyme d'incredule et d'irréligieux ».   Dato questo carattere della filosofia epicurea, era possibile che il mite  V., iJ cantore del pius Aeneas, il ristauratore dell'antica religione  romana, il poeta religioso per eccellenza, accordasse il proprio assentimento  alle dottrine di Epicuro? Assolutamente no; a meno che non si voglia  ammettere che nell' animo suo fosse tale il distacco tra i principi filosofici  e le credenze religiose, da poter negare in filosofia ciò che credeva in religione. Ma questa ipotesi sarebbe assurda e priva di ogni fondamento.  Tutta la storia del pensiero umano ci dimostra che uno strettissimo legame ha sempre unito la religione e la filosofia; ed anche al giorni nostri, se nel campo teorico i loro domìni sono stati divisi, nel campo pratico delle coscienze individuali esse continuano a rimanere strettamente,  invincibilmente unite. Questo legame che unisce la religione e la filosofia  è al tempo stesso positivo e negativo : è positivo in quanto Tana e l'altra  soddisfano al bisogno imprescindibile dell'anima umana di possedere la  realtà superiore, l' unità suprema delle cose ; negativo, o, dirò meglio, di  esclusione, in quanto la seconda sostituisce a poco a poco la prima nella  esplicazione delle verità superiori. Ed infatti, considerata storicamente, la  religione non è altro, secondo la definisce il Réville, che « la determinazione della vita umana, per il sentimento di un legame che unisce lo spirito umano allo spirito misterioso, di cui egli riconosce la dominazione  sul mondo e sopra sé stesso, ed al quale ama sentirsi unito » ; la filosofia  invece, considerata pure sul terreno strettamente storico, è la ricerca libera della verità superiore nel mondo e nell'uomo sulla base delle conoscenze acquisite in generale e deir osservazione della natura umana. La  religione deriva dal sentimento spontaneo che l' uomo ne ha, e che egli  interpreta senza rifiessione e senza metodo, sotto la direzione preponderante delle facoltà imaginative ; la filosofia deriva dal bisogno che l'uomo  prova di correggere con formule razionali le ispirazioni del sentimento :i).  Dove la prima pone il piede, la seconda deve ritirarsi ; ed è soltanto  quando la filosofia si acconcia alle forme ed ai simboli della tradizione  religiosa, traducendo nel linguaggio tradizionale le sue idee e le sue speculazioni, che l'una e l'altra possono trovarsi d'accoido sul medesimo  terreno. Ciò avvenne infatti nel pitagoreismo, nel platonismo, nello stoicismo, nel giudaismo alessandrino ; ma non, come vedemmo nella dottrina d* Epicuro. Quindi per noi la questione dell' epicureismo di V.  è già a priori risolta: essendo profondamente religioso, il nostro poeta  non poteva essere al tempo stesso epicureo. Ma non cosi l' intendono  tutti coloro che, nei tempi antichi e nei moderni, si occuparono in qualche modo delle opinioni dei grande mantovano.   « Se fra tante verità stoiche non avessi errato con qualche principio  epicureo, non sarei pagano ». Queste parole, che Fabio Pianciade Fulgenzio pone in bocca allo stesso V. nel suo De continentia Virgiliana,  riassumono, si può dire, l'opinione generale dei grammatici e dei commentatori antichi e moderni intorno ai principi filosofici professati dal nostro  poeta. Non tutti codesti illustratori sono certamente d' accordo nel considerare le dottrine stoiche come il fondamento della filosofia virgiliana ;  anzi a questo riguardo le divergenze sono parecchie, inclinando alcuni  per lo stoicismo, altri per il platonismo, altri per il neo - pitagorismo,  altri infine, e con maggior ragione, per l'eclettismo stoico - platonizzante.  Ma si trovano poi tutti meravigliosamente uniti nelP affermare che Virgilio, tra il candore immacolato delle sue dottrine spiritualistiche, non  seppe andar esente da qualche piccola macchia di queir epicureismo che  fu sempre la filosofia degli spiriti ribelli.   Questa, ripeto, è Y opinione generale degli illustratori di V. ; ma  ben più recisa è a tal proposito l'opinione volgare. Come osserva lo  stesso Heyne nel suo celebrato commento, « vulgo prò Epicureo haheri  solet Virgilius » (2). E cosi è infatti. Oggi ancora i più credono che il  nostro poeta abbia non solo accordato spesse volte facile «orecchio alle  ttjntazioni delle dottrine epicuree, ma che sia stato un epicureo vero e  proprio, un seguace convinto e deciso, sebben mite, del grande pensatore d'Abdera.   Scevri da ogni idea preconcetta e da qualsiasi preoccupazione filosofica e religiosa, che turberebbe la necessaria serenità della ricerca, noi  ora dobbiamo domandarci : quali sono le origini storiche ed i fondamenti  reali di questa, che non chiameremo la leggenda dell' epicureismo virgiliano ? Lasciando completamente da parte Y opinione volgare, che non  potrebbe avere la più lontana giustificazione nei documenti storici e letterari che ci sono rimasti, io credo che l'origine prima dell'opinione dei  commentatori risieda in quel noto paragrafo della P. Virgilii Maronis  ri/a di Tiberio Claudio Donato, nel quale si parla appunto degli studi e  delle opinioni filosofiche di V.. Il paragrafo dice precisamente cosi:  « Audivit a Syrone praecepta Epicuri : cuius doctrinae socium habuit Varium. Quamvis diversorum Philosophorum opiniones libris suis inseruisse  de animo maxime videatur, ipse tamen fuit Academicus : nam Platonis  sententias omnibus aliis praetulit » (3). L' antichità medesima del passo,  r autorità sempre concessa al suo autore, non potevano in certo qual  modo non suggestionare critici e commentatori, così da convincerli che     à qualche traccia degli insegnamenti di Sirene doveva necessariamente  trovarsi nelle opere virgiliane, prima ancora di averne ricavato la prova  dall'esame spassionato di esse. Non c'è quanto mettersi a studiare un  autore con idee preconcette, per creder poi di vedere confermate ad ogni  momento e nel modo più indiscutibile quelle medesime idee!   Ma ci sono veramente, o nelle Bucoliche, o nelle Georgiche o nelV Eneide degli elementi filosofici di indole tale da poter giustificare in  modo positivo questa opinione tanto universalmente diffusa? Vediamolo.   11 primo luogo che quasi tutti i commentatori sono concordi  nel chiamare prettamente epicureo, è l'egloga sesta, nella quale il mitico Sileno canta T origino degli uomini e delle cose. Ed è tanta la loro  sicurezza intorno alla natura di questo passo, che molti fra essi, ed  anche dei modernissimi, non dubitano di veder raffigurato in Sileno Tepicureo maestro di V., Sirene, e nei due fanciulli V. stesso e  il suo condiscepolo Varo (1). Non v'ha dubbio che i concetti espressi in  quest'egloga, e la melodia soavissima dei verei che li accompagna, e la  pittura giocondamente serena colla quale incomincia, possono spiegare  sufficientemente l'illusione in cui sono caduti i commentatori. Il vecchio  padre di Bacco, gonfie le vene pe'l gran vino bevuto, seria procul capiti delapsa, se ne giace dormendo in un antro. Lo vedono due fanciulli,  che il vegliardo avea spesso lusingato colla speranza di rallegra^-li con  un canto, ed unitisi ad Egle, Naiadum pulcherrima, lo legano coi serti,  gli impiastricciano la fronte e le tempie di sanguigne more e lo costringono a cantare. Ed egli, dolum ridens^ fra l'esultanza dei Fauni, delle  piante e delle fiere, incomincia il suo canto narrando :   uti magnum per inane coacta  Semina terrarumque animaeque marisquc fnissent,  Et liquidi simul ignis; ut liis exordia primis  Omnia, et ipse tener mundi concreverit orbis;  Tum durare sohnn, et discludere Nerea ponto  Coeperit, et rerum paullatim sumere formas;  Jamque novum terrac stupeant lucescere solem  Altius at) e specialmente dal Trezza (7), che disvelò la profonda moralità inerente air epicureismo, mostrandone Y eccellenza fra di tutti i sistemi filosofici antichi, io credo affatto inutile  sfatare un' accusa che ormai può solo essere accettata dalla credulitii  stolta dei volghi. (Hi è certo che fra i seguaci di Epicuro vi furono  molti che si fecero schermo delle sue dottrine per condurre una vita scioperata ed immorale; ma oltreché non bisogna mai chieder conto ad una  dottrina dalle conseguenze illegittime che le passioni umane possono dedurne (8), e' eran pure tra gli epicurei uomini forti ed eletti, che. ispirati  ad un alto ideale di dignità umana, liberi dalle umilianti tirannie celesti,  sapean trarre una vita virilmente austera nella serena contemplazione  del vero.   Ma a completare l'illusione, vengono infine i primi versi del canto  di Sileno, che più sopra abbiamo riportato. L' origine del mondo, il suo  lento progressivo conformarsi, Y iniziarsi dei fenomeni tellurici, il sorgere  delle piante e degli animali, tutto è narrato in cotesti versi senza il  benché minimo accenno ed una azione qualsiasi della divinità, senza la  più piccola allusione al sovrannaturale : ogni cosa ha principio dai semina^  ogni cosa che esiste non è che 1' eftetto del loro accozzamento magnun  per inane. Ora non é questa appunto la dottrina d'Epicuro, secondo il  quale tutto nasce, si forma e muore per un puro aggregarsi e dissolversi  di atomi nel seno del vuoto infinito, senza che gli dèi, relegati negli  spazi intercosmici, quasi famiglia di monarchi spodestati, possano mai  interrompere l'addentellato delle leggi immanenti ed eterne di natura?  Sembra evidentissimo ; anzi, ad avvalorare sempre più questa opinione,  si aggiunge anche la circostanza che nei versi sopra citati apparisce manifesta ed innegabile Y imitazione del massimo fra gii epicurei romani.  Lucrezio. È proprio infatti d(»ir orazione lucreziana quel semina del  verso :V2, che Lucrezio usa tanto spesso per significare gli atomi, quel  liquidus ignis del verso ;53, queir anima che é adoperata nel verso 32  in luogo di aer^ e che ci ricorda subito come per Lucrezio l'anima  umana sia composta degli stessi atomi levigati e sottili che compongono  l'anima (9): è decisamente lucreziano quel maguiim per inane del verso 31     m   che ci richiama tosto la concezione atomistica delV estensione pura, del  vuoto entità reale, inteso cioè come il luogo dove i corpi materiali, e  quindi estesi, possono trovar posto (10); bia di epicureismo. ( onìineiani  il no.stro poeta non avesse creduto di aggiungerne altri che distruggono  completamente il significato dei primi, avrebbe dimostrato, almeno in  questa parte, di seguire in tutto le idee già espresse dal grande poeta e  filosofo latino. Ma sembra che V. si sia proposto, nelle opere sue,  di togliere con una mano ciò che con l'altra concedeva; sembra che  abbia voluto, con (juesto continuo ondeggiare fra i due poli opposti della  filosofia, far perdere ai lettori ogni traccia del modello cui s'inspirava,  e dissipare non solo ogni giustificato sospetto di professare dottrine men  che ortodosse, ma anche di condividere una qualunque teoria filosofica  determinata. Questo vedemmo già, e vedremo meglio proseguendo nella  nostra ricerca; per ora possiamo averne una prova indubbia nei versi  che stiamo esaminando. Egli infatti prosegue il suo racconto così :  Prinius ab aetherio venit Saturnus Olympo  Arma lovis fugiens, et res^nis exiil ademtis.  Is gcnus indocile ac dispersimi montibiis altis  Conposuit, legesque dedit, Latiumque vocari  Maluit, his quoniam hUuissot tutus in oris.  Aurea quae perhibent, ilio sub rtge fecerunt  Saecula: sic placida in^pulo^ in pace regebat.   Qui la tradizione ha ripij^liato il sopravvento, imponendosi alla scienza  ed alla ragione che prima sombravano prevalere : il poeta, quasi spaventato del soverchio suo ardire, rìtv>rna ad adagiai-si nelle braccia morbide  del mito, e canta il regno paradisiaco di Saturno, che fuggito air Olimpo  viene in Italia, ed accolto iv^pitalmente da Giano, ammaestra il popolo  noir agricoltura, ne corregge il vivere selvaggio, trasfonde in esso abitudini di ordine, di moralità e di lavoro, iniziando cosi il periodo felice  deir età dell' oro. Tali ci»se narrava la leggenda, assai diffusa nel popolo  tra i tilosofi e i letterati (^J'i); tali, e non diverse, sono per V. le  prime storie della terra ancor giovane. Ce lo dice in modo egualmente  esplicito in un altro punto delle sue opere, e cioè sul finire della seconda  Georgica (23), ove descivendo con frasi idilliche la vita beatrma i poemi  virgiliani, credo possa esser tale da indurci a rispondere negativaviieiite a  una simile domanda. Non v' ha dubbio: dove il soprannaturale si mescola  ed incombe con tanta forza sul mondo, dove le potenze dispoticb.vì d:::j»^:-i- >i «^zzarla a sua  po-ìta. ivi non può ♦---ere uè ^l'iiiio -si'» il»^ in uu moiAo «o-ì s-^j-^:: • airinij»erió di  volontà oliraniondane. ^ la -«i^-nz;! '\^V.\ «livin tzioriM e d»:'i riti: studiarsi  di penetrare nel pen>i»ro r:jcere all'ii^m'.» ii.^n«Mchiato e treuiani^r s-.tt»> la verga  inesorabile del di«j. K tale ir.faiti. Lis-:iando da [«arte gli inse-juanienu contenuti nelle Georgiche, che >ono più che altro una meo»: Ila di precetti  pratici comuni a pirito super>tizio>o di cui è imlHrvuto, egli  manifesta di quando in «{uando certe, sia jiur vaghe, a^jirazi^.ni a conoscere la vera natura delle cse. e specialmente i m»ti dt i coi-pi cele>ti.  le ecli-,^i del sole e le fasi della luna, le inondazioni, i terremoti, i fulnn'ni ed altri simili fenomeni naturali, che colpendo i»er la loro apparente  irregolarità o per la lon» grandio>ità le menti incolte degli uomini primitivi, dovevano maggiormente giustificare la credenza dell'intervento divino  nella produzione loro. Di questa cres, lunaenue labores:  Uride trcmor terris: qua vi maria alta tumescant  Obijcìlma ruptis, rur^iisque in se ipsa residant:  Quid tantum Oceana i^roperent se tingere soles  Hìberni; vel ti tre versi, pure delle Georgiche, che riassumono, quasi  direi, commentano e giustificano i versi antecedenti:   Felix, qui [mtuit rerunj cognoscere causas,  Attiue metiis omnes, éì inesorabile fatum  Subiecit pedibus, strepi tu mine Acheroiitis avari I (iO)   Non v* ha commentatore che, cfiuiìto a questi due luoghi, non si faccia  un dovere di avvertire ctie in essi è contenuta Teco distinta degli insegnamenti di Sirene, citando anche a maggior conferma i versi lucreziani  dai quali il secondo è palesemente imitato (11); non v'ha critico che si  rispetti, il quale, trattando così ù\ passaggio delle opinioni filosofiche di  V., non citi questi due luoghi come una prova indiscutibile delle  sue tenden>:e epicuree.   Ora tali conclusioni sarebbero giustissime, ed io per primo le sottoscriverei a piene mani, riconoscendo che almeno in questi due passi le  traccìe delle dottrine epicuree sono di una innegabile evidenza, se non  vi si opponesse un ostacolo addirittura insormontabile : vale a dire gli  stessi versi che seguono roi^i il primo come il secondo dei due luoghi,  versi che non solo ne infirmano il primitivo valore, ma conferiscono loro  un significato camplctamente, recisamente contrario. Infatti, al primo dei  due passaggi citati seguono immediatamente questi versi :   Sin, Ims ne pomm natm-ae accedere partes,  Ffigidiis obstiterit circum praecordia sanguis;  Rura mìhi, et ridili placeant in vallibus amnes;  FI amina ameni silvasqiie ìn'^iorius! 0, ubi campi,     85   Spercheosque, et virginibus bacchata lacaenis,  Taygetal o, qui me gelidìs in vallibus Haemi  Sistat, et ingenti ramorum protegat umbra! {ììk   Al secondo seguono immediatamente questi :   Fortunatus et ille, Deos qui novit agrestes,  Panaque, Silvanumque senem, Nymphasque sorores!  lllum non populi fasces, non purpura regum  Flexit, et infidos agitans discordia fratres  Aut coniuratio ecc. ecc. (i3)   Veda ora il lettore spassionato come la citazione integrale dei  passi virgiliani, indispensabile per riprodurre con tutta fedeltà il pensiero  del poeta, muti di punto in bianco Y aspetto della cosa ; veda ora con  quanto fondamento i versi sopra citati, uniti a questi ohe ne sono il  sèguito naturale, possano essere interpretati come un'aspirazione a conoscere la vera natura delle cose, a liberarsi dalle visioni torbide delPoltretomba e dal timore degli dei !   Poiché, alla fin fine, qual'è il significato dei versi che stiamo esaminando? che cosa intese di esprimere con essi il nostro poeta? Semplicemente il contrario di quanto intendono i commentatori. È certamente  una bella cosa, dice V., penetrare i segreti della natura, conoscere  le cause dei fenomeni che atteriscono la nostra imaginazione, apprendere  le leggi che regolano i movimenti degli astri, i terremoti, le inondazioni ;  ma io non mi sento da tanto. Io preferisco trascorrere la mia vita nella  beata ingenuità del povero agricoltore, sotto la santa protezione dei vecchi  iddii trasmessimi in sacro deposito dagli avi, ammirando le eterne bellezze della natura esteriore, senza guastarmi la pace dell'animo e la tranquillità della coscienza con ricerche pericolose e con verità inquietanti.   Tuttavia, anche intesi in questo modo, si potrebbe sempre obiettare  che il nostro poeta non nasconde la propria ammirazione per coloro che,  con lo studio della natura, avevano saputo liberarsi dai gioghi celesti, e  giustifica la preferenza data alla religione soltanto colla mancanza del  suo coraggio e la tardezza del suo ingegno {/rigidus circum pr^aecordia  sangxiis\ e che quindi può ritenersi ugualmente verace Topinione comune  intorno alPepicuroismo dei due passi. L' obiezione sarebbe giustissima  nella prima parte, ma assolutamente falsa nella conclusione ; e per dimostrarlo sarà duopo fare alcune considerazioni sul sentimento religioso  degli antichi, che ci riveleranno la vera ed intima natura dei versi virgiliani.   Come abbiamo ripetutamente osservato^ le religioni antiche e la religione romana più d'ogni altra, hanno un carattere triste e cupo, che     86   induce facilmente neir animo del divoto tutti i terrori della più cieca  superstizione. Quelle mille potenze sovrannaturali disseminate per la natura, quella schiavitù continua al loro capriccioso dominio, quella cura  incessante di antivederne il volere, quella attenzione sempre desta di  scongiurarne le ire, dovevano rendere piena di ansie e quasi insopportabile la vita. « EJisognerebbe conoscere - dice il Guyau - tutti i pensieri  che assalgono a' nostri giorni ancora un' anima superstiziosa, per comprendere quale poteva essere la vita dei superstiziosi d' altri tempi, allora che la superstizione era garantita ed incoraggiata dalla religione  stessa, faceva parte delle credenze dello stato, e che Cicerone stesso brigava per ottenere il titolo di augure (13). Ora, a tal riguardo, noi al>biamo per fortuna un documento assai importante di quei temi>i, vale a  dire il trattato di Plutarco sulla Superstizione. Plutarco, testimonio non  sospetto e degno di fede, ci fa un quadro assai fosco delle ansie e dei  terrori suscitati negli animi dalla superstizione, che egli chiama « malattia ripiena di passioni » « viltà servile » « piaga delle coscienze » « fuoco  che divora T anima » e definisce cosi : « quale sia la natura della superstizione ci dimostra la voce greca «siotdaiiiovfa che altro non significa clie  aver paura degli dei, ed è una affannosa opinione, e imaginazione che  impaurisce, atterra e consuma T uomo, il quale ben crede che esistono gli  Dei, ma dispensatori di dolore e di sventure ». Per tal modo, mentre chi  non solca il mare non teme le tempeste, chi non è soldato la guerra, chi  non esce di casa i ladri, ecc. * cohii invece che ha paura degli dèi teme  tutte le cose, la terra, il mare, Taria, il cielo, le tenebre, la luce, la fama,  il silenzio, i sogni i ; mentre ciascuno può sfuggire ai propri affanni, il  superstizioso non può sottrarsi alla sua paura né di giorno, né di notte,  e neppure colla morte; e mentre l'empio, caduto in disgrazia o in malattia, ricerca le cause del suo male e vi pone rimedio, il superstizioso,  credendosi castigato dagli Dei, si spaventa, si dispera, e non vuol nemmeno provvedere a sé stesso per non disobbedire alla volontìi divina.  Che più *? (c Cagione di gran gioia sogliono essere agli uomini le solennità  delle feste e i sacri conviti, che si celebrano nei templi, Tessere ammesso  alla religione, le misteriose cerimonie dei sacrifizi, le preghiere, le adorazioni.... Ma il superstizioso ben vorrà, ma non può star lieto... Tutto  pallido e smorto nel volto pur si corona, sacrifica insieme e trema di  paura, e con voce tremante porge preghi a Dio, e con la mano mal ferma  sparge fumi e incensi. Insomma, mostra esser vano il detto di Pitagora,  che noi diventiamo migliori quando andiamo a Dio; perchè non mai i  superstiziosi sono più in pessimo stato e malavventuroso, che quando  entrano nei templi degli Dei, come se fossero covi di orsi, ripostigli di  serpenti o caverne di mostri marini ». In questo modo, continua Plutarco,  avviene che molti supei-stiziosi, mirando la quiete e la libertà di spirito  di cui godono gli empi, non solo li invidiano e desiderano poter ridersi       m   come loro dei terrori religiosi, ma giungano persino a farsi deliberatcìmente  increduli ». (14)   Questa eloquente e vivace pittura degli effetti della superstizione  nella società greco-romana, getta un fascio di luce sui v*.tsì che stiamo  esaminando ; nei (inali diremmo quasi di sentire — se !ion temessimo di  cadere in un enorme anacronismo — Teco distinta dellu ultime parole di  Plutarco. Vi è la sola dilTerenza che, mentre lo storico e moraliata arreco  descrive gli effetti dalla superstizione sull'animo degli altri, il poeta latino  esprime gli effetti che essa produce sul proprio ; e mentre il primo ci  parla di superstiziosi che si davano addirittura in brar-cio alla inrredulità, il secondo si limita a manifestare la propria ammirazione per gli  spiriti forti che sanno affrontare la luce del vero, e gìttarsi sotto i piedi  i timori religiosi, il fato inesorabile, gli strepiti dell'avaro Acjieronte ; ma  aggiunge subito che egli non si sente capace di fare altrettanto. Che poi  la religione di V. fosse una vera e propria superstizione, nel senso  che Plutarco dà a questa parola, l'abbiamo a lungo dimastnito: come pure  mostreremo a suo luogo quanto fosse viva nel nostro poeta la (mura  della morte e la preoccupazione della vita futura. Ben diverso dal vero  è adunque il significato che si dà universalmente a ^piesti famosissìnii  versi; i quali, in fondo in fondo, non diversificano mollo per la loro natura da quelle subitanee ribellioni alla tirannia degli (U'i, che stndirimmo  più indietro (15). Soltantochè in questo caso ci troviamo dinanzi mi uno  stato d' animo assai più complesso ed interessante ; là non si trattava  che di Sfratti vivaci e quasi incoscienti, tosto repressi; qui invece la ribellione è meno fugace e più meditata ; quelli erano sempliri moti passionali, questi invece racchiudono un vero e proprio raere  sue: le Bucoliche rappresenterebbero il primitivo indirizzo epicureo, VKneide Y indirizzo mistico platonico e quasi cristiano, le Georgiche il ponte  di passaggio tra Y una o Y altra dottrina.   In uno studio sul sentimento poetico in relazione con Tarte, l'Aloardi  descrive col suo stile imaginoso e fiorito questo preteso mutan«ento avvenuto nelle opinioni filosofiche di V. : « invaghitosi da giovane della  I filosofìa d' Epicuro, la cantò nella ammirabile Egloga di Sileno. anchV^di   ricalcando con pie gentile le franche orme di Lucrezio : poscia guardando  con più delicato studio la natura, si tolse da quella agitazione vertiginosa  degli atomi, si accostò a Platone, si rivolse a quel non so che di più spirituale, che gli fece cantare nella Eneide lo stupendo canto dei Morti e  dei Nascituri, nel quale si rivela una confusa idea della immortalità dell' anima. Respirò gli effluvi balsamici che una corrente arcana rei ava  neir aria del nascente Impero, e prestando orecchio airantico carme delle  Sibille vaticinò un nuovo ordine di cose più apertamente dei Profitti di  Giuda ; e forse fece tesoro dei concetti Bacchici, che innestati negli drtiei,  nelle feste di Eleusi e nei Baccanali, ivano sviluppando e purificando  r idea di Dio e della seconda vita » (2). Il Boissier è ancora più pi eriso  nel descrivere questi diversi atteggiamenti dell'anima di V.. Egli  esamina successivamente i tre poemi virgiliani, e trova nelle Bucoiiclie  la spensieratezza, 1' assenza di patriottismo e di religione propria dei seguaci di Epicuro, nelle Georgiche le incertezze di un' anima che sta per  abbandonare, non senza qualche rammarico, le dottrine fino allora seguite, nelYEneide tutti i caratteri del poeta che milita senza esitazioni  sotto le bandiere della filosofia platoneggiante (:3). Questa nuova versione,  oltre schivare gli scogli della logica, può anche sembrare a tutta prima  abbastanza seducente, e non del tutto priva di sicuro fondamento. Piace  raffigurarci il nostro poeta, già tanto assorto negli artifizi della forma e nelle cure dello stile, approfondirsi anche negli alti problemi della scienza  filosofica, e rivolgerli ed agitarli incessantemente nell' animo suo, cosi da  abbandonare dopo lunghi dubbi V opinione da prima formatasi per abbracciarne poi in modo definitivo un' altra che gli sembrava più vera e più  giusta. E d' altro canto, 1' aver egli avuto per primo maestro di scienza  filosofica r epicureo Sirone, V aver frequentato nella sua gioventù la compagnia di Cornelio Gallo e di Asinio PoUione; Tessersi più tardi staccato da essi e stretto invece di più intima amicizia con Cesare Ottaviano,  di cui interpretò d'allora in poi le idee di restaurazione religiosa e morale: l'aver infine passata la seconda parte della sua vita nella solitudine  campestre, paiono rendere sempre più valida questa ipotesi. Ma la prova  più convincente, secondo i critici, ci sarebbe data come vedremo dall'indole stessa intrinsecamente assai diversa dei tre poemi ; che nella gaia  amabilità delle Bucoliche, nell' assenza di ogni preoccupazione politica e  religiosa, nelle pitture soavemente idilliche che le infiorano, sembra quasi  riflesso quel sentimento epicureo della natura, che nasce dalla contemplazione serena di essa, non turbata dalla visione dolorosa di un ideale  impossibile a raggiungersi; nella severa mestizia delle Georgiche, nel lieve  sotho di religiosità che le attraversa, negli accenni frequenti alla incredulità da una parte e alla fede dall'altra, sembra vedere rappresentato  r uomo che tentenna ancora fra due dottrine radicalmente opposte, ma  accenna già a piegare per una di esse ; mentre infine nel freddo misticismo che pervade da un capo all' altro il poema d' Enea, tu vedi un animo  ormai tutto compenetrato della potenza infinita degli dèi, tutto dedito a  conoscerne i voleri e piamente obbedirli.   Ora, questa supposta prova è tanto convincente quanto si vuol far  credere dai commentatori ? Io per fermo non vorrò escludere la esistenza  dei caratteri che distinguono fra loro i poemi virgiliani; credo però di  appormi al vero affermando che tali caratteri difierenziali non derivano  da una diversità fondameatale di concetti filosofici, e tanto meno accennano ad una evoluzione successiva del nostro poeta dal campo dell* epicureismo a quello dello spiritualismo stoico, platonico e pitagoreo, ma  sono un eff'etto necessario della natura diversa dei componimenti poetici,  e del diverso scopo propostosi dal poeta per ciascuno di essi e infine  della diversità del modello seguito. Cantando nelle Bucoliche — dietro  r ispirazione della ridente musa teocritea, e col solo intendimento di sperimentare le proprie forze giovanili nel più tenue dei componimenti poetivi — la vita primitiva, tranquilla, spensierata dei pastori e dei loro armenti, il nostro poeta non poteva, senza contraddire alle leggi più elementari dell'arte, usare quella maggiore gravità di stile e di argomenti  che adopera nelle Georgiche, componimento didattico e scientifico per eccellenza, intessuto degli insegnamenti di Esiodo, di Democrito, di Senofonte, di Aristotile, di Teofrasto e di Catone il censore, e composto, dietro il consiglio di Mecenate, col proposito di richiamare i suoi ccmcìttadini  alla sana vita dei campi e alle pratiche della romana religione^ da cui  s'erano venuti allontanando : e così nelle bucoliche come nelle TTeorgiche  non avrebbe potuto introdurre quel soffio di gelido misticismo, 4Ut^llH  continua preoccupazione del divino, quella tetraggine farisaica di riti t? di  formule — per usare una espressione del Trezza — che vedemmo essere  caratteristica dell' Eneide; poiché questo è poema religioso nel [ùù puro  senso della parola, composto sulla guida di Omero con triplice seoiJO  politico religioso e morale, per narrare ai Romani rimmi^rrazione delle  nuove divinità elleniche ed il loro assorbimento da parte delle itiiliebe,  per ricordare a' suoi poco di voti concittadini la loro origine divina ed il  modo con cui dovevano comportarsi rispetto agli dèi.   Dimostrata per tal modo la insufficienza di questa prova, cade anche  il valore delle altre più sopra ricordate, le quali, se ben si guardi, poggiavano più che altro sulla validità di quella or ora esaminata. CosicchfV  pure ammettendo che col crescere degli anni e col maturarsi della riflessione s'aumentasse nel nostro poeta quella sua naturai disposi/Joiir allo  spiritualismo, rimane però esluso nel modo più categorico che durante  la sua gioventù abbia militato sotto le bandiere di Epicuro. Ripojtandoci dunque alla conclusione esposta nel principio di (jnesto paragrafo,  «noi siamo autorizzati a conchiudere che in nessun luogo delh? sue opere  il poeta mantovano manifestò principi di carattere epicureo, e che quindi,  per quanto si può dedurre da questi soli documenti rimasti, egli non appartenne, né poco né molto, alla scuola d'Epicuro. Reville - Prolégomènes de V hìst. des relig, - Paris.  Il solo ALIGHIERII (vedasi), che pure conosce tanto bene le opere vir^iliaDo, mostra di  andare esente dall'errore comune. Ciò prova prima di tutto col non aver collocato  V. nel sesto cerchio dell' Inferno, ove sono « Con Epicuro tutti i suoi seguavi  Che r anima col corpo morta fanno » (C X.) ; in secondo luogo, ed h prova  ben più importante, col pigliarlo a guida per quella prima parte dell' allei^órìco suo  viaggio, in cui l'anima, pur rimanendo in ragione umana, purifica se stessa e d  rende degna della visione beatificante. Il Comparetti, nella sua splendida opera su  V. nel medio evo (V. I, p. 293>l crede ciò dipenda dal fatto che Dante conosceva assai poco la dottrina epicurea, come appare dal C. IV, del Conviio, e come  si può desumere dal fatto che egli non conosceva il De Natura Deorum^ unico libro  dal quale avrebbe potuto averne notizie sicure. Lasciando pur da parte i molti argomenti che si potrebbero opporre a questa opinione, io osservo soltanto che ii Comparetti stesso, nella pagina precedente, aveva notato che Dante doveva avere pure  conoscenza delle diffusissime leggende medioevali intorno all'epicureismo viri^iliano,  «Poiché - dice il Comparetti - c'era bensì nel medio evo l'idea che il grande poeta  latino si fosse grandemente accostato ai princìpi cristiani, ma c'era anche nuella che  egli come pagano fosse caduto in più d' un errore, singolarmente epicureo. Questo si  accordava con la sua biografia che lo presenta come discepolo di un epicureo, e anche  col fatto, perchè realmente princìpi di indole epicurea, com'è naturale in im poeta lii  quella età in cui l'epicureismo era tanto in favore presso i Romani, non uianeano  nelle sue opere >. Dunque, io dico, se anche allora come oggi V. passava agli occhi  di tutti per un semi-epicureo, Dante dovè avere un qualche motivo più forte ftie  non la sua ignoranza dell'epicureismo per allontanarsi in modo cosi indubbio dal  sentimento universale. Sia come si sia, le ultime righe del passo citato ci provai uo  se non altro come uomini dottissimi possano essere trascinati dalle creilenze comuni  ad errori grossolani, che un esame oculato delle fonti varrebbe a ^orreggere^ Come  vedremo più innanzi. Gotti. Heyne - P. Virgilim Maro varietale lectionis et perpetua adito*  tallone illustratus - Ed. tertia – Lipsiae Tib. Claudii Donati - De P. Virgilii Maronis vita. C. XIX, 79 : in Heyne,  voi. I.  .     (I) Cfr. ad es. il commento di Giuseppe Arcangeli. Riferendomi alle considerazioni che verrò facendo più avanti, le quali sfatano completamente questa assurda  interpretazione, osservo per ora che assai difficilmente V. avrebbe potuto decidersi a raffigurare in un vecchio eternamente ubriaco, per quanto semidio, il suo antioo maestro, che Cicerone ci fa conoscere come ottimo uomo ed amicissimo suo,1 f. Ihf fin, II, 35, e Div. VI, II).   là) V. 3Ì-40.   (3) Vedi aggiunta alle Note.   k\) Constant Martha - Le poème de Liccrèce  Paris La morale d' i.piciire – Paris Studi Increzioni – Torino  Lìici'ezìo - Firenze i870; e Epicuro e V epicureismo – Firenze Lo dice anche il Manzoni, nella Morale Cattolica, C. VII.  i9) De rer. nat, 1, III. 131 e seg.; VI, 451-494; V, 715, ecc.   Id. I. 349-417. anche Cfr. la dotta dissertazione del Giussani intorno alla  questione dell* inane, spatium, locus, vacuum secondo Lucrezio, in Studi lucreziani De rer. nat. e la lunga nota del Giussani V,V. 416-498 la lunga nota del Giussani dissimilis formas varìasque figuras.   la nota del Giussani.   La plastica descrizione del coniectus material.   (18) Univers. 5: Inter ignem et terram aquam Deus animamque posuit. Anche  Tmc. V, 1-19.   (19) Cfr., per avere una idea dal modo erroneo con cui è intesa, Schaper, Die  sechste Ecloge des Vergilius, In lahrbh f, class, PhiloL, Zeller - La philosophie des Grecs (trad. Boutroux) Paris  Cfr. Zeller. Die Philosophie der Griechen - Leipzig. , dice così riguardo a Posidenier : Posidenius, von seinen Vorgàngern abwekherJ  nur so viel leeren Bauni au^ser der Welt annehmen wolte, als die Welt bei ihrer  Auflosung durch die Ekpyrosis nóthig habe, E riguardo agli altri Stoici loc. cit,  p. 1897-188. Atielten dieStoiker ein Leeres ausser der Welt schon desshalb fùr nóthig,  wcil die Welt sonst bei der Weltvcrbrennung Keinen Raum bàtte, in den sie sich  iiuflosen konnte, und sie glaubten dasselbe unbegrenzt setzen zu mùssen, weil deni  Unkorperlichcn und Nichtseienden weder cine Greuze, nodi sonst eine Bestimmtheit  ;iukommen konne.   (22) Ogereau F. Le sisteme philosophique des Stoiciens. Paris, 1885 C, IC. L. V, En. Lucr. En. Lucr; En. e Lucr. Georg. Ili, 242-45, Lucr. . e anche Arìst. Ifktor. Anien. VI, 18;  e Lucci EpisL I, II, Per tutte queste ed altre notizie, cfr. Max Muller - Nouvelles études (k  MythoLogìe - Paris, Zeller. Igino - Fabularum lìber, Basilea Georg,; En Georg, II, 343-45(19' V, 922 e segg.   (20) Giussani, op. cìt. Voi. I, pagg. 268-284. E' un commento a Lucr. V, 1026, ovi?  è narrata appunto l'origine del linguaggio. L'A. fa un confronto fra le teorie di Platone ed Epicuro intorno a questo problema, e pone in luce come quest'ultimo abbia  divinato concetti e teorie scientifiche modernissime. Macrobio Sai. I; P. Vitt. De orìg. gent. Bom, I ecc.  VL 1088 - fine.   (25) VI, 58-66; 71-81 ecc. Nel V combatte invece coloro che vedono un segno  della mente e della volontà divina nel sistematico coordinamento delle parti del mondo,  nella regolarità delle leggi che lo governano, nella razionalità dello sviluppo delFumano incivilimento. Georg. En. Lucrezio, Milano De rer. nat, Diog. L. X, 82. A proposito degli dèi volgari, Epicuro diceva: 'Aaspfjg fi'oOy.   6 Toùg T(3v 7coXX(5v Bsoùg àvapffiv, àXX'6 xàg tc5v tioXXcSv 5óS*C ^«ofC wpoodicxov (D- L.).   GIAMBELLI (vedasi) DelC Epicureismo di V. (in Album Virgiliano Per vedere quanto sia diffusa la credenza nell'epicureismo di V., cfr.  il Trezza {V Epicuro e il Lucrezio) e il Giussani, Ea. Eglog. Heyne, En, VI, 850-51.   (9) Georg.  III, Et metus ille foras praeceps Acherontis agendus - Punditus humanam vitam qui turbat ab imo - Omnia suffundens mortis nigrere, negus ullam Esse voluptatem puram liquidamque relinquit (12) Georg. II, 483-489.   (13) Id. 493 e segg.   (14) Guyau Plutarco - Della Superstizione, in Opuscoli Morali, trad. Marcello Adriani,  Firenze C. I, . Anche CICERONE (vedasi) De Fin I, 60, e Guyau, op. cit. p. 63 e s^g.     ì 5.  Guyau Nella rivista La filosofia delle scuole italiane, anno I, disp. I. Boissier Racconta Cicerone, nel De Legibus (1), che un certo Gellio, proconsole romano nella Grecia, trovandosi ad Atene, rimase stordito e meravigliato delle lunghe discussioni dei filosofi intorno alla questione del  sommo bene: e credette suo dovere riunirli tutti, eccitandoli a finirla una  buona volta con codeste interminabili dispute, ed assicurandoli che, qualora non si fossero mostrati ostinati e decisi ad azzuffarsi per tutta la  vita, la cosa si sarebbe potuta facilmente combinare ; egli poi, da parto  sua, prometteva di fare del suo meglio perchè V accomodamento riuscisse.  Lo scrittore latino aggiunge maliziosamente che l'ingenuità del proconsole  suscitò il riso universale. E non torto; tuttavia codesto grazioso aneddoto  può farci conoscere, meglio di qualunque trattato, la poca attitudine dei  Romani alle sottili astrazioni, e il modo onde essi intendevano la filosofia. Propensi più al fare che al dire, e ad apprezzare ogni cosa secondo  la sua pratica utilità, codesta scienza era rimasta loro per lungo tempo  affatto sconosciuta, ne, per vero, ne avevan mai sentita la mancanza: e  soltanto al principio del secolo 111 A. C, quando la dominazione romana  si estese sulle colonie greche dell' Italia meridionale, cominciarono a penetrare in Roma, insieme alle favole e alle rappresentazioni drammatiche,  gli insegnamenti della sapienza greca. Più tardi, anche i filosofi greci %\^  la quale è solo privilegio degli uomini (Xoytxà ;;(T)a) e degli dèi (f)). V.  non mostra di essersi scostato nemmeno per questa parte dalla dottrina  degli stoici; cosicché, sebbene anch' egli creda ch(? i bruti siano dotati di  anima al pari degli uomini, come ci manifesta nell'episodio dei vitelli  che muoiono nei lieti prati : Et dulces anìmas piena praesepia reddunt (iO).   e come ci fa conoscere molte volte parlando delle api, e dei loro ìnotm  aniiìiorum (11) dei loro contusos animos (12), e tnstabiles animos{ìd);  e dei loro re i quali   Ingentes animos angusto in pectore versant (14) ;   e del modo con cui quando pungono tanùnas in vulnere po7iuntn if));  sebbene anch' egli conceda agli animali sentimenti e passioni al pari  degli uomini, come prova la descrizione che egli fa dell' ira delle api (16)  e dello spavento da cui sono prese alcune di esse durante i combattimenti (17) e dell' allegria dei bestiami dopo la pioggia (18) ; sebbene in  fine ammetta che gli animali possano compiere azioni tali che sembrano  suggerite dalla intelligenza, come nel commovente episodio del cervo addomesticato di Silvia, che, ferito da Ascanio,   nota intra tecta refugit  Successitque gemens stabulìs, questuque cruentus  Atque imploranti similis tectum omne replevit (19);   tuttavia egli si dà cura di avvertirci che non si tratta né di ragione  né di intelligenza, ma solamente di istinti, di t ìiaiuras qitas Tuppiter  ipse addidìt » (20). Col qual vocabolo « natuì^as » egli traduce esattamente  il xi Tipffixa xaxà cpóaiv (21) con cui gli stoici solevano indicare le tendenze  primitive proprie degli animali. E trattando nel primo delle (jeorgiche  in qual modo l' agricoltore possa presagire ex imbri sole et aperta serena, gli insegna la maniera con cui gh alcioni, i ciacchi, i falchi, le civette e i corvi manifestano V approssimarsi del bel tempo ; ed aggiunge  di non credere affatto che ciò derivi dal possedere tuli animali una intelligenza superiore a quella assegnata alla loro specie :   Haud eguideni credo, quia sit divinltus illis  Ingenium, aut rerum fato prudentia maior (2i),   ma solamente, seguendo anche in ciò una credenza assai conmne tra i  pitagorici i platonici e gli stoici (23), dalla diversa densità degli elementi,  dell' aria in special modo, che muta gli istinti dei loro animi :   Verum, ubi tempestas, et coeli mobilia huinor  Mutavere vias, et Jupiter uvidus Austris  DenJ^et, erant quae rara modo, et quae densa, relaxat:  Vertuntur speries animorum, et pcctora motus     Nun alios, alios, dum nubila ventus agebat, J   Concipiunt: liinc ille aviiim conceotus in agris, ^   Et laetae pecudes, et ovantes gutture corvi (24). ^   Vi è però un punto nel quale sembra che il nostro poeta si scoEti '[   alquanto dall'opinione fin qui seguita, ed inclini a concedere ai bruti  quella intelligenza che prima aveva negata ; ed è sul finire del canto de- \   cimo, ove Mezenzio, dopo aver fatto prodigi di valore ed essere stato già- j   Temente ferito ad una coscia, vedendosi portare innanzi il cadavere esangue ì   deir unico figlio, si rianima di novello ardore e preparandosi a combattere ;   rivolge al preferito cavai di battaglia quella splendida apostrofe, che non j   possiamo trattenerci dal citare integralmente :   Rlioebe, diu, res si qua diu mortalibus ulla est, i   Viximus: aut hodie Victor spolia illa cruenta, i   Et caput Aeneae referes, Lausique doloruni ;i   Ultor eris mecum : aut, aperit si nulla viam vis,   Occumbes pariter : neque enim, fortissime, credo,   lussa aliena pati, et doniinos dignabere Teucros  i   Questo discorso, che presupporrebbe in chi l'ascolta una intelligenza j   simile a quella di chi lo profl'erisce, ha fatto arricciare il naso ai soliti   commentatori (2()), per i quali Tirragionevolezza degli animali è un dogmii   su cui non è nemmeno permessa la discussione ; e lo stesso Heyne ha ^   cura di avvertirci a questo punto che « displicuit haec ad equam suuni |   Mezentii ovatto venustioribus nostra aetate » (27). Tanto più che nel j   canto seguente V. sembra confermare questa sua nuova opinione,   descrivendoci il cavallo Aethon, che segue piangendo il cadavere di Pai- *   laute, suo signore:   Post bellator equus, positis insignibus, Aetlion   It lacrimans, guttisque humeetat 8:randìbus ora (28)   Che realmente il nostro poeta, dopo aver negato T intelligenza a tutti  gli animali, anche a quelli che, come le api, sembrano possederla nel I   modo più indubbio, voglia ora concederla soltanto ai cavalli ? I due passi'  ora citati non sono tali per fermo da autorizzarci ad ammetterlo. Poiché  il discorrere dei guerrieri ai loro cavalli è cosa che occorre assai fre- ]   quente cosi negli antichi poemi eroici come nei più moderni poemi cavallereschi; senza che con questo i loro autori abbiano avuto nemmeno  la lontana idea di atferniare la ragionevolezza degli animali. Quanto al  nostro poeta, egli dovè manifestamente ispirarsi all' Iliade d' Omero, ove  spesse volte così Ettore come Achille rivolgono la parola ai loro destrieri (29); ed è pure una seiiiplice imitazione omerica quel pianto del cavallo di Palhinte, che ci richiama subito alla mente i cavalli di Achille  piangenti la morte di Patroclo (30 . Ma, oltre a tutto ciò, non è forse naturale e comune anche fra noi questo amare e rivolgere la parola a bruti  e perfino a cose inanimate cui ci sentiamo fortemente affezionati ? Possiamo dunque concludere senza tema di errare che V., seguendo la  opinione degli stoici, non ammetteva la ragionevolezza in nessuna sorta  di animali.   L'esposizione ohe nel sesto canto dell'Eneide (31) fa Anchise della  dottrina stoica dell' anima del mondo, è ancora più ordinata e precisa di  (luella che vedemmo nelle Georgiche. Il vecchio padre di Enea, comincia  prima di tutto col rivelare al fìgliuol suo T esistenza di quel fuoco etereo  universale, che compenetra ed informa il cielo e la terra, la luna e gli  astri :   Principio coelum ac terras, camposqiie liquentes,  Lucentemquc globuin Lunae Titaniaque astra,  Spiritus intiis alit;   Poscia gli insegna come quest' anima ugualmente diffusa sia il « principio di universale attività )> (xò tioioùv), per rapporto al quale tutto non è  che passivo, e il principio dirigente (f^rej^ovtxóv) che domina e governa tutti  gli esseri :   totamque infusa per artus  Mens ai^it it molem, et nìa'^no se corpore miscet.   Viene quindi a ricordargli come questo fuoco divino non sia soltanto  un semplice pensiero ragionante, che si limita a combinare e comparare  delle nozioni ; esso non è né l' idea delle idee, né il pensiero dei pensieri,  ma piuttosto un i ragione seminale, uno auspnaTixòv Xó^ov Svia toO tlóoiìou (:t2):   Inde hominuni pecudumqiie genus, vitaeqiie volantum  Et quae marmoreo fert nionstra sub aequore pontus   Per questo modo adunque gli esseri animati dovranno contenere in  sé stessi una scintilla dell' ignea essenza divina :   Igneus est ollis vigor et coelestis origo   Semini busCerto che, per quanto sufficientemente definita, questa esposizione  della dottrina stoica non ha quella determinatezza che pur sarebbe necessaria per rendere in tutta la sua interezza il pensiero dei filosofi dello  Sfoci . Qui non é fatta menzione né dei due principi attivo e passivo, cioè  qualità e materia, né degli elementi e della loro uguale divisione in attivi e passivi, né dei modi onde gli elementi attivi combinandosi lulLi  massa sostanziale le danno unità, qualità, vita e movimento; ne insointnu  di tutti gli altri presupposti teorici da cui gli stoici facevano disceiiilere  per deduzione logica la loro dottrina, concatenandola in un tutto fortemente organico e vitale. Ma, come vedemmo, è carattere proprio lirllo  stoicismo romano di rifuggire da tutte le astrattezze della metafìsica, da  tutte le minuzie della dialettica, per ritenere di una data concezione filosofica soltanto quello che poteva esservi di veramente importante e di  pratico. Poiché i Romani non avevano ricercato nello studio della filosofia  un divertimento dello spirito o la soddisfazione di una oziosa curiosità,  ma le avevano chiesto dei princìpi di condotta, delle regole per vivere e  per morire, delle norme sul modo di contenersi rispetto a sé stessi, ai  propri simili, alla divinità. Ora, le linee assai generali e sintetiche —  oltre le quali io non credo si estendesse molto la cognizione di nessuno  dei Romani che seguivano le dottrine del Portico — colle quali Vir^^àlio  ci riproduce la dottrina dell' anima del mondo, sono più che sufficienti  per cavarne quelle conseguenze morali, che sono per lui come per i suoi  compatriotti tutto ciò che vi ha di veramente serio nella filosofia. (JtuiU  sono adunque queste conseguenze morali? L'amore versoi propri simili,  r austerità verso sé stessi. Che la dottrina panteistica degli stoici dovesse persuadere ^^H  uomini ad amarsi ed aiutarsi a vicenda, ad osservare nei loro mutui la]»porti i precetti della giustizia, della carità, della benevolenza, a considerarsi tutti come uguali e fratelli anche oltre gli artificiali confini della  città delki nazione, è cosa che, sebbene negata da certi storici della  filosofia, a nessuno potrà sembrare strana, e che fu infatti da essi professata fino ab antiquo, prima ancora che gli Esseni, Filone ebreo * itosela il cristianesimo 1' adottassero e la bandissero, con si scarso frutto,  alle genti. Quella essenza divina uniformemente trasfusa per il mondo,  dalla quale ogni essere è derivato; (juel «legame interno i> (sips^io^) che  unisce fra loro tutti gli esseri particolari e fa dell' universo, ad ogni ma-*  mento della sua esistenza, un tutto coerente e simpatico, un insieme le  cui parti cospirano neir azione reciproca universale, doveva necessariamente spingerli a proclamare per primi, e con tanta energia, l' universale  fraternità ed uguaglianza degli uomini. E mentre Platone, nel quinto libro  della sua Repubblica, ammette soltanto la fratellanza di tutti i Oreci,  escludendone i Barbari, Plutarco, riferendo le dottrine di Zenone, dirà  più tardi : « Noi non siamo divisi per nazioni e per città, aventi ciascuna  la sua giustizia particolare ; noi siamo l)ensì tutti compatriotti e concittadini, viventi una medesima vita sotto una medesima legge, come un     greggie immenso retto da un solo governo >> (•2). Il mondo è per gli stoici  una città universale, governata dalla diritta ragione, e in cui tutti pos  sono venire ammessi ; nò importa V essere greco o barbaro, uscito di  stirpe reale o nato in condizione servile, ma basta essere un uomo.  « Umis omnium parens — dice Seneca — mundus est, sive libertini  hahentur, sive servi, sive exterarum /lomines * (8).   Tutti questi generosi sentimenti, che si possono riassumere in due  sole parole « umanità » e « cosmopolitismo » e che ci riempiono di ammirazione per i seguaci di Zenone di Cizio, possono anche riscontrarsi, profusi nella più larga misura, nelle opere del grande poeta mantovano, già  inclinato ad essi per la natura mite, gentile, affettuosa deir animo suo.  Nessuno di quei sentimenti altruistici che nobilitano il cuore umano, e  costituiscono il fondamento primo della moralità sociale, manca di trovare  un* eco sincera nelT animo di V.. Sensibile a tutte le miserie che  affliggono la umana famiglia, per ogni dolore ha una lacrima, per ogni  sventura una parola di conforto ; sembra che egli abbia assunto per sua  impresa quel noto verso dì Monandro, tradotto da Terenzio :   Homo sum, humani nil a me alienum puto (4] ;   sono uomo, e quante cose nobili e belle ha il pensiero e Y opera umana  prodotte, quante affezioni dolorose o liete ha la natura umana in sé accolte, in quelle io consento.   Enea, sbalzato dalla tempesta sulle spiagge di Libia, e venuto al  tempio di Cartagine, scorge dipinte sulla mura di esso le battaglie Iliache, che la fama aveva già divulgate per il mondo intero. Colpito e commosso dalla pietà di quei ricordi, si volge al fido Acato, e :   Quis jam locus, inquit, Adiate,  Quae regio'in terris nostri non piena laboris?  En Priamus ! Sunt liic etiam sua praemla laudi ;  Sunt lacrimae rerum, et mentem mortalia tangunt.  Solve metus : feret haec aliquam tibi fama salutem (5).   In questi versi, mirabili per arte e per affetto, è espressa la compassione che piange sulle umane miserie, da qualunque parte esse vengano,  qualunque sia il popolo che le subisce. Ed alla commiserazione segue poi  un altro sentimento umanissimo, la misericordia. Poiché la soave Elisa,  la quale pure ha tanto amato e tanto sofferto, sopraggiunge a soccorrere  gli sventurati, ricordando che i dolori sofferti le insegnano ad aiutare gli  infelici :   Quare agite, o tectis, juvenes, succedite nostris.  Me quoque per multos similis fortuna labores  Jactatam, hac demum voluit consistere terra.  Non ignara mali miseris succurrere disco (G).       In questi due versi, dei quali  come dice il Canna — uno è un  gemito, r altro una consolazione :   Sunt lacrimae rerum, et mentem mortalia tangunt,  Non ignara mali miseris suocurrcre disco,   in questi due versi sono espressi due dei più nobili sentimenti che legano l'uomo al proprio simile. Del quale vincolo che deve affratellare il  mondo in una sola immensa famiglia, sono espressione più evidente questi versi di Ilioneo, che racconta g^ Didone le traversie dei profughi  troiani : Quod genus hoc Iio.ninum ? quaeve hunc tam barbara morelli  Permittìt patria? hospitio prohibimur arenaci  Bella cient, primaqiie vetant consistere terra.  Si genus humanum et mortalia temnitis arma;  At sperate Deos, memores fanJi aUjue nefandi (8).   Nella dolorosa meraviglia, nella profonda indignazione con cui Ilioneo  narra questo fatto di uomini che non ospitano ed aiutano altri uamini  colpiti dalla sventura, per quanto stranieri, poveri e sconosriuli, unzi li  respingono brutalmente dalle loro spiagge, il cosmopolitismo degli stoici,  il sentimento della universale fratellanza umana sono espressi nel modo  più chiaro, e sembrano poi sintetizzati iu quel verso della regina dei  Cartaginesi :   Tros Tyriusque mihi nullo discrimine agetur (9).   Ma una delle più belle manifestazioni della umanità di V., è  r avversione profonda, decisa, assoluta che egli, appartenente' al popolo  più bellicoso del mondo antico, nutre per V arte omicida della guerra.  Noi esamineremo con una certa larghezza questa avversione di V.  per la scclerata insania belli, coni' egli la chiama (9), pei'chè con ciò  il nostro poeta seppe non soltanto farsi interprete del vero ispirilo della  filosofia del Portico, ma anche preannunziare in certo modo la posi/ione  che qualche secolo più tardi lo stoicismo doveva prendere contro la  guerra ed i suoi ministri.   Già prima di V., Dicearco aveva scritto un libro sulla Distruzione degli uomini, nel quale si dimostrava come la guerra recidesse  maggior numero di esistenze di tutti gli altri fiagelli presi insieme (in).  Lo stesso Cicerone, quantunque cerchi di giustificarla, non sempre riesce  a comprimere quei sentimenti umanitari e civili, che lo studio della sapienza greca avevano sviluppato neli' animo suo ; ed allora, posta da canto  ogni esitazione, condanna severamente come filosofo ciò ch+^ aveva prìina      ^usiitìoato come cittadino romano e come uomo politico. A tutti sono noti  1 ^;ioi sdegni generosi per la barbara distruzione di Corinto, che furono  rviiardati come rammenda onorevole di Roma alla Grecia, maestra del  ^lUi-re umano ('21 ). Nelle sue orazioni contro Verre, egli si commuove  >jK'Sso per le crudeltà commesse dai soldati nelle battaglie. • Il popolo  ivmano non può più resistere )> — esclama a«l un certo punto — non dirò  ai sollevamenti, e alle resistenze armate, ma ai pianti, alle lacrime, ai gemiti delle popolazioni » {V2). Ma tutte queste erano proteste assai timide,  olle non potevano scuotere alcuno. Soltanto verso la fine del secolo d'Augusto e sotto il regno di Tiberio e di Nerone, lo stoicismo sorgerà coraggiosamente, in nome della fratellanza umana, contro le guerre e le carne(ìoìne. Seneca il retore, nelle sue Controcersiae, ha contro la guerra delle  lungiìe invettive, nelle quali il suo stile, di solito cosi artificioso e imbellettato, ac(iuista un calore ed una vivacità insolita. La guerra è per luL  una cosa crudele e riprovevole, la cui origine si deve sempre ricercare  nelle più bieche passioni umane: «ecco due eserciti di fronte; dai due  lati le colline si coi)rono di cavalieri, il terreno è seminato di corpi, e sparisce sotto la moltitudine dei cadaveri e di coloro che li spogliano. Se si  domanda (juaF è la causa che spinge in tal modo V uomo contro l'uomo  (poiché gli animali non si fanno tra loro la guerra; e anche se la facessero,  tali costumi non converrebbero alla specie umana, che è fatta per la pace  e si accosta alla natura divina) e quale malattia crudele, quale furore,  ([uale traviamento spinge voi, che siete una sola famiglia e un solo sangue,  a versare il sangue gli uni sugli altri; quale fatalità o quale caso funesto  ha messo in voi un simile delirio, si dovrà dire che è per innalzare delle  tavole ove segga un popolo intero? o perchè la casa rifulga d'oro? e tutto  ciò può valere dunque tali fratricidi » (18).   Seneca il filosofo segue a questo riguardo le orme del padre ; egli ha  in orrore la guerra, e la persegue con tutti i suoi anatemi ; ad Alessandro,  che nelle scuole era preso come il modello del genio della conquista e  della forza distruttiva, ei contrappone Ercole, V ideale stoico, il dio della  forza che fa il bene (14,. t Se l'umanità ascoltasse la voce del sapiente  — esclama — comprenderebbe che essa non ha affatto bisogno di sol[ dati » (15). Queste ultime parole di Seneca sembrano preludiare a quel   il dissidio allora latente, ma che di necessità doveva scoppiare più tardi, tra   [ i filosofi da un lato e gli ufficiali deir esercito dall' altro. Di questo dis l sidio ò rimasta un'eco nelle Satire di Persio, Tallievo di Anneo Cornuto,   f- e il più rigidamente stoico dei poeti latini. Egli cerca di sfogare il proprio   i disprezzo per gli uomini di spada, che in quel governo essenzialmente mi { litare rappresentavano la classe più numerosa, più forte e più temuta, ac cusandoli di puzzare di caprone :     t. r  Hic aliquis de gente hircosa centurionum (ìé)     tu   e di avere le varici :   Dixeris haec iiiter varieosos centuriones (17).   I centurioni, dal canto loro, si facevan beffe di codesti Arcesilai dalle  barbe lunghe incolte, dai visi pallidi e dagli abiti a brandelli, che cumini  navano per le vie di Roma mormorando sentenze. Ma la querela fini miìlamente per i filosofi; poiché Domiziano, comprendendo quanto pericolo  potesse venire da codesti uomini, che screditavano il mestiere deli^' anni  e predicavano la virtù, la pace, la fratellanza, ordinò fossero cacciati  tutti da Roma (18).   V. non condanna la triste belliim, la larrinvìbile belium, come  spesso la chiama (19), in virtù di astratte considerazioni filosofiche o politiche, uè per i danni materiali che le ultime guerre disastrose, e particolarmente le guerre civili, avevano arrecato alla patria. No: è la delicatezza deir animo suo che lo spinge a commoversi tutto ed indignarsi \h\^  vanti allo spettacolo delle bestiali passioni che le horrida bella scatenano,  delle stragi umane che arrecano, delle tante vite che recidono sul fiore,  dei dolori e delle ansie che portano ai padri, alle madri, ai figli dei combattenti. Le dottrine largamente umanitarie dello stoicismo non avevano  fatto che rendere ancora più vibrante e sijuisita codesta innata sensibilità  d' animo. Cosicché, prima di accingersi a narrare una guerra o a descrive! e una battaglia, quando t bello dal signum ranca cruentum òueCina • (20), il suo pensiero corre sùbito trepidante ai dolori e alle eaiiieficine imminenti:   Dicam horrida bella;  Dicam acies, actosque animis in funera rec:es  Tyrrhenamque maiium, totamque sub arnia coacta  llesperiam i21j ;   e a quel pensiero increscioso si sente commuovere di pietà, anclir per i  nemici: «Ahi, quante stragi sovrastano ai miseri Laurenti! padre Tevere»  quanti scudi e cimieri e corpi di prodi travolgerai sotto le tue onde {t})^ >»  Poiché sembra che egli stesso sperimenti nel proprio animo le anguseie  dei miseri genitori, i cui figli stanno per esporsi ai tremendi pericoli della  battaglia; e ci rappresenta le madri, che ai primi rumori di guerra   Vota metu duplicant propriusque periclo   It timor, et major Marti jam appan^t imago.   E (juando la guerra é già decisa, e la colonna dei combattenti, avvolta nella polvere e lampeggiante d' acciaio, s' allontana giù giù in fondo  alla pianura, egli non le dimentica quelle povere madri, che, ferme sulle     mura deserte della patria, seguono con gli occhi, forse per Tultima volta,  i figli allontanantìsi :   Stant pavidae in muris matres, oculisque sequuntur  Pulveream nubem, et fulgentes aere catervas (2i).   Ed è col richiamargli al pensiero la vecchia madre, quella madre che  non vive che per V unico suo figlio, che Niso tenta sconsigliare V amico  Eurialo dal seguirlo in quella generosa e temeraria impresa, che doveva  costare la vita a tutt' e due :   Neil inatri miserae tanti sim causa doloris;  Quae te sola, puer, luuitis e matribus ausa  Prosequitur, magni nec moenia curat Acestae (25).  Preso da una brama ardentissima di lodi, Eurialo non si lascia smuovere da questa esortazione dell' amico, e vuole a tutti i costi essergli compagno. Ma prima di accingersi a partire, è il pensiero della vecchia madre  che gli si affaccia angoscioso alla mente; ed a lulo, che gli andava proI mettendo ogni sorta di premi, egli risponde che di un dono solo lo pre gava : consolasse la derelitta madre sua, che egli lasciava di tutto ignara i I e senza addio, perchè non avrebbe potuto sostenerne le lacrime; ed è   I I tanto spontaneo il suo discorso, tanto pieno del più tenero affetto filiale.   '^ j che giustifica pienamente la commozione di lulo e il pianto dei Dardani   1 .^ ; ascoltanti.   ' j : Ma dove V. raggiunge veramente la perfezione, dove l'animo suo   ' j t aperto a tutti i i)iù nobili sentimenti, dove la delicatezza del suo sentire   » i i e la soavità dell' arte sua ci si rivelano sotto la luce più viva e più bella,   j. '. ' è nei discorsi die egli pone in bocca ai padri e alle madri dei combat I ! tenti. Tra questi discorsi, è per me addirittura insuperabile il commovente   j ; addio di Evandro a Pallante, che parte con Enea per la guerra. Il vecchio   ; ; * re, inexpletnm Idcrìinnns, e baciando convulsamente la destra dell'unico   .! : figlio, dopo aver sospirato T antica gagliardia che gli avrebbe permesso di   * i non staccarsi mai da quel dolce abbraccio e di essere a fianco del figlio   : anche fra i travagli della guerra, con frasi brevi, rotte, in cui si sente quasi direi Tansimare del suo petto agitato, rivolge agli Dei quella splen   ; \ dida sua invocazione, riboccante d' amor paterno :     si numina vestra  Incoluiiiem Pallanta inihi, si fata reservant,  Si visurus eum vivo, et vcnturus in unum,  Vitam oro: patiar quemvis durare laborcra.  Sin aliquem infandum casuin, fortuna, minaris,  Nunc, nunc liceat crudelcm obrumpere vitam,  Dum curae ambi^uae, duin spes incerta futuri,  Duin te, care puer^ mea sera et sola voluptas,  Complexu teneo: gravior ne nuncius aures  Vulneret.   Quando finalnaente, accese dair insani Martis amore (28j, le schiere  nemiche si urtano, e la battaglia incomincia, sembra che qualche volta  l'animo del poeta si lasci trascinare dalle reminiscenze omeriche air entusiasmo de' bei colpi dati e ricevuti, delle morti eroiche, dei discoi-si feroci; ma è cosa che dura poco, poiché il cuore ripiglia subito il suo sopravvento sulla rettorica, ed il vero, il miserando spettacolo del campo di  battaglia gli si para innanzi in tutta la sua cruda realtà,   et gemitus morientum, et sanguine in alto  Armaque, corporaque, et permixti caede virorum  Semianimes volvuntur equi (29);   e non può trattenere le lacrime: (a al iter, qaiin  •l«rlia corrente, ma si renda d^no con  Tiissiiluo lavoro di quelli tVlioiui ohe s* ac«ompa«:na sempre alla virtù;  poiché :   labùr omnia vìneit  laiprobus, et Juris urgens in rebus egcstas 13  Ma jjiuuto r inverno, può finalmente godere il frutto delle sue lunghe  fatiche in onorato riposo; allora celebra i giorni festivi, liba a Bacco  steso neir erba attorno a un gran fuoco, si esercita nella ginnastica e nel  ^^^m^ bersaglio, mentre :   dulces pendent circum oscula nati:  Casta pndi'-ìtiain servat dotnus 'U.   Ria.ssumendo, T agricoltore rappresentatoci da V. nelle Georgiche ha più che evidenti in sé stesso tutti i caratteri del sapiente degli  stoici : impassibilità alle passioni, disprezzo per gli onori, le ricchezze, le  lodi, venerazione per gli dèi. austerità nei costumi, assiduità al lavoro,  frugalità, amore p«'i figli e per la famiglia. Attribuendo all' agricoltore  tutte queste qualità, il nostro poeta si è certamente scostato dal vero;  ma se ciò può costituire un difetto agli occhi del critico letterario, per  noi non è che una prova novella degli intenti educativi che animavano il  poeta, e del ti/xj ideale che gli servi di guida nella descrizione.   11 vero sapiente, dice anche Orazio, « è colui che passa davanti ai   mucchi d'oro senza volgere gli occhi » tl5); colui che, il giorno in cui la   ^ fortuna s' invola. « restituisce senza rammarico ciò che essa aveva coii fc.. cesso, e avviluppandosi nella propria virtù, sposa volentieri, senza dote,   |r la povertà onesta » (!(>;.   Ma non è soltanto nella pittura della vita agreste che il nostro poeta  ci appalesa il suo entusiasmo e la sua adesione ai princìpi morali dello  stoicismo; poiché, come dicemmo, della rigidità stoica sono tutte compenetrate cosi le (leorgiche come V Eneide. Quindi — lasciando da parte  per il momento lo studio dello spirito misogino profuso nei  homo est qiiem graphics Terentianus exprimit  Chremes: homo sum ec€. »* Cfr. G. Canna, Della umanità di V., Torino En. M. ) hi 574.   (9) Eìh VU, 4i)t   (10) Cict^ro, l>e Ofnai.^. U, ù iììì Cfr. Havet, op. di., Voi- II, p. 113 e segg.; e CICERONE (vedasi), De Officiis, Or, Controvm'sme, De, lìfiicfìvìis, l 13; e ancbu f.ucano, X, 20.   (15) EpiMoip, Xi\ 15^ Firenze, 1"17.  aa) Salirae Nisard, Kludes de moeurs et de critique sur les poè'tes latins de la  décadence, Paris En. VEn. En. En En.  En. En, En. En. En. En. En. En  En. En En. ; è degno di nota il fatto che questi versi si trovano proprio  al principio del poema, nel quale poi si narreranno tante battaglie.     (1) Per non dilungarmi troppo in un argomento (ihe non è l'oggetto di questo  studio, ho qui dovuto riassumere in poche parole e assai imperfettamente una delle  dottrino più complicate e sottili dello stoicismo. L'uomo nasce buono per natura, dicono gli stoici ; ma come avviene dunque che la maggior parte degli uomini non sono  virtuosi ? Perchè, rispondono essi, la società li deprava. Questa risposta non fa che  portare indietro il problema; infatti, se la società deprava l'individuo, è apparentemente perchè essa stessa è malvagia, ma in realtà la società non può esser tale che  perchè gli individui che la compongono sono essi stessi malvagi. La contraddizione  è evidente, e gli stoici cercarono di toglierla invocando un' altra nigione : le tendenze  naturali, essi dicono, sono sane e dirette verso il bene, ma la loro intensità non ha,  prima dell'esercizio, quella giusta misura e quella perfetta sicurezza che la virtù  esige. Il giovine ha ricevuto dalla natura un ardore che lo porta ad affrontare il  pericolo, ma la sua inesperienza fa sì che egli non misuri con sicurezza la natura  del pericolo ohe egli affronta, che il suo slancio impetuoso lo trasporti alla collera  e alla temerità. All'Ogereau (op. cit- p. 111-18) pare che così la questione sia risolta; ma io non sono dello stesso avviso. Poiché, questa debolezza \\e\Y assentimento     128   che precede V atto, e questo eccesso nello sviluppo della tendenza, costituiscono per  gli stoici la passione, il cui complesso dà il vizio; quindi sì verrebbe a concludere  che r uomo nasce malvagio, contrariamente a quanto gli stoici stessi ammettevano.   (2) Epistole, passim.   (3) Georg, II, 458-474 i\ 495 fine.   (4) Secondo gli stoici, Tuomo perfetto è un saggio che s'ignora XeXt|d^€ oó(fO€.  Seneca però, molto tempo più tardi, comprendendo come assai difficilmente si avrebbe  potuto capire che un uomo possa essere felice senza sentire di esserlo, modificò la  dottrina primitiva dicendo che non è il saggio stesso che s'ignora, ma solo colui  eh' è sul punto di divenir saggio {Epist. Georg. Georg. Georg. Georg Georg. II, Carmina li,  Id. in, III ecc.   En. Georg. En. Epist. Georg. En. L'Epicureismo En. En ICfr. le Controversiae Vi si  trova, ad esempio, questa sentenza : « I ricchi hanno molti vizi, il più grande dei  quali è di non amare » ; e più avanti : « povertà, come tu sei poco compresa! > ;  vYj)^ l'altra la restringe (pena-Xo'JiiTi).  En. En. En.  En.  En. En.  Il nostro poeta, per la natura stessa dell' animo suo e per i suoi propositi di riforma morale e religiosa, sentivasi spinto irresistibilmente verso quello spiritualismo mistico,  che era allora rappresentato dalla filosofìa del Portico. Dicemmo ancora  che nel suo passaggio dal mondo greco al mondo romano lo stoicismo  aveva subite profonde modificazioni, dovute in parte alla diversità dell' ambiente, in parte al mutato spirito dei tempi, in parte all'indole  stessa dei filosofi che l'avevano primi insegnato in Roma. Cosicché,  durante i suoi cinque secoli di vita attiva e rigogliosa tale dottrina ha  attraversato tre diversi periodi nettamente distinti l' uno dall' altro : il  primo è rappresentato da Zenone di Cizio, Cleante d'Assos, Crisippo di  Soli, Zenone di Tarso, Diogene di Seleucia e Antipatro di Tarso, ed ha  il suo centro esclusivo in Atene; il secondo da Panezio di Rodi e Posidonio d'Apanea, che ebbero ambidue lunghe e frequenti relazioni con la  società romana; il terzo da Seneca, Cornuto, Musonio Rufo, Epitteto,  Marco Aurelio, ed ha la sua sede principale in Roma. Di questo terzo  periodo, che si designa più propriamente col nome di stoicismo platonizzaute, V. può essere considerato come l'antesignano e il precursore.   Qual' è adunque il carattere che distingue dalle precedenti Y ultima  fase dello stoicismo ? Ce lo dice chiaramente il nome stesso col quale      suol essere designato : una maggiore immistione di quegli elementi  platonici che avevano già cominciato ad infiltrarvisi per opera di Panezio  e di Posidonio, e che si trovano tutti, più o meno sviluppati, nelle opere  del massimo fra gli oratori latini. Poiché la storia della filosofia romana   - chi ben la osservi - presenta questo particolarissimo carattere : che  cioè, tolto il breve periodo in cui le dottrine di Epicuro sembrano prevalere, essa segue fedehnente nel suo svolgersi il primo impulso datole  da un uomo solo. Cicerone ; le cui opere formano, a cosi dire, il perno  su cui s' aggira tutta la filosofia posteriore, da Sestio a Marco Aurelio,  da Fabiano ad Apuleio. Ciò è dovuto, secondo me, non soltanto al fatto  che Cicerone fu il primo a scrivere dei veri e propri trattati di filosofia,  creando un linguaggio filosofico che non esisteva, ma anche all'essersi  la filosofia romana ristretta sempre più nel campo della morale pratica.  Ora, se nelle questioni teoriche le divergenze tra le diverse scuole erano  grandi, nelle applicazioni morali il loro accordo era quasi completo ;  perchè, come sempre avviene, mentre nelle prime poteva sbizzarirsi liberamente il genio speculativo dei filosofi, nelle seconde esso doveva di  necessità conformarsi alle norme generali imposte dal sentimento popolare. Il quale sentimento andava appunto orientandosi sempre più verso  quello spiritualismo dualistico che preparava la vittoria definitiva del  cristianesimo, e che Cicerone aveva attinto dalle opere del sommo filosofo greco.   Non è, per fermo, difficile impresa il separare dall' organismo - poco  solido invero? - della filosofia ciceroniana, quei germi platonici che poi  dovevano prendere tanto sviluppo nel primo e secondo secolo dell'era  volgare. Secondo Cicerone, dio ha composto l'uomo di due principi assolutamente opposti r uno air altro : e cioè di un corpo caduco e di una  anima incorruttibile ed eterna ; « se l' anima - egli dice - è il cuore o il  sangue o il cervello, postochè così è corpo, perini col rimanente del corpo :   se è fuo%\\ si estìnguerà : se è armonia si dissolverò Nulla è nell' a ninia di misto e di concreto e neanche di umido, di aereo, di igneo :   come non v'è nulla, nella natura di queste cose, che abbia potenza  di memoria, d* intelletto, di pensiero, o che ritenga il passato, prevegga il futuro, e possa abbracciare il presente: le quali sono facoltà  divino. Xè si troverà mai donde possano derivare le anime se non da  dio. Per la qual cosa, checché sia ciò che sente, che sa. che vuole, che  vive, è celeste e divino, e deve di necessità essere eterno. E dio stesso,  quale da noi s' intende, non può concepirsi in altro uumìo. se non come  una mente libera sciolta, segre^rata da ogni concretezza mortale, tutto senziente e movente, e dotata di moto sempiterno « (1) Il coi-po rappresenta  dunque il principio del male, il carcere tenebroso nel quale T anima   - principio del bone - è im])rigionata ; quindi V uomo deve studiarsi di  tenere separata il più possibile V anima dal corpo, e considerare la morte non come una sorte temibile, non come la fine della vita, ma come una  liberazione, come il cominciamento della vera esistenza. « Separare il  corpo dair anima non è altro che imparare a morire. Per cui, credi a me,  pensiamo il più che si può a dividerci dai corpi ; vale a dire, avvezziamoci a morire. Questo, anche durante la vita terrena, sarà qualche cosa  di simile alla vita celeste ; e quando, sciolti da questi lacci, saremo trasportati colà, verrà meno ritardato il corso agli animi. Poiché quelli che  si lasciarono sempre soggiogare dai lacci del corpo, anche quando si  trovan disciolti vi giungono più tardi; come avviene di coloro che stettero molti anni in catene. E quando poi giungeremo colà, allora si che  finalmente vivremo. Poiché questa vita è pur troppo una morte; ed io  avrei, se volessi, di che lagnarmene > (2). Ma quale sarà la condizione di  queste anime dopo il loro distacco dal corpo? Conserverà ciascuna la  propria individualità distinta, o torneranno a confondersi con l' anima  universale ? Imprenderanno anch' esse il loro viaggio attraverso i regni  mitologici di Acheronte, o voleranno nella sfera del fuoco purissimo per  attendervi Tecpirosi ?   Su questo punto anche Cicerone come tutti gli antichi, da Socrate  a Epitteto, si mostra incerto e dubbioso. Tuttavia, se la saggezza aristocratica degli stoici sembra attrarlo qualche volta, raffigurandogli  una specie di senato ultramondano ove soltanto le anime elette dei  sapienti possono trovar luogo, assai più spesso egli sembra prestar orecchio a quei racconti favolosi, che il grande filosofo greco aveva primo  raccolti dalle labbra del popolo e ridotti a dogma nel Fedone. Neir ultima parte del De Senectute, egli mostra di non credere che V immortalità sia privilegio di pochi eletti, come pretendeva Crisippo, ma destino  di tutti gli uomini : « perchè il saggio muore con tanta serenità, e gli  altri con tanto terrore ? Perchè colui che vede più distintamente e più  lontano, conosce di andare ad una vita migliore, mentre l' altro ha la  vista troppo corta e nulla scorge al di là . . . Io ho messo il corpo di mio  figlio sul rogo funebre; egli avrebbe dovuto riporvi me; ma il suo spirito non m' ha abbandonato, s' è soltanto ritirato in un soggiorno nel  quale sapeva che io T avrei raggiunto. È sen}brato che io sopportassi la  mia sventura con fermezza; invece sofi*ersi molto, ma mi consolai pensando che la separazione non sarebbe stata lunga tra noi due » (3).  Queste parole, nelle quali parrebbe d'intendere .gli insegnamenti di un  Padre della Chiesa, non sono le sole che accennino alle dottrine platoniche  della seconda vita. Nel Sogno di Scipione, ad esempio, troviamo espressa  in questo modo la dottrina della purificazione delle anime : « l' anima  si involerà tanto più presto verso la dimora ond' era discesa, quanto più  essa si sarà elevata al di sopra del corpo nella vita terrena, e quanto  più se ne sarà staccata contemplando le cose celesti. Ma le anime che si  sono date ai piaceri del corpo facendosene schiave, e che, trasportate     134   dalle passioni, ministre della voluttà, violarono le leggi degli dèi e degli  uomini, quando siano sfuggite dal corpo errano miserabilmente intorno  alla terra, e non ritornano al cielo che dopo lunghe espiazioni » (4).   Potremmo continuare ancora nelle citazioni, ma sarebbe affatto inutile, perchè nei brani che siam venuti riportando è più che evidente l'impronta di quel dualismo platonico, che vedremo poi dispiegarsi con tanto  vigore nelle opere degli stoici delP ultimo periodo. Certo che in Cicerone,  natura scettica e positiva se altra mai, codeste corse nei campi nebulosi  dello spiritualismo voglion essere giudicate in un modo tutto particolare.  Esse non sono che atFermazioni teoriche, tesi brillanti che V autore sembra aver scelto per esercizio di eloquenza ; mentre invece sulle labbra di  Seneca, di Epitteto, di Marco Aurelio acquistano una vivacità, un calore di convinzione, che ci rivelano come non siano più semplici esercitazioni rettoriche, ma debbano aver avuto non poca efficacia nella pratica della vita. Ed è questa forse la ragione per cui essi possono sembrare agli occhi dei più veri e propri innovatori, piuttosto che continuatori di un indirizzo già esìstente nella filosofia romana.   Questo strettissimo legame che unisce i filosofi romani come tanti  anelli di una medesima catena, ci era necessario rilevarlo per poter meglio comprendere quale posto occupi in essa il Mantovano, e quale fosse,  a cosi dire, il clima filosofico che lo circondava. Vissuto quando era  ancor viva nella più eletta società romana Tammirazione per i libri del  nobilis Panaeti, come Orazio stesso lo chiama (5), e per le dotte e brillanti dissertazioni dell' oratore arpìnate, morto poco prima che vedesse  la luce uno dei più attivi, dei più popolari, dei più geniali tra i filosofi  romani, Lucio Anneo Seneca, il nostro poeta si ricollega per un lato allo  stoicismo eclettico del secondo periodo, e per l'altro preannunzia il sorgere di quell'indirizzo spiritualistico i cui germi s'andavano già maturando nell'animo delle popolazioni. Non è a credere però che V. si  conformi in tutto e per tutto agli impulsi che gli venivano dall' ambiente. La sua fibra delicatissima d'artista, l'ingenua e sincera religiosità che domina in ogni suo pensiero, la solitudine stessa in cui trascorse  gran parte della sua vita, dovevano scostarlo tal poco dall' indirizzo filosofico dei suoi contemporanei e successori. Per prepararci a cogliere  questo lato originale del pensier. di V., vediamo quale fosse il carattere predominante dei due sistemi filosofici, che da Cicerone a Marco  Aurelio tendono a stringersi sempre più in intimo accordo.   Per quanto i Romani fossero portati di lor natura aireclettismo, per  quanto sul terreno delle applicazioni morali divenisse più agevole un  accordo tra le diverse tendenze del pensiero, pure il combinare tra loro  due sistemi originariamente così opposti come lo stoicismo e il platonismo, era tale impresa che nemmeno un filosofo romano poteva acciiigervisi senza correre il pericolo di inceppare ad ogni piò sospinto nelle più stridenti contraddizioni. Poiché - chi ben guardi - la scuola del Portico è nel suo fondo una delle più rigidamente materialistiche e razionalistiche che la storia della filosofia ricordi : dio, la ragione, V anima  umana, l'anima del mondo, le qualità delle cose, le passioni, il vizio, la  sapienza, il sommo bene, tutto insomma ciò che esiste ed agisce è materia. « Et qiiocl fu et quod facit corpus e.s7» dice Seneca (6); ed a tal  grado di ridicola esagerazione era giunto il materialismo degli stoici, che  sostenevano pei*sino essere gli anni, i mesi, i giorni tante entità materiali. Se adunque nulla esiste fuori della materia, se tutto avviene per  una semplice trasformazione di essa, se la divinità stessa è materiale e  compenetrata nel mondo, ne viene di conseguenza che la vita terrena  è sola e vera vita, che non esiste un « al di là » dove la virtù ed il vizio  abbiano una sanzione divina, e che Y uomo può giungere per propria volontà a rendersi uguale a dio. Tali infatti sono le norme ed i princìpi  fondamentali dello stoicismo; e con essi la natura era ristaurata nella  multiforme unità delle sue leggi immanenti ed eterne, era tolto ogni  antagonismo che smezzasse il mondo fra i sensi e le idee, fra la materia  e lo spirito, fra T esperienza e la trascendenza.   Questa falsa dualità della vita era invece propria e caratteristica della  filosofia platonica, che Gaetano Trezza ha magistralmente sintetizzato in  queste poche parole : « Platone spostò il mito dalla fantasia nella ragione;  le idee fattrici, universali, eterne, costituivano la realtà verace; la vita  era reminiscenza d' uno stato uranico anteriore agli organi del corpo,  una perenne ascensione verso le idee ; V uomo dee slegarsi dai sensi  come da catena dolorosa, per tornare alla piena libertà delle idee. Il  corpo è una tomba, il mondo prigione delle anime piovute, per desiderio  improvvido di peccato, a macularsi quaggiù, abbandonando le convivenze  serene della Psiche cosmica; il termine della vita è fuor della vita, il  presente un lungo gemito di sepolti che tentano di spezzare le custodie  del tempo e sottrarsi all'ignominia dei sensi • (7).   Fra lo stoicismo e il platonismo Topposizione era dunque assoluta, e  un accordo non sarebbe stato possibile, se non qualora Y una o Y altra  delle due scuole avesse volontariamente sacrificato alle esigenze della logica la massima parte delle proprie dottrine. Questo non avvenne. I filosofi romani, troppo intenti per un lato nel conformare alle mutevoli circostanze i loro precetti di morale pratica, e poco esperti dalP altro nelle  sottigliezze della dialettica, non sembrano accorgersi nemmeno della disparatezza dei due sistemi, e si servono indilTerentemente ora dell' uno ora  dell'altro, riuscendo così al più babelico dei sincretismi. Nessuno degli  stoici del terzo periodo ne va esente ; nemmeno Y anima delicata e pensierosa di Marco Aurelio (8). Ma quello che più d'ogni altro incespica nelle  contraddizioni, quello in cui il dire e disdire sembra diventato, quasi     186   direi, un male organico è appunto l'iniziatore di codesto nuovo indirizzo  dello stoicismo, Lucio Anneo Seneca.   Questa continua contraddizione ci si appalesa persino nelle cose più  insignificanti. Seneca disprezza quei filosofi della cattedra {cathedrarii  philosophi (9):, i quali nella vita pratica smentiscono le belle massime  che insegnano agli altri con tanta eloquenza ; ma poi, dal canto suo, non  si comporta diversamente. Egli possedeva trecento milioni di sesterzi  (sessanta milioni di lire), che pare avesse ammucchiato coli' usura e coi  denari dei proscritti, e dei quali sapeva valersi assai bene, circondandosi  di tutti gli agi della vita, arredando le proprie ville cultius quam natiiralis icsus desiderat, e invitando gli amici a sontuosi banchetti, nei quali  si beveva del vino piìi vecchio di lui (10); contuttociò egli non si fa scrupolo di predicare continuamente 1' amore alla vita povera ed austera, lo  sprezzo per le ricchezze, le voluttà, gli onori, e di rimproverare i ricchi  per la loro ambizione e ghiottoneria (11). La dottrina stoica dell' uguaglianza di tutti gli uomini, doveva spingerlo a cercare seguaci in ogni  classe di persone; invece, per quanto egli proclami che non v'ha distinzione fra schiavi liberi e cavalieri, e che la virtù si trova più facilmente  nella capanna del povero, e che tutti possono aspirare alla sapienza [V2,  ha cura di sciegliere i suoi discepoli fra i giovani della più ricca nobiltà,  fra i letterati e i cittadini più potenti. Coi quali poi sa essere di una  larghezza, di una indulgenza davvero meravigliosa, trovando modo di  giustificare non pure le ricchezze, il lusso, V ambizione, ma persino V ubriachezza (14). E se qualcuno gli rinfaccia di essere incoerente, allora  risponde con invidiabile disinvoltura : « hoc, malignissìma capita et  optimo cuique inimicissima^ Platoni obiectum est, óbì'ectum Epicuro,  obiectum Zenoni-, omnes enim isti dicebant non quemadmodum ipsi  viverent, sed quemadmodum esset ipsis vicendum. De virtute, non de  me loquor, et cum vitiis convicium facio, in primis ìueis facio : cum  potuero^ vivam quomodo oportet (15). È proprio il ragionameto di padre  Zappata t   Del resto, se tutto ciò può rivelarci la natura intima dell' uomo, non  ci scuopre ancora quello stridente contrasto di princìpi filosofici di cui  più sopra parlavamo. Per ricercarlo dobbiam portarci sul terreno stesso  della discordia, al cospetto di quei problemi che stoici e platonici consideravano e risolvevano in modo affatto opposto. E qui sembra proprio  che neir animo di Seneca esistano due distinte personalità, continuamente  in lotta tra di loro (16). Alcune volte è il materialismo degli stoici che  prevale nell'animo suo; ed egli ne espone i princìpi con una rigidezza e  una precisione di formule, che non possono lasciare alcun dubbio intorno  al suo pensiero : « totum hoc, quo continemur, et unum, est et deus: et  sodi sumus eius et membra » (17) ; « omne hoc quod vides, quo divina  atque hiimana conclusa simt, unum est: membra sumus corporis     "inagrii. Né egli s'arresta davanti alle estreme conse^ruenze di tale  dottrina: siccome tutto ciò che esiste è materia, così per lin sono materiali anche il tempo, la virtù, la benevolenza, l' amore, V ira, V invidili, la  malvagità (10). Perfino il bene è un corpo, e lo dimostra con nueslo la*  gionamento : « placet noslris, quod bonum est, corpus essf\ quìi f/utnl  honum est, facil, qaidquid facit, corpus est; quod bonum est, prof test,  faciat autem aliquid oportet, ut prosit; si facit, corpus est ^ (20). Altre  volte, per contro, è lo spiritualismo dualistico del filosofo att^niese che  s' impadronisce del suo pensiero ; allora divide la filosofia njUurciìe in  due parti, una che tratta delle cose materiali, T altra delle spirituali (21).  e con lo stesso calore di convinzione con cui altrove aveva diniostnito  che il tempo, la sapienza, le virtù, i vizi sono entità corporee, nra invece  si sforza di provare che non possono essere se non iniorporee.  Anche riguardo alla natura della divinità, in cui erano tanto discordi la  teologia stoica e quella platonica, il nostro filosofo dà prova del wuo sincretismo. Talora, seguendo rigorosamente il panteismo di ZtMn>ne e di  Cleante, identifica la divinità col mondo, colla natura, colla ragione, col  destino e colla provvidenza; ìì quid est deus? Quod vides lotum e quod  non rides totum^^  ;  quid est deus ? Dioina ratio; mens Hìiityersi:  animus ac spiritus mundio (24). Questa divinità, non essendo che una  pura astrazione, è impersonale e indefinita; quindi T nomo rum deve né  temerla, né amarla, né rivolgerle preghiere, né otfrirle sacrifizi (25), Ma  quando il freddo razionalismo de' suoi maestri non può più servirgli per  consolare gli afflitti o dar ammaestramenti agli amici, allora abbandona  il dio rotondo della scuola per appigliarsi al dio personale di Platone : e  questo dio egli descrive come padre e creatore, che vede ogni nostro aito,  che assiste ad ogni nostra impresa, che nell'infinita sua bontii ascolta  ed esaudisce le preghiere degli uomini (20). Del resto, a lui sembra importar poco che questa divinità sia personale o impersonale, ragiono cosmica destino comune ; Seneca é a tal riguardo un indifferente, e lo  mostra presentando tutte le diverse ipotesi, senza sapersi dt/cidere per  alcuna : « id actum est, mihi crede, ab ilio quisquis formaior universi  fuit, sive ille deus et potens omnium, sive incorporalis ratio ii/f/entium  operum artifex, sice dicinus spiritus per omnia maxima aequali inlentione difffcsus, sice fatum et immutabilis causarum inter .se cohaerentium series.   Ma dove l'incoerenza di Seneca e dei suoi seguaci raggiungo rastremo limite dell'assurdo, è nella questione della vita futura VA iniatti  su questo punto i princìpi fondamentali delle due scuole conducevano  a conchiusioni affatto opposte e irreconciliabili. Poiché se V anima è  materiale, come sostenevano i primi stoici, essa dovrà puie assogettiirsi  alle condizioni della materia e perire insieme col corpo ; se invece è spirituale, come insegnava Platone, essa sarà incorruttibile ed eterna. Ora,  gli stoici roinaoì ammettono beosi che l’anima rappresenti un qualche  cosa di divei-ìso dal corpo, anzi di opposto al corpo, ma quando si tratta  di decidere se essa è mortale o immortale e di determinare quali siano  le condizioni della seconda vita, si mostrano indecisi, irresoluti, e ora  ani mettono V inuaortalità ora hi negano, ora sembrano accettare i dogmi  incerti dì Crisippo, ora i favolosi racconti di Platone.   In questo punto V., pur cadendo nel resto in alcuna di quelle  contradLlizioiii die lino ad ora abbiamo rilevato in Seneca, si mostra assai  più coerente dei suoi succetison, e si stacca anche dai filosofi che l' avevano preceduto. Avendo ai-cettato il principio platonico della spiritualità  deiranima, egli arcetta anche la dottrina dell'immortalità e le leggende  ruitolo^iclie suir oltretomba ; a descrivere la quale ha consacrato uno dei  canti ^^ più belli e più drammatici del suo divino poema. Noi faremo  oggetto di lunt^o esame questa parte tanto interessante del pensiero di  V., che i commentatori hanno intorbidato con ogni sorta di ipotesi  ìissurde. Prima però dobbiamo vedere con quali caratteri ed in qual misura il pensiero platonico si sia trasfuso in V., e per che modo il  nostro poeta si rieoUeglii agli stoici platonizzanti delF ultimo periodo.     I V*. Come abbiamo veduto, la filosofia di Platone spostando V interesse umano dal di qua al di là della tomba, induceva a considerare il  uiòudo e resistenza come un qualche cosa di provvisorio e di sfuggevole,  conìc un breve e doloroso intervallo che corre dalla nascita alla morte,  e jireludia alla vera vita, la vila eterna. «Tutto questo tempo - dice Socrate - che trascorre (ìalF inFanxia alla vecchiezza, non è ben piccolo in   eimlronto del tcnii>o lutto intiero? E non credi tu che tutto ciò che   è immortale debba preoccui>arsi non di questa corta misura di tempo,  ma di tutta la durata?» (Ij.   (Questo senso della provvisorietà, se mi si permette il vocabolo, della  vita umana, era affatto estraneo non soltanto al vero spirito pagano,  tutto inteso a^di interessi iminein'f^. Stolto, dunque,  colui che in questa condizione si gonfia, si travaglia e si lamenta, dimenticando come sia piccolo il tempo in cui deve soffrire i> . Le  cose del mondo girano continuamente, e su e giù, di eternità in eternità.,..  Già la terra ci cuoprirà tutti ; e poi anche la terra si trasformerà ; e poi  anche quello in cui si sarà così trasformata si trasformerà air influito.  Ma chi pensi air incalzante ondeggiamento di queste trai^irormazioni e  mutazioni e alla loro rapidità, disprezzerà davvero of^ni cosa mortale,  Il sentimento di amarezza sconsolata che tras]»are da queste riflessioni di Marco Aurelio, la soave Musa virgiliana V aveva già espt esso  due secoli prima e con non minore intensità. Alcune volte sono semplici e  fugaci accenni, che sembrano nubi passeggiere noir animo sereno del  poeta : « o Rebo, siam vissuti lungamente, se può dirsi che alcuna cosa  duri lungamente tra i mortali I » ; « Tutte le cose per volere dei destini  cadono in peggio, e cadute ritornano indietro » (4), ecc. Ma più spesso  sono vere e proprie esclamazioni di scoraggiamento, che ci rivelano in  qual conto V. tenesse la vita umana e le cose terrene:   Insere, Daphni, piros ; carpent tua poma nepotes.  Omnia fert aetas, animum quoque : saepc ego lunps  Cantando puerum memini me condere soles.  lam fugit ipsa: lupi Moerim videre priores (S).   Tutto adunque si porta T età, pei^sino la memoria, persino la voce:  e mentre noi ci aggiriamo in questo mondo di parvenze, l'ug^^e Irrepabile il tempo:   Sed fugit interea, fugit irreparabile terapus  Singula dum capti circumvectamur amore (fi) :   e a questi velasi sembrano far eco le parole di Seneca, rhe in modo non  diverso concepiva la vita umana : t labunt fiumana ac {ìuunt, neque  ulla pars vitae nostrae tam obnoxia aut tenera est, quam quae mnxinie placet » (1). Fugge adunque il tempo, e nel l'uggire si trasporta i seco ogni giorno un brandello delle nostre illusioni, e ci avvicina sempre  più agli acciacchi della triste vecchiezza e alla morte inesorabile :   Optima quaeque dies niiseris mortalibus aevi  Prima fugit: subeunt morbi, tristisque senectus  Et labor et durae rapit inclementìa mortis (8).   Seneca, che fra tutti i poeti romani mostra una specialissima predilezione per V., al quale sentivasi maggiormente vicino per idee,  aspirazioni e sentimenti, riporta nel suo trattato sulla brevità della vita  questi versi del Mantovano, e li commenta poco più avanti cosi « Praesens  tempus brevissi'mus esl, adeo qmdeni, utquìbusdam nullum videatxir;  in cursu enim semper est fluii et praecipilatur ; ante desinit esse  quam venit, nec niagis moram patitur quam mundus aut sidera, quorum inrequieta semper agitatio numfiuam in eodem vestigio nianet » (9).  Ma tale, ad ogni modo, è il volere di dio, che determina a ciascuno dei  mortali le durata del soggiorno in questo carcere terreno, e fissa il giorno  della morte. Così infatti dice Giove al tìglio Alcide :   (/ Stat sua j^uique dies: breve et irreparabile tempus  Omnibus est vitae : sed famam extendere factis.  Hoc virtutis opus. Troiae sub moenibus allis  Tot nati cecidere deum ; quin occidit una  Sarpedon, mea progenies. Etiam sua Turnum  Fata vocant, metasque dati pervenit ad aevi.   Non altrimenti Socrate, nel proemio del Fedone, spiega ai suoi discepoli che r uomo è lo schiavo degli dèi, e che egli deve quindi rima' nere come a guardia in questo mondo, per tutto il tempo che gli im ) mortali hanno stabilito di lasciarvelo.   l La vita corporea, la vita dei sensi non è adunque la vera vita, ma   \ piuttosto un doloroso periodo di espiazione e di castigo, in cui la scin I tilla di essenza divina, che costituisce T anima dell' uomo, si trova per   " così dire oppressa, contaminata dalFinvolucro corporeo che la imprigiona,   j Stretta in questo carcere, l'anima nostra non può giungere al possesso   ^' di quelle realtà assolute che sono le idee divine, le quali, possedute in   una vita beata anteriore, le sono rimast * impresse soltanto come un vago  e lontano ricordo. Essa quindi deve accontentarsi di conoscere quelle  apparenze o fenomeni che offre la sensazione : fra queste ombre, proiettate nel fondo della caverna terrestre dal sole che illumina le realtà invisibili, trascorre la vita umana, lusingata di conoscere il vero, e agitata  dalle passioni che le derivano dal' contatto col corpo:    Igneus est olii vigor et coelestis ori^^o   Seininibus, quantum non noxia corpora tardant,   Terrenique hebetant artus moribundaque membrii. ^   Hic metuunt cupiuntque; dolent gaudentque: ne^iuc auriis   Despiciunt clausae teuebris et carcere cocco (11)^ j   Lo spiritualismo ascetico di Platone c'è tutto i questi versi, e Tniitagonismo esistente fra 1' anima e il corpo, tra lo spirito e la materia è,   espresso nel modo più chiaro. Anche per Platone il corpo i? un cieco carcere (12), che impedisce all'anima di conoscere la veritu: «sino a che  noi abbiamo il corpo e V anima nostra è commista con sitfatto malanno  (TotdoTou xaxoD), uon c' è verso che si venga mai in adeguato possesso di  quello che desideriamo, eh' è, aftermiamo, il vero; perche cisiscun piacere e dolore, come fornito d'un chiodo, la inchioda al rorpo e la conficca e la fa corporea, inducendola a credere che quelle cose siano verti  che il corpo dice tali » (13). Né questo disprezzo per tutto ciò che ò  senso e materia, è meno evidente in Seneca, in Epitteto. in ^lareu Aurelio, e, in generale, negli ultimi stoici ; i quali usano spesso, riferendosi al corpo, le medesime espressioni - cieco carceie, tenebri!, membra corruttibili - qui adoperate da V.. Si considerino, ad est^mpio,  queste parole che Seneca rivolge alla sconsolata madre di Metilio : a ftaec  quae vides ossa cìrcum nobis, nervos et obduciam culetn ruUuìnque et  ministras nianus et cetera quibus involuti sunius, vinnUa miimorum  tenebraeque sicnt; obruitur Jiis animus^ effocatur, injhitar, ttrcetnr a  reris et suis in f(dsa coniectus ; omne itti cum hac carne grave certamen esl^ ne abstrahatur et sidat ; nititur ilio, tende dimìssus est: ibi  illum aeterna requies inanet e confusis crassisque pura ac liqtuda nsentem w (14).   Data adunque questa netta separazione tra il principio spirituale^  divino, immutabile, e il principio materiale, umano, caduco, diss^olubile,  la morte non può essere se non ciò che la definisce Socrate, vale a dire  « la liberazione dell'anima dal corpo, e l'esser morto..., il fai-si da parte  il corpo di per sé liberato^ dall'anima, e lo stare a partt* T anima, liberata dal corpo, di per sé * (15). Infatti, anche per V. la morte è separazione dell' anima dal corpo ; e con ciò egli si contrappone risolutamente ad una delle credenze più diffuse e più tenaci fra il popolo l'omano, il cui persistere - anche dopo il diffondersi della filosoJia - ci ò  rivelato dalle cerimonie dei funerali : e cioè la credenzn che nelle tombe  sopravvivesse insieme coir anima anche il corpo. Quando Didone vede  Enea fuggente sulle navi, così impreca:   Scquar atris ignibus absens;  Et, quum frigida mors anima seduxerit artus,  Omnibus umbra locis adero (16).     Quando la sorella di Giove, addolorata dalla lun^a e straziante  agonia della infelice regina di Cartagine, vuol liberarla da quelle pene,  spedisce Iride,   Quae luctantem animain nexosque resolveret artus (17).   Quando V invidioso Drance insulta il re dei Rutoli, questi gli risponde cosi :   Nunquam animain talem dextra hac - absiste moveri Amittes; habitet tecum, et sit pectore in isto.   E qui mi fermo con gli esempi, perchè sarebbe affatto inutile continuare nella dimostrazione di una cosa che traspira evidentissima da tutti  i poemi virgiliani. Cerchiamo piuttosto di vedere quali conseguenze traesse seco questo dualismo assoluto tra Y anima e il corpo. Siccome F anima è considerata come un principio essenzialmente buono, perchè di  origine divina, e il corpo come principio cattivo, perchè di origine umana,  è naturale che la vita terrestre, la quale risulta dal connubio delP una  coir altro debba essere considerato come un male, e infelicissimo il giorno  della nascita e felice quello della morte.,  e che Marco Aurelio, con accento quasi cristiano, sconsiglierà più tardi  con queste parole: «è proprio dell'uomo amare coloro che lo ofleiiduno;  ciò farai se ti verrà in mente che sono tuoi simili e che fanno il male  per ignoranza e senza volerlo, o che, fra breve, e tu ed essi morrete >> (2H;.  Lo stesso avviene nel drammatico episodio che occupa tutto lo splendido libro quarto. Anche ivi sembra che il suo cuore si sia riscalduto  della più umana delle passioni, per quella dolce e appassionata li^^ura di  donna che è la regina di Cartagine; ma è un /a//o passeggiero. Al primo  avvertimento che gli giunge dagli dèi, egli dimentica come per incanto  tutti i giuramenti d'amore, tutti i benefizi ricfìvuti, tutte le gioie provate,  e se ne va freddo, impassibile, indifTerente ai richiami disperati di Didone,  la cui sventura riusciva a commuovere non soltanto gli dèi pagani (29),  ma strappava le lacrime tanti secoli più tardi persino ad uno dei santi  maggiori della Chiesa, Agostino (30). I critici letterari hanno giudicalo  con severità questa glaciale freddezza di Enea, rimproverando a V.  di essere per tal guisa rimasto inferiore a tutti i poeti che descrissero in  qualche modo le passioni amorose, da Omero ad Apollonio, da CatuUu ad  Ovidio. dall'Ariosto al Tasso, dal Racine al Voltaire. E non a torto:  davanti air onda calda e generosa di passione che erompe dal cuon^ della  regina fenicia, davanti ai benefìci ed alle gentilezze ond' essa avea ricolmo  r uomo che amava. Enea ci appare non soltanto un indifTerente. ma anche un ingrato. V. avrebbe potuto fare di lui un personaggio più  vivo, più simpatico, più umano, pur conservandolo rispettoso verso gli  dèi e obbediente ai loro comandi: la pietà non esclude T amore, i doveri  della religione e della patria non escludono i doveri della riconoscetis'.a  verso chi ci ha beneficato. Quando Mercurio, mandato da Giove, investìsre  (invadit) Enea con i suoi aspri rimproveri, imponendogli di partire Immediatamente per l'Italia, il duca troiano non ha un pentimento, non mia  ribellione, non un rimorso : 1     s   aspectu obmatuit amens,  Àrrectauque horrore comae, et vox faiicibus haesit  Ardet abire fuga, dulcesque relinquere terras,  AttODÌtus tanto monìtu imperioque deorum (3i);   e subito decide di partire, appigliandosi al meno nobile degli spedienti :  la dissimulazione e la Tuga segreta. Ma T innamorata regina presente la  sventura che sta per colpirla {quis f altere i)Ossit aniantemì), e correndo  forsennata tome Baccante per la città, rivolge ad Enea quella sua lunga  apostrofe^ che è un \-\.^vo gioiello di spontaneità e di verità, un capolavoro  di eloquenza caldu e sentita, in cui tutti i moti di un cuore innamorato  si succedono nel modo più naturale. Ci basti riferirne una parte:   Me ne fugisf Per ego has lacriiuas dextramque tuam te,   (Quando aJiud mihi jam miserae nihil ìpsa reliqui   Per cuniiiibia nostra, per inceptos hymenaeos,   Sì bene uuid de te merui, fuit aut tibi (luidquaoi   Diilci,' meiim : miserere domus labentis^ et istam,   Oru, ai qiiis adhuc precibus locus, exne mentem.   Ttì proptur Libycae gentes Nomadumque tyranni   Odere: inftinsi Tyrii; te propter eundem   Exstìnctuà pudor, et, qua sola sidera adibam,   Fama priur; cui me moribundara deseris, hospes?   Hoc solurn noiiiea quoniam de conjuge restat.   Quid moror^ im mea Pygmalion dum moenia frater   Deitniat, aut (-aptam ducat Gaetulus Jarbas?   Saltelli sì '|ua mihi de te suscepta fuisset   Ante fu^am ^itboles; sì quis mihi parvulus aula   Luderel Aeiieas, qui te tameu ore referret,   Nun eqiudein oiunino capta ac deserta viderer (33).   L'arte sublime di V. ci si rivela tutta in questo squarcio imniortak^ di pousìa, che. ;dla distanza di due millenni, ha ancora la virtù  di commuovere (luaisiasi animo gentile. Ma non si commuove Enea: ei  tiene iitiiiioto lo sfjuardo sugli avvisi di Giove, e terminate le fervide parole di Elisa, ris|»onde con glaciale fredde/za, dicendosi memore dei benetìzi rici'vuti, nejj^ando dì aver mai pensato di partire furtivamente (questa  è una bugia!) e di lU'er mai fatto promesse di matrimonio : « se il destino  sofferisso che io vive.ssi secondo il mio talento - egli aggiunge - e compiessi ì miei destini di piena volontà, innanzi tutto onorerei la città di  Troia e le amate ceneri de' miei : le alte case di Priamo rimarrebbero, e  con le mie mani avrei fondata ai vinti troiani una Pergamo risorta. Ma  ora il Grineo Apollo mi nomando di dirigermi alla grande Italia; le sorti  di Licia mi comandarono di pensare all' Italia. Ivi è l'amor mio, ivi la mia     t47   patria {hic amor^ liaec patria est). 8e I*> rocche ili Càrtsigine tratfen^ront^  te Fenicia, e V aspetto di una dttii di Libiti ha per te va\ihe7//A\. ptTchè  dunque tu hai invidia che i Teucri fenriìno le loro sedi sulle fniìtrade  d'Ausonia? Anche a noi è permesso di proracciaroi regni stranieri..,.,  uniscila adunque di conturbare me e te con le tue querimonie: non a  mia voglia vado in traccia d'Italia» (84). V., dt^bbiatu confessarlo,  avrebbe potuto facilmente raddolcire V asprezza eccessiva di queste parole, pur mostrando il suo eroe incrollabile noi proposito di andarsene:  l'arte sua se ne sarebbe di molto avvantairtriatu. Poiché non v'ha una  parola, in tutta la risposta di Knea, cfie non sia un irisulto ai più delicati  sentimenti d'amore: quel rinfacciare a Didone di non aver mai fatta una  promessa di matrimonio; quel ringraziarla freddamente e quasi a malincuore dei benefizi ricevuti; quel ricordarle che, anche ove gli dei non  avessero comandato altrimenti, egli non si sarebbe fei-mato a Cartagine;  la mal celata ironia di quell' accenno alla diversità della loro schiatta e  dei loro gusti; e, infine, la dura imperiosità delle ultime parale, ^embrano tante lame di acciaio con cui il nostro eroe si diverta a trafij^gere il cuore della sventurata regina.   Tuttociò getta sul protagonistfi dell' Knetde una luce supremamente  antipatica, che s' accresce durante 11 seguito dell' episodio, e raggiunge  addirittura il disgusto nell' ultima parte di eii^so. La fiotta troiana, staccatasi nottetempo dalla spia;j^'ia, naviga a piene vele nel mezzo del golfo,  fendendo le onde agitate dall'Aquilone. Dalla riva un bagliore sinistro si  proietta sulle navi fuggenti: è il rogo sul quale abbrucia T infelice rp^  gina di Cartagine. Ma quelle fiamme non dicono nulla al cuore di Enea :  egli non ne imagina nemmeno la causa, e j)rosegue injpassihìle il suo  viaggio, senza che mai un pensiero delT amante abbandonata ven^a a  commovergli l'animo. È bella, è verosimile, è umaiia questa inditrerenzat  No; e di essa fu fatto giustriinrtue rimprovero al iio.stro poeta. «Non si  concepisce affatto - dice il Tissut - la freddezza di Enea ; egli ha inteso  le iìnprecazioni di Bidone, egli ha assistito alla sua disperazione, e le  fiamme del rogo non lo avvertono che la regina di Cartagine sN"' data la  morte. Lungi dall' avere i presentimenti profetici delle passioni^ egli non  sospetta nemmeno ciò che gli animi più indifierenti divinano senza fatica. Che V. non abbia fatto parlare Enea fìavanti a' suoi compagni  in questa circostanza, la riflessione mi spiega questa riserva necessaria :  ma che Enea rimanga inseuBibile allo spettacolo che colpisce i suoi  sguardi, non si riesce a spiegare tanta imlilTerenza. Teme egli per av  ventura di offendere gli dèi iisioltando la voce della pietà t Confessiamolo  senza sotterfugi: il principio di questo libro lascia molto a desiderare,  V. poteva conciliare facihnenti^ il rispetto delle convenienze, gli artifici dovuti al carattere delTeroe, con la pittura dei movimenti naturali.  Euripide, Racine o Fénélon avrebbero detto a un dipresso. - La cansa di   io     148   ceduto incendio è sconosciuta ai Troiani, ma il loro duce comprende  anr*he troppo il fatale mistero; le fiamme che rischiarano l'orizzonte  sono quelle del rogo della regina, egli lo sa, e distoglie da esse il suo  sguardo con un dolore misto di spavento. Tuttavia, dominando se stesso,  rimane silenzioso davanti ai suoi compagni; egli non sembra occupato  che degli ordini di Giove. Ma il suo cuore soffre uno strazio crudele;  malgrado i comandi del re dell' Olimpo, egli si rimprovera la morte di  Dìdone : e, rivolgendo dal profondo dell' animo un addio alla %ittima dell' amore, implora per lei a Venere il soggiorno dei Campi Elisi. Ah, Bidone! se tu avessi potuto leggere nella sua anima prima di ascendere  l'altare del sacrificio, forse avresti consentito a vivere, almeno non  saresti discesa senza qualche consolazione nel regno delle ombre. - Con  queste precauzioni così semplici, si sarebbe anche evitato di lasciar vagare su Enea dei sospetti che contraddicono all'idea che il poeti ha  voluto darci del suo eroe» (ilo).   Ma queste lacune e questi difetti del carattere di Enea, per quanto  giustamente rimproverati dalla crìtica, sono tante prove che avvalorano  il nostro asserto. Se V., poeta vero e grande, artefice insuperabile  di tipi profondamente umani, pittore efficacissimo di sentimenti e di passioni, ha creduto conferire al protagonista del suo maggior poema codesto carattere ascetico e contemplativo, contrario alle esigenze dell'arte,  ciò significa che esso corrisponde ad una particolare ed intima disposizione dell'animo suo. Poiché del personaggio di Enea egli non aveva  inteso di fare una semplice creazione artistica, ma un modello di uomo  virtuoso e perfetto, nel quale fossero rispecchiate tutte quelle virtù che i  suoi concittadini avrebbero dovuto studiarsi di imitare.   Sarebbe inutile seguire Enea in tutte le vicende del suo viaggio  fatale. Solo negli ultimi canti del poema, che sì svolgono sulle terre  italiche, e^li accenna ad acquistare maggior vita ed energia; ma il  fondo del suo carattere rimane sempre il medesimo. Poiché, non è  proprio caratteristico tutto quel suo battagliare e cospargere il Lazio di  stragi e di rovine, e impadronirsi delle terre altrui, per rapire il fidanzato a quella povera Lavinia, che non aveva mai né vista né conosciuta,  e alla quale non rivolge mai né una parola nò un pensiero? Anche a  questo riguardo furon mossi molti rimproveri a V.. Il Voltaire, dopo  aver rilevato come Turno raccolga tutte le simpatie del lettore, a danno  del protagonista, giungeva persino a proporre un rimaneggiamento del  poema, in cui la situazione dei personaggi è affatto mutata, ed Enea, in  luogo di essere il rapitore di Lavinia, né diveiUa il vendicatore (36). Ciò  r avrebbe roso iiidubbianiente più umano e naturale. Questa scialba  figura di asceta più che di soldato, questo spirito contemplativo che non  ama, non s' adira, non si vendica, sembra vivere in un altro mondo ove  tacciano le passioni e lo spirito può liberarsi in tutta la sua purezza;    ma la vita terrena egli la disprezza, e la subisce come un pesante fardello, e anela staccarsene il più presto possibile : «Quale si iiin [augurata  vaghezza di veder la luce hanno quelle sciaurate?» domanda attonito^  vedendo la schiera delle anime che dovranno ritornare nei corpi mortali:  e, questa domanda, in cui si sente alitare un soffio gelido di ascetismo,  ci richiama tosto, alla mente le parole che un altro personaggio platonico  e troppo virtuoso, il Goffredo del Tasso, rivolge ad Ugone, che ^ì\ mostra, fra le sedi dei pii guerrieri, la sua:  Quando ciò Ha .. il mortai laccio   Sciolgasi ormai, se al restar qui m*è impaccio. E veniamo ora al secondo punto, al disprezzo di V. per Taniore  sensuale e la donna. Che V ascetismo, condannando tutto ciò che avvìnce  r anima al corpo e distrae lo spirito dalla contemplazione delle cose  divine, inspirasse agli uomini T orrore più profondo per l'amore dei seirsì.  è cosa che certamente non potrà sembrare strana. Se v' ha una passione  che più affetti il senso, la materia, la carne, e quasi le simholi/ggi in sé  stessa, questa è certamente la passione d' amore, contro coi gli asceti  antichi e moderni lanciarono i fulmini più infocati della loro eloquenza.  Tra questi è naturalmente il 6ommo filosofo ateniese. Egli condanna severamente la voluttà, e dice che essa non pure è malvagia per i mali  che può trar seco, ma è anche riprovevole in sé stessa, ■ perchè ci fa  malamente godere». Egli consiglia a tutti la più rigida castità, e predica  una purezza di costumi che a quei tempi e in quella societtt doveva sembrare, egli stesso lo sente, cosa strana ed impossibile. Tutto ciò si  trova anche nelle opere di V., cominciando dalle stesse BucoHclie,  il cui genere poetico può sembrare per verità il meno adatto alla espressione di tal sorta di dottrine. Nelle Bucoliche V amore è descritto dai  lamenti degli innamorati come una passione cui non è postiibile re  sistere: Omnia vincit umor, et nos cedanios amori (39),   come triste divinità generata nelle più selvaggie contrade, tra le più barbare genti : Nane scio, quid sit Amor; duris in ootibus illum  Aut Tmaros, aut Rhodope, aut cxtromi Garamantes  Nec generis nostri puerum nec sanguinis edunt,      Esso sconvolge iV un sùbito V animo e la mente degli uomini, trascinandoli al delirio ed all'errore:   Ut vidi, ut perii, ut me inalus abstulit error (41),   facendo loro provare le pene più crudeli e riducendoli l^en tosto a completa rovina:  r .Ileu, heu, quam pingui macer est milii taurus in arvo! Idem amor exitium pecori pecorisquo magistro (42),   f   spingendoli da ultimo ai più nefandi delitti, e inducendo persino le madri  a macchiarsi le mani nel sangue dei figli :   Saevus amor docuit gnatorum sanguine matrem  Commaculare manus: crudelis tu quoque mater;  Crudelis mater mai^is, au puor improbus iile? tesso Bahellieo porco  corre precipitoso, ed aguzzò i denti, e scava col piode la terra, frega le  coste ad un albero, e qua e là indura gli omeri alle ferite» (lf>). Lo  stesso dicasi delle puledre, del 9. gennai acre lupò^ti/n atqae cfinuììi*,  delle filynces Bacchi rariao^ dei paurosi cervi, e, intìne, del toro, che  l'agricoltore dovrà tener lontano dalla giovenca, perchè   Carpit... vires paulatim, urit^ue videndo   Femina, nec uemorum patitur mcininissc, n&. herbae.   Ma tutta questa esagerata descrizione degli t^tletti dell'amore sui  bruti, non serve al nostro poeta che come pret*'S4to pt r vt air poscia a  dipingere coi più neri colori le tristi conseguenze die e^sio ha sugli uomini. E infatti, saltando rapidamente dal sabeUica:^ a^m alla i^perìe uLiiana,  egli si domanda :   Quid juveuis, magnurn cui vorsat in ossibas \%m\\\  Durus amor?   La descrizione che precede lascia agevolmente iinsigitmre quale duhba  essere la risposta :   Ncinpo abruptis turbat^i iiroj^llis .  Nocte natat cacca sorui freta; iiucm super ìn^en*  Porta tonat coeli» et scopulia illi^a rcclanuuìt  Aequora; noe aiiscri possunt revocare par^iut^^a,  % Nec nioritura super crudeli fuaere virgo Ctti).   Né Virglio s'è accontentato di descrivere in una maui*!ra cosi gene  rale e, (]uasi diremmo, teorica, i mali e le sciagure cIjl' trae sero l'ardore della carne. Egli ha anclie voluto porre sotto gli occhi de* suoi concittadini un esempio concreto, che servisse loro ^ Ipse ante alios pulcherrimus ouines   Infert se socium Aeneas, atquc agmina jun^it :  Qiuilis ubi bibernain Lyciain Xanthique fluenta  Deserit, ac Delum' maternaui invisìt Apollo,  Instaiiratque clioros, mixtiquc alturia cìrcum  Crctcsque Dryopesque fremunt pictique Agathyrai ;  Ipse jugis Cynthi graditur, molliquo fluentom  Fronde premit crioem fingens, atque implicat auro;  Tela sonant humeris Haud ilio segnior ibat  Aeneas ; tantum egregio decus enitet ore (50).   Del resto, V. ci fa conoscere lo scopo che lo muove in un'altra  maniera, e cioè coi rimproveri che ora questo ora quello dei personaggi  rivolgono ad Enea per la sua effemminatezza. Così Mercurio, il dio alato,  lo chiama da prima servitore di femmine^ poi addirittura pazzo (51);  larba, nella sua preghiera a Giove, lo dipinge come un Paride con corteggio di eunuchi, mitrato alla Meonia il mento e profumata la chioma; e la fama va descrivendo ai popoli i due innamorati in questo  modo :   Nunc hiemem Inter se luxu, quam longa, fovere,  1^ KegQorum immeniores turpique cupidine captos (53).   Ma in Enea, come abbiam veduto, codesto amore è una cosa affatto  superficiale e passeggiera, che sparisce come per incanto al primo avvertimento degli dèi. È in Bidone che esso è causa di irreparabili sciagure. i   ^Plllipi —., u|j.iiiju|,|ij,,j|jppaj||pppp trascinandola prima all'abbandono dei suoi doveri di regina, poi al disonore, e infine al suicidio. Avanti della venuta di Enea, essa ed H suo  popolo non avevano altra cura che la prosperità della nuova patria, e  V. si sofferma di proposito - per far risaltare il contrasto - a d. La  stessa Didone « lieta s' aggirava tra i suoi sudditi, incoraggiando le opere  e il futuro seggio del regno ;.... dava ordini e leggi, distribuiva il lavoro  in giuste parti, e traeva a sorte le fatiche e le opere • (54). Ma al [giungere di Enea sembra che un vento di sventura si riversi sopra cotk-sto  popolo laboVioso e felice. Innamoratasi follemente del duce troiano, Tm/'elix Dido non pensa più che a soddisfare la propria passione ; cosicché  i Cartaginesi, sviati dalle continue feste, privi di direzione e di consiglio,  abbandonano l'impresa iniziata con tanto entusiasmo, e anneghittisroiio  neirozio. Frattanto i nemici rumoreggiano minacciosi ai confini, ed i re \   affricani, delusi nelle loro speranze, si preparano alla vendetta. i   Tutte le pene, tutti i sussulti, tutte le ansie che possono far palpitare \   un cuore di donna follemente innamorata, tutte le febbri che possono scori- \   volgere i suoi sensi eccitati, sono descritte nello splendido libro quarto  con una evidenza e una precisione, che ci rilevano ancora* una voHa in  V. il psicologo finissimo, oltreché l'artista insuperabile; ma le tinte  alquanto cupe ed esagerate ond'egli colorisce la sua descrizione, la catastrofe con la quale finisce, il sèguito fosco che essa ha nei iuycnteìi  campi (campi del pianto), ove la miserrima Dido si dispera ancora tra  quegli infelici   quos durus amor crudeli tabe peredit (55),   tutto ciò ne rivela, sotto l'artista e lo psicologo, Tasceta che vuol ammonire l'umanità a fuggire le lusinghe della carne, descrivendone al vivo i  mali ed i pericoli, il moralista severo che condanna l'amore quando è  pura febbre dei sensi, non patto sancito dalle leggi e dalla religione.  «Prima del matrimonio tu devi serbarti puro il più possibile dai piaceri  corporali i dirà più tardi Epitteto (56) ; e molti secoli prima Platone, riformando nelle sue Leggi la legge reale, condannava il marito che teneva  in sua casa una concubina, «anche quando questa concubina è una  schiavai.   Didone non è moglie, ma soltanto amante, e amante doppiamente  colpevole in quanto ha rotto il pegno di fedeltà giurato al defunto .Sicheo.  É questo il suo unico, il suo imperdonabile errore; ed è appunto il rimorso di violare la giurata fedeltà coniugale, che le dà forza di resistere  fino all'ultimo agli assalti disperati delF amore.   Agnosoo veteris vestigia flainmae.  Sed mibì vel tellus optein prius ima dehiscat,  Vel Pater omnipotens adigat me fulmine ad umbras,  Pallentes umbras Èrebi, noctemque profundam,  Ante, pudor, quam te violo, aut tua jura resolvo (58)*   Ma r impeto della passione e il malanimo di una nemica divinità la  travolgono alfine : nella spelonca ove s' era rifugiata, sola con Enea, per  ripararsi dal temporale suscitato da Giunone, il gran delitto si compie :   lUc dies primus leti primusque malorum  Causa fuit (59);   ed allora, quasi per nascondere ai propri occhi la vergogna dell' aver violato le leggi del pudore, essa cerca di illudere sé stessa, di diminuire U  propria colpa chiamando u matrimonio » il nodo che la unisce ad En^i:   Cooiugium vocat: hoc praetexit uomine culpam fCO)/   Ma questo non è che un inganno di peccatrice conscia di tutta l'enormità del proprio peccato, e da questo momento V. Y ha già giuIflicata e condannata. Solo da ultimo sembra che ei voglia perdonare V infelice regina; ed è precisamente quando ce la descrive nel regno delle  ombre, insensibile ai lamenti e alle proteste di Enea, tutta assorta nel  ricambiare l'amore dello sposo:   Tandeiu corripuit sese, at(iue inimica refugit  Ili nemus umbrìferum; coniux ubi pristinus illi  Rcspondct curis, aequatque Sycliaeus aiiiorem.   (Juesta arcigna severità, questo austero disprezzo per le lusinghe della carne e dei sensi, doveva generare inevitabilmente un sentimento di odio e di avversione per colei che dell'amore è la partecipe  necessaria e la ministra principale: la donna. Lo spirito misogino è infatti  una delle caratteristiche più spiccate della età di maggiore ascetismo;     — w,«-i--r-^   155   dove trovai'e, ad esempio, maggior violenza di invettive contro la donna  che nei Padri della Chiesa e in tutta la letteratura sacra e profana dell' età di mezfo ? Eppure Cristo aveva cercato di dittbndere tra ì suui seguaci un più alto concetto della dignità femminile, e la religione cristiana,  sebbene accusasse Eva del primo peccato, venerava in Maria la salvatrice  del genere umano. Ma era inevitabile che la morale ascetica del cristianesimo, contraddicendo alle stesse sue massime di fratellanza e dì amore,  dovesse condurre all'odio più intransigente contro la donna: «chi predicava - dice il Frati - il distacco assoluto dello spirito umano dalie vanità  terrene, trovava nella donna il più forte ostacolo; poiché in essa sono  rappresentati tAti i più potenti vincoli che legano Tuomo alla vita, e per  essa r uomo commette i maggiori peccati. Chi non conosce la lunga  e roboante apostrofe contro la donna di Giovanni Boccadoro t «i nel yesto  secolo, si discusse a lungo e con tutta serietà se la donna aveva o non  aveva un'anima (4)!   Lo stesso misoginismo noi possiamo trovarlo in quei filosofi pagani^  le cui dottrine spiritualistiche ed ascetiche prepararono nel mondo antico  la vittoria del cristianesimo. Platone mostra di avere della femmina un  concetto non molto diverso da quello dei Padri della Chiesa : vedendo nu  giorno alcune donne che piangevano una loro compagna defunta, esclamò;  u il male s'attrista perchè il male è partito» (5); e nella sua Repntibiica,  volendo tracciare il quadro di un^ scapigliata società denÉOcruiica, ci mostra, come supremo assurdo, lo schiavo che rifiuta obbedienza al padrone  e la moglie che pretende d'essere uguale al marito (tJ). Gli stoici romani  dell'ultimo periodo sono anch'essi molto severi verso la gentile compagna  dell' uomo, e non le risparmiano i più acri rimproveri, u Tania qmmlam  demcnlia lenel - dice Seneca - ul sibi conlumeliu/ìi (ieri puleni ponine  a tnuliere; quid re/eri quam fiabeaìil, quod leclicarim habeniem, quam  oneralas aures, qua?n laxani sellami aeque impiruiìen^ aìiimal est^ et^  nisi scienfia accessil ac malia erudilio, f'eimm^ CHpidifatujìi tnvimliutviò-» (7). Quanto a V., egli si ricongiunge anche per questo lato  a (luelhi corrente ascetica che, originatasi in Grecia coji Socrate e Platone, passando attraverso alle scuole d'Alessandria e allo stoicismo platonizzante dell'impero romano, sbocca da ultimo nel gran mare del misticismo cristiano. La sua avversione per i piaceri della carne e per tutto  ciò che vincola in qualche modo T anima al corpo, non poteva non condurlo al misoginismo; e se in lui cercheremmo invano le apostrofi violenti degli asceti cristiani o l'altero disprezzo di Platone e (Ji Seneca, trovare mo però, e specialmente nell' Eneide, un' inimicizia decisa per colei  che induce l'uomo al peccato.   Dello spirito misogino di V. abbiamo già avuti alcuni recentissimi esempi: vedemmo come egli, mirando ad un fine più alto, ammonisca  r agricoltore a tener lontani i tori dalle giovenche, «poiché la femmina  consuma loro a poco a poco le forze, e li strugge al solo mostrai*si »; vedtimmo come i due soli suicidj che avvengono nell'Eneide siano di donne.  Aggiungiamo ora che così Amata come Bidone sono ^inte al suicidio  per aver sacrilegamente posto ostacolo alle imprese di Enea, volute ed  aiutate dagli dèi; che tanto l'una (jome T altra si uccidono dopo aver  dnto spettacolo di furori spaventevoli, che il poeta ha cura di indicarci  come propri soltanto della donna, chiamandoli wue feniìneae (8) e dimostrando furens quid f emina possit; e che infine, trasgredendo alla  verità storica, egli ha voluto far morire la moglie di Latino d' una morte  pili infame di quella che la tradizione narrava; poiché, secondo Fabio  Pittore, Amata sarebbe morta non col laccio ma d'inedia (10). Altra circostanza che ci pone sotto gli occhi il misoginismo virgiliano, è il fatto  che di tutte le traversie, di tutte le sventure subite dal condottiero dei  Teucri nella sua lunga e dolorosa odissea, è causa diretta o indiretta la  doimii. La leggenda omerica aveva già indicato una femmina, Elena, come  Foiigine prima della rovina di Troia. Seguendo accuratamente la via segnata da questa tradizione, V. fa risalire a femminili ambizioni  insoddisfatte Todio implacabile di Giunone, causa di tutte le sventure di  Enea:   Nec dum etiain causae irarum^ saevique dolores  Exciderant animo; manet alte mente repostum  Judicium Paridis, spraetaeque injuria formae (H);   di più, è una femmina quella Bidone che, avvincendo Enea nelle sottili  ujaglìe d'amore, mette in perìcolo l'impresa d'Italia voluta dai fati; sono  femmine quelle matrone troiane che, eccitate da Iride, urlando e schiamazzando incendiano con tizzoni ardenti la flotta di Enea per impedirgli  di partire dalle contrade sicule:   At matres attonitac iiionstris, actaeque furore   Conclamant, rapiuntqiie focis penetralibus ignem:  Pars spoliant aras, frondcm ac virgulta, faces(iue  Conjiciunt: furit immissis Vulcanus habenis  Transtra per, et remos et pietas abiete puppes (12);     v^^if^Z7;^r^'^r^ ^rr -^^-^ -,-^^y.--^yr^?-T.-> l -» i ^M.y,^..v^.v. i H^ » iuyy4. ' j ! ^gtPU ' «.    157   ed è ancora per colpa di una donna, 1^ fìglia di Latino, che tutto il Lazio  è sconvolto da quella lunga e sanguinosa guerra che occupa tutti i sei  ultimi canti del poema:   Gau8a mali tanti coniux iteram, liospita Teucris,  Externique iteruiu thalami (i3).   Ma vi è un ultimo episodio, assai caratteristico, che ci mostra nel modo  più evidente quale concetto e quale stima avesse il nostro poeta del ^sso  gentile. È T episodio della vergine guerriera Camilla, che armata di tutto  punto, combatte con virile coraggio per la difesa del proprio paese (14).  Nata fra le orride balze e i dumi dei monti solitari, nudrita con lacte  ferino, educata fin da bambina ai più rudi esercizi maschili, a maneggiare il giavellotto e la fionda, ad inseguire le fiere per le selve, la figlia  di Metabo serba l'animo insensibile alle dolci lusinghe dell'amore; « invano molte madri tirrene agognarono averla per nuora», perchè Camilla   sola contenta Diana  Àeternum telorum et virgiaitas amorem  intemerata colit   Ma V. non si lascia convincere da questa apparente virilità di  Camilla. Antifemminista deciso - come oggi si direbbe - egli vuol anzi  dimostrarci che, per quanto virilmente educata, la donna rimane sempre  donna, vale a dire un essere volubile, leggero, amante delle frivolezze e  delle vanità. Poiché è questo il concetto che egU ha della donna, e ce lo  esprime chiarameiile e seccamente in quella breve sentenza:   Varium et mutabile semper  Femina (15),   « la femmina è un essere vario sempre e mutabile »; la qual sentenza ci  appare tanto più ingiustificata e brutale inquantochè è riferita a quelPappassionata Bidone che dimostrò coll'esempio di essere ben più ferma nel  proprio amore dell' uomo che l' avea sedotta. Tornando dunque all' episodio di Camilla, s'aggirava tra le file troiane un tal Cloreo, la cui splendida armatura frigia luccicava da lungi; aveva le gambiere alla barbarica,  la veste purpurea, l'arco e l'elmo d'oro, e teneva annodato con aureo  fermaglio il croceo manto e la giubba di lino. Lo splendore di questo  acconciamento - che il poeta descrive con una ironica minuziosità e uno  sfoggio malizioso di yezzeggiativi che non sfuggi nemmeno ai più antichi  commentatori (16) - attira l'attenzione di Camilla, la quale, quantunque  abituata dal padre a sprezzare i vani adornamenti e a coprirsi di una     1  semplice pelle di tigre, sente iicciMulorsi tutta dal capriccio donnesco, dalla  feraniiuile vjighezza {/emàfeo atnore) di adornarsi di quell'auree vestimenta. Ma fio fu causa duihi sua rovina: che, mentre era tutta intenta  ad inseguire Cloreo, non cunmflosi che di lui e delle sue belle vesti,  Anmte, còlto il destro, le vibra V asta sotto la scoperta mammella e la  ferisce a morte:   Labi tur exanguis; laEniatur frigida leto   Lumina; lairptirous qnùndam color ora reliquit. Vitrtque mm gemitìi fui^lt indignata sub umijras (i7).   Ci si potrebbe obbiettare che il misoginismo virgiliano non è affatto  una coiise^Lieoza dei principi morali del poeta, perchè nella società romana  la donna ora sempre stata coiisidei'ata come un essere inferiore, e tenuta  quasi in Ktato di schiavitù. Ma questo non è se non uno dei tanti pregiudizi che pesano sul popolo romano, e traggono origine da una imperfettissima conoscenza delle sue abitudini, dei suoi costumi, della sua educazione. Chi si limltaase a prendere in esame la legislazione romana,  sarebbe indotto realmente a credere che la condizione della donna doveva  essere assai ini elice; ma cbij lasciando i testi delle leggi, si facesse a studiarne la vita, si accorgerebbe che nella società romana la donna occupava un posto eguale, se non superiore, a quello da essa occupato nella  società tnodenia. lu nessun popolo antico, e meno di tutti nel greco, la  madre di famiglia fu tenuta in maggior stima, più circondata di riguardo  e di venerazione delia matrona romana. Tra le pareti domestiche essa è  veranieute regina, rispettata dal marito, venerata dagli schiavi, dai clienti  e dai iìgli; ba parte neiramunnistrazione del p^atrimonio*e nel governo della  casa, compie i sacrifizi, custodisce l'altare dei lari, le imagini degli antenati  e il tesoro domestieo. Fuori della casa il potere delle donne si va estendendo sempre più; esse avevano il diritto di riunirsi in associazione, e  sotto Eliugaliab giunsero pei^ino a formare un niccolo' senato (senacidum)  con attribuzioni speciuli. È nota a tatti la grande influenza che esse esercì tiu^ono durante tutto T impero: bastava entrare nelle grazie di qualche  donna delFainstocrazia per essere sicuri di fare una brillante carriera;  Seneca stesso ottenne la questm^a per gli intrighi di una sua zia (18).   Ma la corjsuguenza tli gran lunga più importante che trae seco l'opposizione tra r anima e il corpo, tra il princìpio spirituale e il principio  materiale, è la continua preoccupazione della vita futura. Ed è, del resto  cohseguenza naturalissima. Se la vera esistenza non è quella che si conduce quaggiù, ma quella che si vive nelle regioni del sovrasensibile, se la  vita terrena non è che un transito doloroso preliijliante la vita eterna  deiroltretomìKU ove rauiiuti (ìcvt^^ purificarsi di tutte le macchie contratte  neirimmoiidu connubiu dei curpuj l'uomo deve sentirsi continuamente     i5d   oppresso dal pensiero di codesta esistenza oltremondana di dolere o di  beatitudine, e dal desiderio di squarciare i veli che la nascondono :il suo  sguardo. Platone ci offre per primo l'esempio più caratteristico di qnL^sUi  preocoupazione dell'oltretomba^ che trasfusasi molti secoli più tnnlì nel  cristianesimo, alimentò le tetre e spaventose visioni degli asceti delT cU\  di mezzo. In ben quattro luoghi delle opere platoniche il probabili^ st;ìto  delle anime dopo la morte del corpo offre argomento di lunghe rirmbe  al sommo filosofo greco; e in tutti quattro questi luoghi la desrrì/inne  della vita futura, ormeggiando pur sempre le credenze popolari e filosi illclir  più diffuse, è fatta in modo sensibilmente diverso. Il che ci provn am  quale inquieta sollecitudine, con quale ansia non mai soddisfai hi lu  sguardo di Platone cercasse di penetrare i paurosi misteri dolln vita  futura.   I Romani, popolo grave e riflessivo per natura, avevano coni infoiato  assai presto a prestar fede alla persistenza della vita dopo la morto: ti- I   cerone, nelle sue Tusculane, si compiace di constatare che questa crrdenza aveva origini antichissime nella storia di Roma (19). Tuttavìa, sic  come essi credevano da principio che nella tomba persistesse Fani ma in  sìenie col corpo, e che i morti fossero tutti buoni e felici {manes=\*\ìnin),  così il problema della seconda vita non li preoccupava gran fatto. Mm do  poche, per i continui rapporti con l'Egitto, con la Grecia e con FElrurìa,  penetrarono anche in Roma le fosche visioni della fantasia orientale v h'  tragedie di Sofocle e di Euripide da un lato, i testi di Platone dallaltro,  ebbero diffuso le leggende greche del Tartaro e dell'Eliso, la paura rupei*stiziosa degli inferni cominciò a turbare la mente dei Romani. I tnisì  come io le ho esposte, non s'addice ad uomo di mente; ma però rhe o  questo' ó qualcosa di simile succeda delle anime nostre e delle loro di inni e,  poiché mostra che l'anima nostra sia immortale, ciò, mi sembra, s'addire;  e vale il pregio d'arrischiarsi a crederlo; poiché é bello il risiilo,^1  deve con simili credenze fare come l'incantesimo a sé medesimi»,^i)   Questi terrori divennero alla fine tanto intollerabili, che La(i*e/ja  cercò liberarne i suoi concittadini, dimostrando loro che l'anima iinri e  incorruttibile, ma si spegne insieme col corpo, e che quindi niilla ah     160   biamo a temere dopo la morte. Ma se la calda parola del poeta della  natura potè avere, come vedemmo, larga eco nelle anime delle persone  cólte sul finire della repubblica, perdette ogni efficacia collo stabilirsi  deir impero. I tempi di più in più tristi favorivano V ascetismo, religioso, e la preoccupazione della vita futura tornò ad agitare la cupa fantasia di quel popolo di oppressi. Plutarco, che pure aveva combattuto  con tanta copia di argomentazioni la dottrina epicurea sulP annientamento dopo la morte (22), ci ha lasciato una preziosissima testimonianza  degli spaventi superstiziosi che suscitava l'oltretomba in quei primi due  secoli deir èra volgare. « La morte - egli dice - è la fine della vita di  tutti gli uomini, della superstizione non già ; ma passa oltre a' termini  del vivere, facendo più lunga la paura che la vita, e congiungendo c/>n la  morte una imaginazione di mali estremi; ed allorché viene al riposo, si  persuade che ricomincino altri travagli da non aver mai fine. S' aprono  le profondte porte di non so che Plutone dio dell' inferno, e vanno discorrendo fiumi di fuoco, e si distende insieme la corrente, e profonda riviera  di Stige, s'ammassano d'ogni intorno tenebre ripiene di mille e mille  apparizioni dì spiriti, ed anime rappresentatrici di imagini orrende alla  vista, e voci pietose a udirsi, e sonvi molti giudici, e tormentatori e profondi abissi, e caverne colme d'infiniti mali. E cosi la miserabile superstizione che scampò in vita il castigo d' Iddio, non se ne accorgendo si  fabbrica aspettazione di mali inevitabili di morte, ninno dei quali si ritrova nell'empietà» (23}.   Questa preoccupazione dei mali inevitabili di morte, questa triste  fantasia di tormenti e di tormentati, di profondi abissi e di spiriti gementi, ci è facile riscontrarla nei poemi virgiliani, e più di tutto nel  canto sesto dell'Eneide. Noi studieremo nel paragrafo successivo la configurazione deir inferno virgiliano, la distribuzione che vi è fatta dei premi  e dei castighi, l'intento che mosse il poeta a comporre codesto tragico  canto della morte, il modello che gli servi di guida; per ora ci basti  trarre in luce - a prova del nostro asserto - il carattere fosco e terribile  che domina in tutta codesta descrizione.   E invero, V. non è rimasto inferiore al filosofo ateniese ed ai  tragici greci nel descrivere coi più oscuri colori le domos Ditis vacuas et  inanta regna (24) ; e noi non dobbiamo stupirci se il libro sesto dell'Eneide, letto avidamente dai Romani, ebbe per primo effetto di spingerli  a preoccuparsi sempre più dello stato delle anime dopo la morte e servi  più tardi ai Padri della Chiesa per rieccitare nei fedeli il timore dell'inferno (25). Fino dai primi versi, prima ancora che il suo eroe discenda  negli abissi, il nostro poeta comincia ad assumere quel tono cupo che lo  accompagnerà durante tutta la descrizione. Siamo alle grotte del lago  d'Averne, non lungi da Pozzuoli in Campania, in cui la fantasia dei popoli italici riponeva da tempo l'apertura dei regni infernali. Questa ere   li] J Wypm! il ^W ^|>|y)||y^^B^>^   161     denza era diffusissima e durò fino alla completa caduta del paganesimo,  per quanto Lucrezio avesse cercato con ogni sforzo di distruggerla (26).  II luogo è bello e ridente, ma V. lo dipinge in modo ben diverso :   Spelunca alta fuit, vastoque immanis hiatu,  Scrupea, tuta lacii nigro nemorumque tenebris:  Quam super iiaud ullae poterant impune volantes  Tendere iter pennis: talìs sese halitus atris  Faucibus effundens supera ad convexa ferebat (27).   Enea e la sibilla, fatti allontanare i profani, s'inoltrano nella paurosa caverna, non senza che prima la sacerdotessa abbia esortato il compagno a munirsi di tutto il suo coraggio, e che il poeta non si sia rivolto  agli dèi « delle tacite ombre e dei luoghi dove vastamente regna la silenziosa notte », per ottenere il permesso « di palesare le cose sepolte nel  profondo della terra e involte nella caligine ». Giunti sulla soglia deirinferno, i più orrendi mostri si avventano contro i due sotterranei pellegrini: il primo è Orcus, il dio personificante la morte stessa, il dio che  più d'ogni altro empieva di terrori la mente dei Romani. Esso era rappresentato in tutte le forme più spaventose : ora appariva come guerriero  armato che dà al morente il colpo di grazia; ora gira silenziosamente  per i luoghi abitati, picchiando a tutte poj^e ; ora volteggia per Tarla, demone notturno, librandosi sulle immense ali nere (28). Dopo Orcus vengono le personificazioni di tutti gli altri flagelli umani : i pallidi morbi,  la triste vecchiezza, Io spavento, la fame, la povertà, lerribiles oisu farmae; poi la morte, la fatica, le voluttà, le furie, la guerra, e infine la   Discordia demens,  Vipereum orinem vittis innexa cruentis.   E non basta ancora; accanto a queste figure allegoriche, prodotto di  una età più evoluta, V. pone a guardia dell' inferno tutti i mostri  deir antica mitologia omerica, come i Centauri, i Titani, le Gorgoni, le  Ai-pie, r idra di Lerno, horrendwn strìdéns, contro cui invano si slancia  Enea, per trapassarla con la spada. Frattanto sono giunti al tremendo  fiume, al tartareo Acheronte, « simbolo - dice il Preller - di tutti i terrori e di tutte le paure che inspira il mondo sotterraneo, tantoché gli  Etruschi diedero il nome di Acherontica a tutta quella parte della loro  letteratura sacerdotale che tratta delle anime dei morti e del loro culto » (29).  Li trasporta all'altra riva Caronte, il terribile nocchiero noto a tutti i  popoli antichi, spaventosamente pallido ed irsuto :   Portitor lias orreodus aquas et flumina servat  Terribili squalore Charon: cui plurima monto  Canities inculta jacet; stant lumina flamma;  Sordìdu» ex humeris nodo dependet amictus,     ";^f^rjP^-»F!^j ^cuor della notte, in forme sempre strane, gigantesche, paurose : cosi  Tornbra di Creusa appare innanzi agli occhi del marito maggiore della  nota figura (nota major imago); quella dì Sicheo è ingigantita in modo  meraviglioso nel pallido aspetto {ora modis atloltens pallida miris);  quella di Ettore è in forma ancor più paurosa^ e par di sentire un fremito di raccapriccio nella de^s^Tìzione che ne fa Enea : « Eni l' ora in cui  la prima quiete comincia ]>er gli stunclil mortali, e gratissima serpeggia  per dono degli dèi. Quand' ecco il mestissimo Ettore parve mi apparisse  dinanzi, e spargesse largo piantn, stra.scinato come un tempo dai carri,  e lordo di polvere sangui nule uta, e traforato dalle correggi e i piedi rigonfi. Ahimè, com'era ridotto! quanto cangiato da queir Ettore che  tornò vestito delle spoglie d* Achille, o dopo lanciale le Frìgie fiamme  sulle navi dei Greci! Aveva squallida la barba, e i capelli raggrumati  nel sangue, e coperto di ijuelle ferite che innumerevoh ricevette sotto le  paterne mura». Altre volte le Lar%a- dei defunti assumono formo di lugubri uccelli, che vagando nel cupo della notle perseguitano coi loro  urli lamentevoli i miseri mortali. È questo il destino dei morti Etoli, che  riempiono di terrore le ni (4:J).  Poiché sarebbe inconcepitale che una qualsiasi divinità del mare, del  fuoco, della terra o del cielo, fosse pure Hiove o Saturno, avesse T audacia di rompere un giuratjientu l'atto sulla testìnmnianza degli dèi delr inferno :   Cocyti stagna alta vides, Slydamque pahideni,  Di cuius jurare tiiiieat et fallerc niuneii ili di  tutte le altre divinità, poiché il loro cuore è incapace di alcun hentimento  di perdono : I ^1 IJi i pPH  manesque regemque tremendiim,  Nessciaque humanis precibiis. mansuescere corda.     Una delle [n\x terribili tra le divinità infernali che ci sono ricordate  nei poemi virgiliani, è la pallida Tisipfione^ la maggiore delle tre Furie.  Essa risiede ordinariamente nella parte più profonda dell'inferno, in  quel recìnto circondato da tre girbni di mura e dal Flegetonte, in cui  scontano le loro pene i più scellerati tra i peccatori. Ivi, « impugnando  un flagello, con una mano percuote i rei schernendoli, e con la sinistra  aiTUotfindo orridi serpenti, chiama il feroce stuolo delle sorelle » (46).  Perù questa officio è ben lungi dal bastarle ; a quando a quando essa  abbandona i morti regni per precipitarsi sulla terra, a portarvi lo spavento e il dolore: ila squallida Tisifone, sortita alla luce dalle tenebre  dello Stìge. incrudelisce ; essa conduce davanti a sé i morbi e la paura,  i e ogni giorno più alto sorgendo, leva T ingordo capo » (47). Altra terribile   \ divinità infernale è quella che Giove manda a Giuturna, la dea delle sorgenti   e dei fìuniij per annunziarle la morte imminente del fratello : « dicesi  essere diu' maledizioni chiamate Dirne, che la orrida Notte generò ad  un parto con la Tartarea Megera, e V avvinse con uguali serpenti, e  Fanno di ali sventolanti. Queste appaiono innanzi al trono di Giove e  ' ^ sulla soglia de! re tremendo, e incutono spavento ai poveri mortali, se   ' talora il re de^di dèi minaccia morte orribile, e malattie, ed atterrisce   • con guerra cittìi colpevoli » (48). All' apparire dell' orrendo mostro, Giuturna comprende che la propria potenza di dea è resa ormai inutile, e   * Turno noti tt^nta più nemmeno di difendersi dagli assalti di Enea:     Tlle membra novus solvit formidine torpor;  Arrectaeque horrore comae, et vox faucibus haesit.   Ma di gran lunga più terribile e spaventosa di tutte è la pestis  aupera Aleelo^ le cui geste occupano buona parte del libro settimo (49).  Essa am:i y le tristi guerre, le ire, le insidie, i notevoli delitti > ; ed è  tanto orrenda che non soltanto la temono i mortali, ma « tino lo stesso  padre Plutone la odia, fino le sue Tartaree sorelle odiano un tal mostro:  in tanti aspetti si trasmuta, tanto ne è orribile la figura, tanti serpenti  spaventOfsaraente le pullulano intorno ». Il suo genio malefico non ha  contini, e Giunone, che s'è rivolta a lei per far insorgere il Lazio contro Enea, le enumera con compiacenza tutte le arti infernali di cui può  disporre :  ; per scendere « fra le ombre crudeli », a « soffrirvi i inali estremi » (52) ?   Aveva ben ragione il severo poeta della Natura : gli uomini, imagìnando una continuazione della vita oltre la vita, s'erano illusi di risolvere il tormentoso problema della* morte ; ma non avean lat to che rendere ancora più paurosa quella che è la fine naturale ed inevitabile di  ogni organismo vivente.  Se noi ci facciamo a considerare la catena degli avvenimenti  che costituiscono il poema di Enea, potremo accorgerci facilmente che il  libro sesto non ne rappresenta un anello necessario ; la discesa del condottiero troiano neir inferno non è per nulla indispensabile allo svolgimento dell' azione, né la fa procedere di un passo. Anche T episodio dell' amore di Bidone, ad esempio, può sembrare a tutta prima affatto inutile alla trama del poema; ma esso era invece indispensabile per dar  modo al poeta di esporre in forma drammatica e succinta, secondo i più  savi criteri dell'arte, gli antefatti dell'azione. Eppure, il libro sesto è per  avventura uno dei più belli, dei più succosi, dei più finiti che la musa  virgiliana abbia dettato; e lo stesso poeta mostrò di esserne pienamente  soddisfatto, leggendolo come saggio e come primizia all'imperatore ed  a' suoi famigliari, che l'ascoltarono ammirati e commossi. Quale intento  speciale persuase .dunque V. ad innestare al suo poema codesto  splendido canto dei morti e dei nascituri ? Furon molte le ipotesi e le  interpretazioni avanzate a tal proposito dai commentatori d'ogni età e  d' ogni paese, e noi fra breve sottoporremo ad esame alcuna di quelle che  hanno ancora maggior sèguito e possono sembrare più fondate. Prima  però sarà necessario esponiamo brevemente V ipotesi nostra, per dimostrare poi, al confronto dì essa, qujinto abbiano le altre di erroneo o  d' incompleto.   IVr quanto la credenza nella vita futura fosse assai antica e diffusa  tra ì Romani, pur tuttavia essa n^n riuscì ad assumere per codesto popolo - come, in generale, per tutti i popoli antichi - una forma chiara e  ben determinata, se non dopo la vittoria definitiva del cristianesimo.  Prima di questo tempo, le leggende sulla seconda vita avevano un carattere rtuttuante eii incerto, evi assumevano aspetti speciali di età in età,  da individuo ad indivìduo Da principio i Romani credevano che nella  tomba continuassero a vìvere insieme f anima ed il corpo ; e questa credenza, rivelataci dalle cerimonie funebri e dalle iscrizioni delle tombe,  persìstette tino a quando tiiron distìnti neir uomo due elementi opposti,  la cui separazione dà luogo alla morte. Sì credette allora che soprav\ivesse soltanto una parte del corpo, la parte più pura più leggera ed imuiatMÙale. vale a dire T anima, e che tutte le anime si riunissero insieme  nel cenine dt Ha torni. Fino a questo punto, si ora sempre creduto che i  in rei f'^ssoro buoni e puri ('(#t\N' e ttì-ittcs): ma dopAohè. per le vicende  p.V.ìtìche, si feoero più intimi i IciTìnii che univano Roma alFEtruria, i  R^:!ii:ii v'Miìiluciaroiio a cre^lelv al pari do^li Etruschi che i morti fosSfr-> oru ìeli, ma!erì/ì, amatiti dol sui::;ie e delle stragi. Una iscrizione  lar'.riu n.va .i::;e più aiì:>ii.\ reo.i qa-.^stt frase significativa « iiìortum   E n:*n è a credete c':ie, a ii.ar.o a man • ciu- ju-.-ste nuove credenze  a: : ivi:: ^ r.up^:i-::i Isi. le ai.ti.^he sc^iìuwrissvr^ : per quanto assoluta   Ite   mm^^^^T" ' ™i»i"*""^^WHm»wp     "n     «  inerite con t radei ito ri e, essa con ti mi aro no del pari a vivere le une a e evinto  alle altre, generando non poca incertezza e confasione. Cosi acL'auto ai  mane^* si ebbero le tarme etl ì lemure^\ spiriti malici, mostruosi, vendicativi, a placare i rtnali si cele])ravui>o, durante le notti del nove, undici e tredici maggio, speciali «'eriinonie teriebro^^e, descritteci mi untamente da Ovidio (2), Si continuò a versare tazza di sangue tepido e vi*  sceri di animali uccìsi sulle tombe dei morti, ci'ede!ido li amassero, ed  a compiere tutte le altre cerimoiue funebri, clje tlinotavano il persistere  delle primitive superstizioni. Si continuò pnre a cistruire nel centro delle  c*tà il mMndiis, oiifrlnato dalla credenza che le anime dei defunti si  I riunissero nel centro della terra. Era esso una fossa circolare a forma di   cielo rovesciato, il cui fondo era chiuso da una grossa pietra {lapis maj naiis), che si riteneva la porla del regno sutlerraneo. Questa pietra ve niva tolta tre giorni ogni anno (^H a^josto, 5 ottobre e 8 novembre) affin*  che gli spiriti potessero uscire ìiberamentie e vagare per la terra ; quindi  codesti tre giorni eran passati in religiosa contemplazione ed era interrotto  j qualsiasi affare importante di fiimiglia e di Stato (:])* Quandi» alla fine co ' minciaroim a dit!bn Cicerone, come vedemmo, sembra inclinare per la soluzione platonica,   sebbene qualche volta si sottermi con compiacenza sui dogmi aristocratici  di Crisippo; Marco Aurelio è tutto compenetrato dal concetto materiali-, stico del continuo disciogliersi e trasformarsi degli elementi, quantunque   egli pure accenni talvolta ad una esistenza posteriore alla morte (5);  Epitteto non si mostra meno incerto, ora parlando con convinzione della  vita futura e dell'inferno, ora burlandosi delle leggende popolari sul Oocito e l'Acheronte (li). Ma quello che più d' ogni altro appare incerto e  titubante fra le due ipotesi contrarie è, anche in questo caso, Lucio Anneo Seneca, il cui eclettismo molti tra gli storici della filosofia ancora  si ostinano a negare. Seneca è il più prossimo ai tempi di V.,  giacche nacque circa due decenni dopo la morte del poeta ; vai quindi la  pena di esaminare un poco più partitamente quale fosse il pensiero, ..dato  che riusciamo a scuoprirlo) di codesto filosofo intorno alla immortalità  deir anima.   Chi, aprendo a caso il libro Della consolazione a Marcia, s'imbattesse a leggere il capitolo XIX, crederebbe senza dubbio di aver a che  fare con un filosofo rigidamente epicureo. Ecco infatti con quali esortazioni e con quali ragionamenti Seneca cerca di consolare la madre del  defunto Metilio : « E che mai, dunque, ti commove o Marcia? fc^se che  tuo figlio sia morto, o che non sia vissuto più a lungo? Se ti addolori  perchè è morto, avresti dovuto dolerti sempre, poiché sapevi sempre che  doveva morire. Pensa che un morto non è afflitto da alcun male; clie     171   tutte quelle cose che ci rendono spaventoso V inforno ^ono una fiaba ;  che ai morti non sovrastano né tenebre, né carcere, ne fiumi ardenti di  ' fuoco, né acque d'oblio, né tribunali e peccatori, né nuovi tiranni in quella  libertà tanto larga. Con tali favole i poeti si burlarono di noi t? ei  turbarono l'animo con vani terrori. La morte é lo svolt^iniento e la fine  di tutti 1 dolori, più in là della quale i nostri mali non vanno: essa ci  pone in quella tranquillità nella quale giacevamo prima di naiàcere. Se  alcuno sente compassione dei morti, la senta pure di chi non e nato. La  morte non é né un bene né un male, poiché può essere ben.' o male soltanto ciò che è qualche cosa, ma ciò che non é nulla, ed o^'ni cosa riduce  al nulla, non può sottoporci ad alcuna sventura. Intatti 1 mali ed i beni  vertono intorno a qualche materia ; non può essere trattenuto dalla fortuna ciò che venne rilasciato dalla natura, né pUit es^en^ intolice colui  che non è niente. Tuo figlio valicò i confini dentro i quali V uomo serve ;  lo accolse una profonda ed eterna pace ; egli non è più assalito dalla  paura della povertà, nò dalla cura delle ricchezze, ne dygli eeriiamecjti  della libidine, che prende gli animi all' esca del piacere : non è toccato  dalla invidia della felicità altrui, né oppresso dalla sua ; uè le sue pudiche orecchie vengono straziate da parole villane; non vede alcuna  sventura, né pubblica né privata; non pende atfannoso dair evento del  futuro, che sempre inclina al peggio. Infine, egli si fermò là dove nulla  lo scaccia, dove nulla lo spaventa». Ma chi volesse da fiuestu brajio  eloquente trarre la conseguenza che Seneca non credeva atTatLo nella  vita futura, e condivideva a tal riguardo le dottrine scettiche di Epicuro,  si ingannerebbe a partito ; basti infatti considerare fiueste parole che, con  uguale calore di convinzione, egli rivolge all'amint Lucilio: « t'rnne il  ventre di nostra madre ci tiene nove mesi, apparei-chìandoci non a sé  ma al luogo nel quale slam dati alla luce, quando siamo preparati e  capaci di trarre il respiro e crescere, cosi per tutti > il tempo cite corre  dalla fanciullezza alla vecchiaia noi siamo come nel ventre della natura.  Altro nascimento, altro stato ci aspetta : noi non possiamo ancora sofferire il cielo, se non dalla lunga. Tu devi attendere con sicurezza V ora  in cui r anima partirà dal corpo, perocché é l' ultima del corpo non dell' anima Quel giorno che tu temi come ultimo, è nascita e comincia*   mento di vita perpetua. Abbandona dunque l'errore che ti opprime, e  non dubitare » (7). L'opposizione tra questi due brani è tanto grande, che  maggiore non si potrebbe imaginare: ciò che il primo nega, il secondo  afferma. E questo si può riscontrare ad ogni pie sospinto nelle opere del  tragico e filosofo latino, dalle epistole alle consolazioni, dalle operette  morali alle questioni di natura. Io credo che nessnn filosofo, da Talete  ai nostri giorni, si sia mostrato più titubante e più indiù semplice colla interpretazione che   jj noi abbiali! data. L' ingtigno paradossale del Warburton si è acconten ttato di accumulare analogie su analogie, alcune delle quali molto stentate, senza teoer conto delle cundizioni del tempo e dell' ambiente, e  senza nemmeno soffermarsi davanti ad una obbiezione, che pur doveva  r presentargijsi facile alla mente. 1 misteri erano spettacoli religiosi che si   I» compievano nel più assoluto segreto ; a pochissimi era permesso 1' assi stervi, ed anche questi pochi dovevano assogettarsi a lunghe prove preK» p:iratorie e promettere di non rivolar mai nulla di quanto avevano veduto. Ohi avesse osato violare il se2reto dei sacri misteri era ritenuto   empio, e punito mi piti tremendi castighi (11). Noi conosciamo già abbastanza la profondità e la sincerità del sentimento religioso di V.,  il suo rispetto per i voleri degli dèi, la sua scrupolosa timidezza nelF obbedire a tutti i più minuti precetti della religione, per negare reìcisamente che egli avesse pensato a trasgredirli in modo così palese; e questa obbiezione avrebtie ilovuto avere tanto maggior valore per il Warhurlon^ in quanto, secondo la sua stessa interpretazione, V. ha collocato Teseo e Piritoo n^\ più profondo del Tartaro appunto perchè colpevoli di fòsserei hitrusi nei niislen e di averne violato il segreto.   Se il libro quarto dell' Eneide è uno dei più drammatici canti dell' amore che la letteratura antica abbia lasciato, il libro sesto, considerato come Oliera letteraria, è senza dubbio il più bel canto della morte  che sia uscite da fantasia di poeta avanti V immortale visione di Dante  ^ Alighieri. I mistici racconti della Nekya omerica, gli esametri artifìiiosi   dì Apollonio, le pitture esagerate dei^oeti latini della decadenza, non  possono certo competere con la splendida descrizione virgiliana del  viaggio sotterraneo di Enea, Ma il lìt)ro sesto non vuol essere guardato  soltanto sotto il rispetto artistica : come il poeta intese con es6o di indicare lo stato delle anime nella vita d'oltretomba e di far opera più di  moralista e di credente che di letterato, così si deve giudicarlo innanzi  tutto quale complesso di opinioni e di dottrine, quale opera filosofica e  religiosa. E sotto questo riguardo il suo pregio appare molto minore. Già  gli antichi commentatori avevano osservato che T inferno virgiliano, pur  rivelando la profonda sapienza del poeta, appare molto oscuro, confuso,  non condotto sopra un piano ben detìnito; e Servio ci ricorda che molti  eruditi avevano composto trattati speciali, oggi 'perduti, intesi a chiarirne  le difììcoltà e spiegarne le contraddizioni (12). La critica moderna ha i mi wi,m. posto maggiormente in luce questi difetti, giustificandoli col fatto chf? a  V. mancò il tempo di completare e limane il stio poema.   Io non credo che questa sia Y unica causa delle oscurità e delle contraddizioni che si notano nel libro sesto. Se anche il poeta avesse  avuto la ventura di poter dare l'ultima mano airripera sxhì, codesto incertezze sarebbero ugualmente esistite, poiché tragtrono origine più che  tutto dalla diversità dei materiali su cui il libro se.sto ì* costruito. Assai  diversamente da Dante — cui la religione offriva un coniples-so di dogmi  precisi, già entrati nel consentimento univei-snle V. non poteva  attingere con sicurezza né alle credenze dei contemporanei, uè ai dogmi'  della religione nazionale: dacché, come vedemmo, le prime enmo molto  incerte, e la seconda, se pur conosceva gli dei dell' inferno, Orcus, DisPater, Larunda, Mania ecc., non ammetteva in origine una sanzione oltremondana dell'operare umano. E neppure avrei ibo potuto aflìdarsi completamente alla descrizione del regno delle ombre, quale si trovava nel  libro undecimo del poema di Ulisse. Troppo primitivo, troppo semplice,  troppo rimoto dal sentimento dei contemporanei eia T inferno omerico,  per poter servire ad un poeta latino dell'ultimo secolo avanti ("risto. Himanevano le rappresentazioni mitiche della vita futuni che Platone aveva  esposto con tanto splendore di forma nel Gorgia, nel Fedro, nella Ilepubblica e nel Fedone : ma la loro estrema complica'^ione e Je profonde vedute filosofiche sulle quali erano intessute, obbligavano il poeta  a servirsene con molta cautela e soltanto in parte.   V. si vide quindi costretto a mod(^llare il proprio inferno su  tutti questi elementi di origine e di natura diversa, togliendo dalla religione nazionale taluna delle antiche divinità sotterranee, dalla Nekya  omerica alcuni episodi e molti personaggi mitoUf^^^iri, e dai dialoghi platonici la distribuzione generale dell'inferno, il concetto della purìHca/Jone  e della metempsicosi; conformando poi il tutto a quelle idee più generali del Tartaro, dell'Acheronte e dell'Eliso che il teatro e ìa filosofia  greca avevano rese ormai comuni trft i suoi eoncìttatlini. Dobbìanio ora  meravigliarci se il pensiero del poeta non appare sempre limpido, sempre coerente a sé stesso, e se la descrizione i^roef^de alquanto dilagata ed  incerta? Codesti difetti erano una conseguenza naturale del modo onde  il libro sesto era composto ; nò V. avrebbe potuto evitarli, per ;!   quanta cura ed attenzione avesse posto nell' unificare quei disparati materiali. Tuttavia, le incoerenze e le contraddizioni sono più dei particolari  che della disposizione generale, poiché ben definito, corno i'rn. Ijreve vedremo, era il concetto che dirigeva il poeta nel distribuire i premi e le  pene. L'inferno virgiliano si divide in tre regioni: i! Tartaro, F Eliso, e  una regione che per ora chiameremo intermedia, non j^er il luogo che  essa occupa, ma per la condizione delle anime ivi raccolte. Esso è posto     -i^k?:'  nelle viscere della terra, e circondato nove volte dall' Acheronte o Stige  (et novi'es Styx interfasa coèrcet (13) ), il quale a sua volta si getta nel  Cocito (omnem Cocyto eructat arena (14) ). L' Eliso poi è trascorso dal  fiume Eridano, e il Tartaro è circondato dal Piriflegetonte, o semplicemente Flegetonte, fiume di fuoco :   rapidus flainmis ambìt torrentibus amois  Tartareus Phlegethon, torquetqae sonantia saxa.   Come si vede, T idrografia dell' inferno virgiliano, pur ispirandosi a  quelle di Omero e di Platone, è assai diversa da esse e conforme alle  idee non molto definite che se ne aveva ai tempi del poeta. Per Omero  il soggiorno dei morti è posto agli estremi confini del mondo, vale a dire  sulla spiaggia occidentale dell'Oceano, il gran fiume che lambisce tutt"* intorno il disco della terra:   fjépt xal veqpéJLig x8xaX'j|X|iévoi ' où5é zox' aÙTOùg  yjéXtoc cfaéOtov xaxaSépxsxat axxiveoffiv,  oOd-' ÒTióx' àv oxsixTÌ^^ '^pòc oùpavòv daxspóevxa,  oOy 5x' òtv à;^ i%i y*^*^ *'^' oOpaviO-ev iipoxpduTjxat,  dXX' irJ. vOg àXof^ xixaxai fistXorot ^poxorotv;   « in quel luogo è la sede del popolo dei Cinimerj, nascosti nel buio e nella  nebbia. Giammai il sole splendente li guarda dall'alto co' suoi raggi, né  quando trascorre pe'l cielo stellato, nò quando si volge dal cielo vei'so la  terra, ma una triste notte circonda sempre questi popoli infelici». Su codeste spiaggie si alza una rupe smisurata, ai piedi della quale si urtano  tra loro, per gettarsi insieme nell'Acheronte, due fiumi: il Cocito, che è  un ramo dello Stige, e il Piriflegetonte. Il sistema idrografico di Platone  è assai più complesso: al disopra della cavità coperta di nebbie nella quale  vivono gli uomini, si stende una regione di meravigliosa bellezza e splendente di luce purissima; al di sotto di tale cavità si aprono baratri immensi e laghi e stagni percorsi e collegati tra loro da quattro fiumi, Y Oceano, l'Acheronte, lo Stige e il 4Mriflege tonte, i quali si gettano con foce  distinta in un gran foro che trapassa da parte a parte la terra, detto il  Tartaro, quindi, come per un sistema di pompe, risalgono alla superficie,  formando tre di essi i fiumi terrestri, e il quarto, il Flegetonte, le correnti di lava (17). .   V., staccandosi da Omero e da Platone, ha collocato l'apertura  dei regni infernali nelle grotte del lago d'Averne, in Campania; e conciò  ha voluto seguire una credenza assai antica e diffusa tra i popoli italici,  credenza che originatasi dai fenomeni vulcanici frequenti in codesto paese.    persistette lìuo oltre il «luarto secolo deirèra vol^^are (18). In fondo a codeste grotte è il vestibolo di-ir inferno, difeso da vari mostri mitologici,  quali le Seille, le Gorgoni, le Arpie, i Centauri ecc., e da altri mostri  tulti alla tragedia, i (inali non sono se non allegorie o fantasmi dei mali  che precodoiio o segnouo la morte: la vecchiezza, la fatica, la povertà, le  malattie, i piaceri illeciti^ hi guerra, la discordia, lo spavento e il pianto,  Nel mezzo del vestibolo stende i suoi rami e le annose braccia un olmo  smisurato, al quale s'attaccano i vani sogni. Oltre la soglia s'apre la vìa  che conduce al varco d'Acheronte, sulla cui sponda s' accalcano, numerose  come le fo«jflìe che cadono d'autunno, le anime dei defunti: u madri e sposi,  e salme di magnanimi croi, che hanno compiuta la loro vita: faneinlll,  vergini innuptae e giovani posti sui roglii sotto gli occhi dei padri ». Nocchiero è il mitìi'o Caronte, ancora sconosciuto ad Omero, ma che più  tardi divenne assai popolare in Grecia, in Etruria (il C/'Oriui dei sarcolaghi etruschi), e quindi in tutta Italia {19). V. ce Io rappresenta  come un vecchio orribilmente squallido, seti cruda rirùfìsque senectus,  dalla liarba foltn, bianca ed irsut^ì, coperto da un lurido manto annoi lato  sulle spalle. Egli accoglie nella su;t nera barca, per trasportarli nlT ultra  riva soltanto coloro che ebbero sepoltura, respingendo irosumente coi remo  le anime degli insepolti^ che devono attendere cent" anni prima dì essere  accolte. Dall'altra parte dello Stige comincia il vero inferno, che si divide»  come sopra vedemmo, in tre distinte regioni; su codesta spiaggia, tutta  fangosa e coperta di canne, sta sdraiato un altro mostro mitologico, figlio  di Tifaone ed Echidna: Cerbero, il cane dalle tre teste e dalla coda di  drago, che fa rintronare co' suoi latrati il baratro infernale.   La prima delle tre regioni che s'incontra appena varcato io Stige è  quella che denominammo intermedia, e che ora possiamo chiamare sen*  se* altro il limbo, su! principio del quale Minosse giudica le anime dei defunti, determinando a ciascuna il luogo di ^,spia/jone. K qui ci si rivela  sùbito r Intento che mosse V. a descrivere la vita d'oltre sepolcro;  egli si atlretta ad avvertire che in codesta seconda vita i dolori e le gioie  non sontJ distribuite a caso, ma secondo un rigoroso criterio di giustizia:     .rossima allo Htige, é occupata dai bamlnni « cui T immatura moi-te staccr> dal seno della madre e dalia dolce vita», da quelli  che furono ingiustamente condannati [ler talso delitto e dai suicidi. La  seconda è tutta contornata e nascosta da una folta siepe di mirtfj, e si  chiama CamiJO delle Lacrime, nel quale s'aggirano silenziosamente *H|uelU »,).l py l . l l^..    che un amore infelice con cruda morte consunse; gli affanni non li abbandonano nella stessa morte ». Fra costoro, oltre a molti personaggi mitologici, il nostro poeta ci mostra anche T infelice regina di Cartagine, che  davanti alle lacrime di Enea rimane « più insensibile della dura selce o  di un Marpesio macigno». Nell'ultima parte hanno loro sede guerrieri  famosi, che palleggiano ancora le armi e salgono sui carri di battaglia:  Enea vi scorge le ombre dei compagni morti in difesa della patria, dei  Greci uccisi sotto le mura di Troia, e infine lo straziato simulacro di Deifobo, il cui episodio è assai più commovente di quello di Elpenore descritto da Omero (21). Tutte queste ànime che V. ha radunate nella  prima parte del suo inferno, non sono sottoposte a pena alcuna; tuttavia  esse traggono una esistenza supremamente lugubre e monotona in codeste tristi abitazioni, prive di sole e di luce.   Donde ha tolto V. codesto suo concetto di una regione intermedia fra il Tartaro e l'Eliso, tra l'inferno e 1 beati regni? •Questa è la  domanda che si son sempre posta dinanzi i commentatori, senza che alcuno sia mai riuscito a darle una risposta soddisfacente. Delle ipotesi ne  furono avanzate molte. Il Warburton, ad esempio, afferma che Virgiho  non ha inteso descrivere se non la prima parte dei misteri di Eleusi,  nella quale si facevano appunto comparire le anime dei neonati; ma noi  vedemmo già quale valore possa ragionevolmente attribuirsi a codesta  interpretazione. 11 Boissier crede invece che il poeta siasi ispirato a quella  frase della descrizione platonica dell'inferno: t Di coloro che appena nati  morirono, o vissero sol breve tempo, altre cose ne riferì, che ora non è  il caso di ricordare» (t>2): ma a noi sembra molto dubbio il vedere in  codesto rapido e breve accenno T origine del complesso limbo virgiliano.   Ad ogni modo, la questione è di tanta importanza teologica e storica  che merita di essere attentamente considerata. Com'è noto, i teologi cattolici designano colla parola « limbo » la prima parte del regno d' oltretomba, nella quale hanno sede le anime di quei defunti che sono escluse  dalle }?ioie del cielo senza essere condannate ai tormenti dell' inferno; esso  si divide in limbus Patram nel quale si trovano i giusti pagani, e in  ligiìlìits inlanihon nel (juale sono posti i fiinciuUi morti senza aver ricevuto il battesimo. Quanto al limbo dantesco, anch'esso è popolato d'2/ifanti. dì Icmttìine ^ ài n'n\ e posto sul lembo superiore (il prww cerchio  che raffisso ci^//ìc) di queirimmenso imbuto costituito da nove cerchi  digradanti e man mano restringentisi fino al centro della terra, che è Tinlerno di Dante (li\). Ora ^'li storici delle religioni - non certo i teologi  cattolici - sono o^^gimai concordi nel ritenere che la prima idea del limbo  cristiano sia derivaUi appunto da codesta rej:ione intermedia dell'inferno  ili V.: poiciiè c»^sì la parola limbo come il luogo che essa designa,  non solo non si trovano mai accennati da nessuno degli altri scrittori  pagani, ma nemm»'no dai Padri dei primi secoli della Chiesa. ÌFino a    S. Tommaso il soggiorno dei morti non si concepiva che diviso in luogo di  dannazione e luogo di premio, e la voce latina limbus era adoperata per  significare la parte estrema o V orlo di un vestimento, o il lato esteriore  più vicino air estremità di un cerchio o di qualsiasi figura rotonda. Quindi  non si trova alcun accenno al limbo né nella Sacra Scrittura né nei Libri  delle Sentenze di Pietro Lombardo; e la discesa di Cristo a quello che  fu poi il limbo si esprimeva colle parole generiche descendit ad in/eros.  Lo stesso S. Agostino non pone ancora gradazione alcuna fra la felicità e  la dannazione, quindi insegna che i fanciulli morti senza battesimo non  solo sono privati della gloria celeste, ma anche condannati eternamente,  benché sottomessi a minori tormenti: damnatio mitissima et tolerabilior (24).   Per poter risolvere in modo definitivo la questione dell'origine del  limbo virgiliano, noi crediamo si debl)a anzi tutto separarla in due questioni distinte; e cioè, da chi sia stato tratto il nostro poeta a collocare  suir orlo dell' inferno le anime dei fanciulli, degli innocenti condannati,  dei suicidi, delle donne morte per amore e dei guerrieri uccisi in battaglia; quale criterio affatto nuovo nella storia delle religioni antiche  r abbia indotto a privare codeste anime cosi dei supplizi del Tartaro come  delle gioie dell' Eliso. Riguardo al primo problema, un esame attento dell' inferno omerico ci ha fermamente convinti che la collocazione del limbo  virgiliano trae origine da Omero. Quando Ulisse, disceso sulle spiaggie  desolate dei Cimmerj, vuol far apparire davanti a sé le ombre dei defunti, scava una larga fossa vicino alla rupe ai cui piedi s' inabissano il  Cocito e il Flegetonte ; quindi riempie la fossa di miele di acqua di vino  e di farina, chiamando ad alta voce le anime dei trapassati. Non appena  ha terminata la sua invocazione, « ecco sorgere dall' Èrebo le pallide  ombre dei morti :   vùp,(pat x' Y](^so( X8 TcoXóxXTjTof X8 Y^povxs^  iiapd-evtxaC x' àxaXal veoirevd'éa d-up-òv Ixouoat,  'izoXXoi 8' oòxòt'isvot '/jxX%i\pZQ\.'^ éyX^^TÌ^^^»  fivSpe^ àpTjfcpaxot ps^poxcoiiéva xetixe' lyio^'^^Z'  oli nokXoi TCSpl '^ò^po^ àcpo(xft)v àXXoO«v 9X\oz  V807i80tig lax^' ip-i 8è yiXmpò^ déog ijpetv (25).   Queste anime che si presentano prime ad Ulisse, sono duncpie a un  dipresso le stesse che si presentano ad Enea appena entrato nel vero inferno, vale a dire le stesse che popolano il limbo virgiliano : « giovanette  appena maritate, giovani non ancora ammogliati, vecchi che molto hanno  sofferto, vergini ancora acerbe che hanno nell'animo una sciagura recente  (d'amore), e molti guerrieri feriti dalle bronzee lance e uccisi in battaglia  colle armi ancora insanguinate». Omero, com'è noto, non fa distinzione     180   alcuna nel suo inferno tra luogo di castigo e luogo di premio; le anime  dei morti vi si aggirano tutte alla rinfusa, tutte ugualmente addolorate  della loro condizione e rimpiangenti la vita: « Non cercare di consolarmi  della morte, o glorioso Ulisse - esclama Achille; - io amerei piuttosto  servire qualche contadino povero e con scarso alimento, che regnare su  tutti quanti i trapassati » (26). Tuttavia, se le prime ombre che compaiono  ad Ulisse sono appunto quelle dei fanciulli e delle fanciulle, delle donne  morte per amore, dei guerrieri uccisi in battaglia, non è forse naturale  il supporre che esse abbiano la loro sede vicino alla porta delF Èrebo, vale  a dire sul lembo dell'inferno?   Ma la questione del luogo non ha, alla fin fine, che una importanza  relativa. Omero non fa parola della condizione di codeste anime, mentre  V. ha immaginato per esse una maniera speciale dell'esistenza d'oltretomba; è qui che si manifesta l'originalità del pensiero di V., ed  è qui che si appalesa tutta l'estensione del suo intento morale e politico,  col quale soltanto può risolversi la dibattuta questione. Molti critici e  commentatori hanno acerbamente rimproverato il poeta latino per aver  escluso dalle gioie dell'Eliso tutte codeste anime, le quali, per cause nobilissime indipendenti dalla loro volontà, s'erano divelto anzi tempo  dal corpo: « che cosa si può immaginare di più ributtante e di più scandaloso ~ esclama con enfasi il Bayle - del castigo cui sono sottoposte  codeste piccole creature che non hanno ancora commesso alcun peccato,  e della pena di coloro la cui innocenza fu oppressa sotto la calunnia?» (27).  Ma questi rimproveri sono ingiustificati, e traggono origine dall'ignoranza  dell'altissimo fine sociale che animava il poeta. La condizione dei fanciulli e, in generale, dei figli di famiglia, era lungi dall' essere felice presso  il popolo romano, perchè in nessun altro paese del mondo la patria pòtestas era così assoluta e spinta alle sue estreme conseguenze come in  Roma: a nulli alti sunt hmnines - confessa lo stesso Gaio - qui talem  in filios sioos habe^it potestatem qualem nos liabemus » (28). La legge  concedeva al padre un potere assoluto di disposizione sopra i suoi figli,  potere che non cessava se non colla morte; egli era autorizzato ad  esporli, a venderli e persino ad ucciderli. La pratica crudele e snaturata  di esporre i fanciulli era assai diffusa tra i Romani, ed aveva grandemente affievolito nel loro animo i sentimenti della natura e della morale;  si esponevano gli aborti, i bambini malaticci e quelli nati in un giorno  di pubblica sventura {dies ater). Cosi Svetonio ci ricorda che furono  esposti tutti i fanciulli nati nel giorno della morte di Germanico (29).  Quanto al vendere i propri figli, Diocleziano fu il primo a proibirlo con  apposita legge ; e dobbiamo poi venire fino agli imperatori cristiani per  veder trattata di parricidium Y uccisione d' un figlio (30). V. non  poteva non commuoversi davanti a codesta triste condizione di cose, non  poteva non preoccuparsi dell'onta o del danno che ne derivava alla     Pi^^^'1   patria. Pensò quindi che nulla sarebbe stato più efficace a ravvivare i  ?^ enti menti e gli istinti naturali dei genitori, a spingt^rli ad aver cura dei  tigli, del mostrar loro che i fanciulli morti in tenera età non vanno al  Tartaro — che il suo animo giusto e mite non V avrebbe consentito —  ma nemmeno all' Elìso, come potevano su^rgerirgli il suo cuore e la credenza comune, bensì in un luogo intermedio di et».  In tiuutìlo oiFioio che a Radamante attribuisce il poeta, si appalesa ancora  una volta il fine che lo indusse a descrivere la vita futura; il qual fine  si rivela pure nella qualità dei malvagi che ivi sono sottoposti ai più  tremendi castighi.   Ed infatti, non è stato sufficientemente posto in luce come tutte le  colpe pujiite nel Tartaro, sono quelle che si riferiscono al vivere sociale,  ed erano più particolarmente proprie della società romana. I dannati che  V. pone neir abisso infernale si possono dividere - a nostro giudizio  - in sette categorie. La prima è costituita dagli atei, da tutti coloro che  furono irrivrrenti o ribelli agli dèi, sia assaltando V Olimpo, sia arrogandosi onori divini, sia imitando le folgori di Giove. Questi sono tutti eroi  mitologici, che il poeta latino ha tolto in gran parte dair epico greco,  come pure ha imitato da Omero i supplizi a cui codesti rei sono sottoposti (^i^t). Appartengono alla seconda tutti coloro i cui delitti, pur essendo dannosi alla morale e alla società, non cadono sotto la diretta sanzione delle leggi umane: perciò il poeta ha voluto mostrare che tutti  quegli sciagurati che in vita odiarono i loro fratelli, o maltrattarono i  propri genitori, o ordirono frodi ai clienti, o godettero egoisticamente  delle ricchezze accumulate, senza farne parte ai legittimi eredi — e di  questi colpevoli maxima turba est — se in vita non possono essere puniti dagli Uomini, ricevono però dopo morti il giusto castigo dagli dèi. La  terza, p**r contro, e composta da coloro che furono condannati a morte  per adutteiio: ponendoli nel profondo del Tartaro, V. ha inteso        ammonire che codesto crìmine, anche se punito colla più terribile delle  pene umane, non sfugge per questo al massimo dei castighi divini. Viene  quindi la categoria di coloro che non ebbero vergogna di tradire la fede  giurata ai loro padroni, o che suscitarono guerre scellerate e fratricide.  Il ricordo delle guerre civili appena sopite doveva presentare assai numerosa la loro schiera agli occhi del poeta; il quale, accennando in altra  parte dell'Eneide al regno di Plutone, mostra infatti tra essi CatUina  t appiccato ad un rovinoso macigno, tutto tremante all' aspetto delle  Furie » (34). Ai traditori seguono gli empi, tra i quali è Teseo, condannato a rimanere eternamente assiso, e Flegia, che grida senza posa ai  peccatori che lo circondano :   Dibcite justitiain moniti, et non temnere Divos.   Questo ammonimento di Flegia, che provocava i frizzi mordaci di quello  spirito bizzarro che fu Paul Scarron /35), costituisce un' altra delle dif*  fieoltà che i commentatori non hanno mai saputo risolvere: non è perfettamente inutile e fuor di luogo — osservano essi — il gridnre che imparino la giustizia e il rispetto verso gli dèi ad infelici che non possono  più sperare perdono ? Ma quando si voglia riconoscere il Hne che indusse il poeta a descrivere la vita d' oltretomba, si comprenderà lo scopo  di codesto ammonimento, che è rivolto ai cittadini romani non ai dannati senza scampo. Fanno parte della sesta categoria quelli che vendettero la patria a prezzo d' oro, sottoponendola ad una odiosa tirannide, e  quei magistrati e dominatori che trasgredirono alle leggi da essi medesimi pubblicate. L' ultima è costituita dagli incestuosi.   L'Eliso è una vasta e ridente regione, trascorsa da due llumì, T Eridano e il Lete, e tutta a boschetti, valli, colline e verdi praterie; ha costellazioni proprie, un proprio sole che la illumina di purpurea luce e  ditìfonde un più spirabil aere (largior aetlier) per quelle liete cam])agne.  Come nel Tartaro sono puniti i delitti che più nuociono al vivere sociale,  cosi neir Eliso ricevono il premio adeguato quelli che con la loro virtù  recarono maggior vantaggio alla patria e alla società. Già Y oratore arpinate aveva detto nel suo sogno Sogno di Scipione^ che « a tutti coloro  i quali avranno conservata, aiutata e accresciuta la patria è riservato un  posto nel cielo, dove essi trascorrono una esistenza beata ed eterna;  perchè nessuna delle cose terrene è più accetta a Colui che governa tutto  il mondo, di quei consigli e compagnie di uomini ragionevolmente raccolti, che si chiamano nazioni; per la qual cosa i rettori e dìfensari di  esse, dopo morti ritornano in cielo » (36). Ed infatti V. ha riunito  nelle beatas secles gli antichi legislatori, i fondatori di città, quelli che  soffersero ferite combattendo in difesa della patria, i sacerdoti die sei)pero conservarsi casti, coloro che scopersero e insegnarono agli uomini     l-ll'lp"     I le arti e le industrie, i poeti che cantarono la religione, la patria, la   I virtù, e quelli che beneficarono in qualsiasi modo i propri simili, ren P; dendosi degni per tal modo della loro riconoscenza. Essi non hanno una   !* sede fissa neir Eliso, ma s' aggirano per valli e per riviere, raggruppan 'r' dosi secondo le proprie inclinazioni, e - conforme alla credenza degli  antichi - dilettandosi di quelle cose stesse che avevano maggiormente   i amate in vita. Così i poeti si riuniscono a banchettare sull'erba, cantando   •; inni giocondi di vittoria; i guerrieri trascorrono invece il loro tempo tm   f, i carri, le armi ed i cavalli, poiché     qiiae gratia curruum  Armorumque fuit vivis, quae cura nitentes  Pascere equos^ eadeiu sequitur tellure repostos. E qui finisce il vero e proprio inferno, V inferno tradizionale colle  sue gioie e i suoi tormenti, con la sua separazione di puniti e di premiati, con i suoi mostri mitologici, co' suoi personaggi leggendari. Ora  incomincia invece l'inferno filosofico, che non solo è affatto diverso  dal primo, ma che col primo è in assoluta contraddizione. Fino ad ora  noi siamo riusciti a rischiarare tutte le oscurità che rendevano difficile  la lettura di questo canto, richiamandoci costantemente al palese intento  morale che aveva guidato il poeti nell'opera sua; ma giunti a questo  punto dobbiamo confessare che nessuno sforzo di critica sagace varrebbe  a togliere lo stridente dissidio che esiste tra la prima e la seconda parte  del libro sesto, perchè esso deriva appunto da quella disparatezza di fonti  cui più sopra abbiamo accennato.   E infatti, due inferni distinti vi hanno nel libro sesto : il primo, che  il poeta fa percorrere da Enea, è costruito per la maggior parte sulle  leggende popolari della Grecia e di Roma; il secondo, descritto da Anchise ad Enea, è tolto interamente dalle fantasie filosofiche degli Orfici,  di Pitagora e di Platone, ed ha per fondamento le dottrine dell' anima  del mondo, della purificazione e della metempsicosi. In questo secondo inferno le condizioni delle anime sono ben diverse dal primo : dopoché r anima umana  che, come vedemmo, è costituita dalla medesima essenza eterea dell' anima del mondo e della divinità — s'è separata  dal pesante involucro che la imprigionava, essa deve purgarsi di tutte le  macchie e le corporee lordure (corpot^eae pestes) contratte nel suo lungo  connubio colla materia terrena. La purgazione può avvenire in diversi  modi, a seconda della maggiore e minore profondità di codeste macchie,  vale a dire secondo che codeste anime furono più o meno asservite alle  cupidigie e ai piaceri del corpo. Alcune di esse vanno errando qua e là  in balia dei venti, altre sono immerse nell' acqua, altre purificate col  fuoco :  r     ^r     l'il io     %m   *   exercentur poenk, vctenimque malortim  Supplicia expedunt. Aliae panduEitur jnaties  Suspcnsae ad ventos: alìis mh piTfìk vasto  Infectum eluitur scelus, ani exiiritur igni:  Qiiisque suos patimur manes.   Fin qui T imitazione platonica è evidentissima, nò occorre ci ter*  miamo a dimostrarlo, poiché tutte queste dottrint^ si possono trovare largamente esposte nel Fedone nella Repubblica e nel Timeo . Riguardo poi  al quisque suos patimur 7nanes, ì commentatori non sono per anco riusciti a mettersi d' accordo. Alcuni, come il Ladewig, considerano i nianes  come spìriti usciti dal corpo, ancora tutti impressi dei vt^stigi ilella materia e quindi soggetti alle prove dolorose delle catarsi ^18j ; altri intendono per manes le Furie o gli altri minori dèi infernali, esecutori delle  sentenze pronunziate da Minosse, altri infine i maligni fantasmi dei defunti, che sotto la guida della terribile dea Mania tormentano le anime.  Noi crediamo invece che con codesta frase il nostro poeta abbia inteso  alludere al genio o demone particolare, che, secondo la dottrina platonica, ci accompagna durante tutta la vita quale testimonio delle nostre  opere, e durante la morte quale ministro dei castighi divini (39).   Quando adunque, dopo un lun^^o volger dì amil, le anime si sono  lavate dalla macchia congenita fconcretam labem) ed è riUiveJmto puro  il sentimento celeste e la scintilla del semplice fuoco divino (aethermm  sensum atqice aurai Simplicio ignem), dio le chiama tutte intorno a sé,  perchè tornino ad informare nuovi corpi. Prima però esse sono costrette  a bere una certa quantità di acqua del fiume Lete, affine di perdere ogni  ricordo della vita passata ed aver va)=rhej!;za di ritornare sulla terra. Il  fiume Lete scorre in una parte remota dell' Eliso, lungo una stretta valle  (reducta valle) coperta di boschi silenziosi : sulle sponde di esso Enea  scorge infatti una grande moltitudine di popoli e di genti, che diffondono  tutt' intorno un lieve ronzio t come nei prati, ove le api nei giorni sereni  deir estate posano su vari fiori e s' aggirano intorno ai candidi gigli w.  Secondo i miti esposti dal filosofo ateniese neUa visione d' Er di l'ampilla, le anime purificate, prima di bere IVac^na del Lete, dovevano presentarsi dinanzi a Lachesi, una delle tre Moire, figlia della Necessità, la  quale gettava loro dinanzi le sorti delle anime e ogni fatta modelli di  vita. Ciascuna poteva scegliere a suo talento quella che più le piacesse;  cosi r ignoto soldato di Pampilia viena duri cent'anni, avvegnaché questa sia la misura della vita umana  affinchè scontino decupla la pena del lor peccato» (41). V. ha seguito anche in questo il filosofo greco : egli infatti stabilisce cosi la durata della vita oltremondana:   Has oinnes, ubi mille rotam volvere per annos,  Lethaeiitn ad fluvium deus evocat agmine magno :  Scilicet immemores, supera ut convexa revisant  Rupsus, et incipiant in corpora velie reverti.   Però non deve intendersi, come fanno i più, che tutte le anime  siano assogettate a questo lungo periodo di purgazione ; secondo la dottrina platonica, qui seguita da V., alcune di esse, quelle cioè che  uscirono dalla terra incontaminate e pure, senza nulla trar seco delle  nequizie del corpo, sono inviate senz'altro aéreis in canipis latis delr Eliso, ove rimangono poi eternamente. Questo ci sembra il vero e V uriico senso delle parole di Anchise :   per amplum  Mittiuiur Elysium, et pauci laeta arva tenemus; mediante questa interpretazione, che si ricollega strettamente alle dottrine ascetiche esposte qui ed altrove dal poeta, e da esse logicamente  deriva, si risolve una delle maggiori difficoltà dell' inferno filosofico di  V.. E infatti, se tutte indistintamente le anime fossero assoggettate  ud un periodo millenare di purgazione, come potrebbesi spiegare la presenza di Anchise, morto da poco tempo, nelle sedi dei beati?   Ed ora che conosciamo il sistema della vita futura esposto nella seconda parte del libro sesto, ci riuscirà facile il comprendere quanto esso  sia diverso dall'altro esposto nella prima. In quello le ombre dei morti  sono traghettate nell'inferno da Caronte, giudicate da Minosse e assegnate paa-te al Limbo, parte all'Eliso, parte al Tartaro, ove ad ogni delitto corrisponde una pena proporzionata; in questo non esistono né  regni sotterranei, uè fiumi, né nocchieri, uè giudicij né separazioni di  colpevoli maggiori o minori, ma tutte le anime vengono divise in pure  ed impure, e le prime sono inviate al cielo le seconde purgate tielì'aria,  neir acqua o nel fuoco. Nel primo le anima conservano integro il ricordo  della loro esistenza terrena, con tutti gli affetti e gli odi, i sentimenti e  le passioni che le avevano agitate in vita; nel secondo esse non i^einbrano avere né il ricordo dell' esistenza passata, né il presentimento delr esistenza futura, e sfilano indifferenti e silenziose dinanzi ad Enea,  senza nemmeno mostrare di riconoscere il capostipilo della loro schiatta.  Neir inferno tradizionale Y espiazione è eterna, né potrà mai cessare per  quanto sia grande il castigo e sincero il pentimento ; in quello iilosoHcu  la purificazione dura per tutte le anime indistintamente nulle anni, trascorsi i quali esse sono pure e ricominciano una novella esistenza. Quindi  mentre nel primo é posta l'immortalità deiranijna, nel secondo è negata:  poiché ivi non si tratta più di una medesima esistenza che si prolunga  eternamente al di là del sepolcro, ma di una serie di esistenze nuove e  distinte, che ricominciano ogni volta da capo. Avrebbe dun(iue^ potuto il  nostro poeta togliere queste stridenti contraddizioni ? Dissimularle foi^e,  ma farle scomparire del tutto no, per quanta cura, jn^r i[uanta arte, per  quanto studio vi avesse posto. Esse sono, lo ripetiamo, una conseguenza  necessaria del modo onde il libro sesto è stato composto, e si trovavano  nelle credenze medesime dei contemporanei. 1 ijuali dovevano meravigliarsene assai meno di noi, perché ciascuno poteva scoprirle nel fondo  stesso della propria coscienza (42).   Siamo giunti così alla fine del viaggio sotterraneo di Enea e della  sibilla. Le ombre dei futuri eroi di Roma ^mo passate silenziosamente  davanti al figlio d'Anchise, ultima fra tutte T omlira dolorosa del giovine  Marcello. Più nulla ormai rimane da vedere o da conoscere al principe  troiano, quindi i due solitari pellegrini s* avviano per torniire supemun  ad lumen. Due sono le porte dalle quali si può uscire dal soggiorno dvi  defunti: una é tutta di corno, l'altra di candido avorio. Dalla prinia sortono le ombre veritiere, dalla seconda i sstgni tailaci che ingannano i  mortali ; Enea e la sibilla escono per quet' ultima.   Sunt geminae Sommi portae; quiirnm ultera fertur  Cornea, qua veris facilis datar e\itus iiiuiirìs;  Altera candenti perfecta nitens elciilianto;  Sed falsa ad coelum mittunt insoiniiKi nianes.  His ubi tum natum Anchìses una'iuc Sil;yl1am  Prosequitur dictis, portaque emittìt ebiirniu Perchè V. ha fatto uscire il suo eroe dalla porta d'avorio?  Forse per slgniticare che ciò che Enea aveva creduto di vedere non era  che un vano sogno, e che quindi tutto quello che è narrato in questo  libro è una pura finzione ? La maggior parte dei commentatori - quando  non preferiscono tacere, come fanno il Ladewig, il Rota, l'Arcangeli, ecc.  - accettano questa seconda interpretazione, giustificandola con argomenti  più meno ingegnosi. Servio, ad esempio, che è sempre fisso nel suo  concetto della grande sapienza di V., commenta cosi questi versi :  « Phùiologia vero hoc loco habet. Per portani comeam oculi s igni ficantar, qui et cornei sunt coloris, et duriores coeteris membris : nani  frigus non aentiunt : sicut etiam Cicei^o dicit in libris de natura deorum. Per eburneam vero portum os signifhatur a dentibus. Et scimics  quia quae loquimur, falsa esse possunt : ea vero quae videmxis, sine  dubio vera sunt. Ideo Aeneas per eburneam emittitur portam.  Warburton, naturalmente, ritrova in questi versi una nuova conferma  alla sua interpretazione favorita, asserendo che « con la prima porta d' avorio V. vuol esprimere la realtà di una nuova vita futura, e con  la seconda le rappresentazioni enigmatiche che se ne faceva negli spettacoli dei misteri : cosicché le visioni che ebbe Enea erano fallaci non in  quanto fosse falso il dogma della vita futura, ma perchè ciò che egli  vide non avvenne realmente negli inferni, bensì nel tempio di Cerere»   Il P. De la Rue, nel suo diligente commento, afferma senza tanti preamì)oli che « cuin igitur Virgilius Aeneam eburnea porta emittit, indicai  profecto, quidquid a se de ilio inf'eriorum aditu dictum est^ in fabulis  esse numerandum » .   Noi non possiamo ammettere che tale sia realmente il significato riposto di questi ultimi versi. V. era troppo grande artista per chiudere in un modo così meschino il canto più splendido del suo poema  immortale. Ma oltre che poeta sommo, V. era anche un credente  sincero, un caldo patriota, un buon cittadino : questa ci sembra la conclusione più sicura di tutto il nostro studio. Egli non credeva soltanto  alla realtà di una vita oltremondana di premio o di castigo, ma voleva  anche che codesta credenza fosse condivisa dai suoi contemporanei, perchè aveva compreso la grande efficacia morale che poteva esercitare  su di loro. Il libro sesto è insieme T espressione e il prodotto di questi  suoi convincimenti. Quindi le due porte d'uscita vogliono essere riguardate come un semplice ornamento poetico, suggeritogli, qui come altrove,  da una diftusissima tradizione mitologica, contenuta già in questi vei*si  di Omero, che ha quasi letteralmente tradotti:   fio'.al Y^P "f® TtùXai àjisvrjvc5v eIoIv dvefpcav.  ai [lèv Y^p xspdeoot xexsóxaxat, al S'èXé^avxu  x(5v 0^ [lèv x' 6X0-0)0. 5la :ip'.oxoO èXé^avxog,      im     ot il 5tà ^laì^ì* xtpawv iX*(i>3*. ìHpat^t,  Terminata cosi la nostra lunga ricerca, crerìiamo affatto inutile rlafìSurnerne i resultati generali, per stabilire a quale delle scuoio  che allora fiorivano nel mondo romano il nostro poeta siasi maggiormente accostato. Più volte abbiamo avuto ocrasiorte di accennarlo, specie in tiuesl' uUiuia parte dell'opera; né il lettore che ci abbia seguito  pazientemente fin qui avrà desiderio di sentirlo ripetere. Quindi, anziché  dilungarci in un inutìltì e pedestre lavoro di riassunto, stimi amo miglior  cosa chiarire le ultime difficoltà che potessero esser rimaste nella mente  dei lettori, richiamando a tal uopo i punti più importanti della ricerca.   Distrutta da prima la secolare e diftusissima credenx.a che faceva di  V. un timido seguace della scuola epicurea, noi dimostrammo poscia  com' egli si ricolleghi invece a q^4|^ corrente mistica e teologica^ che  nella storia del [^easieru fìlosolico sì^Mtrappone direttamente alla coi~  rentc scientìfica e positiva rappresentata dalF epicureismo (1). E come ai  tempi del nostro poeta era lo stoicismo che raccoglieva sotto le sue insegne gli spiriti più bisognosi di appoggiarsi al sovrauJiaturale. più ligi  al passato, più iedeli alle tradizioni religiose, cosi le dottrine tilosofìche  di V. sono tutte improntate air antica sapienza del Portico.   Ma lo stoicismo romano era ben diverso dal primitivo stoicismo  greco. Emigrando da Atene a Roma, le dottrine di Zenone e di Cleante  s erano protondameiUe trasformate sotto f intìusso del nuovo ambiente  e dei nuovi bisogni spirituali che s' andavano via via maturando nel seno  della società romana. Non il materialismo panteistico dei primi stoici/  non il loro rigido determinismo, non le loro astrusità dialettiche, si bene  i dogmi spiritualistici ed ascetici del grande filosofo ateniese potevano  corrispondere ad un clima storico, nel quale già lampeggiavano i primi  bagliori di quella profonda rivoluzione delie coscienze che fu il cristianesimo. Ed infatti la storia della fìlosotia romana è caratterizzata da un  sempre maggiore sovrapporsi del pensiero platonico sul tronco delle dottrine stoiche, che timido ancora in Posidonio e in Panezio^ diventa poi  evidentissimo in Seneca, in Epitteto, in Marco Aurelio.   V., di poco anteriore a Seneca e vissuta quando era ancor viva  nel mondo romano V ammirazione per ì libri di Parje:vrapparsi cosi  completamente all'antica religione romana, da cancellare quei caratteri      particolari, che le derivavano dalla natura stessa dei popoli onde aveva  avuto l'origine. E codesti caratteri sono ancora più manifesti in V.,  spirito essenzialmente romano, educato e vissuto nelle gloriose memorie  del passato, al culto delle quali voleva anche ricondurre i suoi concittadini.   Sembrerà per avventura a taluni che noi abbiamo esagerato non  poco neir attribuire a V. una fede sincera ed oggettiva in quei presagi divini, in quei miti ingenui, in quelle divinità chimeriche, in quelle  apparizioni notturne di defunti, che hanno tanta parte nei poemi virgiliani. «Il macchinario mitologico dell'Eneide — ci osser%'ava Gaetano  Negri — è cosi artifizioso e così voluto, che mi pare proprio impossibile  il vedervi l' esposizione di una fede vera. Il Manzoni sì negli Inni sacri   C~ crede davvero a quello che dice, V. mi pare un credente in man canza di meglio. E il meglio non doveva spuntare se non quel giorno in  nix Y uomo cominciasse a comprendere che la spiegazione della natura  non sta nel sovrannaturale, ma, bensì, nella natura stessa, e sapesse  dare a tale idea uno svolgimento razionale; cosa che Epicuro, il quale  ne aveva avuto il presentimento, non poteva fare, e che non divenne possibile se non quando si abbandonò il concetto geo e antropocentrico dell' universo > (3).   A questa obbiezione noi abbiamo già risposto, laddove dimostrammo  i come V. fosse uno spirito essenzialmente, profondamente religioso,   e come le prime impressioni della sua giovinezza, Y educazione ricevuta,  la vita trascorsa fra le ingenue popolazioni dei campi, le quali conservavano integro il patrimonio dell' antica religione, tutto insomma dovesse  contribuire a fare di lui un credente sincero nei miti del paganesimo. La  nostra coscienza di uomini moderni, educata al metodo severo della critica, resa scettica da venti secoli di vittorie scientifiche, si ribella a credere che codeste favole, sempre assurde e spesso immorali, potessero acCDj4liei*e anche per un istante il consenso dei più. Ma noi dobbiamo  astrarre da ogni sentimento nostro per trasportarci col pensiero a codeste  ct:*i di profonda ignoranza, quando la scienza, ristretta a poche verità  malcerte, doveva abbandonare una parte immensa dell' inesplorata natura  ailMmpero di potenze sovrannaturali. In questo modo soltanto riusciremo  a romprendere come il nostro poeta potesse credere in Giano bifronte,  nelle Ninfe sorelle, nelle ire di Giunone, nelle folgori di Giove, nei presugi divini, nella scienza augurale, e in queir insieme di leggende, di formule, di riti e di superstizioni, che, per qualche secolo ancora, doveva  appagare pienamente gli istinti superstiziosi delle popolazioni italiche.   Poiché non dobbiamo dimenticare che presso nessun popolo, in nessun  pnese le tradizioni religiose erano conservate con maggior tenacia e circon(liite di maggior venerazione che in Roma. Si continuavano a cantare gli  antichi inni sacri [ad es. i Saliorum carmina) anche quando erano divenuti     '\^r ^ ^ • ^ -- ^ » -^.'?-f^»f»5r'pi«^5« •^-^r^r;yvfT^ ^v ' -^ ' T »' v^^>^r/Jt^j era  questo il dilemma che, nella sua rude franchezza, il popolo romano sembrava aver gittate in faccia ai filosofi greci quand' essi, piena la niente  di speculazioni ardite, avevano abbandonato le spiagge ormai deserto del  Pireo per risalire le bionde correnti del Tevere. La scuola d' Epicuro,  fedele alle dottrine del maestro, aveva continuato a combattere la ^super  stizione ; ed era sparita. La scuola del Portico invece, animala da nn  singolare ardore di proselitismo, più affine nel suo panteismo naturalistico alle religioni popolari, potè non solo accordarsi con esse, ma rafforzarle anche nella loro debolezza senile con una apparenza di ^n untiticazione scientifica; e divenne la filosofia officiale del mondo romano. 11  dio rotondo di Cleante, l'anima dell'universo, il fuoco artista (tgnis artificiosus) fu per tal guisa il Giove pagano o principio della vita: Cerere  una parte del fuoco divino penetrata nella terra; Nettuno una parie penetrata nel mare, e cosi via via. Le leggende assurde o immorali della  mitologia furono spiegate e giustificate con allegorie fìsiche, e la divinazione, gli oracoli, gli auspici, legittimati con ogni sorta di argomentazioni  filosofiche (5).   Ma se l'accordo era possibile e facile tra i princìpi fondamentali  dello Stoa e i dogmi più vetusti della religione romana, non era così per  quelle dottrine platoniche che vedemmo penetrare in larga vena nello  stoicismo romano; poiché se esse non s'opponevano direttamente alle  credenze popolari, rappresentavano però uno stadio ben più evoluto del  sentimento religioso. Infatti, mentre nella religione romana la divinità è  conc+'pita come una potenza cieca ed inclemente che si deve placare coi  sacrifici, la teologia platonica invece è tutta compenetrata del concetto,  che tu poi cristiano, dell' origine divina dell'anima, e della giustizia di  dm ; per tal modo la religione non consiste già nel placare i sognati furori celesti, ma nel purificare l'anima mediante la mortificazione del  corpo, e nel soddisfare alle esigenze di codesta personificazione oltre-mondana della giustizia. Non era dunque possibile che questi concetti  tanto disparati avessero a conciliarsi fra loro, perchè una conciliazione  non sarebbe avveimta che col sacrificio di ciò che di più intimo e di più  t aralteristico aveva l' antica religione. E come d' altro canto il naturale  pro^^edire dei tempi aveva aperto le coscienze dei più ai nuovi orizzonti  spirituali, cosi la religione filosofica e la religione popolare, quasi formazioni psicologiche indipendenti, seguitarono a coesistere V una accanto  air altra neir animo dei Romani, fino a che il cristianesimo trionfante  non ebbe distrutto ogni rudere del passato pagano.   Questo fatto, per quanto possa sembrare strano, non deve tuttavia  meravigliarci. La psiche umana è un' unità naturale, in cui le produzioni  veccliie persistono lungamente accanto alle nuove, sebbene fra loro repugnanti, per il grado maggiore di resistenza acquistato dalle prime: essa  quindi presenta sempre, in qualsiasi momento della sua storia, quella  molteplicità varia e discorde degli elementi costitutivi che si può riscontrare in tutte le altre unità naturali. Ma è nei popoli eminentemente conservatori, quale fu il romano, è nei momenti in cui si stanno maturando  le più grandi rivoluzioni morali e religiose, quale fu il cristianesimo, che  la coscienza umana accoglie in sé stessa maggior contrasto di sentimenti  e di idee : e V., che appartenne a quel popolo e visse in quel momento, ce n'ha offerto un esempio in massimo grado suggestivo. Nell'aiiimo suo l'antica religione degli avi e le correnti nuove del pensiero filosofico — che contenevano in germe la religione dei nepoti — occupano  un posto nettamente separato, né sarebbe possibile riempire V abisso profondu che le divide. Come conciliare, ad esempio, le mille potenze del  suo politeismo antropomorfico, col dio unico ed incorporeo che chiama  le anime dei puri alle sponde del fiume Lete? e i commerci impudichi p^ ^^m    degli dèi con 0ì iioniinì. le toro ire, le loro vendette, col concetto altÌBsiiììo di una divinità infinitamente buona e perfetta i e le imprecazioni  afjli dèi perchè riversino ogni male sui propri nemici, col pietoso conipianto per gli stessi neinicì caduti in hattaglia? e la pratica scrupolosa  del sacrifìcio, col concetto della divinità giusta che premia i buoni e punisce i malvagi ? e le frei|uenti alter mozioni della implacabilità degli dèi,  col concetto della sanzione oltremondana dell' operare umano?   Sono due mondi, due ten^^-ì-n\^' -r»-*^ •^ y^.v ; yvT^.y "^'^'y'''^,^g"y L !  r ^isroTE m«cu/., I, 27, e II.   (2) TuscuL, I, 30.   (3) Catone, che è il personaggio del dialogo, parla qui dì suo tiglio; ma è manifesto che Cicerone, facendolo parlare cosi, pensava alla propria figlia defunta. Il frammento del 1. IV de fìepvòlica conservato da Macrobio. Orazio, Carmina: Nobilis libros Panaetì, Epist- 117. Sul materialismo degli stoici, vedasi: C. A. Brolén, De philosophìa  L. i4. Senecae, Upsaliae, 1880, p. 46 e sogg.; e anche F. Lange, Hisioire du maleiia'  lisine, Paris, 1879.   (7) Ho voluto riportare le parole del Trezza, perchè mi parve che assai difficilmente io avrei potuto riassumere in cosi poche parole, e con tanta chiarezza e fedeltà,  tutto il succo del pensiero platonico. Pel resto ci siamo serviti deli* opera notissima  del Fouillée (Paris, 1869) e dei Manuali dello Zeller, dell' Ueberweg (Gi'undriss der  Geschkhte der Philosophie, Berlin 1882) e di FIORENTINO (vedasi) (Napoli  li Negri ha rilevato, con l'abituale acutezza, le profonde contraddizioni che  esistono nel pensiero di Marco Aurelio ANTONINO (vedasi).  Quanto a Cornuto, Musoriio Rufo, Seneca ed Epitteto abbiamo intenzione di dimostrarlo  per disteso in uno studio cui stiamo da tempo meditando. De brevitate vitae, C. X. Ad Gallionem de vita beata, C XVil.   (U) Cfr. Epist., XVU, ex,(12) Epist. ecc.Tutti i discepoli di cui ci fu conservata memoria, quali Lucilio, Sereno, Nerone, ecc. appartenevano alla nobiltà.   (14) Epist. V; de tranq, animi, XVII, ecc. De vita beata Lo Zeller sostiene che Seneca non fu eclettico, ma soltanto si spinse fino agli  estremi confini dello stoicismo, senza però varcarli [Phil ite?- Griech,, III, 1, p. 628).  A noi sembra che questa volta il genialissimo storico della filosofia sia caduto in un  grave errore, il che apparirà dal seguito della nostra dimostrazione, e ancor meglio  da quel no^stro studio sugli stoici platoni zzanti, che più sopra abbiamo preannunziato.  Riguardo alla filosofia di Seneca, oltre al Brolén già citato, si confronti: Holzherr Der philosoph L. ^, Seneca, Rastatt, 1880; Burgnìann - Senecas Theologlae in ihrem  Verhalinss zum Stoicismus und zum Christenthum, Berlin, 1872; Schmidt - Essai  historiqìie sur la societé civile dans le mond Bomain et sur sa transformation     -T^     jr par le  II, VII, V, ecc. Quaest. nat,, proL 13 e II, 45; De benef, IV, 7 e VI, 23; De ot, V; Epist.  1, 3; 49, 41; ad Helv. Vili; IX; XX, ecc.   m) De benef, IV, 2; Epist,  ecc.   m) Ad Helv. X; de vita b. II; ad Marc. XVI; de Benef V, 16; IV, 26; II, 30;  Epht- ecc. Il Buri^mann, in op. cit, p. 43,  non credo che Seneca si sia allontanato dalla dottrina stoica riguardo alla nAura  dulia divinità; ma è opinione insostenibile.  Cons, ad Ilelviam, VII! Del resto, l'eclettismo di Seneca si può desumere  dallo sue stesse dichiarazioni: poiché ora si proclama rigido seguace de^H stoici  {EpiM. 8i), 1), e loda le loro dottrine (ad Helv. XII; de Geni, li; de olio I),  ora invece dice di non consentire in tutto alle loro teorie (Epist. 80; 33; ecc.; de Olio  mp^ III; de vita b. IH; Brev. vit. XIV ecc.), che in parecchi luoghi combatte aperlamente (Epist. 59, 7; 83, 8; 85, 1; 113; 117, 6; ecc.).Repubblica, lib. X.   (2) / ricordi. II, 17; V, 23;  Eneide, Georg. Seneca dice : omne futurum incertum est et ad deteriora  cerlius. Ad Marc. Eglog. Ecco la traduzione di questo passo, che può offrire qualche  tliflinjlt-i d'interpretazione: «0 Dafni, innesta ì peri; i tuoi nepoti ne raccogliepaniio  le frutta. Tutto la età si porta, persino la memoria (animum quoque) ; mi ricorda  oh*^ fanciullo io cantava spesso, finché i lunghi soli tramontassero. Ora tante canzoni dimenticai; la voce essa pure si dileguò da Meri: i lupi lo videro primi t. Alludesi qui all' intercalare comune, per cui dicesi che si perde la voce quando i lupi  vedono noi prima che ce ne accorgiamo. Georg De brevitate vitaé Georg. I versi surriferiti sono riportati da Seneca nel C. IX; il brano che qui citiamo è tolto invece dal capitolo successivo- Wp=^'^'•-•it-'sr.-^c:. En, ; si cfr. V Apologia di Socrate, ove Piatone esprime l'identico pensiero.   (li) En. VI, 730-734.Fedone, VI. Avvertiamo fin d'ora che per le opere platoniche ci serviamo  della traduzione del Bonghi (Roma, Bocca).  Fcd., Ad Marciam, XXIY; ed anche Episi. 65, i2; ecc. Fed., En., IV, 384-386. 1 Romani erano tanto formalisti, che continuavano a ripetere le antiche formule e seguire gli autichi riti, anche quando non fossero pia conformi alle loro nuove opinioni. V. ce ne offre un esempio caratteristico: sebbene  egli non presti più fede all'antica credenza che faceva sussistere nel sepolcro l'anima  e il corpo uniti, tuttavia, descrivendo i funerali di Polidoro, ha questa espressione:  animamqiie sepulcro comjiimus, che si riferisce appunto all' antica credenza,  ed è in piena contraddizione con le sue dottrine sulla vita futura.En. En. De brevitate vitae En. Vi, 719-721.   (21) Gaetano Negri - Rumori mondani, Milano, 1894, il saggio: « 11 Fedone e  l'immortalità dell' anima Havet Da queste considerazioni noi escludiamo, naturalmente, la poesia filosofica vera e propria, quale, ad esempio, quella di Lucrezio.   (23) Cfr. Malfilatre - Le gènte de V,, Paris, Tissot - ludes sur Virgile, compare avec tous les poètes épiques et dramatiques  des anciens et dts modemes, Bruxelles 1826, Voi. I, specie a pag. XCIX e segg.  Boissier - op cu. Voi. I p. 220-262.   (24) En. IPer maggiore brevità d'ora innanzi verrò citando, riguardo  al carattere di Enea, solo quei passi non altrove riportati. Fedone (trad. Meini, Roma Fedone En. II, 575-588.   (28) / Ricordi  En. Agostino - Le confessioni Tissot En.  /6irf.,Tissot - Ètudes sur V. Cfr. Essai sur le poème épique Tasso - Gerus. Havet  Eglog. X, 69.   (40) Eglog.  Eglog. HI, 100-101.     200   Eglog. Vili, 47-50.   (44) En. IV, 412,   (45) Georg. Ili, 242-2U.  ItM, En,  En.  : ille Paris, cum semiviro comitatu - Maeonia merUum mitra  crinemque madentem - Subnixus /élrf., 193-194.   (54) En. En. VI, 442.   (56) Epìtteto – Manuale Havet En. En..  Lodovico Frati - La donna italiana, Torino Joau Chrys. - Ser in decollai. S. Jo. Bapt.   (3) Orig. in Math.   (4) Traggo queste notizie da un libro di P. Viazzi - La lotta di sesso, Palermo Frati, op. cit, C. VIII.  CICERONE (vedasi) traduce questo passo nella sua Republica De const' sapientis, C XIV.   (8) En. ; per la descrizione dei furori di Amata cfr. ibid^ 357-378;   (9) En. Dice l'Heyne, voi. Ili, p. 173; * Hanc adeo mor lem praetuUt poeta historiarum fidei, qua apud Seimum Fablus Piclor, Amata inedia se interemisse tradiderat t.   (11) En. 1,25-28.   (12) En. En. En. En. Dice infatti THeyne, III, p. 619: « liene autem Servius: - sane armorum  longa descriptio eo special, ut in eorum vupididatem merito Camilla videatur esse  succensa. - Sciiicet elsi virili animi femirui, tamen a cultu et omalu intactam  mentem non habuit.     L.  rT,-V^-yy^^,è77T'-^,yy^^r:^^7y;?V^y^^En. XI, 8ia-819. i   (18) Cons. ad Helv, XIX. Per la condizione della donna a Roma vedansi: 6. Bois- 5  sior, op, ciLj Voi. II, p. 192-239; Gide - Étude sur la condition de la femme, Paris, :i  p. 98 e segg.; Marquardt - La vie privée des Romains, Paris, 1892, Voi. I, C. I e II. ^1 CICERONE (vedasi) Tusculane Plauto - Captivi Fedone (trad. Bonghi) In Opuscoli morali, il trattato: Non poleì'si vivere felicemente secondo Epicuro, (trad. M. Adriani, Firenze In Op, mor,, il trattato sulla Superstizione En. AMBROGIO (vedasi), De Sancto Sptr, II, 5, 36. Quanto alla impressione destata fra i Romani dal 1. VI, vedasi Boissier De re^\ nat„  En. . I versi che veniamo citando in seguito, sono tolti dallo   stesso libro Preller, op. cit. P. VII. C. I.    Preller, ibid, ; si vedano anche ivi le notizie su Caronte. En En, X, 641-642.   (33) En. 11,268 e segg. Circa la credenza neirapparizione dei morti, diffusissima '  in tutto il mondo antico, si cfr. Friedlaender, op, cit. v. Ili, p. 640 e segg.; e CICERONE (vedasi), Tusc. En.  En. En..En.  En. V, 721-740.   ^40) Orelli - Inscript. lai. amplissima collectio Corpus inscript lat. (pubbl. dall'Accademia di Berlino) Voi. II, n. 4429.   (42) En.  En. .   (44» En. VI, 323-324. Si abbia presente che per V. il vocabolo numen significa sempre potenza divina; vedasi a tal proposito il diligentissimo studio di R.  Dietsch, Theologumenon Virgilianorum particula, off, Grim. 1853, p. 3-12.   (45) Georg. IV, 469-470. Riguardo all' implacabilità degli dèi infernali, vedasi  ancora ihid. 505; En. VI, 370-376.   ^46) En. VI, 570-573.    L, VII, lo7 - 4 Xp'bL^Tt'JC 54 "càg tttiv a^i^rijv (/J^'jxàs) |idv5V (litt8Lat|iéviiV   titxpì -rfje ixwjp(;>aE(tì^)i, Per la rinesti^me pncrale, vedasi Ogereau, p OH e seg^4,   (5Ì Cfr Negri, op. ciL p- I2i, ovo si dinn>strit che il lìoiKctto doli' iminurtal ita  deir anima sembra assente dal pensiero di Man'o Aurelio- Si consideri però ^[ue^sta  frase dei Fiicordi, IV, 14: * 'EvuTiéaTT^; «g lispag. ^RvaqpavtaH^a'g xtp x^^^^ì'^^^ jidtUttìv   (tì) EpicL fimer^. li, 6; HI, i:).   (7) Ep'tsL C. II. Tutta «luesta lunga lettera è aiia fervida diaiostranìoiic della  immortalità dell anima. Epist En. VI, 852-85^. A proposito del carattrre i^enerale del popolo ronjano e  della letteratura latina, vedasi : G. Michant, /.f? genie latin, Paris, 1900, p. 9-62.  Cosi il Brurietiòre, nel (luinto volume dei suoi EHules crUh/ues definisce come so^  date la letteratura francese (10) Cfr Mallilatre, U gmk de Virgik, Parigi,  : e Warbiirton, The dinne legalion of }foses ecc* Londra, !7'iH-176.^, Voi. II  parte 4,   tll) Ed infatti, ora tanto il ti moro di erodesti  va*^he notizie ci giunsero circa le cerimonie che s  in Porfirio, fk antro Ni/rnpharum, C. 6, 20(12) Nel proemio al L VI ; ed. Venezia Gfiorg  En. VI, 4;{n* Sali" idrografia dell" inferno vìrsjiMano molto  disputarono i commentatori, fra cui ii Cerdanus, il Ruaens, l' lleyne e A. Jario  Viaggio di Enea all' In fé?- no e agli Eli»i secondo V.,' Napoli, 1831; la conclusione più coiunnc è die dal T Acheronte derivi lo Stige a da questo il Cogito; ma  uno studio attento ci jiersiiase ohe Acheronte e Stille sono per V. una stessa  eoaa  En. Fldd. 5.H0-551,Odiss, Ft^dom, LIX - LX - LXI ; cfr anchi.^  op, di.  LIVIO (vedasi) Lucrezia», /> rer- naL Vi, 7V0;  script NtapoL, Kruger - Charnn undThanatos, Ciiarlottenhurg En^ VI 431^433.   (21) Odiss.lìoissier, op. dU voL 1, p* 289. nota; lìepnJM. trad. Ferrai- castighi, elle pochissime ed assai  n compievano nei misteri. Si veda     il limpido riassunto fattone dal Negri,  MoHimaen, /n   fe.    i.Ma j m ^ mmmmmff^  Cfr. r opera dottisiiima del P, Bottagisio - il Limbo daiUesco, Padovii^ S^ Asost. - Ep. 18tì, 27,   (25) Odiss. XI, 38-43- Questi versi sono [*ogtÌ tra parenUiit nelle edizioni crìtiche, perchè ritenuti di funiiazione posteriore, come in generale tutti i ]uoy;lii in cui  é accenna ad una sanzione oitremoDdana dell' operare umano, i quali Sìuao da attribuirsi alla poesia teosofica e teologica- Ad o^^ni modo, l'aggiunta non è posteriore  ai sec. V a. C, quindi rimane il valore della nostra alferuiazione. Cfr- la lettera del  Luechesini al Mìcalì Sopra alcuni luoghi deli' Odis^ìm che si credono spuni,  mìV Antologia del Vieusseux, t YIU, ; e Coinparetti - Die Strafe  des Tanialus navh Pimiar in Pkìhlogm, voL XXX IL disp. %, n- Od'm. 487- V91.   (27) Cfr MaUllatrc,  Gai US - lìulii^ I, 53. Svetonio - Cai-, 5.   f30) Cfr. 1* Marquardt - Iji vie privée des Bomaineàj Paria, Eepuò, p. 497; Gorgia p- 524 (trad- Ferrai); En. Erh VI, 577-579 ; in questo modo, e non altrimenti, vogliono essere interpretati questi versi, i quali si potrebbero volgere in prosa cojii : * ipse Tariarus bis  tantum desceìidU In profundum^ et sub umbì^as extendUur^ quantm est pròspeclus ìtidn mi aethereum cotti olympum^   {%%] Uifxd^ Vili, 1*5; Esiodo, Teogon. 720, laov oùpctvóc ic ànò t^^j Fedone^  410 B - 11^ E.   Cfr. Odiss- XI, 304. 57(5 ecc. Nella descrizione dello scudo di Vulcano, En. Nella sua Eneide traveslie, parodiando questi versi lEìi. VI, ùfiì), esclama:  Celle sentence est borine et beile - Mais en Enfer de quol si^rl-eilef   De RepuòL 1. VI, 3; e anclie Tiisc. 1. I, tO.    j II Winson mi suo Les religions avtuelks^ Paris II. dice che la  teoria esposta da V. nei versi che stiamo esaminando è quella dei;li Indiani. Nul  invece abbìamarte di essi riproduce la dottrina stoica  deiranima dei mojido; e diinostrei-emo ora che la seconda parte s'ispira direttamente  alle dottrine platoniche.   (38) Cfr- 0* Trezza - Lum^esw^ Firenze,. rwta^   mi Platone - liepubblka, L- X, C- XVI, 621; Fedone, p- *07 d.    HepubbL, ibld. C. XIV e XV.   (41) BepubòL A tal proposito le osservazioni del BoisBÌer, op. cU., Voi.  Ad Am. VK . ed. Parigi, .AVaiburton; Malfilatre, op. clL^ loc cit   (45) C. Ruaeus, op. di.. Voi II, p. 459 (46) (kiiss. XIX, o():l-5fi7. Questa tradizione era stata riprodotta anche da Ovidio,  Orazio, Cicerone- %\ confronti il gindizioso comm. dell'Heyne ad Aen.   i   E' comparsa di questi ultimi giorni un'opera di E. Disa, Le previsioni del  tempo da V. ai di nostri (Torino, Bocca) nella quale l'A. dice, a proposiU» degli insegnamenti contenuti nelle Georgiche, che V. « ebbe incontestabilmente il senso scientifico del metodo sperimentale, ebbe quell'acuto e potente concepinii^ntn che, dati i mezzi, giunge a grandi scoperte; e riporta quindi il  giiidi/Ì4> di due moderni scienziati francesi, secondo i quali il nostro poeta avrebbe  intuito le leggi delle tempeste (fissateselo da pochi anni coli' aiuto del telegrafo, degli  stromeuti e degli Osservatori), e le leggi organiche del Darwin sulla evoluzione degli  organismi mediante la selezione (pag. 49-2J). Addirittura!..... Scevri da qualsiasi idolatria, noi abbiamo potuto vedere quale sia realmente il senso scientifico di V..  Notiamo frattanto che allo stesso Disa non è sfuggito che gli insegnamenti di V.,  non mno dovuti ad intuizioni sue proprie, ma attinti in parte alla sapienza volgare  propria de' suoi tempi, in parte alle opere greche, come dimostrò primo l'Orsini, e più  lardi l'Eichofif, il Ribbeck, il Knuche, il Morsch, e come Servio aveva già mostrato  net suo commento. CICERONE (vedasi) Accademica] É questo un brano di una lunga e splendida lettera che l'illustre critico e  filosofo ci scriveva dopo aver lette le prime tre parti del nostro lavoro. Egli vorrà  perdonarci se il desiderio di far conoscere almeno una piccola parte -• non laudativa del suo scritto, ci ha indotti a portare nel dominio pubblici» ciò che era destinato a  rimanere nell'ambito di una semplice corrispondenza privata. La Prefazione alla trad. francese dell'opera più volte citata del Preller, CICERONE (vedasi) De nat. deor. Zeller - Philos. dcr Griechen, III, ì,  mi e Prefuionfl daU'A   Inì[iorUnza delia pfcsente ricerca,  Deficienza degli  studi antichi e moderni sulla lìlosolia di V., Metodo ed estensione del nostro lavoro Noie: KEIiIOIONE Le eondiiioni della relipone romana ai tempi dì  V. e le riforme di Augusto, i- — Poca sincerità  dei lettcriitì suoi colìaìioratori,  — La religiosità di V., — la lui rivive Tantica  religione romana con tutti ì suoi caratteri Segue della religione romana in V.,  Crudeltà e dispotismo degli dèi,  Ribellioni al loro  volere,   I 4» -^ Il rituale romano in V., fi. ^ Funerali e sacriliii, 23.— Spirilo pratieo della religione romana, L'allegoria dell' Eneide I libri sibiiliai e l'elemento greco asiatieo nella reiigione di V. L'antropomorfismo e la moralità degli dèi L'egloga e il cristiauesimo di V., kX    Pvrlfl II.  i^'EFXCITBmSMO L'epicureismo e la religione,  Rapporti storici  tra la religione e la filosofiate^ -^ L'opinione dei critici e dei commentatori suUepicureismodi V., L'egloga  Essa non ei^prime principi epicurei e nemmeno eni pedoelei o stoici, tki. E" una  eoniaminaiio di vari sistemi L'imitazione lucrexiana in V. La prima  età del mondo e l'uomo primitivo La descrizione della peste e il gruppo plastico di Venero e  Vulcano Lo spirito scientifico nella filosofìa epicurea Credute aspiraKionì di V. a conoscere le cause  dei fenomeni, Gli effetti della superstizione,   L'ultimo argomento, V. non è epicureo    Fartd in. - LO STOICISMO La filosofia a Roma L'amore alla filosofia  nel secolo di Augusto: Orazio La Scuola del  Portico,  Lo Stoicismo e la tradizione religiosa La dottrina stoica dell'anima del mondo in V.L'intelligenza degli animali, Conseguenze morali Umanità e cosmopolitismo L'avversione alla guerra nello stoicismo  romano e in V.,  I doveri verso sé stessi, il5. Il saggio delle Georgiche secondo la dottrina degli stoici Disprezzo  delle ricchezze e degli onori Amore alla povertà Il vizio Il suicidio  IL PLATOITISMO Lo stoicismo platonizzaute CICERONE (vedasi) e la filosofia romana L'eclettismo di Seneca Il concetto pessimistico della vita umana L'ascetismo e lo spiritualismo, Il carattere di  Enea, Il disprezzo dell'amore e il significato  del libro IV dell'Eneide Il mìsoginismo negli scrittori ascetici e in V. La preoccupazione dell'oltretomba Gli dèi infernali e le apparizioni dei morti La credenza della vita futura a Roma e lo scopo del  libro VI dell'Eneide, Critica delle interpretazioni comuni e di quella del Warburton, Le fonti dell* inferno virgiliano, Il limbo, sua  vera origine e significato Il Tartaro e l'Eliso L'inferno filosofico e le due porte d'uscita. Publio Virgilio Marone. Virgilio. Keywords: catabasi. Luigi Speranza, per il Play Group di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza. Virgilio.

 

Luigi Speranza -- Grice e Virno: la ragione conversazionale di un popolo di due -- filosofia ed azione – la scuola di Napoli – filosofia napoletana – filosofia campanese -- filosofia italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Napoli). Filosofo napoletano. Filoofo campaese. Filosofo italiano. Napoli, Campania. Essential Italian philosopher. Grice: “Virno, like me, is a semiotician.” D’orientamento operaista, insegna filosofia a Roma. Tra i principali esponenti dell'organizzazione della sinistra extra-parlamentare, Potere Operaio, il suo nome ricorse nelle cronache dei cosiddetti anni di piombo in Italia. Arrestato e detenuto in prigione. Nel corso della detenzione elabora la sua filosofia che trova espressione in Luogo comune. Democrazia è il fucile in spalla agl’operai -- slogan attribuito a Potere Operaio. “Mi sono formato politicamente a Genova, dove la mia famiglia vive e io faccio liceo. Genova e esposta all’influenza di Torino, dove vi sono le prime occupazioni. Quindi, si mobilitarono gli studenti del liceo – molto vivaci e in contatto con le organizzazioni tradizionai dei partiti, UGI e via dicendo. Come studente del liceo fondo dunque il sindacato degli studenti, che fa i primi scioperi sulla lotta all’autoritarismo, solidarietà con Grecia dopo il golpe dei colonnelli e quant’altro. Per un trasferimento di famiglia, vengo ad abitare a Roma, e di lì a non molto prendo contatti e rapporti con il gruppo che divenne Potere Operaio, che allora sostanzialmente a Roma e il gruppo delle facoltà. Entra in Potere operaio dopo gl’episodi cruciali della primavera a Torino. Lavora a Milano come insegnante all'Alfa Romeo di Arese e all'Innocenti, organizzando anche azioni collettive nelle fabbriche sino alla dissoluzione di Potere operaio. Si laurea con la tesi, Lavoro e coscienza –su Adorno, non Francesco. Partecipa attivamente alle manifestazioni ad opera dei lavoratori precari e di altri emarginati. Fonda Metropoli, organo ideologico del movimento politico. Nell'ambito dell'inchiesta giudiziaria nota come 7 aprile, la redazione di Metropoli viene accusata di appartenere in blocco all'organizzazione eversiva costituita in più bande armate variamente denominate.  “Siamo arrestati io, CASTELLANO, MAESANO, e PACE -- che però sfugge all’arresto, di nuovo, giuro, non per sagacia. Noi siamo arrestati,  poi ci fanno confluire, ritroviamo gl’altri nel cortile di Rebibbia, nel braccio speciale, stiamo un po’di mesi lì, poi c’è la diaspora, cioè il ministero ordina di mandare ognuno di questi detenuti in un carcere speciale diverso, perché ovviamente, tramite avvocati, visite, benché ci fosse il regime di braccio speciale, quello e diventato una specie di luogo in cui si elaborano documenti, lettere a giornali, si fa campagna politica, c’e state delle lotte interne. Quindi, c’è la diaspora, io vado a Novara. Oreste va a Cuneo; quell’altro va a Favignana. Quell’altro ancora da un’altra parte. Comincia questo giro negli speciali, e ci ritroviamo non tutti ma in parte nel carcere di Palmi, carcere per soli politici o per detenuti comuni completamente politicizzati, una specie di “Kesh”. Là dentro c’e una situazione curiosa, anche molto spettacolare, perché si incontrano assolutamente tutti. Infatti, per un primo periodo con i compagni delle BR o con Alunni o quelli dei NAP, si pensa anche di approfittare di questa situazione per avviare una discussione larga, di carattere costituente. Però, il problema è che anche lì c’è il fatto che i più spregiudicati di loro, come CURCIO, sono d’accordo, hanno capito di aver perso l’essenziale, cioè il cambio di paradigma, cioè il fatto che gl’operai sono non più riconducibili, altri invece no. Riassumendo in breve, la mia detenzione e un anno, poi due anni liberi in cui curai la serie continua di Metropoli, due anni ancora di carcere, condanna a 12 anni in primo grado, un anno di arresti domiciliario e l’assoluzione, insieme a tanti altri imputati, du la conferma. La travagliata esperienza politica e esistenziale di questi anni e trasfusa nella pubblicazione di “Luogo Comune,” una rivista dedicata all'analisi della vita nella situazione sociale del "postfordismo".  Lascia il lavoro di editore della rivista per insegnare filosofia a Urbino e filosofia del linguaggio, semiotica ed etica della comunicazione a Calabria da dove si trasferisce a Roma. Convinto della necessità di un nuovo linguaggio della politica che chiarisca le trasformazioni economiche, sociali e culturali che caratterizzano le società occidentali, introduce nella “Grammatica della moltitudine” una riflessione sul contrasto tra i termini di “popolo” – il “popolo” di Cicerone, S. P. Q. R -- e moltitudine che generano una accesa polemica filosofica. Quando avvenne la formazione dello stato nazionale e l’espressione “popolo” a prevalere. V. si domanda se non sia venuto il tempo di restaurare l'altro concetto della “moltitudine”. La multitude è quell'insieme di persone che nell'azione politica e in quella economica, pur agendo collettivamente, non perdono il senso della propria individualità, resistendo sempre alla riduzione a unica massa informe com'è nel termine di "popolo". La “moltitudine” è dunque la base della libertà civile – l’uno e i molti dei veliani.  Una “moltitudine” e una dualita o una pluralità che non si sintetizza nell'uno, il più grave pericolo per l'autorità di uno stato che esercita il supremo imperio.  Dopo i secoli del “popolo” e quindi dello stato -- stato-nazione, stato centralizzato, ecc. - torna infine a manifestarsi la polarità contrapposta. . La moltitudine come ultimo grido della teoria sociale, politica e filosofica? Grice: “Peacocke popularized ‘population’ in the Oxford seminar organized by Evans and McDowell. Thus, I cannot claim to have meant that p, unless ‘p’ means that p for a population – of say, me and myself!” Forse.” Saggi: “L'idea di mondo: intelletto pubblico e uso della vita” (Quodlibet); “Saggio sulla negazione: per una antropologia linguistica” (Bollati); “E così via, all'infinito: Logica e antropologia” (Boringhieri), “Motto di spirito e azione innovative: per una logica del cambiamento” (Boringhieri); “Quando il verbo si fa carne: linguaggio e natura umana” (Boringhieri); “Scienze sociali e natura umana -- facoltà di linguaggio, invariante biologico, rapporti di produzione” (Rubbettino); “Grammatica della moltitudine: per una analisi delle forme di vita contemporanee” (Derive Approdi); “Esercizi di esodo: linguaggio e azione politica” (Ombre Corte); “Il ricordo del presente: saggio sul tempo storico” (Bollati); “Parole con parole: poteri e limiti del linguaggio” (Donzelli); “Mondanità: l'idea di “mondo” tra esperienza sensibile e sfera pubblica” (Manifesto libri); “Convenzione e materialismo” (Theoria). Roma Tre  Intervista, Hecceitas. Questo termine è entrato nel linguaggio corrente per indicare un insieme di caratteristiche economiche, sociali e istituzionali del nostro presente, avvertite pessimisticamente come profondamente diverse rispetto al nostro recente passato e in genere come molto negativamente mutate. Fordismo e postfordismo. Qualche dubbio su alcune certezze della sinistra italiana. Protagonisti; “Anni di piombo: potere operaio"; Lessico postfordista: dizionario di idee della mutazione. Feltinelli, sito "Filosofico net".  Virno. Keywords: populus, res publica res populi, Cicerone, multus, unus e multi, due e moltitudine, linguaggio e azione, linguaggio, base biologica, invariante biologica, rappori di produzioni, natura umana, el verbo fatto carne. Refs.: H. P. Grice Papers, Bancroft MS. Luigi Speranza, “Grice e Virno”; “Grice e Virno: la conversazione: una popolazione di due!” The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria. Virno.

 

Luigi Speranza -- Grice e Viroli: la ragione conversazionale della res pvblica – Cicerone e la filosofia italiana – la scuola di Forlì—filosofia emiliana – filosofia italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Forlì).  Filosofo emiliano. Filosofo italiano. Forlì, Forlì-Cesena, Emilia-Romagna. Essential Italian philosopher. Actually “Viroli-Cavalieri”? Grice, “I shall be fighting soon.” “The loyalty for one’s country is not based on evidence.” Durante il settennato di Ciampi serve la presidenza della repubblica italiana. Insegna a Lugano. I suoi campi di ricerca sono la filosofia politica e la storia della filosofia politica. I suoi autori di riferimento sono MACHIAVELLI, Rousseau, MAZZINI, CROCE, ROSSELLI, e ROSSELLI. La sua ricerca si basa sul metodo contestualista di Skinner, a cui apporta alcune innovazioni. Il suoi riferimenti politico-ideali sono il repubblicanesimo e l'azionismo del partito dell’azione. Collabora ad alcune testate giornalistiche, tra cui La stampa, il Sole 24 ORE e Il fatto quotidiano. Si laurea dal liceo Calbol di Forlì. Come egli stesso racconta in L'autunno della Repubblic”, per mantenersi agli studi,  lavora come garzone di bottega, cameriere d'albergo e operaio presso lo zuccherificio. Abitavo a Forlì con i miei genitori, in via Mellini, in un appartamento angusto e freddissimo, riscaldato soltanto da una stufa a gas tenuta, per la nostra povertà, sempre con la fiammella azzurrognola al minimo. Al termine degli studi liceali si iscribe a Bologna. Si laurea con la tesi su Engels. Svolge il servizio di leva a Casarsa in Venezia Giulia.  Il ritorno alla vita civile è stato all'insegna del precariato. Perceve un piccolo salario organizzando convegni e lavorando come redattore alla rivista Problemi della transizione all’istituto Gramsci di Bologna. Studia Firenze. Di fronte alla commissione composta dai Maihofer, Skinner, BOBBIO, Cranston, e Moulakisha, discute la tesi sulla società bene ordinata, Mulino. Perfeziona la sua formazione svolgendo attività di ricerca. Insegna comunicazione politica alla Svizzera. Dirige il Laboratorio di Studi civili, Svizzera italiana.  Finanzato dal Fondo Svizzero per la Ricerca Scientifica con un progetto di ricerca che prevede l'impegno di un folto gruppo di ricercatori.  I suoi interessi di studio ruotano intorno alla filosofia politica e alla sua storia. Studia il repubblicanesimo nella sua accezione classica da MACHIAVELLI a Rousseau e in quella contemporanea. Si occupa di culto uffiziale e politica, di retorica classica, libertà e tirannide, di patriottismo e nazionalismo, di etica civile, di diritti e doveri. Pone particolare attenzione ai fondamenti della convivenza civile. I suoi periodi storici di riferimento sono il rinascimento con MACHIAVELLI, il risorgimento con MAZZINI e il FASCISMO – con sui opponenti: CROCE, ROSSELLI, e ROSSELLI. I suoi filosofi di riferimento sono Machiavelli, Rousseau, Mazzini, Croce, Rosselli e Rosselli. Come impegno civile si occupa d'educazione civica e della difesa e dell'attuazione della costituzione della repubblica italiana. Collabora colla direzione generale dell'Ufficio Scolastico Regionale per le Marche a progetti di educazione alla cittadinanza. Fonda il Master in Civic Education presso l'associazione Ethica di Asti. Coordina e diregge progetti di Educazione civica per la Fondazione per la scuola della Compagnia di San Paolo. Dirige un progetto a San Marino. Dirige il progetto Lezioni di Casa Cervi-Scuola di Etica civile presso Casa Cervi. Prende parte attivamente alle campagne referendarie svoltesi in occasione del referendum costituzionale, contro la riforma proposta dal centro-destra, e del referendum costituzionale contro la riforma costituzionale Renzi-Boschi. Colleziona inviti e incarichi di insegnamento presso prestigiose istituzioni culturali. Insegna a Pisa, Trento, Molise, Ferrara, Catania ed Urbino. Collabora con Milano e la Scuola Superiore della pubblica amministrazione, Scuola superiore di polizia, Fondazione per la Scuola della Compagnia di San Paolo, il Collegio Carlo Alberto e l'Associazione Nazionale Comuni Italiani, la Fondazione Alcide Cervi presso Casa Cervi.  Spiega la le sua posizione politica. Non sono soltanto uno studioso del repubblicanesimo, mi sento repubblicano. Amo il princìpio della reppublica e cerco di applicarli nella vita e nell’analisi dei fatti politici e sociali. Più oltre, in riferimento a Ciampi racconta. La prima volta che incontro CIAMPI provo la sensazione di trovarmi di fronte ad un uomo di straordinaria energia morale, l’esempio vero della migliore cultura del risorgimento e dell’azionismo. Rammento ancora le parole che mi dice dopo aver ascoltato con attenzione la mia considerazione sul significato del concetto di amor di patria. Quello che Ciampi dice l’ho sempre sentito e vissuto nella mia coscienza. E allora che realizzai che io sono prima uno studioso di repubblicanesimo e poi un repubblicano. Ciampi è repubblicano nell’intimo della coscienza: repubblicano e azionista. Anzi, credo, repubblicano perché azionista. Anche la lotta contro il fascismo é rilevante nel patrimonio ideale. Trovo in Croce, Rosselli, Parri, Rossi, Calamandrei -- per citare soltanto i nomi più noti -- non solo idee e argomenti in perfetta sintonia con il mio anti-fascismo assoluto e intransigente, ma anche e soprattutto le più convincenti riflessioni sulle ragioni della fragilità della libertà. Il patriottismo si oppone al nazionalismo, anzi, ne è l'antidoto. Ancora ne L'Autunno della Repubblica si legge a proposito del Per amore della patria. In Italia abbiamo una tradizione di patriottismo di straordinario valore morale e politico, la migliore che io conosca. Mi riferisco in primo luogo al patriottismo di MAZZINI, fondato sul principio che la patria non è il territorio -- bensì un principio di libertà, e al patriottismo degl’anti-fascisti di Giustizia e Libertà, concordi nell’affermare che la nostra patria coincide con il mondo morale delle persone libere non e poi idea tanto peregrina sostenere che il patriottismo repubblicano e il mezzo più efficace per combattere la marea del nazionalismo che comincia a montare. Credo sia troppo tardi. Infine, ci spiega il suo relativismo. Sulle questioni etiche sono stato sempre un convinto relativista, con comprensibile scandalo di molti. Se il dovere esiste soltanto là dove la coscienza morale personale lo riconosce come tale, segue necessariamente che ci sono persone che riconoscono quali loro doveri determinati princìpi, altre che riconoscono quali loro doveri princìpi diversi, se non del tutto opposti. Il pluralismo e il contrasto dei doveri sono sotto gl’occhi di tutti. Ad alcuni il dovere indica il servizio e la pratica della carità, ad altri la pura e semplice affermazione di sé stessi, anche a costo di usare altri esseri umani come mezzi. La ragione, tante volte invocata quale guida sicura all’agire umano, non detta i fini ma solo i mezzi. Lo spiega in modo esemplare JUVALTA (si veda). La ragione per sé non comanda nulla. Né l’egoismo né l’altruismo -- né la giustizia. La ragione cerca, e mostra, se le riesce, i mezzi che servono a conservar la vita a chi la vuol conservare, a distruggerla a chi la vuol distruggere. La ragione addita ai pietosi le vie della pietà, ai giusti le vie della giustizia, e le vie del proprio tornaconto agl’uomini senza scrupoli. Ma l’egoismo non è per sé più razionale dell’altruismo, né il regresso più razionale del progresso. Né la conservazione dell’individuo più razionale di quella della specie. Né l’utile proprio più razionale che l’utile della collettività. Razionale non e il fine, ma la relazione del mezzo al fine. Ed è così ragionevole che dia la vita per un’idea chi pregia più l’idea che la vita, come che taccia la verità per un ciondolo chi ama più i ciondoli che la verità. Consulente della Presidenza della Repubblica Italiana per le attività culturali durante il settennato di Ciampi. Collabora con la Presidenza della Camera dei Deputati durante la presidenza di Violante. Coordinatore del Comitato Nazionale per la valorizzazione della Cultura della Repubblica presso il Ministero dell'Interno.  Presidente dell'ASSOCIAZIONE MAZZINIANA. Ufficiale dell'Ordine al merito della Repubblica italianana strino per uniforme ordinaria; Ufficiale dell'ordine al merito della repubblica italiana di iniziativa del presidente della repubblica. Saggi: “Nazionalisti e patrioti” (Roma, Laterza); “Etica del servizio e etica del commando” (Napoli, Scientifica); “L’autunno della repubblica” (Roma, Laterza); “La redenzione dell’Italia: sul principe” (Roma, Laterza); “Il sorriso di Machiavelli” (Roma, Laterza); “Scegliere il principe: i consigli di MACHIAVELLI al cittadino elettore” (Roma, Laterza); “L’Intransigente” (Roma, Laterza); “Le parole del cittadino” (Roma, Laterza); “La libertà dei servi” (Roma, Laterza); “Lo scrittore di ricami” (Reggio Emilia, Diabasis); “Come se Dio ci fosse: religione e libertà nella storia d’Italia” (Torino, Einaudi); “MACHIAVELLI, filosofo della libertà” (Roma, Castelvecchi); “L’Italia dei doveri” (Milano, Rizzoli); “Il dio di Machiavelli e il problema morale dell’Italia” (Roma, Laterza); “Dialogo intorno alla repubblica” (Roma, Laterza); “Per amor alla patria: patriottismo e nazionalismo nella storia” (Roma, Laterza); “Dalla politica alla RAGION DI STATO” (Roma, Donzelli); “L’etica laica di JUVALTA” (Milano, Angeli); “La civiltà statuale’, in “Cultura civica e civiltà statuale” (Bologna, Mulino); “Libertà e profezia in MACHIAVELLI’, MACHIAVELLI e i confini del potere” (Milano, Mimesis); “La passione civile e la scienza politica di Sartori’, Protagonisti sempre. Un secolo di storia visto con gl’occhi dei ragazzi, Reggio Emilia, Imprimatur ‘Prefazione’, in Mosca, Il prefetto e l’unità nazionale, Napoli, Editoriale Scientifica. ‘Skinner’, ‘God’ and ‘Macaulay’, Enciclopedia machiavelliana” Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Vita di MACHIAVELLI” (Roma, Castelvecchi); “La tradizione del Risorgimento” (Roma, Castelvecchi); “Se è libero bisogna che creda”; “Cinque variazioni sul credere” (Torino, Abele); “L’attualità del principe”; “Il principe e il suo tempo” (Roma, Complesso del Vittoriano, Salone centrale, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana); “La moralità della resistenza: l’esperienza del partigiano Bosco” (Benevento, Terre dei Gambacorta); “Dalla patria allo stato: una biografia intellettuale di SPAVENTA” (Roma, Laterza); “‘La costituzione repubblicana: un manuale di educazione civica’, in Lessico civico: teorie e pratiche della cittadinanza (Reggio Emilia, Diabasis); “Le origini meridiane del repubblicanesimo, Ethos repubblicano e pensiero meridiano” (Reggio Emilia, Diabasis); “La dimensione religiosa del risorgimento -- Cristiani d’Italia. chiese, società, stato” (Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana); “La libertà politica è un bene fragile’, Lettera internazionale.  Rivista europea; “Ragione e passioni nell’educazione civica -- Questioni civiche. Forme, simboli e confini della cittadinanza” (Reggio Emilia, Diabasis); “La costituzione: il pilastro di cristallo” (Napoli, Pitagora); “MACHIAVELLI, il carcere, Il Principe”, in Gl’anni di Firenze, Roma-Bari, in La Costituzione ieri e oggi. Roma, Atti dei Convegni Lincei (Roma, Bardi); “Etica e diritto: la forza intelligente per sconfiggere la violenza’ in Regione Piemonte, Piano regionale per la prevenzione della violenza contro le donne e per il sostegno alle vittime; “Religione e libertà nella Democratie en Amérique’, Fra libertà e democrazia: l’eredità di Tocqueville e Mill” (Milano, Angeli); “Una nuova utopia della libertà’, Quaderni del Circolo Rosselli, ‘Machiavelli’s Realism’, Constellations,  ‘Religione”; “Tutte le ragioni del liberalismo’, Dove Ratzinger sbaglia”; “MACHIAVELLI oratore”; “Machiavelli senza i Medici, scrittura del potere, potere della scrittura,” Atti del convegno di Losanna (Roma, Salerno); ‘Due concetti di religione civile’, in “Rituali civili: storie nazionali e memorie pubbliche in Europa” (Roma, Gangemi); “Patriottismo e rinascita civile’, Aspenia,  in MAZZINI, Scritti politici” (Torino, POMBA); “Che cos’è l’uomo? Raccolta di pensieri” (Senigallia, MIUR, Le Marche); “Repubblicanesimo”; “Dizionario di Politica” (Torino, POMBA); “Libertà democratica, libertà repubblicana e libertà socialista”; “Repubblicanesimo, democrazia, socialismo delle libertà”; “Incroci” per una rinnovata cultura politica” (Milano, Angeli); “Il lavoro nobilita l’uomo e l’impresa’, Impegno. Mensile di cultura sociale”; “Della lontananza’, La saggezza del vivere. Tracce di etica” (Reggio Emilia, Diabasis); “Repubblicanesimo e costituzione della repubblica’ Almanacco della Repubblica: storia d’Italia attraverso le tradizioni, le istituzioni e le simbologie repubblicane (Milano, Mondadori); ‘Europa contro America?’, Il pensiero mazziniano, ‘Dio nella costituzione’, Il pensiero mazziniano, con BOBBIO, ‘Sul rientro dei Savoia’, Il pensiero mazziniano, ‘Scrivere la costituziuone. L’esempio della storia americana’, Il pensiero mazziniano”; “Il despota e il tiranno si sono fatti furbi’, Il pensiero mazziniano, ‘Il repubblicanesimo di Machiavelli”; ‘Le ragioni di un dibattito’, Politica e cultura nelle repubbliche italiane dal medioevo all’età moderna: Firenze, Genova, Lucca, Siena, Venezia. Atti del convegno (Siena), Roma, Istituto Storico Italiano per l’età moderna e contemporanea.  ‘Giù le mani da CATTANEO’, Il pensiero mazziniano, ‘Questioni attorno al repubblicanesimo”;  “Il pensiero mazziniano”; “Repubblicanesimo, liberalism. e comunitarismo”; Filosofia e questioni pubbliche; “Machiavelli’, Il pensiero politico. Idee, teorie, dottrine. Età moderna” (Torino, POMBA); “La repubblica romana’, Il pensiero mazziniano, ‘Repubblicanesimo’,  ‘La sinistra non scordi la Patria’, Il pensiero mazziniano,  ‘I guerrieri di Dio: chi sono i theo-conservatori che scendono in lotta contro aborto, eutanasia e gay’, “La Stampa”,  ‘L’arcipelago progressista: l’orgogliosa cultura liberal, fra battaglie per le minoranze, ambientalismo e progetti per riprendere il New Deal’, La Stampa, “Discussione americana e caso italiano”; “Piccole patrie, grande mondo” (Roma, Donzelli); “Il significato storico della nascita del concetto di RAGION DI STATO’, Aristotelismo politico e RAGION DI STATOr. Atti del Convegno a Torino” (Firenze, Olschki); “Patrioti o traditori?”; “L’Indice”; “Il ritorno della nazione’, I democratici,   ‘L’etica politica di CICERONE e il suo significato moderno’, Nuova Civiltà delle Macchine, ‘La cattiva retorica dell’autonomia della politica’, (Mulino); ‘Nazionalismo e patriottismo’ (Mulino); “Una filosofia civile tra comunitari e liberali’, Ragioni Critiche,  ‘Introduction’, in Skinner,  “Le origini del pensiero politico moderno” (Bologna, Mulino); “L’Indice”; “Machiavelli e Rousseau: i dilemmi della politica republicana”; “Teoria Politica, ‘“Revisionisti” e “ortodossi” nella storia delle idee politiche”, Rivista di filosofia; “Dovere morale e pluralismo etico in JUVALTA’, Rivista di Storia della Filosofia; “La “Morale dei Positivisti” e l’etica del socialismo’, L’età del positivismo” (Bologna, Mulino); “Il Marxismo e l’ideologia del socialismo italiano’, Despotismo e cittadini’, Transizione, JUVALTA e la teoria della giustizia, Rivista di filosofia,  ‘LABRIOLA, filosofo del socialismo”, Giornale critico della filosofia italiana, ‘Aspetti della recezione di Engels in Italia: tra socialismo scientifico e crisi del marxismo”; “L’Antidühring: affermazione e deformazione del marxismo? Annale della Fondazione Issoco” (Milano, Angeli); “Il problema dell’etica razionale in JUVALTA’, “Studi sulla cultura filosofica italiana” (Bologna, CLUEB); Etica e marxismo: a proposito di una recente discussione’, Problemi della Transizione”; “Socialismo e cultura, 'Studi Storici”; “Il dialogo fra Engels e LABRIOLA”; “Critica marxista”; “Nella crisi del positivismo: la ricerca teorica del divenire sociale,” “Giornale critico della filosofia italiana”; “Filosofia e politica nell’Engels di Mondolfo’, Pensiero antico e pensiero moderno” (Bologna, Cappelli); “Wellness. Storia e cultura del vivere bene” (Milano, Sperling et Kupfer); “Libertà politica e virtù [andreia] civile”; “Significati e percorsi del repubblicanesimo classico” (Torino, Agnelli); “Lezioni per la repubblica: la festa è tornata in città” (Reggio Emilia, Diabasis); “Ascesa e declino delle repubbliche” (Urbino, Quattro Venti); “L'Autunno della Repubblica” (Laterza); “Per amore della patria. Patriottismo e nazionalismo nella storia” (Laterza); Quirinale. blogspot issuu.com/edizioni-in-magazine/docs/forli Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche della RAI  profilo biografico da Ethica Forum profilo dall'Università della Svizzera italiana Nello Ajello, Quanti servi in giro per l'Italia, recensione a La libertà dei servi, la Repubblica, La libertà dei servi, Associazione Labini; “La libertà dei servi; L'intransigente, da Fahrenheit del Radio Tre. Grice: “At Oxford, we don’t have a republic!” -- Il repubblicanesimo è una lunga e variegata tradizione del pensiero politico che si ispira all'ideale della repubblica intesa quale comunità di cittadini sovrani fondata sul diritto e sul bene comune. Il punto di riferimento ideale più rilevante del repubblicanesimo è il concetto ciceroniano di res publica. Repubblica per CICERONE vuol dite «ciò che appartiene al popolo» (respublica respopuli), e aggiunge che non è popolo ogni moltitudine di uomini riunitasi in modo qualsiasi, bensì una società organizzata che ha per fondamento l'osservanza della giustizia e la comunanza di interessi (De re publica). Agli albori dell'età contemporanea un altro esponente del repubblicanesimo, Rousseau, ribadisce la medesima interpretazione del concetto di repubblica. Chiamo repubblica, scrive, «ogni Stato retto dalle leggi, qualunque sia la sua forma di amministrazione, poiché solo allora l'interesse pubblico governa e la cosa pubblica è qualcosa » (Contrat Social. Per i teorici repubblicani la repubblica è l'opposto del potere senza freno e senza regola, chiunque lo eserciti, e della tirannide, ovvero il dominio di un uomo (o di una fazione o di molti) contro l'interesse comune. La repubblica si contrappone anche alla monarchia perché la libertà sotto il re è sempre dipendente dalla volontà arbitraria di un uomo. Il re, anche nelle monarchie costituzionali, assume in virtù della nascita prerogative e poteri che sono negati agli altri cittadini e dunque viola il principio dell'uguaglianza repubblicana. Il concetto di repubblica è connesso al principio che la vera libertà politica consiste nel non essere dipendenti dalla volontà arbitraria di un uomo o di alcuni uomini ed esige l'uguaglianza dei diritti civili e politici. La vera libertà, spiega Cicerone, esiste «solo in quella repubblica in cui il popolo ha il sommo potere» e comporta «una assoluta uguaglianza di diritti», in quanto «la libertà  non consiste nell'avere un buon padrone, ma nel non averne affatto» (De re publica). Questo concetto di libertà vale sia per l'individuo sia per lo stato. Uno stato può dirsi libero se non dipende dalla volontà di un altro stato e non deve ricevere da altri gli statuti e leggi o richiedere approvazione per i suoi atti.Come recitano le formule di Bartolo da Sassoferrato, le città che vivono in libertà si governano da sole («proprio regimine»). Esse non riconoscono alcun potere superiore («civitas quem superiorem non recognoscit»), e per questo il loro popolo è un popolo libero. Rousseau, ma altri esempi si potrebbero citare, racchiude in una formula precisa il concetto di libertà repubblicana: «un popolo libero obbedisce ma non serve; ha dei capi, ma non dei padroni; obbedisce alle leggi, ma solo alle leggi; ed è in virtù delle leggi che non diventa servo degli uomini» (Jean-Jacques Rousseau, Lettres écrites de la montagne, VIII). Per i filosofi politici repubblicani la libertà politica ha quale condizione necessaria il governo della legge. Essi hanno sempre sottolineato che la vera legge è un comando pubblico e universale che vale ugualmente per tutti i cittadini, o per tutti i membri del gruppo rilevante. La limitazione o l'interferenza che la legge impone sulle scelte degli individui non è dunque una restrizione della libertà ma come un freno essenziale e benefico. Se il governo della legge è scrupolosamente rispettato, nessun individuo può impone la sua volontà arbitraria ad altri individui in virtù del fatto che egli può compiere con impunità azioni che ad altri sono proibite sotto pena di sanzione. Se invece sono gli uomini e non la legge a governare, alcuni individui possono imporre la loro volontà arbitraria ad altri ed impedire ad essi di perseguire i fini che essi vorrebbero perseguire, e quindi privarli della libertà (questo vale anche nel caso in cui è la maggioranza degli uomini a governare, ovvero una democrazia). Questa interpretazione della libertà politica è descritta in modo eloquente in testi classici che diventarono il nucleo centrale del repubblicanesimo moderno, in particolare un passo in cui Livio afferma che la libertà dei romani consiste in primo luogo nel fatto che le leggi sono più potenti degli uomini (Ab urbe condita) e un passo di Cicerone, citato infinite volte dagli scrittori politici repubblicani: «Legum idcirco omnes servi sumus ut Liberi esse possimus» (Pro Cluentio, 146). Anche Machiavelli identifica la libertà politica con le restrizioni che il diritto impone ugualmente a tutti i cit-tadini. Se in una città vi è un cittadino che i magistrati temono, e che può rompere i vincoli delle leggi, egli scrive, la città non è libera (Discorsi). Nelle Istorie fiorentine (Proemio) osserva che «si può chiamar libera» solo quella città in cui le leggi e gli ordinamenti costituzionali restringono in modo efficacie i «cattivi umori » della nobiltà e del popolo. Per contro, tutti gli esempi di oppressione che i repubblicani classici offrono nei loro scritti sono violazioni del principio del governo della legge: il tiranno che si pone al di sopra delle leggi civili e delle leggi costituzionali e quindi comanda ad arbitrio; il cittadino potente che ha ottenuto per se un privilegio che è negato ad altri cittadini; i governanti che hanno poteri discrezionali. Le restrizioni che la legge impone sulle azioni dei governanti e dei cittadini sono dunque, per i repubblicani, l'unica valida difesa contro la coercizione imposta da individui: essere liberi vuol dire vivere sotto leggi eque. L'argomento repubblicano che il governo della legge è la condizione necessaria affinché i cittadini non siano assoggettati alla volontà arbitraria di alcuni individui (o di un solo individuo), e possano pertanto vivere liberi, è il tema di fondo di uno dei più significativi dibattiti nella storia del repubblicanesimo, ovvero la risposta di James Harrington a Hobbes, che nel Leviatano aveva sostenuto che non è affatto vero che i cittadini di una repubblica come Lucca sono più liberi dei sudditi di un sovrano assoluto come il sultano di Constantinopoli perché tanto i primi quanto i secondi sono sottomessi alle leggi. Ciò che rende i cittadini di Lucca più liberi dei sudditi di Costantinopoli, spiega Harrington, è il fatto che a Lucca tanto i governanti quanto i cittadini sono sottoposti alle leggi civili e costituzionali, mentre a Constantinopoli il sultano è al di sopra delle leggi e può disporre arbitrariamente delle proprietà e della vita dei sudditi, costringendoli in tal modo a vivere in una condizione di completa dipendenza, e dunque di mancanza di libertà. I cittadini di Lucca sono liberi «per le leggi di Lucca» («by the laws of Lucca»), perché essi sono controllati solo dalle leggi (James Harrington, The Commonwealth of Oceana and A System of Politics, a cura di J.G.A. Pocock, Cambridge, Cambridge University Press, 1992, Preliminaries). Nella sua lunga storia, il repubblicanesimo si è caratterizzato non solo per gli ideali della repubblica e della libertà ma anche per l'insistenza sull'idea che l'una e l'altra hanno bisogno della virtù civile dei cittadini. Per virtù essi intendono la saggezza che fa capire ai cittadini che il loro interesse individuale è parte del bene comune, la generosità dell'animo che spinge a partecipare alla vita pubblica, la forza interiore che dà la determinazione di resistere contro i potenti e gli arroganti che vogliono opprimere. Nonostante l'autorevole opinione di Montesquieu che considerava la virtù politica una forma di rinuncia e di sacrificio, gli scrittori politici repubblicani dei secoli precedenti interpretavano la virtù come una passione che non si contrapponeva né all'interesse né alla ricchezza, ma solo all'avarizia e all'ambizione sfrenata di dominio. Il repubblicanesimo è stato il linguaggio politico dominante delle élites politiche e sociali delle repubbliche commerciali d'Europa. Anche se non mancarono, come nel caso di Girolamo Savonarola, pensatori repubblicani che teorizzarono la repubblica come una Nuova Gerusalemme abitata da uomini dediti alla virtù cristiana, il pensiero politico repubblicano, con i suoi pensatori più influenti, ha teorizzato un ideale mondano e realistico di virtù. Accanto all'ideale della virtù civile, un altro concetto fondamentale della tradizione repubblicana è il patriottismo. Per il repubblicanesimo classico l'amore della patria è una passione, e più precisamente un amore caritatevole per la repubblica (caritas reipublicae) e per i concittadini (caritas civium). Anche se rispetta i principi della giustizia e della ragione, e può quindi essere chiamato «amore razionale», l'amore della patria è un affetto particolare per una particolare repubblica e per i suoi cittadini che nasce fra i cittadini delle libere repubbliche perché essi condividono molti e importanti beni, quali le leggi, la libertà, i consigli pubblici, le pubbliche piazze, gli amici e i nemici, le memorie delle vittorie e delle sconfitte, le speranze, le paure. Essa presuppone l'eguaglianza civile e politica e si traduce in atti di servizio (officium) e di cura (cultus) per il bene comune. Infine, la caritas reipublicae è una passione che irrobustisce l'animo, dà ai cittadini la forza per compiere i loro doveri civici e ai governanti il coraggio di assolvere gli obblighi, spesso onerosi, che la difesa della libertà comune richiede. Il principio fondamentale del patriottismo repubblicano è che vera patria è solo la libera 2 repubblica in cui vivono solo cittadini liberi ed eguali. La parola patria si legge ad es. nell'Encyclopédie, non significa il luogo in cui siamo nati, come vuole la concezione volgare, bensí uno stato libero (état libre) di cui siamo membri e le cui leggi proteggono le nostre libertà e la nostra felicità (D'Alembert, Diderot, Encyclopédie, Neuchatel, Bouloiseau 1765, vol. XII, p. 178). Gli scrittori repubblicani dell'età dell'Illuminismo usavano la parola «patria» come sinonimo di «repubblica». Questa identificazione non era solo un motivo polemico; riassumeva la considerazione che sotto il giogo del despota i cittadini sono senza protezione e non possono partecipare alla vita pubblica, come se fossero stranieri, e dunque non hanno patria. Il concetto di patria è dunque strettamente connesso alla libertà e alla virtù, come scrive Jean Jacques Rousseau: «La patria non può sussistere senza la libertà, né la libertà senza la virtù, ne la virtù senza i cittadini» (Economie politique, in Oeuvres Complètes, III, p. 258). Anche MAZZINI sottolinea che la vera patria è quella che assicura a tutti i cittadini non solo i diritti civili e politici, ma anche il diritto al lavoro e all'educazione. Per Mazzini e per i repubblicani dell'Ottocento la patria è la casa comune dove viviamo con persone che capiamo e che abbiamo care perché le sentiamo simili e vicine. Ma è anche una patria accanto ad altre patrie di ugual pregio.Quando siamo nella nostra casa dobbiamo assolvere i nostri obblighi in quanto cittadini; quando siamo in casa di altri dobbiamo assolvere i doveri verso l'umanità. La difesa della libertà è l'obbligo supremo di ognuno, anche se viviamo in suolo straniero e anche se il popolo oppresso è un popolo straniero. Gli obblighi morali verso l'umanità vengono prima degli obblighi verso la patria. Prima di essere cittadini di una patria particolare, siamo esseri umani.Nonostante l'accordo sui principi della repubblica, della libertà, e del patriottismo, il repubblicanesimo non è mai diventato un corpo dottrinario sistematico e ha assunto molteplici accentuazioni legate ai diversi contesti storici e culturali nei quali si è sviluppato dall'antichità classica all'età contemporanea. Il repubblicanesimo è dunque una tradizione del pensiero politico solo nel senso che i teorici repubblicani hanno spesso elaborato le proprie analisi riprendendo concetti di scrittori politici di epoche precedenti. Ma è del pari vero che i teorici repubblicani hanno spesso rielaborato in maniera anche radicale idee di altri scrittori politici appartenenti alla medesima tradizione.Le divergenze più significative riguardano la forma di governo considerata più atta a realizzare l'ideale della repubblica. Quasi tutti i teorici repubblicani furono sostenitori del governo misto inteso quale forma di governo che contempera gli aspetti positivi delle tre forme rette: il governo di uno(monarchia), ilgoverno del pochi (aristocrazia) e il governo dei molti (governo popolare o democratico). Mentre alcuni ritenevano che nell'ambito del governo misto il popolo (il consiglio grande) dovesse avere un ruolo preponderante, altri erano favorevoli ad assegnare tale ruolo all'elemento aristocratico rappresentato da un senato, o da un consiglio ristretto. Un'altra differenza è quella fra i sostenitori della repubblica che garantisce i diritti politici alla maggioranza degli abitanti (repubblica democratica) e i sostenitori di una repubblica che garantisce i diritti politici solo ad una minoranza degli abitanti (repubblica aristocratica). Inoltre, alcuni teorici repubblicani, come Machiavelli, sostenevano la necessità dell'espansione territoriale sulla base del modello della repubblica romana (o del modello federativo etrusco); altri, ad es. Rousseau, erano convinti che la repubblica, per conservarsi incorrotta, doveva rimanere confinata entro un piccolo territorio. Vi furono pensatori repubblicani che propugnarono l'ideale di una repubblica unitaria, e pensatori che propugnarono l'ideale di una repubblica fondata sul decentramento amministrativo e sull'autogoverno, come Carlo Cattaneo. Infine, la storia del pensiero politico repubblicano presenta pensatori favorevoli ad usare la religione per rafforzare la lealtà dei cittadini verso la repubblica (Machiavelli) accanto ad altri che raccomandarono la creazione di una vera e propria religione civile (Rousseau) e altri ancora che si fecero banditori dell'idea religiosa come principio morale interiore (Mazzini). Anche a causa della molteplicità di concezioni politiche che si raccolgono all'interno del pensiero repubblicano, gli studiosi contemporanei hanno opinioni diverse su importanti problemi storici e teorici. Mentre John Pocock sostiene che il repubblicanesimo è una forma di aristotelismo politico 3 fondato sull'idea che la vita politica è la massima realizzazione dell'individuo, altri studiosi, in particolare Quentin Skinner, sottolineano il ruolo prevalente del pensiero politico e giuridico ROMANO. Anche l'interpretazione del concetto di libertà è materia di divergenze interpretative. Philip Pettit sostiene che la mancanza di libertà consiste solo nella dipendenza dalla volontà arbitraria di altri uomini; per Quentin Skinner la mancanza di libertà può essere causata sia dalla dipendenza che dall'interferenza. Vi sono inoltre autori che interpretano il repubblicanesimo come una dottrina democratica, lontana dal liberalismo, che insiste sulla partecipazione dei cittadini alle decisioni politiche; altri avvicinano il repubblicanesimo al comunitarismo, altri ancora sottolineano piuttosto l'affinità fra repubblicanesimo e liberalismo radicale; altri infine ritengono che tanto il liberalismo quanto la democrazia siano derivazioni del repubblicanesimo. Nonostante le divergenze interpretative gli studiosi di storia del pensiero politico e di filosofia politica sono in larga maggioranza concordi nel riconoscere che il repubblicanesimo rappresenta un'autonoma e distinta tradizione di pensiero politico che ha svolto un ruolo di primo piano nella nascita e nella formazione delle moderne democrazie. BIBLIOGRAFIA. - BARON, In Search of Fiorentine Civic Humanism: Essays on the Transition from Medieval io Modern Thought, Princeton, BOCK, Q. SKINNER,VIROLI, Machiavelli and Republicanism, Cambridge University Press, Cambridge POCOCK, Il momento machiavelliano. Il pensiero politico fiorentino e la tradizione repubblicana anglosassone Il Mulino, Bologna; SANDEL, Democracy's Discontent: America in Search of a Public Philosophy, Harvard, PETTIT, Repubblicanesimo, a cura di M. GEUNA, Feltrinelli, Milano; Q. SKINNER, The Foundations of Modem Political Thought, Cambridge; Le origini del pensiero politico moderno, a cura di M. VIROLI, Il Mulino, Bologna; ID., Libertà prima del liberalismo, a cura di M. GEUNA, Einaudi, Torino, SMITH, Civic Ideals: Conflicting Visions of Citizenship in U.S. History, Yale University Press, New Haven, Conn. V., Repubblicanesimo, Laterza, RomaBari 1999. V.] Da N.Bobbio, N. Matteucci, G. Pasquino, Il dizionario di Politica, UTET, Torino. Maurizio Viroli. Keywords: Cicerone, ragion di stato, repubblica, repubblicanismo, la repubblica romana, la morte, il crollo, il fine, la caduta della repubblica romana, l’assassinio di Giulio Cesare, Catone Uticense, la repubblica romana, del re Romo alla repubblica romana, il ratto di Lucrezia – republicanism e principato, storia della repubblica di Genova, la repubblica romana, il gusto per l’antico; quasi-contratto, il sorriso di Macchiavelli. Refs.: H. P. Grice Papers, Bancroft MS, Luigi Speranza, “Grice e Viroli: Contrattualismo e quasi-contrattualismo” – Luigi Speranza: “Il sorriso di Viroli: Grice e Machiavelli ironista” -- The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria. Virioli.

 

Luigi Speranza -- Grice e Vittielo: la ragione conversazionale e il segno infranto nel Vico topologico – la scuola di Napoli – filosofia napoleetana – filosofia campanese -- filosofia italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Napoli).  Filosofo napoletano. Filosofo campanese. Filosofo italiano. Napoli, Campania. “Come la lingua dell’eroe separa l’eroe dall’uomo, così la lingua volgare separa il filologo dal filosofo. La lingua italiana volgare, comune a ogni uomo, non riusce a descrivere la natura e le proprietà delle cose. Sorge la scissione tra un filosofo – come Paul Grice -- che si dettero ad investigare sulla natura delle cose, e un filologo – come H. P. Grice -- che, invece investiga sulle origini delle parole. Così la filosofia e la filologia che sono nate tutte e due dalla lingua dell’eroe, vennero ad essere divise dalla lingua volgare o commone. Essential Italian philosopher. Insegna a Salerno. Studia VICO, l'idealismo, Nietzsche e Heidegger in rapporto con la filosofia romana, elabora una teoria ermeneutica. La sua topo-logia si fonda su una re-interpretazione del concetto di spazio come orizzonte trascendentale dell'operare umano. Gli sviluppi della sua topologia riguardano in particolare la genealogia della communicazione. Affronta più volte la fede da un punto di vista laico. Fonda Paradosso. Collabora a Filosofia di Laterza e a numerose altre riviste filosofiche, tra cui “aut aut.” Dirige Il pensiero. Collabora all'annuario Filosofia e all'annuario sulla Religione. Pubblica in Teoria ed altre ancora. Svolge un’intensa attività pubblicistica su quotidiani e periodici. Tenne cicli di conferenze e seminari. Saggi: Filosofia della pratica e dottrina politica liberale in CROCE, Napoli; Etica e liberalismo in CROCE, Napoli; Il carattere DISCORSIVO del conoscere, Napoli; ANTONI, interprete di CROCE, Napoli; Storia e storiografia nella filosofia di CROCE, Scientifica, Napoli; Sentimento e relazione nell’ESPERIENZA, Napoli; Il nulla e la fondazione dello storico, Argalia, Urbino; Dialettica ed ermeneutica, Guida, Napoli; Utopia del nichilismo, Guida, Napoli; Studi heideggeriani, Roma; Ethos ed eros, ESI, Napoli; Logica e storia in Hegel, Napoli; Il problema del cominciamento, Guida, Napoli; Hegel e la comprensione;Topologia, Marietti, Genova; La voce riflessa, Logica ed etica della contraddizione, Lanfranchi, Milano; Elogio dello spazio: ermeneutica e topologia, Bompiani, Milano; Cristianesimo senza redenzione, Laterza, Roma; Non dividere il sì dal no: tra filosofia e letteratura (Laterza, Roma); Filosofia teoretica: le domande fondamentali: percorsi e interpretazioni (Milano); La favola di Cadmo (Laterza, Roma); “VICO (si veda) e la topologia” (Cronopio, Napoli); “La vita e il suo oltre: sulla morte” (Roma); “Il Dio possibile, esperienze di cristianesimo” (Città Nuova, Roma); “Hegel in Italia, Milano); “Dire Dio in segreto” (Roma); “Cristianesimo e nichilismo: Dostoevskij-Heidegger” (Morcelliana, Brescia); “Estetica e ascesi” (Modena); E pose la tenda in mezzo a noi,” Albo Versorio, Il Decalogo. Ricordati di Santificare le feste; I tempi della poesia. Ieri/oggi” (Mimesis, Milano); “Dipingere Dio” (Albo Versorio); “VICO: storia, LINGUAGGIO, natura, Storia e Letteratura, Roma); “Ri-pensare il cristianesimo” (De Europa, Ananke); “Oblio e memoria del sacro” (Moretti, Bergamo); “Grammatiche del pensiero: dalla kenosi dell'io alla logica della seconda persona, ETS, Celan; Heidegger” (Mimesis); “I comandamenti. Non dire falsa testimonianza” (Il Mulino); “L'ethos della topologia. Un itinerario di pensiero” (Lettere, Firenze); “Paolo e l'Europa: cristianesimo e filosofia” (Città Nuova, Roma); “L'immagine infranta: linguaggio e mondo in VICO” (Bompiani, Milano); “VICO: tra storia e natura,” aut aut; “Complessità e aporie del moderno”, in Filosofia politica; “Dall'ermeneutica alla topologia”,“aut aut”; “Goethe, interprete della modernità” aut aut; “Per amicizia: Epochè e metafora”; “aut aut”, “Sentire le Radici, la Terra stessa”, i“aut aut”; “Zanzotto, ovvero: la poesia come genealogia della parola”, in “aut aut”; “Redaelli, Il nodo dei nodi; L'esercizio del pensiero in VATTIMO”, V. (Sini, ETS, Pisa); “Luoghi del pensare” (Mimesis, Milano); Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche di RAI Educational; "Filosofia". Appare la "seconda" Scienza Nuova. Non è propriamente una seconda edizione dei Principj di una Scienza Nuova intorno alla Natura delle Nazioni, apparsi cinque anni innanzi. La revisione, a cui Vico ha sottoposto il testo del 1725, è tale da farne un'altra opera: basterebbe ricordare l'inserimento della "discoverta del vero Omero", argomento affatto nuovo e fondamentale che occupa un intero libro, il terzo; invero è mutata la struttura stessa del lavoro, come anche una rapida scorsa degli indici delle due edizioni mostra. Se, ciononostante, Vico ha mantenuto anche nella successiva edizione il medesimo titolo, salvo piccole varianti,2 è perché l'ampliamento e la diversa distribuzione della materia, nonché la correzione dell'"errore" d'aver egli separato, nella prima redazione, i "principi delle idee" da quelli "delle lingue", che sono "per natura tra loro uniti", non solo non hanno mutato l'orientamento di fondo dell'opera, l'hanno bensì approfondito e sviluppato, specialmente riguardo al tema del linguaggio. Tra le "novità" della seconda Scienza Nuova spicca l'immagine posta sul frontespizio dell'opera: una "dipintura allegorica" commissionata dal filosofo a Domenico Antonio Vaccaro, noto pittore napoletano, che l'aveva eseguita secondo precise indicazioni e sotto il controllo del committente. Che l'uso di accompagnare un testo filosofico o letterario con un'immagine fosse frequente al tempo di Vico è cosa nota: si citano come esempi illustri l'Organon di Francesco Bacone, il Leviathan di Hobbes, i Second Characters di Shaftesbury e da ultimo la Istoria universale provata con monumenti e figurata con simboli degli antichi di Francesco Bianchini. Che il filosofo napoletano ne sia stato influenzato, ben si ricava da quanto egli stesso dice nel primo capoverso dell'Introduzione, dove spiega che l'immagine sul frontespizio dell'opera serve a"ridurla più facilmente a memoria [...] dopo di averla letta".Ma che la funzione mnemonica di questa Tavola delle cose civili sia affatto secondaria, è del tutto chiaro, premurandosi Vico di dire per prima cosa che la dipintura "serv(e) al Leggitore per concepir l'idea di quest'Opera avanti di leggerla" (SN). Prima di chiarire questo punto che è essenziale comprendere l'esigenza filosofica cui risponde la "dipintura", è opportuno darle uno sguardo veloce. In alto, a sinistra dell'osservatore, è dipinto un sole, al cui interno è un triangolo con dentro un occhio, dal quale parte un raggio di luce che giunge al petto della fanciulla dalle tempie alate, allegoria della Metafisica, che ha lo sguardo fisso al sole. Dal petto della fanciulla, i cui piedi poggiano sul globo terrestre, il raggio si riflette sulla statua collocata in basso a sinistra. Ai piedi della statua, che raffigura Omero, vari arnesi: та оно, un timone, un aratro, una borsa; poi una tavola con su scritte alcune lettere alfabetiche, quindi un fascio di verghe. Al lato opposto della statua un altare, su cui scorgiamo un lituo, una fiaccola, un orciuolo contenente acqua, quindi il fuoco accanto al globo su cui poggia la fanciulla alata. La fascia che cinge il globo è quella dello zodiaco, con i segni delle costellazioni della Vergine e del Leone in evidenza. In basso, a destra, un'urna cineraria, ai margini di una gran selva. Vico concepì il dipinto come "Idea dell'opera" - così nell'Introduzione dedicata alla "spiegazione della dipintura proposta al frontespizio" - e cioè come figura o immagine della Scienza Nuova, ovvero della storia: della storia ideale eterna e delle storie che "corron' in tempo". L'ampiezza e la meticolosità della "spiegazione"5 attestano l'importanza ch'egli attribuiva alla "traduzione" dei suoi argomenti in "immagine". L'immagine doveva, infatti, integrare la voce, facendo cogliere uno actu - e non in successione - i due aspetti che caratterizzano la storia: 1) la cornice stabile e permanente dell'eterna provvedenza, esemplata nel raggio di luce che parte dall'occhio divino e, toccando la metafisica, illumina e regge il mondo degli uomini, e 2) l'operare umano nel tempo, volto, anche inconsciamente, a Dio, testimoniato dallo sguardo della fanciulla alata, eternamente fisso sul triangolo solare. E, pertanto, come l'immagine serviva ad integrare la voce, così questa doveva a sua volta completare l'immagine, dacché soltanto la voce dà in successione quello che in successione accade entro l'ordine necessario della storia ideale eterna: il "correre in tempo" delle storie di tutte le nazioni "ne' loro sorgimenti, progressi, stati, decadenze e fini" (SN44, p. 903). Vico non intese questa congiunzione di voce e immagine - phonè kai schêma, per dirla con le parole del Cratilo di Platone, di cui il filosofo napoletano resta insuperato "interprete"6 - come una "novità" da lui introdotta in filosofia. Al contrario la presentava come un'operazione di restauro. Per comprenderne le ragioni, dobbiamo fare alcuni passi indietro nel tempo e leggere quella nota che lui aggiunse al Il Libro del Diritto Universale, il De constantia jurisprudentis:[...] Come prima la lingua eroica aveva diviso gli eroi dagli uomini, così dopo la lingua volgare divise i filologi dai filosofi. Il motivo di questa seconda osservazione è che, poiché la lingua volgare, in quanto comune, non riusciva a descrivere la natura e le proprietà delle cose, sorse la scissione tra i filosofi che si dettero a investigare sulla natura delle cose, e i filologi che invece investigavano sulle origini delle parole; e così la filosofia e la filologia, che erano nate tutte e due dalla lingua eroica, vennero ad essere divise dalla lingua volgare.? La lingua volgare, così detta perché lingua della comunicazione - in seguito Vico la chiamerà "pistolare" (SN, Degnità) -, rende solo i caratteri "comuni", "generici", delle cose, non la loro "natura", ciò che ad esse è proprio, la loro concreta, reale, determinatezza. Questo ha portato alla divisione della filologia, che s'interroga sull'origine delle parole - quindi su come siano sorte le parole generiche, vuote di determinatezza, della lingua "comune" -, dalla filosofia che, invece, investiga direttamente la natura delle cose. Ma in che modo? Non è anche la filosofia legata al linguaggio? Vico s'avvide del cul-de-sac in cui s'era cacciato. Ne uscì, con due mosse geniali. La prima fu l'abbandono del latino delle scuole, lingua di pura comunicazione di concetti, priva di vero rapporto con la vita quotidiana del popolo, fatta di eventi reali e cose concrete; scelse di scrivere in volgare - ma bisogna aver confidenza con la lingua di Vico, con il "barocco napoletano" della Scienza Nuova, per capire la portata di questo mutamento.La seconda mossa strategica fu "l'idea dell'opera": la "dipintura allegorica", con cui egli volle ricongiungere voce e immagine, o, per dirla con Nietzsche, il mondo dell'ascolto, della parola (Hörwelt), e quello della visione, dell'immagine (Schauwelt). 8 Vico operava, consapevolemente, in controtendenza rispetto all'intera tradizione occidentale e in particolare al suo tempo, che spingeva la lingua all'astrazione, secondo il modello"matematico". Vico - ho detto; ma debbo subito precisare: il filologo più che non il filosofo. Ché come filosofo non fu meno attratto dal mos geometricum di quanto lo furono Cartesio e Spinoza, se volle estendere alla storia quella mathesis universalis già da Grozio applicata al diritto. Come filologo, invece, seppe risalire alle origini lontane, remote del linguaggio, alle fonti antiche della poesia greca, con la "discoverta" del vero Omero o dei molti Omeri, e della latina, leggendo insieme con Virgilio e Lucrezio, e Orazio, Stazio, Plauto, gli "storici" e gli"eruditi", interpretando anche l'antico diritto romano qual"serioso poema" e l'antica giurisprudenza come"severa poesia". Né si fermò qui, ma piegandosi sulla lingua dei contadini, sulle loro metafore e i loro gesti, vide con l'occhio di una fervida immaginazione i primi abitanti della Terra, i forti ed empiamente pii Polifemi, atterriti dalla luce del lampo che squarcia le notti e dal cupo rimbombo del tuono che fa tremare la Terra, emettere i primi suoni inarticolati di un linguaggio "naturale", inintenzionale, prima fonte della lingua articolata dell'uomo. Scorse, talora come da dietro un vetro opaco, la nascita dell'uomo dall'animale, della mente dal corpo, della storia dall'ingens sylva, e ne descrisse lo sviluppo, non senza "salti" e "confusioni" di tempi e forme linguistiche. Philologia contra philosophia? In certo senso sì, se la filologia lo convinse non solo a trattare dei miti, ma in qualche modo a "mimarne" il gesto narrativo.10 Tentò una nuova lingua, logica e mitica ad un tempo, capace di tenere insieme narrazione e logica, la contingenza della storia e la necessità della mathesis. Anticipava con le sue folgoranti intuizioni, l'idea della Mythologie der Vernunft,11 che nacque all'incirca mezzo secolo dopo in terra germanica, ma che presto fu abbandonata, e proprio dal suo massimo rappresentante, Hegel, che, anni dopo, avrebbe esaltato il linguaggio alfabetico sulla lingua geroglifica, per essere quello costituito di nomi, che sono bildlose Vorstellungen, rappresentazioni senza immagini. Ed "è nei nomi che noi pensiamo", La "dipintura" serviva a Vico per ricostruire nella composizione di parola e immagine quella unità di voce e gesto che l'uomo storico aveva già perduto molto prima che sorgesse la lingua della comunicazione - la lingua "pistolare" della ragione riflessa -, già con la lingua eroica. Ma era, Vico, in ritardo sul suo tempo. La frattura parola/immagine era solo l'aspetto "in superficie" di una più profonda scissione.Vincenzo Vitielo. Vitielo. Keywords: la lingua dell’eroe, la lingua degl’eroi, Lazio, lazini, italiano, volgare, Lucrezio, confronto vichiano, vicho contro vico, la lingua eroica di Vico, Vico, semiotica, Croce, Vico topologico, linguaggio in Vico.  Refs.: H. P. Grice Papers, Bancroft. Luigi Speranza, “Grice e Vittielo” – “Topologia semiotica di Vico” – “Il Vico di Vitielo” – Vico e il segno infranto”, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria. Vitielo.

 

Luigi Speranza -- Grice e Viveros: le implicature del deutero-esperanto – filosofia italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Roma). Filosofo italiano. Roma, Lazio. Tentativi sono quelli di V., che presenta la lingua scinter, acronimo per lingua SC-entifico-INTER-nazionale – cf. Grice on the formalists and the unity of science --, basata sia sul latino che sul greco, e la cui tendenza è ancora una volta quella di creare una lingua logica in cui vi sia un rapporto univoco e giustificato tra significato e significante. In questo senso egli si discosta dal lavoro dei suoi colleghi e si avvicina più alle idee dei filosofi, andando alla ricerca di una lingua ideale a priori, che egli definisce lingua exacto mundiale. Proposta al Principe di Napoli di compilare un dizionario scientifico internazionale. Proposta a MUSSOLINI di compilare un dizionario scientifico internazionale. L’essatismo di Burzio. Lingua scientifico internazionale. Lingua scinter. Grice:   It is a commonplace of philosophical logic that there are, or appear to be, divergences in meaning between, on the one hand, at least some of what I shall call the formal devices-~, A, V, J, (Vx), (Bx), (ux) (when these are given a standard two-valued interpretation)-and, on the other, what are taken to be their analogues or counterparts in natural language-such expressions as not, and, or, if, all, some (or at least one), the. Some logicians may at some time have wanted to claim that there are in fact no such divergences; but such claims, if made at all, have been somewhat rashly made, and those suspected of making them have been subjected to some pretty rough handling.  Those who concede that such divergences exist adhere, in the main, to one or the other of two rival groups, which I shall call the formalist and the informalist groups. An outline of a not uncharacteristic formalist position may be given as follows: Insofar as logicians are concerned with the formulation of very general patterns of valid inference, the formal devices possess a decisive advantage over their natural counterparts. For it will be possible to construct in terms of the formal devices a system of very general formulas, a considerable number of which can be regarded as, or are closely related to, patterns of inferences the expression of which involves some or all of the devices: Such a system may consist of a certain set of simple formulas that must be acceptable if the devices have the meaning that has been assigned to them, and an indefinite number of further formulas, many of which are less obviously acceptable and each of which can be shown to be acceptable if the members of the original set are accept-able. We have, thus, a way of handling dubiously acceptable patterns of inference, and if, as is sometimes possible, we can apply a decisionprocedure, we have an even better way. Furthermore, from a philosophical point of view, the possession by the natural counterparts of those clements in their meaning, which they do not share with the corresponding formal devices, is to be regarded as an imperfection of natural languages; the elements in question are undesirable excres-cences. For the presence of these elements has the result both that the concepts within which they appear cannot be precisely or clearly de-fined, and that at least some statements involving them cannot, in some circumstances, be assigned a definite truth value; and the indef-initeness of these concepts not only is objectionable in itself but also leaves open the way to metaphysics-we cannot be certain that none of these natural language expressions is metaphysically "loaded." For these reasons, the expressions, as used in natural speech, cannot be regarded as finally acceptable, and may turn out to be, finally, not fully intelligible. The proper course is to conceive and begin to construct an ideal language, incorporating the formal devices, the sentences of which will be clear, determinate in truth value, and certifiably free from metaphysical implications; the foundations of science will now be philosophically secure, since the statements of the scientist will be expressible (though not necessarily actually expressed) within this ideal language. (I do not wish to suggest that all formalists would accept the whole of this outline, but I think that all would accept at least some part of it.)  To this, an informalist might reply in the following vein. The philosophical demand for an ideal language rests on certain assumptions that should not be conceded; these are, that the primary yardstick by which to judge the adequacy of a language is its ability to serve the needs of science, that an expression cannot be guaranteed as fully intelligible unless an explication or analysis of its meaning has been provided, and that every explication or analysis must take the form of a precise definition that is the expression or assertion of a logical equivalence. Language serves many important purposes besides those of scientific inquiry; we can know perfectly well what an expression means (and so a fortiori that it is intelligible) without knowing its analysis, and the provision of an analysis may (and usually does) consist in the specification, as generalized as possible, of the conditions that count for or against the applicability of the expression being ana-lyzed. Moreover, while it is no doubt true that the formal devices are especially amenable to systematic treatment by the logician, it remains the case that there are very many inferences and arguments, expressed in natural language and not in terms of these devices, whichare nevertheless recognizably valid. So there must be a place for an unsimplified, and so more or less unsystematic, logic of the natural counterparts of these devices; this logic may be aided and guided by the simplified logic of the formal devices but cannot be supplanted by it. Indeed, not only do the two logics differ, but sometimes they come into conflict; rules that hold for a formal device may not hold for its natural counterpart.  On the general question of the place in philosophy of the reformation of natural language, I shall, in this essay, have nothing to say. I shall confine myself to the dispute in its relation to the alleged diver-gences. I have, moreover, no intention of entering the fray on behalf of either contestant. I wish, rather, to maintain that the common assumption of the contestants that the divergences do in fact exist is (broadly speaking) a common mistake, and that the mistake arises from inadequate attention to the nature and importance of the conditions governing conversation. I shall, thereforc, inquire into the gen-cral conditions that, in one way or another, apply to conversation as such, irrespective of its subject matter. I begin with a characterization of the notion of "implicature."Gaetano Viveros. Keywords: Implicature di Deutero-Esperanto. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Viveros,” pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library. Viveros.

 

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